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Nuova Narrativa Newton 235 I ladri dagli occhi verdi 1-244 2-08-2010 14:39 Pagina 4

Titolo originale: Green Eyed Thieves Copyright © Imraan Coovadia 2006 Traduzione dall’inglese di Tiziana Felici Prima edizione: ??? 2010 © 2010 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-1216-2

www.newtoncompton.com

Realizzazione a cura di Corpotre, Roma Stampato nel ??? 2010 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma) I ladri dagli occhi verdi 1-244 2-08-2010 14:39 Pagina 5

Imraan Coovadia I ladri dagli occhi verdi

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Per Jerry, Zaheer (+1, –1)

RINGRAZIAMENTI Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutata a scrivere questo libro: Helen, che non si è mai stancata di spiegare come si conducono le indagini sulla scena del crimine riuscendo a farlo capire anche a me; Sara e Moses che hanno letto le pri- me bozze con occhio fresco ed esperto; Sarah Turner per avermi incoraggiata quando l’idea della Serie delle Shetland era appena nata; e Julie che ha reso pia- cevole tutto il processo di redazione finale. I ladri dagli occhi verdi 1-244 2-08-2010 14:39 Pagina 7

CAPITOLO 1

I colori: le innumerevoli gradazioni di verde e la lucentezza metallica di una Beretta per signore. I numeri: il tre, il fortunato sette e i sessantamila dollari che abbiamo preso per il lavoretto a Sun City. I luoghi: Peshawar, la melanconica Lourenço Marques1, Brooklyn, New York.

Gli oggetti: le chiavi della Mercedes blu (una SL, non la vecchia Road- ster), una scatola di sigari foderata di feltro verde e, al suo interno, le munizioni di piccolo calibro sparpagliate come monetine. Un gilet di Brioni... un detonatore con innesco elettrico... un reggiseno di rayon dalle grandi coppe di un colore bianco argentato.

Con queste e molte altre circostanze ancora inizia la mia storia, a co- minciare dal fascicolo 3741 presentato alla corte dell’Eastern District di Brooklyn. Si chiama in giudizio Firoze Peer per essersi spacciato per un funzionario federale. Sono inoltre stato accusato di aver venduto passaporti a quei famigerati dirottatori e di aver violato la sicurezza degli Stati Uniti. Ma è tutta colpa di quello scervellato di mio fratello, Ashraf. Io e lui non abbiamo nulla in comune, eccetto questo bagliore sulfureo negli occhi verdi. Ashraf non è solo mio fratello: è mio gemello... è un alibi... ed è que- sto il motivo per cui non ci sarà mai fine alle colpe che mi vedrò ad- dossare a causa di questo santo patrono delle rivoltelle, questo adora- tore di Kahlil Gibran e Louis L’Amour, questo tipo da gruppo heavy metal che modella il suo look alla maniera di David Hasselhoff. Il fat- to di avere i geni di un fesso come Ashraf mi impedisce di darmi delle arie. E mi costringe a stare dietro le sbarre. Come un bruco che si trasfor-

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ma in farfalla, il fascicolo 3741 si è trasformato in un ordine di incar- cerazione nel giro di un’estate. Non avevo un avvocato. In questo pae- se si dice che un uomo che è avvocato di se stesso ha per cliente uno stupido. Ma con Ashraf come fratello, sarei un pazzo a non dire qual- che parola in mia difesa. Al pubblico piace che i propri scrittori vengano incarcerati. Questo stato comprova l’autenticità dello scrittore, la sua conoscenza delle co- se al di là dei confini della propria mente. È assolutamente vero che uno scrittore rimane intrappolato tra le pagine del suo libro come un insetto in una goccia d’ambra. E dunque il mondo è pronto, io credo, ad accogliere un manoscritto redatto con una IBM Selectric nella cuc- cetta inferiore di una cella del penitenziario di Fort Dix. (Indirizzare le richieste per i diritti teatrali a F. Peer, Dottore in Lettere, n. 2663, Se- ven East, FCI Fort Dix – Federal, P.O. Box 38, Fort Dix, NJ 08640).

Dov’era mio fratello? Lui rappresentava la mia unica speranza, per- ché il giudice non era affatto colpito dal mio caso. Thomas Lodge Ca- meron era un uomo arcigno, dalla barba rossa e sulla sessantina. Die- tro gli occhiali bifocali si celavano occhi simili a quelli di una carpa. Mi parlava con finto rispetto, lanciandomi stoccate come se stesse com- battendo un duello. Attribuisco il suo atteggiamento mentale a una questione geografica. A Brooklyn le persone devono lasciare intendere che hanno già visto il peggio di tutto e non cambiano idea su nulla. In quel pomeriggio di luglio mi aspettavo che Ashraf arrivasse a migliora- re l’atteggiamento brooklynese di Cameron, forse con una di quelle scazzottate unilaterali per le quali mio fratello nutre tanta passione. Ma sembra che questa possibilità non potesse verificarsi. «Non vuole degnarsi di dirci il suo vero nome, signor Peer?» «Vostro Onore», faccio io, «sta mettendo in prigione il fratello sba- gliato. Io amo questo paese. Non presterei mai il mio aiuto a un uomo che volesse arrecargli danno. Il mio incontro con Atta, Mohammad el- Amir, è durato giusto il tempo di notare che era una persona dalle idee confuse, un tipo molto emotivo. Ha tentato di sedurmi. Voglio dire, l’intera faccenda è tragicomica». Cameron non sembrava ricettivo. «Per lei sembrerebbe più una com- media. Per noi si tratta di una tragedia. Bene, basta con questi giri di

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parole nella mia aula. Mi lasci un minuto, signor Peer, se questo è ve- ramente il suo nome, per prendere la mia ultima decisione».

Ebbi il tempo di pensare all’amore mentre Cameron faceva i suoi cal- coli. L’imputato sostiene che gli basta un niente per innamorarsi, e nei quattro pomeriggi passati in tribunale avevo consegnato il mio cuore alla signora Velasquez, una cinquantanovenne testimone d’accusa, e poi alla stenotipista del tribunale, Irene, i cui occhi verde pisello guiz- zavano nella mia direzione. Come colei che l’aveva preceduta, Irene era di costituzione robusta, piuttosto formosa sui fianchi e più minuta all’altezza delle spalle lentigginose. È una legge della natura umana che un tipo come me, quasi scheletrico, graviti attorno a una donna che tende verso il lato più allegro della pinguedine, se ha davvero fiducia in se stesso. Siamo noi a decidere le nostre punizioni. È un paradiso e un inferno allo stesso tempo, sapete, essere incostanti come me. Possedevo una lettera d’amore standard redatta in stile persiano, destinata a Fazila in Pakistan. Io sono innamorato cotto di Fazila, certo, ma dentro di me c’è anche spazio per le moltitudini femminili. Ho indirizzato una copia della stessa lettera a Irene, con carta da lettere sottratta dalla scrivania del gauleiter al Metropolitan Correctional Centre. L’ho scritta con una Smith Corona scassata in una cabina assegnata agli imputati. A ogni colpo la testina rotante si abbassava emettendo un sibilo. Essendomi autoproclamato scrittore, vado orgoglioso della frase introduttiva: «Dolce Irene, Irene delle rondini e degli squali, lascia che io porti a te usignoli e mazzi di rose, lascia che ricopra la tua bocca umida di parsi- moniosi baci...». La mia lettera d’amore credo prenda spunto dalla prosa elaborata di mia madre. La mia vita, il mio stile, sono colpa di mio fratello. Sono colpa di mia madre. Sono colpa di mio padre... Mia madre, Sameera Peer, laureata in filosofia, è una cultrice del giorno di San Valentino. Siamo entrambi svampiti, e dunque lei comprende questa mia tenden- za a innamorarmi perdutamente. Se mia madre si fosse data pena di venire al processo, avrebbe apprezzato Irene. Lavorando come stenotipista in tribunale, pensai, Irene non doveva incontrare uomini interessanti. Pochi di quelli che comparivano alla

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sbarra erano imputati di un certo calibro. Il parametro per determina- re la grandezza di una nazione, credo io, risiede nel livello dei propri imputati. Nelle pagine seguenti spiegherò per quale motivo il talento criminale americano, talento nel vero senso della parola, sia scarso. Ma quello che voglio dire è che il contesto aumentava le mie possibilità di successo con Irene. Le situazioni molto intense favoriscono l’amore: il caveau di una banca a mezzanotte e mezza, i sobbalzi sul sedile poste- riore di una macchina in fuga con Ashraf alla guida, il secondo piano di una villa a Peshawar, quando sull’alto soffitto compaiono fori di proiettile come pannocchie di granturco. E, naturalmente, quest’aula di tribunale di Brooklyn. Non che Irene sia facile. L’uomo tarchiato nella mia futura cella, quel- lo credo sarebbe una preda facile. E il signor Atta, i cui occhi erano co- sì scuri che parevano truccati con il kohl, lui – ve lo giuro – mi guar- dava con palese lascivia, una sera a Brooklyn. Mentre Irene comporta- va fiori, poesia, vino rosso e vino bianco, lunghe passeggiate sotto le stelle. Sentite, so di essere ridicolo. Mio fratello falsifica passaporti, mentre io falsifico romanticherie e trasformo le cose tragiche in trivia- lità. Finché non arriva il momento in cui queste cose triviali mi preoc- cupano. Le manette alle caviglie con cui mi hanno scortato in tribuna- le erano la cosa che mi preoccupava di più. Mi intrappolavano. Un’en- trata grandiosa è un notevole alleato per un pretendente, ma il raggio della catena di circa quaranta centimetri mi impedì di gironzolare per l’aula. Il commesso del tribunale me ne liberò quando iniziò l’udienza. Charlie Montague, il commesso del tribunale, era un pezzo d’uomo che sedeva dietro di me con lo sguardo puntato sulle mie spalle. Mon- tague aveva prestato servizio nei Marine. Un suo commilitone era sul volo diretto in Pennsylvania, dunque la sua ostilità non mi sorprende- va. La sua postura militare denotava totale identificazione con l’auto- rità. Per l’imputato era istintivo desiderare di scalfire tale atteggiamen- to. Mentre aspettavamo cercai di farmelo amico. «Hai la possibilità di spedirmi questa? È per Fazila Parker, in Pakistan». «Neanche per sogno, Felix». Sussurrai: «Allora potresti passare questo biglietto a Irene?» «Lascia che ti dica una cosa. Sei stato giudicato colpevole. Sarebbe

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opportuno che ti comportassi con rispetto. Il giudice sta per leggere la sentenza». «Potresti almeno dirle che le voglio bene? Dì a Irene che l’imputato 3741 vorrebbe...». «No. Anche se volessi, perderei il posto. Assumi un professionista». «3741 vorrebbe». «Bada, Peer». Avevo cercato di farla, questa cosa ragionevole che mi consigliava il commesso del tribunale Montague, ossia assumere un investigatore privato per avere notizie di Fazila. Erano mesi che non ci parlavamo. Non sapevo nemmeno se fosse a Londra o in Pakistan. Il detective avrebbe dovuto scattare delle foto, curiosare in giro e forse farle il mio nome in un momento propizio. Se molti più innamorati si rivolgessero a un detective privato, il corso dell’amore vero scorrerebbe più liscio, e ovviamente sarebbe anche meno cieco. Il lato yankee del mio animo mi fa inoltre notare che ci sarebbe più lavoro per i detective. Però non avevo soldi. L’agente che mi aveva arrestato aveva confisca- to le banconote che stavano nel portaoggetti della Mercedes (3940 tra dollari e rubli). La mia esistenza, le mie lettere d’amore ora giacevano sepolte in una cassetta della posta senza vita. Dunque è di certo dura senza un detective. È dura essere un idealista non corrisposto, quando un intero paese mi scambia per Ashraf. È dura voler bene a un fratello che inganna e imbroglia, e che ha venduto una patente scaduta ad At- ta. Come dicono sempre a Brooklyn, è così che vanno le cose. Ma ave- vo intenzione di reagire.

Direi che il mio stato mentale mentre ascoltavo la sentenza era iden- tico a quello di un futuro genero che incontra il padre della sposa... «Signor Peer – ha fornito anche i nomi Patel, Zacharia e Goldberg, ma usiamo il nome Peer – arrestare qualcuno sotto mentite spoglie è un reato grave. I suoi peggiori nemici, tra i quali figuro anch’io, con- corderanno sul fatto che lei possiede una certa dose di immaginazione. Travestito da addetto ai servizi veterinari, ha arrestato Frieda Vela- squez in un negozio di gastronomia di Athens e l’ha portata fuori a ce- na col suo labrador color cioccolato. Ha arrestato uno chef ausiliario spacciandosi per investigatore della State University di New York

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Binghamton. Ha confiscato i bagagli di un dirigente della Chubb2 sot- to la falsa identità di commissario del Dipartimento di Salute Mentale. Ha aperto un’inchiesta su una ricerca medica insabbiata presso la sede della Philip Morris a Park Avenue. È stato allora che ha preso in pre- stito una Mercedes aziendale. E non ho ancora citato il danno che lei ha causato vendendo documenti a Mohammad Atta». «Non avrei dovuto prendere in prestito la macchina, Vostro Onore, ma deve incolpare mio fratello. Chiedo solo che la corte riconosca il mio status di detenuto per reati d’opinione». «Da noi non è previsto nulla del genere. La condanno a un minimo di novantuno mesi per i capi d’accusa correlati. Il Servizio Immigrazione poi si occuperà del decreto di espulsione. Per il bene dell’umanità, do- vremmo tenerla qui permanentemente sotto chiave».

Tra gli spettatori, nemmeno uno era addolorato della mia disgrazia. Fazila non si era fatta viva. Nemmeno mia madre dall’Australia. E nemmeno mio padre. Ashraf non poteva certo presentarsi con la stes- sa faccia... ma perché non farlo con un’altra? Le vittime di mio fratello erano presenti e loro certamente non erano state selezionate in base al loro look. Tony Costello, un barman al quale Ashraf aveva rubato una carta di credito della Citibank, applaudì alla sentenza, rosa sul collo e rosso in volto, puzzolente di Jaegermeister. Frieda Velasquez, sfolgo- rante nel suo abito scozzese, emanava zaffate di Givenchy Eau Torride dal seno prosperoso. Nella fila posteriore riconobbi Albert Satterfield, il pezzo grosso del- la Chubb, che respirava a malapena nel suo doppiopetto, con l’espres- sione imperscrutabile accentuata dalle sottili sopracciglia rosse. In per- fetto stile inglese, Satterfield fu molto attento a non sorridere, sebbene uno che sorride, che scherza, che imbroglia, come spiegherò a breve, sia un terribile nemico. Ashraf ama dire che si ottiene molto di più con un sorriso e con una pistola anziché con un sorriso e basta. Dal mio punto di vista, la pistola non fa altro che intensificare il terrore impli- cito in un sorriso, un fatto che Ashraf non coglie, sebbene possegga un suo particolare sorriso, lievemente minaccioso. Vedendo lui e Atta sog- ghignare mentre snocciolavano battute politiche, battute sui mullah, battute su Israele, mi sentii raggelare... ma ci arriveremo. Ed eccomi

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qui, circondato dai nemici di mio fratello, ma lui dov’era? La sofferenza della giuria, le serate passate davanti alla televisione, si rivelavano nei dodici volti contratti. Mi sentivo responsabile. È un im- putato ingrato colui che non prende a cuore il fato dei propri giurati. Mi sentivo di animo indulgente, anche nei confronti dei testimoni che mi accusavano. Volevo salutare la signora Velasquez avvolta da una fo- schia di Eau Torride, stringere la mano a Satterfield e Costello per di- mostrare loro che non portavo rancore. La testimonianza che questi avevano reso era contro un volto. Era semplicemente il volto di un commediante con gli occhi verdi in quella trave di testa, che essi ave- vano condannato. E io sono attaccato a quel volto la centesima parte di chiunque altro, perché quel chiunque altro, con lo stesso volto ossuto sulle spalle possenti, è quel galletto vanitoso di mio fratello. La giuria mi guardava con sospetto mentre mi portavano via dall’au- la. Quanto a Irene e alla signora Velasquez, ho notato la loro espres- sione triste mentre l’imputato se ne andava incatenato, con la sua let- tera in cima a una pila patetica di citazioni. Decisi che avrei avuto si- curamente delle possibilità con entrambe. È strano che io abbia questo debole per le persone che hanno contribuito a farmi finire in gattabuia, ma questa mia amorevolezza nei confronti del mio persecutore confer- ma il caso autodiagnosticato della sindrome di Stoccolma. Un ostaggio che soffre di questa sindrome si innamora dei suoi carcerieri. Con un fratello che mi ha tenuto in ostaggio per ventinove anni, la sindrome di Stoccolma non è altro che un meccanismo basilare di sopravvivenza. E non vale solo per me. È anche il fondamento di un matrimonio felice.

La navetta che dal tribunale doveva riportarmi al Metropolitan Cor- rectional Centre era un furgone della Chrysler con diciannove posti a sedere. Era un vero portento. La Chrysler è la mia casa automobilisti- ca preferita perché simboleggia l’energia americana e costruisce vettu- re solide. La panca in metallo era assicurata al pavimento da bulloni. Un vetro separava i passeggeri da una guardia smilza e armata di fuci- le, con indosso una bella uniforme blu con le spalline e ogni sorta di distintivo sulla tasca anteriore. Il suo volto scarno rimaneva in ombra. Il motore brontosauriano del furgone era un diesel sei cilindri, da 330 cavalli credo. Controllare queste cose per me è una tendenza innata. In

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una famiglia che si lascia dominare dall’emisfero destro del cervello, i fatti essenziali sono il calibro di una pistola, la potenza del motore di un’auto, di un camioncino o una motocicletta, il numero di carati di uno smeraldo (si moltiplica il peso in grammi per cinque). Associare un numero a un revolver, a una macchina, a una pietra preziosa ci con- sola. Ero solo nel furgone. Quel giorno il mio processo era stato il primo a finire. A Cameron piaceva fare le cose rapidamente. Il tizio era un pi- lastro del Partito repubblicano. I repubblicani, perché lo sappiate, mi hanno reclutato in un battibaleno per incontrare il presidente, ma han- no avuto un rapido ripensamento. Ho molte cose da dire sui repubbli- cani, quel gruppo inesplicabile, ma io non porto rancore. Il fatto di es- sere cresciuto in mezzo ai criminali ha avuto un effetto positivo: non puoi essere il tuo peggior nemico, poiché tantissimi altri rivestono que- sto ruolo ben volentieri. No. Essere il peggior nemico di se stessi è il più grande lusso di un essere pensante. Considerando questo fatto, ho intonato una canzone. Si trattava di un ghazal3 malinconico di Faiz4, uno dei preferiti di mia madre. Nella versione cantata da Lata Mange- shkar5, che conoscevo da bambino incisa con un registratore a otto tracce, è dolceamaro come cucinare il cioccolato. «Non puoi cantare qui quella canzone, stupido». «Perché no? È un paese libero, mi dicono». «Cabrón, non riesco a credere alla tua sfacciataggine», rispose la guardia con voce stridula, che era come il gesso sulla lavagna della mia anima. «È una canzone cara a tua madre e tu la vai a infangare cantan- dola sul sedile posteriore di un furgone cellulare. Onestamente, Firo- ze, o come diavolo ti fai chiamare, sostieni di essere un intellettuale e invece non riesci nemmeno a scrollarti di dosso la malattia dell’auto- commiserazione. La vita è piena di cose belle, fratello mio, e non sono tutte trappole e agguati a tue spese». Fece una pausa per poi riprende- re a lagnarsi. «Ma le arie che ti dai perché hai messo piede alla Casa Bianca e hai stretto la mano del presidente feriscono la mia esistenza». «Tu sei quello che ha venduto una patente di guida della Florida a un “certo” Mohammad Atta», dissi io. «Vuoi parlare di errori di valuta- zione. Prova a pensarci, amico, dovevi proprio vendergliene una sca- duta? Ora abbiamo contro di noi entrambi gli schieramenti. Entrambi

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gli schieramenti. E comunque, da quando lo spagnolo è la tua lingua madre? Che succede? Devi ammetterlo, amico. Perché, in nome del cielo, ci hai invischiati con Atta? Quelli sono una combriccola da far venire i brividi». «Non avevo idea di cosa stesse pianificando. Non ci si può fidare di nessuno». «Potremmo parlare di come uscire di qui?», chiesi io. «Lascia che prima ti dica ciò che penso. Poi ho brutte notizie da dar- ti».

La guardia, naturalmente, era Ashraf. Mi aspettavo che durante il mio processo arrivasse la cavalleria, ed eccola qui a scalpitare. Mio fra- tello proviene dal buco nero dei sobborghi di Johannesburg... Una cul- tura che dovrebbe impiccarsi per la vergogna. Ashraf ha avuto da me ogni incoraggiamento a diventare un pensatore. Eppure non dimostra alcun interesse per il significato dell’universo, nessuna curiosità per cose che non siano i numeri delle carte di credito e le proporzioni dei seni femminili sotto le magliette. Questa era la mia cavalleria, il mio calvario. Qualunque cosa abbia fatto o non abbia fatto con Atta, devo dire che mio fratello è un sincero appassionato di Stelle e Strisce. Sin da quan- do eravamo adolescenti ha avuto un debole per il lato più scadente e per la grandiosità bizzarra della cultura di questo paese. Pur abitando lontano, era fissato con le stelle televisive dal carattere plebeo, a co- minciare da Telly Savalas in Kojak. Nella standard five6 Ashraf cammi- nava come Kojak, tormentava le gomme da masticare della Chappies come Kojak, biascicava le parole come lui, sputava, imprecava e acca- rezzava un’immaginaria fondina. Mio fratello faceva un’imitazione perfetta di Telly, sollevando entrambi i sopraccigli e bloccandomi con il pugno. Questa scena è strana da vedere a Jo’burg, ma in una Brooklyn dove cane mangia cane, qui a Truffalandia, dove l’intimida- zione è il piatto tipico, il tizio calza a pennello. Tutti dicono che siamo identici, eccetto la nostra svagata madre. Ash- raf vuole enfatizzare la somiglianza e mi tormenta affinché mi pettini alla stessa maniera cotonata di Hasselhoff. Non serve a nulla avere un alibi in carne e ossa se poi di persona hai i capelli diversi rispetto alla

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fotografia scattata dalle telecamere della banca. Poiché in questo caso la logica è dalla sua parte e non voglio vederlo dietro le sbarre, dove meriterebbe di stare, certe mattine mi ritrovo con l’asciugacapelli in mano a dare ai miei capelli la forma di conchiglia di quelli di Ashraf.

Prendiamo due piccioni con una fava descrivendo l’aspetto di mio fratello. Spesso si dice che una buona storia debba essere lo specchio della realtà, eppure il narratore che volge lo specchio verso se stesso si ritrova con schegge di vetro in mano. Ashraf è lo specchio che taglia le mie mani. Abbiamo in comune una testa tondeggiante piccola e astu- ta, e il volto dalla pelle marrone che spesso rimane impresso a colui che ci guarda cogliendovi qualcosa di infausto. Molte donne scelgono di amare questo volto nel suo habitat naturale, ossia sulle spalle di mio fratello. Abbiamo il naso alla memon7, la carnagione da ravanello, stretti occhi verde fumo che sembrano quelli di un serpente e palpebre da cobra. I capelli dritti color nero intenso nel caso di mio fratello so- no tirati all’indietro e gonfiati da un cucchiaino di brillantina di marca Brami Alma, densa come la melassa e nera come l’estratto di carne bo- vina. Fisicamente esistono due differenze tra noi: le basette strette e i baffi che mio fratello spunta con il regolabarba elettrico della Panasonic, e la sua corporatura muscolosa, messa in risalto dall’uniforme che la si- gnorina o la signora Lee devono avergli cucito. (Ashraf sostiene che esistono tre grosse differenze e lancia un’occhiata – a dire il vero guar- da malizioso – verso la protuberanza nelle sue mutande). Mio fratello compensa l’altezza col rimedio universale dell’uomo basso: un atteg- giamento alla top-gun e un allenamento intensivo con i pesi. Al termi- ne della standard eight era riuscito a guadagnarsi il distintivo della scuola per il salto con l’asta e il lancio del disco. Ne è uscito una specie di peso galletto. Il che contrasta con la mia corpulenza. Faccio notare che la nostra somiglianza è priva di reciprocità. Io ven- go scambiato per Ashraf continuamente, ma nessuno – e dico nessuno – confonde lui con me. Le coppie di gemelli identici tra i lettori, uniti insieme comodamente come elettroni orbitali, comprenderanno che noi due abbiamo attraversato tutte le fasi tipiche: prima ci vestivamo allo stesso modo, poi con colori opposti. Io lo aiutavo facendo i com-

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piti in classe di chimica e storia al posto suo. L’unica volta in cui ci han- no beccati, che io mi ricordi, è stato con Tigerlily. La menziono di sfug- gita, prima di tornare al furgone Chrysler diretto al Metropolitan Cor- rectional Centre. Tigerlily è stata uno dei flirt di mio fratello, stavolta consumato du- rante un fine settimana con la mamma a Hong Kong, quando la città apparteneva al Mondo Libero. Ad Ashraf piacciono le donne esotiche, le donne che hanno talento (come dice lui) negli sport dell’Oriente... Vale a dire il sesso, i massaggi, l’agopuntura e il contorsionismo. Lui preferisce le donne che si dà il caso siano esotiche in senso relativistico rispetto a lui, come ad esempio le alte donne cinesi, le fuggiasche, le vi- gilesse dei parchimetri, e le disinvolte ragazze spagnole di Corona e Roosevelt Avenue nel Queens. Tigerlily, una massaggiatrice di ventisei anni, rientra in più di una del- le categorie preferite da Ashraf, che era determinato affinché anch’io la provassi. Era strano che mio fratello si preoccupasse così tanto di me e delle mie esperienze. Credo che la vera ragione fosse che voleva qual- cuno con cui discutere di Tigerlily. Ashraf si dette molta pena per far- mi passare per lui, impomatando i miei capelli con la sua poltiglia di brillantina nera e raccontandomi nel dettaglio tutte le loro conversa- zioni. Poi riuscì a sganciare entrambi dalla cena con mia madre, che aveva passato il pomeriggio a taccheggiare i negozi di Mongkok e Cau- seway Bay. Ashraf mi diede molti consigli su come comportarsi con Ti- gerlily. Sarà pure un tipo incallito quanto vi pare, ma possiede la sua dose di buon senso. Mi diede anche dei traveler’s cheque fasulli per pagare la serata e un passaporto australiano falso. Proprio prima di spingermi nell’ascensore del palazzo di Tigerlily sulla Nathan Road, mi porse anche un gioiello da metterle in mano. «Dalle questo, Firoze, e lei soddisferà le tue speranze più selvagge», disse lui tenendo aperta la grande grata dorata della porta dell’ascen- sore. «Nel tuo caso, certo, non sono così selvagge, ma che importa? Come dici tu, Einstein, tutto è relativo». «Lo spazio è relativo. Il tempo è relativo. Zaid junior e nostra zia Na- sreen sono relativamente parenti. Ma, per la miseria, non tutto è relati- vo, Ash». Sapevo di essere ridicolo, ma dovevo spiegarglielo. «Esiste l’assoluto morale e l’assoluto scientifico. Ci sono molte, molte cose che

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non sono relative, altrimenti non esisterebbe un parametro per giudi- care cosa è relativo in primo luogo». Ashraf chiuse la porta. Io diedi il gioiello a Tigerlily nel momento in cui mi feci strada oltre la tenda che portava alla sua camera da letto. Lei ispezionò il diamante bianco esagonale con una curiosa professio- nalità da bordello, dichiarando che si trattava di bigiotteria mentre lo sfregava contro un dente e poi sotto un orecchio. Io non sapevo se fos- se così. Tigerlily lo depose nella sua scarpa e non sembrò contrariata che avessi cercato di farlo passare per un gioiello vero. Tirai fuori il ve- ro regalo. Il passaporto australiano con incollata la copertina bordeaux sembrò soddisfarla, come anche i traveler’s cheque della Thomas Cook del valore di quaranta dei vecchi dollari di Hong Kong. Tigerlily aprì il passaporto e per un momento ammirò la propria foto istantanea in bianco e nero. Fece scorrere le unghie lungo il bordo della fotografia per verificare se si vedesse la colla. «Hai fatto un buon lavoro». «Non voglio prendermi tutto il merito», dissi io. Mise i documenti in un cassetto accanto al letto. «Un giorno finirai in guai grossi per aver fornito questi servizi. Stai attento. Hai un debole per gli affari loschi. Scommetto che sei in contatto con gente strana». «Non capisco perché le persone che hanno bisogno di un altro pas- saporto, di un’altra patente per tirare avanti, dovrebbero essere peg- giori di una persona comune», risposi io. Era vero che in quel momento non capivo perché loro – ossia le per- sone che avevano bisogno di una nuova identità – dovessero essere peggiori delle persone che vivevano felicemente col loro nome vero. Consideratelo un effetto morale della sindrome di Stoccolma, questo mio vedere ciò che è giusto come l’immagine riflessa di ciò che è sba- gliato, il bene come la mano sinistra del male. Si tratta di una tenden- za dei musulmani di inclinazione liberale, ma mio fratello mi accusa di preferire la generalizzazione alla specificità (un tratto che ben si acco- sta al mio lato dallo stile più ridondante), pertanto termino qui il mio filosofeggiare. Con Tigerlily non finì bene. Sei minuti con lei dimostrarono – con sua insoddisfazione – che l’uomo sopra di lei e sotto di lei e poi giù dal ma- terasso non era chi sosteneva di essere. Per qualche motivo riuscì a

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percepire la differenza e senza esitazione mi denunciò al dipartimento di polizia di Kowloon. Si sentiva offesa. Poi riagganciò la cornetta al te- lefono nero fissato al muro, si tirò su le calze e indossò una vestaglia decorata con dei dragoni rosso e oro. La vestaglia lasciava intravedere le gambe accavallate, che con le cosce penosamente magre e i polpac- ci abbastanza robusti. I suoi seni, quando mi fu concesso brevemente di possederli, riempivano a malapena le mie mani. C’erano delle pic- cole lentiggini sulla parte interna del suo collo, sulle spalle e sulla par- te alta delle braccia. E naturalmente mi innamorai follemente di cia- scuna di quelle lentiggini marrone chiaro. Dopo la telefonata Tigerlily si calmò. La situazione era strana. Si ac- cese una Benson & Hedges, la marca universale delle professioniste del sesso, con uno Zippo cromato. Me ne offrì una e poi l’accese per me. Per un momento le tenni la mano, ammirando le unghie ben cura- te e laccate. Lei mi guardò con freddezza, aspirando il fumo nei pol- moni. Non sembrava affatto scontenta, ora che aveva chiamato la poli- zia. «Come lo hai capito? Come hai fatto addirittura a sospettarlo?» «I gemelli identici cercano di farla franca in queste faccende». Tiger- lily era formale nel modo di parlare, quasi una scolaretta inglese. «Lo so perché anch’io sono una gemella, anche se io ho un fratello. Con la mia reputazione ed esperienza, la gente tenta di tutto. Pensano che se riescono a imbrogliarmi, la moralità non conta. Oppure ci vogliono en- trambi, come un sandwich». Poi cambiò discorso. «Mio caro, dì a tuo fratello, che se vuole vedermi, deve scusarsi con un mazzo di fiori. Ti sono grata per il passaporto. Voglio essere libera di potermi trasferire a Sydney, in Australia, nel caso in cui i cinesi continentali comincino a fare gli indisponenti. Inoltre, con lui si tratta di puro piacere. Per esse- re un uomo così giovane, tuo fratello è incredibilmente ben messo. Tal- volta», abbassò gli occhi neri finché non furono quasi chiusi e poi mi spostò i capelli dalla fronte, «se lo guardi dal lato destro, la somiglian- za con Sean Connery è proprio evidente». «Sean Connery?». Tigerlily scosse la testa. «Non fingere. Ashraf mi ha raccontato della storia che Connery ha avuto con tua madre, la principessa di Goa. Sii orgoglioso di ciò che sei, delle tue origini. Sii orgoglioso di essere un

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Connery». «Stupidaggini, Tigerlily. Credo che Connery sia un nome d’arte». Mi sistemai la cravatta a strisce della scuola per dare una certa dignità alla situazione. Il mio orologio, un Seiko con autoricarica, regalo di mia madre per il mio sedicesimo compleanno, era scomparso in modo non tanto misterioso da dove lo avevo posato, accanto al letto ad acqua. Io dissi: «Credo che forse Ashraf mi ha mandato qui per fare una specie di test. Voleva vedere se durante una bottarella una signora riusciva a distinguerci. È tipico di lui. Francamente, è molto doloroso per me. Sei molto arrabbiata per il diamante?». Il viso di Tigerlily si accese di un bagliore furioso, come se fosse stata punta. Le palpebre le bruciavano per il brandy. Si portò una delle pic- cole mani dipinte fino all’orecchino. «La polizia sta arrivando. Non fa- resti forse meglio ad andartene?».

Ashraf aprì con la chiave il retro del furgone cellulare e si mise a se- dere davanti a me. Era rassicurante avere il sangue del mio sangue co- sì vicino da poterlo toccare. Gli occhi verdi sembravano quasi neri. Tuttavia, mentre stavo per andare in estasi, mi resi conto che il tipo si stava preparando per il secondo round. Ashraf non si stanca mai di ri- vangare un errore e poi seppellirlo e poi ancora riseppellirlo. La bar- zelletta sul tizio che, quando vuole seppellire l’ascia di guerra, te la pianta proprio nella fronte, descrive piuttosto bene mio fratello. Vole- vo distrarlo. Gli toccai un braccio. «Dove hai preso l’uniforme? Ti sta bene. Hai un bell’aspetto». «È opera della signora Lee». Ashraf si passò una mano tra i capelli, che avevano la riga a destra, e mi guardò di traverso. In quelle mani, che sanno montare una doppietta così come un trombone, possiede la forza di un cavallerizzo. «Cosa, Firoze, stai forse dicendo che non mi sta bene?» «No, è assolutamente grandiosa indosso a te». «È vero?» «La signora Lee ti rende vanitoso». Visto che parliamo di signore cinesi, la migliore amica di Ashraf in tutto l’universo da quando siamo arrivati su queste sponde è una si- gnora molto anziana, molto burbera e dal cognome comune, che gli

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cuce indumenti per qualsiasi occasione immaginabile. Ha creato dal nulla l’uniforme da sergente del Fish and Wildlife Service8 degli Stati Uniti. Considero la signora Lee un’artista nel vero senso della parola. Ha occhio per i dettagli significativi. Rende i capi di vestiario più au- tentici di quelli veri. La signora Lee mantiene la propria famiglia confezionando costumi per Broadway, e in passato ha fatto la sarta per l’Opera di Pechino, al tempo della campagna contro i possidenti terrieri. A parte che con sua figlia e sua madre, la signora Lee trascorre il proprio tempo con quegli uomini di teatro esageratamente gay, con i quali va d’amore e d’accor- do. Non è strano che vada così d’accordo con mio fratello? Non è stra- no? Con l’amore per le divise, la propensione alla recitazione, il sarca- smo senza fondo, le manette e le false personalità, credo che mio fra- tello stia riempiendo un vuoto. L’uniforme carceraria di Ashraf mostrava il marchio distintivo delle accurate cuciture della signora Lee, che vive con la figlia e la madre brontolona in un appartamento ad equo canone in uno di quei palaz- zoni sulla Riverside Drive. Le tre donne hanno tutte una laurea, sono dei maghi con ago e filo, e vivono in modo del tutto isolato. Madame Lee non mette piede fuori di casa dai tempi del disconoscimento di Taiwan da parte di Nixon. Madre e nonna fanno affidamento sulla si- gnorina Adelaide Lee, che porta loro le provviste dal Safeway e dal ne- gozio “Tutto a 99 centesimi” che sta sulla Columbus – cotone, aghi, pasta. Vivono secondo una gerarchia incontestata: con l’avanzare del- l’età il predominio materno aumenta. Le Lee mi colpiscono perché formano una comunità femminile auto- sufficiente. Nessuna di loro si aspetta di avere uomini in giro. Senza dubbio, quando la signorina Lee verrà messa incinta, tutti saliranno nella scala gerarchica come fanno, per quanto ne so io, da trenta seco- li. Si sono ben adattate alla loro nicchia. Hanno delle dita così piccole e precise. Persino con l’età, persino con l’artrite di Madame Lee, la qualità non viene mai meno. Per un minuto ho desiderato appartenere anch’io a una tradizione così perfettamente adattata. Invece, posseggo la tradizione gretta di mio fratello e le nostre peculiari storie. «Ashraf, ho preso la Mercedes perché ero arrabbiato con te», spiegai io. «Dopo che la polizia aveva circondato il luogo dovevo scappare.

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Quel tipo orribile era sul sedile posteriore, il che ha peggiorato il mio modo di guidare. Cosa posso dire? Sono uno sciocco». «Sciocco è la parola più cortese che userei. Che ne dici di cretino? Oppure stupido? O imbecille?». Io risposi: «Li accetto tutti senza riserve. Ma si dà il caso che sia io quello che è in prigione. Si dà il caso che sia tu quello che mi ha fatto finire qui grazie alla tua amicizia con i dirottatori». Avevo qualcos’altro in mente. «Ashraf, a proposito, tu non ami questo paese per i suoi ideali. Tu lo ami per ciò che ne puoi ricavare». «È una cosa naturale. Solo un cretino di Cretinopoli, caro Firoze, preferisce la bellezza di un ideale alla bellezza delle cose vere. Tu non ami questo paese. Io amo questo paese. Tu ne ami l’idea. È per questo che ti definisco cretino». Gli perdonai il sarcasmo. L’atteggiamento difensivo è come un rifles- so istintivo per noi – sarcasmo, ironia, freddure. Non per fare il ro- mantico, ma le spine proteggono la rosa dell’anima. Ashraf simboleg- gia i balordi, che nelle famiglie Dawood e Peer di Johannesburg supe- rano il numero dei filosofi con una proporzione fissa di sei a uno, co- me una strana slot-machine genetica. Ma Ashraf voleva mettere le cose ancora più in chiaro. «Lascia che ti dica che non ho bisogno della tua condiscendenza. È stato già abba- stanza difficile entrare qui per vederti. Ho dovuto fare un salto all’ap- partamento della guardia, arrestare lui e sua moglie. Poi ho preso in custodia suo zio e i suoi tre figli che stavano per andare a scuola. L’in- tera faccenda si è ingigantita fino a sfuggire a ogni controllo. Non so- no certo di poter fare uscire entrambi da qui ora, a meno che non vo- gliamo farci strada sparando». Ashraf sfregò l’estremità del fucile co- me fosse la lampada di Aladino. «Possiamo andarcene da qui in un lampo di gloria, tu ed io». Io dissi: «Lasciamo stare. Devi essere un sopravvissuto per poter as- saporare il senno di poi». Cambiò argomento. «Promettimi di non avvilirti, Firoze. Io ti rispet- to perché sei mio fratello. Troverò un modo per farti uscire di qui sen- za correre rischi. Organizzerò qualcosa. Puoi immaginare che papà non è felice che tu stia dentro. Se Atta non ci avesse ingannati tutti, niente di tutto ciò sarebbe accaduto e vivremmo nel lusso nell’Upper

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West Side». Anche prima che arrivassimo a Brooklyn, mio fratello voleva parlare come un gangster di Chicago, cioè, come lui immagina che conversas- sero i tipi tosti come Dutch Schulz e “Potatoes” Kaufman. È finzione, ma chiunque rimanga stregato dagli Stati Uniti deve andare matto per la strana musicalità linguistica del posto. Quando si parla di questa musica verbale, allora sì, esistono persone stonate... di certo esistono persone stonate... cosa che vale doppia se si considera a chi abbia fat- to guerra questo paese dai tempi dell’attacco di Jefferson ai pirati di Barberia. Mi riferisco alla voglia dell’America di attaccare briga con il Terzo Mondo, anche se noi non siamo abitanti del Terzo Mondo in senso stretto. Ashraf è uno che si adatta facilmente, con la parlata camaleontica e l’anima caleidoscopica. A Jo’burg parla come uno nato e cresciuto lì, come in realtà è. In Pakistan, nel deserto, si esprime, impreca e monta il cammello come un vero nomade. A Brooklyn è di Brooklyn fino al midollo. Ashraf è una sorta di Zelig. Oggigiorno (potrebbe chiedersi il lettore) chi non lo è? Tutto sembra un test di Rorschach. Se ogni mac- chia appartiene alle tavole di Rorschach e ogni contadino è Zelig, allo- ra le parole non hanno significato. Al che io rispondo che a noi memo- rialisti deve essere concessa l’indulgenza professionale dei nostri para- goni. «Stai meglio dentro, caballero», osservò Ashraf. Vedendo l’autista, scese dal furgone e prese posto davanti, prima che qualcuno si inso- spettisse. Mi parlò attraverso la grata. «Al momento le cose sono piut- tosto spiacevoli, grazie al mio grande amico, come lo chiami tu. Passa- no al microscopio tutti coloro che hanno tratti mediorientali, il che comprende chiunque, dai somali neri e ossuti ai siriani. Io riesco a ma- lapena a passare per portoricano. Non vogliamo tirarti fuori per poi fi- nire in un centro di detenzione per immigrati per il resto della nostra vita. Senti, Firoze, davanti all’autista chiamami César, okay? Inoltre, hai qualche richiesta dell’ultimo minuto?» «Imbuca queste lettere per me». Feci scivolare le due buste sotto la grata. Ashraf lesse gli indirizzi. «Farò molto di più di questo, fratello mio. Le consegnerò a mano a ciascuna signora. Solo, non gironzolare attorno a Fazila alle mie spalle.

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Ricordati, sono César». Mentre l’autista saliva, facendo pesantemente leva sulla pedana d’appoggio, Ashraf aprì la camera di caricamento del suo fucile. «Prima di finire il turno, stavo dando al tipo qui dietro al- cuni consigli. Credo ne potrà fare buon uso nel posto dove sta andan- do. Questo pata de puerco fa lo strafottente». L’autista annuì. «Qualunque cosa ritieni di dover fare». «Ha aiutato i dirottatori». «Non mi dire». «È così. Alcune persone, visti i loro problemi, odiano questo paese al di là di ciò che è ragionevole». L’autista era un uomo enorme, grande quanto noi due messi insieme. Indossava una tuta marrone, stivali e un berretto. Sembrava fuori luo- go nel bel mezzo di Cadman Plaza. Ma teneva in mano la scatola di pa- sticcini con la delicatezza di un collezionista di farfalle. La depose sul sedile. Sembrò ignorare ciò che aveva detto mio fratello. «Ehi, posso offrirteli?» «È molto gentile», dissi io. «Forse un danese alla frutta. Questi sono panini dolci?» «Passaglieli dietro, vuoi?». Ashraf lo fece, sfruttando questa opportunità per darmi un fascicolo che conteneva i miei scritti filosofici, un riassunto del nostro albero ge- nealogico in scrittura a specchio, un vaglia emesso da un ufficio posta- le delle Isole Cayman e il mio diario. Grazie a lui potrò mettere insie- me qualcosa di simile a una narrazione coerente (una narrazione ap- prossimativamente coerente, sospetto, allo stesso modo in cui il dolce ruggito all’interno di una conchiglia somiglia alle voci di un telefono senza fili). So di far apparire mio fratello un delinquente, ma noi non litighiamo. Ci prendiamo cura l’uno dell’altro. A modo suo Ashraf ha un debole per la musica, l’amore, la poesia e la bellezza. Adora Nusrat Fateh Ali Khan9, adora ballare, le lanterne di carta, i dischi di Barry Manilow di mia madre e ogni aspetto di grazia in una donna. Per i poeti sufi Dio era una sposa oscura, un inebriatore, un numero primo; gli stessi para- goni si applicano ad Ashraf. La cosa peggiore di cui lo si può accusare sono le predilezioni comuni nel suo ambiente, tra cui la preferenza per la gratificazione immediata e un’esaltazione sfrenata per la violenza.

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L’autista osservò Ashraf mentre si preparava a scendere. Con uno sguardo strano sul grosso volto, quasi aggrottando le sopracciglia, si voltò verso di me. «Sapete, voi due vi somigliate in modo incredibile». «Stai sognando, muchacho», rispose Ashraf affacciandosi dal finestri- no. «Com’è possibile? Questo pendejo viene dal Pakistan, mentre io sono di San Juan, nato e cresciuto lì». Aveva davvero fatto pratica con lo spagnolo. «Cinque anni fa mi padre, Benito, ha trasferito tutta la fa- miglia, armi e bagagli, più due nonne, a Jerome Avenue nel Bronx. Je- rome Avenue è dove girano tutte le più monadas. Se ci incontriamo di nuovo, devi venire a vedere coi tuoi occhi, fratello mio».

1 Capitale del Mozambico, l’odierna Maputo. 2 Grande gruppo assicurativo. 3 I ghazal sono componimenti poetici in lingua urdu. 4 Faiz Ahmed Faiz era un poeta pakistano, considerato uno dei più famosi poeti urdu moder- ni. 5 Cantante indiana. 6 È la suddivisione delle classi scolastiche in Sudafrica. Si parte dalla “standard 5”, all’età di dodici anni, e si finisce con la “standard 10” a diciassette anni. 7 Gruppo linguistico e sociale originario del Pakistan e dell’India. Storicamente sono una co- munità di commercianti. 8 Agenzia per la pesca e per la fauna. 9 Cantante pakistano.

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