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Saarbrücken Saarland-Museum. Moderne Galerie Le prime acquisizio- ni della Galleria d’arte moderna risalgono solo al 1952 quan- do il governo della Saar e la città di S diedero sovvenzioni per costituire la collezione, attualmente di ca. 150 dipinti e 400 guazzi, pastelli, disegni e acquerelli. Il museo conserva opere del xix e soprattutto del sec. xx. Benché siano ampia- mente rappresentati gli artisti della Germania sud-occiden- tale, come Albert Weisberger, Max Slevogt o Hans Purmann, la Moderne Galerie si sforza di valicare l’ambito locale per fornire un panorama complessivo dell’arte contemporanea. La scuola francese è rappresentata da opere di Gustave Doré, Courbet, Pissarro, Signac, Renoir, Dufy, Derain, Vlaminck, Braque e Léger; tra i maestri tedeschi si ammirano in parti- colare opere di Karl Blechen, Max Liebermann, Kirchner (Badende im Raum), Heckel, Schmidt-Rottluff, Nolde, Macke, Marc, Beckmann (la Città d’ottone), Ernst, Feinin- ger, Klee e Schlemmer, mentre tra gli italiani è presente De Chirico (Malinconia).( bbs). Saatchi & Saatchi Nata a Londra come agenzia pubblicitaria, ha contribuito al rilancio dei «Tories» in Gran Bretagna alla fine degli anni ’70. Guidata inizialmente da Edward Lucie-Smith, venne in seguito curata da Charles Saatchi che cominciò a fidarsi solo del proprio gusto, influenzando le quotazioni del mer- cato internazionale delle opere d’arte. Schivo e ricchissimo, Saatchi cominciò a collezionare «classici» come Warhol, ma ben presto rivolse la sua attenzione a movimenti come la transavanguardia (Chia, Clemente) o il neoespressionismo in senso lato (Schnabel, Kiefer), contribuendo non poco al

Storia dell’arte Einaudi successo commerciale di entrambi. Piú recentemente (se- conda metà degli anni ’8o) si è interessato al simulazioni- smo, in particolare americano (J. Koons, C. Sherman). Saat- chi non ha mai esitato a sostenere attivamente gli artisti da lui prediletti, sia stampando cataloghi che finanziando mo- stre. Mantiene rapporti stretti con alcuni dei galleristi che improntano le scelte del mercato (Leo Castelli, Larry Gago- sian). Ha istituito il premio S&S per giovani artisti operan- ti non solo nel campo delle arti plastiche ma anche, ad esem- pio, nella musica. La collezione, nonostante le decurtazioni dovute alle vendite del 1988, raccoglie un notevole gruppo di opere d’arte contemporanea. (dc). Sabatelli, Francesco (Firenze 1803 - Milano 1829). Figlio e allievo di Luigi S, ot- tiene giovanissimo la protezione del granduca di Toscana e, nel 1820, il pensionato a Roma. Di ritorno a Firenze nel 1822 affresca una lunetta nella Sala dell’Iliade a Palazzo Pit- ti (dove il padre aveva dipinto nel 1819-20 l’enorme tondo della volta con Il concilio degli Dèi).Dopo aver completato gli studi a Venezia, collabora ancora con il padre dipingen- do per la chiesa di Santa Croce a Firenze una lunetta con Sant’Antonio che riprende Ezzelino genuflesso davanti a lui. La sua opera piú nota, Aiace Oileo (Firenze, gam) denuncia l’influenza dell’opera michelangiolesca, mediata dalla lezione paterna. Il suo Miracolo di sant’Antonio per la chiesa fiorenti- na di Santa Croce, rimasto incompiuto a causa della sua mor- te precoce, sarà portato a termine dal fratello Giuseppe S. Gaetano S (? - Milano, dopo il 1893), ultimo figlio di Luigi S, è ricordato soprattutto per aver pubblicato le memorie del padre e per aver dipinto (1846) un’opera dalla fortuna iconografica straordinaria, quel Cimabue e Giotto che una nota marca di matite colorate ha riprodotto sui suoi astucci per lunghi anni. Abbandona la pittura dopo la morte del pa- dre (1850) delle cui opere si fa mercante. Nel 1893 cede il notevole corpus di disegni paterni al Ministero della Pub- blica Istruzione (Roma, gnam). Giuseppe S (Milano 1813 - Firenze 1843), ottavo figlio di Luigi S, è, come i suoi fratelli Francesco e Gaetano, talento precocissimo. Nel 1832 il granduca di Toscana gli acquista il quadro Cristo che libera un ossesso, e lo chiama a Firenze, as-

Storia dell’arte Einaudi segnandogli una pensione che gli consente un viaggio di stu- dio a Venezia. Le sue opere denotano la sua ammirazione per la pittura michelangiolesca. Professore accademico a Milano e a Firenze, citiamo, tra le sue tele piú note, Torquato Tasso che legge il suo poema alla corte di e Farinata degli Uber- ti alla battaglia del Serchio (1842: Firenze, gam). (mvc). Sabatelli, Luigi (Firenze 1772 - Milano 1850). Studiò alle Accademie di Fi- renze, di Roma e infine di Venezia. A Roma (1788-94) en- trò in contatto con la cultura cosmopolita dell’epoca nel mo- mento in cui erano presenti Giani e Camuccini, Wicar e Gros. In questo periodo si dedicò a composizioni a penna eseguendo una serie di incisioni tratte dalla Divina Comme- dia (Milano, raccolta Bertarelli) e scene di storia romana (Fi- renze, gam) o Muzio Scevola dinanzi a Porsenna (Firenze, Uf- fizi, Gabinetto dei disegni). Interrotto il soggiorno vene- ziano a causa dell’avanzata delle truppe francesi, tornato a Firenze S si dedicherà all’incisione della serie la Peste a Fi- renze (1801). Per le sue doti disegnative si fece apprezzare dal Benvenuti con il quale lavorò agli affreschi della parroc- chiale di Montale (La visione di san Giovanni, 1807). Chia- mato a Milano nel 1807, ottenne la cattedra di pittura a Bre- ra su suggerimento del Cicognara; in questi anni dipinse il Ritratto di Luigi Lanzi e l’Autoritratto (Firenze, Uffizi, Ga- binetto dei disegni) e gli vennero allogate numerose decora- zioni di palazzi e chiese settentrionali (in parte perdute). Nel 1820 il granduca di Toscana gli commissionò la decorazio- ne della Sala dell’Iliade (Pitti) ultimata nel 1825 con l’aiuto del figlio Francesco. Su incarico del principe Rospigliosi re- staurò gli affreschi di Giovanni da San Giovanni (cappella di Palazzo Rospigliosi, Pistoia). Tra le opere dell’ultima fa- se si citano Pier Capponi che straccia i capitoli di Carlo VIII (Firenze, Palazzo Capponi), gli affreschi con La vecchiaia di Galileo e Galileo che mostra il cannocchiale al doge di Vene- zia (1841: Firenze, Pitti, Tribuna di Galileo). (jv + sr). Sabatini, Lorenzo (Bologna 1530 ca. - Roma 1576). Pittore bolognese la cui prima attività, ancora problematica, mostra stretti rapporti con la pittura di Niccolò dell’Abate, Pellegrino Tibaldi e Prospero Fontana. Chiamato anche «Lorenzino da Bolo-

Storia dell’arte Einaudi gna», a partire dal 1565 collaborò con Giorgio Vasari nella decorazione di Palazzo Vecchio a Firenze dove affrescò fi- gure allegoriche, grottesche ed emblemi medicei e l’anno suc- cessivo fu impegnato, nuovamente a Firenze, negli appara- ti dei festeggiamenti per le nozze di Francesco de’ Medici con Giovanna d’Austria. L’esperienza vasariana fu di note- vole importanza per la formazione del S in direzione del ma- nierismo tosco-romano. Ritornato a Bologna, fu attivo nell’abside di San Clemen- te al Collegio di Spagna (1569-70) con affreschi andati per- duti e, verosimilmente tra il 1566 e il 1570, nella decora- zione della cappella Malvasia in San Giacomo Maggiore a Bologna (I quattro Dottori della Chiesa nelle pareti laterali, I quattro Evangelisti nei medaglioni del soffitto e la pala d’al- tare con la Sacra Famiglia e i santi Michele e Giovannino, que- st’ultima in collaborazione con l’allievo Denis Calvaert) in cui S appare fortemente legato alla cultura tardoraffaelle- sca e al manierismo parmigianesco. Agli anni bolognesi si riferiscono anche la Disputa di santa Caterina (Bologna, pn), la Madonna col Bambino in trono e i santi Petronio, Domenico, Caterina e Apollonia (Berlino, sm, gg), la Vergine assunta in cielo con angeli (Bologna, pn), la Ma- donna col Bambino e san Giovannino firmata e datata 1572 (Parigi, Louvre). L’elezione a pontefice del cardinale bolo- gnese Boncompagni nel 1572, papa con il nome di Gregorio XIII, favorì la venuta a Roma di numerosi artisti bolognesi tra cui quella del S. Dal 1573 S fu impegnato nella decora- zione della Sala regia in Vaticano, sotto la direzione di Va- sari, in alcuni affreschi nella Sala Paolina (completati nel 1580 da Federico Zuccari) e in altre stanze del palazzo. Secondo quanto riferisce il Baglione, la morte, avvenuta nel 1576, dovette impedire al S di assumere la nuova responsa- bilità che gli affidò il papa di sopraintendere a tutte le im- prese artistiche romane. (sr). Sabbatini, Andrea → Andrea da Salerno Sablet, Jean-François (Morges (Svizzera) 1745 - Nantes 1819). Figlio di Jacob S, pittore e mercante di quadri, si trasferì in Francia nel 1767, prima a Parigi, dove fu allievo di Vien, e dal 1805 a Nantes.

Storia dell’arte Einaudi Nel 1792-93 soggiornò a Roma. Nel 1808 fu incaricato del- la decorazione della Borsa: sei grandi grisailles a bassorilie- vo, rappresentanti la visita dell’imperatore (perdute, ne ri- mangono i disegni al Musée Dobrée di Nantes). È noto so- prattutto per i ritratti di piccolo formato, caratterizzati dalla precisione e dalla finezza del tocco smaltato: Ritratto di Do- brée padre (ivi), Autoritratto (1805), P.-R. Cacault, numero- si ritratti delle famiglie Crucy e Peccot (ivi). Il fratello Jacques o Jacob-Henri (Morges 1749 - Parigi 1803) fu anch’egli allievo di Vien e visse a lungo a Roma (1775-93), dove nel 1777 ottenne un secondo premio all’Ac- cademia di San Luca. Fu occasionalmente pittore di storia (Allegoria della città di Berna: Berna, km; Il Diciotto Brumaio: Nantes, Musée Dobrée); ma dipinse soprattutto scene di ge- nere in costumi italiani (Scena di famiglia italiana e Ballo na- poletano: castello di Drottningholm). Si espresse al meglio nei ritratti nello stile delle conversation pieces: il Pittore nel suo studio (1781), i due Ritratti di famiglia (Losanna, mba), Doppio ritratto in un cimitero (1791: Brest, mm), spesso su sfondi di paesaggi con rovine romane. Per la finezza esecu- tiva, la vivacità cromatica, il gusto dei formati piccoli e un certo intimismo borghese, i fratelli S ben rientrano nella cor- rente dei pittori di genere e dei ritrattisti della fine del sec. xviii, come Drolling e soprattutto Boilly: artisti che, pur di- mostrando un’inclinazione per la «maniera olandese», fu- rono sensibili anche alla lezione neoclassica. (sr). Saccargia, ciclo di Nell’abside centrale dell’abbazia camaldolese della Santissi- ma Trinità di S (in provincia di Sassari, nel territorio del co- mune di Codrongianus) si conserva un notevole ciclo d’af- freschi, l’unico romanico superstite in Sardegna. Il campo pittorico occupa il catino (Cristo in mandorla con serafini, an- geli e arcangeli) e il semicilindro absidale diviso in tre fasce: nella prima si allineano la Madonna orante e santi; la banda mediana illustra Scene della vita di Cristo (Ultima cena, Bacio di Giuda, Crocifissione, Seppellimento, Discesa agli inferi); in basso è una cortina di finti tendaggi. Per confronti con la Croce n. 15 del mn di San Matteo di Pisa (in particolare con la scena della Lavanda dei piedi), gli affreschi sono stati ascrit- ti a mano pisana (Maltese) non esente da quei modi umbro- romani, già precisati dal Toesca nel san Giovanni della Cro-

Storia dell’arte Einaudi cifissione, il cui panneggio è bicolore quasi fosse composto da due drappi distinti. Rispetto alla cronologia, ne consegue l’esecuzione coeva all’ampliamento della Santissima Trinità operato nel 1180-1200, quando si mantenne l’impianto del 1116 a croce commissa triabsidata, facendo però prevalere l’influsso pisano nella nuova facciata e nel portico antistan- te. (rse). Sacchetti, Giovanni Francesco (attivo a Torino e in Piemonte dal 1663 - Torino 1720). L’at- tività del pittore Giovanni Francesco S, già confuso in pas- sato con gli omonimi Giovanni Battista, architetto allievo di F. Juvarra, e Francesco Maurizio, orafo e argentiere, è og- gi in via di definizione critica. Priore della Compagnia di San Luca in Torino nel 1669, è documentato nel 1674 per una Natività per la chiesa di Venaria Reale, nel 1674-75 an- cora per commissioni ducali e nel 1678 per un ritratto del Beato Amedeo per la chiesa di San Francesco di Chambéry; suo è il disegno per il ritratto di Maria Giovanna Battista in veste di Diana inciso dal De Pienne per il volume del Ca- stellamonte su Venaria Reale, Muovendosi su schemi ispi- rati alle fonti emiliane e al primo classicismo bolognese, con una delicata gamma cromatica, il S è pittore di spicco nella cultura piemontese, soprattutto per le numerose opere di soggetto sacro. Al San Paolo distribuisce l’elemosina ai pove- ri, firmato, del 1660 ca. per l’Oratorio della Compagnia di San Paolo (ora coll. Istituto San Paolo di Torino) fa segui- to, attorno al 1663, il San Romualdo invia san Bonifacio in missione in Ungheria dell’Eremo di Lanzo, con firma. Per la chiesa di Santa Maria degli Angeli a Torino esegue la pala con San Francesco d’Assisi e san Pietro d’Alcantara (1675), per il Duomo di Chieri Cristo nell’orto (1672-75) e quindi per la Confraternita della Santissima Annunziata di Poirino l’An- nunciazione con i santi Giuseppe e Rocco (1677), per quella di Santa Croce la Madonna col Bambino e i santi Giovanni Battista e Antonio abate, datata 1679 e per quella della Mi- sericordia di Villafalletto l’Addolorata con i santi Bartolomeo e Giovanni della Croce, con firma e data 1678. E ancora si segnalano la pala nella chiesa di Santa Croce a Canale, re- plica di quella di Santa Maria degli Angeli a Torino, la Vi- sione di sant’Ignazio in San Giuseppe a Pinerolo (donata nel

Storia dell’arte Einaudi 1674), la pala del Rosario nella parrocchiale di San Mauri- zio Canavese (1680-90) e i dipinti delle parrocchiali di An- dezeno e Cocconato. (sgh). Sacchetti, Giulio e Marcello Appartenenti a una famiglia nobile fiorentina, che si era ro- manizzata durante la seconda metà del sec. xvi, durante il sec. xvii furono legati ai Barberini e favoriti da Urbano VIII. Giulio S (Firenze 1587-1663) divenne cardinale nel 1626. Egli fu legato pontificio a Bologna e poi in Spagna. Nel 1637 si recò a Bologna accompagnato da Pietro da Cortona, che però interruppe il suo viaggio a Firenze. A Bologna il cardi- nale si interessò vivamente alla pittura locale acquistando nu- merose opere e proteggendo artisti, in particolare G. Reni. Nel 1648 acquistò il Palazzo Ricci a via Giulia, il cui piano nobile era stato affrescato dal Salviati. Allo stato attuale del- le conoscenze non è possibile distinguere con precisione l’at- tività di collezionisti e di mecenati dei due fratelli. Infatti, di Marcello S, che fu depositario della Camera Apostolica, non si conosce con esattezza la data di morte. Si può però af- fermare che fu Marcello a commissionare a Pietro da Corto- na alcune delle piú interessanti opere giovanili, come il Sa- crificio di Polissena, il Trionfo di Bacco e il Ratto delle Sabine. Furono invece entrambi i fratelli a incaricare lo stesso arti- sta della decorazione della Villa S a Castelfusano, a cui la- vorarono anche A. Sacchi e A. Camassei. Piú tardi, proba- bilmente dopo la morte di Marcello S, Pietro da Cortona la- vorò come architetto e come pittore nella Villa S nella tenuta del Pigneto, alla periferia di Roma, della quale ci restano so- lo due affreschi staccati (Roma, Palazzo del Quirinale). Nel 1748 Benedetto XIV acquistò la collezione di pittura dei S allo scopo di formare una pinacoteca pubblica. Insie- me alla collezione Pio, questa costituì il primo nucleo della Pinacoteca Capitolina. Nella collezione, che comprendeva circa 180 pitture, erano le citate tele di Pietro da Cortona eseguite per Marcello S e varie opere tarde di Guido Reni, come la Lucrezia, la Maddalena, la Cleopatra; vi erano inol- tre l’Antonio e Cleopatra del Guercino, il San Francesco che adora il Crocifisso di Annibale Carracci, l’Uomo con il cane di Bartolomeo Passarotti e numerose altre opere, in buona parte di ambiente romano, del tardo Cinquecento e del Sei- cento. (came).

Storia dell’arte Einaudi Sacchi, Andrea (Nettuno 1599 - Roma 1661). Secondo G. P. Bellori, fonte principale per la conoscenza dell’opera del S, di cui scrisse (1685) un’appassionata biografia, fu dapprima allievo del Cavalier d’Arpino e poi, per interessamento del cardinal Francesco Maria del Monte, dell’Albani. Perdute le opere – principalmente affreschi – eseguite per incarico del suo protettore (tra le quali Bellori ricorda e descrive minuta- mente Le Stagioni prendono la Virtú dal Sole), la prima ma- turità dell’artista è documentata dalla Madonna di Loreto e i santi Giuseppe, Bartolomeo, Giacomo e Francesco (Nettuno, parrocchiale), dalla Visione di sant’Isidoro (1622: Roma, Sant’Isidoro), dall’Allegoria delle Stagioni (Castelfusano, Vil- la Sacchetti), dal Miracolo del corporale (1626: Roma, pv) e dalla Nascita della Vergine (Madrid, Prado), opere nelle qua- li appare ben presente il riferimento raffaellesco, ma già uni- to a quelle doti di colorista e ad un luminismo di marca lan- franchiana che costituiranno un costante connotato dello sti- le del S. Entrato, grazie alla protezione dei Sacchetti e di Cassiano dal Pozzo, nella cerchia dei Barberini, fu impiegato in piú occa- sioni dalla famiglia del papa e divenne il pittore favorito del cardinale Antonio senior. Il Trionfo della Divina Sapienza af- frescato in Palazzo Barberini (1629-32) costituisce un’opera chiave della pittura romana, nel momento cruciale del dibat- tito disegno-colore che opponeva, all’interno dell’Accademia di San Luca, i fautori della «maniera veneziana» a quelli del- la «maniera fiorentina» e, nel contempo, le composizioni a molte figure a quelle di piú sobria struttura. L’affresco del S, eseguito anteriormente al Trionfo della Di- vina Provvidenza di Pietro da Cortona, è un magistrale esem- pio di quel delicato equilibrio che nei primi anni Trenta sembra accordare, mediante l’impiego di valori luministici e di innovative soluzioni formali, le poetiche – non ancora divergenti – del classicismo e del barocco. Questo affresco sancisce anche il ruolo di caposcuola del S, che nel quarto decennio del secolo produce alcuni dei suoi capolavori (Vi- sione di san Romualdo, 1631: Roma, pv; Estasi di san Bona- ventura: Roma, chiesa dei Cappuccini; La Vergine col Bam- bino e san Basilio: Roma, Santa Maria del Priorato; Angelo custode: Rieti, Duomo).

Storia dell’arte Einaudi Tra la fine del 1635 e l’inizio del 1636 S viaggia nell’Italia del Nord per conoscere da vicino «Il nuovo colorito di Lom- bardia»; ne riporta la forte impressione degli affreschi del Correggio e delle opere emiliane, di Annibale e Ludovico Carracci, oltre a una piú approfondita conoscenza della pit- tura di Reni e di Guercino. Queste esperienze si riflette- ranno nell’opera sua piú impegnativa, le tele con Storie del Battista per il battistero lateranense (1639-49: Roma, pv), forse uno dei maggiori testi dell’arte del Seicento, ricco di suggestioni per almeno un secolo e mezzo di pittura, fino al- la fine del Settecento. Tra i suoi ultimi lavori, un posto di rilievo spetta alla Morte di sant’Anna in San Carlo ai Cati- nari (1648-49), che pur nei riferimenti a Raffaello, Poussin e Duquesnoy rinvia direttamente, anticipandone la tensio- ne drammatica, alla pittura «veridica» di Benefial. Anche i suoi rari ritratti si distinguono per la magistrale qua- lità della pittura e per l’intensità della raffigurazione. Tra i piú originali, il Ritratto allegorico del cantante Marcantonio Pasqualini (New York, mma). Il ruolo capitale di S è stato pienamente rivalutato solo dal- la critica recente, che ha messo in luce la rigorosa costru- zione architettonica delle sue composizioni, la nobiltà del suo disegno e la ricchezza della sua tavolozza. Ebbe gran par- te nella formazione di Poussin; fu amico di Duquesnoy e di Bellori, e maestro di Carlo Maratta (a lungo noto come «Car- luccio del S»). (lba). Sacchi, Pietro Francesco (Pavia 1485 ca. - Albaro (Genova) 1528). Pittore pavese, na- to intorno al 1485, attivo soprattutto a Genova dove è do- cumentata la sua presenza nel 1501 come apprendista pres- so la bottega di Pantaleone Berengario. Le prime opere datate, il Calvario della gg di Berlino (1514) e la pala con i Quattro dottori della Chiesa (1516), di cui ri- mane solo la parte centrale conservata al Museo del Louvre, mostrano stretti legami con la tradizione figurativa lombar- da e in particolar modo con la pittura di Foppa e di Bergo- gnone. La conoscenza delle opere fiamminghe presenti a Genova, e soprattutto dei quadri di Joss van Cleve, si riflette nella descrizione analitica dei paesaggi che fanno da sfondo alle opere del S arricchite inoltre da una luminosa cromatica me-

Storia dell’arte Einaudi diterranea. Uno stile piú personale intriso di accenti nordi- ci si manifesta nella pala dei Santi eremiti Antonio, Paolo e Ilarione per la chiesa di San Sebastiano (1523: ora a Geno- va, Museo di Palazzo Bianco) e in quella con i Santi Anto- nio, Giovanni Battista e Tommaso d’Aquino (1526: Genova, Santa Maria di Castello). Nella Deposizione dipinta nel 1527 per la chiesa di Monte Oliveto a Multedo presso Genova, S si mostra sensibile a suggestioni manieriste di origine roma- na interpretate però attraverso un linguaggio lombardo. Tra le opere attribuite al S si ricordano la pala con La Sacra Famiglia del Museo di Strasburgo (1518) e quella di analo- go soggetto a Dresda, di gusto raffaellesco, la pala con San Giorgio e il drago nella chiesa della Santissima Annunziata di Levanto e il San Paolo conservato nella ng di Londra. S morì di peste nel 1528. (sr). Sachelarie-Vladimiresco, Wanda (Constantza 1916). Studiò alla Scuola di belle arti di Buca- rest e a Parigi; ricevette nel 1969 il premio dell’Unione de- gli artisti. La sua pittura può esser definita «baroccheggian- te», anche per l’aspetto metamorfico che in essa assumono gli elementi reali impiegati quali basi del processo fanta- smatico messo in atto in ogni dipinto. Una visione angosciosa e di tormento interiore si sprigiona da queste forme che si animano in virtú del loro potenziale plastico: deformazione espressiva, orientamento diverso dei piani che crea un mo- vimento interiore, semplificazione suggestiva sostenuta da colpi di luce che denunciano i contorni, fervore cromatico, contrasto tra atteggiamento fisso delle figure e ritmo attivo della composizione: la pittura della S ha un aroma singola- re e accattivante. Opere dell’artista si trovano a Bucarest (am) e in numerosi musei e collezioni private rumene, cana- desi e statunitensi. (ij). Sacquespée, Adrien (Caudebec 1629 ca. - Rouen, dopo il 1688). Inizialmente suggestionato dall’arte di Vouet (Martirio di sant’Andrea, 1659: Rouen, mba), lo stile di S muterà, influenzato da Le Seur e da La Hyre verso un classicismo piú sobrio. Allievo a Parigi di François Garnier, pittore di nature morte visse principalmente a Rouen, dove è conservata gran parte della

Storia dell’arte Einaudi sua produzione (mba: l’Apparizione di Cristo a san Pietro, 1667; il Padre Eterno; San Bruno in preghiera, 1671; Com- pianto sul Cristo morto).Fu attivo per diverse chiese france- si (La morte di Anania, 1668: Parigi, Saint-Nicolas-du-Char- donnet). (pr). Sacro Monte Il SM è un insieme urbanistico composto di edifici religiosi e di spazi aperti, su di un’altura, costituiti in un sistema or- ganico atto a rappresentare – anche fisicamente e visiva- mente – i «luoghi santi» che videro svilupparsi la vicenda del Cristo. All’interno di questi spazi, dipinti e insiemi pla- stici raffiguranti i fatti salienti del ciclo cristologico – a par- tire dall’Annunciazione – sono realizzati con il fine di offri- re in modo immediato degli spunti di meditazione sulla vi- ta e sul sacrificio di Cristo. Nato in ambito francescano, questo modello originario ha il suo prototipo nel SM di Va- rallo, che cronologicamente segna, con gli ultimi due decenni del sec. xv, il punto di partenza, in area lombarda (Varallo, con il novarese, sarà sino al 1738 sotto Milano), di un’ini- ziativa che troverà un seguito particolarmente vivace nella zona dei laghi, ma anche in altri centri di influsso france- scano. In ambito storico postridentino e con gli indirizzi li- turgico-cultuali derivati dalla lezione di san Carlo Borromeo i SM varieranno generalmente la loro struttura, come testi- monia puntualmente il complesso di Varallo. L’organismo si farà piú complesso per illustrare il ciclo della salvazione par- tendo dalla illustrazione della colpa originale per giungere alla illustrazione di un aldilà esemplificato sulla trilogia in- ferno-purgatorio-paradiso. Il primo SM sorge a Varallo come iniziativa del Minore con- ventuale Bernardino Caìmi, il quale aveva soggiornato in Ter- rasanta e intendeva riprodurre i «Sacri luoghi» con l’obiet- tivo di consentire a chi non era in grado di affrontare un pel- legrinaggio in Palestina, di adempiere ai suoi propositi religiosi visitando questa che sarà infatti denominata «Nuo- va Gerusalemme». Nel 1486 sullo sperone montuoso che do- mina il centro di Varallo vengono avviate le costruzioni che avrebbero dovuto riprodurre, nella disposizione planimetri- ca e nella consistenza fisica, i luoghi santi secondo uno sche- ma attendibilmente fornito dal padre Caìmi. Questo proget- to risulta in parte leggibile negli atti di fondazione; si posso-

Storia dell’arte Einaudi no identificare i seguenti edifici in costruzione o appena edi- ficati: una cappella denominata Subtus crucem (dell’unzio- ne?), quella dell’Ascensione, il Sepolcro di Cristo; annesso vi si trovava il romitorio in cui il Caìmi soggiornava quando assisteva all’erezione degli edifici del SM. Il piano dei lavori da eseguire secondo le direttive del fon- datore era ispirato a criteri devozionali, che noi possiamo leggere nel loro valore figurativo e museale-didascalico per lo scrupolo che è riscontrabile nell’intento di offrire anche visivamente al pellegrino un quadro il piú possibile vicino alla realtà dei luoghi santi. Questa analogia è sintetizzabile nella osservazione che si partì con l’obiettivo di localizzare nella zona piú ampia Gerusalemme (con l’area del Golgota, la cappella dell’«unzione» e il Sepolcro); a est di quest’area si immaginarono Sion e il Cenacolo e, a ovest, il monte Oli- veto: si operò pertanto invertendo l’ordine geografico gero- solimitano. Sul pendio sorgevano poi le cappelle del ciclo di Nazaret e del ciclo di Betlemme. Già a questo primo pro- gramma dovrebbe aver dato il suo apporto Gaudenzio Fer- rari, che a pieno titolo sarà, dopo lo Spanzotti, uno degli ar- tefici del nucleo originario del complesso. Successivamente all’atto di donazione si avviarono e in parte portarono a com- pimento alcune cappelle che, alla morte del Caìmi, nel 1499, erano, presumibilmente, schemi non ancora ben delineati e che, tra il 1499 e il 1514 configureranno quella Via Doloro- sa che è frutto dell’applicazione di chi ormai non ha piú al- cuna nozione della conformazione dei luoghi santi e del mo- do in cui venivano visitati, stanti le cronache dell’epoca. Già in questa fase, forse, non si compresero piú le articolazioni congetturate all’origine, per Nazaret, ad esempio, se si de- classò così precocemente la casa della Vergine, tuttora ri- dotta, per oltre la metà, a magazzino. A questa prima edificazione andranno poi ancora aggiunte la cosiddetta Chiesa Vecchia dedicata all’Assunta e un Ora- torio dedicato a san Francesco. Tutte le cappelle sono allestite per ospitare, al loro interno, cicli pittorici e statuari in forme e proporzioni naturali tali da comunicare nel modo piú vivo e immediato drammi e mi- steri rappresentati: va notato che i pellegrini potevano all’origine entrare all’interno di queste cappelle transitando tra i gruppi statuari; solo successivamente questi gruppi fu-

Storia dell’arte Einaudi rono isolati, separandoli a mezzo di grate, dai fedeli, che, pertanto, li potevano solamente piú osservare come una sce- na teatrale. L’interesse dei promotori alla ricostruzione precisa delle for- me originali dei luoghi santi è attestata, oltre che dalla for- ma della grotta di Betlemme (ben documentata da dipinti coevi all’avvio del SM: cfr. dipinto di anonimo, datato 1519: Utrecht, Catharijne Museum, ABM 104, e inoltre la pro- duzione, anche grafica, di van Scorel), dal fatto che, origi- nariamente, si costruivano anche volumi richiamanti le for- me orientali, se è possibile (come pare documentato da an- tiche coperture a calotta in cocciopesto dell’edificio della Crocifissione) che gli edifici non apparissero coperti dalla tradizionale beola su falde in struttura lignea. A questa prima fase appartengono anche i cicli dipinti da Gau- denzio Ferrari per alcune cappelle; Gaudenzio realizzò inol- tre un cospicuo numero di statue per le cappelle che sorgeva- no via via, oltre a dare, attendibilmente, anche disegni per i progetti stessi di queste cappelle, quanto meno sino al 1528. Il disegno di Caìmi presumibilmente cominciò a corrompersi molto presto, prima, cioè che fossero proposti nuovi progetti – questi in effetti mai compiutamente realizzati – che vide- ro intervenire, a titolo diverso, protagonisti di primo piano della cultura lombarda della metà del Cinquecento, dal Ti- baldi al Borromeo, dall’Alessi ai d’Adda. Ciò che certamente ha inciso nel modo piú marcato sulla vita del SM di Varallo è proprio il cambiamento di indirizzo religioso che ha gene- rato, nella seconda metà del Cinquecento, una profonda ri- strutturazione dell’impianto originario quattrocentesco. Ma a ben osservare questo cambiamento coincide con un so- stanziale cambiamento di atteggiamento anche da parte dei progettisti delle architetture e dell’assetto territoriale in cui queste si dovranno collocare: questa è un’ottica intellettua- listica, tendenzialmente estranea ai propositi del promoto- re, ma che, certamente era estranea anche alle finalità del Borromeo, che aveva del Monte una visione molto severa, e immaginava di farne un centro per gli esercizi spirituali. Resta il fatto che a partire dalla metà del Cinquecento si po- ne mano a molte nuove iniziative edilizie, impostate sul nuo- vo schema urbanistico riferibile a un progetto globale di Ga- leazzo Alessi, che abbandona in ogni caso ciò che è ipotiz- zabile come lo schema del Caìmi e crea un percorso che si

Storia dell’arte Einaudi sviluppa attraverso un nuovo accesso monumentale, disse- minato di nuove cappelle, venendo a inglobare alcune di quelle antiche per giungere a illustrare, in una nuova visio- ne, i «misteri» del culto cattolico postridentino. E ora, al primo posto, varcata la soglia, ci troviamo di fronte alla cap- pella di Adamo ed Eva, dov’è illustrata la caduta dell’uma- nità con il peccato originale: qui lo spazio e il volume non hanno piú bisogno – non è possibile – di riferimenti a im- magini consolidate della tradizione orientale e l’Alessi crea un’edicola con elegante pronao e prospetto su schema ser- liano coronato da frontone a timpano triangolare. Tutta la seconda metà del Cinquecento segna tuttavia un fer- vore di iniziative progettuali ed edilizie che ottengono da un lato di stravolgere intieramente l’impianto antico e d’altro lato, persa la cognizione delle motivazioni che quello aveva- no generato, giungono anche a sacrificare parti consistenti di un patrimonio storico significativo: basti accennare a quella che era la «valle di Josafat» con il «sepolcro della Vergine», oggi emarginato da qualsiasi percorso. Si vedono intanto at- tivi nelle differenti cappelle molti artisti tra cui primeggiano i pittori Tanzio da Varallo e il Morazzone, e per l’opera pla- stica, Giovanni d’Enrico e il Tabacchetti (J. Wespin). In- tanto, nel Seicento, avverrà lo spostamento del Cenacolo sul piazzale del Tempio, nuovo polo di consistenti interventi edi- lizi che ridisegnano completamente la zona alta sulla quale poi emergerà la nuova chiesa dell’Assunta: è ormai il piano di intervento per un Santuario mariano che non coglie piú le istanze che motivarono l’erezione del Monte. Attualmente il SM di Varallo conta complessivamente 44 cappelle, articola- te in modi molto differenti e che, talvolta, consentono di in- travvedere chiaramente l’impianto originario o la successiva riplasmazione dell’epoca della Controriforma. L’idea della «nuova Gerusalemme» non tardò a suscitare ini- ziative analoghe a quella di Varallo e, già negli ultimi anni del Quattrocento, si avviarono progetti, che vedono presen- ti ancora i francescani e che possiamo pensare connessi con il prototipo valsesiano: San Vivaldo in Certaldo, nella Val- delsa è certamente uno dei complessi piú grandiosi che sor- ge come SM in anni di poco successivi all’iniziativa di Va- rallo, forse già prima che i francescani prendano veramente possesso dell’antico romitaggio fondato sin dal Trecento, da

Storia dell’arte Einaudi san Vivaldo nel bosco di Camporena. Nel 1516 risultereb- bero erette 34 cappelle, secondo un progetto realizzativo av- viato attorno al 1500 da Fra Tommaso da Firenze. Questo progetto era analogo a quello del Caìmi per quanto concerne l’assetto urbanistico, poiché i francescani intendevano ri- prendere in modo consistente – e forse piú attendibile che non a Varallo – la distribuzione planimetrica dei luoghi san- ti sul monte. Il piano, comprendente il rilevante numero di 34 cappelle, risulta da un breve di Leone X del 1516, dove le indulgenze concesse sono ripartite, a seconda della impor- tanza simbolica dei luoghi che esse rappresentano, in base a un sistema gerarchico in vigore per Gerusalemme. L’impianto di San Vivaldo si è mantenuto, al di là delle distruzioni (og- gi restano 17 cappelle, di cui alcune risalenti al Cinquecen- to), alquanto coerente con il piano originario: se da un lato molte cappelle decaddero e scomparvero per caduta di ten- sione ideale dovuta alla piú scarsa conoscenza locale della pro- blematica toponomastica e religiosa connessa ai luoghi santi, d’altro lato al progetto francescano non si sovrappose nessun aggiornamento culturale, come invece era accaduto a Varal- lo. Nei luoghi santi costituiti dalle cappelle troviamo conser- vati i cicli scultorei in terracotta policromata sullo sfondo del- le pareti affrescate: di queste opere, caratterizzate dalla forte espressione drammatica tesa a comunicare con immediatezza i sensi dei significati religioso-didascalici che devono ispirare nelle masse dei visitatori, non si ha una tradizione storico-cri- tica che consenta una esatta collocazione nell’ambito del com- plesso panorama artistico toscano. Le attribuzioni che sono ricorse per la plastica di San Vivaldo vanno da quella tradi- zionale, certamente da rivedere, a G. Gonnelli, sino a quelle piú recenti a B. Buglioni e G. della Robbia: i profondi cam- biamenti di livello nella realizzazione di questi cicli consen- tono certamente di ricercare accanto a forme piú popolare- sche, quei legami con la grande tradizione dei plasticatori to- scani che ha consolidate tradizioni di committenza per i centri francescani, sin dal Quattrocento. A queste prime iniziative ancora radicate nel Quattrocento, fa seguito, in ambito culturale postridentino, l’avvio di altri SM; ciò avviene, con specifiche connotazioni religiose e ar- tistiche in un’area in cui un preciso programma controrifor- mistico, dominato dalla figura di Carlo Borromeo, nonché lo spirito di emulazione dell’esempio varallese, favorivano il

Storia dell’arte Einaudi diffondersi del modello valsesiano, sui monti tra Piemonte e Lombardia, affacciati sui laghi alpini. In molti casi l’ini- ziativa avviata non approdò agli obiettivi perseguiti, per un concorso di fattori che deve certamente registrare una evo- luzione nei piani delle gerarchie religiose che tendono a svi- luppare i santuari mariani. È il caso di Graglia dove il gran- diosissimo progetto di SM, avviato dal Velotti a partire dai primi del Seicento, restò sostanzialmente irrealizzato; era- no previste ben cento cappelle, le cui forme architettoniche richiamavano modelli tardomanieristici, articolate in quat- tro gruppi di venticinque, ognuno dei quali avrebbe dovuto raccontare, con immagini plastiche, la vita di Cristo: l’in- fanzia, i miracoli, la passione, la gloria; restano poche cap- pelle sulla strada che porta al colle di San Carlo, con statue in terracotta policromata già attribuite al Tabacchetti. Ed è pure il caso di Arona, progettato per una committenza che vedeva in primo piano i Borromeo, a partire dal 1614, dall’architetto F. M. Richini: il grandioso programma urba- nistico e architettonico, che includeva la chiesa e il semina- rio, si interruppe ben presto, tanto che restano poche cap- pelle, intanto che si avviava la costruzione dell’imponente monumento a San Carlo secondo un modello del Cerano. Oropa ebbe un progetto di SM da realizzare mantenendo come punto focale l’antico Santuario della Madonna Nera. Nel 1620, per iniziativa del cappuccino Fedele da San Ger- mano si diede avvio alla realizzazione di venti cappelle che avrebbero dovuto illustrare la vita della Vergine. Sono do- dici le cappelle conservate e risalenti a questo programma, con opere scultoree di G. e M. d’Errico, degli Auregio Ter- mine e pitture prospettiche di G. Galliari. Il complesso di Orta si discosta notevolmente dai modelli originati da Va- rallo: illustra infatti la vita di san Francesco; è composto da venti cappelle (piú una incompiuta, di fine Settecento) e sor- ge con un originario disegno unitario redatto, a partire dal 1583, dall’architetto cappuccino padre Cleto (allievo di Pel- legrino Tibaldi): la successione dell’edificazione, avviata nel 1591 e, compiuta, per molte cappelle, tra metà Seicento e fine Settecento, presenta, sotto l’aspetto architettonico, mo- delli che si rifanno al manierismo maturo e al barocco. I ci- cli scultorei (376 statue in terracotta) furono realizzati da C. Prestinari, D. Bussola e Carlo Beretta, mentre per i cicli pit-

Storia dell’arte Einaudi torici operarono G. B. e G. M. della Rovere, F. e G. Nu- volone e G. B. Cantalupi (Schede Vesme). A Varese viene avviata a partire dal 1604 la «Fabbrica del Rosario», un percorso articolato urbanisticamente, median- te archi di passaggio, in tre gruppi; il progetto si sviluppa si- no al 1680, e concerne l’edificazione di 14 cappelle proget- tate dall’architetto G. Bernasconi per iniziativa del padre cappuccino G. B. Aguggiari (il quindicesimo «mistero» è si- tuato nel piú antico Santuario). L’impianto di questo SM se- gue un programma molto preciso, rispondente, da un lato, ai canoni delle Instructiones del Borromeo, mentre, per quan- to concerne schemi planimetrici e funzionali, si possono co- gliere consistenti riferimenti ai modelli tardo manieristici che già avevano improntato la revisione rinascimentale di Varallo. Sullo sfondo delle pareti affrescate delle cappelle troviamo gruppi scultorei (alcuni eseguiti a metà del sec. xvii dallo scultore D. Bussola). Nel Monferrato era stato avvia- to, a partire dal 1589, su un progetto del priore dell’antico Santuario della Vergine, Costantino Massimo, il SM di Crea, un complesso di quaranta cappelle e quindici romitori de- stinati a illustrare i Misteri del Rosario e la vita di sant’Eu- sebio: sorsero ventitre cappelle, che racchiudono opere ori- ginarie in terracotta policromata del Tabacchetti e dipinti del Moncalvo. L’articolazione di un itinerario religioso-devozionale in cap- pelle perde così, via via, quel denotatum originario che in- tendeva ricostruire lo spazio gerosolimitano, per proporre spunti di meditazione costituiti dalle Stazioni della Via Cru- cis o dai Misteri del Rosario: è così a Belmonte di Valperga, dove padre Michelangelo da Montiglio avviò, dal 1712, l’im- pianto di un SM organizzato come «via Crucis» presso un antico Santuario della Vergine, con quattordici cappelle (tre- dici conservate) costituite da celle precedute da pronao, e un edificio a pianta centrale contornato da portico. Ma analogo impianto è possibile ritrovarlo presso numerosi santuari ma- riani non solo sui laghi lombardi, ma anche in Veneto. (gc). Sadeler I piú famosi membri della famiglia sono: Johann Ch. Jan I (Bruxelles 1550 - Venezia 1600), figlio di un incisore, ac- colto nel 1572 nella gilda di Anversa. Viaggiò molto in Ger- mania: a Colonia nel 1580 e nel 1587, a Magonza nel 1586,

Storia dell’arte Einaudi a Francoforte e soprattutto a Monaco, dove fu nominato in- cisore di corte, dal 1588 al 1595. Soggiornò poi in Italia, a Verona, Roma e Venezia. La sua notevole opera ci ha tra- smesso composizioni di P. Candido, D. Barendsz, H. von Aachen, B. Spranger, F. Sustris, J. Stradanus e soprattutto Maerten de Vos (in particolare la serie dei Sette pianeti, 1585). Eseguì anche ritratti incisi. Egidius II (Anversa 1560 ca. - Praga 1629), fratello di Johann, menzionato come mercante di stampe nella gilda di San Luca nel 1580, divenne allievo del fratello nel 1585. Soggiornò molti anni all’estero: fu a Monaco nel 1590, a Ro- ma nel 1593, di nuovo a Monaco nel 1594 e, dal 1600, lo si trova al servizio degli imperatori Rodolfo, Mattia e Ferdi- nando a Praga. Nel 1622 divenne maestro di Joachim von Sandrart. La sua opera incisa comprende ca. 200 stampe, tra cui figurano molti ritratti, eseguiti con disinvoltura e vir- tuosismo. Egidius subì l’influsso di Goltzius, da cui derivò il tratto ampio e luminoso. Riprodusse opere di Ch. Schwarz, J. Heintz, J. Rottenhammer, P. Candido, J. von Aachen, Dürer e A. Carracci. È autore di una serie di sei tavole rap- presentanti i mesi, incise da Paul Brill. (wl). Saedeleer, Valerius De (Alost 1867 - Leupegem 1941). Si formò all’Accademia di Gand, poi a Bruxelles, esordendo nella scia dell’impressio- nismo. Soggiornò a Laethem-Saint-Martin sin dal 1893 do- ve si era creata una piccola comunità di artisti capeggiata da van de Woestijne e ispirata alla pittura dei primitivi fiam- minghi; si orientò da allora verso un tipo di paesaggio mol- to spoglio, i cui motivi sono soggetti a una scrittura fine e precisa, calata in un’atmosfera sensibile ai valori cromatici (Fine di una giornata grigia, 1907: Gand, mba). Nel 1908 S si trasferì a Tiegem presso Laethem, trascorrendo poi in In- ghilterra gli anni dal 1914 al 1921. Al suo ritorno si trasferì a Etichove, aprendo un laboratorio di tappeti e tessuti d’ar- te, professione che aveva appreso negli anni giovanili alla scuola d’arte industriale di Gand. Continuò ad eseguire pae- saggi, senza modificare di molto i suoi modi che sono stati identificati dalla critica come appartenenti a una corrente espressionistica moderata. È rappresentato nei musei belgi, a Bruxelles, a Gand e ad Anversa. (mas).

Storia dell’arte Einaudi Saenredam, Pieter Jansz (Assendelft 1597 - Haarlem 1665). Figlio e allievo dell’inci- sore Jan Pietersz S, frequentò verso il 1608 la bottega di Frans de Grebber ad Haarlem. Nel 1623 risulta iscritto al- la gilda di San Luca di Assendelft ed è del 1626 il suo pri- mo dipinto, Cristo che scaccia i mercanti dal Tempio (Londra, coll. priv.). S conosceva architetti, come Jacob van Campen, il massimo architetto classico olandese, e ciò può spiegare il rigore e per- sino l’austerità delle sue vedute di edifici religiosi. I suoi 56 quadri noti, di un’esattezza tutta matematica, sono spesso preceduti da schizzi e disegni molto precisi (ne sono attual- mente noti 140 ca.). Viaggiò attraverso i Paesi Bassi co- gliendo dal vero il carattere tipico di ogni monumento che descriveva. Nel 1632 fu a Bois-le-Duc (’s-Hertongenbosch), dove disegnò l’Interno della Cattedrale di San Giovanni (Lon- dra, bm; Bruxelles, mrba). Tornò ad Assendelft, poi sog- giornò ad Alkmaar (1634) e ad Haarlem (1635-36), dove di- pinse la Chiesa di San Bavone (Amsterdam, Rijksmuseum; Pa- rigi, Istituto olandese; Varsavia, nm). Durante il soggiorno a Utrecht nel 1636, disegnò il ritratto della Cattedrale di San Martino (Utrecht, Archivi municipali; Parigi, bn), della Chie- sa di San Giacomo (Rotterdam, bvb; Utrecht, Archivi muni- cipali), della Chiesa di San Giovanni (Amburgo, Museo) e la Chiesa di Santa Maria (Haarlem, Museo Teyler; Utrecht, Ar- chivi municipali; Parigi, Istituto olandese). Uno dei suoi pe- riodi piú fecondi corrisponde a un soggiorno ad Amsterdam nel 1641, dove dipinse gli edifici monumentali cari alla me- moria storica nazionale, scelta questa che lo differenzia ri- spetto alla pratica dei cosiddetti «romanisti»; di questa fa- se si citano i disegni rappresentanti il Vecchio municipio di Amsterdam (Haarlem, Museo Teyler; Amsterdam, mm, coll. Fodor), che preparano la veduta ampia e luminosa dello stes- so edificio (Amsterdam, Rijksmuseum), iniziata nel 1641 e terminata nel 1657. Dipinse nel 1641 il rigoroso e asciutto Interno di Santa Maria di Utrecht (ivi), e nel 1642 la Chiesa di San Giacomo a Utrecht (Monaco, ap). L’anno seguente ese- gui una Veduta del Pantheon (New York, coll. priv.) in base ai disegni degli album di Maerten van Heemskerck, oggi con- servati a Berlino (sm, gg). Nel 1644 era a Rhenen, di cui di- segnò la Navata e il Campanile della chiesa di Santa Cunera

Storia dell’arte Einaudi (Amsterdam, Rijksmuseum). Dipinse nel 1649 uno dei suoi piú celebri quadri, l’Interno di Sant’Odulfo ad Assendelft (ivi), di grande rigore vedutistico e di affascinante sensibilità co- loristica negli ocra, bianchi e grigi. Realizzò poi una serie di vedute di Haarlem: la Nieuwe Kerke (1650-52), costruita po- co prima dal suo amico Jacob van Campen (disegni ad Haar- lem, Archivi municipali, e a Rotterdam, bvb; dipinto ad Haarlem, Museo Frans Hals). Tornò nel 1661 ad Alkmaar, dove dipinse la Chiesa di San Lorenzo (Rotterdam, bvb; di- segni all’Albertina di Vienna e a Parigi, Istituto olandese). Nel 1663 era a Utrecht, dove dipinse la Piazza Santa Maria (Rotterdam, bvb), il cui disegno preparatorio si conserva al Museo Teyler di Haarlem. Gli interni degli edifici di culto di S, così sobri e asciutti rispetto alle descrizioni architet- toniche del pittore Emmanuel de Witte, partecipano della corrente monocroma propria della pittura dei Paesi Bassi; la sua tavolozza chiara e sfumata gioca essenzialmente sugli ac- cordi dei bianchi e beige. Peraltro, la scientifica esattezza delle sue architetture, la limpidezza dell’atmosfera, la pre- cisione e la nettezza del suo idioma formale dànno alle sue vedute oggettive un carattere astratto. (jv). Saetti, Bruno (Bologna 1902-84). A Bologna, dove si diploma all’Accade- mia di belle arti nel 1924 e risiede fino al 1930, anno in cui si trasferisce a Venezia, S si forma sui primitivi emiliani, la cui lezione ha un influsso fondamentale sulla sua arte. Pre- dilige soggetti quotidiani e umili impostati classicamente, in linea coi dettami del Novecento; soggetti prediletti sono semplici nature morte e la maternità (Maternità, 1929: Bo- logna, gam; Natività, 1935: Firenze, coll. priv.; Madre, 1946, tempera e pastello su carta: Bologna, gam). Nel 1928 S par- tecipa alla XVI Esposizione Internazionale d’Arte di Vene- zia (Il giudizio di Paride) e tiene una personale a Milano, al- la Gall. Bernardino Luini. Negli anni Trenta S partecipa al- le piú importanti esposizioni ufficiali; alla II Quadriennale romana, nel 1935, raccoglie ancora consensi: nelle sue ope- re è individuata consistenza plastica, solidità nella composi- zione, accorto e moderato gioco cromatico. Nel 1939 ottie- ne la cattedra di pittura all’Accademia di belle arti di Ve- nezia (ne sarà direttore dal 1950 al 1956). La realizzazione

Storia dell’arte Einaudi ad affresco (Disputa sull’immortalità dell’anima, 1941: Pa- dova, Facoltà di Filosofia) dove il mestiere impone rigore e chiarezza, gli è congeniale. Egli eseguirà anche mosaici, per il Collegio Americano di Roma, nel Palazzo della Previden- za sociale a Venezia, nella chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole (1961-62), e vetrate per la Basilica di San Domenico a Siena (1957-59: Bologna, gam). La pit- tura di S risente, nel dopoguerra, degli indirizzi neocubisti insieme all’attenzione per la materia e per il colore (Il gran- de sole, 1974, affresco su tela; Muro con mosaico, affresco e mosaico su tela: entrambi ivi). Negli ultimi anni, le sue com- posizioni dalle ampie campiture sono caratterizzate da fi- nissimi cromatismi (Natura morta con cocomero e tromba, 1983, affresco). Nel 1985 la gam di Bologna ha allestito l’ampia retrospettiva Omaggio a Bruno Saetti.(eca). Saeys, Jacob Ferdinand (Anversa 1658 - Vienna 1725 ca.). Figlio del mercante d’og- getti d’arte Jan S, nel 1672 divenne apprendista del cogna- to, il famoso pittore di architetture Wilhelm van Ehrenberg. Nel 1680, fu maestro nella gilda di San Luca, ad Anversa. Risiedette a Malines nel 1684, trasferendosi poi a Vienna. Poco numerosi, i suoi quadri di architetture conservati nei musei di Graz e di Hermannstadt, tradiscono l’influsso di Ehrenberg. (wl). Safavidi Celebre dinastia persiana che, dopo la conquista araba, do- minò l’Iran dal 1502 al 1737, dando nome a una scuola di pittura islamica. Elemento tipico di questa scuola è il vivace senso narrativo delle scene folte di personaggi incorniciate da decorativi mo- tivi di foglie stilizzate riprese dalle porcellane cinesi. Nelle figurazioni non è trascurata la descrizione di un piccolo det- taglio: il kulÇh, lunga punta colorata che sormonta il tur- bante dei personaggi. Va segnalata infine la tendenza alla ri- petizione monotona di temi, nella pittura safavide a partire dalla seconda metà del sec. xvi. I mecenati Molti sovrani s promossero con il loro mecena- tismo le arti e la pittura, in particolare ShÇh IsmÇ’¥l (? - 1524) che riunificò il regno dopo aver battuto gli Uzbechi di ShaybÇn¥ KhÇn nel KhorÇsÇn e scacciato gli Åq Qoynl

Storia dell’arte Einaudi dalla Persia occidentale. Si fece incoronare a Tabriz e attirò in questa città numerosi pittori, tra i quali Bihzad e SultÇn Muhammad alHaraw¥. Nessun’opera, tuttavia, può essere attribuita con certezza al suo mecenatismo. ShÇh TahmÇsp (1514-76) successe al padre a Tabriz. Educato da SultÇn Mahammad al disegno sin dall’età di sette anni, il sovrano seguì dappresso la pittura fino al 1545, data in cui si disin- teressò bruscamente di questioni estetiche per dedicarsi uni- camente all’amministrazione del suo Stato. All’inizio del re- gno, personalità centrali del suo laboratorio furono ancora BihzÇd e SultÇn Muhammad, cui vanno aggiunti i calligrafi MawlÇnÇ’Abd¥ e suo nipote ShÇh Mahmd di Nishapur, e i pittori ÅqÇ M¥rak e Mahmd Musavvir. Per ShÇh TahmÇ- sp vennero realizzate due sontuose opere: uno ShÇh-nÇma (1537: Parigi, bn, coll. Rotschild) e un Kamse (1539-43: Lon- dra, bm, Or. 2265). SÇm M¥rzÇ (1517-76), figlio cadetto di S¯hÇh IsmÇ’¥l, non ebbe accesso al potere, ma nel 1545 su- bentrò al fratello come protettore delle arti; conservò tale ruolo fino al 1561, anno in cui il sovrano lo fece imprigio- nare. Ai suoi laboratori non può attribuirsi con certezza al- cuna opera; tuttavia, vennero probabilmente eseguite per lui le illustrazioni del D¥vÇn di ©Çfiž (1533: Cambridge, Mass., coll. priv., già coll. Cartier). Alcuni studiosi riconoscono in- fatti un ritratto del giovane SÇm M¥rzÇ nel dipinto rap- presentante un principe circondato dai suoi cortigiani che reca la firma di SultÇn Muhammad. BahrÇm M¥rzÇ (? - 1549), governatore della città di Mashhad, è celebre per i suoi album di raccolte, con prefazioni di Dst Muhammad (Istanbul, Topkapi Sarayi, Hazine 2154). IbrÇhm M¥rzÇ (1543-77), nipote di ShÇh TahmÇsp, successe a BahrÇm co- me governatore di Mashad. Fu iniziato alla calligrafia da MawlÇnÇ Malik, che aveva nominato direttore della sua bi- blioteca e cui si deve l’avvio di uno dei grandi monumenti pittorici dell’epoca, il Haft Awrang di JÇn (Washington, Freer Gall., n. 46.12), le cui ventotto miniature esigettero nove anni di lavoro e la collaborazione di numerosi pittori, tra i quali Shaykh Muhammad, ’AbdullÇh e ’Al¥ Asghar. Il primo venne formato ai metodi di BihzÇd dal suo maestro Dst-i D¥vÇna, egli stesso allievo del grande pittore, e operò per IsmÇ’¥l II e ShÇh’AbbÇs; il secondo era specializzato nel- la doratura ornamentale; il terzo è descritto come notevole

Storia dell’arte Einaudi colorista, dedito soprattutto alla rappresentazione degli al- beri e delle strade. Il piú grande dei S fu ShÇh’AbbÇs I (1557-1629), il «Luigi XIV dell’Iran»; il suo regno, che durò trentaquattro anni, venne illustrato da ÅqÇ M¥rzÇ e Muhammad¥. Le opere di quest’ultimo attestano grande freschezza e un disegno con- traddistinto da un tratto saldo e incisivo (Scena pastorale, 1578: Parigi, Louvre; Colazione in montagna, 1590: Boston, mfa). (so). Saftleven Cornelis (Gorinchem 1607 ca. - Rotterdam 1681) era figlio di Herman II, nipote di Herman I, fratello di Herman III e di Abraham. Lavorò principalmente a Rotterdam, dove fu direttore della gilda di San Luca nel 1667, e compì alcuni viaggi, soprattutto ad Anversa, dove conobbe l’opera di Brouwer e Téniers. Dipinse soggetti religiosi (Annunciazio- ne ai pastori, 1663: Amsterdam, Rijksmuseum), ritratti (Un pittore, 1629: Parigi, Louvre), scene di paese (la Fiera, 166o: Valenciennes, mba), vicine a Droochsloot, e paesaggi (Pon- te con gregge: Braunschweig, Herzog-Anton-Ulrich-Museum; Paesaggio con bestiame, 1660: L’Aja, Mauritshuis), parago- nabili a quelli di Herman III. Ma fu soprattutto noto per le scene satiriche e simboliche (la Fame dell’oro, 1626: Digio- ne, Museo Magnin; Oldenbarneveld e i suoi giudici ovvero Trucidata Innocentia, 1663: Amsterdam, Rijksmuseum; Stul- titia mundi, 1664: Riom, Museo; Avvocati in forma di ani- mali: Rotterdam, bvb), in cui riprendendo una tradizione di Bosch e di Bruegel il Vecchio, stigmatizza le follie umane, illustrando il simbolismo dei proverbi in modo surrealista e spesso scatologico. Herman III (Rotterdam 1609 - Utrecht 1685), fratello di Cornelis, fu allievo del padre, Herman II, poi di Jan van Goyen. Si stabilì nel 1634 a Utrecht e fu direttore della gil- da di San Luca dal 1655 al 1667. Eseguì alcune incisioni (1640 e 1669); nel 1635 lavorò, col fratello Cornelis, alla de- corazione del castello di Houselaersdijck e realizzò in quel- lo stesso anno, con Bloemaert, Poelenburgh e Dirck van der Lisse, una scena tratta dal Pastor Fido di Guarini. Dipinse solo paesaggi, dapprima vicini a quelli di van Goyen e Pie- ter Molyn, poi, dal 1640, influenzati dall’italianismo di Poe- lenburgh e di Jan Both: Rebecca e la serva di Abramo (1641:

Storia dell’arte Einaudi Monaco, ap), la Foresta (1647: L’Aja, Museo Bredius), Pae- saggio di montagna (1643: Utrecht, Centraal Museum). Do- po gli anni Cinquanta il suo stile si fece piú minuzioso, so- prattutto nelle numerose Vedute del Reno (1655: Parigi, Lou- vre; 1664: Rotterdam, bvb; Strasburgo, mba). (jv). Sagrestani, Giovan Camillo (Firenze 1660-1731). Seguace del Gherardini, completò la sua formazione nell’Italia settentrionale (Parma, Venezia e Bologna), elaborando, in uno stile che divenne normativo per molti pittori locali, la maniera che nel maestro era stata il frutto di un’immaginazione singolare. Tra le sue prime opere note (ne è sconosciuta l’attività anteriormente al 1700) si ricordano otto Storie della Vergine (1707) in Santa Maria de’ Ricci a Firenze. Dotato di un notevole talento pittorico, escogitò una gamma di colori freddi in cui predominano i bianchi e gli azzurri che gli consentirono effetti assai piace- voli in affreschi e soprattutto in bozzetti, facendone un do- tato interprete del gusto rococò. Operò spesso in collabora- zione con gli allievi, per esempio in Santa Verdiana a Ca- stelfiorentino (dieci tele con Storie della santa, 1710-15 ca.). Fornì cartoni per l’arazzeria medicea; sull’esempio dei fran- cese François Rivière, che allora era attivo a Livorno, pro- dusse gradevoli e brillanti Scene turchesche (Firenze, Pitti). La sua attività e la sua influenza si contennero in ambito to- scano. (eb + sr). Sahara La zona risulta abitata già in epoca preistorica – come atte- stano numerose incisioni e pitture rupestri – da una nume- rosa popolazione umana e animale favorita dall’esistenza di un clima umido e da una vegetazione da savana. Sahara centrale Dal 1850, quando l’esploratore tedesco Heinrich Barth (1821-65) scopriva nel Fezzan le prime trac- ce figurative delle popolazioni sahariane, si sono succeduti studi sempre piú approfonditi che hanno rivelato le diverse forme d’arte, espressioni probabilmente religiose e magiche, risalenti al periodo in cui la zona era percorsa da grandi fiu- mi. Tutti i massicci sono ornati da incisioni, e nella maggior parte anche di pitture, rinvenute successivamente (regione del Tassili e dello Hoggar).

Storia dell’arte Einaudi Nel 1860 il viaggiatore francese Henri Duveyrier (1840-92) rivelava incisioni e pitture nel Tassili; altri viaggiatori se- gnalarono scoperte casuali durante i loro spostamenti; ma solo nel 1930 il capitano Brénans intraprese uno studio del- le circa cinquemila raffigurazioni del wadi Djérati e del wa- di Amazar. Missioni guidate da Henri Lhote effettuarono rilevamenti dei siti noti e ne scoprirono di nuovi. Il Tassili degli Ajjer, che resta tuttora per la maggior parte inesplorato, può considerarsi, allo stato attuale delle nostre conoscenze, il centro artistico fondamentale dell’arte saha- riana. La moltitudine di figure incise e dipinte che ornano i ripari sotto le rocce consente di fissare una cronologia rela- tiva ai vari stili, in attesa di ricollocare l’insieme del Tassili nel suo contesto piú ampio. I siti oggi meglio noti sono Sé- far, Jabbaren, Tamrit e il wadi Djérat. I temi e lo stile del- le opere del periodo arcaico sono abbastanza simili a quelle del Sud oranese: elefanti, mufloni, rinoceronti, giraffe, struzzi sono realizzati in color biancastro, piatto, circonda- to da uno spesso tratto rosso violetto. Nell’uadi Djérat, la raffigurazione del Buffalus antiquus Duvernoy (estinto da mil- lenni) conferma la remota origine di quest’arte. Personaggi di piccola taglia, dipinti in rosso, esseri singolari e animali giganti ai quali si uniscono motivi geometrici e oggetti di dif- ficile identificazione, hanno sicuramente valenze simboli- co-religiose. Lo stile caratteristico dei personaggi dalla testa rotonda, curiosi «marziani» che ornano numerosi siti del Tassili e di altri massicci sahariani, compare senza dubbio un po’ piú tardi. Alle piccole figure monocrome si succedo- no nel tempo raffigurazioni di grandi dimensioni raggiun- gendo nella raffigurazione di alcuni personaggi un’altezza anche superiore ai cinque metri. Gli esseri umani, color ocra giallo contornato di rosso, presentano una testa sferoidale spesso adorna di svariati attributi; vengono accuratamente indicati alcuni dettagli, come i gioielli e i tatuaggi. I pannelli sono spesso ricoperti da tali personaggi sovrapposti, alcuni dei quali sono rappresentati oranti attorno a imponenti fi- gure; molti appaiono mascherati (a Séfar esistono pitture di sole maschere). L’armonia, l’equilibrio ritmico delle forme inducono a ritenere l’arte dei personaggi dalla testa roton- da come tipicamente negra. La Donna mascherata di Séfar e la Dama bianca di Auanrhat costituiscono, forse, i primi ca- polavori di quest’arte.

Storia dell’arte Einaudi Tra il 4000 e il 2000 a. C. è praticato l’allevamento, so- prattutto del bue, di cui compaiono greggi innumeri sulle pa- reti rocciose lungo gli uadi. Il «periodo bovidiano», che gli studiosi ripartiscono in base a caratteristiche locali e ad un’evoluzione generale, ebbe lunga durata e una notevole arca di estensione, dall’Egitto all’Atlantico. Qui, culture pa- storali hanno espresso in uno stile piú libero e dinamico il loro modo di vivere in scene familiari. Greggi condotti da graziose guardiane sfilano negli affreschi dell’alto Mertuek. A Séfar, su metri di parete, si raccontano i minuti eventi di una pacifica vita familiare, passando dagli interni delle ca- se, dove un adulto coricato gioca con un bambinello, fino al- la pastura. Anche quest’arte, piú naturalistica, è però com- binata ad elementi piú astratti. Il Gruppo danzante di Jab- baren mostra a quale livello di composizione e di armonia sia giunta questa pittura, che piú tardi si incamminerà sulla via della schematizzazione. In questo stesso periodo, è in- trodotto il cavallo: il che potrebbe far supporre una data- zione di tale stile intorno al 1500 a. C. I personaggi di que- st’era sono disegnati a tratto fine, progressivamente stiliz- zato. Si moltiplicano i carri da guerra trainati da cavalli «al galoppo volante»; poi una raffigurazione geometrica e astrat- ta include le prime rappresentazioni del cammello, accom- pagnate da segni tifinars. Precisiamo che tale successione di stili vale per tutto il com- plesso sahariano. Nell’Hoggar o nell’Aïr le incisioni sono as- sai piú numerose che nel Tassili; la tecnica impiegata è sia l’incisione seguita da levigatura, sia la picchiettatura, i sog- getti sono analoghi a quelli del Tassili. Molto resta da sco- prire sulla pittura di questa regione, soprattutto per quanto riguarda la datazione assoluta; comunque tramite un’inda- gine al carbonio radioattivo un sito di epoca arcaica confi- nante col Sudan, a Esh-Shaheinab, è stato datato all’incir- ca al 3500 a. C. Sahara occidentale In Mauritania i massicci dell’Adrar so- no disseminati da migliaia di incisioni di epoca diversa. Le piú antiche, tracciate con intaglio profondo e levigate sui bordi, mostrano grandi animali, elefanti e giraffe. Frequen- ti i bovidi delle epoche successive, particolarmente nel Dhar di Chinguetti a el Beyyed. Sono raffigurati numerosi carri da guerra trainati da cavalli, seguiti spesso da cavalieri. In-

Storia dell’arte Einaudi fine, il periodo detto «del cammello», con le iscrizioni tif¥nagb, prosegue una tradizione d’arte rupestre ancor oggi esistente. Nella valle della Saura, la stazione di Marbuma mostra incisioni puntinate semi-schematiche di animali il cui stile è piú grezzo di quello del S centrale. Sahara orientale Dal 1930 sono stati scoperti sul massiccio dell’Ennedi, a nord-est del lago Ciad, ripari ornati da nu- merose pitture parietali. Di grande originalità, pur inseren- dosi nel complesso sahariano, le pitture dell’Ennedi del pe- riodo arcaico, prebovidiano, non raffigurano i celebri per- sonaggi dal capo rotondo. A Sivré figure bianche contornate da un tratto violaceo sono abbastanza simili a quelle che, nella medesima epoca, si trovano nel Tassili. Cacciatori armati di arco e piú tardi di giavellotto illustra- no il periodo medio, fase in cui ricorrono personaggi defi- niti da semplici linee, con riempimenti quadrettati e una sor- ta di gancio o di pennacchio sulla spalla: sono confrontabili con certe raffigurazioni di Séfar e di Jabbaren (S centrale). Rispetto alle precedenti, le pitture dell’epoca bovidiana – che presenta affinità con quella del Mertutek e sarebbe di molto posteriore ai personaggi dal capo rotondo – si distin- guono per la minore spontaneità nel disegno, che resta piú convenzionale. I siti prebovidiani si accompagnano abba- stanza spesso a una ceramica a decorazione puntinata, che presenta affinità con quella del Sudan. A Esh-Shaheinab, il carbonio 14 ha fornito una data del 3500 a. C. che potreb- be corrispondere alla fine del periodo arcaico. Il Tibesti con- tiene affreschi piuttosto simili a quelli del Tassili e nume- rossime incisioni, rivelate da Th. Monod nel 1940. Nell’Akakus, posto a est dell’oasi di Rhat, si trovano affre- schi dell’epoca dei grandi animali arcaici: bufali, rinoceron- ti, elefanti, accanto a numerosi personaggi dalla testa ro- tonda. Frequenti, come in tutti i massicci sahariani, le sce- ne erotiche e di pastorizia (periodo bovidiano); piú tarde le raffigurazioni di carri al galoppo. (yt). Sahibdin Pittore indiano musulmano, attivo a Udaipur, capitale del MewÇr (RÇjasthÇn) durante il regno di Jagat Singh I (sec. xvii). È autore delle illustrazioni di un RÇgamÇlÇ datato 1628 (Nuova Delhi, nm; Benares, Bharat Kala Bhavan), di un BhÇgavata PurÇ™a datato 1648 (Poona, Bhandarkar Oriental

Storia dell’arte Einaudi Institute), di un RÇmÇyana datato 1652 (Londra, bm) e di un Sukar Kshetra Mahatmya datato 1655 (Udaipur, Sarasva- ti Bhandar). Numerose altre miniature della scuola del MewÇr, della metà del sec. xvii recano anch’esse il contras- segno del suo stile. La sua arte, già fissata nel RÇgamÇlÇ del 1628, deve molto, dal punto di vista tecnico, all’arte moghul quale venne coltivata nei centri provinciali dell’impero di JahÇng¥r durante i primi anni del sec. xvii. Ma l’ispirazione dell’artista, che attinge alle fonti stesse della pittura rÇjput, resta di vigorosa originalità, specie per l’impiego drammati- co del colore. (jfj). Saibene, Alberto (Milano 1899-1971). Collezionista colto e poliedrico che, a partire dal 1940 ca., raccoglie nella sua abitazione milanese un’ampia rassegna di dipinti europei di diverse scuole, va- riamente datati tra il xiv e il xvii secolo. Tra le testimonianze piú antiche figurano una Madonna col Bambino, databile tra il 1350 e il 1360, del bolognese Jacopino di Francesco, una Madonna col Bambino di Tommaso da Modena e una di Gen- tile da Fabriano. Molto ben rappresentata è la scuola lom- barda con opere che spaziano da Ambrogio Bergognone a Bernardo Zenale, da Altobello Melone fino a Giulio Cesa- re Procaccini e al Cerano. Di altre scuole italiane sono pre- senti, tra l’altro, una Madonna col Bambino di Jacopo Pon- tormo, una Crocifissione su fondo oro del Boccati e una pre- della di Amico Aspertini. Tra le opere di produzione straniera si segnalano soprattutto la Deposizione al sepolcro di Johannes Ispanus, particolarmente importante poiché è risultata il punto di partenza che ha permesso la ricostru- zione del corpus del misterioso pittore spagnolo, ma attivo anche in Italia, dai modi prossimi a Juan de Borgoña; una Natura morta del 1648 dell’olandese Pieter Claesz; una Ma- donna di Alonso Berruguete e un’opera giovanile di Corne- lis van Haarlem. (apa). Saint-Aignan, Paul Hippolyte de Beauvilliers, duca di (1684-1776). Diplomatico e collezionista francese, fu nomi- nato ambasciatore di Francia a Roma nel 1731, dopo aver ricoperto la medesima carica a Madrid; si diede allora a rac- cogliere opere d’arte. La sua collezione, iniziata dunque piut-

Storia dell’arte Einaudi tosto tardi, alla morte del duca contava, oltre a svariati og- getti d’arte, all’incirca 400 dipinti: G. de Saint-Aubin, pre- sente alla vendita che ebbe come consigliere l’esperto Le- brun (marito dell’artista Elisabeth Vigée), ci ha lasciato in margine all’esemplare di catalogo in suo possesso (ora Pari- gi, bibl. dell’Institut de France) note e schizzi preziosissimi per ricostituire il «gabinetto del defunto signor duca di S-A». La raccolta comprendeva in primo luogo opere dei giovani artisti francesi convittori presso l’Accademia di Francia a Roma negli anni in cui il duca era ambasciatore (1731-40): Trémoilières, Blanchet, lo scultore M. A. Slodtz, J. Vernet, J.-B. Pierre e soprattutto Subleyras, che il duca prediligeva. Vi erano raccolti inoltre dipinti di scuola romana (C. Ma- ratta, Trevisani, Vanvitelli), alcune copie dai maestri bolo- gnesi del sec. xvii. In Francia S-A acquistò opere di artisti francesi del xvii e xviii secolo; assenti Chardin, Boucher, Watteau, Fragonard, che non rientravano nella categoria della «grande maniera»; erano invece ben rappresentate le scuole fiamminga e olandese, dimostrando la passione degli intenditori dell’epoca per i pittori nordici (uno dei piú no- tevoli fra tali dipinti era senza dubbio un’Adorazione dei pa- stori di Jordaens, probabilmente quella oggi al Museo di Ma- gonza). (ad). Saint Albans L’abbazia di SA (Hertfordshire, a nord-ovest di Londra) oc- cupa un posto privilegiato nella storia dell’evoluzione della pittura inglese, per il ruolo che svolse nella comparsa dello stile romanico nella miniatura di oltre Manica. Sin dall’ini- zio del sec. xii si constata negli artisti di tale abbazia uno sforzo di rinnovamento con l’illustrazione di una Psycho- machia di Prudenzio (Londra, bl Cotton Cleopatra CVIII, ms 120) da Bury Saint-Edmunds; benché il tratto nervoso appartenga alla tradizione del disegno anglosassone, l’opera attesta una nuova sensibilità nell’interpretazione della figu- ra umana. Nel corso del secondo terzo del sec. xii venne ese- guito per l’abbazia il celebre Salterio di saint Albans, oggi con- servato nel tesoro della Cattedrale di Hildesheim nella Bas- sa Sassonia. L’abbondante decorazione di tale manoscritto inizia con l’illustrazione dei mesi, che ornano il calendario; contiene poi varie miniature a tutta pagina, tra le quali le

Storia dell’arte Einaudi prime due, relative al peccato originale, rappresentano Sce- ne della vita e della passione del Redentore.L’artista che ha il- lustrato il salterio è anche autore del disegno riguardante una Vita di sant’Alessio, intercalata tra il ciclo cristologico e il salterio propriamente detto. Un secondo artista ha deco- rato quest’ultimo con iniziali istoriate che illustrano, con precisione, il testo di ciascun salmo. A lui si deve pure l’ul- tima miniatura, rappresentante il Martirio di saint Albans.Lo stile di questi due pittori, in completa rottura con quello del- la miniatura anglosassone precedente la conquista, trae ele- menti da varie fonti: italiana (e senza dubbio bizantina) per la ricerca degli effetti plastici, ottoniana per la monumenta- le dignità dei personaggi. La preminenza accordata alla li- nea, trattata con un certo partito decorativo, la giustappo- sizione di bande di colore per esprimere lo spazio sono, in- vece, tratti specificamente romanici. L’influsso del nuovo stile si estese rapidamente ad altri centri, in particolare Can- terbury e soprattutto Bury saint Edmunds, donde proven- gono un libro dei Vangeli (Cambridge, Pembroke College) e una Vita e miracoli di saint Edmunds (New York, pml, ms 736), ornati con disegni e pitture assai vicine alle scene del- la Vita di Cristo del salterio di SA. Anche in quest’ultima ab- bazia vennero realizzate, verso la metà del sec. xii, le illu- strazioni, dall’elegante grafica e ispirate a un modello caro- lingio, di un bell’esemplare delle Commedie di Terenzio conservato a Oxford, Bodleian Library. A differenza dalla maggior parte delle abbazie, SA non cessò di essere un vi- vace centro artistico alla fine del periodo romanico. All’op- posto, brillò particolarmente alla metà del sec. xiii con la personalità del monaco storiografo Matthew Paris, che illu- strò di sua mano con notevoli disegni il suo testo dei Chro- nica Majora (Cambridge, Corpus Christi College, ms 26) e che si rappresentò ai piedi della Vergine in un manoscritto di Beda. (fa). Saint-Amand L’abbazia di Saint-Amand-en-Hainaut (Belgio) ha svolto, a due riprese, un ruolo importante nella storia della miniatu- ra francese. La sua fama risale ad epoca carolingia, quando, grazie al favore di cui godevano due abati umanisti (Milon e Hucbald) presso la casa imperiale, l’abbazia divenne uno

Storia dell’arte Einaudi dei fornitori di manoscritti di lusso piú qualificati della cor- te: per esempio la Seconda Bibbia di Carlo il Calvo (Parigi, bn, lat. 2) sembra uscisse dal suo laboratorio. Le grandi let- tere ornate che la decorano sono assai rappresentative dello stile franco-sassone (la cui origine viene concordemente as- segnata a S-A): adottano motivi intrecciati d’ispirazione in- sulare, disposti con rigore e sobrietà. Per trovare un livello paragonabile si dovrà attendere l’epoca romanica. Le illu- strazioni, dai vigorosi colori, di una Vita di saint-Amand (bi- bl. di Valenciennes, ms 502) attestano il rinnovamento ar- tistico dell’abbazia alla metà del sec. xi. Ma la maestria dei miniatori si affermò soprattutto nel secolo seguente, in un secondo esemplare della Vita di saint-Amand (ivi, ms 501), i cui dipinti, minuziosamente trattati, sono notevoli per la pu- rezza e la preziosità del colore. L’autore di una mirabile fi- gura di San Gregorio (Parigi, bn, lat. 2287) dà prova di un senso plastico che si ritrova nelle illustrazioni di una terza Vita di saint-Amand (bibl. di Valenciennes, ms 500). Del gruppo allora operante per l’abbazia, un solo nome è giunto sino a noi: quello di Savalon, artista diligente, la cui opera piú meritoria è una Bibbia ornata di curiose «pagine-tappe- to». (fa). Saint-Aubin Gabriel Jacques de (Parigi 1724-80), fratello di Charles Ger- main, disegnatore del re, e di Louis Michel, pittore di por- cellane alla manifattura di Sèvres, fu allievo di Jeaurat, di Collin de Vermont e di Boucher. Dopo aver fallito tre vol- te nel concorso per il grand prix di pittura (1752-54), in rot- ta con l’Accademia ufficiale, entrò nell’Accademia di San Luca, dove insegnò ed espose. I suoi disegni nervosi e pit- torici, fortemente contrastati, realizzati con tecniche miste, ne fecero uno dei cronisti piú rinomati dell’epoca (il Boule- vard, 1760 ca.: Parigi, Istituto olandese). Amava soprattut- to riprendere dal vero scene di vita, paesaggi o eventi parti- colari (Incoronazione di Voltaire al Théâtre Français, 1778: Parigi, Louvre), eseguendo rapidi schizzi sui suoi quaderni o a margine delle tavole di un libro (Poésies de Sedaine: Chan- tilly, Museo Condé; Description de Notre-Dame di Gueffier: Parigi, Museo Carnavalet). Rimangono tra l’altro gli schiz- zi sui suoi cataloghi di vendite o di mostre, e i suoi quader- ni sui salons (Libretti dei Salons del 1761, 1769, 1777: Pari-

Storia dell’arte Einaudi gi, bn; Catalogo della vendita Mariette: Boston, mfa). L’uni- ca opera cui si applicò con una certa continuità fu lo Specta- cle de l’histoire romaine di Philippe de Prétot, in cui 28 sce- ne su 49 sono incise in base a suoi disegni o acquerelli. Ga- briel Jacques non ha nulla dell’incisore professionista e le sue opere non presentano il lavoro accurato e brillante che s’im- para in bottega, ma una totale libertà esecutiva, come nella Conferenza dell’ordine degli avvocati (1776) o nelle due ta- vole dello Spettacolo delle Tuileries (1760), in cui con graffi e meandri cerca di rappresentare il dissolversi delle forme nella luce. Anche i suoi rari dipinti, il cui piú importante complesso, grazie alla donazione Henri Baderou, è conser- vato a Rouen (mba) non consentono di inserirlo in una pre- cisa corrente artistica, spaziando da scene alla Watteau (Pas- seggiata a Longchamps: Perpignan, Museo) a quadri di co- stume (Parata sul boulevard, 1760: Londra, ng), a paesaggi con rovine (Naumachia nel parco Monceau, 1778) a quadri di storia (Labano cerca i suoi idoli, 1753: schizzo a Cleveland, am, quadro a Parigi, Louvre). E suo talento di pittore si af- ferma però soprattutto nell’intimità preromantica del- l’Académie particulière (coll. priv.) o nell’atmosfera di sogno del Levar del sole (Museo di Providence, Rhode Island), te- stimonianze della sua sorprendente originalità. (cc+ mdb). Il fratello Augustin (Parigi 1736-1808), disegnatore e inci- sore, fu dapprima suo allievo; in seguito si dedicò alla pit- tura di storia studiando con Fessard nel 1755 e perfezio- nandosi presso Laurent Cars (intorno al 1764). Poco dopo passò all’incisione decorativa, lavorando per Slodtz, allora disegnatore dei Menus Plaisirs del re. Membro dell’Acca- demia (1764), divenne cronista dei costumi della seconda metà del secolo (oltre 1200 pezzi incisi, disegni e acquerel- li: Parigi, bn e Bibl. Mazarine), rappresentando la vita dell’alta società in brani di grande precisione e delicatezza (il Concerto, il Ballo in maschera, 1773), o fissando la fisio- nomia di personaggi dall’antichità ai suoi giorni in una gal- leria di medaglioni che ricorda quella di Cochin. Nel 1777 venne nominato disegnatore e incisore della biblioteca del re. Durante la rivoluzione, pur continuando la sua serie dei grandi uomini della storia, eseguì numerose tavole con me- daglioni allegorici (Œuvre di A. de S-A, da lui annotata e do- nata alla bn di Parigi). (cc).

Storia dell’arte Einaudi Saint-Cirq-du-Bugue La decorazione di questa piccola grotta (in parte trasforma- ta in cava) di una località della Dordogna, nella regione de- gli Eyzies-de-Tayac, è stata scoperta nel 1952. Nella sala, resti di bassorilievi dimostrano l’esistenza di un santuario. Un treno posteriore di bisonte, una testa di cervide e un fre- gio di cavalli incompleti consentono di assegnare il complesso allo stile III. Oltre la cava, la grotta si prolunga in una fa- glia il cui soffitto è ornato da incisioni di stile disomogeneo. Un bisonte, una testa di stambecco e soprattutto il profilo ben conservato d’un uomo, fra tratti confusi, appartengono ad epoca piú tarda. Secondo Leroi-Gourhan, la decorazione della cava è di epoca solutreana, ma la parte profonda, che appartiene allo stile IV antico, potrebbe datarsi al Madda- leniano medio. (yt). Saint-Igny, Jean de (Rouen 1595/1600 - dopo il 1647). Dopo un breve soggior- no a Parigi nel 1629-31, tornò nella sua città natale, dove trascorse il resto della vita. Della sua produzione restano una decina di quadri (tra cui due grandi composizioni: l’Adora- zione dei Magi e l’Adorazione dei pastori, 1636; l’Allegoria dell’Aria: Rouen, mba; il Ritratto equestre di Luigi XIV bam- bino: Nîmes, mba; Luigi XIII, Anna d’Austria e Richelieu as- sistono a una rappresentazione in Palais-Cardinal: Parigi, mad; Sette scene di antichità romane: Parigi, Musée di Cluny), al- cuni disegni (Rouen, mba e New York, mma) e incisioni. Fortemente attratto dalla moda e dal costume, fu uno dei pochi artisti del suo tempo ad avvicinarsi allo stile maniera- to e stravagante di Claude Vignon. Il Luigi XIV giovane a ca- vallo (Chantilly, Museo Condé), dipinto a grisaille, come la maggior parte delle altre sue opere, ancora improntate dal manierismo, è esempio caratteristico del suo stile, facilmente riconoscibile. (pr). Saint Louis Art Museum Nel 1875 venne fondata la SL School of Fine Arts, che fu la prima sede del museo dotato di un proprio edificio nel 1881 grazie a M. Wayman Cross. Se nel 1901 la collezione comprendeva quasi esclusivamente dipinti ame- ricani, già dal 1907, quando il museo si trasferì nell’edificio

Storia dell’arte Einaudi dell’Esposizione internazionale, le raccolte si ampliarono. Oggi infatti, nonostante la scuola americana costituisca un corpus di tutto rispetto, sono ben rappresentati l’Ottocen- to francese (Delacroix, Corot, Manet, Renoir, Pissarro, Mo- net, van Gogh, Seurat e Matisse), i primitivi italiani (Piero di Cosimo) e fiamminghi (Mostaert), Holbein, P. De Hoo- ch, Rembrandt (Ritratto di giovane uomo), Rubens, Gain- sborough, Reynolds, Largillière, Fragonard, El Greco, Goya, Murillo, e tra gli italiani, Strozzi, Tiziano, Tintoret- to (Mosè salvato dalle acque), Tiepolo. Anche l’arte moder- na ha la sua parte: Braque, Kirchner, Beckmann, Ben Shahn per fare solo alcuni esempi. Comprende inoltre un impor- tante fondo di grafica. (jhr). Saint-Morys, Charles Paul Jean Baptiste Bourgevin Vialard de (Parigi 1743 - Île d’Houat 1795). Figlio cadetto di una no- bile famiglia decaduta, incisore dilettante e conoscitore, ni- pote di un collezionista di dipinti, bronzi e stampe e figlio di un raffinato bibliofilo, S-M aveva iniziato nel 1769 una collezione di dipinti, oggetti d’arte, stampe e soprattutto di- segni, alcuni dei quali incisi da lui stesso. La collezione era conservata nel seicentesco castello di Hondainville nel Beau- vasis acquistato nel 1781 e nella residenza parigina di rue Vivienne, già sede dell’Accademia delle Scienze. Documen- tata è la frequentazione di artisti e mercanti, l’acquisizione di opere alle piú importanti vendite e dispersioni collezio- nistiche, spesso su consiglio di Pierre Larrieu e Pierre Lélu, pittori di soggetti storici. Il 6 febbraio 1786, pose in vendi- ta una parte cospicua delle sue collezioni conservando per lo piú opere di artisti italiani. Dei 2762 fogli in vendita – al- cuni provenienti da celebri cabinets d’amateus (Crozat, Ma- riette, Lempereur, Blondel, Dazaincourt) – solo 511 erano ascritti ad artisti italiani in confronto ai 1376 disegni france- si e 875 nordici; tra gli autori dei dipinti in vendita compa- rivano Rembrandt, Ruysdaël, Téniers, Rubens, Bourdon, Watteau, Greuze. Nonostante la vendita, nel marzo del 1793 in un nascondiglio del castello di Hondainville, occu- pato dalle truppe repubblicane, furono ritrovati «147 ta- bleaux et une quantité prodigieuse de desseins et gravures». Circa tredicimila i disegni della raccolta, suddivisi per scuo-

Storia dell’arte Einaudi le (italiana, francese e nordica) e corredati da annotazioni concernenti la provenienza e i prezzi d’acquisizione furono prima depositati nell’Hôtel de Nesle a Parigi e quindi de- stinati al Cabinet des Dessins del Museo del Louvre al qua- le pervennero tra il 1796 e il 1797. (pgt). Saint-Non, Jean-Claude Richard, abate di (Parigi 1727-91).Abate commendatario diS-N è noto per la sua serie di viaggi che lo portarono in Inghilterra (1750: fu tra i primi a portare in Francia stampe di Benjamin We- st), in Olanda, dove acquistò incisioni di Rembrandt, di cui ammirava il chiaroscuro, e soprattutto per quel viaggio in Italia (1756, 1759-61) e per la direzione e redazione dei cin- que volumi del Voyage pittoresque de Naples et de Sicile edi- ti dal 1781 al 1786 con la collaborazione del giovane Vi- vant-Denon, futuro riorganizzatore del Louvre napoleoni- co. Durante il suo soggiorno romano strinse rapporti con i giovani artisti francesi allora a Roma, in particolare Hubert Robert e Fragonard, che vennero coinvolti nell’ambizioso progetto di documentare visivamente i luoghi e i monumenti antichi e moderni dell’ltalia meridionale e della Sicilia. Fra- gonard e Robert disegnarono per S.N anche i Fragments de peintures... d’après les maîtres italiens (1770-73) e le Vues de Suisse (1777-79), incise poi dall’abate, Protesse gli artisti e non disdegnò di provarsi nella pittura (cfr. la copia della Na- tività di Boucher: Lione, mba, conservata nella chiesa di Pothières en Côte-d’Or, eseguita per l’abbazia di cui era ti- tolare). La profonda stima per Fragonard e Hubert Robert, lo spinse ad acquistare un’importante serie di sanguigne dei due artisti, che entrarono all’mba di Besançon insieme alla collezione P. A. Pâris. Acquistò anche qualche tela di Fra- gonard, tra cui alcuni dei suoi capolavori; le Quattro Arti (New York, coll. priv.), le Quattro Parti del mondo (ivi), le Cascatelle di Tivoli (Parigi, Louvre), l’Altalena, A mosca cie- ca (Washington, NG). Fragonard realizzò due ritratti di Saint-Non in costume di fantasia (Parigi, Louvre; Barcellona, mba). (cc+ sr). Saint-Ours, Jean-Pierre (Ginevra 1752-1809).Figlio del pittore su smalto Jacques S-O, francese emigrato, fu allievo dell’Accademia parigina e operò nello studio di Vien accanto a David, al paesaggista

Storia dell’arte Einaudi Pierre Louis de la Rive e al pittore valdese Sablet. Ottenne il grand prix nel 1780 (Ratto delle Sabine: Parigi, enba) e nel- lo stesso anno partì per Roma, dove restò fino al 1792 (la Contessa d’Albany, 1792: Museo di Zagabria); poi si stabilì a Ginevra, restandovi fino alla morte. Conquistato dagli ideali della rivoluzione e dai principî neoclassici, realizzò quadri di storia antica, qualche paesaggio al modo di Pous- sin (Antica fontana: Ginevra, Museo d’Arte e di Storia) e molti ritratti (Abraham Lissignol, 1795: ivi; Ritratto di M. me Saint-Ours con un figlio: Neuchâtel, Museo d’Arte e di Sto- ria) che eseguì per lo piú nella sua tarda attività. Come tut- ti i neoclassici, fu un eccellente disegnatore e restò per tut- ta la vita fedele alla lezione di Vien (Trionfo della Bellezza: Ginevra, Museo d’Arte e di Storia), Le sue opere di dimen- sioni colossali (i Giochi olimpici; Terremoto: ivi) hanno la mo- numentalità di David (che S-O ritrova a Roma nel 1784-85) e possono indurre a confronti con l’opera di Füssli. Osses- sionato dagli effetti della rivoluzione, S-O esprime, con una classica severità, l’angoscia del tempo come Regnault e Dau- loux. Illustrò il Lévite d’Ephraïm (1795-1890; quadri e dise- gni al Museo d’Arte e di Storia di Ginevra). (jv). Saint-Savin Gli affreschi dell’abbazia di S-S-sur-Gartempe (Vienne), scoperti e salvati nel 1836 da Prosper Mérimée, costitui- scono il piú importante complesso lasciato dall’epoca roma- nica a nord delle Alpi, sia per l’ampiezza e completezza del programma iconografico che per le qualità squisitamente pit- toriche. Originariamente la chiesa era interamente decora- ta da pitture murali; quanto oggi ne resta consente di con- statare che un’unica idea direttrice presiedette all’articola- zione dei vari cicli entro l’edificio. Sulla volta del portico occidentale compaiono vari soggetti tratti dall’Apocalisse; nel timpano figura la visione escatologica del Cristo del Giu- dizio Universale, cui fanno corteo gli Apostoli e gli Angeli adoranti.La tribuna, posta sopra il portico, presenta sulle pareti laterali una serie di Vescovi, mentre la campata co- municante con la navata è sovrastata da una magistrale De- posizione dalla croce. La volta della navata è interamente de- dicata alla storia del popolo ebreo, dalla Creazione fino alla Consegna a Mosè delle Tavole della legge. Infine, i dipinti del-

Storia dell’arte Einaudi la cripta descrivono il Martirio di san Savino e del suo com- pagno San Cipriano. La decorazione del coro e del transetto è oggi scomparsa. Si possono distinguere differenze abbastanza consistenti nel- la tecnica e nei modi di procedere alla stesura degli affreschi da parte degli artisti, o gruppi di artisti, che hanno operato nelle varie parti della chiesa: mentre i dipinti del portico, della tribuna e della cripta sono trattati con una finezza e una minuzia che rammentano la tecnica della miniatura, quelli della navata, all’opposto, piú lontani dallo spettatore, sono eseguiti con una pennellata ampia e distesa che mira all’effetto monumentale. Identiche appaiono le differenze nella trattazione cromatica: gli artisti del portico, della tri- buna e della navata fanno uso di tonalità chiare e luminose, con personaggi che spiccano su sfondi pallidi e sfumati; il pittore della cripta ha usato tonalità piú sicure e piú model- late. Sembra peraltro che la decorazione di S-S sia opera di pittori di formazione omogenea, come confermano alcune particolarità comuni nel trattamento dell’anatomia e dei co- stumi (ventre a mandorla, pieghe concentriche del dorso), nonché l’eleganza che caratterizza tutti i personaggi. Que- st’unità, e l’impianto coerente del programma iconografico, consentono di ritenere che l’intera decorazione sia stata rea- lizzata in un breve lasso di tempo: approssimativamente tra la fine del sec. xi e l’inizio del xii. (fa). La recente scoperta e messa in vista, attraverso un delicato restauro (1981), degli affreschi della Sala capitolare dell’ab- bazia della Trinità di Vendôme (Poitiers), databili attorno al 1096, ha permesso di chiarire, visto il loro eccezionale sta- to di conservazione, alcuni aspetti dello stile di uno dei mae- stri attivi a S-S, che è autore unico di quelli di Vendôme; questo anonimo, la cui bottega, molto probabilmente, ave- va sede in Tours, centro artistico primario della regione per il periodo romanico, con Angers e Limoges, fu uno dei mi- gliori del tempo nella Francia occidentale. Egli adopera co- lori saturi, sapientemente controllati attraverso l’uso delle ombre e delle accensioni cromatiche. (sr). Saint-Tropez Capoluogo cantonale, S-T venne segnalata per la prima vol- ta da Guy de Maupassant (Sur l’eau, 1888) per il suo fasci- no e il suo carattere selvaggio. Località frequentata da nu-

Storia dell’arte Einaudi merosi artisti per la bellezza del sito e per la qualità della lu- ce, fu ispiratrice di Signac, che vi comperò una proprietà (Place des Lices, a Saint-Tropez, 1893: Pittsburgh, Carnegie Institute; il Porto, 1893: Essen, Folkwang Museum), e, tra i neoimpressionisti stabilitisi nei paraggi, di van Rysselber- ghe (a Saint-Clair), Cross (a Le Lavandou: 1891), Valtat (ad Anthéor: 1889). Questi attirarono ben presto artisti piú gio- vani: Matisse, che trascorse l’estate del 1904 presso Signac e vi dipinse Lusso, calma e voluttà (Parigi, coll. priv.), Man- guin, Camoin e Marquet nel 19o5. Tra le due guerre vi si stabilí una nuova generazione di scrittori e di artisti, di cui i piú eminenti sono Colette, Lebasque, Luc-Albert Moreau, Dunoyer de Segonzac; in particolare vi soggiornarono Bon- nard e Derain. Grazie soprattutto ai lasciti della collezione di Georges Grammont il Musée de l’Annonciade, inaugurato nel 1955 nell’antica cappella dell’Annonciade (1510) prospiciente il porto, è uno dei piú importanti musei francesi d’arte mo- derna. Oltre a un complesso significativo di opere divisio- niste (Seurat, Signac, Cross), e a significative tele di Bon- nard, Vuillard, La Fresnaye e Segonzac, il museo serba un eccezionale gruppo di dipinti fauves (Matisse, in particola- re la Gitana; Derain, Vlaminck, Firesz, Dufy, Marquet, van Dongen). (fc). Salamanca In seguito allo sviluppo sociale attuatosi nel sec. xii S (nel León), fu sede di una bottega fiorente, quella di Fernando e Francisco Gallego: i maggiori rappresentanti dello stile ispano-fiammingo, radicatosi nella Castiglia del sec. xv e diffusosi in tutta la Spagna occidentale. Importante centro religioso e universitario divenne un centro di richiamo cul- turale e artistico nel corso dei secoli, di cui sono testimo- nianza alcune opere di prim’ordine, venute da fuori o ese- guite sul posto da artisti stranieri. La vecchia Cattedrale possiede – oltre ai curiosi dipinti murali della cappella di San Martín di Anton Sanchez di Segovia, di un attardato romanico malgrado la data del 1262 – un’opera fondamen- tale per la pittura italiana del sec. xv in Spagna: il grande retablo, con i suoi cinquantacinque scomparti dedicati alla Vita di Cristo, e l’affresco del Giudizio Universale che li co-

Storia dell’arte Einaudi rona. Il retablo spetta al fiorentino Dello Delli, mentre l’af- fresco del Giudizio, allogato nel 1445 a «Nicola Fiorenti- no», personalità ormai disgiunta dalla critica da Dello. La nuova Cattedrale conserva una delle opere piú importanti del manierista di Badajoz, Luis Morales (Vergine tra i due san Giovanni). Nel secolo successivo il conte di Monterrey, viceré di Na- poli, fece costruire, accanto al suo palazzo di famiglia, il con- vento delle Agustinas Recoletas, e dotò gli altari della chie- sa di un gruppo di notevoli pitture. Tra i dipinti italiani van- no citati quelli di Guido Reni e Lanfranco, vi sono poi conservati due capolavori di un Ribera: l’Immacolata Con- cezione del 1635, e, su un altare laterale, il San Gennaro sul- lo sfondo di un paesaggio napoletano. S possiede inoltre alcune tra le migliori tele del madrileno Claudio Coello: i santi Giovanni di Sahazun e Tommaso di Villanueva del Carmen di Abajo e, in San Esteban, il Marti- rio di san Sebastiano, ultima opera del pittore. Il coro dei re- ligiosi della stessa chiesa conserva, col Trionfo della Chiesa, l’affresco piú importante del cordovano Palomino. Infine, mentre altre città (Toro, Zamora, Trujllo) conserva- no importanti retabli dei Gallego, il Museo diocesano, aper- to nel 1952 in un edificio annesso alla Cattedrale, raccoglie una scelta assai felice di opere della loro bottega ritrovate a S o nei dintorni: Salita al Calvario, Flagellazione, Trittico di santa Caterina, caratteristici del loro aspro realismo; Trittico di sant’Andrea, cui si aggiunge il bel Trittico di san Michele di Juan de Flandes, pittore di Isabella la Cattolica. Quanto all’Università, le sue «Escuelas menores», trasformate in museo, rivelano l’aspetto profano e umanistico di Fernando Gallego con il vasto soffitto dell’antica biblioteca universi- taria (1494), dedicata ai Segni dello Zodiaco; con Apollo e Mercurio, su carri trionfali. (pg). Salamanca, marchese di (Malaga 1811 - Madrid 1883). Deputato alle Cortes nel 1837, socio di un banchiere brasiliano, ottenne il monopo- lio del sale e raccolse una considerevole fortuna nel tempe- stoso periodo seguito alla guerra carlista. Fu di volta in vol- ta proscritto (esiliò a Parigi nel 1848), ministro delle finan- ze, addirittura presidente del Consiglio nel 1857, promotore e primo proprietario delle ferrovie spagnole, creatore a nord

Storia dell’arte Einaudi di Madrid del nuovo quartiere residenziale che ne porta il nome. Temperamento aristocratico e giocatore d’azzardo in- traprendente, perse e riguadagnò piú volte la sua fortuna, divenendo senatore e marchese, ma economicamente rovi- nato. Nella sua residenza madrilena, poi nel suo palazzo di Parigi in rue de la Victoire raccolse una notevole collezione di pittura spagnola, meno ricca ma piú scelta di quella di Aguado. Fu uno dei rari collezionisti dell’epoca interessato all’opera di Goya; acquistò dal figlio una serie di importan- ti ritratti. Seppe d’altro canto ricorrere ai consigli dei mi- gliori conoscitori madrileni (in particolare José de Madrazo, dal quale acquistò una quarantina di tele), sotto la cui guida riuscí ad appropriarsi di opere appartenute alle piú celebri collezioni spagnole (Leganes, Altamira, Mengs). Dati i suoi continui rovesci economici dovette disfarsi della sua colle- zione per pagare i debiti, e le due aste (nel 1867 e nel 1875) furono veri e propri avvenimenti. Tutti i grandi maestri spagnoli erano rappresentati nella col- lezione, spesso con opere di prim’ordine finite poi nelle rac- colte di musei europei e americani: Velázquez, la Signora col ventaglio di Berlino (sm, gg) e il Cardinal Borgia di Fran- coforte (ski); Zurbarán, l’Immacolata del Museo Cerralbo di Madrid e l’Annunciazione di Philadelphia (am); Murillo, la Morte di santa Chiara di Dresda (gg), che S aveva acquistato all’asta Aguado; Goya, la Signora col ventaglio del Louvre di Parigi e il sopraporta delle Donne che conversano di Hartford (Wadsworth Atheneum). Alcune opere di notevole impor- tanza sono in collezioni private, come la serie del Figliol pro- digo di Murillo (Blessington, coll. di sir Alfred Beit) o i ri- tratti di Goya (Francisco Javier Goya, Gumersinda Goicoc- chea, Lorenz Correa, nella collezione già della viscontessa di Noailles a Parigi) (pg). Salerno Le gravi distruzioni subite dal patrimonio artistico cittadi- no, che hanno praticamente cancellato ogni testimonianza figurativa medievale, non permettono oggi di avere alcuna idea di quello che fu lo sviluppo della pittura a S nel perio- do piú ricco e interessante della sua storia. Tra le opere d’ar- te anteriori al sec. xiii non disponiamo infatti che di pochi avanzi architettonici e scultorei, e del famoso complesso de-

Storia dell’arte Einaudi gli avori della Cattedrale (sec. xii), che mostra un’originale rielaborazione di modelli provenienti dal mondo bizantino e da quello islamico, ma anche e soprattutto dai centri piú vitali dell’Occidente romanico, dalla Linguadoca, al León, alla Lombardia, lasciando intravedere, oltre alla larghezza dei rapporti culturali, la capacità degli artefici attivi in città di esprimere una sintesi autonoma, propriamente salernita- na. Solo a partire dalla tarda epoca sveva e dalla ripresa le- gata alle iniziative dell’ammiraglio di re Manfredi, Giovan- ni da Procida, disponiamo però di resti pittorici significati- vi, tra cui principalmente mosaici dell’abside destra del Duomo, databili verso il 1260. Questi, con la decorazione dell’Exultet dello stesso Duomo, la Croce del Conservatorio del Crocefisso e la Madonna di Santa Maria de Flumine (Na- poli, Capodimonte, da Amalfi) sono i piú importanti esiti sul continente della cultura coltivata nei cantieri siciliani di Monreale, e Messina, di impronta tardobizantina e sostanzialmente rivolta al passato, ma ancora capace di produrre opere di elevatissima tenuta qualitativa. Alle stes- se date il Pontificale del Duomo documenta la contempora- nea diffusione della cultura meno ufficiale e piú moderna dei miniatori attivi alla corte di Manfredi e dei primi Angiò, formati sulle novità piú naturaliste del gotico francese e del- la scuola miniatoria bolognese. Nel periodo angioino la pre- minenza di Napoli, diventata stabilmente capitale, relega S a un ruolo subalterno, anche se la presenza di opere di gran- de livello testimonia per almeno due secoli ancora il perdu- rante inserimento della città nei circuiti culturali piú ag- giornati. Cosí la Crocifissione della chiesa del Crocifisso re- gistra la medesima diffusione, alle stesse date, di modi catalani-roussillonesi presenti a Napoli e a Melfi verso il 1290, e, a un livello di qualità molto piú alto, il Messale fran- cescano del Duomo, di mano umbra, ma probabilmente a S ab antiquo, testimonia la pronta ricezione delle novità ci- mabuesche assisiati. Ancora per tutto il Trecento la Croci- fissione di Roberto d’Oderisio (Museo diocesano, prove- niente da Eboli), la Madonna col Bambino di Sant’Agostino, la Pietà dei Santi Crispino e Crispiniano, documentano la capacità, se non degli artisti, sicuramente della committen- za locale, di farsi partecipe di tutte le maggiori novità ela- borate alla corte degli Angiò, e nel secolo successivo e fino ai primi anni del Cinquecento l’attività, in città e nel cir-

Storia dell’arte Einaudi condario, di Giovanni da Gaeta, di Angelo Antonelli, del Maestro dell’Incoronazione di Eboli, di Cristoforo Scacco, come la presenza nei documenti napoletani di numerosi pit- tori provenienti da S, da Pietro Befulco a Vincenzo de Ro- gata ad Andrea Sabatini testimoniano la vivacità ancora no- tevole dell’ambiente. Il processo di periferizzazione si ac- centua invece drasticamente durante il viceregno spagnolo, con la crisi della feudalità locale e l’accentrarsi verso Napo- li delle attività economiche e amministrative, cosicché gli eventi successivi, pur di rilievo, dagli affreschi della cripta del Duomo di Belisario Corenzio (1604) al sipario del Tea- tro Verdi di Domenico Morelli (1863) e oltre, appaiono sem- pre piú come episodi isolati di importazione dell’arte della capitale. (aze). Salerno, Giuseppe (Gangi (Palermo), notizie (1570-1633). Noto anche come lo «Zoppo di Gangi», pseudonimo con il quale viene indicato anche Gaspare Vazzano (suo contemporaneo, tradizional- mente considerato il suo maestro). Questa coincidenza ha dato adito a una confusione nella individuazione dei due pit- tori, che solo di recente si è incominciato a distinguere sul- la base delle rispettive opere documentate. Si formò nell’ambiente pittorico della Sicilia occidentale; il suo stile risentí particolarmente dell’influenza dell’Alvino, di Scipione Pulzone (le cui opere giunsero in Sicilia nella se- conda metà del nono decennio del sec. xvi), di F. Paladino, attivo a Palermo fin dal 1601, nonché della pittura fiam- minga, rappresentata in loco da opere di S. de Wobrek e del Cruzer. Piú tardi, dipinti come il San Gandolfo (1620) della chiesa del Collegio di Maria di Polizzi, o il San Francesco (1624) dell’omonima chiesa a Petralia Sottana, presentano – insieme alla adesione a moduli compositivi desunti da stampe del Barocci e del Muziano – una materia pittorica piú morbida, frutto di piú stretti rapporti con il Vazzano, il quale tra il 1618 e il ’24 collabora con il S agli affreschi del- la chiesa madre di Collesano. (lh). Salimbeni Lorenzo (San Severino Marche 1374 ca. - ante 1420) e Ja- copo (notizie dal 1416 al 1428). La data di nascita del mag-

Storia dell’arte Einaudi giore dei due fratelli si deduce dalla scritta apposta al tritti- co con ante mobili con Sposalizio di santa Caterina tra i santi Simeone e Taddeo (Sanseverino, pc; le ante esterne recano tracce di una Pietà e di un San Luca), nel quale il pittore di- chiara di avere ventisei anni. Il trittico è datato 1400: il dub- bio, sollevato da alcuni studiosi che la scritta sia incomple- ta e che quindi esso sia stato dipinto alcuni anni dopo non pare reggere all’analisi tecnica dell’iscrizione. La data, sor- prendentemente precoce, indica la prontezza con cui Lo- renzo fa proprie le indicazioni del piú avanzato gusto goti- co internazionale esperito in Italia settentrionale (alcuni dei cui esempi, forse altaroli portatili o miniature, egli dovette conoscere direttamente), in sorprendente parallelismo con il percorso di Gentile da Fabriano, che solo piú tardi verrà in contatto diretto con i S. Il tema mistico viene interpre- tato in tono mondano, le vesti dei personaggi hanno ritmi elegantissimi e frastagli squisiti che lambiscono il prato fio- rito. Quasi illeggibili sono i frammenti pervenutici del ciclo di affreschi firmati da Lorenzo (1404) nella sagrestia della chiesa della Misericordia, a San Severino; meglio conserva- ti, seppur frammentari, quelli della cripta della collegiata di San Ginesio (Storie di san Biagio: cappella omonima), firma- ti e datati 1406, che, specie nella Madonna in trono tra san Ginesio e Stefano della lunetta, indicano, nella loro rete com- plessa di riferimenti lombardi, bolognesi e padani, quale ric- chezza culturale abbia nutrito il pur freschissimo linguaggio salimbeniano. Nel 1407, con vasto apporto della bottega, Lorenzo affresca la sagrestia di San Lorenzo in Doliolo, a San Severino. Attorno al 1414-15 si collocano forse gli af- freschi, anch’essi non completi, in Santa Scolastica a Nor- cia, scoperti nel 1978, che illuminano un capitolo poco no- to dell’attività extra-marchigiana della bottega. Il capolavo- ro dei S sono le Storie di san Giovanni Battista, firmate da entrambi i fratelli nel 1416 (Urbino, Oratorio di San Gio- vanni Battista). Una fantasia freschissima di episodi (il cui realismo, così come una maggiore articolazione degli spazi, dovrebbe accreditarsi al piú giovane Jacopo), particolari, fog- ge e personaggi pervade tutte le scene; ma la qualità dello stile è tutt’altro che popolare. I colori accordati con gusto decorativo e le composizioni «in verticale» fanno ritenere che gli artisti si siano ispirati a qualche ottimo esemplare d’arazzeria francese giunto in Italia e interpretato con uno

Storia dell’arte Einaudi spirito di grazia sorridente, venata di bonaria ironia. Suc- cessivi (o di poco precedente, secondo Rossi) dovrebbero es- sere gli affreschi, frammentari, nel Duomo vecchio della città natale, condotti ancora in collaborazione tra i due (Sto- ria di san Giovanni Evangelista), dove cronaca viva e fluidità del segno, talvolta accurato come da miniatura, si confon- dono in armoniche partiture, talvolta dal linearismo piú astratto e raffinato (Lorenzo) talvolta piú espressive e dram- matiche (Jacopo?); senza dimenticare che proprio qui, stan- do alle fonti, Gentile avrebbe affrescato un ciclo, confer- mando così indirettamente gli scambi tra il fabrianese e la bottega dei S, in un momento al quale viene riferita anche la Crocifissione della chiesa di San Domenico (ora San Ni- colò a Cingoli). Generalmente rifiutata è l’attribuzione a Lo- renzo di una parte degli affreschi della cappella di Palazzo Trinci a Foligno. (lcv + sr). Salimbeni, Ventura (Siena 1568-1613). Figlio di Arcangelo S (morto nel 1580) pittore che, riproponendo i modelli del primo Cinquecento senese, da Sodoma a Beccafumi a Riccio anche alla luce di un’esperienza romana, ebbe un importante ruolo nella cre- scita della generazione successiva. S, probabilmente insieme al fratellastro Francesco Vanni, si recò giovanissimo a Roma. Alla fine degli anni Ottanta la- vora nella bottega del perugino Gian Domenico Angelini e compie una stimolante esperienza collaborando alle grandi imprese decorative promosse da Sisto V nel Palazzo del La- terano (Loggia delle Benedizioni: Allegoria della Fede) e nel- la Biblioteca Sistina, concluse nel 1589. Fra i numerosi ar- tisti che vi lavoravano Lilio e Faenzone furono certamente quelli che, insieme al Cavalier d’Arpino e al Baglione, con- tribuirono al consolidarsi della inclinazione di S per una pit- tura fluida e ricca di piacevoli effetti, per forme sofisticate ed estrose, per un disegno fratto e geometrizzante. Fra il 1588 e il 1594 S esegue alcune incisioni, fra le quali la Santa Caterina che beve il sangue di Cristo; dipinge in Sant’Agostino (Crocifisso con la Maddalena), in Santa Maria Maggiore (Annunciazione, affresco), nella chiesa del Gesú (cappella della Trinità, affreschi, con G. B. Fiammeri e D. Alberti).

Storia dell’arte Einaudi Tornato a Siena, dove già nel ’95 è al lavoro nell’Oratorio della Compagnia della Santissima Trinità, S, riaccostando- si alla tradizione senese era naturalmente portato, anche per l’orientamento delle sue esperienze romane, a guardare con nuova sensibilità la pittura del Beccafumi. Su questa strada si rivolgerà poi piú direttamente alla pittura del Barocci, am- mirata da quegli stessi pittori cui a Roma era accostato (Pre- dica di san Bernardino: Siena, Palazzo Pubblico; Nascita del- la Vergine, Annunciazione: Fontegiusta, Santa Maria in Por- tico; Sacra Famiglia: Firenze, Pitti). Alla attività svolta in patria alternò soggiorni ad Assisi (Santa Maria degli Ange- li; Palazzo Breccia Vigilanti, affreschi, 1602 ca.; in Umbria d’altronde lavorò a piú riprese: negli stessi anni a e piú tardi per Foligno), a Pisa (1603-607), a Lucca (Villa Buo- navisi, affreschi, 1608 ca.), a Firenze (1605-1608, Santissi- ma Annunziata, Chiostro dei Morti, con B. Poccetti), a Ge- nova, dove collabora con Agostino Tassi (1610 ca.). La fre- sca ed estrosa vena narrativa, il ductus maestrevole, l’uso di un colorito smagliante, il gusto per le figure eleganti o umo- rescamente caratterizzate sono alla base della fortuna di S come pittore di cicli ad affresco, anche nei suoi ultimi anni (Siena, Duomo; Assisi, Santa Maria degli Angeli; Siena, chiesa del Santuccio, 1612). Intanto sempre piú stretti era- no diventati i rapporti con il fratellastro Vanni, con il qua- le collabora a Siena e con cui condivide non solo l’attrazio- ne per il Barocci, ma piú tardi anche quella per la pittura fio- rentina. L’influenza di pittori riformati, come Cigoli e Passignano, lo condurrà a smorzare l’intonazione cromatica della sua pittura, a ricercare effetti luministici piú naturali e, in generale, un nuovo controllo compositivo ed espressi- vo (Santa Caterina d’Alessandria: Lucca, Pinacoteca; tele in San Frediano e in San Francesco a Pisa, 1607). (sr). Salini, Tommaso (Roma 1575 ca. - 1625). Ricordato con il nome di «Mao» nelle fonti e nei documenti, fu allievo di Giovanni Baglione, che seguì anche nel tentativo di adeguarsi al linguaggio cara- vaggesco nonostante il giudizio fortemente spregiativo che il Merisi aveva espresso su di lui. Nel 1618 fu accolto nell’Ac- cademia di San Luca. Secondo la testimonianza dello stesso Baglione, che ne scrisse la biografia, fu soprattutto pittore di nature morte. Ne resta una sola firmata (Natura morta di frut-

Storia dell’arte Einaudi ta e ortaggi, 1621: coll. priv.), mentre non sono state ancora identificate le composizioni floreali di cui il S sarebbe stato specialista. A lui è adesso riferito (Volpe, Zeri, Gregori) un omogeneo e numericamente limitato gruppo di nature mor- te di carattere caravaggesco, caratterizzate dalla presenta- zione su fondo scuro di elementi disposti semplicemente e torniti da una luce limpida e forte. Nei suoi rari quadri di fi- gura (San Nicola da Tolentino: Roma, Sant’Agostino; Estasi di san Francesco: Roma, Accademia di San Luca e pochi altri) è stilisticamente assai prossimo al Baglione. (lba). Salisburgo (Salzburg). Sede (sin dal 784) di un arcivescovado i cui ti- tolari erano principi dell’impero (dal 1728), estendeva il suo territorio su parte della Baviera e del Tirolo, fino alla Stiria e alla Carinzia (Steiermark, Kärnten). Dal 1814, S è città austriaca (capitale del Salzburgerland). Durante il Medioevo S fu uno dei principali centri austria- ci della miniatura. Qui fu realizzato un gruppo di manoscritti della fine del sec. xi, nei quali sopravvive la tradizione ot- toniana, attribuito al sacrestano Perhtold, che ha firmato un Lezionario (ultimo quarto del sec. xi: New York, pml, M 780). Alla metà del sec. xii risalgono numerose opere note- voli, tra cui la Bibbia gigante Admont (metà sec. xii: Vien- na, Österreichische Nat. Bibl., N.S. Cod. 2701), l’Antifo- nario di san Pietro, proveniente dal convento di Salisburgo (ivi, Cod. Ser. n. 2700). Resti di affreschi della stessa epo- ca, nel monastero di Nonnberg a S e nella cappella di Pürgg in Stiria, mostrano che l’attività delle botteghe della città comprendeva opere di pittura murale. Nel sec. xiii lo stile romanico interessa anche la produzione miniata. A Matrei (Tirolo), vengono eseguiti affreschi da una bottega padova- na: segno degli stretti legami sempre esistiti tra l’arcivesco- vado e l’Italia settentrionale. Poche le opere conservate del sec. xiv, che sembra sia stato una fase di declino. Invece, per tutto il sec. xv, S si afferma come centro importante di produzione di manoscritti miniati (con molte botteghe talo- ra curiosamente senza rapporto stilistico l’una con l’altra), e ancor piú di pitture su tavola. In quest’ultimo settore le opere del secondo quarto del seco- lo, riferibili alla produzione di S, dalla Crocifissione di

Storia dell’arte Einaudi Altmühldorf (parrocchiale) ai lavori dei Maestri di Laufen e di Hallein, si inseriscono nella fertile tradizione dell’arte boe- ma della fine del sec. xiv (in particolare del Maestro dell’Al- tare di TfieboÀ), cui si giustappongono e poi si mescolano ap- porti dell’Italia settentrionale. Tale tradizione viene perse- guita da Konrad Laib alla metà del secolo, che la rivitalizza attraverso il realismo proveniente dalle Fiandre, e piú preci- samente di origine flémalliana. La nuova voga fiamminga che invade l’Europa centrale nell’ultimo terzo del secolo tocca Rueland Frueauf il Vecchio, ma lo stile di quest’ultimo resta dominato, come quello del suo allievo, il Maestro di Grossg- main, da una decisa predilezione tipica di S, per le grandi fi- gure disposte entro uno spazio ristretto. Nel 1480, Rueland Frueauf il Vecchio diviene cittadino di Passau. Nel 1495, Mi- chael Pacher, che aveva già eseguito l’altare a portelle per la chiesa di Sankt Wolfgang presso S e che nel 1484 aveva ri- cevuto un importante incarico per la parrocchiale di questa città, viene a stabilirvisi definitivamente, portando con sé, tra gli altri, un altro tirolese del sud, Marx Reichlich. La pre- senza di opere di Pacher in questa regione impronterà profon- damente l’arte di Altdorfer e di Wolf Huber (che nulla de- vono, invece, a Rueland Frueauf il Giovane). All’inizio del sec. xvi, gli archivi rivelano la presenza di numerosi pittori a S, ma le botteghe piú grandi e piú attive nel territorio dell’arcivescovado sembra fossero quelle del Maestro di Mühldorf, senza dubbio residente a Mühldorf, e di Gordian Guckh a Laufen. Vanno citati Georg Stäber, il Maestro di Mondsee e il Maestro delle Portelle di Mariapfarr, attivi nel- la diocesi salisburghese attorno al 1500. Prima della guerra dei contadini, che segnò la crisi di S, il cardinal Matthäus Lang von Wellenburg, nominato arcive- scovo nel 1519 e legato agli ambienti umanistici, svolse un ruolo importante come mecenate, apprezzando la pittura di Dürer. In seguito, e per oltre due secoli, a S non risiede al- cun pittore di rilievo, malgrado la favorevole situazione po- litica. Per gli altari della nuova Cattedrale, costruita tra il 1614 e il 1628, si fece appello ad artisti provenienti da fuo- ri, come Sandrart, ·kreta, Schönfeld. Originario della re- gione, l’affrescatore Rottmayr soggiornò due volte nella città, attorno al 1690 e dopo il 1710; in particolare, vi di- pinse la cupola della chiesa della Trinità e soffitti nella Re- sidenza. Anche Troger operò a S, e nella seconda metà del

Storia dell’arte Einaudi secolo Kremser Schmidt eseguì dipinti per la chiesa di San Pietro. Numerosi pittori, di talento mediocre, erano allora attivi nella città. In epoca romantica S e soprattutto i suoi dintorni attirano i paesaggisti, in particolare monacensi. Il nazareno Ferdi- nand Olivier le dedica una celebre serie di litografie (com- pletata nel 1822). Nel 1844 viene fondata un’Associazione degli artisti (Künstlerverein) ma nella città non emerge alcu- na personalità di spicco. Tuttavia, nel sec. xx fu spesso vi- sitata dagli artisti, per le sue caratteristiche pittoresche: Kokoschka, che vi si stabilì, ci ha lasciato della città vedu- te che sono tra le sue opere migliori. (pv). Sallaert, Anthonis (Bruxelles, ante 1586 - 1650). Allievo di Michel de Bour- deaux nel 1606, venne nominato libero maestro nella gilda di Bruxelles nel 1613, Poi decano nel 1633 e nel 1648. Ese- guì soprattutto composizioni religiose: San Martino che divi- de il suo mantello (Gand, mba), Cristo al fiume Cedron (Wo- luwe-Saint-Pierre, chiesa di San Pietro), Decollazione di san Giovanni Battista (1634: Rogelem, chiesa di San Giovanni Battista). Oltre ai disegni, influenzati da Rubens e spesso destinati all’incisione (Parigi, Istituto olandese, Louvre; Vienna, Albertina; Londra, bm; Rotterdam, bvb), gli sono attribuiti altri dipinti, tra cui gli Arciduchi Alberto e Isabel- la assistono alla processione delle fanciulle del Sablon (1616: Bruxelles, mrba; altra versione a Torino, Gall. Sabauda), un Autoritratto con la famiglia dell’artista (Monaco, ap), e un ci- clo di undici dipinti nella chiesa di Alsemberg (1657). S fu anche collaboratore di Daniel Seghers. (jl). Salle, David (Norman (Oklaoma) 1952). Espressione delle nuove ricerche newyorkesi degli anni Ottanta, S dopo studi al California Isti- tute of the Arts di Valenza (1970-75), ha realizzato una serie di opere basate su fotografie (Senza titolo, 1973; Quattro don- ne prendono una tazza di caffè in cucina). A partire dal 1979, S inizia a lavorare sulla sovrapposizione delle immagini; i ri- ferimenti iconografici sono molteplici: riferimenti alla tradi- zione pittorica classica, ai films, alle immagini dei fumetti e delle riviste. La giustapposizione e il confronto di immagini

Storia dell’arte Einaudi diverse è alla base del lavoro di S. Delicately Emblematic Sub- division (1980) giustappone una foto presa da una rivista e un disegno tratto da un libro cinese. Alcune opere utilizzano dei testi sovrapposti alla pittura (Good Bye D, 1982: Richmond, Virginia, Virginia Museum); altre includono oggetti spesso presi dal design degli anni Cinquanta (Brother Animal, 1983: Los Angeles, moca); altri piú recenti sono dipinti che citano particolari da Géricault ad esempio nel dittico Melody Bub- bles (1988). L’insistenza sul corpo umano trova riscontro in numerose scenografie e costumi teatrali realizzati dall’artista (la Nascita del poeta, di Kathy Acker, per la regia di Richard Foreman, 1984; The Mollino Room, coreografia di Karole Ar- mitare per l’American Ballet Theatre, Washington 1986). La ricerca sulla degerarchizzazione delle immagini trova poi ri- scontro nella sua produzione di disegni e acquerelli (mostra al Museum am Ostwell di Dortmund, 1986). Il bvb di Rotter- dam (1983) e la Caja de Pensions di Madrid (1988) hanno pre- sentato opere dell’artista. (sr). Sallinen, Tyko Konstantin (Nurmes 1879 - Helsinki 1955). A Parigi nel 1909 fu attratto dalla pittura dei fauves, entusiasmandosi all’arte di van Don- gen, di Cézanne e dei post-impressionisti. Tornato in Fin- landia, sotto le forti impressioni ricevute dalla grande mo- stra di Munch dipinse le Lavandaie (1911: Helsinki, ng), di- pinto che provocò grande scandalo: i colori sontuosi e la rappresentazione senza compromessi dei personaggi com- portarono infatti una polemica durata, nella conservativa e moralistica terra finlandese, una decina d’anni. Dopo un se- condo viaggio a Parigi, la sua pittura rivela un espressioni- smo selvaggio e l’influsso di Picasso, evidente nel cromati- smo piú ascetico da lui adottato, nel quale predomina il gri- gio. Le tele piú celebri risalgono al 1918 e 1919 (Hihhulit, 1918: ivi; Danza campagnola, 1919: ivi) ed esprimono l’aspro rigore come la forza vitale primitiva del carattere nazionale finnico. S è considerato il piú importante, oltreché noto, rappresentante dell’espressionismo finlandese. (ssk). Salm, principi di Nella seconda metà del sec. xviii, i principi sovrani regnan- ti nel piccolo principato di S, terra dell’impero inclusa nel- la Lorena con capitale Senones, costituirono una quadreria

Storia dell’arte Einaudi di notevole importanza. La collezione fu opera, in primo luo- go, del principe Luigi Carlo Ottone, che, escluso dal potere a favore del fratello e destinato allo stato ecclesiastico, s’im- padronì con la forza del principato alla morte del padre nel 1770. Nel 1773 il principe intraprese la costruzione del ca- stello di Senones, dove collocò la galleria, di cui il padre, Ni- cola Leopoldo, aveva già raccolto i primi pezzi. I soggiorni a Parigi e a Roma ne modificarono il gusto artistico. Come la maggior parte dei suoi contemporanei stranieri, acquisì senza dubbio la maggior parte dei suoi dipinti nel corso del- le grandi aste pubbliche, tanto frequenti a Parigi in quell’epoca, completando la collezione con una parte delle opere raccolte nell’abbazia di Senones dall’erudito bene- dettino Dom Calmet. Nel 1793 la raccolta venne sequestra- ta e i quadri suddivisi nei locali dell’amministrazione dipar- timentale e della Scuola centrale. Già ridotta da restituzio- ni ad alcuni membri della famiglia di S, e poi all’inizio del secolo da un incendio, nel 1828 essa venne definitivamente assegnata al Museo dipartimentale dei Vosges, ad Epinal. Dei 161 dipinti che contava alla fine del sec. xviii, ne re- stavano settantasette. Come la maggior parte dei collezio- nisti della sua epoca, il principe Luigi era attratto dalle scuo- le dei Paesi Bassi: nel Museo di Epinal si trovano così ope- re di Brill, Bruegel dei Velluti, Kalf, Moucheron, un Paesaggio di Ruisdael, una Sacra Famiglia di Joos van Cleve e un pezzo fondamentale: un Ritratto di vecchia di Rem- brandt. Il principe di S acquistò a Roma alcuni dipinti ita- liani di Pannini, Salvator Rosa, Sebastiano Ricci (Eremiti tormentati dai demoni). La scuola francese è soprattutto rap- presentata da opere del sec. xvii: Vouet, La Hyre, Jouvenet, Parrocel, Stella. (gb). Salmeggia, Enea, detto il Talpino (? 1565 ca. - Bergamo 1626). Opere datate al 1590, come il Battesimo di Cristo in Sant’Agata del Carmine e lo stendar- do in San Lazzaro a Bergamo, denunciano il fare di un pit- tore ai suoi esordi: in esse si ravvisano già alcune di quelle componenti che ritorneranno con una certa continuità nel- le sue tele, come l’attenzione per le sollecitazioni provenienti dalla cultura veneto-bresciana e l’interesse per la pittura lom- barda del primo Cinquecento. Nell’Adorazione dei Magi per

Storia dell’arte Einaudi la chiesa di Santa Maria Maggiore di Bergamo (1595), la pre- senza di un serrato ed equilibrato modulo compositivo, in- centrato sul gruppo della Sacra Famiglia, e la sapiente com- postezza dell’immagine rimandano a soluzioni adottate da Bernardino Luini, da cui il S trasse varie volte ispirazione per i suoi dipinti. Fra il 1596 e il 1610 il pittore svolse per la città di Milano un’intensa attività, forse preparata da un contatto con un artista milanese, Camillo Procaccini, per il quale Enea fun- se da testimone nel contratto di allogazione della tela con Gli Apostoli intorno al sepolcro della Vergine in Santa Maria Maggiore a Bergamo. A Milano, S ricevette commissioni di un certo prestigio, co- me il Matrimonio della Vergine nel Duomo (1598-1601), la Madonna col Bambino in gloria e i santi Rocco, Francesco e Se- bastiano del 1604 (già nella raccolta dei conti Anguissoli di Milano e ora nel Castello Sforzesco), la Cattura di Cristo nell’orto nella chiesa di Sant’Antonio abate e i dipinti per le chiese di Santa Maria della Passione e San Vittore al Corpo. Il raffaellismo, presente in alcune sue opere e giustificato, secondo l’Orlandi (1704), da un soggiorno romano di quat- tordici anni (soggiorno la cui durata è stata ridimensionata dalla critica recente), consente all’artista di elaborare uno stile chiaro ed essenziale, capace di esprimere efficacemen- te la verità storica e teologica del contenuto narrativo rap- presentato, conservando, nel contempo, alle immagini quel «decoro» e quella sobrietà perfettamente rispondenti ai ca- noni della poetica artistica della Controriforma. La sensibilità dimostrata dal S nel dar forma, attraverso spe- cifiche soluzioni figurative, al complesso programma di riforma religiosa, promosso dalla Chiesa Ambrosiana, gui- data da Federico Borromeo, fece sì che il pittore diventasse il piú legittimo interprete dell’arte sacra bergamasca, spe- cialmente dopo il 1607, anno della rinuncia papale all’in- terdetto su Bergamo. La serie di dieci teleri dedicata a sant’Alessandro, recentemente riaggregata dal Ruggeri (le opere sono distribuite fra l’Accademia Carrara, la coll. Piaz- zini Albani, la Tosio Martinengo di Brescia e la Cattedrale di Bergamo), probabilmente commissionata nel secondo de- cennio per la Cattedrale della città, testimonia della propa- gazione di nuove istanze religiose nella provincia ad opera del cardinale milanese. A queste opere sacre si affiancò una

Storia dell’arte Einaudi interessante attività di ritrattista (Ritratto di gentiluomo in armi: Mozzate, Como, coll. priv.), nella quale si evidenzia il legame con la tradizione moroniana del genere, oltre che il riferimento alla ritrattistica aulica. Morendo, il S lasciava la bottega in eredità ai figli, di cui due, Francesco e Chiara, furono pittori. (mbi). Salmi, Mario (San Giovanni Valdarno 1889 - Firenze 1980). Dedicatosi dapprima a studi giuridici, S venne a contatto con la storia dell’arte presso l’Università di Roma, frequentando la Scuo- la di perfezionamento di Adolfo Venturi. Nel 1918 entra nell’amministrazione delle Belle Arti in qualità di ispettore, prima in Puglia, in seguito in Molise, in Umbria e infine in Lombardia fino al 1927, anno in cui iniziò la sua carriera universitaria a Pisa, per poi passare a Firenze due anni do- po. In questi anni pubblica alcuni rilevanti studi, incentra- ti soprattutto sulI’arte medievale (i due volumi sulla scultu- ra e sull’architettura romanica in Toscana escono nel 1927 e nel 1928), oltre a una fitta serie di interventi sul rinasci- mento italiano (è del 1936 il volume dedicato a Paolo Uc- cello, Andrea del Castagno, Domenico Veneziano) e sulla mi- niatura. Dal 1949, e fino al 1963, insegna a Roma, mentre nel 1950 fonda, insieme a Lionello Venturi, la rivista «Com- mentari» che costituirà, sul versante «venturiano», una del- le sedi piú significative del dibattito critico di quegli anni. A lungo membro influente del Consiglio Superiore di Anti- chità e Belle Arti, S ha caratterizzato anche polemicamente il suo impegno per la tutela del patrimonio artistico e pae- saggistico italiano. (sr). salon Esposizione periodica francese, annuale o biennale, di ope- re di artisti viventi, che si svolse al Louvre di Parigi dal xvii al xix secolo. Il termine venne assunto nel momento in cui l’esposizione fu organizzata nel Salon Carré del Louvre. L’esposizione dell’Accademia reale, istituita nel 1663, ven- ne organizzata per la prima volta nel 1667 in occasione del- la celebrazione della fondazione dell’Accademia stessa, nel- la quale potevano esporre solamente i suoi membri. Dopo questa data, i seguenti s avranno una cadenza biennale sino

Storia dell’arte Einaudi al 1675, mentre in seguito, diverranno meno regolari perché troppo costosi, e aprirono solamente nel 1699, nel 1704 e un solo giorno nel 1706. Ad eccezione di quelli del 1673, 1699 e 1704 che ebbero un regolare catalogo, sulle prime mostre ufficiali si hanno pochissime notizie. Organizzate prima da Colbert, poi da Mansart, fino al 1791 le esposi- zioni venivano inaugurate dopo un’assemblea dell’Accade- mia il giorno di san Luigi, onomastico del re. Allestite in un primo tempo nella galleria del Palais-Royal e nel cortile dell’hôtel Richelieu, nel 1699 e nel 1704 le mostre, a ingresso libero e dotate di un catalogo in vendita, si svolsero nella Grande Galerie del Louvre e dal 1725 nel Salon Carré oc- cupando talvolta anche la galleria di Apollo. Il primo cata- logo o livret delle opere presentate risale al 1673. Nel sec. xviii il s divenne un appuntamento importante, oggetto dell’intervento della critica specializzata e, nello stesso tem- po, occasione di accesso alle collezioni reali eccezionalmen- te aperte al pubblico per un giorno. Dal 1737 al 1748, ad ec- cezione del 1744, la mostra ebbe cadenza annuale, poi nuo- vamente biennale dal 1748 al 1791. Nella seconda metà del sec. xvii il numero delle opere esposte aumentò considere- volmente passando dalle 120 del 1763 alle 800 della mostra allestita nel 1791 dall’Assemblea nazionale. Dal 1748 ven- ne istituita una commissione dell’Accademia incaricata di salvaguardare la tradizione della «grande pittura» ed eser- citare un controllo sulla moralità delle opere proposte; que- sta prima forma di giuria si dimostrò in seguito sempre piú severa e rigida nei giudizi. In questo periodo le mostre ven- nero allestite dal direttore del Bâtiments du roi (in succes- sione: il duca d’Antin, Le Normant de Tournehem, il mar- chese de Marigny, il conte d’Angiviller), in funzione di rap- presentante del re che esercitava quindi un esplicito controllo ufficiale sul «gusto» rappresentato nel s. Sempre al diretto- re del Bâtiments spettava il controllo del catalogo redatto dal concierge dell’Accademia. Generalmente i cataloghi veniva- no stampati in due o tre edizioni: quello del 1755, ad esem- pio, venne tirato in ottomila copie, mentre quello del 1783 in ventimila. Sin dall’origine dei s di pittura, i problemi pra- tici di allestimento vennero affidati a un artista chiamato le Tapissier o le Décorateur; tale incarico, dal 1761 al 1773, ven- ne svolto da Chardin a cui subentrò in seguito Vien, La- grenée, van Loo nel 1783 e 1785, e Durameau. Con la Ri-

Storia dell’arte Einaudi voluzione si effettuarono una serie di modifiche al regola- mento del s. Nel 1791 l’esposizione divenne libera e acces- sibile a tutti e dal 1798 venne istituita una giuria di ammis- sione eletta a suffragio universale. Nel corso del sec. xviii, in rivalità con il s dell’Accademia rea- le, vennero organizzate alcune mostre periodiche tra le quali si ricordano l’Exposition de la Jeunesse, il Salon dell’Acca- demia di San Luca e il Salon de la Correspondence. L’Exposition de la Jeunesse, attiva già all’inizio del secolo, si svolse in place Dauphine il giorno del Corpus Domini e, stando ai resoconti comparsi su «Le Mercure de France», fu una specie di fiera dove giovani pittori si mescolavano agli artigiani e ai pittori di insegne. Nella mostra del 1728, tra l’altro, Chardin espose la Razza. Il Salon dell’Accademia di San Luca ebbe vita dal 1751 al 1774 e accolse i giovani non ancora in grado di essere am- messi all’Accadernia reale o già da questa respinti. Di questo s sono noti sette cataloghi ristampati nella «Revue univer- selle des arts». Nel 1776, anno in cui vengono abolite le cor- porazioni, venne fatto un tentativo di rinnovare quest’isti- tuto che venne invece boicottato dall’Accademia reale. Il Salon de la Correspondence fu fondato nel 1778 su ini- ziativa di Pahin de La Blancherie e organizzato intorno al circolo internazionale Rendez-vous de la république des let- tres et des arts, responsabile della pubblicazione dei catalo- ghi. Abbastanza importante perché vi partecipasse un arti- sta come Fragonard, il s fu tollerato per qualche tempo, ma venne sciolto ufficialmente da d’Angiviller nel 1783 anche se il suo fondatore riuscì a tenerlo in vita sino al 1787. Nel sec. xix l’esposizione periodica di opere recenti assun- se una dimensione culturale importantissima. Il s caposaldo dei principî estetici dell’Accademia di belle arti, fu oggetto nel tempo delle piú vivaci contestazioni in merito a quello che veniva definito come gusto accademico rispetto alla nuo- va idea della creatività e della funzione dell’artista nella so- cietà. La giuria di ammissione istituita nel 1798 assunse pre- sto una veste di paludata ufficialità e sotto l’impero fu com- posta da tre artisti e due amatori presieduti da Denon. Soppressa nel 1848, ma re-istituita l’anno seguente, mostrò un indirizzo sempre piú rigido sotto la restaurazione rifiu- tando parecchi candidati e qualsiasi opera non conforme

Storia dell’arte Einaudi all’ortodossia accademica. Già dopo la prima metà del seco- lo si verificarono numerosi tentativi di allestimento di mo- stre parallele, uno dei quali è quello di Courbet all’Esposi- zione Universale del 1855. Ma nel 1863, su cinquemila ope- re presentate, oltre tremila vennero rifiutate e gli artisti colpiti dalla discriminazione, tra cui Manet, Jongkind, Pis- sarro e Whistler, favorirono l’istituzione del Salon des Re- fusés. Da ricordare comunque che le stesse mostre allestite dagli impressionisti dopo il 1874, presso il fotografo Nadar, nacquero come una reazione contro il s ufficiale. (jv). Salon des Refusés è il nome dato nel 1863, a Parigi, alla esposizione pubblica nella stessa sede del s ma in luogo se- parato, delle opere rifiutate quell’anno dalla giuria: decisio- ne eccezionale presa da Napoleone III per far fronte alla pro- testa degli artisti indignati da troppo numerose esclusioni. Il meccanismo promozionale che privilegiava la presenza al s (dominato dai professori dell’Ecole des beaux-arts, mem- bri dell’Accademia) penalizzava duramente gli artisti «ri- fiutati», non solo nei confronti dell’accesso alle commissio- ni pubbliche (consacrazione per la quale, attraverso una sca- la di premi e medaglie, era un passaggio obbligato), ma anche, grazie all’azione amplificante della fiorente palestra letteraria dei resoconti, nei rapporti con il collezionismo pri- vato. Tale era il privilegio dell’istituzione che poteva acca- dere, come accadde a Jongkind, che un artista vedesse ri- portare indietro dal cliente, dopo il «rifiuto», un’opera già venduta. La forma stessa del decreto imperiale che «volen- do lasciare il pubblico giudice della legittimità dei reclami» imponeva uno stretto termine entro il quale era concesso agli artisti ritirare le opere per evitare che fossero esposte come «rifiutate», esprime a sufficienza le intenzioni intimidato- rie della soluzione adottata. Già prima dello scadere del ter- mine divampò infatti tra i critici un dibattito che sottoli- neava il dilemma di fronte a cui si trovavano i «rifiutati», costretti o a dar ragione essi stessi al verdetto, o ad esporsi a un dileggio abilmente orchestrato; e furono fatte ipotesi di un massiccio ritiro. In realtà numerosi artisti accettarono la sfida e non ritirarono le opere (tra questi Manet, Jongkind, Legros, Chintreuil, Fantin-Latour, l’esordiente Pissarro e Whistler, la cui Fanciulla in bianco ebbe il dubbio onore di una collocazione «privilegiata», intesa ad accendere le rea- zioni negative dei visitatori). E anche se il pubblico, che ac-

Storia dell’arte Einaudi corse foltissimo a quella che gli veniva proposta come occa- sione di divertimento alle spese dell’orgoglio degli artisti, concentrò sulle opere innovatrici una disapprovazione conforme ai voti della giuria, il Salon des Refusés ebbe al- meno due importanti conseguenze: favorì l’incontro tra i gio- vani artisti e i nuovi «scandalosi» maestri, e suscitò un in- tenso dibattito che opponeva non piú soltanto due diverse tendenze artistiche quanto due diversi modi di consumare l’arte e di intendere le funzioni dell’immagine. Infatti, an- che se la mostra non fu certo di tendenza e anzi rispecchia- va nell’insieme la casuale eterogeneità dei rifiuti, il contra- sto tra la Venere di Cabanel, premiata al s e acquistata dall’imperatore, e la piú importante opera dei refusés, il Déjéuner sur l’herbe di Manet, che Napoleone III aveva di- chiarato «sconveniente» e che fu oggetto dei piú violenti at- tacchi e delle piú appassionate difese, evoca emblematica- mente la profondità della frattura tra le due nuove catego- rie: quella che sarà ormai l’arte «ufficiale» e, contrapposta ma non necessariamente unitaria, l’arte «indipendente», o, come già si diceva, «viva». Come momento significativo del- la decadenza del s di Stato (accelerata nel novembre dello stesso 1863 da un secondo decreto che limitava il controllo dell’Accademia sulla giuria) il Salon des Refusés fa parte an- che della storia dell’evoluzione dei meccanismi istituziona- li ed economici che governano i rapporti tra artisti e fruito- ri: storia che nella seconda metà dell’Ottocento registra un processo di trasformazione preannunciato nel 1855 dall’ini- ziativa ribelle del Pavillon du Réalisme di Courbet, e che si conclude durante la Terza Repubblica, per la crescente vo- lontà di intervento degli artisti, con la fondazione di altri momenti espositivi e, infine, con l’avvento del ruolo por- tante delle gallerie «di tendenza». (amm). Nel 1881 Jules Ferry tentò di liberare il s dall’impronta nor- mativa dell’Accademia di belle arti istituendo la Société des artistes français che accolse come propri membri tutti gli ar- tisti ammessi almeno una volta al s i quali, liberamente, do- vevano eleggere un comitato esecutivo e finanziario compo- sto di novanta membri. Le esposizioni si svolsero nel palaz- zo dell’Industria (Champs-Elysées) sino al 1900, per passare poi, dopo l’Esposizione Universale, al Grand Palais. Il rin- novato s, erede di quelli del xvii-xix secolo, fu di fatto ancor

Storia dell’arte Einaudi piú tradizionalista poiché al suo interno i membri dell’Insti- tut de France formarono le giurie di ammissione e quelle di premiazione. La severità della giuria determinò, nel 1884, una nuova scissione con il Salon de la Société des artistes indépendants che raggruppava spontaneamente i respinti in una baracca dei giardino delle Tuileries. Quest’ultimo s eb- be per motto «né giurie, né premi» e vide la partecipazione di Seurat, Signac, Cross e Pissarro. Dagli Indépendants ven- gono in seguito organizzate numerose retrospettive presen- tando opere di van Gogh, Toulouse-Lautrec, Cézanne e dei nabis e, dal 1910 al 1914, anche dei cubisti. Nel 1889 si ebbe una ulteriore scissione: i dissidenti, guidati da Meissonier, Rodin e Puvis de Chavannes fondarono la Société nationale des beaux-arts che dal 1890 allestì un pro- prio s annuale in Campo di Marte, esposizione a cui parte- ciparono Maillol, Lebourg e Sisley. Da questo momento i s si moltiplicarono, gli uni per difen- dere posizioni di principio, gli altri per raccogliere ecletti- camente un indeterminato numero di persone che si dilet- tavano di pittura, scultura, incisione e arti decorative spes- so come secondo lavoro. Il Salon d’Automne, fondato dall’architetto Frantz Jourdain nel 1903, si propose di ammettere, con un rigore maggiore di quello del Salon des Indépendants, artisti appartenenti a una corrente piú omogenea. Alcune sale vennero poi riser- vate ai maestri innovatori ancora poco apprezzati: tra gli al- tri Cézanne, Toulouse-Lautrec, Redon, i fauves nel 1905 e in seguito i cubisti o artisti indipendenti come Picabia. Il Sa- lon des Tuileries venne fondato nel 1923 da Charles Du- fresne, Albert Besnard e Bourdelle, in contrasto con la ten- denza del Salon d’Automne, e raccolse artisti essenzialmente in opposizione al cubismo come Henri de Waroquier, Loui- se Hervieu e René Seyssaud. Negli anni Trenta compaiono anche il Salon des Surindé- pendants, fondato nel 1934 da Laure Garcin e Camille Bryen con il motto «indipendenza e disciplina», e il Salon des Réalités nouvelles che, fondato nel 1939, riprende l’at- tività nel 1946 raccogliendo essenzialmente i non-figurativi come Picabia, Herbin, Fautrier, Piaubert, Vasarely, Mathieu e Istrati. Il Salon de Mai, fondato nel 1945 con la partecipazione di personaggi come Moal, Soulages, Zao Wou-ki, aveva inve-

Storia dell’arte Einaudi ce lo scopo di raggruppare tutte le tendenze della pittura, fi- gurativa o astratta, di tradizione francese. (jv). Il Salon des Réalités nouvelles, fondato a Parigi nel 1946 da Frédo Sidès, raccolse l’eredità di Abstraction-Création, l’associazione che a partire dal ’31 aveva riunito gli espo- nenti dell’arte non figurativa in Europa. L’espressione «Réa- lités nouvelles», tratta da un testo di Apollinaire, era già sta- ta utilizzata nel ’39 dal gruppo Renaissance plastique come titolo di un ciclo di esposizioni alla Galleria Charpentier di Parigi. Diretto da un comitato in cui figuravano tra gli altri Nelly van Doesburg e Raymond Cogniat, ai quali si uniro- no successivamente Jean Arp, Sonia Delaunay, Auguste Her- bin, Jean Dewasne, il Salon dedicò la prima mostra ai mae- stri scomparsi dell’astrattismo. Nelle sale del mamv di Pa- rigi le opere di Delaunay, Kandinsky, Malevi™, Mondrian, Taeuber-Arp furono affiancate da quelle della nuova gene- razione, secondo il duplice obiettivo di fornire il bilancio di una situazione artistica come storicizzata e di dare spazio a quella in corso, individuandone radici e giustificazioni nel- la precedente. Il progetto di integrazione delle arti proposto da Jean Gorin e Félix Del Marle nell’ambito delle Réalités nouvelles si concretizzò nel ’50 nella «salle Espace», desti- nata ad accogliere decorazioni monumentali, vetrate, dise- gni architettonici e ad acquistare importanza crescente nell’economia delle esposizioni fino alla metà del decennio. Il raggruppamento di artisti che facevano capo al Salon andò di anno in anno allargandosi e aprendosi alla partecipazione internazionale, ma al tempo stesso differenziandosi nei con- fronti degli enunciati che facevano da sottotitolo alle mo- stre: arte astratta, concreta, costruttivismo, arte non figu- rativa, orfismo. Di fronte alla presenza nei Salons del ’47 e del ’48 delle opere di artisti quali Atlan, Bryen, Hartung, Mathieu, il Primo Manifesto del Salon des Réalités nouvelles tentò nel ’48 di dare una definizione di «arte astratta non figurativa, non oggettiva» tesa a bandire tutte le forme espressive in qualche modo legate al mondo delle apparen- ze esteriori, e dunque incompatibili con «le leggi essenziali dell’arte plastica». Queste affermazioni ricalcano i principî del volume L’Art non figuratif non objectif pubblicato nello stesso anno da Herbin, la cui definizione di «alfabeto pla- stico» fornì la base portante alle proposizioni del Manifesto.

Storia dell’arte Einaudi Si trattava di tesi inaccettabili per artisti come Arp e Ma- gnelli, Atlan e Deyrolle, che tra il ’49 e il ’50 si allontana- rono dal Salon. La fedeltà a ideali estetici di ordine e di equi- librio, nel persistere dell’influenza degli esempi d’anteguer- ra, fu alla base dei rimproveri di accademismo che vennero mossi all’astrattismo geometrico difeso dal Salon, rimpro- veri riassunti da Charles Estienne nel suo pamphlet del ’50 L’Art abstrait est-il un académisme? L’influenza di Herbin sulle scelte del Salon rimase determi- nante fino al ’55, quando una modificazione dello statuto fece cadere gli ostacoli che si frapponevano all’accoglimen- to delle tendenze non geometriche. Con il nuovo titolo «Réalités nouvelles. Nouvelles réalités», nel ’56 il s – pre- sieduto da Robert Fontené – ospitò Mark Tobey come in- vitato d’onore e si aprì in questa e nelle successive edizioni alla molteplicità di sviluppi dell’arte astratta, rinunciando a definirne normativamente l’essenza. (mtr). Peintres témoins de leur temps è un s creato nel 1951 in- torno ai pittori Lorjou, Fougeron, Buffet e Carzou e rap- presenta la corrente della pittura figurativa imponendo agli espositori un tema diverso ogni anno (il lavoro, lo sport, ecc.). Il Salon Comparaison, invece, dal 1955 si propone di orga- nizzare ogni anno un vasto confronto fra le nuove tenden- ze, mentre il Salon de la jeune peinture invece, dal 1956 tende a sollecitare una revisione della società «combatten- do la retorica tradizionale del linguaggio delle forme»; uno dei suoi principali animatori è Randolphe Cailleux. Dal 1959 poi, Grands et Jeunes d’aujourd’hui ha cercato di aprirsi a tutte le ricerche fornendo ai giovani l’occasione di farsi notare pubblicamente confrontando le rispettive ope- re con quelle degli artisti della loro generazione e con quel- le dei piú anziani. Sono ancora da ricordare il Salon des fem- mes peintres et sculpteurs, fondato sin dal 1884 e divenu- to in seguito Exposition, e, nel dopoguerra, il Salon populiste e il Salon du dessin et la peinture è l’eau. La critica dei s costituisce un vero e proprio genere lettera- rio di fondamentale importanza sia per la conoscenza del giu- dizio dei contemporanei e dell’evoluzione del gusto, sia per la registrazione delle circostanze contestuali delle mostre che per la descrizione delle opere stesse, raramente riprodotte nei cataloghi. La critica propriamente detta comparve nel

Storia dell’arte Einaudi sec. xviii: in particolare, al 1737 data la prima critica a stam- pa. Sicuramente i primi s suscitarono viva curiosità, come dimostrano i numerosi commenti firmati con nomi di fan- tasia (Minos, Cassandre, Le Chinois, Raphaël o Badigeon) o «Le Salon» di Mallet de Viriville; seguirono poi «lettere» di amatori d’arte, talvolta tanto violente che divenne obbli- gatorio firmarle. Alcuni giornali istituirono anche una ru- brica specializzata. Nella seconda metà del secolo furono nu- merosissimi i salonniers come Caylus, Boillet, de Saint-Ju- lien o La Font de Saint-Yenne, non critici d’arte di professione, ma amatori o moralisti. «La Correspondance littéraire» di Grimm pubblicò resoconti dal 1753 al 1781 e Diderot ne fu il principale redattore tra il 1759 e il 1781. «L’Année Littéraire» o «Le Mercure de France» pubblica- rono commenti, talvolta molto violenti, di Fréron, Mar- montel e Restif de la Bretonne; per questo motivo numero- si opuscoli o libelli vennero pubblicati all’estero e in parti- colare a Londra e ad Amsterdam. I redattori di tali commenti si interessarono, soprattutto dei temi rappresentati nelle ope- re e delle scelte puramente estetiche, solo di rado presero in esame la tecnica e il «mestiere» dell’artista. Un panorama della critica dei s è data dal fondo Deloynes presso il Gabi- netto delle stampe della bn di Parigi, nel quale e raccolta la quasi totalità della critica su ciascun s. Un’altra fonte di ri- lievo per la conoscenza delle manifestazioni è la raccolta di vedute delle mostre del 1785 e del 1787 incise da Martini e soprattutto, i disegni di Gabriel de Saint-Aubin eseguiti in margine ai cataloghi dei Salon del 1761, 1769 e 1777. Per il sec. xix è da ricordare l’importante serie incisa da C. P. Lan- don nei suoi Annales du musée, riproducente le principali opere esposte ai s del periodo dell’impero e della restaura- zione. I s del sec. xix vennero commentati ancor più assi- duamente da cronisti, politici e moralisti. Guizot analizzò la situazione delle belle arti in Francia in occasione del Sa- lon del 1816; Thiers pubblicò due Salons nel 1822 e nel 1824 su «Le Constitutionnel». Gustave Planche, che ne pubblicò sette dal 1831 al 1849, e Jules Janin, che ne curò due nel 1834 e nel 1845, erano invece critici specializzati. Sul Sa- lon dei 1836 riferiva Alfred de Musset ne «La Revue des Deux Mondes» e nel 1837 Théophile Gautier iniziava la sua serie di Salon che proseguì annualmente sino al 1850. Sui s

Storia dell’arte Einaudi intervengono anche Prosper Mérimée, Charles Blanc, Alphonse Karr, Arsène Houssaye, Théodore de Banville e Champfleury, ma i piú famosi restano i tre pubblicati da Baudelaire nel 1845, 1846 e 1849 insieme a quelli dei Gon- court. (jv). Salonicco → Tessalonica Salterio della regina Mary Conservato a Londra (bl, Royal ms 2 B VII) è capostipite di una serie di codici, una ventina circa, databili tra la se- conda e la terza decade del Trecento, con testi scritti in buo- na parte in francese vernacolare e miniati da uno stesso mae- stro e dalla sua bottega – nella quale la critica ha individua- to altre quattro personalità di miniatori –, che aveva probabilmente sede a Londra pur operando per una larga scala di committenti, non soltanto londinesi e non esclusi- vamente legati all’ambiente di corte. Il complesso di mano- scritti accostati al S, è variamente datato e di diversa pro- venienza; dall’abbazia di Sant’Agostino di Canterbury (Sal- terio di Richard of Canterbury, 1310-20 ca.: New York, pml, ms G. 53), all’area dell’abbazia benedettina di Peterborou- gh (Somne le roi: St. John College), e di quelle di Hyde e di Chertsey, nel Surrey (Breviario); alla Cattedrale di Bangor, nel Wales (Pontificale del vescovo Anianus II, 1320-28 ca.: Capitolo della Cattedrale), al collegio di Navarra dell’Uni- versità di Parigi (Fisica di Aristotele, in latino) alla Corpo- razione londinese (Liber legum antiquorum, 1321), sino a committenti privati come la regina d’Inghilterra Philippa d’Hainault (dopo il 1340) e Alice de Reymes, moglie di Ro- bert de Reydon di Wherstead, nel Suffolk (Libro d’ore, 1320-24 ca.: Cambridge, Syndics of Cambridge Univ. Li- brary, ms Dd. 4.17). Lo stile che caratterizza questo gruppo di opere, il piú am- pio e stilisticamente coerente della produzione inglese del sec. xiv, si avvale di un segno grafico delicato, sinuoso, qua- si fluttuante, preciso nei dettagli fisionomici. Elegante e va- riato nella scelta delle pose e dei gesti, privilegia figure slan- ciate e di grandi dimensioni (rispetto all’esilità minuta del- lo stile di corte presente ad esempio nel Salterio di Peterborough di Bruxelles). Nelle miniature piú tarde, la com- posizione ha una maggiore profondità spaziale, che indi-

Storia dell’arte Einaudi cherebbe, insieme alla resa illusionistica di alcuni particola- ri, un contatto del Maestro del S con le acquisizioni italia- ne sporadicamente presenti in varie opere di altri scriptoria inglesi. È il gruppo derivato dal Salterio Gorleston (Salterio di un priore cluniacense: oggi a Yale; Salterio di St. Omer, del- la famiglia Mulbarton, Norfolk: St. Omer, entrambi del 1325-30 ca., ecc.), che testimonia l’influsso senese-ducce- sco, accanto alle tipiche decorazioni in puro stile East An- glian. La scelta cromatica del S cade su un armonico e delicato bi- lanciamento di tinte leggere e trasparenti, l’oro, il rosa o l’az- zurro neutro, fanno spiccare ancor di piú il gioco composi- tivo delle figure. Il Maestro del S è infatti assai piú interes- sato al ritmo, supremamente fluido, della linea grafica e alle componenti narrative delle sue scene, piuttosto che alla trat- tazione dei motivi ornamentali. Spesso le scene sono imma- ginate in modo da scivolare nella pagina successiva, dando vita a correlazioni storiche e narrative possibili tra di esse, mentre nelle illustrazioni del Calendario il pittore riesce a trasformare, con fantasia inesauribile, i simboli zodiacali e le relative occupazioni dei Mesi in racconti ricchi di figure e moto. La creatività compositiva e narrativa del Maestro del S, presente in pari grado anche negli altri codici che pos- sono con sicurezza esser ricondotti alla stessa mano (il Sal- terio di Richard of Canterbury, la Miscellanea Teologica di Pa- rigi e Oxford, parte del Somne le roi e dell’Apocalisse di Lon- dra, bl, Royal 19. B. XV), si esprime sempre comunque entro parametri di ordine e chiarezza espositiva. (scas). Saluzzo Appartiene alla marca arduinica fino al 1091 e quindi passa al ramo aleramico dei marchesi del Vasto o di S. Per tutto il basso Medioevo S mantiene una posizione intermedia tra Savoia-Acaja e Visconti. Sotto la protezione di Enrico II di Francia (1548) il marchesato resiste ai Savoia fino al 1601, ma l’annessione definitiva avviene con la restaurazione, do- po la rioccupazione francese del 1690. Le alterne vicende politiche determinano sul versante della produzione artisti- ca una duplice tendenza del gusto, ora vicino alla cultura francese, ora all’arte delle corti italiane. I frammenti di due strati sovrapposti di affreschi in San Giovanni (seconda metà

Storia dell’arte Einaudi del sec. xiv e fine xiii - inizio sec. xv) sono le testimonian- ze pittoriche piú antiche; alla metà del sec. xv risalgono – sempre in San Giovanni – gli affreschi della cappella di San Tommaso d’Aquino, mentre a Pietro da S (1438-75 ca.) vie- ne attribuito l’affresco Cristo nell’avello (cappella di San Vin- cenzo Ferrer). La personalità di Hans Clemer emerge alle so- glie del Cinquecento, operando in linea con l’assetto corte- se dei marchesato ai tempi di Ludovico II (1475-1503) e Margherita di Foix. Di formazione borgognona, con influs- si provenzali e sensibile alla contemporanea cultura padana (numerosi i suoi affreschi monocromi a S, legati alle radici dell’umanesimo lombardo e ferrarese), Clemer introduce in Piemonte la sfolgorante pittura franco-fiamminga, in cui però la materia appare solidamente strutturata (Madonna del- la Misericordia, 1498-99: Casa Cavassa). Analogamente, ten- denze franco-provenzali e influssi ferraresi (facilitati dalla parentela tra Ludovico II ed Ercole I d’Este) si riscontrano nelle tavole dei polittico conservato nella sagrestia della Cat- tedrale (post 1494: già altare maggiore). Con la reggenza di Margherita di Foix (1503), l’adesione al- la cultura umanistica è ormai dichiarata e significativa è la decorazione commissionata dal Vicario Generale Francesco Cavassa per la sua residenza (iniziata probabilmente nel 1505), e per la cappella di famiglia in San Giovanni. In en- trambe ritornano infatti motivi di derivazione rinascimen- tale come gli edifici dipinti sullo sfondo, le candelabre, le decorazioni ad arabesco e i fregi a grottesche: come data per i due cicli (da alcuni attribuiti al Bergognone, al quale forse spetta anche la tavola con santi domenicani del 1516 a Ca- sa Cavassa) è stato proposto il terzo decennio del sec. xvi, anni in cui il veronese M. Sanmicheli realizza il mausoleo per Galeazzo Cavassa (padre di Francesco), in linea con il gusto degli affreschi. Nel primo Cinquecento operano i Vol- pi che semplificano la cultura spanzottiana, come rivela il grafismo e la bidimensionalità delle figure (trittico dei San- ti Cosma e Damiano, 1511: Duomo; affresco con Crocifis- sione: San Giovanni, refettorio; attribuiti ad Aimo Volpi). Testimone della cultura leonardesca nel cuneese, è l’ancona rinascimentale dedicata a Santa Caterina d’Alessandria (1514-23: Torino, Gall. Sabauda, già in San Giovanni), ope- ra di artista lombardo (Boltraffio?). Nel terzo decennio del

Storia dell’arte Einaudi sec. xvi sono presenti a S Jacopino Longo (Adorazione dei Magi: Casa Cavassa) e Pascale Oddone (trittico Madonna del Rosario, 1535: San Giovanni). Forse di Francesco Serpon- te l’affresco con Madonna in trono e defunto (1555 ca.: San Giovanni, navata centrale), le cui tonalità fredde ricordano Cesare Arbasia di S (opere in Palazzo Civico, 1582 ca., San Bernardino e nella casa dell’artista, 1602). L’arrivo dell’Ado- razione dei pastori (in Cattedrale dal 1701) di Sebastiano Ric- ci è prova dell’innesto della cultura veneta sulla pittura lo- cale, come dimostrano le opere di padre G. D. Barbetti di S (Miracolo di san Vincenzo Ferrer, 1743: San Giovanni). Per tutto il Settecento interni di edifici vengono rinnovati con festoni di fiori, quadrature, impianti alleggeriti; protagoni- sta è l’équipe della famiglia Pozzo, attiva tra secondo de- cennio e fine secolo (Gloria del santo, 1755: San Bernardi- no, volta, di G. B. Pozzo e P. P. Operti). Casa Cavassa Museo dal 1886, anno in cui il marchese E. Tapparelli D’Azeglio dona l’edificio municipio, dopo l’ac- quisto del 1883 e i restauri. Accanto alle opere citate, note- voli sono alcuni affreschi gotici staccati dal castello di S; l’af- fresco Nicolò da Tolentino (Pietro da S); una culla decorata (G. Dolce); i ritratti di Caterina d’Austria e di Carlo Ema- nuele 1 (G. Caracca), gli arredi lignei; le decorazioni araldi- che; la Crocifissione di G. D. Barbetto; un quadro di C. Bi- scarra con P. Maroncelli e S. Pellico, di cui si conservano i ricordi, in una delle sale. (ldm). Salvi, Giovan Battista → Sassoferrato Salviati (Francesco de’ Rossi, detto) (Firenze 1509 ca. - Roma 1563). Francesco, detto anche Cec- chino, era figlio di un tessitore fiorentino di velluti. Il no- me di S gli deriva dal cardinale Giovanni Salviati che ne fu il primo protettore quando giunse a Roma nel 1531. Egli appartiene alla generazione successiva a Pontormo, Ros- so, Perino del Vaga e rappresenta ad alto livello la seconda fase del manierismo, accanto a Primaticcio, a Bronzino, a Jacopino del Conte, a Daniele da Volterra. Amico fin dalla prima giovinezza di Vasari, col quale studiò appassionata- mente i disegni e le opere dei maestri della generazione pre- cedente a Firenze e poi a Roma, fu segnato dal passaggio nel

Storia dell’arte Einaudi 1529 nella bottega di Andrea del Sarto, dopo esperienze presso il Bugiardini e il Bandinelli, e dall’arte di Pontormo e soprattutto di Rosso, come dimostrano anche i suoi primi studi a sanguigna. Come molti artisti fiorentini S aveva com- piuto il primo tirocinio nella bottega di un orefice, di cui serbò il gusto per le forme piene di artificio degli oggetti in metallo che abbondano nei suoi dipinti. Fra i primi lavori eseguiti a Roma il Vasari ricorda alcuni dipinti per il cardi- nal Salviati, il quale gli commissionò anche la decorazione della cappella del suo palazzo, ed eseguì, inoltre, dipinti mu- rali in Santa Maria della Pace, tutti perduti. Al 1532 ca. è datata la prima importante opera pubblica, l’Annunciazione in San Francesco a Ripa. Scarse notizie si hanno sulla atti- vità di S negli anni successivi; partecipa alla decorazione di apparati effimeri: nel 1536 eseguì storie a chiaroscuro per uno degli archi trionfali allestiti in occasione dell’entrata di Carlo V a Roma e poco dopo fu chiamato da Pier Luigi Far- nese per eseguire altri apparati. Il giovane S doveva ormai godere di una buona considera- zione se nel 1538 i confratelli della Compagnia della Mise- ricordia gli affidano l’incarico di dipingere a fresco la Visi- tazione nell’Oratorio di San Giovanni Decollato, nella qua- le è evidente la propensione per i modelli raffaelleschi. Un soggiorno a Venezia (1539-41), dove lavorò nel palazzo del patriarca Grimani (Sala di Apollo, con Giovanni da Udi- ne, e una figura di Psiche per il soffitto di un’altra stanza) e dove lasciò una Deposizione dalla Croce (chiesa del Corpus Domini, oggi a Viggiú chiesa della Vergine del Rosario), lo portò ad affrontare i complessi problemi della decorazione murale. A Venezia, dove la sua presenza ebbe un importan- te ruolo nelle inclinazioni verso la maniera centro italiana di alcuni artisti, eseguì inoltre una Sacra Conversazione per la chiesa di Santa Cristina a Bologna, dove aveva fatto sosta durante il viaggio, che già rivela la grande impressione in lui suscitata dal Parmigianino. Dipinse il tema della Sacra Fa- miglia in piú versioni e la famosa Carità degli Uffizi, dove predomina l’influsso del Parmigianino, e fu fecondo pittore di ritratti (Ritratti maschili: Firenze, Uffizi; Milano, mpp; Napoli, Capodimonte; Roma, Gall. Colonna). A S spetta la palma nella grande decorazione nei decenni ’40-60. Nel 1544 il duca Cosimo I dei Medici lo coinvolse nella vasta impresa di decorazione di Palazzo Vecchio a Fi-

Storia dell’arte Einaudi renze affidandogli la Sala delle Udienze; le grandi composi- zioni della Storia di Furio Camillo sono coordinate con rara maestria entro un complesso sistema ornamentale, di cui fan- no parte figure allegoriche, trofei, elementi animali e vege- tali. L’insieme risulta pervaso da un’animazione epica e fan- tastica, ben altrimenti vibrante che in Vasari, protagonista del seguito dell’impresa del Palazzo. Le successive prove ro- mane nello stesso campo della grande decorazione, in Pa- lazzo Farnese (Fasti della famiglia Farnese) e soprattutto in Palazzo Ricci in via Giulia (poi Sacchetti, Storie di David, 1554 ca.) figurano al primo posto in questa produzione ca- ratteristica del Cinquecento. All’attività romana appartengono anche gli affreschi della cappella del Margravio di Brandeburgo in Santa Maria dell’Anima (1541-49); del Palazzo Salviati e della cappella del Pallio nel Palazzo della Cancelleria; le Storie della Vergi- ne in San Marcello al Corso; la Nascita del Battista (1550-51) nell’Oratorio di San Giovanni Decollato, segnata da una nuova riflessione su Michelangelo. I suoi rapporti con il Pri- maticcio e la Francia, dove si recò nel 1554-55 ca., restano problematici, tanto piú che nessuna opera corrispondente a questo soggiorno si è conservata (l’Incredulità di san Tom- maso del Louvre proviene dalla cappella dei Fiorentini di Lione e fu dipinta attorno alla metà degli anni Quaranta). Fra i pittori toscani a Roma che mediarono l’incontro fra cultura fiorentina e cultura romana S occupa una posizione di spicco per la sua convinta inclinazione, fervidamente svi- luppatasi alla luce di altre esperienze, verso i modelli raf- faelleschi e michelangioleschi che egli concilia con il primo manierismo fiorentino nell’ambito del quale aveva compiu- to la sua formazione. Per questo ruolo di geniale mediatore la sua influenza negli sviluppi della complessa trama della pittura cinquecentesca fu di enorme portata. Il suo meravi- glioso talento si esercitò nei campi piú diversi, dai disegni per arazzi e per illustrazioni di libri fino ai modelli per ore- ficeria, e rappresenta la quintessenza della piú virtuosa «ma- niera» italiana. (cmg + sr). Salvo (Salvatore Mangione) (Leonforte (Enna) 1947). Lasciata la Sicilia, si trasferisce a Torino dove, alla fine degli anni ’60, si unisce agli artisti che

Storia dell’arte Einaudi gravitano attorno alla Galleria Sperone. Le origini della sua ricerca si situano nell’ambito della poetica concettuale (la se- rie delle lapidi e delle bandiere, dal 1969), all’interno della quale S sviluppa un’indagine relativa ai dati storico-cultu- rali appartenenti al passato dell’arte e alla natura dell’uomo. Gli autoritratti fotografici (1969-71) testimoniano, attra- verso la pratica ironica delle «sostituzioni» (la testa o il cor- po di S sono sostituiti con quelli di personaggi famosi o dal- le umili origini), il narcisismo dissacratorio dell’artista, ri- scontrabile a piú riprese nella sua opera, mentre con la serie delle Sicilie e delle Italie, degli stessi anni, matura quel ri- torno alla pittura che caratterizzerà definitivamente la sua produzione. Dalla metà degli anni ’70 S conduce un’opera- zione di recupero dei moduli della pittura del Quattrocen- to, interpretata con toni leggeri e fiabeschi secondo un vo- luto primitivismo (la serie di San Giorgio e il drago). Il suo la- voro si indirizzerà poi verso uno studio dei piú svariati «generi» pittorici (le rovine, le nature morte, i notturni e le nevicate, le ottomanie,i neon, le scene mitologiche) caratte- rizzato da una pittura immersa in una dimensione fiabesca e infantile, seppure intellettualizzata, e da una cromia ric- chissima, satura di luce. Una raccolta dei suoi scritti, inti- tolata Della Pittura, è stata pubblicata nel 1986 a Colonia. Tra le mostre personali si ricordano quelle tenute a Essen (Museum Folkwang, 1977), Gand (Museum van Heden- daagse, 1982), Milano (Rotonda della Besana, 1987). (are). Salvo degli Antonii, detto d’Antonio (documentato a Messina dal 1492 al 1522 - nel 1526 risulta già morto). Figlio di Giordano fratello di Antonello da Mes- sina. Il suo dipinto piú conosciuto è il perduto (1908) Tran- sito della Vergine (già nella Cattedrale di Messina), firmato e datato 1509 e noto grazie a una preziosa riproduzione fo- tografica dalla quale emerge la complessa personalità di un sagace osservatore delle piú moderne tendenze diffuse tra Napoli, Roma Firenze in quegli anni. I documenti lo ricor- dano attivo dal 1492 al 1522, ma non tutti i lavori in essi menzionati sono pervenuti e altri risultano realizzazioni di bottega (Croce di Calatabiano; Polittico di Malta). Tuttavia le opere che gli vengono attribuite sono sufficien- ti per individuare una prima fase caratterizzata da riferi- menti veneto-antonelliani (Madonna del Rosario: Messina,

Storia dell’arte Einaudi Museo regionale), seguita da un’altra, intermedia, che lo mo- stra partecipe della piú moderna cultura dello Scacco (Ma- donna col Bambino e angeli coi simboli della passione: ubica- zione sconosciuta). Il periodo finale, rappresentato dalla Ma- donna del Borgo (Stilo, chiesa di San Francesco), è segnato dalla volontà di adeguarsi alle recenti novità introdotte a Messina da Cesare da Sesto. (rdg). Samacchini, Orazio (Bologna 1532-77). La formazione di S si svolse a Bologna nell’ambito della tradizione classicista raffaellesca rappre- sentata da Giovan Battista Bagnacavallo, ma aggiornata su Tibaldi, Nosadella e sul composito manierismo toscano-ro- mano importato da Prospero Fontana. Della cultura dell’Ita- lia centrale ebbe diretta esperienza nel corso di un soggior- no a Roma, dove partecipa con Siciolante, Agresti, G. B. Fiorini e Zuccari alla decorazione della Sala regia nei Palaz- zi Vaticani (Ottone restituisce le Province usurpate ad Agapi- to II, 1563-64) e si accosta in particolare al Vasari e a Tad- deo Zuccari (Flagellazione di Cristo: Roma, Gall. Borghese). Le opere eseguite dopo il ritorno a Bologna rispecchiano il rinnovato contatto con l’ambiente bolognese (Mercurio esor- ta Enea ad abbandonare Didone: Parigi, Louvre; Crocifissio- ne, 1568: Bologna, Santa Maria dei Servi), e un’attenzione diretta per i modelli correggeschi e parmigianeschi in coin- cidenza con la documentata presenza di S in area parmense sin dal ’69 (Trasfigurazione: Bologna, Corpus Domini). A Parma dipinge fra il ’7o e il ’77 gli affreschi del transetto del Duomo; contemporaneamente lavora a Bologna (pn: Inco- ronazione della Vergine, 1572 ca.; San Giacomo Maggiore: Presentazione al Tempio, 1575), compie un nuovo viaggio in Italia centrale per collaborare sotto la direzione di Prospe- ro Fontana alla decorazione del palazzo del farnesiano Pao- lo Vitelli a Città di Castello; lavora agli affreschi della na- vata di Sant’Abbondio a Cremona (1576). Fra le ultime ope- re è la Madonna e i santi Giacomo e Antonio abate in Santa Maria Maggiore a Bologna. Con il Fontana e con il coetaneo Lorenzo Sabatini, S è espo- nente di quella tendenza della pittura bolognese volta a rac- cordare la cultura emiliana con le diverse maniere dell’Ita- lia centrale, di cui questi artisti ebbero diretta esperienza sia

Storia dell’arte Einaudi nel rapporto con Vasari che in soggiorni a Roma, e a ricer- care, temperando gli artifici e raffreddando i toni, chiarez- za e verosimiglianza nella rappresentazione del sacro. (sr). Samarcanda Capitale della provincia omonima nel Turkestan russo, an- ticamente della Sogdiana, fu la città principale della Tran- soxiana durante il Medioevo. Conquistata dagli Arabi nel 712, divenne il centro d’islamizzazione della regione. S non conserva tracce del suo passato pittorico anteriore alla con- quista timuride che riportò in auge la grande tradizione sa- sanide del ritratto. Delle pitture murali che ornavano i pa- lazzi di T¥mr, raffiguranti il principe con i suoi familiari, non ci è giunto altro che un frammento nel mausoleo di Chi- rine Beg Aga (sorella di T¥mr) eretto nel 1385, ma dalle fonti letterarie apprendiamo che queste erano varie quanto numerose, e modello per i miniatori della Vita di T¥mr (§afar-nÇma) come testimonia l’Entrata trionfale di T¥mr a Samarcanda eseguita a Shiraz verso il 1434 (Washington, Freer Gall.). (so). SÇmarrÇ Città dell’Iraq, posta sulla riva orientale del Tigri, a nord di Baghdad. Fondata dal califfo abbaside al-Mu´ta#im nell’863, S fu l’effimera capitale della dinastia abbaside fino all’889. Una spedizione tedesca scoprì tra il 1912 e il 1914 (Herz- feld), sotto il livello arabo, uno strato risalente al vi millen- nio a. C., con vasellame dipinto a decorazione monocroma geometrica e naturalistica (→ Mesopotamia). I sovrani abbasidi edificarono sontuosi palazzi che si esten- devano per una trentina di km lungo il fiume. Campagne ar- cheologiche intraprese sul sito tra il 1911 e il 1913 misero in luce alcune vestigia di tali palazzi, sfortunatamente qua- si interamente distrutti: in particolare, muri di stabilimenti termali e di dimore private, ornate da affreschi. Tali dipin- ti, che rappresentano animali, figure umane e soprattutto cacce e danze (temi favoriti dell’antichità classica), si diffe- renziano dagli affreschi dei palazzi omayyadi per maggiore dipendenza dall’arte sasanide. La maggior parte delle com- posizioni, pur restando fedeli all’ellenismo orientale degli af- freschi omayyadi, lasciano trapelare tratti tipicamente ira- niani: donne dalle grosse guance, dai capelli inanellati e dal

Storia dell’arte Einaudi naso pronunciato che rammentano gli affreschi di TurfÇn; vesti le cui pieghe a spirale ricordano danze davvero orien- tali; e, caratteristica principale delle figure umane, fissità dei volti, immobilità dei tratti, evocanti, con i loro sguardi per- si nell’infinito, una sorta di severa atemporalità, pur do- vendo rappresentare il tema della danza, trattato dunque in modo simbolico dall’artista che ha chiuso i suoi personaggi in una composizione simmetrica che nulla lascia al caso. (so). Sambon (Galerie Louis). Posta al n. 61 dell’avenue Victor-Emmanuel III a Parigi (oggi avenue Franklin-Roosevelt), poi al n. 7 di square de Messine, la Gall. S organizzò negli anni Venti nu- merose mostre a tema originali: le mani e i piedi nell’arte (febbraio-marzo 1924), i paesaggisti veneziani e francesi del xvii e del xviii secolo (giugno-luglio 1928), Alessandro Ma- gnasco (maggio-giugno 1929). Citiamo in particolare la mo- stra di cornici antiche dei secoli xvi-xix (marzo 1924): sele- zione di ottantasei cornici presentate come oggetti d’arte au- tonomi, e l’esposizione dedicata ai fratelli Le Nain (gennaio 1923): tra i numerosi capolavori esposti i Giocatori di tric-trac, acquistati in seguito dal Louvre. (jv). Samostrzelnik, Stanislaw (Cracovia 1485 ca. - Mogila 1541). Monaco del convento ci- stercense di Mogila, è menzionato per la prima volta nel 1506 come «Religiosus Stanislaus pictor de Mogila». Dal 1511 al 1530 è pittore di corte del cancelliere Krzjsztof Szydłowiecki, che lo condusse con sé in qualità di cappellano nei suoi viag- gi in Ungheria (1514) e Austria (1515), ma ricoprì nello stes- so tempo (1513-30) la carica di parroco di Cmielów. È pro- prio nel periodo di permanenza a Buda che S poté entrare in contatto con l’arte italiana rinascimentale. Rientrato a Cra- covia, vi diresse un laboratorio di miniatura, nel quale ope- ravano parecchi collaboratori, oggi in parte identificabili (Bartolomej, il Maestro dell’Altare di sant’Anna di Craco- via), e miniò il messale del vescovo Piotr Tomicki (1516), ve- scovo della città che diverrà, dal 153o al ’35, il suo protet- tore, nonché il «privilegio» di Szydłowiecki per il capitolo di Opátow (1519: Sandomierz, Cattedrale). Tra il 1524 e il 1532 intraprese parecchi viaggi in Europa, particolarmente

Storia dell’arte Einaudi a Vienna, dove vide le opere di Cranach, Altdorfer e Dürer. Risalgono a questo periodo le miniature dei libri di preghie- ra eseguite per la famiglia reale e per il suo protettore: Libro di preghiera di re Sigismondo I (1524: Londra, bm); Libro di preghiera della regina Bona (1527: Oxford, Bodleian Library); Libro di preghiera del cancelliere Szydłowiecki (1524: Milano, Bibl. Ambrosiana); Libro di preghiera del cancelliere Wojch- ciech Gasztold (1528: Monaco, Bayerisches nm). Nel 1531-32, S eseguì undici ritratti miniati dei membri della famiglia Szydlowiecki, accompagnati dai rispettivi stemmi nel Liber geneseos illustris familiae Schidlovieciae (Kórnik, presso Poz- naƒ, bibl. dell’Accademia polacca delle Scienze). Rientrato nel convento di Mogila nel 1535, vi decorò con affreschi la chiesa, la biblioteca e i portici (1537-38, scene dell’Annun- ciazione e della Crocifissione). Il suo stile, derivante dalla pit- tura gotica di Cracovia, caretterizzato da un elegante linea- rismo e da vivace cromatismo, possiede i caratteri propri del rinascimento. (wj + sr). Sánchez Molte opere sivigliane sono firmate con questo nome alla fi- ne del sec. xv, il che rende difficile lo studio e l’identifica- zione dei rispettivi autori. Sotto la firma S si nascondono in realtà almeno sei personalità di artisti diversi. Un Juan S de Castro è attivo verso il 1478 all’Alcázar di Siviglia e dipin- ge per la parrocchia di San Julian un affresco di San Cri- stoforo, datato 1484 e oggi distrutto. Due Vergini addolora- te con santi, una firmata (Cattedrale di Siviglia), l’altra in una collezione privata, costituiscono l’unica base per lo stu- dio di quest’artista che apporta allo stile ispano-fiammingo una nota di armonia e di grave dolcezza. Pedro S I è l’autore di una Deposizione nel sepolcro (Buda- pest, szm) dalle figure assai espressive e agitate, e di una Ve- ronica (Italia, coll. priv.). Juan S II firma un Cristo doloroso (Madrid, Prado) e una Crocifissione (Cattedrale di Siviglia) dove l’impiego del chia- roscuro segna un progresso sullo stile consueto dell’epoca. È conosciuto anche Pedro S II da un dipinto su tela, La Ver- gine protettrice (Siviglia, mba) che risulta essere un’opera as- sai interessante sia compositivamente che iconograficamen- te, ma che verso il 1500 dimostra di appartenere alla tradi-

Storia dell’arte Einaudi zione arcaicizzante del sec. xv andaluso. Infine Antonio e Diego hanno firmato insieme la Salita al Calvario, rigida e patetica, del Fitzwilliam Museum di Cambridge. (mdp). Sánchez Cantón, Francisco Javier (Pontevedra (Galizia) 1891-1971). Era assai legato alla sua ter- ra natale, dove morì; ma si recò giovanissimo a Madrid, ove fu tra i migliori allievi di Elias Tormò. La sua carriera è es- senzialmente legata al Museo del Prado, di cui fu l’anima per quasi mezzo secolo (1920-68): conservatore, vice-direttore, di- rettore, presiedette alle sue trasformazioni, ne redasse i cata- loghi, ne garantì la continuità attraverso i mutamenti di regi- me (in particolare nel difficile periodo della guerra civile). Ma il museo non esaurì le sue attività: professore e per lungo tem- po preside della Facoltà di Lettere, accademico, direttore per molti anni di «L’Archivo español de arte» e dell’Instituto de Estudios Gallegos, fu tra gli storici dell’arte piú fecondi e lu- cidi della sua generazione. Tra i suoi lavori principali, di tipo assai vario, si possono citare: pubblicazioni generali, come le Fuentes literarias para la historia del arte espagñol (1923-41, 5 voll.), che raccolgono testi indispensabili e introvabili, o la rie- dizione di L’arte de la pintura di Pacheco (1956), nonché l’an- tologia di disegni (Dibujos españoles, 1925-30, 5 voll.), una scelta dei quali è apparsa in Francia (Dessins espagnols, 1966) come i Trèsors du musée du Prado (1961); opere generali stori- che, nelle quali occupa un posto privilegiato la Spagna borbo- nica, come Los pintores de cámara de los reyes de España (1922) e il grande volume nell’Ars hispaniae (vol. XVII): Escultura y pintura del siglo XVIII en España (1965); monografie, che van- no dal xv al xix secolo, dai primitivi (Maestre Nicolas Francés, 1964) ai maestri del secolo d’oro (Como vivia Velázquez; La sensibilidad de Zurbarán, 1945) e a Goya, di cui fu tra i piú grandi specialisti (il suo Goya, pubblicato a Parigi nel 1930, poi riveduto e ampliato in Spagna, è stata una fondamentale sintesi critica, poi seguita da numerosi studi sulla vita del pit- tore, sui suoi disegni, sui «dipinti neri»). (pg). Sánchez Coello, Alonso (Benifayo (Valenza) 1531 ca. - Madrid 1588). Trascorse l’adolescenza in Portogallo e intorno al 1550 partì per la Fiandre, dove studiò per alcuni anni nella bottega dell’olan-

Storia dell’arte Einaudi dese Anthonis Mor sotto la protezione del cardinale Gran- selle. Pittore di Filippo II sin dall’inizio del suo regno, ac- compagnò la corte di Valladolid, dove si sposò, poi a Tole- do e a Madrid. Il re gli commissionò alcuni dipinti del Sa- lone dei Ritratti reali del Palazzo dei Prado. La lezione di Mor si fonde nella sua opera con l’influsso di Tiziano, di cui copiò numerosi quadri (Noli me tangere: Escorial). Fu il crea- tore, in Spagna, di uno stile di corte, severo ma piú umano che convenzionale, piú tardi interpretato da Pantoja de la Cruz e Velázquez. Una delle sue prime opere è probabil- mente il Ritratto di Margherita di Parma, reggente dei Paesi Bassi (prima del 1555: Bruxelles, mrba), notevole per la spi- gliatezza della composizione e la perfezione dei dettagli. Il Ritratto di Filippo II al Prado è generalmente attribuito a lui; il Ritratto del principe don Carlos (ivi), uno dei primi dipinti a corte, idealizza l’aspetto fisico del personaggio, i cui di- fetti fisici si manifestano nel Ritratto in piedi del 1564 (Vien- na, km). Ritrattista ufficiale delle mogli e dei figli di Filip- po II (Don Diego e don Felipe, 1759: Madrid, monastero del- la Descalzas Reales) ritrae pochi modelli al di fuori della famiglia reale. Fu stimato anche come pittore religioso (re- tabli di El Espinar, 1574, e di Colmenar Viejo, nei dintor- ni di Madrid). Dal 1580 al 1582 decorò gli altari dell’Esco- rial con figure di santi. Il Martirio di san Sebastiano e il Ma- trimonio mistico di santa Caterina (Madrid, Prado) ne rivelano l’ammirazione per Correggio e Parmigianino. (acl). Sánchez Cotán, Fray Juan (Orgaz (Toledo) 1560 - Granada 1627). Artista dall’insolita biografia, assai apprezzato a Toledo, era già quarantenne quando decise di entrare nella Certosa del Paular. Fu un pio narratore con una sensibilità da primitivo, e nel contempo pioniere precoce del tenebrismo agli inizi del secolo d’oro; è stato uno dei maestri spagnoli che piú ha sconcertato i criti- ci del nostro tempo. Formatosi a Toledo con Blas de Prado, artista allora molto stimato per nature morte a noi ignote, af- frontò con successo la pittura religiosa, con retabli oggi scom- parsi. Ma quando, nel 1603, nel momento in cui si ritirava dal mondo, redasse il proprio testamento, l’inventario alle- gato dei suoi beni menziona molti «bodegones» identificabi- li con quadri noti (Verdura e selvaggina, 1602: Madrid, coll. del duca di Hernani, firmata). Entrò nel 1604 nella Certosa

Storia dell’arte Einaudi di Granada, dove concluse la sua vita, amato da tutti e rite- nuto santo. La sua produzione pittorica pur numerosa sarà esclusivamente dedicata al suo convento (Retablo dell’Assun- zione, 1609 ca.: in gran parte al Museo di Granada). Sembra raggiungere il culmine della fama intorno al 1615, quando SC dipinge per il chiostro della Certosa di Granada un ciclo di otto grandi «storie» (fondazione dell’ordine da parte di san Brunone, persecuzione protestante dei religiosi d’Inghilter- ra). Decorò anche la Sala capitolare, il refettorio, molte cap- pelle (Cenacolo, episodi della Passione, Immacolate) e dipin- se per le celle dei religiosi immagini della Vergine con ghir- lande di fiori e paesaggi verdeggianti popolati da eremiti. Oggi divise tra la Certosa e il Museo di Granada, tali composizio- ni, di evidente arcaismo, attestano anche un vivo interesse per i problemi della luce e del trattamento dei volumi. Si pos- sono talvolta paragonare ad alcune opere dell’italiano Cam- biaso, che SC aveva potuto conoscere all’Escorial (Vergine che desta il Bambino Gesú: Museo di Granada). I soggetti mona- stici – comprese le scene di martirio – sono trattati con profonda religiosità, e con un’ingenuità piena di freschezza (Visione di sant’Ugo, dove Cristo, la Vergine e gli angeli in- nalzano le mura della nuova certosa, San Brunone e i suoi com- pagni davanti a sant’Ugo, Vergine del Rosario con certosini). D’altro canto le nature morte di SC, anteriori o posteriori al- la sua vocazione monastica sono di qualità eccezionale: spo- glie, con un ritmo quasi musicale nell’arabesco delle linee e nella distribuzione rigorosa dei volumi e delle ombre (Bode- gon con cardo: Museo di Granada; Melone, zucca, cavolo e me- la cotogna: San Diego, Fine ag), rammentano gli intenti me- tafisici dei neopitagorici, o la letteratura mistica spagnola, che dava significato trascendente alla realtà quotidiana. L’influsso di SC sembra esser stato maggiore di quanto il suo ritiro dal mondo lascerebbe supporre. Secondo Palomino, Car- ducho sarebbe venuto da Madrid a fargli visita e a vederne le opere prima di intraprendere il suo grande ciclo certosino del Paular. È anche possibile una visita di Zurbaràn alla Certosa di Granada, in ogni caso, appare evidente una certa somi- glianza tra le immagini dei certosini di Zurbaràn e quelli di SC. Inoltre, l’influsso diretto dei bodegones di SC traspare in alcuni pittori piú giovani, come Felipe Ramirez (Cardo, fiori e uva, 1628: Madrid, Prado) e Blas de Ledesma. (aeps).

Storia dell’arte Einaudi Sandby, Paul (Nottingham 1725/26 - Londra 1809). Giunse a Londra nel 1741 per svolgere, col fratello Thomas, attività di topografo presso il Drawing Office della Torre di Londra. Fece parte degli uomini trattenuti in Scozia dopo la rivolta giacobita del 1745 e vi operò fino al 1751. Tornato nel 1752, visse tanto a Londra quanto a Windsor Great Park insieme al fra- tello, che si era specializzato nel rilievo architettonico. Fu membro fondatore della ra nel 1768 e nello stesso anno eb- be la carica di primo professore di disegno presso la scuola militare di Woolwich. Dopo il 1770 fece diversi viaggi nel Galles, in compagnia di sir Joseph Banks. S fu tra i primi ad adottare in Inghilterra la tecnica dell’ac- quatinta (dodici Vedute del Galles, 1775), e ad usare, nell’ac- querello, il pennello. Utilizzò pure la guache da sola e asso- ciata sul medesimo foglio all’acquerello. Tramite questa tec- nica poté tradurre con immediatezza pittorica la prima impressione dello spettacolo naturale che aveva sotto gli oc- chi nella sua freschezza, mescolando alla veduta topografi- ca un sentimento venato di accenti «romantici». Sue opere sono conservate a Londra (bm) e nel castello di Windsor, di cui ha lasciato numerose vedute. (jns). San Diego (California) Fine Arts Gallery Fu inaugurata nel 1926 grazie alla mu- nificenza dei coniugi Bridges. La donazione Putnam la ar- ricchì ulteriormente di quadri antichi. Custodisce attual- mente opere di varie scuole europee (tra cui il Ritratto d’uo- mo di Giorgione) fino ai contemporanei. Timken Art Gallery Il nuovo museo, finanziato dall’omo- nima fondazione (quella della famiglia della signora Bridges), si aprì nel 1965 accanto alla preesistente Fine Arts Gallery e accolse, oltre a una parte delle collezioni di quest’ultima, le nuove acquisizioni della fondazione Putnam. La collezio- ne comprende dai primitivi italiani (Giotto, Luca di Tommé, Crivelli) al rinascimento (Savoldo, Veronese), dalle scuole fiamminga e olandese (P. Christus, P. Bruegel il Vecchio, Hals, Rembrandt, Rubens, Cuyp, Ruisdael, Metsu) a quel- la spagnola (Bermejo, El Greco, Sánchez Cotán, Zurbarán, Murillo, Goya) alla francese (Champaigne, Boucher, Frago- nard, David, Corot). (sr).

Storia dell’arte Einaudi Sandrart, Joachim von (Francoforte sul Meno 1606 - Norimberga 1688). Assai no- to e stimato nel mondo della cultura e dell’arte, compì nu- merosi viaggi in Europa. A dieci anni apprese i rudimenti del disegno sotto la guida di Georg Keller, allievo di Jost Amman ed entrò in rapporti amichevoli con T. de Bry e in particolare con M. Merian. Nel 1619 perfezionò il mestiere accanto a S. Stoskopff nella bottega di Daniel Soreau ad Ha- nou. Studiò poi incisione a Norimberga nel 1620 presso Pe- ter Iselburg. Entrato nel 1622 nella bottega di Sadeler a Pra- ga, fu al piú tardi nel 1625 ad Utrecht presso Honthorst do- ve ebbe la rivelazione del caravaggismo e dove Rubens lodò il suo Diogene cerca l’uomo. Dal 1629 al 1635 fu in Italia do- ve divenne amico di Liss a Venezia, s’incontrò con Reni e Albani a Bologna, frequentò a Roma Poussin, Pietro da Cor- tona, Pietro Testa e i bamboccianti tra cui van Laer, i pit- tori caravaggeschi Valentin de Boulogne, dipingendo pae- saggi con Claude Lorrain. A Napoli, dipinse un Catone per Artemisia Gentileschi e poté vedere la Decollazione del Bat- tista di Caravaggio a Malta. Dopo un soggiorno di due anni a Francoforte dove dipinse il Chiaro di luna con Amore e la Venus pudica, partì per Amsterdam, città dove resterà fino al 1645. Qui troverà Rembrandt e i suoi primi allievi, G. Flinck, Backer, van der Helst, ma anche Keirinsc, i primi pittori di genere P. Godde, J. M. Molenaer e i precursori di Rembrandt ancora vivi: Jacob Pynas e Moyaert. Alla luce di questi molteplici influssi dipinse la Compagnia di Cornelis Bikker (1640: Amsterdam, Rijksmuseum), divenendo ri- trattista assai richiesto. Dal 1642 al 1645 dipinse la sua ce- lebre serie dei Mesi oltre che il Giorno e la Notte ordinatagli dal duca Massimiliano per l’antico castello di Schleissheim. S tornò in Germania nel 1645 stabilendosi nella sua pro- prietà di Stockau vicino ad Ingolstadt, ma compirà ancora numerosi soggiorni nelle città europee in particolare a Mo- naco e Vienna. In questo periodo s’infittiscono le commis- sioni per quadri d’altare (la Madonna della Pace, allegoria del trattato di Westfalia; il Sogno di Giacobbe; la Decollazione del Battista). Dal 1670 al 1673, è ad Augusta e, a partire dal 1673-74 si stabilisce a Norimberga dove è nominato diret- tore della prima accademia d’arte tedesca, fondata nel 1662, probabilmente sotto suo consiglio. Fu uno dei migliori in-

Storia dell’arte Einaudi terpreti del barocco tedesco dedicandosi tanto alla pittura allegorica che al ritratto (Johann Maximilian il Giovane, 1636: Francoforte, hm; Hendrick ed Eva Bicker, 1639: Am- sterdam, Rijksmuseum; Autoritratto: Francoforte, hm), al quadro di storia (Morte di Seneca: conservato ad Erfurt), e alle composizioni religiose (pale d’altare per la chiesa di Lam- bach; il Matrimonio mistico di santa Caterina: Vienna, km) o alla scena di genere (Allegoria dei mesi: Monaco, ap; Pesatri- ce d’oro, 1642: Kassel, sks). Subì l’influsso di Caravaggio e Rubens, e il suo stile denuncia ricordi della pittura di Ti- ziano, e di altri grandi interpreti del Seicento come Reni, Rembrandt e di van Dyck. La sua personalità traspare bene nei suoi realistici ritratti. La sua fortuna storica è stata assi- curata dalla pubblicazione della prima storia dell’arte tede- sca, la Teutsche Academie der Bau-Bild und Mahlerey-künste, edita dal 1675 al 1679, che molto deve a Vasari e a van Man- der; l’opera è ricca di notizie sugli artisti contemporanei che spesso l’artista ha conosciuto personalmente. (ga + sr). Sanejouand, Jean-Michel (Lione 1934). Dopo le prime prove di pittura e scultura, e qualche mostra a Parigi, S realizzò il suo primo «spazio or- ganizzato» all’Ecole Polytechnique nel 1967. Ristrutturò lo spazio del cortile della scuola mediante una serie di enormi cubi in tubo metallico nero, sovrapposti a due a due e dispo- sti a intervalli di 2,50 m su due linee incrociate ad angolo ret- to. A questo seguirono altri «spazi organizzati» (1967-74), realizzati di solito in materiali industriali, definitivi o effi- meri, in ambienti all’aperto o in interni (installazioni alla Gall. Yvon Lambert di Parigi nel 1968; al parco di Piestany in Cecoslovacchia nel 1969 e nella città di Dordrecht, in Olanda, nel 1971). Tali spazi vengono presentati al pubbli- co mediante fotografie; quelli allo stato di progetto con l’aiu- to di disegni (piante e prospettive). L’intervento di S, che si sovrappone a una realizzazione architettonica o ad un pae- saggio, mira a sottolineare e svelare uno spazio nelle sue ca- ratteristiche di fisicità, facendone un luogo di comunicazio- ne e non di separazione ed esclusione. Parallelamente S ha proseguito la propria ricerca pittorica con una serie di dise- gni grotteschi intitolati Calligraphies d’humour (1973: Parigi, mnam) e con una serie di dipinti in cui il colore definisce i piani di grandi paesaggi e composizioni figurative. (bp).

Storia dell’arte Einaudi Sanfilippo, Antonio (Partanna (Trapani) 1923 - Roma 1980). Dopo gli studi scientifici a Palermo, nel 1942 si iscrive all’Accademia di belle arti di Firenze. Trasferitosi a Roma nel 1946 ha modo di incontrare Dorazio, Perili e Guerrini e di frequentare in- sieme a Turcato, Consagra, Carla e Ugo Attardi lo studio di Guttuso. È tra i firmatari del manifesto pubblicato nel 1947 dalla rivista «Forma i»: la volontà di ricollegarsi alle realtà piú vive del panorama artistico europeo e di recuperare le esperienze delle avanguardie storiche lo portano a sviluppa- re la propria pittura in senso neocubista, anche se presto mo- dificata dall’influsso dell’opera di Klee e Kandinsky. Agli inizi degli anni ’5o datano le sue prime ricerche sul segno e sull’automatismo, fortemente affini a quelle condotte da Ca- pogrossi, Wols, Tobey e Pollock. Nella prima metà degli an- ni ’6o i suoi quadri si caratterizzano per l’uso costante del bianco e nero e per un segno «a gomitolo»; successivamen- te S ricorre a un segno piú minuto e netto, contrapposto a macchie di colori primari che evidenziano il pattern della composizione. Fondamentale nella sua pittura è l’imposta- zione linguistica per la quale non esiste un segno privilegia- to, ma ciò che conta è il relazionarsi delle singole parti dell’insieme: con tali premesse la ricerca di S si colloca ol- tre l’informale per trovare il suo collegamento ideale con quelle poetiche che, in anni successivi, avrebbero interpre- tato il quadro come «campo operativo». Presente alla Bien- nale di Venezia nel 1966 con una sala personale (dove espo- ne Dopo secoli, 1963 e Arcipelago, 1966), una vasta antolo- gica gli è stata dedicata nel 1980 a Roma (gnam). (are). San Floriano (Sankt Florian). Convento austriaco dei canonici agostinia- ni, posto nei dintorni di Linz. Esisteva già nel sec. viii, ma venne riorganizzato nell’xi. Dal punto di vista artistico svol- se un ruolo importante verso la fine del sec. xiii e all’inizio del xiv grazie al suo scriptorium, la cui produzione è conser- vata nella biblioteca del convento stesso. La sua attività si ridusse però nel corso dei secoli xv e xvi, durante i quali ven- nero conferiti incarichi ad artisti esterni. Vi si trovano, in particolare, le vestigia di altari eseguiti da Wolf Huber e da pittori appartenenti alla cerchia dei Frueauf. L’altare di San

Storia dell’arte Einaudi Sebastiano, eseguito nel 1518 da Altdorfer, i cui pannelli so- no conservati nella galleria del convento, è l’opera pittorica piú notevole di sf. Un altro altare di Altdorfer, posteriore di qualche anno, rappresenta scene della Leggenda di san Flo- riano (oggi dispersa in varie collezioni). Le ultime commis- sioni importanti provenienti da sf datano al sec. xviii: si tratta degli affreschi che decorano l’edifico nuovo, la cui ese- cuzione venne affidata a un gruppo di pittori del barocco au- striaco, e soprattutto a Bartolomeo Altomonte (Marmorsaal, 1723-24; biblioteca, 1748-49). (ar). San Francisco The Fine Arts Museums of San Francisco A partire dal 1972 i due principali istituti museali della città, vale a dire il California Palace of the Legion of Honour e il M. H. De Young Memorial Museum sono stati uniti amministrativa- mente in un unico organismo, denominato appunto The Fi- ne Arts Museums of sf; a seguito di ciò, le collezioni hanno subito una ridistribuzione all’interno degli edifici in modo da rispecchiare maggiormente i desideri dei due fondatori, Alma Spreckels e M. H. De Young. Infatti ora tutto ciò che riguarda la Francia, il Gabinetto dei disegni e delle stampe, i tessuti e le porcellane provenienti dall’Europa sono collo- cati nel California Palace, mentre la restante parte delle col- lezioni (le altre scuole europee, l’arte antica, quella orienta- le della coll. Avery Brundage, quella americana ecc.) si tro- va al de Young. California Palace of the Legion of Honour L’edificio che ospita il museo fu costruito nel 1915 in occasione della Pa- nama-Pacific International Esposition, e fu donato alla città da Mr. e Mrs. Spreckels nel 1924. L’architettura si ispira al Palais de la Legion d’Honneur (Hotel de Salm) a Parigi. Le collezioni provengono dalle donazioni Spreckels (Rodin), Huntington (Settecento francese), Williams e Achenbach (grafica, disegni e stampe, tra cui opere di Guercino, Cana- letto, Fragonard, Robert, Turner, Dürer con Il cavaliere, la morte e il diavolo, ma anche Seurat, Gauguin, Toulouse-Lau- trec, Kandinsky e molti altri ancora). Tra i principali mae- stri rappresentati nel museo: Le Nain, De La Tour, Lorrain (Paesaggio classico con figure al tramonto), Vouet (Sacra Fa- miglia con san Giovannino), David, Corot (Veduta di Roma), Renoir, Manet, Cézanne.

Storia dell’arte Einaudi M. H. De Young Memorial Museum Venne costruito nel 1894 in occasione della California Midwinter International Esposition, all’interno del Golden Gate Park. L’esposizione fu curata da M. H. De Young, che in seguito fu incaricato di arricchire le collezioni e di organizzare il museo vero e pro- prio, al quale venne dato il suo nome nel 1921. Nonostante l’estremo eclettismo del personaggio, vennero acquisiti molti capolavori, tanto che la superficie espositiva ha dovuto esse- re ampliata piú volte. Negli anni ’50, grazie anche alla dona- zione Kress, è stato realizzato un nuovo allestimento del cui catalogo fu responsabile William E. Suida. È attualmente uno dei piú importanti musei degli Usa, con oltre un milione di vi- sitatori all’anno. Particolarmente ben rappresentata è la scuo- la italiana (coll. Kress), da Bernardo Daddi (Santa Caterina d’Alessandria) a Taddeo di Bartolo (Madonna incoronata che allatta), dall’Angelico (Incontro di san Francesco e san Domeni- co) a Cesare da Sesto (Madonna tra il Battista e san Giorgio), dal Pontormo (Madonna col Bambino e due angeli) al Bronzi- no (Ritratto di Vittoria Colonna) da Tiziano (Ritratto virile)a Tiepolo (Il trionfo di Flora), a Mattia Preti, Moroni, Verone- se. Non mancano le altre scuole europee, rappresentate ad esempio da Lucas Cranach, Frans Hals, Jacob Jordaens (Sacra Famiglia), Rubens (Il tributo), Dieric Bouts (Madonna col Bam- bino), Pieter de Hooch (Giovane madre), Rembrandt (Ritrat- to di Joris de Caullery), El Greco (San Giovanni Battista), pri- mitivi come il Maestro del Retablo de los Reyes Catolicos, opere inglesi (Gainsborough) e americane (Haseltine, Rey- nolds ma anche Grant Wood e Thomas Hart Benton). Museum of Modern Art Aperto nel 1935, possiede una del- le piú importanti collezioni di arte del sec. xx in America, tra cui una delle maggiori raccolte pubbliche di Matisse. So- no rappresentate sia le avanguardie (Braque, Klee, Miró, Mondrian, Picasso) che i pionieri del modernismo america- no (Stuart Davis, Edward Hopper, Georgia O’Keeffe), il surrealismo (Dalì, Tanguy) e le correnti del dopoguerra (De Kooning, Motherwell, Pollock, Rauschenberg, Rothko, Stel- la, Tobey). (dc). San Gallo (St. Gallen). Città svizzera, capoluogo dell’omonimo canto- ne, fu nel Medioevo centro di alta cultura, influenzando per

Storia dell’arte Einaudi oltre due secoli la civiltà artistica e letteraria europea. La fondazione di un primitivo eremitaggio di monaci risale al sec. vii e fu opera del monaco irlandese Gallus (612). Al 719, sotto Otmar, dovrebbe risalire l’erezione di un convento che nel 747 aderì alla regola benedettina. Quattro abati contri- buirono a fare di SG un importante centro culturale: Goz- bert (816-37) arricchì il primitivo nucleo della biblioteca (820 ca.) dando impulso alle attività dello scriptorium con- ventuale. La celebre pianta di SG, tuttora conservata nella biblioteca abbaziale, databile all’830 e progettata dalla con- sociata abbazia della Raichenau per Gozbert, mostra detta- gliatamente l’aspetto e la funzione di ciascuno degli edifici conventuali testimoniando, tra l’altro, l’importanza che SG veniva acquistando, politicamente e culturalmente, nel cor- so del sec. ix. Hartmut (872-83) portò la scuola dei copisti a livelli di perfezione formale, e sotto Salomon, vescovo di Costanza (890-920), due monaci, Notker Balbulus (il Bal- buziente, morto nel 912), autore di sequenze musicali, e Tuotilo, autore di tropi, favorirono l’affermarsi del canto e della poesia. Infine, provengono da SG due cronisti celebri nel ix e nell’xi secolo, Ratpert ed Ekkehart. La biblioteca (Stiftsbibliothek), per la quale il convento era famoso nel Medioevo, serba una collezione di 2000 manoscritti e 1700 incunaboli; i piú notevoli sono i manoscritti irlandesi e ca- rolingi. Le miniature irlandesi si riallacciano, per il tipo e la data, al Libro di Kells del sec. viii (Dublino, Trinity College Library), e non sembra siano state eseguite da artisti del con- vento (codice 51: Evangelisti, Crocifissione e Giudizio Uni- versale): tuttavia contribuirono a sviluppare a SG l’arte del- la miniatura e col loro carattere fortemente stilizzato e or- namentale influenzarono le opere carolinge degli artisti indigeni. La scuola di copisti, «fondata» dall’abate Hart- mut, divenne fiorente nel sec. ix, favorita dall’ascesa alla ca- rica di abate di Grimalt nell’841 e sino alla morte di Salo- mon nel 920. Tra i manoscritti dal sec. viii al sec. x oggi con- servati, i piú notevoli sono il Salterio detto di Folchard (codice 23), eseguito tra l’864 e l’872, che contiene soltanto inizia- li a piena pagina, e il Psalterium aureum o Psautier doré,co- dice 22), eseguito attorno al 880-90, commissionato da Lui- gi il Germanico e comprendente gran numero di miniature illustranti la vita di Davide. Tra i lavori del sec. x va citato l’Evangelium Longum di Sintram (codice 53), celebre per le

Storia dell’arte Einaudi tavolette d’avorio scolpito che ne ornavano la copertina, at- tribuite al monaco Tuotilo. Quest’opera è tra i rari esempi di stile carolingio di cui sia noto il nome dell’artista. Alla morte dell’abate Salomon (920), l’attività degli scripto- ria diminuì notevolmente, la qualità delle miniature s’impo- verì a tal punto che esse non vennero piú adornate con co- lori. La scuola conobbe nuova fioritura nel sec. xv, grazie ai miniatori di Augusta e di Lindau e a due copisti formatisi all’interno del convento stesso, Konrad Haller e Anton Vogt. Fino al sec. xviii, peraltro, l’abbazia e la biblioteca non acquisirono piú tesori artistici importanti. Si dovette attendere che divenisse abate Coelestin II per assistere a tra- sformazioni sia in pittura che in architettura. La chiesa fu ricostruita (1756-67) in stile tardobarocco, del quale rap- presenta uno dei piú eleganti e raffinati esempi. La decora- zione interna si compone di dipinti e stucchi armoniosa- mente integrati; le volte sono ornate da motivi vegetali e de- corativi in stucco eseguiti nel 1764 dai fratelli Gigl di Wessobrunn, su progetti di Christian Wenzinger. Quest’ul- timo realizzò i dipinti della navata centrale, con la Glorifi- cazione dei santi fondatori del Convento e il Culto dell’Imma- colata Concezione, nonché quelli della cupola, rappresentanti il Paradiso con le Otto Beatitudini (1757-60). I dipinti del co- ro furono affidati a Joseph Wannenmacher, che operò sui progetti di Wenzinger; dovevano rappresentare la concor- danza tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, come attesta- no i disegni di Matthias Jansen (1774). Furono però ridipinti tra il 1819 e il 1824 da Antonio Orazio Moretto, che ne mo- dificò il programma iconografico sostituendoli con Scene del- la vita di Cristo e della Vergine. Anche la biblioteca, gioiello dell’arte barocca, venne rico- struita sotto Coelestin II. I dipinti che adornano il soffitto sono racchiusi in quattro grandi medaglioni decorati a stuc- co; sono opera di Wannenmacher (1762-63) e illustrano i quattro concili, di Nicea (325), Costantinopoli (381), Efeso (431) e Calcedonia (451). Nel corridoio della biblioteca, le composizioni di Carl Weber, datate 1741, esaltano la bene- dizione celeste accordata al convento. L’arte del sec. xx caratterizza a SG la nuova Scuola di alti studi economici e sociali inaugurata nel 1963 e costruita da W. Förderer, P. Otto e H. Zwimpfer. L’edificio, posto su

Storia dell’arte Einaudi una delle due colline che dominano la città, è un buon esem- pio d’integrazione tra arte figurativa e architettura. Vi han- no collaborato molti artisti di vari Paesi: Braque, Arp, Sou- lages, Calder, Moore, Tàpies, Miró, Giacometti, Otto Muel- ler, Max Gubler, Kemeny. (er). San Leocadio «de Areggio», Paolo da (Paolo de Aregio) (San Leocadio 1445/50 ca. - Villareal de los Infantes? dopo il 1520). Pittore emiliano, tra i primi e piú efficaci divulga- tori in Spagna della pittura rinascimentale italiana in un mo- mento in cui l’arte iberica era fortemente influenzata dalla cultura fiamminga. Nel 1472 il pittore, al seguito del legato pontificio, il cardinale Rodrigo Borgia, è documentato a Va- lenza dove il 28 luglio stipula insieme al pittore napoletano Francesco Pagano il contratto per gli affreschi del coro del- la Cattedrale commissionati in un primo tempo a Nicola Fio- rentino e saldati con tremila ducati d’oro nel dicembre 1481. Perduti gli affreschi del presbiterio intonacati nel 1682, si conserva ancora l’Adorazione dei pastori realizzata come sag- gio nella Sala capitolare. Opera giovanile è anche la Sacra Conversazione di Londra (ng), già in Casa Ceretani a Firen- ze, poi nella raccolta Sebright con l’ascrizione a Memling. È documentato piú volte a Valenza tra il 1472 e il 1484, an- no nel quale SL sottoscrive un altro contratto con il Capi- tolo della Cattedrale per l’esecuzione ad affresco di una As- sunzione della Vergine. Dal 1501 al 1513 lavorò per la du- chessa di Gandìa, nuora di Rodrigo Borgia, divenuto papa nel 1493 con il nome di Alessandro VI. Nel 1501 a Gandìa, città nella quale si trasferì nel 1507, SL sottoscrisse il con- tratto relativo al retablo dell’altar maggiore della collegiata (distrutto nel 1936), eseguito in collaborazione con lo scul- tore valenzano Damián Forment. Certa è la provenienza dal retablo del convento delle clarisse dei pannelli con la Resur- rezione, la Pentecoste, la Morte della Vergine, già del Museo diocesano di Valenza (andati perduti nel 1936), dell’Ora- zione nell’orto della collezione Montortal di Valenza e della Deposizione del Museo di Barcellona. Tra il luglio 1513 e l’agosto 1514 si data la serie di dipinti per le ante d’organo della Cattedrale di Valenza con scene della vita della Vergi- ne e della storia di san Martino, talora ascritti ai figli Mi- guel Juan e Felipe Pablo. Dal 1512 al 1520 il nome dell’ar- tista compare in alcuni documenti dell’archivio municipale

Storia dell’arte Einaudi di Villareal de los Infantes (dove egli risulta risiedere dal 1517 al 1519) a conferma dell’attribuzione di sei pannelli con la vita di san Santiago nella sagrestia della locale chiesa di San Giacomo, ultima sua opera documentata, eseguita tra il 1513 e il 1519 con l’aiuto di collaboratori e discepoli qua- li il figlio Felipe Pablo cui è ascritta la piú parte dei perso- naggi della vita di Santiago. Quasi interamente di mano del maestro le tavole raffiguranti la Decapitazione di Santiago,in cui riaffiorano reminiscenze ferraresi. Tra il 1513 e il 1520, nella bottega di SL, fu inoltre probabilmente eseguito il re- tablo con il Salvator Mundi della stessa chiesa. Le ultime ope- re lontane dalle raffinate eleganze delle opere giovanili de- nunciano l’esteso intervento di collaboratori motivato dal gusto dei committenti spagnoli legati alla tradizione dei re- tabli monumentali. Determinante fu l’influsso esercitato da SL su Ferrando Llanos e di Jañez de la Almedina, tra i mag- giori pittori spagnoli del sec. xvi. (pgt). San Luca nella Focide La chiesa di SL (Osios Lukas) presso Delfi, conserva il piú antico esempio a noi pervenuto (intorno al 1011 ca.) di de- corazione dell’intera superficie a mosaico che segue un pro- gramma complesso e definito in ogni particolare. Nella conca absidale è raffigurata la Vergine in trono con il Bambino, mentre la Pentecoste è rappresentata nella cupola. Due episodi biblici Daniele nella fossa dei leoni e i Tre giova- ni nella fornace, prefigurazioni della resurrezione, sono raf- figurati nell’abside laterale sinistra (le decorazioni della cor- rispondente abside laterale destra sono andate distrutte in- sieme al mosaico della cupola). Quattro scene – l’Annunciazione, la Natività (distrutta), la Presentazione e il Battesimo – sono comprese nella decora- zione delle trombe, mentre altre quattro scene decorano il nartece (Crocifissione, Discesa al Limbo, Lavanda dei piedi e Incredulità di san Tommaso). La composizione sobria, ridotta all’essenziale, le pose dei per- sonaggi piuttosto rigide, la gravità dell’espressione dànno nel complesso un’impressione di grande austerità all’insieme so- prattutto nelle estatiche figure di santi; alcuni ritratti di san- ti recenti vissuti a Sparta alla fine del sec. x, san Nikon e san Luca il Gurnikiote, presentano notazioni realistiche.

Storia dell’arte Einaudi Le pitture delle cappelle nord-est e sud-est della chiesa ri- salgono, come il resto del complesso, al sec. xi. Tra le nu- merose figure di santi va segnalata, nella lunetta della cap- pella nord-est, quella di un monaco che offre la chiesa a san Luca. Da notare anche tra le non comuni scene evangeliche e bibliche, la composizione con l’Ascensione di Elia nella cap- pella nord-ovest. I dipinti della cripta sono contemporanei ai mosaici della chiesa. Sono raffigurati numerosi santi a mezzo busto entro medaglioni dalla fastosa decorazione floreale che ricopre le volte; la Deesis occupa l’abside e sulle pareti è rappresenta- ta la Dormizione e alcune scene evangeliche illustranti la Pas- sione, l’Entrata di Cristo a Gerusalemme, fino all’Incredulità di san Tommaso. Lo stile di questi dipinti presenta forti ana- logie con quello dei mosaici, ma i personaggi rispetto a rap- presentazioni consimili a mosaico denotano proporzioni piú slanciate, un panneggio maggiormente curato e piú sinuoso e il carattere drammatico è piú marcato, ad esempio nella Discesa dalla Croce. (sdn). San Marino (California) H. E. Huntington Art Gallery Henry Edwards Hunting- ton (1850-1927), industriale americano, dal 1908 alla mor- te costituì un’importante collezione tuttora ospitata nella sua casa, alla quale venne aggiunta la galleria nel 1934. Il museo riflette il gusto di Huntington per la pittura inglese: splendidi disegni del Sei e Settecento (Alexander Cozens, William Hogarth, Samuel Scott), tele di prim’ordine della fine del sec. xviii (Gainsborough con il Ritratto di Jonathan Buttall, piú conosciuto come «Blue Boy», 1770; Reynolds con Sarah Siddons in veste di Musa della Tragedia, 1784), inol- tre opere di Raeburn, Constable, Turner (Veduta di Vene- zia), miniature di Cosway, qualche dipinto antico (Lorenzo di Credi, Santo in gloria; Pinturicchio, Madonna col Bambi- no). (sr). San Martin Sescorts (dintorni di Vich, Spagna). Le sopravvivenze della decora- zione a fresco della chiesa di SMS sono conservate nel Mu- seo diocesano di Vich e comprendono frammenti della Ge- nesi e della Vita di san Martino. Del ciclo dedicato al santo titolare sussistono la Divisione del mantello e alcuni brani del-

Storia dell’arte Einaudi la Guarigione del cieco, mentre delle Storie della Genesi re- stano soltanto la Tentazione e la Cacciata dal Paradiso. Su un fondo di fasce spiccano l’angelo con le ali azzurre e il man- tello rosa e le figure di Adamo ed Eva, dai nudi potente- mente modellati da chiazze giallastre e da forti linee nere. Gli affreschi di SMS vengono datati dagli studiosi alterna- tivamente alla seconda metà del sec. xi o alla seconda metà del secolo successivo, ma la prima ipotesi sembra la piú ra- gionevole sulla scorta della data di consacrazione della chie- sa (1068). Dal punto di vista stilistico essi formano un gruppo omoge- neo con quelli delle chiese di Poliña (consacrata nel 1122), di Barbará e di Osormort; le figure della Caduta sono state inoltre paragonate a quelle di Hardham (Inghilterra) e al Cri- sto al Limbo di Saint-Jacques-des-Guéreta. (jg+sr). Sano di Pietro (Siena 1406-81). Nonostante le chiarificazioni sul corpus pit- torico di S, e sulla personalità del Maestro dell’Osservanza, rimane aperto il problema della sua formazione e dell’atti- vità giovanile. All’età di ventidue anni si iscrisse nel Ruolo dei pittori senesi. Dato che il suo nome compare nel registro subito dopo quello del Sassetta, e che i due artisti risultano pressoché contemporanei, è da escludere un alunnato di S presso la bottega del maestro cortonese. È certo però che i due pittori collaborarono strettamente all’esecuzione di al- cune opere o per l’allogagione delle stesse. Un documento del 1432 testimonia la presenza di S, in sostituzione del Sas- setta, per la stima della Madonna delle Nevi. Il senese, inol- tre, portò a termine alcuni dipinti lasciati incompiuti dal compagno: gli affreschi del tabernacolo di Porta Romana (1458-66) e il polittico per San Pietro alle Scale di cui ese- gui San Francesco (Siena, pn). Espliciti riferimenti al Sasset- ta sono evidenti nei dipinti eseguiti da S nel quinto decen- nio del Quattrocento: nell’Assunzione della Vergine e nel Po- littico dei Gesuati (datato 1444) della Pinacoteca senese (predella con Storie di san Girolamo: Parigi, Louvre). Dal 1445, il pittore fu impegnato a piú riprese nel Palazzo Pub- blico dove realizzò l’Incoronazione della Vergine (affresco ini- ziato da Domenico di Bartolo), San Pietro Alessandrino (1446) per la Biccherna e i dipinti con il Papa Callisto III

Storia dell’arte Einaudi (1453) e la perduta Annunciazione (1459). Di questi anni so- no anche i polittici firmati e datati rispettivamente 1447 e 1449, raffiguranti entrambi la Madonna col Bambino fra san- ti e quello di Montemerano (1458: Siena, pn). S rimase fe- dele alla cultura gotica senese riproponendone i moduli con sostanziale uniformità nel corso della sua lunga carriera. Ma la decadenza inventiva e il progressivo scadimento qualita- tivo che caratterizzano le opere di grande formato, viene ad- debitato dalla critica al consistente intervento dei collabo- ratori ai quali S dovette ricorrere per sopperire alle richie- ste di una clientela sempre piú numerosa. Soprattutto nelle opere tarde, dalla pala d’altare del Duomo pientino raffigu- rante la Madonna col Bambino fra i santi Maddalena, Filippo, Giacomo e Anna (1461-62) al Compianto su Cristo morto (fir- mato e datato 1481) del Monte dei Paschi di Siena, si evi- denzia quell’arcaismo iconografico e stilistico che tende a stereotiparsi nella ripresa di immagini sempre piú semplifi- cate e ieratiche. S si espresse invece con maggiore vivacità e piglio realistico nei dipinti di piccole dimensioni (Gradua- le del Duomo di Siena, 1471-72; Breviarum fratrum mino- rum, 1450-80: Siena, Biblioteca degli Intronati, cod. X.IV.2 ecc.) dove si rilevano finezze cromatiche e freschezza nar- rativa. (ebi). San Paolo Museu de Arte Istituito nel 1947, possiede la principale raccolta d’arte del Brasile e dell’America latina. Nel 1947 il senatore Assis de Châteaubriand ebbe l’idea di fondare un museo di grande ampiezza culturale. Sotto la direzione scien- tifica dello storico dell’arte P. M. Bardi, è stato riunito un considerevole patrimonio artistico. Le risorse necessarie so- no state fornite da numerose organizzazioni industriali, com- merciali e amministrative di San Paolo e da vari amatori d’arte. Le collezioni contengono numerose opere di pittura europea dal sec. xiv fino al sec. xx. Il museo ospita in particolare opere di Botticelli, Piero di Cosimo, Mantegna (San Girolamo), Perugino, Giovanni Bel- lini, Raffaello, Tiziano, Tintoretto, Bassano, Bronzino, Re- ni, Pietro da Cortona, Bernini, Magnasco, Tiepolo, Mem- ling, Bosch, Cranach, Hans Holbein (H. Howard), Rem- brandt (Autoritratto), Rubens, Frans Hals, van Dyck, El Greco, Velázquez (Ritratto del duca di Olivarès), Zurbarán,

Storia dell’arte Einaudi Murillo, François Clouet, Poussin (la Danza delle ninfe), Nat- tier (Ritratti delle quattro figlie di Luigi XV), Reynolds, Gain- sborough (Lord Hastings). Sono rappresentati pressoché tutti gli artisti importanti tra la fine del xviii e l’inizio dei xx secolo: Goya (il Cardinale don Louis di Borbone), Constable, Turner, Delacroix (le Quattro Stagioni), Ingres, Corot (la Gitana col mandolino), Daumier, Courbet, Manet, Monet, Renoir (Rosa e azzurro), Degas, Cé- zanne (il Negro Scipione, Ritratto della sig.ra Cézanne), Gauguin (l’Autoritratto sul Golgota), van Gogh (il Collegiale), Toulou- se-Lautrec (il Canapè), Bonnard, Vuillard, Matisse, Modiglia- ni (Ritratto di Zborowski), Pascin, Soutine, Picasso (l’Atleta), Léger, Friesz, Larionov, Max Ernst, Chagall, Miró, Lurçat. La collezione brasiliana raccoglie tele dei xix e xx secolo di Pedro Americo, Almeida jr, Annita Malfatti, Tarsila do Amaral, Di Cavalcanti, Segall, Portinari. Il museo svolge un ruolo importante nella vita culturale di San Paolo. Museu de Arte contemporânea da universidade Il mac è stato creato nel 1963 in seguito alla donazione all’Univer- sità di collezioni appartenenti al Museo d’Arte moderna (1200 opere ca.) e all’industriale Francisco Matarazzo So- brinho (400 ca.). È dunque l’erede del Museo d’Arte mo- derna della città, fondato nel 1948, e la cui Biennale, isti- tuita nel 1951, è oggi una fondazione privata ma sovven- zionata dallo Stato. Provvisoriamente è collocato in uno dei piani dell’edificio utilizzato per le Biennali. Le raccolte, che si sono arricchite negli ultimi anni, costituiscono il complesso piú importante di opere d’arte del sec. xx nell’America lati- na. I pittori stranieri rappresentati sono Modigliani, Picas- so, Braque, Matisse, Gleizes, Metzinger, Picabia, Masson, De Chirico, Kandinsky, Chagall, Severini, Balla, Carrà, Max Ernst, Arp, Grosz, Schwitters, Golyscheff, Baumeister, Ma- nessier, Lubarda, Appel, Bazaine, Sutherland, Campigli, Magnelli, Scott, Davie, Hartung, Soulages, Fontana. Tra gli artisti brasiliani citiamo Tarsila do Amaral, Annita Malfat- ti, Portinari, Segall, Di Cavalcanti, Ismael Nery, De Fiori, Vicente de Rego Monteiro, Gomide, Volpi, Guignard. Il mac persegue diverse attività culturali – esposizioni tempo- ranee, corsi, concerti e ha organizzato, per la prima volta in Brasile, una rete di mostre itineranti. (wz).

Storia dell’arte Einaudi Biennale di San Paolo Dedicata all’arte contemporanea, è stata inaugurata nel 1951, su modello della Biennale di Ve- nezia, e acquistò rapidamente prestigio mondiale. Il suo pro- gramma, assai vasto, è stato ripreso altrove, e particolar- mente dalla Biennale di Parigi: arti plastiche, teatro, archi- tettura, arti grafiche e del libro, che rappresentano opere sia dell’America latina che statunitensi ed europee. Accanto al- le selezioni nazionali, ciascuna esposizione pone l’accento sul lavoro di numerosi artisti, spesso poco conosciuti fuori dei loro Paesi (per esempio nel 1963 A. Gottlieb per gli Sta- ti Uniti e Nolde per la Germania). (sr). San Pietroburgo Fondata da Pietro il Grande nel 1703, la città (che si chiamò Pietrogrado dal 1914 al 1924, e da questa data sino alla re- centissima decisione, 1992, di ritornare all’antico patroni- mico, Leningrado) fu capitale della Russia dal 1712 al 1918, succedendo a Mosca, che lo ridivenne dopo la rivoluzione. Affidandone l’edificazione ad artisti stranieri, lo zar rifor- matore ne fece il simbolo dell’adeguamento del suo impero alla civiltà dell’Ovest europeo; nelle sue chiese e nei suoi pa- lazzi si radicò la pittura di tipo occidentale. Qui ebbe inizio l’insegnamento ufficiale delle belle arti, nell’Accademia che Pietro l’aveva progettato, che fu fondata da ·uvalov nel 1758 e cui Caterina II diede uno statuto modellato su quel- lo dell’Accademia di Parigi. Il paesaggio della SP classica ebbe come migliori interpreti, nella pittura, nell’incisione e nella litografia, G. Valeriani, M. Machaev, N. de Lespinasse, F. Alekseev, Silvestr ·ãe- drin e S. Galaktionov. Tre le antiche residenze imperiali con decorazioni pittoriche o quadrerie, citiamo il Palazzo d’Inverno con l’Ermitage, Pe- terhof (Petrodvorec), Carskoe Selo (Pu‰kin), Pavlovsk, Ga- licyna, Strelna, Oranienbaum (Lomonosov); e, tra i palazzi urbani della nobiltà, quelli di ·eremetev, Stroganov, ·uva- lov e Jusupov (→ Leningrado). (bl). Sanraku (nome d’arte di Kanÿ Mitsuyori; 1559-1635). Notato gio- vanissimo dallo shÿgun Hideyoshi, che lo mise a bottega presso Eitoku (di cui divenne l’allievo favorito e il figlio adottivo), S fu l’ultimo pittore giapponese di valore dell’epo-

Storia dell’arte Einaudi ca Momoyama. Il suo talento si espresse tanto in dipinti mo- nocromi di piccolo formato che in immense composizioni murali (1592: castello di Momoyama). Il Daikakuji di Kyo- to conserva molte sue decorazioni, monocrome alla manie- ra di Motonobu o policrome nello stile di Eitoku, che rap- presentano fiori, alberi o uccelli maggiori del vero, in com- posizioni sapientemente equilibrate benché leggermente convenzionali e talvolta un po’ rigide. Abilissimo nell’ap- plicare i suoi colori brillanti sull’oro (paravento dei Falconi: Tokyo, coll. Nishimura, dove il volume è indicato dalla ri- petizione di lunghe linee identiche), S si mostrò piú origi- nale verso la fine della sua vita per la stilizzazione sempre piú accentuata delle forme che compare soprattutto nel trat- tamento delle rocce e degli alberi tormentati, e rivela persi- no una certa tendenza all’astrattismo geometrico (porte scor- revoli del Tenkyin dei Myÿshinji di Kyoto, eseguite con l’aiuto del figlio adottivo, Sansetsu, 1633 ca.). Stabilitosi a Kyoto rifiutò di seguire gli shÿgun nel loro trasferimento a Edo (Tokyo); fu così all’origine della scuo- la Kanÿ locale, detta Kyÿ Kanÿ; il centro artistico si era spostato però a Edo con Tanny, capo della nuova scuo- la. (ol). Sanseverino A S, nonostante l’instabilità della situazione politica – la bre- ve signoria degli Smeducci (conclusasi nel 1426) fu seguita dall’occupazione di Francesco Sforza (1433 e 1444-45), fi- no al ritorno nello Stato della Chiesa –, fiorì agli albori del Quattrocento una importante scuola pittorica, pienamente partecipe del contemporaneo diffondersi del gotico inter- nazionale. Lorenzo e Iacopo Salimbeni ne sono i rappresen- tanti piú significativi: nei grandi cicli affrescati (San Loren- zo in Doliolo a S, Oratorio di San Giovanni a Urbino) le per- sonalità diverse dei due fratelli concorrono a formare un linguaggio in cui il preziosismo tardo- gotico si fonde con tratti di drammatico espressionismo. L’eredità dei Salimbe- ni fu raccolta da Ludovico Urbani e Lorenzo d’Alessandro, l’attività del quale giunge fino all’inizio del secolo successi- vo. Entrambi furono influenzati nella maturità dalla pittu- ra dell’umbro Niccolò di Liberatore e dal linearismo di Car- lo Crivelli. (mrv).

Storia dell’arte Einaudi Sansovino, Francesco (Roma 1521 - Venezia 1583). Figlio dell’architetto e scultore Jacopo S, si dedicò a studi storici di ogni genere. In numero- si scritti, dalla prosa brillante ma dal contenuto superficiale, ebbe spesso occasione di trattare monumenti od opere d’arte a Venezia, dove soprattutto abitò, e in altre città italiane. Si occupò anche di questioni teoriche riguardanti l’arte, come at- testa in particolare il libro L’edificio del corpo umano (Venezia 1550), privo di originalità e in qualche misura anacronistico in Italia, a quella data, poiché riprende la teoria vitruviana del- le proporzioni precisamente nel momento in cui essa veniva abbandonata per le concezioni soggettiviste di Michelangelo. Aderì invece pienamente allo spirito del suo tempo quando re- dasse, in comodo formato, il Dialogo di tutte le cose notabili che sono in Venezia (Venezia 1556), guida turistica della città sull’esempio di quelle che avevano già cominciato a circolare a Roma. La medesima idea, a scala italiana, viene realizzata nel Ritratto delle più nobili et famose città d’Italia (Venezia 1576), redatto in ordine alfabetico. Sua opera fondamentale resta però Venezia città nobilissima et singolare descritta in XIIII libri (Venezia 1581; riedizioni 1604 e 1663), contenente dati storici, di una ricchezza senza precedenti, sullo Stato vene- ziano, nonché una topografia della città con minuziosa de- scrizione delle chiese e delle opere d’arte in esse contenute. L’interesse dell’opera sta principalmente nella straordinaria ampiezza della documentazione, e anche nel fatto che l’auto- re sembra si sia servito del manoscritto completo di Marcan- tonio Michiel (Anonimo Morelliano), a noi giunto allo stato di frammento. Molte notizie sono tratte inoltre dalla seconda edizione delle Vite di Vasari. È una compilazione, anche se compromessa da molte e gravi inesattezze. (grc). Santa Croce, da Raggruppandosi in due distinte botteghe, un certo numero di pittori originari da SC, centro della valle Brembana in provincia di Bergamo, si stabilisce a Venezia tra la fine del xv e l’inizio dei sec. xvi. La piú nota delle due è quella che orbita intorno alla figura di Girolamo da SC (→ Girolamo da Santa Croce) e che prosegue la sua attività fino ai primi del Seicento con il figlio Francesco (1516-84) e il nipote Pie- tro Paolo (morto prima del 1620).

Storia dell’arte Einaudi La seconda bottega veneziana inizia la sua attività con Fran- cesco di Simone da SC (documentato a Venezia tra il 1497 e il 1508, anno della morte), il quale si avvale della collabora- zione di suoi conterranei: nel suo testamento infatti viene no- minato erede dei materiali di bottega il piú giovane Francesco di Bernardo Rizzo da SC (attivo dal 1504 al 1545); questi pro- seguirà l’attività in collaborazione con il fratello Vincenzo e il cugino Giovanni De Vecchi. L’attività di Francesco di Simo- ne, decisamente orientata verso un dettato stilistico di stret- ta osservanza belliniana, si ricostruisce a partire dalle opere firmate, tutte entro un ristretto arco cronologico: l’Annun- ciazione (1504: Bergamo, Accademia Carrara), il Trittico del Redentore (1506: ivi) e la Madonna in trono (1507: Murano, chiesa di San Pietro martire). Molte altre opere oscillano tut- tora, nella valutazione critica, tra il catalogo di Francesco di Simone e quello di Francesco Rizzo, per evidenti motivi lega- ti alla pratica di bottega: esemplare il caso delle repliche del tema della Epifania (quella già a Berlino, Kaiser Friedrich Mu- seum riconosciuta in genere al maestro piú anziano, e quelle di Verona, Castelvecchio e San Pietroburgo, Ermitage, date a Francesco di Bernardo). Tra le opere del maestro piú giova- ne, il quale tenta di adeguare la sua pittura alle alte sollecita- zioni dei contemporanei, ricordiamo l’Apparizione di Cristo ri- sorto, firmata e datata 1513 (Venezia, Accademia), tre fram- menti di un polittico commissionato nel 1517 con la Pietà, San Pietro e San Giovanni Battista (Serina, chiesa dell’Annuncia- ta), oltre ai due polittici a lui attribuiti nella chiesa di San Gio- vanni Battista a Dossena (Bergamo). (sba). Santafede, Fabrizio (Napoli, documentato dal 1576 al 1625; morto 1625/28). Certamente attivo già prima del 1576 – data del suo matri- monio – gli viene attribuita una formazione fiorentina nell’ambiente di Alessandro Allori e di Santi di Tito, com- binata con influssi di matrice veneta, quali cromatismi e con- trasti chiaroscurali ispirati a Leandro Bassano, Palma il Gio- vane e Sante Peranda. Lavorò a Napoli, nel viceregno me- ridionale e anche in Spagna. La sua vastissima produzione di pittura, esclusivamente devozionale, conta gli esempi piú significativi: la Madonna col Bambino, San Girolamo e il bea- to Pietro da Pisa (1591: Napoli, Santa Maria Incoronata a

Storia dell’arte Einaudi Capodimonte); la Natività (1592: già a Napoli, Santissima Annunziata, ora Capodimonte); la Madonna con i santi Be- nedetto, Mauro e Placido (1593: Napoli, Santi Severino e Sos- sio); la Deposizione (1601-603: Napoli, Monte di Pietà); la Resurrezione di Tabita (1612: Napoli, Pio Monte della Mi- sericordia). Nel 1625 ottenne la commissione degli affreschi per la cupola della cappella del Tesoro di san Gennaro, ma morì poco dopo senza poterla onorare. (rla). Santagostino La produzione dei due fratelli Giacinto (Milano, documen- tato dal 1646 al 1694) e Agostino (Milano 1635 ca. - Man- dello Lario (Como) 1706), frequentemente intrecciata, pren- de l’avvio dalla formazione svoltasi prima presso il padre Giacomo Antonio e poi, alla morte di questi (1648), nell’am- bito di Carlo Francesco Nuvolone, che rimarrà per entram- bi importante punto di riferimento. Ad Agostino – la cui prima opera datata è la Predica di san Pie- tro Martire (1670) per la chiesa del seminario di Seveso – si de- ve una vasta produzione di pale d’altare per varie chiese mi- lanesi (Sant’Alessandro, San Barnaba, Madonna dei Miraco- li) e per la chiesa di San Lorenzo a Mandello Lario, dove è attivo fra il 1684 e il 1706, anno della morte. Da ricordare an- cora il ritratto di Pietro Clerici (1672: Milano, quadreria dell’Ospedale Maggiore) e il David unto re, già in Palazzo Rea- le a Milano e oggi a San Marco, parte del ciclo in gran parte disperso per la Sala dei Senatori. Meno brillante di Agostino, il maggiore, Giacinto, trova accenti piú personali come ri- trattista (ritratti di Giovan Pietro Carcano, 1646; di Bartolo- meo Arese, 1669 e di Giuseppe Lampugnani, 1694: Milano, qua- dreria dell’Ospedale Maggiore), mentre nelle scene religiose in genere collabora con il fratello (teleri per San Fedele e af- freschi con Storie di Ester, 1683: Milano, Sant’Alessandro). Frutto della collaborazione fra i due fratelli è anche il libro L’Immortalità e Gloria del pennello, pubblicato nel 1671 e ri- preso in numerose ristampe: l’opera, prima guida artistica di Milano e quasi archetipo del genere, registra i piú impor- tanti dipinti presenti in chiese e collezioni della città. (cb). Santa Maria in Stelle, ipogeo di Tomba sotterranea presso Verona (val Pantena); si compo-

Storia dell’arte Einaudi ne di due camere funerarie scavate nel sec. iii; venne utiliz- zata dai cristiani fino ad epoca tarda (fine del sec. iv). La scoperta nel sec. xix di pitture paleocristiane, oggi restau- rate e sottoposte ad analisi stilistica hanno chiarito l’esi- stenza di due interventi diversi: le scene veterotestamenta- rie (i Tre fanciulli) e della vita di Gesú (Natività, Strage degli innocenti) attestano uno stile popolare (fine del sec. iv); l’im- magine del Collegio apostolico (fine del sec. v), collocata in un lunetta presso l’ingresso, è organizzata in una composi- zione più solenne, sensibile agli influssi dell’arte imperiale, com’è sottolineato dalla composizione geometrica della gre- ca rosso e oro che sostiene la scena, e dal sapiente tratta- mento della veste (porpora per il Cristo). (chp). Sant’Angelo in Formis La chiesa di San Michele arcangelo, a SA in Formis, con- serva uno dei cicli pittorici medievali piú importanti ed este- si dell’Italia meridionale, databile con sicurezza agli anni tra 1072 e 1086. Una prima chiesa, fondata sulle rovine di un tempio dedicato a Diana e accompagnata da un piccolo con- vento, esisteva già nel sec. x, dipendente, con alterne vi- cende, ora dal monastero di Montecassino ora dall’arcive- scovo di Capua. Nel 1065 l’edificio era nelle mani dell’arci- vescovo, Ildebrando, che lo cedeva al principe di Capua Riccardo I, desideroso di costruire un coenobium per la sal- vezza della sua anima, in cambio della chiesa di San Gio- vanni di Landepaldi. Il motivo e i termini precisi di questo scambio, con l’inventario dettagliato dei beni mobili di pro- prietà della chiesa di San Giovanni (reliquie, arredi, orefi- cerie, libri) sono riportati nel Regestum Sancti Angeli in For- mis (Montecassino, Archivio dell’abbazia, ms Cassinese Reg. 4), dove sono anche raffigurati il principe e l’arcivescovo mentre si scambiano i modellini delle due chiese, e dove San Michele arcangelo appare come un edificio a una sola nava- ta, preceduto da un portico a tre arcate, con campanile sul- la sinistra. Nel 1072 il principe dona la chiesa e il cenobio di San Michele, con tutte le sue pertinenze, all’abate di Mon- tecassino, Desiderio, che decide di ricostruirli completa- mente, tanto che in breve tempo il nuovo monastero è in grado di ospitare piú di quaranta monaci. La notizia di que- sta ricostruzione, trasmessaci sia dal Preceptum de rebus Sanc-

Storia dell’arte Einaudi ti Angeli (1089), sia dalla Chronica monasterii Casinensis, tro- va precisa conferma nel modellino della chiesa, tenuto in ma- no da Desiderio nell’affresco dell’abside maggiore di San Michele arcangelo, che diversamente da quello raffigurato nella miniatura del Regestum, è un edificio a tre navate, con un portico a cinque archi (a tutto sesto) e due colonne tor- tili, sostanzialmente una costruzione identica all’attuale, fat- ta eccezione per la posizione del campanile (ora a destra), per le colonne (tutte lisce), e per il profilo acuto degli archi, modificati durante un parziale rifacimento del portico, di cui peraltro ignoriamo la data. Il nimbo quadrato dei viventi intorno alla testa di Desiderio, e la scritta abbas, accanto al- le lettere superstiti del suo nome, forniscono sicuri termini ante quem per la costruzione e decorazione dell’edificio: il 24 maggio 1086, data della sua elezione a papa, e il 16 set- tembre 1087, data della sua morte. La chiesa è decorata da un ampio e articolato ciclo di affre- schi, restaurato di recente (1982-1992), con Storie del Nuo- vo Testamento nella navata centrale, distribuite su tre regi- stri e disposte, nel loro complesso, come nelle basiliche pa- leocristiane romane. Nella stessa navata centrale, sui pennacchi tra le arcate, sono dipinte figure di profeti con cartigli, i cui versetti rinviano con precisione alle scene cri- stologiche soprastanti, mettendo in opera quella «concor- dantia Veteris et Novi Testamenti», così diffusa nell’arte cristiana, nel caso specifico in formulazione singolarmente vicina a quella dei Vangeli siriaci del sec. vi, conservati a Rossano Calabro (Biblioteca e Archivio del Seminario e dell’Episcopio). Storie dell’Antico Testamento, oggi molto frammentarie, sono invece raffigurate, su due registri, sulle pareti delle navate minori e su quelle laterali della contro- facciata, che nella parte centrale reca la classica scena del Giudizio Finale, ripartito su cinque registri. Nell’abside mag- giore, infine, è raffigurato Cristo in trono tra i simboli degli evangelisti, quattro arcangeli (di cui uno sostituito nel sec. xiv da una figura di San Benedetto), e Desiderio che offre il modellino della chiesa, mentre nell’absidiola destra com- paiono la Vergine col Bambino tra due angeli e una teoria di sei Sante martiri, e in quella di sinistra, simmetricamente, Cristo tra Pietro e Paolo (?), e sei santi martiri. Il recupero della decorazione dell’absidiola sinistra, fino a pochi anni fa data per perduta, è indubbiamente il risultato piú significa-

Storia dell’arte Einaudi tivo di quest’ultima fortunata campagna di restauri, che non è valsa però ad annullare i guasti provocati, negli anni ’30, da un incauto lavaggio che ha asportato tutte le velature a tempera in un’ampia zona della navata centrale (dalla parte destra della Crocifissione fino all’Ascensione, comprese le fi- gure dei Profeti), alterando irrimediabilmente la gamma cro- matica originaria. A un ciclo così ampio (complessivamente un centinaio di sce- ne, di cui una sessantina oggi superstiti), ha lavorato un uni- co atelier locale, di forte impronta bizantineggiante, tem- perata da marginali apporti occidentali, all’interno del qua- le si riescono a isolare diverse personalità, di cui alcune piú significative. La critica è pressoché concorde nel ritenere che si tratti di pittori campani, seguaci di quei maestri bizanti- ni chiamati da Desiderio a Montecassino, tra 1066 e 1071, per lavorare nella nuova chiesa abbaziale, maestri che per precisa volontà dell’abate dovevano non solo prestare la lo- ro opera, ma anche istruire i monaci nelle tecniche artisti- che («quell’uomo pieno di sapienza decise che molti giova- ni del monastero fossero con ogni diligenza iniziati a tali ar- ti», riferisce appunto la Chronica). Purtroppo non siamo piú in grado di sapere in che misura il ciclo di San Michele ar- cangelo dipendesse dalla decorazione (pittorica e a mosaico) della chiesa abbaziale di Montecassino, oggi purtroppo per- duta, ma restano comunque evidenti i legami con la minia- tura cassinese coeva e in particolare con le illustrazioni del sontuoso Lezionario vaticano (bv, cod. Vat. Lat. 1202), fat- to eseguire da Desiderio intorno al 1071 (o poco dopo), pro- prio per la rinnovata chiesa abbaziale. Gli affreschi del portico (due lunette centrali, sovrapposte, con la raffigurazione di San Michele e della Madonna Regina, e quattro lunettoni con Storie degli eremiti Paolo e Antonio), appartengono invece a una successiva campagna decorativa, che si può fissare, su basi stilistiche, per i confronti con la pittura macedone e con i mosaici di Monreale, alla fine del sec. xii. In passato le due lunette centrali caratterizzate da una «purezza formale» fortemente arcaizzante, hanno trat- to in inganno piú di uno studioso, che le ha ritenute di epo- ca desideriana, anzi direttamente eseguite da un artista co- stantinopolitano, viste le innegabili somiglianze con le mi- niature del noto codice parigino, databile al 1080 ca., delle

Storia dell’arte Einaudi Omelie di Giovanni Crisostomo (bn, ms Coislin 79). Men- tre esame piú attento rivela l’esistenza di precisi e stringen- ti rimandi stilistici tra le due lunette e le Storie degli eremi- ti, che ne provano evidentemente la contemporaneità, con- fermata d’altra parte dal fatto che la lunetta con la Madonna Regina, staccata nel 1956 e ricollocata in situ nel 1992, do- po essere stata restaurata, è risultata di secondo strato, di- pinta sulle ormai labili tracce di una precedente lunetta di età desideriana. (csm). Santa Rita Corozal Tempio maya nel Belize (x-xii secolo), situato non lontano dal mare e dalla frontiera con lo Stato di Quintana Roo, fu scoperto alla fine del sec. xix e conserva tuttora importanti pitture murali, dai colori brillanti. L’affresco della parete settentrionale rappresenta una processione di dieci perso- naggi, uomini religiosi e divinità, celebranti la fine di un ka- tun (ciclo di vent’anni del calendario maya). Lotte e com- battimenti sono dipinti sulla parete orientale, mentre una rappresentazione funebre è raffigurata sul muro occidenta- le: un tamburo decorato con una maschera del dio delle mor- te è percosso con un bastone da una divinità che agita nell’al- tra mano un bastone a sonagli; una seconda divinità regge tra le mani la testa d’una vittima sacrificale. La grande abi- lità degli artisti si rivela nella delicatezza raffinata del trat- to e nella sobrietà dei colori. Il rosso, l’ocra e il marrone s’al- ternano con il blu e il verde; il bianco puro è poco utilizza- to; le figure sono evidenziate da un leggero tratto nero. A causa della luminosità dei toni impiegati e della fisionomia dei personaggi rappresentati, vicini allo stile tolteco, queste pitture appartengono, con tutta probabilità, al periodo maya-tolteco (x-xii secolo). (sls). Santerre, Jean-Baptiste (Magny-en-Vexin 1658 - Parigi 1717). Allievo del ritratti- sta François Lemaire, poi di Bon Boullogne, fu accolto nell’Accademia nel 1704 con una Susanna al bagno (Parigi, Louvre). Il sovrano gli ordinò allora per la cappella di Ver- sailles un’Estasi di Santa Teresa (1709: in situ), memore for- se della scultura di Bernini. Precedendo Nattier nel genere dei ritratti di fantasia, ha lasciato in numerose effigi allego- riche o familiari la testimonianza di un’originale sensualità,

Storia dell’arte Einaudi che si esprime attraverso una fattura levigata basata su toni grigi e freddi: Due attrici (1699), Giovane donna con velo (1699: San Pietroburgo, Ermitage), Ritratti di donna (1701: Museo di Valenciennes), Maria Adelaide di Savoia, duchessa di Borgogna (1709: Versailles). (cc). Santi, Giovanni (Colbordolo 1440 ca. - Urbino 1494). La prima notizia del S risale al 1469, quando è incaricato dalla Confraternita del Corpus Domini di Urbino di provvedere al soggiorno in città di Piero della Francesca, che doveva eseguire per la confra- ternita la pala poi affidata a Giusto di Gand. Cresciuto nello straordinario clima di cultura internazionale creato da Federico di Montefeltro, S divenne direttamente partecipe dell’ambiente di corte con l’avvento di Guidobal- do (1482). All’ultimo decennio della sua vita appartiene la maggior parte delle opere del S (Madonna e santi, 1484: Gra- dara, Palazzo comunale; Madonna e santi, 1488: Frontino, convento di Montefiorentino; Madonna e santi: Urbino, gn delle Marche; i Sei apostoli: ivi e le Muse: Firenze, Gall. Cor- sini, queste ultime due a lungo di discussa attribuzione). Di- ligenza, perspicuità, delicata espressione sentimentale sono qualità della pittura di S che, non senza impacci e arcaicismi, riecheggia l’impressione suscitata dai grandi maestri attivi a Urbino e in altri centri delle Marche, da Piero a Giusto di Gand a Melozzo, da Vivarini a Bellini, a Perugino. A que- st’ultimo affiderà il compimento del tirocinio del figlio Raf- faello. S è autore di una Cronaca rimata (1492), dedicata a Guidobaldo, che celebra le gesta di Federico e che comprende un Elogio della pittura, in cui si rispecchia il gusto artistico della corte urbinate e l’acutezza di giudizio e l’ampia infor- mazione di S in fatto d’arte. Vi compaiono i protagonisti sia italiani che nordici della pittura e della scultura del Quat- trocento, da Gentile a Masaccio, da van Eyck a van der Wey- den, da Pisanello a Domenico Veneziano, da Ghiberti a Do- natello, da Pollaiuolo a Perugino. (sr). Senti di Tito (Borgo San Sepolcro 1536 - Firenze 1603). Si formò dap- prima presso il Bronzino e poi presso il Bandinelli a Firen- ze, dove nel 1554 risulta iscritto all’Accademia di San Lu-

Storia dell’arte Einaudi ca. Un soggiorno a Roma, tra il 1558 e il 1564 determinò una svolta fondamentale nell’orientamento delle sue ricer- che. In particolare, dovette suscitare il suo interesse quella tendenza «classicista» della pittura romana che, rivolgen- dosi soprattutto alle opere di Raffaello, ricercava un nuovo equilibrio formale e una nuova chiarezza narrativa, tenden- za di cui Taddeo Zuccari era proprio in quegli anni il mag- giore esponente. A Roma SdT dipinse ad affresco la cappella del palazzo del cardinale fiorentino Bernardo Salviati alla Lungara (1559) e poi partecipò ad alcune imprese decorati- ve nei Palazzi Vaticani insieme ad altri giovani prometten- ti pittori: Casino di Pio IV (1561-63), con Barocci, Federi- co Zuccari e altri; Sala grande del Belvedere, Storie di Na- bucodonosor (1562-64), con il conterraneo Giovanni De’ Vecchi e con Niccolò Circignani, anche lui di origine tosca- na. Tornato a Firenze, si inserisce nell’ambiente artistico mediceo dominato dalla personalità del Vasari, con il quale era già stato in rapporto nel ’55. L’esperienza romana, il rin- novato contatto con Bronzino e con i maestri fiorentini del primo Cinquecento, un viaggio a Venezia, ricordato dal Bal- dinucci e databile al 1571-72, improntano in diversa misu- ra le opere fiorentine fra il settimo e l’ottavo decennio (Re- surrezione, 1565: Santa Croce; Madonna e santi, 1566: Ognis- santi; Natività, 1568: San Giuseppe; Bene scripsisti de me Thoma: Museo di San Salvi; Cena in Emmaus: Santa Croce). Nel 1570 SdT partecipa alla decorazione dello Studiolo di Francesco I (Le sorelle di Fetonte, Ercole e Iole, Passaggio del mar Rosso), in cui è evidente la distanza che lo separa dagli altri collaboratori del raffinato progetto vasariano. Il diret- to ricorso ai grandi maestri del primo Cinquecento fiorenti- no, da Michelangelo a Fra Bartolomeo, ad Andrea del Sar- to, la chiarezza compositiva, la lucidità narrativa e la sobria intonazione espressiva sono fra i fondamenti della «rifor- ma» di SdT che avrà importanti conseguenze negli sviluppi della pittura fiorentina. Nella ricerca di una maggiore natu- ralezza e misura SdT poté essere incoraggiato anche dalla presenza a Firenze (1574-79) di Federico Zuccari, incarica- to di portare a termine la decorazione della cupola del Duo- mo fiorentino interrotta dalla scomparsa del Vasari. Dalla metà degli anni Settanta si scalano opere come la Pentecoste di Dubrovnik, la Resurrezione di Lazzaro di Santa Maria No- vella; l’Assunta del Carmine a Pisa; le Storie di san Domeni-

Storia dell’arte Einaudi co nel chiostro grande di Santa Maria Novella, caratteriz- zate da una accostante espressione del sentimento devoto, da una semplificazione degli schemi compositivi, dalla fe- deltà ai modelli rinascimentali. Con SdT si manifesta, dun- que, a Firenze una variante di quella tendenza, che interes- sa altri centri della pittura italiana nel corso della seconda metà del secolo, al superamento delle fasi piú astraenti e so- fisticate del manierismo, tendenza che è anche in rapporto con le esigenze di un’arte sacra rispondente alla rinnovata religiosità diffusasi durante e dopo il Concilio di Trento. Da questo punto di vista non è da trascurare anche la vicenda della religiosità dell’artista, membro della Congregazione dei Contemplanti dei nobili, poi nota come di San Tommaso d’Aquino, per la quale dipinse la Visione di san Tommaso d’Aquino (1593: Firenze, San Marco). La ricerca di piú na- turali effetti di colore e di luce timbra alcune importanti ope- re degli ultimi decenni del secolo (Crocifissione: Santa Cro- ce; Orazione nell’orto: Santa Maria Maddalena de’ Pazzi). Nella sua ultima attività, svolta anche in collaborazione con il figlio Tiberio, lavorò, oltre che per Firenze anche per al- tri centri della Toscana. All’infaticabile attività grafica di SdT dedicò ampio spazio nella Vita da lui dedicata all’arti- sta il Baldinucci, che fu collezionista di suoi fogli così come il cardinal Leopoldo de’ Medici. Numerosi studi e finitissi- mi cartonetti di SdT sono conservati agli Uffizi e al Louvre. (sr). Santimamine La decorazione della vasta caverna di S, località spagnola della Biscaglia, presso Bilbao, è stata scoperta nel 1916; al- cuni scavi rivelarono livelli archeologici successivi databili dall’Aurignaciano al Maddaleniano recente. In particolare sono ornate le pareti di una camera circolare e i corridoi che ad essa conducono. Annunciata da alcuni punti neri, una pri- ma composizione sul tema cavallo-bisonte è completata da una testa di bovide. Un pannello di tracce confuse, nel qua- le si distinguono tracce di incisioni di bisonti, sembra corri- spondere alla consueta zona di raschiature che precede la composizione principale, la quale raggruppa sette bisonti di- pinti a contorno nero, spesso e modellato; due di essi sono verticali, il che sembra rivelare un tema mitico frequente-

Storia dell’arte Einaudi mente ripreso nel santuario di S, poiché altri tre bisonti, di- pinti in un crepaccio, sono anch’essi in posizione verticale mentre un’altro è rovesciato. Cavalli, stambecchi, un orso completano un insieme che contiene numerosi altri dipinti ormai indistinti. Lo stile è omogeneo e consente di parago- nare i bisonti a quelli di Altamira e di Niaux, assegnabili al- lo stile IV antico di Leroi-Gourhan. (yt). Santo Domingo SD, capitale della Repubblica Dominicana, è estremamente povera in fatto di pittura: come prima colonia spagnola vi è stata edificata anche la prima cattedrale. Qui vi si conserva la «reliquia» piú antica della pittura coloniale: una copia del- la celebre Virgen de la Antigua della Cattedrale di Siviglia – tanto venerata dai navigatori spagnoli – accompagnata da due donatori. Risale probabilmente agli ultimi anni del sec. xv. (pg). Santomaso, Giuseppe (Venezia 1907-90). Avviato dal padre al mestiere di orafo, ben presto S manifesta una predisposizione alla pittura esor- dendo nelle collettive della Fondazione Bevilacqua La Ma- sa di Venezia (1927). Successivamente studia all’Accademia e frequenta lo scultore Viani. Nel ’34 è presente alla Bien- nale (con l’opera Figura). Nel ’37, in seguito a un suo sog- giorno ad Amsterdam, rimane affascinato dall’uso del colo- re in van Gogh e si orienta verso un impasto cromatico di matrice espressionista. Nel ’39 tiene la sua prima personale a Parigi (Galerie Rive Gauche). Agli inizi degli anni Qua- ranta dipinge soprattutto nature morte (Natura morta con bucranio, 1941; La brocca di peltro, 1943) che risentono del cubismo di Braque e dell’acceso cromatismo matissiano. Nel ’46 sottoscrive a Venezia il manifesto della Nuova Seces- sione Artistica Italiana, in seguito Fronte Nuovo delle Ar- ti, e partecipa alla prima mostra del gruppo presso la Galle- ria della Spiga di Milano. Da un soggiorno nella casa di campagna del critico Marchio- ri, nasce la serie delle Finestre che presenterà alla Biennale nel ’48. Intanto espone a Stoccolma, con Afro e Birolli. Nella polemica che infuria in Italia fra figurativismo e astrattismo, S interviene affermando che «l’immagine creata dall’artista non dipende dalle apparenze fenomeniche della realtà». In-

Storia dell’arte Einaudi sieme al gruppo del Fronte espone in diverse città all’estero e al moma di New York (1949). Nel ’51 affresca il Palazzo Antenore di Padova. Presentato da Lionello Venturi, rientra nel raggruppamento degli Otto (Afro, Birolli, Corpora, Mo- reni, Morlotti, S, Turcato, Vedova) alla xxvi Biennale. In opere come Piccolo cantiere (1952) S coniuga la poetica sur- realista di Miró con delle linee-vettore che si propagano in piú direzioni. La griglia, fortemente segnata e di ascendenza cubista dei quadri precedenti (quella ad esempio della serie delle Finestre), è accantonata. L’artista si avvicina in questi anni a un astrattismo organico, grafico, nervoso (Il muro del pescatore, 1954). Nella seconda metà degli anni Cinquanta, i colori s’imbevono di luce, la struttura del quadro scompare (Neri e rossi del canale, 1958) e S tocca le sponde dell’infor- male. Nel ’59 espone a Documenta 2 e nel ’6o, lo sm di Am- sterdam e il Palais des beaux-arts di Bruxelles gli dedicano ampie antologiche. Negli anni Sessanta s’intensifica la ri- cerca sulla luce di S, le opere diventano vere e proprie archi- tetture luminose. S essenzializza le forme fino ad arrivare al cielo delle Lettere a Palladio (1977), che esporrà alla Fonda- zione Miró di Barcellona nel ’79. Questo percorso si ap- profondisce negli Spazi grigi (1982). Il problema centrale è ora quello della visione, i colori oscillano tra la concretezza del- la materia e il tonalismo (Arco e azzurro, 1989). S ha tenuto mostre in tutto il mondo e subito dopo la sua morte (1990), la Pinacoteca Rusca di Locarno gli ha dedicato un’importan- te retrospettiva. (adg). Santorini (Thera). La civiltà minoica, al suo massimo fulgore nel ii mil- lennio, si espande nelle isole del Mar Egeo (Rodi, Melos, Ci- tera) che recano testimonianze dell’insediamento dei crete- si. Tra queste, la piú famosa è certamente S, situata un cen- tinaio di km a nord di Creta, nelle Cicladi. È particolarmente notevole per la sua spettacolare configurazione vulcanica, do- vuta alla formidabile eruzione che annientò l’isola – e deva- stò Creta, con il successivo maremoto – verso il 1500 a. C. I difficili scavi sotto metri di lava, intrapresi a partire dal 1962, hanno rivelato l’esistenza di un’importante centro che riproduce lo schema tradizionale delle città cretesi. Ancor piú straordinari sono gli affreschi trovati in situ sulle pareti del-

Storia dell’arte Einaudi le case. Restaurati e poi provvisoriamente esposti al Museo di Atene, costituiscono un complesso eccezionale di nume- rose stanze. Il piú completo è l’Affresco dei gigli, che copre in- teramente le tre pareti di una stanzetta (m 2,20 × 2,60): su una base di rocce nere, rosse, verdi e gialle si dispiega una di- stesa fiorita di grandi gigli, a gruppi di tre, dagli steli giallo e dai fiori rossi, che si staccano brillantemente sul fondo bian- co; tra i fiori volano le rondini. Nelle altre stanze, conserva- te un po’ meno bene, sono raffigurate scene con Scimmie az- zurre, Bambini che fanno a pugni, Sacerdotesse. Sia per il re- pertorio delle immagini che per la finezza e morbidezza dei disegno e per la vivacità del colore, questi affreschi s’inscri- vono perfettamente nella tradizione cretese. Nell’isola, nella località di Piskopi, sono conservati affreschi del sec. xii nella chiesa eretta sui resti di un’antica basilica paleocristiana. (mfv + sr). Santvoort I tre fratelli erano figli di Dirck Pietersz Bonepaert, nipote di Pieter Aertsen e pronipote di Pieter Pietersz. Abraham Dircksz van S (? 1624 ca. - Chaam 1669), citato nel 1639 a Bruxelles e nel 1644 ad Amsterdam, dipinse so- prattutto soggetti storici, ma fu anche incisore ed editore; operò a Breda dal 1648 al 1653. Dirck Dircksz S, detto Bontepaert (Amsterdam 1610/11 - 1680). Allievo del padre, poi di Rembrandt, fu maestro al- la gilda di San Luca di Amsterdam nel 1636, poi ispettore nel 1658. Dipinse alcune scene religiose: i Pellegrini di Em- maus (1633: Parigi, Louvre), direttamente derivati dall’arte del maestro, ma eseguì soprattutto ritratti, notevoli per la sobrietà e la semplicità quale il Giovane pastore che suona il flauto (1632: Rotterdam, bvb), il Ritratto di fanciulla (Lon- dra, ng), il ritratto di Frédéric Dircksz (1640), di Martinus (1644) e Clara Alewijn, di Due reggenti e due direttrici dello Spinhuis di Amsterdam (1638: Amsterdam, Rijksmuseum) e infine un Ritratto d’uomo e un Ritratto di donna (1640: L’Aja, Mauritshuis). Pieter Dircksz van S, detto Bontepaert (Amsterdam intor- no al 1603 ca. - 1635), fu unicamente paesaggista; per le to- nalità cromatiche si accostò allo stile di van de Velde, anti- cipando quello di Molyn: Paesaggio con fattoria (1625: Ber-

Storia dell’arte Einaudi lino, sm, gg), Paesaggio invernale (Haarlem, Museo Frans Hals). (jv). San Vincenzo al Volturno La cripta-oratorio di San Lorenzo, a pianta cruciforme, di- pinta con affreschi risalenti agli anni 826-43, epoca dell’aba- te Epifanio, ritratto ai piedi del Cristo nella scena della Cro- cifissione con la Vergine e san Giovanni, è quanto rimane, insieme a non molti altri resti, del complesso abbaziale di SV al Volturno, fondato, come ricorda il Chronicon Vol- turnense, dai tre nobili beneventani Tato, Taso e Paldo e parzialmente distrutto in seguito a un assalto saraceno il 10 ottobre 881.Gli affreschi, riscoperti intorno al 1880, illu- strano con una narrazione discontinua e con tratti forte- mente espressivi alcuni episodi evangelici (Annunciazione, Natività, Crocifissione, Marie al Sepolcro) intercalati da im- magini della Maestà della Vergine e di Cristo, della Madonna col Bambino, degli Arcangeli, della Processione delle sante Ver- gini, e dalle scene del Martirio dei santi Lorenzo e Stefano. Di epoca diversa è l’inserto con i tre busti di Santi sotto la Ver- gine col Bambino. Una singolare capacità di figurazione che permette l’accostamento di soggetti talora assai distanti te- maticamente; il gusto per una rappresentazione dello spazio in profondità a cui concorrono anche, nell’impianto delle scene, un sistema di quinte, inquadrature o singoli elemen- ti architettonici; la caratterizzazione espressiva dei perso- naggi e dei loro sentimenti; l’utilizzazione del colore e di una luce bianca come mezzi per dare consistenza plastica alle for- me: questi i caratteri salienti che fanno degli affreschi, esem- pio unico e qualitativamente tra i piú alti nel panorama del- la coeva produzione pittorica della penisola. L’unicità delle pitture volturnensi risiede nell’aver continuato e portato ad altissimo livello le medesime qualità d’arte espresse circa un secolo prima negli affreschi delle absidi della chiesa bene- ventana di Santa Sofia eretta per volere di Arechi II e de- corata intorno al 760 ca., ovvero in una data assai prossima alla fondazione. L’impronta dei piú antichi sui piú recenti è di tale rilevanza da rendere verosimile l’ipotesi dell’esisten- za di un vasto movimento artistico che irradiatosi dalla ca- pitale del ducato longobardo abbia interessato anche i cen- tri monastici del Volturno e di Montecassino, strettamente

Storia dell’arte Einaudi dipendenti da Benevento, e abbia mantenuto intatta la sua vitalità ancora nella miniatura beneventana del sec. x (Exul- tet Vat.9820 , Benedictio Fontis e Pontificale pro ordinibus conferendis della Casanatense di Roma), L’origine di questa cultura, individuabile come beneventana per la coincidenza cronologica e territoriale con l’importante fenomeno paleo- grafico della scriptura beneventana, va ricercata in Oriente, ma non tanto in ambito bizantino quanto in quello siria- co-palestinese, giacché indubbi sono i riscontri sia icono- grafici, sia stilistici che si possono proporre con opere ap- partenenti a quei contesto culturale. D’altra parte è stata storicamente accertata l’esistenza di rapporti tra il ducato longobardo e l’area mediterranea della Siria-Palestina. I le- gami con l’arte carolingia, che sono stati pensati come esclu- sivi, vanno rivisti alla luce delle considerazioni su accenna- te, giacché se è rilevabile l’evolversi di entrambe le aree cul- turali su una comune matrice orientale, questa deve essere stata assimilata in modo autonomo e parallelo – si pensi al- le analogie di risultati a cui sono pervenuti gli artefici degli affreschi del Volturno e quelli delle chiese di Münster e Mal- les – e anzi con la precedenza dei fatti beneventani su quel carolingi. (rt). SÇnwala (seconda metà del sec. xvi). Attivo durante il regno dell’im- peratore moghul Akbar (1556-1605), è citato da Ab’l Fazl nel suo Ain-i Akbari tra le figure di spicco dei laboratorio imperiale. Partecipò alla decorazione di tutti i grandi ma- noscritti prodotti in quest’epoca. La sua finezza di disegno e la delicatezza del colore, nel piú puro stile della scuola di Akbar, si possono apprezzare in pagine come Il boscaiolo uc- ciso per errore, illustrazione dell’AnwÇr-i-Suhaili del 1597 (Be- nares, Bharat Kala Bhavan), o nell’Adamo nel paradiso ter- restre, del D¥vÇn di ©Çfiž (Rampur, Raza Library). (jfj). Sanzio (Santi), Raffaello → Raffaello Sapunov, Nikolai Nikolaieviã (Mosca 1880-1921). Dopo aver studiato presso la Scuola di pittura, scultura e architettura di Mosca, segue i corsi dell’Accademia di belle arti a San Pietroburgo. S’interessa assai presto di teatro e, ancora studente, realizza scene per

Storia dell’arte Einaudi il Bol´‰oj in base agli schizzi di Korovin. Operò con Meier- chold, cui fornì le scene di Hedda Gabler di Ibsen (1906) e del Venditore ambulante di Blok (1907). Le sue ultime sce- nografle (Un borghese tra la nobiltà, 1911: Mosca, teatro Niezlobin; la Principessa Turandot, 1912: ivi) sono notevoli per l’elemento pittoresco; i suoi costumi sono spesso ritrat- ti moscoviti, truculenti e dai colori violenti. (bdm). Saraceni, Carlo (Venezia 1580 ca. - 1620). Lasciò Venezia alla fine del Cin- quecento per recarsi a Roma (1598). Qui, dopo un breve alunnato nella bottega dello scultore vicentino Camillo Ma- riani, si accostò all’ambiente «scapigliato» e inquieto che aveva nel Caravaggio l’idolo e il maestro, come documenta nel 1606 il secondo processo intentato dal Baglione, nel qua- le il S viene definito «aderente» del Merisi. Il Riposo du- rante la fuga in Egitto (1606: Frascati, Eremo dei Camaldo- lesi) mostra come le fondamentali esperienze caravaggesche vengano moderate dalla funzione tutta veneziana della luce e come, già in queste prime opere, Carlo opponga al tempe- ramento drammatico del maestro una visione piú intimisti- ca e patetica. Giustamente perciò Giulio Mancini scrisse, in- torno al 1620, che «solo in parte» il S poteva considerarsi della «schola» di Caravaggio. Della cerchia dei caravagge- schi della prima generazione egli fece parte sino al punto che spesso le sue opere furono confuse con quelle dell’Elsheimer o del Gentileschi; col primo soprattutto, che aveva portato dal Nord un gusto romantico del paesaggio, spesso nottur- no e idillico, congeniale alla sensibilità del S. Accadde così per i sei piccoli rami con Scene mitologiche (Napoli, Capodi- monte), già dati all’Elsheimer e restituiti poi al veneziano (Voss 1924): lo scenario è tipicamente elsheimeriano, com- posto da specchi abbaglianti e immoti di acque, da masse compatte di vegetazione, scolorante dai verdi cupi ai grigi teneri. La bella pala con la Madonna, il Bambino e sant’An- na (Roma, gnaa), da collocare intorno al 1610, segna il pas- saggio ad opere piú calme, come la Predica di san Raimondo (ante 1614: Roma, curia generalizia dei Mercedari), ove il caravaggismo interpretato in senso neogiorgionesco trova la tenerezza d’accordi e la liricità sottile, che sono le qualità piú vere del S. L’incantesimo della luce lunare e il silenzio-

Storia dell’arte Einaudi so raccoglimento del San Rocco curato dall’angelo (Roma, Gall. Doria-Pamphilj) e la suggestione misteriosa che ema- na la Giuditta con la testa di Oloferne (Vienna, km) ricon- fermano il «venezianismo» e il «post-giorgionismo» di Car- lo, che negli effetti notturni del quadro di Vienna anticipa i chiaroscuri dell’Honthorst. Un piú profondo coinvolgi- mento in senso caravaggesco appare nelle tre tele (1613-14) inviate alla Cattedrale di Toledo (Martirio di sant’Eugenia, Santa Leocadia in carcere, Vestizione di sant’Ildefonso); alla fase finale dell’attività romana del S appartengono Il mira- colo di san Benno e il Martirio di san Lamberto (1618: Roma, chiesa di Santa Maria dell’Anima), che dichiarano un evi- dente ritorno stilistico al Caravaggio giovane. Tuttavia que- sto ardente caravaggesco tanto piú esprime se stesso, quan- to meno obbedisce alla cultura nella quale si è entusiastica- mente immerso: incline all’intimismo e all’abbandono, egli è un interprete piú sommesso di quanto nel maestro è dram- ma e violenza. Il dolore disperato della Morte della Vergine del Merisi diviene elegia nel San Carlo che comunica un ap- pestato (Cesena, chiesa dei Servi), che pure trova nella tela caravaggesca il sublime precedente; la luce che là incide, aspra e improvvisa, qui si diffonde morbida e si placa a sfu- mare, anziché a segnare, i limiti delle parvenze. Nel 1612 egli era stato incaricato di fornire un dipinto che sostituisse quello rifiutato al Merisi in Santa Maria della Scala; la tela oggi in loco tuttavia è una seconda versione del soggetto (la prima, non accettata dai frati perché di iconografia non del tutto ortodossa, è adesso esposta all’Art Institute di Chica- go). Nel 1619 il S torna a Venezia accompagnato dall’allie- vo Jean Le Clerc di Nancy; benché Venezia fosse imprepa- rata, ferma com’era ai modi del tardo manierismo, a riceve- re le novità rivoluzionarie delle quali si era fatto banditore, pure fu stimato e ammirato. L’ultimo dipinto di sua mano, San Francesco in estasi (Venezia, chiesa del Redentore), è una visione contenuta, tutta stesa in un cromatismo pastoso, del suo mondo umanissimo e tenero. La grande tela di Palazzo Ducale con il Doge Dandolo che incita alla crociata spetta al S nella struttura compositiva, mentre le figure rispondono alla sensibilità piú descrittiva del Le Clerc, che la firmò. Lo stesso Le Clerc terminò probabilmente anche la smagliante pala con l’Annunciazione di Santa Giustina (Belluno). I rap- porti di S con l’ambiente francese furono costanti e incisi-

Storia dell’arte Einaudi vi: oltre al Le Clerc, fu suo allievo Guy François, cui ven- gono oggi riferiti pressoché concordemente due dipinti un tempo ritenuti tra i capolavori del veneziano, Santa Cecilia e l’angelo (Roma, gnaa) e La bottega di Giuseppe (Hartford, Wadsworth Atheneum). Probabilmente francese è inoltre l’artista convenzionalmente definito «Pensionante del S», cui spetta un gruppo di dipinti (Postpasto: Washington, ng; Cristo tra i dottori: Roma, pc; Negazione di Pietro: Roma, pv) strettamente dipendente dai suoi modi piú intensamente «caravaggeschi». (mcv + sr). Saragozza Capitale dell’antico regno d’Aragona e suo unico centro pit- torico, conserva numerose testimonianze della storia pitto- rica aragonese. Infatti tranne poche eccezioni nelle chiese (nella Basilica del Pilar, il prezioso trittico del Cenacolo dell’andaluso Alejo Fernández; nella chiesa della Manteria, i dipinti decorativi del madrileno Claudio Coello), e nelle sa- le del sec. xix dei museo, i dipinti piú interessanti sono tut- ti aragonesi o, per l’epoca medievale, catalani. Il mba consente di seguire lo sviluppo cronologico della pit- tura in Aragona. Fondato nel 1835, occupa dal 1911 un gran- de edificio costruito al centro della città per la mostra che commemorò il centenario dell’assedio del 1808-809. La col- lezione di primitivi, già di notevole importanza nel 1936, si è arricchita in particolare dopo la guerra civile, grazie ai di- pinti salvati dalla distruzione di chiese rurali (Retablo del Salvatore di Puebla de Castro, retablo di Lanuja ecc.). Nu- merosi dipinti del xiv e del xv secolo (Vergine dell’arcive- scovo Mur, opere di Huguet, Juan de la Abadìa, Martin de Soria) s’inquadrano tra due opere di prim’ordine, docu- mentate e datate: il Retablo della Resurrezione, proveniente dal convento del Santo Sepulcro di Jaime Serra, opera cata- lana di stile senese (1361), e il rude e potente retablo di San- ta Cruz de Blesa (Passione e Invenzione della Croce), degli ara- gonesi Bernat e Ximenez (1485). La pittura manierista del sec. xvi è rappresentata dall’Epi- fania di Roland de Mois e dal Retablo della Vergine di Jero- nimo Cosida. Ma la sala di pittura barocca merita maggiore attenzione contenendo i grandi dipinti monastici di Jusepe Martinez (San Pietro Nolasco), del figlio Antonio, il certosi-

Storia dell’arte Einaudi no di Aula Dei del quale si conserva anche un eccellente Au- toritratto e del navararrino-aragonese Verdusán (Storia di san Bernardo). Il sec. xviii raccoglie un gruppo di ritratti di Mengs (l’erudi- to e archeologo aragonese Nicolas de Azara), di F. Bayeu (sua moglie e sua figlia Feliciana) e di Goya, degnamente rappre- sentato dall’Autoritratto col grande cappello, e dal ritratto di Azara, di Ferdinando VII e del Duca di San Carlos; vi sono inol- tre conservati alcuni suoi dipinti religiosi Il sogno di san Giu- seppe e la Morte di Francesco Saverio. Le sale del sec. xix con- tengono, accanto ad opere di pittori di fama nazionale (V. Lo- pez, Esquivel, Lucas, il paesaggista Haes, ben rappresentato, Mercade, Sorolla, Beruete), alcuni dipinti di pittori aragone- si non privi di interesse, come quelli di Barbasán. Questo panorama va completato, per la pittura aragonese barocca e rococò, dalle cappelle o volte di numerose chiese. La Cattedrale della Seo e la chiesa dei Gesuiti, San Carlos, vennero decorate alla fine del sec. xvii e all’inizio del sec. xviii da grandi e severi quadri: a San Carlos il Martiro di san Lupercio di Garcia Ferrer (1632), e la brillante decorazione della sagrestia; alla Seo, tra le capelle, quelle che contengo- no i dipinti dei Rabiella e di Luján. Gli affreschi della Basilica-Cattedrale del Pilar, le cui volte e cupole vennero dipinte dal 1770 in poi, in base a un com- plesso progetto con il concorso dei migliori pittori aragone- si dell’epoca sui quali influì Giaquinto piuttosto che Mengs. Se ne conservano i bozzetti nel Museo diocesano della Seo. Gli autori di tali dipinti sono González Velázquez, Bayeu e Goya (volta dell’Adorazione del nome di Gesú del 1771, e cu- pola della Regina martyrum nel 1780). Si aggiunga che nell’immediata periferia di S la Certosa di Aula Dei conserva il primo grande complesso decorativo di Goya, dipinto al suo ritorno dall’Italia e dedicato alla vita della Vergine (1772-74). (pg). Sarasota The John and Mable Ringling Museum of Art Un lussuo- so palazzo in stile falso rinascimento costruito nel 1928 ospi- ta le collezioni che i Ringling lasciarono allo Stato della Flo- rida nel 1946. Il museo venne aperto nel 1949 e ne fu pub- blicato il primo catalogo, a cura di William E. Suida. Dal 1972 il museo ha iniziato una politica di acquisizioni anche

Storia dell’arte Einaudi di arte contemporanea; è diventato ufficialmente museo sta- tale nel 1980. La collezione attuale comprende piú di mille pezzi. Le raccolte dei Ringling testimoniano un gusto piut- tosto raro per l’epoca: infatti, accanto a primitivi italiani e fiamminghi e ad esempi del rinascimento veneziano (Tizia- no, Tintoretto, Veronese) vi si trova un eccezionale com- plesso di grandi tele delle varie scuole barocche europee, spe- cialmente di quelle fiamminga e olandese: Karel Dujardin, van der Hamen, Frans Hals, Bruegel, van Dyck, Rubens (cartoni); inoltre Reni, Pietro da Cortona, Salvator Rosa, Sebastiano Conca, Sassoferrato, Francesco del Cairo per gli italiani; Gaspard Dughet e Bourdon, Ribera e Murillo tra gli altri. Il museo presenta inoltre una sezione di pittura in- glese (Reynolds, Gainsborough, Wright of Derby), e ameri- cana, da Benjamin West fino a Philip Pearlstein. (dc). Sarazin de Belmont, Joséphine (Versailles 1790 - Parigi 1870). Allieva di Valenciennes, si colloca tra i paesaggisti romantici che vivificano la tradizio- ne del paesaggio storico con una osservazione diretta della natura. Le vedute italiane e gli studi della foresta di Fon- tainebleau, dimostrano l’interesse della pittrice per i raffi- nati giochi di luce (Foro romano, al mattino e alla sera, 1860: Tours, mba). (ht). sarcofago dipinto L’uso di deporre i morti all’interno di s si diffuse in Egitto già alla fine del predinastico (fine iv millennio a. C.). In que- st’epoca antica il s è per lo piú in terracotta o legno, privo di decorazione. Con l’Antico Regno, già intorno al 2600 a. C., si diffonde l’uso di s in pietra, destinati ai membri del- la famiglia reale e ai loro intimi, con una decorazione detta «a facciata di palazzo», che riproduceva la caratteristica pan- nellatura ad aggetti e rientranze del Palazzo Reale. La de- corazione dipinta compare piú tardi, con la V dinastia (2465-2323 a. C.), sull’interno di alcuni s lignei: dapprima, si tratta solo di brevi iscrizioni, con i nomi e i titoli del de- funto e formule funerarie d’offerta; con la VI dinastia, si diffonde sempre piú l’uso di dipingere sulla parete est in- terna del s la cosiddetta «falsa porta», da cui si presumeva il defunto potesse uscire o rientrare a suo piacimento, la cui

Storia dell’arte Einaudi raffigurazione, vivace e policroma, era ispirata alle colorate stuoie intrecciate. Ad essa era spesso associata la lista delle offerte, che a sua volta includeva in genere un elemento fi- gurativo, con la rappresentazione dei vasi e delle giare con- tenenti gli unguenti sacri e dei granai. Con la fine dell’An- tico Regno, sul volgere del millennio, la decorazione dipin- ta si arricchisce di nuovi motivi e amplia quelli vecchi: accanto alla lista delle offerte e in connessione con essa ven- gono rappresentati oggetti del corredo funebre (sandali, pog- giatesta, gioielli, mobilio), che avranno particolare fortuna e sviluppo nei secoli successivi; allo stesso tempo, sull’estre- mità nord della parete est del s, generalmente all’esterno, compare il motivo dei due occhi dipinti, in collocazione fun- zionale alla posizione del volto del morto, che veniva allora deposto con la testa a nord, leggermente girato sul fianco si- nistro. È anche questa l’epoca in cui iniziano a comparire sui s le formule religiose dei Testi delle Piramidi, a cui pre- sto si affiancano nuove composizioni: i Testi dei Sarcofagi e le prime «guide dell’aldilà», vere e proprie mappe esoteri- che dell’oltretomba. Nuovi motivi decorativi si sviluppano tra la fine del II pe- riodo intermedio e l’inizio del Nuovo Regno: intorno alla metà del ii millennio a. C. compare un nuovo tipo di deco- razione dei s antropoidi in legno (forma sviluppatasi nel cor- so del Medio Regno, nei primi due secoli del ii millennio), a imitazione delle ali piumate (s-rishi); a partire da quest’epo- ca, inoltre, grande diffusione hanno i s in legno dipinti di bianco con strisce che richiamano i bendaggi della mummia. La tendenza costante per tutto il resto del ii millennio e del- le epoche successive è l’aumento progressivo del ruolo della decorazione nei s, collegata al grande sviluppo dell’espres- sione pittorica delle idee religiose. Come una trasposizione lignea dei papiri funerari dell’epoca, le pareti laterali dei s ospitano tutto il nuovo repertorio iconografico legato alla teologia tarda. Al centro delle nuove decorazioni sono le vi- cende del ciclo solare, le rappresentazioni cosmologiche, le raffigurazioni del Giudizio dei Morti, in genere collocate sui s interni, mentre i s esterni attingono per la prima volta al repertorio simbolico dell’Amduat (o libro di Colui che è nell’Oltretomba). Con la XXII dinastia (945-712 a. C.), i s lignei tradizionali cominciarono ad essere sostituiti da in- volucri di cartonnage, modellati direttamente sulla mummia

Storia dell’arte Einaudi con diversi strati di lino incollati insieme e poi ricoperti di stucco. La superficie bianca e liscia cosi ottenuta si presta- va in maniera eccellente alla decorazione dipinta e risolve- va inoltre il secolare problema dell’usurpazione dei s. Que- sto contenitore, su cui si accentrava tutta la perizia decora- tiva dell’artista, era poi protetto dentro uno o due s lignei, decorati solo sommariamente. Doveva però trattarsi di un procedimento costoso, perché ben presto fu nuovamente ab- bandonato in favore dei s interni lignei. La loro riadozione restitui importanza alla decorazione interna, ovviamente im- possibile con i cartonnages, che ritornò all’antico splendo- re, arricchita da una nuova coerenza tematica, che attinge- va i suoi simboli al mistero dell’unione cosmologica ed esca- tologica del dio solare Ra con il dio morto Osiri. L’uso del cartonnage fu ripreso in età greco-romana, adoperando però, insieme alla stoffa, anche papiri usati, pressati e incollati. La decorazione di questi involucri tardi è piú elaborata e fastosa che mai, talvolta arricchita d’oro: i temi sono quelli classici del repertorio egiziano, ma, non di rado, l’incontro delle due culture – l’egiziana e la greco-romana – dà vita a creazioni ibride, per iconografia e per stile. Se i prodotti di questo sin- cretismo non sempre incontrano il nostro gusto, almeno in un caso essi raggiunsero livelli eccelsi ed è quello dei cosid- detti «ritratti del Fayym», che, in età romana, sostituiro- no la tradizionale maschera di mummia, innestando sulla tra- dizione egiziana le caratteristiche tipiche della ritrattistica italica. I ritratti, che riproducevano con struggente realismo i tratti del defunto, erano eseguiti a tempera o a encausto su una tavoletta lignea, che veniva inserita tra le bende della mummia all’altezza del volto. (mcb). Sardegna L’attuale ripartizione amministrativa della S in quattro pro- vince (Cagliari, Oristano, Nuoro e Sassari) riflette nel nu- mero, ma non nella sostanza, l’antica divisione dell’isola in giudicati, o regni, fin dal sec. x (Cagliari, Arborea, Gallura, Logudoro o Torres). A partire dall’età romanica, si delinea- no i caratteri essenziali del paesaggio culturale sardo: il Cen- tro-nord, piú aperto a stimoli provenienti dal versante ibe- rico e dalI’Italia settentrionale, e il Sud, maggiormente ri- cettivo nei confronti dell’Italia centro-meridionale. Con

Storia dell’arte Einaudi l’occupazione aragonese, completata solo nel 1478, la S di- venta una terra anche culturalmente catalana; la matrice ibe- rica segna in particolare gli sviluppi pittorici, perfino nei mo- menti di maggiore apertura al manierismo italiano ed euro- peo. Essa viene soppiantata per intero soltanto in epoca piemontese, nel sec. xix, quando l’isola immette il suo con- tributo (ben piú modesto rispetto alla straordinaria qualità delle proposte sardo-iberiche fra Quattro e Cinquecento) in un quadro ormai privo di caratterizzazione locale, qual è, ma in senso positivo, la pittura sarda del sec. xx. In età romanica, unico documento di rilevante interesse so- no gli affreschi nell’abside dell’abbazia di Saccargia (→ Sac- cargia, ciclo di). Ciò non significa che non ne esistessero de- gli altri, come suggeriscono gli esigui frammenti del xii-xiii secolo nel San Simplicio di Olbia e in San Lorenzo di Sila- mis. La recente caduta dell’intonaco nel San Nicola di Trul- las ha messo in vista inedite pitture, che potrebbero risultar coeve alla fabbrica del 1114 ca. Notevoli brani d’affreschi del xiii e del xiv secolo sono emersi, rispettivamente, nella chiesa di San Pietro di Galtelli e nella Nostra Signora de Sos Regnos Altos, cappella del Castello di Bosa. Le prime testimonianze della pittura su tavola sono rappre- sentate dal dossale attribuito a Memmo di Filippuccio (1300 ca.), già nel Duomo di Santa Giusta e oggi nell’Episcopio di Oristano, e dal Polittico dei santi Nicola e Francesco, nell’ex Cattedrale di Ottana. Con quest’ultimo, la cultura pittori- ca già muta d’accento, per intraprendere un graduale allon- tamento da soluzioni interamente italiane, a favore di no- vità e mediazioni ispano-fiamminghe. L’importanza della pa- la ottanese risiede nella possibilità di un’esatta datazione fra il 1338 e il 1344, per l’epigrafe che indica come committenti il vescovo di Ottana, Fra Silvestro († 1344), e Mariano III d’Arborea non ancora giudice; fra le tante che si sono suc- cedute, è convincente la proposta attributiva (Bologna) al Maestro delle Tempere francescane, un giottesco napoleta- no al corrente dei modi senesi e fiorentini, ma che ha rece- pito anche insegnamenti spagnoli sia pure soltanto per la po- sizione ideologica dell’ambiente francescano gravitante sul- la corte di Roberto d’Angiò. Alla fine del Trecento si colloca la tavola dell’altare maggiore della Cattedrale di Sassari, no- ta come Madonna del Bosco e attribuita a un tardoduccesco prossimo a Nicolò da Voltri.

Storia dell’arte Einaudi Gli anni a cavallo fra xiv e xv secolo risultano decisivi, per la svolta catalana nel gusto pittorico in S, e da parte degli artisti presenti (ma inizialmente individuabili per sola via documentaria), e da parte di quelli che dovettero inviare nell’isola opere come il Trittico di san Martino (Antiquarium arborense) e il Retablo dell’Annunciazione (avanzi dal San Francesco di Stampace alla pn di Cagliari), ascritti rispetti- vamente ad artista gotico-cortese, affine a Ramon de Mur, e a Joan Mates (noto nel 1393-1431). A partire dal primo Quattrocento, è finalmente possibile in- travedere una continuità nella vicenda pittorica, quasi tut- ta indicata da documenti d’arte iberica: la Madonna in tro- no, proveniente dal San Domenico di Cagliari alla pn, che attinge a modi del tardogotico italiano, si deve ad Alvaro Pi- rez, portoghese, il quale soggiornò in Toscana; mentre la Ma- donna della Misericordia di Giovanni da Gaeta, che provie- ne al Wavel di Cracovia da Ardara, mostra un artista italia- no inconfondibilmente nutrito d’umori spagnoli. Inizia comunque dal citato trittico oristanese, e dal retablo di Juan Mates, la fase segnata quasi esclusivamente da dipinti im- portati dalla Catalogna o di pittori catalani emigrati in S, co- me Juan Figuera e Rafael Thomas, che negli anni 1455-56 eseguirono a Cagliari il Retablo di san Bernardino per il San Francesco di Stampace (Cagliari, pn). Nel polittico si evi- denzia l’intervento di tre mani, fra cui quella da riconosce- re del Thomas, per modi piú sicuri e per contrasti chiaro- scurali anziché cromatici, come nelle parti ascrivibili al Fi- guera, rimasto in S fino alla morte avvenuta tra il 1477 e il 1479, sulla base delle altre sue opere certe, la predella del Retablo di san Lucifero (dall’omonima chiesa cagliaritana al- la pn di Cagliari) e la pala già della cappella del Gremio dei Calzettai del San Domenico di Cagliari (ora a New York). Il San Giacomo cagliaritano conserva una tavola con la Ver- gine in trono, detta la Madonna del Giglio, avanzo d’un re- tablo, da assegnare a pittore prossimo agli autori della pala di san Bernardino. È della fine del sec. xv il singolare stendardo processionale del Duomo di Sassari, con Cristo in Veronica su un verso e la Madonna col Bambino nell’altro, dipinto da un ignoto mae- stro catalano, in grado di recepire sia la lezione idealizzante italiana che l’espressività sottile di Jaime Huguet. Un altro

Storia dell’arte Einaudi pittore iberico, di estrazione stavolta valenzana, Joan Barce- lo, di cui si conserva un’opera firmata (il Retablo della Visi- tazione: Cagliari, pn), risulta attivo in S fra 1488 e 1516 sia da notizie di commissioni da Alghero e dalla Spagna, nonché dall’acquisizione della cittadinanza di Sassari, dove prese mo- glie. Come il Barcelo rimane legato a persistenze quattro- centesche catalano-fiamminghe, anche il Maestro del Prese- pio, nella Pala Camicer della pn di Cagliari, guarda ancora al retablo di san Bernardino. Vanno invece profilandosi, nei di- pinti dei Maestri di Castelsardo e di Sanluri, e – fra quelli di Ardara – di Giovanni Muru, precise distinzioni per l’operarsi d’una sintesi fra cultura catalana (che media istanze fran- co-fiamminghe e italiane) e tradizione sarda. Del primo maestro conosciamo i retabli di Castelsardo di Tuili (1500), della Porziuncola (Cagliari, pn) e quello della chiesa cagliaritana di Santa Rosalia, cui apparteneva la ta- vola con la Madonna in trono, oggi a Birmingham. A lui e al- la sua bottega sono riferibili i retabli di Saccargia (in depo- sito nel mn G. A. Sanna di Sassari) e di Santa Lucia di Tal- lano in Corsica. Per la Madonna in trono conservata al mac di Barcellona, e per gli scomparti ascritti al Maestro nel re- tablo di san Vincenzo di Sarrià, anch’esso al mac, si avan- zano solo problemi di cronologia, mentre è da negargli la ta- vola della Gall. Sabauda di Torino. Del Maestro di Sanluri, il piú italianeggiante, è principal- mente noto il Retablo di sant’Eligio (con estese lacune nei pannelli grandi e nei polvaroli), che dal luogo di provenien- za alla pn di Cagliari ha dato il nome al Maestro. All’altra opera certamente sua (l’Annunciazione della Purissima di Iglesias) possiamo ora aggiungere due notevoli inediti, en- trambi con Sant’Antonio da Padova (coll. priv.), che ne at- testano l’attività non sporadica, bensì svolta in una bottega propria che, a Cagliari, dovette contrapporsi (nei modi e nel- le committenze) a quella del Maestro di Castelsardo. A Giovanni Muru, che nel 1515 firmò la predella del reta- blo di Santa Maria del Regno ad Ardara, si affiancano i due distinti esecutori delle restanti parti del grandioso polittico e del relativo stendardo processionale. A quest’ambito di pittori sardosettentrionali, divisi fra l’adesione ad esperien- ze italianeggianti (specialmente il Muru) e la fedeltà ai refe- renti iberici nella particolare estrazione maiorchina, risulta- no prossimi l’anonimo autore, soprattutto, del Retablo di san

Storia dell’arte Einaudi Pantaleo dell’ex Cattedrale di Dolianova e quello della Pala di san Cristoforo della parrocchiale di Oliena. Una corrente di pittura meno colta, d’ambito pur sempre ca- talano nonostante sembri immediato cogliervi un sapore ita- liano, si manifesta nei frammenti del piccolo retablo della chiesa di San Paolo a Milis, e nella pala della Peste (chiesa di Santa Barbara a Olzai). Al Maestro di Olzai, autore an- che del retablo di santa Maria di Sibiola (i due scomparti su- perstiti sono nella pn di Cagliari), si collega Lorenzo Cava- ro del quale si conservano due polittici integri, quelli di san Paolo a Gonnostramatza (firmato e datato 1501) e l’altro di santa Vittoria a Sinnai (di recente scoperta e di fondata at- tribuzione), due scomparti d’un retablo datato 1507 (Croci- fissione della pn di Cagliari e Madonna in trono: coll.priv.), e un singolo pannello con San Gerolamo penitente, nella Pu- rissima di Cagliari. A Lorenzo Cavaro, pacificamente ritenuto padre di Pietro, può ascriversi il merito d’aver inviato il figlio a Barcellona, dov’è documentata la sua presenza nel 1508, e dove poté formarsi nella temperie culturale del flusso d’interscambio fra Napoli, Cagliari e la capitale catalana. Pietro Cavaro fu il vero iniziatore della scuola di Stampace, cosiddetta dal quartiere cagliaritano dove furono attive per circa un secolo e mezzo le botteghe della famiglia, a partire dalla metà del Quattrocento: una lunga operosità non priva di momenti di pittura «internazionale», in particolare ad opera di Pietro, del figlio Michele e dell’ignoto artista lombardo-campano, non esente da esperienze iberiche, che esegui per il Duomo di Cagliari il Retablo della Crocifissione, singolare dipinto ma- nierista su cui ancora fervono discussioni e interventi criti- ci. Nella bottega dei Cavaro si distingue Antioco Mainas (no- tizie 1537-71), pittore eclettico di tono popolare, ma di gran- de successo, considerato il numero delle opere a lui ascrivi- bili e di quelle, perdute, menzionate nei documenti. Il suo gradimento presso i contemporanei, soprattutto paesani, si deve al decorativismo da naïf ante litteram, che rivelano i re- tabli del San Francesco di Iglesias, delle parrocchiali di Lu- namatrona e di Gergei, e gli avanzi di quelli di Valverde, di Quartu Sant’Elena, di Pirri, di Uta e di Oristano. Qui si conserva anche l’unico dipinto datato, lo scomparto centra-

Storia dell’arte Einaudi le del Retablo dei Consiglieri (1565), cui forse può riferirsi la tavoletta con la Sepoltura di Cristo (Università di Cagliari), suo capolavoro. Agli sviluppi eclettici della scuola di Stampace si riconduce inizialmente, rielaborando le stesse fonti e anche allargan- dole con l’impiego di modelli attinti dalle stampe, lo straor- dinario e problematico Maestro di Ozieri, attivo nel Set- tentrione (dove ebbe bottega e seguaci) alla fine del sec. xvi (→ Maestro di Ozieri). A proposito degli influssi nordici ap- prezzabili nell’opera del Maestro di Ozieri (prescindendo però dalle iconografiè desunte dal Dürer, che non hanno un senso diverso da quelle ricavate da stampe del Raimondi e del Caraglio, e dall’uso di simili modelli, che già fu di Pie- tro Cavaro e dei Maestri di Ardara), si deve sottolineare la presenza materiale di dipinti fiamminghi nell’isola, ad esem- pio il vanderweidiano Trittico di Clemente VII (cui certo guardò il Pietro Cavaro della maturità) e la Madonna del Buon Cammino di van Hemessen, che influenzò Francesco Pinna. Operarono (contemporaneamente ai pittori sardi ricordati) alcuni artisti italocontinentali, in particolare due tardoma- nieristi campani: l’autore della Pala di Gergei e quello della frammentaria Incoronazione della Vergine e del Polittico di san Cristoforo (ambedue nella pn di Cagliari), e Girolamo Im- parato, che nel 1593 firmò il Polittico di sant’Anna per il Car- mine di Cagliari. Queste opere determinarono decisivi in- dirizzi in senso italiano per la pittura locale della fine del Cinquecento, con il conseguente abbandono del tipo di po- littico strutturato secondo lo schema del retablo ispanico, come dimostrano i dipinti di Francesco Pinna, algherese at- tivo a Cagliari fra 1594 e 1617. Alla mano del Pinna, rive- latrice d’una cultura manierista ampia e variata, acquisita attraverso le stampe, possono ascriversi (sulla base di un di- segno firmato, ora al mma di New York) le pale cagliarita- ne di sant’Alberto al Carmine, di sant’Orsola alla pn, e di san Saturno, i cui avanzi (Trinità, Presepio, Santi Girolamo e Domenico) appartengono ora alla Pinacoteca Spano di Ploa- ghe. Delle stesse influenze continentali si avvale il modesto na- poletano Bartolomeo Castagnola, che firmò nel 1603 un grande polittico, del quale si conservano frammenti a Ori-

Storia dell’arte Einaudi stano (San Francesco) e nella pn di Cagliari, e che dipinse il ritratto di Donna Leonora nell’Università di Cagliari, la Pa- la del Crocifisso nella parrocchiale di Quartucciu e quelle con la Resurrezione di Lazzaro (cui forse collaborò Francesco Pin- na) e con Santa Barbara, rispettivamente nel Sepolcro e nel- la pn di Cagliari. Dell’operosità a Cagliari di altri due pitto- ri contemporanei come Giulio Addato e Ursino Bonocore, che pure ebbero credito presso una committenza di livello, poche tracce sono ricavabili attualmente solo per il primo. A settentrione operano il fiorentino Baccio Gorino, con di- pinti firmati a Cargeghe (1588), Nulvi e Florinas. Decisa- mente inferiore al Pinna fu Andrea Lusso, ogliastrino, che lasciò opere firmate e datate in varie parrocchiali (Miracolo di san Pantaleo, 1595: Martis; Trasfigurazione, 1597: Sedini; Circoncisione, 1601: Baunei; la perduta pala di Elini, 1610; i Misteri, 1610: Posada, trafugati; Retablo di Oniferi, 1614) e promosse la conoscenza nell’isola di celebrate iconografie rinascimentali e manieriste, copiando da stampe di Raffael- lo (Trasfigurazione) e Zuccari (Assunzione di Calangianus). Interesse anche minore hanno i dipinti, firmati e datati, di Didaco Pinna: la Madonna del Tempietto (1626) e il Ritratto del canonico Pilo (1638) nel Duomo di Sassari. Mentre è in- trovabile la firma e la data (1615) letta dal Costa nell’In- venzione dei Corpi santi dei Protomartiri turritani, dello stes- so Duomo, attualmente si tende ad ascrivergli numerosi di- pinti in chiese sassaresi, a Ploaghe e a Porto Torres. Nel sec. xvii, comunque, la scena della pittura locale vede ormai estinte le botteghe fiorite in quello precedente, e all’opera pittori d’educazione spagnola, come il dignitoso zurbaranesco, denominato Maestro del Capitolo, che ha un numero considerevole di dipinti, eseguiti intorno al secon- do decennio del secolo, nel Duomo di Cagliari (aula capito- lare). O come Domenico Conti, autore delle grandi tele mer- cedarie nella sagrestia di Bonaria, fra 1670-72, e (sempre a Cagliari) di quelle in Santa Croce, mentre nella parrocchia- le di Sinnai è sua un’Incoronazione della Vergine. Spagno- leggiante è pure Giuseppe Deris, che nell’ottavo decennio del secolo esegue due vasti cicli pittorici nelle chiese gesui- te cagliaritane di San Michele e di Santa Croce. Alla metà del Seicento, fra Cagliari e Sassari opera il geno- vese Pantaleone Calvi, di modesta levatura, a giudicare dal-

Storia dell’arte Einaudi le pale cagliaritane, ora smembrate, del Sant’Agostino (fir- mata 1646) e del San Domenico, e le Anime purganti del San Francesco di Paola (con firma del 1664); è da considerare sua la rovinatissima tela con la Deposizione nella pc di Sin- nai. A Roma invece è attivo – fra il 1637 e il 1673, nella cer- chia di Pietro da Cortona – il cagliaritano Francesco Mur- gia (conta tra l’altro un affresco al Quirinale). Per altro, la pittura seicentesca di buon livello è d’importa- zione, a iniziare dalle tavole con i santi mercedari Brunone e Raimondo (Cagliari, pn), di anonimo spagnolo strettamen- te affine allo Zurbarán; per continuare con dipinti di geno- vesi (tra cui Orazio De Ferrari e Domenico Fiasella), di me- ridionali (Mattia Preti alle Cappuccine di Sassari) e di mar- chigiani (il Sassoferrato al Carmine di Sassari), e altri di diversa estrazione, molto importanti ma provenienti da Ro- ma (magari in ottime repliche, come il Transito di sant’Anna di Andrea Sacchi, a Sassari in Santa Maria di Betlem, e la Purissima, nota come Madonna degli Stamenti sardi, di Carlo Maratta nel Duomo di Cagliari). La situazione si presenta in termini abbastanza simili nel Set- tecento, poiché la produzione locale di maggior rilievo (vasta e modestamente dignitosa) si deve al cagliaritano Sebastiano Scaleta (notizie 1750-72), il quale ebbe un prolifero conti- nuatore in Francesco Massa (notizie 1770 - inizio sec. xix), anch’esso cagliaritano. Si può ritenere che lo Scaleta si for- masse studiando unicamente la pittura del romano Giacomo Altomonte, che fra 1720-22, con il napoletano Domenico Co- lombino, aveva eseguito per i Gesuiti la decorazione della chie- sa di San Michele in Cagliari. Sono presenti a Sassari il na- poletano Gerolamo Rufino (con un dipinto del 1734 ai Servi di Maria) e il genovese Bartolomeo Augusto (con una tela fir- mata nel 1716 e una del 1725 ai Servi di Maria, dove gli è pu- re attribuibile l’intero retablo maggiore). Anche in questo se- colo continua e si accresce l’importazione di dipinti di livel- lo, talvolta soltanto copie per lo piú ottime d’autori assai richiesti in campo internazionale, come Corrado Giaquinto, ancora il Maratta, Sebastiano Conca, Vittorio Amedeo Ra- pous, Francesco De Mura, Carle van Loo, Pietro Angeletti. La figura piú rappresentativa dell’Ottocento pittorico sar- do è Giovanni Marghinotti (Cagliari 1798-1865), cui si af- fiancano solo quelle minori di Raffaele Arui e di Antonio Caboni. Il Marghinotti si formò nel continente; della sua

Storia dell’arte Einaudi educazione neoclassico-purista dànno atto opere decisa- mente accademiche, come il Ritratto di Carlo Felice e Carlo Felice protettore della Arti (rispettivamente, al Palazzo Vice- regio e al municipio di Cagliari), eseguiti dopo il 1829, di ri- torno da una lunga permanenza a Roma per studio. Anche se d’impianto eclettico, questi due dipinti certificano quel- la sensibilità pittorica di tipo romantico, che conferì al pit- tore una notorietà anche fuori dell’isola, da cui gli deriva- rono riconoscimenti ufficiali e incarichi, l’insegnamento all’Albertina di Torino nel 1847 e onorificenze varie. Atte- stano un’operosità instancabile i lavori nel Palazzo Reale di Torino, fra 1833-37, e i ritratti di Carlo Alberto per i mu- nicipi di Cagliari, Sassari, Ozieri e Iglesias, le pale d’altare per le chiese cagliaritane di Sant’Anna, dell’Annunziata, di San Giuseppe e di Sant’Eulalia, gli innumerevoli ritratti di personaggi importanti o solo abbienti, e opere come Carlo Alberto adora la Sindone e lo Sbarco di Carlo Alberto a Ca- gliari. Le preferenze della critica novecentesca sono andate però ai dipinti piú dichiaratamente romantici, illustranti mo- menti di storia sardo-romana e del Medioevo isolano, scene di vita campidanese ed episodi di patriottismo risorgimen- tale. Fin dai primi anni del secolo, la pittura ad affresco fu invece appannaggio quasi esclusivo d’autori continentali: il genovese Francesco Costa esegui a Cagliari nel 1811 le de- corazioni in casa Amat e nel ’12 quelle di Palazzo Viceregio; sono dei piemontesi Cesare Vacca e Pietro Bosio, fra 1830-34, i dipinti del transetto del Duomo di Sassari. Ad affrescare le chiese cagliaritane di Sant’Antonio e di Santa Caterina, oltre la seconda metà del secolo, fu Gaetano Bi- lancioni, affermatosi come ritrattista. Nel 1878 il catanese Giuseppe Sciuti realizzò i grandi cicli decorativi del Palaz- zo della Provincia a Sassari, mentre spettano al perugino Do- menico Bruschi quelli eseguiti fra 1893-95 nel Palazzo Vi- ceregio di Cagliari, anche questo sede della Provincia. Fra gli artisti presenti alla mostra sassarese del 1896, spic- cano tre giovani pittori: Mario Paghetti (1885-1943), Gia- cinto Satta (1857-1912) e Antonio Ballero (1864-1932), che contrappongono alle tendenze accademiche i nuovi orienta- menti veristici, di respiro internazionale. Mentre però i pri- mi due conservano una certa soggezione nei confronti dei modelli «illustri», Ballero sa staccarsene per elaborare una

Storia dell’arte Einaudi poetica personalissima, sia nella qualità di segno incisorio, sia nelle scelte cromatiche dei lavori a olio, pur nella gene- rale aderenza al «verismo» di temi desunti dalla dimensio- ne popolare della vita in S. Dal 1921 (Prima mostra d’arte sarda a Cagliari) al 1945, si im- pongono le personalità di Giuseppe Biasi (1885-1945) e di Filippo Figari (1885-1974), cui si aggiungono quelle di Fran- cesco Ciusa, Felice Melis Marini, Mario Delitala, Carmelo Floris, Remo Branca, Stanis Dessy, Melchiorre Melis e Gio- vanni Ciusa Romagna. La figura piú interessante è forse Pie- tro Antonio Manca soprattutto negli anni Trenta; la novità non è nel tema, bensì nel linguaggio pittorico, sebbene oc- corra attendere il secondo dopoguerra, per assistere in S al completo superamento dell’esperienza verista. Dal 1945 si affermano i nomi di Foiso Fois, Pietro Mele, Guido Caval- lo e Dino Fantini; la svolta di critica e gusto si avrà soltan- to alla fine degli anni Cinquanta, con la premiazione a Nuo- ro (1957) de L’ombra del mare sulla collina, opera informale di Mauro Manca. L’allineamento con la ricerca contempo- ranea si registra a Cagliari, nell’attività di «giovanissimi» come Gaetano Brundu, Primo Pantoli, Luigi Mazzarelli, Ci- priano Mele, che negli anni Sessanta aprono l’isola alla cir- colarità delle idee artistiche internazionali. Fatti nuovi si producono con il fenomeno del muralismo, importato da Giuseppe Sciola, con l’esperienza optical di Tonino Casula, e con l’attività dell’ultima generazione di pittori, che si muo- ve secondo stimoli, canali e modi espressivi altrettanto di- versificati, quanto quelli della scena contemporanea. In S, la piú ricca e importante raccolta di dipinti dal xiv al xix secolo è la pn di Cagliari; altre cospicue collezioni sono nel mn G. A. Sanna di Sassari, nella Pinacoteca di Ploaghe e nell’Antiquarium Arborense di Oristano. Significativi esponenti dell’arte contemporanea, non solo sardi, sono rap- presentati nella Galleria Nazionale d’Arte moderna, a Ca- gliari. Oltre alle statali, non esistono istituzioni specifica- mente deputate alla conoscenza o alla conservazione dei di- pinti; nell’organizzazione di mostre si distingue la Galleria Duchamp di Cagliari. Nel campo della didattica, è da se- gnalare la Scuola statale d’Arte a Sassari. Nell’ambito dell’omonima Scuola di Specializzazione (facoltà di Lettere dell’Università di Cagliari) si pubblica la rivista «Studi Sar- di», che ospita anche lavori sulla pittura in S, al pari d’altre

Storia dell’arte Einaudi riviste specialistiche come gli «Annali delle Facoltà di Let- tere Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari» (suc- cessivamente distinti per facoltà) e come l’«Archivio Stori- co Sardo» (a cura della Deputazione di Storia Patria per la S). Notevoli contributi su singole personalità di pittori so- no apparsi, anche se in forma divulgativa, nell’«Almanacco di Cagliari» e in «Sardegna Fieristica». (rse). Sarfatti, Margherita (Venezia 1883 - Cavallasca (Como) 1961). Fin da giovane, a Venezia, si interessa ai fatti artistici (i suoi primi articoli di critica risalgono addirittura al 1901), entrando in corrispon- denza con Vittorio Pica e Alberto Martini. Sposatasi con l’av- vocato Cesare S, tra il 1907 e il 1909 si trasferisce a Milano. In questi anni incontra l’ambiente intellettuale milanese, i futuristi che si riuniscono al caffè Savini; frequenta i gruppi socialisti e diviene amica di Mussolini quando questi è anco- ra direttore dell’«Avanti». Entra come giornalista nella re- dazione del giornale e, in seguito, come critica d’arte al «Po- polo d’Italia» (1914-32). In questa veste collaborerà anche a «La Stampa». Energica animatrice culturale, scopritrice di giovani artisti, in breve fa dei suoi salotti (a Milano in corso Venezia ogni mercoledì, e dal 1927 a Roma, i venerdì in via dei Villini), esclusivi luoghi di incontro per letterati e artisti. Passeranno di lì Scipione, Martini, Rosso, Bontempelli, Ma- rinetti, De Pisis, Campigli, Casella, Pound, Moravia, Piran- dello, Gide e tanti altri. Nel 1923, con il gallerista Lino Pe- saro, promuove una mostra di pittori raccolti sotto il nome di Novecento: Bucci, Funi, Malerba, Dudreville, Marussig, Oppi, Sironi, quest’ultimo di gran lunga il piú amato dalla S. Nel 1925 è a Parigi dove cura l’Exposition des arts décoratifs, cosa che le procura un anno dopo la Legion d’Onore. Nel 1926 è il trasferimento a Roma dove con Mussolini dirige la rivista «Gerarchia». In quell’anno scrive la monografia su Mussolini, Dux a testimonianza di un solidissimo legame po- litico e di amicizia, legame che getterà ombre, oggi faticosa- mente dipanate, sulle promozioni culturali della S. Il 15 feb- braio 1926, presso il Palazzo della Permanente di Milano, cu- ra la I Mostra del Novecento italiano, gruppo divenuto ormai movimento. Nel 1927 organizza a Roma l’esposizione dei pit- tori romani del Novecento, Dieci artisti del Novecento italia-

Storia dell’arte Einaudi no, tra i quali: Bartoli, Francalancia, Ceracchini, Tromba- dori, Guidi, Socrate. Per la collana «Prisma» dell’editore Paolo Cremonese, pubblica nel 1930 Storia della pittura mo- derna, una intelligente ricognizione sul panorama artistico eu- ropeo. Sono di questo periodo le polemiche con Farinacci che dalle pagine de «Il Regime Fascista» accusa la S di scarso na- zionalismo. In risposta la S mostra il prestigio che il Nove- cento ha procurato all’arte italiana nel mondo. Tra il ’29 e i primi anni ’30 la sua funzione di grande organizzatrice dell’arte nazionale viene man mano assunta a Roma da C. E. Oppo. Le leggi antisemite del 1938 colpiscono anche lei, che emigra prima a Parigi, quindi in Argentina (fino al ’47). Tor- nata in Italia, nel 1955 pubblica una sua autobiografia, Ac- qua passata, che ripercorre la sua vita fino al viaggio negli Sta- ti Uniti, in qualità di ambasciatrice della cultura italiana, av- venuto nel 1934. (mvc). Sargent, John Singer (Firenze 1856 - Londra 1925). Nato a Firenze da una fami- glia americana, studiò a Parigi con Auguste Carolus-Duran intorno alla metà degli anni Settanta, seguendo il percorso di altri suoi contemporanei espatriati come Mary Cassatt e Whisder che elessero l’Europa e in particolare Parigi loro patria d’adozione culturale. Durante i suoi viaggi, dall’Ita- lia, a Parigi alla Spagna (1879), che lo portarono a contatto con la tradizione pittorica europea, ebbe modo di studiare i dipinti dei maestri antichi, e in particolare, venendo incon- tro al gusto della raffinata società benestante degli america- ni stabilitisi a Parigi, i ritratti di Velázquez, Frans Hals e la pittura fiamminga. Lui stesso si definiva «un americano na- to in Italia, educato in Francia, che sembra un tedesco, par- la come un inglese e dipinge come uno spagnolo»; l’elegan- te cromatismo debitore di Velázquez e la sottile psicologia dei personaggi che caratterizzano i suoi ritratti, sono ben espressi nel dipinto esposto al Salon del 1883 Le figlie di Edward Darley Boit (1882: Boston, mfa), rispecchiando un tipo di gusto che trova uno dei massimi interpreti nel raffi- nato romanziere americano Henry James. Alla citazione del- lo specchio di Las meninas si mescola la lezione di Degas nel taglio spaziale obliquo, giungendo a fare di un dipinto «in- timista» un’opera dal fascino misterioso che James com- mentò entusiasticamente per «il senso che ci dà di segreti

Storia dell’arte Einaudi assimilati». Il grande pubblico si accostò alla sua opera a cau- sa dello scandalo provocato dal cosiddetto Ritratto di Mada- me X (Virginie Avegno Guatreau; New York, mma) esposto al Salon del 1884, che mescolava esplicite citazioni dalla pit- tura classica e rinascimentale all’esibizione del fascino fem- minile. Trasferitosi a Londra (1885) a seguito della reazio- ne negativa della critica frequentò l’ambiente dei pittori americani legato a Whistler; il suo stile introspettivo e il vir- tuosismo coloristico affascinarono il pubblico londinese; ave- va esposto nel 1882 alla ra e nel 1897 venne accolto tra i membri dell’istituzione. La particolarità dei dipinti di S è da individuare nella capa- cità di far coesistere l’immagine ritratta con lo spazio, nella sua «messa in scena» che crea una cornice essenziale alla de- finizione della persona ampliandone i sottili risvolti psico- logici; il pittore restituisce cosi allo stesso tempo il fedele ri- tratto di un ambiente (ad esempio gli enormi vasi cinesi che inquadrano Le figlie di Darley Boit) e la fisionomia rassomi- gliante dei personaggi ritratti in una momentanea posa o espressione, come in uno scatto fotografico. È forse per que- ste sue capacità virtuosistiche che S fu apprezzato da James che riscontrò nella sua pittura un’«analogia... completa» con la sua opera di romanziere; del resto il rapporto tra i due sarà reciproco tanto che S definì il suo credo artistico riallac- ciandosi allo stile di James «Io non giudico, faccio solo una cronaca». Ancora alla letteratura è legato un altro dei suoi piú riusciti ritratti, quello di Stevenson e sua moglie (1885). Dal 1910 il pittore dipinse alcuni paesaggi e nel periodo del- la prima guerra mondiale licenziò dipinti di genere (Londra, Imperial War Museum). (sro). Sariñena, Juan (? 1545 - Valenza 1619). Originario probabilmente di Ara- gona S è figura di spicco della scuola valenzana tra Juanes e Ribalta. Il suo soggiorno romano, documentato tra il 1570 e il 1575, gli permise di aggiornarsi sulle nuove tendenze del manierismo riformato. Stabilitosi a Valenza dopo il 1580, egli si conquistò una certa considerazione e ricevette com- missioni dalla Generalidad, dal capitolo della Cattedrale, dal convento dei frati e soprattutto dal patriarca Juan de Ribe- ra, suo protettore. Nelle sue opere religiose si ispirò spesso

Storia dell’arte Einaudi a incisioni fiamminghe: Cristo alla colonna (1587: Valenza, Museo del Patriarcato) e retabli dei santi protettori del re- gno, la Vergine,l’Angelo guardiano e san Giorgio (Valenza, cappella della Deputazione). S si dedicò però soprattutto al ritratto. Se i tratti del re Jaime I sono ancora idealizzati, quel- li dei santi e dei beati contemporanei distintisi nella fede controriformata sono trattati con una grande forza espres- siva (San Luìs Beltrán, San Juan de Ribera: Valenza, Museo del Patriarcato; Nicolas Factor: Madrid, Descalzas Reales). Nella decorazione del salone delle Corte (1591-92) i depu- tati del regno sono raggruppati con naturalezza e con sensi- bilità spaziale. Si distingue da altri pittori (Requena, Posso, Mestre, Mata) che hanno collaborato a questo complesso per la saldezza dello stile e per un certo senso del colore che preannuncia il secolo d’oro spagnolo. (pg). Sar´jan, Martiros Sergeevi™ (Novyj Nachi™evan´ sul Don 1880 - Erevan 1972). Di origi- ne armena, allievo di V. Serov e di K. Korovin alla Scuola di belle arti di Mosca, scopre nel Vicino Oriente, nel corso di alcuni viaggi in Turchia, Egitto e Iran nel 1910-11 e nel 1913, i motivi piú consoni alla sua ricerca pittorica. A que- sti unisce l’influsso dell’arte francese (conosciuta dapprima attraverso le collezioni di ·™ukin e Morozov), tanto che la sua tavolozza si avvicina all’esperienza dei fauves per l’uso di forti contrasti tra colori vivi e violenti: Costantinopoli. Mezzogiorno (1910: Mosca, Gall. Tret´jakov); la Palma (1911); Burrone verde (1911: San Pietroburgo, Museo rus- so); le Maschere egizie (1912); Fiori dell’Asia (1915: ivi). Fu tra i fondatori del movimento Golubaja Roza (La Rosa Az- zurra); espose anche con i pittori del Mir Iskusstva (dal 1913) e del Sojuz Russki™ Chudo∆nikov. Dal 1921 si stabilisce a Erevan, dove, oltre a essere incaricato dell’istituzione di un Museo archeologico e di fondare delle associazioni artisti- che, continua ad operare come pittore, scenografo e illu- stratore di libri (Il villaggio di Bastungi di Lermontov), esal- tando nei suoi paesaggi, ritratti e nature morte le bellezze dei paese. Presente alla Biennale di Venezia nel 1924, gran premio all’Esposizione internazionale di Parigi del 1937 per il suo pannello esposto al padiglione dell’Urss, S, negli anni Quaranta, è tra i pittori accusati di «formalismo» dalla cri- tica sovietica per il carattere decorativo della sua pittura; ma

Storia dell’arte Einaudi già negli anni 1950-60 è considerato tra i massimi pittori dell’Urss; tiene importanti personali a Mosca e ad Erevan e riceve nel 1961 il premio Lenin. Dopo la sua morte, la sua casa ad Erevan diviene museo nazionale. Il suo stile, che ser- ba sempre un’intonazione post-impressionistica, varia rela- tivamene poco, benché coi tempo i contrasti cromatici si at- tenuino e le violente giustapposizioni tra le ampie superfici cromatiche cedano il posto a un trattamento pittorico piú sfumato e differenziato. (xm). sarmatico, ritratto Il ritratto s designa un genere specifico del ritratto barocco polacco e una delle manifestazioni piú caratteristiche dei co- stumi della nobiltà o in genere della cultura nazionale dell’epoca. L’aggettivo proviene dal termine «sarmatismo», con evidente intenzione di evidenziare da parte dei magna- ti e dei nobili la propria discendenza dai Sarmati, eredi, a loro avviso, degli antichi Romani e delle loro virtú, espri- mendo così la megalomania sociale e nazionale di queste clas- si, così come il loro rifiuto degli influssi stranieri e l’attac- camento alla tradizione, agli ideali marziali e alla vita rura- le. Il ritratto s nasce verso la fine del sec. xvi. Lo si trova all’origine delle effigi di stile rinascimentale o manierista, frequenti a nord delle Alpi (Marcin Kober, Ritratto del re Stefano Bathory, 1583: Cracovia, convento della congrega- zione della missione). Il periodo di fioritura del ritratto s va dal sec. xvii al xviii, ma persiste fino alla metà del sec. xix. È coltivato da pittori senza pretese, legati alle corti dei ma- gnati, membri di confraternite urbane o artisti ambulanti, che mirano soprattutto a soddisfare il gusto della clientela. I personaggi, ieratici e consapevoli della propria dignità e posizione sociale, sono rappresentati in piedi o a mezza fi- gura, oppure fino alle anche: quest’ultima tipologia diverrà presto la piú frequente. Il ritratto s deve la sua particolarità all’acuto realismo dei volti e allo stile decorativo che sotto- linea i contorni e le superfici piatte di colore nei costumi, ponendo in evidenza i dettagli degli accessori e dei gioielli, e gli emblemi delle funzioni. L’ingenuità e la sincerità espres- siva che caratterizzano i ritratti s, apparentandoli all’arte popolare, si riscontrano inoltre nella scelta dei colori: nelle effigi maschili prevalgono il rosso o altre tinte squillanti, giu-

Storia dell’arte Einaudi stificate dal costume nazionale orientaleggiante; in quelli femminili dominano invece il bianco e il nero. La corrente sarmatica nell’arte del ritratto barocco in Polo- nia persiste accanto al ritratto «europeo» coltivato da pit- tori stranieri o da polacchi che avevano operato in Occidente ed erano al servizio della corte reale o dell’aristocrazia: ma durante il regno di Giovanni III Sobieski (1674-96) si giun- se anche all’elaborazione di uno stile misto (pittori reali Jan Tretko e Jerzy Eleuter Szymonowicz-Siemiginowski). Tra gli autori piú singolari si distingue alla fine del sec. xviii Jó- zef Faworskij che aggiunge ai caratteri s del ritratto un sen- so della materia pittorica quanto mai personale. Costitui- scono un gruppo a parte le effigi funerarie di piccolo for- mato, di foggia trapezoidale od ottagonale, ove i personaggi, dipinti su lastre di stagno, sono ridotti alla testa o al busto. Inchiodate alle bare durante la cerimonia funebre, successi- vamente venivano custodite nelle chiese, dove costituivano talvolta gallerie di ritratti di famiglia. Questo tipo d’imma- gini fu particolarmente diffuso nella Grande Polonia durante la seconda metà del sec. xvii. (sk). Saroni, Sergio (Torino 1934-91). Formatosi al liceo artistico poi all’Acca- demia Albertina di Torino, cominciò a dipingere giovanis- simo. Personalità complessa e difficile, S ha sempre vissuto un rapporto privilegiato, benché conflittuale, tra pittura e realtà: le presenze naturali dei suoi lavori possiedono un ca- rattere sospeso ed ectoplasmico (Il Piccolo melo, 1983). Ri- gorosissimo nella volontà di perseguire un risultato «esteti- co» nelle sue immagini quotidiane rimanda in realtà a colle- gamenti di memoria comuni all’osservatore, sempre in bilico tra apparenza ed evocazione. S ha sempre dato grande im- portanza al disegno, in quanto traccia prima di ogni svilup- po pittorico (Ritratto di Giacometti, 1968-81), né ha trascu- rato l’incisione (Insettario, 1967: diciassette acqueforti che illustrano un testo di Giovanni Arpino). Ha partecipato a Pittori d’oggi: Francia-Italia (Torino-Parigi, dal 1955 al ’60), alla Biennale di Venezia nel ’56, nel ’58 e nel ’62, a quella di San Paolo nel ’59 e a quella di Tokyo nel ’63. Ha inoltre esposto al Brooklyn Museum of Modern Art nel ’58, al Car- negie Institute di Pittsburgh nel ’59, alla Compagnia del Di- segno di Milano nell’83. È stato direttore dell’Accademia

Storia dell’arte Einaudi torinese dal 1978 al 1991 e ha organizzato numerose mostre quali I rami incisi dell’Archivio di Corte (1981), Gaudenzio Ferrari e la sua scuola (1982) e Opere scelte dalla Pinacoteca (1993), che S non fece in tempo a vedere, ma può a ragione essere considerata il suo testamento spirituale. (dc). √ar∫un, Sergej Ivanovi™ (Buguruslan (Russia) 1888 - Parigi 1975). Dopo alcuni me- si trascorsi a Mosca, dove scopre gli impressionisti, l’avan- guardia russa e il cubismo francese, raggiunge Parigi nel 1912, dove ha modo di vedere le opere di Delacroix, Seu- rat e Matisse. A La Palette lavora con Metzinger e soprat- tutto con Le Fauconnier, il cui «cubismo fisico» – secondo Apollinaire – lo influenza profondamente. Nel 1914 parte per la Spagna insieme a Helena Grunhoff, con la quale espo- ne le sue prime tele di «cubismo ornamentale», ispirate a motivi mozarabici (Ornamentale 1 e 2: Parigi, Gall. Creu- ze). Tornato a Parigi si aggrega a Dada (Serpente assetato, 1921: Milano, Gall. Schwartz). Passato a Berlino nel 1922-23, √ espone alla Gall. Der Sturm e partecipa alla Gros- se Berliner Ausstellung insieme, tra gli altri, a El´ Lisickij e a I. Puni. Fonda allora la rivista «Perevoz Dada» (il trasbor- datore Dada), e collabora a «Mecano», rivista di Theo van Doesburg. Ma curiosamente le tele di quest’epoca segnano un ritorno al cubismo (Cubismo ornamentale n. 3B, 1922: Pa- rigi, Gall. Creuze) e, quando torna a Parigi (luglio 1923), dove si andava affermando il surrealismo, non si accosta a quest’ultimo, che giudica «filobolscevico». Partecipa ad al- tre due riviste dadaiste («Merz» di Schwitters, e «Ma- nomètre» di Malespine), ma nel 1925, scoprendo la mistica antroposofica di Rudolf Steiner, sceglie una strada radical- mente diversa. Presentato a Ozenfant da Nadia Léger (1927), trova nel purismo le basi formali dell’antroposofia (Natura morta con ciotola e brocca, 1927: coll. Riopelle; Na- tura morta con ciotola bianca, 1928: Parigi, Gall. Creuze) e si mantiene nei confini dell’astrattismo. Nel 1942, libera- tosi dal purismo, inaugura un «musicalismo» che è suo spe- cifico (Tema musicale, 1942; Natura morta - arabesco, 1946; la Musica II, 1951: ivi). Dopo il 1950, le sue trascrizioni, sul principio cromaticamente ricche (Sinfonia di salmi di Stra- vinskij, 1957: coll. Hérold), si sono lentamente evolute ver-

Storia dell’arte Einaudi so la monocromia e il bianco su bianco (Brahms: valzer per violino, 1968: Parigi, Gall. Roque). Tra le retrospettive a lui dedicate si segnalano quelle svol- tesi a Bergamo nel 1969 (Gall. Lorenzelli) e a Parigi nel 1971 (mnam); negli anni Cinquanta ha spesso esposto alla Gall. Creuze di Parigi. (em). Sartorio, Giulio Aristide (Roma 1860-1932). Nato in una famiglia di artisti (scultore era il nonno Girolamo e scultore-pittore il padre Raffaele), volle affrancarsi dalla loro influenza studiando e copiando affreschi, mosaici, quadri e statue nelle chiese e nel musei romani. Sulla scia di Mariano Fortuny, allora pittore di gran successo, esegue acquerelli e quadretti di ambiente sette- centesco. Frequenta i cenacoli letterari romani e inizia l’at- tività critica su giornali e riviste, Amico di Gabriele D’An- nunzio disegna le tavole dell’Isotta Guttadauro. Nel 1882 espone Malaria che lo segnala alla critica e al pubblico. Nel 1889 si reca a Parigi, dove espone i Figli di Caino con largo successo. Dal 1895 al 1900 insegna all’Accademia di Wei- mar proseguendo nella sua attività di pittore, critico e nar- ratore. Entra in contatto con i simbolisti tedeschi. Alla Bien- nale veneziana del 1897 espone il dittico La Gorgone e gli Eroi e Diana d’Efeso (Roma, gnam). Dopo il ritorno a Ro- ma, intensifica la sua attività di paesaggista nella campagna laziale e nelle paludi pontine (a cui è legata oggi la suo fama maggiore). Tra il 1908 e il ’12 decora l’aula della Camera dei Deputati a Montecitorio, celebrando la storia d’Italia dai Comuni al risorgimento. Insegna all’Accademia di belle ar- ti fino al 1915, poi partecipa volontario alla grande guerra. Al suo ritorno, realizza un film Il mistero di Galatea, e s’im- pegna sempre piú nell’attività di critico e di poeta. Decora la nuova Cattedrale di Messina, e aggiunge al suo già vasto repertorio di pittore un nuovo soggetto: la sua famiglia ri- tratta (utilizzando spesso fotografie) ripetutamente sulla spiaggia di Fregene con eleganza liberty e molte remini- scenze preraffaellite. (mvc). Sasanidi La dinastia persiana dei S impose il suo dominio sul Vicino Oriente tra la seconda metà del iii e il sec. vii della nostra era. Pochissime sono le testimonianze pittoriche. Lo stori-

Storia dell’arte Einaudi co latino del sec. iv Ammiano Marcellino, vissuto in Orien- te, riferisce che pitture e sculture dell’epoca rappresentano soltanto «massacri e uccisioni». In questo i S sono eredi dei Parti, e alcuni ritrovamenti attestano piuttosto bene tale ca- rattere bellicoso, che va peraltro inteso in maniera sfumata. Un affresco datato al sec. iii ritrovato in una casa di Du- ra-Europos (sec. iii d. C.) rappresenta in quello inferiore, di- viso in tre registri, una serie di combattimenti tra cavalieri iraniani vittoriosi e romani, sormontato da un episodio che mostra alcuni uomini sdraiati su un letto, intenti a pranza- re. Quanto resta del registro superiore, con i suoi cavalieri, fa pensare piuttosto a una caccia, analoga a quella scoperta nel 1950 da R. Ghirshman a Susa: comune caratteristica di quest’arte, che rispetta la legge del frontalismo ereditata dai Parti, è il movimento (i cavalli sono rappresentati al galop- po). I cavalieri sono dipinti in rosso e nero, oppure soltanto tracciati in nero su fondo bianco. L’affresco richiama i bas- sorilievi dell’epoca, spesso trattati a rilievo assai basso. A imitazione dei palazzi romani, anche quelli sasanidi erano decorati da pavimenti musivi. È in particolare nella città im- periale di B¥shÇpr, edificata da ShÇp¥r I nella provincia del FÇrs, che sono stati rinvenuti da R. Ghirshman pavimenti a mosaico della seconda metà del sec. iii d. C. nei quali sono effigiati i personaggi della corte, musicanti e danzatrici in atteggiamento e costume tipicamente iraniani – quali figu- rano anche sugli oggetti di oreficeria – che la attestano co- me opera di artisti locali, influenzati da modelli romani. (asp). Sassetta (Stefano di Giovanni di Consolo, detto) (Cortona? fine sec. xiv - Siena 1450). Nato verosimilmen- te a Cortona sul finire del Trecento, si iscrisse al Ruolo dei pittori senesi nel 1428. Col S si afferma la prima presa di posizione della cultura pittorica senese nei confronti delle novità fiorentine. La pala d’altare dedicata all’Eucarestia (1423-26), commissionatagli dall’Arte della Lana per la cap- pella annessa alla chiesa carmelitana di San Pellegrino, è la sua opera piú antica documentata; in essa l’artista propo- ne una formula di stile che risolvendo la prospettiva nel rit- mo, imprigiona le piú dolci cadenze dello spirito gotico in una fragile ma moderna struttura formale, inserita in una

Storia dell’arte Einaudi spazialità limpidissima. Questo profondo distacco menta- le dalla posizione antropomorfica e razionalistica fiorenti- na ispirerà del resto in Siena la pittura di tutto il secolo. Della pala ci rimangono i frammenti con i profeti Elia ed Eliseo e i Quattro Dottori della Chiesa (Siena, pn) che de- coravano i pilastri, nonché le scene della predella (Storie di san Tommaso: Roma, pv; Miracolo dell’Ostia: Bernard Ca- stle, Bowes Museum; l’Ultima cena e un Miracolo dell’Ostia: Melbourne, ng; Storia di san Tommaso: Budapest, szm; Ul- tima cena e Sant’Antonino battuto dai diavoli: Siena, pn). Di questo momento sono anche le due miniature, fra cui la Crocifissione, del Missale Romanum (1425-30 ca.), ora a Siena nella Biblioteca degli Intronati (cod. G.V.7). Fra il 1430 e il 1432 l’artista eseguiva una grande pala con la Ma- donna della Neve, per l’altare di san Bonifazio del Duomo di Siena (ora Firenze, Pitti), ed è con arte sempre piú sot- tile che, tra annodamenti di ritmi e sfuggenti aperture lu- minose vi si esaltano, con singolarissimo sincretismo stili- stico, le nuovissime certezze prospettiche fiorentine nella irrealtà illusiva di un sognare candido e favoloso. La pre- della in particolare, con la Storia della fondazione di Santa Maria Maggiore, esprime il miracolo dell’arte del S, dove la luce del nuovo secolo spalanca dolcemente i cieli ruotanti della cosmologia medievale. Da questo momento non vi è pittore di Siena che in qualche misura non riconosca un de- bito mentale verso il S, che dal canto suo procede atten- tissimo al crescere della cultura di quegli anni, segnata- mente di quella fiorentina. Se nella Madonna e angeli del polittico di San Domenico a Cortona (ora nel Museo dio- cesano), il centro è invenzione di una cifra sempre piú squi- sitamente gotica, nelle figure dei santi laterali deriva la giu- stezza dell’impianto e la felicità delle tinte dall’arte dell’Angelico, il cui spirito era del resto congeniale, per mi- stica inclinazione, a quello senese. Non meno disformi nei fondamenti linguistici, quanto splendidamente unitari nel- la stretta sottile dello stile, sono l’Adorazione dei Magi (Sie- na, coll. Chigi Saracini) e il Viaggio dei Magi (New York, mma) facenti parte sicuramente di un’unica composizione, dove qualche luminoso barlume vi si riflette dell’abito men- tale piú fastoso di Gentile da Fabriano. E non è improba- bile, alla luce di tale constatazione, che l’opera sia ante-

Storia dell’arte Einaudi riore alla Pala della Neve, mentre piú da vicino la seguono i frammenti con la Vergine, San Giovanni e San Martino che dona il mantello al povero (Siena, coll. Chigi Saracini, pro- prietà Monte dei Paschi), della croce dipinta per la chiesa senese di San Martino, incantevoli reliquie dove si riflet- tevano col piú sottile calcolo e la piú candida immagina- zione le conquiste formali delle ricerche prospettiche to- scane. Sempre nel quarto decennio del secolo trovano luo- go alcune Madonne col Bambino (Siena, pn; Museo di Grosseto; Washington, ng) e la bellissima predella, parte di non sappiamo quale polittico perduto, con l’Orazione nell’orto, la Cattura di Cristo e l’Andata al Calvario (Detroit, Institute of Arts), dove la fantasia del S congiunge in sin- tesi personale, sotto la maschera gracile e grottesca di una umanità antieroica e sempre immaginosamente neogotica, le esperienze assommate in quegli anni di crisi postmasac- cesca della cultura toscana, in linea con l’Angelico, l’ulti- mo Masolino e Paolo Uccello. E nel 1437 per l’altare mag- giore della chiesa di Borgo San Sepolcro viene commissio- nato all’artista il grande polittico, terminato soltanto nel 1444, che presentava nel lato frontale la Madonna in trono fra i santi Antonio, Giovanni Evangelista (ora a Parigi, Lou- vre), il Beato Ranieri Rasini e Giovanni Battista (Settigna- no, coll. Berenson) e nel retro il San Francesco in estasi (ivi), e otto Storie di san Francesco (sette nella ng di Londra, una nel Museo Condé di Chantilly). Della predella resta sol- tanto un pannello con un Miracolo del Beato Ranieri (Ber- lino, sm, gg). Se questo è il capolavoro del lungo lavoro e della grande arte del S è perché vi si riflettono anche gli ideali di una civiltà morente, ma in un crepuscolo lumino- so e cristallino, il cui orizzonte prospetticamente lontano restituisce l’eco delle ultime illusioni medievali perché si decantino, come in una fiaba mistica e cortese insieme, le storie di san Francesco. Il S morì il 1˚ aprile 1450 per una malattia contratta mentre lavorava all’aperto, e precisa- mente agli affreschi di Porta Romana, commissionatigli nel 1447 dal Concistorio cittadino. Rimasti incompiuti, furo- no portati a termine qualche anno dopo da Sano di Pietro che si accinse a completare anche il polittico per San Pie- tro alle Scale, del quale il S aveva dipinto solo San Barto- lomeo (ora Siena, pn, n. 240). (cv).

Storia dell’arte Einaudi Sassi, Giovan Battista (Milano 1679-1762). Attivo per varie province lombarde (Brescia, Milano, Pavia) con cicli d’affreschi, pale d’altare e tele anche di piccolo formato eseguiti soprattutto nel terzo e quarto decennio del Settecento, fu artista ampiamente ri- chiesto dai committenti, come testimonia il numero delle opere che gli sono state riconosciute. Nulla di preciso si sa sulla sua formazione artistica, che annovererebbe, secondo le fonti (Lanzi, 1795-96), un alunnato a Napoli presso il So- limena. La prima opera pervenutaci è una Sacra Famiglia (Pa- rabiago, Sant’Ambrogio), tradizionalmente riferita al 1716, caratterizzata da accenti di cultura centro-meridionale. Nei decenni successivi, S guarderà maggiormente ad artisti lom- bardi, costruendosi uno stile caratterizzato da grazia ed ele- ganza che lo pone fra i piú raffinati interpreti del barocchetto milanese. Fra le numerose opere, sono riferibili agli anni Venti gli affreschi a Milano in Sant’Angelo e in Palazzo Stoppani, la decorazione nel Duomo di Monza (1723) e in San Francesco a Lodi (1726), gli affreschi mitologici di Pa- lazzo Modignani Pitoletti sempre a Lodi e, infine, gli itera- ti interventi (per affreschi e tele) nell’abbazia di Rodengo. Agli anni Trenta appartengono gli affreschi in Palazzo Vi- sconti Citterio a Brignago (Bergamo), in Sant’Eustorgio a Milano e varie opere a Brescia. Al decennio successivo da- tano le opere per San Vittore al Corpo a Milano e la docu- mentata decorazione nella Villa Carones Brentano a Cor- betta. (cb). Sassoferrato (Giovanni Battista Salvi, detto il) (Sassoferrato 1609 - Roma 1685). Giunse probabilmente piuttosto giovane a Roma, entrando nella bottega del Do- menichino. Segui il maestro, verso la fine degli anni Tren- ta, a Napoli, conoscendovi Francesco Cozza, anch’egli di- scepolo del Domenichino. Due quadri d’altare dipinti a Ro- ma rispettivamente nel 1641 e nel 1643, la Visione di san Francesco di Paola nell’omonima chiesa, e la Madonna del Ro- sario in Santa Sabina, attestano il relativo successo del gio- vane pittore. Ma quest’ultimo quadro non dovette piacere, poiché, tranne una Madonna col Bambino (1650) attualmen- te conservata in Vaticano, non abbiamo alcuna traccia di suoi incarichi pubblici dopo questa data. La nostalgia della

Storia dell’arte Einaudi pittura umbra del Quattrocento e di Raffaello, gli anni di apprendistato presso il Domenichino – l’artista piú fedele alle lezioni del classicismo dei Carracci – sono alla base dell’arte del S. Vide probabilmente assai presto gli esempi della pittura umbra del sec. xv, e subì il fascino dei quadri, saldi e sereni, del Perugino e dello Spagna, nonché delle pri- me opere di Raffaello. Una decina di dipinti nella Basilica di San Pietro a Perugia costituiscono un importante com- plesso di derivazioni da tali pittori; da essi il S trae il rigore d’una composizione chiara, la purezza della grafia, la sal- dezza dei personaggi, la dolcezza dei paesaggi e della luce. Esistono numerose altre copie di sua mano da Raffaello, Ga- rofalo e Tiziano. L’influsso del Domenichino si manifesta soprattutto nell’accuratezza del disegno e nella purezza del- le forme, vale a dire in un’opzione classica che, nel contesto del trionfante barocco di Pietro da Cortona, di Bernini e dei loro allievi, riveste un senso quasi polemico. Inoltre i Gabi- netti di disegni del Castello di Windsor e dell’Art Institute di Chicago conservano gran parte della sua produzione gra- fica, di solito studi preparatori accuratamente quadrettati che rivelano nell’autore qualità di disegnatore senza pari. Ma il classicismo del S si sublima in un purismo arcaizzan- te, grazie al quale attinge spesso risultati che appaiono assai vicini alle esperienze dei nazareni del sec. xix. La produzione dell’artista può essere suddivisa in tre cate- gorie: i quadri d’altare, i dipinti di devozione e i ritratti: la distinzione tra la prima e la seconda categoria è talvolta ar- bitraria, poiché il S riprende, in formato piú piccolo, perso- naggi delle composizioni maggiori. Tra i quadri d’altare van- no citati l’eccezionale Natività di Napoli (Capodimonte), a mezza strada tra Caravaggio e Cozza, e l’Annunciazione di Aspra (Casperia), capolavoro dall’audace cromatismo; tra le grandi composizioni, la Crocifissione (Urbino, gn), il Com- pianto sul corpo di Cristo (Berlino, sm, gg), la Madonna col Bambino di Dublino (ng) e di Londra (ng). La sua fama poggia soprattutto sui numerosi quadri di de- vozione. Egli infatti creò due o tre prototipi che lui e la sua bottega replicarono all’infinito, per corrispondere alle esi- genze di una numerosa clientela privata. Le immagini rap- presentano sempre la Vergine, sia col Bambino e angeli (Mi- lano, Brera e Dresda, gg) , sia da sola, a mezzo busto su fon-

Storia dell’arte Einaudi do scuro, con la testa china e le mani giunte (Dresda, gg, e Londra, ng). La semplicità della composizione, l’espressio- ne di un quieto sentimento religioso, la finezza dell’esecu- zione ne assicuravano il successo. Il S eseguì inoltre i ritratti di alcuni tra i suoi mecenati (Ritratto di Mons. Ottavio Prati: Roma, gn, Gall. Corsini; Ritratto di cardinale; Sarasota, Rin- gling Museum), che è interessante confrontare con l’analo- ga produzione del Domenichino. (abl). Sassonia Regione della media Germania, che nel Medioevo vide con- fluire le correnti piú diverse, senza peraltro arricchirsi di al- cuna opera di particolare interesse. Il sec. xv segna per l’an- tico margraviato di Meissen, che nel secolo successivo do- veva essere invaso dagli Ussiti, l’inizio della decadenza. La maggior parte del paese venne devastata, le città e i loro abi- tanti caddero in miseria, e la Riforma spogliò sistematica- mente le chiese. Non sorprende, pertanto, che le opere d’ar- te conservate in questa regione siano ancor piú rare che in Turingia. Quelle rimaste mostrano che si trattava soprat- tutto di lavori importati, provenienti, sembra, per la mag- gior parte dalla Franconia, da Norimberga, ma anche dalla Boemia, dalla Baviera o dalla Bassa S. Il sec. xv si chiudeva dunque, in questa regione, sotto auspici poco promettenti. Tuttavia la situazione doveva evolversi rapidamente dopo il 1500. La guerra degli Ussiti era ormai soltanto un ricordo, e le miniere d’argento degli Erzgebirge ristabilirono ben pre- sto la prosperità. Oltre agli scultori di fama che operarono nella regione già dopo una sola generazione, le città di Li- psia, Chemnitz, Zwickau e Dresda videro ormai sviluppar- si botteghe locali di pittura. Per i grandi incarichi, tuttavia, si continuò a rivolgersi a celebri artisti stranieri, come Grü- newald, Dürer o Hans Baldung, che operarono al servizio dell’arcivescovo di Brandeburg nella decorazione della col- legiata di Halle; o anche a Burgkmair, a pittori fiamminghi o italiani, e a quelli che, come Dürer, eseguirono altari e di- pinti per l’elettore di S Federico il Saggio. Tra i pittori che Federico il Saggio chiamò alla corte di Wit- tenberg si trovava pure Lucas Cranach il Vecchio, origina- rio della Franconia, che a 32 anni venne a Wittenberg re- standovi fino alla morte (1553) in qualità di primo pittore. Amico di Lutero e sostenitore della Riforma, fu tra i primi

Storia dell’arte Einaudi pittori a porre la sua arte al servizio della nuova dottrina pro- testante. Sin da vivo ebbe fama come pittore, ma anche co- me incisore e disegnatore. Benché la sua attività venisse eser- citata all’alba del rinascimento, non abbandonò mai la ten- sione specifica del gotico fiammeggiante per adottare forme nuove. Dopo un viaggio nei Paesi Bassi, dove scoprì i capo- lavori rinascimentali, restò fedele al suo stile, arricchendo- lo soltanto con qualche accento nuovo. Grazie a Lucas Cra- nach, il cui figlio, Lucas Cranach il Giovane, perpetuò la tra- dizione, Wittenberg restò a lungo un centro importante della pittura tedesca del sec. xvi, mentre nel sec. xviii come in ge- nerale in tutti gli Stati tedeschi, l’attività pittorica rallentò. Per la storia pittorica dei secoli XVII e XVIII → Dresda. (mwb). Sassu, Aligi (Milano 1912 - Pollença 2000). Nato a Milano da padre sar- do e da madre parmense, S manifesta precocemente il suo interesse per l’arte. Frequentando seralmente le lezioni dell’Accademia conosce Fontana, Clerici, Strada, e Manzú, con il quale, anni dopo, dividerà lo studio. Le sue prime pro- ve pittoriche sono d’ambito futurista (nel ’34 esporrà con il gruppo alla Gall. Pesaro di Milano, ma già nel ’28 era pre- sente nella sala futurista alla Biennale di Venezia). Nel ’29, costretto ad abbandonare gli studi, il suo itinerario artisti- co muta di rotta. La realtà irrompe sulle tele in un acceso cromatismo virato in rosso. Nascono gli Uomini rossi, eroi, giocatori, cavalieri, disegnati con il colore à plat in una sor- ta di primitivismo formale. Alla fine del ’34 va a Parigi do- ve conosce Severini, Léger, Campigli. Al suo rientro in Ita- lia si dedica al ciclo dei Caffè, rivisitando con foga espres- sionistica le atmosfere allucinate dei caffè francesi. Si lega a Guttuso e al critico De Grada. Nel ’35 dipinge Fucilazione nelle Asturie e insieme ai suoi amici dà vita al Gruppo rosso che opera contro il fascismo. Nel ’37, trovato dalla polizia con un manifesto sovversivo, viene arrestato e condannato a dieci anni di carcere a Fossano (Cuneo). Tornato in libertà l’anno successivo, partecipa a Corrente. Gli anni della guer- ra sono molto intensi. S dipinge martiri, deposizioni e cro- cifissioni contro la barbarie della violenza. Negli anni Cin- quanta, in isolamento, S si dedica alla scultura, all’affresco e al mosaico (compie grandi cicli in Sardegna, Liguria, Na-

Storia dell’arte Einaudi poli, Milano, Pescara). Negli anni Sessanta si trasferisce per lunghi periodi a Maiorca dove ha uno studio. I nuovi cicli sono dedicati alla Spagna e alle tauromachie. In questi anni espone piú volte alla Galleria Trentadue di Milano. Nel 1983 illustra i Promessi Sposi, che costituiranno il tema di diver- se mostre itineranti e nell’84 il Palazzo dei Diamanti di Fer- rara presenta una sua antologica. Nell’87 pubblica le illu- strazioni ai Sepolcri di Foscolo ed espone il ciclo della Divi- na Commedia (al Castello Gizzi in provincia di Pescara). Appartengono agli anni Ottanta la serie di tele a soggetto mitologico. Nel ’92 ha una personale a San Paolo, in Brasi- le. (adg). Sassuolo Palazzo Ducale Dal 1634 ebbero inizio le decorazioni del castello di S, di cui proprio allora era terminata la trasfor- mazione in residenza estiva della corte estense di Modena. Molti nomi di artisti che vi lavorarono rimangono docu- mentati da pagamenti, mentre ancora rimangono da chiari- re meglio gli aspetti di gusto, a significato dei programmi iconografici e le motivazioni di alcune scelte di artisti. Que- sto palazzo infatti, insieme con quello di città, proprio per essere anch’esso un luogo fortemente simbolico, è tra le mag- giori testimonianze della politica culturale degli Estensi nel Seicento. I progetti vennero richiesti ad architetti romani: prima Gi- rolamo Rainaldi, poi Bartolomeo Luigi Avanzini. Dopo il 1650 anche il Bernini prestò la sua consulenza, soprattutto per le fontane. Dal 1638 il maggior responsabile delle decorazioni di figu- ra è un pittore francese, Jean Boulanger, non noto per altri lavori. A partire dal 1644 lo affianca per qualche tempo an- che l’urbinate Girolamo Cialdieri. Nel 1652, quando si ag- giungono alla decorazione delle sale anche le quadrature di Mitelli e Colonna, e poi di Bianchi e Monti, esponenti del grande gusto che da Bologna si preparava a diffondersi per tutta l’Europa, il Boulanger esegue le parti di figura nella magnifica Galleria di Bacco, dove un’idea decorativa nuo- vissima, con finte architetture, finti arazzi e medaglioni, comprende anche una profusione di elementi vegetali, di- pinti con mano da specialisti dai due fratelli milanesi Pier Francesco e Carlo Cittadini. (acf).

Storia dell’arte Einaudi Saura, Antonio (Huesca 1930). Gli esordi dell’artista, che inizia a dipinge- re nel 1947 in seguito a una lunga malattia, sono intonati al surrealismo da cui mutua la pratica della scrittura automa- tica, ma il carattere dinamico, intrinseco alla sua pittura, fa presto esplodere le forme in un astrattismo lirico di caratte- re espressionista. Oltre all’uso di colori sordi, si individua- no, sulle tele, effetti di raschiatura e ampie colature. Tali ri- cerche compiute nel campo della non-figurazione informale sfociano, verso il 1956, nella creazione di personaggi imma- ginari. Da questo momento S dipingerà e disegnerà soltan- to figure «sfigurate» da una interna tensione e da un senti- mento di denuncia sociale. La ricognizione iconografica del- la pittura di S di questo periodo consente di individuare tre temi fondamentali e costanti: le figure femminili (dal ’56 al ’59), i «crocifissi» (nel ’58-59), i curas (preti: nel ’59-60). Profondamente spagnola, la sua opera traduce il senso tra- gico della vita, l’angoscia del destino, e attraverso l’inten- sità del rosso, del nero e del bianco, appena temperati dalle mezze tinte del grigio argento, raggiunge una funerea son- tuosità. Fatta esclusione per periodici soggiorni a Parigi, S vive a Madrid, dove nel 1957 ha fondato il gruppo El Paso con i compatrioti Millares, Canogar e Feito. Nello stesso an- no ha esposto per la prima volta a Parigi alcuni suoi dipinti nella Gall. Stadler, che in seguito ne ha organizzato le nu- merose personali (dal 1959 al 1977). Nel 1961 esegue la pri- ma scultura in metallo saldato. Dopo aver esposto a New York (Gall. Pierre Matisse: 1961, 1964, 1971), nel 1979 lo sm di Amsterdam, gli dedica un’ampia retrospettiva, poi tra- sferita alla kh di Dússeldorf. Nel 1980 ha luogo, presso la Fondazione J. Miró, di Barcellona, l’Exposicion Antologica. 1948-1980, accompagnata dall’edizione del catalogo mono- grafico. Nel 1981 presenta i Portraits Raissones, presso la Stadler di Parigi che gli dedica nuovamente una personale nel 1987. Accanto ai dipinti S ha eseguito numerose opere grafiche, ritagli, collages, utilizzando una tecnica mista d’olio e d’inchiostro. È rappresentato in particolare a Barcellona (mam: Paola, 1959), Amsterdam (sm: Infante, 1960), Pitt- sburgb (Carnegie Institute: Ritratto immaginario di Goya, 1963), Parigi (mnam: Ritratto immaginario di Tintoretto, 1967). (rvg).

Storia dell’arte Einaudi Saut-du-Perron In questo sito archeologico (Francia, Loira), scavato dal 1931 in poi, sono state rinvenute importanti vestigia di un abita- to, con centri d’industria litica databili al Perigordiano su- periore e al Maddaleniano. Numerosi i ritrovamenti di plac- chette di scisto ornate da fini incisioni, in particolare nel sito chiamato Goutte Roffat. Gli animali rappresentati (bi- sonti, cavalli, renne) sono raffigurati singolarmente o asso- ciati su una stessa placchetta, Presentano le consuete ca- ratteristiche del Maddaleniano; si tratterebbe del Madda- leniano II, anche se la presenza della renna insieme al cavallo ha indotto Leroi-Gourban a proporre una data piú recente. (yt). Sauvage, Piat-Joseph (Tournai 1744-1818). Fu essenzialmente decoratore; in- fluenzato dai dipinti illusionistici di Jacob de Wit, eseguì grisailles nella sua città natale (opere al mba), per le dimore reali della regione parigina (Compiègne) e per chiese di pro- vincia (Tre angeli: Orléans, mba). Venne accolto nell’Acca- demia nel 1783. È rappresentato in vari musei francesi, par- ticolarmente a Bordeaux (mba: Omaggio a Pan), nonché a New York (mma: Venere e Cupido, il Trionfo di Bacco). (cc). Savery Jacob I (Courtrai 1565 ca. - Amsterdam 1602/603). Allievo di Hans Bol, la sua presenza è documentata ad Amsterdam nel 1591. Se ne conoscono un certo numero di disegni a pen- na, eleganti e accurati, che rivelano grande affinità con l’ope- ra di Pieter Bruegel il Vecchio (Londra, vam; Parigi, Istitu- to olandese; Berlino, Gabinetto delle stampe; Amsterdam, Gabinetto delle stampe), nonché alcuni dipinti di paesaggi, di animali e di genere, come la Figlia di Iefte (Amsterdam, Rijksmuseum). Fu padre di Jacob H (Amsterdam 1592 ca. - dopo il 1627). Roelandt (Courtrai 1576 - Utrecht 1639), fratello minore di Jacob I, lo accompagnò intorno al 1591 ad Amsterdam, dove subì l’influsso di Gillis III van Coninxloo. Nel 1604 si recò a Praga, al servizio dell’imperatore Rodolfo II, con artisti fiamminghi come Aegidius Sadeler, Georg Hoefna- gel e Spranger. Se si escludono un Sacco di villaggio (1604:

Storia dell’arte Einaudi Courtrai, Museo), una Marcia di cavalieri ungheresi (Parigi, Louvre), un Interno di stalla (1615: Amsterdam, Rijksmu- seum) e alcuni quadri di fiori (Utrecht, Museo) e di anima- li (Rotterdam, bvb; Anversa, Museo) la sua opera è dedica- ta alla rappresentazione di paesaggi fantastici ispirati al Ti- rolo, animati da bestie e uccelli selvaggi o domestici (Vienna, km; San Pietroburgo, Ermitage; Amsterdam, Rijk- smuseurn; Monaco, ap; musei di Praga, Bruxelles, Ambur- go, Hannover, Courtrai, Gand, Verviers), spesso inseriti in una scena biblica o mitologica: Elia nutrito dai corvi (1634: Amsterdam, Rijksmuseum), l’Arca di Noè (Dresda, gg e Varsavia, Museo), il Paradiso terrestre (Berlino, sm, gg e Vienna, km), Orfeo mentre incanta gli animali (Parigi, Lou- vre; musei di Anversa e di Gottinga; L’Aja, Mauritshuis; Vienna, km). Dopo la morte dell’imperatore nel 1612, Roelandt trascor- se alcuni mesi a Vienna, Monaco e Salisburgo, per poi tor- nare nei Paesi Bassi. Nel 1618 fu ad Amsterdam e ad Haar- lem, e l’anno seguente si stabili a Utrecht, ove morì nel 1639. Tra i suoi allievi Willem van Nieulandt, Gillis Hondecoeter e Allaert van Everdingen. (jl). Savickij, Konstantin Apollonovi™ (?1844 - ? 1905). Allievo dell’Accademia di San Pietrobur- go, che gli concesse una borsa di studio per la Francia, nel 1874 aderì ai Peredvi∆niki, di cui condivise lo spirito: La- vori sulla strada ferrata (1874: Mosca, Gall. Tret´jakov), Par- tenza per la guerra (1879: San Pietroburgo, Museo russo). Ac- quafortista e litografo, lavorò anche per l’illustrazione di li- bri. (bl). Savin, Istoma (fine sec. xvi - inizio sec. xvii). Coi figli Niceforo e Nazario (ancora attivi nella seconda metà del sec. xvii), operò per gli Stroganoff, nonché per lo zar. Le loro opere si distinguono per la minuzia del lavoro e lo splendore dei colori. Tra le ico- ne conservate a Mosca, Gall. Tret´jakov, vanno segnalate la Guarigione del cieco di Istoma, la Vergine con bambino di Na- zario (1614) e l’icona di Niceforo che rappresenta l’inse- gnamento dei santi Basilio, Gregorio Nazianzeno e Giovanni Crisostomo, fonti della Saggezza. (sdn).

Storia dell’arte Einaudi Savinio, Alberto (Andrea De Chirico) (Atene 1891 - Roma 1952). Come per il fratello Giorgio De Chirico, l’infanzia e l’adolescenza in Grecia al seguito del padre, ingegnere ferroviario, forniscono le basi di una mi- tografia personale alimentata negli anni, che porta i due fra- telli a identificarsi ora nei Dioscuri, ora negli Argonauti, ren- dendo familiari e insieme irraggiungibili segni e ricordi del passato classico. La formazione e l’esordio artistico di An- drea De Chirico si pongono sotto il segno della ricerca mu- sicale, dagli studi presso il Conservatorio di Atene agli in- contri – tra Monaco e Milano – con i compositori Reger e Mascagni, alla prima apparizione pubblica nel maggio del 1914 a Parigi. Nella capitale francese si era trasferito nel igio, raggiunto l’anno successivo dal fratello, ed era entrato subito in contatto con gli ambienti dell’avanguardia artisti- ca e letteraria. Per il concerto d’esordio, nella sede della ri- vista «Les Soirées de Paris», adotta lo pseudonimo cui affi- da il compito di distinguerlo dal fratello pittore e col quale pubblica sulla rivista di Apollinaire il testo della pantomima Les chants de la mi-mort, per cui disegna i bozzetti – perdu- ti – di scene e costumi. Quando l’Italia entra in guerra i fra- telli De Chirico lasciano la Francia e, arruolatisi, sono asse- gnati a un reggimento di Ferrara, dove in seguito all’incon- tro con Carrà e De Pisis giunge a definizione la poetica metafisica. Da Ferrara S stabilisce contatti con l’ambiente fiorentino e con i dadaisti zurighesi, collaborando alle rivi- ste «La Voce», «Dada», «Nord-Sud», «Noi». Finita la guerra si trasferisce a Roma, dove la collaborazio- ne a «Valori Plastici» e «La Ronda» è occasione per un si- gnificativo impegno di riflessione critica intorno al tema dell’autonomia dell’arte. A Roma riprende anche l’attività musicale, mettendo in scena nel ’25 al teatro Odescalchi Morte di Niobe, con musica sua e scene e costumi del fratel- lo. Pur in presenza di alcune testimonianze contrastanti, pa- re opportuno riferire ai mesi immediatamente precedenti il trasferimento a Parigi, nel 1926, l’inizio della sua produ- zione figurativa, con disegni, tempere e collages in cui – ac- canto a ricordi di Böcklin e a tracce di ironia di ascendenza dadaista – sono rielaborati temi presenti fin dagli anni Die- ci nella sua scrittura narrativa e nella pittura del fratello. Do- po la prima personale parigina, alla Galleria Georges

Storia dell’arte Einaudi Bernheim con una presentazione di Jean Cocteau, la produ- zione pittorica di S si rivolge a un arcaismo insieme storico e geologico, attraverso l’accostamento incongruo di fram- menti di statue, di edifici, di arredi (Le rêve du poète, 1927: coll. priv.) e poi con l’invenzione di inedite immagini di me- tamorfosi del reale (Ulisse e Polifemo, 1929: Colonia, Museo Ludwig). S coltiva i contatti con i pittori italiani residenti a Parigi e, nonostante la rottura intercorsa tra Giorgio De Chi- rico e i surrealisti, anche con alcuni esponenti di questo mo- vimento. A partire dal ’32 una serie di sue personali viene organizzata a Torino, Firenze, Milano, Roma e nel ’34 S si stabilisce di nuovo in Italia, prima a Milano e poi definiti- vamente a Roma. All’iniziale fervore espositivo, esteso an- che al tema della pittura murale, corrisponde presto una nuo- va fase di isolamento, con il conseguente concentrarsi dell’impegno creativo nel campo della letteratura, mentre sul versante dell’illustrazione e della grafica tornano i temi toccati nel decennio precedente. La pittura dell’ultimo do- poguerra è caratterizzata da umori via via piú aspri, ma sem- pre mantenuti in bilico tra tragedia e caricatura (Promena- de, 1947: coll. priv.), mentre dal ’48 riprende importanza l’attività teatrale, attraverso scenografle, regie e composi- zioni realizzate in collaborazione con il Teatro alla Scala e il Maggio fiorentino. Dopo un primo risveglio di interesse da- tabile alla metà degli anni Sessanta, la piena rivalutazione critica della sua attività letteraria e figurativa è stata avvia- ta dalla retrospettiva milanese del 1976. (mtr). Savoia Con l’assestamento del potere da parte di Amedeo VIII, cul- minato nel 1416 con l’innalzamento al titolo ducale e nel 1418 con l’ampliamento dei confini a Torino e alla parte pie- montese del suo territorio, la S assume il ruolo di importan- te «Paßstaat», di stato di confine in grado di proporre una cultura che dialoga alla pari con le proposte di entrambi i ver- santi alpini. È un ruolo di cerniera che la regione aveva pe- raltro già svolto in precedenza: si veda il caso degli affreschi della chiesa di Saint-Martin ad Aime, eseguiti nella seconda metà del Duecento dalla bottega padana, mediatrice di cul- tura bizantineggiante, responsabile del ciclo del Battistero di Parma, oltre che della decorazione della facciata di Sant’An-

Storia dell’arte Einaudi tonio di Ranverso, lungo la via francigena. Tra il 1314 e il 1348 è pittore di corte dei conti di S il fiorentino Giorgio dell’Aquila, del quale non sono pervenute opere sebbene i documenti lo indichino attivo per i castelli di Chambéry e di Pinerolo, oltre che per la cappella sepolcrale dei S ad Hau- tecombe. Altri documenti parlano della presenza di «maistre Boso», un savoiardo che risulta al servizio del conte di S nel 1389 e 1390; nel 1406 egli parte da Chambéry alla volta del castello di Pont d’Ain per dipingere insegne del signore, men- tre nel 1409 lavora nella cappella del castello di Thonon. For- se si tratta dello stesso maestro operoso anche alla corte di Borgogna nel 1401, cosa non improbabile dato che Amedeo VIII è il nipote di Jean de Berry. La corte sabauda si mantiene itinerante tra vari centri a ca- vallo delle Alpi (tra cui Chambéry, Thonon, Ripaille, Gine- vra, Torino) nei quali promuove un deciso rinnovamento di palazzi, cappelle e chiese; una di queste realizzazioni è la Sainte-Chapelle del castello di Chambéry (dove si custodi- va la piú importante reliquia sabauda, la Sindone), nella cui decorazione vengono coinvolti artisti di diversa origine. Ol- tre agli artisti chiamati per questi cantieri, compare nei do- cumenti la figura di un vero e proprio pittore di corte, cari- ca che viene assunta, dal 1413, dal veneziano Gregorio Bo- no. Di questo personaggio, la cui provenienza indica la disponibilità all’apertura culturale della S, non resta pur- troppo alcuna opera collegabile alle notizie che lo dicono at- tivo a Chambéry, dove dipinge per la cappella del castello. Nel 1416 viene inviato a Lione per copiare i rilievi del por- tale della Cattedrale, mentre in seguito risulta a lungo atti- vo per il monastero di Hautecombe: a questa tappa della sua carriera la critica ha proposto di riferire una piccola tavola raffigurante la Crocifissione (Hautecombe, abbazia). A ulte- riore dimostrazione degli intrecci culturali favoriti dalla com- mittenza savoiarda, egli nel 1440 entra in società con il pit- tore e maestro di vetrate Johannes Witz (probabilmente im- parentato con il piú noto Konrad, il quale nel 1444 fornisce l’altare per la Cattedrale di Ginevra). Per la miniatura, la corte si rivolge a protagonisti come Pero- net Lamy (del Giura) e Jean Bapteur di Friburgo: essi sono ri- cordati insieme a proposito della realizzazione della Apocalis- se di Amedeo VIII (Madrid, Biblioteca dell’Escorial), ma lavo- rano anche alla decorazione del castello di Thonon nel 1432.

Storia dell’arte Einaudi In questo contesto si inserisce la figura del piú noto Giaco- mo Jaquerio, appartenente a una famiglia di pittori torine- si, attivo dal 1401 a piú riprese per la corte savoiarda (a Gi- nevra e Thonon) come per il ramo S-Acaja (nei castelli di To- rino e Pinerolo). L’influenza del suo raffinato linguaggio gotico-internazionale si mantiene costante in tutta l’area del ducato, come si legge ad esempio negli affreschi della chie- sa di Saint-Gervais a Ginevra (databili al 1446-49, in cui si trova raffigurato Felice V, nome con il quale Amedeo VIII ha assunto dal Concilio di Basilea l’investitura papale), op- pure nella decorazione del chiostro dell’abbazia di Abon- dance. Ma questo linguaggio rimane a lungo normativo in particolare nel versante piemontese: si vedano ad esempio il ciclo della chiesa di San Pietro a Pianezza, l’attività di Ai- mone Duce, oppure gli sviluppi di un centro come Chieri, dove Guglielmetto Fantini, un maestro di formazione Ja- queriana, si confronta con la pittura fiamminga voluta dai raffinati committenti locali. (sba). Savoldo, Giovanni Gerolamo (Brescia 1480/85 ca. - dopo il 1548). Sono molto scarsi i da- ti documentari relativi all’artista bresciano, nato verosimil- mente sul 1480-85: la prima citazione è del 1508 e appare singolarmente fuori contesto, in quanto il nome del S figu- ra nel libro della Matricola dell’Arte dei Medici e degli Spe- ziali di Firenze. Mancano quindi testimonianze sicure fra le quali non si può includere quella settecentesca del Macca- rinelli secondo il quale l’artista all’incirca nel 1514 lavorava al Compianto di Cristo nella chiesa bresciana di Santa Croce – fino al 1520 in cui firma la tavola delle Gallerie dell’Ac- cademia a Venezia con i Santi eremiti Antonio e Paolo; men- tre l’anno successivo possiamo seguire dettagliatamente i suoi lavori alla Madonna e santi in San Nicolò a Treviso, ri- masta incompiuta dopo la misteriosa fuga dalla città del pit- tore Fra Marco Pensaben, al quale era stata in origine com- missionata. Il dipinto, già impostato secondo uno schema belliniano, fu ripreso e ampiamente rinnovato dal S, al qua- le si deve anche l’invenzione, non certo imputabile al mo- desto Pensaben, dell’angelo musicante ai piedi del trono. Del 1524 è la commissione per la Madonna in gloria fra an- geli e quattro santi già in San Domenico a Pesaro e dal 1811

Storia dell’arte Einaudi nella Pinacoteca di Brera a Milano, eseguita probabilmente a Venezia tra il 1524 e il 1526, e una data analoga è stata proposta anche per il Riposo durante la fuga in Egitto della collezione Castelbarco Albani di Milano, un tempo pure ubi- cata a Pesaro. Nell’ottobre del 1526 il S fa testamento a Ve- nezia, dove risiede da tempo, nonainando erede universale la moglie, «Marija fijamenga de Tilandrija», una vedova fiamminga che dal precedente matrimonio aveva avuto una figlia, Elisabetta, la quale all’epoca del testamento aveva già della prole. La data 1527 appariva sull’Adorazione del Bam- bino delle collezioni reali di Hampton Court: nello stesso an- no, nel 1528 e nel 1532 apprendiamo da fonti diverse della presenza di dipinti del S in prestigiose collezioni private ve- neziane, e ancora nel 1527 eseguiva a Venezia un San Ge- rolamo per la famiglia Averoldi di Brescia, ipoteticamente identifica in quello della ng di Londra. Intorno al 1530, se- condo quanto riferisce l’allievo Paolo Pino, l’artista fu ope- roso per Francesco II Sforza, duca di Milano; e anche il Va- sari ricorda alla Zecca di Milano «quattro quadri di notte e di fuochi», testimoniando un’attività milanese del S di cui non possediamo ulteriori informazioni; nello stesso anno vie- ne inoltre menzionato in una lettera di Gerolamo Genga. Nel 1532 ritorna ad essere documentato a Venezia, fra gli esecutori testamentari dell’orefice Bernardino de Bexana; mentre la data 1533 appariva un tempo segnata sulla Ma- donna e quattro santi in Santa Maria in Organo a Verona. Tra il 1537 e il 1538 esegue la pala per l’altare maggiore del- la chiesa di Santa Croce a Brescia, una Deposizione che è sta- ta identificata con qualche forzatura in quella già nel Kaiser Friedrich Museum di Berlino, distrutta nell’ultimo conflit- to mondiale. Nel 1539 l’artista è sempre a Venezia, dove esegue il Flautista già Contini Bonacossi (ora in coll. priv. statunitense), mentre l’anno successivo dipinge le due tavo- le molto simili con la Natività, quella in San Giobbe a Ve- nezia e quella già in San Barnaba a Brescia (ora nella Pina- coteca Tosio Martinengo). Le ultime citazioni dell’artista, infine, sono del 1548: un atto di vendita rogato a Venezia figura come testimone, il Dialogo della pittura di Paolo Pino, pubblicato in quell’anno, e la nota lettera di Pietro Aretino al pittore bresciano Giovan Maria Fadino, pittore brescia- no dalla quale si apprende che il S è ancora vivo ma «vec- chione» e viene lamentata «la di lui decrepitudine».

Storia dell’arte Einaudi Risulta piuttosto complessa la ricostruzione critica della gio- vinezza dell’artista, dopo l’espunzione dal suo catalogo di un nucleo di dipinti siglati HIRTV riunito dal Longhi (Rouen, mba; Roma, Gall. Borghese; Bologna, San Giovanni in Monte; ecc.) e probabilmente da restituire a Gerolamo da Treviso il giovane, e dell’Arcangelo e Tobiolo della raccolta Viezzoli di Genova, giustamente restituito alla fase giova- nile del Moretto; e dopo il ritrovamento della data 1520 sul dipinto dell’Accademia di Venezia, che corregge il tradizio- nale riferimento al 1510. Con questo ultimo spostamento cronologico viene a mancare qualsiasi appiglio documenta- rio per poter verificare su basi affidabili la prima attività dell’artista, e circa un ventennio di produzione resta anco- ra difficilmente decifrabile, in opere oscillanti fra una serie alquanto eterogenea di influssi lombardi, fiamminghi e ve- neti. Sono stati ampiamente sottolineati i variabili orizzon- ti figurativi del S, rintracciabili in primis nel solco lombardo dei precedenti caravaggeschi, con una decisa fedeltà alla tra- dizione del Foppa e del Bergognone e l’autonomia dalla scuo- la veneziana, dalla quale saprà trarre tuttavia spunti non se- condari e la forte attenzione alle novità nordiche e fiam- minghe, in sintonia con i moti di inquietudine al classicismo veneziano in atto nella terraferma veneta. Solo di recente sono stati approfonditi i rapporti fra la prima attività del S con la cultura milanese fra Quattro e Cinquecento, in par- ticolare con gli esponenti di maggior spicco del leonardismo, come Giovan Antonio Boltraffio o gli artisti lombardi mag- giormente compromessi con la pittura veneziana, come An- drea Solario e Giovanni Agostino da Lodi, il cosiddetto Pseudo-Boccaccino. In questa fase sono stati riuniti il Ri- poso durante la fuga in Egitto della collezione von Loetzbech di Nannhofen (Augusta), l’Elia alimentato da un corvo della Kress (Washington, ng), la Deposizione (Vienna, km) e il ci- tato dipinto delle Gallerie dell’Accademia che assume il ruo- lo fondamentale di ante quem per la datazione di queste ope- re. L’accertata e precoce suggestione fiamminga (affasci- nante in questo senso la coincidenza della nazionalità della moglie dell’artista) appare un’altra delle fonti visive del S: un vero e proprio omaggio a Bosch – le cui opere erano vi- sibili nelle collezioni veneziane (e non è neppure escluso un soggiorno italiano dell’artista fiammingo) – sono le due re-

Storia dell’arte Einaudi dazioni delle Tentazioni di sant’Antonio abate (Mosca, Mu- seo Pu∫kin; San Diego, Timken ag); mentre ricordi precisi del Patinir riaffiorano di continuo nella pittura del brescia- no, con una concezione paesaggistica che prelude a quella dell’Elsheimer. L’attenzione tutt’altro che ovvia alla pittu- ra fiamminga piuttosto che a quella veneziana, da parte di un artista attivo a Venezia conferma nella convinzione di un S che non nasce giorgionesco, come tradizionalmente rico- nosciuto da parte della critica: il suo accostamento ai testi della pittura veneziana avviene a una data piuttosto avan- zata nel suo percorso, e precisamente a partire dal 1521, quando interviene al completamento della pala di San Nic- colò a Treviso, in cui l’angelo musico rivela inequivocabil- mente le meditazioni dell’artista su Tiziano, avvertibili an- che nell’Adozione dei pastori della Galleria Sabauda di Tori- no e in altri dipinti del terzo decennio del secolo. E giorgionismo di opere come il cosiddetto Ritratto di Gaston de Foix del Louvre appare quasi esclusivamente di ordine ti- pologico; mentre il S appare singolarmente suggestionato dall’ampiezza e dalla profondità degli orizzonti mentali di Lorenzo Lotto, la cui presenza a Venezia tra il 1526 e il 1529 coincide con il momento di sua massima influenza sul pit- tore bresciano. (mat). Savona Città marinara dal Medioevo e sede vescovile, S è caratte- rizzata da una notevole apertura culturale già nei secoli xiii-xvi. Della Croce-reliquiario donata da Pietro Gara alla Cattedrale, non sicuramente ab origine nella città, sono sta- te sottolineate le affinità con alcune sculture del Duomo ge- novese. Il Trecento, purtroppo non ricchissimo di testimo- nianze, vede il prevalere della tendenza filotoscana nell’af- fresco danneggiato della Cattedrale con San Giorgio e un cavaliere, vicino all’ambiente pisano, mentre il giottismo riformato diffusosi in area mediterranea è evidente nel po- littico con la Madonna e santi (oggi Albi, Cattedrale) prove- niente dall’Oratorio di San Bernardino a Lavagnola, en- trambi collocabili nel decennio 1340-1350. Con l’anticipo «ornato» di Nicolò da Voltri, nel Quattrocento si assiste a un radicale mutamento d’indirizzo. Anche per motivi poli- tici, prevarranno esponenti dell’area lombardo-fiamminga e provenzale, da Donato de’ Bardi nella splendida Crocifis-

Storia dell’arte Einaudi sione di metà secolo (pc) a Vincenzo Foppa nei polittici con la Madonna e santi (pc e Santa Maria di Castello) a Giovan- ni Mazone, nei polittici e negli affreschi per la cappella di Sisto IV, legati alle prestigiose commissioni dei Della Ro- vere e degli altri membri della classe dirigente, a Ludovico Brea (polittico dell’Assunzione della Vergine: Museo della Cattedrale). Perduta la propria indipendenza nel 1528, S ap- parirà sempre più legata a Genova, anche dal punto di vista culturale. Dai primi decenni del Cinquecento, vi lavoreran- no gli artisti piú fortunati in area genovese, da Luca Cam- biaso a Orazio de Ferrari, G. B. Carlone, D. Fiasella, D. Piola, B. Biscaino nel Seicento, le cui opere sono in buona parte conservate nella pc e nelle chiese; fino agli anni cen- trali del Settecento, quando sarà S a dare il suo contributo alla cultura genovese con le personalità di Giovanni Agosti- no Ratti e del figlio Carlo Giuseppe. (adg). Pinacoteca Civica L’idea di creare in città una istituzione musicale in grado di accogliere le opere d’arte di proprietà del Comune, risale al 1868, quando viene istituita una com- missione comunale preposta a questo scopo. A una prima si- stemazione, che accoglieva anche le opere raccolte dai con- venti soppressi, si giunge nel 1879, in seguito all’interven- to di Domenico Buscaglia; ma i locali occupati, già appartenenti all’Ospedale di San Paolo, devono presto es- sere abbandonati, costringendo a ritirare le opere in depo- sito fino al 1894, quando si rendono disponibili alcuni loca- li dell’ex convento dei padri Missionari in via Quarda. Ar- tefice principale di questa sistemazione è lo storico e archeologo Vittorio Poggi, il quale nel 1901, anno dell’inau- gurazione della nuova sede, pubblica un primo catalogo. Le collezioni comunali vengono incrementate nel corso del No- vecento anche grazie ad alcuni lasciti (tra i quali quello del pittore Eso Peluzzi), e sono piú volte spostate e provviso- riamente sistemate fino a quando il museo, nel 1961, viene riaperto al pubblico nella sede di Palazzo Pozzobonelli. Il patrimonio del museo riveste una grande importanza per tut- to il percorso della pittura ligure, fin dagli esordi dipenden- ti dalla Toscana per cui si segnala la Madonna col Bambino e quattro angeli di Taddeo di Bartolo; particolare interesse as- sume però il nucleo di pittura quattrocentesca, con i già ci- tati capolavori di Donato de’ Bardi e di Foppa, accanto ai

Storia dell’arte Einaudi quali vanno segnalati i due polittici di Giovanni Mazone (Annunciazione e santi, Adorazione del Bambino e Santi fran- cescani). Numerosi sono poi i dipinti del Seicento, soprat- tutto figure, con una significativa campionatura che va da Orazio de Ferrari (Sacrificio di Isacco, Cristo alla colonna), a Valerio Castello (Pietà), a Domenico Piola (Cristo appare a san Giovanni della croce). (sba). Savonanzi, Emilio (Bologna 1580 - Camerino 1660). Si dedica abbastanza tar- di alla pittura accostandosi, dopo un breve apprendistato presso gli anziani Cremonini e Calvaert, a Ludovico Car- racci, al Reni e al giovane Guercino. Dell’attività bologne- se, restano scarse testimonianze (Deposizione: Bologna, pc; Sacra Famiglia: Firenze, Uffizi). Trasferitosi a Roma, dove rimane dal 1620 al 1640, si orienta sui modi del Lanfranco e non risulta insensibile alla cultura caravaggesca (Santa Ci- riaca fa seppellire i morti: San Lorenzo fuori le mura). La for- ma solida e lumescente del Lanfranco e la cromia guercine- sca convivono anche nella Morte di Adone (Roma, Capito- lina). Un momento successivo, caratterizzato in senso classicistico, risente dell’influsso del Sacchi, col quale il S collabora nella decorazione della Farmacia del Collegio ro- mano. Circa l’attività successiva al trasferimento nelle Mar- che, a Camerino, dal corpus del S vanno espunti gli affre- schi della chiesa delle Mosse, opere certe del perugino An- ton Maria Fabrizi, e quel nel Duomo di Camerino e in San Martino ad Esanatoglia, dell’assisiate Giacomo Giorgetti. (ff + sr). Savrasov, Aleksej Kontradjevi™ (Mosca 1830-97). Dopo una fase iniziale nei primi anni ’50, nella quale si dimostra paesaggista tardoromantico in grado di contemperare sapientemente gli effetti luministici e quel- li drammatici, S inizia un progressivo allontanamento da questo stile d’effetto e sviluppa un sempre piú personale e libero linguaggio pittorico che lo porterà a divenire uno dei massimi promotori del paesaggio realistico nella Russia dell’Ottocento. Membro degli Ambulanti dal 1871 al 1882, partecipò con successo alle loro mostre, contribuendo, con F. Vassiljev, a sganciare la pittura di paesaggio dalle paludi romanticheggianti e accademiche in cui ristagnava con Le-

Storia dell’arte Einaudi bedev e √™edrin, riavvivandola con un potente tocco lirico ispirato dalle modeste bellezze della natura russa (Villaggio, 1867; Mosca, Gall. Tret´jakov; Notte di luna, 1870: Serpu- chov, Museo d’arte). Sono arrivati i corvi (1871: Mosca, Gall. Tret´jakov) può essere considerato il suo capolavoro, di la- conica e intensa precisione descrittiva, a cui fa seguito una folta serie di tele che non sempre riusciranno a raggiungere l’immediatezza espressiva e raccolta di quello (La strada del villaggio, 1873: ivi; Arcobaleno, 1875: San Pietroburgo, Mu- seo russo). In qualità di docente di paesaggio alla Scuola di belle arti di Mosca, esercitò grande influsso su tutta una ge- nerazione di pittori paesaggisti della fine del secolo (Levi- tan, Korovin, Svetoslavskij e altri). (xm + scas). Saxl, Fritz (Vienna 1890 - Dulvich 1948). Studiò a Vienna con Max Dvo≈ák e a Berlino con Heinrich Wölfflin sostenendo la pro- pria tesi di dottorato a Vienna nel 1912, con argomento Rembrandt. Per via del suo interesse per le immagini astro- logiche nel 1911 entra in contatto con Aby Warburg. L’ini- zio della collaborazione tra i due studiosi è testimoniato dal- la nota di Warburg in margine al contributo di S, Beiträge zu einer Geschichte der Planetendarstellungen im Orient und im Okzident, del 1912. Sempre nel 1912 è a Roma come borsi- sta dell’Istituto Austriaco di Cultura dove comincia la com- pilazione del grande Verzeichnis astrologischer und mytholo- gischer illustrierter Handschriften der Lateinischen Mittelalters in Römischen Bibliotheken (3 voll., pubblicati nel 1915, 1927 e 1953) – Questo lavoro doveva essere il risultato dell’in- contro con Warburg interessato come S al significato e alla sopravvivenza delle antiche simbologie della mitologia pa- gana attraverso il Medioevo, riemerse e assorbite nella cul- tura del rinascimento. Nel 1913 S si trasferisce ad Ambur- go per lavorare come assistente di Warburg. Dopo essere sta- to richiamato in Austria e mobilitato sul fronte italiano per quattro anni, nel 1919, ammalatosi Warburg, S viene ri- chiesto ad Amburgo per occuparsi della biblioteca assu- mendone la direzione dopo la morte di Warburg (1929) e trasformandola in istituto di ricerca pur mantenendone l’im- pronta warburghiana. Avvalendosi della collaborazione fat- tiva di docenti della nuova Università di Amburgo come

Storia dell’arte Einaudi Ernst Cassirer, Erwin Panofsky, Karl Reinhardt, Richard Salomon, S trasforma la biblioteca in un centro di studi in- ternazionali, con relative pubblicazioni di articoli, saggi, con- ferenze (Studien der Bibliothek Warburg, poi Studies of the Warburg Institute). Tra questi, nel 1923, S ed E. Panofsky pubblicano il loro Dürers «Melancolia I», poi ripreso e am- pliato dopo la morte di S, con la collaborazione di R. Kli- bansky con il titolo Saturn and Melancholy. Studien in the Hi- story of Natural Philosophy Religion and Art (London 1964, trad. it. Torino 1983), capitale saggio di ricerca su un’im- magine, la Melanconia, seguita nel corso delle sue mutazio- ni storiche. S cura la mostra astrologica ideata da Warburg e a cui collaboreranno Albert Einstein e Finlay-Freundlich per il planetario di Amburgo; nel 1931 pubblica Mytras, Ty- pengeschichtliche Untersuchungen, considerato da Gertrud Bing il suo studio principale dedicato ai rapporti tra icono- grafia cristiana e pagana; con E. Panofsky, Classical Mitho- logy in Medieval Art (1932-1933); tiene la celebre conferen- za, La fede astrologica di Agostino Chigi. Interpretazione dei dipinti di Baldassarre Peruzzi nella Sala di Galatea della Far- nesina (in R. Accademia d’Italia, collezione La Farnesina, 1, 1934). A S si deve l’importante e coraggioso trasferimento della biblioteca a Londra, avvenuto nel 1933 per sfuggire al- le persecuzioni naziste: centro privato di studi, con il nome di Warburg Institute è incorporata nel 1944 nell’Università londinese. Si rafforza intanto la funzione divulgativa, di rac- colta di materiale visivo dell’Istituto. Dal 1937 inizia la pub- blicazione del «Journal of Warburg Institute» a cui S colla- bora con numerosi contributi sul rinascimento e sul tardo Medioevo. In seguito nasce in S l’interesse per la scultura britannica e per le sue connessioni con la produzione arti- stica classica e continentale, interesse documentato da due libri: British Art and the Mediterranean (con R. Wittkower nel 1948) e English Sculptures of the Twelfth Century (pubblica- to postumo nel 1954). Sempre postume sono state pubbli- cate le sue numerose conferenze, Lectures (1957; trad. it. La storia delle immagini, Roma-Bari 1982), tessute intorno a quella convinzione di fondo secondo la quale i moti di tra- sformazione all’interno della cultura europea sono scanditi per immagini e miti ricorrenti che delineano parabole di con- giunzione tra Oriente e Occidente, tra l’antichità, il Me- dioevo e il rinascimento. (mdc + ss).

Storia dell’arte Einaudi Sbisà, Carlo (Trieste 1899-1964). A Firenze tra il 1919 e il 1929, S fre- quenta l’Accademia di belle arti e la Scuola libera dell’ac- quaforte; vi conosce Carena, Funi e Oppi. Già a Trieste cesel- latore e orefice alla bottega Janesich, a Firenze è pittore alla vetreria Cantagalli e collaboratore di Vermeeren, restauratore agli Uffizi. La padronanza della tecnica è anche uno degli idea- li del Novecento: per Massimo Bontempelli il «novecentismo tende a considerare l’arte, sempre, come arte applicata» e l’ar- tista è «uomo di mestiere». In S, tale propensione troverà pie- na realizzazione nelle opere murali degli anni Trenta. Nel de- cennio precedente, egli aderisce alle istanze novecentiste con una poetica personale che nella composizione e nell’atmosfera guarda al rinascimento fiorentino e ferrarese, in dipinti dalla sospensione incantata che richiamano Bontempelli, quando af- ferma che «l’arte è il solo incantesimo concesso all’uomo». La sua «città ideale» è quella rinascimentale, le cui architetture vengono evocate nei suoi dipinti (La città deserta, 1929: coll. priv.), e la figura umana che ha grande rilievo nell’opera di S, è ritratta con classica compostezza e monumentalità. Presen- te alle Biennali veneziane (1922, 1926, 1928, 1930, 1932), S ha una personale nel 1931 alla Gall. Il Milione, a Milano, do- ve raccoglie, come già nel ’29, il giudizio favorevole di Carlo Carrà. All’inizio degli anni Trenta, S è chiamato a Trieste per decorare a fresco i nuovi edifici (affreschi per la sala d’onore della «casa del combattente», progettata dall’architetto Um- berto Nordio, 1935, oggi Museo del Risorgimento). Il piú va- sto insieme è realizzato per il Palazzo Protti di Piacentini (La- voro costruttivo, il Dopolavoro e ricreazione, 1937). L’opera con- clusiva (1941) è l’affresco, perduto, raffigurante D’Annunzio che legge la «Carta del Quarnaro» per il Grattacielo di Fiume. In queste realizzazioni S si mantiene fedele alla sua ricerca tec- nica e poetica, in opere dove il mito fascista è sostituito da quello piú atemporale per la classicità. Dopo la guerra, S si de- dica alla scultura, in terracotta, pietra, bronzo (opere per la nuova Stazione centrale della città), esegue anche mosaici, e decorazioni di transatlantici. (eca). Scacco, Cristoforo (documentato nel Lazio meridionale e in Campania tra 1493 e 1500). Sebbene nel firmare lo S si dichiari in piú di un’occa-

Storia dell’arte Einaudi sione originario «de Verona», non sono stati ancora identifi- cati dipinti che testimonino in maniera plausibile un eventua- le esordio del pittore in Italia settentrionale. Di una originaria frequentazione dell’area veneta, di ambito essenzialmente man- tegnesco, è però traccia nelle opere che, con una certa verosi- miglianza, possono essere assegnate alla prima attività dello S in Italia meridionale, presumibilmente avviatasi già intomo al- la seconda metà degli anni Ottanta del Quattrocento. A una data anteriore al 1491 sembrerebbe infatti risalire il trittico con l’Annunciazione e santi in San Pietro a Fondi, che alcune particolarità iconografiche e la presenza degli stemmi induco- no a ritenere commissionato dal conte Onorato II Caetani. La riflessione attenta sulla Pala di san Zeno e sul polittico di san Luca del Mantegna è arricchita in quest’opera dalla conoscen- za, probabilmente avvenuta a Roma, di Melozzo da Forlì, An- toniazzo Romano e Marco Palmezzano, mentre lo sfoggio di ori e di damaschi dello scomparto centrale richiama la prezio- sità «mediterranea» del Maestro di San Severino Noricense. A questo primo tempo dello S nel Lazio meridionale sembre- rebbero appartenere anche la bella Madonna col Bambino in coll. Lloyd Griscom a Londra e il polittico con la Madonna col Bambino e santi proveniente da Itri e ora nei depositi del Mu- seo di Capodimonte a Napoli. Il 1493 è la prima data che at- testi con certezza la presenza dello S in area piú strettamente napoletana. È infatti di quell’anno il trittico firmato con la Ma- donna delle Grazie e santi già nella chiesa di San Bartolomeo a Penta (Salerno) e ora a Capodimonte, dove la radice squarcio- nesco-padovana della cultura dello S riemerge nei volti e nelle capigliature come sbalzati nel metallo, mentre le luminose ana- tomie prospettiche dei pur rovinatissimi protagonisti del pan- nello centrale parrebbero indicare che lo S, prima di lasciare la sua terra, fu in grado di cogliere l’importanza dell’eccezionale congiuntura veneziana tra Antonello da Messina e Giovanni Bellini. Di questo momento sembrerebbero anche l’Annuncia- zione della chiesa dell’Annunziata a Nola, compositivamente basata sui modelli di Melozzo e Antoniazzo, e il trittico con l’Incoronazione della Vergine e santi nei depositi di Capodi- monte, dove la delicatezza quasi umbra del volto della Ma- donna presenta singolari affinità con Pier Matteo d’Amelia. Di una maggiore complessità prospettica di matrice lom- barda, in senso bramantesco-bramantiniano, è traccia evi- dente negli affreschi laterali della cappella Tolosa in Santa

Storia dell’arte Einaudi Maria di Monte Oliveto a Napoli, attribuiti al pittore con una certa fondatezza, che però presentano anche strette so- miglianze con le opere di un maestro affine ma distinto, con- venzionalmente indicato come Pseudo-S. Piú precisamente ravvisabile è lo svolgimento stilistico dello S nel trittico con la Madonna col Bambino e santi, proveniente da Piedimonte Matese e poi in possesso degli eredi Cini a Roma, dove il pit- tore ci mostra come le figure della pala di San Zeno del Man- tegna si prestassero ad essere rimisurate con un metro piú propriamente milanese. È opportuno ricordare che sono que- sti, di fine secolo, gli anni nei quali gli orientamenti figura- tivi a Napoli cominciano a risentire della presenza a Roma del Bramante, tra l’altro attestato a Terracina nel 1497, e che culmineranno nell’arrivo nella capitale meridionale del bizzarro prospettico spagnolo di educazione bramantina Pe- dro Fernández. Accenti ancor piú marcatamente lombardi sono poi nel San Giovanni Battista del Petit Palais di Avi- gnone, la cui datazione allo scadere del secolo è giustificata dal rapporto con lo stesso santo che figura nel polittico con lo Sposalizio mistico di santa Caterina di Alessandria e santi in San Giovanni Battista a Monte San Biagio, firmato e data- to al 1500. Restando tuttora non identificato il polittico commissionato nel 1499 allo S dalla duchessa Lucrezia del Balzo per la sua cappella in San Giovanni a Carbonara a Na- poli, lo stile del pittore al volger del secolo è attestato, oltre che dal già citato polittico di Monte San Biagio, anche da quello a due ordini nel Museo Campano di Capua, che l’epi- grafe sullo scalino parrebbe datare al 1500, ma che non è da escludersi eseguito in due tempi a causa della distanza cul- turale che sembra separare la cimasa quasi bramantiniana con l’Adorazione della Croce dal pannello sottostante, dove il gruppo della Madonna col Bambino par quasi un omaggio alla Pala di San Cassiano di Antonello, come non sarebbe spia- ciuto a un Salvo d’Antonio. Probabilmente della fase estrema dello S sono poi la Ma- donna col Bambino già in coll. Lanckoronsky a Vienna, ca- ratterizzata dall’espansione volumetrica della corporatura della Vergine, ammantata di pesanti stoffe damascate gual- cite alla maniera dei panni del Battista di Avignone; e altri due dipinti di forte tensione prospettica, il frammento di ci- masa di polittico con il Padre eterno alla Bob Jones Univer-

Storia dell’arte Einaudi sity a Greenville (South Carolina) e il San Michele Arcange- lo del Museo del Duomo di Salerno. (rn). Scanavino, Emilio (Genova 1922 - Milano 1986). Gli esordi della sua pittura, alla fine degli anni ’40, risentono della matrice espressioni- sta e surrealista. In particolare non gli fu indifferente la le- zione di Sironi, mentre nel 1951, in occasione di un viaggio a Londra, rimase fortemente colpito dall’opera di Bacon e Sutherland. Ad Albisola, dove lavora nel periodo 1951-52, ebbe modo di stringere rapporti con numerosi artisti, tra i quali Fontana, Matta, Corneille, Jorn, Dova, Baj, Crippa, Appel. Aderì in seguito al gruppo spazialista e, nell’ambito dell’informale, molta influenza esercitò sulla sua opera la pit- tura di Wols. La sua ricerca sul segno, negli anni ’50, si ca- ratterizza per l’espressione di forze oscure, oppressive, ca- riche di ansia: una sorta di scrittura aggressiva e nervosa ani- ma la superficie livida del quadro, caricandola di energie (Composizione, 1957). A partire dalla seconda metà degli an- ni ’6o la sua pittura sembra aspirare a una forma architet- tonicamente piú composta, scandita dall’uso del bianco, del nero, del rosso; il segno si scioglie nel motivo del nodo, del groviglio, dialetticamente contrapposto alla struttura geo- metrica che lo contiene (Alfabeto senza fine, 1974). Il suo sen- so di misura e ordine, verso la fine degli anni ’70, si esprime per la ricerca di uno spazio e di un segno sempre piú strut- turato. Presente alle piú importanti esposizioni internazio- nali (Biennali di Venezia del 1950, 1954, 1958), la sua ope- ra è stata oggetto di una vasta antologica a Darmstadt (kh) nel 1973, poi passata a Venezia (Palazzo Grassi) e Milano (Palazzo Reale); del 1987 è l’esposizione di Genova (Villa Croce) e dei 1990 quella di Modena (Galleria Civica). (are). Scannelli, Francesco (Forli 1616 - ? 1663). Medico forlivese, erudito e conosci- tore d’arte, fu in rapporto con la corte Estense di Modena come ricercatore d’opere d’arte per Francesco I al quale de- dicherà il Microcosmo della pittura... pubblicato nel 1657 a Cesena. In questo trattato, ispirato a un ideale classicista di ascendenza carraccesca, l’opera d’arte è considerata soprat- tutto per le sue qualità formali al fine di fornire ai «Lettori di giudicio» gli strumenti per una valutazione tramite il con-

Storia dell’arte Einaudi fronto tra le opere stesse. Nel quadro di una evoluzione sto- rica della pittura, che dagli egiziani giunge sino al Seicento, lo S individua nell’arte di Raffaello, Tiziano e Correggio la ricerca e il raggiungimento della «naturalezza» e, della per- fezione portata poi a pieno compimento dalla «Riforma dei Carracci». Da questi maestri, inoltre, lo S fa discendere le tre principali scuole pittoriche italiane: la tosco-romana, la veneta e la lombardo-emiliana e quindi enuclea intorno ad esse e ai loro capiscuola i principali orientamenti del gusto. (mo). scapigliatura Il termine usato da Cletto Arrighi nel 1862 nel romanzo La scapigliatura e il 6 febbraio (Un dramma in famiglia), viene uti- lizzato per circoscrivere il particolare clima culturale della Lombardia nel secondo Ottocento, maturato in particolare attorno agli anni Sessanta-Settanta del secolo. Le istanze di rinnovamento dell’arte e l’atteggiamento de- gli artisti, che hanno favorito l’accostamento della s al fe- nomeno della bohème parigina (→ bohème), mettono a fuo- co il disagio della cultura milanese e il riferimento al reper- torio maudit della letteratura europea nel momento della complessa trasformazione e inserimento del centro lombar- do nel panorama dello sviluppo capitalistico europeo. Lo «spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini sta- biliti» (Arrighi) e il rifiuto polemico delle «regolari leggi del Bello» (Arrigo Boito) furono comun denominatore degli at- teggiamenti di letterati, pittori e musicisti toccando la co- scienza irrequieta di artisti lombardi come T. Cremona, L. Conconi, D. Ranzoni, ma anche i piemontesi L. Delleani e V. Avondo in rapporto con il letterato G. Camerana. La ri- cerca linguistica che tocca punte di lirico sentimentalismo coinvolge l’attività di letterati, musicisti e scultori; non a ca- so alcune personalità del gruppo mostrarono interessi per espressioni artistiche diverse sottolineando spesso la conso- nanza della ricerca (cfr. di E. Praga i versi intitolati Tavo- lozza del 1862 o il suo Trasparenze). La contestazione alle rigide classificazioni estetiche del ro- manticismo e della pittura accademica fu anche, per altro verso, motivo di opposizione, soprattutto inizialmente alla tendenza realista e all’arte intesa tout court come denuncia

Storia dell’arte Einaudi sociale. La s espresse la sua preferenza verso un linguaggio «aperto», in grado di esprimere uno stato psicologico inde- finito (T. Cremona, Signora al piano: Milano, coll. priv.), ri- fiutando la registrazione realistica del dato visivo, così co- me affermava Carlo Dossi: «non dir tutto... mantiene nelle opere d’arte la curiosità... il piacere» (Note azzurre). Tali posizioni, al di là dei clamori polemici ed eversivi, piú congeniali al gruppo dei poeti e scrittori, si ricollegavano di- rettamente per i pittori agli orientamenti del primo roman- ticismo lombardo e all’esempio del Piccio, ai toni evocativi e avvolgenti dei suoi paesaggi e dei ritratti resi vibranti dal- le pennellate che annullano i contorni per via di velature e trasparenze. Il dialogo del gruppo con le problematiche del «realismo» si precisa, tuttavia, sotto il segno della ricerca di una resa pittorica del «vero autentico», inteso come sintesi momentanea e mutevole di effetti luministici e cromatici, espressi in piena libertà dai vincoli dell’oggettività conven- zionale, identificata polemicamente col disegno e col chia- roscuro della pittura di Hayez e Bertini, trionfante, ancora negli anni Sessanta nell’Accademia di Brera. Anche l’inte- resse per le recenti esperienze nel campo fotografico contri- buirono alla sperimentazione di un linguaggio suggestivo di immagini illuminate e sfocate nei contorni, tralasciando i problemi legati alla resa oggettiva, meccanica, «impersona- le» dell’obbiettivo fotografico. (rco + sr). Scaramuccia, Giovanni Antonio (Perugia 1570/80 - 1633). Dopo un primo apprendistato in patria, fu a Roma, nell’orbita di Annibale Carracci e suc- cessivamente presso Cristoforo Roncalli. La cultura del tem- po di Clemente VIII impronta fortemente le sue opere: dal- la Giuditta (Roma, Gall. Pallavicini) alle numerose pale d’al- tare eseguite al ritorno a Perugia (Madonna con i santi Giuseppe e Claudio in Santa Croce, Madonna con i santi Giu- seppe e Teresa in Santa Teresa). Fu attivo anche nelle Mar- che, forse al seguito del Roncalli impegnato negli affreschi di Loreto (I santi Luigi di Francia, Ubaldo, Nicola da Tolen- tino e Onofrio, 1610 ca.: Recanati, San Flaviano). Nelle ope- re piú tarde, agli accenti di derivazione carraccesca e ron- calliana si aggiungono – senza peraltro pervenire a un’orga- nica fusione – spunti naturalistici, mediati probabilmente dalle tele eseguite per Perugia da Giovanni Baglione (ne è

Storia dell’arte Einaudi un esempio il ciclo dell’Oratorio della Confraternita di San Francesco, 1611-25). La sua attività, nel primo trentennio del sec. xvii costituì un importante tramite per la diffusio- ne in provincia di alcuni aspetti del romano «stile dei cava- lieri». (sr). Scaramuccia, Luigi (Perugia 1616 - Milano 1680). Allievo dapprima del padre Giovanni Antonio (Perugia 1570 ca. - 1633), fu poi a Roma nella bottega di Guido Reni, insieme a Giandomenico Cer- rini. Soggiorno a Bologna (qui eseguì per San Paolo Cristo appare a san Paolo in carcere) e in seguito si stabilì a Milano (1655 ca.). Tra le sue opere, tutte improntate a un «natura- lismo classicista» decisamente eclettico, in cui confluiscono suggestioni romane, lombarde e bolognesi, hanno particola- re rilievo l’Elemosina di san Carlo per la cappella Spada alla chiesa Nuova a Roma (1668 ca.), la Presentazione al Tempio oggi nella gnu a Perugia, e Federico Borromeo tra gli appesta- ti (post 1669: Milano, Ambrosiana). Dai suoi brevi viaggi nel resto dell’Italia scaturi il trattato Le finezze de’ pennelli italiani... (Pavia 1674). Lo S, per bocca del pittore Girupe- no (anagramma di Perugino) guidato nel suo peregrinare dal «Genio» di Raffaello, fornisce, in forma narrativa e dialo- gica, descrizioni e commenti sui maggiori artisti del suo tem- po e sulle loro opere. Vi appare privilegiato, anche se non esclusivamente, l’indirizzo classicista come denunciano l’esaltazione dei Carracci, di G. Reni e le indicazioni verbali e scritte (raccolte in appendice) che il «Genio» di Raffaello impartisce al giovane Girupeno. (mo + sr). Scarpa, Natale → Cagnaccio di San Pietro Scarpitta, Salvatore (New York 1919). Nato in America da padre scultore sici- liano e madre ebrea polacca, S giunge nel ’36 in Italia per studiare all’Accademia di belle arti di Roma. Durante la guerra partecipa alla resistenza facendo da tramite con l’eser- cito americano. Espone nella Quadriennale romana del ’48 e nei primi anni Cinquanta compie il suo apprendistato ar- tistico nella direzione di una formula cubista-espressionista, Le sue opere figurative rimandano a temi sociali della sua

Storia dell’arte Einaudi città natale, New York (Manifestazione per la pace, Negro del Nord, Negro del Sud). Nel tempo, sulla tela, le forme e i co- lori si aggrovigliano (Vigilia a New York), poi, il supporto tradizionale viene strappato e tagliato (è il ’57), non senza influenze di Burri e Fontana. Nascono le sue composizioni a cinghie, superfici monocrome, immaginate come pareti con appoggiate linee di tensione incastrate in un mosaico, so- vrapposte una all’altra. Lo spazio pittorico è negato, imbot- tito, bendato, serrato da quelle cinghie di sicurezza che di- verranno il soggetto principale di ogni opera di S (Gomma arabica, ’58; Bendato, ’60). Solo così, in quell’intrico mate- rico, l’artista afferma di «sentirsi legato autobiograficamente al quadro». La Galleria romana La Tartaruga espone piú vol- te le sue serie di tele tagliate e il lavoro di S è documentato anche con personali alla Galleria Il Naviglio di Milano. Nel ’59, l’artista torna in America, a New York, e instaura un duraturo rapporto con il gallerista Leo Castelli. Dalla metà degli anni Sessanta, affiorano nel ricordo di S lontani fetic- ci infantili. È la volta delle macchine da corsa. «Mi sono messo a fare automobili – spiega in un’intervista – perché mi sembrava di correre verso la sorgente dei miei contenu- ti». Vecchi telai e materiali impropri ridisegnano l’involu- cro delle macchine con un assemblaggio di matrice New Da- da (Rajo Jack Special, 1964; Ernie Triplett Special, 1965). Dal veicolo al movimento il passo è breve e S negli anni Settan- ta si dedica alla costruzione di slitte per percorsi innevati (Black Wood Sled, 1976), nate dal bricolage inventivo di un raccoglitore di relitti e rifiuti metropolitani. Negli anni Ot- tanta ritorna alla pittura su tela con una serie informale co- me Feral Runners, esposta al Pac di Milano nel 1985. Nel 1990-91 la Galleria Niccoli di Parma gli dedica un’ampia an- tologica e nel ’91 l’artista espone alla Galleria Ellequadro di Genova ed è presente nella mostra Roma anni Sessanta. Al di là della pittura, al Palazzo delle Esposizioni di Roma. (adg). Scarsdale (Nathaniel Curzon, primo barone di) (1726-1804). Collezionista di importanti opere di pittura del xvi e del xvii secolo, specie italiana, dal 1757 ricostruì la re- sidenza di Kedleston Hall (Derbyshire) per ospitarle. La pit- tura del Cinquecento comprendeva opere di Bassano, Ve- ronese, Tintoretto e Parmigianino; quella del Seicento tele di Giordano, C. Maratta, Orizzonte, Salvator Rosa, Sacchi,

Storia dell’arte Einaudi due Strozzi, Olimpia e Orlando di A. Carracci, Caino e Abe- le di Luti, Bacco e Arianna di Guido Reni, nonché due Zuc- carelli. Tra le tele fiamminghe e olandesi figuravano un ri- tratto del Principe Enrico di Cornelis Johnson, alcuni van Dyck, la Storia di Naaman di Momper e Francken, un ritratto di Rembrandt, Daniele e Nabuccodonosor di Koninck, un ec- cellente Cuyp. Vi si trovavano inoltre Didone ed Enea, at- tribuito a Poussin (Toledo, Ohio, am), un Lorrain e, tra i dipinti inglesi, una Scena in riva al mare di J. Wright. Nu- merose opere, tra cui il Rembrandt, furono venduti presso Christie nel luglio 1930, ma la maggior parte della collezio- ne si trova tuttora a Kedleston. (jh). Scarsellino (Ippolito Scarsella, detto lo) (Ferrara 1550 ca. - 1620). Nell’ultimo Cinquecento, a Fer- rara, che aveva perduto il suo ruolo egemone, S si fece ere- de e portavoce di un glorioso passato. Si formò sui modelli di Parmigianino, di Garofalo e soprattutto di Dosso, suo maestro ideale. Rivolgendosi a Dosso, al suo mondo fiabe- sco e sentimentale S fu indotto a risalire alle fonti che ave- vano alimentato l’arte del suo concittadino e a compiere quel viaggio a Venezia (1570 ca.) che fu decisivo per la costitu- zione del suo stile. Nella grande pittura veneta, specialmente in Veronese e in Bassano, egli trovò suggerimenti simili a quelli che Dosso aveva trovato in Giorgione e nel giovane Tiziano. I frutti di questa esperienza che secondo le fonti durò circa quattro anni sono evidenti in opere come la Ma- donna col Bambino della gn di Parma e la Susanna e i vec- chioni della coll. Johnson a Philadelphia. Ma attorno al 1590 le novità carraccesche hanno già arricchito la pittura di S, che in un gruppo di dipinti mitologici (Diana ed Endimione, Venere al bagno e Venere e Adone: Roma, Gall. Borghese), tra gli esiti piú felici della sua opera, propone una persona- le rievocazione delle favole antiche, memore di Dosso e del- la pittura veneta, ma accordata su toni di accostante natu- ralezza. Fra il ’92 e il ’93 esegue alcune tele da soffitto per il Palazzo dei Diamanti a Ferrara (Modena, Gall. Estense) – alla cui decorazione parteciparono anche i Carracci – che costituiscono per la scarsità di sicuri riferimenti cronologici nella vicenda dei pittore un importante termine di confron- to; a questi anni possono accostarsi la Fuga in Egitto (Roma,

Storia dell’arte Einaudi Pinacoteca Capitolina) e la Andata al Calvario (Boston, mfa, già nella Gall. Barberini a Roma). Nella decorazione dell’ab- side della chiesa di San Paolo a Ferrara (Elia sul carro di fuo- co, 1595-96), costituita quasi solamente di paesaggi, alberi e montagne che spiccano contro un immenso cielo, S pro- duce uno dei risultati piú innovativi della sua pittura. L’in- teresse per il paesaggio caratterizza d’altronde gran parte del- la produzione di S di dipinti da cavalletto, spesso popolati da folti gruppi di piccole figure, che ebbero fortuna presso i collezionisti anche in ambito romano (Martirio di san Venan- zio da Camerino: Houston, Sarah Campbell Blaffer). Toni di domestica devozione derivati dal Bastarolo e soprattutto dai Carracci improntano le opere sacre della sua tarda attività, in cui emerge anche l’apertura verso il Bonone, esponente della piú avanzata pittura ferrarese, e verso il Reni (Annun- ciazione: Ferrara, pn; Adorazione dell’Eucarestia, 1609: Fer- rara, Santa Chiara; Natività di Cristo: Modena, Gall. Esten- se; Sacra Famiglia con i santi Barbara e Carlo Borromeo, 1615: Dresda, gg). (grc + sr). √™edrin, Semën F. (? 1745 - San Pietroburgo 1804). Formatosi nell’Accademia di San Pietroburgo, poi a Roma e a Parigi presso F. Casa- nova, ha lasciato graziose vedute delle magnifiche ville dei dintorni di San Pietroburgo, nella linea di J. Vernet e di Mo- reau il Vecchio (il Ponte di pietra a Casina, 1800 ca.: Mosca, Gall. Tret´jakov), in uno stile «pittoresco» contrastante quello accurato e metodico di Mikhail Ivanov. Suo nipote Silvester Feodosievi™ (San Pietroburgo 1791 – Sorrento 1830) è tra i migliori paesaggisti europei del suo tempo. Stu- diò all’Accademia di San Pietroburgo (1800-11), dipingen- do vedute ancora entro la consolidata tradizione russa di fi- ne Settecento. Il viaggio in Italia (Roma e Napoli) dal 1818 alla prematura morte lo scosse invece dal solco sicuro ed ele- gante tracciato dallo zio, e lo spinse a innovazioni originali e importanti nel campo del paesaggio: i suoi piccoli paesag- gi della campagna romana e del litorale napoletano riscosse- ro immediatamente grande successo soprattutto presso i «tu- risti» stranieri (tedeschi e russi). Il fitto epistolario intrat- tenuto con costanza da √ con familiari e amici russi è tuttora fonte preziosa e ricca di informazioni sulla vita della colo- nia dei pittori russi in Italia. Il contatto con la scuola di Po-

Storia dell’arte Einaudi sillipo e la conoscenza del giovane Corot, che negli anni ’20 viaggiava per l’Italia, stimolarono il suo talento innato, por- tandolo a un uso piú interpretativo e «romantico» del colo- re, nonché allo sfruttamento sapiente delle quinte visuali, dei tagli prospettici entro i quali collocare monumenti e fi- gure, slarghi naturali ed effetti luministici tra piani lonta- nanti o affiancati. Spesso √ si lasciava ispirare da un tema fisso, indagandolo poi attraverso le varie versioni che ne trae- va. Esempi in questo senso sono la cascata di Tivoli (Ac- quedotto a Tivoli, 1822: Mosca, Gall. Tret´iakov) e la vedu- ta di Roma con San Pietro e Castel Sant’Angelo, della qua- le si conoscono almeno dieci versioni (Nuova Roma, 1825-26 ca.: ivi) caratterizzate da un’attenzione franca, umana per ciascuno degli elementi che compongono la visione, dalle fi- gure, tutt’altro che «di genere», intente alle proprie occu- pazioni quotidiane, agli effetti atmosferici, dei quali si sfor- za – abbandonando progressivamente le gamme allora con- venzionali dei marroni per avventurarsi in quelle piú fredde, attente alle interazioni tra luce e aria – di interpretare le va- lenze naturali e psicologiche (Sarabianov, 1990). Dal 1826 √ risiede quasi sempre a Napoli e la baia di Sorrento (Vedu- ta di Sorrento, 1826: ivi; Grotta a Sorrento, 1827: ivi), gli sco- gli della costa bagnata dal sole, i porticcioli invasi da un chia- ro di luna spettacolare che gioca in contrasto con il fuoco del bivacco che lampeggia sulla riva (Notte di luna a Napoli, 1828, varie versioni: ivi), le terrazze sul mare coperte di vi- te (Veranda, 1828: ivi; Terrazza, 1829: San Pietroburgo, Mu- seo russo) lo riportano a una tavolozza calda, luminosa e in- tensa. In questi paesaggi l’unione serena e abbagliante tra natura e uomo, tra lavoro quotidiano ed eventi sempre nuo- vi e sempre ritornanti di quest’angolo della terra, pur per- vasa a tratti da motivi luministici o cromatici contrastanti, in funzione drammatica, è così profonda e convinta da por- li come esempio tecnico e stilistico per tutta la pittura di pae- saggio romantica russa sino alla metà dell’Ottocento. (scas). Schack, Adolf Friedrich von (Schwerin 1815 - Roma 1894). Abbandonata la carriera di- plomatica, il conte von S, originario di Schwerin, si stabilì a Monaco divenendo una delle figure piú in vista del mon- do letterario e artistico della città. Acquistando per com-

Storia dell’arte Einaudi missione o direttamente dagli ateliers degli artisti, si costi- tuì, principalmente nel corso degli anni 1858-69, una colle- zione molto importante di pittura monacense contempora- nea, cui aggiunse una raccolta, unica nel suo genere, di co- pie di quadri di maestri antichi, soprattutto di scuola veneziana (i migliori sono dovuti al grande ritrattista mon- dano Lenbach). Malgrado l’ammirazione che nutriva nei ri- guardi dei nazareni, ne poté acquistare solo poche opere; al contrario è assai ben rappresentato Genelli, e così pure i pae- saggisti classici (Rottmann, Spitzweg e soprattutto Schwind). S acquistò inoltre quadri da Feuerbach e da Böcklin, in un periodo in cui il loro talento era ancora ignoto e la loro clien- tela inesistente. Il secondo gli deve, almeno in parte, la fa- ma di cui in seguito godette. (pv). Schad, Christian (Miesbach 1894 - Keilberg 1982). Dopo aver compiuto gli studi artistici a Monaco, nel 1915 si trasferisce a Zurigo per evitare il conflitto. A contatto con l’ambiente avanguardi- stico della città – collabora alle riviste «die Weissen Blät- ter» e «die Aktion» – conosce Walter Serner, allora sul pun- to di pubblicare «Sirius», alla quale S non mancherà di ap- portare il suo contributo come incisore. I disegni e i dipinti di quel periodo sono fortemente segnati dall’espressionismo e dal cubismo. Sono comunque gli anni in cui conosce i da- daisti Hans Arp, Hugo Ball ed Emmy Hennings: nel 1916 a Ginevra partecipa a un’esposizione di questi al Salon Ne- ri e organizza, insieme a Serner, il «Ballo dada» nella sala del Plainpalais; inoltre collabora alla rivista «Der Zeltweg» edita da Tristan Tzara, Flake e Serner. Dal 1919 si dedica a una tecnica fotografica prossima alle «Rayografie» di Man Ray ottenute esponendo a una fonte di luce piú o meno in- tensa e diretta vari oggetti posati su una superficie sensibi- le (lastra o carta), Tzara le battezzerà «Schadografie», dal nome del loro autore, nel marzo 1920 su «Dadaphone». Di ritorno a Monaco nel 1920, S si rende conto del sovverti- mento generale dei valori che stava per compiersi in Ger- mania: da qui la scelta del soggiorno in Italia, il ritorno agli antichi maestri, alla lezione formale del rinascimento, orien- tandosi verso una figurazione oggettiva. Nel 1920 a Roma incontra E. Prampolini e G. Evola; a Napoli realizza i suoi

Storia dell’arte Einaudi primi quadri realisti (Maria e Annunziata del porto, 1923: coll. Thyssen-Bornemisza, già Lugano, Castagnola). Il culmine della sua opera è costituito dai dipinti eseguiti tra il 1925 e il 1930 (Naka, 1929: Geislingen, coll. priv.), davvero sor- prendenti per il forte senso di distacco che trasmettono. A Vienna (1925) e a Berlino (1928) ritrae la società contem- poranea in una galleria di ritratti unica nel suo genere (Au- toritratto, 1927: coll. priv.; Ritratto del conte d’Anneaucourt, 1927: coll. priv.; Sonia, 1928: coll. priv.; Agosta, l’uomo ala- to, e Rasha, la colomba nera, 1929: coll. priv.; L’operazione, 1929: Monaco, Lenbachhause). È considerato tra i princi- pali rappresentanti della Nuova Oggettività, riconosciuto dalla critica già nel 1927, al momento della sua personale al- la Gall. Wurthle di Vienna: in questa occasione, Max Osborn pubblica su di lui un’importante monografia. Nel 1933, in pieno regime nazista, cerca di far dimenticare il pro- prio passato dadaista e si ritira a Keilberg dedicandosi alla pittura di paesaggio. Nel 1942, la città di Aschaffenburg gli commissiona una copia della Vergine di Stuppach di Grü- newald. (alb + sr). Schadow, Wilhelm von (Berlino 1788 - Düsseldorf 1862). Fu allievo a Berlino del padre, il grande scultore Johann Gottfried S (1764-1850); poi, dal 1808, di Friedrich Georg Weitsch. Nel 1810 partì per Roma: qui si legò a Overbeck, entrò nel gruppo dei suoi discepoli e convertitosi nel ’14 al cattolicesimo, collaborò nel 1816-17 agli affreschi biblici della Casa Bartholdy (Gia- cobbe e il mantello macchiato di sangue, 1817; Giuseppe in pri- gione: oggi a Berlino, ng). Tornato a Berlino nel 1819, vi esercitò un’intensa attività come docente dell’Accademia. Nel 1826 successe a Cornelius nella direzione dell’Accade- mia di Düsseldorf, che per suo impulso divenne una delle scuole d’arte piú apprezzate in Germania; dopo Cornelius, infatti, egli difese e incoraggiò motivazioni e linguaggio espressivo nazareno, che così divenne lo stile piú gradito al- lo stato prussiano aprendo altresì le porte all’affermazione dell’arte tardoromantica che doveva in breve tempo diven- tare patrimonio comune tedesco e che all’Accademia di Düs- seldorf si concentrerà soprattutto sulla pittura da cavallet- to. Introdusse inoltre nuovi metodi per l’insegnamento, ag-

Storia dell’arte Einaudi gregandovi materie di studio sino ad allora non contempla- te dai programmi. Suoi temi preferiti furono i soggetti reli- giosi affrontati quasi sempre nelle dimensioni della tavola dipinta, con un amore per il dato naturale e per il colore non condiviso dai nazareni di stretta osservanza (Adorazione dei pastori, 1824: Potsdam, chiesa della Guarnigione; Cristo e i Farisei, 1827: Cattedrale di Maumburg; Emmaüs, 1835: Ber- lino, ng). Ma fu soprattutto come ritrattista che si impose a corte, dando vita a una tradizione berlinese in questo cam- po (La regina Louise, 1810: Potsdam, Sans-Souci; Autoritratto col fratello e Thorvaldsen, 1815-18: Berlino, ng; Karoline von Humboldt: Amburgo, kh; Ritratto di donna: Monaco, np) che, abbeverandosi alla fonte classicista francese, diede vi- ta a ritratti di vivace e acuto realismo. Soprattutto dopo il secondo soggiorno italiano (1830-31), S si distaccò dall’ec- cessivo dogmatismo dei nazareni e, stimolato dagli esempi francesi e belgi in fatto di pittura di storia, vi si rivolse per rispondere alla propria innata tendenza realistica, ammorbi- dita tuttavia da una talvolta sognante, talvolta strumentale, espressività. Il km di Düsseldorf possiede parecchie delle sue opere. S ha lasciato inoltre scritti di carattere teorico e sag- gi di pedagogia artistica. (hbs + sr). Schäfer, Georg (Schweinfurt 1896-1975). Il fondo della collezione Georg S, conservata nel castello di Obbach presso Schweinfurt, ven- ne raccolto dal padre dell’attuale proprietario. Comprende- va agli inizi, oltre ad opere del sec. xviii, soprattutto dipin- ti monacensi della cerchia di Leibl; il suo ambito si estese poi al complesso della pittura e del disegno tedeschi del sec. xix (opere romantiche, del Biedermeier tedesco e austriaco, dell’impressionismo). È una raccolta di quadri che non ha equivalenti per tali periodi nemmeno alla ng di Berlino. La sua importanza è stata riconosciuta soltanto dopo la secon- da guerra mondiale; prima infatti i musei tedeschi poco s’in- teressavano dell’arte dell’Ottocento. S ha acquisito dipinti di C. D. Friedrich, di Overbech, di Schnorr von Carolsfeld (lo Strapiombo), nonché il capolavoro di Franz Pforr, Maria e la Sulamita. I pezzi piú importanti sono stati esposti nel corso di numerose mostre (1966 e 1967 a Norimberga, 1968 a Laxenburg presso Vienna, nel 1970 a New Haven, Yale

Storia dell’arte Einaudi University ag), corredate da cataloghi riccamente docu- mentati. La collezione S, che ha prestato diversi dipinti ai musei della Germania meridionale (Baviera: uno dei com- plessi piú folti è esposto al gnm di Norimberga), svolge an- che un non secondario ruolo pedagogico: le si ricollega un Istituto per la storia della pittura tedesca del sec. xix. An- ch’essa di alta qualità è la raccolta delle stampe di Dürer (molte comparvero alla mostra su Dürer tenutasi al gnm di Norimberga nel 1971). (hbs). Schaffner, Martin (Ulm? 1477/78 - 1546/49). Ultimo rappresentante della tra- dizione gotica di Ulm, S la arricchisce di toni rinascimenta- li già sorprendentemente gravidi di caratteri a volte «ma- nieristi», a volte addirittura barocchi. Si forma presso J. Stocker ad Ulm, e collabora col maestro al compimento dell’altare Ennetacher (oggi a Sigmaringen) ancora sotto gli stimoli dello stile di Zeitblom. Nel 1500, se non prima, è però ad Augusta, dove lavora presso Holbein il Vecchio che può considerarsi il suo vero maestro, come dimostra la gio- vanile Madonna di Béziers (1502-503: Musée Fabrégat). Sol- tanto dal 1510 ca. S mostra di volersi adeguare alla nuova poetica inaugurata da Dürer, assorbito però soprattutto at- traverso lo studio del suo allievo Schäufelein, del quale S ri- prende una certa amabilità e l’inclinazione narrativa. Ne so- no esempio l’Adorazione dei Magi (1510-14 ca.: Norimber- ga, gnm), la tavola di Intercessione contro la peste (1513: ivi) e il primo altare a portelle di Wettenhausen (1515: Augu- sta, mc). In queste opere la lezione düxeriana si intreccia inoltre a quella augustana di Holbein e Burgkmair, pittori che stimolano in S l’accentuazione delle potenzialità deco- rative, così come l’attenzione alla costruzione spaziale delle scene – in questo dimostrandosi superiore allo stesso Schäu- felein – e all’uso di tonalità morbide sapientemente impie- gate. Nel 1517 cade l’Altare di sant’Antonio (Salem); nel 1519 i quattro epitaffi per la famiglia Scheler (due a Stoccarda, sg, Alte Meister; due a Ulm, Ulmer Museum); nel 1521 i bat- tenti dell’Altare Hutz, per la Cattedrale ulmense (in loco) ca- polavoro della maturità di S. Nella predella di quest’ultimo è raffigurata l’Ultima cena in citazione letterale (la prima no-

Storia dell’arte Einaudi ta oltralpe) dell’iconografia leonardesca, conosciuta forse at- traverso un’incisione di Raimondi. Con la collaborazione di N. Weckmann per la parte scultorea, S dipinge tra 1523 e ’24 l’altare commissionato dal provosto dei canonici agosti- niani di Wettenhausen per l’altar maggiore della loro chie- sa dell’Assunta (Monaco, ap), le cui scene delle portelle in- terne sono tutte legate da uno schema prospettico unico e unificante, che non libera tuttavia le figure dal loro insce- narsi e panneggiarsi ancora profondamente tardogotico. Nei ritratti attribuibili alla sua mano, S dà prova di un realismo penetrante, inconcepibile senza l’esempio düreriano, eppu- re venato di un patetismo tutto personale (Ritratto di Eitel Hans I Besserer von Schnürpflingen, 1529-30: Monaco, ap). Nelle opere degli ultimi due decenni, realizzate per una ri- stretta cerchia di clienti ulmensi rimasti di fede cattolica an- che dopo la svolta della Riforma, introdotta in città nel ’30, S abbandona la monumentalità sfarzosa del secondo altare Wettenhausen e dipinge figure di scala ridotta, piú delica- te, avvolte in panneggi di struttura arcaica o semplificata al massimo (Crocifissione, 1525-30 ca.: Stoccarda, sg; Epitaffio per Sebastian Welling, 1535: Amburgo, kh; desco da tavolo dal complesso tema cosmologico, 1533, per l’umanista-ore- fice strasburghese Asymus Stedelin: Kassel, gg). Le portel- le dell’altare per la cappella di Santo Stefano in Wasseral- fingen (presso Aalen: 1530), rappresentano, nel loro tocco incredibilmente arcaicizzante l’esempio piú significativo di quest’ultima produzione. (scas). Schalcke, Cornelis Symonsz van der (Haarlem 1611-71). Sacrestano di San Bavone ad Haarlem, membro del corpo degli arcieri di San Giorgio (figura sul quadro di Frans Hals del 1639), si dedicò anche alla pittu- ra, specializzandosi nel paesaggio, subendo l’influsso del conterraneo Adriaen van Ostade. Come quest’ultimo – con- seguenza indiretta del passaggio di Brouwer per Haarlem e segno del rembrandtismo allora di moda – predilesse i not- turni (Porco scorticato al chiaro di luna, 1644: L’Aja, Mau- ritshuis). I paesaggi migliori – la sua produzione datata con sicurezza risale al 1640 – sono vedute di dune boscose trat- tate a velature brune dorate sotto una luce calda, e con una sorta di tensione espressionista che rivela la conoscenza di Rembrandt. A tale influsso si aggiunge la lezione tradizio-

Storia dell’arte Einaudi nale di Molyn, van Goyen e van Ruisdael, cui S si rivela vi- cino anche in altre occasioni (disegno del 1660: Parigi, Isti- tuto olandese). Buoni esempi dell’arte di S, sono il Paesaggio (1645) della coll. Bok a Philadelphia, indicato come suo capolavoro, un altro Paesaggio, molto simile e un tempo attribuito a Brouwer (Parigi, Louvre) e la Veduta con dune (1652: Berlino, sm, gg). (if). Schalcken, Godfried Cornelisz (Made (Dordrecht) 1643 - L’Aja 1706). Fu allievo prima di Samuel van Hoogstraten, poi di Gerrit Dou a Leida. La sua brillante carriera si svolse all’Aja, alla corte di Guglielmo III d’Inghilterra (1692-97) dove eseguì numerosi ritratti, e a Düsseldorf, sede dell’elettore palatino Giovanni Guglielmo (1703). La sua opera di pittore di ritratti e scene di genere a luce artificiale riscosse grande successo presso il pubblico delle corti europee. Noto soprattutto per i suoi dipinti a lu- me di candela (Ritratto di Guglielmo III: Amsterdam, Rijk- smuseum; Maddalena penitente: Museo di Brest), eseguì an- che numerose opere a luce naturale (Ritratto di Guglielmo III: L’Aja, Mauritshuis). Fu a lungo un semplice imitatore di Gerrit Dou; poi, affrontando il ritratto e i soggetti mito- logici, rinnovò la propria concezione a contatto con l’arte di Rembrandt. La sua pittura finita, levigata e delicata assai apprezzata venne equiparata dal gusto dell’epoca alle ope- re di Werff, del Mieris e al risultato «finito al maggior se- gno» della «maniera del Carlin Dolci» (Thomas Platt, 1694). (php + sr). Schall, Jean-Frédéric (Strasburgo 1752 - Parigi 1825). Ebbe una prima formazio- ne presso la Scuola pubblica di disegno di Strasburgo; nel 1772, si recò a Parigi, protetto da Eberts e Wille, da Meyer a Ermenonville, poi da Jean-Baptiste Lemoyne. Fu allievo di N. R. Jollain nel 1775 e di Lépicié figlio dal 1776 al 1779; divenne quindi pittore di soggetti galanti alla maniera di Fra- gonard e di Debucourt. Ebbe successo soprattutto grazie al- le sue numerose Danzatrici (mba di Nantes e di Strasburgo; Parigi, Museo Nissim de Camondo). La rivoluzione lo in- dusse a trattare soggetti di circostanza, come l’Eroismo di

Storia dell’arte Einaudi Guglielmo Tell (1793: Strasburgo, mba), ma con la restau- razione e il ritorno della sua abituale clientela, riprese i suoi temi favoriti, talvolta con accenti neoclassici e romantici. È rappresentato soprattutto nel museo della città natale: Spa- vento di una madre, le Piccole birichine, la Passeggiata. (vb). Schamberg, Morton Livingston (Philadelphia 1881-1918). Allievo di William M. Chase al- la Pennsylvania Academy of Fine Arts, accompagnò piú vol- te il suo docente in viaggio attraverso l’Europa (Spagna, Olanda e Francia), risiedendo poi per qualche anno a Pari- gi dal 1906. Le prime opere tradiscono gli influssi di Cé- zanne, Matisse e Picasso; verso il 1913, quando partecipò all’Armory Show, S attraversò una fase di astrattismo geo- metrico che l’ha fatto talvolta annoverare tra i sincromisti (Geometrical Patterns, 1913: Jenkintown, Pennsylvania, coll. priv.). Stieglitz e gli Arensberg, esercitarono su di lui un profondo influsso: il primo lo indirizzò alla fotografia, men- tre gli Arensberg lo misero in contatto con Duchamp e Pi- cabia. Divenne così un esponente del gruppo dada newyorke- se ed espose nel 1917 con gli artisti della Society of Indi- pendent Artists. Le sue opere descrivono un mondo meccanico vicino a quello di Picabia, ricercandone comun- que la valenza estetica piú che la simbolica (Machine, 1916: New Haven, Yale University ag, coll. Société Anonyme; Composition, 1916: Columbus, Museo; Mechanical Abstrac- tion, 1916: Philadelphia, am, coll. Arensberg). (jpm). Schapiro, Meyer (Sjauljai (Lituania) 1904). Giunto con la sua famiglia nel 1907 negli Usa, S si laureò nel 1924 alla Columbia University do- ve si è svolta la sua prestigiosa carriera accademica (dal 1973 è Professore Emerito). Ciò non ha impedito collaborazioni con altre università statunitensi e straniere soprattutto in oc- casione di letture (fra le altre, New York University, Har- vard, Oxford, Università di Londra, Collège de France, Uni- versità di Gerusalemme). Fu fondamentale per la sua forma- zione la lettura di Fry, Löwy e di studiosi di lingua tedesca: Riegl, Dvo≈ák, Wölfflin. Da allora la sua riflessione si è con- centrata sul problema di conciliare una rigorosa analisi for- male con l’esigenza di storicizzare il fenomeno artistico. Ca- ratteristica della critica di S è la centralità dell’opera d’arte

Storia dell’arte Einaudi di cui indaga la genesi stilistica e iconografica, i suoi legami con il passato e con la cultura contemporanea. Fin dalla sua tesi di laurea (The Romanesque Sculpture of Moissac, 1931) egli si è distinto per l’originalità dei suoi interessi privile- giando lo studio dell’arte di periodi di transizione: arte me- dievale, romanica, contemporanea (parte di questa produ- zione saggistica è raccolta in Romanesque Art, 1977, trad. it. Torino 1982; Modern Art, 1978, trad. it. 1986; Late Antique, Early Christian and Medieval Art, 1979), S non ha formaliz- zato il suo pensiero sul metodo anche se in un famoso inter- vento, Style (1953), ha offerto una lucida analisi dei principî dei differenti indirizzi storico-artistici. Nella prassi la sua ade- sione all’indirizzo iconologico muoveva dall’esigenza di in- dividuare «i valori, le idee, i sentimenti» che sono alla base delle opere (Babel’s Tower: The Dilemma of Modern Museum, 1945). Tuttavia si mostrò sensibile anche ad altre proposte, ad esempio i tentativi di storia sociale dell’arte, pur privile- giando un approccio microsociologico mirato all’individua- zione del campo di esperienza concreta dell’artista (The Sculp- ture of Souillac, 1939; Courbet and Popular Imagery. An essay on Realism and Naïveté, 1940-41). Allo stesso modo speri- mentò le possibilità della psicoanalisi nell’interpretazione sto- rico-artistica («Muscipula Diaboli». The Symbolism of the Mé- rode Altarpiece, 1945; Les Pommes de Cézanne, 1968), non senza aver messo in evidenza come i pericoli maggiori di que- sta lettura derivino dalla confusione fra elementi ereditati dalla tradizione che appartengono alla cultura figurativa di un’epoca e i caratteri individuali dell’artista (Leonardo and Freud: an Art-Historical Study, 1956; trad. it. 1990). Recen- temente la sua attenzione è stata rivolta alle possibilità della semiotica di interpretare gli elementi non mimetici dell’ope- ra d’arte: prevale anche in questo caso una visione conte- stualistica che prende in considerazione le convenzioni per- cettive e culturali dell’artista e del suo pubblico (On some pro- blems in the semiotics of visual art: field and vehicle in image-signes, 1969; Words and Pictures. On the Literal and the Symbolic in the Illustration of a Text, 1973, trad. it. Parma 1985). Una costante dell’attività di S è rappresentata dall’in- teresse per i movimenti artistici contemporanei. In partico- lare egli seguì le vicende degli artisti che aderirono all’espres- sionismo astratto. (pdbe).

Storia dell’arte Einaudi Scharl, Josef (Monaco 1896 - New York 1954). Pittore decoratore dal 1910 al 1915, nel 1919 s’iscrisse all’Accademia di belle ar- ti di Monaco dove seguì, nel 1921, 1 corsi di Jank, e col tempo acquisì lo stile personale che impronterà l’intera sua opera sorta dall’Art Nouveau, ma ispirata, nel contempo, al particolare colore degli espressionisti, assunto come per- no centrale. Risultante di queste due componenti sarà il colore intenso e depurato che caratterizza i primi paesag- gi (il Fiume, 1927) e ritratti di S, spesso portatori di mes- saggi di dura critica sociale (Tre mercanti, 1925; Mendicante cieco in un bar, 1927), influenzati variamente da van Go- gh, Munch, Beckmann e Groz. L’attenzione per la pre- senza umana tanto nel paesaggio che in un contesto reli- gioso, non gli impedisce di frequentare (con una produ- zione davvero notevole per quantità, ca. 3000 opere) il paesaggio puro e la natura morta. Tutti i suoi dipinti sono intrisi di un forte senso morale reso efficace e graffiante da un realismo satirico sino al grottesco. Durante gli anni del regime nazista, espresse in numerosi dipinti e disegni le sue opinioni antimilitariste e antinaziste (Soldato cadu- to, 1932; Bestia, 1933; il Prigioniero, 1933; Prigioniero mor- to, 1936), sino a che fu bollato nel ’37 come artista «de- generato». Lasciò nel 1938 la Germania per emigrare ne- gli Stati Uniti, dove partecipò a varie mostre, ma a causa delle pesanti accuse politiche e sociali di cui erano intrise le sue opere, non trovò che tiepide e diffidenti accoglien- ze, mentre enorme successo di pubblico ebbero, sino a ren- derlo celebre, le illustrazioni delle favole dei Grimm (1945), di Bergkristall, di Adalbert Stifter e i cinquanta di- segni per una Bibbia (1947; edita soltanto nel ’67). Dopo la seconda guerra mondiale l’artista riacquistò lentamente l’attenzione del pubblico e della critica (Ginevra, Karl- sruhe, Berlino, Monaco). In questa ultima fase S mostra un crescente interesse per la trasformazione del linguaggio ornamentale in motivi simbolici astratti (Terra torturata, 1948) che attesta l’influsso di Picasso. È rappresentato in particolare a Berlino (ng: il Lettore di giornale, 1935), Mo- naco (sg, Moderner Kunst), Stoccarda (sg), Washington (ng). (frm + sr).

Storia dell’arte Einaudi Schaub, Luke (Basilea ? - 1758). Si costituì una delle migliori collezioni del suo tempo, composta soprattutto di tele del sec. xvii, ma comprendente anche opere di Bassano e Correggio e un Ve- ronese. Possedeva una Madonna col Bambino addormentato e un Pentimento di san Pietro di Guido Reni, numerosi Albani, Annibale Carracci, Domenichino, Gentileschi, Guercino, Maratta, un Rembrandt, il Fiume di Cuyp, opere di Wouwer- man, un Wynants, un paesaggio di Rubens, lavori di Téniers, Lorrain, Gaspard Dughet, Le Brun, due Valentin, un Le Sueur e un Le Nain. Federico, principe di Galles, si offrì di comperarla a dodicimila sterline, da lui rifiutate. Quando venne messa all’asta presso Langford nell’aprile 1758, i prez- zi furono molto alti; sir Richard Grosvenor e la duchessa di Portland figuravano tra i principali acquirenti. (jb). Schäufelein, Hans Leonhard (? 1480/85 - Nördlingen 1538/40). Le fonti ne riportano va- riamente il nome: Schaufele, Scheifelin, Scheuffelein. Dal 1503 al 1507 è documentato presso la bottega di Dürer; du- rante il viaggio del maestro a Venezia, nel 1505, S dipinge, su schizzi preparatori in parte e già approntati da questi, l’Al- tare della Passione per Ober-St. Veit (Vienna, Museo dioce- sano). Seguono gli anni che lo conducono a Merano (1507-508) presumibilmente nella bottega di H. Schnatter- peck, per il quale dipinge le portelle esterne del grande alta- re della parrocchiale dell’Assunta di Niederlana (presso Me- rano) forse chiamato su consiglio del Landhauptmann Leonhard von Völs, che gli commissiona un altarolo per la propria residenza di Prösel (Bolzano, Palazzo Togenburg). Il rapido soggiorno sudtirolese, pregno di esiti posteriori nella regione, è seguito da quello augustano (1508) che lo vede ope- rare entro la bottega di Holbein il Vecchio. Ne è prova con- creta la tavola dal complesso e raro tema teologico del Cristo crocifisso fra Giovanni Battista e re David (1508: Norimberga, gnm): i toni caldi, imbruniti, le pennellate piú morbide, le prime monumentali figure di santi a figura intera mostrano i segni formali dell’avvenuto contatto con l’arte augustana (Santi Cosma e Damiano, 1510: Amburgo, kh). Dal 1510 S collabora con vari stampatori di Augusta (Via felicitas, 1513), affermandosi come fantasioso e dotato illustratore di fogli

Storia dell’arte Einaudi singoli, nonché alle xilografie illustranti le Cronache per l’im- peratore Massimiliano e a cartoni per vetrate. Nel 1511 fir- ma l’altare con temi dalla Passione e dall’Apocalisse per l’ab- bazia benedettina di Auhausen (Öttingen), e le quattro ta- vole dei Temperamenti (Vienna, km e Kreutzlingen, coll. H. Kisters), che presuppongono una committenza colta nell’am- bito della cerchia umanistica augustana. Ritornato a Nördlingen nel 1515, vi acquisisce la cittadi- nanza e ne diviene il pittore ufficiale: la sua bottega domi- na incontrastata sino al 1522, quando i moti riformistici ne indeboliscono le potenzialità. Nella grande messe di com- missioni, le opere di bottega perdono l’incanto narrativo pro- prio delle tavole autografe. Soltanto dopo il ’30, S ritrova una sua vena creativa originale pur mantenendo come rife- rimento costante il modello düreriano, rinnovato e sciolto in chiave narrativa, sentimentale e ammorbidita nelle tona- lità dei colori talvolta sgargianti. La lezione di Holbein e l’uso di elementi rinascimentali (italiani) specie nelle parti ornamentali, tipico della scuola augustana, si uniscono in S, con efficacia decorativa ed espressiva, a una radicata e con- vinta fedeltà al mondo tardogotico. Decora il Municipio di Nördlingen di cui è conservata soltanto la scena con Giu- ditta e Oloferne (1515), una composizione ricca di invenzio- ni e dal vivace piglio narrativo; vari Epitaffi; un Cristo nell’or- to degli Ulivi dal tocco intensamente lirico (1516: Monaco, ap, depositi); l’Altare della Passione di Tübingen (1520: mu- sei di Lipsia, Bamberga, Sigmaringen, Utrecht), costruito in parte sulla Passione verde di Dürer; l’Altare Ziegler (1521: Nördlingen, San Giorgio; ante esterne presso il Municipio); il monumentale altare nella chiesa di San Pietro della Cer- tosa di Christgartner oggi smembrato (1525-30: Monaco, AP, depositi e la Comunione di sant’Onofrio: Norimberga, gnm); ritratti dal grafismo marcato ed espressivo (Testa d’uo- mo: Vienna, km; Uomo con cappuccio rosso, 1515: Basilea, km), per i quali era molto ricercato, e varie serie di disegni per incisioni. Una delle sue ultime opere è l’Adorazione dell’Agnello (1538: Berlino, sm, gg). (scas). Schayck (Scaichis), Ernst (Ultrecht 1567 - post 1626?). Il pittore è documentato in Ita- lia dal 1600 (firma e data due dipinti a Lugo). In seguito sem- bra lavorare esclusivamente nelle Marche. Pur non dimenti-

Storia dell’arte Einaudi cando la prima educazione fiamminga – tra l’altro si firma in genere «Ernestus Schaechis (o Schaychis) Flamengus» –, ade- risce totalmente alle formule della pittura «controriforma- ta». Non si conoscono sue opere eseguite dopo il terzo de- cennio: è probabilmente errata pertanto la lettura della data 1662 – potrebbe essere invece 1626 – nella Madonna del Ro- sario della chiesa dei Santi Marino e Giacomo a Colleluce (San Severino), considerata sua ultima opera. (mrv). Schedoni, Bartolomeo (Modena 1578-1615). La sua formazione si svolse fra Mo- dena e Parma, se si eccettua un breve soggiorno nel 1595 a Roma presso Federico Zuccari, al quale è raccomandato da Ranuccio Farnese, duca di Parma. Poco dopo è a Parma, do- ve il padre, fabbricante di maschere, si trasferisce per lavo- rare nella corte farnesiana. Agli anni della prima attività, in cui è coinvolto in alcuni episodi di violenza, uno dei quali a Parma gli costa nel 1600 il carcere, appartengono opere eseguite per il Palazzo Du- cale di Modena, dove dal 1602 al 1607 è al servizio di Ce- sare d’Este: dipinti per un camerino, ritratti, lo Sposalizio della Vergine (Modena, Palazzo Comunale) e una perduta Adorazione dei Magi (1599: Sant’Eufemia); l’Annunciazione (Formigine, chiesa dell’Annunziata). Collabora inoltre con Ercole dell’Abate nel Palazzo Comunale di Modena (Sala del Consiglio: Coriolano, 1606, memore dei modelli carrac- ceschi di Palazzo Magnani a Bologna); dipinge alcune deco- razioni di palazzi a Reggio e pale d’altare (Sacra Famiglia e i santi Giovanni Battista, Lorenzo, Francesco e Pellegrino:Na- poli, Capodimonte, per la parrocchiale di Fanano). Nel 1608 diviene pittore di corte di Ranuccio Farnese a Parma. La grande tradizione emiliana, da Correggio a Parmigianino, a Niccolò dell’Abate, a Dosso sono alla base della cultura di S, stimolata anche dalla conoscenza delle grandi collezioni estensi e farnesiane, che si arricchisce di un precoce interes- se per le novità bolognesi. La sua vena neocorreggesca si con- solida e trova forme piú attuali, anche in direzione di una maggiore naturalezza – ora con esiti teneri e accostanti, in accordo coll’intonazione della gran parte della sua opera, ora con una sorta di sintetica evidenza – nell’accostamento ai Carracci, a Badalocchio e a Lanfranco, tornato da Roma a

Storia dell’arte Einaudi Parma nel 1610: Ultima cena per i cappuccini di Fontevivo (1610: Parma, pn); Madonna col Bambino e san Giovanni Bat- tista (Oxford, Ashmolean Museum); Sacra Famiglia (Londra, coll. Mahon); Annuncio della strage degli Innocenti, Carità (Na- poli, Capodimonte); Elemosina di santa Elisabetta d’Ungheria (Napoli, Palazzo Reale). La Deposizione e le Marie al Sepol- cro (Parma, gn, anch’esse eseguite per Fontevivo), che s’im- pongono per gli effetti teatrali della composizione e dei de- cisi contrasti chiaroscurali, per la sintetica evidenza delle fi- gure, che si stagliano contro un cielo scuro e tempestoso, sono fra i risultati piú notevoli della sua opera tarda. All’anno della morte risale la notizia di un dipinto eseguito per la cappella di San Giuseppe in Santa Maria della Stec- cata. (fv + sr). Scheere, Herman (notizie 1400-16). Operò come miniatore nella cerchia del- la corte d’Inghilterra. Non se ne conosce la patria, benché il nome suggerisca un’origine tedesca, fiamminga od olan- dese. La maggior parte della sua opera è contrassegnata con la firma o con una frase caratteristica, come si quis amat non laborat, quod Hermannus, che si trova nel Breviario dell’arci- vescovo Chichele (prima del 1416: Londra, Lambeth, Palace Library, ms 69). Per il Libro d’ore di Beaufort, manoscritto realizzato tra il 1401 e il 1410 (Londra, bl, Royal ms 2A XVIII), S miniò un pagina ornata con l’Annunciazione, su cui figurano i ritratti di John of Beaufort, duca di Somerset, e di sua moglie Margareta di Olanda. Altri manoscritti di sua mano sono: il Salterio e il Libro d’ore del duca di Bedford (Londra, bl, Add. ms 42131), la Bibbia di Riccardo II (ivi, Royal ms I.E. IX) e il Libro degli uffizi e delle preghiere (ivi, Add. ms 16998). Il suo stile si accosta a quello dell’artista olandese del Messale carmelitano (ivi, Add. ms 29704-5) ed è caratterizzato dal colore dolce e grazioso, e dalla scarsa sal- dezza dei contorni. (mast). Scheffer, Ary (Dordrecht 1795 - Argenteuil 1858). Fratello di Henri S, nel 1811 si recò a Parigi ed entrò nell’atelier di Guérin. Artista di talento, affrontò tutti i generi: paesaggi (esempi ai musei di Dordrecht), scene ispirate a temi graditi ai romantici, al-

Storia dell’arte Einaudi la storia contemporanea (La morte di Géricault, 1824: Parigi, Louvre; bozzetti e disegni ai musei di Reims e di Dordrecht), all’opera di Dante (Paolo e Francesca, 1822; repliche del 1835 alla Wallace Coll. di Londra, del 1854 alla kh di Amburgo, del 1855 al Louvre di Parigi; bozzetti ai musei di Dordrecht e di Clermont-Ferrand) o alla letteratura tedesca (I morti van- no in fretta, 1830: Lille, mba; Eberhard il piagnucoloso, 1834: Parigi, Louvre; altre versioni a Boston, mfa e a Rotterdam, bvb; bozzetti a Digione, Museo Magnin; Il bambino caritate- vole, 1840: Nantes, mba), ai dipinti religiosi largamente di- vulgati dalle incisioni (Sant’Agostino e santa Monica, 1846; La tentazione di Cristo, 1855: Parigi, Louvre); ritratti (Il dottore J. R. Duval, 1841: Caen, mba; Lammenais, 1845: Parigi, Lou- vre; A. F. Villemain, 1855: ivi). Professore di disegno dei fi- gli del duca d’Orleans, il futuro Luigi Filippo, di cui eseguì il Ritratto (Chantilly, Museo Condé), all’avvento al trono di questi fu colmato di onori e di committenze; partecipò atti- vamente all’organizzazione e alla decorazione del museo sto- rico di Versailles: Carlomagno riceve a Paderborn la sottomis- sione di Witiking, L’entrata a Parigi di Filippo Augusto, Morte di Gaston de Foix, Entrata di Carlo VII a Reims, Entrata di Lui- gi XII a Genova. Apprezzato dai preraffaelliti inglesi, poi ca- duto nell’oblio e rivalutato soltanto ai nostri giorni, fu repu- tato, ai suoi tempi, uno dei pittori piú rappresentativi del mo- vimento romantico. È ben documentato nel museo della sua città natale che, nel 1958 ne ha commemorato l’anniversario della morte, così come nel museo di Utrecht: Cristo redento- re, Cristo protettore dei deboli. Numerosi sono i musei france- si che posseggono opere dell’artista, in modo particolare quel- lo di Autun (Il generale Changarnier, 1849), di Besanon (La si- gnora Marjolin, figlia del pittore), di Chantilly (Talleyrand, 1828; La regina Maria Amelia, 1858), di Grenoble (Madre con- valescente, 1824; Il pittore Hersent, 1830), di Le Mans (David d’Angers), di Marsiglia (L’arresto di Charlotte Corday, 1831), di Rouen (Il generale La Fayette, 1818) e di Versailles (Orazio Vernet, Gounod, Maria Taglione). (ht). Suo fratello Henri (L’Aja 1798 - Parigi 1862) frequentò ne- gli stessi anni l’atelier di Guérin; dipinse, con uno stile as- sai prossimo a quello d’Ary, ritratti e grandi tele per le chie- se di Parigi e per le sale storiche del Museo di Versailles (En- trata di Giovanna d’Arco a Orléans). (sr).

Storia dell’arte Einaudi Scheffer von Leonhardshoff, Johann Evangelist (Vienna 1795-1822). Dopo aver frequentato i corsi di H. Maurer all’Accademia di Vienna, l’incontro con J. Sutter e con l’antica arte italiana, che conobbe nel corso di un viag- gio a Venezia nel 1812, determinarono l’orientamento del- la sua pittura verso la poetica dei nazareni. Ritornato in Au- stria, S ottiene una borsa di studio per l’Italia: giunto a Ro- ma nel 1814 entra in contatto con Overbeck e con la sua cerchia, prendendo parte alla mistica confraternita di San Luca dal 1815. Sono questi gli anni in cui S precisa il pro- prio stile, forgiato sull’attento studio dell’arte rinascimen- tale italiana, specie sull’opera di Raffaello, Perugino e Mi- chelangelo. Nel 1816, costretto dalla tisi, è nuovamente in patria, a Klagenfurt. Partecipa con esiti positivi alla Mostra dell’Accademia del 1820 esponendo l’Autoritratto (1820: Vienna, ög), e, dopo un secondo soggiorno a Roma (1820- 1821) durante il quale realizza La morte di santa Cecilia (ivi), suo capolavoro acquistato dall’imperatore Francesco I ed esposto al Belvedere, muore a Vienna. Sue opere si conser- vano in varie collezioni pubbliche austriache e tedesche; presso la Bibl. dell’Accademia di Vienna sono depositati gli schizzi realizzati nel 1816 e 1820. (sr). Scheits, Matthias (Amburgo 1630 ca. - 1700 ca.). Fu il piú noto incisore dell’Amburgo seicentesca. Formatosi ad Haarlem presso P. Wouwerman, possiede un talento fecondo e vario che ri- flette influssi diversi, dalla calda pittura di Haarlem alla ma- niera piú chiara di Téniers, ai temi di van Ostade. Un se- condo viaggio nei Paesi Bassi lo condusse nel 1669 a fare la conoscenza di Joardens ad Anversa, ed anche questo incon- tro non fu privo di conseguenze per il suo stile. Ha lasciato scene di genere, rustiche e galanti (la Passeggiata: Amburgo, kh), scene di vita militare, paesaggi e dipinti religiosi. Le 152 illustrazioni da lui realizzate per la Bibbia stampata pres- so Stern a Lüneburg nel 1672 possono essere considerate l’opera maggiore dell’artista (disegni a penna e acquerellati e studi a olio conservati nella kh di Amburgo), che proprio da queste trasse la sua fama. Amburgo possiede parte della sua opera dipinta (in numero di quattordici quadri). È rappresentato nei musei di Aschaf-

Storia dell’arte Einaudi fenburg (Pranzo di contadini), Berlino (sm, gg: Scena con sol- dati e un cavaliere, 1650 ca.), Braunschweig, Göttingen (Kun- stsammlung der Universität), Monaco (castello di Schleis- sheim: Baccanale di contadini). (ga). Schellinks, Willem (Amsterdam 1627? - 1678). Nel 1646 effettuò insieme a Lambert Doomer un viaggio lungo la Loira. Tra il 1661 e il 1665 visitò la Germania, la Francia, la Svizzera, l’Italia e l’Inghilterra. In seguito abitò ad Amsterdam, dove si sposò nel 1667. Talento eclettico, si ispirò alternativamente all’opera di vari paesaggisti olandesi italianeggianti: vedute di parco nello stile di F. de Moucheron (Cimitero italiano: Vienna, Accademia), vedute di porti ispirate a Lingelbach (Augusta, Museo). Guardò in particolare all’opera di Jan As- selijn, tanto abilmente imitata che si è potuto talvolta confonderne le rispettive opere (Paesaggi: Copenhagen, smfk). Si distingue per il disegno acuto e vivace delle figu- re, e per l’esasperazione manierista della profondità e degli effetti prospettici. (abl). Schenau (Johann Eleazar Zeissig, detto) (Großschönau (Zittau, Sassonia) 1737 - Lipsia 1806). Adottò il nome del suo luogo di nascita in occasione di un soggiorno a Parigi (1756-70 ca.). Si guadagnò l’amicizia di Wille che ne diventò un prezioso sostenitore e acquistò ri- nomanza presso il pubblico parigino sia per i suoi quadri di storia che per quelli di genere (questi ultimi spesso diffusi mediante incisione). Nonostante il successo conseguito, ri- tornò a Dresda nel 1770 e nel 1773 divenne direttore della Scuola di pittura e disegno della manifattura di Meissen; dal ’74 fu nominato professore anche all’Accademia di Dresda, della quale divenne il direttore unico nel 1795 (dal ’76 al ’95 insieme a G. B. Casanova). La maggior parte della sua ope- ra non è nota, sia a causa della distruzione di molti suoi di- pinti, sia perché i superstiti attendono ancora una rivaluta- zione stilistica complessiva, passando spesso come opere di altra mano. Soprattutto le sue incisioni, di cui il Gabinetto delle stampe di Dresda possiede la serie pressoché comple- ta, hanno consentito di ricostituire la figura dell’artista, for- temente influenzato da Chardin e Greuze. La gg di Dresda

Storia dell’arte Einaudi conserva inoltre alcuni dipinti di S, in particolare il suo gran- de Ritratto della famiglia dei principi di Sassonia (1770 ca .) e Discussioni sull’arte (1777) che raffigura la cerchia di artisti conoscitori e collezionisti frequentata da S mentre, attorno a un tavolo, discutono su opere d’arte. (gmb). Schiavo, Paolo (Paolo di Stefano Badaloni, detto) (Firenze 1397 - Pisa 1478). Fu pittore, miniatore e fornì di- segni per ricami. Si immatricolò all’Arte dei Medici e Spe- ziali l’8 dicembre 1429, all’età di trent’anni. Scarse le noti- zie sull’educazione pittorica e l’attività giovanile. Formato- si probabilmente nell’ambiente di Lorenzo Monaco, risentì in seguito dell’arte di Masolino del quale, secondo quanto affermava il Vasari, fu seguace. Le opinioni del biografo are- tino sembrerebbero veritiere se prendiamo nella giusta con- siderazione sia le componenti stilistiche dello S nonché la sua collaborazione, verso la metà degli anni Trenta, insieme con Masolino e il Vecchietta agli affreschi della collegiata e di Palazzo Branda a Castiglione Olona. La produzione pit- torica dello S, relativa al terzo decennio del Quattrocento, è stata ricostruita solo in base a ipotesi attributive: l’An- nunciazione (Berlino, sm, gg); gli scomparti di una predella con la Visitazione, la Natività, e l’Adorazione dei Magi della collezione Johnson di Philadelphia e il pannello con Cristo nell’orto e San Girolamo penitente, di Altenburg. Documen- tata appare invece l’attività del pittore a partire dagli anni Trenta del secolo: nel 1436 firmò e datò un affresco con la Madonna e santi nella chiesa di San Miniato al Monte, men- tre nel dicembre dello stesso anno collaborò alla sistemazio- ne di alcune vetrate del Duomo fiorentino. Nel 1437 rea- lizzò il tabernacolo dell’Olmo a Castello (presso Firenze); nel 1438 una miniatura con le Stigmate di san Francesco per un codice del convento di San Bonaventura al Bosco ai Fra- ri (ora msm) e il tabernacolo delle Mozzette a San Piero a Sieve. Tra la fine dello stesso decennio e gli inizi del suc- cessivo vengono riferiti a Paolo S anche il pannello con An- geli musicanti (ora nel Museo della Basilica di San Giovanni Valdarno), le Stigmate di san Francesco della chiesa di Broz- zi, gli affreschi di Tavarnuzze e del Santuario di San Dona- to in Poggio, nonché il tabernacolo di devozione privata del- la Pieve di Santa Maria all’Antella. Al 1448 risale invece la Crocifissione mistica di Sant’Apollonia; al 146o sia gli affre-

Storia dell’arte Einaudi schi che la pala d’altare con l’Assunzione della Vergine per l’Oratorio di Santa Maria della Querce a Legnaia; al 1463 un’altra miniatura con la Resurrezione (codice ora nella Bi- blioteca Laurenziana di Firenze), nonché gli affreschi (per- duti) per il convento del Paradiso in Pian di Ripoli. Per que- sta istituzione religiosa, molto attiva dalla metà del Quat- trocento nella produzione e il commercio di paliotti, fregi, e paramenti liturgici, lo S fornì anche disegni da tradursi in ricamo. Nel 1451 sono documentati due compensi al pitto- re per un fregio d’altare con Storie di san Donato, destinato al chiericato di Arezzo, e per alcuni paramenti da diacono a favore dei frati di Scopeto. All’artista spettano anche i di- segni per l’Incoronazione della Vergine (già coll. Lederer di Vienna e ora nel am di Cleveland) e per il paliotto dell’As- sunta con Storie della Madonna (documentata 1466), desti- nato all’altare maggiore della chiesa di Santa Maria Novel- la. ora nell’attiguo museo. Dal 1462 Paolo S è documenta- to a Pisa dove soggiornò, anche se con brevi intervalli a Firenze, fino alla morte. (ebi). Schiavone (Andrea Meldolla, detto lo) (Zara, primo decennio del sec. xvi - Venezia 1563). Sia l’identità dell’artista, documentato come «Andreas Sclabo- nus dictus Meldulas» (Harzen, 1853), sia la cronologia pre- sentano non poche difficoltà: lo stesso anno di nascita 1522 tramandatoci dal Ridolfi è da mettere in dubbio e va anti- cipato al primo decennio. La prima data certa che lo riguar- da è il 1542, quando il Vasari gli affida una Battaglia per Ot- tavio de’ Medici; già da alcuni anni però doveva avere ini- ziato il tirocinio artistico, muovendo dallo studio e dalla trascrizione delle stampe del Parmigianino – in circolazio- ne dopo il 1530. Tale attività grafica è importante, poiché attraverso la traduzione morbida e decorativa dello S, la cultura emiliana e le estenuate eleganze del Parmigianino penetrarono nell’ambiente veneziano, chiarendone la crisi manieristica imminente e divenendo una stimolante com- ponente per il Tintoretto e il Veronese, Jacopo Bassano e il Vittoria. I numerosi Presepi e le Sacre Famiglie, il Mosè e il roveto ardente, il Ratto di Elena del 1547 mostrano che, ben- ché avesse adottato entusiasticamente il linguaggio parmi- gianesco, il pittore lo aveva tuttavia rivissuto con un estro

Storia dell’arte Einaudi capriccioso e fantastico, che dissolveva ogni assunto forma- le in un tonalismo franto e colato, un canto cromatico che rimanda a sicure esperienze bonifacesche e tizianesche. Ta- le espressionismo rapido e frizzante trovò nella tematica sto- rico-mitologica delle tavole per cassoni, numerose a Vienna (km) e ad Hampton Court, una applicazione pratica e com- merciale, che spiega l’isolamento di questo gusto; si tratta di scene dalla narrazione facile e briosa, favole pagane am- bientate in paesaggi vividi, risultanti dall’alterno aggrumar- si e sfrangiarsi del colore. Il sostrato parmigianinesco è evi- dente nella Natività (Parigi, Louvre) ove le forme, pur di- sfacendosi nella liquida cromia, conservano del maestro emiliano il modulo e il molle fluire dei contorni, mentre le superfici si logorano sino a disgregarsi nella luce gorgogliante dell’Adorazione dei pastori di Vienna (km). La stessa pen- nellata filacciosa traccia sulle tavole (Annunciazione; Adora- zione dei pastori; Presentazione al Tempio) della cantoria di Santa Maria del Carmine a Venezia un discorso fantastico, in cui le forme appena sbavate di luci fosforescenti antici- pano un discorso che si farà drammatico nel Tintoretto. Il tema dell’Annunciazione, trasferito su scala monumentale, torna nel complesso eseguito per la chiesa di San Pietro (Bel- luno), denso di fumi notturni, nell’atmosfera calda e miste- riosa rotta dagli strappi della pennellata impressionistica. Dopo il ’50 l’imitazione tizianesca – rivolta agli schemi in- ventivi piú che alla sostanza, poiché la pittura continua ad essere sfatta e gocciolante, preparando se mai l’estrema ma- niera dei Vecellio –, si rivela nell’empito drammatico del Cri- sto davanti ad Erode (Napoli, Capodimonte); di sapore tin- torettesco sono invece le placche di luce che costruiscono in un paesaggio denso e granoso le molli cadenze delle figure del Giudizio di Mida (Hampton Court, Palazzo Reale). Fra il 1556 e il ’57 lo S esegue tre tondi di soggetto allegorico per il soffitto della Libreria Marciana di Venezia e due im- ponenti Profeti entro nicchie. Il capolavoro del maestro è l’Adorazione dei Magi (Milano, Ambrosiana), in cui i modi del manierismo sortiscono gli effetti piú prestigiosi: forme inconsistenti, serpentine, dalle proporzioni irreali si dipa- nano rapidissime e fiammeggiano, persone e drappi, cavalli guizzanti e colonna tortile, nello scintillio dei verdi smeral- dini e dei rossi violacei, dei bianchi abbaglianti e dei rosa languenti. (mcv).

Storia dell’arte Einaudi Schiavone (Giorgio Gregorio di Tomaso Chiulinovi- ch, detto lo) (Scardona 1436 ca. - Sebenico 1504) Pittore di origine dal- mata di cui rimane problematica la ricostruzione della sua prima attività in patria ipotizzata presso la bottega del pit- tore Dujam Buskvic da Spalato. Nel 1456 è documentata la sua presenza a Venezia dove nel mese di marzo stipula un contratto con il pittore padovano Francesco Squarcione in cui si impegna a lavorare nella bot- tega del maestro senza compenso in cambio di vitto, allog- gio e insegnamento dell’arte; contratto che sarà rinnovato nel 1458. Nel 1462 S ritornò in Dalmazia ma il rapporto con Squarcione dovette persistere a causa di una serie di dise- gni, tra cui alcuni del Pollaiuolo, che lo S portò con sé quan- do lasciò la bottega padovana e che suscitarono una lite pro- trattasi sin dopo la morte del maestro (1468). A parte un secondo soggiorno padovano nel 1474, lo S non dovette piú lasciare la patria dove esercitò soprattutto l’at- tività di commerciante. Andato disperso il polittico esegui- to nel 1489 per l’altare di Didomerovic nel Duomo di Se- benico, le opere dello S a noi note sono tutte riconducibili al periodo di alunnato presso lo Squarcione. A Padova lo S poté venire a contatto con le novità toscane giunte nella città a partire dagli anni ’50 del Quattrocento, con le sculture di Donatello, con la pittura di Filippo Lippi e soprattutto con quella di Andrea Mantegna. Evidenti rap- porti lo legano inoltre al Crivelli e a Marco Zoppo. Nel trittico smembrato rappresentante la Madonna in trono col Bambino nella parte centrale (Berlino, sm, gg) e i Santi Ludovico da Tolosa e Antonio da Padova, Girolamo e France- sco nelle parti laterali (Padova, sacrestia dei Canonici del Duomo) le figure modellate come delle sculture contrastano con il delicato paesaggio di fondo e le novità prospettiche toscane si mescolano ad arcaismi goticizzanti. Ricche in- quadrature modanate, giochi di ghirlande, motivi classici e un raffinato espressionismo fisionomico sono elementi ri- correnti nelle opere dello S. Ricordi donatelliani, citazioni mantegnesche e riferimenti pierfrancescani nell’impianto geometrico e nell’uso della luce si leggono nella Madonna col Bambino della Galleria Sabauda di Torino, nella Madonna tra due angeli musicanti della wag di Baltimore e nel Ritrat-

Storia dell’arte Einaudi to maschile del Museo Jacquemart-André di Parigi. Tra le opere a lui attribuite vanno ricordate il San Girolamo e il Sant’Alessio dell’Accademia Carrara di Bergamo, la Madon- na col Bambino della ng di Londra e la Madonna col Bambi- no tra i santi Antonio e Pietro martire del Museo Jacque- mart-André di Parigi. (sr). Schick, Gottlieb (Stoccarda 1776-1812). Dal 1787 al 1794 seguì i corsi della Karlsschule di Stoccarda; dal 1795 frequentò l’atelier di Het- sch, e dal 1797 quello di Dannecker. Approfondì la propria formazione classica nello studio di David a Parigi dal 1798 al 1802. Dopo un breve soggiorno a Stoccarda nel 1802 par- ti per Roma per tornare ancora a Stoccarda nel 1811. Fu au- tore di quadri di storia e di paesaggi nei quali introdusse fi- gure mitologiche: Apollo tra i pastori (1806-808: Stoccarda, sg; schizzo a Weiman Kunstsammlungen) è il piú celebre in questo genere. Eseguì inoltre ritratti, tra i quali il piú note- vole è quello della Signora Dannecker (1802: Berlino, Neue ng). È rappresentato al wrm di Colonia (Eva, 1800), e so- prattutto nella sg di Stoccarda (Davide e Saul, 1802; Sacrifi- cio di Noè, 1805): qui, nel 1976, gli è stata dedicata una gran- de mostra. (hbs). Schiele, Egon (Tully 1890 - Vienna 1918). Studia all’Accademia di belle ar- ti di Vienna (1906-909). Nel 1907 incontra Gustav Klimt, che all’inizio lo influenza profondamente; fra i due artisti s’instaura comunque un rapporto di reciproca ammirazione. S espone nel 1908 a Klosterneuburg, poi nel 1909 a Vienna (Internationale Kunstschau). Opera nel 1911 a Krumau, in Baviera, poi a Neulengbach; nel 1912 si stabilisce a Vienna. Disegnatore estremamente dotato, esegue la maggior parte della sua opera a matita, ad acquerello e a guazzo. È autore inizialmente di paesaggi e ritratti improntati ai modi dello Jugendstil, ma sin dal 1909 se ne affranca l’originalità. S è ossessionato dal proprio volto (doppio e triplo autoritratto), e soprattutto dal corpo umano (doppio e triplo dei suoi mo- delli, spesso molto giovani), che rende con un tratto netto, nervoso, spezzato, delimitante superfici assottigliate e mes- so in risalto mediante colori stridenti (Uomo nudo seduto, 1910, penna e guazzo: Vienna, coll. priv.; Nudo a gambe di-

Storia dell’arte Einaudi varicate, 1914, matita e guazzo: Vienna, Albertina). L’ac- cento è posto sulle zone sessuali, sui volti dalla maschera ca- daverica, sulle dita stirate e divaricate, sulle posture degli amanti saldati l’uno all’altro da un ultimo spasimo (Autori- tratto a dita divaricate, 1911: Vienna, hm der Stadt; Coppia di amanti, 1913: coll. priv.). Nell’universo di S amore e mor- te sono strettamente legati. Alcune pose complicate sono trat- te dagli scultori (Minne, Rodin), alcuni temi da Munch (la Madre morta I, 1910: Vienna, coll. priv.) e da van Gogh (Igi- rasoli; la Camera dell’artista a Neulengbach, 1911: Vienna, hm der Stadt), ma l’impaginazione bidimensionale e il tratto nel contempo gracile e teso, hanno un’efficacia estremamente personale. Il suo erotismo sferzante e provocatorio, che tra- suda una solitudine disperata, valse all’artista tre settimane di prigione (marzo-aprile 1912), sanzione che lo colpì profon- damente (Autoritratto da prigioniero, matita e acquerello, 1912: Vienna, Albertina). Alcuni paesaggi presentano la stes- sa tensione arida dei nudi (Albero d’autunno, 1909: Darm- stadt, Hessisches Landesmuseum), alcuni, di un realismo piú tranquillo, ricordano quelli di Hodler (i Quattro alberi, 1917: Vienna, ög); non pochi, ispirati dalla vecchia città di Kru- mau, possiedono una struttura geometrica e colorata che preannuncia la poetica di Klee (Finestre, 1914: ivi; Paesaggio di Krumau, 1916: Linz, Neue Galerie der Stadt). Sposatosi nel 1915, nel suo lavoro si avverte un riflesso di questa mutata situazione affettiva sotto forma di un eroti- smo piú dolce (Donna distesa II, 1917: Vienna, coll. priv.). Incaricato per breve tempo della guardia dei prigionieri di guerra, poté continuare a dipingere nel suo studio viennese. La sua fama crebbe dal 1912 in poi. Le sue ultime opere si accostano a quelle di Klimt per il senso di un piú ampio vo- lume e il loro impegno verso una realtà meno tormentata (Ri- tratto di Gütersloh, 1918: Museo di Minneapolis; La famiglia, 1918: Vienna, ög). Morì vittima, come la moglie, dell’epi- demia di spagnola che colpi l’Europa nel 1918. Figura fon- damentale dell’espressionismo austriaco, tra Klimt e Koko- schka (i cui «ritratti psicologici», contemporanei ai suoi, ri- velano minori crudeltà inquisitorie), S testimonia nella sua arte il passaggio dell’armonia di un’arte monumentale alle dissonanze d’una linea piú espressiva. È ben rappresentato a Vienna (soprattutto ög e Albertina). (mas).

Storia dell’arte Einaudi Schifano, Mario (Homs (Libia) 1934 - Roma 1998). Trasferitosi a Roma nell’immediato dopoguerra, esordisce nel 1959 alla Galle- ria Appia Antica con quadri informali di impianto decisa- mente materico. Nella sua prima collettiva di rilievo (Gall. La Salita di Roma, 1960) presenta accanto ad Angeli, Fe- sta, Lo Savio e Uncini, la serie di monocromi, vicini alle ri- cerche di azzeramento della superficie condotte al tempo da Manzoni, Castellani e Paolini, ma caratterizzati da una stesura cromatica densa, corposa e dinamica. Comincia l’in- dagine di S sulla superficie del quadro intesa come scher- mo, luogo di proiezione. Dopo un viaggio negli Stati Uni- ti, dove si confronta con il fenomeno della Pop Art, inseri- sce nei suoi quadri immagini e frammenti dell’iconografia urbana, compiendo un’operazione di tipo linguistico sui simboli e sui segnali propri della civiltà del consumo. Ac- canto a una rimeditazione e una ricerca sulle esperienze del- le avanguardie storiche, in particolare sulla poetica futuri- sta del movimento e sul suprematismo, sperimenta diverse tecniche extra-artistiche (video, cinema, fotografia), spes- so accostate alla pittura. Tra il 1968 e il 1969 porta a ter- mine la trilogia cinematografica Satellite, Umano non Uma- no, Trapianto, consumazione e morte di Franco Brocani. Dal 1970 inizia la sua ricerca di mediazione tra mezzo fotogra- fico e televisivo; il lato concettuale dei suo lavoro si espri- me nelle serie degli Omaggi, tele in cui l’artista cita opere di Cézanne, Gauguin, Picasso, De Chirico, Boccioni, Bal- la, Picabia e Magritte, o ripropone i suoi stessi lavori degli anni Sessanta. Ricordiamo, tra le piú importanti di questi anni, le serie dei Paesaggi TV,i Paesaggi anemici, gli Alberi, i Grandi Paesaggi Italiani e i Grandi Maestri Italiani. Dopo un periodo in cui mette in discussione il proprio rapporto con la pittura, continuando comunque ad esporre, una svolta nella sua arte si verifica agli inizi degli anni Ottanta: le te- le si ingigantiscono, i colori diventano brillanti, vivaci, la tecnica pittorica comunica un senso di dinamismo e di ve- locità, il segno si fa vibrante, ritmico ed essenziale. S ri- corre ora a tecniche proprie dell’Action Painting e dell’im- pressionismo, caricate da una gestualità neonaturalistica. Costante rimane, comunque, l’interesse verso il mezzo te- levisivo inteso come linguaggio primario della civiltà

Storia dell’arte Einaudi dell’immagine. Tra le principali mostre personali: Ferrara (Palazzo dei Diamanti, 1979); Ravenna (pc, 1982); Gibel- lina (mc, 1984). (are). Schindler, Carl (Vienna 1821 - Laab im Walde (Bassa Austria) 1842). Figlio di Johann S (1777-1836), professore di disegno, noto per una serie di litografie intitolate La guerra e la sua rappresen- tazione plastica (1819-20), Carl cominciò gli studi sotto la sua guida, entrando poi, a quindici anni, all’Accademia di Vien- na. Affetto da tisi, dovette interromperli a due riprese, tan- to che il primo vero e proprio influsso da lui subito va ri- portato all’epoca dei suoi rapporti con P. Fendi. Tema prin- cipale delle composizioni del «Soldato S», come venne soprannominato, è la vita militare, dalla figurina di soldato litografata entro una cornice decorativa e dagli acquerelli di scene di battaglia, fino al quadro di genere minuziosamen- te rifinito, a volte inclinando a un certo tono umoristico (Sen- tinella al presentat’arm, 1839: Vienna, ög; Sentinella di guar- dia, 1840: ivi), altre piegando il soggetto a puro esercizio sti- listico (Interno di scuderia: ivi). I suoi dipinti sono preparati minuziosamente da numerosi disegni e studi ad acquerello. S piace per la morbidezza del pennello e per un colore flui- do dalle tonalità tenere che ricordano gli schizzi barocchi au- striaci. L’artista svolse un ruolo importante come interme- diario tra la grande tradizione barocca e la nuova corrente realista. Sue pitture, acquerelli e disegni sono conservati nel- le collezioni pubbliche di Vienna (ög, hm, Albertina, Gabi- netto delle stampe dell’Accademia, Museo dell’Esercito e Niederösterreichisches Landesmuseum). (g + vk). Schindler, Emil Jakob (Vienna 1842 - Westerland (Sylt) 1892). All’Accademia di Vienna, formatosi alla scuola di Albert Zimmermann dal 1860 al 1869, S si distingue per le brillanti doti rispetto ai compagni Jettel, Ribarz e Robert Russ. Studia i maestri olan- desi e la scuola di Barbizon, ma scoprirà un proprio colore personale soltanto dopo aver frequentato le coste del Medi- terraneo e i paesaggi insulari. La sua tavolozza diviene allo- ra chiara e luminosa, la tecnica è fluida fino alla velatura, e il disegno si attenua per dare posto al colore. Vagabonderà

Storia dell’arte Einaudi dal suo studio al Prater alle pianure erbose del Danubio, che dipingerà; poi, stabilitosi a Plankenberg nel 1885, suo tema preferito diverrà il bosco viennese. I dipinti di S sono sem- pre determinati da un «motivo» che si rivela nella scelta del formato o che viene spiegato da una legenda. Nel quadro Fermata del battello a vapore di Kaisermühlen sul Danubio (1872 ca.: Vienna, ög) il paesaggio è amplificato dalla luce. Una foresta di faggi a Plankenberg (1891: Vienna, Niederö- sterreichisches Landesmuseum) traduce sobriamente il fa- scino di un sottobosco entro cui penetra il sole. Il suo allie- vo piú fedele fu Carl Moll. A Vienna (ög) è conservato il maggior numero dei suoi dipinti. (g + vk). Schinkel, Karl Friedrich (Neuruppin 1781 - Berlino 1841). In campo architettonico, S è stato certamente l’artista tedesco piú eminente del sec. xix; ma anche come pittore ha creato opere di eccezionale qualità, quantunque la sua formazione in questo campo sia stata esclusivamente da autodidatta. Riportò a Berlino, da un viaggio in Italia (1803-1805), numerosi disegni di pae- saggi in uno stile minuto e legato al contorno lineare (Berli- no, Neue ng, S-Pavillon). La disfatta subita presso Jena e Auerstedt dall’esercito prussiano, il 14 ottobre del 1806 per mano di Napoleone, ne limitò l’attività di architetto, la- sciandogli nello stesso tempo la possibilità di applicare il suo spirito acceso e poetico insieme, alla pittura: dal 1803 al 1810, l’artista vi si dedicò quasi esclusivamente. Dapprima sotto l’influsso «eroico» di Koch e lo studio della veduta idil- lica di C. Lorrain, poi, sotto l’impressione delle visioni ro- mantiche di Friedrich, S dipinse paesaggi nei quali si atte- nuerà pian piano la componente anticheggiante (Paesaggio con salice piangente, 1813 ca.; Paesaggio greco, 1815; Sguar- do sulla Grecia in fiore, 1825: tutte già Berlino, ng e distrutte nel 1945, quest’ultimo considerato uno dei capolavori della fase matura di S) per far posto a dipinti ove dettagli archi- tettonici assai precisi (e a volte desunti dal vero, come nel caso della Riva della Spree presso Stralau, 1817: Berlino, Neue ng) si mescolano inavvertitamente a vedute ideali, sognanti o leggendarie (come nel celebre Castello sul fiume, del 1820: ivi, che illustra una fiaba romantica d’argomento «gotico», scritta da Brentano, e che dimostra come l’arte figurativa può esprimere l’intero contenuto di una composizione let-

Storia dell’arte Einaudi teraria) dando vita a immagini di ricca e complessa sugge- stione. La tecnica pittorica di S è legata alla radice grafica, di precisione, derivatagli dalla professione di architetto, ma possiede un senso raffinato e vivo per gli effetti di luce e compositivi. Nel 1813 S aveva decorato l’appartamento del commerciante Humbert con sei grandi paesaggi (già a Ber- lino, ng, distrutti nel 1945), ma già dal 1810, è però di nuo- vo attivo in qualità di architetto, che resterà d’ora in poi la sua attività primaria, accanto alla pittura, alla progettistica e decorazione d’interni (dal 1828 vari progetti per le deco- razioni murali dell’atrio dell’Altes Museum di Berlino, di- strutti nel ’45), alla creazione di modelli per mobili e arre- damenti, alla scenografia (per il Flauto magico di Mozart: il Palazzo della regina della notte, 1816, guazzo: Berlino, ng; per Ondina di Th. A. Hoffmann, 1816; per Käthchen von Heilbronn di von Kleist, 1818), alla stesura di saggi di teo- ria architettonica e altro. (hbs + scas). Schirmer, Johann Wilhelm (Jülich 1807 - Karlsruhe 1863). Nel 1825 fu allievo dell’Ac- cademia di Düsseldorf, divenendone professore dal 1830 al 1853. I suoi paesaggi, spesso animati da piccole figure bi- bliche, accolsero poi, per influsso di C. F. Lessing, compo- nenti idealizzanti. A partire dal 1853 fu direttore della Scuo- la di belle arti di Karlsruhe. Viaggiò in Normandia, in Italia (1839-40) e nel Mezzogior- no della Francia. Le raccolte piú importanti delle sue opere si conservano a Karlsruhe (kh) e a Düsseldorf (km). (hbs). Schirren, Ferdinand (Anversa 1872 - Bruxelles 1944). Fu dapprima scultore; pra- ticò la pittura a partire dal 1905, soprattutto l’acquerello e il guazzo, orientandosi, per impulso del neoimpressionismo e del fauvisme, rivelati a Bruxelles dalla Libre Esthétique, verso un’espressione colorata, allegra e allusiva, che precor- re le realizzazioni di Rik Wouters (Donna in giardino, 1906: Bruxelles, coll. priv.; Nudo fauve, 1910: ivi). Dal 1919 al 1922 soggiorna a Nizza e Parigi dove l’influenza del cubi- smo trasforma il suo stile; datano a questi anni le sue com- posizioni piú geometriche (Donna in blu, 1921: Bruxelles, mrba). Negli acquerelli, tecnica che frequentò soprattutto

Storia dell’arte Einaudi dagli anni Venti, una calligrafia leggera s’iscrive su tonalità molto fuse (Gabbia per uccelli, 1938: Bruxelles, coll. priv.). (mas). Schleich, Eduard (Haarbach 1812 - Monaco 1874). È considerato il piú im- portante paesaggista monacense della metà del sec. xix. Re- spinto dall’Accademia perché considerato poco dotato, si formò da autodidatta, studiando nell’ap i maestri del sec. xvii, in particolare i paesaggi di Rubens. L’Esposizione di Parigi del 1851 esercitò su di lui una forte impressione, sen- za tuttavia modificarne l’arte, basata sulla stesura pura dei colori e su una trascrizione in memoria di paesaggi. Rap- presentò spesso in modo sostanziale i dintorni di Monaco: vasti orizzonti bagnati da una luce argentata, dove si spec- chiano le acque d’un lago o d’un fiume (Veduta del lago Starn- berg: Monaco, Schackgal.). (pv). Schlemmer, Oskar (Stoccarda 1888 - Baden-Baden 1943). Dopo un breve ap- prendistato in un laboratorio di tarsia (1903-905) entrò nel- la scuola di arti e mestieri di Stoccarda. Qui si legò ad Otto Meyer-Amden e a Willi Baumeister; seguì poi i corsi di Lan- denberger e di Hoelzel all’Accademia. La scoperta di Cé- zanne e soprattutto di Seurat a Berlino nel 1911 ne orientò allora, in misura decisiva, lo sviluppo. Chiamato da Gropius al Bauhaus, vi diresse il laboratorio di scultura su pietra e quello di pittura murale; poi, fino al 1929, il laboratorio di teatro, attività che determinerà ben presto i suoi rapporti con la pittura. Insegnante all’Accademia di Breslavia nel 1929, poi alla Scuola di belle arti di Berlino nel 1932, ne venne espulso dai nazisti l’anno seguente, come artista «de- generato». Operò allora da solo, poi in una fabbrica di lac- ca; quindi si ritirò, fino alla morte, nella Germania meri- dionale. Vicino, all’inizio della carriera, alle correnti post-im- pressioniste, S passò rapidamente, anche per l’interesse che nutriva verso i problemi scenici, da un fase cubista (Case, matita e acquerello, 1912) a uno stile prossimo all’astratti- smo, esercitato su forme naturali rigorosamente ridotte al- la loro apparenza statica (Danzatrice, 1922-23: Stoccarda, coll. Tut Schlemmer; Commensali, 1923: Darmstadt, coll. Ströher). Al centro della sua arte è il problema della rap-

Storia dell’arte Einaudi presentazione delle anatomie nello spazio, o, secondo la sua stessa espressione, «delle proprietà plastiche dell’uomo» nel- le sue pose elementari, «geroglifiche»: (Römisches, «Cosa romana», 1925: Basilea, km; Ingresso allo stadio, 1930: Stoc- carda, sg). Le sue figure si riducono a profili schematizzati e la composizione si dispone secondo un gioco puramente geometrico di contrasti, fondato sulle caratteristiche plasti- che dei soggetti e sui loro rapporti nello spazio (la Scala del Bauhaus, 1932: New York, moma; Scena eroica, 1936: Stoc- carda, coll. Tut Schlemmer). Nel corso degli ultimi anni il geometrismo di S si attenua a favore di notazioni meno net- te, ma piú atmosferiche e psicologiche (Disegnatore, 1942: Mannheim, coll. Emil Frey; serie delle Finestre, 1942: Stoc- carda, coll. Tut Schlemmer). Oltre a importanti composi- zioni murali (in particolare per il Folkwang Museum di Es- sen, 1928-30), S realizzò numerossime scenografie e costu- mi per il teatro drammatico e lirico. È rappresentato nei musei di Basilea, Breslavia, Dessau, Essen, Hannover, Dui- sburg, Colonia, Francoforte, Monaco, Saarbrücken, Stoc- carda e New York (moma). (bz). Schlichter, Rudolf (Calw 1890 - Monaco 1955). Dopo aver seguito i corsi del- la Scuola d’arti applicate di Stoccarda dal 1907 al 1910, S studia all’Accademia di belle arti di Karlsruhe con Thomas e Trübner fino al 1916. Nel 1919 si trasferisce a Berlino dove partecipa alle esposizioni del Novembergruppe e fre- quenta i dadaisti. Le opere di questo periodo risentono dell’influenza della pittura metafisica di De Chirico e Carrà (Lo studio sul tetto, 1920 ca.: Berlino, Gall. Nierendorf; Hausvogteiplatz, acquerello: Amburgo, coll. W. Uecker). Con Heartfield e Grosz S crea nel 1924 il Roten Gruppe e collabora a vari giornali satirici («Der Gegner», «Der Knüppel», «Die rote Fahne»). Le sue qualità di ritrattista lo rendono celebre: si lega in questo periodo a Bertolt Bre- cht, Alfred Döblin, Oskar Maria Graf, Erich Köstner ed Egon Erwin Kisch (Ritratto di Margot, 1924: Berlino, Märkisches Museum; Ritratto di Bertolt Brecht: Monaco, Städtische Galerie im Lenbachhaus; Ritratto di E. Erwin Kisch, 1928 ca.: Mannheim, Städtische kh). Nel 1925 l’ar- tista espone alla mostra delle Neue Sachlichkeit organiz-

Storia dell’arte Einaudi zata dalla kh di Mannheim con numerosi pezzi; tre anni piú tardi fa parte dell’A.S.S.O., associazione degli artisti rivoluzionari. Costretto ad abbandonare Berlino nel 1932, si ritira dalla vita politica e risiede dapprima a Rottenburg, poi a Stoccarda (1935) e Monaco (1937), venendo in con- tatto con l’ambiente cattolico conservatore creatosi intor- no a Ernst Jünger. Il suo mettere a nudo, come Grosz, Scholz e Dix, la piccolezza e l’ipocrisia della società bor- ghese della Repubblica di Weimar fecero si che nel 1937, diciassette suoi lavori fossero confiscati dai nazisti (in par- ticolare Forza cieca, 1937: Berlino, Berlinische Galerie); al- tri furono presentati al pubblico nella mostra sull’arte de- generata. (sr). Schlichting, Basil, barone di (San Pietroburgo 1857 - Parigi 1914). Consigliere di Stato dell’imperatore di Russia, si trasferi a Parigi nel 1900, sta- bilendovisi definitivamente in un lussuoso palazzo del quai de Billy. Possedeva già, a quell’epoca, una bella collezione di scatole con miniature del sec. xviii ma il suo gusto di col- lezionista si estese, da allora, a tutta l’arte del Settecento, mobili, sculture, bronzi, oggetti vari; non trascurò la pittu- ra, raccogliendo una sessantina di quadri di diverse scuole. Legò tutte le sue collezioni al Louvre di Parigi, dove esse en- trarono nel 1915 arricchendone vari dipartimenti. La rac- colta di scatole con miniature, particolarmente celebre, ha costituito il complesso piú considerevole che sia stato rac- colto dopo il lascito Lenoir al Louvre. Alcuni tra questi pic- coli capolavori, molti dei quali di origine illustre, sono de- corati con paesaggi, ritratti, soggetti vari, tratti da Boucher o Greuze, e persino con nature morte da Chardin. I quadri da lui raccolti non attestano la medesima predilezione per il Settecento, ma appartengono a tutte le epoche, spaziando dalla fine del xv al xix secolo. Si possono citare: della scuo- la italiana, Cima da Conegliano (Vergine col Bambino), il So- doma (L’Amore e la Castità), il Veronese (Ritratto della bel- la Nanni), Tiepolo (Apollo e Dafne); delle scuole fiamminga e olandese, Rubens (Issione ingannato da Giunone), Ferdi- nand Bol, van der Helst (Ritratto di famiglia); della scuola francese, Boucher (Odalisca), Nattier, Greuze, e, del sec. xix, Prud’hon (Il Giovane Zéphyr). (gb).

Storia dell’arte Einaudi Schloss, Adolphe (sec. xix - 1910). La sua collezione comprendeva oltre un centinaio di dipinti, specialmente francesi e fiamminghi dei secoli xv-xviii. Era stata iniziata prima della fine del secon- do impero; gli eredi la conservarono intatta dopo la morte del collezionista. Le autorità tedesche s’impadronirono, du- rante l’occupazione, di gran parte della raccolta, tranne una cinquantina di opere che il Louvre di Parigi riuscì a tratte- nere. Le restanti partirono per la Germania, destinate al mu- seo progettato da Hitler; solo dopo la guerra le opere rin- tracciate rientrarono in Francia, per poi essere vendute nel corso di tre vendite pubbliche svoltesi alla Galerie Char- pentier nel 1949 (quadri ritrovati in Germania), nel 1951 (complesso custodito al Louvre) e nel 1954. La collezione comprendeva accanto ai grandi nomi (van Dyck, Ritratto dell’incisore Paul Pontius; Rubens; Ruysdael), anche opere notevoli di artisti secondari o poco noti e pre- senze affatto scontate (Saenredam ad esempio, praticamen- te sconosciuto alla critica ottocentesca); tra le opere acqui- state da musei, citiamo: di Brouwer, il Pranzo di contadini (Zurigo, kh) e la Fumeria (Anversa, Museo); di Téniers, Gio- catori di carte (Bruxelles, mrba). Tra le opere piú antiche, ol- tre a un frammento dell’Adorazione dei Magi attribuito a Ro- gier van der Weyden, citiamo Venere e Amore di Gossaert, un Compianto di Cristo di Petrus Christus (Parigi, Louvre) e una Madonna col Bambino di Luca di Leida (Amsterdam, Rij- sksmuseum). (ad). Schlosser, Julius von (Vienna 1866-1938). Storico dell’arte e della letteratura ar- tistica, fu uno dei massimi esponenti di quella «scuola di Vienna» che deve a lui un profilo dichiaratamente di parte ma che costituisce al contempo un classico della storiografia (La scuola viennese di storia dell’arte, in La storia dell’arte nel- le esperienze e nei ricordi di un suo cultore, Bari 1936). Allie- vo di Theodor von Sickel e Winckhoff, dopo l’apprendista- to all’Istituto austriaco per le ricerche storiche, fu prima con- servatore aggiunto nella sezione di monete antiche, poi conservatore e dal 1901 direttore della collezione di armi e arte industriale presso il km. Nello stesso anno acquisi lo sta- tus di professore ordinario dell’Università viennese, ma fu

Storia dell’arte Einaudi chiamato ad esercitare una piena attività accademica presso il Kunsthistorische Institut solo nel 1921, alla morte di Dvo≈ák, come massimo rappresentante della tradizione che si contrapponeva allo Strzygowski. Nella progressiva defi- nizione del suo oggetto di ricerca un grande ruolo svolse l’amicizia con Karl Vossler e Benedetto Croce. Al primo è dedicata la sua opera maggiore La storia della letteratura ar- tistica (ed. orig. 1924; 2ª ed. it. Firenze 1956) che compen- dia un serie di studi apparsi dal 1914 al 1920 rivisti da S stesso nella edizione italiana (Firenze 1935; ed. integrata da Otto Kurz, Firenze-Wien 1956, 1967). Refrattario alle gran- di sintesi generalizzanti trovò nell’idealismo crociano lo stru- mentario elettivo per la presentazione e l’analisi critica del- le opere d’arte e dei linguaggi artistici (di Benedetto Croce tradusse vari scritti curandone l’edizione, tra cui Goethe nel 1920, Teoria e critica delle arti figurative nel 1926 e alcuni scritti di estetica che raccolse in 2 voll. nel 1929). Esempli- ficativa in questo senso è la lettura di Piero della Francesca, Paolo Uccello, Michelozzo e Leon Battista Alberti data in Künstlerprobleme der Frührenrenaissance, Wien 1933. Il ten- tativo di fondere l’idealismo crociano con l’analisi linguisti- ca di Vossler e formale di Wöllflin è condensato nelle sue ri- flessioni «Stilgeschichte» und «Sprach-geschichte» der bilden- den Kunst, München 1935 (trad. it. in La storia dell’arte; cfr. anche Xenia. Saggi sulla storia dello stile e del linguaggio nell’ar- te figurativa, Bari 1938), in cui espone la sua teoria dell’In- selhaftigkeit della produzione del genio artistico. Scrisse saggi fondamentali su artisti, aspetti e monumenti dell’arte italiana (Tommaso da Modena und die aeltere Mate- rei in Treviso, 1898; Die Werkstatt der Embriachi in Venedig, 1899; Über di ältere Kunsthistoriographie der Italiener, 1929, trad. it. di Maria Ortiz, in «Quaderni critici», 1932; Vene- dig. Zwei Kapitel aus der Biographie einer Stadt e Florenz, 1927). A lui si deve l’edizione critica commentata dei Com- mentari del Ghiberti (Berlin 1912). Die Kunst des Mittelalters (Berlin 1923; trad. it. Torino 1961) rappresenta ancora un’importante introduzione all’arte medievale (vedi anche la voce L’Arte medievale e moderna, in Enciclopedia Italia- na. Istituto Treccani, Roma 1930). Raccolte d’arte e di me- raviglie (Leipzig 1908, trad. it. Firenze 1974) rappresenta un contributo pionieristico alla storia del collezionismo e all’ar- cheologia del sapere, nonché il ritratto di una viva curiosità

Storia dell’arte Einaudi intellettuale guidata da un rigoroso stile analitico (vedi an- che Geschichte der Porträtbildnerei in Wachs, 1910-11). Per quanto riguarda la sua posizione nei confronti del nazismo è certo che S fu scevro da qualsiasi fanatismo, come dimo- stra l’ininterrotta amicizia con Croce, come pure da qual- siasi forma di antisemitismo. In onore del 50° anniversario della sua morte, E. Gombrich ha curato una sua bio-biblio- grafia ricca di notizie sulla sua attività di docente all’Uni- versità di Vienna (in «Kritische Berichte», 4, 1988). (ss). Schmarsow, August von (Schilfeld 1853 - Baden-Baden 1936). Storico dell’arte, stu- diò con Rudolf Rahn, Anton Springer e Carl Justi, insegnò a Göttingen e Leipzig. Si occupò intensamente di problemi istituzionali e di metodo, contrapponendo all’analisi stilisti- ca della scuola viennese una rigida sistematica dell’analisi for- male fondata sulle teorie dell’Einfühlung (Beiträge zur Aeste- tih der bildenden Kunste, 1896-99, Contributi sull’estetica del- le arti figurative, e Grundbegriffe der Kunstwissenschaft, Leipzig 1905, Concetti fondamentali della scienza dell’arte). Spesso, come stigmatizzato da Wickhoff e da Gombrich, la ricerca di S della definizione scientifica degli schemi della composizione perde di vista l’oggetto di analisi. Tra i suoi la- vori che abbracciano temi di pittura, scultura e architettura medievale e moderna si segnalano in particolare gli studi sul barocco (Barok und Rokoko, 1897 e Federico Barocci, 1909) e sul rinascimento (Melozzo, 1886; Masolino e Masaccio, 1885-1900). Come organizzatore culturale è importante ri- cordare che è stato il fondatore dell’Istituto germanico di sto- ria dell’arte di Firenze (1897). (sr). Schmidt, Martin Johann, detto Kremserschmidt (Gräfenwörth (Krems) 1718 - Stein 1801). Si formò presso il padre Johannes, scultore venuto dallo Hesse a stabilirsi in Austria nel 1710, poi presso J. G. Starmayr, col quale ese- guì il suo primo affresco sul soffitto della Sala consiliare di Retz (1741), e infine attraverso lo studio assiduo di incisio- ni. Le figure, poco numerose e imponenti, degli inizi (Sant’Andrea abbraccia la sua croce, 1745: castello di Gol- degg) dànno poi luogo a scene piú drammatiche e movi- mentate (San Nicola patrono dei battellieri, 1750: chiesa di

Storia dell’arte Einaudi Stein) o piú graziose (Sacra Famiglia, 1752: chiesa di Mo- ritzreith). Nel 1756 S trova la strada delle grandi composi- zioni con la sua Ascensione (Krems, chiesa degli Scolopi), e dipinge un ciclo di quattro affreschi a larghe pennellate sul- la Vita di Maria nella cappella dell’abbazia di Herzogenburg. Soggiorna certamente a Vienna nel 1764-65 e nel 1768 vie- ne nominato membro dell’Accademia imperiale in seguito alla valutazione positiva dei suoi lavori di ammissione, Mi- da giudice tra Apollo e Marsia e Venere nell’officina di Vulca- no (Vienna, ög). L’intento di uniformarsi al gusto colto dell’epoca lo spinge a misurarsi con i soggetti mitologici, nei quali peraltro si rivela piú semplice e prosaico che nei temi religiosi, e a frequentare la pittura di genere (Concerto da ca- mera: Vienna, coll. priv.). Nel 1777 opera a Salisburgo per l’abbazia di San Pietro, presso la quale si conservano alcuni schizzi e un Ritratto dell’abate Beda Seeauer. Piú volte chia- mato a Vienna per eseguire ritratti degli Asburgo, realizza verso il 1780 la decorazione della cappella di Palazzo Gru- ber a Lubiana. Divenuto famoso in tutta l’Europa centrale soprattutto come pittore di pale d’altare, la sua opera è ri- chiesta anche per l’esecuzione di interi cicli decorativi: Sa- lisburgo, abbazia di San Pietro; Pyrhn, ospedale; Sankt Pöl- ten, chiesa dei Francescani; Aschbach, abbaziale; Melk, par- rocchiale. L’abbondante produzione dell’artista (un migliaio di tele, una quarantina di affreschi e una trentina di inci- sioni) testimonia l’evolversi della sua arte in cui il colore e la luce dai forti contrasti dominano come elementi essenziali della composizione: S trova una nota assai personale nei suoi piccoli quadri su cuoio (Fuga in Egitto, 1767: Seitenstetten, abbazia benedettina), ove l’aspetto aneddotico, l’intimità e la gradevolezza prevalgono sul dramma. Presso il Museo di Graz si conserva un’importante raccolta delle sue opere. (jhm). Schmidt-Rottluff, Karl (Rottluff 1884 - Berlino 1976). Lega il suo nome al movi- mento espressionista di questo paese. Con Heckel, Kirchner e Bleyl, a cui si unirono poi altri pittori, fonda Die Brücke (→) nel 1905 a Dresda, dove si era recato per continuare gli studi alla scuola tecnica superiore. I suoi primi quadri risen- tono dell’incontro con l’impressionismo e del ricordo dell’opera di van Gogh. Nel 1906 è con Nolde nell’isola di

Storia dell’arte Einaudi Alsen e dal 1907 al 1912 trascorrerà le estati a Dangast con Heckel. In questo periodo il tema dominante delle sue com- posizioni è il paesaggio. La natura acquista un carattere mo- numentale in cui i particolari vengono come riassunti. Nel 1910, quando raggiunge l’acme della sua pittura, introduce nei suoi quadri anche la figura umana. La pratica della xilo- grafia è determinante nel suo stile che delimita le immagini attraverso suddivisioni sommarie e le avvicina per contrasti di colori che dànno il ritmo all’insieme. Munch utilizzava i contrasti cromatici già nel 1900, ma la tavolozza di S-R è piú luminosa e i rapporti che ne risultano, piú tesi. S-R cerca nei suoi quadri una sintesi espressiva che lo porta sempre piú ver- so l’astrazione. Anche i suoi colori perdono il carattere della verosimiglianza per assumere significati simbolici. I toni piú cupi e piú profondi caratterizzano soprattutto le opere che realizza in Norvegia nel 1911 (Lofthus, 1911: Amburgo, kh). In quello stesso anno si reca a Berlino dove entra in contat- to con Feininger e prende coscienza dei problemi del cubi- smo. L’eco di questo incontro si riflette nelle opere piú geo- metriche di quegli anni e nell’introduzione del terna delle sculture negre e delle maschere africane nelle nature morte. Tra il 1913 e il 1915 un nuovo soggetto, quello del ritratto, si affaccia nei dipinti di S-R. Agli anni della guerra risalgo- no le xilografie di carattere religioso e nel 1918 ne realizzerà una serie dedicata alla vita di Cristo, che lo fa conoscere al grande pubblico. L’opera grafica, di cui abbiamo pochissime prove a colori, occupa il posto piú importante negli anni Ven- ti e l’interesse principale per la sua produzione insieme a quel- la del periodo di Die Brücke. A questo gruppo dedicherà un museo fondato nel 1967 a Berlino. Qui fu anche insegnante all’Accademia fino a quando gli venne permesso dal nazismo. Sequestrate le sue opere, distrutto il suo atelier, si ritirò a Chemnitz dove aveva svolto i suoi primi studi. Tornò a Ber- lino soltanto nel 1947. Nell’ultima fase della sua attività ri- prese con interesse l’acquerello, tecnica alla quale si era de- dicato negli anni della formazione, mentre il disegno ebbe sempre un ruolo accessorio nella sua opera. (chmg). Schnaase, Carl (Danzica 1798 - Wiesbaden 1875), Al metodo empirico e critico di Rumohr si può contrapporre quello che S, allievo

Storia dell’arte Einaudi di Hegel, applicò nella Geschichte der bildenden Künste, ope- ra universale in 8 volumi (1843-64). Essendo avvocato di professione (dal 1829 a Düsseldorf, dal 1848 al 1866 a Ber- lino), venne dapprima considerato uno storico dell’arte di- lettante. Frequentò gli ambienti artistici di Düsseldorf e a Berlino fu in relazione con Waagen, Kugler e Hotho, che ne condividevano l’interesse per il Medioevo. Nel 1826 e nel 1858 si recò in Italia; nel 1830 e nel 1860 in Olanda e in Belgio. Sin dal 1834 prese posizione, nei Niederländische Briefe,a favore della storia, che trasmette «l’esperienza piú sicura e piú seria dell’essenza del Bello». Come Hegel, egli conside- rava la storia dell’arte una disciplina che esigeva una sinte- si filosofica, in cui l’opera particolare viene considerata, a piú alto livello, nel suo contesto storico, essendo l’arte l’espressione dello spirito e dei valori di un’epoca e di un po- polo. Scopo dell’analisi di un’opera o di un gruppo di opere sarà dunque scoprire il principio spirituale che la anima, quanto S chiama l’«osservazione poetico-fisiognomica dell’arte». Poiché l’arte è il riflesso delle aspirazioni intel- lettuali e morali di un popolo, essa andrà dunque conside- rata in funzione della storia delle civiltà, cui l’autore dedica lunghe introduzioni. I suoi studi, che riguardano i popoli orientali, i greci e i ro- mani, il periodo paleocristiano e il Medioevo, sono rimasti frammentari, ma offrono comunque la prima interpretazio- ne approfondita del Medioevo, raccolta in 4 volumi. L’ana- lisi, molto dettagliata, si articola secondo le scuole e i gene- ri; S dedica particolare attenzione alla nascita del gotico e alla scuola di van Eyck. L’arte medievale viene letta in fun- zione della religiosità che caratterizza l’epoca, informando di sé anche tutte le creazioni artistiche, fin all’avvento del rinascimento, che riscoprirà la natura e l’uomo. (hm). Schneider, Gerard (Sainte-Croix (Vaud) 1896-1986). In Svizzera frequentò l’Accademia di Neuchâtel e, dopo alcuni anni di studio tra- scorsi a Parigi (dal 1916 al ’20) presso la Scuola d’arte figu- rativa e poi l’Ecole des beaux-arts, tornò in patria. Si stabilì a Parigi nel 1924. Iniziato giovanissimo alla conoscenza de- gli stili dal padre, antiquario-ebanista, esercitò parallela- mente alla pittura il mestiere di restauratore di quadri. Pre-

Storia dell’arte Einaudi sente al Salon d’Automne del 1926, al Salon des Surin-dé- pendants dal 1935 al 1940 e dal 1945 al 1946, è tra gli espo- sitori del Salon des Réalités nouvelles (1947; 1949) e del Sa- lon de Mai (dal ’49). Le sue prime ricerche sul movimento, l’espressione e la struttura, ancora fondate sull’osservazio- ne e l’interpretazione della natura, rivelano una singolare volontà di sintesi che lo indussero, dopo molti tentativi di non-figurazione (Paesaggio immaginario, 1939; la Cité, 1940), ad eseguire nel 1944 le prime opere da lui riconosciute co- me autenticamente astratte. Autore nel 1936 di una Com- posizione murale fortemente stilizzata, i suoi successivi di- pinti dalle forme astratte, a campiture piatte, ricercano la monumentalità e nel contempo l’immediatezza espressiva. La sua duplice natura è stata pienamente colta da E. Jone- sco: «la sua pittura è al tempo stesso contraddittoriamente ordine e caos, essa va dall’una all’altra», evidenziando così il valore ritmico e musicale suscitato dall’impetuosità dei se- gni, delle forme, della pennellata gestuale e del colore vio- lento. S sviluppò infatti, in opposizione all’astrattismo geo- metrico dominante, una ricerca basata sulla trascrizione pit- torica di stati psichici che lo colloca tra i primi esponenti dell’astrattismo lirico; in tal senso la sua originalità venne riconosciuta contemporaneamente a quella di Hartung in oc- casione delle loro personali, quasi simultanee, alla Gall. Ly- dia Conti di Parigi (1947). Nel 1948 S divenne cittadino francese. È rappresentato a Parigi (mamv: Opus 12 F, 1961; mnam: Opus 95 E, 1961), Colonia (Wallraf-Richartz Mu- seum), Zurigo (kh), Bruxelles (mam), New York (moma) e alla gam di Torino (dove ha esposto nel 1970). Ha parteci- pato alle mostre itineranti dell’Ecole de Paris. Tra le perso- nali: mostre al Palais des beaux-arts di Bruxelles (1953 e 1962); Biennale di Venezia (1966); vaste antologiche al Kun- stverein di Düsseldorf (1962), a Montréal (padiglione al Pa- lais des Expositions nel 1970), a Neuchâtel (Musée d’art et d’Histoire, 1983). (rvg + sr). Schnetz, Victor (Versailles 1787 - Parigi 1870). Fu allievo di David, Regnault e Gros. A Roma fu amico di Granet e di Léopold Robert, insieme ai quali diffuse il gusto romantico per le immagini popolaresche italiane, trattate con fare classico (il Voto alla

Storia dell’arte Einaudi Madonna, 1831: Parigi, Louvre). Diresse l’Accademia di Francia a Roma per due volte, dal 1840 al 1847 e dal 1852 al 1866. Prese parte alla campagna per la decorazione delle chiese parigine, con dipinti per Saint-Séverin e per No- tre-Dame-de-Lorette. (ht). Schnorr von Carolsfeld, Julius (Lipsia 1794 - Dresda 1872). Figlio del pittore e incisore Hans Veit, SvC dal 1811 fu allievo dell’Accademia di Vien- na, dove subì in particolare l’influsso di Joseph Anton Koch e di Ferdinand Olivier. Nel 1817 realizzò la sua prima ope- ra importante, San Rocco distribuisce l’elemosina (Lipsia, mbk) che mostra accanto allo studio della cerchia düreriana un’adesione convinta al programma estetico nazareno. Nel- lo stesso anno compì un viaggio in Italia e nel 1818 si ag- gregò a Roma al gruppo dei nazareni. Un viaggio in Sicilia nel 1826 segnò la fine del suo soggiorno italiano e un ritor- no alle proprie radici protestanti. Oltre agli affreschi che il- lustrano scene dell’Orlando furioso nella camera dell’Ariosto al Casino Massimo (1813-23), eseguì in Italia disegni di pae- saggi rappresentanti siti dei monti Albani e Sabini che per precisione e sensibilità alle possibili variazioni compositive, raccolgono invece molte delle future declinazioni del pae- saggio romantico, e acuti ritratti a matita. Tra i dipinti si possono citare Carla Bianca von Quandt (1819-20: Berlino, ng), le Nozze di Cana, (1819: Amburgo, kh), la Sacra Fami- glia e la famiglia di san Giovanni (Dresda, gg). Nel 1827 si stabilì a Monaco, per desiderio di Luigi I di Baviera, onde decorarne la Residenza con pitture murali illustranti la Leg- genda dei Nibelunghi, la Storia di Carlomagno, del Barbarossa e di Rodolfo di Asburgo. Esercitò nel contempo l’attività di docente all’Accademia. Nel 1846 venne nominato direttore della Galleria di Dresda e professore dell’Accademia. Nel 1860 fu edita la Bibbia per immagini, corredata da 240 illu- strazioni: in quest’opera, divenuta subito la piú popolare tra quelle illustrate nell’Ottocento, il pittore dimostrò la pro- pria maestria nel disegno e la sua arte compositiva meglio di quanto avesse fatto negli affreschi dell’epoca matura, poco soddisfacenti per la loro mancanza di lirismo, accantonato nello sforzo di aderire a idealità ufficiose, vuote di conte- nuto. S eseguì le opere piú belle in gioventú, quando un par- ticolarissimo istinto, assai raro nella pittura romantica te-

Storia dell’arte Einaudi desca, lo portò a raggiungere una intensa e poetica unità tra la resa della figura umana e quella del paesaggio, intrisa di penetrante sensualità. I suoi disegni sono tra le piú notevo- li realizzazioni dell’arte tedesca nella prima metà dell’Otto- cento: il Gabinetto delle stampe di Dresda ne possiede la raccolta piú importante, alcuni esempi dei quali sono con- servati anche presso la ng di Berlino. (hbs + sr). Schoevaerdts, Mathieu (fine del sec. xvii). Nel 1682 fu apprendista di Adriaen Frans Baudewyns a Bruxelles e nel 1690 maestro nella corpora- zione della stessa città. È artista minore, la cui tecnica mi- nuziosa non è priva di delicatezza. Dipinse paesaggi (l’Ab- beveratoio, 1702: Digione, mba), vedute di città o scene po- polari (Corteo del bue grasso: Bruxelles, mrba). (jl). Scholderer, Otto (Francoforte 1834-1902). Frequentò lo sky di Francoforte, dove fu allievo di Passavant e di Jacob Becker che lo for- marono nello spirito dei nazareni e gli insegnarono la pittu- ra di genere tipica di Düsseldorf. Fu tuttavia Courbet, da lui scoperto grazie al futuro genero Victor Müller (ne ven- nero esposte opere a Francoforte nel 1850, 1852 e 1855), a dargli la spinta decisiva. Durante i suoi soggiorni parigini (1858-59 e 1868-70) S frequentò lo studio di Courbet e la cerchia di Manet, ma finì per accostarsi soprattutto a Fan- tin-Latour (figurerà ritratto nell’Atelier aux Batignolles). Dal 1886 fu anche in relazione col giovane Thoma, di cui guidò la vocazione. S, che nell’ambiente dei pittori all’aperto di Kronberg ave- va dipinto negli anni Sessanta i paesaggi del Taunus e della Foresta Nera, nel 1871 si reca a Londra, dove per ventotto anni s’ingegnerà di soddisfare il gusto del pubblico, prima con ritratti, poi con dipinti ispirati alla letteratura. Fece in- fine ritorno a Francoforte nel 1900. Le sue opere piú signi- ficative sono quelle giovanili; in particolare, fu un maestro della natura morta (Natura morta con prugne e pere; Natura morta con funghi: entrambi Francoforte, ski). I temi, senza pretese, sono trattati con un tocco sensibile e sfumato, edu- catosi alla scuola francese, attento ai valori luministici sen- za peraltro dissolvere l’oggetto (Fioraia, 1869: Brema, kh).

Storia dell’arte Einaudi Il celebre Violinista alla finestra (1861: Francoforte, ski), che unisce un uso dell’effetto luminoso sottile e sapiente al te- ma romantico della nostalgia, illustra la complessa posizio- ne dell’artista, a mezza strada tra il romanticismo e il pre-im- pressionismo francese. (hm). Schön, Erhard (Norimberga, dopo il 1491 - 1542). Fu tra gli allievi piú stret- ti di Hans Springinklee e il punto di partenza per la sua iden- tificazione è la xilografia con l’Annunciazione, in cui si fir- ma, che porta la data 1514; è noto soprattutto per i disegni e le illustrazioni (70 figure di Santi su legno per un Hortuli animae, 1518 ca.; 60 illustrazioni per la Bibbia edita da J. Sacon in Lyon), nei quali dimostra, come Dürer, un vivo in- teresse per i problemi della proporzione. Prese il posto di Dürer e Beham, dopo la loro partenza da Norimberga, qua- le principale fornitore di incisioni nella città (si contano ca. 1200 disegni per incisioni autografi); operò come tale per quasi tutti gli stampatori di Norimberga, e talvolta per quel- li di Bamberga (G. Erlinger), di Landshut (J. Weissenbur- ger) e di Vienna (J. Singriener); soltanto alla fine della sua vita S venne considerato e il suo ruolo guida venne preso da V. Solis. (acs). Schönfeld, Johann Heinrich (Biberach 1609 - Augusta 1682/83). Fece apprendistato a Memmingen, e tirocinio a Stoccarda dal 1627 al 1629; don- de poi si recò in Italia, passando per Basilea «ed altri luoghi in Germania», come c’informa Sandrart. Tale soggiorno ita- liano – tra il 1633 e il 1651, Sandrart parla di vari anni – avrà sull’artista influenza decisiva. Le sue prime opere, tuttora soggette alla tradizione dei grandi manieristi H. Goltzius, J. Müller e G. van Valckenborch, verranno presto seguite da dipinti in cui si afferma la personale fattura dell’autore. A Roma tra il 1637 e il 1638, al servizio del principe Orsini, S mostrerà sulle prime scarso interesse per le composizioni religiose monumentali, ispirandosi piuttosto alla cerchia di Adam Elsheimer e ai paesaggi arcadici di Poelenburgh, Breenbergh, Swanevelt. Assimila inoltre la lezione del Ve- ronese e del Cavalier d’Arpino, medita su Castiglione, Cal- lot, Antonio Tempesta e Poussin: la figura centrale del suo

Storia dell’arte Einaudi Diluvio Universale (Kassel, Staatliche km) prende puntual- mente spunto dal Diluvio del pittore francese. Abbandona- ta Roma per Napoli, dove il pittore si tratterrà diversi anni, S conferirà alla sua arte accenti nuovi; in effetti, opere co- me il Trionfo di David (Karlsruhe, kh), la Vittoria di Giosuè a Gabaon (Praga, Gall. del castello), e anche Salomone unto dal sacerdote Zadok (Stoccarda, sg) tradiscono senza dubbio l’influsso dei pittori napoletani di battaglie, Aniello Falco- ne, Andrea di Lione, Salvator Rosa o Domenico Gargiulo. Le due magnifiche Marine (Roma, Gall. Pallavicini), nonché due versioni del Diluvio (Vienna, km; Kassel, gg: quest’ul- tima, attribuita un tempo a Loutherbourg è certamente di S), non fosse che per il tema possono essere concepite sola- mente a Napoli. Quanto all’arte di Jacques Callot, di cui si ritrova il riflesso nell’ordinamento compositivo, nei forma- ti allungati a mo’ di fregio e anche nell’agilità dei personag- gi, sembra che S lo scoprisse attraverso un compatriota, il pittore e incisore di Strasburgo J. G. Baur. A S, i cui dipin- ti sono stati per lo piú eseguiti in Italia, si devono «storie serie, favole poetiche e pastorali» (Sandrart), scene dall’an- tichità e dalla mitologia greca e romana, racconti biblici o quadri bucolici, animati da numerosi personaggi. Accanto all’impianto stereometrico di composizioni quali Il Trionfo di Venere (1640-45: Berlino, sm, gg); il Corteo di Bacco (Na- poli, Capodimonte); il Trionfo di Davide (Karlsruhe, km), ispirati a dipinti e incisioni tedesche, un posto importante hanno le vanitas. A tali temi vanno aggiunti inoltre i cerca- tori di tesori e le cacciagioni, care ai contemporanei dell’ar- tista per la loro sobria intensità, le raffigurazioni di tombe antiche e sarcofaghi, simboli di passata grandezza, spezzati e profanati. S è tra i rari artisti tedeschi noti del sec. xvii a tornare in patria: dopo un soggiorno italiano di oltre un quin- dicennio, lo si ritrova infatti in Germania alla fine della guer- ra dei Trent’anni. Non possediamo alcuna precisa indica- zione cronologica sulla sua attività successiva all’arrivo a Stoccarda nel 1627-29 e fino al 1651, anno in cui dipinse la Santa Trinità nella chiesa di Biberach. Un’iscrizione sul re- tro del quadro Giacobbe e Rachele al pozzo (Stoccarda, sg), lo indica come direttore della galleria del conte di Brühl a Dresda nel 1647, ma ciò non sembra costituire un elemen- to certo. Solo a partire dal 1656, anno in cui si stabilisce ad

Storia dell’arte Einaudi Augusta, che gli accorda diritto di cittadinanza, le sue ope- re verranno datate, fornendo così sufficienti testimonianze sulla sua attività in Germania. Tuttavia, sembra che il suo estro creativo si affievolisca progressivamente dopo il ritor- no dall’Italia raggiungendo peraltro un nuovo monumenta- le patetismo affidato a figure a grandezza naturale piena- mente barocche. Per soddisfare i numerosi incarichi di con- venti e di chiese della Germania meridionale, della Boemia e dell’arcivescovado di Salisburgo (commissioni del conte Thun), si orientò essenzialmente verso la pala d’altare, dan- do prova di grande virtuosismo senza peraltro raggiungere la potenza espressiva delle opere giovanili. Riprese in que- sto periodo temi trattati in Italia (Offerta a Diana, 1664-65 ca.: Mannheim, Städtische kh). L’influsso esercitato da S, divenuto uno dei massimi pittori religiosi tedeschi del sec. xvii, sui suoi allievi di Augusta, Johann Heiss, Isaak Fisches e Johann Spillenberger, è essenzialmente dovuto all’impie- go delle formule classiche, come una cornice architettonica la cui chiarezza rammenta Poussin, unitamente a una com- posizione estremamente ordinata combinate, al contempo ad elementi solitamente attribuiti al rococò. L’artista eser- citerà un influsso incontestabile sull’evolversi della pittura tedesca, pur non attestandosi quale predominante. Ad Au- gusta la sua personalità e la sua potenza creatrice segneran- no piú di una generazione. (ga + sr). Schongauer, Martin (Colmar 1450 ca. - Breisach 1491). Ultimo rappresentante della mistica renana, prima di Grünewald, Holbein e Dürer egli fu uno dei massimi artisti che la Germania abbia avuto. Il padre Caspar, orafo ad Augusta, si stabilì a Colmar al piú tardi nel 1440. Un documento, che potrebbe chiarire le ori- gini di Martin, è stato al centro di un’appassionata contro- versia. Si tratta di un ritratto da attribuirsi ad Hans Burgk- mair (datato 1453 ca. ma forse da porsi attorno al 1488 e poi ancora nel 1518 rielaborato: Monaco, ap), da molti ri- tenuto copia di un Autoritratto, datato 1453 o 1483. La let- tura di tale data, come «1453», ha consentito ad alcuni sto- rici di anticipare la nascita di S al 1425-30 e di attribuirgli, a torto, opere come la Decollazione di san Giovanni Battista di Monaco (ap), o l’Altare Stauffenberg (Colmar, Museo Un- terlinden: oggi attribuito a un allievo di Jost Haller). La na-

Storia dell’arte Einaudi scita di S non è invece certamente anteriore al 1450, così come confermato, in particolare, da una nota di Dürer su un disegno perduto: «Il bel Martin ha disegnato questo nel 1470, quand’era apprendista». S si formò verosimilmente in primo luogo nella bottega del padre, dove dovette acqui- sire soprattutto dimestichezza con i metalli e con le tecni- che incisorie, secondo il modello del celebre Maestro E.S. A Colmar inoltre operava G. Isenmann, fortemente in- fluenzato da Bouts, che non mancò certo di segnare le scel- te stilistiche di S. Il suo passaggio nel 1465 all’Università di Lipsia dove si immatricola per un semestre (per prepararsi, secondo voleri paterni, a prendere gli ordini?) fu forse sti- molato dal fatto che la famiglia S avesse lì dei parenti (il fra- tello di Martin, Paul, ne acquista la cittadinanza nel 1478), ma non ebbe conseguenze. Menzionato a piú riprese nel re- gistro fondiario di Colmar, sembra tuttavia non aver mai posseduto il titolo di borghese di questa città, forse perché ancora sotto responsabilità paterna. Emigrò, verso il 1487, a Breisach, di cui divenne borghese e pittore ufficiale (come tale menzionato nel 1489). Tra le prime opere la cui auten- ticità non sia contestata, tre disegni recano la data 1469, in particolare il Cristo in gloria (Parigi, Louvre). Esso si acco- sta tanto al Cristo del Giudizio Universale di R. van der Wey- den (Beaune, Hospices), da far pensare a una conoscenza di- retta almeno di una copia o di disegni di quest’opera: ben- ché sia poco probabile un incontro tra i due maestri, è chiaro che S, sin dai suoi anni formativi, ebbe familiarità con la contemporanea scuola fiamminga – al punto che Vasari lo prende per un allievo di van der Weyden –, probabilmente acquisita, tra 1465 e ’70, nella bottega di Pieter van der Weyden, o in quella di Dieric Bouts a Lovanio e con un bre- ve soggiorno sulla via del ritorno, a Colonia, dove molti pit- tori operavano sulle tracce dei modelli fiamminghi. Tutta- via, i documenti tacciono su questo punto, e le ipotesi non possono esser confermate. In ogni caso lo stile monumenta- le del maestro fiammingo si riflette in misura sorprendente nelle opere giovanili di S, benché ancora con una certa rigi- dità tecnica. Pochissimi dipinti di colui che venne celebra- to come pictorum gloria sono giunti fino a noi. Il piú note- vole è la Vergine dal cespo di rose (1473: forse dalla chiesa di San Martino di Heinecken; oggi Colmar, chiesa dei Dome-

Storia dell’arte Einaudi nicani). Un’antica copia (Boston, Gardner Museum) dimo- stra che il pannello è stato tagliato sui quattro lati, soppri- mendo il busto di Dio Padre e la colomba dello Spirito San- to. S vi sviluppa il senso della superficie, la sua precoce espe- rienza di orafo e lo stile di van der Weyden, coordinando così interessi soprattutto volti alla linea. Senza cedere all’aneddoto, analizza e studia anatomie ed elementi deco- rativi fin nei minimi dettagli. Il disegno morbido, ridotto agli accenti essenziali, fa vivere le figure della loro autono- ma espressività plastica: la Vergine, una delle piú belle dell’arte tedesca, immersa in profonda meditazione, vol- gendo il viso, è pervasa da una pace interiore silenziosa che si diffonde in tutta la composizione, la cui monumentalità un poco austera è raddolcita da un ricamo di fogliame e dal sottile gioco cromatico. Ricordiamo poi, tra i pochi dipinti autografi conservati, le portelle dell’Altare d’Orlier (1470-72 ca.: Colmar, Museo Unterlinden), dal nome del donatore Jean d’Orlier, precettore dell’ordine degli agostiniani di Is- seinheim. In queste due ante (Annunciazione, Adorazione, Sant’Antonio e il donatore) si ritrova la medesima altezza spi- rituale, incarnata in una bellezza calma e ideale, in singola- re contrasto con la prosaica esagitazione che, in quell’epo- ca, si riscontra in molti altri dipinti del tardo gotico tede- sco. S è pure autore di tre piccole tavole: la Natività (1472 ca.: Monaco, ap), la Sacra Famiglia (Vienna, km) e l’Adora- zione dei pastori (Berlino, sm, gg), vere trasposizioni pitto- riche delle sue stesse incisioni. Invece, è per buona parte opera della sua bottega, ovvero dei membri della sua stessa famiglia, l’Altare della chiesa dei Domenicani (1478 ca.: Col- mar, Museo Unterlinden). Infine, nel 1931 vennero scoper- ti nella Cattedrale di Santo Stefano di Breisach, sulla pare- te occidentale, gli affreschi del Giudizio Universale, sola ope- ra monumentale che possa con sicurezza attribuirsi a S: se ne indovina il personalissimo disegno, malgrado il cattivo stato dei dipinti, di un’intensità drammatica assolutamente unica in tutto l’alto Reno in questo periodo. La datazione dovrebbe porsi negli ultimi anni di attività dell’artista. La plasticità, il volume e la spazialità delle sue composizioni fu- rono, per tutta l’arte nordica, un’acquisizione fondamenta- le e un esempio trascinante anche se spesso innarrivabile. L’opera grafica di S comprende 116 incisioni e un centinaio di disegni, metà dei quali, perduti, ci sono noti soltanto da

Storia dell’arte Einaudi copie dell’epoca. S fu uno dei primi a firmare pressoché la totalità delle sue opere (monogramma MS con una croce, uno dei cui bracci è a mezzaluna). Esse si raggruppano per serie di soggetti religiosi: Vita della Vergine, Passione di Cri- sto, Parabola delle Vergini folli, di cui esempi notevoli si tro- vano al bm di Londra, ai kk di Berlino e Basilea, al Gabi- netto di stampe della bn di Parigi. Il suo tratto, di una sot- tigliezza acuta tuttora solidale nei dettagli col realismo dei maestri dell’alto Reno – il Maestro E.S. o il Maestro delle Carte da gioco (l’Incensiere: Londra, bm) – è di una chiarez- za di lettura, senza confronti (così come lo è la struttura- zione delle composizioni stesse) e si espande libero e puro nella tensione spirituale che domina la maggior parte delle composizioni (Noli me tangere: ivi), Cristo che porta la croce (ivi). La sua arte si nutre di due distinte tendenze espressi- ve: l’una dal ritmo mosso, violento, drammatico, la cui fon- te va ricercata nella tradizione realistica tedesca della prima metà del Quattrocento, l’altra che ricerca il monumentale e l’armonico bilanciamento di figure e moti di espressioni e spazi, ricavata dagli esempi fiamminghi e portata da S a un alto grado di intensità tale da aver fatto pronunciare per lui la parola «classicismo». L’opera di S, soprattutto incisoria, ebbe una risonanza no- tevolissima, che si spense solo in epoca barocca. Ignoran- do che fosse morto, Dürer si recò nel 1497 a Colmar all’uni- co scopo di incontrarlo e di esserne allievo. Vasari ci nar- ra che Michelangelo, affascinato dalla maestria di S, copiò la Tentazione di sant’Antonio (Londra, bm). Baldung Grien, Dürer, Grünewald, Bosch, Holbein, tutti i maestri e gli scultori tedeschi e svizzeri dell’inizio del sec. xvi ne subi- rono in diverso grado l’ascendente. Ma nelle loro opere se ne ebbe solo un ultimo riflesso: rinascimento e riforma eb- bero rapidamente ragione di questa poesia ardente e mi- stica, una delle piú prestigiose della spiritualità medieva- le. (bz + sr). Schoonhoven, Jan (Delft 1914). Ha frequentato l’Accademia di belle arti dell’Aja dal 1930 al 1934 e le sue prime opere denotano l’in- fluenza dell’espressionismo tedesco. Dal 1940 al 1950 ese- guì lirici disegni e dipinti caratterizzati dall’arte di Klee, in

Storia dell’arte Einaudi seguito guarderà con attenzione all’esempio della scuola di Parigi e del paesaggismo astratto. Dal 1957 pratica un ta- chisme particolarmente radicale, che lo colloca in una posi- zione innovativa e originale nell’ambito dell’arte olandese. Nel 1957 fonda, con Armando Jan Henderikse e Henk Pee- ters, il Gruppo informale olandese. A questo periodo risal- gono i suoi primi rilievi in cartapesta (Abramo, 1958: L’Aja, gm). Nel 1960 fonda, con gli stessi artisti, il gruppo Nul, che si pone sulla linea del gruppo Zero e si concentra sull’an- nullamento di ogni significato nella pittura. S esegue così i suoi primi rilievi in serie, costituiti su una trama regolare in cartapesta dipinta di bianco. Nel 1982 realizza alcuni rilie- vi composti da tegole piene in cartone dipinto, e nel 1985 cessa di lavorare, continuando però a praticare il disegno. S, che è tra i piú importanti artisti dei Paesi Bassi degli anni ’60, è ben rappresentato nei musei olandesi (Amsterdam, sm) e tedeschi, e nel Museo di Grenoble, dove si tenne nel 1988 la sua prima esposizione organizzata da un’istituzione francese. (lbc). Schooten, Floris Gerritsz van (? 1590 ca., attivo ad Haarlem dal 1612 al 1655) Pochissi- mo si sa della sua vita, tranne che fu decano della gilda di San Luca di Haarlem nel 1639. Firmava col monogramma F.V.S. Dipinse scene di Mercati e Interni di cucina nella tra- dizione di P. Aertsen e J. Beuckelaer (Haarlem, Museo Frans Hals; Copenhagen, smfk; Braunschweig, Herzog-Anton-Ul- rich-Museum; Dresda, gg), e alcuni curiosi quadri in cui la natura morta occupa tutto il primo piano, mentre una sce- na religiosa è relegata sullo sfondo (Cena in Emmaus:Am- sterdam, Rijksmuseum). Al termine della sua carriera dipinse anche alcune Nature morte di frutta (Otterlo, Kröller-Mül- ler), ma fu soprattutto noto per le numerose Colazioni (Pa- rigi, Louvre; musei di Riom, Anversa, Glasgow, Haarlem, Amburgo, Otterlo; Monaco, ap; Bruxelles, mrba), derivan- ti da Floris vari Dyck e da Nicolaes Gillis. La sua arte, di solito a carattere arcaicizzante e austero (oggetti voluta- mente semplici, contrasti accentuati, rigidezza compositi- va), subì l’influsso di Heda, e soprattutto di Claesz, orien- tandosi verso una certa «monocromia», basata su accordi di bruni e di grigi. (iv).

Storia dell’arte Einaudi Schooten, Joris van (Leida 1587-1651). Allievo di van der Maes nel 1604, fratel- lo del disegnatore e incisore Franciscus, vari S lavorò unica- mente a Leida dove fu maestro di Jan Lievens intorno al 1616, di Abraham van den Tempel e probabilmente di Rembrandt; risulta iscritto alla gilda di San Luca nel 1648. Dipinse qual- che scena di storia (Allegoria dell’assedio di Leida del 1574, 1643: Leida, Museo) e soprattutto ritratti (Jacob Gerrit van de Mij, 1630: Amsterdam, Rijksmuseum), in particolare ritratti collettivi della corporazione degli archibugieri: le Compagnie dei capitani Harman van Brosterhuyzen (1626), Cornelis Wil- lemsz van Kerchem, Pieter Adriaensz van Vesanevelt, Leender Gerritsz Grootvelt, Laurens van Lanschot (Leida, Museo). (jv). Schöpf, Joseph (Telfs (Tirolo) 1745 - Innsbruck 1822). Fu allievo di Philipp Haller. In collaborazione con Martin Knöller, eseguì, tra 1768 e ’75, vari cicli di affreschi (Volders, Steinach), tra i quali quelli per l’abbazia benedettina di Gries (1771). Dopo aver soggiornato a Roma grazie a una borsa di studio impe- riale, si orientò decisamente verso le tendenze neoclassiche allora in voga, pur non abbandonando del tutto le preziosità coloristiche del rococò, cui aveva precedentemente aderito con convinzione. Al soggiorno romano risalgono due belle te- ste, una femminile e una maschile (1782: Bolzano, mc) che mostrano gli evidenti segni dello studio «accademico» e di Mengs. Unitamente a Knöller, esercitò una notevole in- fluenza sui pittori altoatesini della fine del Settecento, so- prattutto nel campo della decorazione chiesastica a fresco. Le sue creazioni piú notevoli in tale campo sono le decora- zioni della chiesa di San Giovanni di Valle Aurina (Arhntal, 1786, di San Pietro di Funes (1798) e soprattutto della par- rocchiale di Caldaro/Kalterm (1792-93), che va considerato il suo capolavoro. Nelle pale d’altare, come quella dei Santi Isidoro ed Enrico da Bolzano (1793) per la parrocchiale di Caldaro, risulta invece piuttosto sbiadito. (pa + sr). Schöpfer, Hans, detto il Vecchio (? 1505 - Monaco 1566). Formatosi presso Wolfgang Mue- lich, S operò successivamente per Guglielmo IV e per Al- berto V di Baviera.

Storia dell’arte Einaudi Collaborò in particolare alla decorazione della casa di pia- cere di Guglielmino IV a Monaco (Storia di Virginia, 1535: Monaco, ap). Il figlio Hans il Giovane († 1610) gli successe come ritrattista alla corte di Monaco: Hans Kaspar von Pien- zenau (1558: Norimberga, gnm). (acs). Schor, Johann Paul (Giovanni Paolo Tedesco) (Innsbruck 1615 - Roma 1674). È documentato in Roma dal 1640; nel 1654 è accolto nell’Accademia di San Luca. For- nisce disegni per arazzi, apparati, incisioni, ma è soprattut- to un apprezzato decoratore: nel 1656-57 partecipa sotto la direzione di Pietro da Cortona agli affreschi della galleria di Alessandro VII al Quirinale (Giuseppe venduto, Giacobbe e l’angelo, L’Arca di Noè); nel 1665-67 esegue Episodi della vi- ta di Marcantonio II nella galleria di Palazzo Colonna e le Sto- rie dei santi Pietro e Caterina in Santa Caterina a Magnana- poli. Nel suo stile le inflessioni cortonesche si fondono con un segno pungente e un gusto narrativo di matrice nordica, in un sistema di colori acidi e squillanti. (lba). Schoubroeck, Pieter (Hessheim (Frankenthal) 1570 - Frankenthal 1607). Allievo di van Coninxloo dal 1587 al 1595, manterrà lo stile ma- nierista del maestro e diverrà, con Mirou, uno dei principa- li esponenti della scuola di Frankenthal. Nel 1595 viene in Italia; tra il 1597 e il 1600 è a Norimberga; poi si stabilisce definitivamente a Frankenthal. Il suo stile, originale e stra- no, vicino a quello dei Valkenborch, attesta un prolunga- mento fecondo del manierismo. I suoi esempi migliori sono la Tentazione di sant’Antonio (Dunkerque, mba), opera in- fluenzata dal Bruegel dell’Incendio di Troia (Museo di An- versa) o il Combattimento delle Amazzoni (Dresda, gg). (jv). Schouman, Aert (Dordrecht 1710 - L’Aja 1792). Allievo di Adriaen van den Burg e attivo a Dordrecht e all’Aja, fu maestro nella gilda di tale città nel 1748; vi si stabilì definitivamente nel 1753. Dipinse soprattutto uccelli, nello stile di Jan Weenix e di Hondecoeter: il Pollivendolo (Amsterdam, Rijksmuseum), Natura morta con testa di vitello (1747: Utrecht, Museo), ma si conosce anche un Autoritratto, di cui sono noti diversi esemplari (1751 e 1754: Dordrecht, Museo; Amsterdam,

Storia dell’arte Einaudi Rijksmuseum). La sua opera di acquerellista è particolar- mente significativa per l’abilità tecnica e l’uso di tonalità chiare e armoniose (Haarlem, Museo Teyler; Amsterdam, bibl. zoologica; e soprattutto un ricco album di 200 pezzi all’Istituto olandese di Parigi). (jv). Schrimpf, Georg (Monaco 1889 - Berlino 1938). Dopo aver vissuto in Francia, Belgio e Olanda praticando diversi mestieri, nel 1913 è sul la- go Maggiore presso la colonia di artisti Fontana Martini. Ini- zia a dipingere dal vero e a copiare gli antichi maestri, specie Raffaello e Michelangelo. Al momento del suo stabilirsi a Ber- lino (1915), la rivista «Die Aktion» pubblica alcuni suoi di- segni e la Galleria Der Sturm ne presenta le prime prove espressioniste: S si dimostra influenzato dalla pittura di Franz Marc. Nel 1918 è di ritorno a Monaco e diventa membro del Novembergruppe; nel ’21, dopo essersi accostato nel corso di un viaggio in Svizzera e in Italia a Valori Plastici, è tra gli ar- tisti della Neue Sachlichkeit di Berlino. Le sue opere dichia- rano la ripresa di temi dalla tradizione pittorica dei primitivi tedeschi e italiani, dei nazareni, dal primitivismo ingenuo e moderno del Doganiere Rousseau. Il suo stile è memore an- che del romanticismo: le sue donne alla finestra (Giovane al- la finestra, il mattino, 1925: Basilea, km), le sue scene familiari e intime (Bambino che gioca, 1923: Amburgo, coll. priv.), i suoi paesaggi idillici (Paesaggio della foresta bavarese, 1933: Mo- naco, sgs) trovano in Runge e Friedrich i piú prossimi ispira- tori. Le sue figure femminili, assorte e lontane (Ragazza in pie- di, 1923: Amburgo, coll. priv.), illustrano i temi della malin- conia e della solitudine. Nel ’24 Carrà gli dedicherà una monografia e nel ’25 S esporrà alla mostra della Neue Sach- lichkeit di Mannheim (kh). Nominato docente di decorazio- ne murale alla Scuola di arti decorative di Monaco (1926), in- segna, a partire dal 1933, all’Accademia Schöneberg di Ber- lino. Nello stesso anno partecipa all’esposizione Nuovo romanticismo tedesco alla Kestner Gesellschaft di Hannover. Muore nel 1938, poco dopo esser stato allontanato dall’inse- gnamento dal governo nazista. La sua arte appartiene al rea- lismo magico: a lui bene si addice la definizione che della cor- rente diede il critico G. F. Hartlaub, «conservatrice fino al classicismo, trova le proprie radici nell’atemporale». (sr).

Storia dell’arte Einaudi Schröder-Sonnenstern, Friedrich (Tilsit (Lituania) 1892 - Berlino 1982) . Figlio di un posti- no, crebbe ai margini della società entrando in una casa per adolescenti nel 1906 e provandosi in vari lavori di sussi- stenza, ma il suo comportamento psicopatico lo fece presto entrare in conflitto con la legge. Fondò a Berlino una setta religiosa e divenne «principe dei poveri» col nome di Eliot I; si dedicò alla pittura dal 1949, dopo essere stato di volta in volta compositore, poeta e cantante. Come pittore si ri- vela, tanto quanto come disegnatore, un autodidatta di ra- ra indipendenza. I suoi dipinti sono caratterizzati da una gamma di colori che vanno dalle tinte chiare, sottilmente differenziate, a quelle cupe e forti, applicate generalmente a matita colorata; le sue composizioni sono popolate da pro- fili mezzo umani e mezzo animali, irreali e simboliche, com- mentate da scritte spesso satiriche. Le opere del pittore sono conservate in varie gallerie e col- lezioni private di Basilea, Berlino (ricca raccolta di disegni alla Berlinische Gal., M. Gropius Bau), Düsseldorf, Fran- coforte e Amburgo, e sono state presentate nel quadro di numerose esposizioni internazionali (in particolare alla re- trospettiva organizzata nel 1967-1968 alla kh di Düsseldorf). S-S viene generalmente, e piuttosto «impropriamente», ac- costato ai surrealisti, dai quali fu particolarmente apprezza- to (Breton, Dubuffet, H. Bellmer): si ricollega comunque al genere naïf. (frm). Schrödter, Adolf (Schwedt an der Oder 1805 - Karlsruhe 1875). Prima di orientarsi verso la pittura e di seguire Wilhelm von Scha- dow a Düsseldorf nel 1829, aveva appreso a Berlino il me- stiere d’incisore (1820-27). I suoi primi quadri di genere so- no ancora intrisi di romanticismo (Pescatori nell’isola di Rü- gen, 1830: Düsseldorf, km), ma l’artista doveva presto distaccarsi dalla malinconia pseudo-romantica che caratte- rizzava la scuola di Schadow parodiando, nei suoi Trauern- de Lohgerber (Conciapelli in ambascie, 1832: Francoforte, ski), i tristi eroi di Lessing e di Bendemann. Si trattava, di fatto, meno d’un trionfo sul romanticismo, come venne al- lora interpretato, che della manifestazione di un sano tem- peramento di umorista. La vita popolare sulle rive del Reno

Storia dell’arte Einaudi e l’allegra atmosfera delle locande fornivano a S motivi di spunto; amava presentarsi come «pittore dei cavatappi» (De- gustazione di vino del Reno; Albergo renano: Berlino, Neue ng). L’ampia descrizione umoristica, con l’aiuto di dettagli naturalistici e di una concezione derivante dal Biedermeier, ne caratterizza l’opera, e così pure la volgarizzazione di per- sonaggi letterari, in dichiarata polemica con l’accademismo imperante: Falstaff, Münchhausen, Don Chisciotte, che S integrò nella pittura di genere borghese o popolare. Il Don Chisciotte nel suo studio, parodia dell’opera di Rembrandt (1834: ivi; replica a Colonia, wrm) attirò l’attenzione del giovane Menzel in occasione della mostra di Berlino nel 1834. Nell’opera incisa, S diede libero corso all’immaginazione. A somiglianza di Neureuther, s’ispirò per i suoi ricami di vi- ticci e di figure al libro di preghiere di Massimiliano illu- strato da Dürer. Le sue realizzazioni migliori risalgono agli anni Trenta: il Cavatappi (1831), Don Chisciotte e il gregge di pecore (1834), e le illustrazioni di Peter Schlemihl (1839). L’artista ridusse il numero dei profili fantastici che anima- vano i suoi arabeschi quando, subendo l’influsso di Holbein, si sforzò di raggiungere unità compositiva obbedendo a leg- gi rigorose. Il suo talento nella satira si rivelò splendidamente nel 1849 nei sei quaderni intitolati Imprese e opinioni del si- gnor Piepmeyer, che mettono in ridicolo l’insensato mondo politico del tempo della rivoluzione (Francoforte, ski) e che costituiscono un ponte ideale fra il giovane Menzel e i ca- polavori di W. Busch. (hm). Schuch, Carl (Vienna 1846-1903). Fu, tra i pittori austriaci e tedeschi del- la fine del secolo, colui che piú audacemente sperimentò le possibilità del colore e della materia pittorica. Studiò all’Ac- cademia di Vienna, poi soggiornò in due riprese, tra il 1868 e il 1875, in Italia e a Monaco; fece allora parte della cer- chia di W. Leibl e frequentò W. Trübner; visse dal 1876 al 1882 a Venezia e infine a Parigi tra il 1882 e il 1894 dove ebbe modo di conoscere Corot, Courbet, Manet e Monet. In quest’ultimo anno la malattia lo ridusse all’inattività, ob- bligandolo a rientrare a Vienna, ove precipitò nella pazzia. Benché la sua opera non fosse conosciuta, lui vivente, che

Storia dell’arte Einaudi da pochi iniziati, fece sensazione quando venne per la pri- ma volta presentata al pubblico nella Berliner Ausstellung del 1906, esposizione dedicata all’arte dell’Ottocento. Sue opere sono presenti in numerosi musei tedeschi, ad Ambur- go, Brema, Colonia, Hannover, Berlino, Norimberga, Mo- naco; ma è a Vienna che l’artista è meglio rappresentato, con paesaggi e nature morte, per lo piú degli anni Settanta-No- vanta del secolo. La sua poetica, vicina a quella degli im- pressionisti, ricorre spesso alla pittura pura, dalle grandi campiture di colore (Bosco di betulle, 1881: Düsseldorf, km) e ricerca la costruzione del quadro attraverso il tocco vigo- roso, i colori chiari e i contrasti luminosi. Anche l’amore per il genere della natura morta lo accosta agli impressionisti (Mele sulla tavola bianca, 1886: Hannover, Niedersächsische Landesmuseum), mentre le sue origini viennesi si rinven- gono nella sensibilità e nel gusto per la bellezza della luce e della materia, che conferiscono al colore nuova importanza. (g + vk). Schüchlin, Hans (Ulm? 1435/40 - 1503). Accanto e prima di Zeitblom, che gli era genero e che lavorò per vari anni nella sua bottega, S è il pittore piú importante della città. Il suo nome figura a piú riprese negli archivi di Ulm, disegnando la personalità di un artista non solo titolare di una delle piú grandi e quan- to mai produttive botteghe cittadine, spesso aperta a colla- borazioni con altri maestri (altari per il monastero di Lorsch e per la chiesa di San Martino a Rottenburg). Quasi tutta la sua produzione è però andata distrutta dagli iconoclasti. L’unica opera accertata e conservataci è l’altare della Pas- sione di Tiefenbronn, datato 1469 e firmato, che denuncia, nella composizione delle scene (esterno delle portelle: Vita di Maria; interno: Passione) e perfino nella tecnica pittorica una forte impronta francone, precisantesi nel confronto con opere di Pleydenwurff. L’altra importante componente del- lo stile di S a questa data è quella derivata dal Maestro del- le Portelle dell’Altare di Sterzing che potrebbe addirittura esser considerato il maestro di S, per avergli trasmesso le proprie conoscenze della pittura fiamminga (Rogier van der Weyden in particolare) e quel particolare modo di costruire le figure attraverso contorni precisi e sottili, che isolano le une dalle altre, per poi colorirle in toni dalle fredde riso-

Storia dell’arte Einaudi nanze, ma di materia pastosa. L’uso di identici modelli d’im- primitura ornamentali confermerebbe appunto l’ipotesi che S abbia, alla morte del Maestro, rilevato l’intera bottega. A S e alla sua bottega possono attribuirsi la Decapitazione di santa Barbara (Praga, ng); le tavolette con la Passione di Cri- sto di Schweinfurt (coll. Schäfer); le parti dipinte dell’alta- re a portelle di Hausener, del 1488 (Stoccarda, Wurttem- bergisches Landesmuseum) e le quattro tavole da un altare mariano oggi perduto (Füssen, Staatsgalerie im Hohen Sch- loss; coll. priv.). Non è infine da escludere l’ipotesi, fatta sulla base di osservazioni stilistiche, che all’apprezzato mae- stro sia stata affidata la commissione per le parti dipinte del grandioso altare di Blaubeuren, scolpito dai fratelli Ehrart, e che S abbia poi suddiviso il lavoro tra vari altri pittori col- laboratori (tra i quali si riconoscono ad esempio Zeitblom e B. Strigel). Si è fatto il nome di S anche a proposito del Giu- dizio Universale affrescato nella Cattedrale di Ulm; alla sua cerchia sono accostabili il Ritratto di Erich Ensinger (Mainz, Mittelrheinisches Landesmuseum) e un Doppio ritratto (1479: Monaco, Bayerisches nm). (scas). Schuffenecker, Emile (Fresne-Saint-Mamès 1851 - Parigi 1934). Presso Bertin, eb- be modo di conoscere l’opera di Gauguin: lo sostenne eco- nomicamente e per suo influsso si dedicò alla pittura. Sim- patizzò con Pissarro e van Gogh e partecipò nel 1884 alla fondazione del Salon des Indépendants, poi nel 1889 alla mostra del caffè Volpini, dove presentò venti dipinti e pa- stelli. Prima divisionista (Al parco Montsouris, 1886: coll. priv.), si orientò ben presto, per influsso del sintetismo, ver- so uno stile piú libero, dai colori dolci e dai ritmi ampi (Fa- miglia Fontaliran, 1891 coll. priv.; le Falesie di Pantin, 1904, entrambe esposte al Salon des Indépendants del 1905). (gv). Schultze, Bernard (Schneidemühl (Prussia orientale) 1915). Ha studiato pittu- ra all’Accademia di Berlino e a quella di Düsseldorf. Mobi- litato dal 1939 al 1944, dopo un periodo figurativo alquan- to espressionista passò gradatamente a un astrattismo infor- male e colorato ispirato soprattutto da Wols, il cui influsso sulla sua opera permane attraverso gli anni. Dopo la guerra

Storia dell’arte Einaudi espone a Mannheim (Gall. Egon Guenther, 1947) e in mol- te città tedesche; viaggia e soggiorna a Parigi dal 1945 al 1947 e nel 1952-53, partecipa successivamente all’attività del gruppo Phases e alla mostra tedesca del circolo Volney (1955). Espone a Parigi nel 1956 (studio P. Fachetti, pre- sentazione di Will Grohmann), trasferendosi poi a Fran- coforte, dove con Karl Otto Götz, Heinz Kreutz e Otto Greis forma il gruppo tachiste Quadriga. Comincia verso il 1957 a introdurre nella sua pittura materiali eterogenei co- me paglia, brandelli di tessuti o di corde, da lui stesso de- nominati «tentacoli», dapprima inglobati entro la materia pittorica, in seguito affermatisi come elementi autonomi. Questi trascureranno presto i limiti della cornice e quasi il supporto: un grigliato leggero, una fine armatura di asticel- le o di fil di ferro saranno pretesti per edificare costruzioni fragili, lacunose e come rose dall’interno (Promemoria di Ma- lone, 1961: Parigi, mnam), ma – con umorismo e senso del contrasto – vivacizzate dall’uso di colori ridenti e freschi. I disegni e i collages dello stesso periodo serbano questi toni aciduli o dolciastri al servizio di un tratto di grande finezza e acutezza. Dopo le due personali a Parigi nel 1958 e nel 1962 (Gall. Daniel Cordier), soggetto di simili scenari ba- rocchi, presto dispiegati nello spazio fino a invadere stanze intere, è un personaggio mitico: Migof (Il Grande Labirin- to-Migof, 1966). Nel corso degli anni Settanta, S realizza una serie di dipinti ispirati alla mitologia greca (Mifog-Par- tenone II, 1972: Colonia, Museo Ludwig) e dei grandi pae- saggi in tinte pastello (Colosso di ... 1977: Francoforte, mam) e all’acquerello (Paesaggio eroico, 1979: Amburgo, KH). Da- gli anni Sessanta i suoi lavori risultano aperti al clima della Pop Art e a suggestioni dell’arte cinetica. Sue opere figura- no nei musei di Darmstadt, Duisburg, Hagen, Kassel (Trit- tico di Migof, 1964, collage), Parigi (mnam), Wiesbaden, Wuppertal (Obiit, 1958, collage), Bochum (Giorno di vanità. Migof, 1968). Il Centre Pompidou di Parigi ha dedicato all’artista una retrospettiva nel 1970, mentre la kh di Düs- seldorf ha ospitato una sua antologica nel 1980. (gbo). Schulz, Daniel (Danzica 1615 ca. - 1683). Operò per qualche tempo nella bottega di Frans Snyders, soggiornò nei Paesi Bassi dal 1646 al 1649 e acquisì grande maestria nella pittura di animali.

Storia dell’arte Einaudi Pittore alla corte di Varsavia, fu il ritrattista della nobiltà polacca. Nel 1660 recuperò la propria indipendenza, lavo- rando di nuovo nella sua città natale (tedesca sino all’an- nessione del 1945). I suoi ritratti si distinguono per la loro capacità di osservazione penetrante e realista e per la calda tonalità dei colori. (ga). Schumacher, Emil (Hagen 1912). Frequenta la Scuola di arti decorative di Dortmund dal 1932 al 1935 per diventare grafico indu- striale. Dal 1939 al 1945 lavora infatti come disegnatore tecnico. La situazione politica della Germania di quegli an- ni blocca ogni iniziativa artistica e S compie numerosi viag- gi all’estero. L’incontro con C. Rohlfs nel 1937 lo indiriz- za verso l’espressionismo come risulta dalle sue prime tele e litografie. La sua ricerca pittorica si evolve quindi verso l’astrattismo passando attraverso le esperienze cubiste di cui rimangono alcune reminiscenze nelle opere di quei pri- mi anni dopo la guerra. Risale al 1947 la sua prima perso- nale a Wuppertal nello Studio per una nuova arte.In quello stesso anno fonda a Recklinghausen il gruppo Junger We- sten con G. Deppe, T. Grochowiak, E. Hermanns, H. Siep- man e H. Werdhasen, una delle prime associazioni di arti- sti dopo la guerra. All’inizio degli anni ’50 a Parigi scopre nella pittura infor- male la concezione del colore inteso come elemento creativo (Innaturation, 1952: coll. priv.). Maestro del tachisme tede- sco, porterà alle estreme conseguenze il processo iniziato nel- la pittura di Wols, facendo assumere centralità alla materia. Nel 1954, per la prima volta dopo la guerra, l’arte tedesca contemporanea viene esposta all’estero nella mostra orga- nizzata da W. Sandberg allo sm di Amsterdam. S vi sarà presente come l’anno seguente a Parigi in occasione di al- tre due mostre dedicate ai pittori e agli scultori non-figu- rativi tedeschi. Alla ricerca di nuovi mezzi e materiali, nel 1956 S crea i primi tastobjekte (oggetti ’tattili’), forme com- poste di carta, asfalto o pezzi di metallo (Tastobjekt 57/II, 1957: coll. priv.). Orientandosi verso una progressiva di- struzione della superficie pittorica, riduce la sua tavolozza sempre brillante, a due o tre tonalità percorse e divise da sottili nervature. La superficie lignea, ancor prima di es-

Storia dell’arte Einaudi sere dipinta, verrà segnata a colpi di martello («quadri a martello», 1966-67) oppure interrotta dall’applicazione di vari materiali aderenti (pietre, paglia, asfalto, bitume ... ) La sua vita sarà contrassegnata da numerosi viaggi in tutto il mondo. Espone in America, in Asia, in Europa dove sarà, tra l’altro, presente a due edizioni della Biennale veneziana, nel 1958 e nel 1962 con una personale. Riceverà ovunque numerosi premi e riconoscimenti. Professore alla Scuola su- periore di arti figurative di Amburgo dal 1958 al 1960, nel 1966-67 alla Scuola di belle arti di Karlsruhe, dal 1968 è membro dell’Accademia di belle arti di Berlino. Durante il soggiorno invernale del 1969 nell’isola tunisina di Djerba nascono i primi guazzi, esposti nel 1983 in una mostra antologica a Münster nel Landesmuseum della We- stfalia e raccolti in una pubblicazione redatta da E. Güse. Oltre ai guazzi, lavora in questi anni anche su carta duran- te i suoi regolari soggiorni primaverili ed estivi nell’isola di Ibiza nelle Baleari. Qui, nel 1974, riceve il premio della città di Ibiza in occasione della Biennale della Grafica. Quello stesso anno, sul lago Maggiore, produrrà, nella Ceramica Ibis, le sue prime ceramiche. Nel 1981 la monografia su S redatta da W. Schmalenbach viene presentata nell’ambito di una mostra alla Galleria Strelow a Düsseldorf. Nel 1983, durante un viaggio in Marocco, compone una suite Maroc comprendente trentasei fogli. Nel 1985 è ospite d’onore di Villa Massimo a Roma. Vive e lavora tuttora ad Hagen di cui è cittadino onorario. (frm + sr). Schuppen, Pierre van (Anversa 1627 - Parigi 1702). Intorno al 1650 si trovava in Francia, dove collaborò con Robert Nanteuil. Si specializzò nella riproduzione a bulino di ritratti contemporanei, prin- cipalmente da Mignard, Largillière e François de Troy. Il figlio Jacques (Parigi 1670 - Vienna 1751), allievo di Lar- gillière, prosegui la tradizione un po’ austera dei ritrattisti fiamminghi. Accolto nell’Accademia con Meleagro e Atalan- ta (1704: Montpellier, Museo), incontrò L. Chéron a Luné- ville (1708) e fu protetto dal principe Eugenio e dall’impe- ratore Giuseppe I a Vienna (1717-33), dove ricostituì l’Ac- cademia nel 1725, e lasciò alcuni dipinti religiosi (Vienna, chiesa di Hernals). Tra le sue opere si ricordino il ritratto del Principe Eugenio (1718: Amsterdam, Rijksmuseum),

Storia dell’arte Einaudi quello di Ignace Parrocel (Vienna, Belvedere) e il suo Auto- ritratto (1718: Vienna, Accademia). (sr). Schut, Cornelis (Anversa 1597-1655). È menzionato per la prima volta nel 1618-19 come maestro della gilda di San Luca di Anversa, poi come membro della camera di retorica di Violieren nel 1620-1621. Viaggiò in Spagna e in Italia; a Roma, tra il 1624 e il 1627, fu conosciuto col nome di Cornelio Fiammingo; dipinse affreschi a Frascati nel «casino» di Pietro Pescato- re, in collaborazione con Timan Craft, poi una Strage degli innocenti e un’Adorazione dei Magi che fecero parte della col- lezione di Vincenzo Giustiniani (oggi nella chiesa della Tri- nità di Caen). Non è dimostrato che fosse allievo di Rubens, di cui in ogni caso subì fortemente l’influsso. Partecipò alle decorazioni per l’entrata del cardinal-infante (1635) e decorò con un’As- sunzione la cupola della chiesa della Vergine di Anversa (1645-47). Gli si devono quadri d’altare per chiese della sua città natale (Pietà: Anversa, San Giacomo; la Porziuncola: Anversa, kmsk; Decollazione di san Giorgio: ivi; Purificazio- ne della Vergine: ivi) e di Colonia. Tra le numerose ac- queforti, quelle di una serie delle Sette arti liberali vennero usate come cartoni per arazzi. È recente la rivalutazione dell’arte di S, caratterizzata da un disegno ampio e violento, con audaci effetti di luce e colori fortemente contrastati. (hl+sr). Schwarz, Arturo (Alessandria d’Egitto 1924). I suoi studi rigorosi su Dada e il surrealismo, l’incontro con l’opera di Breton, il lungo sodalizio con M. Duchamp, l’intensa attività legata alla sua galleria milanese negli anni Sessanta, testimoniano l’appas- sionante ricerca di tutta una vita. In una dedica all’amico Breton, ormai scomparso da due anni, S ricorda come fon- damentale per il corso della sua vita la lettura di Nadja, Le Revolver à cheveux blancs e poi Fata Morgana, I Manifesti, l’Ode à Charles Fourier.Era il 1939.Conobbe Breton solo dieci anni dopo a Parigi in seguito a una corrispondenza ini- ziata con lui nel 1944.Gli dedica il libroThe Complete Works ofMarcel Duchamp(Harry Abrams, New York e

Storia dell’arte Einaudi Thames & Hudson, London 1969) che apparve in italiano con il titolo La sposa messa a nudo in Marcel Duchamp, an- che (Torino 1974).Per la realizzazione di questa opera la- vorò in stretto contatto con Duchamp per dieci anni. È un’osservazione di Bachelard sull’alchimia come «scienza per uomini soli, scapoli, uomini senza donne, iniziati, iso- lati nella comunità» che lo induce a pensare a Duchamp. «Quest’opera – scrive S – è stata ispirata probabilmente dal desiderio di verificare un’intuizione, di scoprire se in un mondo razionalistico, prosaico e frammentario come il nostro, sia ancora possibile tentare un’avventura irrazio- nale, poetica e umanistica». Quest’opera fa parte, insieme ad altri studi su Duchamp, del ciclo intitolato L’immagina- zione alchemica, che tratta delle culture arcaiche dei popo- li senza scrittura, per focalizzarsi su Man Ray, i dadaisti e i surrealisti. L’alchimia è intesa proprio come ricerca, come strumento di conoscenza, come tentativo di liberazione dell’uomo dalle sue contraddizioni. S leggerà il cubismo di Duchamp in questo senso, come una fase dell’evoluzione del suo interesse per l’alchimia, per la trasformazione del- la materia. La collaborazione con Duchamp si concretizzerà anche nella realizzazione nel 1964 da parte di S dei «mul- tipli» dei ready-mades.Attraverso l’approfondimento criti- co di movimenti e di artisti, l’intento di S è quello di indi- care le tappe di una rivolta da creare con sempre nuovi stru- menti. Il lavoro dedicato a Dada (Almanacco dada, Milano 1976) che lo impegnerà per venticinque anni, è proprio que- sto tentativo di trasmettere l’energia vitale scaturita da quel momento storico, da quel particolare «stato d’animo». La sua libreria milanese, poi Galleria S dal 1960 al 1975, con- tribuì da una parte a diffondere le tendenze dada e surrea- liste, dall’altra a ospitare l’avanguardia di quegli anni. Ri- salgono al 1954 i contatti diretti di S con il Movimento Nu- cleare quando conosce Baj e Dangelo. In quello stesso anno organizza presso la sua libreria la mostra Il Segno e la Paro- la in cui sono esposte alcune loro opere insieme a quelle dei rappresentanti del gruppo Cobra, Jorn, Corneille, Appel, per la prima volta in Italia. In quella stessa occasione ven- gono presentati i testi di Artaud, Breton, Eluard e René Char. Si susseguiranno molte altre mostre come quelle de- dicate ad esponenti del Nouveau Réalisme e ad altre nuo- ve tendenze degli anni Sessanta. Negli anni Settanta si in-

Storia dell’arte Einaudi teressa anche ad artisti dei paesi dell’Est. Come scrittore è conosciuto con lo pseudonimo di Tristan Sauvage. (chmg). Schwarz, Christoph (Monaco 1545-92). Ultimo rappresentante della scuola ba- varese del secolo xvi è citato nei libri di Monaco nel 1570. Fu allievo di M. Bocksberger, operò per Alberto V e per Gu- glielmo V, e, cosa piuttosto curiosa, in alcuni quadri religiosi (pala della Vergine in gloria, 1580-81, proveniente dal Gin- nasio dei Gesuiti di Monaco, molto lodata ai suoi tempi ed espressione delle tematiche controriformiste sostenute dal- la Baviera cattolica; Erezione della Croce: entrambi Norim- berga, gnm) fu sensibile all’influsso dei veneziani, in parti- colare di Tintoretto. Nei ritratti, spesso assai aspri (Ritrat- to di famiglia: Monaco, ap), ritrova la tradizione germanica. (acs). Schwerin Staatliches Museum Il museo, ospitato in un edificio ap- positamente costruito nel 1882, racchiude una collezione priricipesca tipica dei criteri estetici e di gusto del sec. xviii raccolta dal duca Cristiano Lodovico II di Mecklenburg (1683-1756). Le sue referenze andavano ai maestri olande- si del sec. xvii dei quali, particolarmente ben rappresentati, sono van Aelst, Backhuysen, Berckheyde, Gerrit Dou, Fa- britius (la Sentinella), Jan vari Goyen (Paesaggio fluviale con mulino a vento), Heda (Natura morta con prosciutto), Hon- decoeter, Jan van Huchtenburg, Willem Kalf, Salomon de Koninck, van Schrieck, Moreelse, Paulus Potter e Philips Wouwerman. Da segnalare una serie, unica, di quarantatre tele di J.-B. Oudry. Tra i dipinti del sec. xviii figurano com- posizioni di Balthasar Denner, Alexander Thiele, Christian Wilhelm Ernst Dietrich e Georg David Matthieu, nonché alcune opere di Largillière, Antoine Pesne e Gainsborough. Il sec. xix è rappresentato da François Gérard, Caspar Da- vid Friedrich (Paesaggio d’inverno), Wilhelm Schadow, Franz Krüger, Wilhelm Trübner, Max Liebermann e Lovis Co- rinth (Moglie e figlia dell’artista, 1909). Il Gabinetto delle stampe raccoglie circa 4000 disegni e 20 000 incisioni. Il pas- saggio, nel 1918, a un regime democratico-parlamentare del Mecklenburg, dal 1815 assurto a granducato, portò alla na-

Storia dell’arte Einaudi zionalizzazione della proprietà e collezioni granducali del 1919, delle quali ultime cospicue parti confluirono nel mu- seo di S. (hbs). Schwind, Moritz von (Vienna 1804 - Niederpöcking (Monaco) 1871). Dal 1821 al 1823 fu allievo dell’Accademia di Vienna: pur risentendo dell’opera di Schnorr von Carolsfeld e Peter Krafft, suoi in- segnanti, la sua fu soprattutto una formazione da autodidat- ta. Si rese noto sulle prime come illustratore, trattando di so- lito temi ripresi da leggende o da scene di vita borghese; il carattere narrativo dei quadri che realizzò in seguito, ha cer- to origine in questi suoi primi lavori. Nel 1828 soggiornò a Monaco e si legò in amicizia con Cornelius, tramite il cui in- flusso il suo stile raggiungerà una maggiore monumentalità. Dal 1832 al 1836 eseguì progetti di affreschi per la residen- za di Monaco e per il castello di Hohenschwangau. Partì per l’Italia nel 1835, e in questo periodo eseguì le prime opere importanti, come il Cavaliere Kurts Brautfahrt (già al Museo di Karlsruhe, bruciato nel 1931). Dall’Italia trasse soprat- tutto motivi paesaggistici che, combinati con le prospettive vertiginose e lontananti apprese da Friedrich, impiegò in mol- ti dipinti (Paesaggio tra le gole, 1818: Berlino, Neue ng). Dal 1840 al 1844 operò a Karlsruhe, decorando con pitture mu- rali la nuova galleria; dipinse allora il Cavaliere di Falkenstein (1843-44: Lipsia, mbk) e la Rosa (1847: Berlino, ng). Dopo aver insegnato a Francoforte, nel 1847 venne nominato do- cente presso l’Accademia di Monaco. Nel 1854-55 eseguì af- freschi alla Wartburg e nel 1866-67 realizzò la sua ultima ope- ra fondamentale: gli affreschi della loggia del teatro dell’Ope- ra di Vienna ispirati al Flauto magico di Mozart. Lo stile di S deriva da quello dei nazareni; tuttavia, se ne differenzia per una maniera piú forte, piú felice, impronta- ta da un sentimento assai vivo della poesia e della musica ro- mantica, con la ripresa di temi da libretti d’opera o dalla sto- ria della musica, trasposti in nuove forme armoniche che gli diedero immensa popolarità. Una dimensione fantastica e leggendaria si libera in tele come Visione nella foresta (1858: Monaco, sg) un mondo di gnomi e di fate popola il bosco al chiarore della luna, ma è la figura di Rübezahl (1859: ivi) ad essere tra le piú vive e celebri. Parallelamente a questa ve- na, ancora segnata dal cromatismo romantico, S schiarisce

Storia dell’arte Einaudi la propria tavolozza e affronta una pittura piú aneddotica (la Visita, 1855: ivi; l’Artista e la sua famiglia, 1864: Hanno- ver, Niedersáchsisches Landesmuseum). La sua opera grafi- ca comprende il ciclo di Cenerentola (1854: Monaco, np) e dei Sette Corvi (1857-58: Museo di Weimar). S è inoltre au- tore di ritratti (la Cantante Karoline Hetzenecker, 1848: No- rimberga, gnm), e di dipinti religiosi. (hbs). Schwitters, Kurt (Hannover 1887 - Ambleside (Gran Bretagna) 1948). Per- sonaggio poliedrico, difficilmente inquadrabile, Kurt S par- tecipò attivamente al dibattito artistico europeo, fra le due guerre. Artista, grafico, poeta e scrittore pur militando nel- le fila di numerosi movimenti, mantenne sempre una posi- zione autonoma, costruendo e teorizzando una propria sin- golare poetica che, partendo da posizioni dadaiste, attra- verso il recupero della casualità, ritornava a una nuova estetica, dove il frammento, rifiutato dalla società, svolge- va un ruolo attivo come parte integrante di una nuova ar- monica totalità. Dopo aver frequentato la scuola d’arte, si trasferisce all’Ac- cademia di Dresda, entrando in contatto con il gruppo espressionista Die Brücke. Al periodo accademico, segue uno più sperimentale, alla scoperta di forme astratte, sollecitato anche dal fondamentale incontro con esponenti dadaisti, quali Hans Arp, Raoul Hausmann e Hannab Hoch, avve- nuto a Berlino nel 1918. Durante i turbolenti anni che se- guono la catastrofica esperienza bellica, S costruisce, sulle rovine di un’Europa dilaniata, il proprio pensiero. Nel 1919 realizzò il suo primo MERZbild una sorta di collage, dove i materiali piú disparati, assemblati in un’unica composizio- ne, assumevano una nuova identità. La parola MERZ, che, secondo una pratica tipicamente dada, era ciò che ancora ri- maneva di un manifesto della ComMERZ und Privatbank Hannover, diventò il concetto attorno al quale S edificò la propria arte. Ogni sua opera, ogni suo scritto, ogni sua azio- ne venne da quel momento denominato MERZ. La messa a fuoco di una nuova forma artistica, indipendente, coincise con i primi dissapori con il movimento Dada: nel 1920 Ri- chard Hulsenbeck nell’«Almanacco Dada» si scagliò contro la pubblicazione di S Anna Blume.A seguito delle polemi-

Storia dell’arte Einaudi che l’artista si allontanò dal gruppo trovando nuovi stimoli nella tradizione costruttivista. Dalla seconda metà degli an- ni Venti entra in contatto con il gruppo olandese De StijI sperimentando l’organizzazione dell’opera secondo struttu- re geometriche alla ricerca di un ordine superiore. Dal 1923 inizia la pubblicazione della rivista «MERZ» che uscì per 24 numeri fino al 1932; portavoce del proprio pen- siero, la rivista ospitava anche interventi di numerosi altri artisti e architetti tra cui El´ Lisickij, Mondrian, Theo van Doesburg, Picabia e Arp. Nel 1924 S iniziò il primo MERZbau, un’enorme costru- zione all’interno della sua stessa abitazione di Hannover, che doveva lasciare incompleta dopo sedici anni di lavoro. Con quest’opera l’artista vedeva realizzata la sua idea di «Gesamtkunstwerk»: pittura, scultura e architettura erano fuse in una composizione bizzarra e meravigliosa, che si svi- luppava dalla cantina attraverso i due piani della casa, dove allo spettatore era concesso di stare non piú davanti, ma den- tro l’opera d’arte. Con l’avvento del nazismo, le sue opere vennero stigmatiz- zate come «arte degenerata», S lasciò la Germania (1937) e si recò in Norvegia. Qui inizia la costruzione di un secondo MERZbau, ma l’invasione tedesca del 1940 lo costringe a un trasferimento in Inghilterra, dove morì nel 1948, dopo aver iniziato il suo terzo MERZbau. Alcuni mesi dopo la morte il mma di New York gli dedicò la prima retrospettiva. (et). Scialoja, Toti (Roma 1914 - 1998). Giovanissimo entra in contatto con l’ambiente della Cometa di Mimi Pecci Blunt ed è vicino al- le posizioni artistiche della scuola romana. Nel ’39 espone alla III Quadriennale romana un disegno e quattro anni do- po, vi partecipa con un ritratto e due nature morte. Nel ’4o ha una personale a Genova. Lo stesso anno segna il suo pri- mo intervento in teatro, con le scene e i costumi per L’ope- ra dello straccione di J. Gay. S considera la scenografia come un’immagine pittorica che «entra nel ritmo del teatro». Nella seconda metà degli anni Quaranta si delinea sempre piú la tendenza di S alla corposità del colore e ad una defor- mazione espressionistica e trasfigurante che rimanda a Ma- fai (Il traforo, 1946; Pollo spennato, 1947). Nel ’47, parteci- pa alla collettiva presso il Secolo di Roma organizzata da Ce-

Storia dell’arte Einaudi sare Brandi. Nei soggiorni parigini (’47 e ’48), la sua poeti- ca pittorica si definisce in due direzioni: da una parte l’in- tensa emotività cromatica di Soutine, dall’altra, la scompo- sizione geometrica delle forme, così come la praticava Jac- ques Villon. La ricerca si incanala verso un sintetismo di colori e forme che precorre già l’astrazione degli anni suc- cessivi. Con l’occhio che guarda anche a Morandi comincia a mettere un freno all’urlo cromatico delle sue tele. A ca- vallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta si avvicina al cubi- smo, con scomposizione di luce e ritmi, di matrice feininge- riana (Natura morta, 1954). Espone (dopo aver rifiutato un invito nel ’48) alla Biennale veneziana nel ’50 ed è presente con cinque opere, tra cui La ballerina.È questo anche l’anno dell’Antiparnaso, un’associazione di scrittori, musicisti e pit- tori che dette vita solo a due serate all’Elisco di Roma. S for- nisce il libretto dell’opera di Petrassi, la Morte dell’aria. Nel 1955 approda definitivamente all’arte astratta. In que- sto periodo è vicino a Origine e frequenta Afro, Burri, Col- la. Affascinato dall’arte americana, compie il suo primo viag- gio a New York (1956) ed è colpito da Pollock. Nell’isola di Procida, nel settembre del ’57, inizia la serie delle Impron- te, che esporrà l’anno dopo alla Galleria romana La Salita. Adotta il metodo del procedimento automatico, della scola- tura, della casualità del gesto, che crea la superficie. Espo- ne alle Biennali di Venezia, a Milano, a Roma, a New York e partecipa a Documenta 2 di Kassel. Nei primi anni Ses- santa risiede a Parigi e segue le lezioni di Merleau-Ponty sul- la fenomenologia. L’impronta sulla tela acquista sempre piú una valenza temporale ed esistenziale. Nel ’64, alla Bienna- le di Venezia, allestisce un’intera sala e intanto espone in molte personali all’estero e in Italia. Nel 1982 è nominato direttore dell’Accademia di belle arti di Roma. Negli anni Ottanta si sono susseguite diverse mostre e antologiche (fra cui quella del mc di Gibellina, 1985) e nel’92, la gnam di Roma gli ha dedicato un’ampia rassegna. (adg). Sciarra, Maffeo Barberini Colonna di (principe di Carbognano; Roma 1850-1925). Ricevette in ere- dità un’importante collezione di pittura, la maggior parte del- la quale entrata in possesso della sua famiglia nel 1812 in se- guito a una divisione di beni operata con la perizia di Vin-

Storia dell’arte Einaudi cenzo Camuccini e Gaspare Landi: comprendeva un impor- tante nucleo di dipinti caravaggeschi (i Bari, il Sacrificio di Isac- co, la Santa Caterina d’Alessandria), alcuni provenienti dalla quadreria del cardinal Del Monte. La collezione si era costi- tuita al momento delle nozze, nel 1728, tra Giulio Cesare Co- lonna di S, principe di Carbognano (1702-87) e Cornelia Bar- berini (1716-67), figlia e unica crede di Urbano Barberini, principe di Palestrina; Giulio Cesare assunse allora il nome di Barberini Colonna di S. Ne fece il ritratto Pompeo Batoni, insieme a quello della moglie (ritratti tuttora in possesso dei loro discendenti). Maffeo, deputato dell’opposizione dal 1882, fondatore (1884) del giornale «La Tribuna» e commit- tente della decorazione della Galleria S ad opera di Giusep- pe Cellini, nel 1889 aveva fatto pubblicare alcune tele della sua collezione (Dieci quadri della Galleria Sciarra, illustrati da prototipi di Francesco Paolo Michetti). Ma nel 1891 e nel 1892, per pagare i creditori, vendette un certo numero di di- pinti, soprattutto a collezionisti francesi: il Suonatore di viola (per lungo tempo attribuito a Raffaello, e oggi assegnato a Se- bastiano del Piombo) fu acquistato dal barone Alphonse de Rothschild; i Bari di Caravaggio, venduto probabilmente nel- la stessa occasione, è riemerso recentemente ed è stato acqui- stato (1987) dal Museo di Fort Worth (Texas). Nel 1893 il principe Maffeo fu accusato (e poi scagionato) di aver ven- duto quadri all’estero senza autorizzazione ufficiale. La Galleria Colonna di S (costituita in fidecommisso), andò dispersa nel 1896; alcune sculture e un certo numero di di- pinti furono ceduti alla gn di Roma (Ritratto di Stefano Co- lonna del Bronzino). Il San Sebastiano del Perugino fu ac- quistato allora dal Louvre. Nel 1899, altri dipinti furono venduti all’asta presso Sangiorgi a Roma. (eg + sr). Scilla, Agostino (Messina 1629 - Roma 1700). Dopo un iniziale apprendi- stato presso il pittore classicista A. Barbalonga, continuò i suoi studi a Roma con il Sacchi e il Mola. Risultato di questa sua formazione sono gli affreschi con l’Apoteosi dell’Eucarestia (1657) della cappella del Sacra- mento del Duomo di Siracusa e il San Benedetto ordina la di- struzione degli idoli del Museo regionale di Messina. In altre opere invece, come il Sant’Ilario (1667: ivi), sono evidenti influssi della pittura meridionale e in particolare di quella

Storia dell’arte Einaudi napoletana, ampiamente rappresentata a Messina nella col- lezione del principe Ruffo, con il quale lo S mantenne stret- ti rapporti di amicizia e di lavoro. È nell’ambiente colto di casa Ruffo che maturano anche le sue idee filosofiche e scientifiche delle quali è testimonian- za La vana speculazione disingannata dal senso: lettera respon- siva circa i corpi marini che pietrificatisi ritrovano in vari luo- ghi terrestri pubblicata a Napoli nel 1670. Dopo la fuga da Messina, in conseguenza della rivolta anti- spagnola (1674-78) – alla quale partecipò come sostenitore dei francesi – il pittore soggiornò prima a Tolone, poi a To- rino e infine a Roma, dove nel 1679 è nominato membro dell’Accademia di San Luca e nel 1680 della Congregazio- ne dei Virtuosi. A questo secondo periodo romano risalgo- no l’Autoritratto e il San Gerolamo dell’Accademia di San Luca e la Madonna del Rosario in Santa Maria Maggiore a Valmontone, dove chiara risulta anche l’influenza del Ma- ratta. (lb). Sciltian, Gregorio (Rostov 1900 - Roma 1985). Figlio di armeni, compie studi classici a Mosca. Dopo una breve adesione al cubismo (Don- na alla finestra, 1916), nel ’19 è a Vienna dove frequenta l’Accademia di belle arti. Nel ’23 si stabilisce in Italia, do- ve avverrà la sua vera e propria formazione attraverso lo stu- dio delle opere degli antichi maestri. Artista figurativo, già nella prima produzione (Il ritratto di Ivo Pannaggi; Uomo che si pettina, 1926), dimostra una notevole maestria tecnica nel- la resa di effetti plastici attraverso l’uso sapiente del colore e della luce. Del ’26 è la prima personale da Bragaglia pre- sentata da R. Longhi e la partecipazione alle Biennali di Ro- ma e Venezia. Dal ’27 soggiorna a Parigi e nel ’32 torna in Italia. Nel periodo maturo affronta temi allegorici (Bacco in osteria, 1935-36; Vanitas Vanitatum, 1967-68), ritratti della nobiltà, della ricca borghesia (G. Scheiwiller, 1941) e dei per- sonaggi del mondo dello spettacolo (E. e P. De Filippo, 1953, 1965), quadri di genere (Il filatelico, 1947), trompe l’œil (In- ganno, 1941; Due Gioconde, 1944-46), nature morte con strumenti musicali che si rifanno a Baschenis o con cesti di frutta ispirati a Caravaggio (Estate, 1954; Ciclo delle Quat- tro stagioni, 1963-65), temi religiosi (Il battesimo di Gesú,

Storia dell’arte Einaudi 1961-64, ciclo di nove opere nel Battistero della Basilica del Cuore Immacolato di Maria a Roma), grandi composizioni (La scuola dei ladri, 1954-55 e La scuola dei modernisti, 1955-56), temi d’impegno morale e politico (Ars Atomica, 1978). S si ricollega all’opera di Raffaello, Caravaggio, In- gres. Sia l’uso del trompe l’œil che la predilezione per una verità lenticolare derivata dagli olandesi creano nei suoi qua- dri un’atmosfera enigmatica, quasi metafisica anticipando gli orientamenti «iperrealisti» coerentemente col suo prin- cipio estetico secondo cui «l’unico […] scopo della pittura è stato e sarà sempre quello di ottenere l’illusione della realtà» (Trattato sulla pittura, Milano 1968) come dimostra la gran- de tela L’eterna illusione del ’68. Tra le mostre piú impor- tanti si ricordano: Roma (1970), Milano (1980), Mosca (1983) e la prima retrospettiva italiana al Palazzo dei Dia- manti di Ferrara (1986). (fb). scintoismo o shintoismo Religione nazionale giapponese che venera le forze della na- tura universali, come il Sole o la Luna, oppure particolari co- me una cascata o un albero. Essa non ha dato luogo, in se stessa, a un’iconografia religiosa, vietata peraltro dallo spi- rito universalistico di questa fede. Nondimeno, per influsso della pittura buddista, vennero eseguite alcune effigi divi- ne, minori. Alcuni rotoli del genere degli engi, come il Kita- no tenjin o il Kasugagongen reikenki, potrebbero riallacciarsi allo s per il fatto di raffigurare la fondazione di monasteri scintoisti, ma sul piano artistico s’inscrivono nella corrente della pittura nazionale, yamatoe.Così pure talune rappre- sentazioni in prospettiva di santuari scintoisti, considerati essi stessi luoghi sacri, possono risalire al genere dei manda- ra buddisti e a questo titolo non presentano un’originalità propria. Soltanto forse la celebre Cascata di Nachi raggiun- ge una dimensione universale per l’intensità del sentimento di adorazione della natura che ne scaturisce. (ol). Scipione (Gino Bonichi) (Macerata 1904 - Arco 1933). Trasferitosi a Roma nella pri- ma infanzia, Gino Bonichi (che poi nel ’27 diventerà «il Qui- rite Scipione» in omaggio agli eroi della Roma antica rivisi- tati dalla visionarietà barocca), nel ’19 contrae una polmo- nite durante una gara d’atletica leggera. Quella malattia,

Storia dell’arte Einaudi degenerando in pleurite e poi in tubercolosi, minerà la sua salute fisica per sempre e ne stroncherà la carriera artistica, conducendolo a una morte precoce (ad appena 29 anni). Ep- pure d’aspetto, il giovane S non doveva manifestare la sua debolezza, se come lo descrive Di Cocco, aveva un «piglio atletico, viso roseo, occhi azzurri e capelli biondi». Autodidatta, poco incline alla disciplina accademica, S nel ’24 incontra a Roma Mario Mafai, con A quale stringe un lungo sodalizio artistico e affettivo che si allargherà anche all’artista lituana Antonietta Raphäel, compagna e poi mo- glie di Mafai. Dall’amico viene convinto a frequentare la scuola libera del nudo, ma l’anno dopo ne sono entrambi espulsi per una lite con il direttore. Per sbarcare il lunario, i due cominciano a vendere pubblicità per negozi, quadret- ti di marine e nature morte, figurini di moda e firmano quel loro genere commerciale con la sigla «Bolaf». Già nel ’ 25 S espone insieme a Mafai alla Biennale romana, ma i loro quadri non compaiono in catalogo perché inseriti di straforo. In quegli anni, racconta il pittore stesso «le no- stre opere potevano mischiarsi come un mazzo di carte». Nel tempo, invece, i due affermeranno sempre piú un autonomo modo di dipingere. Per S i rossi, i viola, i bruni, i toni bassi dei colori daranno luogo a quella trasfigurazione della capi- tale così piena di umori acidi e soffocanti che caratterizzerà la sua produzione artistica fino agli ultimi giorni. L’assidua frequentazione della biblioteca d’arte di Palazzo Venezia pone le basi per una pittura che media con la tradi- zione risvegliando in S vecchi amori: Dosso Dossi, Parmi- gianino, El Greco, Bernini fino alla pittura dell’Ecole de Pa- ris e soprattutto di Soutine e Pascin. Dipinge in uno studio di via Cavour con Mafai e la Raphaël, tanto che quella co- munanza di vita e arte a tre viene battezzata da Longhi «la scuola romana» e poi la «scuola di via Cavour». Intanto al gruppo si unisce anche l’emiliano Mazzacurati, in seguito di- rettore della rivista «Fronte», attraverso la quale sia S che Mafai diffondono le loro idee. Nel ’28 S espone presso la Casa d’arte Bragaglia e nello stes- so anno è alla mostra di giovani di Palazzo Doria e al Cir- colo di Roma. Nel ’30 partecipa alla Biennale di Venezia e nel ’31 è presente alla Quadriennale di Roma con tre opere. Il clima novecentista è lontano. Agli arcaismi di Sironi e al-

Storia dell’arte Einaudi la sua pittura buia e bituminosa, S oppone un cromatismo acceso e traboccante di delirio espressionista. La sua pittu- ra è colma d’angoscia, la sua Roma è ritratta al tramonto, marcia, pullulante di fantasmi e figure inquietanti. Sono di questi anni Gli uomini che si voltano (1929), specie di mo- stri-polipi che emergono dall’oscurità con una smorfia sar- castica, Il risveglio della bionda sirena (1929), uno scapiglia- to corpo di donna dalle ampie forme liquefatte, la serie dei cardinali, La meretrice romana (1930). Decadenza e morte sotto un cielo plumbeo e un orizzonte basso, raccontano una Roma diversa da quella città monumentale e ridondante de- scritta nelle celebrazioni volute dal fascismo e nelle opere dei pittori piú vicini al regime. Tonalismo e vibrazione di lu- ce corrodono i contorni delle figure, tutto sembra sul pun- to di disgregarsi. «Annientare, distruggere – scrive Scipio- ne – […] Voglio far uscire dalle mie mani cose di cui il mio cuore è stato pieno. Voglio stringere, non carezzare». Una pittura di idee e emozioni insomma, d’ispirazione neoro- mantica da contrapporre con forza «ai giovani che non cer- cano nulla». Ma la recrudescenza della malattia è in agguato. Nel ’31 S è costretto a tornare in sanatorio ad Arco, in Trentino. Ne- gli ultimi due anni della sua vita, l’artista si dedica a una fre- netica attività disegnativa. Dieci anni dopo la sua morte, i suoi scritti (collaborava a «Fronte» e a «Fiera letteraria»), appunti, poesie, pagine di diario, lettere, vengono raccolti nel libro Carte segrete (riedito da Einaudi, 1982). Al Palazzo Ricci di Macerata, nel settembre dell’85, è stata dedicata a S una grande retrospettiva, con piú di cento disegni e tren- ta dipinti. (adg). Sclopis, Ignazio (Borgo di Borgostura (Torino) 1727 - Torino 1793). La cri- tica piú recente ha messo a fuoco la personalità di Ignazio S, figlio di Alessandro, signore del feudo di Borgostura dal 1739, indagandone l’attività di disegnatore, incisore al bu- lino e all’acquaforte oltre che di pittore e integrando le no- tizie documentarie fornite dal Baudi di Vesme. Caposcuola in Piemonte del vedutismo topografico risolto in maniera pittorica, ebbe una produzione piuttosto vasta nella quale tuttavia permangono alcuni vuoti, relativi soprattutto alla prima formazione, forse da autodidatta. Le due grandi ve-

Storia dell’arte Einaudi dute napoletane del 1674, dedicate alla viscontessa Geor- giana Spencer, sono contemporanee alle serie delle fortifi- cazioni del regno di Napoli e del granducato di Toscana, ri- sultato di un’azione di spionaggio condotta per il conte La- scaris, inviato a Napoli del re di Sardegna Carlo Emanuele III: lo S fornì venti disegni, dei quali risulta sia stato tra- dotto in incisione solo la veduta del porto di Napoli in due fogli. Alle due incisioni con vedute prospettiche di Stupini- gi, una con data 1773 (una terza è piú tarda), vanno acco- state le due con il castello di Moncalieri, note solo da foto- grafie. L’opera piú importante dello S è la serie di nove ve- dute della città di Torino del 1775 (tratte da quelle di G. B. Borra del 1749), seguite dalla veduta dalla parte della Por- ta del Po del 1777; una seconda edizione del 1780 raccoglie queste vedute piú altre tredici di ville e castelli dei dintorni di Torino, oltre alla veduta di Cherasco. Alcuni recenti ri- trovamenti documentano l’attività di pittore dello S: dei quattro grandi dipinti a olio firmati, quasi a monocromo, con vedute prospettiche della città di Torino, databili 1775-80 (Torino, coll. priv.), fu tradotta in incisione solo la già citata veduta di Torino dalla parte del Po, mentre delle sei vedute a tempera su carta conservate nel castello di Rac- conigi, databili 1776-80, due vennero utilizzate per la rac- colta del 1780. (ada). scorcio (scorto) Termine proprio dell’arte pittorica con il quale si indica la proiezione dell’immagine di una figura o di un oggetto obli- qua in rapporto al piano prospettico. È stato ragionevol- mente ipotizzato (L. Grassi, 1978) che esso corrisponda al tipo di rappresentazione che i greci definivano katagrapha, termine reso in latino da Plinio con l’espressione obliquae imagines, genere in cui eccelse il pittore greco Kimon. Le problematiche connesse con l’uso dello s sono state varia- mente, ma sempre con singolare attenzione e giudizio posi- tivo per i risultati, considerate dalla letteratura artistica tra i secoli xv e xix, in rapporto ai problemi della prospettiva (fin da Piero della Francesca), alla maggiore dignità e diffi- coltà della pittura sulla scultura nel ‘paragone’ tra le due ar- ti istituito in età rinascimentale (B. Varchi, G. Vasari), alla ammirazione per le possibilità tecniche del procedimento

Storia dell’arte Einaudi che consente una vista di «sotto in su». Il seguente brano di Giorgio Vasari (Le Vite, 1568) bene fa intendere cosa si in- dicasse alla metà del Cinquecento con il termine, fissando di fatto una definizione dei suo significato che non subirà successivamente modificazioni: «scorto... cosa disegnata in faccia corta, che all’occhio venendo innanzi non ha la lun- ghezza o l’altezza che ella dimostra. Tuttavia, la grossezza, i dintorni, l’ombre et i lumi fanno parere che ella venga in- nanzi, e per questo si chiama scorto». Da rilevarsi infine l’in- teresse portato allo s da parte della psicologia della forma, come risulta, tra l’altro, dalle notazioni di Rudolph Arnheim (1954); in relazione ai problemi della «percezione visiva» egli nota come sia «opportuno definire un pattern come ‘scor- ciato’ quando viene vissuto come deviazione d’una figura strutturalmente piú semplice da cui venga derivato median- te un cambiamento d’orientamento in profondità». (mp). Scorel, Jan van (Schoorl (Alkmaar) 1495 - Utrecht 1562). Van Mander scri- ve che fino ai quattordici anni S studiò ad Alkmaar e che fe- ce l’apprendistato presso Cornelis Buys ad Haarlem, poi pres- so Jacob Cornelisz van Oostsanen ad Amsterdam e per bre- ve tempo presso Jan Gossaert, che nel 1518 era a Utrecht. L’anno seguente S viaggiò in Germania e in Svizzera, visi- tando Colonia, Spira, Strasburgo, Basilea e Norimberga, do- ve, secondo van Mander, avrebbe incontrato Dürer. Dipin- se allora l’Altare Frangipani a Obervellach (chiesa di San Mar- tino) in Carinzia, firmato e datato 1519, sua prima opera nota. Poi, continuando il suo viaggio giunse a Venezia, dove ammirò le opere di Giorgione e di Palma il Vecchio. Da Ve- nezia si recò in Terra Santa allo scopo di perfezionare la sua preparazione sui soggetti biblici, certo che lo studio dei co- stumi, dei paesaggi e delle architetture gli consentisse di ren- dere piú fedelmente il carattere dei temi sacri. Visitò Geru- salemme, dove eseguì numerosi disegni, e fece la strada del ritorno passando da Cipro e da Rodi. Nel 1522 era a Roma. Sotto il pontificato di Adriano VI (1522-23), originario di Utrecht, godé di grande favore: il papa, di cui dipinse due ri- tratti, lo nominò conservatore delle collezioni del Belvedere (van Mander). Salvo un intervallo a Utrecht, documentato al 1523, soggiornò fino al 1524 a Roma, studiandovi l’antico, le opere di Michelangelo, di Raffaello e della sua cerchia, in

Storia dell’arte Einaudi particolare del Peruzzi. In Italia, e forse anche a Venezia, do- ve Marcantonio Michiel (1530) ricorda tre sue opere nelle collezioni veneziane, S eseguì probabilmente alcuni dipinti. Al periodo italiano sono riferiti il Tobia e l’angelo (Düssel- dorf, km), le Stimmate di san Francesco (Firenze, Pitti), la Tor- re di Babele (Venezia, Ca’ d’Oro) e i due ritratti maschili, di discussa attribuzione, di Stoccarda e di Oldenburg. Tornato nei Paesi Bassi, aprí una bottega a Ultrecht, dove rimase fino alla morte. Verso il 1525 dipinse due serie di do- dici Ritratti dei membri della Confraternita di Gerusalemme a Utrecht (Utrecht, Museo) e una terza serie nel 1535; nel 1527 ca. i dodici Ritratti dei membri della Confraternita ad Haar- lem (Haarlem, Museo Frans Hals). Queste opere segnano l’origine del ritratto collettivo fiammingo e olandese. Vi si colgono già caratteri che rimarranno stabili nei ritratti di S: il modello attentamente studiato, in atteggiamento assai ca- ratteristico, attinge una plastica evidenza grazie all’illumi- nazione. Nel 1526-27 dipinse l’Altare di Herman van Lokhor- st (Museo di Utrecht), il cui scomparto centrale rappresenta l’Entrata di Cristo a Gerusalemme, con sullo sfondo una ve- duta della città, evidente ricordo del suo viaggio in Terra Santa. La funzione di canonico del capitolo di Santa Maria a Utrecht, beneficio attribuitogli a quanto sembra dallo stes- so papa Adriano VI, non gli impedì di vivere con Agatha van Schoonhoven, da cui ebbe sei figli, e di cui lasciò un mira- bile ritratto (1529: Roma, Gall. Doria-(Pamphilj), una del- le sue opere piú riuscite per la qualità dei bruni e la forza del sentimento plastico. Nella linea di quest’opera si colloca il non meno famoso ritratto del Giovane studente (1531: Rot- terdam, bvb). Verso il 1535 dipinse una Presentazione al Tem- pio (Vienna, km), inserita in un’architettura italianeggiante ammirata da van Mander, e una Maddalena (Amsterdam, Rijksmuseum) posta dinanzi a un paesaggio diviso secondo i tre piani tradizionali, in cui l’aria circola fluidamente. In quest’ultimo dipinto, tutto solennità e raffinatezza, immer- so nella luce, le ombre portate delimitano nettamente il ri- lievo. Nel 1540 partecipò alle decorazioni per l’entrata trionfale di Carlo V a Utrecht e poco dopo dipinse uno dei suoi com- plessi d’altare piú famosi: il Polittico dei santi Giacomo e Ste- fano (Museo di Douai), ricordato con ammirazione da van

Storia dell’arte Einaudi Mander, commissionato da Jacques Coene, abate di Mar- chiennes in Francia. L’insieme, di ampiezza monumentale, molto articolato, è costituito da due ante mobili disposte a due a due ai lati di un elemento centrale: per lungo tempo dispersi, i vari elementi furono ritrovati uno dopo l’altro a partire dal 1918 e infine riuniti nel Museo di Douai. L’ope- ra narra le storie della vita di san Giacomo Maggiore e di santo Stefano, con figure pressoché a grandezza naturale. I monumenti antichi, con i loro sontuosi ornamenti, rivelano la cultura archeologica acquisita dall’artista durante il sog- giorno romano. La particolare espressività del dipinto non è tanto affidata ai volti ma alle proporzioni allungate delle figure, investite da una luce cruda che accentua i toni aspri della tavolozza. L’importanza dell’opera è accresciuta dalla perdita di altri analoghi complessi d’altare, ricordati da van Mander come già distrutti nel 1566 per mano dei calvinisti. Infatti con quello della Grote Kerk di Breda, è l’unico con- servatosi fino ai nostri giorni. I rapporti di S con l’abbazia benedettina di Marchiennes, per la quale dipinse anche il Polittico delle undicimila vergini, di cui resta un solo scom- parto (Museo di Douai), e quello di san Lorenzo, ricordato dalle fonti, si spiegano con i legami economici fra I ’abbazia e il capitolo di Utrecht, che lì acquistava i vini. Nel 1541-43 S dipinse l’Altare del Ritrovamento della Vera Croce (Amsterdam, Rijksmuseum) per la cappella Nassau nel- la Grote Kerk a Breda, commissione che egli ottenne pro- babilmente grazie alle sue trattative con Enrico III di Nas- sau Breda e con il figlio René de Châlons, statholder della Geldria, a proposito di terreni che il capitolo di Utrecht pos- sedeva in quella regione. Nel castello dei Nassau a Breda S eseguì, secondo van Mander, alcuni lavori. Negli anni se- guenti S lavorò alle decorazioni per l’entrata di Filippo II a Utrecht (1549); restaurò il Potittico dell’Agnello mistico di van Eyck; dipinse per le abbazie di Saint Vaast ad Arras e di Groot Ouwer in Frisia; nello stesso tempo, associato con l’architetto Willem van Noord, aveva intrapreso un impe- gnativo progetto di lavori idraulici. Artista di gran fama ai suoi tempi, S fu tra i primi a intro- durre nei Paesi Bassi l’influenza italiana e per questo il suo ruolo è essenziale. Ma, quel che piú conta, la sua opera, di forte originalità, è al massimo caratteristica di quella ten- denza espressionistica che è alla base della cultura degli ar-

Storia dell’arte Einaudi tisti dei Paesi Bassi meridionali; per il gusto della illumina- zione cruda, dei movimenti contratti delle figure, dei colo- ri acidi e quasi stridenti promosse il sorgere di una vera e propria scuola: Heemskerck, Cornelis Buys II, Dirck Ja- cobsz, Jan Swart, Vermeyen e Antonio Moro sono in diver- sa misura debitori della sua arte. (iv + sr). Scorza, Sinibaldo (Voltaggio 1589 - Genova 1631). Nulla si sa del suo primo maestro, Giovanni Battista Carosio, né è facile reperire nel- le opere che rimangono tracce della sua educazione presso il Paggi. Perduto l’Orfeo del 1612, che sarebbe stato un ot- timo punto di riferimento per la sua produzione giovanile, restano ora, sicuramente datate o databili, solo l’Immaco- lata Concezione (1617: Voltaggio, chiesa di San Giovanni) e la Veduta di piazza del Pasquino (1626-27: Roma, Gall. Corsini). Il resto della produzione di Sinibaldo S va dispo- sto cronologicamente in base alle indicazioni della vita del Soprani e ad alcune verosimili induzioni stilistiche. Devo- no essere giovanili ad esempio i disegni di animali di Pa- lazzo Rosso a Genova e di altre collezioni pubbliche euro- pee (Amsterdam, Parigi, Londra, Cracovia, Firenze); sono infatti caratterizzati da una esattezza di segno, singolar- mente arcaizzante, che non può non dipendere dagli iniziali esercizi sulle incisioni di Dürer, copiati con la diligenza di un falsario. In alcuni casi i disegni illustrano temi pastora- li piú complessi (figure e animali su fondi di paesaggio) e sembra di riconoscervi qualche rapporto con il paesaggismo romano dei primi anni del Seicento, forse noto per il tra- mite del Tassi, attivo a Genova nel 1610. L’Immacolata di Voltaggio è un dipinto isolato nel panorama della pittura genovese del primo ventennio del Seicento perché quasi non ha legami con la tradizione tardomanierista locale, viva an- cora in Paggi, Ansaldo e perfino nell’Assereto; si tratta di una immagine semplice e vera, in dipendenza da fatti cara- vaggeschi difficili da definire (Fiasella è tornato a Genova da pochissimo tempo e del resto il dipinto non è fiaselle- sco). Forse lo S fu a Roma nel 1616 (Suida) e in tal caso avremmo un altro punto di riferimento cronologico per la sua produzione; prima di questa data cadrebbero i quadri di animali prossimi a Snyders, con colori dorati e rubensia-

Storia dell’arte Einaudi ni (Orfeo: già nella raccolta Carretto ad Albenga), mentre sarebbero successivi i dipinti caratterizzati da una maggior lucidità atmosferica, di origine sicuramente caravaggesca, che fanno di S un Cerquozzi genovese, con buon anticipo su Cerquozzi stesso (Orfeo della coll. Costa a Genova). Per via induttiva si possono datare anche le sue nature morte legate per i tagli ridotti e per il punto di vista ravvicinato a quella di Ludovico de Susio nel City Art Museum di Saint Louis, datata 1619: in questo anno Ludovico de Susio e lo S sono documentati a Torino presso la corte di Carlo Ema- nuele I ed è da questo incontro che devono aver tratto ori- gine le due nature morte con pochi oggetti e qualche ani- male di piccola taglia già nella collezione Serra a Genova. Nel 1625 lo S torna da Torino a Genova, ma è immediata- mente esiliato per sospetto spionaggio; in un primo tempo sosterà a Massa poi si trasferirà a Roma dove rimane dalla fine del 1625 all’inizio del 1627. Sono di questo periodo le vedute di Livorno nella collezione Costa a Genova e la fon- damentale Veduta di piazza del Pasquino nella gn di Roma. Ritratti senza retorica di vecchie case cadenti e di palaz- zotti di bottegai, popolati da personaggi veri e non da mac- chiette manieriste, questi dipinti anticipano le vedute rea- listiche di Viviano Codazzi e sono strettamente contempo- ranei ai primi dipinti romani di Pieter van Laer, oltre che alla Veduta di piazza Navona firmata da Luca de Wael (New York, coll. Collins). Non si può dire molto di piú sui lega- mi dello S con la colonia dei tedeschi e degli olandesi stan- ziati a Roma, certo però i rapporti dovettero essere molto intensi se gli inventari delle collezioni di Carlo Emanuele I a Torino e di Cristina di Svezia a Roma elencano buon nu- mero di bambocciate attribuite allo S. (gr). Molto interessante è l’ipotesi, formulata recentemente da P. Torriti, che lo S sia l’autore del vasto Mito di Orfeo, serie di teleri che decorano una sala di Palazzo Sormani a Milano. L’ambiente è noto come Sala del Grechetto per l’erronea identificazione dell’autore dei dipinti: è probabile che lo S sia stato affiancato da Giovanni Agostino Cassana. (sr). Scott, David (Edimburgo 1806-49). Figlio dell’incisore Robert S, studiò a Roma e Parigi (1832-34) prima di stabilirsi a Edimburgo (A.R.A. nel 1830, fu eletto membro della Royal Academy

Storia dell’arte Einaudi nel 1835). Pittore dall’ispirazione romantica e dalla fervida immaginazione, fu grande ammiratore di Blake. La sua pro- duzione, dipinti ed acquaforti di forte sapore simbolico, non ottenne il successo sperato (serie dei Monograms of Man, 1831), e il pittore non incontrò il favore del pub- blico né con le illustrazioni di Shakespeare (Lutin si invola all’alba: Edimburgo, ng), né per i suoi dipinti di soggetto storico (I russi interrano i loro morti, 1832: Glasgow, Hunte- rian ag; Filottete nell’isola di Lemno, 1840: Edimburgo, ng; la Porta del traditore, 1842: ivi; William Wallace, difensore della Scozia, 1844: Paisley, Museum and ag; disegni alla ng di Edimburgo), né per i suoi ritratti (il Dottor Samuel Brown, 1844: Edimburgo, ng). Fallito il suo tentativo di entrare a far parte dell’équipe di decoratori del Parlamento, come nel caso di Haydon fu so- praffatto dalle difficoltà e morì deplorando che nessuno avesse compreso il suo talento. William Bell (Edimburgo 1811 - Penkill Castle 1890), fra- tello del precedente, si formò come incisore e fu poeta e pittore della generazione che segna il passaggio dal ro- manticismo inglese alla nascita dei preraffaelliti. Stabili- tosi a Londra nel 1837, vi conobbe Frith, Dadd, Egg ma nel 1843 lasciò la capitale per Newcastle. Qui ebbe un po- sto come direttore della Governament School of Design, in seguito al fallito concorso per la decorazione del Parla- mento, che occupò fino al 1864. William Bell mantenne contatti con l’avanguardia intellettuale londinese, in par- ticolare attraverso Rossetti, che aveva incontrato nel 1847, ed ebbe la possibilità di pubblicare su «Germ», Fu anche consigliare del celebre collezionista James Leathart (1820-95), un industriale che sostenne i preraffaelliti a par- tire dal 1859. Durante il suo lungo soggiorno a Newcastle la sua attività come pittore rimase confinata nella provincia e il suo stile non ebbe modo di maturare appieno: Ferro e carbone (1855-60: Wallington Hall, Northumberland, serie dipinta per la residenza dei Trevelyan sul tema della storia del Northumberland; bozzetti a Londra, vam), Dürer a Norim- berga (1854: Edimburgo, ng), la Tomba di Keats a Roma (1873), la Tomba di Shelley a Roma (1873: entrambi a Oxford, Ashmolean Museum). (wv + sr).

Storia dell’arte Einaudi Scott, Samuel (Londra 1702? - Bath 1772). Cominciò dipingendo marine nello stile e nella tradizione di Willem vari de Velde; nel 1732 fu al servizio di Lambert, rappresentando le agenzie delle Indie orientali. I suoi disegni topografici di Londra ri- salgono al 1738, ma soltanto dal 1746, dopo l’arrivo di Ca- naletto a Londra, cominciò a dipingere vedute del Tamigi: il Vecchio Ponte di Londra (1748-49: Banca d’Inghilterra), Un’arcata del ponte di Westminster (coll.priv.), Veduta del Tamigi (Londra, Soane’s Museum), due Vedute del Tamigi (Londra, vam), il Vecchio Ponte di Londra, il Vecchio Ponte di Westminster, Westminster vista dal Tamigi, Un’arcata del vecchio ponte di Westminster (Londra, Tate Gall.). L’artista si stabilì intorno al 1750 a Twickenham e si ritirò a Bath nel 1765. Lo stile della sua ultima fase è visibilmen- te influenzato dal Canaletto; la sua pittura, che dimostra pa- dronanza di tecnica o colore lo colloca tra i tanti discreti «ve- dutisti». (jns). Scott, William (Greenock (Scozia) 1913). Cresciuto a Enniskillen, nell’Ir- landa del Nord, ha studiato a Belfast (1928-31) e a Londra (1931-35) nelle scuole della Royal Academy; dal 1937 al 1939 ha vissuto in Italia e in Francia. La sua prima personale a Londra nel 1942 è stata seguita da molte altre; ha esposto al- la Biennale di Venezia nel 1958 e a quella di San Paolo nel 1961. È autore di nature morte e austere composizioni con figure; in alcuni dipinti si è avvicinato all’astrattismo pur non perdendo il riferimento alla figurazione. Ha svolto un ruolo importante in Inghilterra nel rendere noto l’espressionismo astratto. Ha eseguito grandi pitture murali per l’Altnagelvin Hospital di Londonderry (1958-61) e per la televisione ir- landese a Dublino (1967). Risiede a Londra e nel Somerset. Suoi dipinti si trovano ad Amburgo (Natura morta marrone, 1957), Buffalo (Albright-Knox ag: Pittura azzurra, 1960), Perth (Western Australian ag: Marte rosso, 1961), Ottawa (ng: Fanciulla in camicia, Friggitrice di uova, Natura morta az- zurra, 1956) e soprattutto Londra (Tate Gall.: Sgombro su un piatto, 1951-52; Inverno, natura morta, 1956; Pittura ocra, 1958; Sabbia bianca e ocra, 1960-1961). (abo).

Storia dell’arte Einaudi Scotto (Scotti), Gottardo (Piacenza ? - attivo a Milano dal 1454 al 1485, anno della morte). La gran copia di documenti che ricordano l’attività soprattutto milanese di Gottardo S ci restituisce un perso- naggio di spicco nell’ambito del secondo Quattrocento lom- bardo. L’opera si riconosce per ora con sicurezza solo nella semplice Madonna della Misericordia, trittico proveniente dal- la parrocchiale di Mello in Valtellina (Milano, mpp), e nel dossale Cologna con Storie della Vergine.L’arte dello S che qui si rivela è ancora fondamentalmente di linguaggio tar- dogotico, ma questo impianto si amplia al contatto con una cultura pierfranceschiana ferraresizzante che è il riflesso pro- babile della presenza documentata di Baldassarre Estense in Milano. (rpa). Scozia Solo all’inizio del sec. xix le forti personalità di Raeburn e di Wilkie stimolarono la formazione di una scuola di pittu- ra scozzese dotata di reale identità nazionale, per quanto i legami tra la tradizione locale e l’influsso della pittura in- glese furono sempre forti. Ciò che distingue la produzione scozzese è il predominio di quadri riguardanti la vita degli umili, trattati in modo sentimentale e aneddotico, e uno sti- le derivante dai dipinti di genere di Wilkie, come Pitlessie Fair (1805: Edimburgo, ng) o i Politici di paese (1806: coll. del conte Mansfield), nonché i numerosi ritratti fedeli alla concezione di Raeburn, che evidenzia, con la franchezza del tocco, le rudi qualità di carattere dei lords scozzesi (Sir John Sinclair: Edimburgo, ng). La scoperta dell’identità nazionale fu d’altronde successiva all’atto di Unione con l’Inghilterra (1707). In particolare, Edimburgo divenne un centro culturale e intellettuale, con- tribuendo efficacemente al pensiero europeo del sec. xviii nel campo della filosofia e della medicina. All’origine di ta- le fioritura si colloca lo sviluppo della letteratura nazionale, con il poeta Allan Ramsay, padre del pittore omonimo, e cul- mina con Robert Burns e sir Walter Scott. Mentre Edim- burgo diventava, dal punto di vista architettonico, uno dei centri dell’architettura neoclassica europea denominata l’«Atene dei Nord», l’arte scozzese della capitale ricevette un notevole incentivo dal crescente mecenatismo.

Storia dell’arte Einaudi Il XVII secolo George Jamesone fu il primo pittore di un cer- to valore e fama; come la maggior parte degli artisti del sec. xvii, per esempio John e George Scougall, Jamesone prese spunto dalla ritrattistica fiamminga. Furono molti i pittori scozzesi che in questo periodo cercarono di emergere nella capitale inglese o compirono viaggi nel continente, tra i qua- li William Aikman che dopo il viaggio in Italia, riscosse un certo successo in S. Il XVII secolo Alla prima Accademia di pittura, quella di San Luca, di breve vita, fondata a Edimburgo nel 1729 e chiu- sa nel 1731, studiò Allan Ramsay. Nel 1735, un’Accadernia fu fondata a Glasgow da Robert e Andrew Foulis, e funzionò fino al 1757; l’Università prestò alcuni locali e vennero chia- mati due insegnanti dalla Francia, rafforzando l’influsso del- la cultura francese a Edimburgo. Alexander Runciman e il fratello John passarono per la Foulis Academy. Piú impor- tante fu la Trustees Academy, fondata a Edimburgo nel 1760, che proseguì l’attività fino al sec. xix inoltrato. Il pri- mo maestro fu un francese emigrato, William de La Cour († 1767), autore di ritratti nello stile contemporaneo francese e di quadri di genere derivati da Watteau; decorò una di- mora del marchese di Tweeddale a Yester (1761) con scene di rovine classiche, in uno stile vicino a quello di Clérisseau. Pittori scozzesi tra i quali Alexander Runciman e David Al- lan occuparono piú tardi cariche importanti alla Trustees Academy. Oltre cinquanta artisti scozzesi visitarono l’Italia nel sec. xviii e quelli che soggiornarono a Roma partecipa- rono attivamente all’elaborazione del neoclassicismo. Gavin Hamilton, principale esponente del nuovo stile, si stabilì a Roma negli anni Cinquanta del Settecento. David Allan re- stò anch’egli molto tempo a Roma, ottenendovi nel 1773 una medaglia d’oro dall’Accademia di San Luca. L’apporto di Hamilton, di Allan e, in certa misura, di Alexander Runciman contribuì notevolmente alla creazione di uno stile neoclassico internazionale e certo la loro pittu- ra non travalica l’ambito della produzione piú propriamen- te scozzese. Il XIX secolo Fondata nel 1808, la Society of Incorporated Artists tenne fino al 1816 mostre annuali che, dal 1813 al 1816, ebbero luogo nella casa di Henry Raeburn. L’Institu- tion for the Encouragement of the Fine Arts in Scotland nacque nel 1819 sul modello della British Institution di Lon-

Storia dell’arte Einaudi dra; quando ci si avvide che il numero di quadri antichi del- le collezioni locali disponibili per una mostra era limitato, si pose l’accento sulla presentazione di opere contemporanee. Una Scottish Academy, a imitazione della Royal Academy di Londra, aprì i battenti nel 1826, ma incontrò tenace op- posizione nell’Institution, formata essenzialmente da un gruppo di conoscitori e amatori d’arte. Tale opposizione ven- ne superata intorno al 1830, quando la Scottish Academy poteva ormai contare su quarantadue membri. Il numero de- gli accademici venne in seguito fissato a trenta, e quello de- gli associati a venti. I pittori dell’Accademia seguivano so- prattutto lo stile di Raeburn nel ritratto, e di Wilkie nella pittura di genere, benché non vi fossero modelli rigidamen- te imposti. L’Accademia svolse sin dalla sua creazione un ruolo fondamentale nell’arte scozzese; la Trustees Academy restò peraltro attiva fino al 1858; l’ultimo «Master», Robert Scott Lauder, ebbe tra i suoi allievi William Quiller Or- chardson, John Pettie e William Mac Taggart, tre degli ar- tisti britannici piú originali della fine del sec. xix. Seguaci di Wilkie furono, tra gli altri, Andrew Geddes, John Philip e sir . Molti soggetti dei pittori di ge- nere erano tratti da opere di poeti popolari come Burns, Fal- conie, Buttie o Hector Macneil. Ma gli artisti della genera- zione successiva a quella di Wilkie (R. S. Lauder, sir Geor- ge Harvey), maturarono un gusto piú definito per la pittura di soggetto storico nazionale sviluppando le indicazioni del- la tradizione di Wilkie. David Scott, William Dyce, sir Jo- seph Noel Paton, il cui stile era assai personale, ebbero scar- so influsso sulla tendenza dominante dell’arte in S. John Syme, collaboratore di Raeburn, fu anch’egli ritratti- sta. L’influsso di Raeburn si esercitò anche su sir John Wat- son Gordon, il cui ritratto di Roderick Gray (Edimburgo, Merchant Company) gli valse una medaglia d’oro all’Espo- sizione Universale di Parigi nel 1855, su John Graham Gil- bert (The Love Letter, 1829: Edimburgo, ng) e su sir (Lady in Grey: ivi). La pittura di paesaggio in S nel sec. xviii aveva tratto spun- to dalla tradizione classica derivante da Claude Lorrain, co- me attesta l’opera dei Norrie, autori di numerosi paesaggi decorativi per sopracamini. Il ruolo del paesaggismo olan- dese del sec. xvii, spesso associato alla lezione di Claude, fu

Storia dell’arte Einaudi notevole nei dipinti di Alexander Nasmyth, di Patrick, suo figlio maggiore, e di suoi allievi come Andrew Wilson. Stir- ling Castle (Edimburgo, ng) di Alexander Nasmyth è un bell’esempio del genere, col suo schema classico applicato a una scena scozzese, mentre i legami con Hobbema hanno fatto soprannominare Patrick Nasmyth l’«Hobbema ingle- se». Il reverendo John Thomson of Duddingstone, pittore dilettante che fu allievo di A. Nasmyth, si dedicò nell’ulti- ma parte della sua carriera, dopo il 1830 ca., a rappresenta- re i lochs, le montagne e le valli incassate tra le rocce, e con- tribuì a dare ai pittori scozzesi il gusto dei motivi pittore- schi tipici del loro paese. Horatio MacCulloch prosegui tale tradizione, e negli anni Cinquanta del secolo si sviluppò una fiorente produzione di scene delle Highlands con montagne purpuree, effetti di tempesta o di nebbia, irsuti greggi mon- tani, dipinti assai ricercati dai collezionisti. L’unico movimento pittorico scozzese della fine del sec. xix fu quello dei Glasgow Boys, o scuola di Glasgow, in reazio- ne ai pittori di genere o di storia della metà del secolo, sir William Fettes Douglas, James Archer, Thomas Faed e Ro- bert Herdman. Il gruppo dei Glasgow Boys, fondato nella zona industriale di Glasgow all’inizio degli anni Ottanta, raccolse, in particolare, Robert Macgregor, sir John Lavery, George Henry, sir James Guthrie, Edward Atkinson Hor- nel, Edward Arthur Walton, Joseph Crawhall. Essi ammi- ravano particolarmente Whistler e Bastien-Lepage, respin- gevano il primato del soggetto e il descrittivismo realista e si orientavano verso uno stile di pittura piú libera, caratte- rizzato dal rispetto e dal controllo dell’esecuzione, nonché dall’amore del colore. Le qualità decorative del tardo sec. xix francese costituivano un importante riferimento, e, in particolare, l’opera di artisti come Monticelli. Non esisteva un progamma comune, e ciascun pittore possedeva una sua propria maniera; il gruppo tenne una mostra a Londra che riscosse un certo interesse, nel 1890; seguita da altre mani- festazioni sul continente. Infine i Glasgow Boys vennero as- sorbiti dalla Scottish Academy; Glasgow peraltro divenne, grazie a Charles Rennie Mackintosh e ai suoi soci Margaret e Frances Macdonald, uno dei centri piú originali dell’Art Nouveau nel campo dell’architettura e dell’arte decorativa. Il XX secolo La produzione scozzese è stata una cassa di ri- sonanza delle tendenze europee.I coloristi Sidney John Pe-

Storia dell’arte Einaudi ploe, John Duncan Fergusson, George Leslie Hunter e Fran- cis Campbell Boileau Cadell si formarono a Parigi e venne- ro influenzati dai fauves. Quando William Johnstone e Alan Davie lasciarono la S per recarsi a Londra, una «scuola di Edimburgo» fondata intorno al 1935, raccoglieva William George Gilles, sir William MacTaggart, John Maxwell e, piú tardi, Anne Redpath. Sebbene non si possa definire un ve- ro e proprio movimento, nella produzione della «scuola di Edimburgo» si constata una comune tendenza all’espressi- vità del colore e il gusto degli effetti materici. (jns). scrigno Parte centrale dell’altare a portelle (Flügelaltar, tipologia di «trittico» in parte scolpito, in parte dipinto diffusa specie nelle regioni di cultura o influenza germanica dall’epoca go- tica a quella barocca), a forma di cassa variamente profon- da e variamente profilata nel suo lato superiore (molto spes- so quadrata o parallelepipeda), lignea. La sua funzione è quella di contenere le figure principali, scolpite in legno e spesso policromate, dell’altare, entro un baldacchino ricca- mente lavorato a Masswerk (rameggi ornamentali dorati), a volte su pedane rialzate, o divise da colonnine anch’esse in- tagliate sormontate da edicole singolarmente definite. Il fon- do dello s poteva esser dipinto con figure iconograficamen- te partecipanti alla scena raffigurata dalle sculture (angeli, paesaggi) o colorato con un tono unico (cielo cosparso di stel- le), o dorato con imprimiture a Pressbrokat, o, dal secondo decennio ca. del sec. xvi in specie, dotato di aperture illu- sionisticamente o luministicamente interagenti con il grup- po sculturale sistemato all’interno dello s. Lo s è collegato mediante cardini alle due o quattro portelle mobili dell’al- tare (o battenti, o ali, o ante) solitamente scolpite a rilievo all’interno e dipinte all’esterno, che hanno una doppia fun- zione; pratica, di protezione (dalla luce, dalla polvere, dall’umidità e dall’usura), poiché rimanevano chiuse per la maggior parte del tempo dell’anno, e insieme liturgica, in quanto esse stesse venivano aperte, consentendo la comple- ta visione delle figure contenute nello s e delle scene dispo- ste sulle portelle interne, soltanto in occasioni speciali e ri- gorosamente stabilite (festa del santo o dei santi al quale l’al- tare è dedicato, feste principali del calendario liturgico, ecc.).

Storia dell’arte Einaudi Il retro dello s era quasi sempre dipinto con iconografie piut- tosto fisse, che però variano da regione a regione (Giudizio Universale in Svevia, rameggi a grisaille in Tirolo): sia la qua- lità tecnica che quella propriamente artistica di tale decoro è però spesso sostanzialmente minore rispetto alle altre par- ti dipinte dell’altare stesso e generalmente affidato alla bot- tega. (scas). scriptorium Il termine designa, in senso stretto, il locale all’interno di un monastero o presso una chiesa cattedrale, dove si scrive- vano e decoravano manoscritti, oppure, in termini piú ge- nerali, l’atelier di copisti e miniatori operanti in un deter- minato centro. Nei monasteri benedettini lo s era costituito da una grande sala comune, situata in genere, specie se unita alla bibliote- ca, in prossimità della cucina o dei calefactorium, mentre nei monasteri cistercensi o in quelli certosini non esisteva un lo- cale specifico, destinato alla produzione dei libri, che i mo- naci copiavano singolarmente nelle proprie celle. In altri ca- si, come a Saint-Martin di Tournai, a Saint-Victor di Pari- gi o in alcune abbazie inglesi, questo lavoro veniva svolto nel chiostro, in Inghilterra opportunamente suddiviso in scomparti chiusi, o carrells, per proteggere gli scribi dai ri- gori del clima. Ci si potrebbe chiedere se non si riferisca a una situazione del genere la raffigurazione dello s di Ech- ternach, in un Evangeliario scritto per Enrico III tra 1039 e 1043 (Brema, Universitätsbibhothek, ms b. 21), dove, sot- to le arcate di un chiostro (o in un ambiente interno del mo- nastero, raffigurato in una sorta di «spaccato»?), un mona- co e un laico stanno scrivendo, curvi sopra un piccolo tavo- lino: va naturalmente rilevato come la raffigurazione di uno scriba laico sia del tutto eccezionale a questa data, mentre non lo sarà piú nel sec. xii quando anche le fonti scritte, ol- tre a quelle figurate, documenteranno la presenza di laici nel- lo s (copisti e miniatori). Per il periodo carolingio disponiamo di un prezioso docu- mento (San Gallo, Stiftsbibliothek), il progetto di monaste- ro inviato tra 830 e 833 (secondo le ultime ricerche) dall’aba- te Heito di Reichenau all’abate Gozberto di San Gallo, pro- getto che comprende la pianta completa e dettagliata di tutti gli edifici monastici, e dove lo s, con la biblioteca, al piano

Storia dell’arte Einaudi superiore, è localizzato a nord del coro della chiesa abba- ziale, in posizione simmetrica alle sagrestie (pure su due pia- ni), mentre la scuola si trova in una grande costruzione in- dipendente, sulla sinistra della chiesa. Vale la pena di os- servare come nello s i tavoli siano disposti lungo le due pareti aperte verso l’esterno, ciascuno in prossimità di una fine- stra, e come al centro sia invece collocato un tavolo piú gran- de, destinato evidentemente ai lavori di maggior ingombro. La pianta di San Gallo, sul cui significato si è a lungo di- scusso (se progetto effettivamente attuato, o piano ideale), ha fornito uno schema per la disposizione degli edifici e de- gli ambienti monastici che è stato sostanzialmente seguito per tutto il Medioevo: quindi si può presumere che, almeno nei monasteri benedettini e salvo prova contraria, la posi- zione della scuola e dello s si sia mantenuta uguale a quella indicata nel disegno. Lo s era diretto dall’abate o da un monaco anziano partico- larmente colto, che poteva essere nello stesso tempo l’arma- rius, cioè il bibliotecario. Il capo-s decideva quali opere co- piare e che veste dare al nuovo esemplare (se modesta o di lusso), ne programmava le dimensioni, l’impaginazione e la decorazione, e suddivideva il lavoro tra i diversi artefici (i copisti, gli scribi specializzati nella notazione musicale, i ru- bricatori, i miniatori, il legatore ed eventualmente l’orafo). Alla realizzazione di un manoscritto collaboravano infatti, almeno nei grandi s, diverse persone, che intervenivano in successione (come in una catena di montaggio!), ciascuno con un compito specifico, che doveva quindi essere coordi- nato con precisione con quello degli altri. Eseguite le ope- razioni preliminari, quali la preparazione della pergamena, il taglio e la rigatura dei fogli, la preparazione degli inchio- stri e dei colori, il processo di fabbricazione di un mano- scritto iniziava con lo scriba (librarius o scriptor), che in casi particolari (per esempio se componeva lui stesso il testo, in- vece di copiarlo), poteva utilizzare, per un primo abbozzo del suo lavoro, delle tavolette cerate, sulle quali scriveva con uno stilo. Queste, in uso fin dall’antichità e poi per tutto il Medioevo, servivano per prendere appunti o fissare rapide note, quando non vi era la possibilità di eseguire una copia accurata, e potevano avere forme diverse (a libro, a dittico, a tavoletta singola con impugnatura), come ci documentano

Storia dell’arte Einaudi gli esempi ancora conservati e le raffigurazioni nella minia- tura. A proposito del loro utilizzo è interessante la testimo- nianza di Olderico Vitale (fine sec. xi), che racconta di aver fatto «una completa e accurata abbreviazione su tavolette di cera» di un libro, che non aveva potuto copiare per este- so perché il suo proprietario, il monaco di Winchester, Anthony, «aveva fretta di partire», e perché il freddo dell’in- verno gli impediva di scrivere. Tornando allo scriba, o agli scribi (in caso di urgenza, infatti, o negli s meglio organiz- zati il lavoro di scrittura veniva suddiviso tra varie persone), bisogna precisare che essi non copiavano mai tutto il testo: a parte l’indicazione dei brani musicali, che era riservata a specialisti, veniva sempre lasciato uno spazio libero per i ti- toli, che dovevano essere scritti a lettere capitali, eventual- mente decorate e di diverso colore, per le rubriche, cioè le parti di piú immediato risalto, che andavano vergate in ros- so, per le iniziali (ornate, figurate o istoriate), e le miniatu- re vere e proprie. Talvolta lo scriba lasciava delle indicazio- ni per facilitare il lavoro di chi sarebbe intervenuto dopo di lui, per esempio tracciava con un segno leggero l’iniziale che avrebbe dovuto essere disegnata, o suggeriva con poche pa- role, che sarebbero poi sparite a decorazione completata, il soggetto della scena che il miniatore doveva inserire in quel punto («Fa’ i profeti, uno con cetra, un altro con flauto, il terzo con tamburo e Saul che predica e il suo servitore con l’arpa», si legge in una miniatura danneggiata, nel punto do- ve è caduto il colore). A sua volta anche lo scriba poteva tro- vare sulla pagina delle indicazioni lasciategli dal capo-s, co- me constatiamo per esempio in un Evangeliario inglese del- la metà del sec. xii (Londra, bl, ms I.B. XI), dove, sopra l’iniziale non completata, ad apertura del Vangelo di Luca, si legge la nota «scribatur Lucas», per indicare il titoletto corrente da apporre sul margine superiore del foglio, oppu- re che da quel punto in avanti andava scritto il testo di Lu- ca. Nel caso di manoscritti con decorazione non portata a termine, come questo, ci accorgiamo piú facilmente di que- ste indicazioni, che ci forniscono preziose e insostituibili informazioni sul modo di procedere all’interno dello s, e sul- la non facile opera di coordinamento delle diverse opera- zioni. Dopo lo scriba intervenivano, in successione, il rubricatore (per i titoli e le varie scritte da evidenziare in rosso), i calli-

Storia dell’arte Einaudi grafi (per eventuali filigrane), infine i miniatori (per le ini- ziali a decoro geometrico, vegetale o zoomorfo, le iniziali istoriate e le raffigurazioni piú complesse). È interessante notare come spesso il lavoro fosse così frammentato e spe- cializzato, che anche in una stessa miniatura il disegno e la coloritura potevano essere affidati a due persone diverse: esemplare è il caso di una grande iniziale istoriata, in un co- dice prodotto forse a Winchester a metà del sec. xii e con- tenente le Lettere di san Paolo con glosse (Oxford, Bodleian Library, ms Auct., D.I 13), dove chi ha eseguito il disegno ha tracciato all’interno delle figure delle piccolissime lette- re dell’alfabeto, tuttora visibili, per segnalare (in francese, si direbbe!) a chi doveva completare la decorazione quali co- lori apporre nelle singole parti (r per rouge, v per vert, a per azure).Lo stesso modo di procedere e le stesse lettere si ri- trovano in un’iniziale della Bibbia della Cattedrale di Win- chester (1160-80 ca.), e, circa un secolo prima, nel disegno incompiuto, raffigurante l’Ascensione di Cristo, del ms 99 di Montecassino (1072), dove però le sigle abbreviano termini latini (oc per ocrum, ca per carminium, ro per roxaceus, cb forse per cinnaberin o cinnabarim, ecc.). La coloritura, del re- sto, non era, per ragioni tecniche, eseguita tutta in una vol- ta: per prima cosa si applicava la foglia d’oro nelle parti che eventualmente lo richiedevano, poi si stendevano i colori del fondo, quindi, dopo che questi erano asciugati, i colori del- le vesti e, via via, gli incarnati, le ombre, le lumeggiature, terminando con i contorni e l’indicazione dei tratti fisiono- mici. Ancora una volta sono i codici a decorazione non por- tata a termine, come la citata Bibbia di Winchester, a rive- larci il procedimento, laddove restano miniature o iniziali interrotte a diversi stadi di esecuzione. Alla fine il testo copiato veniva riletto e corretto (da un cor- rettore o dallo stesso capo-s), poi veniva rilegato ed even- tualmente completato con una legatura pregiata, messa in opera da un orafo. Si ha testimonianza precisa di tutte que- ste operazioni e dei diversi artefici che le eseguivano in un interessante documento inglese della fine del sec. xiv, il con- to per l’esecuzione di sei manoscritti, redatto da John Pru- st, canonico della collegiata di St. George di Windsor (1379-85): a questa data (e comunque nel caso specifico) il lavoro non è piú eseguito nello s interno del complesso reli-

Storia dell’arte Einaudi gioso che predispone l’opera, rifornito di tutto ciò che oc- corre e autosufficiente, ma si debbono acquistare i materia- li (la pergamena, gli inchiostri, e persino il calamaio, «uno botello ad imponendum incaustum»), e bisogna ingaggiare, mantenere per alcuni mesi e poi retribuire scribi, specialisti della notazione musicale, decoratori e miniatori; uno dei ma- noscritti viene addirittura inviato a Londra per la legatura in oreficeria, e il conto registra infatti anche i due viaggi a cavallo della persona incaricata di portare il codice dall’orafo e poi andare a ritirarlo! Le varie operazioni per la produzione di un manoscritto all’in- terno di uno s monastico sono invece documentate da un’ec- cezionale testimonianza figurata, un disegno colorato della prima metà del sec. xii, collocato, con funzione di scena di dedica, ad apertura di un codice prodotto nell’abbazia di Mi- chelsberg, presso Bamberga, e contenente l’opera di sant’Am- brogio (Bamberga, Staatsbibliothek, ms Misc. Patr. 5). Tut- ta l’attività culturale e artistica del monastero viene sinteti- camente presentata in una serie di tondi, collocati intorno a un riquadro centrale, dove è raffigurata la fabbricazione di un reliquiario sormontato da una statua di san Michele, pa- trono dell’abbazia ed evidentemente destinatario del codice. Nei singoli tondi ogni operazione è descritta con precisione, eseguita da un monaco che, nell’ordine, fa la punta alla pen- na d’oca (1), scrive con uno stilo su due tavolette cerate (2), rade e leviga, con un coltellino a mezzaluna, una pergamena tesa su un apposito telaio (3), taglia le assi di legno per for- mare i piatti di una legatura (4), fabbrica i fermagli per la le- gatura (6), taglia la pergamena in fogli (7), piega i fascicoli (9), li cuce insieme per poter procedere alla legatura (8), mo- stra il libro finito (10), e lo utilizza per l’insegnamento (5). Queste immagini, non tutte di sicurissima interpretazione, sono state variamente spiegate dalla critica, sia pur sempre restando nell’ambito del processo di fabbricazione del ma- noscritto. Tenendo conto che si tratta di una pagina di de- dica, è interessante il fatto che si documenti, nel monastero, non solo l’attività dello s e della scuola, ma anche quella di un laboratorio di oreficeria: così infatti si direbbe, a giudi- care dalla raffigurazione del riquadro centrale, dove una fi- guretta di monaco è intenta a rifinire con un pennello intin- to di giallo, quindi forse a dorare, il reliquario (probabilmente in rame), sormontato dall’immagine di san Michele.

Storia dell’arte Einaudi Alcune delle operazioni per l’esecuzione di un manoscritto, come la preparazione della pergamena, il taglio dei fogli, la rigatura di un doppio foglio per la scrittura e la miniatura, sono documentate anche nelle iniziali figurate di un mano- scritto piú tardo, la Bibbia di Amburgo (1255: Copenhagen, Rigsbibliotek, GL. Kgl. S.4.4.2°): se il procedimento tec- nico non appare mutato nell’arco di un secolo (la pergame- na è sempre fissata sullo stesso tipo di telaio), cambia inve- ce qualcosa nel processo di produzione del libro, perché il codice non sembra piú eseguito dall’inizio alla fine in uno s religioso o da personale esclusivamente religioso: la perga- mena innanzi tutto è acquistata in una bottega laica, e poi mentre il taglio, la rigatura dei fogli e con ogni probabilità anche la scrittura sono eseguiti dai monaci, la miniatura è affidata invece a un miniatore laico, artista probabilmente itinerante, che si muove da una città o da un monastero all’altro, per prestare la sua opera dietro compenso. Non si tratta di un caso isolato, perché a partire dalla seconda metà del sec. xii si incontrano con frequenza, nei manoscritti, ri- tratti di miniatori laici, e anche i colofoni riportano sempre piú spesso nomi di copisti e miniatori non religiosi, feno- meno che senza dubbio si inquadra nel processo di laicizza- zione della cultura e della produzione libraria, avviatosi con il sorgere delle Università. Tornando alle iniziali della Bibbia di Amburgo, è interes- sante notare come in due di esse compaia la raffigurazione di un ingegnoso seggiolone, con un piano di lavoro collega- to per mezzo di un braccio mobile, che ne permette l’incli- nazione: un mobile del genere è spesso rappresentato, tra xii e xiii secolo, ed è anche descritto dalle fonti, segno eviden- te che era piuttosto diffuso. In effetti, a leggere con atten- zione le fonti, sia figurate che scritte, si possono avere infor- mazioni preziose non solo sui procedimenti e sulle fasi del processo di produzione del manoscritto, ma anche sul cor- redo di strumenti utilizzati, e persino sul mobilio dello s, che cambiano, evidentemente, col passare del tempo, ma possono anche avere lunghe persistenze. Per esempio, in un avorio del sec. x, prodotto a Metz, con Gregorio Magno che scrive sotto dettatura della colomba dello Spirito santo (Vienna, km), sono documentati un sedile e uno scrittoio di forme classicheggianti, ben diversi dal seggiolone con piano

Storia dell’arte Einaudi di lavoro incorporato, raffigurato nel codice duecentesco, mentre nella scena inferiore compare, sulle ginocchia di uno degli scribi, un piccolo scrittoio portatile, che continuerà ad essere usato e raffigurato, con poche varianti, per un lungo arco di tempo: nell’xi e soprattutto xii secolo (per esempio nella pagina con il ritratto di Plinio, del ms 263 della bm di Le Mans, 1150 ca.), e ancora nel 1375, questa volta elenca- to, in due esemplari, nell’inventario dei beni dello scriba e miniatore, nonché canonico di Notre-Dame des Doms di Avignone, Stephanus Generis («item I scriptorium parvurn portatile», «item aliud parvurn scriptorium modici valoris portatile»). Si noti come sia nell’avorio, sia nel manoscritto di Le Mans, sia ancora in molti ritratti di evangelisti di età carolingia, per esempio in quello di Matteo, nei Vangeli di Saint-Ri- quier (800 ca.: Abbeville, bm, ms 4), compaia un corno ca- vo di animale, utilizzato come calamaio, e tenuto ora in ma- no, ora infilato nel piano dello scrittoio portatile o del leg- gio, posto a fianco dell’evangelista. Un piú pratico calamaio a boccia (metallico, si direbbe, e con coperchio), è docu- mentato invece intorno al 1240, in un codice di St. Albans (Oxford, Bodleian Library, ms Ashmole 304 [251681), in una miniatura di mano di Mattew Paris, che raffigura So- crate intento a scrivere, osservato da Platone. Le rappre- sentazioni di personaggi che scrivono (in genere evangelisti o, come nell’ultimo caso, ritratti di autori) non sono, in am- bito occidentale, molto dettagliate per quanto riguarda la descrizione degli strumenti scrittori e dei mobili dello s. Va- riano forse di piú le raffigurazioni del mobilio che non quel- le del corredo scrittorio, per lo piú limitato alla penna, al ra- schietto e al calamaio, oppure allo stilo e alla tavoletta cera- ta, mentre in ambito bizantino, soprattutto tra x e xi secolo, vi è un gusto particolare per la rappresentazione dettagliata e realistica di tutti gli strumenti usati dal copista per il suo lavoro. Ne sono testimonianza le pagine coi ritratti degli evangelisti, presentati infatti come sacri scribi, dinanzi a pe- santi scrivanie, fornite di scansie chiudibili, con tanto di ser- ratura, dove sono riposti i materiali di scorta (fogli di per- gamena, boccette di inchiostro), e sul cui piano è in genere sciorinata tutta una collezione di penne, pennelli, calamai, boccettini per l’inchiostro, coltelli di ogni forma e dimen- sione, pietre pomici, pinze fermafogli, forbici e compassi.

Storia dell’arte Einaudi Strumenti, nella maggior parte dei casi, che venivano usati anche in Occidente, ma che nelle raffigurazioni di quest’area curiosamente non vengono mai documentati. (csm). scrittura visiva Nel termine di sv si comprendono tutte quelle forme di co- municazione artistica nelle quali si realizza la contamina- zione tra mezzi espressivi propri della scrittura e mezzi espressivi tipici della visualità; in altri termini, sono opere di sv sia quelle che, nascendo come opere letterarie basate sulla parola, tendono anche a una ricezione visuale, sia quel- le che, nascendo come opere pittoriche, esigono per una pie- na comprensione anche la lettura degli elementi verbali che esse contengono. Il fenomeno della sv ha avuto, in Italia e nel mondo, il mo- mento di massima diffusione e notorietà nella seconda metà del Novecento, nei decenni compresi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta, all’interno dei movimenti delle avanguar- die artistiche e letterarie, le cui teorie estetiche muovono dal- la constatazione della crisi espressiva a livello sociale dei lin- guaggi tradizionali e dalla situazione di empasse di fronte alla quale l’artista contemporaneo ha due sole possibilità: il sov- vertimento delle regole comunicative consuete o il silenzio. Il ricorso alla contaminazione tra linguaggi verbali e linguaggi visivi diviene così lo strumento privilegiato attraverso il qua- le le avanguardie sperimentano nuovi modelli comunicativi. Si tratta comunque di un fenomeno la cui ampiezza crono- logica è di grande estensione e le cui radici risiedono nella na- tura stessa della scrittura, intesa come visualizzazione e fis- sazione grafica della facoltà di linguaggio, che fin dall’anti- chità ha stimolato la creatività estetica di coloro che la praticavano. È però in seno alla letteratura poetica che si svi- luppano gli esperienti piú organici di sv, proprio a causa del- la organizzazione spaziale tipica del messaggio poetico scrit- to che si fa carico, mediante la disposizione grafica, di ren- dere le cadenze ritmiche e metriche dell’oralità. Per la contemporanea sv, l’antecedente riconosciuto dalla critica e il punto di riferimento deliberatamente assunto dagli autori è costituito dalla composizione poetica di Stéphane Mallarmé dal titolo Un coup de dès (1897) che, scompaginando la linea tipografica ed esaltando il corpo e l’isolamento delle parole e

Storia dell’arte Einaudi dei versi nello spazio della pagina, si pone come sintesi estre- ma della dialettica simbolista tra parola e silenzio e ad un tem- po come superamento delle modalità poetiche e comunicati- ve tradizionali. Se è vero che le suggestioni del tardo simbo- lismo letterario francese costituiscono la via «alta» entro la quale si inseriscono le sperimentazioni delle avanguardie, non bisogna dimenticare però che proprio negli anni compresi tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si sviluppa in Europa una nuova cultura visiva legata alla società indu- striale, con il diffondersi del manifesto pubblicitario e della piccola pubblicità su quotidiani e periodici. La pratica verbale-visiva del manifesto e della tipografia pub- blicitaria ottiene inoltre un importante avallo in sede pitto- rica dai quadri e dai collages del cubismo e del futurismo, nei quali l’introduzione di materiali grafici come fogli di gior- nale o carta da musica fa scattare un corto circuito tra l’ope- ra e la realtà esterna. E proprio al futurismo va il merito di avere impresso con forza l’impulso alle sperimentazioni di sv tra le avanguardie artistiche del Novecento: tra il 1912 e il 1914, Filippo Tommaso Marinetti teorizza progressiva- mente nei suoi Manifesti letterari lo svincolamento della pa- gina poetica da qualsiasi norma sia di carattere linguistico che di carattere tipografico, indicando nelle tavole paroli- bere il nuovo modello di poesia moderna. Nel liberarsi dai consueti legami logici e spaziali che governano la scrittura tradizionale, nella tavola parolibera le parole possono flut- tuare liberamente nello spazio della pagina, oppure obbedi- re a una organizzazione geometrica e/o astratta, per genera- re figurazioni diverse: resta ferma la «leggibilità» della ta- vola, che mediante gli accostamenti inconsueti, talora casuali, tra singole parole, è comunque portatrice di un si- gnificato verbale. La prima celebre uscita in pubblico delle tavole parolibere futuriste si ha con Zang Tumb Tumb (1914), di Marinetti, dove le azioni belliche culminanti nel bombardamento di Adrianopoli sono descritte mediante la prosa giustappositiva e fortemente ellittica delle parole in li- bertà, intercalata da esempi di tavole parolibere. Tutti i principali esponenti del movimento futurista si sono cimentati nell’arte di comporre tavole parolibere e dunque tale produzione è copiosa anche perché si è protratta nel cor- so di decenni. Le opere di sv si diffondono già nella prima metà del Novecento, oltre che in Italia, in tutta Europa e

Storia dell’arte Einaudi nel mondo: nell’Unione Sovietica grazie al futurismo russo e a Majakovskij, in Francia grazie ad Apollinaire; in Sviz- zera e in Germania a seguito del movimento Dada, che si propaga successivamente negli Stati Uniti. A livello internazionale e intercontinentale si sviluppa, ne- gli anni dell’immediato dopoguerra, una tendenza alla sv che, spogliatasi degli effetti impressionistici delle precedenti avanguardie, adotta un uso neutro della tipografia per pun- tare a una nuova sintassi topologica e spaziale. Protagoni- sta di questa nuova tendenza, nota con il nome di concre- tismo, è la parola con le sue infinite pontenzialità di signi- ficato, come si afferma nel Piano pilota per la poesia concreta (1953) del gruppo brasiliano dei Noigandres, fondato da Augusto e Haroldo de Campos e Decio Pignatari. Sulla li- nea di una ricerca fondata sulla parola e sui suoi rapporti semantico-spaziali si muovono anche le «costellazioni» del- lo svizzero Gomringer e il tedesco Klaus Bremer, fondato- re della rivista «Material». Piú attente all’aspetto materico e visuale della scrittura, fino a renderla semanticamente in- decifrabile, sono sperimentazioni come quella della «poe- sia di superficie» di Franz Mon, dei «decollages» di Adria- no Spatola e delle «cancellature» di Emilio Isgrò. Nel 1959, la rivista «Ana etcetera» con, tra gli altri, Martino e Anna Oberto, Vincenzo Accame, Ugo Carrega, arricchisce la scrittura di elementi iconici e apre verso l’esperienza della poesia visiva. Rivolta ad esplorare i rapporti che si stabiliscono all’inter- no di un unico spazio tra parola e immagine, la poesia visi- va nasce nei primi anni Sessanta a opera di un gruppo di ar- tisti d’avanguardia, il Gruppo 70, che raccoglie poeti, pit- tori, musicisti e che si pone il problema del rapporto tra i nuovi linguaggi tecnologici (mezzi di comunicazione di mas- sa, pubblicità) e i linguaggi estetici. Ne scaturisce la propo- sta di un nuovo tipo di poesia, la poesia visiva, appunto, che esce dal libro per essere fruita come un quadro e raggiunge il paradosso facendo interagire tra loro immagini usurate e stereotipi verbali; si ottiene così l’effetto di una forte cari- ca polemica e demistificante nei confronti della società dei consumi. Le prime opere di poesia visiva sono dovute agli artisti del Gruppo 70 e cioè a Lamberto Pignotti, Eugenio Miccini, Lucia Marcucci, Luciano Ori, ma anche questa

Storia dell’arte Einaudi esperienza, come le altre qui accennate, ha una diffusione internazionale in artisti come Jean François Bory, Ji≈i Valo- ch, Paul de Vree e un seguito cronologico ininterrotto che arriva fino a oggi. (sst). Scroppo, Filippo (Riesi (Caltanisetta) 1910 - Torre Pellice 1993). Trasferito- si in Piemonte nel 1934, si laurea nel 1945 con A. M. Bri- zio. Alla sua attività di pittore affianca quella di critico mi- litante, scrivendo sulle pagine de «l’Unità», l’«Agorà» e «La fiera letteraria»; assistente di Casorati dal 1948, insegna all’Accademia Albertina di Torino fino al 1980. Dopo i pri- mi quadri neocubisti, espressivamente caricati, S vive in pri- ma persona l’esperienza dell’astrattismo geometrico fon- dando insieme a Biglione, Galvano e Parisot il MAC tori- nese, a cui aderisce dal 1948 al 1954 (Costruzione II verticale: 1950), restando in seguito sempre fedele alla poetica del non figurativo (la serie degli Ideogrammi, anni ’50-60; Osserva- torio, 1975; Controluce in tondo, 1982). La sua attività di animatore culturale trova poi espressione nell’istituzione del- le Mostre d’Arte Contemporanea di Torre Pellice (dal 1949) e successivamente nella fondazione della Galleria civica del- la stessa città. Invitato piú volte alla Biennale di Venezia (edizioni del 1950, 1952 e 1962), sue personali si sono te- nute a Neuchâtel (1962), a Torino (1979; 1985), a Wa- shington (1980). Una parziale raccolta dei suoi saggi critici del periodo 1946-90 è stata pubblicata nel catalogo della XL, Mostra d’Arte Contemporanea di Torre Pellice (1990). (mal). Scrots (Stretes), William (Guillim) (attivo a Bruxelles nel 1537 - Inghilterra 1553). Dopo esse- re stato pittore ufficiale di Maria d’Ungheria, verso il 1545 entrò al servizio di Enrico VIII. Subì l’influsso di Holbein, ma ancor piú quello di Seisenegger. I suoi ritratti tradisco- no comunque un manierismo scipito e piuttosto convenzio- nale (Eduardo VI, 1550 ca.: Londra, Hampton Court). (rs). √™ukin, Sergej I. (1854-1936). Grande negoziante moscovita, fu lui, col suo amico Morozov, a introdurre in Russia la pittura francese moderna. S’interessò sulle prime, vedendo nel 1897 i Mo-

Storia dell’arte Einaudi net della collezione Durand-Ruel, agli impressionisti e ai lo- ro successori immediati, acquistando nelle gallerie parigine tredici Monet, cinque Degas, otto Cézanne, quattordici Gauguin, quattro van Gogh. Si appassionò poi ai fauves e soprattutto a Matisse, che fu suo ospite nel 1911; ne acqui- stò trentasette tele, che contano tra le opere fondamentali dell’artista, in particolare la Danza e la Musica (1910) da lui commissionate nel 1909 (oggi San Pietroburgo, Ermitage). Riconobbe in Picasso il capofila della nuova pittura; qua- ranta tele che ne documentano l’evoluzione dagli esordi al periodo cubista, fecero della collezione √ una delle piú ric- che delle opere del maestro. Inoltre ben rappresentati era- no: Marquet, Derain, Rousseau. La collezione √ e la colle- zione Morozov formarono nel 1918 il Museo d’arte occi- dentale di Mosca passando, nel 1948, al Museo Puskin di Mosca e all’Ermitage di San Pietroburgo. (gb). scuola Il termine s viene usato dagli storici dell’arte ogniqualvolta un’unità o continuità di stile non possa essere riferita alla stessa mano o mente organizzatrice, e acquista significati di- versi a seconda del complemento di specificazione o dell’ag- gettivo che lo accompagna. Se in un dipinto o in un pittore si rileva l’impronta di un artista noto, ma non al punto da poter pensare alla sua bottega, si parla di «s di Raffaello» o di «s del Maestro di Flémalle». Se invece vi si nota solo il carattere di una generica tradizione artistica, ci si attiene a formulazioni piú ampie, che possono riguardare una città, una regione o un’entità geo-culturale ancora piú vasta: la «s veneziana» e la «s del Danubio», la «s umbra» e la «s dei Paesi Bassi» sono note a tutti gli studiosi del rinascimento. Per epoche piú remote, nelle quali il luogo di produzione può sfuggire non meno della personalità dell’artista, sono state coniate di recente dizioni piú complesse, come quando nel- la miniatura carolingia si distingue, fra le altre, una «s di cor- te di Carlomagno». Mentre in quest’ultimo caso la fama di un istituto estraneo all’arte come la «schola palatina» può aver costituito un suggerimento diretto, in tutte le altre oc- correnze l’uso del termine s rientra in una illustre e plurise- colare tradizione specificamente figurativa. Ripercorrere questa tradizione significa affrontare in uno degli aspetti piú

Storia dell’arte Einaudi interessanti alcune delle tappe principali della riflessione sto- rica sulle arti. Il primo scrittore di cose d’arte ad usare il termine s è pro- babilmente il medico padovano Michele Savonarola nel 1446-47. Elencando Giotto, Jacopo Avanzi, Altichiero e Ste- fano da Ferrara tra i piú celebri artisti già operosi a Padova, egli afferma che, grazie a costoro, la città è divenuta piú fa- mosa come «s di pittori». Se si pensa che proprio a Padova il Cennini aveva rivendicato la propria discendenza da Giot- to attraverso Taddeo e Agnolo Gaddi, si capisce quanto un reale o ideale rapporto di discepolato abbia determinato la scelta lessicale del Savonarola. Tuttavia, mentre il termine s ricorda piuttosto le arti o corporazioni che non le botteghe, il contesto in cui esso compare presso lo scrittore padovano implica anche un piú illustre riferimento. Giotto e seguaci sono ancora considerati dal Savonarola «artefici meccanici», ma «il loro sapere non è lontano dalla filosofia». È probabi- le che su questa convinzione si sia innestato il ricordo delle «s di filosofi» di cui parla Cicerone nel De oratore.Piú avan- ti nel testo, infatti, il Savonarola stesso avvicina la fama del- la s pittorica di Padova a quella della locale università. Per entrambe le istituzioni egli usa la parola «studio», ampia- mente diffusa ai suoi tempi come sinonimo di «università» ma, in campo figurativo, destinata ad avere fortuna solo piú tardi, in sostituzione del piú prosaico «bottega». Tra gli artisti attirati a Padova dalla «gloriosa fama dello stu- dio di pittura», Michele Savonarola menziona esplicitamente «un giovane proveniente da Napoli». La cosa è curiosa, giac- ché il secondo autore presso cui è stato segnalato l’uso del termine s in un contesto artistico è l’umanista napoletano Pietro Summonte. Costui, rispondendo nel 1524 al patrizio veneziano Marcantonio Michiel che gli aveva chiesto rag- guagli sulla storia delle arti a Napoli, nomina tra gli altri il pittore Paolo degli Agostini, degno rappresentante della «in- stituzione e docta scola veneta». Non si può negare che in questa formulazione incida la memoria erudita del Sum- monte, vale a dire il titolo stesso di quella Institutio oratoria in cui Quintiliano fa pure un accenno alle antiche s di reto- rica. Piú importante è però sottolineare che Paolo degli Ago- stini compare in un elenco di pittori quanto mai eterogeneo per provenienza geografica. La «scola venera» non è che una delle numerose tradizioni pittoriche italiane e non, che l’os-

Storia dell’arte Einaudi servatorio privilegiato della Napoli cinquecentesca permet- te di registrare tra il fiorentino Giotto e il lombardo-roma- no Polidoro da Caravaggio. In effetti, se nel 1558-66 il Cellini può parlare di «gloriosa s fiorentina» per l’insieme degli scultori cui sente di apparte- nere, l’estraneità alle maggiori tradizioni artistiche sembra costituire un fattore di vantaggio nella loro stessa individua- zione come s. Nel 1591 il pittore genovese Giovan Battista Paggi scrive in una lettera: «Sono in Italia tre famose scuole di pittura, in Roma, in Firenze e in Venezia. Le due prime, per la qualità delle antiche e moderne sculture, ed anche pit- ture nobilissime, sono ragguardevoli, e la terza per la va- ghezza del colorito, ch’è stato sempre proprio di quella città...» Il tentativo di definire lo specifico di ogni singola s si accompagna qui al silenzio totale sugli specifici rappresen- tanti. Tra il 1607 e il 1615, quando, sulla falsariga dei «ge- neri» della pittura greca ricordati da Plinio, l’erudito eccle- siastico Giovan Battista Agucchi individua i caratteri di quat- tro e non tre s pittoriche italiane, le concrete personalità artistiche tornano invece a giocare un ruolo di primo piano: la «s romana» fa capo a Raffaello e Michelangelo, quella ve- neziana a Tiziano, quella «lombarda» al Correggio e infine quella toscana a Leonardo, Andrea del Sarto, Domenico Bec- cafumi e il Peruzzi. L’utilità di un simile riferimento ai gran- di protagonisti dello stile cinquecentesco è testimoniata dall’interessante inventario della collezione Giustiniani, do- ve già nel 1638 compaiono etichette oggi assai familiari co- me «s di Tiziano», «s del Correggio» e «s di Michelangelo». Nella sua partizione stilistica l’Agucchi alterna senza ap- prezzabili differenze la parola s con espressioni ampiamen- te diffuse nel Cinquecento quali «maniera di dipingere», «sorte della pittura» e «spezie di pittura». Analogamente, scrivendo nel 1617-25 delle principali tendenze della pittu- ra romana contemporanea, l’archiatra pontificio Giulio Mancini le definisce «ordini, classe o ver vogliamo dire scho- le». Dopo queste incertezze iniziali il termine s s’impone nella letteratura artistica del Seicento per connotare ogni tradizione pittorica definita, alla testa della quale possano essere riconosciuti uno o piú maestri, specialmente se prati- cata in un centro preciso. Bologna ad esempio, culla della fortunatissima «riforma» dei Carracci, viene presto ricono-

Storia dell’arte Einaudi sciuta sede di una «s bolognese» che proprio per la sua pro- grammatica ripresa degli ideali del classicismo cinquecente- sco merita di essere stabilmente affiancata alle sfiorenti in quella età felice. Tra queste invece la s toscana, che non ave- va peraltro mai goduto dell’apprezzamento delle altre, vie- ne sempre piú citata con riserva, fusa nella romana o addi- rittura dimenticata del tutto. Erede delle teorie italiane, l’an- tiquario francese André Félibien sistema tra il 1666 e il 1688 il panorama storico che il Seicento aveva della pittura mo- derna considerando nell’ordine la s romana, la veneziana, quella di Parma, la bolognese, la tedesca e la fiamminga. Il riconoscimento di una «maniera» propria della pittura fiamminga e poi di quella tedesca compare già nelle fonti del Quattro e del Cinquecento, ma è di nuovo l’Agucchi il pri- mo a riconoscere che «fuori d’Italia Alberto Duro [cioè il Dürer] formò la sua scuola... e la Germania, e la Fiandra, e la Francia hanno havuto molti altri artefici ch’hanno havu- to fama e nominanza». Il Settecento aggiornerà il catalogo delle s pittoriche euro- pee, aggiungendo in primo luogo l’Inghilterra e quindi la Spa- gna. In ognuna di queste nazioni si distinguerà poi tra regio- ne e regione, tra centro e centro. Il modello sarà dunque an- cora una volta l’Italia, dove proprio alla fine del Settecento, una prima volta nel 1792 e poi ancora nel 1795-96, il con- cetto di s trova la sua piú matura applicazione storiografica nella Storia pittorica della Italia dell’abate Luigi Lanzi. All’interno di una piú generale divisione dell’Italia in «infe- riore» o centro-meridionale e «superiore» o settentrionale, il Lanzi distingue ben tredici s: la fiorentina, la senese, la ro- mana, la napoletana, la veneziana, la mantovana, la mode- nese, quella di Parma, la cremonese, la milanese, la bologne- se, la ferrarese e la genovese cui vanno aggiunte le varie ma- nifestazioni pittoriche del Piemonte. Mentre un simile allargamento dei ranghi è impensabile senza la fitta pubbli- cistica sui «primitivi» che dal tardo Cinquecento in avanti si fa sentire contro l’ottica fiorentinocentrica del Vasari, la scan- sione per «epoche» di ogni singola s è un debito che tanto il Lanzi quanto gli antivasariani hanno con il Vasari. Ciò che nella Storia è veramente nuovo in rapporto alla letteratura ar- tistica italiana precedente è la rinuncia definitiva allo sche- ma biografico: essa è storia delle singole s pittoriche, non dei pittori. L’influsso dell’archeologo tedesco Johann Joachim

Storia dell’arte Einaudi Winckelmann risulta a questo proposito fondamentale e vie- ne esplicitamente riconosciuto dallo stesso Lanzi. Dalla fine del Settecento il concetto di s è passato all’Otto e al Novecento senza sostanziali innovazioni rispetto alla consumatissima flessibilità spazio-temporale conferitagli nel- la Storia del Lanzi. La sua particolare adattabilità ne ha sug- gerito semmai l’adozione per tempi e luoghi solo di recente acquisiti agli interessi dello studio o del gusto: oggi è comu- ne parlare di s non solo per il romanico europeo, ma anche per l’archeologia orientale o per le civiltà artistiche del Pa- cifico. Parallelamente si è andato diffondendo l’uso di defi- nire s anche alcuni movimenti o gruppi di artisti contem- poranei, come nell’Ottocento la «s di Posillipo» e nel No- vecento la «s di Parigi». Mentre simili etichette vengono spesso coniate dai critici con un’intenzione ironica o seriosa, gli storici tendono ad impiegare il concetto di s in un senso piú oggettivamente de- scrittivo. Non di rado tuttavia esso cessa presso di loro di indicare una relazione tra opere o artisti, per assumere i con- notati di una supposta realtà espressiva sovrappersonale. In tal modo un libero rapporto di discepolato tende a trasfor- marsi in un destino ineluttabile. Macroscopico quando con- cerne lo «spirito del popolo» di certa storiografia romanti- ca, l’equivoco non è meno grave metodologicamente se ap- plicato a un piú circoscritto genius loci quale quello che qua e là traspare anche in trattazioni recenti. (mc). scuola grigia Cenacolo del paesismo verista in Liguria negli anni Sessan- ta dell’Ottocento, la cosiddetta sg rappresenta un momen- to di grande importanza nel rinnovamento della pittura ita- liana, parallelamente alle coeve scuola toscana, piemontese e napoletana. Accomunati dalla volontà di superare nella re- sa del paesaggio l’accademismo e il romanticismo, si raccol- gono intorno a E. Rayper il ligure A. Issel, il portoghese A. D’Andrade e lo spagnolo S. De Avendaño. Nel 1863 Ray- per e D’Andrade si recano insieme a Carcare: è l’inizio del- le sedute en plein air condivise ogni estate a Carcare (incon- tri ricordati da A. G. Barrili nel romanzo Amori alla mac- chia); d’inverno essi si ritrovano a Genova, nel Palazzetto Doria. Segue da vicino il gruppo il piú anziano Tammar

Storia dell’arte Einaudi Luxoro il quale, orientandosi verso il verismo dopo un’ini- ziale approccio romantico al paesaggio, comunica ai «grigi» l’ammirazione per Corot e Daubigny, per Fontanesi e per i toscani, presenti a Genova sin dalla prima esposizione del- la Promotrice (1850): tra i primi ad approdare in Liguria è De Tivoli, nel 1856 Signorini. Alla Promotrice del 1861, ac- canto a Rayper, espongono Abbati, Signorini, De Tivoli, Le- ga. È su queste basi che si costituisce la sg, in rapporti co- stanti con Firenze, la cui denominazione si basa su quel ton gris, del quale si parlava a Parigi e del quale, a detta del cri- tico Martelli (1895), Altamura riferiva come si conseguisse attraverso l’uso di uno «specchio nero, che decolorando il variopinto aspetto della natura permette di afferrare piú prontamente la totalità del chiaroscuro, la macchia». Se an- che per i «grigi» lo studio ginevrino di Calame è un passag- gio obbligato, l’influsso di quest’ultimo è ben presto supera- to per un’adozione di un linguaggio piú diretto, attento al «vero» naturale, mediato dalla conoscenza del linguaggio fon- tanesiano, dal rapporto coi macchiaioli, dalle opere della scuo- la di Barbizon, di Corot e di Daubigny e viste all’Esposizio- ne Universale di Parigi del 1855 e ancora dai viaggi nel Del- finato, dove sono attivi pittori lionesi e ginevrini. Essi scelgono una tavolozza chiara, luminosa e impiegata con at- tenzione ai rapporti tonali e alla resa delle variazioni atmo- sferiche. De Avendaño, stabilitosi definitivamente in Ligu- ria nel 1866, ricerca finezze luministiche in paesaggi dai co- lori quasi smaltati (En la Ria de Vigo, 1872: Torino, gam); così Rayper, dopo un viaggio in Toscana, abbandona ogni residuo sentimentale per approdare, come D’Andrade, a una visione del tutto improntata al vero, con ricerche luministe particolarmente suggestive. Verso la fine degli anni Sessan- ta le esperienze dei «grigi» si vengono a saldare con quelle dei rinnovatori piemontesi confluiti nella «scuola di Riva- ra»: insieme si trovano a dipingere a Rivara ed espongono regolarmente alle Promotrici di Torino e di Genova. Nel 1870 i «grigi» ottengono all’Esposizione di Parma un note- vole successo (grazie anche al giudizio favorevole di Signo- rini): nel 1874 Luxoro, sostenuto da D’Andrade, insegnan- ti entrambi all’Accademia Ligustica, ottiene che sia istitui- ta, presso la stessa Accademia, una Scuola del paesaggio, di cui assume la cattedra. È ormai definitivamente vinto il fron- te tradizionalista e accademico, rappresentato a Genova da

Storia dell’arte Einaudi personaggi come Isola, «fautore della grande pittura Stori- ca e Sacra», come egli stesso si definisce, o lo storico Fede- rico Alizeri. La morte prematura di Rayper (1873) e lo spo- starsi degli interessi di D’Andrade all’archeologia medieva- le, alla tutela dei monumenti e alla didattica delle arti applicate finalizzata alla rinascita dell’industria artistica po- ne fine all’esperienza della sg, ma l’esigenza del vero era or- mai diffusa anche in altri campi, come la scultura, che per- segue il cosiddetto «realismo borghese», e la stessa pittura di storia, che accoglie al suo interno a partire dagli anni Ses- santa istanze veristiche. (eca). scuole romane È tra la metà degli anni ’20 e i primi anni ’30, intorno alla casa di via Cavour della russa A. Raphaël e di M. Mafai che si forma a Roma quel nucleo di pittori, comprendente oltre ai due citati anche Scipione e M. Mazzacurati, che a lungo sarà identificato come la vera sr. Una fisionomia unitaria al gruppo dei giovani pittori viene data dal critico Roberto Longhi nella primavera del 1929: «Rimangono le misture esplosive. Proprio sul confine di quella zona oscura e scon- volta dove un impressionismo decrepito si muta in allucina- zione espressionista, in cabala e magia, stanno difatti i pae- sini sommossi e di virulenza bacillare del Mafai, la cui so- vreccitata temperatura – quale si misurava anche meglio dalla mostra recente al Convegno di Roma – potrebbe in- scriversi al nome di un Raul Dufy nostro locale. Così come la pittura di Antoinette Raphaël, non tanto dal paesaggio qui contiguo a quelli del Mafai, quanto da altre cose che mi sono venute sott’occhio nel ragguagliarmi su questa, che, dal recapito, chiamerei la Scuola di via Cavour, potrebbe rive- lare i vagiti o la rapida crescenza di una sorellina di latte del- lo Chagall; a conservar le debite distanze, s’intende» (R. Longhi, La mostra romana degli artisti sindacati, in «L’Italia Letteraria», Roma, 7 aprile). La straordinaria intensità del- la pittura di Mafai, della Raphaël e, di lì a un anno, di Sci- pione, nutrita dai miti di Tiziano, Goya, El Greco, in con- sonanza con gli espressionismi europei e in evidente rivolta contro le poetiche novecentiste, è accolta con entusiasmo, oltre che da Longhi, da C. E. Oppo e, soprattutto dai poe- ti Sinisgalli, de Libero, Ungaretti. Esemplari sono i reciproci

Storia dell’arte Einaudi rimandi, in una Roma fosca, rossastra, barocca, tra la pittu- ra di Scipione e la lirica ungarettiana del momento. Appro- do culminante della nuova tendenza è la mostra collettiva alla Galleria di Roma di P. M. Bardi nel novembre del 1930, mostra sostenuta, tra gli altri, da Oppo, Pavolini, Falqui, Cardarelli. Nel giugno 1931 esce il primo numero della ri- vista d’arte e letteratura «Fronte», voce della scuola di via Cavour, alla quale collaborano soprattutto letterati e critici come Ungaretti, Savinio, Mezio, Piovene, Cardarelli, Mo- ravia, Valery: e dove compaiono riproduzioni di opere di Scipione, Mafai, Mazzacurati, Martini, Carrà, Morandi, Bardi, De Fiori. Tuttavia la rivista esce per soli due nume- ri, così come la scuola di via Cavour, a partire dal ’31, ten- de ad esaurirsi, con la partenza della Raphaël e di Mafai per Parigi, e con l’ingresso in sanatorio di Scipione, che morirà nel ’33. Intanto l’evoluzione della pittura di Mafai tende a inserirsi nelle ricerche di quel gruppo di pittori come R. Mel- li, E. Cavalli, G. Capogrossi, C. Cagli che, incontratisi a Ro- ma tra il ’31 e il ’32, definiscono i modi di una figuratività sintetica e trasognata, concentrata sui problemi dell’armo- nia tonale e della luce. Anche qui azione critica determinante è svolta da Longhi, il primo a intuire il carattere di conti- nuità tra la scuola di via Cavour e i vari tonalismi, e che già nel 1927, con lo studio su Piero della Francesca, aveva get- tato le basi per la riuscita storica di una pittura legata alla chiarezza della forma e al tono. Il 31 Ottobre 1931 viene re- datto dal gruppo il Manifesto del Primordialismo plastico, fir- mato da Capogrossi, Cavalli e Melli. È nel 1933, in occa- sione di una mostra di Cagli, Capogrossi, Cavalli e Sclavi al- la Galleria Jacques Bonjean di Parigi, che il critico Waldemar George conia la definizione di Ecole de , richiaman- dosi esplicitamente all’Ecole de Paris. Del 1935 sono i mo- menti importanti che rendono il carattere variegato, ma so- stanzialmente unitario di questa stagione romana: l’apertu- ra della Il Quadriennale, curata, come la I del 1931, da Oppo, dove si ritrovano tutti i pittori del periodo, e l’inau- gurazione della Galleria La Cometa della contessa L. Pecci Blunt, che ha per ispiratori de Libero e Cagli, e attorno al- la quale si formano pittori come Janni, Ziveri, Fazzini, Fau- sto Pirandello, Katy Castellucci, Tamburi, Afro e Mirko Ba- saldella e altri. Se un saggio di G. Castelfranco e D. Durbe, Sguardo alla giovane scuola romana dal 1930 al 1945 (1959),

Storia dell’arte Einaudi vedeva l’arte della capitale rinascere solo negli anni ’30 da un contesto precedente privo di valore storico e puramente accademico, da qualche anno, per merito di critici come M. Fagiolo dell’Arco, A. Trombadori, G. Appella, si è avviata non senza polemiche, attraverso saggi e mostre, un’imposta- zione storiografica di segno diverso, tendente a estendere i confini delle sr da un lato fino al clima del rappel-à-l’ordre de- gli anni ’20 creatosi attorno a riviste e gruppi come «Valori Plastici» o «La Ronda» e a personalità come quelle di Bon- tempelli, Carrà, Soffici, De Chirico: clima in cui si formano pittori come Donghi, Francalancia, Trombadori, Socrate, Mario ed Edita Broglio, Di Cocco, Guidi, Ceracchini, Scil- tian, tutti frequentatori della famosa terza saletta del caffè Aragno; dall’altro lato fino agli anni ’40, al realismo espres- sionista di Guttuso, Vespignani, Scialoja, e agli esiti astratti raggiunti dalla pittura di Mafai, Capogrossi, Afro. (mdc). Sebastiano del Piombo (Sebastiano Luciani, detto) (Venezia 1485 ca. - Roma 1547). Della stessa generazione di Tiziano, assai vicino per età a Raffaello e di dieci anni piú giovane di Giorgione e di Michelangelo, nacque probabil- mente nella stessa Venezia, a una data (1485) dedotta dall’as- serzione di Vasari, che sembra verosimile, secondo la quale morì a sessantadue anni. Nulla si sa di certo sugli esordi e s’ignora in quali circostan- ze abbia abbracciato il mestiere di pittore. Vasari dice che fu dapprima allievo di Giovanni Bellini, poi di Giorgione; ma poiché riferisce le stesse cose del giovane Tiziano, le sue notizie vanno prese con cautela. Neppure le fonti veneziane antiche ci dànno maggiori infor- mazioni sui primi passi dell’artista a Venezia e poiché sem- bra che non abbia firmato alcuna delle sue opere di questo periodo, si deve alla ricerca moderna di averne ricostruito in modo convincente la fase giovanile. Gli studiosi sono con- cordi nel ritenere che due dipinti di notevole impegno pre- cedano la partenza per Roma nel 1511: le ante d’organo in San Bartolomeo a Rialto (Santi Bartolomeo, Luigi, Sinibaldo, Sebastiano), che appartengono sicuramente agli inizi del pe- riodo in cui SdP si afferma come artista autonomo, e il qua- dro per l’altar maggiore di San Giovanni Crisostomo (San Giovanni Crisostomo con sei santi), dipinto verso la fine de-

Storia dell’arte Einaudi gli anni veneziani. Sulla convinzione che a queste due ope- re se ne debba aggiungere una terza, il Giudizio di Salomo- ne (Kingston Lacy, coll. Bankes), converge ormai la maggior parte della critica. Tutte e tre queste opere sono notevoli per qualità e inven- zione. Le facce interne delle ante di san Bartolomeo, rap- presentanti i Santi Luigi e Sinibaldo, rivelano l’ammirazione del giovane SdP, verso il 1506, per lo stile di Giorgione; se gli accenti lirici evocano il Maestro di Castelfranco, il vir- tuosismo esecutivo è invece caratteristico di SdP. Nelle fac- ce esterne delle ante troviamo una concezione molto piú eroica: è possibile che, stimolato dalla presenza di Fra Bar- tolomeo a Venezia nel 1508, SdP esprimesse già in queste parti le qualità di azione drammatica e di potente plastici- smo che ne impronteranno poi l’opera romana. Il Giudizio di Salomone (incompiuto), il piú ambizioso fra i suoi dipin- ti veneziani, associa alla asimmetria della composizione un uso eccezionalmente complesso, o meglio simbolico, del co- lore. La Pala di san Giovanni Crisostomo, la piú matura fra le opere di questo periodo, rivela la ricerca di forme sem- plificate e monumentali, e inoltre un gusto coloristico me- no vivo che in Giorgione e piú freddo che in Tiziano gio- vane. Caratteri analoghi si trovano nella Salomè (Londra, ng) del 1510. Nel 1511 il celebre banchiere Agostino Chigi offrì a SdP di entrare al suo servizio; il trasferimento a Roma dell’artista fu uno degli eventi decisivi del suo percorso. Fra i suoi pri- mi incarichi fu l’avvio della decorazione murale di una del- le stanze della Farnesina, da poco costruita da Agostino. Il contributo di SdP alla decorazione consiste essenzialmente in una serie di lunette illustranti episodi delle Metamorfosi ovidiane. Il soggetto gli era probabilmente estraneo, visto che, contrariamente a Tiziano, SdP non era attratto dalla mitologia e, d’altra parte, la sua scarsa inclinazione per l’af- fresco lo indusse a sperimentare una tecnica di pittura mu- rale a olio. L’esame delle lunette rivela le difficoltà incon- trate dal pittore e che sono all’origine di una certa disomo- geneità sia tecnica che stilistica. Da parte sua, il sorprendente Polifemo è al tempo stesso veneziano, per la raffinata cro- mia, e romano nella grandiosità della figura che tradisce le prime emozioni di SdP davanti agli ignudi della volta sisti- na. Verso lo stesso periodo dipinse uno dei suoi ritratti piú

Storia dell’arte Einaudi notevoli, Ferry Carondelet raffigurato mentre detta al suo se- gretario (Madrid, coll. Thyssen-Bornemisza, già Lugano, Ca- stagnola), uno dei primi di una lunga serie di ritratti roma- ni che gli valsero un posto accanto a Raffaello, allora il mas- simo pittore di ritratti nell’Italia centrale. Questa serie, eseguita tra il 1511 e il 1520, comprende inoltre il Ritratto di giovane (Museo di Budapest), il Ritratto di giovane con ar- chetto (Parigi, coll. Rothschild), il Ritratto di giovane donna di Berlino (sm, gg) e un ritratto di gruppo, datato 1516, rap- presentante il Cardinale Bandinello Sauli con tre «famigliari» (Washington, ng). Giunto a Roma quando Michelangelo stava compiendo la pri- ma parte della volta della Sistina, poco dopo la conclusione dell’opera (1512) SdP ne divenne intimo amico, e sappiamo, sia da Vasari che in base alla testimonianza di disegni super- stiti, che Michelangelo fece disegni per aiutare il giovane ar- tista a disimpegnarsi dai suoi incarichi. Primo frutto di que- sta collaborazione fu la Pietà, verosimilmente terminata nel 1515, dipinta per San Francesco a Viterbo (Viterbo, Museo). Vasari afferma che Michelangelo eseguì un cartone per i due personaggi, il che è confermato dal carattere della composi- zione (un disegno di Michelangelo, che è stato accostato a questo dipinto, è conservato a Vienna, Albertina). Nell’in- sieme dell’opera si vedono perfettamente fusi il «disegno» dell’Italia centrale e il ricco colore veneziano, su uno sfondo scuro di paesaggio che tradisce le origini di SdP. Altri due capolavori, frutto dell’intesa con Michelangelo, ri- salgono alla seconda metà dello stesso decennio: la cappella Borgherini in San Pietro in Montorio a Roma e la Resurre- zione di Lazzaro (Londra, ng), ad entrambe le quali devono essere riferiti disegni eseguiti da Michelangelo per SdP. L’in- tervento di Michelangelo si avverte di piú nella decorazio- ne della cappella Borgherini, di cui la composizione centra- le, a olio su muro come le altre parti, e rappresentante la Fla- gellazione di Cristo, costituisce una tappa fondamentale per la pittura romana del sec. xvi. La Resurrezione di Lazzaro (1519) fu, come la Trasfigurazione di Raffaello, commissio- nata da Giulio de’ Medici ed eseguita per rivaleggiare con l’opera del Sanzio. La complessa grandiosità della composi- zione, che approfitta dell’enorme formato della tavola, e il tono alto e austero della narrazione innalzano in realtà la Re-

Storia dell’arte Einaudi surrezione di Lazzaro a un rango tra i piú elevati nella pittu- ra di storia e ne fanno uno dei modelli piú ammirati nei suc- cessivi sviluppi del classicismo cinquecentesco. Dopo la morte di Raffaello nel 1520, SdP occupò a Roma una posizione di ritrattista ormai senza rivali. Dal 1520 al 1527, quando il Sacco pose temporaneamente fine a tutte le attività artistiche, SdP eseguì in questo campo i suoi capo- lavori. La serie comprende il ritratto, oggi quasi illeggibile, di Pietro Aretino (Arezzo, Palazzo Pubblico), un Ritratto d’uomo (Museo di Houston, Texas, coll. Kress), il Ritratto di Andrea Doria (Roma, Gall. Doria-Pamphilj) e quello di Clemente VII (Napoli, Capodimonte). Ciascuno di essi in- carna un aspetto di un nuovo stile monumentale del ritrat- to che appare senza precedenti. Un nuovo accento dram- matico nell’individualizzazione del modello, quasi tutti per- sonaggi fra i piú emergenti del tempo, va di pari passo con un ductus piú largo che in passato: un ritratto come quello di Clemente VII, dipinto immediatamente prima del Sacco del maggio 1527, sembra evocare i ritratti del primo rina- scimento e ugualmente i profeti della volta sistina. Nel marzo 1528 SdP era a Orvieto con la corte pontificia scacciata da Roma e qualche mese piú tardi lo troviamo a Venezia. Ma fu tra i primi artisti a tornare a Roma, ove si rimise al lavoro al piú tardi nel giugno del 1530. È opinione ampiamente diffusa che, a seguito della nomina della sinecura di custode del piombo della cancelleria papa- le nel 1531, l’artista trascurasse la pittura. Ma si tratta di una supposizione certamente eccessiva, che ha la sua origi- ne in Vasari SdP ritrovò infatti il suo rango di ritrattista e proprio a quest’epoca appartengono il ritratto di Baccio Va- lori (Firenze, Pitti), quelli di Clemente VII a Vienna (km), Parma (gn) e Napoli (Capodimonte), il ritratto del Cardina- le Rodolfo Pio (posteriore al dicembre 1536: Vienna, km) e quello del Cardinale Reginald Pole (anch’esso posteriore al dicembre 1536: San Pietroburgo, Ermitage). Per ragioni sti- listiche si deve assegnare agli anni 1535-40 anche l’impres- sionante Ritratto di una dama (Longford Castle, coll. Earl of Radnor). Immagini che non rivelano uno stile omogeneo, ma sottintendono uno svolgimento verso una maniera piú mor- bida e idealizzata, meno eroica di quella degli anni Venti. Negli anni Trenta SdP cominciò a utilizzare l’ardesia come supporto per i quadri da cavalletto, e molti dei ritratti cita-

Storia dell’arte Einaudi ti, come la maggioranza delle composizioni di questo perio- do, sono realizzati su tale materiale. Nella maggior parte dei quadri religiosi si avverte un’ossessiva ricerca di masse sem- plificate, con una conseguente eliminazione di ogni detta- glio: ciò avviene sia nel grande dipinto murale con la Nati- vità della Vergine sull’altare della cappella Chigi in Santa Ma- ria del Popolo, sia nelle versioni del Cristo portacroce (Madrid, Prado; San Pietroburgo, Ermitage e Museo di Bu- dapest) sia nella Pietà per la cappella di Francisco de los Co- bos a Ubeda in Andalusia. Per quest’ultima Michelangelo fornì un disegno del Cristo (Parigi, Louvre). Due opere van- no datate assai tardi nel percorso di SdP: un vasto dipinto murale con la Visitazione per Santa Maria della Pace a Ro- ma, di cui restano tre grandi frammenti oggi nella collezio- ne del duca di Northumberland, e la Madonna del velo (Na- poli, Capodimonte), che unisce a una grandissima delica- tezza di esecuzione un senso della forma sovranamente idealizzata e una tavolozza impostata su toni freddi. Il pit- tore venne sepolto a Roma in Santa Maria del Popolo. (mbi+ sr) √ebuev, Vasilij Koz´mi™ (Kron∫tadt 1777 - San Pietroburgo 1855). Prix de Rome e promotore del classicismo nello spirito di David e di Car- stens, fu nominato nel 1807 professore all’Accademia di San Pietroburgo, di cui divenne rettore nel 1842. Diresse inol- tre la manifattura degli arazzi e, nel 1844, i cantieri di de- corazione pittorica della Cattedrale di Sant’Isacco. È auto- re di alcuni soffitti (Sala del Consiglio all’Accademia); tra i quadri si ricordano La prodezza del mercante Igolkin (1839: San Pietroburgo, Museo russo) e una notevole opera giova- nile, dal forte accento romantico, Ritratto dell’artista con una bohémienne (1805: Mosca, Gall. Tret´jakov). (bl). secco È definito a s un dipinto murale eseguito su un intonaco già carbonatato, secco. Contrariamente all’a fresco (→ affresco) la tecnica a s si serve di pigmenti uniti a un legante, sia di natura organica – uovo, colla, gomma, olio, caseina, cera (→ encausto) –, che inorganica – acqua di calce, latte di calce, calce. Istruzioni piú o meno dettagliate sui diversi procedi-

Storia dell’arte Einaudi menti compaiono in tutti i ricettari e manuali, la pittura mu- rale essendo arte ininterrottamente praticata dalla preisto- ria ai nostri giorni, in ogni ambito culturale, e di cui la piú celebrata tecnica a fresco non è che una delle molte varian- ti. I metodi a s e a fresco, pur rigorosamente rispettando i propri canoni quanto a esecuzione, coesistevano in alcuni casi. Talvolta si dipingeva a s su un preesistente affresco, si hanno esempi medievali di intere scene, con l’intento di ag- giornarne lo stile (ciclo duecentesco dell’abbazia di Grotta- ferrata) o, piú o meno estesamente, l’iconografia. In genere però l’intervento a s, sugli affreschi, era circoscritto a zone da ricoprire con pigmenti non compatibili con la calce qua- li azzurrite, cinabro, biacca, ecc.; mentre era normalmente previsto per le rifiniture e il ritocco, inevitabile per via del mutare di tono del colore durante il processo di carbonata- zione. La pratica del terminare e ritoccare a tempera gli af- freschi, largamente in uso nel Trecento (Cennini), dalle fon- ti cinque-seicentesche (Vasari, Armenini, Pozzo, ecc.) fu sconsigliata: infatti invitavano a contenerla nei limiti dell’in- dispensabile, sia per non «appannare» la superficie dell’af- fresco, sia per la caducità dei ritocchi e la propensione ad annerire, i leganti piú usati essendo colla, gomma e olio. In- fine, con l’impiego sempre maggiore dell’olio come legante, nel Cinquecento (Vasari, Armenini) furono detti a s – ov- vero tempere – tutti i dipinti eseguiti né a fresco né a olio, a prescindere dal tipo di supporto (tela, tavola, muro). Nel Seicento e Settecento (Baldinucci, Milizia) si intende- va per s, fatto in maniera secca, un dipinto privo d’inven- zione, duramente delineato, senza chiaroscuri né rilievi. (mni). Secco Suardo, Giovanni (? - 1873). Appartenente a una famiglia nobile lombarda, SS si dedicò all’attività di restauratore di dipinti ricollegando- si alla tradizione dei restauratori lombardi, come Molteni e Galizioli. In un periodo che, benché caratterizzato da note- voli progressi, vedeva ancora il restauratore come un arti- giano geloso dei suoi segreti, SS si impegnò nel tentativo di dare forma sistematica alle conoscenze sul restauro. Tale im- pegno si concretizzò soprattutto nel suo famoso manuale, ri- stampato piú volte anche nel Novecento. Una prima parte di tale manuale uscì nel 1866 con il titolo: Manuale ragiona-

Storia dell’arte Einaudi to per la parte meccanica del ristauratore; l’edizione definiti- va, con il titolo Il ristauratore dei dipinti, uscì postuma nel 1873. Benché partecipe dell’imperante mentalità del re- stauro integrativo, il manuale costituisce un indubbio pro- gresso rispetto ai testi che l’avevano preceduto, progresso individuabile nella consapevolezza da parte dell’autore del- la necessità di studi storici e di conoscenze scientifiche nel- la formazione del restauratore. Il manuale contiene anche interessanti informazioni su restauri di pitture eseguiti in Italia e all’estero. SS si occupò ampiamente anche del tra- sporto dei dipinti murali, esprimendosi a favore della tecni- ca dello «strappo», che implica la separazione del colore dall’intonaco, rispetto a quella del «distacco», praticata du- rante l’Ottocento dal famoso restauratore G. Bianchi. Nel suo scritto Sulla scoperta e introduzione in Italia dell’odier- no sistema di dipingere ad olio (Milano 1858), si dimostra buon conoscitore dell’arte rinascimentale e delle recenti ri- cerche sull’argomento, in polemica con le quali egli sostiene che la tecnica della pittura a olio, a parte alcuni marginali cambiamenti, sia rimasta la stessa dai tempi dell’invenzione di van Eyck fino al suo tempo. (came). secessione Con questo termine si fa riferimento a una serie di movimenti di opposizione all’arte ufficiale che si sviluppano tra la fine del sec. xix e l’inizio del xx, in ambito mitteleuropeo. Con- temporaneo all’Art Nouveau (→), al Modern Style, al Li- berty e allo Jugendstil che fioriscono negli altri paesi euro- pei, il movimento delle s non può essere identificato tout court con queste correnti. Le s che vengono fondate in Au- stria (→) e in Germania (→), in contrapposizione a società preesistenti di artisti, sono portatrici di un nuovo orienta- mento culturale strettamente collegato alle condizioni stori- che, politiche ed economiche del tempo e non si possono ri- durre soltanto alla scelta di un nuovo repertorio stilistico. Il progresso tecnologico cresciuto sull’onda della rivoluzione in- dustriale, il ruolo decisivo acquisito dall’iniziativa borghese in campo economico, determinano un periodo di profonde trasformazioni. Parallelamente nel campo dell’arte c’è un pro- liferare di idee e di movimenti che cercano di interpretate questo periodo di cambiamento. I motivi che spingono gli ar-

Storia dell’arte Einaudi tisti a unirsi nelle s sono tra i piú disparati, da quelli ideolo- gici a quelli stilistici, o di semplice opportunità. Il movimento delle s è legato essenzialmente a una politica dell’arte. Nati come gruppi di esposizione in contrasto alla cultura accademica, promuovono il dibattito intorno all’ar- te moderna, nei musei, nelle gallerie, nelle riviste, tra i col- lezionisti e i critici d’arte. Fanno opera di diffusione por- tando alle loro esposizioni decine di migliaia di visitatori. Partecipano alle mostre internazionali coscienti di un’unità della produzione artistica. È la prima volta infatti che mo- vimenti affini si trovano in Europa e in America. Il fenomeno delle s si pone in un certo senso al di fuori del- la linea di sviluppo della pittura moderna, inaugurata dall’im- pressionismo, ricercando un’integrazione di tutte le arti che vada oltre l’ambito pittorico e scultoreo. La reazione all’Ac- cademia determina il superamento della pittura da cavallet- to e nei musei. L’interesse è ora rivolto soprattutto all’ar- chitettura e all’artigianato. L’arte non è piú confinata nell’at- tività individuale, ma vuole assumere un compito formativo della società stessa nella ricerca di una qualità decorativa che si inserisca nel contesto produttivo e diventi un correttivo anche morale alla meccanica tecnica industriale. Mentre da una parte si avvertono le immense possibilità, non ancora sfruttate, offerte dallo sviluppo tecnologico, dall’altra si è consapevoli del pericolo insito in questo progresso che rischia di far scadere la qualità dell’arte in una produzione di serie. Il rifiuto dell’uso della macchina nel campo artistico, la riva- lutazione dell’attività artigianale e la ricerca di un’arte inte- grata all’ambiente e in armonia con la vita degli uomini, pro- pugnata da Ruskin, Morris e dal movimento inglese delle Arts & Crafts, sono il precedente diretto di questa nuova espe- rienza. La volontà di creare «le condizioni preliminari per una civiltà artistica del popolo», spinge gli artisti delle s a ri- cercare uno stile che sia unificante di tutte le arti e che sia comune a tutti i campi della vita di ogni giorno, dall’abita- zione all’urbanistica. L’integrazione dei vari generi artistici e la compenetrazione della vita con l’arte tendono alla rea- lizzazione di un regno della bellezza in cui l’artista esprime la sua anima e non produce semplicemente una merce. Que- sto nuovo orientamento del gusto porta al superamento dell’eclettismo storico che aveva caratterizzato il sec. xix: si sente ora il bisogno di liberarsi dalla servitú dei modelli del

Storia dell’arte Einaudi passato nella ricerca di nuove forme, anche se spesso si ap- proda a un eclettismo contemporaneo. Non si riescono però a superare le barriere tra un’arte colta e un’arte popolare. Conferire dignità estetica al piú piccolo oggetto artigianale rappresenta il tentativo di superare la suddivisione tra arti «maggiori» e arti «minori» per sollevare quest’ultime al ran- go dell’arte colta. L’arte rimane così dominio di un’élite ari- stocratica che si costruisce il suo mondo d’evasione. Le pre- messe da cui si era partiti di un’arte come bene comune le- gata direttamente alla vita degli uomini non vengono mantenute a favore di una rappresentazione ideale di un mondo decadente. L’arte delle s non è dunque un’arte pro- priamente d’avanguardia. Oscilla sempre tra il progresso e il convenzionalismo. Muove dall’impressionismo, ma per ri- manere ancorata come denominatore comune alle tendenze simboliste e lì dove è piú difficile staccarsi da forme di na- turalismo e di verismo di fine Ottocento, nascono nuove s. Nuova, libera, giovane sono i termini ricorrenti per qualifi- care queste associazioni che si vanno successivamente co- stituendo, dividendo e riformando. La prima s è quella na- ta a Monaco nel 1892, a opera di F. von Stuck, W. Trübner e W. Uhde, in direzione nettamente anti-romantica. Nel 1893 esponeva opere di Böcklin insieme a quelle di Corot, Courbet, Liebermann e Millet. Di matrice naturalistica con tendenze impressioniste, si lancia meno della coeva forma- zione berlinese nel campo dell’avanguardia. Le vicende che vedono la nascita della s di Berlino (→) sono contrassegnate dal clamore suscitato dalle opere di Munch all’Esposizione dell’Associazione degli Artisti Berlinesi. Lo scandalo determinatosi e il ritiro dei quadri a cui il pittore venne costretto, condussero a una scissione tra gli artisti che diede vita alla Libera Associazione degli Artisti e quasi con- temporaneamente alla Munchner Sezession. I rappresentan- ti dell’ambiente intellettuale della città, tra cui il direttore della rivista «Pan» e vari critici d’arte, si mossero a sostegno di Munch e dal clima che venne a crearsi nacque la S berli- nese. Anch’essa di tendenza impressionista, non mancò di presentare i maestri post-impressionisti, i nabis e i fauves, nel corso delle sue esposizioni iniziate sotto la direzione di Max Liebermann nel 1898. Nel 1902 durante una sua mani- festazione ospitava opere di Hodler e Kandinsky insieme al-

Storia dell’arte Einaudi lo stesso Munch, presente con un’ampia scelta di quadri. Specchio fedele del dibattito di quegli anni sono le riviste. Oltre alla berlinese «Pan» che comincia a pubblicare nel 1895, a Monaco appare «Jugend» nel 1896 e a Vienna «Ver Sacrum» che uscirà dal 1898 al 1903. Quest’ultima rappre- senta il vero e proprio manifesto della s di Vienna (→) fon- data nel 1897 e guidata da G. Klimt. Anche la s viennese proporrà nelle sue mostre oltre alle opere dello stesso Klimt nel 1902 e di Max Klinger, quelle degli impressionisti e dei neoimpressionisti francesi e i dipinti di Hodler. È al grup- po della s viennese, che accoglie tra le sue fila numerosi ar- chitetti, che si devono le opere piú significative di questo periodo come il Palazzo della S di J. M. Olbrich a Vienna (1898), sede delle esposizioni, e la colonia degli artisti sem- pre di Olbrich a Darmstadt (1901-908), concepita dallo stes- so come «la libera accademia di artisti», la «non accademia» per eccellenza. Niente meglio di Palazzo Stoclet a Bruxel- les, costruito da J. Hoffmann (1905-11), potrebbe però in- terpretare quello che ha rappresentato la s. Commissionato da un industriale belga, è frutto della collaborazione di Hoff- mann e Klimt, a cui appartiene il fregio, con la Wiener Werckstätte, un’associazione di disegnatori e di artigiani fondata nel 1903. Era questa la realizzazione dell’«opera d’arte integrale» vagheggiata dai secessionisti dove ogni ele- mento della costruzione, dal progetto architettonico all’og- getto d’arredamento concorrevano a interpretare quella for- ma unica a cui la vita avrebbe dovuto ispirarsi. Il dibattito aperto in quegli anni a Vienna era indicativo del clima che si viveva. Non solo gli artisti, ma anche le istitu- zioni erano investite da questa ondata di cambiamento. Mentre l’imperatore concedeva statuti per «creazioni indi- pendenti», rappresentanti della s entravano a far parte de- gli organi ufficiali e ricevevano incarichi di fiducia nelle scuo- le e nei musei. La situazione non si era comunque ancora sta- bilizzata. Dai nuclei iniziali delle varie s, ci furono ulteriori divisioni. Nel 1905, Klimt e compagni abbandonano la s, pur mantenendo il programma artistico integrazionista, per- ché la cerchia di J. Engelhart era ancora troppo legata al na- turalismo del quadro di genere. Nel 1910 si creò a Berlino la Nuova S sotto la guida di M. Pechstein, dopo il rifiuto della precedente di esporre le opere dei pittori del gruppo Die Brücke, in particolare La Pentecoste di Nolde. Le mo-

Storia dell’arte Einaudi stre della S berlinese, infatti, pur con un volto internazio- nale, erano ancorate ai programmi dell’impressionismo (Lie- bermann, Slevogt, Corinth) e dello Jugendstil (Leistikow, L. von Hoffmann). Alla prima esposizione della Nuova S pres- so la Galleria Macht di Berlino, partecipa anche la Nuova Società di Artisti fondata a Monaco nel 1909 da Jawlensky, Kandinsky, Münther e Kubin, a testimonianza degli inten- si rapporti che si vengono a instaurare in questo periodo. Il gruppo Die Brücke partecipa anche alle successive esposi- zioni della Nuova S occupandone un posto di rilievo, fino al 1912 quando solo piú Pechstein, contrariamente ai patti, viene accettato alle mostre. Il significato della s si è andato affievolendo anche se non è del tutto perduto quando arriva a Roma negli anni immedia- tamente precedenti alla prima guerra mondiale. Le mostre della S romana, orientata in senso tardo impressionista e sim- bolista, si susseguono dal 1913 fino al 1916-17. Rappresen- tanti delle tendenze simboliste internazionali come Me∫tro- vi™, Stuck e Klimt, che espongono a Roma in quegli anni, in- fluenzano senza dubbio la nascita di un secessionismo in Italia. Lo stesso Klimt, nel 1910, era presente con una per- sonale alla Biennale veneziana. Venezia faceva in quel perio- do da tramite con lo spirito di rinnovamento che investiva l’area mitteleuropea. Fu animato da spirito dichiaratamente secessionista il gruppo degli artisti di Ca’ Pesaro che espone- va alle mostre organizzate di N. Barbantini per la Fondazio- ne Bevilacqua La Masa a partire dal 1908 in netta contrap- posizione alle Biennali che, a loro volta, avevano preso il via nel 1895. A Bergamo, in quello stesso anno, cominciava ad uscire «Emporium», «rivista illustrata d’arte, letteratura, scienze e varietà», che concorreva alla formulazione di nuo- vi e piú moderni strumenti critici di cui dotare la ricerca ar- tistica. Nel 1902, inoltre, veniva inaugurata a Torino l’Espo- sizione Universale dell’arte, dedicata alle arti decorative, ap- puntamento fondamentale per il modernismo in Italia, a cui solo un anno dopo doveva far eco la stessa Biennale. La S romana era pronta così a raccogliere il dissenso giova- nile di quegli anni, soprattutto degli artisti veneti che, do- po la chiusura di Ca’ Pesaro, organizzarono dapprima un’esposizione all’Excelsior al Lido, per confluire poi nella seconda esposizione della s romana. Artisti come G. Rossi

Storia dell’arte Einaudi e A. Martini che esponevano le loro opere a Ca’ Pesaro nel 1913, si ritrovavano ad esporre a Roma, solo un anno dopo, insieme a L. Viani e a Modigliani. Ma non dobbiamo tralasciare la situazione napoletana dove nel 1912 si teneva la Prima mostra d’arte giovanile che crea- va un collegamento tra gli artisti che operavano allora a Na- poli e le forze emergenti nel resto del paese, situazione che veniva sottolineata l’anno dopo dalla Seconda Esposizione nazionale d’arte di Napoli. Per quanto riguarda gli stranieri, la prima S romana aveva dato ampio spazio agli impressionisti francesi testimonian- do il profondo legame con la cultura di quel paese da parte degli artisti italiani. La seconda, invece, vedeva esposti an- che i quadri di Klimt e di Schiele. Il nucleo iniziale della S romana, formatasi in seguito a una scissione dalla Società di Amatori e Cultori di Belle Arti era costituito da una trenti- na di artisti di tendenza divisionista tra cui Balla, Lionne, Innocenti, Noci e Terzi. Pur non perseguendo esattamente gli stessi scopi della S austriaca, i criteri di scelta delle ope- re da esporre erano posti nei loro contenuti ideali. Nono- stante le scelte moderate, che mantenevano una giusta di- stanza sia dalle rappresentazioni accademiche che dalle ten- denze futuriste, la S romana venne osteggiata dalla critica e dal pubblico che premevano per un ritorno al verismo otto- centesco, ormai improponibile, e al neoellenismo. La prima guerra mondiale operò una cesura netta in questo periodo di trasformazione e di trapasso nell’era «moderna». La Sezession che fu fondata a Dresda nel 1919 da O. Dix, F. Muller e L. Segall e altri sull’onda dell’espressionismo te- desco conservava infatti solo piú il nome in comune con le s storiche. (chmg). Section d’or Denominazione di un gruppo di artisti che, formatosi nel 1911, ebbe come riferimento di partenza la ricerca cubista di Picasso e Braque, Cronologicamente, la Sd’o corrispon- de al diffondersi della poetica cubista e rappresenta lo sfor- zo di sistematizzazione teorica di alcuni artisti d’avan- guardia della nuova visione razionalizzante che, in Braque e Picasso, era intuitiva. Il nome «Sd’o», scelto da Jacques Villon, illustra bene gli interessi visuali del gruppo. In se- guito all’abbandono della prospettiva classica nella com-

Storia dell’arte Einaudi posizione cubista, questi artisti pensarono di ripartire il nuovo spazio bidimensionale riferendosi alla «sezione au- rea» (→; o «divina proporzione»), in quanto stabilente un rapporto ideale tra due grandezze. Il riferimento fu piú che altro pittorico: si trattava di organizzare lo spazio del qua- dro attraverso una metodica riduzione geometrica della realtà, e in particolare la complessità di questo rapporto geometrico fu per loro mediata dal Trattato della pittura di Leonardo. Il gruppo si costituì casualmente. Tramite Walter Pach, pit- tore e scrittore d’arte americano, futuro organizzatore dell’Armory Show, Raymond Duchamp-Villon e Jacques Vil- lon, nel 1911, incontrarono Gleizes, loro vicino a Courbe- voie. Cominciarono a frequentarsi sia nello studio di Villon a Puteaux, sia presso Gleizes. Si unì loro Marcel Duchamp e Franti∫ek Kupka, immediato vicino di Villon. Altri pittori come Metzinger, Picabia, Léger, cominciarono ad assistere alle riunioni. Incaricato di allestire il Salon d’Automne del 1911, Raymond Duchamp-Villon raccolse le tele di questi ar- tisti nella sala centrale del Grand Palais. L’esposizione co- stituì la prima manifestazione del gruppo di Puteaux, che l’anno successivo organizzava la propria mostra, il Salon de la Sd’o, tenutosi alla Gall. La Boétie (ottobre 1912). Tra gli espositori figuravano nuove reclute, come Marie Laurencin, Marcoussis, André Lhote. I contatti tra tutti questi artisti si erano nel frattempo moltiplicati. Si riunivano non soltanto presso Villon a Puteaux o da Gleizes a Courbevoie, ma an- che a Montpamasse, alla Closerie des lilas, e ai Martedì di Paul Fort. Nel corso di tali riunioni il cubismo assunse un aspetto teorico che non aveva mai avuto negli intenti di Bra- que e di Picasso, e venne elevato a sistema nel libro Du Cu- bisme, che Metzinger e Gleizes pubblicarono nel 1912. Il complesso delle attività della Sd’o, considerata cubista, fu violentemente attaccato dalla stampa. Unici suoi difensori furono Apollinaire e il critico Maurice Raynal. L’ultima mostra del gruppo ebbe luogo nella Gall. Va- vin-Raspail nel 1925. (dv). Sedlmayr, Hans (Hornstein 1896 - Salisburgo 1984). Dopo la guerra studia storia dell’arte a Vienna con Max Dvo≈ák e Julius von Sch-

Storia dell’arte Einaudi losser. Redattore con Otto Pächt delle «Kunstwissenschaf- tliche Forschungen» è figura di spicco della nuova scuola di Vienna. Assistente di Schlosser dal 1934, nel 1936 gli suc- cede nella direzione dell’Istituto di storia dell’arte. Tra i lavori di questo periodo in cui per S risulta fonda- mentale l’apporto della Gestalt, in quanto capace di fornire la giusta chiave per la comprensione del mondo delle forme, sono Die «Macchia» Bruegels, 1933 e Fischer von Erlach der Ältere, München 1925 (testo su cui torna nel 1956). Nel do- poguerra pubblica uno dei suoi maggiori contributi, Verlust der Mitte, Salzburg 1948 (trad. it. La perdita del centro, Bolo- gna 1967, Milano 1974), in cui le arti figurative degli ultimi due decenni del secolo, come recita il sottotitolo dell’opera, vengono assunte come sintomi e simboli di un’epoca, e l’ana- lisi storico artistica funge da sfondo e riferimento alla rico- struzione dei caratteri spirituali di questa. Nello stesso anno pubblica Große und Helend des Meschen: Michelangelo, Rem- brandt, Daumier (Wien 1948) e nel 1950 Die Entstehung der Kathedrale, Zürich-Freiburg im Br. 1950 dedicato al tema del significato iconologico dell’architettura. Nel 1951 viene chiamato a Monaco. Pubblica Die Revolution der modernen Kunst, Hamburg 1955 (trad. it. La rivoluzione dell’arte mo- derna, Milano 1971) seguita dalle raccolte Kunst und Warheit, Hamburg 1958 (trad. it. Arte e verità, Milano 1984) e Der Tod des Lichtes, Salzburg 1964 (trad. it. La morte della Lu- ce, Milano 1970). Nel 1965 è chiamato a organizzare l’Isti- tuto di storia dell’arte di Salisburgo e dal 1969 si ritirerà a vita privata. Nell’itinerario teorico di S, ricco di intuizioni e provocazioni geniali, capaci di grande presa sul pubblico, si segnalano il suo distacco dall’analisi stilistica di tradizio- ne viennese, l’accordo con la teoria degli eroi creatori di Cro- ce e Schlosser, fortemente criticata da Otto Pächt, e la rifor- mulazione, in termini alquanto diversi da quelli classici di Dvo≈ák, della storia dell’arte come storia dello spirito. (ss). Seekatz, Johann Conrad (Grünstadt 1719 - Darmstadt 1768). Fece apprendistato presso il proprio fratello Johann Ludwig; poi, dal 1748 al 1751, presso P. H. Brinckmann a Mannheim. Nel 1753 ven- ne nominato pittore di corte a Darmstadt e fu in contatto con i pittori borghesi di Francoforte (Nothnagel, Trautmann e Juncker) nonché amico del padre di Goethe, per la cui col-

Storia dell’arte Einaudi lezione S dipinse alcune tele. Passò da mitologie conven- zionali di gusto aristocratico e da composizioni religiose ba- sate sull’effetto decorativo (La fuga in Egitto: Dresda, gg) a scene di genere osservate con semplicità, al modo olandese: la Chiromante (Weimar, Kunstsammlungen), il Falò da cam- po (Oldenburg, Landesmuseum), Scena campestre (Düssel- dorf, km), Consacrazione di una chiesa (Darmstadt, Hessi- sches Landesmuseum). Il suo ultimo lavoro, del 1765, è una serie di diciassette sopraporte, oggi al castello di Darmstadt, provenienti dal castello di Braunshardt e rappresentanti sce- ne galanti dal tocco fine e leggero. Il Museo di Darmstadt conserva un ampio complesso di opere: dipinti, schizzi a olio e disegni. (jhm). Scele, Johann Baptist (Messkirch 1774 - Stoccarda 1814). Figlio di un caporale al servizio dei Fürstenberg, cominciò da giovane a raffigurare soggetti militari. Inviato alla Karlsschule di Stoccarda, do- ve studiò pittura con Hetsch (1789-92), vi ottenne un pre- mio nel 1790. Arrestato nel 1792 al momento della fuga di A. Koch e poi rilasciato, dal 1800 iniziò a comporre scene di vita militare; negli stessi anni (1797-98) eseguì ritratti di personaggi della corte. Dal 1798 si trasferisce a Stoccarda, dove si assicura la benevolenza del duca Federico con il tea- trale Combattimento del Ponte del Diavolo (1802) divenendo pittore di corte del Württemberg nel 1804 e direttore della galleria privata del duca. Tale nomina gli attirò l’astio di Hetsch e il disprezzo di Schick e degli ambienti intellettua- li: disprezzo a cui forse si deve anche la scarsa attenzione dedicatagli dagli storici dell’arte tedesca. Composte con mol- ta disinvoltura, di fattura brillante, con forti effetti di chia- roscuro, le sue battaglie denunciano un’abilità troppo osten- tata, ma rivelano anche doti di pittore assai notevoli, evi- denti nel suo Ganimede (1811: castello di Ludwigsburg) e soprattutto nella Presa di Pfennigberg (1810: Stoccarda, sg), il suo quadro di battaglie piú importante, che molto deve a Kobell. I suoi reggimenti non sono solo una fonte preziosa per la storia dell’uniforme, ma mostrano grandi qualità di osservazione e facilità nella composizione; nei ritratti, l’acu- tezza della descrizione è unita alla franchezza un po’ bruta- le della resa (la Famiglia del Dr. Klein, 1809: ivi). (pv).

Storia dell’arte Einaudi Segal, Arthur (Ias¸i (Romania) 1875 - Londra 1944). Dopo gli studi all’Ac- cademia di Berlino, nel 1896 parte per Monaco per seguire l’insegnamento di Schmidt-Reute e poi di Hoelzel (che fu anche insegnante di Schlemmer e di Baumeister) e compie viaggi, tra il 1902 e il 1903, in Italia e in Francia. Nel 1904 si stabilisce a Berlino esponendo con il gruppo della Berli- ner Sezession. Nel 1910 partecipa alla fondazione della Neue Sezession e alle mostre di questo gruppo, di cui facevano parte, tra gli altri, Nolde, Heckel, Kirchner, Pechstein e Schmidt-Rot- tluff. Nel 1911, i membri di Der Blaue Reiter e della Mün- chner Künstlervereiningun si uniscono a loro per la mostra della Neue Sezession di novembre. Per tutta la durata della guerra S soggiorna ad Ascona (Sviz- zera), dove incontra Jawlenski e Arp. Sarà questo un pe- riodo determinante, l’occasione per una svolta definitiva. Influenzato, sino a quel momento, dall’arte di Segantini, di van Gogh, e di Matisse, S sentirà fortemente la crisi dei valori plastici ed estetici. Abbandonato, sin dal 1916, l’espressionismo, l’artista elabora quanto definirà in segui- to «equilibrio bilanciato», sistema di equivalenza ottica del quadro, diviso in superfici pittoriche eguali e realizzato in osservanza di uno e successivamente in molteplici punti fo- cali (Harbour Denmark: Chicago). In seguito giungerà ad estendere, in contrappunto, le gamme cromatiche presenti nell’opera, sino a investire la superficie della cornice e creando così un’impressione di sviluppo esterno dei valori ottici del dipinto. Il ritorno a Berlino, nel 1920, è segnato dalla sua prima personale alla Gall. Altmann. Da allora S s’impone come uno dei membri piú importanti del No- vembergruppe con cui esporrà fino al 1932 ed è insieme esponente della Juryfreie Kunstschau. Nel 1923, lo studio della teoria dei colori di Goethe lo induce a realizzare pit- ture «prismatiche» e qualche anno dopo sculture «ottiche», dove la luce e l’ombra svolgono un ruolo plastico essenzia- le. Ricavando sempre i propri studi ottici dalle lezioni del- la natura, applicherà, sin dal 1927, il termine di «nuovo na- turalismo» alle sue nuove esperienze pittoriche. Nel 1929 redige il suo testo teorico Le leggi impersonali della pittura. Nel 1933 lascia la Germania per la Spagna e Maiorca e, nel

Storia dell’arte Einaudi 1936, si stabilisce definitivamente a Londra, dove muore nel 1944. La sua opera è rappresentata nei musei di Zuri- go (kh), di Ginevra (Petit Palais), dell’Aja (gm) e in Ger- mania. (alb). Segala, Giovanni (Murano 1663 - Venezia 1720). Di nascita e formazione ve- neziana (suo maestro fu – ma per poco – Pietro della Vec- chia e suoi punti di riferimento i contemporanei Bellucci, Bambini e Molinari), si staccò però sensibilmente dalla po- sizione accademizzante e ‘tenebrosa’ delle sue fonti per as- sumere un ruolo aggiornato e già anticipatore – per scelte cromatiche e impaginazione compositiva – di soluzioni set- tecentesche. L’esordio avviene nella città lagunare con ope- re per San Pantalon e per il convento di San Salvatore; ver- so la fine del nono decennio, ad attestare una ormai conso- lidata fama, viene chiamato a decorare la residenza dei marchesi von Platen, nei pressi di Hannover, con grandi te- le (Hannover, kh) e affreschi (perduti). Dopo il ritorno a Ve- nezia, la sua ricca attività si dispiega nella realizzazione di cicli di affreschi (in San Teodoro; in San Canciano; in Pa- lazzo Correr) e di grandi tele d’altare per molte chiese della Serenissima; fra le opere commissionategli fuori dalla città lagunare, vale la pena di ricordare la pala con la Morte di san Giuseppe (1702) per la parrocchiale di Dossena vicino a Ber- gamo, opera aggiornatissima in direzione già pienamente set- tecentesca. (elr). Segall, Lasar (Vilna (Lituania) 1891 - San Paolo 1957). Trasferitosi in Germania nel 1906, esordisce a Berlino, dove frequenta l’Accademia di belle arti dal 1909 e riceve il Premio Lie- bermann. Prima di stabilirsi in Brasile (1923), paese di cui assume la cittadinanza dopo avervi soggiornato nel 1912, ri- siede a Dresda tra il 1916 e il 1923. Caratterizzato agli ini- zi dal realismo impressionista di Liebermann e di Corinth, S pratica a Dresda un espressionismo vicino a Die Brücke (album di litografie la Dolce, 1917, con forte influsso dell’ar- te negra), presto modificato dall’adozione di procedimenti che il Blaue Reiter (Campendonk, Feininger) aveva ripreso dal cubismo. Sono di questi anni una serie di opere con sog-

Storia dell’arte Einaudi getti che illustrano la miseria sociale, il decadimento fisico e morale dell’individuo (Interni con indigenti, Interno con am- malato, 1920). In Brasile S si avvicinò al movimento mo- dernista e nel 1933 concorse alla fondazione della Sociedad Pro-Arte Moderna de São Paulo. Ma gli eventi politici do- vevano presto condurre il pittore, di origine ebraica, a te- stimoniare contro il fascismo in opere di vasto formato e ne- cessariamente piú realistiche: Pogrom (1936-1937), Nave di emigranti (1939-41), Campo di concentramento (1945), qua- dri il cui effetto è dovuto allo scorcio prospettico e all’accu- mulazione dei «motivi» che gli offriva un’umanità ridotta ad oggetto. S ha inoltre lasciato sculture, litografie, parti- colarmente per il Bubu de Montparnasse (1921) di Charles- Louis Philippe, e un’opera scritta: Ricordi di Vilna.Il suo studio è stato trasformato in museo; S è inoltre ben rappre- sentato nel mac di San Paolo. (mas). Segantini, Giovanni (Arco (Trento) 1858 - Scahfberg 1899). Molto raccontata, spesso non senza esagerazioni, è l’infanzia infelice e trava- gliata di S, che, alla morte della madre, viene mandato a Mi- lano dalla sorellastra. Dopo aver trascorso tre anni (1870-73) in riformatorio, va a vivere a Borgo Valsugana col fratella- stro, che lo prende come garzone nel suo laboratorio foto- grafico. Tornato a Milano, frequenta dal 1874 al 1877 i cor- si serali all’Accademia di Brera, poi nel 1878-79, quelli re- golari, con Bertini come maestro. Qui conosce anche Emilio Longoni, di cui sarà a lungo amico. È del 1879 la sua prima opera significativa, Il coro di sant’An- tonio a Milano (Milano, coll. priv.) in cui emerge l’attenzio- ne agli effetti luministici, già ricercati tramite l’accostamento di colori puri. Con questo dipinto acquista una certa noto- rietà, destinata ad amplificarsi sempre più grazie al sostegno entusiasta di alcuni tra i piú autorevoli critici italiani, tra cui Levi e Chirtani. Nello stesso anno conosce Vittore Grubicy, mercante d’arte a livello internazionale, con cui instaura un rapporto di amicizia e di lavoro che verrà troncato solo nel 1889. Nel 1880 si trasferisce in Brianza, dove rimane fino al 1886. In questa fase S lavora a un graduale superamento della for- mazione accademica, con opere che echeggiano ancora gli influssi dell’ambiente lombardo, dalla scapigliatura (Eroe

Storia dell’arte Einaudi morto, 1879-80: San Gallo, km) al verismo aneddotico (La Ninetta del Verzée, 1879-80). Ma già si allontana nettamen- te dai piú triti esiti veristi in quadri come il Tramonto a Pu- siano (1883: Milano, gam) e soprattutto l’Ave Maria a tra- sbordo (1882: Zurigo, coll. priv.), in cui emerge un senti- mento della natura non inficiato dalla retorica ed esaltato dalla particolare sensibilità luministica. Gli strascichi veri- sti e scapigliati, da Carcano a Cremona a Bianchi, finiscono così per affievolirsi (A messa prima, 1884-85: St. Moritz, Museo S) fino a scomparire in Alla stanga (1866: Roma, gam), dove la materia si fa corposa, il taglio ampio e la gam- ma cromatica si schiarisce. Quando nel 1886 si trasferisce a Savognino, nei Grigioni, l’attenzione al paesaggio si impone, mentre, anche in se- guito ai consigli di Grubicy, sempre ben aggiornato sulle novità e sul mercato internazionali, adotta la tecnica divi- sionista, personalizzandola con l’uso di una pennellata stria- ta, a fibra lunga e stretta. È lo stesso S a sottolineare l’im- portanza dell’accostamento di colori puri per ottenere «la luce, l’aria, la verità». Sono di questo periodo la Mucca bru- na (1887: Milano, gam), il Cavallo al galoppo (1888: ivi), la Ragazza che fa la calza (1888: Zurigo, kh), il Ritorno all’ovi- le (1888: San Gallo, coll. Fischbacher), tutte opere in cui si esplica una lucida meditazione sui rapporti spaziali e un trat- tamento della materia come luce che invade l’intera super- ficie del quadro. Già dal 1889-90, prima del trasferimento in Engadina, a Ma- loja, dove resterà fino alla morte, S si accosta al simbolismo, in opere come Le due madri (1889-90: Milano, gam, pre- sentato con grande successo alla Triennale di Brera del 1891), Alpe di maggio (1890) e La raccolta del fieno (1890-98: St. Moritz, Museo S), che denotano una conoscenza delle vicende della Secessione viennese. Seguiranno i dipinti piú squisitamente simbolisti, quali Le Lussuriose (1891: Liver- pool, wag), Le cattive madri (1894: Vienna, km), L’Angelo della Vita (1894: Milano, gam), L’Amore alla fonte della Vi- ta (1896: ivi) e l’incompiuto trittico con La Natura, La Vita e La Morte (1896-99: St. Moritz, Museo S), di cui si con- servano anche i disegni (Lucerna, Gall. Fischer). In questo gruppo di opere, a ragione considerate le piú significative degli ultimi anni di S, gli echi dello Jugendstil vengono rein-

Storia dell’arte Einaudi terpretati e resi con straordinaria originalità, senza implica- zioni intellettualistiche fini a se stesse, ma con l’intento co- stante di offrire una visione soggettiva e immanente della natura. Il simbolismo di S assume quindi un’accezione pan- teistica ed è pressoché scevro da connotazioni di impegno o denuncia sociale; così, come S afferma di essere arrivato au- tonomamente al divisionismo, «nello studio sincero e amo- rosamente scrupoloso della natura», si può aggiungere che anche l’approdo al simbolismo sembra essere il risultato di una naturale evoluzione del suo sentire, tant’è che già nelle opere del periodo brianzolo, se non addirittura prima, se ne scoprono i prodromi. Appare quindi ozioso e ingiustificato il tentativo piú volte operato dalla critica di separare netta- mente la fase divisionista da quella simbolista, leggendo que- st’ultima esclusivamente come un’adesione acritica a una moda artistica e culturale. (vc). Seghers, Daniel (Anversa 1590-1661). Nel 1610 fu allievo ad Anversa di Jan Bruegel dei Velluti, da cui trasse la precisione e la finezza del colore. Maestro ad Anversa l’anno successivo, nel 1614 entrò nella Compagnia di Gesú a Malines, operando poi dal 1618 al 1621 ad Anversa. Nel 1625 a Bruxelles prese i voti firmando da allora i dipinti «Daniel Seghers Soc. [Societa- tis] Jesu». Nel medesimo anno partì per un soggiorno a Ro- ma. Nel 1628 tornò ad Anversa. È stato di recente ritrova- to un catalogo della sua opera, compilato dallo stesso arti- sta, riguardante 239 opere con l’indicazione degli acquirenti. Le sue ghirlande e i suoi mazzi di fiori ebbero molto suc- cesso presso le grandi famiglie regnanti d’Europa. S ideò un nuovo tipo di ghirlande di fiori corrispondenti all’estetica e al gusto ornamentale barocco, non piú semplicemente di- sposte intorno a un medaglione centrale, come quelli di Jan Bruegel, ma sospendendo ammassi di fiori e rami sopra una nicchia o un medaglione, creando così veri e propri trom- pe-l’œil. La decorazione scultorea e illusionistica contiene di solito un’immagine pia o un ritratto, dipinti da altri artisti; così accade nelle numerose Ghirlande intorno a un medaglio- ne vuoto (Madrid, Prado; Copenhagen, smfk; Gand, mba) e nel Trionfo dell’Amore (Parigi, Louvre), eseguito a Roma tra il 1625 e il 1627, che contiene un motivo centrale di ma- no del Domenichino.

Storia dell’arte Einaudi Celebri opere di S sono anche la ghirlanda col Cristo e santa Teresa di Avila (Anversa, Museo) e la Santa Teresa cinta di fiori (Anversa, casa di Rubens). L’artista dipinse inoltre su rame o su legno semplici ed eleganti Mazzi di fiori (1635: To- ledo, Ohio, am; Dresda, gg; Anversa, mmb; Bamberga, Mu- seo). I principali collaboratori di S ad Anversa furono Gon- zales Coques, T. Willeboirts Bosschaert, Cornelis Schut, E. Quellinus. Ai suoi trompe-l’œil fioriti s’ispirò un considerevole nume- ro di imitatori, come A. Bosman, J. Ph. van Thielen, Frans Ykens e persino Jan van Kessel. (php). Seghers, Hercules Pietersz (Haarlem 1589 o 1590 - Amsterdam verso il 1633/38). La sua biografia è ancora scarsamente nota e i pochi documen- ti che lo riguardano non consentono di delinearne la perso- nalità. Il giovane S è menzionato come allievo di Gillis van Coninxloo ad Amsterdam fino alla morte di quest’ultimo nel 1606. Nell’asta pubblica dell’eredità del maestro, egli ac- quista un paesaggio intitolato la Piccola roccia: la scelta di tale soggetto, raramente trattato da Coninxloo, sembrereb- be indicare che S avesse già trovato la propria strada. Accolto nella gilda dei pittori di Haarlem nel 1612, sposato nel 1615 ad Anneken van der Brugghen, piú anziana di lui di sedici anni, si stabilì ad Amsterdam, dove acquistò nel 1619 una casa sul Lindengracht; il ricordo di questa dimora ci è giunto attraverso una sua acquaforte, Veduta dalla finestra del- la casa di Seghers.L’artista dovette godere di una certa fama durante la sua vita, come attesta la presenza di suoi quadri ne- gli inventari delle eredità di pittori contemporanei (Louys Ro- court, Herman Saftleven, Jacob Marell). Rembrandt posse- dette nel 1656, otto suoi quadri, tra cui probabilmente la Val- lata in montagna degli Uffizi. Sin dal 1621 un’opera di S venne proposta al re di Danimarca e, nel 1632, due altre vengono citate nella collezione dei principi d’Orange. Dopo Samuel van Hoogstraten (1678), tuttavia, l’artista di- venne il prototipo del pittore incompreso dai contempora- nei, morto in miseria. Forse la leggenda imbastita da Hoog- straten va attribuita allo scarso interesse che quest’ultimo manifestò per il lavoro di S del quale non colse l’originalità. Nessuno degli undici quadri riconosciuti come opere di S è

Storia dell’arte Einaudi datato, e solo quattro di questi sembrano essere firmati (la Vallata: Amsterdam, Rijksmuseum; Valle di un fiume: Rot- terdam, bvb; Veduta su Rhenen: Berlino, sm, gg; Due muli- ni a vento: Fareham, coll. B. Norton). Si tratta principal- mente di paesaggi, quali erano anche, salvo una o due ecce- zioni, i quadri perduti attestati da antichi documenti. La decina di dipinti oggi superstiti non costituisce una serie con- tinua, di modo che la cronologia dell’opera di S è partico- larmente difficile da determinare. Si suppone nondimeno che i paesaggi immaginari precedano quelli realistici. I due primi dipinti conservati sarebbero la Vallata (Amsterdam, Rijksmuseum) e il Paesaggio di montagna (Ijmuiden, coll. Kes- sler), dove si nota qualche reminiscenza dei paesaggi fanta- stici di Joos de Momper, che Coninxloo poté far conoscere all’allievo. Di poco successivo sembra il piccolo Paesaggio fluviale con cascata (castello di Herdringen in Westfalia, menzionato nel 1627). Vi si ritrova di fatto la stessa fattura: un impasto mi- nuto, l’evidenza del movimento del polso, e una tavolozza dove predominano i grigi e i verdi, qua e là ravvivati da un tocco di rosso o di azzurro. Con la Vallata di montagna (Fi- renze, Uffizi), un tempo attribuita a Rembrandt, l’artista dà la misura del suo genio. Rembrandt, che sembra davvero aver posseduto questo dipinto, ha dovuto ritoccarlo, ag- giungendo in particolare, sulla sinistra, una carrozza con i cavalli attaccati e due contadini, e introducendo così una certa dimensione umana che non si ritrova negli altri dipin- ti di S. L’originalità della composizione risalta nella giu- stapposizione drammatica sulla tela, di enormi montagne ari- de e d’una vasta e fertile pianura. Lo schema verrà ripreso da S, come attestano tre altri di- pinti conservati: Paesaggio fluviale, Paesaggio fluviale con ca- se (Rotterdam, bvb), Case e villaggio in una vallata fluviale (già a New York, Historical Society). Come il Paesaggio degli Uffizi, il Paesaggio fluviale di Rot- terdam è dipinto su tela incollata su legno, procedimento che sembra l’artista prediligesse. Nelle tre opere si riscontrano i medesimi alberi e arbusti, il cui fogliame viene reso me- diante una giustapposizione di cerchietti e di punti (come in alcune acqueforti), e, in lontananza, un grande lago su cui si stagliano profili di velieri. Il Paesaggio fluviale con case di Rotterdam è, in particolare, contraddistinto da un motivo

Storia dell’arte Einaudi realistico – le case che il pittore vedeva dalla sua finestra ad Amsterdam – collocato in un sito immaginario, procedi- mento peraltro utilizzato anche da altri pittori del tempo (Salomon van Ruysdael o Albert Cuyp). Di spirito assai diverso sono i quattro paesaggi urbani o ru- rali giunti sino a noi: Bruxelles, veduta da nord (Colonia, wrm), Due mulini a vento (Fareham, coll. B. Norton), Vil- laggio in riva al fiume (Berlino sm, gg), Veduta su Rhenen (ivi). S usa un formato molto allungato, che accentua l’impres- sione di distesa senza fine del «paese piatto». Ci sono giunti soltanto 183 fogli, provenienti da 54 diversi rami. S, che non aveva un proprio stampatore, tirava infatti pochi esemplari da una medesima lastra, apportando modifi- che a ogni tiratura. I soggetti delle incisioni conservate testi- moniano una certa varietà di soggetti rispetto ai dipinti: tem- peste, studi di barche, di alberi, di un cavallo che s’impenna, natura morta di libri, un cranio, vedute di rovine, veduta ur- bana e paesaggi silvestri di montagna o di pianura. Piú anco- ra dei paesaggi dipinti, quelli incisi vanno dall’uno all’altro estremo, dalle vallate montane fantastiche (le piú numerose) alle vedute realiste di pianure e villaggi. Tuttavia, variando le tecniche di tiratura, S giunse a fare del paesaggio silvestre, trattato in modo naturalistico, un genere fantastico: da un fo- glio all’altro le Rovine dell’abbazia di Rijnsburg passano da una descrizione fedele a un’immagine magica. Rocce ripide, albe- ri morti, un villaggio isolato, costituiscono uno dei temi pre- feriti; egli ne tira stampe di grande formato, in particolare Valle di montagna con quattro alberi, Paesaggio con campi re- cintati, Paesaggio roccioso con cascate.Lo stesso senso di mi- naccia si sprigiona dalle due Tempeste in mare, rappresentan- ti velieri che invano lottano contro gli elementi scatenati. Oltre ai paesaggi, S eseguì vari studi di alberi, in un sito na- turale (il Grande albero) o su sfondo neutro e astratto (i Due alberi, l’Albero muschioso). I Tre libri sono una delle acqueforti piú singolari che S ci ab- bia lasciato. Le tecniche di tiratura usate da S svolgono un ruolo essenziale in ogni foglio, consentendogli di ottenere va- riazioni pressoché infinite partendo da uno stesso rame: ti- ratura in verde, giallo, azzurro o bianco su tela o su carta tin- teggiata a guazzo o ad acquerello, ritoccata a risalti dopo la stampa per accentuare taluni dettagli. Anche qui l’originalità

Storia dell’arte Einaudi dell’artista sta nell’uso molto personale di metodi tradizio- nali (vernice protettiva, puntasecca, rame asciugato in modo ineguale, incisione allo zucchero). Per il Fondovalle, l’inci- sione di cui rimane il maggior numero di esemplari, esistono tirature in verde, azzurro o nero su carta e su tela, colorate di giallo, grigio, verde, bruno o azzurro piú o meno intensi, con accentuazioni di altro colore aggiunte in un secondo tem- po. Gli effetti policromi di queste incisioni sembra interes- sassero particolarmente S, che finì per farne veri e propri qua- dri, soprattutto se verniciate; è il caso della Grande rovina dell’abbazia di Rijnsburg, tirata in giallo su carta dipinta in nero, con risalti di verde nel cielo e di rosso sulle pietre. Le due principali raccolte d’incisioni di S si trovano ad Am- sterdam (Rijksmuseum, Gabinetto delle stampe) e a Parigi (bn, Gabinetto delle stampe). Tranne che per Johannes Rui- scher, l’influsso delle incisioni di S fu molto limitato tra i suoi contemporanei e anche la sua produzione pittorica può dirsi recepita solo da Frans de Momper; non va tuttavia sot- tovalutato il debito di Rembrandt e di Philips Koninck, che dovettero certo rimaner colpiti dai dipinti del loro prede- cessore. (mdb). Seghers (Zegers), Gérard (Anversa 1591-1651). Cugino di Daniel S, col quale è stato talvolta confuso, frequentò certamente le botteghe di Hen- drick van Balen il Vecchio e di Abraham Janssens; nel 1608 venne ammesso in qualità di maestro nella gilda di San Lu- ca. Tra il 1611 e il 1620 soggiornò in Italia, dove fu, in par- ticolare, al servizio del cardinal Zapata y Mendoza a Napo- li. Viaggiò ancora in Spagna e nei Paesi Bassi del nord. Operò soprattutto ad Anversa, dove ricevette incarichi importanti. Nel 1637 venne nominato pittore di corte del principe-car- dinale Ferdinando, e, piú tardi, del re di Spagna. La sua ope- ra subì agli inizi l’influsso di Caravaggio e Manfredi; poi, do- po il ritorno ad Anversa, quello di Rubens. Poche opere sus- sistono del periodo italiano (Giuditta con la serva: Roma, gn, Gall. Corsini). Tuttavia, tra i temi caravaggeschi, la Nega- zione di san Pietro sembra fosse il suo soggetto favorito, co- me attestano incisioni di opere perdute e numerosi dipinti a lui attribuiti (San Pietroburgo, Ermitage, Tours, mba, coll. priv.). Nella Flagellazione di Cristo della chiesa di Saint-Mi- chel a Gand, opera di transizione, S serba il fondo neutro ti-

Storia dell’arte Einaudi pico del caravaggismo, ma abbandona l’uso della luce artifi- ciale, e le forme si fanno prosperose. Nell’Adorazione dei Ma- gi della chiesa di Notre-Dame a Bruges, e nello Sposalizio del- la Vergine (Anversa, Museo), la composizione è divenuta ru- bensiana. S partecipò, con Rubens, alle decorazioni per la Felice entrata del cardinal-infante ed eseguì grandi dipinti de- corativi (Ratto di Europa, Festino bacchico: Braunschweig, Herzog-Anton-Ulrich-Museum). Diresse un’importante bot- tega, aiutato, negli ultimi anni, dal figlio Giovanni Battista e da Thomas Willeboirts Bosschaert. (wl + mdb). Segna di Bonaventura (Siena, documentato dal 1298 al 1326 - ante 1331). Forse nipote di Duccio, fu certo suo scolaro e seguace, replican- done i modi con assai minor respiro e finezza. Il catalogo delle sue opere, si giova del fondamento di quattro dipinti firmati: una Madonna in Maestà fra angeli e santi (Castiglion Fiorentino, collegiata, esemplata probabilmente sul proto- tipo duccesco della cappella dei Nove del Palazzo Pubblico di Siena, oggi perduta), un polittico smembrato tra New York (mma) e Assisi (Museo di San Francesco), un Croci- fisso (Mosca, Museo Puskin) e i frammenti di un polittico (n. 40 della pn di Siena). Incerta è l’identificazione della ta- vola che gli fu pagata nel 1317 dagli agostiniani dell’eremo di Lecceto con la Madonna col Bambino oggi nel Seminario vescovile (Siena), mentre è accertata la data 1319 per il Cro- cifisso della Badia aretina (Sante Flora e Lucilla), che resta tuttavia una attribuzione. Solo in tempi recenti (Padovani, 1979, 1981) il corpus di S ha subito, oltre che una sostan- ziale scrematura, un non ancora del tutto assestato tentati- vo di scalatura cronologica soddisfacente e di individua- zione stilistica piú argomentativa, che vuole vedere all’in- terno di quello alcune tappe significative tra il Polittico di sant’Antonio a Montalcino (1300-303 ca.), i Crocifissi n. 21 della pn di Siena e di San Polo in Rosso (ivi), e quelli della tarda maturità (Chianciano e Pienza, San Francesco), che mostrano, come anche la Madonna di Raleigh (North Caro- lina Museum) un, seppure impacciato, avvicinamento ai mo- di gotici di Simone Martini.È ormai opinione di tutti che non gli appartenga la finissima Maestà con storie di Cristo del Duomo di Massa Marittima. (cv + sr).

Storia dell’arte Einaudi Segovia Città spagnola nella Vecchia Castiglia, ricchissima di chiese tardo-romaniche. Dovette essere, alla fine del sec. xii, sede di una scuola di pittura murale che si diffuse in tutta la re- gione (Maderuelo), ma, sino ad epoca recente, nella città non ne restavano che scarse testimonianze (San Millàn, San Ni- colas). Dal 1964, altre chiese, sbarazzate dalle sovrapposi- zioni barocche che ne rivestivano le absidi, hanno rivelato tesori insospettati: il ciclo di San Justo, appartenente anco- ra al sec. xii, è di eccezionale importanza, col suo Cristo in maestà circondato dai vecchi dell’Apocalisse e, sulle pareti laterali, il Cenacolo e la Cattura di Cristo.I dipinti di San Cle- mente, eseguiti a tempera nel sec. xiii in un linguaggio in- termedio tra romanico e gotico, sono anch’essi notevoli (Cri- sto e Vergine in maestà, Albero di Jesse). In seguito S contò solo pittori secondari, ma talvolta curio- si: Nicolas Greco, artista cretese stabilitosi in Castiglia all’ini- zio del sec. xvii, produsse quadri di effetti notturni (Adora- zione dei pastori: S, Museo Provincial de Bellas Artes); un po’ piú tardi, l’andaluso Pedro Contreras, è l’autore dell’affasci- nante serie di dipinti simbolici sulla vita cristiana e la morte (1653) che adorna una cappella della Cattedrale. I dipinti piú importanti conservati a S sono di autori stranieri: il grandioso trittico della Deposizione dalla Croce nella Cattedrale, è un capolavoro di Ambrosius Benson di Bruges, che operò forse in Spagna tra il 1530 e il 1535 e le cui opere vi ebbero, in ogni caso, ampio successo. In Cattedrale vanno anche ricor- date le belle vetrate del xvi-xvii secolo. I dipinti realizzati per S nel sec. xvii dal pittore madrileno Francisco Camillo, sono tra i migliori dell’artista (Retablo di N. D. de la Fuenci- sla, Deposizione dalla Croce nella Cattedrale, e soprattutto la Conversione di san Paolo del 1667, dinamica e brillante di co- lore, nel museo della città). (pg). Seguì, Antonio (Cordoba (Argentina) 1934). Interrotti gli studi artistici e giuridici, agli inizi degli anni Cinquanta parte per l’Europa visitando l’Italia e la Svizzera. Dopo un viaggio nell’Africa del Nord, prosegue gli studi di pittura in Francia (Parigi) e Spagna (Madrid). Tornato in Argentina nel 1957, dove re- sta fino al ’61, comincia ad esporre: fissa la propria residenza

Storia dell’arte Einaudi a Parigi nel 1963, dove si era affermato partecipando alla Biennale, e partecipe del clima della Nouvelle figuration. In sintonia con la tradizione spagnola la sua arte è contrasse- gnata da un carattere ansioso e patetico attento alle temati- che sociali, pessimista e caricaturale (Felicitas Estado n. 12: Parigi, coll. priv.). I colori gioiosi propri delle prime prove, sono progressivamente soppiantati da toni piú pacati (gri- gio, rosso scuro) come nella serie di paesaggi desolati e rigi- di realizzati nel 1977; il segno diviene sempre piú graffian- te e semplificato, l’iconografia ispirata ai temi sociali e ur- bani (Cuando volvi de Brasil, 1984). La stessa ironia percorre la sua opera per il teatro di marionette. (jjl + sr). Sei Dinastie Questo periodo della storia della Cina (265-581) è caratte- rizzato da una frantumazione feudale che favorì l’installa- zione dei barbari nel nord del Paese, da dove patrocinaro- no il buddismo, costringendo la civiltà cinese classica a ri- fugiarsi a sud del Fiume Azzurro. Appunto in quest’epoca tormentata, la pittura, liberandosi dalle sue origini artigia- nali, cominciò a divenire un’arte, codificata da teorici co- me Xie He e favorita dall’invenzione di un nuovo tipo di pennello. Disponiamo soltanto di copie successive per ricostruire la pittura di questo periodo, fecondo di innovazioni: siano le ricerche compositive di Gu Kaizhi, siano le ombre di Zhang Sengyon o gli esordi del paesaggio. Quest’ultimo, se non è ancora un genere indipendente, appare in netto progresso, come si vede negli affreschi di Dunhuang, in cui le scene so- no rappresentate a bande sovrapposte, e soprattutto sulle pareti incise del celebre Sarcofago di pietra della Gall. Nel- son (Kansas City), datato intorno al 535; malgrado la man- canza di scala e le proporzioni erronee, si fa luce una sensi- bilità nuova sia nel tracciato fluido degli alberi scossi dal ven- to come nel tentativo di suggerire lo spazio mediante la disposizione delle montagne all’orizzonte superiore della composizione. (ol). Seignemartin, Jean (Lione 1848 - Algeri 1875). A Lione ebbe come maestro Gui- chard. La sua opera, seppure svolta in un breve torno di tem-

Storia dell’arte Einaudi po, registra le influenze di Delacroix (specie nelle prove gio- vanili), di François Vernay nelle nature morte e nelle com- posizioni di fiori, ma nel periodo algerino volge già all’im- pressionismo (paesaggi). Il mba di Lione conserva un nucleo importante dei suoi dipinti, presenti anche nei musei di Saint-Etienne, Montpellier, Parigi (Louvre: Fiori, 1874). (ht). Seilern, Anton (Frensham 1901 - Londra 1978), Storico dell’arte, dall’ini- zio degli anni Trenta formò una collezione accuratamente selezionata di dipinti e disegni, principalmente di scuola ita- liana e fiamminga. La parte italiana comprende un Trittico (1338) di Bernardo Daddi, una Santa Caterina di Tiziano e complessi di disegni di Leonardo (Studio per una Maria Mad- dalena), Carpaccio (Vergine col Bambino), Fra Bartolomeo (molti Paesaggi), Parmigianino (molti Fogli di studi) e Stefa- no della Bella (ventidue Studi di soldati e cavalieri). La serie veneziana è particolarmente importante, tanto per la pittu- ra, con Giambattista Tiepolo (quattro Modelli per la cappella del monastero di Aranjuez, 1767) che per il disegno, con die- ci Guardi, tredici Giambattista Tiepolo e quattro Giando- menico Tiepolo. Tra le opere fiamminghe spiccano il tritti- co della Deposizione nel Sepolcro del Maestro di Flémalle, una bella serie di disegni di Bruegel, nonché la sua Fuga in Egitto (1563) e la Donna adultera (1565). I dipinti di Rubens formano la sezione piú importante della collezione S: la Con- versione di san Paolo (disegno, schizzo e quadro definitivo), il Serpente di bronzo, la Famiglia di Jan Bruegel il Vecchio, il Paesaggio al chiaro di luna, Ritratto di Jan van Montfort. La collezione vanta anche numerosi disegni di Rubens (la Ca- lunnia di Apelle, le Tre Grazie, Hélène Fourment, San Giu- seppe, la Resurrezione di Lazzaro), nonché una bellissima se- rie di schizzi dipinti: cinque modelli (1620) per la chiesa dei Gesuiti ad Anversa, la Collera di Achille, la Morte di Achil- le, la Visitazione e la Presentazione al Tempio (schizzi delle ante del Trittico della Deposizione dalla Croce della Catte- drale di Anversa). Tra le opere di altre scuole, una serie di disegni di Rembrandt e alcuni Kokoschka, tra cui un gran- de trittico, Prometeo. Il conte S ha lasciato l’intera colle- zione al Courtauld Institute di Londra, tranne due dipinti donati al km di Vienna. (jh).

Storia dell’arte Einaudi Sei pittori di Torino Nel gennaio del 1929 sei artisti attivi a Torino, ma non tut- ti torinesi di nascita, esposero insieme nella Sala Guglielmi di piazza Castello, scegliendo come insegna l’Olympia di Ma- net per sottolineare il carattere antiaccademico della loro ini- ziativa. Il gruppo era formato da Gigi Chessa, , Francesco Menzio, Enrico Paulucci, che cercavano nella pit- tura francese contemporanea stimoli alternativi al magiste- ro di Casorati, da Nicola Galante, che aveva alle spalle un’in- teressante attività di xilografo ed era in rapporto con il grup- po fiorentino del Selvaggio, e da Jessie Boswell, un’inglese che, vissuta per molti anni come dama di compagnia nella casa del collezionista Riccardo Gualino, era stata anch’essa allieva di Felice Casorati. Il richiamo all’opera-scandalo di Manet, di cui Gualino possedeva un bozzetto, rendeva espli- cito il rapporto che legava il gruppo a Lionello Venturi, che nel medesimo periodo stava approfondendo lo studio dell’impressionismo, inteso come lezione di modernità e di libertà espressiva. Edoardo Persico, animatore delle prime iniziative dei S, vide nella loro pittura il segnale di un rin- novamento del gusto in chiave europea, sottolineando in tal modo l’importanza della presenza torinese di Venturi così come quella dei viaggi di studio a Parigi ed evidenziando il significato anche morale di una presa di posizione che, con Carlo Levi, sarebbe di lì a poco approdata alla militanza an- tifascista. In ambito italiano, l’iniziativa si inseriva nella cri- si causata dall’allargarsi del fronte del Novecento e insieme dal rafforzarsi di posizioni critiche tenacemente nazionali- ste quali quelle di Ugo Ojetti, capaci di mettere in mino- ranza l’atteggiamento piú aperto di Margherita Sarfatti. In questo contesto le mostre del gruppo torinese – a quella d’esordio seguirono nel ’29 le esposizioni al Circolo della Stampa di Genova e alla galleria di Pier Maria Bardi a Mi- lano e la partecipazione alla seconda mostra del Novecento, nel ’30 una nuova mostra a Torino e la presenza alla Bien- nale di Venezia – divennero occasione di polemica e la loro opera fu, comunque strumentalmente, ora annessa ora espunta dallo schieramento novecentista. Nei paesaggi, nel- le nature morte, nei nudi e nei ritratti che, in dichiarata po- lemica con i soggetti storici costituivano i temi della loro pro- duzione, i S davano spazio a una vena intimista, dissolven-

Storia dell’arte Einaudi do, con Chessa, o dissociando, con Levi, Menzio, Paulucci, il rapporto tra segno e colore, mentre Galante sviluppava una rilettura primitivista di Cézanne e Jessie Boswell rima- neva legata a tassellature cromatiche post-macchiaiole. Alla Biennale del ’30, in cui Venturi presentava la sala di Modi- gliani, emerse con nuova evidenza il rapporto che legava la pittura di Levi, Menzio e Chessa alle deformazioni lineari e cromatiche del livornese e sui S cadde l’anatema dei difen- sori di un’italianità dell’arte identificata nel classicismo. Nei mesi seguenti solo Levi, Menzio e Paulucci continuarono ad esporre insieme, presentati da Venturi a Londra e a Parigi – dove esponeva anche Chessa – e con una polemica auto- presentazione alla Galleria di Roma nel ’31, in concomitan- za con la partecipazione alla prima Quadriennale; rifiutata la pretestuosità delle tesi e delle letture critiche tendenzio- se, ogni artista tornò quindi a saggiare individualmente i mo- di dell’espressione e del rapporto col pubblico. (mtr). Seisenegger, Jacob (Bassa Austria 1505 - Linz 1567). Nessuna notizia sulla sua giovinezza, S si formò forse come miniatore. Il suo stile lo dimostra in stretto contatto con la cosiddetta scuola del Da- nubio. Nominato nel 1531 pittore di corte di re Ferdinando di Boemia e Ungheria, imperatore dal 1558 al 1564, S restò per tutta la vita al suo servizio e a quello del suo successore, malgrado gli venissero mosse offerte brillanti e che avrebbe- ro potuto migliorare le difficili condizioni finanziarie. Rite- nuto alla corte d’Austria il massimo ritrattista del suo tem- po, inviato in missione in tutta Europa, ha piú i tratti di un produttore instancabile di ritratti che di un artista inventivo e originale. S ha prodotto peraltro alcune opere ammirevoli, come il Ritratto di nobiluomo (San Francisco, M. H. De Young Memorial Museum) o il Ritratto di Georg Fugger (Ger- mania, coll. priv.), nel quale il ventiquattrenne borghese di Augusta non si fece ritrarre come tale, ma invece, grazie al suo matrimonio con una nobile austriaca, a figura intera e quale conte dell’impero, nel 1541. Questo esempio, come al- cuni altri piú tardi (Ritratto di Matthäus Suh, 1548: Innsbruck, Landesmuseum Ferdinandeum), dimostra inoltre la stima che lo circondava ovunque in quanto ritrattista di corte e crea- tore della formula del ritratto in piedi per i membri della ca- sa d’Austria che divenne subito quella ufficiale. Nel 1530-31

Storia dell’arte Einaudi infatti S dipinge i ritratti, perduti, della regina Anna e dei figli in una cornice di architetture anticheggianti che gli crea- no fama di maestro della prospettiva e che sono il primo pas- so per il setting decisamente rinascimentale e prezioso offer- to dal suo Ritratto di Carlo V con l’alano, dipinto durante il soggiorno del sovrano a Bologna, nel 1532 (Vienna, km). Nell’armonico contrapposto della posa bilanciata, che sug- gerisce insieme autorità e pacatezza, nello sguardo asciutto e lontano e nelle sue scelte cromatiche, questo ritratto non tardò a colpire Tiziano, che lo riprese nel suo celebre ritrat- to del Prado, lanciando così un modello di ritratto di stato che divenne normativo per i secoli a venire. (pv + sr). Seitz, Ludovico (Roma 1844-1908). Nato a Roma da famiglia tedesca, fu av- viato all’arte dal padre Alexander Maximilian, pittore «naza- reno». Dal purismo non si distaccò mai, affrescando e dipin- gendo alacremente per numerose chiese in Italia e all’estero. Sono da citare tra i suoi lavori romani piú impegnativi San Tommaso e san Bonaventura per la chiesa dell’Aracoeli e la Vi- ta di san Giovanni Nepomuceno per Santa Maria dell’Anima (Roma). Dal 1892 al 1902 si dedica alla decorazione della cap- pella tedesca della Basilica di Loreto, dipingendovi La desti- nazione, la vita e la gloria di Maria.All’Accademia di San Lu- ca a Roma, dove il S insegnò, si conserva il suo Polittico della Vergine.Sono opera sua i cartoni per i mosaici e la decorazio- ne dell’altare sulla tomba di Pio IX nella chiesa di San Lorenzo fuori le mura a Roma. Oltre che nella Basilica di Sant’Anto- nio a Padova (affresco con Santo Stefano confonde i Giudei), lavorò nel Duomo di Friburgo e nella cappella del principe Für- stenberg a Heiligenberg sul lago di Costanza. (mvc). Seiwert, Fraw-Wilhelm (Colonia 1894-1933). Dopo aver frequentato i corsi della Kunstgewerbeschule di Colonia, Franz-Wilhelm S partecipa con entusiasmo alle attività dei dadaisti che operavano nella sua città natale. Nel 1919 è tra i fondatori del gruppo Stupid con Heinrich Hoerle e Anton Räderscheidt. Collabora inol- tre a «Die Aktion» di Franz Pfmfert, sulla quale pubblica xi- lografie a carattere di denuncia sociale e politica. Nel ’20 è la svolta verso l’astrattismo, sotto la spinta del costruttivismo:

Storia dell’arte Einaudi partecipa al celebre Congresso degli artisti progressisti (Düs- seldorf 1922), contemporaneo al congresso dadaista e co- struttivista di Weimar. Sviluppa in seguito un’arte figurati- va contraddistinta da forme molto stilizzate, di struttura geo- metrica. I suoi soggetti sono presi dal mondo del lavoro, fronteggiando spesso categorie in lotta, operai e industriali (Discussione, 1926: Bonn, km). Nel corso di un suo soggior- no in Francia nel 1927, incontra Brancus¸i ed Herbin. Svi- luppa un interesse verso l’arte murale e decorativa, realiz- zando un’insegna di artigiano per il celebre fotografo Augu- st Sander nel 1925 (ora coll. priv. Rottach Egern). Nel 1929 S fonda a Colonia il Gruppe Progressiven Künstler, politica- mente vicino al Partito comunista tedesco, che riunisce arti- sti come Augustin Tschinkel, Gerd Arntz e Heinrich Hoer- le; lo stesso anno fonda e dirige (fino al 1933) la rivista «a bis z». Come artista, le sue opere combinano costruttivismo e fi- gurazione; a volte vicino agli esiti di un Delaunay (Forme, 1929-30: Colonia, coll. priv.) e del purismo francese (Sera di festa, 1925: Amburgo, km), non dimentica le proprie aspira- zioni sociali e politiche. Sarà apprezzato da un precursore del- la Pop Art, il tedesco emigrato negli Usa, Richard Linder. (sr). «Sele arte» Rivista bimestrale di informazione artistica internazionale, edita dal 1952 al 1966 (18 numeri), e diretta da C. L. Rag- ghianti, è stata poi assorbita da «Critica d’arte». Ha offerto al pubblico italiano un ampio panorama dei di- battiti artistici internazionali. La rivista ha mantenuto una serie di rubriche stabili che toccavano argomenti quali l’ur- banistica, la pittura olandese e fiamminga, la storia della cri- tica d’arte, le problematiche legate alle avanguardie e il rap- porto tra arte, cinema e fotografia. Ha pubblicato interventi di noti esponenti della cultura in- ternazionale tra cui: Shahn, Gropius, Le Corbusier, Bill, Mann, Schlosser, Wright, Dewey, Kokoschka, Matisse, Pi- casso, Dufy, Rouault e Sutherland, costituendo un’impor- tante vetrina degli orientamenti critici e della situazione cul- turale italiana tra il Cinquanta e il Sessanta. (fb). Seligmann, Kurt (Basilea 1900 - Sugar Loaf 1962). Svolti gli studi alla Scuola di belle arti di Ginevra, dove conosce A. Giacometti, e a Fi-

Storia dell’arte Einaudi renze (1927), si trasferisce a Parigi nel ’29 dove prende a fre- quentare l’atelier di A. Lhote. Membro del gruppo Abstrac- tion-Création nel 1930, viene in contatto con i surrealisti. Realizza allora nelle sue tele un mondo di forme fantastiche; tra i suoi soggetti ricorrenti sono gli automi (il Prestidigitato- re, 1932: Basilea, Kupferstich Kabinett), figure composte da oggetti reali (ruote dentellate, alambicchi), che diventeran- no poi gli «oggetti» surreali con i quali si afferma alla mostra internazionale del surrealismo (1938), dove espone il suo Ul- tramobile, una sedia con le gambe da donna. Trasferitosi nel 1939 negli Stati Uniti, si mantiene in rapporto con i surrea- listi in esilio. L’interesse per l’occultismo e la stregoneria (scri- verà The Mirror of Magic, New York 1948) gli ispira nume- rosi quadri (Life goes on, 1943: Ginevra, coll. priv.), ma è so- prattutto all’acquaforte che S affida la sua fervida fantasia (Wrapped Landscape, 1945: Ginevra, Gabinetto delle stam- pe). Insegnò incisione a Motherwell. (sr). Sellaer, Vincent (Malines, prima del 1500 - 1589). Soggiornò intorno al 1525 a Brescia, dove conobbe l’arte di Moretto. Tornato dall’Ita- lia si stabilì a Malines, dove operava ancora nel 1544. S s’ispirò direttamente a Raffaello, Michelangelo, Parmigia- nino e soprattutto Leonardo, da cui trasse i soggetti, il gu- sto per il modellato e i tipi femminili. Attorno all’unico di- pinto da lui firmato e datato 1538 (Lasciate che i pargoli ven- gano a me: Monaco, castello di Schleissheim) è possibile raggruppare una ventina di composizioni religiose e mitolo- giche: la Sacra Famiglia (Copenhagen, smfk; Rouen, mba), la Carità (Bruxelles: mrba, distrutto nel 1939), Giuditta con la testa di Oloferne (Berna, Museo), Giove ed Antiope (Braun- schweig, Herzog-Anton-Ulrich- Museum), Lucrezia (Bonn, Museo), Susanna e i vecchioni (Epinal, Musée Départmental des Vosges), Leda (Valenciennes, mba). (wl). Selleny, Joseph (Vienna 1824-75). Studiò dal 1842 all’Accademia. Prese par- te, dal 1857 al 1859, come illustratore, a una spedizione che aveva lo scopo di svolgere studi etnografici e antropologici, nonché di esplorazione nell’Oceano Indiano meridionale. Di questo viaggio S ha lasciato un migliaio di acquerelli e dise-

Storia dell’arte Einaudi gni che ritraggono la vita di bordo, i panorami delle coste, le città e i paesaggi, gli indigeni dei paesi visitati, in gran parte utilizzati per illustrare una relazione del viaggio in tre volumi. Per la loro precisione, rivestono valore scientifico; sono comunque opere di manifesta qualità artistica, si ve- dano specialmente gli studi dei cieli e le marine. Appena ritornato, S decise di ripartire scortando, per un viaggio di sei mesi in Brasile, l’arciduca Ferdinando Massi- miliano. Di ritorno a Vienna si ispirò agli studi rimasti in suo possesso per composizioni dipinte che gli valsero un ve- ro e proprio successo (L’isola di San Paolo nell’Oceano In- diano, 1868: Vienna, ög). S trascorse gli ultimi due anni della sua vita in manicomio. Grazie alle acquisizioni delle sorelle e alla vendita della sua eredità, gran numero dei suoi lavori poterono entrare nelle raccolte di Stato; sono oggi conservati a Vienna (Albertina, Museo dell’Esercito, ög, hm). (g + vk). Sellier, Charles Auguste (Nancy 1830-82). Contemporaneo di Manet, di modesta origine, dovette alle sue precoci doti una borsa che gli con- sentì di frequentare a Parigi lo studio di L. Cogniet. Prix de Rome nel 1857, trascorse sei anni in Villa Medici, le- gandosi a Carpeaux. Impegnato piú nella creazione di un’at- mosfera evocativa di mondi fiabeschi che nella rappresen- tazione della realtà, seppe essere tuttavia sicuro ritrattista. A causa della scarsa qualità dei materiali da lui impiegati, non sono per noi evidenti le sue doti di luminista, lodate dai contemporanei. Sue opere sono conservate nei musei di Nancy. (tc). Sellitto, Carlo (Napoli 1581-1614). Forse allievo dell’oscuro manierista Giovan Francesco Ardito, poi inserito in una cerchia di ar- tisti che annoverava Filippo Vitale, Filippo Napoletano, François de Nomé e Lois Croys, avvertì il peso della svolta caravaggesca forse già nel momento del primo soggiorno del pittore lombardo a Napoli (1607). Già nel 1608, infatti, la commissione delle due tele con L’apostolo Pietro salvato dal- le acque e La consegna delle chiavi a san Pietro per la cappel- la Cortone in Sant’Anna dei Lombardi (Napoli, ora a San- ta Maria di Monteoliveto) segna la presenza del pittore in

Storia dell’arte Einaudi un contesto dove quasi contemporaneamente lavoravano Mi- chelangelo Merisi e Giovanni Battista Caracciolo. A una adesione dialettica al caravaggismo piú intenso, ma non senza marcate persistenze manieriste, appartengono an- che le poche opere superstiti del periodo 1610-14: il San Car- lo Borromeo in estasi mistica (già a Napoli, Sant’Aniello a Ca- ponapoli; ora a Napoli, Capodimonte); la Santa Cecilia al cembalo (verso il 1612: già a Napoli, Santa Maria della So- litaria, cappella della Congregazione dei Musici; ora a Na- poli, Capodimonte); l’Adorazione dei pastori (Napoli, Santa Maria del Popolo agli Incurabili); la Visione di santa Candi- da (Napoli, Sant’Angelo a Nilo); il Cristo crocifisso (Napoli, Santa Maria di Portanova), il cui paesaggio è assegnato a Fi- lippo Napoletano; il Sant’Antonio da Padova (Napoli, già in San Nicola alla Dogana; ora a Napoli, Santa Maria Incoro- nata a Capodimonte). (rla). «Selvaggio (Il)» Nato come settimanale di propaganda estremista del fasci- smo toscano, a Colle Val d’Elsa, presso Siena, si caratte- rizza a partire dal 1926 come un quindicinale di tendenza artistica all’interno del piú generale quadro politico di po- lemica contro la centralità di Roma capitale e contro la per- dita di legami con gli ideali dei primi momenti, ‘rivoluzio- nari’ del fascimo. È Mino Maccari, che lo diresse fino al 1943, con redazioni dapprima a Firenze (1926) poi a Siena (1929), a Torino (1931) e a Roma (1932), ad aprirlo alla col- laborazione di letterati, scrittori e critici attenti a un certo realismo agreste, in nome di una cultura italiana e regiona- le contraria a idealismo, astrattismo e surrealismo, e, piú in generale ad apporti europei. Ma soprattutto la rivista ebbe il merito di seguire con attenzione le fortune della grafica, disegno e incisione, promuovendo la conoscenza delle ge- nerazioni piú mature e riconosciute come l’attività dei gio- vani che si venivano affacciando sulla scena artistica. La ri- vista ebbe un ruolo determinante, all’interno della cultura del ventennio fascista, nelle polemiche fra quanti chiede- vano un allargamento degli interessi culturali alla città, all’Europa e alle relative forme espressive (‘stracittà’) e quanti miravano alla difesa dei valori immutabili della na- zione da scoprire in sede locale e ristretta (‘strapaese’). (pfo).

Storia dell’arte Einaudi Selvatico, Lino (Padova 1872 - Biancade (Treviso) 1924). Avviato dal pa- dre, promotore delle mostre veneziane, agli studi giuridici e al contempo artistici, questi ultimi sotto la guida di Ce- sare Laurenti, S espone per la prima volta alla III Interna- zionale d’Arte veneziana nel 1899 (Ritratto del prof. G. Bor- diga).L’arte del giovaneS prende l’avvio dall’opera di Fa- vretto e Tito; e mentre non seguirà il filone dell’aneddotismo alla Favretto è accostabile a Tito nella sua produzione ritrattistica, dai medesimi toni mondani ed ele- ganti. Accomuna i due artisti anche il gusto per il Sette- cento veneziano, evidente in S, in taluni sfondi scenogra- fici. S si specializzerà nel ritratto ottenendo in questo ge- nere una larga notorietà, nel quale raggiunge un’eleganza di accenti che lo avvicina alla moda internazionale di fine se- colo e a Boldini. Ritrattista della società borghese venezia- na, ne ritrae le donne, in splendidi salotti o in abito da amazzone, con tratti garbati e raffinati che tanto piacque- ro alla committenza. Dove S riesce a conciliare profondità espressiva e idealizza- zione formale, i risultati sono di forte suggestione: si veda- no i ritratti di Irma Gramatica (1902: Venezia, gam), della Contessa Anna Morosini (Venezia, coll. Morosini di Robi- lant), della Signora Antonietta Treves (Milano, gam). Tra la sua produzione grafica, sono da ricordare le puntesecche Ri- tratto di signora e Signora con cappello (Venezia, coll. S). S ha partecipato a quasi tutte le Internazionali veneziane, con mostre individuali nel 1912 e nel 1922. Nel 1926 l’istitu- zione veneziana gli dedica un’ampia mostra postuma (45 opere); opere di S sono conservate, oltre che nelle collezio- ni citate, nel Civico Museo Revoltella di Trieste, nella gam di Udine e nella gnam di Roma. (eca). Selvatico, Luigi (Venezia 1873 - Fincade di Roncade 1938). Fratello mino- re di Lino S, studia con Cesare Laurenti ed espone per la prima volta alla promotrice torinese nel 1896. Un certo suc- cesso di critica è ottenuto da Partenza mattutina (Biennale di Venezia del 1899), acquistato dalla gnam di Roma. La sua pittura interpreta il generismo favrettiano, sottolineando con acume e naturalezza effetti di luce, particolari e scorci

Storia dell’arte Einaudi caratteristici di Venezia (Un rio a Venezia, 1912; Macchine sotto pressione: Venezia, gam). (sr). Selvatico Estense, Pietro (Padova 1803-80). Nonostante la sua preparazione specifica di architetto (allievo di G. Jappelli), si dedicò presto alla sto- ria pittorica e alla riflessione teorica, esercitando una profon- da influenza soprattutto come docente all’Accademia di Ve- nezia. In un primo momento, il suo contatto con gli storici dell’arte piú avanzati in ambito europeo lo spinge verso una analisi strettamente aderente alle opere (L’Oratorio dell’An- nunziata nell’Arena di Padova e i freschi di Giotto in essa di- pinti, 1836), secondo un’impostazione che troverà un segui- to in Cavalcaselle. Esponente di punta del gusto «neo-me- dievale» europeo, sulla traccia di Ruskin, egli asserisce per i pittori moderni il ritorno alla pratica della bottega, e una pit- tura di storia diretta all’utile morale (Storia estetico-critica del- le Arti del disegno, 1852-56). Presidente della commissione per la nuova facciata di Santa Maria del Fiore a Firenze (1867), SE è uno dei protagonisti dei dibattiti politico-cul- turali di quegli anni, intervenendo spesso sui temi della con- servazione e la gestione del patrimonio artistico. (sba). Sembat, Marcel (Bonnières-sur-Seine 1863 - Chamonix 1922). Deputato so- cialista, discepolo di Jaurès, ministro nel 1916, difese gli ar- tisti contestati all’inizio del secolo scrivendo talvolta su di loro su «La Nouvelle Revue française» e su «Les Cahiers d’aujourd’hui». Con la moglie, Georgette Agutte, pittrice, condiscepola dei futuri fauves nell’atelier di Gustave Mo- reau, S costituì una bellissima collezione, ora al Museo di Grenoble, comprendente, oltre a cinque Matisse (tra i qua- li la Lettura e il Marocchino), pittore al quale dedicò uno stu- dio nel 1920, opere di Bonnard e di Marquet. (fc). Semeghini, Pio (Quistello di Mantova 1878 - Verona 1964). Nei primi anni del Novecento, S vive tra la Svizzera e Parigi, e nel 1904 se- gue i corsi all’Académie Julian, dove è ancora forte il ricordo di Gauguin «La mia accademia fu il Louvre – racconterà egli stesso – e la vita e le strade di Parigi». Mentre si esercita a di-

Storia dell’arte Einaudi segnare copiando dall’antico, sceglie i suoi punti di riferimen- to: gli impressionisti, Cézanne e in seguito i pittori fauves. In- torno al 1907 S è presente in una mostra del mercante Sagot, accanto ai quadri del periodo blu di Picasso. Stringe amicizia con Gino Rossi e Medardo Rosso, anch’essi giunti a Parigi. Tra il ’12 e il ’14 si reca piú volte a Venezia, entrando in con- tatto con il gruppo di artisti della Ca’ Pesaro. Risiede come molti di loro (Gino Rossi, rientrato in Italia, Moggioli, Gar- bari, Martini e altri) per lunghi periodi a Burano, dando vita a una pittura naturalistica (La casa incantata, 1913). Nel ’20 organizza la storica esposizione alla Galleria Geri Boralevi di Venezia, in contrapposizione alla Biennale. Nella seconda metà degli anni Venti insegna pittura a Lucca e alla Villa Reale di Monza. Appartengono agli anni Trenta le sue vedute di Ve- nezia, trasfigurate da un’atmosfera sognante e lirica, tratteg- giate con colori tenui e intimi. Intanto partecipa alle Biennali e alle Quadriennali romane. Nel ’39, con Ponte di Chioggia, vince il premio Bergamo. Durante la guerra, trasferitosi a Ve- rona, resta a lungo inattivo, anche a causa di una grave ma- lattia. Nella Biennale del ’48 fa parte della commissione figu- rativa insieme a Casorati, Carrà, Morandi. Negli anni Cin- quanta torna a dipingere con grande entusiasmo. Nel ’54 gli viene assegnato il premio Marzotto e due anni dopo, Verona gli dedica una grande antologica. Fino alla morte, S è sempre rimasto fedele a una pittura post-impressionista e tonale, di- sinteressandosi di tutte le novità artistiche del dopoguerra. Per il centenario della nascita (1978), il Palazzo Te di Mantova, la Fondazione Bevilacqua La Masa di Venezia e la Galleria Lo Scudo di Verona hanno organizzato delle importanti retro- spettive. Nell’82 alla Casa d’arte di Sasso Marconi (Bologna) e nell’84 presso la Galleria Gianferrari di Milano sono state ospitate sue personali. Opere di S si trovano nelle gam di Ro- ma, Verona, Venezia, Mantova, Milano, Firenze. (adg). Sementi, Gian Giacomo (Bologna 1583 - Roma, fra il 1636 e il 1642). Appresi i pri- mi rudimenti presso il Calvaert entra (1612 ca.) nella bot- tega del Reni, al quale resta sostanzialmente fedele, salvo piú forti contrasti nelle ombre e un’accentuazione della ve- na patetica. Collabora col Reni, fra il ’15 e il ’20, agli affre- schi del Duomo di Ravenna. Protetto dal cardinal Maurizio di Savoia si trasferisce nel 1627 a Roma, dove opera anche

Storia dell’arte Einaudi come copista del Reni, contribuendo a divulgare in quell’am- biente il gusto classicista aulico e teatrale del suo maestro. In questa fase sembra anche risentire del Lanfranco, come attestano la pala d’altare (firmata) nella chiesa di Sant’Ago- stino a Veroli (Madonna, san Pietro e san Carlo)e l’Assunta in Santa Maria Salome (ivi). (ff). Semgin-Aghiz Numerose pitture (sec. viii) ricoprivano le pareti dei mo- nasteri buddisti costruiti o scavati nelle scogliere di S-A, lo- calità archeologica e oasi del Turkestan cinese, ovvero Se- rindia (→). Queste opere si ricollegano alla produzione tar- da della cosiddetta scuola di «TurfÇn». Numerosi complessi di buona qualità presentano alcune tematiche incontrate con meno frequenza altrove, come quella delle grandi com- posizioni in cui alcuni monaci, raffigurati nell’atto di leg- gere o di scrivere, sono inseriti in una cornice d’alberi fio- riti trattati in maniera naturale e al contempo stilizzata. Al- tri riquadri appartengono al periodo della decadenza; mostrano lo stesso susseguirsi di monaci buddisti, motivo ora trattato con tonalità violente (verde, nero, marrone e bianco) che creano netti contrasti. Alcuni frammenti sono conservati a Berlino (sm, gg). (mha). Semino, Andrea (Genova 1526 ca. - 1594). Si formò alla scuola del padre Antonio, come il fratello minore Ottavio, con il quale compì verso la metà del secolo un’esperienza romana. Tornato a Genova, collabora nel 1552 con Cambiaso alla decorazione della cappella Centurione in Santa Maria degli Angeli. Ne- gli anni seguenti proseguì con il fratello la produzione di pa- le d’altare della bottega paterna, in un ambiente dominato dalle personalità di Luca Cambiaso e di Giovan Battista Ca- stello. Dopo il ’6o S si afferma come frescante nella deco- razione dei palazzi gentilizi, un genere di pittura celebrati- va e ornamentale che, dopo le grandi prove di Perino del Vaga, conosceva una nuova fortuna con Giovan Battista Castello. Sotto la direzione di questi S partecipa alla im- presa decorativa del Palazzo di di Tommaso Spinola (Gesta militari di Tommaso Spinola e figure allegoriche, 1565 ca.); ma subito dopo lavora autonomamente in Palazzo Cambia-

Storia dell’arte Einaudi so con il fratello Ottavio; nel Palazzo Lomellino (Episodi di storia romana, 1569); nel Palazzo di Giovan Battista Spi- nola, tutte decorazioni in cui mostra di aver saputo mette- re a frutto le esperienze della pittura manieristica dell’Ita- lia centrale, in particolare di Salviati. Fra i dipinti di desti- nazione sacra quelli della cappella di Paride Pinelli nella chiesa dell’Annunziata di Portoria (Natività, Annuncio ai pastori, Sogno di Giuseppe, 1567) sono fra i pochi databili con sicurezza. Con il fratello Ottavio lavora anche a Mila- no in Palazzo De Marini (Concilio degli dèi, distrutto). Tor- nato a Genova nel ’75 proseguì con successo l’attività di de- coratore, anche di facciate; nello stesso tempo S seppe fra i primi rispondere alle nuove esigenze di rappresentazione dell’arte sacra (Immacolata Concezione, 1588: San Pietro in Banchi; il Salvatore, san Matteo, san Mauro, il doge Niccolò e la principessa Aurelia Grimaldi: Genova, San Matteo; Im- macolata Concezione: Savona, chiesa dell’Annunciata). (sr). Semitecolo, Nicoletto (Venezia, seconda metà del sec. xiv). Personalità secondaria e tuttavia interessante della pittura veneziana della seconda metà del Trecento, S appartiene infatti a quegli artisti anco- ra legati alla maniera di Paolo Veneziano, ma che sanno co- gliere le novità della terraferma con effetti molto spesso sug- gestivi e caratteristici. Un documento del 1353 lo dice abi- tante a Venezia, mentre nel 1370 firmava un’Historia del Volto Santo nella cappella dei Lucchesi a Venezia. S è conosciuto per otto tavolette nella sagrestia dei canonici del Duomo di Pa- dova, una delle quali riporta la firma e la data 1367. Queste pitture sono caratterizzate da un’acuta narratività, da una re- sa vivace, specialmente nelle figure che denotano una chiara influenza dell’ambiente padovano e, in particolare, del Gua- riento col quale dovette essere in contatto, forse collaboran- do con lui negli affreschi della cappella absidale nella chiesa degli Eremitani. Un’ulteriore conferma della sua attività pa- tavina è offerta dalla grande Croce stazionale nell’abside del- la chiesa degli Eremitani che può essergli attribuita e che, per il linearismo incisivo ed elegante e per il colore smagliante, esprime un singolare equilibrio tra linguaggio, tradizional- mente veneziano e istanze di rinnovamento. Gli affreschi mol- to rovinati e frammentari sulle vele della volta della cappella dei Lucchesi a Venezia, raffiguranti fasce decorative con te-

Storia dell’arte Einaudi ste di Santi e medaglioni con Simboli degli Evangelisti e Dotto- ri della Chiesa, confermano la tendenza a una resa piú popola- resca nella esasperata ricerca di espressionismo lineare. (fd’a). Semper, Gottfried (Altona 1803 - Roma 1879). Partecipò ai moti del 1848 e fu esule a Parigi, Londra e poi Zurigo. Qui fu chiamato a in- segnare al Politecnico e fece parte della cerchia di Richard Wagner, Theodor Vischer, Gottfried Keller, Wagner Jakob Sulzer; visse poi a Vienna e Dresda, alternando periodi in Italia. I primi viaggi di studio e la prima presa di posizione Verläufige Bemerkungen über bemalte Architektur und Plastk bei den Alten (1834) convergono sulla questione della poli- cromia dell’architettura antica, emersa dai progressi della ri- cerca archeologica del primo Ottocento, ma con implicazio- ni dirette sulle sorti del movimento classicista tedesco e neo- classicista europeo. S sarà in polemica costante per tutto il corso della sua attività tanto con il neoclassicismo di Durand e di Klenze, quanto con il protofunzionalismo di Labrouste. La teoria della policromia come rivestimento dell’architet- tura antica, dotato di suoi valori simbolici, viene enucleata in Die vier Elemente der Baukunst, 1851 (trad. it. I quattro elementi dell’architettura, Milano 1991) e ripresa piú speci- ficamente in Entwurf eines System der vergleichenden Stilleh- re (1853), ispirato chiaramente ai criteri scientifico-natura- listici di Cuvier e composto dopo la grande Esposizione di Londra del 1851 alla quale aveva partecipato, riportando vi- vissime impressioni circa le nuove possibilità nell’uso dei ma- teriali offerte dal progresso tecnologico. Su questa strada S si spingerà molto oltre, come dimostra la sua opera piú ce- lebre rimasta incompiuta Der Stil in den technischen und tek- tonischen Künsten del 1861-63 (trad. it. parziale Lo stile,Ro- ma-Bari 1992), in cui giungerà a dare alla componente tec- nico-materiale, all’interno del pieno dispiegamento ideale e simbolico della produzione artistica un ruolo decisivo, qua- si come «coefficiente di attrito», secondo un’immagine che proprio Riegl conierà per criticare le ipostafizzazioni positi- viste delle teorie semperiane. Tra le opere di S architetto si ricordano la sede del Politecnico di Zurigo, lo Stadthaus a Winterthur, l’Hofburgtheater di Dresda e con Karl Hase- nauer il km di Vienna. (ss).

Storia dell’arte Einaudi Sempere, Eusebio (Onil (Alicante) 1924-85). Ha studiato alla Scuola di belle arti di Valenza. Dal 1949 al 1958 ha vissuto a Parigi, fre- quentando Arp, Vasarely e i pittori costruttivisti della Gall. Denise René che lo portano a praticare una pittura astratta. Dal 1954 si è interessato ai meccanismi dell’arte cinetica, ideando le cosiddette «scatole», opere tridimensionali ove l’uso della luce e del movimento reali svolge un ruolo pri- mario. In seguito ha abbandonato tali ricerche sperimenta- li per dedicarsi ai problemi della luce e delle vibrazioni otti- che; può collocarsi tra i rari pittori per i quali la natura e il paesaggio non si contrappongono alla geometria e alle rego- le ottiche. Contemporanee a una serie di opere semi-paesag- gistiche e liriche, frequenta nuovamente, verso il 1964, le ricerche cinetiche creando mobiles di stecche d’acciaio cro- mato con i quali studia gli effetti ottici che derivano dal mo- vimento dello spettatore rispetto all’oggetto (lavori al Cen- tro di calcolo dell’Università di Madrid, realizzati con la collaborazione di scienziati e l’aiuto di un calcolatore elet- tronico). A Valenza ha collaborato col gruppo Antes del Ar- te, composto da pittori e tecnici; peraltro la sua vena piú li- rica si è manifestata in altre opere, specie nella serie di se- rigrafie da lui eseguite nel 1969 per un libro di poesie di Gongora, edito dal Museo d’Arte astratta spagnola di Cuen- ca. Qui, in ogni pagina, si esprime la sensibilità per il colo- re e la luce. L’artista si è poi dedicato alla scultura astratta in acciaio cromato negli anni Settanta. È rappresentato par- ticolarmente a New York (moma), al Fogg Museum di Cam- bridge (Mass.), al Museo d’Arte astratta spagnola di Cuen- ca, ai mam di Rio de Janeiro, Barcellona, Atlanta, Valenza. (abc). Semplice da Verona, Fra (Verona 1589 ca. - Verona o Roma 1654 ca.). La formazio- ne nell’ambito della cerchia tardomanierista di Felice Bru- sasorci e a contatto con la triade rinnovata Ottino-Tur- chi-Bassetti è fondamentale per il pittore, che nel 1613 en- tra nell’ordine cappuccino e inizia una vita di grandi spostamenti fra diverse aree culturali. Altrettanto determi- nante è il soggiorno emiliano (fu a Parma nel 1617, a Man- tova nel 1621-23) per l’influenza dell’arte emiliana cinque e

Storia dell’arte Einaudi seicentesca e soprattutto per l’incontro col Fetti (San Fran- cesco riceve il Bambino dalla Madonna: Mantova, coll. D’Ar- co, esemplare di un’iconografia cappuccina che sarà iterata con lievi varianti in moltissimi esemplari a Padova, Bassa- no, Parma, Mestre; Cristo deposto: Firenze, Uffizi; Pietà con san Francesco e un angelo: Praga, ng). I successivi passaggi a Roma e in Sicilia (1646) sono meno influenti sul suo stile e nella fase tarda tende a scadere nella ripetitività (Santissima Trinità con i santi Bartolomeo e Bernardo da Chiaravalle, 1659: Lugano, chiesa dei Cappuccini). A lui è stata di recente as- segnata la bellissima Vestizione di santa Chiara (Grenoble, mba), prima attribuita anche ad Annibale Carracci. (elr). Senefelder, Aloys (Praga 1772 - Monaco 1834). Figlio di un attore di Mona- co, era scrittore teatrale di scarso successo. Dotato di spiri- to curioso e inventivo, cercò un procedimento poco costoso per stampare i suoi testi a proprie spese: ebbe l’idea di so- stituire alle lastre di rame quelle di pietra calcarea, e ini- zialmente immaginò un processo a metà tra l’incisione a ri- lievo e l’acquaforte. Il testo viene scritto con l’aiuto di un pennello carico di vernice grassa sulla superficie liscia della pietra. Questa viene in seguito sottoposta all’azione di un mordente, risparmiando soltanto le superfici coperte dalla vernice, che, così, appaiono in rilievo. La tiratura avviene secondo i procedimenti classici dell’incisione. S scoprì in seguito che il rilievo non era indispensabile, e che il semplice fenomeno dell’incompatibilità tra l’acqua e le so- stanze grasse consentiva di ottenere gli stessi risultati. Ela- borò una formula per una matita litografica; nel 1799 la tec- nica relativa era ormai messa a punto. Qualche anno dopo S scrisse un’opera dedicata alla sua invenzione, Vollständi- ges Lehrbuch der steindruckerei (L’arte della litografia, 1818), nella quale spiegò le sue innovazioni adattate all’incisione artistica. (cpe). Sengai (1750-1837). Monaco buddista giapponese sin da età giova- nissima, nella prima metà della sua vita S compì viaggi in tut- to il Giappone; si stabilì poi nel Kysh, dove divenne aba- te del grande monastero zen dello Shofukaji; si dimise dalla

Storia dell’arte Einaudi carica a sessantadue anni per condurre vita indipendente, ed è questa la sua fase piú feconda. Innumeri sono i veloci schiz- zi umoristici di personaggi laici, religiosi o sacri, trattati con una mancanza di rispetto caratteristica dello zen e una fre- schezza apparentemente infantile. Questa pittura umoristi- ca cela peraltro una disciplina rigorosa, e fece di S uno degli iniziatori della pittura zen, insieme a Hakuin. Le sue opere sono conservate in numerose collezioni giapponesi, la piú im- portante delle quali è la Fondazione Idemitsu di Tokyo. (ol). Senzui Byÿbu (paravento con paesaggi). Paravento giapponese del sec. xi, esempio classico di «pittura alla Tang» o karae (→) (Kyoto, Tÿij). Rappresenta personaggi di fattura tipicamente cinese collocati in una cornice naturale. In questa visione della na- tura si individua una mano giapponese, in particolare nel trattamento decorativo del fogliame e nella dolcezza di con- torni delle colline in riva al lago posto sullo sfondo; il loro tracciato a linee morbide e leggere e infatti caratteristico del- la pittura profana giapponese della fine dell’epoca di Heian. (ol). Seo de Urgel (provincia di Lerida, Spagna). Centro di una diocesi che si estende sulla regione centrale dei Pirenei catalani, questa città ospitò numerose botteghe di pittori durante il xii e il xiii secolo. L’abside principale della chiesa di San Pedro, presso la Cattedrale, venne decorata verso la prima metà del sec. xii da uno dei migliori artisti catalani di epoca romani- ca (decorazione oggi al mac di Barcellona). Il tema è consueto: il Cristo circondato dal tetramorfo della volta regna al di sopra della Vergine e degli Apostoli. Il geo- metrismo delle forme, accentuato nelle bordure spesso co- stituite da greche e losanghe, non impedisce tuttavia il mo- vimento della composizione; viticci e palmette ornano gli strombi delle aperture. Le vesti dai colori brillanti, rosse, verdi, bianche, azzurre, si distaccano su un fondo a fasce. Lo stile non è privo di rapporti con quello del Maestro di Pedret, il cui influsso è peraltro avvertibile in luoghi assai prossimi, come Argolell e l’Andorra. Alla stessa bottega di Urgel appartengono due antependi, il primo proveniente da questa città, il secondo dalla chiesa

Storia dell’arte Einaudi di Hix (Pirenei orientali, Francia), nonché il baldacchino d’altare di Tost (tutti conservati al mac di Barcellona). A un momento posteriore, seconda metà del sec. xiii risalgo- no invece gli affreschi che decorano un’absidiola del tran- setto nord della Cattedrale di Santa Maria (Museo di Vich e Barcellona, coll. priv.), raffiguranti il Cenacolo ed episo- di della leggenda di santa Caterina. In essi, oltre a un’evi- dente ricerca del pittoresco, si può riconoscere lo stile ita- lo-bizantino allora in voga in Catalogna. A questa seconda bottega di Urgel si possono ricondurre numerosi pannelli e decorazioni murali in Andorra, nelle Cerdagne e nell’Ur- gollet. (jg + sr). Sequeira, Domingo Antonios (Belém (Lisbona) 1768 - Roma 1837). Formatosi alla Scuo- la reale di disegno di Lisbona e seguace del pittore Franci- sco de Setubal, successivamente S, favorito da una pensio- ne reale e dalla protezione del marchese di Marialva, prose- gue i propri studi a Roma, allievo di Cavallucci e di Corvi. Membro dell’Accademia di San Luca dal 1793, esegue in questo periodo l’Allegoria della Casa Pia di Lisbona (Lisbo- na, maa), in cui l’accademismo della composizione si unisce a una certa veemenza. Dopo aver visitato l’Italia del Nord, nel 1795 torna a Lisbona dove, nonostante l’appoggio dell’inglese Beckford, non è accolto con entusiasmo dalla so- cietà e sceglie di isolarsi alla Certosa di Laveiras, trascor- rendovi alcuni anni. Nel 1802 viene nominato primo pitto- re di corte; incaricato di dirigere i lavori di pittura nel nuo- vo Palazzo Reale d’Ajuda, vi esegue numerose scene storiche e nel 1805 diventa direttore dell’Accademia di Porto. Al suo ritorno a Lisbona, dipinge nel 1808 un’Allegoria di Junot (Porto, Museu Soares dos Reis), capo dell’esercito francese allora occupante la città, opera che segna la sua adesione al romanticismo e agli ideali rivoluzionari. I suoi sentimenti li- berali lo fecero in seguito aderire ai moti del 1820 e lo co- strinsero ad allontanarsi dal Portogallo nel 1823. Presente al Salon di Parigi del 1824 con una composizione la cui at- mosfera romantica fu assai apprezzata (Morte di Camoens, scomparsa), decise di stabilirsi a Roma, chiamatovi dalla sua formazione e dalle sue preferenze. L’Adorazione dei Magi e la Crocifissione (Lisbona, coll. Palmela), dipinti in questo pe-

Storia dell’arte Einaudi riodo, testimoniano il suo interesse per gli effetti luministi- ci, risolti con sensibilità ancora settecentesca. Fu inoltre di- segnatore notevole e autore di ritratti di rivoluzionari bor- ghesi (Lisbona, maa). (jaf + sr). Serafino dei Serafini (documentato dal 1349 al 1393). Presente piú volte anche a Ferrara, di lui rimangono due opere firmate. L’affresco con l’Assunzione della Vergine (Ferrara, Casa Romei) è troppo ro- vinato per costituire un solido punto di riferimento. Serve invece a tale scopo il polittico del Duomo di Modena (1385). Il modo di profilare incisivo, ma avvolgente e pausato, e l’im- pasto cromatico sempre unito a una grande nitidezza ottica rimandano, fondamentalmente, a Tomaso da Modena. Del- le aggregazioni attributive che sono state proposte, il picco- lo trittico della Cattedrale di Piacenza non pone difficoltà. L’episodio fondamentale per individuare una fase piú re- mota di S è rappresentato dalla sua partecipazione (Storie di Cristo) agli affreschi della cappella Gonzaga in San France- sco a Mantova: nodo problematico e ideale di una traietto- ria che da Tomaso da Modena va verso Altichiero. Nono- stante qualche incertezza recente, conviene mantenere fra le opere di S il Trionfo di sant’Agostino della pn di Ferrara (affresco, staccato, proveniente da Sant’Andrea). (mfe). Serangeli, Gioacchino Giuseppe (Roma 1768 - Torino 1852). Allievo di David all’Ecole des beaux-arts di Parigi, lavora in seguito per l’ambiente politi- co e aristocratico ricevendo anche commissioni ufficiali co- me gli affreschi con storie napoleoniche (1808 ca.) a Versail- les; sempre a Parigi espone ai salons dal 1796 al 1817. Rien- trato in Italia si stabilisce a Milano dove figura alle esposizioni di Brera nel 1816, 1818-22 e 1847 con opere di soggetto mitologico e ritratti. Membro corrispondente del R. Istituto di Francia dal 1819, dal 1831 è inizialmente socio onorario e in seguito socio d’arte dell’Accademia di Brera. Nominato pittore di corte di Carlo Felice, nel 1828 si stabi- lisce a Torino. Tra le sue opere più significative si citano il San Severo per il Duomo di Ravenna, i ritratti di Giacomo Greppi (1821 ca.: Milano, quadreria dell’Ospedale Maggio- re), Giuditta Pasta (Milano, Museo Teatrale alla Scala) e il Ri- tratto di giovane donna (Oxford, Ashmolean Museum). (apa).

Storia dell’arte Einaudi Séraphine (o Séraphine de Senlis; Séraphine Louis, detta) (Arsy (Oise) 1864 - Clermont (Oise) 1942). Di origini mo- deste, la sua produzione comprende quadri di formato ab- bastanza grande, caratterizzati dalla ricchezza di un impa- sto traslucido, omogeneo, mescolato a lacca, simile allo smal- to, e da un colore splendente. Sono composizioni floreali, nel contempo realistiche e immaginarie: corolle trasformate in conchiglie, fogliami disseminati d’occhi di uomini o ani- mali. Profondamente religiosa, considerava le proprie ope- re come offerte alla santa Vergine. Fu lo scrittore d’arte Wil- lielm Uhde a scoprirla nel 1912. È rappresentata soprattut- to a Parigi (mnam) e a New York (moma). Terminò i suoi giorni nell’ospedale psichiatrico presso il quale era stata ri- coverata nel 1934. (sr). Serfolio, Giacomo (notizie 1494-1502). La figura storica di Giacomo S, il pit- tore che risulta dai documenti avere eseguito una tavola per la Consorzia di Santa Maria del Monte e dipinti per quella dei Santi Giacomo e Leonardo, entrambe a Genova nel 1498, è al centro di un dibattito. G. V. Castelnovi, che già precedentemente (1970 e 1984) aveva riferito al pittore, ol- tre ai due polittici tradizionalmente attribuitigli, quello con la Madonna e santi (Pontremoli, Santissima Annunziata) e quello con l’Annunciazione (Genova, Nostra Signora del Monte), gli affreschi con San Vincenzo Ferrer e Santi Dome- nicani e quello con San Pietro martire (Genova, Santa Maria di Castello), ha proposto piú di recente (1987) di ritenere tali dipinti opera di un artista distinto dal S, operante in un’epoca assai piú alta degli anni Novanta del Quattrocen- to. M. Boskovits (1987), ponendo l’accento sulle analogie fra il polittico del Monte e la produzione di Giovanni Ma- zone fra 1460 e 1470 ha suggerito di reinserire nell’iter del pittore alessandrino tale tavola e, probabilmente, quella di Pontremoli, della quale E. Brezzi Rossetti (1983) aveva sot- tolineato le affinità con la linea culturale Giusto di Raven- sburg-Maestro della Madonna Cagnola, (agc). serigrafia (stampa per coloratura). Procedimento di stampa consisten-

Storia dell’arte Einaudi te nello stendere l’elemento colorante su di un tessuto reti- colare, per lo piú serico, che funge da matrice. Il colore tra- passa sulla superficie unicamente in corrispondenza dell’im- pronta da riprodurre. Oltre agli inchiostri naturali e sinte- tici, possono essere utilizzati anche colori ad acqua e a olio, lacche, smalti, colori fosforescenti e fluorescenti. Al proce- dimento manuale di preparazione della matrice, consisten- te nell’intagliare l’impronta su di una robusta carta traspa- rente, trova corrispondenza quello fotochimico che presup- pone l’utilizzazione di una speciale pellicola fotosensibile. Il procedimento serigrafico, attuabile a piú colori mediante successivi passaggi di stampa – anche su superfici ruvide, piane o curve – consente di operare su supporti di vario ti- po (carta, cartone, tessuto, vetro, legno, ceramica, cuoio, gomma, materie plastiche). La s, definita nei paesi di lingua anglosassone silk screen, affonda le sue radici nell’antichissima tecnica a stampino (pochoir). I ricalchi dei colori, dalla gamma spesso conside- revole, erano riportati su sottili lastre di metallo e l’imma- gine veniva ritagliata col coltello, strumento utilizzato an- che nella xilografia per incidere le linee della matrice con ta- gli perpendicolari e obliqui. L’inchiostro, trasparente od opaco, a base d’acqua, veniva direttamente trasferito sulla carta attraverso i vuoti, la forma dei quali poteva essere as- sai complessa, mentre la tempera veniva piuttosto utilizza- ta per la colorazione a mano. Contrariamente alla litografia e alle tecniche calcografiche, l’inchiostro non viene trasfe- rito dalla matrice alla carta ma attraversa la matrice costi- tuita da un tessuto sottile (seta o nylon) teso da un telaio, denominata «quadro di stampa». Il disegno da stampare vie- ne eseguito sia direttamente, utilizzando della colla, sia in- direttamente, ponendo a contatto una pellicola trasparente con tessuto preparato con emulsione fotosensibile. Parzial- mente otturato e reso impermeabile mediante tecniche nor- mali o fotochimiche, tale quadro consente il passaggio dell’inchiostro attraverso i pori del tessuto rimasti pervii uni- camente in zone predeterminate. Depositato sul lato supe- riore del quadro, l’inchiostro viene pressato da una lama di gomma naturale montata sulla cosiddetta racla, andando in tal modo a depositarsi esattamente nelle aree definite dall’ar- tista formando zone cromatiche paragonabili a quelle crea- te dallo stampino. Notevole la duttilità applicativa della s

Storia dell’arte Einaudi determinata dal fatto che attraversando il quadro, l’inchio- stro serigrafico può essere applicato su di una amplissima va- rietà di supporti strutturalmente e formalmente differenti. Si tratta conseguentemente di una tecnica dalle molteplici e diverse eventualità di applicazione in settori artistici e gra- fici, ma anche industriali. Tra le peculiarità primarie della s, oltre alla particolare intensità cromatica, sono la possibi- lità di sovrastampa di colori chiari su colori scuri e l’utiliz- zazione di inchiostri fluorescenti. (pgt). Serindia Il termine S è applicato alla regione del bacino di Tarim, (Asia centrale, corrispondente al Turkestan russo-cinese), che fu, incessantemente, in contatto con l’India e con la Cina, «pae- si della seta». Attraversata dalle strade carovaniere colleganti i paesi mediterranei, l’Iran e l’India, con l’Estremo Oriente, percorsa dai monaci buddisti che diffusero la loro religione a partire dal bacino del Gange fino al centro dell’impero ci- nese, questa zona fu un vasto crogiuolo in cui si mescolaro- no apporti artistici e culturali assai differenti. Un’arte origi- nale si sviluppò nei monasteri situati in prossimità delle città sorte lungo i due itinerari principali del Nord e del Sud del deserto (la «strada della seta») che attraverso il Kansu con- duceva a Lo-yang. Le pitture rinvenute nella S sono d’ispi- razione religiosa, innanzitutto buddista, ad eccezione di qual- che vestigia prodotta dalla fede manichea e nestoriana; lo svi- luppo delle diverse scuole fu strettamente correlato a quello della religione (dal iii all’xi, sopravvivendo qualche volta, in determinate zone, fino al Trecento). Il progredire dell’isla- mismo verso oriente ha progressivamente interrotto, a par- tire dal sec. ix, questa linea di sviluppo. Grande importanza ebbe la decorazione dipinta che ricopriva interamente le pa- reti, le volte e i soffitti dei santuari e degli edifici connessi. Le sculture erano anch’esse colorate e i dettagli venivano de- finiti a pennello. Le tematiche e le forme iconografiche, im- prontate alla tradizione indiana, mutarono continuamente: consacrate nelle opere piú antiche alla glorificazione del buddha Cakyamuni e al ricordo degli episodi della sua vita terrestre o delle sue esistenze precedenti, abbracciarono in seguito il piú complesso pantheon del mahayana (forma evo- luta del buddismo), e qualche volta si manifestarono nel ter-

Storia dell’arte Einaudi ribile aspetto dei protettori della legge buddista, secondo le concezioni propagandate dal tantrismo. Le origini stilistiche  Gli apporti indiani Lo stile delle opere ha subito varian- ti a seconda delle scuole, delle epoche e degli influssi di ori- gine diversa, provenienti da tre paesi: India, Iran e Cina. Dall’India sono pervenuti i primi modelli assieme alle cre- denze e ai riti buddisti. Le formule utilizzate nelle sculture dello stile del Gandhara (a nord-ovest dell’India, dal sec. i al iv) sono state adottate e rimaste a lungo alla base delle rappresentazioni dell’Asia centrale (aspetti e costumi del Buddha, scene narrative). Poiché il bacino del Gange, culla del buddismo, si prefigurava come polo d’attrazione di mo- naci e pellegrini, i contatti con l’India si sono rinnovati fi- no al momento della diffusione dell’islamismo nella zona af- ghana (verso il sec. viii) che ne ha rallentato gli scambi. Tem- po prima, il centro dell’Asia era stato raggiunto dal riflesso dell’estetica dello stile indiano gupta (l’estetica di Ajanta) e da alcuni motivi figurativi e decorativi di medesima origine, oppure appartenenti alla scuola indo-iraniana che si era svi- luppata nei dintorni dell’H¥ndu-ku™.  Gli apporti irano-buddisti La località di Bamiyan, cen- tro della scuola indo-iraniana, ha sovente svolto un ruolo intermediario rispetto alla regione della S; punto d’incon- tro di formule indiane e iraniane che si sono mescolate pri- ma di raggiungere il bacino del Tarim. D’altronde, le rela- zioni con l’Iran sasanide erano assicurate dai mercanti che percorrevano i sentieri carovanieri, trasportando oggetti che fungevano da modelli. In questo modo, per esempio, si sono trasmesse numerose forme ornamentali e alcuni par- ticolari dell’abbigliamento. L’affinità esistente fra gli abi- ti e gli elementi della vita materiale (armi, tessuti) dell’Iran, della Sogdiana (Piand∆ikent) e della S è dovuta all’affinità delle condizioni di vita, all’intensità degli scambi e, qual- che volta, all’immigrazione delle popolazioni o della ma- nodopera.  Gli apporti cinesi L’influsso della Cina sull’arte della S compare piú tardi. Il vasto Impero di Mezzo si era sempre interessato a questa ricca regione, sulla quale, sporadica- mente, esercitava un controllo per difendere le strade di co- municazione dai nomadi; ma, in campo artistico, soltanto lo

Storia dell’arte Einaudi sviluppo della potente dinastia Tang, consolidò gli apporti cinesi. Questi influssi, sempre piú massicci, causarono un rinnovamento degli orientamenti stilistici, evidente soprat- tutto a partire dal sec. viii e, in modo particolare, nella zo- na orientale della S (oasi di TurfÇn), dove l’attività dei mo- nasteri si protrasse piú a lungo.  L’unità finale Grazie alle reazioni locali di fronte alla di- versità delle influenze ricevute, l’arte pittorica dell’Asia cen- trale presenta pertanto un carattere indiscutibilmente origi- nale. Una certa unità d’intenti emerge nella sua produzio- ne, malgrado il relativo isolamento delle diverse scuole regionali e il cambio d’orientamento indotto dalla suprema- zia dell’influenza cinese. L’estetica, così creata, del centro dell’Asia è caratterizzata da uno spiccato interesse per la li- nea, i contorni, i giochi di colore a discapito del modello, i volumi e per ogni tipo di ricerca d’illuminazione e lumeg- giatura. Il gusto per gli effetti decorativi domina nelle com- posizioni, nella stilizzazione dei dettagli del corpo umano, così come nella trasformazione degli elementi naturali in mo- tivi ornamentali (alberi, fiori, montagne, architetture). Le varianti e l’evoluzione di quest’arte possono inizialmente es- sere seguite in quelle località situate sulla via del Sud (M¥rÇn e Khotan), poi sulla via del Nord, nei diversi centri ubicati nelle oasi di Ku™Ç di Quara∫ahr e di TurfÇn. (mha). Sermei, Cesare (Città della Pieve 1581 - Assisi 1668). Figlio dell’orvietano Ferdinando S, allievo, amico e collaboratore del Nebbia a Roma e a Orvieto, il S, dopo un soggiorno romano, seguì il Nebbia chiamato a Pavia per la decorazione del Collegio Borromeo (1603-604). Questa prima formazione, rispecchiata dal Martirio di santa Caterina (1607) per l’omonimo Oratorio di Assisi, si arric- chisce con l’accostamento ad altri aspetti del tardo manieri- smo romano, da Zuccari a Cherubino Alberti a Faenzone, come è evidente nella decorazione della cappella del Batti- sta a Santa Maria degli Angeli presso Assisi, di quella di Sant’Antonio nella Basilica francescana (1610), di quella del Crocifisso in Santa Maria di Montesanto a Todi (1612). L’intensa attività del S si estende a quasi tutte le città um- bre, ma ha centro ad Assisi, dove si era stabilito. Qui la sua

Storia dell’arte Einaudi formula di pittura devota, sostanziata dal recupero di anti- chi modelli, da Giotto all’Alunno, al Signorelli allo Spagna, assume valore testimoniale di uno specifico clima religioso, vivificato da una operazione di rilancio di uno dei maggiori luoghi della religiosità cattolica (Martirio dei francescani,po- st 1621: chiesa Nuova; Giudizio Universale, 1623: Basilica inferiore, perduta decorazione della sagrestia, 1630 ca., e del nartece, 1646-47; Compianto delle clarisse, 1631 ca.: San- ta Maria degli Angeli; Storie francescane: Rivotorto, San Francesco). In questi decenni il S si era cautamente aggiornato, prima guardando ai pittori romani chiamati a Santa Maria degli Angeli, Baldassarre Croce e soprattutto Antonio Circigna- ni, poi ricercando un diverso controllo e qualche naturalez- za, anche nell’ambito della cultura diffusa in Umbria da Ba- glione, Quillerier, Guerrieri. (gsa). Serodine, Giovanni (Roma 1600 ca. - 1630). Di famiglia ticinese originaria di Ascona, nacque e si formò a Roma, come hanno potuto sta- bilire studi recenti basati sull’esame degli «stati d’anime» romani. S è considerato pittore caravaggesco anche se al pa- ri del suo contemporaneo Valentin non ebbe mai contatti di- retti con il Merisi, morto nel 1610: e tuttavia, come il fran- cese, fu uno dei piú sinceri interpreti della sua rivoluziona- ria innovazione, che in nessun caso piegò alle richeste dell’ufficialità e che soprattutto non ridusse mai nei limiti della pittura «di genere», neppure nei momenti di maggio- re fortuna della manfrediana methodus.Il giudizio espresso su di lui dal Baglione (il quale scrisse che S ritraeva «dal na- turale, ma senza disegno e con poco decoro») assume, al di là delle intenzioni del biografo, una valenza positiva perché mette in rilievo l’assoluta libertà di S nei confronti del «ri- torno all’ordine» perseguito nell’ambito dell’Accademia di San Luca nel secondo e nel terzo decennio del Seicento, e il rifiuto della formula di mediazione elaborata da Bartolomeo Manfredi, cui si riferirono invece tanti altri «caravaggeschi». Dopo una probabile attività di stuccatore, a fianco del fra- tello Giovanni Battista, S si dedicò alla pittura. Perduta o non rintracciabile la decorazione eseguita in Palazzo Bor- ghese (1623), la prima opera documentata è il ciclo esegui- to prevalentemente a tempera nella chiesa della Concezione

Storia dell’arte Einaudi di Spoleto (1624), individuato solo di recente in seguito al ritrovamento dei pagamenti (1979). Il carattere fortemente sperimentale, tecnicamente e stilisticamente, che emerge dalla grande pittura raffigurante l’Immacolata, Adamo ed Eva e personaggi dell’Antico Testamento, sembra confermare l’ipo- tesi che l’educazione artistica di S sia avvenuta al di fuori dei tramiti consueti della bottega o dell’accademia. Il suo ca- ravaggismo infatti consiste non soltanto nell’adesione stili- stica ai modi del Merisi (dei quali egli fornisce un’interpre- tazione personalissima, accentuando, soprattutto nelle ope- re piú mature, gli effetti corrosivi della luce sulla materia), quanto piuttosto nella volontà di una «presa diretta» dal rea- le e nella ricerca di nuovi percorsi, anche formali. Tra i re- ferenti culturali di S sono stati individuati, con differenti li- velli di incisività, Borgianni, Saraceni, Terbrugghen, Vouet e Valentin; è stata inoltre letta una componente «venezia- na» nella sua pittura di tocco. Resta invece difficilmente pre- cisabile l’azione eventualmente esercitata dall’arte dei lom- bardi (Cerano, Morazzone), dal momento che la nascita ro- mana di S indurrebbe a ritenere che la sua formazione sia avvenuta nella capitale pontificia. Tuttavia è molto plausi- bile che nel corso di soggiorni in Ascona egli abbia potuto conoscere a fondo anche le novità luministiche e l’appassio- nata religiosità espresse nell’opera dei suoi conterranei. Dopo la scoperta del ciclo di Spoleto (che resta ancora un unicum in quanto a tecnica: tutte le altre opere note sono realizzate a olio su tela) e in occasione di due mostre mono- grafiche (1987 e 1993), negli ultimi anni il percorso di S è stato oggetto di svariati tentativi di definizione oltre che di ampliamenti talvolta indebiti. Sembra oggi parzialmente da modificare la cronologia proposta da Longhi (1954), che po- neva intorno al 1622 la datazione di due tra le opere piú in- tensamente caravaggesche, la Cena in Emmaus e La supplica della madre dei figli di Zebedeo (Ascona, parrocchiale, cui fu- rono donate nel 1633 dalla famiglia dell’artista), che vanno probabilmente posticipate al 1625 ca. Di poco successive sa- rebbero due tele realizzate per San Lorenzo fuori le mura a Roma, l’Elemosina di san Lorenzo (Casamari, Museo dell’ab- bazia) e la Decollazione del Battista, tuttora nel luogo origi- nario. Appartenevano al marchese Asdrubale Mattei (nei cui inventari figurano nel 1631) due quadri da stanza, l’Incon-

Storia dell’arte Einaudi tro tra i santi Pietro e Paolo sulla via del martirio (Roma, gnaa) e il Tributo della moneta (Edimburgo, ng of Scotland). A que- sti va probabilmente collegaio anche il Gesú tra i dottori (Pa- rigi, Louvre). Le tre tele, simili per formato e forse coeve, riflettono però ciascuna una diversa interpretazione del ca- ravaggismo: in chiave sostanzialmente luministica la prima, e piú giocate su accesi contrasti cromatici – quasi fosse su- bentrato un qualche interesse per Guercino – le altre due; ma tutte connotate da un realismo febbrile e dalla scelta di tipologie direttamente tratte dall’umanità caravaggesca. Perdute due pale ricordate dal Baglione, un San Michele ar- cangelo che abbatte il demonio (già in San Pietro in Monto- rio) e la Trasfigurazione (1627 ca.: già in San Salvatore in Lauro), documentano l’estrema produzione chiesastica del S la Vergine dei Mercedari (Londra, Matthiesen) e l’Incoro- nazione della Vergine (Ascona, parrocchiale). Quest’ultima, eseguita a Roma intorno al 1630, poco prima della morte e collocata nella chiesa nel 1633, è la sola opera pubblica espressamente realizzata dal pittore per la località d’origine della propria famiglia. Tra gli altri dipinti documentati di S o a lui attribuiti, si possono ricordare il Miracolo di santa Mar- gherita (Madrid, Prado), in antico ritenuto di Caravaggio e che non tutti concordano nel riferire a S (l’ipotesi piú ac- creditata è che si tratti di un’opera precoce, da porsi intor- no al 1625); la straordinaria Figura allegorica (Milano, Am- brosiana), significativamente assegnata talvolta anche al Fet- ti, il Ritratto del padre (Lugano, mc) e il San Pietro in carcere (Rancate, Pinacoteca Züst). (lba). Seroux d’Agincourt, Jean Baptiste (Beauvais 1730 - Roma 1814). Dopo un viaggio di studio e per la raccolta di materiale illustrativo che lo portò in In- ghilterra, nelle Fiandre, in Olanda e in Germania (1777), nell’Italia settentrionale e centrale (1779) e in quella meri- dionale (1781) si stabilì definitivamente a Roma nel 1782 dedicandovisi alla stesura della sua Histoire de l’Art par les monumens depuis sa décadence au 4me siècle, jusque à son re- nouvellement au 16me (prima stesura 1779-89, la pubblica- zione fu rinviata per le vicende della rivoluzione; edizione in parte postuma, Paris 1811-20; ed. it. a cura di S. Ticoz- zi, Prato 1826), seguito della Geschichte der Kunst des Al- terthums (1764) di J. J. Winckelmann.

Storia dell’arte Einaudi L’opera rappresenta, quale reazione all’erudizione seicente- sca, una tappa fondamentale nella storia delle discipline sto- rico-artistiche, sia quale prima storia dell’arte medievale in- centrata sullo sviluppo stilistico, sia per il metodo impiega- to. Il Sd’A infatti tratta solo dei monumenti di cui può dare l’illustrazione e si serve sistematicamente dell’analisi stili- stica quale mezzo d’indagine storica. Attraverso il Winckel- mann, agivano sul Sd’A il metodo e le idee del Mengs criti- co d’arte. I meriti della sua Storia dell’arte, vanno cercati nelle cono- scenze assai vaste, e per quel suo porsi su di un piano euro- peo che avrebbe dovuto contribuire ad ampliare l’orizzonte mentale delle varie culture nazionali. Non manca inoltre qualche segnalazione nuova, interessante, e molti monu- menti pure già noti debbono celebrità e il loro ingresso nel- la circolazione culturale proprio alla citazione del Sd’A non alieno, peraltro, da atteggiamenti alla «Musée imaginaire», con accostamenti strampalati dei monumenti medievali ad esempi di arte cinese o egiziana. Va ricordata la riscoperta, ad opera di Sd’A, dell’affresco col Matrimonio della Vergine di Lorenzo da Viterbo, oltre ai moltissimi monumenti dell’architettura gotica italiana cui egli diede per primo, per mezzo dell’incisione, quella celebrità che già avevano quel- li d’oltralpe e d’oltremanica. Di lui Goethe dirà «Interes- santissime le sue collezioni. Si vede come lo spirito dell’uo- mo è sempre stato attivo anche nel suo periodo piú confuso e oscuro. Se quest’opera arriverà in porto, sarà notevolissi- ma» (Viaggio in Italia).( gp). Serov, Valentin Alexandrovˇıc (San Pietroburgo 1865 - Mosca 1911). Allievo di Koepping a Monaco a otto anni e di Repin a Parigi all’età di nove, con- cluse gli studi all’Accademia di San Pietroburgo e dipinse paesaggi immersi in una luce impressionista: i Buoi (1885: Mosca, Gall. Tret´jakov), Ottobre (1895: ivi), aderendo nel 1894 ai Peredvi∆niki ed entrando nell’orbita del mecenate Mamontov, ad Abramzevo. Si dedicò al ritratto con raro senso psicologico, ravvivato talvolta da una punta d’ironia: Fanciulla con pesche (1887: ivi), Fanciulle al sole (1888: ivi), I. A. Morozov davanti a un quadro di Matisse (1910: ivi), Con- tessa O. K. Orlova (1911: San Pietroburgo, Museo russo).

Storia dell’arte Einaudi Suo capolavoro in questo campo è considerato il ritratto dei figli (1899: ivi), mentre storicamente importante è la sua se- rie di ritratti delle personalità preminenti della cultura e del- la società russa del tempo (Gor´kij, 1904: ivi; Ida Rubinstein in vestaglia, 1910: ivi; Rimskij-Korsakov, 1898: Mosca, Gall. Tret´jakov; l’Attrice M. N. Jermolava, 1905: ivi). Attratto da «Mir Iskusstva», vi aderì subito e predilesse insistendo sull’aspetto tecnico, i soggetti del sec. xviii alla corte di Rus- sia (Pietro I, 1907: ivi; Pietro I a Monplaisir, 1911: San Pie- troburgo, Museo russo) e, dopo un viaggio in Grecia e a Cre- ta (1907), dell’antichità arcaica (Nausicaa, numerose va- rianti; Ratto di Europa, 1910: Mosca, Gall. Tret´jakov). La sua attività fu importante per la formazione di una nuova generazione di artisti (tra i quali Uljanov, Kusnezov, Sar´jan, Gerassimov), sia in qualità di professore della Scuola di pit- tura, scultura e architettura di Mosca (1897-1909), sia per il suo ruolo di mediatore tra la tradizione del realismo rus- so di fine Ottocento e le nuove correnti stilistiche dei primi del secolo successivo. Collaboratore dei Balletti russi, S ese- guì scenografie (Sherazade, 1910), uno schizzo per il mani- festo di Anna Pavlona (1909: ivi), decorazioni murali di te- matica mitologica il cui tratto stilistico appare negli ultimi anni influenzato dal liberty, e varie illustrazioni per opere letterarie. (bl + sr). Serpa, Ivan (Rio de Janeiro 1923-73). Agli inizi membro importante del movimento dell’Arte concreta, che trionfa a partire dal 1951 a Rio e a San Paolo, S ha sempre dimostrato grandi qualità tecniche. Ha aderito in seguito alla corrente informale e al- la nuova figurazione, ma con un accento lirico personale che, nelle ultime sue opere, rivela un potente carattere dramma- tico. S è rappresentato nei musei brasiliani e nordamerica- ni. (wz). Serpan, Jaroslav (Praga 1922 - Pirenei 1976). Giunto in Francia all’età di cin- que anni, presto si appassionò di pittura; le prime ricerche risalgono al 1940. Dopo una breve fase surrealista (1946-48) si orientò verso una pittura in cui la «scrittura» e il segno svolgono un ruolo fondamentale. Su sfondi chiari dai colo- ri trasparenti, lunghi filamenti, forme quasi organiche, poi

Storia dell’arte Einaudi grappoli di segni neri accavallati sembrano fluttuare in uno spazio di fluidità acquatiche o aeree (Teutaogotmifu, 1950). Fondò la rivista «Rixes», con Max Clarac Sérou ed Edouard Jaguer; vi pubblicò lo studio Sur quelques points relatifs à la structure du langage (1950). La sua prima personale ebbe luo- go a Parigi nel 1951 (Gall. Breteau): sin da allora le sue ope- re rivelano uno studio profondo della composizione, al qua- le si somma l’influsso, molto padroneggiato, della calligrafia orientale (lavori del 1952-55). Dal 1956 espose regolarmen- te alla Gall. Stadler e la sua opera non cessò di oscillare tra la volontà di organizzazione sistematica dello spazio e il bru- licare d’una scrittura che giunge talvolta al delirio, copren- do immensi pannelli o le pareti della sua casa a Le Pecq. Dal 1966-67 si avverte una recessione del grafismo, mentre pre- vale la ricerca sui colori. In questo periodo si dedica anche alla scultura creando forme in polistirolo, combinando ele- menti tagliati e dipinti (Per un elogio ambiguo della lacerata coscienza, Salon de Mai, 1969); sul piano pittorico sviluppa uno stile similare, giocato attraverso sistemi e rapporti tra forme. Ampiezza, dinamicità, colori piatti caratterizzarono questa fase «non oggettiva», culminante nella Festa e nella Manife- stazione (1974), dove ricompaiono forme figurative. (gbo). Serra Il panorama artistico di Barcellona è dominato nella secon- da metà del sec. xiv dall’attività della famiglia S. Sono quat- tro fratelli, tutti pittori, Francisco, Jaime, Pedro e Joan che spesso collaborano in alcune commissioni o sono attivi indi- pendentemente l’uno dall’altro. Francisco (documentato a Barcellona dal 1350 alla sua mor- te nel 1361). È il fratello maggiore, non ha lasciato alcuna opera che possa essergli attribuita con certezza. Può co- munque essere identificato con l’autore di un gruppo di ope- re riunite attorno al Retablo della Vergine (Barcellona, mac) provenienti dal monastero di Sigena. Le scene, ispirate dai Bassa, sono piú convenzionali e cariche di elementi descrit- tivi e vivamente colorate. Jaime (documentato dal 1358 al 1389 o 1395). La sua per- sonalità artistica è definibile grazie al Retablo della Vergine commissionatogli da Fray Martin de Alpatir nel 1361, per

Storia dell’arte Einaudi la sua sepoltura nel convento del Santo Sepolcro di Sara- gozza. Al latente misticismo s’aggiunge un accento pittore- sco come nella Discesa agli inferi in cui le fauci del mostruo- so demonio si serrano sui peccatori. Per analogia gli è attri- buito il Retablo di santo Stefano (Barcellona, mac), cinque scomparti del Retablo della Vergine (chiesa di Palau de Cer- dagne) e la Cena (Palermo, gn). Fedele alle formule di De- storrents, lo stile di Jaime è però addolcito e semplificato nella composizione. Pedro (documentato dal 1357 al 1408). A partire dal 1357 compì il suo apprendistato nella bottega di Ramón Destor- rents rimanendovi per quattro anni; dal 1363 al 1389 la- vorò associato al fratello Jaime. Le due opere documentate da un contratto, oggi note, sono posteriori alla morte di Jai- me e permettono di conoscere lo stile della sua produzione matura. Il Retablo dello Spirito Santo (1394: Mauresa, col- legiata di Santa Maria), vasto ciclo narrativo (diciannove scomparti senza contare le circa trenta figure ornanti i pi- lastri) raffigura la storia del mondo dalla Creazione alla Pen- tecoste. La sua pittura rivela un gusto miniaturistico, qui in scala monumentale, mobile e gradevole per quanto sta- tico, in cui il colore (rosso, malva e verde) si armonizza con il fondo oro tradizionale. San Bartolomeo e san Bernardo (1395: Museo di Vich), parte centrale di un retablo esegui- to per i domenicani di Mauresa, rivela l’influsso di Borras- sá. Prima di questa data è possibile ricostruirne il percorso stilistico attraverso numerose opere come la predella di Sant’Onofrio (Barcellona, Museo della Cattedrale), il Reta- blo di san Giuliano e santa Lucia (Saragozza, convento del Santo Sepolcro). È probabilmente una sua invenzione il ti- po della Vergine dal viso allungato e triangolare con gli oc- chi a mandorla che si ritrova nell’Annunciazione (Milano, Brera), nel Retablo della Pentecoste (chiesa di San Llorenc de Morunys), e nella Vergine in trono con angeli musicanti (Barcellona, mac). Vanno citati inoltre tra le sue opere il Retablo d’Abella de la Conca e quello di Tutti i santi a San Cugat del Vallès. Joan (documentato dal 1365 alla morte nel 1386). Associato ai suoi tre fratelli, sembra aver giocato un ruolo minore nel- la bottega e attualmente non è possibile ancora circoscrivere la sua partecipazione nell’opera dei fratelli. (mbe + sr).

Storia dell’arte Einaudi Serra, Bartolomeo e Sebastiano Pittori pinerolesi attivi nella seconda metà del sec. xv. So- lo recentemente sono stati resi noti due documenti che per- mettono di identificare il nome dell’artista – già definito Maestro di Jovenceaux – che operò con il figlio, e sempre con sostanziale omogeneità, sia in val di Susa (Melezet, Gia- glione, Jovenceaux, Avigliana) che nei centri della piana (Pia- nezza, San Maurizio Canavese). Gli estremi cronologici og- gi noti sono il 1466 (data di una tavola, perduta, per la par- rocchiale di Bussoleno) e il 1495 (data del pagamento per gli affreschi di San Maurizio Canavese). La loro maniera è riconducibile alla declinazione di gusto diffusa in Savoia e, in particolare, nell’area di Chambéry do- ve si conservano (Chambéry, Musée Savoysien) due ante di polittico con Storie della Vergine assai vicine alle opere dei S.(erb). Serra, Cristoforo (Cesena 1600-89). Capitano di milizie e nobile, esercitò la pittura da dilettante, e tutto sommato da autodidatta. Nel 1621 era a Roma, in contatto con il Guercino (rapporto che non verrà mai interrotto); ma l’occasione gli permise anche di aggiornarsi sul naturalismo. E questa è la chiave di lettu- ra per la Cena dei Cappuccini di Cesena, sua prima opera no- ta. Non c’è traccia di altri viaggi a Roma, ma la pittura del S continua a svolgersi in sintonia col gusto della capitale e sui suoi sviluppi in senso barocco. Tra i suoi allievi si ricorda Cristoforo Savolini (Cesena 1639 - Pesaro 1677), omonimo del maestro e spesso confuso con lui. Nella sua breve vita si dimostrò pittore di alto livello. Riprendendo alcuni aspetti della pittura del S, se ne disco- sta per una maggiore eleganza e per i toni luminosi meno in- clini alla «macchia» di derivazione guercinesca. La sua ope- ra piú nota è la pala coi Santi Carlo, Donnino e Apollonia in San Domenico a Cesena (1671). (acf). Serra, Luigi (Bologna 1846-88). L’apprendistato nell’Accademia bolo- gnese (dal 1863), preceduto da un piú lungo alunnato pres- so il Collegio Artistico Venturoli, non sembra determinan- te per il S, che già nel 1866 a Firenze intraprende la sua per-

Storia dell’arte Einaudi sonale ricerca in forte controtendenza con l’ambiente d’ori- gine. Una documentata frequentazione dei circoli mac- chiaioli non lo distoglie dallo studio approfondito del Quat- trocento fiorentino, che incentiva quel nitore grafico, di di- segnatore potente e sicuro, cui oggi si affida prevalentemente la sua fama. La successiva trasferta romana (dal 1869) sem- bra facilitare contatti con la contemporanea arte napoleta- na, e dare un risalto anche coloristico ed emozionale alla sua pittura, senza peraltro attenuarne l’accanimento analitico, l’interesse meticoloso al particolare, che sono in qualche mo- do il riflesso di un temperamento connotato da una forte in- transigenza morale. Il successivo soggiorno veneziano (dal 1875) lo vede ancora applicato allo studio del Quattrocento locale, mentre la trasferta viennese del ’73 e la susseguente sosta a Monaco suonano a conferma di un’inquietudine spe- rimentale, del resto largamente alimentata dal fecondo am- biente romano, e qui bene riflessa nel grande dipinto mura- le dell’abside di Santa Maria della Vittoria con l’Entrata dell’esercito cattolico a Praga (1878-80). Le ricerche succes- sive, volte a una progressiva idealizzazione dell’immagine, all’accentuata stilizzazione e alla raffinata ricerca coloristi- ca, sembrano confermarlo in una posizione di netto isola- mento, benché non mancassero forti segnali di consenso (massimo il gradimento manifestato dal Carducci) e qualche convergenza coi preraffaelliti inglesi, in vario modo attivi sulla scena romana. (rg). Serres, Dominic (Guascogna 1722 - Londra 1793). Dopo essere stato mari- naio, giunse in Inghilterra nel 1752, dedicandosi alla pittu- ra. Membro fondatore della Royal Academy, venne nomi- nato pittore di marine alla corte di Giorgio III. Disegnò le navi con estrema cura, ma fu meno abile di Brooking nel ren- dere gli effetti meteorologici: Gibilterra soccorsa da sir Geor- ge Rodney, gennaio 1780 (Londra, ra), Navi nella tempesta (Londra, Tate Gall.). (jns). Sert y Badìa, José Maria (Barcellona 1876-1945). Figlio di un disegnatore di arazzi e di stoffe, operò sulle prime nella bottega paterna. Attratto per natura dalla pittura murale, soggiornò in Italia (1900), studiando le opere ad affresco. Si stabilì a Parigi, dove eb-

Storia dell’arte Einaudi be modo di affermare la sua natura di decoratore a contat- to delle correnti artistiche spagnole o internazionali. Venne adottato dall’alta società parigina, per cui eseguì complessi pittorici riproducenti le decorazioni delle ville venete di Tie- polo (salone di musica per la principessa di Polignac, sala da pranzo per il barone de Wendel). Conquistò anche l’amici- zia di Claudel, per il quale illustrò Le Soulier de satin (1928-29) e dal quale fu celebrato per il suo lirismo barocco (Positions et propositions, L’œil écoute).È questo infatti il periodo in cui S intraprese la decorazione di grandi edifici, chiese o monumenti pubblici: a Ginevra il Palazzo delle Na- zioni; in Spagna il complesso della Cattedrale di Vich (Vi- ta e passione di Cristo, dominato dalle figure colossali di san Pietro e san Paolo), completato nel 1930, incendiato nel 1936, e che l’artista volle rifare dopo la guerra civile, lavo- rando a una nuova versione. Gli vennero commissionate inoltre altre decorazioni storico-allegoriche, tra le quali, di grande impegno sociale, quelle dedicate alla gloria dei ca- mionisti catalani, gli «Almugavares» (Salone delle Crona- che del municipio di Barcellona), e del popolo basco (cap- pella del convento di San Telmo, oggi al Museo di San Se- bastiano). La pittura di S, alquanto enfatica e ampollosa, mostra talora un dinamismo, un’invenzione decorativa e una potenza drammatica considerevoli. (pg + sr). Sérusier, Paul (Parigi 1864 - Morlaix 1927). Dal 1880 frequenta la presti- giosa Académie Julian. Il primo successo giunge nel 1888 con una menzione al salon per Il tessitore (1888: Senlis, Mu- sée du Maubirgier) ispirato al naturalismo fotografico. Una svolta avviene nell’autunno dello stesso anno, quando in- contra P. Gauguin a Le Pouldu (Bretagna): sotto la guida del maestro dipinge un piccolo paesaggio con colori puri, piatti e giustapposti, che definiscono le forme di una natura sem- plificata, Talismano (1888: Parigi, mo). Attorno a sé S rac- coglie alcuni amici dell’Académie (M. Denis, P. Ranson, P. Bonnard, E. Vuillard, H. G. Ibels, K. X. Roussel) e fonda il gruppo dei Nabis. Negli anni successivi farà spesso ritor- no in Bretagna. Tra il 1889 e il 1890 è con Gauguin a Le Pouldu (Steccato fiorito, 1889: ivi; Lottatori bretoni, 189o: ivi). Dal 1891 si dedica allo studio della teosofia quale sup-

Storia dell’arte Einaudi porto teorico alle istanze estetiche; a fine anno è a Huelgoat con J. Verkade, che ne condivide le idee mistiche. Nelle ope- re di questo periodo il ductus è piú duro, le linee meno flui- de (Rocce di Huelgoat, 1891: Stoccarda, sg). In dicembre espone alla prima mostra dei Nabis presso la galleria del mer- cante d’arte Le Barc de Boutteville. Attratto dalle leggi dell’armonia guarda agli artisti prerinascimentali; compie dunque viaggi in Italia (1893, 1904) e si accosta alla scuola di arte sacra, istituita – sulla base di criteri revivalistici pri- mitivi – dall’abate Didier Lenz, presso l’abbazia benedetti- na di Beuron (Germania). Nelle estati del 1893 e 1894 sog- giorna a Chateauneuf du-Faou, dove eseguirà con Verkade e Denis le decorazioni murali del Battistero (Annunciazio- ne, Crocifissione, 1912; Battesimo di Cristo, 1915). Nel 1895 espone al salon il ritratto di Marie Francisaille (1895: Parigi, mo), mentre l’anno successivo lavora al set dell’Ubu Roy di Jarry, per il Theâtre de l’Œuvre. Dal 1900 cresce l’interes- se per gli aspetti allegorici e religiosi, resi con un linguaggio pittorico arcaizzante (Ghirlanda di rose, 1900: Ginevra, Mu- sée du Petit Palais; l’Arazzo, 1924: Parigi, Louvre). Dal 1908 insegna all’Accademia fondata da Ranson e nel 1921 pub- blica l’ABC de la peinture.Altre opere sono conservate nei musei di Monaco, Brest, nelle collezioni Josefowitz (Losan- na; New Hampshire); il mo ospita opere provenienti dalla collezione di Henriette Boutaric, moglie di S. (gv). Servaes, Albert (Gand 1883 - Lucerna 1966). Seguì i corsi serali dell’Acca- demia di Gand e si stabilì nel 1905 a Laethem-Saint-Martin con De Saedeleer. Pritna della guerra praticò una pittura dai temi rustici e religiosi nella tradizione di J. Smits, benché piú spoglia (Serata santa, 1905: Zele, coll. priv.; la Resurre- zione di Lazzaro, 1911: Gand, coll. priv.); poi si dedicò all’esecuzione di complessi cicli figurativi (Vita del contadi- no, 1916-20: Anversa, Museo). I carboncini per la Via Cru- cis del convento di Luythaegen-lez- Anvers e i contempora- nei dipinti attestano subitamente un inedito espressionismo di marca sociale, ove forme esangui e frantumate sono an- cora soggette al ritmo lineare di cui il simbolismo tanto si servì e si ispirano alla pittura fiamminga e tedesca primiti- va (Pietà, 1920: Bruxelles, mrba). Quest’opera rivoluziona- ria (proibita fino al 1937) alimentò una delle prime «dispu-

Storia dell’arte Einaudi te sull’arte sacra». Toccato dalla sanzione delle autorità ec- clesiastiche, da allora si attenne a maggiore obiettività (Via Crucis e disegni per l’abbazia di Orval, 1928-30). I suoi pae- saggi, composizioni di largo respiro e ricche di materia, si distinguono per un accento lirico ed evocativo non privo di analogie con alcune opere di Permeke (Rive della Lys, 1933: Gand, mba). Si ritirò in Svizzera nel 1944, dedicandosi al ritratto e al paesaggio, ma senza abbandonare del tutto i sog- getti religiosi. Ottenne la nazionalità svizzera nel 1961. (mas). Servranckx, Victor (Diegem 1897 - Vilvorde 1965). Dopo studi presso l’Acca- demia reale di belle arti di Bruxelles, S praticò tra il 1917 e il 1919 una pittura dichiaratamente simbolista. Negli anni 1923-26 dipinse opere ispirate all’estetica della macchina, pa- ragonabili ai Mauerbilder del tedesco Baumeister o agli esiti del purismo di Ozenfant e Jeanneret, di cui peraltro tralasciò ogni riferimento al dato figurativo per dedicarsi al gioco e al ritmo di forme e colori (Opus 47, 1923: Bruxelles, mrba; Opus 55, 1923: Grenoble, Museo). Egli fu, in Belgio, tra i primi a seguire la via della visualità pura e pertanto, sin dal- la prima mostra a Bruxelles nel 1924, seguita da numerose partecipazioni a manifestazioni d’avanguardia nei principali centri artistici d’Europa e degli Stati Uniti, fu considerato sul piano internazionale uno dei pionieri dell’astrattismo. La sua personalità venne presto riconosciuta, fra gli altri, da Ma- rinetti, van Doesburg, Léonce Rosenberg, che lo accolse nel suo gruppo dell’Effort moderne, Marcel Duchamp, che lo fe- ce partecipare alla mostra della Societé Anonyme di New York, Moholy-Nagy e piú tardi André Breton. Dopo il 1926 S si volge al surrealismo realizzando visioni fantastiche di spazi cosmici. Un ritorno all’originale esigenza di un ordine geometrico puro si verifica nei quadri eseguiti dagli anni ’50, improntati alla lezione del costruttivismo. Nel campo delle arti applicate realizza, insieme all’architetto Huib Hoste, un padiglione all’esposizione delle arti decorative di Parigi nel 1925 e crea disegni per carte da parati, tessuti e cartoni per arazzi. Del 1936 è la pittura murale di 550 mq per l’ente ra- diofonico nazionale belga. Ha insegnato alla Scuola di arti decorative di Ixelles (Bruxelles). (rvg).

Storia dell’arte Einaudi Sessh (1420-1506). Monaco zen nel tempio Shÿkikuji di Kyoto, dove venne iniziato alla pittura, S effettuò tra il 1467 e il 1469 un viaggio in Cina, per lui fondamentale nell’accostarsi all’interpretazione della natura che ne avevano data i mae- stri del paese. In seguito si stabilì dapprima a Kysh, che lasciò nel 1481 per fare un viaggio di tre anni attraverso il Giappone, infine nel sud di Honsh. La sua reputazione crebbe col passare degli anni e contem- poraneamente si affermava la sua originalità. L’artista si li- berò gradatamente dall’influsso accademizzante della scuo- la cinese del Tchö (che si avverte nei quattro Paesaggi, ese- guiti durante il viaggio in Cina: ora a Tokyo, mn) per interpretare la natura giapponese in modo piú personale per la densità delle composizioni, la potenza degli accenti e la marcata angolarità delle linee, eco della fattura della scuola Ma-Xia (Paesaggio delle quattro stagioni, makimono datato 1486: Yamaguchi, coll. Mÿri; Autunno, Inverno, due kake- mono di una serie originaria di quattro shikie: Tokyo, mn). S padroneggiò in modo ineguagliabile le tecniche cinesi a in- chiostro monocromo. Il suo Habokusansui (letteralmente Paesaggio con albero spezzato, po mo), kakemono a inchiostro su carta datato 1495 (ivi) è certamente tra i capolavori del- la pittura universale: un rapido schizzo in cui il vigore delle inchiostrature contrasta con l’evanescenza delle nebbie. Ta- li caratteri sono propri anche della sua ultima opera, il cele- bre «Ponte del Cielo», Amano hashidate.(ol). Sesson (alias Shkei; 1504 ca. - dopo il 1589). Trascorse tutta la vi- ta nell’estremo nord dell’Hondo, regione appartata dove pe- raltro subì l’influsso dell’opera di Sessh, che interpretò in modo originale, affermandosi come il migliore dei suoi ere- di spirituali. La sua fattura, scabra e violenta, manifesta una personalità vigorosa e intensa (Barca sotto la tempesta, foglio d’album montato a kakemono, inchiostro e colori leggeri su carta: Kyoto, coll. Nomura). S ha lasciato anche una rap- presentazione di Ryodÿhin (kakemono a inchiostro su carta: Nara, Yamato Bunkakan), cioè l’immortale taoista cinese Lu Tong-pin. Rappresentato in piedi su un drago volante, con le braccia allargate e il capo alzato in un vivo movimento,

Storia dell’arte Einaudi questo personaggio incarna con foga il temperamento pos- sente di un autore che, quantunque provinciale, padroneg- giò ugualmente bene le nuove tecniche dell’inchiostro mo- nocromo. (ol). seta Supporto tessile frequentemente utilizzato dalla pittura estremo-orientale. Conosciuta in Cina già prima dell’anno 1000 a. C., la s fu utilizzata inizialmente come supporto per l’arte della calligrafia, poi, almeno dal sec. iii, per i dipinti (ritrovamenti archeologici a Ch’angsha, Hunan). Dapprima utilizzata in forma grezza, venne poi lavorata elaborando tecniche piú raffinate in epoca Tang e durante il periodo del- le Cinque Dinastie. Veniva appiattita con una mestola, poi stemperata in una so- luzione glucosata calda dopo averla preparata con amido o talco fino a quando la superficie non fosse divenuta brillan- te. L’appretto propriamente detto, a base di colla e allume mescolati in soluzione, non fu inventato prima del sec. x sot- to i Song, quando la s divenne un materiale tessile estrema- mente elaborato e di qualità raffinata. La lavorazione de- cadde sotto i Ming; la s veniva utilizzata allo stato grezzo e a trama molto stretta, ma sotto i Qing fu nuovamente ri- chiesto un tipo di materiale piú raffinato e durante questa di- nastia si hanno pitture su s senza appretto, per ottenere spe- ciali effetti di sbavature che nel risultato sono assai simili a quelli della carta non preparata. L’esame di un pezzo di s può fornire numerose indicazioni sull’autenticità di una pittura, anche se le s prodotte sotto i Song per la loro qualità straor- dinaria vennero ancora utilizzate in epoca Ming; la s bianca in origine tende poi purtroppo a scurirsi coi tempo. (ol). Sethi I, tomba di La tomba che S (1306-1290 a. C.), secondo faraone della XIX dinastia, volle per sé nella Valle dei Re è degli ipogei regali tebani la piú imponente e ammirata. È un centinaio di metri, ma il progetto originale, evidentemente sospeso per la morte del re, prevedeva che essa si addentrasse nella mon- tagna ancora piú profondamente, come indica un corridoio, che parte dalla sala del sarcofago e si interrompe dopo una cinquantina di metri. Incompiuta è anche la decorazione di

Storia dell’arte Einaudi una delle camere, che permette di ammirare i disegni pre- paratori, dapprima tracciati rapidamente in rosso, con trat- to fluido ed elegante, poi ritoccati in nero. La pianta costi- tuisce l’amplificazione – attraverso la moltiplicazione degli ambienti, delle sale e dei corridoi – degli ipogei precedenti, ad asse rettilineo. Ad eccezione dei soffitti, solo dipinti, nel resto della tomba la decorazione è costituita da stupendi bas- sorilievi, dipinti con vividi colori, perfettamente conserva- ti, nello stile di nitido classicismo che contraddistingue l’ar- te dell’epoca. A differenza degli ipogei della XVIII dinastia, tutti gli ambienti della tomba sono ora decorati, dai corri- doi fino alla sala del sarcofago, secondo la scansione di un preciso programma decorativo che associa ad ogni ambien- te, a seconda della funzionalità che riveste nel simbolismo architettonico dell’insieme, testi e scene tratti dalle compo- sizioni esoteriche riservate al sovrano defunto: litanie sola- ri, guide dell’aldilà, testi rituali, racconti mitologici, come il mito della distruzione degli uomini narrato nel Libro della Vacca Celeste. Celeberrima è la raffigurazione astronomica sulla volta della sala del sarcofago, dipinta in giallo su fon- do blu. (mcb). Seuphor, Michel (Fernand Louis Berckelaers, detto) (Anversa 1901). Dopo studi classici, fondò a vent’anni una rivista internazionale d’arte e di poesia, «Het Overzicht» (Panorama, 1921-25), presto apertasi all’astrattismo. Dal 1923 si recò piú volte a Parigi, dove si stabilì nel 1925 di- venendo amico di Mondrian. In questo periodo compi nu- merosi viaggi in tutta Europa per prendere contatto con gli ambienti avanguardistici allora attivi. Nel 1929, col pittore Torrès-Garcia, costituì il gruppo Cercle et Carré, che tenne qualche mese dopo una grande mostra internazionale di ar- tisti astratti. Nel 1934 decise di ritirarsi in una piccola città dei Cévennes, ove scrisse saggi, poesie, romanzi a sfondo au- tobiografico, traduzioni da poeti tedeschi e fiamminghi, re- stando così per quattordici anni lontano da Parigi. Al suo ri- torno nel 1948 scrisse, pubblicandolo l’anno successivo pres- so le edizioni Maeght, il primo grande studio su l’Art abstrait, ses origines, ses premiers maîtres. Nel 1950-51 si recò a New York; poi viaggiò di nuovo attraverso l’Europa. Pubblicò in seguito una magistrale monografia su Piet Mondrian, sa vie, son œuvre (1956), un Dictionnaire de la Peinture abstraite

Storia dell’arte Einaudi (1957) e, oltre a varie monografie, La Sculpture de ce Siècle (1959) e La Peinture abstraite (1962), divenendo uno tra i principali propagandisti dell’arte astratta. Come artista, fu egli stesso un esponente dell’astrattismo geometrico e spes- so praticò le varie tecniche del disegno, dedicandosi anche alla produzione di cartoni per tappeti e arazzi, alcuni di gran- di dimensioni. Ha realizzato decorazioni su grandi vasi alla manifattura nazionale di Sèvres. Nel 1977 il centro George Pompidou e il gm dell’Aja hanno allestito una vasta retro- spettiva della sua opera. (rvg). Seurat, Georges (Parigi 1859-91). La formazione artistica di S, considerato il capofila del movimento neoimpressionista, seguì i canoni dell’insegnamento tradizionale e il pittore dopo essersi eser- citato nel disegno con copie da dipinti, calchi e illustrazio- ni, s’iscrisse nel 1877 all’Ecole des beaux-arts. Sostenuto dalla famiglia e privo di preoccupazioni finanziarie sin dal 1877 affittò uno studio con Aman-Jean, conosciuto alla scuo- la municipale di disegno. I due compagni lavorarono sugli stessi modelli interessandosi alla pittura contemporanea. Nel maggio 1879 visitarono la IV Esposizione impressionista, restandone colpiti in maniera «inattesa e profonda». All’Ecole des beaux-arts S poté studiare inoltre le copie de- gli affreschi di Piero della Francesca eseguite ad Arezzo nel 1872-73 e il suo interesse si volse in generale alle opere an- tiche e dei grandi maestri classici. La sua formazione venne indirizzata da Henri Lehmann, di- scepolo di Ingres, verso i principî del maestro di Montalban; una delle prime sue tele note, Angelica sulla roccia (Londra, coll. priv.) è la copia di un frammento del Ruggero che libe- ra Angelica conservato al Louvre, museo che abitualmente frequentava. Avido lettore S inoltre frequentò assiduamen- te le biblioteche parigine studiandovi incisioni e riprodu- zioni e i trattati di pittura. Come lui stesso ricorda aveva «letto Charles Blanc in collegio poi aveva studiato le leggi enunciate da Chevreul, i precetti di Delacroix, le idee di Co- rot e di Thomas Couture. Non cessò di appassionarsi a que- sto tipo di ricerche, non rinunciandovi neppure durante il servizio militare, che compì a Brest dal novembre 1879 al novembre 1880, meditando allora sulle idee di Sutter.

Storia dell’arte Einaudi Nel 1881, stabilitosi a Parigi, lesse le opere di Rood. Lavo- rava solo, accanendosi soprattutto sul disegno. Studiava i volumi, i giochi di luce, giungendo a unire alla forza delle li- nee la sensibilità per il chiaroscuro, tanto che piú tardi, a una delle sue mostre, Signac noterà «Dei disegni che hanno la funzione di semplici schizzi, ma tanto studiati nel con- trasto e nella gradazione della luce che potrebbero essere usati per dipingere, senza rivedere il modello». Conscio del- la compiutezza dei suoi disegni li espose spesso nelle mostre; uno di questi, il Ritratto di Aman-Jean (New York, mma), accettato dalla giuria del Salon nel 1883, fu la sua prima ope- ra presentata in un’esposizione ufficiale. Nelle prime opere di pittura S si rifece, soprattutto nei soggetti, alla tradizio- ne di Barbizon; dal 1881 al 1883 si esercitò in vedute di cam- pagna e contadini al lavoro (New York, Guggenheim Mu- seum; Glasgow, ag; Washington, coll. Phillips) che fanno pensare a un possibile progetto alla maniera di Millet, il qua- le influirà in modo determinante sulla formazione di S. Ac- canto all’attrazione per quel maestro del realismo, l’opera di S dimostra in questi anni un interesse profondo per la pit- tura impressionista di cui adotterà la tecnica, come si vede nei dipinti delle rive della Senna eseguiti nel 1883. La sua prima tela di grande impegno, Une baignade à Asniè- res (Londra, ng), respinta al Salon del 1884, venne esposta lo stesso anno agli Indépendants. Pur nella sua innegabile originalità, mostra ancora non del tutto assimilate le nume- rose influenze, da quelle di Puvis de Chavannes e di Pissar- ro, specialmente nel modo di semplificare e «monumenta- lizzare» le forme, ai nuovi principî, attinti dai testi tecni- co-teorici e dall’osservazione delle opere di Delacroix. Nel 1886, Un dimanche après-midi à l’île de la Grande Jatte (Chicago, Art lnstitute), frutto di due anni di lavoro, segna la maturazione delle sue ricerche. Per preparare le grandi composizioni, l’artista accumulava notazioni dal vero (studi in bianco e nero di valori cromatici o dipinti eseguiti rapi- damente su tavolette); in studio, lavorava alla composizio- ne generale, o ancora sui bozzetti, oppure su tele di forma- to maggiore. Dopo questi studi lungamente elaborati dell’opera definitiva S era in grado di applicare rigorosa- mente la tecnica della «divisione», fondata sull’impiego di colori giustapposti secondo le teorie dei complementari e del contrasto. Perseguiva questo fine, dichiarò, fin da quando

Storia dell’arte Einaudi aveva preso in mano un pennello; cercava, secondo le sue parole, «una formula di pittura ottica» precisando: «La pu- rezza dello spettro è la chiave di volta della tecnica». Intor- no a S e Signac, conosciuto nel 1884, si raccolse un gruppo di pittori comprendente tra gli altri Pissarro e il figlio Lu- cien, Dubois-Pillet, Luce, Angrand. Il neoimpressionismo stupì il pubblico parigino e venne disapprovato dalla mag- gior parte dei critici, ma fu sostenuto dagli spiriti irrequie- ti, come Félix Fénéon, che ne spiegò le basi scientifiche ai lettori di «la Vogue», o Gustave Kahn, che fu il tramite del collegamento con le ricerche degli scrittori simbolisti; le nuo- ve ricerche si diffusero in Belgio, con van Rysselberghe, Henry van de Velde e Finch. S frequentava i circoli letterari e artistici e nello stesso tem- po lavorava accanitamente; alcune sue opere vennero espo- ste a New York da Durand-Ruel, altre a Bruxelles, dove fu invitato dal gruppo dei Venti; a Parigi poté usufruire degli spazi della Gall. Martinet, del Théâtre-Libre, dei locali del- la «Revue indépendante», partecipò all’ultima manifesta- zione del gruppo degli impressionisti e alle mostre degli Ar- tistes indépendants. Qui in particolare presentò nel 1886 Un dimanche après-midi a l’île de la Grande Jatte (Chicago, Art In- stitute), nel 1888 le Poseuses (Merion, Barnes Foundation) e la Parade de cirque (New York, mma), nel 1890 lo Chahut (Ot- terlo, Kröller-Müller) e Giovane donna che s’incipria (Londra, Courtauld Institute), nel 1891 il Circo (Parigi, mo). Espose qui anche dei paesaggi (Grandcamp, 1885: Londra, Tate Gall.; Honfleur: Otterlo, Kröller-Müller; Port-en-Bes- sin, 1888: New York, moma), che, accanto ai grandi quadri con figure, costituiscono una parte importante della sua ope- ra, in particolare vedute marittime, nelle quali il pittore uni- sce a un’esatta osservazione della natura una costruzione rit- mica del quadro che rispecchia il suo metodo di lavoro, ini- ziato en plein air e poi terminato in studio. La sua ricerca era tesa a sottolineare le linee strutturali della composizione (Gravelines, 1890: Londra, Courtauld Institute, New York, moma), come del resto è già evidente nella Baignade à Asniè- res e nella Grande Jatte. Il fine era quello di scoprire un si- stema «logico, scientifico e pittorico» che gli consentisse, diceva, di accordare le linee del quadro giungendo all’armo- nia, nello stesso modo in cui lavorava con i colori.

Storia dell’arte Einaudi Fu affascinato dai lavori di Charles Henry e nel 1886 que- st’ultimo, amico di Fénéon e autore di un’Esthétique scienti- fique, incontrò S, considerato il capo del neoimpressionismo. «Ogni direzione è simbolica», sosteneva lo studioso e inol- tre cercava di fissare relazioni tra il valore espressivo delle li- nee e quello dei colori. Nella ricerca di una base scientifica per la sua pittura S seguì attentamente gli studi di Charles Henry sulle qualità del tratto, sui rapporti e le proporzioni, elaborando piú a fondo le sue composizioni. Nella Parade,le orizzontali sono dominanti, conferendo al dipinto una sen- sazione di calma, mentre lo Chabut e il Circo sono costruiti su diagonali che suggeriscono la gaiezza e il movimento. Presentato agli Indépendants nel 1891, il Circo non era com- piuto né verrà mai finito; qualche giorno dopo l’apertura del- la mostra una malattia fulminante portò S alla morte e la scomparsa dell’artista fu molto sentita nel mondo artistico; Theodor de Wyzewa, pur non nascondendo dubbi sul meto- do neoimpressionista, scrisse: «... Grande era la mia gioia nel trovare in un angolo di Montmartre un esemplare tanto mi- rabile d’una razza che credevo estinta, la razza dei pittori teo- rici, che uniscono la pratica e l’idea, la fantasia incosciente e lo sforzo pensato. Ora, avvertivo chiarissimamente in S un affine dei Leonardo, dei Dürer e dei Poussin». Sia dal 1892 a Parigi – su «la Revue blanche» e al Salon des Indépendants – e a Bruxelles nel gruppo dei Venti vennero presentate con un certo successo retrospettive della sua opera. Nel 1899 Si- gnac dedicò alla memoria di S l’opera D’Eugène Delacroix au Néo-Impressionnisme riconoscendone la funzione di «inizia- tore». Una grande retrospettiva dell’opera di S si è tenuta a Parigi nel 1991. (mtf). Seven and Five Società inglese di esposizioni, fondata nel 1919, compren- dente in origine sette pittori e cinque scultori, inizialmente fauves i primi e neoclassici i secondi. Nel 1935 il gruppo era divenuto però totalmente astratto, grazie anche all’ingresso di Ben Nicholson, Henry Moore e Barbara Hepworth, e la mostra di quell’anno alla Galleria Zwemmer di Londra fu la prima puramente astratta in Inghilterra. L’ultima manife- stazione di gruppo fu nell’anno successivo (1936). Una im- portante retrospettiva ha avuto luogo in Gran Bretagna nel 1980, presso la Newlyn-Orion Gallery di Penzance. (abo).

Storia dell’arte Einaudi Severini, Gino (Cortona 1883 - Parigi 1966). Adolescente dal carattere tur- bolento, S viene espulso a seguito di una bravata dalle scuo- le di tutt’Italia e nel 1899 si trasferisce con la madre a Ro- ma. Durante il giorno lavora e la sera frequenta i corsi di di- segno, stringendo amicizia con Boccioni. Il prelato cortonese Passerini lo aiuta economicamente per permettergli di dedi- carsi solo alla pittura. Con Balla e Boccioni, S sperimenta la tecnica divisionista (Via di Porta Pinciana al tramonto, 1903). Nel 1906 parte alla volta di Parigi per meglio conoscere l’ar- te di Seurat ed entra nel circolo di intellettuali e artisti che si riuniscono al Lapin agile. A Montparnasse si lega a Mo- digliani e ammira le prime opere cubiste di Picasso e Bra- que. Nello studio di Picasso incontra Apollinaire. Nel 10 compare tra i firmatari del Manifesto della pittura futurista. A Parigi, in questi anni, S fa da tramite per gli amici pittori italiani e frequenta i cabarets, dipingendo scene di vita not- turna. Nascono opere come Le chat noir, La ballerina in blu e La danse du Pan Pan a Monico, una tela che sintetizza fan- tasiosamente cubismo e futurismo (distrutta durante il na- zismo e ridipinta nel ’59 da lui stesso, in base a fotografie). Nell’11 Marinetti lo introduce alle Closerie des Lilas e gli presenta il poeta simbolista Paul Fort, del quale sposerà la figlia sedicenne Jeanne. La pittura di S si fa astratta. Il mo- vimento e il dinamismo futurista vengono interpretati come linee geometriche nello spazio, senza piú alcun referente rea- le. Contemporaneamente S sperimenta anche i collage cu- bisti (Omaggio a mio padre, Omaggio a mia madre, 1912) e in- terpreta la scomposizione cubista come successione ritmica di piani e colori (La donna seduta, 1914). Nel 1916, con Ma- ternità, ricompone le sue sperimentazioni in una classicità profondamente italiana, percorrendo il «ritorno all’ordine» proclamato di lì a poco in tutta Europa. Insieme al mate- matico Bricard si appassiona agli studi della geometria e ma- tematica e nel ’21 pubblica il testo Du cubisme au classici- sme, una diretta filiazione di quell’interesse scientifico. S ri- cerca l’armonia e il rigore costruttivo. Nel ’21-22 decora il castello di Montegufoni (Firenze), con una sfilata di ma- schere del teatro dell’arte. Dopo l’incontro con il filosofo Maritain, si acuiscono le sue crisi religiose e S si avvia a una concezione dell’arte sempre piú mistica. Vuole creare una

Storia dell’arte Einaudi nuova lettura del sacro, attraverso la decorazione parietale delle chiese, recuperando all’artista il suo antico mestiere di narratore al servizio dello spirito. Tra la metà degli anni Ven- ti e gli anni Trenta, affresca e lavora a mosaico in molte chie- se svizzere (La Roche, Tavannes, Notre-Dame du Valentin a Losanna). Nel ’35 riceve il premio per la pittura alla Qua- driennale di Roma e l’anno successivo pubblica Ragionamenti sulle arti figurative. Intanto esegue mosaici per il Palazzo di Giustizia di Milano, per le Poste di Alessandria, per l’Uni- versità di Padova. Negli anni Quaranta torna a una sorta di post-cubismo e nelle decorazioni per i cappuccini di Sion in Svizzera, rimanda alle tecniche medievali e alla loro essen- zialità. Nel ’46 pubblica la prima parte della sua autobio- grafia (Tutta la vita di un pittore). Tra i suoi interessi figura anche il teatro e prepara alcuni bozzetti per le scenografie di teatri parigini, romani, veneziani. Abbandonata la regi- strazione documentaria dei fatti, la sua pittura approda a una rinnovata libertà formale (Ritmo e architettura delle Tre Grazie, 1949; Pas de deux n. 1 e 2, 1950). Nel ’51 viene inau- gurato il mosaico della chiesa di San Pietro a Friburgo. Nel ’53-54 esegue decorazioni per la KLM di Parigi e l’ di Roma. Nel ’61 la capitale gli dedica un’antologica a Pa- lazzo Venezia e nello stesso anno, S compie per Cortona il mosaico di San Marco. Nelle sue ultime opere ritorna il te- ma della danza e dello spettacolo come vortice astratto di lu- ci e colori. In occasione del centenario della sua nascita, Palazzo Pitti di Firenze gli ha dedicato una grande retrospettiva (1983). Un’altra importante mostra è stata ospitata nel 1988 presso la Villa Croce a Genova. (adg). Sevilla, Juan de (Granada 1645-95). Principale pittore di Granada nella se- conda metà del sec. xvii, collaborò col suo rivale Bocanegra ai dipinti illusionistici (balconi, cortine) che completarono nel 1674-75 la decorazione del coro della Cattedrale. S la- vorò soprattutto per i conventi cittadini. La sua vasta pro- duzione mostra l’elasticità e l’ingegnosità con cui amalgama influssi diversi – quello di Murillo (soggiornò forse a Sivi- glia), ma anche del suo maestro Pedro de Moya, formatosi ad Anversa, e di van Dyck – con un barocchismo moderato e un senso spesso raffinato del colore. Un’idea del suo stile

Storia dell’arte Einaudi è data dai numerosi dipinti monastici passati al museo di Granada (Comunione di sant’Agata; ciclo agostiniano: «Tran- sverberatio» di sant’Agostino, Miracolo di san Niccolò da To- lentino), e da quelli dell’Università (Dottori della Chiesa lati- na). Il grande Trionfo dell’eucarestia con sant’Agostino e san Tommaso (1685: alle agostiniane) è senza dubbio il capola- voro decorativo di S il cui gusto narrativo e la cui vocazio- ne di pittore di genere sono evidenti anche in opere piú mo- deste come il Riposo della Sacra Famiglia in Egitto (Budape- st, szm) e soprattutto il Ricco Epulone e il povero Lazzaro (Madrid, Prado). (pg). Seybold, Christian (Magonza 1697 - Vienna 1768). Autodidatta, praticò il ri- tratto a olio e a pastello, utilizzando il metodo di Denner ed eguagliandolo in qualità e ricercatezza. I suoi volti sono di- pinti su rame o su tela con una precisione, una minuziosità e un grado di rifinitura «che giunge alla riproduzione dei po- ri» (Hagedorn). Stabilitosi a Vienna, S divenne membro dell’Accademia, presto richiestissimo dagli aristocratici: nel 1747 dipinse cinque Teste per l’elettore di Sassonia (Dresda, gg), nel 1749 venne nominato pittore del Gabinetto dell’im- peratrice. Ama le pieghe zigzaganti e le bordure di stoffe on- dulanti, che mettono in rilievo la dolcezza del modellato dei visi (Ritratti di fanciullo e di fanciulla: Vienna, ög). Tra i nu- merosi Autoritratti, i piú riusciti sono ritenuti quelli del Lou- vre di Parigi e della coll. Liechtenstein (Vaduz). Con L’uo- mo di formaggio (Budapest, mng) S tocca, attraverso la cari- catura, la scena di genere popolare. I suoi dipinti sono stati spesso imitati da J. G. Hoch. (jhm). Seyter, Daniele (Vienna 1649 - Torino 1705). Si formò a Venezia dove fu al- lievo di Carl Loth che influenzò le sue opere giovanili (San Sebastiano, 1670: Darmstadt, Hessisches Landesmuseum). Lasciata Venezia nel 1680, viaggiò, secondo il Pascoli, in Emilia e in Lombardia e, dopo un breve soggiorno a Firenze dove lavorò per il granduca, è documentato a Roma a parti- re dal 1682. La vivacità dell’ambiente romano fu particolar- mente stimolante per S che poté riflettere sulle opere di Pie- tro da Cortona (Assunzione della Vergine: Roma, Santa Ma-

Storia dell’arte Einaudi ria degli Angeli), Ciro Ferri e Maratta (Martirio di san Loren- zo e Martirio di santa Caterina: Roma, Santa Maria del Popo- lo; Madonna con i santi Caterina e Giacinto: Roma, Santa Ma- ria del Suffragio; Carità di san Giacomo: Roma, Santa Maria in Montesanto). Nel 1688 S, chiamato alla corte sabauda, fu impegnato nella decorazione di alcuni ambienti del Palazzo Reale di Torino importandovi, attraverso una propria inter- pretazione, il linguaggio cortonesco: si devono a lui alcuni af- freschi negli appartamenti a pian terreno detti poi di Mada- ma Felicita (Quattro Elementi nella volta della sala da para- ta), nella camera da letto della regina, nella sala del caffè e nella volta della galleria detta appunto «del Daniele» con af- freschi rappresentanti l’Apoteosi di Vittorio Amedeo II dove, sullo sfondo azzurro del cielo, si stagliano figure mitologiche e allegoriche in movimento rese con giochi di luce e di colo- ri. S rimase fino alla sua morte nella capitale sabauda dove fu attivo anche per l’Ospedale della Carità (Assunta nella vol- ta) e per la chiesa di San Francesco da Paola (altare di santa Genoveffa) tranne brevi soggiorni romani (tele per la chiesa di Santa Maria in Vallicella). Gli è stato riconosciuto anche un importante ruolo nell’arredo delle residenze reali e nelle scelte di acquisti per le collezioni sabaude. Su base cortone- sca, S sviluppò, in parallelo con Giacinto Brandi – con cui è stato talvolta confuso – un linguaggio fortemente chiaroscu- rato e dall’espressività caricata. (anb). sezione aurea Nel corso dei secoli la sa è stata oggetto di una vasta lette- ratura. Rivelatrice, secondo alcuni, di un principio di armo- nia universale che regge il microcosmo e il macrocosmo, o chiave d’una concezione assoluta della bellezza, essa ha tro- vato applicazione presso i pittori nella «costruzione» della superficie pittorica, un po’ al modo in cui gli architetti se ne sono talvolta serviti per le piante e gli alzati degli edifici. L’espressione sa traduce la nozione euclidea di una riparti- zione geometrica in rapporto medio proporzionale, mentre il «numero aureo» ne rappresenta l’aspetto speculativo. Es- sa si carica fin dall’antichità di significati mistici, estetici, esoterici, di cui ritroviamo eco nel vocabolario dei teorici del rinascimento. Luca Pacioli parla di «divina proporzione», Keplero di «se- zione divina», mentre il termine sa è stato verosimilmente

Storia dell’arte Einaudi introdotto nel sec. xix recuperando la definizione medieva- le di regula aurea. Per quanto ne sappiamo, Euclide fu il primo a definire la sa e a corredarla di un’espressione matematica. Raccogliendo un sapere di antiche origini, e di speculazioni sul modo piú logico per ripartire asimmetricamente una retta secondo principi di economia e di armonia, egli scrive nel VI libro degli Elementi: «Una retta è detta divisa in ragione media proporzionale quando l’intera retta sta al segmento maggio- re come il maggiore sta al minore». La definizione espressa attraverso una formula matematica da cui si ottiene il nu- mero irrazionale 1,61803... rappresenta dunque l’incre- mento della sa, il numero aureo, e come tutti i numeri irra- zionali può essere rappresentato geometricamente. Secondo il metodo descritto da Euclide, si costruisce un triangolo ret- tangolo con ipotenusa AC, cateto maggiore AB, cateto mi- nore BC. Ponendo BC = 1/2 AB, esso viene prolungato fi- no al punto D in modo da avere la stessa lunghezza dell’ipo- tenusa AC. Il segmento aggiunto BD costituirà il medio proporzionale, in relazione di sa, rispetto al cateto AB. Un simile rapporto proporzionale è presente nelle figure geo- metriche derivate dal pentagono (in particolare il penta- gramma) e dal dodecagono. Il pentagono regolare, ampliato nello spazio, fornisce il dodecaedro e l’icosaedro, due dei cinque corpi platonici. La riflessione sulle origini della sa acquista una notevole com- plessità se si tiene presente che in molte forme naturali è sta- to possibile rintracciare rapporti proporzionali ad essa ri- conducibili: dal cristallo di neve, la cui rappresentazione sche- matica è composta da segmenti in relazione di sa, ai cristalli di pirite, la cui composizione è costituita da un dodecaedro contenente dodici pentagoni, alla conformazione di vari fio- ri e foglie, alla stella marina e così via. Il fascino di tale sche- ma interpretativo è che si è rivelato appropriato alla descri- zione di determinati processi di sviluppo in natura: è stato ad esempio notato come durante la crescita di un ramo di pioppo, la distanza dei germogli si colloca in rapporti di sa. Tutto ciò aiuta forse a comprendere il carattere misterioso, esoterico e magico che da sempre accompagna il pensiero e le speculazioni sulla sectio divina, non essendo tra l’altro pos- sibile rintracciarne con sicurezza le origini. Stelle in forma

Storia dell’arte Einaudi di pentagramma sono presenti in illustrazioni egizie, e non può non suscitare meraviglia il fatto che misurazioni sulla piramide di el Giza hanno dimostrato come il coseno dell’an- golo di inclinazione coincida quasi precisamente con il nu- mero aureo. A giudicare dai ritrovamenti, la forma del pen- tagramma doveva essere ricorrente anche nella pittura va- scolare etrusca fin dal sec. vi a. C. Nella stessa epoca, spetta però alla scuola pitagorica il me- rito di una corretta teorizzazione matematica delle relazio- ni proporzionali contenute nel pentagramma, che a quanto ci dice Luciano sarebbe stato il segno di riconoscimento de- gli iniziati. E vincolo del segreto e il carattere iniziatico, che contraddistinsero i seguaci di Pitagora, fecero sì che solo par- zialmente e indirettamente ci siano pervenute notizie dei lo- ro studi. Questi erano incentrati sulla definizione matema- tica delle relazioni proporzionali, alla ricerca di principi uni- versali di armonia, validi sia per gli intervalli tonali che spaziali. Di tale dottrina Platone, che sembra aver avuto interessan- ti rapporti con gli ambienti pitagorici, pare fornirci un ri- flesso. Secondo il filosofo, il numero è fattore d’ordine, di misura, di bellezza, che solo la conoscenza della matemati- ca permette di cogliere. Il Timeo ci comunica le sue conce- zioni circa l’armonia e la proporzione, e in particolare circa il «medio proporzionale» geometrico, il legame piú forte che possa unire tre termini: «Ma che due termini formino da so- li una bella composizione, ciò non è possibile senza un ter- zo [...], ne viene così necessariamente che tutti i termini ab- biano la medesima funzione, che tutti svolgano gli uni in rapporto agli altri il medesimo ruolo, e che in tal caso tutti costituiscano una perfetta unità» (Timeo, 31a-32c), Piú avanti, per spiegare la sua cosmogonia, Platone riprende il dodecaedro pitagorico (12 pentagoni), impossibile da rea- lizzare senza la sa, e di cui egli fa il simbolo dell’armonia co- smica: «Il Dio se ne servì per il Tutto, quando ne ebbe di- segnato la disposizione definitiva» (Timeo, 55c). Un secolo piú tardi, intorno al 300 a. C., Euclide tornerà quat- tro volte, nei suoi Elementi, sulla ripartizione media propor- zionale (libro II, prop. 11; libro IV, prop. 10-14; libro VI, Prop. 30; libro XIII), mentre l’ascendente dei principî della sa sulle teorie cosmogoniche, già presente nel Timeo di Pla- tone, torna con Tolomeo, la cui astronomia utilizza il deca-

Storia dell’arte Einaudi gono, una variante del pentagono non descritta da Euclide. L’intero patrimonio matematico greco è assorbito dalla cul- tura araba, e con il tramite di autori come Nicomaco di Ge- rasa (sec. i d. C.) e Severino Boezio (sec. vi d. C.), la geo- metria esoterica pitagorica si trasmette al Medioevo. Riflessi di Euclide sono visibili in Gerardo di Cremona (1114 ca. - 1187) e si concretizzeranno in un consapevole recupero con Campano di Novara che nel 1354 traduce e commenta una versione araba degli Elementi di Euclide (il libro viene stam- pato oltre un secolo piú tardi a Venezia nel 1482). Precedentemente, fin dal 1228, Leonardo da Pisa (Fibonac- ci), cui dobbiamo il primo trattato di algebra, aveva scoper- to inoltre una serie additiva nella quale due cifre consecuti- ve si trovano in un rapporto che tende verso il numero au- reo: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, ... Sempre a Venezia, che attraverso i commerci con Bisanzio riveste un ruolo fondamentale nel recupero all’Occidente della cultura greca preservata dal mondo arabo, appare nel 1509 il tratta- to De divina proportione del monaco bolognese Luca Pacioli. Il trattato risente del rapporto con le teorie che Piero della Francesca aveva elaborato nel suo Trattato dei corpi regolari. Da questo momento la trattatistica sulla sa sarà strettamen- te intrecciata all’opera degli artisti, recuperando quella ri- cerca applicativa dei suoi dettami proporzionali, cui contri- buì il ricorso all’analisi dei monumenti antichi. Le misura- zioni delle opere d’arte dell’antichità, intraprese con passione da studiosi e artisti rinascimentali, permise infatti di «rinnovare» la conoscenza dell’utilizzo sistematico dei rapporti proporzionali. Opere chiave del mondo classico rivelano infatti l’applicazio- ne delle proporzioni fissate dalla sa. È il caso del Partenone, nelle relazioni di larghezza e altezza dell’edificio, di altezza e diametro delle colonne; come anche dei Propilei, nelle pro- porzioni dell’architrave e dei capitelli. Anche nella scultura, la rappresentazione del corpo umano, così come è fissata dal canone policleteo, rivela i medesimi proporzionamenti. L’al- tezza della figura dell’Apollo del Belvedere risulta compresa in due segmenti (il maggiore in basso e il minore in alto), in re- lazione di sa, la cui linea orizzontale di cesura passa per il cen- tro proporzionale dell’ombelico. Ulteriori frazionamenti in ra- gione di sa sono ravvisabili nell’analisi della scultura e la teo-

Storia dell’arte Einaudi rizzazione della rappresentazione proporzionale della figura umana ha vissuto interessanti sviluppi in tempi a noi vicini con il Modulor di Le Corbusier. Questo sapere si trasmise dagli artisti greci ai romani. A Na- poli si conserva uno strumento, proveniente da Pompei, pro- babilmente utilizzato nel disegno architettonico. Si tratta di un compasso di riduzione, per proporzionare una grandez- za maggiore a una minore: le riduzioni funzionano secondo rapporti di sa. La presenza di questo filo che regge l’armonia delle opere dell’uomo e, come abbiamo visto, della natura fece sì che nel rinascimento la sa venisse eletta a principio universale, a di- vina proportio. Luca Pacioli espone diversi motivi per spie- garcene la natura divina. Come Dio, tale proporzione non può essere definita in modo certo, in quanto irrazionale; co- me Dio, è sempre presente in modo invisibile; come Dio, è una, unica, invariabile. Pacioli cita il Timeo e insiste sulla necessità di questa sacra proporzione che unisce i cinque cor- pi platonici. Leonardo da Vinci li rappresenterà sulle tavo- le dell’opera. La compresenza armonica di caratteri scientifici, esoterici e mistici nei principî della sa trova un interprete adeguato nel- la complessità del pensiero leonardesco. Nella sua imposta- zione scientifica, «Non legga i miei principî chi non è ma- tematico», confluiva la ricerca di principî universali che ispi- rassero il macrocosmo come il microcosmo, condotta attraverso un’attenta osservazione della morfologia della na- tura: «Tutte le parti di qualunque animale sieno corrispon- denti al suo tutto... e il medesimo intendo aver detto delle piante» (Trattato della pittura, prop. 268: Della proporziona- lità delle membra). Parallelamente Luca Pacioli credeva che l’uomo, sia nell’insieme che nelle singole parti, rispondesse alla proporzionalità della sa. Albrecht Dürer, nel corso di uno dei suoi viaggi a Venezia all’inizio del sec. xvi, si recò a Bologna, dove Pacioli risiede- va, per apprendere «gli arcani di una prospettiva segreta». Autore di un trattato di proporzioni (Proportionslehre) e di un trattato sulla misurazione (Unterweisung der Messung), Dü- rer si occupò tra l’altro delle figure-chiave del triangolo e del pentagramma, nonché dei fondamenti matematici della com- posizione pittorica. Il proporzionamento e la disposizione

Storia dell’arte Einaudi dei tratti fisionomici del suo Autoritratto (Monaco, np) so- no un manifesto dei suoi studi sulla sa. Ma nella pittura ri- nascimentale l’applicazione alle composizioni di questi prin- cipi di proporzionamento acquista il carattere di consuetu- dine, dall’Assunta dei Frari di Tiziano alla Madonna Sistina di Raffaello. L’impiego della matematica nobilita la pittura conferendole un aspetto piú speculativo, soprattutto nella misura in cui l’organizzazione di un «disegno» d’insieme è comune a tutte le arti, tecnicamente e teoricamente. Euclide è d’altronde oggetto di numerose edizioni francesi, di cui forse beneficia precisamente Poussin. La trasmissio- ne «sotterranea» di questo sapere, la scarsità di testimo- nianze scritte esplicitamente collegate alla sa rendono però difficile seguirne lo sviluppo. I teorici del sec. xix riscoprono l’interesse extramatematico della sa. La considerano la legge fondamentale che impre- gna la natura e le arti, e la rielaborano in funzione delle cor- renti scientifica, mistica e teosofica del simbolismo della se- conda metà del secolo, che spesso influenzeranno gli artisti. Così Seurat, che si formerà in un clima scientista, sviluppa un’opera in cui l’origine di ogni sensazione armonica è do- vuta ai numeri. «L’arte è armonia. L’armonia è l’analogia dei contrari, l’ana- logia dei simili» (lettera a Maurice Baubourg, 1890). Nelle tele di Seurat, in generale, i personaggi saranno disposti in base alla sa, ed è in tali termini che A. Lhote analizzerà la Parade. A partire dal 1885, prenderà piede il simbolismo; l’influsso di Moreau s’estende non soltanto ai nabis, ma anche al gruppo esoterico dei Rosa-Croce, il cui capo sâr Péladan traduce il Trattato della Pittura di Leonardo, libro che influenzerà Jac- ques Villon. Nel 1890 l’opera I grandi iniziati, di Schurè, ha notevole successo. La dottrina di Pitagora e particolarmente la scienza dei numeri sacri vi sono esposte in un centinaio di pagine. Nella stessa epoca, un’estetica religiosa a tendenza pi- tagorica, fondata sulla matematica, il numero, la geometria, vede la luce nell’abbazia benedettina di Beuron. Padre Didier Lenz rivela al novizio Jan Verkade, amico di Gaugin e Séru- sier, il progetto del numero, dell’equilibrio e dell’ordine. Sérusier si entusiasma di questa estetica, che gli consente di raggiungere «un’arte piú grande, piú severa e sacra». Pro-

Storia dell’arte Einaudi duce composizioni, figure nude, con il regolo, le squadre e il compasso proporzionali, impostati sul numero aureo. Il suo insegnamento alla Académie Ranson contribuisce a diffon- dere l’uso delle «misure sacre». Inoltre, Sérusier aprì in que- sto senso la strada al cubismo, la cui prima esposizione fu po- sta sotto il segno della sa (ottobre 1912). Tale esposizione era la conseguenza logica del gruppo di Puteaux, che riuniva pres- so i fratelli Duchamp, appassionati di matematica, artisti co- me Gleizes, Metzinger, Léger, Picabia, La Fresnaye, Apolli- naire. L’organizzazione della tela era il principale argomen- to di discussione: «Si è radicata in noi l’idea che una tela debba essere ragionata prima di essere dipinta» confessa Vil- lon, che rappresenta l’esempio migliore dell’impiego della sa, trasfigurata da un cromatismo sottile. André Lhote, col suo insegnamento e i suoi scritti contribuisce a far conoscere le leggi cui deve «obbedire l’opera d’arte per sfuggire alla sciat- teria sentimentale». Il Trattato del paesaggio insiste sulla com- posizione del quadro «per sollecitare o trattenere lo sguar- do». La suddivisione della superficie secondo il numero au- reo possiede le maggiori virtú. Egli cerca di raggiungere il Bello ideale platonico, con l’ausilio delle regole. L’opera di Severini Dal Cubismo al Classicismo, comparsa nel 1921, re- ca un sottotitolo rivelatore dell’atteggiamento dell’artista: Estetica del compasso e del numero. Severini ritiene indispen- sabile la conoscenza della geometria per costruire una tela e torna alle idee del rinascimento: scopo supremo dell’arte è ri- costruire l’Universo secondo le leggi stesse che lo reggono. In piena sintonia con le teorie rinascimentali, Le Corbusier opera la «ricostruzione dell’Universo», ponendo la figura umana a misura del tutto: «Il Modulor è uno strumento di misura, che emana dalla figura umana e dalla matematica. Un uomo con un braccio alzato fornisce nei punti cardine dello spostamento nello spazio – piede, plesso solare, testa, punta delle dita del braccio alzato – tre intervalli, che pro- ducono una serie di sa, che prende il nome da Fibonacci». Nel suo libro Il Modulor, Le Corbusier sviluppa dei model- li applicativi della sa adattabili a qualsiasi sfera progettuale o livello di rappresentazione. Dal «gioco» infinito delle com- binazioni di ripartizione di un quadrato in proporzione au- rea discendono applicazioni che vanno dal disegno architet- tonico (le «Unité d’habitation» di Marsiglia), al disegno di mobili e standard tipografici. Oggi un pittore come Agam

Storia dell’arte Einaudi impiega il numero aureo, servendosi di un calcolatore, per definire i rapporti tra le forme. Ottiene così diverse combi- nazioni che incorporano il tempo (quarta dimensione) nell’opera. Va però detto che questi artisti, che fanno riferimento sem- pre, piú o meno, a Leonardo (il quale comunque non men- ziona mai direttamente la sa), sono forse piú legati a un mi- to creativo, vero garante della composizione, che ai proble- mi matematici sottostanti alla sa. L’impiego del numero aureo compare d’altronde presso alcuni pittori nel momento in cui sono attirati da personalità del Quattrocento, quali Paolo Uc- cello e Piero della Francesca. Ed è vero che molti artisti han- no sovrapposto il proprio punto di vista ad esempi antichi, col pretesto di riallacciarsi a una famiglia spirituale la cui de- finizione storica non è sempre ben formulata. Taluni teorici, troppo spesso applicando schemi mentali sen- za partire dall’osservazione diretta del documento del pas- sato, hanno spinto assai lontano la loro analisi, e propongo- no strutture cui gli artisti possono non aver mai pensato; in realtà non si può essere sicuri che si tratti dell’impiego au- tentico della sa in una certa composizione di Raffaello, di Tiziano o del Veronese. Senza dubbio molti schemi proposti ci offrono alcune coin- cidenze, ma non sempre sufficienti. Per converso molti pit- tori attuali si sono immediatamente impadroniti di questi studi per la loro creazione. Fase di una cultura, l’impiego del numero aureo sembra aver frequentemente proposto un mito creativo a coloro che aves- sero bisogno di tradurre una particolare concezione dell’ar- monia. In molti casi, inoltre, ha potuto diventare un meto- do scolastico, una deformazione pedagogica. Oggi speculazioni matematiche come quelle di Xénakis sem- brano aver aperto, in rapporto a forme artistiche nuove, una ricerca diversa, benché sempre associata all’idea di una strut- tura superiore. (mn + mca). Sfax Città della Tunisia (l’antica Taparura, sulla costa setten- trionale del golfo di Gabes, Piccola Sirte), che conserva nel suo museo un bel complesso di mosaici provenienti da ville romane della regione, e da centri come Thaenae (Thina: pa-

Storia dell’arte Einaudi vimenti musivi delle terme, iscrizioni e mosaici dalla necro- poli) e Acholla Butria (Boutrja): Il poeta Ennio (?) e le nove Muse (età severiana, dalle terme di S), scene di gladiatori e di banchetto funebre. (mfb). Sforza Le arti figurative lombarde della seconda metà del sec. xv sono decisamente caratterizzate dalle committenze della fa- miglia ducale. In architettura e in scultura il mecenatismo sforzesco dà vita a progetti di straordinaria modernità (la Cà Granda e la «Sforzincla» di Filarete, le chiese bramantesche di Milano e Pavia, il monumento equestre a Francesco S di Leonardo). Nella pittura, invece, il gusto degli S appare so- stanzialmente conservatore, legato a modelli tardogotici, al- la profusione di elementi araldici, alla insistita celebrazione della famiglia: significativo segnale della volontà di mante- nere la linea indicata dai Visconti, è la presenza di stemmi sforzeschi nella cappella di Teodolinda del Duomo di Mon- za. Pittore di corte sotto Francesco S e Bianca Maria Vi- sconti è Bonifacio Bembo, attivo in tutti i centri principali del ducato: il ciclo oggi meglio leggibile è quello della cap- pella Cavalcabò in Sant’Agostino di Cremona. Il ritrattista ufficiale, Zanetto Bugatto, viene inviato a Bruxelles per per- fezionarsi nella bottega di Rogier vari der Weyden; alquan- to precoci sono i contatti tra gli S e Vincenzo Foppa. An- cora sulla scia del mecenatismo visconteo, gli S favoriscono lo sviluppo della miniatura lombarda, che recenti studi stan- no recuperando come esperienza autonoma e vitale, non tan- to nelle sue espressioni piú pesantemente ufficiali (Ambro- gio de Predis, Giovan Pietro Birago), quanto in maestri di maggior delicatezza e ricchezza di modelli (il Maestro di Ip- polita, Maiteo da Milano, Antonio da Monza). Tornando al- la pittura monumentale, ritroviamo Bonifacio Bembo anco- ra impegnato nella decorazione della cappella ducale del Ca- stello Sforzesco di Milano, ordinata da Galeazzo Maria S e compiuta intorno al 1472 con la collaborazione di Stefano de’ Fedeli e di altri maestri. Nel corso degli anni ’80, in coin- cidenza con l’arrivo in Lombardia di Bramante e di Leo- nardo e con la salita al potere di Ludovico il Moro, si nota- no i segni del rinnovamento anche nel gusto degli S. I mi- gliori pittori lombardi sono impegnati in una vasta e coordinata campagna di committenze: Zenale e Butinone

Storia dell’arte Einaudi realizzano gli affreschi (perduti) nella Sala della Balla del ca- stello milanese; Foppa dipinge la pala votiva con San Seba- stiano (oggi Milano, Castello Sforzesco), Bergognone si oc- cupa della vasta serie di affreschi e di tavole nella Certosa di Pavia. Finalmente anche Leonardo viene coinvolto nella politica figurativa degli S; Ludovico il Moro gli commissio- na il Cenacolo di Santa Maria delle Grazie e la decorazione con un finto pergolato della Sala delle Asse del Castello Sfor- zesco. Tuttavia, nemmeno queste opere convincono del tut- to il duca ad abbandonare gli ultimi retaggi tardogotici. La programmatica e macchinosa Pala Sforzesca (Milano, Brera), eseguita da un anonimo maestro intorno al 1495, è la sinte- si finale del gusto sforzesco, in cui precisi richiami a Leo- nardo e a Bramante si inseriscono in un contesto figurativo ricco di dettagli descrittivi e di decorazioni. Un capitolo an- cora da approfondire è la posizione del cardinale Ascanio S, fratello di Ludovico il Moro. Committente di Bramante (Duomo di Pavia, chiostri di Sant’Ambrogio), bibliofilo (ri- cordiamo il Liber Musices della Trivulziana di Milano), Asca- nio è forse il destinatario della Incisione Prevedari, uno dei massimi sforzi dell’arte lombarda di fine Quattrocento in senso prospettico. (szu). sfumato Risultato dello «sfumare», ossia di una particolare tecnica propria dell’arte pittorica e del disegno: «è quello che fanno i pittori [ ...] per levare tutte le crudezze de’ colpi, confon- dendo dolcemente fra di loro chiaro con mezza tinta, o mez- za tinta con lo scuro, a fine che il passaggio dall’uno all’altro venga fatto con un tal digradamento, che la pittura anche a vista vicina apparisca morbida e delicata senza colpi di pen- nello. Lo stesso […] occorre ancora [ ...] quando colui che di- segna [ ...] Il colpi della matita così bene gli unisce fra di lo- ro, e col bianco della carta che fa apparire il termine della macchia non altrimenti che un fumo, che nell’aria si dilegua» (F. Baldinucci, 1681). L’uso di «sfumare» e dei termini da esso derivati, come appunto s – ma anche sfumazione, sfu- mamento, ecc. –, è ampiamente testimoniato nella letteratu- ra artistica sia come termine tecnico che come concetto cri- tico; prevalenti in Cennino Cennini (fine sec. xiv) le impli- cazioni «tecniche», come quando prescrive: «Va col detto

Storia dell’arte Einaudi pennello tratteggiando l’andare delle pieghe maestre; e poi va’ sfumando, secondo l’andare, lo scuro della piega». Nel primo rinascimento Leon Battista Alberti nel De pictura (1436) parla dei pittori che mediante il chiaroscuro «prima quasi come leggerissima rugiada per infino all’orlo coprireb- bero la superficie di qual bisognasse bianco o nero; di poi so- pra a questa un’altra e poi un’altra; e così a poco a poco fa- rebbono che [...] il bianco si perderebbe quasi in fummo». Di particolare interesse un precetto del Trattato della pittura di Leonardo, nella cui pittura è stato individuato dalla criti- ca uno dei massimi risultati dello s: «che le tue ombre e lu- mi sieno uniti senza tratti o segni ad uso di fummo». Un pre- ciso valore critico assume poi presso Lodovico Dolce (1557) allorché, nel segno di una poetica classicista, per esaltare l’ar- te di Raffaello nei confronti di quella di Michelangelo, loda il «colorito» dell’urbinate: «... le cose dipinte in muro da Raf- faello […] sono sfumate et unite con bellissimo rilevo e con tutto quello che può far l’arte». D’altronde il Dolce, con buo- na intuizione critica riprende il concetto anche a proposito di Giorgione, «di cui si veggono alcune cose a olio vivacissi- me e sfumate tanto, che non ci si scorgono ombre». Giorgio Vasari (1568) indica Leonardo e Giorgione come pittori che hanno «sfumato» le loro pitture; ma nel clima manieristico assume rilevante interesse la minuta precettistica di Giovan Battista Armenini (1587), che descrive in modo assai preci- so il procedimento da seguire per «sfumare» le ombre dei di- segni ad acquerello. Il termine è largamente presente presso gli scrittori del sec. xvii, ed è – come si è riportato all’inizio – precisamente esplicato nel Vocabolario del Baldinucci. Sin- golare il procedimento tecnico seguito, secondo Giovan Pie- tro Bellori (1672), da Carlo Maratti, che «sfumava spesso col dito grosso della mano, per unire in vece di pennello». Alla fine del sec. xviii è ancora da segnalare quanto scrive Fran- cesco Milizia nel suo Dizionario (1797), in linea con il tradi- zionale apprezzamento positivo del procedimento; ma la sua preoccupata sensibilità neoclassica si rivela quando afferma: «è un modo di dipingere, che lascia una incertezza nella ter- minazione del contorno, e ne’ dettagli delle forme, quando si guarda l’opera da vicino; ma in giusta distanza sparisce ogni indecisione»; e ancor piú nella notazione: «Lo sfumato par ch’escluda il sentimento». (mp).

Storia dell’arte Einaudi sgorbia Strumento d’acciaio a forma di scalpello, la cui parte ta- gliente, dentellata e arrotondata, serve alla preparazione del- le lastre da incidere a mezzotinto. Passandola obliquamen- te sulla lastra, alternativamente da destra a sinistra e da si- nistra a destra (cioè con movimento detto «a culla»), si ottiene un effetto di puntinato. (hz). sgraffiato → graffito Shaftesbury (Anthony Ashley Cooper, conte di) (Londra 1671 - Napoli 1713). Ebbe come precettore, tra il 1680 e il 1683, Locke, prima di recarsi a Winchester dove rimase fino al 1686; in seguito compì un viaggio in ltalia e al suo ritorno in Inghilterra divenne membro del Parlamen- to sotto il governo di Poole (1695). Tra il 1703 e il 1704 fu in Olanda e nel 1711 salpò alla volta di Napoli dove rimase fino alla morte. I principî della sua teoria artistica vennero raccolti nei Characteristics of Men, Manners, Opinions and Ti- mes pubblicato nel 1711 in cui S mostra una forte impron- ta classicistica nella comparazione tra le arti in cui il genio inventivo sia del poeta che del pittore dovrà soggiacere allo studio dei «molti oggetti della natura, e non... uno partico- lare» e al confronto con «le migliori statue considerandole un miglior modello che non quello che i piú perfetti corpi umani potessero fornire». La sua idea del bello e del vero trova il suo centro nella teoria degli affetti emendata da ogni descrizione mimetica e basata sulla conoscenza dell’«occhio interiore» che «nota i limiti delle passioni e conosce i loro esatti toni e misure» attraverso i quali l’artista «rappresen- ta precisamente, denota il sublime dei sentimenti e dell’azio- ne, e distingue il bello dal deforme, l’amabile dall’odioso». A Napoli S tornò sulla sua teoria artistica nei Seconds Cha- racters or the Language ofForms(1713) in cui i principî filo- sofici enunciati nel suo vademecum estetico vanno trasfor- mandosi in consigli educativi per l’artista: «I miei proget- ti... si basano tutti su emblemi morali e ciò che è affine alla Storia Greca e Romana, alla filosofia e alla virtú. A ciò i pit- tori moderni sono poco propensi... spetta a me il dover met- tere in moto il meccanismo e aiutare a sollevare lo spirito». L’intenzione educativa e la priorità dei dipinti di soggetto

Storia dell’arte Einaudi storico che S raccomanda all’«artista filosofo», saranno te- mi assai apprezzati sia da Diderot che da Winckelmann. In A Notion ofthe Historical Draught ofTablature ofthe Judg- ment ofHercules (1712) accompagnato dalla Letter Concer- ning Design, S indaga sulla libertà dell’artista nella scelta di rappresentare un soggetto dato con termini che anticipano la polemica di Lessing enunciata nel Laocoonte e che trova- no un esempio pratico nella commissione del 1711 a Paolo de Matteis dell’Ercole al bivio (Oxford, Ashmolean Museum), poco dopo il suo arrivo a Napoli; per l’esecuzione di un gran- de «soggetto... del tipo eroico» S aveva esposto, sulla base delle fonti disponibili, le sue idee nella citata Letter. (sr). Sha¯h-na¯ma (Libro dei re). L’epopea fu redatta in versi da Ab 1-QÇsim al-Firdaws¥, grande poeta persiano, e dedicata al sultano Mahmd el Ghaznavide; venne illustrata spesso durante i secoli xiv e xvii. Gigantesca opera (60 000 versi) terminata nel 1010, racconta le avventurose imprese di Rustam, eroe mitico e favoloso della storia persiana fino alla conquista araba. Considerata quale opera capitale della letteratura nazionale lo S-n ebbe larghissima popolarità e occupò un posto predominante nel- la storia della pittura persiana, divenendo pretesto per nu- merose illustrazioni che ornavano le molteplici copie mano- scritte. L’epopea contiene alcune descrizioni di dipinti murali sasa- nidi, ma l’autore descrisse soprattutto l’antico cerimoniale illustrato dalle decorazioni che ornavano le pareti dei palaz- zi della dinastia. Nell’opera si accenna alla presenza di ri- tratti portatili; l’influsso di quest’opera popolare continuerà ben oltre la conquista araba orientando profondamente il gusto dei pittori che la illustrarono e costituendo una co- mune fonte culturale per le diverse scuole pittoriche. Il XIV secolo Numerosi sono i manoscritti illustrati a noi pervenuti; si ignora se la prima edizione dell’opera donata al sultano fosse anch’essa ornata di miniature. Il piú antico conosciuto data al 1330 e fu probabilmente donato al visir GhiyÇt al-D¥n Mahmd (Istanbul, Topkapi Sarayi); appar- tiene alla scuola di Shiraz o a quella di Tabriz e contiene no- vanta miniature tra le quali si segnala la prima per la parti- colare maestria delle tonalità che sfumano dal giallo,

Storia dell’arte Einaudi all’arancio, al malva, al bianco. I personaggi piuttosto gran- di rispetto agli sfondi, risaltano al modo dei dipinti mura- li. L’artista ricerca l’espressione del significato epico po- nendo in risalto l’eroe e arriva perfino a raggruppare in una stessa scena due avvenimenti successivi denotando una vo- lontà del racconto figurato piú espressiva che descrittiva. In alcune miniature lo sfondo è decorato da motivi vegetali e floreali che ricordano la tradizione pittorica sviluppata dal- la scuola di Baghdad. Le nuvole stilizzate nelle scene di bat- taglia sono motivi di chiara ispirazione cinese, influsso che si ritrova ancora nei disegni di paesaggio, di draghi e uccel- li; la moda mongolica è nettamente visibile nel tipo di co- stumi, di pettinature, di gioielli e armature rappresentati in queste raffigurazioni. Alcuni personaggi presentano poi pet- tinature intrecciate come era in uso presso i selgiuchidi. Numerosi altri manoscritti illustrati di S-n risalgono alla stes- sa epoca, tra cui un esemplare non datato proveniente da IsfahÇn, che i critici ritengono eseguito entro il 1325 e il 1335 (Washington, Freer Gall., n. 29.24), e il celebre S-n che prende il nome del suo antico proprietario, Demotte, del quale restano soltanto una sessantina di fogli miniati. I di- pinti di quest’ultimo manoscritto, rappresentativi della scuo- la di Tabriz negli anni 1330-36, sono sparsi in vari musei (Boston, mfa, n. 30.105; Cambridge, Mass., Fogg Museum, 1955.167; Washington, Freer Gall., n. 38.3). Altri due esemplari di S-n vennero eseguiti a Shiraz, uno del 1333 (San Pietroburgo, bibl. di Stato, n. 329), l’altro del 1341 (Baltimore, wag, W. 477). I dipinti di questi ma- noscritti presentano quasi tutti fondi rossi o gialli e sono caratterizzati da composizioni architettonicbe e paesaggi sommari, e da colori dove predominano il porpora e il blu, che mescolati dànno un particolare violetto. I personaggi umani dominano tutti gli altri elementi della composizione, che sono ad essi subordinati e compaiono unicamente per riempire i vuoti. Degli anni Settanta del sec. xiv si conser- vano due S-n provenienti dalle scuole di Shiraz (Istanbul, Topkapi Sarayi, Hazine 1511) e di Tabriz (ivi, Hazine 2153). Il paesaggio ha qui ruolo assai maggiore che in tut- te le miniature precedenti, e l’azione non si distacca su un semplice sfondo. I personaggi sono disposti in modo rigido e maldestro. Elementi di origine prettamente cinese si giu-

Storia dell’arte Einaudi stappongono alle componenti consuete delle miniature per- siane. Il XV secolo Uno degli S-n piú celebri, piuttosto noto in Oc- cidente (essendo stato esposto a Londra, San Pietroburgo, Parigi e Roma) è quello eseguito a Herat nel 1430 da BÇy- sunqur (Teheran, bibl. del GolestÇn). È di gran lunga il ma- noscritto piú sontuoso della biblioteca di questo principe. I colori sono di rara bellezza, le composizioni di notevole chia- rezza, mentre i contorni dei personaggi sono rigidi e senza espressione; le prospettive architettoniche, malgrado la lo- ro complessità, rimangono fondi scenografici senza relazio- ne di scala con le figure umane. Lo S-n del 1435 fu anch’esso composto per un principe, IbrÇh¥m, sultano timuride figlio di ShÇh Rukh e fratello di BÇysunqur; venne eseguito a Shiraz (Oxford, Ouseley Add. 176). I dipinti di quest’opera appaiono un po’ rozzi in con- fronto a quelli del manoscritto di BÇysunqur. Le prospettive architettoniche sono goffe; è evidente il gusto per la simme- tria, e per i fondi paesaggistici semplicissimi con linea d’oriz- zonte alta. I colori sono di tonalità in genere scura, a predo- minante verde. Lo splendore del manoscritto è dimostrato am- piamente nel fol. 5v, coperto da pitture eseguite unicamente in oro e argento. Il disegno, tracciato a inchiostro e a penna, deriva piú o meno direttamente dalla decorazione delle por- cellane o dei tessuti cinesi, molto di moda in quell’epoca. Anche un altro figlio di ShÇh Rukh, Muhammad Jk¥, fece eseguire un esem- plare di S-n, negli anni Quaranta del sec. xv (Londra, Royal Asiatic Society, ms 239). Viene di solito attribuito alla scuola di Herat, benché le miniature denoti- no un certo influsso di quella di Shiraz. L’artista, impegnato piú nella decora- zione che nell’azione, si rivela assai minuzioso nella composizione dei paesaggi, il cui splendore cromatico, con colori che richiamano gli smalti, nuoce un poco agli attori della scena. Il pittore ha accentuato il clima «romantico» dei suoi di- pinti rappresentando alberi con tronchi e rami attorti, e raddoppiando con un tocco di rosa il bordo delle nuvole per farne meglio spiccare le forme fantastiche; le cittadelle e i palazzi sono posati in precario equilibrio sul ciglio di precipizi; i ce- spugli sembrano trasformarsi in immensi geyser sprizzanti verso il cielo. I per- sonaggi, subordinati al paesaggio, malgrado la loro rigidezza mostrano una cer- ta vivacità negli atteggiamenti e nei movimenti, facendo così presentire le com- posizioni piú complesse della seconda metà del sec. xv. Lo S-n eseguito nel 1444 da Muhammad alSultÇn¥, calligrafo del sultano IbrÇh¥m, figlio di ShÇh Rukh (Parigi, bn, Sup. Pers. 494), contiene diciassette miniature. L’azione è qui as-

Storia dell’arte Einaudi sai piú ardita che nei manoscritti precedenti. I personaggi umani, disposti in modo aereo, sono traboccanti di energia. Il piano di fondo, composto da una lussureggiante vegeta- zione e da tessuti in oro e argento sontuosi, ricorda la tessi- tura di un arazzo. Lo S-n della scuola di Herat datato 1480 (Dublino, Chester Beatty Library) non presenta grande in- ventività. I secoli XVI e XVII Gli esemplari di S-n eseguiti nel xvi e xvii secolo sono caratterizzati dal predominio dell’elemento de- corativo, che sovraccarica la composizione e riduce la di- mensione delle figure. L’artista non cerca piú di provocare emozione epica. I piú famosi fra questi manoscritti venne- ro dipinti a Tabriz nel 1537 per il safavide ShÇh TahmÇsp (Parigi, coll. E. de Rothschild) e ad IsfahÇn nel 1614 per lo ShÇh AbbÇs I (New York, Public Library, coll. Spencer). Le trentanove sontuose illustrazioni di quest’ultimo esemplare sono un vero e proprio pastiche dello S-n di BÇysunqur, ma la copia è di altissima qualità. I colori tradiscono raramente la tarda datazione e fanno grande uso dell’oro e di lapislaz- zuli, utilizzati senza economia. Le altre illustrazioni di que- sto periodo, per quanto eleganti, sono piatte ripetizioni del- le composizioni precedenti, totalmente prive di quella fan- tasia che aveva costituito il valore e il fascino di tutte le scuole dei secoli passati. (so). Shahn, Ben (Kovno (Lituania) 1898 - New York 1969). Stabilitosi nel 1906 a New York venne impiegato nel 1916 come appren- dista litografo in una ditta commerciale; studiò alla Natio- nal Academy of Design, nonché all’Art Students’ League e compì dal 1927 al ’29 un viaggio di studio in Europa dove entrò in contatto con l’espressionismo di G. Grosz e O. Dix. È l’esponente della piú forte tendenza dell’American Social Conscious Painting, fenomeno sociale e artistico degli anni della grande depressione che s’impose affiancando il movi- mento del Regionalism. Il realismo di S è basato su un con- sapevole impegno sociale; lo spirito di denuncia che lo conforma giunge alla deformazione della realtà nella carica- tura e nella scelta di colori arbitrari, fortemente espressivi. Suo primo lavoro significativo fu una serie di dipinti illu- stranti il processo agli anarchici Sacco e Varizetti (1931-32:

Storia dell’arte Einaudi New York, moma e Whitney Museum). S, che nel 1933 ave- va operato con Diego Rivera, acquistò uno stile grafico bril- lante, evidente nell’esecuzione dei celebri dipinti murali del Rockefeller Center (poi distrutti). Il suo stile incisivo e l’ori- gine fotografica delle sue immagini di vita urbana ricalca l’immediata comunicabilità delle illustrazioni giornalistiche e delle tecniche di stampa (la Pelota, 1939: New York, mo- ma); infine le sue innovazioni, gli effetti prospettici, la sem- plificazione delle mani e degli abiti, la caratterizzazione dei personaggi, resa viva mediante uno o piú elementi, diven- nero mezzi caratteristici dell’illustrazione commerciale ame- ricana, utilizzati per scopi assai diversi da quelli perseguiti da S. Altri artisti americani importanti furono improntati da questi modelli tra il 1930 e il 1950, in particolare Phi- lippe Evergood, Joseph Hirsch, Moses Soyer, William Grop- per e l’artista nero Jacob Lawrence; anche le tecniche da lo- ro inventate vennero poi impiegate a fini pubblicitari. L’artista è rappresentato particolarmente a New York (mo- ma e Whitney Museum), Philadelphia (am: Moglie di mina- tore, 1948) e a Saint Louis nel Missouri (am). Ha scritto un libro, The Shape of Content (La forma del contenuto), New York 1957. (dr). ShÇh Rukh Sovrano della dinastia timuride di Persia e Transoxiana (1377-1447), che regnò dall’anno di morte di suo padre T¥mr (Tamerlano) nel 1405 fino al 1447. Il periodo di re- gno di SR racchiuse la fase finale e la codificazione di un radicale cambiamento di stile nella pittura persiana inizia- to in epoca gialairide (1356-1410 ca.) L’illustrazione del li- bro nell’epoca di SR raggiunse, per mezzo di un program- ma artistico controllato dagli atelier reali, una raffinatez- za di esecuzione, di composizione e di uso dei colori raffigurante l’universo di bellezza e perfezione che i prin- cipi timuridi scelsero come ideale estetico. Il formalismo divenne un canone di bellezza, l’equilibrio accademico del- le forme e i colori brillanti e irreali (arancione, turchese, oro) vennero a rappresentare un ideale artistico; la com- posizione immobile, quasi sospesa nello spazio e nel tem- po, fu vista come il massimo della perfezione pittorica. Il prodotto finito, il libro illustrato, raggiunse una grande ar- monia ottenuta dalla fusione delle singole arti della calli-

Storia dell’arte Einaudi grafia, della decorazione, della pittura e della rilegatura. Tale ideale si sviluppò durante i primi trent’anni del sec. xv e divenne un modello per la pittura persiana dei secoli a venire. SR fu un grande patrono delle arti e, da buon musulmano ortodosso (sunn¥), favorì la costruzione e la decorazione di moschee e altri edifici di carattere religioso nella sua capi- tale Herat e si circondò di artisti, calligrafi e pittori che già avevano lavorato sotto il gialairide SultÇn Ahmad. La poe- sia illustrata divenne la massima espressione del gusto ti- muride insieme a lavori di carattere storico ed epico di ce- lebrazione dinastica: eroismo, mito e amore divennero sog- getti indispensabili per comporre ideali ritratti di sovrani e principi timuridi. I manoscritti illustrati prodotti per SR a nostra conoscenza sono un’antologia storica (KulliyÇt-i tÇr¥khi del 1415-16), una storia universale composta da HÇ- fiž-i Abr prima del 1427 (Majma’al-tawÇr¥kh), una raccol- ta poetica di NizÇm¥ (Khamsa datato 1431) e due volumi di poesia di’A<<Çr (uno datato 1438); al suo patronato viene at- tribuita anche una celebre copia del Mi’rÇy-nÇma (Ascensio- ne di Mu®ammad) databile intorno al 1435. Tuttavia, SR permise anche il decentramento delle attività artistiche nei centri controllati dai suoi figli BÇysunqur, IbrÇh¥m Sul<Çn e Ìlgh Bïg e del nipote Iskandar Sul<Çn, a Shiraz, Samarcanda e nella stessa Herat. Alcuni tra i piú grandi capolavori dell’illustrazione e della decorazione del libro timuride furono prodotti per tali principi, ma vanno visti in un programma artistico generale di cui SR fu il prin- cipale artefice: egli infatti concepiva tali attività come com- ponenti indispensabili del potere. Durante il periodo di SR, anche il disegno in inchiostro ne- ro trovò grande espressione, cercando ispirazione soprat- tutto nel repertorio cinese di animali, vegetazione, rocce e nuvole reinterpretato alla maniera islamica. (sca). Shaka Nyorai o Shakamuni Il termine, trascrizione giapponese del sanscrito ÇÇkyamu- ni, designa comunemente il celebre Shaka-Nyorai in veste ros- sa del Jingoji di Kyoto (kakemono a colori su seta, sec. xii). La divinità, seduta all’indiana su un trono di loto issato su un piedistallo ottagonale a sette livelli, viene rappresentata

Storia dell’arte Einaudi mentre tiene un sermone, e fatto eccezionale per l’epoca, è isolata. L’opera è uno degli esempi piú belli della pittura bud- dista della fine dell’epoca di Heian. Lo splendore della cor- te si riflette sulla sontuosità della decorazione in oro stam- pato kirikane (→) delle due mandorle profilate a motivi fio- reali; un’armonia molto sicura nei colori, in particolare nella porpora della veste, accresce l’effetto decorativo dell’in- sierne, insieme all’assenza di modellato del corpo, trattato a zone piatte giallo chiaro. Molto stilizzata, la rappresenta- zione testimonia un relativo declino del sentimento religio- so a vantaggio della ricerca decorativa, qui tra le piú riusci- te, caratteristica del lusso, anzi della stravaganza opulenta, dei nobili Fujiwara. (ol). Shams al-D¥n Pittore persiano del primo periodo dell’epoca gialairide (1356-1410 ca.). Secondo una recente traduzione di un te- sto di Dost Mu®ammad, la fonte piú preziosa a noi giunta sul periodo formativo della pittura persiana nel sec. xiv, scritta nel 1544, S fu allievo del grande disegnatore Am¥r DawlatyÇr all’epoca del sultano gialairide Shaykh Uways (1356-74) e lavorò esclusivamente per tale sovrano (una tra- duzione del 1931 lo considera invece allievo di Ahmad MsÇ). A lui Dost Mu®ammad attribuisce l’illustrazione di uno ShÇh-nÇma (Libro dei re) di formato quadrato. Dopo la morte del suo mecenate, S si dedicò all’insegnamento della sua arte al suo allievo prediletto, ’Abd al-Hayy, che si pre- se cura del maestro fino alla morte e che sarebbe diventato il piú celebre pittore dell’epoca dell’ultimo sovrano gialairi- de, Sul<Çn A®mad (1382-1410). Nessuna opera sicuramente attribuibile a S è rimasta, anche considerando il fatto che nessun pittore pare usasse firmare le sue opere prima degli ultimi anni del sec. xiv. Tuttavia, alcuni dipinti del primo periodo gialairide ora raccolti in al- bum a Istanbul e Berlino possono essere tentativamente at- tribuiti a questo pittore. (sca). Sharaku, alias Tóshúsai (il suo vero nome era Saito Juroku; ? - 1801 o 1825). Pitto- re giapponese di stampe ukiyoe, della sua attività si sa poco; fu un celebre artista, già attore del teatro nÿ, e sembra ab- bia prodotto almeno 160 stampe sotto nome di Tÿshsai tra

Storia dell’arte Einaudi la fine del 1794 e l’inizio del 1795; scomparve poi per così dire, senza lasciar traccia. È possibile però che S sia lo pseu- donimo di un pittore non identificato che usò questo nome solo per questa serie di stampe. Resta il fatto che S ha crea- to, in uno stile di profonda originalità, ritratti di attori di solito a mezzo busto, notevoli tanto per l’emozionante profondità psicologica quanto per la qualità del tocco e l’in- tensità dei colori. Il suo spirito satirico e l’intenzione realistica ne spiegano la fortuna in Occidente oltre che il numero degli imitatori in Giappone tra cui Toyokuni, della bottega di Utagawa, e Shu- nei, della bottega dei Katsukawa derivante da quella di Shunshÿ. (ol). Shee, Martin Archer (Dublino 1769 - Brighton 1850). Formatosi a Dublino, giun- se a Londra nel 1788 divenendovi ritrattista in voga e di- pingendo ritratti per la committenza aristocratica e della fa- miglia reale: Guglielmo IV (castello di Windsor; Londra, npg e ra; Liverpool, municipio), la Regina Vittoria (Londra, ra). Nel 1830 successe a Lawrence come presidente della ra con- tribuendo in modo determinante all’azione svolta in quel pe- riodo dal governo per la protezione ufficiale delle arti pitto- riche. È particolarmente ben rappresentato alla ra a Londra da un ampio panorama della sua opera (il Figlio del pittore, Henry Thompson), alla ng (William Thomas Lewis, Thomas Morton) e soprattutto alla npg (numerosi dipinti, tra cui un Autoritratto, 1794), nonché alla City ag di York (Sir William Roscoe), alla ag of South Australia di Adelaide (il Maggiore O’Shea) e alla wag di Liverpool (Peter Atkinson). (sr). Sheeler, Charles (Philadelphia 1883 - Dobbs Ferry (New York) 1965). Incar- na, piú di Charles Demuth, il tipo del pittore «precisionista» americano. Dopo una solida formazione presso la piú antica scuola d’arte degli Stati Uniti, viaggiò a Londra, nei Paesi Bassi e in Spagna col suo docente William. Merrit Chase nel 1904 e nel 1905. Nel 1909 visitò l’Italia e Parigi, ma i primi viaggi non lo convertirono, come accadde a Weber, al mo- dernismo internazionale. Furono piuttosto l’Armory Show, dove lui stesso espose, e i suoi lavori di fotografo a stimola-

Storia dell’arte Einaudi re la formazione del suo stile, riduzione cristallina di motivi industriali a immagini semi-astratte (Astrazione di silos, 1918, matita su carta: Philadelphia, am). Nelle sue opere migliori la composizione è perfetta, e così pure la rappresentazione pungente degli aspetti disumanizzati della fabbrica moderna (Paesaggio classico, Fabbrica a River Rouge, 1931: Detroit, coll. priv.). In questi vasti dipinti non si esprime mai alcuna allu- sione a un impegno umano o sociale della pittura, ma vi si trova la ricerca dei mezzi formali indispensabili a ottenere un disegno senza difetto. Lo stile dell’artista, di compiuta pre- cisione, corrisponde a quanto ha potuto definirsi come «pu- rismo americano». I suoi paesaggi industriali ebbero succes- so; meno felice fu, però, quando dipinse oggetti diversi dal- le macchine (Interno americano, 1934: New Haven, Yale University ag). Come fotografo vinse nel 1942 una borsa di studio del moma di New York. È rappresentato soprattutto a New York (moma, mma, Brooklyn Museum e Whitney Museum), a Boston (mfa) e Cleveland (Museo). (dr). Sheepshanks, John (1787-1863). Figlio di un ricco mercante di stoffe di Leeds, partì per Londra dopo essersi ritirato dall’impresa paterna, e costituì una collezione di incisioni, soprattutto olandesi e fiamminghe, che vendette nel 1836 al mercante W. Smith; questi, a sua volta, la cedette al bm. Riunì poi una collezio- ne di pittura aneddotica e narrativa (in particolare opere di Landseer e di Leslie), ma comprensiva inoltre di dipinti di Danby, Wilkie e Mulready, nonché arricchita da paesaggi di Turner e da sei Constable. Nel 1857 S offrì al Depart- ment of Science and Art la propria raccolta perché diven- tasse una galleria dell’arte inglese; la maggior parte della sua collezione di dipinti e disegni è ora al vam di Londra; il re- sto dei disegni e delle incisioni fu venduto all’asta presso Sotheby nel marzo 1888. (jb). Shemi, Menahem (Bobruisk (Bielorussia) 1897 - Safed 1951). Compie gli stu- di all’Accademia di belle arti di Odessa e si trasferisce in Pa- lestina nel 1913. Durante gli anni Venti è fautore di una pit- tura sobriamente realista e austera nella quale predominano i toni bruni (Moglie dell’artista con un bicchiere di tè, 1923); le opere eseguite durante gli anni della guerra, di piccolo for-

Storia dell’arte Einaudi mato, riflettono gli sconvolgimenti del periodo, mentre le successive, realizzate a Safed, risentono dell’influenza di Cé- zanne, con una frenesia di colori tutta orientale. La sua at- tività è documentata dai principali musei di Israele; in par- ticolare si trova esposta permanentemente al museo di Ein Harod. Nel 1966 gli è stata dedicata all’Israel Museum di Gerusalemme una ampia retrospettiva. (mt). Sheng Mou (Zhejiang 1310 ca. - 1360). Allievo di un amico di Zhao Mengfu, che lo iniziò allo studio degli antichi maestri ed era lui stesso pittore abilissimo (vicino piú al professionista che al dilettante letterato), SM fu assai celebre. I suoi grandi paesaggi decorativi e sereni (Gu Gong), dipinti su seta nel- lo stile quasi accademico della scuola Ma-Xia, e i suoi pic- coli paesaggi minori, accuratamente colorati su carta (rive autunnali e pescatori, alberi che si stagliano su un autunna- le cielo nebbioso), rispondevano al gusto dei contempora- nei, che lo preferirono a Wu Zhen. (ol). Shen Quan (nome d’arte Shen Nan-pin; 1725 ca. - 1780). Stimato pres- so la corte Qing per i suoi animali, i suoi fiori e i suoi uccelli eseguiti nello stile accademico di moda, SQ è soprattutto noto a causa del suo soggiorno in Giappone. Visse infatti dal 1731 al 1733 a Nagasaki. Qui il suo stile minuzioso e reali- stico esercitò grande influsso sui pittori giapponesi, i quali apprezzarono molto le sue composizioni precise e i suoi co- lori vistosi, considerandoli a torto tipici della pittura cinese della scuola dei letterati (Pavoni: Londra, bm). (ol). Shen Zhou (1427-1509). Proveniente da un’agiata famiglia di letterati cinesi dei dintorni di Suzhon, fondatore della scuola di Wu, preferì un tranquillo ritiro di studio alla carriera del man- darino, conducendo una vita da perfetto gentiluomo total- mente distaccato dal mondo, ed erudito. Fine letterato, poe- ta e calligrafo, si formò principalmente sullo studio dei suoi maestri preferiti, eseguendo opere «alla maniera di» pittori come Dong Yuan o dei Quattro Grandi Maestri Yuan. Il Monte Lu, Passeggiando con un bastone (ambedue al Gu

Storia dell’arte Einaudi Gong), eseguiti seguendo artisti diversi tra loro come Wang Meng o Ni Zan ne rivelano bene il carattere personale, dal disegno calmo e disteso e la sua maniera spigliata ma salda. Esemplari della sua consistente opera sono conservati in rac- colte private o pubbliche di tutto il mondo; SZ è tra i rari artisti Ming che abbia conservato uno spontaneo amore per la natura trasmesso ai suoi successori come Xie Shichen (ce- lebre per i suoi paesaggi marittimi), attraverso un linguag- gio pittorico di piú facile assimilazione di quello dei grandi maestri, e ancora praticato ai giorni nostri. (ol). Sher Gil, Amrita (Budapest 1913 - India 1941). Di padre indiano e madre un- gherese, trascorse la giovinezza nell’India settentrionale; nel 1929 studiò all’Accademia di belle arti di Parigi, dove espo- se nel Salon del 1933. Il suo periodo parigino è fortemente contrassegnato dall’influsso di Cézanne e di Gauguin. Tor- nata in India nel 1934, l’artista partecipò a numerose mo- stre, esplorando i siti dell’antica arte indiana; studiò le pit- ture murali, e la scoperta di Aja™<Ç fu per lei una rivelazio- ne. L’arte degli antichi maestri indiani e quella di Gauguin la spinsero alla creazione di uno stile bidimensionale, di for- te stilizzazione, che s’impegna nella rappresentazione della vita indiana. Parte della sua opera è esposta presso la ng of Modern Art di Nuova Delhi. (jfj). Sherman, Cindy (Glenn Ridge (New Jersey) 1954). Compiuti gli studi alla Sta- te University College di Buffalo, S si stabilì a New York. Do- po il 1975 iniziò a studiare la rappresentazione del corpo uma- no prendendo come soggetto se stessa. La prima serie di fo- tografie realizzata dal 1977 al 1980, «Untitled film still», s’ispira ai films americani di serie B, interpretando i vari sog- getti femminili tipici del mondo americano. A partire dal 198o realizzò immagini a colore (di grande dimensione dal 1981), in cui l’inquadratura si restringe isolando il volto. Nel 1983 per la rivista «Interview», ha eseguito delle fotografie che fanno la parodia delle foto di moda e, dal 1984 è andata intensificando il carattere drammatico dei soggetti e il valo- re psicologico dell’immagine, toccando i vari registri dall’an- goscia alla paura. Negli anni 1985-86 la sua ricerca s’incen- tra sull’universo del sogno, forzando gli aspetti mostruosi del

Storia dell’arte Einaudi viso, sottolineati attraverso l’uso di accessori come corna, orecchie e un trucco di tipo diabolico. Ha sperimentato di- versi tipi di metamorfosi dell’immagine del suo viso ora com- ponendolo come natura morta ora come personaggio della ri- voluzione francese (Citoyens-Citoyennes, 1989). Sue opere so- no state esposte nel 1987 al Whitney Museum di New York e nel 1989 al Museo di La Roche-sur-Yon. (sr). shigajiku o shijiku Termine della pittura giapponese che significa «rotolo di pit- tura e poesia». Lo s è un genere particolare di rotolo verticale relativamen- te stretto e molto alto, dipinto a monocromo generalmente con un paesaggio, al di sopra del quale veniva lasciato libe- ro un vasto spazio per scrivervi calligraficamente poesie in stile cinese, composte e tracciate dal pittore o dai suoi ami- ci. Il genere fu assai di moda nel corso della prima metà del sec. xv negli ambienti dei monaci pittori zen. A tale cerchia appartennero i presunti fondatori dello s, Minchÿ (cui si at- tribuisce l’Eremitaggio in montagna del Konchiin di Kyoto, che reca una poesia datata 1413) e Josetsu. (ol). Shigemasa (nome proprio Kitao; 1739-1820). Pittore giapponese di stampe ukiyoe, figlio di un editore di Edo (Tokyo), di for- mazione sembra autodidatta, benché sia stato condiscepolo di Korysai nella bottega di Shigenaga, uno dei migliori mae- stri della stampa ukiyoe. La sua attività principale fu l’illustrazione di libri, ma rag- giunse una notevole notorietà per le sue stampe, tra cui quel- le che descrivono luoghi celebri (meishoe) e soprattutto con la serie di gruppi di geishe, disegnate in uno stile vicino a quello di Harunobu; il suo stile sarà rispetto a quello di Ha- runobu piú massiccio, piú «reale», contrassegnando la pro- duzione dei suoi allievi Kyÿden (alias Kitao Masanobu), Kei- sai (alias Kitao Masayoshi) e Shunman. (ol). shigisan’engi emaki Rotoli illustrati di leggende locali sul monastero del monte Shigi, opera anonima giapponese della seconda metà del sec. xii, costituita da tre makimono a colori su carta.

Storia dell’arte Einaudi Questi dipinti agiografici sono conservati sin dalla loro crea- zione nel monastero Chÿgosonshiji del monte Shigi (nei din- torni di Nara), e narrano episodi miracolosi della vita del monaco Myÿren, che restaurò il monastero nel sec. ix. I ro- toli, che illustrano successivamente il prodigio della ciotola delle elemosine che vola nell’aria per cercare il nutrimento dell’asceta, la guarigione a distanza dell’imperatore moren- te, e la ricerca di Myÿren da parte della sorella (lo ritrovò in seguito a un intervento del Grande Buddha di Nara), sono i primi noti del genere degli engi, in forte contrasto con quel- li del Genji monogatari. Non si tratta piú di miniature isola- te, ma di un’azione sviluppata in uno spazio continuo, nar- rata con un disegno saldo e morbido a linee ampie, il cui in- chiostro nero è ravvivato da toni opachi a dominanti rosse e brune. I movimenti delle folle stupefatte hanno un sapo- re caricaturale e un dinamismo lineare specificamente giap- ponesi e riflettono bene le tendenze realistiche della fine dell’epoca di Heian. (ol). Shikie (dipinto delle quattro stagioni). Tema tradizionale della pit- tura giapponese, dove ha conosciuto particolare fortuna nel- la scia, sembra, della pittura cinese, benché le testimonian- ze antiche siano scomparse. È un genere di dipinto paesag- gistico, che rappresenta le modifiche successive della natura nel corso delle quattro stagioni dell’anno; venne eseguito all’inizio in pitture murali (Hÿÿdÿ del Byÿdÿin di Uji, pe- riodo Heian), poi su paraventi, su un rotolo in lunghezza (makimono) continuo o su quattro rotoli verticali (kakemo- no) sospesi fianco a fianco. (ol). Shinn, Everett (Woodstown (New Jersey) 1876 - New York 1953). Comin- ciò, come la maggior parte dei membri del gruppo degli Ei- ght, come illustratore per la «Philadelphia Press», lavoro che proseguì dopo essersi stabilito a New York nel 1896 per il «New York World» e l’«Everybody’s Magazine». Come pit- tore realizza una serie di pastelli esposti per la prima volta nel 1902, poi nel 1904 presso Durand-Ruel a New York. Benché la sua abilità tecnica venisse, in quel periodo, gene- ralmente riconosciuta, il crudo realismo di S turbava il pub- blico conservatore americano che piú apprezzava le sue do-

Storia dell’arte Einaudi ti di ritrattista. Nel 1908 presentò numerose tele (London, Hippodrome, 1902: Chicago, Art Institute; Montparnasse: Buffalo, Albright-Knox ag) in occasione della famosa mo- stra degli Eight presso la Gall. Macbeth, che doveva lanciare l’Ash-can School. Influenzato da Lautrec, Degas e Daumier, i soggetti dei suoi quadri traggono spesso spunto dal mondo del cabaret, dal teatro e dai music-halls (Revue, 1908: New York, Whitney Museum of American Art). Nel 1911 rea- lizzò la decorazione della City Hall di Trenton (New Jersey), tra i primi esempi di pittura murale dai temi di realismo so- ciale. È ben rappresentato nei musei americani, in partico- lare al moma di New York (After Dinner Turn), a Detroit (In- stitute of Arts: Bastille Day), a Boston (mfa: Alexander Brid- ge). (jpm). Shiraz Città dell’Iran, posta in una vasta pianura a sud di IsfahÇn e capitale della provincia del FÇrs, che diede nome alla Per- sia e alla sua lingua, il fÇrs¥. Un tempo cuore dell’impero di achemenide, conquistata dagli Arabi alla fine del califfato di ’Umar, S fu di fatto una creazione delle dinastie persia- ne saffaride (867-900), e buyide (933-1056), che ne fecero un grande centro di civiltà. All’arrivo dei Mongoli nel sec. xiii, e durante il loro dominio, la città non cessò di essere centro di una potente tradizione culturale. Patria di HÇfiz e di Sa’d¥, due dei piú brillanti poeti persiani, fu di grande importanza per la pittura. La scuola di S è tradizionalmen- te collegata all’illustrazione dei manoscritti. Influsso sasanide e arte naturalistica della metà del sec. XIV La città diviene fondamentale per la storia della miniatura persiana nel sec. xiv. Mentre nel centro dell’impero il gran- de evento della pittura persiana fu l’incontro con l’arte ci- nese, S, nella sua provincia meridionale, lontana dalla corte e al riparo dalla sua influenza diretta, restò fedele alle piú antiche tradizioni autoctone. I quattro esemplari dello ShÇh-nÇma in essa eseguiti tra il 1330 e il 1352, sparsi in va- rie collezioni europee e americane, proseguono i modi della pittura sasanide e tramandano l’eredità, tuttora viva, dell’Iran piú antico. I rossi, gialli-ocra e ori delle miniature ricordano i dipinti murali dei palazzi, mentre le convenzio- ni impiegate per rappresentare la vegetazione (foglie simili

Storia dell’arte Einaudi a piume e grandi fiori su steli sottili e sinuosi), le montagne cuneiformi, prossimi ai paesaggi che decoravano i recipien- ti e il vasellame d’argento dei Sasanidi, la frequente presenza di animali, il traboccare di vigore e di vita sono, sotto ogni aspetto, degni dell’Iran del passato. Lo stile si caratterizza per il contorno molto marcato e per i fondi verdeggianti d’al- beri e fogliame e si può comparare a quello ampiamente dif- fuso prima dell’invasione mongola e attestato dalla cerami- ca lucida di rivestimento delle facciate. L’antologia scientifica Mu’nis al-AhrÇr, eseguita anch’essa a S nello stesso periodo ma di genere del tutto diverso, rag- giunge una qualità esecutiva che supera di gran lunga le ope- re di S sino ad oggi note. L’esemplare redatto da Mu®am- mad b. Badr JurjÇn¥ nel 1341, proveniente dall’antica coll. Kevorkian, è oggi diviso in vari musei (Museo di Cleveland, n. 45.385; New York, mma, n. 57.51.25; Princeton, bibl. dell’Università; Washington, Freer Gall., nn. 29.25.39 e 30-6.17). Le illustrazioni sono disposte sull’intera ampiezza della pagina, separate da una riga di calligrafia, e indipen- denti, come in un dizionario illustrato. La decorazione flo- reale dei fondi, talvolta dipinti in rosso, talvolta lasciati del colore della carta, colma i vuoti tra le singole immagini. Il disegno del fogliame, eseguito con mano rapida e sicura, la sobrietà delle rappresentazioni animali, che mira alla resa dell’essenza stessa degli atteggiamenti, e la semplicità com- positiva si adattano perfettamente a una calligrafia arcai- cizzante. Nascita del simbolismo Con lo ShÇh-nÇma del 1370 (Istan- bul, Topkapi Sarayi, Hazine 1511), le rappresentazioni na- turalistiche scompaiono lasciando il posto a un universo con- cettuale che servirà da cornice alla pittura persiana per 250 anni. Le composizioni, frutto di un’immaginazione che ob- bedisce a regole convenzionali, possiedono stretta unitarietà. I vari elementi sono simboli, e non piú motivi decorativi: tre uomini rappresentano un esercito; due monticelli arroton- dati una catena di colline; un cerchio l’orifizio di un pozzo. Nello ShÇh-nÇma, ad esempio, il drago che assale BahrÇm Gr non è piú una bestia mostruosa grondante sangue, ma un essere di un mondo diverso, come indicano i suoi colori irreali: azzurro e oro. Problema essenziale dell’artista diventa la relazione tra te- sto e illustrazione. Lo squilibrio tra i personaggi in azione e

Storia dell’arte Einaudi la decorazione, proprio dei dipinti precedenti, era imputa- bile all’influsso esercitato dai dipinti murali, o dai disegni dei rotoli orizzontali cinesi. Periodo timuride (sec. XV) Nel 1393, Tamerlano (T¥mr) s’impadroni di S e deportò a Samarcanda gli artisti e gli ar- tigiani originari dalle città conquistate. Tuttavia S, dopo aver versato somme enormi per placare la furia devastratrice del conquistatore, poté riprendere la propria attività artistica. Si possiedono persino alcuni manoscritti eseguiti vivente l’im- peratore: si tratta di due tomi del ShÇhÇnshÇh-nÇma (Londra, bm, Or. 2780; Dublino, Chester Beatty Library), che narra- no la brillante epopea di Tamerlano. Vennero eseguiti nel 1397 in uno stile assai prossimo a quello dei manoscritti de- gli ultimi anni del periodo muzaffaride di S. La loro ecce- zionale qualità è dovuta ai notevoli mezzi messi a disposi- zione degli artisti da parte del nuovo regime: oro e lapislaz- zuli vi sono impiegati con rara prodigalità, e la carta impiegata è estremamente fine e regolare. Si ritrovano gli elementi pro- pri della scuola di S: linea d’orizzonte alta, serie di monta- gne sul piano di fondo, cieli aurei uniformi e personaggi di grande scala rispetto al formato della pagina. Si nota peral- tro qualche goffaggine nel modo di rappresentare le rocce. Il laboratorio di Iskandar (1409-14) I Timuridi non sem- bra turbassero la vita artistica di S, anzi, molti manoscritti celebri furono eseguiti per loro sollecitazione. Due Antolo- gie realizzate nel 1410-11 per Iskandar, nipote di Tamerla- no e governatore del FÇrs dal 1409 al 1414, possiedono mi- niature di alta qualità (Lisbona, Fondazione Gulbenkian; Londra, bm, Add. 27.26.1), alcune a doppia pagina, fatto piuttosto raro nell’illustrazione di manoscritti. Benché di- verse per formato e grafia, sono ambedue eseguite da pitto- ri di una stessa scuola. Vi si notano parecchi dettagli dovu- ti a un influsso cinese: uccelli, anatre in volo o in riposo, nu- vole d’oro che decorano i margini. Proprio questi hanno una decorazione particolare, specifica di questi due manoscritti. A mezz’altezza della pagina e negli angoli mediani, piccoli triangoli sono riservati a minutissimi disegni di fiori e ani- mali, dorati nel manoscritto di Londra, colorati delicata- mente in azzurro pallido e rosa, con qualche tocco d’oro, in quello di Lisbona: i margini miniati con maggior cura sono quelli della sezione astrologica, soggetto cui il principe, che

Storia dell’arte Einaudi probabilmente aveva frequentato l’osservatorio di Samar- canda fondato dal padre, era particolarmente interessato. Sui frontespizi dei due volumi si incontrano gli abituali ara- beschi persiani, eseguiti con finezza estrema e simmetria per- fetta. Sembra che l’esemplare conservato a Lisbona sia il piú antico. Composto da due tomi, il primo contiene venti- quattro miniature, il secondo quattordici, di stile piú origi- nale. I colori sono ricchissimi e diviene piú frequente l’im- piego dell’oro in diverse gradazioni. Tuttavia questa profu- sione, cui sembra sia stato sacrificato tutto, riduce talvolta la miniatura a un semplice schema, scevro di espressività e di sensibilità. Uno dei dipinti piú notevoli di tale volume rappresenta Iskandar mentre osserva le sirene al bagno (folio 215): l’acqua cupa e di colore indefinibile, la spiaggia color malva, le rocce blu e turchese di forma bizzarra vi figurano unicamente per inquadrare i graziosi gesti delle sirene. Una delle piú interessanti e significative per l’evoluzione della pittura in questo periodo è la rappresentazione della Mec- ca, con la Ka’ba al centro. Diversissima rispetto a tutti i di- pinti descrittivi sino ad allora noti, la città santa è rappre- sentata in modo schematico secondo una prospettiva risul- tante da piú fuochi ottici. L’apogeo di Iskandar fu assai breve. Ribellatosi al potere centrale, lo zio ShÇh Rukh, per rappresaglia, lo fece acceca- re nel 1414, ponendo così fine al suo mecenatismo. Il laboratorio di IbrÇh¥m (dal 1414 circa in poi) Dopo la morte di Iskandar la scuola di S seguì strade molto perso- nali. Il nuovo governatore, il principe IbrÇh¥m, figlio di ShÇh Rukh e cugino di Iskandar, fu anch’egli sensibile alle arti e alle lettere: volle apprendere la calligrafia e vi primeggiò. Gli si deve il disegno per le iscrizioni monumentali in ceramica smaltata che decorano i due istituti religiosi di cui dotò la città. Tuttavia, dopo l’avvenuto rivolgimento di potere, sem- bra che i migliori artisti lasciassero S per Herat, che diven- ne allora il centro principale dell’illustrazione dei manoscritti in Persia: le opere della scuola di S che risalgono a questo periodo non possiedono piú la potenza lirica dell’epoca pre- cedente, e sembrano essere tornate allo stile piú ingenuo e vigoroso della fine del sec. xiv. L’opera piú nota proveniente dal laboratorio del principe IbrÇh¥m è un testo che narra la vita di Tamerlano, lo Za- far-nÇma di Sharaf alD¥n ’Al¥ Yazd¥, condotto a termine nel

Storia dell’arte Einaudi 1425 e oggi diviso tra varie collezioni americane. Le sue mi- niature, che descrivono scene storiche, sono nettamente su- periori a quelle eseguite nello stesso periodo a Herat per ShÇh Rukh. Dedicato al sultano IbrÇh¥m nel 1435, è uno ShÇh-nÇma. Il verso dei fogli, coperti da disegni eseguiti so- lamente in oro e argento, che riprendono spiccatamente la tradizione decorativa delle due Antologie di Iskandar, atte- stano la presenza a S di uno o piú pittori formatisi in quel laboratorio. La stilizzazione della metà del sec. XV Della scuola di S del- la metà del sec. xv possediamo uno ShÇh-nÇma (1470 ca.: Bo- ston, mfa, n. 19.775) le cui miniature, di formato presso- ché quadrato, si accostano a quelle della scuola di Herat dei tempi di BÇysunqur, nonostante i colori piú vivi siano quel- li di S. Le scene contengono numerosi personaggi che si ag- girano in un paesaggio stilizzato: sono gli stessi caratteri che ritroviamo nelle ricche illustrazioni del KhÇvar-nÇma di Ibn HusÇm, la maggior parte delle quali è conservata a Teheran (Museo d’arte decorativa). Alcune miniature sono datate 1476 e 1487, e firmate. L’autenticità delle annotazioni è in- certa, ma la data di esecuzione dei dipinti non pone proble- mi: le nuvole, irreali tanto nella forma che nel colore, ap- partengono senza dubbio alcuno a questo periodo, caratte- rizzato da un accentuato decorativismo. Tale orientamento farà perdere alle miniature di S degli ultimi decenni del sec. xv la forza di un tempo: troppo spesso i personaggi assume- ranno l’identità di monotoni fantocci entro un immutabile scenario. Periodo safavide (sec. XVI) Nel sec. xvi S, allora sotto il dominio safavide, è ancora la principale scuola della Per- sia. Uno dei calligrafi piú attivi dell’epoca fu Mun’im al-D¥n alAwbad¥. Di lui possediamo un GulistÇn di Sa’d¥ datato 1513 (Londra, bm, Or. 11.847), illustrato da dodici mi- niature eseguite nel nuovo stile safavide di S, schematico quanto lo stile timuride, ma piú attento ai valori e agli ele- menti decorativi. Tipico di questo periodo è la predilezio- ne per la raffigurazione di soldati, servitori e cavalli dise- gnati a silhouettes, attinti da un repertorio piuttosto limi- tato: i rapporti col testo sono molto stretti. Solitamente la parte scritta si alterna a un’immagine, posta in alto o in bas- so rispetto a questa. Piú varia e interessante è l’illustrazio-

Storia dell’arte Einaudi ne degli ’AjÇ’ib al-MakhlqÇt (Meraviglie della creazione) di al-Qazw¥n¥ (Dublino, Chester Beatty Library). Que- st’opera, eseguita nel 1545, è dovuta a un grandissimo cal- ligrafo dell’epoca, Murshid, soprannominato al-’AttÇr, ed è particolarmente notevole per i suoi disegni di animali che popolano un mondo quasi soprannaturale: scimmie dotate di parola, uccelli che mutano colore come i camaleonti, uo- mini alati che dimorano sugli alberi. La pittura, dalle to- nalità bionde, contorna qui completamente il testo, che pa- re soltanto un semplice spazio risparmiato alla superficie decorata. A partire dal 1560 ca. la scuola di S comincia ad esaurire il proprio repertorio. Ossessionato dalla sistematicità dei suoi motivi l’artista trascura le strutture delle composizioni, che si fanno spesso indecifrabili. L’invenzione si sclerotizza en- tro i confini di una concezione stereotipa. Le relazioni tra miniatura e pagina del manoscritto vengono falsate defini- tivamente: la miniatura è ormai solo un motivo piatto che copre tutta la superficie della pagina, e tra illustrazione e te- sto non v’è piú equilibrio. (so). Shi Tao (nome d’arte di Zhu Reji, in religione Daoji; 1630 ca. - 1717 ca.). Fu il piú celebre, con Badashanren, dei «Quattro Mo- naci» e degli «Individualisti» Qing. Imparentato con la fa- miglia imperiale dei Ming, si fece monaco quando la dina- stia cadde nel 1644; sembra che la sua condizione di reli- gioso non l’abbia tenuto fermo troppo a lungo. Infatti effettuò numerosi viaggi attraverso la Cina, conducendo una vita da taoista errante, amante della natura. Lo si descrive come persona di carattere altero e indipendente; fu sia buon poeta che eminente calligrafo, teorico dell’arte e architetto di giardini. La sua tecnica fu la migliore del suo tempo; da- va grande importanza alla «semplice pennellata» (yi hua), in- ventò i lavis di colori puri in azzurro o rosa, impiegando per- sino per la prima volta i punti (dian) di colore per ritmare le sue composizioni, pur insistendo sull’importanza di non ave- re metodi. I suoi innumeri dipinti sono principalmente fo- gli d’album, il cui carattere spontaneo ben riflette l’origina- lità di un talento che non ebbe successori, e che attingeva le sue radici in un vibrante sentimento della natura universa- le, ritrovata sia per diretta contemplazione che per medita-

Storia dell’arte Einaudi zione profonda; il suo lavoro riflette un’appassionata prote- sta contro il nuovo accademismo ortodosso dei letterati Qing. La sua copiosa opera figura in numerose raccolte pubbliche e private (Cascata sul monte Lu: Giappone, coll. Sumitomo; la Fonte dai peschi in fiore: Washington, Freer Gall.; paesaggi nei musei di Boston e di Stoccolma, al Musée Guimet di Pa- rigi e al mn di Tokyo). (ol). Shÿsÿin Generalmente indica un edificio deposito annesso ad ogni tempio buddista. Il piú prestigioso è il «magazzino impe- riale» del Tÿdaiji di Nara (fondato nel 741), costruito per ricevere le offerte del 752 al Grande Buddha luogo di con- servazione di opere d’arte antica cinese e giapponese. La ve- dova dell’imperatore Shÿmu, zelante protettore del buddi- smo, vi fece porre nel 756 gli oggetti della raccolta imperia- le. Da allora tenuto in ordine, lo S di Nara talvolta rimasto chiuso per oltre un secolo, viene regolarmente amministra- to dall’epoca Meiji (1868). Una selezione dei suoi tesori è ri- tualmente esposta ogni anno per un periodo di due settima- ne, fissato tradizionalmente all’inizio di novembre, quando le condizioni igrometriche sono favorevoli. Sia l’eccezionale stato di conservazione degli oggetti che es- so racchiude, sia l’esatta nozione delle circostanze storiche in cui venne fondato, fanno dello S un luogo privilegiato per lo studio dell’arte giapponese dell’epoca di Nara e dell’arte cinese della contemporanea Cina dei Tang. Lo S contiene oltre diecimila oggetti diversi, lacche, specchi, strumenti mu- sicali, stoffe. Tra i fondi pittorici citeremo in particolare il celebre paravento delle Bellezze sotto gli alberi (motivo co- mune nell’Asia centrale e molto di moda sotto i Tang), fi- gure femminili che bene ci dànno il canone di bellezza del- le dame di corte dei Tang attorno al 750: le sole carni, co- lorate un tempo con l’ausilio di piume incollate, erano dipinte. Il loro disegno ampio ed esatto, assai vicino a quel- lo della celebre Kichiÿten, valorizza quella rotondità un po’ matura che si ritrova nelle statuette funerarie del tempo; il che equivale a dire che l’opera è, molto verosimilmente, di mano cinese. Particolarmente importante per lo studio del disegno di figure nel sec. viii è un Bodhisattva dipinto su ca-

Storia dell’arte Einaudi napa a lunghe e ampie linee sinuose la cui sicurezza richia- ma irresistibilmente quanto possiamo indovinare dello stile di Wou Tao-tseu. Ancora si ricorda un biwa (liuto) che re- ca sulla tavola armonica una placca di cuoio decorata da pit- ture che rappresentano musicisti in groppa a un elefante bianco; la decorazione paesaggistica è tipicamente cinese, come quella di un altro biwa incrostato di madreperla. Infi- ne altri paesaggi in prospettiva cavaliera sono riprodotti in una serie di carte geografiche. (ol). Shu (maestri cinesi di; sec. x). Sotto questa antica denominazio- ne della città di Chengdu (Sichuan) si raggruppa un com- plesso di pittori chan, i piú celebri dei quali furono Guan Xiu, Sun Wei e Shi Ke. Tutti dipinsero ritratti immaginari di luohan (in sanscrito arhat, santi buddisti), utilizzando una scrittura spezzata (po mo), affrancata dalle necessità del con- torno e che, disprezzata in Cina, venne soprattutto coltiva- ta nei monasteri zen giapponesi. Il mn di Tokyo conserva una copia dei sec. xiii, da Che K’o, dei Due Patriarchi che mettono il loro spirito in armonia (cioè in meditazione), che ben riflette la maniera «senza costrizioni» (yi pin) di questo gruppo. (ol). Shbun (alias Tenshÿ Shbun; attivo tra il 1425 e il 1460). Monaco giapponese zen nello Shÿkokuji di Kyoto, dove verso il 1414 fu allievo di Josetsu che gli insegnò l’arte dell’inchiostro mo- nocromo, S effettuò nel 1423 un viaggio in Corea. Amministratore del tempio, scultore e pittore, fu presiden- te dell’Ufficio di pittura, dal quale esercitò grande influen- za sullo sviluppo del nuovo stile pittorico. Le opere a lui at- tribuite (Shokusan, Studio dei tre Eroi: Tokyo, Fondazione Seikadÿ; Eremitaggio in un boscbetto di bambú: Tokyo, mn), denunciano un influsso evidente della scuola cinese Ma-Xia nel trattamento panoramico dei paesaggi con sfondi nebbiosi e nel nervoso lavoro del pannello. Benché la personalità di S sia relativamente poco nota, è certo che lo stile dell’arti- sta ha profondamente improntato i monaci pittori dell’epo- ca degli Ashikaga; a lui si ricollegano, oltre al grande Ses- sh, pittori come Bunsei, Jasoku (lo pseudo-fondatore della scuola Soga) e Sÿtan. (ol).

Storia dell’arte Einaudi Shunshÿ (nome proprio Katsukawa; 1726-92). Pittore giapponese di stampe ukiyoe (da non confondere con Hishida Mioji detto Shunsÿ, pittore di fiori, uccelli e personaggi di stile tradi- zionale e membro dell’Accademia di belle arti patrocinata da Okakura Kakuzÿ). Allievo di un discepolo di Chÿshun, S divenne famoso nel 1768 per i suoi ritratti rassomiglianti di attori senza maschera, colti nella città come in scena, in reazione contro il convenzionalismo dei Torii. Il suo stile iniziale ricorda l’eleganza formale di Harunobu; in seguito s’indirizzò verso un maggior realismo attento all’espressio- ne psicologica, cosa che ne fa un precursore di Sharaku. S eseguì inoltre bellissimi studi di lottatori sumo (tema che Hokusai riprese all’inizio della sua carriera), e la fine della sua produzione fu caratterizzata da soggetti quotidiani del- la donna (Dodici Mesi: Atami, Museo), S fu a capo di una bottega detta «Katsukawa» i cui membri adottarono un so- prannome che comincia con «Shun», come Shunkÿ, Shunei, Shunjÿ e soprattutto Shunrÿ, il futuro Hokusai. (ol). √ibanov, Michail (? - dopo il 1787). Servo dei Potëmkin, dipinse nel 1787 i notevoli ritratti di Caterina II con cappello di pelliccia (1787: San Pietroburgo, Museo russo) e del suo favorito, A. Dimi- triev-Mamontov (1787: ivi). In genere è ricordato come l’ini- ziatore della pittura di genere popolare russa: Pranzo di con- tadini (1774: Mosca, Gall. Tret’jakov), la Festa del contratto di nozze (1777: ivi). (bl). Siberechts, Jan (Anversa 1627 - Londra 1703 ca.). Maestro ad Anversa nel 1648 o 1649, viaggiò probabilmente in Italia, dove subì l’in- flusso dei pittori olandesi italianeggianti, quali Berchem, Jan Both o Karel Dujardin. Lavorò ad Anversa fino al 1672, poi si recò in Inghilterra, chiamatovi, secondo i cronisti, dal du- ca di Buckingham. Si possono distinguere tre periodi nella sua evoluzione stili- stica. Degli esordi (1651-61) si conoscono pochissime ope- re: la Primavera italiana (1651: Berlino, sm, gg) e la Conver- sazione in riva al guado (1660: Göteborg, Museo). Dal 1661 al 1672, la maniera dell’artista si fece piú personale: dipin-

Storia dell’arte Einaudi se, con fattura ampia, paesaggi, personaggi e animali. Nutrì una predilezione per il motivo del Guado, che gli consentì di trattare con sottili variazioni lo scintillio della luce. Nel contempo, S s’interessava soprattutto dei volumi e delle for- me, come nella Toeletta di contadina (San Pietroburgo, Er- mitage) e nella Scena pastorale (Raleigh, North Carolina Mu- seum). In Inghilterra si orientò piú ad esprimere il senti- mento della natura, come attestano le vedute di Chatsworth, di Longleat, del Molino di Lenton; qui dipinse il suo capola- voro, la Partenza per la caccia (1684: Bruxelles mrba). Negli ultimi anni di vita S si rivela di nuovo impegnato, nello stu- dio degli effetti di luce, unico, in quell’epoca, ad Anversa, a dedicarsi a tale ricerca. (il). Siberia Numerosi graffiti e incisioni ornano le rocce che fiancheggia- no le valli dei fiumi siberiani Lena e Enisej e dei loro affluenti. Appartengono a epoche molto differenti, dal periodo post- glaciale ad epoche storiche. I petroglifi dello Enisej descrivo- no personaggi lineari schematizzati, accompagnati ad anima- li (alci e bovidi stilizzati); le scene con imbarcazioni e quelle di caccia potrebbero essere piú recenti. Piú diffusi sono i mo- tivi circolari e a labirinto, dell’età del bronzo, mentre di epo- ca piú recente sono i segni dei clan. La regione del lago Bajkal e quella dell’alta e media valle del Lena ospitano un numero elevato di siti rupestri, sovente posti sulle falesie che domi- nano le sponde. Qui, con un disegno vigoroso e schematico sono state tracciate scene di vita quotidiana che ritraggono animali (uccelli, cani) e barche guidate da personaggi con del- le corna, spirali e meandri. Esemplari di pitture rupestri, sti- listicamente differenti e databili dal neolitico al bronzo, si ri- trovano nella regione dello Jakutsk e lungo la valle della Markha, che confluisce nel Lena. (yt). Sibiu Museo Brukenthal Il museo di S (in Transilvania, Roma- nia) è costituito da collezioni formate alla fine del sec. xviii dal barone Samuel Bruckner von Brukenthal, governatore della Transilvania. Nel 1790 il barone inaugurava una vera e propria Wunderkammer (gabinetto di curiosità), poiché era composta di elementi estremamente disparati, creata ne- gli spazi del palazzo di stile barocco che aveva fatto edifica-

Storia dell’arte Einaudi re a S. Nel 1817 la collezione divenne pubblica: compren- deva quasi mille quadri, acquisiti principalmente a Vienna, alcuni dei quali gli erano stati senza dubbio donati da Ma- ria Teresa. Parte di essi è oggi esposta al mn d’Arte di Bu- carest: le tavole piú celebri sono l’Uomo dal cappuccio az- zurro di Jan van Eyck e la Crocifissione di Antonello da Mes- sina. Il Museo Brukenthal è stato riorganizzato con criteri moderni. La sezione belle arti comprende una parte dedica- ta alla pittura rumena del sec. xix e del xx (ritratti e pae- saggi di Grigorescu, paesaggi di Andreesco, fiori di Luchian, opere di Pallady, Petrasco, Tonitza, Dumitresco, Iser, Res- su, Darascu, Steriadi, Ciucourenco). L’arte dei maestri sas- soni della Transilvania è illustrata da altari a portelle e an- tependi. La sezione d’arte occidentale è assai ricca di dipinti delle scuole nordiche (oltre seicento quadri) di epoca manierista (Marinus van Reymerswaele, Hans von Aachen, Floris, Cor- nelis de Haarlem, Momper, Valckenborch, Vinckboons, Sa- very) e di epoca barocca (Rubens, van Dyck, Ter Brugghen, Pandiss, Liss, Loth, numerosi maestri minori olandesi). Comprende inoltre opere importanti di Tiziano (Ecce Ho- mo), Paris Bordone, Bencovich, Magnasco, nonché delle scuole austriaca e ceca (Kupecky, Troger). (gb). Sichem Christoffel il Vecchio (Amsterdam 1546 ca. - 1624), attivo a Basilea dal 1570 al 1586, a Strasburgo, Augusta e infine Amsterdam a partire dal 1598, incise principalmente su le- gno – la sua migliore specialità – soggetti di storia e paesag- gi, illustrando opere come Die 13 Arte der läblichen Einge- nossenschaft, apparso a Basilea nel 1573, e Contrafacturen weitberühmter Krugshelden, pubblicato a Basilea nel 1577, che decorò con 180 tavole. Ebbe parecchi figli, tra cui Ka- rel († dopo il 1604), che incise a bulino numerosi ritratti, Cornelis (Delft 1580 ca. - Amsterdam ?), allievo di Golt- zius, che incise da opere del maestro e di Bloemaert, e Ch- ristoffel il Giovane (Basilea 1581 - Amsterdam 1658), allie- vo del padre e poi di Goltzius, che lavorò soprattutto ad Am- sterdam, dove eseguì 797 incisioni per una Biblia sacra apparsa nel 1646. Anche Christoffel III (Amsterdam 1618-59) e Christoffel

Storia dell’arte Einaudi IV (Amsterdam 1642 - Indie olandesi 1693), furono specia- listi d’incisione su legno, ma di minore talento. (jv). Sicilia Una storia pittorica della S deve tenere conto delle vicende storiche di cui la regione è stata teatro e delle relative stra- tificazioni culturali che di volta in volta ne hanno orientato le manifestazioni artistiche, non sempre caratterizzate da aspetti univoci, ma anzi, piú spesso strettamente connesse alle complesse condizioni politiche, economiche, sociali. La posizione geografica dell’isola inoltre, su una rotta obbliga- ta tra Occidente e Oriente, e la successione delle diverse do- minazioni straniere hanno contribuito a determinare una compagine figurativa i cui innesti, diversi e molteplici, dàn- no vita a un linguaggio che via via si assimila e si adegua al- le esperienze culturali locali. (fcc). Antichità La protostoria siciliana è condizionata dagli ap- porti culturali delle due civiltà mediterranee che per prime colonizzarono l’isola: quella dei Greci (inizialmente Calci- desi e Corinzii) che si stabilirono in S a partire dal sec. viii, e fondarono le città di Nasso, Siracusa, Zancle (Messina), Selinunte e Agrigento; dall’altra parte i Fenici, che si stabi- lirono nella S occidentale, con la fondazione di Panormos e Solunto. Della produzione pittorica di questi ultimi, che dové esser certo fiorente, ci sono rimaste testimonianze mo- deste, limitate in sostanza alle steli dipinte puniche (sec. vi) ritrovate a Lilibeo e oggi a Palermo (ma). La cultura siceliota, a cui appartennero poeti come Stesico- ro e Teocrito, commediografi come Epicarmo, retori come Gorgia e filosofi come Empedocle, fu particolarmente viva- ce anche nel campo figurativo. Siciliano era il pittore De- mofilo di Imera (seconda metà sec. v), che molto probabil- mente fu maestro di Zeusi (come si ricava da un passo con- troverso di Plinio) e forse fu uno dei primi a scrivere un trattato sulla simmetria. Lo stesso Zeusi (morto prima del 394) con molta probabilità proveniva da una città siciliana, Eraclea Minoa: agli abitanti di Agrigento, secondo Plinio il Vecchio (xxxv, 36), volle donare uno dei suoi quadri «sen- za prezzo», identificabile probabilmente con quello raffigu- rante «luppiter... in throno adstantibus diis et Hercules in- fans dracones strangulans Alcmena matre coram pavente et Amphytrione», descritto dallo stesso Plinio, e forse ripro-

Storia dell’arte Einaudi dotto da alcuni affreschi a Pompei ed Ercolano. Si deve in- vece a un errore del naturalista romano l’affermazione se- condo la quale fu ad Agrigento che Zeusi dipinse la celebre Elena, prendendo a modello le piú graziose fanciulle della città: l’episodio, come sappiamo da Cicerone, si svolse in- vece a Crotone. Oggi le testimonianze pittoriche lasciateci dalla civiltà siceliota sono costituite essenzialmente dai re- perti ceramografici, i piú importanti dei quali sono conser- vati nel ma di Siracusa. Da altre testimonianze letterarie e archeologiche ci è noto l’impiego del mosaico pavimentale. Il poligrafo Ateneo (V libro del Deipnosophistai, 207 a. C. ca.) dice della nave-pa- lazzo del tiranno di Siracusa Gerone II che «aveva un pavi- mento in quadrelli formato da pietre di tutti i tipi, in cui era illustrato l’intero racconto dell’Iliade». Un mosaico pavi- mentale composto da ciottoli, con scene molto stilizzate e decorazioni a palmette e meandri, è stato ritrovato sull’iso- la di Mozia nelle Egadi: le sue caratteristiche tecnico-stili- stiche inducono a pensare che si tratti di un’opera greca piut- tosto che punica ed è collocabile tra il sec. iv e il iii a. C., benché non manchino i critici che lo fanno risalire fino al sec. v. Inoltre, riveste un’importanza particolare in quanto è l’unico esempio finora conservatoci di mosaico a ciottoli figurato. Sicuramente greci sono i resti di mosaici nella Ca- sa di Ganimede a Morgantina, realizzati sia con tessere ir- regolari che quadrangolari, e quello di via Galilei a Gela, da- tabili alla seconda metà del sec. iii. Durante la seconda guer- ra punica (264-241 a. C.) la S viene assoggettata a Roma, ed entra in una nuova fase culturale, proseguendo le tradizioni grecaniche e adattandole alle mutate esigenze della costituita provincia. Che l’isola fosse ricca di opere d’arte e di pitture in particolare ce lo testimonia quanto meno la rapacità di Verre, che, secondo l’accusa pronunciata da Cicerone, ave- va al suo fianco, come consiglieri, dei pittori che gli sapeva- no indicare quali pitture avessero un valore tale da giustifi- carne il furto. L’indagine archeologica ci ha fornito, relati- vamente al primo periodo romano, le testimonianze di mosaici pavimentali che riflettono contemporanei modelli ellenistici a Salemi, Taormina (dove s’incontra sia il mosai- co a tessere miste sia l’opus signinum) e nella Casa B di Tin- dari (attribuibili al sec. ii a. C.): quest’ultimo caso, che pre-

Storia dell’arte Einaudi senta raffinate invenzioni decorative pavimentali, trova dei paralleli con la produzione dell’Africa del Nord (decorazio- ne a spirali del mosaico con i Satiri nel Museo di Rabat). A un periodo che oscilla tra il sec. ii a. C. e la prima età impe- riale appartengono i mosaici, tra cui uno con Scene di caccia, ritrovati nella Casa B di piazza della Vittoria a Palermo, non- ché quelli con Leda e il cigno e il Mappamondo astronomico e i frammenti del mosaico con Paesaggio acquatico nella Casa di Leda e nelle Terme di Solunto. Ancora, si riconducono a quest’altezza cronologica il mosaico con figura d’ignudo a Milazzo, i cui contorni sottolineati mediante l’uso di lami- ne di piombo denunciano la conoscenza delle tecniche arti- gianali greche (benché sia occidentale e di origine africana la realizzazione in opus signinum), quello con emblema che racchiude un uccello fantastico cavalcato da una figura oggi irriconoscibile, a Cefalú, e infine quelli aniconici del mc di Castell’Ursino a Catania e del Museo di Licata. Dopo la III guerra punica (218-201) e le guerre sociali del sec. i a. C. la S subisce una grave crisi economica e un for- te calo demografico, incrementato dalla diffusione del la- tifondo e dalle numerose concessioni terriere ai veterani di Augusto. In conseguenza di questo, le fonti antiche taccio- no in generale sui fatti siciliani né pertanto dànno alcuna in- dicazione al riguardo della produzione pittorica. Questa si riduce a quel che resta dei pavimenti musivi delle ville co- struite dai potenti locali e dai ricchi senatori nella provincia insulare. Verso la metà del sec. i viene importato in S il mo- saico imperiale a tessere bianche e nere, come testimoniano i ritrovamenti archeologici nella Casa B di Tindari e della Villa di Castroreale Bagni, con decorazioni geometriche. Al- tri mosaici a tessere bianche e nere dei secoli ii-iii sono con- servati a Taormina, a Catania e nelle Terme di Tindari (con rappresentazione di animali mitici, centauri di mare, trito- ni). Il mosaico policromo, preso in prestito, a quanto sem- bra, dall’Africa proconsolare, compare a partire dal sec. ii: i primi esempi vengono riconosciuti nel pavimento a deco- razioni geometriche ritrovato a Catania (via Etnea) e nell’emblema con Europa a Lipari. Altri mosaici policromi, assegnabile al periodo fra il sec. ii e il iii, sono quelli con raf- finate decorazioni geometriche ed emblemi ritrovati ad Agri- gento (Casa della Gazzella, Casa delle Svastiche, Casa del Maestro astrattista). Un frammento pavimentale già a Mar-

Storia dell’arte Einaudi sala e oggi a Palermo (ma) mostra gli emblemi con i clipei delle quattro stagioni avviluppati da una ricca ornamenta- zione fitomorfica che trova rispondenze esatte nella produ- zione africana contemporanea. Soluzioni decorative analo- ghe compaiono anche in alcuni mosaici del ma di Siracusa (vedi in particolare il mosaico con l’emblema di Venere). Sempre nella zona di Siracusa (Santa Teresa Longarina) è stato ritrovato un frammento di pavimento con una più am- pia soluzione figurativa (vedi la Caccia al leone). Allo scor- cio del sec. ii sono databili i mosaici ritrovati nella Casa A di piazza della Vittoria a Palermo: tra questi, meritano di es- sere segnalati quello frammentario con il Trionfo di Nettu- no, che è stato avvicinato all’analoga figurazione nel pavi- mento della Casa dell’Oued Blibane a Sousse, in Africa, e il Grande Mosaico con decorazioni a intreccio che racchiudo- no pesci, clipei con figure allegoriche, busti del Sole e della Luna, scene satiresche. Anche le soluzioni di quest’ultimo mo- strano esatte rispondenze con mosaici dell’Africa proconso- lare (Thysdrus, Volubilis, BirChana), senonché nell’esempio siciliano si fa piú marcatamente sentire l’entità ellenistica, soprattutto nella calibratura delle luci e delle ombre e nella resa di capelli e barbe. Tuttavia questa eredità ellenistica convive con stimoli di natura diversa, che ben appaiono nell’altro mosaico figurativo di piazza della Vittoria, raffi- gurante Orfeo che incanta le fiere col suono della cetra, dove l’impianto scenico viene snaturato con la negazione dei pia- ni prospettici che vengono appiattiti sulla superficie di sup- porto, e sostituito da un’organizzazione centrale-simmetri- ca della rappresentazione. Una simile soluzione non è isola- ta in questo momento in S, in quanto viene adottata anche in un altro mosaico scoperto a Palermo (via Maqueda). Il sec. iv ci ha lasciato in terra siciliana, oltre i resti di mo- saici del Ninfeo di Comiso e quello con la Pesca a Termini Imerese, uno dei piú vasti complessi musivi dell’arte antica, quello della villa del cosiddetto «Casale dei Saraceni» nei dintorni di Piazza Armerina. Si tratta della decorazione pa- vimentale di un edificio privato che il gusto impostosi a quel- la data voleva che si avvicinasse il piú possibile alla magni- ficenza e alla dignità di un palazzo imperiale. Ne segue il proliferare delle scene mitologiche, la riproposizione all’in- finito dei temi mitologici e letterari, l’inserimento di rap-

Storia dell’arte Einaudi presentazioni come le Scene del circo e lo Spettacolo delle mi- me-danzatrici, raffigurate in abiti succinti mentre eseguono dei numeri nell’acqua. Il sistema compositivo anti-prospet- tico già affermatosi nell’Orfeo palermitano ricompare qui so- prattutto nei mosaici con la Grande e la Piccola Caccia, com- binato con una disposizione sequenziale per strisce orizzon- tali dei singoli episodi, ma ancor piú fortemente in quello con i Giganti feriti che decora uno degli emicicli dell’aula triabsidata. In quest’ultimo è anche interessante notare co- me intervenga un’attenzione alla struttura corporea che di- lata la massa anatomica delle figure arrivando quasi a scom- porla in unità distinte. Qualcosa di simile accade anche nel- le rappresentazioni delle Fatiche di Ercole e del Mito di Ambrosia. Negli altri mosaici (soprattutto lo Spettacolo del- le mimedanzatrici con la Grande e la Piccola Caccia) s’im- pongono con forza una notevole stilizzazione e una resa standardizzata delle singole figure umane: l’individuazio- ne ritrattiva rimane solo come formula stilistica funziona- le alla rappresentazione di personaggi di superiore dignità e importanza, come il personaggio in vesti di alto dignita- rio che osserva con distacco la Grande Caccia, nel quale se- condo il Pace si potrebbe riconoscere il proprietario della villa. Contemporaneamente si sviluppano anche le prime manifestazioni di arte cristiana in S. La tradizione del mo- saico pavimentale viene adottata nella decorazione della basilica primitiva di Carini, mentre mosaici parietali com- paiono nell’abside esterno della chiesa di Zitone presso Len- tini. Affreschi paleocristiani a imitazione di un soffitto a cas- settoni compaiono invece in una catacomba a Lilibeo; ma la maggior parte decora gli ipogei del sec. iv a Siracusa: un Sal- vatore compare nella lunetta dell’arcosolio di Marcia nella catacomba Cassia, che ospita anche raffigurazioni di Oran- ti e di un Buon Pastore; la catacomba di San Giovanni acco- glie una Madonna col Bambino affiancata da due clipei col monogramma di Costantino. Una rappresentazione funera- rio-votiva è quella delle due bambine Alessandre nella crip- ta di San Marziano, mentre nella catacomba di vigna Cassia ritroviamo una delle prime rappresentazioni dell’Eucarestia e un inconsueto affresco con Giona vomitato dal mostro; un cubicolo nella stessa catacomba è invece interamente deco- rato con fronde fiorite di matrice ellenistica, ma sottoposte a stilizzazione.

Storia dell’arte Einaudi Periodo bizantino Verso la metà del sec. v la S cade in ma- no ai Vandali, che dopo il 476 la cedono ad Odoacre in cam- bio del versamento del tributo, riconosciuto piú tardi anche da Teodorico. Tuttavia gli Amali, privi di flotta, non rie- scono ad esercitare un potere effettivo sull’isola, che rima- ne in mano ai grandi latifondisti; nel 535 l’esercito bizanti- no guidato da Belisario non incontra difficoltà sostanziali nella riconquista della S. Da allora l’isola mantiene legami molto stretti col mondo bizantino, in quanto direttamente sottoposta alla giurisdizione di Costantinopoli; nel sec. vii assume un’importanza fondamentale, al momento in cui il basileus Costante II trasferisce la sua residenza a Siracusa (663), progettando una sorta di translatio Imperii. Della floridezza dell’attività artistica nella S bizantina ab- biamo soltanto una pallida eco nelle affermazioni del mona- co Teodosio nella sua descrizione della caduta di Siracusa in mano agli Arabi nell’878, in cui esalta lo splendore della sua città piombata in una tanto misera condizione. Dalla Vita di santo Stefano il Giovane sappiamo che durante le lotte ico- noclastiche la S insieme con le altre province occidentali dell’impero era rimasta fedele al culto delle immagini. Non a caso fra i piú agguerriti sostenitori della causa iconodula troviamo il vescovo siciliano san Metodio, che ebbe dal pa- pa l’incarico di portare al basileus Michele II il monito ro- mano sulla questione delle immagini, e che al momento del- la restaurazione del culto (843) fu premiato dall’imperatri- ce Teodora con l’ascesa al soglio patriarcale. Sempre di un prelato siciliano, il vescovo di Siracusa Gre- gorio Asbestas, intimo amico e collaboratore del patriarca Fozio, ci è riferita (testimonianza unica a Bisanzio e nel Me- dioevo in generale) una singolare attività di miniatore; quan- do nell’861 Fozio ottenne da un concilio riunito a Costan- tinopoli la condanna del suo antico rivale, il patriarca Igna- zio, Gregorio Asbestas si preoccupò di miniare la copia degli Atti del concilio destinata all’imperatore d’Occidente con illustrazioni che ponessero in ridicolo e rendessero odioso al lettore il personaggio condannato dalle risoluzioni dei Pa- dri. Siffatte immagini furono giudicate estremamente peri- colose e irritanti, se è vero che due anni dopo i partigiani di Ignazio risolsero di dar fuoco a quella copia degli Atti. La notizia che anche un alto prelato siciliano contemporaneo di

Storia dell’arte Einaudi Fozio, il vescovo di Messina Zaccaria Cofo, si dilettava di pittura testimonia di come l’attività artistica fosse tenuta in alto pregio nelle classi alte della S bizantina. Nella stessa di- rezione va anche la notizia ricavabile dagli Atti dei martiri lentinesi (sec. x), secondo la quale la chiesa rupestre della Madonna Adonia presso Lentini fu affrescata di propria ma- no dal protovescovo Agatone ivi rifugiatosi durante una del- le grandi persecuzioni: simili leggende si ritrovano non a ca- so anche nell’ambiente siriaco, con il quale la S pre-icono- clastica aveva avuto rapporti di giurisdizione ecclesiastica. All’epoca bizantina del sec. ix sono probabilmente da attri- buire gli affreschi di un’oratorio nella catacomba di Santa Lucia a Siracusa. Nella parete sud-orientale sono dispiegate in paratassi le figure tagliate al busto di sei santi, ognuna se- parata dall’altra da colonnine con base e capitello, da cui si dipartono dei festoni che riescono a dare così una sorta di continuità alla composizione, in cui sono evidenti le remi- niscenze ellenistiche. Solo la figura del protovescovo Mar- ziano è isolata, per la sua superiore dignità, in un’icona qua- drangolare. Nel soffitto compare un soggetto iconografico interessante, che molto probabilmente dev’essere interpre- tato come una scelta polemica contro le idee iconoclastiche: vi campeggia la grande croce gemmata della parousia, quel- la privilegiata da Leone l’Isaurico, che era stata collocata al posto della grande icona di Cristo sopra la porta principale del Palazzo imperiale (la cosiddetta Chalkì). Tuttavia l’ani- conicità della croce iconoclasta è qui negata tramite l’espli- citazione del suo significato salvifico ottenuta con l’inseri- mento di un clipeo che riproduce l’icona della Chalkì all’in- crocio dei bracci, di una vergine orante (come quella miracolosa che si venerava nel complesso delle Blacherne) all’estremità inferiore, e di due arcangeli alle estremità del braccio orizzontale. Inoltre, la grande croce è contornata da un altro soggetto anti-iconoclastico, quello dei Quaranta Mar- tiri di Sebaste che ricevono la corona del martirio, di cui avremmo qui una delle piú antiche rappresentazioni. Sempre ai secoli viii-ix potrebbe risalire quel poco che resta della ricca decorazione della chiesa di San Pietro nella stes- sa Siracusa. Tracce di affreschi compaiono un po’ ovunque sulle pareti anche del transetto e nelle navate secondarie, su- gli archi, sui sostegni e con tutta probabilità anche sulle vol- te. Allo stato attuale non ci rimangono che tracce minime di

Storia dell’arte Einaudi figure di santi e sante. Un altro raro esempio della pittura murale siciliana di quest’epoca è costituito dai frammenti di affresco con Sant’Elena, Santo Stefano e Santo anonimo nel- la chiesa rupestre di San Nicolicchio presso Pantalica. Que- sti mostrano uno stile estremamente lineare che alcuni stu- diosi hanno avvicinato alla pittura copta; piuttosto inedita nel mondo bizantino è la peculiarità iconografica dell’aureola che va ad invadere la cornice del rettangolo dell’icona. I re- sti di affreschi nel San Pietro di Buscemi sono stati anch’es- si attribuiti al periodo bizantino. Periodo arabo La flotta del cadì di Kairouan sbarca a Ma- zara nell’827, iniziando la conquista dell’Isola, che tuttavia impegnerà gli Arabi per quasi un secolo, giacché la capitale Siracusa resisterà agli attacchi fino all’878 e Taormina fino al 902. Dello splendore della S e della sua capitale Palermo «dalle mille moschee» possono ancora darci un’idea le de- scrizioni estasiate di alcuni viaggiatori arabi come Ibn Hau- qaI e Ibn Giubayr. Manufatti e oggetti di ogni tipo giunse- ro in S da ogni parte del mondo islamico: sappiamo ad esem- pio che la figlia di un califfo portò a Palermo ben 30 000 stoffe ricamate. Allo stato attuale, tuttavia, nulla ci rimane della produzione pittorica arabo-sicula; possiamo farcene un’idea soprattutto a considerare la ripresa di questa tradi- zione in alcuni monumenti dell’epoca normanna: vedi ad esempio le decorazioni a intarsio con pietre colorate nelle absidi di Monreale, il ricamo con leoni affrontati sul man- tello di Ruggero II oggi nella Schatzkammer di Vienna, l’ara- besco geometrico nella volta della Stanza di Ruggero nel Pa- lazzo Reale di Palermo, gli elementi decorativi adottati in diversi programmi musivi, primo fra tutti quello del Palaz- zo della Zisa, commissionato intorno al 1160 da Guglielmo I, che mostra un fregio a racemi e clipei con animali affron- tati. Ma la testimonianza piú interessante della tradizione araba nella S normanna è senz’altro la decorazione del sof- fitto della Cappella Palatina di Palermo, che costituisce uno dei primi esempi del processo di rinnovamento dell’arte isla- mica verso una ripresa della rappresentazione umana e una rivalutazione della terza dimensione. Questo poteva meglio verificarsi nell’uso di peculiari contrasti cromatici, come ros- so su giallo o bianco su nero, che, secondo lo storico egizia- no al-Maqrizi, facevano sembrare la figura a rilievo o «in-

Storia dell’arte Einaudi cavata». Peculiarità stilistiche come la resa di occhi e capel- li hanno indotto alcuni studiosi (Monneret de Villard, Vel- mans, I. Grabar) ad avvicinare le pitture del soffitto della Palatina sia alla produzione fatimide che a quella mesopo- tamica. Periodo normanno Fallito il tentativo di restaurazione bi- zantina in S con l’esautorazione e la morte accidentale del valoroso generale Giorgio Maniace (1043), la riconquista dell’isola viene intrapresa a partire dagli anni ’60 del sec. xi dal normanno Ruggero d’Altavilla, e portata a termine nel 1091. La S diviene allora una contea del regno normanno retta dallo stesso Ruggero, che dà l’avvio alla ricostituzione dell’identità cristiana dell’isola; nel 1094 assegna a monaci greci il monastero del San Salvatore a Messina, dove si co- stituisce un importante scriptorium, che produrrà tra xii e xiii secolo tutta una serie di manoscritti miniati, oggi per la maggior parte conservati nella Biblioteca Universitaria di Messina. Tra i piú importanti sono da ricordare il Metafra- ste (ms 27) simile stilisticamente al Menologio di Basilio II della bv di Roma, l’Octoichon (ms 51) che presenta otto pan- nelli istoriati su fondo aureo, le Omelie di san Gregorio Na- zianzeno (datate 1151, opera del monaco Bartolomeo per or- dine dell’abate Pafnuzio di San Salvatore), l’Evangeliario (ms 73,1173 del monaco Nilo), e infine le Omelie di san Giovanni Crisostomo sul Vangelo di Giovanni (ms 13) decorate da un fregio in oro con medaglioni e doppie spirali fra palmette sa- sanidi. Il monaco Salomone da Noto miniò, nel 1167, un Evangeliario oggi a Parigi (bn, ms grècque 83), che mostra, a differenza del piú genuino bizantinismo dei manoscritti messinesi, delle inflessioni locali che dànno un vivace tono popolare ai soggetti del repertorio orientale. Notevole dové essere la circolazione di prodotti bizantini grazie agli stretti contatti commerciali con l’Oriente, alla presenza dei monaci e delle comunità grecofone, alla politi- ca dei re normanni che ambivano alla dignità imperiale di Costantinopoli e dimostravano questo loro desiderio misto di rivalità ed emulazione non solo con la promulgazione di atti ufficiali in greco, con la propria autodesignazione a ba- sileus e con l’erezione di edifici monumentali di gusto bi- zantino, ma anche con ripetuti tentativi di invasione dell’im- pero orientale (Roberto il Guiscardo nel 1081, Ruggero II nel 1147, Guglielmo II nel 1185). Codici miniati bizantini

Storia dell’arte Einaudi furono donati dal basileus Manuele Comneno; altri giunse- ro in S in seguito alle razzie di Ruggero II in Epiro: tra que- sti, i Capitoli della compagnia di Naupaktos, oggi nella cap- pella Palatina. Nel testamento di Scolario Saba († 1144) si prescrive la donazione al monastero del San Salvatore di Bor- donaro presso Messina sia «codices pulcros et diversos» che «imagines perpulcras et coopertas auro», da lui acquistate durante un suo viaggio in Grecia. Contemporaneamente le comunità grecaniche dell’isola svilupparono una loro tradi- zione pittorica nella decorazione di numerose chiese rupestri soprattutto nella zona di piú antica colonizzazione bizanti- na, la regione di Siracusa. Resti di affreschi sono conservati nella stessa città (San Marziano), a Lentini e nel suo territo- rio, a Pantalica, a Noto e a Rosolini. Nella maggior parte dei casi si tratta di pitture simulanti icone a carattere votivo; troviamo dei programmi decorativi veri e propri solo nel ca- so della grotta di Santa Magherita a Lentini e nella chiesa rupestre di San Teodoro di Croce Santa a Rosolini (sec. xii), dove intervengono criteri tipicamente medio-bizantini a re- golare la dislocazione sulle pareti dei temi iconografici, qua- li la ricerca di rispondenze semantiche fra due macroicone affrescate su due pareti che si fronteggiano, o la scissione simmetrica intorno a un asse di scene come l’Annunciazio- ne. Non è tuttavia dalla cultura grecanica locale, ma diretta- mente dai modelli della capitale bizantina, il cui fasto e splendore intendevano imitare, che attinsero i re norman- ni nella decorazione dei propri edifici monumentali. Furo- no probabilmente maestranze bizantine ad eseguire i mo- saici dell’abside del Duomo di Cefalú (commissionati da Ruggero II intorno al 1148): oltre infatti alle caratteristi- che stilistiche e tecniche, la natura bizantina delle figura- zioni è denunciata anche dalla dislocazione nella tribuna dei soggetti, che appare chiaramente come l’adattamento all’impianto basilicale dell’edificio del sistema decorativo «ipotattico» delle chiese bizantine: il Pantocrator che in Oriente controlla dall’alto della cupola tutte le macroicone sottostanti è qui trasportato nella semiconca dell’abside, mentre l’intercessione della Vergine e dei santi che nei mo- delli greci viene espressa dalla scena unitaria dell’Ascen- sione, è scomposta nel caso siciliano su tre ordini sovrap-

Storia dell’arte Einaudi posti. Negli anni ’40 del sec. xii Ruggero II commissionò anche la decorazione musiva della cappella Palatina. Anche in questo caso il re normanno si avvalse di artefici molto addentro alla cultura figurativa bizantina, ma intervenì di- rettamente sul programma decorativo piegandolo ai propri fini di esaltazione dinastica, snaturando il significato del «sistema». Vi compare infatti regolarmente la cupola da cui si affaccia il Pantocrator, ma la Vergine orante non può in- viargli la sua intercessione dall’abside centrale perché si tro- va spostata nell’absidiola settentrionale, dove poteva esser meglio visibile dalla tribuna reale. Sempre all’iniziativa di Ruggero sono da attribuire la sfarzosità ostentata dal largo impiego dell’oro e le scelte iconografiche che ricadono su soggetti «imperiali» come la Trasfigurazione e l’Entrata a Ge- rusalemme. Anche il successore di Ruggero II, Guglielmo I (1154-1166), promosse iniziative artistiche monumentali commissionando la decorazione musiva delle navate della stessa Cappella Palatina e del presbiterio di Cefalú, affida- ta stavolta a maestranze sicuramente autoctone che si sfor- zano di coniugare gli inevitabili riferimenti ai modelli bi- zantini con alcuni adattamenti al gusto e alle caratteristi- che culturali del regno meridionale. L’impiego di scene narrative, desunte spesso dal repertorio vetero-testamenta- rio e apostolico, la ricerca di effetti emozionali, la volontà di resa del moto pur senza abdicare al senso della monu- mentalità vanno decisamente in questa direzione. Nelle de- corazioni profane dell’epoca di Guglielmo I o dei primi an- ni del regno di Guglielmo II (1153-89), vale a dire quella della Sala di Ruggero e della Torre Pisana nel Palazzo Rea- le, come del Palazzo della Zisa ritroviamo una tipica arte di corte, che coniuga le tre tradizioni classica, araba e bizan- tina in un’amalgama che è tenuta insieme soltanto dalla vo- lontà di autoesaltazione della giovane dinastia normanna. Con la decorazione musiva dell’abbaziale benedettina di Monreale (eseguita nel periodo tra il 1180 e il 1194), tut- tavia, il committente Guglielmo II – quello che tenterà la conquista dell’impero arrivando a saccheggiare Tessalonica – affida l’opera a maestranze profondamente addentro alle nuove tendenze figurative della capitale bizantina (soprat- tutto il cosiddetto «stile dinamico» nella resa dei panneg- gi, individuato dal Kitzinger), dando vita a un insieme che supera per maestosità e grandiosità qualsiasi chiesa d’Orien-

Storia dell’arte Einaudi te, grazie alla scelta – inedita a Bisanzio – di un unico, inin- terrotto tessuto musivo che ricopre tutte le pareti della ba- silica. Accanto alle iniziative reali, ci sono rimasti esempi di com- mittenze private di alti dignitari di corte. Verso gli anni ’50 una Expositio orationis dominicœ in stile bizantino (oggi a Parigi, bn, Nouv. acq., Lat. 1772) è stata miniata per il gran- de ammiraglio Maione da Bari. Alla munificenza dell’«ar- conte degli arconti», l’ammiraglio di Ruggero II Giorgio d’Antiochia, protettore anche di poeti fortemente imbevu- ti di cultura bizantina, si deve invece la decorazione musi- va (1146-51) della chiesa della Martorana (Santa Maria dell’Ammiraglio) a Palermo: i suoi mosaici sono stati avvi- cinati al filone di Dafnì; loro caratteristica peculiare è l’uso di accorgimenti stilistici bizantini pienamente padroneggia- ti quali la combinazione di «classica serenità» e «vivace ani- mazione» (Kitzinger), sottolineata dalla forte ombreggiatu- ra delle parti del corpo in movimento. La maestranza tutta- via si rivela occidentale nel momento in cui, come ha notato Demus, fraintende le meditazioni bizantine sullo scorcio da dare alle figure, come dimostrano le gambe eccessivamente corte degli angeli nella cupola col Pantocrator. Negli ultimi, convulsi anni del dominio normanno, sotto Tancredi di Lecce (1189-94) e Guglielmo III (1194), non so- no documentati fatti artistici di rilievo. A questi anni, o ai primi del sec. xiii, sono forse attribuibili una Testa d’apo- stolo musiva nel Museo di Messina, già nella Badiazza (San- ta Maria della Valle) e la Madonna col Bambino sopra l’in- gresso principale del Duomo di Palermo. (mba). Dal XIII al XVI secolo Dopo le grandiose creazioni musive del periodo normanno, sostanzialmente legate alla cultura bizantina, la civiltà figurativa della S del periodo svevo ri- mane saldamente ancorata alla tradizione bizantina nella produzione devozionale e aulica, aperta soprattutto que- st’ultima, ad apporti gerosolomitani e islamici. Esempi si- gnificativi sono costituiti dalla Croce dipinta di Mazara del Vallo di un maestro siculo con influssi gerosolomitani, e, per la produzione miniatoria, dal Salterio di Isabella d’Inghilter- ra, terza moglie di Federico II, dove la componente geroso- lomitana prevale appunto sugli elementi occidentali. Se nell’attività degli scriptoria isolani si intravede un’apertura

Storia dell’arte Einaudi significativa verso elementi occidentali, francesi o comun- que transalpini, la produzione monumentale coeva, cioè in- torno alla metà del secolo, si allinea ancora su episodi di stretta osservanza bizantina, come mostrano le due tavole con la Madonna col Bambino già Kahn ed Hamilton (Wa- shington, ng). Situazione figurativa che perdurerà anche nel- la seconda metà del sec. xiii e oltre, quando la S, dopo la ri- volta dei Vespri contro la dominazione angioina, nel 1282, passerà nell’orbita catalano-aragonese, staccandosi politica- mente e culturalmente dal meridione continentale governa- to dagli Angiò. Queste forme di persistenza investono i due centri maggiori dell’iniziativa artistica regia, Palermo e Mes- sina: la Madonna col Bambino (Palermo, Galleria regionale della S) e la Crocifissione oggi a Berlino, entrambi in mosai- co, per Palermo, la Madonna della Ciambretta già nel mona- stero di San Gregorio (Messina, Museo regionale) e le de- corazioni absidali del Duomo – per la maggior parte rifatte – per Messina, rappresentano un aggancio ancora molto te- nace al filone aulico di cultura bizantina, che per molto tem- po costituirà una costante nella pittura devozionale ripresa e continuata nelle botteghe locali. Tracce delle penetrazio- ni catalane, giunte al seguito della nuova dominazione, si ri- trovano invece nella S occidentale, a Trapani (Crocifissione), a Caltanissetta (Salvator Mundi in Santo Spirito), ad Agri- gento (Cattedrale, affreschi), dove il linguaggio catalano-ara- gonese assume toni fortemente espressivi nel caricato pate- tismo delle figure. Una differenziazione maggiore, che con- cerne una cultura di importazione ancor prima di incidere su un nuovo linguaggio locale dotato di autonomia formale, si nota già nella prima metà del Trecento, dovuta da un la- to alle preferenze della potente committenza baronale per lo piú legata alla Spagna, dall’altro all’incidenza dei traffici commerciali nelle città marinare di Trapani, Palermo, Mes- sina, dove si registrano nel corso dell’intero secolo presen- ze liguri, pisane, senesi e piú tardi napoletane e, per quanto riguarda il versante orientale, anche veneto-adriatiche con inflessioni bizantine. Per quel che riguarda i rapporti con la Liguria e con la Toscana, giungono in S la Madonna dell’Umiltà firmata e datata da Bartolomeo da Camogli nel 1346 (Palermo, Galleria regionale della S), e l’incantevole Madonna col Bambino di Barnaba da Modena (Alcamo, chie- sa dei Santi Paolo e Bartolomeo) seguita da altre opere del-

Storia dell’arte Einaudi la sua bottega, fra cui spicca il vivacissimo San Giorgio di Niccolò da Voltri (Termini Imerese, chiesa di Santa Maria della Catena). Per gli apporti toscani, la presenza di Pisa, an- ch’essa rilevabile intorno alla metà del Trecento, si fa piú notevole con il Tabellone della Confraternita di San Nicola (Palermo, Museo diocesano) firmato e datato da Antonio Veneziano nel 1388, anno in cui lavorava a Pisa in Campo- santo, e con la delicata Madonna col Bambino (Palermo, Gal- leria regionale della S) memore dell’origine veneta e dell’edu- cazione padovana del pittore. Di provenienza pisana sono pure le opere di Iacopo di Michele detto il Gera, e la Ma- donna in trono tra angeli di Turino Vanni (ivi), pisano ma os- sequioso verso formule fiorentino-senesi. Sulla corrente pi- sano-senese, che registrerà anche la presenza, sul finire del secolo e per il primo trentennio del Quattrocento, di Nicolò di Magio senese, seguace di Paolo di Giovanni Fei, sembra innestarsi qualche esito locale con l’opera del Maestro del Polittico di Trapani, probabilmente operoso, all’inizio del- la sua attività, fra le maestranze dei pittori del soffitto del- lo Steri, in cui è possibile registrare i segni di un linguaggio figurativo autonomo, cresciuto sul recupero di motivi ap- partenenti alla tradizione musulmana e ispirato a soluzioni simili ai soffitti castigliani. L’aspetto iberico, del resto, rap- presenta un’altra delle componenti fondamentali delle cor- renti di immigrazione che lasciano un’impronta nella for- mazione di una cultura locale. La presenza a Palermo già tra il 1360 e il ’70 del retablo del catalano Jaime Serra, di cui rimane l’Ultima cena (Palermo, Galleria regionale della S), il soggiorno del sivigliano Giacomo Sanchez e di Giovanni di Villadolid attivo nel Palazzo Steri, la commissione a Ge- rau Gener di un retablo per Monreale nei primissimi anni del Quattrocento (1401-407), si accostano e preludono all’espansione delle correnti valenzano-catalane emergenti nel siracusano nella prima metà del sec. xv. L’accento cata- lano della Madonna col Bambino e santi di Pedro Serra (Si- racusa, Museo Bellomo), databile agli inizi del secolo, volge verso elementi valenzani nei polittici conservati a Siracusa (Museo Bellomo e chiesa di San Martino) e a Licata, appar- tenenti a una medesima tendenza culturale sia che possano attribuirsi a personalità diverse, o – secondo un’ipotesi piú seguita – a un unico artista, forse venuto ovvero tornato dal-

Storia dell’arte Einaudi la Spagna e trapiantato a Siracusa, che negli anni ’40 arric- chisce questa cultura con i primi riflessi della civiltà vene- to-adriatica, avvertibile nel Polittico di san Martino e nella Madonna che allatta il Bambino di Siracusa. L’influenza ibe- rica, almeno nei caratteri valenzani, così marcata a Siracusa – divenuta nello stesso periodo sede della camera regionale – risulta meno evidente nel versante messinese, piú aperto alle penetrazioni veneto-adriatiche fin dalla metà del Tre- cento con opere come la Madonna in trono col Bambino (Ca- stroreale, chiesa di Sant’Agata), il Trittico attribuito al Mae- stro del Dittico Sterbini (Messina, Museo regionale) e la Ma- donna in trono col Bambino (Santa Lucia del Mela, chiesa dell’Annunziata). Con l’avvento di Alfonso d’Aragona, la situazione è destinata a mutare, intervenendo altri fattori di grande risonanza culturale e figurativa che hanno ancora una volta origine in una circolazione mediterranea. Napoli di- venta sede di corte e centro di molteplici interessi per tutto il Mediterraneo e soprattutto per i centri confederati dell’Aragona costituiti dalla Catalogna, Valenza, Maiorca e regno di S. Le preferenze culturali, orientate in senso fran- co-provenzale da re Renato d’Angiò, predecessore di Alfon- so a Napoli, e cioè fino al 1443, si arricchiscono di apporti catalani e di altri fattori che determinano un ambiente arti- stico vivace e stimolante, i cui riflessi si notano anche in S. L’opera che compendia la molteplicità di queste esperienze di respiro europeo e mediterraneo è il Trionfo della Morte (Palermo, Galleria regionale della S), affresco una volta in Palazzo Sclafani, eseguito probabilmente per un’iniziativa dello stesso re Alfonso intorno alla metà del secolo. La com- presenza di componenti catalane, franco-borgognone, fiam- minghe, si stratifica o meglio si fonde in una realizzazione di alta qualità formale che pone le premesse di un rinnova- mento nell’isola per lo piú orientato da caratteri borgogno- ni e provenzali. A queste premesse sono da collegare i dete- rioratissimi affreschi della cappella La Grua Talamanca in Santa Maria di Gesú a Palermo, e il Polittico dei santi Vito e Castrense (Palermo, Galleria regionale della S) per il quale è stato fatto il nome di Guglielmo da Pesaro. Per la declina- zione dei valori luminosi esaltati da limpide superfici cro- matiche, di ascendenza provenzale, il Polittico di Corleone (ivi) segna un ulteriore accostamento a quella cultura medi- terranea formata, superata la metà del secolo, da elementi

Storia dell’arte Einaudi provenzali, spagnoli, italiani cui appartiene il Maestro della Croce di Piazza Armerina, autore inoltre del San Pietro in cattedra di Militello in Val di Catania. Questa cultura, rile- vabile, tra la metà e il sesto decennio del Quattrocento an- che in altre opere di centri dell’interno – Agira, Petralia, Al- camo – costituisce le basi della formazione e dell’attività di Tommaso de Vigilia, palermitano, attivo tra il 1460 e il 1493-97. La sua opera, improntata nei risultati migliori a un gusto raffinato vicino ai modi dell’Huguet (Battesimo di Cri- sto: coll. Santocanale), si affianca alle tendenze catalane da cui deriva la cultura del San Zosimo dell’Arcivescovado si- racusano – insistentemente attribuito ad Antonello – e alla fortuna dell’arte fiamminga, documentata da opere ab anti- quo nell’isola (Trinità derivata da Rogier van der Weyden: Caltagirone; Morte della Vergine di Petrus Christus: già San- tocanale e oggi a San Diego, Cal.). Contestualmente al de- terminarsi di questi rapporti, che uniscono chiarità lumino- sa all’attenzione naturalistica nordica, si afferma la perso- nalità di Antonello da Messina. Alla diffusione del gusto rinascimentale, dai moduli decorativi a una piú sostanziale visione di sintesi formale, contribuiva negli stessi anni la pre- senza di Domenico Gagini e poi del figlio Antonello e della bottega operosa per piú di un secolo in tutta la S. Né va sot- tovalutata l’attività di Francesco Laurana, contemporanea e parallela al rinnovamento pierfrancescano e veneto della pittura di Antonello. L’attività di Antonello da Messina, che si irradia nella fascia centroorientale, crea una situazione pit- torica che interessa l’ambito siracusano influenzando Mar- co Costanzo e alcuni maestri anonimi e lambendo solo mar- ginalmente Alessandro Padovano e Giovanni Maria Trevi- sano legati a influenze laziali. A Messina, dove si impianta la bottega di Antonello, il piú fedele seguace, formatosi sul- le opere del periodo veneziano, sembra essere stato il figlio Iacobello. Per il resto la discendenza antonelliana si svolge secondo moduli iconografici di grande fortuna ma di scarso valore formale e sensibili a formule fiamminghe miste a ele- menti veneti (Antonio e Pietro de Saliba, Giovannello d’Ita- lia). Dal linguaggio antonelliano e veneto, arricchito di nuo- vi apporti laziali e napoletani, derivano opere ricollegabili all’attività di Antonino Giuffrè e di Alfonso Franco e so- prattutto di Salvo d’Antonio. Le sue componenti culturali,

Storia dell’arte Einaudi al di là di una profonda intelligenza dei problemi antonel- liani, si mostrano aggiornate su Francesco Pagano e sulla cul- tura napoletana vivacizzata da congiunture valenzane, fer- raresi, romane, che influenzano anche l’attività matura di Marco Costanzo a Siracusa e di Riccardo Quartararo a Pa- lermo. Qui, piuttosto che su premesse antonelliane, la si- tuazione pittorica si evolve sulla scia delle correnti interna- zionali del Trionfo della Morte fino all’adesione alla nuova cultura. Nell’ambito di un composito provincialismo si muo- ve Pietro Rozzolone, pur interessato a impostazioni monu- mentali (Santi Pietro e Paolo; 1494: Palermo, Galleria regio- nale della S) e nella stessa orbita, con una attenzione mag- giore a fatti cromatici, si collocano il Polittico di Castelbuono e la Croce dipinta di Caccamo, già appartenenti al primo ven- tennio del Cinquecento. La figura che maggiormente si im- pone e che stabilisce un punto di contatto con l’ambiente napoletano è Riccardo Quartararo, forse lo stesso «mestre Riquart» che nel 1492 lavorava a Valenza con il Pagano e Paolo da San Leocadio e che, dopo essersi trasferito a Na- poli, alla fine del Quattrocento è a Palermo dove lavorerà fino al 1506, sviluppando le esperienze napoletane e iberi- che. XVI e XVII secolo Cinquecento in S verrà caratterizzato da avvenimenti importanti destinati ad orientare la situazione pittorica verso una cultura altamente raffaellesca, anche se l’aggiornamento sui fatti continentali deve tenere necessa- riamente conto delle diverse stratificazioni locali. Tra il 1514 e il ’16 giunge a Messina Cesare da Sesto e il suo linguaggio lombardo-raffaellesco lascia tracce consistenti nell’ambien- te pittorico tra Messina e Catania: soprattutto la Madonna tra san Giovanni e san Giorgio (San Francisco, M. H. De Young Memorial, Museum), e la piú matura Adorazione dei Magi (Napoli, Capodimonte) entrambe eseguite a Messina, costituiscono i testi su cui si eserciterà una schiera di pitto- ri locali dibattuti tra linguaggio tardo-antonelliano e nuove formulazioni. In area messinese ne sono esempi la Madonna col Bambino tra san Giovanni e sant’Elia di A. Franco (Taor- mina, Duomo), la Madonna tra san Francesco e san Sebastia- no di ignoto (Alcara li Fusi, chiesa Madre), o i polittici a Fi- carra e Castroreale. Nel catanese e nelle zone piú interne (Adrano, Butera, Vizzini, Modica) prevale piuttosto una tra- scrizione piú ingenua e immediata che si combina, piú tar-

Storia dell’arte Einaudi di, con le forme espressionistiche di Polidoro da Caravag- gio. Un parallelo geniale di Cesare, fu a Messina Girolamo Alibrandi che traspone le analoghe premesse in una nordica incisività di segno (Madonna dei Giardini: Santo Stefano Me- dio; Presentazione al Tempio, 1519: Messina, Museo regio- nale). Il ruolo svolto da Messina nel primo ventennio del se- colo sul versante centro-orientale dell’isola, non ha riscon- tro nell’area palermitana che vive diversamente l’esperienza raffaellesca: dopo l’arrivo dello Spasimo di Raffaello poco dopo il 1517, questa fu soprattutto mediata dalla circola- zione delle stampe di Marcantonio Raimondi e intersecata da fattori di diversa estrazione, tra l’altro con caratteri non sempre unitari. La personalità piú interessante ed emble- matica è quella di Vincenzo da Pavia, pittore di autonoma elaborazione del raffaellismo, influenzato dall’attività mes- sinese di Cesare da Sesto e Polidoro e probabilmente anche da quel precoce espressionismo di marca iberica che un’ope- ra come la Deposizione del Machuca (Madrid, Prado), già a Palermo dal 1519-20, aveva cominciato a diffondere. Ne re- sta in parte coinvolto Antonello Panormita, da identificar- si con il Crescenzio, che parte da premesse ancora quattro- centesche e partecipa al fenomeno di espansione della cul- tura lombardoiberica rifluita dall’ambiente napoletano. Assolutamente ignaro di questi aspetti piú moderni è inve- ce Mario di Laurito, Per il manierismo in S fu determinan- te la presenza, fino alla Morte, avvenuta nel 1544, di Poli- doro da Caravaggio, giunto a Messina dopo il Sacco di Ro- ma; opere come l’Andata al Calvario (oggi a Napoli, Capodimonte), l’Adorazione dei pastori (Messina, Museo re- gionale) il Polittico del Carmine, smembrato, furono testi fon- damentali su cui si esercitarono i pittori, non solo locali, al- meno fino all’ottavo decennio del secolo, irradiandosi pa- rallelamente a Napoli, anch’essa beneficiata dall’eredità artistica di Polidoro. È ancora una volta Messina ad assu- mere un ruolo trainante per la S orientale con pittori di stret- ta osservanza polidoresca come Stefano Giordano, Mariano Riccio, Iacopo Vignerio; ma la diffusione del linguaggio po- lidoresco nelle zone limitrofe e provinciali diviene, nella maggior parte dei casi, solo un’occasione di aggiornamento di schemi ritardatari con il prelievo superficiale di formule stilistiche e compositive. Si raggiunge così una omogeneiz-

Storia dell’arte Einaudi zazione del linguaggio figurativo in bilico tra espressioni ar- caizzanti e tentativi innovativi che coinvolge la maggior par- te delle espressioni locali. Se ne distingue qualche artista ec- centrico come lo spagnolo Johannes De Matta che lavora tra Nicosia, Polizzi, Cefalú, o Bernardino Niger attivo nelle zo- ne tra Catania e Modica. Con l’inoltrarsi nella seconda metà del secolo, il polidorismo si dirama in diverse tendenze di- pendenti dalle derivazioni del manierismo tosco-romano. Prevale in ambito messinese l’accezione misticheggiante im- posta da Marco Pino e diffusa dal napoletano Deodato Gui- naccia, operoso a Messina dal ’70 in poi, seguito da Cesare da Napoli e Antonello Riccio che ne diffondono le formule in provincia; in ambito palermitano la stessa tendenza si af- ferma in maniera piú articolata e meno pateticamente cari- cata. Infatti da un lato il linguaggio raffaellesco di Simone di Wobreck, dall’altro l’impulso dato alle pubbliche impre- se dal ceto aristocratico, coinvolgono nell’attività decorati- va intere botteghe e contribuiscono alla diffusione di moti- vi allegorici, eruditi e mitologici, con vasti riferimenti al fi- lone colto raffaellesco, conosciuto attraverso le incisioni del Raimondi. Un numero consistente di pittori viene impiega- to nei cantieri degli apparati trionfali patrocinati dal Sena- to o dalla corte Viceregia: nelle decorazioni di Palazzo Pre- torio lavorano il ritardatario Antonio Spatafora, il sofisti- cato Paolo Bramè, informato su testi del manierismo internazionale tra Roma e Napoli, Mariano Smeriglio e G. Paolo Fonduli e soprattutto Giuseppe Albino particolar- mente sollecitato dal clima culturale degli ultimi decenni del Cinquecento, ormai pervaso dalla ideologia controriformi- sta. La preziosità della sua maniera, a volte estrosa e raffi- nata, compendia le diverse componenti della dilagante for- mula figurativa che dalle case madri di Roma i gesuiti e i francescani minori diffusero capilarmente in S. Sulla base della diffusione sia del barocchismo sia della cultura fiam- minga, impiantatasi a Napoli con lo Smet e l’Hendricks e in S refluita, si instaura un linguaggio permeato di colori te- neri e iridati, di forme morbide, di naturalismo intimo e bor- ghese di cui sono interpreti Gaspare Vazzano e Giuseppe Salerno, il Bazano e il Kruzer fertilissimi fino nelle piú re- mote province. Nell’ambito messinese la sostanziale unita- rietà di indirizzi assume una variante salimbeniana con An- tonio Catalano l’Antico. Rispetto all’orientamento romano

Storia dell’arte Einaudi degli ordini religiosi, la committenza privata predilige altre scuole: toscana a Messina, dove arrivano opere dell’Allori, del Macchietti e del Fei; toscana e genovese a Palermo do- ve la classe mercantile si rivolge all’Empoli e al Sorri, o al Castello e al Masella. L’ultima espressione di questa incli- nazione del gusto verso moduli toscani è costituita dalla raf- finata pittura del fiorentino Filippo Paladini, legato ai piú potenti aristocratici siciliani e apprezzato in tutta l’isola. La sua maniera coinvolge quasi tutti i pittori operanti a caval- lo del secolo e incide sulla formazione di Pietro d’Asaro, in- teressato piú tardi alle ricerche luministiche di tipo cara- vaggesco. La stagione caravaggesca in S fu repentina e bruciante. La presenza del Caravaggio tra Siracusa, Messina e Palermo (Seppellimento di santa Lucia: Siracusa, chiesa di Santa Lu- cia; Resurrezione di Lazzaro e Adorazione dei pastori: entrambi a Messina, Museo regionale; Natività con san Lorenzo ruba- ta a Palermo nel 1968 e non piú ritrovata) nel breve perio- do che dall’ottobre del 1608 si spinge all’autunno del 1609, lascia un segno profondo per quel tragico realismo svelato da luci rapide in uno spazio incombente e insondabile. Ad intendere il Caravaggio per primi nel ricettivo ambiente mes- sinese, furono Mario Minniti siracusano ed Alonso Rodri- guez messinese, entrambi già informati dell’attività romana dell’artista. Il primo ne diede alcune interessanti versioni (Storie della Passione, perdute; Decollazione del Battista: Mes- sina, Museo regionale) attraverso una maniera un po’ arida e riduttiva, ma comunque sensibile ai modi del Caravaggio estremo; il secondo dette prova di reale comprensione dello spirito caravaggesco. L’attività del Rodriguez, infatti, a ri- dosso del soggiorno del Merisi, rivela caratteri di immedia- ta adesione al linguaggio del maestro (Incontro dei santi Pie- tro e Paolo, Cena in Emmaus, Incredulità di san Tommaso: ivi). L’arte di Caravaggio è comunque soggetta a diverse inter- pretazioni prima di venire superata dalle tendenze classici- ste che insorgono a Messina intorno agli anni Trenta. Il ca- ravaggismo nell’accezione nordica e fiamminga è importato a Messina, dove agisce Giovanni van Houbracken, e a Pa- lermo dove Matteo Stomer, lavorando fin oltre la metà del secolo, irradia la sua maniera anche in centri piú interni. An- cora a Palermo, uno stimolo in direzione naturalistica, non

Storia dell’arte Einaudi caravaggesca stricto sensu, viene dalla cultura genovese at- traverso le opere dei pittori (Castello, Fiasella) che i mer- canti di quella nazione avevano commissionato per la loro chiesa, probabilmente su consiglio di Sofonisba Anguissola, che a Palermo si era trasferita dopo le nozze con il mercan- te genovese Lomellino. Sarà sempre la classe borghese a com- missionare per l’Oratorio omonimo la Madonna del Rosario ad Anton van Dyck, che, chiamato a Palermo dal viceré Emanuele Filiberto di Savoia nel 1624, invierà piú tardi l’opera da Genova dove si era rifugiato per sfuggire alla pe- ste scoppiata a Palermo. Il dipinto, opera di capitale impor- tanza, costituisce un punto di riferimento indispensabile per la fortuna di quel naturalismo pittorico ricco di luce e di co- lore, che è premessa irrinunciabile dell’arte del Novelli. Al linguaggio fiammingo di van Dyck si affianca l’altro orien- tamento, anch’esso di matrice fiamminga ma in senso ru- bensiano, che si impianta sul tardo caravaggismo locale. Il filone rubensiano, come quello vandyckiano piú rilevante, determinano il carattere dominante della cultura palermita- na e della S occidentale, i cui riflessi, in termini di verità na- turali e luministiche, si colgono in opere anonime – il bel San Sebastiano (Catania, Castell’Ursino) – e nel fiammingo Gu- glielmo Walsgart, autore tra l’altro, di una Santa Rosalia ispi- rata a un modello dello stesso van Dyck. Nell’orbita vandyckiana maturò anche Pietro Novelli, il pittore piú do- tato del Seicento siciliano. Un legame, questo con l’arte del van Dyck, che diverrà un elemento unificante di innesti ro- mani – Domenichino, Lanfranco, Reni – e napoletani – Ri- bera – tradotti in una scala di monumentalità idealizzante, permeata di profonda umanità. La maniera geniale compo- sita del Novelli, in concomitanza con il suo soggiorno a Mes- sina nel ’43, seduce una intera generazione di artisti che ve- dono nel linguaggio di chiara misura classicheggiante l’al- ternativa ai tardi epigoni caravaggeschi. L’adesione piú convinta si coglie in quegli artisti che nel loro aggiornamento d’impronta romana avevano compiuto analoghe esperienze. Non tanto perciò con Antonio Barbalonga Alberti, rigoro- so e fedele domenichiniano, quanto con Giovan Battista Quagliata, il cui naturalismo idealizzante è memore degli esempi romani vicini soprattutto al Lanfranco. Questi aspet- ti si sviluppano a Messina accanto a tendenze e ad un natu- ralismo attento ai valori pittorici della materia, quale si era

Storia dell’arte Einaudi affermato in ambito napoletano. Già una precoce diffusio- ne dei modi ribereschi si era fusa con i piú tardi esiti del ca- ravaggismo. E grande sviluppo del collezionismo favorisce lo stesso orientamento. Le scelte di don Antonio Ruffo, fi- gura di mecenate illuminato, al momento di costituire la sua galleria nel 1646, si orientano soprattutto verso Napoli (Ar- temisia, Ribera). Da Napoli aveva fatto anche venire Nun- zio Rossi ad affrescare il suo palazzo, e successivamente, in maniera coerente, aveva privilegiato il naturalismo classi- cheggiante del Rosa, del Guercino, ma possedeva comunque opere di Rembrandt e del Preti. Anche pittori come Gio- vanni Fulco e Domenico Maroli appaiono debitori dell’espe- rienza napoletana del Beltrano, dello Stanzione e di Arte- misia. Eterodossa invece rispetto alla tipica cultura locale è la figura di Agostino Scilla. I suoi interessi scientifici e let- terari conferiscono una sottile tensione intellettuale e un’espressione colta alle sue opere nate nell’ambito del clas- sicismo sacchiano, ma arricchite dall’esperienza della tradi- zione meridionale, soprattutto del Novelli. La diaspora ar- tistica seguita alla repressione spagnola della rivolta del 1674-78 determina a Messina, un’attività limitata: Onofrio Gabrieli, forse il pittore piú rappresentativo, prelude già al linguaggio decorativo settecentesco. Tra il 1690 e il ’95, giunge a Palermo per l’Oratorio di Santa Cita la Madonna del Rosario del Maratta, che chiude una stagione segnata dal- la fortuna del novellismo. L’ascendente novellesco e vandyckiano rimane comunque una costante nella fase di passaggio fra la tradizione tardoseicentesca e stagione set- tecentesca. Il Settecento figurativo in S conosce diverse situazioni. Quando nel 1693 un terremoto catastrofico distrugge gran parte della S sud-orientale, un immediato moto di rinascita guidato dal clero e dalla borghesia, ricostruisce le città con assetti urbanistici chiari e razionali, arricchiti dalla sceno- grafia barocca. In linea con le nuove forme architettoniche è l’aperta e fluida spazialità degli affreschi. La folta schiera di artisti coinvolti in questa grande iniziativa attinge diret- tamente agli ambienti di Roma e di Napoli. Prevale nella pri- ma metà del secolo la corrente marattesca, favorita anche dalla committenza religiosa che da Roma importava opere dello stesso Maratta, del Passeri, del Benefial, del Conca so-

Storia dell’arte Einaudi prattutto. Fu il Conca – di cui giunsero opere a Catania, Pa- lermo, Messina – uno dei principali responsabili del dilaga- re del classicismo marattesco adottato dai pittori isolani: Oli- vio Sozzi e Antonio Manno a Palermo e in numerosi centri dell’isola, ma anche Maddiona a Siracusa, Vasta, Carasi, In- terguglielmi tra Acireale e Noto. A Messina, la peste del 1743 e il terremoto del 1783 disgregano un tessuto cultura- le già pesantemente segnato dalla repressione spagnola del 1678. Qui la maniera marattesca, tuttavia, che Filippo Tan- credi e i fratelli Antonio e Paolo Filocamo avevano divulga- to ancor prima che a Palermo, dove pure lavorano, aveva co- nosciuto le varianti piú delicate – derivate dal Trevisani – di Giovanni Tuccari, e quelle giordanesche di Letterio Paladi- no. Dal linguaggio del Giordano deriva anche la raffinata maniera del Borremans, operoso a lungo in S (Palermo, Ca- tania, Caltanissetta). Se il regno sabaudo (1713-28) e la do- minazione austriaca (1728-34) non incidono profondamen- te nel panorama figurativo siciliano, l’avvento di Carlo III di Borbone e la speranza, ben presto disattesa, che fosse Pa- lermo la capitale del regno, portarono a grandi imprese ar- tistiche che favorirono l’esplosione del rococò siciliano. A Palermo, una folta scuola pittorica concentra le esperienze piú significative soprattutto nella decorazione delle dimore aristocratiche. Roma, specialmente l’Accademia di San Lu- ca, e Napoli, sono ancora le tappe d’obbligo dell’aggiorna- mento culturale degli artisti siciliani. Accanto alle tendenze conchesche, Vito d’Anna e i suoi allievi – Crestadoro, Pro- venzani – diffondono una maniera raffinata, sottilmente in- tellettuale, derivata da Giaquinto. È Palermo il centro in- discusso e il punto di riferimento della situazione artistica dell’isola. Qui, a partire dagli anni ’70, Giacchino Martora- na ed Elia Interguglielmi rivelano una vena decorativa ac- cordata al rococò internazionale diffuso in tutte le corti d’Europa e rifluito anche a Napoli e a Palermo. Ottocento e Novecento Le scoperte archeologiche solleci- tano un clima dominato dal gusto antiquario e dalla ricerca erudita. A Catania il principe Biscari e a Siracusa il Duca di Landolina si fanno promotori degli scavi. Il Museo Biscari a Catania è secondo solo a quello di Portici, e lo stesso prin- cipe pubblica, illustrandola, una Descrizione delle antichità del suo museo. Il gusto antiquario orienta il collezionismo e favorisce soluzioni di tipo neoclassico anche nelle scelte pit-

Storia dell’arte Einaudi toriche e decorative, di cui Giuseppe Velasco è il principa- le interprete. A Palermo, almeno durante il periodo del vi- ceregno illuminato del Caracciolo, la committenza pubblica favorisce le tendenze neoclassiche impegnando il Velasco, contrariamente all’aristocrazia, che soltanto alla fine del Set- tecento rinuncerà alle forme barocche per la sobrietà del neo- classicismo. Esempio tipico è la fortunata carriera di Giu- seppe Patania, la cui pittura, tra leziosità e rococò, neoclas- sicismo e romanticismo di maniera, testimonia di un gusto privato, alliettato dai piú volubili orientamenti delle mode. I principî neoclassici, intesi e diffusi come postulati accade- mici, trovano espressione, durante e dopo la restaurazione, nel genere storico e allegorico, di cui Querci, Sciuti, colti- vano gli aspetti scenografici in chiave nazionalistica e ro- mantica. Alla proclamazione del Regno d’Italia, i circuiti di riferimento, piú espansi già nella prima metà del secolo, si identificano con quelli nazionali, ma ciò non elimina le dif- ficoltà di collegamento e di aggiornamento con la piú avan- zata cultura europea, che coinvolgono la giovane nazione. Ciò nonostante, accanto alle tendenze accademiche, privi- legiate nelle commissioni ufficiali e declinate nelle accezio- ni di romanticismo pittorico o di realismo accademico, al- cuni artisti, contestandone il ruolo culturalmente e politica- mente astorico, optano per una descrizione della realtà non conformista e aperta a innovazioni. Francesco Lojacono, uno dei maggiori artisti dell’Ottocento siciliano, si distingue per un particolarismo descrittivo appreso a Napoli da F. Paliz- zi; Antonio Leto, per una pittura agile e sciolta maturata nell’esperienza parigina e grazie alla frequentazione di De Nittis; Michele Catti, per le stesure frantumate da effetti di luce sulla falsariga degli impressionisti. La stagione liberty, fiorita splendidamente nella Palermo dei Florio, racchiude la vicenda del «modernismo» siciliano e si identifica sostanzialmente nell’opera di Ernesto Basile. Al- la sua capacità di coordinare, nel segno dell’unità tra archi- tettura e arti decorative, le diverse componenti piegandole a un disegno unitario, si devono le prove del repertorio di pittura «modernista» di Ettore De Maria Bergler (Villa Igiea), pittore formatosi alla scuola del Lojacono, capace di manipolare eccletticamente le figurazioni in stile (Teatro Massimo, 1893). Una manifestazione di aperta rottura con

Storia dell’arte Einaudi la tradizione ottocentesca è l’opera di Pippo Rizzo, che nel 1920, sia pure tardivamente, favorisce la penetrazione del futurismo in S. La sua infaticabile attività galvanizza altri artisti come Vittorio Corona, Antonio Bevilacqua, Giusep- pe Varvaro, e agevola intorno agli anni Trenta la formazio- ne di giovani interessati ad altre ricerche. In questo clima si forma la prorompente personalità di Renato Guttuso e di molti altri pittori che rivitalizzano il circuito isolano. Le lo- ro opere e quelle degli artisti successivi, legati alle proble- matiche maggiormente dibattute tra il ’30 e il ’60, si collo- cano in un’area di ricerche spesso implicate in istanze so- cio-culturali, oppure orientate a superare nelle piú attuali sperimentazioni la condizione periferica della cultura arti- stica locale. (fcc). Siciolante, Girolamo, detto il Sermoneta (Sermoneta 1521 - Roma 1575). Le grandi linee della sua biografia sono fornite da Vasari e da Baglione, che ne ri- corda il primo tirocinio a Roma presso Leonardo da Pistoia. A vent’anni S dipinse per l’abbazia dei Santi Pietro e Ste- fano a Valvisciolo una Madonna col Bambino, san Giovanni- no e i santi Pietro e Stefano (1541: Sermoneta, Palazzo Cae- tani). Committente dell’opera era Camillo Caetani, signore di Sermoneta e cugino di Paolo III Farnese, che come il fi- glio Bonifacio ebbe un importante ruolo nella carriera del pittore. A Roma, S dovette presto entrare in rapporto con Perino del Vaga, allora fra gli artisti di maggior prestigio, che lo in- fluenzò profondamente. Nel 1543 è iscritto all’Accademia di San Luca ed è in questo periodo che S è chiamato a dare inizio alla decorazione dell’appartamento farnesiano in Ca- stel Sant’Angelo (affreschi della loggia, 1543-44). Nel cor- so di un breve soggiorno a Piacenza nel 1545-46 presso Pier Luigi Farnese eseguì una Sacra Famiglia con l’arcangelo Mi- chele (Parma, pn); si recò poi a Bologna, dove fu certamen- te attratto dalla dolcezza espressiva e dalle eleganti simme- trie compositive dei protagonisti del classicismo locale da Ortolano a Garofalo, come già si avverte nella monumenta- le Madonna col Bambino e santi per la cappella Malvezzi in San Martino (studio preparatorio al Louvre), compiuta nel ’48, è incerto se a Bologna o a Roma. Al 1547 viene datata, infatti, la collaborazione di S alla decorazione della Sala Pao-

Storia dell’arte Einaudi lina in Castel Sant’Angelo, diretta da Perino, che muore in quello stesso anno. Gli affreschi a lui commissionati della cappella di San Remy in San Luigi dei Francesi, vennero al- lora eseguiti da Jacopino del Conte, da Tibaldi e da S (Bat- tesimo di Clodoveo, 1548). Negli anni seguenti S lavora per importanti committenti: per l’ambasciatore francese Clau- de d’Urfè (dipinti per la cappella della Bastie d’Urfè), per Girolamo Capodiferro (Storie di Scipione l’Africano, 1550, affreschi: Palazzo Capodiferro Spada), per i Cesi in Santa Maria della Pace e poi in Santa Maria Maggiore, per i Fug- ger in Santa Maria dell’Anima, per i suoi protettori Caeta- ni (Madonna col Bambino, Scene del Vecchio e del Nuovo Te- stamento: Sermoneta, San Giuseppe), oltre che per Giulio III (Sant’Andrea sulla via Flaminia) e negli stessi Palazzi Va- ticani sotto Pio IV (Sala regia). Intensa è la sua attività co- me pittore di pale d’altare nell’ultimo decennio della sua esi- stenza soprattutto a Roma (Madonna col Bambino in trono e i santi Eligio, Martino e Girolamo, 1563 ca.: Sant’Eligio dei Ferrari; Crocifissione, 1573: San Giovanni in Laterano; As- sunzione della Vergine: Santa Maria Maggiore; Trasfigurazio- ne: Santa Maria in Aracoeli), ma anche nel Lazio e nelle Marche (Madonna Pini, 1561: Osimo, Santa Lucia; Madon- na e santi, 1571: Calcinate, Bergamo, Santa Maria Assunta, già Ancona, San Bartolomeo). La pittura sacra di S improntata, sin dalle prime opere ma- ture, dal recupero del classicismo raffaellesco accordato al mi- chelangiolismo di Sebastiano del Piombo e di Jacopino del Conte, si colloca nell’ambito di quella tendenza classicista del- la pittura romana di cui partecipano Taddeo Zuccari, Mu- ziano e Federico Zuccari. I semplici, grandiosi impianti com- positivi, l’austera espressione sentimentale, la chiarezza nar- rativa, il lucido, talvolta algido rigore delle composizioni sacre di S sono il risultato di un processo di selezione e di sempli- ficazione formale, che negli ultimi due decenni di attività at- tinge ai toni devoti e arcaicizzanti che caratterizzeranno tut- ta una corrente della pittura romana di fine secolo. (sr). Sickert, Walter Richard (Monaco 1860 - Bathampton (Somerset) 1942). Pittore, scrittore e docente, S è una delle figure piú interessanti dell’arte inglese non facilmente classificabili in una tenden-

Storia dell’arte Einaudi za specifica della pittura del tempo, tanto che la sua origi- nalità è stata spesso causa di incomprensione da parte della critica che lo ha considerato semplicisticamente un illustra- tore o all’opposto un pittore puro. S stesso ebbe a dire nel 1908 a questo proposito: «il gusto del tempo è la morte di un pittore». In realtà lo stesso artista nei suoi scritti come nella sua attività didattica tese a dare del suo lavoro un’in- terpretazione ambivalente, da una parte sottolineando l’in- flusso trasmessogli dalla cultura francese letteraria (Balzac) e pittorica e dall’altra sottolineando la sua dipendenza da Whistler e la preferenza di quest’ultimo per l’arte intesa co- me illustrazione. In realtà il realismo di S è assai poco com- plesso, sia nel caso di soggetti en-plein-air che di interni o fi- gure come ad esempio ne La Hollandaise (1906 ca,: Londra, Tate Gall.) in cui l’immagine scarna cristallizza senza com- promessi un momento rivelatore della realtà bruta. Nella sua produzione figurativa tra il 1880 e il 1930, l’esperienza del- la pittura francese da Manet, a Degas, a Toulouse-Lautrec, a Vuillard o Bonnard, è continuamente rielaborata nello sti- le, nei soggetti e nella tecnica insistendo su un senso dram- matico e desolato (Mamma mia Poveretta, 1903-904: Man- chester, City Art Galleries; Ritratto di Cicely Hey, 1923: Londra, coll. Richard Salmon), talvolta volto al comico e al grottesco (Chicken, 1914 ca.: coll. priv.), alla dissoluzione del soggetto (Lazarus breaks his fast: Self-Portrait, 1927 ca.: coll. priv.; Sir Thomas Beecham Conducting, 1938: New York, mma). Figlio di un pittore e illustratore danese, Oswald Adalbert S, si stabilì in modo definitivo con la famiglia a Londra nel 1868, dove frequentò la Slade School lavorando sotto la gui- da di Whistler che nel 1883 lo fornì di una lettera di pre- sentazione per Manet e Degas avendolo incaricato di porta- re il suo Ritratto della madre dell’artista al salon parigino. Di questo periodo sono una serie di piccoli paesaggi e studi di figure (L’Homme à la palette: Sidney, ag), dipinti «alla pri- ma» attraverso fluide impressioni tonali. Due anni piú tar- di S scelse come sua residenza estiva Dieppe, dove incontrò J.-E. Blanche e alla fine del 1885 visitò nuovamente Degas a Parigi. Misurandosi con i temi dei caffè-concerto dipinti secondo la sua tecnica impressiva, S ebbe però modo di approfondi- re e trovare una mediazione tra Whistler e l’insegnamento

Storia dell’arte Einaudi di Degas (The Lion Comique, 1887: coll. priv.; Red, White and Blue, 1889 ca.: coll. priv.; Bedford Music Hall, 1889 ca.: Sutton Place Foundation) che lo spingeva a rielaborare i sog- getti in studio lontano dalla tirannia della natura (Little Dot Hetherington at the Bedford Music Hall, 1888-89: coll, priv.); la pennellata grassa e opaca che definisce sinteticamente gli ambienti, su cui risaltano solidi tocchi luminosi condensa l’immagine in un insieme di sensazioni psicologiche che ri- costruiscono un momento della realtà come nel caso dei gru- mi materici ocra delle due The Sisters Lloyd (1888-89 ca.: Government Art Collection of the United Kingdom), di- pinte con estrema libertà, che risaltano su uno sfondo di to- nalità bruno-rossicce di una stanza riassunta nelle sue linee essenziali. Negli anni seguenti, ormai affermatosi come pit- tore, S collabora a numerosi periodici tra cui «The Pall Mall», «The Cambridge Observer», «The Saturday Re- view»; nel 1890 apre la sua prima scuola d’arte nello studio di Chelsea «The Chelsea Life School» e dopo un periodo difficile, ritiratosi a Dieppe (1898) torna nuovamente a Lon- dra nel 1905. In questi anni continua a lavorare ai temi del music-hall nel suo personalissimo modo (Miss Minnie Cun- ningham, 1892: Londra, Tate Gall.) e ad alcuni graffianti ri- tratti (Aubrey Beardsley, 1894: ivi; Autoritratto, 1896 ca.: Leeds, City ag). Prima di tornare a Londra partecipa alla Biennale di Venezia (1904), licenziando numerosi ritratti della città lagunare e il nero-petrolio di Le chale Vénitien (1903-904: coll.priv.), oltre allo straordinario dipinto di ta- glio fotografico e unico nella sua produzione, I Bagnanti, Dieppe (1902: Liverpool, wag). A ridosso della prima guer- ra mondiale l’artista si lancerà in una appassionata polemi- ca contro il gusto puritano dell’Inghilterra su giornali come «The Fortnightly Review» o «Art News», continuando a mantenere rapporti con la Francia (Pissarro) e organizza in- sieme a Roger Fry le due mostre londinesi sul post-impres- sionismo del 1910 e del 1912 cercando di portare in Inghil- terra l’esperienza di Cézanne. I suoi dipinti sebbene trag- gano spunto spesso da fotografie (The servant of Abraham: Self-Portrait, 1929: Londra, Tate Gall.; King George V and his Racing Manager: A Conversation Piece at Aintree, 1929-30 ca.: collezioni della Regina Elisabetta; Hugh Walpole, 1929: Glasgow, ag), si fanno sempre piú antidescrittivi e la su-

Storia dell’arte Einaudi perficie è spesso risolta come un libero tessuto di pennella- te vischiose che tendono a mescolare i toni (Girl at a Win- dow: little Rachel, 1907: Londra, Tate Gall.), fino a far tra- sparire pure ombre di colore (Summer Afternoon or What shall we do for the Rent?, 1908 ca.: Kirkcaldy, Museum and ag). (sro). Siculo, Jacopo → Jacopo Siculo Siena L’arte della pittura a S prende consistenza nel corso del sec. xiii per opera di artisti fortemente influenzati da modelli esterni, bizantini, lucchesi e fiorentini. Ma assai poche so- no le opere per tutta la prima metà del secolo. Un paliotto dipinto a rilievo, col Redentore e storie della Croce (S, pn) da- tato 1215 e la cosìddetta Madonna dagli occhi grossi (S, Mu- seo dell’Opera del Duomo) sono fra i piú ragguardevoli e quasi unici esemplari di una cultura legata a Lucca e ai cen- tri artistici umbri e dell’Italia centrale, come confermano an- che le piú antiche croci dipinte del territorio senese (Mon- talcino, Museo; S, pn, n. 597). Nel Palazzo Pubblico si con- serva la Maestà, già in San Domenico, e un tempo corredata ai lati da Storie di Cristo, che reca la firma di Guido e la da- ta 1221. Ma l’opera, che dichiara una non succube dipen- denza dal fiorentino Coppo di Marcovaldo (attivo a S dopo il 1260), si riunisce stilisticamente ad altre, una delle quali è un dossale con Madonna e santi (S, pn, n. 7) datata 127... Ciò conferma la inattendibilità di quella data 1221, e met- te in dubbio lo stesso nome di Guido. Sarà Duccio di Bo- ninsegna il campione del pieno risorgimento pittorico sene- se a partire dal 1280 ca. Pochi maestri dovettero insidiare, anche agli inizi, la sua fa- ma presto incontrastata, poiché, oltre lo stesso «Guido», im- mobile sulle sue formule coppiane e bizantineggianti, sol- tanto l’autore del paliotto con San Pietro e sei storie del san- to (S, pn, n. 15) attinge a un alto livello di stile, orientato verso una tenue gamma tonale che intenerisce le crude lu- centezze della maniera bizantina. Ma tanto piú complessa e di vasto raggio culturale è l’educazione di Duccio, che, do- po l’ormai dimostrato tirocinio cimabuesco – per quanto sia- no sempre meno condivise le ipotesi che vorrebbero attivi nella Basilica Superiore di Assisi con lo stesso Cimabue, dei

Storia dell’arte Einaudi senesi e in particolare lo stesso Duccio – nel 1285 licenzia la Maestà per la Compagnia dei Laudesi di Santa Maria No- vella (Firenze, Uffizi). Su quella base, che Duccio sviluppa con opere sempre piú animate da fremiti gotici affioranti nella trama splendente di un sentimento dell’oro e del colo- re di tenera e paradisiaca gamma orientaleggiante (Madonna dei francescani: S, pn; Madonna in trono e angeli: Berna, km), crescerà una tradizione pittorica gloriosa che, non insidiata dalla pur vivace fronda giottesca di Memmo di Filippuccio, culmina nei primi anni del Trecento in una omogenea e al- ta concordia di tutta la pittura locale, rafforzata dal risulta- to supremo che il maestro raggiunge con la Maestà per l’al- tare maggiore della Cattedrale (1308-11: S, Museo dell’Ope- ra del Duomo). Il Maestro di Badia a Isola (Badia a Isola, Santi Salvatore e Cirino) prima, Segna di Bonaventura poi, Ugolino di Nerio, il Maestro di Città di Castello, e altri ano- nimi, talvolta non indegni di particolare menzione, costi- tuiscono questo stretto rincalzo della poetica duccesca che, specialmente nella raffinatissima variante di Ugolino di Ne- rio rivive piú di un accento prezioso della sua piú profonda qualità di restituzione storica di un patrimonio classico ri- letto goticamente e riespresso con limpido e arcano rigore formale, di mistico sentimento e di ideografica perspicuità. Tanto piú potente appare perciò l’azione dell’arte di Simo- ne Martini e di Pietro e Ambrogio Lorenzetti, i tre grandi maestri, operosi a partire dal secondo decennio del secolo, per i quali il linguaggio pittorico senese si sviluppò e si arti- colò con sempre piú vaste e profonde implicazioni gotiche, così da pervenire, in particolare con Simone, a conclusioni che furono determinanti e di portata europea per le piú tar- de inflessioni del linguaggio gotico. L’attività di Simone crebbe fra S, Napoli e Assisi, riformando l’antica cultura di Duccio, dal quale mosse, con un vivace apprezzamento del- le piú eleganti inflessioni del gotico angioino, e chiarendo i fondamenti della propria sintassi formale alla luce della ra- zionalità giottesca, così come si ammira, dopo piú antiche opere quali la Maestà ad affresco del Palazzo Pubblico di S (1315, con rifacimenti autografi del 1321) e il San Ludovico di Tolosa (1317: Napoli, Capodimonte), negli affreschi del- la cappella di San Martino in San Francesco ad Assisi (pro- babilmente di poco anteriori). Tutto è già detto, quanto a

Storia dell’arte Einaudi novità di stile rispetto alla tradizione duccesca, in queste pri- me opere, tanto che esse bastarono a determinare per molti decenni la cultura di una pléiade di seguaci, alcuni dei quali di grandissimo talento, sicché lo stesso Simone ne scavalcò le posizioni quando dopo il 1333, data della Annunciazione per il Duomo di S (Firenze, Uffizi) il grande caposcuola si orienta con fantasia inesausta verso colorite iperboli narra- tive, di tenero e favoloso costume, nei dipinti e nelle mi- niature della sua età inoltrata, consumata negli ultimi quat- tro anni in Avignone, dove si reca probabilmente nel 1335, morendovi nel 1344. I risultati piú eloquenti della fantasti- ca ma umanissima fioritura dell’ultimo gotico di Simone, sol- lecitano l’ondata della seconda generazione martiniana, me- glio legata col tessuto della contemporanea tradizione goti- ca francese, e capace altresì di influenzarla operando dal centro di potere spirituale e politico di Avignone. Se i mag- giori protagonisti della prima generazione martiniana, muo- vendo dalla cultura del 1320 ca., furono in S Lippo Memmi e il Maestro della Madonna di Palazzo Venezia, su questa seconda generazione spicca il genio di Matteo Giovannetti, che a Simone successe nel ruolo di capo maestro papale in Avignone, il Maestro del Codice di san Giorgio, il Maestro delle Tavole di Aix e il Maestro degli Angeli ribelli, tutti ar- tisti di primo rango e di profonda risonanza. Al primo mo- mento della bottega, va collegato l’operare autonomo del- l’autore del ciclo neotestamentario della collegiata di San Gi- miniano, già identificato sotto il nome ghibertiano di Barna, che impersona un’altissima tendenza espressiva con aspetti popolari e arcaizzanti. I fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti ebbero dal canto lo- ro un raggio di azione e di influenza circoscritto alla cultu- ra italiana, non senza però qualche riflesso in Catalogna. Pie- tro, forse attivo già prima del 1310, sviluppò un percorso stilistico avventurosamente aperto alle sollecitazioni del gu- sto gotico, da lui assimilato su Giovanni Pisano e su ogni possibile fonte nordica e locale. Ad Assisi, nella cappella Or- sini e nel braccio sinistro del transetto della chiesa inferio- re di San Francesco, si può seguire tutto il primo tempo del percorso di Pietro, fin dalla prima variante della sua forma- zione duccesca alla luce della disciplina giottesca (trittico ad affresco della cappella Orsini); e successivamente, lungo un itinerario patetico e animoso, agitato dapprima da troppo

Storia dell’arte Einaudi varia e precoce cultura, cui segue una nuova e poderosa sin- tesi che lo solleva a un classico livello di moderna tragica po- tenza. Tutto il secondo periodo del grande percorso di Pie- tro, dopo la Pala dei Carmelitani del 1329 (S, pn) è un magi- strale assestamento di gusto non scevro di attenzione verso i maggiori eventi post-giotteschi fiorentini (Maso, «Stefa- no»), fino alle possenti strutture delle opere degli ultimi an- ni, dove si rivela già pensoso di problemi di corposità pla- stica e di spazio che le generazioni successive tarderanno ad intendere (altare di San Savino con la Nascita della Vergine, 1335-42: S, Opera del Duomo e Londra, ng; Polittico della Beata Umiltà, 1340 ca.: Firenze, Uffizi; Madonna in trono e angeli, 1340: ivi). Ambrogio Lorenzetti per contro si affida a una ispirazione di ordine piú culturalistico, per la quale non mancò di meritarsi la fama di «umanista» ante litteram, curioso di letterarie concettosità e di dimenticati motivi del- la civiltà antica. Eppure nessuno piú di lui fu in S artista sensibile ad una bellezza costumata e vitalizzata, assai me- no arcana di quella di Pietro e talvolta teneramente sensua- le, ma sempre arricchita da idee formali e cromatiche e da un gusto della natura e del paesaggio che ne fa il maggior rappresentante del «ritratto topografico» senese (U. Feld- ges) nelle Allegorie ed effetti del Buono e del Cattivo governo (S, Palazzo Pubblico). Egli offrì dovizia di temi alle riela- borazioni dei discepoli e dei seguitatori, sebbene la fortuna di Ambrogio, nel seguito della vicenda senese, fu meno ap- pariscente di quella di Simone e di Pietro, quantunque, in profondità, essa non sia stata meno feconda. Se infatti gli episodi dell’arte in S che si sollevano dalla me- diocrità – prima e dopo la terribile peste del 1348 che de- cimò la popolazione (i due Lorenzetti morirono forse nel con- tagio) e ne stremò la stessa vitalità culturale – trovarono un prezioso alimento per icastiche sottigliezze e verso meno convenzionali manierismi, ciò non va certo segnalato nel meccanico gergo, equamente martiniano e lorenzettiano, di Andrea Vanni o di Bartolo di Fredi e, su un livello piú alto, la dignitosa equidistanza di Lippo di Vanni dalla lezione dei maestri. Francesco di Vannuccio e Paolo di Giovanni Fei, allievi di Ambrogio, furono certo pittori di miglior rilievo per viva sottigliezza e capziosità formale. A Francesco molto dovet-

Storia dell’arte Einaudi te Taddeo di Bartolo e la cultura dei maestri minori come Biagio di Goro Ghezzi (identificato dagli affreschi firmati di Paganico del 1368, già ritenuti opera di Bartolo di Fre- di), Benedetto di Binolo, Gualtieri di Giovanni e Gregorio di Cecco, con i quali un po’ incertamente, e senza dubbio in tono minore rispetto alla contemporanea pittura fiorentina, la cultura artistica locale si regge fino al momento in cui ri- tornerà alle maggiori altezze con l’apparizione del Sassetta verso il 1420. Stefano di Giovanni, detto il Sassetta, dimostra una rige- nerata coscienza della grande tradizione senese nella misu- ra in cui avverte e domina con energia propria il rinasci- mento artistico fiorentino, effetto di nuove e vitali inter- pretazioni della vita e della storia. Il rinascimento penetra dunque in S filtrato dalle maglie dorate di un patrimonio linguistico di irrealistica e favolosa ispirazione. Tale è il viag- gio incantato del Sassetta, la cui spazialità nuova e allarga- ta si popola dei miraggi di una umanità ambiguamente so- spesa fra storia e leggenda. Né occorre variare il senso di questa interpretazione seguendo l’arco del suo percorso, dall’Altare della Lana (1423-26) all’altare già nel Duomo di Borgo San Sepolcro (1437-44: Parigi, Louvre; Londra, ng; Settignano, coll. Berenson; Berlino, sm, gg). Piú dappresso al suo spirito operano il Maestro dell’Osservanza, attivo fra il terzo e il quarto decennio, nel quale alcuni vedono il pri- mo tempo di Sano di Pietro, e Pietro di Giovanni d’Am- brogio; pittori di squisita immaginazione che, ben lungi dall’ignorare ogni sollecitazione proveniente da Firenze, ne convertono la lettera nello spirito di un linguaggio squisita- mente senese, animato assai piú di antico che di nuovo. Dal- tronde, l’essere stati culturalmente piú problematici e in- quieti non valse a far prevalere poeticamente sul Sassetta o su Pietro di Giovanni né Lorenzo di Pietro, detto il Vec- chietta, né Domenico di Bartolo, spiriti tormentati dall’am- bizione di aggiornare il repertorio stilistico senese sui dati del rinascimento fiorentino, osservato nelle opere di Dona- tello in particolare, visibili nella stessa S a partire dal 1427. Domenico di Bartolo tradurrà gli esiti della scultura con la mediazione di Filippo Lippi e di Domenico Veneziano (Ma- donna dell’Umiltà, 1433: S, pn). Il margine piú o meno con- sapevole della loro autonomia è anche la loro virtú e insie- me la forza di quella indipendenza mentale che produsse per

Storia dell’arte Einaudi tutto il secolo episodi di incantevole evasione poetica: me- no nell’aspro e vigoroso Matteo di Giovanni, che era di ori- gine umbro-toscana, ma segnatamente con Neroccio di Lan- do, col grande Francesco di Giorgio, con Benvenuto di Gio- vanni; mentre accanto a questi pittori, che agiscono nella seconda metà del secolo, ancora opera il vecchio Giovanni di Paolo, il piú arrovellato evocatore e appassionato poeta degli antichi valori, espressi in chiave neogotica. Anche que- sto patriarca partecipa con Matteo di Giovanni, Vecchiet- ta, Sano di Pietro a un’impresa significativa come l’esecu- zione delle «pale all’antica» espressamente pensate per il Duomo di Pisa (1461-63). L’ultimo ventennio del secolo vede lo sviluppo di una pit- tura piú moderna e aggiornata, con aperture alla cultura pro- spettica urbinate, della quale il grande Francesco di Giorgio si pone quale guida intellettuale: ne sono espressione Pietro di Francesco Orioli (le cui opere sono state a lungo ricon- dotte sotto il nome di Giacomo Pacchiarotti) e le tarsie di Antonio Barili per il Duomo (ora nella collegiata di San Qui- rico d’Orcia). Siffatta cultura, sofisticata nelle scelte stili- stiche e iconografiche, si palesa anche nella serie di tavole con Eroi ed eroine antichi di autori diversi (Francesco di Gior- gio, Neroccio, Pietro Orioli, il raffinato Maestro di Grisel- da), disperse oggi fra varie collezioni, eseguite probabilmente nel 1493, in occasione delle nozze di Antonio e Giulio Span- nocchi: fra Quattro e Cinquecento i soggetti tratti dal mito e dalla storia antica (e in particolare il tema delle donne esem- plari) saranno particolarmente frequentati dai pittori sene- si. Questi estremi ed eleganti esiti quattrocenteschi, ai qua- li si affianca la preziosità visionaria del Maestro di Strato- nice, ormai al limite con altre culture (se ne propone una ricostruzione lucchese con l’identificazione in Michele Ciampanti), non riescono tuttavia a prevalere sull’immise- rita dimensione municipale, che era già nel Cozzarelli e piú si deprime nel Fungai e in Pietro di Domenico, cui di poco sopravanzano, incredibilmente avvinti ai loro anacronistici modelli, Andrea di Niccolò e Girolamo di Benvenuto. (cv). XVI secolo La scuola senese, dopo la presenza di Luca Si- gnorelli a Monte Oliveto Maggiore (1497-98) e in Sant’Ago- stino e del Pinturicchio nella Libreria Piccolomini del Duo- mo (1502-1509), trova nuovi stimoli nella lunga operosità

Storia dell’arte Einaudi del vercellese Giovanni Antonio Bazzi detto il Sodoma, che fa conoscere la dolcezza dello sfumato leonardesco mista ad influssi di Raffaello, e in quella, piú breve ma preziosa, di Girolamo Genga da Urbino, attorno al 1510. Accanto a lui, gli studi piú recenti hanno fatto meglio conoscere perso- naggi come Andrea del Brescianino, Bartolomeo di David, Giorgio di Giovanni. Mentre Baldassarre Peruzzi lascia in patria testimonianze importanti piú come architetto che co- me pittore (ma si ricordino le decorazioni delle ville delle Volte e di Belcaro) e dà comunque il meglio di sé a Roma, Domenico Beccafumi, che condivide e persino anticipa le soluzioni dei primi manieristi fiorentini, vive e opera qua- si esclusivamente a S. Questa posizione appartata gli con- sente tuttavia, in una continua e aggiornata meditazione, di mettere a punto una pittura anticlassica, dagli intensi squilli cromatici, che, nei suoi esiti estremi (Annunciazione di Sarteano, 1546), sembra gettare un ponte fra tradizione senese e «maniera moderna», fra Simone Martini e Miche- langelo. Il suo allievo Marco Pino uscì con la sua attività dal- l’ambito municipale, ma continuò a firmarsi «senensis». Né si può escludere che il suo esempio, assieme all’influsso ben riconoscibile del Barocci, abbia giocato un ruolo determi- nante, alla fine del secolo, sulla ripresa della cultura pitto- rica della città (che aveva perso la propria indipendenza nel 1555), i cui protagonisti sono Alessandro Casolani, Fran- cesco Vanni e Ventura Salimbeni, mentre Pietro Sorri, at- tivo fuori di S e della Toscana, si apre a varie esperienze culturali. (lcv). XVII-XVIII secolo La parabola di Rutilio Manetti, che, da un’intelligente rielaborazione della cultura locale e fiorenti- na, approda a una pittura naturalistica e luministicamente contrastata, segna la diffusione in città della lezione del Ca- ravaggio, cui furono sensibili anche Francesco Rustici, at- tento anche ad altre esperienze fiorentine e romane, e Nic- colò Tomioli. Come quest’ultimo furono attivi a Roma, per la famiglia Spada e per Alessandro VII Chigi, Raffaello Van- ni e Bernardino Mei e, allo scadere del secolo, Giuseppe Ni- cola Nasini, appartenente a una famiglia di pittori origina- ria del Monte Amiata, la cui attività si può seguire bene nel- le chiese cittadine e, soprattutto, in istituzioni tipiche come gli oratori delle contrade (anche se il Nasini ebbe fortuna anche fuori dell’ambito strettamente senese).

Storia dell’arte Einaudi XIX-XX secolo Nell’Ottocento, il lungo soggiorno di Luigi Mussini, dal 1851 Direttore del Regio Istituto di belle arti, e di Alessandro Franchi impronta in senso purista il clima artistico senese, mentre Amos Cassioli, Cesare Maccari e Pietro Aldi, sono esponenti di una pittura a soggetto sto- rico che trova la sua espressione piú eloquente nella Sala «risorgimentale» del Palazzo Pubblico. Né si può tacere, il clima di interesse per i «primitivi» che attira a S critici e artisti italiani e stranieri (da Ruskin a Burne-Jones, da Cavalcaselle a Fairfax Murray, da Nino Costa a Gabriele D’Annunzio) e che ha un importante esito nella mostra del 1904, del «pittore di quadri antichi» Icilio Federico Joni. Anche se la sua rivista «Il Selvaggio» vede la luce nel 1924 nella vicina Colle Val d’Elsa e ha sede nel 1929-30 a S, l’esperienza di Mino Maccari trascende i confini della città. Lo stesso si può dire di Virgilio Marchi, pittore, architetto e scenografo di formazione senese, legato al futurismo e poi al cinema neorealista italiano, e di Piero Sadun, che, dopo le opere eseguite a S negli anni della guerra (affreschi della Certosa di Pontignano, paesaggi, disegni della resistenza), compie a Roma il seguito di un variato percorso creativo fi- no alle soglie dell’informale. Palazzo Pubblico Già residenza della Signoria e del Pode- stà, costruito fra a 1298 e il 1310, è fra i piú eleganti palaz- zi gotici del Trecento italiano; a fianco si leva l’agile torre detta del Mangia, di Muccio e Francesco di Rinaldo (1338-48), il cui coronamento è tradizionalmente attribuito al pittore Lippo Memmi. È oggi sede comunale e ospita il mc, che raccoglie anche dipinti, prevalentemente senesi, dal xiii al xix secolo, tra cui la Maestà di Guido da Siena, una vetrata su cartone di Ambrogio Lorenzetti, una Madonna col Bambino attribuita a Matteo di Giovanni, l’affresco e la si- nopia del Sodoma provenienti dalla cappella di Piazza, l’Adorazione dei Magi di Rutilio Manetti (già nel palazzo nel 1625). L’elemento di maggior interesse del palazzo sono tut- tavia gli affreschi, dal xiv al xix secolo, in prevalenza lega- ti a temi politici e civili: Presa di un castello (1314) attribui- ta a Duccio di Buoninsegna, Maestà (1315-21) e Guidoriccio da Fogliano (1330) di Simone Martini, Battaglia di Val di Chiana (1363) di Lippo di Vanni, Battaglia di Poggio Impe- riale (1480) di Giovanni di Cristofano e Francesco d’Andrea,

Storia dell’arte Einaudi Santa Caterina (1461) del Vecchietta, Santi Ansano e Vittore (1529) del Sodoma (Sala del Mappamondo); Allegorie ed ef- fetti del Buono e del Cattivo governo (1338-40) di Ambrogio Lorenzetti (Sala della Pace); Episodi della vita di papa Ales- sandro III (1408) di Spinello Aretino (Sala di Balia, con vol- te affrescate da Martino di Bartolomeo); Uomini illustri (1414) di Taddeo di Bartolo (anticappella); Storie della Ver- gine (1408) di Taddeo di Bartolo (cappella, con tarsie di Do- menico di Niccolò dei Cori e pala del Sodoma); Allegorie e scene di storia romana (1529-35) di Domenico Beccafumi (Sa- la del Concistoro); Episodi di storia risorgimentale di vari pit- tori del sec. xix (Sala del Risorgimento). Duomo e Museo dell’Opera della Metropolitana Il Duomo di S, costruito fra la seconda metà del sec. xii e l’inizio del xiv, conserva, oltre a capolavori di scultura, importanti te- stimonianze pittoriche: oltre agli affreschi, in parte altera- ti da rifacimenti posteriori, si ricordano le vetrate (fra cui quella circolare con Storie della Vergine, eseguita nel 1288 su cartoni di Duccio) e il pavimento a intarsio marmoreo (eseguito su disegni di vari artisti dal sec. xiv al xvi, fra cui Matteo di Giovanni, Neroccio e soprattutto Domenico Bec- cafumi). I mosaici della facciata, eseguiti da Augusto Ca- stellani su cartoni di Luigi Mussini e Alessandro Franchi, ri- salgono al 1877. La Libreria Piccolomini, a cui si accede dalla navata sinistra, fu fondata dal cardinale Piccolomini (futuro Pio II) per con- servare i libri di suo zio Pio Il (Enea Silvio Piccolomini), la cui vita è celebrata, in dieci scene fastose e colorate, da un celebre ciclo di affreschi del Pinturicchio (1502-509). Fra i manoscritti, i codici riccamente illustrati da Liberale da Ve- rona e Girolamo da Cremona attorno al 1470 sono tra i ca- polavori della miniatura quattrocentesca. Nella Sacrestia, si trovano tre cappelle con affreschi attri- buiti a Niccolò di Naldo, Gualtieri di Giovanni e Benedet- to di Bindo (1411-12). Il Battistero rettangolare, situato nelle fondazioni dell’absi- de del Duomo, è decorato da affreschi del Vecchietta (Arti- coli del Credo, Scene della vita di Cristo, Santi, 1447-53) e di Michele di Matteo da Bologna. Gli altari della Cattedrale (dedicata all’Assunta) erano ornati di grandi tavole di sog- getto mariano, nessuna delle quali si trova ancora nella col- locazione originaria. Agli Uffizi sono l’Annunciazione (1333)

Storia dell’arte Einaudi di Simone Martini e Lippo Memmi e la Presentazione di Ge- sú al Tempio (1342) di Ambrogio Lorenzetti; alla ng di Wa- shington la Presentazione della Vergine (1398) di Paolo di Giovanni Fei; a Firenze (donazione Contini Bonacossi) la Pala della Neve (1430-32) del Sassetta. Il Museo dell’Opera della Metropolitana, istituito nel 1870 e allestito in locali ricavati dalla chiusura di parte della na- vata destra del «Duomo nuovo», iniziato e rimasto interrot- to nella prima metà del sec. xiv, conserva invece la Maestà (1308-11) di Duccio di Buoninsegna, già sull’altar maggiore, e la Natività della Vergine (1342) di Pietro Lorenzetti (parti secondarie delle due pale sono comunque andate disperse o conservate in musei stranieri). Accanto a questi due capola- vori, il museo accoglie sculture, paramenti, oreficerie e cora- li miniati, nonché dipinti dal sec. xiii al xviii (Madonna dagli occhi grossi, opere di Ambrogio Lorenzetti, Benedetto di Bin- do, Sano di Pietro, Matteo di Giovanni, Giovanni di Paolo, Domenico Beccafumi, Luca Giordano e altri). Pinacoteca Nazionale Il nucleo iniziale della pinacoteca ri- sale alla collezione dell’abate Giuseppe Ciaccheri (Livorno 1723 - S 1804), che acquistò molti dipinti immessi sul mer- cato dalla soppressione dei conventi e delle confraternite or- dinata dal granduca Pietro Leopoldo (1783), salvandoli co- sì dalla dispersione se non dalla distruzione e donandoli in seguito alla biblioteca comunale. Analoghi effetti provocò, nel 1810, la soppressione delle nuove comunità religiose de- cisa dall’amministrazione napoleonica: la primitiva colle- zione aumentò di tanto che il sindaco di S dovette destinarle un locale che costituì l’embrione di un vero e proprio mu- seo. Ma solo nel 1816 il granduca Ferdinando III concesse i locali dell’antica Sapienza (trasferita a sua volta nel con- vento soppresso di San Vigilio) per l’Istituto di belle arti, dove l’abate De Angelis organizzò una «sala di pubblica istruzione», catalogando le opere con attribuzioni spesso for- zate e fantasiose: studi ben piú seri si ebbero nei decenni se- guenti da parte di Carlo Pini e Gaetano Milanesi. Intanto, verso il 1835, la famiglia Spannocchi Piccolomini donò un cospicuo gruppo di quadri di autori non senesi e anche stra- nieri (che si vogliono di provenienza mantovana e trentina), mentre lo Spedale di Santa Maria della Scala ne concedeva altri in deposito. Nel 1866 il comune cedette definitiva-

Storia dell’arte Einaudi mente l’istituto di belle arti alla Provincia (Galleria dell’Isti- tuto provinciale di belle arti), mentre le collezioni si arric- chivano ulteriormente per effetto della nuova soppressione dei conventi ordinata dallo stato unitario nel 1867. Nel 1930, la galleria passò allo Stato e le opere furono trasferi- te al Palazzo Buonsignori, un edificio del sec. xv espressa- mente legato da Niccolò Buonsignori nel 1915. L’inaugura- zione della nuova pinacoteca, nel 1932, fu sottolineata da un importante catalogo curato da Cesare Brandi. La pn of- fre un panorama estremamente completo della scuola sene- se dalle piú antiche croci dipinte e dalle opere di Guido da Siena e dei suoi imitatori fino a Rutilio Manetti e Bernar- dino Mei. Tutti i piú grandi maestri sono qui rappresentati da capolavori: Duccio (Madonna dei francescani), Simone Martini (Beato Agostino Novello, Madonna col Bambino), Pie- tro Lorenzetti (Pala dei Carmelitani, 1328-29), Ambrogio Lo- renzetti (Annunciazione, 1344), Sassetta (pannelli della smembrata Pala dell’Arte della Lana, 1423-26), Domenico di Bartolo (Madonna dell’Umiltà, 1433), Neroccio (Madon- na e santi), Francesco di Giorgio (Incoronazione della Vergi- ne, 1472; Natività, 1475); Domenico Beccafumi (Natività del- la Vergine). Le opere di Giovanni di Paolo e di Sano di Pie- tro occupano sale intere, e tutti gli altri artisti senesi sono rappresentati con tale abbondanza che elencarli equivale a ripercorrere la storia della pittura della città. Tra i non se- nesi si citano Lorenzo Monaco, Spinello Aretino, Alessan- dro Magnasco e, nel legato Spannocchi, Bartolomeo Mon- tagna, Albrecht Dürer, Lorenzo Lotto, Girolamo Mazzo- la-Bedoli, Paris Bordon, il Cavalier d’Arpino, Bernardo Strozzi e svariati pittori fiamminghi del xvi-xvii secolo. La pinacoteca possiede inoltre una cospicua raccolta di disegni dal sec. xvi al xviii. Collezione Chigi-Saracini Pur essendo ancora piuttosto ri- levante, conserva solo una parte della collezione raccolta da Galgano Saracini (1752-1824), che possedeva numerosissi- mi dipinti di varie epoche (anche molte tavole di primitivi toscani, buona parte delle quali sono andate disperse sul mer- cato antiquario). Acquisita negli anni Cinquanta del sec. xx dal Monte dei Paschi di Siena, comprende oggi, oltre a scul- ture e maioliche, svariate opere di pittura, in prevalenza se- nese, tra cui capolavori del Sassetta (Adorazione dei Magi), del Beccafumi (Madonna col Bambino) e di Rutilio Manetti.

Storia dell’arte Einaudi Aperta alla visita degli studiosi, propone al pubblico piú va- sto organiche scelte dalle collezioni con mostre periodiche. Museo Aurelio Castelli Allestito dal 1920 presso il convento dell’Osservanza e dedicato alla memoria del francescano Au- relio Castelli (1825-80), raccoglie le numerose opere d’arte di proprietà del convento. Fra i dipinti (che non sono pe- raltro il nucleo piú rilevante dal punto di vista quantitati- vo), si rammentano il trittico che dà il nome al Maestro dell’Osservanza e un affresco staccato di Girolamo di Ben- venuto con il Giudizio Universale; particolarmente signifi- cativo è il nucleo dei codici miniati, in prevalenza quattro- centeschi, attribuiti a Fra Giovanni da Siena, Fra Jacopo di Filippo Torelli e Francesco di Giorgio Martini. Museo della società di Esecutori di pie disposizioni La so- cietà è un’antica confraternita, soppressa da Pietro Leopol- do nel 1783, ma in seguito ricostituitasi; le sue raccolte d’ar- te, frutto di lasciti e donazioni, costituiscono un interessante museo istituito nel 1938. Fra i dipinti, che vanno dal sec. xiii al xvii, una Croce e un Trittico attribuiti a Duccio, la ca- ratteristica tavola semicircolare con Santa Caterina da Siena che conduce il pontefice a Roma di Girolamo di Benvenuto e la Sacra Famiglia del Sodoma. Museo delle tavolette dipinte Presso l’Archivio di Stato si conserva una documentazione eccezionale (centosette esem- plari) di una produzione tipica come le tavolette di Biccherna e di Gabella, copertine dei registri delle magistrature citta- dine dipinte su legno, opera di artisti come Ambrogio Lo- renzetti, Sano di Pietro, Francesco di Giorgio Martini e Do- menico Beccafumi. Completano la raccolta documenti e co- dici miniati (Caleffo dell’Assunta di Niccolò di ser Sozzo) e alcuni dipinti del sec. xvii. Raccolta della sede storica del Monte dei Paschi Visitabi- le a richiesta, è esposta nei locali dell’ex chiesa di San Do- nato, che si trova inglobata nel Palazzo Salimbeni, sede del- la notissima banca (istituita nel 1642 incorporando il Mon- te Pio, fondato a sua volta nel 1472). Al 1481 risale la piú antica commissione di un dipinto da parte degli ammini- stratori del Monte (Madonna della Misericordia di Benvenu- to di Giovanni del Guasta), che ha dato inizio a una discre- ta tradizione di mecenatismo artistico; ma certo la collezio- ne si è andata arricchendo soprattutto nel nostro secolo,

Storia dell’arte Einaudi mediante sistematici acquisti guidati da consulenze specia- listiche, che hanno costituito un importante nucleo di ca- polavori, soprattutto senesi, di pittura e di scultura. Fra i pittori rappresentati, Pietro Lorenzetti, il Sassetta, Gio- vanni di Paolo, Domenico Beccafumi, Francesco Vanni, Ru- tilio Manetti. (gra). Siferwas, John (attivo dal 1380 al 1421). Miniatore britannico, è noto da documenti e dalla sua raffigurazione in veste di monaco do- menicano nei suoi manoscritti, due soli dei quali firmati di sua mano: il Messale Sherbourne (1396-1407: Alnwick Ca- stle, Bibl. del duca di Northumberland) eseguito per Richard Mitford, vescovo di Salisbury, e Robert Bruynyng, abate di Sherbourne; e il Lezionario Lovell (Londra, bl, Harley ms 7026). Nel primo viene fatto il nome del miniatore, rappre- sentato nella decorazione in margine; nel secondo, la mi- niatura della dedica mostra S mentre presenta il libro al suo protettore, lord Lovell, che l’aveva commissionato per far- ne dono alla Cattedrale di Salisbury. Lo stile di S si accosta molto a quello degli affreschi dell’Apocalisse di Westmin- ster e a quello dell’Altare di Norwich. (mast). Sigalon, Xavier (Uzès 1787 - Roma 1837). Si formò a Nîmes, presso un al- lievo di David, poi a Parigi, nello studio di Guérin (1817). Pittore di genere, di storia e di ritratti, riscosse immediato successo alla sua prima esposizione al salon con un’opera che univa alla fattura tradizionale un sentimento già romantico (Giovane cortigiana, 1822: Parigi, Louvre). Si dedicò all’ese- cuzione di vaste composizioni storiche: Locusta (1824: Nî- mes, mba) e Atalia (1827: Nantes, mba). In seguito all’in- comprensione che incontrò quest’ultimo quadro S, deluso, si ritirò a Nîmes. Nel 1833 ricevette l’incarico statale della co- pia dei dipinti della Sistina a Roma, ma S fu ucciso dal cole- ra prima di terminare il compito: venne completata soltanto la copia del Giudizio Universale di Michelangelo (Parigi, en- ba). Il Museo di Nîmes possiede numerosi suoi schizzi. (ht). Sigena (provincia di Huesca, Spagna). Il monastero di S venne fon- dato nel 1187 dalla regina d’Aragona, Seneha, e dal vesco-

Storia dell’arte Einaudi vo di Huesca, Ricardo. Le costruzioni, iniziate alla fine del sec. xii e completate verso il 1258, patirono nel 1936 un gra- ve incendio che danneggiò anche la bella decorazione ad af- fresco (ora al mac di Barcellona) che ornava la Sala capito- lare, l’abside e il coro della chiesa. La Sala capitolare è co- perta da un vasto soffitto cassettonato, o «artesonado», in stile mudejar, sostenuta da cinque archi diaframma recanti sugli intradossi le immagini degli antenati di Cristo e sulle cantonature episodi dell’Antico Testamento; le quattro pa- reti erano dedicate alla vita di Gesú, dall’Annunciazione al- la Resurrezione. L’eleganza delle figure, l’eccezionale deli- catezza del modellato, l’intensità dei rossi e dei verdi, la de- corazione floreale a vasti racemi conclusi da bei fioroni sono totalmente estranei alle tradizioni ispaniche, e rivelano per il pittore di S la conoscenza della miniatura anglosassone. In particolare questi affreschi trovano il loro riscontro piú puntuale nell’opera di uno degli illustratori della Bibbia di Winchester, la cui datazione è da collocarsi verso il terzo quarto del sec. xii. Proprio gli stretti rapporti con l’arte win- chesteriana hanno indotto alcuni studiosi a proporre per l’esecuzione delle pitture di S gli anni intorno al 1190, men- tre altri propendono per una collocazione al primo terzo o addirittura alla seconda metà del sec. xiii. Il frescante atti- vo nella Sala capitolare ha operato senza dubbio anche al- trove nel Paese: a lui si attribuisce quanto resta delle pittu- re di una sala in rovina nel monastero di San Pedro de Ar- lanza, presso Burgos. Egli inoltre formò almeno un allievo, incaricato della decorazione – distrutta da un incendio – del coro della chiesa di S e che comprendeva un’Annunciazio- ne, una Deposizione, un Quo vadis? e un’Epifania. Il suo sti- le deriva da quello del maestro, ma più ancora è legato a un grafismo schiettamente romanico. (jg + sr). Signac, Paul (Parigi 1863-1935). Di famiglia agiata, si dedicò interamen- te alla pittura dal 1882 e la sua formazione fu sostanzial- mente autodidatta. S tranne un breve periodo presso uno studio si misurò con la pittura degli impressionisti (la Strada di Gennevilliers, 1883: Parigi, mo). Nel 1884 partecipò atti- vamente alla creazione della Società degli Artisti indipen- denti, presso la quale espose anche nell’ultimo periodo, oc-

Storia dell’arte Einaudi casione in cui ebbe modo di incontrare Seurat. Delle diciotto opere presentate all’ultima esposizione impressionista, di- verse furono ripresentate da S qualche settimana dopo, agli Indépendants. Alcune – come l’Argine, Asnières (Parigi, coll. priv.) – sono esercitazioni sulle opere degli impressionisti, altre – come la Diramazione nel Bois-Colombes (Leeds, City ag), le Modistes (1885-86: Zurigo, coll. Bührle) – introdu- cono elementi di novità. In queste ultime è evidente l’im- piego da parte di S di quella che Seurat chiamava la tecnica «della divisione». Approfondì questa tecnica nei suoi dipinti en plein air, il cui soggetto è la Senna, le coste bretoni e me- diterranee. In alcune tele applicò le teorie di Charles Henry sui «ritmi e misure delle linee e dei colori». Appassionatosi alle ricerche dello scienziato, collaborò a due delle sue ope- re (1890-95); nel 1890 fece il ritratto di Félix Fénéon «su di un fondo ritmico di misure e di angoli, di toni e di tinte», il cui disegno curvilineo era ispirato a quello di un kimono (New York, moma). Poco dopo la morte di Seurat, S scoprì Saint-Tropez, vi si stabilì e, fino al 1911 ca., visse qui per una parte dell’anno. La sua passione per il mare e la naviga- zione che lo portò a Rotterdam e a Costantinopoli si riflet- te nei soggetti dei suoi dipinti. Una certa evoluzione nella sua tecnica divisionista si avver- te intorno al 1896: S infatti da questo momento in poi se- guirà meno pedissequamente le regole scientifiche della di- visione dei toni modificando i tocchi di colore tanto che in alcuni casi le sue tele sembrano composte da tasselli di mo- saico. S si misurò anche con le ricerche dei giovani come Ma- tisse che nel 1904 a Saint-Tropez studiò con lui i principi del neoimpressionismo. Dal 1913 fece lunghi soggiorni ad Antibes, pur mantenen- do sempre uno studio a Parigi. Il ruolo di S fu fondamenta- le per la formazione del gruppo dei neoimpressionisti. Vi- ce-presidente nel 1903 degli Artistes Indépendants e poi pre- sidente nel 1909, accolse con interesse la novità dei fauves e del cubismo. Accanto ai suoi meditati quadri a olio S ha lasciato liberi e sensibili acquerelli (Parigi, Louvre; musei di Besançon e Saint-Tropez) oltre che alcuni fondamentali scritti come Jongkind (1927) nel quale è contenuto il Traité de l’aquarel- le e D’Eugène Delacroix au Néo-Impressionisme (1899). Ope- re del pittore sono conservate in numerosi musei tra i quali

Storia dell’arte Einaudi quelli di Baltimore (Quai de Clichy, 1887), di Besançon (Ve- la gialla, 1904), L’Aja (gm: Cassis, 1889), Liegi, Melbourne (ng: Gasometri di Clicky, 1886), Mosca (Museo Puskin: Saint-Briac, 1890), Otterlo (Kröller-Müller: tra cui la Cola- zione, 1887), Wuppertal (Von der Heydt Museum: Porto di Saint-Tropez, 1893), e soprattutto in collezioni private. (mtf). Signorelli, Luca (Cortona 1445/50-1523). Secondo Vasari «fu creato e di- scepolo di Pietro dal Borgo a San Sepolcro, e molto nella sua giovinezza l’osservò». Purtroppo le testimonianze del- la sua prima attività a Cortona e Arezzo sono in gran par- te andate perdute; rimane solo, in stato assai frammenta- rio, l’affresco per la Torre del Vescovo a Città di Castello (1474: ora pc) che nella figura di San Paolo mostra tracce dell’influsso di Piero. Ben piú profonda è l’impronta stili- stica di Pietro Perugino e della cultura fiorentina verroc- chiesca e del Pollaiuolo, probabilmente mediata tramite Bartolomeo della Gatta e direttamente – come dice Vasari – «in Fiorenza» dove «venne... per vedere la maniera di que’ maestri che erano moderni». Al suo soggiorno presso la corte urbinate è legata la tavola del Cristo alla colonna e la tavoletta della Vergine col Bambino dipinte per la chiesa di Santa Maria del mercato di Fabriano (Milano, Brera). Fondamentale è il suo arrivo a Roma nel 1482 per collabo- rare insieme a Bartolomeo della Gatta agli affreschi della Sistina sotto la direzione del Perugino (Storie di Mosè); an- cora all’incirca allo stesso periodo risale la sua attività nel- la sagrestia di San Giovanni della Basilica di Loreto (Incre- dulità di san Tommaso), mentre due anni piú tardi S è im- pegnato in una delle sue opere piú significative, la pala con la Madonna col Bambino e santi per il Duomo di Perugia (1484: Perugia, Museo del Duomo). La sua successiva atti- vità gravita soprattutto in area toscana e per la committenza medicea. Come ricorda Vasari, il pittore «desiderato da Lo- renzo Vecchio» dipingerà per quest’ultimo il tondo con la Madonna col Bambino (Firenze, Uffizi) e il dipinto, perdu- to durante il bombardamento di Berlino, di soggetto mito- logico, l’Educazione di Pan. «Destro» nel disegno e «agile» nel colore S subirà nell’ultimo periodo un’evoluzione ca- ratterizzata da uno stile accentuatamente espressionistico,

Storia dell’arte Einaudi come mostrano opere quali la Discesa dello Spirito Santo (1494: Urbino, gn) o il Martirio di san Sebastiano (1498: Città di Castello, pc). Intensa sensibilità narrativa mostra- no gli affreschi di Monte Oliveto Maggiore, risalenti agli anni tra il 1497 e il 1498, con le Storie di san Benedetto nel chiostro del convento e soprattutto «le istorie de la fine del mondo», il Giudizio Finale della cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto, di «invenzione bellissima, bizzarra e ca- pricciosa per la varietà di vedere tanti angeli, demoni, ter- remoti, fuochi, ruine, e gran parte de’ miracoli di Anticri- sto, dove mostrò la invenzione e la pratica grande ch’egli aveva negli ignudi con molti scorti e belle forme di figure». Commissionati nell’aprile del 1499, gli affreschi erano con- clusi nel 1504. Qui S conclude i lavori; dipinse anche la se- rie degli uomini illustri (Ritratto di Dante, Virgilio) e figu- razioni tratte dalla Divina Commedia di Dante (tra cui Dif- ficile salita del monte, Spiegazione della posizione del sole ai neghittosi, Sogno di Dante). L’attività del pittore inoltratasi fin dentro il sec. xvi dà prova della ricezione di spunti raf- faelleschi, ad esempio nella Comunione degli apostoli (1512: Cortona, Museo diocesano), o ancora michelangioleschi. Per quanto emarginato dagli eventi stilistici del primo de- cennio del Cinquecento, S ha improntato nella sua tarda at- tività in modo profondo la cultura figurativa dell’alta valle del Tevere. (sro). Signorini, Telemaco (Firenze 1835-1901). Per sua stessa ammissione piú portato alle lettere che alla pittura, S, abbandonati nel 1852 gli stu- di letterari, si formò a Firenze con il padre, pittore del gran- duca di Toscana, poi con Vito d’Ancona e Federico Malda- relli a Venezia, dove ebbe occasione di conoscere il torine- se Enrico Gamba e diversi pittori stranieri. Tornato a Firenze, si vide respingere alcune opere dalla Promotrice cit- tadina «per eccessiva violenza di chiaroscuro», come rac- conta in una lettera del 1892. È quindi ai primi anni della sua formazione che S fa risalire l’adesione alla poetica dei macchiaioli, di cui sarà, con Adriano Cecioni, teorico e lea- der spirituale, piú che artistico. Nel 1861 espose alla Promotrice di Torino il suo quadro «piú sovversivo», Il Ghetto di Venezia, dominato da un’assoluta ricerca chiaroscurale, in cui la forma si annulla nella mac-

Storia dell’arte Einaudi chia. Nello stesso anno un viaggio a Parigi con Cabianca e Banti gli permise di venire a contatto con Troyon e Corot, di cui assimilò le ricerche. Al ritorno in ltalia vinse una me- daglia all’Esposizione nazionale di Firenze del 1862 con Un episodio della Battaglia di Solferino. Le suggestioni francesi ebbero notevole rilevanza per la cosiddetta scuola di Pia- gentina, fondata nello stesso 1862 da Borrani, Abbati, Ser- nesi e Lega, cui S partecipò con grande vigore teorico. Ri- sale infatti al 1862-63 la sua prima attività di critico; orgo- glioso del duplice ruolo di artista e ideologo, fu sempre veemente e polemico fino all’estremo contro la pittura ac- cademica e «lisciata» e altrettanto violentemente impegna- to nella difesa delle ricerche realiste sulla luce e il colore tra- mite la distruzione del disegno. Con Diego Martelli fondò nel 1867 «Il Gazzettino delle ar- ti del disegno», che ebbe vita brevissima (un solo anno). Do- po aver vissuto e lavorato a Roma e Napoli (1871-72), nel 1873-74 visitò De Nittis a Parigi, dove incontrò anche Bol- dini, e da dove inviò diversi articoli al «Giornale artistico» di Cecioni. Si spinse anche fino a Londra, dove tornò piú volte in seguito, arrivando fino in Scozia. Continuò intan- to a dipingere opere che ottennero spesso riconoscimenti uf- ficiali, come L’alzaia (1864), premiato a Vienna nel 1873, Novembre (1870), premiato a Firenze, Porta Adriana (1875), premiato a Napoli nel 1877, mentre La Sala delle agitate (1865), uno dei suoi dipinti piú noti, gli procurò gli elogi di Degas. Fra 1869 e 1870 realizzò anche numerose incisioni destina- te a libri scientifici e d’arte. Quando gli venne offerta una cattedra all’Accademia fiorentina (1883), rifiutò, non vo- lendo entrare a far parte di quell’istituzione sempre aspra- mente criticata e avversata come fonte di mediocrità e ot- tusità artistica. Gli anni successivi lo videro ancora impegnato a viaggiare tra Parigi, Londra, la Liguria e la montagna, portando avan- ti, anche dopo aver proclamato la morte della «macchia», le ricerche della «pittura moderna», mirata ad acquisire e ri- produrre un sentimento sincero del vero e della natura, non senza guardare alla tradizione, e particolarmente all’arte del Quattrocento, sentita, nonostante la distanza temporale, vi- cina e affine.

Storia dell’arte Einaudi Tra i suoi scritti, a parte i molti articoli su riviste artistiche e letterarie, ricordiamo le Novantanove discussioni artistiche (1872), Caricaturisti e caricaturati al Caffè Michelangelo (1893) e Ricordi di Riomaggiore (1909, postumo). (vc). Sigrist, Franz (Brisach Vecchia 1727 - Vienna 1803). Stabilitosi a Vienna, segue l’insegnamento di P. Troger all’Accademia, ove ottie- ne un secondo premio nel 1752. Le incisioni di questo pe- riodo, la Guarigione di Tobia e Loth e le sue figlie, ne rivela- no il debito con Troger e G. B. Tiepolo. La Morte di san Giu- seppe (Vienna, ög), composizione carica, espressiva e assai libera pittoricamente, lo pone stilisticamente assai vicino a Piazzetta. S esegue i disegni per l’illustrazione grafica di una raccolta di vite di santi edita da J. Giulini (1753-55) a Vien- na e ad Augusta (Martirio di sant’Artemio: Salisburgo, coll. Rossacher). Soggiorna per un certo periodo ad Augusta do- ve opera come pittore di facciate e contemporaneamente pro- segue la sua attività di illustratore di soggetti biblici per Her- tel (due grisailles, Elia e i corvi e Saul e la pitonessa di Endor: Vienna, Niederösterreichisches Landesmuseum). S dipinge nel 1759 Il Trionfo della Vergine sulle potenze infernali nella volta del coro della chiesa di Seekirch, poi nel 1760 tre af- freschi sul soffitto del portico della chiesa del convento di Zwiefalten. Opera nel 1764 sotto la direzione di Martinus vari Mytens, con altri collaboratori, a cinque grandi quadri che narrano le feste di nozze di Giuseppe II con Isabella di Parma (Schönbrunn, salone delle cerimonie). Pittore innan- zitutto religioso, dà il meglio di se stesso negli schizzi dal trat- to nervoso, ove le forme si dissolvono nella luce (un insieme notevole è conservato a Praga, ng). Nelle scene mitologiche, come Bacco e Arianna e la Morte di Orione (ivi) si lascia an- dare a composizioni un po’ stereotipate. Tra i suoi figli, il so- lo Giovanni (Augusta 1756 - Vienna 1807) è conosciuto per alcuni lavori: due Scene di genere (ivi). Un gruppo di opere, in particolare una serie di affreschi e di tele dei Burgenland (Au- stria), successive al 1780, potrebbe essere attribuita a due al- tri Franz S, un figlio e un parente dell’artista. (jhm). Sikkim Questo piccolo regno himalaiano, circondato a occidente dal Nepal, a nord dal Tibet, a oriente dal Bhutan e a sud dall’In-

Storia dell’arte Einaudi dia, rimase fedele, come il Bhutan, alla tradizione della set- ta religiosa dei «berretti rossi» originata dal buddismo tan- trico, risalente al saggio Padma-Sambliava (guru Rin-po-che), vissuto nell’ottavo secolo prima di Cristo. Nessuna pittura anteriore all’avvento della dinastia Namgyal (sec. xvi) sembra essere sopravvissuta. L’incessante cambio della capitale – Phari, poi Gangtok all’inizio del sec. xvii, Yaksam e Rabdentsé nel secolo successivo – non pare esse- re stato occasione di importanti imprese artistiche. Comun- que le decorazioni murali di numerosi monasteri risalgono ai primi secoli della dinastia. Il monastero di Namchi, costruito durante la reggenza del re Tarsung Namgyal (nato nel 1644, incoronato nel 1670), conserva un intero ciclo di pitture murali, le piú antiche tra quelle conosciute rappresentanti divinità, siddha e perso- naggi religiosi del buddismo tantrico. Queste pitture deno- tano una forte influenza tibetano-cinese. Alcuni raffronti possono essere tentati con alcune decorazioni di Gyantsé, nel Tibet. Tuttavia le pitture di Namchi sono meno ricche: la composizione è meno abile e la decorazione floreale piú povera. Le ombre, ad anelli concentrici, restano legate alla tradizione indiana. All’inizio del sec. xviii venne ricostruito e decorato il mo- nastero di Pemiangté. Nello stesso periodo si edificò quello di Tashi-dhing. La cappella principale del monastero de Si- non pare risalire al Settecento. La raffigurazione dei perso- naggi santi e dei mandala rivela una forte influenza cinese, ad esempio nelle nubi, nelle vesti e anche in certe figure in- tere di monaci. La rappresentazione delle «divinità terribi- li» sembra, a priori, risalire a un’altra tradizione: probabil- mente occorre spostarci verso il Nepal. Alla fine del sec. xviii e per tutto il successivo, una serie di disordini politici rallentarono la produzione degli ateliers. Le pitture che decorano i monasteri di Lachem e di Laching sono meno curate e tradiscono, in una certa misura, la loro origine popolare. (gbé). silhouette Nel 1835 Augustin Edouart pubblicò il Treatise on S Like- nesses definendo s quei prodotti di gran moda nel Settecen- to che in Inghilterra venivano chiamati anche shadow por-

Storia dell’arte Einaudi traits con esplicito richiamo al racconto della «dama di Co- rinto», fortunato tema sviluppato in pittura tra gli altri da Wright of Derby (La Dama di Corinto, 1782-85 ca.: Wa- shington, ng of Art); del resto il rapporto tra s e ritratto si trova citato anche in alcuni dipinti ad esempio di Liotard come il Ritratto di Marie Justine Benoite Favart (1757: Win- terthur, Stiftung Osakr Reinhart), con esplicito riferimen- to al giudizio di P. Clement sull’attrice che a suo dire pur avendo alcuni difetti possedeva «una fisionomia propria». Il nome derivato da Etienne de Silhouette (1707-67), mini- stro delle finanze caduto in disgrazia per le sue eccessive eco- nomie, alludeva quindi a un genere di ritratti, o meglio pro- fili fisionomici, «a scartamento ridotto» (Praz). La fortuna di questa tecnica – inizialmente si trattava di figure dipinte ritagliate seguendone il profilo su tavole di legno a grandezza naturale – risale al Seicento. Queste dummy-board figures munite di basi di legno o ferro per sostenerle verticalmente, sono ricordate dal pittore e critico Hoogstraten, il quale af- ferma che Cornelis Bisschop verso il 1630, era stato uno dei piú noti artisti cimentatisi in questo genere di gioco illusio- nistico di profili. Scrive infatti Hoogstraten: «poste in un angolo o in fondo a un vestibolo... veniva fatto di salutarle come persone vive», producendo un effetto pari all’illusio- nismo pittorico di quei personaggi che si scorgono in con- troluce negli sfondi dei dipinti di Pieter de Hooch. Hoog- straten ne documenta la diffusione, ma anche il progressivo decadimento tecnico: «Ormai si vedono soltanto croste fab- bricate da storpi e da sguatteri e mal imitate dalle belle fi- gure prima citate»; il successo di queste immagini diede svi- luppo a varianti di diverso genere, tra cui quelle che lo stes- so Hoogstraten ritagliava e dipingeva, a suo dire (gatti, scimmie, frutta, pesce secco e persino scarpe), con l’intento di ingannare la vista, sull’esempio volto in burla dell’antico asaroton oikon in mosaico di Sosos ricordato da Plinio. Fi- gure di animali o di altro genere ritagliate in carta affasci- narono il granduca Cosimo III de’ Medici durante la sua per- manenza ad Amsterdam, tanto da decidere di portare con sé tal «Giovanni Achelom» esperto in questo genere a Fi- renze nel 1668. La fortuna di questi giochi illusionistici nel sec. xviii è do- cumentata in tutta l’Europa del Nord. Il fermier général La- live de July si racconta avesse «posto presso una scrivania

Storia dell’arte Einaudi una figura seduta, mediocremente dipinta, che aveva fatto ritagliare: rappresentava uno scrivano all’opera. Tutte le per- sone che aprivano la porta, colpite da quell’oggetto, si riti- ravano per non disturbarlo dal lavoro». Grimm narra un ana- logo aneddoto: «Il signor Huber (pittore russo che dedicò gran parte del suo tempo a ritrarre Voltaire), ha dipinto Vol- taire a grandezza naturale, l’ha incollato su un cartone che ha poi ritagliato, di modo che, entrando a casa sua, si viene ricevuti dal patriarca. Intende portare, uno di questi giorni, il cartone alla Comédie-Francaise per collocarlo in fondo a un palco, facendo spargere la notizia in platea che il signor Voltaire è, in incognito, alla Comédie-Française». Se le s vennero usate generalmente per tenere aperte le por- te o come decorazione per caminetti, lo spirito scientifico del sec. xviii le considerò quali «impronte della natura» (C. Lavater) utilizzandole anche per scopi diversi dal semplice gioco di inganno citato da Grimm. Le s del profilo di un vol- to dovevano mettere in mostra nell’estrema concisione, l’in- timo significato di un volto attraverso le caratteristiche sa- lienti che lo avrebbero fatto identificare (particolari della fi- sionomia come un naso, un mento sporgente). A questo scopo Lavater le utilizzò nel suo trattato Physiognomische Fragmente zur Beforderung der Menschenkenntnis und Men- schenliebe (1775-78), in cui veniva pubblicata anche la de- scrizione di una macchina «comoda e sicura per delineare s», che secondo la voga del tempo dovevano essere rigoro- samente nere, con evidente rimando al loro significato di «ombre» o «impronte». Lo stesso Goethe se ne interessò facendo ritrarre la sua fa- miglia da Schmoll, disegnatore impiegato da Lavater, anno- tando che «ognuno ha preso l’abitudine di ritagliare s la se- ra, e non entra visitatore in casa il cui profilo non venga trac- ciato sulla parete: il pantografo non riposa mai» (1791). Al ricordo autobiografico è legato il ritratto di Goethe con in mano la sua s conservato in copia al Goethe-Museum di Fran- coforte (nel museo goethiano di Weimar è conservata la s di gruppo che ritrae il profilo della granduchessa Amalia e del- le sue compagne). Le s vennero utilizzate per funzioni di- verse, fino al ritrattino incollato su carta o dipinto su vetro agglomizzato e decorato con perle o turchesi, appeso al col- lo o a un bracciale, spesso in ricordo di un defunto; François

Storia dell’arte Einaudi Gonord ritagliò s delle vittime della rivoluzione in Francia. Dall’effige in ricordo di un volto caro, all’utilizzo di s quali mezzi dimostrativi all’interno del dibattito sulla scienza fi- siognomica, questo genere nel sec. xviii venne inteso so- prattutto come profilo di un volto. Il profilo ridotto in pic- colo dal pantografo, strumento già in uso nel 1631, o con l’ac- curate delineator con lenti rifrangenti che mostrano il profilo ridotto (usato nel 1775 da Mrs. Harrington), o con il Phy- siognomotracer inventato da Gilles Louis Chrétien (strumen- to in uso prima del 1780), veniva poi riportato su carta, stuc- co o avorio. John Fiel fu un celebre profilista su avorio in- torno al 1820, ma prima di lui in Inghilterra questa tecnica di pittura su avorio è documentata nella produzione di Ber- nard Lens che la sviluppò sull’esempio di Rosalba Carriera. Alcuni come P. H. Rogers usarono superfici convesse di ve- tro, altri fecero s a profili bianchi lavorati a merletto; dopo il 1800 le s vennero abbellite con tinte dorate o riportate su vetro agglomizzato su fondo oro (Volo in pallone di Mario Madeleine Blanchard del 4 luglio 1817: Roma, coll. Praz), o rispecchiarono la moda all’«etrusca». I temi trattati andavano dai profili dei mourning ring (anelli da lutto), alle s di gruppo, in particolare vanno ricordate quelle di Torond in Inghilterra e di Anthing attivo alla cor- te di Pietroburgo. Attraverso le s è possibile documentate il gusto del secolo nei profili di scene di conversazione, di tè, ma anche lo sviluppo di altre classiche scene di genere con domestici che sbadigliano (Londra, vam) o sbucciano pere (castello di Knole), fino a curiosi ritratti come quello di un pescatore «Jacques Soustre, detto Blair M. Dupollet in età di 55 anni» o di altri soggetti «rustici» conservati nel Mu- seo d’arte popolare di Arnhem. Le s di soldati costituiscono un tipo particolare, assai diffuso nel sec. xviii, ma ancora intorno agli anni Venti del nostro se- colo. Nel castello di Schonberg a Nassau, tutto intorno alla sala da pranzo, s di soldati vennero fissate a qualche pollice dal muro, affinché il castello non apparisse mai vuoto. Due s di granatieri del reggimento Royal-Suédois, conservate nel Musée de l’Armée a Parigi, sembra siano servite come inse- gne per il reclutamento di truppe. Vanno inoltre segnalati al- cuni oggetti ritagliati (mucchio di quadri e lettere, Milwaukee, Art Center), particolarmente elaborati il piú notevole dei qua- li è un «Cavalletto» con natura morta, al cui bordo inferiore

Storia dell’arte Einaudi sembra appoggiarsi un altro quadro capovolto dipinto intor- no al 1670 da Cornelis Gysrecht (Copenhagen, smfk). Un al- tro cavalletto simulato che sostiene una copia incompiuta del Dominio di Flora di Poussin, una tavolozza e numerosi acces- sori, firmato «Ant. Forbera pinxit», 1686, è conservato al Museo di Avignone. Il presidente de Brosses l’aveva già am- mirato nel 1739 nella Certosa di Villeneuve e ne aveva dato, nelle sue Lettere un’accurata descrizione. Con l’avvento del dagherrotipo, la s scomparve progressi- vamente; va ricordata la citazione filologica delle s fatta da Balthus per la messa in scena di Cosi fan tutte di Mozart al festival di Aix-en-Provence nel 1950, o le s femminili che Minaux ha dipinto e ritagliato nel 1972 o ancora i legni di Ceroli, opere queste che appaiono lontani parenti di un ge- nere che ebbe grande fortuna fino alla prima metà del sec. xix in Germania, Olanda, Francia e Inghilterra, (jw + sr). Silistra, tomba di Piccolo ipogeo a volta (Durostorum in Bulgaria), studiato nel 1943 dall’archeologo italiano Frova. Era decorato con pittu- re che presentano analogie con i motivi decorativi antichi im- piegati a Roma nei secoli precedenti. La superficie della vol- ta è ripartita geometricamente da larghe fasce rosse: al centro dei cerchi e degli ottagoni piccole figure eseguite con ampie pennellate ricordano i motivi tradizionali delle stagioni. I due defunti sulla parete di fondo, e i loro familiari su quelle late- rali, presentano un contorno a tratto grosso e sono collocati entro una cornice. L’artista ha rinunciato ad ogni effetto d’il- lusionismo spaziale e non ha curato la definizione dei detta- gli tranne che per l’incensiere che ha in mano una serva e di qualche particolare delle vesti della defunta. L’espressione del viso, è invece resa secondo i procedimenti, tradizionali, della pittura romana del sec. iv (catacombe di Trasone, via Anapo, cimitero Majus), accentuando l’immensità dello sguardo, fo- rato da pupille scure e contornato da tratti duri, che presen- tano probabilmente una sopravvivenza di tradizioni pittori- che colte nella produzione provinciale. (chp). Silkeborg Museum Il Museo dello Jutland settentrionale (Danimarca) è dedica- to alla preistoria, ma possiede anche una sezione artistica,

Storia dell’arte Einaudi costituita grazie all’iniziativa del pittore Asger Jorn e inte- ramente dedicata all’arte contemporanea. Vi si trovano ope- re di Jorn, Appel, Constant, Arp, Léger, Michaux, Picabia, Wols; Dubuffet è rappresentato da numerosi quadri e dalla quasi totalità della sua opera grafica. (hb). Silos, Giovanni Michele (Bitonto 1601 - ? 1674). Appartenente all’ordine teatino, fu autore della Pinacotheca sive Romana Pictura et Sculptura (Ro- ma 1673). Il volume, diviso in due sezioni dedicate alla pit- tura e alla scultura, raccoglie numerosi epigrammi in latino nei quali sono descritte, talvolta minuziosamente, opere d’arte conservate allora presso chiese, luoghi pubblici e col- lezioni private di Roma. Preziosa sotto il profilo documen- tario, per la segnalazione topografica delle opere e la men- zione di collezioni non altrimenti note, la Pinacotheca, pur ispirandosi alla Galeria di G. B. Marino per il titolo e la par- tizione in sezioni, se ne discosta per la sua valutazione dell’opera d’arte, nella quale il S ricerca ed esalta principî etici piuttosto che valori estetici. (mo). Silva-Porto, Antonio (Porto 1850 - Lisbona 1893). Dopo aver frequentato l’Ac- cademia di belle arti di Porto, si specializzò nella pittura di paesaggio e di animali e usufruì di un pensionato del gover- no portoghese per un soggiorno di studi a Parigi (1873-79). Allievo di Daubigny, subì l’influenza della scuola di Barbi- zon. Tornato a Lisbona dopo aver viaggiato in Italia e In- ghilterra, S fu nominato nel 1879 professore alla Scuola di belle arti di Lisbona, introducendo il naturalismo in Porto- gallo (Paesaggi: Lisbona, mac e Museo di Porto). (jaf). Silvestre Israël (Nancy 1621 - Parigi 1691) ricevette i rudimenti del me- stiere di disegnatore e d’incisore dallo zio, Israël Henriet S. La sua formazione deve molto alla conoscenza dell’opera di Callot, la cui edizione era curata dallo stesso Henriet, e ai nu- merosi viaggi compiuti in Francia e in Italia (1640-55). Le sue incisioni, molto numerose (piú di mille), tanto precise quanto asciutte, gli valsero un gran successo, tanto che fu accolto dall’Accademia nel 1670: esse costituiscono il piú importante e il piú completo repertorio topografico della Francia (Vedute

Storia dell’arte Einaudi dei castelli francesi) e, in modo particolare di Parigi (i Luoghi piú notevoli di Parigi e dei suoi dintorni, Vedute e prospettive del- la cappella della Sorbona) e qualche volta anche dell’Italia (Ve- dute di Roma, i Luoghi di soggiorno di Roma, Antiche e moder- ne vedute di Roma) della seconda metà del sec. xvii. I meticolosi disegni d’Israël S tradiscono il mestiere dell’in- cisore: Veduta della Senna con il palazzo del Louvre (Parigi, Istituto olandese), Veduta della chiesa dei carmelitani (Pari- gi, Museo Carnavalet), Ballo nell’anticamera del re, Veduta e prospettiva del collegio delle Quattro Nazioni (Parigi, Louvre). Sono suoi figli Charles-François, Louis il Vecchio e Louis il Giovane. Louis il Giovane (Sceaux 1675 - Parigi 1760), allievo di Charles Le Brun, poi di Bon Boullogne, fece un viaggio in Italia passando per Roma, dove conobbe Carlo Maratta, Ve- nezia e la Lombardia. Ritornato a Parigi venne eletto acca- demico nel 1702 (Creazione dell’uomo da parte di Prometeo: Montpellier, Museo). Pittore di storia, ricevette importan- ti committenze per le chiese parigine, tra cui una serie di no- ve tele con episodi della Vita di san Benedetto per la chiesa di Saint-Martin-des-Champs (una a Parigi, Louvre, un’altra a Béziers, mba, due al museo di Perpignan, tre a Bruxelles, mrba), che rivelano il legame con la tradizione pittorica di Le Suer e l’assonanza con la produzione di Jouvenet. Nel 1703 eseguì, per il may di Notre-Dame, un dipinto che rap- presenta San Pietro e il paralitico (Arras, mba), grande com- posizione dalle linee sinuose, mentre il Mosè salvato dalle ac- que (1708: Brest, Musée Municipal) si avvicina maggiormen- te al classicismo di Poussin. Di uno spirito completamente differente sono numerosi dipinti mitologici, fortemente in- fluenzati da La Fosse: Apollo e Dafne, Perseo e Andromeda (Postdam, Sans-Souci) e probabilmente anche La morte di Adone (Digione, Musée Magnin). Aiutato da numerosi allievi, lavorò per la corte di Sassonia e fu nominato direttore dell’Accademia di pittura di Dresda nel 1726. Le distruzioni belliche non hanno risparmiato le sue grandi decorazioni mitologiche o allegoriche, come quel- le del soffitto della sala da ballo della residenza del conte Brühl a Dresda raffiguranti la Vittoria di Bellerofonte sulla Chimera (distrutta nel 1945) oppure gli episodi della Storia di Psiche, dipinti per il Mathematischer Pavillon di Zwin-

Storia dell’arte Einaudi ger. Sopravvivono soltanto le grandi pitture su cuoio della sala da biliardo e della Monströsen Saal del castello di Mo- ritzburg (Storia di Diana, Scene di caccia reale). Per la Sala del Trono di Augusto II dipinse delle sovrapporte (Rinaldo e Ar- mida, Venere e Adone, Vertumno e Pomona: Dresda, gg) for- temente influenzate dallo stile di C. A. Coypel e L. Boullo- gne. Fedele alla tradizione del ritratto ufficiale stabilita da Rigaud e da Largillière, ha lasciato numerose effigi della fa- miglia reale di Sassonia e dell’alta società di Dresda e di Var- savia, tra cui si segnalano i ritratti equestri di Augusto II e del Principe ereditiero Federico Augusto e il grazioso ritratto della principessa Maria Giuseppa di Sassonia nelle vesti di Flo- ra (1747: castello di Moritzburg): andato distrutto nel 1945 è il dipinto commissionatogli da Augusto III, L’incontro di Neuhaus (1737), nel quale figuravano i principali personag- gi della corte sassone (bozzetti a Parigi, Louvre). Rientrato in Francia, nel 1752 succedette a C. A. Coypel nella direzione dell’Accademia: sue opere furono presenta- te ai Salons del 1750 e 1752. (mdb). Silvestre, Théofile (Fossat 1823 - Parigi 1876). Nella sua Histoire des artistes vi- vants français et étrangers, études d’après nature (1856) S ha de- scritto la personalità e la carriera dei principali artisti del suo tempo; è opera dal carattere ancora romantico, ma nata dall’intenzione di tramandare la realtà di una situazione ar- tistica effervescente, mescolando ai commenti stilistici il rac- conto delle conversazioni con i pittori e l’analisi della loro personalità. S fu un grande estimatore di Delacroix (Eugène Delacroix, documents nouveaux, 1864). S’interessò pure a Chenavard; difese le ricerche coloristiche di Diaz e sosten- ne, pur con qualche riserva, la dolcezza dei paesaggi di Co- rot, l’originale talento di Théodore Rousseau e l’idealismo di Millet. Se apprezzò in Courbet l’eccezionale abilità, attaccò, invece, assai severamente, il successo di Decamps e l’orgo- glio di Couture. S’accanì duramente contro Ingres (l’Apothéo- se de M. Ingres, 1862), rivelandosi critico dai giudizi limitati, incline a volte a espressioni volgari. Ebbe un difficile rap- porto anche con Horace Vernet, approdato, in seguito a un diverbio, a un penoso processo nel 1857. Malgrado i suoi li- miti, derivati dal carattere polemico, le monografie da lui ste- se risultano preziose per contenere abbozzi di cataloghi. (tb).

Storia dell’arte Einaudi Silvestro dei Gherarducci, don (Firenze 1339-99). Praticò la sua attività di miniatore e pit- tore a Firenze, dopo essere entrato in giovane età nell’ordi- ne camaldolese. L’unico documento in rapporto con la sua attività artistica lo ricorda nel 1383 in occasione di una for- nitura di colori per la chiesa di San Miniato al Monte, men- tre Vasari (1568) lo menziona come responsabile della de- corazione degli antifonari del convento di Santa Maria de- gli Angeli, suo luogo di residenza. La sua pittura risente dell’influenza degli Orcagna e, in particolare, di Jacopo di Cione, ma è pure soggetta a forti suggestioni, anche icono- grafiche, della tradizione senese, tanto da fare ipotizzare un suo soggiorno nella città toscana. Tra le opere su tavola che gli sono state riferite si possono ricordare la Vergine Assun- ta della pv di Roma, l’Estasi di Maria Maddalena della ng di Dublino, la Madonna dell’Umiltà delle Gallerie fiorentine, oltre al trittico, disperso tra vari musei e collezioni (Roma, coll. priv.; Musée d’Histoire del Lussemburgo; Museo di Denver; mma di New York e ng di Londra), databile in via d’ipotesi al 1372. La sua attività di miniatore trova un pun- to di riferimento essenziale nelle miniature del Corale n. 2 della Biblioteca Laurenziana di Firenze, datato 1370 e 1377. Sono piú tardi i Corali nn. 6, 9 e 19 della stessa Biblioteca e le miniature ritagliate della Fondazione Cini di Venezia, del bm e del vam di Londra, della pml di New York e del am di Cleveland. (sr). Silvio, Giampietro (Sedrina (Bergamo)? 1495 ca. - Venezia 1552). La prima opera sicura è la pala d’altare della chiesa di San Martino a Piove di Sacco, del 1532. L’attribuzione al S della Madon- na tra i santi Giustina e Benedetto e del Compianto su Cristo morto padovani (Ballarin) rilancia la presunta origine berga- masca dei pittore, che appare influenzato da motivi figura- tivi lombardi. A queste due opere, databili tra il 1515 e il 1520, seguono due Sacre Conversazioni (Baltimore, wag e San Francisco, M.H. De Young Memorial) in cui il S di- mostra una piú convinta partecipazione al clima della pittu- ra venera. Prima che s’imponga il prevalente richiamo a Ti- ziano, il S studia Lotto, Bonifacio de’ Pitati e Palma il Vec- chio. Dopo il già citato San Martino in trono di Piove di Sacco

Storia dell’arte Einaudi (1532), la carriera del pittore è scandita da tappe precise. La Pala Pasqualigo (Murano, Santa Maria degli Angeli) e il Cri- sto e l’adultera (Berlino, sm, gg) precedono il Matrimonio del- la Vergine iniziato nel 1539 per la Scuola della Carità di Ve- nezia e oggi nella chiesa parrocchiale di Mason Vicentino. Al 1542 risale il Ritratto d’uomo di Vienna (km). S opera in questo periodo un profondo ripensamento del proprio stile, accostandosi al manierismo e alle piú avanzate proposte di Tiziano, pur lavorando prevalentemente per la provincia. Ne rimane testimonianza nelle pale d’altare dell’Ascensione (1546: Aviano del Friuli, chiesa di San Zeno) e di San Ven- demiano tra i santi Gerolamo e Liberale (1549: chiesa par- rocchiale di San Vendemiano, presso Conegliano). (szu). Sima, Josef (Jaromer (Boemia orientale) 1891 - Parigi 1971). Frequentò la Scuola d’arti e mestieri e la Scuola di belle arti di Praga, dove conobbe l’impressionismo, il fauvisme, il cubismo e so- prattutto Cézanne. Trasferitosi in Francia nel 1920, a Hen- daye, in seguito si stabilì a Parigi. A Praga partecipò al grup- po d’avanguardia Devéstil e scrisse per la rivista «Red». La sua pittura, a metà strada tra un rude fauvisme (Conflans Sainte-Honorine, 1923: Museo di Praga), e un cubismo già tinto di surrealismo (Le Havre, 1923), passò per una breve fase costruttivista dopo l’incontro con Mondrian, van Doe- sburg e i membri del gruppo Esprit nouveau. Ma S comin- ciò dal 1926 a cercare in se stesso e nei ricordi delle sue vi- sioni preferite (il fulmine, la foresta, la luce prismatica, la luminosità d’un corpo femminile) gli elementi formativi del- la sua opera, ripresi per tutta la vita con incessante trasfor- mazione. Alla prima esposizione del Gran Jeu (1929) pre- sentò curiosi paesaggi surreali (Tempeste elettriche); espose nel 1930 un complesso di ritratti, tra i quali quelli, inquie- tanti, dei suoi amici Daumal e Lecomte (Museo di Reims). Si dedicò spesso a temi mitologici, oscillando tra l’ispira- zione surrealista, come nel Ritorno di Teseo (1933: Museo di Praga) e un intento di spoglio astrattismo, che meglio si av- verte nei paesaggi. Una prima sua retrospettiva ebbe luogo a Praga nel 1936. Dopo aver cessato di dipingere tra il 1939 e il 1949, nel 1950 tornò alla pittura riprendendo antichi te- mi: pianure, rocce, foreste, mitologie (la serie degli Orfeo del 1957 si definisce come esperimenti sul tema della luce). Si

Storia dell’arte Einaudi dedicò anche all’illustrazione e all’arte della vetrata, ese- guendo in collaborazione con Charles Marcq le vetrate del coro della chiesa di Saint-Jacques a Reims. Sue opere figu- rano nei musei di Parigi (mnam), Grenoble, Reims, Lione, Rouen, Saint-Etienne, Praga, Brno e Hluboka (Cecoslovac- chia), nonché di Bruxelles, Vienna, Losanna, e in numero- se collezioni private. (gbo). Simberg, Hugo (Hamina 1873 - Ahtäari 1917). È la figura piú importante del simbolismo finlandese. Terminati gli studi, fu allievo di Gallén. Su sua sollecitazione visitò Londra e Parigi nel 1895-96, e venne influenzato da Burne-Jones; viaggi suc- cessivi lo portarono in Italia, Spagna e nel Caucaso. Della sua produzione, realizzata prevalentemente a Kalela, sono da ricordare, per originalità, in primo luogo gli acquerelli ve- nati di misticismo, nei quali la meditazione metafisica si ac- compagna a un’ammaliante fantasia e a una concezione pan- teistica della natura (il Giardino della morte; il Gelo; l’Au- tunno; Povero Diavolo; il Contadino e la morte, 1895-97: tutti a Helsinki, nm), che rivela profondi legami con la cultura e l’arte popolare finnica piú arcaica. Nel corso degli anni 1904-906, S realizzò con Magnus Enckell i monumentali af- freschi del Duomo di San Giacomo a Tampere. Una inte- ressante raccolta dei suoi dipinti (Gelo, 1895: Vaasa, coll. Hedman, Pohjanmaa-Museum; Angelo ferito, 1903: Helsinki, km Ateneum, che fu prototipo tematico degli affreschi di Tampere) e acquerelli è stata presentata nella mostra vien- nese del 1973 (Österreichische Museum für Angewandte Kunst) sullo Jugendstil finlandese, che ne ha chiarito meglio il ruolo entro questo movimento. (ssk). simbolismo Definizione dei termine Nel 1886 il Manifesto del simboli- smo, pubblicato dal poeta Jean Moréas sul «Figaro Littérai- re», segna l’affermazione di un movimento che, nelle sue complesse articolazioni, dalla letteratura alla musica alle ar- ti figurative, interessa l’intera cultura europea allo scorcio del sec. xix. Scrive Moréas che scopo della poesia simboli- sta è l’espressione dell’Idea, rivestita di una forma sensibi- le, che, grazie alla rete delle analogie esteriori, ne renda tut-

Storia dell’arte Einaudi te le potenzialità allusive; reciprocamente i fenomeni con- creti non sono che «apparenze intese a rappresentare affi- nità esoteriche con le Idee primordiali». Si tratta di una net- ta inversione di tendenza rispetto al positivismo di Comte e all’intento scientista che permea sia il naturalismo lettera- rio di Zola che le sperimentazioni cromatiche dei neoim- pressionisti Seurat e Signac; movente dell’opera non è piú il dato percepito, pur se filtrato attraverso un temperamen- to – secondo la definizione coniata da Zola in Mon Salon (1866) –, ma l’interiorità, le dimensioni, già rese attuali dal romanticismo, dell’immaginazione, della visione, del sogno, estrinsecare con la mediazione, polisemica e strutturalmen- te ambigua, del simbolo. Il retroterra filosofico, sancito da René de Gourmont nel saggio Idealisme (1892), ha il suo ca- posaldo in Hegel, ora riletto in chiave neoplatonica, e i suoi versanti, alternativamente, nel pessimismo introverso di Schopenhauer (tradotto nel 1886) e nella fede nell’intuizio- ne di Bergson, il cui Essai sur les données immediates de la co- science (1889) apre al vitalismo delle avanguardie definitesi nel primo decennio del Novecento. Questo sfondo illumina le scelte ideologiche del s e le pone in una fin troppo facile antitesi con i valori avanzati dalla contemporanea borghe- sia: il rifiuto del presente, la proiezione in ipotetici revivals del passato, sia mitico che storico, la segregazione nell’am- bito di cerchie ristrette o nel culto del proprio sé, la coscienza dell’esaurimento di una civiltà tanto estenuata quanto raf- finata, sono tutti dati che smentiscono lo slancio progressi- vo espresso dalla dinamica dei conflitti sociali, della politica espansionistica, dello sviluppo sotteso alle concentrazioni di capitale, Ma, soprattutto nell’ambito delle arti figurative, il s si rivela prodotto del proprio tempo: arte profondamente colta, nutrita delle piú variate suggestioni letterarie e, a li- vello iconografico, di reminiscenze museali e testimonianze di altre culture, essa presuppone una circolazione di idee e di manufatti, sempre piú complessa nella seconda metà dell’Ot- tocento ed esemplificata nell’enciclopedica scenografia delle Esposizioni Universali parigine del 1867, 1878, 1889. I precursori La poesia di Baudelaire è la fonte per eccel- lenza dell’immaginario simbolista, mentre minor presa regi- strano le tesi espresse dal Baudelaire critico. La stessa vi- cenda esistenziale del poeta diviene esemplare di quell’im- magine di sé cui l’artista ora tende: isolamento aristocratico,

Storia dell’arte Einaudi comportamenti trasgressivi spinti fino all’esibizione, con- flitti, dubbi e dolorose inerzie nella creatività, coscienza dell’inevitabile frustrazione cui è destinato l’uomo di genio. I temi dei Fleurs du Mal (1857), e delle novelle di E. A. Poe, tradotte da Baudelaire fra il 1856 e il 1865, la donna vitti- ma o fatalmente malefica, le morbide fantasie suscitate dal- le droghe, la morte nelle varie declinazioni del macabro, so- no oggetto delle piú svariate citazioni e rifacimenti; il poe- ma Correspondances diviene uno dei testi fondanti il credo simbolista, nel suo postulare sottili assonanze fra stati dello spirito e fenomeni naturali, percepibili ed esprimibili solo dall’affinata sensibilità dell’artista. Tale tesi risale al misti- co svedese E. Swedenborg (1688-1772) – conosciuto del re- sto in Francia grazie alla novella Seraphitus Seraphita (1835) di Balzac –, per il tramite dei romantici tedeschi, specie Frie- drich Schlegel e Novalis che interpretavano la natura in ter- mini di «scrittura geroglifica dello spirito»; Baudelaire ne offre una versione laicizzata che, nei simbolisti, tornerà a tingersi di trascendentalismo ed esoterismo, nel quadro del- la fortuna, incontestata a partire dagli anni Ottanta, delle dottrine neoplatoniche e teosofiche (H. Blavatsky, Isis un- veiled, 1878), con un’accentuazione del tema della clair- voyance, dell’occhio interiore dell’Ispirato, cui solo si ma- nifesta l’Idea (Edouard Schuré, Les grands initiées, 1889). Speculare a Baudelaire è il secondo nume tutelare del mo- vimento, Richard Wagner, la cui musica e i cui scritti (Arte e Rivoluzione, L’opera d’arte dell’avvenire, 1849) personifi- cano un’esaltazione dell’individualità ai limiti del titanismo, una fede risolutiva nell’atto creativo, catalizzatore di una sintesi delle arti nello slancio verso il Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale. La «Revue wagnerienne» (1885-87), animata dai critici Edouard Dujardin e Theodor de Wyzewa, è la fucina di molti temi della cultura simbolista; dalle tesi di Wagner muove l’ammirazione di Gustave Moreau per Mi- chelangelo e di Josephin Péladan per Leonardo; le sue ope- re si fanno luogo privilegiato d’ispirazione per i pittori, da Henri Fantin-Latour a Jean Delville; Parsifal, in particola- re, si contrappone all’aura demoniaca dell’eroe baudelairia- no, quale modello di rinuncia al mondo e di ascesi mistica. Le due anime del s convergono nel Sartor Resartus (1834) di Thomas Carlyle, altro polo di riferimento, meno citato ma

Storia dell’arte Einaudi negli esiti altrettanto incisivo dei precedenti: il protagoni- sta del libro percorre un ambiguo cammino di redenzione, in cui si perdono valori ormai esauriti e si rinasce a uno spi- ritualismo dai contenuti ancora elusivi. La duplicità, la la- cerazione fra opposte tensioni, sembra del resto attributo distintivo dell’artista simbolista, già sofferta da Baudelaire, testimoniata dal richiamo di Mallarmé alla figura di Amle- to, «presente per vizio ereditario nelle menti di fine seco- lo», evidente negli autoritratti di Gauguin del 1889 (Auto- ritratto con l’alone, Autoritratto con il Cristo giallo) e nel te- ma ricorrente dell’angelo caduto in Redon e nel russo Mikhail Vrubel´. Altri passi di Carlyle, la celebrazione del Segreto e del Silenzio, nel cui solo ambito può elaborarsi il Simbolo, rivelazione dell’Infinito, risultano fondanti per molte ricerche, dal poeta Maeterlinck al pittore Ferdinand Khnopff. Grande suggestione esercitano le opere degli ispi- ratori dell’Aesthetic Movement inglese, dal socialismo utopi- co dell’architetto e saggista William Morris, che alla produ- zione industriale oppone organizzazioni corporative e tec- nologie artigianali, al decadentismo del poeta Charles A. Swinburne, la cui morbosa immaginazione, divisa fra Eros e Thanatos, si riflette nei quadri tardi del preraffaellita Ros- setti, allo stesso pittore James McNeill Whistler, che nell’al- lora pluricitata conferenza Ten’o clock Lecture (1885), se- para le ragioni dell’etica e dell’estetica, definendo sola ve- rità dell’opera quella inerente la sua bellezza intrinseca. Il quadro culturale Nonostante il reiterato rifiuto della con- temporanea realtà socio-economica, il milieu simbolista ne condivide appieno l’attivismo: gli anni Ottanta e Novanta registrano, specie sull’asse Parigi-Bruxelles, tutto un fiorite di iniziative che testimoniano la raggiunta consapevolezza da parte di critici, amatori, artisti, dell’esistenza di un mer- cato culturale cui occorre presenziare con assiduità e inter- venti di richiamo, pena il rapido consumo e l’obsolescenza delle ricerche in atto. Le direttrici del movimento sono se- gnate dai poeti: la scrittura ermetica di Mallarmé (Poésies, 1887) è esemplare del suo precetto che per suscitare il sim- bolo occorre suggerire piuttosto che descrivere; le raccolte di Verlaine (Sagesse, 1881), di Laforgue (Complaintes, 1885), di Maeterlinck (Serres chaudes, 1888) evocano stati silenti e scenari di decadenza e di malinconico abbandono, poi cari a molti pittori, dai nabis Maurice Denis e Pierre Bonnard a

Storia dell’arte Einaudi Edouard Aman-Jean, Lucien Levy Dhurmer, Henri Le Si- daner; piú che il disturbatore Rimbaud, un primo esempio di mitizzazione per motivi avulsi da un’effettiva comprensione dell’opera, risulta congeniale un altro maudit, Villiers de l’Isle Adam, con i suoi racconti macabri e fantastici. Sul piano dei procedimenti compositivi, le ricerche di René Ghil (Traité du verbe, 1886), sull’omologazione del linguaggio verbale al mu- sicale, entrambi trattati come materiali astratti e autorefe- renti, e di Gustave Kahn sul verso libero risulteranno im- portanti per le successive avanguardie pittoriche, ai fini dell’evidenza prestata all’autonomia di funzionamento dei si- gnificanti. Un libro, soprattutto, catalizza lo stile del perio- do, fatto di ideologie regressive, eccentricità, misticismo ed erudizione: si tratta di À Rebours (1884) di Joris K. Huy- smans, il cui protagonista Des Esseintes, modellato sull’Usher di Poe e sul conte Robert de Montesquiou, prefigura il tipo dell’esteta moderno, aristocratico e nevrotico, poi esemplifi- cato dagli scrittori Oscar Wilde e Jean Lorrain. La stampa si fa veicolo privilegiato di tale flusso di idee, rendendo acces- sibili al grande pubblico gli esiti delle riunioni, altrimenti se- lettive, che si tengono alla Rive gauche, nella redazione del- la «Revue Indépendante», nel caffè Voltaire, il martedì a ca- sa di Mallarmé, e che vedono insieme letterati e pittori. Quotidiani ed ebdomadari di costume contendono recensio- ni e interventi critici e polemici alle riviste specializzate, sem- pre piú numerose a partire dal 1886, dalla citata «Revue Indé- pendante» e «La Vogue», entrambe animate da Felix Fénéon e G. Kahn, a «Le Décadent», alla belga «La Wallonie» di Albert Mockel, che si affianca a «L’Art moderne» di Octa- ve Maus, organo della Societé des Vingts (1884-93), alla nuo- va serie, dal 1890, del «Mercure de France». Dal 1891 la «Revue Blanche» segna una nuova strada, anteponendo al dibattito delle idee il preziosismo della veste grafica e l’alta qualità delle illustrazioni, affidate a Toulouse-Lautrec e ai na- bis; assieme a «La Plume», essa diviene il prototipo delle ri- viste che, dalla metà degli anni Novanta, diffonderanno in Europa lo stile Art Nouveau. Le riviste si fanno promotrici di incontri, mostre, banchetti, che mescolano agli artisti gior- nalisti e politici: famosi quelli dell’inverno 1891 in onore di Moréas e poi di Gauguin al caffè Voltaire e quelli, organiz- zati da «La Plume», nel 1895 per Puvis de Chavannes con

Storia dell’arte Einaudi 500 invitati, e nel 1900 per Rodin. A tale disordinato atti- vismo, al definirsi e rifluire di gruppi intorno ad effimere te- state, corrispondono, sul piano politico, precise simpatie per le posizioni libertarie e anarchiche: il rivolgimento dei mez- zi espressivi, intrapreso nell’ambito delle diverse pratiche ar- tistiche, non disdegna come controparte operativa lo stesso impiego del terrorismo, pur di sostituire alla disprezzata bor- ghesia una società egualitaria, dove siano meglio assicurate le condizioni della creatività individuale. Le fonti iconografiche e i maestri Data l’affinità con l’Ae- sthetic Movement, una sorta di anglomania contraddistin- gue la cultura simbolista: il viaggio immaginario del deca- dente Des Esseintes ha per meta l’Inghilterra, mentre deci- sivi soggiorni a Londra compiono Mallarmé e Verlaine e i pittori Carriére e Khnopff. Di conseguenza grande favore ottengono a Parigi e Bruxelles le Sinfonie e i Notturni di Whi- stler, ricondotti alla wagneriana analogia di musica e pittu- ra e le filosofiche allegorie di George Watts, rese in figure femminili estenuate nei toni soffusi; soprattutto suscitano sensazione i quadri esposti da Edward Burne Jones all’Espo- sizione Universale del 1878, Love among the Ruins e Merlin and Viviane, come poi King Copethua and the beggar Maid e il ciclo del Perseo, presentati, rispettivamente, ai Salons del 1889 e del 1893. Da Burne Jones si risale ai primitivi, al Bea- to Angelico, caro a Denis, al Carpaccio studiato da Moreau, a Botticelli; la sua pittura segna la via per una dimensione spazio-temporale immota e sospesa, dove miti classici e sa- ghe nordiche non sono rivissuti con emotività, come nel con- temporaneo svizzero Arnold Böcklin, ma oniricamene evo- cati. Sempre provenienti dall’Inghilterra, le incisioni dei pre- raffaelliti Rossetti e Millais per l’edizione Moxon dei poemi di Tennyson, e i libri, preziosamente illustrati della Kelm- scott Press di Morris, ribadiscono la validità dell’Ut pictura poesis, precetto esemplare per l’immaginario simbolista, co- sì carico di suggerimenti letterari. Maestro di questa linea è Gustave Moreau, il pittore preferito da Des Esseintes: la sua opera è ispirata da Flaubert, dagli opulenti e sanguinari sce- nari orientali di Salambÿ (1872) e della Tentation de saint An- toine (1874), e soprattutto da una complessa rete di letture, dove confluiscono ricordi di civiltà antiche ed esotiche, se- condo un sincretismo tipico della cultura del periodo, volta a ricondurre la religiosità alle sue radici nella psiche e nei

Storia dell’arte Einaudi miti dell’inconscio collettivo. Come tutti i pittori simboli- sti, Moreau predilige il nitido e saldo assetto compositivo di Ingres, ma la sua teoria del colore come equivalente astrat- to di stati introspettivi, di emozioni e visioni, risale a Dela- croix, origine, del resto, di analoghe tesi, formulate, dal 1888, da van Gogh e Gauguin. Un’altra linea della figura- zione simbolista, che trova i suoi precedenti nelle allucina- zioni di Bosch e di Grünewald, nei Caprichos di Goya, nei desolati spazi delle litografie di Rudolphe Bresdin, dove av- vengono inverosimili metamorfosi di piante e animali, ha la sua piú alta e isolata espressione nell’opera grafica di Odi- lon Redon. Questi è il piú libero, fra tutti i contemporanei, da ogni eventualità di inquinamento letterario: le sue crea- ture fantastiche sono puri residui onirici, fluttuanti in spa- zi indefiniti, resi credibili dall’intento di porre «la logica del visibile al servizio dell’invisibile». Se Moreau e Redon sono apprezzati dai poeti e dai critici, maestro incontestabile per i pittori della generazione simbolista resta Puvis de Cha- vannes, un protagonista anche per gli incarichi ufficiali con- feritigli dalla Terza Repubblica. Di Puvis colpiscono le at- mosfere statiche e remote alla Burne Jones, ma prive di com- piacimenti estetizzanti e inserite in una serrata struttura architettonica; la capacità di decorateur, di organizzare cioè sintetiche rappresentazioni su vaste superfici; e le tematiche affrontate, i cicli delle stagioni e delle età dell’uomo, il Bo- sco sacro alle Muse, l’Età dell’Oro. Se il suo influsso è di- retto su un gruppo di pittori gravitante attorno ai Salons de la Rose-Croix, Jean Cazin, Henri Martin, Charles Maurin, René Menard, Alphonse Osbert, Alexandre Séon, il suo pro- cedimento, volto a una trasposizione abbreviata e semplifi- cata dei fenomeni osservati, è un diretto antecedente del sin- tetismo di Gauguin e dei Nabis. Vanno infine citati come fonti, in polare antinomia ai quotidiani contesti degli im- pressionisti, certi luoghi deputati, con tutta la tradizione ico- nografica ad essi connessa: le città vive solo del proprio pas- sato, Firenze, Venezia, Oxford e Bruges, evocata dal poeta George Rondebach e da Khnopff; Bisanzio, cui si abbina, fin da Verlaine, il tema della decadenza; gli spazi del mito, dall’edenico giardino delle Esperidi (Hans von Marées) ai deserti abitati da Sfingi e Chimere (Moreau, Rops, Khnopff, von Stuck, Klimt); il Medioevo dei cicli arturiani (Aubrey

Storia dell’arte Einaudi Beardsley, Arthur Rackam), spesso confuso, a seconda del- la provenienza degli artisti, con il folklore delle leggende bre- toni (Edgard Maxence, allievo di Moreau, i Nabis), scandi- nave (Aksel Gallen-Kallela), slave (il grafico Alphonse Mu- cha, Mikhail Vrubel´, i pittori del gruppo moscovita Mir Iskousstva, il Mondo dell’Arte, 1898-1904). Tendenze della pittura Nell’ambito delle arti figurative, la produzione simbolista è sostanzialmente disomogenea; con- troversa, a partire dagli stessi protagonisti, è l’applicazione del termine simbolista a questa o quella ricerca. Nel diver- sificarsi di gruppi o di società piú o meno ufficiali di artisti, di etichette, di manifesti, di iniziative espositive, emergono comunque delle linee di tendenza. La prima è riconducibile al sintetismo, originato dalle ricerche condotte da Gauguin, prima con Emil Bernard a Pont-Aven nell’estate 1888 e poi con van Gogh ad Arles nell’autunno successivo; dal 1890, e dopo la partenza di Gauguin per Tahiti nel 1891, la linea è proseguita dal gruppo dei Nabis (Profeti, in ebraico), Denis, Ranson, Sérusier, Bonnard, Vuillard. Al di là degli esiti re- lativi allo specifico pittorico, questa tendenza è la piú ag- guerrita teoricamente, per l’essere fiancheggiata dai piú av- veduti fra critici e letterati del s, Dujardin, Kahn e Gilbert Aurier, Charles Morice, Alphonse Germain, che, in un con- tinuo interscambio con i pittori, ne espongono ragioni e mo- dalità operative. In una serie di contributi, in cui vanno in- clusi scritti degli stessi artisti, van Gogh, Gauguin, Denis, sono così poste le premesse teoriche delle avanguardie e del- la loro acquisizione della natura convenzionale e astratta del linguaggio pittorico, una scrittura autoreferente, il cui valo- re consiste nella coerenza interna del sistema dei segni, e non nell’immediato raccordo fra rappresentazione ed oggetto esteriore. Fra gli altri, Aurier, in Gauguin, le Symbolisme en peinture (1891), sottolinea il carattere intellettualistico e la matrice neoplatonica della nuova arte, originata dalla me- moria; di conseguenza, l’opera si configura come «ideista, simbolista, sintetica, soggettiva, decorativa». I Nabis svi- luppano in cifra ornamentale, precorritrice dell’Art Nou- veau, e sempre piú memore della grafica giapponese, i trat- ti salienti della figurazione sintetista, la referenzialità emo- tiva e non fenomenica del colore, la bidimensionalità, le nette linee di contorno, le arbitrarie gerarchie spaziali, ca- ricando inoltre le opere di allusioni mistiche e occulte, deri-

Storia dell’arte Einaudi vate dalle letture teosofiche. Affascinati dal mito della sin- tesi delle arti, collaborando con scenografie, locandine, ma- nifesti alle rappresentazioni del Théâtre d’Art di Paul Fort e del Théâtre de l’Œuvre di Lugné-Poe: ai drammi di Maeter- linck, Strindberg, Ibsen, sono prestati scenari spogli, da cui emerge distillata la sola qualità espressiva della voce e del gesto degli attori. Un altro versante della pittura simbolista trova il suo fulcro negli annuali Salons de l’Ordre de la Ro- se-Croix, organizzati a Parigi, dal 1892 al 1897, dal sâr (Ma- go) J. Péladan: per l’affluenza di artisti e il successo di pub- blico essi costituiscono una sorta di manifesto ufficiale del movimento e un punto di incontro per ricerche di prove- nienza diversa. Il loro promotore, scrittore e saggista (Le vi- ce supréme, 1884), è un tipico esponente di quella frangia della cultura simbolista che intende opporre alla decadenza, scaturita dal materialismo, il recupero di un’ambigua spiri- tualità, in cui convergano un fideistico cattolicesimo, prati- che magiche connesse al vasto favore allora incontrato dal- la letteratura esoterica, e la religione esclusiva dell’arte, con vertice nella musica. Gli artisti invitati ai salons ne doveva- no condividere il programma, la rovina del Realismo, il ri- pristino del culto dell’Ideale, con la Tradizione per base e la Bellezza per fine; soli soggetti ammessi erano la leggenda, il mito, l’allegoria, il sogno, le parafrasi della grande poesia; la nuova arte avrebbe rigenerato l’uomo nelle forme compiute dell’androgino. I salons segnarono l’affermazione del citato gruppo di pittori seguaci di Puvis, ora interpretato in chia- ve esplicitamente onirica, e di altri piú vicini alle fonti pre- raffaellite, Armand Point, Carlos Schwabe, George de Feu- re. Fin dal 1892 emerge la rappresentanza straniera, l’ita- liano Previati, lo svizzero Hodler (I delusi), l’olandese Toorop (Le tre spose), e i belgi Khnopff (La Sfinge) e Delville l’idolo della perversità), emblematici, questi, delle tematiche piú distintive della produzione simbolista e che, poi, riaffio- reranno nella metafisica e nel surrealismo: l’assorta dimen- sione della memoria e del sogno e l’estetizzante ammissione di perversioni e satanismi. Un altro punto di aggregazione è offerto dai Salons de la Libre Esthétique, organizzati a Bruxelles da O. Maus come seguito a quelli, tenuti nel de- cennio precedente, dalla Societé des Vingts e che avevano sancito il successo dei neoimpressionisti; ora vi si segnalano

Storia dell’arte Einaudi Léon Spillaert, Degouve de Nuncques, Xavier Mellery, George Minne, mentre continua a restare isolato James En- sor. La Societé des Vingts una libera unione di artisti, ac- comunati dal rifiuto delle strutture accademiche e dei salons ufficiali, è del resto il prototipo delle secessioni, costituite- si nel 1892 a Monaco con Franz von Stuck, e a Berlino, con Max Liebermann e Max Klinger, e nel 1897 a Vienna con Gustav Klimt. In particolare, la secessione berlinese nasce come risposta alla decisione delle autorità cittadine di chiu- dere la mostra, ritenuta scandalosa, di Edgar Munch, il pit- tore che, per l’esito angoscioso dei temi e la connessa, allu- cinata resa spaziale, segna il raccordo, esemplare per l’area mitteleuropea, fra s ed espressionismo. (mgm). Simone da Cusighe (Belluno, documentato dal 1386 al 1403). È la prima perso- nalità nota della pittura bellunese, La sua formazione do- vette compiersi in sede locale tra il settimo e l’ottavo de- cennio del Trecento e, come attestano i documenti, la sua bottega svolse un’attività polivalente, versata sia nella pit- tura sia nell’intaglio ligneo; tra 1396 e 1397, per esempio, egli risulta pagato per un grande e perduto polittico desti- nato all’altare maggiore della Cattedrale di Belluno, con mo- tivazioni legate solo a lavori di intaglio e doratura. La sua attività di pittore è attualmente rappresentata da due sole opere, entrambe firmate: il polittico del 1394, conservato presso la Ca’ d’Oro di Venezia, e l’anconetta del mc di Bel- luno, databile intorno al 1400. Le caratterizza una parlata generica e conformista, piacevole per il tono di «bonomia rustica» e per un gusto ingenuo della narrazione aneddoti- ca; la base linguistica è radicata alla cultura figurativa vene- ta di medio Trecento, segnata dagli apporti emiliani, men- tre sono solo marginali gli aggiornamenti alle piú recenti esperienze della pittura lagunare e padovana. (tf). Simone da Firenze (documentato nel 1523). Nonostante l’origine fiorentina, ri- sulta attivo esclusivamente nell’Italia meridionale. Il suo no- me si ricava da un’epigrafe che compare nel polittico di San- ta Maria degli Angeli a Senise, datato 1523. Si tratta di un’opera in cui la tipologia arcaica della pala d’altare a piú scomparti contrasta con il tentativo di ammodernamento fi-

Storia dell’arte Einaudi gurativo compiuto dall’artista, il quale fa largo uso delle stam- pe di Marcantonio Raimondi tratte da Raffaello, cercando, pur con una mentalità ancora tardoquattrocentesca, di acco- starsi allo stile delle Logge vaticane nella versione compen- diaria e patetica datane da un Pedro Machuca o da un Poli- doro da Caravaggio. Tra il 1515-23 ca. possono inoltre col- locarsi il Polittico di san Michele arcangelo della parrocchiale di San Chirico Raparo, quello dell’Annunciazione, già nell’An- nunziata di Salandra, e quello smembrato in Santa Maria del Sepolcro a Potenza, nei quali ricompare la sua propensione a basare i propri dipinti su accreditate composizioni altrui. Piú tardi sono invece il San Pietro e il San Paolo del mn di Reggio Calabria e la Madonna del Carmine di San Michele a Poten- za, dove si colgono richiami allo stile maturo di Polidoro. È probabile che la fase piú antica di SdF (1505-1510 ca.) sia da identificarsi nell’opera del cosiddetto Maestro del Polittico di Angri, contraddistinta da palesi derivazioni da modelli fio- rentini della fine del Quattrocento. (rn). Simone di Filippo, detto dei Crocifissi (Bologna, documentato dal 1355-99). Deve l’appellativo «dei Crocifissi» alla seicentesca interpretazione pietistica della sua produzione. È maestro nel 1355, in una Bologna di seconda metà Trecento nella quale la sua bottega ha po- sizione praticamente egemone: le sue opere sono sempre con- dotte all’insegna della piú grande qualità tecnica, mentre lo stile riduce a formula, a tratti convenzionale e rigida, a trat- ti persino artigianale, e in ogni caso discontinua nei risulta- ti, il linguaggio di Vitale da Bologna, in epoca giovanile, e di Jacopino di Francesco in fase di piena maturità. SdF parte dunque da Vitale (polittico smembrato con An- nunciazione e Incoronazione della Vergine: Bologna, pn) al quale presto affianca certe luminosità dalmasiane (polittico 474 con Incoronazione della Vergine, 1365-70 ca.: ivi), subi- to ricomposte in cromie accese e «taglienti» per pose piú pa- tetiche o monumentali, come nel «ritratto», firmato, in me- moria di Papa Urbano V (ivi) o nella Sant’Elena e una mona- ca donatrice (ivi), forse proveniente dal convento delle agostiniane di Sant’Elena. Nel 1355 ca. affrescava già, accanto a un non identificato Jacobus e firmandosi nella scena della Guarigione del parali-

Storia dell’arte Einaudi tico, Scene bibliche e Storie di Cristo in Santa Apollonia di Mezzaratta (in parte in loco e Bologna, pn), proseguendo il ciclo iniziato dal maestro Vitale nei primi anni ’40: le cin- que Storie dell’Antico Testamento che SdF si impegna, se- condo un documento, ad affrescarvi nel 1366 dovrebbero invece esser andate perdute, poiché non corrispondono, non fosse che per l’iconografia, a quelle conservatesi, che nel to- no narrativo spigliato e rusticale appaiono non ancora infir- mate dalla grossolanità spesso presente in opere piú tarde. La intensa Pietà, commissionata in memoria di Giovanni Elthinl, morto nel giugno 1368 (Bologna, Museo Davia-Bar- gellini), forzata all’asperità emotiva dal tema stesso del di- pinto e il Crocifisso di San Giacomo, del 1370, sono ancora opere dignitose e possono servire (Ferretti, 1981), a confor- tare l’importante attribuzione a SdF non soltanto dei tabel- loni del Crocifisso (Bologna, Collezione Comunale d’Arte, n. 1291) scolpito da un ignoto intagliatore coevo, ma della policromatura stessa della figura, così come del gruppo li- gneo, di medesimo scultore, componente una Adorazione dei Magi in Santo Stefano. Opere dell’ultimo decennio del Tre- cento appaiono il diseguale polittico 298 con l’Incoronazio- ne della Vergine al centro (Bologna, pn) forse proveniente da San Leonardo e la predella con scene dalla Vita della Vergi- ne (1396-97 ca.: ivi). Queste ultime esprimono, nel loro pic- colo formato, la parte migliore del linguaggio di SdF, come peraltro già evidente in altre opere di devozione privata, co- me il trittichetto-reliquiario del Louvre di Parigi, la Trinità di Lipsia (Akademie der bildenden Künste) e la preziosa cas- settina del vam di Londra. (scas). Simonini, Francesco (Parma 1686 - Venezia? dopo il 1753). Formatosi presso Ila- rio Spolverini a Parma, nonché sullo studio di Jacques Cour- tois e delle incisioni di Callot, S soggiornò a Roma e poi a Bologna; si stabilì infine a Venezia, dove è segnalato nella corporazione dei pittori tra il 1740 e il 1745. In quest’epoca operava già (almeno dal 1733) per il maresciallo von der Schu- lenburg, che accompagnò verosimilmente nei suoi viaggi, di- pingendo per lui scene di battaglia e ritratti (un Ritratto eque- stre del maresciallo e nove delle battaglie dipinte per lui si tro- vano nel Museo di Hannover). Il suo linguaggio è innanzi tutto veneziano: la sua predilezione per i colori chiari, stesi

Storia dell’arte Einaudi a rapidi tocchi, fa pensare a Guardi, anch’egli protetto di Schulenburg. S fu maestro di Casanova. La sua ricca produ- zione è attestata, oltre che dagli affreschi a grisaille nella Vil- la Pisani a Stra (dopo il 1740), da molte tele raffiguranti bat- taglie, cavalieri, paesaggi conservate in numerosi musei e in collezioni private in Italia e all’estero. (sb). «Simplicissimus» Settimanale satirico illustrato, pubblicato a Monaco dal 1896 al 1944 e fondato da Albert Langen, che ne fu il pri- mo editore. Tra gli autori delle illustrazioni, di forte impat- to politico e talvolta attestanti ricerche visive di notevole audacia, menzioniamo Thomas Theodor Heine, Olaf Gul- bransson, Bruno Paul, Rudolf Wilke e Karl Arnold; colla- borarono pure a «S» Käthe Kollwitz, Pascin e Steinlen. Una mostra dedicata alla storia della rivista e ai suoi illustratori si è tenuta a Monaco (Haus der Kunst) nel 1977-78. (sr). simultaneismo Il termine s (Simultaneisme) e le proposte che implicò nel di- battito teorico per una nuova forma d’arte, fu al centro di vivaci dispute tra le due correnti principalmente interessa- te alla questione: da un lato Robert Delaunay e dall’altro i futuristi. Occorre tuttavia ricordare, come scrive Apollinai- re, che «L’idea di simultaneità […] nel 1907 già preoccupa- va Picasso e Braque che si sforzavano di rappresentare fi- gure e oggetti sotto diversi aspetti e allo stesso tempo» e in genere è presente nella ricerca cubista, in Léger, e ancora nell’arte di Picabia e Duchamp. Ma furono, in effetti, i futuristi a impiegare per primi il ter- mine «simultaneo» e ad inserirlo nei loro manifesti, secon- do quanto dichiara Boccioni sulle pagine di «Lacerba» (gen- naio 1914). Boccioni stesso, ancor prima, nel corso di una conferenza tenuta a Roma il 29 maggio 1911, impiega, nell’esposizione, il concetto di «simultaneità». D’altro canto Delaunay fu il primo ad associare la nozione di s al colore e alla luce, in sintonia con un’arte che a questi elementi attribuiva assoluta centralità. La disputa, alimentata da Apollinaire, portavoce di entram- be le parti, appare del resto futile, alla luce dei diversi me- todi e fini riscontrabili nelle due ricerche. E, mentre il s fu-

Storia dell’arte Einaudi turista è rivolto alla resa del movimento ed è inscindibile dal concetto di dinamismo, Delaunay, opponendo l’idea di si- multaneo a quella di successivo, intende per s non una «fi- losofia dell’arte» bensì una maniera, un metodo. Egli è l’ere- de dei teorici del colore, Rood e prima ancora Chevreul, che così avevano definito, nella prima metà dell’Ottocento, la legge del contrasto simultaneo dei colori: due colori giu- stapposti appaiono, a causa di tale giustapposizione, piú di- versi tra loro di quanto in realtà non siano. La vibrazione cromatica, ottenuta per giustapposizioni, è l’elemento pri- vilegiato da Delaunay per superare la prospettiva lineare che rappresenta, per l’artista francese, il fondamento della figu- razione. Il colore è, al contempo, forma e soggetto della «pit- tura pura», ove la rappresentazione degli oggetti non ha piú ragione d’essere e viene pertanto abbandonata. La struttu- ra dell’opera sarà garantita dal solo colore. Delaunay defi- nirà «costruttiva» la fase nuova dei contrasti simultanei, quella cioè delle Finestre e dei Dischi. L’attenzione futurista è, invero, rivolta alla resa di una «sen- sazione dinamica» e alla creazione di un’immagine referen- te della «simultaneità degli stati d’animo». L’opera futuri- sta mira al conseguimento di una sintesi e di una fusione tra «ciò che si vede» e «ciò che si prova», aspira cioè a una coe- sistenza tra rappresentazione dello spazio e rappresentazio- ne del tempo. Il s non riguarda soltanto la pittura ponendosi come pro- blema anche nell’ambito della plastica. Sia Apollinaire che Boccioni rivendicano l’invenzione della simultaneità nella scultura. Ugualmente, il s investe la questione linguistica della scrittura poetica, come attestano Les fenetres di Apol- linaire, e la Prose du Transsibérien di Cendras, il cui testo ri- goroso si accompagna a una composizione simultanea di So- nia Delaunay. Analoghi tentativi si riscontrano nella sperimentazione mu- sicale, soprattutto con il valzer di Lanner, del 1913, Le Sa- cre du Printemps, nel quale al motivo classico si giustappon- gono arie e ritornelli appartenenti a canti popolari. (hs). Sinai, monte Il monte S, in Egitto, ospita il monastero ortodosso di San- ta Caterina. Dedicato alla Vergine quando Giustiniano lo fondò, dopo la morte dell’imperatrice Teodora (548), rice-

Storia dell’arte Einaudi vette la denominazione attuale nel sec. xii. L’interesse del- l’imperatore per questa fondazione e l’alta qualità dell’ope- ra consentono di supporre che la decorazione musiva sia do- vuta a maestranze costantinopolitane. La Trasfigurazione oc- cupa il catino dell’abside della chiesa: Cristo è in piedi in una gloria ovale; ai suoi lati sono Mosè ed Elia, con la ma- no levata in gesto profetico. Il monte Tabor non è rappre- sentato. Ai lati dell’apostolo Pietro gli apostoli Giovanni e Giacomo, in ginocchio, esprimono meraviglia levando le braccia. Il restauro ha riportato l’opera alla ricchezza origi- nale dei colori, estremamente delicati, e ha evidenziato la qualità luministica del mosaico (specie nel particolare del drappeggio di Cristo, dove unitamente alle tessere d’argen- to sono impiegate tessere verdi e rosa). I ritratti degli Apo- stoli, a mezzo busto, entro medaglioni, ornano l’intradosso dell’arco contrassegnato in alto dal crisma, mentre quelli dei Profeti, con al centro Davide, sono rappresentati nella par- te bassa del catino absidale. Alle estremità si trovano i ri- tratti a busto dell’igumeno Longino e del suo diacono Gio- vanni; due Angeli in volo sono raffigurati ai lati di un me- daglione con l’Agnello mistico, mentre un po’ piú in basso, sui lati, altri medaglioni racchiudono i busti della Vergine e di Giovanni Battista. La rappresentazione di episodi della vi- ta di Mosè (Mosè dinanzi al roveto ardente e Mosè che riceve le tavole della Legge) sull’arco trionfale sono esplicitamente connesse alla localizzazione del santuario sul monte S. Que- sti mosaici, di un’arte sobria e insieme potente, rappresen- tano una delle rare testimonianze di epoca giustinianea con- servate nel territorio dell’impero. Completano l’insieme due scene ad encausto sulla faccia ovest dei pilastri marmorei posti dinanzi all’abside: a sini- stra, il Sacrificio di Isacco, uno dei temi del Vecchio Testa- mento piú frequentemente rappresentati nell’alto Medioe- vo, a destra l’Immolazione della figlia da parte di Iefte, a com- pimento del voto da lui fatto prima della battaglia contro gli Ammoniti (Giudici, XI, 30-40) documenta l’uso di una rara iconografia. Entrambe le scene sembrano essere una prefigurazione della Passione, interpretazione attestata per certo per il tema iconografico del Sacrificio di Isacco. Lungo le pareti sud della cinta del monastero una cappella decora- ta verso il sec. xiv presenta sull’abside il Tabernacolo della

Storia dell’arte Einaudi Testimonianza: Mosè e Aronne sono ai lati dell’altare che so- stiene l’arca dell’alleanza; al di sopra dell’altare compare il busto della Vergine, conforme all’interpretazione cristiana che considera l’arca una figura della Vergine. Il busto di Cri- sto occupa il catino dell’abside. La raccolta di icone del monastero di Santa Caterina – in numero di oltre duemila – è la piú importante del mondo e contiene opere che vanno dal sec. v ai giorni nostri preser- vatesi dalla furia iconoclasta grazie alla posizione isolata del- la comunità religiosa e alla distanza del monastero da Co- stantinopoli. Tra le antiche icone si distinguono due esem- plari ad encausto, rappresentanti l’una San Pietro, l’altra la Vergine in maestà fra due santi, testimonianze preziose dell’ar- te costantinopolitana del vi e vii secolo. Piú tarde sono quel- le che facevano parte dell’iconostasi delle cappelle e recano rappresentazioni corrispondenti alle principali feste dell’an- no liturgico; le icone-calendario, con le immagini dei santi di tutto l’anno; infine le icone che si riferiscono a scene am- bientate sul monte S (Mosè dinanzi al roveto ardente). Una parte di tali icone è di produzione locale; altre sono impor- tate da Costantinopoli, in particolare quella dell’Annuncia- zione che è uno dei migliori esempi di pittura d’epoca com- nena. Alcune icone del sec. xiii rivelano la mano di un arti- sta straniero. Un centinaio di icone tra le piú preziose sono esposte in una sala speciale; la maggior parte delle altre si trova negli ambienti dell’antica biblioteca. Numerose missioni scientifiche hanno catalogato e fotogra- fato l’intera produzione del monastero; in particolare la mis- sione svolta dall’Università del Michigan si è assunta l’one- re di fotografare tutte le icone e di sottoporre alcune tra es- se a un delicato trattamento di pulitura che le ha riportate al loro pieno splendore. Le icone piú antiche sono dipinte ad encausto, tecnica ben nota dai ritratti di egizi del Fayy¯um; si tratta di quattro dipinti che datano probabilmente al sec. v, due dei quali trasferiti a Kiev nel secolo scorso. Il com- plesso della raccolta consente di compilare l’intera storia del- le icone e di notare i mutamenti che quest’arte ha subito a seconda delle epoche e dei luoghi; fondamentali a proposi- to gli studi compiuti da K. Weitzmann (1976). Mentre è ben documentato il periodo precedente l’iconoclastia (poiché l’autorità degli imperatori iconoclasti non si esercitava sul S, allora in territorio musulmano), il successivo trova sul S

Storia dell’arte Einaudi scarse testimonianze. Durante il periodo iconoclasta, le ico- ne provengono dalla Palestina, ove è ben nota l’opposizio- ne dei monaci di San Saba alla volontà degli imperatori. Do- po la crisi del sec. ix, con l’assurgere di Costantinopoli a cen- tro della civiltà artistica bizantina, tutte le opere conservate risentono della pittura della capitale, che verso la fine del sec. xii presenta caratteristiche nuove, aprendo il mondo del- le forme a caratteri piú intimamente umani e psicologici. Nella collezione sono anche conservate icone dell’epoca del- le crociate, e del periodo successivo alla caduta di Costanti- nopoli, piú ispirate alla pittura cretese e delle isole greche. Il S ne conserva un gran numero, insieme (è una ulteriore caratteristica di questa raccolta) ad icone dipinte da artisti italiani e forse persino da francesi che risentono della cul- tura bizantina. Anche la biblioteca monastica è ricchissima, comprendendo circa tremila manoscritti, alcuni dei quali mi- niati (Cod. gr. 2123; Cod. gr. 339). (sdn + jle). sincromismo Primo movimento d’arte astratta in America, designato co- me s dai suoi fondatori Morgan Russell e Stanton MacDo- nald-Wright. Da synchroma, letteralmente «con colore», il termine gioca volutamente sull’assonanza con la voce «sinfo- nia» per suggerire il rapporto tra suono e colore, elementi significativi nella ricerca del pittore céco Frantisek Kupka. Il movimento nasce in occasione della visita di Russell e Mac- Donald-Wright alla mostra futurista allestita nel febbraio 1912, alla Galleria Bernheim Jeune di Parigi: i due artisti decidono allora di dar forma pittorica all’idea di ritmo cro- matico. L’esordio del s avviene nel giugno del ’13 a Mona- co di Baviera. Nello scritto teorico contenuto nel catalogo dell’esposizione, Russell e MacDonald-Wright stabiliscono la loro distanza dal futurismo rimproverando al movimento italiano la subordinazione, nella loro arte, dell’elemento sta- tico a quello dinamico. «Ma – scrivono – nell’arte la qualità statica e quella dinamica sono due forze che si integrano, permettendoci di sentire fortemente l’una o l’altra». Di- stante dal cubismo il s risente invece dell’influenza della poe- tica di R. Delaunay che sin dal 1912 aveva rifiutato l’ap- pellativo di «cubista» per affermarsi creatore di un nuovo genere di pittura (l’orfismo, come lo definì Apollinaire) e

Storia dell’arte Einaudi della «simultaneità ritmica». Il s ebbe vita per un anno; la sua principale manifestazione ha luogo al Salon des Indé- pendants di Parigi, nel 1913. Tra gli americani che ne furo- no profondamente influenzati figurano Thomas Hart Ben- ton, Andrew Dasburg, Patrick Henry Bruce, Arthur B. Fro- ste, Arthur B. Davies. (dr). Singer, William Henry (Stati Uniti 1868 - Laren 1953). Figlio del grande industriale William S, lasciò il suo Paese nel 1900 per recarsi a Parigi, dove trascorse un anno, stabilendosi poi definitivamente a Laren, che era allora uno dei centri artistici piú frequentati dei Paesi Bassi. Ammiratore di Boudin e di Monet, dipinse paesaggi olandesi e soprattutto norvegesi. Raccolse un’im- portante collezione di dipinti, acquerelli e pastelli, princi- palmente dell’Ottocento, olandese e francese: Veduta di un porto di Boudin, il Dam di Breitner, la Nutrice di J. Maris, nonché opere di Bosboom, J. e W. Dooyewaard, van Don- gen, J. e I. Israels, dei Maris e di Verster. L’intera collezione è stata donata dalla vedova di S alla S Memorial Foundation; il museo (S Museum) è stato aperto nel 1956 a Laren e, ingrandito nel 1962, svolge una note- vole attività culturale. (hbf). Singier, Gustave (Warneton (Belgio) 1909 - Parigi 1984). La sua formazione si compie a Parigi – dove abita dal 1919 – frequentando i corsi dell’Ecole Boulle. Fino al 1936 lavora come disegna- tore in un’impresa di arredi commerciali; tiene le prime mo- stre al Salon des Indépendants dal 1936 al 1939, al Salon d’Automne dal 1937 al 1949, e al Salon de Mai nel 1945. Di quest’ultimo fu anche il fondatore e membro del Comi- tato. Dal 1951 al 1954 insegna pittura all’Académie Ran- son. Con Bazaine, Estève, Lapicque e Le Moal fonda nel 1941 il gruppo dei Peintres de Tradition Française che espongono alla Gall. Braun. Seguiranno altre mostre presso la Gall. Drouin, la Billiet-Caputo e la Gall. de France che divenne poi la sua espositrice regolare. S insegnerà anche per undici anni, dal 1967, alla Scuola Nazionale di belle ar- ti di Parigi dove occuperà la cattedra di pittura. L’adesione alla tradition française lo porta a rifiutare il natu- ralismo e a indirizzarsi verso forme astratte. Si liberò quin-

Storia dell’arte Einaudi di dalle prime influenze di Matisse, di Braque e di Bonnard per raggiungere un’espressione piú libera. Testimonianza di questo primo periodo è l’Estate (1945: coll. priv.) dove uni- sce a una strutturazione cubista delle forme un colore vi- brante. Anche nella Notte di Natale (1950: Parigi, mnam), con le sue tonalità intimiste, pone l’accento sulla rinnovata importanza data alla ricerca coloristica. All’influenza di Be- sier si aggiunge quella di Manessier. I rapporti tra i percor- si grafici e il colore si precisarono solo in un secondo mo- mento con la realizzazione di uno spazio dove colore e linea si uniscono per dare il ritmo all’insieme del dipinto come in Aquathème: baigneuses-vestige (1969: Parigi, coll. priv.). Le opere degli anni Settanta diventano un omaggio all’arcaismo mediterraneo e alla preistoria (Egéenne II, 1971; Omaggio a Leroi-Gourban, 1970: coll. priv.). Parallelamente alla sua attività pittorica si dedica a realiz- zare scenografie, incisioni e litografie, cartoni per arazzi e vetrate. Esegue anche mosaici e decorazioni murali per va- ri edifici tra cui il liceo di Argelès (1959), per la casa della Radio a Parigi (1964), per la Scuola delle Arti decorative di Aubusson (1969-70), per il campo sportivo del liceo Cariat di Bourg-en-Bresse (1970). È presente in numerosi musei in Europa, in Sud-Africa e in Nuova Zelanda, (hn + sr). sinopia Ocra rossa derivante dalla città di Sinope nel Ponto, secon- do quanto affermato anche da Plinio il Vecchio (Naturalis Historiae) che precisa come in base al colore se ne distin- guevano tre specie («rubra», «minus rubens», «inter has me- dia»). Impiegata in epoca medievale anche dagli artigiani, essa viene descritta per le sue caratteristiche e possibilità di impiego nel capitolo xxxviii de Il Libro dell’Arte di Cenni- no Cennini da cui il termine è stato ripreso. Nel capitolo lxvii in cui espone la tecnica in uso nella bottega tardogiot- tesca di Agnolo Gaddi, di cui era stato allievo, Cennini do- po aver descritto le varie fasi di preparazione dell’arricciato prosegue: «Poi togli un poco di senopia senza tempera e col pennello puntio sottile va’ tratteggiando nasi, occhi, e cavel- lature, e tutte stremità e intorni di figure; e fa’ che queste fi- gure sieno bene compartite co ogni misura, perché queste ti

Storia dell’arte Einaudi fanno cognoscere e provedere nelle figure che hai a colori- re». Il termine s, volto in origine a indicare unicamente la materia rossa ampiamente utilizzata tra il xiii e il xv secolo dagli artisti per tracciare, sul muro intonacato, con pennel- lo a punta sottile i disegni preparatori seguenti alla delinea- zione a carboncino della composizione sull’arriccio, è stato in epoca recente correlato ai disegni murali sottostanti gli affreschi, anche quando realizzati con colori affatto diffe- renti dalla terra rossa come la terra verde o il nero di car- bone. Relativamente precoce è la decadenza dell’uso di tali disegni murali, verificatasi alla metà del sec. xv contempo- raneamente alla diffusione della tecnica dello spolvero, uti- lizzata già nel Trecento per le parti ornamentali eseguite dai garzoni e dagli aiuti di bottega (ne sono un esempio gli af- freschi eseguiti da Andrea Orcagna e dalla sua scuola nella volta della cappella maggiore di Santa Maria Novella ritro- vati sotto le fasce decorative della pittura di Domenico Ghir- landaio), a sua volta largamente sostituita nel corso del Cin- quecento dall’uso dei cartoni, peraltro già anch’esso docu- mentabile nel Trecento, ad esempio, attraverso gli affreschi di Giovanni da Milano della cappella Rinuccini nella chiesa fiorentina di Santa Croce (1365). Dalla fine del Duecento alla metà del Quattrocento – e tra gli esempi piú significa- tivi della fase iniziale e terminale di tale periodo, la celebre s del timpano triangolare del porticato della Cattedrale di Notre-Dame des Doms di Avignone, oggi nel Palazzo dei Papi, di Simone Martini (1344) e quelle di Andrea del Ca- stagno per gli affreschi del refettorio delle benedettine di Sant’Apollonia di Firenze (1445-1450) – le s parietali paio- no costituire quasi esclusiva documentazione, sebbene al- cuni studiosi sostengano che la s rappresentasse la fase in- termedia tra il disegno su carta e l’opera compiuta. Diverso il parere di chi considera la fase preparatoria dell’affresco come operazione svolta unicamente sui ponti (Procacci). L’uso rarefatto del termine s nella letteratura artistica rina- scimentale e manieristica è già documentato ne I Commen- tarii (1450 ca.) di Lorenzo Ghiberti, dove un disegno mura- le di Simone Martini raffigurante una Incoronazione, ese- guito sopra una delle porte del Duomo di Siena, viene descritto come realizzato «colla cinabrese», pigmetito cro- matico di differente tonalità, ottenuto mescolando s con cal- ce spenta molto bianca, come si evince da Cennini, Compi-

Storia dell’arte Einaudi lato alla fine del sec. xv, ma ampliato nella prima metà del secolo seguente, il Ricettario fiorentino riporta che «la sino- pia chiamata da Dioscuride rubrica sinopide […] è una ter- ra rossa; oggi ne abbiamo di molti altri luoghi, e si chiama bolo armeno». Definita «rossaccio» da Giorgio Vasari (1568), della s vengono rilevati l’arcaismo e l’avvenuto su- peramento quale intervento preliminare alla tecnica della pittura murale a fresco, sia nella vita di Simone Martini (in relazione agli affreschi del convento di San Francesco ad As- sisi) che di Spinello Aretino. L’avvenuta scomparsa dalla prassi artistica di tale metodologia operativa è testimoniata nel Vocabolario dell’Arte del disegno (1681) di Filippo Bal- dinucci dall’assenza del lemma s, al cui recupero terminolo- gico si assiste solamente con la prima edizione moderna del Libro dell’Arte cenniniano – ritrovato attraverso una tra- scrizione del 1437, curata da Tambroni (1821). Molteplici le operazioni preliminari all’esecuzione delle pit- ture a fresco parietali (→ affresco). La superficie dell’arric- cio indurito veniva spartita per fissare quelli che Cennini de- finisce «i mezzi degli spazi» della composizione, delineata quindi a carboncino, che, alquanto friabile e quindi facil- mente cancellabile, veniva a sua volta sostituito da «un po- co d’ocria senza tempera, liquida come l’acqua» cui in ulti- mo veniva a sovrapporsi il color s. Condotta a termine que- sta fase l’artista ricopriva progressivamente l’arriccio con l’intonaco liscio in rapporto al lavoro che intendeva esegui- re in una singola giornata. Le s costituiscono così parte pri- maria del patrimonio grafico conservatosi dalla fine del xiii alla metà del sec. xv quando contemporaneamente alla dif- fusione del disegno su carta, ampiamente favorita dalla di- minuzione del costo di tale supporto, iniziò la decadenza del- la s. Il termine, ad indicare sia gli stessi disegni murali sot- tostanti gli intonaci affrescati che la materia con la quale venivano eseguiti, si diffonde largamente negli anni seguenti il secondo conflitto mondiale talvolta anche in riferimento a disegni preparatori eseguiti con materia di differente co- lore, in particolare tra i restauratori fiorentini (e fiorentini erano stati in larga parte gli studiosi che avevano rinnovato nei primi decenni del nostro secolo l’uso della parola s limi- tato però solo al pigmento cromatico del disegno) impegna- ti in quel momento al distacco di molti cicli di affreschi dan-

Storia dell’arte Einaudi neggiati dagli eventi bellici; tra questi le celebri decorazio- ni parietali del Camposanto Monumentale di Pisa grave- mente danneggiato nel luglio del 1944. Tale operazione che riportò alla luce le straordinarie s sottostanti, documenti gra- fici di eccezionale significato sottoposti a loro volta allo stac- co, condusse alla creazione del Museo delle Sinopie del Cam- posanto Monumentale di Pisa inaugurato nel 1979 nel pel- legrinaio dell’antico Spedale di Santa Chiara. (pgt). sintetismo Il linguaggio «sintetista» deriva dalle ricerche compiute da Paul Gauguin e da Emile Bernard durante il loro soggiorno a Pont-Aven nell’estate del 1888. L’idea di «sintesi», nata da una corrente di pensiero che investiva anche la lettera- tura, era già apparsa: sin dal 1886, a Pont-Aven, Gauguin parlava di «sintesi» e la parola veniva allora spesso impie- gata nella letteratura simbolista. Il termine viene impiegato ufficialmente per la prima volta in occasione della mostra or- ganizzata da Gauguin al caffè Volpini di Parigi, nel quadro dell’Esposizione Universale del 1889: Gruppo impressionista e sintetista. La scelta del titolo sembrava suddividere gli espo- sitori, e infatti distingueva gli amici tuttora vicini all’im- pressionismo, come Guillaumin, Schuffenecker o Daniel de Monfreid, dal gruppo di Pont-Aven propriamente detto, cui poteva associarsi van Gogh. Gli schieramenti riguardavano soprattutto la concezione di sintesi plastica: sulle orme del cloisonnisme di Anquetin e di E. Bernard, M. Denis nel 1890 dichiara «Ricordare che un quadro, prima d’essere un ca- vallo di battaglia, una donna nuda o un qualsiasi aneddoto, è essenzialmente una superficie piana coperta di colori di- sposti in un certo ordine». Dopo le conversazioni con Emi- le Bernard dell’agosto del 1888, Gauguin afferma: «L’arte è un’astrazione, traetela dalla natura sognando dinanzi ad essa». Si tratta, per lui, di attingere uno «stile moderno» mediante mezzi plastici volutamente semplificati, riducen- do l’immagine a forme dai colori netti, contornati da un di- segno unificatore che rifiuta sia la prospettiva che la profon- dità, sostituendovi un arabesco guidato unicamente dalle esi- genze estetiche. L’esempio era dato dalle stampe giapponesi, dalle immagini di Epinal e dalle arti che Baudelaire, nel 1865, definì «barbare», primitive per la loro semplicità. So- no questi i termini della lezione che Gauguin fornisce a Sé-

Storia dell’arte Einaudi rusier dipingendo il Talismano e che questi trasmette ai na- bis. La dimostrazione pittorica viene data nell’estate del 1888 da Emile Bernard con le Bretoni nella Prateria (con. priv.) e da Gauguin con la Lotta tra Giacobbe e l’angelo (Edimburgo, ng). Il punto di vista della composizione, il gu- sto per la linea ornamentale, l’arbitrarietà dei colori inven- tati (la prateria rossa), l’assimilazione audace di un motivo di Hokusai, tutto contribuisce a fare del quadro un manife- sto. «Io credo – dice Gauguin – di aver raggiunto una gran- de semplicità rustica e superstiziosa». L’artista, la cui ispirazione è allora permeata di religiosità, e che senza dubbio viene influenzato dalle idee preraffaelli- te, cerca infatti di fissare anche una sintesi spirituale che esprime un sincretismo piuttosto confuso, nel quale egli si attribuisce con compiacenza il ruolo di redentore umiliato, richiamando testi come il Sartor Resartus di Carlyle o il Pa- radiso perduto di Milton. Come i neoimpressionisti, ma se- guendo una strada opposta, insieme a van Gogh riconosce ai colori un messaggio psichico specifico. Si comprende co- sì che gli scrittori simbolisti vedessero in lui l’esponente prin- cipale del simbolismo in pittura. Durante i soggiorni in Bre- tagna, e in particolare quando si stabilisce a le Pouldu nel 1889-90, Gauguin manifesta l’impegno di abolire l’antica concezione di arti maggiori e minori per associare insieme pittura, scultura e incisione alle arti decorative, con un in- tento di sintesi tra tutte le arti. Tale concezione, ben presto rivendicata dai nabis e dall’Art Nouveau, è poi alla base de- gli sviluppi dell’arte del sec. xx. (gv). Siqueiros, David Alfaro (Chihuahua 1896 - Città del Messico 1974). Allievo dell’Ac- cademia San Carlo a Città del Messico, nel 1914 s’arruola nell’armata della rivoluzione, presso la quale trascorre quat- tro anni. Nel 1919 parte per l’Europa e, a Parigi, incontra Rivera. Due anni piú tardi è a Barcellona, dove pubblica (nel- la «Vita americana», che uscì con quell’unico numero) il Ma- nifesto per un’arte messicana rivoluzionaria. Nel settembre del 1922 fa ritorno in Messico e, l’anno seguente, fonda, assie- me a Rivera, «El Machete», pubblicazione destinata a pro- pagandare le sue idee, sia artistiche che politiche, che dife- se sempre con severa intransigenza. La sua partecipazione

Storia dell’arte Einaudi alla decorazione della Scuola preparatoria nazionale (Sepol- tura di un operaio, 1924) rivela, ai suoi esordi, uno stile cu- po e tagliente, la cui efficacia ricorda certe opere contem- poranee di C. Permeke. I suoi quadri da cavalletto mostra- no in questo momento le stesse caratteristiche e tradiscono la medesima origine – il cubismo stilizzato ed espressivo del dopoguerra (Madre contadina, 1929: Città del Messico, Mu- seo di San Carlos). In esilio dal 1932 al 1934, S lavora a Los Angeles (L’America tropicale, pittura murale per la Plaza Art Center), poi in Uruguay e in Argentina. Egli sperimenta al- lora la «pirossilina», procedimento che permette straordi- nari effetti della materia in altorilievo e che egli utilizza so- vente con fini virtuosistici (Esplosione nella città, 1935: Città del Messico, coll. priv.). Dopo aver aperto un atelier speri- mentale a New York (1935), nel 1936 s’unisce ai repubbli- cani spagnoli e, di ritorno in Messico, esegue il Ritratto del- la borghesia (1939) per il Sindacato degli elettricisti di Città del Messico. Questa composizione (fortemente connotata ideologicamente) è percorsa da un realismo epico. Questo ti- po di arte didascalica (che è ripresa, durante lo stesso pe- riodo, pur con alcune sfumature, anche da Rivera e Orozco) s’affermerà in modo esplicito nei dipinti e nelle pitture mu- rali posteriori: La nuova democrazia (1945: Città del Messi- co, Palazzo di belle arti), La nostra immagine attuale (1947: Città del Messico, Museo di San Carlos). Alcuni studi di paesaggio dimostrano invece una concezione maggiormente pittorica e piú vivace. Nel 1972 fu inaugurato a Città del Messico il «poliforum culturale», vasto complesso che riu- nisce sale per feste, esposizioni, teatro, concetti, decorato da S e dai suoi collaboratori – ultimo mutamento del «mu- ralismo messicano». (mas). Siracusa La storia pittorica dell’antica colonia greca non ha lasciato tracce consistenti per il xiii e xiv secolo, anche se un esem- pio di adesione ai modelli dell’impero bizantino, di cui S aveva a lungo fatto parte, può essere rappresentato dalla ico- na della Madonna Eleusa, del sec. xiv (S, Galleria regionale di Palazzo Bellomo). Tra il xiv e il xv secolo la città segue, insieme a tutta la re- gione, le vicende culturali dipendenti dalla confluenza nel regno aragonese, ma mentre i rapporti mediterranei signifi-

Storia dell’arte Einaudi cano per Palermo arrivi di pittura ligure e toscana, a S si de- linea piuttosto uno scambio con la linea culturale di deriva- zione catalana e valenzana. È il caso ad esempio della bot- tega dei catalani Jaime e Pedro Serra, per i quali l’arrivo in Sicilia dipende dal loro precedente contatto con la corte; in particolare un’opera di Pedro dei primissimi anni del Quat- trocento (la Madonna col Bambino e le sante Eulalia e Cateri- na: ivi) avrà una diretta influenza sulle vicende pittoriche del siracusano. Da questa sembrano infatti dipendere tutta una serie di opere che la critica variamente riferisce a uno o piú maestri di cultura valenzana; si vedano ad esempio il po- littico con la Madonna in trono e i santi Tommaso apostolo, Lucia, Margherita e Giovanni Evangelista, oppure la Madon- na col Bambino tra quattro angeli (ivi). Non mancano in que- sto periodo sollecitazioni in senso centroitaliano, come nel caso della Trasfigurazione e della Madonna col Bambino (ivi) riferiti alla fase giovanile di Giovanni Francesco da Rimini. Nei decenni successivi i contatti con le coste spagnole assu- mono una diversa accentuazione, sensibile a un aggiorna- mento sulla cultura fiamminga reinterpretata in Spagna da Luis Dalmau e Jacomart Baço; è probabilmente in questo senso che va letto ad esempio il San Zosimo conservato nel- la Cattedrale, per il quale è stato fatto anche il nome di An- tonello. Proprio del grande messinese si conserva in città la Annun- ciazione di Palazzolo Acreide, del 1474 (S, Galleria regio- nale di Palazzo Bellomo), ed è chiaro che la lezione della sua bottega rimane fondamentale per S come per tutta la Sici- lia orientale. Sono attribuite a Salvo d’Antonio, ad esem- pio, due delle tavolette dell’Apostolato del Duomo (le figu- re di San Giovanni Evangelista e del Redentore) dove lavora a fianco del siracusano Marco Costanzo, il quale nel San Gi- rolamo nello studio (S, Arcivescovado) o nella Trinità (S, Gal- leria regionale di Palazzo Bellomo) si dimostra in grado di mediare il linguaggio antonellesco con aspetti della moder- na cultura centroitaliana. Non soltanto per la loro attività siracusana – ma evidente- mente di formazione continentale, forse in rapporto ad An- toniazzo Romano – sono Giovan Maria Trevisano e Ales- sandro Padovano, i quali firmano insieme nel 1507 una Ma- donna di Loreto (ivi). Trevisano nel 1506 si era impegnato

Storia dell’arte Einaudi con i padri agostiniani per una Disputa di sant’Agostino (ivi), ed è documentato a S fino al 1513. Alessandro Padovano, il cui percorso è ancora praticamente ignoto, si stabilisce in città fin dal 1481, e vi risulta attivo fino al 1529. Tra Cinque e Seicento la pittura locale sembra ancora una volta reagire alle sollecitazioni dovute a maestri di passag- gio in Sicilia. È il caso ad esempio del fiorentino Filippo Pa- ladini, a lungo attivo a Palermo, il quale esercita una in- dubbia influenza in senso tardomanieristico su Daniele Mon- teleone, autore di una Santa Lucia al sepolcro di sant’Agata firmata e datata 1607 (S, chiesa del Collegio). Lo stesso Pa- ladini appare comunque a sua volta condizionato dalla sosta che a S fa nel 1608 Caravaggio, di ritorno da Malta. Il frut- to di questa sua tappa siciliana è costituito, oltre che dalle due pale messinesi, dalla tela raffigurante il Seppellimento di santa Lucia, opera eseguita nell’autunno di quell’anno per la chiesa di Santa Lucia al Sepolcro (ora alla Galleria regiona- le di Palazzo Bellomo). Il passaggio in città di Caravaggio appare determinante per l’intero percorso stilistico del siracusano Marco Minniti, che pare essere stato con lui in stretti rapporti. Le scelte di que- sto pittore, del quale non è per ora ricostruibile il percorso iniziale, appaiono nel terzo decennio del Seicento forte- mente condizionate dall’esempio caravaggesco, se pure pre- sto rivisto nei termini di un gusto piú disegnativo; si veda- no ad esempio il Miracolo di santa Chiara firmato e datato 1624 (ivi), oppure la pala narrativa con San Benedetto che predispone la sua sepoltura, dell’anno successivo (S, chiesa di San Benedetto). Verso la fine del Seicento alcuni arrivi sembrano indicare una disponibilità verso i modelli della pittura barocca, come nel caso di Onofrio Gabrieli, della cui educazione al classi- cismo romano di Poussin e Cortona resta traccia della Ma- donna della lettera conservata nel monastero di Maria. Galleria regionale di Palazzo Bellomo. L’edificio, risalen- te al periodo della dominazione sveva (sec. xiii), ha accolto nel luglio del 1940 le collezioni di arte medievale e moder- na già appartenenti al Museo archeologico nazionale. La pri- ma apertura al pubblico delle collezioni risale al 1948, ma poi la Galleria è stata ripetutamente chiusa, anche a causa di un intervento di restauro dell’edificio che ha consentito, nel 1976, la definitiva riapertura. Oltre al primo nucleo for-

Storia dell’arte Einaudi mato da opere raccolte dal territorio in seguito alla soppres- sione degli enti religiosi, le collezioni comprendono opere di pittura acquisite o donate in seguito, ed appaiono fortemente legate alla matrice territoriale del museo. (sr). Sirani, Elisabetta (Bologna 1638-65). Le prime e piú ricche testimonianze sul- la breve vita di Elisabetta, figlia del pittore Giovanni An- drea (allievo di Guido Reni), morta a soli ventisei anni per sospetto avvelenamento, si devono al Malvasia (1678), che ci ha tramandato anche la meticolosa ‘nota’ dei dipinti re- datta dalla pittrice stessa, che consente di seguire anno per anno la sua attività. La sua abbondante produzione – a par- tire dalle prime opere eseguite per il contado bolognese e modenese – traduce la lezione paterna, fedele divulgatore della maniera ‘chiara’ di Guido Reni, nei modi di una per- sonale sensibilità alla materia pittorica (Battesimo di Cristo, 1658 Bologna, Certosa). A partire dal 1600 ca. la pittrice va specializzandosi nella produzione di quadri religiosi e ri- tratti, adatti alla decorazione privata e graditi alla commit- tenza. L’ultima fase della sua produzione rivela l’avvio di una evoluzione, con un nuovo accentuato interesse lumini- stico, forse per influsso dei modi romani portati a Bologna da Cignani (Madonna col Bambino: Bologna, coll. priv.; Ri- tratto di Anna Maria Ranuzzi: Bologna, Cassa di Risparmio). (cb). Sirato, Francisc (Craiova 1877 - Bucarest 1953). Studiò dapprima in un ate- lier per incisioni e litografie (1897: il primo manifesto a co- lori della Romania, creato da S per il romanzo di T. Deme- trescus Come amiamo), nel 1898 a Düsseldorf, poi, tra 1900-905, alla Scuola di belle arti di Bucarest. La sua atti- vità come grafico e incisore in chiave politico-satirica prose- guì sempre parallela a quella di pittore, specie con la colla- borazione a riviste come «Jurnica», «Adevarul» e «Croni- ca», che sostennero i moti sociali e l’insurrezione contadina del 1907 (La questione contadina; Una lezione di anatomia po- litico-contadina), cosí come con cicli monotematici. La carica di Conservatore al mn di Bucarest, nel 1917 (e si- no al 1939), lo avvicinò comunque in modo decisivo alla pit-

Storia dell’arte Einaudi tura e alle sue problematiche. Sensibile a ciò che le arti po- polari e il folklore avevano prodotto in Romania, vi si lasciò ispirare profondamente, unendovi l’influsso di Cézanne. Dal 1920 al ’28 crea dipinti monumentali cercando di esprimer- vi modi e cultura del mondo contadino (Ritorno dal merca- to; Il venditore di tappeti; Dignità e semplicità del contadino rumeno: tutti a Bucarest, mn d’Arte), esposti nella sede del gruppo dei Quattro, da lui fondato nel 1925 (con N. Tonit- za, St. Dimitrescu, O. Han) e che svolse un ruolo impor- tante negli ambienti culturali rumeni tra le due guerre. Do- po il ’30 S abbandona i grandi formati, concentrandosi sul- le strutture dei colori e della luce, e su temi piú intimi: paesaggi, interni, nature morte (La camicetta bianca; Fan- ciulla blu: ivi) toccate da un sentimento lirico e delicato che dematerializza le figure ed è intessuto di luce. La luce spo- glia le forme dei loro contorni, segna l’orientamento dei pia- ni, la loro dinamica e le modulazioni calde o fredde dei toni. S ha tenuto mostre personali e ha partecipato a collettive a Bucarest e, dopo il 1944, a Bruxelles, Parigi, New York, Am- sterdam, Stoccolma, Zurigo. Insegnò all’Accademia di bel- le arti (1932-39) e nel 1946 ricevette il gran premio nazio- nale di pittura. I suoi scritti teorici e critici sono raccolti in un volume postumo, Prospezioni plastiche, apparso nel 1958. (ij + sr). Sirèn, Osvald (Helsinki 1879 - Stoccolma 1966). Consegue il dottorato con una tesi sul pittore svedese Peter Hilleström. Si dedica poi al rinascimento italiano: Don Lorenzo Monaco (1905); Leo- nardo da Vinci. The Artist and the Man (1916). Divenuto pro- fessore all’Università di Stoccolma dal 1908, ove insegnò fi- no al 1923, dal 1920 inizia a studiare intensamente l’arte ci- nese e giapponese, recandosi a piú riprese in Estremo Oriente tra il 1920 e il 1940; nominato nel 1926 conserva- tore del dipartimento di pittura e scultura orientali del mn di Stoccolma, organizzerà importanti rassegne e si ritirerà a vita privata nel 1944. Continuerà a coltivare questo inte- resse, scrivendo opere che costituiscono importanti riferi- menti per lo studio dell’arte orientale come La sculture chi- noise du ve au xvie siècle (Paris-Bruxelles 1926, 5 voll.) e La peinture chinoise dans les collections amèricaines (Paris-Bruxel- les 1928, 2 voll.), i due primi tomi della sua Histoire de la

Storia dell’arte Einaudi peinture chinoise (Paris 1934-35) costituiscono la cornice ge- nerale di tutti i suoi lavori successivi, mentre The Chinese on the Art of Painting (Peiping 1936) raccoglie e interpreta estrat- ti dei principali trattati di pittura scritti nei secoli dagli arti- sti e dai critici cinesi, divenendo il principale divulgatore del- le concezioni artistiche orientali. Accanto a questi studi è però notevole il suo contributo allo studio del Trecento ita- liano, in particolare con Florentiner Trezentozeichnungen (1906) e Giottino und seine Stellung in der gleichzeitigen flo- rentinischen Malerei (1908). (mpd). Siria La denominazione S in relazione a un’area geografica de- terminata, può avere un suo significato preciso fintantoché si faccia riferimento all’epoca storica precedente all’occupa- zione islamica del sec. vii. Approssimativamente si può di- re che, a quell’altezza cronologica, la S comprende tutta l’area che va dal Libano e dalla regione antiochena fino alle alte valli del Tigri e dell’Eufrate, in Mesopotamia, e che comprende territori compresi nelle giurisdizioni attuali de- gli stati di Libano, S, Israele, Turchia, e Iraq. In seguito tut- tavia all’islamizzazione e arabizzazione dell’intera regione, si potranno adoperare i termini S e siriaco solo in relazione alla cultura delle singole comunità cristiane nei diversi cen- tri grandi e piccoli, che mantengono l’uso della lingua siria- ca nella prassi liturgica e proseguono, spesso in situazioni estremamente precarie, le tradizioni figurative e iconografi- che ereditate dal passato. La cultura siriaca perde la propria consistenza geografica nel momento in cui (secoli vii-viii) la chiesa siro-orientale (nestoriana) tenta di espandersi al di là della Mesopotamia, raggiungendo l’India, il Turkestan e la Cina, e ricostruisce in queste regioni una propria cultura ani- mata da una parte dalla volontà di mantenere solide le sue fondazioni e le sue basi originarie, e dall’altra dalla neces- sità di aprirsi alle esperienze estranee e accoglierne degli ele- menti. Epoca pre-islamica La S è stata una delle regioni in cui si sono avute alcune delle prime esperienze figurative dell’ar- te cristiana. Nei secoli ii-iii la decorazione parietale e pavi- mentale a carattere illustrativo, sia musiva che ad affresco, era ampiamente impiegata dalla stessa religione ebraica, che

Storia dell’arte Einaudi creò anche un’organizzazione coerente delle immagini nar- rative sulle pareti, come dimostra il grande ciclo della sina- goga di Dura Europos, in Mesopotamia (244-45), o il gran- de mosaico pavimentale della sinagoga di Beth-Alpha in Pa- lestina (secoli v-vi). In queste prime opere appare subito chiaro come nella S tardoantica vengano recuperate tradi- zioni figurative autoctone (il cosiddetto «fondo aramaico»), caratterizzate da una spiccata tendenza alla stilizzazione li- neare e all’esaltazione mediante i colori forti o altri artifici dell’impatto visivo dell’immagine: così nella cappella cri- stiana di Dura Europos (232 ca.), che risente dell’influenza dello stile presente già nelle decorazioni dei templi e delle cappelle funerarie di Palmira (secoli i-ii). D’altra parte l’ere- dità ellenistica e romana si fa sentire soprattutto nei mosai- ci, dove vengono conservate peculiarità compositive e ico- nografiche dell’arte antica, benché vengano sottoposte a un graduale processo di riduzione alla bidimensionalità e all’ac- cettazione della superficie di supporto. Questo processo, che sancisce l’eliminazione totale dello sfondo e della terza di- mensione dalle figurazioni a mosaico, ha inizio nell’arte pro- fana antiochena dei secoli iv-v (vedi il mosaico pavimenta- le con Scene di caccia all’am di Worcester, Mass.; e quello con un leone e uccelli nel am di Baltimore), poi trasferito al- la decorazione musiva cristiana, rappresentata in S dai mo- saici del Battistero di Seleuco di Pieria al porto di Antiochia (oggi nel Museo cittadino), tra i quali uno rappresentante il Paradiso, da quello col Buon Pastore del Museo di Beirut, e dall’altro con le Quattro Stagioni al Louvre di Parigi, prove- niente da Kabr-Hiram, nonché dal mosaico con paesaggio nilotico nella chiesa della Moltiplicazione dei Pani e dei Pe- sci a Tabgha sul mare di Galilea. Si tratta di opere prodot- te tutte quante nell’area costiera della S dove la cultura di matrice ellenistica era piú forte; nell’area piú interna si co- noscono solo mosaici pagani nelle cappelle funerarie di Edes- sa, mentre la decorazione con due pergolati di vite che cir- condano sulla cima una croce dorata e due personaggi sacri (oggi perduti) nell’abside della chiesa dell’importante cen- tro monastico di QuartÇm¥n nel Tr ‘Abd¥n fu eseguita da artisti bizantini inviati dall’imperatore Anastasio (sec. vi). Questi rari esempi sembrano testimoniare tuttavia di un uso comune e diffuso della decorazione dello spazio sacro con pitture illustrative, simboliche o aniconiche.

Storia dell’arte Einaudi Anche l’uso delle immagini di culto dové diffondersi molto presto in S, soprattutto in quelle città che desiderose di af- fermare la propria eccellenza e superiore dignità politico am- ministrativa in una data zona cercavano di appropriarsi di preziose reliquie e altri cimeli dell’età evangelica facendoli venire dai luoghi santi che li conservavano. In effetti, una delle primissime immagini cristiane che abbia raggiunto uno status equivalente, nel culto, a quello delle reliquie, è stato il sacro mandylion che nel sec. vi cominciò ad essere vene- rato ad Edessa: si trattava di un panno sul quale si voleva che Cristo stesso avesse impresso le sue fattezze affinché per mezzo di quello il suo apostolo Taddeo potesse operare la guarigione del re di Edessa Abgar. Sempre nell’area siro-me- sopotamica la pittura cristiana si sviluppò come pittura d’imitazione delle piú venerabili immagini dei luoghi santi: le rappresentazioni della cui esecuzione venivano incaricati i pittori, come sappiamo da alcune fonti siriache medievali (soprattutto il grande cronista Michele Siro, vissuto nel sec. xii), dovevano rispondere a determinate caratteristiche, qua- li il riprodurre fedelmente le peculiarità anatomiche delle popolazioni della Galilea e della Giudea nelle rappresenta- zioni dei personaggi evangelici, e il dare alle immagini l’aspetto di oggetti antichi, mediante artifici quali lo spor- care i colori sulla tavolozza, e simili. Sempre nell’epoca precedente l’invasione araba, la regione siriaca conobbe il diffondersi delle scuole di miniatura, in cui vennero sviluppati i cicli d’illustrazione della vita terre- na di Cristo. Nel Vangelo scritto e miniato nel 586 dal mo- naco Rabula del monastero di Mar Yu’annis a Zagba, in Al- ta Mesopotamia (oggi a Firenze, Bibl. Laurenziana, ms Sir. Plut. 156) incontriamo la rappresentazione dei principali fat- ti evangelici, secondo una disposizione ben precisa che ri- chiama forse la decorazione parietale contemporanea; altri manoscritti miniati sono il Tetraevangelo (sec. vi) destinato alla lettura liturgica, con illustrazione dei fatti evangelici, oggi alla bn di Parigi (Syr. 33); il manoscritto siriaco della chiesa siro-ortodossa di Mar Yakub di Sarug (vi-vii secolo), a Diarbakir (Mesopotamia), in cui colpisce la persistenza di motivi di stile di origine ellenistica, e infine la Bibbia di Pa- rigi (secoli vi-vii: bn, Syr. 341), dove avviene una differen- ziazione funzionale e strutturale dei soggetti rappresentati:

Storia dell’arte Einaudi le illustrazioni narrative combinate con uno stile antichiz- zante sono applicate ai soggetti del Pentateuco, mentre le grandi immagini ritrattive della Vergine e dei Profeti paio- no invece ispirarsi all’arte monumentale. Dominazione araba Dopo l’invasione islamica del sec. vii, la vita delle due chiese siriache, quella occidentale o giacobi- ta e quella orientale o nestoriana diviene piú difficile, e fra le due chiese stesse i rapporti diventano sempre meno stret- ti. Ricerche recenti hanno tuttavia messo in luce come il cul- to delle immagini sacre fosse largamente diffuso tra i cristia- ni del Califfato. Alcuni documenti nestoriani quali il Ritua- le antico di benedizione dell’altare, alcune omelie di Narsai, e il Breviario siriaco testimoniano dell’uso di collocare l’im- magine di Cristo sull’altare insieme alla croce e al santo Van- gelo, o anche alla patena e al calice; ne segue che molto gran- de doveva essere l’onore tributato alle icone nella cultura re- ligiosa siro-orientale; l’importante Interpretazione degli uffici divini di ‘Abhràhàm bar Lîpeh (vii-viii secolo) ci fornisce la prima testimonianza che si conosca, prima che nella prassi ortodossa (che si afferma in epoca post-iconoclastica), dell’in- serimento delle icone nell’azione liturgica: col che si deve pensare che il loro impiego si fosse reso in quei secoli indi- spensabile, ma malauguratamente nulla ci rimane di una pro- duzione che a suo tempo dové essere fiorente. D’altra parte, la presenza dell’immagine del crocifisso, che soleva esser ve- nerato mediante il bacio ai piedi, nelle celle monastiche ci è testimoniata da Isacco da Nisibe e dal mistico Dadi∫o bar Beth Quatrayê (sec. vii), mentre l’ambasciatore di Luigi IX di Francia presso i Mongoli, il francescano Guglielmo da Ru- bruk (metà sec. xiii), afferma nel suo diario di viaggio di aver visto delle icone poste nel vestibolo della chiesa nestoriana nella città mobile del Gran Khan Mongka: queste venivano toccate e baciate dai fedeli durante il loro ingresso nello spa- zio sacro. Per uno strano caso, l’unica icona nestoriana me- dievale che possediamo appartiene proprio a quella comunità nestoriana che, lungo la via della seta, si era addentrata nel Turkestan cinese (attuale Sin-kiang Uighur); ritrovata agli inizi del secolo a Tun-huang, è interpretabile come una raf- figurazione del Buon Pastore, e si può assegnare al sec. viii; il tipo iconografico riprende chiaramente modelli buddisti, dal momento che Cristo è atteggiato alla maniera di un bodhi- sattva nell’atto di spiegare un insegnamento morale: l’unico

Storia dell’arte Einaudi particolare che lo individua come figura cristiana è la pre- senza di due piccole croci, una sulla fronte, l’altra sul petto. Il fatto tuttavia che il ritratto sia tagliato al busto e la sua mo- dalità di presentazione miri a captare l’attenzione dell’osser- vatore suggerisce la effettiva destinazione di tale immagine al culto e con questo dimostra la sua affinità con le conven- zioni che regolano la pittura di icone della chiesa ortodossa. Di icone nestoriane destinate al culto privato abbiamo poi notizia dallo storico Barhebræus, che riferisce di un’imma- gine della Madonna di proprietà di un certo Israel da Taipur. Nella chiesa caldea medievale, così come in quella giacobita (di cui si conservano gli affreschi di Bosra, Antiochia, Mar Msa al-Habashi e Mar Ya’kub, che sappiamo apprezzati per- sino dai califfi e dai poeti arabi), era contemplata anche la de- corazione monumentale con scene (historiae) evangeliche. Co- sì almeno nella notizia dello storico Barhebr^us (sec. xiv), se- condo il quale la principessa Despina HÇtn, moglie del gran khan AbÇqÇ (1265-82), fece decorare a pittori costantinopo- litani la chiesa di Tabr¥z; ancora, sappiamo che il katholikos di Ctesifonte Mar Denha fece decorare una chiesa di Arbela raffigurandovi, a monito degli increduli e istruzione degli in- dotti, tutta la storia del Salvatore Cristo. Una chiesa decora- ta con affreschi siro-nestoriani, del, sec. xiv, si trova a Fama- gosta nell’isola di Cipro, mentre resti di affreschi con l’Entra- ta a Gerusalemme reinterpretata come una cerimonia della Domenica delle Palme sono stati rinvenuti nell’oasi di TurfÇn nel Sin-kiang: anche in quest’ultimo caso è evidente il rap- porto con la pittura buddista centroasiatica, e l’azione di rein- terpretazione e ricalibratura del soggetto in base a criteri li- turgici che viene promossa dalla cultura ecclesiastica nesto- riana, allo stesso modo di come avviene nell’Oriente bizantino. Una considerevole attività miniatoria giacobita si sviluppa nel periodo di tempo che va dall’xi al xiii secolo, e nel trian- golo formato dai grandi monasteri di Beth ’Arbayê, Tr ‘Abd¥n e Beth Rumayê. Tra gli esemplari piú antichi ricor- diamo la Bibbia qarqaftiana del 1013 nella chiesa di Mar Tu- ma dei Giacobiti a Mossul, e un manoscritto datato 1054 nel patriarcato di Homs; loro caratteristica peculiare è il re- cupero degli schemi decorativi islamici combinati con le fi- gurazioni dei santi e degli eventi evangelici che imitano sia iconograficamente che stilisticamente dei modelli bizantini:

Storia dell’arte Einaudi un caso evidente è il ms Syr, 559 della bv di Roma miniato a Mossul nel 1219-20, dove è dispiegata l’intera storia sacra di Cristo, solo che, coerentemente con l’idea bizantina del- la funzione liturgica delle immagini delle tappe fondamen- tali della storia sacra, le immagini delle Feste della chiesa giacobita come l’Ascensione o la Trasfigurazione sono indivi- duate come «icone» grazie all’introduzione del fondo oro. L’ambiente nestoriano ha lasciato solo pochi esemplari di un’attività fiorente; i principali sono i manoscritti fram- mentari di Berlino (Preußliche Bibliothek, ms Syr. Sachau 304) e del patriarcato caldeo di Mossul, databili al sec. xiii, e già chiaramente influenzati dalla miniatura islamica, spe- cie dalla scuola di Mossul con i suoi forti accostamenti di co- lore incuranti dei valori tonali. In seguito ai rivolgimenti politici e alle invasioni turco-mon- gole dei secoli xiii-xv, con il tramonto politico del califfato di Baghdad e l’imporsi del dominio ottomano, la vita dei cri- stiani di S sembra essersi fatta sempre piú difficile, e la pras- si culturale e liturgica delle due chiese nestoriane e giacobi- ta è caduta in una profonda decadenza. Nel corso del sec. xiii l’influenza della cultura figurativa islamica si fa sempre piú forte, agendo in particolare sulla scuola di miniatura di Mossul, come in un manoscritto di Londra del 1220 ca. (bl, ms Syr. Add. 7170), in cui si introducono artifici propri del- la tradizione araba quali la moltiplicazione delle decorazio- ni architettoniche, l’introduzione di paesaggi naturali fan- tastici, la sottolineatura di abiti e fisionomie arabe, l’impie- go sempre piú diffuso di arabeschi. Solo la scuola del Tr ‘Abd¥n continua a mantenersi fedele alle tradizioni bizanti- ne per tutto il sec. xiii, ma col definitivo decadere delle re- lazioni con Costantinopoli nel corso del secolo successivo l’islamizzazione dell’arte siriaca diviene pressoché totale, co- me mostra chiaramente un manoscritto conservato nella chiesa di Mar Giwargis a Qaraqos (sec. xiv). L’unica altra tradizione figurativa a cui si attinge, a questa data in alter- nativa, alla corrente islamizzante è quella dei monasteri cri- stiani dell’Armeria, ma essa serve prevalentemente come ser- batoio di temi iconografici per una tradizione cristiana che rischia spesso di dimenticare del tutto gli schemi venerabili ereditati dall’iconografia paleocristiana e palestinese: in un tardo manoscritto nestoriano, miniato a Mossul nel 1499,

Storia dell’arte Einaudi oggi a Londra (bl, Rich. 7174), le rappresentazioni delle sce- ne evangeliche non seguono piú nessun modello della tradi- zione cristiana orientale, ma si ispirano invece alle illustra- zioni coraniche della vita di Gesú. (mba). Sironi, Mario (Sassari 1885 - Milano 1961). Iscrittosi alla facoltà di Inge- gneria di Roma, per seguire la professione del padre, inter- rompe ben presto gli studi per frequentare la Scuola libera di nudo dell’Accademia, dove incontra Balla e, attraverso que- sti, Boccioni, con i quali condivise l’esperienza futurista. Con la partecipazione al movimento marinettiano S inizia a foca- lizzare il proprio interesse sulle tematiche urbane, esploran- do la dimensione del nuovo tempo industriale, che interpre- ta attraverso un dinamismo, severamente bloccato da masse squadrate, che, insieme a colori dai toni cupi, sottolinea il ri- gore della composizione, già denunciando quell’incompatibi- lità verso ogni forma di intimismo, che caratterizzerà tutta la vicenda artistica di S (Cavallo e Cavaliere, 1915; Il ciclista, 1917). Dopo un breve periodo di adesione alla metafisica, di cui utilizza alcuni elementi formali, senza peraltro condivi- derne gli assunti programmatici (Manichino, 1917-18; La lam- pada, 1917), si trasferisce definitivamente a Milano (1919), dove inizia la serie delle periferie urbane. L’interesse di S si concentra sulla città, concepita come agglomerato di masse geometriche e ricostruita, in un silenzio assoluto, attraverso dispositivi prospettici sfalsanti, come sintesi suprema dell’ope- ra dell’uomo costruttore (Sintesi di paesaggio urbano, 1919-20; La Cattedrale, 1921). Nel 1920 firma il manifesto Contro tut- ti i ritorni in pittura, insieme a Dodreville, Funi e Russolo, con i quali partecipa a una mostra alla Galleria degli Ipogei di Mi- lano, curata da Margherita Sarfatti, inaugurando un sodalizio che sfocerà nell’invenzione del Novecento italiano. All’inizio degli anni Venti torna ad affrontare il tema della figura uma- na: L’Architetto (1922), L’Allieva (1924), La Solitudine (1925), nella loro prepotente essenzialità e nella severa ambientazio- ne, riconducono, ancora una volta, al mito del costruttore che silenziosamente, con solennità e profonda dedizione, diviene l’eroe classico della modernità. Nel 1923 alla Galleria Pesaro di Milano si inaugura la prima mostra dei sette pittori del No- vecento, seguita l’anno successivo da una presenza del grup-

Storia dell’arte Einaudi po alla Biennale di Venezia e quindi, nel 1926 e nel 1929 ri- spettivamente, dalla Prima e dalla Seconda mostra del Nove- cento italiano alla Permanente di Milano; membro attivo del gruppo, S inizia a lavorare nell’ambito dell’organizzazione cul- turale, nel tentativo di riportare l’arte a quella dimensione so- ciale che aveva caratterizzato l’epoca comunale, quando pit- tura, scultura e architettura si erano unite per narrare l’ideo- logia del proprio tempo. Alla fine degli anni Venti S affronta con sempre maggiore insistenza il tema del lavoro, rappre- sentando uomini dai corpi solidamenti volumetrici, intenti nella faticosa esplicazione, fisica o mentale, della propria at- tività (L’Aratro, 1928; I Costruttori, 1929). Nel 1932 S inizia, con un articolo che compare sul «Popolo d’Italia», a teoriz- zare la necessità di una unità globale delle arti, che può esse- re realizzata attraverso la pittura murale. Questi primi assunti teorici vengono da lui sperimentati in occasione della Mostra della rivoluzione fascista (1932), dove interviene organizzan- do la regia di tutto l’allestimento, in collaborazione con gli ar- chitetti razionalisti e realizzando quattro ambienti. L’anno successivo, come responsabile delle arti figurative, chiede a una trentina di artisti di eseguire per la V Triennale di Mila- no, pitture murali e sculture decorative, che sanciscano la ri- nascita della collaborazione fra le arti, e partecipa diretta- mente realizzando diversi interventi che vanno dai sei archi isolati, sistemati di fronte alla facciata del palazzo, ad alcuni bassorilievi per gli ambienti interni, fino al grande dipinto raf- figurante Il Lavoro per la Sala delle cerimonie, inaugurando una composizione a registri sovrapposti, che sviluppa una nar- razione che si snoda fra cupole e ciminiere, fra centauri e la- voratori in una dimensione senza tempo. Nonostante le nu- merose riserve da parte di pubblico e critica, S, dopo aver pub- blicato, insieme a Campigli, Carrà e Funi, il Manifesto della pittura murale si dedica, per tutto il decennio, quasi esclusi- vamente a questa attività, realizzando diversi interventi in numerose città italiane: L’Italia fra le Arti e le Scienze (1934, affresco per l’aula magna dell’Università di Roma), Giustizia tra la Legge e la Forza (1936, mosaico per il Palazzo di Giusti- zia di Milano), L’Italia, Venezia e gli Studi (1937, affresco per l’Università di Venezia). Negli anni della guerra torna nuo- vamente al quadro da cavalletto ripercorrendo tutte quelle te- matiche che aveva affrontato durante la sua carriera. I pae- saggi urbani propongono volumetrie architettoniche dai bor-

Storia dell’arte Einaudi di sfrangiati, mentre nelle rappresentazioni dei costruttori, fregi e capitelli dalle dimensioni gigantesche sovrastano figu- re umane pietrificate in bassorilievi. Consunto dalla storia e dalle tragedie familiari, dedica gli ultimi anni della sua vita al tema dell’Apocalisse, raffigurando ancora una volta la città, ora non piú nella fase della sua costruzione, ma in quella del- la sua distruzione. L’interesse che S dimostra nei confronti dell’architettura, tema e fonte di ispirazione fondamentale di tutta la sua pittura, trova un’ennesima conferma nelle nume- rose collaborazioni che intraprende con i maggiori protagoni- sti della cultura architettonica degli anni Venti e Trenta: il Palazzo del Popolo d’Italia (1939), a Milano con Giovanni Muzio, il concorso per il Palazzo del Littorio (1934-37) e il Danteum (1938) entrambi a Roma, con Giuseppe Terragni ed altri; oltre ai numerosi allestimenti in occasione di Fiere ed Esposizioni. Occorre inoltre ricordare la sua instancabile at- tività di disegnatore grafico, e quella di scenografo. (et). √i∫kin, Ivan Ivanovi™ (governatorato di Vjatka 1832 - San Pietroburgo 1898). For- matosi nelle scuole di San Pietroburgo, di Düsseldorf e del- la Svizzera, membro fondatore dei Peredvi∆niki, riscosse ampi successi con le sue immagini delle foreste russe, rese con precisione e realismo fotografico: Mattino in una pineta (1889: Mosca, gall. Tret´jakov), Fusti d’alberi (1898: San Pie- troburgo, Museo russo). (bl). Sisley, Alfred (Parigi 1839 - Moret-sur-Loing 1899). Il padre, di origine inglese, che a Parigi dirigeva una ditta di esportazioni, lo in- viò a Londra a fare apprendistato commerciale tra il 1857 e il 1861. Qui S passò il tempo visitando i musei sofferman- dosi in particolare sulle opere di Constable, di Bonington e di Turner. Tornato a Parigi nel 1862, entrò nello studio di Gleyre per studiarvi pittura; qui incontrò Bazille, Monet e Renoir. Dopo la chiusura dello studio di Gleyre nel 1864, trascorse l’inverno a Parigi, ospitando amici in difficoltà co- me Renoir, e l’estate in campagna, dipingendo paesaggi in- fluenzati da Corot. Raggiunse Monet a Chailly, dipinse con Renoir sulla Senna, poi a Marlotte, presso Fontainebleau. I primi paesaggi, come Strada di paese a Marlotte (1866: Buf-

Storia dell’arte Einaudi falo, Albright-Knox ag) o la Veduta di Montmartre (1869: Grenoble, mba), sono ancora piuttosto scuri, ma dimostra- no attenzione per la composizione e la propensione per i cie- li immensi e gli spazi profondi. Nelle nature morte, come l’Airone dalle ali spiegate (1867: Museo di Montpellier), si notano inoltre sottili armonie tonali. Frequentò piuttosto poco il caffè Guerbois, dove i suoi amici si riunivano intor- no a Manet. Dal 1870, schiarì la tavolozza e dipinse utiliz- zando la tecnica della giustapposizione dei toni: Chiatte sul ca- nale Saint-Martin (1870: Winterthur, coll. Oskar Reinhart), ad esempio, rivela un modo di osservare i riflessi dell’acqua e di dipingerli per rapidi tocchi vicino a quello che Renoir e Monet sperimentavano alla Grenouillère. Rovinato economicamente dalla guerra del 1870, si ritirò nei dintorni di Parigi, a Louveciennes, dipingendo paesaggi spezzati dalla prospettiva di una strada, come Louveciennes, la strada di Sèvres (1873: Parigi, mo), e ritraendo il mutare delle stagioni (Louveciennes d’autunno, 1873: Tokyo, coll. priv.; Louveciennes d’inverno 1874: Washington, coll. Phil- lips). Partecipò alla prima mostra impressionista con cinque paesaggi. Fruì peraltro dell’aiuto del mercante Durand-Ruel, di Duret, del cantante Faure, che nell’estate del 1874 lo con- dusse con sé a Londra. Dipinse regate (le Regate di Molesey: Parigi, mo), e numerose vedute della campagna inglese, co- me il Ponte di Hampton Court (Colonia, wrm). Da Louve- ciennes si trasferì a Marly, dove dipinse numerose vedute dell’abbeveratoio posto di fronte alla sua casa, e divenne il cronista del paese, come nella Fonderia a Marly 1875: Pari- gi, mo), veduta d’interno piuttosto infrequente nella sua ope- ra, o l’Inondazione a Port-Marly (1876; ivi e Rouen, mba), presentata alla seconda mostra impressionista, insieme ad al- tri sette dipinti. Nel 1877 partecipò anche alla terza mostra impressionista, dove presentò diciassette tele. Il mancato riconoscimento da parte del pubblico e della cri- tica lo trattenne dall’esporre i suoi dipinti per qualche an- no. Stabilitosi a Sèvres nel 1877, poi tornato a Louvecien- nes, continuò a dipingere numerosi quadri en plein air, nei quali è predominante il vasto orizzonte del cielo. L’equilibrio e la leggerezza della qualità atmosferica della sua pittura sono gli elementi fondanti delle sue composizio- ni (la Neve a Louveciennes, 1878: Parigi, mo). Dopo il 1880 l’artista si trasferì presso Moret-sur-Loing, poi

Storia dell’arte Einaudi nella stessa Moret, sempre piú isolato. Sotto l’influsso di Mo- net la sua tecnica pittorica andò modificandosi verso una pit- tura d’impasto materico e dal tocco largo. Eseguì sotto la sug- gestione di Monet numerose serie di paesaggi dei dintorni, prima a Saint-Mammès: la Croce bianca a Saint-Mammès (1884: Boston, mfa), Saint- Mammès e le rive della Celle, mat- tino di giugno (1884: Tokyo, coll. Ishibashi), Saint-Mammès (1885: Parigi, mo). In seguito dipinse soprattutto vedute di Moret: il Ponte di Moret - Effetto di tempesta (1887: Museo di Le Havre), Mucchi di fieno a Moret - Effetto mattutino (1891: Melbourne, ng), il Canale del Loing (1892: Parigi, mo), la Chie- sa di Moret (1893: Rouen, mba), la Chiesa di Moret dopo la pioggia (1894: Detroit, Institute of Arts). Una personale presso Durand-Ruel nel 1883, e una seconda presso Georges Petit nel 1897, non ebbero alcun successo, e S venne conosciuto e stimato dal grande pubblico per la sua pittura che combina equilibrio monumentale e sempli- cità dei soggetti paesistici prescelti solo dopo la sua scom- parsa. (app + nb). Sittanavasal Tempio rupestre jaina in India (stato di Madras), fondato nel sec, vii. La decorazione ad affresco che lo ornava quasi inte- ramente è stata probabilmente eseguita nel sec. ix, in occasio- ne di un banchetto menzionato da un’iscrizione. Il frammen- to meglio conservato è l’ampia composizione del soffitto del- la veranda che rappresenta uno stagno di fior di loto entro il quale si trastullano pesci, uccelli acquatici, bufali, elefanti e nel quale tre uomini tengono in mano un fiore; due di essi sono di color rosso scuro, il terzo è giallo. Questa poetica evocazione, il cui significato continua a restare controverso, deve il pro- prio fascino al naturalismo, alla spigliatezza e alla leggerezza delle pose, caratteri che addolciscono la saldezza dei contorni e la pienezza dei volumi, suggeriti da digradazioni di colore. In un altro frammento due danzatrici dalle pose piene di gra- zia e morbidezza, prive di affettazione, traducono la maestria tecnica raggiunta dagli artisti dell’India meridionale. (jfj). Sittow, Michel (Tallin 1469 ca. - 1525/26). Detto a volte Maestro Michel, era originario di Reval (oggi Tallin), città anseatica colle- gata agli altri importanti centri commerciali del Mare del

Storia dell’arte Einaudi Nord, e figlio di un pittore. Compì il proprio apprendista- to a Bruges, dal 1484, senza dubbio presso la bottega di Hans Memling, la cui influenza, liberamente reinterpreta- ta, sarà segno caratteristico di tutta la sua opera (Madonna col Bambino: Berlino, sm, gg). Nel 1492, Michel S compa- re in Spagna (soggiorno che alcuni vogliono successivo a quello francese, presso il Maestro di Moulins), al servizio della regina Isabella la Cattolica († 1504), per la quale di- pingerà, in collaborazione con Juan de Flandes, varie scene di un retablo raffigurante la vita di Cristo e la glorificazio- ne della Vergine (Assunzione: Washington, ng; Incorona- zione della Vergine: Parigi, Louvre). Unici esempi docu- mentati di tematica religiosa, queste piccole tavole rivela- no i contatti che S intrattenne con gli ambienti miniatorii fiamminghi – come il Maestro delle Ore di Dresda o il Mae- stro di Maria di Borgogna – così come il suo gusto partico- lare per certi effetti cromatici, luministici e il suo senso del- lo spazio. Dopo l’esperienza spagnola, S si pone al servizio di vari principi e nobili apparentati alla dinastia spagnola, da Fi- lippo il Bello in Fiandra, dal 1504 al 1506, a, forse, Cate- rina d’Aragona a Londra, nel 1505, indi (dopo un soggior- no nella città natale di Reval tra 1507-14) di Cristiano II di Danimarca, a Copenhagen, nel 1514, di Margherita d’Au- stria a Malines, nel 1515, del futuro Carlo V in Fiandra, nel 1516. Ritornato a Reval nel ’18, S vi pone stabile residen- za (ante dell’Altare di sant’Antonio per la chiesa di San Ni- cola), morendovi nel 1525-26. Pittore di qualità e intensità ineguale, ha lasciato qualche bel ritratto, dal tocco sobrio e attento, di modellato denso e dal colore intenso e smalta- to, testimoni, nel contesto del moto generale di ritorno al- le fonti antiche, di quanto egli si sia orientato su Jan van Eyck. Il carattere cosmopolita della sua attività, inoltre, fu responsabile di quella originale e speciale combinazione del- la tecnica pittorica e del senso d’osservazione fiammingo con il gusto «latino» per le forme chiare, per la stilizzazio- ne e il vigore plastico che gli valsero l’ammirazione di Dü- rer (Cavaliere di Calatrava, forse Diego de Guevara: Wa- shington, ng; Caterina d’Aragona: Vienna, km; Ritratto di gentildonna nei panni della Maddalena: Detroit, Institute of Arts). (scas).

Storia dell’arte Einaudi Situation Denominazione conferita a un gruppo di artisti che fece pro- prio il titolo dato alla mostra di pittura astratta organizzata nelle gallerie R.B.A. a Londra nel 1960. Sotto tale sigla si radunò una nuova generazione di pittori astratti operanti su formati molto grandi; respingevano il tradizionale uso del pennello, ispirandosi piú alle nuove tendenze americane, in particolare alla «colour field painting», che a quelle france- si loro contemporanee. Per s s’intende lo stato di coinvolgi- mento dell’osservatore; l’idea di far intervenire lo spettato- re rendendolo partecipe all’evento estetico ebbe poi largo seguito negli anni successivi. Tra i diciotto esponenti si ri- cordano Harold & Bernard Cohen, Richard Smith, Robin Denny, John Hoyland e William Turnbll. (abo). Siviglia Fino al sec. xvi il ruolo di S nella storia della pittura è assai scarso. Le rare opere conservate del xiv e dell’inizio del xv secolo non dimostrano caratteri locali: la Vergine de la Anti- gua Cattedrale, la Madonna di Rocamador in San Lorenzo, la Vergine con angeli musici firmata da Juan Hispalense (1420 ca.: Madrid, Museo Lázaro Galdiano), i dipinti murali (san- ti e sante) di Santiponce (1430 ca.) riflettono, rigidamente, gli influssi italo-francesi comuni in quell’epoca. La stessa cul- tura impronta i curiosi dipinti di soggetto cortese e cavalle- resco, con mori e cristiani, che decorano la Sala della Giu- stizia all’Alhambra di Granada dovuti a maestranze proba- bilmente sivigliane, anche se non è possibile documentarlo con certezza. Solo verso il 1480 nella città è documentata l’attività di numerosi pittori; le loro personalità sono male individuabili, ma tutti – Juan Sánchez de Castro (Madonna della Misericordia: Cattedrale) e il suo collaboratore, l’ano- nimo pittore dei dittici dei santi del retablo degli Ordini militari (mc), Juan Nùñez (Madonna addolorata: Cattedra- le), Pedro Sánchez (Deposizione nel Sepolcro: Museo di Bu- dapest) – rivelano un influsso fiammingo, particolarmente profondo a S a causa dei rapporti commerciali e marittimi con Anversa e Bruges pur recepito da una cultura ancora ar- caizzante. D’altronde, fu grazie a un artista settentrionale, aggiornato sulle novità rinascimentali, Alejo Fernández, che la pittura sivigliana maturò delle sue proprie caratteristiche.

Storia dell’arte Einaudi Fernández, menzionato come «Aleman» da alcuni docu- menti, venne a S da Cordova nel 1509, chiamato dal Capi- tolo, al seguito del fratello scultore che lavorava al grande retablo della Cattedrale. Diresse fino alla morte, nel 1545, una fiorente bottega. Il suo stile (retablo dell’Epifania nella Cattedrale, retablo di Maese Rodrigo nella cappella del se- minario, retablo di San Giovanni a Marchena), connotato da una grazia pensosa, spesso malinconica (Madonna della ro- sa: Santa Ana), con un senso dello spazio e della prospetti- va del tutto nuovi per S e un miscuglio di architetture goti- che e italiane, richiama spesso Gérard David. L’avvento di questa personalità coincide con l’ascesa di S, divenuta gran- de porto internazionale per il monopolio del commercio con l’America (1503); per la cappella della Casa de Contratación Fernández dipinse verso il 1520 la sua opera piú popolare, la Madonna dei naviganti (Alcázar). Intorno a lui gravitano pittori degni di stima – i Mayorga, Cristóbal de Morales (De- posizione: mba), Pedro Fernández de Guadalupe (Deposi- zione dalla Croce, 1527: Cattedrale) – sebbene dalla perso- nalità meno definita. Per un’altra via, quella dei romanisti fiamminghi, il rinascimento dotto entrerà in S un po’ prima della morte di Fernández. Il piú importante di loro è Peter de Kempener (Pedro de Campaña di Bruxelles), artista «po- livalente» e internazionale, matematico, architetto, astro- nomo, che aveva soggiornato a Bologna e a Venezia e che ri- mase a S dal 1537 al 1562. La sua opera è di alta qualità, con un senso monumentale e patetico non riscontrabile in nessun fiammingo del sec. xvi (Deposizione dalla Croce, 1547: Cattedrale, a lungo studiata e ammirata da Murillo). Nei ritratti fa mostra di realismo (donatori del retablo del- la Purificazione nella Cattedrale). L’olandese Sturm, piú sec- co e angoloso (retablo della Resurrezione: Cattedrale), il fiammingo Frutet (trittico del Calvario: mba) svolsero an- ch’essi un ruolo apprezzabile, e così pure fiamminghi come Pereyns di Anversa, i quali esportarono la cultura romani- sta da S nel Messico. Nell’ultimo terzo del secolo l’influsso italianizzante si fa sen- tire ancora una volta attraverso l’Andalusia con artisti inte- ressanti pur se non equiparabili a Kempener: nel 1553 Luis de Vargas torna a S dopo il lungo soggiorno romano durato ventotto anni; profondamente improntato da Raffaello, sa- piente e freddo (Genealogia di Cristo, Adorazione dei pasto-

Storia dell’arte Einaudi ri: Cattedrale; Madonna addolorata: Santa Maria la Blanca) avrà un seguace in Villegas Marmolejo (Vergine dell’inter- cessione: San Vicente). (pg). Diversamente un ultimo grup- po di pittori attivo verso il 1575 e fino ai primi anni del sec. xvii, divulga l’influsso di Michelangelo anche se il loro tor- mentato manierismo non è alieno dal crescente interesse per il naturalismo. è il caso del portoghese Vasco Pereyra (Mar- tirio di san Sebastiano: Sanlùcar de Barrameda, Santa Maria; Sant’Onofrio: Dresda, gg) e di due pittori piú importanti, Alonso Vázquez e Pacheco. Il primo, nato a Ronda, partì per Città del Messico nel 1603 morendovi poco dopo, non senza aver lasciato a S composizioni di una certa novità (Vi- ta di san Pietro Nolasca e Morte di sant’Ermenegildo: mba), ri- tratti di intensa vitalità e nature morte influenzate dai fiam- minghi. Il suo amico e contemporaneo F. Pacheco, noto so- prattutto come autore del trattato Arte de la pintura (1649) e come suocero di Velázquez, fu pittore assai attivo pur se modesto, di formazione in parte fiamminga. È interessante in particolare come ritrattista (Cavaliere di Saint Jacques: De- troit, Institute of Arts). Fu personalità centrale per la scuo- la sivigliana non solo come teorico, ma anche come maestro dei principali artisti della generazione successiva, Herrera il Vecchio, Velázquez, Alonso Cano. Accanto a questo gruppo di artisti rappresentanti di un gu- sto arcaicistico, le novità italiane vengono introdotte da Juan de las Roelas, che porta a S la ricchezza del colore e la mor- bidezza della tecnica veneziana. Antonio Mohedano dipin- ge un’Annunciazione (chiesa dell’Università di S) il cui stile si apparenta a quello del pittore madrileno Carducho, con il quale ha in comune l’assimilazione dell’apporto fiorentino, bolognese e romano. Tra gli artisti minori di questo perio- do vanno citati Legote, seguace di Ribera, e Juan del Ca- stillo, che s’ispira alle composizioni animate della scuola bo- lognese. Personalità di spicco è Herrera il Vecchio la cui composizione talora maldestra non annulla le intense qua- lità espressive della sua pittura. L’opera giovanile di Veláz- quez, nature morte e quadri religiosi, e tutta la produzione piú caratteristica di Zurbarán conferiscono alla pittura sivi- gliana un accento «tenebrista», sfumato peraltro dal gusto della bellezza serena e dall’equilibrio pressoché classico del- la composizione. Gli imitatori di Zurbarán, tuttora poco no-

Storia dell’arte Einaudi ti (i Polancos, Bernabé de Ayala), ne continuano lo stile in un momento in cui già si conoscono le novità della seconda metà del secolo. Così Sebastián de Llanos y Valdés – attivo tra il 1648 e il 1675 – dalla forte personalità, parte da sche- mi di Zurbarán (Madonna del Rosario, 1667: Dublino, ng) per realizzare poi quadri religiosi (teste di santi, come il San Laureano del Museo di El Greco a Toledo), che riflettono lo stile vigoroso di Valdés Leal. L’influsso piú profondo subito dalla pittura sivigliana nella seconda metà del sec. xvii è essenzialmente quello della pit- tura di van Dyck. Il tenebrismo di Zurbarán cede il passo al cromatismo sereno di Murillo, o ai toni infiammati e dram- matici di Valdés Leal dominatori della vita artistica sivi- gliana. Dopo la loro morte, costituiranno il piú importante riferimento per i pittori della generazione successiva. Valdés Leal non lasciò allievi, tranne il figlio Lucas de Valdés, de- coratore abile (ospedale dei Venerabili a S) e Matias de Ar- teaga y Alfaro, che non fu peraltro insensibile all’arte di Mu- rillo. Gli allievi di quest’ultimo assai numerosi, furono au- tori di numerose tele a torto in passato attribuite al maestro. Negli ultimi anni del sec. xvii e nei primi dei xviii i sogget- ti della «Vergine» e dell’«Infanzia di Cristo» furono parti- colarmente richiesti e ricalcarono i modelli iconografici di Murillo; è il caso ad esempio di Sebastián Gómez, lo schia- vo mulatto di Murillo, di Francisco Meneses Ossorio ed Estebán Marquez. Elaborazioni piú personali sono quelle di Bernardo German Llorente, creatore del tema della «Divi- na Pastora» e autore di trompe-l’œil curiosissimi, genere che sembra esser assai ricercato dai sivigliani dell’epoca, nonché di Alonso Miguel de Tovar, notevole ritrattista. Un posto a parte hanno Pedro Nùñez de Villavicencio, che viaggiò in Italia e il cui murillismo si limita ai temi (Bambini che gio- cano a dadi: Madrid, Prado), e Francisco Antolinez. Questi diffuse un tipo particolare di paesaggio e di architetture nel- le quali si muovono piccoli personaggi biblici che, pur ri- chiamando Murillo, conservano una certa originalità. Un ca- so interessante è quello di Cornelis Schut, pittore fiammin- go stabilitosi a S, il cui stile s’identifica – soprattutto nei disegni – con quello di Murillo, al punto da confondersi tal- volta con questi. La pittura di genere svolse un ruolo mino- re a S; come pittore di nature morte va citato solo Campro- bin, artista toledano stabilitosi a S almeno dal 1630, il cui

Storia dell’arte Einaudi delicato stile dimostra l’influsso di Zurbarán; va poi citata l’attività del paesaggista basco I. Iriarte che dovette colla- borare frequentemente con Murillo: Paesaggio (1665: Ma- drid, Prado). (aeps). Se il sec. xviii rappresenta un’epoca di decadenza economica per S, privata del monopolio della flotta a profitto di Cadice e ridotta alla condizione di metropoli provinciale, la vita ar- tistica fu però ancora attiva, e la pittura sivigliana del perio- do meriterebbe uno studio piú sistematico. Va notata la nuo- va vivacità degli affreschi decorativi, che coprono le pareti delle chiese, delle composizioni allegoriche o storiche, incor- niciate da ghirlande di fiori e da personificazioni angeliche, nonché la gradevolezza delle scene di genere e di attualità. Domingo Martinez è nel contempo il piú interessante dei de- coratori barocchi della Cattedrale, e il piacevole cronista del- le feste e delle mascherate in occasione dell’inaugurazione del- la manifattura dei tabacchi; suo genero, Juan d’Espinal, ri- propone per il monastero di Buenavista la tradizione dei grandi cicli narrativi, apportandovi però una nota nuova, aneddotica e talvolta umoristica (Vita di san Girolamo: mba). Nel xix e nel xx secolo la Scuola di belle arti di Santa Isa- bel de Hungria, fondata durante il regno di Carlo III, con- tinua ad essere un vivaio di pittori spesso brillanti; non si può però piú parlare di «scuola sivigliana», dato che la mag- gior parte degli artisti migra verso il centro madrileno sta- bilendovisi durevolmente. Si può sostenere peraltro che sus- sista una «corrente sivigliana» romantica molto netta, una tecnica colorista e «chiaroscurista», murilliana e antiacca- demica – rappresentata da un Gutierrez de la Vega, e anche da Esquivel – e nel contempo caratteri della tradizione pit- torica sivigliana nella pittura di costume e popolare, che si ritrovano in particolare in Valeriano Bécquer. Si può inol- tre notare, in pieno sec. xx la permanenza a S di alcuni ar- tisti indipendenti come Gonzalo Bilbao, illustratore dei pae- saggi urbani e dei mestieri sivigliani (le Sigaraie: mba), Gu- stavo Bacarisas, che ha celebrato i giardini di S con rutilante lirismo, o Alfonso Grosso, pittore in minore dell’intimità dei chiostri e degli ospedali sivigliani. Ricchissimo era il patrimonio artistico conservato nelle chie- se e nei palazzi sivigliani; purtroppo le testimonianze pitto- riche dell’apogeo economico e culturale di S, punto di par-

Storia dell’arte Einaudi tenza della flotta delle Indie, emporio della penisola iberica e uno dei maggiori porti del mondo, venne saccheggiato all’inizio del sec. xix durante l’occupazione francese (il ma- resciallo Soult mise insieme una magnifica collezione a spe- se dei conventi sivigliani) e in seguito dalla vendita di nu- merosi Murillo sul mercato inglese, oltre che dalla soppres- sione dei conventi maschili durante la guerra carlista (1835). La perdita di opere d’arte si riflette sulle collezioni del Mu- seo di S che non riesce a dare un’idea completa ed equili- brata della pittura sivigliana. Nella Cattedrale è conservato il piú folto gruppo di opere dai primitivi fino al sec. xviii anche se non facilmente visibili. Le due sagrestie raccolgono alcune opere fondamentali (domi- nate dalla maestosa Deposizione dalla croce di Pedro de Cam- paña), e così le cappelle (Retablo del Maresciallo di Campaña, Retablo della Resurrezione di Sturm, Adorazione dei Magi di Vargas, Retablo di san Pietro di Zurbarán), e i grandi quadri d’altare di Roelas (San Giacomo a cavallo, «matamoros»), di Murillo (Apparizione del Bambino Gesú a sant’Antonio di Pa- dova), di Herrera il Vecchio (Trionfo di san Francesco). Altre importanti opere sono conservate in alcune chiese, par- rocchiali o conventuali: Santa Ana de Triana (Vergine della rosa di Alejo Fernández, grande retablo di Campaña), San Pedro (opere di Campaña, Liberazione di san Pietro di Roe- las), San Isidoro (Morte di sant’Isidoro, capolavoro di Roe- las). L’ex chiesa dei Gesuiti (oggi dell’Università) possiede uno dei complessi piú maestosi dell’inizio del sec. xvii (Cir- concisione di Roelas, opere di Pacheco e Mohedano); San Pablo, ex chiesa dei Domenicani, in gran parte distrutta da un terremoto alla fine del sec. xvii e provvista di un nuovo arredo, presenta un bel complesso decorativo barocco (Lu- cas de Valdés, Cl. de Torres). Infine, e forse soprattutto, l’Ospedale de la Caridad, fondato da un celebre penitente, Miguel Mañara, conserva un gruppo notevole di dipinti dell’epoca d’oro (Santa Elisabetta, San Giovanni di Dio), di- pinti eseguiti da Murillo sui temi della carità, e le spettaco- lari Allegorie della morte di Valdés Leal. Va aggiunto che l’Alcázar real presenta una testimonianza essenziale sulla scuola sivigliana all’epoca delle grandi scoperte marittime: la Madonna dei naviganti di Alejo Fernández, nell’antica cap- pella della casa de Contratación, nonché un’interessante rac- colta di pittura romantica negli Appartamenti reali.

Storia dell’arte Einaudi Infine, il Museo delle belle arti, antico convento de la Mer- ced, possiede una raccolta di primitivi e del sec. xvi sivi- gliano che se pur lacunosa presenta alcuni interessanti di- pinti andalusi (Cristóbal de Morales, Dittico degli ordini militari) e ispano-fiamminghi (Frutet), nonché opere dal ma- nierismo al realismo (ciclo della Merced di Pacheco e Alon- so Vázquez). Per il secolo d’oro, sono presenti opere di Roe- las e Herrera, il primo col Martirio di sant’Andrea, il secon- do con la Visione di san Basilio. Il museo che non possedeva alcun Velázquez, ha acquisito nel 1970 un’opera fonda- mentale della sua giovinezza sivigliana: la Vergine che dona la pianeta a san Ildefonso, proprietà dell’Arcivescovado, do- ve era assai difficilmente visibile. Le opere monastiche di Zurbarán sono assai numerose: il grande Trionfo di san Tom- maso d’Aquino, le tre Storie dei Certosini di Triana, i Santi domenicani di Porta Coeli, cui si aggiungono quattro pateti- ci Cristi in Croce e l’affascinante serie delle otto Sante dell’Ospedale del Sangue. Murillo è rappresentato dalla qua- si totalità dei quadri dei Cappuccini (San Giuseppe, San Lean- dro e san Bonaventura, le Sante Giustina e Rufina, e le meno riuscite estasi di Sant’Antonio da Padova e di San Felice di Cantalice col Bambino Gesú). La sala del tumultuoso e ma- linconico Valdés Leal conserva la Rotta dei Saraceni e la Pro- cessione di santa Chiara, col ciclo geronimita, dal brillante co- lore e dalla movimentata composizione (San Girolamo fla- gellato dagli angeli, i dottori dell’ordine, tra cui Fra Gonzalo de Illesca, Fra Hernando de Talavera). Il museo possiede inol- tre un ritratto di El Greco (Ritratto di un pittore, forse il fi- glio del maestro, Jorge Manuel), interessanti serie narrative sacre o profane del sec. xviii sivigliano (Lucas de Valdés, Domingo Martinez, Espinal) e una collezione considerevo- le di pittura del sec. xix spagnolo, dove in particolare si no- ta il ruolo dei sivigliani Esquivel (una sessantina di opere), Gutierrez de la Vega (ritratti), Gonzalo Bilbao. Vi si con- servano anche alcune opere non spagnole, tra cui il Calvario di Cranach (1538), opera fondamentale di recente ritrova- mento. (pg). Six, Jan (Amsterdam 1618-1700). Signore di Vromade e di Wimme- num, fu personalità eminente della città di Amsterdam, di

Storia dell’arte Einaudi cui divenne borgomastro nel 1691. Apparteneva a una fami- glia di origine francese; suo nonno, Charles S de Saint-Omer, calvinista, si era rifugiato in Olanda alla fine del sec. xvi, fon- dandovi una tintoria e una manifattura per la seta. Jan S s’interessò dell’industria di famiglia fino al 1652, data in cui si ritirò per intraprendere la carriera di magistrato. Dopo brillanti studi all’Università di Leida, nel 1641 si recò in lta- lia, interessandosi all’arte. Uomo di grande cultura, spirito curioso, era aggiornato su tutte le novità intellettuali, conobbe Cartesio e Spinoza, scrisse poesie e lavori teatrali, tra cui una tragedia, Medea. Va ricordato però in particolare per il suo sagace gusto arti- stico e per le sue collezioni di quadri, disegni e stampe di maestri italiani, tedeschi e olandesi. Sposò nel 1655 la figlia del prof. Tulp (il maestro della Lezione di anatomia di Rem- brandt). Fu Rembrandt appunto a immortalarlo nello stu- pendo Ritratto, tuttora di proprietà della famiglia (coll. S di Amsterdam). Già nel 1641 Rembrandt ne aveva ritratto la madre, Anna Widmer, e nel 1647 incise il celebre rame Jan Six alla finestra. L’amicizia con Rembrandt, che egli talvol- ta aiutò, è stato uno dei motivi della sua fortuna nella sto- ria dell’arte. L’asta, nel 1702, della collezione da lui costituita dà un’idea dell’importanza del suo gabinetto; comprendeva 160 quadri di tutte le scuole, e 57 tra disegni e stampe. I disegni erano per la maggior parte dei maestri italiani. Vi si trovano cita- ti anche i nomi di van Dyck e di Rembrandt. Tra le serie d’incisioni vanno citate quelle di Luca di Leida, Dürer, Al- degrever, nonché fogli di primitivi tedeschi. L’asta disper- se la raccolta di S, tranne i ritratti, ancora conservati nel pa- lazzo di famiglia, abitato dai discendenti del borgomastro, le cui collezioni, che fanno parte di una fondazione, sono ac- cessibili al pubblico. A parte i ritratti di Rembrandt, vi si trovano i ritratti di Ter Borch e Govert Flinck. L’attuale coll. S comprende anche altri dipinti olandesi di qualità, ac- quisiti dagli eredi di Jan S. tra cui il Chiaro di luna sul mare di Cuyp e un Paesaggio invernale di Ruisdael. (gb). Skagen Skagens Museum Posto nello Jutland settentrionale (Dani- marca), il Museo, fondato nel 1908, ospita una notevole rac- colta di dipinti nordici. In particolare conserva tele dei pio-

Storia dell’arte Einaudi nieri della pittura all’aperto scandinava che si raccolsero a S dal 1870 in avanti, attratti dalla qualità della luce e ispirati dalla vita solitaria e austera dei pescatori. Citiamo in parti- colare le opere di Christian Krohg (Ritratto di Tine Gaihede e di sua figlia), di P. S. Kr°yer (Colazione, 1883), di Michael Ancher e di sua moglie Anna (La signora Br°ndum nella ca- mera azzurra, 1913). (sr). Skapinakis, Nikias (Lisbona 1931). Pittore realista, ha sempre rifiutato l’astrat- tismo, che peraltro ne ha penetrato la pittura. Il suo reali- smo poetico affiora nelle immagini trasfigurate della sua città natale. Ha licenziato intorno al 1968 dipinti erotici, forte- mente condizionati dalla messa in immagine dei manifesti pubblicitari. Ha esposto a Parigi (Fondazione Gulbenkian) nel 1972 e ha realizzato uno dei pannelli dell’importante complesso che decora, dal 1972, il caffè A Brasileira a Li- sbona. È rappresentato nella Fondazione Gulbenkian e in varie collezioni private. (jaf). Skoczylas, Wladyslaw (Wieliczka 1883 – Varsavia 1934). Allievo della Scuola di arti applicate di Vienna (1901) e dell’Accademia di belle ar- ti di Cracovia (1904-906), nel 1910 frequentò a Parigi lo stu- dio di Bourdelle. Nel 1922 venne nominato docente presso l’Accademia di belle arti di Varsavia. Membro del gruppo dei «formisti», fu tra i fondatori dei gruppi Rytm (1922) e Ryt (1925). Le sue incisioni su legno, monumentali e deco- rative, s’ispirano all’arte medievale popolare e al folklore po- lacco, soprattutto quello degli abitanti dei Tatra. Grazie al- la sua attività didattica e ai suoi numerosi allievi, T. CieÊlew- ski, S. Ostoja-Chrostowski, T. Kulisiewicz, S. Mroêewski, S viene considerato il fondatore della scuola polacca mo- derna d’incisione su legno. Praticò anche la scultura. (wj). Skorodumov, Gavrila Ivanovi™ (San Pietroburgo 1755-92). Figlio di un pittore scenografo, allievo di Losenko all’Accademia di San Pietroburgo, sog- giornò a Londra dal 1773 al 1782, apprendendovi da Bar- tolozzi la tecnica dell’incisione colorata a puntinato (Claris- sa Harlow da Reynolds; Sacrificio a Cerere da A. Kauffmann,

Storia dell’arte Einaudi 1778). Rimpatriato, praticò anche la miniatura, decorando tabacchiere e anelli con ritratti dei sovrani (San Pietrobur- go, Museo russo). (bl). Skovgaard Peter Christian (Hammershus (Ringsted) 1817 - Copenha- gen 1875) fece parte di un gruppo di artisti che interpreta- rono il paesaggio danese secondo un ideale romantico e pa- triottico. Eseguì soprattutto paesaggi boschivi, ponendo l’ac- cento sul carattere monumentale della composizione e la ricchezza della vegetazione. È ben rappresentato a Co- penhagen (smfk). Joakim (Copenhagen 1856-1933), suo figlio maggiore, dal talento molteplice, si diede alla pittura a olio, alla ceramica, all’illustrazione. Suo capolavoro è la decorazione a fresco della Cattedrale di Viborg (1895-1906). Niels (Copenhagen 1858 - Lyngby 1938), fratello di Joakim, si specializzò in scene bibliche. Gli si devono inoltre illu- strazioni per la Chanson de Roland (1897) e per racconti po- polari (Danske Sagn og Eventyr, 1913-29). (kb). √kréta, Karel √otnovki, detto Carlo Skreta (Praga 1610-74). Intraprese gli studi a Praga, poi si trasferì in Sassonia (1628) prima di recarsi in Italia (1630-35), dove ricevette la sua vera formazione a contatto con le opere del Veronese e di Bernardo Strozzi a Venezia, poi con quelle dei Carracci e di Poussin durante il soggiorno romano (1634). Dopo il ritorno a Praga, verso il 1635, divenne richiestissi- mo come pittore tanto da poter essere considerato il fonda- tore del barocco boemo. Dalla sua bottega, assai produtti- va, uscirono scene bibliche e mitologiche, dipinti destinati agli edifici religiosi di Praga (Nostra Signora di TØn, Santo Stefano, San Nicola); tra le opere piú brillanti è il San Mar- tino che divide il mantello, dipinto per l’omonima chiesa pra- ghese (ora Praga, ng), ispirato al San Martino di vari Dyck (Windsor) per la composizione, per il colore a Veronese e per i costumi al caravaggismo romano. Del ciclo (perduto) con le trenta lunette raffiguranti episodi della Vita di san Venceslao, incise nel 1643, si sono conservati solamente set- te pezzi, ora al castello di Melnìk. Si è espresso al meglio co- me ritrattista (l’Imperatrice Eleonora, moglie di Ferdinando

Storia dell’arte Einaudi III; Presunto ritratto di Poussin, 1632-35: Praga ng; Presun- to ritratto di Sandrart: ivi; Il tagliapietre D. Miseroni nella sua bottega con la famiglia: ivi; Il Cavaliere di Malta Bernard de Witte, 1651: Dresda, gg), frequentando anche il ritratto mi- tologico, allora in voga (Didone ed Enea, 1652: Praga, ng). Il Giovane Cacciatore (1653 ca.: castello di Castolovice) ri- vela la sua conoscenza della ritrattistica di van Dyck e ri- corda la figura di giovane che impersonifica il mese di No- vembre nel ciclo dei mesi di Sandrart. S ha saputo concilia- re nella sua opera il classicismo al sensualismo vitale del barocco, il gusto dell’osservazione all’attitudine a una vi- brante espressività. Dei suoi numerosi disegni, alcuni furo- no incisi da Merian il Vecchio e W. Hollar. (bl). Slavi™ek, Antonin (Praga 1870-1910). Si formò all’Accademia di belle arti di Praga presso il paesaggista J. Ma≈ák, il cui insegnamento era impregnato dallo spirito del tardo realismo romantico. Però fu soprattutto l’esempio di Chittussi, formatosi alla scuola dei pittori di Barbizon, che esercitò su di lui un’influenza determinante; da segnalare è la sua presenza all’Esposizio- ne Universale del 1900 e il suo viaggio a Parigi avvenuto nel 1907. S evitò le secche della descrizione naturalista per ten- dere, nei suoi paesaggi, a una visione globale in cui la resa dell’atmosfera attraverso un tocco frammentario, netto e pu- lito, svolge un ruolo di primo piano. La sua preoccupazione per i volumi e la struttura delle cose non lo porta alla disso- luzione delle forme nello spazio, ma dona loro, in compen- so, un ritmo particolare e talvolta simbolico (La foresta di be- tulle, 1897: Praga, ng; Giornata di giugno, 1898: ivi). Si evol- ve quindi, attorno al 1904, verso un senso del grandioso, tralasciando di fermare quell’impressione fuggitiva cercata negli anni precedenti. Questo secondo periodo è inaugura- to da una serie di paesaggi eseguiti a Kameni™ky, località in una sperduta regione delle alture ceco-morave (A Kame- ni™ky, 1904: ivi) e culminò con le monumentali vedute di Praga, eseguite con una pennellata impetuosa (Piazza della Vergine, 1906: ivi; La Cattedrale di San Vito, 1909: ivi): il tocco libero, ma fortemente strutturato, contribuisce con il colore scuro e saturo a una resa pittorica espressiva che ne- gli anni Trenta sarà apprezzata da Kokoschka. Le ultime te-

Storia dell’arte Einaudi le di S sono consacrate al tema delle strade di campagna bat- tute dal vento e dalla pioggia (La strada di æamberk, 1906: ivi; Il sentiero attraverso i campi, 1909: ivi). Tra tutti i pitto- ri cecoslovacchi, S è colui che piú si è avvicinato all’im- pressionisino. (ivj). Slevog, Max (Landshut 1868 - Neukastel (Francoforte) 1932). Si formò dal 1885 al 1890 nell’Accademia di Monaco con Wilhelm Diez, la cui maniera realista ne segnò gli esordi. Nel 1889-90 si recò a Parigi, dove frequenta l’Académie Julian, e in Italia: in seguito si stabilì a Monaco (1890-1900).Do- po un soggiorno a Francoforte, lavorò soprattutto a Berli- no e nella sua proprietà di Neukastel. Nel 1898 visitò l’Olanda ammirandovi l’opera di Rembrandt, che lo in- fluenzerà profondamente; anche l’ascendente di Leibl e di Trübner si dimostrerà per lui determinante. Durante gli an- ni Novanta, dipinse di preferenza, con virtuosismo, figure entro composizioni movimentate, di solito a soggetto bibli- co o mitologico (Danae, 1895: Monaco, sc). Solo verso l’ini- zio del secolo abbandonò il colore pesante della scuola di Monaco e la pittura di storia, dagli effetti spettacolari. Nuovamente a Parigi, è attratto da Manet. Adotta così una tecnica di stile impressionista, delicata, ma solida (la Pan- tera, 1901: Hannover, Niedersächsisches Landesmuseum) unendo alla ricchezza della luce e del colore, ulteriormente caricatosi al seguito di un viaggio in Egitto (1913-14), la spontaneità della scrittura (Uomo in bianco, 1902; Il cantan- te d’Andrade nel ruolo di Don Giovanni: Stoccarda, sg). Ol- tre ad eseguire ritratti (E. Fuchs, sua Moglie e sua Figlia, 1903-905: ivi) si dedicò al paesaggio e alla natura morta, te- mi da lui favoriti (Natura morta di fiori, 1917: Hannover, Niedersächsisches Landesmuseum, Landesgalerie). L’affre- sco del Golgota nella Friedenskirche di Wawigshafen (di- strutta nel 1943-44) è la sua opera tarda piú importante. S collaborò spesso a riviste importanti come «Jugend» e «Sim- plicissimus», risentendo delle ricerche della Secessione e dal 1903 eseguì cicli d’illustrazioni litografate e incise su rame (Alì Babà e i quaranta ladroni): in particolare il Lederstrumpf (1906-909) di Cooper rivela in pieno la levità della sua fan- tasia e la sicurezza del disegno. È rappresentato in tutti i principali musei d’arte moderna tedeschi e austriaci. (kbs).

Storia dell’arte Einaudi Slewiƒski, Wladyslaw (Byalynin (sulla Pilica) 1854 ca. - Parigi 1918). Giunse a Pa- rigi nel 1888, frequentò l’Accademia Colarossi e fece parte del gruppo di artisti che si raccoglievano intorno a Gauguin. Apprezzato da quest’ultimo col quale intrattenne una buo- na amicizia (ritratto a Tokyo, mam) decise di dedicarsi se- riamente alla pittura. Accompagnò Gauguin in Bretagna nel 1890 e vi si stabilì, divenendo un assiduo di Pont-Aven, abi- tando a Bas-Pouldu, dove nella primavera del 1894 ospitò Gauguin e Annah la Giavanese. A partire dal 1896 espose al Salon des Indépendants; nel 1897 e 1898 alla Gall. Geor- ges Thomas di Parigi. In questi anni si legò a Munch, Alfons Mucha e Strindberg (il cui ritratto è al Museo di Varsavia, 1896 ca.). Dal 1905 al 1910, rientrato in Polonia, insegnò alla Scuola di belle arti di Varsavia (1908-10): è a questo pe- riodo che risale il suo dipinto piú noto, Orfano di Poronin (1906: Varsavia, Museo). Tornò a risiedere in Bretagna nel 1910 (Pont-Aven e Doëlan) . Le tonalità profonde e armoniose e il carattere sintetico del- le sue opere dimostrano che, pur influenzato dalla scuola di Pont-Aven, S pone l’accento piú sulla vita interiore che sull’aspetto decorativo del quadro. La luce diffusa, i colori sobri ma luminosi conferiscono un carattere enigmatico al- le sue composizioni (Libri e maschere, 1897: Varsavia, mn), concepite come giustapposizioni di piani (Bambino col ber- retto, 1902: Pont-Aven, Museo). Le opere di S sono con- servate nei musei polacchi di Varsavia, Cracovia, Poznan, Parigi (mnam), nei musei di Rennes e di Quimper, e in col- lezioni private polacche e francesi. (wj). Slingeland, Pieter Cornelisz van (Leida 1640-91). Allievo di Gerrit Dou, operò a Leida, do- ve risulta iscritto alla gilda di San Luca nel 1661, divenen- done decano nel 1691. Dipinse ritratti (Autoritratto, 1656: Parigi, Louvre; la Famiglia Meerman: ivi e Museo di Saint- Omer; Johannes van Crombrugge, 1677: Rotterdam, bvb; Ri- tratto d’uomo, 1688: Amsterdam, Rijksmuseum), e scene di genere, di fattura molto rifinita, tipica della Scuola di Lei- da (Utensili da cucina: Parigi, Louvre; Donna che cuce, 1688: Karlsruhe, Museo), direttamente derivanti dallo stile di Dou. Fu maestro di Jacob van der Sluys. (jv).

Storia dell’arte Einaudi Slingelandt, Govaert van (? - L’Aja 1767). La collezione S si distingueva visibilmen- te dalle altre raccolte d’arte olandesi dei suoi tempi, gene- ralmente ricche di centinaia di quadri. Govaert van S, te- soriere generale d’Olanda, collezionista dal gusto piú raffi- nato, scelse infatti di limitare la sua raccolta a quaranta opere, di altissima qualità. Egli inseguì quest’obiettivo per tutta la vita, cercando di accrescere il valore e il prestigio della raccolta senza mai esitare di vendere un dipinto per ac- quistarne uno piú pregiato; arrivò persino a mettere in ven- dita ripetutamente l’intera collezione – come affermano i suoi contemporanei – per un solo quadro. Dopo la morte di van S, si presentarono numerosi acquirenti, data la celebrità e la preziosità della collezione, ammirata dal marchese di Marigny, e da Cochin: tra questi il duca di Choiseul e l’im- peratrice di Russia. Gli eredi, fedeli alle volontà dell’antico proprietario, che aveva espresso il suo desiderio per una ven- dita all’asta della quadreria, rifiutarono le proposte e la da- ta dell’asta fu fissata al 18 maggio 1767. Il catalogo fu pub- blicato su sollecitazione dello stathouder Guglielmo V che ac- quistò l’intera collezione per 50 000 fiorini. Le opere, ora passate al Mauritshuis (L’Aia) con le altre collezioni di Gu- glielmo V, figuravano tra i capolavori del museo: si ricordi- no La lettera di Ter Borch, Il calzolaio di Metsu, Frans Mie- ris (le Bolle di sapone; Ritratto dell’artista con la sua sposa), Paulus Potter (Pascolo), Rembrandt (Susanna al bagno), van Dyck (numerosi Ritratti), Rubens (ritratti di Isabelle Brant e di Hélène Fourment), Antonio Moro (Ritratto di un orafo). (gb). Sloan, John (Lock Haven (Pennsylvania) 1871 - Hanover (New Ham- pshire) 1951). Come Luks, Shinn e Glackens, esordì come illustratore per la «Philadelphia Press». Nel 1892 seguì i cor- si di T. Anshutz alla Pennsylvania Academy of Fine Arts; nello stesso anno frequentò la cerchia di Robert Henri. In questo periodo imitò in modo piuttosto ingenuo l’impagi- nazione delle stampe giapponesi (Night on the Board-walk, 1894: Wilmington, Delaware am). Cominciò a dipingere dal 1897, ma, contrariamente agli altri pittori che con lui pre- sero parte al gruppo The Eight, non operò mai in Europa.

Storia dell’arte Einaudi Nonostante ciò, sotto molti aspetti il suo stile sembra spes- so piú aggiornato di quello di altri artisti che, nello stesso periodo, si recavano a Parigi. Acquistò rapidamente una cer- ta notorietà, tanto che nel 1900 esponeva al Carnegie Insti- tute di Pittsburgh e all’Art lnstitute di Chicago, nel 1908 al- la mostra degli Eight, nel 1910 alla prima mostra degli In- dipendenti e, nel 1913, all’Armory Show (tra le opere: McSorleys Bar, 1912: Detroit, Institute of Arts), dove ebbe modo di conoscere la pittura di van Gogh (sotto la cui in- fluenza dipinse tele come Twin Lights = Purple rock, 1915: John S Trust) e dei fauves. Alla grafica tornò in occasione dell’illustrazione di alcuni romanzi di Paul de Kock, ese- guendo la sua piú celebre serie di incisioni. Insegnò nel 1916 all’Art Students’ League, e in seguito all’Archipenko’s Art School; dal 1918 al 1919 fu il presidente della Society of In- dipendent Artists. Tra i suoi allievi furono Gottlieb, New- man, Calder e David Smith. Dal 1900 al 1925 la sua opera, collocabile nell’ambito del realismo sociale americano, pre- senta caratteri pressoché costanti nella scelta dei soggetti – scene di genere e paesaggi urbani – e nell’esecuzione rapi- da e fresca, con effetti brillantemente contrastati (East En- trance, City Hall, Philadelphia, 1901: Columbus, Gall. of Fi- ne Arts; Hairdresser’s Window, 1907: Hartford, Wadsworth Atheneum). Dagli anni Trenta S sperimenta uno stile pit- torico nuovo, in cui le forme sono sottolineate e amplifica- te da una tessitura di linee oblique che richiamano i modi dell’incisione (Monument in the Plaza, 1948-49: John S Tru- st). È ampiamente rappresentato nei principali musei ame- ricani, soprattutto nel Delaware am di Wilmington. La sua produzione è stata criticamente ripercorsa nel corso della re- trospettiva itinerante del 1971-72 (Washington – Athens – San Francisco – St. Louis – Columbus – Philadelphia) e nell’antologica del 1980 (Whitney Museum of American Art). (jpm). Sluyters, Jan (Bois-le-Duc (’s-Hertongenbosch) 1881 - Amsterdam 1957). Si formò alla Scuola normale per l’insegnamento del dise- gno, poi all’Accademia di belle arti di Amsterdam (1896), ed è sulle prime influenzato dal simbolismo allora declinan- te. Si recò a Parigi nel 1904 con Léo Gestel, viaggiò in Ita-

Storia dell’arte Einaudi lia e in Spagna, tornò a Parigi nel 1906. Per una decina d’an- ni la sua evoluzione riflette quella della pittura contempo- ranea: conobbe una fase di fauvisme (vicina a quella di van Dongen, suo conterraneo), scoprì van Gogh e, nel 1913, adottò la tecnica pointilliste. A partire dal 1908 elaborò uno stile luminoso, con giochi astratti di colore secondo un prin- cipio di «orchestrazione colorata» (Paesaggio al chiaro di lu- na II, 1911: L’Aja, gm). Nel 1913 aderì al cubismo (Ritrat- to cubista di una donna, 1914: Amsterdam, coll. priv.). Il suo periodo piú originale è quello di Staphorst (1915-17), nel corso del quale le stilizzazioni derivanti dalla disciplina cu- bista vengono umanizzate dall’espressione patetica, ispira- ta dal van Gogh di Nuenen (Famiglia di contadini a Staphor- st, 1917: Haarlem, Museo Frans Hals). Stabilitosi ad Am- sterdam nel 1919, l’artista rinunciò a questa austerità praticando nuovamente il colore chiaro degli esordi. Pitto- re di ritratti, nudi, interni, il suo intimismo è una variazio- ne olandese (cui non è estranea l’arte di Matisse) del lin- guaggio disteso e amabile che in parte caratterizza il perio- do tra le due guerre, e che S ha prolungato fino al termine della sua carriera: Ritratto dello scabino Wibaut (1932), la Gioia di dipingere (1946: Amsterdam, sm). Nel 1927 e nel 1952 gli sono state dedicate due retrospettive allo sm d’Am- sterdam. (mas). smalto e pittura L’arte dello smaltista medievale è concepita essenzialmente come l’arte di inserire il colore nelle oreficerie, quasi alla stregua di pietra preziosa. Con il rinascimento compare in- vece una nuova tecnica che permette allo s di concorrere con la pittura nella creazione di superfici interamente colorate. È a questo s che la presente voce è dedicata. Si tratta dello «s dipinto», che utilizza come supporto il rame, coperto da una serie di strati di s stesi con una spatola e quindi cotti, con effetti di modellato ottenibile raschiando parzialmente uno di questi strati. Questa tecnica, il cui uso è limitato dal- la intrinseca difficoltà, possiede rispetto alla pittura il van- taggio della brillantezza (se non mescolati allo stagno – ne- cessario però per ottenere il bianco – gli s sono traslucidi) e, almeno in apparenza, quello della robustezza (in realtà sono molto fragili, ma i colori non subiscono variazioni nel tem- po).

Storia dell’arte Einaudi L’origine L’apparire di questa tecnica in Francia durante il sec. xv non è documentata e si sono ipotizzate per essa ori- gini borgognone o fiamminghe o italiane; in quest’ultimo ca- so sarebbe stato un pittore francese a fare da tramite tra i due paesi: Jean Fouquet. Al Louvre di Parigi si conserva in- fatti un medaglione a s nero e monocromo oro, con un ri- tratto d’uomo e l’iscrizione «Johes Fouquet», ritenuto ge- neralmente un autoritratto. Poiché Fouquet era a Roma in- torno al 1445 e vi incontrò Filarete, che per testimonianze contemporanee sappiamo impegnato anche nell’elaborazio- ne di s, quest’incontro sarebbe all’origine del medaglione del Louvre, il primo s dipinto francese, di qualità indubbia- mente superiore a quella delle opere piú tarde. Gli smalti dipinti lombardi Un significativo esempio di ela- borazione tecnica interpretabile come momento di transi- zione dalla tradizione dello s traslucido all’affermarsi dello s dipinto si ha in Lombardia con una serie di placche in cui le figurazioni sono eseguite a s opaco, con tocchi in oro, di- pinto su un fondo a s traslucido azzurro. Le prime testimo- nianze omogenee di uno sviluppo locale di questa tecnica – evidenziato in particolare dallo Steingräber – si conden- sano però solo intorno all’ultimo decennio del sec. xv, an- che se già in oggetti di grande imponenza e di prestigiosa committenza e con un’abbastanza diffusa presenza territo- riale. Tra gli esemplari piú interessanti ricordiamo gli s del grandioso ostensorio del Duomo di Lodi, donato nel 1495 dal Vescovo Pallavicino, e gli altri – databili intorno al 1490 – del reliquiario donato da Papa Alessandro VI Borgia a una chiesa di Gandia (in Valenza), accostati anche a quelli pre- senti nella base del Calvario appartenuto a Mattia Corvino. Gli smalti dipinti di Limoges u Il cosiddetto Monvaerni La tecnica dello s dipinto si svi- luppa di fatto a Limoges durante il regno di Luigi XI. In que- sto periodo opera un artigiano erroneamente identificato nell’Ottocento col nome di «Monvaerni», che pare essere stato il primo a trattare lo s come pittura, tracciando le sue composizioni in nero su uno strato opaco di s bianco, ra- schiandone via una parte prima di coprirlo con s policromi. L’artista introdusse anche l’uso delle stampe come modello compositivo, estrapolandone alcuni elementi e adattandole al proprio gusto.

Storia dell’arte Einaudi u I modelli a stampa Marquet de Vasselot ha individuato le incisioni usate come modello dalla seconda generazione di smaltisti, quelli cioè attivi tra la fine del sec. xv e l’inizio del successivo nella cerchia di Nardon Pénicaud, il migliore fra tutti. Egli rimase sempre fedele all’iconografia religiosa e le- gato agli esempi grafici di ambito francese, anche se talvol- ta utilizzò fonti diverse, tra cui ad esempio un’incisione di Israel van Meckenem per una Natività eseguita intorno al 1510 (Baltimore, wag). I suoi contemporanei si comporta- no in maniera analoga, e ad esempio il Maestro del Trittico di Luigi XII utilizza un modello provenzale per una Pietà conservata nello stesso Museo. Comunque in questo perio- do la copia non è ancora mai letterale. Il Maestro dell’Eneide che, attorno al 1535-40, eseguì una serie di unicum riproducenti in settantaquattro placche le il- lustrazioni di un’edizione di Virgilio edita a Strasburgo nel 1502 da Sébastien Brant e stampata da Johann Gruninger, fu a suo modo un innovatore: non solo infatti utilizzò lo s trasparente non colorato, giocando quindi col colore del ra- me come se si trattasse di un colore supplementare, ma so- prattutto fu assai piú fedele ai modelli, aprendo così la stra- da al periodo seguente, in cui la sottomissione al modello di- venne sempre maggiore. u L’incisione e lo smalto in grisaille Il modello dello smaltista non è un dipinto ma un’incisione, anche se la stampa può ri- produrre un dipinto. Lo smaltista cerca di imitarne l’effetto e, in parte, lo raggiunge utilizzando il chiaroscuro. Tuttavia qui è il fondo a essere nero e anche i tratti del disegno lo so- no, perché ottenuti raschiando gli strati di smalto bianco ste- si sul fondo. In pratica l’effetto nero-bianco risulta invertito rispetto all’incisione. Inoltre gli strati di bianco, a seconda del loro spessore, possono passare dal grigio scuro al bianco piú puro: lo sfumato non è dunque vietato allo smaltista, anche se tutto affidato alla sua abilità. Ne è un esempio l’Adorazione dei Magi (Parigi, Petit Palais) di Jean II Pénicaud (attivo 1531-49), che traduce alla perfezione, con un eccezionale vir- tuosismo tecnico, una stampa di Luca di Leida. Questa tecni- ca fiorì particolarmente tra il 1540 e il 1560 ca. grazie a una generazione di grandi smaltisti: Couly Nouailher, che talvol- ta utilizzò ancora qualche tocco di colore per lumeggiare le sue grisailles, Jean II, Jean III e Pierre Pénicaud, il Maestro M. D.

Storia dell’arte Einaudi Pape, Pierre Reymond. Ciascuno di loro adoperò questa tec- nica con assoluta padronanza. Alcuni si distinsero per l’origi- nalità dei modelli (come Couly Nouailher con le sue placche di cofanetti con giochi d’infanzia, o Pierre Pénicaud quando si ispira a una perduta incisione di Juste de Juste raffigurante alcuni acrobati); altri per la qualità del disegno (caratteristica non ricorrente, ma Jean II, Pierre Pénicaud e il Maestro M. D. Pape sono capaci di disegni veramente fedeli ai modelli); altri infine per la capacità di adattare a oggetti di forma com- plessa composizioni in genere pensate entro una cornice ret- tangolare (come Pierre Reymond, specialista in grandi servizi con brocche, piatti, coppe, saliere ecc.). Malgrado il desiderio di fedeltà al modello, le loro copie non sono mai prive di ori- ginalità. Nell’insieme, se fino al 1540 ca. le piú utilizzate da- gli smaltisti sono le stampe nordiche (specie le serie della Pic- cola Passione e della Vita della Vergine di Dürer), a partire dal- la metà del sec. xvi sono le stampe italiane a dominare l’artigianato limosino, poi dopo il 1560 vengono reiterata- mente ripetute le incisioni di Bernard Salomon, Jacques An- drouet du Cerceu ed Etienne Delaune. Le incisioni della scuo- la di Fontainebleau, non concepite del resto per un’ampia com- mercializzazione, non furono praticamente utilizzate. u Léonard Limosin L’arte di Léonard Limosin è l’eccezione che conferma la regola. Artista almeno in parte innovatore, grazie al vescovo Jean de Langeac entrò in contatto con il creativo ambiente della corte di Fontainebleau. Egli è l’au- tore delle serie di placche raffiguranti gli Apostoli, i Profeti, le Sibille, gli Eroi antichi, di cui ha sicuramente inventato le fattezze. Capace di creare libere composizioni, nel 1544 in- cise delle stampe con scene della Vita di Cristo che ricopierà numerose volte in s su rame. Inoltre, per commissioni rea- li, utilizza cartoni disegnati appositamente per lui dai mi- gliori pittori di corte: nel 1547 smalta dodici placche raffi- guranti gli Apostoli, i cui volti sono quelli di personaggi con- temporanei, ripresi da cartoni di Michel Rochetel ispirati a disegni del Primaticcio; nel 1553 impiega invece diretta- mente cartoni di Niccolò dell’Abate per le pale d’altare con la Crocifissione e la Resurrezione destinate alla Sainte-Cha- pelle (le pale sono ora al Louvre, i disegni all’enba di Pari- gi). Sappiamo inoltre che partecipò alla decorazione delle tri- bune e degli archi di trionfo per l’ingresso a Bordeaux di

Storia dell’arte Einaudi Carlo IX e Caterina de’ Medici: compito questo general- mente affidato a pittori, ciò che Léonard Limosin riteneva appunto di essere, dal momento che nel Museo di Limoges si conserva un suo dipinto raffigurante L’incredulità di san Tommaso (datato 1551) in cui si firma «pittore smaltista» e «cavalletto di camera del re». Una serie di sue opere lo mette in effetti in rapporto diret- to non solo con gli incisori, ma proprio con i pittori: i ritratti a s, conservatisi in numero di ben centotrentuno, sono in tutta evidenza ispirati ai disegni dei Clouet e della loro scuo- la, di cui ripetono anche – con prodigioso virtuosismo tec- nico – le cornici a grottesche. u La fine del xvi secolo e la decadenza La seconda metà del Cinquecento registra il protrarsi della produzione delle or- mai tradizionali opere a grisaille, ma a partire dal 1560-65 fa la sua ricomparsa la moda della policromia: una policro- mia attratta non solo dalla pittura (mentre la grisaille era at- tratta dall’incisione), ma soprattutto dalla gioielleria, con la frequente inclusione sotto lo s traslucido di paillons, lamel- le d’oro destinate ad accrescere lo splendore dello s. All’ini- zio del secolo lo s dipinto voleva competere con la pittura, alla fine vuole superarla. Pierre Courteys – già autore nel 1559 di una serie di placche con gli Dèi tratte da stampe d’aprés Rosso Fiorentino e Luca Penni – è ancora capace di una certa discrezione. Ma con Suzanne Court niente è piú impossibile per lo smaltista: le sue opere sfavillano. Gradatamente si rompe il legame tra l’evoluzione delle arti grafiche e quella, assai piú lenta, degli s dipinti. Alcuni smal- tisti, come il Maestro I.C., mantengono contatti con la cor- te, ma ciò non si rivela sufficiente, sia perché durante le guer- re di religione la corte non è piú un centro artistico propul- sivo, sia perché i capi atelier, troppo spesso lontani da Limoges, non hanno piú un ruolo dominante. Nel 1580 Ber- nard Palissy stigmatizza il declino dell’arte dello s e ne con- stata il basso valore commerciale. In breve lo s cessa di es- sere traslucido, lo stagno viene mescolato con tutti i colori, che perdono così qualsiasi brillantezza. La produzione si li- mita a ripetitive immagini devozionali, anche se i Limosin, i Court, i Laudin crearono ancora qualche pezzo pregevole. u Il xix secolo Lo s dipinto rinascimentale affascinò la cul- tura francese per tutto il corso dell’Ottocento, dal romanti- cismo fino al simbolismo, con giudizi entusiasti come quel-

Storia dell’arte Einaudi lo di Théophile Gauthier che esaltò l’immarcescible émail. Alcuni storici dell’arte trasformatisi in artigiani tentarono anzi di riportare in vita quest’arte ormai morta. Louis Bour- dery e Claudius Popelin sono i piú famosi tra questi imita- tori: la loro abilità tecnica è prodigiosa ed essi si vantavano del fatto che le loro opere potevano essere confuse con i ca- polavori del Cinquecento. In effetti quel che colpisce nella loro produzione è la tendenza ad ispirarsi alla pittura, sia fiamminga (come dimostra la Madonna col Bambino di un trittico di Bourdery conservato al mn de l’Evéché di Limo- ges), sia italiana, generalmente raffaellesca. Piú originale si rivela l’opera di Grandhomme: non essendo limosino, subì meno questa tradizione anche quando si ispirò ai Giochi d’infanzia di Couly Nouailher. Assolutamente ori- ginali sono poi le sue copie dei quadri di Gustave Moreau. La miniatura su smalto in Francia e a Ginevra u Il xvii secolo La miniatura su s pertiene a una tecnica di- versa da quella dello s dipinto, nella misura in cui tutti i co- lori sono opachi, in quanto mescolati con lo stagno, e ven- gono stesi non con la spatola ma col pennello: lo smalto può dunque rivaleggiare in questo caso con la pittura su avorio. Félibien attribuisce a Jean Toutin la scoperta di questa tec- nica e la data al 1632. Al riguardo sappiamo solo che egli era in grado di realizzare incisioni e che all’epoca l’arte dello s era senza dubbio praticata a Blois. Ma il primo dei grandi miniaturisti su s è Pétitot: in contatto in Inghilterra, piú che con van Dyck, con i modesti miniaturisti su pergamena che sono Hilliard, Oliver, Hoskins, in Francia copierà anche i grandi pittori come Mignard, Le Brun, Philippe de Cham- paigne, Honthorst. Morì in Svizzera nel 1691, sopranno- minato il «Raffaello dello smalto». Pétitot donò dunque nobiltà a un’arte che per sua stessa na- tura sembra dover ricercare grazia e minuzia, ma che sovente si pone sulla scia della grande pittura: Charles Boit copia la Carità di Jacques Blanchard e Venere e Cupido di Luca Gior- dano. Uno dei piú importanti atelier ginevrini del sec. xvii, quello degli Huaud, non teme la monotonia dei modelli e co- pia incessantemente le Metamorfosi di Ovidio e le Storie del- la Bibbia: e ciò non toglie nessun fascino agli oggetti da lo- ro prodotti. u Il xviii secolo Questa tradizione franco-ginevrina prose-

Storia dell’arte Einaudi gue nel sec. xviii e un personaggio come Diderot non man- ca di apprezzarla: nel suo Salon del 1761, a proposito de La fidanzata di paese di Greuze, scrive: «Un ricco che voglia pos- sedere un bello s dovrebbe far copiare questo dipinto di Greuze da Durand, che è abile nell’uso dei colori scoperti da M. de Montany. Una buona copia a s è quasi considera- ta come un originale, e questo tipo di pittura è particolar- mente destinata alla copia ...», cosa che gli smaltisti non han- no in effetti mancato di fare. Una ricevuta datata 1787, relativa alla commissione di quin- dici s destinati a Caterina II di Russia ed eseguiti da J. H. Hurter, indica quali erano i dipinti che allora si amava co- piare: Arianna abbandonata di Angelica Kauffmann, l’Inver- no di Rosalba Carriera, il Cardinale Infante di Rubens, Enri- co IV di Frans Pourbus il Giovane, la Madonna di Guido Re- ni. Questi piccoli oggetti sono dunque testimonianze dell’evoluzione del gusto a favore di un genere o l’altro di pittura. u Il xix secolo All’epoca dell’impero, la tecnica della miniatu- ra torna a conoscere un momento di favore, soprattutto in Svizzera: Soiron, ad esempio, replica a s il Ritratto di Mada- me Récamier di Gérard, e copia anche s, tra cui quelli di Pé- titot. Quanto a Counis, il mc di Torino conserva ben diciot- to s di sua mano, d’aprés Correggio, Andrea del Sarto, Ru- bens, Raffaello e Tiziano. Ma con la restaurazione si ha il trionfo della pittura su porcellana e il declino di quella a s. Quest’ultima diviene appannaggio delle donne artista, come Adèle Chavassieu d’Haudebert, che debutta al Salon del 1810 con la Madonna della Seggiola e Jeanne d’Albret. Dal 1813 al 1824 la Chavassieu riproduce 78 dipinti della collezione Som- mariva, ora al Castello Sforzesco di Milano. La produzione diventa una questione di quantità. Spesso gli smaltisti dipin- gono – su s o porcellana – per la Manifattura di Sèvres: e la concorrenza della Manifattura uccide l’artigianato. La miniatura su smalto inglese Comparsa piú tardi che in Francia, verso la metà del sec. xviii, rivela di conseguenza gusti diversi e, essendo considerata un’arte francese, si ispi- ra molto appunto alla pittura francese: le Fêtes galantes di Watteau (tra cui La mosca cieca incisa da Brion), il Maestro galante di Lancret, gli Amanti di Nattier, la Bella Avventura di Boucher sono i modelli ripetuti centinaia di volte con in- numerevoli varianti.

Storia dell’arte Einaudi Per i ritratti gli smaltisti non ricercano invece i prototipi sul continente: Reynolds, Gainsborough, Worlidge, Ramsay, Hoare sono i principali pittori le cui opere, copiate dagli in- cisori, divengono la fonte per gli s inglesi. Le stampe infat- ti sono sempre, come già era accaduto in Francia, l’inter- mediario necessario tra pittore e smaltista: è attraverso N. de Larmessin e J. P. Le-Bas che gli smaltisti conoscono Lan- cret, attraverso Purcell e McArdell i ritratti di Reynolds, at- traverso Le Veau e Vivares i paesaggi neoclassici. Alcune raccolte di stampe, come The Ladies Amusement o Whole Art of Japaning made Easy, edite intorno al 1760, erano diretta- mente destinate agli smaltisti e ai pittori su porcellana. Gli inglesi inventarono una tecnica di impressione meccanica che permetteva un impiego reiterato degli stessi modelli, e le opere originali esistenti sono dunque troppo poco nume- rose. Alla fine del sec. xviii le difficoltà economiche dell’In- ghilterra costrinsero alla chiusura le manifatture di s: ma ad ogni modo a quell’epoca i metodi meccanici di riproduzio- ne si erano così perfezionati che l’aspetto artigianale, se non artistico, era ormai scomparso. (afh). Smargiassi, Gabriele (Vasto 1789 - Napoli 1882). Compì i primi studi a Napoli dapprima alla Scuola di Figure di Giuseppe Cammarano e poi sotto la guida dell’olandese Anton Pitloo. L’influenza della veduta obiettiva ed esatta di Philip Hackert contem- perata con il romanticismo di Pitloo, insieme alla scelta di soggetti paesaggistici en plein air secondo i dettami della poetica posillipista a cui S in un primo tempo aderì, sono le componenti sulle quali si fonda la sua produzione iniziale. Nel 1824 ottenne il pensionato a Roma dove rimase fino al 1828 allacciando quei rapporti che gli permisero di diventa- re pittore ufficiale in diverse corti europee. Nel decennio di permanenza all’estero, in Svizzera a Parigi a Londra, fino al 1838, approfondì lo studio del Seicento e dell’opera di Pous- sin e Ruysdael ma ignorò le contemporanee ricerche di Tur- ner, Constable e Bonington, impegnato com’era ad asse- condare le richieste di una committenza aristocratica orien- tata verso un ideale aulico del paesaggio di composizione. Ritornato a Napoli e vinto il concorso per la cattedra di pae- saggio già diretta da Pitloo, visse un periodo di ampia noto-

Storia dell’arte Einaudi rietà e di riconoscimenti ufficiali. Nei dipinti posteriori al 1838 si servì di una tavolozza dai toni chiari e luminosi che aveva desunto dagli artisti della scuola di Barbizon, intro- ducendo una pratica inedita per l’ambiente napoletano (Na- poli da Mergellina: Napoli, coll. priv.). Tradusse il vivo inte- resse a dipingere dal vero in numerosi studi di alberi e roc- ce (Studio di pianta: Napoli, Gall. dell’Accademia di belle arti) – tuttavia rimase sempre legato a schemi accademici, del resto rilevabili anche nella sua attività d’insegnante. Do- po il ’45 si indirizzò decisamente verso il genere del pae- saggio storico (Pinabello e Bradamante,la Partenza del co- scritto: entrambi Napoli, Capodimonte). La produzione tar- da, di cui è esemplificativa la serie delle grandi tele di carattere religioso dell’Appartamento storico di Palazzo Rea- le, si presenta caratterizzata da ampie vedute paesistiche d’invenzione; in esse ancora una volta è evidente la predo- minanza della componente seicentesca del resto presente nei suoi due scritti teorici: Nota sugli studi e le opere di Niccolò Pussino (1863) e Cenno storico sul paesaggio e i paesisti napo- letani (1875). (rt). Smith, Jack (Sheffield 1928). Si forma presso la Saint Martin School of Art (1948-50) sotto la guida di John Minton, Ruskin Spear e Carel Weight. Riceve il primo premio nella prima mani- festazione della John Moores Liverpool Exhibition nel 1956, lo stesso anno in cui è invitato alla Biennale di Venezia. La sua pittura descrive con stile neorealista scene quotidiane e d’interno, nature morte e marine (Madre che fa il bagno al suo bambino, 1953: Londra, Tate Gall.). Dal 1956, S si è dedicato allo studio degli effetti di luce sulle forme e gli og- getti (Bottiglie in luce ed ombra, 1959: ivi). La Whitechapel ag di Londra ne ha presentato una retrospettiva nel 1959: è rappresentato oltre che alla Tate Gall., alla ng di Sydney, Melbourne e Adelaide, e nel Museo di Göteborg. (mri). Smith, John Raphael (Derby 1752 - Doncaster 1812). Figlio e allievo del paesaggi- sta Thomas Smith of Derby, si trasferì a Londra dal 1767 e pubblicò la sua prima incisione nel 1769. Lavorò da solo dopo aver collaborato con Carington e Bowles. S contribuì a comu- nicare alle nuove generazioni la corretta tecnica dell’incisione

Storia dell’arte Einaudi a mezzatinta, mantenendosi nella tradizione di James Mac Ar- dell (1729-65) o Valentine Green (1739-1813), e suscitando l’ammirazione di Reynolds. Dalla bottega di S uscirono nu- merosi allievi; l’artista però dal 1802 abbandonò l’incisione de- dicandosi al disegno, specie ritratti. Venne nominato «Mez- zotinto Engraver to the Prince of Wales» nel 1784.(sr). Smith, Joseph (1682-1770). Stabilitosi a Venezia durante i primi anni del sec. xviii vi esercitò la professione di mercante e uomo d’af- fari. Allargata la sua cerchia di influenza nel 1744, il suo go- verno lo nominò console. Dal 1730, inoltre, S aveva inizia- to ad occuparsi di editoria. Durante questi anni non cessò di accumulare quadri, libri e oggetti preziosi proteggendo noti artisti veneziani come Marco e Sebastiano Ricci, che eseguì per lui nel 1726 un’Adorazione dei Magi, Rosalba Carriera, Zuccarelli e Ca- naletto di cui fu agente per venticinque anni procurando all’artista numerosi incarichi sul mercato inglese. Il suo palazzo veneziano fu un luogo di ritrovo per nume- rosi artisti e intellettuali tra cui padre Lodoli; inoltre S ave- va intrattenuto rapporti con Apostolo Zeno, Francesco Al- garotti e Anton Maria Zanetti oltre che Goldoni il quale gli dedicò Il filosofo inglese. Ma il suo salotto fu anche me- ta di connoisseurs e artisti inglesi quali John Breval, Hora- ce Walpole, Richard Wilson, sir Joshua Reynolds, James Wyatt e Robert Adam. Tra i dipinti posseduti dal console S va ricordata la presenza di oltre cinquanta te le e cento disegni del Canaletto, ma anche di maestri antichi come Giovanni Bellini (l’Orto degli Ulivi: Londra, ng) o di Ver- meer (Dama al Virginale: Londra, Buckingham Palace). Di- messosi nel 1760 dalla sua carica e volendo tornare in In- ghilterra dopo aver «dedicato tutto il mio tempo libero al piacere di ammirare le belle arti e di possedere notevoli col- lezioni», riuscì per rimettere in sesto le proprie finanze a vendere la maggior parte delle sue raccolte a re Giorgio III. (jh + sr). Smith, Leon Polk (Chikasha (Oklahoma) 1906 - 1996). Dopo una prima espe- rienza come insegnante, S si dedica alla pittura in seguito a

Storia dell’arte Einaudi un suo soggiorno newyorkese. Le sue prime opere nascono sotto il segno del surrealismo, ma ben presto il pittore su- birà il fascino dell’arte di Mondrian, che scopre visitando la collezione Gallatin a New York. Intrapreso così il cammino dell’arte astratta, si qualifica come erede di Mondrian in- sieme a Ilya Bolotowsky, Harry Holtzmann, Burgoyne Dil- ler, Fritz Glacner e Charmion von Wiegand. Il neoplastici- smo che segna la sua opera a partire dagli anni Quaranta, rappresenta per Leon Polk S un modo per indagare i pro- blemi di organizzazione formale della tela; le sue soluzioni lo conducono a liberarsi progressivamente dalla rigorosa co- struzione secondo griglie ortogonali propria delle tele di Mondrian, ideando un particolare tipo di composizione ba- sato su campiture di due colori puri divise da una linea cur- va, a volte sagomando la tela (serie di Shaped canvas: Sun, 1958-59). Tra i protagonisti dell’Hard Edge (Yellow Edge, 1954: coll. dell’artista), l’artista prosegue il proprio percor- so con la serie delle Corrispondences nella quale ricerca rela- zioni fra le forme colorate (dette «colori-forme»: il formato delle tele è nuovamente rettangolare). Sono i colori, complementari gli uni agli altri, a dare il tito- lo alle opere (Corrispondence Blue-Yellow, 1963; Corrispon- dence Yellow-Violet, 1967: coll. dell’artista). Con la Constel- lations torna alle Shaped Canvas, e contemporaneamente rea- lizza delle sculture e dei rilievi in legno e metallo. Le ultime opere degli anni Ottanta sono monocromi dalle forme geo- metriche semplici; nelle Form Space Senes, l’artista associa delle tele sagomate di uno stesso colore o dei pannelli di co- lore differente che possono essere variamente combinati. A partire dal 1984 introduce nelle sue opere delle aste nere di lunghezza superiore alla tela, coinvolgendo così lo spazio del muro (Americas, 1986: coll. dell’artista). S ha partecipato a tutte le grandi esposizioni sull’arte geo- metrico-astratta americana; in particolare gli è stata dedica- ta una retrospettiva al Wilhelm-Hack Museum di Ludwig- shafen, poi proposta al museo di Grenoble. (sr). Smith, Matthew (Halifax (Yorkshire) 1879 - Londra 1959). Studiò a Man- chester (1901-905), alla Slade School di Londra (1905-908) e in Francia, trascorrendo nel 1911 un breve ma significati- vo periodo nello studio di Matisse. Tornato a Londra nel

Storia dell’arte Einaudi 1912, dopo aver esposto al Salon des lndépendants (1911 e 1912), si legò a Sickert ed Epstein e fu fortemente se- gnato dalla maniera fauve. I due Nudi di Fitzroy Street (1916: Londra, Tate Gall.) e i numerosi paesaggi della Cor- novaglia, eseguiti nel 1920-21, rivelano un espressionismo intenso, ignoto sino a quel momento nell’arte inglese. S visse soprattutto in Francia fino al 1940, anno nel quale ri- tornò a Londra. La sua opera – nudi, nature morte, pae- saggi – rivela grande ricchezza di colore e una rara sensi- bilità per la materia pittorica: qualità che trovarono un am- miratore in Francis Bacon. Sue retrospettive hanno avuto luogo a Londra alla Tate Gall. nel 1953 e alla ra nel 1960. E rappresentato soprattutto a Ottawa (ng) e, in Inghilter- ra, a Oxford (Ashmolean Museum) e Londra (Tate Gall., Courtauld Institute); una vasta collezione dei suoi dipinti è nella Guildhall ag di Londra. (abo + sr). Smith, Richard (Letworth (Hertfordshire) 1931). Si è formato presso la Scuola d’Arte di St. Alban (1952-54) e il Royal College of Art di Londra (1954-57). È stato tra i principali esponenti del gruppo Situation nel 1960; a New York negli anni 1959-61 (dove tornò nel 1963 per altri due anni, per poi sta- bilirvisi dal 1976) intrecciò strette relazioni con i pittori ame- ricani della sua generazione. Segue con coerenza dai primi anni ’6o una personale ricerca sulle possibilità di articolare la superficie pittorica, tesa su telai dai contorni irregolari, in strutture tridimensionali, solitamente reiterate in ele- menti seriali non omogenei. Dai monumentali e pesanti sha- ped canvases (Staggerly, 1963: coll. Stuyvesant; Maryland, 1972: di proprietà dell’artista), le opere realizzate dagli ini- zi degli anni ’70 differiscono per la struttura piú aerea, qua- si membranacea, piú incline alla bidimensionalità e ad ospi- tare il colore e la pittura, con inserti di cordame, nastri, aste metalliche che le rendono simili a vele immaginarie. Nel 1966 ha ottenuto il premio Scull della Biennale di Venezia e nel 1967 il gran premio della Biennale di San Paolo; sue retro- spettive si sono svolte alla Biennale veneziana del 1970 e al- la Tate Gall. di Londra nel 1975. È rappresentato a Londra (Tate Gall. e vam), New York (moma), Philadelphia (am) e, in Italia, a Roma (gnam). (abo + sr).

Storia dell’arte Einaudi Smits, Jakob (Rotterdam 1855 - Achterbos 1928). Dopo un esordio come decoratore, si formò frequentando le Accademie di Rotter- dam e di Bruxelles, poi di Monaco, Vienna e Roma; per un breve periodo fu direttore della Scuola di arti applicate e de- corative di Haarlem. Prima influenzato dalla scuola dell’Aja, si fece interprete del paesaggio olandese a Blaricum, a La- ren, nella Drenta e nel Limbourg. Infine, nel 1888, si sta- bilì ad Achterbos, nei pressi di Anversa, in seguito all’in- contro – per lui decisivo – con Neuhuys, pittore di impegno sociale della scuola dell’Aja che lo spinse ad abbandonare tutti i suoi beni. Praticò sulle prime quasi esclusivamente tecniche grafiche, acquerello, pastello e carboncino; per gli acquerelli ricorse all’uso del fondo d’oro. Espose a Monaco e a Dresda nel 1897; nel 1900 prese la nazionalità belga. S’ispirò alla Bib- bia, ma fu autore anche di composizioni a carattere profa- no: interni, paesaggi, ritratti, scene contadine. I suoi dipin- ti sono spesso influenzati dalle ricerche luministiche e psico- logiche di Rembrandt (Ritratto di Malvina, 1912: Bruxelles, mrba), ma S è noto innanzitutto per essere uno dei princi- pali esponenti di quel simbolismo rustico e religioso in auge alla fine del sec. xix in Belgio (il Simbolo de la Campine, 1901-906: ivi; il Padre del condannato, 1901: ivi).La sua evo- luzione lo condusse peraltro a trattare la luce in modo ori- ginale, mediante impasti grumosi che ricoprono l’intera su- perficie della tela (Giovane Sposa, Josina Smits, 1910-1920: Museo di Anversa) giungendo a volte a smaterializzare la realtà del soggetto (A passeggio, 1920-25 ca.: Vilvorde, coll. priv.). Durante la prima guerra mondiale, rinunciò alla pit- tura per dedicarsi al servizio sociale. I disegni a gesso, nero o rosso, indicano una concezione ampia della forma; ha la- sciato acqueforti influenzate da Rembrandt. È rappresenta- to nei musei belgi e soprattutto a Bruxelles e ad Anversa. (mas). Snayers, Pieter (Anversa 1592 - Bruxelles? 1667 ca.). Allievo di Sébastien Vrancx, iscritto come maestro ad Anversa nel 1612-13, fu pittore dell’arciduca Alberto e si stabilì a Bruxelles nel 1628. In seguito entrò al servizio del cardinal-infante d’Austria,

Storia dell’arte Einaudi poi dell’arciduca Leopoldo Guglielmo. La sua opera è am- pia; dipinse soprattutto soggetti militari, Combattimenti di cavalieri (Bruxelles, mrba; Madrid, Prado) o Scene di sac- cheggio (Roma, Gall. Spada), ove la composizione, i colori e i personaggi ricordano Vrancx. Illustrò pure con numerosi dipinti di grandi dimensioni (Bruxelles, mrba; Madrid, Pra- do) vari episodi della guerra dei Trent’anni, lavorando pro- babilmente sulla base di documenti militari. S immortalò anche altri eventi della sua epoca, come la Fe- sta al Sablon in presenza dell’arciduca Leopoldo Guglielmo (Bruxelles, mrba), il Pellegrinaggio dell’infanta Isabella a Laeken (ivi), o scene di caccia che raffigurano ora Filippo IV, ora il cardinal-infante (Madrid, Prado). Fu maestro di Adam François van der Meulen. (jl). Snyders, Frans (Anversa 1579-1657). Nel 1593 entrò nella bottega di Peter Bruegel II, dove strinse amicizia con il fratello, Jan. Mae- stro nel 1602, si recò in Italia, a Roma e a Milano, grazie al- la generosità dell’amico, come indica la corrispondenza col cardinal Borromeo, che ne fu protettore. Tornato ad An- versa un anno dopo, si specializzò nella pittura di nature morte; la sua reputazione attirò l’attenzione di Rubens, che ricorse a lui tra il 1611 e il 1616. Nel 1611 sposò Margheri- ta de Vos, sorella di Cornelis e di Paul (sul quale esercitò in quel periodo un notevole influsso). Membro della Società dei Romanisti ad Anversa nel 1619, ne divenne decano nel 1628. I ritratti di S dipinti da van Dyck (New York, coll. Frick), l’apprezzamento dei contemporanei, gli incarichi conferitigli, i suoi testamenti e la ricchezza delle sue colle- zioni ne attestano la fama. Sin dalla prima opera nota, Selvaggina, frutta e verdura (1603: Bruxelles, coll. priv.), S impone una nuova interpretazione di un tema ereditato da P. Aertsen e J. Beuckelaer. Senza modificare l’impianto della natura morta di grande scala, la rende però piú decorativa. Gli consentono di innovare la sua concezione i contatti con l’Italia e l’influsso di Rubens; que- st’ultimo gli fornisce persino modelli, come quello di Filo- pemene, generale degli Achei, riconosciuto da una vecchia (Pa- rigi, Louvre). Trasponendo nelle sue nature morte la gran- diosità e la foga di Rubens, S afferma la propria originalità:

Storia dell’arte Einaudi nobilita il soggetto, lo anima di un soffio barocco e ne ritma le masse secondo schemi semplici, scanditi da qualche dia- gonale impostata sulle orizzontali. Amplia lo spazio e lo riem- pie, in ogni senso. Senza nulla perdere né in chiarezza né in monumentale evidenza, contrappone alla tendenza descrit- tiva una visione dinamica (Natura morta con la signora dal pappagallo: Dresda, gg; Natura morta con gatto: Berlino, sm, gg) accentuata dal colore. Infatti, in contatto con Rubens S ravviva la sua tavolozza e, pur serbando dal soggiorno ita- liano il gusto per le tonalità saturate, non dimentica l’equi- librio compositivo, che organizza in genere intorno a una zo- na centrale chiara: un cigno ad ali spiegate (la Dispensa: Bruxelles, mrba), biancheria o carni livide. Ampi piani ver- migli, suoi caratteristici, sottolineano le orizzontali: un araz- zo di sfondo, gamberi o quarti di carne. Dipinse anche sce- ne di caccia (ivi; Gand, Museo; Milano, Brera; Dresda, gg), nature morte con fiori e frutta (Torino, Gall. Sabauda; Stoc- colma, nm; Bruxelles, mrba) e studi di animali (Concerto de- gli uccelli: San Pietroburgo, Ermitage; Tre cani da caccia: Braunschweig, Herzog-Anton-Ulrich-Museum). Innovatore nelle concezioni, poco lo è nella fattura, rego- la(re, accurata, precisa, come dimostrano i numerosi dise- gni, assai elaborati e trasposti senza mutamenti nei dipinti. Malgrado le numerose copie di sue opere, ebbe pochi imita- tori diretti, tuttavia il suo lirismo influenzò non solo i con- temporanei, come Paul de Vos, Arthur Claessens, Adriaen van Utrecht, Jan Fyt, ma anche pittori francesi del sec. xviii (Oudry e Desportes) e ginevrini (Castiglione). Tra i suoi numerosi dipinti noti, soltanto una sessantina so- no firmati. È particolarmente ben rappresentato al Prado e all’Ermitage (in particolare, quattro dipinti per il vescovo di Gand: Verdura, Frutta, Selvaggina, Pesci).( hl). Snyers, Hendrik (Anversa 1615 ca. - ?). Dal 1635 fu apprendista presso l’in- cisore-editore Nicolaes Lauwers. Appartenne al gruppo d’incisori della scuola di Rubens, ma la sua opera a bulino contiene solo quattro incisioni originali (Anversa, Museum Plantin-Moretus). Operò poi per il pittore Abrahm van Diepenbeek e per l’editore Jan Meyssens (Theatrum prin- cipum Virorum).( wl).

Storia dell’arte Einaudi Snyers, Pieter (Anversa 1681-1752). Studiò disegno all’accademia della sua città natale, formandosi come pittore nella bottega di Alexander van Bredael, dove entrò nel 1694. Divenne mae- stro della gilda di San Luca ad Anversa nel 1707; in seguito effettuò un viaggio in Inghilterra. Possedeva una vasta col- lezione di dipinti fiamminghi e olandesi, venduta ad Anversa nel 1752. Le sue opere, per la maggior parte di piccolo for- mato, rappresentano paesaggi, ritratti, scene di genere, fio- ri e nature morte: Pellegrino (Abbeville, Museo), il Nido (An- versa, Museo), Cervo che divora una testa di bue (Liegi, Mu- seo), Mercantessa (Amsterdam, Rijksmuseum), Verdura e frutta (Parigi, Louvre). Suo allievo fu il nipote Pieter-Jan (Anversa 1696-1757). Spe- cialista in soggetti di caccia, possedette come lo zio una ric- ca collezione di dipinti di scuola fiamminga. (wl). Sobrero, Emilio (Torino 1890 - Roma 1964). Compiuti gli studi all’Accade- mia Albertina di belle arti, partecipa alla Biennale di Brera del 1914 e alla Esposizione nazionale della Promotrice tori- nese del 1919 (Vendemmia, pannello decorativo). A partire dal 1920 è critico d’arte alla «Gazzetta del Popolo» e fon- da con Felice Casorati la Società di belle arti A. Fontanesi, la cui finalità è promuovere scambi artistici e culturali a rag- gio europeo. S partecipa nel 1924 alla Mostra di Venti Ar- tisti Italiani a Milano, e nel 1926 alla I Mostra del Nove- cento Italiano aderendo alle istanze novecentiste dichiarate nei suoi dipinti, che evidenziano peraltro un approccio na- turalistico di matrice prettamente piemontese, e una parti- colare sensibilità per i valori della luce (Monte dei Cappucci- ni, 1924: Pescara, coll. famiglia S). Folta è la sua presenza alle esposizioni del periodo tra cui la Biennale di Venezia (1928: Donna che legge; Autoritratto) con una modernità «aliena da intrusioni intellettualistiche, trucchi decadenti- stici e deformazioni volontarie». Trasferitosi, nel 1927, a Roma (Piazza del Popolo, 1932 ca.: Torino, gam), sue per- sonali vengono allestite nel 1932-33 dal Museo di Roma e nel 1937 dalla Galleria di Roma. Nei dipinti esposti da S al- la VI Quadriennale romana (1935), emerge un’evoluzione dell’artista verso una piú solida monumentalità (Dormiente,

Storia dell’arte Einaudi 1934; Nudo e paesaggio, 1934; Colosseo). S si è dedicato an- che alla scenografia e all’arredamento. (eca). Societé Anonyme (La) La SA, o piú esattamente, la «Societé Anonyme: A Museum of modern Art» venne fondata nel 1920, a New York, da Marcel Duchamp, Man Ray e Katherine S. Dreier, non esi- stendo in America un organismo che si occupasse di arte mo- derna. La maggior parte delle raccolte pubbliche e anche dei collezionisti privati erano allora, se non ostili, quanto meno indifferenti nei riguardi delle formule nuove importate dall’Europa. La SA svolse funzione di museo ed agì come «organizzazione internazionale per sviluppare lo studio dell’evoluzione artistica in America». Si assicurò il concor- so della maggior parte dei giovani artisti di valore, che in- coraggiò senza distinzione di nazionalità: Gorky, Lipchitz, J. Stella (con Battle of Light, Coney Island), Braque, Léger, Duchamp (Tu m’), Villon (Natura morta, 1912-13), Ernst, Schwitters, Klee, Baumeister, Malevi™, Vantongerloo. Co- sì pure esposero fianco a fianco costruttivisti ed espressio- nisti, Boccioni e Picabia, Miró e Matta. La SA inoltre espo- se e acquisì opere di Mondrian (Fox-trot A), Picasso, Gris, Pevsner, e può pertanto considerarsi come organo precur- sore del moma di New York. Pur con qualche difficoltà, portò avanti la tradizione iniziata dalla 291 Gallery di Stie- glitz (negli anni precedenti l’Armory Show), e tra il 1920 e il 1940 organizzò piú di ottanta mostre (la piú importante nel 1926, al Brooklyn Museum), portando alla formazione di una coscienza dell’arte contemporanea mondiale in Ame- rica. Le sue raccolte furono donate nel 1941 alla Yale Uni- versity (New Haven). La SA venne sciolta nel 1950. (dr + jpm). Society of Artists (The) Istituzione britannica del sec. xviii fondata con il compito di patrocinare mostre di pittura. Incoraggiati dall’afflusso del pubblico che era accorso a vedere le opere appositamente realizzate per il Foundling Hospital (ospizio dei trovatelli), prima vera mostra di opere di artisti inglesi, i principali pit- tori decisero di organizzare una manifestazione annuale per vendere le proprie opere; la prima si aprì il 21 aprile 1760 sotto gli auspici della SA; dal 1761 al 1771, venne utilizza-

Storia dell’arte Einaudi ta la sala vendite di Cock, negli Spring Gardens. La SA of Great Britain venne istituita con documento reale nel gen- naio 1765; ebbe come presidente George Lambert e come segretario F. M. Newton; tuttavia, in seguito a dissensi in- testini, gli artisti piú importanti si dimisero nel 1768, fon- dando la Royal Academy. Da quel momento la SA perdette prestigio; le esposizioni annuali durarono fino al 1778, ma quella del 1779 non ebbe luogo; ve ne furono due nel 1780; l’ultima si tenne nel 1791. (jh). Society of Painters in Watercolours (The) Fondata nel 1804, quest’associazione, denominata anche «The Old Watercolour Society», segnò il trionfo della tec- nica dell’acquerello, già adottata da un gruppo di artisti co- me A. e J. R. Cozens, Sandby, Dayes, Girtin e Turner. L’ac- querello, verso il 1800, trovò un pubblico pronto ad ap- prezzarne i risultati, mentre per gli acquerellisti restava interdetto l’ingresso all’Accademia, quando la pratica non era accompagnata da opere dipinte a olio. La prima mostra della S nel 1805, ebbe successo e malgrado alcuni contrasti le adesioni aumentarono. I primi importanti artisti a iscri- versi furono Cristall (tre volte presidente), Barret jr, Saw- rey Gilpin, Havell, e J. e C. Varley. Acquerellisti di mag- giore importanza non poterono farne parte a causa del re- golamento accademico in vigore fino al 1863, che vietava ai suoi membri di appartenere ad altre associazioni espositri- ci. La società si orientò verso una politica culturale mode- rata non favorendo alcun indirizzo stilistico preciso. Copley Fielding ne fu (1831-55) il presidente piú rappresentativo nella prima metà del sec. xix. La qualifica di «Royal» ven- ne concessa al sodalizio nel 1881. (mk). Sodoma (Giovanni Antonio Bazzi, detto il) (Vercelli 1477 - Siena 1549). Pittore di origine piemontese attivo dall’inizio del sec. xvi nel centro Italia e prevalente- mente a Siena, il Bazzi è legato ad alcuni episodi assai si- gnificativi all’interno dello sviluppo della «maniera moder- na». L’unico dato certo della sua prima formazione è l’alunnato presso Martino Spanzotti, episodio documentato dal con- tratto stipulato nel 1490, tra il padre del giovanissimo pit-

Storia dell’arte Einaudi tore e il piú anziano maestro attivo a Vercelli e in tutta l’area del Piemonte orientale. Le circostanze di questo discepola- to non risultano chiarite ma certamente alla fine dei sette anni previsti, se non prima, Giovan Antonio dovette muo- vere verso centri maggiori. È ormai accettata l’ipotesi che fosse a Milano prima dello scadere del secolo, a contatto dunque con le personalità di Boltraffio, di Zenale e di Bramantino soprattutto. Da que- sti nomi appaiono segnate le prime opere fino a oggi cono- sciute: la Pietà di Santa Maria dell’Orto a Roma, il Com- pianto sul Cristo morto e la successiva Pietà della collezione Patrizi di Montoro a Roma. Proprio in questa città è probabile un soggiorno del Bazzi che eseguì nei primissimi anni del nuovo secolo parte degli affreschi in San Francesco a Subiaco prima di recarsi in To- scana, a Siena, dove è documentato già nel 1503. Il 10 luglio di questo anno gli vengono infatti commissiona- ti gli affreschi che coprono le pareti del refettorio del mo- nastero olivetano di Sant’Anna in Camprena presso Pienza e che risultano compiuti nel giugno 1504. È a questa data già avvenuto l’incontro del pittore con la cultura figurativa allora dominante a Siena, Perugino e Pinturicchio soprat- tutto, la cui influenza all’interno delle spaziose scene come dei ricchi fregi a grottesche è assai sensibile. Il rapporto di Sodoma con gli olivetani troverà qualche an- no piú tardi (1505-507) un’altra significativa occasione con la decisione dei frati di fare completare al vercellese il chio- stro di Monteoliveto maggiore lasciato interrotto diversi an- ni prima da Luca Signorelli. In questi anni si collocano una serie di opere di diverso genere e formato che testimoniano il continuo allargarsi degli orizzonti culturali del pittore. Ac- canto a piccole opere di squisita eleganza la grande e decisi- va Deposizione Cinuzzi (Siena, pn) lo rivela attento agli svi- luppi dell’arte di Leonardo alla metà del primo decennio e piú in generale ai fatti fiorentini di questo periodo. Del gran- de respiro raggiunto dall’arte del Bazzi in questi anni fu cer- to consapevole Sigismondo Chigi, suo patrono senese, che lo introdusse in Vaticano dove lavorò per circa un anno, prima dell’avvento dell’astro nascente di Raffaello, al soffitto del- la Stanza che sarà quella della Segnatura. Lasciata Roma per Siena, divenne uno degli artisti piú attivi in città come di- mostrano le numerosissime opere eseguite fino alla partenza

Storia dell’arte Einaudi per un nuovo viaggio romano. La sua maniera risulta conti- nuamente aggiornata ed egli elabora in questi anni un lin- guaggio dalle forme morbide ma robuste e dal cromatismo vi- vace la cui capacità di narrare e anche ‘divertire’ è manifesta nell’affresco con le Nozze di Alessandro e Rossane dipinto nel- la fastosa dimora romana di Agostino Chigi alla Farnesina. Nel 1517 a Siena lavorò ai riquadri ad affresco nell’Oratorio di San Bernardino che completò però solo dopo il lungo pe- riodo che lo vide in viaggio fino al 1525. Dove si recasse non sappiamo e tutte le ipotesi formulate, da quella di un lungo sog- giorno in Emilia e poi in Lombardia, alla piú recente proposta di un nuovo soggiorno romano, non sono state verificate. Le opere che seguono il ritorno in Toscana, il celeberrimo Gonfalone di san Sebastiano oggi a Firenze (Pitti) e gli affre- schi nella cappella di Santa Caterina nella chiesa di San Fran- cesco testimoniano la piena maturità del pittore che da al- lora rimarrà prevalentemente a Siena, letteralmente obera- to dalle numerose commissioni, moltissime delle quali pubbliche (Santi Vittore ed Ansano, 1529: Siena, Palazzo Pubblico), per le quali spesso e volentieri coinvolgerà l’or- ganizzatissima bottega. Solo verso la fine del quarto decennio la sua stella pare af- fievolirsi, soppiantato dal Beccafumi e dai pittori di una ge- nerazione e ormai anche di una cultura diversi. Il suo viag- giare tra Pisa, Volterra e forse Lucca, va forse visto in que- sta luce anche se la sua tarda attività resta ancora oscura. (pz). Soens, Jan, detto il Fiammingo (Bois-le-Duc (’s-Hertogenbosch) 1547 ca. - Parma o Cre- mona 1611). Allievo di Gillis Mostaert ad Anversa, venne influenzato all’inizio della carriera dallo stile di Frans Mo- staert. Partì per l’Italia verso il 1575; a Roma dipinse a fre- sco, per Gregorio XIII, alcuni paesaggi, fra i quali un Pae- saggio con gallo (Roma, Vaticano, Sala ducale). Nel 1580 ven- ne chiamato a Parma da Ranuccio Farnese, di cui divenne pittore di corte; decorò nel 1581 ca. le ante d’organo della Steccata a Parma, poi il Palazzo del Giardino, donde pro- vengono Cerere e Ciane e il Ratto di Proserpina (Valencien- nes, mba) e inoltre la serie di otto dipinti mitologici conser- vati a Napoli (Capodimonte: Posidone e Anfitrite, Pan e Se- lene, Giove e Antiope, Cibele, Cronos e Filira). I suoi paesaggi,

Storia dell’arte Einaudi nella linea dei Brill, risentono anche dell’influsso di Cor- reggio. Si stabilì verso il 1600 a Cremona, e il suo stile mutò in contatto col manierismo emiliano (la Resurrezione:Par- ma, pn). (jv). Soest, Gérard (Zoest (Utrecht)? 1600 ca. - Londra 1681). Giunse a Lon- dra verosimilmente intorno al 1650. I suoi primi ritratti ri- chiamano un poco quelli di Dobson; ma le linee curve delle composizioni possiedono una grazia e una sensibilità estra- nea sia a Dobson che a Lely. S rende gli abiti alla maniera di Ter Borch. È rappresentato principalmente a Londra, sia nella npg che nella Tate Gall. (Henry Howard, sesto duca di Norfolk, Ritratto di donna in veste di pastorella).( ins). Soffiantino, Giacomo (Torino 1929). Pittore e incisore, S si forma all’Accademia Albertina di Torino, allievo di F. Casorati, C. Maggi, F. Menzio e M. Calandri. Negli anni Cinquanta e Sessanta co- stituisce, con S. Saroni e P. Ruggeri il gruppo torinese espressionista-astratto, esponendo piú volte insieme a Tori- no, alla Gall. La Bussola (con una prima personale nel 1961) e alle edizioni di Pittori d’oggi Francia-Italia, a Milano (Gall. Il Milione, 1956, 1958), Bologna (Gall. La Loggia, 1958, 1959) e Roma (Gall. L’Attico, 1959). I loro punti di riferi- mento, oltre De Kooning e Kline, sono Bacon e Gorky; so- no in contatto con Jorn e Constant, Moreni e Morlotti. Le sue tele rappresentano un universo di cose indagato col pensiero, inventariato, rarefatto e filtrato, dal colore che si condensa in intensi contrasti luminosi (Bucranio e luce, 1964: Torino, gam), rivissuto attraverso un’attitudine romantica e fantastica, dove la realtà è trasformata in emozione. Ogni oggetto, o reperto, è anche un simbolo, una presenza, una traccia mnemonica. I dipinti e le incisioni di S, superato il materismo informale iniziale, sottopongono a indagine fram- menti della realtà, penetrati da sottili vibrazioni della luce: una «realtà in bilico fra un tempo vastissimo, ad ere, preu- mano ma naturale, e il microtempo quotidiano» (M. Rosci, 1990). Importanti mostre gli sono state dedicate recente- mente a Torino (1986) e ad Alessandria (1989). Come do- cente ha insegnato al Liceo Artistico e all’Accademia Al- bertina di Torino, città dove vive e lavora. (eca).

Storia dell’arte Einaudi Soffici, Ardengo (Rignano sull’Arno 1879 - Forte dei Marmi 1964). Trascorre gli anni della giovinezza tra Poggio a Caiano e Firenze, do- ve frequenta nel 1897 l’Accademia di belle arti e conosce G. Fattori alla scuola libera di nudo (1898); tuttavia la na- tura studiata dal vero rappresenta per lui un costante ter- mine di confronto. S deriva dalla pittura di J. F. Millet i sentimenti per soggetti popolari, campagnoli. La ricerca d’avventura e gli stimoli culturali esercitati su S dal mondo artistico e letterario francese (legge G. Flaubert, C. Baude- laire, P. Verlaine), stanno alla base del lungo soggiorno pa- rigino (1900-907), interrotto da periodi piú o meno brevi trascorsi in Italia. Disegnatore e caricaturista per giornali e riviste – tra cui «Assiette au beurre», «Revue Blanche» – traccia rapide silhouettes alla maniera di J. L. Forain, P. Bonnard, F. Zandomeneghi, E. Vuillard (Donna dormiente, 1901: Poggio a Caiano, coll. S; Figure sedute su una panchi- na, 1902: ivi). Ispirandosi a Millet e a Fontanesi compone nel 1902 disegni acquerellati per la rivista simbolista «La plume» e in questo ambiente conosce J. Morèas e G. Apol- linaire; dello stesso anno sono le xilografie per la copertina delle Cantilenes di Morèas, in cui S appare assai vicino al de- corativismo Art Nouveau. Nel 1903 conosce a Firenze G. Papini, che lo raggiungerà a Parigi nel 1906; insieme fon- deranno «Lacerba». Del 1904 è la raccolta di disegni Paris la nuit, in cui figure immerse in una cupa atmosfera ricor- dano gli schemi di Toulouse-Lautrec (Scene di pubblico ele- gante: Poggio a Caiano, coll. S). Simpatizza per gli impres- sionisti e si unisce al gruppo di rue Ravignan, frequentato da M. Jacob, G. Braque, A. Derain, J. Gris, R. Dufy, P. Pi- casso, che ne è a capo. Tra il 1904 e il 1907 disegna pae- saggi che risentono della lezione di P. Cézanne, di Picasso, accanto ai ricordi di Millet e ai moduli stilistici dei nabis (Donne al pozzo: ivi; Paesaggio con pagliai: ivi). Nel 1907 si stabilisce a Poggio a Caiano e periodicamente torna a Pari- gi. Abbandona progressivamente i moti simbolisti e post-im- pressionisti per far posto alla pittura cubista di Cézanne (Raccolta delle olive, 1908: ivi; Mietitori: ivi), anche se le opere piú vicine al pittore francese sono del 1911 (Strada per Carmignano: ivi; I mendicanti: ivi). Diffonde la conoscenza di Cézanne in Italia con un articolo su «Vita d’arte» (1908),

Storia dell’arte Einaudi così per Braque e Picasso («La Voce», 1911) e M. Rosso, mentre nel 1911 stronca la mostra milanese dei futuristi (U. Boccioni, C. Carrà, G. Balla) accusati di non possedere un linguaggio adeguato alle teorie enunciate. La rottura viene ricomposta nel 1912, ma S rimane estraneo alla problema- tica futuristica della rappresentazione del movimento, ri- fugge gli atteggiamenti introspettivi dei futuristi per resta- re il piú possibile ancorato alla realtà oggettiva dell’imma- gine. S accoglie la lezione di Braque e Picasso nel violare lo spazio e la prospettiva tradizionale, ma resta fedele alla re- sa volumetrica e tridimensionale della realtà (Il tulipano, 1911: Firenze, coll. E. Vallecchi; Metrò, 1911: Firenze, coll. Carapelli). Così, se tra il 1912 e il 1913 cresce l’interesse per il metodo compositivo cubista, tuttavia nella sua opera rare sono le scomposizioni e costante il riferimento al dato realistico (Il mendicante o Linee e volumi di una persona: Mi- lano, gam; Scomposizione dei piani di un fiasco: Firenze, coll. Vallecchi; Scomposizione dei piani plastici: Milano, Gall. Ber- gamini, con le lettere «DELL MALI», che ricordano i la- vori di Braque); sperimenta inoltre la tecnica del collages, dopo aver visto a Parigi quelli creati da Picasso e Braque (Piccola velocità, 1913: Milano, coll. Jucker; Natura morta con fiammiferi, 1914: ivi; Frutta e liquori, 1915: Milano, coll. Mattioli). Interventista, si arruola come volontario; alla fi- ne del conflitto ripudia le esperienze avanguardistiche in nome del «ritorno all’ordine», recuperando in chiave puri- sta la pittura di soggetti della vita quotidiana e della natu- ra (La toilette del bambino, 1928: Roma, gnam), principî di- vulgati attraverso la rivista che fonda nel 1920, «Rete Me- diterranea». S partecipa a numerose esposizioni a cominciare dalla personale del 192o (Firenze, Palazzo Hor- ne); nel ’26 e ’29 espone con il gruppo Novecento a Mila- no; partecipa a varie Biennali veneziane, ad altre collettive e molte personali (dal 1938 al 1984). Nei primi anni ’30 si cimenta in pitture murali. Nel ’39 su proposta di Mussoli- ni, riceve la nomina di accademico d’Italia. La raccolta com- pleta della sua opera di scrittore e critico è stata pubblicata a Firenze tra il 1958 e il ’63. (ldm). soffitti e volte Non si tratterà in questa sede della pittura strettamente or- namentale, quantunque essa contribuisca spesso alla deco-

Storia dell’arte Einaudi razione dei s e delle v, ma della pittura figurativa. Il genere che conviene per eccellenza ai s e v è la pittura di storia, nel senso ampio del termine. La decorazione dipinta dei s propriamente detti impiega qua- si sempre supporti indipendenti, il piú consueto dei quali è la tela. Quella delle v impiega il mosaico, soprattutto nell’ar- te bizantina, e la pittura ad affresco. La regola predominante è quella della leggibilità: da una composizione fatta per es- sere vista dal basso e spesso da una certa distanza, ci si at- tende che presenti figure o dettagli di scala sufficientemen- te grande, contorni marcati, colori rafforzati e non descri- zione minuziosa. Le strade adottate sono le piú diverse, ma possono essere distinte, semplificando, due principali ten- denze che si affermano in modo ineguale a seconda dei pae- si e delle epoche e che talvolta si trovano a confronto: l’una ispira i s e le v di tipo «chiuso», l’altra di tipo «aperto». La prima tendenza richiede un tipo di decorazione dipinta che rispetti il supporto architettonico, anzi ne sottolinei la for- ma; implica la limitazione o persino la soppressione della profondità e si accontenta di una prospettiva non apposita- mente adattata alla visione verticale; la si trova specialmen- te illustrata nell’arte bizantina, in quella dell’Occidente me- dievale, durante il manierismo e il neoclassicismo. All’op- posto, la seconda tendenza cerca di evitare qualsiasi riferimento ai limiti materiali del supporto, approfondendo lo spazio fittizio della pittura grazie ad effetti prospettici: nata col rinascimento, trionfa in epoca barocca. Si tratta di due soluzioni estreme; in realtà, i compromessi non manca- no. Un esempio è il tipo di s e v con aperture «a finestre» nel quale squarci di cielo fanno da fondo a una decorazione priva di profondità. Le origini Già nell’epoca preistorica si trovano tracciate sul- le v naturali delle caverne delle figure come testimoniano i bisonti di Altamira. Nell’antichità, i soffitti in pietra delle tombe egizie presentano talvolta pitture a carattere orna- mentale che sottolineano il limite superiore della cavità. Ana- logamente, è di tipo «chiuso» la decorazione usata nella Ro- ma imperiale; le v della Domus Aurea neroniana, delle qua- li sussistono frammenti (Roma) o che sono note attraverso rilievi, erano scompartite per mezzo di modanature a stuc- co in cassettoni di forma diversa nei quali erano inscritti sog-

Storia dell’arte Einaudi getti a piccole figure, talvolta dipinti piatti, talvolta model- lati e rilevati a colore. La pittura, comunque, vi svolgeva un ruolo ausiliario rispetto al rilievo. È negli ipogei pagani, e soprattutto cristiani, che la decorazione dipinta delle v svol- ge un ruolo maggiore. Il principio della ripartizione geome- trica delle superfici prevale ancora, ma le figure, spesso sim- boliche, acquistano maggiore importanza (ad esempio con la tomba dei Pancrazi, la cripta di Lucina nelle catacombe di San Callisto, la galleria dei Flavi nelle catacombe di Domi- tilla, o la camera detta «del Buon Pastore» nel cimitero dei Santi Pietro e Marcellino, sec. iii e inizio iv). La zona d’influenza bizantina A partire dal sec. v, con la vittoria ufficiale del cristianesimo a Roma le basiliche rive- stono di sfavillanti mosaici lo spazio del catino absidale, raf- figurando temi solenni o trionfali, con figure disposte in mo- do da iscriversi armoniosamente nella curvatura della mu- ratura. È quanto si riscontra nei Santi Cosma e Damiano, in Santa Prassede, in Santa Francesca Romana, in San Cle- mente; poi, in Santa Maria Maggiore e in Santa Maria in Trastevere. A Ravenna, nel sec. vi, ostentano decorazioni musive le cupole vere e proprie del Battistero della Catte- drale e di quello degli Ariani; l’uno e l’altro presentano, in due zone sovrapposte, la cerchia degli Apostoli e il Battesi- mo di Cristo.L’abside di Sant’Apollinare in Classe è sor- montata dalla Trasfigurazione, anch’essa con mosaici del sec. vi. A partire da quest’epoca l’arte cristiana d’Oriente, a Co- stantinopoli come in Grecia, in Serbia come in Romania, a San Marco a Venezia come in Sicilia, conferirà ruolo fon- damentale alla rappresentazione di temi trionfali – come la Pentecoste o la Visione dell’Apocalisse – ai quali sono asse- gnate precise collocazioni. Piú raramente, la cupola è divisa in scene mutuamente indipendenti a carattere narrativo. Il fondo d’oro o colorato piatto vieta qualsiasi ricerca di profondità: benché traduca visioni celesti, la v bizantina è del tipo «chiuso». Occidente romanico L’importanza conferita dall’architet- tura romanica alle superfici murarie ha favorito la pittura decorativa. Sia la disposizione delle figure su un unico pia- no e la preponderanza dei pieni sui vuoti, sia l’adozione di fondi astratti a fasce colorate, contribuiscono a negare l’il- lusione della profondità: pertanto anche la decorazione del- le v romaniche appartiene al tipo «chiuso».

Storia dell’arte Einaudi Anche le scene narrative sono estremamente rare: una feli- ce eccezione è rappresentata dalla celebre v a botte della chiesa di Saint-Savin-sur-Gartempe. Dipinte piú frequente- mente di quelle a botte, le v a costoloni ricorrono a temi qua- dripartiti, articolati secondo gli spicchi – Angeli, Evangelisti o Fiumi del Paradiso – come si vede fin dalla fine dei sec. xi in Lombardia nel portico di Civate, poi in Italia centrale nel- la cripta di Anagni, in Spagna nel Pantheon dei Re a León, o nella chiesa inferiore di Schwarzirheindorf, presso Bonn, Per le cupole, meno frequenti che nell’architettura bizanti- na, spesso si sceglie di disporre entro i settori irradianti sce- ne svolte in orizzontale (Battistero della Cattedrale di Fi- renze, sec. xi; Battistero di Parma, decorato da affreschi del- la metà del sec. xiii). Sono assimilabili a cupole certe v ribassate, a pianta qua- drata o rettangolare. Così a Saint-Chef, nel Delfinato, le fi- gure scompartite sui quattro lati convergono verso il centro, occupato dal Cristo in gloria, mentre nella Cattedrale di Braunschweig, all’incrocio del transetto, le Scene del Nuovo Testamento sono disposte in fasce concentriche. Ma il tipo di volta che piú spesso si presta alla decorazione è il catino, o semicupola, absidale. I temi trionfali sono qui di rigore: i piú frequenti sono il Cristo in gloria, con i simboli evangeli- ci, e la Vergine in maestà, spesso affiancati da apostoli, pro- feti, angeli ecc. Esempi della prima iconografia s’incontrano in Italia a Sant’Angelo in Formis, in Francia a Berzé-la-Vil- le e a Saint-Gilles de Montoire, in Catalogna a San Clemente de Tahull e a Santa Eulalia de Estahón (pitture oggi al mac di Barcellona), in Germania a Niederzell, nell’isola di Rei- chenau. La Vergine in maestà compare in Italia nella Catte- drale di Aquileia, in Catalogna in Santa Maria de Tahull, in Germania in Santa Maria di Soest, in Francia a Notre-Da- me de Montmorillon, ove il tema si fonde con quello del Ma- trimonio mistico di santa Caterina. Occidente gotico L’architettura gotica riducendo il ruolo della parete offre meno possibilità alla pittura. Le superfici meno trascurabili sono proprio quelle della v, ma la struttu- ra scompartita di essa impedisce la composizione unitaria, pertanto la soluzione piú ovvia colloca un’unica figura in cia- scuno spicchio. In Italia, dove le superfici murarie mantengono le loro fun-

Storia dell’arte Einaudi zioni portanti, l’arte gotica ha favorito maggiormente la pit- tura decorativa; come le pareti, le v a spicchi ampi sono spes- so rivestite, specie nel sec. xiv, da affreschi. La superficie è spesso ripartita in fasce in cui s’iscrivono figure o scene en- tro una cornice (Assisi, nella Chiesa inferiore, affreschi del transetto; Firenze, Santa Maria Novella e cappellone degli Spagnoli; Padova, Battistero della Cattedrale; abbazia di Vi- boldone; Galatina, Santa Caterina; Avignone, Palazzo dei Papi, cappelle di San Marziale e di San Giovanni). Con im- pianto diverso, e piú appropriato alla natura delle v, gli spic- chi accolgono figure singole (Evangelisti, Dottori della Chie- sa) o in gruppo, scaglionate regolarmente così da riempire il campo triangolare. Il primo rinascimento in Italia Nel Quattrocento, privile- giando gli artisti italiani la pura articolazione dei volumi e l’armonia delle parti, non si registrano grandi cicli decorati- vi di s e v. La maggior parte di essi si trova in edifici di co- struzione piú antica, gotica soprattutto, che – non rispon- dendo piú al senso estetico del tempo – si riteneva dovesse- ro essere abbelliti. Vengono abbandonate le scene disposte a fasce e preferite figure atemporali o simboliche, perché piú armoniosamente collocabili negli spicchi delle v. Troviamo così le Sibille dipinte da D. Ghirlandaio nella cappella Sas- setti in Santa Trinita a Firenze, e in Santa Maria Maggiore a Spello, dipinti dal Pinturicchio, gli Evangelisti, come nel- la cappella di Niccolò V, opera di Fra Angelico in Vaticano e nel coro della Cattedrale di Prato decorato da Filippo Lip- pi. Ancora il Pinturicchio li rappresenta nella cappella di San Bernardino in Santa Maria in Aracoeli a Roma. Figure rag- gruppate in cori celesti occupano gli otto spicchi delle volte della cappella di San Brizio nel Duomo di Orvieto sono do- vute al successivo intervento del Beato Angelico, Gozzoli e Signorelli. Tra queste prove spiccano indubbiamente gli affreschi della Camera degli Sposi del Palazzo Ducale di Mantova, di mano del Mantegna, che aprono la stagione dell’illusionismo con espedienti fondati sull’uso degli scorci arditi, sulla finzione architettonica e sulla prospettiva verticale inaugurando il ti- po «aperto» nella decorazione delle v. La lezione venne se- guita immediatamente, a Roma, da un’altra esperienza di fon- damentale portata. Attualizzando un tema tradizionale, Me- lozzo da Forlì dipinse a fresco nel catino della chiesa dei Santi

Storia dell’arte Einaudi Apostoli un Cristo in gloria, attorniato da apostoli e angeli; qui le figure occupano uno spazio immaginario e unificato che approfondiscono con la molteplicità degli atteggiamenti (frammenti ai Musei Vaticani e presso il Palazzo del Quiri- nale). Ancora Melozzo decorò nel 1478 la cupola della sa- crestia di San Marco nella Basilica di Loreto; si tratta questa volta di «finestre» illusionistiche, ciascuna delle quali in- quadra un brano di cielo con un angelo in volo. Il rinascimento a Roma e a Parma I grandi cantieri roma- ni del tempo di Giulio II e di Leone X hanno conferito un ruolo importante alla decorazione delle v. L’esempio piú il- lustre è quello della Cappella Sistina, che offriva una solu- zione nuova e ardita al problema costituito dalla decorazio- ne di una vasta superficie ricurva. Michelangelo ricorre a un’architettura simulata in grisaiIle, che si presenta, in qual- che modo, piatta, senza assoggettarsi alla prospettiva verti- cale, pur imponendo allo spazio una partizione armoniosa- mente articolata. Mentre gli «ignudi» sono pensati come par- te integrante di quest’ordinamento, le Scene della Genesi,al centro della v, sono orientate verso un osservatore che pro- ceda arretrando dal fondo verso l’ingresso della cappella; i Profeti e le Sibille sono concepiti invece per una visione la- terale. Malgrado la differenza d’impianto, la profondità che ne risulta è strettamente limitata, in modo da far risaltare l’efficacia plastica della figure. Differente il caso di Raffaello. Nella Stanza della Segnatura in Vaticano, le cornici rettangolari e i medaglioni ricavati nel- la decorazione della v sono occupati da piccole scene e da fi- gure allegoriche il cui ruolo, relativamente secondario, è in re- lazione con i soggetti dei grandi affreschi dipinti sulle pareti. Maggiore novità presenta la Loggia della Farnesina, la cui vol- ta a botte, dalle superfici chiaramente articolate con l’ausilio di ghirlande illusionistiche, illustra il tema della Storia di Psi- che.Nella cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, la cupo- la mostra figure isolate, i cui scorci però osservano meglio i principi della visione verticale. Nelle Logge Vaticane, infine, Raffaello fissava una formula tratta dalle v antiche: al centro d’una ricca decorazione a grottesche, le scene con figure, ri- partite in cornici rettangolari, occupano solo uno spazio limi- tato, affermando, inoltre, ciascuna la sua propria prospettiva. Per trovare il frutto delle esperienze del Mantegna e di Me-

Storia dell’arte Einaudi lozzo occorre passare a Parma, con il Correggio. La Came- ra di San Paolo (1518-19) dimostra già la capacità innovati- va del pittore: la v rappresenta un pergolato attraverso le cui aperture ovali, lo sguardo dello spettatore è introdotto in un cielo popolato da amorini. Con le cupole di San Giovanni Evangelista e del Duomo, il Correggio prosegue piú ardita- mente le sue ricerche. La prima cupola, cominciata nel 1520, sviluppa senza partizioni il tema della Visione di san Gio- vanni.Con l’Assunzione che riveste la cupola del Duomo, di- pinta tra il 1522 e il 1530, la profondità è indagata, con ef- fetti ancor piú illusivi, anche grazie al movimento concita- to delle figure, alla loro disposizione su piú piani e alla prospettiva aerea. Il manierismo Negli ultimi tre quarti del Cinquecento e du- rante i primi anni del secolo successivo la pittura dei s e del- le v trovò il suo vero campo d’attività nella decorazione dei palazzi, piú che delle chiese. Mentre i s di questo periodo so- no dipinti piuttosto raramente con composizioni figurative, ciò accade di frequente per le v, che mostrano, in linea ge- nerale, un ritorno al tipo «chiuso», accettando il supporto ar- chitettonico e sottolineandone la presenza, anziché dissol- verlo in uno spazio immaginario. Negli scomparti, piú o me- no numerosi, generati dalle bordature a stucco secondo schemi quanto mai elaborati, le scene o le figure si presenta- no come quadri separati, piatti, senza particolare ricerca di profondità e spesso a piccola scala. Questo genere di deco- razione, derivante dalle Logge Vaticane, s’incontra comune- mente in Italia: a Roma nelle v di Castel Sant’Angelo, di- pinte da Perin del Vaga e dalla sua bottega, o nella cupola di San Pietro, ornate da sei ordini di figure eseguite a mosaico su cartoni di G. Cesari; a Caprarola, presso Roma, nelle v di Villa Farnese, dipinte dagli Zuccari con ricca decorazione a grottesche che inquadra scene di piccola dimensione; a Na- poli nelle opere di Belisario Corenzio. A Genova, la decora- zione di tipo manieristico venne introdotta da Perin del Va- ga (Sala dei Giganti in Palazzo Doria); la scala delle compo- sizioni si riduce con Cambiaso, il cui Ratto delle Sabine costituisce la parte centrale del grande s della Villa imperia- le, e ancor piú con G. C. Castello, Teramo Piaggia e Anto- nio Semino, i cui affreschi incorniciati con stucchi abbonda- no nelle chiese e nei palazzi della città. I s scompartiti si tro- vano anche a Firenze, e tra essi in particolare quello del

Storia dell’arte Einaudi Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, decorato da Va- sari e dai suoi aiuti e contiguo allo studiolo di Francesco I, la cui v a botte mostra, ripartiti nei cassettoni, soggetti simbo- lici dipinti sotto la direzione del medesimo maestro. Nel me- desimo spirito vennero decorate le v della Villa imperiale di Pesaro, da Genga, Raffaellino dal Colle e Dosso Dossi. Lo stesso principio fu seguito a Mantova da Giulio Romano e dai suoi allievi, negli affreschi del Salone di Psiche, del Pa- lazzo Te e del Salone di Troia in Palazzo Ducale. Troppa è però la varietà delle esperienze del manierismo ita- liano, perché alla decorazione dei s e v potesse applicarsi una formula sola. Il principio della suddivisione in scomparti è abbandonato sia a Parma, dove l’influsso del Correggio ispi- ra le composizioni in profondità che ornano la chiesa della Steccata, sia nella Sala dei Giganti di Palazzo Te dove Giu- lio Romano nella dinamica Caduta dei giganti dall’Olimpo abolisce il limite tra v e pareti. L’architettura fittizia parte- cipa qui della ricerca illusionistica; il suo ruolo andrà cre- scendo verso la fine del secolo con la voga della «quadratu- ra», che oltre ad articolare le superfici prosegue in altezza l’architettura reale delle chiese e dei palazzi con edifici im- maginari. Le regole di quest’arte, che esige la conoscenza per- fetta della prospettiva, sono state codificate particolarmen- te da specialisti bolognesi: a questi si rivolse Gregorio XIII per decorare diverse sale in Vaticano, e Roma divenne il cam- po principale dell’attività dei fratelli Alessandro, Cherubino e soprattutto Giovanni Alberti, originari di Bologna (Sala Clementina del Palazzo del Laterano; coro di San Silvestro al Quirinale). Anche nell’Italia settentrionale si trovano esempi di «quadratura» (Vincenzo Campi in San Paolo a Mi- lano). Di questi stessi anni sono le decorazioni insolite della grotta del giardino di Boboli a Firenze, opera di B. Poccetti in cui compaiono precoci esempi di rocailles qui impiegate per incorniciare paesaggi fantastici popolati di animali. In Spagna e in Francia la decorazione manierista è tributa- ria diretta dell’Italia; fa parte, nel complesso, del tipo «chiu- so». All’Escorial, però, si coglie quanto contrappone lo sti- le statico e minuto di cui è testimonianza l’Incoronazione del- la Vergine dipinta da Cambiaso al di sopra del coro della chiesa, all’impianto assai piú ampio adottato per la v a bot- te della biblioteca da Pellegrino Tibaldi; qui, l’uso dello scor-

Storia dell’arte Einaudi cio accresce il rilievo delle figure senza che la cornice archi- tettonica cessi di esercitare il proprio predominio. A Fon- tainebleau – e laddove abbia operato la scuola che porta que- sto nome – si nota anzitutto l’assenza di pitture figurative sui s propriamente detti. Composizioni a piccola scala oc- cupavano invece gli scomparti di talune v, a complemento di scene maggiori rappresentate sulle pareti: così in due gal- lerie della residenza reale, quella di Ulisse e quella di Diana, la prima decorata sotto Francesco I dal Primaticcio e da Nic- colò dell’Abate, la seconda ai tempi di Enrico IV sotto la di- rezione di Ambroise Dubois. Le due gallerie sono scompar- se, ma a Fontainebleau resta un’opera importante della se- conda scuola: la v della cappella della Trinità dipinta da Fréminet con soggetti biblici, che seppur inscritti in com- parti bordati da stucchi, presentano arditi scorci nelle figu- re a grande scala. In Germania e nei Paesi dell’Europa centrale, le v dipinte, di tipo risolutamente «chiuso», recano spesso l’impronta del manierismo italiano, tradotto spesso da maestri fiamminghi o locali. Così, la residenza di Landshut in Baviera, dove al- lievi di Giulio Romano hanno collaborato verso la metà del sec. xvi con pittori tedeschi, presenta una decorazione le cui modanature e ornamenti in stucco lasciano poco spazio ad affreschi. Minore minuziosità rivela l’Antiquarium della re- sidenza di Monaco, la cui vasta v a botte è stata dipinta ne- gli ultimi anni del sec. xvi da Ponzano e Sustris. Il rinascimento veneziano Nel Cinquecento Venezia si di- stinse per l’elaborazione di una formula decorativa che com- porta innovazioni fondamentali. Premesso che le v dipinte sono qui altrettanto rare degli affreschi, a causa del clima (se ne trovano esempi soltanto nelle ville di terraferma), a Ve- nezia, nelle sale dei palazzi come nelle chiese, è il s nel sen- so proprio del termine a servire normalmente di copertura e a far da supporto alla decorazione pittorica. Il s veneziano rinascimentale è in legno, scolpito e di solito dorato, con cas- settoni profondi di forma e dimensioni svariate, ingegnosa- mente composti entro uno schema complesso; inserite in ta- li cassettoni, pitture su tela aprono altrettante prospettive di un mondo ideale, popolato da figure che rispondono all’esigenza della leggibilità grazie alla scala abbastanza gran- de e al potere del colore. Tiziano dipinse per il s di Santo Spirito in Isola, oggi nella

Storia dell’arte Einaudi sacrestia della Salute, figure dal forte rilievo suggerendo uno spazio che lo spettatore può percepire da punti di vista dif- ferenti. Tuttavia, è il Veronese a definire in misura piú com- pleta lo stile dei s veneziani. Essi non sono concepiti esat- tamente per la visione verticale, ma per uno spettatore che li guardi in obliquo e che proceda dall’ingresso fino al fon- do della chiesa o della sala. Da qui la loro organizzazione se- condo punti di vista multipli, con la preferenza per il «sot- to in su». Le architetture sono anch’esse rappresentate in scorcio e non in piano; la ricchezza luminosa dei colori con- tribuisce all’esaltazione dell’effetto ottico adeguandosi al di- spiegarsi di un mondo immaginario che l’osservatore può supporre esterno allo spazio chiuso dal s. E quanto dimo- strano, a Venezia, la navata di San Sebastiano, numerosi s (o parti di s) di Palazzo Ducale, particolarmente quello del- la Sala del Collegio e della Sala del Maggior Consiglio (Apo- teosi di Venezia).Meno aeree e meno luminose, ma certo piú drammatiche, le composizioni per s del Tintoretto applica- no anch’esse la prospettiva «da sotto in su» e la moltiplica- zione dei punti di vista, come dimostra la studiata struttura del s del salone grande della Scuola di San Rocco. Per quan- to riguarda gli affreschi nelle ville venete il complesso piú no- tevole è quello di Villa Barbaro a Maser. Nel salone centra- le, di forma quadrata, il Veronese ha concepito uno spazio ancor piú «aperto» che in Palazzo Ducale. Il grande archi- volto – dove da dietro una finta balaustra si sporgono dei per- sonaggi tra colonne tortili rappresentate in scorcio – serve a fare arretrare il mondo celeste, e impiega magistralmente le risorse della quadratura per accrescere l’illusione. La prima età barocca in Italia Roma, nel corso del Seicen- to e all’inizio del secolo seguente, è teatro di svariate espe- rienze nel campo della pittura decorativa. L’importanza dei s e ancor piú delle v nell’Italia barocca si motiva col gusto per il fasto e il colore, che si avverte nei palazzi come nelle chiese, e col carattere trionfale che l’arte nata dalla Contro- riforma intendeva imprimere ai luoghi di culto. Vengono adottati di volta in volta, e persino simultaneamente, im- pianti assai diversi; li accomuna però – confrontando i s e le v realizzate in quest’epoca con quelli precedenti – la gene- rale tendenza ad abbandonare la scompartizione insistita del- la superficie, ad ampliare e semplificare le composizioni, ad

Storia dell’arte Einaudi accrescere la scala delle figure e a rafforzare l’illusione del- la profondità, in modo da coinvolgere in maniera piú im- mediata lo spettatore. Nella formazione del nuovo stile, si individuano influenze svariate quanto quelle del Correggio, dei maestri veneziani, di Michelangelo e Raffaello, senza trascurare i lasciti del ma- nierismo e la lezione dei quadraturisti (T. Sandrino a Reg- gio Emilia; G. G. Barbelli a Cremona; M. Colonna a Fi- renze, Palazzo Pitti, e Bologna; A. Tassi a Roma). La prima v importante di quest’epoca a Roma è quella della galleria di Palazzo Farnese, dipinta dal 1597 al 1604 sotto la dire- zione di Annibale Carracci. La finta architettura, arricchi- ta da motivi di scultura in trompe-l’œil, articola armoniosa- mente la superficie della botte; negli scomparti così ricava- ti s’inscrivono le scene tratte dalle Metamorfosi ovidiane, concepite ognuna secondo una propria prospettiva, poco fa- vorevole all’illusione della profondità come fossero «quadri riportati». Questa frammentazione – meno accentuata di quella dei manieristi – e questa limitazione dello slancio tra- discono una tendenza classica cui partecipano altri bolognesi. Sul catino della cappella di Santa Silvia in San Gregorio al Celio a Roma (1608), Guido Reni dispone angeli musicanti dietro un balcone con un baldacchino in trompe-l’œil, senza scaglionarli in profondità; nel casino Pallavicini, la sua cele- bre Aurora (1613) è composta senza alcuna ricerca di pro- spettiva verticale. In Sant’Andrea della Valle il Domenichi- no dipinge pennacchi della cupola e la v dell’abside rac- chiudendo le figure entro limiti esatti; così il Morazzone e il Guercino nel Duomo di Piacenza e a Napoli Stanzione e Caracciolo. Le chiese napoletane assicureranno a lungo la so- pravvivenza del s a cassettoni dipinti, presto passato di mo- da a Roma; Stanzione ne dà un esempio nei Santi Marcelli- no e Festo, e Preti in San Pietro a Maiella. A partire dal 1620 una tendenza piú specificamente barocca s’impose a Roma e, di conseguenza, in altri centri dell’arte italiana. Il dina- mismo prevale sull’equilibrio perseguito da A. Carracci, da Guido Reni e dal Domenichino. La frammentazione delle superfici si fa piú discreta o persino scompare; quando si im- piega la «quadratura», non è piú per isolare le scene, ma per far arretrare la composizione figurativa e creare un effetto ascensionale. Si scelgono temi di gloria, profani e sacri. La prospettiva viene appositamente studiata per uno spettato-

Storia dell’arte Einaudi re che levi lo sguardo verso la v: talvolta è autenticamente verticale – e pertanto esige, per comprenderla, che ci si col- lochi sulla perpendicolare del centro o di un punto privile- giato della composizione – talvolta è concepita per una vi- sione obliqua, con scorci meno accentuati. Il ruolo del pit- tore non è piú quello di riportare sulla superficie della v composizioni che ne sottolineino la consistenza materiale, ma quello di farla dimenticare, di spalancarla su un cielo fit- tizio. L’esito di tali esperienze è l’illusionismo. Emblematico è il confronto tra l’Aurora del Reni e quella di- pinta dal Guercino tra il 1621 e il 1623 nel casino Ludovi- si: una vigorosa architettura in trompe-l’œil, inventata da Tassi, rialza le pareti della sala e allontana dallo spettatore il soggetto visto «da sotto in su». Il dinamismo vi prevale sulla volontà di equilibrio; così come farà il Lanfranco nel- la cupola di Sant’Andrea della Valle (Assunzione, 1625-28) spezzando risolutamente, per evitare qualsiasi impressione di staticità, quanto rimane di regolarità anulare nelle cupo- le correggesche (si veda anche la cappella di San Gennaro nel Duomo di Napoli). Nell’evoluzione dei s e v dipinti, la Gloria di casa Barberi- ni, eseguita da Pietro da Cortona (1633-39) nella v del sa- lone principale di Palazzo Barberini a Roma, segna una svol- ta decisiva. La «quadratura» è ancora presente, ripartendo lo spazio in cinque zone; ma tende già a scomparire sotto gli sconfinamenti delle figure e delle nuvole, ristabilendo l’unità compositiva. Nelle Sale dei Pianeti in Palazzo Pitti a Firenze, Pietro da Cortona tornerà alle ripartizioni espres- se dagli stucchi, con spirito nuovo, fissando uno stile di de- corazione profana dal subitaneo successo, che associa stret- tamente scultura e pittura. I comparti, di varia forma e di- mensione, sono studiati in modo da garantire la supremazia del soggetto centrale rispetto agli episodi che lo attorniano. In seguito nelle chiese romane si troverà sovente, al centro della v principale, una composizione ellittica la cui forma si libererà progressivamente da vincoli di contorni, fino quasi a dissolversi nell’Adorazione del Nome di Gesú dipinta dal Baciccio sulla volta del Gesú (1674-79) dove le figure in vo- lo nella v sfuggono alla cornice e si confondono con quelle modellate in stucco. Lo spazio immaginario fa così irruzio- ne nello spazio materiale della chiesa: la chiesa sembra real-

Storia dell’arte Einaudi mente aprirsi su un cielo in cui un turbine di colore, di mo- ti e di luce esprime l’aspirazione verso l’infinito. Doveva toccare ad Andrea Pozzo condurre al trionfo la cor- rente barocca fondendo in una visione unica, armoniosa ed estremamente dinamica il trompe-l’œil della «quadratura» e lo spazio celeste. In San Francesco Saverio di Mondovì in Piemonte, la cupola centrale a sezione ribassata è rialzata idealmente mediante un portico che si eleva, e si apre sulla Gloria di san Francesco Saverio.Nella v della navata di Sant’Ignazio a Roma lo spazio dell’architettura reale, quel- lo dell’architettura simulata e quello del cielo aperto sono unificati da una medesima forza ascensionale. Attraverso un calcolo sapiente delle leggi prospettiche, scegliendo un uni- co punto di vista per lo spettatore – che viene così guidato dall’artista – l’occhio non distingue piú dove termini la co- struzione reale e dove cominci l’edificio ciclopico che pro- lunga fino a un’altezza vertiginosa lo spazio penetrato d’aria e di luce. Chiamato a Vienna nel 1703, Pozzo avrà modo di diffondere le proprie soluzioni rivoluzionarie oltre le Alpi: la cupola che simula al centro della v della navata dell’Uni- versitätkirche e il Trionfo di Ercole dipinto nel s principale di Palazzo Liechtenstein avranno grande risonanza nel mon- do germanico. Di fronte alle prodezze dell’illusionismo, si delinea a Roma, verso la medesima epoca, una reazione clas- sica di cui si fa promotore Carlo Maratta. Il suo Trionfo del- la Clemenza, dipinto in Palazzo Altieri nel 1674, occupa ri- gorosamente un gran quadro centrale dove, senza bandire lo scorcio, le figure sono scaglionate da un estremo all’altro del- la composizione, anziché obbedire a una prospettiva zeni- tale. Questa formula di compromesso, che conferisce mag- giore importanza alla distribuzione armoniosa dei pieni e dei vuoti rispetto alla profondità e al movimento, verrà spesso applicata alla decorazione delle v di chiese, come testimo- niano Giacinto Brandi in San Carlo al Corso (1674), lo stes- so Baciccio nei Santi Apostoli (1707), Sebastiano Conca in Santa Cecilia (1725). Fuori Roma, a Genova una brillante scuola di decoratori, principalmente rappresentata da Valerio Castello, da Do- menico Piola, dalla dinastia dei Carlone, dai Ferrari, dà pro- va di sé in importanti s e v del tipo piú sopra definito come «aperto». Spesso associando la «quadratura» d’origine bo- lognese, che essi praticano con particolare perizia, allo spa-

Storia dell’arte Einaudi zio luminoso e colorato di Pietro da Cortona s’impegnano a conferire un’aria di festa alle chiese, soprattutto quelle dell’Annunziata, e agli appartamenti dei palazzi. Formato- si a Genova, Baciccio trasmetterà a Roma i frutti delle loro esperienze. Col Domenichino e Lanfranco, Napoli aveva beneficiato de- gli apporti bolognese e romano. La vena barocca della sua scuola ispira, nella seconda metà del sec. xvii l’opera di Lu- ca Giordano. È con la v della galleria di Palazzo Medici Ric- cardi che Giordano dà la propria misura e propone un tipo nuovo di decorazione. La «quadratura» viene completa- mente abbandonata, e lo sfondamento dello spazio viene af- fidato a mezzi puramente pittorici. La composizione, che ha per soggetto un’Allegoria della gloria dei Medici, si sviluppa su tutta la superficie della botte e delle due lunette termi- nali, abolendo le ripartizioni mediante il libero gioco delle forme: quale che sia il punto di vista scelto dallo spettatore, la composizione rimane leggibile. Quanto già offrivano le cupole, col vantaggio determinato dalla loro curvatura con- tinua, lo si trova ora adattato allo spazio oblungo d’una gal- leria. L’abbandono della «quadratura», l’unità compositiva, la molteplicità dei punti di vista, la maggior densità sul con- torno rispetto allo spazio centrale, la tendenza alla legge- rezza, alla luminosità, che qui si definiscono, si ritrovano in genere nelle altre grandi composizioni di Giordano: all’Esco- rial (v della chiesa, e soprattutto l’immensa gloria celeste di- pinta verso il 1692 sopra il grande scalone; nella Cattedrale di Toledo, (l’Apparizione della Vergine a sant’Ildefonso nella sacrestia); nella Certosa di Napoli (il Trionfo di Giuditta, 1704: cappella del Tesoro). Dopo Giordano, il barocco na- poletano troverà il suo capofila in Francesco Solimena, che adotta il tipo «aperto» senza l’amplificazione ardita del suo predecessore, come mostra il Trionfo della Fede, da lui di- pinto nel 1709 nella sacrestia di San Domenico Maggiore. Barocco e classicismo nelle Fiandre, in Francia e in Inghil- terra Le scuole europee del sec. xvii sono, per la decora- zione dei s e delle v, ampiamente debitrici delle formule ri- nascimentali italiane. Rubens si rivela così memore dei s ve- neziani dipingendo i cassettoni che sormontano le campate delle navate laterali e delle tribune della chiesa dei Gesuiti ad Anversa (scomparsi nell’incendio della chiesa, sono noti

Storia dell’arte Einaudi da schizzi) e il s della Banqueting Hall, nel palazzo londi- nese di Whitehall. Anche per quanto riguarda la Francia di Luigi XIII e di Luigi XIV la decorazione dei s e v molto de- ve all’Italia. Tuttavia, i decoratori francesi hanno adottato, di norma, la tecnica della pittura a olio, anziché l’affresco, la cui leggerezza meglio conviene a tali composizioni. La «quadratura» illusionistica, di tradizione bolognese, ha buo- na accoglienza: Colonna e Mitelli d’altra parte la riadattano essi stessi a Parigi e a Versailles. Gli apporti dei teorici del- la prospettiva francese, primo fra tutti Des Argues, non so- no poi trascurabili; e ad essi si integrano quelli ideati dagli stessi pittori. Il tema piú comune è quello del portico rap- presentato in scorcio, aperto su un cielo a volte disabitato. È quanto avevano concepito Jean Lemaire col s del teatro del Palazzo del Cardinale (1641), Dorigny e Tortebat nel grande salone dell’Hôtel de La Rivière, Nicolas Loir alle Tui- leries. Sono conservate le composizioni di Thomas Blanchet nel municipio di Lione, di Houasse nel Salone dell’Abbon- danza a Versailles (1682), di Giovanni Gherardini, bolo- gnese, nell’antica casa professa dei Gesuiti a Parigi, dove la Glorificazione di san Luigi si libra sopra lo scalone, mentre distrutta ma nota dall’incisione era la cupola che copriva la cappella dell’Hôtel Séguier di Simon Vouet (1657 ca.). L’unione tra illusionismo architettonico e cielo popolato da figure verrà ricercata da Antoine Coypel nella v principale della cappella di Versailles, e nella v, oggi scomparsa, della galleria di Enea nel Palais-Royal. Si conoscono inoltre cu- pole o semicupole che presentano una composizione unica, nella tradizione del Correggio: quella che Le Brun aveva pre- vista sul salone di Vaux-le-Vicomte, quella di Pierre Mignard al Valde-Gráce, quelle di La Fosse nella chiesa parigina dell’Assunzione, nell’abside della cappella di Versailles, e agli Invalides, dove l’artista ha rappresentato nella cupola superiore San Luigi che rimette nelle mani di Cristo gli attri- buti della regalità.Opposto a simile tendenza è il puro e sem- plice riporto sul s o sulla v di composizioni frontali. Pous- sin illustra tale partito con i suoi progetti per la grande gal- leria del Louvre (1646) e Michel I Corneille con la Storia di Psiche, dipinta in tre scomparti nella galleria dell’Hôtel Ame- lot di Bisseuil. Michel II Corneille decorerà con questo stes- so spirito la cappella di Saint-Grégoire nella chiesa degli In- valides, Louis de Boullogne la cappella di Saint-Augustin

Storia dell’arte Einaudi (ivi) e i cassettoni che sormontano le campate delle tribune nella cappella di Versailles. Tuttavia, la scuola francese ha di solito adottato soluzioni di compromesso, intermedie tra tipo «aperto» e tipo «chiuso» mantenendo le ripartizioni nei s e nelle v, rifiutando di assoggettare le figure allo scorcio. In questo senso Vouet ricorre al «sotto in su» di Veronese nel- le sue grandi opere oggi distrutte: la galleria del castello di Chilly (1630 ca.), la galleria alta dell’Hôtel de Bouillon, la bi- blioteca dell’Hôtel Séguier. Nel «cabinet de l’Amour» dell’Hôtel Lambert, Le Sueur dipinse nei cassettoni del s fi- gure che obbediscono a una prospettiva unica; Romanelli, pur discepolo di Pietro da Cortona, conserva le ripartizioni e limita la profondità nella galleria Mazzarino come nell’ap- partamento di Anna d’Austria al Louvre; Le Brun, che una disputa contrappose ad Abraham Bosse, sostenitore della pro- spettiva piú ortodossa, non si curò di obbedire a leggi rigo- rose rammentandosi dei bolognesi di tendenza classica nell’Hôtel de La Rivière (due s oggi al Museo Carnavalet di Parigi) nella galleria dell’Hôtel Lambert, in vari saloni del ca- stello di Vaux-le-Vicomte. Il s della camera del re nel mede- simo castello, e quelli dell’appartamento del re a Versailles, lasciano intendere l’influsso di Pietro da Cortona a Pitti. Tra il 1690 e il 1720 ca., nel periodo che vide la passeggera affermazione del barocco in Inghilterra, molti s e v furono dipinti ma la maggior parte di queste opere sono dovute a pit- tori italiani o francesi. Antonio Verrio, di formazione napo- letana, popola con numerosi personaggi celesti le sue com- posizioni mitologiche sullo scalone e nell’appartamento rea- le di Hampton Court, a Chatsworth e nella Burghley House. Louis Laguerre s’ispira a Le Brun e alle sue soluzioni di com- promesso in queste ultime due residenze e in Blenheim Pa- lace. Tuttavia La Fosse, nel 1690, aveva fatto della v (oggi distrutta) della Montague House a Londra un vasto cielo la cui profondità è indagata attraverso il vario disporsi delle fi- gure. Lo stile eclettico di James Thornhill, pittore autocto- no, si rivela a Greenwich, ad Hampton Court, a Blenheim e nella cupola ad effetto di San Paolo a Londra (1716-19). L’epoca del rococò in Itatia, Spagna e Francia Nel sec. xviii è ancora l’Italia a fare da guida nella decorazione dei s o del- le v. Nel periodo compreso tra il 1710 e il 1760, non cessa di sfruttare, e anche di attualizzare, le formule dell’arte ba-

Storia dell’arte Einaudi rocca. La «quadratura» si continua a praticare, particolar- mente da parte dei bolognesi, ma il suo ruolo è oramai mi- nore: l’evoluzione del gusto porta a preferire cieli meno sti- pati di figure e piú rispettosi dei partiti architettonici. L’alito del rinnovamento non spira piú a Roma, troppo ri- spettosa del rinsavito eclettismo di Maratta, e neppure a Na- poli, malgrado Francesco de Mura o Corrado Giaquinto, che d’altro canto andrà a dipingere a Madrid – rammentando Giordano e Solimena – la sua opera piú ambiziosa, l’Omag- gio della Monarchia spagnola alla Religione (v dello scalone del Palazzo Reale). Gli impulsi provengono ora dall’Italia settentrionale e in particolar modo da Venezia. Il ritorno al- la grande decorazione si inizia con Antonio Fumiani, che tra il 1684 e il 1704 sovrappone alla navata di San Pantaleone, associando il ricordo di Veronese e del Tiritoretto all’illu- sionismo architettonico di Pozzo, una composizione im- mensa (il Martirio e glorificazione di san Pantaleone); poi con Sebastiano Ricci a San Stae e G. B. Pittoni in Ca’ Pesaro. Mentre Pellegrini dimostra la propria statura in Francia, in Germania e in Inghilterra (a Castle Hozard, a Kimbolton) adattando al gusto rococò la tradizione veronesiana, il Piaz- zetta dipinge su tela la Gloria di san Domenico (cappella di San Domenico nei Santi Giovanni e Paolo), ricorrendo al chiaroscuro per accentuare la profondità della scena. In ta- le campo, peraltro, G. B. Tiepolo dimostra la superiorità del- la sua invenzione decorativa padroneggiando soluzioni dif- ferenti. Nella v dei Gesuati (1737-39) o nel s principale della Scuo- la del Carmine (1739-44), Tiepolo utilizza superfici scom- partite, ma piú sovente realizza vaste composizioni unitarie, secondo impianti che denotano l’influsso di Giordano e del Veronese (Gloria della famiglia Pisani, 1761: villa Pisani a Stra; s ora perso nella chiesa veneziana degli Scalzi, che ave- va per soggetti il Trasporto dalla santa Casa, 1743; il Carro di Apollo e le Quattro parti del mondo, 1740: v della galleria di Palazzo Clerici di Milano; v dello scalone e della Kaisersaal nella residenza di Würzburg, con allegorie della gloria della casa di Schönborn, 1750-53; Sala del Trono al Palazzo Rea- le di Madrid, 1764). Tiepolo crea un mondo aereo, che, senza essere propria- mente illusionistico, si apre come per miracolo sopra lo spet- tatore; l’architettura ne è quasi esclusa, o compare, discre-

Storia dell’arte Einaudi ta, sui bordi. Tocca ai personaggi, agli animali, agli accesso- ri, denunciare la profondità. La sua lezione avrà grande ri- sonanza in Germania e in Spagna. A Madrid, essa ispirerà ancora a Goya, malgrado il movimento neoclassico, le sce- ne capricciose della Vita di sant’Antonio nella cupola di San Antonio de la Florida (1798). In Piemonte, l’influsso veneziano si fa avvertire in G. B. Crosato, che opera nel palazzo di Stupinigi e nella Villa del- la Regina. A Stupinigi, Giuseppe e Domenico Valeriani de- corano la cupola del grande salone centrale con una Parten- za di Diana per la caccia. Le scene simboliche dipinte da Car- le van Loo e da Claudio Francesco Beaumont nello stesso edificio e nel Palazzo Reale di Torino (1753) confermano il gusto del tempo per le composizioni in cui i vuoti rivestono ruolo determinante. Tra gli altri esempi interessanti, offer- ti in gran numero dall’Italia settentrionale, si può segnala- re, nel Palazzo Ducale di Mantova, la v della galleria dei Fiu- mi, dipinta nel 1776 da Giorgio Anselmi. In Francia, dopo i grandi lavori della cappella di Versailles, degli Invalides e del Palais-Royal, dopo l’effimero apporto di Pellegrini, che tratta da veneziano la v della galleria (scom- parsa) della Banque Royale, la pittura di s subisce un’eclis- si, un’eccezione nell’Europa del rococò. L’esaurimento sa- rebbe pressoché totale senza una grande opera come l’Apo- teosi di Ercole, dipinta da François Lemoyne nella v del Salone di Ercole (1729-34), il piú vasto di Versailles. Una modesta cornice architettonica in trompe-l’œil incornicia un cielo aperto e popolato da figure nello spirito di Giordano e di La Fosse: sarà il modello del genere in Francia e ispirerà a G. Taraval la decorazione del Palazzo Reale di Stoccolma. Altrove, sia a Versailles che negli Hôtels parigini e negli châ- teaux dell’epoca, si preferiscono s bianchi, talvolta con stuc- chi e dorature; al limite si ammettono le composizioni a grot- tesche di Watteau e della sua scuola. Verso la metà del se- colo si assiste però a un risorgere della pittura monumentale nei s. La critica saluta con entusiasmo l’Assunzione di J. B. Pierre per la cupola della cappella della Vergine a Saint-Ro- ch di Parigi, che si rifà alla grande tradizione del Correggio, di Lanfranco e di Pietro da Cortona (1748-56). A Roma, sul- la navata di San Luigi dei Francesi, Natoire dipinge col me- desimo spirito la Morte e glorificazione di san Luigi (1755).A

Storia dell’arte Einaudi Fontainebleau, nella Sala del Consiglio, le tele di Boucher, che ornano i cassettoni del s e che rappresentano Apollo e le Stagioni, riflettono il ricordo di pezzi dipinti dal Verone- se in Palazzo Ducale a Venezia. La seconda ondata barocca nell’Europa centrale Eccezion fatta per l’opera di Tiepolo – che d’altra parte operò in Ger- mania – l’Europa del sec. xviii non ha prodotto nulla di con- frontabile, per quantità e anche per qualità, con i s e le v di- pinti che si trovano a profusione nei paesi di cultura germa- nica: Germania meridionale, Germania renana, Svizzera tedesca, Austria, Ungheria, Boemia e Moravia, Polonia. Que- sta fioritura si lega al prodigioso slancio dell’architettura, sot- to il segno dello Spätbarock, avvenuto tra l’inizio del secolo e il 1770 ca. Al fasto delle Residenze, che attesta l’emulazio- ne tra le corti principesche, piccole o grandi, corrisponde, con ancor maggior ampiezza, quello delle chiese, delle biblioteche e di diversi luoghi conventuali, allora edificati in numero im- ponente dagli ordini religiosi – benedettini, cistercensi, pre- mostratensi – quello dei santuari di pellegrinaggio e persino quello di talune parrocchie. Piú che mai rispettando il princi- pio d’unità dell’arte barocca, la pittura fa corpo con l’edificio e l’altra sua decorazione, stucchi policromi e dorature, al pun- to che talvolta ha valore piú come elemento di un insieme ar- chitettonico, che in se stessa. Lo Spätbarock, che segue a un periodo di piú stretta aderenza di tipi manieristi nel genere dei s e v, è il trionfo dei tipo «aperto» la cui applicazione è in genere facilitata dall’esistenza di ampie superfici unitarie da affrescare soprattutto nelle chiese. I s propriamente detti so- no rari, e ancor piú lo sono le v a botte. Le cupole, per lo piú ribassate e spesso ellittiche, svolgono invece un ruolo note- vole, ma varie sono le possibilità escogitate dagli architetti per movimentare lo spazio e le coperture degli edifici religiosi, a cui sono complementari decorazioni ad effetto. Favorito dalla presenza di numerosi artisti nei paesi germa- nici, l’influsso italiano si è esercitato secondo due direzioni fondamentali. Un ruolo importante spetta agli specialisti del- la «quadratura» e particolarmente a Padre Pozzo. Ma non meno spesso si riscontra l’eco della concezione illustrata da maestri come il Correggio, Lanfranco, Pietro da Cortona, Giordano, Tiepolo: quella d’uno spazio la cui profondità vie- ne suggerita ricorrendo a un’architettura fittizia. Tra i primi che fecero uso di una prospettiva illusionistica si

Storia dell’arte Einaudi può citare Melchior Steidl, che tra il 1690 e il 1695 decora le cupole ribassate dell’abbaziale di Sankt Florian in Austria con portici rotanti, ciascuno dei quali si spalanca su uno spazio centrale nettamente delimitato. J. M. Rottmayr respinge la «quadratura» nella Mathiaskirche di Breslavia (1704-706) e nelle v ellittiche della navata di Melk in Austria (1712-18). L’influenza di Pozzo è piú sensibile in Cosmas Damias Asam, che preferisce associare le figure al trompe-l’œil ar- chitettonico anziché riservar loro zone distinte (cupole dell’abbaziale di Weingarten in Svevia, dal 1717).Effetti analoghi sono ottenuti da Gottfried Bernhard Götz a Bir- nau in Svezia (1746-58) e da Mathäus Günther, allievo di Asam nella Pfarrkirche di Wilten, presso Innsbruck (cupo- le con Scene dell’Antico Testamento associate ad architettu- re capricciose, 1754). Passando all’arte di corte, Johann Zick ricorre anch’egli ad architetture ispirate da Pozzo per rial- zare la Weissen Saal e lo scalone (distrutti) del castello di Bruchsal (1751-54). Talvolta la decorazione architettonica consiste in una sem- plice bordatura animata da figure che ha il ruolo di far ar- retrare lo sfondo. È l’impianto adottato da Daniel Gran nella cupola centrale della Hofbibliothek di Vienna (1730), che celebra il Trionfo delle Arti, o ancora da Carlo Carlino nella scala e nel salone del castello di Brühl, presso Colo- nia. Talvolta le composizioni occupano comparti e meda- glioni combinati insieme, come si vede nella residenza di Salisburgo, le cui sale sono decorate da Rottmayr e da Bar- tolomeo Altomonte; ma di solito si tratta di impianti uni- tari. La Gloria di san Carlo Borromeo che Rottmayr dipin- ge nel 1725 nella cupola della Karlskirche di Vienna, ri- nuncia a ogni architettura illusionistica, e così fa il Trionfo della Chiesa di Altomonte, che occupa un grande compar- to al centro della v dell’abbaziale di Wilhering presso Linz (1733 ca.). Si ritorna all’effetto zenitale con Paul Troger, autore della Visione dell’Apocalisse nella grande cupola ova- le di Altenburg in Austria (1733), mentre J. B. Zimmer- mann alleggerisce le sue composizioni, conferendo loro un’aerea grazia (Trionfo della Vergine, 1731: chiesa di pel- legrinaggio di Steinhausen in Svevia; il Trionfo della Cro- ce, 1754: cupola della Wies in Baviera; l’Impero di Flora, 1757: Festsaal del castello di Nymphenburg a Monaco). E

Storia dell’arte Einaudi ancora si ricordano la decorazione esuberante di Zwiefal- ten, in Svevia, dovuta a Franz Joseph Spiegler (1747), con la Gloria di san Nicola che sormonta la navata di Sankt Nikolaus Kleinseite a Praga (1760 ca.) opera di Johann Lukar Kracker; la Gloria di san Benedetto di Rott-am-Inn in Baviera (1763) in cui M. Günther si libera della «qua- dratura». Stesso soggetto sceglie J. J. Zeiller per la vasta composizione di quattrocento figure che riempie la cupola di Ettal, sempre in Baviera (1752 ca.). Piú leggerezza, piú fantasia poetica dimostrano le opere in F. A. Maulbertsch: se il grande s della residenza di Kremsier in Moravia (1758) fa appello all’architettura verticale, è invece un cielo aereo e luminoso, nel quale volano figure ispirate a Tiepolo, quel- lo che si apre nella Paristenkirche di Vienna (1752), le cui cupole celebrano l’Assunzione e la Gloria della Vergine, nell’aula dell’Università di Vienna, il cui s rappresenta il Battesimo di Cristo, e nel coro di Sümeg, in Ungheria (1757), con una Gloria di Cristo. Il movimento neoclassico Il periodo che abbraccia appros- simativamente l’ultimo terzo del sec. xviii, segna un ritor- no, sulle prime graduale, poi radicale, al tipo «chiuso». La nuova estetica, illustrata essenzialmente dall’arte profana, trova il suo primo difensore ufficiale in Raphael Mengs. Il Parnaso, col quale egli decorò nel 1761, a Roma, il s della galleria di Villa Albani, acquista valore di manifesto: qui le figure anziché saturare il cielo, tendono ad espandersi in su- perficie. In Spagna la sua opera ornerà parecchi s nel Pa- lazzo Reale di Madrid. In terra francese, il mutamento principale si verificò anzi- tutto col ritorno, già annunciato da J.-B. Pierre, al genere nobile e alla decorazione monumentale. I s dipinti, come si è visto, non erano piú di moda in epoca rococò; dalla fine del regno di Luigi XV alla rivoluzione, vedranno invece la luce in gran numero, alcuni per istigazione di Cochin. Mol- ti verranno a coprire, spesso in modo effimero, sale di spet- tacolo o di festa; così quello di Durameau all’Opera di Ver- sailles (1770), quello di Briard nella sala provvisoria dei ban- chetti reali a Versailles (1770), quello (scomparso) di H. Taraval nel teatro privato di M.lle Guimard (rue de la Chaussée d’Antin a Parigi), quello di Robin al teatro di Bor- deaux (1778), quello di Lagrenée il Giovane nel teatro del Petit Trianon (1779). Occorre aggiungere s (per la maggior

Storia dell’arte Einaudi parte scomparsi) dipinti in Palazzo Borbone, al Palais-Royal e i numerosi hôtels parigini dell’epoca da artisti quali Berhté- lemy, Briard, Durameau, i Lagrenée, Robin. In Inghilterra, nello stesso periodo, la decorazione all’anti- ca immaginata da Robert Adam porta a un mutamento as- sai piú radicale, che ricerca la chiusura dello spazio, ma si tratta soprattutto di decorazioni a stucco, dove la pittura trova posto solo in piccoli medaglioni, dovuti principalmente ad Angelica Kauffmann e ad Antonio Zucchi. Sarà a parti- re dagli ultimi anni del Settecento che il neoclassicismo eu- ropeo, sotto il segno del ritorno all’antico, imprimerà dav- vero la sua impronta sulla decorazione dipinta di s e v, ri- pristinando rigorose composizioni frontali, a orientamento unico, prive quasi di profondità. In Italia, Andrea Appiani dipinge in questo spirito il Parnaso nella villa Reale di Mila- no, Odorico Politi un’Allegoria della Pace sul s del Salone Napoleonico di Venezia, Luigi Sabatelli, Domenico Pode- stà e Pietro Benvenuti numerosi s in Palazzo Pitti a Firen- ze. In Spagna, il Palazzo Reale di Madrid, il Palazzo del Pra- do, la casa del Labrador ad Aranjuez accolgono composizio- ni di Bayeu, di Maella, di Antonio González Velázquez. In Francia, il complesso piú significativo è quello dei s che al Louvre coprono le sale del Museo Carlo X; sono opera di Ingres (Apoteosi di Omero), Gros, Evariste Fragonard, Horace Vernet, Picot, Abel de Pujol, Heim, Alaux e altri pittori. La pittura romantica si volse nuovamente alla tradizione del rinascimento veneziano e, in minor misura, al barocco, dando vita a composizioni piú ardite di quelle neoclassiche. Nel vecchio municipio di Parigi, bruciato nel 1871, due s simboleggiavano la contrapposizione tra le due tendenze: Ingres rappresentava senza effetti di profondità un’Apo- teosi di Napoleone d’impianto statico, Delacroix, dipingeva una Allegoria della Pace piena di movimento e di colore. L’ispirazione veneziana di Delacroix si nota ancora nella decorazione della biblioteca di Palazzo Borbone (1838-47), e della biblioteca del Senato (1847), la cui cupola centrale illustra l’Inferno di Dante. In questo medesimo spirito, Chassériau dipinge la semicupola di Saint-Philippe-du-Rou- le, consacrata all’unico tema della Deposizione dalla croce (1814). (bdmo).

Storia dell’arte Einaudi Sofia Capitale della Bulgaria, sull’area dell’antica Serdica, dove si tenne un importante concilio nel 343, distrutta dagli Unni nel sec. v, ha conservato pochi monumenti antichi. Una grande necropoli è stata portata alla luce nei pressi della Ba- silica di Santa Sofia. La decorazione dipinta (iv-vi secolo) è essenzialmente composta da elementi vegetali (soprattutto viticci), da uccelli e da fiaccole. Le figure umane non com- paiono se non in una tomba esterna alla necropoli, dove i busti di quattro Arcangeli ornano gli angoli della volta. La chiesa di San Giorgio è un edificio con superficie circo- lare, decorato fra l’xi e il xv secolo. Non restano che alcuni frammenti del primo strato pittorico (Profeti, Angeli), ese- guito durante il periodo della dominazione bizantina (1018-1186). Un incauto intervento di restauro ha reso il- leggibili gli affreschi del secondo strato, ma quelli del terzo, nella volta, possono essere annoverati tra gli esempi piú im- portanti dell’arte del xiv e xv secolo ca.: ventidue Profeti circondano il medaglione centrale del Cristo, sorretto dagli angeli, dietro al quale compaiono i simboli degli evangelisti; le figure dei Profeti, dagli atteggiamenti movimentati, sono trattate con enorme abilità pittorica. (sdn). Natsionalna Galerija La Galleria nazionale bulgara, fonda- ta nel 1948 e aperta al pubblico l’anno successivo, com- prende quattro sezioni di cui una soltanto riservata all’arte straniera (incisioni di Raffaello, quadri di scuola fiammin- ga, Rembrandt, Goya, Daumier, Millet, Köllwitz; opere messicane, giapponesi, russe). Possiede inoltre una ricca col- lezione di icone, esposte nei sotterranei della chiesa New- sky. (da). Soga, Chokuan (attivo 1569 ca. - 1610). Accanto a dipinti con personaggi (paravento dei Tre Buontemponi: Wakayama, Henjÿkÿin del Kÿyasan), nel quale si scorge l’influsso della linea di Sessh, S e i suoi discendenti si specializzarono nella pittura di aqui- le e falconi, la cui osservazione accurata è caratteristica del- la scuola detta «S». La fondazione di tale scuola viene talvolta attribuita poco verosimilmente a un certo Jasoku o Dasoku (attivo 1452 ca. - 1483), che portava il cognome S e che fu autore di ritrat-

Storia dell’arte Einaudi ti realistici zen con spigolose accentuazioni a inchiostro mo- nocromo (Lin-tsi: Kyoto, Yÿtokuin; Saka in veste di asceta: Kyoto, Shinjuan del Daitokuji, quest’ultimo, a colori, si con- traddistingue per l’insolito impiego delle ombre). (ol). Sogdiana Antica provincia dell’impero persiano, ha dato il nome alla pittura detta «sogdiana», illustrata principalmente dal sito di Pjand∆ikent nel Tad∆ikistan, a est di Samarcanda. Gli sca- vi diretti dopo il 1950 dall’archeologo sovietico A. Belenit- ski hanno portato alla luce in questo centro un vasto insieme di pitture murali, databili all’incirca verso il sec. vii d. C. Ora conservate all’Ermitage di San Pietroburgo, decoravano le pareti di due templi e le sale di rappresentanza e di ricevi- mento dei palazzi signorili della città e la maggior parte pre- senta caratteri profani. Per quanto riguarda la raffigurazio- ne di soggetti religiosi, sono descritte cerimonie funebri, fe- stini, processioni e danze, divinità nimbate, officianti e fedeli inginocchiati presso un altare dedicato alla divinità del Fuo- co. Queste, come altre scene religiose, corrispondono alla dif- fusione di riti locali collegabili alle dottrine manichee o al cul- to di Ahura Mazda. Gli aspetti della vita feudale dell’epoca sono il soggetto delle pitture profane, probabilmente ispira- te a leggende o a cicli epici fondati sulla storia nazionale: ban- chetti dove il re e i nobili, sontuosamente abbigliati, sono se- duti fianco a fianco su un trono o su dei tappeti; suonatori; sfilate di cavalieri e combattimenti. Tecnicamente, le pitture sono state eseguite con terre e co- lori minerali, stesi su un fondo di stucco di loess ricoperto da uno strato di alabastro. In certe parti sono dominanti i toni chiari, in altre si mescolano blu e bianco. La composi- zione è sovente piuttosto libera, ma semplice. I personaggi sono giustapposti o disposti su piú piani; nelle scene di lot- ta sono affrontati e la narrazione si compie attraverso scene concatenate, non nettamente separate. Le figure obbedi- scono a una concezione ideale delle forme, a una sorta di ca- none che regola la proporzione dei corpi, i gesti e gli atteg- giamenti, spesso ripetuti. La ricerca del dettaglio decorati- vo si manifesta nella resa delle architetture, vedute frontalmente e in scala ridotta, nei ricchi costumi e nei tes- suti, vicini a quelli sasanidi.

Storia dell’arte Einaudi La qualità di questi affreschi, eseguiti sapientemente, è pro- vata anche dal confronto con le pitture di Balalyk-tepe e Va- rah∫a, meno originali, e attestano la vitalità della scuola sog- diana tra il vii sec. e l’viii, periodo di prosperità della città e della regione prima della conquista araba. (mha). Sogliani, Giovanni Antonio (Firenze 1492-1544). Fu allievo di Lorenzo di Credi, con il quale rimase legato, secondo Vasari, per molti anni (nel 1531 il maestro lo nominò fra i suoi esecutori testamentari). Atti- vo con una propria bottega dopo il 1515 ca., S aggiornò cau- tamente la lezione del maestro accostandosi ad Andrea del Sarto, a Fra Bartolomeo e a Mariotto Albertinelli dai quali trae stimolo per una accentuazione del chiaroscuro e per va- riare i suoi simmetrici schemi compositivi (San Martino:Fi- renze, Orsanmichele; Trinità e santi: Firenze, San Salvi; Mar- tirio di sant’Acazio, 1521: Firenze, San Lorenzo; Santa Brigi- da impone la regola, 1522: Firenze, San Salvi; Immacolata Concezione: Santa Maria a Ripa presso Empoli). La sempli- cità e la chiarezza della rappresentazione, il dimesso tono espressivo, che tende a una statica dolcezza, restano le qua- lità del classicismo devoto di S nelle Madonne con Bambino e san Giovannino (Firenze, Uffizi; Torino, Gall. Sabauda), de- stinate alla devozione privata, e nelle pale d’altare che trova- vano consenso nel gusto tradizionalista della committenza in anni di fervide, determinanti trasformazioni del linguaggio pittorico. Fra il 1528 e il 1533 collaborò alla serie di dipinti su tavola per l’abside del Duomo di Pisa (Offerta di Caino, Of- ferta di Abele, Sacrificio di Noè) e per la stessa città dipinse una Madonna con Bambino in trono e santi (1537-39), già commis- sionata a Perino del Vaga, e un’altra pala commissionata ad Andrea del Sarto (oggi entrambe nel Duomo). Fra le ultime opere fiorentine è la neoquattrocentesca Mensa di san Dome- nico, affrescata nel convento di San Marco (1536). (sr). Sohlberg, Harald (Oslo 1869-1935). Si formò presso Zahrtmann a Copenha- gen (1891-92) e Harriet Backer a Oslo. Proseguì poi gli stu- di a Parigi e a Weimar (1895-97). Con la sua prima tela, Bra- ce di notte (1893: Oslo, ng), è tra coloro che introdussero in Norvegia, negli anni Novanta, la pittura di atmosfera neo- romantica, genere che egli continuò a illustrare nei suoi pae-

Storia dell’arte Einaudi saggi: Notte d’estate (1899: ivi), Prato fiorito presso R°ros (1905: ivi), Notte d’inverno a Rondane (1914: ivi), nonché nel- la monumentale realizzazione Notte (1902-903: Trondheim, Tr°ndelag Kunstgallecri). La solitudine e l’infinito della na- tura pervadono tutta la sua arte, che si esprime con severo disegno, finemente dettagliato, e una luminosità che evoca gli effetti traslucidi degli smalti. (l°). «Soirées de Paris (Les)» Diretta inizialmente da André Billy (n. 1, febbraio 1912; n. 17, giugno 1913), questa rivista parigina fu fondata da alcu- ni scrittori, tra i quali Guillaume Apollinaire, che ne fu il per- no. Prima puramente letteraria, non avrebbe quasi lasciato traccia se, in seguito a serie difficoltà finanziarie, non fosse stata salvata, alla fine del 1913, dal pittore d’origine russa Serge Férat e da sua sorella Hélène d’Oettingen (meglio no- ta in letteratura sotto i nomi di Roch Grey e di Léonard Pieux), ambedue grandi ammiratori di Picasso e amici inti- mi di Apollinaire. Sotto la doppia direzione di quest’ultimo e di Serge Férat (col nome di Jean Cérusse, pseudonimo fon- dato sul gioco di parole Cérusse = c’est russe), divenne rapi- damente la tribuna delle tendenze artistiche allora piú avan- zate non soltanto in letteratura (Apollinaire, Blaise Cendrars, Max Jacob, H. d’Oettingen), ma anche e soprattutto delle arti visive (n. 18, novembre 1913; nn. 26-27, luglio-agosto 1914). Apollinaire sostenne in questa sede il Doganiere Rous- seau, i fauves, i cubisti di ogni tendenza, artisti russi come Archipenko, Survage, Larionov e la Gon™arova, i futuristi, l’orfismo. D’altra parte la rivista fu tra le prime a pubblica- re numerose tavole fotografiche fuori testo (in particolare di Picasso, Rousseau, Derain, Picabia, Braque, Matisse e Ar- chipenko) e a dedicare una speciale rubrica (tenuta da Mau- rice Raynal) ai primi tentativi cinematografici. La sua atti- vità fu interrotta dalla prima guerra mondiale e, malgrado il sostegno di una mostra Survage - Irène Lagut nel 1917, non sopravvisse alla tempesta e alla morte di Apollinaire. (gh). Soiuz Russkikh Khudojnikov (Unione dei pittori russi). Prossima alle numerose associa- zioni che popolano la scena culturale russa d’inizio secolo, la SRK trae origine dal disgregarsi di una di esse, l’impor-

Storia dell’arte Einaudi tante «Mir Iskusstva» (Il Mondo dell’Arte), attiva dal 1898 a San Pietroburgo sotto l’egida di S. Djagilev e dei pittori A. Benois, K. Somov e L. Bakst. Motivo pretestuoso per lo scioglimento (1904) di «Mir Iskusstva», provocato di fatto da contrasti ideologici interni, erano state le complicazioni sorte nella gestione dell’attività espositiva in comune con il gruppo moscovita dei 36 pittori. La fusione tra le due prin- cipali scuole russe, annunciata nel 1901 dalla partecipazio- ne di L. Pasternak, A. Rylov e S. Vinogradov, membri dei 36 pittori, alla mostra di «Mir Iskusstva» promossa come di consueto da Djagilev, assume veste ufficiale con la nascita della SRK, avvenuta a Mosca nel 1903. L’associazione, la cui paternità è da attribuirsi in particolare a M. Nesterov, già membro di «Mir Iskusstva», e a S. Vinogradov, affian- ca infatti ai giovani della sezione moscovita (F. Maljavin e i citati Pasternak, Rylov e Vinogradov), una folta rappresen- tanza di fuoriusciti miriskussniki, come M. Dobu∆inskij, A. Golovin, I. Grabar´, K. Korovin, B. Kustodiev, A. Javlen- skij, K. Juon, S. Maljutin, A. Ostrumova-Lebedeva, K. Pe- trov-Vodkin, N. Rerich, V. Serov, M. Vrubel´, S. æukov- skij, oltre ai pionieri Bakst, Benois e Somov. La maggioranza dei membri dell’Unione, inoltre, aveva precedentemente condiviso la militanza nei Peredvi∆niki, gli «ambulanti» rac- colti attorno al pittore G. Mjasoedov e al mecenate P. Tret´jakov, dalle cui file approdano direttamente alla SRK A. Archipov e i fratelli A. e V. Vasnecov. Formatisi in un clima contrassegnato a un tempo dal reali- smo populista e panslavista dei Peredvi∆niki e dal simboli- smo di taglio europeo di «Mir Iskusstva», i soci dell’Unio- ne operano in vista del superamento di entrambi, richiaman- dosi alle poetiche dell’impressionismo e dell’Art Nouveau nei cui confronti rivelano una ricettività aggiornata, anche se non sempre sufficiente a riscattare il sostanziale conser- vatorismo. L’attività della SRK, esplicatasi particolarmente nell’organizzazione di mostre libere e senza giuria di ammis- sione già oggetto delle critiche che i 36 rivolgevano a «Mir Iskusstva», raccolse il maggior consenso tra il 1910 e il ’14, e proseguì fino al 1923. (lbo). Solario, Andrea (Milano 1470-75 ca. - Milano o Pavia 1524). Appartenente a numerosa e nota famiglia di tagliapietre, attiva, oltre che

Storia dell’arte Einaudi in Lombardia, a Venezia e a Roma, il S dovette essere, as- sai giovane, a Venezia col fratello Cristoforo il Gobbo, e ivi dipinge nel 1495 la Madonna e santi per San Pietro Martire a Murano (Milano, Brera) di impostazione antonelliana con qualche precocissima eco düreriana, ribadita dalla successi- va Madonna dei garofani (ivi).A cavallo fra i due secoli si po- ne una serie di stupendi ritratti, fra cui quello di Boston, il Gentiluomo con garofano e il Cristoforo Longoni (1505) del- la ng di Londra, in cui un forte ricordo della ritrattistica dü- reriana si unisce ad echi leonardeschi e maggiormente um- bro-ferraresi con esiti singolarmente vicini agli inizi del Lot- to. Il tono umbro-ferrarese-cremonese prevale fra i complessi e aggiornati intrecci culturali della Crocifissione del 1503 (Pa- rigi, Louvre), mentre una chiara, ma personale e autonoma adesione ai modi della cerchia leonardesca impronta l’An- nundazione del 1506 (ivi), di una sottigliezza quasi fiam- minga, filtrata attraverso Venezia. L’adesione, ma nel sen- so di un capofila, al clima leonardesco milanese, coincide con l’andata in Francia nel 1507: perduti i lavori di Gaillon, ci rimangono la stupenda Madonna del cuscino verde già ai Cor- deliers, ripetutamente copiata, e la Testa del Battista del 1507 (entrambe Parigi, Louvre), inizio di una delle fortunate «se- rie» del S, cui seguiranno quelle dell’Ecce Homo, del Cristo portacroce, della Salomè con la testa del Battista, note attra- verso numerosi originali, repliche, copie, e di gusto tipica- mente nordico. E interessante l’ipotesi di un possibile in- flusso del S in Francia sulla prima attività ritrattistica di Jean Clouet. Certo è che, dopo il ritorno dalla Francia, intorno al 1510, mentre le grandi composizioni sacre come la Pietà del fondo Kress di Washington (ng) e l’estrema Assunzione, lasciata incompiuta alla Certosa di Pavia con echi di una pre- sumibile esperienza romana, denotano un indebolimento qualitativo, altissimo rimane il livello dei ritratti, dalla raf- faellesca Dama col liuto della gn di Roma al Cancelliere Mo- rone del 1524 (Milano, coll. priv.) che rivaleggia con Hol- bein. (mr). Solario, Antonio, detto lo Zingaro (documentato tra il 1502 e il 1514). Le origini veneziane di questo pittore, oltre che da dati di stile, emergono da alcu- ni documenti redatti nel periodo che lo vede ormai stabil-

Storia dell’arte Einaudi mente nelle Marche. Egli è infatti citato a Fermo in un con- tratto del 1502 in base al quale dovrebbe terminare un di- pinto per l’ordine francescano, lasciato incompiuto da Vit- tore Crivelli; a questa data, comunque, risulta già termina- ta la pala con la Madonna in trono e quattro santi nella chiesa del Carmine. Due documenti (del 1503 e 1506) segnalano poi la presenza di «Antonius venetus» ad Osimo, impe- gnandolo per una pala destinata alla chiesa di San France- sco (ora nella chiesa di San Giuseppe da Copertino). Lo stret- to legame con il piú noto Andrea Solario fa supporre un suo soggiorno a Milano in particolare quando, nel 1508, firma la Testa del Battista (Milano, Ambrosiana) che costituisce una replica del dipinto realizzato dal pittore milanese l’anno pre- cedente; un simile riferimento è stato proposto pure per la Salomè (firmata e datata 1511) e la Erodiade oggi conserva- te a Roma (Gall. Doria-Pamphilj). Una completa ricostru- zione del percorso di S è però ancora inficiata dalla diffi- coltà di situare correttamente gli affreschi con Storie di san Benedetto, nel convento dei Santi Severino e Sossio a Na- poli (chiostro del Platano), che vengono in genere collocati dopo le documentate esperienze marchigiane, ovvero dopo la pala firmata e data 1514 raffigurante la Madonna col Bam- bino e il donatore Paul Withypole (Bristol, City am). In pas- sato, inoltre, la vicinanza stilistica tra il pittore e il suo piú noto omonimo milanese ha spinto il Berenson (1903) ad at- tribuire ad Andrea Solario anche opere firmate come la Ma- donna col Bambino e san Giovannino (Londra, ng) nel tenta- tivo, che non ha avuto seguito nella ricerca piú recente, di fondere le due personalità. (sba). Soldati, Atanasio (Parma 1896-1953). Prima di approdare alla pittura astrat- ta diventando uno dei maestri italiani dell’arte non figura- tiva, S studia architettura nella sua città natale, conseguen- do il diploma di architetto nei primi anni Venti, dopo una breve pausa dovuta alla sua partecipazione in guerra come volontario. Nel ’22 espone dieci piccoli quadri a Parma e nello stesso anno progetta con l’architetto Mora la facciata della chiesa di Sant’Alessandro, che però non sarà mai rea- lizzata. Nel ’25 si trasferisce a Milano dove insegna decora- zione alla Scuola del libro dell’Umanitaria. Nel ’31 espone le sue tele alla Galleria Il Milione, cenacolo dell’astrattismo

Storia dell’arte Einaudi italiano. In quegli anni, in opposizione ai novecentismi al- lora di moda e al generale richiamo all’ordine imperante, un gruppo di giovani architetti, pittori e scultori (fra cui S stes- so, Licini, Veronesi, Reggiani), sotto l’egida di Carlo Belli, scelgono la strada dell’astrattismo geometrico per avvicinarsi alle esperienze internazionali. S ha come punto di riferi- mento l’architettura. Il quadro è per lui soprattutto una se- lezione di immagini, un rapporto tra ritmi di linee, piani e colori, la profondità e il volume rimangono solo virtuali. Le forme geometriche sono «simboli di una purezza intellet- tuale». Le opere di S hanno anche una ascendenza metafi- sica, concepita come una struttura spaziale sospesa dove na- vigano forme e colori. Ma l’artista medita soprattutto sulle esperienze della Bauhaus, di Mondrian, di Klee e Kandin- sky. Per tutti gli anni Trenta S continua a esporre in Italia (spesso al Milione) e all’estero. Durante la guerra il suo stu- dio viene bombardato e molte opere vanno perdute. Si tra- sferisce a Solbiate Olona, poi a Losana, in provincia di Pa- via e partecipa alla resistenza. Nel ’47 torna a Milano e tie- ne una personale alla Galleria Bergamini. Fonda, insieme a Dorfles, Monnet e Munari, il MAC (Movimento Arte Con- creta). Le composizioni degli ultimi anni sono improntate al movimento (Allegro e fuga, 1950). Le forme si semplificano e il colore acquista una posizione di primo piano. Nelle Com- posizioni del ’52 e ’53, le sue architetture astratte emergo- no da fondi rossi e gialli. Alla fine del ’49, S viene operato ai polmoni, nel ’52 espo- ne una sala personale alla Biennale di Venezia, nonostante fosse gravemente ammalato. (adg). Solimena, Francesco (Canale di Serino 1657 - Barra (Napoli) 1747). Condusse le prime esperienze artistiche nell’ambiente naturalistico del padre Angelo, anch’egli pittore, e del Guarino con un pri- mo accostamento ai modi larghi e luministici di Luca Gior- dano. Nel 1674 si trasferì a Napoli; dopo alcune opere ese- guite in collaborazione col padre (Visione di san Cirillo:So- lofra, San Domenico), intorno al 1680 dipinse l’affresco con Storie delle sante Tecla, Archelaa e Susanna nella chiesa di San Giorgio a Salerno, che sono il risultato maggiore della sua attività iniziale insieme alle pitture a fresco – immediata-

Storia dell’arte Einaudi mente successive – nel coro di Santa Maria Donnaregina a Napoli. Già la sua personalità appare nettamente indivi- dualizzata nell’ambito delle varie esperienze del barocco lo- cale, per la ricerca d’inserire nel sostrato del cromatismo giordanesco il neo caravaggismo plastico di Mattia Preti, sor- retto dalle arditezze prospettiche delle «macchine» del Lan- franco. In questo senso S rinnovò la lezione del Giordano, che, nell’interpretazione piú libera della funzione struttura- le della luce, rischiava un totale sfaldamento della forma. Si giunse così ai grandi affreschi di Napoli, nella sacrestia di San Paolo Maggiore (Virtú, 1689-90), fino alle tele di San Nicola alla Carità (1697), e alla vasta produzione di quadri da stanza e di altre pale d’altare (Storie di Maria, 1696-1701: Napoli, Santa Maria Donnalbina). Opere tutte costruite con rigore e forza volumetrica, sensibilissima ai vivaci effetti del- la luce e del colore, e che rappresentarono il raggiungimen- to piú alto di un’ampia sintesi dei valori della lunga tradi- zione pittorica a Napoli. Eppure in quei presupposti pretia- ni si potevano scorgere già i sintomi di una variante piú disegnata ed eloquentemente classicista che avrebbe carat- terizzato la produzione successiva dell’artista e che avrebbe segnato una fase negativa di accademizzazione del barocco. Certo è che i contatti avuti, sul finire del secolo, con l’am- biente romano, specie quello dominato dal classicismo del Maratta, lo spinsero a rivolgersi alle fonti classicheggianti della pittura emiliana, al Domenichino e al Reni. E il ri- chiamo razionalistico al «buon gusto», che trovava il suo pa- rallelo letterario nel movimento dell’Arcadia settecentesca, caratterizza tutta l’opera del S dagli inizi del sec. xviii (Bo- rea rapisce Oritya, 1700: Roma, Gall. Spada; San Bonaven- tura riceve dalla Madonna il gonfalone del santo Sepolcro, 1710: Aversa, Duomo), fino agli anni intorno al 1730-35. Fu un trentennio vastissimo di produzione talvolta monocorde: ol- tre a lavorare per chiese e committenti napoletani, inviò ope- re nelle maggiori città d’Europa, tutte all’insegna di un as- soluto purismo formale. Le realizzazioni migliori sono i di- pinti a fresco e tra questi quella della parete d’ingresso della chiesa del Gesú Nuovo a Napoli con la Cacciata di Eliodoro dal Tempio del 1725. Fu a questo momento dell’attività del S che si legarono le esperienze di una vasta schiera di pitto- ri locali, dal De Mura al Bonito e al Celebrano, che deter- minarono un indirizzo accademizzante nel Settecento pit-

Storia dell’arte Einaudi torico napoletano e che troveranno l’ovvio punto di sbocco nei modi del neoclassicismo sorgente. Dal 1732-33 il S eb- be un ritorno improvviso al veemente tenebrismo della sua prima maturità, dove una pittura d’impasto, dai larghi e con- trastanti accordi cromatici, lo liberò dal processo involutivo della maniera precedente (Enea e Didone, 1739-41: Napoli, mn di San Martino). Sono di questo momento il Trionfo di Carlo III di Borbone alla battaglia di Gaeta (Caserta, Palazzo Reale) e alcuni tra i maggiori ritratti della pittura italiana del Settecento per intensità coloristica e penetrazione psicolo- gica; come il Ritratto di Marzio Carafa, duca di Maddaloni (Na- poli, Capodimonte), il Ritratto di dama, detto della princi- pessa Imperiale di Lusciano, in coll. Pisani pure a Napoli e l’Autoritratto (Napoli, mn di San Martino). Notevoli rifles- si ebbe l’opera dell’artista non solo su tutto l’ambiente pit- torico ma anche sugli scultori e gli architetti napoletani suoi contemporanei. Sue opere si trovano, oltre che in numero- se chiese del napoletano, nelle Gallerie di Capodimonte, nel Museo di San Martino e in collezioni private napoletane, ne- gli Uffizi di Firenze, nelle Gallerie dell’Accademia di Ve- nezia e in numerosi altri musei e collezioni private italiane e straniere. (ns). Solis, Francisco de (Madrid 1620 - Marchena 1684). Erudito, collezionista di disegni, artista prolifico, appartenne a quella pléiade di ar- tisti madrileni della seconda metà del Seicento dalle ampie composizioni barocche. Lavora per le chiese di Madrid, di Valladolid e Marchena. Per il convento dei Recolletti d’Al- calà di Henares, realizza numerose tele di cui si conservano solo la Visitazione (Madrid, Prado) e la Presentazione al Tem- pio (Cadice, Museo); nella Cattedrale di Vitoria si conserva il suo Retablo di san Marco.Affine per temperamento pitto- rico a Francisco Rizi, le sue composizioni, animate da un’il- luminazione violenta, sono dominate da una gamma fredda e preziosa. (sr). Solis, Virgil (Norimberga 1514-62). Artista assai fecondo, la cui opera venne portata a termine, dopo la sua morte, da Jost Amman e che rimane, con questi, il piú influente grafico (e creatore

Storia dell’arte Einaudi di modelli compositivi) della metà del Cinquecento per tut- ta l’Europa centrale. Ebbe una fiorente bottega dalle sva- riate capacità produttive (dai cartoni per vetrata all’incisio- ne su armi e corazze), e numerosi furono gli allievi che la- vorarono per lui. Ha lasciato incisioni di piccolo formato (se ne contano all’incirca 2000) che dimostrano una fantasia e un brio sempre rinnovati, in particolare nelle scene di cac- cia e nei progetti di oreficeria e di gioielleria, di stile minu- to e fantastico (bel complesso al Louvre, coll. Rothschild), generi nei quali eccelleva, ma il suo talento, flessibile e ine- sauribile, si espresse con risultati parimenti interessanti, an- che sul piano tecnico, nelle scene di battaglia (L’assedio di Pest, 1542; Battaglia di Mühlberg, 1547), carte da gioco, ex libris, paesaggi, scene mitologiche o religiose e altro ancora. Tra le opere piú significative vanno citate almeno le cento- quaranta scene illustranti la Wolffsche Bible, quelle per le poesie di H. Sachs, e per i Libri d’Architettura di Rivius. E figlio Virgil il Giovane (1551 - ?) operò a Praga per l’impe- ratore Rodolfo II. (acs + sr). Solly, Edward (Walthamstow 1776 - Holborn 1845). Ricco mercante, pos- sedeva sul Mar Baltico un’intera flotta che trasportava in In- ghilterra soprattutto legname per costruzioni navali. Anima- to da una vivissima predilezione personale per la pittura, ac- quisita in particolare al Louvre e alla gg di Dresda, approfittò dei suo viaggi d’affari in tutta Europa per raccogliere una no- tevole collezione (possedette oltre tremila dipinti) a Danzi- ca, poi, dopo il 1815, a Berlino. Fu uno dei primi grandi ama- tori d’arte europei ad apprezzare e raccogliere primitivi ita- liani e fiamminghi. Nel 1821, per difficoltà finanziarie, dovette risolversi a vendere la collezione. Il governo prus- siano acquistò così oltre millecento dipinti, che, con quelli provenienti dalle raccolte reali e quelli acquistati dalla colle- zione Giustiniani, costituirono il primo fondo del Museo di Berlino. Buona parte dei capolavori del Trecento (Giotto, P. Lorenzetti, Gaddi) e del Quattrocento (Filippo Lippi, Ado- razione del Bambino, Pollaiuolo, Andrea del Castagno, Bot- ticelli, Mantegna) conservati a Berlino provengono dalla col- lezione S, nonché capolavori del xv secolo fiammingo, come il famoso Ritratto di donna di Petrus Christus (le ante di van Eyck del polittico di san Bavone, acquistate da S nel 1818

Storia dell’arte Einaudi presso il mercante Nieuwenhuys, sono tornate a Gand nel 1918), come anche le opere di R. van der Weyden, Daret, Gossaert o G. David, e un importante complesso di quadri del rinascimento tedesco, in particolare il Ritratto di Georg Gisze di Holbein, acquistato da S in Svizzera nel 1810. Piú rari i dipinti del xvi secolo italiano che comprendevano però la Madonna Solly di Raffaello. Il Museo di Berlino deve a S la presenza della Lotta tra Giacobbe e l’angelo di Rembrandt. Dopo il 1821 S, che fu amico intimo dello storico dell’arte Waagen, continuò a vendere quadri: centoventi dipinti ita- liani e olandesi, soprattutto del sec. xvii, presso Stanley nel marzo 1825, e tele olandesi piú importanti – tra cui opere di Hobbema e P. de Hooch – presso Foster nel maggio 1837; quarantadue dipinti (per la maggior parte di grande forma- to) del pieno rinascimento vennero venduti presso Christie nel 1847, ed altri ancora nel 1863. (sr). Somer (Someren), Paul van (Anversa 1576 ca. - Londra 1621). Secondo van Mander la- vorava ad Anversa nel 1604, poi ad Amsterdam col fratello Bernard. Nel 1606 si recò a Londra, dove divenne pittore ufficiale della regina Anna, moglie di Giacomo I (Ritratto della regina, 1617: Windsor Castle). I suoi ritratti dell’ari- stocrazia inglese (Lord Chamberlain: Londra, Saint James’ Palace; William, earl of Pembroke: ivi; Francis Bacon: Lon- dra, npg; la Contessa di Southampton: ivi), e quello del re Gia- como I (Londra, Hampton Court) si apparentano stilistica- mente ai ritratti di Mytens o di Gheeraerts. Dipinti prima dell’arrivo in Inghilterra di van Dyck, si collocano ancora nella tradizione cinquecentesca. S soggiornò a Leida dal 1612 al 1614, poi a Bruxelles nel 1616, tornando a Londra nello stesso anno. Il ritratto di Thomas, lord Windsor (1620: in deposito a Cardiff, nm of Wales) è un buon esempio del- la sua fase matura. (php). Somov, Konstantin Andreevi™ (San Pietroburgo 1869 - Parigi 1939). Membro di «Mir Iskus- stva», condivide con i suoi amici, dopo l’entrata nei ranghi del gruppo di Djagilev, una pronunciata preferenza per il Set- tecento. Egli fu probabilmente il primo a impiegare lo stile cosiddetto «retrospettivo», che attingeva appunto alle arti-

Storia dell’arte Einaudi ficiosità manierate e delicate di certo Settecento inglese, co- me nella Signora in blu (1897-1900: Mosca, Gall. Tret´jakov) e in Sera (1902: ivi) che furono, con vari accenti, subito ri- prese dagli altri componenti di «Mir Iskusstva». Oltre a par- tecipare all’illustrazione dei numeri della rivista, S produsse soprattutto disegni (ad esempio quelli per illustrare Le livre de la Marquise) e scene di piccolo formato: primario l’inte- resse per il dettaglio, gli eleganti arabeschi rococò, le sfuma- ture erotiche (Donna che dorme, 1909: ivi; Confidenze, 1897: ivi). Le sue opere spesso caricate di elementi grotteschi e pa- rodistici che paiono alludere con un tocco molto personale alle tematiche decadenti di alcuni circoli culturali russi, la- sciano raramente il posto a ritratti (il poeta Kuzmin, 1909: ivi) e a composizioni meno «miniaturistiche» (Arcobaleno, 1908: ivi). Nel dipinto Eco di un tempo passato (1903: ivi), S abbandona temporaneamente le sue revêries galanti e si con- fronta con lo stile del primo Ottocento. (scas). Somzee, Mathieu Henri Léon de (Liegi 1837 - Spa 1901). Ingegnere minerario e uomo d’af- fari, fu anche deputato dal 1884 al 1892 e dal 1896 al 1900. Raccolse in quarant’anni una delle piú importanti collezio- ni dell’epoca. Comperò le prime opere in Italia; quando si stabilì definitivamente in Belgio, fece della sua dimora in rue des Palais a Bruxelles un vero e proprio museo. Acqui- stò intere collezioni, come i marmi antichi di Villa Ludovi- si a Roma, e molti altri pezzi nelle grandi aste dell’epoca, tra cui quelle delle collezioni Chigi a Siena, Sciarra a Roma, del cardinal Despuig de Raxa a Maiorca e Demidov nel palazzo di San Donato a Firenze. Partecipò alle grandi mostre in- ternazionali con prestiti tanto importanti, che nella mostra d’arte antica a Bruxelles nel 1888 disponeva di «sale spe- ciali», mentre a Parigi nel 1900 le sue collezioni riempiva- no il padiglione del Belgio, e ad esse era dedicato un parti- colare catalogo. Negli ultimi anni di vita fu obbligato a met- tere all’asta una parte della collezione; una prima grande vendita ebbe luogo nel 1901, disperdendo i vasi antichi, le ceramiche italiane e una parte degli arazzi. Dopo la sua mor- te, gli eredi vendettero le collezioni di antichità, quadri e oggetti d’arte in due celebri aste, nel 1904 e nel 1907. Mol- te opere, acquistate tramite Agnew, entrarono col lascito

Storia dell’arte Einaudi Salting nella ng di Londra (Vergine con paravento di vimini di Campin). Il Louvre acquistò da Agnew la Maddalena e una donatrice del Maestro di Moulins; la ng di Washington pos- siede oggi il Trittico di sant’Anna di Gérard David, mentre la ng di Edimburgo e il am di Toledo (Ohio) si dividono gli altri sei pannelli. Fra i quadri italiani, che costituivano una parte cospicua della collezione, numerosissime erano le ope- re dei primitivi, quelle rinascimentali e quelle veneziane del sec. xviii. Molte di esse, come la Madonna di Neroccio, la Leda del Sodoma, la Nascita di Cristo di Taddeo Gaddi, fu- rono acquistate da Josef Cremer e ricomparvero nella ven- dita delle collezioni di quest’ultimo a Berlino nel 1929. (prj). Son, Joris van (Anversa 1623-67). Iscritto nella gilda di Anversa nel 1643, godette ai suoi tempi di eccellente fama. I suoi dipinti ri- chiamano quelli di Jan-Davidsz de Heem e di Jan Pauwel Gillemans il Vecchio. Dipinse nature morte (esemplari a Cambridge, Fitzwilliam Museum e nei musei di Bourges, Tours, Angoulême e Tournai), ghirlande di frutta (Ghirlan- da che adorna un cartoccio col santo sacramento, 1650: Bru- ges, Cattedrale del Santo Salvatore; Ghirlanda con san Mi- chele, 1657: Madrid, Prado), fiori (Frutta e fiori, 1665: Co- penhagen, smfk; Fiori, granchi e frutta, 1658: Düsseldorf, km). Suoi allievi furono, tra il 1652 e il 1655, Cornelis van Huynen, Frans van Everbroeck, Jan Pauwel Gillemans il Giovane. Lasciò tre figli, uno dei quali, Jan Frans (Anversa 1658 - Londra, dopo il 1718) imitò le opere del padre (Maz- zo di fiori, 1705: Lille, mba). (jl). Sonderborg (Kurt R. Hoffmann, detto) (isola di Sonderborg (Danimarca) 1923). Dopo aver frequen- tato dal 1947 al 1949 la Scuola di belle arti di Amburgo, viag- giò in Italia (Stromboli 1951) e in Francia, dove a Parigi si de- dica all’incisione, nello studio di Hayter (1953). Qui incon- trò Hartung, Soulages, Schneider e i giovani pittori della scuola di Parigi, ma già si era interessato di calligrafia e ave- va partecipato brevemente (1953) al gruppo tedesco Zen 49. Nell’ambito di queste esperienze matura il proprio stile, con- trassegnato dalla rapidità e dall’automatismo di una folgorante scrittura pittorica (Piú veloce del suono, 1953). La sua prima

Storia dell’arte Einaudi mostra in Germania ebbe luogo nel 1956; in Francia si rivelò partecipando alla mostra tedesca del Cercle Volney (1955) e allestendo una personale (Gall. René Drouin) presentata da Will Grohmann. L’inchiostro di china e in seguito la tempe- ra sono i mezzi costanti della sua opera, realizzata quasi sem- pre su carta o velina applicata su tela (Disegno 2185, Wasbash Chicago II. 2.86, 1986: coll. priv.) e ridotta ai colori essenzia- li, nero, bianco e rosso. S utilizza nella lavorazione dell’opera strumenti diversi, dalle grandi pennellesse o pennelli cinesi ai raschietti, rasoi. I titoli che S dà loro consistono quasi sem- pre nella data e ora dell’esecuzione (14.6.57, 22 h 36 - 23 h 48: Parigi, coll. priv.). Fortemente influenzato dalla persona- lità del padre musicista jazz, la sua pittura violenta e imme- diata, di un cupo lirismo, non manca di ricordare talvolta gli accenti di compositori come Stockhausen. S vive e svolge at- tività di docente a Stoccarda; spesso a New York e a Parigi, espone regolarmente nella Gall. Gervis. Ha partecipato a nu- merose mostre e salons in Francia e all’estero, alle Biennali di Venezia (1958 e 1964) e di San Paolo (1963, dove ottenne il premio per il miglior disegnatore), a Documenta 3 di Kassel. Una retrospettiva della sua opera ha avuto luogo nel 1965 al wrm di Colonia (in seguito a Eindhoven, all’APIAW di Lie- gi, a Oslo e ad Ulm). Otto Hahn, nel 1964, e A. S. Labarthe gli hanno dedicato una monografia. È rappresentato in nu- merosi musei e collezioni private. (gbo). S°ndergaard, Jens (\ster Assels (Jutland) 1895 - Copenhagen 1957). Fu allie- vo dell’Accademia di belle arti di Copenhagen nel 1919-20. Le sue tele degli anni Venti, soprattutto paesaggi dello Ju- tland occidentale, appartengono all’espressionismo, allora diffuso in Danimarca e di cui egli fu il piú noto esponente. I suoi paesaggi migliori, dalle forme violentemente stilizza- te, e alla cui tensione drammatica i personaggi partecipano, fanno uso di un colore piegato anch’esso alle esigenze emo- tive ivi espresse. S è rappresentato a Copenhagen (smfk), in numerosi musei di provincia danesi, e in quelli di Oslo e di Stoccolma. (pv). Song È un periodo centrale della storia della Cina (960-1279) e del- la pittura cinese; le correnti, tutte le tendenze e tutti i gene-

Storia dell’arte Einaudi ri furono rappresentati infatti da personalità senza pari. La dinastia S si divide tra S del Nord (960-1126), con capitale a Kaifeng, e S del Sud (1127-1279), che ripiegarono a Hang-chou. La tradizione accademica del contorno uguale e del disegno preciso fu ripresa nello stile monocromo lettera- to da Li Gonglin e nello stile colorato dall’Accademia dell’im- peratore Hui Zong. Accademici sono i pittori di personaggi, come Su Hanzong o Zhao Boju, che rappresentano nelle lo- ro scene di genere la lussuosa vita del palazzo. La volontà di rappresentare oggettivamente la natura caratterizza la scuo- la Ma-Xia, all’opposto dei letterati che, come Su Shi, rifiu- tano ogni ricerca di somiglianza, mentre Mi Fei veniva con- quistato dai vaporosi contorni dei paesaggi del Sud. I giochi d’inchiostro monocromo a chiazze o a lavis, indecisi all’ap- parenza ma quanto mai suggestivi, si ritrovano, ulteriormente esacerbati, in Liang Kai o Mu Qi, pittori influenzati dal chan. Il vero titolo di gloria dei S resta innanzitutto il paesaggio, già potentemente elaborato dai maestri delle Cinque Dina- stie, di cui Guo Xi, Xiu Daoning e Li Tang furono degni successori. Si precisa la combinazione tra poesia, «pittura senza forme», e pittura, poesia tradotta mediante forme, e nel contempo si elabora un vocabolario pittorico ricco di as- sociazioni simboliche: una coppia di anatre rievoca la fedeltà e l’amore coniugale; il salice piangente, la tristezza della se- parazione; le oche selvagge (di cui il rotolo di Ma Fen è uno tra gli esempi piú belli), l’assenza e la fuga del tempo; il lo- to, la purezza; il bambú, la rettitudine; la peonia, la prima- vera e l’amore. Sono questi i temi di una pittura che presto si esaurirà nel virtuosismo, ma i cui primi esempi inegua- gliati per la loro preziosa eleganza. (ol). Sonnabend (galleria). Ileana Shapira (Bucarest 1914), poi Castelli, ora S dopo il matrimonio con Mike, incontrò Leo Castelli a Buca- rest nel 1931. Dopo le prime esperienze come galleristi a Pa- rigi, emigrarono a causa della guerra e si stabilirono a New York a partire dal 1941 pur continuando ad operare in col- laborazione con René Drouin, rimasto a Parigi, fino al 1949. Nel ’57 Castelli aprì una nuova galleria, sempre a New York, mentre nel ’62 Ileana e Mike S ne aprirono una propria a Pa- rigi, diffondendo in Europa l’arte americana contemporanea.

Storia dell’arte Einaudi Dal New Dada alla Pop Art, dalla Minimal Art all’Arte Po- vera alla Body Art, la galleria ha sempre seguito con interes- se le nuove forme di espressione che nascevano. Nel 1971 la galleria si è ritrasferita a New York, portandovi questa vol- ta le novità europee (i Poirer, Baselitz, Penck, Gilbert & George, Bernd & Illa Becher), ma continuando anche a pro- porre e scoprire artisti americani (Koons). L’attività di mer- cante e collezionista di Ileana S è sempre stata importantis- sima: dai surrealisti agli action painters, da Rauschenberg e Johns a Warhol, dai minimalisti ai nouveaux réalistes, ma specialmente con l’Arte Povera (Kounellis, Merz, Anselmo), la sua collezione, esposta nel 1987 in varie sedi, è assurta sen- za dubbio tra le piú importanti a livello mondiale. (dc). Sonne, J°rgen (Birker°d 1801 - Copenhagen 1890). Formatosi a Copenha- gen, soggiornò dal 1828 al 1831 a Monaco, poi, fino al 1841, a Roma, dove si orientò verso la pittura di genere. Tornato in Danimarca dipinse quadri di battaglie e soprattutto scene di contadini, ponendo un particolare accento sul sentimento re- ligioso e superstizioso che ne dominava la vita: Sonno dei ma- lati presso la tomba di sant’Elena nella notte della festa di san Giovanni (1847: Copenhagen, smfk). Nel 1846-48 eseguì i di- segni per il fregio monumentale della facciata del Museo Thor- valdsen a Copenhagen, illustrando il ritorno dello scultore nel- la sua città natale avvenuto nel 1838, (hb). Sopo™ani Località della Serbia, nell’antica regione della Rascia, non lontano dall’attuale città di Novi Pazar. Vi fu eretta per ini- ziativa del kral serbo Stefano Uro∫ I la chiesa-mausoleo del- la dinastia nemanjide, che accolse i corpi di Stefano il Pri- mo Coronato e della regina Anna Dandolo, del vescovo ser- bo Joanikije I e dello stesso Uro∫ I. La decorazione ad affresco, eseguita con molta probabilità negli anni 1265-70, risponde al carattere di fondazione regale dell’edificio, vuoi per la scelta dei temi, vuoi per l’elevatezza aulica dello stile che spesso pare riconnettersi ai modelli dell’arte antica, co- me nella resa a guisa di filosofi classici delle figure anziane e barbate. In particolare, un’inedita resa delle emozioni per- vade le rappresentazioni delle macroicone di Feste quali la Crocifissione, la Koimisis e l’Anastasis, in cui di proposito si

Storia dell’arte Einaudi accentua l’elemento drammatico attraverso l’avanzata uma- nizzazione dei personaggi sacri e la loro resa in pose agita- te, mentre i toni lirici e la compostezza formale divengono la regola fondante delle immagini della Natività e della Pre- sentazione al Tempio.Questi effetti vengono ottenuti in buo- na misura attraverso un uso sapiente delle pennellate larghe, che dànno inizio a un processo di dissoluzione del reticolo dei contorni netti e scuri, elemento fondamentale della pit- tura medio-bizantina, nonché tramite la calibratura attenta della sintonia fra i toni chiari predominanti (celeste, verde chiaro, viola chiaro, ecc.). Il carattere regale della chiesa è sottolineato dall’introduzio- ne di alcune particolarità iconografiche nei temi tradizionali: così nell’abside la rappresentazione dei vescovi officianti in- torno all’Amnos, che di solito mostra i piú insigni Padri del- la Chiesa ortodossa, ha accolto i tre vescovi serbi Sava I, Ar- senije I e Sava II. La parete sud della navata mostra, sotto la Crocifissione, una teoria presso la Vergine Maria, in piedi, dei membri della famiglia Nemanja, da Simeone (Stefano) Ne- manja a Stefano Uro∫ I con i figli Dragutin e Milutin. Nel nar- tece, alla rappresentazione, tradizionalmente legata all’ini- ziativa imperiale bizantina, dei Concili Ecumenici, è stata ag- giunta quella del Concilio serbo indetto da Stefano Nemanja. La Morte della regina Anna Dandolo è rappresentata vicino alla macroicona del Giudizio Finale.Al nartece sono annesse due cappelle, una dedicata a santo Stefano, patrono del kral committente, l’altro al santo dei Nemanja, Simeone-Stefano Nemanja, a cui, fatto non consueto nel mondo ortodosso, è dedicato un ciclo rappresentante delle scene storiche della vi- ta del santo (si sono conservati, sui quattro originali, sola- mente gli affreschi con la morte di san Simeone e la trasla- zione delle sue reliquie dall’Athos a Studenica). Intorno al 1346, nell’esonartece aggiunto per iniziativa del grande re serbo Stefano II Dusaˇn vengono realizzati dei nuo- vi affreschi, tra i quali un’importante serie di ritratti dei re di Serbia. (mba). Soprani, Raffaele (Genova 1612-72). Pittore noto principalmente come stori- co dell’arte, fu autore de Le vite de’ Pittori, Scultori, et Ar- chitetti Genovesi e de’ forestieri che in Genova operarono, pub-

Storia dell’arte Einaudi blicate nel 1674 a Genova da G. N. Cavanna che diede al- le stampe il materiale raccolto da S ma non ancora ordina- to per la pubblicazione; resta invece oscura la sua attività come pittore, testimoniata dalle fonti. L’opera del S, ri- stampata nel 1768 con aggiunte e note a cura di C. G. Rat- ti, è documento prezioso sotto un profilo storico: fornisce informazioni – soprattutto biografiche – sugli artisti geno- vesi e «forestieri» attivi a Genova e sulla consistenza del pa- trimonio artistico del capoluogo ligure progressivamente de- pauperato a partire dal sec. XVII. (mo). Soreau (Soriau) Daniel (Anversa ? - Hanau 1619) fu il capostipite della di- nastia. Dedicatosi tardi alla pittura, aveva prima operato (al- meno dal 1590) nel commercio della lana col fratello Simon, come il padre Johann. A Francoforte nel 1586, dopo il 1599, si stabilì ad Hanau, città nuova ove si erano raccolti nume- rosi protestanti valloni che avevano dovuto abbandonare i Paesi Bassi meridionali, e di cui Daniel S fu, secondo San- drart, uno degli architetti. Wendel Dietterlin gli dedicò nel 1598, in quanto discepolo, uno dei suoi libri di architettura. La sua attività di pittore è attestata tra il 1608 e il 1615, an- no in cui la città di Strasburgo gli inviò un allievo, Stoskopff, che ne condurrà a termine alcune opere. Sandrart deplora la prematura scomparsa di Daniel, riferendo che dipingeva non soltanto nature morte, ma anche grandi figure, ritratti, ani- mali, allegorie. Come dimostra il suo inventario postumo del 1621, fu pittore fecondo, in particolare di nature morte; non ebbe veri e propri allievi, benché sembri che il giovane San- drart ne frequentasse la bottega, ma solamente «amici», va- le a dire parenti: così suo nipote Daniel (Francoforte 1597 - ?), apprendista presso di lui intorno al 1612. Quanto ai suoi figli, Sandrart dice, è vero, che furono pittori assai attivi, al- lievi del padre, ma ne ricorda in particolare uno soltanto, Pie- ter. Non è conservato alcun dipinto di Daniel, tranne una Carità romana, conosciuta indirettamente da un’incisione di Johann Jenet; ma forse gli esordi di Stoskopff possono for- nire un indizio per ricostruire la sua opera. Quanto ai figli, si possiedono opere firmate (Nature morte) soltanto di lsaac (dipinto al Museo di Schwerin, datato 1638) e Pieter (dipinti nei musei di Strasburgo, datato 1652, e di Dessau, datato 1655).

Storia dell’arte Einaudi Di Isaac (Hanau 1604 - ?) non si conosce praticamente al- cun dettaglio biografico; e poco di piú si sa di Pieter, suo fratello gemello (Hanau 1604 - prima del 1672): fu accolto tra i borghesi di Francoforte nel 1638 e si sposò nel 1637. Isaac resta peraltro l’unico dei S di cui si possa raccogliere con qualche certezza un numero abbastanza cospicuo di di- pinti, esclusivamente nature morte realizzate secondo prin- cipi rigorosi, ancora arcaici, di presentazione frontale, sem- plice e dettagliata, ma eseguite con rara finezza pittorica, to- ni vivi e teneri, fattura pulita e delicata. Il suo repertorio si limita essenzialmente a piatti o cesti di frutta, cui spesso vie- ne aggiunto un vaso di fiori, il tutto rappresentato su un ta- volo di legno chiaro, limitato a mezza altezza da un fondo scuro. Le sue opere, dal formato rettangolare allungato, pre- sentano grandi affinità con quelle di Flegel e di fiamminghi come Osias Beert, Jacob van Hulsdonck o Jacob van Es. Ol- tre al dipinto a Schwerin, sue Nature morte sicure si trova- no a Monaco (il n. 7053 proviene dalla Gall. di Spira, men- tre il 7054 è contestato), Darmstadt, Stoccolma, Baltimore, Torino (due dipinti alla Gall. Sabauda, un tempo attribuiti a van Es), Oxford, Amburgo (uno dei capolavori dell’arti- sta col meraviglioso dipinto del Petit Palais di Parigi, di re- cente acquisto). Quanto alle opere di Pieter, essenzialmen- te limitate ai due esempi citati, restano piuttosto conven- zionali e, per la data tarda, si accostano senza eguagliarli a Davidsz de Heem o a van Aelst. (jf). S°rensen, Henrik (Fryksände (Värmland) 1882 - Oslo 1962). Frequentò lo stu- dio di Zahrtmann a Copenhagen (1904-905) e quello di Ma- tisse a Parigi (1908-1910). Alcune sue opere iniziali sono in- fluenzate dal fauvisme, dal quale poco dopo si distaccò per rappresentare l’ambiente mistico della foresta, dell’essere umano solitario in stretto contatto con la natura: temi che per- mangono centrali in tutta la sua produzione (Svartbekken, 1909: Bergen, Rasmus Meyers Samlinger). Una serie di com- posizioni successive alla prima guerra mondiale è segnata dall’angosciosa atmosfera dell’epoca: trilogia della Passione (Getsemani, Golgota, Pietà, 1921-25: Oslo, ng), Inferno (1924-25: ivi); i medesimi caratteri si riscontrano nel ritratto dello scrittore svedese Pär Lagerkvist (1920-21: coll. priv.).

Storia dell’arte Einaudi Dopo aver soggiornato otto anni a Parigi, S tornò in Norve- gia nel 1927; la provincia del Telemark, ricca di foreste e mon- tagne, gli ispirò i motivi di alcuni tra i suoi paesaggi piú no- tevoli – Paesaggio del Telemark (1925), Pan norvegese (1933), Tone Veli –, trattati in numerose varianti. Contemporanea- mente S si impegnò in opere variamente commissionategli, come la grande pala d’altare della Cattedrale di Linköping in Svezia (1934), l’imponente pittura murale del palazzo della Società delle nazioni a Ginevra (1939), e la parete di fondo (300 mq) del nuovo municipio di Oslo (1938-50). Realizzò inoltre decorazioni di chiese di minore importanza; fu anche ritrattista e illustratore stimato. Gli è stato dedicato un mu- seo a Holmsbu, presso Drammen (1972). (l°). Sorgh (Sorg, Sorch) (Hendrick Maertensz Rokes, detto) (Rotterdam 1610/11 - 1670). Fu probabilmente allievo di David Téniers e Willem Buytewech; era ad Amsterdam nel 1630-32, ma visse principalmente a Rotterdam, dove è do- cumentato nel 1651. Cominciò a dipingere scene d’interni vicine a Brouwer e a Saftleven: Interno di cucina (1640), Sce- na di una tavernetta (1646: Parigi, Louvre), Interno rustico (musei di Dunkerque e di Montpellier), Interno di cucina (musei di Caen e di Mulhouse); ma è noto soprattutto per le sue scene di mercato, dal colore gradevole e vivace, in- fluenzate da Adriaen van Ostade e Jan Steen: Pescheria (Am- sterdam, Rijksmuseum), il Mercato del pesce (1653: musei di Kassel e di Marsiglia), il Mercato di Rotterdam (Rotterdam, bvb). (jv). Soria, Martìn de (attivo in Aragona tra il 1471 e il 1487). Appartiene alla nu- merosa cerchia di Jaime Huguet, ma se ne distingue per la maggior caratterizzazione e varietà nelle fisionomie dei per- sonaggi da lui dipinti. La sua opera piú nota è il retablo di Pallaruelo de Monegros (firmato e datato 1485). S fu anche autore del retablo di San Cristoforo (Chicago, Art Institute), di San Michele e sant’Antonio abate (Boston, mfa) e di San Pietro (ivi); quello di San Biagio (1487 ca.: chiesa di Luesia in provincia di Saragozza) è probabilmente la sua ultima ope- ra. (mdp + sr).

Storia dell’arte Einaudi Sorolla y Bastida, Joaquìn (Valenza 1863 - Cercedilla 1923). Appartenente a una fa- miglia di artigiani che, vista la sua predisposizione al dise- gno, lo asseconda in tale direzione, giovanissimo frequenta le lezioni serali dello scultore Cayetano Capuz all’Escuela de Artesanos. Dal 1878 frequenta la Escuela de bellas ar- tes di Valenza. Nel 1881 si trasferisce a Madrid, dove co- nosce la pittura di Velázquez e di Ribera che risulterà de- cisiva per la sua evoluzione artistica, e tre anni dopo ottie- ne una medaglia d’oro per un’opera ispirata alla guerra d’indipendenza spagnola, Dos de Mayo (1884: Vilanova, Museo Balaguer). Con l’opera Sollevazione di Valenza con- tro Napoleone, nel 1885 ottiene una borsa di studio che gli permette di trasferirsi a Roma, ma nello stesso anno sog- giorna anche a Parigi dove schiarisce la sua tavolozza infor- mandosi al realismo e alla nuova tecnica degli impressioni- sti che lo porterà a dipingere soleggiati paesaggi del Levan- te spagnolo. Rientrato a Madrid nel 1890, con Un’altra margherita vince il primo premio all’Esposizione nazionale del 1892 e l’Internazionale di Chicago del 1893. Negli an- ni Novanta accumula numerosi premi e onorificenze in di- verse esposizioni e concorsi a cui partecipa sino al 1900, an- no in cui si presenta al gran prix di Parigi con opere che vanno dal realismo sociale a soggetti «fuori del tempo» ese- guiti con tecnica luminosa e abbreviata apprezzati da Mo- net (E poi dicono che il pesce è caro, 1894: Madrid, Prado; Buoi che tirano una barca; Ritorno dalla pesca, 1892). Nei primi anni del Novecento soggiorna in diverse località spa- gnole: nelle Asturie, a León, a Segovia, a Toledo e in se- guito a Siviglia e Granada dove dipinge paesaggi con giar- dini e monumenti arabi. L’opera piú importante della ma- turità di S è il complesso di pitture murali su commissione di Archer Huntington per la Hispanic Society of America a New York (1911-20) in cui dipinge i lavori e i giochi del- le diverse regioni spagnole. Dopo questo lungo impegno rea- lizza ancora qualche capolavoro come Il grembiule rosa e di- verse vedute del giardino della propria casa madrilena, og- gi Museo S, realizzate con una pennellata spessa e con scelte cromatiche forse piú vicine ai fauves che agli impressioni- sti. Non trascurabile è anche la produzione ritrattistica, acu- ta e penetrante, dei familiari (Dottor Gonzalez: Museo di

Storia dell’arte Einaudi Valenza), scrittori, artisti e gente di teatro in voga all’ini- zio del Novecento (Maria Guerrero: Madrid, Prado; Lucre- cia Araña: Museo di Valenza). (apa). Sorpe (provincia di Lerida, Spagna). Gli affreschi della chiesa di San Pedro de S, conservati a Barcellona (mac) e riferibili al- la metà circa del sec. xii, comprendono la Vergine in Maestà proveniente dall’abside, le figure dei Santi Gervaso, Protaso e Ambrogio, la Natività,l’Annunciazione e la Crocifissione. Questi tre ultimi episodi, il cui autore sembra sia stato al- lievo del Maestro di Pedret, sono trattati in uno stile con- venzionale ma sapiente, caratterizzato dall’impiego di colo- ri delicati, di tocchi incrociati che giocano su un fondo di tono diverso, di linee eleganti. Gli altri frammenti sono riferibili a un pittore meno dota- to, che ci ha lasciato interpretazioni popolari delle opere del Maestro di San Clemente di Tahull. Colpisce in particolare il carattere ingenuo della Barca di san Pietro che spicca su un fondo a fasce colorate, mentre l’ampia Maestà esaspera la se- verità della Vergine di Santa Maria di Tahull. La Madonna di S è curiosamente fiancheggiata alla sua destra dall’Albe- ro del Bene, assimilato alla chiesa, e alla sua sinistra dall’Al- bero del Male, il fico sterile del Vangelo: molti dei suoi rami secchi disegnano un candelabro a sette braccia, simbolo del- la Sinagoga. (jg + sr). Sorrento Museo Correale di Terranova Nel 1428 le regina Giovan- na d’Angiò donò a Zottola Correale un vasto territorio de- nominato «Capo di Cervo» o «Capo di Cerere». Ivi fu co- struito un palazzo, utilizzato poi dalla famiglia Correale co- me dimora estiva e rinnovato nel sec. xviii. In questo edificio, nel 1900, gli ultimi discendenti della famiglia, i fra- telli Alfredo e Pompeo Correale, conti di Terranova, isti- tuirono per lascito testamentario un museo, nel quale dove- vano essere raccolte le pregevoli collezioni di opere d’arte di loro proprietà (quadri, argenti, bronzi, cristalli di Boemia, vetri veneziani, porcellane, maioliche e mobili). Il museo do- po la morte dei due fondatori, fu eretto in Ente Morale nel 1904. Le collezioni furono arricchite, successivamente, da donazioni e depositi; nel 1916, alla morte della vedova di

Storia dell’arte Einaudi Alfredo Correale, la principessa Ottaviano Angelica dei Me- dici, pervenne al museo, per disposizione testamentaria, un cospicuo numero di oggetti e quadri, provenienti dalla sua famiglia. In seguito si registra il lascito di Francesco Cava- selice, marchese di San Manco, cognato dei conti Correale (si tratta, in particolare, di mobili del Settecento), mentre, al pianterreno dell’edificio, furono ospitate le raccolte ar- cheologiche comunali, formate da suppellettili, vasi, marmi greci, romani e romanici, provenienti da scavi effettuati a S e nei dintorni. Dopo i lavori di allestimento, il museo fu inaugurato e aperto al pubblico nel 1924. Fu chiuso nel 1943, durante la guerra, e le collezioni furono trasferite in luogo piú sicuro. Negli anni dell’occupazione alleata, il mu- seo fu adibito prima a caserma, poi a club dei soldati e le sa- le al pianterreno furono utilizzate come celle di punizione. Dopo alcuni lavori di riorganizzazione e di risistemazione, fu riaperto al pubblico nel 1953. Riordinato nel 1972, fu ria- perto nuovamente al pubblico nel 1974. Il nucleo fondamentale delle collezioni si formò durante la seconda metà del sec. xix. I conti Correale dedicarono la lo- ro vita alla raccolta privilegiando gli artisti napoletani e i di- pinti raffiguranti la città di Napoli. Questi, insieme alla se- rie di «nature morte», costituiscono ancora oggi i nuclei di maggior interesse. Nel museo sono esposti mobili e quadri di artisti meridio- nali dal xv al sec. xviii, dipinti di pittori stranieri dal Sette- cento all’Ottocento, una importante collezione di maioliche del xvi-xviii secolo, una raccolta archeologica, porcellane orientali ed europee, orologi italiani, francesi e inglesi. Tra i dipinti napoletani del xvii e del xviii secolo sono da ri- cordare: la Pietà di Andrea Vaccaro, la Fiera di Scipione Compagno e il Porto di sera attribuito a «Micco Spadaro». Tra i dipinti dei pittori stranieri: il Convito degli Dèi marini del Rubens e di P. Bruegel, e un Interno di cattedrale gotica di Abel Grimmer; due Paesaggi con veliero di Antoine Vo- laire e una Veduta di Torre del Greco di Frans Vervloet. La collezione di «nature morte» napoletane riunisce opere di Giovanbattista Ruoppolo, Gaetano Cusati, Aniello Ascio- ne, Tommaso Realfonso, Nicola Casissa e Andrea Belvede- re. Un’altra collezione notevole raccoglie i dipinti e i dise- gni dei pittori della «scuola di Posillipo». Una sala del mu-

Storia dell’arte Einaudi seo è interamente dedicata ai dipinti a olio e ad acquerello di Giacinto Gigante. L’edificio è circondato da un lusse- reggiante giardino, meraviglioso è l’affaccio sul mare; la pos- sibilità di unire alla visita delle collezioni un’occasione irri- petibile di passeggio e di riposo costituiscono la singolarità del Museo Correale. (sl). Sorri, Pietro (San Gusmè (Siena) 1556 ? - Siena 1622). Fu allievo a Sie- na di Arcangelo Salimbeni a fianco di Alessandro Casolani; i suoi inizi in pittura, fortemente segnati dallo studio delle opere del Beccafumi, sono documentati dall’Annunciazione della Compagnia dell’Annunziata di San Gusmè. In seguito fu a Firenze, Roma e Venezia. Il Miracolo di santa Caterina (1587: Siena, Oratorio di Santa Caterina a Fontebranda) e l’Adorazione dei Magi nel Duomo testimoniano dell’impres- sione suscitata dal luminismo di Tintoretto e dalla grandio- sità di Veronese. Dal 1593 è documentato a Lucca; dopo al- tri viaggi, nel 1599 è a Pavia con A. Casolani per affrescar- vi la sagrestia nuova della Certosa, pitture in cui sono evidenti gli influssi del Cambiaso, conosciuto a Genova, do- ve soggiorna dal 1596 al 1598 (Morte di san Gerolamo: Ge- nova, Santa Maria del Carmine). La sua attività fu molto in- tensa (numerose tele e affreschi in Siena e altre località to- scane). In alcuni dipinti (Martirio di san Lorenzo: Poppi, San Fedele; L’intercessione dei santi Francesco e Andrea, 1605: Siena, pn) mostra una convinta adesione ai modi del Passi- gnano. Nel 1611 è documentato a Roma; del 1616 è la Di- sputa di Gesú con i dottori per il Duomo di Pisa. (sr). Sÿsen (soprannome di Mori Shushÿ; 1747-1821). Nato a Nagasaki, S visse a Osaka, dove, dopo aver studiato lo stile del Kanÿ, si dedicò alla pittura di animali, accuratamente eseguiti nel- lo stile realistico della scuola Maruyama; le sue opere sono assai conosciute in Occidente dove a S vengono attribuite superficialmente le pitture che prendono a soggetto le scim- mie, suo tema favorito. Con il contemporaneo Ganku, spe- cializzato in tigri, S esercitò grande influsso sull’arte acca- demica del sec. xix e fu autore di rappresentazioni minu- ziose piú fantastiche che verosimili. (ol).

Storia dell’arte Einaudi Soso (sosos) (sec. ii a. C.). Mosaicista greco della scuola di Pergamo, uni- co nome tramandatoci da Plinio il Vecchio. Aveva acqui- stato grande notorietà per aver avuto l’idea bizzarra di rap- presentare a mosaico il pavimento di un triclinio ingombro di vari rifiuti, prima che venisse spazzato dopo il pasto (asa- rotos 0ikos).È ricordato quale autore di un piccolo mosaico a tessere assai fini rappresentante colombe appollaiate sull’orlo di un vaso pieno d’acqua. Mosaici di epoche e re- gioni diverse dell’impero romano attestano il successo di questi due temi nell’antichità, specie del secondo (volta di Santa Costanza a Roma e mosaico della Villa Tiburtina di Adriano, ora Roma, Musei Capitolini; mausoleo di Galla Placidia a Ravenna). Dell’asaratos una versione nota è quel- la del mosaico romano firmato da Hera Kleitos (Roma, Mu- seo del Laterano). (mfb + sr). Sÿtan (cognome Oguri; 1413-81). Pittore giapponese, detto tal- volta Ten’ÿ S. Del pittore si conoscono pochissime opere certe; sappiamo però che successe al suo maestro Shbun nella direzione dell’Accademia degli shÿgun. Tuttavia le por- te scorrevoli decorate con paesaggio (un tempo nello Yÿ- tokuin di Kyoto, oggi a Tokyo, coll. Inoue) del figlio Sÿkei dimostrano che egli conservò e trasmise la tradizione del pri- mo grande maestro giapponese di pittura monocroma alla ci- nese. (ol). Sÿtatsu (alias Tawaraya, cognome Nonomura; attivo all’inizio del sec. xvii). Proveniente da una ricca famiglia di mercanti, la sua origine borghese lo predispose a sfuggire agli influssi cinesizzanti della scuola Kanÿ a favore della corrente di pittura nazionale yamatoe (→), che doveva condurre a uno dei suoi vertici. Visse a Kyoto, dove fu attivo come pit- tore, sembra in stato laico, nel tempio del Daigoji, per il quale eseguì una copia del Saigyÿhoshi ekotoba (rotolo il- lustrato del monaco poeta Saigyÿ: coll. Morikawa), copia superiore all’originale del sec. xvi per morbidezza del di- segno e sicurezza dei colori. Avrebbe diretto, all’inizio della carriera, una bottega di pitture su ventagli nota col

Storia dell’arte Einaudi nome di Tawaraya, denominazione con la quale gli sono attribuiti numerosi ventagli (Tokyo, mn, coll. imperiale). S subì certamente l’influsso di Kÿetsu, di cui sembra fosse amico intimo e che dovette incoraggiarlo molto sulla via del perfezionamento. Le sue opere migliori, essenzialmente pa- raventi, lo dimostrano infatti colorista raffinato e prezioso; utilizza fondi d’oro sui quali stende toni trasparenti o colo- ri opachi di grande purezza. I paraventi che rappresentano scene del Genji monogatari (Tokyo, Fondazione Seikadÿ) so- no uno dei capolavori del maestro. In essi esplode la son- tuosità dei colori che accentuano l’intensità drammatica di una composizione originale in obliquo, intensità espressa in- nanzitutto dalla forza di contrasto fra i valori tonali. Una medesima originalità nella composizione diagonale si trova nei paraventi degli Dèi del Tuono e del Vento (Kyoto, Ken- ninji) o della Danza Bungaku (Kyoto, Daigoji). Si citano an- cora i celebri paraventi Matsushima (Isole dei pini: Wa- shington, Freer Gall.), che dimostrano una straordinaria maestria nel tracciato ondulato delle onde stilizzate a linee oro e argento a contrasto con le chiazze bianche della schiu- ma, le fasce dorate che delimitano le rive sabbiose, le mas- se verdi del fogliame dei pini. Queste qualità eminenti di colorista-decoratore si ritrova- no, con un ulteriore tocco di realismo, nell’opera di Sÿset- su, che primeggiò nei fiori e nelle piante fiorite e che, so- prattutto, ebbe il merito di trasmettere l’insegnamento di S a Kÿrin. Questi due maestri furono tanto inseparabili nello spirito dei loro discendenti che il loro stile diede luogo alla scuola detta «S-Kÿrin», caratterizzata dal valore della sen- sibilità decorativa, essenzialmente espressa dai colori, all’op- posto della scuola Kanÿ, dedita alla linea, o della scuola To- sa, mirante al realismo narrativo. L’influsso della scuola S-Kÿrin contrassegnò potentemente il periodo dei Tokugawa ed è ancora avvertibile ai giorni nostri. (ol). Sotheby and Co. Fondata nel 1744 da Samuel Baker († 1778), con sede a Lon- dra, in York Street (Covent Garden), è la prima casa spe- cializzata nella vendita all’asta di libri, manoscritti e inci- sioni. Nel 1774 George Leigh († 1816) viene associato alla ditta, che prende il nome di Baker and Leigh; dopo la mor- te di Baker, entra nel 1780 suo nipote John (740-1807). Ne-

Storia dell’arte Einaudi gli anni Novanta del Settecento si stringono i rapporti col bm di Londra, finché, nel 1816, si tiene l’importante ven- dita della collezione di stampe e disegni di William Alexan- der, conservatore del Gabinetto di stampe e disegni del bm. Da questo momento si moltiplicano le aste di stampe e ini- zia l’espansione verso altri settori artistici; tra il 1798 e il 1800 si tengono ventitre vendite all’anno. Nel 1800 entra a far parte dell’impresa il figlio di John, Samuel S (1771-1842) e il nome della ditta diviene Leigh, S and Son e in seguito il secondo figlio di Samuel, Samuel Leigh S, mentre la sede si sposta al 145 dello Strand e poi al 3 di Waterloo Street. Quando, nel 1842, Samuel S muore, la casa prende il nome di S. L. S & Co. Nel 1861 si inaugura la nuova sede, al 13 di Wellington Street. Ormai le vendite investono ogni ge- nere di opere, dalle antichità sassoni e celtiche ai vetri ro- mani, ai libri. Il 29 giugno 1865 un terribile incendio pro- voca danni ingentissimi agli edifici e ai depositi. Nel 1910 entrano Montague Barlow, Felix Warre e Geof- frey Hobson, con i rispettivi compiti di curare l’ammini- strazione, di occuparsi dell’acquisizione di monete e anti- chità e di ricercare porcellane, oggetti orientali, libri e ma- noscritti. Nel 1917 S si sposta nella sede attuale, al 34-35 di New Bond Street, nel West End. Dal 1920 C. F. Bell (conservatore del Dipartimento di belle arti dell’Ashmolean Museum di Oxford) diviene consulente di S e organizzerà la vendita della collezione di antichi maestri della marchesa di Landsdowne. Grazie a Bell, si cominciano a trattare ope- re di straordinaria qualità, come disegni di Rembrandt e di- pinti di Dürer e Hans Holbein il Giovane. A Bell succederà, in qualità di consulente, Tancred Borenius, seguito da Hans Gronau e poi dalla moglie di quest’ultimo, Carmen. Nel 1937 S tenta di acquistare, senza successo, la casa d’aste newyorkese Parke-Bernet (poi acquisita nel 1965). Grazie a John Carter, esperto di libri rari, S apre una succursale a New York, la prima di una lunga serie in tutto il mondo (nel 1967 a Parigi, nel 1968 a Melbourne, nel 1969 a Edimbur- go, Johannesburg, Zurigo e Monaco). È del 1969 la deci- sione di aprire una sede londinese separata che si occupi so- lo di oggetti e opere d’arte del xix e xx secolo (S Belgravia). Negli anni Settanta vengono aperti nuovi uffici ad Amster- dam (dove nel 1974 S acquista la piú importante casa d’aste

Storia dell’arte Einaudi locale, la Mak van Waay), Stoccolma, Milano, Bruxelles, Dublino, Francoforte, Ginevra. Parallelamente si allaccia- no nuovi rapporti con l’Asia sudorientale. L’ultimo decen- nio ha visto un notevole incremento del giro di affari di S con vendite record come la Mata Mua di Gauguin, venduta per sei miliardi e mezzo al barone von Thyssen nel 1984. (vc). Soto, Jesus Raphael (Ciudad Bolivar 1923). Tra il ’42 e il ’47 frequenta la Scuo- la di Arti Plastiche e Applicate di Caracas e nei tre anni suc- cessivi dirige l’Istituto di belle arti di Maracaibo. Nel ’50 si trasferisce a Parigi, dove abbandona la pittura di impronta neocubista degli esordi per accostarsi all’astrattismo geo- metrico, spinto dall’interesse per la tradizione costruttivi- sta, per le sperimentazioni condotte, in antitesi al materi- smo informale da Vasarely, Agam, Tinguely e per la scultu- ra mobile di Calder. Le sue prime opere cinetiche – le serie delle Progressioni e delle Ripetizioni – sono realizzate a par- tire dal ’53 sviluppando la precedente ricerca segnica su fo- gli di plexiglas sovrapposti, in modo da suscitare nel riguar- dante l’illusione del movimento dei tratti dipinti. A partire dal ciclo delle Vibrazioni, avviato nel ’58, S sostituisce o in- tegra l’intervento grafico con assemblaggi di bacchette me- talliche fissate al supporto in modo da poter entrare in mo- vimento e, spinto da un’esigenza di coinvolgimento totale dello spettatore nell’opera, passa all’utilizzazione di elemen- ti vibratili in opere tridimensionali e in allestimenti ambien- tali, talvolta completati da effetti sonori e luminosi. Obiet- tivo comune di tutti i suoi interventi è quello di rendere pos- sibile il confronto attivo e diretto del pubblico con una spazialità pluridimensionale, mutevole, aleatoria. A integra- zione di una intensa attività espositiva internazionale nel 1973 è stato inaugurato a Ciudad Bolivar un museo dedica- to alla documentazione dell’intero ciclo della sua ricerca ci- ne-visuale. (mtr). Soulages, Pierre (Rodez (Aveyron) 1919). Le incisioni sui monumenti mega- litici viste da bambino esercitarono sempre una grande in- fluenza sul segno di S. Durante la guerra frequentò per bre- ve tempo I’Ecole-des-beaux-arts a Montpellier, e maturò la

Storia dell’arte Einaudi decisione di non darsi una formazione accademica. Nel 1946 si stabilì definitivamente a Parigi, dove espose l’anno suc- cessivo al Salon des Surindépendants e al Salon des Réalités nouvelles nel 1948, dandogli la possibilità di partecipare a una mostra itinerante nei musei tedeschi. Molto importan- te fu, in questo periodo, la conoscenza con Hans Hartung, con il quale espose per la prima volta negli Usa nel 1949, po- co dopo la sua prima personale a Parigi (Gall. Lydia Conti). Nello stesso anno iniziò un’esperienza di scenografo, e po- co dopo quella di incisore. Di lì a poco iniziarono i ricono- scimenti: Biennale di Venezia nel 1952, premio alla Bienna- le di San Paolo nel 1953, Expò di Tokyo nel ’57, Biennale della Grafica di Lubiana e Documenta 2, Kassel 1959; nel 1960 gli fu dedicata la prima retrospettiva ad Hannover, alla quale seguirono altre importanti mostre: al M.I.T., Cambridge (Mass.) 1962; al mnam, Parigi 1967; all’Albright-Knox ag, Buffalo 1968 – anno nel quale eseguì il grande murale per la Oliver Tyrone Corporation nella stessa città –; alla Sonja Henie e Niels Ounstad Foundation, Oslo 1973; al Frideri- cianum, Kassel 1989 – anno nel quale eseguì le vetrate per Sainte-Foy-de-Conques. Chiuso e personalissimo, S ha svi- luppato attraverso gli anni la sua particolare visione del- l’astrattismo: una grandissima importanza data al segno in quanto traccia nello spazio, e di conseguenza la linea come mezzo espressivo principale e l’uso di pochissimi colori (pre- valentemente il nero). Parallelamente, a partire dagli anni ’6o, l’uso della spatola rende ancora piú importante il gesto, il movimento che il pittore imprime alla materia che, a que- sto punto, può esplicarsi al meglio solo sulle grandi dimen- sioni: affine come sensibilità, il lavoro di S rammenta pra- tiche dell’Estremo Oriente, e, dal punto di vista formale, si può ricollegare agli ideogrammi cinesi o ai geroglifici. Non stupisce quindi che S non intitoli mai i suoi quadri, ma ne dia come sola indicazione la data e (a volte) il formato. Da- gli inizi degli anni ’70, il segno di S si è fatto piú ritmico, il rigore ha operato qualche concessione ai contrasti nero-bian- co e addirittura all’uso, benché raro, di qualche altro colo- re. È molto ben rappresentato in numerosissimi musei, sia europei che americani: Parigi (mamv, mnam: Pittura su car- ta, 1948-51; Pittura, 22 settembre 1961); Düsseldorf, (knw: Pittura, 8 dicembre 1959); Essen (Folkwang Museum: Pittu-

Storia dell’arte Einaudi ra, 14 marzo 1955); Londra (Tate Gall.: Pittura, 23 maggio 1953); New York (moma: Pittura, 1948-49; Guggenheim Museum: Pittura, maggio 1953); Pittsburgh (Carnegie am: Pittura, 24 novembre 1963); Copenhagen (Nationalmuseet), Helsinki (Ateneum), Vienna (Museum Moderner Kunst), Zurigo (kh), Torino (gam). (dc). Soult, Jean de Dieu (duca di Dalmazia, maresciallo di Francia; Saint-Amans-la-Ba- stide (Tarn) 1769 - castello di Soultberg (Tarn) 1851). Co- minciò la carriera militare prima della rivoluzione, divenne duca di Dalmazia nel 1807, e in seguito governatore dell’An- dalusia. Dopo la caduta dell’impero napoleonico aderì al nuo- vo regime; bandito dalla seconda restaurazione, visse nel du- cato di Berg. Durante un soggiorno a Siviglia, dove giunge nella primavera del 1810, si costituì una collezione di dipin- ti spagnoli eccezionale per i suoi tempi. Nel dicembre 18o9 Giuseppe Bonaparte aveva soppresso i conventi maschili, ren- dendo così disponibile una gran quantità di quadri religiosi, raccolta all’Alcazar da un commissario francese, Quillet, re- sidente a Madrid e buon conoscitore dell’arte spagnola. Que- sti orientò senza dubbio la scelta di S tra i 1200 quadri con- fiscati. La pittura spagnola, pressoché ignota in Francia tran- ne Murillo, alla fine del sec. xviii cominciava a risvegliare l’attenzione dei collezionisti. Luciano Bonaparte, ambascia- tore a Madrid all’inizio del secolo, e il mercante Lebrun ave- vano riportato dalla Spagna quadri che suscitarono grande interesse. La tendenza doveva svilupparsi con l’invasione na- poleonica; gli ufficiali superiori e i funzionari inviati in Spa- gna si appassionarono dell’arte del paese, e le collezioni che avidamente, e spesso senza scrupoli, essi si formarono, furo- no all’origine del «gusto spagnolo», conquistando poi il gran- de pubblico e divenendo di moda. Nel 1824 Delacroix visitò la collezione S e fu soprattutto colpito dalle figure di sante di Zurbarán (Sant’Agata, Santa Lucia, Sant’Apollonia).Dopo la morte del maresciallo S, la vendita della sua raccolta co- stituì un avvenimento internazionale. Il Louvre acquistò a peso d’oro l’Immacolata Concezione di Murillo (oggi a Ma- drid, Prado) e, nel 1858, altri dipinti tra i piú belli, ceduti dagli credi del maresciallo: la Natività della Vergine e la Cuci- na degli angeli di Murillo, San Bonaventura al Concilio di Lio- ne e l’Esposizione del corpo di san Bonaventura di Zurbarán,

Storia dell’arte Einaudi San Basilio di Herrera. Nel 1867, il Louvre comperava inol- tre la Sant’Apollonia di Zurbarán. Il Museo di Montpellier possiede due opere del medesimo artista, acquistate nella ven- dita del 1852: Sant’Agata e l’Arcangelo Gabriele; il Museo di Chartres ne espone la Santa Lucia.(gb). Sousse (Susa) L’antica Hadrumetum, città di origine fenicia (sec. xi a. C.) e porto della Tunisia orientale, sul golfo di al-©ammÇmÇt, fu capitale della provincia Byzacena.Sono stati riportati al- la luce notevoli mosaici e pitture d’epoca romana, conser- vati nel museo della città e a Tunisi, Museo del Bardo: Vir- gilio e le Muse, soggetti marini e dionisiaci (dalla Casa del Trionfo di Dioniso, inizio sec. iii d. C.), scene di anfiteatro (Cavalli e palafrenieri, inizio del sec. iii d. C.), eroi della mi- tologia greca (Achille alla corte di Licomede, fine del ii - ini- zio del sec. iii d. C.) (mfb). Soutine, Chaïm (Smilovi™i (Minsk) 1893 - Parigi 1943). Decimo figlio di un’umile famiglia ebrea, nel 1910 si iscrive alla Scuola di belle arti di Vilna, dove si lega a Krémègne: quest’ultimo lo precede a Parigi, dove S giunge nel 1913. A La Ruche il gio- vane pittore incontra gli artisti russi Chagall, Zadkine e Lip- chitz; al Louvre ammira Rembrandt, El Greco, Chardin, Goya e Courbet. Dopo i primi dipinti di ispirazione reali- stica raffiguranti nature morte e vedute della cité Falguière (dove risiede presso lo scultore Mietschaninoff), è nel 1917-18 che si precisa il suo stile personale; la tavolozza si schiarisce e introduce intensi rossi, blu-verdi e bianchi (Au- toritratto, 1918: New York, coll. priv.). Toccato agli esordi da Chagall (Nutrice, 1916 ca.: Los Angeles, County am), punto di riferimento piú importante è l’amico Modigliani (Maria Lani, 1929: New York, moma). Quest’ultimo lo pre- senta a Léopold Zborowski, che gli fornisce i mezzi per re- carsi nel Midi, a Cagnes e Vince (1918), a Céret (1919), e ancora, nel 1922, a Cagnes. È questa una fase importante della pittura di S, da lui ripudiata in seguito: sono soprat- tutto paesaggi, ma anche nature morte e figure dagli intrec- ci tumultuosi di colore che restituiscono il motivo con vi- scerale autenticità ed emotività (Scala rossa, 1920 ca.: Pari-

Storia dell’arte Einaudi gi, coll.. priv.; Paesaggio di Cagnes, 1923 ca.: Parigi, coll. priv.; Collina a Céret, 1921 ca: New York, coll. priv.). Gran parte di questa produzione, non apprezzata da Zborowski, viene acquistata nel 1923 dal collezionista americano A. C. Barnes, fatto che attirò immediatamente l’attenzione sul pit- tore. Dal 1923, installato nello studio soprannominato la «Boucherie S», il pittore inizia la serie dei Buoi scuoiati (Bue scuoiato, 1925: Grenoble, mba) ispirati a Rembrandt, e quel- la del pollame, dove il processo di corrompimento delle car- ni trova il suo equivalente metaforico ed espressivo nella pit- tura. Se è il colore rosso a connotare la serie dei buoi e se il blu e il verde sono riservati ai tacchini e alle anatre, il bian- co è per la serie dei Pasticceri (Parigi, mn, coll. Guillaume), il rosso ancora per i Cacciatori (Parigi, mnam). Oltre a ri- trarre bambini, piccoli pasticceri e chierichetti, S privilegia soggetti dalle condizioni psichiche o sociali di inferiorità (Fallimento, 1920-21: Avignone, mba). Egli sceglie con pe- netrante acutezza i suoi modelli, non ritratti ma trasfigura- ti e ripetuti come emblemi. Lungo tutta la sua produzione, ogni immagine della realtà è sempre riflesso di un’immagi- ne interiore; S affida l’espressione del proprio tormento al- la materia e al colore esaltato. Le forme si distorgono espres- sionisticamente. Alla natura del suo temperamento, al por- tare a toni drammatici e apocalittici il sentimento e l’emozione, non è estranea la sua origine ebrea. Nel 1928 S conosce a Châtelguyon, in Provenza, Madeleine e Marcel Castaing, che ne diventano fedeli sostenitori; sarà loro ospi- te d’estate, nei primi anni Trenta, a Lèves, nei pressi di Chartres, dove dipingerà paesaggi e studi di animali. Tra il 1935 e il 1939 dipinge spesso nei dintorni di Auxerre (Gior- nata di vento ad Auxerre, 1939: Washington, coll. Phillips); durante la guerra risiede in Touraine. La sua inquietudine si riaccende negli anni della guerra e gli ultimi paesaggi so- no scossi dal lirismo drammatico degli anni di Céret (Dopo la tempesta, 1939-40: Parigi, coll. priv.). Spesso scontento del suo lavoro, S, dopo la prima sua antologica organizzata nel 1927 da Henri Bing, non amò esporre i suoi dipinti. La sua irruenza, la sua immediatezza nel restituire il soggetto vivente, la sua attenzione alla materia, lo fecero amare de- gli espressionisti austriaci e tedeschi, in Italia dalla scuola romana e, dopo la guerra, dai pittori del gruppo Cobra e da- gli espressionisti astratti americani. (mas + eca).

Storia dell’arte Einaudi Soutman, Pieter Claesz (Haarlem 1580 ca. - 1657). Allievo di Rubens ad Anversa, S fece parte verso il 1620 della cerchia d’incisori operanti nel- la bottega di Rubens; la sua produzione fu piuttosto notevo- le. I documenti attestano che aveva un allievo nel 1619, e che nel 1620 divenne cittadino di Anversa. Nel 1624 entrò al ser- vizio del re di Polonia, nel 1628 era tornato ad Haarlem, do- ve venne accolto dal 1630 al 1633 nella gilda di San Luca. Come pittore ha lasciato soprattutto ritratti dalla fattura lar- ga e pastosa, in cui interviene la duplice reminiscenza di Ru- bens e di Hals, come il Frans de Lies van Wissen (1649: Bruxel- les, mrba) e soprattutto la Famiglia van Beresteyn (Parigi, Lou- vre), riferita a lungo ad Hals, poi a Pot. Partecipò anche alla decorazione dello Huis ten Bosch dell’Aja. Fu maestro di Jan Timans e di Cornelis de Visscher. (iv). Soutter, Louis (Morges 1871 - Ballaigues 1942). Tra le figure piú affascinanti dell’arte svizzera contemporanea, S abbandonò gli studi di architettura per studiare violino a Bruxelles con E. Ysaïe. Nel 1896 si recò a Colorado Springs, città natale della moglie, in- segnandovi violino e disegno: otto anni dopo tornò a Losan- na. Ricoverato una prima volta in clinica psichiatrica nel 1906, nel 1923 la famiglia lo ricoverò nell’ospizio di Ballaigues, ove terminò i suoi giorni. Suscitò l’interessamento di Le Corbu- sier, Auberjonois e Maxime Vallotton. La quasi totalità della sua opera risale a questo periodo. Per mancanza di danaro, non utilizzò praticamente altro materiale che quaderni da sco- laro, canovacci e inchiostro comune. Non datava né firmava le opere, ma le completava con una suggestiva legenda; il suo stile, molto personale, non rientra in alcuna categoria, ma ri- corda l’espressionismo di Rouault nei chiaroscuri e negli im- pasti. Poco dopo l’arrivo a Ballaigues, si dedicò all’illustra- zione di numerosi libri (Flaubert, M.me de Staël, Morax) e alla copia di antichi maestri. Fino agli anni Trenta esegue di- segni a matita tenera e a penna, dai potenti contrasti di zone d’ombra e di luce, per lo piú raffiguranti architetture di so- gno, città, templi antichi e castelli medievaleggianti (Città e cupole: Losanna, Musée Cantonal des beaux-arts), figure al- legoriche (l’Orgoglio) dove i personaggi si distinguono con dif- ficoltà dal fondo nervoso e tratteggiato.

Storia dell’arte Einaudi Dal 1930 al 1937 la maggior parte della sua opera grafica ha per soggetto figure femminili fortemente erotiche e ossessi- ve (Soffriamo per amore: ivi).La svolta è rappresentata dai dipinti eseguiti dopo il 1937; il disegno, ispessito, acquista una potenza espressiva culminante nelle figure serpentinate dipinte con le dita (Happy Day).Il chiaroscuro si concentra ormai sul dialogo drammatico dei neri e dei bianchi, talvol- ta accompagnati da tocchi di colore vivo (Oro, oro: Ginevra, coll. priv.). Il tema della passione di Cristo ricompare piú volte in que- st’ultimo periodo, prestandosi a motivo di meditazione sul- la condizione tragica dell’uomo (Il sangue della croce:Lo- sanna, Musée Cantonal des beaux-arts). A S sono state de- dicate numerose e ampie retrospettive a Losanna (1961; 1974; 1986), a Marsiglia (Musée Cantini, 1987), a Martigny (Fondation Pierre Giannada) e a Troyes (mam) nel 1990. (bz). Souvigny, Bibbia di La grande Bibbia in due volumi proveniente dall’abbazia clu- niacense di S nel Borbonese, conservata oggi nella Biblio- teca di Moulins (ms i), è assai rappresentativa della minia- tura romanica della seconda metà del sec. xii. La sua deco- razione si compone di illustrazioni a piena pagina e iniziali ornate, di solito istoriate, il cui colore a guazzo, ove predo- minano il blu e il rosso, spicca su fondo d’oro. Il gusto del pittore per gli effetti plastici e il trattamento naturalista del- la figura umana appartengono sì alla corrente stilistica gre- co-bizantina, che si diffuse in quell’epoca in Europa e in- fluenzò in particolare le arti del colore (miniatura, pittura murale e persino vetrata) nel centro e nel sud-est della Fran- cia, ma mostrano già caratteri di autonomia per il modo di comporre le scene, che tendono a raccordarsi internamente e a farsi così piú narrative. Una serie di manoscritti originari di tali regioni presenta un linguaggio analogo ed è stato as- sociato a uno scriptorium, in cui furono attivi diversi mae- stri, forse con sede a Cluny. Parti della produzione di que- sto gruppo, incentrato sulla decorazione di Bibbie monu- mentali, sono le figure di Evangelisti aggiunte alla fine di una Bibbia copiata per Odilon, l’abate di Cluny, la Bibbia di Saint-Sulpice di Bourges (Bibl., ms 3), una Bibbia a Lione (Bi- bl., ms 410-411: qui le miniature eseguite dal «secondo mae-

Storia dell’arte Einaudi stro» sono le piú «moderne» e vicine ai minii della Bibbia di Clermont-Ferrand mentre il «primo maestro», piú bizanti- no, è autore di quella di S) e un’altra a Clermont-Ferrand (bm, ms i) la cui provenienza originaria è però sconosciuta. (fa + sr). Souza-Cardoso, Amadeo de (Amarante 1887 - Espinho 1918). Di ricca famiglia di pro- prietari terrieri del Portogallo settentrionale, ha frequen- tato la Scuola di belle arti di Lisbona prima di trasferirsi nel 1906 a Parigi, dove prosegue gli studi di architettura. Divenuto amico di Modigliani, insieme al quale espose nel 1911, si dedicò definitivamente al disegno (XX Disegni, con prefazione di Jérôme Doucet, Paris 1912) e alla pittura. Espose al Salon des Indépendants (1911, 1912, 1914) al Salon d’Automne (1912), e partecipò all’Armory Show (New York 1913). Dopo aver seguito la maniera preziosa di Modigliani, fu attratto dal cubismo nel 1912 e, nel cor- so dello stesso anno, si orientò rapidamente verso l’astrat- tismo. Dal 1914 i suoi dipinti ricordano le future realizza- zioni del purismo. La guerra lo costrinse a tornare nel suo paese. Benché abbia subito l’influsso dei Delaunay, emi- grato in Portogallo, le sue ultime opere rivelano elementi complessi, espressionisti, futuristi, persino dadaisti. La sua vasta produzione, che assomma circa centocinquanta tele, gli conferisce il primo posto tra gli artisti portoghesi della sua generazione: due antologiche di S-C hanno avuto luo- go a Parigi nel 1925 e nel 1958. È rappresentato a Parigi (mnam: il Cavaliere, 1912) e la sua opera costituisce il nu- cleo principale del Museo di Amarante. La Fondazione C. Gulbenkian di Lisbona possiede, dal 1969, cinque tele rap- presentative della sua evoluzione stilistica (Grande Natura morta).( jaf). Sozzi, Olivio (Catania 1690 - Ispica 1765). Viene ricordato giovanissimo a Palermo presso la bottega del messinese F. Tancredi e piú tardi a Roma al seguito del Conca. Perduti i lavori della pri- ma attività (1726-27: Palermo, San Giacomo alla Marina), le opere pervenute sono quelle eseguite in Sicilia successi- vamente al soggiorno romano e riflettono il suo inserimen-

Storia dell’arte Einaudi to nell’ambiente del Trevisani, del Conca e del Giaquinto con il quale ebbe anche un personale rapporto di amicizia. Tra le principali, la Deposizione di Cristo e la Madonna coi santi Antonio di Padova e Luigi (1740), nella chiesa madre di Gioiosa Marea; lo Sposalizio della Vergine (1741) nella chie- sa dei Cappuccini, gli affreschi (1744) della chiesa dell’Am- miraglio e quelli (1750) della chiesa di Santa Maria di Val- verde a Palermo. Nel 1745 diventa suo genero Vito d’An- na, già suo allievo, del quale utilizzerà cartoni per molti dipinti eseguiti a Catania e nella Sicilia orientale. (rdg). Spada, Lionello (Bologna 1576 - Parma 1622). Si formò nella bottega di Ce- sare Baglione; dapprima si dedicò con il quadraturista Den- tone a decorazioni prospettiche a fresco, oggi perdute. Con- corse alla commissione degli affreschi della sagrestia di Lo- reto, affidati al Roncalli. Dopo un periodo di attività consona ai dettami dell’Accademia degli Incamminati e cul- minante nel grande affresco con la Pesca miracolosa, nell’Ospedale di San Procolo, datato 1607, si allontanò da Bologna, di dove risulta assente fino al 1614. Le fonti asse- riscono che in questo periodo egli si recò a Roma e a Malta, dove avrebbe incontrato Caravaggio, divenendo suo segua- ce (di questi anni resta il San Giovanni Evangelista nella chie- sa dei Cappuccini in Roma). In realtà nulla è provato dei rap- porti diretti tra il bolognese e il grande lombardo; quanto al- le opere che avrebbero attirato sullo S la denominazione di «scimia del Caravaggio», vi appaiono riecheggiati, talvolta superficialmente, celebri motivi caravaggeschi (Concerto: Maison-Laffitte, Castello; Giuditta: Bologna, pn). Tornato in patria lo S operò, oltre che a Bologna, a Reggio, nella chie- sa della Ghiara, in un grande ciclo decorativo dove ostenta una disinvoltura compositiva apprezzabile, memore del suo inizio di pittore prospettico, e opera una conciliazione tra motivi romani, sia naturalistici che tardomanieristici alla Roncalli, e classicismo bolognese. Dal 1617 alla morte S vis- se a Parma, pittore ufficiale di Ranuccio Farnese, pratican- do nuovamente temi caravaggeschi (La Buona Ventura:Mo- dena, Gall. Estense) ma assolvendo contemporaneamente, talvolta con l’aiuto della bottega, numerose commissioni re- ligiose (Nozze della Vergine: Parma, San Sepolcro). (eb + sr).

Storia dell’arte Einaudi Spadarino (Giovanni Antonio Galli, detto lo) (Roma 1585 - ante 1653). Confuso dapprima con il fratello Giacomo, anch’egli pittore, è tra gli artisti citati da Giulio Mancini (1620 ca.) nella «schola» di Caravaggio. Sulla base dell’unica opera inequivocabilmente ricordata come sua dai documenti, il Martirio di santa Valeria e di san Marziale (Ro- ma, Museo petriano), Roberto Longhi (1943 e 1959) ha rac- colto intorno al nome del pittore un gruppo di opere – Sant’Antonio di Padova e il Bambino (Roma, Santi Cosma e Damiano); Angelo custode (Rieti, San Rufo); Elemosina di san Tommaso da Villanova (Ancona, Pinacoteca) e altre –, distinguendo inoltre la sua mano tra i collaboratori alla de- corazione della Sala regia del Quirinale, cui partecipò nel 1616-17 sotto la guida di Lanfranco. Il caravaggismo del pit- tore si distacca tuttavia dalla manfrediana methodus, accor- dandosi piuttosto con il naturalismo raffinato ed elegiaco del Gentileschi. In tempi piú recenti, nuove attribuzioni hanno considerevolmente ampliato il catalogo dello S; tra le piú convincenti, il Narciso già attribuito a Caravaggio stesso (Ro- ma, gnaa) e il San Pietro Nolasco trasportato dagli angeli (Ro- ma, Curia generalizia dei Mercedari). Nella sua fase piú tar- da (1638-47: affreschi nel Palazzo del granduca di Toscana, oggi Palazzo Madama, a Roma), ormai lontano dal mondo caravaggesco, lo S sviluppa i motivi della Sala regia in dire- zione di un ornato classicismo. (lba). Spadaro, Micco → Gargiulo, Domenico Spadini, Armando (Firenze 1883 - Roma 1925). Compie l’apprendistato arti- stico presso la bottega di ceramica dei fratelli Torelli, poi s’iscrive alla scuola libera del nudo dell’Accademia fiorenti- na. Qui, mentre si esercita diligentemente copiando dall’an- tico, conosce Fattori e frequenta De Carolis. Con le illu- strazioni per la Divina Commedia ottiene nel 1902 il secon- do premio di un concorso bandito da Alinari. L’anno successivo, De Catolis lo presenta a Papini, Prezzolini e Bor- gese. S collabora con le riviste «Leonardo» e «Hermes», per le quali fornisce illustrazioni e xilografie dagli echi preraf- faelliti e liberty. Nel 1909, al secondo tentativo, vince il con- corso per il pensionato artistico e nell’aprile del ’10 si tra-

Storia dell’arte Einaudi sferisce a Roma con la moglie, Pasqualina Cervone, un’al- lieva di Fattori. Quando Emilio Cecchi si trasferisce a Ro- ma, S rompe il suo isolamento e, tramite l’amico, entra in contatto con l’ambiente di letterati e artisti che si riunisco- no al caffè Aragno. Intanto collabora con De Carolis alla de- corazione di una serie di pannelli, a soggetto mitologico, de- stinati al Palazzo Kalinderu di Bucarest. Nel ’13 espone al- la prima mostra della Secessione romana (che in una sua sezione ospita alcuni quadri dei grandi maestri dell’impres- sionismo) e ripeterà l’esperienza nel ’15 e nel ’17. S dipin- ge en plein air e le opere di questi anni sono improntate a uno stile post-impressionista, con dinamici effetti cromatici e lu- minosi che hanno come punto di riferimento Renoir (Sul pra- to, 1912). Durante la guerra dipinge di rado: è richiamato alle armi e non ha uno studio proprio, ma nel ’18 è presen- te alla IV mostra della Secessione romana che si tiene al ca- sino Valadier. I suoi quarantacinque dipinti vengono stron- cati da Roberto Melli che esalta invece la metafisica. S ade- risce al gruppo della «Ronda», per la quale disegna anche il tamburino della copertina e si avvicina alle posizioni di Va- lori Plastici. Nel ’20 espone a Milano con Carrà, Martini, De Chirico e conosce De Pisis, con il quale si recherà sui Colli Albani per dipingere alcuni paesaggi. Nello stesso an- no rinuncia alla cattedra di belle arti vinta a Firenze ed esce la monografia che Ojetti gli ha dedicato. Nel ’21 stipula un contratto con Malagodi (cedendo parte della sua produzio- ne pittorica); S si solleva dalle sue precarie condizioni eco- nomiche e prende in affitto uno studio all’Uccelliera di Vil- la Borghese. Continua ad esporre con il gruppo di Valori Pla- stici e nel ’23 è nel comitato organizzatore della II Biennale di Roma. Compie una serie di studi per un ovale con Ma- donna e Bambino, utilizzando come modelli la moglie e i fi- gli (Pasqualina, 1923). L’anno seguente allestisce un’intera sala alla Biennale di Venezia, ottenendo un grande succes- so. Nel ’25 la sua nefrite si aggrava e S muore improvvisa- mente. (adg). Spaendonck, Gerardus (Gérard) van (Tilburg 1746 - Parigi 1822). Dopo un apprendistato ad An- versa, dove era giunto giovanissimo, si stabilì a Parigi nel 1770. Quattro anni dopo divenne pittore di miniature del re. Nel 1781 fu membro dell’Accademia; nel 1788, consi-

Storia dell’arte Einaudi gliere. Nel 1793 venne nominato amministratore e profes- sore al Museo nazionale di storia naturale. Come il suo con- terraneo van Dael, i suoi meticolosi dipinti di fiori gli val- sero enorme successo: Mazzo e vaso di fiori (1785: Fontaine- bleau), Vaso di fiori (Angers, mba), Grappolo d’uva nera (Montpellier, Musée Atger). Dipinse anche motivi di fiori su tabacchiere e vasi; curò modelli per la manifattura di por- cellane di Sèvres ed espose regolarmente ai salons.Collaborò al celebre Recueil des vélins du musée d’histoire naturelle (Pa- rigi, bibl. del Museo di storia naturale) e pubblicò raccolte d’incisioni dal titolo Fiori disegnati dal vero. Il fratello Cornelis o Corneille (Tilburg 1756 - Parigi 1840) portò avanti la tradizione dei pittori olandesi di fiori del sec. xvii (Natura morta, 1798: Parigi, Louvre). (wl). Spagna Preistoria La S fu popolata sin dal Paleolitico antico e i ce- lebri giacimenti di Torralba e di Ambrona (Vecchia Casti- glia) attestano la presenza di cacciatori di mammut acheu- leani intorno al 300 000 a. C. Nel Paleolitico superiore (35 000 - 8200 a. C.) compaiono oggetti di arredo e decora- zioni parietali, in S particolarmente abbondanti e varie. So- no stati scoperti anche importanti habitat, dei quali alcuni, come El Parpalló (Valenza), hanno restituito centinaia di ta- volette incise e dipinte appartenenti ai livelli solutreano e maddaleniano medi (18 000 - 15 000 a. C.). u Dipinti della regione cantabrica In S si trova una delle zo- ne fondamentali per lo studio dei dipinti paleolitici. Il com- plesso parietale piú prestigioso è situato nella catena dei monti Cantabrici, nella zona compresa tra le province ba- sche e le Asturie. Anche le regioni di Burgos nella Vecchia Castiglia e di Cadice in Andalusia possiedono caverne che è possibile ricollegare, malgrado alcune diversità, al gruppo franco-cantabrico. Tra i recenti ritrovamenti nelle province basche sono la grotta di Alterri in Biscaglia, la grotta degli Ekaïn (Guipúzcoa), le grotte di Tito Bustillo e di El Ramud (Guipúzcoa). La grotta di Altamira (Santander) fu la prima ad essere sco- perta, nel 1879, da M. de Sautuola, ma solo vent’anni piú tardi fu possibile assicurare l’autenticità dei dipinti. La qua- lità delle opere ritrovate era tale che, immediatamente, ven-

Storia dell’arte Einaudi nero intraprese nuove indagini alla ricerca di altre caverne decorate. Tra il 1903 e il 1920 la maggior parte dei santua- ri paleolitici dei monti cantabrici venne investigata da un gruppo di studiosi le cui pubblicazioni aprirono nuovi oriz- zonti alla ricerca: Alcade del Rio, H. Breuil, Obermaier e P. Wernert. In seguito, per impulso di studiosi di preistoria di fama mondiale, le indagini si moltiplicarono. Le grotte di- pinte o incise della regione cantabrica vennero integrate nel sistema cronologico di evoluzione stilistica proposto da Le- roi-Gourhan. Come in Francia, gli stili I e II sono poco rap- presentati nella pittura parietale; solo in epoca piú tarda, in- fatti, ha inizio la collocazione dei santuari nella profondità delle grotte. È possibile che siano andati distrutti per cause naturali dipinti esterni o prossimi agli ingressi. La grotta di La Peña de los Hornos (Santander) è ornata presso l’ingres- so da incisioni, in stile vistosamente arcaico (probabile II). Lo stile III, quello di Lascaux, è ben rappresentato nella re- gione di Santander. A questo periodo appartengono i dipinti delle grotte di La Haza e di Covalanas (Ramalés), benché l’ultima presenti figure piú evolute, già vicine allo stile IV antico. La lunga serie di animali dipinti in nero della grotta di Altamira può attribuirsi al Solutreano-Maddaleniano an- tico, il cui habitat, posto nella grotta, è stato datato, col me- todo del carbonio 14, al 13 500 a. C. Sul monte Castillo sembrano succedersi cronologicamente almeno quattro importanti grotte ornate. La piú antica è quella di Las Chimeneas, la cui decorazione si basa sulle stes- se associazioni animali di Lascaux, cui si aggiunge l’imma- gine della cerva, motivo iconografico caratteristico di tale gruppo. La grotta del Castillo è un bell’esempio dello stile III, accompagnato da segni quadrangolari contornati. La vi- cina grotta di la Pasiega contiene due diversi santuari: uno è paragonabile a quello di Castillo; l’altro, piú antico, ap- partiene allo stile IV antico. Piú rari sono i santuari attribuibili al Maddaleniano medio in ragione della presenza di figure dello stile IV. La grotta di Santimamine (Bilbao) è interessante a causa di una decora- zione omogenea accostabile a quella di Niaux. Nelle Asturie, la caverna di El Pindal è già periferica; per il suo stile evolu- to è paragonabile alla grotta di Las Monedas (monte Castil- lo), uno degli ultimi santuari paleolitici profondi, il cui stile presenta affinità con quello della grotta dei Trois-Frères.

Storia dell’arte Einaudi Le ultime scoperte hanno rivelato santuari molto importan- ti per qualità stilistica e ricchezza di figurazioni. Elemento classico dello stile IV antico è l’arabesco. Il soffitto dipinto della grotta di Altamira resta tuttora uno degli esempi piú belli di questo stile dinamico. I santuari descritti sono organizzati secondo il consueto im- pianto delle grotte ornate paleolitiche, ma si avvertono ca- ratteri regionali, per esempio la frequente presenza di cer- ve, che sembrano avere svolto lo stesso ruolo dei bisonti nel- le grotte francesi. In generale, i segni astratti sono piú rari nelle grotte spagnole all’epoca dello stile IV antico. Alcuni dettagli sono meno utilizzati che in Francia, come il doppio tratto per l’omero dei cavalli; altri sono originali. Fuori della regione cantabrica le differenze si fanno marca- te, ed è difficile datare le figure, che presentano uno stile peculiare. La grotta di Los Casares (Guadalajara) e, in An- dalusia, le caverne di La Pileta e di Ardalés (MáIaga) rive- lano spesso influssi esterni al mondo francocantabrico, che sembra avere la stessa fonte di quelli che si riscontrano nel bacino del Rodano e in Italia. u Dipinti del Levante Un gruppo di pitture rupestri situato nella regione del Levante spagnolo è di eccezionale interes- se. Relativamente omogeneo, si compone di migliaia di fi- gurette umane o animali, rosse o nere, dipinte nelle cavità della roccia, tra le province di Lérida e di Murcia, discoste dal litorale. Quest’arte si differenzia da quella del Paleoliti- co franco-cantabrico: le scene rappresentate sono spesso aneddotiche, vivide e dinamiche. Gli uomini sono stilizza- ti, ma gli animali sono spesso realistici con dettagli che ri- velano un notevole spirito di osservazione. La maggior par- te delle scene rappresentate è costituita da episodi di caccia: caccia al cinghiale nella Cueva del Charco del Agua Amar- ga, caccia allo stambecco nella Cueva Remigia (Barranco de la Gasulla) . Altri dipinti rappresentano combattimenti (rifugio des Do- gues o dei mastini). La precisione dei dettagli consente di conoscere l’armamento, le vesti, le acconciature di questi uo- mini. Talvolta la scena è familiare e pacifica: una donna, a Minatada, porta a passeggio il suo bambino. Alcune rap- presentazioni sono molto piú ermetiche, e hanno probabil- mente ispirazione religiosa.

Storia dell’arte Einaudi Quest’arte pone numerosi problemi: il significato, che non sembra puramente aneddotico; gli autori, che non hanno la- sciato habitat né vestigia materiali che ci consentano di clas- sificarli; l’epoca, certamente molto antica ma di difficile pre- cisazione. Dispute appassionate tra i ricercatori hanno spes- so impedito uno studio oggettivo e sistematico di queste raffigurazioni, che minacciano di scomparire. Benché la que- stione non sia risolta, la maggior parte degli studiosi ritiene che si tratti di un’arte di epoca post-glaciale, praticata da un popolo mesolitico di cacciatori, respinto in montagna dai pri- mi agricoltori. u Spagna meridionale La S meridionale ha vissuto un’im- portante fase d’arte schematica, certamente di lunga dura- ta. Benché la datazione sia difficile, è sicuro che, sin dai suoi esordi, si tratta di un popolo neolitico; in seguito, le popo- lazioni dell’età del bronzo hanno aggiunto, nei medesimi si- ti, le proprie figurazioni. Figure umane sempre piú schema- tizzate, alcune a foggia di «violino» come gli idoli cicladici, sono strettamente associate ad animali disegnati a forma di «pettine». Strade, dischi solari, croci, rettangoli sbarrati, es- seri umani a forma di «penna», scale, sono raggruppati in pannelli. Alcuni motivi di quest’arte, praticata da svariate culture, possono confrontarsi con quelli della val Camonica o all’arte rupestre dell’Europa settentrionale. Un altro periodo ricco di testimonianze della pittura rupe- stre è quello megalitico, che ha lasciato numerose stele o la- stre incise o dipinti con motivi molto caratteristici, tra cui si riconosce la «dea» delle collane, spesso realizzata in for- me molto schematiche. (yt). L’alto Medioevo e l’epoca romanica A parte la Catalogna, remoto possedimento del regno franco, la S medievale cri- stiana si forma con l’espansione dei piccoli stati cristiani che sulle montagne del nord riuscirono a resistere agli attacchi degli Arabi insediatisi nel sud del paese a partire dal 711. Al regno delle Asturie, nato nel sec. viii, e a quello di Navar- ra, nato nel sec. ix, alla fine del sec. x si affiancano la Gali- zia, il León, la Castiglia divenute presto entità politiche piú o meno indipendenti. Alla fine del sec. xi, Alfonso VI di Ca- stiglia riconquistò Toledo che divenne capitale del suo re- gno; nel sec. xii nacque il nuovo regno del Portogallo, esten- dendo i propri possedimenti fino a Lisbona. L’Aragona, na- ta dallo smembramento della Navarra, affiancò il regno di

Storia dell’arte Einaudi Castiglia nella lotta contro i musulmani che, sconfitti defi- nitivamente nel 1212, ridussero il loro dominio al regno di Granada, che tennero fino al 1492. Nelle Asturie e in Galizia si conservarono le tradizioni na- zionali visigote, tuttavia l’influsso della brillante civiltà an- dalusa si fece sentire nel x e xi secolo grazie agli apporti dei cristiani provenienti dai territori islamizzati (mozarabici). Piú tardi, nonostante fossero numerosi i legami col mondo islamico, sia per le relazioni con gli emirati del sud del pae- se, sia a causa della presenza di musulmani negli stati cri- stiani, promotori dell’arte mudéjar, predominò l’influsso del- la Francia. I Franchi giungevano in S in qualità di pellegrini diretti ver- so il Santuario di San Giacomo di Compostella, come cro- ciati e attratti dal ripopolamento delle terre riconquistate agli Arabi. I monaci di Cluny, di Moissac, di Conques rifor- marono la Chiesa spagnola, occuparono le sedi episcopali e abbaziali, imposero la liturgia romana e furono importante veicolo di diffusione dell’arte romanica nel paese. Tuttavia, grazie alla componente mozarabica, l’architettura e soprat- tutto la scultura romanica in S presentano caratteri origina- li. A partire dalla fine del xii e nel sec. xiii, l’arte gotica fran- cese nelle sue varie forme, cistercense, aquitana, borgogno- na, esercitò forte influenza in S, fino alla diffusione dello stile delle grandi cattedrali della Francia dei re. u La pittura murale Le vestigia del periodo preromanico so- no troppo frammentarie perché si possa tracciare un quadro completo della situazione originaria. Due chiese asturiane del sec. ix, San Julián de los Prados a Oviedo (intorno al 812-42) e San Salvador de Valdedios (consacrata nell’893), serbano pitture a carattere decorativo di derivazione elleni- stica, con temi architettonici. Alcuni frammenti di dipinti di epoca piú tarda provenienti da Valdedios e da San Miguel de Lillo (intorno al 842- 50), nelle vicinanze di Oviedo, rap- presentano figure umane. Vanno inoltre segnalati i dipinti murali conservati presso i santuari di San Miguel, di Santa Marìa e di San Pedro di Tarrasa in Catalogna, che la critica colloca tra x e xi secolo e che rivelano ancora legami con gli schemi compositivi paleocristiani e la tradizione carolingia. A partire dal sec. xi nella S settentrionale cominciò a diffon- dersi lo stile romanico che conferì unità artistica ai regni cri-

Storia dell’arte Einaudi stiani. In quest’epoca l’attività pittorica fu molto fiorente in Catalogna: sono giunti fino a noi resti abbondanti di de- corazioni murali e su tavola che costituiscono le testimo- nianze piú significative per l’epoca romanica in S. Il resto del paese serba oggi solo un numero esiguo di complessi. In Aragona, protagonisti della diffusione del romanico sono gli artisti già impegnati nel secondo decennio del sec. xii a Tahull. Il Maestro di San Clemente dopo aver lavorato a Tahull era stato chiamato a decorare le absidi laterali della Cattedrale di Roda de Isabeña; mentre la mano del popola- resco Maestro del Giudizio Universale, sempre di Tahull, si riconosce a Susin (affreschi ora nel Museo diocesano di Ja- ca). Di notevole qualità è il ciclo di affreschi di Bagues (nel- la provincia di Saragozza), che è stato accostato a quello di Saint-Savin. Un bellissimo Martirio dei santi Cosma e Da- miano è stato scoperto sulle volte della chiesa inferiore del monastero di San Juan de la Peña, presso Jaca: si avvicine- rebbe agli affreschi di León. La maggior parte delle decora- zioni murali conservate in Navarra e in Aragona risale pe- raltro solo ad epoca tarda. Quelle di San Juan d’Uncastillo si riallacciano così alla corrente italobizantina che caratte- rizzò, dalla fine del sec. xii, gli antependia catalani. Straor- dinaria importanza riveste la decorazione, databile agli ulti- mi anni del sec. xii, della Sala capitolare del monastero di Sigena, realizzata, come ha dimostrato 0. Pächt, da un pit- tore di origine inglese la cui mano è stata riconosciuta anche in alcune illustrazioni della Bibbia di Winchester. Del no- tevole complesso di pitture, distrutto in parte nel 1936 du- rante la guerra civile, si conservano alcuni resti e una docu- mentazione fotografica. Echi dello stile del Maestro di Si- gena si ritrovano negli affreschi della chiesa (consacrata nel 1258) della stessa città, nei piú recenti (fine del sec. xiii) san- tuari navarresi di Artajona, Artaiz e San Pedro d’Olite (Mu- seo di Navarra a Pamplona). Piú tardi, influssi gotici e tra- dizioni romaniche si confondono nei dipinti di spirito arti- gianale rinvenuti a Foces, Pompien, Barluenga, Roda (cappella del chiostro), accostandosi sia allo stile italo-bi- zantino, sia a quello inglesizzante di Sigena, sia al gotico sor- gente. Alla Castiglia rimangono soltanto due grandi cicli murali del sec. xii. Il primo è quello della cappella mozarabica di San Baudel Berlanga.

Storia dell’arte Einaudi Presenta scene di caccia, che si accostano a quelle realizza- te sugli avori e i tessuti musulmani, episodi della vita di Cri- sto, debitori stilisticamente dell’arte del maestro catalano che dipinse l’abside di Santa Maria di Tahull. Se ne spiega l’influenza tenendo conto che la regione – la zona di Soria – fu occupata, dal 1111 al 1134, dal re di Aragona Alfonso il Battagliero. Va accostata a Tahull anche l’importante de- corazione dell’eremitaggio di Maderuelo, nella stessa regio- ne (oggi al Prado). Spiccati legami con gli affreschi dell’Ove- st francese mostrano quelli, molto rovinati, di Perazancas (Palencia). Appartengono allo stesso gruppo i magnifici di- pinti di impronta francese che coprono le volte e le pareti del Panteón de los Reyes a Santo Isidro de León. Piú recenti sono le vestigia provenienti dalla Sala capitolare di Santo Pedro de Arlanza (Burgos, oggi a Barcellona e New York), il cui stile è assai vicino a quello di Sigena. u La miniatura La miniatura propriamente mozarabica che si diffonde in Andalusia e che si presenta con caratteri di es- senzialità compositiva, colori brillanti segnati da contorni scuri, ci è nota attraverso numerosi manoscritti. Tra questi ricordiamo la Bibbia Hispalensis (sec. x), la Bibbia della Cat- tedrale di León (920), che risente dello schematismo orna- mentale di origine visigota e cordovana, e l’Apocalisse con- servata alla pml di New York miniata da un Magius Pictor che influenzò i decoratori del Beato di Verona, della Bibbia di Sant’Isidoro di Léon e di molti altri manoscritti. L’arte delle abbazie mozarabiche del León è piú potente e piú narrativa: figure sommarie si muovono in un mondo con- venzionale con edifici sezionati e fasce colorate negli sfon- di, dal violento cromatismo. Noti sono i nomi dei maestri dai colophon dei manoscritti, oltre a Magius (attestato nel 926 e nel 968), Emeterius e il castigliano Florentius (nato nel 918), illustratori degli esemplari dei Beatus piú antichi e interamente conservati. Quest’arte «nazionale» doveva tuttavia scomparire dinanzi alle tendenze ottoniane e romaniche importate dai monaci franchi negli scriptoria spagnoli a partire dalla metà del sec. xi. I procedimenti di stilizzazione del drappeggio e dei trat- ti del volto, le ornamentazioni vegetali, gli intrecci, i vitic- ci possono trovare confronti stretti con il resto della minia- tura occidentale. L’adesione alle tendenze stilistiche roma-

Storia dell’arte Einaudi niche raggiungerà piena maturità nel sec. xii, tuttavia alcu- ni segni di rinnovamento sono già rintracciabili nel Beatus miniato per Fernando I di Castiglia nel 1055, ancora peral- tro tributario dell’arte mozarabica, e nel Beatus di Burgo de Osma illustrato nel 1087. Gli aspetti diversi del nuovo sti- le si ritrovano tanto nelle grandi iniziali a viticci mescolati a motivi zoomorfi e umani, che nelle scene figurate. Queste sono ora semplicemente disegnate secondo le regole di un’elegante calligrafia, ora modellate, soprattutto nel sec. xii o all’inizio del xiii. Tuttavia lo stile romanico in S sarà costantemente influen- zato dalla tradizione piú antica e i caratteri mozarabici – in particolare il gusto dei colori vivi e vari – e le deformazioni espressive saranno una caratteristica dominante anche nei manoscritti piú tardi. In questo senso è emblematico un car- tulario della Cattedrale di Oviedo, il Libro de Testamentos (intorno al 1126-29), dove sopravvive una tendenza all’astra- zione geometrica. Al contrario evidenti sono le influenze set- tentrionali nella Bibbia di Avila (1200 ca.) stilisticamente af- fine a modelli francesi, nella Bibbia della collegiale di Sant’Isidoro di Léon (1162) e in quella della Cattedrale di Burgos (fine sec. xii). (jg). L’epoca gotica: il XIII e il XIV secolo A partire dall’inizio del sec. xiii, e fino alla fine del xiv, la produzione figurativa in S è soggetta a una serie d’influssi diversi provenienti sia dal- la Francia che dall’Italia. u Il xiii secolo In un primo tempo penetra in S lo stile che domina in Francia e in Inghilterra a partire dalla metà del sec. xiii e che si caratterizza per il primato accordato alla li- nea: il gusto per i contorni netti e precisi porta a una ac- centuata semplificazione del modellato. Quest’apparente rinuncia alla plasticità delle immagini si ac- compagna a una raffinatezza estrema, evidente nelle tona- lità chiare e nelle sfumature delicate. Il prestigio di cui go- de l’architettura spiega i larghi prestiti che da essa trae il re- pertorio decorativo: ghimberghe e pinnacoli, gallerie a cielo aperto, membrature e finestrature. Tali elementi, tuttavia, non vengono mai impiegati per suggerire uno spazio ma sem- pre in senso decorativo, tanto che nei riguardi della pro- spettiva si può osservare la stessa indifferenza manifestata nei confronti del modellato. L’apertura allo stile nordico si fa chiara per la prima volta nella bottega di miniatura che

Storia dell’arte Einaudi Alfonso X il Saggio, re di Castiglia (1252-84), fonda presso la propria corte. È il re stesso ad avere interesse in ambito letterario e scientifico, a dedicarsi alla calligrafia e ad ordi- nare l’illustrazione di vari manoscritti. Egli possedeva testi illustrati di provenienza parigina cui si ispirano le linee pu- re ed eleganti, la scrittura nervosa, il vivace carattere pitto- resco delle miniature del Los Cantares de loores de Santa Marìa o de Las Cantigas de Santa Marìa, poemi composti in galizia- no dal re stesso. La tendenza stilistica legata alle esperienze nordiche non è però accolta su tutto il territorio. I bellissimi dipinti murali eseguiti da Antón Sánchez nella cappella di San Martino della Cattedrale di Salamanca in- torno al 1300, ad esempio, se ne allontanano completamen- te caratterizzandosi per un segno molto insistito e per i co- lori cupi delle vesti in contrasto con i fondi tendenti alle to- nalità del giallo. u Il xiv secolo All’inizio del sec. xiv lo stile lineare trionfa an- che in Navarra soppiantando le sopravvivenze di ascenden- za bizantina. Il piccolo regno gravita in questo periodo nell’orbita politica francese, fatto che fa pensare alle possi- bilità di stretti contatti con Parigi. Un ruolo importante nel- la trasmissione degli influssi nordici era inoltre svolto da To- losa. La capitale della Linguadoca fu forse patria del pittore Juan Oliver, che formatosi in Francia (il suo stile mostra le- gami con le vetrate della Cattedrale di Rouen) nel 1330 firmò una serie di scene della Passione nel refettorio della Catte- drale di Pamplona (oggi a Pamplona, Museo di Navarra). All’altra estremità dei Pirenei, fu un altro regno satellite di Parigi, quello di Maiorca, con le sue capitali di Perpignano e di Palma, a favorire la penetrazione dello stile francese in S. Tra il 1330 e il 1340 la pittura a Puigcerdá, nel Cerdan, non si distingue affatto da quella che fiorisce a Narbona e a Carcassonne. Per osmosi, si potrebbe dire, lo stile gotico li- neare penetra allora nel complesso degli stati del regno d’Aragona. Il vasto soffitto dipinto della Cattedrale di Te- ruel dimostra tuttavia che non si rifuggì totalmente dalle tra- dizioni musulmane locali, dando luogo a combinazioni di grande originalità. L’adozione dello stile gotico francese ven- ne peraltro bilanciata nei paesi mediterranei dal precoce in- flusso dell’Italia che regna a Palma di Maiorca sin dal 1330. La bottega detta «del Maestro dei Privilegi» raccoglie in que-

Storia dell’arte Einaudi sta città miniatori alla maniera senese. Il Maestro decorò ma- noscritti di grande ricchezza (il Libro dei privilegi di Maior- ca, 1334: Palma, archivi storici) ed eseguì retabli, dipinti con miniaturistica precisione. A Barcellona, la presenza dell’Italia assume una diversa va- lenza con Ferrer Bassa, al servizio di Alfonso IV d’Arago- na, la cui attività si colloca tra il 1324 e il 1348, data della sua morte. Della sua produzione resta una sola opera docu- mentata, il complesso di dipinti che copre interamente le pa- reti della cappella di San Michele, Oratorio privato della ba- dessa Francesca Saportella nel convento delle clarisse di Pe- dralbes (1346). Ferrer Bassa rivela con queste opere la conoscenza dei pit- tori del Trecento a Siena, cui si ispira per dipingere l’im- magine della Vergine con Bambino tra due angeli, concepita sul modello delle maestà italiane, Tuttavia, la sua predile- zione va incontestabilmente a Giotto, col quale ha in co- mune un gusto per i volumi solidi, che generano forme sta- bili e compatte, drappeggiate entro ampie stoffe. Egli pone il colore al servizio di un trattamento quasi scultoreo della figura umana; spesso ordina la composizione delle scene se- condo le diagonali e impiega scorci stupefacenti. La violen- za del segno rivela un’osservazione attenta della realtà, re- sa però spesso con immagini goffe che lo tengono lontano dalle vette raggiunte dai modelli italiani. I dipinti i Pedralbes con la loro potente creatività influen- zarono le generazioni successive di pittori, tra cui Ramón Destorrents successore di Bassa alla corte degli Aragona, Ar- nau Bassa, figlio e aiuto di Ferrer, identificato dalla critica con il Maestro di San Marco, e i fratelli Serra, la cui produ- zione dominerà tutto il Levante iberico nella seconda metà del sec. xiv. Di questi quattro fratelli il maggiore, Francisco, già sposato nel 1351, scomparve nel 1362. Jaime, probabilmente il se- condo, è attivo a partire dal 1358 e muore verso la fine del secolo (1396 ca.). Il terzo, Juan, è documentato tra il 1370 e il 1386. Infine Pedro, che sembra fosse il cadetto della fa- miglia, entrò come apprendista presso Ramón Destorrents nel 1357 e visse fino all’inizio del sec. xv (scompare dopo il 1404). Solo Jaime e Pedro sono personalità relativamente ben conosciute. I Serra lavorano spesso in collaborazione e si dedicano prevalentemente ai retabli d’altare, ancona di

Storia dell’arte Einaudi monumentali proporzioni, suddivisi in numerosi scomparti, che a partire da allora ebbero grande fortuna in tutta la S. Lo stile dei Serra testimonia dell’espandersi, a Barcellona, di un’arte di impronta senese. Ignorando le ricerche di Giot- to, i Serra restituiscono alla forma le qualità puramente de- corative, fuori da ogni speculazione sui volumi e sullo spa- zio, e ai colori il valore ornamentale. I personaggi, privi di densità, inscrivono l’arabesco del loro tracciato su fondi d’oro e fanno parte di eleganti composizioni lineari. Senza dubbio tra i quattro fratelli fu Jaime Serra quello che meglio realizzò l’ideale delicato dei senesi. Una delle sue ope- re giovanili, il Retablo di Cristo e di Maria, dipinta nel 1361 per la chiesa del Santo Sepolcro di Saragozza (Museo della città), introduce in un universo idillico e mistico, popolato di personaggi giovanili, una serafica grazia. Pedro è autore del Retablo di Manresa, dedicato allo Spirito Santo (1394 ca.) ed eseguito in collaborazione con Jaime: ope- ra ambiziosa, è un vasto poema sacro, sviluppato dalla Gene- si alla Pentecoste, che rivela un reale talento disegnativo. (md). Il XV secolo La produzione pittorica nel sec. xv in S, ricca e complessa, si caratterizza per tre correnti predominanti: l’influsso italiano, che continua a farsi sentire, lo stile goti- co internazionale, l’influsso fiammingo. L’Italia impone un canone di armonia, ordine e serenità. Il gotico internazio- nale reca la veemenza espressiva nordica, il gusto dell’ele- ganza e del cerimoniale cortese, l’efficacia narrativa e il sen- timento della natura. Un poco piú tardi le Fiandre, diffon- dendo l’uso della pittura a olio, spingono alla ricerca della perfezione tecnica e la loro maniera di guardare, attenta al- la realtà delle cose, si contrapporrà tanto all’idealismo ita- liano che al lirismo cortese. Escludendo alcuni grandi mae- stri, per gran parte degli artisti si può parlare di un progres- sivo svilimento della qualità e spesso si riscontrano negligenze esecutive. L’incremento degli incarichi, provenienti sia da- gli ordini mendicanti, dai certosini o dai geronimiti che dal- le corporazioni urbane o dalle confraternite, dai principi del- la corte e della Chiesa, costringe infatti a un intervento sem- pre piú massiccio della bottega nell’esecuzione dell’opera e talvolta a una vera e propria industrializzazione della produ- zione artistica. h La corrente italiana Essenziale nel sec. xiv per la forma-

Storia dell’arte Einaudi zione di un nuovo stile in Catalogna e poi a Valenza, l’in- flusso italiano si manifestò in altre regioni alla fine del xiv e all’inizio del sec. xv, talvolta grazie anche alla presenza in S di importanti pittori italiani. Il fiorentino Gherardo Starni- na, ad esempio, documentato in Castiglia tra il 1390 e il 1401, diffonde la tradizione del Trecento toscano. Gli si attribui- scono il Retablo della cappella di Sant’Eugenio nella Catte- drale di Toledo e la decorazione della cappella di San Biagio. Va inoltre citata l’opera del Maestro di Horcajo, autore di te- le dipinte a Toledo e a Cuenca. A Salamanca un altro mae- stro italiano in S a partire dal 1333, Dello Delli, adorna con un elegante retablo tardogotico l’abside della Cattedrale, af- frescata (1445) da suo fratello Nicola (Nicolò Fiorentino). Uno dei suoi allievi, Garcia Fernández, firma il Retablo di sant’Ursula a Salamanca. I dipinti «italo-gotici» dovettero es- sere numerosi in Andalusia, ma molti vennero ridipinti nel sec. xvi. Al 1400 può datarsi un dipinto murale influenzato dall’arte fiorentina ad Arcos de la Frontera. Tra le opere piú o meno contrassegnate dall’arte toscana, si possono inoltre citare il Retablo della vita di Cristo, commis- sionato dall’arcivescovo di Toledo a Sancho de Rojas (Pra- do), i due dipinti da Nicolas Francés (Prado e Cattedrale di León) e, a un livello minore, i retabli di Juan de Sevilla (Johannes Hispalensis). h Il gotico internazionale Nell’elaborazione dello «stile gotico internazionale» a Valenza e a Barcellona alla fine del sec. xiv svolgono un ruolo importante, ancora una volta, gli influssi dell’arte italiana, associati, in questo caso, a suggerimenti fiam- minghi, francesi e germanici. A Valenza Lorenzo Zaragoza, l’autore anonimo del Retablo dei Ferrer, Pedro Nicolau, il Mae- stro di Burgo de Osma, poi Gonzalo Perez crearono uno sti- le originale, dedito a una fiorita eleganza; frequente in questi artisti il tema della Vergine col Bambino su un trono fiam- meggiante, circondata da angeli. Altre opere (come il grande Retablo di san Giorgio del vam di Londra, attribuito ad An- dré Marzal de Sax) attestano un brio espressionista che riflette contatti con l’arte germanica. Un’altra prova degli scambi in- ternazionali tipici del centro valenzano è data dall’opera del pittore locale Miguel Alcañiz, tanto vicina a quella del Mae- stro fiorentino del Bambino Vispo (oggi identificato con Ghe- rardo Starnina) che alcuni critici le hanno confuse. Durante lo stesso periodo, il primo terzo del secolo, la Ca-

Storia dell’arte Einaudi talogna, già permeata dagli influssi toscani, diviene, grazie alla sua privilegiata posizione geografica volta verso l’Euro- pa, un altro focolaio di elezione del gotico «cortese». Luis Borrassá († 1424) domina la produzione catalana con i suoi grandi retabli suddivisi in numerosi scomparti, ove esercita le sue doti di narratore di volta in volta drammatico o mon- dano e la sua maestria tecnica, attenta al disegno raffinato e ai colori vivaci. Tra i contemporanei di Borrassá vanno ri- cordati Juan Mates, operoso tra il 1392 e il 1431 e piú in- cline al realismo, Ramón de Mur, attivo in Tarragona, e il Maestro del Rouissillon per certi aspetti di un naturalismo ancora piú avanzato del pittore catalano. La seconda fase dello stile internazionale è dominata da Bernardo Martorel- li che s’impone come capo della scuola catalana a partire dal secondo quarto del sec. xv. Noto alla critica come Maestro di San Giorgio (dal retablo oggi diviso tra il Louvre e l’Art Institute di Chicago) e identificato grazie a un ritrovamen- to documentario del 1437 che lo lega al retablo eseguito per la chiesa di Pubol (ora Gerona, Museo diocesano), si è rive- lato artista informato sulle novità franco-fiamminghe, ca- pace di associare al gusto della verità quello di una raffina- ta fantasia. Accanto a Martorelli, nei territori di Gerona vanno invece ricordati il Maestro di Bañolas e il Maestro de Amburios. Tra gli altri centri di fioritura del gotico inter- nazionale, si può ancora segnalare l’Aragona, dove furono attivi Juan de Levé, Nicolás Solana e il Maestro di Lanaja. Jacomart Baço, di cui si hanno notizie tra il 1410 il 1461 e che aveva lavorato per alcuni anni a Napoli presso Alfonso V, conferisce un nuovo impulso alla scuola di Valenza che a partire da questo momento pratica un realismo lussuoso e solenne, attento alla precisione tecnica. Tra le sue opere pos- siamo ricordare il Retablo di sant’Anna nella parrocchiale di Jativa e due dipinti per la Cattedrale di Valenza. Il Maestro di Perea, Rodrigo de Osona il Vecchio e soprattutto lo stu- pendo Maestro del Cavaliere di Montesa (l’opera del quale viene identificata dalla maggioranza degli studiosi con la pro- duzione giovanile di Pablo da San Leoncadio) sono i migliori rappresentanti di questa scuola sottilmente aperta alla sug- gestione dell’arte fiamminga e del rinascimento italiano. A Barcellona, dove Luis Dalmau (notizie 1428-1460) con la Madonna dei Consiglieri (1445: mac) aveva fornito un buon

Storia dell’arte Einaudi esempio di accostamento all’arte di van Eyck dando origine a una corrente stilistica fiammingheggiante, Jaime Huguet (1415 ca. - 1492) si colloca decisamente nell’ambito della «cultura mediterranea». Ancora gotico nel suo lirismo e per il gusto della decorazione sontuosa, si avvicina a Fouquet e Quarton per l’autorità monumentale delle sue impaginazio- ni e la luminosità del suo cromatismo. Succedendo a Mar- torell, fa scuola a Barcellona e anche in Aragona, influen- zando Miguel Nadal, Pedro Garcia, Martin Bernat, Martin de Soria e i Vergos. Respiro «mediterraneo» ha anche l’attività di Antoine de Lonhy, artista di origine tolosana, il cui corpus di opere è stato recentemente ricostruito, attivo tra la Spagna e il Pie- monte. Di formazione franco-catalana, pittore, miniatore, esecutore di vetrate e di cartoni per tessuti, realizza a Bar- cellona (dove è documentato nel 1460) le vetrate di Santa Maria del Mar e un polittico oggi conservato al mac. h I pittori «ispano-fiamminghi» È noto che nel 1428 Jan van Eyck si recò in Portogallo (e quasi certamente in Castiglia) e che nel 1444 Alfonso V d’Aragona acquistò un San Giorgio dell’artista, segni di un’ammirazione che a partire da questo momento si estenderà a tutti i grandi maestri fiamminghi. Dal 1450 numerosi pittori fiamminghi giungono in S, e trasmet- tono il loro stile pittorico agli artisti iberici, come Dalmau, che a loro volta contribuiscono a diffondere la maniera fiam- minga. La predilezione dei re cattolici per i dipinti delle Fian- dre, portò alle formazioni di notevoli collezioni da parte dei sovrani e di numerose grandi famiglie, e il ricorso privilegia- to ad artisti come Juan de Flandes e Michael Sittow. Si costituisce così una vera e propria «scuola ispano-fiam- minga», che trova nella Castiglia la sua patria elettiva. I suoi rappresentanti, accanto all’utilizzo della tecnica fiamminga a olio e alla visione naturalista esatta dei Paesi Bassi, in par- ticolare per i paesaggi, conservano una maniera originale che traduce un’appassionata esigenza di carattere e di espres- sione. Ne risulta un’arte tesa, densa, contrastata, ove le sti- lizzazioni, le deformazioni piú violente si accostano a brani di emozionante realismo. Molti di questi maestri, che ope- rano durante l’ultimo terzo del secolo a Burgos, Palencia, Toledo, Salamanca, Valladolid, sono anonimi, come il Mae- stro de la Sisla, il Maestro di Luna, il Maestro di Sant’Il- defonso, il Maestro di Santa Maria del Campo, il Maestro

Storia dell’arte Einaudi dei Re cattolici. Tra le personalità note si segnalano Juan de Segovia e Sancho de Zamora, e soprattutto Jorge Inglés, che opera intorno al 1455 (pala dei Santillana: Madrid, coll. San- tillana). Uno dei maestri piú rappresentativi è Fernando Gal- legos, che, stabilitosi a Salamanca, diffuse in tutta la regio- ne la propria arte. Lo stile irto, l’asprezza drammatica dell’ispirazione, al di là dell’imitazione dei fiamminghi e per- sino degli italiani (la sua decorazione della Biblioteca di Sa- lamanca, terminata nel 1483, s’ispira alle idee umanistiche del rinascimento) mostrano quanto l’artista – e l’osserva- zione vale per tutti i maestri ispano-fiamminghi – risenta an- cora delle suggestioni dell’estetica gotica. Tra le sue opere vanno anche ricordati il trittico per la Cattedrale di Sala- manca e la Pietà del Prado. Anche in Catalogna, alla fine del secolo predomina l’influs- so fiammingo col Maestro de la Seo de Urgel (sensibile pu- re all’influsso francese, piú seguito però, nel Roussillon, del Maestro di Canapost), e, piú tardi, col sorprendente Ayne Bru; così pure a Maiorca, dove opera Pedro Nisart, il cui San Giorgio (1470 ca.) richiama quello, perduto, di van Eyck. Per quanto riguarda l’Andalusia, aderiscono a questa cor- rente molti artisti eccellenti: Juan Sánchez de Castro, Pedro Sánchez, Juan Sánchez II e soprattutto Pedro de Córdoba. Bartolomé Bermejo, senza dubbio uno degli artisti piú si- gnificativi di tutto il xv secolo spagnolo, conferisce una per- fetta coerenza a questa sintesi ispano-fiamminga. Pur supe- rando la minuzia naturalistica dei Paesi Bassi, accentua la profondità descrittiva della sua analisi del reale caricandola di un’emozione intensa, umanizzando le scene sacre, esal- tando le virtú poetiche del paesaggio e dell’atmosfera, rive- lando infine una visione totalmente nuova della realtà. Gran viaggiatore (nato verosimilmente a Cordova, si recò duran- te la sua giovinezza nelle Fiandre e a Napoli), lavorò a Va- lenza, in Aragona (tra il 1474 e il 1477), a Barcellona (dove dipinse nel 1490 il suo capolavoro, la Pietà della Cattedra- le), segnando ovunque con la sua influenza le scuole locali. Un’altra personalità di statura europea si impone durante l’ultimo terzo del sec. xv, Pedro Berruguete. Formatosi nell’ambiente ispano-fiammingo della Castiglia, non ignora le nuove risorse del rinascimento italiano, avendo trascorso numerosi anni in Italia a contatto di uno degli ambienti piú

Storia dell’arte Einaudi «moderni» del tempo, la corte di Urbino. Ritornato in Spa- gna verso il 1483, realizzò i grandi retabli per Toledo, Avi- la, Burgos, Paredes de Nava e fece scuola. Senza rinnegare la tradizione narrativa e ornamentale del gotico spagnolo (re- sta fedele al fondo oro), applica e impone d’ora in poi, oltre a un certo repertorio architettonico e decorativo, i principî di chiarezza monumentale, di armonia delle proporzioni e di giusta costruzione spaziale che l’Italia gli ha trasmesso. La via a un «rinascimento» spagnolo è aperta, via che in- traprenderanno Juan de Borgoña e Alejo Fernández all’ini- zio del sec. xvi. (sr). Il XVI secolo u Primo terzo del xvi secolo Durante il primo terzo del sec. xvi, coesistono in S due tendenze artistiche predominanti: l’influsso fiammingo, preponderante durante il regno dei re cattolici, e quello dei nuovi modelli rinascimentali prove- nienti dall’Italia. Gli artisti piú rappresentativi di questa fa- se di transizione sono Juan de Borgoña a Toledo e Avila, Alejo Fernández in Andalusia e Rodrigo de Osona (il Gio- vane) a Valenza. Intorno a questi maestri, tutti tributari dell’arte dei Paesi Bassi, «ringiovanita» dall’apporto di for- me italiane, gravita una pléiade di artisti spesso poco noti, che conferiscono a ciascuna regione un diverso carattere. La Castiglia, risolutamente gotica, conserva le tendenze ispa- no-fiamminghe, rinnovate da un discepolo di Gérard David, identificato con Ambrosius Benson (Trittico: Cattedrale di Segovia). La regione di Valenza fu la prima in cui penetra- rono le tendenze del rinascimento italiano: intorno al 1507, Fernando de Llanos e Fernando Yáñez de la Almedina ri- flettono fedelmente l’arte della fine del Quattrocento, in particolare lo sfumato di Leonardo. Questi pittori dipingo- no esclusivamente temi religiosi, proscrivono la rappresen- tazione del nudo e dall’Italia mutuano soltanto elementi de- corativi e procedimenti tecnici, saggi di prospettiva e una composizione chiara e ritmata che mette in movimento le fi- gure entro uno spazio che fino a questo momento era stato ignorato dagli artisti della precedente generazione, che di- pingevano su fondi d’oro nella tradizione di Pedro Berru- guete. Questo artista formò a Palencia (Vecchia Castiglia) numerosi discepoli, il piú originale dei quali fu il Maestro di Becerril. Due aspetti lo distinguevano dai contemporanei: l’ammirazione per i monumenti del rinascimento italiano e

Storia dell’arte Einaudi l’interesse per il paesaggio. Le scene della vita di san Pela- gio sul retablo conservato nella Cattedrale di Málaga, pro- veniente da Becerril (Palencia) si sviluppano in un’architet- tura direttamente ispirata dagli edifici di Brunelleschi a Fi- renze; i timpani decorati con soggetti pagani (Leda e Lucrezia) costituiscono un’eccezione nella pittura spagnola del primo terzo del sec. xvi, ove la mitologia è per lo piú as- sente. Il paesaggio acquista un’insolita importanza che ri- vela l’influsso di Juan de Flandes. u Secondo terzo del xvi secolo Il secondo terzo del secolo ve- de trionfare l’influsso italiano. Juan de Juanes e suo padre, Vi- cente Masip, impongono a Valenza uno stile direttamente ispi- rato a Raffaello e a Sebastiano del Piombo. Difficile deter- minare la parte svolta da ciascuno dei due artisti: l’opera piú sicura di Masip è il retablo della Cattedrale di Segorbe (1530), dedicato alla vita di Cristo. Juan de Juanes realizzò dipinti de- vozionali che ebbero immensa popolarità. Anche l’Aragona rinunciò alle tradizioni gotiche: Jerónimo Cosida divenne, prima della metà del secolo, il capofila della nuova scuola. Pit- tore e consigliere del grande mecenate del rinascimento ara- gonese, don Fernando d’Aragona (nipote del re cattolico) fu autore di numerosi retabli (Cattedrale di Tarazona, Museo di Saragozza), che rielaborarono i modelli romani in uno stile provinciale. Parallelamente (dal 1538 al 1570 ca.) un artista italiano, Tomás Peliguet (o Pelegret), che non esercitò alcuna influenza sull’ambiente aragonese, eseguì numerose grisailles (retablo della Cattedrale di Roda in Aragona, 1556), che lo ri- velano fedele seguace del manierismo. In Castiglia, l’autore del Retablo di santa Librada (1525-26: Cattedrale di Sigüenza) trascrisse fedelmente modelli di Raf- faello. L’artista (Juan de Pereda?) acquisì certamente in Ita- lia una vasta cultura umanistica, che si rivela nella decora- zione architettonica e in certi prestiti da Michelangelo e Leo- nardo. A Toledo, dove si era forse formato nella bottega di Juan de Borgoña, Antonio de Comontes sembra aver cono- sciuto Raffaello attraverso le Fiandre. L’opera piú impor- tante conservata è il Retablo di san Giovanni dei Re a Tole- do, dipinto per l’Ospedale di Santa Cruz della stessa città. Dal 1539 al 1561 lavorava a Toledo anche un altro discepo- lo di Juan de Borgoña: Juan Correa de Vivar. Benché Carlo V non esercitasse alcun diretto influsso sul-

Storia dell’arte Einaudi la pittura del suo tempo, la presenza della corte a Valla- dolid vi attirò un certo numero di artisti italiani, nonché Alonso Berruguete, figlio di Pedro, che si era formato in Italia accanto ai manieristi fiorentini. Tuttavia, la piú ric- ca città spagnola dell’epoca è Siviglia, ove soggiornano P. de Kempener (Pedro de Campaña) di Bruxelles a partire dal 1537, e il fiammingo Storm (Fernando Esturmio), at- tivo nella metropoli andalusa dal 1539 al 1557. Suo capo- lavoro è il Retablo degli Evangelisti (1555: Cattedrale di Si- viglia), assai influenzato dai discepoli fiamminghi di Raf- faello, Scorel ed Heemskerck: nella sua copiosa produzione si trovano corpi nodosi e muscolosi, atteggiamenti violen- ti, effetti di chiaroscuro. Personaggio di spicco della scuo- la sivigliana è Luis de Vargas, tornato in S dopo un lungo soggiorno a Roma dove fu a contatto con il manierismo raffaellesco; i suoi primi dipinti sono contemporanei alle ultime opere di Storm e di Campaña. La sua gloria ha of- fuscato la fama di Pedro Villegas Marmolejo, che gli so- pravvisse di trent’anni e dipinse per le chiese di Siviglia molti quadri devozionali (Virgen de los remedios: chiesa di San Vincenzo; Sacra Famiglia: chiesa di San Lorenzo) di- rettamente ispirati a Raffaello. Numerosi allievi e colla- boratori attestano la vitalità della scuola sivigliana. Pedro Machuca s’impone a Granada con la sua opera architetto- nica, il palazzo di Carlo V all’Alhambra e anche con i suoi dipinti potenti e tormentati (si era formato nell’ambiente romano degli allievi di Raffaello e di Michelangelo); Julio de Aquiles e Alejandro Mayner, di origine italiana, deco- rano con affreschi il gabinetto della regina nel palazzo im- periale. L’Estremadura, fino ad allora soggetta ad influssi prove- nienti da Siviglia, Toledo e Salamanca, attesta la propria ori- ginalità con Luis de Morales, artista isolato di provincia: go- tico tardivo seppe trattare con fiamminga minuziosità e una grazia tenera e dolente i modelli del manierismo italiano (Vergine col Bambino; Addolorata); fu autore anche di nu- merosi polittici. u Fine del xvi secolo Nell’ultimo terzo del secolo, l’influsso di Michelangelo, già avvertibile in Machuca, sostituisce quel- lo esercitato dal maestro urbinate durante i decenni prece- denti. Gaspar Becerra, fedele interprete del nuovo stile, in- trodusse in S l’arte dell’affresco (Prado a Madrid), fino ad

Storia dell’arte Einaudi allora praticato solo dagli stranieri, e le rappresentazioni mi- tologiche. La sua morte prematura obbligò Filippo II a ri- correre ad italiani per la decorazione murale dell’Escorial: Cambiaso, Tibaldi, Federico Zuccari. Numerosi mecenati seguirono l’esempio del re. Il complesso piú importante di dipinti profani conservato in S è quello del palazzo di El Vi- so (Mancha), costruito dal marchese di Santa Cruz. I fratelli Peroli, originari dell’Italia settentrionale, affrescarono sul- le pareti le imprese guerresche del marchese e un gran nu- mero di episodi tratti dalla mitologia e dalla storia antica. Alcuni artisti italiani, che non avevano potuto partecipare alla decorazione dell’Escorial, cercarono incarichi in pro- vincia. Cesare Arbasia, amico di Pablo de Céspedes, ope- rante a Cordova, soggiornò a Malaga nel 1579 e dipinse per la Cattedrale numerosi affreschi; fu attivo inoltre a Cordo- va e a Viso. Matteo da Lecce (Pérez de Alesio) si stabilì a Si- viglia, donde s’imbarcò per il Perú verso il 1590. La sua ope- ra piú nota è il gigantesco San Cristoforo (affresco del 1583: Cattedrale di Siviglia). Fu contemporaneo di Vasco de Pe- reira, originario del Portogallo e molto influenzato dalle ten- denze italiane (Annunciazione, 1576: Marchena); Alonso Vázquez e Francisco Pacheco, autore del trattato Arte della pittura (1638), dipinsero, all’estremo scorcio del secolo, gran- di composizioni che preannunciano i retabli sivigliani dell’epoca successiva. L’influsso veneziano, successivo a quello di Michelangelo, è testimoniato da Navarrete attivo all’Escorial e da El Greco, che fecero conoscere in Castiglia la tecnica, il colore e il chiaroscuro di Tiziano e di Tinto- retto, condannati da Pacheco qualche anno dopo nel suo trattato. Diego de Urbino, Luis Carvajal e Juan Gómez suc- cessero a Navarrete e dipinsero numerosi trittici per l’Esco- rial. L’arte del ritratto, il cui iniziatore era stato il fiammingo Antonio Moro, è rappresentata alla corte di Filippo II da Sánchez Coello e dal suo allievo-collaboratore Pantoja de la Cruz, e in Aragona da Roland de Mois, originario di Bruxel- les, molto influenzato da Tiziano (Adorazione dei pastori, 1590: chiesa del monastero di Santa Maria Real a Fitero in Navarra). Fu autore di una galleria di ritratti per il duca di Villahermosa, al cui servizio fu anche il fiammingo Schepers (Esquert). Questo artista, che aveva frequentato la bottega veneziana di Tiziano, dipinse per il suo mecenate composi-

Storia dell’arte Einaudi zioni mitologiche, alcune delle quali ispirate al maestro del Cadore. Un italiano, Pietro Morone, praticò a Saragozza l’arte dell’affresco (cappella di San Gabriele alla Seo), dopo aver eseguito alcune opere a Barcellona. Anche a Valenza s’impose l’influsso veneziano, grazie all’intervento di pitto- ri aragonesi (i Sariñena) o stranieri (Francisco Pozzo). El Greco, stabilitosi a Toledo a partire dal 1577, superò la semplice imitazione della maniera veneziana elaborando un’opera singolarissima, ultima espressione appassionata e talvolta visionaria del manierismo. La presenza, per tutto il sec. xvi, di fiamminghi e italiani e l’importazione di opere veneziane, fecero della pittura spa- gnola un campo sperimentale, che favorirà il fiorire delle grandi scuole del secolo d’oro. (acl). Il XVII secolo u Temi e caratteri generali Il sec. xvii corrisponde, nel pa- norama generale europeo, all’età d’oro della pittura spagno- la, tanto per importanza quantitativa che per originalità. Tuttavia, la situazione economica e sociale, nonché il ruolo politico della S, bastione della tradizione cattolica scaturita dalla Controriforma, ne limitano in certa misura la produ- zione, sovrabbondante di opere religiose ma quasi priva di scene profane e mitologiche. La stessa pittura di genere è re- lativamente rara, e solo la natura morta (con artisti come Sánchez Cotán, A. de Loarte e J. van der Hamen) acquisi- sce un’identità propria e una qualità che fanno sì che spic- chi tra i temi profani e decorativi. Un immediato realismo, dal sentimento intenso e quasi mistico, pervade, soprattut- to nella prima metà del secolo, composizioni piene di solen- ne ingenuità. Il paesaggio in qualità di genere indipendente esiste appena; e, quando compare come sfondo di scene bi- bliche o evangeliche, non sfugge generalmente al conven- zionalismo, Velázquez escluso. Uno stile peculiare si mani- festa, peraltro, nel ritratto. Il ritratto collettivo, alla manie- ra veneziana od olandese, il ritratto di rappresentanza alla moda francese, o l’allegoria mitologica, tanto apprezzata dal- la società fiamminga o francese, quasi non esistono. Il ri- tratto spagnolo, di incisiva austerità, insiste soprattutto sull’individualità del personaggio, sulla sua dignità e qualità umana, ottenendo così effetti di un’umanità intensa, persi- no in esseri deformi, ammalati o della piú umile condizione. Il «ritratto divinizzato», che rappresenta un personaggio con

Storia dell’arte Einaudi gli attributi del santo di cui reca il nome, è un genere quasi esclusivamente spagnolo e attesta anch’esso l’importanza della religione nella vita spagnola dell’epoca. A parte i con- sueti temi evangelici, i santi patroni e qualche motivo bibli- co, nella pittura religiosa propriamente detta il ruolo prin- cipale è svolto dai cicli monastici. Difatti la vita monacale svolge un ruolo essenziale; i grandi ordini tradizionali (fran- cescani, domenicani, certosini, benedettini), nonché gli or- dini nuovi, creati o riformati in epoca controriformistica (carmelitani, trinitari, gesuiti), forniscono un repertorio as- sai vasto di temi, quasi sempre esposti in forma ciclica. La maggior parte dei grandi pittori spagnoli si è impegnata in opere di questo genere, talvolta molto ampie, destinate a de- corare chiostri, sacrestie e sale capitolari. Un aspetto fortemente realistico, accentuato dal gusto dll’immediatezza, del dettaglio quotidiano e del tratto indi- viduale, contraddistingue questi cicli spagnoli, nei quali vie- ne utilizzato un linguaggio plastico di ascendenza caravag- gesca per sottolineare il carattere concreto delle raffigura- zioni, spesso legato alla sensibilità, insieme realistica e mistica, di santa Teresa di Ávila. Solo verso la metà del se- colo si sviluppa piuttosto ampiamente una tendenza sceno- grafica e fantastica, senza tuttavia soppiantare l’interesse per la vita quotidiana e l’osservazione diretta. I caratteri fin qui esposti sono relativi alla pittura spagnola nel suo com- plesso; si deve insistere però sull’estrema differenza di qua- lità che si individua tra gli artisti di primo piano, come Ri- bera, Cano, Velázquez, Zurbarán, Murillo ed altri. La gran- de pittura spagnola del Seicento è legata a queste importanti figure, che si distinguono dagli artisti locali contemporanei. Le scuole locali infatti, benché abbiano caratteristiche pro- prie ben determinate, non possiedono l’importanza e la coe- sione di quelle italiane od olandesi. u La prima metà del xvii secolo A far da cerniera tra il ma- nierismo di El Greco (morto nel 1614), o la piú modesta pro- duzione di copie da stampe italiane e fiamminghe da parte di un gran numero di artisti provinciali durante l’ultimo quarto del sec. xvi, e il naturalismo del sec. xvii gli italiani svolgono un ruolo molto importante: contano gli esempi non solo di Caravaggio, alcune opere del quale furono presto co- nosciute in S, ma soprattutto dei toscani e dei genovesi che

Storia dell’arte Einaudi operarono all’Escorial, nonché dei loro discendenti e disce- poli stabilitisi nella penisola iberica. I due pittori che in una certa misura introdussero il naturalismo in Castiglia e a Va- lenza, Sánchez Cotán e F. Ribalta, si erano formati alla scuo- la dell’Escorial, e devono a Luca Cambiaso gran parte del loro interesse per la luce. A Madrid, Vicente Carducho ed Eugenio Caxés, rispettivamente fratello minore e figlio di artisti appartenenti al gruppo dell’Escorial, s’ispirarono al moderato ritorno al realismo dei toscani. Anche i grandi maestri veneziani erano assai apprezzati in S, e in partico- lare le collezioni reali erano ricche di loro opere. Juan de las Roelas, iniziatore del naturalismo a Siviglia, s’ispirò alla pit- tura veneziana (San Giacomo a cavallo, 1609: Siviglia, Cat- tedrale); e a Toledo Pedro Orrente creò una scuola influen- zata dallo stile veneto-bassaniano (aveva soggiornato a Ve- nezia), con gli apporti del nascente caravaggismo. Il commercio d’arte con l’Italia era intenso; alcuni pittori ita- liani di fama viaggiano in S e, in linea generale, il primo na- turalismo spagnolo è legato ai suggerimenti italiani. I gran- di maestri nati alla svolta tra xvi e xvii secolo (Ribera, 1591; Zurbarán, 1598; Velázquez, 1599; Cano, 1601) si formaro- no entro questa tradizione italiana, di matrice piú o meno caravaggesca, imperniata sulla riconquista della realtà e l’in- tensa valorizzazione della luce. Piú tardi, trovarono tutti so- luzioni stilistiche personali e libere, eccettuato forse Zur- barán, che resterà lungo tutta la produzione legato a espres- sioni apparentemente piú arcaicizzanti. Ribera si recò prestissimo in Italia; Velázquez; fu il piú indipendente: par- tendo da un tenebrismo di stampo caravaggesco, creò uno stile tutto personale che non avrà grande seguito tranne per quanto riguarda la ritrattistica. Cano, un poco isolato ri- spetto ai suoi contemporanei, diede vita a una rivisitazione dello stile quasi neorinascimentale. u La seconda metà del xvii secolo La situazione si evolve ra- dicalmente nella seconda metà del secolo, con la sostituzione dell’influsso dell’arte di Rubens e di van Dyck a quello italia- no, benché continui a sopravvivere l’interesse per il colorismo di Venezia. La composizione chiusa, gremita e relativamente calma, tipica dei lavori della prima metà del secolo, l’illumi- nazione tenebrosa e la disposizione armoniosa cedono il po- sto a un teso dinamismo, a una luce uniforme e una chiara gamma di colori, che ricorre talvolta, per suggerire la profon-

Storia dell’arte Einaudi dità, a contrasti di chiaroscuro e ad una composizione piú aperta. La ricerca realista si attenua leggermente. Si apprez- zano di piú la grazia e il carattere lusingatore delle interpre- tazioni; le forme del barocco decorativo alla maniera fiam- minga si diffondono ampiamente, anche nei soggetti religio- si. Trova fortuna la pittura decorativa a fresco, ignorata nella prima metà del secolo, con effetti scenici e di trompe-l’œil.I principali centri artistici di questi anni sono Madrid e Sivi- glia, mentre Valenza e Toledo perdono il proprio ruolo. A Madrid un importante gruppo di artisti di grande sensi- bilità cromatica (Rizi, Carreño, Coello, Cerezo, Antolìñez, Escalante), dettero vita all’unica scuola omogenea di qualità elevata ed equilibrata, aperta a numerosi allievi. Formatisi con il culto della pittura veneziana e fiamminga, si distin- guono soprattutto per le doti di eccellenti coloristi e di abi- li decoratori. Tra loro vi sono ritrattisti di talento, la cui so- bria espressività è tipicamente spagnola. A Siviglia, la se- conda metà del secolo si articola sulla rivalità tra due grandi maestri, Murillo e Valdés Leal, che per la qualità della pro- duzione sono al di sopra di tutti gli altri. Il primo rappre- senta l’aspetto tenero, musicale e femminile della devozio- ne borghese spagnola e inserisce nelle scene di genere una nota di sentimentalismo che allontana tutti gli aspetti dram- matici e sgradevoli della realtà. Valdés possiede invece uno spirito drammatico di grande energia talvolta poco armoni- co, che si attaglia perfettamente alla violenza e all’espres- sionismo quasi crudele, che non rifugge dagli aspetti piú ri- pugnanti. Gli ultimi artisti nati e formatisi in questo secolo prolungano fino ai primi anni del sec. xviii le forme del ba- rocco decorativo, dall’apparenza esuberante e dalla tecnica abile, ma ormai povero e convenzionale nell’invenzione, mo- notonamente ripetitivo per quanto riguarda i temi religiosi. Il successo della dinastia dei Borboni nel 1700, comportò, almeno a Madrid, ed esclusivamente a corte, la sostituzione delle forme tradizionali con quelle di un retorico classicismo alla francese. L’arte devozionale e popolare restarono senza dubbio per lungo tempo fedeli alle forme del sec. xvii, mol- to impoverite, particolarmente in provincia, fino alla fon- dazione, a imitazione della Francia, delle Accademie: la pri- ma, l’Accademia Reale di San Fernando, fu creata nel 1752. (aeps).

Storia dell’arte Einaudi Il XVIII secolo u Il regno di Filippo V All’epoca dell’avvento di Filippo V, primo Borbone di S (1700), alcuni artisti erano ancora fe- deli alla tradizione morente del secolo d’oro. Miguel Jacin- to Meléndez, la cui fama fu oscurata da quella del nipote Luis, decorò a Madrid la chiesa di San Felipe el Real con la Sepoltura del conte d’Orgaz (bozzetto al Prado) ancora rigo- rosamente ispirate a El Greco. Juan Garcìa Miranda fu au- tore di quadri religiosi di secondario interesse (a Prado con- serva due paesaggi). Anche Siviglia viveva legata al suo pas- sato. Lúcas de Valdés, poi Domingo Martinez ornarono le chiese con vasti cicli ad affresco. Bernardo Germán Lloren- te imitò lo stile di Murillo. A Cordova Cobo y Guzmán di- pinse cicli romantici (Vita di san Pietro Nolasco) e a Grana- da il «disegnatore dell’Andalusia», Risueño, segui l’arte di Alonso Cano. A Valenza, Palomino affrescò il convento di San Estebán, e H. Rovira Brocandel disegnò il progetto del celebre portale barocco del palazzo del marchese de Dos Aguas. Il piú originale di tali pittori di provincia fu il cata- lano Viladomat. L’afflusso di artisti stranieri, favorito dal- la nuova dinastia, influì, trasformandola, soltanto sull’arte di corte. Michel-Ange Houasse rinnovò la concezione del paesaggio, la cui luminosità e le cui lontananze sfumate preannunciano Goya. Ranc fu il ritrattista della famiglia reale, nella tradizione di Rigaud. Louis-Michel van Loo ornò i palazzi di grandi com- posizioni mitologiche. Le seconde nozze del re con Isabella Farnese favorirono l’arrivo dei pittori italiani Sani e Pro- caccini, che operò soprattutto a La Granja. La fondazione, da parte di Filippo V, della manifattura reale degli arazzi eb- be, soprattutto nella seconda metà del secolo, influsso deci- sivo sull’evoluzione della pittura. u Il regno di Ferdinando VI Sotto Ferdinando VI (1746-59) la corte, priva di pittori spagnoli, si orientava risolutamente verso l’Italia. Amigoni, decoratore e ritrattista, venne presto soppiantato da Corrado Giaquinto, chiamato a dipingere le volte del nuovo palazzo reale che sostituiva l’Alcázar, distrutto da un incendio nel 1734 (la Spagna che offre i suoi regni alla Re- ligione, Nascita del Sole, Trionfo di Bacco). Giaquinto prolun- ga ed arricchisce la lezione di disinvoltura decorativa già of- ferta alla fine del sec. xvii da Luca Giordano: lezione che verrà compresa da Antonio Gonzáles-Velázquez e da Goya.

Storia dell’arte Einaudi L’evento piú importante della vita artistica fu la creazione, nel 1752, dell’Accademia reale di belle arti di San Fernan- do, progettata da Filippo V sul modello francese. I due pri- mi direttori furono van Loo e Antonio González Ruiz, al- lievo di Houasse. Il pittore che meglio rappresenta la prima generazione di artisti «ufficiali» è Andrés de La Calleja (il Tempo scopre la Verità: Madrid, Accademia di San Fernan- do). Da allora, si afferma il primato di Madrid, benché na- scano Accademie in tutta la S, in particolare a Siviglia, Va- lenza e Saragozza. Carlo III, salito al trono nel 1759, affidò la decorazione del Palazzo Reale di Madrid a Mengs, che eseguì in due cam- pagne decorative (1761-71; 1774-77) maestosi affreschi al- legorici. Il suo ritratto del sovrano (Prado), di grande per- fezione tecnica, servì di modello a Goya. «Dittatore delle arti», esercitò un influsso fondamentale sulla pittura spa- gnola e riformò la manifattura degli arazzi. Anziché fornire come modelli scene di genere derivanti dai pittori fiammin- ghi, gli artisti da allora osservarono la vita madrilena; i par- chi reali, aperti al pubblico, divennero il teatro delle distra- zioni di una folla animata. Rivale di Mengs, Tiepolo giunse a Madrid nel 1762, poco dopo la partenza di Corrado Gia- quinto. Eseguì tre soffitti del Palazzo Reale (Gloria della Spa- gna nella Sala del Trono; Apoteosi della Monarchia spagnola nell’anticamera della regina, e Apoteosi di Enea nella Sala delle Guardie) in uno stile piú ampio e piú movimentato di quello dei predecessori. Il complesso di dipinti per il con- vento di San Pascual d’Aranjuez venne mutilato e disperso poco dopo la sua morte. Lo avevano accompagnato in S due suoi figli; Lorenzo ha lasciato numerosi pastelli (oggi al Pra- do) nella migliore tradizione veneziana. L’influsso di Mengs, piú profondo di quello di Tiepolo, si esercitò in particolare sul genero di questi, il disegnatore M. Salvador Carmona, e sui fratelli Bayeu. Il piú anziano di que- sti ultimi, Francisco, direttore dell’Accademia di San Fer- nando, praticò soprattutto la pittura di storia; Ramón, vin- citore su Goya del concorso di Roma nel 1766, decorò con lui molti edifici religiosi (Santa Ana de Valladolid, Valde- moro), e dipinse numerosi cartoni per arazzi ispirati a scene popolari (il Venditore di salsicce: Madrid, Prado). La fama di Ramón Bayeu mise in ombra José del Castillo, altro collabo-

Storia dell’arte Einaudi ratore della Manifattura, ove operarono pure A. Ginés de Aguirre – fondatore nel 1785 dell’Accademia reale di Città del Messico – e Zacarìas González Velázquez, figlio del pit- tore Antonio, uno degli ultimi autori di cartoni. Luis Melén- dez e Luis Paret occupano un posto particolare per la qualità della loro pittura e per i generi che praticarono (la natura mor- ta il primo, la scena di genere e il paesaggio il secondo). Non operarono per la Manifattura e non fecero scuola. Paret eb- be alcuni imitatori: Mariano Sánchez dipinse vedute di por- ti, e Manuel de La Cruz scene di vita madrilena. A Valenza, la piú attiva delle Accademie di provincia venne diretta da José Vergara, autore di un’abbondante produzione classica, intrisa d’italianismo. Benito Espinós, che gli succedette, si specializzò in dipinti di fiori. Le Accademie di Siviglia, Sa- ragozza e Barcellona ebbero scarsa attività creativa e si de- dicarono piú all’organizzazione che all’insegnamento. u Il regno di Carlo IV L’avvento di Carlo IV (1788) non eb- be quasi influenza sulla vita artistica. Venne completata la decorazione del Palazzo Reale, gli artisti stranieri furono po- co numerosi e di secondaria importanza. Il francese J. Flau- gier introdusse in Catalogna lo stile impero. Joaquìn Inza, ammiratore di Mengs, eseguì dipinti in un suo stile spoglio (Ritratto del favolista Iriarte: Madrid, Prado). Maella, che di- resse l’Accademia di San Fernando, fu insignito contempo- raneamente a Goya, nel 1799, della dignità di primo pitto- re di corte. Dipinse nel palazzo e nelle residenze reali alle- gorie convenzionali dai colori freddi; le sue marine (Prado) presentano maggior fantasia dei ritratti, elaborati con so- lennità. Agustìn Esteve, anch’egli pittore del re, di un’ele- ganza un po’ secca, collabora con Goya. La perfezione tec- nica del ritrattista Vicente López rappresentò l’esito finale di una produzione legata per mezzo secolo alla formazione accademica e alla protezione reale. López chiude il periodo aperto nella pittura spagnola dalla venuta di Mengs, mentre con Goya, contemporaneo di quest’ultimo, comincia l’arte moderna. (acl). u Il xix secolo La personalità schiacciante di Goya e il pre- stigio degli artisti francesi lasciarono nell’ombra pittori me- no innovatori. Ma tre tendenze prevalenti riassumono le aspirazioni artistiche di questo periodo: prolungare la ma- niera del sec. xviii, resuscitare la grande tradizione del se- colo d’oro e partecipare agli slanci creativi provenienti

Storia dell’arte Einaudi dall’estero. Queste correnti coesistono e si compenetrano nel corso del secolo. Se alcuni artisti continuano ad operare secondo i criteri stilistici del sec. xviii, del tutto mutati so- no i referenti sociali della produzione pittorica di questi an- ni: la Chiesa, la monarchia e l’aristocrazia cessano di essere i grandi mecenati di un tempo. Lo stato liberale e la bor- ghesia sono i committenti di questo momento, ma meno il- luminati ed esigenti. L’artista si trova così piú libero di espri- mersi, ma allo stesso tempo in difficoltà nel trovare grandi incarichi. A Madrid prosegue la tradizione di Mengs e di Maella, specialmente con Zacarìas González Velázquez e i suoi allievi. Vicente López si distacca da questo gruppo per la tecnica minuziosa dei suoi ritratti eseguiti per la corte di Ferdinando VII e i banchieri della nuova società. La guerra d’indipendenza e lo stesso temperamento spagnolo ritardarono e originarono il movimento di «ritorno all’anti- co» che si sviluppò in Europa dopo l’ultimo terzo del sec. xviii. Da Madrid tre soli artisti, José de Madrazo, José Apa- ricio e Juan Antonio Ribera, si muoveranno per seguire a Pa- rigi e a Roma le lezioni di David. A Barcellona un francese allievo di David, Joseph Flaugier, nominato direttore della scuola di disegno con Juan Carlos Anglés è il principale rap- presentante del neoclassicismo. Nella prima metà del secolo, i soggetti prediletti dagli arti- sti andalusi sono piuttosto le scene di costume che quelle ispirate all’antico. Juan Rodrìquez «el Panadero» e Fernán- dez Cruzado furono i precursori della pittura romantica, il movimento piú fecondo e piú originale del secolo. Osserva- tori delle tradizioni popolari, questi pittori manifestano una curiosità consapevole verso il folklore popolare. Feste, riu- nioni di villaggio, corride, scene di stregoneria, già ritratte da Goya, vengono riprese con una fattura libera e sponta- nea e con il frequente impiego di chiazze e impasti da parte dei fratelli Becquer e Manuel Rodrìguez de Guzmán in An- dalusia, e a Madrid da Leonardo Alenza, José Elbo, Euge- nio Lucas e Francisco Lameyer, continuatori della tradizio- ne aperta da Goya. Nell’ambito della corrente romantica, paesaggisti come Jenaro Pérez Villaamil e José Ferrant sono affascinati dai monumenti di epoca medievale che ambien- tano in un mondo fantastico, nel quale la natura tende a umanizzarsi per essere mediatrice di sentimenti. La S, cori

Storia dell’arte Einaudi il suo gusto del pittoresco, ha svolto un ruolo importante: fu infatti luogo di reazione alla vita moderna e di conservazio- ne delle tradizioni popolari, ricche di colore. Attirò nume- rosi artisti stranieri: inglesi (Lewis e D. Roberts) e francesi (Dauzats, Blanchard, Boulanger e Dehodencq). Anche il ge- nere del ritratto ebbe grande successo e fu praticato da tut- ti gli artisti. Antonio Esquivel firmò nel 1846 una delle pri- me rappresentazioni di un gruppo d’intellettuali nello stu- dio di un artista e José Gutiérrez de La Vega lasciò numerosi ritratti femminili, ove permangono reminiscenze di Muril- lo. Federico de Madrazo e Carlos Luis de Ribera praticaro- no il ritratto romantico mondano. Tra gli artisti che soggiornarono a Roma tra il 1830 e il 1840, un gruppo di giovani catalani, Joaquín Espalter, Pelegrín Clavé e Claudio Lorenzale, sotto l’impulso di Pablo Milá y Fontanals prese contatto col cenacolo dei nazareni e si vol- se ad imitare i primitivi. La pittura di storia, praticata dall’inizio del secolo o, se si vuole, dopo El dos de Mayo di Goya (1814), registra un recupero d’interesse dal 1856, da- ta in cui si organizzano regolarmente e annualmente esposi- zioni nazionali. Circa tremila artisti, di due diverse genera- zioni, dipinsero scene storiche, genere che riscuoteva gran- de successo presso le giurie. Del primo periodo (1856-64) i piú notevoli sono Eduardo Cano, José Casado del Alisal, Vi- cente Palmaroli, Eduardo Rosales e Antonio Gisbert. Que- st’ultimo lasciò chiaramente trasparire opinioni vicine alle idee socialiste nella scelta dei soggetti. Fra gli artisti della seconda generazione (1878-87) alcuni si aggregarono al mo- vimento realista, come Manuel Dominguez e Alejandro Fer- rant. Il belga Carlos Haes, stabilitosi a Madrid dal 1857, rin- nova l’interesse per il paesaggio, e inizia i suoi numerosi al- lievi, tra cui si distingue Agustìn Riancho. alla nuova concezione della natura sostenuta dalla scuola di Barbizon. Martìn Rico, in occasione di un viaggio in Francia, si acco- stò a Daubigny. A Barcellona, Ramón Martí y Alsina fu l’ini- ziatore del realismo in Catalogna e il maestro di tutta una generazione di pittori. Il suo più dotato allievo, Joaquìn Vay- reda, scoprì l’incanto campestre della regione di Olot, dove fondò una scuola. Il quadro di genere ebbe notevole fortuna grazie al succes- so e all’influsso di Mariano Fortuny in tutta Europa, e alla buona accoglienza che ebbe in tutte le esposizioni naziona-

Storia dell’arte Einaudi li. La morte prematura di artisti dotati come Rosales e For- tuny non favorí l’apertura della pittura spagnola all’influsso francese. (jdlp). Il XX secolo u Inizio del secolo. Barcellona e Madrid Durante la prima metà del sec. xx, l’attività artistica si articolò quasi esclusi- vamente tra Barcellona e Madrid, città in cui si formarono gruppi di artisti, molti dei quali provenienti dalla provincia. Intorno al 1900, Barcellona fu il principale punto d’incon- tro tra l’arte spagnola e le idee nuove. Il post-impressioni- smo venne introdotto da artisti catalani di formazione fran- cese; Ramón Casas e Santiago Rusiñol ne furono i capifila. Quest’ultimo, pittore, scrittore, mecenate e collezionista, fu la figura emergente della vita intellettuale catalana e assi- milò il modernismo dell’Art Nouveau. Succedendo al modernismo catalano, e prendendolo come punto di partenza, apparve il fenomeno del novecentismo, che ebbe grande risonanza fino ai giorni nostri. Questo mo- vimento, il cui teorico fu il critico d’arte Eugenio d’Ors, so- steneva un’arte idealista timidamente rinnovatrice, che ri- cercava la semplicità dei valori della campagna e il «culto del Mediterraneo». Fu una pittura alquanto tradizionalista e provinciale, con una sua vena «classica»; implicava comun- que un mutamento rispetto alle crescenti complicazioni del modernismo e alla retorica dell’accademismo. Non stupisce pertanto incontrare tra i novecentisti l’uruguayano Torrès Garcia legato in seguito al movimento costruttivista. La pit- tura novecentista affrontò soprattutto la natura morta e ac- colse rapidamente l’influsso di Cézanne nella struttura dei paesaggi (altro genere praticato): suo interesse precipuo era quello di captare la luce mediterranea. Intorno al 1940 una seconda ondata novecentista si manifestò con Joaquín Sunyer e Miguel Villá, formatisi intorno al 1920. Alcune ri- cerche individuali, partendo dal modernismo, tesero a una pittura intuitiva (Joaquìn Mir, Anglada Camarasa). Questi pittori, interessati dagli effetti materici, sfiorarono spesso l’astrattismo. Tra il modernismo e un espressionismo piú tra- gico si colloca l’arte di Isidro Nonell (ritratti di gitane o di vecchie vestite di cenci). Durante questo periodo la pittura non presentava, a Madrid, la stessa originalità. L’arte madrilena è eterogenea: folklore

Storia dell’arte Einaudi e regionalismo vi convivono costantemente. Il pittore basco Dario de Regoyos vi svolse un ruolo importante: dopo un soggiorno in Belgio, ove fece parte del gruppo dei Vingts, intorno al 1890 dipinse paesaggi spagnoli con una tecnica pointilliste. Un altro paesaggista, Aureliano de Beruete, rin- novò la tecnica della pennellata libera e luminosa, nella tra- dizione di Velázquez e di Goya, sotto l’influsso dell’im- pressionismo. Il pittore di maggior successo dell’epoca fu il valenzano Joaquin Sorolla, ritrattista della corte, dell’alta aristocrazia e del mondo politico durante il regno di Alfon- so XIII. Il modernismo madrileno è in generale opera di pittori ba- schi, come Juan de Echevarrìa, ancora post-impressionista, Iturrino e Ignacio Zuloaga. Quest’ultimo, assai legato agli scrittori della «generazione del ’98», dà vita a un’arte ispa- nica spettacolare, con ambizioni cosmopolite. Vi abbonda- no le formule retoriche, che assumono come fonte la lette- ratura. José Gutiérrez Solana è l’unico che abbia tradotto nella sua pittura una S veramente angosciosa, tanto che i suoi dipinti, dai colori cupi, con materie e impasti densi e opachi, sembrano avvicinarsi ai motivi espressionisti. u Cubismo, surrealismo, astrattismo La maggior parte dei pit- tori dell’epoca si sentivano attratti verso Parigi. E infatti proprio in questa città doveva elaborarsi il rinnovamento della scuola spagnola, principalmente grazie a Pablo Picas- so, che prima di trasferirsi visse a Barcellona, dove produs- se opere influenzate dal modernismo catalano soprattutto da Nonell. Stabilitosi a Parigi nel 1904, Picasso fu, con Bra- que, l’iniziatore del cubismo. La sua figura, estremamente complessa, continua anche dopo la prima guerra mondiale a riassumere in sé i mutamenti a cui è soggetta l’arte del No- vecento. Dal ritorno all’ordine post-cubista, al contatto col surrealismo, ma soprattutto con il forte impegno politico di- mostrato nel corso della guerra civile spagnola, Picasso di- venta una specie di simbolo nel quale si riassumono le cor- renti d’avanguardia. Nel corso della guerra civile dipinge Guernica, l’espressione piú autentica del suo atteggiamento dinanzi alla ferocia umana. Faceva parte del gruppo cubista di Parigi anche Juan Gris che aveva esordito come disegnatore umoristico e che ri- spetto a Picasso e Braque portò avanti un discorso piú in- tellettualistico ispirando la propria pittura a modelli geome-

Storia dell’arte Einaudi trici e matematici. Cubista della prima ora, Maria Blanchard evolvette verso una sorta di realismo magico, apparente- mente freddo, ma in realtà assai sensibile e femminile. L’influsso cubista penetrò in S verso il 1910. Daniel Váz- quez Diaz, amico dei cubisti parigini, lo espresse in modo assai personale attraverso una sintesi del realismo cézannia- no e di geometrismo cubista. Esercitò grande influsso sui giovani artisti verso il 1940. In un certo senso anche il ba- sco Aurelio Arteta può essere considerato legato al cubismo nelle sue grandi pitture murali, ove la figura acquista una monumentalità epica e dove compaiono elementi già defini- bili post-cubisti. Verso gli anni Trenta il galiziano Manuel Colmeiro fu influenzato da Cézanne. A Barcellona, l’avanguardia divenne internazionale con la fondazione della Gall. Dalmau nel 1906 e la comparsa di una nuova generazione di pittori. Dopo un periodo di mostre di novecentismo, Dalmau organizzò, a partire dal 1912, mo- stre d’arte contemporanea (cubisti francesi, espressionisti), Nel 1917, rifugiatosi a Barcellona, Francis Picabia fondò la rivista dadaista «391» (quattro numeri) e nel 1922 espose presso Dalmau (catalogo con prefazione di André Breton). Il surrealismo avrà in seguito notevole risonanza in Catalo- gna e sarà rappresentato da Joan Miró e Salvador Dalì. La pittura del primo è caratterizzata dallo humor e dal sogno. Giunto a Parigi, il pittore abbandonò la figurazione e rea- lizzò stilizzazioni dalle forme organiche, dai colori striden- ti e dallo spirito sovversivo. Sostenitore della causa repub- blicana durante la guerra civile, la sua arte ricercò forme piú violente, con allusioni piú dirette. A poco a poco, Miró giun- se ad elaborare una pittura di semplici motivi e ideogrammi magici, in colori puri, che influenzerà profondamente i pit- tori catalani del secondo dopoguerra. Salvador Dalì, amico del poeta Lorca e del regista Buñuel, cominciò dipingendo, sin da giovane, paesaggi in cui si me- scolano il realismo mediterraneo, la pittura metafisica di De Chirico e la visione cubista, sfociando in un realismo fanta- stico. Dopo aver partecipato attivamente al surrealismo pa- rigino, aver collaborato ai film di Buñuel, L’âge d’or e Un chien andalou, e aver ideato il metodo «paranoico-critico», Dalì cadde in un «anarco-cattolicesimo» surrealista nel qua- le convivono misticismo ed esibizionismo commerciale.

Storia dell’arte Einaudi L’astrattismo penetrò lentamente in Catalogna, tramite l’ar- chitettura razionalista e sociale di Torrès, di Sert e del Ga- tepac.Citiamo il neoplasticismo di Juan Sandalinas e il pro- getto di Theo van Doesburg di fondare, a Barcellona, la ri- vista neoplastica «Le Nouveau Plan». Nel frattempo Madrid, meno aperta all’Europa, esce dal le- targo. Nel 1925 si tiene la celebre Esposizione delle arti iberiche, prima manifestazione pubblica dell’avanguardia, messa in ridicolo dalla stampa reazionaria dell’epoca. La creazione del gruppo A.D.L.A.N. (amici dell’arte nuova), del gruppo costruttivista da parte di Torres-Garcìa (che fondò Cercle et Carré a Parigi, con Seuphor e Mondrian), la mostra itinerante di Picasso (1936) sono alcune delle tap- pe verso una difficile evoluzione. Il surrealismo guadagnò adepti, che occuperanno a Parigi un luogo importante nell’avanguardia: Francisco Borés, pittore lirico e colorista semi-astratto, Peinado, Gonzales Gómez de la Serna, Luis Fernández. A Madrid, citiamo Maruja Mallo, legata alla «Revista de Occidente», Manuel Angeles Ortiz, amico di Lorca, e soprattutto Benjamìn Palencia, disegnatore e pit- tore che, in quel momento, adatta il surrealismo a un’au- stera visione della terra castigliana. Alle Canarie, il critico Eduardo Westerdhal e il pittore Oscar Dominguez anima- no un importante gruppo surrealista che pubblica «Gaceta de Arte» e organizza nel 1933 una grande mostra surreali- sta internazionale. u La guerra La guerra civile stroncò tutto questo fervore. La maggior parte dei pittori d’avanguardia – con la nota ec- cezione di Dali – abbracciò la causa repubblicana. Molti emi- grarono; alcuni, scoraggiati, abbandonarono per sempre ogni ricerca. La guerra influenzò l’evoluzione dei maggiori arti- sti, impegnandoli politicamente o incitandoli a descrivere «gli orrori della guerra». Nell’opera di Miró e Picasso, pro- prio in questo periodo, aumentano violenza ed espressività. Nel 1937 il Padiglione repubblicano dell’Esposizione di Pa- rigi, eretto da Sert, esponeva Guernica di Picasso, il Conta- dino con la falce di Miró, il Montserrat urlante dello scultore Julio González, il Popolo spagnolo in marcia verso una stella dello scultore Alberto. Dopo la seconda guerra mondiale, l’artista spagnolo vive un periodo assai duro, in un ambiente ostile alla creatività, ta- gliato fuori dal resto del mondo. Tuttavia contro l’accade-

Storia dell’arte Einaudi mismo presto prende corpo un movimento di prudente rin- novamento, in un certo senso simile al novecentismo, per la ricerca della semplicità formale. Tale movimento cominciò verso il 1943, contemporanea- mente sia a Barcellona che a Madrid. Si assiste a una rivalo- rizzazione dei postcézanniani (Villá, Sunyer, Pruna) e all’ac- cettazione da parte della borghesia colta di una pittura deco- rativa e modernista (Clavé, Grau-Sala). A Madrid tale tendenza ebbe maggior forza e ampiezza. Eugenio d’Ors fondò nel 1943 il Salone degli undici e l’Academia breve de la crìtica. Alle mostre che organizzò parteciparono insieme pittori già noti prima della guerra (Blanchard, Torrés Garcia), artisti decorativi e novecentisti. I giovani erano rappresenta- ti dalla scuola di Madrid, gruppo eterogeneo di realisti che si avvicinavano moderatamente alle tematiche fauve: Eduardo Vicente, Alvaro Delgado, Francisco Arias. L’austero paesag- gista Godofredo Ortega Muñoz e il pittore di vita contadina Rafael Zabaleta, la cui opera unisce la tradizione dell’arte po- polare a influssi picassiani, saranno però gli unici a serbare un buon livello di qualità e di sincerità pittorica. Spiccava la fi- gura isolata di Francisco Cossió, che trionfava a Parigi verso il 1930 per la sua opera dalle qualità rare e sottili. u L’avanguardia catalana L’avanguardia catalana nacque dal surrealismo e si sviluppò nella direzione dell’informale. A Barcellona, verso il 1946, pittori (Tort, August Puig, Ponç), poeti (Brossa), filosofi (Arnau Puig) costituirono una sorta di gruppo col poeta surrealista J. V. Foix. Nel 1948 alcuni membri di tale gruppo (Ponç, Brossa e Arnau Puig) si uni- rono ai pittori Tápies, Tharrats e Cuixart e costituirono il gruppo Dau al Set, che pubblicò l’omonima rivista. L’ispi- razione iniziale era surrealista, anzi dadaista. Dau al Set di- mostrò capacità d’azione unitaria: da qui la sua maggior omo- geneità rispetto ai gruppi eclettici di Madrid. Miró, che Dau al Set incontrò sin dal 1949, li influenzò direttamente. Di- scioltosi il gruppo verso il 1952, i suoi membri presero la strada dell’informale e delle ricerche materiche. Antoni Tá- pies, il piú importante, può essere considerato il maggior esponente dell’informale e l’iniziatore dell’Arte Povera nel suo paese. Tharrats, editore e tipografo della rivista «Dau al Set», di- venne anch’egli uno dei piú importanti informali catalani do-

Storia dell’arte Einaudi po aver vissuto una fase espressionista. Modest Cuixart pas- sò da un surrealismo piuttosto simbolico a un informale se- vero, in cui la tragica sobrietà si unisce alla grandiosità ba- rocca dei colori, per poi tornare a una figurazione magica, do- ve talvolta introduce elementi pop. Joan Ponç è restato fedele al surrealismo nei suoi disegni minuziosi ed evocativi. Nel 1949 il primo Salone d’ottobre, molto eclettico, fu l’uni- ca manifestazione pubblica di arte contemporanea, ove espo- sero fianco a fianco pittori di ogni tendenza. L’informale conquistò sin dal 1950 la maggior parte dei pit- tori catalani: Hernández Pijuán, Ramón Vallés, Argimón, Guinovart e August Puig, che per primo ruppe con la figu- razione proponendo forme viscerali e spazi organici. Anche in provincia si avvertì un rinnovamento: a Saragoz- za, per esempio, ove nel 1947 si costituì il gruppo astratto Pórtico, uno dei primi del paese, con Lagunas, Laguardia e Fermin Aguayo. Dopo il suo soggiorno a Parigi quest’ulti- mo combinò nei suoi dipinti dati reali a forme astratte. La scuola di Altamira, creata a Santander dal 1948, era piú innovatrice e meglio informata dell’Academia breve, e svol- se un ruolo importante nell’introduzione dell’astrattismo nel paese e nella costituzione di un effimero fronte comune. In- tanto le «Biennali ispano-americane», iniziate nel 1951, at- testavano il progressivo aprirsi della cultura ufficiale. u Gli anni ’50 e ’60 Il 1957 è un’altra data fondamentale per l’arte contemporanea spagnola, giacché vede la creazio- ne, a Madrid, del gruppo El Paso, a Cordova, dell’Equipo 57 e, a Valenza del gruppo Parpalló. El Paso era composto da artisti alla ricerca di un programma comune e di unità d’azione; nacque dall’incontro tra Millares, Saura, Canogar, Feito, Rivera, Viola, dello scultore Chirino e di critici d’ar- te. Nel 1957 la prima di una lunga serie di mostre venne inaugurata a Madrid, seguita dalla comparsa del primo nu- mero di un bollettino. El Paso, scioltosi nel 1960, s’iscrive direttamente nell’ambito dell’informale e dell’espressioni- smo astratto. Antonio Saura è passato per l’esperienza surrealista e per quella astratta, approdando alla figurazione gestuale, acco- standosi per taluni aspetti, al pittore americano De Kooning. Manolo Millares, anch’egli partito dal surrealismo e da- ll’espressionismo figurativo, pratica una pittura informale, talvolta con riferimenti alla realtà.

Storia dell’arte Einaudi Rafael Canogar ha appreso felicemente la lezione dell’Ac- tion Painting americana, applicandola alla sua pittura, ove intreccia forme su fondi neutri, trattati con colori severi e materie oleose; in un periodo successivo è tornato a una vi- sione oggettiva. Luis Feito organizza i suoi dipinti, dai colori assai vivi, co- me nuclei di materia e luce. Manuel Rivera sovrappone tele metalliche colorate, creando liriche sensazioni marezzate. La pittura di Viola esaspera l’aspetto tragico. Segnaliamo inoltre, fuori di El Paso, informali come Lucio Muñoz, Sua- rez, Farreras, Manrique e José Guerrero, le cui opere, se- gnate dalla pittura americana, serbano peraltro un nettissi- mo carattere spagnolo. A Cordova, la fondazione del gruppo di lavoro collettivo Equipo 57 i cui membri dichiarano l’intenzione di diffon- dere i principi del costruttivismo, segna l’inizio dell’arte ra- zionalista spagnola. Nel manifesto Cuenca, Duart, Duarte, Ibarrola assumevano a proprio principio l’interazione tra lo spazio plastico tridimensionale e una presa di posizione ideo- logica dinanzi ai problemi sociali e artistici (funzione socia- le dell’arte, ruolo dell’artista, arte oggettiva e collettiva). Equipo 57 si volse anche alla progettazione di mobili e di oggetti d’uso comune. Attivo anche fuori dalla S, l’influsso su di loro del danese Mortensen fu notevole. Segnaliamo nel- lo stesso ambito, inoltre, la fondazione a Valenza del grup- po Parpalló, che nella sua rivista pubblicò importanti testi stranieri e spagnoli: piuttosto eterogeneo, il gruppo era com- posto soprattutto da costruttivisti (Labra, Sempere, lo scul- tore Alfrero) che nel 1960 organizzarono una Mostra na- zionale di arte normativa, preludio all’arte razionalista. Nel 1958 la pittura spagnola comincia a diffondersi all’estero e alla Biennale di Venezia le vennero assegnati due premi, uno a Tápies, l’altro allo scultore Chillida. Fu poi oggetto di di- verse esposizioni: mostre del mad di Parigi (1958), del mo- ma di New York (1960) e della Tate Gall. di Londra (1963). Guadagnava intanto terreno il realismo socialista. A Siviglia comparve una schiera d’incisori, sollecitati da Francisco Cor- tijo, che univa allo spirito satirico e al preciso disegno delle sue lastre le qualità dei suoi quadri, rappresentanti le peri- ferie e i tuguri andalusi. Il gruppo nazionale Estampa po- pular, che intendeva divulgare attraverso l’incisione il rea-

Storia dell’arte Einaudi lismo socialista a tutte le classi sociali, nacque nel 1959, in molte città spagnole, con José Ortega. Agustìn Ibarrola, ex membro di Equipo 57, dipinse monumentali operai collo- candoli entro invariabili paesaggi industriali. Parallelamente, l’espressionismo satirico trova i propri in- terpreti in Francisco Mateos e Luis Garcìa Ochoa; la stessa predilezione per uno stile satirico e caricaturale si ritroverà in Joaquìn Pacheco. Il problema della successione dell’informale si pose in S ver- so il 1963. Mentre la pittura mondiale si volgeva alla ricer- ca sperimentale (Arte ottica e Arte cinetica, lavoro colletti- vo) o alla descrizione ironica della realtà quotidiana e della società dei consumi (Pop Art), gli artisti spagnoli s’impe- gnavano, per la maggior parte, nell’ambito della nuova fi- gurazione. Si pretendeva di dimostrare che, essendo supe- rata l’arte informale, lo fosse anche l’astrattismo. Alcuni pit- tori risolvettero in modo soddisfacente la crisi dedicandosi alla descrizione oggettiva e attuale della realtà; altri invece imboccarono la strada del realismo. Discosti dalla nuova figurazione, e molto piú organizzati, sono gli artisti della Crónica de la Realidad (Equipo Cróni- ca, Valenza 1964; Rafael Salves e Manuel Valdés sono i fon- datori del gruppo), che hanno inteso il realismo nel senso di critica della società dei consumi e che, per raggiungere il po- polo, usano il linguaggio dei fumetti o delle citazioni di qua- dri celebri. La loro arte, tuttavia, si differenzia da quella de- gli artisti pop per una maggiore didatticità a scopo rivolu- zionario. Nel frattempo Juan Genovés il piú significativo dei realisti di Valenza si vale di metodi diversi per fini consimili. Il suo passaggio dall’espressionismo alla «cronaca della realtà» si effettuò progressivamente mediante l’adozione di un lin- guaggio che molto deve al cinema. I dipinti in tre successi- ve immagini, gli ingrandimenti, le vedute aeree, i travellings, sono esempi della sua tecnica descrittiva. Accanto alla nuova figurazione, ma senza alcun rapporto con essa, si può osservare il persistere di un certo realismo, in cui si nota l’assimilazione delle esperienze piú recenti della pittura. Nei loro minuziosi dipinti Antonio López Garcia, Francisco López e Isabel Quintanilla si ab- bandonano a una descrizione quasi fotografica delle imma- gini. Carmen Laffón dipinge con umiltà e intelligenza i te-

Storia dell’arte Einaudi mi della sua nativa Siviglia, di cui traduce la leggerezza di luce e l’inafferrabilità atmosferica. Citiamo inoltre Amalia Avia, la cui visione, piú amara, completa l’immagine deso- lata della S; Angel Orcajo, che si colloca un poco in dispar- te, tra astrattismo costruttivo e realismo, con i suoi paesag- gi vuoti di personaggi e di cose. Di difficile classificazione è invece una serie di pittori che hanno in comune soltanto un certo lirismo pittorico (Mompó, Gustavo Torner, Fernando Zóbel, Juan Romero, Antonio Lorenzo, che è anche incisore). Zóbel ha fondato il Museo d’arte astratta di Cuenca, centro di arte molto at- tivo, organizzato con gusto sicuro nella scelta e nella pre- sentazione. L’arte razionalista spagnola, preannunciata da Equipo 57, non ha avuto larghissima diffusione. Vi si distinguono tre correnti: il costruttivismo organico, il cui esponente princi- pale è Palazuelo; il lirismo costruttivo e la ricerca plastica, nel cui ambito s’impongono Rueda e Sempere. La nuova generazione che si affaccia sulla scena verso il 1967 intende realizzare una pittura di sintesi e di disciplina. Se- gnaliamo Jorge Teixidor, con le sue «porte» e le sue opere aperte, e Yturralde, le cui «figure impossibili» molto devo- no alla psicologia della percezione. Accanto a questi pittori, altri sono piú liberi nonostante non abbandonino mai una caratteristica concisione e semplicità (Aguirre, Jordi Gali, Gordillo). Il gruppo Antes del Arte (Valenza 1968) cerca, empirica- mente, possibilità creative nel campo scientifico. Tale ini- ziativa è piú una proiezione degli artisti nella scienza che un saggio di collaborazione tra arte e scienza. Il gruppo che or- ganizza i «seminari sulla generazione di forme plastiche con l’uso del calcolatore», al Centro di calcolo dell’Università di Madrid cerca di utilizzare il calcolatore per facilitare l’ope- ra dell’artista, procedendo in un senso analogo a numerosi gruppi in Europa, negli Stati Uniti e nell’Urss. I risultati mi- gliori sono quelli ottenuti dal pittore «modulare» Barbadil- lo, che ha razionalizzato la creazione delle sue opere, di Ytur- ralde, dello scultore Alexanco, che impiega il sistema delle curve di livello per calcolare le sue sculture organiche. Tut- ti questi lavori vengono effettuati in collaborazione con ma- tematici, parallelamente a ricerche teoriche sull’informatica

Storia dell’arte Einaudi e l’arte. Vanno infine ricordati alcuni artisti che, ricercan- do nuove strade per l’utilizzo del collage, si avvicinano, in un certo senso, all’Arte Povera: Angel Jové, Manuel Sala- manca, José Villanbì e Alberto Porta. (abc). Spagna (Giovanni di Pietro, detto lo) (? 1450 ca. - Spoleto 1528). Incerta la sua origine, forse spa- gnola, oscura la sua vicenda fino ai primi anni del Cinque- cento, cui si riferiscono le prime notizie sicure. Fra i segua- ci piú dotati di Perugino in Umbria, lo S è ricordato da Va- sari nella Vita del maestro come colui che «colori meglio di nessun altro di coloro che lasciò Pietro dopo la sua morte». Arricchendo la formazione peruginesca di altri importanti apporti, da Antoniazzo Romano a Raffaello, lo S elaborò una pittura nitida e luminosa, dal disegno forbito, dal pla- stico modellato, dalla materia smaltata. A questa sorta di classicismo purista rimase strenuamente fedele. Oltre che a Perugia (Cristo portacroce: monastero della Beata Colomba), da cui presto si allontanò, svolse la sua attività a Todi (Inco- ronazione, 1511: pc), ad Assisi (Santi e beati francescani: San- ta Maria degli Angeli) e poi soprattutto nell’Umbria meri- dionale, stabilendosi a Spoleto (Natività di Cristo, ante 1503: Berlino, sm, gg; Madonna con Bambino e santi, 1514-16; Ca- rità, Giustizia e Fede: Spoleto, pc, affreschi staccati dalla Roc- ca Albornoziana; Deposizione, 1521: Trevi, pc; Storie di san Giacomo, 1526: San Giacomo di Spoleto, parrocchiale). In quest’area gli affreschi dello S e dei suoi numerosi seguaci costituiscono un aspetto caratterizzante della fisionomia ar- tistica dei primi tre decenni del secolo.(sr). Spagnolo → Roviale, Francesco √pála, Václav (ælunice (Boemia orientale) 1885 - Praga 1946). Completò i suoi studi all’Accademia di belle arti di Praga dove ebbe come maestri F. Thiele e V. Bukovac. I suoi esordi rivelano l’influenza di Munch (Autoritratto, 1908: Praga, ng) e dei fauves (paesaggi della costa dalmata del 1910 e del 1911). La Ragazza di campagna e Il bagno del 1913 lasciano trape- lare un’analisi della forma derivata dal cubismo di cui si fa libero interprete. Durante i suoi soggiorni a Parigi, in Italia e sulla costa adriatica, √ cercò nuovi ritmi di forme, combi-

Storia dell’arte Einaudi nate in organiche ed equilibrate costruzioni contraddistinte dall’uso di colori fondamentali – rosso, blu, verde e bianco – che esprimevano vigorosamente uno spirito vicino all’ar- te popolare. L’anno 1923 segnò l’inizio del periodo «verde», essenzialmente consacrato al paesaggio, mostrandosi alla ri- cerca di un equilibrio tra la forma costruita e la forma «na- turale» (paesaggi sulle rive della Vltava, dell’Otava e del Be- rounka). A partire dal 1927, il blu torna a dominare nella sua produzione (Il corso dell’Otava, 1929: Cheb, Gall. VØt- varneho; Le peonie, 1931: Praga, ng). In queste opere, assai strutturate, il pittore approdò a una suggestiva visione. Ne- gli anni Trenta e Quaranta si assiste a un arricchirsi delle gamme cromatiche, l’espressione diviene piú veemente, la scrittura piú nervosa. Nell’ambito della moderna arte ceco- slovacca, il · schierò dalla parte di quegli artisti che hanno tentato di combinare l’espressione plastica contemporanea con l’atmosfera e le tradizioni popolari del loro paese. (ivj). Spalletti, Giuseppe (Roma, fine sec. xviii). Visse a Roma nella seconda metà del Settecento; abate, era «scrittore di lingua greca» alla Bi- blioteca Vaticana. Coltivava la poesia latina e la filologia. Il Saggio sopra la bellezza (Roma 1765) gli valse, oltre al so- prannome di «brutto autore del bello» (V. Monti), i com- menti e le annotazioni di A. R. Mengs, D’Azara e B. Ga- liani. Superando i confini italiani, la teoria estetica di S fu citata nell’opera di Sulzer. B. Croce, riscoprendo per primo il Saggio in età moderna, identificò il pensiero sul bello dello S con il «caratteristico» e lo utilizzò come «risposta divergente e preromantica» al bello ideale di Winckelmann. (sag). Spanzotti, Giovanni Martino (notizie dal 1475 al 1523 ca.). A lungo trascurato dalla cri- tica, se si escludono brevi giudizi di Longhi e Venturi, è sta- to rivalutato a partire dalla fine degli anni Cinquanta, ma solo successivamente sono giunti contributi fondamentali per una corretta lettura stilistica e cronologica della sua ope- ra, che presenta però tuttora notevoli difficoltà e lacune. Menzionato per la prima volta a Casale Monferrato nel 1480 e poi l’anno successivo a Vercelli, è indicato come «Marti-

Storia dell’arte Einaudi no de Spanzoto Mediolani», forse per l’origine lombarda del padre, Pietro de Campanigio (Varese), anch’egli pittore. È ormai assodata la sua attività, già a un alto livello di aggior- namento sul Cossa ferrarese e su Piero della Francesca, ne- gli anni Settanta, il che porta la sua data di nascita verosi- milmente intorno al 1450.Prova della sua autorità già sul fi- nire del settimo decennio è l’opera del Maestro di Crea, che è ad evidenza al corrente degli sviluppi ferraresi mediati dal- lo Spanzotti stesso (Madonna Tucker: Torino, mc). Tra le sue prime opere si collocano i frammenti di una pre- della raffiguranti apostoli (a Eztergom), in cui gli echi cos- seschi sono puntualmente riconducibili alle tarsie di San Pe- tronio. Gli stessi accenti si colgono, squisitamente infusi di luminosità pierfranceschiana e insieme con una definizione del colore e degli incarnati non immemore di fatti proven- zali, catalani e fouquettiani, in una serie di altre opere an- cora giovanili e già di straordinaria qualità: la citata Madonna Tucker, la Madonna del gatto (Philadelphia, coll. Johnson), le tavole con santi e sante già a Stresa e poi Contini Bonacos- si, lungamente discusse ma di certa autografia (Torino, Gall. Sabauda) e l’affresco con l’Adorazione dei Magi in San Fran- cesco a Rivarolo Canavese. Con queste opere il Piemonte si apre al rinascimento: per quanto ancora evidenti siano gli influssi ponentini, in queste tavole è ormai scoperta l’ade- sione, marcata da inconfondibile originalità, ai moduli stili- stici padani, superando di slancio lo splendido tardo-gotico di Antoine de Lhony, che S può aver incontrato (come an- che Nicolas Robert, pittore e maestro di vetrate presente a Vercelli nel 1478), e di cui si ricorda la sua bottega nella ve- trata con l’Annunciazione del mc di Torino. Ancora in una prima fase dell’attività di S si scala un grup- po di opere in cui la nitidezza di matrice fiamminga si ad- dolcisce in toni di luminosità studiata, dove la luce e l’om- bra creano volumi solidi e definiti ma mai rigidi: il trittico firmato con la Madonna in trono tra santi (Torino, Gall. Sa- bauda), le tre Pietà (Sommariva Perno, Santuario della Ma- donna del Tavoleto; Budapest, mba; Roma, Castel Sant’An- gelo), l’Assunzione della parrocchiale di Conzano e la Ma- donna dell’Accademia Albertina di Torino. Negli stessi anni si collocano le Storie di Cristo in San Bernardino a Ivrea, per cui si è finalmente giunti a concordare su una data alta, po- nendole in parte (fino alla Disputa al Tempio) all’altezza del

Storia dell’arte Einaudi trittico della Sabauda, e in parte in parallelo alle altre ope- re appena menzionate. La seconda fase degli affreschi in San Bernardino segna un ulteriore momento dell’evoluzione di S: lo studio spaziale e prospettico si approfondisce sulla ba- se dei piú alti esiti del rinascimento lombardo, da Foppa a Bramante a Bramantino. Gli appigli cronologici per questo periodo sono pressoché inesistenti, ma è plausibile scalare tutte le opere entro il 1486, data di inizio dei lavori al Sa- cro Monte di Varallo, dove S esegue, entro il 1491, il grup- po della Pietra dell’Unzione (Varallo, Museo), svelando un talento anche di scultore destinato a far scuola. Nel 1498 S si trasferisce a Casale e nel 1502 a Chivasso, non prima di aver lavorato allo smembrato polittico per San Fran- cesco a Casale (diviso tra l’Accademia Albertina di Torino, la Pinacoteca di Brera a Milano e la ng di Londra), in cui la si- curezza dell’impostazione prospettica e la salda definizione dei volumi sono ormai assolute. Con l’apertura della bottega chivassese (di cui farà parte anche il vercellese Sodoma) si di- rada l’attività autografa di S. Nasce di qui, tra l’altro, l’an- nosa e intricata questione del rapporto S – Defendente Fer- rari, suo allievo e stretto collaboratore che non riuscirà però a tenersi al livello del maestro. Esempio della compresenza delle due mani è il Battesimo di Cristo (Torino, Duomo), com- missionato a S nel 1508 e terminato dopo il 1510 da Defen- dente. Forse frutto di collaborazione è anche il polittico con I santi Orso, Crispino, Crispiniano e Teobaldo (ivi), terminato prima del 1504.Degli anni chivassesi sono ancora Santala Ca- terina da Siena di Verona (Castelvecchio) e un’ancona perdu- ta, già a Foglizzo. Nel 1511 S è a Torino, dove riceve la com- missione per l’ancona dell’altar maggiore di Santa Maria di Piazza a Casale, anch’essa perduta; nel 1513 prende la citta- dinanza torinese. L’ultima opera nota, databile intorno al 1523, è L’elemosina di sant’Antonio Pierozzi (vescovo dome- nicano di Firenze), eseguita per San Domenico a Torino. Chiarito definitivamente il ruolo innovatore di S per la pit- tura piemontese tra xv e xvi secolo e superate le molte reti- cenze verso la fondamentale retrodatazione degli affreschi di Ivrea, solo nuovi ritrovamenti – di opere e di documenti – po- tranno chiarire i molti interrogativi che ancora costellano l’iter di quello che Longhi definì «il punto dove la pittura italiana e la francese “italianista” si dànno mirabile ritrovo». (vc).

Storia dell’arte Einaudi Sparano, Stefano (documentato dal 1506 al 1545). Pittore originario di Caiaz- zo, già menzionato nel 1524 da Pietro Summonte insieme ad Andrea Sabatini; la sua fase piú antica (ante 1509) va ri- cercata nelle tre tavole di Santa Maria Maggiore a Piedi- monte Matese (Annunciazione; Madonna col Bambino e san- ti; Immacolata concezione e santi), nelle quali la prevalente intonazione umbro-romana alla Pinturicchio riceve un’ac- centuazione espressiva analogamente a quanto avviene nel Genga e nell’Asperfini. Probabilmente sollecitato ad approfondire questa tendenza dal soggiorno napoletano di Antonio Rimpatta e di France- sco da Tolentino, lo S codificò il suo fare pungente e ani- moso nel trittico con la Madonna col Bambino e santi di San Martino (commissionato nel 1507), nei Santi Michele arcan- gelo e Andrea in Sant’Angelo a Nilo a Napoli e nel polittico con la Madonna col Bambino e santi in San Nicola a Tolve; mentre nei Santi Giovanni Evangelista e Agostino in San Mi- chele a Padula (1509) e nel trittico con la Madonna col Bam- bino e santi in Sant’Antonio a Portici (commissionato nel 1513) si fa piú sensibile l’avvicinamento ai modi squadrati di Cristoforo Scacco. (rn). spazialismo Lo s è il movimento artistico che si fonda sulle enunciazio- ni contenute nel Manifiesto Blanco, redatto da Lucio Fonta- na nel 1946, a Buenos Aires. Firmato anche dai suoi allievi dell’Accademia di Altamira (tra questi, B. e P. Arias, M. Fridman, R. Burgos, C. Bernal, J. Rocamonte), il manifesto afferma l’importanza di un nuovo modo di concepire lo spa- zio e proclama l’abbandono della pittura da cavalletto. L’ar- te non deve piú sottostare alle limitazioni della tela o della materia («vogliamo che il quadro esca dalla sua cornice e la scultura dalla sua campana di vetro»), ma può allargare il suo campo, espandendosi attraverso nuove forme e tecniche espressive. Allo spazio viene data un’accezione anche fisica, non solo di trompe-l’œil pittorico, ma di superficie attra- versata dalla luce, costruita con la luce stessa. «Con le ri- sorse della tecnica moderna – scrive Fontana – faremo ap- parire nel cielo forme artificiali, arcobaleni di meraviglia, scritte luminose». Due i capisaldi delle teorizzazioni di Fon-

Storia dell’arte Einaudi tana: il concetto di dinamismo, proprio del futurismo boc- cioniano, e l’importanza accordata all’inconscio dai surrea- listi. La forma artistica è una sintesi fenomenica, un’unità «psico-fisica». Tornato in Italia alla fine della guerra, Fontana fa conoscere il manifesto ad altri artisti. Tra i primi ad aderire al suo pro- gramma furono Dova e Tullier, ai quali, in un secondo tem- po, si unirono Bacci, Bergolli, Crippa, De Luigi, Donati, G. Morandi; infine, Capogrossi, Peverelli, Scanavino, Sottsass. A Milano, nasce il gruppo spazialista che a cavallo tra il 1947 e il ’48 redige un nuovo manifesto (lo s ne avrà ben sei). In molti di loro è evidente la coesistenza delle poetiche informali e gestuali, accanto ai principi spazialisti. L’anno successivo, presso la Galleria Il Naviglio di Milano, Fontana presenta un suo «ambiente spaziale», costituito da tubi ed elementi so- spesi, fosforescenti e illuminati da una luce nera. Poco tempo dopo, nasceranno le tele con i buchi e i tagli, a significare l’apertura dell’opera d’arte verso una quarta dimensione, quel- la spazio-temporale. Nel 1952, Il Naviglio ospita la prima col- lettiva di artisti spaziali. Nel Manifesto tecnico dello spaziali- smo (del 1954, redatto da Fontana per il I Congresso Inter- nazionale delle Proporzioni alla IX Triennale di Milano) viene ribadita la necessità «per l’uomo attuale» di un cambiamen- to nell’essenza e nella forma dell’arte e viene proclamata la conquista della dimensione del tempo: per gli artisti spaziali quindi non esisterà piú né pittura né scultura, ma solo «for- me, colore, suono attraverso gli spazi». (adg). Spazzapan, Luigi (Gradisca 1889 - Torino 1958). I soggiorni a Vienna, Mo- naco, Parigi e la sua formazione goriziana, a contatto con la cultura austrotedesca e slovena, contribuirono a renderlo sensibile ad esperienze europee e a farne, in Italia, un «ca- so» pittorico assolutamente al di fuori da ogni scuola o mo- vimento artistico. Il suo stile muove infatti da una persona- le rielaborazione di suggestioni dello Jugendstil viennese, dell’espressionismo, della pittura fauve o dell’astrazione li- rica di Kandinsky, passando inoltre attraverso il futurismo. Giunse alla pittura dopo esperienze diverse, specie nel cam- po delle arti decorative e dell’architettura. Si stabilì a Tori- no nel 1928 e qui svolse la sua attività legandosi, tra il 1929

Storia dell’arte Einaudi e il 1932 al gruppo dei Sei, a L. Venturi e a E. Persico, fre- quentando anche l’ambiente degli architetti razionalisti. I suoi dipinti svolgono temi ricorrenti, piú volte reinterpre- tati: nature morte di fiori, figure di giovani o emblematici personaggi come gli arlecchini e i «santoni» (Santone, 1949: Roma, gnam). Nel contempo il suo stile si evolve verso una ricerca di crescente sintesi formale: il segno guizzante ed espressivo, i colori intensi e preziosi, trasformano a poco a poco l’immagine in motivo stilizzato e quasi astratto, «si- gla» personale suggestiva e fantastica (Composizione geome- trica, 1950: Torino, coll. priv.). Nelle opere piú recenti, spes- so esposte nelle mostre torinesi Italia-Francia, il prevalere dell’elemento cromatico sul segno giunge a una pittura non-figurativa con forti suggestioni informali (Notte d’in- verno a Torino, 1953: Macerata, mc; Composizione astratta, 1957: Torino, Gall. Narciso). Rivelatosi al pubblico con la sala alla Biennale di Venezia del 1936 (che gli spettò anche nel 1950 e nel 1954) e con una personale del 1941 a Torino, sempre in questa città organizza nel 1947 la mostra nazio- nale Arte italiana d’oggi Premio Torino.Numerose le retro- spettive: a Torino (gam, 1963); a Monaco (Stadtische Ga- lerie), a Lund e a Copenhagen (1964); a Colonia (1965); a Lubiana (1984); a Roma (1990). (lm). Speckaert, Hans (Bruxelles ? - Roma 1577). Poche sono le notizie biografi- che riguardanti S, pittore che van Mander incontra a Roma nel 1575. Alcune incisioni e iscrizioni su suoi disegni hanno permesso di raggruppare una parte della sua opera grafica, che dimostra un forte influsso italiano anche se assai diver- sificato: da Raffaello a Michelangelo, con suggestioni da Po- lidoro da Caravaggio, a Salviati, Raffaellino da Reggio e Par- migianino che giustificano le sue affinità con il compatriota Jan Soens. Numerosi dipinti sono stati accostati a questo gruppo di disegni: Diana e Atteone (Roma, Palazzo Patrizi), Mosè e il serpente (Buenos Aires, Museo nacional de bellas artes) e la Conversione di san Paolo, recentemente acquista- ta dal Louvre, che dimostra la medesima cultura eclettica dei disegni, dove però alcune figure si ricollegano alla cultura settentrionale ad esempio di Floris. Lo stile di S, degli anni intorno al 1570, ne fa un precursore del manierismo nordi- co dell’ultima generazione: Spranger, Cornelis van Haarlem,

Storia dell’arte Einaudi Goltzius. Si conosce un solo ritratto di mano dell’artista (Cornelis Cort, firmato «Specart»: Vienna, km). (sr). Speckter, Erwin (Amburgo 1806-35). Compiuti ad Amburgo i primi studi, dal 1825 al 1827 fu allievo di Cornelius a Monaco. Dal 1830 al 1834 soggiornò in Italia, dove subì l’influsso di Overbeck. Di- pinse ritratti e quadri di storia o di soggetto biblico in uno sti- le nazareno rigoroso, dai contorni nettamente marcati (Gia- cobbe e Rachele, 1827: Amburgo, kh). La maggior parte del- le sue opere è conservata appunto nella kh di Amburgo. (hbs). Spencer, Stanley (Cookham on Thames (Berkshire) 1891-1959). Allievo del- la Slade School di Londra (1908-12), prese parte alla secon- da esposizione dei post-impressionisti organizzata da R. Fry (1912) e dal 1919 al 1927 fu membro del New English Art Club. L’esperienza della guerra – fu sotto le armi in Mace- donia – risultò per lui fondamentale. Già autore di scene neotestamentarie, ambientate in una cornice moderna e fa- miliare, si volse alla realizzazione di grandi opere ispirate agli orrori della guerra, tra cui la decorazione di una cappella commemorativa a Burghclere, nello Hampshire (1923-32, studi a Londra, Tate Gall.). Ha poi continuato a dipingere soggetti religiosi trattati con forza e semplicità (la Resurre- zione, esposta nella sua prima personale alla Goupil Gall. nel 1927, tema al quale tornerà nel ciclo destinato al Porto di Glasgow, 1945-50) accanto a paesaggi della sua Cookham, spesso trasfigurata in veste di «Città Celeste». Degli anni Trenta è la serie Le Beatitudini dell’Amore, polemicamente rifiutate dalla Royal Academy nel 1935. La sua arte ossessi- va e visionaria – spesso posta a confronto con quella di W. Blake – può considerarsi estrema propaggine del realismo preraffaellita. Invitato alla Biennale di Venezia nel 1932 e 1938, gli sono state dedicate retrospettive nel 1955 alle Ta- te Gall. e nel 1980 alla ra (dove espose regolarmente dal 1950). È rappresentato specialmente a Ottawa (ng: Paesag- gio con magnolia, 1938; Elizabeth Wimperis, 1939; Autori- tratto, 1944) e alla Tate Gall. (dove è documentato ogni pe- riodo della sua produzione pittorica, dall’Autoritratto del 1913 al Pranzo all’albergo Lawn, 1956-57). (abo).

Storia dell’arte Einaudi Speranza, Giovanni (Vicenza 1470 ca. - ante 1536). La produzione del pittore vi- centino – ancora non completamente chiarita – appare so- stanzialmente condizionata dall’influenza costante del capo- scuola Bartolomeo Montagna, soprattutto nella prima fase (Assunta con Santi, 1498-1500 ca.: Vicenza, mc; Pala di San Giorgio, 1503: Velo d’Astico). Su questa componente di ba- se si sovrappongono poi aggiornamenti su Bellini (nel Beato Isnardo da Chiampo, 1512 ca.: Vicenza, Santa Corona) e un addolcimento dei grafismi giovanili negli affreschi di San Do- menico a Vicenza (1519) e nelle opere successive, soprattut- to a seguito del contatto con Francesco Verla e Marcello Fo- golino. Nella rovinata Crocifissione del refettorio del conven- to di San Domenico (poi Orfanatrofio Maschile) del 1526 la componente montagnesca appare smorzata e si rilevano i se- gni di nuove esperienze in ambiente veneziano (Tiziano). (elr). Sperl, Johann (Buch (Fürth) 1840 - Aibling 1914). Apprese la tecnica della litografia prima di entrare, nel 1865, all’Accademia di Mo- naco, presto abbandonata per la Scuola di Ramberg (1866-75), dove avvenne l’incontro con Leibl. Venne qui iniziato alla pit- tura di genere, che gli procurò alcuni successi (in particolare presso amatori americani), malgrado il suo stile aneddotico (Acconciatura della festa, 1880 ca,: Norimberga, gnm). Nel 1881 seguì Leibl ad Aibling, nelle Prealpi bavaresi, do- ve i due artisti dimorarono fino al 1892, ritirandosi poi a Kutterling. S, studiando incessantemente la natura, tornò sotto la guida dell’amico alla pittura di paesaggio. Compo- sero anche, attorno al 1883, quadri in comune: Leibl ani- mava coi suoi personaggi i paesaggi di S (Scena di caccia:Co- lonia, wrm). La semplicità del tema e un assoggettamento assoluto alle apparenze sensibili caratterizzano le opere di S. Paesaggista «dal vero», ammirava Constable e si sentiva in sintonia con la scuola di Barbizon. I suoi dipinti, dal toc- co leggero e dalle sottili gradazioni, sono validi per il colo- re, che suggerisce la materia e suscita lo spazio mediante chiazze policrome, secondo la tecnica «alla prima», che non prevede successivi interventi del pennello dopo l’iniziale ste- sura a tocchi. Dopo la morte di Leibl nel 1900, compose an- che vasti panorami. Nel 1910 un attacco di apoplessia l’ob-

Storia dell’arte Einaudi bligò ad abbandonare la pittura. È ben rappresentato ad Hannover (Landesgalerie), Norimberga (gnm: Prato in fio- re, 1907 ca.) e Monaco (sgs). (hm). Sperone, Galleria Giovanissimo, Gian Enzo S (Torino 1940) inizia a collabora- re con la Galleria Galatea di Torino; dal 1962 al ’64 dirige la Galleria Il Punto (alla quale collabora anche E. Crispolti), do- ve espone, tra gli altri, Mondino, Schifano e Lichtenstein, que- st’ultimo grazie all’amicizia con Ileana Sonnabend. Nel 1964 apre la propria galleria, attraverso la quale si avrà una massic- cia penetrazione della Pop Art americana in Italia: Rauschen- berg, Rosenquist, Warhol, Dine, Wesselmann, tutti tra il ’64 e il ’67; parallelamente, presenta artisti italiani (Pistoletto, Pa- scali, Gilardi, Piacentino, Marisa Merz, Zorio) anche in im- portantissime collettive: Arte abitabile (1966), curata da G. Celant; Con Temp L’Azione (1968), curata da D. Palazzoli con le Gallerie Il Punto e Stein. S diviene un punto d’incontro per la nascente Arte Povera e il circuito si allarga a Mario Merz, Fabro, Kounellis, Penone, Anselmo (presentato già nel ’68 da M. Fagiolo), Calzolari; ma anche ad Alviani, Boetti, Nespo- lo. Dal 1969-70 entrano in galleria anche la Minimal Art (Fla- vin, Andre, Le-Witt) e l’Arte Concettuale (Kosuth, Nauman, Huebler); proprio in questo periodo inizia la collaborazione con Konrad Fischer, che porterà nel 1974-75 all’apertura del- la S Westwater Fischer Inc. a New York, la terza Galleria S. La seconda sede storica è infatti Roma, dove S ha esposto, fra l’altro, Twombly, Ontani, De Dominicis. La galleria di Tori- no verrà chiusa nel 1979, non senza aver presentato la nuova direzione intrapresa da S con la transavanguardia (Chia, Cle- mente, Cucchi, De Maria), che decreterà il successo della se- de americana a partire dagli anni ’80. (dc). Spiegler, Franz Joseph (Wangen 1691 - Costanza 1757). S è tra i piú noti artisti di Costanza, nei pressi del grande centro artistico di Augusta. Le sue numerose pale d’altare, di fluida fattura, sono carat- terizzate da figure lievi e vaporose (Glorificazione della Ver- gine: Monaco, coll. Reuschel); si dedicò inoltre alla pittura di storia con il Torneo dipinto per la chiesa del castello di Wolfegg (1732?). Gli inizi del rococò impegnano S a di-

Storia dell’arte Einaudi stendere e alleggerire ulteriormente le sue composizioni (Co- stanza, chiesa della Trinità, 1738?). Sulle volte della chiesa di Zwiefalten, posto di fronte a un compito assai vasto, egli dà la piena misura delle sue capacità (1747-51). Le architet- ture curve, il dissolversi delle figure nella luce, il legame del- le figure stesse con le nuvole a forma di cartoccio e dal mo- vimento a spirale con uno squarcio su di un cielo bagnato di luce gialla, pervengono, nell’affresco della navata (Visione di san Benedetto), a un effetto d’irrealtà, di dinamismo e d’in- finità spaziale raramente raggiunto. (jhm). Spilimbergo, Lino Enea (Buenos Aires 1896 - Unquillo (Cordoba, Argentina) 1964). Dopo un apprendistato all’Accademia di Buenos Aires e la frequentazione dell’ambiente gravitante attorno alla rivista «Martin Fierro», compie viaggi in Europa, in Italia e Francia (1925). La conoscenza dell’arte del Quattrocento italiano e del linguaggio di Cézanne dà forza e classicità alle sue figure, semplici e monumentali, dai volumi saldi. L’irrealtà dei gesti lenti e allucinati le ferma in un’atmosfera atemporale che ac- comuna S al realismo magico e alla metafisica (Terraza con Fi- guras, 1932). Le sue convinzioni politiche di sinistra lo porta- no ad esaltare in epici murales, alla pari di Siqueiros, col qua- le collabora, D. Rivera, Portinari, l’uomo al lavoro. Ha illustrato numerosi libri fra cui Interlunio, di Oliverio Girondo (1937); nella sua opera grafica è evidente l’influs- so dell’automatismo surrealista. Attivo come docente (Aca- demia Nacional di Buenos Aires, La Plata, Tucumán), le sue opere sono esposte nei principali musei argentini e sudame- ricani, negli Stati Uniti (Donna seduta, 1932; Testa di india- no, 1933: New York, moma) e in Francia. (ca + sr). Spillenberg, Hans (o Johann) (Kashau (Ungheria) 1628 - Vienna 1679). Nato in una fa- miglia di artisti, studiò a Monaco sotto la guida di Johann Ulrich Loth. Nel 1658 operava in Ungheria. Lo si trova poi a Venezia (1660), Monaco (1663), Augusta (1664) e infine a Vienna (Assunzione: Cattedrale). Le sue opere si trovano nelle chiese di Augusta e di Ratisbona, e nei musei di Dre- sda (gg: Scena in un tempio antico) e di Norimberga (gnm: Pan e una ninfa).Le sue composizioni appartengono allo sti- le barocco tedesco italianizzante. (dp).

Storia dell’arte Einaudi Spilliaert, Léon (Ostenda 1881 - Bruxelles 1946). Autodidatta, dopo un bre- ve apprendistato all’Accademia di Bruges, esordì nel 1900 al Salon du Printemps, presentato da Emile Verhaeren. Le sue prime opere si collocano nell’ambito del simbolismo belga (Contemplazione, 1900 ca.: Bruxelles, Bibl. Albert I): spesso ispirato da Hellens, da Maeterlink e dallo stesso Verhaeren, illustrò alcuni dei loro testi e nel 1903-904 operò per l’edi- tore E. Deman. Stabilitosi ad Ostenda, nel 1904 soggiornò una prima volta a Parigi, città che divenne presto meta fa- vorita dei suoi viaggi e dove la sua opera riscosse particolare successo. Fu artista eterogeneo. Alcuni suoi dipinti, im- prontati alle giapponeserie, si accostano ai nabis per l’atten- zione alle scene di vita quotidiana, benché distinti da una fat- tura piú secca e nervosa (Colpo di vento, 1908: Bruxelles, coll. priv.; Bagnante, 1910: Bruxelles, mrba), mentre talvolta te- mi ripresi dalla tradizione realista lo portano a un espressio- nismo prossimo a Munch (Bevitrice di assenzio, 1907: Osten- da, coll. priv.) o a Permeke (I fidanzati, 1907 ca.: Bruxelles, coll. priv.; Ritratto di Carnegie, 1913: Ostenda, Museo). Per le sue incisive impaginazioni e per il gusto dell’insolito, è sta- to considerato un precursore del surrealismo (Vertigine, 1908: ivi; Galleria Reale a Ostenda, 1908: Bruxelles, mrba). Espo- se al Salon des Indépendants di Bruxelles nel 1909, 1911 e 1913. Tra il 1917 e il 1921 risiedette a Bruxelles, dove si sta- bilì nel 1935: restò in contatto con Parigi, specie con Paul Guillame, G. Coquiot e Zborowski. Durante la sua attività praticò quasi esclusivamente l’acquerello, la gouache, il di- segno a inchiostro di China, a pastello e con le matite colo- rate. Spesso ispirato al porto di Ostenda (numerose le Mari- ne e le Bagnanti), non manca di trattare i soggetti piú vari col medesimo brio espressivo e sintetico (Ali Babà e i quaranta ladroni, 1927 ca.: Bruxelles, coll. priv.). I suoi studi di albe- ri dal disegno preciso conseguono esiti analoghi al realismo magico (Tagliafuoco, 1944: Ostenda, Museo; Tronchi di fag- gi, 1945: Bruxelles, mrba). È rappresentato nei musei belgi, in particolare a Ostenda e Bruxelles. (mas). Spilman, Hendrick (Amsterdam 1721 - Haarlem 1784). Allievo di Abraham de Haen il Giovane, era iscritto alla gilda di Haarlem nel 1742.

Storia dell’arte Einaudi Incise paesaggi nello stile di Berchem e dipinse paesaggi e vedute di porti: il «Korte Spaarne» ad Haarlem d’inverno (Haarlem, Museo Frans Hals). (jv). Spinelli, Giovanni-Battista (attivo tra il 1630 e il 1660 ca.). La sua personalità di pitto- re, è ora stata meglio chiarita. Ne sono state accertate le ori- gini bergamasche; dal 1640 al 1643 S è attivo in Abruzzo, a Chieti – dove opera per molte chiese della città e di loca- lità limitrofe –, nel 1651-52 è a Napoli e nel 1653 nuova- mente a Chieti. Ancora a Napoli nel 1655, vi muore forse pochi anni dopo. Il suo ruolo nella pittura napoletana della metà del secolo fu di una certa importanza; a lui risale una sorta di naturalismo parzialmente indipendente dalle espe- rienze caravaggesche, benché legato al Caracciolo tardo, a Stanzione e a Cavallino. Intorno al suo nome sono state rac- colte ormai numerose tele (Natività: Londra, ng; Trionfo di David e David e Saul: Firenze, Uffizi) il cui tratto comune è una persistente adesione a modelli nordici, piegati, median- te l’uso dell’illuminazione naturale e un vivissimo senso pi- caresco, alla ricerca di un linguaggio originale, nel quale con- fluiscono suggestioni bolognesi e, a tratti, del manierismo internazionale. I disegni dello S sono conservati in gran par- te agli Uffizi. (grc + sr). Spinelli, Parri o Parri di Spinello (Arezzo 1387-1453). Parri, figlio di Spinello Aretino, si formò nella bottega del padre con il quale, nel 1407, colla- borò alla realizzazione degli affreschi nel Palazzo Pubblico di Siena (Sala di Balia, Storie di Alessandro III).Nel periodo compreso tra il 1413 e il 1416, l’artista, rimasto orfano e con ottime referenze, si trovava a Firenze su invito dello zio Co- la di Niccolò S con il quale, secondo ipotesi avanzate da stu- di recenti, entrò a lavorare come orafo nella bottega del Ghi- berti. Non sono pervenute documentazioni su questa atti- vità; all’artista sono state attribuite alcune opere di oreficeria per mezzo di confronti stilistici con alcuni suoi disegni con- servati agli Uffizi. Solo la Navicella (1430 ca.) della Pinaco- teca di Arezzo, però, trova concordi i critici sulla paternità. L’attività dello S doveva avere subito delle frequenti inter- ruzioni a causa della salute precaria: è probabile che soffris- se di squilibri mentali già dal 1419. Ci sono comunque per-

Storia dell’arte Einaudi venuti moltissimi suoi disegni (divisi tra varie collezioni) e opere pittoriche. Al 1428 ca. è da far risalire la Madonna del- la Misericordia (Arezzo, Santa Maria delle Grazie), eseguita probabilmente in occasione dell’arrivo di san Bernardino nella città nativa; al 1437 la Madonna della Misericordia tra i santi Lorentino e Pergentino (Arezzo, Museo); al 1448 l’af- fresco con lo stesso soggetto nell’edificio della Fraternita dei Laici. Del catalogo pittorico di Parri fanno parte anche la Crocifissione (1444) dell’Oratorio di San Cristoforo, ora nel Conservatorio di Santa Caterina e i frammenti, sempre ad Arezzo, dell’Annunciazione (chiesa di San Francesco) e de- gli Angeli musicanti (San Domenico). Caratteristico delle composizioni del pittore, come ha messo in risalto anche il Vasari, è l’allungamento delle figure «dove gl’altri le fanno il piú di dieci teste, egli le fece d’undici e talvolta di dodi- ci». (ebi). Spinello Aretino (Arezzo 1350 ca. - 1411). Figlio del ricco orafo Luca di Spi- nello, fu attivo tra la città natale, Firenze, Lucca, Pisa e Sie- na. Formatosi nell’ambiente arcaizzante di Arezzo (estraneo alla riforma accademica operata a Firenze dagli Orcagna) su- gli esempi di artisti della generazione precedente quali An- drea di Nerio e il Maestro del Vescovado, SA ripropose gli ideali giotteschi del Trecento toscano anche se reinterpre- tati con eleganza gotica, come si rivela nelle opere giovani- li: Battesimo di Cristo e Sposalizio mistico di santa Caterina (Arezzo, chiesa di San Francesco); Madonna col Bambino fra i santi Jacopo e Antonio Abate (1377 ca.), del Museo dioce- sano. È documentato ad Arezzo dal 1373, mentre nel 1384 è a Lucca dove realizzò un polittico per la chiesa di San Pon- ziano (Cambridge, Mass., Fogg Museum; San Pietroburgo, Ermitage; Parma, gn). Soprattutto nell’Adorazione dei Ma- gi il pittore, allontanandosi dalla severità compositiva delle prime opere, si espresse con vivacità ponendo particolare at- tenzione alla resa degli oggetti e delle vesti. Nel 1386 è iscrit- to all’Arte dei Medici e Speziali di Firenze dove, l’anno suc- cessivo, eseguì alcuni disegni di sculture per l’Opera del Duomo insieme a Lorenzo di Bicci e Agnolo Gaddi. La com- ponente neogiottesca di SA si rinforzò nell’ambiente fio- rentino a contatto con le opere di Maso, di Taddeo Gaddi

Storia dell’arte Einaudi o di Andrea Pisano, tornando a soluzioni arcaizzanti negli affreschi della sacrestia di San Miniato al Monte (Storie di san Benedetto), con la divisione delle pareti in riquadri, con le complicate quinte architettoniche e con le fisionomie clas- sicheggianti dei personaggi. Il ciclo pittorico voluto da Be- nedetto degli Uberti (1387), doveva completare la cappella di famiglia dedicata a Santa Caterina (Antella, presso Fi- renze), condotta anch’essa da SA. Piú vivaci, e sciolti nella narrazione, appaiono invece sia gli affreschi della chiesa are- tina di San Francesco (Annunciazione e San Francesco riceve le stigmate, 1401-404) che quelli del Camposanto pisano con la Leggenda dei santi Efiso e Potito (1390-92), dove non man- cano riferimenti significativi ai vicini esempi di Antonio Ve- neziano e Taddeo Gaddi, soprattutto per quanto riguarda l’impianto spaziale. Terminati i lavori, SA tornò a Firenze dove rimase per oltre un decennio. Qui ricevette importan- ti commissioni relative a cicli di affreschi: le già citate Sto- rie di santa Caterina (1390-95) per l’omonimo Oratorio all’Antella; l’Andata al Calvario (1390-95), per la sacrestia di Santa Croce e le Storie di san Giovanni Battista, per la cap- pella Manetti, al Carmine (frammenti a Pavia, Pisa, Liver- pool, Rotterdam e Londra). Un’evoluzione di SA in senso tardogotico si rileva già nelle opere dell’ultimo decennio del Trecento a partire dal trittico con la Madonna e il Bambino tra i santi Pietro, Filippo, Lorenzo e Giacomo (datata 1393) della chiesa di Santa Maria a Quinto (presso Firenze), fino all’Incoronazione della Vergine (datata 1401). Quest’ultimo dipinto, ora all’Accademia, fu realizzato in collaborazione con Lorenzo di Niccolò e Niccolò Gerini per la chiesa di San- ta Felicita. Al 1404 risale il primo incarico ricevuto da SA per opere senesi: per Caterino di Corsino eseguì infatti la decorazione della cappella di Sant’Ansano (Duomo), oggi perduta. Con il figlio Parri, tornò a Siena il 18 giugno 1407 per affrescare la Sala di Balia (Storie di Alessandro III) in Pa- lazzo Pubblico. Il catalogo dell’artista comprende, tra l’al- tro, anche un Santo Stefano (1400-405), tabernacoletto ora in Palazzo Davanzati e il Vir Dolorum (1400-405) della col- lezione Corsi. (ebi). Spitzweg, Carl (Monaco 1808-85). Pur restando tutta la vita legato alla pro- pria città natale, fu al contempo un viaggiatore curioso e ap-

Storia dell’arte Einaudi passionato (dal 1830 al ’56). La «vocazione» pittorica si pre- cisa in S nel ’33, dopo il viaggio in Italia (1832) e l’incontro con C. H. Hansonn che lo introduce alla pittura. S, sotto consiglio di C. Morgenstern, sceglie di esercitarsi copiando assiduamente gli antichi maestri esposti all’ap, in primis gli olandesi del secolo d’oro, ma già schizza scenette di vita quo- tidiana facendosi conoscere come tagliente e aneddotico il- lustratore umoristico di vari giornali cittadini («Fliegende Blätter»). Nel 1836 divenuto membro dell’Associazione ar- tistica monacense, ove si lega a Schleich il Vecchio, D. Langko e F. Voltz, assorbe la tradizione propria della scuo- la di Monaco, fortemente orientata alla resa topografica del paesaggio. Nel ’39 è in Dalmazia e Bosnia, viaggio dal quale riporta nu- merosi schizzi tratti dalla vita della comunità turca, ma de- cisivo si rivela il viaggio a Praga, intrapreso nel ’49. Qui en- trò nel circolo degli artisti boemi e conobbe A. Piepenha- gen, J. Mánes, J. Navratil; a quest’ultimo deve la conoscenza e le potenzialità insite nell’uso di piú larghe campiture di co- lore con tocchi altamente contrastanti e la resa tonale dei cangianti effetti atmosferici. Questo stile «pre-impressioni- sta» della scuola praghese, sollecitò S ad abbandonare pro- gressivamente la strutturante e rigida base disegnativa del- le sue prime composizioni per approdare a una pittura di plein air luminosa, dal tocco ampio, ricco di impasto e di mor- bide ombre portate, strutturata sull’equilibrio dei colori e dei toni. Gli stimoli ricevuti dal circolo boemo, lasciano piú in ombra i successivi contatti, un tempo invece considerati primari, con gli artisti parigini (Delacroix), in specie della scuola di Barbizon (Diaz, Daubigny, Rousseau), databili al 1851 in occasione della Esposizione internazionale di Pari- gi (antecedente, 1850, è il viaggio con Schleich a Venezia); a questo soggiorno segue la visita a Londra e Anversa. Imitato da un numeroso seguito di artisti e copisti, specie dal ’60 in poi, cresciuto il valore commerciale delle sue ope- re, la seduzione della sua arte risiede nella stretta correla- zione tra la tecnica pittorica applicata e perfezionata a ogni nuova versione del medesimo tema e il tema stesso prescel- to. Esempi di questa sua poetica sono: Il topo di biblioteca (tre versioni, 1853 ca.: Milwaukee, am); lo Studioso (o l’al- chimista) nella sua camera (alla serie appartengono Una visi-

Storia dell’arte Einaudi ta, 1855; Questo è il tuo Mondo, 1865-70 ca.: entrambi ivi); il Kaktusliebhaber, che raffigura un uomo intento alla lettu- ra di un libro (La lettura mattutina, 186o ca.: ivi) o del gior- nale (dieci versioni) nella quiete del proprio giardino; le Se- renate notturne; le sentinelle solitarie (Sentinella addormen- tata, 1848: Praga, ng); i paesaggi (Bagno delle donne a Dieppe I, 1857: Berlino, Neue ng; Lavandaie alla fontana, 1880 ca.: Darmstadt, Hessisches Landesmuseum), spesso con figure isolate (Il pittore in giardino, 1882: Wintherthur, Stiftung Oskar Reinhart). Tutte opere che devono molto della loro spontaneità amabile, a volte malinconica o lievemente iro- nica, alla mole ancora poco studiata di schizzi e studi dal ve- ro. E se il numero strabiliante delle sue opere, 1543, è bi- sognoso di correzioni e tagli, ancor piú lo è il giudizio sulla sua complessa personalità, che così spesso è stata sbrigati- vamente definita «tipica dello spirito Biedermeier», sottin- tendendo con questo termine tutto un sottobosco di giudi- zi sminuenti che a questo termine si collegavano ancora si- no a un decennio fa. (scas). Spoerri, Daniel (Daniel Isaac Feinstein, detto) (Galati (Romania) 1930). Danzatore, scenografo e poeta, si trasferì in Svizzera nel 1942 e fu primo ballerino dello Stadt- teather di Berna dal 1954 al ’57, anni nei quali si dedicò an- che al teatro d’avanguardia (Ionesco, Beckett). La sua atti- vità poetica fu molto intensa, specialmente tra il 1955 e il ’61, anni in cui venne pubblicata la rivista «Matérial». Nel 1959, a Parigi, pubblicò M.A.T.(Multiplication d’Art Tran- sformable), che propugnava opere d’arte che fossero passi- bili di modificazioni o cambiamenti senza risentirne. M.A.T. trovò tra i sostenitori Jesús Rafael Soto e specialmente Jean Tinguely, il responsabile principale dell’adesione di S, nel 1960, al Nouveau Réalisme di Pierre Restany con un tipo di lavoro che s’inserisce perfettamente all’origine del mo- vimento: i quadritrappole (tableaux-pièges), ossia oggetti trovati casualmente sul tavolo o in un cassetto fissati tali e quali, spesso incollandoli al mobile poi appeso al muro o al soffitto (Gabbie da pulci, 1961: coll. J. Tinguely). È uno svi- luppo, portato all’eccesso, dell’assemblaggio e del collage tridimensionale. Il caso, sempre profondamente indagato da S (la Topographie anecdotée du hasard, Paris 1962), è alla ba- se anche dei falsi «quadri-trappola», dove però la disorga-

Storia dell’arte Einaudi nizzazione è solo apparente. Variazioni dello stesso tema, dove S prende alla lettera i significati delle parole e le im- magini che queste suscitano, stravolgendoli fino all’assurdo, sono anche i detrompe-l’œil (1961-62), le trappole per parole (1964) e le trappole per uomini (1971). S è un ottimo cuoco, ha aperto nel 1968 una Eat Art Galerie a Düsseldorf, dove le opere esposte sono rigorosamente commestibili, e un ri- storante: il suo talento anche come entertainer è di conse- guenza innegabile. S ha partecipato alle prime importanti mostre del Nouveau Réalisme: The Art of Assemblage, mo- ma, New York 1961; Dylaby, sm, Amsterdam 1962; Nou- veau Réalisme, Sidney Janis Gallery, New York 1962. Inol- tre, colui che è stato definito il «fissatore temporale», ha esposto ad Aachen (Kunstverein) nel 1969, ad Amburgo (kh) nel ’71, a Parigi (Centre Pompidou) nel ’72, ancora a Pari- gi (mnam Le Musèe Sentimental, con Tinguely) nel ’77. (bp). Spoleto Centro artistico di primaria importanza che in età medieva- le e moderna si è coerentemente sviluppato sul precedente impianto romano, S conserva, anche se alquanto rarefatte, alcune testimonianze pittoriche dell’alto Medioevo. Tra que- ste, oltre ad alcuni frammentari affreschi nella Basilica di San Salvatore, sono di particolare rilievo i dipinti murali del Tempietto sul Clitunno, situato a nord della città lungo il percorso della Flaminia, la cui parete absidata è occupata dal- le immagini dei Santi Pietro e Paolo, del Cristo benedicente e di figure angeliche entro clipei, che riflettono ad alto livello tendenze non omogenee di origine costantinopolitana diffu- se a Roma nel sec. vii. Con esempi romani possono essere confrontati anche gli affreschi ancora inediti della cripta di San Primiano (presso la Cattedrale), con busti di santi e fram- menti di scene narrative, certamente coevi alla costruzione della cripta, tipico edificio semianulare del sec. ix. La rina- scita della vita cittadina verificatasi dopo il Mille diede luo- go a un eccezionale fervore edilizio memore delle preesi- stenze classiche e paleocristiane e vide svilupparsi un’inten- sa attività pittorica che si espresse in una fiorente produzione di dipinti su tavola, di miniature, di cicli murali. Tra i primi sono importanti alcune croci dipinte, da quella firmata da Alberto Sotio nel 1187 per la chiesa dei Santi Giovanni e

Storia dell’arte Einaudi Paolo, a un’altra piú o meno coeva ora nella locale Pinaco- teca, a numerose altre diffuse nel territorio montano (Vallo di Nera, Norcia, Campi) che testimoniano la persistente tra- dizione di una fiorente officina locale che vide attivi fin ol- tre la metà del sec. xiii artisti spoletini (Simeone e Machilo- ne, Rainaldetto ecc.). I cicli pittorici ad affresco conservati nella città vanno da quello piú antico (xi-xii secolo) nella crip- ta di Sant’Isacco con Storie di vita monastica, ai dipinti rife- ribili ad Alberto Sotio nella chiesa dei Santi Giovanni e Pao- lo (ultimo quarto del sec. xii), ai due gruppi di affreschi (Pro- feti e Storie della Genesi) in San Paolo inter Vineas (inizi del sec. xiii). Negli ultimi anni del sec. xiii sulla base della tra- dizione locale di ascendenza romanica e alla luce delle espe- rienze assisiati di Cimabue e delle maestranze romane, ope- rarono a S artisti quali il Maestro delle Palazze e il Maestro di Sant’Alò. Nella prima metà del Trecento il Maestro di Ce- si fu il principale interprete dell’orientamento spoletino in direzione del classicismo assisiate e romano, il raffinato Mae- stro del Dittico Cini rappresentò l’aspetto piú marcatamen- te goticizzante, il Maestro di Fossa realizzò nel secondo quar- to del secolo la piú alta sintesi tra la cultura gotica e il pla- sticismo giottesco di ricco impasto cromatico. Alla fine del secolo e ai primi del Quattrocento, oltre ad artisti folignati e camerinesi attivi nella zona, operò a S il Maestro della Dor- mitio di Terni, interprete in chiave tardogotica delle ten- denze del primo Trecento, come anche alla tradizione pro- totrecentesca si richiamò, fin oltre la metà del sec. xv, il Mae- stro di Eggi (probabile Arcangelo di Giovanni), autore di molti dipinti votivi. Intorno alla metà del Quattrocento il pittore maggiormente attivo in area spoletina è Bartolomeo da Miranda, mentre negli stessi anni si diffonde in tutta l’area centro-meridionale dell’Umbria l’influenza di Benoz- zo Gozzoli (operoso a Montefalco nel 1450), di cui è inte- ressante interprete lo spoletino Jacopo Vincioli; l’episodio pittorico piú alto toccato alla città nella seconda metà del se- colo sono le storie mariane dipinte da Filippo Lippi nell’ab- side del Duomo (1467-69). Sul finire del Quattrocento S re- cepisce l’influenza di Perugia, divenuta il maggior centro di elaborazione e diffusione della cultura pittorica rinascimen- tale: vi opera il Pinturicchio (cappella Eroli nel Duomo) e su- gli esempi del Perugino si forma Giovanni di Pietro detto lo Spagna, il pittore maggiormente attivo in zona nel primo

Storia dell’arte Einaudi quarto del Cinquecento. Tramite lo Spagna, attraverso l’ope- ra di Jacopo Siculo e di Giovanni da S, la cultura raffaelle- sca approda in città. (gibe + sr). Spolverini → Mercanti, Pier Ilario, detto lo spolvero Tecnica per trasferire su una superficie da dipingere (muro, tavola o tela) un’immagine simile a quella precedentemente disegnata su un supporto cartaceo, detto cartone (→). Su questo, secondo un sistema diffuso sin dal Trecento, lungo le linee principali del disegno da trasportare si praticavano numerosi fori piccoli e ravvicinati, e su di essi veniva via via battuto un sacchettino di tela chiamato ugualmente s, riem- pito di polvere colorata, di solito carbone o gesso, che pas- sando attraverso si depositava sulla superficie sottostante ri- creandovi la stessa immagine composta da una sequenza di minuscoli puntini. Di tale tecnica riferisce per primo Cen- nini a proposito dello sgraffito su fondo oro. Per non spor- care il cartone disegnato, che spesso fungeva da modello du- rante la fase pittorica, si usava (Armenini) forarlo sovrap- posto a un secondo cartone, ed era quest’ultimo a venir utilizzato nell’operazione di s. Nella pittura murale a fresco (→ affresco) lo s, inizialmente limitato a motivi decorativi marginali (A. Orcagna a Santa Maria Novella), dalla metà del Quattrocento fu impiegato anche per trasporre le figure principali (ciclo di Piero della Francesca ad Arezzo), previste e circoscritte allo scopo già in fase di sinopia (Resurrezione di Andrea del Castagno a Sant’Apollonia). Alla fine del secolo, con l’imporsi delle nuo- ve tecniche di esecuzione del disegno preparatorio, ormai interamente fatto usando i cartoni, lo s si trova a coesistere con la piú agile e moderna tecnica a ricalco, rispetto alla qua- le ha l’unico vantaggio di consentire la trasposizione anche di piccoli dettagli, e finirà per essere utilizzato solo nei mi- nuti particolari dei dipinti (Pozzo) e nella realizzazione di elementi seriali o simmetrici, facilmente ottenibili riadope- rando o capovolgendo il cartone. (mni). sporting painting L’espressione sp è usata tradizionalmente per definire un ge-

Storia dell’arte Einaudi nere di pittura in voga nell’Inghilterra del xviii e xix seco- lo, dedicato esclusivamente alla rappresentazione di cavalli. La richiesta di questo tipo di dipinti si spiega pensando alla forte tradizione dell’aristocrazia inglese per la piú parte re- sidente in campagna, per la caccia alla volpe e per le corse di cavalli. La creazione del Jockey Club nel 1750 trasformò questo tipo di svago campestre in una istituzione nazionale che con l’andar del tempo venne progressivamente demo- cratizzandosi fino a divenire uno dei piú popolari momenti di svago con l’Epsom’s Derby, dipinto che William Powell Frith espose alla ra nel 1854. Questo tipo di divertimento suscitò lo sviluppo di una letteratura specializzata larga- mente illustrata e con essa la richiesta di dipinti di piccolo formato cui si dedicarono ritrattisti minori che si assicura- rono attività e guadagni sicuri. Spesso ci si trova di fronte a ritratti di aristocratici a cavallo durante una battuta di cac- cia con il loro seguito (Ritratto di Giorgio II a cavallo, dipin- to da Wootton, che impronta il suo linguaggio su pittori co- me van der Meulen e Wouwerman). Molto presto l’interes- se della committenza favorì alcuni soggetti particolari come il ritratto sul proprio cavallo favorito, di cui un maestro se- condario come Seymour ha lasciato alcuni esempi non del tutto riusciti. Il genere acquistò importanza attraverso l’in- terpretazione di artisti come George Stubbs, pittore di ri- tratti e scene di genere, il quale dopo lunghi studi pubblicò nel 1766 un trattatello sull’Anatomia del cavallo in cui fissò i canoni della sua rappresentazione. Tra il 1760 e il 1770, dipinse numerosi studi di giumente e puledri di lord Gro- svenor tesi a risolvere e integrare la rappresentazione degli animali con il paesaggio che hanno un impianto fortemente descrittivo. All’inizio del sec. xix, numerosissimi sono gli sporting pain- ters, tra questi Ben Marshall, che si dedicarono al reporta- ges pittorico delle corse di cavalli. Questo tipo di dipinti pre- sentava in realtà poche varianti costituendo il semplice ri- tratto di profilo di un cavallo come dimostrano le opere di Alken, J. F. Herring, John Ferneley, James Pollard e Coo- per Anderson. Solamente James Ward azzarda composizio- ni, come Marengo (1824), in cui il dipinto si stacca dal sem- plice reportage presentando una concezione prossima al ro- manticismo vibrante di Géricault pur conservando l’impronta descrittiva tipica di questo genere pittorico.

Storia dell’arte Einaudi Nel corso del terzo decennio del sec. xix questo tipo di sog- getto venne lentamente riassorbito dalle scene di genere ca- ratteristiche del gusto vittoriano. Il carattere tipicamente inglese del soggetto ebbe comunque riscontro anche oltre Manica con Carle Vernet e Alfred De- dreux; è certo però che soggetti simili fuori dall’Inghilterra vennero interpretati in modo molto diverso. Il capolavoro di Géricault, Il Derby di Epsom (Parigi, Louvre) o del resto piú tardi i dipinti di Degas sulle corse di cavalli o di altri pit- tori gravitanti intorno agli impressionisti (lo stesso De Nit- tis), affrontarono il tema delle corse ippiche affascinati dal- la forza vitale, dallo studio del movimento (si pensi a Muy- bridge), attratti dalla mutevolezza dei colori che animavano i campi delle corse di cavalli. (cd). Spranger, Bartholomäus (Anversa 1546 - Praga 1611). Allievo nel 1557 di Jan Man- dijn, per breve tempo di Frans Mostaert, e, probabilmente nel 1563-64, di Cornelis van Dalme, S ebbe, dunque, for- mazione di paesaggista. Nel 1565 partì per Roma, passando per Parigi, dove frequentò la bottega di Marc Duval, mi- niatore e ritrattista di corte, per Lione, per Milano e Parma, dove entrò nella bottega di Bernardino Gatti, che allora at- tendeva agli affreschi della cupola di Santa Maria della Stec- cata, e partecipò alla decorazione dell’arco trionfale per l’en- trata di Maria del Portogallo (1565). Arrivato a Roma nel 1566, dopo aver lavorato con Michel Jonqoit, grazie all’aiu- to di Giulio Clovio, entrò al servizio del cardinal Alessan- dro Farnese, che lo impiegò nella decorazione del palazzo di Caprarola. Anche sulla base di documenti di pagamento del 1569, recentemente ritrovati, si propone ora di individuare l’intervento di S nel grande cantiere farnesiano, oggetto di una lunga discussione, nella collaborazione con Bertoja ad alcuni paesaggi della Stanza degli Eremiti. Van Mander scri- ve che S dipingeva a Roma piccoli quadri di paesaggio alcu- ni dei quali sono giunti fino a noi: Paesaggio con la Carità (fir- mato e datato 1569: Karlsruhe, Museo), Paesaggio con un eremita (ivi), Paesaggio con la fuga in Egitto (Amsterdam, coll. priv.) assai vicini a C. van Dalem. S passò quindi al servizio di Pio V (1570-72), per il quale dipinse un Giudizio Finale (Torino, Gall. Sabauda) su rame, ispirato a un’opera dello

Storia dell’arte Einaudi stesso soggetto del Beato Angelico, ed eseguì, secondo van Mander, una serie di dodici disegni della Passione, due dei quali identificati con la Coronazione di spine dell’Albertina di Vienna e con il Cristo deriso della Staatliche Graphische Sammlung di Monaco. Per Alessandro Farnese dipinse pro- babilmente la Conversione di san Paolo (Milano, Ambrosia- na), sulla falsariga di un disegno di Clovio. Insieme con l’esperienza della collaborazione con il Clovio, furono de- terminanti per la formazione italiana di S il rapporto con Ja- copo Bertoja, che rinnovava la sua ammirazione per la pit- tura parmense, quello con la cerchia zuccaresca, in partico- lare con Federico Zuccari e con Raffaellino da Reggio e inoltre, nell’ambiente nordico a Roma, quello con Hans Speckaert. L’unica opera pubblica di S sopravvissuta a Ro- ma è il Martirio di san Giovanni Evangelista, già in San Gio- vanni a Porta Latina e ora in San Giovanni in Laterano, com- pendio della sua esperienza in Italia. Nel 1575 lasciò insie- me ad Hans Mont l’Italia per entrare, grazie al Giambologna, al servizio dell’imperatore Massimiliano II a Vienna. Qui la- vorò alla decorazione perduta (?) della Neugebaüde (oggi Amalienburg), presso Vienna, e con Mont e l’amico van Mander all’arco trionfale per l’entrata di Rodolfo II (1577). Chiamato a Praga è nominato nel 1581 pittore di corte; il favore dell’imperatore gli valse un titolo nobiliare nel 1595, consentendogli di compiere nel 1602 un viaggio «trionfale» (in parte insieme a van Aachen) a Dresda, Colonia, Am- sterdam, Haarlem e Anversa. Come pittore di corte eseguì prevalentemente composizioni allegoriche o mitologiche, nelle quali si affermò come uno dei migliori rappresentanti del manierismo internazionale alla fine del sec. xvi. La scel- ta dei soggetti, che portano alla ribalta coppie di personag- gi della mitologia (Marte e Venere, Venere e Adone, Vulcano e Maia: Vienna, km), le pose manierate delle figure, l’im- portanza del nudo creano un’atmosfera di raffinato eroti- smo, esaltata da una tavolozza assai ricercata, dove toni smorzati di verde e di arancio spiccano accostati alle sfu- mature dei grigi: così nell’Allegoria della Giustizia (Parigi, Louvre). Le composizioni mitologiche rivelano un gusto dell’artificio (particolarmente nell’illuminazione) e un’evi- dente intenzione di infrangere la misura compositiva classi- ca attraverso il deliberato squilibrio delle figure, da cui de- riva uno stile composito, che associa il realismo di alcuni det-

Storia dell’arte Einaudi tagli (armi, ornamenti) all’effetto irrealistico dell’insierne. L’artista deve alla sua formazione fiamminga il talento nei quadri su rame da gabinetto (Ercole e Onfale, Vulcano e Maia: Vienna, km), i cui colori hanno lo splendore e la preziosità degli smalti. Il gusto per il dettaglio pittoresco e raffinato si afferma soprattutto nelle sue prime opere praghesi: elmi, scu- di, clave riccamente decorati, mobili scolpiti, gioielli e pezzi d’oreficeria (Marte e Venere, Ulisse e Circe: ivi).Allo stesso periodo risale Ercole e Deianira (ivi), dipinto di ostentata sen- sualità, dove il cadavere del centauro Nesso, visto in uno scor- cio impressionante, giace ai piedi dei due sposi abbracciati. Uno dei quadri piú singolari di S, Amore e Psiche (Museo di Oldenburg), dev’essere un po’ piú tardo: l’artista vi ha di- pinto a grisailles una ricca decorazione di facciata scolpita che incornicia una finestra in cui si svolge la scena princi- pale, ridotta così a un’esigua porzione della tela; ma l’oc- chio, malgrado tutto, è attratto dallo straordinario arabesco delle due figure di Amore che fugge e di Psiche che tenta di trattenerlo. In queste numerose composizioni mitologiche, spesso trat- te dalle Metamorfosi ovidiane, le forme sinuose e i volti al- lungati (Sine Cerere et Bacco friget Venus, 1590: Graz, Mu- seo; Vendetta di Venere: Troyes, mba) sembrano lasciare gra- datamente il posto a forme piú espanse, in particolare nei sensuosi nudi femminili, che l’artista volentieri colloca in primo piano (Glauco e Scilla, Venere e Adone, Ermafrodito e Salmace: Vienna, km); Susanna e i vecchioni (castello di Sch- leissheim) è un esempio di questa evoluzione: il corpo nudo di Susanna, che scatta all’indietro, occupa da solo quasi la metà della scena, da cui l’artista ha eliminato ogni dettaglio pittoresco. Quanto alla Vanità del castello di Wawel a Cra- covia è soltanto il pretesto per un bello studio di nudo in- fantile, mentre il soggetto è reso esplicito solo dalla presen- za di un teschio e di una clessidra. Fra le non numerose opere di soggetto religioso, la Resurre- zione (Praga, gn) dipinta poco dopo l’arrivo a Vienna e il Compianto sul Cristo morto (Monaco, ap), forse già del 1580, sono ancora fragranti di ricordi romani; la Sant’Orsola (Vil- nius, Museo), l’Epitaffio di Nikolaus MülIer, 1589 ca. Praga, ng), l’Adorazione dei Magi, 1596 ca. (Londra, ng) possono bene esemplificare, a fronte dei soggetti profani, l’attività

Storia dell’arte Einaudi matura di S, in cui oltre ai rapporti con Heintz, Aachen e Sustris, sono stati messi in rilievo echi sia di Dürer che dei manieristi di Anversa. Disegnatore magistrale, S è autore di studi a matita e a pen- na dall’esecuzione larga e nervosa, come un Pegaso (Braun- schweig, Herzog-Anton-Ulrich-Museum), Giove, Marte, Vul- cano e Plutone (castello di Windsor). La Maddalena (Be- sançon, mba) e Giuditta (Parigi, Louvre), disegni a penna rialzati ad acquerello e a guazzo bianco, contano fra i suoi fogli migliori e rivelano una foga che i dipinti non hanno. Sin dagli anni Ottanta, la sua opera venne diffusa dalle in- cisioni di Sadeler, poi di Goltzius. Esercitò un grande in- flusso anche sull’Accademia di Haarlem (Goltzius, Cornelisz van Haarlem, Bloemaert, van Mander) ed ebbe strette rela- zioni con la cerchia di F. Sustris a Monaco. La fondazione di un’Accademia a Praga, con Heintz ed Aachen, contribuì anch’essa a diffondere in Europa il gusto del manierismo ele- gante e prezioso. (mdb + sr). Springer, Anton (Praga 1825 - Lipsia 1891).Spirito positivista, elabora una storia dell’arte fondata sullo studio dei fatti, che riveste da allora il carattere di una scienza oggettiva implicante le qua- lità del conoscitore unite a quelle dell’erudito. Giornalista politico impegnato, pensava da storico e riversava le proprie idee nella storia dell’arte, rivelandosi un notevole maestro destinato a formare tutta una generazione di esperti duran- te il suo soggiorno a Lipsia, dove fu professore tra il 1873 e A 1891. Sotto la direzione di F. T. Fischer, nel 1848 so- stenne una tesi sulla teoria hegeliana della storia, che con- frontò con la realtà della storia universale. La sua prima pub- blicazione, Die kunsthistorischen Briefe (1852-57) è ancora legata all’insegnamento di Schnaase e mira a individuare le connessioni che presiedono alla storia delle idee. L’Hand- bucb der Kunstgeschichte (Stuttgart 1855), oltre a fornire un canovaccio della storia dell’arte indicando le epoche, le scuo- le e i maestri, costituisce una pratica guida di viaggio; il ma- nuale resterà fino al nostro secolo l’opera di storia dell’arte piú popolare in Germania; in Italia sarà diffuso nell’edizio- ne curata da Corrado Ricci, diventando presenza d’obbligo in ogni biblioteca (Manuale di storia dell’arte, Bergamo 1910-37, 6 voll.).

Storia dell’arte Einaudi S studia la storia in funzione della realtà, scegliendo come base oggettiva l’opera d’arte, il cui carattere particolare gli consente di scoprire l’autore, l’epoca e il luogo d’origine. S definisce la psicologia delle epoche artistiche in funzione dei grandi maestri (Giotto, Raffaello, Michelangelo) e dedica at- tenzione particolare ai disegni, che gli consentono di rico- struire e analizzare il processo creativo. Nello studio delle civiltà indaga i fattori che conducono alla diffusione delle opere d’arte, non trascurando né la liturgia, né la naziona- lità, né la poesia (Über die Quellen der Kunstdarstellungen des Mittelalters, 1879). Fu il primo storico dell’arte tedesco ad elaborare un metodo iconografico rigoroso, che lo condusse a importanti scoperte nel campo dei manoscritti dell’alto Medioevo, da lui particolarmente studiati (Ikonografische Studien, 1860; Abhandlungen zu den Psalterillustrationen, 1880; Abhandlungen zu den Genesisbildern, 1884).(hm). Springinklee, Hans (Norimberga 1490/95 ca. - ? 1540 ca.). Documentato a No- rimberga fra 1512 e ’22 e citato tra gli allievi piú fedeli di Dürer da alcuni biografi contemporanei, tanto da dimorare presso il maestro, S lavorò sotto la direzione di questi a di- verse serie d’incisioni per Massimiliano (Porte trionfali, Car- ri di trionfo) e collaborò anche, sembra, all’illustrazione del Libro di preghiere dell’imperatore (Monaco, ap; Besançon, mba). Piú dei quadri, spesso discussi, considerata la scarsità di opere certe e di notizie d’archivio sulla sua attività, nei quali si avverte pesantemente l’influsso di Dürer (Allegoria sui poteri del papato: Berlino, sm, gg, depositi) o dei disegni (si vedano però le illustrazioni di alcuni messali, come quel- lo eseguito per il vescovo di Magonza), contribuirono alla sua fama presso i posteri le incisioni. Se ne contano piú di 200: 104 tavole per un Hortulus animae (1516) edito da Johann Koberger e stampato la prima volta da Peypus nel 1518; due Bibbie fatte stampare a Lione da Koberger (1516 ca.). È possibile che S sia stato il maestro diretto di Schäu- felein nell’arte dell’incisione. (acs + sr). Squarcione, Francesco (Padova 1394-1468). La ricostruzione biografica si fonda sulla testimonianza di B. Scardeone (De antiquitate urbis Pa-

Storia dell’arte Einaudi taviae, Basilea 1560), che si avvalse di uno scritto dello stes- so S, e del Vasari (1568), il quale utilizzò una perduta epi- stola di Girolamo Campagnola a Leonico Tomeo riguardan- te alcuni pittori padovani. Egli fu essenzialmente un pitto- re dedito all’insegnamento per una folta schiera di allievi e raccoglitore di antichità. Si è anche avanzata in proposito l’ipotesi di un suo viaggio in Italia e in Grecia nella prima metà degli anni Venti. Per i suoi interessi «antiquari» e per la sua attività di imprenditore assunse un ruolo fondamen- tale per il corso della pittura attorno alla metà del Quattro- cento tra Padova, Venezia e Ferrara, incidendo nella for- mazione di personalità come Cosmè Tura, Carlo Crivelli, Li- berale da Verona, Giovanni Boccati, Nicola di Maestro Antonio, Niccolò Pizzolo. Tra gli allievi direttamente do- cumentati, con i quali ebbe spesso difficoltà nei rapporti con- trattuali, vi sono Dario da Treviso (1440-46), Andrea Man- tegna (1441-48), Marco Zoppo (1453-55), Giorgio Schia- vone (1456-59). Lo S è documentato come sarto nella bottega dello zio a partire dal 1423, ma a quella data dove- va essere già iscritto da tempo alla fraglia dei pittori. Tra i vari documenti attestanti pagamenti per lavori eseguiti nei cantieri padovani, numerose sono le notizie di suoi inter- venti nelle questioni inerenti la decorazione della cappella Ovetari agli Eremitani. Nel 1450 risulta arbitro nella con- troversia tra il Mantegna e il Pizzolo per la divisione dei lo- ro compiti; lo stesso anno col Pizzolo stima il lavoro esegui- to da Antonio Vivarini e Giovanni d’Alemagna e ancora nel 1457 con Giovanni Storlato e Pietro da Milano interviene nella questione relativa alle figure degli Apostoli della As- sunzione della Vergine affrescata dal Mantegna. A Venezia, dove risiede temporaneamente dal 1463, realizza i teleri per- duti per la Scuola Grande di San Marco, insieme a Jacopo Bellini. Il prestigio goduto dal pittore è attestato da una par- te del Civico Consiglio della città di Padova che nel 1465 lo depenna dall’estimo padovano a seguito dell’incarico di ese- guire l’immagine di Padova e del suo territorio (pergamena del mc di Padova proveniente dalla coll. De Lazara) a cui egli unisce una veduta di Venezia. Le fonti letterarie atte- stano altre opere come le perdute figure a chiaroscuro di- pinte vicino alla porta occidentale della Basilica del Santo, o le storie di san Francesco sotto il portico di cui esistono ora solo deboli tracce.

Storia dell’arte Einaudi Nel suo catalogo figurano unicamente due opere documenta- te: il polittico per la cappella De Lazara della chiesa del Car- mine a Padova (Padova, mc), la Madonna col Bambino già in coll. De Lazara (Berlino, sm, gg) firmata, databile al 1455 ca. che costituisce l’esempio di piú maturo classicismo nel suo in- tero percorso. Solo recentemente nuove attribuzioni ne rico- struiscono l’attività giovanile, ancora nell’ambito del clima tardogotico consentendo per la prima volta di delineare un suo profilo organico attraverso opere come il polittico di San- ta Maria in Castello di Arzignano (Vicenza). È stata aggiun- ta inoltre al catalogo dello S la Madonna del latte (1450 ca.: Parigi, Museo Jacquemart-André) per la quale è ipotizzato un intervento del giovane Carlo Crivelli durante il suo appren- distato squarcionesco, mentre a una fase successiva al 1452 è riconosciuta la Madonna col Bambino (Padova, mc). (gf). Stabia Città antica della Campania, a sud del Vesuvio (in latino Sta- biae; oggi Castellammare di S). Come le vicine città di Er- colano e Pompei venne sepolta dall’eruzione del Vesuvio del 79 d. C. Gli scavi delle sue ville hanno messo in luce pittu- re murali della metà del sec. i d. C., spesso di alta qualità (paesaggi entro medaglioni o in piccoli riquadri e figure fem- minili celebri: Medea pensosa, Primavera, Raccoglitrice di fio- ri: Napoli, Museo Archeologico Nazionale). (mfb). Stable Gallery Galleria di New York, fondata da Eleanor Ward negli anni Cinquanta e chiusa nel 1970. Ha presentato le piú varie ten- denze, da pittori e scultori astratti (Joan Mitchell, Mar- ca-Relli, Cy Twombly, Noguchi) a surrealisti come Joseph Cornell, e soprattutto ha offerto ad alcuni importanti arti- sti pop (Andy Warhol, Robert Indiana) la possibilità di esporre per la prima volta. (jpm). stacco Intervento di rimozione di un dipinto murale e del suo in- tonaco da una superficie architettonica. Quando assieme al dipinto viene rimossa anche parte della struttura muraria l’operazione è definita s a massello. Questo secondo meto- do ha origine piú antica e ne riferiscono già Plinio (Natura-

Storia dell’arte Einaudi lis Historia, XXXV, 154, 173) e Vitruvio (De Arch.II, VIII, 9). In epoca moderna le prime notizie di s a massello – ef- fettuato segando la struttura muraria, incatenandola e tra- sportandola in luogo diverso –, compaiono nella seconda edi- zione delle Vite di Vasari riferite a dipinti di Spinello Are- tino, Ghirlandaio e Botticelli. Il metodo, spesso motivato dall’abbattimento dell’edificio in cui i dipinti erano situati, ebbe grande fortuna fino all’inizio dell’Ottocento ed è tut- tora usato in casi particolari. Esso consente di conservare in- tatte le caratteristiche della superficie dipinta, le irregola- rità e le eventuali decorazioni in rilievo, ma comporta, a cau- sa del peso considerevole, il sezionamento in parti di ridotta estensione e la parziale distruzione della parete. La com- plessità dell’intervento indusse già nel Settecento ad ap- prontare il sistema dello s limitato allo strato di intonaco su cui insiste il dipinto e operato, dopo aver protetto la super- ficie con tele, incidendo il perimetro della zona da rimuo- vere e distaccandola poi gradatamente per mezzo di lunghe lame metalliche. Il dipinto, una volta staccato, viene ridot- to a spessore omogeneo e fatto aderire a un nuovo suppor- to rigido. Anche in questo caso vengono sì preservate le ir- regolarità della superficie, ma spesso la mole del manufatto richiede la divisione in sezioni (max m 2 × 5), e si può ope- rare solo se la coesione tra pellicola pittorica e intonaco è ec- cellente. Perfezionando un’ulteriore tecnica – i cui primi esperimenti datano all’inizio del Settecento –, dal secolo scorso si optò sovente per lo strappo (→), limitandosi cioè ad asportare la sola pellicola pittorica. Il distacco dei dipinti dal muro da sempre è stato considera- to intervento a carattere conservativo e pertanto auspicato ogni qualvolta la struttura del supporto sembrava non offri- re sufficienti garanzie, ma nell’ultimo ventennio si è tentato di porre un freno al dilagare dell’operazione, sia per lo sna- turamento che causa al dipinto sia perché quasi sempre ne implica l’allontanamento dalla sede naturale; e vi si ricorre solo in casi di forza maggiore quali terremoti, alluvioni, ecc., preferendo piuttosto risanare le strutture murarie e curare la manutenzione degli edifici (→ anche: trasporto). (mni). Staechelin, Rudolf (Basilea 1881-1946). La sua collezione, iniziata nel 1914, era inizialmente dedicata alla pittura svizzera – Bressler, Vallet,

Storia dell’arte Einaudi Barraud (All’angolo della strada, 1913) – ma dal 1917 S co- minciò a raccogliere un complesso di dipinti e opere grafi- che francesi del xix e del xx secolo, in particolare di Corot, Delacroix (il Cane morto, 1832), Manet (Testa di donna, 1870), Monet, Sisley, Pissarro (la Cava, Pontoise, 1874), Cé- zanne (Ritratto dell’artista, 1883-87), van Gogh (Testa di don- na, 1886), Renoir (la Berceuse, 1889), Degas, Gauguin (Na- fea fea Ipoipo, 1892), Matisse (la Signora Matisse con lo scial- le di Manila, 1911), Picasso, Vlaminck, Utrillo, Derain (Cadaquès, 1910). Inoltre raccolse alcuni quadri svizzeri, so- prattutto di Hodler (la Morta, 1915) e di Auberjonois (Au- toritratto, 1941), nonché disegni di Klimt e Schiele (Bambi- na coricata supina, 1908, matita), Gran parte della collezio- ne è in deposito nei musei svizzeri, specie quello di Basilea, che grazie a un referendum acquistò nel 1967 i Due Fratelli (1905) e l’Arlecchino seduto (1923) di Picasso. Il complesso è completato da una serie di dipinti, sculture e ceramiche dell’Estremo Oriente. (bz). Staël, Nicolas De (San Pietroburgo 1914 - Antibes 1955). Figlio di nobili, emi- grò in Polonia nel 1919. In seguito alla morte dei genitori, nel 1922 fu mandato a Bruxelles dove intraprese gli studi classici. Dal 1932 al ’36 studiò disegno e pittura nella capi- tale belga, viaggiò in Olanda e in Francia, dove scoprì Cé- zanne, Matisse, Braque, Soutine; tornato brevemente a Bruxelles, visitò ancora la Spagna e il Nord Africa, poi l’Ita- lia, tornando a Parigi nel ’38. Frequentando l’ambiente sur- realista e astratto, ma soprattutto Léger, mise in discussio- ne la formazione avuta fino ad allora, e affidò alla libera in- venzione del tratto l’organizzazione spaziale dei suoi quadri. Dopo l’esperienza della legione straniera in Tunisia, tornò a Parigi nel 1943 e vi si stabilì, grazie anche all’appoggio di Jeanne Bucher. Nel 1944, malgrado l’occupazione tedesca, la Galleria L’Esquisse di Parigi presentò i suoi lavori accan- to a quelli di Kandinsky, Magnelli e Domela, prima di de- dicargli la prima personale; nello stesso anno S incontrò il pittore Lanskoy, anch’egli russo e impegnato in ricerche ana- loghe, il quale gli confermò come astrattismo e realismo non fossero due realtà incompatibili: intuizione che S doveva mettere in pratica con successo negli anni successivi. Subi-

Storia dell’arte Einaudi to dopo la guerra i collezionisti cominciarono a interessarsi al suo lavoro, e nel 1946 il mercante Louis Carré stipulò un contratto con lui. L’anno seguente affittò un grande studio vicino a quello di Braque e cominciò a lavorare sulle grandi dimensioni; è in questo periodo che incontrò Morlotti, eser- citando su di lui – e sui pittori italiani della sua generazione – una profonda influenza. Nel frattempo Jacques Dubourg lo patrocinava a Parigi mentre Theodore Shempp lo intro- dusse negli Stati Uniti. Nel 1948 ottenne la nazionalità fran- cese. S muore suicida nella sua ultima casa-studio. S è senza dubbio una delle personalità piú eminenti del ta- chisme; il suo primo periodo astratto è caratterizzato dalla violenza dei contrasti, dall’accavallarsi e sovrapporsi dei tratti, e dunque dalla matericità dell’impasto (La vita dura, 1946: Parigi, coll. Carré; Della danza, 1946: Parigi, coll. priv.). Dal 1949 le strutture si ampliano, i contrasti chiaro- scurali si attenuano, il colore viene largamente distribuito con la spatola e, nelle tele molto grandi, addirittura con l’uso di una tavola di legno (Composizione, 1950: Londra, coll. Denys Sutton; Rue Gauguet, 1949: Boston, mfa). La fase successiva è caratterizzata dall’uso di piccoli tocchi di colo- re giustapposti a scacchiera: sarà un primo passo verso il rea- lismo dopo l’esperienza astratta (Composizioni, 1951; Tetti di Parigi, 1952: Parigi, mnam). A tali esperienze affianca an- che l’attività di incisore e di illustratore di testi (Poèmes,di René Char, 1951; Ballets-Minute, di Pierre Lecuire, 1954). 1 lavori piú importanti del secondo periodo figurativo di S sono specialmente grandi composizioni (Grandi calciatori, 1952: Parigi, coll. priv.; Le Lavandou, 1952: Parigi, mnam) e studi di paesaggi, elementari e dai colori splendenti, vio- lenti e istantanei (Agrigento, 1954: Beverly Hills, coll. priv.; Porto siciliano, 1954: Ottawa, coll. priv.; i Martigues, 1954: Oslo, coll. Ragnar Moltzau). In queste opere il soggetto, benché riconoscibile, appare estremamente semplificato, tradotto in grandi macchie di colori contrastanti. In que- st’ultimo periodo S approda a un alleggerimento della ma- teria pittorica, con acquerellature e contorni sfumati (Nudo grigio di schiena, 1954: Parigi, coll. priv.; Il forte di Antibes, 1955: ivi). In vita S espose relativamente poco: la prima retrospettiva fu organizzata a Parigi nel 1956 (mnam), la seconda nel 1965 e da allora sia in Europa che negli Stati Uniti numerosissi-

Storia dell’arte Einaudi me mostre hanno riconosciuto il suo ruolo nel superamento dell’antinomia tra astrattismo e figuratività. (rvg). Stalbemt, Adriaen van (Anversa 1580-1662). Iniziò a lavorare a Middelburg in Ze- landa, dove la sua famiglia, di religione riformata, si era ri- fugiata alla fine del secolo. Tornato ad Anversa verso il 1610, divenne membro, poi decano (1617) della gilda di San Luca. Le sue poche opere firmate sono di grande varietà; il Paesaggio (1620: Anversa, kmsk) lo apparenta a Gillis van Coninxloo e a Jan I Bruegel, con cui collaborò; la Kermesse di villaggio (Francoforte, ski) si accosta all’arte di David Vinckboons; altri dipinti ricordano i paesaggisti olandesi (Magonza, Landesmuseum). (jl). Stamos, Theodoros (New York 1922). Considerato l’enfant prodige dell’espres- sionismo astratto, tra il 1936 e il 1939 segue i corsi di scul- tura all’American Art School di New York, poi abbandona- ta per motivi di ordine pratico ma soprattutto perché, in- fluenzato da Matisse e dal fascino dell’arte orientale, si era volto alla pittura. I primi pastelli, esposti alla Wakefield Gal- lery di New York, rivelano chiaramente suggestioni giappo- nesizzanti, specie nel ribaltamento degli elementi negativi (vuoti) in positivo. Durante un viaggio nell’Ovest degli Sta- ti Uniti, seguito da un soggiorno in Europa (Francia, Italia, Grecia), nel 1947-48, S si dedica a una figurazione natura- listica, attratto dalle forme dei fossili, delle pietre, degli ane- moni di mare; sin dall’anno seguente quelle forme, sempli- ficate ma pur sempre referenti di un’ispirazione naturalisti- ca, divengono elementi primari di un linguaggio elaborato soggettivamente. Da molti anni è impegnato nella variazio- ne di un tema unico che intitola «Sun Box». L’impiego di un repertorio d’immagini semplificato non manca di ricor- dare le ricerche parallele di un Gottlieb; ma le armonie te- nere e trasparenti di S lo collocano, piú di ogni altro, nella linea dei pittori americani che hanno tratto spunti nuovi dall’eredità di Matisse. Nel 1958, alla Corcoran Gallery di Washington si tiene un’importante mostra dedicata alla sua ricerca. Espone alla Galleria Betty Parson, a New York, sin dal 1947, e con sca-

Storia dell’arte Einaudi denze quasi annuali fino al 1956. Tra il 1967 e il 1968, aven- do già fatto esperienza, sin dagli anni Cinquanta, come in- segnante d’arte, S è professore presso la Brandeis University, Watham (Mass.). A partire dal 1960 la André Emmerich Gal- lery di New York gli dedica numerose mostre personali. Nel 1972 espone alla Marlborough-Gerson Gallery, a New York; nel 1980 la State University of New York, New Paltz, alle- stisce una sua ampia retrospettiva. È presente, nel 1984 al- la Knoedler Gallery di Zurigo che pubblica in questa occa- sione il catalogo monografico, T. Stamos: Works from 1945 to 1984. Nel 1985 espone a Vienna (Gall. Wurthle) e a New York (Gall. Kouros ed Ericson). È rappresentato a New York, in particolare al mma, al Whitney Museum (High Snow, Low Sun nº 11, 1957) e al moma (The Fallen Fig, 1949), nonché a Detroit (Institute of Arts) e a Buffalo (Al- bright-Knox ag). (jpm). stampe popolari Si dà il nome di sp a fogli volanti stampati su una sola fac- ciata e illustrati da un’incisione spesso accompagnata da un testo, e dipinta a colori vivaci. Le sp erano prodotte da incisori spesso anonimi secondo le tecniche dell’incisione su legno e su rame, della litografia, nonché, in tempi piú vicini a noi, della cromolitografia e del- la fotolitografia. Il prezzo di queste è sempre stato sufficientemente basso af- finché chiunque potesse procurarsi «una stampa da un sol- do». La sua diffusione era rapida e su vasta scala. Un pro- dotto di grande consumo quindi, con i conseguenti difetti: qualità mediocre della carta, impiego dei legni e dei rami per finalità diverse e fino all’usura totale, colori applicati senza curare molto la precisione, a grandi tocchi a stampino o a pennello, con sovrapposizioni per variare le tonalità. Lo smercio delle sp era affidato a venditori ambulanti che, a volte, le esponevano agganciate ad asticelle mediante lac- cetti di cuoio o le accatastavano in gerle, come nei Paesi Bas- si; in Italia, i venditori ambulanti erano seguiti da un asino; in Germania, si spostavano in gruppo. Dal 1782, alcuni di essi furono chiamati tesini perché originari, in gran numero, della valle del Ticino, si spingevano fino alla Russia asiati- ca, o all’Africa. Le sp erano vendute nei conventi, nei luo- ghi di pellegrinaggio e nelle fiere.

Storia dell’arte Einaudi Si vendevano anche in città, nelle bottegucce raccolte in- torno alle cattedrali, come a Saint-Donat a Bruges, sulla por- ta di Kiev a Mosca, al Palais de Justice a Parigi, e, in gran- di quantità, nelle strade dove si radunavano fabbricanti e mercanti (rue Montorgueil o rue Saint-Jacques a Parigi). La sp corrispondeva ad esigenze profonde dell’uomo; ac- quistava valore di talismano; assicurava protezione divina, il conforto d’una presenza spirituale, il sogno di universi re- moti o immaginari. Attaccata a una parete, la rischiarava con le sue tinte vivaci; sotto la cappa del camino, era punto di riferimento per la preghiera; incollata sul coperchio di un cassone, dietro la porta di un armadio, sull’uscio della stal- la, proteggeva i beni, stornava i malefici. A capodanno, era di buon augurio; segnava i giorni propizi, conferiva realtà agli eventi storici, ai principi che ne erano protagonisti; con- cretizzava le catastrofi, rendendole piú vicine, piú terroriz- zanti. Conferiva alla vita quotidiana, dipingendola a colori seducenti, una dignità che la rendeva sopportabile. Denun- ciava con umorismo e spesso con ferocia le ingiustizie, e an- che i vizi di coloro che le subivano e ne soffrivano. La sp, soprattutto quando tratta soggetti profani, rappresenta una sorta di letteratura visualizzata. Era concepita per essere let- ta in immagini, e il testo era un promemoria per chi sapeva leggere. Nate con l’invenzione della stampa ebbero presto una così vasta diffusione che produsse una complessità di correnti e di influenze di cui sono noti unicamente gli effetti; le moti- vazioni e le condizioni di questa produzione sono talvolta difficili da percepire. Europa u Germania I paesi di lingua germanica ebbero, nel sec. xv, un ruolo essenziale nella storia della sp in Europa. Il perfe- zionarsi delle tecniche grafiche favorì questo mezzo di espressione popolare e la sua diffusione nei paesi circostan- ti. Norimberga, Augusta, Magonza erano centri in cui le sp venivano prodotte in così notevole quantità, che la loro im- portanza può confrontarsi soltanto con quella odierna, dei mass media. La prima fabbrica di sp entrò in funzione a No- rimberga nel 1390; «pittori d’immagini e di carte» erano na- ti a Ulm nel 1420 e ad Augusta nel 1428.

Storia dell’arte Einaudi Piú della metà delle sp conservate hanno carattere religioso. L’Ecce homo della messa di papa Gregorio, la sp piú antica, daterebbe al 1400; e un San Cristoforo della Certosa di Bux- beim, conservato a Manchester, al 1423. Scene della vita di Cristo, della Passione, della vita della Vergine, della Vergi- ne in maestà, della Vergine con Bambino, di sante onorate nei luoghi di pellegrinaggio, San Landolin a Brisgau, Santa Maddalena, ebbero grande diffusione a partire dalla secon- da metà del sec. xv. Nel repertorio iconografico sono pre- senti anche immagini augurali come il Bambino Gesú nella cappa del camino per il 1475 o Ein seligs News Jaer con inter- pretazione del Padre Nostro, per il 1479, di Hans Paur, ed esempi dello Speculum humanae salvationis rappresentanti una mano aperta. In questo «genere» rientrano anche i fo- gli per le indulgenze, nei quali il testo occupava un posto maggiore dell’immagine; accompagnavano le reliquie e ve- nivano vendute dalle confraternite per la buona preghiera, contro la bestemmia, per ottenere una buona morte e per la remissione dei peccati. Proprio contro l’eccesso di vendita di indulgenze prese inizio la ribellione di Lutero. La Riforma provocò un nuovo tipo di sp; lasciò molto spazio a quella di soggetti che rappresentano gli scontri ideologici, le pe- ripezie politiche, le satire sociali. Le controversie confessiona- li utilizzarono i temi popolarissimi del Mondo alla rovescia o del Pazzo della Cuccagna; oltre a introdurre altri temi: papa e mo- naci in veste di lupi, agnelli protestanti e Lutero in preghiera, traffico delle indulgenze, rivolta dei contadini. La lotta partì da Norimberga nel 1523, animata dal poeta-calzolaio Hans Sa- chs, e in questa città si sviluppò in gran parte la stampa di im- magini polemiche. Nel 1570 vi erano dieci stampatori, cinque intagliatori d’immagini, diciassette incisori di lettere. Augusta, Strasburgo, Mulhausen in Turingia furono altrettanti centri di stampa molto importanti. I fogli avevano grande formato, con titolo, incisione su legno e testo su piú colonne. Le sp del sec. xvi comunicano il terrore del popolo tedesco. Sembrano annunciare la fine del mondo: raffigurazione del diavolo, apparizione di segni in cielo e di prodigi, nascita di esseri deformi, stregoneria, processi di streghe bruciate, guer- re contro nemici crudeli, supplizi e repressioni sanguinose. Il diffondersi dell’arte barocca trasformò le sp tedesche, con- ferendo loro un’originalità che manterranno fino alla fine

Storia dell’arte Einaudi del sec. xviii. L’impiego massiccio dell’incisione su rame, so- prattutto a Norimberga, e le caratteristiche commerciali del- la produzione condizionarono il gusto del pubblico, sedotto dal rinnovamento dei temi e dei mezzi tecnici impiegati per esprimerli. Paulus Fürst (1605-66) è noto come il massimo mercante e il migliore editore di fogli volanti. Il suo catalo- go, che ci è pervenuto incompleto, comporta 369 articoli, di cui 90 su soggetti religiosi; vi figurano anche illustrazioni al- legoriche e di proverbi: le Età della vita, La scala delle età. Nel 1639, Fürst ebbe un deposito permanente alla fiera di Lipsia; nel 1654, si recò alle fiere di Francoforte, di Vien- na, di Linz, di Graz. Christophe Weigel (1654-1725), egli pure di Norimberga, pubblicò serie storiche, di costume e votive. Negli stessi anni, la tradizionale incisione su legno ebbe un centro di grande produzione in Augusta, ove, nel 1648, ven- nero censiti 37 intagliatori di immagini e incisori di lettere, nonché tre stampatori: tra questi Abraham Bach e figlio († 1702), autori di numerose allegorie, come La scala delle età, e immagini devote; vendevano anche immagini devote im- portate da Anversa dai Gesuiti; e ancora Matthäus Schmid e Johann-Philipp Steuder (1650-1732), che pubblicarono so- lo soggetti religiosi, ispirati ai modelli del sec. xvi. I loro le- gni incisi sono arcaicizzanti e dai toni vivi e armoniosi. I ta- gli dolci colorati a mano affascinavano i compratori abbien- ti delle grandi città; alcuni fogli, incollati e incorniciati da motivi dipinti, ornano cofani detti de cavaliers, e le testate dei letti. Martin Engelbrecht era il piú conosciuto in Fran- cia, poiché, mentre importava in Germania tagli dolci della rue Saint-Jacques e vedute ottiche, esportava le proprie sp rappresentanti contadini, cittadini in costumi regionali te- deschi, con didascalie in francese. Anche nelle città ove non c’era una tradizione di sp si assi- ste all’apertura di botteghe da cui uscivano fogli curiosi, di fattura semplice e di esecuzione maldestra. Il periodo barocco fu dominato da Albrecht Schmid (1667- 1744), che pubblicò ad Augusta un numero notevole di sp, di fattura assai bella; si servì indifferentemente di rami e le- gni. È notevole una serie di legni con rappresentazioni di or- chi e personaggi grotteschi. Piacevoli le serie religiose, con bordure fiorite, destinate alle case di campagna.

Storia dell’arte Einaudi Negli ultimi anni del Settecento la produzione cambiò mol- to. Il mutamento di stile fu indotto, in parte, dai mutamen- ti politici ed economici provocati dalla Rivoluzione france- se e dalle campagne napoleoniche. La produzione delle sp fu condizionata dalla necessità di rappresentare le campagne militari e dall’urgenza di far fronte a una nuova, vasta, do- manda di immagini per libri di diffusione popolare che ave- vano bisogno di essere sostenuti da illustrazioni. Compaio- no nuovi centri di produzione. Norimberga resta certo un importante centro, con Campe, il quale nel 1825 editò un catalogo di 1115 articoli di incisioni a mezzo foglio, con ac- quaforti colorate a mano. Sono sp fatte per i bambini quel- le che Endter vendeva alla fiera del giocattolo di Norim- berga. A Vienna, Hieronymus Löschenkohl copiò i modelli in legno di Augusta trasferendoli su rame; e fin dal 1819 Matthias Trentsensky impiegò la litografia per sp per bam- bini di eccellente qualità. Le sp tedesche del sec. xix, dopo aver offerto scene pasto- rali, imbonitori ambulanti, militari e scene di battaglia, pre- dilessero un pubblico infantile. La ditta impiantata a Neu- ruppin di Johann Bernhard Kühn diverrà il centro princi- pale di questo particolare tipo di sp a partire dal 1775 fino alla prima guerra mondiale. Tutti i soggetti, tutte le forme, tutte le tecniche venivano impiegate senza altro scopo che quello di vendere il piú possibile. Tale obiettivo commer- ciale vivacizzò il complesso delle sp tedesche tra la fine del xix e l’inizio del xx secolo. Soltanto Trentsensky, a Vienna, restò fedele alla litografia; gli si devono giochi e teatrini di carta per la gioventú, di ottima qualità. A tali sp per bam- bini si aggiungono sp per decorare salotti, stampate in cro- molitografia, e altre occasionali d’informazione, che imita- vano i giornali. Caspar Braun (1807-77), Friedrich Schnei- der (1815-64) e i loro successori pubblicarono dal 1849 al 1898 a Monaco cinquanta volumi all’anno, i Münchner Bil- derbogen, contenenti 1200 fogli in nero e a colori, con temi seri o divertenti, a fasce di illustrazioni disegnate da artisti noti. Nei medesimi anni J. F. Richter pubblicò gli Hambur- ger Bilderbogen (1866-70), e Gustav Weise i Deutsche Bil- derbogen.A Francoforte e a Dresda, alcuni gruppi industriali finanziarono stamperie a colori, ove dopo il 1880 prevalse la cromolitografia. Questi Bilderbogen scompariranno du- rante la prima guerra mondiale con le immagini di battaglie

Storia dell’arte Einaudi e di soldati del Neue Bilderbogen, edite a Vienna da A. Ber- ger, e delle sp di Robrahn, edite a Magdeburgo. u Paesi Bassi Nei Paesi Bassi si trovano varie centinaia di sp stampate prima del 1500. Hanno, per la maggior parte, ca- rattere religioso. Alcune recano il nome dei conventi che ne erano editori e nei quali, forse, venivano incise. Ai carmeli- tani scalzi di Liegi, rifugiatisi nel convento di Notre-Da- me-de-la-Consolation di Vilvorde presso Bruxelles, si devo- no sp incise su legno, belle e bene impaginate, come una Ver- gine col Bambino e una Sacra Famiglia.La sp è cinta da una cornice di fiori, frutta ed emblemi, che riapparirà in figura- zioni di spirito simile nel xvi e xvii secolo; sp piú semplici venivano incise nel convento di Béthanie a Malines. Le sp ritrovate nei 25 manoscritti della Biblioteca di Liegi, provenienti dall’abbazia benedettina di Saint-Trond nel Limbourg belga, sono d’ispirazione e tecnica diverse. Di- versa è la materia impiegata: sembra venisse preferito il ra- me. Non per questo si abbandona completamente la xilo- grafia. Tale tradizione dell’incisione su rame per rappresentare Cri- sto, la Vergine, i santi si manterrà viva nella parte dei Pae- si Bassi rimasta cattolica dopo la Riforma, soprattutto ad Anversa, nel sec. xvi e fino al xviii. La vendita cessa di es- sere monopolizzata dai conventi e passa nelle mani dei mer- canti. Non è affatto un caso se Anversa divenne la princi- pale città ove si producono sp devote. Intorno alla stamperia di Christophe Plantin si erano stabi- liti laboratori d’incisione su rame. Essi forniranno sp di san- ti, di piccolo formato, riccamente lumeggiate e circondate di frutta, fiori ed emblemi dipinti a mano, in un’incornicia- tura che è talvolta piú importante dell’incisione. Per impul- so dei gesuiti tali sp vennero stampate a migliaia; ne com- paiono 81 900 sull’inventario redatto alla morte di Jan Gal- le nel 1676. Vennero diffuse in Olanda, Germania, Ungheria, Spagna e America del sud. Le producevano famiglie di inci- sori. I Galle (Philipp, verso il 1570; Theodor, fino al 1640; Jan, nel 1676), i van Merlen, i Wierix e i Bouttats sono le famiglie piú celebri. Le donne erano associate agli uomini come coloriste o direttrici di bottega. La moda delle sp per- sisterà fino alla fine del sec. xix senza che se ne incidano al- tre: i rami continuavano a funzionare. Colorate a quel tem-

Storia dell’arte Einaudi po senza invenzione, impiegate a qualsiasi fine devoto, que- ste sp persero sempre piú importanza. Bouttats, verso la metà del sec. xviii, abbandonò le sp religiose e trattò temi di attualità come l’Operazione cefalica, la Gerarchia dei gran- di, la Battaglia delle mutande. I Paesi Bassi d’Olanda, conquistati dalle idee riformistiche fin dal 1518, respinsero i «santini» e manifestarono le pro- prie credenze in immagini bibliche, destinate a edificare ed educare. Gli artisti sfruttarono, a profitto delle nuove idee, i grandi temi che nella stessa epoca erano diffusi in Germa- nia, in Francia e in Italia: la Ruota della Fortuna, la Scala del- le età, grandi figure di scene grottesche, la Battaglia dei ratti e dei gatti, il Tempo presente, la Troia che fila. I pezzi miglio- ri sono sp di combattimento, satiriche e piene di brio. Han- no colori netti e belli. Nel sec. xvi è possibile rammentare il nome di cinque loro editori: due ad Amsterdam, Cornelis Anthonisz Theunissen e Jan Ewoutsz, uno a Kampen, Pe- ter Warnesoen, e due ad Anversa, Jehan Liefrinck (verso il 1538) e Sylvester van Parys. Nel sec. xvii il piú importante centro della produzione di sp europeo divenne Amsterdam, con Theunis Lootsman, e suo genero van der Putte, la cui ditta utilizzerà gli stessi fortuna- ti legni per centocinquant’anni; altri produttori furono Mi- chel de Groot (dal 1634 al 1680), suo figlio Gysbert (1660-92) e, fino alla metà del sec. xviii, Jost Broerz (1634-47), Paulus Mathysz (1640-84), Jan Boumann (1642-73) e i suoi discen- denti. Nel sec. xvi si diffuse sempre piú il gusto per sp in se- quenza che narrano, in piú illustrazioni su un medesimo fo- glio, sottolineate o meno da un testo, episodi biblici, av- venture leggendarie, storie di soldati, di mestieri, di animali. Gysbert de Groot editò con questa formula, la Tentazione di Cristo,ilPazzo della Cuccagna, uccelli, e van der Putte la Vita di san Paolo, gli Zoppi, le Stagioni.Nel sec. xviii creb- be la richiesta di mercato; assunsero importanza le botteghe di Deventer, Haarlem, Leyda, Bois-le-Duc (’s-Hertgoenbo- sch). La loro produzione rivelava uno spirito assai simile a quello della letteratura dei venditori ambulanti, del teatro popolare e del teatro di marionette. A partire dal 1750, Ryn- ders ad Amsterdam editò gran numero di sp con risultati al- terni. I suoi eredi produssero soltanto sp narrative, adatte alla gioventú a scopo didattico: Robinson Crusoe, le Favole

Storia dell’arte Einaudi di La Fontaine, i Racconti di Perrault. Nel sec. xix, la casa Brepols di Turnhout inondò l’Europa, fino alla Russia, del- le sue sp; Jacques Brepols (1778-1845), comperò alcuni le- gni presso J.-H. Le Tellier di Lierre († 1809). Ne acquisì al- tri di svariata provenienza e molti ne fece incidere. Li stampò e li fece colorare in modo tanto gradevole da ven- derne in gran numero. Abile commerciante, seppe sfruttare il successo dovuto al suo talento ricorrendo a numerosi ri- venditori, alcuni dei quali avevano il loro nome, e non il suo, stampato sulle sp. Il suo catalogo, di 1395 articoli, com- prendeva 73 storie con didascalie in francese e altri 73 in olandese. Sua figlia, vedova di J. J. Dierck, proseguì la pro- duzione di sp che stampò fino al 1860 col marchio «B et D», oppure «B». Jean-Guillaume Dierck, suo figlio, sposò nel 1860 Joséphine Dessauer, che alla sua morte si rimaritò con Arthur Dufour, i cui discendenti diressero la ditta Brepols fino al 1930. Le loro stampe sono tra le sp migliori impres- se in questo periodo. h Italia Nel 1441, il Senato di Venezia emanò un decreto per proteggere «le arti e mestieri delle carte e immagini che si fanno a Venezia». Erano stretti i rapporti tra gli stampa- tori tedeschi e olandesi da un lato, italiani dall’altro. Nel 1476 Erhardhus Ratdolt e Bernardus Pictor di Augusta si stabilirono a Venezia, e nel 1497 L. Pachel e M. Schinzen- zeller a Milano. Nel sec. xvi Antoine Lafrery viene a Roma; e anche Nicolas Beatrizet, nel xvii. Gli stranieri erano atti- rati dalla cultura umanistica e dalla libertà espressiva, che non era limitata né da statuti di corporazione né da regola- menti di polizia; soltanto la raffigurazione delle immagini religiose veniva regolata dalle ordinanze delle autorità ec- clesiastiche. Altra attrattiva è quella dell’edizione e della vendita di stampe in un paese in cui l’opera raffinata dell’ar- tista noto veniva tradotta da sp. Così, il catalogo di Lafrery propose incisioni di Michelangelo e Raffaello, contempora- neamente alle Età dell’uomo. La prima sp di autore italiano, nota, la Madonna del Fuoco, sarebbe precedente al 1428. Un San Tommaso stampato a Venezia nel 1450 e un San Bernardino da Siena a Ferrara nel 1470 sono incisioni su legno, come la Scimmia che fila,l’Uo- mo mascherato da volpe, la Disputa tra il morto e il vivo e mol- ti altri soggetti allegorici. Nella stessa epoca, Maso Fini-

Storia dell’arte Einaudi guerra impiegò per la stampa la tecnica dell’incisione su ra- me appresa nelle botteghe degli orefici; illustrò la serie dei Pianeti (1450-55). Nel sec. xvi, prevalse decisamente la tecnica dell’incisione su rame. Alcuni artisti produssero opere eccellenti. Ferranti Ber- telli e il figlio Cristoforo, stabilitosi a Roma, firmarono la Sca- la delle età dell’uomo e la Scala delle età della donna; Nicolò Nelli, a Roma, incise a taglio dolce la Venerabile Poltroneria regina di Cuccagna nel 1565. Ferranti Bertelli produsse a Ve- nezia il Trionfo del Carnevale nel paese di Cuccagna nel 1569; il figlio Cristoforo la Scala delle età dell’uomo e della donna; Antonio de Paulis, a Roma, gli Inganni del mondo. La svolta decisiva nelle sp italiane si verificò nel 1630. Da questo momento l’edizione, la vendita e senza dubbio l’in- cisione furono monopolio solo di poche famiglie, e la situa- zione si protrasse fino alla fine del sec. xix. Massima importanza, in questo mutamento, ebbe l’opera del Mitelli di Bologna (1634-1718). Le loro sp rappresentano la vita quotidiana del popolo italiano in un’epoca di trasfor- mazioni. Descrivono le feste, i giochi, i personaggi da fiera e da commedia con un realismo privo di eccessi. Mitelli af- frontava, con gusto ironico e lieve, temi di drammatica at- tualità: la guerra contro i Turchi, la carestia di Bologna, l’in- vasione da parte del Catinat nel 1709. Il complesso della sua opera è noto anche grazie alle ristampe fattene da Lelio dal- la Volpe nel 1736. A Modena ebbe il monopolio la famiglia Soliani (1640-1870). Il loro catalogo, come, prima, quelli di Lafrery (1572) o dei fratelli Vaccari (1604-14), raccoglieva accanto ad opere di maestri, sp. Essi offrivano grandi tavo- le stampate da legni del sec. xv, entrati in loro possesso (la Madonna di Loreto, la Scimmia che fila), fogli illustrativi di legni del sec. xvi (i Paladini,l’Albero della fortuna), nume- rosi soggetti popolari, alfabeti, calendari, almanacchi. Nell’insieme si tratta di 1653 legni, di cui 851 a soggetto re- ligioso e 802 a soggetto profano. Sono oggi conservati nel Castello Sforzesco di Milano, dopo essere stati ricomperati dal collezionista Achille Bertarelli da un mercante milanese che, verso il 1890, ne traeva ancora qualche tiratura. La famiglia Remondini di Bassano (1650-186o), occupa nel campo delle sp italiane, il posto piú importante. Suo fonda- tore fu Giovanni Antonio, operatore in ferro battuto che di- venne stampatore verso il 1650. Lui e i suoi discendenti edi-

Storia dell’arte Einaudi tarono opere di carattere molto differenziato e dimostraro- no forte senso degli affari. Giuseppe Remondini esportò le sue stampe in tutto il mondo: in Russia e negli altri paesi eu- ropei, in America del Sud, nonché in alcune regioni dell’Asia e dell’Africa. I testi e le didascalie erano stampati in italia- no, latino, francese, spagnolo, tedesco, russo, greco, arme- no. Fondò succursali ad Augusta e a Parigi in rue Saint-Jac- ques. I Remondini pubblicarono numerosi cataloghi; il piú ricco è quello del 1784, che comporta una lista di 6352 sp e stampe varie, per la maggior parte popolari. L’attività dei Soliani e dei Remondini proseguì dopo l’arri- vo in Italia di Bonaparte nel 1796; ma le guerre e i rima- neggiamenti territoriali ebbero ripercussioni sulla rappre- sentazione dei temi tradizionali. Inoltre, si fece particolar- mente sentire, l’influsso delle sp francesi. Bartolomeo e Achille Pinelli rinnovarono completamente il genere nell’Ottocento, calandolo nel clima politico, senza peraltro abbandonare le descrizioni di vita quotidiana. Le loro incisioni sono accompagnate, in moltissimi casi, da can- zoni e testi, un certo numero dei quali è consacrato agli av- venimenti storici del risorgimento. I cantastorie vendono queste sp nelle strade. u Francia Le sp francesi ebbero le stesse vicissitudini di quelle dei paesi circostanti. Comparse pressappoco alla stes- sa data, si affermarono nel xvi e xvii secolo; acquistarono caratteri originali soltanto nel sec. xviii e nella prima metà del xix. Le sp francesi nascono, sembra, negli ultimissimi anni del Trecento, per l’impulso dato dalle abbazie borgognone di Cîteaux e Cluny alla diffusione delle indulgenze; sp di san- tuari e luoghi di pellegrinaggio, rappresentanti gli interces- sori, venivano vendute a buon mercato grazie ai legni inci- si, tecnica nuova piú rapida del disegno a mano. Venivano acquistate da gran numero di credenti. Grande fu l’influsso dell’incisione tedesca; tuttavia, la Vergine coronata trovata incollata sul fondo di un cofano e un San Francesco di que- sto periodo presentano i caratteri di un’arte che è stata det- ta «della Turenna» ma che sarebbe piuttosto parigina, in- fluenzata dai Libri d’ore stampati da Antoine Verard (1493), di J. du Pré (1481) e di Pierre Le Rouge (1488). Gli imagiers en papier,oimagiers en histoires si stabilirono nel

Storia dell’arte Einaudi sec. xvi, in rue Montorgueil a Parigi. Sei di essi sono parti- colarmente noti: si tratta di Germain Hoyau, Guillaume Saul- ce, François de Gourmont, Jean Bonemere, Pierre Boussy e Alain Mathoniere. Le incisioni da essi stampate affrontano tutti i soggetti: il Figliol prodigo, Santi, Profeti,l’Albero della vita,loSpecchio della morte, un Diavolo d’argento,ilPaese di Cuccagna, e proverbi, che comparvero per la prima volta tra le sp francesi. Composte con grandi legni rettangolari, ben disegnate, ben intagliate, si ispiravano sia ai quadri della scuo- la di Fontainebleau, sia ai disegni di Jean Goujon, di Jean Cousin e persino, talvolta, alla pittura fiamminga. Un’altra famiglia, quella dei Leclerc, abbandonò rue Mon- torgueil per stabilirsi accanto alla Sorbona. Jean II Leclerc, in rue Saint-Jacques, verso il 1575-80, pubblicò Strilloni di Parigi, Giochi di bambini, allegorie. Jean III, suo figlio, in- cise lui stesso su legno soggetti di ogni sorta, e persino eti- chette di biancheria. È lui a introdurre, abbandonando l’in- cisione su legno, l’incisione su rame in rue Saint-Jacques. Con lui lavorarono alcuni fiamminghi. Pierre Firens (1580- 1638) s’installò in una bottega vicina. Alla sua morte aveva inciso 3400 rami. Gli succedettero il figlio e il nipote. Le sp da essi prodotte avevano tematiche «devote». Nel sec. xvi erano comparse e scomparse sp legate alle battaglie religio- se in corso, meno feroci che in Germania ma pur sempre ag- gressive. La scarsità dei pezzi conservati è dovuta all’ordi- nanza di Enrico IV contro gli stampati che rievocavano le guerre di religione e la Lega. L’esistenza di sp di questo ti- po in quest’epoca è però attestata da una raccolta di Pierre de L’Estoille (1546-1611), dal titolo Belles Figures et drôle- ries de la Ligue, avec peintures et placards... prêchées et vendues publiquement en 1589. Il gusto diffuso per i componimenti pastorali e la letteratu- ra di corte, l’interesse per gli atti della vita quotidiana tra- sformarono nel sec. xvii le sp; inoltre non mancò di eserci- tarvi un influsso predominante l’opera di Abraham Bosse. L’impiego dell’incisione su rame prevalse su quello dell’in- cisione su legno. Il Recueil des plus illustres proverbes di Jac- ques Lagniet (1657-63) costituì la raccolta piú coerente, an- zi il tipo stesso della sp realistica. Descriveva costumi, abi- tudini e abbigliamenti dell’epoca. Influenzò Guérard e, per questa via, gli incisori della Rivoluzione francese. Le sp incise dai Bonnart non rappresentavano, come quelle

Storia dell’arte Einaudi di Lagniet, la vita quotidiana, né, come quelle di Firens, al- legorie morali o religiose, ma personaggi e abbigliamenti ele- ganti. Henri Bonnart pubblicò 683 sp, nella maggior parte, ritratti. Come i suoi fratelli Nicolas e Robert, era incisore di qualità. Un altro fratello, Jean-Baptiste, pubblicò la serie dei Mestieri.Le sp provenienti dalla rue Saint-Jacques si orientarono sempre di piú verso l’incisione detta «semi-fi- ne», dall’ornamentazione accurata, talvolta sdolcinata. Il ge- nere era destinato a una clientela agiata, che amava i calen- dari alle pareti e si dilettava di vedute «ottiche», cioè di una nuova tecnica di raffigurazione che cercava di porre in ri- lievo i monumenti urbani e le loro vedute d’insieme. Risultati particolarmente felici, in questo genere, furono rag- giunti dagli Chéreau (1732-1810); nella loro bottega all’in- segna del Gallo, oltre le proprie, vendevano anche sp di pro- vincia o provenienti dall’estero. Jollain e Mondhare pubbli- carono vedute «ottiche» contemporaneamente a sp devote. I Crépy (1686-1789) offrirono al pubblico i soggetti piú sva- riati. Incisero o fecero incidere, come Esnault e Rapilly, ca- lendari di grande formato, con incorniciature imponenti, composte da figure e da decorazioni rococò. Tali incisioni, per quanto piacevoli, non possiedono né il valore di testi- monianze di vita popolare, né la forza di immagini di riven- dicazione. A «servire la patria» sarà Basset. Le sue caricature s’ispira- vano alle incisioni su legno del sec. xvii; attaccavano la no- biltà e il clero. Basset rappresentava anche i cortei e le feste rivoluzionarie, come aveva fatto per i cortei e le feste di Lui- gi XVI. Soppresse, tra i colori, il giallo, usando soltanto il blu e il rosso. Il valore corrosivo delle sue sp sarà tanto alto quanto effimero. Passato il periodo rivoluzionario, la produzione di rue Saint-Jacques tornò ad essere, per tutto l’Ottocento, quella che era stata in precedenza, dalle stampe accurate ai soggetti romantici e teneri verso il 1840, ricchi e un po’ compassati durante il secondo impero; piacevano a un pubblico piccolo borghese. Parallelamente a questa evoluzione delle incisioni a taglio dolce, intorno al 1750 si manifestò un risveglio d’interesse per le immagini incise su legno. Questo ritorno si accentuò a partire dalla fine della rivoluzione per toccare il culmine

Storia dell’arte Einaudi tra il 1820 e il 1830, incoraggiato dal Concordato e dalla ri- messa in auge dei soggetti religiosi. Era stato favorito da un ritorno all’arte dell’incisione su legno nella fabbricazione di tessuti e tele dipinte. Vietata nel 1686, la stampa di queste tele era stata di nuovo autorizzata nel 1760. Il successo era stato immenso, e considerevole il numero degli stampatori su tela «indiana». Quando la moda decadde, gli stampatori furono naturalmente inclini a operare nell’ambito di tecni- che pressoché identiche. La voga della carta da parati dipinta consentì di mettere a frutto il talento di molti fra loro. In provincia, tali sp sopravvivevano in laboratori moribondi; la nuova moda le riportò alla piena vitalità. Nella prima metà dell’Ottocento esistevano una ventina di centri il cui im- pianto era dedicato alla trasformazione delle manifatture di tela «indiana» e di carta da parati. Primo tra essi era Orléans. Tre personaggi dirigevano due laboratori: Seve- stre-Leblond, Perdoux e Letourmi, le cui sp sono le piú bel- le dell’epoca. Jean Sevestre incise le sue belle tavole, colorate d’un azzur- ro splendido. Si dice producesse carta da parati, e così pure il suo operaio Perdoux († 1820), che gli succedette nel 1780. Ai due si devono sp, copriletto, bordure per camini, perso- naggi a grandezza naturale, che rappresentano, per la preci- sione, una domestica e uno svizzero. Il genero di Perdoux, Huet-Perdoux, ne assunse la successione nel 1805, ma non combinò un gran che e vendette i legni a Garnier di Char- tres nel 1832. Jean-Baptiste Letourmi, di Coutances, amico dei parigini Esnault e Rapilly, si stabilì a Orléans ove, dal 1774 al 1789, fece incidere nel suo laboratorio soggetti di moda. Fece buo- ni affari, grazie ai suoi cento depositi di vendita sia a Pari- gi che in provincia. Nel 1789, si schierò per la rivoluzione; essendo l’unico produttore provinciale di sp di questo ge- nere e di questa importanza, le sue realizzazioni si accreb- bero di soggetti d’attualità. Dopo la rivoluzione, celebrò Bo- naparte. La produzione terminò nel 1800. Il primo laboratorio di Chartres è quello del fabbricante di carte da gioco Pierre Hoyau, che produsse sp in numero suf- ficiente a dover far ricorso ad altri incisori, Thomas Blin e i fratelli Allabre. Il suo materiale venne acquistato nel 1770 da Sébastien Barc. Marin Allabre aprì un altro laboratorio (1782-1805), ma alla vigilia della rivoluzione sia lui che Barc

Storia dell’arte Einaudi stavano fallendo. Suo genero Jacques-Pierre Garnier, che ha operato da Basset a Parigi, fece uscire nel 1805 sp d’attua- lità, incise da Guillaume Allabre († 1807) e da suo fratello Louis. Garnier-Allabre riutilizzò vecchi legni incisi da Blin e dagli Allabre. Tra il 1810 e il 1820 ne pubblicò un gran numero; delle 192 incisioni note, 110 hanno soggetti reli- giosi, ma ormai non andavano piú di moda e Garnier ven- dette i legni di Thiébault a Castiaux di Lille. Simon Blocquel (1780-1863), socio di Castiaux (1768-1855), chiamò a Lille A. Thiébault. La sua ditta era in piena asce- sa. Dal 1809 alla sua morte editò centinaia di fogli di ogni genere: santini, scene bibliche, ritratti di personaggi regnanti o famosi, raffigurazioni di mestieri, animali. Henri-Désiré Porret, prima di avere successo, a Parigi, ideò molti sogget- ti. Aveva fatto tirocinio presso Henri-Alexandre Martin-De- lahaye (1776-1856), cui si deve una serie che è unica per bel- lezza d’incisione e armonia di colori (I Piccoli cacciatori,i Piccoli masnadieri,i Piccoli giardinieri) e altre sp a tematica tradizionale (L’Ebreo errante,ilFigliol prodigo, Barbablu).Jo- sué-Henri Porret, padre di Henri-Désiré e venditore di tela «indiana» proveniente dalla Svizzera, fu l’unico ad aver fir- mato legni per Martin-Delahaye. Altre sp di questo editore non sono che copie di incisioni di Amiens o di Cambrai. Ad Amiens, Jean-Baptiste Lefèvre-Corbinière (1788-1812) incise o fece incidere fogli di santini fino al 1793. Dopo l’in- tervallo rivoluzionario, si occupò soltanto di ritratti e scene napoleoniche, colorate in blu Savoia, in verde scuro e in ver- miglio. Ledien-Canda (1790-1832), in origine fabbricante di carte da gioco, editò saintetés i cui colori sono pressoché gli stessi che presso Lefèvre-Corbinière. I legni di Amiens ar- rivarono a Parigi, presso Tautin e presso Julienne, speciali- sti di sp d’attualità. A Cambrai l’attività durò solo qualche anno, dal 1808 al 1825 ca. Il libraio Armand-François Hurez (1791-1832) con- ferì unità a un insieme di 211 sp, stampate su carta azzur- rognola. Formatosi a Parigi presso Basset, fece incidere i suoi legni ad Alençon da Godard II (1768-1838), che copiò, tra- sponendole, incisioni di rue Saint-Jacques. I legni di Godard verranno acquistati da Glémarec, produttore di sp parigino, che le rieditò verso il 1856. Antoine Thiébault, l’incisore di Garnier-Allabre a Chartres

Storia dell’arte Einaudi e di Blocquel-Castiaux a Lille, tornò nel 1828 a Nancy, sua città natale, dove opera, con il fratello Jean-Baptiste, per De- sfeuilles, lui stesso incisore. Produsse allora i suoi legni piú belli. In questa stessa città Jacques-Stanislas Hubert detto Lacour (1805-71), imprimeur-imagiste, edita dal 1830 al 1839 pezzi napoleonici, per i quali si assicura la collaborazione di J.-B. Thiébault. Nel 1828, quando si trovava a Epinal, ave- va comperato i legni di Dupont-Diot a Beauvais. Quando nel 1839 abbandonò quest’attività per dirigere una mani- fattura di carta da parati, vendette i propri legni a Dembour di Metz. Adrien Dembour (1799 - post 1838) utilizzò gli in- cisori A. Thiébault e Jean Wendling. Entrò in concorrenza con Epinal pubblicando santini e sp delle battaglie di Na- poleone. Dal 1837 impiegò la carta fatta a macchina, e così pure fece a Belfort J.-P. Clerc (1776-1842). Nell’est del paese, un’altra ditta importante, fondata da Jean-Théophile Deckherr, venne fondata a Montbéliard nel 1796. I suoi figli produssero dal 1815 al 1830 sp che pro- ponevano ancora una volta i temi tradizionali del Mondo al- la rovescia, delle Cinque parti del mondo, e soprattutto san- tini, in fogli assai belli, dai fondi colorati in arancio. Nel 1850, l’avvento dell’era industriale mandò in rovina le vecchie strutture artigiane. Al laboratorio successe la fab- brica. La carta venne prodotta a macchina, e fatta di pasta di legno e non di stracci. Le macchine sostituiscono gli in- cisori e i coloristi. La diffusione avviene per vendita orga- nizzata. Epinal e Parigi restano i grandi centri di produzio- ne. Se i mezzi di riproduzione erano mutati, lo spirito restò il medesimo. Sempre in modo collettivo, vennero prodotte sp destinate a piacere alle persone facili a commuoversi, che amavano ornare le pareti di scene moralizzanti o tenere, vi- vacemente colorate. La tradizione di rue Saint-Jacques, co- sì, si perpetuò. Per molti anni, agli occhi del pubblico, queste sp saranno le «immagini di Epinal», giornaletto per ragazzi, da dipinge- re, ritagliare e incollare, tanto diffuso in tutto il mondo che il termine Epinal è diventato generale, applicandosi a tutte le sp, fabbricate o meno da Pellerin. u Russia I primi fogli volanti compaiono in Russia in ritar- do rispetto alla diffusione del libro a stampa. Una stampa in stile rinascimentale italiano, un Apostolo, venne edita a Mo- sca nel 1564 per ordine dello zar Ivan il Terribile. Non è per

Storia dell’arte Einaudi nulla una sp; né lo è un’altra stampa, Prigione dei santi con- dannati, incisa su piombo a Kiev nel 1629. Le sp hanno ini- zio soltanto con Pietro il Grande, che portò a Mosca nel 1708 l’incisore Pierre Picard. Nato ad Amsterdam da fami- glia di origine francese, quest’ultimo viene nominato, nella stamperia di Mosca, maestro nell’arte della stampa, e poi in- viato a San Pietroburgo, per dirigere la tipografia. A Mosca, fu incaricato di insegnare le tecniche e le forme dell’incisio- ne occidentale ai maestri argentieri del Dipartimento di Aral- dica. Venne proposta a modello la Bibbia di Pescator.Essa influenzò l’arte degli incisori che disegnavano le figure che ornavano gli oggetti d’uso dello zar. Il soggiorno di questi stranieri fu breve, ma il loro insegnamento lasciò tracce du- revoli. Due loro allievi, Akhmetiev e P. Chuvayev, incisero le prime sp a bulino: il Gran Diavolo d’argento,ilMondo al- la rovescia, la Scala delle età.Nel medesimo periodo venne- ro edite sp scompartite, parimenti incise a bulino. Sono ope- re affascinanti, con testi deliziosi, dette bylines (vecchie sto- rie); esse fissano un’immensa letteratura orale di leggende. Erano state raccolte negli Urali verso il 1750 dal cosacco Dainloyv, e vennero pubblicate nel 1804. La forma a scom- parti, adottata dagli incisori, venne ereditata da sp di que- sto tipo, in grandissima voga nei Paesi Bassi. L’impiego dell’incisione su legno conferì alle sp di questo periodo carattere veramente popolare. Le prime conosciute erano tratte da un libretto di sette pagine, la Morte su un ca- vallo pallido, stampato a Kiev nel 1626. Basil Koren è il primo grande nome delle sp in Russia. Ese- gue incisioni su legno, di grande formato, per illustrare una Bibbia in base ai disegni del pittore Gregorio. La Bibbia di Pescator ne è il modello. Artigiano piú che artista, Koren eb- be bisogno della guida di un disegnatore. Inciderà pure, a partire dal 1696, legni con soggetti presi dalla vita e dal folk- lore russo. Con lui le sp divengono veramente russe non sol- tanto per il tema, ma per la stessa figurazione, per le fisio- nomie, i costumi dei personaggi e gli oggetti domestici fra i quali si trovano. Koren interpreta a modo suo la Guerra dei gatti contro i ratti, corteo funebre del gatto Pietro il Grande, legato con lo spago su una slitta e scortato da ratti. Per tutto il sec. xviii, altri incisori, tuttora anonimi, opera- no a Mosca. Certuni hanno uno stile arcaicizzante; la loro

Storia dell’arte Einaudi maniera è vigorosa, e il loro senso estetico molto sicuro. Al- tri creano legni assai ben disegnati, in stile fiorito e orna- to. A partire dal 1734, vige l’uso di stampare, su volantini colorati, i ritratti dei sovrani. Le sp propagandistiche si fon- dono con quelle storiche: narrano le guerre contro la Prus- sia nel 1759 o contro la Turchia nel 1775, e attaccano vi- vacemente Napoleone. Le storie vere hanno la stessa im- portanza di quelle false: la cattura di una balena nel Mar Bianco nel 1760 e l’arrivo di un elefante dalla Persia nel 1796. Quest’elefante sarà rappresentato molte volte, e lo si ritroverà, nella veste di immagine-bersaglio, nella seconda metà del secolo successivo. Nel sec. xix si adotta una modalità impaginativa pressoché uniforme: il formato dei legni o delle litografie rettangolari è disposto per largo e accompagnato da un testo. Le sp e le loro didascalie sono sempre di grande bellezza poetica. Ta- li sp, o loubkis, sono state messe insieme nel 1860 in rac- colte pubblicate da Sitine a Mosca dal 1873 al 1889; sono quelle originali, che si erano vendute per un copeco. Goli- cheff, editore di sp e insieme loro storico, scrisse nel 1870: «I fogli, una volta tirati, sono asciugati, tinti, colorati o lu- meggiati nel villaggio di Nicolskaia, a 12 verste da Mosca [...]. Un migliaio di persone, tutte autodidatte, sono occu- pate nella colorazione delle sp. Simpiegano quattro colori soli, il rosso lampone (santolina), il verde (verderame color tetto con miele), il giallo (scorza di fragola bollita nel latte), il rosso (minio macinato con rosso d’uovo e stemperato in kvass, birra fatta in casa). Essendo le sp dipinte in fretta, i colori superavano i contorni del disegno […]». Le sp rac- contano la vita di tutti i giorni, le feste contadine; mostra- no in quadretti di dolce ironia le occupazioni dei funziona- ri e quelle dei piccoli borghesi. E narrano anche i racconti di fate, dell’uccello di fuoco e del principe Ivan. Le sp devote sono condizionate invece dagli imperativi del culto. La religione ortodossa vietava la raffigurazione a tut- to tondo; al posto delle statue, si veneravano icone. Dipin- te e riccamente incorniciate in rame, argento e pietre pre- ziose, sono troppo dispendiose per ornare le iconostasi del- le chiese di campagna, che si accontentano di figure di carta. Gli incisori incaricati di riprodurle hanno cura di copiare il modello nel modo piú esatto possibile. Piú la copia è fedele, maggiore è il valore mistico del foglio. Si possono trovare

Storia dell’arte Einaudi appese o incollate in un angolo della casa, o sulla parete de- stinata alla preghiera. u Altri paesi europei La storia delle sp in Occidente potreb- be limitare l’analisi a quella dei paesi già citati. L’abbondan- za delle incisioni e il loro valore estetico e sociologico costi- tuiscono un complesso nel quale tutte le correnti si corri- spondono e si completano. Queste sp, diffuse dai venditori ambulanti in tutta Europa, avranno influenza determinante sulla fioritura di sp tratte da xilografie prodotte in luoghi ove pure esistono altre forme d’arte popolare. E ancora dalle sp gli artigiani trarranno rinnovamenti d’ispirazione. Così, in Scandinavia, i creatori delle pitture artigianali e dei paramenti dipinti che si appendevano alle pareti il giorno di Natale co- piano immagini della Germania settentrionale. Negli Stati slovacchi, in Polonia, in Romania e in Transil- vania esistono sp di qualità, che attingono i propri modelli formali dalle pitture su vetro, le quali, notevoli per la bel- lezza dei colori applicati, svolgono la funzione che si confe- risce alla sp: preghiera e protezione. Le sp slovacche, polac- che, rumene o bulgare hanno parecchi tratti comuni. Rap- presentano Vergini dei luoghi di pellegrinaggio, o miracolose, e santi popolari. I fondi non sono mai lasciati bianchi: sono decorati con drappeggi o, ancor piú spesso, con motivi flo- reali stilizzati. Questi medesimi motivi si iterano nelle ste- sure a colore piatto delle vesti o su qualsiasi superficie che possa eventualmente apparire vuota. L’intaglio di questi incisori su legno è grossolano, i contor- ni fortemente disegnati, e praticamente non esistono tagli incrociati. I colori sono vivi e talvolta opachi: ci si sforzava così di mascherare la carta grigia e grossolana. Caratteristiche consimili si ritrovano alla fine del sec. xviii nella Slovacchia centrale, nel centro di Jastrabie, e in Tran- silvania. In quest’ultima regione, alcune sp hanno stretta pa- rentela con le carte da parati, soprattutto quelle in cui si al- ternano diagonalmente soggetti devoti e motivi floreali. Il Primo Adamo risalirebbe al 1700. P. Gheorghie ha inciso verso il 1787 e fino al 1817, Moraviu Nechita verso il 1835 e fino al 1862, P. Simion nel 1842, P. Onisie tra il 1840 e il 1870, e infine Man Andrei, dopo il 1859. I legni sono in- cisi in maniera arcaica. In Polonia, nel 1921 è stato ritrovato in un antico fondo di

Storia dell’arte Einaudi tipografia, da parte di Z. Lazarski, tipografo di Varsavia, un buon numero di legni famosi. Per la maggior parte risalgo- no alla fine del xviii e all’inizio del xix secolo. Sono quasi tutti anonimi; tuttavia alcuni recano un nome, una data o un monogramma: Gregorio Skowronski, 1740; Samuel Ste- fanov, Mathieu Kostrycki di Plazow. Si ebbero tre centri principali: quello dei carmelitani, alla frontiera con la Prus- sia orientale, ove alcuni legni recano i monogrammi E.W. e A.I.M.; quello di Plazow, ove, oltre alle tavole firmate da Kostrycki, si trovano i monogrammi P., P.S., G.G., H.G., E.C.; e quello del comune di Bobrek, nel distretto di Cra- covia. Quest’attività durò circa un secolo, durante il quale né la tecnica né lo stile hanno registrato variazioni di rilievo. La produzione di sp deve delimitarsi alla definizione che qui se ne è data. Esistono però generi che, pur non rispondendo strettamente a tali criteri, possono nondimeno assimilarvi- si, tra i quali quelle sp d’informazione, che è il precedente dei nostri settimanali illustrati a carattere sensazionale. In Francia, tali fogli sono detti canards (canarini); in Inghil- terra cocks, catchpennies o anche gallows (galli; acchiappa- soldi; forche); questi ultimi, o «letteratura della forca» rife- riscono la sentenza, le ultime parole e l’esecuzione dei cri- minali. Il genere fu notevolissimo, di eccezionale importanza e originalità. «Niente, dopo tutto, supera un bel delitto sen- sazionale», diceva un venditore ambulante del sec. xix a Hindley, lo storico inglese dei fogli d’informazione (1871). L’interesse che il pubblico manifestava per il criminale spin- se gli scrittori a svilupparlo e variarlo in tutti i modi. James Catnach (1792-1841), il piú importante di tali editori nell’Ottocento, guadagnò oltre 500 sterline con l’assassinio di Weare e col giudizio e l’esecuzione del colpevole. I gal- lows e i cocks sono illustrati mediante legni anonimi, alcuni dei quali sono serviti almeno a quattro editori per oltre cin- quant’anni e per crimini diversi. Gli artisti che incidevano tali legni avevano piú intuizione che abilità; la loro opera colpisce per il senso del dramma, non per la qualità dell’in- cisione. I gallows, e così pure altri fogli volanti, si vendevano assai prima dell’Ottocento. Nel Seicento, Samuel Pepys (Journal, 1660-65) ha collezionato qualche Penny Merriment, Penny Witticism.Questi fogli, di cui si trova menzione nei dizio-

Storia dell’arte Einaudi nari sotto la denominazione generale di broadside o broad- sheet, si vendevano agli angoli delle strade. Si presentavano non soltanto nella forma di fogli d’informazione, ma anche in quella di «ballate» che, nel sec. xix, si vendevano nello yard; i cantastorie, camminando molto lentamente, li canta- vano salmodiando. La melodia era nota quel tanto che ba- stava a interessare il cliente, né troppo né troppo poco. Que- sta forma va considerata, forse, l’antenata del folksong. Tra le prime storie di «ballate» stampate è quella di Robin Hood. Le ballate servirono, sotto il regno di Enrico VIII, alla propaganda politica e religiosa; l’esemplare noto piú an- tico è la Ballade of the Scottysh Kynge (Ballata dei re scozze- si) di John Skelton, stampata da Richard Fawkes nel 1563. America Non sorprende, considerando l’immensità e la di- versità del suo territorio, che in America siano esistite due forme di sp: la prima tradizionale, di forma europea e so- prattutto latina; l’altra con tecniche nuove, proteiforme e in continua evoluzione. L’America del Nord, nell’Ottocento, è popolata da una con- gerie di emigranti, che hanno abbandonato in Europa le pro- prie tradizioni portando con sé soltanto le abitudini. Non esi- stono le condizioni necessarie per la produzione di sp: né con- venti, né luoghi di pellegrinaggio, nulla che ne susciti le motivazioni. Le religioni sono diverse, i riti molteplici. Non resta che il ricordo su carta di un passato legato a un’infan- zia trascorsa in un altro continente. La sp, trasportata nel ba- gaglio degli emigranti, una volta rovinata ha poche probabi- lità di essere rimpiazzata. Sembra, tuttavia, che sulla costa est si siano vendute sp: Gangel, editore di sp di Metz, ha un depositario a New York, cui nel 1854 invia sp litografate. Gli stampatori, impiantandosi, utilizzano macchine moder- ne e adoperano le nuove tecniche di stampa. Anche se, tuttavia, nell’Ottocento, nell’America del Nord vengono utilizzate tipologie di sp diverse da quelle del Vec- chio Mondo, i cocks inglesi otterranno una certa fortuna pur se adeguati a nuovi usi. Nella forma di politipi e di stereo- tipi vengono illustrati annunci di vendita, avvisi per la ri- cerca di criminali, manifestini per tutte le modalità di loco- mozione (battello sul Mississippi, treno verso l’Ovest), e ma- nifesti pubblicitari per prodotti manufatturieri. Lo sviluppo industriale del sec. xx darà impulso allo studio

Storia dell’arte Einaudi di questi prodotti e ai successivi sviluppi del genere: dal po- ster, manifesto per interni, immagini di pin-up, incollate nel- le caserme dei soldati, cartoline d’auguri e cartoline postali, anch’esse incollate sui cassetti delle scrivanie impiegatizie, alle immagini filmiche, e dei mass media. (hz). Estremo Oriente u Cina Il bisogno di un’immagine, che riproducesse l’a- spetto della divinità e proteggesse la vita e i beni dell’uo- mo, ha sollecitato questo tipo di produzione in Cina da al- meno 1500 anni. Si riportavano su carta le sculture e i carat- teri dei bassorilievi dei templi e dei luoghi di pellegrinaggio, secondo una tecnica particolarissima, forse una delle forme piú antiche di stampa e riproduzione di opere d’arte. La car- ta veniva applicata sul rilievo, la si batteva leggermente con un martello coperto di feltro, finché il rilievo non compa- risse. I letterati e gli appassionati d’arte utilizzavano que- sti fogli e alla corte degli imperatori Tang (618-907) gli stampatori erano iscritti sui registri accanto agli scultori e ai calligrafi. Il timore che le sculture si danneggiassero fe- ce cessare la pratica del riporto diretto. Gli stampatori co- piarono allora su pietra l’opera originale, prima di impri- merla su carta. Le sp in senso piú moderno, sono apparse in Cina fin dal sec. viii; provenivano da templi e conventi, erano stampate in gran numero con l’aiuto di blocchi di legno inciso e colo- rate mediante stampini, a pennello e talvolta persino ricor- rendo a legni di colori diversi, venivano distribuite nei gior- ni propizi. La loro tecnica e il loro uso era molto simile a quello che avevano nei paesi occidentali. Le sp venivano acquistate in occasione del capodanno e in- collate all’ingresso delle case su cui si voleva attirare la feli- cità. Poi si bruciavano quelle dell’anno precedente, onde la- sciare alle potenze benefiche tutto il loro rinnovato potere. S’incollavano all’interno dei cassoni, sui ferramenti, ove il pipistrello, segno di felicità, su fondo rosso, colore magico, scacciava gli spiriti maligni; e persino sulle teiere. Il simbo- lismo sembra complesso, ma soltanto per la molteplicità del- le forme e delle loro varianti. Le idee di base sono semplici: felicità, ricchezza, longevità, figli maschi, alti onori; ognu- no di questi temi diveniva soggetto di sp, la cui raffigura- zione mutava a seconda del luogo in cui venivano collocate e della qualità della persona cui erano destinate. La sp del-

Storia dell’arte Einaudi la «gioia di abbondanti messi» è forse quella piú usata in Ci- na. Viene tutt’ora utilizzata, con alcune innovazioni icono- grafiche consone alle trasformazioni culturali e politiche del- la Cina post-rivoluzionaria, come, ad esempio, la presenza di un trattore accanto alle messi. Sp a soggetto profano decoravano anche le case; rappresen- tavano guerrieri, personaggi di romanzi popolari: erano stampate da artigiani che, per secoli, le ricopiavano ogni vol- ta che il legno inciso si logorava. La fattura e la colorazione delle sp variano di provincia in provincia. Quelle di Pechino, ad esempio, erano molto so- brie nella scelta delle tinte. Le sp meglio conosciute sono quelle stampate dal sec. xviii in poi. Vietate nel 1912, le sp ricomparvero col comunismo, ritrovando successo, median- te l’adattamento della raffigurazione dei tempi passati a vo- ti augurali nuovi e collettivi. Il loro numero è grandissimo e la loro fattura piú o meno buona; ma non era questo lo sco- po delle sp. u Vietnam Le sp del Vietnam, cui spesso si dà il nome di «stampe del Têt», dànno il loro contributo alle festività del capodanno lunare. I loro incisori, condizionati dalla religio- ne e dall’arte cinese, usavano però procedimenti e raffigu- razioni consone alla loro cultura. Le prime sp sarebbero state stampate nella stessa epoca dei primi fogli di carta moneta, tra il 1400-407. I loro autori era- no semplici contadini che vivevano in villaggi o in alcune stra- de di città, come la via dei Tamburi ad Hanoi. Usavano la tecnica dell’incisione su legno, ma in alcuni casi i colori ri- sultavano da tirature successive dei legni su fondo ocra o gial- lo vivo lumeggiato con calce di conchiglie; in altri soltanto il disegno era inciso, e il colore veniva aggiunto a mano. A partire dal sec. xix, gli autori di sp di un centro di pro- duzione molto noto, Dong-Ho, restarono fedeli ai coloran- ti vegetali e minerali, e continuarono a utilizzare per le loro stampe soltanto carta di bambú o scorza di gelso, mentre quelli della via dei Tamburi di Hanoi cominciarono ad usa- re carte industriali e colori chimici. Oltre ai soggetti religiosi, nei quali la raffigurazione dei ge- ni fungeva anche come pretesto a una trasposizione simbo- lica della gerarchia feudale, sono innumerevoli i fogli con soggetti che valorizzano il talento degli incisori nella rap-

Storia dell’arte Einaudi presentazione di animali con significato metaforico: il pesce significa abbondanza, la farfalla longevità, il pipistrello fe- licità, la zucca la vecchiaia. I soggetti tratti dai romanzi po- polari e dalla vita quotidiana sono trattati in modo diverso a seconda dell’origine. Le incisioni di Dong-Ho, riportate su pannelli simmetrici, illustravano i temi delle quattro stagio- ni, dei quattro animali favolosi, dei quattro ceti sociali (let- terato, lavoratore, artigiano, commerciante), e riproduceva- no gli aspetti piú semplici della vita rustica. Quelle della via dei Tamburi descrivevano, invece, scene di vita urbana: la composizione era piú sapiente e i dettagli avevano grande im- portanza. Le sp vietnamite, cadute in disuso all’epoca della colonizzazione, tornarono in voga in occasione della festa del Têt del 1946. Nel 1957, furono vendute ad Hanoi 300 000 sp che illustravano, nell’antico stile, temi nuovi: lo zio Hô in mezzo ai suoi nipoti, i guerriglieri alle feste della mieti- tura. Il centro di Dong-Ho, l’unico ancora attivo, produce una grande quantità di fogli, oramai tirati a offset. u Giappone Dal sec. viii in poi, venne prodotto in Giappo- ne un milione di stra mediante incisione su legno, per il tem- pio Horyuji; i preti perfezionarono una tecnica di stampa per facilitare la tiratura, essendo necessario editare in gran- di quantità gli esemplari di documenti illustrati contenenti la dottrina, per distribuirli ai fedeli e agli altri templi. Le pri- me sp entrate in repertorio datano al sec. xvii; sono buddi- ste, e rappresentano Amida, Fudo, Aïzen e Shomen Kongo, dèi popolari. Compaiono in epoca Edo (1613-1867) sulle ri- ve del lago Biwa, nella città di Otsu, da cui questa produ- zione prese il nome, e in due altri villaggi, Oiwara e Otan. Erano disegnate da contadini e da gente del popolo che, fat- tisi artigiani, hanno trasmesso il mestiere di generazione in generazione. Tali opere – e la loro importanza nella vita giap- ponese – sono conosciute grazie a Basho, poeta del sec. xvii, che scrisse su di esse una celebre poesia. Nel sec. xviii, l’incisione su legno, poi colorata, prevalse sul- la pittura, sino ad allora impiegata spesso da sola. I temi si moltiplicarono, i soggetti profani vennero incisi in conco- mitanza con quelli religiosi. Rappresentano scene di Kabuki, donne, animali domestici. Spesso ispirate dalle stampe ukiyoe e soprattutto dall’opera di Moronobu, queste stam- pe non erano destinate a un’élite borghese, ma al popolo. Erano stampate su carta scura tinta in giallo; vi si aggiun-

Storia dell’arte Einaudi gevano spesso minuscoli frammenti di minerali frantumati; i colori sono vivi e contrastanti. Il vigore del tratto disegnato di getto, l’espressività dello stile, unitamente a una grande economia di mezzi, contrassegnano i migliori esemplari di Otsu. Nell’ultimo periodo, che ha inizio alla fine del sec. xviii e si prolunga per tutto il xix, le opere buddiste diminuirono e quelle profane, che rappresentano scene di strada e di vita quotidiana, si fecero sempre piú numerose. Spesso vi erano aggiunte massime moralizzanti e la sp divenne anche uno strumento di educazione morale. A partire dall’epoca Meiji (1867-1926), il genere cominciò a decadere per riprendere slancio in epoca moderna. (ol). Stämpfli, Peter (Deisswil (Svizzera) 1937). A Parigi nel 1959 sotto l’influs- so dell’arte americana, e in particolare di Pollock, dipinge tele astratte di grandi dimensioni. Dai primi anni Sessanta la sua ricerca punta a ritagliare un’immagine e ad isolarla su di uno sfondo bianco. La fonte di ispirazione nei manifesti e nei cartelloni pubblicitari è comune a quella della Pop Art, da cui divergerà per un atteggiamento piú neutrale della sua ricerca. È del 1966 il suo primo quadro che segue i contor- ni dell’immagine rappresentata, Rouge Baiser.Questa ricer- ca che lo porta ad abbandonare definitivamente il fondo bianco nel 1969, lo avvicina agli shaped canvas di Frank Stel- la. L’automobile sarà ora l’oggetto ordinario della vita quo- tidiana prescelto da S per essere ripreso in diversi suoi par- ticolari. Ai quadri con la carrozzeria, seguiranno le ruote (SS 396, 1969), i pneumatici e infine soltanto piú le loro tracce. L’interesse è sempre rivolto alla plasticità della forma, alla pura presenza pittorica. Dai colori puri delle prime opere, due o tre al massimo, passerà a giochi di grigi e di bruni ten- denti a creare unità. L’interesse a ripetere lo stesso tema, variandolo nella forma, nella dimensione e nella struttura lo fa avvicinare alle coeve ricerche ottiche e cinetiche. Fanno da contrappunto a questa ricerca due film, Firebird del 1969 e Ligne continue del 1974, attraverso cui esce dall’immagine statica e giunge a disegnare direttamente sulla pellicola. Nel 1971 espone i suoi primi disegni nella sezione iperrealista della VII Biennale di Parigi e alla Galleria Rive Droite muo-

Storia dell’arte Einaudi vendosi verso una dematerializzazione ulteriore dell’imma- gine. M 301 n. 3 (1974) è la traccia dell’oggetto, il negativo dello schema del pneumatico. Si parla a proposito della pit- tura di S di «giansenismo pittorico» (P. Cabanne, 1976). La prima retrospettiva è al Museo dell’abbazia Sainte-Croix al- le Sables d’Olonne nel 1976 e tre anni dopo al Museo d’Ar- te e di Storia di Saint-Etienne. Nelle sue prove piú recenti si avvicina alle tematiche della Minimal Art. (chmg). Stanfield, Clarkson (Sunderland 1793 - Londra 1867). Marinaio in gioventú, venne eletto nel 1832 associato e nel 1835 membro della Royal Academy. Si dedicò al paesaggio, specializzandosi so- prattutto nelle marine a carattere drammatico. Malgrado la ricerca di aderenza al soggetto naturale, che gli valse l’elo- gio di Ruskin, S non raggiunse grandi risultati per mancan- za di mestiere pittorico. Gli si devono alcuni acquerelli (Lon- dra, bm, Wallace Coll., Tate Gall., vam e al am di Toledo, Ohio) e soprattutto quadri: le Scogliere di Saint-Michel in Cor- novaglia (Amburgo, kh), Veduta di Orford nel Suffolk (1833), Beilstein sulla Mosella (Londra, Wallace Coll.), il Porto di Portsmouth (Londra, Buckingham Palace), il Lago di Como, l’Ingresso allo Zuyderzee (Londra, ng), il Ponte di Waterloo, Old Parham Hall, la Costa presso Boulogne, Ancona e l’arco di Traiano (1851: Londra, vam), Schizzo per la battaglia di Trafalgar (1833), il Canale della Giudecca (1836: Londra, Ta- te Gall.). (wv). Stang, J°rgen Breder (1874-1950), Armatore di Oslo, raccolse rapidamente nel primo quarto del sec. xx una collezione d’arte francese. Comprendeva in ordine cronologico opere di Corot (Italia- na con mandolino), Courbet, sei Delacroix; un’ampia sezio- ne era dedicata all’impressionismo: Manet (Ritratto di Caro- lus-Duran: Birmingham, Barber Institute), Renoir (Donna algerina: New York, The Thannhauser Foundation, Gug- genheim Museum; Bagnante bionda: Torino, coll. Gianni Agnelli), Cézanne (Giocatori di carte: Londra, Courtauld Galleries; un Arlecchino, 1888: Cambridge, coll. di lord Vic- tor Rothschild). Seurat era rappresentato da due bozzetti per la Domenica alla Grande Jatte e dalla Bagnante ad Asniè- res (rispettivamente nella coll. Howard J. Sachs di New York

Storia dell’arte Einaudi e a Kansas City, Gall. Nelson), Gauguin col celebre Donde veniamo, che cosa siamo, dove andiamo? (Boston, mfa), van Gogh col Burrone (ivi) e la Mousmé di Washington (ng), e Toulouse-Lautrec con una Jane Avril sul divano giapponese. Tra gli artisti contemporanei Picasso (Figura di giovane olan- dese del 1905), Matisse, Marquet e Derain. La collezione fu dispersa, sembra, dopo il 1930 e, attraverso vari mercanti, le opere passarono in Inghilterra o negli Stati Uniti. (ad). Stange, Alfred (Glauchau (Sassonia) 1894 - ? 1968). Allievo di Hähnel, stu- diò a Berlino e a Monaco, presentando nel 1921 una tesi di laurea sulla pittura e la scultura tedesche dall’inizio del sec. xiv alla metà del sec. xv. La sua opera fu principalmente de- dicata all’arte tedesca, e in particolare ai primitivi. Nel 1931 S venne nominato professore assistente all’Università di Mo- naco; nel 1933 professore in quella di Erlangen. Cominciò allora a redigere la sua opera maggiore, Deutsche Malerei der Gotik (Pittura gotica tedesca), comprendente undici volumi pubblicati tra il 1934 e il 1961. Le varie province artistiche tedesche sono qui studiate partendo da precisi dati di indi- viduazione stilistica, sottolineandone gli elementi specifici, e seguendone lo sviluppo e le relazioni fino al 1500 ca. Ope- ra tuttora fondamentale per l’individuazione e lo studio dei molti maestri anonimi, o poco piú, che animano la produ- zione pittorica in regioni avare di dati archivistici e docu- mentari, non ha conosciuto sino a oggi che rielaborazioni e precisazioni settoriali (scuole di Colonia, Westfalia, Tirolo) non in grado di superarne la visione alcune volte non ade- guatamente aperta ad altri spunti che quelli dell’analisi sti- listica. Nel corso dei decenni successivi, pubblicherà vari al- tri studi, tra cui spiccano Der Schleswiger Dom und seine Wandmalereien (La Cattedrale di Schleswig e i suoi affre- schi, 1940); Das Frühchristliche Kirchengebäude als Bild des Himmels (La chiesa paleocristiana come immagine del cielo, 1950), Malerei der Donauschule (I pittori della scuola del Da- nubio). Nel 1964 compare anche il primo tomo della sua se- conda grande opera sui primitivi tedeschi, Kritisches Verzei- chnis der deutschen Tafelbilder vor Dürer (Repertorio critico della pittura su tavola in Germania prima di Dürer), prose- guita da Norbert Lieb dopo la sua morte e strumento, come

Storia dell’arte Einaudi il primo, imprescindibile per accostarsi a questo campo di ri- cerca. (dk + sr). Stanislawski, Jan (Olszana (Ucraina) 1860 - Cracovia 1907). Studiò a San Pie- troburgo, a Varsavia (1883-85), a Cracovia e a Parigi (1888-95), dove frequentò lo studio di Carolus-Duran. Mem- bro e primo presidente della società di artisti polacchi Sz- tuka, fu eminente rappresentante dell’impressionismo po- lacco. Nel 1897 divenne docente presso l’Accademia di bel- le arti di Cracovia; il suo «corso di paesaggio» si teneva all’aperto. Eccellente insegnante, S è considerato il fonda- tore della scuola polacca di paesaggio. La sua opera è am- piamente rappresentata al Museo di Cracovia. (wj). Stanton → MacDonald-Wright (Stanton van Vronken) Stanzione, Massimo (Orta di Atella 1585 - Napoli 1656). Personalità di primo piano della pittura a Napoli nella prima metà del Seicento, determinò un particolare indirizzo pittorico che ebbe vaste risonanze nell’ambiente locale sino all’affermazione del gu- sto barocco. Il De Dominici ci dà notizia di un suo iniziale alunnato presso il Santafede, indicando nella tarda cultura manieristica l’iniziale formazione di S. Non essendo stata ancora individuata la sua produzione giovanile, la ricostru- zione storica dello S va fatta iniziare con il soggiorno dell’ar- tista a Roma – documentato dall’ottobre del ’17 all’aprile del ’18, ma da ipotizzarsi anche piú ampio – caratterizzato dai continui contatti con la locale cerchia di caravaggeschi, dal Saraceni al Manfredi, dal francese Valentin de Boulogne al connazionale Simon Vouet. Il soggiorno romano va consi- derato fondamentale per lo S anche in altro senso, perché certo il pittore napoletano dovette restare affascinato anche dalle esperienze dei Carracci alla Galleria Farnese, espe- rienze che anche a Napoli, in quegli anni, si andavano af- fermando con le opere eseguite per le chiese della città dal Domenichino e dal Reni. E problema fondamentale per Mas- simo fu il tentativo di accordare i modi contrastanti delle due maniere: quella caravaggesca e quella bolognese, verso cui parimenti si sentiva portato. La soluzione gli venne so-

Storia dell’arte Einaudi prattutto dal Vouet (già conosciuto a Roma, ma di cui era- no presenti a Napoli tele a San Martino e in Sant’Arcange- lo a Segno) e da Artemisia Gentileschi, trasferitasi dal ’30 nella città partenopea. Dal pittore francese in particolare, egli trasse le indicazioni per una personale interpretazione del caravaggismo, rivolta verso soluzioni di estrema elegan- za di forme, in cui le raffinatezze cromatiche contribuisco- no ad effetti di sottile grazia sentimentale. E se le sue ope- re piú antiche, come il Martirio di sant’Agata a Capodimon- te o le Storie del Battista al Prado indicano ancora un marcato impegno naturalistico (riprese dirette proprio dal Caravag- gio de Le sette opere della Misericordia e della Madonna del Rosario, opere napoletane, appaiono nella tela della Madon- na con le Anime Purganti nella chiesa del Purgatorio ad Ar- co, dove tuttavia si fa già evidente un tentativo di accordo con i modi tradizionali del classicismo), le tele dipinte per la cappella di San Bruno in San Martino (1631) hanno già rea- lizzato il superamento di quell’impegno in una pittura di composta eleganza di «historia e di decorazione». In pochi anni S doveva divenire, su questa strada, l’artista piú am- mirato e imitato dai pittori napoletani. Nelle opere del pe- riodo centrale (la Pietà di San Martino del ’38, le Nozze di Cana dei Gerolamini del ’40) in cui si inserisce anche la fer- vida attività di affrescatore nelle chiese del Gesú Nuovo (’39-40), di San Paolo Maggiore (’43-44), di San Martino (cappella di San Bruno dal ’31 al ’37 e cappella del Battista dal ’44 al ’45), nella sacrestia del Tesoro al Duomo del ’45, si fa sempre piú attenta quest’opera di revisione dei risulta- ti caravaggeschi, filtrati attraverso i modi anche della pittu- ra bolognese, specie di Guido Reni, suggerendo alla succes- siva storiografia l’appellativo di «Guido Partenopeo» per lo S. In queste opere i colori sono divenuti chiari e luminosi, la luce, superati i presupposti caravaggeschi, si è fatta sempre piú dorata e avvolgente ed è, ora, strumento solo di sugge- stioni liriche, di vibrazioni preromantiche. La sua persona- lità creatrice è così geniale e capace di intuizioni così felici che, anche quando rasenta l’accademismo di un formulario di compromesso, questo è subito riscattato dalla frequenza di «pezzi» di autentica poesia. È la sua intelligenza artisti- ca che gli fece avvertire nelle opere dell’ultimo periodo – di cui la maggiore è la grande tela dell’Annunciazione di Mar-

Storia dell’arte Einaudi cianise (1655) – il bisogno, sotto l’impulso della nuova sen- sibilità barocca, di rendere piú ampia la composizione con una concitazione maggiore e un piú libero ma meno medi- tativo articolarsi delle forme. (ns). Stará Boleslav La chiesa romanica del sec. xii di San Clemente, a SB (Ce- coslovacchia), conserva, nell’abside, alcuni frammenti di fi- gure di Apostoli e due Cavalieri.Le pitture della navata, con- catenate su tre ordini, raffigurano alcuni medaglioni conte- nenti Figure allegoriche.A occidente, la fascia centrale contiene degli Episodi della vita di san Clemente, la piú anti- ca raffigurazione di questo tema a nord delle Alpi. Il pitto- re deve essersi ispirato a composizioni diffuse nella Germa- nia meridionale durante l’età ottoniana. Secondo gli studiosi sarebbero stati due gli artisti impegnati in questo ciclo de- corativo: uno, di formazione piú tradizionale, ha illustrato la leggenda di san Clemente; l’altro, piú sensibile alle com- ponenti plastiche, presenta numerose tangenze con la pittu- ra romanica del Nonnberg di Salisburgo. (jho). Staraya Ladoga Della chiesa di San Giorgio a SL, città russa a nord di Nov- gorod, ci è pervenuta soltanto parte della decorazione, ter- minata verso il 1167. I dipinti rappresentano l’Ascensione e otto Profeti nella cupola e nel tamburo, le Offerte rifiutate di Gioacchino e di Anna nella protesi, San Giorgio e il drago nel diaconicon, e i frammenti del Giudizio Universale sulla pa- rete ovest. Di stile raffinato e severo, caratterizzati da uno spinto grafismo espressivo tanto nel disegno dei drappeggi che in quello dei volti, questi dipinti sono tra le opere nov- gorodiane quelle in cui meglio si riflette la tradizione bi- zantina. (sdn). Stark, James (Norwich 1794 - Londra 1859). Figlio di uno scozzese sta- bilitosi a Norwich, fu allievo di John Crome (1811-14) pri- ma di seguire a Londra nel 1814 i corsi della Royal Academy. Lo si ritrova in seguito nella sua città natale. Dipinse nu- merosi paesaggi al modo di Crome, fondatore della scuola di Norwich (il Sentiero nel bosco: Norwich, Castle Museum); nella stessa epoca S eseguì illustrazioni per Scenary of the Ri-

Storia dell’arte Einaudi vers to Norfolk (pubblicato nel 1834). Di nuovo a Londra nel 1830, si stabilì nel 1840 a Windsor, dove visse prevalente- mente fino alla morte. Membro della Norwich Society dal 1812, ne divenne presidente nel 1830. (mri). Starnina, Gherardo (Firenze 1345 ca. - ante 1413). La personalità del Maestro del Bambino Vispo, nome attribuito da O. Sirén nel 1904 a un pittore al quale è stato riferito un cospicuo numero di opere caratterizzate da Madonne col Bambino ritratti in at- teggiamento vivace, è oggi pressocché unanimemente iden- tificata con S. Il corpus del pittore è stato ricostruito intor- no a due opere fiorentine giunteci in stato frammentario: le decorazioni della cappella Pugliesi al Carmine con Storie di san Girolamo (1404) e quelle della cappella della Nunziata in Santo Stefano a Empoli con Storie della Vergine (1409: og- gi al Museo della collegiata di Empoli). All’artista si riconducono tra l’altro alcuni frammenti di ta- vole con Angeli suonatori (Rotterdam, bvb), l’Eterno benedi- cente (Francoforte, ski), il polittico con la Madonna col Bam- bino fra angeli e santi (Würzburg, Wagner Museum), la Ma- donna col Bambino tra angeli e i santi Battista e Nicola di Bari (Firenze, Accademia), l’anta conservata a Stoccolma (mn) con i Santi Ugo di Lincoln e Benedetto.Queste opere ne fan- no uno degli artisti piú originali del gotico internazionale a Firenze insieme a Lorenzo Monaco con il quale il pittore condivise il gusto per i colori brillanti e aciduli e un fare li- scio e preciso, indicando verosimilmente una formazione nel- la cerchia di Agnolo Gaddi. Il suo temperamento irrealista e fantastico, la sua esube- ranza narrativa e il linearismo capriccioso vanno stempe- randosi in opere tarde come la citata Madonna col Bambi- no fra angeli e santi di Würzburg. Lo stile dell’artista pre- senta tavolta affinità assai marcate con certi aspetti della pittura valenzana (Giudizio Finale: Monaco, ap), al punto che in passato il Maestro del Bambino Vispo alias S era sta- to messo in relazione con il maestro spagnolo Miguel Al- caniz; l’ipotesi del resto si spiega perfettamente dopo l’identificazione del Maestro del Bambino Vispo con Ghe- rardo S. La cultura valenzana marca profondamente l’insieme delle

Storia dell’arte Einaudi citate decorazioni fiorentine in cui è rintracciabile quella particolare declinazione del gotico internazionale su cui pe- sa l’influsso di Marzal de Sax. Lo S infatti, documentato nel 1387 come iscritto alla Com- pagnia di San Luca, poté aggiornare la sua cultura sui modi iberici durante la sua attività in Spagna dove è segnalato tra Toledo e Valenza dal 1395 al 1401. A Valenza, centro assai vivo nel quale erano attivi Andres Marzal de Sax e Pedro Nicolau, un documento del 22 giugno 1395 ne attesta un pa- gamento per l’esecuzione di un retablo oggi perduto. Nei tre anni successivi l’artista risulta a Toledo. Tornato a Valenza nel 1398 eseguì una pala d’altare per il convento degli Ago- stiniani (ne riceve 570 fiorini d’oro aragonesi), e un affre- sco per una tomba del monastero dei Frati minori; è men- zionato per l’ultima volta in questa città nel giugno del 1401, quando è probabilmente costretto ad abbandonare la Spa- gna a causa dell’infuriare di un’epidemia di peste. L’eleganza grafica e le preziosità cromatiche della pittura va- lenzana marcano profondamente l’insieme dei citati affre- schi fiorentini in cui è rintracciabile quella particolare de- clinazione del gotico internazionale su cui pesa l’influsso di Marzal de Sax. (sr). Staro Nagoro™ino Località della Macedonia, presso Kumanovo, dove si trova una chiesa dedicata a San Giorgio, con decorazione monu- mentale ad affresco del sec. xiv. Esistente già nel sec. xi, l’edificio viene rinnovato dal kral serbo Stefano Uro∫ II Mi- lutin nel 1313, che ne affida la decorazione (eseguita nel 1316-18) ai due pittori, verosimilmente di Tessalonica, Eutychios e Michail Astrapâs, cui spetta anche la decora- zione di altre chiese dell’area macedone, quali il San Cle- mente di Ohrid (1295) e la chiesa di San Nikitas nei din- torni di Skoplje (1307-20). Nello spazio absidale le nicchie della prothesis e del diakonicon sono decorate rispettiva- mente col ciclo mariano e con la vita di san Nicola. L’ico- nostasi in muratura mostra le immagini, imitanti pitture su tavola, dell’Hodighitria, di san Giorgio, della Vergine Pela- gonitissa e del Cristo Eleimon. La decorazione della navata è organizzata su tre registri: quello inferiore è occupato, co- me di norma, dalle macroicone dei santi disposte paratatti- camente; il mediano mostra le scene della vita di san Gior-

Storia dell’arte Einaudi gio, quello superiore le scene della Passione, mentre le Do- dici Feste sono distribuite tra le volte e le lunette. Nel ve- stibolo, o nartece, della chiesa si trovano rappresentati i ri- tratti dello stesso kral Milutin e della regina Simonide, in- sieme con quelli di Costantino, sant’Elena e san Giorgio. Vi figurano anche una grande rappresentazione della Koi- misis, e un Menologion che mostra il calendario liturgico completo. (mba). Stassov, Vladimir Vassilievitch (San Pietroburgo 1824-1906). Portavoce dei Peredvi∆niki, fu promotore di un’arte nazionale accessibile al popolo. Tra le sue opere di critica e di storia dell’arte sono: Venticinque anni di arte russa (1882-83), Gli ostacoli ad una nuova arte rus- sa (1885; saggi sull’arte europea del sec. xix). I suoi studi su- gli artisti contemporanei e antichi sono stati raccolti in due volumi di Opere (Mosca - San Pietroburgo 1950-51). (bl). Stati Uniti Secoli XVII-XIX «Il lavoro che fa maturare il grano è piú uti- le all’umanità di quello del pittore che disegna solo per il pia- cere dell’occhio». Queste le parole di un anonimo del sec. xvii che ben sintetizzano il clima culturale dei primi coloni stabilitisi nei futuri SU d’America. Se il puritanesimo non riteneva «necessarie» all’umanità né la pittura né la scultu- ra, è d’altronde documentata la circolazione di opere di ca- rattere provinciale a soggetto religioso penetrate nel Nord attraverso gli insediamenti spagnoli della Luisiana e della Florida o d’ascendenza francese (valle del Mississippi e De- troit) oltre che olandese (nella Nuova Amsterdam) e svede- se (corso del basso Delaware). Inoltre malgrado le iniziali condizioni culturali poco favorevoli al fiorire di una cultura artistica locale, con lo sviluppo economico e sociale soprat- tutto delle colonie inglesi della costa del Nord Atlantico (dal Maine fino alla Georgia), sorse una vera e propria tradizio- ne di ritrattisti inizialmente sostenuta da pittori occasiona- li i quali si attenevano a una pratica di mestiere che non an- dava al di là di risultati artigianali, poi lentamente cresciu- ta sulla scorta dell’infiltrazione dei modelli pittorici europei (stampe e incisioni) e dell’immigrazione europea attirata dal mito della «scoperta», in un rapporto di dipendenza tra cen-

Storia dell’arte Einaudi tro e periferia che nella ritrattistica diede risultati qualitati- vamente riusciti come il Ritratto di George Washington di Gilbert Stuart. Alcuni nomi rievocano i ritrattisti degli esor- di della pittura americana (Robert Feke, Joseph Blackburn), cresciuti all’ombra del gusto per la pittura di matrice olan- dese e inglese, conosciuta anche tramite la diretta attività di artisti europei di secondo piano (alcuni emigrati dopo la re- voca dell’editto di Nantes), i quali ebbero un ruolo consi- derevole nella formazione di pittori locali; tra questi l’edim- burghese John Smibert, lo svizzero Jeremiah Theus, lo sve- dese Gustavus Hesselius. Il primo importante pittore nato nelle colonie, di sensibilità pienamente americana, è John Singleton Copley, indirizza- to dal patrigno inglese Peter Pelham allo studio della pit- tura e introdotto nello studio di Smibert. Anche se so- stanzialmente autodidatta, Copley raggiunse ad esempio nel famoso dipinto Watson e il pescecane un’intensità e im- mediatezza espressiva nel racconto di un evento di cronaca che sollecitarono l’ammirazione di Reynolds: quest’ultimo asserì di non conoscere «un pittore in Inghilterra il quale, avendo avuto i vantaggi che l’Europa poteva dargli, potes- se uguagliare Copley». Un altro pittore americano suo con- temporaneo si provò nella pittura di storia traducendo le sol- lecitazioni dei modelli classici e davidiani in un linguaggio interamente nuovo che avvicinava la «Grande maniera» all’epica della contemporaneità storica. La morte del genera- le Wolfe (1771: Londra, Kensington Palace) e Il trattato di Penn con gli indiani (1771-72: Philadelphia, Pennsylvania Academy of Arts) di B. West sono testimonianza del suo consapevole e autoctono modo di vedere: «La stessa verità che guida la penna dello storico deve governare la matita dell’artista». L’impronta pragmatica del realismo assume in West i toni del diretto coinvolgimento morale dell’arte nel processo storico in atto, creando un modello di pittura «pa- triottica» che esclude la messa in scena in costume classico, riportando l’evento storico alla sua dimensione contempo- ranea immediatamente percepibile, nel suo messaggio, dal pubblico e dai posteri. La sua attività a Londra (vi si stabilì dal 1763), non solo suscitò immensi consensi presso il pub- blico, ma fornì un richiamo per numerosi artisti americani che per quasi cinquant’anni ne frequentarono lo studio; tra questi alcuni dei pittori che offrirono il loro pennello per l’il-

Storia dell’arte Einaudi lustrazione dei fatti storici nazionali: Matthew Pratt, Char- les Wilson Peale, Gilbert Stuart, Samuel F. B. Morse (La Camera dei deputati, 1822: Washington, Corcoran Gallery of Art), John Trumbull. Proprio quest’ultimo, ispiratosi all’interpretazione patriottica del quadro di storia data da West, illustrò gli eventi della recente rivoluzione e guerra di indipendenza americana, mentre piú tardi, dopo un sog- giorno parigino (1818) si provò a rivisitare il modello della pittura allegorico-celebrativa nelle poco felici soluzioni de- corative del Campidoglio di Washington che doveva offri- re «una superba visione materializzata degli ideali del pae- se dedicati alla libertà» (Latrobe). I primi centri che diedero vita ad una cultura autoctona ap- poggiata da istituzioni culturali furono Boston, New York (nel 1825 la Society of Fine Arts dà vita all’Accademia na- zionale), Philadelphia (nel 1805 si fonda la Pennsylvania Academy of Fine Arts), Charleston e le città del Nord Atlan- tico. L’evoluzione economica e sociale e d’altra parte l’in- flusso dei modelli illuministi non solo anglosassoni, ma an- che francesi e tedeschi, fece breccia sul tradizionale purita- nesimo; inoltre forte si faceva sentire nell’America del Nord l’influsso delle posizioni di F. Schlegel che andavano sotto- lineando la specificità delle radici culturali di ogni nazione. L’arte venne chiamata a supporto della crescita politica del- la nuova nazione (evento importante, sia pur marginale nei risultati, fu la decorazione del Campidoglio di Washington), e gli scritti di sir J. Reynolds, così attenti a definire lo spa- zio della produzione artistica nella società e la sua funzione di veicolo di valori morali, ebbero una notevole fortuna. A questi presupposti si lega l’influenza esercitata sugli intel- lettuali americani da R. W. Emerson, che della cultura eu- ropea elaborò una propria sintesi atta ad esaltare le specifi- che possibilità del Nuovo Mondo, mutuando dalla cultura inglese sia la particolare sensibilità per la natura che le po- sizioni della critica militante di Ruskin sulla superiorità dei pittori moderni. Nonostante i propositi indipendentistici della cultura ame- ricana dal Vecchio continente, la maggior parte degli artisti scelse l’Europa quale meta del proprio tirocinio pittorico, spesso con il sostegno di mecenati come Luman Reed di New York, Robert Gilmore di Baltimore, Daniel Wadsworth di

Storia dell’arte Einaudi Hartford; e se alla fine del sec. xviii la meta preferita è Lon- dra e lo studio di West, a metà dell’Ottocento Parigi e Düs- seldorf diverranno i centri artistici ambiti dai giovani pitto- ri. La trasposizione della colta cultura del Vecchio continen- te nei nuovi territori diede adito a numerose incomprensioni suscitate dalla impossibilità di riconoscersi, per il pubblico della giovane democrazia americana, nelle radici antichiz- zanti e ancor piú nella raffinata evoluzione della pittura eu- ropea. Personalità come quella di Washington Allston (Sor- gere di una tempesta in mare, 1804: Boston, mfa), nutritasi sull’apprendistato condotto nei musei europei, o John Van- derlyn, formatosi a Parigi nello studio di Vincent, traspor- tano nel nuovo continente modelli pittorici che incontre- ranno l’incomprensione del pubblico, poco avvezzo all’allu- sività classicheggiante, alla materia cromatica e luministica che impregna i solitari paesaggi di Allston, e impreparato ad apprezzare senza scandalo un nudo accademico alla Ingres come l’Arianna a Nasso di Vanderlyn (1815) giudicato inde- cente. Ai modelli stilistici d’impronta accademica o alle in- tonazioni romantiche di marca francese, il grande pubblico della vasta provincia del Nord America preferirà dipinti im- mediatamente fruibili come i grandi quadri di paesaggio o gli episodi della vita delle ex colonie di cui lo stesso Van- derlyn aveva dato una interpretazione divenuta assai popo- lare ne La morte di Jane McCrea (1804: Hartford, Wadsworth Atheneum). Del resto il genere del paesaggio sarà uno degli assi portan- ti della pittura americana dell’Ottocento, rispecchiando nei suoi modelli la notevole elaborazione teorica ed estetica in- centrata sull’esaltazione dell’elemento «selvaggio» del con- tinente che nel corso della sua teorizzazione trasporta, rivi- sitandola, in una terra ancora in gran parte selvaggia, ar- chetipi sempre attivi nella cultura occidentale dal mito dell’età dell’oro al «buon selvaggio» rousseauniano. Un pit- tore dell’Hudson River School come Thomas Cole afferma- va: «Noi siamo ancora nell’Eden; il muro che ci ha costret- to fuori del giardino è la nostra ignoranza e la nostra follia» e la sua prima serie di dipinti Storie dell’Impero (L’apoteosi, 1836: New York, Historical Society) trova coincidenze non occasionali con il saggio emersoniano Natura nell’esplicita rappresentazione della natura selvaggia quale forza salvifica contro gli errori della storia umana. Il sentimento religioso

Storia dell’arte Einaudi della natura espresso da un pittore come Thomas Doughty (Nel meraviglioso mondo della natura, 1835: Detroit, Insti- tute of Arts), attivo con Cole nel Nord, dai vibranti impa- sti cromatici e dalle studiate composizioni che rammentano i riferimenti al paesaggismo olandese del Seicento, trova so- stegni in Emerson, Thoreau o in seguito in poeti come Whitman oltre che scrittori il cui ruolo ha vasta eco nella cultura americana ed europea come Washington Irving e Fe- nimore Cooper, favorendo una sorta di trasferimento dei va- lori morali propri della tradizione della pittura di storia al genere del paesaggio. Alla fusione nei dipinti di Cole da un angolo di visuale piuttosto rialzato, di allegorie istruttive, enfasi compositiva, citazioni erudite (Salvator Rosa) e at- tente annotazioni dei caratteri del paesaggio (Oxbow: il fiu- me Connecticut vicino a Northampton, 1846: New York, mma), segue l’opera dei suoi compagni di strada piú o me- no giovani. In Asher Brown Durand (Affinità di spirito, 1849: New York, Public Library), Frederick Kensett (Il porto di Newport: Chicago, Art Institute), o Worthington Whit- tredge formatosi a Düsseldorf (Casa al mare, 1872: Ando- ver, Gall. Addison), un insistito amore per la descrizione ac- curata dei particolari, della luce e dell’atmosfera pur sempre all’interno di una scelta compositiva che tende a enfatizza- re l’incommensurabile ampiezza degli orizzonti, rimedita i modelli del romanticismo europeo da John Martin a Friede- rich alla luce di un’urgenza pragmatica sottolineata con con- sapevolezza nelle parole di un seguace di Cole, Jasper Cro- psey: «L’ascia della civiltà si abbatte sulle nostre foreste, e l’abilità dell’artigiano spazza via in fretta le reliquie dell’in- fanzia del nostro passato nazionale... L’industria yankee ha poca simpatia per il pittoresco, ed è necessario e doveroso che i nostri artisti strappino dalle sue grinfie quel poco che ancora rimane, prima che sia troppo tardi». Con la metà del secolo e a seguito della guerra di Secessio- ne, il nuovo assetto dell’Unione che infrange le barriere re- gionali si riflette sulla situazione artistica e in particolare, in questi anni, per la pittura di paesaggio, l’avventurosa epo- pea delle spedizioni di scoperta verso il Nord-Ovest è fo- riera di ulteriori sviluppi producendo una radicalizzazione del mito della natura selvaggia e dei suoi spazi illimitati. La seconda generazione dell’Hudson River con Frederick

Storia dell’arte Einaudi Edwin Church (Paesaggio solitario al tramonto, 1860) e Al- bert Bierstadt (Montagne rocciose, 1863: New York, mma), formatosi a Düsseldorf, è proiettata verso i territori incon- taminati che spinsero Church ad esplorare la natura della Cordigliera delle Ande, la Giamaica e l’Artico. La vastità solitaria dei panorami delle Montagne Rocciose o del Colo- rado racchiudono in una cornice titanica e stupefacente l’ac- curata definizione dei particolari naturalistici e delle carat- teristiche topografiche. Ne Le cascate del Niagara di Church (1857: Washington, Corcoran Gallery of Art), la studiata amplificazione del carattere sublime della natura millenaria ravvicinando la scena, disposta orizzontalmente, coinvolge direttamente lo spettatore nella travolgente rappresentazio- ne di un fenomeno naturale mettendo a nudo una delle ca- ratteristiche piú proprie della produzione pittorica america- na interessata all’espressione emozionale e alla comunica- zione del movimento attraverso lo studio di inquadrature assolutamente non tradizionali. L’Hudson River School fu un riferimento necessario per pittori d’origine diversa come Sanford Gifford, George Caleb Bingham ed Eastman John- son, ma nel complesso il Nuovo Mondo fu il soggetto ambi- to da una serie di artisti che diedero il loro apporto a diver- so titolo. Pittori-esploratori come James Audubon e Martin J. Heade si applicarono alla raffigurazione della flora e del- la fauna del continente; altri come George Catlin (Capo tribú, 1844: Washington, ng) applicarono la pittura allo stu- dio etnografico del popolo dei «nativi» dedicandovi un’in- tera vita di ricerca e di studio. Artisti-topografi giunsero an- che dall’Europa con il compito di documentare i territori e la fisionomia del «popolo dei pellerossa» (Karl Bodmer, Ja- cob Miller, Charles Wimar), mentre la popolare epopea del West trova nell’Ottocento inoltrato l’interprete del suo dramma e del suo valore epico in Frederic Remington che trasforma la matrice accademica e il realismo descrittivo d’origine francese, nell’immediatezza pre-cinematografica di inquadrature in movimento (La diligenza, 1901: Forth Worth, Amon Carter Museum). Se la pittura di paesaggio deve la sua maturità tecnica e quel- le caratteristiche di lucidità descrittiva all’influsso esercita- to su diversi pittori da un centro come Düsseldorf o dalla eco suscitata dalle ricerche della pittura en plein air di ma- trice francese, l’intento dei pittori americani sortisce risul-

Storia dell’arte Einaudi tati non facilmente assimilabili a quelli europei; non solo la mescolanza di dettagli naturalistici e l’amplificazione della struttura compositiva si propongono quali caratteri ricono- scibili di pittori come M. J. Heade o F. H. Lane, ma l’at- teggiamento diversamente connotato rispetto alla natura, porta a modificare problemi simili, come la resa della luce e dell’atmosfera, secondo un’interpretazione che sottolinea della luce l’essenza insieme fisica e spirituale dando vita a quello che viene chiamato il «luminismo» americano. Stu- diosi americani come la Novak hanno inteso sottolineare, a torto o a ragione, l’autenticità americana di questi dipinti in opposizione all’Hudson River School, mettendo in relazio- ne l’orizzontalità e il rigore compositivo di queste immagi- ni bagnate da una luminosità intensa e trasparente, trattate con una tecnica estremamente finita e levigata, con il tra- scendentalismo emersoniano ben espresso da un passo di Na- tura (1836): «In piedi sulla nuda terra – la mia testa bagna- ta dall’aria frizzante e sollevata nello spazio infinito – sva- nisce tutto il basso egoismo. Divento un globo oculare trasparente; sono nulla; vedo tutto; le correnti dell’Essere universale circolano attraverso di me. Sono una parte, o una minuscola porzione di Dio». L’evocazione poetica della lu- ce e i tratti piú caratteristici del «luminismo» americano so- no ben riconoscibili in un dipinto come Navi bloccate dal ghiaccio al largo dell’isola di Ten Pound (1850: Boston, mfa) o Owl’s Head, nel Maine (1863) di Lane che interpretano la lezione dell’inglese Robert Salmon o ancora delle piú dense atmosfere ritratte da Heade (Piogge primaverili nella vallata del fiume Connecticut, 1868: ivi). Nella seconda metà dell’Ottocento la pittura di paesaggio trovò una fisionomia riconoscibile e una sua particolare intonazione stilistica e te- matica nella produzione di pittori come Church, Bierdstadt, Lane ed Heade; e se il periodo che copre gli anni dal 1830 al 1870 è considerato centrale nello sviluppo di un genere fi- gurativo propriamente americano, non va dimenticato a que- sto proposito lo sviluppo di una pittura di genere, sollecita- ta in parte dalla richiesta presso il grande pubblico di un ge- nere narrativo che illustrasse l’ambiente quotidiano in cui prendeva corpo l’epopea della giovane nazione. La diffusio- ne dei giornali ebbe qualche peso nell’orientare il gusto del- la classe media verso la scenetta aneddotica, utilizzata sia

Storia dell’arte Einaudi per illustrare avvenimenti quotidiani sia episodi dei roman- zi a puntate. Interpreti significativi del quadro di carattere e di vivaci episodi della vita quotidiana furono Bingham, William Sidney Mount e John Quidor che fornirono con la loro produzione un autentico contrappunto in immagini all’ottimismo della giovane democrazia jacksoniana e all’evo- luzione della coscienza nazionale. Quidor diede il suo ap- porto come illustratore di motivi letterari presi a piene ma- ni dalla narrativa europea (Cervantes e Spencer) ma soprat- tutto da quella americana, costruendo la sua fortuna sui soggetti tratti dall’opera letteraria di W. Irving o Fenimore Cooper con un tocco nervoso e una spiccata sensibilità per il fantastico che insieme allo studio dei caratteri e degli at- teggiamenti, talvolta mutati in burlesco, raggiunge un’au- tentica animazione (Il ritorno di Rip van Winkle, 1829: Wa- shington, ng), non disgiunta dallo studio di curiosi effetti drammatici alla Salvator Rosa (I cercatori di denaro, 1832: New York, Brooklin Museum). La vena di spiritoso narra- tore di Mount ritiene ancora qualcosa dell’influsso della con- temporanea ricerca dei «luministi» in un dipinto come La pesca delle anguille a Setauket (1845: Cooperstown, New York State Historical Association), ma è soprattutto Bin- gham a portare nella pittura di genere americana le caratte- ristiche piú proprie della ricerca dei paesaggisti in un famo- so dipinto come i Mercanti di pellicce che discendono il corso del fiume Missouri (1845: New York, mma). Il decennio di prolifica attività di Bingham prima del suo viaggio in Euro- pa e a Düsseldorf (1856) è del resto significativo della for- tuna dei soggetti di genere «americano» documentata, tra l’altro, dal «Bulletin», mensile dell’American Art-Union (istituzione che contava 19 000 membri nel 1850) che ave- va la funzione di favorire la conoscenza della produzione artistica americana e sul quale erano pubblicati soprattut- to dipinti ispirati alla vita quotidiana e alla natura del Nuo- vo Mondo. Accanto a William Sydney Mount e Richard Woodwille, George Caleb Bingham esprime appieno nella sua produzione il gusto per la caratterizzazione degli even- ti piú tipici della vita del Middle West: la navigazione sul Missouri (Mercanti che giocano a carte, 1847), le riunioni elet- torali (Elezioni della Contea, 1851-52), sono scene da lui raf- figurate in una sorta di rievocazione della pittura di genere olandese alla van Ostade, con una tecnica levigata e accura-

Storia dell’arte Einaudi ta che per l’immediatezza e la semplicità con cui coglie la vi- talità dell’episodio può essere vista come l’interpretazione «colta» della copiosa produzione di «naïfs» come Francis Guy, Thomas Chambers ed Edward Hicks, destinata a de- corare le insegne dei negozi, i mobili, fino ai certificati di nascita. Tra questa numerosa produzione di secondo piano vale la pena di ricordare l’assai curioso Monumento storico della Repubblica Americana dipinto da Erastus Salisbury Field per commemorare il primo centenario della democra- zia americana nel 1876 (Springfield, mfa). Sono questi gli anni in cui la «provincia» americana intesse con le grandi Esposizioni del centenario di Philadelphia (1876) e poi con l’Esposizione di Chicago (1893) un con- fronto serrato con l’Europa, giocando il doppio ruolo di sa- tellite culturale e di centro autonomo con caratteristiche pro- prie. Per quanto riguarda la storia della pittura, non è di po- co conto la presenza di numerose collezioni di pittura europea che pur rispecchiando principalmente il gusto dei salons parigini (Mariano Fortuny, Bouguereau, come altri pittori d’indirizzo accademico), non erano aliene dal regi- strare un gusto piú moderno e raffinato indirizzato sull’ac- quisto di Corot, Courbet o Degas nella collezione di Mrs. Potter Palmer, o ancora dal dimostrare una sapiente regia nella raccolta di Isabella Stuart Gardner a Boston sotto la supervisione del giovane Bernard Berenson, indirizzata ver- so l’arte antica ma anche verso la piú moderna pittura dell’Ottocento. Henry James nel 1893 stigmatizzò la situa- zione venutasi a creare sostenendo che «Può sembrare un paradosso, ma è una semplice verità... quando oggi andiamo a guardare l’arte americana, noi la troviamo soprattutto a Parigi. Quando non è a Parigi, comunque c’è un forte ascen- dente di Parigi in essa». Per pittori come John Singer Sar- gent o James A. M. Whistler l’egemonia culturale francese ed europea significò la naturalizzazione della loro arte nel vecchio continente, rimeditando, con un taglio interpreta- tivo profondamente personale, fonti come Velázquez o Frans Hals. Ne sortì un’assimilazione del clima pittorico in- glese in atmosfere dense di introspezione psicologica (Sar- gent) o di folgoranti messe in scena di armonie coloristiche (Whistler); ancora per Mary Cassat il desiderio di sprovin- cializzazione significò tout court, come per questi ultimi,

Storia dell’arte Einaudi l’espatrio e l’assimilazione alla cultura impressionista fran- cese. D’altro canto artisti come Winslow Homer e Thomas Eakins diedero vita a una produzione, che pur intelligente- mente avvertita delle novità europee dominanti il mercato e la critica (P. Durand-Ruel nel 1886 organizza a New York una mostra di impressionisti), rimane nell’immediatezza e nella forza espressiva dell’immagine ancorata alle proprie ra- dici autoctone. La loro opposizione al dilagare della cultura europea proclama manifestamente un’adesione soggettiva, e diversa per entrambi, a un toccante realismo di acuta ana- lisi introspettiva in cui convogliare gli insegnamenti della pittura spagnola (T. Eakins, Max Schmitt ai remi, 1871: New York, mma; La clinica Gross, 1875: Philadelphia, Medical College; Mrs Edith Mahon, 1904: Northampton, Smith Col- lege am), o di sintesi di materia e spazio rappresa intorno a un frammento della realtà (W. Homer, High Tide: bagnanti, 1870: New York, mma; Avvisaglie di nebbia, 1885: Boston, mfa). Altri come George Inness (L’avvicinarsi del tempora- le, 1878: Buffalo, Albright-Knox ag) abbandoneranno il ca- rattere descrittivo mutuato dal paesaggismo dell’Hudson Ri- ver School, orientandosi verso Turner e gli impressionisti, mentre Ralph Blakelock e Albert Pinkam Ryder (Lavoratori del mare: Andover, Addison Gall.) sembrano lasciarsi alle spal- le la tradizione che li precede dipingendo visioni soggettive intensamente materiche, in cui l’impasto bituminoso offre nuove possibilità espressive a cui si mescolano reminiscenze e suggestioni del romanticismo europeo. Analogamente negli stessi anni uno spirito concreto e suggestivamente semplice, tutto americano, connota la produzione di William Harnett e John Peto che sulla falsa riga del trompe-l’œil dipingeranno, per un pubblico marginale rispetto al mondo dei conoscitori e dei critici d’arte, una serie di nature morte che ricordano il minuzioso realismo descrittivo di Raphaelle Peale negli an- ni Venti del secolo (W. Harnett, Dopo la caccia, 1885: San Francisco, California Palace of the Legion of Honuour; J. Peto, Il caminetto della nonna, 1890: Detroit, Institute of Arts). Una vena enigmatica e visionaria connota la produ- zione di altri artisti rimasti fedeli alle radici della cultura americana, William Page, Elihu Vedder (Ascoltando la Sfin- ge: Boston, mfa) e William Ridder. L’influsso dell’impres- sionismo francese interpretato da pittori come J. Twachtan e C. Hassam è accompagnato in parallelo da una nuova at-

Storia dell’arte Einaudi tenzione per la cultura tedesca e per Monaco in particolare, dove l’entusiasmo per la pittura di Courbet si incontrava con il caratteristico gusto realistico della pittura americana che con Franck Duveneck e William Merrit Chase sperimenta i nuovi indirizzi di una pittura intensamente cruda e materi- ca eseguita «alla prima». L’esperienza di quest’ultimo scor- cio di secolo sarà ancora valida per artisti come Robert Hen- ri membro del gruppo The Eight o George Bellows che co- stituirono la generazione di passaggio tra l’esperienza mutuata dall’Ottocento e le nuove ricerche di pittori della «scena americana» come Hopper o del lirismo soggettivo di Marin. (sro). Secolo xx Il gruppo degli Otto definito anche la «banda ne- ra rivoluzionaria» dai benpensanti che reagirono negativa- mente alla loro pittura bruna e alla scelta di soggetti crudi tratti dalla cronaca quotidiana, reinterpretò ancora una vol- ta i modelli della tradizione europea da Frans Hals al primo Manet. Henri fondò una scuola di pittura in contrapposi- zione all’insegnamento accademico raccogliendo intorno a lui giovani come George Bellows, Edward Hopper, Eugene Speicher, Kenneth Hayes Miller, Glenn O. Coleman e Guy Pène du Bois, futuri interpreti della pittura a sfondo socia- le degli anni Trenta. D’altra parte alla fine del primo decennio alcuni giovani ar- tisti americani lavorarono a stretto contatto delle esperien- ze dell’avanguardia europea. Tra questi Samuel Halpert espose con Brancus¸i e Gleizes all’abbazia di Créteil, dive- nendo amico di Delaunay. Un altro artista come Max We- ber lavorò con Matisse e dopo l’incontro con Picasso speri- mentò la tecnica cubista. Altri come MacDonald-Wright e Russel fondarono a Parigi il gruppo Sincromismo, mentre Alfred Maurer, John Marin e Patrick Henry Bruce espose- ro al Salon des Indépendants. L’esperienza dei primi del No- vecento trovò spettatori e partecipi numerosi artisti ameri- cani che poterono trarre insegnamento dalle ricerche di Ma- tisse e del cubismo: così fu per Arthur B. Carles, Maurice Sterne, Charles Sheeler, Charles Demuth e Arthur Dove, mentre dall’ambiente del Blaue Reiter verranno fuori Mar- sden Hartley e Lyonel Feininger. Tornati negli Usa dopo l’intensa esperienza formativa europea, trovarono una si- tuazione notevolmente mutata in cui Alfred Stieglitz gioca-

Storia dell’arte Einaudi va l’intelligente ruolo di difensore della modernità non piú nel contesto provinciale della pittura americana, ma nel con- fronto della ricerca artistica internazionale. L’Armory Show apertasi nel 1913 raccolse le diverse tendenze di ricerca del- la pittura americana con lo scopo di mostrare al pubblico le nuove realizzazioni, piú che mai lontane dalla cultura acca- demica. Il successo di pubblico conseguito produsse come contraccolpo un vivo interesse per la pittura post-impres- sionista e cubista, lasciando in ombra la ricerca meno ecla- tante dei pittori americani. Una vera e propria sintonia con le ricerche europee fu favorita dall’espatrio, durante la pri- ma guerra mondiale, di numerosi artisti tra cui Duchamp, Gleizes e Picabia che contribuirono a influenzare profon- damente il percorso artistico dei pittori americani. Il grup- po «precisionista» venne fondato in questi anni e Joseph Stella tradusse con caratteri stilistici propri del modernismo la vitalità di una città come New York. Il suo Ponte di Brooklyn (1918: New Haven, Yale University ac), ispirato forse da Gleizes, è divenuto un classico della pittura di que- gli anni. Morton Schamberg, morto nel 1918, fu diretta- mente influenzato da Picabia e Duchamp, mentre Man Ray interagì così profondamente con le ricerche di questi ultimi da prefigurare nella comune attività newyorkese quelle che saranno le posizioni del Dada. Gli anni cupi del dopoguerra videro affermarsi accanto alle ricerche di Stuart Davis, Arthux Dove e A. B. Charles il «re- gionalism» che riscosse un immediato successo di pubblico. Nel 1936 alcuni giovani pittori si raggrupparono nell’Ame- rican Abstract Artists, replica newyorkese del gruppo fran- cese di Abstraction-Création. Carl Holty, Karl Knaths, John Ferren, John Xceron, Balcomb Greene, Ad Reinhardt ri- fiutando ogni connivenza della pittura con fini sociali e con l’impronta realista rappresentata da Ben Shan, aderirono in modo deciso all’astrattismo. La crisi economica ebbe un ri- svolto anche per la storia della pittura; il governo per sop- perire alle necessità di sopravvivenza degli artisti creò sotto la presidenza Roosvelt la Federal Arts Project, filiazione del- la Works Progress Administration. La partecipazione a tale organismo di mutuo soccorso fu forse uno dei fattori, insie- me alla crisi economica, alla radice dell’espressionismo astratto. (dr + jpm). Diversi fattori contribuiscono, all’indomani della guerra, a

Storia dell’arte Einaudi dotare l’arte americana di una fisionomia originale, emanci- pandola dal retaggio europeo. Nella congiuntura storica, nel- la politica delle istituzioni culturali ma, soprattutto, nelle opere dei protagonisti dell’espressionismo astratto la critica piú attenta avverte i germi del rinnovamento. «Gli anni ’47 e ’48 costituiscono un punto di svolta per l’espressionismo astratto», certifica, in «American Type Painting» del 1955, Clement Greenberg. Nel 1948, infatti, muore Arshile Gorky che, prima di approdare a un linguag- gio originale, aveva attraversato tutti quelli delle avanguar- die storiche. Mark Rothko licenzia i primi «assoluti disin- carnati»; Willem De Kooning tiene la prima mostra, Bar- nett Newman inizia la «vita presente» con Onement I,un campo di colore attraversato da una striscia di luce, mentre Pollock già da un anno satura la tela con la danza del drip- ping.«Ma – prosegue Greenberg – fu solo nel 1950 che l’espressionismo astratto si consolidò come fenomeno gene- rale. E solo allora furono ratificati due dei suoi aspetti piú caratterizzanti come la grande dimensione ed il bianco e ne- ro»: anni in cui Franz Kline attraversa la superficie con scia- bolate di pittura nera che competono con il bianco impuro del fondo, mentre sul piano istituzionale è da registrare la partecipazione di Pollock, Gorky e De Kooning alla XXV Biennale di Venezia. Art of this Century, intanto, la galleria animata sin dal ’42 da Peggy Guggenheirn e Max Ernst, che aveva ospitato nel ’43 la prima personale di Pollock, chiude i battenti proprio nel ’47, quando il drappello di artisti europei che a New York aveva trovato asilo durante l’occupazione nazista de- cide per il ritorno in patria. Non senza aver passato le con- segne a una nuova leva di galleristi come Charles Egan, Sa- muel Kootz e Betty Parsons. «Negli anni ’3o e nei primi anni ’4o gli artisti di New York avevano assimilato la lezione di Klee, Miró e del primo Kan- dinsky meglio di chiunque altro allora o precedentemente», per dirla con Greenberg. L’opzione europea, incoraggiata sia dal mam di New York con le mostre organizzate dal di- rettore Alfred Barr Cubism and Abstract art, Fantastic art, Dada and Surrealism nel ’36 e Picasso forty years of his art nel ’39, sia dall’attività didattica svolta da Hans Hofmann nel- la scuola aperta nel ’34 sull’Ottava Strada, sia, a partire dal

Storia dell’arte Einaudi ’39, dalla presenza stessa degli artisti europei a New York, costituiva l’alternativa moderna tanto al «realismo sociali- sta» d’importazione quanto al provincialismo della «scena americana». Ragioni cui Greenberg aggiunge il tirocinio co- mune nel Piano Artistico Federale varato nel ’35 dall’am- ministrazione Roosevelt per affidare opere pubbliche agli artisti disoccupati. Applicando una metodologia critica di stretta osservanza formalista, è ancora Greenberg a riscon- trare, nella rinuncia alla «pur limitata illusione di piatta profondità» e alla «regolarità rettilinea o curvilinea» prati- cate dal cubismo, come pure in quella dei valori tonali e del- la cornice, una raggiunta autonomia espressiva. Plaude non a caso a Pollock, allora il prediletto, per «aver preso il cu- bismo analitico al punto in cui Picasso e Braque lo avevano lasciato quando nei collages del ’12-13 retrocessero dalla to- tale astrazione». La chiave di lettura formalista è per Greenberg punto di ap- prodo di un lungo e travagliato percorso condiviso da lette- rati, storici e artisti il cui abbrivio è, intorno alla metà degli anni ’30, l’ideologia marxista. Il Congresso degli Artisti Americani, costituitosi nel ’36 per sostenere la politica dei Fronti Popolari, assiste sin da subito alla frattura tra una po- sizione di stretta osservanza stalinista e una, di ispirazione trotskista, non disposta a sacrificare i valori autonomi della cultura sull’altare della responsabilità politica. Il saggio cru- ciale Nature of Abstract Art pubblicato nel ’37 su «Marxist Quarterly», lo stesso anno in cui Picasso licenzia Guernica nell’infuriare della guerra di Spagna, in cui Meyer Schapi- ro, professore di Storia dell’Arte alla Columbia University, addita una terza vita tra il formalismo intransigente di Al- fred Barr e l’irriducibile contenutismo dei suoi detrattori realisti socialisti, è seguito nel ’39 da Avant-Garde and Kit- sch, pubblicato su «Partisan Review», dove Clement Green- berg asserisce che il compito del socialismo è ora quello di difendere i valori dell’avanguardia abbandonati dai suoi na- turali detentori, le classi dominanti. La situazione precipita nel ’40 quando, a seguito del patto Hitler-Stalin e della minacciata invasione sovietica della Fin- landia, il Congresso si spacca irreversibilmente: quaranta membri, tra i quali figurano il segretario Stuart Davis, arti- sti come Rothko e Gottleb, lo storico Lewis Mumford, ade- riscono alla Federazione dei Pittori e degli Scultori Moder-

Storia dell’arte Einaudi ni fondata da Schapiro. Ma quel dibattito lacerante lascerà, con tutte le sue ambiguità, un segno indelebile sull’intero corso della cultura artistica americana. L’astrazione, la via espressiva piú condivisa, non assumerà mai, se non per il drappello degli Artisti Astratti Americani costituitosi pro- prio nel ’37, l’assertiva distanza del suo corrispettivo euro- peo. Non è un caso allora se Harold Rosenberg, altro insi- gne mentore dell’espressionismo astratto, rivolga la sua at- tenzione critica all’individuazione di contenuti, seppure inediti. «La tela non era piú dunque il supporto di una pit- tura, bensì di un evento. La nuova pittura americana non è pura arte. Forma, colore, composizione, disegno sono ele- menti ausiliari che possono essere tralasciati. Ciò che im- porta sempre è la rivelazione contenuta nell’atto. Una pit- tura che è atto risulterà inseparabile dalla biografia dell’ar- tista», tuona, nel testo ormai canonico del ’52 I pittori d’azione americani. Scongiurando, però, ipoteche politico-so- ciali: «il primo gesto della nuova pittura era stato di sgan- ciarsi dalla sinistra liberale, in via di sgretolamento, da cui derivava l’ambiente intellettuale della precedente generazio- ne d’artisti. Il rifiuto della società rimase inespresso. Su que- sto presunto disimpegno, per Rosenberg garanzia di libertà, fa leva, negli anni ’70, la critica «revisionista» all’espressio- nismo astratto. Contro la visione eroica e romantica di una generazione «maledetta», disperata e incompresa, offerta dall’esegesi di Irving Sandler [il cui The Triumph of Ameri- can painting uscirà proprio nel ’70, di Dore Ashton, del di- rettore di «Art News» Thomas Hess] sorge una nuova leva di critici. Max Kozloff che firmerà nel ’73 su «Artforum» l’articolo dal titolo American Painting during the Cold War; Eva Cockroft, autrice nel ’74 del saggio Abstract Expressio- nism, weapon of the Cold Ware e soprattutto Serge Guilbault il cui studio uscirà nell’83 con il titolo How New York Sto- le the idea of Modern Art, riassumono il contesto politico e sociale come chiave di lettura privilegiata di quella pittura. «La nuova America, potente e internazionalista ma preoc- cupata della minaccia comunista, alla fine del ’48 era in gra- do di riconoscersi nella pittura d’avanguardia perché era sta- ta indirettamente responsabile dell’elaborazione del nuovo stile», sostiene Guilbault. Tesi ben chiara: i «revisionisti» concordano sul tempo di affermazione dell’espressionismo

Storia dell’arte Einaudi astratto, intorno al biennio ’47-48, ma dissentono sulle sue ragioni. Alla raggiunta autonomia formale, caldeggiata da Greenberg, all’individualismo esasperato fomentato da Ro- senberg, contrappongono l’ipotesi che la condizione di soli- tudine, di ansia e alienazione condivisa da quegli artisti fos- se la piú confacente alla politica imperialista americana, for- mulata dopo l’elezione di Truman nel ’45, contro il blocco comunista. In quest’ottica, nel suo estremismo e nella sua violenza Pollock rappresentava «l’indemoniato, il ribelle tra- sformato per la causa in null’altro che nel guerriero liberale della Guerra Fredda». Tesi certamente affascinante per la sua radicalità ma im- probabile per la sua unilateralità. Come spiegare allora la pri- ma personale di Newman quarantacinquenne nel ’50 il cui insuccesso spinse l’artista a non piú esporre per sette anni? E come l’ostruzionismo nei confronti di Ad Reinhardt che dovette attendere la vigilia della morte per ottenere nel ’66 la prima retrospettiva al Jewish Museum? E come interpre- tare, alla luce del quadro prospettato dai revisionisti, la com- petizione tra il Club animato da De Kooning e il Cedar do- ve Pollock rissoso smaltiva le sbronze? E come il suicidio di Rothko e la morte tragica per impotenza creativa di Pollock? Occorre forse distinguere nell’ambito di un movimento a tor- to considerato monolitico. Come suggerisce Rosenberg in La s-definizione dell’arte, Rothko, Still, Newman, Reinhardt e Gottlieb appartenevano a una corrente dell’espressionismo astratto fondata «Sull’idea di una idea», sulla ricerca cioè di ciò che nella pittura è irriducibile. In contrapposizione alle «aperture psicologiche e formali» dell’Action Painting, rappresentata da Gorky, De Kooning e Pollock, essi concepivano la pittura «come una specie di maratona dell’eliminazione». Se le forme ameboidi, soffuse e disorientate di Gorky, le convulse direttrici spaziali nere di Mine, l’apparente casua- lità gestuale di De Kooning spesso disposta a ricomporsi in figura, costituiscono l’esito originale di una combinazione tra la scomposizione cubista e l’automatismo surrealista, do- ve la prima è deprivata di ogni «regolarità rettilinea» e il se- condo di ogni contenuto figurale, di qualità diversa è inve- ce l’astrazione degli artisti «dell’idea dell’idea». Le masse frastagliate di Still, gli «assoluti disincarnati» di Rothko, i «rettangoli viventi» di Newman, il ritmo del dripping di Pol-

Storia dell’arte Einaudi lock mirano senza esitazioni a una immagine unitaria, com- patta e riconoscibile da riproporre in infinite e sottili varia- zioni. Quando Newman licenzia nel ’48 Onement I, non ha, infatti, alle spalle un tirocinio pittorico cubista e tantome- no surrealista, ma una profonda elaborazione teorica. Già Euclidean Abyss di due anni precedente, un campo mono- cromo, seppure atmosferico, solcato da una striscia di luce, denuncia nel titolo quell’astrazione come antitetica a quel- la geometrica di matrice europea. «Solo un’arte di non geometria può essere un nuovo inizio», afferma Newman. In una lettera indirizzata al «New York Ti- mes », Gottlieb, Rothko e Newman sostenevano già nel ’43: «Siamo per forme piatte perché distruggono l’illusionismo e rivelano la verità. Il soggetto è cruciale. Non esiste buona pit- tura intorno al nulla. Il soggetto è valido quando è tragico ed eterno. Per questo sentiamo affinità per l’arte arcaica e pri- mitiva». Concetto ribadito da Newman nel saggio cruciale The Sublime is now del 1948. A dieci anni di distanza dal te- sto in cui Schapiro disquisiva sulla natura dell’arte astratta, irriducibile al formalismo idealistico di Barr, Newman ne ri- prende la distinzione tra «soggetto del» lavoro e «oggetto nel» lavoro e rinnova la sfida, questa volta contro il formalismo di Greenberg. Diversamente dall’astrazione europea che proce- de induttivamente dal reale, «l’arte dell’astratto» rivendica- ta da Newman è concreta in quanto invera «un’idea complessa che crea il contatto con il mistero... E come il pittore europeo trascende gli oggetti per costruire un mondo spirituale, così quello americano trascende il suo mondo astratto per rende- re quel mondo reale». Cui fa eco Rothko: «Non sono inte- ressato ai rapporti di forma e colore. Non sono un’astrattista. Se al cospetto dei miei quadri siete mossi solo dalle relazioni cromatiche, allora avete perso l’obiettivo». E Motherwell che, nell’ambito del convegno organizzato dal moma nel ’51 dal titolo What Abstract Art means to me, risponde: «L’arte astrat- ta è una forma di misticismo. L’astrazione è un processo di enfasi e l’enfasi vivifica la vita». Ma alla valenza «teologica» affacciata da Rosenberg o a quel- la «Sublime» ipotizzata da Robert Rosemblum nel noto vo- lume Modern Painting and the Northern Romantic Tradition From Friedrich to Rothko non sembra possa ricondursi la ri- gorosa astrazione di Reinhardt. Nato nel 1913, «nell’anno

Storia dell’arte Einaudi in cui è nata l’arte astratta. Sono nato per lei e lei è nata per me», Reinhardt è l’unico tra i pittori finora nominati ad aver aderito al gruppo degli Artisti Astratti Americani. Radicale e intransigente come Newman, con il quale dissente circa la necessità del contenuto, nei saggi teorici come L’arte per l’ar- te del ’58, qualifica la sua pittura come «non obiettiva, non rappresentativa, non figurativa, senza immagini, non espres- sionista, non soggettiva», vale a dire assoluto, universale, antistorica. Dopo la serie di quadri «a mattoni» del ’54 do- ve l’intera superficie è saturata da tacche di colori brillanti in gradazione, approda nel ’60 ai quadri neri, «gli ultimi che si possano fare». Assumendo lo stesso formato e la stessa struttura geometrica cruciforme ma variando impercettibil- mente le tonalità di nero, Reinhardt ripete fino alla morte, nel ’67, lo stesso quadro. Tanta radicalità spiega allora l’ac- cettazione tardiva di quelle superfici assolute e silenti: an- cora nel ’59 il Whitney Museum rifiuta di ospitare una re- trospettiva dell’artista; persino nel ’63, i quadri neri esposti nella mostra Americans ’63 al moma susciteranno un tale scandalo da dover essere rimossi guadagnando all’artista l’implacabile scomunica di Rosenberg che lo definisce «car- nefice dell’espressionismo astratto, colui che ha perseguito con malevolenza e insistenza fanatica il programma di scac- ciare a furia di esorcismi l’artista dal suo lavoro». Ma nel ’66, quando Reinhardt ottiene finalmente la retrospettiva al Jewish Museum, il clima è totalmente cambiato e, sottratto alla loro generazione, lo stesso artista è letto come profeta di quella successiva. Come spiega Greenberg: «Pollock e De Kooning erano allora i grandi rivali. Ma tutto il mondo era dalla parte di De Kooning. Al Cedar Bar gli espressionisti astratti della seconda generazione (Mitchell, Leslie, Gold- berg) non vedevano in Pollock un vero pittore. Ha costitui- to per loro una sorta di fenomeno marginale. E anche la pri- ma generazione non capiva i suoi quadri all-over.Gli espres- sionisti astratti della seconda generazione sono stati tutti influenzati da De Kooning. È stata come una epidemia da raffreddore. De Kooning era irresistibile». A torto, allora, Rosenberg include Pollock tra i pittori d’azione a fianco di De Kooning. Come per i pittori «dell’idea di un’idea», il rit- mo serrato e martellante, affatto casuale, dei suoi drippings disposto a saturare la superficie, è carico di presagi. «Due sono le alternative. O continuiamo su questa strada,

Storia dell’arte Einaudi ed eseguiamo dei buoni “quasi dipinti” operando delle va- riazioni sull’estetica di Pollock senza negarla o superarla, op- pure smettiamo totalmente di dipingere», avverte perento- rio Allan Kaprow nel ’58 quando, a due anni dalla morte del maestro, dà vita al primo happening.Pollock che ha dato «al gesto un valore quasi assoluto», rendendolo autosignifican- te e indipendente dal risultato pittorico, Pollock che «uti- lizza un principio iterativo affidato a pochi elementi che si modificano senza sosta», Pollock, infine, che ha creato una pittura d’ambiente. Ma, in Pittura d’azione: crisi e deforma- zione, Rosenberg non aveva forse colto la contraddizione in- sanabile dell’espressionismo astratto nel fatto che «il suo porsi come opera d’arte contraddiceva il suo porsi come azio- ne»? E così avvertiva: «Tale pittura conserva il suo vigore solo fin tanto che mantiene vivi i suoi dilemmi: se scivola troppo nell’azione (vita) non c’è pittura; se si accontenta di essere pittura si trasforma in «carta da parati apocalittica”». Quella appunto degli epigoni astratto-espressionisti. Ancora a Pollock guarda Donald Judd, teorico e protagoni- sta del minimalismo quando gli riconosce la paternità del grande formato, della semplicità, dell’unità di superficie cui le singole parti si riconducono. Qualità, quest’ultima, ri- scontrabile anche in Newman quando precisa: «La zip non divide i miei quadri. Fa l’esatto contrario. Non taglia il for- mato a metà o in qualsivoglia numero di parti ma, al con- trario, unisce le cose. Crea una totalità e, in questo, mi sen- to molto distante da altre visioni mentali, le cosiddette stri- sce». Ed è proprio un pittore «di strisce» a confermare l’analisi di Greenberg quando, allievo di De Kooning al Black Mountain College, ne confessa il carisma: «Tutti gli artisti lo preferivano a Pollock ed anche gli studenti. La sua influenza era forse dovuta al fatto che un giovane artista po- teva assimilare facilmente la sua lezione». A parlare è Kenneth Noland partecipe, insieme a Helen Frankenthaler, Morris Louis, Jules Olitski al gruppo da Greenberg nominato Post Painterly Abstraction e ospitato nel ’64 nella mostra omonima al Los Angeles County Mu- seum. Nel definirne le peculiarità, Greenberg applica nuo- vamente parametri formalisti, mutuati questa volta dai con- cetti fondamentali della Storia dell’arte di Heinrich Wölfflin. Assumendo le dicotomie applicate da Wölffin all’arte rina-

Storia dell’arte Einaudi scimentale e barocca, in After Abstract Expressionism del ’62 Greenberg riscontra una ciclicità di pittorico e lineare anche nei fenomeni artistici contemporanei. Ma, attento a non identificare l’astrazione «post-pittorica» con un ritorno alla linearità cubista o, peggio, all’astrazione geometrica, la fa na- scere dal seno del pittoricismo astratto-espressionista, in rea- zione solo ai suoi eccessi manieristici, al «tocco della Deci- ma Strada». Ma fattori comuni come la chiarezza lineare e il disegno aperto, il contrasto tra i colori puri, un’esecuzione pittorica relativamente impersonale, non bastano ad acco- munare esiti tanto distanti. Ellsworth Kelly, infatti, che a Parigi nel ’52 creava composizioni geometriche rigorosa- mente a griglia per ritagliare poi, a New York due anni do- po, forme piatte che fuoriescono dai limiti del quadro, e Ken- neth Noland, che dai cerchi concentrici del ’58 passerà nel ’62 ai chevron paintings, dove supporti a forma di losanga al- lungata sono assecondati da strisce colorate, possono convi- vere sotto la denominazione di hard edge, come Jules Lang- sner definisce nel ’59 quelle forme taglienti e quei colori squil- lanti. Ma quell’appellativo non si addice affatto alla pittura a spruzzo atomizzata di Olitski, alle velature delle tele di Frankenthaler, immerse nel colore, alle macchie dissemina- te di Francis, ai rivoli diagonali di Louis. Inoltre, nella mo- stra organizzata a Los Angeles da Greenberg, si registra an- che la presenza, apparentemente anomala, di Frank Stella. «Lo sviluppo della pittura modernista dal ’60 può leggersi co- me la progressiva importanza assunta dalla forma letterale e la conseguente subordinazione di quella dipinta. Si può dire che la forma dipinta è diventata dipendente da quella lette- rale» dichiara Michael Fried, seguace formalista di Green- berg, nel presentare la mostra Three American Painters: No- land, Olitski, Stella al Fogg Museum nel ’65. Dove per forma letterale intende esclusivamente quella del supporto. Mentre Noland, anche quando asseconda con la direzione delle stri- sce dipinte la forma «gallonata» del supporto, lascia aperto il conflitto rifiutando di subordinare la forma dipinta, i qua- dri neri a strisce che Stella licenzia dal ’58 e, soprattutto, le tele sagomate di color alluminio e rame di due anni successi- ve che esporrà nel ’60 alla galleria di Leo Castelli, «costitui- scono la piú inequivocabile e pacifica acquisizione della for- ma letterale nella storia del Modernismo». Nato nel Massachussets nel ’36, Stella studia a Princeton

Storia dell’arte Einaudi con William Seitz, mentore dell’espressionismo astratto. In quell’ambito avvengono infatti i suoi esordi, attenti a De Kooning, Kline e Rothko. E proprio a Princeton sente per la prima volta parlare dei Targets, Flags e Numbers che Jasper Johns produce sin dal 1954 e che vedrà solo nel ’58 in oc- casione della prima personale dell’artista da Leo Castelli. «L’approccio al motivo, l’idea delle strisce, il loro ritmo e intervallo, l’idea della ripetizione» gli offrono allora l’alter- nativa all’espressionismo astratto. Se quest’ultimo discute- va l’astrazione europea, perché troppo «formale», Stella ria- pre la polemica ma in termini strutturali e compositivi, an- ziché contenutistici. «La base della concezione della pittura geometrica europea è l’equilibrio. Fai una cosa in un ango- lo e la equilibri con qualcosa nell’altro. La “nuova pittura” si caratterizza come simmetrica, ma usiamo la simmetria in modo non relazionale». Regolari e simmetriche, ma dipinte a mano, le strisce nere di Stella si distendono infatti all-over la superficie scongiurando ogni dicotomia con il fondo. As- sumendo come dimensione della striscia la larghezza del pen- nello, uguale allo spessore del telaio, l’opera si risolve in un oggetto finito e concluso, distante dall’all-over potenzial- mente infinito di Pollock. A differenza poi dei quadri neri di Reinhardt, cui si sarebbe tentati di avvicinarli, quelli di Stella rifuggono ogni ambiguità percettiva per dichiarare che «quello che vedi è quello che vedi». I quadri neri di Stella furono esposti per la prima volta nel- la mostra Sixteen Americans ospitata al moma nel ’59. Una mostra che registra la significativa assenza degli espressio- nisti astratti, a un anno esatto di distanza dalla loro consa- crazione internazionale nell’esposizione The New American Painting, itinerante in otto città europee. «Il primo obiettivo dei nostri insulti, almeno fino all’emer- gere della Pop Art nel ’62, era Stella. Il suo lavoro era così riduttivo da apparire nichilista, noioso in ultima istanza. Se la pittura gestuale aveva valore, allora quella di Stella non ne aveva alcuno». Questa la reazione sincera di Irving Sandler che, ancora nella monografia del ’70, inneggerà all’espres- sionismo astratto come al «trionfo della pittura americana». Non è certo piú tenero Rosenberg quando, nel commentare la retrospettiva curata nel ’70 al moma da William Rubin, ne irriderà moralisticamente il facile e immediato successo, quel-

Storia dell’arte Einaudi lo raggiunto, seppur tra controversie, a soli ventitre anni. E per Rosenberg, che aveva assistito una generazione che il suc- cesso se lo era davvero faticato, era il segno piú evidente che i tempi erano cambiati. Osserva però acutamente, a propo- sito di Il Dilemma di Jasper del ’61: «Al pari di Rauschenberg e di Johns, Stella ha cominciato con un inventario delle ca- ratteristiche formali e tecniche dell’espressionismo astratto, ma invece di contraddire l’astrattismo ricorrendo a immagi- ni note, ha imboccato la strada dell’astrazione pura. Stella voleva negare non solo il contenuto dell’espressionismo astratto ma anche il suo gestire, che Johns e Rauschenberg avevano imitato». Il confronto affacciato da Rosenberg è tutt’altro che peregrino. Abbiamo già detto dell’impatto pro- vocato dalle opere di Johns sul giovane Stella. Ma c’è di piú. Se la scelta del soggetto – irriducibilmente astratto per Stel- la, immediatamente riconoscibile per Johns – distanzia i due artisti, comune è l’intento di espellere dalla pittura ogni re- siduo illusionistico attraverso la sua oggettivazione. Nell’assumere infatti i soggetti «che la mente già conosce» co- me bersagli, bandiere, lettere e numeri, Johns non li dipinge illusionisticamente scendendo a patti con il supporto ma, oc- cupando l’intero spazio della tela, li rappresenta, nella forma, nella dimensione e nei colori, esattamente come sono, identi- ficando così oggetto reale, forma letterale e forma dipinta. E per dimostrare che la sua ricerca concerne la pittura e non l’og- getto reale, adatta la gestualità astratto-espressionista, pitto- rica per eccellenza. Come commenta Leo Steinberg, Johns «mette due cose stridenti in un quadro e le fa agire una con- tro l’altra a tal punto che la mente fa scintille. Vederle di- venta pensare». Contraddizione riscontrata anche da Green- berg quando, in After Abstract Expressionism, spiega: «Johns rimane in uno stato di sospensione tra astrazione e figura- zione. La pittura, che dovrebbe servire a rappresentare, ser- ve solo a se stessa ed è dunque astratta mentre il disegno piatto, di per sé astratto e decorativo, serve alla rappresen- tazione», mentre Rosenberg nota come trasferire sui sim- boli ready-made la pittura precedente, equivale ad espeller- ne «l’essenza metafisica e psicologica». Nato nel 1930 in Georgia, dopo aver compiuto gli studi all’Università del South Carolina Johns approda nel ’52 a New York. Due anni dopo, quando raffigura la prima Ban- diera in seguito a un sogno, incontra Robert Rauschenberg.

Storia dell’arte Einaudi Un colpo di fulmine che si alimenterà della frequentazione quotidiana nello stabile di Pearl Street, della condivisione del lavoro come pubblicitari e vetrinisti, del fatto di essere «i pri- mi seri critici reciproci». Eppure non avrebbero potuto es- sere piú diversi, come indole, estroversa al limite dell’istrio- nico quella di Rauschenberg, riservata e introversa quella di Johns, ma soprattutto nell’impronta del lavoro. Se Johns, pro- teso a una continua interrogazione sulle ragioni dell’arte, ri- mane ambiguamente in bilico tra realtà e finzione, Rau- schenberg si applica invece a colmare il vuoto tra l’arte e la vita predando, contaminando, accumulando in modo onni- voro e vitale anziché sottraendo con calcolata lucidità. Ma non da sempre. Nato a Porth Arthur cinque anni prima di Johns, si indiriz- za, sin dagli anni della scuola, in molteplici direzioni. Si ap- passiona di chimica, di veterinaria, di farmacia, di psichia- tria. Mentre continua a disegnare. Nel ’48, dopo una sosta a Parigi, approda al Black Mountain College. Una scuola pi- lota fondata nel ’33 ad Asheville – così De Kooning titolerà un quadro nel ’48 – nel North Carolina, lo stesso anno in cui i nazisti chiudevano il Bauhaus di Dessau. Fondata sul- la sperimentazione e l’interdisciplinarietà, sullo spirito de- mocratico e comunitario instaurato tra docenti e allievi, es- sa poneva al centro l’insegnamento artistico. De Kooning, Kline, Motherwell, Gropius, Ozenfant, Greenberg sono so- lo alcuni dei prestigiosi maestri che si sono avvicendati, an- che solo nelle sessioni estive, negli oltre venti anni di vita della scuola. Dagli esordi, e fino al ’49, per intercessione di Philip Johnson, che aveva curato nel ’32 l’esplosiva mostra al moma sull’architettura moderna, era stato chiamato a di- rigere il Dipartimento Arti Visive l’artista Joseph Albers. L’incompatibilità con Rauschenberg era palese per l’inca- pacità di quest’ultimo di sottoporsi a una qualsivoglia disci- plina. Eppure, confesserà, i quadri bianchi del ’51, esposti nella prima personale dell’artista alla Galleria di Betty Par- sons, nascono proprio dall’indicazione di Albers circa l’im- possibilità di scegliere nell’ambito dei colori: opere austere, come i successivi quadri neri che esporrà alla Stable Gallery, la cui monocromia riveste una stratificazione anche di ma- teriali eterodossi. Tra i visitatori piú attenti della mostra del ’51 c’è John Ca-

Storia dell’arte Einaudi ge con il quale, a partire dall’anno successivo, quando si in- conteranno al Black Mountain College, nascerà un intenso e duraturo sodalizio. Dotato di raro carisma, Cage, di tredici anni piú anziano di Rauschenberg, decide di dedicarsi alla musica dopo aver sondato la via dell’architettura, della poe- sia, della danza. Studia con Schönberg in California senza ri- cevere però né gratificazioni né incoraggiamenti da parte del maestro. Inventore e sperimentatore vulcanico, aveva esco- gitato già negli anni ’30 il «pianoforte preparato» ma la sua ossessione, a partire dal ’42 quando si trasferisce a New York, diventa la rottura di ogni principio armonico, l’inserimento del caso e dell’indeterminato, l’adozione infine del nastro ma- gnetico con le registrazioni elettroniche, mentre propugna, solo in apparente contraddizione, l’assenza dell’artista dalla composizione musicale. Contraddizione che lo avvicina tan- to agli espressionisti astratti quanto ai loro detrattori. Tra Cage e Rauschenberg s’instaura subito una totale simbiosi: 4’33’’, quattro minuti e trentatre secondi di silenzio, è com- posto proprio nel ’52, dopo aver visto i quadri bianchi. Nel- lo stesso anno collaborano a The Event, in assoluto il primo spettacolo multimediale, una serie di attività contemporanee e contestuali non predeterminate. Dopo una parentesi europea trascorsa in compagnia di Cy Twombly, quando nel ’53 torna a New York, Rauschenberg frequenta, oltre naturalmente a Cage, musicisti d’avan- guardia come Morton Feldman ed Earle Browne, gli espres- sionisti astratti che incontra al Club e al Cedar, De Kooning in particolare. Erased De Kooning del ’53, la cancellazione di un disegno donatogli dall’autore a conoscenza delle sue in- tenzioni, è non tanto un atto dissacratorio quanto la verifi- ca se «un’opera d’arte poteva essere creata solo per via di cancellazione». Vale forse registrare, a prova della compre- senza di fenomeni contraddittori come, nello stesso anno in cui viene Erased, De Kooning espone da Sidney Janis, una delle gallerie che raccolsero l’eredità astratto-espressionista, Women, donne sformate, allucinate, dal sorriso satanico, scandalizzando tanto gli astrattisti per il ritorno alla figura- zione, tanto quelli che ritenevano oltraggiosa una simile de- turpazione. Dopo la fase «monocroma», che si conclude con i quadri rossi esposti nel ’54 alla Egan Gallery, Rauschen- berg dà avvio alla sua stagione piú nota quando contamina senza gerarchia oggetti, pittura, disegno e fotografia. «Man

Storia dell’arte Einaudi mano che i quadri cambiavano, il materiale dipinto diven- tava soggetto quanto la pittura, determinando cambiamen- ti nella messa a fuoco: una terza tavolozza». Nascono così, nel ’55, i combine-paintings come «Bed», ac- compagnati dal celebre commento «La pittura è in rappor- to sia con l’arte che con la vita. Io cerco di agire nel vuoto esistente tra le due». Nello stesso anno anche Johns giu- stappone, ma senza contaminarli, i linguaggi della pittura e della scultura. In Target with Four Faces sopra al bersaglio di- pinto ad encausto si succedono quattro scatole identiche con altrettanti calchi di volti senza occhi mentre in Target with Plaster Casts le scatole celano o rivelano pezzi anatomici. Quando invece, come in Flashlight oin Painted Bronze del ’60 i due linguaggi si sovrapporranno, la pittura inquieterà solo la credibilità dell’oggetto. Esattamente come nelle ban- diere e nei bersagli. Mentre nel ’57, in una sorta di affet- tuosa competizione, Rauschenberg licenzia Factum I e Fac- tum II, due tele identiche su cui si ripetono le stesse pen- nellate, gli stessi segni, le stesse fotografie, emulando quasi la sensibilità seriale dell’amico. «Eravamo sicuri che nessun altro fosse interessato al nostro lavoro. E poi apparve Leo Castelli e accadde qualcosa che appare come un inizio». Di famiglia triestina benestante, Castelli è avviato dal padre alla carriera bancaria. Ma a Bu- carest incontra Ileana Schapira, presto sua moglie, con la quale intraprenderà il lungo viaggio nell’arte che ancor og- gi condividono seppure in spazi e vite separate. A New York dal ’41 si formano il gusto girando per musei e gallerie pre- diligendo gli espressionisti astratti, della prima e della se- conda generazione. Ma alla mostra organizzata nel ’57 da Meyer Schapiro al Jewish Museum sulla seconda generazio- ne della scuola di New York, è fulminato da Green Target di Johns, uno dei ventritre espositori. Una vera rivelazione. La prima mostra, che ospita nel ’58, è un trionfo: se Target with Four Faces campeggia sulla copertina di «Art News», Alfred Barr, curatore degli acquisti del moma, compera quattro ope- re, tra le quali White Numbers.Castelli si aggiudica l’irrive- rente Target with Plaster Casts mentre quasi tutte le altre ope- re andranno in mano a collezionisti e membri del moma. Un successo che si propagherà oltre oceano, a Parigi, ospite nel ’62 della nuova galleria di Ileana, ora Sonnabend.

Storia dell’arte Einaudi Ma la vera consacrazione dei due artisti avverrà nel ’63, con la retrospettiva di Rauschenberg al Jewish Museum seguita, l’anno successivo, dall’assegnazione del Premio Internazio- nale alla Biennale di Venezia. Mentre, nello stesso ’64, è il turno di Johns al Jewish Museum. Non è forse un caso se, proprio nel ’63, il Pasadena Art Mu- seum ospita una grande mostra di Marcel Duchamp. An- nunciato dallo scandalo provocato da Nudo che discende le scale esposto all’Armory Show del ’13, Duchamp era appro- dato a New York nel ’15, accolto con entusiasmo da Louise e Walter Arensberg, suoi fedeli patrocinatori, e dalla cerchia intellettuale da loro animata. Ma l’ambiente ufficiale conti- nuava a rimanergli ostile se, nel ’17, Fountain, firmata con lo pseudonimo «R. Mutt», era rifiutata dalla mostra della So- cietà degli Artisti Indipendenti. Con lo scoppio della guerra Duchamp torna in Europa per rimanervi, salvo sporadiche apparizioni in veste di consulente di Catherine Dreier, con cui aveva fondato nel ’20 la Societé Anonyme, fino al ’42 quando si stabilisce definitivamente a New York. Qui con- duce vita appartata coltivando la passione per il gioco degli scacchi e prodigandosi, a fianco di Man Ray, Andrè Breton, Peggy Guggenheim e Frederick Kiesler per diffondere il pen- siero surrealista e dadaista, organizzando ad esempio la mo- stra First Papers of Surrealism nel ’42, dove ingombra lo spa- zio con matasse di fili, e collaborando nel ’51 con Motherwell alla redazione dell’antologia di pittori e poeti dadaisti. Ma nel ’42 anche John Cage si trasferisce a New York dalla Ca- lifornia e, attraverso Peggy Guggenheim, conosce Duchamp. Un incontro cruciale perché, attraverso l’attività didattica al Black Mountain College prima e alla New School for Social Research poi, Cage costituisce il tramite tra Duchamp e la generazione di Rauschenberg e Johns. Questi ultimi incon- treranno in realtà Duchamp solo nel ’60, quando Rauschen- berg gli dedicherà Trophy II, ma è probabile che avessero vi- sto i suoi dodici lavori esposti alla mostra Dada 1916-1923 da Sidney Janis nel ’52 e, soprattutto, la mostra permanen- te della collezione Arensberg ospitata, dal ’54, nel Museo di Philadelphia. È indubbio che, dal volgere degli anni ’50, quando gli artisti cercano alternative alla pittura tanto in so- luzioni oggettuali quanto in altre piú speculative, il lavoro di Duchamp costituisce un immenso serbatoio cui attingere. Se Art of Assemblage del ’61 gli riserva un posto d’onore, lui stes-

Storia dell’arte Einaudi so si appassiona alle nuove situazioni: partecipa a dibattiti e conferenze, rilascia interviste, assiste alla performance Store Days di Oldenburg nel ’62 e, nel ’68, alla vigilia della morte, a quella musicale di Cage a Toronto e, a Buffalo, a quella di Cunningham, la cui scenografia si basa sul Grande Vetro. «Duchamp», così lo commemora Johns, «ha condotto il suo lavoro attraverso i confini retinici stabiliti dall’impressioni- smo verso un campo ove linguaggio, pensiero e visione inte- ragiscono. Lì ha cambiato forma attraverso un complesso gio- co di nuovi materiali mentali e fisici, preannunciando molti elementi tecnici, mentali e visivi dell’arte recente. Ha di- chiarato che voleva uccidere l’arte ma il suo insistente ten- tativo di distruggere i punti di riferimento esistenti ha mo- dificato il nostro pensiero e stabilito un nuovo pensiero per quell’oggetto». Se Johns e Rauschenberg scelgono i loro sog- getti nella realtà circostante contaminandoli con una sensi- bilità fortemente pittorica, la Pop Art tratterà gli stessi sog- getti con una tecnica impersonale, asettica, industriale. Nessun’opera è forse piú eloquente di Big Painting di Lich- tenstein del ’65 dove la pennellata, assunta come emblema dell’espressionismo astratto, è raggelata dalla tecnica punti- nista, al fine di deprivarla definitivamente di qualsiasi po- tenzialità espressiva ed emotiva. Il ’62 è annoverato come l’anno della Pop Art. Il 31 Ottobre Jim Dine, Roy Lichten- stein, Claes Oldenburg, James Rosenquist, George Segal, Andy Warhol e Tom Wesselman espongono, insieme ai col- leghi francesi del Nouveau Realisme, nella mostra New Rea- lists ospitata nella Galleria di Sidney Janis. Con l’eccezione di De Kooning, quella mostra decise l’abbandono sdegnato e definitivo del drappello espressionista-astratto dalla galle- ria. Lo scandalo non consisteva soltanto nel messaggio vei- colato dalle opere ma dalla velocità con cui il fenomeno, che da allora assumerà il nome coniato nel ’55 da Lawrence Al- lowav per i Pop inglesi, era riuscito ad imporsi presso pub- blico, istituzioni, collezionisti. Basti pensare che Robert Scull, già collezionista degli espres- sionisti astratti, possedeva nel ’63 ben quaranta opere pop e che, nella sua sede parigina, Ileana Sonnabend li esporrà tutti, a partire da Johns e Rauschenberg. In realtà, quando espongono da Sidney Janis, quegli artisti avevano già tenu- to la loro prima personale: Dine, con i grandi quadri che in-

Storia dell’arte Einaudi corporano oggetti di abbigliamento, da Martha Jackson, do- ve espone anche Oldenburg; Lichtenstein con i fumetti, da Castelli; Rosenquist con i dipinti pubblicitari alla Green Gal- lery diretta da Richard Bellamy; Warhol, infine, alla Stable Gallery; mentre alcuni avevano partecipato nel ’61 alla gran- de mostra Art of Assemblage, curata al moma da William Seitz, sorta di albero genealogico dell’arte europea e ameri- cana che, prendendo le mosse da Picasso e Duchamp, ap- proda al Nouveau Réalisme e alla Pop Art, attraverso, di nuovo, Stella, Johns e Rauschenberg. Quale spirito accomuna artisti il cui lavoro è reciprocamen- te sconosciuto? Occorre nuovamente distinguere. Per Lich- tenstein, Rosenquist, Warhol e Wesselman si tratta sostan- zialmente di una pittura realista il cui soggetto non è tratto direttamente dalla realtà ma dai media e dipinto con tecni- ca commerciale del tutto impersonale. «I punti Benday esplosi significavano all’inizio il materiale riprodotto ma pen- so che possano anche significare che l’immagine è falsa. I punti indicano nella mia pittura una falsa pennellata», raffor- zata, come nella già citata Big painting, dall’immagine stessa della pennellata. I soggetti di Lichtenstein, prima singoli, as- sunti dai fumetti e solo dilatati dimensionalmente, si com- plicheranno con il tempo, nel numero come nella composi- zione. «La cosa piú semplice ed economica che potessi fare era di creare quell’illusione con la pittura a olio su tela e da- re l’impressione del torpore che provavo nell’essere immer- so in immagini di grandi dimensioni». L’intento di Rosen- quist, il cui tirocinio si effettua come pittore di cartelloni pubblicitari, è proprio quello di vietare ogni visione globale del quadro, come quando si dipinge a distanza ravvicinata su una superficie di grandi dimensioni. Le opere, la cui mi- sura raggiunge in F-111 del ’65 quella dell’ambiente, consi- stono in collages di frammenti di immagini pubblicitarie di- pinti come fossero fuori fuoco. Andy Warhol, che esordisce in campo pubblicitario, assume invece le icone della società consumistica, Marilyn Monroe, i membri della famiglia Kennedy, Elvis Presley, semplici fat- ti di cronaca, e li moltiplica serialmente adottando la tecni- ca serigrafica, personalizzata però dal colore acido e antina- turalistico sempre diverso. Agli antipodi Jim Dine dipinge i suoi soggetti con una pit- tura spessa e disuniforme di stampo astratto-espressionista.

Storia dell’arte Einaudi Un discorso a parte meritano Oldenburg e Segal il cui lavo- ro abbandona la parete per vivere, quando non per creare spazio. Gli ambienti di Segal, già esposti nel ’60 alla Green Gallery, rappresentano scene di vita quotidiana e sono po- polati da calchi di figure reali, i cui gesti e le cui azioni, rag- gelati nel gesso, dialogano con le persone vive che si muo- vono negli stessi spazi. Sempre del ’60 è The Street di Ol- denburg, una fedele ricostruzione con materiali poveri della miseria di Bowery, mentre in Store, dell’anno successivo, gli oggetti sono già in gesso e dipinti con colori a smalto squil- lanti e accattivanti. Se le dimensioni sono quelle reali, la na- tura di quegli oggetti «è alterata dalla psicologia». Il passo successivo, come si rivelerà tra lo stupore e lo scandalo nel ’62, è l’alterazione sostanziale di tali merci-oggetti tanto dal punto di vista dimensionale quanto da quello funzionale. Co- sì, se improbabili hamburgers, coni gelati, sandwiches e fet- te di torta, il junk food insomma, sono immangiabili, le mac- chine da scrivere e gli orinatoi di gomma sgonfiata sono cer- tamente inutilizzabili. Deprivata di funzionalità, «ogni cosa è solo strumento di sensuale comunicazione». I «monumenti colossali» che appronta dal ’65 nascono allora da quegli og- getti per ulteriore dilatazione dimensionale. Dedicati alla molletta per i panni, a una buccia d’arancio, al rossetto per labbra o allo spazzolino da denti, essi sostituiscono ironica- mente a quella dell’uomo la centralità dell’oggetto, conser- vando, di quelli tradizionali la sola dimensione. Ma Olden- burg non si accontenta del risultato e, nel sondare la possi- bile abitabilità di quegli oggetti, approderà all’architettura, alle ipotesi pensate in collaborazione con Coosje van Brug- gen e l’architetto decostruttivista californiano Frank Gehry, come Binocular Building del 1991 a Venice, eretica ma fun- zionale cerniera tra due corpi dell’edificio. «L’unico organo contrario è “Art News”. La protezione uf- ficiale si è rivolta in maniera irresistibile agli oggetti inuti- li estratti dalla scena quotidiana e conosciuti come pop art e all’astrazione spersonalizzata ed emblematica. La ten- denza contraria all’artista creatore venne rinsaldata in due importanti mostre nel 1963». A differenza di altri che, pur a malincuore, accettano i fenomeni post-espressionisti astratti, Harold Rosenberg non «si pente» e continua, in- stancabile, a polemizzare, ora nel saggio Nero e verde pi-

Storia dell’arte Einaudi stacchio, contro la Pop Art cui il moma dedica nel ’63 la mo- stra Americans ’63, e anche contro la pittura «post-pain- terly» ospitata nello stesso anno al Jewish Museum in Toward a new abstraction. Mentre si rassegna Irwing Sandler: «Per quanto cercassi di resistere, non c’era possibilità di sfuggire al potere dell’astra- zione di Stella. Sono stato costretto a riconsiderare la mia definizione di arte “valida” e a capire che la nuova arte ri- chiedeva un approccio diverso da quello dell’Espressionismo Astratto». Sandler chiama così nuovamente in causa Stella, certamente una delle figure piú controverse di questo con- vulso decennio. Lo abbiamo nominato la prima volta tra gli espositori nella mostra Post painterly abstraction del ’64, con la quale Greenberg costruiva una situazione pittorica post espressionismo-astratto. «Penso che il confronto piú ovvio per il mio lavoro potreb- be essere con Vasarely e non posso pensare a qualcosa che mi piaccia di meno». Eppure, nonostante la presa di distanza, Stella, forse l’artista piú presenzialista, partecipa nel ’65 a Responsive Eye, la mostra curata al moma da William Seitz, che, con la paternità di Albers e Vasarely, raccoglie in sei se- zioni le ricerche percettive in ambito europeo e americano. Un calderone che diverte il pubblico ma non incontra il fa- vore della critica. Se Tom Hess disapprova dal forum di «Art News» le compromissioni dell’arte cinetica con la tecnologia, Lucy Lippard sulle colonne di «Art in America» ne conside- ra riduttiva la sola valenza percettiva. Rosalind Krauss, vici- na allora alle posizioni formaliste di Greenberg, distingue, su «Art International», tra artisti «optical» – tra i quali anno- vera la triade Stella, Louis e Noland, il cui lavoro affonda le radici nell’espressionismo astratto, sia pure nella versione di- stillata di Rothko, Still e Newman – e quelli «op», come Anu- szkiewicz e Riley, di matrice Bauhaus e costruttivista. L’accezione optical a proposito di Stella non è casuale. Nel te- sto chiave del ’61 Modernist Painting Greenberg, dopo aver perentoriamente ribadito che «l’area di competenza di ogni arte coincide con ciò che è unico nella natura del suo me- dium», dunque per la pittura «superficie piatta, forma del sup- porto, proprietà del pigmento», è costretto ad ammettere che «la piattezza verso la quale si orienta la pittura modernista non può mai essere assoluta piattezza» ma può implicare una «illusione ottica», da ben distinguersi però da quella tattile

Storia dell’arte Einaudi evocativa dello spazio reale, prerogativa della scultura. Così, captando Stella in ambito pittorico modernista, si scongiura la sua assegnazione in quello dell’«oggetto arbitrario», cioè dell’imminente tridimensionalità minimalista. Sarà piú preciso in proposito Michael Fried, nel testo già ci- tato del ’65: «I quadri di Stella sono gli ultimi che un lette- ralista come Judd può accettare senza riserve... Questo non è per dire che i quadri di Stella non sono niente piú che og- getti». Eppure Stella è rivendicato in ambito minimalista: «Le tele sagomate di Stella presentano molte caratteristiche dei lavori tridimensionali. Il confine dell’opera e le linee in- terne corrispondono. Le strisce non costituiscono mai parti distinte. L’ordine non è razionale né a priori ma semplice or- dine, quello della continuità, una cosa dopo l’altra. Un qua- dro non è un’immagine», precisa Donald Judd in Specific Objects del ’65, sorta di manifesto del minimalismo. Dopo aver dichiarato l’imprescindibilità illusionistica della pittura e quella antropomorfica della scultura, addita come unica pos- sibile alternativa quella degli «oggetti specifici tridimensio- nali» perché «le tre dimensioni sono spazio reale». E gli Un- titled di Judd sono coerenti a tali presupposti teorici: consi- stono infatti in sequenze di elementi tridimensionali tutti uguali e posti alla stessa distanza oppure regolati da propor- zioni aritmetiche, non composti ma organizzati «uno dopo l’altro», in orizzontale oppure in verticale, senza però tocca- re mai terra, dunque privi di base. Costruiti industrialmen- te con materiali quali la formica, l’alluminio, l’acciaio, il plexiglas e l’ottone, rivestiti magari di colori squillanti, essi mostrano un aspetto unitario pur articolato in plurimi ele- menti: «La cosa come unità, la sua qualità come unità, è que- sto che è interessante». Ma non si tratta forse di quell’aspet- to che Judd riscontrava nelle tele di Pollock, di Newman, di Stella? Nel 1966 due eventi espositivi rilevanti hanno luogo a po- chi passi di distanza. Mentre il Jewish Museum ospita l’esau- stiva rassegna minimalista Primary Structures, il Guggenheim Museum accoglie, con la cura di Laurence Alloway, Systemic Painting. «Quello che sembra ora rilevante è definire sistemi in arte, liberi dal classicismo, che è come dire liberi dagli assoluti prima associati con le idee di ordine. Ma l’idea di ordine co-

Storia dell’arte Einaudi me proposta umana piuttosto che come eco di principi as- soluti, è parte dell’eredità della generazione del 1903-15» sostiene Alloway, rivendicando la paternità dell’avanguar- dia europea sulla pittura sistemica emancipandola però dal- la sua valenza idealistica. E, per meglio esplicitare l’idea di «ordine come proposta umana», aggiunge: «I quadri in mo- stra non sono impersonali. L’aspetto personale non è elimi- nato dall’uso di una tecnica precisa né quello anonimo è con- seguenza di una pittura altamente rifinita. L’ordine concet- tuale dell’artista è personale esattamente come i segni autografici». Ma quando Sol LeWitt, nei Paragrafi sull’arte concettuale del ’67 affermerà che «l’arte concettuale non è teorica né illustra teorie ma è intuitiva» o quando, nelle Sen- tenze di due anni successive oserà affermare che «gli artisti concettuali sono mistici piuttosto che razionalisti», non pro- pone forse lo stesso paradosso? Tra gli invitati, oltre a Stel- la, incontriamo Agnes Martin, artista anomala e complessa, assente tra i pittori post-painterly nel ’64, presente invece tra quelli «sistemici», due anni dopo. Nata in Canada nel 1912, lo stesso anno di Pollock, rivela, rispetto alla generazione astratto espressionista cui appartiene, la stessa specificità ri- scontrata in Rothko, Newman, Reinhardt: un riconosci- mento tardivo, a 40 anni, ma soprattutto un vocabolario pit- torico estremamente ridotto ed essenziale, fedele, pur nella molteplicità delle variazioni. a se stesso. Misconoscendo tut- to il lavoro svolto precedentemente, quando nel ’57 appro- da a New York, adotta come strumento espressivo esclusi- vo la griglia, un sottile tracciato di linee ortogonali disegna- te a mano e a matita che saturano, come nell’all-over di Pollock, la superficie preferibilmente quadrata. Un traccia- to arduo da mettere a fuoco, come quello di Reinhardt, con il quale condivide la ripetizione dello stesso formato e dello stesso tema come pure l’anelito alla sottrazione di «oggetti, spazio, forma, tempo», per raggiungere un grado estremo di leggerezza. Non ricerca invece, come farà negli stessi anni Stella, l’identità, per dirla con Fried, tra «forma letterale e forma dipinta» ma insegue anzi la dissonanza tra supporti quadrati e griglie a maglia rettangolare. Ma l’affinità con il minimalismo si arresta all’opzione della griglia che abban- donerà comunque quando, dopo anni di inattività trascorsi in New Mexico, riprenderà a dipingere. Lasciando al Guggenheim. pittori del calibro di Robert Ry-

Storia dell’arte Einaudi man, il cui obiettivo è «il processo come costruzione della pittura» irriducibilmente bianca, e spostandoci al Jewish Museurn, siamo al cospetto del drappello minimalista. Ad esporre, tra i tanti, c’è un artista centrale come Robert Mor- ris la cui preparazione di base è, come per Judd, sostanzial- mente teorica. Nato nel ’31, di tre anni piú giovane di Judd, prende il Ma- ster in Storia dell’Arte all’Hunter College con una tesi su Brancus¸i. Dopo le prime prove pittoriche vicine ai quadri «neri» dell’ultima stagione di Pollock, licenzia, tra il ’61 e il ’63, opere attente alla poetica del ready made, filtrata dall’elaborazione di Johns come Litanies, I Box, Box of the Sound of its own making.Ma nel ’64, in occasione della mo- stra alla Green Gallery, condivide già la castigata poetica minimalista. Come spiegherà dettagliatamente nel testo cru- ciale Notes on Sculpture, le cui prime due parti saranno pub- blicate nel ’66 su «Artforum», il forum critico piú signifi- cativo per il decennio in corso e per quello a venire, quelle «forme unitarie» che alla Green Gallery occupavano tutti i punti dello spazio, dalle pareti al pavimento agli angoli, de- vono scongiurare ogni rapporto relazionale. «Sono le forme piú semplici che creano forti sensazioni gestaltiche. Le loro parti sono connesse in modo da offrire la massima resisten- za alla separazione percettiva». Tra tutti i tipi di poliedri, quelli semplici, quelli regolari complessi, quelli semplici e ir- regolari, quelli complessi irregolari, Morris predilige quelli semplici, sia regolari che irregolari. Quanto alla loro collo- cazione nello spazio, non ha dubbi circa il fatto che il pavi- mento e non la parete è il supporto necessario per la massi- ma consapevolezza dell’oggetto. Definita dunque la qualità e la collocazione delle «forme unitarie», Morris introduce, in relazione alla scala umana, il concetto centrale del loro ca- rattere pubblico contrapposto a quello intimo e privato. «Le opere migliori portano le relazioni fuori del lavoro e lo rendono funzione dello spazio, della luce, del campo di vi- sione dello spettatore. Qualsiasi relazione interna, tanto strutturale quanto di superficie, riduce la qualità pubblica ed esterna dell’oggetto. Persino la forma, la proprietà piú inalterabile, non rimane costante. È l’osservatore che la mo- difica cambiando la posizione rispetto al lavoro». E conclu- de: «Ci sono due fattori distinti: la costante conosciuta e la

Storia dell’arte Einaudi variabile esperita. Solo l’apprendimento della gestalt èim- mediato mentre l’esperienza del lavoro esiste necessaria- mente nel tempo. L’intenzione è diametralmente opposta al cubismo e alla simultaneità di visioni sul piano». La rela- zione dunque che nella scultura moderna si stabilisce tra le singole parti, indifferentemente al contesto, è ora tradotta nella relazione che il corpo unitario dell’oggetto instaura con lo spazio e con lo spettatore. Mentre alla simultaneità delle visioni sul piano pittorico, di matrice cubista, Morris con- trappone quelle che avvengono nello spazio e nel tempo dell’esperienza. Untitled (L Beams) del ’65 segue tali premesse: tre travi iden- tiche bianche a forma di L sono percepibili in modo diver- so a seconda della loro collocazione spaziale, dritte, sdraia- te, ad angolo. Ma è proprio il connotato pubblico, vale a dire «teatrale», della scultura minimalista ad attirare gli strali di Michael Fried nel noto saggio Art and Objecthood, pubblicato su «Artforum» nel ’67. «È la teatralità che, nonostante le differenze, unisce artisti come Bladen e Grosvenor, i cui lavori presentano una scala gigantesca, ad altri come Judd, Morris, Andre, McCracken, LeWitt e Smith. Ed è nell’interesse del teatro che l’ideolo- gia letteralista rifiuta sia la pittura sia la scultura moderni- ste». Nelle quali contano invece i soli valori formali e com- positivi da apprendersi unitariamente e simultaneamente. Non solo Fried rifiuta il ruolo dello spettatore come ele- mento costitutivo dell’opera, ma equivoca sul termine «sca- la» identificandola con la dimensione. Se, effettivamente, Untitled di Roland Bladen, tre monoliti romboidali di allu- minio e legno che si succedono precariamente inclinati, e Black Triangle di Robert Grosvenor, una colossale V di le- gno nero, invadono minacciosamente lo spazio, assai piú di- screta è la presenza di altre opere in mostra a Primary Struc- tures, come Lever di Carl Andre, una lunga fila di mattoni tutti uguali disposti sul pavimento «uno dopo l’altro». «Ho buttato a terra la colonna di Brancus¸i», commenta, a sotto- linearne lo stesso carattere seriale privo però del riferimen- to verticale antropomorfico. Due le esperienze formative di Andre. Tra il ’58 e l’anno successivo frequenta lo studio di Stella che licenziava allora i primi quadri con le strisce ne- re. Ne reca il segno un’opera come Cedar Piece, travi di le-

Storia dell’arte Einaudi gno di cedro a incastro incrociato, scavate verso l’interno fi- no al centro e poi verso l’esterno a forma di X. Non poten- do sostenersi con il solo lavoro artistico, tra il ’6o e il ’64 la- vora come macchinista e guardiano alle ferrovie: ha a che fa- re con strutture lineari, dislocazione di carrozze su diversi binari, con una grande quantità di materiali grezzi. «Ho co- minciato costruendo forme, poi strutture, poi luoghi. Un luogo è un piedistallo per il resto del mondo», così esplicita le tappe del suo percorso. Se Cedar Piece è una forma, ope- re successive come Equivalent, costituite di travi e mattoni dalla posizione intercambiabile, rientrano nel campo delle strutture. Risalgono invece al’67 i primi «pavimenti» co- struiti con quadrati o rettangoli di alluminio, acciaio, ferro, magnesio, rame, zinco e piombo, scelti per il loro diverso co- lore, assemblati al suolo privi di volume, in configurazioni modulari equivalenti, dove l’artista invita a camminare co- me fossero pavimenti veri. Brancus¸i è anche punto di riferimento di Dan Flavin, nato a New York nel ’33, che gli dedica, in occasione della prima personale alla Green Gallery nel ’63 Diagonal of May 25,un tubo di luce fluorescente disposto in diagonale sulla parete, sostituendo al «totem arcaico mitologico innalzato verso il cielo», il «feticcio tecnologico moderno». «Quell’immagine gassosa galleggiante e insistente tradiva a volte, per la sua brillantezza, la sua presenza fisica in una quasi invisibilità». Come spiega Flavin, Diagonale rinuncia per la prima volta alla mediazione tra luce e parete, rappresentata in quelle che lui stesso definisce, tra il ’61 e il ’63, «icone di luce elettri- ca», dal cubo di masonite dipinta. Quando definisce quelle icone «mute, anonime, ingloriose» al cospetto di quelle bi- zantine, le depriva di qualsiasi connotato religioso e tra- scendentale, pur rivendicadone l’appartenenza alla lunga tra- dizione che pone la luce come soggetto principale dell’arte aggiornandola però nella traduzione dello spazio pittorico il- lusionistico in quello reale. Quell’alone luminoso intorno al- le icone, allora, è riconducibile a quello che sfuma, smate- rializzandole, le superfici di Rothko mentre se confrontia- mo Vir Heroicus Sublimis di Barnett Newmani artista caro a Flavin, con Nominal Three del ’66, sei tubi fluorescenti po- sti in progressione numerica sulla parete, è come se le zips dipinte del primo si fossero tridimensionalizzate, a squar-

Storia dell’arte Einaudi ciare non piú il campo pittorico ma l’involucro architetto- nico. E, ancora, quando Flavin parla di «presenza fisica in una quasi invisibilità» denuncia una duplice valenza: quella pittorica, quando il tubo è acceso e si attiva come opera, e quella di ready made quando, spento, torna semplice ogget- to di consumo. Con il tempo il lavoro di Flavin si è compli- cato e arricchito aggredendo l’intero spazio dove innalza pa- reti di tubi, vere barriere di luce o corridoi che si interseca- no come Green crossing green dedicato, nel ’66, a Mondrian. A Duchamp, evocato a proposito di Johns, Morris e Flavin, Rosalind Krauss riconduce tanto il minimalismo quanto la Pop Art. «Ma con una differenza: se gli artisti pop lavora- no con immagini già fortemente caratterizzate, come le fo- tografie delle star del cinema o i fumetti, i minimalisti usa- no il ready made come unità astratta e ne sfruttano l’idea in modo meno aneddotico, considerandone le implicazioni strutturali piú che tematiche». Sul debito al maestro insiste ancora Richard Wollheim, il primo a coniare, nel ’65, il ter- mine minimalismo a proposito di «oggetti con un contenu- to minimo di artisticità, estremamente indifferenziati o la cui differenza emerge da una fonte non artistica come la na- tura o la fabbrica». Quegli oggetti, spiega ancora Wollheim, non mostrano «quello che nei secoli è stato l’ingrediente essenziale dell’ar- te: il lavoro o lo sforzo manifesto». Essi sostituirebbero cioè all’operazione «costruttiva», fatta di progressive aggiunte, quella «distruttiva», di smantellamento dell’immagine, pro- cesso iniziato con la «distorsione manierista e poi cubista e che raggiunge il punto culminante proprio nelle telenere di Reinhardt». Calzante è il riferimento a Reinhardt. Proprio nel ’66, anno di consacrazione del minimalismo, il Jewish Museum ospita la solenne sequenza dei suoi quadri ne- ri cui l’Aldrich Museum dedicherà l’anno successivo, quello della scomparsa, una mostra di cool art, termine coniato da Ir- ving Sandler come sinonimo di minimalismo, riconoscendolo come precursore e ispiratore del movimento. «ABC art» è in- vece il termine adottato, per lo stesso gruppo di artisti, da Bar- bara Rose nel testo pubblicato nel ’65 su «Art in America». Prendendo le mosse da Malevi™ e Duchamp e allargando l’in- dagine a filosofi, scrittori, musicisti scrutati dagli artisti, Ro- se segue un approccio sostanzialmente storico. Se il ’62 è l’anno della Pop Art, quelli del minimalismo si

Storia dell’arte Einaudi snodano tra il ’65 e il ’68, anche se Judd e Morris avevano già tenuto nel ’63 la prima personale alla Green Gallery, gal- leria che chiuderà i battenti nel ’65, e Flavin l’anno succes- sivo. È del ’65 Shape and Structure alla Tibor de Nagy, una delle prime collettive minimaliste, mentre 10 Show alla Dwan Gallery e Art in Process al Finch College, entrambe dell’anno successivo, preparano l’evento di Primary Structu- res.Nei due anni seguenti si registra un crescendo espositi- vo, negli Stati Uniti, con la grande mostra American Sculp- ture of the Sixties al Los Angeles County Museum e in Eu- ropa, alla Galleria Sonnabend a Parigi e nella mostra Minimal Art al gm dell’Aja, nel ’68. Se la critica coeva resiste, come sostiene Rose, all’interpretazione offrendo del fenomeno una visione analitica imparziale, anche il minimalismo è sog- getto, dalla metà degli anni ’70, a una «revisione» critica si- mile per certi aspetti a quella toccata in sorte all’espressio- nismo astratto. È noto che gli anni in cui il minimalismo si manifesta sono particolarmente rilevanti dal punto di vista politico: nel ’65, con l’invio delle truppe e con i primi bom- bardamenti su Hanoi, ha inizio l’escalation americana in Vietnam mentre esplodono i conflitti razziali, come testi- monia l’assassinio di Malcom X. Nelle università, inoltre, nelle fabbriche e nei quartieri, operai e studenti rivendica- no partecipazione e potere decisionale abbattendo le bar- riere che li separano, mentre donne, neri e omosessuali chie- dono parità di diritti e l’abolizione delle differenze di sesso, classe, cultura. Anche il mondo dell’arte è in subbuglio e isti- tuzioni e regolamenti sotto accusa. Artisti di colore e don- ne artiste rivendicano maggiore spazio nelle istituzioni mu- seali mentre creano spazi espositivi alternativi. Black Emer- gency Cultural Coalition nasce nel ’69 contro la mostra ospitata al Metropolitan Harlem on my mind, mentre si apre ad Harlem lo Studio Museum dove artisti neri possono la- vorare, esporre, confrontarsi. Così, contro la mostra annuale del Whitney che, sempre nel ’69, espone su 143 artisti solo otto donne, si costituisce il primo gruppo di artiste femmi- niste, Women Artists in Revolution. Se Angry Arts Again- st the War in Vietnam, tra i cui membri attivi figura anche Reinhardt, raccoglie nel ’67 circa 600 artisti molti dei qua- li collaborano alla costruzione del grande Collage of Indigna- tion, due anni dopo si costituisce l’Art Workers Coalition

Storia dell’arte Einaudi contro la politica clientelare e antidemocratica del moma, mentre il New York Art Strike picchetta nel ’70 per dieci ore il mma chiedendo un pronunciamento contro la guerra del Vietnam. Carl Andre è tra gli artisti piú convinti e attivi. Anche se ri- tiene che compito di tali organizzazioni sia quello di «poli- ticizzare non l’arte ma gli artisti», dichiara: «Sono stato coinvolto nella politica tutta la vita, prima il New Deal poi la Seconda Guerra Mondiale, poi la Guerra Fredda poi la Corea. La mia arte deve riflettere la mia esperienza politi- ca. Non posso separarli, l’arte per l’arte è ridicola»; per con- cludere piú specificatamente: «La materia come materia e non la materia come simbolo costituisce una posizione poli- tica consapevole, essenzialmente marxista». Ma è proprio contro questa identificazione che si schiera la critica revi- sionista. «Ridurre un lavoro d’arte all’ovvietà della sua realtà fisica è scolasticamente assai riduttivo. Riconoscere tale carattere scolastico e il suo rendere l’odierna arte astratta pedante, autoreferenziale e formalmente affettata è il primo passo del mio tentativo di mostrarne lo stile autoritario che io consi- dero un sintomo della decadenza dell’astrazione» dichiara, nell’articolo del ’77 dal titolo eloquente L’astrazione autori- taria, Donald Kuspit. Esattamente dieci anni dopo, un simposio ospitato alla School of Visual Arts di New York così s’interroga: «Il cuo- re del Minimalismo: Stile o Politica?» L’ipotesi sostenuta dall’organizzatore, il critico e storico dell’arte Brian Wallis, è radicale e, come nel caso dell’espressionismo astratto, con- cerne i contenuti piú che i valori formali. Il minimalismo, in sostanza, non nascerebbe in contrapposizione al soggettivi- smo astratto-espressionista, ma come risposta ai sommovi- menti degli anni ’60, in particolare a quelli pacifisti. Vale segnalare come terza posizione quella di Anna Chave il cui lungo contributo, ospitato nel’90 su «Arts Magazine», reca il titolo sintomatico: Minimalism and the Rhetoric of Power.La sua tesi, antagonista a quella di Rose circa la «re- sistenza all’interpretazione», si articola sostanzialmente in tre punti. Nonostante le prese di distanza dalla tradizione modernista, il minimalismo costituisce invece l’estrema con- clusione, in termini appunto di riduzionismo, dell’ipotesi for- malista di Greenberg; in secondo luogo, l’adozione di mate-

Storia dell’arte Einaudi riali industriali non tradisce affatto, come sostiene Andre, una posizione marxista e materialista, ma denuncia anzi un atteggiamento prono a una società mercificata. Quelle forme astratte, infine, non sono «materia come materia», ma «ma- teria come simbolo» di potere, violenza e sopraffazione. Ta- li argomentaziori, nutrite di pensiero psicanalitico e femmi- nista, sono suffragate da una lunga lista di esempi. Sotto ac- cusa sono allora Morris e Flavin, Andre e De Maria per il Museum Piece a forma di svastica ma soprattutto Stella i cui titoli, da Reichstag a Die Fahne Hock, rievocano sinistramente frasi e canzoni naziste. La scala monumentale, il carattere pubblico dei lavori che vietano allo spettatore ogni identifi- cazione, la neutralità e l’intercambiabilità, l’uso di chiodi e gabbie, la subordinazione delle singole parti a una visione unitaria, ma soprattutto la regolarità geometrica e la simme- tria sono per Chave la prova lapalissiana del carattere rea- zionario e anti avanguardia del minimalismo. I dubbi che Chave instilla circa un’arte che sembra non contemplarne al- cuno, attraversano a ben vedere gli stessi protagonisti. Sono proprio tre artisti che espongono nel ’66 a Primary Structures, Robert Morris, Sol LeWitt e Robert Smithson ad additare le nuove vie della Process Art, dell’Arte Concet- tuale e della Land Art. Svolgendo quel ruolo di pionieri che nel decennio precedente era spettato a Stella, Johns e Rau- schenberg. «Anziché indurci a ricordare il passato, come i vecchi mo- numenti, quelli nuovi ci inducono a dimenticare il futuro. Il passato e il futuro sono collocati nel presente oggettivo. Que- sto genere di tempo ha poco o nessuno spazio. È staziona- rio e immobile, è contro le lancette dell’orologio. Questa ri- duzione del tempo toglie valore alla nozione di “azione” in arte». Nel saggio cruciale Entropy and the new Monuments pubblicato nel ’66 su «Artforum», Smithson individua il cuore problematico del minimalismo nella concezione tem- porale anti evoluzionistica, dunque immobile e stazionaria, inverata dalle sequenze martellanti di Judd, Andre e LeWitt. Smithson condivide infatti, tra il ’64 e il ’66 la vicenda mi- nimalista: nel piccolo cenacolo della Daniels Gallery incon- tra Flavin, Morris, Judd e LeWitt; è invitato da Reinhardt alla mostra 10 Skow alla galleria di Virginia Dwan, da allo- ra sua patrocinatrice, che precede di pochi mesi Primary

Storia dell’arte Einaudi Structures dove espone Criosphere, sei unità esagonali, com- poste ognuna di altrettanti elementi. La struttura astratta dei cristalli, cui l’opera riconduce, appare a Smithson la so- luzione «naturale» contro «l’antropomorfismo ancora la- tente in Pollock, De Kooning, persino in Newman». An- tropomorfismo su cui si fonda la metafora biologica di cre- scita e progresso che sottende quella pittura d’azione che, comunque, Smithson aveva scrutato appena approdato a New York dal New Jersey nel ’57, a 19 anni. «Il contributo particolare dello storico è la scoperta delle molteplici forme del tempo. Per le forme del tempo abbia- mo bisogno di un criterio che non sia un semplice trasferi- mento analogico dalla biologia. Il tempo biologico consiste di periodi ininterrotti di durata statisticamente prevedibile. Il tempo storico, invece, è intermittente e variabile». La for- ma del tempo, pubblicato per la prima volta nel ’62 a firma dello storico dell’arte George Kubler, allievo a Yale di Henry Focillon, anticipa, in una singolare storia dell’arte dove i ma- nufatti artistici convivono con «l’universo delle cose fatte dall’uomo», proprio le tematiche affrontate da Smithson e costituirà, per gli artisti della sua generazione, un testo chia- ve. All’opera unica e alla biografia dell’artista Kubler sosti- tuisce allora la serie e la sequenza formale: «La biografia co- stituisce uno degli stadi necessari alla ricostruzione storica, ma una sequenza formale mette in evidenza concatenazioni di eventi collegati tra loro attraverso un’analisi che ci ri- chiede proprio l’opposto: di percepire cioè l’individuo nei termini della sua situazione». Per così concludere: «La de- finizione piú precisa di sequenza formale è quella di una re- te storica di ripetizioni gradualmente modificate di uno stes- so tratto». Come la serie dei quadri neri che Reinhardt espone nel ’66, anno in cui, forse non a caso, recensisce su «Art News» il libro di Kubler, esordendo così: «Ogni artista sente la ne- cessità di conoscere la storia a-temporale dell’arte mondia- le, orientale ed occidentale, 10 o 20 000 anni, nei termini di arte-come-arte, non arte come storia o storia dell’arte». Ma quando, già dieci anni prima, nella «nona» delle «Do- dici regole per una Nuova Accademia» sosteneva: «Nessun tempo. In arte non c’è né antico né moderno, né passato né futuro. Un lavoro d’arte è sempre presente», non esprime- va lo stesso concetto di attualità di Kubler secondo il quale

Storia dell’arte Einaudi essa è «il punto di rottura tra passato e futuro, l’intervallo intercronico quando niente accade, il vuoto che separa gli eventi»? E, ancora, l’opera di Flavin non si qualifica forse come tale nell’istante in cui il tubo fluorescente cessa di es- sere «cosa»? Così conferma infatti Flavin: «Gli elementi del mio sistema mancano dell’aspetto storico. Non avverto nes- suno sviluppo stilistico o strutturale significativo nella mia proposta. È come se il mio sistema fosse sinonimo dei suoi stati passati, presenti e futuri. È curioso sentirsi autopriva- ti di uno sviluppo progressivo». Raccogliendo il suggerimento di Kubler Smithson adotta al- lora metafore tratte dal mondo della scienza fisica piuttosto che da quello della scienza biologica, come il principio dell’«entropia». «Molti di questi artisti hanno fornito una analogia visiva della Seconda Legge della Termodinamica che afferma come l’energia venga dispersa piuttosto che guada- gnata e che nel futuro piú lontano l’intero universo brucerà e si trasformerà in una totale identità», insiste Smithson. Il processo di dispersione energetica è dunque irreversibile: l’unico margine di azione, riflette, è quello di utilizzare lo scarto e lo «spreco». Se il progresso industriale conduce ine- vitabilmente alla distruzione e allo sfruttamento del terri- torio, se, agli antipodi, gli ecologisti propongono come al- ternativa il rispetto della natura incontaminata, il dovere morale e sociale dell’artista è quello di pretendere la colla- borazione delle grandi società industriali, come quelle mi- nerarie e carbonifere, per trasformare quei territori «entro- pici» in opere di Land Art. Sono quei territori, allora, come le cave, le zone squarciate dalle mine, i fiumi e i laghi in- quinati a stimolare i geniali interventi dell’artista, come Spi- ral Jetty del ’70, 6000 tonnellate di terra assestate a forma di spirale nel Great Salt Lake in Utah, un lago dalle acque rosse, punteggiato di bianchi cristalli, circondato da rocce nere di basalto. O come Spiral Hill e Broken Circle in Olan- da, in zone minate, costruite alle soglie della morte interve- nuta nel ’73 durante una ricognizione aerea in cerca di nuo- ve aree di intervento. Nel ’68 Smithson incontra a New York Michael Heizer, ca- liforniano, di sei anni piú giovane che, insofferente agli spa- zi espositivi canonici, inseguiva un’arte «non corporativa» che utilizzasse i materiali e lo spazio reali. Aveva già scava-

Storia dell’arte Einaudi to trincee, seppellito un cubo nel terreno, disperso terra muo- vendosi in macchina, tracciato disegni sul terreno con la mo- tocicletta, finché, proprio nel ’68, quando aiuta Walter De Maria a realizzare Mile Long Drawing, due linee di gesso nel deserto della California, esegue, su commissione del colle- zionista Robert Scull, Nine Nevada Depressions per collegare laghi prosciugati e, l’anno successivo, Displaced/Replaced Mass, un grande masso, a mo’ di monolite preistorico, sem- plicemente spostato di luogo. Movimento che è alla base an- che del piú noto Double Negative, commissionato da Virgi- nia Dwan, 240 000 tonnellate di terra scavata per formare due gigantesche fosse affacciate nel Mormon Mesa del Ne- vada. Complex One del ’72, invece, ancora nel Nevada, è una grande collina di terra la cui forma trapezoidale rievoca le pi- ramidi azteche in Messico e Guatemala. L’intervento sul ter- ritorio da parte dei land artists, allora, costituisce una radica- le contestazione dei circuiti espositivi e dei meccanismi di mercato e, assumendo spesso, come sottolinea Lucy Lippard in Overlay, forme preistoriche, si riveste di quell’aura ro- mantica e sublime che un artista come Newman ricercava ad esempio nella cultura precolombiana. Nello stesso tempo quell’intervento offre una soluzione inedita, perché reale e fisica, priva di mediazioni rappresentative, alla tematica del paesaggio, così centrale nell’arte americana sin dal sec. xix. Se l’intervento di Heizer modifica radicalmente l’assetto del territorio, piú discreti appaiono quelli di Dennis Op- penheim, Christo e Nancy Holt. Time Pocket e Annual Rings di Oppenheim sono tagli effettuati nella neve e sui campi di grano che la natura stessa s’incarica con il tempo di revoca- re. Reversibili sono anche gli «impacchettamenti» di Chri- sto mentre poggiati a terra nel deserto dell’Utah tra il ’73 e il ’76, i Sun Tunnels di Holt consistono in quattro cilindri di cemento costellati di buchi e disposti a X, nella posizione dell’alba e del tramonto al solstizio d’inverno o d’estate. «Poiché il rapporto cielo-terra è centrale per il lavoro, guar- dare The Lightning Field dall’aria non ha nessun valore. Con- tenuto essenziale del lavoro è il rapporto della gente con lo spazio». Questi alcuni presupposti dell’affascinante The Li- ghting Field, terminato da Walter De Maria nel New Mexi- co nel ’77, un anno prima di trasformare, rendendola inac- cessibile con la terra, la sede della Dia Foundation in New York Earth Room.400 pali d’acciaio della stessa altezza di-

Storia dell’arte Einaudi sposti a griglia formano un campo che le condizioni atmo- sferiche attivano circa 60 giorni l’anno e che il sole nascon- de quando è a picco, per esaltarsi invece all’alba e al tra- monto. Se lo scarto dimensionale tra spettatore e campo ri- cerca lo smarrimento dell’uomo al cospetto dell’infinità della natura, nessuna riproduzione fotografica può sostituire l’esperienza diretta. Una preclusione, quella verso la fotografia, che Smithson non condivide quando, alla vigilia dei grandi progetti di Land Art, concepisce i Non-Sites per porre in relazione lo spazio espositivo con l’esterno. «I Non-Sites sono diventate mappe che puntavano a luoghi esterni alla galleria e una vi- sione dialettica ha cominciato a sostituirne una purista, astratta». In raccoglitori di ferro o di legno dalla struttura minimalista, collocati in galleria, Smithson accumula mate- riale inorganico come pietre o sabbia recuperato in Sites, luo- ghi esterni, che il fruitore trova segnalati su mappe geogra- fiche ritagliate nella forma dei Non-Sites. Se l’entropia esprime il polo antitetico del progresso e dell’azione, se per territorio entropico s’intende quello che resiste allo sfruttamento delle grandi compagnie, l’architet- tura entropica è quella anonima, priva di qualità estetiche e messaggi sociali, che popola le periferie urbane, il sottopro- dotto dell’architettura moderna e funzionale. Quella che Dan Graham immortala nel lavoro fotografico Homes of America pubblicato nel ’66 su «Arts Magazine», quella che LeWitt tratta nello stesso anno nell’articolo titolato Ziggu- rats. Quella che, in un testo apparso nel ’67 su «Arts Maga- zine», Smithson definisce «L’Ultramoderne degli Anni Trenta», dove vigono serialità e ripetizione. Un altro grande artista, laureatosi nel ’68 in architettura al- la Cornell University, anziché progettare e costruire ottimi- sticamente edifici, interviene su quelli «entropici» destina- ti alla demolizione. Ma quella di Gordon Matta Clark non è moralistica denuncia di una condizione di degrado urba- no. Con estrema lucidità rivendica che «disfare è un diritto democratico esattamente come fare». I «tagli metamorfici» e gli splittings, interventi «anarchitettonici», recidono pavi- menti e pareti unificando gli spazi e aprendo inedite pro- spettive visuali. «Voglio che i miei pezzi siano soggetti a ra- pida erosione», proclama: nessuno di essi gli è infatti so-

Storia dell’arte Einaudi pravvissuto ma a testimoniarne la forza ci sono i positivi di quei vuoti, trance di parete o di pavimento, come Bronx Floor del ’72-73 o Splitting: Four Corners del ’74, i resti cioè di quelle asportazioni che testimonianze fotografiche verti- ginosamente assemblate riconducono a unità con i luoghi originari. Con la contaminazione, lo scarto, il rifiuto dell’asetticità in- dustriale si cimenta anche «negli ultimi tre anni un cospicuo gruppo di artisti, sia della costa orientale sia di quella occi- dentale, il cui riferimento contraddittorio è tanto alle strut- ture primarie quanto al surrealismo». Nello stesso giorno, nello stesso anno ’66 e nello stesso edificio che ospita la mo- stra minimalista 10 Show alla Dwam Gallery, Lucy Lippard cura Eccentric Abstraction alla Fishbach Gallery, illustrando poi su «Art International» le ragioni di una nuova tenden- za. Eva Hesse, Bruce Nauman, Alan Saret, Keith Sonnier come pure i funk artists della costa occidentale inquietereb- bero la assertività formale del minimalismo con materiali dal- le qualità pittoriche come il latex, la corda, il fiberglass, la gomma e vincerebbero la stasi di quelle strutture tempora- lizzandole. Progenitori dell’«astrazione eccentrica» o del- l’«arte processuale» sono, secondo Lippard, surrealisti co- me Oppenheim, Dalì e Tanguy, artisti come Bourgeois e Bontecou, ma soprattutto la Pop Art e le sculture inverte- brate di Oldenburg. «È la struttura piú ridicola che abbia mai fatto e per questo è veramente riuscita». Questo è Hang Up del ’66 di Eva Hesse. Temperamento insicuro e tor- mentato, Eva Hesse, la cui vita si concluderà prematura- mente nel ’70 a soli 34 anni, aveva seguito l’insegnamento rigoroso di Joseph Albers alla Yale University ma, nello stes- so tempo, aveva manifestato in prove espressioniste il biso- gno di una pittura libera e spontanea. Una dicotomia che si esprime successivamente nell’interesse per Oldenburg e nel- la fraterna amicizia che stringe con Sol LeWitt, Mel Boch- ner e Robert Smithson, artisti d’area minimalista e concet- tuale. Nei primi rilievi del ’65 mostra passione per materia- li, quali cartapesta, legno, corde, condotti metallici, detriti che sovrappone alla parete lasciandone però fuoriuscire pro- paggini. Finché con Hang Up, che espone nella mostra Ab- stract Inflationism and Stuffed Expressionism, ospitata nel ’66 alla Graham Gallery, opta definitivamente per lo spazio. Opere come Schema, Repetition nineteen III o Sans II, allora,

Storia dell’arte Einaudi coniugano, come suggerito da Lippard, ripetizione e seria- lità contravvenendola però con materiali fragili e deperibi- li, rievocanti autobiograficamente lacerazioni e suture. «Il pavimento e non la parete è il supporto necessario per la massima consapevolezza dell’oggetto», spiegava, in Notes on Sculpture del ’66, Robert Morris a commento delle «forme unitarie» esposte nello stesso anno a Primary Structures. Ge- niale interprete dell’inquietudine di quegli anni, del molti- plicarsi, rincorrersi e accavallarsi di eventi contraddittori, licenzia l’anno successivo ad Aspen in Colorado i primi «fel- tri»: appesi alla parete, dove si aprono e deformano in pre- da alla gravità contraddicendo l’originaria struttura geome- trica oppure accasciati e aggrovigliati al suolo oppure, co- me in Untitled del ’68, contaminati da fili, specchi, asfalto, alluminio, piombo, acciaio e da terra e pietre come nel- l’Earthwork dello stesso anno. Nel giro di un anno, dunque, quei cristallini, taglienti e asettici volumi geometrici hanno ceduto il passo ai materiali piú disparati, sparpagliati al suo- lo dove si assemblano in fogge variabili persino quotidiana- mente, come in Continuous Project Altered Daily che assume in un mese trenta differenti conformazioni. «Sono apparsi recentemente materiali diversi da quelli rigidi industriali. Oldenburg è stato il primo ad usarli. L’attenzione sulla ma- teria e la gravità conduce a forme non progettate a priori. Il caso è accettato e l’indeterminazione è implicita», teorizza nel manifesto pubblicato nell’aprile ’68 su «Artforum» con il titolo improprio di «anti-forma». Un pensiero che preci- serà ulteriormente nelle due ultime parti di Notes on Sculp- ture, redatte rispettivamente nel ’67 e nel ’69, e nel saggio dell’anno successivo dedicato alla «Fenomenologia del fare» dove, quasi a mimare il titolo della mostra cruciale ospitata nel ’69 alla kh di Berna, sostiene che «i processi diventano forme», esattamente come le «attitudini». Se Pollock, unico tra gli espressionisti astratti, aveva reso il processo parte integrante dell’aspetto finale dell’opera, se aveva dipinto a terra in funzione della gravità usando l’in- tero corpo, aggiornarne la lezione, pensa Morris, significa «ricercare forme che nascono dall’interazione del corpo e dei materiali come esistono in un mondo tridimensionale». Se nella prima versione di Notes on Sculpture aveva distinto tra valori «gestaltici» immediati e quelli temporalizzati af-

Storia dell’arte Einaudi fidati alla fruizione dello spettatore, abolisce nel nuovo cor- so il primo termine e stabilisce che «la definizione finale del lavoro non può mai essere conosciuta dall’artista in antici- po, dal momento che il suo completamento è nelle mani del- lo spettatore». Attento al pensiero di Kubler, la cui meto- dologia adotta nel redigere la tesi su Brancus¸i, Morris sem- bra ora riprendere tematiche affrontate prima della svolta minimalista, come l’uso del corpo in I-Box del ’62 e nelle performances. «Se il minimalismo» insiste, «ha offerto come alternativa forte all’Espressionismo Astratto quella di co- struire anziché di comporre, anche la svolta cui assistiamo oggi può esprimersi dialetticamente: non costruire... ma co- sa? Lascia cadere, appendi, appoggia, in breve agisci». Imperativi cui Richard Serra aggiunge: «Arrotola/Piega/Tor- ci/Macchia/Strappa/Taglia/ Scheggia...». Nella mostra 9 at the Warehouse organizzata da Morris su invito di Castelli al- la fine del ’68 e che ospita Hesse, Saret, Sonnier e Nauman, Serra espone Splashing, piombo fuso colato nell’intersezio- ne tra parete e pavimento e la cui forma è sintesi di luogo e azione. La fotografia che lo ritrae mentre corre nel Wa- rehouse di Castelli ricorda sorprendentemente quella scatta- ta da Hans Namuth a Pollock mentre dipinge la tela stesa a terra. «Sebbene non figurativi, i belt pieces del ’66-67 sono strutturalmente relazionati al quadro di Pollock che si tro- va all’Università di Iowa. Se le mie origini come pittore so- no approdate a qualcosa, lo sono a Pollock. Poi ho sentito il bisogno di muovermi nello spazio letterale» chiarisce Serra. Come i «feltri» coevi di Morris, i belt pieces consistono in strisce di gomma attorcigliate di diverso colore, alcune tra- fitte dal neon, che si inseguono sulla parete in balia della gra- vità. Per la seconda volta dunque, Pollock è segnalato dagli artisti processuali, con la stessa insistenza con cui Newman e Reinhardt lo furono per i minimalisti. Ma già Prop del ’69, esposto da Castelli, manifesta il desiderio di emanciparsi dal- la parete: un tubo di acciaio e un quadrato di piombo a pa- rete si fronteggiano e puntellano reciprocamente. La con- traddizione che anima il lavoro di Serra e che House of Cards esplicita, è quella tra peso delle singole componenti ed equi- librio creato dal loro assemblaggio, un equilibrio sempre pre- cario che frana a volte come in Cutting Devise: Base-Pla- te-Measure del ’69 dove lastre, tubi, pietre e travi di legno giacciono disordinatamente al suolo, come nell’Untitled già

Storia dell’arte Einaudi segnalato di Morris, come nei Distribution Pieces del ca- liforniano Barry Le Va. Ma Serra non si accontenta neppu- re di tale soluzione. Rifiutando la parete e il pavimento co- me supporto, dunque la dialettica ancora pittorica tra figu- ra e fondo, progetta, all’interno degli spazi espositivi, in città o nella natura, strutture fruibili, dalle dimensioni imponen- ti, pensate in funzione del luogo. Si tratta di grandi setti di ferro, isolati o abbinati a formare corridoi le cui pendenze contraddittorie inquietano chi le attraversa o, come in Shift del ’70, di lastre di cemento dislocate nel territorio di cui è vietata ogni percezione statica e unitaria. Parimenti inquietante è il lavoro del californiano Bruce Nauman che esordisce con un’indagine su materiali duttili come la gomma, la plastica, il fiberglass. Tra i piú creativi e spregiudicati artisti «post-minimalisti», come li definisce Robert Pincus-Witten, Nauman ha da allora coniugato ap- procci diversi al lavoro: nel ’67, mentre per un mese crea Flour Arrangements con la farina, compie in studio semplici gesti che poi filma o fotografa, come camminare avanti e in- dietro o far rimbalzare due palle. Mentre scrive con il neon il suo nome «Esagerato verticalmente quattro volte» o «Co- me se fosse scritto sulla superficie della luna» impiega, «co- me fosse un materiale da manipolare», il proprio corpo da cui ricava calchi coperti di cera come il noto From hand to mouth del ’67 o Untitled, due braccia incrociate e collegate da un groviglio di corde. Calchi, ricorrenti anche nel lavoro di Johns a partire dal ’64. Ancora concentrati sulla sua per- sona sono gli «ologrammi» quali Making Faces dove il viso è ritratto contraffatto in smorfie e contorsioni o le registra- zioni, che presenta nella prima mostra da Castelli nel ’69, della sua voce che urla o ride smodatamente. La prova mi- gliore dell’equivalenza tra corpo e oggetto è forse nella perfor- mance «minimalista» del ’65 dove a mo’ di struttura modu- lare, assume in mezz’ora ventotto posizioni, in piedi, piega- to, accovacciato, seduto e sdraiato prima con le spalle al muro, poi di fronte, nelle due posizioni di profilo, infine. Con Performance Corridor e i vari corridoi degli anni ’70 il- luminati da un neon accecante, Nauman tenta di superare la dimensione privata: voci diffuse da altoparlanti, monitors dove lo spettatore può riflettersi e altri che proiettano in- vece l’immagine dell’artista, creano una situazione multi-

Storia dell’arte Einaudi mediale fortemente disorientante, fraintesa spesso dalla cri- tica come perversa, narcisistica «caratteriologica». Da tali sperimentazioni ad ampio spettro non resta naturalmente intentato il linguaggio. Se, tra il ’67 e il ’70, licenzia una se- rie di lavori sulle parole, come Eating my words, dove man- gia parole ritagliate nel pane o Waxing Hot, dove la parola hot è forgiata nella cera, l’adozione della tautologia nei ti- toli che descrivono in modo apparentemente astruso ciò che si vede, rende Nauman partecipe anche della temperie con- cettuale. «Mi riferirò al tipo di arte in cui sono coinvolto come ad ar- te concettuale. In essa l’idea o il concetto costituiscono l’aspetto piú importante del lavoro. Quando un artista usa una forma d’arte concettuale, significa che la progettazione e le decisioni sono prese preventivamente e che l’esecuzio- ne è un dato accessorio. L’idea diventa una macchina che produce arte». Nel giugno 1967 «Artforum» pubblica i Pa- ragrafi sull’arte concettuale di Sol LeWitt, aggiornati due an- ni dopo dalle Sentenze.Essi seguono, di sei anni, la prima formulazione di arte concettuale data da Henry Flynt: «ar- te il cui materiale sono i concetti. Dal momento che i con- cetti sono strettamente legati al linguaggio, l’arte concet- tuale è un tipo di arte il cui materiale è il linguaggio». Ma i precedenti vanno ricercati ancora piú indietro, nell’elabo- razione teorica di Barnett Newman quando in The Plasmic Image del ’45 sosteneva che «l’arte è un’espressione della mente e qualunque elemento sensuale è incidentale ad essa» e in quella di Ad Reinhardt che nelle Dodici Regole per una Nuova Accademia, promulgate esattamente dieci anni prima di quelle di LeWitt, stabiliva che, «qualunque cosa, dove iniziare e dove finire, dovrebbe essere progettata preventi- vamente nella mente. In pittura l’idea dovrebbe esistere nel- la mente prima di prendere in mano il pennello». Ma il la- voro di LeWitt non si risolverà mai nel mero dato mentale e linguistico; il suo fascino risiede anzi nello scarto tra dato mentale e percettivo, come lui stesso conferma quando so- stiene che «l’arte concettuale non è necessariamente logica» e che «alcune idee sono logiche nella concezione ma illogi- che percettivamente». Nato nel ’28 in Connecticut, quando si muove a New York nei primi anni ’50, lavora come disegnatore presso lo studio di architettura di I. M. Pei, le cui strutture modulari trova-

Storia dell’arte Einaudi no un’eco nelle prime Wall Structures e Floor Structures del ’62 dove elementi cubici si compenetrano su supporti appe- si alla parete o poggiati a terra. È, dunque il cubo che l’ar- tista elegge a forma privilegiata perché «non interessante, non aggressiva, non emotiva e priva di movimento». Inda- ga quindi gli studi fotografici seriali di Muybridge e quelli pittorici di Joseph Albers. Dalla sintesi di tali esperienze na- scono, nel ’64, le «Modular Structures» esposte nella prima mostra del ’66 alla Dwan Gallery. Scheletri cubici, neri pri- ma e bianchi poi, permeabili allo spazio e alla luce, si com- binano in molteplici configurazioni secondo semplici opera- zioni numeriche. Le strutture modulari condividono così i presupposti della tridimensionalità minimalista: sono indif- ferenti alla forma, si aggregano secondo leggi prestabilite, attraversate dallo spazio, sono assolutamente «pubbliche». «Sembra piú naturale lavorare direttamente sulla parete che fare una costruzione, lavorarci sopra e appenderla al muto». Definiti nel ’70 su «Arts Magazine», si annunciano così i wall drawings.Il primo, nel’ 68, nella nuova galleria aperta da Paul Cooper a Soho, è eseguito personalmente dall’arti- sta che ne affiderà poi, in tutti quelli successivi, l’esecuzio- ne a squadre di assistenti la cui personale interpretazione, purché fedele all’idea, come pure le proprietà fisiche della parete, diventano parte integrante dell’esito finale. Se il pri- mo wall drawing consiste nelle possibili combinazioni di li- nee orizzontali, verticali e a 45’ tracciate discretamente a matita – come non pensare alle esili griglie di Agnes Martin – quelli successivi introducono il colore e complicano, so- prattutto a partire dall’80, la struttura formale, aggredendo e sconvolgendo, anziché assecondando, l’involucro archi- tettonico. Il linguaggio, allora, anziché sostituirsi al dato vi- sivo, ne diviene parte integrante, in triplice accezione: co- me semplice istruzione che lascia ampio margine interpre- tativo agli esecutori; come descrizione estremamente dettagliata al limite della decifrabilità di quanto appare sul muro; come disegno, infine, che asseconda quello di linee, archi, profili geometrici. «L’arte seriale è antireferenziale e si fonda sul principio che le varie parti sono legate da rapporti numerici predetermi- nati. Nella serialità di LeWitt non c’è calcolo matematico, si capisce che c’è ordine ma non quale. LeWitt controlla la con-

Storia dell’arte Einaudi cezione del lavoro ma non il suo aspetto finale per cui rag- giunge un unico crollo percettivo in cui l’ordine concettuale diventa caos visivo», distingue, nel noto saggio del ’67 Serial art, system and solipsism, Mel Bochner. Nativo di Pittsburgh, dipinge inizialmente con poca convinzione in modo astrat- to-espressionista mentre si laurea in fenomenologia e strut- turalismo. Quando, a ventiquattro anni, arriva a New York nel ’64, trova lavoro come guardiano al Jewish Museum – lo stesso lavoro svolto da LeWitt al moma proprio nell’anno in cui Jasper Johns vi tiene la prima retrospettiva. Affascinato dalla serie con i numeri e le lettere, sonda in centinaia di di- segni le possibilità combinatorie, le permutazioni e i ribalta- menti dei numeri disposti su griglie quadrate. Promotore nel ’66 della prima mostra di arte concettuale alla School of Vi- sual Arts di New York, si sente, come LeWitt, distante tan- to dall’oggettualità minimalista quanto dalla tautologia con- cettuale; opera allora nel bilico tra ordine e caos, tra certez- za mentale ed emozione visiva. Senza abbandonare mai il campo numerico. Se la serie delle Misurazioni a partire dal ’68 sonda l’involucro architettonico misurando pieni, vuoti e distanze come pure l’adattabilità a vari contesti, in Theory of Sculpture del ’72 adotta materiali dal minimo ingombro co- me pietre e fiammiferi e li combina secondo progressioni da 1 a 5, isolati, a gruppi o a formare figure geometriche di- scontinue come quadrati e triangoli per approdare infine, ana- logamente a LeWitt, a wall paintings aggressivamente pre- senti, dove l’ordine mentale crolla appunto nel caos visivo. «L’arte puramente concettuale è presentata per la prima vol- ta dalle opere di Terry Atkinson e Michael Baldwin a Co- ventry in Inghilterra e dai miei lavori realizzati a New York intorno al ’66», sentenzia Joseph Kosuth, rivendicando dun- que a sé e al gruppo inglese Art & Language la primogeni- tura del «puro» concettualismo. «Sono stato molto piú in- fluenzato da Reinhardt, Duchamp, Johns, Morris e Judd che non da LeWitt», spiega in Art after philosophy, testo chiave pubblicato su «Studio International» nel ’69, lo stesso an- no in cui LeWitt licenzia le Sentenze sull’arte concettuale.E non meravigli la presa di distanza. Se infatti LeWitt non ri- nuncerà mai al dato visivo e percettivo, Kosuth, che defini- sce ogni ipotesi formale «arte senza cervello», proclama: «Essere un artista oggi vuol dire mettere in questione la na- tura dell’arte offrendone nuove proposizioni. Il primo ready

Storia dell’arte Einaudi made ha mutato la natura dell’arte da una questione di morfologia a una di funzione. Tutta l’arte dopo Duchamp è concettuale perché l’arte esiste solo concettualmente». Ri- sale al ’65 il suo primo lavoro concettuale: una lastra di ve- tro appoggiata alla parete reca il titolo Tutte le lastre di vetro di cinque piedi appoggiate a qualsiasi muro, già a distinguere il carattere «astratto» del linguaggio da quello «concreto» del singolo lavoro. Ma l’opera decisiva dello stesso anno, è One and Three Chairs, dove la presenza fisica di una sedia è affiancata dalla sua fotografia e dalla sola definizione tratta dal vocabolario, a stabilire una equivalenza tra oggetto, im- magine, sola definizione. Il passo successivo è la presenta- zione, intorno al ’66, della sola definizione come ingrandi- mento fotostatico dal dizionario. Idea Acqua esprime allora l’idea dell’acqua o, meglio, come si deduce dal sottotitolo che aggiungerà da quel momento in omaggio a Reinhardt, «l’arte come idea». «Tre artisti spesso a me associati – Dou- glas Huebler, Robert Barry e Lawrence Weiner – non pen- so si interessino all’arte concettuale nei termini in cui l’ho definita in precedenza», giudica polemicamente Kosuth. Nato a New York nel ’36, di nove anni piú anziano di Ko- suth, Barry cessa di dipingere intorno al ’66, dopo aver espo- sto nella mostra Systemic Painting. Ricerca da allora una «as- senza significativa» prima tendendo nello spazio fili di ac- ciaio o di nylon quasi impercettibili, quindi con la Serie dei gas inerti propagando anomale forme di energia come onde elettromagnetiche, onde radio, ultrasuoni e gas inerti che l’ar- tista garantisce come lavori d’arte presentandoli in luoghi espositivi. Nello stesso spirito sono concepiti i «lavori tele- patici» del ’69, irriducibili a linguaggio o immagine. Closed gallery piece del ’69, invece, dove annuncia la chiusura della galleria nel tempo dell’esposizione o Invitation piece del ’72-73 dove le gallerie con le quali lavora nel corso di una stagione espositiva, da Paul Maenz a Castelli, da Yvon Lambert, a To- selli e Sperone, mandano inviti ognuna per la mostra ospita- ta dall’altra, polemizzano con il vincolo degli spazi espositi- vi rivendicando un circuito internazionale per l’arte. Mappe, fotografie singole o in sequenze, disegni e descri- zioni linguistiche sono i materiali dei Variable Pieces, Site Sculpture Projects e Duration Pieces di Douglas Huebler che così commenta: «Il mondo è pieno di oggetti, piú o meno in-

Storia dell’arte Einaudi teressanti; non desidero aggiungerne altri. Preferisco stabi- lire l’esistenza delle cose in termini di tempo c/o luogo. Poi- ché il lavoro esula dall’esperienza percettiva diretta, la sua consapevolezza dipende dal sistema di documentazione». Nel ’68 Lawrence Wiener stabilisce il suo taccuino d’appun- ti come luogo privilegiato di lavoro. Gli Statements numerati che vi annota e che concernono possibili rimozioni di porzio- ni di pareti o di pavimenti, attendono destinatari per potersi realizzare, esistendo non di meno già come lavori d’arte. Come questi artisti additano, l’alto grado di «dematerializ- zazione» raggiunto dall’arte ridotta tautologicamente alla sua definizione, per citare il testo pubblicato nel ’68 su «Art International» a firma di John Chandler e Lucy Lippard, rende obsoleto il circuito espositivo tradizionale per sosti- tuirlo con forme piú economiche e agili di comunicazione come libri e cataloghi. «Sono molto interessato a trasmettere l’idea che l’artista pos- sa vivere dove vuole e tuttavia fare arte significativa», pro- clama Seth Siegelaub, dealer e curatore, dal ’68 al ’71, di mo- stre di arte concettuale consistenti nella produzione di cata- loghi stampati in tre lingue, il piú noto dei quali, Xerox Book, metteva a disposizione degli artisti invitati venticinque pagi- ne da gestire a piacere. I titoli delle sue mostre sono i piú neu- trali possibili e coincidono con la durata dell’esposizione, co- me January 5-31 1969, con il numero degli abitanti del luogo ospitante, come 557,087 a Seattle e 955,000 a Vancouver. E, ancora, se in March 1-31 1969 ogni giorno del mese è attri- buito a un artista diverso, July-August-September 1969 racco- glie in un unico catalogo i lavori di undici artisti dislocati in altrettante località. Una messe di esposizioni accompagna, dunque, fino al ’72, l’ascesa del concettualismo in America, dove vale ricordare Art in Mind ad Oberlin, le diverse versio- ni di Language alla Dwan Gallery, Information, soprattutto, al moma nel ’70, curata da Kynaston McShine. Il fenomeno si propaga anche in Europa e registra importanti appuntamen- ti alla kh di Berna nel ’69, allo sm di Amsterdam, alla kh di Dusseldorf dove Konrad Fisher cura nel ’71 l’edizione di Pro- spekt, a Kassel, infine, nel ’72, dove ha luogo Documenta 5. «Il Modernismo e la New York School muoiono nel ’70», decreta catastrofico Irving Sandler assumendo come spar- tiacque proprio la consacrazione del concettualismo nella mostra Information.

Storia dell’arte Einaudi Pluralismo e post-modernismo si contenderebbero da allora il campo legittimando ogni forma espressiva, contravvenen- do ogni dogma modernista, invertendo il corso naturale del- la storia. Ipotesi suggestiva se non peccasse di eccessivo ma- nicheismo. A ben vedere, infatti, la critica al modernismo, come pure al suo naturale corollario formalista, inizia assai prima del 1970, già nelle ipotesi di Newman, Rothko e Reinhardt circa un’astrazione non piú riducibile al mero da- to formale e cromatico, nella ripetizione ossessiva dei qua- dri-oggetto di Stella che anticipavano la serialità anti-illu- sionistica e anti-relazionale del minimalismo, nella voluta as- senza di originalità dei ready made Pop, nel pensiero «entropico» di Smithson sorretto dalle elaborazioni teori- che di Kubler, che questionava ogni ipotesi evolutiva. Se al- lora Arte Concettuale, performance e Land Art costituisco- no il punto estremo di rimozione dell’oggetto artistico dai suoi luoghi deputati, l’approccio ai decenni successivi im- pone di distinguere presupposti e soluzioni di un comune anelito alla «rimaterializzazione». «Il contributo maggiore di questi artisti è stato di minac- ciare profondamente i concetti capitalistici dominanti, so- prattutto la proprietà privata, anche se oggi il sistema sta cercando di neutralizzare il suo spirito critico traducendolo in un affare tradizionale», spiega Seth Siegelaub. Se gli an- ni cruciali del concettualismo coincidono infatti con quelli piú impegnativi sul fronte politico e sociale, non stupisce, in alcuni, una accelerazione in tale direzione. È il caso dello stesso Siegelaub quando nel ’71 cessa di organizzare mostre per dedicarsi alla salvaguardia dei diritti morali ed econo- mici degli artisti. È quello di Hans Haacke, tedesco di nascita, ma dal ’66 cit- tadino americano. Il suo impegno è quello di smascherare, giocando con immagini simbolo del potere, come quelle di Reagan, Thatcher, persino di Hitler, nell’emozionante in- stallazione nel padiglione tedesco in occasione della Bien- nale del ’93, la violenza, la repressione, la speculazione che dietro a quelle immagini oleografiche si celano. Anche Rau- schenberg nutre la sua indole umanitaria e pacifista quando concepisce nell’85 il grandioso progetto autofinanziato di una mostra in progress itinerante per il mondo, una sorta di combine-painting senza frontiere.

Storia dell’arte Einaudi «L’arte è un segno sociale», proclama Dan Graham, il cui percorso è paradigmatico. Abbiamo detto di lui come diret- tore, dal ’64 e per un anno, della Daniels Gallery dove ospi- ta artisti pop e minimal. Esordisce come artista nel ’66 in ambito concettuale: scavalcando i circuiti espositivi affida i suoi interventi direttamente alle pagine delle riviste, de- nunciando, come in Homes of America, la misera realtà dei suburbi urbani o insinuando messaggi provocatori tra le ri- ghe delle inserzioni pubblicitarie. Seguono le performances dove si pone su un piano paritario con il pubblico e con il medium impiegato, specchi o video, La «rimaterializzazio- ne», a partire dal ’76, si compie per Graham nella forma di ipotesi architettoniche. I padiglioni che progetta, il piú no- to dei quali è Two Adjacent Pavilions collocato nell’82 nel parco di Kassel, spazi fruibili e abitabili collocati all’interno o direttamente a contatto con la natura, assumono una fog- gia «minimalista» ma questionano isolamento e autorefe- renzialità. Condividendo la critica spietata che Robert Ven- turi muove all’International Style nel noto saggio del ’66 Complexity and Contradictions in Modern Architecture ma non le sue soluzioni formali, Graham involucra i padiglioni con superfici trasparenti/riflettenti che, a seconda delle condi- zioni di luce, rendono l’interno accessibile alla vista mentre «la permeabilità al contesto inverte la natura artificiale del- la città». Per certi versi analogo è il percorso di Vito Acconci, dalle performances provocatorie come quella onanistica del ’72 nel- la Galleria Sonnabend, ai progetti di public art, dall’85. Es- si condividono con i padiglioni di Graham la critica all’iner- zia scatolare delle soluzioni moderniste ma, a differenza di quelli, non guardano all’astrazione minimalista ma piutto- sto al realismo pop dove il «banale e l’usuale» vengono ri- contestualizzati. Casa di automobili dell’88 ricava allora spar- tani ricoveri entro carcasse di macchine vecchie accatastate mentre in Casa del brutto sogno si cammina sul tetto e si è coperti dal pavimento mentre, altrove, spazi rassicuranti so- no racchiusi da gusci di molluschi o da reggiseni. Se il cre- do del modernismo è l’identità di forma e funzione, Accon- ci lo sovverte optando per case «che mettono agitazione». Gli ambienti di Irwin, Nordman e Turrell, sulla costa occi- dentale, si basano invece sul coinvolgimento dello spettato- re attraverso la percezione, sensibilizzata dalla luce. I con-

Storia dell’arte Einaudi tro spazi che Irwin crea dal ’70 si strutturano attraverso ve- li trasparenti che tende nell’ambiente dato mentre, dalla metà del decennio, licenzia progetti pubblici di conditional art, determinati/condizionati dalle suggestioni offerte dai singoli luoghi. «Vedere qualcosa cambia quello che vediamo», proclama Turrell. I suoi «spazi percettivi» giocano allora sull’ambi- guità tra superficie di colore e spazio di luce. Quelle che a prima vista si presentano come superfici monocrome, si ri- velano con il tempo della visione come tagli operati nella pa- rete dietro cui luci fluorescenti che nascondono, diversa- mente da quelle di Flavin, la loro identità fisica, saturano lo spazio di luce colorata. E ancora la luce guida il grandioso Roden Crater Project per la riconfigurazione del cratere di un vulcano spento, mentre Irish Sky Garden del ’90 è una sorta di acropoli in un luogo archeologico ricco di laghi e foreste. Solo con la luce naturale si cimenta invece Maria Nordman il cui Ambiente a Pico Santa Monica del ’69-70 adotta le fi- nestre trasparenti/ riflettenti come unica fonte di illumina- zione di uno spazio completamente nero. Creare occasioni di incontro per la gente è l’intento dei lavori piú recenti, an- che solo ponendo due tavoli o due sedie all’aperto che chi passa s’incarica di completare. Le ipotesi spaziali e ambientali ora sondate, dialogano dun- que con il modernismo in duplice accezione: ne contestano la purezza delle forme geometriche cubiche per contami- narla con un lessico popolare, «basso» o, per dirla con Ven- turi, «vernacolare», mentre ne vincono lo splendido isola- mento socializzandole. In dialettica, non in opposizione con la storia. «Considero il Postmoderno persino piú colpevole di una vi- sione astorica di quanto non lo fosse il Modernismo. Il Po- stmoderno è una forma di storicismo. Se si nega l’impor- tanza e la continuità nel dibattito attuale delle idee moder- ne e dell’ideologia utopista, si commette lo stesso errore di cui è stato accusato il Modernismo», putitualizza infatti Dan Graham, prendendo le distanze da quello che sin dal ’77 Charles Jencks definiva «The Language of Postmodern Ar- chitecture». Proprio lo stesso anno in cui Suzi Gablik li- cenziava Progress in Art, la riproposizione modernista della storia come eterno progresso ed evoluzione.

Storia dell’arte Einaudi Ancora nel ’77 Julian Schnabel, nato a New York, vissuto in Texas e ivi tornato nel ’75, conosce Mary Boone. Un col- po di fulmine: la galleria che s’incaricherà di promuovere a New York il neoespressionismo americano ed europeo, con- sacrerà la star del movimento con la prima personale nel ’79 e con tutte le successive fino all’84 quando Schnabel passerà uptown alla Pace Gallery. «Egli rappresenta una posizione che mescola elementi di modernismo e di postmodernismo, una posizione che sembra quella di gran parte della nostra cultura», commenta McEvilley nel catalogo che accompa- gna, nell’88, la retrospettiva dell’artista al Whitney Mu- seum. Un eclettismo vorace, infatti, spazia dall’astrazione all’uso del linguaggio, dal realismo di storia alla natura mor- ta, mescolando suggestioni a citazioni, Caravaggio, Pol- laiuolo, Goya, Beckman, assieme a reperti, graffiti e cola- ture di colore, mentre il supporto, raramente la tela, è a vel- luto, la pelliccia, il linoleum, gli stracci, fino alla recente tela cerata utilizzata per coprire i camions. Le opere che presenta da Boone hanno la peculiarità, che l’artista confessa ispira- ta da Anton Gaudì, di porre tra l’immagine e il supporto un letto di piatti frantumati, per creare una discontinuità in pre- da alla luce, come nel mosaico. Suo compagno di cordata è David Salle, presto ammesso nel- lo stesso cenacolo. Un lavoro promiscuo e onnivoro, che me- scola «sprazzi di memoria non organizzati logicamente e ge- rarchicamente ma incrociati senza indice», attento alla «pre- sentazione» piú che alla sostanza critica. Sorta di collages vertiginosi, i suoi quadri contaminano suggestioni diverse, da quelle «alte» della «scena americana» degli anni Trenta, a quelle «basse» delle riproduzioni popolari, stili diversi co- me l’astratto e il figurativo, trattamenti pittorici differen- ziati, infine, a fuoco in foggia iperrealista, sfocati come nei cartelloni pubblicitari di Rosenquist, oppure sommariamente tratteggiati. Un’operazione gestita a livello internazionale da mercanti, collezionisti, galleristi e critici conduce allora, tra la fine de- gli anni ’70 e i primi anni ’80, all’affermazione del neoe- spressionismo come prima forma di reazione al prosciuga- mento minimalista e concettuale. La pittura, del resto, è ben piú commerciabile di un lavoro di Land Art o di un wall drawing per un mercato avido di novità quale quello che ac- compagna il falso boom economico dell’era reaganiana. Già

Storia dell’arte Einaudi dalla fine degli anni ’60 artisti squattrinati si erano trasferi- ti a vivere nei lofts, vecchi spazi industriali ampi e lumino- si, restaurati e poi acquistati, mentre il quartiere otteneva, a seguito della lotta dell’associazione Friends of Cast Iron Architecture lo status di City Landinark. Grazie al proces- so di gentrification che espelle progressivamente interi set- tori di popolazione dai quartieri di cui si vuole elevare il te- nore sociale, dealers, mercanti e galleristi si muovono a Soho. Oltre a Paula Cooper che rimarrà fedele alla linea minima- lista e concettuale, il fulcro sarà l’indirizzo di 420 West Broadway dove apriranno Castelli, Emmerich e Sonnabend, che nell’81 chiuderà definitivamente lo spazio parigino per cavalcare a New York la tigre del neoespressionismo, so- prattutto tedesco. Spetterà invece a Sperone Westwater, che nel ’75 aveva aperto a Greene Street uno spazio con Kon- rad Fisher, ospitare nell’80 la prima mostra della transa- vanguardia italiana, cui seguirà, nell’82, la consacrazione al Guggenheim Museum. Ma, oltre alle gallerie ufficiali, Soho vede sorgere rapidamente una miriade di spazi alternativi come The Kitchen, Artists Space dove gli artisti, suggeriti da altri artisti, tengono le prime mostre, Franklin Furnace ma soprattutto, dal ’77, il New Museum diretto da Marcia Tucker per riempire il gap tra musei e spazi alternativi. «La differenza tra il collage e le tendenze contemporanee di appropriazione è che nel collage la forza di collisione tra ar- te alta e bassa rimane di tipo opposittivo, mentre nella riap- propriazione l’arte alta non è “sovvertita”, “minacciata”, “decostruita”, ma complice, coinvolta nella stessa operazio- ne come fosse una delle tante immagini della cultura di mas- sa», annota acutamente Henry Sayre nell’introduzione al te- sto The Object of Performance dell’89. Se nel collage e nell’as- semblage, argomenta – e il caso di Johns e Rauschenberg è emblematico –, l’intento è di aprire un conflitto tra linguaggi differenti come quello della realtà e della rappresentazione, della pittura e dell’oggetto, riservando comunque all’artista i modi di tale contaminazione, nella «riappropriazione», ver- sione pittorica e scultorea del Postmoderno, tale facoltà di scelta critica è abrogata in nome del livellamento e dell’equi- valenza. Di nuovo, sotto il termine di riappropriazione si ac- comunano fenomeni molto distanti. Esso si attaglia certa- mente, nell’accezione di Sayre, al neoespressionismo di Sch-

Storia dell’arte Einaudi nabel e Salle, dove proprio il linguaggio «alto» della pittura antica si combina con reperti, segni arcaici, emblemi, illu- strazioni. Quel termine, invece, nella declinazione simula- zionista, come contestazione radicale del mito moderno dell’unicità e dell’originalità, si addice soprattutto ai «falsi» di Michael Bidlo che, ossessionato da Pollock, ne riproduce i capolavori per frustrare il pubblico «sfidandolo ad accet- tare quei lavori come miei» e imponendo una doppia lettu- ra, quella a prima vista, quando le opere appaiono originali, e quella prolungata, dove si rivelano invece come copie. «Non abbiamo piú quell’ottimismo spontaneo nella possi- bilità dell’arte di cambiare il sistema politico. Come post- moderni troviamo quella fiducia molto commovente ma il nostro rapporto con quella semplicità è necessariamente complesso». «Fantasmi di fantasmi» Sherrie Levine nomi- na infatti i suoi lavori che, dopo la fase iniziale costituita da collages di immagini confiscate a libri e riviste, approdano agli After.Rifotografa prima fotografie ricavate dai mezzi di comunicazione di massa, conservandone il formato, come in After Walker Evans dell’81, per dipingere poi opere di arti- sti moderni, da Mondrian a Malevi™ a Schiele, sempre dal- la versione riprodotta, dove i colori stessi perdono la loro in- cisività. La funzione svolta da Soho negli anni a cavallo dei due de- cenni, sarà svolta negli anni ’80 dall’East Village, l’area com- presa cioè tra Houston e la 14ma, tra la 2ª e la Avenue B, divenuta competitiva per i prezzi degli immobili molto bas- si, e per la quantità di spazi disponibili, dalle numerose ve- trine affacciate su strada ai locali notturni come Club 57, The Pyramid Club, Mudd Club ma soprattutto, dall’85, il Palladium sulla 14ma. Nato dalla ristrutturazione, ad opera dell’architetto Isozaki, della vecchia Accademia di musica, il Palladium affida il suo decoro ad artisti come Francesco Clemente della transavan- guardia italiana e Michel Basquiat, Keith Haring e Kenny Sharf, protagonisti della graffiti art.Ma le opere esposte al Palladium rappresentano già una versione «alta» della graf- fiti art, in assoluto la forma di arte piú popolare espressa da quegli anni: estremamente veloce e compendiaria, distribuita da artisti non acculturati di Brooklyn o del South Bronx per le strade, sui treni sulle pareti delle metropolitane. Se il One e Futura 2000 sono i nomi di alcuni tra i primi esponenti,

Storia dell’arte Einaudi Fashion Moda, aperto nel ’79 nel South Bronx, è il primo spazio espositivo ad ospitarla. Scoperta e lanciata precoce- mente sul mercato, ha originato una seconda leva di artisti, presto «promossa» a Soho da Tony Shafrazi e Mary Boone. Sintomatico è il caso di Basquiat e Haring. Se nella Times Square Show dell’80 e in Events, organizzata da «Fashion Moda» al New Museum nello stesso anno, Basquiat assume ancora lo pseudonimo di Samo, in New York / New Wave dell’81 al PS1 è già Jean-Michel Basquiat. Le opere, che si contraddistinguono per il modo diffuso e disarticolato in cui coniugano con grande velocità scritte, segni e immagini, se- gnalate da grandi collezionisti, dunque in circolazione sul mercato a prezzi da capogiro, approderanno nell’82 a Do- cumenta a Kassel e nell’84 da Mary Boone. Diversa la partenza di Haring, già allievo di Kosuth e Son- nier alla School of Visual Arts. Dopo aver esordito dise- gnando col pennarello sui cartelloni pubblicitari delle me- tropolitane, poi con il carboncino, raggiunge il suo linguag- gio personale in una sorta di all-over, memore di Tobey, dove un’unica linea, a contrasto con il fondo monocromo fosfo- rescente, delinea senza mai interrompersi figure ricorrenti di bambini, cani, forbici. La mostra di Ashley Bickerton, Peter Halley, Jeff Koons e Meyer Vaisman, ospitata nell’86 da Ileana Sonnabend, sem- bra proclamare una nuova svolta. Si tratta in realtà di arti- sti che avevano già esposto al New Museum, e nell’85 ad In- ternational with Monuments, inaugurata nel Village due an- ni prima. Se comun denominatore sembra essere la ricerca di una distanza e di una freddezza antitetica alle prove neoe- spressioniste o graffittiste, occorre nuovamente distingue- re, almeno tra quanti lavorano con gli oggetti e quanti in- vece si cimentano con la pittura. Protagonista e teorico del- la cosiddetta pittura «neo-geo» è Peter Halley, insieme a Ross Bleckner e Philip Taaffe. Il loro intento non è, come per Levine, simulazionista ma critico, di aggiornare e con- testualizzare, la pittura astratta, nel caso di Halley quella minimalista, nel caso di Bleckner e Taaffe, quella «op». «Ho preso quella geometria elementare e l’ho trasformata in fi- gure come celle e prigioni e le ho poste in un paesaggio em- blematico che indicasse il contatto tra quelle configurazioni e quelle del mondo attuale», spiega Halley, a commento del-

Storia dell’arte Einaudi le sue superfici, sorta di sezioni architettoniche, dove le fi- gure geometriche elementari sono attraversate da condotti che le mediano con il fondo e che una pittura fosforescente day-glo rende estremamente artificiali. Gli aspirapolveri che Koons espone nell’80 al New Museum, illuminati da neon bianchi entro bacheche di plexiglass, pun- tano invece all’«immortalità» e al feticismo d’oggetto: inte- gri, senza traccia di intervento manuale, senza intenti dis- sacranti come i ready made di Duchamp o le sculture sgon- fiate di Oldenburg, mirano a «non alterare la fiducia dell’osservatore nell’oggetto». Il passo successivo sono gli Equilibrium tanks, palle da basket in sospensione e poi, dall’86, oggetti fusi in acciaio inossidabile, dal noto Rabbit, al Busto di Luigi XIV alla Coppia francese. «Oggetti lucidi e levigati», chiarisce, «sono stati spesso esibiti dalla chiesa o dalle classi piú ricche per mettere in mostra una sicurezza materiale o una condizione di elevazione spirituale; l’acciaio inox è un riflesso simulato, falso, di quella rappresentazio- ne». L’israeliano Haim Steinbach, infine, che aveva esposto nel ’79 all’Artists Space, dispone, su asettiche mensole memo- ri delle sequenze di Judd, oggetti d’uso nuovi, semplice- mente presentati, alieni da qualsiasi intento dissacratorio e critico. Dove il ready made sterilizzato diventa il contenuto dell’astrazione modulare. Vale ricordare, in ultimo, il lavoro di tre donne artiste co- me Jenny Holzer, Cindy Sherman e Barbara Kruger, un la- voro di denuncia, socialmente impegnato. Il mezzo privile- giato della Holzer è il linguaggio, non quello tautologico di Kosuth, ma quello che veicola contenuti, messaggi destina- ti a raggiungere il maggior numero possibile di persone, nei luoghi da loro abitualmente frequentati. I Truisms sono le prime sentenze, stampate su posters, che distribuisce sui muri di Soho nel ’77, quando approda a New York dall’Ohio. Ma l’opportunità di utilizzare lo Spectacolor Board di Times Square le rivela le possibilità implicite nella segnaletica elettronica in termini di mobilità, dimensione, co- lori delle scritte. I messaggi, da quelli «infiammati» tratti da Lenin e Mao, a quelli recenti piú intimisti e puritani, tradotti in piú lingue, cercano di utilizzare tutti i canali a disposizio- ne, dalle pareti degli spazi espositivi alle T-Shirts, alle pan- che di marmo su cui sono incisi, per vincere la passività in-

Storia dell’arte Einaudi dotta dai mass media. Sentenze approdate anche al Gug- genheim Museum e, nel ’90, al Padiglione americano della Biennale, dove è la prima donna ad esporre. Anche Barbara Kruger, che inizia a lavorare in campo pubbli- citario, cerca di iniettare nei canali di comunicazione messaggi che denunciano stereotipi consumistici, il potere dei media e delle società patriarcali. Combina allora, in esiti estremamente efficaci e concentrati, immagini prepotenti con scritte che mi- rano a «superare lo scollamento dei significati dalle immagini». Nel ’77, proveniente da Buffalo, arriva a New York Cindy Sherman. Il suo mezzo esclusivo è la fotografia, prima di pic- cole dimensioni e in bianco e nero, come negli Untitled Film Stills del’78 e, poi, coloratissima e di dimensioni imponenti. Unica protagonista di quelle immagini, Sherman impersona tutti i possibili streotipi femminili oppure li contravviene tra- vestendosi in modo terrificante come quando indossa prote- si al posto di parti del corpo. Il fine del lavoro, che espone per la prima volta all’Artists Space, quindi alla Galleria Me- tro Pictures di Soho, per approdare nell’87 alla retrospetti- va del Whitney Museum, non è l’identificazione dell’artista in quegli stereotipi, ma la denuncia, con la distanza che il mezzo fotografico consente, di tutta la loro stupidità. Cosa ci riserva, per concludere, il decennio appena avviato? Le due rassegne internazionali che lo hanno aperto, Docu- menta a Kassel nel ’92 e la Biennale di Venezia dell’anno se- guente, sembrano sancire intanto la scomparsa della pittura neoespressionista come anche di quella citazionista e ana- cronista. Per il resto, tutto sembra riammesso, dal minima- lismo al concettualismo, dalla performance alla video arte, espressioni bandite dal decennio «pittorico». Con una ac- centuazione, sembra suggerire l’ultima Biennale del Whit- ney Museum di New York, delle valenze sociali e politiche, motivate dall’esplodere dell’intolleranza religiosa e razziale, dalle tentate restaurazioni sul piano dei diritti civili. Men- tre una crisi profonda, virtualmente salutare, attraversa il mondo dell’arte, falcidiando gallerie, ridimensionando un mercato drogato, ridistribuendo pesi, valori e meriti. (az). Staudacher, Hans (Sankt Urban (lago di Ossiach) 1923). Autodidatta in pittu- ra, nonostante frequenti la Scuola nazionale di arti e mestie-

Storia dell’arte Einaudi ri di Villach, questo pittore e incisore austriaco espone nel 1948 al Kärntner Kunstverein (Società degli artisti della Ca- rinzia) e nel 1951 al Kärntner Landes-museum di Klagenfurt. In quello stesso anno sceglie Vienna come sua residenza abi- tuale pur trascorrendo lunghi periodi a Parigi. Fa parte della Secessione viennese nel cui ambito, dal 1952, inizia ad espor- re con H. Boehler, F. Elsner, E. Huber e R. Vollé. È mem- bro anche del Forum Stadpark di Graz. Le sue prime opere sono sotto il segno dell’espressionismo e rappresentano, in un reticolo di tratti, figure di uomini e di animali imprigionati, influenzate dall’arte di Kubin. La sua pittura si evolve poi in direzione di un astrattismo piú marcato come testimoniano i quadri non solo del periodo secessionistico ma anche quelli presentati alla Biennale veneziana del 1956. Nelle opere di questo periodo, su faseite, la figura umana viene trasformata in idolo. Segue nel 1959 una svolta nella sua produzione ver- so il lirismo informale e la calligrafia avvicinando il pittore all’Action Painting e in particolare a Mathieu, J. Miotte e Kli- ne. L’artista ricorre all’uso di timbri, di caratteri di stampa e di poesie manoscritte per animare i suoi dipinti in un insieme sensibile ed esplosivo. Tra i premi ricevuti ricordiamo il pre- mio Marzotto nel 1958, uno dei principali premi alla Bienna- le di Tokyo nel 1965, mentre nel 1975 Peter Baum gli dedi- ca, nelle edizioni Tusch di Vienna, una monografia dal titolo H.S. - Lyrisches Informel, Lettrismus, Aktionen.È protagoni- sta di numerose mostre sia in patria che all’estero. (jmu + sr). Stauder, Jakob Karl (Oberweiler (Wurttemberg) ? - Costanza 1751). Figlio pro- babilmente del pittore Franz Karl S, dopo il 1700 è men- zionato al servizio della corte vescovile di Costanza. La sua attività è particolarmente intensa tra il 1710 e il 1740. Le sue pale d’altare e i suoi numerosi affreschi per edifici reli- giosi (Weissenau 1719; Wessobrunn 1720; Donauwörth 1721; Pielenhofen 1721; Ottobeuren 1715 e 1724; Rhei- nau; Kirchhofen 1740) presentano caratteri arcaici: gli ele- menti illusionisti sono duri e lineari, le composizioni sono sovraccariche di figure e dettagli, gli affreschi sono racchiu- si entro cornici come se fossero quadri da cavalletto. L’In- coronazione di Carlomagno (1724: Ottobeuren, Sala impe- riale) è una delle sue opere piú importanti. S è noto soprat- tutto per essere stato il maestro di Johann Zick. (jhm).

Storia dell’arte Einaudi Stauffer-Bern, Karl (Trubschachen 1857 - Firenze 1891). Studiò all’Accademia di Monaco nel 1881; si stabilì poi a Berlino, dove con i suoi vigorosi ritratti, ottenne una certa reputazione (Lydia Wel- ti-Escher, 1886: Zurigo, kh). Dipinse anche paesaggi e sog- getti biblici e fu inoltre scultore e poeta. (bz). Staveren, Jan Adriaensz van (Leida 1625 ca. - 1668). Allievo di Gerrit Dou, visse a Lei- da, dove si iscrisse alla gilda di San Luca nel 1645. Dipinse scene di genere – Vecchio in preghiera (Amsterdam, Rijks- museum), l’Eremita (Leida, sm), Dotto nel suo studio (Parigi, Louvre) – direttamente derivate dall’arte del maestro. (jv). Stažewski, Henryk (Varsavia 1894-1988). Studiò presso l’Accademia di belle arti di Varsavia (1914-20). Fu tra i principali protagonisti dell’astrattismo geometrico in Polonia, partecipando a tut- ti i movimenti d’avanguardia del suo paese: al gruppo Blok e omonima rivista (1924), con W. Strzemiƒski e K. Kobro, al gruppo Praesens (1926) e quello degli a.r. (artisti rivolu- zionari) a Łódê nel 1930, per divenire il terzo rappresen- tante dell’unismo con Kobro e Strzemiƒski. il quel periodo risalgono le semplici geometrie dipinte con colori primari. In occasione di uno dei suoi soggiorni parigini nel 1925, en- trò in rapporto con Mondrian, Arp, Seuphor, van Doesburg. Con il poeta J. Brzekowski partecipa alla costituzione della collezione del gruppo a.r., in seguito donata al Museo di Łódê. Nel 1927 conobbe Malevi™ nel corso di un soggiorno di quest’ultimo in Polonia. Partecipò alla The Machine-Age Exposition a New York (1927) e alla mostra Cercle et Carré a Parigi (1930). Restò sempre fedele all’astrattismo costrut- tivista del secondo dopoguerra. Sue opere si trovano nei mu- sei di Varsavia, Łódê e San Gallo (Composizione, 1929), non- ché in collezioni private polacche e straniere. (wj). Stecher, Franz (Nauders (Tirolo) 1814 - Innsbruck 1853). Difficile risulta collocare criticamente lo stile del pittore: eseguì quasi uni- camente dipinti religiosi, che per il linguaggio formale e i te- mi allusivi alle controversie teologiche si distinguono dalla

Storia dell’arte Einaudi piú corrente e tradizionale pittura devozionale. S poté svi- luppare tali tendenze, in parte, nei corsi di studio all’Acca- demia di Vienna, con Kupelwieser (1834-37) e il suo gran- de quadro del 1836 Mosè fa scaturire l’acqua dalla roccia (Inn- sbruck, Museo) è già, con le sue figure innumerevoli e tormentate, un’opera di ardente spiritualità. In lui si ri- scontrano evidenti legami con i nazareni, soprattutto nella sua produzione piú tarda, benché ne sia indiscutibile l’indi- pendenza. Nel 1838 S entra come novizio presso i Gesuiti di Graz; dal 1838 al 1843 è al collegio dei Gesuiti di Frein- berg (Linz), presto abbandonato. Nel 1848 parte per l’Ame- rica ed esegue nel 1850 nove grandi affreschi per la chiesa cattolica di Conewag (Pennsylvania), edificata nel 1787. L’iconografia molto semplice tratta temi come la Glorifica- zione del sacramento dell’Eucarestia, o la visione celeste del- la Missione di Cristo, fondendo il rigoroso plasticismo delle figure con un intenso effetto illusionistico dell’evento so- prannaturale. È possibile che lo stile di questo artista dall’esaltato misticismo sia dovuto ai disturbi psichici di cui soffrì, e per i quali, dopo essere tornato a Innsbruck nel 1851, morì due anni dopo. Numerosi dipinti di S sono presenti a Freinberg e nelle chie- se del Tirolo. (g + vk). Stechow, Wolfgang (Kiel 1896 - Princeton 1974). Laureatosi nel 1921 a Göt- tingen con una tesi su Dürer, operò successivamente accan- to a Bode presso il Kaiser Friedrich Museum di Berlino, l’Istituto tedesco di storia dell’arte di Firenze, la Biblioteca Hertziana di Roma. Assistente di Hofstede de Groot all’Aja nel 1923, collaborò con questi al Catalogue Raisonné (voll.8 e 9) e contribuì al Lexicon di Thieme-Becker. Nominato nel 1937 professore associato all’Università del Wisconsin, dal 1940 al 1963 insegnò storia dell’arte all’Oberlin College (Oberlin, Ohio). Nel 1966 divenne advisory curator (conser- vatore consulente) per l’arte europea al Museo di Cleveland. Per trentacinque anni si è dedicato allo studio dei paesaggi- sti olandesi: ha contribuito con molte opere alla conoscenza dell’arte dei Paesi Bassi. Si è specializzato in problemi stili- stici e iconografici, cui ha dedicato numerosi articoli in ri- viste americane, belghe, olandesi, inglesi, italiane e tede- sche.

Storia dell’arte Einaudi In particolare, a lui si debbono due opere fondamentali: Sa- lomon van Ruysdael, eine Einführung in seine Kunst, mit kri- tischem Katalog der Gemälde (Salomon van Ruysdael, intro- duzione alla sua arte con catalogo critico delle opere, Berlin 1938), e un’opera generale sul paesaggio olandese nel sec. xvii, Dutch Landscape Painting of the Seventeenth Century (1966). Una serie di conferenze che S tenne al collegio di Oberlin su Rubens sono state pubblicate nel 1968 a Cam- bridge: Rubens and the Classical Tradition.(law). Steen, Jan Havicksz (Leida 1623/26 - 1679). Figlio di un birraio, dopo essersi im- matricolato all’Università di Leida nel 1646, fu allievo di N. Knupfer a Utrecht, di Adriaen van Ostade ad Haarlem e poi a L’Aja di Jan van Goyen, del quale sposò la figlia nel 1649; in quest’ultima città risiedette dal 1649 al 1654. È citato dal 1654 al 1656 a Delft, dal 1656 al 1661 a Warmond (piccolo villaggio presso Leida), dal 1661 al 1669 ad Haarlem e infi- ne dal 1669 alla morte a Leida, dove fu presidente della gil- da di San Luca dal 1671 al 1673 e decano nel 1674. Affrontò soggetti quotidiani, scene popolari o a sfondo libertino, con una vis comica e un intento moraleggiante ben illustrato ad esempio da un dipinto come la Cattiva compagnia (Parigi, Lou- vre). La satira dei vizi umani è spesso legata all’illustrazione dei proverbi, nel solco della tradizione ereditata da Bruegel: Quando i vecchi cantano, i piccoli strillano (Montpellier, mba). È impossibile citare tutti i dipinti del maestro, data la vastità della sua produzione; vanno però segnalate alcune serie te- matiche complete conservate a Londra (ng, Wallace Coll. e Wellington Museum), al Rijksmuseum di Amsterdam e a L’Aja (Mauritshuis). La sua predilezione per la pittura insie- me satirica e oggettiva e il carattere del suo realismo pitto- resco e popolare (molto piú concreto di quello di Metsu e Ter Borch), che non nasconde gli aspetti grevi dei soggetti trat- tati, è tipico anche dei suoi dipinti religiosi. Vanno citati a questo proposito il Banchetto di Assuero (San Pietroburgo, Ermitage), Mosè che colpisce la roccia (Philadelphia, am), San- sone e Dalila (Colonia, wrm), il Ritorno di Davide (Copenha- gen, smfk), Gesú e i dottori (Basilea, km), con un effetto not- turno molto curioso, Gesú che caccia i mercanti dal Tempio (1675: Leida, sm), le Nozze di Sara e Tobia (1667: Braun-

Storia dell’arte Einaudi schweig, Herzog-Anton-Ulrich-Museum), i Pellegrini di Em- maus (Amsterdam, Rijksmuseum). il parte alcuni dipinti con pochi e isolati personaggi – la Donna malata (Philadelphia, am; Edimburgo, ng; Amsterdam, Rijksmuseum; L’Aja, Mau- ritshuis; San Pietroburgo, Ermitage; Londra, Wellington Museum); la Musica sul terrazzo (Londra, ng); la Lezione di musica (ivi); la Lezione di clavicembalo (Londra, Wallace Coll.); Donna che mangia le ostriche (L’Aja, Mauritshuis); Toe- letta del mattino (1663: Londra, Buckingham Palace); l’Al- chimista (Francoforte, ski) – la maggior parte delle sue ope- re inscena animati gruppi ora gaiamente a tavola (il Pranzo di battesimo, 1664: Londra, Wallace Coll.; la Torta dei re, 1668: Kassel, Museo; la Festa fiamminga in una locanda, 1674: Pa- rigi, Louvre; l’Allegra compagnia in una taverna: Londra, Wal- lace Coll.), o a un banchetto di nozze (le Nozze di paese, 1653: Rotterdam, bvb), in divertimento (Coppia di danzatori, 1663: Washington, ng; il Gioco dei birilli: Londra, ng), oppure an- cora barcollanti dopo un copioso pasto o una troppo lunga bevuta (la Donna ubriaca: L’Aja, Mauritshuis). Questa sua inesauribile vena umoristica e l’acuto senso di osservazione legato a una capacità impaginativa inventiva e teatrale sortiscono risultati assai interessanti anche nel ri- tratto. Vanno qui citati quelli di Bakker Oostwaard e sua mo- glie (Amsterdam, Rijksmuseum), di Margherita van Goyen al liuto (L’Aja, Mauritshuis), gli Autoritratti (Amsterdam, Rijks- museum; coll. Thyssen-Bornemisza, già Lugano, Castagnola), e tra questi, che ricalcano le norme ritrattistiche affermatesi nel gusto olandese (ritratto di famiglia, ecc.), va ricordata la sapiente e innovatrice orchestrazione di motivi (veduta di città, natura morta, ritratto, scena popolare) che si presta- no alla costruzione di una complessa allegoria politica nel di- pinto l’Elemosina del Borgomastro di Delft e sua figlia (1655: Londra, ng). La pittura di S è una delle piú interessanti interpretazioni del tradizionale genere popolare ereditato da Broower e as- sai richiesto all’epoca, da collocare accanto alla produzione di Adriaen van Ostade, Cornelis Dusart, Jan Miense Mole- naer e Cornelis Bega. (jv + sr). Steenwyck, Harmen van (Delft 1612 - ? 1666 ca.). Allievo di David Bailly a Leida tra il 1628 e il 1633, poi documentato a Delft nel 1644, viag-

Storia dell’arte Einaudi giò nelle Indie nel 1654-55. È uno specialista, molto fine, di nature morte, soprattutto di vanitas, come quelle di Am- sterdam (Rijksmuseum, 1652), di Leida, di Niort, di Lon- dra (ng), cui va aggiunta la bella serie di cinque Nature mor- te dell’Ashmolean Museum di Oxford, riprese con un’illu- minazione precisa e fredda e collocate su uno sfondo grigio chiaro. Caratteristico del pittore è il modo di rendere i ri- flessi di luce mediante goccioline perlate e granulose. Simi- li vanitas, semplici e intime, dalle dominanti grigie e gialle, vanno accostate alla produzione di Claesz e di Heda negli anni 1620-30, e sono soprattutto tipiche della «maniera fi- ne», propria della pittura di Leida. S ebbe un fratello, Pie- ter, di cui ben poco si conosce, se non che fu anch’egli al- lievo di David Bailly a Leida verso il 1630. Iscritto alla gil- da di San Luca di Delft nel 1642 e citato all’Aja nel 1654, anche Pieter dipinse vanitas (buoni esempi a Leida, sm; Belfort, Lund, e a Madrid, Prado) paragonabili nella loro semplicità a quelle eseguite dal fratello. (jv). Steenwyck, Hendrick van, detto il Vecchio (Overijss 1550 ca. - Francoforte sul Meno 1603). Allievo di Jan de Vries, divenne specialista, con uno stile preciso e tal- volta secco, di interni di chiesa. Fu padre e maestro di Hen- drick il Giovane (Francoforte sul Meno 1580 – Londra 1649), che come il padre dipinse chiare e precise architet- ture nella linea di Vredeman de Vries. Gli Interni di chiesa (Braunschweig, Herzog-Anton-Ulrich-Museum; Parigi, Lou- vre), la Veduta di piazza (1614: L’Aja, Mauritshuis), la Fun- zione notturna in una chiesa (Caen, mba), Gesú presso Marta e Maria (1620: Parigi, Louvre), sono tra le sue opere piú pia- cevoli, per la delicatezza delle architetture rese in toni chia- ri e per la finezza quasi miniaturistica di esecuzione di que- ste invenzioni di spazio perfetto e silenzioso. Emigrato a Londra prima del 1617, vi riscosse un certo successo; ap- prezzato da van Dyck, collaborò con lui, dipingendo tra l’al- tro gli sfondi architettonici del doppio ritratto di Carlo I ed Enrichetta d’Inghilterra (Dresda, gg). (jv). Steer, Philip Wilson (Birkenhead (Cheshire) 1860 - Londra 1942). Figlio di un rittattista, dopo aver seguito i corsi della Gloucester School

Storia dell’arte Einaudi of Art, si recò a Parigi tra il 1882 e il 1884, poi tornò a Lon- dra, dove rimase per tutto il resto della sua vita. Subì ini- zialmente l’influsso di Whistler; i suoi paesaggi, dipinti tra il 1888 e il 1893, mostrano l’evidente interesse che egli, co- me Sickert, nutriva per Monet, Renoir e Seurat (Bambini al bagno, 1894: Cambridge, Fitzwilliam Museum): fu tra i ra- ri artisti inglesi invitati ad esporre col gruppo dei Venti a Bruxelles. Questi suoi primi tentativi vennero accolti con freddezza dai contemporanei tanto che S dopo il 1894 adottò volutamente uno stile inglese tradizionale vicino a Gainsborough, Constable e Turner. La sua fama poggia so- prattutto sui numerosi paesaggi panoramici dello Yorkshire e delle valli della Wye e della Severn (eseguiti tra il 1895 e il 1911), e sulle sue capacità di ritrattista. Dopo il 1920 ab- bandonò l’olio per dedicarsi all’acquerello, ma costante del- la sua produzione furono grandi paesaggi atmosferici. Membro fondatore del New English Art Club (1896» S par- tecipò regolarmente alle sue mostre ed espose alla ra di Lon- dra solamente dal 1883 all’85. Fece anche parte dei London Impressionists riuniti da Goupil nel 1889. Insegnò presso la Slade School di Londra dal 1899 fino al suo ritiro nel 193o. Retrospettive della sua opera sono state organizzate a Lon- dra presso la Tate Gallery nel 1929 e nel 1960, e alla ng nel 1943. È rappresentato a Ottawa (ng: la Valle della Severn, 1901-902; le Scogliere a Bridgewortk, 1901; il Forno da cal- ce, 1908; la Raccolta delle alghe a Harwick, 1913-32; la Mo- della, 1921; il Tamigi a Chelsea, 1923), Melbourne e Perth in Australia, Dublino, e in Inghilterra a Cambridge (Fitzwil- liam Musem: Veduta di Richmond Hill, 1893), Oxford (Ash- molean Museum: Serata, 1897; Veduta di Richmond, 1906; la Grand Place di Montreuil, 1907) e nei musei di Leeds, Li- verpool, Manchester, Southampton. (abo). Stefaneschi, Jacopo (Roma 1261 ca. - Avignone 1341). Discendente da una im- portante famiglia romana imparentata con gli Orsini, studiò a Parigi alla facoltà delle arti e fu allievo di Egidio Romano. Cardinale di San Giorgio al Velabro dal 1295 (nonché tito- lare di numerosissimi canonicati), partecipò alla vita della curia pontificia, che seguì nell’esilio avignonese. Coltivò in- teressi per la liturgia e per la letteratura, componendo nu- merose opere in latino (in prosa e in versi), che fece copiare

Storia dell’arte Einaudi e miniare. I codici piú antichi, risalenti al periodo romano (Archivio capitolare di San Pietro, B. 78 e G. 3; Vat. Lat. 4932 e 4933), sono opera di uno scriptorium locale. Quelli di provenienza avignonese (eccetto il De miraculo, lat. 5931 della bn di Parigi, con un disegno di un seguace di Simone Martini) sono caratterizzati dalla presenza del grande Mae- stro del Codice di san Giorgio, pittore e miniatore di com- plessa cultura gotica innestata su una formazione giottesca, che prende nome proprio da un codice miniato per il cardi- nale, con cui sembra aver intrattenuto un rapporto conti- nuativo e privilegiato (Archivio capitolare di San Pietro, C. 129; Boulogne-sur-Mer, ms 86; New York, pml, ms 713; Parigi, bn, lat. 15619). Tra i pittori, S impiegò inizialmen- te Pietro Cavallini (affresco absidale di San Giorgio al Ve- labro, 1295 ca.); i piú tardi mosaici absidali cavalliniani di Santa Maria in Trastevere, commissionati dal fratello Ber- toldo, domicellus della corte papale, sono commentati da ver- si composti da Jacopo, che ne fu probabile ispiratore. Po- steriore è la collaborazione di Giotto, con celebrate opere per la basilica vaticana, la cui cronologia è ancora discussa (mosaico della Navicella nel portico, spostato e praticamen- te rifatto nel sec. xvii; perduta decorazione dell’abside, di cui resta un frammento nella collezione Fiumi-Sermattei del- la Genga di Assisi; tavola dell’altar maggiore, generalmente identificata con il polittico a due facce di Roma, pv). Ad Avi- gnone, in Notre-Dame-des-Doms, Simone Martini lavorò per S negli anni a cavallo del 1340 (affresco con San Giorgio che uccide il drago nel portico, distrutto nel sec. xix; lunet- ta sul portale, ora nel Palazzo dei papi, con una delle piú an- tiche raffigurazioni della Madonna dell’Umiltà e il ritratto del donatore). Altri dipinti posti in rapporto con S sono: l’af- fresco detto del Giubileo per la loggia di San Giovanni in Laterano (ora letto come Bonifacio VIII prende possesso del Laterano); le notissime Allegorie francescane della Basilica in- feriore di Assisi (connessione fondata sulla nomina di S a cardinale protettore dell’Ordine nel 1334, che implichereb- be però una datazione troppo tarda e contrasterebbe con lo scarso interesse da lui manifestato per le questioni france- scane); la tavola con i Santi Pietro e Paolo oggi nel Tesoro di San Pietro, trasportata su rame in età barocca; gli affreschi della cappella della Croce in Santa Chiara a Montefalco (do-

Storia dell’arte Einaudi ve compare lo stemma familiare, ma l’iscrizione cita solo il legato pontificio Jean d’Amiel). (gra). Stefano da Ferrara (attivo probabilmente in Emilia e nel Veneto nella prima metà del sec. xv). È nome di convenzione stabilito dal Rag- ghianti e accolto dalla critica successiva, benché sfornito di verosimiglianza anagrafica. Fa riferimento a un artista di ri- conoscibile educazione emiliana, attivo a Padova nella Sala della Ragione, dove gli sono riferiti gli affreschi della pare- te meridionale con le allegorie dei mesi di febbraio, marzo aprile (le parti restanti dell’imponente ciclo astrologico so- no attribuite al padovano Nicolò Miretto). La particolare co- loritura espressiva, memore degli esempi di Giovanni da Mo- dena, legittima l’identificazione con un artista di estrazione ferrarese, e rimanda esplicitamente a un ambiente culturale che tende a rielaborare i modelli bolognesi in una cifra com- plessivamente piú elegante e cabbrata. Alla medesima mano spetta un dittico diviso tra la Fondazione Longhi e la di- spersa collezione Aynard di Lione, ancora piú esplicitamen- te aderente ai modi di Giovanni da Modena; ciò fa suppor- re la sua precedenza sugli affreschi padovani, riferibili do- cumentariamente a una data successiva al 1425. Meno sicura è la paternità di altre opere di ambiente ferrarese, che a S sono state, con varie ragioni, riferite (rg). Stefano da Zevio (Stefano da Verona) (Italia settentrionale 1375-1438 ca.). Il contributo di que- sto «sottile poeta» all’elaborazione del linguaggio tardogo- tico nell’Italia settentrionale è stato unanimamente ricono- sciuto, ma la definizione della sua fisionomia artistica risul- ta ancora molto problematica per la contraddittorietà dei dati offerti dalle fonti documentarie e per l’estrema lacuno- sità del suo catalogo. La critica lo ha considerato a lungo co- me un pittore nato ed educato a Verona, confortata dalle molte opere che Vasari (1568) gli riferiva nella città veneta e dai riscontri archivistici che lo documentano presente tra il 1425 e il 1438. Si trovano inoltre a Verona due rovinatis- simi affreschi firmati (la Madonna col Bambino, san Cristoforo e angeli già su una facciata di via San Polo, ora al Museo di Castelvecchio, e il Sant’Agostino in trono e santi della chiesa di Sant’Eufemia) e ha una sicura provenienza veronese la

Storia dell’arte Einaudi datata e firmata Adorazione dei Magi (Milano, Brera). L’estimo anagrafico del 1425 attesta però che, alla prima re- gistrazione nota in città, il pittore era già sui cinquant’anni, dichiarando una nascita intorno al 1375, una formazione nel tardo Trecento e, dunque, un lungo periodo d’attività pri- vo di riscontri. Recenti scoperte documentarie hanno offer- to la possibilità di «riempire» questa fase anteriore al 1425. Uno S di Francia è presente a Mantova nel 1394 e nel 1397; un certo pittore «Stephanus [ ... 1 quondam ser Johannis de Herbosio, provincie Francie» è documentato a piú riprese a Treviso tra il 1399 e il 1410; uno S di Giovanni di Francia compare poi a Padova tra il 1396 e il 1421 poco tempo pri- ma che «magister Stephanus depictor quondam Johannis» fosse registrato a Verona tra il 1425 e il 1438 e forse in Tren- tino nel 1434 e ancora nel 1438. Il collegamento tra i docu- menti trevigiani e quelli veronesi si fonda invece sulla cor- rispondenza sia del nome del padre, sia di quello della mo- glie. L’età di trentacinque anni riferita nell’anagrafe del 1425 risulta in verità poco compatibile col matrimonio tre- vigiano del 1399, ma non è affatto improbabile una certa ge- nericità nella registrazione anagrafica scaligera. Il collega- mento è nondimeno significativo e credibile per il padre di S, grazie agli atti trevigiani che lo definiscono come «Johan- nis de Herbosio», è infatti con buona probabilità identifi- cabile col pittore Jean d’Arbois che nel secondo Trecento fu attivo presso la corte dei duchi di Borgogna e poi nella Pa- via dei Visconti. Questa notizia acquista tutta la sua sugge- stione se rapportata ai caratteri stilistici delle opere certe di S nelle quali manca l’evidenza di un legame profondo con la tradizione veronese e, in primis, altichieresca, ineludibi- le per qualsiasi pittore di formazione locale. S rivela inve- ce un forte debito verso la cultura figurativa lombarda e, in particolare, verso lo «stile dolce» di Michelino da Besozzo. Si tratta di un rapporto di radicata e solida assimilazione che dichiara un apprendistato in stretta sintonia con quel- l’ambiente e non un semplice aggiornamento conseguente alla presenza nel Veneto di Michelino intorno al 1410. È perciò suggestiva l’ipotesi derivata dai documenti di una fase formativa in ambito pavese sullo scorcio del Trecento, proprio nel periodo in cui vi risulta attivo il padre Jean d’Arbois.

Storia dell’arte Einaudi L’impronta lombardo-micheliniana della pittura di S è d’al- tronde esplicita ancora in un’opera tarda come la citata Ado- razione dei Magi, unico dipinto autografo pienamente valuta- bile, che con la sua data 1435, dubbia solo riguardo all’ulti- ma cifra, costituisce il solo punto di riferimento cronologico per la seriazione del catalogo. La specificità del linguaggio pittorico di S è altrimenti verificabile in poche altre opere di consolidata attribuzione che, insieme ai citati affreschi fir- mati e in rapporto al dipinto datato, non sembrano potersi distanziare troppo dai tempi documentati del soggiorno ve- ronese. Si tratta della Madonna col Bambino su tavola della coll. Colonna di Roma, degli Angeli ad affresco in San Fer- mo a Verona, e infine, delle Stigmate di san Francesco e dei perduti Profeti della cappella Rama in San Francesco a Man- tova. Risulta invece piú controversa l’assegnazione della ro- vinata Madonna col Bambino e un donatore, già nella chiesa veronese dei Santi Cosma e Damiano e ora al Museo di Ca- stelvecchio, e della Madonna col Bambino della Banca Popo- lare di Verona, mentre sono ormai definitivamente escluse dal catalogo di S la Madonna col Bambino in trono di Palazzo Venezia a Roma e la Madonna della Quaglia del Museo di Ca- stelvecchio, oltre ad altri dipinti di livello qualitativo meno elevato come la Madonna e santi di San Giovanni in Valle a Verona o gli affreschi della chiesa d’Illasi. È diversamente molto piú problematica e discussa l’eliminazione della Ma- donna del Roseto del Museo di Castelvecchio che ha costi- tuito a lungo un caposaldo nel catalogo del pittore. La tavo- la, di qualità elevata, si pone proprio al centro del problema riguardante i rapporti tra S e Michelino da Besozzo, ma og- gi è piú accreditata l’attribuzione al pittore lombardo. Il ca- talogo di S si completa invece con una serie nutrita di dise- gni divisa tra Dresda, Firenze, Londra, Milano e Vienna che confermano l’alto livello qualitativo del pittore e la sua ca- pacità evocativa nel rendere l’inquieta e vitale mobilità del- le figure con un segno abbreviato, veloce e avvolgente, sen- za alcuna precisa definizione di contorno. (tf). Stefano Fiorentino (attivo nella prima metà del sec. xiv). La personalità del pit- tore, tra i piú celebrati dalle fonti, è stata a lungo oggetto di ipotesi critiche tendenti a ricostruirne i caratteri, nell’im- possibilità di riconoscere con certezza le opere indicate dai

Storia dell’arte Einaudi contemporanei. Sempre citato in strettissimo rapporto con Giotto (del quale sarebbe tra i maggiori discepoli, con Ma- so e Taddeo Gaddi), la straordinaria qualità della sua pittu- ra viene esaltata per primo da Villani, che lo dice «naturae simia» per richiamare la sua abilità nella resa di effetti na- turalistici. È poi citato da Ghiberti, che ricorda tra le altre sue opere a Firenze e Assisi, una Assunta (distrutta nel 1944) del Camposanto di Pisa. Riprendendo il catalogo proposto dall’autore dei Commentarii, Vasari parla inoltre di una sua attività presso Matteo Visconti a Milano e di alcune «storie di Cristo» in San Pietro a Roma; nell’ambito della bottega giottesca, Stefano sarebbe per Vasari l’iniziatore di quella particolare declinazione linguistica che egli definisce il «di- pingere dolcissimo e tanto unito», quello stesso modo di mo- dulare le variazioni coloristiche in senso prospettico in cui eccelle il figlio Maso, detto Giottino. Proprio nel tentativo di rendere ragione del particolare elo- gio vasariano, tutto giocato su parametri stilistici, Roberto Longhi aveva proposto una ricostruzione del catalogo del pittore intorno a un gruppo di affreschi della Basilica infe- riore di Assisi. Il corpus delle opere riunite con grande coe- renza da Longhi è venuto però a cadere con il collegamento degli affreschi associati al nome di SF a un documento del 1341, che li pone invece in relazione all’assisiate Puccio Ca- panna. La complessità del cantiere giottesco di Assisi è tuttora al centro del dibattito su SF: nella ricostruzione proposta da Previtali, alcuni affreschi della Basilica inferiore (le allego- rie della Povertà e della Castità nelle vele della crociera e le Storie dell’infanzia di Cristo nel transetto destro) vengono ri- feriti all’intervento del pittore da lui battezzato «Parente di Giotto». Dopo l’intervento di Volpe (1983) le opere date a questo anonimo sono state invece ricondotte all’interno del dibattito su SF, permettendo così di riferire a lui, oltre agli affreschi assisiati (cui va aggiunto un frammento ora al Mu- seo di Budapest, proveniente dall’affresco distrutto che raf- figurava una Gloria celeste), il Crocifisso di Ognissanti, il po- littico di santa Reparata, un intervento in collaborazione con Giotto nel Polittico Stefaneschi (Roma, pv), mentre a una fa- se successiva si devono riferire il distrutto affresco pisano e l’Incoronazione della Vergine nel tiburio di Chiaravalle. (sba).

Storia dell’arte Einaudi Stefano «plebano» di Sant’Agnese (Venezia, documentato dal 1369 al 1385). L’attività del pit- tore è documentata da alcune opere datate e firmate: la Ma- donna col Bambino del Museo Correr di Venezia, compiuta nel 1369, l’Incoronazione della Vergine (Venezia, Accademia), datata 1381, e la Madonna e i santi Biagio e Martino e Storiet- te di san Martino (Venezia, chiesa di San Zaccaria) sottoscritte nel 1385. Questa serie può essere integrata dal ricordo di una perduta ancona che si trovava nella chiesa veneziana di Sant’Alvise e che portava la data 1384 e da una menzione documentaria che lo ricorda presente in Friuli, presso la chie- sa di San Marco a Pordenone, nel 1382, senza che sia però possibile collegare alcuna opera a questo soggiorno extra-la- gunare. La sua pittura si mostra strettamente legata alla tra- dizione aulica di Paolo Veneziano, sia pure addolcita dal con- fronto con i modi piú goticamente accostanti di Lorenzo Ve- neziano. All’interno di questo gusto figurativo riccamente ornato S, si distingue per una volumetria piú sottolineata, per una maestosità d’impostazione e per una maggiore natu- ralezza delle figure, caratteri che, nell’insieme, riecheggiano le esperienze coeve del neogiottismo padovano. Non sembra tuttavia possibile sostenere l’identificazione di S «plebanus» di Sant’Agnese con il pittore Stefano da Ferrara, attivo a Pa- dova nel secondo Trecento. (sr). Steffeck, Carl Constantin Heinrich (Berlino 1818 - Königsberg 1890). Allievo dell’Accademia di Berlino, tornò a stabilirsi in questa città dopo soggiorni a Parigi (1839-40) e in Italia (1840-42), divenendone nel 1880 direttore dell’Accademia di Königsberg (oggi Kaliningrad). Benché si sia cimentato nella storia medievale, S, continua- tore del suo insegnante Krüger, è noto soprattutto come pit- tore di animali (in particolare cavalli) e di ritratti, generi che si adattano alle sue doti di osservatore preciso e rapido (il Principe Carlo a caccia con i cani, 1860: Berlino, Castello di caccia di Grünewald). (pv). Steidl, Melchior (Innsbruck ? - Monaco 1727). Fu innanzi tutto decoratore; nel 1714 eseguì affreschi a soggetto mitologico nel castello di Arnstorf, presso Passau. Intorno alla stessa data avrebbe

Storia dell’arte Einaudi eseguito i soffitti della chiesa di Banz, costruita dal 1710 al 1713 da Johann Dientzenhofer. L’opera piú nota del pitto- re è tuttavia la decorazione che eseguì verso il 1705 per la Residenza di Bamberga (soffitto della Kaisersaal). Accorgi- mento da lui adottato per dilatare illusionisticamente una stanza piuttosto bassa è il ricorso ad effetti di prospettiva architettonica nella tradizione di padre Pozzo. Il risultato, non sempre felice, è contrastato dal trattamento di grande potenza plastica dei personaggi, che contribuisce piú che al- tro a dare una sensazione di schiacciamento. (gmb). Stein, Gertrude (Allegheny (Pennsylvania) 1874 - Parigi 1946). Di agiata fa- miglia borghese, si trasferì da Oakland (California) a Parigi nel 1903. La famiglia S, Gertrud, i due fratelli Leo e Mi- chael (quest’ultimo con la moglie Sarah), svolse presto un ruolo fondamentale nella promozione dei pittori d’avan- guardia allora a Parigi. Fu Bernard Berenson a far conosce- re le opere di Cézanne a Leo S nel 1904, il quale, nello stes- so anno, ne comperò un paesaggio (oggi a Merion, Penn., Barnes Foundation). Con la sorella, fino al 1913, acquista- rono in comune un gran numero di quadri di primissimo or- dine: nel 1905, il Ritratto di Mme Cèzanne (Zurigo, coll. Bührle) e, al Salon d’Automne dello stesso anno, la Donna col cappello di Matisse (San Francisco, coll. Haas), oltre a tele di Renoir e di Gauguin. Grazie ai loro acquisti e alla fre- quentazione di Vollard, conobbero Matisse, poi il suo ami- co Derain. Nell’inverno 1905-906 Leo S scoprì presso il mer- cante Clovis Sagot le opere di Picasso: nella loro collezione entrarono così la Famiglia dell’acrobata (1905: Museo di Gö- teborg), poi la Fanciulla col cesto di fiori (1905: New York, coll. David Rockfeller), e, nel 1906, Picasso intraprese il ce- lebre Ritratto di Gertrude Stein (New York, mma). Gli S ac- quistarono in quell’epoca, regolarmente, opere di Cézanne (Bagnanti, 1895: Baltimore, am, coll. Cone), Matisse (Mar- got, 1907: Zurigo, kh; Grande nudo azzurro, 1907: Baltimo- re, am, coll. Cone), Picasso (Donna nuda in piedi, 1906: New York, coll. William S. Paley; Donna col ventaglio: Washing- ton, coll. Harriman; Tre donne, 1908: San Pietroburgo, Er- mitage) e numerose tele di altri pittori, tra cui uno splendi- do Bonnard (la Siesta, 1900: Melbourne, ng). Circondati da

Storia dell’arte Einaudi capolavori, nel salotto degli S, al n. 27 di rue de Fleurus, s’incontravano, oltre a Picasso e Matisse, Braque, Vlaminck, Apollinaire e Marie Laurencin, Max Jacob, André Salmon, Henri Rousseau, Delaunay, Pascin, Picabia, lo scultore Elie Nadelman, Wilhelm Uhde, Bernard Berenson, Roger Fry, Clive Bell, Mildred Aldrich, Carl van Vechten, Kahnweiler, collezionisti e intellettuali di quasi tutti i paesi. I fratelli si separarono verso il 1914: dividendosi la collezione, Leo, po- co attratto dal cubismo, tenne per sé i Renoir, parte dei Cé- zanne e qualche Matisse; Gertrude, presto disinteressatasi dei Matisse, serbò i Cézanne e soprattutto i Picasso, di cui doveva accrescere notevolmente il numero (Uomo con chi- tarra, 1913: New York, coll. André Meyer; Natura morta cal- ligrafica, 1922: Chicago, Art Institute); accanto a questi, dal 1913, comparvero i primi Juan Gris (Fiori, 1914: New York, coll. priv.). La sua perspicacia come collezionista si dimostra nella fiducia accordata ai due principali pittori cubisti. Do- po la guerra Gertrude S si legò, senza tuttavia collezionar- ne le opere, a numerosi dadaisti e surrealisti, in particolare Man Ray, Picabia, che ne fece il ritratto nel 1933 (New Ha- ven, Yale University, coll. of American Literature), e Dalì, nonché a Lipchitz e Pavel Tchelitchev. Dopo la sua morte, la collezione, in parte già ridotta, passò in usufrutto alla sua compagna, Alice B. Toklas, alla quale la S dedicò un’Auto- biografia (1935). Quando questa a sua volta morì nel 1967, gli credi di Gertrude S misero in vendita la collezione (tren- totto Picasso e nove Gris) poi acquistata da cinque trustees del moma di New York che s’impegnarono a lasciare al mu- seo almeno un’opera importante. In questa stessa sede, nel 1971, una mostra intitolata Four Americans in Paris presentò la collezione nonché una parte cospicua delle raccolte di Leo, Sarah e Michael S, oggi disperse. (gh + jpm). Steinberg, Saul (Râmnicul-Sarat (Bucarest) 1914). Dopo studi alla scuola d’architettura di Milano, nel 1941 si recò negli Stati Uniti; nel 1943 a New York tenne la sua prima personale alla Wakefield Gallery. Partecipò alla seconda guerra mondiale sui fronti tedesco, francese e giapponese, traendo da tali «viaggi forzati» una raccolta di disegni, All in Line (1945), che gli procurò immediata celebrità. Da allora pubblicò re- golarmente disegni e vignette sulle riviste «Flair», «Vogue»

Storia dell’arte Einaudi e «Harper’s Bazaar», raggruppandoli poi in album: il piú po- polare è The Labyrinth (1960). Di lui Gombrich ha detto: «Non esiste forse alcun altro artista vivente che meglio co- nosca la filosofia della rappresentazione». E difatti reale e peraltro assurda, la linea di S genera un eccesso di senso nel momento stesso in cui svuota le cose del loro significato: co- sì, di pagina in pagina, un medesimo tratto diviene succes- sivamente corda cui appendere i panni, bordo di tavolo, pon- te ferroviario. Parole e oggetti hanno lo stesso valore, tal- volta la stessa funzione: elucubrazioni dei personaggi materializzati in scarabocchi, costruzioni fantastiche o fio- riture grottesche, o ancora parole-personaggi. S moltiplica le trasgressioni alle leggi del «genere». Talvolta, per ingan- nate il pubblico – e forse anche se stesso – dipinge su carta o su tela, a guazzo, ad acquerello o a olio, piccole composi- zioni dai colori spenti, dove la grafia, sempre presente nel- la forma di vaste firme enigmatiche, di timbri falsi o veri e di linee di parole indecifrabili, sembra mettere in ridicolo l’atto stesso del dipingere (Louse Point, 1969; Biography 69, 1969). La sua opera è ben rappresentata nei musei america- ni (New York, mma e moma; Detroit, Institute of Arts; Buf- falo, Albright-Knox ag) ed europei (Album, 1969: Parigi, mnam). Numerose le retrospettive: da segnalare quella svol- tasi al Whitney Museum di New York nel 1977. (em). Steiner, Albe (Milano 1913 - Raffaldi 1974). Comincia a lavorare come grafico e designer all’inizio degli anni ’30 realizzando il pro- getto della nuova linea della moto Atla 175. Nel 1939 apre uno studio pubblicitario con la moglie Lica. Avvicinatosi al Partito comunista si occupa, con De Benedetti e Vittorini, della stampa clandestina. Dopo la liberazione, insegna al Convitto Rinascita di Milano e collabora. come grafico e re- dattore a «Il Politecnico», diretto da Vittorini ed edito da Einaudi. In linea con le esperienze del Bauhaus e del co- struttivismo russo S utilizza i mezzi grafici per visualizzare i contenuti, evidenziati dalla chiarezza dell’impostazione grafica della rivista che consente una immediata lettura del testo. Tra il 1946 e il 1948 soggiorna in Messico dove par- tecipa come collaboratore straniero al «Taller de Grafica Po- pular» insieme a H. Meyer, ex direttore del Bauhaus, D. Ri-

Storia dell’arte Einaudi veira, L. Mendez e A. Siqueiros. Dopo il suo rientro in Ita- lia lavora alle campagne di informazione e propaganda del Partito Comunista. Dal 1950 si occupa degli allestimenti e della grafica pubblicitaria per La Rinascente e si dedica alla impaginazione di numerose riviste di fotografia, design e ar- chitettura, alla realizzazione di manifesti pubblicitari, di- dattici e di propaganda politica e all’allestimento di mostre ed esposizioni. Nel 1956 entra a far parte dell’associazione del Movimento Studi Architettura ed è tra i fondatori dell’ADI (Associazione di Disegno Industriale). S ha lavo- rato in stretto contatto con l’industria, studiandone i pro- cessi produttivi in vista della realizzazione di prodotti stan- dardizzati di alto livello qualitativo e ha trasferito questa esperienza nella sua attività didattica impegnandosi, so- prattutto, nel tentativo di avvicinare la scuola al mondo del lavoro. Ha curato la grafica per numerose case editrici tra le quali Einaudi, per cui tra il 1945 e il 1962 ha realizzato le collane «Biblioteca Politecnico» «I gettoni» e «Collezione di teatro», La Nuova Italia, Editori Riuniti, Zanichelli, Fel- trinelli (Universale Economica). Ha pubblicato numerosi ar- ticoli e saggi alcuni dei quali sono raccolti, insieme alle tra- scrizioni delle sue lezioni in Il Mestiere di grafico (Torino, 1978). (ap). Steinfeld, Franz (Vienna 1787 - Pisek (Boemia) 1868). Allievo dell’Accade- mia di Vienna dal 1802, ne divenne membro nel 1828 e di- rettore della sezione paesaggio nel 1850. Fu tra i pittori che rivelarono agli austriaci la bellezza delle Alpi austriache (Una gita sul lago di Halistatt, 1834: Vienna, ög) e in particolare del Salzkammergut. Anche nelle incisioni e nelle litografie S resta strettamente fedele al genere del paesaggio, e lo si può assimilare a Thomas Ender. Quadri come il Grundlsee, il Dachstein, il Lago di Alt-Ausseer figurano nel Museo di Graz. (g + vk). Steinhardt, Jacob (Zerkow (Germania, oggi Polonia) 1887 - Naharia (Israele) 1968). Formatosi a Berlino presso il Museo delle arti deco- rative, poi a Monaco con Corinth e Stuck, frequentò a Pa- rigi l’Accademia di Matisse. Fu uno dei fondatori, nel 1912 a Berlino, del gruppo espressionista Die Pathetiker. Esordì

Storia dell’arte Einaudi nella capitale tedesca nel 1913 e le sue prime incisioni, in modo particolare quelle su legno, furono pubblicate in quel- lo stesso anno. Arruolato nell’esercito tedesco durante la pri- ma guerra mondiale, a partire dal 1933 S si stabilì in Pale- stina e insegnò presso la Scuola di Arti e Mestieri Bezalel, da lui stesso diretta per qualche tempo. Essenzialmente incisore su legno, esercitò anche altre tecni- che grafiche. Illustrò il Libro di Ruth e il Libro di Gionata.Una HaggÇdÇh (recita tradizionale della pasqua ebraica) fu pubbli- cata in Germania nel 1924. Dieci incisioni bibliche su legno apparvero nel 1965 e altre dieci incisioni sul tema della guer- ra, eseguite nel 1967, furono stampate dopo la morte dell’au- tore. S prese parte a numerose esposizioni internazionali d’ar- te grafica (premio alla Biennale di San Paolo nel 1955) e fu invitato dalla stessa città di Berlino, in occasione di una re- trospettiva dedicata alla sua opera, nel 1967-1968. Il suo stile, dapprima rigorosamente espressionista, divenne piú sereno sia nelle xilografie che nei dipinti. La Bibbia, il mondo ebraico rimasero la sua principale fonte d’ispirazione. Durante i suoi ultimi anni, S si avvicinò a un genere fanta- stico dalle suggestioni surrealiste. Fu anche ritrattista. Le sue opere sono conservate in numerose collezioni pubbliche e pri- vate, in modo particolare nei musei d’Israele e in numerosi musei e biblioteche degli Stati Uniti e della Germania. (mt). Steinhausen, Wilhelm (Sorau 1846 - Francoforte sul Meno 1924). Frequentò con scarso profitto l’Accademia di Berlino e quella di Karlsruhe (1863-69) dove allora s’insegnava soprattutto pittura di sto- ria. S fu essenzialmente autodidatta, assumendo come mo- delli Rembrandt e Cornelius e mostrandosi, in gioventú, ri- cettivo all’opera di Ludwig Richter. Si recò in Italia nel 1871, poi, dal 1872 al 1874, si unì alla cerchia di Leibl a Monaco, senza tuttavia adottarne la poetica, e sentendo maggiore af- finità per Böcklin. L’artista traspose la sua profonda religio- sità e la sua malinconica sensibilità in scene bibliche dall’ico- nografia naïve, in visioni fatate, in paesaggi lirici vicini a quel- li di Böcklin (Amburgo, kh) e nei ritratti dei familiari (Colonia, wrm).Chiamato nel 1876 con Thoma a Fran- coforte dall’architetto Ravenstein, si orientò verso la pittu- ra monumentale (Sogno d’una notte d’estate: Villa Raven-

Storia dell’arte Einaudi stein): il suo ideale religioso giunse a compimento nei vasti programmi iconografici eseguiti per il convento di San Teo- baldo a Werningerode (1890), per il cortile del Kaiser-Frie- drich-Gymnasium (l’Antichità di fronte al cristianesimo) e per la chiesa di San Luca a Francoforte (1912). Dal punto di vi- sta formale, S prosegue la tradizione dei nazareni, ma i suoi personaggi idealizzati, ieraticamente distaccati, trovano equi- valenti nell’opera di Puvis de Chavannes. (hm). Steinle, Eduard Jakob von (Vienna 1810 - Francoforte sul Meno 1886). Fu allievo dell’Accademia di Vienna dal 1822; tra il 1828 e il 1834 sog- giornò a Roma, subendovi l’influsso di Veit e di Overbeck. Dal 1834 al 1843 operò a Vienna, poi a Francoforte, dove dal 1850 fu professore all’Istituto Städel che conserva la maggior parte delle sue opere. Eseguì ritratti (La figlia Agnes; Il padre del pittore; Maximiliane, contessa Oriola: tutti a Fran- coforte, ski) e soprattutto dipinti a soggetto religioso (San Luca mentre ritrae la Vergine, la Visitazione, 1849: Karlsruhe, kh) e scene dalle saghe germaniche, in uno stile nazareno pa- tetico e sensibile (Loreley: Monaco, Schackgal.; illustrazio- ni per i Rheinmärchen, le leggende renane, di Clemens von Brentano: Francoforte, ski).( hbs). Steinlen, Théophile Alexandre (Losanna 1859 - Parigi 1923). Dopo l’esperienza come dise- gnatore industriale presso lo zio a Mulhouse (1877), si recò a Parigi, dove esordì disegnando lattanti, bambine (Latte pu- ro sterilizzato della Vingeanne, 1894: Parigi, mad), poi gatti (Des chats).Su richiesta di Rodolphe Salis, realizzò per il ca- baret dello Chat-Noir una decorazione abilmente ironica (Apoteosi dei gatti, 1889), e uno dei suoi manifesti migliori (Torneo dello Chat-Noir con Rodolphe Salis, 1896: ivi). At- tento osservatore della realtà, traspone scene di vita quoti- diana in studi a matita, acquerelli, litografie e olii (Ballo del Quattordici Luglio: Parigi, Bibl. del Trocadéro). Illustrò i rit- mi inumani del lavoro nei cantieri, nelle miniere e nelle fab- briche (Rientro delle operaie, 1909: Museo di Saint-Denis), interessandosi soprattutto alle miserie degli umili, dei senza tetto, degli affamati (la Manifestazione: Museo di Tourcoing). Vicino a Daumier per ciò che concerne la denuncia sociale: serbò sempre uno stile narrativo. Prima giornalista allo «Chat

Storia dell’arte Einaudi noir» (1882-87) e al «Mirliton» di Aristide Bruant (1885-92), collaborò in seguito a tutti i giornali che combattevano per la giustizia sociale, firmandosi «Petit Pierre»: il «Gil Blas il- lustré» (1891-1900), «le Chambard», socialista, fondato da Gérault-Richard (1893-95), «l’En-dehors» (1894) e «la Feuil- le» (1898-99), i due ultimi diretti da Zo d’Axa, Partecipò an- che al «Rire» (1895-98), a «l’Assiette au beurre» (1901-905). al «Cocorico» e al «Canard sauvage» (1903). Nel 1910 fondò con dieci amici «les Humoristes». Illustrò numerosi roman- zi, come Les Femmes d’amis di Courteline e L’Affaire Crain- quebille di Anatole France (1901), raccolte di poesie, come Les Soliloques du pauvre di J. Rictus (1903) o la Chanson des gueux di J. Richepin (1910). Le sue composizioni per le can- zoni di Aristide Bruant (Dans la rue, 1889) sono di grande qualità. I suoi manifesti dimostrano l’influsso nabis nella composizione e nel colore (la Tratta delle bianche grande ro- manzo inedito di Dubut de Laforest, 1899). Un cospicuo numero di disegni dell’artista è stato donato dalla figlia al Gabinetto di disegni dei Louvre. (tb). Stella, Frank (Malden (Mass.) 1936). Dopo gli studi presso la Phillips Aca- demy di Andover (Mass.) e la Princeton University, nel 1958 prepara l’esame per il Bachelor of Arts e, da quella data, si stabilisce a New York. A fianco dei principali esponenti della nuova astrazione che si sviluppa negli Stati Uniti a partire dall’inizio degli anni ’60 (quella che Greenberg definirà poi «post painterly ab- straction»), S segna il trapasso verso un nuovo modo di in- tendere l’operazione artistica sia rispetto alla Action Pain- ting che all’astrattismo piú riflessivo di Still, Rothko, New- man, Reinhardt e alle ricerche di Morris Louis e di Kenneth Noland. Per S il quadro risulta da un’operazione meno in- tuitiva e piú controllata razionalmente, e acquisisce così tut- ta la consistenza di un oggetto che trova referente e signifi- cato in se stesso. Determinante, nel suo approccio all’astrattismo è l’incontro con Jasper Johns: la serie delle sue Bandiere, esposte per la prima volta a New York nel 1958 da Leo Castelli, lo avvia- no verso una pittura di superficie, priva di profondità spa- ziale e di qualsiasi rapporto gerarchico all’interno del qua-

Storia dell’arte Einaudi dro. Esemplare, da questo punto di vista, la serie di tele ne- re prodotta a partire dal 1959 (The Marriage of Reason and Squalor, 1959: New York, moma), in cui ai colori vivi dei primi quadri subentra un monocromo nero, interrotto esclu- sivamente da un disegno a strisce parallele di ampiezza ana- loga a quella dei listelli del telaio. Con questa produzione si presenta al pubblico nella importante mostra Sixteen Ameri- cans, allestita al moma di New York nel 1960. Un diverso problema è affrontato nella serie di quadri «al- luminio» del 1960 (Newstead Abbey, 1960: Amsterdam, sm), per arrivare, con la serie dei quadri «rame», a forme sago- mate lontane dal tradizionale rettangolo. Intraprende un la- voro altrettanto radicale sul colore: sin dal 1961 dipinge va- sti quadri monocromi in cui bande di colori primari o se- condari striano uniformemente il campo della tela (serie «Benjamin Moore»: Sabine Pass, 1961). Nel 1966 una nuova serie, quella dei «Poligoni irregolari», rinuncia alla geometria tradizionale delle serie precedenti e inaugura una libertà di forme sino ad allora non sperimen- tata; nello stesso tempo i rapporti cromatici diventano piú complessi di quelli fissati in precedenza (Union I: Detroit, Institutes of Arts). Nel 1970 il moma di New York gli de- dica un’ampia retrospettiva. La libertà di linguaggio connota la sua produzione degli ul- timi due decenni: dai collages di feltro (1971-75) composti da elementi a forme irregolari, di colore diverso e talvolta in rilievo, che s’incrociano e si giustappongono con estrema li- bertà espressiva (Dawidgrodek II, 1971: Duisburg, Wilhelm Lehmbruck Museum), ai rilievi metallici di grande formato, dove viene recuperata una stesura cromatica non uniforme, legata alla gestualità del dipingere. (mcm). Stella, Jacques (Lione 1596 - Parigi 1657). Figlio di François Stellaert, pit- tore di origine fiamminga stabilitosi a Roma nel 1576 e poi a Lione dove eseguì dipinti per la chiesa dei Minimi e per quel- la dei Cordiglieri; alcuni suoi paesaggi (Parigi, Louvre) pre- sentano strette analogie con quelli di Martellange, che fu at- tivo contemporaneamente a lui (1586-87). Intorno al 1619 partì per Firenze, dove lavorò per Cosimo II de’ Medici, e probabilmente conobbe già allora Poussin. La sua incisione piú importante, la Festa dei cavalieri di San Giovanni, datata

Storia dell’arte Einaudi 1621, attesta peraltro rapporti con l’arte di Callot, ancora a Firenze in quel momento. Al soggiorno fiorentino risale an- che un quadro all’Ermitage, Lucio Albino e le vestali che ri- corda Elsheimer e Lastman. Nel 1622 o ’23 si trasferì a Ro- ma, dove strinse una duratura amicizia con Poussin, giunto nel 1624. Eseguì per i Gesuiti una serie di quarantacinque di- segni sulla Vita di san Filippo Neri (alcuni oggi all’Università di Yale, New Haven) e si rese famoso tra i collezionisti ro- mani con i suoi quadri «in piccolo», spesso realizzati su sup- porti preziosi: marmo, agata, lapislazzuli. Il gusto per i parti- colari naturalistici attesta lo studio dei quadri dei Carracci e del Domenichino. Avendo ricevuto offerte dal re di Spagna, partì al seguito del maresciallo Créqui, che lasciò Roma nel 1634. Da Venezia si recò a Parigi, dove si stabilì: di fatto Ri- chelieu lo trattenne d’autorità e lo prese al suo servizio. Di- venne pittore del re, ricevendo anche una pensione sostan- ziosa, alloggio al Louvre, e in seguito persino, onore raro, l’or- dine di Saint-Michel. Lavorò nel Palais-Cardinal, nel castello di Richelieu (Liberalità di Tito: Cambridge, Mass., Fogg Mu- seum), nonché nei castelli di Madrid e di Brissac. Dipinse due pale per la cappella di Saint-Germain (Sant’Anna conduce la Vergine al Tempio: Rouen, mba; Elemosina di san Luigi, per- duto). Per un incarico del noviziato dei Gesuiti si trovò a com- petere con i massimi pittori contemporanei, Poussin e Vouet: il Cristo fra i dottori (intorno al 1640-42: chiesa di les Andelys) non è per nulla inferiore al San Francesco Saverio del primo né alla Vergine che protegge la Compagnia di Gesú del secondo. Realizzò anche le Nozze della Vergine per Notre-Dame a Pa- rigi (ora a Tolosa, Musée des Augustins), e le Pastorali, cono- sciute oggi solo dalle incisioni. Tra le sue ultime opere figura il Gesú fra i dottori (1656) della chiesa di Provins. A lungo dimenticato, S è uno degli artisti piú affascinanti e originali del sec. xvii francese. Nei suoi dipinti, sobriamen- te eleganti, predilige le figure scultoree e spoglie, esemplate sullo studio dell’antichità; la fattura è liscia, i toni cromati- ci tenui, la luce è fredda e astratta. Sue opere si trovano in Francia, a Béziers (mba), Angers (mba), Epinal (Musée Départemental des Vosges), Lione (mba), Nantes (mba), Tolosa (Musée des Augustins), Versail- les e Parigi (Louvre: Santa Cecilia, Cristo accoglie la Vergine, Minerva e le Muse).L’Ermitage di San Pietroburgo possiede

Storia dell’arte Einaudi un’Annunciazione, una Sacra Famiglia, Venere e Adone,l’ap di Monaco una Maddalena (1630); gli Uffizi di Firenze un Cristo nel deserto servito dagli angeli e una Madonna col bambino;il mc di Torino una Toeletta di Venere e una Rebecca alla lonte; il Bowes Museum di Bamard Castle una Sacra Famiglia;il Wadsworth Atheneum di Hartford un Giudizio di Paride. Tra i suoi allievi si ricordano Georges Charmeton e i nipoti Antoine, Antoinette, Claudine e Françoise Bouzonnet. (jpc). Stella, Joseph (Muro Lucano 1877 - New York 1946). Vissuto in Italia fi- no al 1895, emigrò a New York nel 1897 dove seguì i corsi dell’Art Students’ League e quelli di William M. Chase al- la New York School of Art. Dedicatosi all’illustrazione, nel 1905 avrà l’occasione di far conoscere la sua produzione at- traverso il giornale «The Outlook», che pubblicherà i suoi disegni sul tema «Americans in the Rough», d’impronta rea- listica e vicini allo stile di A. Menzel. Nel 1909 S si recò in Italia dove ebbe modo di conoscere gli artisti del gruppo fu- turista riportandone una viva impressione. Der Rosenkava- lier (1913: New York, Whitney Museum) o Battle of Lights, Coney Island (1914-18: New Haven, Yale University, ag), mostrano chiaramente la discendenza della sua produzione dalle teorie di Severini. Nel 1913 partecipò all’Armory Show; come i precisionisti S trovò motivo d’ispirazione nel- le immagini della vita industriale e in particolare, dal 1919, scelse come soggetto il ponte di Brooklyn (Brooklyn Bridge: ivi) di cui esistono diverse versioni (New York interpreted, 1920-22: Museo di Newark; Brooklyn Bridge, Variations on an Old Theme, 1939: New York, Whitney Museum). Negli anni Venti, sperimentò anche soluzioni originali, diverse dal- le prove cubiste, in alcuni collages astratti e la sua pittura si tinse di toni fantastici e richiami letterari non esenti da un recupero tardivo delle esperienze del simbolismo europeo (The Birth of Venus, 1922: Iowa State Education Associa- tion; The Virgin, 1922: New York, Brooklyn Museum; Flowers, Italy, 1931: Phoenix, am). (sr).

Stematzy, Avigdor (Odessa 1908 - ? 1989). Giunto in Palestina nel 1921, studia alla Scuola di arti e mestieri Bezalel di Gerusalemme, poi

Storia dell’arte Einaudi all’Accademia di belle arti di Parigi. Esordisce come paesag- gista, ma approda gradualmente all’astrazione. La pittura di S è ricca di sfumature, incentrata sul colore piú che sulla li- nea e la composizione: le sue tele, acquerelli, pastelli, tempe- re sono pertanto fortemente ritmate e ricordano per lumino- sità e colore, il paesaggio israeliano. Una parte consistente del- la sua produzione visibile nei principali musei israeliani e a Parigi (mnam) è costituita da grandi acquerelli astratti. (mt). stendardo Insegna processionale di medio o grande formato, costituita generalmente da un drappo di stoffa rettangolare tesa su un’asta. Lo s, detto comunemente anche gonfalone, si può conside- rare una derivazione delle antiche bandiere da guerra me- dievali divenute poi insegne dei Comuni, della Chiesa, del- le confraternite e delle corporazioni religiose. Fonti icono- grafiche relative a questo genere di insegna risalgono alla fine del sec. x e all’xi. Tra i piú antichi esemplari si cita lo «S del popolo romano» detto anche «Bandiera di san Gior- gio» (fine sec. xiii: Roma, Palazzo Senatorio), un grande drappo in seta e cuoio recante l’immagine di San Giorgio e il drago. Collegati prevalentemente ai cortei processionali, gli s furono molto diffusi a partire dal sec. xv e in parecchi ca- si vennero realizzati come ex voto, soprattutto in occasione di calamità naturali e pestilenze. Il drappo dello s è in tela – lino, cotone, canapa – oppure di stoffe piú preziose quali la seta e il velluto; ha solitamente forma rettangolare e viene teso su un bastone orizzontale, a sua volta sospeso mediante cordoni a una o a due aste ver- ticali oppure direttamente issato su un bastone verticale. L’orlo inferiore può essere diritto, sagomato oppure rita- gliato in modo da formare elementi quadrangolari denomi- nati «code». Gli s sono istoriati su entrambe le facce, della stessa tela o di due tele giustapposte; il recto presenta l’im- magine principale, il verso, scritte, elementi simbolici o de- corativi qualora non compaiano figurazioni. In casi piú ra- ri, il gonfalone è realizzato in legno con una tavola dipinta su entrambe le facce inclusa in una cornice intagliata e do- rata (come l’esemplare conservato nella pc di Camerino raf- figurante San Venanzio e risalente al sec. xvi).

Storia dell’arte Einaudi Se la prevalenza degli s annovera una produzione di botte- ga, non mancano casi di lavori realizzati da artisti di rilievo, come quello di Bernardino di Mariotto con la Madonna del Soccorso (Sanseverino, pc), lo «S della Trinità», opera gio- vanile di Raffaello (Città di Castello, pc) o la celebre «Pala per la peste», grandioso ex voto dipinto su seta da Guido Reni per la cessata peste di Bologna (1630: Bologna, pn); an- cora tra i pezzi rappresentativi si citano quelli del sec. xvi di Girolamo del Pacchia (Siena, coll. Chigi Saracini) e di Giovampaolo Cardone (L’Aquila, mn). (svr). Stendhal (Marie-Henri Beyle, detto) (Grenoble 1783 - Parigi 1842). Le due grandi opere auto- biografiche di S, Souvenir d’Egotisme e la Vie de Henry Brulard, contengono nutrite note sulla pittura italiana in- trecciate ai ricordi dei suoi viaggi in Europa e soprattut- to in Italia intrapresi nel 1800 (Milano, Trieste, Roma, Civitavecchia, dove fu console francese nel 1831) e fanno luce sul valore soggettivo che un uomo del proprio tempo come S affidava alle opere d’arte, espressive di un partico- lare «temperamento» umano. È però l’Histoire de la peintu- re en Italie iniziata nel 1811 (apparsa nel 1817; Roma 1983; edizione integrale del 1932 con il titolo Ecoles italiennes de peinture), lo scritto che raccoglie gli studi, la documentazio- ne ed elaborazione estetica sulla pittura. La sua opera di «schedatura» si appoggia ai primi precedenti della storio- grafia artistica: utilizza Lanzi per l’impianto cronologico e la suddivisione in «scuole», l’Amoretti e Bossi per Leonar- do, Vasari per Michelangelo, anche se il suo spirito critico lo induce a non «essere lo zimbello di tutto ciò che dice Va- sari in onore della sua scuola fiorentina»; i suoi riferimenti estetici e ideali sono Helvétius, Voltaire, Lavater, Winckel- mann, Reynolds e Mengs. L’Histoire non è però semplice plagio o rimpasto di fonti e idee; lo stesso S scriverà: «Se, come dice la Bruyère, la scelta di pensieri è pensiero, io ho qualche diritto su questo libro... Su venti pagine, almeno di- ciannove sono tradotte e, se non ho citato le fonti, l’ho fat- to per non distrarre l’attenzione del lettore con otto o dieci nomi continuamente messi in fila in basso pagina». L’Hi- stoire si presenta come un laboratorio di scrittura e di ap- prendistato critico: l’espressione regola il suo giudizio sulle scuole, e quella fiorentina governata dal disegno è a suo av-

Storia dell’arte Einaudi viso «minore» in confronto all’«espressione soave e malin- conica» di un Leonardo, Luini e Correggio e della scuola lombarda o alla «pittura delle passioni» che domina a Ro- ma. Ancora «Venezia si distinguerà per la verità e lo splen- dore dei colori. La scuola di Bologna, affermatasi in un se- condo tempo, imiterà con successo tutti i grandi pittori», mentre Guido Reni sembra chiudere il percorso stilistico portando «la bellezza alle vette piú alte che siano state for- se mai raggiunte da mente umana». Certo S, nonostante si appoggi al Lanzi, non può seguire il percorso analitico del conoscitore; il suo approccio è critico e l’impegno del criti- co è quello di riconoscere le grandi personalità al di là dei caratteri comuni di una scuola, di individuare sinteticamente il genio e l’espressione di Masaccio, la «fierezza e il terro- re» resi «magistralmente» da Cimabue, i moti dell’animo della Cena di Leonardo. Proprio Leonardo con il suo studio dei «moti» fisici e delle passioni interessa profondamente lo scrittore che riflette sul dibattito contemporaneo, diviso tra la classificazione dei temperamenti basati sulla tipologia fi- sionomica (Lavater) e la ricerca romantica basata sui moti dell’animo. Pur esaltando le «passioni» che «alterano gli abiti morali e la loro espressione fisica» come «un nuovo modo di cercare la felicità», S preferirà Raffaello e l’estetica dell’«ideale» che ha come fine quello di «riunire le cose che la natura non offre, e che l’immaginazione può offrire». Proprio questi ca- ratteri sembrano mancare, stando al Salon del 1824, alla scuola di David che, rappresentando epoche eroiche lonta- ne, non è capace di rappresentare «gli uomini d’oggi», men- tre Saint-Evre, L. Robert, Sigalon o Delacroix possiedono senso del colore e lo stesso Ingres pur mancando d’espres- sione «disegna meravigliosamente e... dipinge con finezza». La bellezza per S è un valore soggettivo, lontano dal classi- cismo antico di Winckelmann e dalla filologia erudita e ri- specchia le «passioni» che animano il presente. Il suo idea- le è l’espressione naturale essenziale e immediata del «buon selvaggio» di Rousseau lontano dai libri e dalla storia, e il «numero delle bellezze ideali» è assai vasto: prende corpo in ogni società libera («caucasici, i mongoli, i negri, gli ame- ricani e i malesi») che dà «vita alle grandi passioni», come nel caso dell’arte del rinascimento italiano che «ha dato tut-

Storia dell’arte Einaudi ti i generi di bellezza compatibili con la civiltà del sedicesi- mo secolo; dopo di che è naufragata nella noia. Rinascerà quando i quindici milioni di italiani, riuniti sotto una costi- tuzione liberale, apprezzeranno quel che non conoscono e disprezzeranno ciò che adorano». (sro). Stepanova, Varvara Fëdorovna (Kaunas (Kovno) 1894 - Mosca 1950). Alla Scuola di belle arti di Kazán (1910-13) conosce A. Rodãenko, col quale, dal 1916, condivide la propria vita e le proprie esperienze arti- stiche. In questi primi anni S si dedica alla poesia speri- mentale e alla poesia visuale, illustrando alcuni libri (1918- 19); contemporaneamente oggetto dei suoi dipinti sono fi- gure geometrizzanti e composizioni astratte (Figure danzanti su fondo bianco, 1920). Il suo impegno nella giovane Re- pubblica Sovietica la spinge ad attività nel campo dell’istru- zione (settore letterario-artistico) e a partecipare degli idea- li costruttivisti (nel 1921 redige il manifesto Teoria generale del Costruttivismo).Collabora dal 1923 al 1927 a «Lef» e a «Novyj Lef», mentre dal 1926 si dedica all’editoria e alla grafica. Autrice di svariate scenografie, di costumi e di di- segni per stoffe (è presente in piú sezioni alla Mostra inter- nazionale delle arti decorative di Parigi del 1925). Dagli an- ni Trenta, spesso con il suo compagno, realizza numerosi al- bum fotografici che documentano la realtà sociale russa. Anche la sua produzione pittorica si sviluppa in senso figu- rativo (Mosca. Veduta dalla finestra, 1938). (mal). Sterbini, Giulio (Roma ? - 1911). Collezionista di opere di maestri italiani dal xiii al xvi secolo il cui catalogo viene inizialmente re- datto nel 1874 da David Farabulini e in seguito, nel 1906, da Adolfo Venturi. Smembrata e dispersa nel 1910, di que- sta importante collezione sono note alcune opere nelle col- lezioni pubbliche americane: nella coll. Johnson al am di Phi- ladelphia figurano una Santa Maria egiziaca e angeli di Lo- renzo di Credi e un Ritratto di giovane uomo di Bernardino de’ Conti; alla ag Yale University di New Haven è presen- te un San Giovanni Evangelista, pannello destro di un polit- tico eseguito da un seguace di Simone Martini dai modi as- sai prossimi alla maniera del maestro, mentre al mma di New York sono conservati un trittico con la Madonna col Bambi-

Storia dell’arte Einaudi no e santi di Priamo della Quercia e una Madonna col Bam- bino e angeli di Pietro di Domenico. (eg). Steriadi, Jean-Al (Bucarest 1880-1956). Studiò alla Scuola di belle arti di Bu- carest, a Monaco e all’Académie Julian di Parigi. Tra i fon- datori del Salon d’Automne di Parigi, vi espose a partire dal 1903. Partecipò a collettive a Parigi, Bruxelles, Amsterdam, L’Aja, Berna, Stoccolma, nonché alla Biennale di Venezia del 1940. In Romania fu direttore del Museo Aman (1909- 1914) e del Museo Kalinderu (1915-44) e professore d’inci- sione alla Scuola di belle arti di Bucarest; nel 1948 venne eletto membro dell’Accademia. Fondatore dell’associazione Grafica per la diffusione dell’in- cisione dell’Accademia libera di belle arti (1918) e di nu- merosi gruppi artistici, S ha svolto un importante ruolo nel- la vita artistica rumena tra le due guerre. La sua pittura, im- pressionista, unisce un lirismo discreto a una raffinata sensibilità nella rappresentazione del paesaggio urbano. Le sue incisioni conservano il brio e l’intelligenza del disegno. Sue opere si trovano al am della città di Bucarest e in nu- merosi musei e collezioni private rumene. (ij). Sterling, Charles (Varsavia 1901 - Parigi 1991). Allievo di Focillon, funzio- nario e poi conservatore al dipartimento di pittura del Lou- vre dal 1929 al 1961 (durante gli anni della guerra fu attivo presso il mma di New York), professore alla New York Uni- versity dal 1961 al 1972, organizzatore di numerose mostre (Natura morta, 1952), ha dato il suo contributo a tutti i set- tori della pittura francese, sia come conoscitore che come ri- cercatore e storico. In particolare si è dedicato allo studio del Seicento francese (mostra I pittori della realtà, 1934, che rivelò Georges de La Tour; mostra Poussin, 1960; catalogo dell’opera dei Blanchard, 1961), e soprattutto dei primitivi francesi, ai quali ha dedicato due opere di sintesi (1938 e 1941) che definiscono i caratteri e la specificità dei secoli xiv e xv della pittura francese. Ha dedicato numerosi arti- coli alla pubblicazione di dipinti inediti, a studi d’insieme sull’arte di determinati pittori (Fouquet, Quarton, Maestro di Moulins) o di regione (Provenza, Borgogna, Alvernia, Sa-

Storia dell’arte Einaudi voia), all’esame di documenti o ad analisi stilistiche che han- no consentito di riesumare pittori come Beaumetz, Grym- bault, Lieferinxe, Dipre, Perréal, o di identificare in Quar- ton l’autore della Pietà di Avignone e in Jean Hey il Maestro di Moulins. Le sue opere costituiscono, per contenuto e me- todo, il punto di riferimento per lo studio dei primitivi fran- cesi, ma ha anche dilatato i suoi interessi ai primitivi di al- tre scuole: fiamminghi (van Eyck, Petrus Christus), tedeschi (Moser, Multscher), portoghesi (N. Gonçalves), spagnoli (J. de Borgoña), savoiardi. Tra i suoi ultimi studi: La peinture médièvale à Paris, 1300-1500 (Paris 1987-90). La sua attività di storico è stata ricostruita nella mostra dedicatagli dal Lou- vre nel 1992. (nr). Stern, Ignazio, detto anche Ignazio Stella (Mauerkirchen 1679 - Roma 1748). Figlio del pittore Igna- zio senior, ricevette i primi rudimenti dell’arte probabil- mente dal padre, ma presto (1695 ca.) andò a Bologna alla scuola di Carlo Cignani. Qualche tempo dopo si trasferì a Roma, dove rimase fino al 1712 ca.: la produzione di que- sto periodo non è però documentata. Nel 1713 si recò a Forlì e vi rimase per circa un decennio, lasciando in Emilia-Ro- magna la maggior parte delle sue opere. Dalla cittadina di Lugo ricevette diverse commissioni per le chiese locali (Vi- ta di sant’Onofrio, ciclo di tele: Sant’Onofrio, chiesa del Suf- fragio, l’intera decorazione). A questo periodo appartengo- no anche le tele di Piacenza (Annunciazione, 1724: Santa Maria di Campagna), Castell’Arquato (Piacenza, Sepoltura di Cristo, firmata e datata 1722: Museo parrocchiale), e al- tre. Risale a questi anni la sua opera piú significativa, le Quattro Stagioni, dipinte per la nobile famiglia piacentina Arisi (tre, a Kassel, sks, la quarta in coll. priv.). La sua arte si fonda sulla conoscenza dei bolognesi contemporanei qua- li il Dal Sole e Franceschini, e dei maestri «classici» Cor- reggio, Parmigianino, Barocci e Reni. Il giovanile trasferi- mento a Roma, e gli anni che vi trascorrerà dal 1724 alla sua morte, non hanno inciso sul suo modo di fare pittura che si distinguerà sempre per la grande eleganza e la raffinatezza coloristica. Così che in qualche tratto si accosta allo stile di Michele Rocca e di B. Luti; gli era assai piú congeniale, in- fatti, il barocchetto romano che non il côté marattesco. A Roma lascia relativamente poche opere e non particolar-

Storia dell’arte Einaudi mente significative (gnaa: San Giovanni Nepomuceno, tela; San Giovanni in Laterano: Assunzione, affresco a comple- tamento di un’opera iniziata da G. Odazzi; San Marcello al Corso, cappella Muti Bussi: Apoteosi delle sante Degna e Me- rita, affresco; San Paolo alla Regola, sacrestia: Assunzione, affresco: Santi Sergio e Bacco, I santi Sergio e Bacco; San Ba- silio).( fir). Stern, Ludovico (Roma 1709-77). Figlio di Ignazio, si dedicò soprattutto al- la pittura di fiori. Sembra abbia studiato dapprima presso l’Accademia di Parma, forse su suggerimento del padre, e in seguito presso l’Accademia di San Luca a Roma. Nel 1741 fu accolto nella Congregazione dei Virtuosi al Pantheon e nel 1756 nell’Accademia di San Luca, dove insegnò anche alla Scuola del Nudo. Talento eclettico, praticò con succes- so anche la pittura chiesastica (La nascita della Vergine; La morte della Vergine, tele per il coro di Santa Maria dell’Ani- ma a Roma; San Francesco Caracciolo, tela: San Lorenzo in Lucina; Santa Prassede, due tele con San Carlo Borromeo), e nella decorazione profana (Roma, Palazzo Borghese; Pa- lazzo Massimo ora Colonna all’Ara Coeli). In queste sue ope- re si manifestano tendenze classicheggianti piú che baroc- che e in taluni casi un avvicinamento al Batoni, col quale sembra aver collaborato almeno una volta dipingendo i fio- ri nel Ritratto della marchesa Sperelli Manciforti in Merenda (1740).Fu ottimo e sensibile ritrattista di leggerezza rococò (Ritratto di Benedetto XIV: Würtzburg; Ritratto di Francesco Ludovico conte di Erthal, firmato e datato 1758: Roma, gnaa). La sua produzione di composizioni floreali è piutto- sto vasta, e vi si rinvengono citazioni caravaggesche nel pe- riodo giovanile (quattro tele con Vaso di vetro con fiori: Ro- ma, Gall. dell’Accademia di San Luca) e fiamminghe (Vaso di fiori e pettirosso, Cestino di fiori e cinciallegra: già Firenze, coll. priv.), con il frequente ricorrere di grandi rose com- pletamente sbocciate. In altri dipinti ai fiori si aggiungono pappagallini vivacemente colorati e farfalle (Pappagallo, far- falle e rose; Pappagallo, farfalle e garofani: Roma, Gall. Palla- vicini). Indubbiamente lo S fece riferimento alle composi- zioni di Andrea Belvedere e di Domenico Bettini che allora era a Roma presso lo studio di Mario dei Fiori. (fir).

Storia dell’arte Einaudi Stetter, Wilhelm, detto Maestro della Croce di Malta (prima metà del sec. xvi). Fu chierico della commenda di Saint-Jean-de-Jérusalem a l’île Verte a Strasburgo, per la quale ha dipinto una ventina di opere – come ci è noto dall’inventario redatto nel 1741 dal monaco Goetzrnann. La maggior parte di queste è contrassegnata dalle iniziali W.S. e da una croce di Malta, qualche volta apposta in gran- de formato sul rovescio del pannello. Sono opere che si di- stribuiscono tra il 1513 e il 1547 ca. e che tradiscono l’in- flusso di Dürer e Baldung Grien. Sono oggi conservate nei musei di Nancy (Decollazione di san Giovanni Battista, 1515; Ecce Homo 1521; Noli me tangere, 1523; Deposizione nel se- polcro, 1536), Strasburgo (San Giovanni Battista predica sul- le rive del Giordano), Colmar, Sélestat, Lucerna, Einsiedeln, Vienna, Norimberga, Monaco, Vic-sur-Seille e Parigi (Lou- vre). (vb). Stevens, Alfred (Bruxelles 1823 - Parigi 1906) si formò nello studio di Na- vez a Bruxelles, poi a Parigi, in quello di Roqueplan (1844). Eseguì dapprima scene di genere d’ispirazione sociale, espo- nendo a Bruxelles nel 1851, e, in seguito, al salon di Parigi. Dal 1855, stabilitosi definitivamente nella capitale france- se, e legatosi a Manet, divenne il pittore delle parigine del secondo impero ed ebbe grande successo (Sfinge parigina, 1867: Anversa, mmb). Aggiornò il suo gusto japonisme pur non riuscendo a rinnovare il suo stile (Mendicità autorizzata: ivi).In alcune opere, tra cuiAtelier l’ (1869: ivi) si accosta per tecnica e stile a H. de Brackeleer. Nell’ultimo periodo dipinse anche marine, e pubblicò Impressions sur la peinture. Il fratello Joseph (Bruxelles 1819-92) si formò presso il pit- tore di animali L. Robbe, ed esordì al salon di Bruxelles nel 1842. Guardando la pittura fiamminga del sec. xvii come Fyt e Snyders, rappresentò cani, suo tema preferito, ve- dendoli dapprima con occhio pietoso (la Vecchia Lice: Tournai, mba). A Parigi subì l’influsso di Decamps e si de- dicò, con piú attenzione nelle sue scene di genere, a carat- terizzare la psicologia dei modelli (Più fedele che felice, 1848: Bruxelles, mrba; Una mattina a Bruxelles, 1848: ivi). (mas).

Storia dell’arte Einaudi Stevens, Pieter II, detto Stephani (Malines 1567 ca. - ? dopo il 1624). Documentato a Praga sin dal 1590, dal 1594 al 1612 fu pittore di Rodolfo II. Com- pi viaggi a Venezia e a Roma e tornò nuovamente a Praga nel 1624. Le sue opere sono rare: il Ballo di contadini (1596: Anversa, kmsk) e il Paesaggio con romitaggio (1609: Braun- schweig, Herzog-Anton-Ulrich-Museum) attestano uno sti- le assai delicato influenzato da Gillis van Coninxloo. (jl). Stieglitz, Alfred (Hoboken (New Jersey) 1864 - New York 1946). Studiò a New York, ma completò la formazione all’Istituto politecni- co di Berlino, dove frequentò i corsi di foto-chimica di Vo- gel. Le sue prime prove come fotografo rientrano nell’ambi- to della cultura figurativa del naturalismo tardo-ottocentesco (1882-90). Sin dal suo ritorno negli Stati Uniti svolse un ruo- lo attivo nella Società dei fotografi dilettanti, e curò la pub- blicazione di «American Amateur Photographer», la prima delle sue numerose piccole riviste, dedicate prima alla foto- grafia, poi, anche grazie all’influenza di Steichen, all’arte mo- derna. Ad essa successero nel 1897 le «Camera Notes», che nel 1903 divennero «Camera Work» (1903-17); contempo- raneamente S diresse dal 1905 al 1917 le Little Galleries of the Photo-Secession, dove ebbero luogo le prime mostre di Picasso, di Matisse e di Henri Rousseau negli Stati Uniti, an- ticipando quanto avverrà con la mostra dell’Armory Show. In questi anni S è spesso in Europa (viaggi a Londra, Berli- no, Dresda, Monaco, Parigi). La sede della Gall. Photo-Secession, punto d’incontro del- l’avanguardia americana nascente, al n. 291 della 5ª Avenue, diede a sua volta il titolo a una notevole pubblicazione di S, «291», cui collaborarono Max Weber, Duchamp, Picabia, Man Ray e altri, con serie di interventi che influenzarono am- piamente artisti e collezionisti americani durante la prima guer- ra mondiale. L’attività di S negli anni 1920-30 fu piuttosto de- dicata all’arte americana. Diede il suo appoggio ai «precisio- nisti» Demuth, Sheeler, Spencer, e ai paesaggisti astratti A. Dove e O’Keeffe, moglie di S. Come fotografo preannuncia, nelle sue prime opere, l’Ash-can School: un’importante raccol- ta di queste fotografie si trova al mma. Lettere e documenti, che dimostrano gli sforzi di S per diffondere in America l’ar-

Storia dell’arte Einaudi te moderna, sono conservati all’Università di Yale. La sua le- zione come fotografo fu fondamentale per P. Straud. (dr). Stieler, Joseph Carl (Magonza 1781 - Monaco 1858). Iniziò gli studi a Würzburg (1798-18oo) e li proseguì all’Accademia di Vienna; successi- vamente frequentò lo studio di Gérard a Parigi dal 1806 al 1808, risentendo profondamente del suo influsso. La sua at- tività a Monaco, a partire dal 1812, è interrotta da un sog- giorno a Vienna tra il 1816 e il 1820. S è il piú importante ritrattista di Monaco durante la prima metà del sec. xix (Goethe, Schelling, Beethoven): le sue opere piú celebri sono conservate nella Schönheitsgalerie (galleria delle bellezze) del castello di Nymphenburg a Monaco. (hbs). Stifter, Adalbert (Oberplan (Boemia) 1805 - Linz 1868). Fu uno dei massimi scrittori di lingua tedesca, e da giovane esitò per qualche tempo tra la letteratura e la pittura, per la quale non ebbe una specifica formazione. Mentre, agli inizi, la sua maniera è improntata al realismo Biedermeier (Paesaggi del Salzkam- mergut e Veduta dai tetti di Vienna, 1840 ca.), le opere della maturità trattano soggetti naturali in termini di una nuova e piú libera interpretazione (paesaggi, studi di nuvole, os- servate come puri fenomeni luminosi, dettagli), rivelando la volontà di dominare con la potenza dell’anima le forze ele- mentari della natura, in un frammento di paesaggio, oppu- re espresse da un semplice dettaglio, come l’acqua violenta che scaturisce dalle rocce. Benché opere intitolate Serenità o Movimento non siano state portate a termine, sono d’im- pressionante grandiosità e di notevole cromatismo. Quasi tutti i dipinti e i disegni di S sono conservari a Vienna (Adal- bert S-Gesellschaft e ög). (g + vk). Still, Clyfford (Grandin (North Dakota) 1904 - Baltimore 1980). Succes- sivamente agli studi alla Spokane University di Washington, insegnò disegno e pittura al Washington College di Pullman (1935-41), alla California School of Fine Arts (1946-50) e al Brooklyn College di New York, dove visse e insegnò dal 1951 al 1960 prima di ritirarsi a Westminster nel Maryland. Parte delle tele che espose nel 1946 alla Galleria Art of this

Storia dell’arte Einaudi Century mostrano ancora un’impronta vagamente surreali- sta, residuo di un periodo di sperimentazione stilistica, ma dal 1945 S inaugura radicali riduzioni cromatiche, saturan- do i dipinti di neri e di rossi opachi e conservando solo ai margini della tela fluttuazioni di colori vivaci. Pioniere dell’espressionistrio astratto, S cerca verso la fine de- gli anni Quaranta di individuare il proprio stile; considera il dipingere un «atto non qualificabile», che deve rompere «con l’illustrazione di miti consunti o con i vari alibi del nostro mondo contemporaneo», e di cui l’artista «deve assumersi tut- ta la responsabilità». Così giunge, contemporaneamente a Bar- nett Newman e a Mark Rothko, a ridurre la gamma cromati- ca producendo invece grandi superfici di colori vivi, la cui lu- minosità e il cui grado di saturazione sono calcolati in modo da provocare effetti ottici determinati. Tuttavia, alle sue pri- me ricerche viene ad aggiungersi un lavoro sulla stessa textu- re del colore, che avvicina talvolta S all’Action Painting (1948-D, 1948: New York, coll. William Rubin). A New York partecipa alla mostra 15 Americans del moma (1952): nelle te- le che presenta, di grande formato, le chiazze a forma di fiam- ma delle opere precedenti lasciano il posto a vaste falde prive di volume, che giocano sui rapporti tra due o tre colori (Di- pinto 1951: New York, moma). Il nero, «non-colore privile- giato», tende presto a invadere l’intera tela, preservando la continuità del piano (1957-D n. 1, 1957: Buffalo, Albri- ght-Knox, ag). Da quest’insistenza sul «limite» alcuni pitto- ri del nuovo astrattismo sapranno trarre partito. L’artista è poi tornato ad effetti di colore in cui interviene anche il nero (Dipinto, 1964: coll. priv.). La sua prima retro- spettiva è del 1959, alla Albright-Knox ag di Buffalo; è rap- presentato nella maggior parte dei grandi musei americani (New York, Chicago, Detroit, San Francisco, Saint Louis) ed europei (Amsterdam, Londra, Parigi, Stoccolma). (em). Stimmer, Tobias (Schaffhausen 1539 - Strasburgo 1584). Era il maggiore dei do- dici figli di Christophe S il Giovane (Costanza 1520/25 ca. - Rotweill 1562), disegnatore e calligrafo, che probabilmente gli insegnò i rudimenti del mestiere. Ignoriamo praticamente tutto sulla sua formazione; secondo alcuni storici studiò a Zu- rigo presso Hans Asper; secondo altri rimase a Schaffhausen

Storia dell’arte Einaudi presso Félix Lindtmayer. Completò l’apprendistato nel 1556 ca. Si recò forse allora in Italia, dove avrebbe lavorato con Giambattista Zelotti e i suoi allievi agli affreschi di Palazzo Trevisan di Murano, o forse seguì Lindtmayer nel suo viag- gio lungo il Danubio. In ogni caso, non ignorava né la pittu- ra veneziana né quella della cerchia di Altdorfer. I primi di- segni datati che possediamo attestano sorprendente precocità: Cristo sul monte degli Olivi (1557: Dessau, gg), in cui colloca in un tormentato paesaggio notturno una scena di un’inten- sità che rammenta Grünewald. La composizione, ancora ri- solta in superficie, pone ciò nondimeno i problemi che ver- ranno risolti piú tardi: luce e spazio. Nel 1560 viene menzio- nato nel registro fiscale di Schaffhausen e sembra godesse già di una certa celebrità; era infatti richiesto come ritrattista. Di questo periodo sono Conrad Gessner (1564: Schaffhausen, Mu- seum zu Allerheiligen) e il doppio ritratto in piedi di Jacob Schwytzer e di sua moglie Elsbeth Lochmann (1564: Basilea, km): le figure si stagliano vivamente in una luce esaltata dal- la ricchezza dei colori; la composizione, sobria e serrata, ha il vigore di alcune opere di Niklaus Manuel. L’artista preparò il modello d’un bicchiere d’argento che la città di Schaffhau- sen offrì al matematico Conrad Dasypodius a ricompensa del- la sua dedica della Geometria di Euclide, comparsa a Stra- sburgo presso C. Mylius. Lavorò anche come illustratore, per editori di Strasburgo, in particolare Bernard Jobin. Dal 1567 al 1570 realizzò per Hans von Waldkirch la fac- ciata della casa Zum Ritter a Schaffhausen (restaurati nel 1919, gli affreschi si trovano al museo della città, ma sono stati riprodotti sulla facciata da Karl Rösch). Concentrando la doppia tradizione decorativa di Tiziano, del Veronese e di Holbein, tali dipinti sono ripartiti secondo un program- ma storico-mitologico piú o meno corretto sui temi della guerra e della pace. Il pittore si stabilì a Strasburgo attorno al 1570 eseguendo nel medesimo stile la decorazione dell’Orologio astronomi- co della Cattedrale. Cominciò allora a incidere su legno, eb- be numerosi incarichi e fece venire presso di sé i fratelli Jo- sias e Christophe. Nel 1576 apparvero presso Thomas Gwa- rin, a Basilea, 170 incisioni su legno da suoi disegni di scene bibliche, che ebbero notevole successo: Sandrart riferisce che nel 1637 Rubens ne aveva copiate un certo numero. Ne- gli anni successivi, S decorò la grande galleria del castello

Storia dell’arte Einaudi del margravio Filippo II di Baden-Baden, del quale divenne in seguito pittore ufficiale. Tali dipinti furono distrutti nel 1689 dalle truppe francesi, ma una loro descrizione puntua- le, stilata dallo stesso artista e datata 17 maggio 1578, è con- servata negli archivi municipali di Strasburgo. Nel 1580 S scrisse e illustrò con disegni di sorprendente li- bertà un’opera satirica, la Commedia. Nel 1582 tornava a Strasburgo; operò per il convento di Saint-Jean-in-Undds, e fu prodigo di consigli con numerosi artisti di passaggio, so- prattutto compatrioti, come C. Murer, B. Lingg e Hans Plepp. Fu la prima grande personalità artistica comparsa do- po Holbein. La sua originalità consistette nell’aver saputo integrare i principi manieristi del suo secolo ad elementi del- la scuola del Danubio e della poetica di Dürer, e di essersi così creato un linguaggio autonomo, mediando tra la tradi- zione italiana e quella germanica e preannunciando il futu- ro barocco della Germania meridionale. (bz + vb). Stobbaerts, Jan (Anversa 1838 - Bruxelles 1914). Orfano, dovette mante- nersi autonomamente assai presto. Trascorse tre anni (1855-58) presso il pittore di animali E. Noterman e fu al- lievo di Leys all’Accademia di Anversa: qui incontrò H. de Braekeleer, di cui divenne amico. Dipingendo sin dal 1856 en plein air, predilesse soggetti umili, come le botteghe arti- giane di Anversa, e si dedicò agli studi di animali (il Merca- to dei vitelli ad Anversa, 1861: Museo di Anversa). Nel 1873 la Macelleria di Anversa (Gand, Museum voon Scho- ne Kunsten) costituì in Belgio un manifesto del realismo de- stando un subitaneo scandalo. Dopo il 1880 S abbandonò progressivamente il suo solido mestiere per uno studio piú raffinato degli effetti di luce (Uscita dalla stalla, 1882: Mu- seo di Anversa). Stabilitosi a Bruxelles nel 1886, l’influsso dell’impressionismo lo indirizzò verso forme dall’atmosfera rada, come annegata nella nebbia; abbandonò allora i temi realistici per scene ispirate da un simbolismo alquanto con- venzionale (Il riposo di Diana, 1895 ca.: ivi), (mas). Stoccarda Staatsgalerie La galleria di S (Stuttgart) venne fondata nel 1843 col nome di Museum der bildenden Künste da re Gu-

Storia dell’arte Einaudi glielmo I di Württemberg. La maggior parte del fondo ini- ziale del museo era costituita dalle collezioni formate nel sec. xvii – forse alcune risalivano al sec. xvi – dai principi di Württemberg. All’origine esse contavano soprattutto ritratti di famiglia. La costruzione del castello di Ludwigsburg, a partire dal 1705, determinò un incremento delle collezioni di pittura, che dovevano contribuire ad abbellire l’arredo in- terno di questa vasta residenza barocca. L’acquisizione nel 1736 della collezione del conte Gustavo Adolfo Gotter, am- basciatore di Prussia a Vienna, comprendente 411 dipinti nonché, nel 1748, di 111 pezzi della collezione Roeder, fe- cero entrare nella galleria del Württemberg opere importanti di Memling (Betsabea al bagno), Hans Baldung Grien (Ri- tratto di Jacob van Morsperg), Cranach il Giovane (Due ri- tratti), Jan van Amstel (Entrata di Cristo a Gerusalemme), di- pinti olandesi e tedeschi. Quando il museo venne aperto al pubblico l’11 maggio 1843, in un edificio costruito appositamente tra 1838 e ’43 su pro- getto di Gottlob G. von Barth, contava 237 dipinti, di cui 197 tratti dalle collezioni di Ludwigsburg, i restanti prove- nienti da doni della città o della Scuola di belle arti. Una del- le prime acquisizioni fu quella dei tre pannelli costituenti la parte superiore dell’Altare Carondelet di Fra Bartolomeo, conservato nella Cattedrale di Besançon. Nel 1852 l’acqui- sto da parte di Guglielmo I di 250 dipinti provenienti dalla Galleria Barbini-Breganza di Venezia arricchì la collezione della maggior parte delle opere italiane del museo (Bellini; Carpaccio, Lapidazione di santo Stefano; Tiepolo; Strozzi). Un altro felice acquisto fu quello, nel 1859, di 76 dipinti della collezione Abel di S, comprendente opere di antichi maestri tedeschi (Maestro dell’Altare di Sterzing: Corteo dei re Magi). Ma la galleria assunse la sua definitiva fisio- nomia sotto la direzione dello storico dell’arte Konrad Lan- ge (1901-907) attento soprattutto ai primitivi (opere di an- tichi maestri germanici: Maestro di Praga, Maestro di Mülhausen), alle scuole di Baden e della Svevia del xiv e xv secolo, ma anche alla pittura moderna tedesca (Uhde, le Tre modelle) e francese (Vuillard). Durante il periodo hitleriano il museo conobbe una fase di ristagno. Gravemente dan- neggiato nel 1944, e restaurato dopo la guerra, ha conosciuto in seguito una nuova fioritura. Numerosi acquisti – sia di opere antiche, in particolare tedesche (Ratgeb, Flagellazio-

Storia dell’arte Einaudi ne; Hans von Aachen), che moderne (Burne-Jones ad esem- pio) – hanno arricchito costantemente le collezioni. L’insie- me della pittura tedesca del sec. xix è particolarmente no- tevole e completo. Ugualmente ben rappresentata la pittura contemporanea. Vi si trova un bel complesso di opere di Pi- casso di vari periodi (Famiglia di artisti, 1905) e vi sono rap- presentate le principali tendenze pittoriche, dagli impres- sionisti agli espressionisti e astrattisti: Manet (Monet nel suo studio); Cézanne (Bagnanti, Natura morta con cranio e bugia), Gauguin (la Madre dell’artista); Bonnard (la Famiglia Terras- se); Soutine (Gallo e pomodori); Modigliani (Nudo con cusci- no bianco; Ritratto di Soutine); Juan Gris (le Uova); Dubuf- fet (la Raccolta delle patate); Hodler; Munch; Kirchner; Mueller; Heckel; Jawlensky (la Penna bianca); Kandinsky (Improvvisazione n. 9); Marc; Schiele (Sobborgo); Kokoschka (Herwarth Walden; la Donna in blu); Klee; Beckmann (Au- toritratto con foulard rosso); Grosz; Dix (il Mercante di fiam- miferi n. 1, 1920); Schlemmer (Paracelso); Mondrian (Com- posizione con rosso e blu); Bacon (lo Scimpanzé); Pollock (Out of the Web).Nel 1971 la galleria ha acquistato Storiala di Perseo di Burne-Jones. (gb). Nel 1984 è stato inaugurato il nuovo edificio a fianco di quel- lo ottocentesco e a questo internamente collegato, proget- tato dall’architetto James Stirling, che con il nuovo nome di Neue Staatsgalerie ha consentito ai conservatori di esporre con piú coerenza e ampiezza il ricco patrimonio moderno e contemporaneo di cui sono dotati, nonché di disporre di un’apposita ala per esposizioni. Nel 1982 è uscito il Catalo- go scientifico riguardante le collezioni di pittura e scultura del sec. xix; nel 1984 quello concernente il sec. xx e le ric- che collezioni di disegni e stampe; nel 1992, infine, anche il Catalogo per la pittura dal Medioevo al Settecento. Il 30 aprile 1993, con una cornice di manifestazioni speciali, è sta- ta riaperta, dopo un risanamento completo, anche l’Alte Staatsgalerie, che adesso è in grado di presentare al pubbli- co molti dei dipinti che, per motivi di ristrettezza degli spa- zi espositivi, erano da tempo costretti nei depositi. (sr). Stoccolma National Museum Le collezioni reali sono all’origine del Museo nazionale di S che può considerarsi uno dei piú an-

Storia dell’arte Einaudi tichi musei dell’Europa settentrionale. Sin dal 1794 era sta- ta aperta al pubblico una galleria di pittura in Palazzo Rea- le, secondo un progetto concepito da Gustavo III, che poté però realizzarsi solo dopo la morte del re. Nel 1866 le colle- zioni sono state trasferite nell’edificio attuale, costruito dal 1850 in poi dall’architetto tedesco F. A. Stüler. Sono anco- ra al nm un certo numero di quadri delle collezioni portate via da Praga (1652) dalla regina Kristina, in particolare ope- re dei manieristi fiamminghi e tedeschi: Aertsen, Cornelis di Haarlem, Frans Floris (Banchetto degli dèi marini), He- messen (Vergine e Bambino in un paesaggio), Metsys (Flora in giardino).Ma i dipinti piú importanti delle scuole straniere, che hanno conferito al museo la sua reputazione internazio- nale, vennero raccolti nel sec. xviii da due sovrani appas- sionati d’arte: la regina Luisa Ulrica, sorella di Federico il Grande, nel 1744 andata in sposa al futuro re Adolfo Fede- rico, e suo figlio Gustavo III; ambedue ebbero come consi- gliere e agente all’estero uno dei migliori conoscitori dell’epo- ca, Carl Gustav Tessin, ambasciatore di Svezia in Francia dal 1739 al 1742, il quale, grazie alle sue funzioni, poté seguire con agio la vita artistica ed essere informato delle vendite a Parigi e in tutta Europa. Il diplomatico inoltre spesso sce- glieva presso gli studi stessi degli artisti i quadri francesi per i suoi sovrani, che nel contempo andavano costituendo per altre vie un’importante collezione di dipinti olandesi e fiam- minghi. Per tutto il sec. xix le acquisizioni della famiglia rea- le arricchirono il museo; il re Carlo XV, in particolare, riunì un’ampia collezione di dipinti di artisti svedesi. I legami tra i sovrani svedesi e le istituzioni museali sono proseguiti fino alla morte del re Gustavo VI Adolfo nel 1973: questi fu presidente della Società degli amici dei mu- sei e fu il responsabile di numerosi acquisti. Da qualche de- cennio lo Stato si impegna sistematicamente nel completa- mento delle collezioni di dipinti francesi mediante opere si- gnificative del sec. xix, ma la sezione piú notevole resta comunque, com’è naturale visto i forti legami storici e cul- turali, l’olandese e la fiamminga che comprende nove Rem- brandt, tra cui il celebre Giuramento dei Batavi, numerosi Rubens (Sacrificio a Venere, Baccanale) e belle serie di pae- saggi, scene intime e nature morte, caratteristiche del Sei- cento olandese. La raccolta di dipinti francesi è tuttavia se- conda per importanza. Il gruppo di quadri di Chardin è uno

Storia dell’arte Einaudi dei migliori, se si esclude quello del Louvre (Donna col go- mitolo, il Disegnatore, la Toeletta del mattino), e di qualità non minore sono le tele di Boucher (Trionfo di Venere,la Marchande de modes); Lancret, Pater, Greuze, Desportes, Oudry, Tocqué (Ritratto di Tessin) completano il panorama del sec. xviii. L’Ottocento francese è rappresentato nella sua continuità da Ingres, Delacroix, Corot, Courbet, Millet fi- no agli impressionisti (Renoir, l’Albergo di mamma Anthony; Gauguin; Cézanne). Un complesso di opere italiane, poco numerose ma di qualità, dai primitivi a Tiepolo e al Cana- letto, e alcune opere spagnole e tedesche (Visitazione di un Maestro di Colonia, 1410) completano le sezioni straniere. Ampiamente rappresentata è la pittura svedese dal xvi al xix secolo: Ehrenstrahl, i ritrattisti Roslin, C. G. Pilo (Incoro- nazione di Gustavo III) tra i maestri del xvii e xiiin secolo. Per il Novecento si possono citare Marcus Larsson, Höckert, Hill, Josephson, Carl Larsson, Wilhelmsson. Notevoli sono poi alcune opere miniate medievali, un’importante raccolta di ritratti-miniatura, di icone russe, di ritratti del Fayym. Il Gabinetto delle stampe possiede disegni e incisioni di mae- stri italiani, olandesi e francesi dall’inizio del rinascimento al sec. xviii, tra cui preziosi disegni francesi di architetture e scenografie. Moderna Museet Il Museo d’arte moderna, inaugurato nel 1958, è collocato in una delle antiche caserme di artiglieria dell’isola di Skeppsholmen. Amministrato dal Museo nazio- nale, è destinato ad ospitare temporaneamente le collezioni svedesi e straniere del xix e del xx secolo, in attesa che le opere piú rilevanti non vengano integrate nelle collezioni per- manenti del Museo nazionale stesso. Le collezioni così dis- sociate da quelle del Museo nazionale, nel quale figuravano prima del 1958, sono state arricchite da recenti acquisizioni. Particolarmente ben rappresentate sono l’arte svedese e quel- la degli altri paesi nordici, partendo dai precursori dell’arte contemporanea, vale a dire dai pittori svedesi della genera- zione di Agueli, di Isakson, di Josephson, del norvegese Ed- vard Munch, dei danesi Willumsen ed Edvard Weie, del fin- landese Tyko Sallinen. Le raccolte straniere ripercorrono a grandi linee le tappe fondamentali della pittura internazio- nale da Matisse (Paesaggio marocchino, 1911; Apollo, 1953), Picasso (Suonatore di chitarra, 1916, e Bottiglia, bicchiere e vio-

Storia dell’arte Einaudi lino, 1912-13), Braque (La Roche-Guyon: castello, 1909), Lé- ger (la Scala, 1914, e Danzatrici dei dadi, 1930), Kirchner (Marcella, 1909-910), Kandinsky (Improvvisazione n.2, 1908), Mondrian (Composizione con rosso, giallo e blu, 1936-43), fi- no a Dubuffet (Tavolo compagno assiduo, 1953), Fontana (Concetto spaziale-Attese, 1959), Klein (Rilievo spugna/blu, 1960) e Raysse (Francia verde, 1964). Particolarmente ben rappresentati il movimento dada e il surrealismo: Duchamp (replica del Grande Vetro, 1913-61), Picabia (Attenti alla pit- tura, 1916), Schwitters (Das Arbeiterbild, 1919), De Chirico (il Cervello del bambino, 1914), Dalì (l’Enigma di Guglielmo Tell, 1933), Miró (Figura rossa, 1927) e Magritte (Modello ros- so, 1935). La scuola americana del dopoguerra è presente con un gran numero di opere grazie all’acquisizione, nel 1973, di una notevole serie di pezzi (J. Dine, Peaches, 1969; Johns, Slowfields, 1962; Pollock, The Wooden Horse, 1948). Sotto la direzione di Pontus Hulten, il mm si è segnalato negli an- ni Sessanta come uno dei piú vivi e piú attivi musei europei d’arte contemporanea. (gb + sr). Thielska Galleriet Waldemarsudde Collocato nell’antica di- mora del principe Eugèn a Thiel, ne ospita le collezioni d’ar- te. Donato allo Stato dal suo testamento e aperto nel 1948, è amministrato dalla città di S. Nell’edificio principale (costruito nel 1903-904) e in una gal- leria annessa (1913) sono conservate sia le opere realizzate dal principe, sia quadri svedesi, in particolare degli anni dal 1880 al 1940 ca.: Josephson, i membri del Konstnärsför- bundet (Hill, Agueli, Isakson e Grünewald). Nei depositi di Waldemarsudde sono conservati, tra l’altro, dipinti di scuo- la danese, norvegese, finlandese e francese dello stesso pe- riodo. (mnv). Stock, Ignatius van der (sec. xvii). Discendente diretto del pittore Vrancke van der Stockt e allievo di De Vadder e di J. Fouquières, venne ac- colto come libero maestro nella gilda di San Luca a Bruxel- les nel 1660. La sua firma fu scoperta da Fierens-Gevaert su un Cristo in un paesaggio (1661: Bruxelles, collegiata di San- ta Gudula). Fino a quel momento si conoscevano soltanto alcune sue stampe e una planimetria della foresta di Soignes (Bruxelles, Ministero dell’Agricoltura); nel 1922, Hulin de Loo ne trovò la firma su un Paesaggio datato 1660 (Madrid,

Storia dell’arte Einaudi Prado), e i paesaggi incisi hanno consentito di completare l’elenco dei suoi dipinti. Gli sono poi stati attribuiti per raf- fronti stilistici due Paesaggi a Bruxelles (mrba) e Berlino. Sembra che l’artista abbia subito l’influsso di Jacque d’Arthois, oltre a quello di Fouquières. Fu maestro del pae- saggista di Bruxelles A. F. Boudewyns. (jl). Stockt, Vrancke van der (Bruxelles? 1420? - 1495 ca.). Figlio di un pittore, succe- dette al padre nel 1445. Ancora in forse il suo alunnato pres- so Rogier van der Weyden, col quale fu in stretti rapporti e alla sua morte, nel 1464, gli succedette nella carica di pitto- re della città di Bruxelles. Hulin de Loo ha identificato, con grande verosimiglianza, la sua opera con quella del Maestro della Redenzione del Prado. L’arte di S dipende interamente da quella di Rogier, del quale riprende composizioni e tipi, in particolare nel Trittico della Redenzione (Madrid, Prado), caratterizzato da un disegno secco e rigido. (ach). Stoclet, Adolphe (Bruxelles 1871-1949). Ingegnere e finanziere, soggiornò in Italia dal 1896 al 1902 come ingegnere ferroviario per la Mi- lano Nord, e in seguito a Vienna. Tornò a Bruxelles nel 1904, divenne amministratore e poi presidente della Com- pagnia internazionale delle ferrovie: terminò la carriera co- me uno dei direttori del piú importante organismo finan- ziario e bancario belga, la Société générale. Sin dal suo ri- torno da Vienna aveva incaricato l’architetto austriaco Josef Hoffmann di progettare la sua casa. Essa, nota col nome di «Palazzo S», venne realizzata tra il 1906 e il 1911 ed è ri- tenuta uno dei capolavori architettonici dell’epoca, specie per i mosaici di Klimt. Fu affiancato nella sua passione di collezionista dalla moglie, nipote del pittore Alfred Stevens: insieme raccolsero prodotti artistici dell’Estremo Oriente, precolombiani e del bacino del Mediterraneo, africani e di- pinti, specie dei primitivi italiani (Giotto, Simone Martini, Duccio, Lorenzo Monaco). La dimora di S divenne presto un punto di riferimento per intellettuali e uomini di cultu- ra provenienti da tutte le parti del mondo: Anatole France, Jean Cocteau, Djagilev, Stravinski, per citarne solo qualcu- no. Alla sua morte le opere raccolte dai coniugi vennero di-

Storia dell’arte Einaudi vise tra i tre figli: la collezione Féron-S fu oggetto di uno studio apparso nel 1956 con prefazione di Georges Salles. Presso Palazzo S si conserva tuttora parte del nucleo origi- nario, mentre un certo numero di opere fu disperso nel cor- so di un’asta a Londra nel 1965 e nel 1966. (prj). Stoll, Arthur (Schinznach 1887 - Arlesheim 1971). Titolare sin dal 1934 di importanti funzioni nell’industria chimica svizzera, il dr. S raccolse una collezione che venne in parte orientata dalla mostra di arte svizzera contemporanea presentata nello stes- so anno al Museo del Jeu de Paume di Parigi. Infatti, tran- ne opere di Corot (la Strada di Pigeonnier a Saintry, 1860), dei pittori di Barbizon, di Delacroix, di impressionisti (Mo- net: il Monte Kolsas, 1895), Cézanne (l’Albero contorto, 1882-85), Munch (il Vampiro, 1895-1902), i circa seicento pezzi di questo complesso sono opere elvetiche dell’Otto- Novecento: Böcklin (Saffo, 1862), Anker (Vecchio che leg- ge), Cuno Amiet (Ritratto di fanciulla, 1907), Augusto Gia- cometti (la Pace, 1915), Steinlen, François Barraud e un cen- tinaio di tele di Hodler (il Grammont all’alba, 1917). Completa la collezione una galleria di sculture di Houdon, Rodin, Picasso, P. Meylan e A. Zschokke. (bz). Stoltenberg, Mathias (Tönsberg 1799 - Vang (Hedmark) 1871). Inviato a Co- penhagen per imparare il mestiere di falegname, vi apprese però anche a dipingere e, con l’incoraggiamento del princi- pale ritrattista danese dell’epoca, C. A. Jensen, scoprì le pro- prie doti di ritrattista. Dal 1826, S visse in Norvegia come ritrattista itinerante, realizzando opere interessanti che fu- rono tuttavia «riabilitate» solo nel sec. xx. Le sue interpre- tazioni del mondo dei funzionari e della borghesia agiata so- no intrise di un’amabile ingenuità; in particolare i bambini e le giovani donne sono resi con grazia e delicatezza, dimo- strando, nelle opere migliori, capacità di penetrazione psi- cologica. S è ben rappresentato nella ng, di Oslo. (lo). Stomer (Stom, Sturm), Matthias (Amersfoort? 1600 - Sicilia? dopo il 1650). Il nome del pit- tore in realtà è Matthias Stom, come documentano il Miraco- lo di sant’Isidoro nella Cattedrale di Caccamo in Sicilia firma-

Storia dell’arte Einaudi to «Matthias Stom f.f. 1641» e il perduto Martirio di santa Ce- cilia (Messina, Cappuccini) nel quale il pittore si firmava «Flandriae Stomus coloribus expressit». Pochi sono i dati d’ar- chivio che lo riguardano e non si sono trovate notizie sulla sua prima formazione, che dovette svolgersi a Utrecht nella bot- tega di Bloemart e di Wtewael come dimostrerebbe l’influsso di quest’ultimo leggibile in una delle sue prime opere, Tobia e l’angelo (L’Aja, Museo Bredius). A Utrecht S assorbì la lezio- ne del caravaggismo proprio di G. Honthorst studiandone il composto realismo e l’uso dell’illuminazione artificiale, ele- menti che compaiono nelle opere ascrivibili al suo soggiorno romano, ad esempio la Vocazione di san Matteo (Londra, Matthiesen Fine Art) o il Gesú fra i dottori (Monaco, ap), do- ve l’ascendente nordico di Honthorst e Baburen va stempe- randosi sotto l’influsso diretto degli originali caravaggeschi. Documentato a Roma nel 1630, 1631 e nel 1632, S si spostò poi in Sicilia nel 1641. Dovette soggiornare anche alcuni an- ni a Napoli, all’incirca tra il 1633 e il 1640-41, come fanno supporre le numerose opere di sua mano conservate nella città e nei dintorni (Sacra famiglia, Discepoli di Emmaus: Napoli, Ca- podimonte). Il catalogo di S comprende soggetti tratti dalla vita di Cristo (Adorazione dei pastori: Nantes, mba; Monrea- le, Palazzo comunale; Napoli, Capodimonte; Cattura di Cristo: Ottawa, ng; Napoli, Capodimonte, Incoronazione di spine:Ca- tania, me; Cena di Emmaus: Grenoble; Gottingen, Museo dell’Università), del Vecchio Testamento (Adamo ed Eva ri- trovano il corpo di Abele: Malta, Museo di La Valletta; Cattu- ra di Sansone: Torino, Gall. Sabauda; Guarigione di Tobia:Ca- tania, mc), e di storia romana tra cui la Morte di Catone (Ca- tania, me; Malta, Museo di La Valletta) e Muzio Scevola davanti a Porsenna (Messina, Museo regionale; Melbourne, ng). Alla sua prima formazione sui testi del caravaggismo di Utre- cht, S legò l’impressione diretta delle opere romane e napo- letane di Caravaggio, come nella Flagellazione di Cristo (Pa- lermo, Oratorio del Rosario), direttamente derivata dal qua- dro d’identico soggetto eseguito per San Domenico Maggiore a Napoli. Va anche aggiunto che se l’influsso di Honthorst è indiscu- tibile, S dimostra una sensibilità affine, non solo nella scel- ta dei soggetti ma anche nell’icastica espressività dei perso- naggi, a Baburen, stemperando però l’ascendenza nordica

Storia dell’arte Einaudi nella personale rielaborazione del naturalismo meridionale (San Pietro: Napoli, coll. priv.; l’Incredutità di san Tommaso: Bergamo, coll. Scotti; Madrid, Prado), che lo ha fatto assi- milare ai «naturalisti di Napoli» (Longhi). S dipinse anche scene di genere a lume di candela dal taglio teatrale e insie- me di intensa verità (Personaggi a lume di candela: Bergamo, Accademia Carrara; Copenhagen, smfk; Grenoble, Museo; Dresda, gg; Personaggi che soffiano su un carbone incande- scente: Bergamo, Accademia Carrara; Palermo, gn; Varsa- via, Museum Narodome). (jv + sr). Stone, Henry (Londra 1616-53). Compì viaggi in Francia, nei Paesi Bassi e in Italia e fece probabilmente apprendistato ad Amster- dam presso lo zio Thomas de Keyser. Fu probabilmente lui l’autore di ritratti oggi ipoteticamente attribuiti a Dobson. Gli si devono anche copie da van Dyck: William Land (Lon- dra, npg; originale di van Dyck in Lambeth Palace), Carlo I (Londra, vam; originale nella collezione della Corona). (jns). Stoop, Dirck (Utrecht 1618 ca. - Utrecht? dopo il 1686). Venne forse in Italia tra il 1635 e il 1645. Nel 1661 e 1662 fu pittore alla corte del Portogallo. Dal 1662 al 1665 soggiornò in Inghil- terra, poi si stabilì a Utrecht. Si specializzò nella rappre- sentazione di paesaggi con una partita di caccia o un com- battimento di cavalleria, soggetti che trattava con virtuosi- smo e naturalezza, in uno stile vicino e quello di Pieter van Laer. Esiste inoltre un’innegabile vicinanza tra la sua opera e quella del contemporaneo Jan Baptist Weenix. Dopo Wouwerman, S è, a Utrecht, il maggior rappresentante del- la pittura di cavalli, che illustrò nel 1661 in una serie di do- dici acqueforti, rimaste celebri. È rappresentato principal- mente ad Amiens (Musée de Picardie: Sosta durante la cac- cia), Bonn (Reinisches Landesmuseum: Paesaggio con rovine), Utrecht (Centraal Museum: Paesaggio con cavalieri e cani, 1649) al Rijksmuseum di Amsterdam (Scena di caccia, 1649), nonché a Bruxelles (mrba: il Riposo presso la fonte; Sosta pres- so una foresteria), Copenhagen (smfk: Sosta durante la cac- cia, 1643; Veduta immaginaria di grotta) e a Dublino (ng: Sce- na di caccia).( abl).

Storia dell’arte Einaudi Stoop, Maerten (Rotterdam 1618/20 - Utrecht 1647). Fratello minore di Dirck S, visse e operò a Utrecht, dove è documentato nel 1638 e nel 1647. Dipinse paesaggi animati da cavalieri, simili a quelli del fratello: la Carità di san Martino (Utrecht, Centraal Museum). Eseguì inoltre scene d’interni con gruppi di bevitori, di soli- to donne e soldati, vicini a quelli del conterraneo Jacob Duck. Caratteristici dello stile del pittore sono i personaggi dai vol- ti paffuti: Soldato e giovane donna (Aix-en-Provence, Musée Granet), Scena d’interno (Amsterdam, Rijksmuseum), Allegra compagnia, Saccheggio di un villaggio (Copenhagen, smfk), Conversazione galante (Lille, mba). (abl). Storck (Sturck), Abraham (Amsterdam 1644 - dopo il 1704). Figlio del pittore di Am- sterdam Jan Jansz Sturck (1603-64/70), eseguì le figure di alcuni dipinti di Moucheron e di Hobbema; è noto però so- prattutto per le marine, di fattura precisa e di piacevole fi- nezza di toni (in particolare le nuvole rosate), dove prevale il ricordo di Backhuysen e di Willem van de Velde il Gio- vane: Spiaggia e marina (1683: L’Aja, Mauritshuis), Paesag- gio della Mosa (Londra, ng) e numerosi altri esempi al Mu- seo di storia della marina ad Amsterdam. Dipinse anche pae- saggi italiani (il che fa supporre che compisse il viaggio in Italia) vicini a quelli di Beerstraten e di Weenix (Porto ita- liano: Rotterdam, bvb; Rouen, mba). Il fratello Jacobus (Am- sterdam 1641 - dopo il 1693), operò a Spira, ad Amburgo e ad Amsterdam, viaggiò forse anch’egli in Italia e dipinse pae- saggi e marine nello stile di Abraham (Castello in riva a un fiume: Londra, Wallace Coll.). (jv). Storer, Johann Christoph (Costanza 1611 ca. - 1671). Soggiornò nell’Italia setten- trionale dal 1640 al 1657 e decorò con dipinti a fresco, in- fluenzati da Cerano, Crespi e Morazzone, chiese di Milano e di Bergamo, nonché la Certosa di Pavia. Tornato in patria nel 1657 S, le cui realizzazioni come disegnatore sono tal- volta notevoli, riempì di mediocri dipinti le chiese svizzere e quelle della Germania meridionale. Il suo autoritratto è conservato agli Uffizi di Firenze. (ga).

Storia dell’arte Einaudi «Storia dell’arte» Rivista diretta fino al 1992 da G. C. Argan e redatta da M. Calvesi, O. Ferrari, e A. M. Romanini (in passato anche L. Salerno), a frequenza prima trimestrale e poi quadrimestrale. Gli articoli pubblicati sono di impostazione storica e trattano la storia dell’arte dal Medioevo al Novecento. Si caratterizza nel panorama italiano per l’apertura alle tematiche iconologi- che, dovuta soprattutto a M. Calvesi e ad alcuni giovani stu- diosi della sua scuola. I fascicoli del 1980 (nn. 38-40) sono usci- ti in un volume unico con studi in onore di C. Brandi. (came). Storlato, Giovanni (Venezia - documentato a Padova dal 1436 al 1457). La fi- sionomia artistica dello S si deduce unicamente dagli affre- schi della cappella di San Luca in Santa Giustina che stilisti- camente attestano una sua formazione nell’ambito della tra- dizione di Gentile da Fabriano e soprattutto del Pisanello, con esiti che lo dichiarano attento anche allo svolgimento di Giambono. Taluni particolari di maggior naturalezza e fu- sione cromatica rivelano un’assonanza «masolinesca», affine a quella di Jacopo Bellini, e in anticipo su Antonio Vivarini. Nessun’altra opera successiva al ciclo padovano ne illustra l’attività. Va ricordato che è stato accostato allo S l’affresco raffigurante san Biagio in San Gottardo di Asolo, varia- mente attribuito. (gf). Storstein, Aage (Stavanger 1900 - ?). Studiò a Parigi, presso O. Friesz e Lho- te, nel 1920-21; e vi tornò nuovamente nel 1926. Fu poi al- lievo di Georg Jacobsen all’Accademia di belle arti di Oslo (1935-36). Visitò piú volte l’Italia (1921; 1932-33 e 1938-39). I suoi primi dipinti, spesso con soggetti tratti dalla vita dei lavoratori, presentano un naturalismo che tende a semplifi- care le forme. Il partire dal 1930 ca. adattò il cubismo espres- sivo di Picasso in vaste tele come il Gran bucato (1933: Oslo, ng) e il Mercato del pesce (1934: ivi). Nel medesimo stile, dal colore chiaro e luminoso, decorò una grande sala del nuovo municipio di Oslo (1938-50) con affreschi rappresentanti il vittorioso cammino della Libertà, dalla rivoluzione alla libe- razione della Norvegia dopo l’ultima guerra. Ha insegnato presso l’Accademia di belle arti di Oslo. (l°).

Storia dell’arte Einaudi Stosskopff, Sebastian (Strasburgo 1597 - Idstein (Nassau) 1657). Figlio di un di- plomatico della città di Strasburgo, Georg S, si formò pres- so il miniatore e incisore Friedrich Brentel, al quale deve forse il suo acuto senso della realtà. Il 15 dicembre 1614, Georg S chiese al consiglio dei XXI di collocare il figlio pres- so un maestro pittore; sin dall’estate successiva i senatori Kipp e Schach lo affidavano a Daniel Soreau, artista vallo- ne rifugiato ad Hanau-Francoforte, educatosi forse presso il moravo Georg Flegel e Peter Binoit, pittori di nature mor- te. Alla sua morte, Sebastian, allora ventiduenne, ne dires- se per un certo tempo la bottega, frequentata da Joachim von Sandrart e dal figlio di Daniel, Pierre Soreau. Gli sconvolgimenti della guerra dei Trent’anni lo indussero a lasciare Hanau nel 1621 per Parigi, dove scoprì l’arte dei grandi contemporanei, Rubens, Vouet, Callot, A. Bosse, Baugin, Linard e probabilmente anche Rembrandt. Sandrart lo incontrò a Venezia nel 1629, ma S tornò presto a Parigi, dove sembra fosse inserito nell’ambiente fiammingo e pro- testante dei pittori della «realtà» di Saint-Germain-des-Prés. Nel 1641 tornò a Strasburgo; l’11 febbraio si fece iscrivere sui registri della corporazione d’Echasse, ma ne respinse le sollecitazioni per un lavoro che non intendeva assolvere: nondimeno il 13 ottobre 1642 fece omaggio al consiglio dei XV di una «fort belle peinture» per la sala delle sedute. Il 21 settembre 1646 sposò Anne-Marie Riedinger, figlia del maestro orafo N. Riedinger, che era già, peraltro, suo co- gnato. Tra coloro che acquistarono ed apprezzarono le sue opere, furono: Kinast, Brakenhofer, Walter Arhardt e so- prattutto il conte Johan van Nassau-Idstein, rifugiato a Stra- sburgo fino al 1646: questi invitò nel 1655 l’artista nella sua residenza di Idstein, dove egli dipinse fino alla morte, so- pravvenuta misteriosamente il 10 febbraio 1657, provocata vuoi da assassinio, vuoi da abuso di alcolici. L’arte di S, quasi esclusivamente circoscritta a nature mor- te (benché includa anche qualche ritratto), nasce dalla pit- tura fiamminga e olandese, rinvigorita da un apporto cara- vaggesco, di prima fonte per diretto contatto con l’Italia, o mediato dalla maniera di Honthorst. I due soggiorni parigi- ni lo misero in contatto con la seconda scuola di Fontaine- bleau (i Cinque Sensi, 1663; i Quattro Elementi: Strasburgo,

Storia dell’arte Einaudi mba). Le ricerche compositive rigorose e un po’ secche di questo periodo verranno soppiantate, al suo ritorno a Stra- sburgo, dalle rievocazioni d’ambiente, in cui il trompe-l’oeil è immerso in un «faustiano» chiaroscuro (Il Cesto dei bic- chieri: ivi). Come in Georg Flegel, il simbolismo degli og- getti che rappresenta allude al tema della precarietà dell’esi- stenza, della ricchezza e della bellezza, ma S insiste in mo- do particolare sul contrasto tra il valore materiale e il valore artistico dei preziosi oggetti che sceglie, piuttosto che sulla considerazione della quale vengono investiti dopo il loro uso (Bicchieri e tazze d’argento: Karlsruhe, Museo). È rappre- sentato soprattutto da una bella serie di opere al Museo di Strasburgo e anche a Monaco (ap: Natura morta), a Rotter- dam (bvb) e al Museo di Saarbrücken. Uno studio recente ha fissato il catalogo delle sue opere. (vb). Stothard, Thomas (Londra 1755-1834). Dopo un apprendistato come disegna- tore su seta, seguì nel 1777 i corsi della Royal Academy. Amico di Flaxman e di Blake, si fece all’inizio conoscere per le illustrazioni di libri neoclassici ma in seguito dovette la fama soprattutto alla sua pittura, ispirata da soggetti stori- ci o da temi shakespeariani, come la Tempesta (1802 ca.: Lon- dra, vam). La ricchezza di colore e di toni in S, ai suoi tem- pi soprannominato «il Raffaello inglese», denota in realtà l’influsso di Tiziano e di Rubens, riscontrabile anche nella spontaneità di alcuni bozzetti (Intemperanza: Londra, Tate Gall., per la decorazione della scala di Burghley House, com- missionata dal duca di Exeter). Alla Tate Gall. di Londra si conserva un cospicuo gruppo di sue opere. (wv). Stourhead La tenuta inglese di S, nel Wiltshire, venne acquistata nel 1718 dal banchiere Henry Hoare; l’edificio fu realizzato da Colin Campbell. Il figlio del banchiere, Henry Hoare II (1705-85), a cui si devono i giardini di S, cominciò a costi- tuire la collezione acquistando parecchi dipinti all’estero ne- gli anni 1737-40; amava soprattutto i paesaggi e acquistò due grandi Dughet, numerosi Wootton, molti Vernet, alcuni Pan- nini e Zuccarelli e, nel 1773, i Contadini che vanno al merca- to di Gainsborough (oggi al Royal Holloway College). Oltre a questi fece entrare nella sua collezione un Riposo durante la

Storia dell’arte Einaudi fuga in Egitto di Fra Bartolomeo, la Figlia di Erode di Carlo Dolci, il Riposo durante la fuga in Egitto di Rembrandt (Du- blino, ng), il Ratto delle Sabine (New York, mma) ed Ercole al bivio di Poussin, il Sacrificio di Noè e Rachele seduta sugli dèi lari dell’Imperiali, una Madonna di Trevisani, quadri neo- classici di Lagrenée, una tela allegorica di Maratta e, com- missionandolo a Mengs nel 1759, un Augusto e Cleopatra. Il nipote, sir Richard Colt Hoare (1758-1838), antiquario e discreto scrittore, durante il suo viaggio nel continente (1785-91) acquistò nel 1787 a Venezia dieci disegni di Ca- naletto raffiguranti feste e cerimonie veneziane; poi, nel 1790 a Firenze, l’Adorazione dei Magi di Cigoli. Aggiunse a S (1796-1800) la biblioteca e la galleria, e raccolse un insie- me di dipinti inglesi contemporanei di Thomson, Woodfor- de, Turner (il Lago d’Averno), B. Barker e Collins (paesag- gi), nonché acquerelli di Ducros, Cozens e otto vedute del- la Cattedrale di Salisbury eseguite da Turner all’inizio della sua carriera. Molti tra i migliori quadri e disegni andarono dispersi presso Christie’s nel giugno 1883; ma il resto della collezione restò a S e venne acquisito dal National Trust nel 1946. (jh). Stradano, Giovanni (Jan van der Straeten, detto) (Bruges 1523 - Firenze 1605). Secondo il Borghini (1584), apprese il mestiere dal padre e poi presso Pieter Aertsen ad Anversa, dove divenne maestro nella gilda di San Luca nel 1545. Intrapreso il viaggio verso l’Italia, si fermò a Lione presso Cornelis de la Haye, e poi a Venezia, dove conobbe un maestro arazziere di Cosimo dei Medici, forse Jan Rost, che lo convinse a seguirlo a Firenze per lavorare nelle araz- zerie medicee. Dal 1550 ca. S si stabilì a Firenze, dove tra- scorse tutta la sua vita lavorando soprattutto per i Medici, sia per l’arazzeria sia nell’ambito delle imprese dirette da Vasari, del quale fu stretto collaboratore. Un viaggio a Ro- ma, ricordato dalle fonti, si colloca probabilmente verso il 1550, ma non fu probabilmente l’unica esperienza romana dell’artista che potrebbe esservi tornato una decina di anni dopo. Fra il ’57 e il ’70 partecipò alla decorazione del Salo- ne dei Cinquecento, dell’Appartarnento di Eleonora da To- ledo, dello Studiolo di Francesco I (Laboratorio di alchimia, Circe) in Palazzo Vecchio. Fra il settimo e l’ottavo decennio

Storia dell’arte Einaudi disegnò i cartoni per alcune importanti serie di arazzi: Sto- rie di David, Fatti di donne romane, Storie di Ester, le Cacce (per la Villa di Poggio a Cajano). Il questi anni risalgono an- che alcune pale d’altare in Santa Croce (Ascensione, 1569), nella Santissima Annunziata (Crocifissione), in Santo Spiri- to (Cristo scaccia i mercanti dal Tempio, 1572), in Santa Ma- ria Novella (Battesimo di Cristo).Secondo Borghini, lavorò anche a Napoli (Monteoliveto) e tornò nelle Fiandre dal ’76 al ’78, forse per prendere contatto con gli incisori che ne hanno riprodotto numerose serie di disegni. Al 1585-86 ri- sale la decorazione del cortile e della cappella (cui apparten- gono l’Adorazione dei pastori e l’Adorazione dei Magi, oggi in una coll. priv. di Lucca) del palazzo del cardinale Alessan- dro dei Medici, poi Della Gherardesca, a Firenze. Lo stile di S agli esordi si apparenta a quella sorta di ma- nierismo aneddotico dei contemporanei di Anversa, che cer- cavano di conciliare il realismo nordico con la visione sinte- tica e le eleganze formali della pittura italiana; a questo pe- riodo risalgono i progetti per la serie di incisioni intitolata Nova Reperta.Piú tardi, soprattutto per influsso di Vasari e di Salviati, S diviene un manierista italianizzante, ma non poté mai rinnegare completamente quel senso acuto della realtà che è innato in ogni pittore fiammingo. Questo dua- lismo è evidente nei suoi progetti per gli arazzi del padiglione di caccia a Poggio a Cajano, nella serie delle incisioni della Grande Passione e nelle illustrazioni di Dante. (wl + sr). Strafella, Gianserio (Copertino; documentato dal 1546 - morto tra la fine del 1571 e il 1573). Si forma nell’ambito dei seguaci napoleta- ni di Polidoro da Caravaggio, a contatto con Marco Cardi- sco e Pietro Negroni (Trinità: Lecce, Santa Croce; Madonna col Bambino: Episcopio di Gallipoli; San Giovanni Battista: Lecce, Santa Teresa). In seguito, sollecitato dalla conoscen- za delle opere meridionali del Vasari, del Roviale e del Pi- no, indirizzò il proprio linguaggio verso i modelli della «ma- niera» tosco-romana (affreschi del castello di Copertino; Ma- donna di Costantinopoli e santi, 1564: Lecce, San Francesco di Paola; Pietà del Carmine di Nardò; decorazione della cap- pella del Sacramento e Deposizione, 1570-71: collegiata di Copertino). (rn).

Storia dell’arte Einaudi Strange, Robert (isole Orcadi 1723 - Londra 1792). Di nobile famiglia scoz- zese, apprese i rudimenti del disegno presso Richard Coo- per a Edimburgo. Dopo la sconfitta del partito degli Stuart, cui la sua famiglia era legata, si rifugiò a Parigi, dove fu al- lievo di J.-B. Descamps e di J.-P. Lebas. Terminata la guer- ra civile, tornò in Inghilterra intorno al 1750, preceduto da una fama già consolidata, e si dedicò per dieci anni a ripro- durre i dipinti italiani conservati nelle gallerie londinesi. In- cideva ad acquaforte ripresa a bulino, secondo il metodo del suo maestro Lebas. Nel 1761 intraprese un viaggio di cin- que anni in Italia dove fu accolto con riguardo e venne no- minato membro delle Accademie di Roma, Firenze, Parma e Bologna. In Italia disegnò, e acquistò numerosi quadri, de- dicandosi al commercio d’arte, svolto in particolare tra Pa- rigi e Londra. Fu anche collezionista di disegni, che spesso incideva di sua mano. Fedele alla predilezione per i maestri italiani, incise in seguito Cupido dormiente da Guido Reni (1766), la Maddalena da Correggio (1780), l’Autoritratto da Raffaello (1787). Di altissimo livello sono le sue interpreta- zioni di ritratti di van Dyck (Carlo I in piedi, 1770; Carlo I in piedi accanto al suo cavallo, 1782; Enrichetta di Francia e i suoi figli, 1784). Nel 1787 la sua considerevole fama gli pro- curò il titolo nobiliare. Va poi ricordata la pubblicazione da parte di S nel 1775 dell’Inchiesta sullo sviluppo e l’organiz- zazione dell’Accademia reale di belle arti; poco prima della sua morte mise in vendita un gruppo di opere tra le quali erano presenti anche pezzi di sua mano. (mtmf). Stransky, Ferdinand (Viehhofen (Sankt Pölten) 1904 - ?). Frequenta dal 1919 al 1923 la Scuola di restauro dell’Accademia di belle arti di Vien- na e successivamente a Parigi, diventa nel 1924 allievo di Othon Friesz. Nel 1925 torna a Vienna per stabilirvisi. Pitto- re espressionista, prosegue la tradizione del periodo di Dresda di Kokoschka e delle prime opere di Herbert Boeckl, pur es- sendo ricettivo all’influsso di Die Brücke. Ha raffigurato pae- saggi, nudi, ritratti, interni, panorami di periferia e scene di caffè, eseguite con una materia ricca e di grande luminosità. Lo studio di Cézanne, dei cubisti e del Bauhaus diede al suo stile un carattere piú costruttivo e rigoroso che verso gli anni Ses-

Storia dell’arte Einaudi santa tenderà a un’espressività quasi astratta pur non elimi- nando del tutto la figurazione (Loggia, 1950: Vienna, Kultu- ramt; Ferrovia, 1958: Vienna, og; Paesaggio nei pressi di Pulkau, 1959: ivi; Donne che cuciono, 1960: Vienna, hm). (jmu). strappo Intervento di rimozione di un dipinto murale da una super- ficie architettonica limitato al distacco della sola pellicola pittorica. I primi esperimenti di s noti sono del napoletano Majello (De Dominici) e del ferrarese Contri (Baruffaldi) e datano al 1720 e al 1725. Lo s, a differenza dello stacco (→), può essere eseguito solo se la coesione tra pellicola pittorica e intonaco è scadente, in quanto è la maggiore adesione che si stabilisce tra la superficie dipinta e le tele che vengono in- collate al di sopra a consentire la buona riuscita dell’opera- zione. Praticata un’incisione lungo il perimetro della zona da rimuovere, si inizia a «strappare» dal basso, tirando la tela adesa al dipinto, e si procede arrotolando man mano su un cilindro la parte distaccata. Dopo un’accurata pulitura del verso, la pellicola pittorica viene munita di un nuovo sup- porto, flessibile (tela) o rigido. Il metodo permette di ope- rare su superfici anche molto ampie senza sezionarle (fino a 50 mq), ma non consente di ritenere né le tipiche irregola- rità e le decorazioni in rilievo, né le caratteristiche ottiche conferite dall’intonaco originario. Risultato dello s è per- tanto la perdita dei requisiti propri del dipinto; inoltre non sempre si ottiene il distacco omogeneo della pellicola pitto- rica nel suo intero spessore – è noto l’imperversare della mo- da del «doppio s» (Cavenaghi). Il metodo ha goduto di gran- de favore anche perché permette il recupero della sinopia (→), vantaggio questo che l’ha spesso fatto preferire allo stacco anche quando tecnicamente sconsigliabile. La ten- denza attuale è di limitare il distacco delle opere, ricorren- dovi solo in casi eccezionali, privilegiando piuttosto la con- servazione in situ e rivolgendo l’intervento al risanamento del supporto murario e all’eliminazione delle cause del de- terioramento. (→ anche trasporto). (mni). Strasburgo D’origine celta e poi romana, S ebbe la sua prima Basilica sotto i carolingi (sec. vii), rinnovata secondo lo stile roma- nico attorno al 1015, sotto il vescovo Wernher I. Dal 1262

Storia dell’arte Einaudi S diviene città libera dell’impero germanico, dal 1339 dota- ta anche di una costituzione cittadina «democratica». Qua- si non restano nella città testimonianze di epoca romanica. Le illustrazioni dell’Ortus Deliciarum, completate nel 1205 ca., che la badessa Herrad von Landsberg dové affidare a uno scriptorium di S, e il manoscritto illustrato di Gottfried von S, Tristano e Isotta (primo terzo del sec. xiii), scompar- vero nell’incendio della biblioteca municipale nel 1870; ma una versione della seconda opera, risalente al 1240 ca., è conservata nella sb di Monaco. Agli anni Ottanta del Tre- cento risale il dipinto con il prospetto, su pergamena, del piano tra le torri della Cattedrale, uscito dalla bottega di Mi- chel von Freiburg e talvolta attribuita a Nicolas Wurmser. La chiesa di Saint-Nicolas conserva due dipinti murali, in cattivo stato, della metà del sec. xiv: la Resurrezione e la De- posizione dalla Croce.Nella chiesa di San Tommaso è affre- scato un grande San Cristoforo dello stesso secolo; a Saint- Pierre-le-Jeune il Corteo delle nazioni, di stile piú antico (fi- ne del sec. xiii), è stato a tal punto rifatto e completato da non poter valere come testimonianza dell’epoca. Solo col sec. xv comincia a S lo sviluppo della pittura e del- le arti grafiche; punto di partenza è la Crocifissione del Mu- seo Unterlinden di Colmar (primi del sec. xv) che A. Châ- telet (1991) propone di attribuire al pittore piú celebre e lo- dato del tempo: Hans Tieffenthal. Le due deliziose tavole del Dubbio di Giuseppe e della Nascita di Maria, risalenti al 1422-25 ca. e provenienti dal convento domenicano di Saint-Marc, un tempo attribuite al Maestro del Giardinet- to del Paradiso terrestre di Francoforte (ski), sono da con- siderare opere gravitanti attorno al suddetto Maestro, ma con componenti realistiche e compositive piú recenti, pro- babilmente d’origine fiammingo-borgognona (Broederlam): per esse Châtelet ha rievocato il nome di Hermann Schla- deberg, pittore nativo di Basilea e documentato a S dal 1400 al 1438. In effetti, sia nello spirito che nella tecnica le due tavole rimangono legate piuttosto alla cultura precedente, attestata pure dalle illustrazioni della Guerra di Troia (147: bibl. universitaria di Giessen), che ai successivi complessi della seconda metà del secolo. Malgrado il gran numero di artisti che gli archivi permetto- no di identificare a S nel sec. xv, poco si conosce sulle con-

Storia dell’arte Einaudi dizioni della loro attività, e un certo numero di opere resta- no anonime. Il laboratorio del Maestro E.S., le cui opere si collocano all’inizio della fioritura dell’incisione, costituisce una fonte di estrema importanza, non solo per le arti grafi- che, ma anche per la pittura, le vetrate e la scultura, anche in virtú della conoscenza dei modelli fiamminghi che l’ano- nimo mostra di avere. La bottega del maestro vetraio Peter Hemmel di Andlau presenta un interesse equivalente. Tra questi due punti di cristallizzazione si colloca l’attività di maestri meno riconoscibili, come Hans Hirtz e Heinrich Lützelmann, che produssero l’uno l’Altare della Passione per l’altar maggiore di Sainte-Thomas (oggi diviso tra Karlsruhe, kh; Colonia, wrm; coll. priv.), l’altro quello di Sainte-Ma- deleine (la Passione), conservato oggi nella chiesa di Saint- Pierre-le-Vieux. Un ruolo centrale nella traduzione delle esperienze fiamminghe nello stile espressivo altorenano eb- be anche Jost Haller, da poco restituito alla sua vera città di origine, S (Sterling), che tuttavia è già dal 1453 al servizio del duca di Nassau-Saarbrücken. Gli si attribuisce la cosid- detta Predella Bergheim (Colmar, Unterlinden Museum) e l’affresco monumentale di San Michele in San Tommaso a S. Forse questa funzione essenziale di travaso e aggiornamen- to del vocabolario tardogotico alsaziano tramite le forme e lo stile fiammingo fu portata avanti dal fratello di Jost che aveva preso residenza a Friburgo, come dimostra il trittico ad ante mobili di Stauffenberg (1460 ca.: ivi), dipinto su commissione di Hans Erhard Bock di Stauffenberg per il convento di Issenheim che ha portato a lungo una attribu- zione al giovane Schongauer. Molto ipotetico è il soggiorno a S di Grünewald, che Hans Naumann e Hans Haug fissa- no attorno al 1479. La S del sec. xvi, pienamente aderente alla Riforma, non co- stituiva un terreno molto favorevole per gli artisti ispirati dall’arte religiosa tradizionale. Tra loro i piú felici sono quel- li che assimilano gli interessi umanistici del tempo e si dàn- no al ritratto e all’allegoria. Citiamo qui soprattutto Hans Baldung Grien, tanto nella pittura religiosa che nel ritratto e nella composizione mitologica; ma anche Wilhelm Stetter (il Maestro della Croce di Malta), Hans Wyditz, Hans We- chtlin, Théodore de Bry, Étienne Delaune, David Kandel e, nell’ispirazione manierista della seconda metà del secolo, Wendel Dietterlin e Tobias Stimmer, il pittore dell’orolo-

Storia dell’arte Einaudi gio astronomico che si conserva nella Cattedrale. All’inizio del sec. xvii Friedrich Brentel gode di reputazio- ne internazionale come illustratore, miniatore e pittore aral- dico. Si hanno allora rapporti assai stretti con le corti di Ha- nau e di Francoforte (margraviato di Baden), e con la Lore- na: il che è confermato dall’opera di Johann Jakob Walther e dalla produzione giovanile di Sebastian Stosskopff, allie- vo dal 1615 al 1619 di Daniel Soreau ad Hanau. L’ecletti- smo caratterizza l’ambiente artistico di S in questo periodo, oscillando tra la maniera fiamminga e i riferimenti italiani e francesi. Artisti come Kauw e Boumann si stabiliscono all’estero (Svizzera, Olanda), mentre, provenienti dalla Ger- mania, B. Hopffer, Theodor e Daniel Roos illustrano a S la natura morta e il ritratto. Questi ultimi peraltro non rag- giungono l’acutezza di visione e il livello stilistico di Stos- skopff. Li seguono Wilhelm Baur, allievo di Brentel, e Gas- sner di Francoforte; il primo, italianizzante, opera a Roma; il secondo è già toccato da una sorta di pre-romanticismo nel paesaggio, ove l’atmosfera olandese e quella italiana si fon- dono in un accento malinconico. La S del tempo, vive una difficile situazione economica e politica, e sembra rinuncia- re ai toni eroici della grande pittura, presso il pubblico sono in voga piuttosto i generi borghesi, dal livre d’amitié, alla mi- niatura e al ritratto. Con J. van der Heyden, Seupel e J. J. Arhardt, il disegno e l’incisione superano spesso l’innegabi- le interesse documentario. Il sec. xviii vede S annessa alla Francia, dopo una guerra che costò alla città e all’Alsazia intera parecchi danni e distru- zioni d’architetture e opere d’arte (1681). È il secolo dei fa- sti dei cardinali di Rohan, vescovi di S e, a questo titolo, principi del Sacro Romano Impero, nonché del governatore reale de Klinglin, di scandalosa memoria. La pittura religio- sa non presenta esempi interessanti; prevale piuttosto il ri- tratto dai tocchi amabili spesso in miniatura, con Melling, Keman, Weyler, Guérin, o le scene dal naturalismo delica- to e saporoso di Martin Drolling, ispirato dall’Olanda, o an- cora i soggetti di genere galante, portato a livello di perfe- zione da J. F. Schall, che soggiornò a Parigi, e infine il pae- saggio, bucolico e alla Rousseau con Meyer, pre-romanico, animato di una sensibile atmosfera con J. P. Loutherbourg, la cui vita avventurosa doveva concludersi in Inghilterra. Gli

Storia dell’arte Einaudi arredi di interni, soprattutto all’epoca di Luigi XVI, fanno spesso appello ai dipinti in grisaille o in chiaroscuro di Mel- ling e di J. J. Sorg per ornare pannelli e sopraporta. Copie di opere francesi, specie di Poussin, e delle Stanze di Raf- faello in Vaticano, ornavano i sopraporta del castello dei Rohan. Oltre ai Guérin, incisori alla Zecca e soprattutto ritrattisti, si fa conoscere Benjamin Zix, vero e proprio reporter delle campagne napoleoniche, abile a cogliere sul vivo cose e per- sone, che peraltro si dedicò anche alle composizioni lettera- rie care ai romantici e, con bella franchezza, al paesaggio dell’Alsazia e dei Vosgi. Piú avanti nel secolo, Gustave Doré rende conto di tutti i soggetti con la sua esuberanza espres- siva, e a volte pare sommergerli nella sovrabbondanza illu- strativa. Pittore spesso dal tocco pesante, conferisce ai suoi disegni, trattati a guazzo e acquerello, l’angoscia surrealista di un William Blake. Come molti suoi contemporanei sog- giornò poco nella città natale. Nel sec. xix S partecipa al ge- nerale rinnovamento dell’arte alsaziana con i nomi di Gu- stave Brion, Eugène Beyer, Félix Haffner, C. A. Pabst, F. T. Lix, G. A. Jundt, C. F. Marchal, A. Dieffenbach, Louis F. Schützenberger e soprattutto Théophile Schuler. Questi artisti alternano le scene di costume e quelle di guerra, il pae- saggio e il ritratto, e quasi ignorano la pittura religiosa. Sen- sibili, in diverso grado, al romanticismo francese, al Bie- dermeier tedesco, al realismo di Courbet, all’apporto della scuola di Barbizon, agli esempi delle scuole sia di Düsseldorf che di Monaco, costituiscono nondimeno una scuola alsa- ziana ben caratterizzata, di evidente interesse documenta- rio. Se la fusione di tutte queste influenze avvenne essen- zialmente a Parigi, dove molti di questi artisti risiedettero, la sconfitta francese a Sedan del 1870 contro l’esercito prus- siano e la conseguente riannessione dell’Alsazia, insieme al- la Lotaringia, alla Prussia, ebbe nondimeno profonde con- seguenze e provocò una vera e propria rottura della tradi- zione. In seguito i centri di riferimento per gli artisti saranno tanto Parigi che Monaco, basti pensare alla produzione di Rupert Carabin, Paul Braunagel, Gustave Stosskopff e Si- mon Lévy. Non va dimenticato il ruolo, in particolare nel sec. xix, del- la litografia, non solo a Mulhouse con Engelmann, ma an- che a S stessa, ove si distinguono Boehm e Oberthur. il ta-

Storia dell’arte Einaudi le pratica la S del ventesimo secolo deve la sua predilezione per l’arte grafica che ebbe un interprete come Hans Arp. L’arredo del caffè l’Aubette (1928), eseguito con Sophie Taeuber e van Doesburg, fu una delle realizzazioni più im- portanti della pittura astratta e ne dimostrò la perfetta adat- tabilità alla cornice architettonica. (vb + sr). Musée des beaux-arts (castello di Rohan) Compreso nel de- creto consolare del 15 fruttidoro anno ix, che fondava quin- dici musei dipartimentali, il Museo di S ricevette dal Mu- séum central des arts quarantatre dipinti di varia scuola, che vennero collocati, provvisoriamente, in municipio; trasferi- ti poi nel 1869 nell’edificio dell’Aubette in place Kléber, fu- rono distrutti sotto il bombardamento del 24 agosto 1870 da parte dell’esercito prussiano. Dal 1892, la ricostituzione del museo, sotto amministrazione tedesca, fu in gran parte opera di W. Bode, direttore generale dei musei di Berlino, uno dei massimi conoscitori di pittura in Europa, principal- mente delle scuole italiana e olandese; queste ultime sono infatti ben rappresentate nel Musée des beaux-arts. Nel 1898, riprendendo un progetto già proposto durante la monarchia di Luglio, la città decise di ospitare le collezioni nel castello dei Rohan, antica residenza dei principi-vesco- vi di S, che l’Università aveva abbandonato. Esse occupano oggi il primo e secondo piano del palazzo eretto su progetto di Robert de Cotte dal 1727 al 1742 per il cardinale Armand Gaston de Rohan. I metodici acquisti, effettuati dopo il ri- torno dell’Alsazia alla Francia (1919, trattato di Versailles), sotto la direzione di Hans Haug, tendono da un lato ad ac- crescere il fondo alsaziano e francese, e dall’altro a svilup- pare la collezione di nature morte costituita partendo dall’opera dello strasburghese Sebastian Stosskopff, grande maestro del genere. Il museo presenta un panorama interes- sante della pittura europea dal sec. xv ai giorni nostri. Tra le opere possono citarsi i Fidanzati di Luca di Leida, parec- chi Rubens, un piccolo polittico di Memling, numerosi pae- saggi e scene di genere di maestri olandesi, tra cui la Partenza per la passeggiata di Pieter de Hooch, e opere italiane di pri- mo piano: Giotto, Crivelli, Vivarini, Piero di Cosimo, e un Ritratto di giovane donna assegnabile a Raffaello; tra i qua- dri spagnoli, due capolavori: la Madonna addolorata di El Greco e il Ritratto di Bernardo Yriarte di Goya. La scuola

Storia dell’arte Einaudi francese è ricca di opere di qualità come il Cristo morto e la Madonna addolorata di Simon Marmion. Un nucleo partico- larmente rappresentativo è quello delle opere del xvii e xviii secolo, tra cui spiccano un Paesaggio di Claude Lorrain, Lui- gi XIV dinanzi a Bruges di van der Meulen, la Sguattera di Watteau, la Morte di Cleopatra, e la Morte di Lucrezia di J.-F. de Troy e il bel gruppo di nature morte olandesi e soprat- tutto francesi di Desportes, Chardin, Linart, Dupuis, Loui- se Moillon, Vallayer-Coster. Le nature morte di Stosskopff, nonché le altre opere alsaziane dal sec. xv al xvii, si trova- no al Musée de l’Œuvre Notre-Dame. Va menzionato in par- ticolare l’acquisto piú importante degli ultimi anni, la Bella Strasburghese di Largillière. La sezione della pittura francese del sec. xix ospita Courbet, Chassériau, Corot e la scuola di Barbizon. Il museo presenta inoltre una sezione archeologica e una di arti decorative. (gb). Museé d’Art moderne de l’Ancienne Douane Dal 1973 la collezione di pittura moderna è esposta negli edifici dell’an- tica dogana. È particolarmente ben rappresentata l’attività di Hans Arp, Sophie Taeuber e Theo van Doesburg; vi so- no conservati esempi di vetrate artistiche moderne (Gruber, il gruppo dell’Aubette del 1926, Dülberg, Poliakoff, Bissiè- re). Tra le opere da segnalare il Bacio di Gustav Klimt, car- tone per la decorazione di Palazzo Stoclet a Bruxelles ac- quistato nel 1959, una Natura morta del 1911 di Braque, quattro disegni di Klee e due dipinti di Campendonk. Musée de l’Œuvre Notre-Dame Fu fondato nel 1931 rac- cogliendo opere d’arte di origine locale o regionale appar- tenenti ai vari musei della città o alla Società per la con- servazione dei monumenti storici, cui si aggiunsero le pre- ziose raccolte conservate nel Museo della Cattedrale, ossia dell’Œuvre Notre-Dame. Occupa un complesso di antichi edifici del xv-xvi secolo (antico Hôtel du Cerf col suo giar- dino gotico, residenza medievale dell’Opera del Duomo, con la Sala e la Loggia dei muratori, antico panificio del capito- lo) e del sec. xvii (poêle des maréchaux).Le raccolte com- prendono un notevole complesso di dipinti alsaziani del xv e del xvi secolo, quale deposito del Musée des beaux-arts, tra cui la celebre Santa Caterina e santa Maddalena di Konrad Witz, capolavoro del maestro, nonché dipinti di Schongauer, opere attribuite a Grünewald (il Donatore con la gabbia)e quadri di Baldung Grien (Madonna della pergola).

Storia dell’arte Einaudi Importante è il complesso di opere col Cristo di Wissemburg, i resti delle vetrate romaniche della Cattedrale (Imperatore in maestà, Visitazione), vetrate gotiche provenienti dalle chie- se di Saint-Thomas a Mutzig, di Saint-Pierre-le-Vieux, di Sainte-Madeleine (Peter von Andlau), e vetrate da edifici borghesi dal xvi al xviii secolo, nonché la Madonna col Bam- bino di Dannecker (sec. xviii), proveniente dall’abbaziale di Marmoutier nel basso Reno. (vb). Streeck, Juriaen van (Amsterdam 1632 ca. - 1687). Documentato ad Amsterdam nel 1655, dipinse essenzialmente nature morte (esempi a San Pietroburgo, Ermitage, a Parigi, Louvre e mad, a Rotter- dam, bvb e nei musei di Lione, Quimper, Leida e Rennes), caratterizzate dalla rappresentazione di oggetti o metalli pre- ziosi (maioliche di Delft, nautili, oreficeria), che ne fanno, benché il suo stile sia piú duro, un epigono di Kalf. Il figlio Hendrick (Amsterdarn 1659 - ? dopo il 1719) ne fu allievo; dipinse soprattutto vedute di chiese – Interno di chie- sa gotica (San Pietroburgo, Ermitage), Interno di chiesa (Am- sterdam, chiesa di San Nicola) – nello stile di Emmanuel de Witte, di cui fu forse allievo e cui sono state talvolta inde- bitamente attribuite alcune sue opere. (jv). Streeter (Straeter), Robert (Londra 1624 - ? 1679). S si formò nel continente e dopo la nomina come Sergeant Painter nel 1660 o nel 1663, si spe- cializzò nella decorazione di soffitti, ancora poco praticata in Inghilterra. Vanno ricordate le decorazioni dello Sheldo- nian Theatre a Oxford (la Verità che discende sulle Arti e le Scienze, 1668-69) nelle quali è evidente l’influsso della pit- tura barocca italiana e francese. Il figlio Robert il Giovane († 1711) fu attivo soprattutto come scenografo degli appa- rati per le incoronazioni e le esequie reali. (jns). Strigel, Bernhard (Memmingen 1469-1528). Figlio, o nipote, del pittore Hans S il Giovane (a sua volta figlio del pittore Hans S il Vecchio) e nipote, o figlio, dell’intagliatore e imprenditore Ivo S, tito- lare di una delle piú fiorenti botteghe specializzate nella pro- duzione di altari a portelle dell’Allgäu, rappresentò in parti-

Storia dell’arte Einaudi colare presso il Consiglio della sua città la propria corpora- zione di artisti (1518-28) e fu piú volte inviato con incarichi diplomatici presso altre città sveve, presso la corte tirolese di Innsbruck e a Norimberga durante il Reischstag del 1524. Non sappiamo quale sia stata la sua reale formazione, benché sia facile pensare che proprio la bottega della famiglia abbia co- stituito per lui il primo banco di prova. Il suo stile giovanile si rintraccia nei molti altari dipinti per la regione di Graubün- den (Brigels 1486, Diesentis 1489). Il suo intervento, accan- to a Bartolomäus Zeitblom, nell’altare erhartiano di Blau- beuren (1493-94) evidenziano un talento già maturo, libero dagli eccessivi condizionamenti del linguaggio tradizionale ap- preso dal padre e avvertito della produzione incisoria di Schongauer; il suo rapporto con Zeitblom porterà entrambi gli artisti a influenzarsi reciprocamente, sulla comune base dell’interesse per le fonti fiamminghe: Bouts per S, van der Weyden per Zeitblom. Conseguenze di questo influsso che spinge S a contrapporsi ai modi del tardo gotico svevo, si per- cepiscono nelle due portelle con i Santi Giorgio e Martino e i Santi Maria Maddalena e Cristoforo (Stoccarda, sg). Già nell’Al- tare dei Re Magi di Memmingen (1500), in un disperso Altare della Passione per la certosa di Buxheim (1505: smembrato tra Augusta, sg; Baltimore, wag; Berlino, sm, gg) e piú chiara- mente nell’Altare della Sacra Stirpe per la cappella di Sant’An- na di Mindelheim (1505: Norimberga, gnm; castello di Donz- dorf), S acquista spazialità e chiarezza espositive rinascimen- tali, mediate dalla grafica düreriana, influsso manifesto soprattutto nel capolavoro della prima maturità dell’artista, l’altare mariano per la Liebfrauenkirche di Salem (1507-508), esemplato sul ciclo della Vita di Maria di Dürer, nel quale com- pare il primo notturno della pittura tedesca (Natività). Se- guono le portelle dell’altare per la chiesa premonstratense di Schussenried (1515 ca.: Berlino, sm, gg) e i frammenti facenti un tempo parte di un altare con le Sette Gioie di Maria (1518 ca.), un tempo nella chiesa di Aulendorf o di Isny, nell’Allgäu (Stoccarda, sg, Alte Meister; Memmingen, sm; Ulm, Museo), opere che combinano liberamente, e con personali, significa- tive innovazioni iconografiche, motivi tratti dal Maestro di Pfullendorfer, da Holbein e ancora da Dürer, raggiungendo monumentalità, chiarezza ed eleganza espositiva e intensità notevoli. Interessanti per tipologia, scelta di pose, realismo vivace, resa specifica del dettaglio d’abbigliamento e libertà

Storia dell’arte Einaudi di tocco sono le quattro Guardie del sepolcro di Cristo (Mona- co, ap; York, ag), esempio raro di «pitture di scena» usate, in apposito setting, durante l’allestimento del Sepolcro di Cristo nelle chiese durante la settimana santa, secondo una tradi- zione diffusa in tutta la Germania meridionale (probabilmente dalla parrocchiale di Memmingen, 1521-22 ca.). Le opere del terzo decennio non mancano di riflettere lo studio delle con- temporanee sperimentazioni della scuola danubiana e di Cra- nach e si fanno piú pittoriche e tonali: ne è esempio determi- nante l’altare per la chiesa di San Nicola di Isny, le cui tavo- le sono suddivise tra Karlsruhe (kh), Berlino (sm, gg; quattro distrutte nel 1945), Göttingen (Kunstsammlung der Univer- sität), Firenze (Uffizi: Crocifissione). S fu un eccellente ritrattista, uno dei piú ricercati e amati dell’epoca, anche grazie al favore riservatogli dall’impera- tore Massimiliano, che si fa ritrarre dall’artista nel 1504 (Berlino, sm, gg) e che lo chiama a sé, presso la corte di Vien- na, due volte, una nel 1515 (Ritratto della famiglia dell’im- peratore: Vienna, km) e poi nel 1525. S combina splendida- mente la tradizione del ritratto «classico» con la robustez- za delle forme, il sapiente cromatismo e il proprio versatile intuito, divenendo così uno dei piú fedeli storiografi dell’am- biente aristocratico e borghese svevo (Ritratto di un uomo anziano con barba, 1500 ca.: Stoccarda, sg, Alte Meister; il Ritratto di Sibylla von Freyberg: Monaco, ap; i ritratti di Hans Rott e sua moglie, 1527: Washington, ng). Significativo e di fondamentale importanza per la storia del ritratto pittorico è in S l’aver creato, ancor prima degli olandesi, il ritratto di gruppo, esempio maggiore del quale rimane, nella sua, an- ch’essa originale, combinazione del ritratto di gruppo con l’iconografia del ritratto in piedi, quello, in scala naturale, di Konrad Rehlinger e dei suoi otto figli (1517: Monaco, ap). Alla sua morte la bottega – che del maestro diffuse i modi e le tipologie, specie per la ritrattistica – fu rilevata dal gene- ro Hans Goldschmid. (scas). Strij (Stry), Abraham I van (Dordrecht 1753-1826). Allievo di Joris Ponse, dipinse dap- prima fiori e frutta (Fiori con cane: Dordrecht, Museo), poi paesaggi direttamente derivanti da quelli di Cuyp, ritratti (Hermanus Boet, 1772; Ritratto della moglie: ivi), e scene di

Storia dell’arte Einaudi genere (la Sguattera: Amsterdam, Rijksmuseum; Donna che legge presso una finestra: Dordrecht, Museo), vicini a quelli di Metsu e di Pieter de Hooch. Fondò nel 1774 la Confreria Pictura di Dordrecht, e fu padre di Abraham II (Dordrecht 1796-1840). Il fratello Jacob, pittore e incisore (Dordrecht 1756-1815), dipinse paesaggi (Paesaggio con capanna, Paesaggio con ani- mali: musei di Amiens e di Dordrecht) e animali (Bestiame: Londra, Wallace Coll.), ispirati direttamente a quelli di Pot- ter, Hobbema, e soprattutto Cuyp, (jv). Strindberg, August (Stoccolma 1849-1912). Scrittore e drammaturgo, negli an- ni Settanta dell’Ottocento collaborò come critico d’arte a molti giornali svedesi; si era schierato allora decisamente col movimento di opposizione volto contro l’Accademia di bel- le arti, e proveniente dalla falange di artisti svedesi di Pari- gi e di Grez-sur-Loing dove risiede dal 1883-91. Le sue opi- nioni artistiche ed estetiche favorivano una pittura all’aper- to realista e moderata; ma in qualità di pittore S si teneva in verità piuttosto in disparte rispetto alle correnti artisti- che radicali dell’epoca. Apprezzava poco gli impressionisti e, nella sua introduzione al catalogo della mostra di Gauguin del 1895, insistette sulla posizione indipendente dell’artista rispetto all’impressionismo. Nei primi saggi pittorici (tele del 1872-75, motivi romantici di mari e arcipelaghi) si per- cepisce un manifesto influsso dei pittori della scuola di Düs- seldorf e di quella di Barbizon. Quando, negli anni 1890-95 e 1900-907, S riprende a dipingere, ciò accade invece con uno spirito fortemente soggettivo e simbolico. Suo sogget- to principale resta il mare; il pittore lo interpreta ora attra- verso una fattura ampia e sommaria, sotto una luce dinami- ca che imprime alle sue tele una forza espressiva precorri- trice del tachisme del dopoguerra (Notte di gelosia, 1893: Stoccolma, Museo S). La tonalità dei colori è cupa e carica di un’atmosfera tempestosa, di uragano che si attenua nelle tele piú tarde in paesaggi tranquilli e sereni (Costa, 1903: Stoccolma, nm). S è rappresentato in particolare a Stoccol- ma (mm, Nordiska Museet e Thielska Gal.). Con Edvard Munch e Stanislaw Przybyszewski fondò il circolo artistico che si riuniva al caffè Zum Schwarzen Ferkel. (tp).

Storia dell’arte Einaudi Stringa, Francesco (Modena 1635-1709). Nel 1661-63 collabora alla decora- zione della chiesa agostiniana di Modena, trasformata in Pantheon Atestinum.In questa prima opera, e nella pala sem- pre per Sant’Agostino (1666), emergono echi della cultura carraccesca, oltre che di Mattia Preti e di Flaminio Torri, al quale lo S succederà nel ruolo di conservatore delle Galle- rie ducali, assumendo nel 1672 la Direzione dell’Accademia di pittura e nel 1685 la Soprintendenza delle Fabbriche du- cali. Nella Crocifissione di Baggiovara compaiono anche ri- cordi dal Lanfranco. Nelle opere intorno all’80 si accentua la componente cignanesca, venata di un tenero patetismo memore degli esempi del Bonone e macchiata di un forte chiaroscuro guercinesco (Madonna col Bambino e santi esten- si: Reggio Emilia, San Giorgio; Miracolo di Soriano: Finale Emilia, chiesa del Rosario). Sul declinare del secolo il natu- ralismo del pittore cede a cadenze veneteggianti e ad un piú compìto classicismo sensibile anche all’esempio del France- schini, con un progressivo scadimento della qualità pittori- ca, dovuta in parte all’intervento della bottega. (ff). Stroganoff Verso la metà del sec. xvi gli S, commercianti di Novgorod, fecero fortuna grazie allo sfruttamento dei terreni di recen- te colonizzazione negli Urali, poi in Siberia, di cui avevano finanziato la conquista nel 1574. Amanti dell’arte e mece- nati sin da quell’epoca, chiamarono presso di sé i migliori pittori di icone del loro tempo che instaurarono sulle pro- prietà della famiglia i loro laboratori artistici: da qui derivò quella produzione definita «stile S». Accomunate da un’ese- cuzione tecnica molto accurata, il disegno minuzioso ed ele- gante e la ricchezza dell’ornamentazione, le opere che van- no sotto questo nome non hanno però un’unità stilistica, co- sicché l’espressione «scuola S» conferita in passato a questo tipo di icone, viene attualmente considerata impropria. Ico- ne provenienti da questi laboratori, firmate col nome dell’ar- tista e con quello degli S, si trovano attualmente in nume- rosi musei russi. Nel sec. xviii il personaggio piú significativo della famiglia fu il barone Alessandro S (1738-1811), che tra i signori rus- si che allora visitarono la Francia si distinse per il fasto e la

Storia dell’arte Einaudi passione per l’arte. Soggiornò una prima volta a Parigi nel 1752 per ritornarvi nel 1770. Appassionato di cultura fran- cese, fu un assiduo frequentatore dei salons, dei circoli de- gli enciclopedisti e attirato dagli studi di artisti, soprattutto da Fragonard, da Greuze, che dipinse il ritratto di suo figlio Paolo all’età di cinque anni (Besançon, mba e San Pietro- burgo, Ermitage), da Joseph Vernet e da Hubert Robert, pit- tore di cui collezionò i paesaggi (oggi a San Pietroburgo, Er- mitage) e che contribuì in prima persona a rendere noto in Russia. Nell’intento di costituire un’importante quadreria, seguiva attentamente le aste pubbliche: vendite Randon de Boisset, Choiseul, Conti, Tallard. Conformemente al gusto del tempo, raccolse un consistente numero di quadri olan- desi e fiamminghi; possedeva opere di Rembrandt, van Dyck, Gerrit Dou, van Ostade, Ter Borch. Quando lasciò Parigi, trascorsi nove anni, portò con sé i suoi quadri, che collocò in una galleria del suo palazzo eretto da Rastrelli sul- la prospettiva Newsky a San Pietroburgo. Le sue collezioni si dispersero tra i suoi discendenti; alla vi- gilia della prima guerra mondiale si contavano tre raccolte S: due a San Pietroburgo e una a Roma, quest’ultima ap- partenente al conte Gregorio S, il quale tra il 1865 e il 1910, l’arricchì con notevoli acquisti, particolarmente di primiti- vi italiani e fiamminghi. Nel 1912 numerosi dipinti della col- lezione S furono oggetto di un lascito all’Ermitage. Dopo le nazionalizzazioni, la galleria della prospettiva Newsky, aper- ta al pubblico, continuò ad ospitare le raccolte, ma a poco a poco tutte le opere entrarono all’Ermitage. Tra gli altri di- pinti si possono citare: Nesso e Deianira di Rubens; ritratti di van Dyck, tra cui il Ritratto di Rubens e di suo figlio; il Ri- poso della Sacra Famiglia di Poussin; il Ritratto del barone Gre- gorio Alexandroviã Stroganoff e di sua moglie, dipinto a Vien- na da M.me Vigée-Lebrun; la Madonna dell’Annunciazione di Simone Martini (proveniente dalla collezione romana); una Natività di Filippino Lippi. (gb). Stroï, Mihael (Ljubno 1803 - Lubiana 1871). Compiuti gli studi all’Acca- demia di Vienna, fortemente segnato dall’opera di Waldmül- ler, diviene il rappresentante dello stile Biedermeier in Slo- venia. Autore di scene sacre, storiche e di genere, è soprat- tutto noto per la sua attività di ritrattista richiestissima a

Storia dell’arte Einaudi Lubiana e Zagabria. Le sue doti di disegnatore, unite a una sapiente fattura e a una personale sensibilità al colore, fu- rono molto apprezzate. (ka). Strozzi, Bernardo, detto il Cappuccino o il Prete Ge- novese (Genova 1581 - Venezia 1644). Grande protagonista della scuola genovese del sec. xvii, ebbe come maestro il manieri- sta senese Pietro Sorri (a Genova dal 1595 al 1597), prima di entrare nell’ordine dei Cappuccini nel 1597. Per anni fu impegnato solo in piccoli dipinti devozionali e in perizie tec- niche: la sua vera carriera cominciò nel 1610, quando gli fu consentito di uscire dal convento e dedicarsi alla professione di pittore per aiutare la madre vedova. Tra il 1610 e il 1630 si forma il suo stile potente e originale. Dopo alcuni impe- gni nel campo della grande decorazione profana (in parti- colare nel Palazzo Centurione a Sampierdarena, 1623-25), eseguì nel 1629 la prima grande pala d’altare (Madonna col Bambino fra san Lorenzo, san Giovanni e angeli) destinata al- la chiesa dei Sordomuti a Genova. Alla morte della madre, nel 1630, il pittore rifiutò di rientrare in convento: per que- sto, secondo la tradizione, fu imprigionato, e in seguito espa- triò a Venezia, dove rimase fino alla morte. S si rivela ini- zialmente poco incline al realismo, di tendenza manierista, sotto l’ascendente di Paggi, ma soprattutto di Barocci pre- sente a Genova grazie alla Crocifissione del 1596 nella Cat- tedrale. Le opere giovanili (Santa Caterina: Hartford, Wad- sworth Atenaeum; Cristo morto: Genova, Accademia Ligu- stica; Violinista: Genova, Gall. di Palazzo Bianco) mostrano panneggi angolosi, colori acidi, un trattamento irreale e astratto. Il poco a poco, a partire dal 1615, questo stile cede il posto a un maggiore naturalismo, sulla spinta di diverse in- fluenze congiunte: quella, predominante a Genova, dei mae- stri fiamminghi (i fratelli de Wael, Jan Roos), ben visibile nell’Adorazione dei pastori (Baltimore, wag) e nella Cuoca (Genova, Gall. di Palazzo Rosso), vicina a quelle di Aertsen e di Beukelaer; l’influenza lombarda, è forte a Genova in- torno al 1618 per la presenza di Giulio Cesare Procaccini, au- tore dell’Ultima Cena nella chiesa dell’Annunziata. È possi- bile inoltre che la comparsa di Orazio Gentileschi a Genova nel 1621 (Annunciazione: chiesa di San Siro) sia da mettere

Storia dell’arte Einaudi in qualche modo in relazione con l’interesse crescente di S per i giochi di luce e ombra, come testimoniano i tre dipinti della chiesa dell’Annunziata del Vastato a Genova (la Cena in Emmaus, il Rinnegamento di Pietro e Giuseppe spiega i so- gni).Ma è soprattutto grazie a Rubens e al Miracolosuo di sant’Ignazio (1620: Genova, chiesa di Sant’Ambrogio) e a van Dyck (a Genova dal 1621 al 1627) che seppe fondere questi disparati elementi stilistici in una materia densa e libera: la sua tavolozza allora si schiarisce, i suoi colori diventano cal- di e fiammeggianti; il suo colpo di pennello, vibrante e gene- roso, anima la materia pittorica con un brio inimitabile. Que- sto stile della maturità, che il maestro svilupperà in seguito a Venezia, è visibile nel bozzetto del Paradiso (Genova, Acca- demia Ligustica), nell’affresco ora distrutto eseguito nel 1625 nella chiesa di San Domenico a Genova, nel Giuseppe che spie- ga i sogni (Genova, coll. Pallavicini) e nella già citata pala d’al- tare dei Sordomuti (1629), opere piene d’atmosfera, di un co- lorito intenso, rivelatrici dell’influsso di rinnovamento che lo S ebbe sulla pittura genovese e particolarmente su quella di G. A. De Ferrari. Vanno ancora citate, fra le sue opere ge- novesi piú importanti, gli affreschi di soggetto romano in Pa- lazzo Centurione a Sampierdarena e una bella serie di ritrat- ti (Torino, Gall. Sabauda; Milano, Brera; Genova, Gall. Du- razzo Giustiniani e gn di Palazzo Spinola). A Venezia (1630-44) il contatto con le opere del Veronese (a cui sono ispirate la Cena in casa di Simone dell’Accademia e il Ratto di Europa del Museo di Poznaƒ), ma anche di con- temporanei come Fetti e Liss, lo confermò nell’orientamen- to già preso a Genova verso un colore chiaro e un tocco li- quido. Ma mentre Fetti e Liss lavoravano tranquillamente in opere di piccole dimensioni per i privati, lo S ricevette importanti commissioni pubbliche. Fu uno dei principali ri- trattisti di Venezia e lasciò il proprio marchio nello stile uf- ficiale della città: decorò la volta della Biblioteca Marciana (Allegoria della Scultura, 1635) ed eseguì il ritratto del Doge Francesco Erizzo (1631: Vienna, km). Lo S fu uno dei pochi pittori a saper mantenere la tradizione veneta del sec. xvi, declinandola in un idioma barocco. Il Martirio di san Seba- stiano (Venezia, chiesa di San Benedetto), San Lorenzo di- stribuisce le elemosine (Venezia, San Niccolò dei Tolentini) evocano Tiziano e Veronese, ma anche Ribera e Rubens. Tra le composizioni veneziane piú riuscite si possono citare la Mi-

Storia dell’arte Einaudi nerva (Museo di Cleveland), la Parabola dell’invitato alle noz- ze (Firenze, Uffizi), l’Allegoria della Fama (Londra, ng) e, fra i ritratti, quelli conservati a Washington (ng), a Tolosa, al Museo Correr e nel Palazzo Barbaro Curtis di Venezia. S fu così il terzo di un trio di pittori «foresti» che rianima- rono la pittura a Venezia; portò con sé quella libertà di spi- rito che mancava agli artisti veneziani, paralizzati dal ricor- do della tradizione del sec. xvi; la sua lezione fu utile alla for- mazione di Maffei. Fu anche un grande disegnatore (esempi a Genova, Palazzo Rosso), e nel campo grafico si ritrova la complessità della sua formazione. L’opera pittorica di S è vasta (circa 500 opere) e rappresen- tata nella maggior parte dei principali musei europei ed ame- ricani. Fra le opere piú celebri: San Francesco (Dayton, Ohio, Art Institute e Genova, Gall. di Palazzo Bianco), la Carità (Genova, Gall. di Palazzo Rosso), la Madonna col Bambino (Venezia, Pinacoteca Querini Stampalia), i Pifferai (San Francisco, M.H. De Young Memorial), la Carità di San Lo- renzo (Saint Louis, Missouri, City ag), la Vecchia con lo spec- chio (Mosca, Museo Pu‰kin), il Pagamento del tributo (Mu- seo di Budapest), la Cena in Emmaus (Museo di Grenoble), la Guarigione di Tobia (New York, mma e San Pietroburgo, Ermitage), le Parche (ivi), Davide (Museo di Cincinnati), il Concerto di due personaggi (Hampton Court). (sde + sr). Strozzi, Zanobi (Firenze 1412-68). Apparteneva a uno dei rami cadetti de- gli S (e in quanto tale non fu colpito dal bando mediceo del 1434), una delle famiglie piú potenti di Firenze. La cultura di S si rivela subito intrisa di moduli derivati dall’Angelico, sebbene ancora sotto un certo segno d’esilità goticheggiante nelle prime prove così come dimostrano le illustrazioni per cinque Antifonari (Firenze, Museo di San Marco) e sei Graduali (ivi) a cui attese tra 1446 e 1453. Nel 1450 Zanobi è pagato per le scene del Beatus vir e del Dixit Dominus meus in un Salterio della Badia di Firenze; nel 1457 è documentato il Messale per il monastero di San Pancrazio (la Gloria di san Giovanni Gualberto, oggi in coll. Cini, Ve- nezia, è l’unica pagina sopravvissuta alla dispersione). L’an- no successivo dipinge una Crocifissione in un Messale del Duomo (Firenze, Bibl. Laurenziana), nel ’6o è pagato an-

Storia dell’arte Einaudi cora dall’Opera del Duomo (per la quale minierà ancora, dal 1463, due Antifonari: ivi, realizzati in collaborazione con Francesco di Antonio del Chierico, al quale spetta buona parte della campagna illustrativa) probabilmente per due Corali (ivi). In queste ultime opere, le sue figure si fanno piú longilinee e i volti rotondeggianti acquistano maggior definizione di tratti. Permane invece quell’assenza di co- noscenze anatomiche, quell’incapacità di rappresentare il corpo e i suoi reali moti dall’artista sempre celata attraver- so l’abbondanza dei panneggi, fluidi e dolcemente chiaro- scurati. Oltre alle miniature, Zanobi, almeno all’inizio della sua car- riera, sembra aver prodotto anche opere su tavola (come in- dicano i pagamenti del 1436 per una tavola per Santa Ma- ria Nuova e del 1448 per una Croce destinata al convento di San Marco, forse quella oggi conservata nella chiesa di No- cogno, presso Modena). I rari dati documentari, perlopiú va- sariani, non consentono tuttavia di spingersi oltre su questo versante, mentre le sottili dispute attribuzionistiche attor- no ad alcune tavole, come l’Annunciazione del Prado (Ma- drid) e la predella della pala di san Domenico, a Fiesole, di- pinta da Beato Angelico (Londra, ng), lasciano oltremodo insoddisfatti per la sostanziale carenza di reali appigli. S fu in ogni caso personalità di rilievo nel panorama delle botte- ghe di miniatori fiorentini quattrocenteschi e la notizia che ce ne ricorda la partecipazione, accanto al Baldovinetti, al- la visita di stima per una tavola dipinta da Neri di Bicci, ci illumina su intrecci d’amicizia e d’affari che legarono que- sto membro della migliore borghesia fiorentina con il mon- do degli artisti-artigiani cittadini. (scas). Struycken, Peter (L’Aja 1939). Dopo gli studi all’Accademia di belle arti dell’Aja, S passa molto rapidamente dall’arte figurativa a quel- la astratta di tendenza geometrica. Insegna alla Scuola di bel- le arti e arti applicate di Arnhem dal 1964 al 1976. La sua ope- ra si segnala per la maestria rigorosa nei mezzi tradizionali, forma, colore, materia. Dal 1961 S cerca di definire le rela- zioni tra queste categorie e il loro influsso sulla nostra perce- zione, prima in nero e bianco, poi a colori, e, a partire dal 1964, ha proposto costruzioni nello spazio. Da tale ricerca so- no nate composizioni monumentali, in cui l’artista fissa una

Storia dell’arte Einaudi relazione con l’architettura (padiglione olandese a Osaka, 1970). Dal 1968 S ricorre al calcolatore per ottenere, entro limiti preliminarmente fissati, strutture geometriche diverse. Il programma fornito dal calcolatore viene interpretato per la creazione di quadri, costruzioni luminose diverse, forme ar- chitettoniche e spaziali. L’artista è rappresentato nei musei olandesi; sue personali sono state tenute nel 1966-67 ad Am- sterdam (sm) e nel 1980-81 a Rotterdam (bvb). (lbc). Strzemiƒski, Wladyslaw (Minsk 1893 - Łódê 1952). Ingegnere, ufficiale dell’esercito russo durante la prima guerra mondiale, compie i propri stu- di a Mosca (1917-20), dove incontra Maleviã e subisce l’in- fluenza del suprematismo. Torna in Polonia verso il 1921 con la moglie, Katarzyna Kobro. Nel 1923 fu tra gli iniziatori del- la mostra Nowa Sztuka (Arte nuova) a Wilno, che inaugura in Polonia il movimento costruttivista. Nel 1929 a Łódê, col poeta Jan Brzekowski, sua moglie e il pittore Henry Stazew- ski, fonda il gruppo a.r. (artisti rivoluzionari) con il quale met- te insieme una raccolta di arte costruttivista donata nel 1931 al Museo Sztuky della città. Pittore astratto, è autore di un programma-sistema da lui denominato Unismo (1928) che proclama il quadro, unico referente di se stesso e la pittura risultato di una complessa unità di materia, colore, forma, fondo e superficie. I suoi lavori unisti del 1930-32 (Compo- sizione unista 11, 1932: Łódê, Museo Sztuky) presentano un pattern regolare che occupa in maniera omogenea tutta la te- la. La sua attività di artista si è praticamente arrestata agli inizi degli anni Trenta. Il suo ruolo, sia come pittore che co- me teorico, è notevole nell’evoluzione dell’astrattismo in Po- lonia, soprattutto all’interno del movimento costruttivista. Diciassette opere di S vennero presentate nel 1957 alla mo- stra Precursori dell’astrattismo in Polonia a Parigi (Gall. De- nise René); in Germania nel 1978 il km di Düsseldorf gli ha dedicato un’ampia retrospettiva. Il Parigi, il Centre George Pompidou lo ha compreso nella mostra Presenze polacche (1985). È rappresentato nel Museo di Łódê, a Otterlo (Kröl- ler-Müller) e in diverse collezioni private. (wj). Strzygowski, Josef (Kunzendorf 1862 - Vienna 1941). Dopo un periodo di la-

Storia dell’arte Einaudi voro nella fabbrica tessile paterna si votò alla disciplina sto- rico artistica, diventando uno degli esponenti della scuola di Vienna di storia dell’arte. Studiò a Vienna con Thausing ed Eitelberger, a Berlino con Grimm e a Monaco con Riehl, Carrière e Brunn. Dopo il dottorato iniziò il suo «viaggio a Oriente», visitando Grecia, Turchia, Armenia e Russia, e poi Siria, Egitto, Iran. Del 1901 è una delle opere che lo resero famoso, Orient oder Rom, di cui, come ebbe a dire Carlo Ludovico Ragghianti nelle chiose del suo Profilo del- la critica d’arte in Italia (Firenze 1973): «oggi si fatica a ca- pire sia la motivazione etnico-socio-culturale antiromana del mito ex Oriente lux, sia le accanite propaggini polemi- che», e che costituisce il baricentro di un campo di ricerca comprendente Cimabue und Rom (1890), Kleinasien Ein Neuland der Kunstgeschichte (1903), Koptische Kunst (1904), Amida, Beiträge zur Kunst des Mittelalters von Nordmesopo- tamien, Hellas und dem Abendlandes (1910) e la piú tarda Die Baukunst der Armenier und Europa (1918). Il S si devo- no anche varie prese di posizioni sull’arte del proprio tem- po, come Die bildende Kunst der Gegenwart (1907), in cui critica il tardo impressionismo tedesco, e sulle sorti della storia dell’arte come disciplina autonoma: Die Kunstgeschi- chte an der Wiener Universität (1909), Die Wandel der Kun- stforschung (1915, in: «Zeitschrift f. bildende Kunst», nf, xxvi, 1-11), Die Krisis der Geisteswissenschaften (1923), in cui si sostiene una forte divisione nel lavoro di ricerca, una drastica riduzione della componente burocratica delle isti- tuzioni cui esso afferisce, l’estensione dell’analisi a tutti i monumenti del mondo e in particolare dell’arte orientale, fonte della piú tarda creatività dei popoli civilizzati occi- dentali. La tesi delle origini orientali dell’arte bizantina e medievale occidentale giunge a insostenibili ipostatizzazio- ni in ultimi scritti come Spuren indogermanischen Glaubens in der bildenden Kunst (1936) e Europa’s Machtkunst (1941), che furono stigmatizzate da Bernard Berenson per via del pregiudizio etnico. Una delle prime valutazioni non pole- miche del suo contributo alla storia dell’arte, totalmente espunto dalla ricostruzione della «scuola di Vienna» forni- ta da Julius von Schlosser, si deve a Dagobert Frey (Erin- nerungsschrift, 1962), allievo del suo diretto concorrente e avversario d’insegnamento Max Dvofiák. (ss).

Storia dell’arte Einaudi Stuart, Gilbert (Narragansett (Rhode Island) 1755 - Boston 1828). Nel 1775, alla vigilia dell’indipendenza americana, si recò in Inghilter- ra, a Londra. Qui seguì le lezioni di Reynolds, e ottenne la protezione di B. West, di cui divenne allievo nel 1776, otte- nendo presto riconoscimenti. Espose alla Royal Academy nel 1777 e nel 1782 si fece notare col suo Pattinatore (Ritratto di Mr Grant: Washington, ng), dipinto a figura intera, uno dei pochi realizzati da S, l’artista amava infatti soprattutto di- pingere ritratti a mezzo busto o volti. Lasciò lo studio di We- st nel 1783 e fu tra i ritrattisti piú noti dopo Reynolds, Gain- sborough e Romney. Soggiornò a Dublino e Parigi e nel 1793 tornò in America, stabilendosi a New York. I primi ritratti newyorkesi ne assicurarono la reputazione (La Signora Richard Yates: ivi). I tre ritratti che fece di George Washington (1795, perduto; 1796: Boston, Atheneum; 1796: Philadelphia, Ac- cademia), di cui eseguì in seguito innumerevoli copie, lo re- sero celebre. Da allora sfilarono nel suo studio militari e uo- mini politici della giovane repubblica (James Madison, John Adams, Thomas Jefferson). Finì i suoi giorni a Boston, dove si era stabilito nel 1805, ed esercitò forte influsso sui giova- ni pittori. Il suo stile si accosta a quello della scuola inglese per fluidità del tocco, per senso del colore e naturalezza del- le fisionomie. Sue opere sono conservate in numerosi musei americani (in particolare quelli di Cleveland, Chicago, New- port, San Francisco, Washington), nonché in alcuni musei in- glesi (Benjamin West: Londra, npg) e francesi. (sc). Stubbs, George (Liverpool 1724 - Londra 1806). La sua produzione tocca diversi registri della pittura di genere: dalle scene di sporting life, ai ritratti di aristocratici a cavallo, ai veri e propri «ri- tratti» di diversi animali, tra cui l’esotico Ghepardo con due servitori indiani (Manchester, City ag), il Babbuino e maca- co albini (Londra, coll. Hunterian e Associazione dei chi- rurghi) dipinto per il celebre chirurgo John Hunter, e Rin- corsa (1770, dipinto per William Hunter, fratello di quest’ul- timo, anch’egli scienziato: coll. Hunterian dell’Università di Glasgow). S divenne assai noto non solo per i suoi dipinti di cavalli, in cui dimostra un’inclinazione scientifica nello stu- dio dell’anatomia pari per altro verso a quella espressa dal

Storia dell’arte Einaudi suo contemporaneo Wright of Derby, ma anche per i sog- getti che dànno prova di una nuova ricerca linguistica nei temi melodrammatici e nell’espressione di aspetti tenebrosi della natura affrontati dal pittore intorno agli anni Sessan- ta. Uno di questi quadri, Leone che aggredisce un cavallo (1762 ca.: coll. Paul Mellon; altra versione 1770: New Ha- ven, Yale University ag) descritto in termini entusiastici da James Barry, che fu dipinto dopo il suo viaggio in Italia (1754) e inciso da Benjamin Green, influenzerà Delacroix e ancor piú Géricault. La composizione drammatica sembra ispirata alla scultura del Palazzo dei Conservatori di Roma come anche a un avvenimento occorso in Marocco del qua- le forse il pittore fu testimone. Probabilmente S nutriva l’intenzione di affermarsi, attra- verso la nuova interpretazione di soggetti presi dal reperto- rio della sporting life, come pittore di storia elevando il sog- getto animalistico all’espressione di una gamma assai varia di emozioni che piú spesso, nei dipinti esposti alla Free So- ciety of Artists (di cui divenne direttore nel 1773), tocca- vano temi drammatici e violenti. Va però notato che rispet- to al pathos romantico e selvaggio delle piú tarde interpre- tazioni di James Ward (La leonessa e l’airone, 1816) o Géricault (Ritratto di un ufficiale dei Cavalleggeri che coman- da la carica, 1812 o La corsa dei barberi, 1817 ca.), l’ispira- zione di S, per quanto amplii il vocabolario espressivo (Ca- vallo spaventato da un leone, 1770: Liverpool, Walker ag), è sempre legata alla precisa descrizione anatomica studiata nel Lincolnshire tra il 1756 e il 1760 ca., di cui è frutto il suo volume Anatomia del cavallo pubblicato nel 1766, e raffor- zata dallo studio della statuaria ellenistica e barocca. Negli anni Sessanta, creatosi a poco a poco una clientela ari- stocratica tra Richmond, Grosvenor e Buckingham, diven- ne pittore assai ricercato. Il Secondo duca e la duchessa di Ri- chmond mentre guardano cavalli al maneggio (1761-62: coll. priv.) è un esempio tipico della sua produzione dove il sog- getto animalistico si armonizza con il genere del ritratto cam- pestre. Non fu membro fondatore della ra, essendo considerato semplice pittore di animali, ma ne divenne associato nel 1780 e membro nel 1781. Fu allontanato nel 1783 per non aver osservato il regolamento dell’Accademia. Beneficiò, verso il 1790, della protezione del principe di Galles e nel

Storia dell’arte Einaudi 18o2 venne invitato a pubblicare un’Esposizione dell’ana- tomia comparata dell’uomo, della tigre e dei volatili, libro in- compiuto, i cui disegni preparatori si trovano a Worchester (Public Library). Infaticabile ricercatore, riuscì, con l’aiu- to di Wedgwood, a fissare gli smalti colorati su supporto di rame. Tra le sue opere si ricordano inoltre il Cavallo Gimcrack in riposo e in esercitazione (Londra, Newmarket, Jockey Club; altri esempi a Goodwood House, nella coll. Grosvenor, e in quella del marchese de Bute), il ritratto Gentleman e dama in calesse (1787: Londra, ng), il Colonnello Pocklington e le sue sorelle (Washington, ng) e le Famiglie Melbourne e Mil- banke (Londra, ng). La sua estrema precisione nello studio anatomico dei cavalli è testimoniata dalla tela Puledre e pu- ledri (coll. Fitzwilliam) che rivela la priorità del disegno de- gli animali sul paesaggio e la tendenza dell’artista a consi- derare il quadro come una giustapposizione di elementi sin- goli, e non come un tutto unico. Un quadro come i Mietitori (1783: coll. priv.), facente parte di una serie di idilli rustici, attesta il suo amore per i soggetti campestri nei diversi aspet- ti stagionali. (jns + sr). Stuber, Nikolas Gottfried (Monaco 1688-1749). Cresciuto in una famiglia di pittori originari della Svevia e attivi a Monaco dopo il 1674, S si formò col padre Kaspar Gottfried (Weissenhorn 1650/51 - Monaco 1724), decoratore di interni e facciate, poi, a Roma, presso C. D. Asam e F. G. Hermann II. Qui ri- mase fortemente impressionato dall’arte di Pietro da Cor- tona. Accolto come maestro a Monaco nel 1716, fu nominato pit- tore di corte nel 1723. Collaborò con J. Effner e F. Cuvil- liés a Schleissheim, dove decorò i muri, le nicchie, le cupo- le e le volte della Sala Bassa e realizzò le ventiquattro pit- ture del soffitto della Sala Rossa (1722-26) nell’ala sud; a Nymphenburg dipinse il soffitto del piccolo gabinetto della principessa (1725); a Monaco decorò i due gabinetti della residenza a fianco di Cuvilliés (1733) e abbellì di grottesche numerosi palazzi della città. Lavorò per numerose chiese (Santa Maddalena, 1726: Nymphenburg, cappella di Santa Maddalena; San Gaetano, 1730-35 ca.: chiesa dei Teati-

Storia dell’arte Einaudi ni-Riformati). Considerato in vita come il piú grande auto- re di decorazioni con C. D. Asam e C. T. Scheffer, realizzò nello stile di Andrea Pozzo opere di carattere scenografico per teatri, apparati per feste e funerali. Suo fratello Franz Lorenz (Monaco 1691-1728) collaborò con lui a Nymphen- burg. (sr). Stuck, Franz von (Tetenweis 1863 - Tetschen 1928). Fu allievo della Scuola di arti decorative e del Politecnico di Monaco dal 1882 al 1884, poi dell’Accademia (1885-89); qui, dieci anni piú tar- di, nel 1895, succederà come docente al suo maestro Lin- denschmit. Durante gli anni della sua formazione fu legato a Böcklin e a Lenbach. Partecipò alla creazione della Seces- sione di Monaco nel 1892 e strinse rapporti con l’avanguar- dia berlinese – realizzò delle illustrazioni per le riviste «Pan» e «Jugend» – e viennese, con una mostra che fece scalpore alla Secessione all’inizio del 1898. Venne influenzato da Hans Thoma e Max Klinger, piú an- ziani di lui, ma ai contemporanei apparve soprattutto di- scepolo di Böcklin. Dopo un esordio come caricaturista, a partire dal 1889 si rese noto come pittore (il Guardiano del paradiso: Monaco, Villa S), autore di ritratti (Autoritratto con la moglie e la figlia, 1909: Bruxelles, mrba), e di com- posizioni allegoriche e simboliche, spesso tratte dalla mito- logia classica (fauni, sirene, centauri) improntate a un sim- bolismo di linee e colori che rimane però formalmente le- gato a un naturalismo di tipo psicologico dal chiaro potenziale sensuale. I suoi nudi monumentali dalla forte ca- rica erotica interpretano appieno la cultura tedesca del tem- po e l’eco popolare della filosofia di Nietzsche; ciò ne spie- ga l’immenso successo che, vivente, ebbe a Monaco, dove fu fatto nobile nel 1906. Tra le sue piú celebri composizio- ni, si possono citare il Peccato (1893: Monaco, np), rappre- sentante una donna e un serpente trattati nelle tonalità gial- lo zafferano e nero, colori della perversità e della tristezza, Oreste e le Furie (Roma, gam), la Guerra (1895: Monaco, np), la Sfinge (1895: ivi), la Processione delle baccanti (1905: Brema, kh), Salomè (1906: Monaco, Villa S), Medusa (1908: Venezia, gam). Praticando anche la scultura (tra l’altro S usava creare e in- tagliare da sé la cornice per i propri quadri) e l’architettura,

Storia dell’arte Einaudi S si fece edificare nel 1898 una villa a Monaco in massiccio stile neoclassico, con la facciata sormontata da un portico dorico e con colonne ioniche nello studio; è stata trasfor- mata, dal 1968, in un museo dedicato all’opera dell’artista. Kandinsky e Klee furono suoi allievi. (gl). «Studio (The)» Rivista mensile inglese d’arte fondata nell’aprile del 1893 con il titolo «The Studio-An Illustrated Magazine of Fine and Applied Art». Con il primo numero, apparso con la copertina disegnata da Aubrey Beardsley, contenente un articolo sullo stesso artista e un altro sulle Arts and Crafts, senza ambiguità si annunciava che la pubblicazione af- frontava le tematiche contemporanee e d’avanguardia. Concepita con la volontà di non configurarsi come una ri- vista élitaria, ma ad ampio raggio, nei primi dieci anni di vita la pubblicazione svolse un fondamentale e pressoché esclusivo ruolo nella divulgazione delle teorie estetiche dell’Arts and Crafts Movement. Gli articoli trattavano in tutti i loro aspetti le diverse tecniche artistiche e il cen- trale problema dell’arte e della sua applicazione, dando am- pio spazio alle tesi e alle opere di Walter Crane, Burne-Jo- nes e Beardsley, ma sulla rivista trovavano posto anche nu- merosi interventi sull’artigianato artistico europeo e monografie sugli artisti piú significativi dell’attuale Euro- pa orientale. La rivista non informava solamente il pub- blico inglese, ma anche quello continentale che trovava in essa il mezzo per eccellenza di comunicazione internazio- nale tra gli artisti. Tale pubblicazione divulga il design in- glese stimolando la ricerca in Europa e in America e con- temporaneamente si pone come il modello ideale che fa- vorisce la nascita di numerose riviste di altra nazionalità, tra le quali l’italiana «Emporium» fondata nel gennaio del 1895. Il periodico mantiene la sua importanza anche nel Novecento: Picasso ne viene probabilmente a conoscenza a Barcellona ed era diffusa negli ambienti avanguardistici parigini, belgi, olandesi e tedeschi. Riferimento fonda- mentale sino agli anni Venti, «The S» prosegue le sue usci- te sino ai nostri giorni anche se, dal 1964, ha mutato im- postazione prendendo il nome di «Studio International». (apa).

Storia dell’arte Einaudi Studio dei Dieci Bambú Raccolta cinese di stampe, edite tra il 1619 e il 1633; alcu- ne delle incisioni su legno dello Shi zhu zhai shu huapu (Rac- colta degli scritti e delle pitture dello Studio dei Dieci Bambú) vengono considerate tra le piú belle stampe cinesi a colori. Non si conosce alcuna edizione completa della prima tira- tura, che, secondo la prefazione, sarebbe stata effettuata nel 1633. Lo S venne riedito nel 1643 e di nuovo nel 1715; fu questo il preludio di molteplici edizioni mediocri, cinesi o giapponesi. All’opposto, infatti, del Giardino grande quanto un grano di senape, non si trattava tanto di un manuale di ricette quan- to di una raccolta di tavole in nero o a colori stampate ad uso dei letterati, e che ebbero un tale successo da disperdersi rapidamente, prima di essere raccolte in volume. Le inci- sioni, intraprese sotto la direzione di Hu Zhengyan (alias Hu Yue-cong), letterato di Nanchino, vennero eseguite par- tendo da modelli tratti dalle opere di una dozzina di artisti delle generazioni precedenti (tra i quali Zhao Mengfu, Shen Zhou, Tang Yin e Wen Zhengming), dei quali vennero ri- presi i bambú e le orchidee, e di una trentina di pittori mi- nori contemporanei. Ordinate per categorie, le tavole sono accompagnate da poesie o da commenti sull’arte della pit- tura, in particolare per le orchidee (→) e i bambú (→); com- prendono, oltre questi ultimi, il tema dei susini, delle pie- tre, dei frutti, degli uccelli e delle composizioni usate per i ventagli. Lo S, la piú celebre tra numerose opere di questo genere, contribuì a diffondere il gusto per la pittura di fiori e uccelli (→), di cui offriva esempi bellissimi. Si può peraltro soste- nere che, malgrado la loro qualità esecutiva, le sue tavole so- no caratteristiche delle tendenze di accademismo virtuosi- stico che caratterizzarono gli ultimi pittori ortodossi della scuola di Wu. (ol). studiolo Il termine s, a indicare un piccolo ambiente destinato allo studio e alla meditazione, è documentato solo nella seconda metà del Cinquecento in occasione della descrizione del Pa- lazzo di Caprarola, contenuta in un resoconto di viaggio compiuto nel 1578 da papa Gregorio XIII. Precedente-

Storia dell’arte Einaudi mente, già alla metà del Quattrocento, tale ambiente viene denominato «studietto» o «camerino»; nel Vocabolario del- la Crusca con i termini di museum, «accademia», o gymna- sium è definito il luogo ove si studia; lo «studio» invece sta più spesso a indicare il mobile scrittoio, come testimonia An- drea Palladio nell’edizione veneziana de I Quattro libri dell’architettura del 1570 (libro II, cap. ii, p. 4); mentre in- fine il latino studium designa piuttosto il concetto astratto dello «studiare». Nell’età classica non si ha alcuna testimonianza di un am- biente che possa costituire un modello per lo s, così come venne configurandosi in particolare nel Quattrocento. Lo s infatti, prima di diventare un luogo radicato nella cultura occidentale, si può originariamente associare a un’idea astratta. Rintracciabile come tale nelle fonti classiche, da Ci- cerone a Plinio a Quintiliano, lo s prende corpo prima nel- lo scrittoio dei monaci, per essere acquisito alla cultura lai- ca in rapporto al preumanesimo petrarchesco e configurarsi poi come luogo architettonico oltre che mentale, ma poi an- che simbolico, nel primo Quattrocento. Il passaggio dal mobile scrittoio all’ambiente dello s si può seguire attraverso l’iconografia del monaco allo scrittoio: a partire dagli affreschi di Tommaso da Modena in San Nic- colò a Treviso, eseguiti fra il 1351 e il 1352, alla rappresen- tazione dei Padri della Chiesa ad opera di Vincenzo Foppa nella cappella Portinari in Sant’Eustorgio a Milano; qui in particolare l’illusionismo prospettico testimonia della con- taminazione fra lo scrittoio, che di per sé definisce nello spa- zio individuato e raccolto l’attività speculativa, e lo s che, una volta assunte le dimensioni di un ambiente seppure di proporzioni ridotte, si configura come dilatazione dello spa- zio in nome di una comune accezione di luogo riservato al- la meditazione. Lo scrittoio, così come piú tardi lo s, viene per lo piú carat- terizzato da una serie di oggetti: dai libri, alle suppellettili e agli strumenti da scrittura e di misurazione, come l’astrola- bio e il compasso o la sfera armillare, che sono il corredo del- lo studioso. I primi esempi di s si possono rintracciare soprattutto in Francia, dove già nel sec. xiv con il termine di éstude si tro- va documentato un piccolo ambiente nel castello di Vin-

Storia dell’arte Einaudi cennes. La sua collocazione nella torre sopra alla porta di ac- cesso al castello, non solo sottolinea le caratteristiche di iso- lamento di questo luogo, riferibili alla turris speculationis,ma indica anche una valenza di difesa, legata alla funzione di stanza del tesoro e di archivio che lo s manterrà anche nel Quattrocento. Già nell’éstude di Carlo V infatti si registra un primo interesse collezionistico, che diverrà una compo- nente fondamentale in alcuni s fra Quattrocento e Cinque- cento, come nell’esempio fiorentino di Piero de’ Medici o nel «camerino d’anticaglie» di Isabella d’Este. Nello stesso tempo s’incomincia a delineare un rapporto fra cultura e potere che troverà espansione nell’ideologia delle signorie italiane in pieno sec. xv. Come nel castello di Vin- cennes, così la collocazione dello s di Federico da Monte- feltro nella torre della facciata «trionfalistica» del Palazzo Ducale di Urbino definiva alla metà del Quattrocento, in termini ideologici e simbolici, il ruolo dello s come «rap- presentazione» del Signore, il cui potere è connotato non solo dalla forza, alla quale pure allude la rocca, e dalla ric- chezza, ma anche dalla sapientia e dalla prudentia che quali- ficano il sovrano illuminato. La decorazione degli s umanistici, scarsamente conservata, è generalmente legata alla funzione stessa dell’ambiente, informata alle condizioni ideali dello studio, indicate nelle fonti classiche, ora a lume di candela ora a contatto con la natura. La scelta cade pertanto su figurazioni allusive alla cultura, dalla personificazione delle Arti, agli Uomini Illu- stri, alle Muse, alla stessa rappresentazione degli oggetti che costituiscono il corredo dello studioso, il quale viene così celebrato nelle sue caratteristiche eminentemente intellet- tuali. È soprattutto verso la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento che incomincia a prevalere una funzione es- senzialmente collezionistica degli s, rispetto a quella pura- mente intellettuale, recuperando così quel carattere di stan- za del tesoro che già nel Trecento aveva connotato certi luo- ghi di studio e di ritiro élitario del Principe. Nell’ambiente mediceo il collezionismo ha costituito, già dai tempi di Co- simo e di Piero de’ Medici, una qualifica economica oltre che intellettuale e artistica, come testimonia lo «studietto» di Palazzo Vecchio che Filarete descrive: «Hornato di de- gnissimi libri et altre cose degnie; et così [...] hornatissimo

Storia dell’arte Einaudi il pavimento et così il cielo di vetriamenti fatti a figure di- gnissime» ad opera di Luca della Robbia. Il carattere composito del collezionismo mediceo, fra anti- chità, rarità e meraviglie, troverà maggior sviluppo con Lo- renzo il Magnifico e con Cosimo I, al quale si deve la co- struzione di alcuni s nel Quartiere di Leone X, nel Quar- tiere degli Elementi, così come anche nel Tesoretto sempre in Palazzo Vecchio a Firenze; mentre un’espansione di ta- le moda collezionistica di naturalia e mirabilia, correndo pa- rallela all’esigenza per lo piú naturalistica codificata nei ga- binetti scientifici, si affermerà soprattutto nelle Wun- derkammern nordeuropee. Da questa tipologia non si può prescindere per lo s di Francesco I in Palazzo Vecchio a Fi- renze, che costituisce forse uno dei casi estremi di soprav- vivenza dello s umanistico alla fine del Cinquecento, se- gnando insieme il suo esaurimento. Ma gli interessi di Fran- cesco I per i naturalia e i mirabilia, come per gli artificialia, pur rivelando il legame del suo s con le Wunderkammern nordiche, riflette di queste ultime non tanto l’esigenza del- la meraviglia, ma il carattere collezionistico e catalogatorio e soprattutto l’aspetto teorico e di ricerca, attualizzando dunque lo s di stampo umanistico alla luce della cultura del tempo. Ma se il gabinetto scientifico prevederà una siste- mazione ordinata degli oggetti da collezione, seguendo cri- teri catalogatori per generi e specie, nello s di Francesco I la ricerca scientifica si esprime nei termini di elaborazione intellettuale attraverso la trasfigurazione artistica, ripro- ducendo nella dimensione minima del microcosmo l’Uni- verso sensibile. Se il collezionismo legato fin dall’origine allo s, seguirà un’autonoma tradizione storiografica, i luoghi di raccolta e di esposizione si moltiplicano a partire dal sec. xvi: dallo s, alla grotta, al «camerino d’anticaglie», al cortile, alla loggia, alla galleria fino al museo: uscito dallo s l’umanista tende, attraverso l’oggettivazione della sua cultura nelle opere e nei pezzi della sua collezione, ad operare soprattutto come or- ganizzatore dei suoi spazi di ricerca e di esposizione e come abile acquirente di opere d’arte, proiettandosi così verso il mercato artistico. Ancora nell’inoltrato Cinquecento il col- lezionista amerà spesso farsi ritrarre in una sorta di s, cir- condato dai pezzi della sua collezione o comunque da que-

Storia dell’arte Einaudi gli oggetti antichi e preziosi che contribuiscono a delineare la sua immagine in termini di gratificazione tanto economi- ca che di prestigio che culturale. (ccv). Stupica, Gabriel (DraÏgo‰e (Slovenia) 1913). Studia all’Accademia di Za- gabria e qui risiede fino al 1946, data del suo trasferimento a Lubiana dove è chiamato a insegnare all’Accademia di belle arti. Dalla pittura realista, caratterizzata da una drammatica luce incolore (Autoritratto con un amico, 1941: Zagabria, gam), a partire dal 1953, attraversa una fase mag- giormente espressionista e minuziosamente descrittiva (Ta- volo con giocattoli, 1954: Lubiana, Assemblea Nazionale; Ritratto dell’artista con sua figlia, 1956: Lubiana, gam), per approdare al surrealismo. La ricerca di sintesi espressiva con- duce S a semplificare i suoi mezzi: dalle superfici bianche delle tele emerge qualche segno, lettere dell’alfabeto, fram- menti di un giornale, la linea esile di un disegno imprigio- nato nella pasta densa di una materia in rilievo (serie delle Giovani spose, 1962-67; il Pittore e la sua modella, 1965: Rijeka, gam; Due personaggi, 1967: coll. priv.). Lo stesso pro- cedimento del bianco su bianco S lo presenterà alla Bienna- le di San Paolo nel 1983; tra le retrospettive a lui dedicate la piú importante è quella di Lubiana (gam) del 1968. (ka). «Sturm (Der)» Rivista e galleria d’arte berlinesi, fondate da Herwarth Wal- den (1878-1941), musicista e redattore della rivista teatrale «Der Neue Weg», il quale, in polemica con l’orientamento estetico conformista promulgato su quelle pagine, diede le di- missioni per dar vita a una propria pubblicazione. Il primo nu- mero della nuova rivista (a scadenza settimanale e poi mensi- le) comparve, a Berlino e a Vienna, nel marzo 1910. Dedica- to inizialmente alla letteratura e alla critica, il periodico rivolge la sua attenzione all’arte, a partire dall’introduzione, sulle sue pagine, delle illustrazioni di Max Liebermann. Uomo di scel- te ardite, Walden si tenne costantemente su posizioni d’avan- guardia, non esitando a rinnovare parte della redazione non appena si presentasse una novità. Sin dal 1910 Kokoschka fi- gura tra i collaboratori della rivista su cui pubblica i Ritratti a matita; in ottobre è incaricato della edizione viennese che, tuttavia, non riscuote consensi. Nel 1911 il trasferimento di

Storia dell’arte Einaudi Die Brücke a Berlino segna l’inizio di un’attiva collaborazio- ne con gli artisti che fanno parte di quel sodalizio. Pubblica per primo Pechstein (disegni e xilografie), seguito, subito dopo, da Nolde, Schmidt-Rottluff e soprattutto da Kirchner. Nello stesso anno, viene impiegato, per la prima volta e pro- prio sulle colonne della rivista, il termine «espressionismo», ancora non specificamente riferito all’arte di Kokoschka o di Die Brücke ma già referente di una volontà di opposizio- ne radicale all’accademismo artistico del sec. xix e all’im- pressionismo in particolare. Nel 1912, Walden indirizza la sua curiosità a Der Blaue Reiter e ai movimenti stranieri con- temporanei, al cubismo e al futurismo. Nel marzo di quell’anno, in occasione dei festeggiamenti per il centesimo numero della rivista, Der S diviene anche galleria con un’esposizione nella quale sono presenti, tra gli altri, Hod- ler e Munch. Walden, continuando a sostenere e a promul- gare posizioni d’avanguardia, pubblica intanto il Manifesto della pittura futurista e dedica al gruppo italiano la seconda mostra promossa dalla galleria. Nel medesimo anno seguirono, quindi, le esposizioni dedica- te alle nuove e principali tendenze «espressioniste»: la versio- ne tedesca, rappresentata da Der Blaue Reiter, con Kandin- sky, Marc, Jawlensky, Munter, Werefkin, quella francese, con Braque, Derain, Dufy, Friesz, ed Herbin, quella belga, con Ensor, per la prima volta in Germania, e Wouters. Nel 1913 viene presentata l’opera di Robert Delaunay che pubblica, tra l’altro, sulle pagine della rivista, il suo scritto Sulla luce, tra- dotto da Paul Klee. Anche Apollinaire, che lo accompagna a Berlino, appare sul periodico con il testo Realtà, pittura pura. Ma la manifestazione piú ambiziosa realizzata da Der S è rappresentata dal primo Salone d’autunno tedesco, nel set- tembre del 1913, con 366 dipinti e sculture di artisti pro- venienti da diversi paesi; la tendenza generale è orientata all’astrattismo e all’arte naïf (il Doganiere Rousseau è pre- sente con ventidue opere). Nel 1914, per interessamento di Apollinaire, Chagall tiene un’esposizione personale nei locali della galleria, mentre Walden estende la propria influenza anche all’estero (mo- stre a Stoccolma, Londra, Tokyo). La generosità nell’accogliere e seguire tanti artisti e tante

Storia dell’arte Einaudi manifestazioni creative pur differenti, atteggiamento pro- prio anche del gruppo del Blaue Reiter, conferisce a «Der S» una posizione di primo piano nella vita culturale euro- pea. Quel suo spirito di ricerca, di confronto e di effettiva collaborazione, doveva tuttavia terminare con l’inizio della guerra. Non per questo Walden interrompe le pubblicazioni dedi- cate all’arte e, nel 1916, crea i Der Sturm Abende, serate artistiche ove si alternano letture, dibattiti e recitals come già era accaduto al Salon de la libre esthétique di Bruxelles. In quello stesso anno Walden pubblica il suo testo Libro dell’amore dell’umanità, vera professione di fede perfetta- mente conforme all’attività precedentemente svolta. Terminata la guerra tentò di recuperare la sua posizione di spicco nell’ambito della vita artistica, ma le condizioni era- no profondamente murate; allo scetticismo diffuso si ac- compagnava la tendenza al decentramento, nuove riviste, sorte anche grazie alla sua politica d’apertura, gli facevano concorrenza. Walden appoggiò ancora Ernst, Schwitters, Moholy-Nagy. Nel 1924 «Der S» ebbe scadenza trimestra- le, poi nuovamente mensile. L’evoluzione della politica te- desca spinse il suo instancabile direttore a partire per la Rus- sia, nel 1932. Qui collaborò a «Das Wort» (1938-39), organo degli immi- grati tedeschi a Mosca sino a che non fu deportato in Sibe- ria, nel 1941. (mas). Sturm, Ferdinand (Ziericksee (Olanda) ? - Siviglia 1556). S, o Storm, con Kem- pener (Campaña) di Bruxelles è figura dominante della pit- tura sivigliana alla metà del sec. xvi, e uno dei protagonisti dell’influsso romanista in Andalusia. Benché le circostanze del suo trasferimento in Spagna restino ignote, e così pure le date entro le quali vi soggiornò, la sua presenza e la fama di cui godette in tutta la regione sono attestate da numerosi documenti tra il 1539 e il 1557. Lasciò opere ad Arcos de la Frontera (San Pedro: Vita della Vergine e Passione, 1539-42) e ad Osuna (Collegiata: Immacolata, 1555). I retabli che di- pinse nel 1551 e nel 1554 per gli ospedali sivigliani sono scomparsi, ma la Cattedrale conserva l’opera maggiore, il re- tablo della cappella degli Evangelisti (1555), la cui grande Resurrezione rivela un manierismo influenzato da Heem-

Storia dell’arte Einaudi skerck e dalle incisioni di Aldegrever. Altre composizioni, piú distese, si adattano maggiormente al gusto andaluso (Messa di san Gregorio, busti di sante, in particolare le Sante Giustina e Rufina).Queste ultime si collocano entro una li- nea tipicamente sivigliana, che va da Alejo Fernández a Zur- barán, Murillo e Valdés Leal, mentre alcune opere eseguite nella fase iniziale della sua carriera presentano caratteri de- cisamente settentrionali e si situano nell’ambito di influen- za di Isenbrant e del Maestro delle Mezze figure (Deposi- zione nel sepolcro: Arras, Museo). (pg). Styger, Paul (Schwyz 1889 - Lucerna 1939). Trasferitosi a Roma nel 1906, S si dedica ben presto all’archeologia cristiana. Di- viene sacerdote nel 1913, e appena due anni dopo gli ven- gono affidati gli scavi al di sotto della Basilica di San Seba- stiano sulla via Appia. Successivamente si reca a Varsavia, dove svolge attività di docente universitario fino al 1932. Tra i principali interessi di S è certamente l’origine dei com- plessi cimiteriali: a questo proposito si ricordano i suoi stu- di su San Callisto, Domitilla e Priscilla, poi confluiti nelle opere Die römischen Katakomben (1933) e Die römische Märtyrergrüfte (1935). Nel campo della storia dell’arte l’ope- ra piú nota di S è Die alchristliche Grabeskunst (1927); qui lo studioso esprime la convinzione che le raffigurazioni dell’arte paleocristiana abbiano carattere puramente narra- tivo, una posizione inaccettabile e criticata da molti già all’apparire del volume. A questo, come ad altri lavori di S nuoce senza dubbio la sua abitudine ad impostare gli studi prendendo le mosse da tesi preconcette. (aa). ·tyrký, Jindfiich (âermná (Boemia orientale) 1899 - Praga 1942). Si forma all’Accademia di belle arti di Praga presso J. Obrovský. Nel 1922, durante un viaggio in Yugoslavia, incontra Toyen (Marie âerminòvá) con la quale condivide le proprie espe- rienze artistiche aderendo con lei al gruppo avanguardisti- co Devûtsil, il cui programma «poetico», elaborato dal cri- tico d’arte K. Teige, avrà su di loro una feconda influenza. Le prime opere di · s’ispirano al cubismo sintetico, ma, a poco a poco, perdono il loro carattere costruttivo per ten-

Storia dell’arte Einaudi dere verso una pittura di lirismo puro. Nel 1925, · e Toyen si recano a Parigi, dove resteranno fino al 1929; promotore dell’artificialismo, corrente che si propone di materializza- re le immagini, le impressioni e i sentimenti legati al ricor- do di una realtà vissuta o sognata, · inaugura questo perio- do con il Paesaggio-scaccbiera (1925: Parigi, mnam). Dopo una serie di «poemi-dipinti», fondati, alla maniera surrea- lista, sulla libera associazione delle immagini, esegue, tra il 1926 e il 1927, alcune composizioni non figurative i cui se- gni divengono, secondo la definizione dello stesso autore, degli «induttori diretti di emozioni»: Antipodi (1926: Hlu- boká, Gall. Ale‰), I fiori nella neve, Trovato sulla spiaggia, Inondazione (opere del 1927), dipinti questi che trovano pre- cise corrispondenze con l’arte di Klee, col quale l’artificia- lismo ha numerosi punti in comune. Negli anni 1928-30 · si dedica, con lo stesso spirito, al disegno, all’incisione e all’acquerello. Scopre Lautréamont che contribuirà, in ma- niera decisiva, a orientarlo verso il surrealismo. Dal 1931 esegue composizioni inquietanti, animate da forme insolite e da oggetti misteriosi (Sigaretta vicino alla morte, 1931: Ostrava, Museo). Nel 1932 partecipa alla mostra Poesia 32 a Praga, dove, accanto agli esponenti dell’avanguardia ceca compaiono i nomi di Paul Klee e De Chirico, ma è nel 1934 che ·, così come Toyen, diventa uno dei fondatori del grup- po surrealista cecoslovacco. I suoi dipinti si popolano di vi- sioni allucinate e di figure fantomatiche, espressioni subli- mate delle sue aspirazioni e delle sue angosce (Pietra tom- bale, 1934: Praga, ng; L’uomo trasportato dal vento; Radura nella luce di giugno, 1937) e realizza dei collages dove il «sur- reale» fantastico sgorga da fortuiti incontri di elementi rea- li. In queste ultime opere, il sogno e la realtà, il conscio e l’inconscio si mescolano intimamente fra loro (La musa son- nambula, 1937; Il paradiso perduto, 1941). Nel 1939 la cen- sura gli impedisce la sua attività pubblica; ciò nonostante egli porta a termine il suo album (Sogni) che raccoglie dise- gni, collages, quadri e annotazioni degli anni 1925-40 (pub- blicato nel 1941). (ok). Suavius, Lambert III (Liegi 1510 ca. - Francoforte 1567 ca.). Architetto, pittore, poeta e incisore vallone, assunse come pseudonimo la forma latinizzata del suo cognome: Soetman, Zoetman o Le Doux.

Storia dell’arte Einaudi Esercitò grande influsso su di lui Lambert Lombard, che ne aveva sposato la sorella. La sua passione per l’arte italiana, mediata attraverso le opere del maestro di Liegi, che spesso riprodusse, lo spinse a compiere il viaggio in Italia. Nel 1561 partecipò al concorso per la costruzione del municipio di An- versa. Lavorò molto per Christophe Plantin e per Hierony- mus Cock. Vasari e Guicciardini ne riconobbero i meriti. Praticò soprattutto l’incisione su proprio disegno: la sua ope- ra incisa comprende 121 pezzi. Suoi soggetti preferiti erano le scene religiose: Resurrezione di Lazzaro, Deposizione nel sepolcro, Guarigione del paralitico.Fu autore dello splendido Ritratto di Granvelle (1556). (wl). Subleyras, Pierre (Saint-Gilles-du-Gard 1699 - Roma 1749). Nato nello stes- so anno di Chardin, come lui è pittore del silenzio, dei gesti bloccati, dell’emozione controllata; ma si compiace soprat- tutto delle grandi composizioni a soggetto religioso o mito- logico. Era figlio di un modesto pittore di Uzès; si formò a Tolosa nella bottega di Rivalz. Le poche tele conservate di questa fase – essenzialmente i cinque medaglioni del soffit- to nella chiesa dei Penitenti Bianchi (oggi Tolosa, mba) e tre dei relativi bozzetti, nei musei di Malta e di Birmingham (City ag) – rivelano un artista profondamente segnato dalla tradizione della scuola tolosana, allora, a parte Parigi, una delle piú importanti. Agli stessi anni risalgono i primi ri- tratti: Madame Poulhariez con la figlia (1724: Carcassonne, mba), lo Scultore Lucas (Tolosa, mba). Nel 1726, con una borsa della città di Tolosa, si recò a Pa- rigi. L’anno successivo concorse per il grand prix dell’Acca- demia, che vinse col Serpente di bronzo (Nîmes, mba) e che gli aprì le porte dell’Accademia di Francia a Roma. Nel 1728 lasciò Parigi definitivamente. Come Poussin – e il parallelo non si limita a questo – giunse a trent’anni nella Città eter- na, nel pieno possesso dei suoi mezzi. Il direttore dell’Ac- cademia di Francia a Roma, allora ospitata in Palazzo Man- cini, era Vleughels. Da varie lettere da lui inviate al So- vrintendente alle belle arti, il duca d’Antin, possiamo seguire i progressi del giovane pittore, particolarmente rapidi nel ri- tratto. Tali lettere ci dicono pure che S non intendeva tor- nare in Francia; e, grazie a vari interventi della principessa

Storia dell’arte Einaudi Pamphilj presso la duchessa di Uzès e di quest’ultima pres- so il duca d’Antin, e grazie anche ai lavori eseguiti per il du- ca de Saint-Aignan, allora ambasciatore di Francia a Roma (quadri rappresentanti le Favole di La Fontaine: Parigi, Lou- vre, Nantes mba), l’artista ottenne non solo di restare a Ro- ma, ma anche di continuare a risiedere in Palazzo Mancini, che lasciò soltanto nel 1735. Il suo primo incarico importante è Il principe Vaini insignito dell’ordine dello Spirito Santo dal duca di Saint-Aignan (Pari- gi, Museo della Legion d’onore; studi d’insieme e di parti- colari nelle collezioni private francesi e a Parigi, Museo Car- navalet). Risale al medesimo anno, 1737, la non meno im- portante Cena in casa di Simone, ordinata dai canonici di San Giovanni in Laterano per il convento di Asti (Louvre; boz- zetto pure al Louvre, numerose le repliche originali). Da que- sta data in poi, e per i dodici anni che gli restavano da vi- vere, S attraverso numerosi ordini religiosi, doveva riceve- re alcuni incarichi tra i piú importanti per le chiese non solo di Roma, ma di tutta Italia (ad esempio, per i Santi Cosma e Damiano a Milano, un San Gerolamo nel 1739, e nel 1744 un Cristo in croce tra la Maddalena, san Filippo Neri e sant’Eu- sebio: entrambi oggi a Brera), e persino in Francia (Tolosa e Grasse). Nel 1739 aveva sposato la miniaturista Maria Fe- lice Tibaldi, figlia del musicista Tibaldi, la cui sorella era dal 1734 moglie di Trémolières (due Ritratti fattile dal marito nei musei di Baltimore e di Worchester). Ella riprodusse poi su miniatura tele del marito, per esempio la Cena in casa di Simone (1748: Roma, Pinacoteca Capitolina), e inoltre col- laborò alle sue opere. Per convincersene basta guardare il ce- lebre quadro all’Akademie di Vienna che mostra, raccolta nella Bottega del pittore (le cui pareti sono coperte da quadri dell’artista), l’intera famiglia S al lavoro. Nel 1740 S entrò in contatto col cardinal Valenti Gonzaga, che lo raccomandò a papa Benedetto XIV, di cui dipinse l’anno successivo il ritratto ufficiale (numerose versioni, di cui una a Chantilly, Museo Condé). La protezione del pon- tefice gli valse l’incarico, nel 1743, del San Basilio celebra la messa di rito greco dinanzi all’imperatore Valente, ariano, per San Pietro (oggi a Roma, Santa Maria degli Angeli; bozzet- ti a Perugia, al Louvre e all’Ermitage). Così, a prova della sua fama, dopo Vouet, Poussin e Valentin, S fu l’unico pit- tore francese a ricevere un incarico per la Basilica.

Storia dell’arte Einaudi Ma prima di completare questa gigantesca tela (1748) rea- lizzò i suoi quadri piú belli: il Miracolo di san Benedetto (per gli Olivetani di Perugia: oggi a Roma, Santa Francesca Ro- mana), Sant’Ambrogio assolve Teodosio (per il medesimo or- dine: oggi a Perugia, gnu), San Camillo de Lellis in adorazio- ne della Croce (Rieti, San Rufo), Nozze mistiche di santa Ca- terina (Roma, coll. priv.; bozzetto a Northampton, Smith College) e soprattutto il suo capolavoro, il San Camillo de Lellis salva gli appestati durante un’inondazione del Tevere, uno dei piú bei quadri del Settecento (Roma, Museo di Roma). Il 26 gennaio 1748 il San Basilio venne esposto in San Pie- tro; fu un trionfo senza pari per l’epoca. Ormai il rango di S era riconosciuto. Occupava, con Jean-François de Troy, allora direttore dell’Accademia di Francia a Roma, il primo posto nella scuola romana. Ma la malattia lo minava. Mal- grado un viaggio di riposo a Napoli nel 1747, doveva mori- re a Roma, appena cinquantenne. Pompeo Batoni, piú gio- vane di una generazione, poteva prenderne il posto e imporsi senza rivali pericolosi. S fu soprattutto pittore di storia, ambizione suprema di tut- ti gli artisti dell’epoca; ma non trascurò la natura morta (Tolosa, mba), la scena di genere piú o meno rapida (illu- strazioni delle Favole di La Fontaine, oltre alle tele sopra citate, due esempi all’Ermitage), il ritratto (Don Cesare Ben- venuti: Parigi, Louvre; il Beato Giovanni di Avila: Birmin- gham, City ag), la mitologia, il nudo (oltre al Caronte del Louvre, l’eccezionale Nudo di donna della gn di Roma). Qualsiasi genere affrontasse, componeva con rigore, calma, forza, e una semplicità in qualche modo pre-neoclassica. Il suo tocco è delicato, preciso, riconoscibile rispetto a ogni al- tro. Predilesse tre colori, che usò con raffinatezza: il nero, il bianco (due studi di Diacono per la Messa di san Basilio del Museo di Orléans) e soprattutto il rosa tenero. Pittore ec- cezionale e spesso emozionante, la cui fama non scemò nel- la seconda metà del secolo, occupa nuovamente il posto che gli spetta, ed è oggi considerato uno dei massimi innovato- ri del suo secolo. (pr). sublime La nozione di s (greco hýpsos, altezza) appartiene in origi- ne alla retorica antica: fa la sua comparsa infatti, come ter-

Storia dell’arte Einaudi mine di critica letteraria, verso la metà del sec. i a. C., a in- dicare «grandiosità e magnificenza stilistica», fino a essere consacrata nel celebre trattato Del Sublime, attribuito a un retore del sec. i d. C., tradizionalmente noto col nome di Longino (Pseudo Longino). Questi riconosce il carattere del s non tanto nella qualità formale dello stile (sublime genus dicendi), quanto nella valenza morale ed emotiva dell’espe- rienza letteraria e significativamente lo definisce «la riso- nanza di un animo grande» (Peri kypsous, IX, 2). Il trattato, passato sotto silenzio per tutta l’antichità e il Me- dioevo, viene dato alle stampe nel 1554 a Basilea da Fran- cesco Robortelli, tardo umanista commentatore di Aristo- tele. Ha inizio così la sua fortuna moderna e il suo ingresso nel dibattito estetico, che data ufficialmente dalla traduzio- ne francese di Boileau del 1674, pur esistendo una anterio- re traduzione inglese del 1652. Da allora il termine e il con- cetto di s hanno agito profondamente sulla cultura europea, travalicando il tracciato della disciplina retorica, e interes- sando, per piú di un secolo la filosofia, la poesia, le arti fi- gurative, il gusto e di fatto la definizione dell’esperienza ar- tistica tout-court. Esiste dunque una storia del termine all’interno della tradi- zione della retorica antica e una storia della sua diffusione mo- derna che ne ha modificato i limiti e ampliato il senso, come chiaramente sintetizzato da R. Assunto nel 1967: «La fortu- na del trattato Del Sublime nella cultura europea del Sette- cento costituisce uno dei piú cospicui esempi di come uno scritto di retorica [...] possa trasvalutarsi sul piano filosofico, [...] fino a promuovere, almeno in sede teorica, una vera e pro- pria rivoluzione del gusto». Ancora sulla storia del s sono gli interventi di S. H. Monc nel fondamentale Il Sublime. Teorie esteticbe (1935, trad. it. 1991); e di H. Bloom nella postfa- zione a Il Sublime di Pseudo Longino (Palermo 1987). Il sublime di Longino Del Sublime è un trattato in forma di epistola che Longino indirizza a Postumio Terenziano, suo discepolo. Lo scritto rientra nella polemica tra i retori se- guaci di Apollodoro di Pergamo, fautori di un’oratoria scien- tifica e razionalistica, fondata su un metodo di ascendenza aristotelica, e quelli legati a Teodoro di Gadara, propugna- tori di un’oratoria poetica, derivata dall’idea platonica della natura irrazionale dell’arte. Il clima culturale in cui si inse- risce vede la trasformazione dell’ideale della bellezza da og-

Storia dell’arte Einaudi gettiva in soggettiva, grazie soprattutto all’estetica stoica, basata sull’idea del godimento della bellezza flagrante dell’evento. Longino, polemizzando con un altro trattato sul s composto da Cecilio di Calatte, retore siciliano vissuto a Roma sotto Augusto, non si accontenta di offrire definizio- ni del suo oggetto di indagine, ma si prefigge uno scopo prag- matico e didattico: insegnare a conseguire il vero s espres- sivo. Questo è considerato non tanto e non solo, come nel- la tradizione retorica, «la piú alta vetta dello stile», quanto una condizione spirituale e morale, non uno stile ma un ef- fetto (G. Lombardo) che quando si produce nel discorso ora- torio o letterario «non porta gli ascoltatori alla persuasione ma all’esaltazione: perché lo scarto imprevedibile che pro- voca prevale sempre su tutto ciò che convince o che piace» (I, 4). Con esempi tratti da Omero, Platone, Demostene e anche dalla Bibbia (IX, 9), Longino esemplifica quale sia la vera espressione s, distinta dalla falsa o vuota qualità for- male per quanto alta questa possa essere. Distingue una per- fezione senza grandezza dalla grandezza senza perfezione, sostenendo che solo la seconda può albergare momenti di s autentico, che dunque si configura come lo «scatto del ge- nio», la «risonanza di un animo grande», capace di coniu- gare il piano estetico e il piano etico dell’esperienza. Benché la grandezza d’animo da cui il s procede sia innata, al s ci si può educare, sia come autori che come lettori, e nel tentati- vo di elaborare «una tecnica di ciò che è sublime e di ciò che è profondo» (II, 1), Longino individua cinque fonti: due in- nate (grandi pensieri e intensità di sentimenti) e tre acqui- sibili con lo studio (abilità retorica, personalità stilistica, in- gegno compositivo). È dall’integrazione tra queste fonti, dunque tra ingenium individuale e ars che si produce l’effet- to del s, effetto di esaltazione e straniamento, di elevazione e intensità, che riguarda tanto l’autore quanto il lettore, giac- ché «la nostra anima, davanti a ciò che è veramente subli- me, si solleva, e presa da un’orgogliosa esaltazione, si riem- pie di una gioia superba, come se essa stessa avesse genera- to ciò che ha ascoltato» (VII, 2). Il fondamento morale della grandezza espressiva, il prima- to, in un’opera, della genialità discontinua sulla qualità uniforme, e insieme, la necessità di temperare le doti natu- rali al corpus tecnico della tradizione, l’ispirazione all’esem-

Storia dell’arte Einaudi pio dei grandi, sono altrettanti motivi che, se da una parte riflettono la situazione del dibattito letterario del sec. i d. C., dall’altra si aprono a fertili fraintendimenti successivi. Il sublime nell’estetica e nell’arte tra Sette e Ottocento È Nicolas Boileau, massimo sostenitore del classicismo nor- mativo del secolo di Luigi XIV, a dare alle stampe una for- tunatissima traduzione del trattato (1674), nonché la serie di Reflexions critiques sur quelques passages du rheteur Longin, in cui distingue lo stile S in quanto procedimento retorico, dal s in quanto effetto psicologico «straordinario» e «me- raviglioso», che si raggiunge al meglio attraverso la sempli- cità dei mezzi, con ciò conducendo la questione all’interno della teoria classicistica dell’arte. Ma è in Inghilterra che prende forma quel processo di in- terpretazione che doveva trasformare il concetto di s nella categoria estetica contrapposta al bello, perno di gran parte dell’esperienza romantica. La ricezione del trattato in In- ghilterra si innesta su un dibattito sul patetico e il s religio- so (J. Dennis) che porta alla definizione di una poesia susci- tatrice di passioni ed entusiasmo, il cui paradigma diviene Milton. Contemporaneamente, la cultura dell’empirismo in- daga sui piaceri connessi a tale facoltà (J. Addison). Con la riflessione di Locke e Hume il problema della definizione e degli effetti del s assume una valenza psicologica; si confi- gura una psicologia delle passioni che allarga il campo del s dalla poesia alla natura. C’è chi vede la causa di questo slittamento di prospettiva nel- la rivoluzione scientifica operata dagli scienziati inglesi che tra Sei e Settecento formulano una vera e propria «estetica dell’infinito». La riflessione di viaggiatori e filosofi sempre piú spesso prende a oggetto l’immensità del cielo, la vastità degli oceani, le montagne, fonti di ammirazione e orrore (Shaftesbury); mentre godono di grande fama le poesie «sta- gionali» di James Thomson, che attraverso la descrizione de- gli effetti delle stagioni sull’animo umano colgono la subli- mità della natura, «l’anima universale» in essa rinchiusa. L’opera che sintetizza le numerose componenti del s e le or- ganizza in un sistema analitico è il Philosophical Enquity in- to the Origin of our Ideas of Sublime and Beautiful di Edmund Burke (1757). Burke distingue definitivamente il bello dal s e riferisce il bello alla socievolezza, il s all’istinto di conser- vazione. Affermando che le passioni che riguardano l’auto-

Storia dell’arte Einaudi conservazione e che si riferiscono principalmente al dolore o al pericolo «sono le piú forti di tutte le passioni» e che il s è la piú forte emozione che l’animo sia capace di sentire, Burke rivela l’avvenuto mutamento di gusto che vede il pri- mato del genio, dell’ispirazione, del terrifico sulla misura e sul bello, e che promuove a campioni Shakespeare e Milton, Ossian e Walpole, Salvator Rosa e Michelangelo (a cui Sir Joshua Reynolds dedica nel 1790 il suo ultimo discorso alla Royal Academy, riconoscendolo s anche nel capriccio). Della settecentesca poetica del pittoresco, che esalta l’ef- fetto d’insieme, il carattere selvaggio, ruvido e irregolare della natura e delle sue rappresentazioni, la poetica del s è complemento antitetico, che include i caratteri emergenti della crisi dell’illuminismo (Argan): la scoperta della natura antisociale dell’artista, dell’energia sfrenata dell’immagina- zione, il negativo, il terrore. Il terrore, d’ora in avanti ele- mento determinante, può provocare piacere (dilettoso orro- re) quando la sua causa non minaccia direttamente l’osser- vatore, Tra le fonti del terrore s Burke (e tutti i trattatisti che lo seguiranno) annovera l’oscurità, la potenza, la vastità, l’infinità, il silenzio, altrettante figure della poesia e della pittura romantica. Letta e commentata da Lessing ed Herder, recensita da Mo- ses Mendelssohn, l’Inchiesta di Burke innesca nel pensiero tedesco ulteriori sviluppi. Kant affronta il tema prima nelle Osservazioni sul sentimen- to del bello e del sublime (1764), dettate non da un interesse estetico, ma etico-sociale-antropologico («gli italiani e i fran- cesi eccellono nel sentimento del bello, i tedeschi, invece, gli inglesi e gli spagnoli nel sentimento del s; s è l’amicizia, bello l’amore» ecc.); e poi nella Critica del Giudizio (1790), dove l’impostazione trascendentale sposta il fuoco dall’og- getto contemplato al soggetto e alla sua disposizione d’ani- mo. Anche per Kant il sentimento del s sorge da una mi- naccia, un «momentaneo impedimento» seguito «da una piú forte effusione delle forze vitali», e poiché l’animo è al con- tempo attratto e respinto dall’oggetto, il piacere del s viene definito un «piacere negativo». Tra gli scenari suggeriti da Kant si trovano «montagne che si elevano fino al cielo», «profondi abissi in cui le acque si precipitano furiose», che suscitano uno «stupore che confina con lo spavento» e «tri-

Storia dell’arte Einaudi sti meditazioni». Provocato dunque dall’effetto di ciò che in natura è assolutamente grande, illimitato, infinito (s ma- tematico) o dallo spettacolo della potenza dei fenomeni (s dinamico), il s consente alla ragione dell’uomo di ricono- scersi superiore ai confini della sensibilità, non concettual- mente, ma tramite una forte esperienza emotiva, al tempo stesso estetica e morale. Su questo terreno Kant è seguito da F. Schiller, che nei suoi scritti dedicati al s vi riconosce la riprova della forza morale e razionale dell’uomo, che lo eleva infinitamente al di sopra dei limiti della fisicità. Con- temporaneamente Schelling definisce il s come immagine dell’infinito nel finito e A. W. Schlegel (estimatore di Flax- man) rivaluta Longino attribuendogli la scoperta di un’este- tica «sensitiva». È questo il momento culminante della riflessione sul s, a cui corrisponde, in Inghilterra e in Germania, l’attività di arti- sti che per scelta di temi (Bibbia, Divina Commedia, Paradi- se Lost) e di linguaggio (preferenza per il disegno a tratto ri- spetto al colore, rifiuto dell’illusionismo tradizionale) con- tribuiscono alla definizione stessa del s. In Inghilterra è il caso di W. Blake, poeta e disegnatore vi- sionario, autore di poemi apocalittici e di illustrazioni che risentono del gotico e di Michelangelo. L’esperienza artisti- ca assume con Blake i toni della profezia, del confronto con le forze invisibili, celesti o infernali, dell’universo, che tro- vano forme inedite attraverso l’immaginazione. J. M. W. Turner, di contro al pittoresco Constable, si con- fronta con le esperienze del s «dinamico»: tempeste mari- ne, naufragi, valichi di montagne; soggettivizza e rarefà la rappresentazione della natura attraverso la riduzione dei contorni e l’amplificazione della luce, oltrepassando il raffi- gurabile delle convenzioni dell’epoca. Oltre a questi una schiera di pittori di varia levatura espose alla Royal Aca- demy, negli ultimi decenni del Settecento, quadri di «gene- re s», prevalentemente soggetti gotici e ossianici. In Germania C. D. Friedrich lascia una pittura carica di ri- flessioni sull’uomo di fronte alla natura nei suoi aspetti di s «matematico» (effetto di infinito orizzontale, di altezze ele- vatissime), che sembrano ispirate allo spirito di Kant. Negli strati di nuvole a perdita d’occhio del Viandante sul mare di nebbia (1817-18), nella coppia che ascende la vetta, nella so- litudine del Monaco in riva al mare (1808-10) e dei paesaggi

Storia dell’arte Einaudi cimiteriali, l’uomo riflette i suoi propri limiti e il senso di trascendenza. Lo svizzero-inglese J. H. Füssli, esponente del movimento preromantico dello Sturm und Drang, rivisita Milton, Dan- te, Shakespeare e la Bibbia con grande forza immaginativa, individuando, come fonte, il s Michelangelo. Nei suoi Afo- rismi fa riferimento a Longino a proposito della teoria del genio; in tutta la sua produzione trionfano i soggetti con- nessi al sogno, al notturno, al mistero. Nello stesso periodo un gruppo disomogeneo di artisti attua un rifiuto consapevole della pittura a olio. Attraverso l’uso del solo segno di contorno e di fronte a soggetti estranei al corpus iconografico piú tradizionale, Ph. O. Runge, J. A. Carstens, in certa misura J. Flaxman, lo stesso Blake, cer- cano di raffigurare uno spazio mentale, sintetico, che per- mette all’immaginazione di elevarsi e cogliere astrazioni qua- li lo spazio e il tempo kantiani, la nascita della luce (Car- stens); di confrontarsi con le scene piú impalpabili di Dante e Omero (Blake, Flaxman); di sublimare l’estrema varietà della natura in allegorie bidimensionali (Runge). Per estensione la categoria del s è a volte utilizzata per altri artisti, da Piranesi a Goya a Delacroix, in cui si riconosce uno stato di lotta tra la forma tradizionale e la materia oscu- ra, irrazionale. La riflessione sul s prosegue con Hegel e Schopenhauer, mentre Leopardi nel 1825-26 si cimenta nella traduzione di Longino. Nel Novecento al s si rifà la corrente decostrutti- vista americana ispirata a Derrida e H. Bloom, che inter- preta il termine hýpsos come alta scrittura, poesia forte, sot- tolineando l’aspetto di agone e conflitto implicito nella crea- zione letteraria e nella lettura stessa. (asb). succhi d’erbe Sono tradizionalmente così denominate le tele dipinte a imi- tazione di arazzi. Si tratta di un procedimento, la cui tecni- ca di esecuzione non è ben definita, i colori sono certamen- te vegetali, disciolti in acqua e applicati a pennello su una tela di lino, canapa o seta la cui armatura, spesso a spina di pesce, deve restare visibile, proprio per poter sembrare un arazzo. È probabilmente un procedimento piuttosto rapido, che sembra non voglia neppure la preparazione della tela, e

Storia dell’arte Einaudi che deve mantenere anche la morbidezza del panno appeso. Niente cornice perciò, o meglio anch’essa deve essere di- pinta. Sotto la dizione di sd’e vengono spesso erroneamen- te comprese anche le tele dipinte con colori a tempera o sciol- ti in olio, quando la quantità del colore è esigua e di conse- guenza lascia apparire la tela sottostante. I documenti d’archivio riportano spesso i nomi di pittori spe- cialisti in tale genere, come Anasio De Barba, autore delle tappezzerie dipinte nella sala centrale di Villa Aldobrandini a Frascati, o Filippo Germisoni, uno dei prestanome di M. Benefial. Le fonti (Pio, Pascoli, Baldinucci) ricordano pittori famosi che si cimentarono anche in tale specialità: G. F. Romanel- li, C. Maratta, L. Baldi, G. Gimignani, C. Chiari. Famosi e bellissimi sono ad esempio quelli monocromi eseguiti dal Ro- manelli su tela di seta, in piú punti laminata d’oro, che raf- figurano storie della vita di san Francesco Borgia e si trova- no nella Casa Professa del Gesú a Roma. La difficoltà di effettuare analisi chimiche per sincerarsi di tale tecnica ci costringe per il momento a fare esclusivo ri- ferimento alla letteratura. Alcuni ne fanno risalire la nasci- ta alla metà del Seicento in Francia, ma proprio uno specia- lista di arazzi, X. Barbier de Montault, affermava nel 1878 che questo genere di pittura non ha ancora una sua storia, che è invece molto importante, e cita i molti sd’e esposti a Parigi nel 1870 e la sala bassa del convento di Tor de’ Spec- chi a Roma; ma anche queste tele, che raffigurano storie del- la vita di David, non si possono definire veri e propri sd’e, ma sembrano piuttosto tele dipinte con colori a tempera. (rvp). Sucevitsa La chiesa della Resurrezione, appartenente al monastero or- todosso di S (Moldavia, Romania), fondata e decorata sotto le cure del vescovo Giorgio Movilaˇ e di suo fratello, il prin- cipe Geremia Movilaˇ (1582-86), è uno degli ultimi esempi di chiesa moldava interamente affrescata all’esterno come all’in- terno (→ Romania). Esse furono realizzate dai maestri Ion e Sofronie tra 1595 e ’96. Una buona parte del programma ico- nografico è dedicata all’illustrazione del Vecchio Testamen- to; oltre alle consuete scene della Genesi, sono stati rappre- sentati nella camera detta delle Tombe, ove erano sepolti i

Storia dell’arte Einaudi principi, una quarantina di episodi della vita di Mosè. L’in- flusso delle icone è avvertibile nello stile dei dipinti, i cui co- lori vivi sono rafforzati dagli ornamenti dorati. Nella mag- gior parte delle composizioni delle pareti interne predomina il carattere narrativo tipico della pittura moldava del sec. xvi, intessuto di elementi visionari e folkloristici, così come si ri- scontra nella coeva produzione russa; all’esterno prevalgono aspetti piú rigorosamente dogmatici, in uno stile tendente al decorativo che reca in sé i germi della dissoluzione della tra- dizione pittorica moldava stessa. Qui grande accento è posto nella rappresentazione della Scala del Paradiso, così come de- scritta negli scritti del monaco J. Klimax. (sdn + sr). Sudeikin, Serghiej Jurieviã (Mosca 1882 - Parigi 1946). Passato piú volte per la Scuola di pittura, scultura e architettura di Mosca tra il 1897 e il 1909, partecipa alle sedute del gruppo Alaja Rosa (Rosa Scar- latta), fondato a Saratov (centro della regione tra medio e basso Volga) da Borisov-Musatov, e alla mostra ivi tenuta nel 1904. Segue poi per un anno i corsi dell’Accademia di belle arti di San Pietroburgo (1909-10), volgendosi indi alla sce- nografia, e opera con V. Mejerchol´d. Nel 1913 fornisce a Djagilev le scene e i costumi della Tragedia di Salomè.Colori squillanti e motivi esotici caratterizzano i suoi primi cartoni. S emigra a Parigi nel 1920, e nel 1923 negli Stati Uniti, do- ve lavorerà con i grandi rinnovatori del balletto classico: G. Balanchine, A. Bölm, V. NiÏinskij e M. Fokin. (bdm). Sugai, Kumi (Kobé 1919). Compiuti gli studi presso la Scuola di belle ar- ti di Osaka, si trasferisce in Francia nel giugno 1952. Sin dall’anno seguente si segnala in occasione della mostra del gruppo Ottobre, fondato da Charles Estienne, e nel 1954 tiene la prima personale alla Gall. Craven di Parigi. Con- vertitosi presto alle ricerche della giovane scuola di Parigi, dopo un breve periodo surrealista, vicino a Klee e a Miró, riesce a trovare una propria dimensione espressiva in una pittura fatta di suggestioni naturalistiche (l’Uccello, 1953: coll. priv.; il Tuono, 1954: Parigi, coll. priv.). Non dimen- tico comunque delle proprie origini e tradizioni culturali, le sue opere combinano gestualità e astrattismo lirico dell’infor-

Storia dell’arte Einaudi male al ritmo armonico e calligrafico del buddismo zen. Re- miniscenze, senza dubbio, di racconti e miti giapponesi, la maggior parte delle sue figure – demoni, uomini o bestie – possiedono un carattere essenzialmente simbolico che chia- risce spesso le ossessioni erotiche del pittore (Kangeki, 1959: New York, coll. Gall. Kootz). I toni grigi, neri e bianchi scompaiono gradatamente davanti all’irrompere dei colori caldi a sostegno di un tracciato piú ampio dei segni (Oni, 1958: coll. Patrick McGinnis). Dopo le prime personali a Londra (Gall. Saint George’s, 1955) e a Parigi (Gall. Le Gendre e la Roue, 1957), dal 1959 al 1964 espone alla Gall. Kootz di New York. Le piú ampie retrospettive che gli siano state dedicate sono state orga- nizzate dal Kestner-Gesellschaft di Hannover e dal Kun- sternes Museum di Oslo (1967). (em). Su Hanchen (? - dopo 1163). Questo pittore cinese fu tra i piú celebri ri- trattisti Song con Ma Hezhi (attivo verso il 1150 ca. - 1170) e Zhao Boju e, come loro, accademico a Kaifeng, poi a Hangzhou. Il suo nome è legato ai Bambini che giocano (roto- lo verticale a inchiostro e colori su seta: Gu Gong): due fan- ciulli, abbandonando i loro giochi, osservano intensamente un grillo posatosi su un tavolo nel giardino di un palazzo. Una cupa roccia dalle forme bizzarre, molto alta in rappor- to ai piccoli personaggi, contrasta fortemente col lusso co- lorato dei fanciulli e lo splendore squillante dei fiori che la circondano. Simboleggiando i rapporti tra giovinezza e vec- chiaia, quest’opera di brillante virtuosismo esprime magi- stralmente lo spirito letterario e allusivo dell’accademia con un tocco di nostalgia che è tipico della corte dei Song del Sud. (ol). suiboku o suibokuga Termine giapponese che designa la pittura a inchiostro ac- querellato. Questa tecnica si sviluppò particolarmente all’epo- ca degli Ashikaga. Si parla talvolta della scuola «Muroma- chi» (altro nome dell’epoca degli Ashikaga) s per designare la corrente di pittura a inchiostro monocromo praticata spe- cialmente dai monaci-pittori zen per influsso cinese, il cui massimo rappresentante fu Sesshú. (ol).

Storia dell’arte Einaudi Suida, Wilhelm Emil (Neunkirchen 1877 - New York 1959). Si formò presso le Università di Vienna e di Heidelberg. Nel corso di un viag- gio in ltalia, lavorò al Germanisches Institut di Firenze do- ve nacque la sua passione per l’arte italiana, soprattutto per le scuole lombarda, veneziana e genovese, oggetto dei suoi studi per tutta la vita. Dal 1901 in poi cominciò una carrie- ra di conoscitore e di storico dell’arte eccezionalmente ric- ca e originale. Citiamo in particolare i suoi scritti sul Bra- mantino (Jahrbuch des Allerhöchsten Kaiserhauses, Wien 1904 e 1906), sulla pittura genovese (Berühmte Kunststätten,n. 33, Leipzig 1906) e su Leonardo und sein Kreis (München 1929), fondamentale per la conoscenza degli allievi e seguaci del maestro. Nel 1910 S venne nominato professore di storia dell’arte all’Università di Graz; dopo la prima guerra mon- diale fu inoltre direttore della Landesgalerie di Graz, di cui redasse il catalogo ragionato (1923). Quello tra le due guer- re fu per lui un periodo di attività intensa; le sue pubblica- zioni su numerose riviste contribuirono a far conoscere me- glio pittori quali Carneo, Correggio, Giorgione, Licinio, Giotto, Mantegna, Bramantino, Pacher, Giuseppe Petrini, Giovanni Santi, Raffaello, Pollaiolo, Zenale, Savoldo, Ti- ziano, Paolo Veronese, Scarsellino, Serodine, Weissenkir- chner. Al 1933 data un lavoro su Tiziano pubblicato da «Va- lori Plastici» a Roma. Nel 1938 S abbandonò l’Austria e si stabilì a New York, dove presto ebbe l’incarico di conservatore della Fonda- zione S. H. Kress. Durante i suoi ultimi anni stese i cata- loghi ragionati delle singole donazioni della Fondazione, che costituirono la base di una grande pubblicazione com- pletata dopo la sua morte. Pubblicò inoltre un Raffaello (London 1948); il catalogo ragionato del Ringling Museum di Sarasota in Florida (1949); Bramante pittore e Braman- tino (Milano 1953); Luca Cambiaso, la vita, le opere (Mi- lano, in collaborazione con la figlia Bertina S Manning). Il suo ultimo volume, Kunst und Geschichte, completato nell’anno in cui morì, venne pubblicato a Colonia nel 1960. In occasione del suo ottantesimo compleanno, gli venne dedicato un importante Festschrift (London 1959). (rbm).

Storia dell’arte Einaudi Sully, Thomas (Horncastle (Gran Bretagna) 1783 - Philadelphia 1872). Fu allievo del pittore americano Gilbert Stuart e di Benjamin West a Londra, specializzandosi anch’egli come Stuart nel ritratto. Di formazione inglese, il suo stile ricorda quello di Lawrence. Come quest’ultimo, S seppe conferire ai suoi mo- delli dignità, eleganza e una punta di delicata malinconia, che gli assicurarono un immenso successo (il Colonnello T H. Perkins, 1831: Boston, mfa; Madre e figlio, 1839: New York, mma). Si cimentò con successo nella pittura di storia in un quadro destinato al Campidoglio di Washington (Wa- shington mentre attraversa il Delaware, 1818: ivi) - (sc). Sul<Çn A®mad JalÇ´yir Ultimo sovrano (1382-1410) della dinastia gialairide la qua- le regnava sull’area mesopotamica e i territori nordocciden- tali del moderno Iran in un’epoca di grande instabilità con- seguente all’invasione di T¥mr (Tamerlano) dall’Oriente. Le due città piú importanti controllate dai gialairidi furono, con interruzioni, Baghdad e Tabriz. Nonostante le difficoltà politiche nel mantenere il potere, SA fu il maggior mecena- te tra i sovrani gialairidi e favorì la produzione di manoscritti illustrati, soprattutto di carattere poetico. Egli stesso fu poe- ta e ancor oggi si conservano alla Freer Gallery a Washing- ton e al Museo di Arte Turca e Islamica di Istanbul sue rac- colte di poesie finemente decorate con disegni a inchiostro colorati ai margini delle pagine, databili negli ultimi anni della sua vita, tra il 1400 e il 1410. Lo storico del sec. xvi Dost Mu®ammad tramanda che il fa- moso pittore ‘Abd al-Hayy, allievo di Shams al-D¥n, insegnò a SA l’arte del disegno a inchiostro, tanto che il sovrano con- tribuì con una sua opera all’illustrazione di una copia dell’Abu Sa‘¥d-nÇma, oggi purtroppo perduta. Un’altra fonte, Dawlat- shÇh del sec. xv, descrive SA come un buon poeta in arabo e persiano, versato in diverse attività artistiche quali pittura, di- segno, la fabbricazione di archi e frecce, la decorazione su me- tallo. Il piú celebre manoscritto illustrato del periodo di SA, e quasi sicuramente prodotto per il sovrano stesso, è un’ope- ra poetica di KhwÇj KirmÇn¥, datata 1396 e illustrata dal fa- moso pittore Junayd, oggi nella bl a Londra. I dipinti di que- sto manoscritto sono di particolare importanza perché segna-

Storia dell’arte Einaudi no un definitivo distacco dalla tradizione ilkhanide e prelu- dono al maturo stile timuride della prima metà del sec. xv. Sicuramente SA fu attivo partecipe di questo processo. Al- tri importanti manoscritti illustrati prodotti in questo pe- riodo sono un Khamsa di Ni§Çm¥ del 1388 a Londra e un frammento dalla stessa opera databile intorno al 1410 a Wa- shington, ma bisogna citare anche alcuni singoli dipinti con- servatisi in album a Istanbul e Berlino. Inoltre, durante il periodo di SA vennero prodotti mano- scritti illustrati di carattere astrologico e cosmografico di mi- nor valore artistico ma di grande interesse tematico anche per la relazione tra testo e immagine: fra di essi una cosmo- grafia di A®mad al->s¥ del 1388 dedicata a SA, oggi a Pa- rigi; una miscellanea di astrologia, astronomia e favolistica della fine del sec. xiv a Oxford e un trattato d’astrologia del- lo stesso periodo in una collezione privata a Londra. (sca). sultanato Si designa con la denominazione di s il periodo della storia indiana che intercorre tra la fondazione del s di Delhi da parte di Qu

Storia dell’arte Einaudi van), di un Sikandra-nÇma, che narra le avventure di Ales- sandro Magno (Cambridge, Mass., coll. Stuart Welch) sono anch’esse copie di dipinti persiani eseguite senza dubbio al- la fine del sec. xv da artisti indiani come ben si può dedur- re dal loro forte sapore locale. Mandu Capitale della dinastia Khilji, Mandu fu fondata nel 1436 e diventò uno dei centri culturali piú attivi del periodo del s; venne dotata di numerosi monumenti e sotto il regno di NÇ#ir-ud-D¥n (1501-12) vennero decorati numerosi ma- noscritti, in particolare un BustÇn di Sa’ad¥ datato 1503 (Nuo- va Delhi, nm) e un Nimat-nÇma (Londra, India Office Li- brary). Il BustÇn, illustrato da un certo Haji Mahmd, è una variante non molto originale dello stile di Herat. Anche il Ni- mat-nÇma, libro di cucina e di ricette di vita domestica del re Ghavas-ud-D¥n († 1501), decorato attorno al 1505, copia sen- za troppe sottigliezze lo stile di Herat, ma, quando si tratta di rappresentare elementi locali (donne indigene, flora e fau- na indiane), gli artisti attingono al repertorio loro fornito dall’arte giaina dell’India occidentale, peraltro prediligendo gli aspetti realistici che l’opera accomuna a un manoscritto indú datato 1517, un Vanaparva (Bombay, Asiatic Society). Jaunpur Due manoscritti del Laur Chanda – storia d’amore popolare scritta in avadhi, dialetto dell’India settentrionale – dipinti probabilmente durante il secondo quarto del sec. xvi, vengono, per motivi di verosimiglianza, ricollegati a Jaunpur, capitale della brillante dinastia Sarqi. L’esemplare che sembra piú antico (Bombay, Prince of Wales Museum) giustappone formule persiane vicine a quelle del Nimat-nÇma di Mandu ad elementi indigeni che ricordano i dipinti indú e giaina dei Vanaparva del 1517 e del MahÇpurÇna del 1540; il secondo esemplare (Manchester, Ryland’s Library), realiz- za una piú felice sintesi tra formule persiane e locali, e si con- traddistingue per una maggiore eleganza nel disegno e per un certo manierismo delle pose. I due manoscritti sono notevo- li per l’armonica combinazione dei colori freddi, che contra- stano con i toni, spesso piú violenti, di altre miniature del s. Sono queste le ultime manifestazioni artistiche del s, scom- parso insieme ai principati turco-afghani e battuti definiti- vamente dall’imperatore moghul Akbar (1556-1605). (jfj). Sumiyoshi, Hiromichi (alias Jokei; 1599-1670). I critici giapponesi considerano

Storia dell’arte Einaudi Jokei, specialista nelle scene di genere Tosa, tradizione dal- la quale si allontanò per divenire pittore al servizio dello shÿ- gun di Edo (Tokyo), e fondatore di una scuola detta «S». L’unico personaggio importante di questa «scuola» fu suo figlio Gukei (alias Hirozumi S), autore di un apprezzato ro- tolo in lunghezza, il Rakuchÿ rakugai (tradotto con Kyoto e dintorni: Kyoto, mn), il cui stile, delicato e decorativo di un umorismo aggraziato nella descrizione del movimento delle strade, può considerarsi anticipatore dell’animazione del- l’ukiyoe. (ol). Summonte, Pietro (Napoli 1463-1526). Fu allievo dell’umanista Giovanni Pon- tano, di cui divenne ben presto stretto collaboratore come copista dei suoi manoscritti all’interno dell’Accademia. Tut- tavia la vocazione intellettuale non impedì al S di prendere attivamente parte alla vita politica di Napoli. Nel 1498 fu nominato elettore popolare; dal 28 settembre 1504 ebbe la carica di credenziere della Dogana di Napoli, con esenzione dal tenere l’ufficio e diritto, a riscuotere lo stipendio; nel 1514 fu cancelliere della città. Ma fu soltanto nel 1520 che il S ottenne il primo incarico da docente, in qualità di let- tore di humanitas nello Studio di Napoli, posto che occupò fino a tutto l’anno 1524-25. La produzione letteraria del S fu alquanto scarsa. Come poe- ta, ci rimangono di lui due distici e un Hexasticon (in lati- no), un carme in ventitre distici sulla Disfida di Barletta in- dirizzato ad Ettore Fieramosca; mentre, come scrittore, ci ha lasciato alcune epistole in latino e in volgare. Assai piú meritoria, pertanto, fu la sua attività di editore: curò infat- ti la pubblicazione delle Opere del Pontano (1505-12), del- l’Arcadia di Jacopo Sannazaro (1504), delle Rime di Bene- detto Gareth detto il Cariteo (1509), oltre a quella di altre opere di umanisti napoletani. Nel campo della letteratura artistica, la fortuna del S è le- gata alla lettera indirizzata il 20 marzo 1524 all’amico ve- neziano Marcantonio Michiel, che gli chiedeva notizie sull’arte napoletana da utilizzare per quelle Vite de’ pittori e scultori moderni, mai date alle stampe per l’uscita delle bio- grafie del Vasari. Pur nella sua brevità, la lettera costitui- sce la principale fonte per l’arte a Napoli dal xiv al primo

Storia dell’arte Einaudi quarto del sec. xvi, non solo per le preziosissime notizie di prima mano che in essa sono contenute, ma anche per l’in- consueto acume critico che permise al S di distinguere le peculiarità linguistiche dell’arte italiana rispetto a quella fiamminga, di perfezionare il concetto storiografico di «scuola», di dare il giusto rilievo anche alle cosiddette arti minori. (rn). Sunyer, Joaquìn (Sitges 1875-1956). Proveniente dall’ambiente modernista di Barcellona, partì assai giovane per Parigi, soggiornando- vi fino al 1911. Qui la sua arte venne profondamente in- fluenzata da Cézanne e da Renoir. Artista «mediterraneo», profondamente innamorato della sua terra, scelse come tea- tro delle sue opere le campagne e le coste catalane ambien- tandovi figure di giovani donne (contadine o bagnanti, ma- dri circondate dai loro figli) descritte da forme semplici, in composizioni dai ritmi armonici. È documentato al mam di Barcellona. (pg). Support-Surface Gruppo francese nato nel 1966 nei dintorni di Nizza, in rea- zione all’iconoclastia del gruppo BMPT (Buren, Mosset, Par- mentier, Toroni). Il riferimento a Matisse rimane essenzia- le, ma le esperienze teorico-pratiche sulla materialità della pittura di S-S discendono anche dalla Nuova Astrazione e dell’Hard Edge americano. Il gruppo nasce ufficialmente nel 1970 con la mostra al mamv di Parigi (Bioul e Devade, De- zeuze, Saytour, Valensi, Viallat). Già l’anno successivo si verifica una scissione tra i «parigini» (tra cui Cane), che fon- dano la rivista «Peinture, cahiers theoriques», di ispirazio- ne marxista-leninista, e il gruppo del Midi, piú teso a una ri- cerca sperimentale sui materiali. Ciò che, al di là delle divi- sioni, ha reso S-S un gruppo, è stata la messa in discussione del supporto tradizionale e delle campiture di colore: l’esem- pio piú interessante è fornito da Cane, con le sue tele leg- germente colorate, tagliate e fissate parte alla parete, parte al pavimento. Tutti gli artisti di S-S (e altri, come Jaccard) hanno in comune il rifiuto dell’opera d’arte come feticcio e del messaggio in quanto tali, a vantaggio invece di esperienze delimitanti un processo teorico-pratico. Nonostante il suo dogmatismo, nel corso degli anni ’70 il gruppo di Parigi pas-

Storia dell’arte Einaudi sa dalla strada alla galleria e poi al museo. L’eco internazio- nale del gruppo è stata debole, a causa del suo intellettuali- smo, ma S-S non ha mancato di influenzare tendenze satel- liti (Groupe 70, Textruction). L’originalità di S-S è ancora oggetto di discussione, non es- sendo classificabile né come Minimal Art né come Arte Po- vera, dato che l’elemento principale di coesione tra i com- ponenti è stato da sempre il gusto per la memoria e per la ri- lettura critica della tradizione. (dc). suprematismo Movimento pittorico russo. La prima apparizione di un’im- magine suprematista si situa oggi (benché la questione sia ancora dibattuta) in una delle immagini progettate da Ka- zimir Maleviã per la scenografia dell’opera futurista Vitto- ria sul sole messa in scena al teatro Luna Park di Pietro- burgo nel 1913 su testo di A. Kruãenych e musica di M. Matju‰in. Si tratta del disegno per il fondale del II atto, scena 5 (poi diventato atto II, scena 1) in cui è rappresen- tato un quadrato diviso diagonalmente in due parti, una bianca e una nera all’interno di un quadrato maggiore. Nel 1915 in una lettera a Matju‰in riguardo la pubblicazione del libretto dell’opera Maleviã raccomanda di pubblicare proprio questa immagine perché «avrà un grande signifi- cato per la pittura. Ciò che è stato realizzato in modo in- conscio, sta dando adesso risultati straordinari». In effet- ti anche una versione del Quadrato nero su fondo bianco (San Pietroburgo, Museo russo), il «punto zero» della pit- tura, è datata (retrodatata, probabilmente) da Maleviã stes- so al 1913 a indicare questa come data di nascita del s. Tut- tavia, il termine s appare per la prima volta in una lettera di Maleviã a Matju‰in nel 1914 e viene pubblicato nella prima edizione dell’opuscolo Dal Cubismo al Suprematismo. Il Nuovo Realismo Pittorico edito in occasione dell’Ultima mostra futurista: 0.10 a Pietrogrado dove Maleviã espone trentanove tele suprematiste. Sul retro di alcune tele di Maleviã del 1912 (Ragazze nel campo: San Pietroburgo, Museo russo) appariva già la dicitura Supranaturalism, che indicava la possibilità di rivelate l’essenza soprannaturale di un fenomeno con mezzi pittorici. Realismo è inteso per- ciò da Maleviã come la possibilità di dimostrare sulla tela

Storia dell’arte Einaudi una realtà altra, non-oggettiva. Per quanto riguarda il co- lore, Maleviã distingue tre stadi nel s, uno nero, uno colo- rato e uno bianco. I primi due sono presenti entrambi alla mostra 0.10 dove tele bianche con forme geometriche co- lorate si affiancano al quadrato, al cerchio, alla croce nera su fondo bianco. Nei quadri colorati le forme geometriche si distribuiscono secondo composizioni orizzontali, verti- cali e diagonali, utilizzando la scala cromatica per accen- tuare la sensazione di fluttuazione spaziale (Football, 1915: Amsterdam, sm). Nelle costruzioni suprematiste del 1917-18 il senso di uno spazio senza correlazioni terrestri di peso e gravità, sopra e sotto, destra e sinistra, viene ul- teriormente articolato con l’introduzione di nuove forme: gocce, ellissi, ecc. e una gamma cromatica arricchita da co- lori pastello (Suprematismo, 1917: New York, moma). Nel- la fase successiva, il s si libera anche del colore sentito co- me impedimento alla rappresentazione rnetafisica di un continuum nello spazio cosmico e arriva a una serie di for- me bianche su fondo bianco (Quadrato bianco su bianco, 1917-18: Amsterdam, sm). Nel 1916 Maleviã organizza un gruppo che chiama Supremus che comprende, fra gli altri, O. Rozanova, M. Menkov, I. Kljun, e progetta l’omonima rivista, mai pubblicata. Nel 1919 si trasferisce a Vitebsk e da lì comincia a propagandare intensamente il s attraver- so l’attività del nuovo gruppo dell’UNOVIS (Sostenitori dell’Arte Nuova) di cui fanno parte El´ Lisickij, I. Suetin, I. âasnik e altri. Nel terzo anniversario della rivoluzione l’UNOVIS trasforma la cittadina provinciale di Vitebsk in una grande kermesse suprematista, e si progettano deco- razioni suprematiste per le carrozze tramviarie, per le tri- bune, per gli spazi pubblici. Nel 1923 Maleviã elabora una fase ulteriore del s, quella degli Architektony di cui orga- nizza una mostra di modelli e disegni all’Istituto di Cultu- ra Artistica di San Pietroburgo nel 1926. Secondo Male- viã gli Arckitektony sono «formule architettoniche per da- re forma alle strutture architettoniche» e incarnano la legge della «simmetria dinamica dell’ordine suprematista». Da questo momento il s diventa sempre di piú per Maleviã una concezione del mondo, a cui dedica pagine e pagine di ma- noscritti, il trionfo del «nulla fiberaro» attraverso l’artista che ne diviene il profeta. (nmi).

Storia dell’arte Einaudi Surbek, Victor (Zäziwil 1885 - Berna 1975). Dopo studi secondari classici, scopri Hodler – al quale si ispirò – e frequentò la Scuola di arti e mestieri di Monaco. Numerosi viaggi in Europa e ne- gli Stati Uniti completarono la sua formazione da autodi- datta. L’opera dell’artista (dipinti, disegni, incisioni) com- prende soprattutto paesaggi (Sera azzurra, 1957: Berna, km), ma anche ritratti, nature morte e grandi composizioni mu- rali (gli Anni, 1951: Berna, ospedale Tiefenau). Un profon- do sentimento della natura, le cui strutture egli mira a ren- dere con vigore e precisione, guida la sua arte. (bz). Surikov, Vassilij Ivanoviã (Krasnojarsk 1848 - Mosca 1916). Formatosi all’Accademia di belle arti di San Pietroburgo, si dedicò alla rievocazione delle epopee e dei drammi della storia russa, senza inclina- re a tendenze letterarie o moraleggianti, eccellendo nel ren- dere gli effetti di folla e i caratteri psicologici dei tipi popo- lari (Mattinata dell’esecuzione degli Strel´cy, 1881: Mosca, Gall. Tret´jakov; la Boiarda Morozova condotta al supplizio, 1887: ivi; la Conquista della Siberia da parte di Ermak, 1895: ivi; il Passaggio delle Alpi di Suvorov, 1899: San Pietrobur- go, Museo russo). (bl). surrealismo «Surrealismo, s.m.: Automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altre maniere, il funzionamento reale del pen- siero in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione e al di là di ogni preoccupazione estetica e morale». Con que- sta definizione, contenuta nel Primo Manifesto (1924), An- dré Breton chiarisce il campo d’azione e il ruolo del movi- mento che aveva fondato, insieme ad Aragon, Eluard, Sou- pault e altri, negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. La sfiducia nella ragione, il rifiuto della lo- gica, colpevoli di un massacro che, nonostante la fine delle ostilità belliche, si andava ancora perpetuando, avevano spinto l’uomo verso la conoscenza del proprio inconscio. Le teorie psicoanalitiche di Freud avevano aperto un mondo sconosciuto, di cui i giovani che si erano riuniti intorno al- la rivista «Littérature» (1919), avevano percepito l’esisten-

Storia dell’arte Einaudi za, e di cui stavano scoprendo la forza liberatrice. Partendo dall’ambito del linguaggio i poeti surrealisti si proponevano di scardinare le regole dettate dalla ragione, per lasciar flui- re un pensiero «automatico» che, al di là di ogni preoccu- pazione artistica o estetica, esprimesse l’animo del poeta, nel tumulto incoerente delle proprie passioni e dei propri desi- deri. Si trattava di ritrovare una dimensione che compren- desse al suo interno due stati in apparenza contraddittori, il sogno e la realtà: «una sorta di realtà assoluta, di surrealtà», come appunto la definì Breton. A questa liberazione dagli schemi logici, che dalla poesia doveva estendersi a tutte le attività della nostra vita, avrebbe dovuto corrispondere una rivoluzione nei rapporti sociali che, rompendo i legami im- posti dalla religione, dallo stato e dalla famiglia, liberasse l’individuo da ogni forma di costrizione. Attraverso Freud e Marx, l’obiettivo era «cambiare la vita», «trasformare il mondo». Profondamente immerso nel proprio tempo, il s si avvale dell’eredità di alcuni spiriti moderni che lo avevano prece- duto, recupera alcuni esponenti del simbolismo, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Valery, assimila lo humour distruttivo di Jaques Vaché per il quale «L’arte è una idiozia», ma so- prattutto si richiama a Lautréamont, considerato, da Bre- ton, il vero ispiratore del movimento. Trova in Marinetti e soprattutto in Tristan Tzara i segni pre- cursori di una nuova poesia, che, liberata dalle regole del senso, può finalmente aprire nuove prospettive al linguag- gio e quando Dada da Zurigo si trasferisce a Parigi, nel 1919, i surrealisti lo appoggiano vigorosamente, condividendo le posizioni antiletterarie e nichiliste. Il sodalizio ha vita bre- ve, il desiderio di Breton di realizzare, attraverso un recu- pero della dimensione del «meraviglioso», un’unità nell’uo- mo, frutto di un incontro fra conscio e inconscio, si scontra con lo spirito di distruzione e di disimpegno di Tristan Tza- ra e nel 1922 avviene la rottura definitiva. Da questo mo- mento anche «Littérature», che era divenuta il luogo di in- contro con i dadaisti, diventa l’organo ufficiale di un movi- mento che intende passare all’azione. Con la pubblicazione del Primo manifesto del Surrealismo (1924) il movimento afferma la propria autonomia. Nasce una nuova rivista «La Révolution Surréaliste» che riporta i risultati delle numerose attività: testi automatici, volantini

Storia dell’arte Einaudi politici, resoconti di sedute, disegni, che dimostrano il ten- tativo di superare la fase legata all’esperienza letteraria, con lo scopo di invadere tutti i campi della vita. La scrittura automatica, affiancata dall’esperienza dei sogni e dei sonni ipnotici, diviene il mezzo attraverso cui il poeta si rivela in tutta la propria autenticità, l’ispirazione che na- sce dall’inconscio del soggetto permette di esplorare la par- te piú oscura di ognuno di noi, la poesia, non più conside- rata un mezzo di espressione, diviene un’attività dello spi- rito, dove tutti possono essere poeti. La negazione della nozione di opera, implicita nel concetto stesso di s, pone degli interrogativi sul ruolo degli artisti, tanto che nel 1925 Pierre Naville, dichiara che una pittura surrealista non può esistere. Breton interviene immediata- mente assumendo la direzione di «La Révolution Surréali- ste», sulle cui pagine si era accesa la polemica, e iniziando a pubblicare il testo Il Surrealismo e la pittura, in difesa di pit- tori e scultori. Egli infatti aveva già da alcuni anni instau- rato rapporti fecondi con alcuni artisti che avevano gravita- to intorno a Dada, come Marcel Duchamp, Francis Picabia e Hans Arp, ma soprattutto aveva individuato nel lavoro di Max Ernst, André Masson e Joan Miró, la possibilità di pro- cedere, attraverso una scrittura automatica, alla creazione di una pittura surrealista. Nel 1926 il sodalizio con gli espo- nenti delle arti plastiche è sancito dall’apertura della Galle- ria Surrealista che inaugura con una mostra di Man Ray, un altro artista da tempo molto vicino al gruppo. Masson per primo cerca di applicare l’automatismo all’arte, realizzando numerosi disegni totalmente spontanei, con cui illustra i numeri di «La Révolution Surréaliste», dove una linea aperta e tortuosa, seguendo i percorsi di un movimen- to interiore, di tanto in tanto si chiude in figure, che testi- moniano una realtà sconosciuta. In un secondo momento l’artista cercherà di trasferire questa libertà creativa anche ai dipinti, inaugurando, nel 1927, la serie dei tableaux de sa- ble, senza riuscire completamente nell’intento, tanto che, diradati i rapporti, dal 1929 non partecipa piú alle iniziati- ve surrealiste. I primi collages di Max Ernst, giunti a Parigi nel 1920, ave- vano suscitato vivo interesse da parte dei surrealisti, ma è con la pubblicazione del Primo Manifesto, che l’artista sco-

Storia dell’arte Einaudi pre che l’automatismo in pittura corrisponde esattamente alla tecnica del frottage, che stava utilizzando per i disegni della Histoire naturelle; nel saggio Au-delà de la peinture (1937) Max Ernst ripercorre e spiega come il frottage, pras- si meccanica, possa evocare immagini che provengono dall’inconscio profondo: «in un ricordo dell’infanzia un pan- nello in finto mogano situato di fronte al mio letto aveva avuto il ruolo di provocatore ottico di una visione di dor- miveglia, e trovandomi, con un tempo piovoso, in un alber- go in riva al mare, fui colpito dall’ossessione che esercitava sul mio sguardo irritato il pavimento di legno, le cui scana- lature erano state accentuate da migliaia di lavaggi. Mi de- cisi allora ad interrogare la simbologia di questa ossessione e al fine di aiutare le mie facoltà meditative e allucinatorie, feci una serie di disegni sulle assicelle di legno, posando su di esse, a caso, dei fogli di carta che mi misi a strofinare con la punta della matita. Osservando attentamente i disegni co- sì ottenuti, le parti oscure e quelle in dolce penombra, fui sor- preso dall’intensificazione subitanea delle mie facoltà visio- narie e dalla successione allucinante d’immagini contraddit- torie che si sovrapponevano le une alle altre con la persistenza e la rapidità proprie dei ricordi amorosi». Nello stesso saggio l’artista sottolinea che anche nei collages, precedenti a que- sto periodo, è presente lo stesso tipo di automatismo: da un accostamento casuale di singoli elementi, nascono immagi- ni che provengono direttamente da quel luogo profondo che Breton avrebbe definito essere il punto in cui «la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il co- municabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di es- sere percepiti come contraddizioni». Altri procedimenti di automatismo pittorico furono inven- tati da Oscar Dominguez, che realizzò le «decalcomanie sen- za oggetto preconcetto», e da Wolfgang Paalen che si av- valse della fiamma di una candela per produrre sulla tela un reticolo di forme. Pur rimanendo in disparte e distante dagli eccessi del grup- po, Joan Miró propone un universo che pare la realizzazio- ne grafica di situazioni deliranti: un immaginario di alluci- nazioni che al di fuori di ogni controllo della ragione, uni- sce realtà inavvicinabili. Intanto all’interno del gruppo surrealista si dibatte sull’op- portunità di dare una svolta politico-sociale al movimento,

Storia dell’arte Einaudi impegnandosi direttamente in un’attività rivoluzionaria; la discussione sfocia nell’iscrizione al partito comunista fran- cese di Aragon, Breton, Eluard, Péret e Unik che sancisce una presa di posizione ideologica che, finché durerà, provo- cherà numerose scomuniche. Molti artisti, accusati di dedi- carsi con maggiore impegno alla propria opera, anziché alla causa rivoluzionaria, vengono ingiustamente allontanati da Breton che, da un lato assume atteggiamenti del tutto in- transigenti nei confronti di chi aveva espresso perplessità sulla svolta politica del movimento, dall’altro polemizza con il partito comunista, riportando al centro della discussione la questione dell’inconscio e dell’importanza dell’esistenza onirica. Con il Secondo Manifesto (1929) Breton, analizzan- do gli esiti della prima fase del movimento, individua nella mancanza di rigore, che ha lasciato inesplorati interi campi della ricerca, il punto debole a cui bisogna porre rimedio, con una epurazione che colpisca tutti coloro che non aveva- no dimostrato il massimo rigore, e fra questi mette Soupault, Masson, Artaud e anche Desnos. Questo richiamo ai prin- cipî porta forze nuove all’interno del movimento; mentre dopo un breve periodo di allontanamento vengono riaccol- ti Yves Tanguy, il poeta degli spazi desertici e sottomarini dove sembrano vegetare esseri minerali, e Man Ray, il crea- tore di una serie di «oggetti surrealisti» ante litteram; appa- re sulla scena Salvador Dalì con il film Un chien andalou rea- lizzato insieme a Luis Buñuel. L’anno successivo viene pub- blicata la seconda rivista del movimento «Le Surréalisme au service de la Révolution» e, se da un lato ci si assoggetta al- le necessità rivoluzionarie, ancora una volta, dall’altro, si ri- torna ad esplorare, con l’Immaculée conception di Breton ed Eluard, gli ambiti della follia e della normalità, della de- menza e del cosiddetto equilibrio. In questo contesto Dalì propone la teoria della «paranoia critica», si tratta di un me- todo spontaneo di conoscenza irrazionale «basato sull’og- gettivazione critica e sistematica delle associazioni e inter- pretazioni deliranti». Dalì espone la sua teoria in numerosi testi: La Femme visible (1930), L’Amour et la mémoire (1931), La conquête de l’irrationel (1935): «Tutta la mia am- bizione sul piano pittorico consiste nel materializzare con violenta precisione le immagini dell’irrazionalità concreta e del mondo dell’immaginazione piú in generale». Questa via

Storia dell’arte Einaudi dell’imitazione del sogno sarà battuta non solo dal fantasti- co Dalì, ma anche da Magritte che, con il suo umore fred- do, ripercorre esperienze oniriche, realizzando composizio- ni dove, all’interno di una realtà perfettamente credibile, uno o piú elementi inusuali o contraddittori provocano un senso di spaesamento e di inquietudine. A questi artisti che operano direttamente nell’ambito del sogno, si aggiungono Leonora Carrington, Dorothea Tanning, Paul Delvaux, Hans Bellmer e Félix Labisse. Continuando su questa via si apre anche la nozione di «og- getto surrealista», i riferimenti sono certamente i ready ma- de di Duchamp e dei dadaisti, ma la diversità sta nel fatto che i surrealisti iniziano a fabbricare oggetti che sono tra- duzioni fisiche delle immagini dei sogni, una sorta di mate- rializzazione dei desideri dell’inconscio. Questi oggetti che dovrebbero accompagnare la vita quotidiana, aiuterebbero ad eliminare quelle distinzioni che ancora persistono fra il sonno e la veglia e a considerare questi stati due vasi comu- nicanti, che interagiscono attraverso il desiderio, secondo il pensiero di Breton. Nel 1933 Breton, Eluard e Crevel vengono espulsi dal P.C.F., la rivista cessa le pubblicazioni e viene sostituita da «Minotaure» diretta da Tériade, che dedica maggiore spa- zio agli artisti, pubblicando le immagini delle loro opere. Ini- zia un periodo di grande espansione, in diversi paesi si for- mano gruppi surrealisti che organizzano importanti mostre come quella di Londra del 1936 o la fragorosa esposizione internazionale del s che ha luogo a Parigi alla Galerie des beaux-arts nel 1938. Problemi politici, dopo un periodo di pausa, ritornano in tutta la loro intensità: Breton incontra Trockij in Messico, Eluard si riavvicina al P.C.F., Dalì viene espulso a causa del- le sue simpatie per i fascisti, poi la guerra ne provoca la dia- spora. La maggior parte dei surrealisti ripara in America do- ve, senza fondare un vero e proprio gruppo, continua l’atti- vità attraverso riviste come: «View» e «V V V», e mostre come First Papers of Surrealism (New York 1940). La mostra di Max Ernst a Parigi nel 1945 apre le retrospettive del do- po guerra. A questa seguono: Picabia (Parigi 1949) e anco- ra Ernst (Parigi 1959, Bruhl 1951). Nel 1954 Arp, Ernst, Miró vengono premiati alla Biennale di Venezia, mentre a Masson viene assegnato il gran premio nazionale delle arti.

Storia dell’arte Einaudi Numerose collettive offrono l’opportunità di studiare e de- finire un movimento così complesso, nel 1960 Breton e Du- champ organizzano a Parigi l’Esposition international du Surréalisme, nel 1964, sempre a Parigi Le Surréalisme, sour- ces, histoire, affinités, curata da P. Waldberg è seguita l’an- no successivo da L’Ecart absolu (Galerie de l’Œil). L’influenza del s sullo sviluppo dell’arte contemporanea ha avuto un’importanza fondamentale, da un lato ha contri- buito ad assottigliare il diaframma fra le diverse arti, dall’al- tro, con la scoperta della forza creativa dell’inconscio, ha aperto la strada ad esperienze prima inimmaginabili. La spontaneità automatica ha certamente stimolato l’espres- sionismo astratto della scuola di New York e rinnovato l’ope- ra di Arshile Gorky, così come i drippings di Jackson Pollock non possono prescindere dall’esperienza surrealista. Al di là di ogni considerazione storica il s non fu né una scuo- la estetica né una formula plastica, ma una presa di coscien- za di un’attività creatrice che, esercitata attraverso la libertà totale dell’ispirazione, al di là di ogni costrizione, permette di esplorare le zone piú oscure della nostra soggettività, per un’esistenza migliore. (et). Survage (Léopold Sturzvage, detto) (Mosca 1879 - Parigi 1968). Di origine russa, portò il suo vero nome fino alla prima guerra mondiale. Si stabilì a Pa- rigi nel 1908 dopo aver frequentato un corso di architettu- ra alla Scuola d’Arte di Mosca. Dapprima allievo di Matis- se, subì successivamente l’influsso di Cézanne, poi del cu- bismo (espose nel Salon des Indépendants del 1911 nel loro padiglione). Nel 1919 è con Gleizes e Archipenko nel grup- po Section d’or. Impiegando la grammatica cubista, associò elementi figurativi schematici a prospettive contraddittorie: i suoi temi preferiti sono rappresentati da scene urbane (Fab- briche, 1914: già coll. S; Villefranche-sur-Mer, 1915: Parigi, mnam; la Città, 1921: Parigi, già coll. S). La sua poetica è il- lustrata nel saggio Essai sur la synthèse plastique de l’espace et son rôle dans la peinture, pubblicato su «Action» (1921). Particolare interesse rivestono i ritmi colorati del 1912-14 (New York, moma). Eseguiti allo scopo di costituire i primi elementi di una sorta di cartone animato che S propose nel 1914 alla società Gaumont – la quale accettò il progetto, ma

Storia dell’arte Einaudi non lo realizzò – rappresentano in realtà uno dei primissimi tentativi di sfruttare le possibilità visuali del cinema. Se- gnalato da Archipenko, Apollinaire se ne interessò subito, pubblicando un testo di S nelle «Soirées de Paris» (n. 26-27, luglio-agosto 1914) e scrivendo egli stesso un articolo entu- siasta su «Paris-Journal» (15 luglio 1914). S ideò ed eseguì la scenografia per Mavra, balletto di Djagi- lev, e fu autore di tre grandi pannelli decorativi (di 20 m l’uno) per il padiglione delle ferrovie all’Esposizione inter- nazionale del 1937, per i quali ricevette una medaglia d’oro. Nel 1960 gli fu assegnato il premio Guggenheim per la tela Maternità (1958: Parigi, già coll. S). (gh). Susa L’antica S si trova sul bordo nord-occidentale della pianura del Khuzistan, nel moderno Iran sud-occidentale. La sua buo- na posizione e il clima invernale temperato favorirono l’in- sediamento di popolazioni sedentarie: S fu fondata intorno al 4000 a. C. e occupata senza interruzioni fino al sec. xiii d. C. con l’arrivo dei Mongoli. Il sito archeologico fu scoperto nella prima metà del sec. xix e fu poi scavato in varie stagioni dai Dieulafoys (1884-86), da Morgan (1897-1908), Mecque- nem (1908-46), Ghirshman (1946-67) e recentemente da Per- rot (1967-90). Il primo periodo di occupazione di S (S I) va dal 4000 al 3700 a. C. ca. Molti oggetti funerati furono rinvenuti quasi intat- ti: fra di essi, terracotte color crema in forma di alti bicchie- ri tronco-conici, scodelle e piatti, tutte finemente decorate con elaborati disegni in nero. Tali disegni sono molto vari e rappresentano un gran numero di figure stilizzate, sia umane che animali; talvolta sono motivi puramente geometrici, mol- to raramente vegetali, spesso combinazioni di diversi temi ico- nografici. Tipici sono fregi di uccelli dal collo lunghissimo vi- sti di profilo intorno al bordo dei bicchieri, riquadri contenenti stambecchi, tartarughe, levrieri (saluki) e uccelli: molto comu- ne è un animale estremamente stilizzato, probabilmente una pecora, il quale assume una forma molto simile a un pettine con due teste ai lati, ed è per questo comunemente chiamato «animale-pettine». Il serpente è di solito rappresentato su bic- chieri isolato, con il corpo sinuoso, con chiaro significato apo- tropaico. Le figure umane sono molto stilizzate, sempre viste di fronte, talvolta ritte sopra un piedistallo, con due lance di-

Storia dell’arte Einaudi segnate ai lati. I motivi geometrici comprendono linee ondu- late, zig-zag, scacchiere, croci, triangoli e cerchi concentrici in cui talvolta trovano spazio diversi animali. I periodi S II e III, tra il 3500 e il 2700 a. C., non hanno mes- so in luce significativa terracotta dipinta. Nel periodo S IV o Antico-Elamita (2700-1500 a. C.) furono prodotte larghe gia- re usate come contenitori di oggetti di piccole dimensioni, de- corate in maniera schematica e meno stilizzata del materiale di S I. I disegni rappresentano tori, capre, aquile e pesci in di- versi colori, rosso, marrone, bianco o nero sulla superficie co- lor crema. Un famoso pezzo di questo periodo è il «Vaso del Carro», a Teheran che rappresenta un carro a due ruote tira- to da un bue il quale trasporta vari personaggi sistemati su tor- ri a due o tre piani. Durante la fase intermedia del periodo S IV la decorazione si fece ancora piú semplice e ritornò ad es- sere monocroma: il Vase à la cachette trovato sull’acropoli di S, oggi a Parigi, rappresenta tale stile che poi diventerà pura- mente geometrico nel ii millennio. Nella fase Medio-Elamita (1500-900 a. C.) furono prodotte terracotte smaltate in forma di grandi mattonelle forate al centro in modo da essere fissate al muro, che mostrano per- sonaggi, animali e motivi floreali in leggero rilievo, con uso di colori verde, giallo ocra e bianco. Simile produzione con- tinuò nel periodo Neo-Elamita (900-550 a. C.) con piastre murali e urne in faience con invetriatura policroma dagli stes- si colori: a differenza della fase precedente, nel periodo Neo-Elamita venne usata la tecnica dei contorni in nero per dare maggior risalto alla policromia: sono rappresentati ani- mali fantastici, probabilmente di soggetto demoniaco, ma an- che gazzelle e altri animali visti di profilo. Con l’epoca achemenide (559-330 a. C. ca.) comparvero a S, così come a Persepoli e Babilonia, le celebri monumenta- li pareti interamente decorate con mattoni policromi raffi- guranti teorie di soldati e guardie, personaggi recanti doni, animali fantastici, ecc. A S, la maggior parte di esse furono composte da singoli mattoni di argilla o di materiale siliceo con il disegno stampato in rilievo e poi colorato e invetria- to in marrone, verde, giallo e bianco con contorni grigio-ne- ri. Tuttavia, vi fu anche una notevole produzione di matto- nelle silicee non stampate, dove i soggetti venivano prima disegnati e poi invetriati con colori piú variati rispetto ai

Storia dell’arte Einaudi mattoni stampati: in aggiunta al marrone, verde, giallo e bianco si vedono il blu cobalto, il nero, il rosa e il marrone chiaro. Il repertorio comprende fregi di teste di «leoni-grifo- ni», fiori di loto, palmette, rosette, losanghe, ma molti fram- menti mostrano anche particolari di figure umane quali te- ste con turbanti, mani, piedi con calzature, vesti, e inoltre animali, tutti rappresentati di profilo. S fu anche occupata nelle epoche sasanide (iii-vii secolo d. C.) e islamica (fino al sec. xiii) ma non fu mai piú una città di grande importanza, Nel sec. iv, una sala fu decorata con disegni colorati rappresentanti una scena di caccia in cui due cavalieri scagliano frecce contro animali selvatici; i disegni sono contornati con grossi tratti in nero e spiccano i colori marrone e rosso su un fondo blu. Durante il periodo islami- co sembra fu prodotta una certa quantità di ceramica tal- volta semplicemente decorata con disegni, la maggior parte della quale è databile al ix-x secolo. (sca). Su Shi (1036-1101). Calligrafo e pittore cinese, noto piú spesso col no- me di Su Dongpo. Poeta e uomo politico eminente, fu l’ani- matore di un gruppo di letterati di cui fece parte Mi Fei, svol- gendo un ruolo eminente nella diffusione di un’estetica nuova. Il suo credo estetico era nettamente contrario al criterio della verosimiglianza, punto di vista che piú tardi verrà ripreso da un Ni Zan. Per lui infatti il valore non era dato dalla fedeltà al soggetto, ma dal linguaggio artistico elaborato dall’artista (pit- tore, calligrafo o poeta), tale da rivelarne anzitutto la persona- lità. L’espressione dell’individualità doveva essere ottenuta at- traverso l’ispirazione spontanea del calligrafo; pertanto S si de- dicò in particolare alla pittura di bambú e di alberi, soggetti che favoriscono la manifestazione delle qualità formali legate all’ef- fetto dell’inchiostro e del pennello sulla carta. Poche sono le sue opere certe tra cui Bambú solitari e albero disseccato di Wang Tingyun (1151-1202) a Kyoto (Fujii Yu- rikan), esempio perfetto della varietà delle tonalità dell’in- chiostro e delle pennellate che corrono liberamente, ricor- dando sicuramente il suo stile. (ol). Susinno, Francesco (Messina 1670? - 1730). Sacerdote e pittore, si reca proba- bilmente a Napoli e a Roma nell’intento di perfezionare i

Storia dell’arte Einaudi suoi studi. A Roma, l’incontro con C. Maratta è decisivo per l’evoluzione di una concezione dell’arte verso un classicismo belloriano. La pubblicazione delle Vite de’ Pittori Messinesi (1724, ms: Basilea, km), rimaste manoscritte fino a pochi anni fa (ed. Firenze 1960) ha permesso di riscoprire l’opera di uno storico rigoroso e di un conoscitore che partendo dall’esame dell’opera d’arte distingue l’originale dalla copia, il maestro dalla scuola, commenta lo stato di conservazione, la tecnica e lo stile dell’artista. S tende a descrivere le vicende della città componendo una storia articolata ad uso degli studiosi e degli artisti. Non avendo trovato notizie dei pittori medievali, inizia le Vite con la biografia di Antonello da Messina, giustamente con- siderato il rinnovatore dell’arte. Polidoro e la sua cerchia so- no largamente indagati come anche la scuola nata dal natu- ralismo caravaggesco. (sag). Sustermans, Giusto (Anversa 1597 - Firenze 1681). Dopo gli esordi ad Anversa con W. de Vos e successivamente a Parigi con F. Pourbus il Giovane, il S (o Suttermans, come si firmava) si trasferì a Firenze nel 1620, dove per sessant’anni tenne il ruolo di ri- trattista ufficiale dei Medici, anche se non gli mancarono importanti incarichi presso altre corti (Mantova 1621; Vien- na 1623-24; e soprattutto Modena durante gli anni ’50). Una momentanea adesione alla pittura fiorentina (Santa Maria Maddalena, 1625 ca.: Firenze, Pitti; Giuramento del Senato fiorentino, 1626: Firenze, Gallerie; Santa Margherita, 1628 ca.: ivi) venne superata dal S in una direzione piú decisa- mente barocca per impulso della tradizione venera del Cin- quecento, di vari Dyck e di Rubens (Galiteo Galilei, 1635: Firenze, Uffizi; Flora, 1637 ca.: Prato, Cassa di Risparmio; Mattias de’ Medici, 1660 ca.: Firenze, Pitti). Notevoli anche alcuni suoi ritratti «di genere» per una propensione natura- listica tra fiamminga e caravaggesca (La Domenica, la Cecca e il Moro: Firenze, Gallerie; I cacciatori: Firenze, Pitti). (cpi). Sustris, Lambert, detto Lamberto d’Amsterdam (Amsterdam 1515 ca. - Venezia?). Formatosi a Utrecht o ad Haarlem nell’ambiente di vari Scorel ed Heemskerck, partì prestissimo per l’Italia dove si stabilì. Visitò Roma, come è

Storia dell’arte Einaudi confermato dalla scoperta della sua firma nella Domus Au- rea; negli anni Trenta è a Venezia, dove entra nella bottega di Tiziano. Nel corso di un soggiorno a Padova dipinge il ci- clo di affreschi della Villa dei vescovi a Luvigliano (1542-43), improntati al gusto classicista. Tra il ’48 e il ’53 ad Augu- sta, dove si era recato probabilmente al seguito di Tiziano, esegue il Ritratto di Wilbelm IV von Waldhurg (1548: Augu- sta, Museo) e, forse in un secondo soggiorno i ritratti di Hans Christoph Vöhlin e di Veronika Vöhlin (1552: Monaco, ap) e quello del Cardinale Otto Truchsess (1553: castello di Zeil). Per quest’ultimo dipingerà il Battesimo di Cristo (Caen, mba), mentre per i banchieri Fugger eseguirà il Noli me tangere (Lil- le, mba). L’evidente influsso di Tiziano, che si coglie inten- samente nella Susanna e i vecchioni (Londra, coll. priv.) e nel- la Venere di Amsterdam (Rijksmuseum), ispirata alle famo- se Veneri del maestro, è alla base dello stile di S che si evolve accogliendo suggestioni da Tintoretto, Schiavone e Vero- nese, ma anche da Salviati e da Parmigianino nell’ambito di un percorso la cui ricostruzione resta problematica per la scarsezza di sicuri riferimenti cronologici. Nella sua produ- zione, sin dagli anni giovanili, accanto ai dipinti di sogget- to sacro (Riposo nella fuga in Egitto: Monaco, ap; Madonna e santi: Padova, Santa Maria in Vanzo) sono numerosi quel- li di soggetto profano, caratterizzati da luminosi paesaggi, da un gusto archeologico e scenografico (Ratto d’Europa: Amsterdam, Rijksmuseum; Bagno di Venere: Vienna, km; Morte di Adone: Parigi, Louvre; Venere e Vulcano: Monaco, ap; Diana e Atteone: Oxford, Christ Church College). In questo genere la Venere che attende il ritorno di Marte (Pari- gi, Louvre), con il sinuoso, parmigianesco nudo femminile, è uno degli esiti piú eleganti e preziosi della pittura di S, nell’ambito di quel manierismo internazionale che percorre l’Europa da Fontainebleau a Praga. Formò il figlio Friedrich (Padova? 1540 - Monaco 1599), pittore, architetto e incisore. Questi nel ’60 soggiorna for- se a Roma e dal ’63 al ’67 a Firenze, dove, entrato nella gran- de impresa vasariana di Palazzo Vecchio, esegue tre cartoni per gli arazzi della Sala di Gualdrada. Nel 1564 è membro dell’Accademia del disegno. Chiamato ad Augusta dal ban- chiere Hans Fugger, collaborò nel ’68 con Antonio Ponza- no e Alessandro Padovano alla decorazione a stucco e a fre- sco della sua residenza. Entrò nel 1573 al servizio del duca

Storia dell’arte Einaudi Guglielmo di Landshut, per il quale decorò il castello di Trausnitz, insieme con Pietro Candido, anch’egli prove- niente dall’Italia, e con altri artisti. Divenuto duca di Ba- viera, Guglielmo V lo chiama nel 1580 a Monaco, nomi- nandolo soprintendente di tutte le imprese artistiche di cor- te. Gli sono attribuiti la Camera della partoriente (Firenze, Pitti), i due dipinti con la Storia di Dario (Schleissheim, ca- stello) e l’Adorazione dei pastori (Compiègne, castello), il cui stile si accosta a quello di Hans van Aachen. Come Pietro Candido, dal quale fu influenzato, S fu per la parte tedesca tra i grandi protagonisti del manierismo internazionale di fi- ne secolo. (jv + sr). Sutherland, Graham (Londra 1903 - Mentone 1980). Allievo del Goldsmith Col- lege a Londra, si specializzò nell’incisione ad acquaforte e a bulino, che insegnò dal 1928 al 1932 alla Chelsea School of Arts, presso la quale tenne fino al 1939 anche la cattedra di composizione. Nel 1934 scopre le atmosfere del Pembroke- shire (Galles) che gli ispirano i primi lavori dell’anno suc- cessivo. Nel 1936 espose con i surrealisti inglesi e, ispiran- dosi alla concezione dell’objet trouvé, dipinge una serie di paesaggi che ne fecero, insieme a Nash e Piper, un maestro del neoromanticismo inglese. L’atteggiamento mistico e pan- teista di S nei confronti della natura, in sintonia con quello di W. Blake e di S. Palmer (Accesso ad un sentiero, 1939: Londra, Tate Gall.), fu gradualmente abbandonato per un linguaggio personale tanto incisivo da porlo in prima linea nell’avanguardia inglese. Nel 1937 si stabilì a Trottiscliffe, nel Kent, ma a partire dal 1947, e ancora di piú dopo il 1956, i soggiorni nel sud della Francia, dove incontra Matisse e Pi- casso, si fanno sempre piú frequenti. Dalla fine degli anni Sessanta torna spesso nel Pembrokeshire, dove acquista il castello di Picton per fondarvi nel 1976 la G. S Gallery. La pittura di S è passata, attraverso gli anni, dalla concezio- ne, già molto particolare, di paesaggio come non-scenic subject degli anni ’40 alle cosiddette standingforms piú recenti, dove sia gli oggetti concreti che le forme astratte risultano come isolati dal contesto che li circonda e in qualche caso assu- mono forme al limite dell’antropomorfo. Importantissimi e molto incisivi i ritratti: il primo fu quello di Somerset Mau-

Storia dell’arte Einaudi gham (1949: Londra, Tate Gall.) seguito, tra gli altri, da quel- li di Churchill (1954: distrutto), di Edward Sackville-West (1954: Birmingham, City ag), del Principe di Furstenberg (1959: castello di Donaueschingen), di Paul Sacher (1956: Ba- silea, coll. priv.) e di Helena Rubinstein (1957: New York, H. R. Foundation). Nel suo non indifferente corpus di ope- re religiose figurano, in particolare, le Crocifissioni (1944-46: Northampton, St. Matthew e 1960-1963: East Acton, St. Aidan) e l’immenso arazzo col Cristo in gloria col Tetramorfo, commissionato nel 1953, ma condotto a termine solo nel 1962, per l’abside della Cattedrale di Coventry. La prima personale di S ebbe luogo nel 1938; a New York esordì nel 1946. Gli sono state dedicate retrospettive dai piú importanti musei e nell’ambito delle maggiori manifestazioni del mondo: dal mnam di Parigi alla Tate Gallery di Londra, dalla Biennale di Venezia a quella di San Paolo, inoltre ad Amsterdam, Zurigo, Boston. È rappresentato da un cospi- cuo numero di tele, oltre che al moma di New York, a Ber- lino (ng), a Bruxelles (mrba) a Buffalo (Albright-Knox ag: Alberi spinosi, 1943) a Monaco (np: Il prigioniero, 1963-64). Una imponente retrospettiva dedicata ai suoi ritratti si è te- nuta a Londra nel 1977. Da non dimenticare l’opera grafi- ca: le ventisei litografie a colori del 1968, Bees (1977, quat- tordici acquatinte), Apollinaire: le bestiaire ou cortège d’Orphée (1979, diciassette acquatinte), tutte dedicate a te- mi naturalistici, in particolare al bestiario. (dc). ·uvalov, Ivan Ivanoviã (1727-97). I conti · svolsero un ruolo di primo piano nella vita politica russa e Ivan Ivanoviã contribuì a introdurre in Russia l’arte occidentale. Creò l’Accademia di belle arti di San Pietroburgo, vi chiamò pittori francesi come Lagrenée e Le Lorrain, e costituì una galleria di quadri di varie scuole, in parte lasciati all’Accademia. Il palazzo dei · a San Pietro- burgo ospitava ancora nel 1917 ricche raccolte di pittura oc- cidentale, che nel 1931 vennero ripartite tra i musei sovieti- ci (ventuno quadri all’Ermitage di San Pietroburgo). (bl). Suvée, Joseph-Benoît (Bruges 1743 - Roma 1807). Formatosi a Bruges, giunse a Pa- rigi nel 1762, entrando nella bottega di Bachelier. Nel 1771 vinse, superando David che gliene serbò rancore, il grand

Storia dell’arte Einaudi prix dell’Accademia col suo Combattimento tra Minerva e Mar- te (Lille, mba: bozzetto al Museo di Rouen). L’anno succes- sivo partì per l’Italia, restandovi fino al 1778 e visitando suc- cessivamente Roma, Napoli, la Sicilia, Malta e Venezia. Al suo ritorno assunse un ruolo di primo piano tra i pittori di storia e nel 1792 successe a Ménageot come direttore dell’Ac- cademia di Francia a Roma; carica che poté occupare solo nel 1801. A lui si deve la responsabilità del trasferimento dell’Ac- cadernia da Palazzo Mancini, detto allora «Palazzo di Ne- vers», a Villa Medici, dove tuttora ha sede l’istituzione. I suoi quadri di storia (Morte dell’ammiraglio Coligny, 1787: Digione, mba; Cornelia, madre dei Gracchi, 1795: Parigi, Lou- vre), di soggetto sacro (Nascita della Vergine, 1779: Parigi, chiesa di Notre-Dame-de-l’Assomption), e mitologico (Di- butade o l’Origine del disegno, 1791: Museo di Bruges; Festa a Palès, 1783: Rouen, mba), ci mostrano un artista capace ma freddo. Cercò, non senza abilità, di adattarsi alla formula neoclassica, che a poco a poco prevalse, ma di fatto restò sal- damente ancorato all’accademismo che Pierre e d’Angivillier avevano imposto alla pittura sin dai tempi di Luigi XVI. (pr). Suyderhoff, Jonas (Leida 1613 ca. - Haarlem 1686). Figlio di Andreas Pieter- sz S e allievo di Soutman ad Haarlem, era iscritto nel 1677 alla gilda dei pittori della città; incise da Rubens e Con- stantin Huygens, e soprattutto ritratti da Frans Hals. Suoi disegni si trovano ad Amsterdam e a Berlino. (jv). Suzor-Coté (de Foy), Aurèle (Arthabaska (Québec) 1869 - Daytona Beach (Stati Uniti) 1937). Fu iniziato al disegno e alla pittura dal contatto con un «pittore di chiesa», Maxime Rousseau; poi, nel 1891, si recò a Parigi per studiarvi pittura e canto. Si distinse all’Eco- le des beaux-arts, di cui seguì i corsi fino al 1895: scelta de- finitivamente la pittura, proseguí gli studi all’Académie Ju- lian con Jules Lefebvre e all’Accademia Colarossi con Léon Bonnat. Espose agli Artistes français nel 1900 e, nello stesso anno, venne nominato dal governo francese ufficiale d’ac- cademia. S si stabilí a Montreal nel 1908 e vi lavorò fino al 1934, quando, ridotto dalla paralisi all’inattività, decise di trasferirsi in Florida.

Storia dell’arte Einaudi A partire dagli anni intorno al 1900, abbandonato in parte lo stile naturalistico, retaggio della sua formazione accade- mica, adottò la tecnica divisionista. Harpignies, Henri Mar- tin e forse Maufra ne influenzarono la pittura. In Canada si abbandonò spesso alla sua inclinazione espressionista (Pae- saggio d’inverno, 1909: Ottawa, ng). (jro). Svanberg, Max Walter (Malmö 1912). Dal 1930 frequentò varie accademie priva- te di Malmö e Stoccolma. Intorno al 1940, sempre piú at- tratto dal surrealismo, divenne membro attivo dei Mino- tauri, fondando nel 1946 a Malmö con Hulten il gruppo de- gli Immaginativi. Reagendo al surrealismo ortodosso, aggressore del «bello», nel 1943 intraprese composizioni dai colori di esotica violenza, in una tecnica eteroclita e raf- finata ove intervengono il pastello grasso, la tempera, l’ac- querello, applicazioni musive di perle. Apprezzato da Bre- ton, il suo mondo è popolato di singolari personaggi, nati da visioni oniriche, spesso con valenze erotiche molto for- ti come in Collana di perle dalla conversazione fantasiosa (pa- stello grasso e guazzo, 1953: coll. priv.), Il cuore della bel- lezza sogghigna (1957: coll. priv.), Strana gestazione, in tre fasi (1960, acquerello, coll. priv.), Amori suonatori della costella- zione posseduta, acquerello (1963). S ha definito la sua arte come un inno alla donna. Oltre alla pittura, l’artista si è dedicato al collage (la serie Omaggio delle costellazioni strane a G. in dieci fasi, 1963-64), all’illustrazione (nel 1957 per le Illuminazioni di Rimbaud), alla grafica, agli arazzi. Dagli anni Cinquanta S è indicato dalla critica come il pioniere del neosurrealismo in Svezia. La sua collaborazione con André Breton gli ha procurato no- torietà internazionale. (tp). svevi, primitivi La regione designata nel Medioevo col nome di Svevia (Schwaben) comprendeva l’attuale Württemberg, la Svevia bavarese e parte della regione di Baden. Nel sec. xv, centri artistici di questa provincia erano Ulm, di gran lunga il piú importante, Augusta, Memmingen e Nördlingen. La Svevia era composta da città imperiali e dominii signorili in mutua rivalità sia dal punto di vista politico che artistico, perciò vi si cercherebbe invano l’unità culturale che caratterizzava le

Storia dell’arte Einaudi regioni dell’alto Reno o del lago di Costanza. L’incessante rivalità tra i principali centri artistici impediva ogni scam- bio e ogni interferenza. La prima età del XV secolo Vittima, all’epoca della Rifor- ma, degli iconoclasti, che distrussero la maggior parte delle opere medievali, il patrimonio artistico della regione pre- senta lacune irreparabili. Ulm, divenuta città imperiale nel 1397, intraprende la costruzione della sua Cattedrale, edi- ficio monumentale che ne simboleggiava la conquistata au- tonomia: per tutta la prima metà del sec. xv, la città si con- fermò come il centro artistico che influenzò l’intera Svevia. Gli anni Trenta del Quattrocento vedranno la fioritura del- la pittura, rappresentata splendidamente da Hans Multscher e dal Maestro dell’Altare di Tiefenbronn (Lucas Moser), i quali, come Konrad Witz operante a Basilea, acquisteranno una fama che supererà di gran lunga i confini della loro pro- vincia. Multscher era inoltre scultore, ed esercitò un profon- do influsso su tutta la Germania meridionale. La miniatura presenta scarso interesse a Ulm nel corso del sec. xv, e soltanto la pittura murale, di cui le chiese dei vil- laggi vicini offrono ancora qualche testimonianza, svolse un certo ruolo (per quanto se ne possa oggi giudicare) accanto alla pittura su tavola. Nel corso dei primi decenni del sec, xv, Augusta è solo all’al- ba della sua prosperità, e ciò spiega l’assenza di botteghe di pittori o scultori della qualità di un Multscher; tuttavia, al contrario di Ulm, vi vennero eseguiti numerosi manoscritti miniati di non trascurabile importanza. Il terzo centro artistico sviluppatosi all’inizio del sec. xv fu Memmingen, città imperiale dai fiorenti commerci; i suoi archivi menzionano i nomi di numerosi pittori. Tra essi va in particolare citato Hans Strigel il Vecchio, la cui arte sarà trasmessa dai suoi discepoli fino al sec. xvi. Ulm continuò a svolgere un ruolo preponderante in Svevia fino alla fine del sec. xv: gran numero di artisti di fama vi fissarono le proprie botteghe. Accanto ai pittori e agli scul- tori, operarono i primi stampatori e incisori su legno, le cui personalità dominano la storia artistica tedesca. La seconda metà del XV secolo Come ovunque in Germa- nia, l’influsso dei Paesi Bassi, penetrato in Svevia verso la metà del sec. xv, comporta un mutamento profondo nella

Storia dell’arte Einaudi pittura. Il Maestro delle Portelle dell’Altare di Sterzing (1456-58), che operò nella bottega di Multscher, si formò all’austera scuola di Rogier van der Weyden, mentre Hans Schüchlin subí in maniera piú sensibile l’impronta di Dirk Bouts e degli artisti di Norimberga, quali Wolgemut o Pley- denwurff. Quanto all’artista cui si debbono le illustrazioni del Bidpai, il Libro degli antichi saggi, pubblicato a Ulm nel 1483, fu senza dubbio attento al linguaggio del Maestro di Flémalle o di Jacques Daret. Si dovrà attendere la fine del sec. xv per vedere Bartholomeus Zeitblom e Jörg Stocker impegnarsi di nuovo sulla via tracciata dal Maestro delle Por- telle dell’Altare di Sterzing. Malgrado questi diversi influs- si, la pittura sviluppatasi a Ulm non è priva di unità; si con- traddistingue per l’armonia dei colori, l’equilibrio del dise- gno, le pieghe appena spezzate del drappeggio, che avviluppa agili personaggi dai gesti pieni di riserbo, rappresentati con realismo discreto. Nel corso della seconda metà del sec. xv, Augusta comincia a rivaleggiare con Ulm; e da questa lotta accanita uscirà in- fine vincitrice. Tale sforzo venne favorito dalle famiglie mer- cantili patrizie della città, i Welser e i Fugger, generosi mece- nati dalla proverbiale fortuna. Alla fine del sec. xv, quando Hans Holbein il Vecchio e gli scultori Gregor Erhard e Adolf Daucher lasciarono Ulm per Augusta, quest’ultima aveva sop- piantato la rivale in Svevia ed era, con Norimberga, la città piú importante. L’influsso dell’arte dei Paesi Bassi è ancora avvertibile nell’opera dei pittori di Augusta della metà del se- colo, il Maestro della Leggenda di Ulrico, il Maestro del 1477, Ulrich Apt e Thomas Burgkmair, padre del principale pitto- re di Augusta dopo Holbein. Lo stile di questi ultimi due ar- tisti attesta il ruolo che la scuola di Augusta ebbe nell’intro- duzione del rinascimento italiano in Germania. Hans Holbein il Vecchio, ultimo grande pittore di Augusta in epoca gotica, si rivela anzitutto sensibile ai maestri fiam- minghi Rogier e Bouts. Gli dobbiamo non soltanto altari ed arte mobili e tavole imponenti, ma anche notevoli ritratti nella piú pura tradizione sveva. Benché l’impronta del rina- scimento italiano si avverta sempre piú nelle opere piú ma- ture di Holbein, la loro concezione generale tradisce ugual- mente l’artista tardogotico. Fu Hans Burgkmair, che studiò l’arte italiana nel corso di viaggi d’oltr’Alpe, il primo pitto- re tedesco a introdurre nel suo paese la poetica rinascimen-

Storia dell’arte Einaudi tale, unitamente allo splendore del colore veneziano. Di- staccandosi definitivamente dalla pittura tardogotica, si inaugura con lui un’era nuova. Nel corso della seconda metà del sec. xv, Nördlingen, anti- ca città imperiale alla frontiera con la Franconia, vanta an- ch’essa rinomati pittori. Il piú importante fu Friedrich Her- lin sul quale esercitò influsso profondo l’arte di Rogier. Quanto a Sebald Bopp, il piú eminente rappresentante del- la generazione successiva, affermatasi verso il 1500, resta pittore tipicamente svevo, benché si fosse formato alla scuo- la della Franconia. A Memmingen, ultima delle potenti città sveve del sec. xv, operò la bottega di Hans Strigel il Vecchio, poi passata ai fi- gli Ivo e Hans. Vero e proprio centro artistico della città, diffonderà la propria produzione pittorica nei dintorni più o meno immediati. Alla terza generazione ne garantirà la di- rezione Bernhard Strigel, verosimilmente uno dei figli di Hans il Giovane, il piú valido pittore della famiglia, specia- lizzatosi come il suo contemporaneo Holbein il Vecchio nell’arte del ritratto. (mwb). Svezia La piú antica manifestazione dell’arte svedese consiste in pitture e incisioni neolitiche nel nord del Paese: animali di- segnati a semplice contorno, in un sommario stile natura- listico, a Nämforsen (Ångermanland) e ad Annsjön (Jäm- tland). Con l’età del bronzo (1500-400 a. C. ca.) compaiono nella S centrale e meridionale incisioni rupestri di stilizza- zione simbolica (Bobuslän, Dalsland, Östergödand, Skåne). L’epoca delle migrazioni (400-800 d. C. ca.) e quella vichin- ga (800-1050 ca.) hanno lasciato nell’isola di Gotland esem- pi di scultura in pietra dette «pietre figurate» incise a bas- sorilievo e, in origine, dipinte a colori vivaci, illustranti sa- ghe nordiche di re ed eroi (Edda) o decorati da motivi astratti. Cosí pure, sulle molteplici pietre runiche (oltre 2500), risa- lenti per la maggior parte ad epoca vichinga tarda, figurano animali e soggetti disposti in ghirlande ornamentali, ispirate dalle soluzioni formali proprie dell’arte irlandese e anglos- sassone. I due arazzi di Överhogdal, nel Härjedalen (Östersund, Jäm- tlands Museum), e di Skog, nello Hälsingland (Stoccolma,

Storia dell’arte Einaudi Statens Historiska Museum), con scene dalla rozza stilizza- zione in rosso e azzurro, risalgono al periodo di transizione dal paganesimo al cristianesimo, tra l’xi e il xii secolo. La pittura medievale in S è interamente a carattere religioso. Le pitture murali romaniche del sec. xii (eseguite a secco) si conservano soprattutto nelle piccole chiese di Skåne, e so- no ispirate a modelli tedeschi e francesi (a Finja, Bjäresjö, Vä). Tra le rarissime pitture del gotico primitivo e del goti- co maturo giunte sino a noi, citiamo i soffitti dipinti su le- gno di Dädesjö (Småland), risalenti al 1260 ca., opera di Si- ghmunder, discepolo della scuola tedesca, e le pitture del co- ro di Södra Råda (Värmland), di stile francese. L’isola di Gotland conserva magnifiche decorazioni a Eskelhem (metà del sec. xiii) e a Gothem (fine del sec. xiii). Sempre nel Go- tland si trovano le maggiori serie di vetrate conservate an- cora nei luoghi d’origine, come quelle di Dahlem e di Bar- lingbo (metà del sec. xiii), d’ispirazione tedesca. I dipinti murali del tardo Medioevo (sec. xv e inizio del sec. xvi), che ornano numerose chiese della valle del Mälaren, sono unici in Europa. Realizzati nell’epoca in cui i soffitti in legno delle chiese vennero sostituiti da volte (facendo co- sì sparire la consuetudine dei cieli dipinti sui soffitti), nar- rano con vigoroso realismo scene della vita popolare, tra opu- lente ghirlande floreali. L’iconografia trae fonte da edizio- ni grafiche provenienti dal Nord-Europa, principalmente quelle della Biblia pauperum. I maestri piú noti (tutti vissu- ti nel sec. xv), sono Johannes Ronsenrod (da Tensta nell’Up- pland), Johannes Iwan (da Vendel, pure nell’Uppland) e il celebre Albertus Pictor. La Riforma, realizzata a partire dal 1527 da Gustavo Vasa (1496-1560), fondatore della dinastia reale, spezzò il pote- re della Chiesa, e principali protettori delle arti divennero i sovrani. I figli di Gustavo Vasa, Erik XIV e Johan III, in- trodussero in S il rinascimento ricorrendo ad artisti tedeschi e olandesi. I palazzi reali furono abbelliti con decorazioni, soprattutto murali: una serie di motivi allegorici che deco- rava la grande sala del castello di Gripsholm, realizzata ver- so il 1540 da Anders Larsson Målare, è nota solo attraverso piccole copie risalenti al sec. xviii. Nel castello di Kalmar si osserva un fregio in stucco dipinto che rappresenta scene di caccia (dovute probabilmente ad Antonius Watz, 1572-74), nonché pitture a grisaille di Arendt Lamprechts, datate al

Storia dell’arte Einaudi 1585; comunque, di norma, i castelli erano decorati soprat- tutto con arazzi, realizzati secondo la tecnica dei Gobelins, introdotta in S da tessitori fiamminghi. La serie di arazzi (due dei quali conservati nel Palazzo Reale di Stoccolma) dei Re delle saghe nordiche è notevole opera di Nils Eskilsson, realizzata su cartoni del fiammingo Domenicus ver Wilt. La pittura da cavalletto si indirizzava al genere del ritratto, so- litamente per mano di stranieri chiamati a corte, come il te- desco Jacob Binck, il fiammingo Steven van der Meulen e l’olandese Johan Baptista van Uther. Quest’ultimo, pitto- re di corte di Johan III dal 1562, fondò nello stile manieri- sta dell’epoca la prima scuola nazionale di ritrattisti. Durante l’apogeo della potenza svedese (1611-1718), la pro- duzione artistica conquistò una nuova clientela: alla corte si aggiunsero la nobiltà e l’alta borghesia. La regina Cristina riunì attorno a sé una pléiade di ritrattisti stranieri, come l’olandese David Beck, allievo di van Dyck, i francesi Sé- bastien Bourdon e Pierre Signac, miniaturista stabilitosi a corte dal 1646. L’artista considerato capofila dell’epoca era David Klöcker Ehrenstrahl, di origine tedesca: introdusse in S la pittura ba- rocca romana e la pittura francese, e fondò una «tradizione del ritratto» che restò in auge a lungo. Il ritratto barocco è rappresentato da Michael Dahl, operante a Londra dopo il 1689 con van Dyck e Peter Lely, poi dall’olandese Martin Mytens il Vecchio, stabilitosi in S dal 1677. Ritrattista di spicco dell’epoca «carolina» (1654-1718), durante il regno di Carlo XII, fu David von Krafft, allievo di Ebrenstrahl, che nelle sue numerose effigi del re e dei suoi generali sviluppò, ma con maggiore semplicità, la maniera barocca del maestro. Nel sec. xvii l’incisione svedese era ancora in mano intera- mente ad artisti stranieri. Tra essi va citato il danese Jere- mias Falck, autore di una serie di ritratti incisi di grande mae- stria. L’opera piú notevole di quest’epoca venne eseguita in Francia e in Olanda: iniziata nel 1661, edita a Stoccolma nel 1716, la Suecia antiqua et hodierna è una grandiosa realizza- zione topografica compiuta in base ai disegni dell’architetto feld-maresciallo Erik Dahlberg (comprende 468 rami). Nel sec. xviii, l’arte svedese, aperta all’influsso europeo e in particolare francese, conobbe un periodo di notevole svi- luppo. La vita artistica era stimolata da mecenati e collezio-

Storia dell’arte Einaudi nisti come Carl-Gustav Tessin, la regina Luisa Ulrica (so- rella di Federico il Grande di Prussia) e suo figlio Gustavo III. All’inizio del sec. xviii i ritrattisti Georg Desmarées, Johan Henrik Scheffel e l’artista di formazione inglese Lo- renz Pasch il Vecchio ebbero il ruolo di artisti di transizio- ne che, discostandosi dalle tradizioni caroline aprirono la strada a pittori come Olof Arenius e Pehr Hörberg che con- cepirono un’arte del ritratto maggiormente personale. Con lo stile rococò (praticato in S dal 1730 al 1772), l’influsso francese divenne predominante. Nel 1732 si ricorse a nu- merosi artisti francesi per collaborare alla decorazione e all’arredo del Palazzo Reale di Stoccolma: tra essi Guillau- me Taraval dipinse soffitti del palazzo e diresse l’Accade- mia di disegno, fondata nel 1735 (trasformata nel 1773 in Accademia di belle arti). Nel frattempo a Parigi si era co- stituita una colonia di pittori svedesi che adottarono total- mente il gusto francese: Alexander Roslin s’ispirò per i suoi ritratti all’arte di Boucher; Gustav Lundberg si rifece a Ro- salba Carriera per i suoi delicati pastelli; i miniaturisti Pe- ter Adolf Hall e Niklas Lafrensen il Giovane (detto in fran- cese Lavreince) riscossero notevole successo con i loro di- pinti freschi e galanti. Alla metà del sec. xviii venne fondata, per la prima volta in S, un’arte nazionale dell’incisione, per merito di Jacob Gillberg e Pehr Floding, ambedue formati- si a Parigi. Durante il regno di Gustavo III (1771-92), l’arte svedese at- traversò una fase fiorente e feconda. Ritrattisti come Per Krafft il Vecchio e Lorens Pasch il Giovane attestano uno stile nello stesso tempo fresco e variato. L’originalissimo co- lorista Carl Gustav Pilo (che operò a lungo a Copenhagen) dipinge il suo capolavoro già intriso di romanticismo: l’In- coronazione di Gustavo III (iniziata nel 1782: Stoccolma, nm). Il neoclassicismo viene introdotto da Adolf Ulrik Wertmüller, che operò tuttavia soprattutto all’estero. I te- mi prediletti di Hilleström, già allievo di Boucher e di Char- din, sono quelli della vita dell’aristocrazia e della borghesia. I ritratti pittoreschi di Carl Fredrik von Breda, in cui si ri- scontrano riflessi di Reynolds e di Gainsborough, e i freschi paesaggi di Elias Martin introdussero in S il romanticismo inglese. Elias Martin e suo fratello Johan Fredrik diedero un importante contributo all’arte grafica con le loro tavole in- cise ad acquaforte, le incisioni puntinate, le acquetinte e le

Storia dell’arte Einaudi incisioni a mezzatinta dagli effetti di luce vellutati, realiz- zate tutte su modelli inglesi. Tra i loro successori vanno ci- tati Martin Rudolf Heland e Jonas Carl Linnerhielm, inci- sori di paesaggi. All’inizio del sec. xix, il clima della vita artistica si fa piú au- stero. Nello stile accademico del classicismo si dipingevano scene di storia, motivi antichi, soggetti tratti dalla mitolo- gia nordica (in sintonia con il programma letterario e pa- triottico della Götiska förbundent fondata nel 1811), non- ché ritratti convenzionalmente borghesi. Ispirato da Clau- de Lorrain, Carl Johan Fahlcrantz fu il creatore dello stile preromantico del paesaggio. Dal 1840 al 1870 ca. Düssel- dorf divenne il centro d’attrazione di un certo numero di ar- tisti svedesi (tra i quali C. d’Unker, A. e J. Kulle, B. Norden- berg, W. Wallander, K. Zoll, A. Jernberg) che rappresenta- rono, in modo realistico tinto di spirito romantico, scene pittoresche di vita popolare e motivi ispirati dalla selvaggia natura nordica. Tale scuola raggiunse il culmine con l’at- mosfera drammatica dei paesaggi di Marcus Larsson. Rari furono gli artisti di questa generazione che ebbero contatti stabili con Parigi. Uno di essi fu il paesaggista Johan Fredrik Höckert, che, influenzato da Delacroix, giunse a una libertà nel colore e nella tecnica pittorica senza precedenti nella pit- tura svedese dell’epoca; ricerche analoghe per spirito d’in- dipendenza sono quelle di Egron Lundgren, per lungo tem- po attivo a Londra. Durante gli anni 1870-80, trionfarono la pittura all’aperto e il realismo. I giovani pittori tornarono a guardare a Pari- gi, aderendo alle idee di Corot, della scuola di Barbizon e al naturalismo di Bastien-Lepage, prima di scoprire l’impres- sionismo. A tale generazione appartengono ancora due dei massimi coloristi della pittura svedese: il paesaggista Carl Hill ed Ernst Josephson, figura di punta tra gli svedesi di Parigi. I suoi ritratti e figure di genere, dai colori accesi e caldi, tradiscono di fatto una tendenza piuttosto antinatu- ralista. Persino durante i loro anni di malattia questi due artisti, che morirono rispettivamente nel 1906 e nel 1911, svilupparono una pittura di un’indipendenza e di una forza visionarie. Negli anni Ottanta, una colonia di pittori scan- dinavi si raccolse a Grezsur-Loing, presso Parigi. Tra gli sve- desi, Carl Larsson, Karl Nordström e il pittore di animali

Storia dell’arte Einaudi Bruno Liljefors dipinsero in questo luogo idillico grandi pia- ni trattati con colori chiari, dalle tonalità finemente espres- se (spesso ad acquerello), in uno stile visibilmente influen- zato dall’arte giapponese. Sven Richard Bergh, il piú note- vole ritrattista in stile naturalista del suo tempo, e Anders Zorn, stimato per gli acquerelli e i nudi, eseguiti con una ge- nerosa tecnica impressionista, diedero all’arte svedese ap- porti importanti. Nel 1885 i giovani artisti svedesi di Parigi si unirono in un movimento che intendeva contrapporsi all’Accademia di bel- le arti di Stoccolma. L’anno seguente crearono l’Associa- zione degli artisti, che svolse un ruolo fondamentale nella vita artistica svedese fino al suo scioglimento nel 1920. Nel corso degli anni Novanta i pittori, sotto l’egida dell’Asso- ciazione, rinnovarono il paesaggio svedese. La monumenta- le e stilizzata interpretazione della natura, dai colori forti, che venne creata nell’attiva scuola di Varberg (località del- la costa occidentale) nel corso degli anni 1893-95 da Karl Nordström, Sven Richard Bergh e Nils Kreuger, caratteriz- za questa nuova tendenza, la cui arte scaturiva nel contem- po dal sintetismo francese e dal neoidealismo tedesco. Te- ma dominante divenne il paesaggio nordico al crepuscolo, qual è interpretato dal principe Eugen e da Eugène Jansson (quest’ultimo influenzato dal ritmo sinuoso e lineare di Mun- ch) nelle loro visioni dalle tinte azzurrastre di una Stoccol- ma notturna. Il risveglio del senso del territorio svedese tro- va ancora espressione nei dipinti del Dalarna, eseguiti da Zorn e Carl Larsson, in quelli di Bruno Liljefors, pittore del- la fauna svedese, e in quelli di Karl Wilhelmsson, pittore dei pescatori della costa di Bohuslän. Per influsso di Puvis de Chavannes, Carl Larsson, il principe Eugen e Georg Pauli rinnovarono la pittura monumentale. Nel campo grafico, Zorn diede un importante contributo con le sue incisioni ad acquaforte, realizzate con una tecnica impressionista del tratto. Tra gli artisti della giovane generazione, Ivan Aqué- li adotta un sintetismo radicale nello spirito del gruppo di Pont-Aven. Il simbolismo trova la sua espressione migliore nelle opere di Olof Sager-Nelson e di Ivar Arosenius, ispi- rate da Gauguin e dal movimento Rosa-Croce. Lo scrittore August Strindberg apportò alla corrente simbolista un con- tributo incisivo, benché contenuto in un catalogo di dipin- ti ristretto, con le sue tele (realizzate in varie epoche:

Storia dell’arte Einaudi 1872-75, 1890-95, 1900-907), i cui motivi marini e dram- matici vengono eseguiti in uno stile pre-espressionista. Tra i disegnatori, Engström apporta una nota originale, con i suoi disegni umoristici e caricaturali, nei quali si ritrovano i contorni e i linearismi aggressivi dei disegnatori di «Simpli- cissimus». Il sec. xx si apre col gruppo detto i Giovani (De unga) o «gli uomini del 1909» anno questo della loro mostra inaugurale a Stoccolma; quasi tutti i membri del gruppo erano stati al- lievi di Matisse. Ricordiamo in particolare Isaac Grünewald e Sigrid Hjertén, ambedue di Stoccolma, che praticarono un fauvisme nello spirito del maestro, mentre Gösta Sandel e Birger Simonsson, di Göteborg, sono piú prossimi a van Go- gh e all’arte norvegese (Munch, Henrik S°rensen). Appar- teneva al gruppo anche Nils Dardel, i cui dipinti risentono di varie esperienze, dal cubismo, a Bonnard all’arte naïf. Karl Isakson, stabilitosi a Copenhagen, praticava un cro- matismo cézanniano; Gösta Adrian-Nilsson, detto Gan, che verso il 1910 si era ispirato a Kandinsky, al futurismo e al Blaue Reiter, introdusse nel 1919 l’astrattismo geometrico. Nel 1918, reagendo al modernismo internazionale e ispi- randosi all’arte di Ernst Josephson all’epoca della sua ma- lattia, un gruppo di naïfs, tra cui Hilding Lindqvist ed Eric Hallström, offrì sensibili interpretazioni della realtà svede- se. All’inizio degli anni Venti predominano invece correnti classicheggianti, volte al Trecento italiano, all’«età d’oro» danese, a Ingres e al freddo realismo della Nuova Oggetti- vità tedesca: ne sono primi testimoni Otte Sköld e Arvid Fougstedt. Nel 1925 s’impose la corrente primitivista, gra- zie al gruppo dei Nove Giovani, i cui membri, come Sven Erixson e Brör Hjorth (che era anche scultore), praticarono una pittura dal forte cromatismo, ispirata insieme all’espres- sionismo tedesco e all’arte naïf svedese degli anni Dieci. Le pittrici Vera Nilsson e Siri Derkert rientrano anch’esse tra i pionieri dell’espressionismo. Capofila dell’astrattismo fu Otto G. Carlsund, che a Parigi, tra il 1924 e il 1930, ebbe strette relazioni con Léger, Ozenfant e Mondrian; Viking Eggeling, ideatore di film notevoli (cartoni animati non fi- gurativi) operò a Berlino e in Francia. Gli anni Trenta co- stituirono un’epoca di fioritura, non solo nazionale, per la pittura svedese. L’associazione Colore e forma (Färg och

Storia dell’arte Einaudi form), creata a Stoccolma nel 1932, raccolse la maggior par- te degli artisti principali delle generazioni fra le due guerre e divenne organo di diffusione di una pittura che, espri- mendosi sulla base di effetti contrastati di colore, si investe di tematiche sociali o di motivi scaturiti dalla fertile vena del romanticismo nordico. A quest’evoluzione contribuì inoltre la concezione soggettiva del colore adottata da Carl Kylberg e dai suoi amici, i «coloristi di Göteborg»: Ivan Ivarson, Ragnar Sandberg e Inge Schiöler. Il surrealismo, alla maniera di Dalì e di Tanguy venne introdotto all’inizio degli anni Trenta dagli artisti del gruppo di Halmstad. La nuova arte norvegese dell’affresco diede impulso decisivo al- la pittura monumentale (Sven Erixson, Hilding Lindqvist, Otto Sköld), ma tra le due guerre anche l’arte grafica co- nobbe una ricca fioritura con Bertil Bull Hedlund, Axel Fri- dell, Stig Borglind e Harald Sallberg, che rinnovarono l’in- cisione su legno, unitamente a Stig Åsberg e al litografo Björn Jonson. La tendenza principale è intimista, attenta a rendere il dettaglio in tutta la sua forza e acutezza, nella tra- dizione di Charles Meryon e di Seymour Haden. Il panorama artistico del secondo dopoguerra, strettamente legato ai movimenti internazionali, presenta un quadro estre- mamente composito. La pittura non figurativa, parallela al neoplasticismo e al gruppo delle Réalités nouvelles di Pari- gi, venne rappresentata nel 1947 dai concretisti: Lennart Rodhe, Lage Lindell, Pierre Olofsson, Karl Axel Pehrson e Olle Bonnier. In seguito è stata praticata soprattutto da Ol- le Baertling. Nello stesso periodo compare a Malmö un grup- po detto gli Immaginativi (Imaginisterna), ispirato da Dalì, Max Ernst e Klee, gruppo che conta tra i suoi membri Max Walter Svanberg, nonché i pittori Carl Otto Hulten e An- ders Österlin, che poco dopo aderiscono al gruppo Cobra, Evert Lundqvist e Torsten Renqvist, che venne influenza- to dagli artisti inglesi Sutherland e Paul Nash, si inserisco- no nella corrente neoespressionista degli anni Cinquanta. Piú recentemente Öyvind Fahlström e Carl Friedrik Reu- terswärd si collocano sulla scia americana di Rauschenberg e Oldenburg. (tp). Tra gli adepti del realismo fotografico figura Franzen. Bengtsson descrive con precisione drammi indecifrabili, nei quali un senso di assurdo e di solitudine si cela dietro la pa- tina scialba che ne imbeve la pittura. Billgren ricorre alla fin-

Storia dell’arte Einaudi zione poetica e al sogno. Hillersberg si serve della caricatu- ra per una denuncia di tipo politico; diversa tendenza è rap- presentata da Käks piú orientato all’arte concettuale. (sr). Svizzera È assai arduo individuare gli elementi costitutivi di un’arte propriamente elvetica. Nata in piena epoca gotica, nel cuo- re del Sacro Romano Impero germanico, la S impiegò lun- ghi secoli a modellare il proprio volto attuale su profonde di- sparità razziali, linguistiche e confessionali che ne condi- zionarono lo sviluppo artistico e suscitarono linguaggi spesso compositi, all’incrocio tra gli influssi francesi, italiani e ger- manici. L’indipendenza politica della S, riconosciuta ufficialmente nel 1648, non comportò la fioritura di forme artistiche par- ticolari. Fino ad epoca moderna, di fatto, la sua storia arti- stica si è svolta entro limiti regionali piú che nazionali. Co- sì il momento in cui, nel Medioevo, la Confederazione af- fermò la volontà di unire i due versanti alpini rappresenta per lo storico motivo di riflessione sulla possibile esistenza di caratteri stilistici comuni, fondati su una situazione ori- ginaria analoga, nonostante l’appartenenza delle contrade alpine a quattro realtà culturali diverse, costituenti quanto Gamner definisce «una selezione e un legame particolare tra alcuni elementi stilistici» piú che uno stile vero e proprio. Inoltre, malgrado l’importanza della sua posizione geografi- ca, all’incrocio degli assi europei, la S restò fino all’alba del sec. xix terra montanara e contadina, priva di risorse com- merciali e industriali, quindi impossibilitata a competere con i principali centri europei: tali presupposti rendevano diffi- cile lo sviluppo di una ricca tradizione artistica. È dunque nello spirito piú che nelle forme che si manifestò l’unità, l’«elvetismo» artistico delle regioni comprese tra le Alpi, il Reno e il Giura. È una coscienza non generalizzata eppure profonda d’indipendenza e di libertà, incarnata in una vo- lontà culturale e politica rimasta tale anche dopo l’unione tra i tre cantoni originari nel 1291, e fondata su una misti- ca del territorio che fu, fino a un recente passato, motore es- senziale dell’attività creativa in S. Antichità Se si eccettuano rari dipinti rupestri, in partico- lare a Sils, la pittura fece le sue prime apparizioni in epoca

Storia dell’arte Einaudi romana, dopo la vittoria di Cesare sugli Elvezi nel 58 a. C. Semplice colonia militare, l’Elvezia è ricordata soltanto per qualche frammento di affreschi, come l’Auriga del Museo di Basilea; la produzione di mosaici fu invece piuttosto ricca e di qualità (un Orfeo a Yvonand, il Mosaico dei pianeti a Or- be, quello dei Pesci a Toffen). Alto Medioevo La cristianizzazione, prima e dopo le inva- sioni barbariche, preparò davvero il «milieu svizzero». In- torno ai vescovadi di Basilea, Losanna, Ginevra, Sion, Coi- ra e soprattutto San Gallo (→) si costituirono fulcri di cul- tura, scuole e scriptoria: la ricchezza delle loro biblioteche riflette i continui scambi che essi intrattenevano col resto del- la cristianità, in particolare, per San Gallo, con l’Irlanda. Le prime miniature eseguite certamente nei laboratori di San Gallo, quelle del Salterio di Folchard, dello Psalterius aureus e dell’Evangelium longum, risalgono al sec. ix. Il complesso del paese apparteneva allora all’impero, e l’arte carolingia, che univa al realismo illusionistico antico motivi decorativi astratti di origine germanica, era al suo culmine. Si sono con- servati tre complessi murali dell’epoca databili tra il 780 e l’840: quelli di Naturno, Münster, ambedue allo Schweize- risches Landesmuseum di Zurigo, e di Malles. L’influsso del- la miniatura carolingia predomina, con elementi merovingi e franconi a Naturno, italo-romani a Münster (Grigioni) e a Malles. Epoca romanica In epoca romanica la feudalità, moltipli- cando le signorie regionali, fissò la cornice di un’attività ar- tistica fiorente, assunta dalle diocesi e dagli ordini monasti- ci piú potenti, in particolare quelli di Cluny e di Cîteaux. La disparità linguistica – e dunque culturale – non frenò allora in alcun modo la penetrazione degli influssi; si trovano for- me lombarde presso il lago di Thoune, tipi borgognoni in tutta la S tedesca e altari scolpiti svevi nel Ticino. Tuttavia la S conserva pochi esempi di pittura romanica, e i quattro affreschi meglio conservati sono quelli di San Carlo in Ne- grentino presso Prugiasco (sec. xii), San Vigilio a Rovio (sec. xii), Montcherrand e Chalières; lo stato di conservazione, nell’ultimo caso, consente soltanto una lettura di tipo ico- nografico. L’impronta bizantina è assai notevole a Prugia- sco, e come tale piuttosto rara in una valle alpina come quel- la del Blenio, discosta dall’area di influsso bizantino, men- tre è meno avvertibile a Montcherrand, che dipendeva da

Storia dell’arte Einaudi Cluny. Numerose sono le chiese di montagna ornate di gran- di figure di San Cristoforo sulla facciata esterna, verso val- le, a protezione dei viandanti (Biasca, Rossura, San Marti- no presso Sonvico, Spiez, Zillis e Santa Maria di Torello: quest’ultimo, inizio del sec. xiii, è quasi intatto). L’opera fondamentale della pittura romanica in S è il sof- fitto della chiesa di San Martino di Zillis, composto da 153 tavolette dipinte – numero che vuole rievocare il numero dei pesci nella miracolosa pesca degli apostoli narrata nel Van- gelo di Giovanni – datate ora al 1120-30, ora alla metà del sec. xii (e che il recente esame dendrocronologico ha collo- cato con sicurezza entro la metà del secolo). La qualità e la vastità di questo complesso, frutto di una bottega con sei-set- te pittori all’attivo, rarissimo vestigio di un genere assai dif- fuso in epoca romanica, hanno fatto supporre l’esistenza di una notevole scuola grigione, che nessun documento con- ferma. Epoca gotica Compaiono in questo momento in S le prime espressioni gotiche: l’epoca, che durerà in S fino alla fine del sec. xv, vedrà il progressivo estinguersi delle grandi ca- se feudali e l’affermarsi della borghesia nelle città formate- si intorno alle fortezze e ai vescovadi. Merito precipuo di questa nuova classe fu di fondare una cultura laica origina- le, che preannuncia alcuni aspetti propriamente elvetici del rinascimento, in particolare l’esaltazione del passato politi- co nazionale. I grandi monasteri e vescovadi conservarono il monopolio dell’arte religiosa, restando così centri artisti- ci importanti (Einsiedeln, Muri, Engelberg, Hauterive); il carattere internazionale dei grandi ordini francescani e do- menicani li rese inoltre – fino al rinascimento – i principali veicoli degli scambi intellettuali e artistici. Numerosi edifi- ci furono allora ricoperti di affreschi, per i quali, data la scar- sezza delle fonti, non si è quasi mai riusciti a risalire al no- me dell’autore, ma i cui resti, quando non snaturati da po- co scrupolosi restauri, sono spesso assai frammentari. Nella S romanda il complesso piú notevole è quello della cappella alta del castello di Chillon, cominciato nel 1259 e prosegui- to nel 1314 da un certo «Maestro Jacob». Le ricerche di A. Naef hanno consentito di tracciare l’originario progetto ico- nografico, relativamente simile a quello di Giotto nella cap- pella dell’Arena a Padova, benché si ignori se la cappella fos-

Storia dell’arte Einaudi se dedicata alla Vergine prima di essere consacrata a san Giorgio nel 1351. Gli affreschi del nartece di Romainmo- tier, paragonabili per il programma a quelli di Chillon, pre- sentano peraltro qualità artistica inferiore. Quanto alle pit- ture nel coro di Münster, tuttora fortemente intrise di spi- rito romanico, sono piú tarde (prima del 1300) e senza dubbio contemporanee del rosone del transetto meridiona- le della Cattedrale di Losanna, la piú bella vetrata di stile borgognone in S. A questo proposito va almeno ricordato lo splendido esempio delle vetrate del coro della chiesa dell’ab- bazia di Königsfelden (1225-30), che avevano a suo tempo aperto la via a questa tecnica, praticata con importanti ri- sultati artistici sino al sec. xviii. Infine, alcune miniature pro- venienti dagli scriptoria di San Gallo, Engelberg, Rheinau e Schaffhausen completano questo panorama della prima pit- tura gotica elvetica: Salteri di Wurmsbach (Bibl. conventua- le di Engelberg) e di Rheinau (Bibl. centrale di Zurigo), Cro- naca di Rodulf von Ems (ivi; San Gallo, Stiftbibliothek; Mo- naco, sb). Dal 1300, l’espressività gotica domina tutta la produzione pittorica: compaiono i grandi cicli affrescati, sviluppati piú in estensione che in profondità; l’arte diviene narrativa e di- dattica, pur cercando di liberarsi dalle ristrette regole com- positive, effetto quest’ultimo della progressiva laicizzazio- ne della vita intellettuale, che si diffonde allora attraverso la cultura e i gusti della committenza cortese e cavalleresca e di cui sono esempio caratteristico gli affreschi della Camera Domini nel castello di Chillon, eseguiti nel 1342-43 da Jean de Grandson. Nei Grigioni fu considerevole l’influsso arti- stico del vescovado di Chur. Tra 1330 e 1350 è attivo un artista che Erwin Poeschel chia- ma «Maestro di Waltensburg», il cui linguaggio formale sciolto e convincentemente narrativo impronterà la succes- siva generazione di artisti locali e la cui bottega risiedeva forse a Chur. Egli è il probabile autore degli affreschi di San Giorgio a Räzüns (Graubünden), di quelli della navata del- la chiesa di Waltensburg, della Leggenda di Maria Maddale- na nella cappella di Dursch (Domleschg), della Vita di Cristo e i Dodici comandamenti nella chiesa di Lüen (Schanfigg). Vi si rivela una grande libertà compositiva, e nel contempo un naturalismo e un senso del pittoresco che fa presentire i mo- di di Urs Graf e Niklaus Manuel. La S orientale fu, in epo-

Storia dell’arte Einaudi ca gotica, in stretti contatti con Costanza e con la Svevia; e le opere che vi si produssero spesso eguagliarono i modelli (affreschi di Sant’Arbogasto a Oberwinterthur, 1340 ca.). Tra questi ultimi, il Manoscritto di Manesse (Heidelberg, bi- bl. dell’Università), sorta di enciclopedia del Minnesang il- lustrato in una bottega zurighese all’inizio del sec. xiv, è ope- ra maestra della pittura gotica, storicamente e qualitativa- mente confrontabile col soffitto romanico di Zillis. Nel ciclo affrescato della chiesa di San Nicola presso Flüeli-Ranft (Obwalden), 1380 ca., lo stile ormai tardogotico è tuttavia ancora permeato dal retaggio romanico. Infine nel Ticino la penetrazione di tipi svevi o borgognoni fu assai limitata e, a dire il vero la pittura di questo cantone conobbe solo, del gotico, quanto le giunse dall’Italia attraverso le scuole lom- barda, senese e fiorentina di cui gli affreschi della chiesa di San Biagio a Bellinzona-Ravecchia costituiscono, per la fi- ne del sec. xiv, una specie di repertorio stilistico. L’influs- so giottesco toccò direttamente alcune opere, come il ciclo di Brione Verzasca. Quattrocento La pittura del sec. xv è dominata dalla per- sonalità di Konrad Witz, le cui opere per Basilea e Ginevra introdussero in S le forme sveve, portatrici di un lapidario vigore e di un realismo che, dopo il 1420, si era già imposto nei Paesi Bassi e in Germania, modi che contrastavano sin- golarmente con alcune correnti locali, tutte pietà interioriz- zata. L’accento è ormai posto sulla figura umana, concepita in modo monumentale e ieratico, tale da prefigurare gli eroi del rinascimento tedesco (Davide e i tre eroi, San Bartolomeo, San Cristoforo: Basilea, km). Inoltre l’apertura sul paesaggio, quale appare, libera, precisa e insieme visionaria, nella Pe- sca miracolosa (1444: Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire) costituisce un apporto essenziale e interamente nuovo. Nes- sun documento consente di parlare di una «scuola» di Kon- rad Witz; è evidente peraltro che il suo linguaggio dovette fare una profonda impressione sui giovani pittori attivi ver- so il 1440; basta osservare la Danza macabra del cimitero dei Domenicani (Basilea, km) o i Santi Antonio e Paolo (ivi) at- tribuiti a un «Maestro di Basilea del 1445». L’impulso da- to da Witz, il cui influsso presto raggiunse le valli alpine (fi- gure degli stalli di Géronde, Valais) e la Savoia, s’indebolì tuttavia rapidamente perdendo il suo vigore. E mentre si

Storia dell’arte Einaudi moltiplicarono le scuole regionali, combinando gli influssi di Schongauer, Bartholomäus Zeitblom e Rogier van der Wey- den, nessuna personalità artistica ben definita riuscì a ca- ratterizzare lo scorcio del sec. xv. Tuttavia è possibile di- stinguere dalla produzione corrente l’opera di due gruppi: una bottega a Basilea, alquanto maldestra, ma la cui attività consente di seguire il progressivo affermarsi di un genere de- stinato ad avere fortuna fino a Holbein, ossia lo studio del- la fisionomia (Ritratto di giovane uomo, 1470 ca.; Dittico Jie- ronymus Tschekkenbürlin, 1487: Basilea, km), e un gruppo di pittori, costituito dai maestri cosiddetti «dal garofano» (dalla loro firma o marchio di bottega), attivi a Basilea, a Zu- rigo, in Tirolo e nella Svevia meridionale. Alla loro cerchia si collega il polittico per l’altare maggiore della chiesa dei Cordiglieri (frati minori francescani) di Friburgo, attribui- to, anche in base alle tormentate vicende della sua commit- tenza, a quattro differenti autori, operanti in tempi diversi, tra 1479 ca. e fine del secolo, tra i quali il Maestro del Ga- rofano bernese e Maestro «Palus» (Paul Löwensprung?) Ac- canto alla pittura su tavola, si diffuse considerevolmente l’in- cisione, creando una vera e propria arte popolare, usata in particolare per illustrare le cronache politiche (Maestro D.S., Cronaca federale di Etterlyn, 1407; Cronaca bernese di Diebold Schilling, 1468-84: ambedue a Berna, Burgerbibl.). Da se- gnalare l’attività di arazzieri (Arazzo d’Amore: Basilea, Mu- seo storico), pittori di vetrate (cicli dei cori di Staufberg, Berna e Biel) e affrescatori furono parimenti assai attivi (af- freschi di Saint-Gervais, 1449-51: Ginevra; affreschi del chiostro della chiesa dei Cordiglieri, 1440: Friburgo; ciclo del coro di Santa Maria della Misericordia ad Ascona, uno dei rari resti dell’importante pittura ticinese del Quattro- cento; le opere attribuite alla bottega lombarda di Cristofo- ro e Nicolò da Seregno, attivi nel canton Ticino tra il 1448 e il 1478: la parete nord di Santa Maria del Castello a Me- socco). Hans Fries fu l’ultimo pittore gotico svizzero im- portante, erede dell’angoloso naturalismo dei maestri dal ga- rofano (Apocalisse, 1505 ca.: Zurigo, kh). Il rinascimento conobbe in S una straordinaria fioritura, di un’unità e di una qualità senza equivalenti nella storia dell’arte del paese. È vero che restò un’espressione legata soprattutto alle componenti formali della pittura, toccando solo in superficie lo spirito elvetico. La raggiunta coscienza

Storia dell’arte Einaudi della propria unità politica, è alla base della potenza milita- re svizzera che, esportata, divenne fonte di considerevoli profitti. Ora, lo spirito avventuriero dei lanzichenecchi che si vendevano al miglior offerente (rappresentato in modo quanto mai espressivo nelle opere di Urs Graf e di Niklaus Manuel) restava in larga misura fedele alla tradizione ger- manica tardogotica, e in certo qual modo in disparte rispet- to alle aspirazioni puramente umanistiche il cui centro di dif- fusione sarà peraltro Basilea, città elvetica. Infatti i concili di Costanza e di Basilea avevano portato in S uomini nuo- vi, propagatori delle idee e delle forme del Quattrocento, che dovevano accelerare la formazione di una nuova élite culturale informata agli ideali umanistici: nel 1460, Pio II fondava l’Università di Basilea, consentendo la fioritura di una sorta di repubblica umanistica, la cui anima fu la stam- peria di Johannes Amerbach (fondata nel 1468), che attras- se alcuni dei massimi spiriti dell’arte e della scienza dell’epo- ca, come Johann Froben, Glarean, Erasmo, Holbein, Oe- colampade. Tuttavia, se si eccettua il Ticino, culturalmente e geograficamente volto verso l’talia, si nota che il rinasci- mento elvetico si sviluppò nella zona germanica, mentre il paese romando conobbe soltanto un debole ritrattista, Hum- bert Mareschet (attivo a Losanna alla fine del sec. xvi). Mal- grado il suo splendore, la stagione rinascimentale ebbe bre- ve durata, e i suoi anni piú prosperi sono quelli del passag- gio a Basilea, tra il 1515 e il 1526, degli Holbein, Hans il Giovane e Ambrosius, soprattutto il Giovane, che funse da mediatore e traduttore dei modelli fiamminghi e italiani piú aggiornati, in particolare nell’arte del ritratto, di cui fu il ge- nio universale (Doppio ritratto di Jakob Meyer e di sua moglie, 1516: Basilea, km). Niklaus Manuel Deutsch rappresenta con Urs Graf un aspet- to piú tipicamente elvetico del rinascimento: gusto strava- gante e pittoresco, senso della decorazione. Le loro campa- gne come lanzichenecchi prezzolati in Italia, pur senza in- fluenzare profondamente quanto la loro arte conservava di gotico, fornirono a questi artisti, peraltro, un materiale te- matico nuovo, di cui si avvalsero felicemente, il primo nel- le composizioni mitologiche (Piramo e Tisbe: Basilea, km), il secondo in innumeri illustrazioni della vita militare (il Cam- po di battaglia, 1520-21: ivi). Hans Leu il Giovane è per da-

Storia dell’arte Einaudi ti biografi (anch’egli fu soldato), paragonabile ai due pitto- ri, ma la sua pittura è invece calma e sognatrice, una sorta di rifugio per la meditazione, come bene testimoniano i suoi paesaggi, i primi paesaggi autonomi comparsi in S secondo i criteri estetici elaborati da un Altdorfer o da un Hirsch- vogel (Paesaggio fantastico con lago montano: ivi). Tra Berna e Friburgo, dove la lezione di Hans Fries e del suo maestro Heinrich Bichler era ancora viva, i promotori del rinascimento furono Hans Boden, menzionato tra il 1520 e il 1526, poi Wilhalm Ziegler, identificato da Baum, senza alcuna prova certa, col Maestro di Messkirch (quattro Sce- ne della vita della Vergine: Friburgo, Musée d’Art e d’Hi- stoire). A Berna, Hans Funk operò all’ombra di Niklaus Ma- nuel Deutsch, e così pure il Maestro H.F., bernese, col qua- le forse si può identificare Hans Fries (tre Ritratti maschili, 1523: Basilea, km), mentre, a Zurigo, Hans Asper racco- gheva l’eredità stilistica di Hans Leu, ma con spirito anco- ra fortemente tardogotico (Ritratto di Zwingli, 1531: Win- terthur, km). Il complesso murale piú imponente dell’epoca è quello del convento dei Benedettini di Stein am Rhein. L’attribuzio- ne di tali affreschi, eseguiti verso il 1515-16, resta proble- matica, benché si sia creduto di riconoscervi di volta in vol- ta la mano dei fratelli Holbein, di Manuel Deutsch, di Graf e di Thomas Schmid. Il XVI secolo Dal 1524 Basilea e la S tedesca entrarono in una fase storica difficile. Holbein si trasferì all’estero, Ma- nuel sostituì ai pennelli la penna aguzza della polemica, l’ico- noclastia predicata dall’ala piú intransigente della Riforma imperversò, e la rivolta contadina della Germania meridio- nale toccò la S. Numerosi artisti si trovarono improvvisa- mente senza lavoro. Lo slancio creativo del rinascimento si spezzò bruscamente e, in larghissima misura, l’arte della se- conda metà del sec. xvi divenne un’arte di epigoni, che ri- petevano incessantemente le lezioni di Dürer e di Holbein il Giovane: così Jost Amman, Hans Hug Kubler, che tornò addirittura ai modelli del sec. xv, Martin Moser e Hans Bock il Vecchio, pur ispirato dal manierismo italiano (Allegoria della Notte, 1586: Basilea, km). Tra tutti, spicca Tobias Stimmer, che seppe assorbire originalmente la lezione di Holbein il Giovane, e, in un linguaggio ove si mescolano ar- monicamente accenti tardogotici, rinascimentali e manieri-

Storia dell’arte Einaudi stici, operare nei piú svariati campi (dalla grafica alla vetra- ta, dal ritratto all’affresco), offrendo modelli al barocco na- scente. Sin dalla fine del sec. xv il Ticino e i Grigioni avevano as- sorbito – in modo provinciale – gli apporti del rinascimen- to italiano, tanto piú naturalmente in quanto potevano con- tare solo su pochi pittori autoctoni; il piú celebre artista ivi attivo fu Andrea Solario. Con lui, la gran parte dei pittori attivi in tali regioni proveniva dalle botteghe milanesi: in particolare Bernardino Luini, allievo di Leonardo, autore dei notevoli Affreschi della Passione (1529) in Santa Maria degli Angioli a Lugano, ma anche Gaudenzio Ferrari (Fuga in Egitto, 1520: Locarno, chiesa della Madonna del Sasso). Benché la S italiana non conoscesse i torbidi della Riforma, si constata dal 1530 un notevole calo di qualità: numerosi artisti tornavano, come nella S tedesca, alle formule medie- vali, o si accontentavano di copiare. Rare opere annunciano peraltro l’età barocca (Vita di san Giovanni Battista, di auto- re ignoto, 1608 ca.: coro della chiesa di Sonvico); di essa gli affreschi di Hans Bock nel municipio di Basilea (1610) co- stituiscono il primo esempio pittorico in S. Età barocca Il barocco fu in S essenzialmente arte aristo- cratica, assunta, per l’assenza in S di centri culturali laici im- portanti, dalle corti episcopali (Basilea, Einsiedeln) e dalle nuove capitali del cattolicesimo, Friburgo, Solothurn/So- leure e Lucerna, dove in particolare operarono Renward Fo- rer, Jakob von Wyl e il suo albevo Kaspar Meglinger. La comparsa di nuovi ordini, gesuiti, cappuccini, orsoline, con- tribuì ulteriormente a stabilire in S centri attivi di cultura barocca, ma, nondimeno, la produzione pittorica restò assai scarsa per quasi due secoli; numerosi artisti espatriarono per mancanza di incarichi, e, piú che mai, l’arte «svizzera» fu soggetta a influssi stranieri. Giovanni Serodine, notevole ca- ravaggesco, Pier Francesco Mola, Franz Ludwig Raufft e Johannes Brandenberg andarono a Roma. Samuel Hoff- mann, importante ritrattista (ritratto di Johann Rudolf Wett- stein, 1639: Zurigo, coll. S. Merian) si trasferì nei Paesi Bas- si, mentre Matthius Merian il Vecchio, Conrad Meyer il Vecchio e Johann Rudolf Byss operarono in Germania. Piú tardi, la Francia attirò Joseph Werner e Johann Melchior Wyrsch.

Storia dell’arte Einaudi La pittura barocca non lasciò praticamente tracce nella S ro- manda: isolata, o quasi, è un’Allegoria della Giustizia dona- ta nel 1652 dall’autore, Samuel de Rameru, al consiglio mu- nicipale di Ginevra. In compenso, con Pierre Bordier, suo cugino Jacques e il suo allievo Jean Petitot, la pittura a smal- to, di moda in Francia, rese celebre Ginevra. XVIII secolo La progressiva ripresa, durante il sec. xviii, di un’autentica attività artistica, ripartì alcune specializzazioni geograficamente: il ritratto venne soprattutto praticato nel- le città protestanti, l’altare o la pala d’altare restò proprio della S centrale, e il Ticino si mantenne fedele all’affresco. La durevole influenza del modello della ritrattistica nordica e della severità giansenista di Philippe de Champaigne nel- la S tedesca, mantenne gli artisti di questa regione entro un certo formalismo (Rudolf Huber il Vecchio, Johannes Dünz, Johannes Meyer il Giovane, J. M. Wyrsch), dal quale si di- staccano per l’acuto e pragmatico senso d’osservazione, già intriso d’illuminismo, i ritratti di Anton Graf. Il genere venne davvero rinnovato solo dagli artisti ginevri- ni, formatisi alla scuola di Largillière: Jean-François Guilli- baud, Robert Gardelle il Giovane e soprattutto Jean-Etien- ne Liotard, le cui opere (la Bella cioccolataia, 1744: Dresda, gg) sono qualitativamente paragonabili a quelle di Quentin La Tour o di Perronneau. La pittura d’altare (Raufft, Brandenberg, Franz Karl Stau- der) ebbe scarso sviluppo, ma l’affresco illusionistico, im- portato dall’Italia, conobbe una notevole fioritura, comple- mentare a quella dell’architettura rococò di origine sveva e bavarese. La S tedesca attirò così i migliori maestri del Ti- cino (Francesco Antonio Giorgioli, Giuseppe Appiani, i fra- telli Asam e Toricelli) e della Germania meridionale (Johann Jakob Zeiller, uno dei piú sorprendenti pittori tedeschi ro- cocò, autore dei dipinti dell’altare maggiore della chiesa di Fischingen; Franz Anton Ermentraut di Würzburg; Chri- stian Wenzinger). Gli affreschi della chiesa di Einsiedeln co- stituiscono il complesso rococò elvetico piú rappresentati- vo. Numerosi artisti di talento vi operarono con prodigioso dinamismo: Cosmas Damian Asam e il fratello Egid Quirin dal 1724 al 1726, Franz Kraus nel 1746 e i fratelli Toricel- li (Giuseppe e Giovanni Antonio). Il genere del paesaggio non dà esiti paragonabili a quelli fran- cesi e olandesi e al vedutismo italiano. Tuttavia, sin dalla se-

Storia dell’arte Einaudi conda metà del sec. xviii, lo sviluppo degli studi scientifici e il turismo franco-inglese risvegliarono l’interesse per i siti alpestri, che presto ispirarono l’arte e la letteratura. È vero che tale interesse fu innanzitutto documentario, ma consentì la fioritura della «veduta», genere che doveva suscitare in S numerose vocazioni artistiche. La prima fu quella di Felix Meyer. La fine del XVIII secolo Col rinnovamento neoclassico e gli ideali illuministici, i principali centri culturali svizzeri di- vennero Zurigo, dove dimorarono Bodmer, Breitinger, La- vater, Salomon Gessner, Pestalozzi, e Ginevra, patria di Rousseau e residenza di Voltaire dal 1754. Tuttavia non vi fu, se si escludono pittori come Angelica Kauffmann, Jac- ques Sablet e Jean-Pierre Saint-Ours, una fase propriamen- te neoclassica nella pittura elvetica: le prime espressioni ro- mantiche sono frutto insieme del barocco e del classicismo antichizzante, e temi e stili si sovrapposero, in particolare in Johann Heinrich Füssli, che unì una movimentata espres- sività, ricca di cromatismi inediti a un disegno di marca mol- to lineare, ispirato a Flaxman (Titania e Bottom: Zurigo, kh). Quest’ambivalenza tra idealismo puro e violenza eroica, tin- ta d’erotismo, fa di Füssli il pittore più rappresentativo del- lo Sturm und Drang, come Herder ne fu il poeta. Similmente, l’evoluzione del paesaggio prese una duplice di- rezione: una tendenza idealista manierista ispirata alla poe- sia «idillica» rococò è rappresentata da Salomon Gessner (Lettera sulla pittura di paesaggio), e una corrente senza dub- bio piú «elvetica», che sviluppò la visione ingenua e realista di un paesaggio ormai divenuto una specie di simbolo na- zionale – come i bannerets del sec. xvi – di cui Caspar Wolff, il primo pittore preromantico, fu pioniere, accanto a Johann Heinrich Wüest e ai ginevrini Jean-Antoine Linck e Pier- re-Louis de La Rive (Cascata d’inverno, 1775: Berna, km). Ormai la storia pittorica della S era inscindibile dai movi- menti europei, ma nonostante quasi tutti gli artisti compis- sero il proprio tirocinio all’estero, nel contempo si andava sviluppando lo spirito nazionalista che, con le sue implica- zioni culturali e affettive, conduceva la pittura svizzera alla ricerca, entro le forme importate, di un’espressione pura- mente elvetica che assunse presto carattere popolare, ostile a ogni «estremismo» stilistico o tematico. I turbamenti po-

Storia dell’arte Einaudi litici della fine del sec. xviii e le guerre napoleoniche non provocarono rotture decisive nell’evoluzione artistica. Romanticismo Il romanticismo svizzero, che ha il suo pri- mo esponente in Josef-Anton Koch, un tirolese passato per la S prima di giungere a Roma, aveva profonde radici nella pittura barocca come in quella medievale – riscoperta attra- verso la cultura inglese – e proponeva di accostarsi con una comprensione nuova, fondata sulla sensibilità e l’emotività, alla natura, all’uomo, all’arte e alla religione. L’aspetto let- terario della produzione figurativa diverrà da allora pre- ponderante, e il ruolo di scrittori come Pestalozzi, R. Toepf- fer, Zschokke o G. Keller avrà grande importanza. Mentre nella S tedesca, malgrado le personalità di Ludwig Vogel, Hieronymus Hess e Martin Disteli, la pittura era ancora sot- to il predominante influsso di Wolf, a Ginevra si sviluppò con i primi romantici una scuola originale che contava per- sonaggi come Wolfgang Adam Toepffer, Jacques Laurent Agasse, pittore il cui talento fu assai apprezzato a Londra (Ritratto di F. S. Audéoud-Fazy, ante 1800: Ginevra, Musée d’Art et d’Histoire), Firmin Massot e soprattutto Léopold Robert, il piú celebre romantico svizzero nella vita e nell’ar- te (i Briganti sorpresi, 1824). Il preraffaellismo (Sébastien Gutzwiller, Daniel Albert Freudweiler, Johann Caspar Schinz) produsse un tipo di pit- tura idealistica e allegorica i cui migliori esponenti furono Charles Gleyre, il piú vicino a Ingres dei pittori svizzeri (Saffo: Losanna, mba), Ernst Stückelberg e il visionario «wa- gneriano» (a detta di Focillon) Arnold Böcklin, con Füssli e Hodler il pittore piú notevole dell’Ottocento nazionale (la Peste, 1898: Basilea, km). Infine il realismo, nei suoi vari orientamenti, fu di gran lun- ga il movimento piú fecondo in S dove trovò poco riscontro l’impressionismo. Tra gli innumerevoli pittori di questa ge- nerazione, François Diday, Alexandre Calame e la sua scuo- la (Tempesta a la Handeck, 1838: Museo di Ginevra), non- ché gli intimisti Barthélemy Menn (Una valle nell’Ain: ivi), François Bocion e Pierre Pignolat per la S romanda; nella S tedesca Frank Buchser, paesaggista dal tocco «impressioni- sta» (la Scuola dei cappuccini, 1864-71: Solothurn, sm) e Al- bert Anker. Le opere divisioniste di Giovanni Segantini introdussero in S qualche elemento, a livello puramente tecnico, dell’im-

Storia dell’arte Einaudi pressionismo; elementi ben presto ripresi, ma modificati per influsso dei pittori di Pont-Aven, da Giovanni Giacometti, Cuno Amiet e Augusto Giacometti. Quanto a Ferdinand Hodler, egli riassume da solo l’intera pittura svizzera del sec. xix. Solitario e mistico, le sue prime prove maturano da un naturalismo applicato al gusto Jugendstil (la Notte, 1890-91: Berna, km); in seguito approdò a un espressionismo olimpi- co, vigoroso e libero (Marignan, 1900: Zurigo, Schweizeri- sches Landesmuseum; Veduta sul Lemano e il Monte Bianco, 1917-18: Ginevra, Musée d’art et d’histoire). Il xx secolo L’esperienza Art Nouveau è chiaramente leg- gibile nelle opere di Félix Vallotton (Bagno una sera d’esta- te, 1892: Zurigo, kh) e nel disegno acuto e raffinato di René Auberjonois. Piú diffusa è, nella generazione di paesaggisti quali Alexandre Blanchet, Wilhelm Gimmi, Hans Berger, Maurice Barraud, la fedeltà all’insegnamento di Cézanne e del post-impressionismo, così come ebbero numerosi segua- ci le prime correnti del sec. xx. Tuttavia, se si escludono le figure di Paul Klee e di Alberto Giacometti, le correnti cen- trali dell’arte del sec. xx, dal cubismo al surrealismo, ebbe- ro sulla pittura svizzera un impatto piuttosto fiacco. Tra gli artisti di respiro piú internazionale sono da ricordare Otto Meyer-Amden, allievo di Hölzel, primo teorico della pittu- ra non oggettiva, Le Corbusier, Louis Soutter, poeta dolo- roso della miseria e della fede. (bz). La nascita nel 1916 a Zurigo del movimento Dada, vede ope- rare nella città quasi esclusivamente artisti stranieri (con l’ec- cezione di Sophie-Tauber-Arp). Zurigo svolse peraltro un ruolo importante anche negli anni Trenta, durante i quali artisti che in S seguivano le orme di De Stijl e del Bauhaus si unirono ai loro compatrioti surrealisti, creando un movi- mento che chiamarono l’Alliance. Dalla tendenza astratta di quest’ultimo gruppo si è originata l’esperienza concretista di cui Max Bill fu il massimo propagandista, seguito da Ca- mille Graeser, Fritz Glarner e Richard Paul Lohse. Dal 1945 il dibattito con le tendenze contemporanee internazionali è sempre piú serrato. L’astrattismo lirico è rappresentato da Lenz Klotz, Wilfrid Moser e Charles Rollier, a costruttivi- smo e l’arte concreta da Jean Baier e dagli artisti zurighesi Robert Muller, Bernhard Luginbühl, Jean Tinguely, Oskar Wiggli e Franz Eggenschwiller, piú noti come scultori. Ne-

Storia dell’arte Einaudi gli anni Sessanta si impone la nuova figurazione, legata alla Pop Art con Peter Stämpfli, o all’iperrealismo con Franz Gertsch e Alfred Hofkunst, o all’arte concettuale con Gian- fredo Camesi, Gérald Ducimetière, Hans Rudolf Huber, o ancora alla Body Art del genere transformer, proposta nel 1974 da Jean-Christophe Ammann al Museo di Lucerna, con i lavori di Urs Lüthi e Luciano Castelli. Fluxus è rappre- sentato da Ben Vautier e da John Armleder che dirige il grup- po Ecart a Ginevra. Dieter Roth, Anré Thomkins e Markus Raetz, specialisti di mutazione dei segni nell’arte del dise- gno, sono un punto di riferimento per molti artisti, prove- nienti dalle regioni di Lucerna e dell’Argovia. Al Pop, ma con riferimenti al montaggio di immagini tipico del surrea- lismo, appartiene Jean Lecoultre, mentre Rolf Iseli attinge fantasie antropomorfiche dalla sua tetra di origine, Saint-Ro- main, presso Beaune. Infine tre artisti romandi, Gérald Minkoff, Muriel Olesen e Jean Otth, partecipano regolar- mente agli incontri internazionali di video-art. (cg). Swanenburgh, Isaac Claesz van (Leida 1538 ca. - 1614). Si sa che nel 1582 fu membro del consiglio di Leida, nel 1586 scabino e nel 1596 borgomastro della città. Fu padre di Jakob Isaaksz (1571-1638), Willem Isaaksz (1581-1612) e Claes Isaaksz (1607/1608-1650), e mae- stro di Otto van Veen e di Jan van Goyen. Al Museo di Lei- da è conservata una serie di sei dipinti rappresentanti le di- verse fasi della Fabbricazione dei tessuti (1594), che dà un’idea dell’«arte municipale» in Olanda alla fine del sec. xvi. (jv). Swanevelt, Herman van (Woerden (Utrecht) 1600 ca. - Parigi? 1655). Soggiornò a Parigi nel 1623 e dal 1629 al 1641 a Roma, dove in prece- denza si era stabilito già nel 1627 nella stessa casa di Clau- de Lorrain; il gruppo di artisti olandesi (Poelenburgh, Breenbergh) che vi operava lo soprannominò l’«Eremita». Dopo il soggiorno in Italia fu attivo sia a Parigi che a Woer- den, sua città natale. Il curioso Paesaggio con Giacobbe che lascia la famiglia (L’Aja, Museo Bredius) è la sua prima ope- ra datata (1630). Il robusto ciuffo d’alberi e i riflessi del so- le giallastro sembrano preannunciare i dipinti piú tardi di Claude Lorrain. Una Veduta del Foro (Cambridge, Fitzwil- liam Museum), eseguita l’anno successivo, ispirò senza dub-

Storia dell’arte Einaudi bio a Lorrain una tela che egli dipinse intorno al 1636 (Pa- rigi, Louvre). Si è potuto recentemente attribuire a S un cer- to numero di paesaggi dipinti tra il 1630 e il 1640: la Fuga in Egitto, il Cristo giardiniere, il Cristo confortato dagli angeli, il Riposo durante la fuga in Egitto, Paesaggio con pescatori, il Ritorno dalla caccia (Roma, Gall. Doria-Pamphilj). In questi dipinti la natura – i fitti sottobosco e le montagne – assume un’imponenza monumentale sconosciuta ai paesaggisti olan- desi dell’epoca. Vennero forse realizzati sotto l’influsso del- le opere giovanili di Claude Lorrain, o comunque durante il periodo del comune soggiorno romano nel quale essi dovet- tero influenzarsi reciprocamente. Nei paesaggi della Gall. Doria predominano i colori bruni e giallastri; un colore splen- dente – dove prevale il verde prato – caratterizza invece le opere eseguite da S dal 1640 al 1650, periodo ricco di qua- dri firmati e datati: Paesaggio (1644: Museo di Grenoble), Paesaggio con roccia (1648: Amsterdam, Rijksmuseum), Pae- saggio boschivo (1649: Museo di Chambéry). Questi quadri piú tardi rivelano uno stile pittorico indipen- dente e una maggiore libertà nella resa degli alberi: ad esem- pio il fogliame è suggerito da chiazze maculate. Va notato pe- raltro, nonostante la maggior libertà pittorica, come la pro- duzione piú significativa di S resti quella degli anni Trenta, che insieme ai dipinti di vari Laer determinò il nuovo indiriz- zo nella pittura di paesaggio, evidente nel confronto tra le ope- re di Poelenburgh e di Breenbergh eseguite intorno al 1620, e i quadri di Both, Berchem e Asschin risalenti agli anni Qua- ranta. Citato nel 1644 a Parigi, S vi tornò nel 1651 e fu no- minato nello stesso anno membro dell’Académie Royale. Qual- che anno piú tardi (1646 ca. - 1647), partecipò insieme a Pa- tel e Asselijn, alla decorazione dell’Hôtel Lambert: Paesaggio, Paesaggio con viaggiatori (Parigi, Louvre). Non è possibile da- tare con esattezza i suoi notevoli paesaggi ad acquaforte. Di- segni di S si trovano al Louvre di Parigi, al Rijksmuseum, agli Uffizi, al bm di Londra, all’Albertina di Vienna nonché ad Haarlem (Museo Teyler) e a Parigi (Istituto olandese). (abl). Swart van Groningen, Jan (Giovanni da Frisa) (Groninga 1500 ca. - Anversa? 1560 ca.). Fu probabilmen- te allievo di Scorel. Visitò Venezia, poi tornò in Olanda, sta- bilendosi a Gouda verso il 1525. La sua opera, documenta-

Storia dell’arte Einaudi ta dal 1520 al 1540 ca., fu influenzata da Scorel e Luca di Leida. L’artista concede sempre nei suoi quadri un ruolo piuttosto importante al paesaggio, come dimostrano il Bat- tesimo di Cristo (Indianapolis, Museo) e la Predicazione di san Giovanni Battista (Monaco, ap). Per le ricche architetture, i costumi ricercati, i gioielli preziosi e i complicati drappeggi il Trittico dell’Adorazione dei Magi (Bruxelles, mrba) è ope- ra vicina al manierismo di Anversa. Verso il 1526 incise una serie di Cavalieri turchi che fu edita ad Anversa, dove S la- vorò probabilmente dal 1522, illustrando anche, con Luca di Leida, una Bibbia pubblicata da Lucas Vosterman. (jv). Swebach, Jacques-François, detto Swebach-Desfon- taines (Metz 1769 - Parigi 1823). Fu allievo del padre, Edouard (pittore di scene militari) e, a Parigi, di Michel Hamon-Du- plessis. Collaborò alla serie dei Quadri storici della Rivolu- zione (pubblicata nel 1802 presso Auber) e alla decorazione della Malmaison (Corsa nei dintorni di Longchamp, 1800: Montpellier, mba). Fu nominato primo pittore della Mani- fattura di Sèvres (1802-13) e chiamato a San Pietroburgo (1815-20) da Alessandro I. Realizzò abili pastiches da Wouwerman; rivale di Demarne e di Boilly, fu brillante pae- saggista. Sue opere sono conservate nei musei di Digione (la Scaramuccia), Gray (Caccia a cavallo), Metz (Scena militare entro un paesaggio), Montpellier (Veduta da place de l’Etoi- le), Tolosa (il Cocchio, 1820), nonché a Parigi (Louvre: So- sta di cavalieri; Caccia a cavallo; Museo Carnavalet: Profana- zione di una chiesa durante la Rivoluzione), e a Versailles (Ac- campamento di Saint-Omer sotto il comando del principe di Condè).Disegni e acquerelli sono conservati presso i musei di Grenoble e Sèvres, e a Parigi (Louvre e Museo Carnava- let). Il figlio Bernard-Edouard (Parigi 1800 - Versailles 1870) dipinse, come il padre, scene di genere e scene militari (la Spia, 1822: Besançon, mba). È conosciuto anche come inci- sore (Disavventura durante la caccia, 1835). (cc). Sweerts, Michael (Bruxelles 1624 - Goa (India) 1664). Vicino tanto alla tra- dizione fiamminga che a quella olandese, è un tipico rap- presentante di quell’ambiente di artisti oltremontani attivi

Storia dell’arte Einaudi nella Roma del sec. xvii e in gran parte gravitanti intorno al gruppo dei bamboccianti. Infatti il nome di S compare sin dal 1646 quale membro associato dell’Accademia di San Lu- ca a Roma e, regolarmente dal 1646 al 1651, negli archivi di Santa Maria del Popolo come abitante a via Margutta. Il pit- tore dovette peraltro abbandonare l’Italia (dopo il 1654?), quando nel 1656 gli venne proposto di dirigere a Bruxelles una scuola di disegno, incarico che S sembra aver accettato. Nel 1659 risulta accolto nella gilda dei pittori della città, al- la quale lasciò nel 1660 un Autoritratto (esiste anche un suo Autoritratto giovanile agli Uffizi di Firenze). L’anno seguente incontrò ad Amsterdam un gruppo di lazariti francesi e S, che conduceva una vita molto religiosa – secondo le testi- monianze dei suoi contemporanei egli non mangia «carne, digiuna tutti i giorni e dona tutti i suoi beni ai poveri» –, si propose di entrare nell’ordine dei missionari delle nuove ter- re. Raggiunto infatti monsignor Pallu a Parigi nel novembre 1661, partì con lui da Marsiglia nel gennaio 1662, in qualità di fratello laico. Dal luglio 1662 però, in una lettera scritta da Tabriz (Persia), Pallu lamentava l’umore di S, in conti- nuo disaccordo coi compagni di viaggio, sostenendo che l’ar- tista non era uomo da intraprendere una simile impresa. Do- po una rottura divenuta inevitabile, S si recò presso i Ge- suiti di Goa, appunto ostili a Pallu. Si ignora la causa della sua morte. Va notato che S non sembra aver cessato di di- pingere durante i suoi anni di missione. La sua prima formazione è tuttora ignota, poiché le opere piú antiche conosciute risalgono già al periodo italiano (Sol- dati che giocano a dadi, 1645 o 1649: Parigi, Louvre; Dise- gnatori: Rotterdam, bvb), e attestano semplicemente una per- fetta conoscenza del genere di Pieter van Laer e, in minor misura, di Cerquozzi e di Miel, pittori attivi a Roma prima dell’arrivo di S. Il pittore rimarrà fedele a uno stile e a te- matiche ben codificabili fin nella sua tarda produzione an- che se nel periodo di Bruxelles e in Olanda subirà un ripen- samento nell’evoluzione stilistica. Soggetti da lui favoriti so- no le lezioni di disegno di giovani artisti davanti a pezzi antichi, che sembrano giustificare in anticipo l’attività di S a Bruxelles a capo di un’accademia (Amsterdam, Rijksmu- seum; Rotterdam, bvb; Detroit, Institute of Asts; Haarlem, Museo Frans Hals), scene di giocatori (Parigi, Louvre; Am-

Storia dell’arte Einaudi sterdam, Rijksmuseum; coll. Thyssen), tipi popolari italiani trattati con un realismo grave (Mendicante e Filatrice: Roma, Gall. Capitolina; la Bella alla toeletta, Vecchi bevitori: Roma, Accademia di San Luca; Filatrice: Museo di Gouda; Madre che spoglia iI suo bambino: Strasburgo, mba). Si citano inol- tre alcune grandi scene di gruppo come la serie delle Cinque opere di misericordia al Rijksmuseum di Amsterdam e so- prattutto quelle ambiziose e strane composizioni che sono i Bagnanti di Strasburgo, i Lottatori di Karlsruhe, la Peste di Atene (già nella coll. Cook a Richmond), forse da porte in relazione con progetti classicheggianti nutriti durante il pe- riodo di permanenza a Bruxelles. L’originalità di S, a parte gli eccezionali grandi dipinti ap- pena citati, sta nel suo uso di un chiaroscuro profondo e di colori attutiti e sottilmente raccordati, in particolare un blu freddo con variazioni raffinate di bruni e di grigi, che raffor- zano nel modo piú efficace quel realismo insieme desueto, grave e melanconico, che è caratteristico di S e che risulta di grande fascino poetico. L’opera del pittore è stata ricon- siderata sulla scorta della rivalutazione critica dei «pittori della realtà» insieme a La Tour, Le Nain, Caravaggio. Nell’ultimo periodo, rinunciando ai soggetti piú tipici del periodo italiano, S accentuò ancor piú l’aspetto tecnico in alcune piccole teste infantili spesso in pendants (Stoccarda, sg; Rotterdam, bvb) e in affascinanti scene di genere (a Lu- becca; Parigi, Louvre), che lo riconducono alla migliore tra- dizione della pittura dei fijnschilders olandesi, collocandolo per una sorta di minuzia e delicatezza raggelata tra Dujar- din (richiamato dai sorprendenti ritratti grigiastri dell’Allen Memorial Museum di Oberlin e del Rijksmuseum di Am- sterdam) e Ter Borch (cui veniva attribuita la Mezzana e iI giovane, acquistato dal Louvre di Parigi nel 1967), tutto som- mato non lontano da Vermeer per la purezza quasi cristalli- na del colore, dalle tonalità rare e ricercate. (if). Szalay, Lajos (Örmezö 1909). Formatosi all’Accademia di Budapest (1927-35), dal 1946 vive all’estero. Soggiornò in Francia, poi insegnò in Argentina, e nel 1960 si trasferì negli Stati Uniti. Dal 1971 risiede a Parigi. La tensione espressiva dei primi disegni manifesta una profonda angoscia, progressi- vamente dominata in un’opera il cui complesso serba tutta-

Storia dell’arte Einaudi via un accento tragico e amaro. Le ultime realizzazioni dell’artista sono improntate dal surrealismo. S è rappresen- tato a Budapest (mng) e nei musei di Buenos Aires, Tu- cumán, New York (moma). La sua ultima retrospettiva si è tenuta a Budapest (mng) nel 1972. (dp). Szczuka, Mieczysłav (Varsavia 1898 - Orla Perç 1927). Formatosi alla Scuola di belle arti di Varsavia, inizia a dipingere verso il 1920 opere di carattere espressionista influenzate dal futurismo e dal dadaismo, prima di orientarsi – seguendo le teorie di Tatlin – verso il costruttivismo, di cui fu l’interprete principale in Polonia dal 1923. La sua ricerca, che combina istanze arti- stiche e sociali – fu simpatizzante del partito comunista po- lacco e redattore del giornale politico «Dzwignia» (Il le- vriero) –, lo porta a misurarsi con le arti applicate, con l’ar- chitettura, il cinema, la fotografia e la tipografia (mostra alla Gall. Der Sturm di Berlino, 1923). Tra i fondatori nel 1924 del gruppo e della rivista «Blok» (1924-1926) con la sua com- pagna Teresa Zarnowert, scultrice (Varsavia 1895 - New York 1950), e Henry Stažewsky, S andrà con gli anni sem- pre piú volgendosi alla conciliazione tra arte, produzione, tecnologia e impegno sociale, in linea con quanto andavano sperimentando gli artisti sovietici costruttivisti. La quasi to- talità della sua opera è andata dispersa durante la seconda guerra mondiale: il Museo di Łódê conserva alcuni suoi la- vori. (sr). Székely, Bertalan (Kolozsvár 1835 - Mátyasföld 1910). Formatosi a Kolozsvár, poi all’Accademia di Vienna, fu in seguito allievo di Piloty a Monaco (1859) e operò a Parigi e nei Paesi Bassi (1863). Dopo aver trattato soggetti di storia secondo il gusto ro- mantico (Re Luigi II trovato morto sul campo di battaglia di Mohács, 1860), inclinò verso uno stile accademico, affron- tando la composizione monumentale negli affreschi della Cattedrale di Pécs (1887-89) e della chiesa di Re Mattia a Budapest (1890-96). I suoi abbozzi di affreschi per la piaz- zaforte di Vajdahunyad (1900-902) e il bastione dei Pesca- tori di Budapest non vennero mai realizzati. S fu inoltre il- lustratore, pittore di genere (Strenna), autore di ritratti (Lé-

Storia dell’arte Einaudi da Nagy; Autoritratto) e di paesaggi (Veduta di Szada).In que- sti ultimi si accosta ai primi impressionisti per come svilup- pa il plein air.Si è anche dedicato all’insegnamento artisti- co. (dp). Szenes, Arpad (Budapest 1897 - Parigi 1985). Cominciò giovanissimo a di- pingere e a disegnare. Dal 1918 frequentò l’Accademia libe- ra di Budapest: qui fu allievo di Rippl Ronaï, amico dei na- bis, che lo introdusse all’arte francese e si interessò ai movi- menti d’avanguardia che penetravano in città con le immagini dei manifesti cubisti, futuristi e costruttivisti. Dopo aver viaggiato in Germania (dove vide le opere di Klee, di Kan- dinsky e del Bauhaus) e in Italia (Roma, Firenze), nel 1925 si stabilì a Parigi e studiò all’Académie de la Grande Chau- mière, incontrandovi nel 1929 Maria Helena Vieira da Sil- va, che sposò l’anno successivo. In contatto con i surrealisti, Miró, Ernst, Tanguy, non si unì al loro gruppo. Le opere di questo periodo oscillano tra una figurazione sottile e discre- ta (Armonium, 1932: Parigi, coll. priv.), e un astrattismo sim- bolico (Corsa di tori, 1935). Esule dal 1940 al 1947 a Rio de Janeiro, tornato a Parigi, si indirizzò sempre piú verso la non figurazione (serie dei Banchetti, 1948-52, e delle Conversa- zioni, 1947-53). Tale disciplina si moderò in seguito per espri- mere una profonda, ma sobria, liricità, filtrata, quasi fissata di sfuggita da una pennellata insieme leggera e sicura, con una gamma cromatica in cui dominano gli ocra, i bianchi, i grigi (Calcare, 1956: Parigi, coll. priv.). La sua sensibilità tro- va compiuta espressione nei guazzi esposti per la prima vol- ta nel 1960 alla Gall. des Cahiers d’art di Parigi o nelle tem- pere su carta. Ha esposto regolarmente presso Jeanne Bucher, ed ha assunto la nazionalità francese nel 1956.È rappresen- tato in particolare a Parigi (mnam) e nei principali musei fran- cesi, a Zurigo (kh), New York (Guggenheim Museum) e Rio de Janeiro (kh). Gli è stata dedicata nel 1971-72 un’impor- tante retrospettiva, presentata successivamente a Rouen, Rennes, Lille, Orléans, Digione e Lisbona. (sr). Szentendre, scuola di Denominazione conferita a un gruppo di pittori ungheresi che attorno al 1929 si riunirono intorno a Jenö Barcsay. Di ispirazione costruttivista, la scuola accoglieva ampiamente

Storia dell’arte Einaudi altre correnti moderne, da una certa tendenza decorativa al surrealismo. I suoi caratteri vennero sviluppati da pittori re- sidenti a S (J. Ilosvay Varga, P. Mihaltz, L. Vajda, D. Kor- niss) o provenienti da altre regioni del paese (J. Gadányi, Géza Bene, Imre Amos). La gamma delle realizzazioni va dall’arte figurativa di Ilosvay Varga alle composizioni di Lajos Vajda e Dezsö Korniss, vicine all’astrattismo. La scuo- la di S ha proseguito le tendenze sostenute dal gruppo degli Otto e dagli Attivisti. La città ospita ancor oggi una vasta colonia di pittori. (dp). Szinyei-Merse, Pál (Szinyeujfalu 1845 - Jernye 1920). Allievo del pittore Me- zei, studiò poi a Monaco sotto la guida di Wágner e di Pi- loty e conobbe Böcklin.Il suo talento, liberandosi dall’ascen- dente accademico, si afferma rapidamente, specie nei ritratti realisti che esegue durante i periodi passati in famiglia (Tsig- mond Szinyei-Merse, 1867; István e Béla, 1868). Due tele (Biancheria ad asciugare, L’altalena) realizzate nell’estate del 1869, nel momento in cui Monet e Renoir dipingevano la Grenouillère, annunciano già i dati essenziali dell’impres- sionismo. Solo e senza incoraggiamenti a Monaco, S-M esi- tava peraltro a perseverare sulla via che aveva aperto. Il ri- tratto della sorella Ninon, nel 1870, e la Giovane coppia so- no, in realtà, opere di ripensamento. Ma il suo dipinto fondamentale, Colazione sull’erba (1873: Budapest, mng) costituisce una soluzione riuscita e specifi- camente ungherese dei problemi della pittura all’aperto, in- dipendente dall’impressionismo francese. Questo capolavo- ro suscitò in patria la generale indignazione, e S-M scorag- giato, si ritirò a Jernye e dipinse soltanto qualche ritratto della moglie (Donna vestita di viola, 1874). Attorno al 1882, l’artista cercò di inserirsi nei movimenti contemporanei. Due mostre del pittore (Vienna e Budapest) ebbero nuovamente accoglienze sfavorevoli. Dopo qualche studio all’aperto (Fiu- me, 1883; La neve si scioglie, 1884), S-M abbandonò la pit- tura per ritornarvi solo nel 1894, quando un giovane pittore della scuola della Pianura ammirò la sua Colazione sull’erba. Le sue opere migliori vennero esposte durante i festeggia- menti per il millenario ungherese (Budapest 1896). I giova- ni pittori di Nagybánya, che conoscevano gli impressioni-

Storia dell’arte Einaudi sti francesi, scoprirono allora queste precoci realizzazioni dell’impressionismo ungherese. Le mostre si moltiplicarono (Parigi 1900; Monaco 1901; Berlino 1910; Roma 1911) e il pittore ottenne tardivi riconoscimenti. La piú parte della produzione di S-M si trova nella mng di Budapest, tranne alcune tele conservate in collezioni americane (Madre con bambino, 1869; Padiglione dei bagni al lago di Starnberg, 1872). Condividendo i problemi degli impressionisti fran- cesi, S-M era pervenuto a risolverli impiegando mezzi espres- sivi del tutto personali. La sua arte è alla radice della pittu- ra ungherese contemporanea. Sulla strada di S-M prosegui- rono i pittori di Nagybánya e Postnagybánya. (dp). Szobotka, Imre (Zalaegerszeg 1890 - Budapest 1961). Formatosi nell’Acca- demia di belle arti di Budapest, si recò a Parigi e aderì al cu- bismo. Internato durante la prima guerra mondiale in quan- to cittadino di un paese nemico, realizzò illustrazioni ad ac- querello per l’Annuncio a Maria di Paul Claudel. Tornato in Ungheria divenne membro della scuola di Postnagybánya. Il suo stile, caratterizzato per lungo tempo dalle forme geo- metriche del primo periodo cubista, maturò definitivamen- te per influsso della pittura di Szönyi. S è rappresentato so- prattutto a Budapest (mng). (dp). Szolnok Seguendo l’esempio del pittore austriaco A. von Pettenko- fen, alcuni artisti ungheresi frequentarono, nella seconda metà del sec. xix, S (città ad est di Budapest), trattando sog- getti di genere popolare, senza che tuttavia ne risultasse uno stile comune. I soli Lajos Deák-Ébner, transfuga di Barbi- zon, e Sándor Bihari si accomunano per il loro naturalismo sottile, appena toccato dalla tecnica e dalle intenzioni espres- sive proprie della pittura all’aperto, L’idea di creare una co- lonia di artisti si affacciò attorno al 1889, e la scuola si co- stituì nel 1901. I rappresentanti piú noti (accanto agli arti- sti già citati, vi si contano K. Kernstok, J. Vaszary e altri) furono Adolf Fényes, che giunse a S nel 1903 e contribuì ad arricchire il programma espressivo della colonia, legato ai te- mi paesaggistici e rurali della vita della pianura ungherese, con un interesse per gli aspetti piú umili e duri della vita con- tadina, e J. Mednyánszky piú incline a un sentimento al-

Storia dell’arte Einaudi trettanto poetico della natura ma tendente al drammatico. L’importanza della colonia diminuì dopo il 1910 e lo spiri- to di questa scuola venne ripreso dalla scuola della Pianura. Dopo il 1955, la sua attività si riallaccia ormai alle tenden- ze pittoriche contemporanee. (dp + sr). Szönyi, Istvàn (Ujpest 1894 - Zébégény 1961). Fu allievo di K. Ferenczy nell’Accademia di belle arti di Budapest; dopo la mostra del 1901 esercitò sul suo ambiente un influsso considerevole. Nato nel quadro dell’impressionismo di Nagybánya, il suo stile aveva assimilato il costruttivismo delle opere di Uitz. S segna l’inizio della scuola di Postnagybánya. Dopo alcune grandi composizioni di nudi monocromi, a carattere plasti- co e monumentale (Dopo il bagno, 1921: Coll. Priv.), nelle quali è talvolta percepibile lo studio attento di Rembrandt, si stabilisce a Zébégény, in riva al Danubio, e qui realizza una serie di tele piú intime (Mia moglie ed io, 1924: coll. priv.; Susanna col suo cavalluccio di legno, 1927: coll. priv.; Serata a Zébégény, 1928: coll. priv.). Il 1929 segna l’inizio di una fase di transizione, caratterizzata da colore piú chiaro, forme piú secche e impegno maggiore nella costruzione (Mia madre, 1930: Budapest, mng). Tale fase si conclude col Vi- tello in vendita (1933: ivi). La sua opera piú nota, Sera,di- pinta nel 1934 (ivi), manifesta nuovi mezzi espressivi. Sor- prendenti colori soppiantano le tinte cupe dei primi dipin- ti. Scompare il senso plastico della forma, velato dalla pittoresca scomposizione dei volumi galleggianti. Gli svi- luppi successivi dell’arte di S confermeranno semplicemen- te questo placido senso di contemplazione, con una evolu- zione senza pentimenti (Primavera, 1935: coll. priv.; Pan- china in giardino, 1934: coll. priv.; Il Danubio è azzurro, 1954: coll. Priv.; Pastorella, 1957: coll. priv.). Altrettanto importante è la sua opera grafica, che segna in Ungheria una nuova fioritura del disegno. (dp). Sztuka Società di artisti polacchi fondata a Cracovia nel 1897 co- me reazione contro l’arte accademica e soprattutto contro il sistema rigido delle mostre in Polonia. Fondatori ne furono T. Axentowicz, J. Chelmonski, J. Malczewski, J. Mehoffer,

Storia dell’arte Einaudi A. Piotrowski, J. Stanislawski, L. Wyczólkowski, S. Wys- piaƒski, cui si aggiunsero J. Falat e W. Tetmajer. La prima mostra (27 maggio 1897) venne organizzata a Cracovia. Le opere dei dieci espositori rappresentavano le svariate ten- denze dell’arte polacca alla fine del secolo: impressionismo, simbolismo, arte decorativa e di carattere espressionista. Se- condo il programma degli artisti, si trattava di elevare il li- vello dell’arte polacca e piú precisamente di divulgare l’arte nuova in Polonia per poi diffonderne i risultati all’estero. Quasi tutti gli artisti polacchi importanti della fine del sec. xix e dell’inizio del xx divennero membri di quest’associa- zione. Nel 1950 venne organizzata la 101ª mostra, comme- morativa, della S. (wj).

Storia dell’arte Einaudi Elenco degli autori e dei collaboratori.

aa Andrea Augenti abc Antonio Bonet Correa abl Albert Blankert abo Alan Bowness acf Anna Colombi Ferreti ach Albert Châtelet acl Annie Cloulas acs Arlette Calvet-Sérullaz ad Anne Distel ada Antonietta Dell’Agli adg Arianna Di Genova adl Alessandro Della Latta aeps Alfonso Emilio Pérez Sánchez afh Antoinette Faÿ-Hallé ag Andreina Griseri agc Alessandra Gagliano Candela agu Antonio Guerreschi alb Agnès Angliviel de La Baumelle amm Anna Maria Mura an Antonio Natali anb Annamaria Bava ap Alessandra Ponente apa Alfonso Panzetta app Anne Prache-Paillard ar Artur Rosenauer are Alessandra Restaino as Antoine Schnapper asb Antonella Sbrilli asp Agnès Spycket az Adachiara Zevi aze Andrea Zezza

Storia dell’arte Einaudi bdm Brigitte Pérouse de Montclos bdmo Bernard de Montgolfier bl Boris Lossky bp Béatrice Parent bt Bruno Toscano bz Bernard Zumthor ca Célia Alegret came Carlo Melis car Clelia Arnaldi cb Camilla Barelli cc Claire Constans ccv Claudia Cieri Via cd Christian Derouet cg Charles Goerg chmg Chiara Maraghini Garrone chp Charles Pietri cm Claire Marchandise co Carla Olivetti cpe Claude Pecquet cpi Claudio Pizzorusso csm Costanza Segre Montel cv Carlo Volpe da Dimitre Avramov db Davide Banzano dc Davide Cabodi dg Danielle Gaborit dk Dirk Kocks dp Denis Pataky dr Daniel Robbins dv Dora Vallier ea Egly Alexandre eb Evelina Borea ebi Enza Biagi eca Elisabetta Canestrini eg Elizabeth Gardner ejpse Elise J. P. Seguin elr Elena Rama em Eric Michaud enl Enrica Neri Lusanna er Elisabeth Rossier erb Elena Rossetti Brezzi esp Ettore Spalletti

Storia dell’arte Einaudi et Emilia Terragni fa François Avril fb Federica Bocci fc Françoise Cachin fca Francesca Castellani fcc Francesca Campagna Cicala fd’a Francesca Flores D’Arcais fdo François Donatien ff Fiorella Frisoni fir Fiorenza Rangoni frm Frieder Mellinghoff fv Françoise Viatte ga Götz Adriani gb Germaine Barnaud gbé Gilles Béguin gbo Geneviève Bonnefoi gc Giuseppe Carità gf Giorgio Fossaluzza gh Guy Habasque gib Giorgina Bertolino gibe Giordana Benazzi gil Giovanni Leoni gl Geneviève Lacambre gmb Georges M. Brunel gp Giovanni Previtali gr Giovanni Romano gra Giovanna Ragionieri grc Gabriella Repaci-Courtois gsa Giovanna Sapori gv Germain Viatte g+vk Gustav e Vita Maria Künstler hb Henrik Bramsen hbf Hadewych Bouvard-Fruytier hbs Helmut Börsch-Supan hl Hélène Lassalle hm Helga Muth hn Henry Nesme hs Hélène Seckel ht Hélène Toussaint hz Henri Zerner ic Isabelle Compin

Storia dell’arte Einaudi ij Ionel Jianou ivj Ivan Jirous e Vera Jirousova jaf José-Augusto França jbr Jura Brüschweiler jd Jacques Depouilly jdlp Joaquín de la Puente jf Jacques Foucart jfj Jean-François Jarrige jg Jacques Gardelles jgc Jean-G. Copans jh John Hayes jhm Jean-Hubert Martin jho Jaromir Homolka jhr James Henry Rubin jjl Jean-Jacques Lévêque jl Jean Lacambre jle Jules Leroy jmu Johann Muschik jns John Norman Sunderland jpb Jean-Pierre Badelon jpc Jean-Pierre Cuzin jpm Jean-Patrice Marandel jro Jean-René Ostiguy jv Jacques Vilain jw Jacques Wilhelm ka Katarina Ambrozic law Lucie Auerbacher-Weil lba Liliana Barroero lbc Liesbeth Brandt Corsius lbo Luisa Borio lcv Liana Castelfranchi Vegas ldm Lella di Mucci ld’a Laura D’Agostino lfs Lucia Fornari Schianchi lh Luigi Hyerace lm Laura Malvano l° Leif \stby mal Monica Aldi mas Marcel-André Stalter mast Margaret Alison Stones mat Marco Tanzi mba Michele Bacci

Storia dell’arte Einaudi mbé Marie Bécet mbi Margaret Binotto mc Marco Collareta mca Marco Cardinali mcb Maria Carmela Bertò mcm Maria Celeste Meoli mcv Maria Cionini Visani md Marcel Durliat mdb Marc D. Bascou mdc Marco di Capua mdp Matias Diaz-Padron mfb Marie-Françoise Briguet mfe Massimo Ferretti mfv Marianne Fuentes-Villegas mgm Maria Grazia Mesina mha Madeleine Hallade mhi Michael Hirst mk Michaël Kitson mlbb Marie-Laure Besnard-Bernardac mlc Maria Letizia Casanova mn Maria Nadotti mni Mara Nimmo mnv Monique Le Noan-Vizioz mo Marina Onesti mp Mario Pepe mpd Madeleine P. David mpe Maria Perosino mr Marco Rosci mri Monique Ricour mrv Maria Rosaria Valazzi mt Miriam Tal mtf Marie-Thérèse de Forges mtmf Marie-Thérèse Mandroux-França mtr Maria Teresa Roberto mvc Maria Vera Cresti mwb Michael W. Bauer nb Nicole Barbier nmi Nicoletta Misler nr Nicole Reynaud ns Nicola Spinosa ok Old≈ich Kulìk

Storia dell’arte Einaudi ol Olivier Lépine pa Paolo Ambroggio pdbe Patrizia di Benedetti pfo Paolo Fossati pg Paul Guinard pgt Piera Giovanna Tordella php Pierre-Henri Picou pr Pierre Rosenberg prj Philippe Roberts-Jones pv Pierre Vaisse pz Patrizia Zambrano rbm Robert e Bertina Manning rca Riccardo Cavallo rco Raffaella Corti rdg Rosanna De Gennaro rf Rossella Fabiani rg Renzo Grandi rl Renée Loche rla Riccardo Lattuada rm Robert Mesuret rn Riccardo Naldi rp René Passeron rpa Riccardo Passoni rr Renato Roli rs Roy Strong rse Renata Serra rt Rossana Torlontano rvg Roger van Gindertael rvp Rosalia Varoli-Piazza sag Sophia A. Gay sb Sylvie Béguin sba Simone Baiocco sbo Silvia Bordini sc Sabine Cotté sca Stefano Carboni scas Serenella Castri sde Sylvie Deswarte sdn Sirarpie Der Nersessian sgh Silvia Ghisotti sic Simonetta Castronovo sk Stefan Kosakiewicz sl Sergio Lombardi

Storia dell’arte Einaudi sls Serge L. Stromberg so Solange Ory sr segreteria di redazione sri Simona Rinaldi sro Serenella Rolfi ss Sandro Scarrocchia ssk Salme Sarajas-Korte sst Stefania Stefanelli svr Sandra Vasto Rocca szu Stefano Zuffi tb Thérèse Burollet tc Thérèse Charpentier tf Tiziana Franco tp Torsten Palmer vb Victor Beyer vc Valentina Castellani ve Vadime Elisseeff wh Wulf Herzogenrath wj Wladyslawa Jaworska wl Willy Laureyssens wv William Vaughan wz Walter Zanini xm Xénia Muratova yt Yvette Taborin

Storia dell’arte Einaudi Elenco delle abbreviazioni.

Accademia Gallerie dell’Accademia, Venezia Accademia Galleria dell’Accademia, Firenze ag Art Gallery Albertina Graphische Sammlung Albertina, Vienna am Art Museum, Museum of Art, Musée d’art, Museu de Arte, Muzeul de arta am Altes Museum, Berlino Ambrosiana Pinacoteca Ambrosiana, Milano ap Alte Pinakothek, Monaco di Baviera ba Bibliothèque de l’Arsenal, Parigi bc Biblioteca civica, Biblioteca comunale bifa Barber Institute of Fine Arts, Birmingham bl British Library, Londra bm British Museum, Londra bm Biblioteca municipale bn Biblioteca nazionale Brera Pinacoteca di Brera, Milano bv Biblioteca Vaticana, Roma bvb Museum Boymans-van Beuningen, Rotterdam Capodimonte Museo e Gallerie nazionali di Capodimon- te, Napoli Carrara Galleria dell’Accademia di Carrara, Ber- gamo Castello Museo del Castello Sforzesco, Milano Castelvecchio Museo di Castelvecchio, Verona Cloisters The Metropolitan Museum of Art - The Cloisters, New York cm Centraal Museum der Gemeente Utrecht, Utrecht enba Ecole Nationale des Beaux-Arts, Louvre, Pa- rigi

Storia dell’arte Einaudi Escorial Monasterio de San Lorenzo de El Escorial (prov. di Madrid) Fogg Museum William Hayes Fogg Art Museum, Har- vard University, Cambridge, Mass. gam Galleria d’Arte Moderna gg Gemäldegalerie gm Gemeentemuseum, L’Aja gn Galleria Nazionale gnaa Galleria nazionale d’arte antica, Roma gnam Galleria nazionale d’arte moderna, Roma gnm Germanisches Nationalmuseum, Norim- berga gnu Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia hm Historisches Museum kh Kunsthalle, Kunsthaus kk Kupferstichkabinett, Musei Statali, Ber- lino km Kunstmuseum, Museum für Kunst, Kun- sthistorisches Museum kmsk Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, Anversa knw Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen, Düsseldorf Kröller-Müller Rijksmuseum Kröller-Müller, Otterlo (Olanda) ma Museo Archeologico maa Museu Nacional de arte antiga, Lisbona mac Museo Español de Arte Contemporáneo, Madrid mac Museo d’arte contemporanea mac Museo de arte de Cataluña, Barcellona mac Museu Nacional de arte contemporânea, Lisbona mac Museum van Hedendaagse Kunst, Gand mac Museo de arte contemporânea, San Paolo del Brasile mad Musée des arts décoratifs, Parigi mam Museo d’arte moderna, Musée d’art mo- derne, Museo de arte moderno mamv Musée d’art moderne de la ville de Paris, Pa- rigi

Storia dell’arte Einaudi Marciana Biblioteca Nazionale Marciana, Venezia Mauritshuis Koninklijk Kabinet van Schilderijen (Mau- ritshuis), L’Aja mba Musée des Beaux-Arts, Museo de Bellas Ar- tes mbk Museum der bildenden Künste, Lipsia mc Museo Civico, Musei Civici mfa Museum of Fine Arts mm Moderna Museet, Stoccolma mm Museo Municipale, Musée Municipal mma Metropolitan Museum of Art, New York mmb Museum Mayer van den Bergh, Anversa mn Museo Nazionale mnam Musée national d’art moderne, Centre natio- nal d’art et de culture Georges Pompidou, Pa- rigi mng Magyar Nemzeti Galéria, Budapest mo Musée d’Orsay, Parigi moca Museum of Contemporary Art, Los Angeles moma Museum of Modern Art, New York mpp Museo Poldi Pezzoli, Milano mrba Musées Royaux des Beaux-Arts, Bruxelles msm Museo di San Marco, Venezia Museo Wilhelm-Lehmbruck-Museum, Duisburg Museo Musée de peinture et de sculpture, Gre noble Museo Groninger Museum voor Stad en Lande, Groninga Museo Museo provinciale (sez. Archeologica e Pi- nacoteca), Lecce Museo Musée-Maison de la culture André Mal- raux, Le Havre Museo Malmö Museum, Malmö Museo Westfälisches Landesmuseum für Kunst und Kulturgeschichte, Münster Museo Musée Saint-Denis, Reims Museo Musée d’Art et d’Industrie, Saint-Etienne Museo Musée de l’Hôtel Sandelin, Saint-Omer Museo Museo di storia ed arte, Sondrio Museo Museo Provinciale d’arte, Trento Museo Ulmer Museum, Ulm

Storia dell’arte Einaudi mvk Museum für Völkerkunde und Schweize- risches Museum für Volkskunde Basel, Ba- silea ncg Ny Carlsberg Glyptotek, Copenhagen ng Nationalgalerie, National Gallery, Národní Galerie nm Nationalmuseum, National Museum, Ná- rodní Muzeum nmm National Maritime Museum, Greenwich np Neue Pinakothek, Monaco di Baviera npg National Portrait Gallery, Londra og Österreichische Galerie, Vienna pac Padiglione d’arte contemporanea, Milano pc Pinacoteca Comunale, Pinacoteca Civica Petit-Palais Musée du Petit Palais Pitti Galleria Palatina, Palazzo Pitti, Firenze pml Pierpont Morgan Library, New York pn Pinacoteca Nazionale pv Pinacoteca Vaticana, Città del Vaticano, Roma ra Royal Academy, Londra sa Staatliche Antikensammlungen, Monaco di Baviera Sans-Souci Staatliche Schlösser und Garten, Potsdam sb Stadtbibliothek sb Bayerische Staatsbibliothek, Monaco di Baviera sg Staatsgalerie, Staatliche Galerie sgs Bayerische Staatsgemäldesammlungen, Monaco di Baviera ski Städelsches Kunstinstitut, Francoforte sks Staatliche Kunstsammlungen, Städtische Kunstsammlungen slm Schweizerisches Landesmuseum, Zurigo sm Staatliches Museum, Städtisches Museum, Stedelijk Museum, Staatliche Museen sm, gg Staatliche Museen Preussischer Kulturbe- sitz, Gemäldegalerie, Berlino (Dahlem) smfk Statens Museum for Kunst, Copenhagen szm Szépmüvészeti Mùzeum, Budapest

Storia dell’arte Einaudi vam Victoria and Albert Museum, Londra wag Walters Art Gallery, Baltimore wag Walker Art Gallery, Liverpool wag Whitworth Art Gallery, Manchester wrm Wallraf-Richartz-Museum, Colonia Yale Center Yale Center for British Art, New Haven, Conn.

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