Le Indagini E L'individuazione Degli Imputati

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Le Indagini E L'individuazione Degli Imputati LE INDAGINI E L’INDIVIDUAZIONE DEGLI IMPUTATI Parallelamente all’attività di acquisizione di elementi di prova generica, legati anche all’attività dei consulenti tecnici, si svilupparono le indagini volte all’identificazione dei responsabili della strage. Gli effetti devastanti dell’attentato, l’organizzazione e la realizzazione pratica dello stesso non erano ritenute dagli inquirenti opera né di un singolo, né di pochi soggetti, ma di un ben definito gruppo di persone che si muoveva sulla base di compiti prestabiliti e ben coordinati fra loro. Infatti, l’obiettivo da colpire era il dr Falcone, che rivestiva fuori dalla Sicilia un ruolo di elevato profilo istituzionale, ma che, anche e soprattutto in virtù dell’impegno in precedenza profuso proprio nell’Isola nella lotta alla criminalità organizzata, era sottoposto a misure di protezione, che si incentravano nell’uso di autovetture blindate per gli spostamenti e la tutela personale ad opera di agenti del servizio scorte. Tali misure venivano predisposta con forme sempre più rigorose, in dipendenza dell’aumento del rischio cui il magistrato andava incontro con il passare del tempo. Pertanto, per la loro evidenza e manifesta rilevabilità all’esterno, chiunque si fosse proposto di eliminare il dr Falcone aveva ben chiaro che per colpirlo era necessario predisporre un piano che tenesse conto e superasse le difficoltà che derivavano dall’esistenza della barriera di protezione creata intorno al magistrato, cui si aggiungeva, a causa dell’elevato ruolo istituzionale assunto presso il ministero di Grazia e Giustizia, il fatto che il predetto magistrato si era stabilito a Roma e tornava a Palermo solo di tanto in tanto. Non era pertanto semplice colpirlo, e ciò non solo per l’esistenza delle misure di protezione, ma anche per le difficoltà di localizzazione della presenza della vittima sul territorio siciliano. Era quindi evidente che il gruppo che si occupò della realizzazione dell’attentato doveva essere composto da un numero cospicuo di persone, fortemente radicato sul territorio ed in grado di colpire la vittima designata con mezzi idonei per superare il sistema di protezioni che la circondava. La fondatezza di tale assunto trovava conforto nelle medesime caratteristiche dell’attentato. Invero, sia la quantità di esplosivo utilizzata, che da subito si era capito date le dimensioni e la profondità del cratere, dovesse risultare elevata e di gran lunga superiore ad altre impiegate in fatti di analogo rilievo, che la ideazione, organizzazione e realizzazione del piano criminale, volto a colpire il bersaglio in movimento facendo letteralmente saltare un tratto di autostrada, erano circostanze che deponevano, da un lato, per una volontà ispiratrice che aveva accettato l’idea di un massacro, che poteva coinvolgere anche terzi completamente estranei, pur di raggiungere l’obiettivo prefissatosi di eliminare il magistrato a tutti i costi, e dall’altro, per la riconducibilità della paternità dell’esecuzione del disegno criminoso a persone che potevano approvvigionarsi o disporre di cospicue quantità esplosivo, avevano il controllo dei luoghi, ed erano quindi libere di muoversi e preparare l’attentato al riparo da controlli o interferenze esterne. Pertanto, gli inquirenti ricollegarono l’esecuzione della strage a soggetti appartenenti o comunque gravitanti intorno all’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra e su tale organizzazione si incentrarono le indagini svolte dal ROS e dalla DIA. Era notorio, infatti, che detto sodalizio aveva da tempo il controllo del territorio, ivi compreso quello ove si era verificata la strage, che dominava incontrastata, gestendo attività sia illecite che lecite. Inoltre, già in precedenza la mafia aveva colpito altri servitori dello Stato che si erano particolarmente distinti nell’attività di contrasto nei suoi confronti, realizzando attentati attraverso l’utilizzo di tecniche che si erano andate via via affinando nel tempo in dipendenza della difficoltà di raggiungere il bersaglio. * Lo spunto investigativo da cui presero le mosse le indagini svolte dagli inquirenti della DIA ebbe origine dalle indicazioni, collocabili intorno al settembre 1992, provenienti da Giuseppe Marchese, che poi sarebbe divenuto collaboratore di giustizia. Libro I Il Marchese, come primo segnale teso a dimostrare la serietà dell’intenzione di abbandonare Cosa Nostra, indicò agli inquirenti un gruppo di persone ben determinato che, sulla base della esperienza acquisita all’interno dell’organizzazione, era altamente probabile avesse avuto a che fare con la realizzazione dell’attentato: si trattava di Nino Gioé, Gioacchino La Barbera e un certo Santino Mezzanasca, identificato poi per Mario Santo Di Matteo. Sulla base di tali indicazioni gli investigatori della DIA concentrarono la loro attenzione sul paese di Altofonte e sulle persone indicate dal Marchese che da quel luogo provenivano e delle quali presero a seguire costantemente gli spostamenti. Inoltre, a seguito delle convergenti indicazioni provenienti da Baldassare Di Maggio, la cui collaborazione con l’A.G. intrapresa sul finire del 1992 avrebbe tra l’altro consentito il 15 gennaio 1993 di por fine all’ultradecennale latitanza di Salvatore Riina, erano stati individuati alcuni personaggi, tra cui i già citati La Barbera Gioacchino e Gioé Antonino, che potevano essere coinvolti nella vicenda. Tali soggetti, normalmente gravitanti nel comune di Altofonte, in epoca successiva alla divulgazione della notizia della collaborazione del Di Maggio – che per qualche tempo aveva retto il mandamento di San Giuseppe Iato, al cui interno operava la famiglia di Cosa Nostra di Altofonte – si erano allontanati dalla loro abitazione e trascorrevano la notte in un appartamento sito in Via Ignazio Gioé, contrada Inserra. Pertanto, da parte della DIA furono attivati dei servizi di osservazione, pedinamento ed intercettazione che consentirono di individuare il nuovo covo nel quale costoro avevano trovato rifugio dopo il clamore suscitato dalle iniziative giudiziarie conseguenti alla collaborazione con la giustizia nel frattempo avviata da Leonardo Messina, inserito nella famiglia mafiosa di San Cataldo, centro sito in provincia di Caltanissetta. Detto rifugio era sito in un appartamento di Via Ughetti n. 17 di Palermo, al cui interno furono installate, nel marzo del 1993, delle apparecchiature per l’intercettazione ambientale che avrebbe consentito tra l’altro di captare una significativa conversazione intercorsa nella notte tra l’otto ed il nove marzo tra il La Barbera ed il Gioé. In particolare, La Barbera, nel tentativo di spiegare al suo interlocutore l’ubicazione di un luogo sito in Capaci, aveva fatto riferimento ad un’officina ubicata nei pressi del posto in cui egli era rimasto in attesa, allorché era stato eseguito “l’attentatuni”. La Barbera, per meglio far intendere al Gioé il luogo cui si riferiva parlando di tale Santino, gli disse: “Ma ti ricordi, dducu a Capaci?, …..In sostanza, dducu a Capaci, unni ci ficimu l’attentatuni”, dove “Santino, avia l'officina...”. Tale illuminante conversazione, emersa dalla successiva attività di riascolto delle intercettazioni da parte degli inquirenti, che avevano tratto profitto dall’indicazione fornita dal Marchese, servì ad individuare un gruppo ben determinato di persone, legate al medesimo territorio ed ambiente mafioso, che, a seguito del diffondersi delle notizie sul pentimento di Di Maggio e del citato Marchese, erano sul punto di darsi alla c.d. latitanza volontaria. In particolare, il Gioé, sentimentalmente legato a Camarda Giovanna, metaforicamente le disse di stare per andare al “buco”, precisando nel corso di ulteriori conversazione di trovarsi già al “buco” perché c’era un nuovo uccellino che stava per collaborare. In ogni caso, pur conoscendolo soltanto di nome, era bene o male tranquillo. Comunque, avrebbero adottato ulteriori precauzioni e la mattina quando sarebbe uscito si sarebbe guardato intorno per vedere se c’erano dei “leopardini”, facendo implicito riferimento all'operazione di polizia effettuata a Caltanissetta che era stata denominata “Leopardo”. Tuttavia, quel che rilevava ancora di più da tale attività intercettiva era l’esplicito riferimento al c.d. “attentatuni“ verificatosi a Capaci, che non poteva che interpretarsi come fatto ascrivibile a quel determinato gruppo di persone. Ciò induceva ad approfondire ulteriormente l’originario spunto investigativo attraverso il controllo del traffico delle utenze cellulari fra gli apparecchi intestati ai predetti soggetti, allo scopo precipuo di individuare l’esistenza di conversazioni telefoniche fra costoro nei momenti prossimi alla realizzazione dell’attentato. Infatti, sulla base di una elementare considerazione logica, era evidente che il giudice Falcone fosse stato pedinato perché era giunto da Roma con un volo non di linea, sicché l’orario di partenza e di arrivo non poteva essere conosciuto da terzi estranei. Inoltre, doveva effettuarsi il percorso che L’attentato e le indagini preliminari 2 Libro I dall'aeroporto di Punta Raisi conduce al centro di Palermo lungo un tratto autostradale ed era necessario seguirne le mosse. Gli inquirenti, pertanto, ritennero che il commando, che aveva organizzato l'attentato aveva bisogno di comunicare con gli altri gruppi che agirono tra Roma e Palermo e sul luogo della strage. Posto che le comunicazioni tra costoro potevano avvenire quasi esclusivamente per telefono e poiché nel luogo della strage, a differenza degli altri luoghi, non risultava che ci fossero apparecchi telefonici
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    DAL CORRIERE DELLA SERA DEL 21 MAGGIO 2002 «Così ho dato il segnale per uccidere Falcone» ROMA - «La macchina di Giovanni Falcone andava più piano del previsto. Avevamo fatto le prove a una velocità di 160 chilometri all’ora, invece quelli andavano a 80, 90 all’ora. Io procedevo parallelo a loro, sulla mia Lancia Delta, lungo la strada che costeggia la Palermo- Punta Raisi, e parlavo al telefonino con quelli che stavano sulla collina di Capaci. Parlavo lentamente per far capire loro che l’andatura di Falcone era più bassa dei nostri calcoli, e dentro di me pensavo: "Questo si salva... si salva"». Il pomeriggio del 23 maggio 1992, Gioacchino La Barbera, uomo d’onore della famiglia mafiosa di Altofonte, doveva dare il segnale agli assassini del giudice Falcone, appostati su un’altura a destra dell’autostrada. Li chiamò quando avvistò il corteo delle tre macchine blindate - al centro la Croma bianca col magistrato a bordo, davanti e dietro quelle della scorta - e rimase al telefono per 325 secondi, quasi sei minuti. Arrivato al bivio per Partinico, chiuse la comunicazione. Il piano prevedeva che appena l’auto di Falcone fosse giunta all’altezza di un vecchio elettrodomestico abbandonato sul ciglio della strada, dalla collina qualcuno premesse il pulsante del radiocomando. «Per questo era importante la velocità delle auto. Per questo pensavo che Falcone si sarebbe salvato. Infatti le prime notizie che sentii alla radio dicevano che era solo ferito, che la dottoressa Morvillo riusciva addirittura a parlare. Invece più tardi seppi che era morto». L’autostrada si aprì alle 17,56 e 48 secondi di quel sabato siciliano, inghiottendo il giudice antimafia, sua moglie e tre agenti di scorta.
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