L'essere O NON ESSERE Nell'amleto Di Shakespeare Partendo Dal Personaggio Di Yorick
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L’ESSERE o NON ESSERE nell’Amleto di Shakespeare partendo dal personaggio di Yorick è un personaggio letterario della tragedia Amleto di William Shakespeare. Questi compare per la prima volta, sotto forma di teschio, nel V atto della tragedia di Amleto. Nella rappresentazione, egli è, o meglio era (essendo rappresentato nel dramma come morto da tempo e ritrovato nel corso dello scavo della fossa di Ophelia), un buffone di corte. Nell’opera Shakespeariana viene inserito come memento mori, in riferimento all’effimera condizione dell’esistenza o, icasticamente, come vanitas. ( La vanitas, in pittura, è una natura morta con elementi simbolici allusivi al tema della caducità della vita, un forma di “carpe diem” che deriva dalla frase biblica vanitas vanitatum et omnia vanitas ("vanità delle vanità, tutto è vanità"). Di lui non vengono date precise indicazioni biografiche. Alcuni sostengono che il personaggio possa essere collegabile, in un certo qual modo, all’infanzia di Amleto. Un importante appunto da fare è che, nell’immaginario collettivo, si tende spesso ad associare il celebre monologo di Amleto “essere o non essere” alla scena in cui il protagonista lo si vede parlare al teschio di Yorick. Questa confusione ha dato origine alle varie rappresentazioni di Amleto che pronuncia «essere o non essere» mentre regge in mano un teschio. Ma Chi è Yorick? tutti conoscono Amleto, almeno per sentito dire, ma Yorick? Chi è? Eppure tutti sanno che Amleto, ad un certo punto dello spettacolo, tiene in mano un teschio, e tutti sanno che Amleto è colui che si chiede se sia più nobile "essere o non essere". Ciò che non tutti sanno, come si è già detto sopra, è che le due cose non avvengono contemporaneamente, che la fatidica domanda e la fatidica scena del teschio sono una nell'atto terzo e l'altra nell'atto quinto, e che solo la riduzione a icona del personaggio di Amleto ne ha determinato la sovrapposizione in un'unica immagine-simbolo. Ma se ciò è stato fatto dalla saggezza collettiva e dalla gente comune che si è avvicinata alla lettura ed allo studio di quest’opera, ha certamente avuto le sue ragioni e le sue verità. Ma andiamo a scoprire più da vicino chi è Yorick. Yorick è il teschio di un fool di corte, che il principe Hamlet di Danimarca stringe tra le mani nell'atto quinto, allorquando decisosi per il duello e per l'azione, sa di aver scelto la morte; dunque la scena del teschio assume una valenza iconica ed è la condensazione visuale e materiale di ciò che è solo presentito nel famoso monologo dell'atto terzo: cioè che l'azione del duello che Amleto decide di intraprendere, ovvero il “decidersi per essere”, in un mondo "fuori di sesto" (come Amleto chiama la corte di Danimarca nell'atto primo), è destinata a coincidere con il "non essere" ontologico, cioè con la morte. Dunque riassumendo in formule: essere è agire e vita - - il non essere è morte. Tornando all’idea del fool, nel teatro shakespeariano ed elisabettiano questo rappresenta il contrappunto costante della saggezza malata dell'eroe, colui che, proprio per il suo ruolo che ha a corte (si pensi a Re Lear) è investito del potere della parola vera, cioè colui che può “dire ciò che è senza dire ciò che è” in quanto la sua stessa provenienza, cioè il fatto di essere fool (matto), ne estingue già da subito il potere predicativo. In altre parole, una frase detta da un fool, proprio perché lui è tale, non ha lo stesso effetto distruttivo come quando è detta da una persona normale. Infatti quando pronunciata da un matto, la parola assertiva diventa già da subito una parola immaginaria e viene sospeso il suo riferimento al mondo: a tal proposito il matto si esprime attraverso delle storie, finzioni per eccellenza, ma il pubblico elisabettiano, e poi tutto il pubblico naturalmente, può vedere la verità della finzione, il potere descrittivo delle parole del fool in quanto egli è, di fatto, la verità espressa dall'interno. Ma più che dire che egli rappresenta la verità, è più appropriato dire che il fool rappresenta la possibilità di uno sguardo da un altrove dagli altri non pensato, uno sguardo obliquo che, se si modificasse l'orientamento del mondo, potrebbe diventare sguardo diritto esso stesso. "Ahi, povero Yorick. l'ho conosciuto, Orazio, un uomo di un brio inesauribile, d'una fantasia senza pari. m'ha portato in spalla mille volte, e adesso....", dice il principe, tenendo in mano il cranio che il becchino ha appena trovato nella fossa che sarà destinata ad Ofelia. In questa tragedia il matto, o voce della verità, è assente perché è Amleto stesso che deve metterla in pratica ed agire inscenando la “verità” così che possa compierla piuttosto che dirla. La pazzia di Amleto può essere vista come crescita del personaggio del matto che si nutre e si sviluppa all’interno del personaggio protagonista, dunque Amleto appare come un “doppio” che, in base al suo essere folle “fool”(e la presenza del teschio di Yorick che lui tiene tra le sue mani testimonia l’avvenuto passaggio di consegne), deve dire la verità rispetto alle menzogne raccontate alla corte di Danimarca; mentre in base al suo essere il protagonista, non può limitarsi a dire questa verità (è impossibilitato), ma per renderla nota deve inscenarla attraverso una rappresentazione teatrale fatta eseguire da una compagnia teatrale. E qui l’elemento meta-teatrale del teatro nel teatro conosciuto anche come “mis en abyme” (dal francese "collocato nell'infinito" o "collocato nell'abisso") è più che evidente. Dunque Yorick, in quanto fool, non ha mai avuto una voce in questo dramma, ma ha parlato sempre attraverso la voce altrui, come una cassa di risonanza invisibile e che proviene da dentro, la quale vibra e riproduce suoni prodotti da altri strumenti. Egli dice ciò che nessuno dice, informa su cose a cui nessuno oserebbe fare cenno, dice ciò che forse non si dovrebbe. Amleto Essere, o non essere... questo è il nodo: (076) se sia più nobil animo sopportar le fiondate e le frecciate d'una sorte oltraggiosa, o armarsi contro un mare di sciagure, e contrastandole finir con esse. Morire... addormentarsi: nulla più. E con un sonno dirsi di por fine alle doglie del cuore e ai mille mali che da natura eredita la carne. Questa è la conclusione che dovremmo augurarci a mani giunte. Morir... dormire, e poi sognare, forse... Già, ma qui si dismaga l'intelletto: perché dentro quel sonno della morte quali sogni ci possono venire, quando ci fossimo scrollati via da questo nostro fastidioso involucro? Ecco il pensiero che deve arrestarci. Ecco il dubbio che fa così longevo il nostro vivere in tal miseria. Se no, chi s'indurrebbe a sopportare le frustate e i malanni della vita, le angherie dei tiranni, il borioso linguaggio dei superbi, le pene dell'amore disprezzato, le remore nell'applicar le leggi, l'arroganza dei pubblici poteri, gli oltraggi fatti dagli immeritevoli al merito paziente, quand'uno, di sua mano, d'un solo colpo potrebbe firmar subito alla vita la quietanza, sul filo d'un pugnale? E chi vorrebbe trascinarsi dietro questi fardelli, e gemere e sudare sotto il peso d'un'esistenza grama, se il timore di un "che" dopo la morte - quella regione oscura, inesplorata, dai cui confini non v'è viaggiatore che ritorni - non intrigasse tanto la volontà, da indurci a sopportare quei mali che già abbiamo, piuttosto che a volar, nell'aldilà, incontro ad altri mali sconosciuti? Ed è così che la nostra coscienza ci fa vili; è così che si scolora al pallido riflesso del pensiero il nativo colore del coraggio, ed alte imprese e di grande momento, a cagione di questo, si disviano e perdono anche il nome dell'azione. (Vede Ofelia) Ma zitto, adesso!... La leggiadra Ofelia! Ninfa, nelle tue preci rammemoràti siano i miei peccati. Ofelia Mio buon signore, come s'è sentito vostro onore, durante questi giorni? Amleto Oh, bene, bene, bene, umili grazie! 76) ("To be, or not to be... that is the question": è la frase più celebre di tutto il dramma. Molti curatori intendono "question" per "problema"; il termine "problem" nel senso di "question proposed for solution", "proposizione logica o matematica con dati certi la cui conclusione è una soluzione e una risposta" esiste nell'antico inglese. Shakespeare non lo usa mai, tanto meno l'avrebbe usato qui, dove non che un problema da risolvere, Amleto enuncia il dubbio eterno dell'uomo nell'esistenza dell'aldilà come liberazione dai mali dell'esistenza mortale: "nodo", dunque, "nodo" della mente e dell'animo, nel senso dantesco ("... solvetemi quel nodo / che ha inviluppato mia sentenza", Inf., X, 95-96).) Atto V Scena Un cimitero presso una chiesa Entrano due becchini Primo becchino S'ha da dare cristiana sepoltura ad una che ha voluto anticiparsi l'ora della salvezza? Secondo Sì, ti dico; becchino perciò prepara subito la fossa. Il magistrato ha esaminato il caso ed ha deciso che sia da concedersi cristiana sepoltura. Primo becchino Com'è possibile? Ammenoché non si sia annegata per difendersi. Secondo Infatti, è stato accertato così. becchino Primo becchino Già, dev'essere stato "se offendendo", (133) non altrimenti. Perché il punto è questo: se io annego di mia volontà, questo è un atto, ed un atto ha tre momenti: agire, fare, consumare; argal (134) lei s'è annegata di sua volontà. Secondo Ma no, senti, mio bravo zappatore... becchino Primo becchino Permetti: qui c'è l'acqua, e qui c'è l'uomo. Bene. Se ora l'uomo va nell'acqua e, volente o nolente, ci si annega, è stato lui ad andarci..