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Dispensa di testi discussi nel libro del prof. Daniele Maria Pegorari o lo specchio oscuro della modernità. Tre secoli di riscritture italiane 1705-2019 (Metauro, Pesaro 2019) valida per l’anno accademico 2020-2021

La dispensa, curata dal titolare del corso, costituisce un’antologia a esclusivo uso didattico e non è consentita la sua diffusione all’infuori di questa finalità. Si ringraziano molto calorosamente Lino Angiuli, Andrea Cra- marossa e Davide Rondoni per la loro esplicita e liberale concessione dei testi dei cui diritti sono proprietari insieme ai loro editori. Tale concessione è da intendersi come eccezionale, allo scopo di agevolare lo studio, con beneficio economico degli studenti dell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”.

L’antologia contiene:

A. Zeno, Pietro Pariati, Ambleto (1705), Nuova grafica lucchese, Lucca 1979. F. Clerico, Amleto. Ballo tragico in cinque atti, da rappresentarsi negl’imperiali regj teatri di corte, Schmidt, Vienna 1798. A. Boito, Amleto, Ricordi, Milano-Napoli 1865. G. Verga, Rosso Malpelo (1878), in Id., Vita dei campi, Treves, Milano 1880. L. Capuana, Ofelia (1893), in Id., Fausto Bragia e altre novelle, Giannotta, Catania 1897. E. Flaiano, Amleto ’43 (Monologo in quattro quadri e un epilogo), in Id., Opere. Scritti postumi, vol. I, Bompiani, Milano 1988.

G. Testori, Post- (1983), selezione della scena IV, in Id., Opere, vol. III: 1977-1993, Bompiani, Milano 2013. M. Devena, Sospetto di magia, Editori Riuniti, Roma 1976 (selezione delle pp. 9-39) C. Bene, Pinocchio e Proposte per il teatro (1964) – Un altro Amleto di meno (1983) – Hamlet Suite. Versione-collage da Jules Laforgue (1994), in Id., Opere. Con l’Autografia di un ritratto, Bompiani, Milano 1995.

F. Guccini, , in Id., Due anni dopo, EMI, 1970. F. De André, F. De Gregori, Via della Povertà, in F. De André, Canzoni, Produttori Associati, 1974. S. Endrigo, Ofelia, in Id., Sarebbe bello, Vanilla-Fonit Cetra, 1977. S. Cammariere, S.S. Sacchi, Il principe Amleto, in S. Cammariere, Sergio Cammariere, Sony Music Entertainment Italy, 2012. C.M. Pegorari, Ofelia, quattro testi per un’installazione di M. De Carolis a Calvisano (BS), 1999. L. Angiuli, Elsinore/Helsingør, in Id. Diana Battaggia (a cura di), Luoghi d’Europa, La Vita Felice, Milano 2015. L. Angiuli, Amleto innamorato (2018), in Id., Addizioni, Aragno, Torino 2020. D. Rondoni, Ghertruda, la mamma di A., in Id., Cinque donne e un’onda, Ianieri, Pescara 2015, pp. 53-101. A. Cramarossa, False Hamlet. teatrale in Fa maggiore, Fondo Verri, Lecce 2019.

AMBLETO

Dramma per musica.

testi di Apostolo Zeno Pietro Pariati

musiche di Francesco Gasparini

Prima esecuzione: 16 gennaio 1706, Venezia.

www.librettidopera.it 1 / 62 Informazioni Ambleto

Cara lettrice, caro lettore, il sito internet www.librettidopera.it è dedicato ai libretti d'opera in lingua italiana. Non c'è un intento filologico, troppo complesso per essere trattato con le mie risorse: vi è invece un intento divulgativo, la volontà di far conoscere i vari aspetti di una parte della nostra cultura.

Motivazioni per scrivere note di ringraziamento non mancano. Contributi e suggerimenti sono giunti da ogni dove, vien da dire «dagli Appennini alle Ande». Tutto questo aiuto mi ha dato e mi sta dando entusiasmo per continuare a migliorare e ampliare gli orizzonti di quest'impresa. Ringrazio quindi: chi mi ha dato consigli su grafica e impostazione del sito, chi ha svolto le operazioni di aggiornamento sul portale, tutti coloro che mettono a disposizione testi e materiali che riguardano la lirica, chi ha donato tempo, chi mi ha prestato hardware, chi mette a disposizione software di qualità a prezzi più che contenuti. Infine ringrazio la mia famiglia, per il tempo rubatole e dedicato a questa attività.

I titoli vengono scelti in base a una serie di criteri: disponibilità del materiale, data della prima rappresentazione, autori di testi e musiche, importanza del testo nella storia della lirica, difficoltà di reperimento. A questo punto viene ampliata la varietà del materiale, e la sua affidabilità, tramite acquisti, ricerche in biblioteca, su internet, donazione di materiali da parte di appassionati. Il materiale raccolto viene analizzato e messo a confronto: viene eseguita una trascrizione in formato elettronico. Quindi viene eseguita una revisione del testo tramite rilettura, e con un sistema automatico di rilevazione sia delle anomalie strutturali, sia della validità dei lemmi. Vengono integrati se disponibili i numeri musicali, e individuati i brani più significativi secondo la critica. Viene quindi eseguita una conversione in formato stampabile, che state leggendo.

Grazie ancora.

Dario Zanotti

Libretto n. 199, prima stesura per www.librettidopera.it: febbraio 2010. Ultimo aggiornamento: 23/12/2015.

In particolare per questo titolo si ringrazia la Biblioteca nazionale «Braidense» di Milano per la gentile collaborazione.

2 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Attori ATTORI

AMBLETO, erede legittimo del regno, amante di Veremonda ......

VEREMONDA, principessa di Allanda, amante di Ambleto ...... SOPRANO

FENGONE, tiranno di Danimarca ...... TENORE

GERILDA, moglie di Fengone, e madre di Ambleto ...... SOPRANO

ILDEGARDE, principessa danese ...... SOPRANO

VALDEMARO, generale del regno ...... CONTRALTO

SIFFRIDO, confidente di Fengone, e capitano delle guardie reali ...... CONTRALTO

www.librettidopera.it 3 / 62 Eccellenza Ambleto Eccellenza

Sono così abbondanti le grazie, con le quali vostra eccellenza si degna di qualificare il nostro rispetto, che ormai diventa nostro rimorso ciò che finora ci servì di vantaggio, e non potendo noi retribuirle cosa che sia ad esse proporzionata, abbiamo quasi più volte desiderato che fosse ella men generosa nell'impartircele, perché noi fossimo meno confusi nell'impotenza di corrispondere alle medesime. Ma perché né dobbiamo mortificarci di ciò che ridonda in fregio del magnanimo di lei cuore, né sofferire che la benignissima sua protezione rimanga più lungamente senza qualche pubblica testimonianza della nostra umilissima gratitudine, mossi da pari ragioni, siamo concorsi nel conforme sentimento di consacrare al nome autorevole dell'e. v. il dramma presente, e di supplicarla ad aggradirne l'offerta, debole sì, ma sincera. In quest'atto non creda ella che noi pensiamo a diffalcare alcuna minima porzione de' nostri comuni doveri; anzi è nostro voto di accrescerli con ottenere il singolar beneficio di un clementissimo patrocinio alle nostre fatiche. Egli è assai noto al mondo che il chiarissimo sangue, la famiglia gloriosa, e la persona istessa di v. e. è superiore a qualsivoglia applauso: onde riesce anche manifesto che nel chiamarla ad invigorire con la sua assistenza la nostra fiacchezza, non vi ha parte né la illustre sua nascita, né 'l singolare suo merito; ma tutto ben sì l'interesse è del nostro credito che ricorre per appoggio alla di lei autorità riverita. Piaccia così all'e. v. di perdonare all'ardimento di tale speranza; ed accogliendo in questo ufficio un mero tributo della nostra ossequiosa riconoscenza, ci permetta che in esso comparisca l'obbligo ed il titolo col quale ci protestiamo di v. e. umiliss.mi divotiss.mi ed obblig.mi ser.ri N.N.

4 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Argomento Argomento

Orvendillo, re di Danimarca, da Fengone che men di ogni altro il dovea, a tradimento fu ucciso. Il traditore occupò la corona, e mancando di fede ad Ildegarde, principessa danese, con cui per l'addietro passava amori, sposò a forza la regina Gerilda moglie di Orvendillo, e madre di Ambleto, il quale non sapendo come fuggire la morte che gli preparava il tiranno, si finse pazzo. Sospettò questi del vero, e tentò vari mezzi per assicurare i suoi dubbi. Fra le molte prove che egli ne fece, eccone le tre principali. La prima fu di scegliere una bellezza delle più singolari che fossero nella sua corte, dando ordine che questa fosse condotta nel più folto di un bosco, dove Ambleto era solito a ritirarsi, con animo che alla veduta di questa fosse egli per dar qualche segno di sua finzione: del che dovevano esservi testimoni in quella selva nascosti. Fingesi che l'ordine ne fosse dato a Veremonda, principessa di Allanda, amata dal principe durante la vita del padre, e promessagli in isposa, la quale dopo la morte del re Orvendillo ritiratasi ne' suoi stati aveva mossa guerra al tiranno; ma vinta e presa da Valdemaro generale di Danimarca, era stata da lui che n'era divenuto amante, condotta come in trionfo alla corte. Svanito il primo disegno, poiché Ambleto cautamente avvertito, che vi era chi lo ascoltava, continuò ne' suoi finti deliri, si venne al secondo esperimento, che fu con la regina sua madre. Simulò Fengone di voler imprendere un viaggio lontano; e lasciata la reggenza dello stato a Gerilda, fece nelle stanze di questa nascondere un suo fidato, perché notasse i ragionamenti del figliolo con la madre, che probabilmente ve lo avrebbe fatto condurre per desiderio di vederlo e di abbracciarlo, il che per altro non le veniva permesso. Anche questo artificio andò a vuoto. Il principe avvisato di ogni cosa (fingesi da Siffrido consigliere in apparenza fidatissimo di Fengone, ma internamente suo capitale nemico) entrò nella camera della madre, e mostrando in prima di non conoscerla, qua e là raggirandosi per rinvenire il nemico nascosto, e finalmente scopertolo, con più ferite l'uccise. Indi conoscendo che poteva parlare con sicurezza, rivoltosi alla regina, le manifestò senz'altra finzione il suo animo, e rinfacciandole la sua sofferenza, la trasse agevolmente ne' suoi sentimenti. L'ultima prova fu nelle allegrezze di un convito. Il tiranno che meditava di ubriacare il principe per iscoprirne l'interno col vino, restò da lui medesimo con una bevanda alloppiato, e per ordine di Ambleto fu poco dopo in pena de' suoi tradimenti fatto morire. Tanto riferisce Saffone Gramatico, antico scrittore danese, e dopo lui ne raccontano il fatto il Pontano, e 'l Meursio nelle loro Storie di Danimarca. La scena si rappresenta in Letra, antica residenza de' monarchi danesi, della quale oggidì non ci è rimasto vestigio. Non paia strano ad alcuno che vi si nomini qualche deità de' greci col vocabolo greco. I danesi, durante il loro gentilesimo, le avevano pure in venerazione, benché con diverso nome. Poiché Giove presso di loro chiamavasi Toro. Marte appellavasi Odino, ecc. Del che si possono consultare Tommaso Bartolini il giovane, Olao Vormio, ed altri scrittori settentrionali. Qui si è stimato bene servirsi del nome più conosciuto per più chiarezza, e per isfuggire la confusione di vocaboli così strani.

www.librettidopera.it 5 / 62 Atto primo Ambleto A T T O P R I M O

Scena prima

Portici interni della reggia. Fengone assalito da Sicari, e Gerilda da un altro lato con Guardie.

FENGONE Ah traditori! Olà, custodi, aita.

GERILDA Al vostro re? Felloni, vi costerà la vita.

FENGONE Inseguitegli, o fidi, e nel lor capo recatemi un trofeo del valor vostro. Per te vivo, o consorte.

GERILDA (Iniquo mostro.)

FENGONE Tanto deggio al tuo amor. GERILDA Di' al mio dovere: che in me trovi la moglie, e non l'amante. FENGONE Sposa di un anno ancor nemica? GERILDA Ancora l'ombra vien di Orvendillo, il morto sposo a turbar nel tuo letto i miei riposi. Quel che stringi, ei mi dice, è 'l carnefice mio. Queste ferite opre son del suo braccio, e se no 'l vieta il cielo, quel braccio istesso alza già il ferro, e in seno già lo vibra di Ambleto, il caro figlio. E tu, barbara madre, empia consorte, e lo soffri? E lo abbracci? O dio! Dagli occhi si dilegua frattanto l'ombra col sonno, e sol vi resta il pianto. FENGONE Ah! Gerilda, Gerilda, e quai sonni trar posso se non di amor, di sicurezza almeno a te nemica in seno? GERILDA Odi, Fengon. Son tua nemica, è vero. Bramo il tuo sangue: bramo la mia vendetta. Esser vorrei tuo inferno per dare a me più furie, a te più doglie; ma con tutto quest'odio io ti son moglie.

6 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

GERILDA Nel tuo sen, crudel, vorrei vendicare il mio dolor, ma si oppone a' sdegni miei questa fede che ti diede la virtù, non mai l'amor. Nel tuo sen, crudel, vorrei vendicare il mio dolor.

Scena seconda Fengone, e Siffrido.

SIFFRIDO Grazie agli dèi. T'inchino fuor di periglio, o re. (Perfida sorte!)

FENGONE Di Gerilda l'amor mi tolse a morte.

SIFFRIDO Ma qual duolo ancor serbi?

FENGONE Goder poss'io con mille insidie al fianco?

SIFFRIDO Del felice tuo impero meglio intendi il destin. Vinta è l'Allanda.

FENGONE Trofeo di Valdemaro, il duce invitto.

SIFFRIDO Veremonda è tua schiava.

FENGONE (Anch'io sua preda.)

SIFFRIDO Ambleto è in tuo poter.

FENGONE Pur ne pavento.

SIFFRIDO Che puoi temer d'un forsennato? Han tolto tante sciagure il senno all'infelice.

FENGONE Fors'egli finge.

SIFFRIDO È gelosia di regno.

FENGONE Siffrido, un gran timore ha un grande ingegno. Cada egli pur.

SIFFRIDO Ch'ei cada? Qual frutto avrai? D'odio, e d'infamia.

FENGONE E ognora dovrò temerne?

SIFFRIDO I tuoi sospetti accerta.

FENGONE Ma per qual via?

SIFFRIDO Di Veremonda un tempo non arse il prence?

FENGONE (Anch'io ne avvampo.) È vero.

www.librettidopera.it 7 / 62 Atto primo Ambleto

SIFFRIDO Non gli è madre Gerilda?

FENGONE De' suoi primi sponsali unico frutto.

SIFFRIDO Può a fronte di beltade, o di natura l'arte coprirsi? E se pur anche Ambleto sforza gli affetti, e fa tacere il sangue, fanne a mensa real l'ultima prova; che fra le tazze il simular non giova.

FENGONE Saggio consigli, e non si tardi l'opra. Tosto la real caccia vanne, amico, a dispor. Me chiama intanto di Valdemaro il merto alla sua gloria.

SIFFRIDO Già ferve al tuo destin sorte e vittoria.

FENGONE Smanie di re geloso, datevi un dì riposo, stanche di più penar. Schiavo di rio sospetto son condannato, e affretto me stesso a paventar. Smanie di re geloso, datevi un dì riposo, stanche di più penar.

Scena terza Siffrido, e poi Veremonda.

SIFFRIDO Vanne, o crudel. Non sempre la morte fuggirai ch'io ti preparo. Al caro padre, ed al german diletto, dall'odio tuo svenati, questa vittima io deggio, e 'l fatal colpo... Qui Veremonda? (Il suo dolor m'accora.)

8 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

VEREMONDA Empia sorte, a me togliesti e comando, e libertà, ma non nasce il mio dolore da miseria, o da catene. Quel che piango, è un maggior bene, già delizia dell'amore, ora oggetto alla pietà. Empia sorte, a me togliesti e comando, e libertà.

SIFFRIDO Principessa, al tuo pianto fa ragione il mio duol.

VEREMONDA La mia sciagura comincio a meritar, se tu la piangi. La pietà di un fellon giusta la rende.

SIFFRIDO Ciò che par fellonia, sovente è fede.

VEREMONDA Arte è d'anima rea finger virtude.

SIFFRIDO Mal si giudica il cor sol dall'esterno.

VEREMONDA Ma l'opre sono il testimon del core.

SIFFRIDO Non muove il mio, che zelo, fede, e onore.

VEREMONDA Del tuo ucciso monarca rispettar l'uccisor: servir l'iniquo distruttor della patria: mirar dall'empio, e sofferirlo, e amarlo, il regno desolato, e sin ridotto alla miseria, o dio! degna ch'io sempre l'accompagni col pianto, il regio erede. Questo è onor? Questo è zelo? E questa è fé.

SIFFRIDO È ver.

VEREMONDA Parti. Usar teco più lunga sofferenza. O diventa mia colpa, o mio tormento.

SIFFRIDO Credimi reo: mi assolverà l'evento. Credimi, sì, qual vuoi, perfido, e traditor: non ho discolpa. Ma in mezzo agli odi tuoi più sento il tuo dolor, che la mia colpa.

www.librettidopera.it 9 / 62 Atto primo Ambleto

Scena quarta Veremonda, e poi Ambleto con Ildegarde.

VEREMONDA Il so. Non ha discolpa il tradimento. Ed è lusinga... Ah! Che vegg'io?

ILDEGARDE Che pensi? (ad Ambleto) AMBLETO Vorrei saper... ILDEGARDE Che mai? AMBLETO Perché non piange l'aurora in cielo, or ch'è prigione il sole. ILDEGARDE (Vezzose frenesie!) VEREMONDA (Pietoso oggetto!) AMBLETO Io vi conosco sì. (ad Ildegarde) Tu Clizia sei, che segui, ma senza speme, intendi ben, di Apollo, che non ti ascolta, i passi. (a Veremonda) Tu Citerea. Ravviso in quel ciglio, in quel labbro Amore assiso. ILDEGARDE (Vaneggia, e m'innamora.) VEREMONDA (L'idea de' primi affetti ei serba ancora.) Ambleto, ormai da pace... AMBLETO A chi favelli? Quest'Ambleto dov'è? Dov'è? ILDEGARDE Tu 'l sei. AMBLETO Io Ambleto? E dov'è il padre? Dove i vassalli? Veremonda? Il trono? Ambleto è morto. Io l'ombra sol ne sono. VEREMONDA (Misero prence!) ILDEGARDE Dove te n' vai? Che cerchi? AMBLETO Cerco il cor che perdei. ILDEGARDE (Core di sì bel seno almen foss'io.) VEREMONDA (Tu non sei senza cor se tieni il mio.) Ma quando lo smarristi? AMBLETO Allor che la mia pace a me fu tolta. VEREMONDA Chi te l' rapì?

10 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

ILDEGARDE Chi la possiede?

AMBLETO Ascolta.

AMBLETO A questi occhi giunse un dì la bellezza con amor, e per gli occhi in sen mi entrò. Quando poi da me partì, se ne uscì con essa il cor, e l'amore vi restò!

ILDEGARDE Dunque ancor sei amante? AMBLETO Ma dove, dov'è Ambleto? Dov'è 'l mio cor? (a Veremonda) Forse in quel sen racchiuso? No no: ch'egli è di neve, e 'l mio povero core è tutto foco.

VEREMONDA Mi struggo di pietade.

ILDEGARDE (Ardo di amore.) Veremonda, che tardi? A Valdemaro nel suo nobil trionfo la tua dimora il più bel fregio invola. (Così col bel che adoro io resto sola.)

VEREMONDA Si ubbidisca la sorte. Le sventure di Ambleto veder senza morir più non poss'io, perché il duol ch'ei non sente, è dolor mio.

VEREMONDA Nel furor de' suoi deliri trovo ancor la sua beltà. E l'affetto dice a me che i miei sospiri son di amor, non di pietà.

Scena quinta

Ildegarde, ed Ambleto.

ILDEGARDE (Or si tenti il destin.) Prence. AMBLETO Non vedi? Partito è 'l sol: tutto si oscura il giorno. Deh! Nasconditi, fuggi. ILDEGARDE Almen...

www.librettidopera.it 11 / 62 Atto primo Ambleto

AMBLETO Vanne al destino, e di' che ormai faccia spuntar quel giorno in cui si stia col diadema real...

ILDEGARDE Chi?

AMBLETO La pazzia.

ILDEGARDE Sentimi.

AMBLETO Hai tu 'l mio scettro? Hai tu 'l mio regno?

ILDEGARDE In questo sen l'avrai.

AMBLETO Incauta farfalletta, l'ali perder potrai se del tuo foco ai rai qui più ti aggiri.

ILDEGARDE Sembran furie, e son grazie i suoi deliri.

ILDEGARDE Non so qual sia maggior follia o 'l danno della mente, o 'l mal d'amore; so ben che uguali son questi mali, il viver senza senno, e senza core.

Scena sesta

Ambleto.

AMBLETO Questa sola mi resta, iniqui fati, per le miserie mie strada infelice? Ciò che sperar dovea dalla madre, da' sudditi, dal sangue, dal pudico amor mio, dal mio valore, m'imponete ch'io deggia ad un inganno? Pur se giova, si finga, e i giusti sdegni copra follia, purché si viva e regni.

AMBLETO Stelle, voi che in ciel reggete proteggete la mia speme. Se placate un dì mirate. L'innocenza de' miei pianti, già respira, e più non teme.

12 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo Scena settima

Piazza per gli spettacoli. Valdemaro con Séguito, e poi Veremonda.

VALDEMARO Tromba in campo, e spada in guerra più non armi i suoi terrori. Abbiam pace, abbiam vittoria. Volto il ferro in miglior uso sol le glebe apra alla terra, e coltivi eterni allori, Dania invitta, alla tua gloria.

VEREMONDA Eccomi Valdemaro. A' tuoi trionfi servano pur di Veremonda i ceppi. Tuo pregio è ch'io li tragga, ed è mio vanto trargli in trofeo senza viltà di pianto.

VALDEMARO S'io per tuo scorno, o per mio fallo agli occhi della Dania ti esponga, a te lo dica quel rispettoso amor...

VEREMONDA Di amor non parli all'infelice beltà chi tal la rese.

VALDEMARO Del nemico le offese risarcirà l'amante.

VEREMONDA Tardo è 'l riparo, e la cagion n'è vile.

VALDEMARO Non condannar di tua beltà i trofei.

VEREMONDA Se piacciono a un nemico, son ribelli al mio cor sin gli occhi miei.

Scena ottava

Fengone con Guardie, e li suddetti.

FENGONE Fra queste braccia, ed all'onor di questi spettacoli di gioia vieni, illustre campione, invitto duce. Vincesti: eguale al merto premio si dée. Tua sia la Falstria. È degno che stringa scettro il difensor d'un regno.

www.librettidopera.it 13 / 62 Atto primo Ambleto

VALDEMARO Si è vinto, o gran monarca, con l'armi tue, con la tua gloria. Pure se qualche prezzo all'opra vuoi conceder, signore, ecco i miei voti. Suddita alle tue leggi Falstria rimanga. In dono, od in mercede sol si dia Veremonda alla mia fede.

FENGONE Duce...

VEREMONDA No. A Veremonda, benché vinta, e cattiva, si lasci in libertà ch'ella risponda. La ragion che ti diero armi e fortuna sulla mia vita, è tuo trofeo. Di questa, Valdemaro, disponi. Io son tua spoglia, ma che ingiusto tu voglia stendere ancor sovra gli affetti miei l'autorità della vittoria e 'l frutto, soffri ch'io 'l dica, è tropp'orgoglio, o duce. Libera ho l'alma, e in lei le tue conquiste alcun poter non hanno. Tu se' mio vincitor, se vuoi mia vita, ma se pensi al mio cor, se' mio tiranno. E tu, signor, che in fortunato impero reggi la Dania, ed hai propizio il fato, non ti abusar del suo favor. Sostieni contro un superbo amor la mia costanza; né soffrir che trionfi sulle perdite mie l'altrui baldanza.

FENGONE In me, vergine eccelsa, non troverai, qual pensi, un re nemico. Rasserena il bel volto, e tutto attendi da un re che ti assicura. (E che ti adora.)

VALDEMARO (Delusi affetti, e non morite ancora?)

FENGONE Se alle tue brame, o duce, Veremonda si oppone, il re ne assolvi: pur non andrai senza mercé. Qui tosto venga Ildegarde. (a Veremonda) Intanto meco ti affidi. VEREMONDA O ciel! Deh! Col mio duolo del trionfo il piacer non si funesti. FENGONE Tutto a te si conceda.

14 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

VEREMONDA Nella mia sfortunata prigionia sospirando ti dimando questa sola libertà. Quando un'alma non è in calma, piange solo le ragioni del suo duolo, e piangendo amar non sa. Nella mia sfortunata prigionia sospirando ti dimando questa sola libertà.

Scena nona Fengone, Valdemaro, e poi Gerilda.

FENGONE Vieni, o duce, agli onori.

VALDEMARO (Meco piangete, o sfortunati amori.)

GERILDA Fermati, o re. FENGONE Consorte. GERILDA A un sol passo che inoltri, avrai la morte. FENGONE Come? VALDEMARO Che? GERILDA Già ruina la fatal pompa. VALDEMARO O precipizi orrendi! GERILDA E si apron tombe ove i trionfi attendi. FENGONE Ed è ver ch'io ti deggia... GERILDA La vita, sì, per mia sciagura, iniquo. FENGONE Ma chi l'inganno ordì? Come, o Gerilda a te ne giunse il grido? VALDEMARO Parla, scuopri l'infido. GERILDA Si svelò il tradimento: si taccia il traditor. Dir quel dovea la moglie di Fengon. Tacer dée questo la moglie di Orvendillo. FENGONE Chi mi lascia in timor, mi vuole in rischio.

www.librettidopera.it 15 / 62 Atto primo Ambleto

GERILDA Piacemi che principi sin dalla mia pietà la mia vendetta.

FENGONE Deh! Consorte diletta...

GERILDA Addio. Rimanti salvo per me, per me di vita incerto. Prega gli dèi, che tutti mi giungano all'orecchio i tuoi perigli: che di me non avrai miglior difesa. Ma ti vegliano ancora tanti nemici, e tante insidie intorno, che possibil non è la tua salvezza. Stanno l'odio, e la morte alle tue soglie: temi ciascun: sol non temer chi è moglie.

Scena decima

Fengone, Valdemaro, Ildegarde.

FENGONE Duce, vedesti mai più severo favor? Pietà più cruda? VALDEMARO Stupido resto, e temo.

ILDEGARDE Qui per tuo cenno...

FENGONE Bella.

ILDEGARDE Tal parvi agli occhi tuoi, quando...

FENGONE Frena l'accuse. In Valdemaro avrai chi risarcisca l'infedeltà d'un re. Tu sei sua sposa. Ti sorprende la gioia? In Ildegarde duce avrai la mercé del tuo valore. Ti confonde il piacer?

VALDEMARO (Di sdegno avvampo.)

ILDEGARDE A Valdemaro io sposa?

FENGONE Sì: l'arte io so d'una beltà ritrosa.

ILDEGARDE Del tradito amor mio così compensi il danno?

FENGONE Eh! Che i grandi in amor legge non hanno.

16 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

FENGONE Or prepara Amor due dardi, e se n' viene al vostro cor e per darvi eguale ardor, nel balen de' vostri sguardi due facelle accende Amor. Or prepara Amor due dardi.

Scena undicesima Ildegarde, e Valdemaro.

ILDEGARDE Vanne, o perfido, va'. Sentimi, o duce, non è disprezzo no, non è rifiuto il negarti la destra; è una ragione del cor ch'è già perduto in altri lacci.

VALDEMARO Con l'esempio del mio lodo il tuo core. Ma dimmi: ami Fengone?

ILDEGARDE Adoro Ambleto.

VALDEMARO Segui ad amarlo. (Essa un rival mi toglie.) Io Veremonda.

ILDEGARDE Segui. Segui, e spera mercé. Le sue catene la renderan men fiera.

VALDEMARO Ella troppo è crudele.

ILDEGARDE Eh! Segui, e spera. (parte)

VALDEMARO La speme del nocchiero è in una stella; e nella speme ha la sua stella Amore. Se l'uno è abbandonato, ahi! Che procella! Se l'altro è disperato, ahi! Che dolore!

Scena dodicesima Parco reale. Gerilda, e Siffrido.

SIFFRIDO Due volte il fato estremo pendé sul capo al regnator tiranno.

GERILDA E due volte per me non cadde l'empio.

www.librettidopera.it 17 / 62 Atto primo Ambleto

SIFFRIDO Ma, regina, perché? Tu stessa al colpo sproni la fede, e poi la man disarmi?

GERILDA Chi sa oprar e tacer, può vendicarmi.

SIFFRIDO Solo a Gerilda io confidai l'arcano.

GERILDA Far che 'l sappia Gerilda, egli è un tradirlo.

SIFFRIDO E una moglie regina tacer potrà ciò ch'io tentai?

GERILDA Ti affida. Se la trama perì, l'autore n'è salvo.

SIFFRIDO Ma non hai salvo il figlio, cui dal trono sovrasta odio e periglio.

GERILDA O dèi!

SIFFRIDO Qui 'l re. Cela il tuo duol.

Scena tredicesima

Fengone con Séguito, e li suddetti.

FENGONE Siffrido, persiste ancor nel suo tacer Gerilda? SIFFRIDO Seco perduta è l'arte. GERILDA Piace, perché tua pena, a me me l'arcano. SIFFRIDO Comanda un re. FENGONE Prega un marito. GERILDA È vano. FENGONE Furor ti regge, tu ragion lo credi. Ma poiché la salute d'un fellone ti è a cuor, più che la mia, ceda l'amor. L'esempio tuo si segua. L'odio, il furor non si risparmi omai. GERILDA Ah! T'intendo, o tiranno. FENGONE Tu mi chiami tiranno, e tu mi fai. GERILDA Dove pensi ferirmi, il cor mi dice. Moglie non temo, e temo genitrice. Pur senti, io non impetro lagrimosa al tuo piè che viva il figlio. Ambleto, e se non basta, pera anche il regno, anche Gerilda mora; ma il carnefice tuo sia vivo ancora.

18 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

GERILDA Minacciami, lusingami con l'odio, o con l'amor. Saprò tacer. Se vieni sposo amante, dirò: non vo' goder se barbaro regnante, dirò: non so temer. Minacciami, lusingami con l'odio, o con l'amor. Saprò tacer.

Scena quattordicesima Fengone, e Siffrido.

FENGONE Qui, Siffrido, saprò, se Ambleto sia o politico, o stolto. Qui verrà Veremonda. Tu parti. Un cauto amore quand'ha chi osservi, ha i suoi riguardi, e tace.

SIFFRIDO E beltà, quando è sola, è ancor più audace.

Scena quindicesima

Fengone, e poi Veremonda.

FENGONE Viene la bella. O quale mi si accende nel sen voglia amorosa! Ma sinché rode il petto tarlo di gelosia, taccia l'affetto.

VEREMONDA Eccomi a' cenni tuoi.

FENGONE Mia principessa, (che a te non toglie il grado chi ti tolse l'impero) a me chiedesti di frenare il desio di Valdemaro. Il feci, o bella.

VEREMONDA E fu cortese il dono.

FENGONE Per me non fosti al suo trionfo esposta spettacolo infelice.

VEREMONDA E fu dono gradito il mio contento.

FENGONE Or di mia cortesia, de' doni miei ti chieggo una mercé.

VEREMONDA Giusta? L'avrai.

www.librettidopera.it 19 / 62 Atto primo Ambleto

FENGONE Ambleto già ti amò: tu pur l'amasti. Vo' saper, s'ei sia folle, o s'ei s'infinga. Già m'intendi. Con esso rimanti in libertà. Lascia che sfoghi senza contrasto il genio antico, o parli in sua balia, qual parla altrui, da stolto.

VEREMONDA Cieli!

FENGONE Ei vien. Qui mi celo, e qui l'ascolto. (si ritira)

Scena sedicesima Ambleto da cacciatore, e Veremonda.

AMBLETO Quante belve han queste selve, tante furie ha questo petto.

VEREMONDA Ch'io cospiri a tradir l'idolo mio?

AMBLETO Tormentato, lacerato sente il mal... Che vegg'io? Qui Veremonda?

VEREMONDA (In sen palpita l'alma.)

AMBLETO (Dopo tante tempeste ecco una calma.)

VEREMONDA (Sfortunato cimento.)

AMBLETO (Son pur solo, o speranze.)

VEREMONDA (Ahi! Che far deggio?)

AMBLETO Or le dirò che sol d'amor vaneggio. O del mio cor fiamma innocente, e chiara quest'è pur... ma che fia? Nemmeno un guardo?

VEREMONDA (Mi fa ingegnosa il rischio suo.) (scrive col dardo in terra)

AMBLETO (Pur solo mi veggio. A che tacer?) VEREMONDA (Leggesse almeno.) AMBLETO Eccoti al piè misero sì, ma sempre... (E tuttavia mi sdegna?) (guarda per la scena)

VEREMONDA (Incauto ei cancellò le fide note: ma le rinnovi il dardo. Amor mi aita.) (torna a scrivere in terra col dardo)

20 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

AMBLETO (Son perduto. Ma infida, e sorda, e ingrata sappia quant'io l'adoro, e s'ella poi pietà mi nega, e fede qui se le mora al piede.) Volgetevi pietose, o luci amate, almeno a rimirar le mie ferite.

VEREMONDA Io ti ho ferito? Mira il ferro del mio dardo. Ei del tuo sangue tinto non è.

AMBLETO Che leggo? «Il re ti ascolta.» (Intendo.) Lascia, sì, lascia, mia dèa, ch'io baci un sì bel dardo.

VEREMONDA (Amor mi arrise.)

AMBLETO (Ma nel baciarlo ei mi addolcì le labbra.) Dimmi: l'hai tu di nettare, o di miele sparso, Cinzia gentil, Cinzia, mio nume.

VEREMONDA Che favelli? Non vedi? Son Veremonda, che Orvendillo un giorno...

AMBLETO Che parli di Orvendillo? Si cancelli un sì bel nome. E dai faggi, e dalle rupi.

VEREMONDA Perché?

AMBLETO Perché? Me 'l divoraro i lupi.

VEREMONDA (O cauto, o forsennato ei dice il vero.)

AMBLETO Senti, Diana. Ha queste selve un mostro fiero, e crudel, degno de' nostri dardi. Tu mi reggi la destra, e a te divoto ne recherò l'orrido teschio in voto.

VEREMONDA Deliri, o prence.

AMBLETO Taci. Ecco la fera tra quelle frondi. O che bel colpo!

VEREMONDA Ferma.

Scena diciassettesima

Fengone, e li suddetti.

FENGONE Cotanto audace? AMBLETO E chi se' tu? Rispondi. VEREMONDA Il re. Che? No 'l conosci?

www.librettidopera.it 21 / 62 Atto primo Ambleto

AMBLETO Il re? Ah ah ah. Un satiro tu sei, (guardati, bella dèa) crudo, e lascivo nemico delle leggi, e degli dèi.

FENGONE (Si avvalora il sospetto.)

AMBLETO (L'ira qui può tradir la mia vendetta.)

VEREMONDA Ambleto, ove te n' vai?

AMBLETO Giove mi aspetta.

AMBLETO Quando io torni, voi vedrete che il baleno, il lampo, il folgore meco in terra io porterò. Le tempeste, le comete il terror, la strage, il fulmine, e la morte in pugno avrò. Quando io torni, voi vedrete che il baleno, il lampo, il folgore meco in terra io porterò.

Scena diciottesima

Fengone, e Veremonda.

FENGONE (Sono anche incerto.) Il prence forse delira, e 'l suo maggior delirio fu 'l partir da voi, luci adorate. VEREMONDA A chi parli? FENGONE A' tuoi lumi, ed al tuo core. VEREMONDA Tiranno. O del mio nome troppo debole virtù, se non spaventi sì temerario ardire! Ardir tropp'empio, se della mia virtude oltraggi il lume? FENGONE Empio no, no 'l chiamar. Chiamalo cieco, perch'è un ardir d'amore. VEREMONDA E parli meco? Tu re marito a Veremonda amori? FENGONE Non sono eterne al cor d'un re, mio bene, d'Imeneo le catene.

22 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto primo

FENGONE Meglio intendi un dolce affetto, e saprai che non ti offende. Non è oltraggio, ma rispettoso quel desio che in me si accende. Meglio intendi un dolce affetto, e saprai che non ti offende.

Scena diciannovesima Veremonda.

VEREMONDA A tante mie sciagure si aggiungerà l'indegno amor d'un empio? Ma si aggiunga. Del fato vinsi tutto il furor. Vincasi ancora tutto il poter di così rea baldanza, ed abbia più trofei la mia costanza.

VEREMONDA Quanto più gode tra voi contenta, o selve amene, la pastorella. Qui forza o frode non la spaventa; e col suo bene d'amor favella. Quanto più gode tra voi contenta, o selve amene, la pastorella.

www.librettidopera.it 23 / 62 Atto secondo Ambleto ATTO SECONDO

Scena prima

Cortile segreto. Fengone, e Siffrido.

FENGONE Tanto seguì. L'arti deluse e i vezzi di beltà lusinghiera. SIFFRIDO Pazzia già certa un fier rival ti toglie. FENGONE Eppur vive, Siffrido, il mio timore. SIFFRIDO Se ragion no 'l sostiene, è un timor lieve. FENGONE Basta che sia di re, perché sia grande. SIFFRIDO Deh! Lascia... FENGONE No: la madre all'amante succeda. Fingerò con Gerilda, che ribelli al mio scettro abbiano i Cimbri scosso il lor giogo. Io duce uscirò al campo, e me lontano, ad essa qui 'l supremo comando concesso sia. SIFFRIDO Qual n'è il tuo fin. FENGONE La madre vaga di dare al figlio i dolci amplessi, farà condurlo alle sue stanze. Iroldo della reggia custode, e a me fedele starà ivi occulto ad osservarne i detti. SIFFRIDO E 'l vero intenderà de' tuoi sospetti. FENGONE Tu taci, e scorta il prence, quando fia d'uopo, alla regina. SIFFRIDO Intesi. (Ma delle trame avvertirò chi deggio.)

Scena seconda Fengone, ed Ildegarde.

FENGONE Venga Gerilda.

24 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo

ILDEGARDE In tale indugio, o sire, la gloria d'inchinarti abbia Ildegarde.

FENGONE Grata del nobil dono a me te n' vieni. È Valdemaro il primo duce dell'armi nostre.

ILDEGARDE Il più forte guerrier, che stringa acciaro.

FENGONE Ornamento del regno, amor del soglio.

ILDEGARDE Sì: ma perdona, o sire...

FENGONE Che?

ILDEGARDE Con tutti i suoi fregi io non lo voglio.

FENGONE Ildegarde, rifletti che non son più tuo amante. Il tuo re sono.

ILDEGARDE E ad un re che fu amante, io rendo il dono.

FENGONE Se nuovo amor non ti avvampasse in seno, non saresti sì audace.

ILDEGARDE I tuoi spergiuri in libertà mi han posta.

FENGONE Scuopri l'oggetto, e l'imeneo ne approvo.

ILDEGARDE A chi già mi schernì, poss'io dar fede?

FENGONE Scettro ancor non stringea chi a te la diede.

ILDEGARDE Il crederti or mi giova. Adoro Ambleto.

FENGONE Stravagante desio!

ILDEGARDE Consola l'amor mio, e lo lascia regnar sovra il mio core.

FENGONE Compiacerti non posso, incauta amante.

ILDEGARDE E la real tua fede?

FENGONE Un re l'oblia, s'ella gli torna in danno.

ILDEGARDE Dovea farmi più accorta il primo inganno.

ILDEGARDE Prestar fede a chi non l'ha, alma mia, tu lo vedi, è frenesia, tu lo provi, è vanità. Quando crede a un falso core, è l'amore una follia, è la speme una viltà. Prestar fede a chi non l'ha, alma mia, tu lo vedi, è frenesia, tu lo provi, è vanità.

www.librettidopera.it 25 / 62 Atto secondo Ambleto Scena terza

Gerilda, e Fengone.

FENGONE (Si lusinghi costei.) Teco, o Gerilda, cospirano a' miei danni anche i vassalli. Già la Cimbria rubella m'obbliga all'armi. Io partirò. Tu sola serba l'arcano. Oh folle al par di quegl'infidi mia facile conquista anche il tuo core! GERILDA Troppo fosti crudel per non averlo. FENGONE Regina, odiami pur: le insidie occulta, né più strugga la man del core i voti.

FENGONE Pur luci amorose, benché disdegnose, sì godo in mirarvi, che ad onta di vostr'ire io voglio amarvi.

GERILDA (Non s'irriti un amor che salva il figlio.) Signor, meno di affetto io ti richiedo. Lasciami l'odio mio con più innocenza.

FENGONE Io parto. A te frattanto tutto resti in balia l'alto comando. Addio, diletta. È questo l'ultimo forse. Io se cadrò fra l'armi, tu sarai sola il mio pensiero estremo. Felice me, se mi perdoni estinto, e se di qualche fior questa, ch'io bacio, candida mano, il freddo sasso adorna.

GERILDA Va', pugna, vinci, e vincitor ritorna.

FENGONE Sulla fronte giù cingo gli allori, e felici ne prendo gli auspici, luci care, dal vostro piacer. Quegli sguardi che armate di amori, per ferire dan l'armi, e l'ardire, e per vincer l'esempio, e 'l poter. Sulla fronte giù cingo gli allori, e felici ne prendo gli auspici, luci care, dal vostro piacer.

26 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo Scena quarta

Veremonda, e Gerilda.

VEREMONDA Son comuni i miei torti anche a Gerilda. Arde di me il tuo sposo. GERILDA Arde di te? VEREMONDA Nel vicin bosco ei stesso scoprì l'ardor. Con quale orror, tu 'l pensa. GERILDA Tanto egli osò? Tu orror ne avesti? VEREMONDA Come favellar può di amore un re marito a vergine real senza oltraggiarla? GERILDA E tu la grave offesa a me confidi? VEREMONDA A te che sei consorte: a te che in lui non ritrovi, lo so, che il tuo tiranno. GERILDA Non mi affligge il suo amor; piango il tuo inganno. VEREMONDA L'inganno mio? GERILDA Gerilda non mai gli fu più cara. VEREMONDA E appunto un core quando cerca tradir, finge più amore. GERILDA Eh! Veremonda, è l'uso, sia senso, o bizzarria, d'alma regnante questa mostrar sovranità d'affetto, col parere incostante: cercar più d'un diletto: voler piacere a molte: molte ancor lusingarne, e poi sol una amarne. VEREMONDA Credi meno ad un empio, io ti consiglio. GERILDA Tu meno al tuo bel ciglio.

GERILDA Hai bel vezzo, hai bel sembiante; ma non sempre a labbro amante déi dar fede, e lusingarti. Facil cede alma che crede; e più vinci in men fidarti di chi giura di adorarti. Hai bel vezzo, hai bel sembiante; ma non sempre a labbro amante déi dar fede, e lusingarti.

www.librettidopera.it 27 / 62 Atto secondo Ambleto Scena quinta

Veremonda, e Valdemaro.

VEREMONDA Troppo, troppo semplice Gerilda! VALDEMARO Veremonda, permetti che teco l'amor mio... VEREMONDA Non mi offende il tuo amor: che non vi è donna, credilo, sì, donna non vi è che irata oda giammai d'onesto amante i voti, ma 'l tuo col mio destino vogliono ch'io sia crudele, e tu infelice. Amo Ambleto. Sì, l'amo. Hai per rivale un che nacque tuo re. Tu nel mio core onora il di lui grado. Ha la tua fede, ed ha la tua virtù questo dovere. VALDEMARO Ambleto? VEREMONDA Sì. Né basta che tu sveni al suo nome i tuoi desiri; convien che tu 'l difenda in questo sen. Qui lo minaccia, o ardire! E qui l'insidia il re con empia brama. VALDEMARO Il re? VEREMONDA Dillo tiranno, e tale ei mi ama.

Scena sesta Ambleto, e li suddetti.

AMBLETO (Che ascolto?)

VEREMONDA Sì: l'iniquo mi ama, e questo degli acerbi miei mali è 'l più funesto.

AMBLETO Flora, dimmi, sai tu l'aspra sventura (a Veremonda) di quel bel giglio?

VEREMONDA (O ciel, quanto è vezzoso!)

AMBLETO E tu sai l'ardimento (a Valdemaro) di quella serpe?

VALDEMARO O sfortunato prence!

28 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo

AMBLETO A me poc'anzi, a me ne raccontò Zeffiro amico il caso. Cinto di amiche rose un dì crescea, bianco figlio dell'alba, un giglio ameno: ed un'ape innocente in esso avea riposo al volo, ed alimento al seno. Quando una serpe, insidiosa, e rea se gli accostò col suo crudel veleno, e allor si udì fra 'l danno, e fra 'l periglio pianger quell'ape, e sospirar quel giglio.

VEREMONDA (Par che per me favelli.)

AMBLETO Deh! Accorrete in difesa a fior sì vago.

VALDEMARO (Seguir conviene i suoi deliri.) Taci, che già fuggì l'infida serpe altrove.

AMBLETO Ma torneravvi. (a Veremonda) Tu di acute spine arma quel fiore, e 'l custodisci illeso. VEREMONDA Non temer. AMBLETO E se torna (a Valdemaro) il suo nemico, e tu col piè lo premi. (M'intendesser così.) VEREMONDA (Quanto il compiango!) VALDEMARO Accheta il duol. Me in tua difesa avrai. Ma concedi... AMBLETO Rimira, (a Valdemaro) qual s'erge al ciel denso vapor che oscura di Febo i rai... (La gelosia mi uccide.) VEREMONDA (Tormentosi deliri!) Valdemaro, alla tua gloria affido l'onor mio, la mia pace, e mentre in essa la mia salvezza bramo, la tua virtude in mio soccorso io chiamo.

VEREMONDA Non è sì fido al nido dell'usignuolo il volo, com'io son fida a te: ma non m'intendi. Non è sì chiara, e bella d'amore in ciel la stella, com'è la fé, ch'è in me: ma no 'l comprendi. Non è sì fido al nido dell'usignuolo il volo, com'io son fida a te: ma non m'intendi.

www.librettidopera.it 29 / 62 Atto secondo Ambleto Scena settima

Ambleto, e Valdemaro.

VALDEMARO In me che speri, amore? AMBLETO Amor nel petto chiuso trattieni? Io vo' che spieghi i vanni prima a' bei rai della mia diva, e poscia meco venga a posar. VALDEMARO Dove? AMBLETO Sul trono. VALDEMARO Come? AMBLETO Non sai che il re de' cori io sono? VALDEMARO (Mi fa dolor benché rivale.) Io parto. AMBLETO Ferma. Dov'è il valore della tua man? Vediamlo. Di': non sei tu di questo ciel l'Atlante? Così lo reggi? Di'. Così 'l difendi? Ma questo che sospendi al nobil fianco illustre arnese a te che serve? VALDEMARO È 'l brando, strumento a' miei trionfi. AMBLETO Sì: lo veggio, e di pianto, e di sangue che sparse l'innocenza ancor fumante. Vanne: e ad uso miglior da te s'impieghi. Segui l'esempio mio. Venga la clava, e si apparecchi intanto de' mostri il sangue, e de' tiranni il pianto.

AMBLETO Vieni, e mira, come gira dalla cima sino al fondo sconcertato tutto il mondo. Non lo voglio più così. Di' a quel monte che si abbassi, perché i passi m'impedì. Non lo voglio più così.

30 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo Scena ottava

Valdemaro.

VALDEMARO Valdemaro, che pensi? Sei reo con Veremonda, allor che l'ami; e più sei reo, se brami da un risoluto ardir la sua difesa, ma il lasciarla in periglio non è della tua gloria, non è dell'amor tuo saggio consiglio.

VALDEMARO Sì, ti sente l'alma mia, amorosa gelosia, sì, t'ascolta questo cor. E l'affetto, che nel petto ancor si asconde, ti risponde con le voci dell'onor. Sì, t'ascolta questo cor.

Scena nona

Sala negli appartamenti di Gerilda. Gerilda, e poi Ambleto da guerriero.

GERILDA Caro, adorato figlio, non giungi ancor? Dacché mi trasse all'are vittima più che sposa il fier regnante, svelto dal sen mi fosti; e più non vidi quel volto, o dio! sol mia delizia e gioia. Vieni, diletto figlio...

AMBLETO Su: qui tutto si accampi l'esercito fatal dell'ire mie, e giustizia, e ragion ne sieno i duci.

GERILDA Viscere mie, mio sangue.

AMBLETO E sangue io voglio. (entra in una stanza)

GERILDA Deh! Ferma, Ambleto. E non distrugge amore que' fantasmi, quell'ombre che gli offuscan la mente? AMBLETO Ov'è il nemico? Parla.

www.librettidopera.it 31 / 62 Atto secondo Ambleto

GERILDA Nemico qui? Me non ravvisi, o figlio, tua madre?

AMBLETO A chi sei madre?

GERILDA A te.

AMBLETO Sei mia tiranna, e mia nemica. (entra in un'altra stanza)

GERILDA O deluse speranze! O tradito conforto! Empio destin!

AMBLETO Son morto. (di dentro) GERILDA Cieli! Che sarà mai? (entra in una stanza)

AMBLETO Fu verace Siffrido. Or vada, vada quell'ombra scellerata al tiranno crudel nunzia di morte.

GERILDA Ahimè! Che fece? Iotemo... l'ira del re. So che l'ucciso Iroldo de' suoi fidi è 'l più caro.

AMBLETO Seguasi la vendetta.

GERILDA Mio caro figlio, in questo pianto almeno non ravvisi il mio core? La madre non ravvisi?

AMBLETO Non ti ravviso no. Madre ad Ambleto, consorte ad Orvendillo era Gerilda. Era in lei fede, era onestà, e virtude. Ma ti d'allor che al fianco dell'empio usurpatore macchiasti il regio letto, e di Orvendillo la memoria tradisti, altro non sei che adultera per lui, per me matrigna. Smarrite or son le tue sembianze, e teco sul trono ancor di regia morte intriso regna il vizio, e l'orror. Non ti ravviso.

GERILDA O me infelice! È vero, è vero pur che non sia stolto il figlio?

AMBLETO O dèi! Così lo fossi: che mi torria questa sciagura almeno al senso de' miei mali, e de' tuoi scorni.

GERILDA Vieni, o viscere care, al sen materno...

32 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo

AMBLETO Addietro, o donna. Amplessi comuni ad un fellone a me tu porgi? A me stendi quel labbro che già stancar di un parricida i baci? Va', misera, e li serba a chi già infama il tuo soglio, il tuo letto, e la tua fama.

GERILDA M'avea il piacer finora a' rimproveri tuoi chiuso l'udito. Ma già 'l silenzio è stupidezza. Ascolta.

AMBLETO Che dir porrai, che te più rea non mostri?

GERILDA Dirò. Che quant'io debbi, diedi al tuo genitor...

AMBLETO L'urna reale a' novelli imenei cangiando in ara?

GERILDA Ah! che vi andai costretta. Io donna, e sola che far potea col regnator lascivo?

AMBLETO Pria che ceder, morir.

GERILDA Ma con qual ferro?

AMBLETO Può mancar mai la morte a un generoso?

GERILDA Manca anche questa, o figlio, in corte di un tiranno, allor ch'è dono.

AMBLETO E chi potea sforzarti ad abbracciarlo?

GERILDA Pria che sua moglie, esser dovea sua preda e lui drudo soffrir pria che marito?

AMBLETO Dovevi almen fra primi sonni immerso nel talamo real lasciarlo esangue.

GERILDA Ahimè! Gerilda allora era sua moglie.

AMBLETO Anzi più che sua moglie era sua amante.

GERILDA Giuro agli dèi...

AMBLETO Spergiura, siati pur caro il tuo novel consorte. Soffri che ombra dolente, e invendicata sulle sponde di Stige erri Orvendillo, e che gema la patria sotto il duro comando; e se non basta che vittima di stato a piè ti cada quel che chiami tuo figlio iniqua madre. Dopo tutto anche soffri, che regina ti esigli, che moglie ti ripudi il re spietato. Continua nella pagina seguente.

www.librettidopera.it 33 / 62 Atto secondo Ambleto

AMBLETO Questo forse n'è 'l giorno, e 'l favor solo che dal tiranno attendo, del tuo ripudio è 'l disonore, e 'l duolo.

AMBLETO Della vendetta il fulmine sovra di te cadrà. Regina senza regno, consorte senza sposo, non so se a riso, o a sdegno ognun ti additerà.

Scena decima

Siffrido, e li suddetti.

SIFFRIDO Ah! Regina. GERILDA Che fia? SIFFRIDO Veremonda è rapita, e Valdemaro audace la rapì. AMBLETO Cieli. GERILDA (Che sento?) SIFFRIDO Già son fuor della reggia, ed ei la tragge al vicin campo. AMBLETO (Iniquo!) SIFFRIDO Non lasciar che impunito... AMBLETO Non più, non più. (L'orme ne seguo.) Udite.

AMBLETO (Ho nel cuor la gelosia.) (a Siffrido) Tu nel sen la fedeltà. (a Gerilda) Della vendetta il fulmine sovra di te cadrà.

Scena undicesima Gerilda, e Siffrido.

GERILDA Siffrido, io son perduta. Ambleto uccise poc'anzi Iroldo. Ei colà giace.

SIFFRIDO Il vidi.

GERILDA E nelle piaghe sue teme la madre.

34 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo

SIFFRIDO Al difetto del senno il perdono real facile io spero. Non paventar. Avrai per la sua vita da' prieghi tuoi, dalla mia fede aita.

GERILDA Farò, che sul ciglio favelli il mio pianto, sintanto che il figlio si renda al mio cor. E tenero oggetto farò del rigor di sposa l'affetto, di madre l'amor. Farò, che sul ciglio favelli il mio pianto, sintanto che il figlio si renda al mio cor.

Scena dodicesima Siffrido.

SIFFRIDO M'intese il prence. Egli d'Iroldo in petto del senno, e del valor scolpì le prove. Per servir al mio sdegno a lui si serva. Così quest'alma aspetta dalla sua fedeltà la sua vendetta.

SIFFRIDO Allo scettro, al regno, al soglio l'innocenza tornerà. E cadrà sotto il peso del suo orgoglio atterrata l'impietà. Allo scettro, al regno, al soglio l'innocenza tornerà.

www.librettidopera.it 35 / 62 Atto secondo Ambleto Scena tredicesima

Sobborghi con tende in lontano. Veremonda, e Valdemaro con Séguito.

VEREMONDA Qual, duce, è 'l tuo pensier? Dove mi guidi? Già comincio a temer qualche tua colpa. VALDEMARO Altra colpa non ho che l'amor mio. VEREMONDA Fuor delle mura, e cinta da' tuoi soldati? Intendo. Valdemaro il tuo credei soccorso, ed è rapina. VALDEMARO Anche questa rapina è tuo soccorso. VEREMONDA Ambo ci guida al disonore un ratto. VALDEMARO Questa è la via che sola ti salva da un tiranno. VEREMONDA Espormi a un mal peggior quest'è salvarmi? VALDEMARO Con fronte più serena riedi alla libertà, riedi al tuo soglio. Quel che lasci è prigion. Quel dove vieni è campo amico. Io duce lo moverò, riparator dei mali, le tue province a liberar dal giogo. VEREMONDA (Che resti Ambleto? E ch'io segua altro amante? Esser non può, cor mio.) Valdemaro, vo' farti questa giustizia. In te stimar che un ratto sia pietà, non amor: virtù, non senso. Ma basta ad offuscar limpido onore un sospetto d'error, non che un errore. VALDEMARO E quell'onor, se resti, è in più periglio. VEREMONDA Sii tu meco in difesa, e no 'l pavento. VALDEMARO Che far posso, se resto? VEREMONDA Hai forze, hai core per ripormi sul trono, e non l'avrai per cacciarne un fellon? VALDEMARO Nella sua reggia troppo è forte il tiranno, e 'l popol vile avvezzo a tollerar, l'odia, ma 'l teme. Combatterlo da lungi è più sicuro. VEREMONDA Va' dunque. Anch'io da lungi applaudirò de' tuoi trionfi al grido. VALDEMARO Nulla temer da un generoso amore.

36 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo

VEREMONDA Meno amor ti richiedo, e più virtute.

VALDEMARO Perder qui tempo è un trascurar salute.

VEREMONDA Ah! Vile. Anche la forza? È questo, è questo il generoso amor, di cui ti vanti?

VALDEMARO Resisti invan.

VEREMONDA Crudele, vuoi pianti e prieghi? Eccoti prieghi, e pianti.

VEREMONDA Tu miri le mie lagrime, e non le sente il cor? Crudel! Così? In te dov'è la fé? Che fa la tua pietà? Rispondi. Di'. Tu ammiri le mie lagrime, e non le sente il cor? Crudel! Così?

VALDEMARO Quasi ah! Quasi mi vinse un sì bel pianto. Ma lasciarmi sedur saria fierezza. Vieni. VEREMONDA Verrò, spietato, ma non speri 'l tuo amor che odio, e disprezzo. VALDEMARO Di salvarti or desio, non di piacerti. VEREMONDA Usa il poter. Mi giova che ogni mio passo un tuo delitto sia. VALDEMARO Salute e amore, e ogni riguardo oblia. VEREMONDA Valor troppo indiscreto! Stelle, destin, chi mi soccorre?

Scena quattordicesima Ambleto, e li suddetti.

AMBLETO Ambleto. Fermati, Valdemaro. Insultar Veremonda senza oltraggiar me tuo signor non puoi.

VEREMONDA O cieli! Ambleto, idolo mio, son questi accenti di follia?

AMBLETO Dove, o mia cara, s'agita il viver mio, fingo i deliri; dove il periglio tuo, perdo i riguardi.

VALDEMARO (Credo appena all'udito appena ai guardi.)

www.librettidopera.it 37 / 62 Atto secondo Ambleto

AMBLETO Duce, mi hai nella parte miglior dell'alma offeso. Te n' preferivo l'emenda, e a te con quanto di autorità può darmi l'esser principe tuo, parlo, e comando. Ama la tua regina; ma di un amor che sia di ossequio, e fede. Essa campion ti chiede, e non amante: io suddito ti voglio, e non rivale. Né guardar ch'io sia solo: difeso è un re dal suo destin. Costoro, che ti stanno d'intorno, pria che guerrieri tuoi, fur miei vassalli. Rispetta il cenno, ed oggi ch'io principio a regnar, mi è fausto e caro che il primo ad ubbidir sia Valdemaro.

VALDEMARO E Valdemaro il fia. Mio re già sei. Cedo il mio amor. Perdona, se il difficile assenso non può darti il mio cor senza un sospiro.

AMBLETO La tua virtù nel tuo dolor rimiro.

VEREMONDA Compisci, o generoso, la magnanima idea. Quell'armi istesse che voleva l'amor, muova il tuo zelo.

VALDEMARO Sì, né più qui si tardi: io vado al campo. Là non dée tosto esporsi la persona real. Prima il tuo nome rispetto vi disponga, e amor vi desti. Qui rimangan per poco vostra difesa i miei guerrieri. Al piede darà moto il periglio, al cor la fede.

VALDEMARO Non dirò che ancora io v'ami, e che il cor più non vi brami, occhi bei, non vi dirò. Fra ragion che fa il dovere, e beltà che fa il potere, dir l'amore non si deve, e negarlo non si può. Non dirò che ancora io v'ami, e che il cor più non vi brami, occhi bei, non vi dirò.

38 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo Scena quindicesima

Ambleto, e Veremonda.

AMBLETO Diletta Veremonda, egli è pur tempo che a cor franco io ti parli, e ch'io ti abbracci. VEREMONDA Ambleto, anima mia, son così avvezza al funesto mio duol, ch'esser mi sembra misera nel contento. AMBLETO Quando è immenso il piacer, meno si gode. VEREMONDA Ah! Che questa impotenza è un presagio di mali. AMBLETO Temer nel bene è un diffidar del cielo. VEREMONDA Goder nel rischio è un lusingar le pene. AMBLETO Qual rischio a te figuri? VEREMONDA Il poter di un tiranno, e l'altrui frode. AMBLETO Virtù ci affidi. Abbiam per noi, mia vita, quella di Valdemaro, e più la nostra. VEREMONDA Dunque al gioir, felice. AMBLETO E un momento felice non occupi timor di male incerto. VEREMONDA Piacer tranquillo è guiderdon del merto.

AMBLETO Godi, o cara, ma di un diletto che misura sia dell'amor. Quell'affetto, che ben non gode, quand'è in braccio del dolce oggetto, è un affetto di debol cor. Godi, o cara, ma di un diletto che misura sia dell'amor.

VEREMONDA Godo, o caro, quanto so amarti, e sin godo nel tuo goder. L'alma amante che in me respira, in te passa per abbracciarti, e là s'empie del suo piacer. Godo, o caro, quanto so amarti, e sin godo nel tuo goder.

AMBLETO Fugace godimento! Ecco il tiranno.

www.librettidopera.it 39 / 62 Atto secondo Ambleto

VEREMONDA E Valdemaro è seco.

VEREMONDA E Ah! Siam traditi. AMBLETO

Scena sedicesima

Fengone con Séguito, Valdemaro, e li suddetti.

VALDEMARO Funesto incontro! FENGONE Ambleto, Veremonda, fuor della reggia? Tu prigion? Tu stolto? VEREMONDA Sinché la tua vittoria la libertà mi tolse, e le grandezze, chinai la fronte al mio destin: ma quando nel vincitor conobbi il mio crudel tiranno... FENGONE È tirannia che amore ti renda il ben che ti rapì fortuna? VEREMONDA La gloria, e non l'amore a me lo renda. VALDEMARO (O magnanimo ardir!) AMBLETO Che strani mostri! Pluton tu sei. Cerbero è quegli, e questa Proserpina rapita. FENGONE Vano è 'l pensier. Chi seppe involar Veremonda al mio potere, non è stolto, ma 'l finge. VEREMONDA Eppur t'inganni. Nel volto di costoro leggi qual sia della mia fuga il reo. AMBLETO Son questi tante fier. Io sono Orfeo. FENGONE Son questi, Valdemaro, i tuoi custodi. VALDEMARO Signor, della mia fede perdona all'amor mio le colpe. Offeso il tuo sen non credei dalle mie brame; e quando alla rapina io mi disposi, pensai dentro al mio core non di torla al mio re, ma al tuo rigore. VEREMONDA (Reo si finge con l'empio.) AMBLETO (O traditore!)

40 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto secondo

FENGONE (È poderoso il duce, perché l'armi ha in balìa. Seco si finga, ma si riserbi il colpo.) Al valor del tuo braccio tutta de' falli tuoi dono la pena. Vanne alla reggia, e svena al mio piacere l'ardir del tuo volere.

AMBLETO (O scellerate frodi!)

VEREMONDA (Segno del tradimento è un sì facil perdono.)

VALDEMARO (Sapesse almen quant'innocente io sono.) (parte)

Scena diciassettesima Fengone, Ambleto, e Veremonda.

FENGONE O sia stolto, o s'infinga, del mio furor costui sia oggetto. A voi la custodia ne affido. E tu prepara quell'alma contumace, e quel bel volto alle delizie mie.

VEREMONDA E (Cieli! Che ascolto?) AMBLETO

FENGONE Preparati ad amar almen nel mio piacer la tua felicità. Perché il voler penar, quando si può goder, non è che crudeltà. Preparati ad amar almen nel mio piacer la tua felicità.

Scena diciottesima Veremonda, e Ambleto fra Guardie.

AMBLETO (Quel bel seno delizia ad un tiranno?)

VEREMONDA (Ch'io deggia amar ne' suoi piaceri i miei?)

AMBLETO (E 'l permettete.)

www.librettidopera.it 41 / 62 Atto secondo Ambleto

VEREMONDA (E lo soffrite.)

VEREMONDA E (O dèi?) AMBLETO

Insieme VEREMONDA Sempre in cielo avverso il fato non sarà per te, mio bene. Dal mio duolo, un dì placato, sì, che avrà qualche pietà delle tue pene.

AMBLETO Sempre in cielo Giove irato non sarà per te, mio bene. Dal mio pianto, un dì placato, sì, che avrà qualche pietà delle tue pene.

42 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto terzo A T T O T E R Z O

Scena prima

Galleria d'idoli. Gerilda, e Siffrido.

GERILDA Perirà dunque Ambleto? E sarà la sua morte un tuo consiglio? SIFFRIDO Sospenderla poss'io, se il re l'impone? GERILDA E se l'impone il re, puoi tu soffrirla? SIFFRIDO Soffrir convien ciò che impedir non puossi. GERILDA Se reo di più congiure, e reo, Siffrido, sei ancor di più morti, io, cui tutto affidasti, tacqui finor? Ma senti, ingrato, a questi presenti dèi io giuro, della vita del figlio conto mi renderai con la tua vita. SIFFRIDO Farò più che non vuoi per ubbidirti. GERILDA E sarà il mio tacer la tua mercede. SIFFRIDO Più che il timor, mi muoverà la fede. GERILDA Or vanne, e col regnante tu impiega il zelo; io tenterò l'amore. SIFFRIDO L'amor? GERILDA Sì, che nel petto per me gli avvampa. SIFFRIDO Odi, regina, e parto.

SIFFRIDO Quel cor che traditor fu al suo regnante, può ancor alla beltà farsi infedele. Non è l'empio vassallo un casto amante, né mai tenero sposo è un re crudele. Quel cor che traditor fu al suo regnante, può ancor alla beltà farsi infedele.

www.librettidopera.it 43 / 62 Atto terzo Ambleto

Scena seconda Gerilda, e Fengone con Guardie.

FENGONE Fuor della reggia appena traggo il passo primier, che Iroldo è ucciso. Veremonda è rapita, Ambleto fugge, e colpevol ne sei tu sola, o donna.

GERILDA Io?

FENGONE Chi può, né 'l ripara il mal commette.

GERILDA Sono in nostra balia l'opre del caso?

FENGONE È dover di chi regge il prevenirlo.

GERILDA Non è sempre poter ciò ch'è dovere.

FENGONE Ma sia sempre tua pena il mio potere.

GERILDA Signor, se ami la madre, il figlio serba.

FENGONE Ama più di sua vita il mio riposo.

GERILDA Deh! Mio re. Deh! Mio sposo...

FENGONE Olà. Qui Veremonda.

GERILDA Sì crudel con Gerilda? Passò in odio l'amor? Troncar ti aggrada i giorni miei nel caro figlio? Almeno mi uccidi in me, pria che svenarmi in lui.

FENGONE Piangi, o donna, i tuoi mali, e non gli altrui.

Scena terza

Veremonda, e li suddetti.

VEREMONDA Eccomi al cenno. FENGONE Veremonda, è tempo che presente Gerilda, esca e sfavilli l'immenso ardor che in me que' lumi han desto. VEREMONDA (Ardor d'impura vampa.) GERILDA (Tanto sugli occhi miei?) Signor, se godi finger per tormentarmi... FENGONE Io fingo? Dani, in fronte di costei più non si onori, il titolo di sposa, e di regina.

44 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto terzo

VEREMONDA Un sì giusto decreto...

FENGONE Or comanda lo sdegno, e libero comandi. Quando amore le sue leggi preferiva a Veremonda, allora ella si opponga, ella risponda.

GERILDA La non creduta mia sciagura è dunque tanto vicina? Ingrato, dopo la marital giurata fede, oggi che più 'l tuo labbro mi diè d'amor tenere prove, ed oggi ch'io 'l meritai maggiore nella vita due volte a te serbata, oggi...

FENGONE Sì, ti ripudio. Oggi mi piace per farti più infelice esser più ingiusto.

VEREMONDA (Empio.)

GERILDA Sarò infelice, ma sarà il mio disastro il tuo castigo. Perderò letto e trono, ma perderai tu ancor la tua difesa. Moglie, è ver, ti aborria; ma l'odio allora costretto all'impotenza era mia pena. Grazie alla tua fierezza che me ne assolve, e in libertà rimette di vendetta e di sfogo i miei furori.

FENGONE Parti, e di un re più non turbar gli amori.

GERILDA Impero, vita, e amore, crudel, ti turberò. E tutta in tuo dolore l'offesa cangerò. Impero, vita, e amore, crudel, ti turberò.

Scena quarta Veremonda, e Fengone.

FENGONE Sciolto dal grave laccio posso pur senza colpa offerirti una man che ti alza al trono.

VEREMONDA Da' mali altrui felicità non cerco.

www.librettidopera.it 45 / 62 Atto terzo Ambleto

FENGONE Vieni, o cara...

VEREMONDA Alla tomba?

FENGONE All'are sacre...

VEREMONDA Che or or contaminate ha un tuo ripudio?

FENGONE Nasce da questo sol la tua grandezza.

VEREMONDA Me la insegna a temer l'altrui caduta.

FENGONE Provoca l'ire che 'l favor rifiuta.

VEREMONDA Meno dell'amor tuo temo il tuo sdegno.

FENGONE Ora il vedrem. Custodi, qui se le guidi, e se le lasci Ambleto.

VEREMONDA (Ahimè!)

FENGONE Piega già stanco Febo all'occaso. In vuote piume, o bella, non vo' languido trar freddi riposi. Tu vi verrai preda, o consorte. Ambleto o deliri, o s'infinga, le pene soffrirà di un tuo rifiuto. Sì, Veremonda: la sentenza è questa: pensaci: o la tua mano, o la sua testa.

Scena quinta

Veremonda.

VEREMONDA La tua mano? O la sua testa? Stelle! Qual legge è questa?

VEREMONDA Che farai, misero core? Il crudel ti vuol sua preda: in periglio è 'l caro amante. Una ingiusta tirannia vuol ch'io sia o spietata, od incostante. Che farai, misero core?

46 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto terzo Scena sesta

Ambleto, e Veremonda.

AMBLETO Mi rinasce più bella, più lieta del piacer nel sen la speranza; e de' mali vicino alla meta tutto il duolo diventa costanza. Mi rinasce più bella, più lieta del piacer nel sen la speranza.

VEREMONDA Quale speranza! Ambleto, o la tua testa, o la mia man vuol l'empio. L'una o l'altra è più che morte.

AMBLETO Alma mia, ti vo' più forte.

VEREMONDA Qual scampo in sì grand'uopo?

AMBLETO Quello che più opportuno è col tiranno: la lusinga, l'inganno.

VEREMONDA Ah! Caro alla tua vita, all'onor mio in quest'ombre s'insulta.

AMBLETO Ed in quest'ombre avrai soccorso. Fingi.

VEREMONDA Meco in breve il lascivo favellerà di amori.

AMBLETO E tu pur amorosa a lui rispondi.

VEREMONDA Chiederà i dolci sguardi.

AMBLETO E tu cortese l'ire n'esiglia, e li componi al vezzo.

VEREMONDA Stenderà l'empia ma...

AMBLETO La tua l'incontri.

VEREMONDA Guiderammi agli altari...

AMBLETO (Ove si esiga dèi!) La marital non osservabil fede.

VEREMONDA Che più? Che più? Vuoi ch'ei mi tragga, o al talamo aborrito, e ch'io ve 'l segua?

AMBLETO Sì, principessa; e questo questo il termine sia de' suoi contenti.

VEREMONDA Ambleto, o tu vaneggi, o tu mi tenti.

AMBLETO Io vaneggiar, quando son teco, e solo? Il mio consiglio...

www.librettidopera.it 47 / 62 Atto terzo Ambleto

VEREMONDA Intendo. Te 'l detta una viltà. Perder la vita temi più che il tuo amore, e spergiura mi vuoi, perché sei vile.

AMBLETO Io vil ti vo' spergiura? Amo me stesso io più di Veremonda? Io che se mille vite avessi in seno, mille a te ne darei? Ne temi ancora? I tuoi sospetti ingiusti sul mio sangue cancelli. Addio. Già vado tutto amor, tutto ardire al fier regnante. Più non fingo deliri, suo rival, suo nemico a lui mi svelo, e una morte gli chiedo, non so se disperato o generoso, che sia insieme mia gloria, e tuo riposo.

VEREMONDA Ferma, e perdona, o caro, a gelosa onestà. Pronta già sveno al tuo voler gli affetti.

AMBLETO In tua difesa m'avrai nel maggior uopo, e Valdemaro gran parte avrà nell'opra.

VEREMONDA Valdemaro, che infido...

AMBLETO I dubbi accheta. Per lui prese avria 'l campo l'armi in nostro favor, ma 'l re che quindi volgeva allor ver la cittade il passo, per via il rattenne, e l'obbligò al ritorno. Fummo sorpresi. Ei traditor ci parve, ma la nostra sventura era sua pena. Chiare prove ei poc'anzi diemmi di fede. Io te n'accerto, e solo manca l'opra a compir la tua lusinga.

VEREMONDA Servasi al tuo destino, e amor si finga.

48 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto terzo

VEREMONDA Teneri guardi, vezzi bugiardi già mi preparo a fingere, anima mia, per te. Ma in prova dell'affetto quant'userò più frode, il merito e la lode tanto più avrò di fé. Teneri guardi, vezzi bugiardi già mi preparo a fingere, anima mia, per te.

Scena settima Valdemaro, e Ambleto.

AMBLETO Sulla tua fede, o duce, fingerà Veremonda.

VALDEMARO Son già i mezzi disposti. Io senza colpa l'usurpator deludo, e ne' tuoi cenni d'un legittimo re seguo la sorte.

AMBLETO Si confidi l'arcano anche a Siffrido.

VALDEMARO Il consiglier dell'empio?

AMBLETO Il suo più fier nemico in lui si asconde. Senza lui questo giorno...

VALDEMARO Taci. Ildegarde.

AMBLETO Alle follie ritorno.

Scena ottava

Ildegarde, e li suddetti.

ILDEGARDE Ambleto, idolo mio. AMBLETO Qual idolo ti sogni? ILDEGARDE In te che adoro... AMBLETO Taci; che se di questi sassi alcun ti ascolta, diratti... ILDEGARDE E che? AMBLETO Che più di me se' stolta.

www.librettidopera.it 49 / 62 Atto terzo Ambleto

ILDEGARDE Tale mi rende amore.

AMBLETO Amor conosci? Ove il vedesti mai?

ILDEGARDE A' tuoi be' lumi appresso.

AMBLETO T'inganni. Eccolo espresso. Vedi che di Cupido porta in fronte per te dardi, e facelle.

VALDEMARO Il ciel vuol ch'io sia vostro, luci belle.

ILDEGARDE (Misera mia speranza!)

AMBLETO La speranza tu sei? Dagli tosto il tuo core: che mai non va senza speranza amore. Su, porgimi la destra. E tu la prendi.

VALDEMARO Ubbidisco.

ILDEGARDE Ma...

AMBLETO Che?

ILDEGARDE Tu non m'intendi.

AMBLETO T'intendo sì. Tu se' qua! rosa appunto, che brama il sol vicino, e poi ritrosa nelle foglie si chiude; ma 'l modesto rossor vincasi; e intanto, perché sono Imeneo, del laccio marital gli applausi io canto.

AMBLETO Mille amplessi preparate i più tenaci, e i vezzi fra di voi sien mille, e mille. Poi con essi mille e mille sieno i baci alle labbra, alle guance, alle pupille. Mille amplessi preparate i più tenaci, e i vezzi fra di voi sien mille, e mille. Poi con essi mille e mille sieno i baci alle labbra, alle guance, alle pupille. Mille amplessi preparate i più tenaci, e i vezzi fra di voi sien mille, e mille.

50 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto terzo

Scena nona Ildegarde, e Valdemaro.

VALDEMARO Poiché il vuole il destin, ti chieggo, o bella, con la tua destra il core.

ILDEGARDE Che mi narri di destra? Di cor che mi discorri? Un forsennato serve a te di ragione, a me di legge? Or via, perché non chiedi anche gli amplessi, e con gli amplessi i baci?

VALDEMARO Bramo solo che il seno...

ILDEGARDE Quel sen che tutto ardea per Veremonda?

VALDEMARO Ardea, ma poiché tutta perdei la mia speranza, e che il dovere vinse i desiri miei, per altro foco che per quel de' tuoi lumi, egli non arde.

ILDEGARDE E in difetto di altrui si ama Ildegarde. Or aspetta ch'io pure perda la mia speranza, e che il dovere vinca i desiri miei, forse...

VALDEMARO Di Ambleto così rispetti i cenni?

ILDEGARDE Quando Ambleto dal soglio, o in sen di Veremonda mi comandi ch'io t'ami, allora forse...

VALDEMARO Segui.

ILDEGARDE Allor ti amerò. Questa è la fede.

VALDEMARO L'alma che altro non brama, altro non chiede.

Scena decima

Ildegarde.

ILDEGARDE Degno ch'io l'ami è 'l duce, e in esso il grado, in esso il nome onoro; ma indarno ei si consola. Se Ambleto, perché folle, a lui mi dona, Ambleto, perché vago, a lui m'invola.

www.librettidopera.it 51 / 62 Atto terzo Ambleto

ILDEGARDE È troppo amabile quel bel sembiante, che lagrimar, che sospirar mi fa. Ma 'l duol maggiore del core amante, è ch'ei no 'l mira quando sospira, ed il suo pianger egli non sa. È troppo amabile quel bel sembiante, che lagrimar, che sospirar mi fa.

Scena undicesima

Vigne consacrate a Bacco. Valdemaro, e Siffrido.

VALDEMARO La vendetta più cauta è la più certa. SIFFRIDO Ma talor la tradisce un troppo indugio. VALDEMARO Si affretti. Io nella reggia ho i miei guerrieri, e per colpo sì illustre eglino il cenno, ed io ne attendo il tempo, SIFFRIDO In sì lieto apparato chi fa? Chi fa? Forse perir l'iniquo farà pria del tuo ferro il mio veleno. VALDEMARO Comunque ei cada, il suo morir ci salva. SIFFRIDO S'egli per me non cade, odio di questo cor, non fei ben lieto. VALDEMARO Che più? Mora Fengone. VALDEMARO E E regni Ambleto. SIFFRIDO

Scena dodicesima Gerilda, e li suddetti.

GERILDA Io de' miei torti e testimonio e pompa?

VALDEMARO E Regina. SIFFRIDO GERILDA O dio! Chi regna vuol ch'io sia sol Gerilda.

VALDEMARO Ma il valor di più destre vuol che tu sia regina, e vendicata.

GERILDA Come? Quando? Che fia?

52 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto terzo

VALDEMARO In quest'ombre vedrai...

SIFFRIDO Guardati, o duce, di far noti a Gerilda i tesi inganni. Al re più che a nemica ella è consorte, e due volte, a me infida, il tolse a morte.

VALDEMARO Che sento? Hai cor che possa senza sdegno cader da un regio trono?

GERILDA (Fingerò. Forse il merto di svelar la congiura mi renderà scettro, e marito.) Amici, plaudo al vostr'odio, e 'l mio vi aggiungo. Dite. Qual n'è 'l pensier? Chi n'è 'l ministro? E Gerilda offesa, e ripudiata il chiede. (Quando?)

SIFFRIDO Invan. Non le dar fede.

GERILDA Perfidi, il tacer vostro senza pena non sia. So i congiurati, se non la trama. Andrò...

VALDEMARO Vanne. Ma teco venga il ripudio tuo, venga il tuo danno. Va'. Racconta al tiranno che Valdemaro è suo nemico. Digli che le ruine sue tenta Siffrido. E se l'autore chiede di questo, che non sai, grande segreto, eccone il nome. Odilo, e trema: Ambleto.

VALDEMARO Va', se puoi: tradisci un figlio, perché viva un reo consorte, (ed il cieco tuo consiglio) che finor fu il suo periglio, sia pur anche la sua morte. Va', se puoi: tradisci un figlio.

Scena tredicesima

Gerilda, Siffrido, poi Fengone, e Veremonda.

GERILDA O infedele, o spietata mi vuole il mio destino. Ambo delitti che col pianto l'orror chiaman sul ciglio. SIFFRIDO L'uno ti è traditor, l'altro ti è figlio. E qui col traditore è 'l tradimento.

FENGONE Pur men fiera ti veggio. (a Veremonda)

www.librettidopera.it 53 / 62 Atto terzo Ambleto

VEREMONDA (O che tormento!)

FENGONE Parla. Il dono d'un regno più cortese ti chiede.

SIFFRIDO Or vanta il tuo dovere, e la tua fede. (a Gerilda) VEREMONDA È dono sì; ma di Gerilda il duolo fa' che ei sembri mia colpa, e mia rapina.

FENGONE In te la sua regina soffra in pace costei.

GERILDA E l'onte aggiungi, o sconoscente, ai danni?

FENGONE Del mio gioir presente (a Veremonda) per trionfo ti vo', non per accusa. Ma, ben lucidi rai, meno severi a mirar le mie fiamme io vi vorrei. Così dicea l'ingrato un giorno a' miei.

VEREMONDA Mi ricorda Gerilda, che troppo è fral della tua destra il laccio.

FENGONE No, no: la sua fierezza; ma più la tua beltà da lei mi scioglie.

SIFFRIDO (Udisti? Udisti? Ei non ti vol più moglie.)

FENGONE Or vieni, e qui ti affidi. (a Veremonda) VEREMONDA (Ambleto, a che mi astringi?)

FENGONE Qui co' più dolci amori si temprino gli ardori...

Scena quattordicesima

Ambleto da Bacco, e li suddetti.

AMBLETO O che fiamme! O che foco! Un venticello de' più freschi, e soavi qui tosto venga. Io già lo prendo, e tutto lo spargo a voi d'intorno. VEREMONDA (O mia cara speranza!) AMBLETO Sediam: ma dimmi: adesso è notte o giorno? FENGONE Non vedi arder le stelle? AMBLETO Ah sì: le veggio. O son più chiare e belle, ma non son stelle no. GERILDA Che dunque sono?

54 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto terzo

AMBLETO Infocati sospiri che già son giunti ove hanno i numi il trono.

VEREMONDA (Io ne intendo il mistero.)

AMBLETO Orsù: questo è il momento che anch'io trionferò. Bacco vedete che renderà soggette al carro eccelso le tigri più crudeli.

FENGONE (Attento osservo.)

AMBLETO Su: lodate col canto i miei trionfi: e propizie, e sincere risponderan con l'armonia le sfere.

CORO Qui di Bacco nella reggia si festeggia il dio d'Amore.

AMBLETO No, no: questa non è canzon degna di me. Udite, udite.

AMBLETO Qui d'Astrea vicino al soglio sorgerà lieto l'onore: e sarà temuto scoglio per l'orgoglio il mio valore.

CORO Qui di Bacco nella reggia si festeggia il dio d'Amore.

AMBLETO Festeggi dunque Amore. Io delle selve nume, e custode un tempo, a voi ne trassi alcun de' miei seguaci. Eccoli. Amico alla danza alla danza.

Segue il ballo.

FENGONE Col pregiato liquor bramo, Siffrido, del genio mio felicitar la sorte.

SIFFRIDO (E tu berrai la morte.) (parte)

VEREMONDA Sia pur felice il tuo primiero affetto.

FENGONE Son giudice a costei, non più suo amante.

GERILDA (Cangiamento tiranno!) (a Siffrido che torna, e gli leva la coppa dalle mani)

www.librettidopera.it 55 / 62 Atto terzo Ambleto

AMBLETO Chi credi più assetato Tantalo, o Radamanto? Io berrò pria.

SIFFRIDO (Sorte nemica!) Usurpi al re sì temerario i primi sorsi?

AMBLETO Hai ragione, hai ragione. Alla salute mia beva Giunone. (presenta la coppa a Gerilda)

FENGONE Lascia, o Siffrido, in libertade il folle. VEREMONDA (Io temo, e spero.) AMBLETO Bevi, (a Gerilda) rallegrati il cor. Tosto ritorno. (parte)

SIFFRIDO (In periglio Gerilda? Ahi! Che far deggio?) GERILDA Non festeggia di un empio Gerilda i tradimenti; e sì vil non son io, benché negletta. (getta la coppa)

SIFFRIDO (Si perdé nel veleno la mia vendetta.) (parte)

AMBLETO (tornando con coppa in mano) (Mi arrida il ciel.) (a Veremonda) Con tanto foco intorno ha una gran sete il sol. Prendi: ristora le tue labbra vezzose. Sì, prendi. A lui lo porgi, e solo ei beva.

VEREMONDA A te signor si dée... (la porge a Fengone)

FENGONE Sì, Veremonda, sia lieto il viver nostro; ed ai voti del cor risponda amore. (beve)

VEREMONDA (Più soffrir non poss'io.) Vedi, a tuoi giorni... (a Fengone) (Ma taci, incauto zelo. Ambleto è figlio.)

AMBLETO Godeste i freschi fiati de' zeffiretti amici. Or non più indugi: gite al riposo, sì. Gite al riposo.

FENGONE (Cor che non è geloso, al certo è stolto.) Porgi, o bella, la destra.

VEREMONDA La destra sì, che tardi? Vorrai che vada solo amor ch'è cieco? Tosto potria cader. Non più. Va' seco.

56 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto terzo

FENGONE (Non vuole altro cimento una pazzia che cede un sì gran ben.) Cor mio, che pensi? Alle piume mi chiama il grave sonno.

VEREMONDA Vicina ho la vergogna ed il periglio. (verso Ambleto) AMBLETO Va'. Non temer. Mostra più lieto il ciglio.

FENGONE Sì, sì: consolami, né più tardar: e affretta il giubilo del mio piacer. Sul trono amabile vieni a regnar: nel regio talamo vieni a goder.

VEREMONDA Verrò: già l'anima desia d'amar: e amor sollecita il mio dover. Parto; ma timida non so sperar: parto, ma nobile non vo' temer.

Scena quindicesima

Gerilda, e Ambleto.

GERILDA Il vidi, il vidi pur. Passa con l'empio Veremonda al m io letto. E 'l soffro? E 'l soffri? Nella madre oltraggiato, e nell'amante? AMBLETO Vada pure ai piaceri il fier regnante. GERILDA Ah! Vile. AMBLETO Orsù: ti accheta. Qui principiò la mia vendetta, o madre. GERILDA Come? AMBLETO Nel fatal vetro il tiranno bevé... GERILDA La morte forse?

www.librettidopera.it 57 / 62 Atto terzo Ambleto

AMBLETO No: che una morte al perfido si deve che abbia tutto il dolore, e tutto il senso. Bevé in succhi possenti un invincibile sonno. Alto letargo lo premerà, prima ch'ei goda; e dove sognava amplessi, incontrerà ritorte: che là di Valdemaro stan gli armati in agguato.

GERILDA Ma ti sovvenga poi, ch'io son consorte.

AMBLETO Tal sii, ma di Orvendillo. Ad un nome sì sacro già Fengon rinunciò. Nel comun rischio sii più madre che moglie. In trono assiso piacciati il figlio. Piacciati punito il fellon parricida; e 'l tuo si aggiunga al pubblico desio.

GERILDA Sì: vivi, e regna. Giusto è il furore, e la vendetta è degna.

AMBLETO Sul mio crine amore, e sdegno mi preparo a coronar. Negli amplessi del mio bene, e col sangue dell'indegno vo' goder, e vo' regnar. Sul mio crine amore, e sdegno mi preparo a coronar.

Scena sedicesima Gerilda.

GERILDA O di pietà importuna, o d'ingiusto dover miseri avanzi, da me partite. Un infedel n'è indegno. Sprezzo rendasi a sprezzo, e sdegno a sdegno.

GERILDA Beltà così dée far: l'ingrato cor non curar, e un'anima infedel soffrir in pace. Amando chi la offende sol per parer fedel, più vil sé stessa rende, e lui più audace. Beltà così dée far.

58 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto terzo Scena diciassettesima

Anfiteatro reale. Fengone incatenato in atto di svegliarsi.

FENGONE Orribili fantasmi, spaventi dell'idea, furie dell'alma, lasciatemi, fuggite, e dov'è Veremonda, orror si sgombri. Veremonda, ove sei? Sogno? Ad un sasso siede Fengon? Ferrea catena il preme? (si leva) Ov'è lo scettro, ove il diadema? Il manto? Chi me qui trasse? È questa, questa è la reggia, alle mie gioia eletta? Veremonda, Siffrido, servi, custodi... o dèi! Non v'è chi franga i duri ceppi, o 'l mio destin compianga?

FENGONE Stelle, dèi, vassalli, amici, terra, ciel... tutti ho nemici, ho nemico anche il mio cor. Cielo, terra, fate pur, fatemi guerra; voi non siete il mio terror. Il mio cor sol mi spaventa, e diventa mio dolor.

Scena diciottesima

Valdemaro, poi Ildegarde, poi Gerilda, poi Veremonda, e Fengone.

FENGONE Deh! Valdemaro, il tuo valor mi tolga alle miserie mie. VALDEMARO Quel valor, cui negasti empio, e lascivo Veremonda in mercede? A chi non è mio re, nego la fede.

FENGONE A te, bella Ildegarde, chieggo soccorso. Il nostro amor te n' priega.

ILDEGARDE Infedele. Or mi prieghi? Resta: che del tuo amore perché tu passegger, scordossi il core.

FENGONE Gerilda, mia regina, amata sposa.

www.librettidopera.it 59 / 62 Atto terzo Ambleto

GERILDA Nomi, che mi togliesti ingrato, e cieco. A me in fronte, tu 'l sai, più non s'inchina il titolo di sposa, e di regina.

FENGONE Almen tu, Veremonda, toglimi alle catene. Te n' priego per la tua virtù pudica. VEREMONDA Tardi, o fellon, la mia virtù conosci. Ingiusto l'offendesti: e invan presumi reo di più colpe al fio sottrarti. FENGONE O numi!

Scena ultima Ambleto con Séguito, e poi Siffrido, e li suddetti.

AMBLETO Non profanare il cielo. Con le tue voci, o scellerato.

FENGONE Ambleto...

AMBLETO Aggiungi, e tuo monarca, e tuo tormento.

FENGONE Pietà.

AMBLETO Me la insegnasti?

FENGONE È ver.

AMBLETO Taci; che un empio suol confessare i falli disperato ben sì, ma non pentito. Morrai; ma pria rimira sulla mia fronte il tuo diadema. Leggi in questo dolce amplesso delle lascivie tue l'onta e l'orrore.

VEREMONDA Così è l'infelice allor ch'è giusto amore?

FENGONE Né mi uccide il dolor pria che l'acciaro?

GERILDA Da te, crudel, la crudeltade imparo.

AMBLETO Or traggasi, miei fidi, l'iniquo all'ombre, ai ceppi, e la più lenta senza morir la morte ei soffra, e senta.

SIFFRIDO Signor, mi si conceda ch'io 'l custodisca. Vieni. Tu lacci, tu prigion soffrir non déi. (parte)

FENGONE Son anche a mia difesa amici, e dèi. (parte)

60 / 62 www.librettidopera.it A.A. V.V. / F. Gasparini, 1706 Atto terzo

VEREMONDA Ed ancor spera l'empio?

GERILDA E della sua speranza è reo Siffrido.

VALDEMARO Seguasi tosto.

AMBLETO Andiamo, e si divida fra 'l traditore, e fra 'l crudel la morte.

SIFFRIDO (torna con spada nuda) Quest'acciaro, che forte fe' la vostra vendetta, e più la mia, a voi dirà, se traditore io sia.

AMBLETO Come?

SIFFRIDO Dovea cader l'iniquo mostro; ma per me solo. Oggi 'l tentai; ma invano, col ferro, con ruina, e con veleno. Qui 'l tolsi a vostri colpi; ma 'l tolsi, eccome il sangue, per gloria del mio braccio.

AMBLETO Traditor generoso, al sen ti abbraccio.

VEREMONDA (Alma, non più spaventi.)

AMBLETO Io, Veremonda, sposo, e re godo teco: e Valdemaro sposo pur goda ad Ildegarde in seno.

VALDEMARO Ambleto è re. Di Veremonda è sposo.

ILDEGARDE Intendo. Or sia 'l suo cenno il tuo riposo.

AMBLETO Tu regnerai pur meco, o genitrice.

GERILDA Nel tuo, nel comun bene io son felice.

VEREMONDA Torna già quel seren che quest'alma cercò. AMBLETO Gioirò nel piacer che più pena non ha. GERILDA L'impietà del crudel più temere non so. SIFFRIDO Pur godrò col pensier della mia fedeltà. VALDEMARO La beltà stringo al sen che già il sen m'infiammò. ILDEGARDE Io vivrò nel tuo cor che mio core si fa.

www.librettidopera.it 61 / 62 Indice Ambleto INDICE

Attori...... 3 Scena settima...... 30 Eccellenza...... 4 Scena ottava...... 31 Scena nona...... 31 Argomento...... 5 Scena decima...... 34 Atto primo...... 6 Scena undicesima...... 34 Scena prima...... 6 Scena dodicesima...... 35 Scena seconda...... 7 Scena tredicesima...... 36 Scena terza...... 8 Scena quattordicesima...... 37 Scena quarta...... 10 Scena quindicesima...... 39 Scena quinta...... 11 Scena sedicesima...... 40 Scena sesta...... 12 Scena diciassettesima...... 41 Scena settima...... 13 Scena diciottesima...... 41 Scena ottava...... 13 Atto terzo...... 43 Scena nona...... 15 Scena prima...... 43 Scena decima...... 16 Scena seconda...... 44 Scena undicesima...... 17 Scena terza...... 44 Scena dodicesima...... 17 Scena quarta...... 45 Scena tredicesima...... 18 Scena quinta...... 46 Scena quattordicesima...... 19 Scena sesta...... 47 Scena quindicesima...... 19 Scena settima...... 49 Scena sedicesima...... 20 Scena ottava...... 49 Scena diciassettesima...... 21 Scena nona...... 51 Scena diciottesima...... 22 Scena decima...... 51 Scena diciannovesima...... 23 Scena undicesima...... 52 Atto secondo...... 24 Scena dodicesima...... 52 Scena prima...... 24 Scena tredicesima...... 53 Scena seconda...... 24 Scena quattordicesima...... 54 Scena terza...... 26 Scena quindicesima...... 57 Scena quarta...... 27 Scena sedicesima...... 58 Scena quinta...... 28 Scena diciassettesima...... 59 Scena sesta...... 28 Scena diciottesima...... 59 Scena ultima...... 60

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AMLETO

Tragedia lirica.

testi di

musiche di

Prima esecuzione: 30 maggio 1865, Genova.

www.librettidopera.it 1 / 35 Informazioni Amleto

Cara lettrice, caro lettore, il sito internet www.librettidopera.it è dedicato ai libretti d'opera in lingua italiana. Non c'è un intento filologico, troppo complesso per essere trattato con le mie risorse: vi è invece un intento divulgativo, la volontà di far conoscere i vari aspetti di una parte della nostra cultura.

Motivazioni per scrivere note di ringraziamento non mancano. Contributi e suggerimenti sono giunti da ogni dove, vien da dire «dagli Appennini alle Ande». Tutto questo aiuto mi ha dato e mi sta dando entusiasmo per continuare a migliorare e ampliare gli orizzonti di quest'impresa. Ringrazio quindi: chi mi ha dato consigli su grafica e impostazione del sito, chi ha svolto le operazioni di aggiornamento sul portale, tutti coloro che mettono a disposizione testi e materiali che riguardano la lirica, chi ha donato tempo, chi mi ha prestato hardware, chi mette a disposizione software di qualità a prezzi più che contenuti. Infine ringrazio la mia famiglia, per il tempo rubatole e dedicato a questa attività.

I titoli vengono scelti in base a una serie di criteri: disponibilità del materiale, data della prima rappresentazione, autori di testi e musiche, importanza del testo nella storia della lirica, difficoltà di reperimento. A questo punto viene ampliata la varietà del materiale, e la sua affidabilità, tramite acquisti, ricerche in biblioteca, su internet, donazione di materiali da parte di appassionati. Il materiale raccolto viene analizzato e messo a confronto: viene eseguita una trascrizione in formato elettronico. Quindi viene eseguita una revisione del testo tramite rilettura, e con un sistema automatico di rilevazione sia delle anomalie strutturali, sia della validità dei lemmi. Vengono integrati se disponibili i numeri musicali, e individuati i brani più significativi secondo la critica. Viene quindi eseguita una conversione in formato stampabile, che state leggendo.

Grazie ancora.

Dario Zanotti

Libretto n. 200, prima stesura per www.librettidopera.it: febbraio 2010. Ultimo aggiornamento: 23/12/2015.

2 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Personaggi PERSONAGGI

AMLETO, principe di Danimarca ...... TENORE

Claudio, RE di Danimarca ...... BARITONO

POLONIO, lord ciamberlano ...... BASSO

ORAZIO, amico di Amleto ...... BASSO

MARCELLO, ufficiale ...... BASSO

LAERTE, figlio di Polonio ...... TENORE

OFELIA, figlia di Polonio ...... SOPRANO

Geltrude, REGINA di Danimarca, madre di Amleto ...... MEZZOSOPRANO

Lo SPETTRO ...... BASSO

Un SACERDOTE ...... BASSO

PRIMO BECCHINO ...... TENORE

ATTRICE SOPRANO

ATTORE TENORE

LUCIANO BASSO

Tre Cantori. Cortigiani, Paggi, Dame, Ufficiali, Soldati, Popolo.

La scena è in Elsinora.

www.librettidopera.it 3 / 35 Atto primo Amleto A T T O P R I M O

Parte prima

Gran sala reale nel castello di Elsinora. Il Re, la Regina, Amleto, Polonio, Laerte, Dame, Cortigiani, Ciamberlani, Ufficiali, Paggi.

Frailty the name is woman.

Festa d'incoronazione. Il nuovo Re beve a mensa; ad ogni tazza ch'egli vuota scoppiano gli evviva per tutta la reggia. Ofelia entra più tardi e più tardi ancora entrano Orazio e Marcello. TUTTI Viva il re! RE Di giulivi clamori sorga un tuon per le splendide sale, e fra i suoni, le danze, i fulgori, s'alzi un carme che narri di me. Né si vuoti una tazza regale se pria l'orbe il suo plauso non diè! Alla vostra salute, o signori! LAERTE E POLONIO Viva il re! CORTIGIANI E DAME Viva il re! UFFICIALI Viva il re!

AMLETO (Ah si dissolva quest'abietta forma (in disparte) di duolo e colpe! Si dissolva in nulla. Deh! Se il reietto suicida non fosse fulminato da dio!... per me la vita è dannazione, e la terra un immondo loto maligno. ~ E qui si danza, e un mese non è compiuto che morì mio padre!... Ahi vituperio! E le incestuose membra con ansia invereconda abbandonava la sposa del magnanimo defunto nell'atre braccia di quel drudo! Orrore! Ti frena o lingua, e non tradir lo sdegno che mi s'addensa nel core profondo.)

OFELIA E LAERTE Su beviam negli eletti bicchieri, fra il gioir delle danze cocenti. CORTIGIANI Altra danza da prodi guerrieri danzerem ove il voglia la fé.

4 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto primo

UFFICIALI Ove il fier Fortebraccio s'attenti di levar la sua spada su te.

RE Alla vostra salute, o messeri!

LAERTE E POLONIO Viva il re!

CORTIGIANI Viva il re!

UFFICIALI Viva il re! Segue una danza.

RE Caro Amleto, e qual t'ange rancura che t'arruga la fronte pensosa?

AMLETO Nulla, o re, sol contrasta l'oscura veste e il lutto fra tanto splendor.

REGINA Caro Amleto, men triste e crucciosa volgi al re la parola del cor.

CORTIGIANI E DAME Su, danziam! Per le splendide mura tutto esulta di luce e d'amor.

LAERTE Leva, o prence, lo sguardo giocondo. Non t'attristi de' morti il pensiero.

REGINA Egli è fato comune che al mondo ciò che ha vita è dannato a perir.

AMLETO Ben parlate, signora, davvero. (amaramente) CORO Dunque ognuno s'affretti a gioir. Poich'è fato comune che al mondo ciò che ha vita è dannato a perir.

(entra Ofelia e s'avvicina gentilmente ad Amleto) OFELIA Principe Amleto! Tutto mesto e nero fra gli splendori del regal connubio rassomigli alla larva del mistero.

AMLETO O al fantasma del dubbio! (cupamente)

www.librettidopera.it 5 / 35 Atto primo Amleto

OFELIA (sempre ad Amleto) Dubita pur che brillino degl'astri le carole, dubita pur che il sole fulga, e che sulla rorida zolla germogli il fior; dubita delle lagrime, dubita del sorriso, e dubita degli angeli che sono in paradiso, ma credi nell'amor!

RE È pertinace invero un tal corruccio, (ad Amleto) cugino mio; d'un traviato core e' mi discopre le tenaci fibre immansuete. Al cielo offendi, o insano, cogli eterni sospir; la rassegnata pazienza è virtù, smetti il cordoglio. Nello immutabil fato ell'è follia coll'umana cervice dar di cozzo. Ed or ch'esulta Danimarca intera non venga il duolo a contristarci: ai morti tributiamo un pensier di ricordanza, pur misto al gaudio di procaci pose e di bicchieri spumeggianti; il riso stia del labbro signore, e nel profondo petto s'accolga la pietà del pianto. Così, messeri; e un pio brindisi or sciolgo per darvi il retto esempio.

CORTIGIANI E noi ti udiamo.

RE (con un nappo in mano) Requie ai defunti. ~ E colmisi d'almo liquor la tazza. Oriam per essi. ~ E il calice trabocchi sull'altar. Tal che fra i suoni e i cantici dell'ora ardente e pazza, scenda rugiada e balsamo sui morti il pio libar. Libiam! La lagrima sul ciglio spunti. Oriam. ~ E tremulo vacilli il piè. Requie ai defunti!

CORTIGIANI E gloria al re!

6 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto primo

REGINA Requie ai defunti. ~ E intreccinsi poetiche carole. Oriam per essi. ~ E un cantico alziam di voluttà. Lungi dai morti il lugubre lamento e le viole. La danza ai mesti spiriti più dolce assai parrà. Libiam! La lagrima sul ciglio spunti. Oriam! Ed agile trasvoli il piè. Requie ai defunti!

CORTIGIANI E gloria al re!

AMLETO (Dell'ebro la bestemmia punisci, o dio possente, fa' che non giunga all'anima del padre mio dormente. La requie eterna i perfidi pregan pe 'l genitor. Ma la lor prece è folgore che ricadrà su lor.)

OFELIA (La pace eterna e il placido riposo dei beati invoco io pur sull'anima dei giusti trapassati. Ma le mie labbra al calice non posso avvicinar.)

LAERTE (porgendole una tazza) Su bevi, Ofelia, e allegrati... OFELIA Lasciatemi pregar. CORTIGIANI E DAME Libiam! La lagrima sul ciglio spunti. Oriam! Ed agile trasvoli il piè. RE Requie ai defunti! TUTTI E gloria al re!

(entrano Marcello ed Orazio, e s'accostano ad Amleto misteriosamente, formando un gruppo a parte) MARCELLO Prence.

ORAZIO Signor.

AMLETO Mio buon Marcello... Orazio...

www.librettidopera.it 7 / 35 Atto primo Amleto

LAERTE Bello il brindisi affé. ~ Per le purganti (al Re) anime tristi avrà valso mill'anni di beata indulgenza.

POLONIO Ed all'arsiccio gorgozzule bramoso una felice innaffiata.

AMLETO È ver; seguir le nozze (ad Orazio e Marcello) ben presto ai funerali ~ Oh! Padre mio!... Parmi vederlo.

MARCELLO E dove?...

AMLETO Coll'ardente pupilla del pensiero.

ORAZIO O mio buon prence. Nella passata notte io sì che 'l vidi.

AMLETO Chi?...

ORAZIO Vostro padre?...

MARCELLO (Il vidi anch'io!)

LAERTE (co' la tazza alzata) Versate!

LAERTE Sovra il desco inebriato piovan baci e gemme e fiori, piovan nembi di fulgori, armonie di voluttà!

CORO E la reggia un incantato paradiso ci parrà!...

ORAZIO Nell'ora dei morti ~ vegliava Marcello (ad Amleto solingo in vedetta ~ lunghesso il castello. misteriosamente) MARCELLO Vegghiavo in vedetta ~ quand'ecco ver me s'avanza tremendo ~ lo spettro del re. Tre volte l'immota ~ pupilla da morto brillar di corrusche ~ scintille v'ho scorto. Tre volte le cupe ~ mascelle sbarrò, e presso al mio corpo ~ tre volte passò. POLONIO Son discesi in questa reggia (dal desco) una turba di giullari. LAERTE Con prestigi e giochi rari (scherzosamente) e diaboliche virtù. AMLETO Né motto a lui feste? MARCELLO Richiesi 'l tremante, pur muto ed immobil ~ mi stette davante.

8 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto primo

ORAZIO Sol credo una volta ~ volesse parlar.

MARCELLO Ma sparve repente ~ d'un gallo al cantar.

OFELIA Sì davver?... (dal desco) LAERTE Nullo pareggia a codesti cerretani.

POLONIO Son di climi assai lontani.

LAERTE Figli son di Belzebù.

AMLETO E avea la sembianza?...

MARCELLO Sdegnosa ed altera.

ORAZIO E ritta sull'elmo ~ tenea la visiera.

CORTIGIANI Su! La danza scateni furibonda, ardente e pazza.

UFFICIALI Dall'ebbrezza della tazza all'ebbrezza dell'amor.

ORAZIO Signor, questa notte ~ di scolta sarò. (ad Amleto) AMLETO Ebben questa notte ~ pur io ci verrò.

CORTIGIANI Ve' l'ansar de' bianchi seni! Ve' degli occhi la baldanza!

UFFICIALI Danza, danza, danza, danza! Tutto è riso, luce e fior!

AMLETO Ben io gli parlerò, se pur l'averno tutto s'armasse contro me; sepolto resti in voi l'accaduto. In questa notte vo' vedere l'ombra di mio padre. RE Ai morti (gridando dal desco) la requie eterna, e ai vivi la follia! LAERTE Ben dice il re. Danziamo! AMLETO (Io d'un mal gioco sospetto assai.) MARCELLO Che pensi Amleto? AMLETO Andiamo. (parte con Orazio e Marcello)

TUTTI Su! La danza scateni furibonda, ardente e pazza, e si getti al suol la tazza e trasvoli ardente il piè. CORTIGIANI Ve' l'ansar de' bianchi seni!

www.librettidopera.it 9 / 35 Atto primo Amleto

UFFICIALI Ve' degli occhi la baldanza!

TUTTI Danza, danza, danza, danza!

CORTIGIANI Al re gloria! (la danza è interrotta dalla partenza del Re) TUTTI Gloria al Re. (il Re abbandona la festa accompagnato dalla Regina e dai ciamberlani. Grida di evviva. La folla si disperde)

Parte seconda

Una piattaforma. È oscura notte: a destra il castello d'Elsinora. Gli alberi e i culmini del castello biancheggiano di neve. Amleto, Orazio, Marcello, avvolti in lunghi mantelli s'avanzano lentamente, poscia lo Spettro.

O, horrible! O, horrible! Most horrible!

AMLETO Soffia la brezza acuta.

ORAZIO Il freddo punge.

AMLETO Quante ore son?

MARCELLO Cred'io che poco manchi a mezzanotte.

ORAZIO È già scoccata.

MARCELLO Allora non posi mente. ~ Il tempo s'avvicina che suol lo spettro errar fra questi spaldi. (s'odono musiche dal castello, i tre rimangono muti per qualche istante. Apparisce lo spettro)

MARCELLO Ecco egli vien... AMLETO Gran dio... misericordia!... Vegliate su di me, santi del cielo! E te, spettro vagante, angelo o furia, spirto di pace o di martiri, invoco! Sotto care sembianze a me ne vieni, te uomo padre, a rispondi, e il velo di mia mente dirada. A me rispondi! Oh! Qual misterio la tua salma avviva, che dall'avello ne risorgi, e getti il lenzuol della morte, e vagolando cadavere vivente e d'armi cinto vieni nell'alta notte a spaventare col morto aspetto i vivi? A me rispondi! ~ (lo Spettro accenna col braccio ad Orazio e Marcello)

10 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto primo

ORAZIO Ei d'andar ne fa cenno. Al solo Amleto parlar vorrà.

AMLETO V'allontanate.

MARCELLO O prence, né temi?...

AMLETO Io nulla; ite, ve n' prego.

MARCELLO Orazio, (a Orazio) poco discosti gli starem; col morto mal fora abbandonarlo. Andiam qui presso. (s'internano fra gli alberi) Lungo silenzio. SPETTRO Tu déi saper ch'io son l'anima lesa del morto padre tuo, su cui lo sdegno dell'eterna giustizia incombe e pesa. Me stesso fei per mio fallire indegno ed or le colpe della vita lieta purgo col foco del dolente regno. Oh! Se non fosse il ciel che lo mi vieta, io ti direi del mio patir, e ghiaccio per lo terror ti si faria la creta. Pur alte cose udir t'è forza; impaccio non ti sia lo spavento. O figlio! O figlio! Vendetta io vo' del maledetto braccio che mi diè morte... AMLETO Orror!... Deh narra, e quale?... (con impeto immenso) Qual fu colui?... Ch'io lo conosco, e ratto come un desio d'amor voli e l'uccida! (s'odono ancora le musiche di danza) SPETTRO Or se la tua parola è in cuor nutrita, ascolta o figlio: in Danimarca suona d'un serpe reo che mi furò la vita, e ognun di ciò come del ver ragiona, ma il ver tu sappi; il serpe che m'ha spento or porta in capo la regal corona.

AMLETO Ahi! Veggente cor mio!

SPETTRO Ma intorno io sento come un olir di soffio mattutino; breve adunque sarò. ~ Era il momento dopo il meriggio, e sceso nel giardino dormia sonno di pace, allor che il tristo fratello mio s'appiatta a me vicino. Continua nella pagina seguente.

www.librettidopera.it 11 / 35 Atto primo Amleto

SPETTRO E con orrenda man, goccia, non visto, nel mio orecchio un venen sì rio che d'angue soperchia ogni puntura, o d'improvvisto congela il cor nell'attoscato sangue. E tal morimmi, d'atra scabbia impura lasciando maculato il corpo esangue. L'anima mia dei vizi la lordura lava soffrendo, e nella cupa notte così vestita errando si rancura. Orribil cosa! E tu se pur corrotte non hai le fonti d'ogni senso umano faimi vendetta! ~ Or riedo alle mie grotte, fra l'ignei guai, poiché là nel lontano scerno del ciel la nube piccioletta biancheggiar di splendor antelucano, e languidir la stanca luccioletta. Io m'accomando, ti sorregga Iddio; ricordati di me, della vendetta. Già più non dico, è giunta l'ora; addio. (si sprofonda)

AMLETO Angioli e santi! Inferno e ciel! Reggete queste mie membra e questa mente, e il core non diventi pusillo. Ah! Mio buon padre, vendicato sarai, lo giuro. (entrano affannosi Orazio e Marcello) ORAZIO Amleto...

MARCELLO Signor?

ORAZIO (Lo guardi iddio!)

AMLETO Miei cari, un lieve favor non mi negate; il gran prodigio che in questa notte apparve alcun no 'l sappia.

ORAZIO Nulla direm.

AMLETO Giurate.

ORAZIO Sulla fede.

MARCELLO Sulla fede giuriamo.

ORAZIO E sulla spada. (sguainano le spade) SPETTRO Giurate!... (di sotterra) AMLETO Sì, scenda su te la requie, spirto affannato. SPETTRO Per la fé giurate! (con voce sempre più cupa)

12 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto primo

AMLETO, ORAZIO E Giurammo, sì. MARCELLO (incrociando le spade) SPETTRO Giurate!

AMLETO O miei compagni, preghiam per lui.

AMLETO, ORAZIO E De profundis clamavi... MARCELLO

www.librettidopera.it 13 / 35 Atto secondo Amleto ATTO SECONDO

Parte prima

Una sala nel castello. Il Re, la Regina, Polonio, poscia Amleto.

To be, or not to be!

POLONIO Egli ha mania di gironzar soventi lungh'ore in questa sala.

RE Or ben, qual prova ne date voi che fia suggel del vero?

POLONIO Quand'ei qui giunga, a lui verrà mia figlia, ed appiattati dietro quell'arazzo avvertirem le lor parole. Il giuro: Amleto è pazzo per amor di Ofelia. Io non vi mento, o re, mi condannate se falso è il mio parlar.

REGINA Ecco ei s'appressa pensoso in aria di dolor.

POLONIO Partiamo. (partono cautamente. S'avanza Amleto assorto in profondissima meditazione) AMLETO Essere o non essere! Codesta la tesi ell'è. ~ Morir? ~ Dormire ~ e poi?... Finir le angosce di quest'egra e lercia di carne eredità con un letargo!... Morir? ~ Dormire ~ e poi?... Dormir ~ Sognare! Qui si dismaga l'intelletto: e quali sogni fuggiti dalla grama vita morbile verranno a popolar quella ferale eternità di sonno?... E qui s'impiglia l'umana gente e n'esce il nero dubbio.

AMLETO Ah se bastasse il rapido vibrar d'uno stiletto per annientar quest'anima che ci tumultua in petto, chi mai vorria l'ingiurie dell'oppressor soffrire, i disinganni e l'ire, e la tradita fé? Continua nella pagina seguente.

14 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto secondo

AMLETO Ma dalla tomba s'alzano fantasmi di terrore ed un mistero orribile ci fa pusillo il core, ci lega alle miserie di questa età mortale pria che gettarci al male che noto ancor non è.

(entra Ofelia con un cofanetto fra le mani)

AMLETO Chi vien? La giovinetta Ofelia.

OFELIA Prence.

AMLETO Odi o gentil ~ quando la sera (fingendo demenza) stende la bruna ~ ala pe 'l ciel, quand'ergi a Dio ~ la tua preghiera prostrata a piè ~ del santo ostel. Prega pei mesti ~ cui passion fiera ha morto il cuore ~ morta la fé; del santo ostel ~ prostrata al piè. Prega per me.

OFELIA Signor, da gran tempo ~ tenevo nel cor di rendervi questa ~ memoria d'amor. È d'oro e d'argento ~ è degna d'un re. Ma pur pe' miei sguardi ~ l'incanto perdé!

AMLETO Prega per me.

OFELIA Prendetela o prence.

AMLETO Che mormori mai? Vezzosa fanciulla ~ dai fulgidi rai?

OFELIA Se morto v'è il cuore ~ se morta la fé, per me questo pegno ~ l'incanto perdé.

AMLETO Prega per me, ma pur s'egli è vero ~ che un giorno t'amai, vezzosa fanciulla ~ dai fulgidi rai, vo' darti un consiglio ~ ascoltalo o bella; recidi del capo ~ le morbide anella; fatti monachella.

OFELIA (Lo salva, o Signore ~ pietoso, possente, disperdi le nubi ~ dell'egra sua mente, ascolta d'un'alma ~ la pura favella, ascolta la prece ~ di mesta donzella.)

www.librettidopera.it 15 / 35 Atto secondo Amleto

AMLETO Sì, fatti monachella. ~ E se marito pigliar t'è forza, allor ti sposa a un pazzo; di ciò t'assenno, perché i saggi han mente da discerner quai mostri usin le spose far de' lor sposi ~ ti fa monachella. Ed or te n' va' te n' va'... non più parola su ciò che il senno mi turbava... Il giuro! Connubi più non si faran! Coloro che ammogliati son già viver potranno... viver potranno tutti... fuor d'un solo...

OFELIA (Lo salva, o Signore ~ pietoso, possente, disperdi le nubi ~ dell'egra sua mente.)

AMLETO Vo' darti un consiglio ~ mia povera bella: recidi del capo ~ le morbide anella. Fatti monachella ~ fatti monachella. (Ofelia s'allontana pensierosa e dolente)

POLONIO (rientrando) Prence, v'annuncio de' cantor l'arrivo.

AMLETO Ohibò!

POLONIO Da' senno, a noi verran fra breve.

AMLETO (con piglio da pazzo) A caval d'un asinello galoppava un menestrello. POLONIO Ponete orecchio al mio parlar. AMLETO Vecchiardo, un gran tesor possiedi. POLONIO E quale o prence? AMLETO Una figliola ~ fresca e gentil come viola ~ di primo april. POLONIO Vi parlai dei cantor. AMLETO Sta ben, gli accogli cortesemente, e di' lor ch'io comando per questa sera una grande tragedia. Per esempio: «L'orribile assassinio di re Gonzaga». POLONIO Prence sì. (esce)

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AMLETO Sovente udii narrar di pravi e manigoldi cui la lor grama coscienza, nude discopria le lor colpe in faccia al mondo. Ed ei medesmi si tradian, commossi in veder dalle scene i lor delitti. ~ Il dramma dei cantor è l'atra istoria dell'uccision del padre mio: presente il re sarà. ~ Vo' scrutinar quell'occhio nelle remote impression del core... S'ei raccapriccia... io mi sobbarco al colpo! (esce precipitosamente)

Parte seconda

La sala degli spettacoli sontuosissimamente adorna, e da splendidi candelabri illuminata. Nel fondo un breve rialto coperto di velluti ricchissimi e d'oro a foggia di palcoscenico; nessun altro ornamento vi sta sopra fuor d'uno sgabello. Qua e là nella sala saranno collocati degli scanni per gli spettatori. Ingresso pomposo della Corte. Entrano il Re, la Regina, Polonio, Laerte, Ofelia, Amleto, Orazio e Marcello.

Lights, lights, lights!

Squillo di trombe. Marcia.

AMLETO E son presti i cantor? (a Polonio) POLONIO Attendon solo il piacer vostro, o prence. REGINA Amleto, siedi da' costo alla tua madre.

AMLETO (accennando là dove siede Ofelia) Una più forte calamità costà m'attira.

POLONIO Udiste? (piano al re) AMLETO Sulle ginocchia di madonna il capo (a Ofelia) m'è concesso posar?

OFELIA Prence, vi frulla l'allegria questa sera?

www.librettidopera.it 17 / 35 Atto secondo Amleto

AMLETO Eh! Mi celiate!

OFELIA Daddovero, signor.

AMLETO (adagiandosi a' piedi d'Ofelia) Vostro giullare per tal guisa sarò; su questa terra si dée viver gioiosi, e la regina ne dà l'esempio, benché morto ei sia da poch'ore mio padre. Oh! Strano lutto! Mi risovvien di qual matto epitaffio: «Il funerale ~ del carnovale fra nappi e fior ~ s'affoga e muor»... OFELIA Tacete... s'incomincia. Alcuni Suonatori schierati davanti il rialzo con viole, lironi, chitarre, arpe incominciano un preludio. AMLETO Uf! Questo stile sa odor di muffa un miglio; a lungo andare ci annoierà. OFELIA Prence, corrivo siete al giudicar. AMLETO Seguo l'usanza. OFELIA Or via date orecchio alla musica. AMLETO Ciarlando e celiando più l'arte s'apprezza.

I due Cantori che fanno la parte di re Gonzaga e di regina Giovanna risalgono sul rialto della rappresentazione. Un momento di silenzio. ATTORE Vieni, compagna, un tiepido (re) orezzo vespertin fa carolar le mammole nel placido giardin. Vieni, delizia cara di questa vita amara, sorreggi ancora gli ultimi passi del mio cammin. ATTRICE Perché di malinconiche (regina) fole t'annebbi il cor, perché ti crei fantasimi di cruccio e di terror? Ridono i fiori e canta l'augello in su la pianta. Volan scherzando i zeffiri, e tu sospiri ognor?

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AMLETO (mentre si canta, furtivamente e rapidissimamente a Orazio) Fruga con occhio scrutator se al punto giunti i cantori che tu sa' l'arcano sulla fronte del re si disasconda... Cautamente anch'io gli sguardi fissi terrò ne' sguardi suoi. ORAZIO Prence, l'aiuto vi dà l'amico. AMLETO Or ben, facciam le viste d'esser oziosi; a te m'arraccomando. (ritorna presso Ofelia, e scherzando col suo ventaglio fissa attentamente il re)

ATTORE Già cala al fondo il tramite (re) della mia tarda età. Questa mia creta povera forse doman morrà. E tu vivrai; nel core ti batterà l'amore, e inghirlandato il talamo di nuovi fior sarà. ATTRICE Non sarà mai ch'io maculi (regina) l'intemerata fé, ch'io ti donai nei teneri dì, che m'univa a te. Colei cui voglie oscene traggono a nuovo imene spense con man sacrilega lo sposo che perdé. ATTORE Bada che presto obliansi (re) le lagrime e i sospir, bada che presto sperdesi de' morti il sovvenir. Addio... già cala il sole. Su quel guancial di viole chiuder vorrei la languida pupilla, e m'assopir... (si adagia e s'addormenta. La regina del dramma esce dal palcoscenico)

AMLETO Vi garba, o madre, il dramma? REGINA È di soperchio loquace la regina. RE L'argomento cosa non chiude che ferir ne possa? AMLETO Nessuna al mondo. RE Il titolo?

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AMLETO La «Trappola». (con piglio da pazzo) E il sorcio? O diamine! il sorcio ov'è? Non la si scappola, il sorcio è il re. Viva la «Trappola»! È un fatto occorso in Vienna, una facezia di veleni, di stupri e di rapine. E che perciò? Gonzaga è quel che dorme, Giovanna è la regina, e un ser Luciano, ch'è fratello del re, verrà fra breve. OFELIA Prence valete quanto il coro.

AMLETO (con un segno a Orazio e Marcello) Attenti... (entra Luciano lentamente e facendo una lunga scena mimica prima d'avvicinarsi al re Gonzaga)

(durante il soliloquio di Luciano, tutti gli spettatori del dramma parlano sommessamente a seconda delle passioni da cui sono agitati) RE Regina, nel core ~ mi lacera il morso d'un negro pensiero ~ d'un bieco rimorso. Regina, m'aita ~ mi sento tremar. Quel vecchio che dorme ~ non posso guardar. Quel vecchio... no 'l vedi? Orrenda figura! È un morto che spezza ~ la sua sepoltura... Regina! Ho paura. REGINA Paura, pusillo ~ di fatua fiamma? Di vana chimera ~ che i sensi t'infiamma? Paura d'un dramma? RE Non ridere, o donna ~ quel cheto giardino, quel veglio corcato ~ quel torvo assassino che a passi di iena ~ si vede venir m'agghiaccian le vene ~ son presso a morir... REGINA Coraggio! Di faci ~ risplendon le mura, discaccia la fola ~ che il cor ti tortura. RE Regina! Ho paura. Un foco d'inferno ~ le fauci m'infiamma, non posso gridare... m'investe una fiamma. REGINA Paura d'un dramma! RE Non ridere, o donna ~ pon mente... dal seno quel trovo omicida ~ ritragge un veleno. Or ecco... s'appressa ~ s'appressa... gran dio! Quel torvo omicida ~ regina ~ son io...

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AMLETO Osserva, Orazio, su quella fronte non vedi un funebre strano pallor? Son quelle, Orazio, le tetre impronte dell'uccisor...

ORAZIO Vedo, signor.

AMLETO Osserva, Orazio, livido e tetro accenti mormora d'ira e terror; dunque un miracolo era lo spettro del genitor...

ORAZIO Vedo signor.

AMLETO (Domani esanime cadrammi al piè.) (con violenta allegria) Là non si scappola, il sorcio è il re... Viva la «Trappola». OFELIA Prence, silenzio, la vostra celia la queta musica conturba ognor. AMLETO Deh perdonatemi, soave Ofelia, sereno ed ilare mi sento il cor.

VECCHI SPETTATORI E Oh ammirabile tragedia. POLONIO Piena d'estro e di splendor!

GIOVANI SPETTATORI Questa musica ci tedia, ci addormentano i cantor.

VECCHI SPETTATORI Quale incanto! Bravi, bravi viva l'arte de' nostri avi!

GIOVANI SPETTATORI (deridendo) Noi più baldi e men devoti vogliam l'arte dei nipoti.

VECCHI SPETTATORI (battendo le mani) Viva l'arte de' nostri avi. Bravi, bravi!

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LUCIANO L'ultimo sonno, o re Gonzaga, è questo (attore) che dormi in terra, dormirai fra poco sonno più duro, e la virtù d'un filtro viatico sarà per l'altro mondo. O re Gonzaga, buona notte. (versa il veleno nell'orecchio di Gonzaga)

RE (spaventato) Orrore!

OFELIA S'alza il re...

RE Faci, faci!...

AMLETO (gridando e trattenendo il re) Eh! Nulla, zio. È morto attossicato, e dal fratello attossicato... orribil cosa... e 'l spense per rapirgli lo scettro e la consorte. È pura storia, il giuro... dunque presto che il dramma si prosegua... RE Basta, basta!... Faci, aita!... REGINA Che fai, folle?... POLONIO Cessate! E rimbombi la marcia trionfale. Faci! Il re si ritira! (i trombettieri ripigliano la marcia danese confusamente e scomposta) AMLETO Hai tu veduto? (a Orazio) Egli è là! L'assassino! O mia vendetta armati!

ORAZIO O mio signor, prudente siate.

AMLETO La non si scappola, il sorcio è il re. Viva la «Trappola»!

RE Fuggiam lo spettro... faci... aiuto...

POLONIO Faci... Il Re fugge. I Ciamberlani lo seguono. Confusione, spavento, disordine, stupore generale.

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Parte prima

Una alcova nel castello. Porta con cortinaggi. Un inginocchiatoio; vari altri mobili; un ritratto del Re appeso alla parete. Il Re, poscia Amleto.

How now! A rat?

RE O nera colpa! Orribilmente inflitta entro l'occhio dell'anima! Perenne immutabil ricordo! ~ E non fia mai ch'io mi rimondi, o che dal core io tolga la nota del rimorso?... O spaventosa coscienza mia, cui tanto leppo ammorba, prega! La dolce orazione è un fresco lenimento al dolor... prega... e voi rudi ginocchia vi piegate, e tu cuor duro apriti a caritade, e tu mia lingua tremante e balda, mormora una santa preghiera a dio per un poco di pace. (s'inginocchia ~ passa Amleto con un pugnale in mano) AMLETO (Ecco il momento... ei sta pregando... All'opra!... No! Ché nel cielo il lancerei d'un colpo... folle, e vendetta non avrei. ~ Nel buio inferno io vo' precipitarlo. Andiamo.) (esce)

RE O padre nostro ~ che sei nel cielo sii benedetto ~ nel tuo splendor... Pregan le labbra ~ ma son di gelo anima e cor. Venga il tuo regno ~ e sulla terra si compia l'alta ~ tua volontà... Ah! Che un demonio ~ pe 'l crin m'afferra. Pietà, pietà! Ne dona il pane ~ quotidiano o padre santo ~ dolce sovran... Di sangue lorda ~ ho ancor la mano e prego un pan! Continua nella pagina seguente.

www.librettidopera.it 23 / 35 Atto terzo Amleto

RE Perdona al tristo ~ le sue peccata com'ei perdona ~ all'offensor... Ciel! La mia morte ~ ho qui segnata. Pietà, signor! (s'alza inorridito) Non ascoltarmi ~ e' fu il demonio che di mie labbra ~ gioco si fe'. Non ascoltarmi ~ quest'orazione non è per me. (fugge)

Entrano Polonio, la Regina, poscia Amleto. POLONIO Qui l'attendete e con forti rampogne quel bizzarro cervel dite che ammansi; dite che il suo celiar già passa il segno, e che no 'l soffre il re.

REGINA N'andate, ei viene. (Polonio esce) AMLETO Madre?

REGINA Signor, grave un'offesa all'alta maestà scagliaste.

AMLETO Grave offesa, o madre, al padre mio scagliaste.

REGINA Orsù, frenate la pazza lingua.

AMLETO E la lingua perversa frenate voi.

REGINA Tant'osi, Amleto! E dunque chi mi sia tu obliasti?

AMLETO Oh per lo cielo! Ben v'ho a mente regina, che la sposa voi siete del fratel del padre mio, ben v'ho a mente che madre a me voi siete. Togliesse 'l dio!

REGINA Principe!

AMLETO Or via, tranquilla dimorate e tacete, infin che tutta l'anima vostra in un immondo specchio io v'addimostri... né fuggir tentate.

REGINA Ciel! Che? Vuoi forse trucidarmi? Aiuto!... Aiuto!...

POLONIO (dietro l'arazzo) Aiuto!... Alla Regina! Aiuto...

24 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto terzo

AMLETO Cos'è codesto? Un topo... un topo... un topo... scommetto ch'io l'infilzo. (sguaina la spada e trapassa l'arazzo)

POLONIO Oh dio!... REGINA Che festi? AMLETO No 'l so da senno! Oh... forse il re! (corre e solleva l'arazzo)

REGINA Polonio!...

AMLETO Morto. Messere, mal vi consigliaste di torvi briga di soperchio: tale dell'arti vostre è il frutto. Eh! Non ciarlate? Voi che di ciance eravate maestro eccovi tutto grullo e incamuffito!

REGINA Oh assassinio crudel!

AMLETO Meno crudele che d'uccidere un re, madre, per poscia isposarne il fratello!

REGINA Oh tu vaneggi.

AMLETO No, per mia fé, madre pudica, il vero io parlo, e quella sozza e laida voi siete.

REGINA Amleto!

AMLETO A incestuoso imene voi vi gettaste col fratel, che porta lo scettro di mio padre. ~ Oh re fetente! Turpe omicida incoronato, e drudo...

AMLETO (quasi farnetico rivolto verso il ritratto del Re) O Re ladrone! Che rubi e insudici troni e corone, rasciuga il tetro sangue che sgocciola dal regio scettro, o Re ladrone!

REGINA Cessa, pietà!

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AMLETO (sghignazzando) Ah! Ah! Ah! Ah! O Re assassino! T'indraca in sordide orge nel vino, poi co' la sposa corri alla coltrice lussuriosa, o Re assassino! REGINA Figlio, pietà! AMLETO Ah! Ah! Ah! Ah! Re pulcinella! L'hai fatta orribile la gherminella. Ma in verità che qualche diavolo ti pagherà: Re pulcinella! (sghignazzando) Ah! Ah! Ah! (apparisce lo Spettro) AMLETO (interrompe le risa con un grido di spavento) Ah!

SPETTRO Figliuol, dal cieco furiar rimanti, smetti le vote grida, e in mezzo al core nutri il pensier che dée trarreti avanti. Io vegno a te per drizzarti l'ardore a retto segno, e innovarti il proposto che ti chiama di me vendicatore. Non disviar da quel sentier che posto ti se' per meta, e allenta il desio quando il reo sangue avrà pagato il costo. Prega per me che mi perdoni iddio.

AMLETO Celesti spirti! O lugubre spettro del padre morto, perdon se in vana furia m'ebbi un istante assorto, alla tua vista un igneo pensiero mi divampa, e di terribil vampa sento affocarmi il cor.

26 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto terzo

REGINA Figlio vaneggi; orribile pazzia t'invade l'alma. Deh torna ai queti, ai teneri dì della dolce calma. Irti i capelli, e pallido, e gli occhi spalancati, dimmi, che spettro guati che t'empie di terror?

AMLETO Colà, colà, quel morto ch'è dall'avel risorto non scerni, o madre? (lo Spettro s'allontana) REGINA Io no. AMLETO No 'l vedi? In sepoltura ei serba l'armatura che vivo egli portò. Or ei dispare... REGINA Oh vano!... AMLETO Laggiù lontan, lontano... già tutto ei dileguò... Spettro dolente e pio ti placa... Or madre addio. (esce)

REGINA Ah che alfine all'empio scherno mi ribello, o snaturato! La pietà del cor materno, falso pazzo, hai cancellato. Fingi pur deliri e spasmi, io non simulo il furor: bada a te, d'ombre e fantasmi o bugiardo evocator!... Ah! Che dissi? Io rea, che il padre spensi al figlio e tolsi il trono, non son madre, ah non son madre!... Vien, m'uccidi, io ti perdono. Di regina e di consorte profanato ho i nomi, il so: corri Amleto, e dammi morte, madre almeno io morirò. (esce)

www.librettidopera.it 27 / 35 Atto terzo Amleto Parte seconda

Luogo romito nel parco d'Elsinora. Nell'estremo fondo a sinistra s'erge un fianco del castello. Alte macchie di pini e d'abeti sparse qua e là. A mezzo della scena scorre un ruscello alle di cui sponde sinuose s'assiepano cespugli di fiori. Un salice piangente bagna i suoi rami nell'onda. L'ora è il tramonto, una luce calda indora il paesaggio. Il Re seguìto dai Soldati percorre smarrito la scena, come per cercare un rifugio. Laerte e Ofelia: strepito di rivolta nel lontano.

Hey non nonny, nonny, hey nonny!

GRIDA Morte al re! Morte al re! (lontane) RE Guardie! Le mura (ai soldati) del castel custodite, a ferro e foco sterminate i rubelli. (le guardie partono) GRIDA Morte! Morte! ALTRE GRIDA Laerte è nostro re. GRIDA Viva Laerte! (più vicine) RE Fuggiam... la folla irrompe...

LAERTE Ove s'appiatta codesto re? ~ Compagni, e voi sostate, e niun mi segua. ~ E tu mi rendi il padre!

RE Pace, Laerte, pace...

LAERTE Ov'è mio padre?...

RE Morto. Ma non da me, morto.

LAERTE E chi dunque, e chi dunque l'uccise? Ah! Per satana! Vendetta io vo' del padre mio!

UNA VOCE DI DENTRO Sgombrate il passo a lei.

LAERTE Chi giunge?... Ofelia! Ofelia! (Ofelia passa, ornata stranamente di fiori, e col grembiale pieno d'erba e di pianticelle, cantando)

28 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto terzo

OFELIA La bara involta d'un drappo nero move alla volta del cimitero. Zitto! Chi passa, chetate l'orme, che in quella cassa v'ha un che dorme. Ma voi di riso pingete il viso e di pietà. E dite a questa orfana mesta: chi è nella cassa per un che passa non s'alzerà. È un sonno forte quel della morte!

OFELIA Ma quando sarem giunti al camposanto e che ci avran levato il bruno manto, e che l'avran calato nella fossa, tutto cosparsa di viole e d'ossa, m'assetterò tranquilla a lui vicino, per piantar sulla fossa il mio giardino. E là... su que' capelli bianchi e lustri ci metterò un boschetto di ligustri; sugli occhi tanto azzurri e tanto belli seminerò due grani di napelli... e sui denti d'avorio, un bianco fiore di giglio... e qui dove gli batte il core... vo' posare una rossa pianticina di quel bel fior che chiaman vedovina; e là... sul petto dov'ha la ferita vo' che nasca una triste margherita, mista a un po' di pervinca e di genziana, che è un'erba per le piaghe tanto sana... E quando avrò di fior cosparso l'orto vo' inginocchiarmi e dire un requie al morto.

LAERTE Sventura orrenda! Ofelia mia gentile, dolce sorella... io vo' pagare a sangue la tua demenza. Udisti, Re?

RE Fu Amleto che trafisse tuo padre.

LAERTE Oh! Per lo cielo!

www.librettidopera.it 29 / 35 Atto terzo Amleto

RE Deh, buon Laerte, al tuo dolor profondo io son commosso, e se vendetta brami, vendetta avrai. La sicurtà del regno il vuole anch'essa. Intanto tu racqueta la ciurmaglia che mugge, e fa che salva sia d'ogni insulto la maestà danese; alla tua voce obbediran sommessi i rivoltosi.

LAERTE Amleto! Dov'è Amleto? Ove s'asconde?

RE Ebben, se il vuoi, mi segui. (partono il Re e Laerte) (i tumulti lontani svaniscono e si spande il silenzio del tramonto. Ofelia, errando mestamente verso il ruscello)

OFELIA (sola) Amleto! Amleto! Chi parlò d'Amleto? Cala queto ~ vespero, la brezza è una carezza ~ un bacio, una favella, la brezza è quella ~ che cantò quel nome. O come, o come ~ tutto io mi rammento!... I miei pensieri tornan col vento ~ a frotte quando imbruna la notte ~ allora io sento quasi un concento ~ che si rinnovella!... Ei mi dicea: Va'! Fatti monachella!... Va' fatti monachella!... Va' le anella... del tuo capo recidi... ed io non volli (me lassa!) udir la parola profonda! Ed or me n' vo co' sospir tronchi e folli... per troppo amor della mia chioma bionda. (si adagia sul salice)

(aurora lunare)

OFELIA Ahimè! Chi piange? È il salice che piange, e piange tanto che l'acqua del suo pianto formò questo ruscel. Bello alberel dolente la vergine piangente ti chiamerà fratel. E i rami tuoi (patetica di due dolor catena) alla mia franta lena saran blando guancial, mentre con pio lamento verrà a cullarmi il vento dal cielo oriental!... (il ramo si spezza, Ofelia cade lievemente nel ruscello, cantando sempre, mentre il suo corpo, circondato di fiori, viene trascinato dal corso dell'acque)

30 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Atto quarto ATTO QUARTO

Parte unica

Un cimitero. È notte oscura. Due Becchini scavano una fossa e cantano. Poi Amleto e Orazio.

Ah, poor !

PRIMO BECCHINO Oggi a me, domani a te. Oggi a te, domani al re. Oggi al re, domani a me. La è faceta per mia fé!

AMLETO Cantano e van scavando! ORAZIO Al lor lavoro assiduo costume i fe' di pietra.

PRIMO BECCHINO (al secondo che esce) Compare, ho sete, porteme un gotto costì dall'oste. (getta un cranio)

AMLETO Or ve' a che grullo modo è ridotto quel cranio! E' si potrebbe giocar con esso al giuoco del paleo...

PRIMO BECCHINO (canterellando) Oggi a me, domani a te...

AMLETO Di', dabben uomo, e se' tu da molt'anni qui sepoltore?

BECCHINO Da quel dì che nacque Amleto, il prence che ha il cervello a' grilli

AMLETO Tu se' un furbo compar.

BECCHINO Ma non più furbo di quel ch'or fa vent'anni avea per capo questo putrido teschio. (scava un altro cranio)

AMLETO E chi era desso? BECCHINO Malan venga al briccone! Un dì versommi entro la nuca un caraffon di Reno. Questi era, o bel messere, Yorick giullare del re. AMLETO Codesto? BECCHINO Per l'appunto.

www.librettidopera.it 31 / 35 Atto quarto Amleto

AMLETO (prende in mano il cranio di Yorick) Ahimè! Povero Yorick! Me 'l rammento io pure, giovial collega e mattamente gaio, pien di briose fantasie. Soventi ei mi portava a spalle... Orazio, vedi, su quest'ossa veniam due liete labbra ch'io baciai tante volte. Ah! Leziose istorielle e canzoni e motti e beffe, allegrie della mensa! Ove n'andaste? Muta, chiusa in eterno è questa bocca!... (getta con ribrezzo il cranio) E manda orrendo leppo. Oh qual bagliore!

BECCHINO Un funerale.

AMLETO Orazio, io non m'inganno. Quello è il real corteo. N'andiamo in parte ove non luca delle faci il raggio. (s'allontanano)

S'avanza lentamente il funerale d'Ofelia. Laerte, il Re, la Regina, un Sacerdote, Popolo, Cortigiani, Soldati con ceri accesi. Un mormorio sordo come di folla che preghi.

LAERTE (si avvicina al cataletto) Preghiam per la morta che dorma tranquilla, che in pace riposi la chiusa pupilla, preghiam per la morta che ieri vivea.

SACERDOTE E POPOLO Oremus pro ea.

BECCHINI (sogghignando, sottovoce) Cacciamola giù! Mors tua, vita mea. Gli è un gotto di più.

REGINA (s'avvicina al cataletto dopo Laerte) Serena, ridente, ripiena d'amore, correva per l'erbe, coglieva ogni fiore; preghiam per la morta che iddio ci togliea.

SACERDOTE E POPOLO Oremus pro ea.

BECCHINI (sogghignando, sottovoce) Cacciamola giù! Mors tua, vita mea. Gli è un gotto di più.

RE (s'avvicina al cataletto dopo la regina) Ahi povera Ofelia, sì buona, sì bella! In terra pareva celeste facella; nel mondo de' santi or santa si bea.

SACERDOTE E POPOLO Oremus pro ea.

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BECCHINI (sogghignando, sottovoce) Cacciamola giù! Mors tua, vita mea. Gli è un gotto di più.

LAERTE (davanti al cadavere d'Ofelia) Che iddio scaraventi l'ardente saetta sull'alma tre volte da me maledetta del principe Amleto... (movimento d'orrore) AMLETO (scagliandosi) Sciagurato! In gola ricaccia i tuoi deliri...

RE E REGINA Amleto! Che ti porti satana...

AMLETO Ah! Manigoldo! (incomincia un duello furibondo fra Amleto e Laerte) RE Separateli, guardie! AMLETO In quella buca vo' gittarti sgozzato! REGINA Amleto! LAERTE Infame! ORAZIO Pace, pace, signor. (ad Amleto) AMLETO No, per l'inferno! CORO Sacrilegio! Delitto!... (una parte) CORO Sacrilegio! (altra parte) REGINA Furenti son, li dividete!

AMLETO (disarmando Laerte) A terra!

REGINA Qual demonio t'invade!

AMLETO Io quella morta (con impeto) amai più che l'amor di mille e mille fratelli insiem!

CORO Profanazione! Orrore!

AMLETO No, la mia spada il sangue tuo rifiuta... (a Laerte) Voglio il sangue del Re! (s'avventa sul Re e lo trafigge)

RE Soccorso! (cadendo)

AMLETO È fatto! (con impeto) Sei vendicato o padre!

www.librettidopera.it 33 / 35 Atto quarto Amleto

REGINA Tradimento!

CORO Sacrilegio! Delitto!

DONNE Ofelia! Ofelia!

TUTTI Temi l'ira del ciel! Tu profanasti quel puro avello!

AMLETO Ah! In nome della sacra vendetta mia, tu Ofelia, mi perdona!

34 / 35 www.librettidopera.it A. Boito / F. Faccio, 1865 Indice INDICE

Personaggi...... 3 Parte seconda...... 17 Atto primo...... 4 Atto terzo...... 23 Parte prima...... 4 Parte prima...... 23 Parte seconda...... 10 Parte seconda...... 28 Atto secondo...... 14 Atto quarto...... 31 Parte prima...... 14 Parte unica...... 31

www.librettidopera.it 35 / 35 UNITÀ B3 ATMOSFERE REALISTICHE E D’AMBIENTE

Giovanni Verga Metodi e Vita dei campi fantasia Rosso Malpelo (1880) Narrativa Racconto verista Atmosfere realisti- che e d’ambiente pp. 337-411

osso Malpelo è un ragazzo cresciuto nell’indifferenza, come una bestia, e avviato pre- Quando Rcocemente a un lavoro duro, come accadeva spesso nella Sicilia di fine Ottocento. È Epoca contempora- maltrattato e infelice, ma anche se vive la propria condizione con rassegnazione, è sorret- nea alla stesura to dall’orgoglio per la propria resistenza fisica e per la propria capacità di guardare senza Dove illusioni agli aspetti dolorosi della vita. Sicilia

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi per- ché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire1 un fior di bir- bone. Sicché tutti alla cava della rena rossa2 lo chiamavano Malpelo; e persino Msua madre col sentirgli dir sempre a quel modo aveva quasi dimenticato il suo 5 nome di battesimo. Del resto, ella lo vedeva soltanto il sabato sera, quando tornava a casa con quei pochi soldi della settimana; e siccome era malpelo c’era anche a temere che ne sottraesse un paio di quei soldi; e nel dubbio, per non sbagliare, la sorella maggiore gli faceva la ricevuta a scapaccioni. 10 Però il padrone della cava aveva confermato che i soldi erano tanti3 e non più; e in coscienza erano anche troppi per Malpelo, un monellaccio che nessuno avrebbe voluto vedersi davanti, e che tutti schivavano come un cane rognoso, e lo accarezzavano coi piedi4, allorché se lo trovavano a tiro. Egli era davvero un brutto ceffo, torvo, ringhioso, e selvatico. Al mezzogiorno, 15 mentre tutti gli altri operai della cava si mangiavano in crocchio5 la loro mine- 10. cencioso: malve - stra, e facevano un po’ di ricreazione, egli andava a rincantucciarsi col suo cor- stito. 6 bello fra le gambe, per rosicchiarsi quel suo pane di otto giorni, come fanno le 11. lordo: sporco. bestie sue pari; e ciascuno gli diceva la sua motteggiandolo7, e gli tiravan dei sas- si, finché il soprastante8 lo rimandava al lavoro con una pedata. Ei c’ingrassava9 12. fatta sposa: fidan- zata. 20 fra i calci e si lasciava caricare meglio dell’asino grigio, senza osar di lagnarsi. 10 11 Era sempre cencioso e lordo di rena rossa, ché la sua sorella s’era fatta spo- 13. bettonica: pianta sa12, e aveva altro pel capo: nondimeno era conosciuto come la bettonica13 per molto diffusa, con tutto Monserrato e la Carvana14, tanto che la cava dove lavorava la chiamavano proprietà medicinali. «la cava di Malpelo», e cotesto al padrone gli seccava assai. Insomma lo teneva- 14. Monserrato e la 25 no addirittura per carità e perché mastro Misciu15, suo padre, era morto nella Carvana: sobborghi di cava. Catania. 15. mastro Misciu: il 1. riescire: diventare. 3. erano tanti: erano 5. in crocchio: in cer- prendendolo in giro. padre di Malpelo (Mi- proprio quella data chio. sciu: Domenico) era 2. cava… rossa: collo- somma. 8. soprastante: sorve- sterratore, scavava la cata sotto le secolari 6. corbello: cesto di gliante. sabbia; mastro era ge- colate di lava dell’Et- 4. lo accarezzavano vimini. neralmente l’appellati- na; rena: sabbia. coi piedi: lo trattavano 9. c’ingrassava: ci vi- vo riservato ai lavora- a pedate. 7. motteggiandolo: veva benissimo. tori manuali. 1 B I GENERI DELLA NARRAZIONE Era morto così, che un sabato aveva voluto terminare certo lavoro preso a cottimo16, di un pilastro lasciato altra volta per sostegno nella cava, e che ora non serviva più, e s’era calcolato così ad occhio col padrone per 35 o 40 carra17 di rena. Invece mastro Misciu sterrava da tre giorni e ne avanzava ancora per la 30 mezza giornata del lunedì. Era stato un magro affare e solo un minchione come mastro Misciu aveva potuto lasciarsi gabbare18 a questo modo dal padrone; per- PERCORSO ciò appunto lo chiamavano mastro Misciu Bestia, ed era l’asino da basto19 di tutta la cava. Ei, povero diavolaccio, lasciava dire e si contentava di buscarsi il pane colle sue braccia, invece di menarle addosso ai compagni, e attaccar brighe. 35 Malpelo faceva un visaccio come se quelle soperchierie20 cascassero sulle sue spalle, e così piccolo com’era aveva di quelle occhiate che facevano dire agli altri: «Va’ là, che tu non ci morrai nel tuo letto, come tuo padre». Invece nemmen suo padre ci morì nel suo letto, tuttoché21 fosse una buona bestia. Zio Mommu lo sciancato22 aveva detto che quel pilastro lì ei non l’avreb- 40 be tolto per venti onze23, tanto era pericoloso; ma d’altra parte tutto è pericolo- so nelle cave, e se si sta a badare al pericolo, è meglio andare a fare l’avvocato. Adunque il sabato sera mastro Misciu raschiava ancora il suo pilastro che l’ave- maria era suonata da un pezzo, e tutti i suoi compagni avevano accesa la pipa e se n’erano andati dicendogli di divertirsi a grattarsi la pancia per amor del pa- 45 drone, e raccomandandogli di non fare la morte del sorcio. Ei, che c’era avvezzo alle beffe, non dava retta, e rispondeva soltanto cogli ah! ah! dei suoi bei colpi di zappa in pieno; e intanto borbottava: «Questo è per il pane! Questo pel vino! Questo per la gonnella di Nunziata24!» e così andava facendo il conto del come avrebbe speso i denari del suo appalto – il cottimante! 50 Fuori della cava il cielo formicolava di stelle, e laggiù la lanterna fumava e gi- rava al pari di un arcolaio; ed il grosso pilastro rosso, sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco come se avesse il mal di pancia, e dicesse: ohi! ohi! Anch’esso. Malpelo andava sgomberando il terreno, e metteva al sicuro il piccone, il sacco vuoto ed il fiasco di vino. Il padre che gli voleva bene, poveret- 55 to, andava dicendogli: «Tirati indietro!» oppure «Sta’ attento! Sta’ attento se ca- scano dall’alto dei sassolini o della rena grossa.» Tutt’a un tratto non disse più nulla, e Malpelo, che si era voltato a riporre i ferri nel corbello, udì un rumore sordo e soffocato, come fa la rena allorché si rovescia tutta in una volta; ed il lu- me si spense. 60 Quella sera in cui vennero a cercare in tutta fretta l’ingegnere che dirigeva i 16. cottimo: forma di retribuzione per cui il lavori della cava ei si trovava a teatro, e non avrebbe cambiato la sua poltrona salario viene stabilito con un trono, perch’era gran dilettante25. Rossi26 rappresentava l’Amleto, e c’era in base alla quantità di un bellissimo teatro. Sulla Porta si vide accerchiato da tutte le femminucce di lavoro eseguito. Monserrato che strillavano e si picchiavano il petto per annunziare la gran di- 65 17. carra: carri. sgrazia ch’era toccata a comare Santa, la sola, poveretta, che non dicesse nulla, e

18. gabbare: (toscani- 20. soperchierie: so- liano rivolto alle per- 23. onze: moneta del 25. gran dilettante: smo) ingannare. prusi, prepotenze. sone anziane in segno Regno delle due Sici- appassionato. di rispetto. Mommu: lie. 19. asino da basto: 21. tuttoché: altro diminutivo di 26. Rossi: Ernesto l’uomo addetto ai la- nonostante. Domenico o anche di 24. Nunziata: la figlia Rossi (1827-1896), ce- vori più faticosi, simile Gerolamo. sciancato: cui provvedere, perché lebre attore livornese. all’asino che porta i 22. Zio… sciancato: zoppo per un difetto in età da marito. pesi. zio era appellativo sici- all’anca. 2 UNITÀ B3 ATMOSFERE REALISTICHE E D’AMBIENTE

sbatteva i denti quasi fosse in gennaio. L’ingegnere, quando gli ebbero detto che il caso era accaduto da circa quattro ore, domandò cosa venissero a fare da lui dopo quattro ore. Nondimeno ci andò con scale e torcie a vento27, ma passarono 70 altre due ore, e fecero sei, e lo sciancato disse che a sgomberare il sotterraneo dal materiale caduto ci voleva una settimana.

Altro che quaranta carra di rena! Della rena ne era caduta una montagna, tut- LABORATORIO ta fina e ben bruciata dalla lava, che si sarebbe impastata colle mani e doveva prendere il doppio di calce28. Ce n’era da riempire delle carra per delle settima- 75 ne. Il bell’affare di mastro Bestia! L’ingegnere se ne tornò a veder seppellire Ofelia29; e gli altri minatori si strin- sero nelle spalle, e se ne tornarono a casa ad uno ad uno. Nella ressa e nel gran chiacchierìo non badarono a una voce di fanciullo, la quale non aveva più nulla di umano, e strillava: «Scavate! scavate qui! presto!» «To’!» disse lo sciancato, «è 80 Malpelo! Da dove è venuto fuori Malpelo?» «Se tu non fossi stato Malpelo, non te la saresti scappata30, no!» Gli altri si misero a ridere, e chi diceva che Malpelo avea il diavolo dalla sua, un altro che avea il cuoio31 duro a mo’ dei gatti. Malpe- lo non rispondeva nulla, non piangeva nemmeno, scavava colle unghie colà nel- la rena, dentro la buca, sicché nessuno s’era accorto di lui; e quando si accosta- 85 rono col lume gli videro tal viso stravolto, e tali occhiacci invetrati32, e tale schiu- ma alla bocca da far paura; le unghie gli si erano strappate e gli pendevano dalle mani tutte in sangue. Poi quando vollero toglierlo di là fu un affar serio; non potendo più graffiare, mordeva come un cane arrabbiato e dovettero afferrarlo pei capelli, per tirarlo via a viva forza. Però infine tornò alla cava dopo qualche 90 giorno, quando sua madre piagnucolando ve lo condusse per mano; giacché, al- le volte, il pane che si mangia non si può andare a cercarlo di qua e di là. Anzi non volle più allontanarsi da quella galleria, e sterrava con accanimento, quasi ogni corbello di rena lo levasse di sul petto a suo padre. Alle volte, mentre zap- pava, si fermava bruscamente, colla zappa in aria, il viso torvo e gli occhi stralu- 95 nati e sembrava che stesse ad ascoltare qualche cosa che il suo diavolo gli sussur- rava negli orecchi, dall’altra parte della montagna di rena caduta. In quei giorni era più tristo e cattivo del solito, talmente che non mangiava quasi, e il pane lo buttava al cane, come se non fosse grazia di Dio. Il cane gli voleva bene, perché i cani non guardano altro che la mano la quale dà loro il pane. Ma l’asino grigio, 100 povera bestia, sbilenca e macilenta, sopportava tutto lo sfogo della cattiveria di Malpelo; ei lo picchiava senza pietà, col manico della zappa, e borbottava: «Così creperai più presto!» Dopo la morte del babbo pareva che gli fosse entrato il diavolo in corpo, e la- vorava al pari di quei bufali feroci che si tengono coll’anello di ferro al naso. Sa- 105 pendo che era malpelo, ei si acconciava33 ad esserlo il peggio che fosse possibile, e se accadeva una disgrazia, o che un operaio smarriva i ferri o che un asino si scappata: non ti sare- rompeva una gamba, o che crollava un pezzo di galleria, si sapeva sempre che sti salvato.

31. il cuoio: la pelle. 27. torcie a vento: tor- una quantità di calce muore Ofelia, la fidan- na a vedere la fine del- ce fiammanti che non doppia di quella della zata di Amleto. Signi- lo spettacolo, perché 32. invetrati: vitrei, si spegnevano al ven- sabbia. fica che l’ingegnere, più interessato alla gelidi. to. indifferente alla trage- finzione artistica. 29. Ofelia: nella con- dia reale della morte 33. si acconciava: si 28. il doppio di calce: clusione della tragedia di Mastro Misciu, tor- 30. non te la saresti sforzava. 3 B I GENERI DELLA NARRAZIONE era stato lui; e infatti ei si pigliava le busse senza protestare, proprio come se le pigliano gli asini che curvano la schiena, ma seguitano a fare a modo loro. Cogli altri ragazzi poi era addirittura crudele, e sembrava che si volesse vendicare sui 110 deboli di tutto il male che s’immaginava gli avessero fatto, a lui e al suo babbo. Certo ei provava uno strano diletto a rammentare ad uno ad uno tutti i maltrat- tamenti ed i soprusi che avevano fatto subire a suo padre, e del modo in cui PERCORSO l’avevano lasciato crepare. E quando era solo borbottava: «Anche con me fanno così! e a mio padre gli dicevano Bestia, perché ei non faceva così!» E una volta 115 che passava il padrone, accompagnandolo con un’occhiata torva: «È stato lui, per trentacinque tarì!34» E un’altra volta, dietro allo sciancato: «E anche lui! e si metteva a ridere! Io l’ho udito, quella sera!» Per un raffinamento di malignità sembrava aver preso a proteggere un povero ragazzetto, venuto a lavorare da poco tempo nella cava, il quale per una caduta 120 da un ponte s’era lussato35 il femore e non poteva far più il manovale. Il poveret- to, quando portava il suo corbello di rena in spalla, arrancava in modo che sem- brava ballasse la tarantella, e aveva fatto ridere tutti quelli della cava, così che gli avevano messo nome Ranocchio; ma lavorando sotterra, così ranocchio co- m’era, il suo pane se lo buscava; e Malpelo gliene dava anche del suo, per pren- 125 dersi il gusto di tiranneggiarlo, dicevano. Infatti egli lo tormentava in cento modi. Ora lo batteva senza un motivo e senza misericordia, e se Ranocchio non si difendeva, lo picchiava più forte, con maggiore accanimento, e gli diceva: «To’ Bestia! Bestia sei! Se non ti senti l’ani- mo di difenderti da me che non ti voglio male, vuol dire che ti lascerai pestare il 130 viso da questo e da quello!» O se Ranocchio si asciugava il sangue che gli usciva dalla bocca o dalle narici: «Così, come ti cuocerà il dolore delle busse imparerai a darne anche tu!» Quan- do cacciava un asino carico per la ripida salita del sotterraneo, e lo vedeva pun- tare gli zoccoli, rifinito36, curvo sotto il peso, ansante e coll’occhio spento, ei lo 135 batteva senza misericordia, col manico della zappa, e i colpi suonavano secchi sugli stinchi e sulle costole scoperte. Alle volte la bestia si piegava in due per le battiture, ma stremo di forze non poteva fare un passo, e cadeva sui ginocchi, e ce n’era uno il quale era caduto tante volte, che ci aveva due piaghe alle gambe; e Malpelo allora confidava a Ranocchio: «L’asino va picchiato, perché non può 140 34. trentacinque tarì: picchiar lui; e s’ei potesse picchiare, ci pesterebbe sotto i piedi e ci strapperebbe circa 15 lire era la la carne a morsi». Oppure: «Se ti accade di dar delle busse, procura di darle più somma pattuita per 37 pagare mastro Misciu forte che puoi: così coloro su cui cadranno ti terranno per da più di loro, e ne per quel lavoro; il tarì avrai tanti di meno addosso». valeva 42,5 centesimi. Lavorando di piccone o di zappa poi menava le mani con accanimento, a mo’ 145

35. lussato: s’era pro- di uno che l’avesse con la rena, e batteva e ribatteva coi denti stretti, e con quegli curato una lussazione, ah! ah! che aveva suo padre. «La rena è traditora,» diceva a Ranocchio sottovoce; cioè un danno all’arti- «somiglia a tutti gli altri, che se sei più debole ti pestano la faccia, e se sei più colazione. forte, o siete in molti, come fa lo Sciancato, allora si lascia vincere. Mio padre la 36. rifinito: sfinito. batteva sempre, ed egli non batteva altro che la rena, perciò lo chiamavano Be- 150 stia, e la rena se lo mangiò a tradimento, perché era più forte di lui.» 37. ti terranno per: ti Ogni volta che a Ranocchio toccava un lavoro troppo pesante, e Ranocchio considereranno. piagnuccolava a guisa di38 una femminuccia, Malpelo lo picchiava sul dorso e lo 38. a guisa di: come. sgridava: «Taci pulcino!» e se Ranocchio non la finiva più, ei gli dava una mano, 4 UNITÀ B3 ATMOSFERE REALISTICHE E D’AMBIENTE

155 dicendo con un certo orgoglio: «Lasciami fare; io sono più forte di te». Oppure gli dava la sua mezza cipolla, e si contentava di mangiarsi il pane asciutto, e si stringeva nelle spalle, aggiungendo: «Io ci sono avvezzo». Era avvezzo a tutto lui, agli scapaccioni, alle pedate, ai colpi di manico di ba- dile, o di cinghia da basto39 a vedersi ingiuriato e beffato da tutti, a dormire sui 160

sassi, colle braccia e la schiena rotta da quattordici ore di lavoro; anche a digiu- LABORATORIO nare era avvezzo, allorché il padrone lo puniva levandogli il pane o la minestra. Ei diceva che la razione di busse non gliela aveva levata mai il padrone ma le busse non costavano nulla. Non si lamentava però, e si vendicava di soppiatto, a tradimento, con qualche tiro40 di quelli che sembrava ci avesse messo la coda il 165 diavolo: perciò ei si pigliava sempre i castighi anche quando il colpevole non era stato lui; già se non era stato lui sarebbe stato capace di esserlo, e non si giustifi- cava mai: per altro sarebbe stato inutile. E qualche volta come Ranocchio spa- ventato lo scongiurava piangendo di dire la verità e di scolparsi, ei ripeteva: «A che giova? Sono malpelo!» e nessuno avrebbe potuto dire se quel curvare il capo 170 e le spalle sempre fosse effetto di bieco orgoglio o di disperata rassegnazione, e non si sapeva nemmeno se la sua fosse salvatichezza o timidità. Il certo era che nemmeno sua madre aveva avuta mai una carezza da lui, e quindi non gliene fa- ceva mai. Il sabato sera, appena arrivava a casa con quel suo visaccio imbrattato di len- 175 tiggini e di rena rossa, e quei cenci che gli piangevano addosso da ogni parte, la sorella afferrava il manico della scopa se si metteva sull’uscio in quell’arnese, ché avrebbe fatto scappare il suo damo41 se avesse visto che razza di cognato gli toccava sorbirsi; la madre era sempre da questa o da quella vicina, e quindi egli andava a rannicchiarsi sul suo saccone42 come un cane malato. Adunque, la do- 180 menica, in cui tutti gli altri ragazzi del vicinato si mettevano la camicia pulita per andare a messa o per ruzzare43 nel cortile, ei sembrava non avesse altro spas- so che di andar randagio per le vie degli orti, a dar la caccia a sassate alle povere lucertole, le quali non gli avevano fatto nulla, oppure a sforacchiare le siepi dei fichidindia. Per altro le beffe e le sassate degli altri fanciulli non gli piacevano. 185 La vedova di mastro Misciu era disperata di aver per figlio quel malarnese, come dicevano tutti, ed egli era ridotto veramente come quei cani, che a furia di buscarsi dei calci e delle sassate da questo e da quello, finiscono col mettersi la coda fra le gambe e scappare alla prima anima viva che vedono, e diventano af- famati, spelati e selvatici come lupi. Almeno sottoterra, nella cava della rena, 190 brutto e cencioso e sbracato com’era, non lo beffavano più, e sembrava fatto ap- posta per quel mestiere persin nel colore dei capelli, e in quegli occhiacci di gat- to che ammiccavano44 se vedevano il sole. Così ci sono degli asini che lavorano nelle cave per anni ed anni senza uscirne mai più, ed in quei sotterranei, dove il pozzo di ingresso è verticale, ci si calan colle funi, e ci restano finché vivono. So- 195 no asini vecchi, è vero, comprati dodici o tredici lire, quando stanno per portar- li alla Plaja45, a strangolarli; ma pel lavoro che hanno da fare laggiù sono ancora buoni; e Malpelo, certo, non valeva di più, e se veniva fuori dalla cava il sabato chiudevano infastiditi.

39. cinghia da basto: 40. tiro: scherzo. 42. saccone: il paglie- 43. ruzzare: giocare. 45. Plaja: località in cinghia per legare la riccio dove dormiva. riva al mare presso grossa sella degli asini. 41. damo: fidanzato. 44. ammiccavano: si Catania. 5 B I GENERI DELLA NARRAZIONE sera, era perché aveva anche le mani per aiutarsi colla fune, e doveva andare a portare a sua madre la paga della settimana. Certamente egli avrebbe preferito di fare il manovale, come Ranocchio, e lavo- 200 rare cantando sui ponti, in alto, in mezzo all’azzurro del cielo, col sole sulla schie- na – o il carrettiere, come compare Gaspare che veniva a prendersi la rena della cava, dondolandosi sonnacchioso sulle stanghe, colla pipa in bocca, e andava tut- PERCORSO to il giorno per le belle strade di campagna – o meglio ancora avrebbe voluto fare il contadino che passa la vita fra i campi, in mezzo al verde, sotto i folti carrubbi46, 205 e il mare turchino là in fondo, e il canto degli uccelli sulla testa. Ma quello era sta- to il mestiere di suo padre, e in quel mestiere era nato lui. E pensando a tutto ciò, indicava a Ranocchio il pilastro che era caduto addosso al genitore, e dava ancora della rena fina e bruciata che il carrettiere veniva a caricare colla pipa in bocca, e dondolandosi sulle stanghe, e gli diceva che quando avrebbero finito di sterrare si 210 sarebbe trovato il cadavere di suo padre, il quale doveva avere dei calzoni di fusta- gno quasi nuovi. Ranocchio aveva paura, ma egli no. Ei narrava che era stato sem- pre là, da bambino, e aveva sempre visto quel buco nero, che si sprofondava sot- terra, dove il padre soleva condurlo per mano. Allora stendeva le braccia a destra e a sinistra, e descriveva, come l’intricato laberinto delle gallerie si stendesse sotto i 215 loro piedi dappertutto, di qua e di là, sin dove potevano vedere la sciara47 nera e desolata, sporca di ginestre riarse, e come degli uomini ce n’erano rimasti tanti, o schiacciati, o smarriti nel buio, e che camminano da anni e camminano ancora, senza poter scorgere lo spiraglio del pozzo pel quale sono entrati, e senza poter udire le strida disperate dei figli, i quali li cercano inutilmente. 220 Ma una volta in cui riempiendo i corbelli si rinvenne una delle scarpe di ma- stro Misciu, ei fu colto da tal tremito che dovettero tirarlo all’aria aperta colle funi, proprio come un asino che stesse per dar dei calci al vento. Però non si po- terono trovare né i calzoni quasi nuovi, né il rimanente di mastro Misciu; sebbe- ne i pratici asserissero che quello dovea essere il luogo preciso dove il pilastro gli 225 si era rovesciato addosso; e qualche operaio, nuovo del mestiere, osservava cu- riosamente come fosse capricciosa la rena, che aveva sbatacchiato il Bestia di qua e di là, le scarpe da una parte e i piedi dall’altra. Dacché poi fu trovata quella scarpa, Malpelo fu colto da tal paura di veder comparire fra la rena anche il piede nudo del babbo, che non volle mai più dar- 230 vi un colpo di zappa; gliela dessero a lui sul capo, la zappa. Egli andò a lavorare in un altro punto della galleria e non volle più tornare da quelle parti. Due o tre giorni dopo scopersero infatti il cadavere di mastro Misciu, coi calzoni indosso, e steso bocconi che sembrava imbalsamato. Lo zio Mommu osservò che aveva dovuto stentar molto a morire, perché il pilastro gli si era piegato in arco addos- 235 so, e l’aveva seppellito vivo; si poteva persino vedere tuttora che mastro Bestia 46. carrubbi: alberi da avea tentato istintivamente di liberarsi scavando nella rena, e avea le mani lace- frutto. rate e le unghie rotte. «Proprio come suo figlio Malpelo!» ripeteva lo sciancato,

47. sciara: terreno ne- «ei scavava di qua, mentre suo figlio scavava di là.» Però non dissero nulla al ra- ro e desertico, formato gazzo per la ragione che lo sapevano maligno e vendicativo. 240 dalla lava solidificata Il carrettiere sbarazzò il sotterraneo dal cadavere al modo istesso che lo sba- dell’Etna. razzava dalla rena caduta e dagli asini morti, ché stavolta oltre al lezzo del carca- 48 48. lezzo del carcame: me , c’era che il carcame era di carne battezzata; e la vedova rimpiccolì i calzoni puzza del cadavere. e la camicia, e li adattò a Malpelo, il quale così fu vestito quasi a nuovo per la 6 UNITÀ B3 ATMOSFERE REALISTICHE E D’AMBIENTE

245 prima volta, e le scarpe furono messe in serbo per quando ei fosse cresciuto, giacché rimpiccolirsi le scarpe non si potevano, e il fidanzato della sorella non ne aveva volute di scarpe del morto. Malpelo se li lisciava sulle gambe quei calzoni di fustagno quasi nuovo, gli pa- reva che fossero dolci e lisci come le mani del babbo che solevano accarezzargli i 250

capelli, così ruvidi e rossi com’erano. Quelle scarpe le teneva appese ad un chio- LABORATORIO do, sul saccone, quasi fossero state le pantofole del papa, e la domenica se le pi- gliava in mano, le lustrava e se le provava; poi le metteva per terra, l’una accanto all’altra, e stava a contemplarsele coi gomiti sui ginocchi, e il mento nelle palme per delle ore intere, rimuginando chi sa quali idee in quel cervellaccio. 255 Ei possedeva delle idee strane, Malpelo! Siccome aveva ereditato anche il pic- cone e la zappa del padre, se ne serviva, quantunque fossero troppo pesanti per l’età sua; e quando gli aveano chiesto se voleva venderli, che glieli avrebbero pa- gati come nuovi, egli aveva risposto di no; suo padre li aveva resi così lisci e lu- centi nel manico colle sue mani, ed ei non avrebbe potuto farsene degli altri più 260 lisci e lucenti di quelli, se ci avesse lavorato cento e poi cento anni. In quel tempo era crepato di stenti e di vecchiaia l’asino grigio; e il carrettiere era andato a buttarlo lontano nella sciara. «Così si fa,» brontolava Malpelo; «gli arnesi che non servono più si buttano lontano.» Ei andava a visitare il carcame del grigio in fondo al burrone, e vi conduceva a forza anche Ranocchio, il quale 265 non avrebbe voluto andarci; e Malpelo gli diceva che a questo mondo bisogna avvezzarsi a vedere in faccia ogni cosa bella o brutta; e stava a considerare con l’avida curiosità di un monellaccio i cani che accorrevano da tutte le fattorie dei dintorni a disputarsi le carni del grigio. I cani scappavano guaendo, come compa- rivano i ragazzi, e si aggiravano ustolando49 sui greppi50 dirimpetto, ma il Rosso 270 non lasciava che Ranocchio li scacciasse a sassate. «Vedi quella cagna nera,» gli diceva, «che non ha paura delle tue sassate; non ha paura perché ha più fame de- gli altri. Gliele vedi quelle costole!» Adesso non soffriva più, l’asino grigio, e se ne stava tranquillo colle quattro zampe distese, e lasciava che i cani si divertissero a vuotargli le occhiaie profonde e a spolpargli le ossa bianche e i denti che gli lace- 275 ravano le viscere non gli avrebbero fatto piegar la schiena come il più semplice colpo di badile che solevano dargli onde mettergli in corpo un po’ di vigore quando saliva la ripida viuzza. Ecco come vanno le cose! Anche il grigio ha avuto dei colpi di zappa e delle guidalesche51 e anch’esso quando piegava sotto il peso e gli mancava il fiato per andare innanzi, aveva di quelle occhiate, mentre lo batte- 280 vano, che sembrava dicesse: Non più! non più! Ma ora gli occhi se li mangiano i cani, ed esso se ne ride dei colpi e delle guidalesche con quella bocca spolpata e tutta denti. E se non fosse mai nato sarebbe stato meglio. La sciara si stendeva malinconica e deserta fin dove giungeva la vista, e saliva e scendeva in picchi e burroni, nera e rugosa, senza un grillo che vi trillasse, o 285 un uccello che vi volasse su. Non si udiva nulla, nemmeno i colpi di piccone di coloro che lavoravano sotterra. E ogni volta Malpelo ripeteva che al di sotto era tutta scavata dalle gallerie, per ogni dove, verso il monte e verso la valle; tanto 49. ustolando: guaen- che una volta un minatore c’era entrato coi capelli neri, e n’era uscito coi capelli do per la fame.

bianchi e un altro cui s’era spenta la torcia aveva invano gridato aiuto ma nessu- 50. greppi: pendii. 290 no poteva udirlo. Egli solo ode le sue stesse grida! diceva, e a quell’idea, sebbene avesse il cuore più duro della sciara, trasaliva. 51. guidalesche: ferite. 7 B I GENERI DELLA NARRAZIONE «Il padrone mi manda spesso lontano, dove gli altri hanno paura d’andare. Ma io sono Malpelo, e se io non torno più, nessuno mi cercherà.» Pure, durante le belle notti d’estate, le stelle splendevano lucenti anche sulla sciara, e la campagna circostante era nera anch’essa, come la sciara, ma Malpelo 295 stanco della lunga giornata di lavoro, si sdraiava sul sacco, col viso verso il cielo, a godersi quella quiete e quella luminaria dell’alto; perciò odiava le notti di lu- PERCORSO na, in cui il mare formicola di scintille, e la campagna si disegna qua e là vaga- mente allora la sciara sembra più brulla e desolata. «Per noi che siamo fatti per vivere sotterra,» pensava Malpelo, «ci dovrebbe essere bujo sempre e dappertut- 300 to.» La civetta strideva sulla sciara, e ramingava52 di qua e di là; ei pensava: «An- che la civetta sente i morti che son qua sotterra e si dispera perché non può an- dare a trovarli». Ranocchio aveva paura delle civette e dei pipistrelli; ma il Rosso lo sgridava perché chi è costretto a star solo non deve aver paura di nulla, e nemmeno l’asi- 305 no grigio aveva paura dei cani che se lo spolpavano, ora che le sue carni non sentivano più il dolore di esser mangiate. «Tu eri avvezzo a lavorar sui tetti come i gatti,» gli diceva, «e allora era tutt’altra cosa. Ma adesso che ti tocca a viver sot- terra, come i topi, non bisogna più aver paura dei topi, né dei pipistrelli, che son topi vecchi con le ali, e i topi ci stanno volentieri in compagnia dei morti.» Ra- 310 nocchio invece provava una tale compiacenza a spiegargli quel che ci stessero a far le stelle lassù in alto; e gli raccontava che lassù c’era il paradiso, dove vanno a stare i morti che sono stati buoni e non hanno dato dispiaceri ai loro genitori. «Chi te l’ha detto?» domandava Malpelo, e Ranocchio rispondeva che glielo aveva detto la mamma. 315 Allora Malpelo si grattava il capo, e sorridendo gli faceva un certo verso da monellaccio malizioso che la sa lunga. «Tua madre ti dice così perché, invece dei calzoni, tu dovresti portar la gonnella.» E dopo averci pensato su un po’: «Mio padre era buono e non faceva male a nessuno, tanto che gli dicevano Bestia. Invece è là sotto, ed hanno persino trova- 320 to i ferri e le scarpe e questi calzoni qui che ho indosso io». Da lì a poco, Ranocchio il quale deperiva da qualche tempo, si ammalò in modo che la sera dovevano portarlo fuori dalla cava sull’asino, disteso fra le cor- be53, tremante di febbre come un pulcin bagnato. Un operaio disse che quel ra- gazzo non ne avrebbe fatto osso duro54 a quel mestiere, e che per lavorare in una 325 miniera senza lasciarvi la pelle bisognava nascervi. Malpelo allora si sentiva or- goglioso di esserci nato e di mantenersi così sano e vigoroso in quell’aria malsa- na, e con tutti quegli stenti. Ei si caricava Ranocchio sulle spalle, e gli faceva ani- mo alla sua maniera, sgridandolo e picchiandolo. Ma una volta nel picchiarlo 330 52. ramingava: va - sul dorso Ranocchio fu colto da uno sbocco di sangue, allora Malpelo spaventa- gava. to si affannò a cercargli nel naso e dentro la bocca cosa gli avesse fatto, e giurava che non avea potuto fargli quel gran male, così come l’aveva battuto, e a dimo- 53. corbe: ceste per il trasporto della sabbia. strarglielo, si dava dei gran pugni sul petto e sulla schiena con un sasso; anzi un operaio, lì presente, gli sferrò un gran calcio sulle spalle, un calcio che risuonò 54. non ne avrebbe come su di un tamburo, eppure Malpelo non si mosse, e soltanto dopo che 335 fatto osso duro: sareb- l’operaio se ne fu andato, aggiunse: «Lo vedi? Non mi ha fatto nulla! E ha pic- be morto prima di in- durirsi in quel me - chiato più forte di me, ti giuro!» stiere. Intanto Ranocchio non guariva e seguitava a sputar sangue, e ad aver la feb- 8 UNITÀ B3 ATMOSFERE REALISTICHE E D’AMBIENTE

bre tutti i giorni. Allora Malpelo rubò dei soldi dalla paga della settimana, per 340 comperargli del vino e della minestra calda, e gli diede i suoi calzoni quasi nuovi che lo coprivano meglio. Ma Ranocchio tossiva sempre e alcune volte sembrava soffocasse, e la sera non c’era modo di vincere il ribrezzo55 della feb- bre, né con sacchi, né coprendolo di paglia, né mettendolo dinanzi alla fiam-

mata. Malpelo se ne stava zitto ed immobile chino su di lui, colle mani sui gi- LABORATORIO 345 nocchi, fissandolo con quei suoi occhiacci spalancati come se volesse fargli il ritratto, e allorché lo udiva gemere sottovoce, e gli vedeva il viso trafelato56 e l’occhio spento, preciso come quello dell’asino grigio allorché ansava rifinito sotto il carico nel salire la viottola, ei gli borbottava: «È meglio che tu crepi pre- sto! Se devi soffrire in tal modo, è meglio che tu crepi!» E il padrone diceva che 350 Malpelo era capace di schiacciargli il capo a quel ragazzo, e bisognava sorve- gliarlo. Finalmente un lunedì Ranocchio non venne più alla cava, e il padrone se ne lavò le mani, perché allo stato in cui era ridotto oramai era più di impiccio che d’altro. Malpelo si informò dove stesse di casa, e il sabato andò a trovarlo. Il po- 355 vero Ranocchio era più di là che di qua, e sua madre piangeva e si disperava co- me se il suo figliolo fosse di quelli che guadagnano dieci lire la settimana. Cotesto non arrivava a comprendere Malpelo, e domandò a Ranocchio per- ché sua madre strillasse a quel modo, mentre che57 da due mesi non ci guada- gnava nemmeno quel che si mangiava. Ma il povero Ranocchio non gli dava ret- 360 ta e sembrava che badasse a contare quanti travicelli c’erano sul tetto. Allora il Rosso si diede ad almanaccare58 che la madre di Ranocchio strillasse a quel mo- do perché il suo figliuolo era sempre stato debole e malaticcio, e l’aveva tenuto come quei marmocchi che non si slattano59 mai. Egli invece era stato sano e ro- busto, ed era malpelo, e sua madre non aveva mai pianto per lui perché non ave- 365 va mai avuto timore di perderlo. Poco dopo, alla cava dissero che Ranocchio era morto, ed ei pensò che la ci- vetta adesso strideva anche per lui nella notte, e tornò a visitare le ossa spolpate del grigio, nel burrone dove solevano andare insieme con Ranocchio. Ora del grigio non rimanevano più che le ossa sgangherate, ed anche di Ranocchio sa- 370 rebbe stato così, e sua madre si sarebbe asciugati gli occhi, poiché anche la ma- dre di Malpelo s’era asciugati i suoi dopo che mastro Misciu era morto, e adesso 55. il ribrezzo: il fred- si era maritata un’altra volta, ed era andata a stare a Cifali60; anche la sorella si do. era maritata e avevano chiusa la casa. D’ora in poi, se lo battevano, a loro non 56. trafelato: contrat- importava più nulla, e a lui nemmeno, e quando sarebbe divenuto come il grigio to. 375 o come Ranocchio, non avrebbe sentito più nulla. Verso quell’epoca venne a lavorare nella cava uno che non s’era mai visto, e si 57. mentre che: nono- teneva nascosto il più che poteva; gli altri operai dicevano fra di loro che era stante che. scappato dalla prigione, e se lo pigliavano ce lo tornavano a chiudere per degli 58. almanaccare: im- anni e degli anni. Malpelo seppe in quell’occasione che la prigione era un luogo maginare. 380 dove si mettevano i ladri, e i malarnesi come lui, e si tenevano sempre chiusi là 59. slattano: svezzano. dentro e guardati a vista. Da quel momento provò una malsana curiosità per quell’uomo che aveva 60. Cifali: località vici- provata la prigione e n’era scappato. Dopo poche settimane però il fuggitivo di- no Catania. chiarò chiaro e tondo che era stanco di quella vitaccia da talpa e piuttosto si 61. si contentava: 385 contentava61 di stare in galera tutta la vita, ché la prigione, in confronto, era un avrebbe preferito. 9 B I GENERI DELLA NARRAZIONE paradiso e preferiva tornarci coi suoi piedi. «Allora perché tutti quelli che lavo- rano nella cava non si fanno mettere in prigione?» domandò Malpelo. «Perché non sono malpelo come te!» rispose lo sciancato. «Ma non temere, che tu ci andrai e ci lascerai le ossa.» Invece le ossa le lasciò nella cava, Malpelo, come suo padre, ma in modo di- 390 verso. Una volta si doveva esplorare un passaggio che si riteneva comunicasse PERCORSO col pozzo grande a sinistra, verso la valle, e se la cosa era vera, si sarebbe rispar- miata una buona metà di mano d’opera nel cavar fuori la rena. Ma se non era vero, c’era il pericolo di smarrirsi e di non tornare mai più. Sicché nessun padre di famiglia voleva avventurarvisi, né avrebbe permesso che ci si arrischiasse il 395 sangue suo per tutto l’oro del mondo. Ma Malpelo non aveva nemmeno chi si prendesse tutto l’oro del mondo per la sua pelle, se pure la sua pelle valeva tutto l’oro del mondo; sua madre si era ri- maritata e se n’era andata a stare a Cifali, e sua sorella s’era maritata anch’essa. La porta della casa era chiusa, ed ei non aveva altro che le scarpe di suo padre 400 appese al chiodo; perciò gli commettevano62 sempre i lavori più pericolosi, e le imprese più arrischiate, e s’ei non si aveva riguardo alcuno, gli altri non ne ave- vano certamente per lui. Quando lo mandarono per quella esplorazione si ri- sovvenne63 del minatore, il quale si era smarrito, da anni ed anni, e cammina e cammina ancora al bujo gridando aiuto, senza che nessuno possa udirlo; ma 405 non disse nulla. Del resto a che sarebbe giovato? Prese gli arnesi di suo padre, il piccone, la zappa, la lanterna, il sacco col pane, e il fiasco del vino, e se ne andò: 62. commettevano: né più si seppe nulla di lui. affidavano. Così si persero persin le ossa di Malpelo, e i ragazzi della cava abbassano la 63. si risovvenne: si voce quando parlano di lui nel sotterraneo, ché hanno paura di vederselo com- 410 ricordò. parire dinanzi, coi capelli rossi e gli occhiacci grigi. (G. Verga, Rosso Malpelo, in Tutte le novelle, a cura di C. Ricciardi, Mondadori, Milano 1979)

10 Luigi Capuana, OFELIA, in «la Tribuna illustrata», 1893 (poi in Fausto Bragia e altre novelle, Giannotta, Catania 1897)

— Segga — disse il delegato di pubblica sicurezza. — Abbia pazienza un momentino, il tempo di rileggere e firmare queste carte. Colui rimase in piedi, mantrugiando con una mano la falda del cappello di feltro grigio, passando replicatamente l'altra su la fronte umida di sudorino diaccio, chiudendo gli occhi di tanto in tanto, a ogni brivido acuto che gli scorreva per tutta la persona. Guardava impaziente il delegato, il quale seguiva con lieve movimento del capo lo scritto dei fogli spiegati sul tavolino, facendovi ora correzioni di punteggiatura, ora lunghi freghi sopra cui tornava a scrivere lentamente invadendo anche i margini con la grossa calligrafia. — Segga — replicò il delegato alzando la testa dopo aver firmato e raccolto i fogli. — In che cosa posso servirla? Neppur questa volta colui diè retta al cortese invito, e abbassate le braccia, rizzata la persona quasi per dare maggior solennità a quel che stava per dire, pronunziò a mezza voce: — Mi faccia arrestare. Ho ucciso la mia promessa sposa. Il delegato mutò tono, e prese aria severa: — Chi è lei? — Mario Procci, pittore. — Dove? Quando l'ha uccisa? — Ier l'altro, a Porto d'Anzio. Il delegato fece una mossa di stupore e stese la mano al bottone del campanello elettrico, che squillò nella stanza vicina. Una guardia comparve su l'uscio. — Chiamatemi Pini — diede ordine. E continuò: — In che modo? Perchè l'ha uccisa? — Per gelosia. L'ho annegata. — Come si chiamava? — Anna De Luigi. Dovevamo sposarci fra due mesi... — Segga — replicò il delegato, accompagnando la parola con un gesto imperioso. Il pittore esitò alquanto, un po' offeso di quel gesto; poi sedette, e riprese a mantrugiare con tutte e due le mani il cappello, guardando fisso il delegato che volgeva gli occhi verso l'uscio in attesa del subalterno fatto chiamare. — Pini — egli disse, vedendolo entrare — ieri l'altro non eravate a Porto d'Anzio? — Sì, signor delegato. — È avvenuto un delitto e non me n'avete detto niente? — Un delitto?... Una disgrazia, signor delegato. Ero presente... C'era anche questo signore, lo riconosco benissimo. È annegata una bagnante. — Questo signore si accusa di averla annegata lui. — Non è possibile — rispose il Pini. — Egli era davanti a me, ritto sull'arena della spiaggia. Io lo guardavo, ammirando la sua bella maglia rossa, variopinta di strani ricami. Non entrò nell'acqua, non si mosse

1 neppure quando si udirono gli urli delle signore che gridavano al soccorso; pareva di sasso. Dopo mi fu spiegata la cosa: mi dissero che era il promesso sposo dell'infelice signorina. Lo trassero di là senza ch'egli opponesse resistenza; era pallido, batteva i denti, non diceva una parola. Lo condussero nella cabina; e quando ne uscì, era così sconvolto che faceva pietà. Due persone, una delle quali suo parente — sono bene informato? — lo trascinarono via, sostenendolo per le braccia. È vero? — Verissimo, — rispose il pittore. — Perchè dunque si accusa di quell'annegamento? — domandò il delegato. — Perchè è anche vero che l'ho commesso io — replicò il pittore. I due funzionari di pubblica sicurezza scambiarono un'occhiata d'intelligenza. — Capisco — disse colui. — Lor signori credono d'aver da fare con uno che ha smarrita la ragione per eccesso di dolore. S'ingannano. Appena sapranno in che modo l'incredibile annegamento è potuto accadere, a pochi passi dalla spiaggia dove l'acqua è così bassa che non giunge al collo d'una persona di media statura..... — La spiegazione fu data subito — lo interruppe il Pini, che intendeva giustificarsi in faccia al suo superiore. — La signorina si sentì mancare, e lo disse alla cugina che le stava accanto. Rideva però nel dirlo — raccontò la cugina quasi accusandosi — ed io non le credetti! Tutt'a un tratto, mi sfuggì di mano (ci tenevamo per mano) affondò, e l'ondata sopravvenuta la portò via. Non ricomparve più! — Questa deposizione è consacrata nel verbale da me fatto e firmato dai testimoni. È strano dunque.... E il Pini terminò la sua frase con un gesto molto espressivo delle mani e della faccia, che intendeva confermare al delegato il comune sospetto. — I fatti apparenti sono questi — disse il pittore. — Ella non ha torto. Osservino però: sono relativamente calmo; il mio aspetto, le mie maniere non hanno niente da far supporre uno sconvolgimento della ragione. Vengo ad accusarmi, pentito di quel che ho fatto, senza negare che ho agito sotto l'impulso della gelosia, della più cieca e più terribile gelosia, quella che non osa manifestarsi. Avrei potuto tacere; nessuno avrebbe mai sospettato il mio delitto, perchè il modo con cui è stato eseguito è di quelli che sfuggono per ora a ogni investigazione della giustizia. — Quale? — domandò il delegato, corrugando le sopracciglia. — Mi ascolti. Giudicherà dopo. Con un gesto della mano il delegato gli accennò di attendere un momento; scrisse in fretta alcune righe sopra un foglio di carta e lo porse al Pini, che lesse ed uscì. — Dica — soggiunse, sdraiandosi su la poltrona per ascoltare più comodamente. Per qualche istante Mario Procci parve perdere quell'aria di sicurezza e di tranquillità con cui aveva parlato poco prima. Lasciò cascare a terra il cappello, si strizzò le mani, chiuse gli occhi, e il volto gli si coprì di nuovo pallore, che prendeva maggior risalto dalla folta e scomposta capigliatura nera, dai baffi e dalla barbetta acuminata al mento e rada su le gote. Fece stridere i denti, si morse le labbra scolorite, poi battè desolatamente le palme sui ginocchi, e fissando con 2 pupille luccicanti il delegato, disse: — Mi ascolti. Per quanto mi sforzi d'esser calmo, non potrò fare una narrazione ben ordinata... Ella, spero, mi scuserà. E continuò, con frequenti brevi pause, quasi gli mancasse il fiato: — Non dormo da due notti; non mangio da due giorni... Ho errato per la campagna, fra le macchie, come una bestia selvaggia, cacciato via via dal rimorso e dal dolore. Salendo le scale di quest'ufficio, mi reggevo a mala pena. Dunque... fu così. Sono pittore; forse il mio nome non le è ignoto.... — Sì, sì — rispose il delegato. — Ora ricordo; l'ultimo suo quadro ebbe l'onore d'essere comprato da Sua Maestà il Re, all'esposizione della primavera scorsa. — L'ha veduto? — Ofelia, se non isbaglio. — Precisamente. Il ritratto di lei... Si direbbe un presentimento. Che fatalità!.... Il mio quadro era abbozzato, ma non trovavo una modella che mi contentasse. Passavano settimane senza che io potessi dare una sola pennellata... Avevo bisogno d'una figura reale, corrispondente all'ideale che mi balenava nella fantasia, e non la trovavo!... Un giorno — quasi due anni fa — un giorno che avevo disperatamente buttato per aria tavolozza e pennelli ed ero scappato via dallo studio, sissignore, in piazza di Spagna, davanti a una vetrina di gioielliere, veggo fermata... Dio! Mi parve proprio che la mia Ofelia avesse preso all'improvviso carne e ossa e mi stesse dinanzi agli occhi per opera d'incanto. Provai un sussulto doloroso, una meraviglia, una stordimento!... E come la vidi andar via insieme con le altre persone che l'accompagnavano, non potei resistere al desiderio di seguirla per scoprire dove abitasse e chi fosse; e seguendola, fantasticavo mille stratagemmi per avvicinarla e ottenere la grazia di una, due sedute... Perchè no? Si trattava di un'opera d'arte... È inutile raccontarle come e dove, per una serie di favorevoli circostanze e di incidenti imprevidibili, potei esserle presentato. Tutto accade a puntino quando si tratta di rovinare un pover'uomo!... Amare la propria modella è caso non raro tra noi pittori. Per me poi, non si trattava d'una modella comune. Anna non era soltanto bella, di quella bellezza delicata e gentile che sembra fatta a posta per sfidare qualunque potenza d'artista; era colta, era artista anche lei; suonava e cantava divinamente. Contraddizione non rara tra l'aspetto ed il carattere, quella pensosa figura da Ofelia diventava spigliata, allegra, caustica nella conversazione, appena si abbandonava al piacere di parlare. Insomma... ci amammo! Dovrei dire: si lasciò amare. Non aveva cuore costei, no, non aveva cuore!... Era vana della sua bellezza, della sua voce, della sua abilità di suonatrice; amava di essere corteggiata, idoleggiata; non poteva amare, forse... Chi lo sa? La natura aveva dimenticato di mettere qualcosa in quel corpo, o in quell'anima... Eppure ella acconsentì liberamente alla nostra promessa. Il mio nome, l'aureola di fama che lo aveva circondato dopo il gran successo del mio quadro, la illusero un momento? Un momento, sì, ho detto bene... Era anche crudele. Accortasi della mia gelosia, quantunque non osassi 3 mai muoverle rimprovero, agiva in maniera da più aizzarla e rinfocolarla, quasi si divertisse a quel giuoco. Mi vedeva soffrire, e rideva; mi vedeva triste, e mi canzonava o mi rimproverava; — Non posso patire visi lunghi!... — E non n'era lei la cagione? Ma non ardivo rimbeccarla; l'amore mi rendeva timido. E fu peggio quando mi parve che si fosse messa di accordo con quell'altro, con colui che la svagava a furia di motti e stupidità d'ogni genere. Non potevo sentirla nè vederla ridere. E colui le stava sempre attorno; se l'accaparrava in tutte le società dove c'incontravamo; la faceva ridere, ridere, ridere!... E a me mi si spezzava il cuore a quel gorgheggio argentino, a quel suono freddo della voce dove niente d'intimo vibrava. Se mi passava accanto, Anna mi guardava e borbottava: — Ecco musone! L'amavo! Ero pazzo di lei! E musone soffriva zitto, masticava tossico. Soltanto pensava: — Quando sarà proprio mia!... C'era un altro... ce n'erano parecchi, ero geloso di tutti!... Quest'altro non la faceva ridere, ma la circuiva con continue adulazioni, con complimenti ben raggirati, con frasi che, spesso, me n'accorgevo, la facevano arrossire e che lei avrebbe dovuto riprendere, e che accoglieva invece con un sorriso accompagnato da tale smorfietta da incoraggiarlo a proseguire... Avevano stabilito, per patto scherzoso, che a ogni scommessa perduta ella doveva darle a baciare la mano. Io mi sentivo morire ogni volta che quelle labbra mostacciute si accostavano alla bianca manina che nessuno aveva più diritto di baciare da che tra Anna e me era corsa promessa di nozze. Ella se n'era accorta... e non ismetteva! Eppure diceva di amarmi! E quando mi rispondeva: — Sì, sì, ti voglio bene! — quantunque mi accorgessi che lo diceva sbadatamente, le credevo, e mi sentivo felice. Lo stesso tormento della gelosia mi si mutava alla fine in segreta gioia d'amore... Colui che la faceva ridere, ridere, m'ispirava una specie di disprezzo; quest'altro, no; l'odiavo. Mi pareva che colui sfiorasse appena la pelle d'Anna; e che costui, invece, penetrasse proprio nell'intimo di lei, e dovesse risentirne un piacere quasi di possesso... Per questo l'odiavo. E per consolarmi, ripetevo: — Quando sarà proprio mia! Oh, li avrei messi alla porta tutti costoro; e lei, l'avrei portata via con me, lontano, a Napoli, a Torino, in capo al mondo, dove nessuno avrebbe potuto contrastarmela o insidiarmela!... L'amavo come un pazzo; non potevo vivere senza amarla! — Come mai dunque?... — domandò il delegato, che era stato ad ascoltare con grandissima attenzione. Il Procci lo guardò in faccia, quasi non avesse capito la ragione della domanda. S'era talmente eccitato parlando e talmente assorto nella visione del passato, da dimenticare lo scopo della sua venuta lì e di quella confessione accusatrice. Chiuse gli occhi, si passò più volte una mano su la fronte, riprese coscienza del suo stato, e continuò con voce dimessa, quasi chiedendo scusa: 4 — Mi sono dilungato troppo intorno a questi particolari. Avevo il cuore ridondante; è la prima volta che posso sfogarmi. E avrei tanto da dire! Ma... Eccomi al fatto. Badi: non c'è stata premeditazione. Fu un'idea improvvisa, un lampo.... Prima però bisogna che le spieghi... altrimenti avrebbe ragione di credermi pazzo. Ascolti bene. L'importante viene ora. Ha inteso parlare di Donato? — Quale Donato? — Quel belga ipnotizzatore, suggestionista, come si qualificava, e che voleva fare sedute pubbliche qui in Roma, come ne aveva fatte a Torino, a Milano, a Bologna?... — Sì, ricordo; ne ho inteso parlare. Che c'entra costui? — La polizia gli negò il permesso. Donato perciò fece degli esperimenti in privato; ed io vi assistei parecchie volte; la stranezza dei fatti mi attirava. Volli provarmi anch'io, prima a essere suggestionato, poi a suggestionare alla mia volta. E riuscii oltre ogni credere... Allora mi venne idea di suggestionare Anna... Quel fragile corpicino doveva risentire in modo straordinario gli effetti della mia facoltà, che si svolgeva ogni giorno più con gli esperimenti ripetuti negli studi degli artisti miei amici. Anna rifiutò di tentare la prova. Sua madre fu più severa: mi proibì fin di parlare di tali operazioni, secondo lei, diaboliche... La proibizione della madre servì intanto a stuzzicare la curiosità d'Anna. Ella si compiacque d'aver da fare col diavolo... Credeva al diavolo anche lei, e, sapendo di far male, lo faceva. Era perversa per istinto. Ed era così bella! Pareva una madonna. Bianca di carnagione, bionda di capelli, slanciata di persona, con certi occhi grandi così, d'un azzurro limpidissimo... Si lasciò suggestionare di nascosto, a poco a poco, e fu sopraffatta in men d'una settimana. Il mio disegno era questo: Strapparle una sincera confessione; — Mi amava? Non m'amava? — Esitai, proprio sull'estremo punto di raggiungere il mio intento. Esitai pensando: — E se non m'ama? Se ama un altro? — Allora mi diedi a suggestionarle stranezze contro i miei rivali. Il suo braccio doveva trarsi indietro quando stava per porgere la mano; e si ritraeva. Ella non doveva più ridere alle sciocchezze di quel tale..., e non rideva; rimaneva seria, quasi le si fossero fermati i muscoli del volto che producono il riso. Non doveva udire le parole di quell'altro... e non le udiva, colpita da improvvisa sordità... Avrei potuto imporle d'amarmi... Fui onesto; non volli. Che valore avrebbe avuto per me un amore così ottenuto? La lasciai libera su questo punto... Ed era uno sforzo grandissimo; mi sentivo continuamente tentato. Fui onesto; non osai mai, mai! Sarebbe stata viltà. L'amavo così com'era; non la volevo diversa... E forse ho avuto torto! Forse sarebbe stato bene per me e per lei... Non volli. Ormai è irrimediabile!... La mia azione su lei era divenuta straordinaria: potevo arrestar Anna col solo sguardo, mentre andava da un punto all'altro d'una stanza. Si fermava, mi guardava, pregandomi, con rapida occhiata, di lasciarla andare... E la rendevo libera, con la sola volontà, quasi ella fosse ridotta un membro del mio corpo... Avrei potuto farne quel che avrei 5 voluto... Non mi crede? Dubita della mia forza suggestiva? Mi dia la mano; bisogna ch'ella abbia una prova evidente... Mi dia la mano. — Perchè? — domandò il Delegato, con un sorrisetto che intendeva nascondere il senso di indefinita paura da cui era turbato in quel punto. — So di che si tratta; ne ho letto qual cosa anch'io. La sua prova, in ogni caso, potrà farla in migliore occasione, davanti ai suoi giudici. — Come vuole — riprese il pittore. Si fermò, tentando umettarsi le labbra con la lingua arida anch'essa, e riordinare un istante i ricordi che gli sfuggivano o gli turbinavano nella memoria; scosse la testa, e, con un gran sospiro di sollievo, riprese: — Siamo alla fine! In questi ultimi mesi avevo sofferto più terribilmente. La gelosia mi divorava e le lotte contro me medesimo per resistere alla tentazione d'adoprare la mia intensa facoltà a strapparle una confessione dov'ella non avrebbe potuto mentire, o a imporle un amore al quale ella non avrebbe saputo resistere, mi prostravano l'animo in guisa che il corpo ne soffriva. Dimagravo, perdevo il colorito. La testa, l'avevo già perduta. L'arte, da mesi, era parola morta per me. E tornavo a ripetermi: — Quando sarà proprio mia!... Invece parve ch'ella cominciasse a irritarsi di così grande predominio su lei. Più non si prestava volentieri agli esperimenti, quantunque il segreto avesse tuttavia una maligna attrattiva per quell'indole viziata... Volle mostrarmi che poteva ribellarsi? Volle vendicarsi? Non lo so. Quel cuore è rimasto un enimma e nessuno potrà più svelarlo! Sì, voleva ribellarsi, sottrarsi alla mia influenza; influenza vana, inutile, ahimè, se non volevo adoprarla come avrei dovuto, se l'adopravo appena appena per impedire che colei mi sfuggisse completamente di mano! Perchè volevo che fosse mia, a ogni costo, se ero convinto che non mi amava?... Perchè?... E che amavo in costei, che cosa? La sua bellezza, il suo fascino, oppure la mia opera d'arte, di cui ella era la riproduzione vivente, quella maledetta Ofelia sognata, idolatrata due anni con la gran passione dell'artista per la propria creatura?... E se non voleva affatto saperne di me, perchè non tentò mai una rottura? Era facile svincolarsi dalla promessa; accade quasi ogni giorno che due innamorati la rompano anche nel momento di legarsi per sempre. Non volle. Perchè? Che maturava nel suo interno?... Qualcosa di orrendo! Non è più sospetto, è certezza. Mi avvidi che cedeva più frequentemente la sua mano all'uomo che odiavo; si susurravano parole, si facevano cenni che non potevano essere innocenti, indifferenti, se soltanto il mio occhio vigile riusciva a sorprenderli... Eppure non credevo ai miei occhi! E cercavo di scusarla, quantunque la mia gelosia mi suggerisse talvolta di slanciarmi addosso a colui, e strozzarglielo ai piedi, davanti a tutti; me ne sentivo la forza... Così lo avessi fatto! Avessi almeno mostrato di volerlo fare!... No: soffrivo e tacevo... L'amavo tanto! tanto! Che spregevole miseria l'amore!... 6 Quella sera, sentendo fare da colui, dall'odiato, la proposta d'una gita di piacere a Porto d'Anzio, compresi subito che erano d'intesa, Anna e lui. La madre non disse nè sì, nè no. Mi domandò: — Verrete anche voi? — Risposi: — Non posso. — E non era vero; chi me lo impediva? Che affari mi trattenevano a Roma quel giorno? Anna si ostinò a voler andare. — Allegra compagnia — diceva. — Un divertimento, prima di relegarsi nella solitudine della campagna, dove era stabilito che la famiglia avrebbe passato i mesi di settembre e di ottobre. — Andremo anche senza di te, se tu non vuoi venire! — Ella mi disse così, e con tale durezza di voce che mi parve una pugnalata. Allora io la presi per le mani e la trassi in disparte, presso la finestra, nascondendoci tra le tende; a due promessi sposi era permesso far questo. La luna piena inondava la finestra. — Guardami negli occhi! — le dissi, tenendola ferma per le mani. Allora ella si dibattè un pochino: — No! No! — Ma in breve istante era sotto il mio fascino. Stavo per commettere la viltà evitata tante volte; una sola domanda, e avrei saputo il malvagio segreto di quel cuore!... Le rilasciai le mani; dissi anch'io: — No! No! — Aspirai fortemente, per distrurre la suggestione; e appena la vidi libera, cosciente, con voce turbata dalla commozione le domandai: — Vuoi proprio andare? — Sì! — rispose. — Anche se io non volessi? — Sì! — replicò, agitandomi in faccia il viso corrucciato e dispettoso. E mi lasciò là. La mia grave viltà è stata quella di accompagnarmi alla comitiva, di portar meco il costume rosso da bagno che m'aveva servito l'anno precedente a Livorno.... Ah! il segreto che non avevo voluto strapparle la sera avanti presso la finestra, lo intravidi lungo il viaggio, nel vagone; lo intravidi dalle sue risate più argentine e più sonore che mai; dalle sue maniere con quell'altro che le soffiava nell'orecchio chi sa che cosa, reso più ardito dalla gaiezza della gita... Ella era seduta fra quei due. Io non esistevo per lei; si scorgeva benissimo, anche dalle rapide fredde occhiate che mi rivolgeva nell'angolo dov'ero rincantucciato presso la sua mamma, che mi parlava di lei, la scusava, la difendeva. Mi dava sempre torto quella mamma! Io udivo poco; capivo pochissimo... Il cuore mi scoppiava... Eppure fui più vile, vestendo il mio costume da bagno, soffrendo gli epigrammi di quei due intorno alla stranezza dei ricami di quel costume, bizzarria di artista non di cattivo gusto certamente. Anna era incantevole in gonnellino e pantaloncini di raso di lana, orlati di bianco. I suoi piedini parevano rose fresche tra lo sparato delle pantofole di corda. Il mare la inebbriava; le sue narici si dilatavano, annusando la salsa frescura che invadeva la spiaggia sotto il sole scintillante di quella bella giornata, fra il chiasso e il formicolìo dei bagnanti... Sa? Mentre stavo per stenderle la mano e condurla in mezzo all'acqua che irrompeva spumeggiante, l'altro, colui che odiavo, fu più lesto di me; la prese sotto braccio, trascinandola via fra le ondate, finchè la terra non venne meno sotto i loro piedi, finchè egli non potè farla ballonzolare a fior d'acqua come un corpo morto, in balìa dei cavalloni succedentisi e incalzantisi... Oh!... quasi fosse stata cosa sua! quasi fosse stato lui l'amato, colui 7 che doveva sposarla fra due mesi, al ritorno della villeggiatura!... Ed ella gli si abbandonava come a padrone, senza farmi un cenno, assorta nella voluttà dell'acqua marina che l'avvolgeva, la sballottava, le disfaceva i capelli d'oro... Dalla spiaggia, io vedevo ogni cosa, udivo tutto: le risate, le strida di gioia e di finto terrore... Poi, la sorella, la cugina, tre amiche e quell'altro che la faceva sempre ridere, si accostarono a loro, formarono un gran circolo, che di tanto in tanto rompevano per abbandonarsi, ognuno per proprio conto, all'urto dei cavalloni da cui venivano sommersi e spinti l'uno contro all'altro... Già mi accennavano con mani grondanti, mi chiamavano, mi garrivano come pauroso del mare, vedendomi rimaner fermo su la spiaggia, dove le ondate giungevano a lambirmi i piedi nudi... Non sentivo più nulla; vedevo soltanto lei e lui... che si baciavano, abbracciati fra il cavallone che li avvolgeva!... Sì! Sì!... Li ho visti con quest'occhi... due volte... perchè l'ondata li scoprì quando non se l'attendevano! Sì!... Sì!... Egli ritto in piedi, lei galleggiante, con le braccia al collo di colui!... Sì! Sì!... Mario Procci s'arrestò. Tremava; premeva le mani su gli occhi, quasi per non vedere. Ma quando già sembrava esaurito di forze, scattò dalla seggiola, stese un braccio additando con l'indice della mano il punto che certamente egli vedeva davanti a sè come nel giorno fatale, e con voce rauca, repressa, quasi feroce, riprese: — Vidi... e fui abbagliato dal lampo della terribile idea.... — Infame, muori! — dissi da me, con tremendo sforzo di volontà... E proiettavo laggiù, lontano, la forza che doveva fiaccarla. — Muori, infame! In quel punto avevano riannodato il circolo... Oh!... Sentivo scoppiare da tutto il corpo una violentissima corrente, quasi la mia essenza vitale si riversasse fuori dai mille pori della pelle, sospinta dalla volontà, proiettile omicida di nuovo genere... E nello stesso tempo, rivedevo il mio quadro: Ofelia che affonda lentamente nella riviera tranquilla; Ofelia coronata di fiori, ancora sorretta a fior d'acqua da le vesti che le si gonfiano attorno... E vedevo pure Anna. La vidi sbalordire, smarrirsi, venir meno, affondarsi e sparire fra l'ondata che avvolse tutti in quel momento... Gli urli, le grida di soccorso, il tumulto dei bagnanti su per la spiaggia, l'affollarsi della gente atterrita, il pronto slanciarsi di alcuni marinai alla ricerca della scomparsa, mi fecero subito capire che tutto era finito.... Avevo voluto che Anna annegasse ... ed era annegata! Mario Procci si rovesciò sulla seggiola quasi svenuto. Il delegato premè rapidamente il bottone del campanello, balzando dalla poltrona per impedire che colui cascasse a terra. — Un medico! — gridò, sentendo aprir l'uscio. E sorreggendo il pittore, brontolava: — Maledetti scienziati! Non sanno che inventare per disperazione della polizia. Mancava proprio la suggestione!

8 / Amleto '43 (Mono lo go in quattro quadri e un epilogo)

Nell'ottobre del '43 non si parlava di teatro della crudeltà, ma i tempi erano abbastanza crudeli. Scrissi allora questo piccolo Hamlet.

I

Sono stanco d'essere stanco Su me nuvola bassa e amara Ma sbagliando niente s'impara.

Il piacere. è nel transito, come scrisse il N alano. Muoio ogni sabato sera e risuscito puntualmente il [lunedì: Ma nessun Gesù mi ama veramente.

Il tempo, il cielo, la noia! ,Ed io, . Colpa della mia nota indecisione Lascio passare il tempo,: il cielo, la noia. Ma che sarà ,del mio genio

155 Se cercherò di mettervi un po' d'ordine?

Ah, un segnalibro! Un tagliacarte! Una pistola scari 1 (Sia detto in confidenza: ho in tasca il biglietto pe e~. isole Maladive & Laccadive. Ma il vapore non pr e mai.. Potrei. ch. te d ere 1·1 r1m. b orso, se volessi, ma arte 00 è un azzardo? E se il vapore partisse domattina?~

II

Il castello d'Elsinore è mal riscaldato. Mi annoio... Ahhhh ! ! Ma non c'è sbadiglio tanto usato, Che non sia buono ancora una volta. Miasmi salgono dalle cucine. Ed io non credo, Anzi mi rifiuto di credere, A questa storia di fantasmi.

Ma dev' esser vera.

Insomma, venga il regno tuo, o padre!

Come gli attori recitano male! E come la realtà Mi spaventa poco se la confronto Con la mia· insonne immaginazione! . Ascoltami Orazio amico mio: tu non sai ' ' Quanto ti ami! Posso giacere tra le tue gambe? (Sì, sono anche un po' anormale, Quel tanto · che basta per... )

156 (Entra Ofelia.) Quanto a te, Ofelia, ti detesto. Vorresti fare di me un principe ereditario, un tagliana- - [stri, un giramondo, un rubacuori! Tu ignori eh' io sono un Prometeo Senza fegato e senza avvoltoio. (Ofelia impazzisce.) Come? Di già impazzita? Ofelia! Tu anneghi in un bicchier cl' acqua!

III Ciambellano, fate entrare tutti. Buongiorno Polonio e tu caro Laerte; Buongiorno signor zio, buongiorno amici. Sedetevi prego in ordit]e alfabetico. Tu qua, madre diletta. Un bacio? Grazie. Un altro ancora? La platea ha i suoi ·sacri diritti. Signore e signori vi ho convocati Per rivelarvi la verità Circa la morte del buon re mio padre.

Io l'ho ucciso. Io, io! Silenzio! Vorreste voi defraudarmi di un delitto Che fui compete filosoficamente? Io ho ucciso mio padre. Inorridite? E non m'ha egli un tempo Orbato di quelle probabilità, concessemi dal Destino, Di nascere in una forma più compiuta e sensibile?

157 Io ho ucciso mio padre, Che osò determinarmi, fare di me un attore, Di me, che nell'estroso deposito dell'imprevisto Brillavo di luce tanto incerta e squisita.

E l'ho ucciso. Non piangere ora madre diletta. Se annullai mio padre fu soltanto per mutarlo, In una forma vivamente indefinita. (Entra il Fantasma.) Vedete? Il suo fantasma! Si può chied~re di più all'irrazionale?

Ed ora a me l'elmo, la corazza, i cosciali, A me, vivide fiamme di Vulcano E crudi ferri di Marte! A me, ombre della malvagità e nero coraggio della [follia! A me, pensieri sfiatati, rigurgiti letterari Aride filosofie e orologi fermi del castello! Su, mettiamo tutto a sacco, a rivolta, a terrore!

E voi, critici, non vi muovete, o sparo! (Spara.) · Che orribile vista! . (Ma è una strage legale. Ora si resp1ra meglio. Non posso che .approvarmi. In me un uomo e un ,artista sono in eterna lotta.)

158 ►

IV Eccomi ricaduto in apatica meditazione. Spesso mi domando se val meglio soffrire O far soffrire il prossimo. Questo è il problema. Dal Cielo non aspetto risposta. Egregio Vescoyo, voi mi chiedete sempre se credo in . [Dio. Ebbene sì ci credo. Ma è Dio che non crede in me E mi abbandona. ' Siamo maturi per la Riforma. Ah, queste crisi di coscienza.

Orazio, dove sei? Stammi vicino, La notte è nostra, ormai. Vedi già l'orizzonte che si tinge di scarlatto, Tiepido e grato interno di una conchiglia abitata.

E voi musici, suonate-sino all'alba: Vivaldi, Byrd, Couperin. E quella canzone che dice: Some of these days. (Entra di nuovo il Fantasma.) -O Cielo! Il fantasma! O Nemesi implacata! Padre, il tempo di riflettere! Vi prego, vi supplico! Insomma... Indietro o sparo! (Spara.)

EPILOGO Due volte parricida. Questo vuol dire un sorpassare

159 Le proprie stesse intenzioni, un fare lo sgambetto Alla fatalità.

J?ue volte perdono vi chieggo o padre, Dal profondo.

Ma quale diavolo farà il coperchio A una pentola tanto sconnessa?

E io sono stanco d'essere stanco E su me nuvola amara incombe.

Orazio, prima che il sole tramonti Fuggire? Dove? Laggiù tra le tombe ...

Francesco Guccini, Ophelia, in Due anni dopo, EMI, 1970

Quando la sera colora di stanco dorato tramonto le torri di guardia, la piccola Ophelia vestita di bianco va incontro alla notte dolcissima e scalza, nelle sue mani ghirlande di fiori e nei suoi capelli riflessi di sogni, nei suoi pensieri mille colori di vita e di morte, di veglia e di sonno.

Ophelia, che cosa senti quando la voce dagli spalti ti annuncia che è l'ora già e il giorno piano muore. Ophelia che vedi dentro al verde dell'acqua del fossato, nei guizzi che la trota fa cambiando di colore?

Perché hai indossato la veste più pura, perché hai disciolto i tuoi biondi capelli? Corri allo sposo, hai forse paura che li trovasse non lunghi, non belli? Quali parole son sulle tue labbra, chi fu il poeta o quale poesia? Lo sa il falcone nei suoi larghi cerchi o lo sa sol la tua dolce pazzia?

Ophelia, la seta e le ombre nere ti avvolgono leggere, ma dormi ormai e sentirai cadenze di liuto… Ophelia non puoi sapere quante vicende ha visto il mondo, ma forse sai e lo dirai con magiche parole… Ophelia le tue parole al vento si perdono nel tempo, ma chi vorrà le troverà in tintinnii corrosi… Ophelia, lalalalalalala…

Fabrizio De André, Francesco De Gregori la signora che legge la fortuna Via della Povertà, in F. De André, Canzoni se n'è andata in compagnia dell'oste. Produttori Associati, 1974. Ad eccezione di Abele e di Caino Il Salone di bellezza in fondo al vicolo tutti quanti sono andati a far l'amore è affollatissimo di marinai aspettando che venga la pioggia prova a chiedere a uno che ore sono ad annacquare la gioia ed il dolore e ti risponderà "non l'ho saputo mai". e il Buon Samaritano Le cartoline dell'impiccagione sta affilando la sua pietà sono in vendita a cento lire l'una se ne andrà al Carnevale stasera il commissario cieco dietro la stazione in via della Povertà. per un indizio ti legge la sfortuna I tre Re Magi sono disperati e le forze dell'ordine irrequiete Gesù Bambino è diventato vecchio cercano qualcosa che non va e Mister Hyde piange sconcertato mentre io e la mia signora ci affacciamo stasera vedendo Jeckyll che ride nello specchio. su via della Povertà. Ofelia è dietro la finestra Cenerentola sembra così facile mai nessuno le ha detto che è bella ogni volta che sorride ti cattura a soli ventidue anni ricorda proprio Bette Davis è già una vecchia zitella con le mani appoggiate alla cintura. la sua morte sarà molto romantica Arriva Romeo trafelato trasformandosi in oro se ne andrà e le grida "il mio amore sei tu" per adesso cammina avanti e indietro ma qualcuno gli dice di andar via in via della Povertà. e di non riprovarci più Einstein travestito da ubriacone e l'unico suono che rimane ha nascosto i suoi appunti in un baule quando l'ambulanza se ne va è passato di qui un'ora fa è Cenerentola che spazza la strada diretto verso l'ultima Thule, in via della Povertà. sembrava così timido e impaurito Mentre l'alba sta uccidendo la luna quando ha chiesto di fermarsi un po' qui e le stelle si son quasi nascoste ma poi ha cominciato a fumare 1 e a recitare l'A B C di via della Povertà. ed a vederlo tu non lo diresti mai A mezzanotte in punto i poliziotti ma era famoso qualche tempo fa fanno il loro solito lavoro per suonare il violino elettrico metton le manette intorno ai polsi in via della Povertà. a quelli che ne sanno più di loro,

Ci si prepara per la grande festa i prigionieri vengon trascinati c'è qualcuno che comincia ad aver sete su un calvario improvvisato lì vicino il fantasma dell'opera e il caporale Adolfo li ha avvisati si è vestito in abiti da prete che passeranno tutti dal camino sta ingozzando a viva forza Casanova e il vento ride forte per punirlo della sua sensualità e nessuno riuscirà a ingannare il suo destino lo ucciderà parlandogli d'amore in via della Povertà. dopo averlo avvelenato di pietà La tua lettera l'ho avuta proprio ieri e mentre il fantasma grida mi racconti tutto quel che fai tre ragazze si son spogliate già ma non essere ridicola Casanova sta per essere violentato non chiedermi "come stai", in via della Povertà. questa gente di cui mi vai parlando E bravo Nettuno mattacchione è gente come tutti noi il Titanic sta affondando nell'aurora non mi sembra che siano mostri nelle scialuppe i posti letto sono tutti occupati non mi sembra che siano eroi e il capitano grida "ce ne stanno ancora", e non mandarmi ancora tue notizie nessuno ti risponderà e Ezra Pound e Thomas Eliot se insisti a spedirmi le tue lettere fanno a pugni nella torre di comando da via della Povertà. i suonatori di calipso ridono di loro mentre il cielo si sta allontanando e affacciati alle loro finestre nel mare tutti pescano mimose e lillà e nessuno deve più preoccuparsi

Sergio Endrigo, Ofelia, in Sarebbe bello Vanilla-Fonit Cetra, 1977.

Ora dormi Come un fiore In fondo all'acqua Sei caduta I tuoi capelli Senza luce Come alghe I tuoi vent'anni La farfalla di una sera Ora un fiore ti accompagna Un bambino addormentato Lungo il fiume senza fine Il tuo viso Il silenzio sta coprendo Sta sognando Le chitarre e le risate Il tuo corpo E non senti più la voce Così bello Di un ragazzo che ti chiama Come piume di un uccello L'acqua scura porta via Ora dormi Mentre l'onda ti accompagna In fondo all'acqua Forse sogni di esser viva I tuoi capelli Troppo grande fu il dolore Come alghe Per il tuo cuore indifeso La farfalla di una sera Un bambino addormentato Una storia Il silenzio sta coprendo Fuori moda Le chitarre e le risate Di chi muore E non senti più la voce Per amore Di un ragazzo che ti chiama Versi tristi di poeti Riscoperti in libreria

2 Sergio Cammariere, Sergio Secondiano Sacchi Il principe Amleto, in Sergio Cammariere Mi allontanai dagli intrighi di famiglia Sony Music Entertainment Italy, 2012. estraneo dalla gente e dal mio evo in mezzo ai libri io mi sotterravo ma al pensiero sempre arriva una smentita. Questi miei versi riveleranno poco Nella mia vita si spezzò ogni filo ma non su tutto ho pieni poteri discese il gelo con gli amici di un tempo fui concepito nel fuoco del peccato e l'essere o non essere fu tormento dentro al vagito di una prima notte il dubbio attento che risposte non ha Diritto al trono, senza muovere un dito sono salito, ero un designato Ma sempre frange il mare dell'avverso sapevo già che, tanto, tutto quanto con la fionda vi si lancia pietre e semi avrebbe poi seguito la mia volontà poi sulla sponda noi si setaccia l'onda Senza pensare tanto alle parole per vagliare una vana risposta gettavo frasi al vento, leggero Ma l'appello degli avi rimbombava come un forte capo, un condottiero e a quell'invito io prestai ascolto mi seguivano i rampolli di corte i pensieri più gravi mi spingevano in alto Ma solo con le labbra sorridevo le ali della carne mi han trascinato giù io nascondevo il segreto dello sguardo E come tutti ho sparso sangue e lutti che si fa inquieto, che si fa beffardo e alla vendetta non seppi dar rinuncia fu il buffone Yorik che me lo insegnò Ofelia, non mi volevo putrefatto ma col delitto mi sono decomposto Ma rifiutavo di dividere gli onori Io, Amleto, la violenza disprezzavo il privilegio, la gloria e ogni omaggio sulla corona danese ci sputavo cambiò la storia quando morì il mio paggio ma ai loro occhi fu solo per il trono e fu il disagio che diventò dolore che uccisi per diventare re. Odiai la caccia e tutto il suo furore tenevo il cavallo lontano dalla preda Il genio che si frange è simile al delirio nell'urna del fiume io di notte la morte guarda di sbieco ogni parto quel lerciume diurno lavavo in me ogni parte ci porta all'insidiosa risposta senza trovare il quesito pertinente.

Claudio Maria Pegorari, Ofelia, 4 testi per un’installazione a Calvisano (Brescia), 1999

I. Qui Nessun volto a dare forza, Profonda solitudine nessun colore o suono, silenzio ininterrotto. ad una ribellione Silenzio… neppure ipotizzata. Silenzio Si aggrappa alla speranza Sogni sempre infranti. Macchiata illusione, di colpe da espiare… ferita… luce sanguinante Fuori della stanza come pioggia tropicale prosegue la sua giostra non mi dà tregua: l’aria sorride appiccicosa sulla pelle di spettri e di bambini e sudore sporco che bussa e di un buon motivo per continuare. alla fragile porta del mio amore Riprende a palpitare innocente. il suo cuore ferito. Di nuovo sente il sangue II. Vìola tornarle nelle vene. Ogni tanto la portano via …Acqua rituale di lago tracimato vengono a prenderla, a condurla con sé. che spalma gli scarti Non importa che sogni delle vite altrui… lei stesse per fare Lento fiume di gocce non importano i giochi già passate, di fango interrotti per sempre. che scorre e tempus fugit Troppe dita e mani sente irreparabile. graffiarle l’anima… macigni, corpi enormi III. Ofelia ormai nella certezza È come un sogno di un assenso dovuto, questo mio vivere un finale sicuro. ai piedi dell’inferno… 3 Atroce sogno nero IV. Afasia in fondo alla cisterna. Sogno E vedo volti di arrivare in controluce ballare in superficie Non è finito il tempo e se qualcuno sputa s’increspano le onde corro e rido io, nel fondo a restar fermo. guardandomi le mani. Tutto attutito sui tetti, Ti fecero promesse come neve. nel grembo di tua madre Forse domani cade, che vanno mantenute! la neve, su quest’acqua: Lacerante, la guarderò da sotto l’impotenza… posarsi, per poi spegnersi, aggiungersi alle altre Non guardare per diventare acqua. riprendi il vecchio sogno tocca la mia mano…

Lino Angiuli, Elsinore/Helsingør, in Idem, Diana Battaggia (a cura di), Luoghi d’Europa, La Vita Felice, Milano 2015, pp. 96-97. in lingua valenzanese e danese

Ventre pieno di lampadine e aringhe Vénda chiène de lambadine e renghë il bastimento oscilla da una parte all'altra u bbasteménde ammocche da na vanne all’alde per fare il buco dentro il nord della notte pe ffà u bbuche jind’ o nord de la nótte lentolento come una limaccia poi finalmente lìendelìende còume a nna malombre po fìnalménde sfruscia il mattino quando si sbircia sfrusce la matine acquanne se smicce un grande castello ubriaco di nebbia nu sórte de castìedde mbrejache de negghie

eccolo là eccolo là lo vedi? der er han der her han se det? ih! sì! lo vedo e vedo che mi viene addosso ih! séine! u vegghe e vegghë ca me véne ngùedde è proprio là dove il cuore bambinello iè próbbié ddà addò u còure palangrìedde andò a uccidere padre e fratello un giorno scî ad accite attane e fratë na déi per insaccarsi in capo una corona di rovi pe nzaccarse ngape na cròune de scrâsce e scapparsene con i seni della mamma in mano e scapparasinne che le menne de la mamme mmane

eccolo là eccolo là lo vedi? der er han der er han se det? ih! sì! lo vedo e mi vedo là che sbatto il capo ih! séine! u vegghe e me vegghë ddà ca sbatteche la cape da una costa all'altra come ’sto bastimento da nu cóst’o u ualde com’a stu bbasteménde per potermi buscare uno sgocciolo di requie pe petermë abbesquà nu squicce de régghie e sgamare il vento che mi spinge da dietro e sgamà u vìende ca me spenge da dréite il centrone che in sogno mi comanda a bacchetta u cendròune ca nzùenne me chemmanne a bbacchétte

benvenuti a benvenuti a casa. velkommen til Kronborg velkommen hjem.

Angiuli Lino, Amleto innamorato questa e altre meraviglie combinano le dita in Addizioni, Aragno, Torino 2020. quando riescono a germogliare dalla terra quando scrivono l’aria con aggraziate scie quando sanno misurare metraggi di cielo e avvolgerli intorno al pollice bambino Unguentami tutto con l’arte del polpastrello il dito che sa fingere di starsene in disparte ma fallo per favore dall’alluce alla luce però il segreto dei segreti sta nell’indice mentre raccogli una nuvola dopo l’altra tra pollice e indice e dolcedolce l’accompagni a seconda di come ti sa fissare negli occhi nel luogo immenso del balletto universale può accenderli di fuoco o cecarli entrambi una la impasti con la saliva medicamentosa con l’interruttore ben avvitato al fegato per farla scivolare in bocca come un’ostia perciò tu unguentami sanosano amoremio affonda le tue dita nei paraggi del colon vi troverai la strada che mi conduce a te senza bisogno di un qualsivoglia perché. 4 Davide Rondoni, Ghertruda, la mamma di A. io lo potevo immaginare e forse sì, in Idem, Cinque donne e un’onda ma non ricordo bene Ianieri, Pescara 2015, pp. 53-101. l’ho immaginato.

(Entra lei, G. Ma ho bevuto. Niente sul palco. Solo alle sue spalle una luce che viene come attraverso una vetrata. Da cui arriveranno talvolta, confusi, Essere pronti è tutto… E io no, non lo sapevo rumori di bicchieri, forse qualche lieve vociare, cristalleria, e però sì, oscuramente, motivetti musicali danzanti. lo sapevo. Lei avanza in una veste semplice, ma con un lieve strappo nella cerniera sulle spalle, o una sfilacciatura nel fianco, o l’orlo calpestato e sporco. Qualcosa, insomma, di consumato in una II veste del resto bella. Così come è bella lei, se pur un poco in disordine. Nel rossetto. nella capigliatura.) Ho bevuta quella coppa. Il prevedibile veleno. A una regina vien forse sete I d’improvviso durante il duello in cui suo figlio rischia d’essere ucciso? Adesso torno in scena io. Pensate: perché allora di bere hai deciso? Sollevandomi da quella stupidissima morte. Speravo la si facesse finita con quella messinscena Dove sono le fenici azzurre patetica, malandata. le fiamme dolci e ritorte Con tutta ’sta sfasciata la resina, le capre folli, magiche, vicenda di fantasmi rancorosi, d’amanti i cani dal lungo pelo e occhi lividi, di figli lamentosi… di diaspro, Speravo che la mia regale le cavalle caduta, la regina, io con le gemme scure sulle fronti, le artiche che cade avvelenata creature potesse arginare la tragedia, sì, tra il buio e la luce dei ghiacci morti? perché il compito regale era non dico, no fare felici Sono l’unico spettro qui? ma insomma Ne siete sicuri, regalare almeno nessun altro è uscito un poco di quiete dai suoi marci e sfondati ripari? a mio figlio all’amante, al regno, agli amici… Nessun animale fantastico? Era quel che desideravo Me li raffiguravo, ero bambina, con superiore impazienza. la mia dura madrina li disegnava La regina nell’aria, non deve comunicare felicità ? sull’erba. O una sua parvenza? Coperta di brina. E far sostare almeno o deviare la nera commedia che vedevo arrivare Più nessun abbraccio forte. giù, giù su Elsinore Questo sì mi pesa sulla Danimarca e su tutto della mia condizione di morte. l’intero mondo a rompere tutto, a tutto come mi pare Il nulla della mia assassina. stia facendo la generale vischiosa tragedia Siamo in tanti, ci si rivede… rovistare Ci sfioriamo. Il bicchiere in mano tutti i cuori, le facce, anche dietro, là i vostri visi la grande vetrata. qui e fuori nelle lampeggianti città che là Lo sapevo che la coppa era avvelenata. come pianti luccicano in fondo Quando lui l’ha offerta a mio figlio ed è restata alle valli nella notte, sospesa i visi stampati coi loro 1 sorrisi sulle réclame, replicati e poi giù anche da questo palco o nei miliardi di video che rimessaggio di vecchi arnesi di teatro o suo squittiscono al vuoto, rimasuglio, rovina rovinante e i vagoni giù per i gradini, per le poltrone a mezz’aria nelle sopraelevate addosso a tutte le persone saettanti o più lenti nei cunicoli là, ecco – i volti dietro le nubi riflesse sui cristalli la vedo uscire, rovina, imbroglio ai piani altissimi o giù dei cuori agli incroci trafficati, gremiti, urlanti… rovesciare le danimarche fuori e le interiori, Volevo via gli animali fantastici buttando il mio corpo morto dell’amore, della gioia messi immoto in fuga, sollevare i boschi sulla scena fermare lo scempio e abbattere gli spalti dei castelli che stava abbassando la sua ala le cucine mezzo apparecchiate, le lampade negli uffici accese che lasciate, e che ora vedo toccare l’abitacolo dove l’uomo è così calata, bruciando fermo in auto all’arrivo sotto casa con il suo acido nero colato sosta muto in silenzio senza sapere passando perché, sulle danimarche segrete dei cuori, le anime le carte dopo la riunione di ghiaccio e di mare rovina inafferrabile e sperdute così ora, in questo empio lebbra o invisibile leucemia, desolato abitare – rovina rovinante che vedevo la tragedia arrivare, da tanto lascia intatte le figure la presentivo. ma le mangia dentro, tronchi Veniva sulle nostre torri, e sugli sfasciati cavi, gusci da buttar via tuguri del popolo, veniva, è, guardala, effigi vuote, venuta anime, anime rifatte, anima anoressia. sugli eleganti camminamenti sui ponti di vetro e luce trasparenti Non sentite schianti? Oh e nei reticoli oscuri di banche baracche e gentiluomini, gentildonne seduti sulle ovunque favelas. in questo teatro, o sala da ballo o Volevo fermarla prima, oh sì, cavea, qui accomodati o forse rovina, prima che sperduti, toccasse i corpi, sì non la sentite? non vi arrivano il corpo di lui, mio qui le vampate? Io sì bellissimo figlio e degli altri le sento… che, lo dico, lo sapete, avrei tutti Nella lievissima variazione nella luce, baciati, carezzati e anche un fremito soltanto, di quelli che spogliati e tutti sbavati, onorati si alzano i musi un istante con la mia regale devozione e seduzione… ed invece è già tutta venuta Se non la felicità una radiazione, o la quiete, volevo fermare un’ombra quel che vedevo arrivare che traversa un momento lo sguardo e avrebbe trascinato pure lui la totale, la sottile il mio figliolo. brutale perversione…

Ma la tragedia non si poteva fermare. Non si può. La rovina che era stata messa in moto III qua, insomma là, nella Danimarca che sembra così remota Fu, è, sarà della nostra mente e del nostro rovina della finzione profonda. volere Rovina della bugia midollare. e che sarebbe venuta giù per le mura, nelle stanze Non di quella molecolare, diffusa quasi dietro le tende, sulle prime come una allegra canzone. senza farsi vedere e Non la bugia innocua. Acqua di parole. nelle mezze parole e poi Risistemazione continua del mondo. giù di seguito dai palchi finti degli attori di passaggio No, la lebbrosa, 2 la rovinosa intendo che come stormi escono menzogna midollare: e vanno su di voler essere regali giù a costo dell’usurpazione. dalle acciaierie…

Usurpare, per poter regnare. Quando vidi che la rovina Questa la colpa originale? s’era definitivamente Io, io no, io volevo essere regina divincolata dare un po’ di felicità rotto i lacci o almeno quiete, o chissà… dove pensavamo tutti segretamente d’averla serrata ma non sapevo… allora sì, ho bevuto. No, non sapevo l’unica cosa Facciamo finire ’sta scenata. che voi forse sapete Un figlio che finge d’esser demente e che avrei dovuto sapere. un secondo marito che finge d’esser innocente Che non volli pensare. un primo marito che addirittura E nemmeno, sciagurata, immaginare… il fantasma Io non ho usurpato un bel niente! si mette a fare. O piuttosto, se mi volete Sempre stato accusare in questo teatro così pazzo, prepotente… M’ero ho usurpato un po’ di amore proprio stufata, pensavo nel letto, un po’ di calore, un po’ di… che se non la ingollavo anch’io Non lo dico, no. Niente quella perla, quella aranciata rima. Oh sì, invece: ho usurpato o cosa era non ricordo più un po’ di cazzo. – si beve così tanto di là Ma non ho o dove è la morte, mai usurpato la corona. dietro la vetrata – Sapevo tutto, fui la più chiara non ce la finivamo, no. la più lucida nel lutto. Pensavo così. Ero scema? Ma non sapevo, non potevo Sventata? sapere che l’uomo che cingevo Non ho fermato un bel niente che mi coccolavo come una seconda gioventù di tutta ’sta nera scenata. aveva saputo bruciare il cervello del mio legittimo marito Di sembrare tutti qualcosa che non s’era. per rubargli la corona, la veste Di avere tutti la natura e anche il vestito di sembrare fatti d’un’altra pur se più basso porta giù natura. il cavallo tra le gambe Finché non apparve quel come un rapper di Harlem, che “passa la natura”… così più giovane, sventato… Il vero teatro. Ero cieca? non l’ho mai Del male. sospettato… Ero felice che lui per me avesse lasciato Io, mio Dio, se ci penso l’infelice harem ero l’unica fessa, sincera di donne che s’era trascinato scema ma leale nel suo passato girovagare… dicevo quel che mi pareva quel che mi premeva. Da qui venne la tragedia, da quel punto Non fui la gran moralista, della sua omicida usurpazione. non feci mai la lista dei mali altrui. Venne la rovina e continua Sapevo i miei. Ma almeno a venire… non fingevo di non averli. Dicevo: figlio mio, Una Danimarca di fantasmi. non m’accusare – Guarda lì, là fuori, per l’aver cercato io un po’ di calore passeggiano tra video giganti, lungo e di regalità le ferrovie… non mi vuoi più amare ? tra i miasmi Sono la tua mamma. 3 Non ho che te, passare dalla parrucchiera. non conta il resto… È giorno? è sera? In mezzo al totale infingimento, di là non c’è mai fantasmamento, luce vera… raggiramento. Io come una bimba dicevo: è per me che lui soffre, il mio IV Amletuzzo, perché vede me sposa d’altro uomo, così Pazienza. presto. Vedrete che il mio affannoso Lo dissi subito fastidioso mi pareva chiaro: è così, è questo. respiro se ne rientra tra breve Chiamai il male con il suo nome. nel petto come una colomba M’illusi così di poterlo fermare, nel nido. come se bastasse nominare… Me lo diceva sempre il mio amante Non si rassegnava lui sopra me nudo a perdere il padre come tutti dopo avermi lasciato sperduta, ansante: perdere lo devono, secondo rientra il respiro come una colomba quel che disse, gran vaccata, nel tuo petto. la testa del mio nuovo marito e montone Ma ora non so, anche se qui è incoronata. un po’ come là Abituarsi a perdere il padre… sul letto, Il nuovo re mise questa l’espormi defunta e spettinata. condizione. La morte m’ha tutta Abituarsi alla orfanità! denudata. E di là, oh sì la musica Questa perversione! Che oscenità... la serata sempre mesta e danzante Per esser grandi, diceva, e meritare ma è così grande il buio il regno. su di me, grave Sembravano parole dignitose, favo ronzante, enorme pensose. nudo amante… No, erano Ci ha trascinato lui tutti qui. schifose. I suoi sguardi sottili, vaghi Ora lo so, non era di acqua compassione. di capelvenere. Ma calcolo, Il mio piccolo figlio. era l’indegno invito di chi non vuol perdere Mio cuore in cenere. la corona. Io bevvi, fu l’unico gesto in cui fui padrona… V Ma di che padrona… Di là Venne, doveva venir giù la gran passiamo molto tempo commedia di inganni in chat. e bisbiglio, e scendere a diventar tragedia Nomi fantasiosi, carini, di annegamenti d’ofelie e visibilio, dure ci chiamiamo amici irripetibili contumelie, la canea ora che amicizia è morta e noi bazar immenso di teatranti. ci diciamo tutto, ci diciamo Di sangue, amore e vizio e potere niente… fiacca spiattellata purea. Fantasmi, gente, Una storia tutto sommato modesta in quella festa trascinata a diventar totale tragedia. non festante, allegria tutta cadente – – E ora tutti noi di là a quella Sono venuta qui oscura, luminosa, vuota festa. aprendo con un tocco di dita le porte del salone di fantasmi. Scusate il mio affanno. Ballano in tanti qua, dietro le vetrate. Sono dovuta uscire di corsa. Non li sentite ? Se non decidevo di colpo, se non me ne venivo via così com’ero senza nemmeno Oh che musica disperata… 4 quanto hai sputato Ma se l’angelo posa il suo occhio ubriaco sentenziato dal divanetto dove se ne sta seduto con la vodka sei venuto a dirmi, ti sei nella mano che ormai non la regge presentato a dirmi allora è legge (morte o qualcosa se c’è che tu possa uscire, e di qua d’ulteriore, dove passate il tempo tra amore e vituperio oblio che ingoia venire… e cancella ogni dolore, doppia Chi sono ? morte, niente d’ogni pena Niente, un fantasma. ogni gioia, Come siete quasi voi. ora coprimi gli occhi Forse solo un leggero della memoria asma. non voglio rivederlo, basta, Ma mica come quello. No, fu così duro, ancora dico, mica come quel che venne questa storia, sul bastione o dove, nel bosco, come è veleno nelle mie orecchie un cinghiale, un porco udirlo a guastare la mente, e poi il mio figlio, il mio bambino): giù anche il corpo, le braccia, il viso sii casta, bellissimo del mio Amleto… madre, stanotte Amletino. non chiavarlo e domani Ma se a causa sua fosti ancora, tra le lenzuola uccisa! Voi pensate. non darti più alla sua nefasta Quasi, foia… o no, E aggiunse – mi aveva non pensatelo, no, quasi mozzato il respiro – fosse lui, il mio assassino. come se non potesse dirmi Lui, il mio Amletino…Voi di più che non sapete niente. guardandosi come un gangster in giro: Lui fu il regista così innocente recitala almeno della generale se non hai virtù. disfatta. Delicato principe Perché svergognarmi così, eh della malefatta. peggio neanche Lui fece una apertura della scena che m’avessi tutta denudata, sulla vita, finalmente. tu figlio mettersi a parlare Distrusse il teatro. Indecente. con me della mia come la chiamasti E la corte, la nostra legittima chia… dolorissima e però, insisto, legittima, per quanto schifosissima a me tua madre, come a una e marcissima chiunque, un’introiata ma oh, legittima mia corona e da tenere a freno, corte ridotta in un baleno consegnò interamente a meno, mille mille volte meno lui, l’Amleto Amletino della serva dell’oste, alla morte. dall’altre servette che ti facevi,

Noi ci amammo. Rovinosamente. le tue parole così ferree Può darsi amore tra madre toste. e figlio diversamente ? Doveva esser questo, così Ditemelo, se lo sapete, fatemelo alto il costo vedere… della regalità? Resa peste, vana… Ascoltate le mie parole. D’esser fin qui Il mio respiro… trattata come una puttana dal mio proprio figlio, Quello che mi mancò denudata, sfregiata a sentire le sue offese… dal suo artiglio. O figlio spampanatissimo giglio Regina così dal proprio frutto del ventre 5 umiliata… colibrì o come dire quella cosa lì che comincia VI nel petto dei ragazzi e sente i primi tremori Cosa ne sai, cosa i primi assoluti ne puoi sapere dolori… cosa è per tua madre Venne qui a infangare, a godere? importare, a sputtanare Non vuoi più vedere questo spettacolo, sì esattamente, ti dà fastidio? fantasma sputtanatore, pettegolo Lo allontani, cosa mandi via padre padrone finanche dietro la vetrata, con le mani a immischiarsi, a farsi astute della pazzia? gli affari nostri, fantasma peggiore, Ch’io non sia la statua vendicatore. di sale di dolore vedovile, Voleva ancora essere re, anche da sepolto. che non sia restata Stronzo, anche tutta sbigottita nel funesto da morto. evento del castello Se n’è, per così dire, e che poco dopo la tumulazione un pochettino risorto mi sia data a quel che chiamavi per venir qui sull’asse malferma ancora incesto, della vita e della scena a versare non capisci, figlio mio lui sì, ora di bellissime rose mio cesto? che ci penso, Era solo real politik il veleno nell’orecchio e di qui, tra le cosce, del mio piccolo giglio, del mio consolazione? sperdutissimo figlio. Fantasma diseducatore. Povero figlio scemo. Ed esatto. Oppositore di figli al genitore. Poteva andar tutto bene. E di più, vita contro la genitrice E tu essere re. ritorta. E invece fu solo rovine. Fantasma di luce corruttrice. Troia morta. VII Carcassa verminosa. Lo vedo Ma basta lamentarmi! di là, dove la festa tutta rósa Sono un fantasma diverso dai vermi prosegue, danzante mica come quel perverso cadente. che se ne uscì di là dal salone delle feste Quando mi ha vista per venire qua, là arrivare sugli spalti, ad ammorbare con la sua s’è stretto nella giubba coi bottoni d’oro. cornutissima peste Non ha avuto nemmeno il decoro l’anima, la mente o come si chiama di venirmi a salutare. la lamina sottile d’oro Sono stata sua moglie, cazzo! del mio figliolo bello, figlio E invece se ne stava là, gentile. con una figa da strapazzo Non sono come quel che s’è disturbato, ha a vederle crollare il sorriso… lasciato Come se avessi colpa di qualcosa. di là dalle vetrate sabbiose del mai Lui che mi ha fatto ammazzare – nel nulla a cui per mano di suo fratello ci connettiamo wi-fi – dal veleno destinato a mio figlio. il party devastante estremo Cerchio maledetto e vorticoso di musica che mai tace d’odio esatto e macchinoso. per venire qua, a soffiare Il suo odio, fu il più sulla brace tremendo consiglio. del povero cervello, e sì Di là, del cuore o come si può chiamare mi ha guardata entrare, forse cincia, forse poteva alzarsi 6 ma l’estraneità eterna Non dovevo desiderare ho veduto nel suo sguardo d’essere la donna che rimane regina? passare. Dovevo far la vedova del regno E per l’eterno nei secoli fissarsi. e tenere solo stretta in pugno le foglie morte della pena… E vederti crescere, smilzo VIII Amleto, che poi eri già cresciuto ma così Scusate, scusate. assente che fu quasi naturale Mi son fatta dare al tuo zio il regno… prendere dall’entusiasmo. Lo si sarebbe dato a un qualsiasi E ancora da una vena altro parente. di imperdonabile lamento. Te ne importava solo del teatro. Per fortuna questo spasmo Neanche d’Ofelia del respiro non mi permette ti fregava niente. di continuare troppo a lungo Non la portasti mai a a querelare… ballare, solo lettere lacrimose Trovate queste scarpe un poco teatrali. volgari ? E lasciasti che la sua verginità Riuscite forse a immaginare si perdesse cosa vuol dire nella via delle acque. per una donna non potere più Volevano tutti sapere guardandosi se l’avevi in qualche modo provare un po’ di piacere ? succhiata. Ma lei si lasciò solo risucchiare Cosa ho fatto per finire dal dolore. Sì, così ? lei sì. Fu l’unica Ditemi voi qui, che la mia storia sapete davvero a soffrire. o forse non sapete pur avendo di Amleto Come fan le ragazze vedute recitare in molte modi le gesta ? poverine prima di diventare – se ci riescono – come noi, Che cosa vi resta regine. di me ? Inscenasti il dolore, Amletaccio mio, Cosa ho voluto di così male… sempre da solo Sono solo sulle pallide ali la donna che volle essere regale. della tua recitazione. Ah, Me lo dovete ancora maschiaccio rimproverare, anche adesso in combutta con l’altro che sono qui, senza quel fantasma là nessuna collana, nessuna scena addosso che rutta, ride senza nessun altro attore, espressione sul viso né copione, regista… che ha spenti nella vendetta e con il niente di respiro colomba tutti i sorrisi che mi infesta e non torna e non si diverte più. Più a nessun nido morto di prima, stramorta mi batte pazza le ali faina. sul petto, la sua nuda E tu, figlio, femminuccia mia, mai feroce la beccuta testa ? una passione, se non contro di me. E contro Me lo dovete rimproverare anche adesso il tuo nuovo re. che non più uno straccetto Che diceva di volerti così bene… da mettermi addosso di non capire le tue pene… e ho le calze, oh Dio, le calze Ma su, vecchie, rotte in fondo non aveva torto si vedono anche adesso in quel suo parlare obliquo, qui dove mi pare sempre notte ? finto di pietà ma ricco di senso politico e di realtà… Cosa ho voluto di così male ? Dovevo aspettare 7 che ti sbollisse dal petto tutto assidue o mai frequentatrici il dolore di non avere più un padre ? del teatro, e assidue di letti sfatti Secoli, millenni… lavatrici, Dovevo invecchiare che vi concedete o vi siete concesse aspettando che guarissi dal lutto a impiegati, funzionari, a qualche bacio da cui non si può guarire? sbavante di assicuratori o di notai, No, avevo in pegno a qualche foia di professori, non vi vedete la regalità! Alla mia età voi come me regine e produttrici non volevo fare di re, di tutti questi patetici la regina madre tenerissimi re. che già dal nome sembra Non è una elegante rincoglionita così? Non vi vedete in me una torta, una crostata, un pupazzo rappresentate ? una tovaglia ricamata Prima uno una regina di ’sto… poi l’altro. Re, grazie a me. IX Conosciuta, eccome, da uno e da due A qualcuno dei presenti insieme e poi in successione forse dan fastidio le parole volgari… eppure di nessuno e da nessuno in possessione. Ne ho addosso migliaia. Ero io chiudendo gli occhi Come farfalle finalmente liberate a renderli dalle carceri del dialetto re. dalla linguistica regale. La lussuria non è che un vecchio giocattolo Ma starò attenta, me ne staccherò a confronto del gusto dalla veste e dalla lingua di poter regalare solo qualcuna, colorata, necessaria, la corona come aria… a un cucciolo cresciuto d’uomo. Farlo sentire re, tuo padrone, X ma grazie a te… Non vi scoprite Ho voluto essere la regina in questi lineamenti? Nei miei ancora per un po’. Che male medesimi brancolamenti? c’è ? La regina che regnava, che O non c’è scendeva le scale più niente oramai di regale e facevano ala. in voi. Parificate, schiave di cazzi Anzi: impiegatizi ero io che scendendo creavo (ci stava, dài) nessuno mai, traversando una sala vi porta reggendo delicatamente E che feci diventare re lui la mano sulla mano l’uomo, l’omaccio, il presuntuoso in mezzo ad un’ala di folla, caprone non vedete le spalle più rigide che mai sarebbe stato re se non gli davo inchinarsi al vostro passaggio da leccare il mio tallone… né quelle di donne più giovani Baciando le mie spalle deserte ebbe il regno fino più belle di voi, che vorrebbero alle deserte coste di Skane avere il coraggio di fissarvi in viso e sbavando sul mio ventre esibendo la loro superiorità, ebbe le distese lontane del Sund e sbranarvi con lo sguardo, no e portandomi al piacere ecco qua, anche loro ebbe tra i ghiacchi le fumanti foreste nere. doversi inchinare, bellissime spalle curve, e teste, oh Non vi vedete voi come me? Signore le pettinature… E uomini 8 dalle facce dure Non vi sentite rappresentate? Non calare in ombra vi dice di voi niente scegliere di baciare il silenzio questa mia storia da niente? trattenere tutte le offese, le ire sul nome mio, tutti i “bastarda!” soffiati Tacete? nelle vostre ombre a occhi stretti, i “puttana!” tacete? sparite i “vacca maledetta”o i “bugiarda”. negli ori scuri del teatro o forse risentite vi stringete Ho voluto soltanto nei vostri abbracci di poltroncine rimanere regina, cosa c’è in abbonamento o che vi sembra di male ? d’una sera strappata alle cucine o le belle di tv E: siete sicuri che non vi riguarda? seratine? Io le conosco le donne, voi Fate tutti gli Amletini, i poveri signore, signorine… orfanelli, ripetete come ritornelli Eppure, Ofelia, oh oh oh oh i vostri piccoli dolori… Ofelia… Magari pensate a lei ? Ma io so che in cuore covate Mi opponete lei, la annegata i miei stessi furori. di pianto? La regalità, signori, dov’è la vostra Ricordatevi! Io fui la prima a lacrimare sul suo la regalità… destino, sul suo visino sommerso piano dalle acque XI per il suo pazzo suicidio o meglio abbandono musicale alle onde. L’ho voluto contro l’assedio del tempo, Io l’amavo. Ben più di voi. sentendo il desiderio di Claudio E anche se il mio schiattare fu meno poetico raggiungermi su per le scale già quando del suo, io, io sola davvero la seguii, fui il mio marito maledetto fantasma la prima a seguirla, la seconda Ofelia… imputridito come un bel giorno sulla Danimarca regnava. La vedo ancora, quella L’ho voluto contro il tempo che mi sputava ragazzina. le mosche in faccia. Andava bene per il mio Amletino. Sono restata regina E se quello spettro che di là parla a voce alta, facendomi colare un altro seme rutta, tocca il culo alle cameriere tra le gambe, e a costo di qualsiasi se ne fosse stato dove i morti offesa dietro la nuca. devono stare Perché ad ascoltare la chitarra di Santana poi la nuca di notte ta-ta-ta-tata-tatatà! Suonata da angeli me l’afferrava il re, o cosa è mulatti o Michael Jackson questo uomo che rendo paralizzato che canta su una sedia, io quel che è, e sapeva lei, Ofelia, a quest’ora sarebbe come prendermi, non nel fiume, ma in metropolitana, mi porgeva delicatamente la mano forse con un libro in mano o la borsa di giorno tra le ali sulle gambe di folla, e la notte tra le ali tornerebbe dall’ufficio stanca, delle nubi e delle stelle l’i-pod e l’aria mi spingeva fortemente contro la parete del letto lontana dal suo marito un po’ pazzo e m’inchiavava al mio nome forse in periferia a Milano, che gridava: regina, regina, regina! un amore strano la farebbe Poi anche lui, il re sorridere ai finestrini ma così mio desiderio, si inchinava piano che nessuno lo potrebbe come un cane, faceva la sua vedere, festa da Turro o Cascina Gobba verrebbe qua tra le mie gambe… una Per alzarsi poi delle mille sere quando anche lui ansante spera che lui torni a casa e aver la mia corona sulla testa. e poter baciare la rosa del suo respiro. 9 XII E invece è annegata come un gattino, e l’aspetta nessuno il mio Dimmi bambina Amletino fu così che diventasti tu niente casa, niente rosa la vera tutta bruciata questa famiglia la unica regina ? questa cosa Niente gattino, niente tutta sotterrata metropolitana alle sette niente sue stirpe presuntuosa, dolci tettine ridotta a fanghiglia per il mio Amletino che se ne sta di là dalla vetrata e mi guarda tutti di là dove va mi guarda e non si avvicina, la buia festa ci guardiamo per tutta e i due re se ne stanno come due fessi la eterna settimana, ogni sera senza più rancori, sperduti ogni mattina si scambiano commenti sulle commesse… e non sappiamo cosa dire.

Lo ricordate ? Io feci il lamento È così bello di dolore che ancora ammalia di lei, la gattina nell’acqua, il vestito ma non ci riesce gonfio di fiori e che piombo diventa proprio di parlare. il lamento di Ofelia la povera Ofelia – Lui mi guarda e io diranno sempre: la povera lo riguardo, il mio figlio bello Ofelia che per fortuna non ho visto che era una brava ragazza morire ma forse un po’ debole perché non avrei saputo come fare di costituzione: ammattì in mezzo agli ammattimenti, agli infingimenti lo guardo, ci guardiamo per la morte, quella sì, reale come quando le mamme vedono anche se parve di topo dietro il figlio cenare, o entrare e non dire la tenda, pure questa contraffazione niente, le fece così male, ti porto qualcosa era una ragazzina… da bere ? Come quelle che ora i fiori annodano ai pali, ai cancelli Figlio che mi cresci per le strade nelle scuole eternamente sempre davanti se muore un ragazzo, se la morte come a tutte la madri i figli improvvisa appare crescendo da silenzio a silenzio nel mondo, nel suo tetro dai primi balbettii a pochi saluti, finto girotondo, figlio che ti alzi come una condanna un gesto lieve, un nodo di fiori una presenza che sempre sempre una maglietta, i soprannomi azzanna il cuore, affanna nella scritta, tipo Giusy o Magic o la mente, i nomi di ragazzo solito e figlio, che ti alzi come un grande così di povera stella tiglio di fronte alla diminuzione di roseto individuale, Luca forse della madre – o Mattia portami con te anche a lei non venne da pregare vorremmo gridare sempre, a nessun altare, ogni volta per dove te ne vai, si fece lei corona di fiori e pianto e via fino nella morte… via, via, pianto fino al mare… Noi che diminuiamo, diminuiamo così tanto A lei fece così male roseto chinato, in mezzo alle finzioni la così affranto banale morte reale. e non ti possiamo mai trattenere mai riparare.

10 Io non volevo tutta questa ingiustizia per te! Quando mi faccio trono per il mio uomo. Stavo costruendo il riparo. Quando mi faccio sala delle armi Io regina, tu erede. Ma quel lurido per la sua battaglia baro e bosco per la sua che volle affacciarsi allo spalto caccia, quando lo vedo risalendo dal buissimo stremato, acceso salto nella morte che ora, solo ora in faccia, quando ho saputo cosa è – oh musica! divengo sala del fuoco strafattissima musica… – per spinta per il suo grido così cortese del mio quando mi faccio scalinata secondo consorte, atrio e navata fu lui a toglierti con la sua cinica e poi altare e poi sete di vendetta sì quando mi faccio dio ogni mia protezione. e sì, lo dico, quando mi faccio Fantasma prepotente. Intrigante. flagellazione Il fantasma diede corpo e poi croce ai tuoi fantasmi. O figlio per il suo respiro non era meglio se non vedevi ? e sua morte e sua Avrebbe funzionato tutto, negli occhi che si rischiarano ci si arrangiava. nelle costole che Per il bene della Danimarca, e del dopo il tumulto casato. rallentano Invece venne la rovina. sì, sua resurrezione… E io ne fui, sì, io la povera regina. Non conosco altro modo per sciogliere il gelido nodo che mi porto nelle vertebre. XIII E che sempre lì ritorna, male Una donna fredda. vertebrale Venivo da nord. dai remoti nevai Il freddo me lo porto come un male nel sangue. alla medesima mandorla precisa dolce serpe di mia schiena Bisonti dal lungo pelo recisa… fermi nella neve. Scheletri di larghi uccelli in volo Come se sapesse sempre dove colpirmi. catturati nelle pietre emerse. Dio o chi, che cosa ha la mira esatta come lui. Reticoli ghiacciati di rami. Il silenzio compatto del bianco. XIV E il male riconosco dal freddo. Arriva sempre. Dovevo portarmi dietro il bicchiere. Da pack anteriori e perenni, Sono così lunghe queste sere da quali nevai che di mia confessione continua mi entrarono dagli occhi ai vostri occhi inquirenti nei miei primi anni, o come i miei, così poco io non so. innocenti…

Ma arriva sempre. E sempre E ora, che giovane più non sono io lo combatto. non dovrei difendermi ? Con il fuoco dell’unica cosa che mi ha incendiato Avevo la vita davanti, Amleto con le uniche fiamme, braci amletìn sgambettava che mi hanno fatto andava in bici con le rotelline, indubitabilmente bene: loro, era un amore sulla ghiaia del castello. i perdutissimi baci C’erano le petunie. O le vedo solo ora in sogno e l’arco dei fianchi le petunie, forse quando accolgono il re. mai avute in quel castello… 11 Ma com’era tutto bello, il figlio, soprammobili. il mio re e marito, Io sapevo cosa era essere il modo con cui l’ho riverito regina. e lui mi portava la mano. La morte del re Perché la portava anche lui, che per prima portava giù anche me, mi ebbe regina, facendosi lui mi rimetteva in piazza, re. sarei diventata folle, Amletìn non sapeva nulla della vita fin da ragazza si sbucciava le dita avevo saputo cosa è cadendo dalla bici la regalità con quegli occhioni restava e le tre a contemplare la ferita. uniche facoltà del potere femminile: L’ha sempre fatto poi, succhiare o farsi succhiare, piangere di guardare così attonito e far piangere, gridare il male della vita. e far gridare… Ma povero fiorellino, povero mio assassino, Volli un altro potere. Quello che che ne sapeva che doveva venirgli nessuno mi dà. così addosso Decidere io così diventare da sbucciatura chi fosse il re. fosso da taglino che si soffia sulle dita quella fauce di tenebra XV infinita Fui onesta. E depravata. chi gli succhiò lo sguardo, poi Fantastica. E rovinata. la mente, le mani… Irreprensibile. E immorale. Oh quel fantasma e i suoi propositi insani Sono la fiamma madre. la sua vendetta da fratello morto. La madre del personaggio Io non so, io centrale. non c’ero Sono quella madre. non so chi ha versato il veleno Quella donna. La mater. nell’orecchio del mio primo re e marito. Che voleva evitare la rovina. Io confesso, e ho sempre mantenuto in tutte le versioni Mi sentite? poliziesche e teatrali, in tutte le confessioni rese sotto il faro Resto regina del brigadiere o regale fantasma o nelle sere nebbiose nel niente universale. percorrendo le statali o sulle assi Davvero mi riconoscete? sperdute davanti a un raro pubblico di teatro o che cosa è questo darmi in pasto da secoli a lui, al fantasma e a mio figlio e a tutte le cattiverie su di me… Non so chi è stato.

Forse fui io la più ingannata

È solo che io volli restare regina volli fermar la rovina mentre tutte accettano di diventare supine, schiave o anche solo delicati oh, quanto delicati e onorati 12