Diacronie Studi di Storia Contemporanea

N° 20, 4 | 2014 Il diritto militante

Edizione digitale URL: http://journals.openedition.org/diacronie/1661 DOI: 10.4000/diacronie.1661 ISSN: 2038-0925

Editore Association culturelle Diacronie

Notizia bibliografica digitale Diacronie, N° 20, 4 | 2014, « Il diritto militante » [Online], Messo online il 01 décembre 2014, consultato il 23 septembre 2020. URL : http://journals.openedition.org/diacronie/1661 ; DOI : https://doi.org/ 10.4000/diacronie.1661

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INDICE

Prefazione n. 20 – dicembre 2014 Jacopo Bassi e Deborah Paci

I. Laboratorio

Introduzione n. 20 – dicembre 2014 Maria Malatesta

I.1. La difesa militante nell’emilia del dopoguerra: il caso dell’avvocato leonida casali

L’avvocato Leonida Casali e la difesa dei partigiani emiliani Gianluigi Briguglio, Nicola Caroli, Simeone Del Prete e Greta Fedele

Il caso Rolando Rivi Gianluigi Briguglio

L’attentato di Ceretolo Nicola Caroli

Il delitto di Roncosaglia Simeone Del Prete

Tre processi “scomodi” Greta Fedele

I.2 Il diritto militante

Esclusione sociale e violenza istituzionale Il tema della salute mentale in «Quale giustizia» Francesco Mantovani

La scienza nel processo penale: Porto Marghera Marina De Ghantuz Cubbe

La forza del diritto La lotta contro l’amianto a Casale Monferrato Costanza Zanasi

Il diritto nella concezione materialistica della storia William Mazzaferro

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II. Miscellaneo

Ripensare i “bienni rossi” del Novecento? Linguaggio e parole della politica Steven Forti

Il quarto governo Fanfani e la crisi di Cuba del 1962 Una chiave di volta per l’apertura a sinistra Matteo Anastasi

Mussolini, Franco y los judíos: una relación controvertida David Pérez Guillén

Epistemologie del Sud: il postcolonialismo e lo studio delle relazioni internazionali Antônio Manoel Elíbio Júnior e Carolina Soccio Di Manno De Almeida

La Società Dante Alighieri da Costantinopoli a Istanbul. 1895-1922: diffusione della lingua e pedagogia nazionale Stefania De Nardis

La cooperazione di consumo nel Monfalconese nella seconda metà del Novecento Dalla Cooperativa Consumo Lavoratori del Monfalconese alla Coop Consumatori Nordest Enrico Bullian

III. Recensioni

Aldo Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano Jacopo Perazzoli

Amedeo Osti Guerrazzi, The Italian Army in Slovenia. Strategies of antipartisan Repression, 1941-1943 Niall MacGalloway

Diego Dilettoso, La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli. Sulle orme di un umanista in esilio Michele Mioni

Paolo Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera Dc. Nazione, Europa, Comunità atlantica (1943-1954) Rosaria Leonardi

Giovanni Pedrini (a cura di), Studia Orientis. Venezia e l’Oriente: un’eredità culturale Luca Zuccolo

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Prefazione n. 20 – dicembre 2014

Jacopo Bassi e Deborah Paci

IL NUMERO 20… CINQUE ANNI DOPO

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1 Cinque anni fa, nel novembre del 2009, nasceva la rivista «Diacronie. Studi di storia contemporanea». Solo alcuni mesi prima un gruppo di studenti, accomunati dall’esperienza di studio nel dipartimento di Storia dell’Università di Bologna, decideva di realizzare uno spazio online per dare visibilità ai lavori di ricerca portati avanti individualmente; il progetto, successivamente, si sviluppava e approdava all’idea di dar vita ad un luogo di confronto e di dibattito. Nasceva così l’idea della rivista: il primo numero aveva come filo conduttore il tema dei confini; su questo argomento, a distanza di 20 anni dalla caduta del muro di Berlino, i redattori della rivista decisero di confrontarsi.

2 A partire da questa prima esperienza è maturata la consapevolezza – cresciuta insieme al numero dei fascicoli della rivista – di poter dar vita ad un’occasione di confronto e di diffusione delle conoscenze in ambito storico. L’essere sorti in maniera indipendente e autonoma dal mondo accademico – pur collaborando e dibattendo con questo – ci ha consentito di mantenere un’assoluta libertà decisionale; una libertà che coincide con la piena assunzione di responsabilità per la linea editoriale e per gli errori nei quali – inevitabilmente – si incappa. La stessa libertà che pesa ogni volta in cui ci si confronta con il lavoro redazionale, portato avanti volontariamente nel corso di questi anni dai soli redattori e senza sostegni, né economici, né istituzionali. Per questo diciamo grazie a chi, in questi anni, ha fatto parte della redazione e ha fornito il proprio tempo, le proprie competenze, le proprie energie e la propria passione per la realizzazione di questo progetto; esprimiamo la massima riconoscenza nei confronti di tutti i nostri collaboratori, sempre disponibili a fornirci il loro prezioso aiuto; ringraziamo il comitato scientifico, i docenti, i ricercatori e gli autori che hanno partecipato a vario titolo ad ognuno dei singoli numeri.

3 Dopo cinque anni dalla registrazione della rivista, siamo stati riconosciuti dall’ANVUR come pubblicazione scientifica, siamo stati inseriti tra le riviste presenti sulla piattaforme DOAJ e su Dialnet, siamo approdati – e presto saremo online – su revues.org e facciamo parte delle riviste catalogate sull’ACNP.

4 Utilizzare un supporto immateriale per la pubblicazione ci ha consentito di accorciare distanze e tempi, rendendo possibile la diffusione di conoscenze provenienti da altre parti del mondo e da altre esperienze di studio; ci ha permesso di non doverci porre il problema degli spazi e dei costi, gravame che avrebbe certamente ucciso il progetto nella culla. Scegliere di pubblicare su internet è stata una piacevole necessità, che ci ha portato ad aprirci ad alcune esperienze internazionali di collaborazione (quella con le riviste brasiliane «Chronidas» e «Cadernos do Tempo Presente» e quella francese «Etudes Corses») e di blogging (Devenir historien-ne). Tutte queste esperienze nascono da contatti coltivati nel tempo, sviluppati e divenuti patrimonio comune della rivista e dei lettori. La stessa redazione di Diacronie è l’espressione della diaspora comune a tutti coloro che decidono di proseguire l’esperienza di ricerca nel mondo attuale. Questo allontanarsi si è così trasformato nell’opportunità di stringere relazioni e ampliare l’orizzonte delle proprie conoscenze: i singoli membri della redazione, pur essendo distanti fisicamente, fanno rete per diffondere la ricerca. Se la stanzialità e la stabilità

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lavorativa sono dunque utopie irrealizzabili nell’epoca attuale, abbiamo deciso di puntare sulla continuità delle relazioni, sulla loro moltiplicazione e sulla libera diffusione delle conoscenze offerte dalla rete.

5 Abbiamo cercato di far corrispondere a quanto realizzato in forma virtuale anche un’applicazione pratica: Diacronie ha realizzato diversi incontri sul tema della Digital History (in collaborazione con l’European Association of Digital Humanities, l’Università Italo Francese, il Cursus intégré franco-italien d’Histoire et civilisations comparées, il Collegio Superiore, l’Université 7 e l’Università di Bologna).

6 Una delle nostre speranze, quando mettemmo in piedi questo progetto, era quella di ridurre la distanza tra i luoghi di formazione dello storico (i corsi di laurea e i master) e gli spazi dedicati alla diffusione della ricerca. Non siamo in grado di poter dire di esserci riusciti, ma certamente di averci provato e di volerci provare.

7 Proprio a partire da alcune delle premesse da cui è nata «Diacronie. Studi di storia contemporanea», riproponiamo un secondo Laboratorio, concepito come spazio di pubblicazione per i lavori svolti dagli studenti dei corsi di Laurea Magistrale; la speranza è sempre quella che esperienze come Diacronie possano moltiplicarsi e che si diffonda un numero sempre maggiore di spazi di confronto e di discussione e – auspicabilmente – riviste indipendenti, che consentano di ridurre la distanza fra chi scrive e chi legge, senza per questo perderne in scientificità o in serietà.

8 Buona lettura.

AUTORI

JACOPO BASSI

Nel 2006 consegue la Laurea Triennale in « Storia del mondo contemporaneo » presso l’Università di Bologna sostenendo una tesi in Storia e istituzioni della Chiesa ortodossa dal titolo Tra Costantinopoli e Atene: Il passaggio delle diocesi dell’Epiro all’amministrazione della Chiesa di Grecia e la ‘Praxis’ del 1928, relatore il Professor Enrico Morini. Nel 2007, nel quadro del programma di scambio Erasmus, ha frequentato per un trimestre l’École Normale Supérieure (ENS) di Parigi; ha effettuato un periodo di soggiorno durante i mesi di gennaio e febbraio 2008 presso l’ École Française d’ Athènes, sotto il tutorato del dottor Anastassios Anastassiadis, membro del comitato scientifico di questa istituzione. Nel luglio 2008 ha discusso la Tesi Specialistica in Storia della Chiesa – relatore il Professor Umberto Mazzone, correlatore il Professor Enrico Morini – dal titolo Epiro crocifisso o liberato? La Chiesa ortodossa in Epiro e in Albania meridionale nel XX secolo (1912-1967). Ha lavorato come redattore per la casa editrice L’Inventaire e ha curato il progetto Dictionnaire universel des femmes créatrices – secteur “Femmes du livre” in corso di pubblicazione presso Editions des Femmes. Attualmente collabora con la casa editrice Il Mulino alla creazione dell’archivio digitale dei libri del Mulino, Darwinbooks e con la casa editrice Carocci.

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DEBORAH PACI

Nel 2006 consegue la Laurea Triennale in «Storia contemporanea» presso l’Università di Bologna discutendo una tesi sulla battaglia autonomista condotta dal Partito d’Azione in Valle d’Aosta e in Sicilia durante il triennio 1943-1946, dal titolo Il contributo del Partito d’Azione nella lotta per le autonomie. Sicilia e Valle d’Aosta a confronto (1943-1946). Nel 2007 partecipa al programma internazionale «Cursus intégré franco-italien d’ histoire européenne comparée», promosso dall’Università di Bologna e dall’Université Paris VII – Denis Diderot. Nel 2008 consegue un doppio titolo di Laurea Specialistica in «Storia d’Europa» e di Master 2 «Histoire et civilisations comparées», sostenendo una tesi sulla ricezione del pensiero di Pierre-Joseph Proudhon presso i fuorusciti italiani in Francia dal titolo Dall’anarchia al federalismo. La tradizione proudhoniana nei Fuorusciti italiani in Francia. L’attenzione in questo studio è stata rivolta alla lettura delle teorie proudhoniane operata dal sociologo Georges Gurvitch e alla sua trasmissione negli ambienti del fuoruscitismo italiano negli anni tra le due guerre. Tra il 2009 e il 2011 è stata borsista presso l’Ecole Française de e visiting student presso l’University of Malta. Nel 2013 consegue un dottorato di ricerca in cotutela in «Scienze storiche» presso l’Università di Padova e in «Histoire» presso Université de Nice Sophia-Antipolis, svolgendo una ricerca sul mito del Risorgimento mediterraneo e sul progetto imperialista fascista in Corsica e a Malta negli anni tra le due guerre. Fa parte del Centro Interuniversitario di Storia Culturale (CSC) e del Centre de la Méditerranée Moderne et Contemporaine (CMMC). Attualmente Assegnista di ricerca presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia sta conducendo uno studio sulle politiche identitarie e sull’immaginario insulare nelle isole del Mediterraneo e del Baltico.

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Maria Malatesta (dir.) I. Laboratorio

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Introduzione n. 20 – dicembre 2014

Maria Malatesta

IL DIRITTO MILITANTE AVVOCATI E MAGISTRATI NEL XX E XXI SECOLO

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1 Il filo rosso che lega i saggi contenuti in questo dossier è il diritto militante. Il corso di Storia delle istituzioni politiche e sociali della Laurea magistrale in Scienze storiche tenuta nell’anno accademico 2013-2014 da Francesca Sofia ha affrontato questa tematica all’interno del più vasto tema del processo politico partendo dalle suggestioni contenute nel volume seminale di Liora Israel (Le armi del diritto, Milano, Giuffrè 2012) e percorrendo nuove piste di ricerca. I saggi, i cui autori sono tutti studenti di quel corso, hanno messo in luce aspetti poco conosciuti o trascurati del diritto militante fornendo nel complesso un quadro storiografico non privo di caratteri innovativi.

2 È stata avvertita innanzi tutto l’esigenza di dotare il tema di coordinate teoriche in grado di fornire una migliore comprensione di alcuni casi storici presi in esame. A svolgere questo compito è William Mazzaferro, che nel suo saggio fa una lucida ricostruzione della concezione del diritto nella teoria marxista. Nonostante le difficoltà dei padri fondatori del marxismo a rapportarsi con il diritto borghese e a mettere a punto un uso proletario del diritto, nella prima metà del Novecento furono i partiti comunisti europei a detenere un monopolio quasi totale della difesa militante e a usare i processi come arene in cui potevano essere valutate molteplici strategie politiche.

3 Si inserisce all’interno di questa problematica la sezione di saggi scritti da Gianluigi Briguglio, Nicola Caroli, Simeone Del Prete e Greta Fedele e incentrati sulla figura dell’avvocato militante italiano per antonomasia, il bolognese Leonida Casali. Grazie ad uno scavo approfondito attuato nell’archivio dell’avvocato (depositato presso l’Istituto Parri di Bologna), il saggio ricostruisce le dinamiche che legarono Casali al Partito comunista nella sua attività di difensore degli ex-partigiani nei processi in cui erano accusati di atti di violenza compiuti alla fine della seconda guerra mondiale soprattutto in Emilia Romagna. Casali riuscì a mantenere un’autonomia professionale di fronte al PCI soprattutto grazie alla posizione che si era guadagnato all’interno del partito; nonostante ciò, il suo profilo di avvocato militante fu condizionato in modo decisivo dalla militanza politica e dal rapporto con il partito.

4 Grazie ai saggi di Francesco Mantovani, Marina De Ghantuz Cubbe e Costanza Zanasi è possibile ricostruire, seppure a grandi linee, il percorso durante il quale il PCI perse il monopolio della difesa militante e prese piede dai primissimi anni Settanta un nuovo concetto di diritto militante, non più coincidente con la difesa dei comunisti colpiti dalla repressione delle classi dominanti, ma aperto a nuove realtà e soggetti sociali. Nel corso degli anni Settanta la salute, il lavoro, l’ambiente sono emersi come grandi scenari nei quali avvocati e magistrati si sono incontrati in un comune progetto incentrato sulla difesa di nuovi diritti. Il saggio di Federico Mantovani ricostruisce l’impegno di Magistratura democratica profuso negli anni Settanta nella rivista «Quale giustizia» per il riconoscimento dei diritti dei malati psichiatrici e l’abbattimento

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dell’istituzione manicomiale. De Ghantuz Cubbe e Zanasi analizzano dal canto loro due processi che hanno segnato la storia del nostro paese, quello del Petrolchimico di Porto Marghera e quello sull’Eternit. Il saggio di De Ghantuz Cubbe ha il pregio di mettere per la prima volta a fuoco in una prospettiva storiografica il ruolo svolto dai periti e l’uso della scienza fatto da costoro in questa tipologia di processi i cui esiti dipendono dalla decisione dei magistrati di optare per l’una o l’altra delle perizie di parte sui danni commessi o meno da determinate sostanze sulla salute dei lavoratori e dei cittadini. La ricostruzione del lungo iter processuale sulla fabbrica piemontese dell’amianto compiuta da Costanza Zanasi fa emergere il profilo di Sergio Bonetto, il prototipo dell’avvocato militante del XXI secolo, che ha dedicato la sua vita professionale alla difesa dei lavoratori e dei cittadini vittime delle stragi compiute dal capitalismo.

5 Pochi giorni fa la Corte di Cassazione ha nei fatti annullato la sentenza d’appello del processo Eternit, nella quale era stato riconosciuto il danno che la fabbrica aveva arrecato alla salute dei lavoratori e dei cittadini. La notizia ha scosso profondamente l’opinione pubblica e ha mostrato con assoluta evidenza che oggi come ieri, il diritto militante che lotta in difesa dei deboli, degli oppressi, degli esclusi è un terreno nel quale si combattono battaglie all’ultimo sangue.

AUTORE

MARIA MALATESTA

Laureata in Filosofia nel 1972 presso l'Università di Bologna. Professore ordinario di Storia contemporanea nella Facoltà di Lettere e Filosofia. Materie di insegnamento: Storia contemporanea, Storia delle istituzioni sociali, Storia delle professioni. Ex coordinatore del Dottorato in Storia e geografia d'Europa, coordina dal XXVI ciclo il Dottorato in storia. Titolare dell'insegnamento di Storia contemporanea nell'a.a. 1995-1996 presso l'Université Denis Diderot- Paris 7. Professore invitato nel 2000 presso l'Ecole Normale Superiéure; nel 2001 e nel 2003 presso la Maison des Sciences de l'Homme; professore invitato all'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales nel 2008. E'stato membro della Commissione per la storia dell'avvocatura del Consiglio Nazionale Forense dal 199 al 2007; è attualmernte membro del Consiglio Italiano delle Scienze sociali e del comitato scientifico dell'Istituto per la storia di Bologna; Coordinatore scientifico del Centro di ricerca sulla storia delle professioni (http://www.ceprof.unibo.it/). Ha partecipato come responsabile di un'unità di ricerca locale a due progetti ex-40% (1991-1994, 1998-1999) e come membro locale al progetto PRIN 2005-2006 su Migrazioni maschili, migrazioni femminili: per una cartografia della mobilità geografica in Italia tra età moderna e contemporanea. Coordinatore nazioanale del progetto PRIN 2007 “Le professioni:dal progetto della politica alla politica del quotidiano”. Coordinatore del progetto strategico finanziato nel 2007 dall'ateneo di Bologna dal titolo Atlante storico delle professioni. Ha partecipato dal 1987 al 1991 al gruppo di ricerca sulla Storia sociale europea diretto da Hartmut Kaelble (Freie Universität Berlin). Ha partecipa dal 2004 al 2018 al gruppo di ricerca diretto da Yves Dezalay (CNRS- Maison des Sciences de l'Homme- Paris) e Brian Garth (American Bar Foundation) sulle trasformazioni dei campi giuridici internazionali. Collabora dal 2007 con il Centre de sociologie Maurice Halbwachs

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– CNRS- Paris -Ecole des Hautes Etudes en sciences sociales. Nel 1996 ha insegnato per un semestre Storia contemporanea all'Università di Paris VII- Denis Diderot- Paris. Dal 2000 al 2011 è' stata più volte professeur invitée all' Ecole Normale Superieure e all'Ecole des Hautes Etudes en sciences sociales. Membro del comitato scientifico delle seguenti riviste “Actes de la Recherche en Sciences Sociales”, “Comparative Sociology”, "Le Mouvement Social", "Società e Storia".

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I.1. La difesa militante nell’emilia del dopoguerra: il caso dell’avvocato leonida casali

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L’avvocato Leonida Casali e la difesa dei partigiani emiliani

Gianluigi Briguglio, Nicola Caroli, Simeone Del Prete e Greta Fedele

1. Il contesto storico

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1 Il 25 aprile 1945 l’Italia veniva liberata. Era un’Italia che aveva visto l’occupazione del proprio territorio e subito la violenza e l’efferatezza delle truppe naziste, nonché era un’Italia che doveva fare i conti con i collaborazionisti interni degli invasori. Il secondo dopoguerra italiano si configurava così come una «lunga liberazione»1 in cui giustizia e violenza andavano a costituire due facce della medesima medaglia.

2 Molto è stato studiato e molto è stato scritto sulla Resistenza e sulle esperienze dei partigiani durante gli anni della guerra di liberazione, mentre poco interesse avevano suscitato le loro vicende negli anni dell’immediato dopoguerra2.Il biennio 1945-47, ossia gli anni che vanno dalla fine della guerra alla rottura dell’unità di governo delle forze antifasciste, sembrano aver costituito per molto tempo un limbo nella storiografia che molte difficoltà ha trovato a raffrontarsi a un periodo così complicato e pieno di implicazioni della storia italiana e che per molto tempo ha procrastinato una seria riflessione storica sulla violenza che proseguì anche nel dopoguerra e che causò morti italiani dopo la fine della guerra come conseguenza della guerra civile iniziata nello scontro tra i partigiani e i repubblichini di Salò. Questo “vuoto” è stato colmato dalla pubblicistica di destra e della propaganda del neofascismo, volta a sottolineare come i partigiani avessero commesso delle vere e proprie stragi e come si fossero nascosti dietro la guerra di liberazione per compiere una serie di delitti ingiustificati3.

3 Seguendo la periodizzazione elaborata dallo storico Mirco Dondi4 si può suddividere il percorso della violenza in tre momenti distinti caratterizzati ognuno per proprie dinamiche e propri livelli di intensità: dal 20 aprile al 10 maggio 1945 si ha la violenza insurrezionale, nella primavera-estate dello stesso anno la violenza inerziale, infine dall’autunno del 1945 a quello del 1946 prende corpo la violenza residuale e di classe. I tre momenti non costituiscono un arco cronologico fisso e i confini paiono sfumati e imprecisi; nonostante questo, tutto sembra svolgersi lungo il sottile e pericoloso crinale che separa la giustizia dalla vendetta. Per comprendere e meglio analizzare il prolungamento della violenza oltre la fine del conflitto è particolarmente illuminante partire dalle tesi sostenute da Claudio Pavone e dalla loro forza e validità interpretativa riguardo il triplice volto della guerra combattuta in Italia. Pavone distingue e indica come costitutive tre guerre all’interno dell’unica grande battaglia resistenziale: la guerra patriottica contro i nazisti invasori, la guerra civile contro i fascisti della Repubblica di Salò suoi alleati e la guerra di classe contro il padrone, proiettata già fortemente nel futuro5. Ciò ci permette di meglio comprendere l’articolarsi e l’intricarsi delle questioni e delle motivazioni che contraddistinguono vicende complesse come quelle del “triangolo della morte”: ossia il protrarsi delle uccisioni avvenuto in Emilia, specialmente nel bolognese e nel modenese, dopo la fine ufficiale della guerra. Ed è proprio in Emilia Romagna che più acuta appare essere la terza fase della violenza, quella che è stata definita residuale. Come fa notare Dondi «in questa fase a preoccupare autorità politiche e forze dell’ordine non è più la quantità della violenza quanto piuttosto la qualità della violenza, i suoi obiettivi, le sue eventuali prospettive»6. Le violenze sono in quel contesto animate da prospettive di cambiamento sociale e di

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nuovi equilibri di potere e proprietà: il movente appare quindi essere essenzialmente politico.

4 Premesso ciò, quello che è nostro interesse analizzare nel presente lavoro è l’azione giudiziaria penale e di repressione che scattò per gli ex partigiani coinvolti nelle vicende e nel quadro sopra delineato. Gli studi7 finora condotti in questa prospettiva hanno permesso di enucleare tre fasi cronologicamente successive: la prima è quella che segue immediatamente la liberazione ed è condotta dall’amministrazione militare alleata; la seconda si colloca tra il 1946 e il 1948 in cui i procedimenti penali sono ancora poco numerosi e ancora meno quelli che arrivano alla concreta celebrazione del processo, la terza fase inizia nel 1948 e andrà avanti fino al 1953.

5 La mole di processi che vennero celebrati proprio a partire dal 1948 fu talmente imponente che si iniziò a parlare di una vera e propria “offensiva anti-partigiana”, “repressione diffusa” e “intento persecutorio”. Dal 1948, infatti, una serie numerosa di fermi, arresti e istruttorie vennero a interessare gli ex combattenti incriminati per omicidi, rapine, sequestri di persona e reati minori a essi connessi. Emerge subito con chiarezza lo scarto temporale tra i fatti commessi, molti risalenti ai giorni immediatamente successivi al 25 aprile, e le date delle istruttorie. Angela Maria Politi individua proprio nel ’48 il punto di svolta decisivo, «il momento in cui viene data mano libera alle indagini prima frenate»8.Questo elemento è colto anche dai contemporanei. Nel dicembre del 1948 così scrive Paolo Alatri: da un giorno all’altro la polizia e i carabinieri sono diventati attivissimi, ora non fanno altro che battere le campagne, arrestare partigiani, denunciarli alla magistratura per omicidio e rapina, dissotterrare cadaveri di giustiziati. La spiegazione più semplice di questa improvvisa attività della polizia giudiziaria e dei suoi sforzi per implicare in una presunta attività criminosa di carattere comune il maggior numero di capi partigiani riconosciuti e popolari e per dare al maggior numero di casi possibile la fisionomia di delitti comuni secondo la stampa di sinistra è la seguente: il governo di De Gasperi e di Scelba ha impartito ordini precisi, le autorità di polizia e in parte la magistratura non fanno altro che eseguire queste direttive le quali mirano a colpire, a screditare, a scardinare il movimento partigiano9.

6 L’offensiva giudiziaria assume il carattere di elemento principale in un più ampio quadro di contestazione della Resistenza: questi processi mettevano in discussione, infatti, la legittimità stessa della guerra partigiana. Per comprendere a fondo l’importanza di questa parte di storia d’Italia bisogna tener presente il contesto geopolitico e la commistione di elementi che portarono a un’offensiva penale anti- partigiana. Innanzitutto va rimarcato come la magistratura fosse in larga parte coinvolta con il passato regime fascista e come non fosse stata sottoposta a un valido processo di epurazione. Quest’ultimo si era risolto in un sostanziale fallimento, era quindi plausibile «che gli atteggiamenti giudiziari sui temi legati al trapasso tra dittatura e ordinamento democratico siano stati condizionati dalla continuità di uomini e di funzioni svolte da giudici che si erano formati ed avevano raggiunto i vertici della carriera nel corso del ventennio fascista»10. La realtà postbellica andò configurandosi perciò come caratterizzata, da un lato da magistrati che erano stati compromessi con il fascismo, dall’altro partigiani che contro di esso si erano battuti. A ciò va sicuramente aggiunto il contesto internazionale ormai contrassegnato dalla guerra fredda e dalla politica dei due blocchi contrapposti. Infine i partiti di governo volevano autorappresentarsi come partecipi della Resistenza, ma allo stesso tempo estranei alle illegalità compiute. Si voleva quindi fondare la neonata Repubblica sul mito di una

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Resistenza patriottica non inficiata dalle violenze. Questo atteggiamento unito alla propaganda della stampa moderata che seguì con estremo interesse i processi, mise seriamente in discussione il peso e il valore della lotta resistenziale. L’iniziativa anti- partigiana sembrava essere volta a depotenziare le spinte innovatrici che si erano affermate nel triennio 1943-1945 e a criminalizzare i comunisti per minarne la legittimità parlamentare e democratica indicandoli come gli ispiratori di azioni volte a destabilizzare la democrazia. Ricorriamo anche a questo proposito alle parole di Alatri: per questa classe di funzionari dello stato un partigiano, un comunista hanno molte probabilità di essere, a priori, dei delinquenti: sono comunque degli agitati che hanno un ideale di lotta e di vita in contrasto con la maestosa immagine dello stato e della società che essi si son fatta alla vecchia scuola tradizionale della classe dirigente italiana, della classe burocratica che ci governa da quando l’Italia è nata come nazione11.

7 I processi vengono strumentalizzati politicamente con un duplice scopo: colpire il Pci e reprimere la conflittualità sociale omologandola con la delinquenza comune.

8 Infine un ultimo dato è subito rilevato dai contemporanei e confermato dalle ricerche storiografiche successive: un paradossale ribaltamento della realtà. Da una parte, infatti, si ebbe il congelamento dei processi a carico dei fascisti grazie alla spinta verso la normalizzazione e stabilizzazione del Paese e alla conseguente “amnistia Togliatti”, dall’altra i partigiani che avevano combattuto per la guerra di liberazione venivano perseguiti per reati di violenza comune. «È questo che ti colpisce: due pesi e due misure a seconda che si tratti di fascisti o di antifascisti. E non come sarebbe pure lecito semmai aspettarsi a favore di quelli che hanno combattuto e sofferto per l’Italia, ma a favore di coloro che si sono battuti per la fazione opposta e per i tedeschi contro l’Italia»12.

9 La difesa degli ex partigiani implicati in procedimenti penali fu assunta nella maggioranza dei casi dal Comitato di Solidarietà Democratica, nato il 2 agosto 1948 dopo i numerosissimi arresti avvenuti in seguito alle manifestazioni del 14 e 15 luglio dello stesso anno successive all’attentato a Togliatti. Quest’ultime avevano provato la capacità di mobilitazione di ampi strati della popolazione che avevano deciso di scendere in piazza dimostrando tutta la propria volontà riformatrice. Ciò spaventò il governo centrista e l’opinione pubblica moderata: non è un caso, infatti, che da qui in avanti braccianti, militanti politici e sindacali nonché ex partigiani furono imputati in numerosi procedimenti penali. A promuovere la nascita di questa struttura furono sollecitazioni interne ai partiti comunista e socialista, e in special modo la figura dell’onorevole Umberto Terracini, che divenne presidente del Comitato Nazionale di Roma nel 1951. I primi comitati di Solidarietà Democratica nacquero in seguito proprio a questa ondata di repressione con lo scopo immediato di sostenere gli imputati e le loro famiglie sia materialmente che moralmente e allo stesso tempo di fornire assistenza legale gratuita durante le cause. Data la mole di processi che investirono partigiani ed ex combattenti in Emilia-Romagna, non è un caso se proprio questa regione fu tra le prime a organizzarsi in maniera immediata e capillare. Nel 1951 si erano costituiti ben 866 comitati suddivisi tra provinciali, comunali, rionali e aziendali13. L’idea che stava alla base del movimento di Solidarietà Democratica era quella della difesa delle libertà democratiche e soprattutto dei diritti sanciti dalla Costituzione della neonata Repubblica. Per far questo si cercò di raccogliere l’adesione e la collaborazione di quanti più giuristi, avvocati14 e uomini di diritto possibile indipendentemente dall’appartenenza politica. Tuttavia nella realtà i membri dei

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collegi di difesa erano in maggioranza legati o militavano nelle file del Pci e del Psi, e da questi due partiti il Comitato riceveva notevoli contributi finanziari.

10 Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta in corrispondenza di quella che si è definita come una vera e propria repressione anti-partigiana, il Comitato si concentrò principalmente nella difesa dei partigiani e dei militanti volendo agire da tutela dei diritti costituzionali e contro l’azione e la politica repressiva attuata dal governo di De Gasperi e dal ministro degli Interni Scelba. Il fine del Cds era infatti quello di creare una «solida base di massa, mobilitando in ogni provincia, avvocati, studiosi di diritto, in modo da studiare l’esagerato prolungarsi dei processi, le condizioni di vita dei carcerati e la veridicità dei soprusi della polizia, degli arbitri, nel periodo precedente all’istruttoria, e delle violenze durante gli interrogatori»15. L’intero mondo partigiano sembrava essere sotto accusa e furono proprio gli avvocati che collaboravano con il Comitato a denunciarlo. Il senatore Carmine Mancinelli, ad esempio, in una delle discussioni della Commissione Parlamentare d’inchiesta sui fatti dell’Emilia, già nel 1948 poneva in luce «il piano di aggressione che il governo e le forze reazionarie agrarie e neofasciste si sono proposte ai danni del movimento partigiano»16. La linea che il Comitato e gli avvocati che ne gravitavano attorno decisero di seguire fu quindi il doppio binario della difesa e dell’attacco. Seguendo le argomentazioni suggerite da Liora Israel nel suo libro17 sul mondo del diritto e del soccorso militante soprattutto in Francia, ci sentiamo di poter affermare che anche in questo caso ad operare siano state le due facce del diritto come arma capace di contestare e eventualmente modificare rimanendo all’interno delle istituzioni riconosciute dallo Stato una situazione di fatto: «il diritto, è quindi, sia arma offensiva, per far valere dei diritti, sia arma difensiva,perché imposta da una indagine o da una imputazione: è perciò uno degli strumenti coni quali spesso si misura, per scelta o per necessità, chi voglia contestare una situazione, uno stato, degli avversari»18. Significativo appare quindi rilevare come lo sforzo portato avanti dal Comitato si muovesse da un lato difensivamente per assistere nelle cause gli imputati, dall’altro offensivamente denunciando nelle arringhe in aula l’illegittimità della azione persecutoria indiscriminata e massiccia: l’obiettivo dei difensori non era solo l’assoluzione degli imputati come scopo in sé compiuto, ma anche l’affermazione dei valori costituzionali nati proprio grazie alla lotta dei partigiani durante la Resistenza. A ciò va aggiunto il tentativo di elaborare proposte volte al superamento della legislazione fascista ancora in vigore19.

11 Come sottolineano Angela Maria Politi e Luca Alessandrini, che per primi studiarono in maniera sistematica l’insieme documentario degli archivi del Comitato e di alcuni avvocati ad esso afferenti, «il Cds era parte integrante delle lotte sociali delle cui conseguenze penali si faceva carico» agendo più come «un movimento» che come «un ufficio»20. Era quindi molto difficile ricondurre tutte le cause ad una medesima direzione centrale, soprattutto quando si trattava di dover cercare soluzioni e prendere decisioni celermente. Per questo vennero presi come punto di riferimento alcuni elementi solidi e stabili su cui poter contare in quanto a professionalità e militanza. Caso emblematico fu quello dell’avvocato bolognese Leonida Casali che si trovò al centro dei collegi difensivi della quasi totalità dei processi svoltesi contro partigiani nel bolognese e nel modenese e al cui ufficio venivano sottoposti tutti i casi inerenti quella zona per una prima valutazione preliminare. Proprio per questo motivo il presente lavoro si incentra sullo studio di alcune cause curate da Casali, grazie al patrimonio

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documentario del suo curato e ricco archivio, depositato oggi presso l’Istituto per la Storia e le Memorie del ’900 Parri – Emilia Romagna.

12 Nella consapevolezza che anche una monografia, per quanto particolare, possa contribuire a rendere ragione di processi molto più generali che la sovrastano, ma di cui permette l’analisi, l’obiettivo del presente lavoro è di ricostruire la funzione e il ruolo di Casali all’interno sia del Comitato di Solidarietà Democratica sia del Partito Comunista e di comprendere l’articolarsi , lo strutturarsi e lo svolgersi delle difese a livello sia giurisprudenziale sia politico, partendo dalla peculiarità dei singoli casi affrontati.

2. Il profilo biografico

13 Leonida Casali nasce a Bologna l’8 febbraio 1898 dall’avvocato Enrico Mariano Casali e da Romana Lodi, primo di otto figli. Consegue la maturità classica al Liceo Minghetti21. Nel 1916 si iscrive all’Università di Bologna alla facoltà di Giurisprudenza corso Procuratori, ma lo scoppio del primo conflitto mondiale interferisce con il normale svolgimento della sua vita universitaria. Non sappiamo se il giovane Casali prende parte alla Prima guerra mondiale, ma risale al dicembre del 1917 una sua giustificazione circa l’impossibilità di adempiere al pagamento delle tasse universitarie per il secondo semestre del primo anno «per ragioni di obbligo militare e altre che spiegherà a voce, se richiesto, frequentare regolarmente le lezioni e pagare la seconda rata del I anno (1916-17) e la prima rata del II anno ora in corso»22. Nel 1916 inizia la sua attività politica militando nel Partito Socialista. La scissione gramsciana consumata durante il Congresso di Livorno nel gennaio del 1921, avvicina Casali alle istanze del comunismo italiano e difatti risulta essere uno dei fondatori della sezione bolognese del Partito Comunista d’Italia23. Anche se stava muovendo i primi passi della sua attività politica gli vengono comunque affidati ruoli di responsabilità nella cellula bolognese del PCd’I; diviene ad esempio segretario dell’Unione Inquilini. Il 3 giugno del 1921 si iscrive all’Albo dei Procuratori e quindi può finalmente fare il suo ingresso nel mondo dell’avvocatura nelle vesti di Procuratore24. Da quando Mussolini prende il potere la sua militanza comunista diviene un problema e Casali diventa una delle tante vittime della violenza del nascente fascismo. Essendo uno dei membri più importanti del Partito Comunista emiliano e da subito oggetto di vessazioni, viene più volte aggredito, bastonato, aggiunto all’elenco degli schedati politici e sottoposto a continua vigilanza25. Le violenze subite hanno naturalmente ripercussioni nella sua carriera universitaria che, d’altronde, non risultava neanche troppo brillante. Tra il 1929 e il 1930 «approfittando del R.D. 21 marzo 1929 n. 841 che prorogava il termine concesso ai procuratori legali per conseguire la laurea in giurisprudenza allo scopo di ottenere l’iscrizione all’albo degli avvocati, tenta di dare gli esami che ancora doveva superare» 26, ma anche questo tentativo risulta fallimentare poiché «elementi fascisti gli imposero di non metter più piede nell’università pena la vita. [...] sospese [quindi] gli studi e solo dopo la liberazione fece ricorso al ministero dell’istruzione per essere autorizzato a sostenere gli esami»27.Il più efferato di questi pestaggi (avvenuto nel 1925) lo riduce tra la vita e la morte e gli fa perdere quasi completamente la vista da un occhio compromettendo una già cagionevole salute; infatti durante la sua vita saranno lunghe e frequenti le sue permanenze presso istituti ospedalieri che non faranno altro che interferire pesantemente con la sua carriera. Benché Casali sia stato una personalità

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molto importante nel mondo comunista bolognese, le notizie sulla sua vita risultano ancora molto poche soprattutto per quanto riguarda gli anni Trenta. Il clima politico incandescente che caratterizza quell’epoca e le persecuzioni a cui era sovente sottoposto, portano Casali a vivere gli anni del fascismo nell’ombra ma rimanendo sempre collegato alla struttura decisionale del PCd’I. La sua situazione economica durante questi anni non è affatto rosea, risulta anzi essere contraddistinta da un’elevata instabilità e nel corso degli anni è costretto a contrarre sempre maggiori debiti.

14 Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale la fede comunista di Casali lo porta ad avvicinarsi agli ambienti della Resistenza arrivando a ricoprire ruoli di rilievo. Gli viene affidata la guida della 63esima Brigata Garibaldi Bolero, protagonista di numerose azioni di guerriglia e sabotaggio nel basso Appennino Bolognese e nelle zone dei comuni di Zola Predosa, Casalecchio di Reno, San Giovanni in Persiceto, Sasso Marconi e Crevalcore; tale attivismo gli varrà il riconoscimento del grado di Maggiore Partigiano, conferitogli nel 1943 e l’elezione nel Collegio dei Probiviri dell’ANPI provinciale di Bologna. Anche in questo caso le notizie riguardanti la sua militanza nei ranghi della resistenza sono assai parziali e sconnesse fra loro; nonostante ciò, sappiamo che nel 1943 diviene Segretario della cellula bolognese del CLN, diventando membro del comitato legislativo clandestino, e membro del Comando Unico Militare dell’Emilia Romagna. Finita la guerra, ritorna all’Università per terminare i propri studi interrotti negli anni Venti e consegue la laurea in Giurisprudenza nel dicembre 1947 con una tesi dal titolo Sull’obbligazione alimentare ex lege con relatore il Professor Antonio Cicu 28. La sua attività di avvocato si aggiunge alla sua carriera politica nel Consiglio Comunale di Bologna. Subito dopo il termine del conflitto il Governo Militare Alleato nomina sindaco il comunista Giuseppe Dozza e Casali viene nominato consigliere comunale, incarico che verrà poi riconfermato dalle elezioni amministrative del 24 Marzo 1946. Dopo vent’anni di fascismo l’intera cittadinanza bolognese, in questo caso per la prima volta anche le donne, torna a poter scegliere liberamente e democraticamente i suoi rappresentanti, e Leonida Casali risulta eletto tra le fila del Partito Comunista. Il PCI ottiene 71.369 voti, può in questo modo conquistare 24 seggi nel Consiglio, distanziando di gran lunga il PSIUP e la DC. Casali diventa assessore effettivo con delega all’ufficio legale29, incarico che mantiene anche dopo le elezioni del 1951; la sua lunga attività politica a Bologna si conclude nel 1964.

15 In concomitanza con gli impegni in Consiglio Comunale Casali, fin dai primi anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, è impegnato nella difesa di "compagni" comunisti ed ex-partigiani accusati di violenze e atti delittuosi che sono da inserire all’interno di quel clima sempre più incandescente che caratterizza il secondo dopoguerra. Il 2 agosto 1948 viene fondato il Comitato di Solidarietà Democratica grazie all’impegno di personalità del PCI e del Partito Socialista desiderosi di fornire assistenza legale gratuita ai tanti uomini vicini alle sinistre che vengono tratti in arresto; difatti una grande pioggia30 di arresti comincia dopo l’attentato a Palmiro Togliatti. Casali, grazie alle sue competenze legali, diventa uno degli avvocati più rappresentativi del foro di Bologna e molto impegnato nella difesa di militanti accusati dei più svariati delitti. «Si trovò in prima fila dalla parte di coloro che venivano colpiti dall’offensiva scatenata dai governi e dalle classi che diressero il paese, negli anni seguenti quella rottura [dell’unità antifascista], contro le masse popolari, contro i lavoratori, contro i singoli dirigenti dei lavoratori, contro i partigiani»31.

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16 L’attività di Casali, quindi, non si ferma solo ad una semplice difesa processuale ma, insieme al Comitato di Solidarietà Democratica, si impegna a smontare gli attacchi politici sferrati contro le sinistre alla luce del mutato quadro internazionale, entrato nel vortice della Guerra Fredda e, nel caso italiano, in una contesa sempre più accesa tra partiti di governo e la minoranza di sinistra.

17 La stagione dei processi politici si conclude durante gli anni Cinquanta e Casali può così tornare ad una normale attività forense, anche se sempre molto alto sarà il suo impegno civico. Antonioni ricorda l’azione di Casali in occasione dei processi nati dal cosiddetto «Dossier Due Torri»32, uno studio sulla realtà del neo-fascismo bolognese redatto dallo stesso Pci e poi trasmesso alla Procura di Bologna.

18 Nella seduta comune del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati del 28 Novembre 1962 viene nominato Giudice aggiunto della Corte Costituzionale33.

19 Nel corso degli anni Sessanta e Settanta però la sua salute comincia a peggiorare, la vista diventa sempre più debole e con il passare degli anni la perderà quasi del tutto.

20 L’impossibilità di lavorare e di continuare la sua attività di avvocato lo inducono a togliersi la vita nel corso del 1977.

NOTE

1. DONDI, Mirco, La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 1999. 2. I primi studi a questo proposito risalgono agli anni Ottanta. Cfr. CONTI, Stefania, La repressione anti-partigiana: il triangolo della morte, Bologna, Clueb, 1979; NEPPI MODONA, Guido, Giustizia penale e guerra di liberazione, Milano, Franco Angeli, 1984. Successivamente, negli anni Novanta, l’interesse si focalizzò principalmente sui processi contro i partigiani. Cfr. POLITI, Angela Maria, «Una nuova fonte sui processi contro i partigiani: gli archivi degli avvocati difensori», in Rivista di storia Contemporanea, 19, 2/1990, pp. 304-327. 3. Cfr. PISANÓ, Giorgio, Storia della guerra civile in Italia, Milano, Fpe, 1966. in cui si parla di diecimila morti solo in Emilia Romagna. I dati forniti, invece, dal ministero degli Interni presieduto da Scelba parlavano di 1732 morti fascisti in tutto il nord Italia negli anni successivi alla liberazione. 4. DONDI, Mirco, op. cit., p. 91. 5. PAVONE, Claudio, Le tre guerre: patriottica, civile e di classe, in LEGNANI, Massimo, VENDRAMINI, Ferruccio, Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Milano, Franco Angeli, 1990, pp. 25-36. 6. DONDI, Mirco, op. cit., p. 163. 7. Cfr. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in ISTITUTO STORICO PROVINCIALE DELLA RESISTENZA, Guerra, resistenza e dopoguerra. Storiografia e polemiche recenti, Bologna, Istituto Storico Provinciale Della Resistenza, 1992; PONZANI, Michela, «I processi ai partigiani nell’Italia repubblicana. L’attività di Solidarietà Democratica (1945-1959)», in Italia Contemporanea, 237, 2004, pp. 611-632. 8. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, op. cit., p.312. 9. ALATRI, Paolo, I triangoli della morte, Roma, Comitato di Solidarietà Democratica, 1948, p. 5.

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10. NEPPI MODONA, Guido, La magistratura dalla liberazione agli anni cinquanta, in BARBAGALLO, Francesco (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. III, t. 2, Milano, Einaudi, 1997, pp. 84-85. 11. ALATRI, Paolo, op. cit., p. 6. 12. Ibidem, p. 42. 13. SOLDATINI, Simonetta (a cura di), La difesa organizzata nei processi politici degli anni ’50 e ’60: gli archivi di solidarietà democratica, Siena, Edizioni Cantagalli, 2006, p. 2. 14. Citiamo alcuni degli avvocati implicati nei collegi difensivi organizzati dal Comitato di Solidarietà Democratica: Giuseppe Ferrandi, Battista Giaquinto, Lucio Luzzato, Emilio Rosini, Antonio Zoboli, Lelio Basso, Aldo Buzzelli, Giulio Polcaro, Carlo Caldera, Raimondo Ricci, Leonida Casali, Leonetto Amedei, Ferdinando Targetti, Pasquale Filastò,Fausto Fiore, Umberto Terracini, Ellenio Ambrogi, Alessandro De Feo, Luciano Ventura, Aldo Cavallo, Vittorio Paparazzo, Domenico Rizzo, Giuliano Vassalli, Leto Morividi, Mario Palermo, Renato Sansone, Mario Gomez D’Ayala, Corrado Graziadei, Pompeo Rendina, Virginio Borioni, Leo Leoni, Emilio Lopardi, Ubaldo Lopardi, Mario Assennato, Giusepppe Papalia, Francesco Capacchione, Michele Bianco, Fausto Gullo, Francesco Geraci, Rocco Minasi, Antonino Varvaro, Francesco Musotto, Francesco Taormina. 15. PONZANI, Michela, op. cit., p. 622. Ponzani ha lavorato sulle carte e sugli appunti presenti nell’archivio di Solidarietà Democratica. 16. SENATO DELLA REPUBBLICA, Atti parlamentari, Legislatura I, 9 dicembre 1948, p. 4288. in PONZANI, Michela, op. cit., p. 623. 17. ISRAËL, Liora, Le armi del diritto, Milano, Giuffré, 2012. 18. Ibidem, p. 3. 19. A questo proposito molto interessante appare il dibattito che si sviluppò in quegli anni sulla rivista giuridica «Il Ponte». 20. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, «Nuove fonti sui processi contro i partigiani», in Italia Contemporanea, 178, 1990, p. 52. 21. ARCHIVIO STORICO STUDENTI UNIVERSITÀ DI BOLOGNA, fascicolo «Leonida Casali». 22. Ibidem. 23. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett. 2, b.127, f. 200. 24. Ibidem. 25. Ibidem. 26. Ibidem. 27. ARCHIVIO STORICO STUDENTI UNIVERSITÀ DI BOLOGNA, fascicolo «Leonida Casali». 28. Ibidem. 29. URL: [consultato il 14 giugno 2014]. 30. In questo modo la definisce il consigliere Antonioni durante l’orazione funebre in memoria di Casali. Gli interventi per la commemorazione di Casali sono consultabili sul sito URL: [consultato il 14 giugno 2014]. 31. Orazione del Consigliere Antonioni in occasione della morte di Leonida Casali nel 1977. 32. Ibidem. 33. URL: [consultato il 14 giugno 2014].

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RIASSUNTI

Il lavoro si propone di analizzare il ruolo e le caratteristiche dell’avvocatura militante del legale bolognese Leonida Casali, esponente di spicco sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato di Solidarietà Democratica nel secondo dopoguerra. Attraverso lo studio di vari casi particolari, quali i processi contro ex partigiani e militanti politici, si è puntato a far emergere l’intrinseca politicità dell’operato dell’avvocato, mostrandone, da una parte l’autorevolezza e l’autonomia operativa, dall’altra lo stretto rapporto che lo legava al PCI e al CSD. Tali aspetti permettono di delineare la figura dell’avvocato Casali come un unicum nel panorama della giustizia italiana dell’immediato dopoguerra.

This paper aims to analyze the role and the pattern of the militant lawyering of Leonida Casali, one of the leading members of Bologna section of the Italian Communist Party and of the Democratic Solidarity Committee during the postwar period. By construing some specifical cases, as the trials against partisans and political activists, the focus has been pointed on demonstrating the intrinsic political nature of Casali’s behavior, showing on the one hand his mastership and the operational independence, on the other the strict relationship he had with the Communist Party and the Democratic Solidarity Committee. These issues allow to trace Casali’s role as a unique in the panorama of Italian justice immediately after the Second World War.

INDICE

Parole chiave : guerra civile, Leonida Casali, partigiani, PCI, resistenza Keywords : civil war, Italian Communist Party, Leonida Casali, partisans, resistence

AUTORI

GIANLUIGI BRIGUGLIO

Ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Messina con una tesi intitolata Cesare Mori e la campagna antimafia del fascismo. Attualmente è iscritto al corso di laurea magistrale in Scienze Storiche dell’Università di Bologna.

NICOLA CAROLI

Ha conseguito la laurea triennale in Scienze Storiche e Sociali presso l’Università degli Studi di Bari con una tesi dal titolo La discussione parlamentare sull’adesione italiana al Sistema Monetario Europeo nel 1978. Frequenta il corso di laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Bologna e il secondo anno del corso di laurea presso l’Universität Bielefeld.

SIMEONE DEL PRETE

Ha conseguito la Laurea triennale in Storia presso l’Università di Bologna con una tesi di laurea in storia economica sul conflitto nordirlandese, frutto di ricerche effettuate presso l’University College Cork. Attualmente frequenta il corso di Laurea Magistrale in Scienze Storiche presso il medesimo ateneo.

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GRETA FEDELE

Studentessa del corso integrato franco-italiano Histoire et civilisations comparées. Precedentemente ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Milano discutendo una tesi dal titolo Storia e globalizzazione nella recente produzione storiografica.

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Il caso Rolando Rivi

Gianluigi Briguglio

1. Il contesto storico

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1 Nel fascicolo n. 61, busta n. 108 del fondo Leonida Casali, custodito all’Istituto per la storia e le memorie del Novecento Parri Emilia Romagna di Bologna, è contenuto il materiale che l’avvocato bolognese raccolse durante l’organizzazione della difesa del processo che vedeva coinvolti due partigiani accusati di aver ucciso, in piena seconda guerra mondiale, un giovane seminarista di nome Rolando Rivi; è, quindi, possibile una ricostruzione dettagliata degli avvenimenti, del processo e, soprattutto, della linea difensiva adottata da Leonida Casali.

2 Il Comitato di Solidarietà Democratica, sezione provinciale di Modena, attraverso una missiva datata 24 giugno 1949, affidò, all’avvocato Leonida Casali, il caso riguardante l’assassinio di un «prete spia dei tedeschi»1, durante la guerra di liberazione, a opera degli imputati Giuseppe Corghi, di anni 31, ex commissario politico della formazione partigiana di Monchio, e Narciso Rioli di anni 38, da Montefiorino. I due vennero arrestati il 15 e il 20 giugno del 1949 a quattro anni dal presunto assassinio. È possibile notare come fu lo stesso Comitato a etichettare da subito il giovane prete (appena 14 anni) come spia, non lasciando adito a una differente interpretazione degli avvenimenti, portando così l’avvocato bolognese a impostare una difesa incentrata sulla legittimazione dell’assassinio compiuto a causa del pericolo imminente che poteva rappresentare un infiltrato nemico nelle file partigiane.

1. Rolando Rivi: spia o martire?

3 Rolando Rivi nacque il 7 gennaio 1931 a San Valentino, nel Comune di Castellarano (Reggio Emilia). Il padre, Roberto Rivi, era un contadino. A 11 anni, nel 1942, con l’Italia impegnata in guerra, entrò nel seminario di Marola nel Comune di Carpineti (Reggio Emilia) e qui venne guidato e istruito da don Olinto Marzocchini, che diverrà a sua volta vittima dell’odio antireligioso di alcuni partigiani; per tutelarne l’incolumità, dato che non risultò essere il primo membro del clero oggetto di vessazioni da parte dei partigiani, si decise di spostarlo in altro luogo, sostituendolo col giovane don Alberto Camellini. Ma successivamente, non curante della pericolosità della sua missione, don Marzocchini decise di ritornare a San Valentino, sostenuto, come sempre, da don Camellini.

4 Nell’estate del 1944 il seminario di Marola venne occupato dai soldati tedeschi. Rolando, dovette quindi tornare a San Valentino per proseguire i suoi studi, e nel frattempo svolse un’intensa attività parrocchiale. Nell’aprile del 1945 venne poi assassinato2.

5 Fu proprio la modalità dell’assassinio il motivo di contesa tra la versione divulgata dai partigiani comunisti, ampiamente tratteggiata nel fascicolo, e quella propagandata

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della fazione partigiana della Dc, che venne poi, tra l’altro, confermata anche nel successivo processo di Lucca. La versione dei partigiani comunisti fu tratta dalle dichiarazioni dei testimoni raccolte dal Casali sin dal Luglio del 1949. Nella ricostruzione comunista, il giovane seminarista venne inviato in montagna dal Reggente del Fascio Repubblicano di Castellarano (Reggio Emilia) allo scopo di raccogliere informazioni sui partigiani operanti in quelle zone. Stando alle testimonianze rilasciate, fu Ildebrando Bertoni, comandante della formazione partigiana “Caino”, il primo a imbattersi in Rolando Rivi. Questi diede false informazioni al comandante partigiano, facendolo cadere, assieme alla sua formazione, in un’imboscata tedesca nel paesino di Roteglia. A seguito di quest’agguato persero la vita 6 partigiani e altri 3 rimasero gravemente feriti3. Il 10 aprile 1945 il Rivi scomparve da casa; l’11 aprile arrivò presso una formazione garibaldina (distaccamento “Martelli”) e qui chiese la strada per raggiungere la Brigata “Italia” (democristiana). Secondo quanto raccontato, sottrasse, non visto, la rivoltella del partigiano Arturo Ruggi (una Beretta calibro 9 corto) e vagabondò da distaccamento a distaccamento chiedendo continuamente la strada per raggiungere la Brigata Italia – benché la strada gli fosse già stata indicata in precedenza4.

6 La sera dell’11 aprile raggiunse finalmente la Brigata Italia: all’alba del 12 aprile fuggì portando con sé una machine-pistole, ritornando, successivamente, nella zona controllata dalle formazioni garibaldine5.

7 Poiché camminava tenendosi quanto più possibile nascosto e in atteggiamento sospetto, venne avvistato da due contadini del posto (Leuterio Tinconi e Dante Ruffaldi) generando in costoro il dubbio che non si trattasse di un partigiano, bensì di una spia. I due contadini avvertirono i partigiani, i quali perlustrando la zona, scoprirono il Rivi in un boschetto, con la machine-pistole a tracolla e la rivoltella in mano. Allorché gli venne intimato di fermarsi, il Rivi, per non lasciarsi catturare, sparò un colpo contro il partigiano Virgilio Franchini, non riuscendo nell’intento di colpirlo poiché la pistola si inceppò. Arrestato e disarmato, il Rivi venne sottoposto a interrogatorio6.

8 Durante l’interrogatorio (effettuato dal Commissario Giuseppe Corghi, in presenza di tutti i partigiani e le staffette della formazione) il Rivi si comportò con freddezza indescrivibile, affermando cinicamente che se fosse stato liberato avrebbe riferito tutto ciò che aveva visto al Reggente di Castellarano. Alla staffetta Cristina Bassi che gli chiese come si sarebbe comportato se – una volta liberato – egli l’avesse vista in paese mentre svolgeva la sua opera di staffetta, il Rivi rispose candidamente che l’avrebbe denunciata e fatta arrestare7.

9 Saputo dell’arresto del Rivi, alcuni partigiani appartenenti a diverse formazioni della zona notificarono che il seminarista il giorno prima aveva chiesto anche a loro la strada per Gusciola, luogo in cui era stanziata la Brigata Italia. Secondo le fonti partigiane lo stesso Rivi confermò che si trattava solo di una scusa per poter osservare minutamente la dislocazione dei reparti8.

10 Dopo queste confessioni e risultanze, il Rivi (munito di una carta d’identità alterata e indossante sotto la camicia una maglietta bianca con sopra un fascio littorio e una M nera) fu condannato a morte dalla formazione partigiana riunita in Tribunale straordinario e giustiziato come delatore confesso. Numerose testimonianze comprovarono che egli non fu affatto torturato e seviziato, prima dell’esecuzione e che la sua salma non fu mai sottoposta a atti di spregio da parte di chicchessia9.

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11 In un documento10 contenuto nel fascicolo si fa riferimento a una presunta campagna denigratoria da parte della Dc, che partì nel 1946 trovando il culmine nel 1949 quando vennero arrestati Giuseppe Corghi e Narciso Rioli.

12 I reparti democristiani cominciarono a dipingere il Rivi come un «fiore di bontà, un giglio dedito solo allo studio e alle pratiche devote e ben lontano dalle lotte politiche»; continuarono, successivamente, a insistere sulla qualifica di seminarista del Rivi, così per concentrare l’attenzione sull’esecuzione che aveva come unico fondamento l’odio antireligioso dei partigiani comunisti, «non già perché egli fosse una spia». La stessa Dc pubblicò e fece girare persino un «manifesto in cui appariva la fotografia del Rivi in abito da seminarista, identico all’abito sacerdotale». Tanto che anche i giornali clericali pubblicarono una foto simile recante sottotitoli abbastanza esplicativi: «Non era una spia il seminarista prelevato ed ucciso – Lo spirito antireligioso fu la sola causa dell’orribile fine del quattordicenne levita» e «La furia bestiale che spinse all’uccisione del quattordicenne seminarista di S. Valentino»11.

13 Ciò, secondo il documento partigiano, sarebbe servito In subordine [...] a “dimostrare” l’impossibilità che il Rivi così giovane fosse una spia; ma fondamentalmente si tendeva a commuovere i cittadini (compresi quelli a noi vicini) per la sorte di questo giovanissimo levita facendo apparire i comunisti non solo come assassini ma addirittura come assassini efferati e quindi determinando un atteggiamento di condanna nei confronti degli esecutori o quanto meno – negli elementi meno influenzati dalla D.C. e più vicini a noi – uno stato di disagio e quindi una certa riluttanza a difendere apertamente contro i calunniatori l’operato dei partigiani che giustiziarono la spia12. In quella che partigiani comunisti definiscono una "fantasiosa" ricostruzione, ma che di fatto si dimostrerà la realtà, emerge anche il dettaglio del prelevamento del giovane.

14 Secondo l’organo della Curia Modenese il Rivi venne «prelevato» mentre era intento allo studio e assorto nella meditazione in un boschetto a S. Valentino di Castellarano. Il padre avrebbe poi trovato nel boschetto il quaderno del Rivi recante la scritta: «Non cercatelo, viene con noi partigiani». Secondo i partigiani comunisti, però, «il Rivi si allontanò volontariamente da casa sua per compiere la missione di spionaggio ed il primo contatto coi partigiani l’ebbe l’11 aprile a Dignatico di Saltino allorché sottrasse la pistola al partigiano Ruggi della formazione Martelli»; il Rivi venne arrestato soltanto nella mattinata del 12 aprile, solo quando, come già raccontato, fu segnalato come elemento sospetto dai contadini Tinconi e Ruffaldi. Insomma, secondo la versione comunista, «ammettendo queste circostanze però la stampa Dc non avrebbe potuto togliere, nella migliore delle ipotesi, almeno un grave dubbio circa le reali intenzioni che spinsero il Rivi a andare in montagna (fino a Dignatico di Saltino, dove avvenne l’arresto). Di qui la falsificazione cosciente del fatto, la quale rientra perfettamente nel quadro della campagna montata dalla Dc»13.

15 Il processo, dal 9 al 13 gennaio 1951, narrato dal quotidiano «Il Tirreno» nelle pagine dedicate alla cronaca di Lucca, si aprì con le dichiarazioni del Corghi, secondo il quale «il seminarista avrebbe tergiversato, ma poi avrebbe confessato di aver agito per conto del Commissario Prefettizio di Castellerano, onde assumere informazioni sui movimenti delle truppe partigiane», quindi «il giovanetto aveva tentato la fuga e allora il Corghi erasi trovato costretto a sparargli addosso, uccidendolo»14.

16 Il Rioli invece, sempre secondo le dichiarazioni, fu assente al momento dell’interrogatorio, e quindi totalmente estraneo alla successiva esecuzione.

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17 Queste le motivazioni che spinsero il Procuratore Generale della Corte di Appello di Bologna a rinviarli a giudizio: il Corghi ha riconosciuto di essere stato l’esecutore della uccisione e il Rioli il comandante del distaccamento a opera del quale i fatti furono commessi. Non è poi priva di significato – continua la sentenza di rinvio a giudizio – la circostanza che il Rioli confermi la narrativa che dei fatti è stata fatta dal Corghi. Narrativa rimasta destituita di fondamento, a parte la sua inverosimiglianza dalle risultanze istruttorie. Due circostanze sono quindi emerse chiaramente e cioè che l’esposizione dei fatti resa dai prevenuti è stata contraddetta da precise deposizione testimoniali15.

18 Il processo alla Corte di Assise venne, quindi, spostato a Lucca, dove venne presieduto dal comm. Dott. Vincenzo Renis. La Corte venne così formata: Consigliere a lato comm. Dott. Jucci; Giudici popolari: prof. Dott. Arrighi, rag. Imbasciati, arch. Pieti, dott. Massoni e Col. Sergio; P. G.: dott. Lenzi; Canceliere dott. Paolino. I due imputati vennero rappresentati da Leonida Casali e dall’avvocato Mario Frezza, Antonio Grandi di Reggio Emilia era invece l’avvocato di Parte Civile.

19 La motivazione dietro l’uccisione prese forme sempre più grottesche; poiché la situazione era pericolosa e non si poteva tenere il prigioniero presso il battaglione fu deciso di ucciderlo. Ordinai allora – dice il Corghi – a due partigiani di scavare una fossa. Circa le 10 del giorno dopo, il Rivi fu accompagnato vicino alla fossa e quando comprese che stavano per ucciderlo, cadde a terra pregando di risparmiarlo. Ma era stato deciso e io sparai due colpi. Ritornai subito al comando lasciando agli altri l’ordine di seppellirlo16.

20 Nel pomeriggio venne il turno del padre del giovane seminarista, il colono Roberto Rivi. Seguendone le dichiarazioni emerge una storia completamente diversa rispetto a quella raccontata dagli imputati. Secondo il padre il mattino del 10 aprile 1945 Rolando uscì dall’abitazione, munito di un libro di studio, recandosi in un boschetto vicino a casa. Non rientrò, e da quel momento cominciarono le ricerche. L’unica traccia era costituita dal libro ritrovato nel bosco, contenente un biglietto con una scritta: «Non cercatelo: è venuto con noi!»17. Due giorni dopo apprese che il figlio era stato arrestato dai partigiani.

21 Si recò immediatamente allora dal vice parroco Don Gamellini e insieme a lui si portò al comando di Farneta dove qualcuno, forse mosso a pietà, gli accennò alla probabilità che il ragazzo avesse chiesto e ottenuto di essere arruolato come partigiano. Soltanto qualche giorno dopo apprese della sua tragica uccisione. Fu proprio Don Gamellini a rivelarglielo, dopo averlo appreso dal Rioli, comandante delle formazioni. Don Gamellini gli disse pure di avere saputo che l’uccisione era stata compiuta da tale Corghi e ciò per ammissione dello stesso, così, «al prete e al genitore furono fornite le indicazioni per ritrovare il luogo ove il ragazzo era stato seppellito e così il sacerdote poté ritrovare la salma»18.

22 Nel corso del processo vi fu un serrato confronto tra Rioli e Don Camellini, un botta e risposta in cui Rioli negò esplicitamente di aver parlato col parroco circa l’uccisione del giovane seminarista. Il confronto poi si spostò al Corghi, il quale negò a sua volta di aver confessato a Don Camellini della presenza di un verbale firmato con le dichiarazioni del Rivi19.

23 Venne chiamato a deporre anche Virgilio Franchini, il partigiano che trasse in arresto il Rivi. Questi raccontò come due civili (probabilmente i due contadini) informarono lui e

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altri partigiani che tra i boschi «vi era della gente armata». Trovato il ragazzo, armato (o almeno così racconta il Teste), gli fu intimato di fermarsi, ma il giovane rispose sparando un colpo con una rivoltella, che si inceppò20.

24 Disarmato fu tratto in arresto e poi interrogato dallo stesso Franchini. In questo interrogatorio emerse il dettaglio delle 500 lire in possesso del giovane: secondo il Franchini il seminarista le aveva ricevute direttamente dal Commissario prefettizio «per spiare i movimenti partigiani», al contrario Don Camellini dichiarò che il ragazzo «le aveva avute dal Parroco di San Valentino in ricompensa dei servizi prestati in chiesa». Quest’ultima tesi venne avvalorata dal geom. Afro Benevelli, all’epoca Commissario prefettizio al Comune di Castellerano, ovvero la persona che avrebbe dovuto dare le 500 lire a Ronaldo Rivi e che invece negò puntualmente di aver mai conosciuto la vittima21.

25 A confermare la presenza delle percosse subite da Rolando Rivi, e negate puntualmente dai partigiani, vi fu la testimonianza della settantenne Domenica Ferrari, padrona della casa in cui il Rivi fu condotto e interrogato. La Teste ammise di «avergli parlato più volte, di avere udito dei colpi quando egli veniva percosso»22.

26 Secondo l’avvocato di parte civile le varie deposizioni dei testimoni partigiani furono «di poca considerazione, in discordanza fra loro», se il giovane seminarista «dichiarò cose gravissime contro se stesso, compiendo affermazioni false, lo fece perché percosso e minacciato: una confessione estorta con la forza ed i cui punti salienti sono inverosimili cominciando dalla storia delle armi che egli avrebbe rubate ai partigiani»23. Secondo Il P.G. si «giunse al parossismo della mistificazione per voler dimostrare che il ragazzo era una spia», e quindi era legittimo chiedere «la condanna dei due per il reato di omicidio a anni 24 ciascuno di reclusione ed anni 3 per il reato di sequestro di persona»24.

27 Infine il Presidente dott. Renis lesse la sentenza con la quale si dichiaravano il Corghi e il Rioli colpevoli del reato di sequestro di persona e di omicidio – esclusa l’aggravante della premeditazione – determinato da movente politico, per cui si condanna alla pena della reclusione per anni 23 ciascuno, al pagamento in solido delle spese processuali, a quelle del mantenimento in carcere, al pagamento dei danni alla parte civile da liquidarsi in separata sede e alle spese di costituzione in lire 88 mila. Ma in applicazione delle leggi di condono del 1946, ’48, ’49, la stessa sentenza dichiarava condonati ambedue a anni 16 e mesi quattro della pena loro inflitta25.

28 La sentenza di primo grado venne confermata tanto in Appello quanto in Cassazione, determinando «tre colpevoli condannati dopo tre gradi di giudizio a 22 e 16 anni, anche se ne scontarono solo 6 grazie all’amnistia di Togliatti»26. Nel gennaio 2006 venne avviata la pratica per la canonizzazione di Rolando Rivi, riconosciuto martire il 28 marzo 2013 da Papa Francesco e successivamente beatificato il 5 ottobre 2013. Una ricostruzione degli ultimi momenti in vita di Rolando Rivi venne fatta dai testimoni che presenziarono al processo di canonizzazione del 2006.

29 La forte dedizione religiosa del giovane Rivi simboleggiata dalla famosa frase: «studio da prete e la tonaca è il segno che io sono di Gesù» costò la vita al ragazzo. I genitori, fortemente preoccupati dalla forte componente antireligiosa presente nella zona modenese, lo avevano ammonito: «Rolando, non portarla ora. È più sicuro se vai in giro per il paese con gli abiti civili», ma il ragazzo non ascoltandoli finì nelle mani di assassini che si erano annidati nelle formazioni partigiani, e che, sempre secondo questi testimoni, sentirono dire al commissario politico della formazione partigiana

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garibaldina: «Domani avremo un prete di meno»27. I membri della Congregazione delle Cause dei Santi approvarono anche un miracolo attribuito al giovane seminarista. Un bambino inglese, che teneva una ciocca dei capelli del Rivi sotto al cuscino, riuscì a guarire miracolosamente dal cancro28.

2. L’impostazione difensiva di Leonida Casali

30 L’assassinio di Rolando Rivi si inserisce perfettamente nell’ampio novero dei casi riguardanti i cosiddetti “preti morti”, definizione che identifica esponenti della chiesa uccisi dai partigiani durante il periodo della Resistenza29, e considerati, a causa della particolarità delle uccisioni, alla stregua di veri e propri martiri.

31 Come abbiamo avuto modo di appurare, la versione comunista si dimostrò lacunosa nella forma e discordante tra i protagonisti e questo nonostante l’impegno profuso da Leonida Casali per costruire una difesa solida e ben organizzata.

32 L’impostazione della linea difensiva adottata da Leonida Casali fu figlia anche della fitta corrispondenza con gli imputati e con l’avvocato Mario Frezza di Lucca, anch’egli incaricato, come il collega bolognese, dal Comitato di Solidarietà Democratica, della difesa dei due partigiani.

33 Casali accolse quasi sempre le richieste dei suoi assistiti, basando la sua difesa interamente sulla difficoltà di una scelta, quella della frettolosa esecuzione, dettata dalla complessa guerra partigiana, e soprattutto dalla situazione, particolarmente calda, del modenese. Fu lo stesso Casali a confermarlo a Giuseppe Corghi, quando quest’ultimo (in una lettera datata 30 gennaio 1950) chiese all’avvocato bolognese come fosse ancora possibile la sua permanenza in carcere «visto la mia deposizione, dato che io sono confesso, mi sembra di non aver lasciato alcun dubbio di reato comune», e quindi «perché non si prova a chiedere la revoca del mandato di cattura in base alla legge di noi Partigiani?»30. L’esempio portato dal Corghi era quello dei fratelli Gorieri, altro caso simile ma con toni ancora più oscuri, per cui venne fatta valere, almeno stando alle sue parole, questa "legge di noi Partigiani" ovvero l’amnistia Togliatti, voluta proprio dall’allora ministro di grazia e giustizia Palmiro Togliatti, comprendete i reati, sia politici che comuni, avvenuti nell’Italia occupata fino al 18 giugno 194631. E fu proprio basandosi su questa legge che, almeno inizialmente, il Casali imperniò la sua difesa, cercando di portare l’attenzione sulla particolare contingenza nella quale si erano venuti a trovare gli imputati e che li aveva costretti a agire repentinamente.

34 Seguendo questa direzione, lo stesso Casali pretese che venisse ascoltata, come testimone, la staffetta partigiana Giuseppina Martinelli, che assistette non solo all’arresto del Rivi, ma anche al suo interrogatorio e alla sua esecuzione, e che avrebbe, quindi, potuto raccontare come «vi erano in corso dei combattimenti con i tedeschi e con i fascisti repubblichini per cui non era possibile né custodire il Rivi né trattenerlo al comando» e che per questa «ragione tutti i partigiani furono d’accordo sulla sua soppressione»32.

35 Casali non tralasciò, comunque, la pista dell’identificazione del giovane seminarista come spia fascista, tanto che si premurò di cercare testimoni che potessero avvalorare questa tesi. Li trovò in Ildebrando Bertoni, condotta in trappola dal Rivi presso Roteglia, con la perdita di 6 partigiani, e in Giovanna Nino, intendente della Brigata Italia, la stessa Brigata che pare venne avvicinata dal Rivi col pretesto di entrare nelle

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fila partigiane, salvo essere rifiutato e sparire il mattino seguente portando con se una machine-pistole.

36 L’intervento di Leonida Casali al processo di Lucca nell’udienza antimeridiana del 12 gennaio 1951 riassume quanto detto. L’avvocato bolognese parlò per oltre due ore cercando «di dimostrare la inesistenza di qualunque movente, che non fosse quello derivante da ragioni belliche e che costrinsero il Corghi a sopprimere il giovane seminarista, ritenuto una spia»33. Inizialmente non fece mancare struggenti parole per la vittima, poi compiva una acutissima disamina delle risultanze processuali, prima per scagionare completamente il Rioli da ogni responsabilità affermando la mancata partecipazione a ognuno di quegli episodi che poi portarono all’uccisione del Rivi; poi, per analizzare e dimostrare le condizioni in cui venne a trovarsi il Corghi, convinto come lo erano tutti gli altri di trovarsi di fronte a una spia, sia pure in giovane età ma con le armi in mano. Sulla scorta dei testi affermava l’esistenza di queste armi e come di esse il Rivi ne fece uso contro i partigiani34.

37 Infine Casali «chiedeva alla Corte una sentenza di illuminata giustizia, che riporti questo tragico e disgraziato episodio nel giusto quadro della guerra partigiana che contò a migliaia i suoi morti valorosi e generosi»35. Le stesse argomentazioni vennero riprese dall’avvocato Mario Frezza, sostenendo in pieno le tesi di Casali circa l’assoluta estraneità dei fatti per il Rioli, aggiungeva che il Corghi si vide costretto a uccidere il Rivi, per la certezza, di tutti i partigiani, «di trovarsi di fronte a una spia, a un traditore che aveva tentato di sopprimere uno di loro». Il Corghi non poteva essere punito in quanto il delitto rientrava tra le azioni di guerra, come più volte sottolineato dal Casali, «illustrava le disposizioni di legge e le loro ragioni per cui sé voluto, riconoscendo e facendo propri gli ideali che animarono la lotta partigiana, chiudere quelle pagine che in qualche caso solo la inesperienza bellica ha potuto aprire»36.

38 La linea difensiva dei due avvocati non portò a una conclusione positiva del processo, tanto che la sentenza di primo grado verrà poi confermata anche negli altri gradi di giudizio. Emerge l’innegabile ruolo centrale che assunse la figura di Leonida Casali nella vicenda fin qui esposta. Sia gli imputati, sia il collega Mario Frezza, chiesero continuamente consiglio all’avvocato bolognese, come sembrerebbe dimostrare la vicenda legata a un altro testimone scovato dal Rioli, tale Eugenio Pancani, che avrebbe assistito alla cattura dello stesso Rioli «confermando con tale sua deposizione quelle di Tincani e Ruffaldi sull’aggirarsi del Rivi armato nelle retrovie partigiane»37. Tale Pancani era imputato in un altro processo del Casali, a Macerata, e quindi sarebbe potuto essere avvicinato facilmente dallo stesso avvocato bolognese. In merito a questo nuovo testimone fu lo stesso avvocato bolognese a muovere due obiezioni: 1) «Non sappiamo con esattezza che cosa dichiarerà Pancani e non vorrei che poi le sue dichiarazioni contenessero inesattezze o contrasti con le dichiarazioni di altri testimoni»; 2) «Non vedo proprio come possa la dichiarazione di Pancani in circostanze non nuove e sulle quali già vi sono in atti altre disposizioni»38. Pancani, a quanto ci risulta, non verrà mai preso in considerazione come testimone.

39 Costante della casistica riguardante i “preti morti” era il forte odio antireligioso che animava certe frange della resistenza comunista (e questo caso sembra esserne un fulgido esempio), tanto che lo stesso Corghi scrive a Casali per cercare di fugare ogni dubbio circa la sua posizione a questo merito. Scrive il Corghi: «ti dissi che non mi sarebbe stato difficile avere dei parroci che mi hanno conosciuto, prima, durante e dopo la guerra, così che ho già ricevuto le tre lettere escluso l’ultima dimostranti il mio

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comportamento non antireligioso, ma bensì religioso e praticante». Il Casali dapprima sembrerà favorevole a imboccare anche questa strada, ma poi non ne farà menzione durante il processo, essendo, probabilmente, già ampiamente a conoscenza del clima fortemente anticlericale e antireligioso che si respirava nel triangolo della morte durante la guerra di liberazione39.

40 Leonida Casali, durante la sua militanza politica all’interno e al servizio del Pci e del Comitato di Solidarietà Democratica, si trovò coinvolto in svariati casi che avevano come epicentro la violenza partigiana. Un’importante testimonianza ci venne data dalle memorie di Odoardo Ascari, famoso avvocato modenese, che incontrò proprio Casali. Del collegio di difesa faceva parte un avvocato bolognese, Leonida Casali, di profonda convinzione comunista, che il Partito non solo obbligava a prestare la sua attività professionale pressoché gratuitamente, ma costringeva anche a soggiornare a in una modestissima pensione. Era in perfetta buona fede, come si usa dire, emulo, insomma, del cavallo Gondrano de “La fattoria degli animali”, che ubbidiva agli ordini del porco “Napoleon” e moriva portando pesi. [...] Quella sera, Perroux ed io uscimmo con quel difensore e lo invitammo a cena con noi. Finita la cena, ci ringraziò moltissimo e, prima del commiato, Perroux gli chiese, in via confidenziale, se non sentisse vergogna per le deposizioni ignobili dei testi da lui stesso indotti, che avevano cercato di infangare la memoria di una donna barbaramente violentata. Casali ammise, quasi piangendo, che quei testi facevano schifo anche a lui, ma aggiunse che considerava necessaria quella condotta processuale «nell’interesse del Partito»40.

41 Attendibile o meno, questo ricordo mette in luce la profonda convinzione che animava l’avvocato Casali, particolarmente dedito alla sua missione e pone in evidenza l’incrollabile fede che riponeva nella causa del suo partito; il caso testé esaminato costituisce un esempio perfetto. Anche di fronte al barbaro assassinio di un giovane ragazzo dovevano prevalere gli interessi di partito, da qui la decisione di far cadere ogni accusa contro i due partigiani giustificati, secondo la difesa, dalle difficili condizioni esistenti in quel particolare periodo storico, che, di fatto, mettevano gli uomini di fronte a scelte discutibili ma inevitabili.

NOTE

1. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 108, f. 61. 2. Una breve biografia di Rolando Rivi è presente nel sito, a lui dedicato, http:// www.rolandorivi.eu/ e nel volume RISSO, Paolo, Rolando Rivi, un ragazzo per Gesù, Padova, Edizioni del Noce, 2004. 3. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 108, f. 61. 4. Ibidem. 5. Ibidem. 6. Ibidem. 7. Ibidem. 8. Ibidem. 9. Ibidem.

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10. Ibidem. 11. Ibidem. 12. Ibidem. 13. Ibidem. 14. «Dal Triangolo della morte. Partigiani di Reggio Emilia imputati dell’uccisione di un seminarista», in Il Tirreno, 9 gennaio 1951, p. 4. 15. Ibidem. 16. «L’uccisione di un quattordicenne rievocata in Assise», in Il Tirreno, 10 gennaio 1951, p. 4. 17. Ibidem. 18. Ibidem. 19. «Il dibattito in assise per l’uccisione di un seminarista. Drammatico e serrato confronto tra il parroco e il comandante partigiano», in Il Tirreno, 11 gennaio 1951, p. 4. 20. Ibidem. 21. Ibidem. 22. Ibidem. 23. «Il P.G richiede 27 anni per i responsabili dell’uccisione del seminarista. Un’arringa di due ore dell’avvocato di Parte Civile», in Il Tirreno, 12 gennaio 1951, p. 4. 24. Ibidem. 25. «23 anni ai due responsabili dell’uccisione del seminarista i condannati godranno del condono di 16 anni e 4 mesi», in Il Tirreno, 13 gennaio 1951, p. 4. 26. TURRINI, Davide, «Mostra sul beato Rivi, ucciso dai partigiani. Scuola nega visita: “Infanga Resistenza”», in Il fatto quotidiano, URL: [consultato il 3 giugno 2014]. 27. «Il Papa ricorda Rivi Beato», URL: [consultato il 3 giugno 2014]. 28. Ibidem. 29. BERETTA, Roberto, Storia dei preti uccisi dai partigiani, Milano, Piemme, 2005. 30. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.108, f.61. 31. URL: [consultato il 23 agosto 2014]. 32. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.108, f.61. 33. «23 anni ai due responsabili dell’uccisione del seminarista i condannati godranno del condono di 16 anni e 4 mesi», in Il Tirreno, 13 gennaio 1951, p. 4. 34. Ibidem. 35. Ibidem. 36. Ibidem. 37. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.108, f. 61. 38. Ibidem. 39. Ibidem. 40. Questo testo, che raccoglie le memorie dell’avvocato Odoardo Ascari, è contenuto nel sito URL: [consultato il 3 giugno 2014].

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RIASSUNTI

Il lavoro si propone di analizzare il ruolo e le caratteristiche dell’avvocatura militante del legale bolognese Leonida Casali, esponente di spicco sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato di Solidarietà Democratica nel secondo dopoguerra. Attraverso lo studio di vari casi particolari, quali i processi contro ex partigiani e militanti politici, si è puntato a far emergere l’intrinseca politicità dell’operato dell’avvocato, mostrandone, da una parte l’autorevolezza e l’autonomia operativa, dall’altra lo stretto rapporto che lo legava al PCI e al CSD. Tali aspetti permettono di delineare la figura dell’avvocato Casali come un unicum nel panorama della giustizia italiana dell’immediato dopoguerra.

This paper aims to analyze the role and the pattern of the militant lawyering of Leonida Casali, one of the leading members of Bologna section of the Italian Communist Party and of the Democratic Solidarity Committee during the postwar period. By construing some specifical cases, as the trials against partisans and political activists, the focus has been pointed on demonstrating the intrinsic political nature of Casali’s behavior, showing on the one hand his mastership and the operational independence, on the other the strict relationship he had with the Communist Party and the Democratic Solidarity Committee. These issues allow to trace Casali’s role as a unique in the panorama of Italian justice immediately after the Second World War.

INDICE

Keywords : civil war, Italian Communist Party, Leonida Casali, partisans, resistence Parole chiave : guerra civile, Leonida Casali, partigiani, PCI, resistenza

AUTORE

GIANLUIGI BRIGUGLIO

Ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Messina con una tesi intitolata Cesare Mori e la campagna antimafia del fascismo. Attualmente è iscritto al corso di laurea magistrale in Scienze Storiche dell’Università di Bologna.

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L’attentato di Ceretolo

Nicola Caroli

1 Così si esprime il Segretario Comunale di Casalecchio di Reno Giorgio Archetti in una lettera rivolta a Luciano Guastaroba in merito all’appoggio che il consiglio comunale vuole dare alla famiglia di Angelo Piazzi e a tutti gli accusati dell’attentato di Ceretolo. Un processo che non si consuma semplicemente nelle aule di un tribunale ma, come emerge dalla lettera, diventa un’arma politica brandita dai vari partiti italiani per mettere in difficoltà lo schieramento ideologicamente avverso.

2 Il 19 giugno 1951 la Corte di Assise di Brescia si pronuncia sulla causa penale intentata contro Angelo Piazzi e altri esponenti comunisti della zona di Bologna2 accusati di aver fatto esplodere un ordigno il 20 settembre 1947 di fronte alla canonica di Ceretolo, causando la morte del tredicenne Cesarino Degli Esposti e il ferimento del parroco Don Geurrino Ghelfi e del giovane Roberto Tassinari. L’attentato naturalmente ebbe una grandissima eco mediatica, in particolare sulla carta stampata, oltre che per la tragicità dell’avvenimento anche per la presenza di un accusato che rivestiva importanti ruoli pubblici. La ricostruzione dei fatti del dibattimento del processo di Appello di Brescia ci offre la possibilità di segnalare alcuni importanti momenti della carriera politica di Angelo Piazzi. Già durante la guerra, da partigiano e combattente antifascista, fu chiamato a reggere la segreteria dopo le dimissioni del segretario del Comitato di Liberazione Nazionale, ma sarà dopo il 1945 che gli eventi tragici che porteranno l’Italia sulla soglia della guerra civile permetteranno a Piazzi di essere riconosciuto come una delle personalità più stimate del mondo comunista emiliano.

3 Un momento spartiacque nella storia della giovane repubblica italiana è l’attentato a Palmiro Togliatti del 14 luglio 1948, due mesi dopo le elezioni dell’aprile 1948 che aveva infiammato la vita politica italiana. Poche ore dopo il ferimento del Segretario del Pci scoppiano in varie parti d’Italia decine di manifestazioni che, degenerando in molti casi

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in scontri con le forze dell’ordine, causano decine di morti e feriti e migliaia di arresti. Tra gli arrestati c’è lo stesso Angelo Piazzi benché rilasciato dopo pochi giorni. Dal 1948 diventa segretario della Camera del Lavoro e, dopo la fine del processo, sindaco di Casalecchio di Reno dal 1956 al 1962. Oltre a Angelo Piazzi tra gli accusati con ruoli politici ricordiamo Albertino Masetti e Andrea Bentini dirigenti del Pci locale e una serie di ex combattenti e partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale: Ubaldo Gardi, Angelo Piazzi, Giorgio Finelli, Celestino Cassoli e Novello Landi.

4 L’attentato, che qui viene ricostruito dalla sentenza dei giudici della Corte di Appello di Brescia, permette di evidenziare il livello di tensione e di conflittualità presente nell’Emilia subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Le carte della sentenza mettono in luce come la paura dei rossi fosse un sentimento presente anche tra la semplice popolazione del luogo oltre che nelle stanze del potere romane. Difatti fin da subito le attenzioni e i sospetti sono rivolti verso i comunisti di Ceretolo; la madre dell’ucciso individua nelle «bandiere rosse»3 i responsabili dell’omicidio mentre la sezione di Casalecchio di Reno della Camera Confederale del Lavoro pubblica un manifesto in cui riconosce la responsabilità dell’attentato nella «mano fascista»4, nonostante l’Arma dei Carabinieri «metteva in risalto la carenza di qualsiasi elemento per attribuire il gesto dinamitardo a movente politico poiché nessuna lagnanza poteva muoversi su quel terreno al parroco il quale durante il suo soggiorno a Ceretolo non si era occupato di politica ed era in paese benvoluto da tutti»5. Risulta a questo riguardo di grande interesse la lettura dei rapporti dei CC. di Bologna in cui si descrivono le varie personalità accusate dell’atto delittuoso; queste attivisti o simpatizzanti del PCI vengono chiamati «fanatici propagandisti», «elementi pericolosi per l’attuale ordinamento democratico»; «elementi capaci di azioni delittuose. Eseguono senza discussione e senza scrupoli gli ordini del loro partito»6. Da ciò emerge un clima sicuramente surriscaldato e di reciproca incomprensione e ignoranza. Infatti la vicenda si colora ben presto di fosche tinte di lotta politica in un’Italia ancora segnata dagli odi generati dalla Seconda Guerra Mondiale e dalla difficile transizione verso una normale vita democratica e repubblicana. Nell’Emilia dell’epoca dominava la paura dei comunisti che durante i comizi si scagliavano contro i preti, i carabinieri e la polizia; le voci si rincorrevano ma erano concordi nel ricercare i colpevoli tra le bandiere rosse7. La paura dei rossi cresce nell’Emilia degli anni Quaranta, da quando l’unità antifascista si è ormai definitivamente sfaldata dopo la vittoria della Seconda Guerra Mondiale. In Italia segue un periodo in cui si susseguono una serie di governi centristi con le sinistre escluse da compiti di governo a causa delle pressioni degli USA che non avrebbero accettato un forte partito comunista al governo in Italia e la spaccatura del PSI dopo la fuoriuscita di Saragat evidenzia come l’attrazione dell’Occidente fosse molto forte anche nella sinistra italiana.

5 La violenza la fa da padrona nell’Italia centrale e settentrionale, ed è tendenza della storiografia affermare che era una violenza perpetrata dagli stessi comunisti o simpatizzanti di sinistra che si scontravano con coloro che venivano identificati come fascisti. Il “triangolo della morte”, come giornalisticamente è stata chiamata una zona della provincia di Bologna in cui si registrarono un gran numero di omicidi politici, è l’esempio più famoso di quella sorta di guerra civile che insanguinò l’Italia a partire dall’armistizio dell’8 settembre 1943 fino al 1949, ed è in questo contesto che si svolgeranno le indagini e una parte del processo.

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6 Sarà solamente tra l’aprile e il maggio del 1948, in concomitanza con le elezioni politiche, che cominceranno a uscire i primi nomi di uomini molto vicini agli ambienti comunisti di Ceretolo accusati dell’attentato, tra questi Giuseppe Finelli e Giovanni Seidenari; quest’ultimo viene indicato da Don Ghelfi nel maggio 1948 come l’autore di alcune lettere minatorie recapitate durante il maggio del 1946 al Cardinale di Bologna per farlo desistere dal trasferire a Ceretolo il nuovo parroco, definito in queste missive «reazionario e fascista»8. Da alcune anomalie riscontrate nelle lettere si era riusciti a identificare la macchina da scrivere sovente utilizzata dalla sezione del Partito Comunista di Casalecchio e il segretario Angelo Piazzi, ora coinvolto, cerca di chiarire la posizione del partito e la sua estraneità ai fatti.

7 Le indagini delle forze dell’ordine e l’intero processo sono considerati da parte del Partito Comunista un attacco politico e a questo proposito la sentenza ricostruisce il tentativo del Pci locale di avviare un’inchiesta per scovare i veri responsabili dell’attentato. Difatti Albertino Masetti, segretario della Federazione Comunista di Bologna, informa il prefetto Gen.D’Antoni che indagini interne del partito riconoscono nell’ex-repubblichino Aldo Osti, spalleggiato da una donna di nome Bice, come gli autori del delitto9. Seconda la sentenza il tentativo del Pci era di far ricadere la colpa dell’accaduto sui democristiani i quali in questo modo cercavano di colpire i comunisti della zona, ben sapendo che ben presto i primi sospetti sarebbero ricaduti proprio su di loro a causa di quella “paura rossa” di cui abbiamo fatto cenno. Molto bene si prestava la figura di Aldo Osti poiché un suo parente era segretario della Dc ed era descritto in paese come un violento10. Il Maresciallo Gorgone e il Maresciallo Mingarelli, dopo una serie di indagini sul conto di Aldo Osti, mettono in luce la pochezza delle accuse e, attraverso il Sindaco Dozza, viene informato Masetti dei risultati degli accertamenti11. A causa di questi sviluppi Masetti e Bentini vengono denunciati da Aldo Osti con l’accusa di calunnia il 13 aprile 194912.

8 Nel corso del 1949 i Carabinieri riprendono la pista di Antonio Seidenari e dei suoi compagni che erano entrati in contatto con Don Ghelfi e il 6 febbraio 1949 il Giudice Istruttore del Tribunale Penale di Bologna emette il mandato di cattura nei confronti di Angelo Piazzi, Antonio Seidenari, Giuseppe Bolognini e altri cinque uomini accusati di avere agito in concorso al fine di uccidere Don Guerrino e per detenzione di materiale esplosivo13 Giuseppe Bolognini durante il terzo interrogatorio ammette che, durante una riunione della cellula dieci giorni prima dell’esplosione dell’ordigno, si era parlato di possibili attentati contro chiese e sacerdoti che troppo si interessavano di politica e rubavano voti ai partiti di sinistra14 e Angelo Piazzi viene indicato come l’ideatore dell’attentato per mandare un segnale a Don Ghelfi che dal pulpito lanciava messaggi politici sgraditi. Il Congresso della Gioventù Cattolica del 21 settembre, con ciò si spiega la presenza dei due ragazzi che con Don Ghelfi preparavano dei cartelloni per la manifestazione, era una buona occasione per raggiungere questo scopo.

9 Nei mesi successivi si svolgono gli interrogatori degli accusati che in un primo momento ammettono la loro colpevolezza per poi prontamente revocare le confessioni perché estorte dalla Polizia giudiziaria del luogo con la violenza15. Mentre gli ufficiali di Polizia e il Capitano Bianco respingevano ogni accusa16, Seidenari17, Finelli e Collina decidono di ritrattare le deposizioni rese in precedenza. Emblematico è il caso di Giorgio Finelli: viene interrogato in caserma il primo febbraio in cui fa limitate ammissioni, successivamente decide di ritrattare davanti al Giudice Istruttore poiché «non aveva potuto resistere alla fame, alla sete, al freddo, al sonno, alle botte», dopo

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l’interrogatorio viene riportato in caserma e dopo 4 ore di nuovo davanti al Giudice Istruttore dove revoca la ritrattazione e si dichiara colpevole, infine il 4 febbraio viene ricoverato in ospedale per segni di traumi sul corpo ed ecchimosi che non sono da mettere in connessione con fatti convulsivi isterici18. La ritrattazione di Seidenari, invece, avviene quando in cella entra in contatto con Bonfiglioli, accusato dell’omicidio Fanin, che «rimprovera aspramente» Seidenari e Bolognini di fare un danno al partito comunista se non dovessero ritrattare le loro deposizioni19. Solamente Giuseppe Bolognini continua a ammettere le proprie responsabilità e sul suo conto si apre una vicenda controversa in merito al ricovero del 20 settembre 1947 per disturbi mentali in un ospedale psichiatrico. L’accusa sostiene che il ricovero di un «giovane psichicamente anormale» era necessario per sminuire le possibili confessioni nel caso decidesse di tradire i compagni. La sentenza conclude che, poiché il Bolognini è stato utilizzato per un’azione non particolarmente importante e alla presenza degli altri correi, sarebbe stato più semplice non coinvolgere il giovane nell’atto delittuoso20.

10 Pian piano l’intero impianto probatorio dell’accusa viene smantellato, le prove sono considerate non sufficienti e le confessioni degli imputati non attendibili. Il processo si conclude con l’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove e assolve Masetti dall’imputazione di concorso in calunnia perché il fatto non costituisce reato.21

1. La difesa di Casali

11 Il processo viene recepito come un attacco politico e per questa ragione si mette immediatamente in moto la macchina organizzativa del Comitato di Solidarietà Democratica che investe l’avvocato Leonida Casali di Bologna del compito di difendere i comunisti accusati dell’attentato. Difatti appena pochi giorni dopo l’attentato lo zio di Giuseppe Bolognini, Aldo, affida la difesa del nipote a Casali22. Che il processo sia ormai diventato un processo politico è chiaro fin dalle prime battute e Casali lo afferma a chiare lettere in una breve memoria del 31 Marzo 1950 scritta pochi giorni dopo l’uscita della requisitoria del Pubblico Ministero. Afferma l’Avvocato del Pci: «Questo processo è purtroppo il risultato di una artificiosa macchinazione avente come obiettivo essenziale lo scopo di colpire i comunisti più in vista della zona di Casalecchio e di Ceretolo e con essi il Partito Comunista, onde potere fomentare quella campagna anticomunista che il partito al potere sta conducendo con sempre più ampi sviluppi dal 1948»23. Un governo centrale che suole sfruttare gli organi di polizia, «fedeli discepoli di Scelba»24 per colpire gli otto di Ceretolo e quindi di riflesso anche il Partito Comunista Italiano.

12 Secondo Leonida Casali il potere giudiziario, fin quando è legato a doppio filo con l’esecutivo e con un governo di parte, non potrà che incolpare, quando le condizioni lo permettono, dei comunisti innocenti per favorire gli interessi del partito al potere. Nel caso specifico l’avvocato Casali mostra come le confessioni fossero state estorte con la violenza e sia stato sfruttato un «demente» come Giuseppe Bolognini per avvalorare le tesi dell’accusa.

13 Giuseppe Bolognini sembra quindi essere l’elemento di disturbo di tutto l’impianto difensivo e perciò si cerca di spezzare i possibili collegamenti tra lui e l’ambiente comunista definendolo semplicemente un «non comunista» e quindi non conosciuto dal partito e dall’ambiente.

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Noi che conosciamo gli imputati del reato più grave (a esclusione del Bolognini che non è mai stato comunista) e che sappiamo come essi fossero elementi attivi e strettamente aderenti alla linea ideologica del Pci, siamo certi che essi mai avrebbero potuto nemmeno pensare a porre in esecuzione un atto terroristico come quello di cui si tratta25.

14 L’essere comunista equivale a essere innocente dal punto di vista penale perché il tutto è stato ordito dal potere centrale nemico della causa comunista; prima che processuale la difesa è organizzata politicamente in quanto bisogna rispondere a un processo che, per i comunisti, è politico.

15 In questo senso risulta importante quello che succede tra l’aprile e il giugno 1950; in questi mesi Ubaldo Gardi, Angelo Piazzi, Giorgio Finelli, Celestino Cassoli e Novello Landi vengono riconosciuti «Partigiani Combattenti» dalla Commissione regionale per il riconoscimento delle qualifiche di partigiani26. Su queste qualifiche, ed in particolar modo sulla carta stampata, si poteva costruire un impianto retorico27 tale che la possibile condanna non riguardava dei semplici cittadini ma dei partigiani che avevano lottato sul campo per la costruzione di un’Italia antifascista28.

16 La stampa quotidiana legata agli ambienti comunisti seguì con grande partecipazione lo sviluppo del processo, giornalmente scrivevano pezzi aggiornando l’opinione pubblica dell’andamento delle udienze ed infine accogliendo con grande sollievo la notizia dell’assoluzione degli imputati. L’avvocato Casali, in un articolo apparso su «La Lotta» definisce il processo una delle più grandi macchinazioni mai organizzate contro il Pci e come un «prodotto di quella pratica di anticomunismo idiota e criminale con il quale si cerca di dividere il popolo italiano»29.

17 L’attività della difesa comincia immediatamente dopo l’arresto degli imputati. L’avvocato Casali, difensore di fiducia, in data 27 gennaio 1949 richiede in via immediata la scarcerazione o in via subordinata la liberà provvisoria di Giuseppe Bolognini. Giovanni Seidenari, Giorgio Finelli e Baleotti Stefano. L’istanza viene rigettata dal Giudice Istruttore il 15 febbraio 1949.

18 Dai resoconti del dibattimento che comincia il 14 maggio 1951 si legge la divisione da parte degli avvocati della difesa degli imputati nel processo di appello di Brescia.30 L’avvocato Casali difende Angelo Piazzi, Celestino Cassoli, Albertino Masetti e Andrea Bentini, l’avvocato Quaglia difende Novello Landi e Ubaldo Gardi; l’avvocato Alberini difende Giuseppe Bolognini, Giuseppe Collina e Alfredo Busi. E’ possibile ravvisare una preferenza accordata all’avvocato Casali per gli imputati con ruoli politici importanti nel bolognese; ricordiamo che Angelo Piazzi è il presidente della Camera del Lavoro di Casalecchio di Reno, Masetti e Bentini dirigenti del Pci locale e Celestino Cassoli ex combattente e partigiano durante la Seconda guerra mondiale.

19 Alcune lettere spedite a Casali da Giuseppe Ferrandi e dall’avvocato Quaglia forniscono informazioni importanti sul funzionamento del Comitato e sull’organizzazione del gruppo degli avvocati.

20 Chi sia a decidere gli avvocati per le varie cause è evidente in una corrispondenza tra l’On. Giuseppe Ferrandi e Casali in cui il primo afferma: «Ho scritto al Generale Zani e scrivo a te perché provvediate a tempo a assicurare un difensore in mia vece»31. Il Generale Francesco Zani è il presidente del Comitato di Solidarietà Democratica}. Leonida Casali ha quindi un ruolo attivo nello smistamento degli avvocati e la corrispondenza con l’avvocato socialista Ferrandi dimostra, come già affermato

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nell’introduzione, che il Comitato ha al proprio interno avvocati appartenenti al mondo della sinistra e non solo al Partito Comunista.

21 Principalmente la linea difensiva scelta da Casali si basava sulla denuncia delle violenze del Capitano Bianco per smontare le confessioni rese in caserma. Difatti Antonio Seidenari, Giorgio Finelli, Giuseppe Bolognini, Giuseppe Collina e Novello Landi raccontano i primi istanti dopo l’arresto e tutti esordiscono con la descrizione delle intimidazioni, delle violenze e delle torture subite dai carabinieri. Raccontano che gli interrogatori avvenivano generalmente di notte, erano rinchiusi in piccole stanze, digiuni per svariati giorni e spesso costretti a rimanere diverse ore in piedi.32 Le violenze subite spiegano le confessioni rese dagli imputati ormai sfiniti fisicamente.

22 Casali affronta la questione di Giuseppe Bolognini, che come abbiamo visto è il soggetto più lontano dal Pci e anche il soggetto più instabile, in una lettera indirizzata all’avvocato Alberini nella quale consiglia quella che secondo lui è la linea difensiva migliore da perseguire. In una lettera del 7 marzo 1951 Casali afferma che non è il caso di insistere sull’infermità totale del Bolognini perché quando è lucido mentalmente respinge le accuse e si discolpa affermando che le sue dichiarazioni gli sono state estorte. Ma non tutti gli avvocati sono d’accordo con questa strategia difensiva e difatti, una volta informato della faccenda, l’avvocato Quaglia spedisce una lettera a Casali in cui spiega il suo punto di vista sulla gestione del caso Bolognini e indirettamente ci fornisce delle informazioni sull’organizzazione di questo gruppo di avvocati del Pci; afferma Quaglia: «Per me, se fin da principio avessi avuto la causa, sarebbe sembrata cosa giusta abbandonare il Bolognini a un suo difensore, e sostenerne la totale infermità [...] Ci vedremo a Brescia e sentirò da lei quali sono le direttive da seguire»33. Da queste poche parole è possibile fare due ipotesi: o Casali, personalmente e autonomamente, decideva la linea difensiva da seguire oppure era un tramite tra il Comitato di Solidarietà Democratica, da cui partivano le direttive, e il gruppo degli avvocati militanti.

23 Dalle carte d’archivio che è stato possibile consultare, ed in particolare dalle corrispondenze tra gli avvocati e tra gli imputati e i loro difensori, emerge come Casali, essendo una personalità importantissima nell’ambiente emiliano e oltre a essere considerato quasi come un padre dagli uomini sotto processo, assuma indubbiamente un ruolo di guida all’interno del collegio di difesa e si può ipotizzare che la gestione della difesa sia un compito dell’avvocato bolognese. Il Comitato di Solidarietà Democratica ha quindi un ruolo di organizzazione del gruppo degli avvocati, di fornitura di un’assistenza legale gratuita degli imputati e di supporto delle famiglie. È evidente che il ruolo più importante che il Comitato riveste è quello di essere in prima linea nel denunciare la natura politica dei processi voluti ed organizzati dal mondo borghese reazionario e fascista per frenare l’avanzata delle sinistre e miranti a demonizzare il nemico e a creare disaffezione e paura nell’opinione pubblica. Questa difesa politica risulta essere efficace se anche gli avvocati sono capaci di imbastire una “difesa militante” facendo ricorso a quell’armamentario retorico che è ben presente a esempio nella memoria di Casali prima citata. La difesa di questi uomini aderenti ai partiti delle sinistre o comunque di simpatizzanti è un’operazione importante per i socialisti e comunisti che avevano il sentore in quei mesi dopo il 1945 di essere pian piano messi ai margini della vita politica del paese, sempre più schiacciati dall’emergere anche in Italia di partiti e governi filo-occidentali e filo-americani.

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NOTE

2. Gli accusati sono: Piazzi Angelo, Seidenari Antonio, Bolognini Giuseppe, Finelli Giorgio, Collina Giuseppe, Landi Novello, Cassoli Celestino, Gardi Ubaldo, Busi Alfredo, Bolognini Aldo, Masetti Albertino, Bentini Andrea, Falzoni Antonio. I primi nove accusati della preparazione e attuazione dell’attentato e i restanti di reati connessi e collaterali all’atto delittuoso.“Sentenza della Corte di Assise di Brescia”, ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 1. 3. Mafalda Sartori afferma: «Ripetei allora la frase della sera precedente, perché il mio sangue così mi suggeriva e pensavo che all’infuori di quelli nessuno poteva essere stato» in Corte di Assise di Brescia Verbale di costituzione definitiva della Corte d’Assise e successivo dibattimento, Sesta Udienza; ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.95, f.5, p.4. Da queste poche parole della madre del bambino ucciso si evince il grado di paura che porta, in seguito a un attentato di tal genere, a far ricadere i primi sospetti sui comunisti della zona. 4. Tribunale di Bologna Volume V, Fascicolo e Documenti, ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 5, p. 6. 5. Sentenza della Corte di Assise di Brescia, ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 1, p. 4. 6. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 8, pp. 23-26. 7. Il maresciallo Carmelo Giorgione, nella sua deposizione durante il dibattimento, ricorda come le indagini fossero frenate dalla paura che regnava nella zona e tra la popolazione locale. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 5, Decima Udienza p. 26. 8. ISPER; Fondo Casali; Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 5. 9. Benché nella sentenza si parli di una vera e propria indagine interna, nel memoriale di Casali si afferma che, dopo l’arrivo di alcune lettere anonime presso la sede del Pci in cui si indicava Aldo Osti responsabile dell’attentato, sia Masetti che Bentini non potevano sapere se costui fosse o meno colpevole ma avevano ottemperato ai loro obblighi informando il Prefetto delle lettere. Ben diversa risulta l’analisi del Capitano Bianco che afferma: «Alla strategia delle risultanze si può senz’altro affermare che con la presentazione dello appunto [...] gli esponenti comunisti locali altro scopo non si siano prefissi di raggiungere all’infuori di quello tendente a fuorviare le indagini addossando deliberatamente a altri quelle responsabilità che col volgere del tempo è invece emersa chiara nei riguardi di loro seguaci». ISPER; Fondo Casali; Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 8, pp. 13-14. 10. Sentenza della Corte di Assise di Brescia, ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 1, p. 70. 11. Ibidem, pp. 10-11. 12. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 8, p. 4. 13. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 3. 14. Sentenza della Corte di Assise di Brescia, ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 1, pp. 15-16. 15. Ibidem, p.35. 16. Ibidem, p.70. 17. In una relazione sulla modalità del suo arresto racconta dei giorni di abusi e violenze subite dalla polizia e dal Cap. Bianco. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 7. 18. Sentenza della Corte di Assise di Brescia, ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.95, f.1, p.105. 19. Ibidem,p. 105. 20. Ibidem,p. 97. 21. Ibidem,p. 130. 22. Lettera redatta a macchina da Bolognini Aldo indirizzata a Leonida Casali. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.95, f.7.

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23. «Avanti la sezione istruttoria presso la corte di Appello di Bologna, breve memoria» ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 4, pp. 1-2. 24. «Il verdetto della Corte d’Assise di Brescia ha bollato gli autori dell’infame congiura», in La Lotta, 22 giugno 1951. 25. Avanti la sezione istruttoria presso la corte di Appello di Bologna, breve memoria. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 4, p. 5. 26. Presidenza del Consiglio dei Ministri - Commissione regionale riconoscimento qualifiche partigiani Emilia e Romagna. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 6. 27. A questo proposito è sufficiente sfogliare quotidiani come «l’Unità» per notare questo intento retorico negli articoli che si interessavano dei processi contro uomini del PCI. 28. Angelo Piazzi, Celestino Cassoli e Novello Landi fecero parte della 63esima Brigata Bolero della quale Brigata Casali era Maggiore. 29. ISPER; Fondo Casali; Sez. 2, Sett. 2, b. 94, f. 8. 30. Corte di Assise di Brescia Verbale di costituzione definitiva della Corte d’Assise e successivo dibattimento. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 5, p. 3. 31. Lettera di Giuseppe Ferrandi a Leonida Casali del 20 aprile 1951 in cui informa che, a causa di impegni di campagna elettorale, non potrà rivestire il ruolo di avvocato difensore nel processo di Ceretolo. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 9. 32. Corte di Assise di Brescia Verbale di costituzione definitiva della Corte d’Assise e successivo dibattimento. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 5, pp. 6-50. 33. Lettera dell’Avvocato Quaglia a Leonida Casali. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 95, f. 9.

RIASSUNTI

Il lavoro si propone di analizzare il ruolo e le caratteristiche dell’avvocatura militante del legale bolognese Leonida Casali, esponente di spicco sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato di Solidarietà Democratica nel secondo dopoguerra. Attraverso lo studio di vari casi particolari, quali i processi contro ex partigiani e militanti politici, si è puntato a far emergere l’intrinseca politicità dell’operato dell’avvocato, mostrandone, da una parte l’autorevolezza e l’autonomia operativa, dall’altra lo stretto rapporto che lo legava al PCI e al CSD. Tali aspetti permettono di delineare la figura dell’avvocato Casali come un unicum nel panorama della giustizia italiana dell’immediato dopoguerra.

This paper aims to analyze the role and the pattern of the militant lawyering of Leonida Casali, one of the leading members of Bologna section of the Italian Communist Party and of the Democratic Solidarity Committee during the postwar period. By construing some specifical cases, as the trials against partisans and political activists, the focus has been pointed on demonstrating the intrinsic political nature of Casali’s behavior, showing on the one hand his mastership and the operational independence, on the other the strict relationship he had with the Communist Party and the Democratic Solidarity Committee. These issues allow to trace Casali’s role as a unique in the panorama of Italian justice immediately after the Second World War.

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INDICE

Keywords : civil war, Italian Communist Party, Leonida Casali, partisans, resistence Parole chiave : guerra civile, Leonida Casali, partigiani, PCI, resistenza

AUTORE

NICOLA CAROLI

Ha conseguito la laurea triennale in Scienze Storiche e Sociali presso l’Università degli Studi di Bari con una tesi dal titolo La discussione parlamentare sull’adesione italiana al Sistema Monetario Europeo nel 1978. Frequenta il corso di laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Bologna e il secondo anno del corso di laurea presso l’Universität Bielefeld.

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Il delitto di Roncosaglia

Simeone Del Prete

1 Il cosiddetto delitto di Roncoscaglia rappresentò uno dei numerosi casi in cui l’avvocato Casali prestò la propria opera in difesa di un ex partigiano. Tale caso risulta però assai rilevante poiché ebbe un grandissimo clamore nell’opinione pubblica e nella lotta politica tra Dc e Pci, tanto da rappresentare quasi un unicum per intensità nel panorama del dopoguerra italiano. Di tale delitto, ossia dell’omicidio di un’anziana signora, furono incolpati sei ex combattenti partigiani, i quali, dal momento che non sussistevano prove concrete della loro colpevolezza, furono costretti dalla violenza delle forze di polizia a rendere confessioni nelle quali ammettevano di aver ordito e eseguito il delitto. Tale situazione, dunque, rappresentò una grande battaglia politica fatta di discreditamento e di propaganda, dalla quale Casali ed il suo assistito uscirono vincitori.

2 La mattina del 25 gennaio 1948, la sedicenne Pia Pini, recatasi, come di consueto, presso la casa di Maria Zanarini, presso la quale prestava servizio come massaia, trovò la porta della casa aperta, vide una pozza di sangue vicino alla soglia ed, affacciatasi, scorse all’interno della cucina, disteso per terra il corpo senza vita della signora Zanarini. Spaventata, la giovane corse nella propria abitazione e riferì al padre Primitivo ed ai fratelli Alberto, Mauro e Remigio ciò che aveva visto. I tre si recarono immediatamente al comando dei carabinieri di Roncoscaglia per denunciare l’accaduto.

3 I carabinieri della vicina stazione di Sestola, venuti, grazie ad una telefonata anonima, a conoscenza di un cadavere rinvenuto nella frazione di Roncoscaglia, si recarono immediatamente sul luogo, dove poterono appurare che il cadavere presentava lesioni alla testa, al petto e alla gola apportate probabilmente attraverso un oggetto contundente, ipotizzando come dinamica dell’assassinio una colluttazione seguente ad un tentativo di rapina, dal momento che nella casa risultava evidente uno stato di

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soqquadro generale, anche se sul corpo della Zanarini non erano ravvisabili segni di lotta1.

4 Durante l’interrogatorio a Pia Pini, che intanto era stata trattenuta presso il comando di Roncoscaglia per ulteriori accertamenti, emerse il fatto che i tre fratelli della giovane erano rientrati in casa molto tardi la sera del delitto, approssimativamente intorno alle due del mattino e che quindi sicuramente non si trovavano in casa all’orario dell’omicidio, ipotizzato dagli inquirenti intorno alle nove, come in principio aveva asserito Pia. Poiché la voce pubblica, che descriveva i tre fratelli come esaltati ex combattenti, accusava del delitto i fratelli della Pini e poiché questa, interrogata circa il modo in cui i propri fratelli avessero trascorso la notte del 24 gennaio e circa l’ora del loro rientro in casa, aveva fornito dati incongruenti e contraddittori, i carabinieri ritennero di procedere alla perquisizione dell’abitazione della famiglia Pini. Durante la stessa vennero così sequestrati un paio di pantaloni di tela sui quali vennero notate delle macchie aventi caratteristiche simili a quelle di sangue, indumento che i componenti della famiglia Pini concordemente dichiararono appartenere al loro congiunto Alberto2.

5 Dato che i sospetti già gravanti su costui e sui suoi fratelli Remigio e Mauro venivano rafforzati dal sequestro del suddetto indumento, i carabinieri procedettero al fermo dei tre indiziati, onde svolgere più accurate indagini dirette ad accertare la fondatezza o meno degli elementi di accusa a loro carico. Tutti e tre i fermati, interrogati si professavano estranei al delitto, fornendo particolareggiate indicazioni sul modo in cui avevano trascorso la sera del 24 gennaio, che trovavano conferma negli accertamenti eseguiti dagli inquirenti3.

6 Intanto, l’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Bologna, cui erano stati rimessi per i dovuti accertamenti tecnici i pantaloni sequestrati in casa Pini, in una nota del 17 febbraio 1948 informava che le macchie esistenti sull’indumento sequestrato dovevano «con tutta probabilità non essere riconducibili a sangue umano»4. Venuto così a mancare anche l’ultimo elemento di sospetto giustificante il fermo dei tre fratelli Pini, con provvedimento in data 26 febbraio 1948 del Pretore di Pavullo, veniva ordinata la loro scarcerazione. Così si concludeva la prima fase delle indagini di polizia.

7 Senonché i carabinieri della squadra giudiziaria del gruppo di Modena, in data 9 marzo 1949 nell’ambito di nuove indagini condotte nella zona di Montecreto e Sestola, dichiararono5 di essere riusciti ad identificare i responsabili dell’omicidio Zanarini, riferendo che essi, interrogati, avevano finito con il confessare la loro partecipazione all’omicidio, fornendo ampi particolari in ordine all’organizzazione ed all’esecuzione del delitto. In base a tale denuncia, il procuratore della Repubblica di Modena procedette contro sei ex partigiani, tra i quali spiccavano i nomi di due dei fratelli Pini, Mauro e Alberto. Oltre ai due fratelli Pini furono arrestati anche Gino Bonaccorsi, Silvio Fiocchi, Mario Covili, Francesco Santini e Eraldo Querciagrossa, tutti ex combattenti in formazioni partigiane legate al Partito Comunista Italiano. Solo l’ultimo di questi fu difeso in giudizio dall’avvocato Casali, che però, come si vedrà in seguito, riuscì a dimostrare la mendacità delle presunte ammissioni di colpa, riuscendo a scagionare tutti gli imputati.

8 Stando al rapporto dei carabinieri6, infatti, tutti gli indagati si erano resi rei confessi ammettendo di aver ordito e organizzato l’omicidio a scopo di rapina a danno della signora Zanarini; in particolare secondo le deposizioni attribuite a Pini Mauro la banda, scorgendo la possibilità di arricchirsi procurandosi illegalmente il denaro della

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danarosa signora, ne avrebbero orchestrata e realizzata l’uccisione. Nella stessa deposizione però, stando sempre al rapporto dei carabinieri, lo stesso avrebbe confessato di aver agito più per motivi ideologici che per scopo di rapina, dato che la danarosa signora Zanarini era la padrona della sorella e che tale atto avesse come movente la lotta di classe.

9 Tali confessioni, secondo le dichiarazioni successivamente rilasciate dagli indagati, però, furono estorte con la violenza da parte dei carabinieri che le ottennero soltanto torturando e seviziando ripetutamente gli imputati con calci, pugni, manganellate e attraverso la privazione del sonno. Gli imputati dichiararono inoltre di essere stati legati ad un tavolinetto e poi fatti oggetto di bastonate e scudisciate, oltre che di avere subito umiliazioni quali l’essere stati costretti al bere urina7.

10 Infatti, nel corso degli interrogatori successivi all’arresto8, Mauro Pini smentì categoricamente quanto dichiarato in precedenza e rivelò di aver sottoscritto un verbale già redatto dai carabinieri a causa delle minacce e delle percosse infertegli dagli stessi ufficiali, asserendo la sua completa estraneità al delitto. Tale estraneità fu inoltre corroborata da un alibi che fu comprovato: egli dichiarò di essersi trattenuto fino alle 23 a casa sua, per poi trasferirsi a casa di un amico dove avrebbe trascorso le ore mancanti al suo rientro a casa. Anche gli altri cinque negarono qualsiasi partecipazione al fatto, dichiarando di essere stati costretti a firmare le dichiarazione ed ammettere così la loro partecipazione al delitto sotto la violenza e la tortura usata nei loro confronti da parte dei carabinieri investigatori9.

11 Interrogati lungamente i verbalizzanti, questi smentirono categoricamente e recisamente ciò che gli imputati avevano affermato nei loro interrogatori e cioè di essere stati da questi sottoposti a misure di rigore, violenze e minacce per confessarsi autori dell’omicidio Zanarini. Essi precisavano che le singole dichiarazioni nei loro particolari erano state loro fornite dagli stessi imputati dopo vari interrogatori, sulla scorta delle notizie che avevano raccolto tra la popolazione e non attraverso minacce o percosse.

12 Onde accertare se le violenze che gli imputati dichiaravano di aver subito ad opera dei verbalizzanti trovassero riscontro con dati obiettivi su di essi evidenziabili, venne disposta una perizia medica10. Nella stessa, sebbene su qualcuno degli imputati fossero stati dal perito rilevati cicatrici ed ematomi, non fu possibile avverarne le cause e l’epoca di produzione, pur non escludendo che potessero avere relazioni con i fatti lamentati dai prevenuti.

13 A completamento di tale laboriosa e complessa istruttoria venivano escussi una seconda volta i verbalizzanti i quali negarono di aver adoperato metodi violenti, confermando che gli indagati avevano senza alcuna forma coercitiva reso le confessioni risultanti dagli interrogatori che avevano sottoscritto.

14 Come esplicitato dal Pubblico Ministero nella requisitoria, dall’esame delle risultanze istruttorie dovette riconoscersi che gli elementi accusatori da questa emersi a carico dei prevenuti, sostanziandosi quasi unicamente, sulle confessioni di colpevolezza, non apparivano sufficienti a legittimare l’esperimento del giudizio, dato che le confessioni che le integrano non solo vennero, in definitiva, ritrattate da tutti gli imputati, ma i fatti che ne formarono oggetto non trovarono riscontro in alcuna emergenza dell’istruttoria che ne potesse convalidare l’attendibilità11.

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Nonostante ciò, la sentenza di primo grado, redatta dal procuratore Baratti, risultava di segno opposto: secondo il procuratore infatti, le confessioni costituivano prove sufficienti a carico di tutti i prevenuti per il loro rinvio al giudizio della Corte d’Assise.

15 Nella sentenza di primo grado, infatti, si adduceva la tesi secondo cui costoro avrebbero cercato di togliere valore alle ampie e particolareggiate confessioni rese che avevano trovato riscontro nelle obiettive risultanze dei fatti con il solito pretesto che esse fossero state estorte con violenza, che nemmeno nella specie sarebbero state limitate a semplici percosse ma si sarebbero concretate in vere e proprie feroci torture, che si ritengono poco plausibili. Anche a voler trascurare la versione negativa opposta dai pretesi seviziatori, l’asserzione degli imputati contrastava anzitutto con la mancanza assoluta di dati obiettivi ricercati non appena l’assenza delle sevizie fu mossa perché il medico delle carceri rilevò lievissime ecchimosi delle quali persino gli stessi indagati si erano disinteressati12. Proprio dopo tale sentenza e in preparazione del passaggio in Corte d’Assise, è verosimilmente presumibile che il Partito Comunista abbia incaricato l’avvocato Casali di difendere uno dei sei imputati, Eraldo Querciagrossa, il quale risultava iscritto e militante del partito.

16 La molto meticolosa difesa dell’avvocato bolognese fu incentrata sulle clamorose incongruenze che emergevano tra le dichiarazioni estorte con la violenza e la verosimiglianza delle stesse e su elementi che ne inficiavano pesantemente la spontaneità. Alla evidente carenza di naturalezza, testimoniata da una mole di particolari che difficilmente potevano essere stati confessati da un colpevole, infatti, si aggiungeva anche un difetto di verosimiglianza di alcuni particolari dei fatti confessati; innanzitutto le narrazioni che i prevenuti avrebbero fatto dell’organizzazione e dell’esecuzione del delitto non risultavano verosimili soprattutto laddove si evidenziava la necessità di correi per attuare il proposito criminoso in danno di una persona anziana che viveva in una casa del tutto isolata. Non è irrilevante per dimostrare l’inverosimiglianza della confessione in esame porre, come fece Leonida Casali, in evidenza l’esagerata sproporzione dell’armamento in possesso dei partecipanti al delitto in rapporto alla limitatissima capacità difensiva della vittima designata13. Ma ciò che più inficia la verosimiglianza delle confessioni è la versione circa la divisione del bottino della rapina tra i compartecipi del delitto, che risultava fortemente sproporzionata, tanto che ad uno dei sei, secondo le confessioni, non sarebbe stata assegnata alcuna parte del bottino14.

17 Proprio grazie allo scrupoloso lavoro di analisi delle confessioni e di confronto tra le stesse e le prove giudiziali, Casali riuscì ad ottenere il proscioglimento per insufficienza di prove di tutti i sei imputati e la loro immediata scarcerazione. La bontà e il successo di tale lavoro sono ravvisabili anche e soprattutto nella sentenza della Corte d’Appello: Vero è che di qualsiasi confessione, giudiziale o stragiudiziale, il giudice può trarre in materia penale elementi per il suo libero convincimento; ma è altresì vero che in ogni caso essa, per acquistare rilevanza probatoria, anche solo indiziaria oltre a non essere invalidata da altri elementi di prova, deve rispondere a quei requisiti di spontaneità, verosimiglianza, determinatezza, precisione ed esplicitezza che di norma ne caratterizzano l’attendibilità, anche se poi ritrattata. A tali requisiti di certo non rispondevano le confessioni in esame: in ordine a queste è anzi da osservare che la loro attendibilità, se non del tutto annullata fu certamente di molto affievolita dalle prove documentali che confermavano gli alibi dedotti dai prevenuti in base ai quali, se non con assoluta certezza, almeno con plausibile probabilità e verosimiglianza, è lecito ritenere che non ci siano prove che la sera del 24 gennaio

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del 1948 gli imputati fossero presenti a Roncoscaglia alla consumazione dell’omicidio della Zanarini15.

1. L’avvocato Casali tra difesa militante e lotta politica

18 Il caso appena preso in esame, relativo alle vicende giudiziarie scaturite dall’omicidio di Maria Zanarini, può considerarsi di interessante rilevanza politica non solo poiché riguardante false accuse mosse nell’immediato dopoguerra ad un gruppo di ex partigiani da parte di carabinieri e magistrati tra loro conniventi, ma anche per il grande risalto che tali vicende ebbero nel dibattito politico contemporaneo esterno ma soprattutto interno al Partito Comunista Italiano. Se da una parte, infatti, tali vicende possono essere ascritte a un novero assai ampio di processi fondati su accuse senza fondamento rivolte a ex partigiani nei primi anni seguenti il secondo conflitto mondiale, dall’altra è innegabile che tale questione abbia rappresentato uno dei perni della strategia denigratoria attuata dal governo democristiano di De Gasperi e di Scelba nei confronti del PCI e della stessa lotta partigiana. Tale strategia trovava facile sponda in una magistratura e in un corpo di polizia, che non avendo subito adeguati processi di epurazione e di rinnovamento, annoveravano tra le loro fila membri che non solo si erano compromessi con il regime fascista, ma che addirittura potevano considerarsi in continuità con lo stesso, essendosi formati ed avendo raggiunto posizioni di vertice proprio nel corso del ventennio fascista16.

19 Non vi è dubbio, infatti, che tale caso, al di là del fatto di cronaca in sé, fosse non solo un chiaro esempio delle tensioni sociali e politiche che, scaturite durante il fascismo, risultavano nell’immediato dopoguerra tutt’altro che sopite, ma anche un premeditato e freddamente calcolato tentativo denigrazione giuridico-politica nei confronti del movimento partigiano ed in particolare della sua frangia più organizzata, quella comunista. L’obiettivo di tale strategia era quello di criminalizzare i comunisti attraverso l’omologazione della conflittualità sociale con la delinquenza comune, mostrandoli all’opinione pubblica, anche grazie allo smodato interesse dei giornali moderati a tali vicende, come delinquenti e agitati intenti a rompere il fragile equilibrio su cui si sorreggeva la neonata Repubblica.

20 In tale caso e, per diretta conseguenza, in tale battaglia, Leonida Casali rivestì un ruolo di primo ordine: oltre ad essere il difensore dell’ex partigiano Eraldo Querciagrossa, egli fu uno dei veri e propri imbastitori del dibattimento politico sulla questione. L’avvocato infatti intrattenne un’articolata e proficua corrispondenza relativa al caso con Mario Ricci 17 e con Umberto Terracini, entrambi parlamentari ed esponenti di rilievo sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato di Solidarietà Democratica, organo atto a difendere le libertà democratiche e a fornire assistenza legale e sostegno materiale agli arrestati per motivi politici e alle loro famiglie, il cui impulso costitutivo, scaturito nella fondazione del comitato dell’agosto del 1948, è da attribuire allo stesso on. Terracini. Ciò che emerge da tale carteggio18, che in seguito sarà analizzato in maniera approfondita, è quella della solida politicità della figura dell’avvocato bolognese: egli non fu soltanto un avvocato di fiducia per la dirigenza locale e nazionale del Pci, ma un autentico compagno in grado di elaborare analisi politiche e strategiche e di influenzare con la sua autorevolezza lo svolgimento di una campagna politica.

21 L’avvocato Casali, dunque, non solo si prese in carico la difesa di uno degli ex partigiani imputati, riuscendo a scagionare tutti gli imputati dalle accuse, ma rivestì anche un

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ruolo fondamentale nell’approccio politico al caso: il disvelare l’artificiosità delle accuse rivolte agli ex partigiani poteva infatti rappresentare un’ulteriore conferma della strategia anticomunista del partito al potere e di conseguenza un’occasione di propaganda politica a favore del Pci. E’ ravvisabile in tale atteggiamento quella che da più parti è stata definitiva la linea del “doppio binario” adoperata dalla difesa: da una parte la difesa militante di Casali fu per ovvi motivi difensiva, dall’altra essa fu offensiva poiché atta a contestare una situazione di malcostume e di repressione nei confronti di ex partigiani che non faceva altro che avvantaggiare il moderatismo della Democrazia Cristiana.19 Significativo appare quindi rilevare come lo sforzo portato avanti da Casali si muovesse da una parte difensivamente per assistere nelle cause gli imputati, dall’altra offensivamente denunciando la tendenziosità dell’azione persecutoria nei confronti degli ex combattenti partigiani, il cui obiettivo non era l’assoluzione degli imputati come scopo in sé compiuto, bensì come affermazione dei valori costituzionali nati proprio grazie alla lotta dei partigiani durante la Resistenza.

22 L’assoluzione degli imputati, dunque, oltre che all’avere salvato da un’ingiusta pena degli innocenti, fu funzionale anche al disvelare come la magistratura del tempo fosse legata a doppio filo al governo targato Dc e di come la comunanza di intenti dei due organi, ossia quella di incolpare comunisti innocenti e di farli passare nell’opinione pubblica come criminali assetati di sangue, fosse atta a screditare il Pci e la Resistenza stessa e a creare dissenso nei confronti di un partito e di un movimento che, con il suo radicamento territoriale, specialmente in Emilia Romagna, e con la radicalità che lo contraddistingueva, poteva insidiare il potere democristiano e l’intero assetto geopolitico dell’Europa occidentale.

23 Per una ricostruzione storica di quale siano stati il ruolo e la rilevanza politica della difesa militante svolta da Leonida Casali nel caso dell’omicidio di Montecreto si è ritenuto necessario riportare ed analizzare il carteggio relativo al caso che l’avvocato intrattenne con l’on. Terracini, che era evidentemente interessato allo stesso per la rilevanza politica di cui si è scritto pocanzi, tant’è che fece pervenire a Casali attraverso l’allora sindaco di Bologna nonché compagno di partito e amico personale del legale, Giuseppe Dozza, una richiesta di visione del materiale relativo al caso. La prima di queste lettere, inviata dall’avvocato al senatore il 4 novembre 1950 riporta quanto segue: Caro Terracini, Dozza mi ha comunicato di spedire a te il materiale relativo al processo contro Querciagrossa ed altri sei, imputati di omicidio a scopo di rapina che sono stati assolti dalla Corte di Assise di Modena con la sentenza del 20 ottobre scorso per non avere commesso il fatto. Detti imputati, sei dei quali partigiani, avevano in sede di polizia rese delle confessioni lunghissime e particolareggiate. […] Tutti gli imputati invece erano completamente estranei al delitto. E’ stata una ignobile e infame montatura di alcuni carabinieri, con l’appoggio e la connivenza di alcuni loro superiori e, con molta probabilità, del giudice istruttore. [...] Per fortuna ho potuto dimostrare l’innocenza del mio difeso e conseguentemente degli altri, […] ponendo in rilievo le insanabili contraddizioni della polizia giudiziaria che partendo da presupposti dimostratisi poi erronei, aveva posto in essere una costruzione del tutto inverosimile e fantastica. Comunque è certo che le confessioni furono unicamente il prodotto della violenza morale e fisica subita dagli imputati e ciò, questa volta, è risultato in modo inoppugnabile. Purtroppo grave responsabilità in ordine a tali fatti, che oramai sono diventati un metodo, risale anche all’autorità giudiziaria inquirente e requirente perché, pur essendo a conoscenza dei continui

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abusi e reati che si commettono da parte della polizia giudiziaria, li copre e li favorisce. […]»20.

24 Tale epistola, una copia conforme della quale fu conservata da Casali nel suo archivio, dimostra innanzitutto una familiarità innegabile tra il mittente ed il ricevente della stessa; infatti, nonostante la lettera fosse indirizzata all’ufficio Senatoriale di Terracini e di conseguenza rappresentasse parte di una corrispondenza ufficiale, il tono risulta tutt’altro che formale; Casali dava del tu al Senatore e non risparmiava giudizi di merito sull’operato delle forze dell’ordine e della magistratura. Tale atteggiamento dimostra in maniera inoppugnabile quanto a Casali fosse riservata una collocazione interna all’organismo dirigenziale del Partito Comunista Italiano tutt’altro che subalterna, cosa che ci si potrebbe aspettare per un avvocato che, seppur godendo della fiducia dell’apparato comunista, non fosse interno alla sua logica. Ciò, ovviamente, non vale per Leonida Casali che, con la sua militanza pluriennale, rappresentava molto di più che un avvocato di cui fidarsi. Egli, infatti, può essere definito sia avvocato del partito, sia avvocato nel partito, in quanto non solo rispettava di buon grado le direttive che gli arrivavano dagli organi dirigenti del Pci, ma aveva voce in capitolo nel delineare le stesse, se non addirittura nell’influenzare la linea politica del partito.

25 Tale peculiarità risulta assai più evidente nella risposta che il Senatore diede a Casali nella lettera dell’8 novembre 1950, in cui viene messa in luce tutta la preponderanza del ruolo di questo ultimo. Proprio per questo si è ritenuto di utilità storica riportare in seguito una parte della stesa. Caro compagno avvocato, […] Mi riprometto di esaminarli attentamente21 perché mai ci è stata data occasione migliore per denunciare clamorosamente l’ignominia dei procedimenti giudiziari abbandonati alla polizia e dei quali la magistratura non fa che ratificare a posteriori le conclusioni, salvo poi che, come nel caso attuale, essa sbatta contro una evidenza validamente sostenuta da agguerriti difensori. Non so tuttavia se non sia meglio che io attenda la sentenza, prima di impostare la battaglia politica. Ti prego di esprimermi il tuo avviso22.

26 Quale sia stata l’indicazione data da Casali a Terracini non è dato di sapere, dal momento che non ci è pervenuta alcuna lettera di risposta alla precedente, ma è ipotizzabile che il responso del primo sia stato appunto quello di ritardare l’imbastimento della battaglia politica a dopo la sentenza, dal momento che il carteggio23, principalmente incentrato sui trasferimenti dei fascicoli del caso riprenderà solo nel 1952 e che le interrogazioni parlamentari presentate dagli onorevoli Terracini e Ricci sono anche esse successive a tale anno. Sempre al 1952 risale anche il processo intentato per vilipendio contro l’organo di stampa «Vie Nuove», rivista legata al PCI e fondata da Luigi Longo nel 1946, a causa della pubblicazione di una vignetta satirica svolgente appunto il tema delle confessioni estorte con la violenza dalla polizia nella fase istruttoria dei processi24.

27 Le ultime righe di tale epistola, con la richiesta da parte di un Senatore della Repubblica a Casali di un consiglio su quale fosse il momento più opportuno per imbastire una battaglia politica, dimostrano ancora una volta quanto il ruolo dell’avvocato non fosse esclusivamente quello di un consulente giuridico, ma anzi avesse ricadute profonde addirittura sulle scelte politiche del gruppo parlamentare del Pci. Su tale ambivalenza dunque si gioca il ruolo dell’avvocatura militante di Casali: da una parte il partito dispone di lui come di un fedele e fidato servitore, dall’altra la sua esperienza da forense, combinata con un impegno politico di primo ordine, che lo portò a rivestire

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incarichi politici a livello locale, lo rende un fine conoscitore degli assetti statali e della strategia politica.

28 La sua adesione al Pci, dunque, appare totale sia a livello ideologico, sia a livello strategico; lo specchio di tale adesione, però, è una rilevanza e un’autorevolezza a lui riconosciuta dalle alte sfere del Partito Comunista Italiano, cosa che colloca l’avvocato Casali in un ruolo che, se non del tutto inedito, fu ben poche volte notato nella storia delle avvocature militanti in Italia. Nella sua persona, dunque, la figura dell’avvocato militante si mescola a quella dell’uomo di partito, mostrandoci la complessità del ruolo di un uomo che ha inequivocabilmente segnato la storia del dopoguerra italiano.

NOTE

1. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 103, f. 25. 2. Ibidem. 3. Ibidem. 4. Nota dell’Istituto di Medicina Legale dell’Università di Bologna. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett. 2, b.103, f. 25. 5. Rapporto della Squadra giudiziaria dei carabinieri di Modena. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett. 2, b. 103, f. 25. 6. Ibidem. 7. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 103, f. 25. 8. Ibidem. 9. Ibidem. 10. Ibidem. 11. Ibidem. 12. Ibidem. 13. Secondo le confessioni dei sei, infatti, gli stessi sarebbero stati dotati di circa una ventina di armi contundenti, tra mazze, bastoni e martelli. Tale numero, probabilmente gonfiato dai membri delle forze dell’ordine proprio per farlo apparire come una prova inconfutabile dell’intenzionalità dell’omicidio, appariva del tutto improbabile, dal momento che ognuno degli indagati avrebbe dovuto sorreggere tre corpi contundenti. 14. Le confessioni estorte con la violenza metterebbero in luce una divisione del bottino del tutto inusuale, dal momento che, secondo le medesime, a Silvio Fiocchi non sarebbe spettato nulla del bottino, disvelando in maniera evidente, se non l’innocenza dello stesso, almeno l’erroneità del movente della rapina. 15. Ibidem. 16. NEPPI MODONA, Guido, La magistratura dalla liberazione agli anni cinquanta, in BARBAGALLO, Francesco, op. cit., pp. 84-85. 17. Nell’unica lettera pervenutaci dell’on. Ricci all’avvocato Casali risulta interessante notare come il primo si fosse firmato come “Comandante Armando”, pseudonimo che lo stesso utilizzava durante le azioni della divisione partigiana di cui era al comando e a cui peraltro aveva dato il nome, la Divisione Modena-Armando, passata alla storia per la fondazione della prima Repubblica Partigiana in Italia, la Repubblica di Montefiorino. L’ipotesi che i due avessero avuto contatti durante l’esperienza resistenziale è avvalorato solo flebilmente dal fatto che i due operassero in

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territori contigui; si ritiene un dato importante da rilevare il fatto che il primo specifichi il proprio pseudonimo al secondo poiché anche egli ex partigiano. 18. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 103, f. 25. 19. Per un’analisi del diritto come strumento offensivo e difensivo si rimanda al lavoro svolto da Liora Israel sul mondo del diritto e delle avvocature militanti soprattutto in Francia e specialmente al volume Le armi del diritto (Milano, Giuffré, 2012) nel quale la studiosa ravvede nel diritto sia un carattere offensivo, atto a far valere e a conquistare diritti, sia un carattere difensivo, poiché imposto da una indagine o da una imputazione. 20. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.103, f.25. 21. L’on. Terracini si riferisce ai materiali relativi al caso inviatigli da Casali a seguito della lettera pocanzi citata. 22. Ibidem. 23. Ibidem. 24. Proprio in occasione di tale processo riprenderà il carteggio tra Casali e Terracini. Tale carteggio, principalmente incentrato sullo scambio di un fascicolo che Terracini curiosamente non riusciva a trovare nel disordine del suo ufficio, sarà l’occasione per l’onorevole genovese di invitare l’avvocato a presenziare, in qualità di consulente, come dirà lo stesso in una lettera del 29 aprile 1952, «a quel processo in quel tribunale».

RIASSUNTI

Il lavoro si propone di analizzare il ruolo e le caratteristiche dell’avvocatura militante del legale bolognese Leonida Casali, esponente di spicco sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato di Solidarietà Democratica nel secondo dopoguerra. Attraverso lo studio di vari casi particolari, quali i processi contro ex partigiani e militanti politici, si è puntato a far emergere l’intrinseca politicità dell’operato dell’avvocato, mostrandone, da una parte l’autorevolezza e l’autonomia operativa, dall’altra lo stretto rapporto che lo legava al PCI e al CSD. Tali aspetti permettono di delineare la figura dell’avvocato Casali come un unicum nel panorama della giustizia italiana dell’immediato dopoguerra.

This paper aims to analyze the role and the pattern of the militant lawyering of Leonida Casali, one of the leading members of Bologna section of the Italian Communist Party and of the Democratic Solidarity Committee during the postwar period. By construing some specifical cases, as the trials against partisans and political activists, the focus has been pointed on demonstrating the intrinsic political nature of Casali’s behavior, showing on the one hand his mastership and the operational independence, on the other the strict relationship he had with the Communist Party and the Democratic Solidarity Committee. These issues allow to trace Casali’s role as a unique in the panorama of Italian justice immediately after the Second World War.

INDICE

Keywords : civil war, Italian Communist Party, Leonida Casali, partisans, resistence Parole chiave : guerra civile, Leonida Casali, partigiani, PCI, resistenza

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AUTORE

SIMEONE DEL PRETE

Ha conseguito la Laurea triennale in Storia presso l’Università di Bologna con una tesi di laurea in storia economica sul conflitto nordirlandese, frutto di ricerche effettuate presso l’University College Cork. Attualmente frequenta il corso di Laurea Magistrale in Scienze Storiche presso il medesimo ateneo.

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Tre processi “scomodi”

Greta Fedele

1. Il contesto storico

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1 Lo studio dei processi contro ex-partigiani e militanti comunisti che ebbe inizio nel ’48, non a caso contemporaneamente al pieno consolidarsi anche in Italia del clima della guerra fredda, ha fatto emergere nuove prospettive di ricerca e nuove possibilità di analisi storiografica riguardo gli anni 1948-1953, periodo in cui si svolgono queste cause giudiziarie, nonché anni di incontro e scontro tra la storia della resistenza e quella del centrismo1.

2 Prendendo in considerazione alcuni casi particolari seguiti dall’avvocato Leonida Casali, il cui insieme documentario è conservato presso il suo archivio, è possibile seguire un ulteriore livello di indagine: il grado e le motivazioni del coinvolgimento del Comitato di Solidarietà Democratica e del Partito Comunista nei confronti degli imputati. Per far ciò è apparso interessante nonché significativo andare a esaminare proprio quei casi in cui né il Cds né il Pci si sono assunti formalmente, direttamente o esplicitamente la difesa degli imputati. Si tratta di soli tre processi, che verranno analizzati nei dettagli in seguito, implicanti tutti ex- partigiani accusati e successivamente condannati per omicidio volontario per fatti legati sia alle vicende della resistenza nell’immediato dopoguerra, sia, successivamente, a un più ampio quadro di lotte sociali e politiche.

3 Il Comitato decise di non fornire assistenza agli imputati di questi processi o alle loro famiglie e di non organizzarne direttamente i collegi difensivi. Stesso comportamento assunse il Partito Comunista. Tuttavia ciò non costituì un abbandono totale degli ex combattenti e dei militanti. Non è un caso che sia stato proprio Leonida Casali, avvocato che partecipò a molti processi seguiti dal Cds, ad assumere il ruolo di difensore e a indirizzare la linea di difesa. Il fatto che Casali fosse al tempo stesso da una parte, fulcro e cardine del sistema difensivo nei processi contro i partigiani, e, dall’altra, uomo di partito nonché dirigente politico e consigliere comunale in quota Pci, permette di comprendere come il legame con gli imputati rimase sempre attivo.

4 Interessante è apparso capire, perciò, lungo quali binari si sia costruito lo spartiacque tra i casi che potevano essere rivendicati ufficialmente dal Cds e quelli che possiamo chiamare indifendibili e troppo scomodi. Sicuramente in fasi complicate e delicate come quella immediatamente seguenti la fine dell’unità di governo delle forze antifasciste con l’estromissione delle sinistre e, in seconda istanza, quella successiva all’attentato a Togliatti con la mobilitazione a esso seguita e la rottura dell’unità sindacale, il Partito Comunista temeva che questi tre casi specifici potessero essere usati strumentalmente per minarne la conquista della piena legittimità democratica e parlamentare e contemporaneamente per screditare la lotta partigiana e antifascista della Resistenza nel suo insieme come momento fondante della neonata Repubblica.

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5 I tre casi presi in esame nel presente lavoro vennero considerati dal Cds e dal Pci non apertamente riconducibili a quello schema di «attacco alla resistenza»2 entro cui rientravano pienamente invece gli altri casi seguiti dal Comitato. A Casali vennero perciò affidate queste cause con un duplice scopo apparentemente opposto, ma in realtà convergente: da un lato esprimere la piena condanna da parte del Partito Comunista di queste azioni, dall’altra fungere da trait d’union e mirare al riassorbimento all’interno del partito delle istanze portate avanti dagli imputati.

6 Tutto ciò, ancora una volta, a riprova dell’importanza e della centralità dell’avvocato bolognese sia a livello giuridico che politico.

1. I fatti di Gaggio Montano

7 È il 13 aprile 1946 e «Cronaca Nera»3 titola: «Una brillante operazione della Polizia di Stato. La banda che assalì e terrorizzò un intero paese dell’Emilia trucidando dei pacifici cittadini, è stata assicurata alla giustizia». Inizia così la vicenda giudiziaria e processuale del primo processo qui preso in esame per i fatti di Gaggio Montano, piccolo paese nelle montagne della provincia di Bologna, che durante la Seconda Guerra Mondiale ha visto consumarsi sul proprio territorio varie stragi ad opera delle truppe nazifasciste, la più famosa delle quali è quella di Ronchidosso dove morirono circa settanta persone a causa di una rappresaglia nazista.

8 “L’eccidio di Gaggio”, come venne subito rinominato dalla stampa moderata, rimane ancora oggi una delle vicende di più difficile spiegazione e interpretazione sia a livello ideologico-politico sia da un punto di vista socio-culturale. Pur in assenza delle carte riguardanti il dibattimento in aula4, seguendo le deposizioni dei vari imputati durante le indagini5 e articolandole tra loro si può procedere a una ricostruzione dei fatti. La notte tra il 16 e il 17 novembre 19456 un gruppo di sedici persone entrò nella caserma dei carabinieri di Gaggio Montano, disarmò e rese momentaneamente prigionieri i militari: Fu bussato, un cc. aprì a metà la porta. Io chiesi dove era il brigadiere e gli altri cc. Mi disse che erano in una stanza a mangiare. «Guidaci da loro, vai avanti». Trovammo i cc. davanti a una tavola. Mi affacciai io e gli altri due. Puntammo le armi. Questi rimasero di gesso. Io dissi loro che non avevo nessuna intenzione di fare loro del male. Poi seguii il brigadiere in un'altra stanza. Il Franchi e l'altro rimasero di guardia ai cc. Lo Stefanini e io seguimmo il brigadiere nel suo ufficio. Io gli dissi: «dobbiamo prelevare dei fascisti, la caserma è circondata, non muovetevi altrimenti nasce un conflitto7.

9 Successivamente il gruppo, organizzato intorno alle figure di Mario Rovinetti e Secondo Lenzi, bloccò l’ingresso e l’uscita dal paese grazie a delle sentinelle disposte negli snodi strategici, riuscendo quindi a tenere manu militari il paese per una giornata. Il piano prevedeva il sequestro di alcune persone e la loro fucilazione nonché il prelievo di una somma di denaro della filiale del Credito Romagnolo.

10 Già nei primi mesi del 1946 vennero individuati e interrogati quelli8 che sarebbero stati poi condannati come responsabili di omicidio continuato e rapina pluriaggravata al processo di primo grado presso la corte di Assise di Bologna il 23 luglio 19489. Le deposizioni rilasciate ai carabinieri durante gli interrogatori sono significative per capire il complesso e articolato quadro di motivazioni politiche e culturali che si cela dietro questi fatti. Mario Rovinetti dichiarò che si trattava di una spedizione punitiva

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contro ex fascisti e repubblichini arricchitisi ingiustamente e che, per quanto riguardava i soldi prelevati, non si trattava di rapina bensì di una requisizione finalizzata al sostentamento delle famiglie vittime della guerra e ai compagni latitanti evasi dal carcere di San Giovanni in Monte di Bologna. Così si legge nella sua deposizione: Una sera, non ricordo più in quale circostanza, il Lenzi venne da me e mi disse: «guarda che a Gaggio Montano ci sarebbe da fare una spedizione punitiva contro i fascisti». A Marzabotto avevamo subito molto per colpa dei fascisti, anche mio padre era stato trucidato, ancora delle mine deposte dai nazi-fascisti falciavano delle vittime, e per tutto questo andamento di cose, accettai. Egli disse testualmente che «c'era da fare una spedizione punitiva»; e più oltre aggiunse «guarda che quelli che bisogna prelevare sono responsabili di una grave rappresaglia, hanno ucciso tante persone» 10.

11 Il gruppo di ex partigiani individuò le persone da prelevare nel paese, le radunò in osteria e da lì partirono per le montagne vicine. Una volta raggiunta la posizione prescelta venne scavata una buca e furono fucilati i prigionieri, non prima di aver letto loro i propri capi di accusa: per voi è venuta la giustizia, per questo... questo... Parlò di rappresaglia di Ronchidosso e contestò ad ognuno delle colpe. Poi vennero sepolti. [...] Il Lenzi prima di sparare ad uno ad uno aveva annunciato le cause perché venivano giustiziati. Parlò di fascismo repubblichino, di rappresaglie. [...] la donna non fu risparmiata perché il Lenzi disse che era imputata di collaborazionismo con un tedesco ed era spia dei tedeschi11.

12 Siamo giunti così alle vittime e furono quest’ultime a creare i più grandi problemi al Pci dato che alcune di loro non erano state iscritte al partito fascista. Brasa Guido era stato segretario del Pnf cittadino nel 1935 ed effettivo nell’esercito, Capitani Alfredo aveva aderito alla Repubblica di Salò, mentre per Ramazzini Bianca e Cecchelli Adolfo ufficialmente nulla si sapeva delle loro implicazioni con il fascismo o con i tedeschi. A complicare la situazione per il Pci era il fatto che alcuni tra gli imputati fossero iscritti al Partito Comunista e uno di loro, Gaetani Ivo, fosse il segretario della sezione di Gaggio. Inoltre molti di loro avevano ricevuto la qualifica di partigiani dalla commissione regionale dell’Emilia Romagna istituita dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Molti avevano infatti combattuto durante la guerra di liberazione nella brigata Gap Ettore Rovinetti. Le carte conservate nell’archivio dell’avvocato Casali evidenziano come inizialmente, all’epoca dei primi fermi da parte dei carabinieri agli inizi del ’46, il Pci si interessò direttamente alla sorte di questi uomini. In una lettera datata 12 marzo 1946 e proveniente dalla federazione provinciale del Pci bolognese fu chiesto a Casali di interessarsi per gli arrestati di Gaggio e si precisava come fosse stato direttamente Arturo Colombi, allora segretario del partito a Bologna, a chiedere il coinvolgimento dell’avvocato12. Un’altra lettera di qualche giorno successiva e proveniente dallo stesso ufficio recita come segue: «Caro Casali, ti pregherei di interessarti presso i carabinieri per sapere la sorte dei nostri compagni arrestati ultimamente a Gaggio Montano in seguito al famoso fattaccio e le accuse che vengono loro mosse»13. Questa corrispondenza è significativa almeno per due aspetti: da una parte mette subito in risalto l’importanza e la centralità del ruolo dell’avvocato Casali anche, e forse soprattutto, quando si trattava di vicende delicate che richiedevano una certa cautela da parte del partito; dall’altra l’uso della parola «fattaccio» ripetuta più volte anche in altre lettere mette in evidenza come il Pci non giustificasse quegli avvenimenti e come forse già i vertici intuissero che bisognava prenderne le distanze.

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13 I timori del Partito Comunista riguardo la strumentalizzazione dell’accaduto e dell’intero processo si rivelarono subito ben fondati. L’intera vicenda assunse fin dall’inizio, infatti, le tinte dello scontro politico in un clima arroventato dall’affermarsi anche sul suolo italiano della guerra fredda. La stampa moderata iniziò una campagna di stampa molto intensa volta a sottolineare le responsabilità del Pci sia a livello di singoli individui sia più in generale a livello di partito nazionale per «aver istigato a compiere questa barbara carneficina»14. Contemporaneamente si sottolineava come esistesse un notevole scarto temporale tra la fine della guerra e il momento dell’azione, andando così a inficiare e a mettere in discussione il ruolo dei partigiani. Il già ricordato settimanale «Cronaca Nera» così scriveva al riguardo: c’è qualcuno che va rimuginando nell’ombra inspiegabili propositi di vendetta. La guerra ormai è passata da tempo. Il rombo del cannone, gli scoppi laceranti delle mine, il crepitio delle armi automatiche, il canto rabbioso dei caccia e la musica possente dei quadrimotori alleati sono cose che appartengono a un triste ricordo. […] Qualcuno ha sete di sangue, ha sete di denaro. E vuole, tra l’altro, ergersi a giudice implacabile di tutti i cittadini del luogo15.

14 Veniva inoltre riferito che gli imputati erano stati rinviati a giudizio per «aver formato una banda armata con lo scopo di commettere reati contro la proprietà e le persone»16 e che il movente dell’accaduto era da rintracciarsi tra i dissidi presenti tra le famiglie agrarie del paese da una parte e il Cln e il Pci locali dell’altra17. Scopo di tutto ciò era svuotare del contenuto politico e ideologico l’intera vicenda derubricandola a delinquenza comune: molto significativo questo passaggio in quanto la stessa linea verrà adottata dall’accusa durante il processo. Senza movente politico, infatti, non erano applicabili né l’amnistia Togliatti né le successive leggi indulto per una riduzione di pena18. Molto facile diventava a questo punto per la stampa moderata far diventare Gaggio Montano un simbolo: «i partigiani non sono che delinquenti, tutte le loro azioni non avevano che un fine: uccidere e rapinare»19.

15 Date queste premesse non è difficile intuire, quindi, come questo caso rappresentasse una situazione scomoda sia per il Pci, sia per il Cds. Entrambi quindi decisero di non intervenire direttamente nel sostegno agli imputati durante il processo. Lo scarto temporale tra le azioni in causa e la data della liberazione era troppo grande per consentire al Pci di esporsi: l’uccisione di fascisti, le requisizioni per i compagni e la lotta clandestina non erano più giustificabili davanti all’opinione pubblica moderata e in un contesto di forte scontro ideologico dove all’interno del partito stesso c’era chi temeva per la messa fuori legge. Il collegio di difesa20 fu comunque coordinato da Casali: segno evidente di un legame tra gli imputati e il partito che non si era spezzato. Venne concordata quindi una comune linea di difesa che è possibile per noi ricostruire, in assenza delle trascrizioni delle arringhe durante il dibattimento processuale, grazie agli appunti e alle lettere conservate da Casali21. Innanzitutto si sottolineò che i delitti furono commessi per «ragion politica» escludendo che i componenti della banda fossero animati da spirito di lucro o di vendetta. L’azione compiuta era quindi strettamente legata al movente politico e ideologico degli autori che avevano agito seguendo determinati principi con lo scopo di «ottenere una trasformazione sociale». Per Casali era importante riuscire a comprendere in profondità le ragioni sociali che avevano determinato tali eventi. Il quadro in cui si sono svolti i fatti è quindi molto importante e negli appunti dell’avvocato troviamo annotazioni riguardanti «la situazione politica del momento, il processo alla resistenza, i martiri dell’Emilia dolorante e tormentata, la guerra civile, gli orrori». Il riferimento è anche alla guerra

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particolarmente dura e crudele svoltasi nelle campagne e sulle montagne emiliane, come a giustificare gli eventuali strascichi di violenza, di lotta e di insurrezione da essa lasciata oltre la fine cronologica della guerra. A questo proposito lo storico Guido Crainz, che più volte si è occupato nei suoi studi di questi temi, parlerà di un «drammatico di più di violenza», che è riconoscibile in Emilia «molto più a lungo che altrove, dopo la Liberazione»22. Altro argomento chiamato a sostegno nella difesa da Casali è la sovrapposizione tra la lotta partigiana, la lotta di classe e la lotta tra diverse ideologie23. Il caso di Gaggio mette in risalto, infatti, una caratteristica tipica della situazione emiliana dell’epoca: ossia una tendenza a identificare e assimilare i fascisti ai proprietari terrieri e quindi la soppressione di queste persone avesse come scopo quello di produrre un cambiamento nei rapporti sociali ed economici nella comunità. Ci sembra che in questa sfaccettatura della vicenda ben si inserisca la riflessione di Claudio Pavone24 sul rapporto tra guerra di Liberazione e lotta di classe. A tutto ciò va aggiunto un altro aspetto importante nella linea difensiva e cioè il portare alla conoscenza della corte i maltrattamenti che spesso gli imputati subivano durante gli interrogatori. In altri casi che esamineremo in seguito questo appare con maggior rilevanza, ma anche qui troviamo nelle carte il riferimento a percosse inflitte agli imputati dai carabinieri. In una richiesta per ammissione testimoni così si trova scritto: Il teste può dire che il 29 marzo 1946 il Gaetani Ivo, mentre veniva interrogato nella caserma dei carabinieri di via Magarotti dal capitano Vesce, veniva alla presenza dello stesso capitano e con il suo consenso, violentemente malmenato e battuto con pugni, con calci e anche mediante un pezzo di legno ricavato da una sedia rotta25.

16 Infine vi è un ultimo aspetto del lavoro svolto da Casali molto importante e significativo. Nelle sue carte emerge con estrema forza il legame profondo che univa l’avvocato ai suoi assistiti. È presente, infatti, una corrispondenza molto assidua, nonché testimonianze di frequenti visite in carcere. Casali rappresentava per questi imputati non solo il loro avvocato, ma anche l’uomo di partito e il comunista che fungeva da tramite per il recupero politico di questi uomini e per la loro assistenza morale. Nelle lettere Casali appare quasi come un padre che sgrida i figli che sbagliano, ma che è disposto a riaccoglierli in famiglia. Si palesa qui quella che è stata definita la «doppiezza»26 del Pci sotto un’altra angolazione: presa di distanza pubblica, affermazione chiara di condanna nei confronti di chi ha sbagliato, ma contemporaneamente continuità nei rapporti e volontà di riassorbimento all’interno del partito.

2. L’omicidio di Renato Seghedoni

17 Il secondo processo in ordine cronologico in cui la difesa degli imputati non fu assunta direttamente dal Comitato è quello per l’omicidio di Renato Seghedoni avvenuto la notte tra il 12 e il 13 marzo 1946 nella località di Ducentola nel comune di San Giovanni in Persiceto. Il fatto che la vittima fosse un ex partigiano appartenente alla 65° brigata Walter Tabacchi è sufficiente per comprendere la ragione per cui questo caso fu ritenuto “scomodo” dal Cds e dal Pci. Nessun processo più di questo, infatti, dove gli imputati accusati di omicidio di un partigiano erano i suoi stessi compagni, poteva essere fatto oggetto di strumentalizzazione da parte della stampa moderata con lo scopo di sconvolgere l’opinione pubblica.

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18 Subito le indagini svolte dai carabinieri si indirizzarono verso ex partigiani e comunisti. Ad avvalorare la strada intrapresa contribuirono due ordini di fatti: da una parte le dichiarazioni rilasciate dalla sorella e dal padre di Seghedoni, dall’altra un articolo apparso su «Rinascita» l’8 novembre 1946. Ines Seghedoni testimoniò pochi giorni dopo l’omicidio del fratello davanti al giudice istruttore della corte di Assise di Bologna: «da qualche tempo manifestava di essere stato deluso perché i comunisti non si comportavano secondo i principi del programma del partito e perché parecchi di essi non erano altro che dei profittatori»27; e il padre il giorno seguente affacciò l’ipotesi che il figlio fosse stato «soppresso da elementi che avessero interesse di fare scomparire i segreti che solamente forse solo lui conosceva. Ciò riguarderebbe il periodo della lotta clandestina»28. Qualche mese dopo fu un articolo di «Rinascita» del corrispondente Enzo Belletti a fornire quella che per gli investigatori fu la conferma decisiva. Il giornalista si proponeva di accertare la verità sui fatti dell’Emilia, soprattutto quelli concernenti il «triangolo della morte» e rivelava che grazie a delle dichiarazioni a lui rilasciate da Venusto Bottazzi, fratello di Dante Bottazzi partigiano e ricercato per altri reati e avvicinato con falsi pretesti, era possibile affermare che «il Seghedoni per aver deplorato le azioni commesse dai suoi ex compagni e per essersi invano adoperato affinché essi si ponessero sulla buona strada ben poteva essere stato considerato come un testimone troppo pericoloso quindi da eliminare»29.

19 Non fu quindi difficile sostenere che l’omicidio nasceva e si configurava completamente all’interno dell’esperienza partigiana e che erano stati i partigiani stessi a eliminare un proprio compagno con lo scopo di impedire la rivelazione di informazioni che dovevano rimanere segrete riguardanti il proseguimento della lotta anche dopo la fine ufficiale della guerra. La campagna portata avanti dalla stampa moderata si incentrò conseguentemente in questa direzione e non esitò a spingersi anche oltre quando si venne a conoscenza dei nomi degli imputati: Govoni Rino, Bottazzi Dante, Bolognini Vittorio, Stopazzini Giuseppe e Cattabriga Renato. Dal rapporto dei carabinieri di Bologna30 emergeva una rappresentazione degli accusati fortemente negativa: venivano descritti come minacce all’ordine pubblico, venivano usate parole come «violento», «elemento sanguinario», venivano accusati di «aver organizzato l’assalto al deposito di munizioni di Ponte Ronca»31, gli si attribuiva «l’uccisione del maresciallo Vannelli» ed erano descritti come capaci di «commettere ogni sorta di reato». L’immagine così creata andava a inficiare due aspetti: da una parte costituiva la base indiziaria del successivo procedimento penale, dall’altra venne subito ripresa dalla stampa e andò a costituire il cuore degli articoli pubblicati intorno alla vicenda. Attorno ai sei imputati ruotavano le inchieste sul triangolo della morte e fu dunque facile identificarli come “una banda di delinquenti” i cui scopi erano eversivi e che non esitava a uccidere anche i propri compagni se di ostacolo alla realizzazione del loro piano.

20 Appaiono chiare le difficoltà e le complicazioni che un caso del genere poteva comportare per il Partito comunista. Ancora una volta però, nonostante la presa formale di distanza da parte del partito, la difesa fu assunta dall’avvocato Casali32. Le carte conservate nel suo archivio consentono di tratteggiare la linea difensiva portata avanti dall’avvocato, di evidenziare le accuse mosse da Casali a una giustizia e a un’amministrazione da lui ritenute non imparziali, infine la sua denuncia dei metodi di indagine portati avanti dalle forze dell’ordine che non escludevano la violenza per ottenere le confessioni desiderate.

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21 In una corrispondenza33 con l’avvocato Domenico Rizzo, all’epoca senatore del Pci, risalente al 195134, Casali lo ringraziava per aver accettato di collaborare al processo e gli esponeva la linea difensiva finora seguita: montatura della polizia, violenze esercitate su Cattabriga per imporgli dichiarazioni compromettenti e chiamate in correità, nessun movente. Seghedoni era un partigiano, comunista, ben voluto, amico di Govoni e di altri. Tutto il resto è fantasia. Tutto ciò si capisce a grandi linee senza scendere per il momento nei particolari. Il processo certamente si presenta male, credo però ci sia molto da discutere35.

22 Si può notare come Casali propugnasse l’innocenza per i propri assistiti e diffidasse dalle ricostruzioni fatte dai Carabinieri. Ciò è confermato da alcuni appunti da lui conservati36, che con molta probabilità dovevano essere degli spunti per l’arringa al processo, in cui si accusano i carabinieri di trovare prima i colpevoli e poi di cercar le prove a suffragio della loro colpevolezza e si ribadiscono ancora le violenze perpetrate nel corso degli interrogatori. A emergere è anche un altro aspetto, già per altro riscontrato anche negli appunti ritrovati per il caso di Gaggio Montano, ossia il riferimento alla situazione della zona all’epoca dei fatti, zona che aveva risentito in maniera «più acuta le conseguenze della guerra».

23 Casali così scriverà nelle motivazioni di appello37 presentate contro la sentenza di primo grado del 1952: «numerose sono le contraddizioni, incongruenze e assurdità contenute nella motivazione della sentenza impugnata. […] Purtroppo questo primo esperimento della corte di Assise di primo grado non è molto confortante e lascia assai perplessi e turbati su quello che potrà essere il futuro andamento della giustizia». E più avanti così continua: «in una conferenza stampa il capitano Vesce si impegna di scoprire i colpevoli di tutti i delitti o, per essere più precisi, di trovare le prove contro i presunti colpevoli». Casali intese sottolineare come la volontà dei carabinieri sembrava essere quella di voler coinvolgere tutti i comunisti di quella zona invece di concentrarsi solo sui colpevoli38. Per quanto riguardava poi le violenze subite da Renato Cattabriga così si esprimeva Casali: i primi giudici se la sono cavata molto brillantemente circa la coazione morale subita dal Cattabriga durante gli interrogatori di polizia, in quanto non ne hanno nemmeno parlato. Negare infatti che il Cattabriga abbia subito lunghi e estenuanti interrogatori notturni sarebbe stato impossibile. […] La mancanza di cibo, la mancanza di sonno, l’obbligo di stare in piedi per ore e ore, anzi per giornate intere, le violenze fisiche di altro genere come pugni, schiaffi, calci ecc, […] e ci si venga a dire che la confessione del Cattabriga è stata spontanea, sincera, non imposta, non suggerita, veritiera. È un racconto stentato, talora stupido talora fantastico alla ricerca di una specie di adattamento a quella che era la costruzione del delitto già fatta dalla polizia39.

24 Infine Casali passa ad esaminare il movente: anche in questo caso la trattazione è illuminante non solo per la vicenda in sé, bensì per molti dei processi contro ex partigiani svoltesi in quegli anni in quanto presentano lo stesso schema. Nella versione fornita da Cattabriga il motivo per cui si era giunti all’uccisione di Seghedoni riguardava dei copertoni di alcune gomme che la vittima avrebbe venduto tenendosi il guadagno per sé. Cosi scrive Casali: e la causale? La stessa sentenza impugnata non crede a quella stupidissima storia delle quattro gomme rubate40, però crede a delle voci vaghe e incerte, incontrollate che non hanno alcuna conferma in dati obiettivi di fatto. […] Il Seghedoni minaccia di denunciarli, di farli arrestare, di interrompere la loro attività diretta a sovvertire

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l’ordine sociale e i suoi compagni allora lo fanno fuori! Se così stanno le cose, e secondo l’accusa stanno così, si può negare se mai il movente politico41?

25 Da una parte quindi l’accusa vuole derubricare il caso a delinquenza comune, dall’altra sottolinea di credere in un movente tutto politico e interno alle dinamiche tra partigiani. Secondo Casali in sede di dibattimento processuale veniva sostenuto un impianto accusatorio fortemente incentrato sul politico, salvo poi negare la politicità stessa del reato nella sentenza, e questo come accennato poco sopra sarà un aspetto ricorrente in questo tipo di processi.

26 Un ultimo documento consente di delineare la strutturazione della difesa da parte di Casali e del collegio da lui diretto. Si tratta dei motivi di ricorso presso la corte di Cassazione di Roma a seguito della sentenza della corte di Assise di appello di Bologna del 1953. Casali critica ancora una volta la magistratura: E così anche la corte di Assise di appello ha fatto giustizia, o meglio, ha creduto di far giustizia. Una giustizia un po’ spicciativa, fatta con molta fretta […] Un processo indiziario che lasciava molto a desiderare per il modo come in sede di indagini di polizia giudiziaria, poi di istruttoria scritta, poi di istruttoria dibattimentale era stato condotto, meritava in grado di appello un esame più approfondito, cosa che non è stata fatta da parte dei giudici nonostante ogni sforzo della difesa42.

27 Questo passaggio del ricorso in appello mette in evidenza uno degli aspetti su cui si incentravano le difese di Casali: il fatto cioè che le istruttorie tendessero a assumere come assodate le indagini fatte dalle forze di polizia, mancando volontariamente a un proprio ruolo di accertamento e di verifica.

3. Il delitto Fanin

28 Terzo e ultimo caso che non vide la presenza ufficiale del Cds e del Pci è il processo riguardante l’omicidio del sindacalista cattolico Giuseppe Fanin avvenuta la sera del 4 novembre 1948. Su questo caso, a differenza dei due in precedenza analizzati, molto è stato scritto43. Si è ritenuto quindi più fruttuoso focalizzare l’attenzione sulle modalità con le quali fu articolata la difesa e sul significato politico assunto dall’intero processo: tematiche che la storiografia recente ha trascurato per privilegiare invece l’aspetto della violenza che caratterizzò l’evento.

29 Questo omicidio matura in un contesto differente rispetto agli altri essendo ormai lontana la fine della guerra e caratterizzandosi per i suoi aspetti più legati al quadro socio-economico che agli strascichi della vicenda resistenziale. Bisogna ricordare come la storia di San Giovanni in Persiceto fosse caratterizzata da una lunga tradizione di lotte agrarie acutizzatasi già a partire dal primo dopoguerra e come quindi questo omicidio rientri a pieno nello schema di alta conflittualità presente nelle campagne emiliane.

30 Giuseppe Fanin fu ritrovato la sera del 4 novembre agonizzante da un passante, morì nella notte all’ospedale dove era stato portato. Essendo la vittima un giovane attivista delle Acli e essendo da poco avvenuta la scissione del sindacato con l’uscita dell’ala cattolica e moderata, subito le indagini si indirizzarono verso l’ipotesi di un movente politico-sindacale. Tale ipotesi era suffragata dalla presenza di un manifesto per le strade di San Giovanni in Persiceto in cui Fanin veniva descritto come «servo sciocco degli agrari appoggiati dagli organi di governo»44. Nel giro di pochi giorni la questura provvide a numerosi fermi: si trattava di trenta persone45 tutte appartenenti a un’unica

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area politica, quella comunista e legata al sindacato e alla Federterra. Come negli altri casi, la stampa moderata iniziò una campagna contro le violenze comuniste e parallelamente elevando al tempo stesso la vittima a martire, il cui sacrificio era un esempio tragico di coerenza e alti ideali. Non è quindi difficile comprendere come, anche questa volta, la linea difensiva di quelli che saranno poi gli imputati nel processo non poté coinvolgere direttamente il Comitato di Solidarietà Democratica e il Partito Comunista. La presa di distanza fu netta in questa occasione. Un comunicato della Federazione Comunista «nel porgere il suo cordoglio alla famiglia dello scomparso deplora vivamente l’assassinio, così come ha sempre deplorato e deplora le uccisioni di sindacalisti e dirigenti di massa»46, e ancora ricordava come «quanto sono contrari alla attività e alla stessa impostazione politica dei comunisti quei metodi di violenza che essi hanno subito per molti anni e ancor oggi subiscono quasi quotidianamente»47.

31 Ventun giorni dopo il delitto, Gino Bonfiglioli, uno dei fermati nonché segretario della locale sezione del Pci, confessava indicando in Gian Enrico Lanzarini, Renato Evangelisti e Indrio Morisi i suoi complici. Il collegio di difesa degli imputati, ancora una volta, ruotava intorno a Casali. Il processo iniziò il 15 novembre 1949 presso la corte di Assise dell’Aquila dove fu spostato per legittima suspicione. Questo provvedimento teoricamente veniva applicato quando la sede scelta non garantiva un clima di serenità al processo, in questo caso però contribuì a isolare gli imputati48. L’accusa fu tutta incentrata sul movente politico e sulla colpevolizzazione dell’estremismo del Pci. L’arringa dell’avvocato Bettiol, onorevole della Dc, rappresentante per parte civile, ben sintetizza questo schema: «complici del delitto sono, in certo senso, tutti coloro che appartengono alla cerchia degli assassini. Una precisa responsabilità morale ricade infatti sopra chi, in qualche modo, influì su gli odierni accusati». Bettiol accusa gli imputati di aver compiuto «il delitto più grave che sia stato commesso in questo inquieto e tormentato dopoguerra, l’avete commesso in una regione dove la coscienza democratica non si è ancora veramente consolidata. Un delitto grave e odioso il quale ha fatto sì che il nome di Giuseppe Fanin sia oggi avvicinato ed equiparato ai più noti e recenti martiri»49. La sentenza che venne pronunciata il 22 novembre 1949 accoglieva in pieno la linea dell’accusa affermando la responsabilità di tutti gli imputati in ordine al delitto ad essi ascritto di omicidio volontario premeditato ed ulteriormente aggravato. Il delitto si ravvisa indubbiamente grave, in quanto esso rappresenta un attentato alla libertà di pensiero, che è una delle principali basi su cui poggia la società e quindi uno Stato democraticamente organizzato, ed è fra l’altro un indubbio sintomo di quello spirito di intolleranza che anima alcune correnti estremiste. […] La circostanza che gli imputati tutti furono indubbiamente vittime a loro volta delle idee propagandate dallo loro corrente politico-sindacale e si illusero di poter con il loro gesto di violenza, sopprimere con un uomo, un’idea contraria alla propria50.

32 La linea difensiva si era basata su tre nodi centrali: l’inesistenza della premeditazione, l’inesistenza di un mandato a uccidere e l’ipotesi di omicidio preterintenzionale e non colposo. Si voleva dimostrare che gli imputati non volevano uccidere il sindacalista: l’arma usata era infatti una sbarra di ferro e non per esempio una pistola, che gli imputati sarebbero stati in grado di usare essendo ex partigiani e avendone avuto dimestichezza durante la guerra. Inoltre si ribadì il fatto che Fanin fu trovato ancora in vita. Così scrive Casali nei motivi di ricorso alla corte suprema di Cassazione: «in tema di omicidio doloso è inattendibile la tesi del dolo indeterminato che viene determinato dall’evento, essendo necessaria nei delitti dolosi la volontà di produrre l’evento. Il mandato ad uccidere presuppone l’impeccabile nella preparazione e nell’esecuzione, è,

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come è stato giustamente definito, il calcolo sublime del delitto, il massimo dello studio e delle cautele»51. Due ulteriori aspetti emergono dai documenti contenuti del fascicolo che Casali dedicò al caso Fanin. L’arringa del senatore Carmine Mancinelli, anch’egli parte del collegio difensivo, mette in evidenza l’importanza del contesto in cui si svolsero i fatti. Le sue parole, infatti, sono eloquenti in questo senso: «profilo evidentissimo della situazione emiliana, quale nasce da una lotta ormai secolare dei lavoratori di questa terra. Dall’esame di questa lotta non si può astrarre, come non si può astrarre dal fatto che la creazione degli uffici governativi di collocamento abbia rincrudito questa lotta. Ho chiesto che la corte tenga presente questa situazione per decretare una forte riduzione di pena»52. L’arringa di Casali invece fa capire come la volontà del Partito Comunista fosse quella di una condanna netta dell’accaduto, ma allo stesso tempo di contemplare la possibilità di una rieducazione politica. Casali, infatti, chiese ai giudici di non condannare gli imputati all’ergastolo «per concedergli la possibilità di pentirsi alla luce di una futura liberazione»53.

33 Questo processo è risultato di particolare interesse per contestualizzare il ruolo dell’avvocato Casali all’interno del Comitato di Solidarietà Democratica. Il Cds, come abbiamo visto, rimase estraneo al caso, salvo intervenire nel processo di appello come assistenza economica agli imputati. Tuttavia mantenne sempre un rapporto con Casali, testimoniato dalla corrispondenza da lui raccolta. In una lettera del 29 ottobre 1949, indirizzata al presidente del Comitato della sede di Bologna Francesco Zani, Casali espresse tutte le sue perplessità circa il coinvolgimento nel collegio difensivo del senatore Mancinelli e premette affinché si rivedesse la decisione presa. Questo è un processo molto delicato e grave specialmente sotto l’aspetto politico. Gli avversari speculeranno in campo nazionale e tutto sarà soppesato. Mancinelli aveva detto con me che non poteva più curarsi di alcun processo, ora invece anche lui vuole andare. E sta bene. Però se devo dire il mio pensiero, credo che sia un errore che Mancinelli vada a difendere in quel processo dato che oggi egli riveste la carica di Segretario Nazionale della Federterra. Potrebbe essere ritenuto un intervento…troppo ufficiale della organizzazione sindacale, il che non va bene. Peggio poi, a mio avviso, se si desse ancora più risalto ad un intervento del Partito54!

34 Casali era preoccupato di una ancor più esasperata politicizzazione del processo e di come questo potesse nuocere agli interessi nonché all’immagine del partito. Tale preoccupazione veniva ribadita anche in un’altra lettera: Abbiamo già visto quali speculazioni si fanno sul nome di Fanin e in questo processo. […] è trattenuto ancora solo per questa speculazione e bisogna fare in modo che venga assolto, perché se lo dovessero condannare (il che mi pare impossibile) quei giudici servili e fascisti sarebbero capaci di condannarlo ad una pena maggiore del minimo giustificando la condanna con la gravità del reato, con la necessità di un esempio, con l’opportunità di essere severi data la situazione politica in Emila, ecc.55.

35 Casali occupò una posizione centrale all’interno del Comitato, almeno per quanto riguardava la sezione bolognese. Ciò è confermato anche da una corrispondenza successiva tra Zani e Casali in cui il presidente della sezione bolognese si premurava di far sapere all’avvocato riguardo al processo di appello che «la difesa non sarà certamente imposta dall’alto» e che nonostante i difensori sarebbero stati nominati dal comitato nazionale la sua presenza all’interno del collegio era assicurata56.

36 L’analisi di questi tre casi nei quali il Partito comunista e il Comitato di Solidarietà Democratica ebbero una posizione di presenza/assenza, configura il ruolo della giustizia in quegli anni: un’arena57 nella quale si scontravano due ideologie opposte. Se

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non è possibile parlare di difesa di rottura così come venne teorizzata dall’avvocato francese Jacques Vergès riguardo ai processi avvenuti durante le lotte anticoloniali, è indubbio il fatto che il ruolo svolto da Casali e dai collegi di avvocati da lui diretti andasse nella direzione di una costruzione della strategia giudiziaria volutamente e consapevolmente diretta a una difesa politica e a uno smascheramento di quello che appariva essere da parte della magistratura un attacco indiscriminato a una determinata area ideologica.

37 Non è un caso quindi trovare tra gli appunti di Casali le seguenti parole: Nel gioco delle forze conservatrici contro la grande ondata popolare innovatrice scatenatasi nel 1943, ha avuto una incalcolabile importanza il fatto che la vecchia macchina statale e in particolare, l'alta burocrazia, siano riusciti a sopravvivere alla caduta del fascismo. In un periodo in cui le vecchie classi dominanti erano disorganizzate economicamente, sbandate politicamente, squalificate di fronte alla nazione, il vecchio apparato statale ha ben funzionato, si può dire, come un volano che trasforma in inerzia la forza viva di un movimento58.

38 Casali voleva mettere in risalto il ruolo avuto dalla magistratura come appoggio alla volontà dei governi centristi a cavallo tra anni Quaranta e Cinquanta di frenare e arginare le spinte innovatrici a livello sociale e politico utilizzando la giustizia penale come strumento di repressione della sempre più estese manifestazioni di protesta, come scrisse molto dopo un importante storico come Guido Neppi Modona59.

NOTE

1. A tale proposito molto interessanti risultano essere le analisi di Luca Alessandrini e Angela Maria Politi che per primi hanno lavorato su queste carte. Cfr. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, «Nuove fonti sui processi contro i partigiani 1948-1953», in Italia Contemporanea 178, 1990, pp. 42-62; POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in ISTITUTO STORICO PROVINCIALE DELLA RESISTENZA, Guerra, resistenza e dopoguerra. Storiografia e polemiche recenti, Bologna, Istituto Storico Provinciale Della Resistenza, 1992. 2. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in ISTITUTO STORICO PROVINCIALE DELLA RESISTENZA, Guerra, resistenza e dopoguerra. Storiografia e polemiche recenti, Bologna, Istituto Storico Provinciale Della Resistenza, 1992, pp. 1-27. 3. Settimanale di cronache poliziesche, scienze occulte, criminologia. L’articolo citato è stato trovato conservato nelle carte dell’avvocato Casali. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, f. 12. 4. Nei fascicoli custoditi presso il Fondo Casali all’Istituto per la storia e le memorie del ’900 Parri Emilia Romagna non è conservata copia del dibattimento processuale e della sentenza, a differenza della maggior parte degli altri casi trattati dall’avvocato Casali che presentano invece una documentazione più completa. 5. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, ff. 12-13-14.

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6. Da tener presente ai fini giudiziari è il fatto che Gaggio Montano fu liberata il 21 ottobre 1944. I fatti si svolsero quindi sette mesi dopo la fine della guerra e quasi un anno dopo la liberazione del paese. 7. Deposizione di Rovinetti Mario, imputato per i fatti di Gaggio. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.101, f.12. 8. Gaetani Ivo, Rovinetti Mario, Camurri Antonio, Torri Giuseppe, Stefanini Settimio, Casalini Gianni, Mazzini Giorgio, Franchi Adriano, Baldi Alfredo, Ropa Giovanni, Lolli Lodovico. 9. Il 06 dicembre 1952 la corte di Assise di appello di Firenze riconfermò sostanzialmente la sentenza di primo grado, alle pene vennero però applicati gli indulti del 1946, 1948 e 1949. 10. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.101, f.12. 11. Ibidem. 12. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.101, f.13. 13. Ibidem. 14. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, f.13. Comunicato del comitato provinciale di Bologna dell’Anpi in cui viene ricostruita e criticata la versione dei fatti di Gaggio Montano proposta da un volantino moderato che circolava per il paese. 15. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.101, f.13. 16. La Gazzetta dell’Emilia, 18 giugno 1946. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett. 2, b. 101, f. 13. 17. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, «Nuove fonti sui processi contro i partigiani 1948-1953», in Italia Contemporanea, 178, 1990, p. 50. 18. In particolare nei processi successivi al secondo grado venne più volte richiesta dalla difesa l’applicazione della legge indulto del 19 dicembre 1953 n.922 che all’articolo 2 recitava «deve essere ridotta ad anni due la pena di reclusione superiore ad anni venti e condonata interamente la pena non superiore ad anni venti per i reati politici ai sensi dell'art. 8 c.p. e per i reati connessi, consumati dall'8 settembre 1943 al 18 giugno 1946». Nella fattispecie si ricordava che «si tratta di delitti politici (gli omicidi) e di reati connessi (le rapine) consumati il 16 novembre 1945». ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, f. 13. 19. ALATRI, Paolo, op. cit., p. 19. 20. Il collegio di difesa era composto dagli avvocati: Casali, Geraci, Cappello, Comini, Lenzi, Mauceri, Magnarini, Destito, Veronesi. 21. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, ff. 12-13-14. 22. CRAINZ, Guido, «Il conflitto e la memoria. Guerra civile e triangolo della morte», in Meridiana, 13, 1990, p. 26. 23. Questa argomentazione la troviamo meglio esplicitata nei suoi appunti riguardanti un altro caso per certi aspetti simile a quello qui preso in esame: quello del sequestro e dell’uccisione di Sisto Costa, vecchio podestà di San Pietro in Casale, e della famiglia. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2 Sett. 2, b. 118. 24. Cfr PAVONE, Claudio, «Le tre guerre: patriottica, civile e di classe», in Rivista di storia contemporanea, 2/1989, pp. 209-218. 25. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 101, f. 12. 26. DI LORETO, Pietro, Togliatti e la doppiezza. Il Pci tra democrazia e insurrezione, Bologna, Il Mulino, 1991. 27. Esami testimoniali. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 1. 28. Ibidem. 29. Rinascita, 8 novembre 1946. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 1. 30. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 1. 31. Il 16 aprile 1946 il deposito di munizioni di Ponte Ronca, una frazione del comune di Zola Pedrosa, veniva assalito e il custode, il maresciallo Vannetti, veniva ucciso. 32. Il collegio difensivo diretto da Casali era così formato: l’avvocato Casali per Govoni Rino, e i latitanti Bottazzi Dante, Stoppazzini Giuseppe e Bolognini Vittorio, l’avvocato Rizzo per

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Cattabriga Renato, l’avvocato Corrias per Bottazzi Venusto accusato di aver favorito Cattabriga a eludere le indagini. Nel corso del processo si aggiungeranno al collegio di difesa anche l’avvocato senatore Domenico Rizzo. 33. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b. 98, f.3. 34. Il processo di primo grado si concluderà con la sentenza della corte di Assise di Bologna il 16 gennaio 1952, mentre quello di secondo grado con la sentenza della corte di Assise di appello di Bologna del 10 luglio 1953. Gli imputati verranno condannati per sequestro di persona, omicidio premeditato e porto abusivo di armi da guerra. 35. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b. 98, f.3. 36. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.98, f.2. 37. Ibidem. 38. Cfr. Tesi sostenuta anche da Politi e Alessandrini in POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in ISTITUTO STORICO PROVINCIALE DELLA RESISTENZA, op. cit. 39. ISPER. Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 2. 40. È lo stesso procuratore generale a scrivere: «Il vero movente deve essere ricercato non già nell’oscura vicenda, cui è stato dal Cattabriga accennato, di certe gomme di automobile in possesso del Seghedoni, ma dal fatto che costui, a conoscenza di numerosi misfatti del Bottazzi Dante e di altri suoi ex compagni di lotta clandestina, non avrebbe potuto mancare di manifestare pubblicamente il proprio sdegno e la propria riprovazione al riguardo, attirandosi così l’odio degli interessati ed esponendosi alla loro vendetta». ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b. 98, f.2. 41. ISPER. Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 2. 42. ISPER. Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 98, f. 2. 43. Si veda tra gli altri: l’opuscolo Giuseppe Fanin, Bologna, A.B.E.S., 1949; ALBERTAZZI, Alessandro, Per Giuseppe Fanin, Bologna, Nuova Universitaria Cappelli, 1987; TREVISI, Giuseppe, Il delitto Fanin, Bologna, Il Mulino, 1998. 44. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5. 45. Cfr. ALBERTAZZI, Alessandro, Documenti per Giuseppe Fanin, Quaderni della biblioteca comunale G.C. Croce, 20, 1986, pp. 1-83. 46. TREVISI, Giuseppe, op. cit., p. 25. 47. Ibidem, p.79. 48. Angela Maria ha analizzato come nei processi contro ex partigiani molti furono spostati di sede per legittimi suspicione, ma il clima delle nuove sedi scelte non era dei più favorevoli per gli imputati. Un esempio per tutti è il caso di Perugia dove esercitava il giudice Missere di Modena il cui figlio era stato ucciso dai partigiani. Cfr. POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, POLITI, Angela Maria, ALESSANDRINI, Luca, I partigiani emiliani dalla liberazione ai processi del dopoguerra, in ISTITUTO STORICO PROVINCIALE DELLA RESISTENZA, Guerra, resistenza e dopoguerra. Storiografia e polemiche recenti, cit., pp. 323-324. 49. PERBELLINI, A.M. «Processo Fanin: verso l’epilogo», in L’Avvenire d’Italia, 20 novembre 1949. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.2, f.5. 50. ISPER, Fondo Casali, Sez.2, Sett.2, b.2, f.5. 51. Ibidem. 52. L’Unità, 22 novembre 1949. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5. 53. PERBELLINI, A.M., «L’ultimo giorno al processo Fanin», in L’Avvenire d’Italia, 22 novembre 1949. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5. 54. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5. 55. Qui Casali si riferisce a Sighinolfi Adorno imputato per aver più volte in San Giovanni in Persiceto in epoca anteriore e prossima al 4 novembre 1948 istigato pubblicamente a commettere il delitto di omicidio di persona del dottor Fanin pronunciando in pubblico la frase: «Fanin è

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cristiano crumiro che bisogna far fuori perché è la rovina di noialtri, bisogna accopparlo». ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5. 56. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 2, f. 5. 57. Espressione presa in prestito da ISRAËL, Liora, op. cit., p. 49. 58. ISPER, Fondo Casali, Sez. 2, Sett. 2, b. 108, f. 13. 59. NEPPI MODONA, Guido, La magistratura dalla liberazione agli anni cinquanta, in BARBAGALLO, Francesco, op.cit., p. 107.

RIASSUNTI

Il lavoro si propone di analizzare il ruolo e le caratteristiche dell’avvocatura militante del legale bolognese Leonida Casali, esponente di spicco sia del Partito Comunista Italiano, sia del Comitato di Solidarietà Democratica nel secondo dopoguerra. Attraverso lo studio di vari casi particolari, quali i processi contro ex partigiani e militanti politici, si è puntato a far emergere l’intrinseca politicità dell’operato dell’avvocato, mostrandone, da una parte l’autorevolezza e l’autonomia operativa, dall’altra lo stretto rapporto che lo legava al PCI e al CSD. Tali aspetti permettono di delineare la figura dell’avvocato Casali come un unicum nel panorama della giustizia italiana dell’immediato dopoguerra.

This paper aims to analyze the role and the pattern of the militant lawyering of Leonida Casali, one of the leading members of Bologna section of the Italian Communist Party and of the Democratic Solidarity Committee during the postwar period. By construing some specifical cases, as the trials against partisans and political activists, the focus has been pointed on demonstrating the intrinsic political nature of Casali’s behavior, showing on the one hand his mastership and the operational independence, on the other the strict relationship he had with the Communist Party and the Democratic Solidarity Committee. These issues allow to trace Casali’s role as a unique in the panorama of Italian justice immediately after the Second World War.

INDICE

Keywords : civil war, Italian Communist Party, Leonida Casali, partisans, resistence Parole chiave : guerra civile, Leonida Casali, partigiani, PCI, resistenza

AUTORE

GRETA FEDELE

Studentessa del corso integrato franco-italiano Histoire et civilisations comparées. Precedentemente ha conseguito la laurea triennale in Storia presso l’Università degli Studi di Milano discutendo una tesi dal titolo Storia e globalizzazione nella recente produzione storiografica.

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I.2 Il diritto militante

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Esclusione sociale e violenza istituzionale Il tema della salute mentale in «Quale giustizia»

Francesco Mantovani

1. Introduzione. Psichiatria e diritto

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1 Può la contestazione servirsi del diritto per raggiungere i propri obiettivi? Certamente la legge è stata in molti casi uno strumento con cui l’autorità ha regolato e delimitato le attività dei singoli e della società: secondo la tradizionale lettura marxista, la dominazione sociale troverebbe proprio nel diritto la legittimazione più solida, dato che la sua conoscenza e la sua manipolazione sono limitate a pochi esperti. Tuttavia, negli ultimi decenni la storia e la sociologia si sono sempre più interessate ai casi in cui il diritto fu rivolto contro lo stato, al punto da diventare uno stimolo alla mobilitazione civile, dal momento che, oltre a essere l’insieme delle norme giuridiche, esso incarna i valori culturali e simbolici della società. Riprendendo una felice espressione della studiosa francese Liora Israël, il diritto può essere quindi letto come un’«arma a doppio taglio» e lo studio da parte delle scienze umane del suo impiego nella contestazione ne ha mostrato un’immagine meno monolitica1. In questo contesto, fondamentali sono state le ricerche incentrate sull’attività di chi si è servito del diritto come arma di attacco o di difesa: i magistrati e gli avvocati. Quello che in questa sede si vuole analizzare è il contributo che la magistratura politicamente impegnata ha dato nella campagna per la chiusura degli ospedali psichiatrici in Italia. Non solo: fu proprio l’associazionismo di giudici e avvocati a fornire un modello per gli altri settori professionali, tra cui quello psichiatrico.

2 Il contesto storico in cui ciò avvenne, ovvero gli anni che vanno dal 1968 al 1978, furono caratterizzati da una straordinaria concentrazione di riforme: l’intera società italiana fu infatti attraversata da grandi cambiamenti istituzionali, sociali, economici e culturali. Vennero per esempio approvati lo Statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300), la legge sul divorzio (l. 1 dicembre 1970, n. 898), la riforma del sistema carcerario (l. 26 luglio 1975, n. 354), la legalizzazione dell’aborto (l. 22 maggio 1978, n. 194) e molte altre. Non si trattò di un’operazione indolore: il dibattito tra le forze più conservatrici e quelle progressiste fu molto acceso e non a caso gli anni Settanta furono segnati anche da stragi e attentati compiuti dai gruppi extraparlamentari.

3 Oltre ai movimenti giovanili e operai, a partire dagli anni Sessanta larghi segmenti delle professioni mediche, tecniche e legali furono coinvolte nella critica alla società e alle istituzioni. È in questa fase che emerse la figura del professionista impegnato – definito «intellettuale specifico»2 da Michel Foucault in ambito francese – agiva sul sociale a partire dalle proprie conoscenze settoriali. Il primo passo compiuto da molti di costoro fu uscire dall’autoreferenzialità, dal tecnicismo e dal conformismo che caratterizzava le rispettive professioni. Ciò che accomunò le varie esperienze di riforma fu quindi l’utilizzo dei singoli saperi come strumento di lotta: durante il decennio in questione, si assistette infatti a una politicizzazione di mestieri che fino ad allora erano stati solo

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marginalmente coinvolti nel dibattito istituzionale. Fu l’agire concreto all’interno del proprio impiego con finalità di trasformazione a dare carattere politico all’impegno3. Vennero messe in discussione le forme di associazionismo già esistenti e presto ne nacquero di nuove, con l’intento di riformare e svecchiare le professioni dal proprio interno: fecero da apripista Magistratura democratica e la Federazione dei sindacati degli avvocati e procuratori italiani (FESAPI), nate entrambe nel 1964, ispiratrici delle altre associazioni di settore, come Psichiatria democratica e Medicina democratica.

4 Una delle questioni su cui si concentrò maggiormente il dibattito fu quella dell’istituzione manicomiale. Nel corso degli anni Sessanta, l’esperienza della «comunità terapeutica» avviata presso l’Ospedale Psichiatrico di Gorizia da Franco Basaglia mise in luce le contraddizioni interne a queste strutture, luoghi di esclusione e sevizie invece che di cure: a Gorizia venne messa in pratica una nuova metodologia di cura dei malati di mente, poi descritta nel testo L’istituzione negata (1968).

5 Senza negare la realtà dell’infermità mentale, ciò che viene messo in luce è la violenza istituzionale che regola i rapporti tra la società e i malati. Si tratta di una lettura non limitata all’ambito specifico della psichiatria, dal momento che i manicomi vengono inseriti in quelle che Basaglia chiama «le istituzioni della violenza», nelle quali la violenza è giustificata da una «colpa» (il carcere) o da una «malattia» (l’ospedale psichiatrico). Compito dei tecnici a cui sono appaltati questi istituti è «adattare gli individui ad accettare la loro condizione di “oggetti di violenza”»4, dando per scontato che questa sia l’unica realtà loro concessa. In questo modo, il malato di mente non è altro che un «uomo senza diritti, soggetto al potere dell’istituto, quindi alla mercé dei delegati (i medici) della società, che lo ha allontanato ed escluso»5. Risulta evidente quindi che il fine degli ospedali psichiatrici non sia tanto la cura e – possibilmente – il reinserimento dei pazienti nella società, bensì la loro custodia in un ambiente separato e la tutela dei “sani” nei confronti della follia.

6 Attraverso il «rovesciamento» di questa istituzione coercitiva, quello che Basaglia e l’équipe di medici, infermieri e collaboratori fecero a Gorizia fu rifiutare questo tipo di «mandato sociale». Ciò comportò la costruzione di un rapporto diverso con i pazienti, mostrando attraverso la loro responsabilizzazione che un’alternativa al manicomio tradizionale era praticabile6. Uno degli aspetti caratteristici di questo discorso era l’oscillazione e l’apparente contraddizione che poteva instaurarsi fra il bisogno di autorità (necessaria per condurre la trasformazione del sistema) e il bisogno di conquistare la propria libertà che passava attraverso la presa di responsabilità, sia da parte del personale curante che da parte dei malati. Tuttavia è evidente che il movimento comune, compiuto attraverso la negazione della propria faccia istituzionale (tanto per i malati quanto per i medici e gli infermieri), portasse alla negazione non solo dell’istituzione in questione, bensì di ogni sistema di oppressione e di sopruso.

7 Nella pratica, lo svolgimento delle attività della «comunità terapeutica» era regolato dalle riunioni, le quali erano ovviamente affiancate dal programma ospedaliero tradizionale (visita dei sanitari ai reparti, pasti, terapie, ecc.). Lo scopo delle numerosissime assemblee era far sì che i degenti si riappropriassero della loro personalità attraverso le «scelte» e attraverso la discussione condotta alla pari con il personale medico. «Mettere tra parentesi» la malattia mentale mostrò che tutto ciò fosse più un prodotto che un dato di fatto, mettendo così in discussione le fondamenta del sistema su cui si reggeva l’istituzione manicomiale italiana. L’istituzione negata ebbe

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una grande diffusione, tanto da divenire durante il Sessantotto uno dei testi guida della cultura anti-autoritaria giovanile.

8 All’interno della professione psichiatrica si venne perciò a consolidare un forte impegno, inteso da un lato come critica della società e del «nesso sapere/potere» che la regolava, dall’altro come ricerca di un’attività rispettosa dei diritti e della soggettività dei pazienti7. Quello che Basaglia e collaboratori vollero fare non fu solo una riforma dei metodi terapeutici, bensì una messa in discussione del sistema che vi stava dietro, sul quale si reggevano i manicomi, «uscendo dal suo campo specifico e tentando di agire sulle contraddizioni sociali»8. Questi spunti critici furono accolti dal gruppo di magistrati riformisti e la battaglia che portò nel 1978 all’approvazione della legge n. 180 fu condotta anche sul piano costituzionale: a essere messa in discussione fu la legittimità della legge del 14 febbraio 1904, n. 36, che – salvo alcune modifiche – regolava ancora l’istituzione manicomiale italiana.

9 Il tema della salute mentale e della riforma degli ospedali psichiatrici viene affrontato in questa sede a partire dalla lettura delle fonti presenti nella rivista «Quale giustizia», dalle quali emerge un utilizzo del diritto come strumento per portare avanti campagne riformiste e per sensibilizzare l’opinione pubblica, vista la vasta risonanza che la questione ebbe in Italia.

2. Magistratura democratica e Psichiatria democratica

10 Tra gli anni Cinquanta e Sessanta si assistette alla progressiva messa in pratica delle cosiddette «norme programmatiche» della Costituzione repubblicana, inizialmente rimandate per il principio di continuità dell’ordinamento: infatti, salvo la parte abrogata già dal 1944, la legislazione in vigore era quella emanata sotto il fascismo. Nel corso degli anni il tema del rispetto delle norme costituzionali divenne il motore di molte delle lotte condotte sul terreno giuridico da avvocati e giudici, che avevano riscoperto forme associative abolite durante il fascismo: nel 1944 era stata infatti rifondata l’Associazione nazionale magistrati (ANM).

11 Nel corso degli anni Sessanta, il benessere economico era diffuso ormai in settori sempre più ampi della società italiana, la quale però si trovò sempre più limitata in un ordinamento non più al passo coi tempi: il decennio fu inaugurato infatti con la prima grande stagione degli scioperi, sintomo di questa insofferenza. Spinte di questo genere verso il rinnovamento ebbero ripercussioni anche nelle istituzioni e nella magistratura: da un lato vi fu la fase dei governi di centro-sinistra, dall’altro con la legge Breganze (l. 25 luglio 1966, n. 57o) fu abolito l’obbligo del concorso per la progressione di carriera dei magistrati di tribunale a giudici d’appello. Eliminati i concorsi interni, i magistrati si sentirono più liberi di seguire i propri orientamenti, senza preoccupazioni di carriera9. Fu proprio all’inizio degli anni Sessanta che vennero a costituirsi alcune correnti interne all’ANM: tra il 1962 e il 1963 nacque Magistratura indipendente, rappresentante la componente moderata, mentre nel luglio 1964 fu costituita a Bologna Magistratura democratica. Fin dall’inizio i giudici iscritti si batterono per la piena applicazione dei principi costituzionali, con l’intento di contribuire alla trasformazione della società in senso emancipatorio ed egualitario, promuovendo una maggiore giustizia sociale.

12 Durante il triennio 1968-1970, l’Italia conobbe una notevole accelerazione della spinta sociale al cambiamento, anche se da parte politica non si riuscì sempre a rispondere

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adeguatamente al tali richieste. In questo contesto Magistratura democratica si interrogò sul ruolo che i giudici dovessero svolgere: non bastava essere interpreti della legge e promuovere la democratizzazione dell’esercizio della funzione giudiziaria, bisognava farsi garanti dei diritti della classi lavoratrici e dei ceti sottoposti. Secondo il magistrato Giuseppe Borrè, l’aspetto centrale che caratterizzò questo cambio di rotta fu la demistificazione, cioè «la rottura di miti antichi, autorevoli, mai posti in dubbio. […] Occorreva consumare uno scisma entro la cittadella della giurisdizione»10. Questo portò alla definizione di una linea politico-culturale che privilegiava il cosiddetto «“intervento esterno”, cioè il rapporto e la collaborazione con le forze politiche e sociali che operano per il cambiamento»11. La scelta di assumere posizioni che possono essere definite più marcatamente “di sinistra” accentuò le divisioni interne: nel 1969 Magistratura democratica subì una scissione interna guidata da uno dei suoi fondatori, Adolfo Beria d'Argentine. In ogni caso, l’associazione continuò le proprie attività indirizzandole all’applicazione dell0 Statuto dei lavoratori e rifacendosi direttamente all’articolo 3 della Costituzione, che impegna la Repubblica a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

13 Proprio all’esempio di Magistratura democratica si ispirò Franco Basaglia, che nel 1971 era stato nominato direttore dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste. Qui riorganizzò i servizi psichiatrici secondo le disposizioni della cosiddetta Legge Mariotti (l. 12 febbraio 1968, n. 132), la quale prevedeva la riorganizzazione complessiva degli ospedali, trasformati ora in enti pubblici. Si trattò di una riforma importante, dal momento che introdusse una serie di garanzie all’interno dei manicomi, ma d’altra parte essa non intaccò la legislazione di epoca giolittiana che regolava il loro funzionamento. È su tale questione che le battaglie per l’emancipazione e la liberazione condotte dagli psichiatri basagliani si intrecciarono a quelle di Magistratura democratica. Dopo una fase in cui i medici preferirono adottare forme d’impegno più «fluide», all’inizio degli anni Settanta essi cercarono di ridefinire e consolidare la propria identità attraverso la fondazione di associazioni sul modello di Magistratura democratica. Nella conferenza stampa del 13 ottobre 1973 fu presentato il documento programmatico dell’appena nata Psichiatria democratica, costituitasi a Bologna l’8 settembre precedente. Il gruppo fondatore comprendeva Franca Ongaro Basaglia, Franco Basaglia, Domenico Casagrande, Franco Di Cecco, Tullio Fragiacomo, Vieri Marzi, Piera Piatti, Agostino Pirella, Michele Risso, Lucio Schittar, Antonio Slavich12. Primo segretario fu Gian Franco Minguzzi, professore presso l’Università di Bologna, il quale ricoprì tale carica fino al 1977, quando la sua linea entrò in conflitto con altre correnti dell’associazione. Da parte loro, i magistrati democratici si dichiararono disposti a collaborare «per la ristrutturazione delle finalità comuni che si riassumono, in definitiva, nella finalità di garantire in ogni caso il rispetto della Costituzione»13.

3. «Quale giustizia» e la questione manicomiale

14 Il richiamo alla messa in pratica dei principi costituzionali è stata allo stesso tempo la fonte da cui è nata e lo stimolo con cui è andata avanti l’esperienza di «Quale giustizia», rivista di Magistratura democratica pubblicata dal 1970 al 1979: è probabile che non sia

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un caso che l’arco temporale coperto da questa pubblicazione coincida pressoché interamente con la già citata età delle riforme14. Fondata a Bologna, al suo interno collaborarono magistrati e giovani ricercatori universitari di giurisprudenza, tra cui Vincenzo Accattatis, Pasquale Basile, Luigi De Marco, Marco Ramat, Salvatore Senese, Domenico Pulitanò ed Elisa Ceccarelli. L’obiettivo del progetto era fornire un valido strumento di «documentazione, critica e di ricerca» sulla realtà italiana, non solo agli esperti in materia: tendendo presente una «prospettiva ben definita», i giudici e gli altri collaboratori del periodico contribuirono con articoli incentrati sulle tematiche più disparate, tra cui la difesa del lavoro e della salute, il pericolo delle violenze compiute da movimenti neofascisti, la repressione poliziesca e giudiziaria della rivolta studentesca, il diritto di famiglia e la questione manicomiale. Il richiamo alla Costituzione e ai suoi valori, il «solo padrone» riconosciuto da questi magistrati, comportò quindi il rifiuto di una giustizia repressiva intesa come il «braccio secolare del “sistema”», oltre alla necessaria ricerca di un’alternativa che potesse promuovere una maggiore giustizia sociale15.

15 Tra le tematiche a cui fu data maggiore importanza nei numeri di «Quale giustizia», alla questione dei manicomi e della salute mentale spetta un posto di spicco. Lo dimostra la frequenza con cui essa compare tra il 1972 fino al 1977, in forma di cronaca giudiziaria, focus o articolo; nel numero 17-18 del 1972, per esempio, ci si concentra soprattutto sul manicomio giudiziario, mentre il numero 29 del 1974 tratta ampiamente il problema delle situazioni giuridiche sospese. Più in generale, i redattori della rivista diedero molto spazio al complesso rapporto tra la giustizia e la salute, viste le sue ampie ricadute sociali.

16 La battaglia per la chiusura degli istituti psichiatrici fu condotta su «Quale giustizia» principalmente attraverso due vie. Da un lato si mostrò quanto la legge che regolava il funzionamento degli ospedali psichiatrici e dei manicomi giudiziari avesse come obiettivo l’esclusione sociale dei pazienti, non la loro cura; di conseguenza, i ricoveri di persone non malate, i soprusi e le terapie punitive e disumane, che venivano a galla quando un fatto di cronaca diventava di pubblico dominio, altro non erano se non una forma di «violenza legalizzata» facente parte di un vasto sistema coercitivo16. D’altra parte, fu proprio il diritto a fornire il principale strumento di contestazione: l’appello alla Costituzione per la definitiva chiusura dei manicomi è presente negli articoli della rivista, con intensità sempre maggiore dal 1974, cioè quando fu avanzata la questione di illegittimità costituzionale della legge che regolava le situazioni giuridiche sospese in caso di infermità mentale sopravvenuta all’imputato (dell’artt. 148 c.p. e 88 c.p.p.), in contrasto col diritto alla difesa espresso nell’art. 24, 2° Comma, Cost., che prevede a ogni grado della procedura penale la partecipazione dell’interessato e la sua assistenza per mezzo di un difensore17. Si trattava ovviamente solo di una delle tante contraddizioni sulle quali era costruito il sistema manicomiale.

3.1 La critica della legislazione dei manicomi

17 Tutto il sistema che regolava la cura della malattia mentale, dal ricovero al funzionamento degli istituti psichiatrici, era legata alla legge 14 febbraio 1904, n. 36 e al relativo regolamento di esecuzione del 1909, che dettavano le «disposizioni sui manicomi e sugli alienati» e operano conformemente alla «prevenzione e difesa sociale». L’analisi di «Quale giustizia» si focalizzò essenzialmente sulle tematiche di

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esclusione dei malati e di prevenzione dei sani nei confronti di coloro che risultano di pubblico scandalo. La legge in questione, sopravvissuta senza grossi cambiamenti durante il fascismo e la fase costituzionale, venne letta come uno strumento repressivo di controllo sociale e di salvaguardia della «morale piccolo-borghese», all’interno di un «sistema economico basato sul profitto [che] esclude le forze-lavoro improduttive»18.

18 Il testo della legge riporta che possano essere considerati «manicomi» tutti quegli «istituti, comunque denominati, nei quali vengono ricoverati alienati di qualunque genere»: non vi è quindi una definizione precisa dello spazio adibito agli infermi, perché in realtà è importante soprattutto che si tratti di un luogo idoneo a isolarli dalla società. D’altra parte, cosi come non è definito precisamente il manicomio, nel testo della legge non viene definita la natura della malattia mentale e su questo punto i redattori di «Quale giustizia» si concentrarono mostrando il circolo vizioso creatosi: «sono gli alienati che caratterizzano un luogo come manicomio; d’altra parte è il manicomio a caratterizzare come alienati i ricoverati in esso»19. Le uniche caratteristiche che la legge esplicita perché determinate persone possano essere ridotte in manicomio sono l’essere «pericolose a sé e agli altri» e il riuscire «di pubblico scandalo».

19 Proprio per semplificare l’isolamento di chi poteva turbare l’ordine pubblico, la procedura d’ammissione agli istituti era piuttosto rapida e regolata da certificati medici e ordinanze dei pretori. La stessa cosa non si poteva dire dell’eventuale «licenziamento dal manicomio», il cui procedimento era complesso e richiedeva tempi alquanto dilatati20. Un altro aspetto importante regolato dalla legge del 1904 era il fatto che la vigilanza su manicomi e «alienati» fosse affidata al Ministro dell’Interno e ai prefetti: il personale di guardia non era quindi composto solo da infermieri, ma anche da guardie vere e proprie. Era inoltre ammessa la possibilità che l’infermo di mente potesse essere ricoverato in una casa di cura privata, equiparata negli artt. 1 e 2 agli istituti pubblici. Gli interventi di «Quale giustizia» mostrano che tale distinzione sia fondamentalmente di natura economica: chi aveva i mezzi per farlo preferiva ricorrere agli istituti privati, che però, dietro una parvenza di pulizia, efficienza e buon trattamento dei ricoverati, spesso non tenevano conto neanche delle poche misure di tutela nei confronti dei malati disposte dalla legge. I casi di abuso di autorità, di soprusi e maltrattamenti erano frequentemente riportati dalla stampa italiana, come vedremo meglio nel terzo capitolo.

20 Se gli ospedali psichiatrici rappresentavano uno strumento di controllo sociale, nei manicomi giudiziari «Quale giustizia» lesse una «doppia violenza istituzionale», l’unione cioè dei sistemi coercitivi del carcere e del manicomio21. Nonostante il Codice penale definisse «incomunicabili» queste due istituzioni, dal momento che il carcere si doveva occupare delle persone imputabili «in grado di intendere e di volere» (quindi anche in grado di «emendarsi»), il manicomio invece delle persone non imputabili per «infermità mentali», sul piano effettuale non c’è differenza tra cura e repressione, tra custodia e carcerazione dal momento che, notano gli autori della rivista, «alla base della carcerazione manicomiale vi è una responsabilità oggettiva, la colpa di essere malato di mente o di essere considerato tale da altri»22. Questa confusione tra delinquenza e disadattamento portò a una «penosa e irrazionale promiscuità» nei manicomi giudiziari tra persone realmente malate e altre invece che vi erano ricoverate. Una lettera, inviata il 16 dicembre 1971 dal giudice di sorveglianza Alessandro Margara al Ministero di Grazia e Giustizia sulla situazione nel carcere

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giudiziario di Montelupo Fiorentino, riporta che molti dei presenti in fase di osservazione siano spesso soggetti «difficili», senza una caratterizzazione psichiatrica completa. Ciò comportava il sovraffollamento della struttura e impediva di svolgere terapie utili per i pochi internati realmente malati, mentre quelli che non lo erano venivano sottoposti in maniera controproducente allo stress dell’ambiente manicomiale23.

21 L’altra grossa questione affrontata nelle pagine di «Quale giustizia» fu proprio l’utilità ai fini terapeutici di molte delle pratiche adottate dal personale degli istituti manicomiali. L’utilizzo in molti casi del letto di contenzione, al quale venivano legati i malati più agiati o gli internati nei manicomi criminali, è un esempio di come discutibili sistemi di cura fossero tutt’uno con i mezzi di controllo fisico delle persone. L’ettrourtoterapia, l’insulinoterapia, e in molti casi anche psicofarmacoterapia vennero considerati metodi controproducenti o – nella migliore delle ipotesi – non utili ai fini della cura, sia dai rappresentanti di Magistratura democratica sia dagli psichiatri vicini a Basaglia, dal momento che fissavano il malato nel suo «ruolo passivo» impostogli dal sistema24.

22 In linea coi principi di rispetto della Costituzione, l’azione comune di «Quale giustizia» e di Psichiatria democratica evidenziò il fatto che i manicomi italiani fossero una delle facce di un vasto sistema coercitivo, attraverso l’individuazione «della natura di classe delle norme discriminanti, emarginanti, repressive» che regolavano questi istituti25. Tutto ciò si evince anche dalle scelte lessicali: negli articoli della rivista termini come «internati», «custodia», «repressione» e «controllo» risultano molto più frequenti di «ricoverati» e «cura». Le difficoltà maggiori di questa riforma erano dovute a realtà strutturali, regolamentari e funzionali ormai consolidate da decenni di pratica, le quali rendevano inutili anche figure come il giudice di sorveglianza degli istituti psichiatrici giudiziari, il cui compito si limitata ad assicurare il rispetto minimo delle procedure di ammissione e uscita dei malati.

23 Messe in luce – in base alla lettura marxista della società – le cause strutturali (rapporti di produzione) e sovrastrutturali (norme e valori) che regolavano questo meccanismo di esclusione, ecco allora che il fine della battaglia dei medici e dei magistrati fu quello di mostrare anzitutto che queste pratiche fossero controproducenti e annichilenti per le persone in questione e, d’altra parte, che fosse possibile intraprendere un percorso terapeutico alternativo a quello repressivo in vigore, rendendo «volontaria» l’applicazione delle cure. La lotta, allargata poi all’intero sistema sanitario italiano, puntava a una riforma radicale dell’ordinamento.

3.2. I rilievi di incostituzionalità della legislazione sui manicomi

24 Il terreno su cui si concentrò maggiormente l’attività di Magistratura democratica perché si arrivasse alla chiusura degli ospedali psichiatrici fu quello della legittimità costituzionale: nel decennio delle riforme, la questione manicomiale ricoprì un ruolo importante e la Corte costituzionale fu chiamata a esprimersi sulla legislazione che regolava i processi ai malati di mente, i ricoveri e il funzionamento dei manicomi. In questo modo, l’appello ai valori fondativi del diritto italiano fornì un valido strumento per la sua riforma in chiave più democratica.

25 Una delle problematiche approfondite nelle pagine di «Quale giustizia» è quella delle situazioni giuridiche sospese in relazione a uno stato di malattia mentale, a partire

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dalla relazione del giudice di sorveglianza del Tribunale di Firenze Margara su alcuni ricoverati del manicomio giudiziario di Montelupo, i quali si trovavano di fatto in un «ergastolo di sicurezza»26. L’art. 148 del Codice penale prevedeva, in caso di infermità mentale sopravvenuta, la sospensione di un procedimento penale, della pena o delle misure detentive. Tutti questi casi comportavano il ricovero in manicomi giudiziari e spettava al giudice di sorveglianza decidere se far cessare questa sospensione, qualora il soggetto avesse recuperato le capacità di intendere e volere. Ciò che l’articolo della rivista fa notare è che era impossibile auspicare un miglioramento delle condizioni psichiche dei sospesi a giudizio, visto l’ambiente carcerario in cui venivano posti: venivano a crearsi invece «situazioni di perdita della libertà personale praticamente perpetue», con casi frequenti di sospensione non giustificata 27.

26 Per questo motivo, si auspicava una scrupolosa perizia psichiatrica del soggetto, per comprendere se l’infermità fosse sopravvenuta al fatto o lo precedesse, nel qual caso l’imputato andava prosciolto. Per i ricoverati a pena sospesa invece, in primo luogo le critiche andavano contro le negligenze nelle perizie stesse, che facevano sì che molte persone venissero «dimenticate nei manicomi»28. D’altra parte venne messa in luce che, in base alla legge, il periodo di restrizione personale in manicomio era irrilevante ai fini dell’espiazione della pena. Secondo gli autori degli articoli di «Quale giustizia», ciò era l’ulteriore dimostrazione del carattere segregativo e punitivo del Codice penale: la questione era che andavano salvaguardati la consapevolezza e la partecipazione cosciente dei soggetti rispettivamente alla pena o al processo, non tanto la guarigione dall’infermità psichica, pressoché impossibile viste le condizioni disastrose dei manicomi giudiziari29.

27 La questione della legittimità costituzionale dell’art. 148 del Codice penale e dell’art. 88 del Codice di procedura penale venne sollevata a partire dall’art. 24, 2° Comma della Costituzione, che nel diritto alla difesa prevedeva la partecipazione dell’interessato e la sua assistenza per mezzo di un difensore. Fu sostenuta l’illegittimità del regime di sospensione dell’esecuzione della pena per infermità sopravvenuta e l’incostituzionalità del fatto che il periodo trascorso in manicomi giudiziario con pena sospesa non venisse sottratto alla pena da espiare. Il principio ispiratore della norma non poteva essere la correzione dell’imputato attraverso l’afflizione. Dopo un iter piuttosto lungo, la Corte costituzionale si espresse nel giugno 1975, dichiarando illegittimo l’art. 148 nella parte in cui prevede che il giudice, nel disporre il ricovero in manicomio giudiziario del condannato caduto in stato d'infermità psichica durante l'esecuzione di pena restrittiva della libertà personale, ordini che la pena medesima sia sospesa. Ha dichiarato del pari l'incostituzionalità dell'art. 148 nella parte in cui prevede che il giudice ordini la sospensione della pena anche nel caso in cui il condannato sia ricoverato in una casa di cura e di custodia ovvero in un manicomio comune (ospedale psichiatrico)30. Tuttavia fu dichiarata inammissibile la questione di incostituzionalità in riferimento all’art. 24 della Costituzione.

28 La reticenza da parte della Corte costituzionale a una riforma radicale del sistema giudiziario in riferimento ai manicomi venne letta dagli autori della rivista come una «scelta politica»: non vi era intenzione di compromettere l’impianto legislativo della legge del 1904 che faceva perno sul concetto di «pericolosità sociale» degli infermi di mente. A questo proposito venne riportata la richiesta da parte giudice Cerminara della Pretura di Roma di verifica della costituzionalità dei primi due articoli della legge, in

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base ai quali un pretore poteva mandare provvisoriamente in manicomio un malato se c’era – come si è detto – una richiesta da parte di parenti o tutori, un certificato di un «medico esercente» e un atto di notorietà, il tutto nell’interesse della società e del malato. Il giudice romano insisteva che queste misure contrastassero con l’art. 32 della Costituzione in materia di trattamenti sanitari, per cui «la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana», sebbene venga ammesso in alcuni casi l’obbligo di un determinato trattamento per disposizione di legge. Il punto cruciale era però che i malati di mente non venivano considerati «persone», bensì soggetti pericolosi per la società, che provvede pertanto alla loro esclusione e custodia in luoghi separati31.

4. Le cronache giudiziarie

29 L’analisi e la critica della società italiana condotte dai giuristi che scrivevano su «Quale giustizia» erano integrate con sentenze di vario argomento che venivano riportate per intero. È questa probabilmente una delle caratteristiche più interessanti della rivista, in grado di arricchire il dibattito con esempi concreti di applicazione della giustizia. Si trattava spesso di casi che trovavano spazio anche nelle cronache dei quotidiani e, per quanto riguarda il tema della salute mentale, in gran maggioranza sono riportati per mostrare le forme di coercizione presenti nella legislazione italiana, tra cui spicca l’istituzione manicomiale.

30 Una delle sentenze citate è quella della Pretura di Parma del 21 aprile 1972, riguardante la denuncia esposta dal dottor Euplio Mastrangelo contro il medico di guardia dell’Ospedale psichiatrico il Colorno, il dottor Franco Rotelli. Questi avrebbe rifiutato «per ragioni di ordine specialistico-sanitario e per ragioni di ordine burocratiche amministrative (sic.) in quanto proveniente da altra provincia»32 il ricovero di Tiziano Bigi, persona affetta da «etilismo cronico»; costui si era precedentemente rivolto al dottor Mastrangelo, il quale aveva riconosciuto i sintomi di «deterioramento psichico» e aveva chiesto all’autorità di pubblica sicurezza il ricovero d’urgenza in via provvisoria, approvata dal Questore. Con questo esempio si vuole mettere in luce il potere della pubblica amministrazione e dell’atto d’ordinanza: senza aver fatto ricorso agli strumenti di interpretazione dell’ordinanza e senza aver effettuato una visita più accurata del signor Bigi, ciò che risulta è la messa in discussione dell’«Autorità» dello Stato. Il rifiuto del dottor Rotelli era perciò attribuito a una mancanza di rispetto delle istituzioni33. D’altra parte, il caso è un’ulteriore dimostrazione che la semplicità con la quale si poteva entrare in manicomio – seppur in via provvisoria – non fosse controbilanciata da una rapida dismissione, qualora si fosse provveduto a una perizia psichiatrica più accurata.

31 Accanto alla critica del concetto di autorità, le pagine di «Quale giustizia» riportano anche due episodi drammatici di morte avvenuti nei manicomi. Era piuttosto raro che la responsabilità dei fatti ricadesse sugli infermieri di reparto o sui medici stessi ed erano poche le cronache giudiziarie che trattavano casi di questo tipo: tuttavia quelle poche condanne registrate sono utili per comprendere quali fossero che condizioni all’interno degli ospedali psichiatrici.

32 Il primo di questi due casi riguarda la condanna del prof. Benigno Di Tullio, titolare della Casa di Salute per Malattie Nervose Parco delle Rose: si trattava di una cosiddetta «clinica aperta» privata, dove potevano essere ricoverati solo malati «non pericolosi»,

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ai quali era concessa maggiore libertà, e dove erano assenti rigide misure di sicurezza e personale diverso dagli infermieri. Il 12 ottobre 1973 vi fu ricoverato tale B. A., ritenuto sofferente di schizofrenia catatonica, non pericolosa per sé. Egli però il 14 ottobre, elusa la sorveglianza, riuscì ad allontanarsi dalla clinica e venne ritrovato impiccato il giorno dopo. Questo triste caso, attribuito inizialmente a un difetto di sorveglianza, viene riportato nella rivista in quanto esempio di come le cliniche private tendessero a eludere la legislazione corrente: la casa di cura in questione – viene detto – «era formalmente una clinica aperta ma operava, sostanzialmente, come clinica aperta e come clinica chiusa»34, dal momento che era divisa in due reparti, uno dei quali era dotato di reti metalliche, finestre con inferriate e porte di sicurezza. In base a ciò, era equiparabile ai manicomi chiusi pubblici, ai sensi dell’artt. 1 e sgg. l. 14.2.1904 n. 36 e artt. 1, 2, 3, 4 e segg. del R.D. 16.8.1909 n. 615, cosa non rispettata dalla Casa Parco delle Rose. Non solo: l’art. 2 della legge 18.3.1968 n. 431 prevedeva un «rapporto di un infermiere per ogni tre posti-letto», anch’esso eluso essendo presenti nella clinica solo due infermieri per un totale di 45 ricoverati al momento del fatto.

33 Oltre al non rispetto del regolamento, la questione di fondo è che non si sia tenuto conto del fatto che il paziente soffrisse in realtà di schizofrenia paranoica: nella sua cartella clinica erano registrati infatti casi precedenti di tentato suicidio, di allucinazioni e di istinti omicidi. Durante il processo, il pubblico ministero cercò di sciogliere il nesso tra azione-omissione colposa del dottor Di Tullio e il fatto delittuoso, sostenendo che il malato avesse scelto coscientemente il suicidio. In realtà, la condanna fu di aver accettato nella propria clinica non idonea un malato che presentava gravi sintomi, dei quali però non si era tenuto conto. Questo caso mostra, secondo i redattori della rivista, quanto dietro a un’apparenza di maggior pulizia ed efficienza delle cliniche private vi fossero in realtà interessi economici, non terapeutici: tale problema non era quindi caratteristica esclusiva delle strutture pubbliche, ma coinvolgeva l’istituzione manicomiale nel suo complesso35.

34 Uno dei casi tristemente più noti di violenza fu quello avvenuto nel manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli, dove la signora Antonia Bernardini, arrestata per oltraggio e lesioni a pubblico ufficiale e sofferente di ripetuti esaurimenti nervosi, era ricoverata in attesa di giudizio. Pur essendo accusata di un reato da quattro o cinque mesi con la condizionale, la Bernardini rimase a Pozzuoli più di un anno, finché nella notte del 27 dicembre 1974, nonostante fosse legata al letto di contenzione, riuscì a darsi fuoco; morì il 31 dicembre in seguito alle ustioni riportate. Si trattò di una notizia, resa pubblica solo il 4 gennaio 1975, che ebbe una vasta risonanza mediatica36, fino alla sentenza del 17 giugno 1977 con cui il Tribunale di Napoli condannò per omicidio colposo, abuso di autorità e di falso ideologico in atto pubblico i responsabili: quattro anni di carcere furono dati al dottor Francesco Corrado (direttore dell’ospedale), quattro e mezzo al dottor Giuseppe Tempone (direttore di reparto), un anno e mezzo alla suora responsabile del personale e a tre vigilatrici.

35 Riguardo questo caso, il dibattito di «Quale giustizia» è incentrato sulla liceità e utilità come strumento terapeutico del letto di contenzione e delle altre forme coercitive che possono incidere violentemente sulla personalità del malato. Il ricorso a esse era ancora permesso nelle strutture, nonostante fosse in qualche modo limitato o regolato da norme, soprattutto in ospedali come quello di Pozzuoli, che all’epoca poteva vantare poche carenze dal punto di vista della manutenzione e del personale. Qualora però si fosse dimostrato che l’uso di mezzi coercitivi fosse stato fatto «per motivi utilitaristici

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gravemente censurabili e con effetti terapeutici addirittura controproducenti»37, a quel punto non erano più considerate pratiche lecite. Dalle indagini si scoprì che le pazienti ospitate a Pozzuoli erano frequentemente legate al letto nelle ore notturne, solo per garantire al personale di sorveglianza una maggior tranquillità e non per scopi terapeutici. Inoltre, contrariamente a quanto stabilito dal regolamento, i provvedimenti coercitivi erano disposti in maniera informale, senza indicazioni sulla cartella clinica e senza tener conto dell’effetto deleterio che essi avevano su molte delle internate, tra cui la signora Bernardini. Questo era stato fatto anche nei giorni precedenti al fatto: prima di andare in vacanza, il dottor Tempone aveva firmato in bianco il registro delle contenzioni, cosicché le vigilatrici potessero regolarsi come meglio credevano nei giorni della sua assenza, risparmiando la fatica di contattarlo per chiedergli il via libera. Lo stesso direttore del centro, il dottor Corrado, non andò a sostituire Tempone durante la sua assenza. Per questo atto i due «debbono rispondere del reato continuato di cui all’art. 608 c.p.; della fattispecie di cui all’art. 586 c.p. e il secondo, altresì, del delitto di falso ideologico in atto pubblico»38.

36 All’interno di questa vicenda è possibile ritrovare i punti principali sui quali si batté «Quale giustizia». La signora Bernardini soffriva di una patologia che non era mai stata analizzata accuratamente: tuttavia era considerata persona indesiderabile, in quanto mentalmente instabile ed economicamente non produttiva. Il fatto che si fosse recata più volte – di sua spontanea volontà – al manicomio civile di Roma per essere curata quando era in preda a crisi depressive, la inserì nel meccanismo di esclusione sociale che la etichettava come «malata di mente». Accusata poi di un delitto non grave, fu dimenticata in un manicomio giudiziario che, dietro la facciata della pulizia e della professionalità, nascondeva pratiche discutibili e controproducenti a livello terapeutico. Alla luce di tutti questi aspetti, la Bernardini rappresenta appieno una vittima della «doppia esclusione»39 veicolata dagli ospedali psichiatrici (specie quelli giudiziari), tematica centrale della battaglia condotta da Psichiatria democratica contro l’istituzione manicomiale.

Conclusioni. La legge 1978, n. 180

37 I collaboratori di «Quale giustizia» si rendevano conto che la riforma del sistema sanitario italiano, della quale il Parlamento iniziò a occuparsi nel 1977, dovesse in qualche modo rivoluzionare anche il modo in cui veniva affrontata la malattia mentale. Era necessario però coinvolgere un sistema più ampio che comprendeva manicomi giudiziari e carceri, tutti parte di un meccanismo di esclusione di chi era considerato pericoloso e – soprattutto – irrecuperabile, meccanismo su cui si erano fondate società e istituzioni.

38 Nel corso del «decennio riformista», l’esigenza di una riforma della normativa psichiatrica andò di pari passo con l’allargamento della democrazia che la società civile portava avanti in forme fino ad allora inedite o profondamente mutate se già esistevano: le organizzazioni sindacali, le proteste di piazza, la mobilitazione dell’opinione pubblica attraverso riviste o trasmissioni radiofoniche, i referendum. Tutti questi stimoli «dal basso» contribuirono ad accelerare la spinta alle riforme attuate dai governi di coalizione tra democristiani e socialisti, nella prima metà degli anni Settanta, e poi dai due governi di unità nazionale. D’altra parte però, il ruolo delle istituzioni fu tutt’altro che passivo: esse accolsero al loro interno alcune delle istanze

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provenienti dalla società civile più progressista, ma ciò comportò in molti casi l’abbandono delle posizioni più radicali quali poteva avere – nel nostro caso – il movimento anti-istituzionale basagliano. In questo modo il ricorso al diritto e ai principi costituzionali come strumento di contestazione operato da Magistratura democratica può aver avuto come conseguenza indiretta la legittimazione di quello Stato contro il quale si protestava40. Nonostante la messa da parte di molti obiettivi che questi movimenti si erano dati, essi riuscirono nel caso della salute mentale a porre l’accento sul fatto che essa fosse in primo luogo una questione sociale, non solo biologica. Ciò che la rivista «Quale giustizia» e Psichiatria democratica cercarono di fare fu quindi porsi «come punto di riferimento tecnico per le forze politiche progressiste»41 indirizzate alla chiusura dei manicomi, interpretati come simbolo lampante di controllo ed esclusione.

39 Dopo che la legge ponte del 1968 ebbe modificato in parte le condizioni interne ai manicomi, nell’aprile 1977 la Camera dei deputati diede il via alla discussione sul disegno di legge «Istituzione del servizio sanitario» (la futura legge 1978, n. 833), all’interno del quale doveva essere trattata anche l’assistenza psichiatrica. Il ruolo di mediatore tra le varie sollecitazioni fu svolto dal deputato democristiano e psichiatria Bruno Orsini: se da un lato si era d’accordo sull’abrogazione della legge manicomiale del 1904 e 1909, dall’altro l’ammissibilità e la regolamentazione del ricovero non volontario fu fonte di dibattito, per le implicazioni costituzionali, politiche e sociali che esso aveva. La stesura legge quadro n. 180, inoltre, rispose alla necessità di uscire da una situazione difficile. Entro l’11 maggio 1978 il disegno di legge avrebbe dovuto essere approvato, altrimenti si sarebbe proceduto a un referendum sull’abolizione della normativa precedente (proposto dai radicali), il cui esito però non era scontato. Inoltre erano quelli i mesi in cui l’Italia visse la vicenda del sequestro del presidente della Democrazia cristiana .

40 In questo clima, il disegno di legge portato avanti da Orsini sulla riforma dell’assistenza psichiatrica fu presentato, discusso e approvato in tempi record da Camera e Senato: il 10 maggio 1978 la legge n. 180 «Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori» venne firmata dal capo dello Stato , dal guardasigilli Paolo Bonifacio e dal ministro della Sanità Tina Anselmi. Venne così attuata una rivoluzione nella psichiatria italiana: i manicomi sarebbero stati chiusi. Tuttavia la 180 non poteva essere la «legge Basaglia», come spesso è definita: non era nemmeno una legge a se stante, ma parte del sistema sanitario nazionale. Lo stesso Basaglia il giorno prima della ratifica sottolineò il fatto che si trattasse certamente di un compromesso politico, per cui era consigliabile evitare facili euforie: «non si deve credere di aver trovato la panacea a tutti i problemi del malato di mente con il suo inserimento negli ospedali tradizionali»42.

41 Nonostante i risultati non fossero all’altezza delle aspettative di coloro che, nel corso degli anni, si erano battuti per la chiusura dei manicomi, la legge n. 180 rappresentò un tappa fondamentale del processo di democratizzazione della società italiana e di riconoscimento della dignità di persona e dei diritti civili e politici anche di coloro che potevano essere sottoposti a trattamenti sanitari obbligatori. Questo saggio breve ha cercato di mostrare quanto, nel raggiungimento di questo traguardo, l’uso del diritto come arma per mobilitare l’opinione pubblica e spingere alle riforme abbia giocato un ruolo centrale. Tuttavia, la chiusura dell’esperienza di «Quale giustizia» col numero di giugno 1979, pressoché in concomitanza col tramonto delle grandi riforme del

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decennio, lascia aperta la domanda se il ricorso al diritto con obiettivi politici o sociali possa portare a risultati concreti per una vera democratizzazione della società anche al giorno d’oggi, o se invece il formalismo e la sovrapposizione di norme e regolamenti lo rendano al contrario uno mezzo per disinnescare tale spinta alle riforme43. Al di là di questi interrogativi, il contributo di Magistratura democratica e dalla sua rivista fu senz’altro importante per superare la definizione che la legge del 1904 dava dei malati di mente come persone «pericolose a sé o agli altri [e] di pubblico scandalo»44.

NOTE

1. ISRAËL, Liora, Le armi del diritto, Milano, Giuffrè, 2012, p. 9. 2. MALATESTA, Maria, Professioni e impegno negli anni Sessanta agli anni Ottanta, in MALATESTA, Maria (a cura di), Impegno e potere. Le professioni italiane dall’Ottocento a oggi, Bologna, Bononia University press, 2011, p. 73. 3. Ibidem, pp. 74-75. 4. BASAGLIA, Franco (a cura di), L’istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968, p. 116. 5. Ibidem, pp. 122-123. 6. Ibidem, p. 329. 7. MALATESTA, Maria (a cura di), op. cit., p. 79. 8. BASAGLIA, Franco (a cura di), op. cit., p. 8. 9. BERTI ARNOVALDI VELI, Giuliano, Post-fazione: il Sessantotto e il mondo del diritto in Italia, in ISRAËL, Liora, op. cit., p. 115. 10. PEPINO, Livio, «Appunti per una storia di Magistratura democratica», in Questione giustizia, 1, 2002, pp. 11-12, URL: [consultato il 6 novembre 2014]. 11. Storia di MD, Magistratura democratica, URL: [consultato il 6 novembre 2014]. 12. MALATESTA, Maria (a cura di), op. cit., pp. 80-82; BABINI, Valeria P., Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2011, p. 285. 13. «Psichiatria democratica», in Quale giustizia, 21-22, 1973, p. 583. 14. Un’altra interessante pubblicazione del periodo fu La Questione criminale, curata dalla scuola penalistica di Bologna che faceva capo a Franco Bricola, docente di diritto penale presso l’Alma mater studiorum. 15. RAMAT, Marco, «Un solo padrone», in Quale giustizia, 1, 1970, p. 7. In questo editoriale è espresso chiaramente cosa intendessero per giustizia i redattori della rivista: «Ci torna in mente questo bellissimo e amaro ritratto fatto da A. : “Ho conosciuto un giudice austero. Si chiamava Thomas de Maulon ed apparteneva alla piccola nobiltà provinciale. Era entrato volontariamente nella magistratura sotto il settennato del maresciallo McMahon nella speranza di rendere un giorno la giustizia in nome del Re. Aveva dei princìpi che poteva credere irremovibili, non avendoli mai mossi. Quando si muove un principio, si trova sempre qualcosa sotto, e ci si accorge che non era un principio. Thomas de Maulon teneva accuratamente al riparo della sua curiosità i propri princìpi religiosi e sociali”. Ecco perché abbiamo dichiarato ‘eretica’ questa rivista. Il significato etimologico di eresia è ‘ricerca’, ‘scelta’. Ma per cercare e per

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scegliere è necessario lo stimolo della curiosità, il coraggio di essere curiosi. “Aveva dei princìpi che poteva credere irremovibili, non avendoli mai mossi”: a quanti uomini, a quanti magistrati si può attribuire questo stato d’ animo?». 16. LIBERTINI, Raffaele, «Il manicomio non ha mai fine», in Quale giustizia, 29, 1974, p. 624. 17. «Manicomio a vita. Le situazioni giuridiche sospese», in Quale giustizia, 29, 1974, pp. 568-580. 18. AMBROSINI, Giangiulio, CECCARELLI PULITANÒ, Elisa, «L’esclusione manicomiale e la sua legge», in Quale giustizia, 17-18, 1972, p. 581. 19. Ibidem, p. 580. 20. Legge 14 febbraio 1904, n. 36, Disposizioni sui manicomi e sugli alienati. Custodia e cura degli alienati, artt. 2 e 3. 21. CAPPELLI, Igino, «Il manicomio giudiziario», in Quale giustizia, 17-18, 1972, p. 620. 22. AMBROSINI, Giangiulio, CECCARELLI PULITANÒ, Elisa, «L’esclusione manicomiale e la sua legge», in Quale giustizia, 17-18, 1972, p. 584. 23. «Il manicomio giudiziario come doppia esclusione», in Quale giustizia, 17-18, 1972, pp. 622-33. 24. BASAGLIA, Franco (a cura di), op. cit., p. 146; «Sono matti: suicidiamoli», in Quale giustizia, 41-41, 1977, pp. 702-703. 25. «Il convegno nazionale di Psichiatria Democratica», in Quale giustizia, 30, 1974, p. 767. 26. «Manicomio a vita. Le situazioni giuridiche sospese», in Quale giustizia, 29, 1974, p. 568. 27. Ibidem, p. 570. 28. Esempi di queste “dimenticanze” sono G. Angioni, B. Vangiu, i quali erano innocenti o infermi prima di commettere il delitto. Caso emblematico è quello di Andrea Pellerano che, pur dovendo scontare solo tre anni di carcere per furto, ritenuto insano di mente ne passò venti in un manicomio giudiziario; cfr. CARBONE, Fabrizio, «Doveva scontare 3 anni per furto. Ne passò venti in un manicomio», La Stampa, 29 aprile 1975, p. 11. 29. LIBERTINI, Raffaele, «Il manicomio non ha mai fine», in Quale giustizia, 29, 1974, p. 621. 30. Corte costituzionale, 19 giugno 1975, n. 146. 31. Cfr. «La legge sui manicomi di nuovo sotto accusa», in Quale giustizia, 36, 1975, pp. 746-48; BASAGLIA, Franco (a cura di), op. cit., pp. 122-123. 32. «Il manicomio facile», in Quale giustizia, 17-18, 1972, p. 469. 33. Ibidem, p. 470. 34. «Sono matti: suicidiamoli», in Quale giustizia, 41-42, 1977, p. 699. 35. Ibidem, pp. 696-700. 36. Cfr. «Bloccata nella camicia di forza si libera e si dà fuoco: è morta», La Stampa, 5 gennaio 1975, p. 9; PUNTILLO, Eleonora, «Senza soccorsi muore bruciata legata al letto di contenzione», in l’Unità, 5 gennaio 1975, p. 5. 37. «Sono matti: suicidiamoli», in Quale giustizia, 41-42, 1977, p. 703. 38. Ibidem, p. 704; cfr. PUNTILLO, Eleonora, «Condannati per Antonia Bernardini bruciata viva nel carcere-manicomio», in l’Unità, 18 giugno 1977, p. 5. 39. Cfr. nota 23. 40. È questa una delle problematiche più interessanti messe in luce ne Le armi del diritto, nel momento in cui si parla di «legittimazione involontaria» e di «relativa eufemizzazione dei conflitti» qualora la contestazione si serva del diritto: cfr. ISRAËL, Liora, op. cit., pp. 79-84. 41. BABINI, Valeria P., op. cit., p. 285. 42. GILIBERTO, Franco, «Che dice Basaglia», in La Stampa, 12 maggio 1978, p. 12. 43. ISRAËL, Liora, op. cit., pp. 108-109. 44. Legge 14 febbraio 1904, n. 36, art. 1.

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RIASSUNTI

Il presente saggio è incentrato sul rapporto tra salute mentale e diritto nel contesto riformistico italiano degli anni Settanta del Novecento. La lotta condotta insieme dagli esponenti di Magistratura Democratica e Psichiatria Democratica per la chiusura degli ospedali psichiatrici e dei manicomi giudiziari è ripercorsa attraverso la lettura di «Quale giustizia», rivista giuridica impegnata in questa e in altre campagne: in essa sono presenti da un lato articoli di psichiatri e giuristi, dall’altro alcune cronache giudiziarie significative. In questa sede si vuole mettere in luce l’efficacia e i limiti concreti dell’impiego del «diritto come arma» per portare avanti riforme giuridiche e sociali, attraverso l’appello alla Costituzione.

This paper focuses on the relationship between mental health and law in the Italian reformist context in the decade of the seventies of the 20th century. The mutual agreement of the members of Magistratura democratica and Psichiatria democratica for the closure of psychiatric hospitals and judicial asylums for the criminally insane is analyzed through the reading of «Quale giustizia», juridical magazine committed to this and other campaigns: on the one hand articles of psychiatrists and lawyers, on the other some significant judicial reports. Here we want to highlight the effectiveness and the practical limitations of the use of the «law as a weapon» to advance legal and social reforms, through an appeal to the Constitution.

INDICE

Parole chiave : diritto, ospedali psichiatrici, psichiatria, Quale giustizia, questione manicomiale Keywords : asylum issue, law, psychiatric hospitals, psychiatrist, Quale giustizia

AUTORE

FRANCESCO MANTOVANI

Ha studiato Storia presso l’Università di Bologna, dove ha conseguito la Laurea triennale nel 2013 con una tesi sul nuovo ordine mediterraneo fascista. Iscritto a Scienze storiche nello stesso ateneo, partecipa attualmente al secondo anno del Corso di Laurea Magistrale integrato italo- tedesco in Scienze storiche (BiBoG) presso l’Universität Bielefeld.

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La scienza nel processo penale: Porto Marghera

Marina De Ghantuz Cubbe

1. Il polo industriale

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1 Porto Marghera ha rappresentato, a partire dal 1917, anno dei primi insediamenti, una promessa di sviluppo tale da convogliare le energie e le vite di migliaia di persone. Nel 1927 Venezia deteneva, all’interno della regione Veneto, il primato nel settore meccanico, nella lavorazione dei minerali non metalliferi e nel settore chimico. «Era accaduto quel fatto significativo e davvero fondamentale nella storia dello sviluppo veneto, rappresentato da Porto Marghera»1. In dieci anni si era avviato il processo di industrializzazione e sviluppo della laguna pensato dall’ingegner Coen Cagli, il quale aveva elaborato un progetto ambizioso per la costruzione del nuovo porto di Venezia in terraferma con annessi zona industriale e quartiere urbano; «tale progetto venne dichiarato “meritevole di approvazione” dal Consiglio superiore dei LLPP [lavori pubblici] il 15 maggio 1917»2. Partecipava al progetto il Sindacato di studi per imprese elettro-metallurgiche nel porto di Venezia, nato con il consenso e l’appoggio del Comune e della Provincia e presieduto dal conte Giuseppe Volpi di Misurata, Ministro delle finanze del governo Mussolini dal 1925 al 1928. Il 12 giugno 1917 il Sindacato si trasformava in Società del porto industriale di Venezia e il 23 luglio firmava la Convenzione relativa alla concessione della costruzione del nuovo porto di Venezia, in regione di Marghera, e ai provvedimenti per la zona industriale e il quartiere urbano. Mancavano due mesi alla disfatta di Caporetto e intanto a Porto Marghera iniziava un’altra storia italiana; protagonista era il Consorzio3 che ne stabiliva le sorti. I piani regolatori, realizzati dai partecipanti al Consorzio presieduto dal già citato Giuseppe Volpi, riguardavano sostanzialmente il continuo ampliamento dell’insediamento; alla Ia zona industriale in cui primeggiava la SADE (Società Adriatica di Elettricità) di proprietà dello stesso Volpi, si affiancò la IIa zona pensata tra il 1953 e il 1956, attraverso la quale venne realizzata un’area completamente autonoma e consacrata alla chimica. La società Edison4 dava infatti avvio all’invasione della nuova zona, insediando produzioni che integravano quelle già in atto nel cosiddetto Petrolchimico1 del 1949. A partire dal 1953 iniziava a disegnarsi all’interno della seconda area di espansione un gigantesco stabilimento articolato per sezioni operative, tutte coordinate da una direzione unificata, quella dell’Edison. Le vicende degli anni Cinquanta dell’Edison gettano le basi di uno sviluppo che non conoscerà battute d’arresto, grazie soprattutto alla continua modernizzazione degli impianti, sinonimo di potenziamento industriale5.

2 L’invasione diviene ancora più evidente nel 1966, anno in cui la Montecatini6 e l’Edison si fondono nella Montedison andando a detenere l’84% delle aree di pertinenza del polo industriale. La Montedison «a ridosso degli anni Settanta copre inoltre l’80% della produzione nazionale per quanto riguarda la chimica fine»7 e sin dal 1971, anno di insediamento di Eugenio Cefis a capo dell’azienda, l’area del Petrolchimico è segnata da processi di ristrutturazione caratterizzati da continue espansioni. È così che durante questi anni Porto Marghera consolida definitivamente una posizione di primo ordine nello scenario dello sviluppo industriale italiano. Per tale conquistata egemonia e per altri, tragici motivi, la Montedison e Porto Marghera confluiranno, nella «memoria

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post-industriale»8, in un unico luogo rappresentativo dell’immaginario collettivo: il Petrolchimico, anche detto Petrolkiller9.

3 «Risalgono agli anni Settanta i molteplici e complessi riassetti societari ma un momento di svolta in questo senso è segnato dall’affare Enimont10» varato nel 1989, che doveva raggruppare le attività di Montedison e di Enichem (società dell’Eni) creando un vero e proprio colosso della chimica nel mondo; il progetto fallì e il futuro di Porto Marghera divenne sempre più incerto, sino al declino. Il successore di Eugenio Cefis (1971- 1977), Raul Gardini (1986-1991), fu promotore del suddetto progetto, responsabile del fallimento, vittima e carnefice allo stesso tempo: ad un anno dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite in cui per l’affare Enimont erano indagati tutti i più alti dirigenti del gruppo, si suicida con un colpo di pistola. La responsabilità del grande gruppo dirigente non è stata solo quella di aver fatto sprofondare la Montedison in una crisi autodistruttiva, peraltro pagata alla fine dal denaro pubblico oltre che dal salario e dal lavoro di migliaia di operai; ma di aver avvelenato i lavoratori in fabbrica e la popolazione di un vasto territorio inquinato da ogni sorta di sostanze tossiche e nocive11.

4 Gli operai di Porto Marghera, sin dal secondo dopoguerra hanno vissuto le vicende delle imprese attraverso scioperi e mobilitazioni. Si sono raggiunte, soprattutto durante l’ “autunno caldo”, non solo conquiste contrattuali: Porto Marghera è stata una delle punte più avanzate del paese, sia per le multiformi sollecitazioni spontaneiste che si sono levate dal basso che per le forme articolate di lotta. È dentro queste tensioni e sempre dal basso che si è fatta strada, a partire dai reparti CV (Cloruro di vinile) del Petrolchimico, anche una nuova forma di contestazione-rivendicazione: “La salute non si paga”12.

2. Il processo

5 Sul finire degli anni Sessanta tra gli operai e i sindacati di Porto Marghera si sapeva poco o niente rispetto ai rischi corsi ogni giorno nei reparti di lavorazione CV. Nel 1966 la forte alluvione che sommerge Venezia preoccupava il mondo intero e le istituzioni varavano nel 1973 la prima legge speciale per Venezia; era la prima legge a non dare avvio a nuovi lavori bensì atta a difendere un patrimonio storico e ambientale. Ma la legge riguardava Venezia, non la vicina Marghera. In quegli anni infatti all’interno del polo industriale la problematica non era ancora la salvaguardia dell’ambiente né tanto meno la salute umana: «dell’ambiente nocivo e di rischio al Petrolchimico, come in tante altre fabbriche, se ne dava per scontato un certo grado come dato obbligato e lo si ripagava con una indennità salariale ai lavoratori, considerata persino una conquista» 13.

6 Gianfranco Bettin, oggi assessore all’ambiente presso il Municipio di Mestre, ricorda con queste parole quel periodo e l’atteggiamento generale che definisce tra l’irresponsabile, il fatalistico e il temerario: prima dell’approvazione della legge speciale, a Porto Marghera ci sono fughe di gas, incidenti, c’è questo tipo di problematica; l’incidente più che l’impatto che in sé il polo industriale può avere, produce le prime voci attorno al rischio del CVM soprattutto nella parte chimica, oppure al rischio implicito nella presenza di grandi depositi di fosgene. Io abitavo al confine con la zona alfa, quella dove la distruzione sarebbe stata totale in caso di incidente14.

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7 Sono voci quelle attorno al CVM (Cloruro di vinile monomero) e non riguardano ancora la pericolosità della sostanza in sé; la paura è dovuta alle fughe di gas, alle possibili esplosioni, agli incidenti sul lavoro. Anni dopo, durante una riunione sindacale nell’apposito capannone del Petrolchimico (una delle conquiste dell’ “autunno caldo”), si concretizzano i timori e le voci. Ma in qualcosa che nessun operaio lontanamente sospettasse: il cancro.

8 La storia di Porto Marghera e della sua principale impresa è tristemente legata alla morte di 157 operai, ai danni ambientali causati dalle industrie alla laguna, ai danni fisici e morali subiti dalle famiglie dei lavoratori. Non solo: la storia della Montedison è stata scritta anche dal processo penale che l’ha riguardata per anni. Il processo a Marghera e tutto ciò che lo ha causato hanno rappresentato lo scontro tra la società civile e i personaggi che erano a capo delle imprese, Eugenio Cefis in primis; la tensione tra il diritto al lavoro e il diritto alla vita ma anche tra diritto penale, scienza e verità storica.

9 Le denunce che portarono al processo del 1994 furono il risultato di una lunga serie di tensioni e paure che andavano accumulandosi a Porto Marghera da più di venti anni: del 1974 è la riunione sindacale in cui ai lavoratori venne per la prima volta esplicitata la pericolosità della sostanza lavorata in alcuni stabilimenti del Petrolchimico. Due anni prima, nel 1972, moriva Simonetto Ennio capo turno del famigerato reparto CV 14-16 in cui veniva lavorato il CVM e, a detta del professor Cesare Maltoni dipendente della Montedison, moriva di angiosarcoma epatico, raro tumore associato alla suddetta sostanza15.

10 Cesare Maltoni, oncologo bolognese, fu sovvenzionato dalla Montedison per approfondire le ricerche già effettuate da Luigi Viola per conto di un’altra industria, la Solvay. Quest’ultimo era partito dall’osservazione dei troppi casi di sindrome di Raynaud riscontrati tra gli operai del CVM-PVC nello stabilimento di Rosignano nel corso dei primi anni Sessanta. Le ricerche erano state condotte sui ratti e anche Maltoni proseguì su questa strada confermando nel 1974 l’attribuzione della sindrome proprio al CVM16.

11 Tornando a Simonetto Ennio, primo caso italiano, al momento della sua morte nessuno aveva collegato l’angiosarcoma al CVM perché le ricerche di Viola non erano state rese note ai lavoratori. Ma due anni dopo Maltoni durante l’assemblea nel capannone del Petrolchimico, confermava sia tale associazione sia che le morti degli operai della società B. F. Goodrich di Louisville negli Stati Uniti erano dovute anch’esse al CVM. Due anni, ma in realtà molti di più, in cui gli altri autoclavisti come Simonetto Ennio avevano continuato a lavorare immersi in quella sostanza tossica. Con queste parole Renzo Marin, autoclavista, ricorda quel lavoro: Al Cv6 si produceva il Pvc, una polvere di plastica, noi dovevamo fare il carico, lo scarico e la pulizia delle autoclavi. Per pulire le incrostazioni ci facevano entrare nelle autoclavi attraverso uno stretto boccaporto, eravamo imbracati, dall’esterno un compagno ci teneva con una corda e era pronto a tirarci fuori nel caso qualcuno si sentisse male o svenisse. Si entrava tramite una scala a pioli, si scendeva di circa tre metri, l’interno era illuminato da una lampada che si agganciava alle pareti, la temperatura raggiungeva i 40° C, le incrostazioni di plastica si formavano in particolare sulle pale dell’agitatore e sui bocchettoni di entrata dei prodotti. Bisognava toglierle con lo scalpello e battere con una certa forza. Restavi dentro fino a che riuscivi a resistere, talvolta anche per quindici minuti. Le incrostazioni emanavano una quantità impressionante di gas17.

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12 Un altro autoclavista operaio della Montedison, era Gabriele Bortolozzo. Aveva lavorato per venticinque anni nel reparto CV-6 e nel 1982 era stato spostato al CV 14-16. Mal voluto sia dai sindacalisti sia dai dirigenti fu lui, assieme a Medicina Democratica, a portare sul tavolo dell’allora Procuratore della Repubblica Felice Casson le denunce da cui partirà il processo. Proprio Felice Casson riferisce del rapporto tra sindacati e Bortolozzo, mettendo in luce la difficoltà di un singolo individuo che durante i primi anni Ottanta aveva cominciato a protestare, duramente, anche più della Commissione ambiente del Petrolchimico e dei sindacati. Li aveva scavalcati e anche accusati di inerzia. Era entrato in conflitto con tutti coloro che comandavano in fabbrica, da una parte (i dirigenti) e dall’altra (i sindacati)18.

13 Difficoltà nel fare indagini, raccogliere dati e informazioni sui colleghi, tali e tanti da poter sporgere denuncia contro l’impero di Eugenio Cefis. Bortolozzo non era completamente solo, almeno non fuori dal Petrolchimico: Medicina Democratica ha, dalla sua fondazione, sempre e conformemente a quanto prevede il suo statuto, presentato esposti e denunce in relazione soprattutto al decesso di lavoratori esposti a sostanze cancerogene. Tale associazione vede il suo fondatore in Giulio Alfredo Maccacaro e dalla fine degli anni Sessanta ad oggi si pone in continuità storica, culturale, economica, scientifica, operativa e ideale con il Movimento di Lotta per la salute. Le azioni portate avanti, tutte di carattere pacifista e non violento, vertono al pieno rispetto e alla tutela dei diritti civili e dei diritti umani. In primis il diritto alla salute (art. 32 della Costituzione) e il diritto all'ambiente (art. 9) vengono difesi ogni qual volta essi siano violati attraverso una militanza volontaria e con azioni concrete: promozione di iniziative sociali, culturali, politiche nonché con il ricorso all'Autorità Giudiziaria19.

14 Gabriele Bortolozzo fu informato e formato, sostenuto, supportato in ogni singola azione da Medicina Democratica e in nome di una giustizia sociale calpestata, rischiava ogni giorno di subire forti ritorsioni da parte dell’azienda. Ad accompagnare in prima persona Bortolozzo a sporgere denuncia fu proprio un esponente di Medicina Democratica, Luigi Scatturin. Raro esempio di professionalità e di passione civile (Casson), è stato un avvocato membro di importanti collegi di difesa nazionali, costituiti per rilevanti processi penali e civili negli anni '70/'80 patrocinando operai, studenti, forze politiche o singoli imputati. Nel processo penale di primo grado contro Montedison, Enichem, Montefibre, e in altri processi relativi al polo chimico di Marghera è stato difensore delle Parti Civili (Medicina Democratica, Associazione Sindacale Lavoratrici/ Lavoratori Chimici della Federazione di Venezia), come di altre persone fisiche20.

15 Con l’esposto di Scatturin e Bortolozzo, iniziano, da parte di Felice Casson, gli accertamenti preliminari e le prime relazioni tecnico-scientifiche degli esperti nominati dal Procuratore stesso. Nel novembre del 1996 viene dunque depositata dal PM una richiesta di rinvio a giudizio «della quale colpisce una lista infinita di nomi: le persone offese21». Assieme a loro, chiedono la costituzione di parte civile anche enti pubblici e organizzazioni: comune, provincia, regione, WWF, Greenpeace, Lega Ambiente, associazioni sindacali, Medicina Democratica.

16 Il processo, iniziato effettivamente il 3 marzo 1997, si è svolto sino alla Cassazione, la cui sentenza fu emanata nel maggio del 2006; l’esito confermava la precedente sentenza d’Appello (2004) e abbandonava definitivamente la motivazione che aveva voluto l’assoluzione di tutti gli imputati in I° grado di giudizio. All’epoca della prima sentenza

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la stampa, che aveva seguito il processo del secolo con attenzione crescente e di pari passo all’aumentare della sensibilità collettiva rispetto al tema, riporta il grido che aveva accompagnato in aula le parole del presidente della Corte22: Sconcertata la reazione dei presenti nel corso della lettura. Nei cinque minuti che sono serviti al presidente del tribunale, Ivano Nelson Salvarani, per leggere le decisioni dei giudici, nell'aula bunker si è scatenato il finimondo: familiari e dipendenti del Petrolchimico hanno iniziato a urlare “vergogna, vergogna”; il prosindaco di Venezia, Gianfranco Bettin, è scoppiato in lacrime23.

17 Quando in Appello e in Cassazione venne ribaltata la sentenza con la condanna di cinque dirigenti Montedison, si parlò non solo di giustizia ma anche di «sconfitta della macchina giudiziaria24». Molte imputazioni caddero infatti in prescrizione e alle cinque condanne se ne sarebbero aggiunte altre due se Eugenio Cefis e un suo alto dirigente non fossero nel frattempo deceduti.

18 Il valore del diritto alla salute previsto dall’art. 32 della Costituzione italiana veniva ripristinato. Tra le cinque condanne quella di Emilio Bartalini, responsabile medico- sanitario centrale della Montedison, potrebbe risultare la più agghiacciante dato che la struttura sanitaria è preposta alla salvaguardia della salute dei lavoratori. Invece «se qualcuno lamentava un piccolo fastidio al fegato, i medici di fabbrica ripetevano sempre di bere meno»25.

19 Era iniziata così l’avventura del Petrolchimico: la promessa di uno sviluppo che avrebbe portato benessere a tutti, concentrata nelle mani di pochi; è finita con il fallimento di fronte alla storia e alla legge di quei pochi che avevano avuto tra le mani non solo una promessa ma le vite di molti.

3. La prova scientifica nel processo penale

20 Il processo a Marghera si è giocato soprattutto attorno alle perizie e all’ingente quantità di documentazione, studi, statistiche e indagini volte a individuare o meno un nesso di causa-effetto tra CVM e carcinogenesi. I giudici di I° grado nella sentenza hanno dato largo spazio a teorie scientifiche, studi, perizie e in base alle prove acquisite hanno finito per assolvere tutti. Ma il ragionamento seguito è stato in entrambi i due gradi successivi corretto: l’assenza di certezza scientifica era stato il criterio in base al quale deresponsabilizzare i dirigenti della Montedison rispetto alla morte degli operai ma in Appello e in Cassazione i giudici sentenziarono che la responsabilità c’era ed era stata quella di non prevenire i rischi.

21 Le decisioni prese nel lungo processo a Porto Marghera rientrano in una questione ad oggi ancora aperta che ha come protagonisti avvocati, giudici, scienziati, teorici del processo e riguarda il tema della scienza all’interno del processo penale strettamente connesso a quello delle perizie.

22 Nel caso del processo ai dirigenti Montedison, per acquisire dati e valutazioni, i giudici dovettero necessariamente nominare dei periti in quanto, per valutazioni che implichino specifiche competenze di ordine tecnico e scientifico non è sufficiente il normale bagaglio di conoscenze del giudice stesso. Recita l’art. 220 comma 1 del Codice di Procedura Penale:

23 «La perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche»26.

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24 Nel nostro caso si trattava di risalire ai danni derivanti dall’esposizione a materiali cancerogeni e di ricostruirne i singoli passaggi, tutti di natura chimica e biomolecolare.

25 Più in generale il giudice deve ricorrere ai periti perché i fatti di cui deve occuparsi non rientrano nelle sue conoscenze e anche l’accusa e la difesa possono far eseguire ulteriori valutazioni e ricerche ai consulenti tecnici o periti di parte (art. 225 comma 1 cpp).

26 Tale ricorso alla scienza è dovuto al fatto che «accade sempre più spesso che il giudice debba occuparsi di reati o di illeciti civili che sono stati commessi, per così dire, con mezzi scientifici e che quindi richiedono, per essere accertati, l’impiego della scienza» 27. Una ragione ulteriore per ricorrere alla scienza nel processo penale, continua Michele Taruffo, «è data dal diffondersi del convincimento che la conoscenza scientifica rappresenti il paradigma ideale della conoscenza certa e empiricamente dimostrata»28. Il processo cerca di ricostruire un fatto storico per verificare se e in che modo siano stati commessi reati e la scienza sempre più spesso viene utilizzata a tal fine.

27 La necessità di prove scientifiche (ancora non importa se perizie o consulenze) implica però l’emergere di due problemi fondamentali: da un lato il giudice «è chiamato a maneggiare strumenti ad alto rischio» dall’altro la scienza «non è nata per l’applicazione processuale. Il sapere scientifico, di per se afinalistico e in perenne evoluzione, si misura con il processo penale orientato invece verso una decisione definitiva»29. Problematico dunque per i giudici districarsi tra leggi scientifiche che potrebbero essere garanzia di verità ma allo stesso tempo sono in continuo cambiamento.

28 Lo strumento previsto dal sistema italiano (a differenza di quello americano), che il giudice deve utilizzare nel percorrere il labirinto delle prove, è il ragionamento. Vale a dire che anche se le prove dovessero risultare schiaccianti il giudice è tenuto a motivare in maniera esplicita la lettura delle prove stesse e le ragioni delle sue decisioni. I criteri che il giudice segue devono essere presenti nella parte della sentenza dedicata ai motivi di fatto e di diritto in modo tale che nei gradi successivi al primo si possa valutare non l’insieme delle prove ma proprio il ragionamento: «il controllo di legittimità dell’iter logico seguito è affidato alla Corte di Cassazione che scrutina il ragionamento probatorio del giudice di merito in quanto all’accertamento del fatto»30. Ciò è indispensabile a maggior ragione nei processi in cui le prove scientifiche sono determinanti, perché in essi emerge il problema e la difficoltà del giudice di elaborare il suo ragionamento senza farsi condizionare dalla presunta correttezza della scienza.

29 Un altro problema inerente il rapporto tra scienza e processo penale riguarda un aspetto fondamentale: attraverso le prove scientifiche spesso avviene l’intera ricostruzione dei fatti. Se occorre stabilire l’esistenza di un rapporto causa-effetto (nel caso di Porto Marghera tra sostanza tossica e cancro), si ricorre nei processi al ragionamento definito nomologico-deduttivo che si fonda sul ricorso a una legge generale dotata di fondamento scientifico. Secondo l’avvocato Stella, che molto ha scritto a riguardo e che era il principale difensore dei dirigenti Montedison, per giungere a una conclusione certa bisogna partire proprio da una legge generale da cui poter dedurre se il rapporto causa-effetto si è verificato anche nel singolo caso. Per capire se gli operai di Porto Marghera sono morti a causa del CVM-PVC bisogna partire insomma da una legge approvata dal mondo scientifico e stabilire soprattutto quale fosse la situazione della scienza negli anni in cui i primi tumori iniziavano a fare vittime. Se non ci sono leggi generali cui fare riferimento si può ricorrere a frequenze

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statistiche così elevate (superiori all’80-90%) da far ritenere che vi sia un’alta probabilità che, dato un fenomeno F, si sia verificato anche F1 nel singolo caso. Anche sul valore probatorio delle frequenze statistiche vi è una discussione di metodo e sempre Stella, definito «maestro indiscusso della causalità»31, sostiene che quando la probabilità statistica non è elevata i processi non dovrebbero neanche iniziare. È ciò che disse anche nel caso del processo a Marghera. Allo stesso tempo «le frequenze statistiche basse o molto basse sono proprio quelle fornite dalle indagini epidemiologiche sull’esposizione a sostanze tossiche»32 e sarebbe impensabile non istruire quei processi che sulle indagini epidemiologiche si basano: da Porto Marghera al processo Eternit (in questo ultimo caso morirono più tremila persone tra operai, dirigenti, familiari e cittadini). Né si può pensare che l’unico criterio per stabilire se esiste colpa sia quello della causalità: la Corte di Cassazione del processo alla Montedison stabilì che anche se ci fossero stati solo dei dubbi (e ce ne erano molti) sul nesso causa-effetto, bisognava comunque intervenire.

30 Dunque il punto non è se istruire processi o meno ma risiede nella valutazione delle prove scientifiche da parte dei giudici. Un primo aspetto riguarda il contraddittorio: scrive Paolo Tonini, Ordinario di Diritto Processuale Penale, che il contraddittorio relegato apparentemente solo alla prova dichiarativa si deve e «si può fare anche sulla scienza, valorizzando il confronto tra gli esperti sia nel selezionare i fatti rilevanti, sia nell’applicazione delle leggi scientifiche a quei fatti. […] In sostanza il contraddittorio va applicato anche alla prova scientifica»33. Evitando così il rischio di sussumere come assolutamente certe valutazioni che hanno base scientifica.

31 La fase successiva al contraddittorio è quella della formulazione della decisione finale sui fatti: anzitutto la decisione deve essere presa oltre ogni ragionevole dubbio. Tale principio, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, rappresenta il limite alla libertà di convincimento del giudice, apprestato dall’ordinamento per evitare che l’esito del processo sia rimesso ad apprezzamenti discrezionali, soggettivi e confinanti con l’arbitrio; si tratta di un principio che permea l’intero ordinamento processuale34.

32 A partire da questa base fondante, la scienza potrebbe essere uno strumento efficace per arrivare a sentenziare oltre ogni ragionevole dubbio e proprio per questo l’utilizzazione della scienza nella fase di decisione finale assume un rilievo fondamentale. «È questa la fase del processo in cui il giudice si fonda sulle conoscenze scientifiche acquisite al giudizio per accertare, e eventualmente valutare, i fatti della causa»35.

33 Ed è questa la fase in cui il giudice deve fare i conti con il secondo problema dibattuto tra i giuristi: «la perizia è ancora interpretata come una prova del giudice e gode di un credito particolare di per sé»36. Ciò, continua Tonini, «ostacola il contraddittorio» ma inoltre «si ripercuote immediatamente sulla motivazione e induce il giudice ad appiattirsi sulla perizia, che, così, rischia di diventare un nuovo tipo di prova legale»37. Il professore è invece per la neutralità della prova scientifica «che è diventata la più importante nel processo penale»38 e asserisce che essa deve essere considerata al pari delle prove portate dalle parti (le consulenze) perché, a non essere neutrale, è lo scienziato: «In verità, la scelta del metodo scientifico non è mai, in sé, neutra; dipende dal singolo esperto, dalla sua competenza, dal laboratorio in cui opera […]»39.

34 In tale complesso quadro, vale un principio fondamentale, ben esplicitato da Taruffo: le conoscenze fornite dall’esperto, le sue informazioni, le sue valutazioni e le sue opinioni, per quanto esse siano autorevoli, attendibili e influenti, non possono mai

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considerarsi vincolanti per il giudice. L’esperto, […] non può mai sostituirsi al giudice nella formulazione della decisione finale: […] il giudice conserva intatta la sua discrezionalità nell’accertamento e nella valutazione dei fatti, in base al principio fondamentale del libero convincimento40 del giudice stesso, che ormai da tempo sta alla base di tutti gli ordinamenti processuali41.

35 Se però il giudice utilizza i risultati delle prove scientifiche aderendo alle conclusioni formulate dall’esperto (e ciò avviene a maggior ragione se parliamo di perizie), c’è il rischio di una sorta di subordinazione del giudice alle risultanze della prova scientifica e una sostanziale rinuncia dello stesso a esercitare la propria funzione autonoma di controllo. «Il giudice non deve limitarsi a rinviare a ciò che è emerso dalla consulenza tecnica o dalla perizia perché in questo modo egli evita di elaborare la propria motivazione del giudizio»42.

36 Facendo il punto della situazione, le sentenze dei giudici all’interno dei processi penali che prevedono prove scientifiche sono minate da: l’idea che la scienza sia fonte di verità praticamente assoluta; il fatto che la prova scientifica sia spesso anche perizia cioè valutazione “superiore” rispetto a quelle di parte.

37 Alla luce di tale complessa situazione, in che modo si mossero il PM Felice Casson e le parti civili, gli avvocati della difesa e infine i giudici durante il processo a Porto Marghera?

4. Dentro le sentenze: l’iter logico dei giudici

38 Prima di delineare quali furono i ragionamenti seguiti dai giudici di I°, II° e III° grado all’interno del processo a Porto Marghera, si vedano brevemente le scelte dell’accusa e della difesa in tema di prove scientifiche portate in fase dibattimentale.

39 Felice Casson descrive in Tribunale la linea scelta sin dalle indagini preliminari in questi termini: […] è stata sempre l’impostazione dell’accusa, nel senso di avere sempre fornito indicazione ai propri consulenti, coloro che effettuavano materialmente le indagini, di non forzare assolutamente in alcuna maniera la mano, per avere dei dati oggettivi il più possibile. Da potere valutare, potere confrontare al fine di verificare se c’era spazio per effettuare un’indagine e poi un processo penale43.

40 La linea della difesa fu impostata differentemente e è riassumibile nell’impossibilità per i dirigenti Montedison di essere a conoscenza del rischio, in quanto la scienza stessa non concordava o non aveva stabilito leggi generali cui attenersi. Basti pensare che dalla difesa fu proposto il Professor Agazzi, Ordinario di Filosofia Teoretica al tempo del processo ma precedentemente Ordinario di Filosofia della Scienza per molti anni; l’avvocato Stella, principale difensore degli imputati, congederà il professore a seguito del suo intervento con la seguente espressione: Ringrazio il professor Agazzi, mi viene in mente quello che diceva Kant, che gli scienziati sono come dei nomadi che vanno da una città all'altra avendo perso la propria identità e la propria matrice comune. Il professor Agazzi credo che abbia fatto un tentativo di farci ritrovare la matrice comune 44.

41 Scienziati nomadi, che hanno perso l’identità: scienze, (in particolar modo ci si riferiva all’epidemiologia), i cui risultati sono tutt’altro che certi.

42 Tale impostazione non volle affatto suggerire al giudice di svincolarsi dai rischi introdotti dalle prove scientifiche e di maneggiarle con cautela ma dimostrare che non

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essendoci leggi generali certe non fosse verificato né verificabile dai dirigenti Montedison il nesso causa effetto.

43 Proprio attorno alla dimostrazione dell’esistenza effettiva o non effettiva del rapporto causa-effetto tra sostanza e carcinogenesi ruotano le perizie e gli studi riproposti nella sentenza di I° grado, che seguì la linea della difesa dell’avvocato Stella.

44 La prima sentenza presenta i risultati degli studi epidemiologici, delle valutazioni di rischio sulla base di modelli matematici, degli studi sui meccanismi molecolari e sulla carcinogenesi. Gli studi epidemiologici hanno portato a inquadrare la tipologia dei tumori (cancro del fegato, del polmone, del cervello, tumori del sistema emolinfopoietico, cirrosi), il periodo in cui gli operai li avrebbero potuto contrarre. Gli studi cui nella sentenza si fa maggior riferimento sono lo Studio Simonato (1991) e il relativo aggiornamento di Ward-Boffetta (2000); gli Studi epidemiologici a Porto Marghera (1991-1995) e il relativo aggiornamento del 1999.

45 Lo Studio Simonato partiva da studi precedenti sui roditori (Viola- Maltoni) e sull'uomo (Crech-Jones-Wu), iniziò nel 1987 e rappresentava, con i suoi 12.706 casi esaminati, il più ampio modello epidemiologico portato a termine sugli esposti a CVM. A differenza del secondo è stato svolto non solo a Porto Marghera ma anche in altri paesi d’Europa ma entrambi conclusero che l’associazione tra esposizione a CVM e tumore del fegato sussistesse. Gli studi risultarono divergenti riguardo gli altri tre organi bersaglio: il polmone, il cervello e il sistema linfatico. Lo studio Simonato evidenziò che non furono colpiti dal CVM, lo studio a Porto Marghera riscontrò invece come fra gli insaccatori vi fosse stato un incremento significativo del tumore polmonare.

46 Anche altri studi epidemiologici confermarono una forte associazione tra esposizione lavorativa prima del 1974 e tumori del fegato, nonché l’ insorgenza negli insaccatori del tumore del polmone45.

47 L’aggiornamento da parte di Ward, Boffetta e altri estese lo studio Simonato per gli anni Novanta giungendo agli stessi risultati; venne osservata inoltre l’insorgenza della cirrosi senza evidenziare rischi significativi e anche nel caso del dicloroetano non risultò alcun nesso con le neoplasie gastriche46.

48 Gli studi caso-controllo riguardanti i tumori e le malattie epatiche e polmonari dei lavoratori di Porto Marghera durante gli anni Cinquanta e Sessanta, hanno confermato che il CVM fosse la causa scatenante dei casi di angiosarcoma e epatocarcinoma47 e nonostante gli esperti avessero stabilito un nesso cogente tra malattia epatica e esposizione al CVM, il Tribunale si basò sul parere dei periti e dei consulenti della difesa concludendo che le epatopatie fossero associate non già all’esposizione a CVM, bensì a consumo alcolico o a epatiti virali. Attraverso la diversa letteratura scientifica cui periti e consulenti della difesa fecero riferimento il Tribunale sentenziò anche che a determinare un aumento del rischio di tumore fossero il sovrappeso corporeo, il diabete, la steatoepatite non alcolica, l'accumulo epatico di ferro e la celiachia. Solamente la Sindrome di Raynaud fu riconosciuta come dovuta a microtraumi causati da sostanze chimiche come il CVM.

49 Infine vennero presentate e accolte le valutazioni di rischio sulla base di modelli matematici attraverso cui si specificava che sebbene non fosse possibile stabilire livelli sicuri di esposizione, a livelli bassissimi non c’erano rischi significativi per la salute48.

50 Il pubblico ministero nel corso dell'istruttoria dibattimentale mediante i suoi consulenti tecnici introdusse il tema dei meccanismi molecolari attraverso i quali si era

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visto che il CVM induceva non solo l'angiosarcoma ma anche l' epatocarcinoma49. Il Tribunale però non considerò queste analisi per le sue decisioni finali e ciò fu uno dei motivi per cui il PM ricorse in Appello.

51 Dunque, passati in rassegna molto sinteticamente gli studi scientifici cui si fece riferimento per la stesura delle sentenze, non rimane che esplicitare i parametri scelti di volta in volta dai giudici per definire o meno l’esistenza della colpa50.

52 La sentenza di I° grado si articola in più di duemila pagine in cui sono dettagliatamente esposte le perizie e gli studi; nelle successive due sentenze sono riportate le doglianze di accusa e difesa che vennero accolte o rifiutate ma soprattutto viene ridiscusso il ragionamento del Tribunale. Esso venne a tal punto modificato nella sostanza che l’assoluzione divenne condanna. Il ragionamento dei giudici di I° grado considerò la colpa non attribuibile perché dalle perizie e dalle prove raccolte, emergeva che la scienza non fosse arrivata a indicare con precisione il rischio del nesso CVM-tumore. Nei successivi gradi del processo a Marghera non fu il nesso di causalità, tanto caro all’avvocato della difesa Stella, ad essere determinante nell’attribuzione o meno della colpa e dunque della pena ma il parametro del rischio; per comprendere l’iter logico seguito nei tre gradi di giudizio e le sostanziali differenze, si ripercorre adesso la sentenza di Cassazione: nella parte di fatto e di diritto i giudici riproposero il cardine del ragionamento del Tribunale e concordarono con la Corte d’Appello nel ribaltarne le conclusioni.

53 Il Tribunale, scrisse la Corte di Cassazione «rileva che la misura della diligenza dovuta [dagli imputatati] è correlata alla prevedibilità dell’evento che deve essere riconosciuta sulla base della migliore scienza e esperienza presenti in un determinato settore e in un preciso momento storico»51. La prevedibilità deve riguardare un evento «che possa concretamente e effettivamente verificarsi e non già un evento di contenuto generico o realizzabile in via di mera ipotesi. La prevedibilità di un evento può essere formulata solo allorquando […] sussistano leggi scientifiche di copertura le quali permettano di stabilire che da una certa condotta possano conseguire determinati effetti»52. Dunque, continua la Cassazione, secondo il ragionamento seguito in I° grado: «non esiste responsabilità per colpa quando l’agente non abbia la possibilità di rappresentarsi non tanto gli esatti sviluppi dell’azione lesiva, ma certamente la tipologia delle conseguenze cui il proprio eventualmente negligente operato può dar luogo»53. Infine sempre il Tribunale sostenne che l’adeguamento del datore di lavoro alle nuove conoscenze scientifiche deve essere tempestivo ma sarà esigibile nel momento in cui le stesse abbiano raggiunto un grado adeguato di consistenza e di solidità, cioè allorquando sia stato conseguito un patrimonio scientifico consolidato, alla luce degli organismi internazionali operanti in materia. Deve quindi escludersi, secondo il Tribunale, l’esistenza della colpa perché l’evento tumore è divenuto prevedibile soltanto nel 1974 e, da quell’epoca in poi, la Montedison adottò tutti gli opportuni interventi per eliminare o ridurre al minimo le esposizioni54.

54 Il secondo grado di giudizio ribaltò però le suddette conclusioni affermando che il parametro di valutazione nella colpa è il rischio e non è richiesto che l’agente conosca i meccanismi causali della sostanza. A differenza che nella causalità la prevedibilità va valutata con riferimento alle nozioni conosciute o conoscibili all’epoca in cui la condotta è stata posta in essere55.

55 Alla luce di questi principi la Corte d’Appello ritenne errato il percorso seguito dalla sentenza di I° grado:

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Poiché il parametro della colpa è il rischio, e non l’accertamento condiviso del fondamento scientifico di un’ipotesi, già nel 1969 la Montedison era tenuta ad adottare – anche in base all’art. 2087 del codice civile56 – quegli interventi poi adottati dal 1974 in avanti. All’epoca degli studi del dottor Viola ci si trovava infatti non in presenza di una mera congettura ma di un’ipotesi seria e attendibile anche se da avvalorare con approfondimenti poi effettivamente disposti dalla Montedison (a conferma della serietà dell’ipotesi) con incarico al prof. Maltoni57.

56 Secondo la Corte d’Appello in presenza di un serio dubbio sulla potenzialità lesiva di una sostanza il rapporto di accertamento è invertito; occorre intanto adottare tutte le misure necessarie per evitare l’esposizione fino a che non venga raggiunta la prova che la sostanza è innocua, secondo il criterio della cosiddetta default opinion. Ne conseguì secondo la Corte d’Appello, la responsabilità per gli omicidi colposi dei lavoratori deceduti per angiosarcoma (in realtà un solo omicidio colposo è ritenuto non ancora prescritto quello di Tullio Faggian). La Corte di Cassazione, concordò con l’iter logico seguito dalla Corte d’Appello e sottolineò come non solo l’art. 2087 fosse stato violato ma anche il d.p.r 303: Basti pensare che l’art. 20 parla di gas o vapori tossici e il CVM è inserito nella tabella allegata al citato d.p.r 303 riferita alle lavorazioni industriali che espongono all’azione di sostanze tossiche o infettanti o che risultano comunque nocive. Quindi si tratta di una sostanza la cui natura tossica o nociva è riconosciuta dalla legge58!

57 La nocività del CVM non era da ricercarsi tra le teorie scientifiche ma nella legge italiana e a tale esclamazione, che sembra porre con enfasi una definitiva e radicale distanza dalla sentenza di I° grado, seguono le seguenti affermazioni: «le conoscenze rilevanti non sono solo quelle diffuse nella cerchia degli specialisti, e tanto meno le conoscenze avanzate di taluni centri di ricerca, bensì sono le conoscenze che costituiscono un patrimonio diffuso a partire da una certa data»59. Dunque i dirigenti della Montedison sono colpevoli perché dovevano agire e prevenire in base non alle certezze ma alle conoscenze raggiunte, ossia anche solo in base alle ipotesi scientifiche che risalivano addirittura a prima del 1969: «i documenti aziendali Montedison sul finire degli anni ’50 riconoscevano la tossicità di queste sostanze; l’imputato Bartalini ha riconosciuto l’epatotossicità del CVM risalente ai suoi studi universitari […]»60.

58 Quindi ben da prima dell’epoca della contestazione (1969) dovevano già ritenersi prevedibili gravi danni alla salute dei lavoratori esposti al CVM e doveva ritenersi sorto l’obbligo […] di adottare le cautele necessarie […] perché la tutela della salute umana costituisce obbligo primario di salvaguardia di un diritto costituzionalmente protetto (art. 32 della costituzione)61.

59 In I° grado l’attenzione dei giudici si era invece focalizzata sulle conoscenze scientifiche, quasi affidando ad esse il compito di giudicare se le leggi italiane fossero state rispettate o meno. A proposito del rapporto tra scienza e giurisprudenza profilatosi in I° grado la Corte di Cassazione sentenziò allora che la soglia oltre la quale l’agente può prevedere le conseguenze lesive della sua condotta, non è costituita dalla certezza scientifica ma dalla probabilità o anche dalla sola possibilità che queste conseguenze si producano. […] Evidente è quindi l’erroneità della tesi del Tribunale secondo cui, per far sorgere l’obbligo prevenzionale, occorre fare riferimento al patrimonio scientifico consolidato quale criterio per imporre l’adozione della regola cautelare62.

60 Il dovere di tenere una condotta responsabile da parte dei dirigenti nei confronti della salute dei lavoratori esiste prima e a prescindere dalla certezza scientifica. Sono

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solamente i princípi di responsabilità e prevenzione a dover guidare le azioni di questi individui e di chi deve giudicare tali azioni.

Conclusioni

61 Si vuol concludere questa analisi, che risente dei limiti imposti dall’ingente quantità di documenti da consultare e della loro specificità tecnica, con le parole di Gianfranco Bettin, uno dei protagonisti di questa vicenda, ringraziandolo per l’intervista rilasciatami. Porto Marghera doveva rappresentare lo sviluppo capitalistico di Venezia, Lei ha scritto in Petrolkiller che è stata comunque una straordinaria avventura industriale e scientifica oltre che umana. Ad una decina d’anni dalla sentenza definitiva, come rivive il disastro causato dalle industrie e quell’avventura? […] Si può anche mettere nel conto che un secolo e più fa quando si è deciso l’insediamento, non ci fossero i criteri che abbiamo noi oggi, oppure si può anche capire l’ingenuo entusiasmo in cui un po’ tutti, compresi i lavoratori, hanno accettato lo sviluppo industriale come elemento di progresso e anche di propria personale emancipazione da una condizione di povertà; si può persino capire la resistenza nel cogliere gli elementi distruttivi e persino devastanti che quel modello aveva in sé da parte di chi ne era beneficiato secondo la logica di prima: l’idea del progresso, l’emancipazione dalla povertà… se ne sentiva beneficiato ma ne era anche vittima come abbiamo scoperto ben prima del processo ma sancito dal processo. Questi schemi mentali, culturali, anche politici, li si può capire ma per esempio è impossibile assolvere chi, sapendo che un certo modo di organizzare la produzione e di esporre i lavoratori ai suoi effetti, aveva conseguenze anche letali, ha nascosto. Mentre appunto il discorso di prima per me è accettabile sulla base del quadro storico, degli elementi culturali e anche delle forme politiche di allora, quando invece queste cose sono emerse, attestarsi sulla difesa secca con qualche aggiustamento del modello e niente più, quando erano evidenti i danni provocati direttamente sui lavoratori, per me è inaccettabile. Penso che questi dieci anni o più che ci separano dalla sentenza abbiano consentito di digerire un poco questi elementi e che oggi si possa parlare a mente più fredda. Secondo Lei, se posso parlare di una persona scomparsa, Maltoni come ricorderebbe quel periodo? Con amarezza? Un po’ sì. Io l’ho visto qualche volta. Mi sembrava una persona sicura di sé, delle proprie opinioni e della correttezza del proprio agire quindi in questo senso tranquillo con se stesso. Però abbastanza amareggiato col resto del mondo scientifico. Proprio per questa vicenda. Non potrei dire di averlo sentito dire cose pesanti o meglio, cose pesanti sì ma non dirette del tipo: sono venduti! Però una chiara consapevolezza della dipendenza del mondo scientifico dai finanziamenti dell’industria chimica, per il legame che ha con l’industria farmaceutica e medica in generale, certamente l’aveva e l’ha detto. L’analisi del processo a Marghera qui presentata ha voluto porre in evidenza il rapporto tra scienziati, scienza, dirigenti delle imprese e applicazione della legge. La sentenza finale ha sancito la vittoria di quest’ultima, precedentemente messa in pericolo. Ma il processo non ha riportato in vita i lavoratori morti nelle fabbriche, vittime del tempo utilizzato per cercare di subordinare fino all’ultimo, la salute degli

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uomini alle conoscenze scientifiche. L’incertezza della scienza, che ha bisogno dei suoi tempi per arrivare a dei risultati concreti non può divenire incertezza della vita, giustificazione della morte. Se ciò avviene quella stessa subordinazione non deve essere estesa tra chi ha il compito di ristabilire la giustizia attraverso la legge.

NOTE

1. ROVERATO, Giorgio, La terza regione industriale in LANARO, Silvio (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. Il Veneto, Torino, Einaudi, 1984, pp. 193. 2. CHINELLO, Cesco, Storia di uno sviluppo capitalistico. Porto Marghera e Venezia 1951-1973, Roma, Editori Riuniti, 1975, p. 14. 3. La prima legge a istituzionalizzare la composizione del Consorzio è la n. 1233 del 20 ottobre 1960; essa conferisce piena legittimità anche alle opere realizzate precedentemente. Oltre ai proprietari delle singole industrie (insieme a G. Volpi altri otto privati), vengono nominati a contribuire economicamente: la Camera di commercio, industria e agricoltura di Venezia; il comune di Venezia; la provincia di Venezia e il Provveditorato al porto di Venezia. 4. Il 28 giugno 1883 entrò per la prima volta in funzione in Italia la centrale termoelettrica che inaugura il servizio di distribuzione pubblica dell’energia elettrica. Con sede a Milano, l’Edison si espanse notevolmente dal primo dopoguerra in avanti anche ad altri settori, in particolare quello chimico. 5. BARIZZI, Sergio, RESINI, Daniele (a cura di), Portomarghera. Il Novecento industriale a Venezia (cd- rom), Venezia, Vianello Libri, 2004, p. 251. 6. La Montecatini nasce nel 1888 a Firenze per lo sfruttamento delle miniere di rame del posto; nel 1910 si orientò verso l’industria chimica in particolare nella produzione di fertilizzanti necessari all’agricoltura. Nel 1936 insieme allo Stato italiano fondò l’ANIC per la produzione di benzina e la raffinazione del petrolio. 7. ZUCCONI, Guido, Marghera e la scommessa industriale veneziana, in ADORNO, Salvatore, NERI SERNERI, Simone (a cura di), Industria, ambiente e territorio. Per una storia ambientale delle aree industriali in Italia, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 145-146. 8. CERASI, Laura, Perdonare Marghera. La città del lavoro nella memoria post-industriale, Milano, Franco Angeli, 2007. 9. BETTIN, Gianfranco, DIANESE, Maurizio, Petrolkiller. In appendice i documenti segreti delle aziende chimiche, Milano, Feltrinelli, 2002. 10. BARIZZI, Sergio, RESINI, Daniele (a cura di), Portomarghera, cit, p. 253. 11. CHINELLO, Cesco, Storia di uno sviluppo capitalistico cit., p. 53. 12. Ibidem. 13. Ibidem. 14. Intervista realizzata da DE GHANTUZ CUBBE, Marina, il 7 marzo 2014 presso il Municipio di Mestre. 15. CASSON, Felice, La fabbrica dei veleni. Storie e segreti di Porto Marghera, Milano, Sperling & Kupfer, 2007, p. 27. 16. Ibidem, p. 28. 17. SACCAROLA, Antonella, Pensando a Marghera. Il luogo e la memoria: viaggio in forma di interviste- racconti, Treviso, Alcione, 2006, p.51.

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18. CASSON, Felice, La fabbrica dei veleni cit., p.146. 19. URL: [consultato il 20 agosto 2014]. 20. URL: [consultato il 20 agosto 2014]. 21. URL: [cosultato il 20 agosto 2014]. 22. URL: [consultato il 20 agosto 2014]. 23. URL: [consultato il 20 agosto 2014]. 24. CASSON, Felice, La fabbrica dei veleni cit., p. 334. 25. Ibidem, p. 37. 26. URL: [consultato il 20 agosto 2014] 27. TARUFFO, Michele, Scienza e processo, sub vocem «XXI SECOLO», URL: [consultato il 20 agosto 2014]. 28. Ibidem. 29. CONTI, Carlotta (a cura di), Scienza e processo penale. Nuove frontiere e vecchi pregiudizi. Milano, Giuffrè, 2011, pp. XIII-XIV. 30. CANZIO, Giovanni, La valutazione della prova scientifica fra verità processuale e ragionevole dubbio, in Scienza e processo penale cit., p. 66. 31. CUCCI, Monica, GENNARI, Giuseppe, GENTILOMO, Andrea, L’uso della prova scientifica nel processo penale, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2012, p. 66. 32. TARUFFO, Michele, Scienza e processo cit., p. 3. 33. TONINI, Paolo, Dalla perizia “prova neutra” al contraddittorio sulla scienza in Scienza e processo penale cit., p. 4. 34. URL: [consultato il 20 agosto 2014]. 35. TARUFFO, Michele, Scienza e processo cit., p. 13. 36. TONINI, Paolo, Dalla perizia “prova neutra” al contraddittorio sulla scienza in Scienza e processo penale, cit., p. 9. 37. Ibidem. 38. Ibidem, p. 11. 39. Ibidem. 40. L’art. 192 comma 1 del cpp recita: “il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione dei risultati acquisiti e dei criteri adottati”. 41. TARUFFO, Michele, Scienza e processo cit., pp. 14. 42. Ibidem, pp. 14-15. 43. URL: [consultato il 20 agosto 2014]. 44. Ibidem.

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45. Studi della coorte USA; studi di Waxweiler, Storevedt-Heldaas, Jones, Wu, Comba-Piratsu- Chellini e del NIOSH. 46. Studi di Hogstedt (1979); Austin (1983); Olsen (1997); NCI. 47. Studi di Gennaro; Mastrangelo; Martines; Popper; Pinzani . 48. Relazioni del prof. Zapponi e dell’Enviromental Protection Agency. 49. La parte relativa alle perizie e agli studi scientifici si trova integralmente nella sentenza di I° grado scaricabile dal sito e in particolare nella sezione ENICHEM capitolo EPIDEMIOLOGIA e CAUSALITÀ. URL: [consultato il 20 agosto 2014]. 50. La colpa è il criterio di attribuzione soggettiva della responsabilità penale che si contrappone al dolo in quanto è caratterizzato dall' assenza della volontà di alcuno o di tutti gli elementi del fatto tipico. […] La colpa può essere specifica o generica; la sentenza finale accusò gli imputati di colpa generica perché essa consiste in un comportamento imprudente, un'azione, cioè, che, secondo le massime d'esperienza, non doveva essere compiuta o doveva esserlo in guisa differente; un comportamento non diligente e, cioè, l'omissione di un atto dovuto secondo le prescrizioni delle massime d'esperienza; un'imperizia e, cioè, un comportamento imprudente o non diligente per violazione di regole tecniche da parte di soggetti particolarmente qualificati. URL: [consultato il 20 agosto 2014]. 51. Sentenza presente in estratto in Cass. sez. IV pen. 6 febbraio 2007, n. 4675 in Cassazione penale, 2009. 52. Ibidem. 53. Ibidem. 54. Ibidem, p. 49. 55. Ibidem, p. 62. 56. Esso recita che: «L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro». 57. Cass. sez. IV pen. 6 febbraio 2007, n. 4675 cit., p. 62. 58. Ibidem, p. 277. 59. Ibidem, p. 282. 60. Ibidem, p. 286. 61. Ibidem, p. 287. 62. Ibidem, p. 290.

RIASSUNTI

Lo chiamavano Morto Marghera. Il polo sito a Mestre, accanto alla bella Venezia è stato almeno dal 1917 scenario di uno sviluppo industriale fondamentale per l’Italia. Porto Marghera ha ospitato aziende come la Montedison che ha costruito qui la sua fortuna. La promessa di un futuro migliore anche per i lavoratori e per le famiglie che da tutta Italia vi approdavano si è trasformata nella morte di 157 operai. Le sostanze che lavoravano li avevano uccisi. La storia di Porto Marghera si sposta così nelle sentenze di un discusso processo in cui la “verità” della prova scientifica rischia di prevalere sulla giustizia. Gianfranco Bettin in un’intervista ritorna con la

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mente al processo: “è impossibile assolvere chi, sapendo di esporre i lavoratori a effetti letali, ha nascosto”.

It was called Morto Marghera. By the beautiful Venice, Porto Marghera has been since 1917 the area where a very important italian industrial development has taken place. It was the industrial estate where for example the Montedison company has empowered itself. The promise of a better future was the reason why a lot of workers and families moved here from all . But after the seventies and the worker’s struggles the expectation moved in tragedy: 157 workers dead, killed by the substance they handled. Porto Marghera’s history shifts through a lawsuit in which the “truth” of scientific evidence risks to crush the justice and italian laws. In an interview Gianfranco Bettin recall the process: “it’s impossible to absolve who, knowing that workers were exposed to lethal effects, has hid”.

INDICE

Keywords : industrial pollution, Montedison, Porto Marghera, safety at work, workplace death Parole chiave : inquinamento industriale, Montedison, morti sul lavoro, Porto Marghera, sicurezza sul lavoro

AUTORE

MARINA DE GHANTUZ CUBBE

Ha conseguito la laurea triennale in Lettere moderne presso l’Università la Sapienza. Studia Scienze storiche presso l’Università di Bologna con particolare interesse per la storia e il diritto del lavoro. Attualmente collabora con l’associazione Articolo 21.

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La forza del diritto La lotta contro l’amianto a Casale Monferrato

Costanza Zanasi

1. Introduzione

«Quando si tratta di far valere «i diritti», è appunto la giustizia lo strumento adatto sia a convincere l’opinione pubblica che a smuovere le istituzioni in favore della propria causa. Al contrario quando ci si trova di fronte a episodi di tipo repressivo – si tratti di un’indagine penale, di un arresto o di un processo – il diritto dà modo di difendersi, […] di divenire parte di un procedimento giudiziario1.

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1 Queste parole di Liora Israël sottolineano in modo chiaro una delle funzioni basilari del diritto che è appunto un’arma. Il diritto può assumere un ruolo di difesa se non addirittura di attacco2, può infatti servire per difendersi da ostacoli apparentemente insormontabili ed è a questo scopo che è stato impiegato in relazione alla vicenda legata alla presenza dell’Eternit a Casale Monferrato.

2 Appellandosi alle funzioni basilari del diritto prende vita anche la battaglia di Casale Monferrato. Qui, agli inizi del Novecento nasce la fabbrica dell’Eternit, che diventa ben presto il polo più grande del comprensorio, attirando moltissime persone con la sua ampia richiesta di manodopera. L’Eternit produceva cemento amianto, un materiale con un altissima resistenza termica. Era quindi adatto per innumerevoli scopi: poteva infatti contribuire alla creazione di tubi, lastre, freni, guanti antincendio, ma anche tegole fioriere e sedie da spiaggia. L’amianto era un minerale che seppur molto redditizio da una parte, dall’altra portava a conseguenze gravissime.

3 Chi vi entrava in contatto era a forte rischio di contrarre malattie respiratorie come l’asbestosi fino al mesotelioma pleurico, un tumore che aveva tempi di incubazione molto lunghi (si poteva manifestare anche dopo trent’anni) portando però alla morte dopo sei mesi, un anno dalla diagnosi.

4 A metà degli anni Settanta del Novecento iniziarono le prime lotte sindacali che miravano a ottenere migliori condizioni di lavoro. Questo fu possibile grazie all’impegno di due giovani sindacalisti Nicola Pondrano, inizialmente operaio Eternit, e Bruno Pesce che era alla guida della Camera del Lavoro di Casale Monferrato insieme all’impegno e al lavoro di numerosi avvocati, tra cui Sergio Bonetto e Bianca Guidetti Serra. L’impegno comune porterà dopo anni di indagini alla celebrazione di un processo contro i vertici Eternit: in particolare le accuse si rivolgeranno contro lo svizzero Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis De Cartier, principali responsabili della strage di Casale Monferrato.

2. La fabbrica

5 All’inizio del ventesimo secolo, nel 1906, a Casale Monferrato (AL) sorse una nuova industria: l’Eternit.

6 Lo stabilimento fu costruito a Casale Monferrato, anche se la società che sovrintendeva alla sua gestione aveva sede a Genova, dove era stata fondata il 6 gennaio 19063.

7 L’Eternit era una fabbrica nata allo scopo di tradurre in produzione industriale il brevetto di Ludwig Hatschek, un austriaco che nel 1901 aveva creato una formula di cemento amianto battezzata Eternit dal latino aeternitas. Quel materiale, infatti, creato aggiungendo una piccola percentuale di amianto a un impasto di acqua e cemento era ritenuto indistruttibile. L’amianto, che era molto diffuso nella vicina cava di Balangero, è un minerale altamente resistente e flessibile allo stesso tempo; ha un’ampia resistenza termica e può arrivare anche a 500 gradi, inoltre resiste all’azione di agenti chimici e biologici, all’abrasione e all’usura.

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8 Questa nuova sostanza rivelò da subito le sue enormi potenzialità in campo industriale: poteva, infatti, essere impiegata per innumerevoli applicazioni quali tubi, lastre e foglie in cemento-amianto, mattonelle per pavimentazioni, frizioni, freni e prodotti vari per attrito, guarnizioni, filtri per bevande, tute, coperte, guanti antincendio, pannelli fonoassorbenti e isolanti, vernici, rivestimenti, stucchi, feltri, tegole, fioriere, sedie da spiaggia e molto altro.4

9 L’Eternit iniziò a espandersi molto rapidamente, e proprio a questo si deve la creazione dello stabilimento monferrino, sorto come costola di una società, la Schweizerische Eternitwerke Ag, fondata da un commerciante svizzero Alois Steinmann, allo scopo di tradurre in produzione industriale il brevetto di Hatschek.

10 Lo stabilimento di Casale Monferrato si estendeva per circa 96.000 chilometri quadrati, era proprietà dell’ingegner Adolfo Mazza che nel 1906 aveva costituito la società Eternit Pietra Artificiale Società Anonima, poi Eternit Spa mantenendone la direzione fino al 1952. In seguito l’azienda passò sotto la gestione belga della famiglia Emsens-De Cartier che la gestì dal 1952 al 1972. Nel 1972, l’Italia fu colpita da una grave crisi, in seguito alla quale la famiglia Emsens, che non riusciva più ad assolvere la gestione dell’azienda vendette la sua quota alla famiglia svizzera Schmidheiny che amministrò l’Eternit fino alla sua chiusura nel 19835.

11 La fabbrica di Casale Monferrato è diventata nota al panorama internazionale non tanto per la sua produzione, quanto per le innumerevoli morti sul lavoro che hanno scandito gli ottant’anni di vita dell’Eternit.

12 Nella cittadina di Casale Monferrato gli stabilimenti erano due: il magazzino in Piazza d’Armi e la fabbrica di via Oggero6.

13 Dal 1906, anno d’apertura della fabbrica, fino al 1980 tutti i rifornimenti di materie prime, ossia l’amianto sfuso proveniente dalle miniere di Africa, Russia, Canada, Brasile, arrivavano in treno prevalentemente dal porto di Genova; i prodotti finiti compivano invece il percorso inverso. Le strade di Casale, quindi erano percorse quotidianamente da camion che disperdevano nell’aria nuvole di polvere d’amianto, elemento ormai familiare per i casalesi.

14 L’amianto sfuso, contenuto in sacchi di juta, veniva scaricato manualmente collocato su carretti destinati ai singoli reparti di lavorazione7. Quindi veniva accumulato in silos elevatissimi da cui gli operai dovevano estrarre con dei forconi le matasse d’amianto. Quest’operazione doveva essere eseguita il più rapidamente possibile, la massa fibrosa, infatti, veniva giù di colpo e con una forza tale da far cadere in terra una persona. L’operaio doveva poi addentrarsi nella nuvola di polvere per recuperare il carico da mandare alla lavorazione. Altri addetti erano impiegati alle sfilacciatrici, macchine impiegate per ovattare l’amianto grezzo al fine di renderlo più amalgamabile nella lavorazione del cemento. Poi attraverso alcuni ventilatori, l’amianto veniva soffiato in un altro ambiente della fabbrica, all’interno di grandi tubi. Una volta che anche questo locale era pieno, gli addetti dovevano entrarvi e rimettere con i forconi l’amianto semilavorato all’interno dei carrelli.

15 Tutta la lavorazione dell’amianto avveniva all’interno di una nebbia fitta di microscopiche fibre di quel materiale, che aumentò nelle quantità di lavorazione con l’automazione dei processi di lavorazione. Agli operai destinati a lavorare a stretto contatto con l’amianto era riconosciuta qualche piccola indennità in busta paga anche se non aveva ancora preso piede la cultura della salute nei luoghi di lavoro. Le

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condizioni dei lavoratori Eternit non migliorarono nemmeno in epoche più recenti quando anche gli operai stessi iniziarono a preoccuparsi per la polvere che respiravano quotidianamente8.

16 Nel 1947 l’INAIL riconobbe il primo caso di asbestosi (una tosse secca di cui erano affetti quasi tutti gli operai) contratta da un dipendente. Nonostante l’accertamento da parte dell’INAIL, il massimo che si riuscì ad ottenere fu qualche punto d’invalidità e soltanto dopo una certa soglia della malattia. Con il trascorrere degli anni gli operai si ammalavano e sempre di più coloro che avevano lavorato all’Eternit morivano di una forma di cancro che qualcuno cominciò a definire «il tumore di Casale»9. Anche in assenza di un’indagine epidemiologica era ormai chiaro che vi fosse un nesso molto preciso tra la polvere della fabbrica e quelle malattie polmonari. Non passava settimana senza che comparisse un nuovo manifesto funebre per la morte di un ex operaio Eternit.

17 A partire dagli anni Settanta si capì chiaramente che lavorare all’Eternit poteva costare anche la vita. Anche diversi membri della dirigenza, che avevano ostinatamente negato qualsiasi nesso tra amianto e tumori iniziarono a preoccuparsi, specie quando costatarono che il tumore non faceva differenze tra tute blu e colletti bianchi. Il mesotelioma, una forma tumorale che si accanisce contro la pleura, la membrana che riveste i polmoni e poi produce metastasi che aggrediscono gli altri organi e le ossa, uccise un ex dirigente, che aveva vissuto addirittura sopra la fabbrica, e molti altri tra i quadri e i dirigenti dell’Eternit di Casale.

3. La battaglia sindacale

18 Nel novembre del 1974, Nicola Pondrano entrò all’Eternit e appena due mesi dopo diventò portavoce del consiglio di fabbrica. Con l’inizio del suo mandato si aprì una nuova fase che coincise con una svolta importante nella battaglia sindacale in materia di salute dei lavoratori. A tracciare il primo solco di quella nuova fase di attività sindacale fu padre Bernardino Zanella, un prete operaio che proveniva da altre esperienze in aziende con problemi di nocività ambientale e che aveva già avviato un’indagine conoscitiva sulle condizioni di lavoro e sui cicli produttivi della fabbrica10. A fare da sponda esterna al giovane e battagliero Consiglio di Fabbrica del 1979 si associò anche il nuovo segretario della Camera del lavoro di Casale Monferrato, Bruno Pesce.

19 Nel 1979 con Pesce alla guida del principale sindacato e Pondrano nel cuore del Consiglio di Fabbrica, la battaglia sindacale crebbe vistosamente con continue assemblee, rivendicazioni e un’indagine ambientale scientificamente attendibile, conquistata dopo un investimento di 87 ore di sciopero. Fu realizzato uno studio, affidato alla Clinica del lavoro di Pavia e si protrasse per una quarantina di giorni. Entrando in certi reparti la vista era terribile: sacchi sventrati accatastati ovunque, filtri ormai del tutto otturati dalle fibre di amianto, uomini ricoperti da quella sottile patina bianca. Nonostante l’evidente inquinamento l’indagine non portò a risultati sostanziali, i cambiamenti si limitarono a piccole modifiche nei cicli produttivi per ridurre la polverosità e al peggioramento dei rapporti sindacali con l’azienda che introdusse anche elementi di ricatto con l’obiettivo di dividere il fronte operaio. Pesce e Pondrano, Cgil e Inca, però, proseguirono la loro battaglia.

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4. Le prime cause civili

20 Nicola Pondrano11 e Bruno Pesce decisero di informare l’intera popolazione casalese sulla pericolosità dell’amianto. Nel 1981 grazie alle segnalazioni di Nicola Pondrano era stata promossa una causa civile contro Eternit e INAIL, intentata da 80 operai che accertò, nei tre gradi di giudizio, la sussistenza di condizioni di rischio all’interno dello stabilimento12. Nell’ambito della causa civile venne disposta dal giudice una perizia scientifica al fine di accertare la sussistenza del rischio nei vari reparti dell’Eternit. A condurre l’indagine fu il professor Salvini, dell’Istituto di medicina del lavoro dell’Università di Pavia. Per l’occasione la fabbrica era stata «tirata a lucido» come per le visite ufficiali dei dirigenti elvetici, ma questa volta le pulizie non furono sufficienti a impedire che la perizia fornisse risultati veritieri. Il rapporto finale confermò la fondatezza delle denunce dei due sindacalisti. La presenza di fibre d’amianto in tutte le aree repertate mostrava valori macroscopici che indussero il professor Salvini a mettere nero su bianco non solo la sussistenza di fattori di morbigenità ambientale, ma addirittura che il livello di pericolosità era tale da costringerlo a trasmettere gli atti della sua indagine scientifica alla procura della Repubblica affinché procedesse con gli opportuni accertamenti delle responsabilità sulla sicurezza degli ambienti di lavoro all’interno dello stabilimento13.

21 Quando il sindacato vide confermare progressivamente i propri timori, si attrezzò per offrire ai lavoratori e ai loro familiari anche un punto di riferimento sanitario.

22 Sin dal 1978 il patronato INCA CGIL di Casale Monferrato si era avvalso della collaborazione di una giovane laureata in medicina Daniela Degiovanni, che visitò quasi tutti gli operai della fabbrica, prima come medico al patronato, poi come oncologa ospedaliera. L’incontro con Bruno Pesce e Nicola Pondrano, infatti, non fece che accelerare il processo emotivo che rese il problema dell’amianto e dell’Eternit il tema centrale della sua vita professionale. All’inizio della sua attività Daniela Degiovanni si trovò di fronte a un contesto desolante. In quel periodo l’INAIL era ancora un organismo chiuso e sordo alle richieste dei patronati, le tabelle relative alle malattie professionali riconosciute erano talmente ristrette da non comprendere né il mesotelioma pleurico né il tumore al polmone. Daniela Degiovanni decise di fare qualcosa di concreto quando tre lavoratori affetti da mesotelioma si videro respingere il riconoscimento della malattia professionale. La dottoressa scrisse a diversi quotidiani da «l’Unità» a «il Manifesto» a «la Repubblica» fino a «La Stampa», raccontando quanto aveva visto e come vivevano e morivano quegli operai. Questo provocò l’apertura dell’INAIL che finalmente concesse il riconoscimento di quelle malattie professionali.

23 Nel 1981 ebbe inizio un’importante causa civile contro l’ETERNIT e l’INAIL e nei tre gradi di giudizio si accertò la sussistenza della morbigeneità ambientale e pertanto erano ancora presenti condizioni di rischio all’interno di tutto lo stabilimento.14 Nel 1983 si aprì l’inchiesta penale in cui l’avvocato penalista Bianca Guidetti Serra rappresentava il sindacato di Casale come parte civile.15 Proprio in questa sede emerse infatti il quadro impressionante di una delle più grandi tragedie della storia italiana. Nel 1993 si apre il processo penale ai dirigenti Eternit16 si arrivò alla sentenza nei confronti dei dirigenti locali dell’Eternit di Casale. Il processo si celebrò e si concluse in primo grado nel 1993, affermando la colpevolezza dei dirigenti, ma, in appello si concluse con la riduzione delle pene a pochi mesi di reclusione, di fatto non scontate.17

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5. Il percorso legislativo

24 Il 2 Dicembre del 1987 Riccardo Coppo, all’epoca sindaco di Casale Monferrato emise un’ordinanza che vietava l’uso dell’amianto18 nell’ambito del territorio comunale di Casale Monferrato. L’ordinanza emessa da Riccardo Coppo, sanciva per la prima volta in Europa il divieto con decorrenza immediata dell’impiego di lastre di cemento-amianto e di altri manufatti di amianto nelle costruzioni di qualsiasi genere, il divieto dell’utilizzazione per qualsiasi uso, di materiale anche residuo a precedenti processi di produzione,contenenti fibre di amianto e che, in caso di rimozione e smaltimento di materiali contenenti fibre di amianto le ditte esecutrici avrebbero dovuto attenersi alle norme tecnico-sanitarie stabilite. Grazie alla caparbietà dei Casalesi e all’impegno di CGIL, CISL e UIL nazionali, nel 1992 viene approvata la legge che mette al bando l’amianto anche a livello nazionale, vietandone19 l’estrazione, la commercializzazione e la produzione di manufatti. Non solo: stabilisce anche un programma di dismissione, con un termine ultimo fissato al 28 aprile 1994, termine che purtroppo si rivelerà simbolico senza essere effettivamente rispettato.

25 Il risultato di una legge a livello nazionale contro l’amianto, è nato dopo un grande lavoro di squadra reso possibile grazie all’impegno di molti fronti tra cui Medicina Democratica20 che ha contribuito, insieme ai suoi esperti, ad affiancare diversi parlamentari nella presentazione di proposte di legge riguardo problemi dell’ambiente e di lavoro e della sanità, collaborando per una proposta di legge sulla messa al bando dell’amianto. Questa proposta di legge è poi confluita nel rispettivo testo unificato da cui è uscita la sopracitata legge 257/92 per la cessazione dell’impiego dell’amianto e questa legge oltre il sostegno di MD vanta quello dell’Associazione Esposti Amianto e di un deputato di Democrazia Proletaria che partecipò alla presentazione come prima firmataria della proposta di legge: Bianca Guidetti Serra21.

26 Bianca Guidetti Serra, poi, prenderà nuovamente parte alla vicenda Eternit in veste di avvocato. Il legale torinese infatti sarà proprio la prima ad offrire il proprio aiuto. Con il piglio ereditato dall’esperienza partigiana, Bianca accorre volontaria quando si tratta di difendere sindacalisti e lavoratori dalle accuse da strada (i tipici postumi da manifestazioni e cortei) e seguirà questa vicenda fino al processo contro l’azienda. Arriva anche Sergio Bonetto che insieme all’esperienza forense porta con sé un passato di collaborazione stretta con la Cgil, sempre dal punto di vista dell’assistenza legale. La pattuglia di legali al fianco di Casale cresce. Dallo studio Guidetti Serra arriva il supporto dell’avvocato Anna Fusari,dallo studio Bonetto arriva Bruno Lasagno, da Alessandria l’avvocato Oberdan Forlenza e da Genova Paolo Pissarello.

27 Nel 1993, quasi in concomitanza con la legge nazionale contro l’amianto arriva un primo riconoscimento giuridico, bisogna però aspettare fin al 1997 prima che la Corte di cassazione renda definitiva le condanne a sei dirigenti italiani dell’Eternit, ma per un solo caso di morte e con pene molto miti.

6. Le parti civili

28 In un processo molto vasto che ha visto la presenza di duemilanovecentosessantanove vittime, innumerevoli sono anche le parti civili. L’INAIL si è costituita parte civile con l’entrata in vigore del decreto di legge n. 81/2008 articolo 61 comma 1, secondo cui «in

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caso di esercizio dell’azione penale per i delitti d’omicidio colposo o di lesioni personali colpose, se il fatto è commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relativo all’igiene del lavoro o che abbia determinato una malattia professionale» 22. Inoltre si è costituita parte civile per vedersi rimborsare «le erogazioni previdenziali corrisposte a lavoratori vittime di malattie professionali causate da fatti di reato perseguibili di ufficio»23. Le richieste di risarcimento hanno coinvolto anche l’istituto INPS le cui erogazioni hanno riguardato due diverse categorie di lavoratori: coloro che hanno contratto la malattia professionale a causa dell’esposizione all’amianto e coloro che sono stati semplicemente esposti per un periodo superiore a dieci anni24. I due imputati Louis De Cartier De Marchienne e Stephan Schmidheiny sono stati inoltre condannati a risarcire, in quanto parti civili, la Regione Piemonte, Provincia di Torino, Provincia di Alessandria, i Comuni di Casale Monferrato, Mirabello, Monferrato, Morano sul Po, Coniolo, Villanova Monferrato, Pontestura, Balzola e Ozzano Monferrato, l’Asl di Alessandria, la Regione Emilia Romagna e il Comune di Rubiera25.

29 La Regione Piemonte si è costituita parte civile anche per le ingenti spese dovute alle bonifiche nell’area di Casale Monferrato e Cavagnolo e per gli interventi sanitari attuati in materia di patologie di asbesto correlate. Il Comune di Casale Monferrato ha acquisito lo stabilimento dopo la sua chiusura e oltre alla sua bonifica ha provveduto a bonificare tutti gli edifici pubblici e a censire gli edifici privati. Per la bonifica del solo stabilimento, il Comune di Casale ha affrontato una spesa di 4.700.000 euro, la bonifica dei tetti di Casale ha richiesto una spesa di 12.700.000 euro e la bonifica della sponda destra del Po, contaminata dalle scorie di amianto è costata 700.000 euro26.

30 L’Asl di Alessandria ha assunto «la qualità di soggetto danneggiato sia in relazione al pregiudizio arrecato al territorio e alla popolazione dai fatti oggetti del processo, sia in relazione al discredito della sfera funzionale, alla frustrazione degli scopi e alla perdita di prestigio dell’ente derivante dalle condotte illecite degli imputati. Discredito della sfera funzionale certamente aggravato da una lesione della salute pubblica destinata, a causa della lunga latenza del mesotelioma, a protrarsi, se non acuirsi nei prossimi decenni»27. L’impressionante numero di lesioni e decessi nella provincia di Alessandria a causa dell’esposizione di lavoratori e cittadini ha comportato un rilevantissimo impiego di risorse umane, materiali ed economiche finalizzate al sostegno sanitario e psicologico dei malati, allo sviluppo di iniziative finalizzate a ridurre il rischio di esposizione nonché al monitoraggio delle neoplasie correlabili all’amianto.

31 Gli imputati De Cartier e Schmidheiny sono stati inoltre condannati al risarcimento dei danni a favore di CGIL Piemonte, la Camera del Lavoro di Alessandria e ALLCA Nazionale CUB28 (l’Associazione Lavoratrici e Lavoratori chimici affini). Gli imputati sono stati condannati a risarcire la UIL di Alessandria, la UIL Piemonte e la Uil Regione Campania;devono inoltre risarcire le associazioni delle vittime già riconosciute come parte civile nel processo: AFEVA, AIEA e MEDICINA DEMOCRATICA29. Anche il WWF «può considerarsi soggetto danneggiato dal reato in conseguenza della lesione diretta delle proprie finalità istituzionali e della vanificazione delle risorse umane e finanziarie impiegate nella tutela dell’ambiente contro l’inquinamento […] essendo tale associazione portatrice di interessi collettivi territorialmente determinati, lesi dai fatti illeciti contestati agli imputati»30.

32 Uno per uno in aula vengono pronunciati 6300 nomi: sono le parti civili, che devono essere risarcite e a ciascuno viene associato il nome del coniuge scomparso. La lettura

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dell’intero dispositivo richiede poco più di tre ore e comprende anche il lunghissimo elenco dei risarcimenti: 100 mila euro andranno ai sindacati, 4 milioni al comune di Cavagnolo, 15 milioni all’Inail, 5 milioni all’Asl, 20 milioni alla regione Piemonte, 25 milioni al Comune di Casale Monferrato, 100 mila euro all’Associazione vittime dell’amianto, 30 mila euro a ciascuno dei parenti delle vittime decedute, 35 mila euro ad ogni ammalato, per un totale che si avvicina ai 100 milioni di euro.

7. Le battaglie di un avvocato: Sergio Bonetto

33 Il processo Eternit ha visto la partecipazione di innumerevoli legali, basti pensare che in questo processo sono state accertate 2.969 vittime. Tra i legali che hanno contribuito alla realizzazione del processo, senza dubbio una figura di spicco è quella di Sergio Bonetto.

34 Sergio Bonetto, laureato in legge all’Università di Torino nel 1973, ha preso parte nella sua lunga carriera forense ad alcuni tra i processi che più hanno segnato la storia giuridica italiana. Ripercorrendo le fila del suo percorso lavorativo è lampante come Sergio Bonetto abbia fatto della sua professione di avvocato una missione. La sua carriera è costellata da cause che fanno perno sulla difesa del cittadino, cause dove il diritto si spende per una delle sue funzioni più elevate: la difesa della persona e la tutela dei suoi diritti. Ogni scelta dell’avvocato sembra essere incentrata su un idea di diritto militante, ogni causa sembra avere come scopo l’affermarsi di una giustizia nella sua accezione più nobile e profonda.

35 Ripercorrendo solo alcuni momenti della carriera di Sergio Bonetto si può trovare conferma di quanto appena affermato. Il legale torinese ha preso parte tra le varie cause che l’ hanno coinvolto al processo Romiti31. Nel processo contro i fondi neri della FIAT Sergio Bonetto difese due piccoli azionisti e centinaia di lavoratori dello SLAI Cobas danneggiati perché l’irregolarità dei bilanci avrebbe danneggiato il premio di produzione legato all’andamento dell’azienda. Altri casi che mostrano la sua scelta di avvocato militante riguardano ad esempio la scelta di difendere un operaio perseguitato per Mobbing contro un dirigente IVECO accusato di aver dato all’operaio “incarichi inutili e degradanti. L’operaio dopo aver avviato una pratica di risarcimento per un infortunio sul lavoro fu discriminato e questo lo portò sull’orlo dell’esaurimento nervoso32.

36 In veste di legale FIOM, Bonetto seguì il caso di nove operaie dipendenti dell’Alfa Selectra di Leini, licenziate in quanto donne33. Da sempre interessato ai problemi legati alla sicurezza sul lavoro, l’avvocato Bonetto seguì anche un processo, che fece molto scalpore riguardante una giovane vittima. Un ragazzo infatti morì, cadendo dal ponteggio per troppo lavoro. Alessio Parlato, nel 1995 alle due di notte cadde da un ponte mobile che i compagni dabbasso stavano spingendo dopo 20 ore di lavoro. Il committente fu condannato a un anno di reclusione, pene più miti furono riservate ai dirigenti. Sergio Bonetto e Anna Fusari, che seguirono il caso, si dichiararono «amareggiati per una pena troppo mite»34.

37 Il legale torinese che seguì il caso Eternit fin dalle prime udienze si occupò di problemi legati all’amianto anche per altri processi come quello riguardante la Sabre, una fabbrica dove si lavorava l’amianto. Un operaio appena gli fu diagnosticata la malattia

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si rivolse all’avvocato Bonetto, ma non giunse mai al processo perché morì prima che fosse celebrato35.

38 Sergio Bonetto prese parte come legale di parte civile anche al processo Thyssenkrupp in veste di uno dei legali dei 48 ex colleghi delle vittime del rogo di Torino che, insieme ai sindacati, non hanno ritirato la costituzione di parte civile anche se sono già stati risarciti dall’azienda. Il fatto accade nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. Nello stabilimento Thyssenkrupp di Torino avviene un incidente. Da un vascone fuoriesce una quantità di olio bollente in pressione che in pochi minuti sviluppa un incendio. Non è la prima volta che accade un incidente simile, ma stavolta è un rogo. Gli operai cercano di avvisare la sicurezza ma vengono travolti dal fuoco. Un lavoratore perde la vita dopo pochi minuti, altri sei nei gironi successivi.

39 Il procedimento di primo grado si è aperto il 15 gennaio 2009 nel palazzo di Giustizia di Torino. Secondo l’accusa l’amministratore delegato della multinazionale tedesca, Harald Espenhahn, conosceva le carenze nella sicurezza dello stabilimento, ma aveva stabilito di posticipare i lavori di adeguamento. In ottantotto udienze vengono ascoltati centinaia di testimoni da entrambe le parti, con l’obiettivo di stabilire le responsabilità su una delle maggiori tragedie sul lavoro della storia italiana. Il 4 novembre 2009 l’amministratore delegato Harald Espenhahn è stato interrogato per tre ore. Alla fine Guariniello ha chiesto: «Gli operai deceduti hanno fatto tutto quello che dovevano fare?». Espenhahn ha dichiarato: «È una domanda molto difficile alla quale rispondere». L’ad stava per aggiungere qualcosa, ma Guariniello l’ha interrotto: «Basta così». Dopo una serie di ulteriori sedute, e diversi rinvii dovuti ai tempi della giustizia, è iniziata la requisitoria dei pm: Guariniello, pubblico ministero anche nel processo Eternit, ha chiesto 16 anni e mezzo di reclusione per Espenhahn, 13 anni e 6 mesi per quattro dirigenti, 9 anni per il quinto36.

40 Sergio Bonetto mantenendosi fedele alle cause che hanno costellato la sua lunga carriera rappresenta anche oltre 300 delle circa 6 mila parti civili del maxi-processo Eternit, inoltre ha richiesto un risarcimento danni per il cosiddetto «danno da esposizione» all’amianto. Questo provvedimento è stato riconosciuto per la prima volta in Italia (è contemplato nell’ordinamento giudiziario di altri Stati, come per esempio la Francia) creando un precedente per l’ordinamento giuridico del nostro paese.

41 Bonetto ha richiesto un risarcimento di diecimila euro per ognuno dei suoi assistiti, tutti residenti nelle zone di Cavagnolo (Torino) e Casale Monferrato (Alessandria) dove si trovavano gli stabilimenti Eternit «Il tempo di esposizione si può quantificare mediamente in 20 anni» dice il legale. La richiesta quindi è di circa 60 milioni per i soli clienti dell’avvocato Bonetto37. L’impegno dell’avvocato torinese non termina però con la chiusura del processo, infatti il legale ha preso parte insieme agli altri avvocati di vittime dell’amianto alla creazione di una ONG.

42 Questa ONG si chiamerà Interforum e si batterà contro i crimini industriali internazionali È stata presentata a Torino il giorno dopo la condanna degli ex vertici della Eternit, dal presidente dell’organizzazione, Jean-Paul Teissonière, dal segretario Sergio Bonetto e dall’avvocato belga Jan Fermont. Questa ONG è nata dopo l’esperienza Eternit in cui molti avvocati si trovarono a lavorare in paesi diversi sulle responsabilità penali dell’Eternit ciascuno per conto proprio. Poi, con l’inizio dell’inchiesta e durante il processo i legali hanno iniziato a collaborare scambiando idee e documenti, conseguendo risultati nei rispettivi paesi. Il gruppo tra i suoi primi obiettivi si impone quello di esportare il modello torinese. L’avvocato Jean-Paul Teissoniére afferma «in

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Italia si considera quanto accaduto un crimine collettivo con gravità penale, mentre in Francia e in Belgio no, perché l’ordine pubblico non è stato danneggiato. Da noi la definizione di disastro ambientale non c’è, non si incrimina per un reato alla collettività, ma per il singolo omicidio colposo. Ci sono molti problemi e crimini industriali sul pianeta. Bisogna completare il puzzle delle responsabilità delle multinazionali». Bonetto fa un esempio: «Vogliamo essere molto pratici. Sceglieremo i casi di rilevanza internazionale, come la questione dei rifiuti speciali inviati verso l’Africa o l’India, dove le istituzioni non sembrano interessate ad agire. Cercheremo di ricostruire i diversi tasselli in modo da avere un quadro concreto da presentare alle autorità». «Non siamo in grado di affrontare tutti i problemi del mondo, ma proveremo a ottenere qualcosa. Per tentarci gli avvocati, i giuristi, ex magistrati (tra cui Mario Vaudano, ex consigliere giuridico all’OLAF, ufficio europeo contro le frodi) di Interforum puntano a usare vari metodi, dalla formulazione di leggi e l’ideazione di istituzioni internazionali capaci di perseguire questi reati, fino al sostegno giuridico delle vittime di disastri industriali». Noi abbiamo un vantaggio – afferma Bonetto –, senza una gerarchia siamo più agili e spontanei, contiamo di superare così le differenze di patrimonio38.

8. Un nuovo processo

43 Una nuova speranza per pene più giuste arriva nel 2003. In quell’anno infatti si ripresenta la questione Eternit su segnalazione di Enzo Merler, medico di Padova che da tempo stava svolgendo un’indagine epidemiologica su ex lavoratori di origine italiana della sede svizzera Eternit, a Niederumen, che si erano ammalati di mesotelioma, cancro maligno della pleura e del peritoneo causato dalle polveri di amianto39. Merler segnala al procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello, che si era già occupato a lungo di disastri ambientali il caso specifico di un operaio, che dopo essere tornato nel capoluogo piemontese, era morto di mesotelioma a distanza di anni.

44 In breve tempo, si mobilitano tutti i Comuni dove Eternit aveva operato in Italia, a partire da Casale Monferrato, sede dello stabilimento più vecchio, sino a giungere alla stesura di un maxiesposto accompagnato da una corposa documentazione medica, che testimonia la morte e la malattia di un migliaio di persone.

45 Il 22 Dicembre 2004 a Torino l’avvocato Sergio Bonetto si reca al palazzo di giustizia seguito dai colleghi Anna Fusari, Paolo Pissarello, Oberdan Forlenza, il legale dell’Inca Massimo Di Celmo Bruno Pesce e Nicola Pondrano e con l’appoggio incondizionato di Bianca Guidetti Serra.

46 Gli avvocati presentano alla cancelleria un esposto - denuncia di 56 pagine dove sono elencati i danni subiti, le cause che li hanno provocati e i nomi di coloro che hanno permesso che tutto avvenisse, i proprietari del colosso mondiale: i fratelli svizzeri Thomas e Stephan Schmidheiny e il barone belga Louis de Cartier de Marchienne.

47 Stephan Schmidheiny all’epoca dell’apertura del dibattimento era rappresentante dell’Onu per lo sviluppo sostenibile, inoltre è stato consigliere di Bill Clinton, docente di globalizzazione per alcune università pontificie, ha due lauree ad honorem negli Stati Uniti, è ideatore della “Swatch”, filantropo pluripremiato con 1,5 miliardi di dollari devoluti in beneficienza. A ventisei anni ha ereditato la guida del gruppo Eternit ramificato in 72 paesi. Schmidheiny è consapevole dei danni provocati dall’amianto, ma non ha mai considerato l’ipotesi di essere stato responsabile della tragedia di Casale

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Monferrato. Il barone Louis de Cartier de Marchienne deceduto il 21 maggio 2013, all’età di 91 anni, negli anni Sessanta era arrivato ai vertici Eternit. Successivamente, pur mantenendo un’importante quota di partecipazione, cedette il controllo dell’azienda ai fratelli Schmidheiny. Data l’importanza che aveva nel suo paese, non è casuale che in Belgio l’utilizzo dell’amianto sia stato definitivamente proibito solo nel 1998.

48 Alla denuncia dei casalesi si associano anche gli ex lavoratori e semplici cittadini delle altre sedi Eternit in Italia: Bagnoli (Napoli), Balangero (Torino), Rubiera (Reggio Emilia), Siracusa e la vicina Cavagnolo. Attraverso una lunga opera di ricostruzione dei fatti è stato possibile ricavare anche i processi decisionali che hanno confermato come tra il 1970 e il 1986, anno della chiusura, le strategie e le politiche che riguardavano anche i siti produttivi italiani fossero stati compiuti a livello centralizzato dalla Eternit con sede a Niederurnen. La dirigenza svizzera interveniva direttamente su tutte le scelte gestionali delle imprese controllate, sempre dalla dirigenza svizzera provenivano tutte le indicazioni tecnico-produttive necessarie al normale funzionamento degli stabilimenti che erano costantemente monitorati sia per quanto riguarda la produzione sia per quanto riguarda l’ambiente.

49 Nella ricostruzione accusatoria acquisisce un peso maggiore anche una vecchia prassi adottata dall’azienda di Casale Monferrato, a Cavagnolo e negli altri stabilimenti italiani: offrire ai dipendenti e ai cittadini materiale di scarto. In questo modo, secondo i legali che rappresentano le vittime, i vertici del gruppo hanno contribuito, anche attraverso la macinazione e la distribuzione del materiale difettoso trasformato in ghiaia a una dispersione sul territorio di materiale cancerogeno, il cui utilizzo era aumentato dalla gratuità dell’offerta. L’impresa peraltro non aveva mai fornito, né ai propri dipendenti né ai lavoratori impegnati nel trasporto di materiali, informazioni riguardo la pericolosità dell’amianto, giungendo a consentire il trasporto dei materiali su mezzi scoperti e obbligando i dipendenti al lavaggio delle tute di lavoro a domicilio, incoraggiandoli così a disperdere ulteriormente al di fuori dello stabilimento la polvere d’ amianto.

50 La battaglia di Casale è imponente ma ha trovato l’appoggio del procuratore Raffaele Guariniello, magistrato che ha dedicato un’intera vita professionale all’iniziativa giudiziaria a tutela della salute negli ambienti di lavoro.

51 Guariniello nel corso delle sue indagini mette insieme un fascicolo che si compone di oltre 22.000 pagine, cioè 150 faldoni che raccolgono tutti i documenti dell’inchiesta Eternit. All’inizio di agosto 2007 dalla procura di Torino partono gli avvisi di chiusura indagine, sintesi di anni di inchiesta per ricostruire delitti e responsabilità. Il primo elemento che colpisce è il numero di morti addebitati agli indagati: 2.969 persone colpite da mesotelioma pleurico. Le 105 pagine dell’avviso di conclusione dell’indagine con le gravi accuse di disastro ambientale doloso e omissione dolosa di norme antinfortunistiche sono state indirizzate a due sole persone: Louis Marie Ghislain de Cartier de Marchienne, il barone belga e Stephan Schmidheiny uno dei due eredi dell’impero elvetico dell’amianto. Thomas Schmidheiny al contrario esce dal processo, il suo ruolo all’interno della multinazionale di famiglia non avrebbe comportato lo stesso grado di coinvolgimento dei due indagati.

52 La procura ha anche stabilito di applicare al processo una legge appena varata, la legge 123 del 25 Agosto 2007. Questa norma prevede infatti, che quando gli amministratori di una società commettano reati dai quali le società stesse traggono vantaggio, queste

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ultime possono essere chiamate a rispondere penalmente ed essere sanzionate in base ai danni provocati, con multe, sequestri, ritiro di autorizzazioni e licenze o divieto di svolgere le proprie attività. La vicenda Eternit rappresenta il debutto assoluto di questo tipo di strumento di legge in Italia e non è certo un aspetto marginale del processo che la procura di Torino ha celebrato. Solo per le sanzioni, in caso di morte sono previste somme che arrivano fino a un milione e mezzo di euro. La chiamata in causa delle società, inoltre, potrebbe risultare molto importante dal punto di vista civilistico, colpire direttamente le società, infatti, potrebbe rivelarsi particolarmente efficace per chi si è posto l’obiettivo di chiudere definitivamente la battaglia contro l’amianto. Rendere antieconomiche certe attività attraverso sanzioni e limitazioni aziendali potrebbe rivelarsi il miglior disincentivo al perpetrare di certi tipi di imprenditoria.

53 Il 10 dicembre 2009 nonostante entrambi gli imputati non siano mai apparsi davanti ai magistrati italiani, il tribunale della Repubblica italiana con sede a Torino inizia a celebrare il processo contro gli eredi dell’impero dell’amianto. Il giorno d’apertura del dibattimento accorre gente da tutta Italia, dalla Francia, Svizzera, Belgio ma anche dagli Stati Uniti, dal Brasile, dal Messico e dal Perù. In aula sono presenti 26 avvocati per rappresentare i due imputati e di fronte a loro un’altra schiera per rappresentare le parti civili, compresi molti colleghi provenienti da altri paesi, in prima fila i tre magistrati della pubblica accusa, Raffaele Guariniello, Gianfranco Colace e Sara Panelli.

9. I capi d’accusa

54 Schmidheiny e de Cartier sono chiamati a rispondere alla giustizia italiana per due capi di imputazione. Il primo risponde all’articolo 437 del Codice Penale, ossia «per aver omesso di collocare impianti, apparecchi e segnali destinati a prevenire malattie- infortunio e in particolare, patologie da amianto (carcinomi polmonari, mesoteliomi pleurici e peritoneali, asbestosi o patologie absesto correlate di natura non tumorale) presso gli stabilimenti di Cavagnolo, Casale Monferrato, Bagnoli, Rubiera e per aver omesso di adottare idonei impianti di aspirazione localizzata, idonei sistemi di ventilazione dei locali, sistemi di lavorazione dell’amianto a ciclo chiuso, volti a evitare la manipolazione manuale, lo sviluppo e la diffusione dell’amianto; idonei apparecchi personali di protezione, organizzati sistemi di pulizia degli indumenti da lavoro all’interno degli stabilimenti; con l’aggravante che dal fatto derivano più casi di malattia-infortunio in danno di lavoratori addetti presso i suddetti stabilimenti ad operazioni comportanti esposizione incontrollata e continuativa ad amianto, e deceduti o ammalatisi per patologie riconducibili ad amianto»40.

55 Il secondo capo d’imputazione riguarda l’articolo 434 del Codice penale «per aver commesso fatti diretti a cagionare un disastro e dai quali è derivato un pericolo per la pubblica incolumità, e per aver omesso di adottare i provvedimenti, tecnici, organizzativi, procedurali,igienici necessari per contenere l’esposizione all’amianto»41.

56 I vertici Eternit, infatti, avrebbero dovuto farsi carico di «attuare provvedimenti che comprendessero impianti d’aspirazione localizzata, adeguata ventilazione dei locali, utilizzo di sistemi a ciclo chiuso, limitazione dei tempi d’esposizione, procedure atte a evitare la manipolazione manuale, lo sviluppo e la diffusione delle sostanze precedentemente elencate, sistemi di pulizia degli indumenti di lavoro in ambito aziendale.

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57 Inoltre sono accusati di aver omesso di curare la fornitura e l’effettivo impiego di idonei apparecchi personali di protezione, di sottoporre i lavoratori ad adeguato controllo sanitario mirato sui rischi specifici da amianto, di informarsi e informare i lavoratori medesimi circa i rischi specifici derivanti dall’amianto e circa le misure per ovviare a tali rischi; in aree private e pubbliche al di fuori dei predetti stabilimenti fornito a privati e a enti pubblici, e mantenuto in uso materiali di amianto per la pavimentazione di strade, cortili, aie, o per la coibentazione di sottotetti di abitazione civile, determinando così un’esposizione incontrollata, continuativa e a tutt’oggi perdurante, senza rendere edotti gli esposti circa la pericolosità dei predetti materiali.

58 Vi è stata per giunta un’esposizione di fanciulli e adolescenti anche durante attività ludiche, presso le abitazioni private dei lavoratori con omissione di organizzare la pulizia degli indumenti in ambito aziendale; non è stata organizzata la pulizia degli indumenti in ambito aziendale, in modo da evitare l’indebita esposizione ad amianto dei familiari conviventi e delle persone addette alla predetta pulizia.

59 Vi è l’aggravante che il disastro è avvenuto in quanto l’amianto è stato immesso in ambienti di lavoro e ambienti di vita su vasta scala e per più decenni, mettendo in pericolo e denunciando l’integrità fisica sia di un numero determinato di lavoratori sia di popolazione causando il decesso di un elevato numero di lavoratori e di cittadini [...]»42.

60 In aula il procuratore Guariniello poi riassume di nuovo le responsabilità dei due eredi delle famiglie proprietarie dell’Eternit e cita i provvedimenti che furono imposti alle industrie dell’amianto: «sostituzione del materiale, apparecchi chiusi, apparecchi muniti di aspirazione di raccolta delle polveri, inumidimento del materiale, separazione delle lavorazioni pericolose o insalubri, sistemi adeguati di pulizia dei locali di lavoro, deposito e scarico adeguato di rifiuti o altri materiali insalubri, armadi separati, servizi igienico-assistenziali idonei (primo fra tutti doccia e refettorio adeguati), adeguata informazione e formazione dei lavoratori circa i rischi specifici ed i modi di prevenire i danni derivanti da questi rischi, fornitura, impiego capillare, manutenzione di mezzi personali di protezione appropriati e resistenti, accertamenti sanitari preventivi periodici e non burocratici, ma mirati sul rischio specifico e idonei a scongiurare il passaggio dallo stato di salute allo stato di malattia»43.

61 Con il passaggio dalla gestione belga a quella elvetica, in realtà si era verificato qualche miglioramento passando da una lavorazione a ciclo secco a una a ciclo umido, con una riduzione della polvere sollevata e quindi una minore minaccia per i polmoni. Questa miglioria però non era dovuta a un nuovo impulso improntato sulla sicurezza, ma era una scelta inevitabile per la sopravvivenza del colosso svizzero. All’epoca infatti si erano già diffuse nell’opinione pubblica alcune informazioni sulla pericolosità dell’amianto. La nuova minaccia per la società svizzera non arrivava più dall’amianto, i cui effetti negativi erano noti da tempo, ma dal fatto che ormai la sua pericolosità fosse nota anche all’opinione pubblica.

62 Quindi pur di continuare a produrre e ad avere profitti, gli svizzeri scelsero di difendere la tesi dell’uso controllato dell’amianto e di piegarsi a qualche miglioria.

63 Qualcosa di simile accade anche con le pulizie, sommarie e inadeguate. Gli strumenti messi a diposizione dall’azienda per rimuovere i chili di polvere annidati ovunque erano semplicemente delle scope. Vi furono molte proteste, ma chi faceva attività

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sindacale era redarguito con mansioni punitive come le pulizie dei filtri o del vascone dell’amianto.

10. Verso la sentenza definitiva

64 L’intera giornata del 10 dicembre 2009 è totalmente spesa per le procedure d’istruzione del processo rese complicate dai grandi numeri. Il dibattimento proseguirà tutti i lunedì del 2009, 2010, 2011, in cui il tribunale convoca udienza; nasce così un nuovo calvario emotivo per i tanti, che non perdono una sola giornata di processo. Il 14 giugno 2011 è un giorno importante, il primo giorno di requisitoria della pubblica accusa. Questo appuntamento è importantissimo per madri, vedove, figli, amici, reduci della fabbrica. È il momento della resa dei conti, quello che tutta Casale aspettava. Per prima cosa viene aggiornato il quadro delle parti civili, vengono annotati così i continui e nuovi decessi Il pubblico ministero Sara Panelli chiarifica subito la complessità nel delineare cosa l’industria Eternit abbia significato per oltre un secolo. Ciò che però è importante sottolineare è l’esistenza di strategie elaborate a livello internazionale dalle maggiori industrie dell’amianto, prime fra tutte quelle che facevano capo agli imputati. Queste industrie hanno stretto accordi, hanno creato società per aumentare i loro profitti, hanno agito in modo compatto e unitario per rendere credibile un uso dell’amianto in sicurezza, nascondendo l’evidenza della micidiale cancerogenità del materiale.

65 Il 13 febbraio 2012 si arriva alla sentenza definitiva. Il processo è stato celebrato nel corso di sessantasei udienze, ed è stato caratterizzato da notevole complessità «sia con riferimento al numero delle parti processuali, in particolare delle parti civili costituite, inizialmente in numero superiore alle seimila unità, sia con riferimento ai temi trattati, tutti meritevoli di adeguato approfondimento probatorio»44.

66 A Piazza Castello arrivano 26 pullman da Casale e dintorni, altri arrivano dall’Emilia Romagna, da Napoli, dalla Francia, dalla Svizzera, dalla Spagna, dalla Gran Bretagna, ma anche dal Brasile, dalla California, da Washington. Gli avvocati sono un esercito, i giornalisti numerosissimi, i sindaci si dispongono tutti insieme, vicini, eccetto il sindaco di Casale Monferrato in disparte accanto al legale del Comune. Arriva il pool dell’accusa, Raffaele Guariniello, Sara Panelli, Gianfranco Colace insieme al procuratore capo di Torino Gian Carlo Caselli, arrivato per far sentire la sua vicinanza ai colleghi come già aveva fatto per il processo.

67 Alle 9,22 entra il presidente Giuseppe Casalbore, i giudici si ritirano e annunciano la lettura del verdetto per le 13,15 quando rientra il collegio dei giudici e il presidente Giuseppe Casalbore pronuncia il verdetto: «in nome del popolo italiano, il tribunale di Torino,visti gli articoli 533 e 535 del Codice di procedura penale,dichiara De Cartier Louis Marie Ghislain e Schmidheiny Stephan colpevoli dei reati loro contestati relativamente ai fatti successivi al 13 agosto 1999 e colpevoli dei reati loro contestati relativamente ai fatti successivi al 13 agosto 1999 e colpevoli dei reati contestati rispettivamente dal 27 giugno 1966 e dal 18 settembre 1974 in Cavagnolo e Casale Monferrato, e unificati sotto il vincolo della continuazione, li condanna a 16 anni di reclusione ciascuno […]» 45

68 Uno per uno vengono pronunciati 6300 nomi: sono le parti civili, che devono essere risarcite e a ciascuno viene associato il nome del coniuge scomparso. La lettura dell’intero dispositivo richiede poco più di tre ore e comprende anche il lunghissimo

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elenco dei risarcimenti: 100 mila euro andranno ai sindacati, 4 milioni al comune di Cavagnolo, 15 milioni all’INAIL, 5 milioni all’ASL, 20 milioni alla regione Piemonte, 25 milioni al Comune di Casale Monferrato, 100 mila euro all’Associazione vittime dell’amianto, 30 mila euro a ciascuno dei parenti delle vittime, 35 mila euro ad ogni ammalato, per un totale che si avvicina ai 100 milioni di euro.

69 Schmidheiny e De Cartier sono finalmente condannati, ma per il novantunenne belga (deceduto il 21 maggio 2013) questa condanna rappresenta solo un fastidio nominale, molto più pesante è l’effetto che il verdetto avrà sulla vita e l’immagine di Stephan Schmidheiny.

70 Sergio Bonetto, l’avvocato che ha accompagnato fin dai primi momenti il gruppetto di Casale, diventato una folla sempre più grande, a sentenza avvenuta dice: «Ora è una verità giudiziaria: quello che è accaduto non è figlio di nessuno, ma è figlio dei consigli di amministrazione di grandi gruppi internazionali»46. È emozionato anche Riccardo Coppo, l’ex sindaco, l’uomo che nel 1987 ebbe il coraggio di firmare l’ordinanza che proibì l’uso dell’amianto.

71 «Non ero da solo, però ho agito con la soddisfazione di aver messo l’istituzione al servizio della collettività, non bastava la chiusura dell’Eternit bisognava dare un segnale concreto»47.

72 Pietro Condello, l’ex operaio che ha seguito le 66 udienze sempre indossando la sua vecchia tuta blu rilascia interviste a raffica: «La pena è giusta ma non riesco ad essere contento, perché non c’è denaro né galera che possa ripagare quelli che sono morti. Se non li condannavano, allora mi sarei sentito umiliato. Diciamo che oggi non sono umiliato e non sono contento»48.

73 Il 3 giugno 2013 è stata emessa la sentenza di appello, con la quale la Corte d’Appello di Torino ha non soltanto confermato, ma aumentato la pena inflitta a Stephan Schmidheiny a 18 anni di carcere. La medesima Corte d’Appello di Torino ha sancito il non luogo a procedere per Cartier de Marchienne per sopravvenuto decesso dell’imputato.

Conclusione

74 Nel 1995 il Comune di Casale Monferrato ha acquisito lo stabilimento che occupava 96.000 metri quadri, la bonifica dello stabilimento Eternit è finora l’unico intervento di bonifica di un vasto insediamento portato a termine in Italia, lo stabilimento casalese, era il più vasto d’Europa. Oltre alla bonifica dello stabilimento si è rivelato necessario procedere alla bonifica di tutto il territorio cittadino. Fino alla fine degli anni Ottanta, il materiale prodotto dall’Eternit era considerato ottimo materiale isolante per i sottotetti, era utilizzato per la ricopertura dei cortili e più in generale come materiale di riempimento e potendo essere reperito a costo zero dai cittadini era impiegato in quantità elevatissime, per questo il comune ha attivato numerose aree di bonifica anche in molte zone della città. Un altro intervento che ha comportato grandi sforzi da parte dell’amministrazione casalese ha riguardato l’intervento sulla sponda destra del fiume Po. Questo intervento si era reso necessario perché i detriti dispersi da un canale di scarico dell’Eternit avevano creato una vera e propria spiaggia ricoperta da vegetazione spontanea, contaminata da amianto in polvere o in fibre misto alla sabbia, un luogo che era stato frequentato a lungo dalla popolazione casalese. Depurare

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totalmente l’area della fabbrica e le molte aree del paese si è rilevato molto complesso, ancora oggi continuano ad essere denunciati nuovi siti urbani in cui sono state rilevate tracce d’amianto e ancora oggi le persone continuano ad ammalarsi di mesotelioma pleurico.

75 Daniela Degiovanni, la giovane dottoressa che aveva dato per prima un grande contributo all’apertura del processo insieme ai due sindacalisti Nicola Pondrano e Bruno Pesce, oggi è oncologa e primario dell’hospice di Zaccheo di Casale Monferrato, struttura nata per accogliere i malati terminali di Casale. In questa struttura solo nel 2012 sono stati accolti 35 nuovi malati, e questo è un numero in difetto perché non tutti i malati di mesotelioma hanno scelto di andare a morire in quella struttura. La ricerca è ai suoi primi passi, per questo a differenza di altri tumori la diagnosi precoce, non allunga le speranze di vita, ma solo la consapevolezza della malattia. Gli epidemiologi sostengono che il picco della malattia ci sarà nel 2020, poi ci saranno quindici, vent’anni di stabilità e poi la curva della malattia comincerà a decrescere.

76 L’amianto è fuori legge sul suolo nazionale dal 1992, e nel comune di Casale dal 1987. Questo non basta ancora però ad assicurare che l’amianto finisca la sua strage. È ancora legale in moltissimi paesi, come Cina, India,Indonesia, Usa, Canada. Nel mondo, ancora oggi, oltre cento milioni di persone lavorano a stretto contatto con l’amianto. La strage di questo minerale killer sembra inarrestabile, la battaglia di Casale però, seppur impari ha portato ad enormi risultati grazie agli sforzi e all’impegno di pochi uomini. Questo induce a sperare che anche nei paesi dove l’amianto è tutt’ora legale si possa arrivare al suo completo disuso.

NOTE

1. ISRAËL, Liora, Le armi del diritto, Milano, Giuffrè, 2012, p. 3. 2. Ibidem, p. 22. 3. ROSSI, Giampiero, Amianto. Processo alle fabbriche della morte, Milano, Melampo Editore, 2012, p. 53. 4. ROSSI, Giampiero, La lana della salamandra. La vera storia della strage dell’amianto a Casale Monferrato Roma, Ediesse, 2008, p. 48. 5. Tribunale di Torino, sezione I, sentenza del processo Eternit 13 febbraio 2012, pp. 212-222. 6. ROSSI, Giampiero, La lana della salamandra. La vera storia della strage dell’amianto a Casale Monferrato Roma, Ediesse, 2008, p. 51. 7. Ibidem, p. 51. 8. Ibidem, p. 53. 9. Ibidem, p. 58. 10. ROSSI Giampiero, op. cit., p.60 11. Nicola Pondrano oggi è presidente del Fondo Nazionale vittime amianto 12. URL: [Consultato il 29 luglio 2014] 13. ROSSI Giampiero, op. cit. p.70 14. URL: [consultato il 2 ottobre 2014]. 15. GUIDETTI SERRA, Bianca, Bianca la rossa, Torino, Einaudi, 2009, p. 221.

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16. URL: [consultato il 2 ottobre 2014]. 17. ROSSI Giampiero, op. cit., p.97; URL: [consultato il 29 luglio 2014]. 18. Ordinanza num. 83 del 2 dicembre 1987. 19. Legge 257 /1992. 20. Medicina Democratica, movimento di lotta per la salute, URL: < http:// www.medicinademocratica.org/> [consultato il 30 luglio 2014]. 21. ZUCCHETTI, Massimo, «Bianca Guidetti Serra e la messa al bando dell’amianto», in il Manifesto, 30 giugno 2014 [consultato il 30 luglio 2014]. 22. Tribunale di Torino, sezione I, sentenza del processo Eternit 13 febbraio 2012, p. 542. 23. Ibidem, p. 543. 24. Tribunale di Torino, sezione I, sentenza del processo Eternit 13 febbraio 2012, p. 547. 25. Ibidem, p. 552. 26. Ibidem, p. 555. 27. Ibidem, p. 556. 28. Ibidem, p. 559. 29. URL: [consultato il 6 Settembre 2014]. 30. Tribunale di Torino, sezione I, sentenza del processo Eternit 13 febbraio 2012, p. 566. 31. «Romiti e Mattioli la parola alla parte civile», in La Stampa, 20 maggio 1999. 32. «Dirigente rinviato a giudizio per mobbing», in La Stampa, 27 aprile 2004. 33. «Causa in pretura: licenziate perché sono donne», in La Stampa, 25 febbraio 1992. 34. «Morì per troppo lavoro, paga il committente», in [g. fav.] La Stampa, 1 marzo 1997. 35. «Condannato per 2 morti da amianto», in La Stampa, 29 novembre 1997. 36. URL: < http://www.rassegna.it/articoli/2011/04/15/73456/thyssenkrupp-la-strage-e-il- processo> [consultato il 9 settembre 2014]. 37. «Eternit, i legali di parte civile: Pagate i danni da esposizione», in La Stampa, 18 luglio 2011. 38. GIAMBARTOLOMEI, Andrea, «Dopo la sentenza Eternit nasce Interforum Un’ong contro i crimini industriali nel mondo», in Il fatto quotidiano, 15 febbraio 2012. 39. URL: < http://www.avoicomunicare.it/blogpost/ambiente/torino-il-processo-eternit> [consultato il 31 luglio 2014]. 40. Art. 437 del Codice Penale. 41. Art. 434 del Codice Penale. 42. Sentenza Corte d’Appello di Torino Sezione Terza Penale 3 giugno 2013, p. 3. 43. Tribunale di Torino Prima Sezione Penale, 20 giugno 2011. 44. Tribunale di Torino 13 febbraio 2012, p. 189. 45. Tribunale di Torino 13 febbraio 2012, p. 580. 46. ROSSI, Giampiero, Amianto. Processo alle fabbriche della morte, Milano, Melampo Editore, 2012, p. 150. 47. Ibidem. 48. ROSSI, Giampiero, Amianto. Processo alle fabbriche della morte, Milano, Melampo Editore, 2012, p. 150

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RIASSUNTI

Questo articolo si concentra sulla vicenda relativa alla presenza dell’Eternit a Casale Monferrato. L’Eternit nacque ad inizio Novecento e divenne rapidamente una delle industrie più importanti della zona, attirando moltissimi lavoratori. L’Eternit produceva cemento-amianto, un materiale ad altissima resistenza termica, adatto per innumerevoli scopi, ma allo stesso tempo molto pericoloso. L’inalazione di questo minerale poteva portare a malattie respiratorie e, nel peggiore dei casi, a un tumore che portava a morire dopo sei mesi/un anno di incubazione. Questo fattore generò un altissima mortalità non solo tra gli operai, ma anche nel resto della popolazione civile. Negli anni Settanta iniziarono le prime lotte sindacali che, dopo anni di indagini, porteranno ad un processo nei confronti dei responsabili della strage.

This essay is focused on the story of the Eternit factory in Casale Monferrato. Eternit was estabilished in the beginning of the 20th century, becoming one of the most important local factories drawing lots of workers. Eternit produced asbestos cement, a type of material with a high heath resistance. Useful for many things but very dangerous at the same time, in fact breathing the mineral could bring respiratory deseases or in worst cases cancer that brought to death after six months. This causes a high rate of mortality not only among workers but also in the population. In the seventies the unions started the first protests which developed in the trial of the people responsible of the slaughter.

INDICE

Keywords : asbestos, Casale Monferrato, Eternit, safety at work, workplace death Parole chiave : amianto, Casale Monferrato, Eternit, morti sul lavoro, sicurezza sul lavoro

AUTORE

COSTANZA ZANASI

Ha conseguito la Laurea triennale in Lettere Moderne presso l’Università di Bologna; è iscritta al secondo anno del corso di Laurea magistrale in Scienze Storiche presso l’università di Bologna. URL: http://www.studistorici.com/progett/autori/#Zanasi

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Il diritto nella concezione materialistica della storia

William Mazzaferro

1. Il diritto in Marx, Engels e Lenin

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1 Dal punto di vista dell’analisi del diritto è possibile sostenere una certa continuità teorica tra l’elaborazione marxiana (almeno quella della maturità1), quella engelsiana e quella leniniana. Per dimostrare la correttezza di tale affermazione, prima di passare all’analisi delle interpretazioni successive a Lenin, s tenterà di analizzare alcuni scritti dei tre autori contenenti riflessioni sul tema in questione.

2 Come quasi ogni studioso del tema non ha dimenticato di ricordare, non è presente in Marx alcuna teorizzazione sistematica concernente il diritto2; non esistono né parti di opere contenenti tali trattazioni, né tanto meno opere dedicate. Tuttavia, come alcuni studiosi hanno creduto di poter fare, è possibile delineare una teoria del diritto a partire dall’infinità di accenni sul tema presenti nell’opera marxiana.

3 Diversamente da ciò che accade ad altre tematiche trattate dall’autore, in questo caso è possibile riscontrare alcuni elementi di continuità tra il primo e l’ultimo Marx. Nonostante ciò, in questa sede verrà trattata solamente l’opera del Marx maturo.

4 Nella direzione opposta rispetto a questa affermazione muove l’analisi di Riccardo Guastini. L’autore infatti ritiene impossibile rintracciare degli elementi di continuità sulla base dei quali ricostruire una teoria marxiana del diritto, ritiene che solamente le trattazioni successive a Marx possano essere considerate vere e proprie teorie3. Detto ciò, in questa sede si è ritenuto maggiormente condivisibile il punto di vista per cui, a partire dalle asserzioni presenti nell’opera dell’ultimo Marx sul diritto e dalla formulazione della concezione materialistica della storia presente nell’Introduzione del 1959, sia possibile estrapolare una teoria generale del diritto.

5 In primo luogo e possibile affermare che, qualunque natura si voglia attribuire al diritto e di qualunque diritto particolare si voglia parlare (sia esso costituzionale o penale), esso venne sempre studiato come elemento sovrastrutturale4.

6 Nel Marx maturo il diritto appare come sovrastruttura totalmente dipendente5 dalla base dei rapporti di produzione e delle forze produttive6. In questo contesto le norme assumono alcune funzioni principali: (1) formalizzano determinati rapporti di proprieta, (2) organizzano la repressione e la coercizione delle frazioni momentaneamente dominanti della classe dominante e (3) mistificano la natura reale dei rapporti di produzione.

7 La prima delle due funzioni, già presente nel primo Marx, è ben riassunta nell’analisi svolta da Marx stesso nell’ottobre del 1942 sulla Gazzetta Renana riguardante la legge contro i furti di legna. In tale occasione l’autore mise in evidenza il legame tra il passaggio dal modo di produzione feudale al modo di produzione capitalistico e quello dal diritto consuetudinario al diritto positivo7.

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8 Prima di affrontare l’analisi della seconda funzione occorre chiarire meglio quale sia per Marx il rapporto tra il diritto e lo stato. Lo stato marxiano è uno strumento di classe multiforme nato anch’esso come conseguenza dello sviluppo di determinati rapporti di produzione. Esso sarebbe quindi un elemento sovrastrutturale la cui forma dipenderebbe dal diritto costituzionale (come lo chiameremmo noi oggi) e la cui funzione ultima sarebbe quella di mantenere lo status quo socio economico mediante l’utilizzo della forza. Tutto ciò e ben sintetizzato all’interno di un passo tratto dall’ Ideologia tedesca riportato nell’Antologia di Cain e Hunt Their personal power is based on conditions of life which as they develop are common to many individuals, and the continuance of which they, as rulling individuals, have to mantain against others and, at the same time, to mantain that they hold good for everybody. The expression of this will, which is determined by their common itrests, is the law8.

9 La funzione coercitiva del diritto è quindi contenuta, almeno in parte, all’interno del diritto penale. La funzione principale di tale branca del diritto sarebbe quella di impedire lo sviluppo di eventuali ostacoli al processo di accumulazione capitalistica. Alcuni articoli tratti dalla «Neue Rheinische Zeitung» raccolti sotto il titolo di La borghesia e la contro-rivoluzione, contengono un passo in cui e ben sintetizzato il contenuto di questo paragrafo But if the people obstinately stuck to their purpose, very well, than he would “strengthen the state”, the police, the army, the courts, the bureaucracy, and would set his bears on them, for “trust” had become a “business question”, and: “Gentleman, business is business!”9.

10 L’interpretazione del diritto come elemento sovrastrutturale in grado di mistificare la reale natura dei rapporti di produzione venne approfondita da Engels e ripresa dai protagonisti del recupero del concetto gramsciano di egemonia durante gli anni Settanta, per queste ragioni essa verrà trattata in seguito.

11 Dopo aver osservato la natura sovrastrutturale di almeno due delle funzioni del diritto individuate dal Marx scienziato, resta da considerare il ruolo, ben descritto nella famosa introduzione a Per la critica dell’economia politica e in parte contenuta nell’antologia di Cain e Hunt, che il diritto gioca all’interno di tale sovrastruttura; esso sarebbe una particolare sovrastruttura ben distinta sia dalla sovrastruttura ideologica che da quella scientifica (le due principali forme della coscienza sociale). The sum total of these relations of production constitutes the economic structure of society, the real foundation, on which rises a legal10 and political superstructure and to which correspond definite forms of social consciousness11. Poche righe dopo Marx prosegue con [...] a distinction should always be made between the material transformation of the economic conditions of production, which can be determined with the precision of natural science and the legal, political, religious, aesthetic or philosophic, in short, ideological forms in which men became conscious of this conflict and fight it out12.

12 In questa seconda citazione sembrerebbe contenuta una contraddizione relativa all’inserimento del diritto all’interno della sfera delle ideologie dalla quale sembrava appena essere stato escluso. In realtà, una spiegazione potrebbe risiedere nella distinzione tra forma e contenuto13 delle norme giuridiche; è infatti possibile che Marx ritenesse il contenuto del diritto come non ideologico14, e la sua forma, una forma ideologica15.

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13 In conclusione, il Marx scienziato sostenne la sovrastrutturalità del diritto in tutte le sue forme, pur non giungendo mai alla negazione feticistica della legalità come strumento di lotta rivoluzionaria16.

14 Nonostante chi scrive non sia d’accordo con la posizione di Guastini che tende a svalutare l’opera engelsiana in fatto di riflessione giuridica17, va ammesso che, seppure senza ritenerlo un limite, la concezione engelsiana del dritto presente nell’Antidühring, l’unico testo analizzato in questa sede18, è da considerarsi come una poco originale rivisitazione del diritto marxiano.

15 Nell’opera in questione Engels ribadì la natura sovrastrutturale della morale alla base del diritto e delle teorizzazioni ideologiche volte a destoricizzare il diritto positivo vigente in una data epoca19. Dopo aver considerato l’impossibilita della formulazione di verità assolute tipica di ogni scienza20, l’autore passò all’analisi di alcune verità che ambiscono all’universalità nell’ambito di quelle da lui precedentemente definite scienze storiche. In tale contesto Engels criticò sia le norme morali manifestantesi nelle norme positive, sia gli elementi ideologici contenuti nelle teorie che intendono spiegare l’esistenza del diritto stesso.

16 Un esempio della prima critica è dato da una banale quanto efficace affermazione contenuta nel primo dei tre capitoli dedicati al problema della morale e del diritto: A partire dal momento in cui si sviluppò la proprietà privata di beni mobili, a tutte le società in cui vigeva questa proprietà privata dovette essere comune il comandamento morale: Non rubare. Questo comandamento diventa perciò una legge morale eterna? Niente affatto. In una società in cui i motivi per rubare sono eliminati, in cui a lungo andare soltanto i pazzi potrebbero rubare, quanto si riderebbe del predicatore di morale che proclamasse solennemente la verità eterna: Non rubare21!

17 Nel proseguire la sua trattazione, Engels analizzò le origini storiche delle ideologie generate inconsapevolmente dagli ideologi (vedi Dühring stesso) nel loro riflettere sulla forma del diritto. Il nostro ideologo può fare e dire quel che vuole, la realtà storica, che ha cacciata dalla porta, rientra dalla finestra, e mente egli crede di tracciare una dottrina morale e giuridica valida per tutti i mondi e per tutti i tempi, in effetti presenta un’immagine delle correnti conservatrici o rivoluzionarie del suo tempo, contraffatta, perché avulsa dal suo terreno reale, e capovolta come in uno specchio concavo22.

18 Più avanti Engels riassunse il passaggio dal diritto feudale al diritto borghese. Secondo l’autore, che qui riprese le parole di Marx contenute ne Il Capitale, il passaggio al vero e proprio diritto borghese si ebbe nel momento in cui si rese necessario liberare della forza-lavoro dai propri vincoli feudali, in modo tale da permetterne il libero scambio nel mercato del lavoro23. Effettuato questo passaggio, alla borghesia in ascesa non restò altro compito, per permettere il pieno sviluppo della manifattura, che quello di abolire tutti i rimanenti ostacoli giuridici24. Nello svolgere questo compito, secondo Engels, la borghesia avrebbe consacrato la libertà e l’uguaglianza come Diritti universali dell’uomo. Tale consacrazione sarebbe poi stata presa sulla parola da parte del proletariato che avrebbe esatto un’applicazione concreta, non solo formale, di tali diritti25.

19 Finita questa schematica ricostruzione, Engels concluse ricordando gli elementi di storicità presenti anche nel concetto morale di uguaglianza riscontrabile all’interno delle rivendicazioni proletarie. Stando alle parole dell’autore, esso infatti sarebbe “tutto tranne che una verità eterna”26.

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20 La trattazione leniniana sul tema del diritto può essere divisa in due parti. La prima parte comprende, in piena continuità con Marx, la riflessione teorica sul ruolo del diritto all’interno, sia della formazione economico-sociale capitalistica, sia dell’ipotetica società senza classi. Tali riflessioni sono contenute nel principale testo politologico di Lenin: Stato e rivoluzione.

21 In esso Lenin, nel tentativo di ricollegarsi alla teoria dello stato presente in Marx ed Engels, ribadì la natura sovrastrutturale del diritto costituzionale e la sua funzione di strumento di oppressione nelle mani delle classi dominanti27. Fatto ciò, l’autore proseguì illustrando il ruolo e i mutamenti ai quali il diritto borghese sarebbe andato incontro nell’ottica di un mutamento rivoluzionario della società (prendendo come esempio l’esperienza della Comune di Parigi). Secondo Lenin e Marx, infatti, un’eventuale rivoluzione proletaria avrebbe avuto come risultato sul fronte giuridico solamente quello di mutare il diritto privato (come lo chiameremo noi oggi) in diritto “collettivo”, permettendo così la socializzazione dei mezzi di produzione28.

22 Dall’analisi dell’esperienza della Comune di Parigi, risultò infatti evidente l’impossibilità di un immediato superamento di tutto il diritto borghese. Infatti, riprendendo ancora una volta Marx, Lenin sostenne che, a rivoluzione avvenuta, sarebbe rimasto comunque ancora da risolvere il problema del superamento di quella parte del diritto borghese necessaria alla regolamentazione della distribuzione della ricchezza sociale. La prima fase del comunismo non può dunque ancora realizzare la giustizia e l’uguaglianza; rimarranno differenze di ricchezze e differenze ingiuste; ma non sarà più possibile lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, poiché non sarà più possibile impadronirsi, a titolo di proprietà privata, dei mezzi di produzione, fabbriche, macchine, terreni, ecc29.

23 Secondo Lenin ci si sarebbe trovati infatti di fronte a una distribuzione della ricchezza basata ancora sulla quantità del lavoro fornito (quindi meritocratica) e non sulla base delle reali necessità dei singoli individui. Tutto ciò servì a Lenin come punto di partenza per una breve riflessione sulla natura mistificatoria del diritto borghese.

24 Egli, una volta constatata la natura puramente formale dell’uguaglianza proclamata dal diritto borghese, insieme con Marx ed Engels, criticò tale uguaglianza in tutte le sue forme. La proclamazione dell’uguaglianza giuridica apparì a Lenin come insensata a causa della disuguaglianza di fondo tra gli individui (e le classi) soggetti a tale diritto. Per Lenin la natura mistificatoria del diritto risiederebbe quindi nel suo tentativo di mascherare le diseguaglianze strutturali, ponendo tutti gli individui in una situazione di formale uguaglianza giuridica30.

25 La seconda parte della riflessione leniniana ha natura prettamente pratica e consiste in una serie di affermazioni che consentono di ricostruire una bozza di teoria dello sfruttamento del diritto in ottica rivoluzionaria (quindi restando comunque lontano dall’interpretazione riformista). La maggior parte di tali affermazioni sono presenti in una lettera inviata a Elene Stasova, segretaria del partito di San Pietroburgo, e in alcuni testi minori. Dall’analisi di questi documenti si possono evincere i lineamenti fondamentali di una teoria, trattata in modo più approfondito nella sezione dedicata a Marcel Willard, dell’”autodifesa rivoluzionaria”.

26 Il 19 gennaio del 1905, nel tentativo di rispondere ad una lettera inviata dalla Stasova e contenente domande sul modo in cui comportarsi nei confronti di alcuni militanti rivoluzionari detenuti a Mosca, Lenin, pur ricordando al mittente che non si trattava di

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una teoria compiuta ma solamente di alcune opinioni personali, consigliò ai detenuti di respingere il processo a livello teorico e di partecipare al dibattimento con l’ausilio di un avvocato. Tale soluzione avrebbe dovuto essere adottata nel caso ci fosse stata la reale possibilità di “servirsi del processo per l’agitazione”31. Riguardo la partecipazione al dibattimento, Lenin sostenne l’esigenza di obbligare gli avvocati a limitare il loro intervento allo screditamento degli “aspetti arbitrari del processo”32, come la critica dell’azione del pubblico ministero e il controllo dei testimoni. Lenin, in definitiva, nel criticare le possibilità di azione degli avvocati ritenuti reazionari, pose un maggiore accento sull’autodifesa.

27 Tale inclinazione allo sfruttamento rivoluzionario del diritto borghese fu riscontrabile in Lenin almeno fin dal periodo della sua residenza a Samara (1889). Infatti, in un aneddoto riportato da Pašukanis e a sua volta ripreso da Elizarov33, lo stesso Lenin agì da “avvocato militante”34.

28 Questa breve rassegna dimostra che Lenin, nel recuperare l’insegnamento marxiano sul tema, fu in grado di integrarlo coerentemente. Egli infatti, come sottolineò Pašukanis, seppe evitare di cadere nella “negazione feticistica della legalità”, che portò molti rivoluzionari ad accettare la sola via violenta alla rivoluzione, senza tuttavia arrivare ad assumere una posizione riformista35.

2. Il dibattito negli anni Venti e Trenta

29 Nel corso degli anni Venti e Trenta il tema del diritto in ambito marxista conobbe un immenso sviluppo, sia a all’interno della realtà sovietica, sia all’interno di quella occidentale. I due principali filoni interpretativi, quello sovietico (interno e non all’Urss) e quello legato alla Scuola di Francoforte, si svilupparono parallelamente a partire da una posizione di base generalmente condivisa da entrambe. Entrambe i filoni infatti analizzarono il diritto, o teorizzarono un suo sfruttamento rivoluzionario, a partire da un analisi volta ad identificarlo come strumento di oppressione.

30 Una delle principali interpretazioni successive a Lenin e contenente una riflessione sul diritto fu, ovviamente, quella che sorse nell’ambiente sovietico post-leniniano. In tale contesto si sviluppò un immenso dibattito sulla natura e sulla struttura del diritto penale che, tra il 1928 e il 1936, vide scontrarsi la fazione guidata da Pašukanis, Krylenko e Rejsner contro quella guidata da Vyšinskij. Sempre in epoca staliniana sorse, sulla base dell’interpretazione della succitata lettera alla Stasova, una corrente di pensiero che sviluppò il tema dell’“avvocatura rivoluzionaria”, tale corrente nacque come conseguenza dell’opera di Marcel Willard.

31 Il dibattito che si sviluppo negli anni Trenta in Urss ruotò attorno al problema dell’indipendenza dei giudici36. Questo dibattito si sviluppò come conseguenza del più ampio dibattito riguardo alla Nuova Costituzione che sarebbe poi entrata in vigore nel 1936.

32 La prima opinione in merito fu espressa da Krylenko e Pašukanis. Nel loro Progetto di Codice penale essi sostennero la necessita di mantenere il potere giuridico separato da quello esecutivo.

33 Per raggiungere questo obiettivo senza incappare nelle storture tipiche dei paesi occidentali, i due giuristi proposero di demandare la determinazione della legalità all’«attività creativa dei giudici»37. I due autori del Progetto intendevano in questo

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modo creare dei giudici in grado di emettere sentenze sotto la sola guida dalla loro “coscienza socialista”, infatti, il giudice così inteso non sarebbe stato sottoposto al controllo del partito unico.

34 A questa proposta si oppose fermamente Vyšinskij. Egli sostenne la necessità di sottoporre l’attività dei giudici al controllo del partito. Nella costituzione del 1936 venne ripresa questa seconda concezione del diritto penale e al partito unico venne riconosciuto il ruolo di guida38.

35 Sul tema del codice penale sovietico e dell’origine delle norme in esso contenute, si scontrarono i due giuristi Michail Rejsner e Pëtr Stučka. Secondo Rejsner, all’origine del codice post rivoluzionario ci sarebbe stato il cosiddetto diritto di classe intuitivo. Rejsner riprese tale categoria giuridica da Petrażycki per indicare il diritto delle classi rivoluzionarie, opposto al diritto positivo, sorto sulla base dello sviluppo della contraddizione fondamentale tra forze produttive e modo di produzione39.

36 Il giurista sovietico pervenne a tale conclusione ragionando sul diritto inteso come “forma ideologica”. Nel far ciò egli però non tenne conto della distinzione tra forma e contenuto del diritto, riflessione che invece si pose alla base della teoria elaborata da Stučka.

37 Quest’ultimo, non comprendendo a fondo la modifica applicata da Rejsner alla categoria petrażyckiana, si oppose fermamente al suo utilizzo. Infatti egli, oltre a promuovere la distinzione tra forma e contenuto del diritto, affermò l’impossibilita dell’utilizzo della categoria di diritto intuitivo ai fini della ricostruzione del fondamento del diritto rivoluzionario40.

38 Come sostenne Guastini, tutte queste teorizzazioni, con l’avvento di Stalin, lasciarono il posto al dogmatismo delle teorie di Vyšinskij, funzionali alla progressiva centralizzazione del potere, richiesta per la gestione dell’economia politica staliniana41.

39 In conclusione, all’interno della realtà sovietica degli anni Trenta si affermò una concezione del diritto generale, e in particolare del diritto penale, che sostanzialmente tentò di renderlo subalterno alle decisioni del potere politico centrale. Tale tentativo di “controllare” il potere giuridico da parte delle forze “rivoluzionarie” si manifestò anche negli stati dell’Europa occidentale. In questo diverso contesto istituzionale, in cui le forze rivoluzionarie dovettero confrontarsi con legislazioni che spesso ne sancirono l’illegalità, tale tentativo prese la forma della cosiddetta “avvocatura comunista”.

40 Essa si sviluppò all’interno della tradizione politica stalinista del partito comunista francese. Il principale teorico di tale coniugazione del lascito leniniano fu Marcel Willard42, avvocato comunista francese fondatore dell’Association Juridique Internationale43.

41 Nel 1938, Willard scrisse un testo intitolato La defense accuse44, all’interno del quale, sulla base del contenuto della lettera a Elena Stasova, teorizzò la figura dell’avvocato votato alla causa rivoluzionaria. Sulla base di quest’opera sorse buona parte dell’azione giuridica (penale) dei partiti stalinisti dagli anni Trenta agli anni Settanta del secolo scorso. Nel testo, dopo aver interpretato come eccesso di modestia il consiglio di Lenin di non prendere troppo sul serio il contenuto della sua lettera45, Willard stilò una sorta di “decalogo” del comportamento di un rivoluzionario di fronte alla giustizia borghese Defendre sa cause et non sa personne. Assurer soi-même sa défense politique. Se montrer physiquement et politiquement courageux. Ne pas renseigner l’ennemi sur ce qu’il doit ignorer.

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Attaquer le regime accusateur. S’adresser, par-dessus la tête du juge, aux masses46.

42 In conclusione, la teorizzazione di Willard può essere interpretata come la formalizzazione e la giustificazione delle tattiche giuridiche messe in campo su scala internazionale dal Comintern staliniano mediante l’istituzione di alcuni organismi come il Soccorso Rosso Internazionale del 1922 e l’Association Juridique Internationale del 192947. Tale formalizzazione consistette nella teorizzazione di un “rivoluzionario avvocato” che, nonostante i tentativi di Willard di riallacciarsi alla tradizione leninista mediante la lettera succitata, in sostanza rappresentò un’errata interpretazione di parte delle opinioni leniniane sul tema. Lenin infatti sostenne, come abbiamo visto, l’importanza dell’autodifesa del militante e del solo sfruttamento degli avvocati che, in quanto piccolo-borghesi (lavoratori autonomi), vennero sempre “temuti” dal rivoluzionario in quanto elementi reazionari48. Nonostante ciò, dall’opera di Willard sorse la figura dell’“avvocato comunista” come figura legata ad un partito formalmente rivoluzionario, in grado di «[...]capire appieno e assecondare il disegno politico dei suoi compagni, e mettere al loro servizio le risorse della sua preparazione e della sua esperienza nel campo giuridico»49.

43 In parallelo con queste riflessioni sviluppatesi in ambiente sovietico, o comunque filo- sovietico, si svilupparono altre elaborazioni che si concentrarono sul concetto di pena. La principale differenza tra queste interpretazioni e quella sovietica risiedette nella scelta di un diverso punto di vista. Mentre infatti le teorie sovietiche intesero la pena come la conseguenza sovrastrutturale dell’antagonismo di classe, i teorici in questione la ritennero una necessita indotta dai mutamenti all’interno del mercato del lavoro50.

44 I primi studi sul tema sorsero in seno all’ambiente culturale della Scuola di Francoforte grazie al lavoro di Georg Rusche e Otto Kirchheimer, poi pubblicato con il nome di Pena e struttura sociale. Pubblicata nel 1939, quest’opera rappresentò il testo di riferimento per tutte quelle interpretazioni successive che tentarono di individuare un legame tra vari tipi di sanzioni e varie formazioni economico-sociali51.

45 Come già accennato, i due autori tentarono di ricollegare le varie forme assunte nel tempo dal castigo, alle strutture sociali in grembo alle quali sorsero. Nel fare ciò si opposero apertamente alla teoria sociologica di Durkheim, secondo la quale il castigo sarebbe stato «qualcosa di immutabile e universale»52. Ogni modo di produzione tende a scoprire delle forme punitive che corrispondono ai propri rapporti di produzione. È quindi necessario analizzare l’origine e il destino dei sistemi penali, l’uso o l’abbandono di certe pene, l’intensità delle pratiche punitive, così come questi fenomeni sono stati determinati dalle forze sociali, in primis dalle quelle economiche e fiscali53.

46 Tra gli altri obiettivi del castigo analizzati, un peso consistente venne riconosciuto all’utilizzo del castigo come strumento per limitare le azioni potenzialmente delittuose delle classi subalterne, quindi come «meccanismo della lotta di classe»54.

47 I due autori, nel ricostruire la storia del castigo, partirono dal superamento dello schiavismo con le pene tipiche del modo di produzione feudale e giunsero alle pene messe in gioco (e successivamente in parte superate) dal modo di produzione capitalistico. Gli autori individuarono quattro pene: la schiavitù, la pena capitale, la pena detentiva (sull’evoluzione della quale incentrarono l’intero saggio) e la pena pecuniaria. Tali castighi si manifestarono all’interno delle seguenti formazioni economico-sociali: formazione schiavile, formazione feudale e formazione capitalistica.

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Essi misero in relazione l’evoluzione della forma della pena con le dinamiche del mercato del lavoro55. Così, se in un’economia schiavistica si verifica una situazione di scarsità di offerta di schiavi a fronte di una domanda pressante, diverrà difficile ignorare la schiavitù come metodo punitivo56.

48 Alla luce di quanto sinora detto, è possibile sostenere che la Scuola di Francoforte, con la sua analisi storiografica, tentò di rafforzare le teorie marxiste precedenti dotandole di un certo spessore empirico. Nel fare ciò però essi si limitarono alla conoscenza critica, che la loro opera ampliò indubbiamente, allontanandola però dalla funzione rivoluzionaria che aveva avuto, seppure con accezioni diverse, nella riflessione giuridica (marxista) precedente.

3. La ripresa del tema nel secondo dopoguerra

49 La tradizione che per prima, dopo la pausa teorica dovuta al secondo conflitto mondiale, ripropose alcune questioni pratiche collegate con l’analisi del diritto, fu quella del comunismo francese. Ad essa seguirono: in Italia le elaborazioni legate al recupero della tradizione francofortese e al fenomeno dell’“avvocatura militante”, in Germania-ovest l’elaborazione legata al Capital-logic, in Francia l’interpretazione strutturalista e in Gran Bretagna quella gramsciana. In questa sede verranno analizzate solamente le prime tre. Per un’introduzione alle elaborazioni di Nicos Poulantzas e Stuart Hall, si consiglia la lettura del testo di Jessop contenuto in Marx and Law57.

50 Sul solco dell’interpretazione willardiana della famosa lettera di Lenin, una forte tradizione di “avvocatura militante” si sviluppò nella Francia del secondo dopoguerra alle prese con i processi di decolonizzazione.

51 In questo contesto, come sostiene Liora Israël, è possibile ritenere gli avvocati comunisti della prima ora (anni Venti e Trenta) come i precursori degli avvocati militanti non iscritti al partito58 e riuniti all’interno di collettivi di avvocati, che nel secondo dopoguerra difesero i combattenti dei vari movimenti di lotta nelle colonie per l’indipendenza dalla Francia.

52 Il fenomeno di formazione dei collettivi di avvocati si sviluppò a partire dalle lotte portate avanti dal partito Rda (Rassemblement Democratique Africain) nell’Africa occidentale francese e nel Camerun. Il primo di questi collettivi venne fondato da Henri Douzon nel 1948 a sostegno della causa malgascia. In seguito lo stesso avvocato applicò la stessa tattica a sostegno dei processi a carico del Rda. Conseguenza di ciò fu il progressivo affermarsi di una vera e propria pratica professionale, che portò tutta questa esperienza molto lontano rispetto all’originaria teorizzazione leniniana. Infatti, quelli che erano stati degli avvocati sfruttabili da parte dei militanti rivoluzionari auto- difendentesi, col tempo divennero i professionisti, non rivoluzionari, principali autori delle tattiche difensive dei militanti in questione. Va comunque ricordato che in comune a queste due tattiche vi fu sempre il tentativo di pubblicizzare il contenuto del processo, sia che tale pubblicizzazione avvenisse per mezzo dell’opera dell’avvocato, sia che essa avvenisse per opera dell’imputato stesso.

53 Comunque venga interpretata, questa nuova pratica professionale si diffuse enormemente anche grazie al processo di decolonizzazione algerina. Fu proprio in questo contesto che, dopo il banco di prova offerto dall’esperienza al fianco del Rda,

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emerse la figura di Jacques Vergès. Operante all’interno dei collettivi di avvocati organizzati dal Fln, egli fu il principale teorico della svolta che vide l’azione degli avvocati militanti diventare sempre più accusatoria e sempre meno difensiva. Tale prassi prese il nome di “difesa di rottura”59. L’avvocato che attua una difesa di rottura mette in discussione la legittimità delle istituzioni nelle quali si inserisce, non riconosce al tribunale il diritto di giudicare il suo cliente, denuncia le ingiustizie della repressione politica nel cuore del processo60.

54 La “difesa di rottura” può essere ritenuta il punto di arrivo dell’interpretazione willardiana dei contenuti della lettera di Lenin, ma nonostante ciò essa fu anche uno degli impulsi, insieme con lo sviluppo della figura dell’intellettuale specifico di Foucault, che diedero avvio, nella Francia post ’68, allo sviluppo della dottrina giuridica legata alla rivista «Actes» e al «Mouvement d’action judiciaire»61. Tale dottrina giunse a ribaltare totalmente la concezione materialistica del diritto, sino a cessare di ritenerlo elemento sovrastrutturale62.

55 Nell’Italia del secondo dopoguerra furono presenti due varianti nazionali di due delle riflessioni sul diritto analizzate in precedenza: quella legata all’avvocatura politica e quella legata alla rilettura dell’opera francofortese.

56 L’avvocatura politica in Italia si presento in entrambe le sue forme, quella “comunista” negli anni Cinquanta e Sessanta e quella genericamente “militante” durante gli anni Settanta.

57 L’“avvocatura comunista” giocò un ruolo importante già nell’immediato dopoguerra. Il Pci dovette infatti, sin da subito, difendere alcuni ex-partigiani accusati di omicidio politico (a guerra conclusa) ai danni di alcuni esponenti del superato regime fascista63. Fu anche a causa di queste attività che nacque, nel 1948, il movimento di Solidarietà Democratica. Voluto dal senatore Umberto Terracini, tale organismo, che sin dai primi anni manifestò una forte presenza sul territorio grazie ai Comitati regionali e provinciali64, si pose come obiettivo primario quello di fornire assistenza legale gratuita in difesa delle libertà democratiche65.

58 Come si può osservare, quindi, l’”avvocatura comunista” in Italia, almeno formalmente, si pose in difesa di quella stessa democrazia che gli imputati difesi dagli avvocati comunisti francesi, furono accusati di attaccare.

59 Nonostante questa attività giuridica praticamente di partito66, in Italia, per ovvie ragioni, fu assente quell’esperienza che in Francia diede maggior risalto all’attività di questi professionisti e maggior impulso alle loro teorizzazioni: i processi di decolonizzazione.

60 L’“avvocatura militante” si sviluppò invece a partire dagli anni Settanta in conseguenza dell’attività statale, prima contro gli studenti e i manifestanti arrestati durante le manifestazioni del Sessantotto, poi contro i gruppi armati di estrema sinistra. Fu proprio in questo contesto che si svilupparono i primi collettivi politici. Tali collettivi sorsero in parte da associazioni giuridiche legate al Pci, come nel caso del Collettivo giuridico politico di Roma (1968), in parte come totalmente separati dalla tradizione comunista, come nel caso di Magistratura democratica (1958). Essi si distinsero dall’esperienza del Soccorso rosso militante, nato nel 1970 come rimpiazzo del collettivo giuridico romano, a causa dell’attività politica dei militanti che difesero67: i collettivi difesero studenti e operai arrestati durante le manifestazioni, il Soccorso invece difese militanti dediti alla violenza politica d’avanguardia68.

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61 Ribaltando totalmente il significato della lettera di Lenin, come già accaduto in Francia grazie all’opera, prima di Willard e poi di Verges, il Soccorso rosso se distinguait aussi par la revendication d’un rôle militant exercé par les « intellectuels specifiques », entendus dans le sens foucaldien du terme, parmi lesquels les avocats étaient des gures saillantes. Ceux-ci devaient mettre leur savoir au service de la classe ouvriere, en reconnaissant le rôle hégémonique, et en même temps revendiquer l’utilité de leur contribution à la lutte des classes69.

62 Come si può osservare dunque, anche in Italia, la lettera di Lenin diede il via ad un parabola che, partendo dalla figura dell’“avvocato comunista” e passando per quella dell’“avvocato militante”, giunse alla giustificazione dell’attività professionale di quegli stessi avvocati, nella veste “definitiva” di intellettuali specifici, che Lenin nella famosa lettera aveva definito reazionari.

63 Parallelamente a questi sviluppi più pratici, alcuni giuristi legati alla rivista «La Questione criminale» misero in moto un recupero delle teorizzazioni scaturite dall’opera di Rusche e Kirchheimer. I principali esponenti della ripresa di questo dibattito furono Dario Melossi e Luigi Ferrajoli.

64 Il dibattito tra Melossi e Ferrajoli si sviluppò attorno al problema dell’origine della proporzionalità tra pena e reato. Melossi, che in questo riprese sia i francofortesi che l’analisi di Pašukanis, sostenne, nella sua introduzione all’opera francofortese, che l’origine della proporzionalità fosse da ricercare nella «retribuzione equivalente della forza-lavoro», a sua volta basata sul «avoro umano astratto misurato dal tempo». In sostanza è riassunto in questi termini il tentativo di sfruttare la teoria del valore-lavoro nella sua versione marxiana, come base sulla quale teorizzare la succitata proporzionalità. Quindi, secondo Pašukanis, citato da Melossi, la privazione della libertà «è la forma specifica in cui il diritto penale moderno [...] realizza il principio della retribuzione equivalente»70.

65 L’autore sostenne questo punto di vista in critica nei confronti dei contenuti di un articolo di Ferrajoli e Zolo, apparso un anno prima, nel 1977, tra le pagine di «La questione criminale»71. In tale articolo i due autori, avvicinandosi alle teorie kelseniane, ritennero di poter intravedere già negli ordinamenti penali dell’antichità, come per esempio nelle XII Tavole, tale «criterio della commisurazione della pena all’entità dell’offesa»72.

66 Secondo Melossi, invece, alla base della natura multiforme della pena detentiva vi sarebbe il tentativo da parte delle classi dominanti di imporre un certa “antropologia borghese” attraverso l’esportazione al di fuori delle mura della fabbrica della disciplina del lavoro73.

67 In conclusione, questa ripresa italiana del lascito francofortese tese allo confutazione di alcune critiche mosse nei suoi confronti e al tentativo di ampliamento dello stesso. Melossi infatti sostenne la complementarità delle due cause succitate; mercato del lavoro e disciplina dovrebbero quindi essere intese, secondo il giurisperito, come due facce della stessa medaglia74.

68 Nel corso degli anni Settanta si osservò in Europa lo sviluppo di una serie di interpretazioni del rapporto tra diritto e materialismo dialettico, la cui peculiarità fu quella di tentare, per la prima volta nella storia della tradizione marxista successiva a Lenin, di analizzare il diritto evitando di porre tutta l’enfasi sul suo carattere coercitivo75. Tali interpretazioni riportarono il dibattito ad un livello di astrazione superiore a quello che aveva caratterizzato molte delle riflessioni precedenti, infatti, la

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maggior parte di queste scuole di pensiero si concentrò sulla natura e sulle funzioni del diritto costituzionale piuttosto che su quelle del diritto penale. Una prima interpretazione76 che mosse in questa direzione fu quella portata avanti in Germania- ovest da Tuschling, Sauer e Hirsh, sulle orme dell’elaborazione di Pašukanis, volta a intendere lo stato come strumento di classe borghese in grado di difendere interessi interclassisti e di mediare le transazioni di mercato al fine di permettere l’accumulazione capitalistica.

69 Sulla base di questa impostazione, i tre autori summenzionati elaborarono tre teorie in parte divergenti e in parte convergenti tra di loro, conosciute con il nome di Capital- logic. Oltre all’impostazione teorica, i tre autori ripresero da Pašukanis anche il metodo idealista di analisi che li portò a scegliere un punto di partenza altamente astratto dal quale fare derivare logicamente concetti sempre più concreti77.

70 Burkhard Tuschling, dopo aver individuato la peculiarità del diritto borghese nell’istituzionalizzazione della totalità delle relazioni sociali, ampliò il punto di partenza della teoria di Pašukanis. Egli infatti tentò di derivare la forma del diritto borghese dalla stessa sfera della produzione, andando così oltre il livello della circolazione al quale si era fermato il giurista sovietico78. Nonostante questa differenza tra i due teorici, anche Tuschling concluse il proprio lavoro sostenendo la neutralità dello stato capitalista. Le due ragioni che indussero il teorico in tale direzione furono: la sua capacità di andare contro gli interessi di classi altre rispetto al proletariato, come quelli della piccola-borghesia e il suo tentativo di limitare il carattere di sostanziale disuguaglianza alla base dello sfruttamento capitalistico della forza-lavoro79.

71 Dieter Sauer aggiunse all’elaborazione tuschlingiana una tipologia degli interventi statali volti al mantenimento o al raggiungimento delle condizioni necessarie all’accumulazione. Il sociologo individuo quattro tipi di interventi statali: gli interventi atti a modificare la struttura legale delle relazioni di scambio, quelli atti alla modifica delle condizioni in cui si sviluppano i conflitti di interesse, quelli a supporto della riproduzione privata e quelli volti alla fornitura del materiale necessario a garantire la riproduzione privata80.

72 Il terzo autore, Joachim Hirsch, pur ponendosi in linea con le interpretazioni sinora analizzate, riportò, almeno parzialmente, il discorso verso una maggiore enfasi sulla funzione coercitiva dello stato. Hirsch infatti riuscì a inserire, all’interno di un contesto culturale che ritenne sostanzialmente neutrale l’azione dello stato, come quello del Capital-logic, alcuni elementi in grado di confutare questa posizione. Secondo l’autore infatti, lo stato valicherebbe costantemente il dominio della legge agendo al di fuori di essa per mantenere intatte le condizioni necessarie all’accumulazione capitalistica. Hirsch sostenne la necessaria duplicità della natura dello stato: libertà, uguaglianza e dominio della legge da un lato, violenza e ragione di stato dall’altro81.

73 Riassumendo, le tre interpretazioni riportate, pur essendo sorte all’interno della tradizione marxista inaugurata da Pašukanis, da essa si allontanarono nel momento in cui giunsero, in virtù del metodo idealista di analisi adottato dai loro autori, alla giustificazione, praticamente acritica, dell’attività dello stato in virtù della sua supposta neutralità. In sostanza esse si rivelarono poco più che delle teorie volte alla giustificazione dell’intervento statale in economia.

74 Concludiamo questa breve rassegna con una teoria sulla natura dello stato maggiormente legata alla tradizione marxista-leninista: la teoria del capitalismo di stato. Tale teoria, pur non negando il primato della sua funzione coercitiva, mise in

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luce, sin dai suoi primi sviluppi, la funzione economica principale dello stato e quindi del diritto che lo mantiene in vita, ovvero quella di “capitalista collettivo ideale”82.

75 Presente implicitamente nei testi marxiani e esplicitamente all’interno della terza sezione del succitato Antidühring, la teoria del capitalismo di stato fu ripresa da alcuni marxisti-leninisti nel secondo dopoguerra per spiegare la natura sociale dell’Urss83. Secondo questa teoria lo stato, raggiunto un certo livello di accumulazione capitalistica in alcuni settori produttivi, rappresenterebbe l’unica organizzazione in grado di difendere il capitale sia dagli attacchi del proletariato, che da quelli dei singoli capitalisti privati84, nonché l’unica in grado di investire somme di denaro come quelle richieste per la competizione in settori ad elevata concentrazione di capitali.

4. Conclusioni

76 Come si e cercato di dimostrare, le riflessioni in ambito marxista post-leniniano sul diritto possono essere divise in due gruppi: quelle che analizzarono ruoli e funzioni del diritto penale (riflessione sovietica e francofortese) e quelle che si soffermarono sull’analisi del ruolo dello stato (Capital-logic e capitalismo di stato). All’interno del primo gruppo e poi possibile individuare due sottogruppi: coloro che interpretarono il diritto penale come strumento di repressione (diritto sovietico e avvocatura politica) e coloro che lo ritennero funzionale al processo di accumulazione capitalistica (Francoforte e interpretazioni successive).

77 In comune a queste interpretazioni vi fu la convinzione dell’esistenza di una duplice natura del diritto: diritto come sovrastruttura e diritto come strumento politico.

78 Nonostante ciò, la maggior parte delle interpretazioni successive a Lenin, a causa del focus posto di volta in volta solo su una, o comunque non su tutte le funzioni del diritto che la concezione materialistica della storia aveva permesso di individuare, non sono riuscite a portare avanti una chiara visione d’insieme, almeno fino al recupero del leninismo con la teoria del capitalismo di stato.

79 Tutto ciò ha portato, nel caso delle interpretazioni più “pratiche”, come quella dell’avvocatura militante, all’allontanamento dalla prassi rivoluzionaria (eccezione fatta per alcune dichiarazioni formali) e nel caso delle interpretazioni più teoriche, addirittura allo stravolgimento in senso idealistico del metodo materialistico di analisi dei fatti sociali, come sottolineato da Jessop nel caso del Capital-logic85.

NOTE

1. In questa sede le opere di Marx verranno divise, riprendendo la famosa divisione althusseriana, tra opere giovanili, influenzate dall’idealismo tedesco e opere della maturità, di carattere scientifico. Non verrà tuttavia accettato completamente il rifiuto althusseriano dell’esistenza di elementi di coerenza tra le due produzioni.

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2. Come esempi si prendano: MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto: Antologia di scritti giuridici, Bologna, Il Mulino, 1980, p. 9; VINCENT, Andrew, Marx and law, in EASTON, Susan (edited by), Marx and Law, Farnham, Ashgate, 2008, p. 44. 3. MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto, cit., pp. 9-13. 4. In contrasto con questa interpretazione può essere ritenuta l’elaborazione di Paul Phillips, poi ripresa da Tom Campbell, secondo la quale negli scritti giovanili di Marx sarebbe possibile individuare una vera e propria teoria del diritto naturale che col tempo avrebbe lasciato il posto alla convinzione dell’esistenza del solo diritto positivo, quindi sovrastrutturale. (, Andrew, Marx and law, cit., pp. 60-62). Questo dibattito si ricollega a quello che coinvolse Allen Wood, George G. Brenkert e Ziyad I. Husami, che ebbe luogo tra il 1972 e il 1979, sulla natura della morale come base del diritto in Marx. Per approfondire il tema vedi: COHEN, Marshall et al. (edited by), Marx, Justice, and History, Princeton, Princeton University Press, 1980. 5. Ciò non significa che esso non possa comunque avere delle conseguenze a livello strutturale, come vorrebbe un’interpretazione economicista del marxismo. 6. CAIN, Maureen, HUNT, Alan, Marx and Engels on Law, , Academic Press, 1979, p. 153. 7. MARX, Karl, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna, in ID., Opere complete, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 222-264. 8. CAIN, Maureen, HUNT, Alan, op. cit., p. 153. 9. Ibidem, p. 166. 10. Corsivo mio. 11. CAIN, Maureen, HUNT, Alan, op. cit., p. 52. 12. Ibidem, p. 52. 13. MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto, cit., p. 15. 14. Questa sembra l’interpretazione più coerente con l’impostazione marxiana; se infatti per ideologia si intende un sinonimo di falsa coscienza, come spesso fu per l’autore, il tentativo di normare un fenomeno sociale messo in atto da una legge non sembrerebbe un tentativo di spiegazione inesatta (ideologica) del fenomeno in questione. 15. L’interpretazione migliore a riguardo sembrerebbe quella contenuta nell’elaborazione di Stučka che approfondiremo nella sezione dedicata alla riflessione giuridica sorta in ambiente sovietico; secondo tale interpretazione, la forma del diritto non sarebbe che “il punto di vista borghese nella scienza giuridica”. (MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto, cit., p. 16). 16. A riguardo si rimanda all’elogio dell’attività “giuridica” di Leonard Horner presente nel primo libro del Capitale e ripresa da Marcel Willard. (WILLARD, Marcel, La défense accuse, Paris Éditions Sociales, 1951, pp. 47-55). 17. MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto, cit., p. 12. 18. Per approfondire le sue posizioni espresse in altre opere o per confrontarsi con con la sua posizione giovanile vedi: CAIN, Maureen, HUNT, Alan, op. cit., pp. 1-47, 177-197. 19. In aggiunta a queste riflessioni teoriche Engels, sempre all’interno dell’Antidühring, propose una riflessione sulla principale funzione economica dello stato, quella di “capitalista collettivo ideale”. Tale riflessione, come si vedrà più avanti, pose le basi per la cosiddetta teoria del capitalismo di stato, che si rivelò fondamentale per la comprensione della reale natura sociale del mondo sovietico. (ENGELS, Friedrich, Antidühring. La scienza sovvertita dal signor Dühring, Milano, Lotta Comunista, 2003, p. 336; PEREGALLI, Arturo, TACCHINARDI, Riccardo, L’Urss e la teoria del capitalismo di stato. Un dibattito dimenticato e rimosso 1932-1955, Milano, Pantarei, 2011, pp. 17-24). 20. ENGELS, Friedrich, Antidühring, cit., p. 116. 21. Ibidem, pp. 117-118. 22. Ibidem, p. 122. 23. Ibidem, p. 131. 24. Ibidem. 25. Ibidem, pp. 132-133.

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26. Ibidem, p. 133. 27. LENIN, Vladimir Il’ič Ul’janov, Stato e rivoluzione, Milano, Lotta comunista, 2003, p. 31. 28. Ibidem, p. 105. 29. Ibidem, p. 106. 30. Ibidem, pp. 105-106. 31. LENIN, Vladimir Il’ič Ul’janov, Lettera a E. D. Stasova e ai compagni detenuti nel carcere di Mosca, in ID., Opere Complete, vol.8, Roma, Editori Riuniti, 1961, p. 56. 32. Ibidem, p. 57. 33. PAŠUKANIS, Evgeny, Lenin and problems of law, in BAIRNE, Piers, ROBERT (edited by), Sharlet, Selected writings on marxism and law, London-New York, Academic Press Inc, 1980, pp. 132-164. Disponibile anche all’URL: [consultato il 25 dicembre 2014]. 34. In quell’occasione Lenin presentò un reclamo nei confronti di un gestore di traghetti che aveva momentaneamente “imprigionato” dei passeggeri nel tentativo di obbligarli a non sfruttare più il passaggio offerto da un altro marinaio. Ibidem. 35. Ibidem. 36. COSSUTTA, Marco, Fra giustizia ed arbitrio. Il principio di legalità nell’esperienza giuridica sovietica, 2007, pp. 4-5. URL: [consultato il 25 novembre 2014]. 37. Ibidem, p. 4. 38. Ibidem, p. 5. 39. MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto, cit., p. 98. 40. Una risposta a questa critica è riportata all’interno dell’antologia di Guastini nel brano intitolato Diritto Intuitivo. Ibidem, pp. 97-102. 41. MARX, Karl et al., Marxismo e teorie del diritto, cit., p. 20. 42. Per un’analisi dettagliata dei principali avvocati comunisti francesi, sia negli anni Venti e Trenta (Joe Nordman, Marie Louise Cachin, Charles Lederman etc.) che durante gli anni della guerra fredda (Roland Weyl, Eddy Kenig , Marcel Manville, etc.), e del contesto repressivo all’interno del quale il Pcf si trovò ad agire, si vedano l’articolo di Vanessa Codaccini e la versione pubblicata della tesi dottorale di Frédérick Genevee: CODACCIONI, Vanessa, «“Le juridique, c’est le moyen; le politique, c’est la fin”: les avocats communistes français dans la “lutte contre la repression” de guerre froide», in Le mouvement sociale, 3/2012, pp. 9-27; FRÉDÉRICK, Genevee, Le PCF et la justice. Des origines aux années cinquante, organisation, conceptiones, militants et avocats communistes face aux normes juridiques, Clermont-Ferrand, Presses Universitaires, 2003. 43. ISRAËL, Liora, From cause lawyering to resistance. French communist lawyers in the shadow of history, in SARAT, Austin, SCHEINGOLD, Stuart (edited by), The worlds cause lawyers makes. Structure and agency in legal practice, Stanford, Stanford University Press, 2005, pp. 147-167, p. 147. 44. WILLARD, Marcel, op. cit. 45. Ibidem, p. 16. 46. WILLARD, Marcel, op. cit., p. 22. 47. ISRAËL, Liora, From cause lawyering to resistance. French communist lawyers in the shadow of history, cit., p. 147. 48. ISRAËL, Liora, Le armi del diritto, Milano, Giuffrè, 2012, p. 50. 49. Ibidem, p. 50. 50. RUSCHE, Georg, KIRCHHEIMER, Otto, Pena e struttura sociale, Bologna, Il Mulino, 1978, p. 12. 51. Un altro punto di vista dal quale studiare la pena è rappresentato dalle opere, non analizzate nel corso di questa trattazione, di Hay, Linebaugh e Thompson. Per approfondire vedi: FALCÒN Y

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TELLA, Maria Josè, FALCÒN Y TELLA, Ferdinando, Fondamento e finalità della sanzione: diritto di punire?, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 51-52. 52. Ibidem, p. 52. 53. RUSCHE, Georg, KIRCHHEIMER, OTTO, op. cit., p. 46. 54. FALCÒN Y TELLA, Maria Josè, FALCÒN Y TELLA, Ferdinando, op. cit., p. 52. 55. RUSCHE, Georg, KIRCHHEIMER, OTTO, op. cit., pp.12-13. 56. Ibidem, p. 47. 57. JESSOP, Bob, On recent Marxist Theories of Law, the State, and Juridico-Political Ideology, in EASTON, Susan (edited by), Marx and Law, Farnham, Ashgate, 2008. 58. ISRAËL, Liora, Le armi del diritto, cit., p. 54. 59. Ibidem. 60. Ibidem, p. 56. 61. Ibidem, p. IX. 62. L’argomento non verrà trattato in questa sede proprio in quanto teorizzazione che si pose al di fuori della tradizione marxista, per ulteriori approfondimenti si veda il testo di Liora Israël e la presentazione di Maria Malatesta in esso contenuta. Ibidem, pp. IX-XI, 56-60. 63. SOLDATINI, Simonetta (a cura di), La difesa organizzata nei processi politici degli anni ’50 e ’60. Gli archivi di solidarietà democratica, Siena, Cantagalli, 2006, p. 6. 64. Per un elenco dettagliato dei Comitati e dei principali avvocati che ne fecero parte vedi: Ibidem, p. 3. 65. Ibidem, p. 2. 66. I tre membri romani del Comitato nazionale di Solidarietà democratca venivano infatti nominati dalla Cgil, dal Pci e dal Psi. SOLDATINI, Simonetta, op. cit., p. 4. 67. MALATESTA, Maria, «Défenses militantes. Avocats et violence politique dans l’Italie des annnées 1970 et 1980», in Le mouvement sociale, 3/2012, pp. 85-103, p. 88. 68. Per approfondire il tema della difesa dei brigatisti e dei membri di prima linea vedi: Ibidem. 69. Ibidem, pp. 88-89. 70. RUSCHE, Georg, KIRCHHEIMER, OTTO, op. cit., p. 15. 71. FERRAJOLI, Luigi, ZOLO, Danilo, «Marxismo e questione criminale», in La questione criminale: Rivista di ricerca e dibattito su devianza e controllo sociale, 1/1977, pp. 97-133. 72. Ibidem, p. 100. 73. RUSCHE, Georg, KIRCHHEIMER, OTTO, op. cit., pp. 13-19. 74. Ibidem, p. 19. 75. VINCENT, Andrew, op. cit., p. 46. 76. Per approfondire tutte le interpretazioni qui trattate vedi: JESSOP, Bob, op. cit. 77. Ibidem, p. 173. 78. Ibidem, p. 177. 79. Ibidem, p. 177. 80. Ibidem, p. 178. 81. Ibidem, p. 180. 82. ENGELS, Friedrich, op. cit., p. 336. 83. Per una dettagliata rassegna dei vari teorici del capitalismo di stato vedi: PEREGALLI, Arturo, TACCHINARDI, Riccardo, op. cit. 84. ENGELS, Friedrich, op. cit., p. 336. 85. JESSOP, Bob, op. cit., p. 172.

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RIASSUNTI

Questo saggio rappresenta un tentativo di riassumere, senza pretese di esaustività, le teorie e le pratiche legate al diritto sorte dal pensiero, quasi mai sistematico, di Karl Marx, Friedrich Engels e Vladimir Il’ič Ul’janov (Lenin). Dopo un iniziale breve riassunto della concezione del diritto individuabile in alcuni testi dei tre autori, verranno riportate le varie interpretazioni e teorizzazioni elaborate negli anni Venti e Trenta da alcuni giuristi attivi nell’ambiente sovietico (o filo-sovietico) e da alcuni intellettuali della Scuola di Francoforte. In seguito ci si concentrerà sulle interpretazioni sorte nel secondo dopoguerra all’interno dei più svariati ambiti di ricerca; verrà analizzato il fenomeno dell’avvocatura militante, la ripresa delle teorizzazioni di Francoforte, la teoria Capital-logic e infine la teoria del capitalismo di stato.

This essay represents an attempt, although not exhaustive, to clarify some theories and practices of law derived from the thougth of Karl Marx, Friedrich Engels and Vladimir Il’ič Ul’janov (Lenin). After a short summary of the “materialist conception of law” contained in some works of this authors, I will focus on some interpretations developed during the 1920s and the 1930s by some soviet (or filo-soviet) jurists and by some intellectuals from the Frankfurt School. After that, I will consider some theories of the post-world war II era from the most various areas of study: the “militant legal activity”, the rethink of Frankfurt theories, the Capital-logic interpretation and the state capitalism theory.

INDICE

Parole chiave : diritto, Friedrich Engels, Karl Marx, materialismo storico, Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin Keywords : Friedrich Engels, Historical Materialism, Karl Marx, Law, Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin

AUTORE

WILLIAM MAZZAFERRO

Studente al secondo anno del corso di Laurea Magistrale in Scienze Storiche presso l’Università di Bologna. Ha frequentato il corso di laurea triennale in Storia presso l’Università di Torino laureandosi con una tesi di ricerca sul sindacato dal titolo Il sindacato e la ristrutturazione aziendale torinese: resistenza o subalternità? (1973-1977), sotto la supervisione del Professor Brunello Mantelli. Attualmente si occupa di storia economica con particolare attenzione nei confronti della storia del lavoro e della storia d’impresa.

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II. Miscellaneo

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Ripensare i “bienni rossi” del Novecento? Linguaggio e parole della politica

Steven Forti

- Et pourquoi voulais-tu tout voir à Hiroshima ? - Ça m’intéressait. J’ai mon idée là-dessus. Par exemple, tu vois, de bien regarder, je crois que ça s’apprend. Alain Resnais, Hiroshima mon amour (1959)

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1 In un recente saggio dedicato all’Italia del primo dopoguerra, Fabio Fabbri sostiene che «il riferimento alla categoria della guerra civile, in relazione ai duri scontri sociali e politici del primo biennio postbellico […] può suggerire un percorso d’indagine e un metodo storiografico che guardino con occhi diversi alle origini del fascismo italiano e, in particolare, al periodo compreso tra la fine della guerra e le elezioni del maggio 1921»1. I dubbi e le critiche riguardo alla definizione del biennio 1919-1920 come biennio rosso2 e l’assunzione della categoria della guerra civile quale leva di indagine storiografica 3 non sono certo una novità, ma Fabbri coglie molto probabilmente il nocciolo della questione e tenta con coraggio di rinnovare il panorama storiografico italiano, introducendo categorie interpretative e questioni nuove4.

2 Il punto di partenza dell’impellente necessità di trovare nuove categorie analitiche ed interpretative è da datarsi al 1989, che, come ha notato Enzo Traverso, ha voluto dire molto di più che la fine del comunismo e del Secolo breve. Il 1989 ha segnato la scomparsa della classe dall’analisi politica e dalla storiografia e l’eclisse dell’intellettuale organico gramsciano5. Al biennio 1919-1920, battezzato e ribattezzato per tutto il Novecento come “biennio rosso”, è stato così inferto un duro colpo. Dopo aver inizialmente spianato la strada ad interpretazioni duramente antimarxiste – si pensi a François Furet o Stéphane Courtois in Francia –, l’abbandono forzato della categoria di classe ha dato la possibilità di sondare nuovi territori. E Fabbri non è stato il solo a mostrare come si possano percorrere strade finora poco battute e ridare così vigore allo studio delle origini del fascismo e del primo dopoguerra, dopo l’epoca dorata di Renzo De Felice, Emilio Gentile, George L. Mosse e Zeev Sternhell. I lavori di Angelo Ventrone, Giulia Albanese, Andrea Baravelli e Matteo Pasetti, pubblicati nell’ultimo decennio, sono lì a dimostrarlo6. Mentre Pasetti e Baravelli esplorano la questione delle rappresentazioni nella politica e nella società, Ventrone e Albanese analizzano la questione della violenza politica. Fabbri si colloca appunto in questa linea interpretativa, scegliendo un punto di vista attento soprattutto al sociale e all’economico, che lascia sullo sfondo il politico e il pensiero politico. Ed in quest’articolo si vuole riflettere proprio sul politico e sul pensiero politico in quello che è passato alla storia come (primo) “biennio rosso”.

3 Dopo un bilancio delle diverse interpretazioni che la storiografia ha dato del biennio 1919-1920 e del loro stretto legame (e dipendenza) dalla politica – soprattutto negli anni Sessanta e Settanta – e dopo un altro breve bilancio delle interpretazioni date del biennio 1968-1969 – definito poi come secondo “biennio rosso” –, in queste pagine, in primo luogo, si presenterà una radiografia del socialismo italiano del primo “biennio rosso” – rilevando il ruolo centrale giocato dal massimalismo e la necessità di giungere finalmente a un suo studio scevro da giudizi politici – e, in secondo luogo, si illustrerà una nuova proposta interpretativa che, a partire da una rilettura dei dibattiti politici e dall’analisi dei testi prodotti dal commonwealth socialista nel 1919-1920, dia centralità allo studio del linguaggio politico e delle parole della politica. A una di queste parole

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chiave – il Partito – si dedicherà l’ultima parte dell’articolo, come prima, seppur parziale, esplicazione della suddetta proposta interpretativa.

1. Quattro storie del primo “biennio rosso”

4 Elio Giovannini ha notato come «la storiografia italiana del Novecento si è trasformata in un campo di battaglia delle ideologie di volta in volta dominanti nella cultura politica della sinistra». Un giudizio condiviso anche da Giulia Albanese che considera come la storiografia politica italiana nel secondo dopoguerra si sia «dedicata a ricostruire le proprie genealogie politiche (forse anche per responsabilità della politica, che ha usato la storiografia più come fonte di legittimazione che come luogo di riflessione e elaborazione), e poco a riflettere al funzionamento generale della politica e della rappresentanza politica della società»7.

5 Due giudizi piuttosto netti, ma che colgono bene il conflitto tra le diverse posizioni storiografiche che generò lo scrivere la storia del biennio 1919-1920. Già le prime analisi elaborate immediatamente dopo quella grande sconfitta del movimento operaio ne diedero una lettura decisamente politica. D’altro canto, l’instaurazione della prima dittatura fascista in un paese che pareva sull’orlo della Rivoluzione fino al giorno prima rendeva obbligatorio un giudizio politico. Per capire e ricominciare. E così fecero più o meno tutti i protagonisti del “biennio rosso” dall’esilio parigino, oltre che gli stessi fascisti dall’interno. Per Angelo Tasca, e Bruno Buozzi il “biennio rosso” fu un’occasione persa e una rivoluzione mancata, il cui principale responsabile venne ad essere la dirigenza socialista massimalista, il capro espiatorio di un’intera classe politica sconfitta8. Come notò Giovanni Sabbatucci, «il giudizio liquidatorio sul massimalismo passò senza correzioni apprezzabili dalla polemica politica alla storiografia»9. Esemplare l’uso che ne fece Gaetano Salvemini nelle sue lezioni ad Harvard per demolire il mito mussoliniano di un fascismo salvatore dell’Italia dal pericolo bolscevico. Se il pericolo di una rivoluzione comunista nella nostra penisola non fu mai reale visto che i sedicenti leaders massimalisti erano degli inetti, degli incapaci e delle “tigri di carta”, ma fu solo un’invenzione propagandistica del fascismo, che ragion d’essere aveva la “controrivoluzione” fascista10?

6 Dopo il 1945 le interpretazioni e le riletture politiche di quel già lontano biennio non scomparvero affatto. Al contrario aumentarono. Sia per ritrovare le proprie origini, sia per spiegare quella che Benedetto Croce definì come una parentesi: il fascismo. Le analisi sono state molte, di differente taglio e di differente colore. Coscienti di poter omettere (non certo volutamente) alcune di queste proposte interpretative, crediamo di poter individuare quattro grandi interpretazioni del biennio 1919-1920.

7 Palmiro Togliatti e Giuseppe Berti delinearono nei primi anni Trenta e riformularono compiutamente dopo la svolta di Salerno quella che sarebbe diventata l’interpretazione ufficiale del Partito Comunista: il “biennio rosso” veniva ad essere l’ultima tappa di un socialismo diviso tra un riformismo incapace e un massimalismo parolaio. Il XVII Congresso Nazionale del PSI tenutosi a Livorno nel gennaio del 1921 e la nascita del PCd’I segnavano il superamento di queste due esperienze fallimentari, il passaggio «dalla preistoria alla storia»11. Ciò che di quella “preistoria” socialista veniva mantenuto era il gruppo torinese dell’Ordine Nuovo e la lotta per «il rinnovamento del Partito Socialista», depurata del ricordo di alcuni compagni di viaggio persi durante la lunga marcia come Bordiga, Tasca e il transfuga Bombacci12. A partire dagli anni

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Sessanta Paolo Spriano iniziò a scrivere la monumentale storia del PCI13, che rimane il referente storiografico imprescindibile, e proprio in quegli stessi anni si ripubblicò l’edizione completa dei Quaderni dal carcere di Gramsci, che venne ad essere, in un certo senso, il referente teorico14.

8 Quella che potremmo definire la sinistra comunista, che trovò nell’anziano Amadeo Bordiga il suo sopravvissuto e il suo infaticabile teorico, sviluppò un’analisi non del tutto dissimile da quella della cosiddetta vulgata comunista. Negli anni Sessanta le pubblicazioni di Sinistra Comunista e gli studi di storici come Aurelio Lepre e Silvano Levrero e del gruppo che faceva capo alla Rivista storica del socialismo – Luigi Cortesi, Andreina De Clementi e Stefano Merli – tentarono di recuperare e ridare centralità a quel bordighismo che fu uno dei pilastri portanti della scissione di Livorno. Per quanto critici con lo stalinismo e il togliattismo e a parte gli attacchi al gruppo ordinovista, il giudizio generale che la sinistra comunista diede del “biennio rosso” rimaneva pressoché identico a quello delineato da Togliatti e Berti. Una prova ulteriore della sintonia di vedute (al di là delle notevoli differenze politiche e organizzative) sulle ragioni che portarono alla scissione dal vecchio tronco socialista nel gennaio 192115.

9 Attorno al ’68, nacque anche un’altra lettura del “biennio rosso”, critica sia con la cosiddetta vulgata comunista sia con l’interpretazione della sinistra comunista. Con l’occhio alle lotte politiche e sociali di quegli autunni caldi, si rilesse il primo dopoguerra come l’epopea dorata dell’autonomia operaia e si accusò il PCI dell’appropriazione indebita fatta a suo tempo del consiliarismo, svuotato della sua carica rivoluzionaria. A monte di un’interpretazione come quella di Giuseppe Maione, attenta a ricostruire lo spontaneismo operaio e che fu vessata di critiche a suo tempo, stava la Storia delle classi subalterne di Renzo Del Carria16.

10 Rimane poi tutta la storiografia socialista, che a partire dai primi anni Sessanta si impegnò nel recupero della storia e della memoria delle origini del PSI e della CGdL. Ai pionieristici lavori di Luigi Ambrosoli, Leo Valiani, Gaetano Arfè e Franco Pedone17, nel decennio successivo al 1965 si pubblicarono i primi grandi studi complessivi sul socialismo italiano prefascista (lo stesso Arfè, Gastone Manacorda, Alceo Riosa)18 e sul sindacalismo confederale (Luciana Marchetti, Adolfo Pepe, Idomeneo Barbadoro)19. Però fu soprattutto dalla metà degli anni Settanta che si potenziarono gli studi sul socialismo italiano dell’Italia liberale: l’attenzione fu posta in particolar modo sul riformismo, sia dell’epoca giolittiana sia del primo dopoguerra. Per il 1919-1920 si stigmatizzò la scissione comunista portatrice di discordie, sconfitte ed eccessi e si continuò a condannare il massimalismo, bollato come una via di mezzo che non poteva portare ad altro che a un vicolo cieco. La serie di congressi e incontri organizzati dal PSI tra 1976 e 1982 diede visibilità al ruolo avuto da dirigenti riformisti come Camillo Prampolini e Anna Kuliscioff, ma soprattutto a Filippo Turati, capace nel mezzo di quel torbido “biennio rosso” di un discorso di così ampio respiro come il Rifare l’Italia, un programma per tutta la nazione20.

11 Ma gli anni Settanta furono realmente un tuffo nel passato prefascista per la storiografia italiana. Si pensi ai primi studi sul sindacalismo rivoluzionario, sul futurismo, sul nazionalismo, sul combattentismo o sul fiumanesimo e il grande sforzo fatto per studiare il fascismo e le sue origini a livello nazionale e locale, con o contro l’interpretazione che ne fece Renzo De Felice. Il primo dopoguerra veniva ad essere per forza di cose il nodo gordiano della questione. Che si studiasse l’origine del fascismo o la crisi dello Stato liberale, bisognava rispondere – che lo si volesse o meno – anche a

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delle difficili domande sul socialismo. Non fu il PSI il partito più votato alle elezioni del novembre 1919 ottenendo 156 seggi alla Camera dei Deputati? Non ebbe in quella delicata congiuntura la CGdL oltre due milioni di iscritti su una popolazione complessiva di circa quaranta milioni (il 5% di tutto il popolo italiano)? Non si creò proprio allora il mito dell’occupazione delle fabbriche? E, appunto, il fascismo non salvò l’Italia da quella che si definiva “l’idra bolscevica”?

2. Due letture del secondo “biennio rosso”

12 Il cuore di buona parte di queste interpretazioni e riletture storiografiche del primo dopoguerra sono stati gli anni ruotanti attorno al ’68, fino ai suoi ultimi strascichi a fine anni Settanta. Non per nulla il 1968-1969 passò alla storia come secondo “biennio rosso”, una definizione data proprio da uno dei protagonisti di quegli anni, Bruno Trentin21. Il 1919-1920 venne ad essere un modello e un mito per gli studenti e gli operai di mezzo secolo dopo, tanto che le lotte operaie del primo “biennio rosso” trovarono ampio spazio nel teatro giovanile e militante dei primi anni Settanta, come ha ricordato Margherita Becchetti22. Quello del primo “biennio rosso” non fu, però, anche un modello triste, sfortunato e perdente? E un evento eccessivamente mitizzato? Si era dimenticato che proprio al momento clou di quel primo biennio, l’occupazione delle fabbriche del settembre 1920, seguì appena due mesi dopo la prima vittoria dello squadrismo fascista nell’attacco a Palazzo d’Accursio di Bologna, una provincia considerata un feudo socialista intoccabile ed invincibile? Si era dimenticato che al breve “biennio rosso” seguì il lungo “ventennio nero”? Vide bene il filosofo Adriano Tilgher, quando scrisse, a proposito del 1919-20, che «purificato dal dolore, l’immaginazione lo vedrà attraverso la leggenda, proiezione fantastica della storia in cui, sotto le forme del passato, rivive la speranza dell’avvenire»23.

13 Ma il primo “biennio rosso” venne ad essere anche un cattivo augurio. Gli anni Settanta si chiusero proprio con la sconfitta degli operai della FIAT nel 1980, contemporaneamente, non a caso, alla “rivoluzione” neoliberista di Reagan e Thatcher. Le analogie non mancano neppure in sede storiografica: il secondo “biennio rosso”, al pari del primo, non ha riscosso molta fortuna, oltre che doversi accontentare di riletture storiche trasformatesi il più delle volte in giudizio politico o in libri di memorie24. Due sono state le analisi prevalenti, come ha notato Valerio Romitelli in un intervento di qualche anno fa25. La prima si è focalizzata sulle trasformazioni socio- economiche e produttive dell’Italia degli anni ’60-’70: ossia, la relazione tra catene di montaggio e manodopera senza tradizioni sindacali come causa della comparsa dell’operaio massa26. La seconda analisi è quella di tipo storico-genealogico che instaura un collegamento diretto tra i comitati di base del 1968-1969 e i soviet e i consigli di fabbrica del 1919-1920. L’idea è che la «democrazia dal basso», anche sui luoghi di lavoro, sia una necessità spontanea e insopprimibile del progresso storico: i consigli di fabbrica nati nell’autunno caldo sarebbero l’ultimo anello della catena dell’allargamento universale della democrazia27.

3. Ripensare dunque il “biennio rosso”?

14 Gian Primo Cella ha parlato dei due “bienni rossi” come di «eventi rari» e Paul Ginsborg ha sottolineato come entrambi i “bienni rossi” furono «due tentativi di massa di

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pensare la politica […] fuori dalla normalità, di inventare qualcosa di nuovo»28. Marco Revelli ha definito il 1919-1920 come «foro di entrata del Novecento», in quanto momento in cui «nascono le forme organizzative» del secolo scorso29, mentre Fabio Vander ha individuato nel primo “biennio rosso” un importante momento di rottura nella storia politica della sinistra italiana30.

15 La centralità e le peculiarità attribuite al biennio 1919-1920 (ma anche al biennio 1968-1969), sia per la storia della sinistra italiana che di tutto il Novecento italiano, non sono affatto casuali: la ricerca di nuovi approcci per lo studio di quel frangente storico, prestando attenzione a questioni e problematiche finora lasciate in secondo piano (o ignorate del tutto), può essere un campo interessante. Le metodologie di ricerca proposte da Gareth Stedman Jones, Roger Chartier e soprattutto Lynn Hunt31 risultano di grande utilità. Di importanza capitale risulta essere la centralità data al momento – unita a quella critica alla genealogia di cui scrisse Foucault parlando della «chimera dell’origine»32 – e l’analisi orizzontale del linguaggio politico proposti dall’autrice de La Rivoluzione francese.

16 Abbiamo dunque formulato delle domande per poter ripensare il primo “biennio rosso”: di cosa si parlò nel 1919-1920? Quali furono le questioni fondamentali affrontate che permettevano di pensare la politica? Che parole si usarono? Cosa mostravano, dicevano o suggerivano tali parole nella relazione tra il pensiero e l’azione politica? A chi erano rivolte queste parole? Lo studio dei dibattiti interni al mondo socialista nel 1919 e nel 1920 ricopre un ruolo assolutamente centrale. Attraverso di essi, difatti, si possono mettere a prova le posizioni politiche e se ne possono determinare con maggiore precisione confini ed eventuali giustapposizioni; alla luce di essi si possono riconsiderare le riletture e le interpretazioni che la storiografia ha proposto del “biennio rosso” fino ai giorni nostri; infine, grazie ad essi si possono rilevare le parole (chiave) della politica che permettono di procedere all’analisi del linguaggio politico del socialismo italiano.

4. Una radiografia del socialismo italiano nel primo “biennio rosso”

17 Rifare una radiografia del socialismo italiano del primo dopoguerra non è affatto inutile. Ci si rende conto che i soggetti politici riscoperti di volta in volta dalle diverse riletture storiografiche sono stati, non a caso, proprio i protagonisti della politica socialista del 1919-1920: il gruppo riunito attorno all’«Ordine Nuovo» di Torino (Tasca, Terracini, Togliatti, Leonetti e soprattutto Gramsci), il gruppo riunito attorno a «Il Soviet» di Napoli e alla Frazione Astensionista (Bordiga, Grieco), la frazione riformista di Turati, Treves e Modigliani e l’altrettanto riformista Confederazione Generale del Lavoro controllata da D’Aragona, Baldesi, Quaglino e Rigola. Tre porzioni del socialismo italiano importanti, certamente, ma in quel momento non maggioritarie, se si eccettua la CGdL nell’ambito sindacale.

18 L’altro attore politico fu il massimalismo. Un attore politico (o sarebbe meglio dire, più di uno) che non si è mai studiato con serietà e men che meno rivendicato, come mise in luce acutamente Gianni Bosio quarant’anni fa ed Elio Giovannini in un libro più recente33, tanto che si può affermare che quella del massimalismo è una storia ancora tutta da scrivere. I massimalisti, la grande “massa” del socialismo italiano del “biennio

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rosso”, sono divenuti gli sconfitti e gli incapaci, per antonomasia. E dunque i colpevoli. Il capro espiatorio. Pochi si sono presi la briga di andare al di là dei giudizi politici, per vedere cosa realmente fu il massimalismo, decifrarne le tendenze, capirne le dinamiche interne, le origini ante-guerra e le innovazioni posteriori all’Ottobre russo34. Spesso è mancata un’adeguata lettura dei dibattiti congressuali e delle riunioni di partito e di sindacato. A cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta solo Bosio, le Edizioni del Gallo e le Edizioni Samonà e Savelli si mossero in questa direzione, ripubblicando i verbali delle riunioni di partito e di sindacato del 192035. Il rischio è altrimenti di fare degli errori grossolani. O, più frequentemente, di proporre delle letture parziali, presentando il “biennio rosso” – ma, possiamo dire, tutto il primo dopoguerra italiano – da due sole prospettive: la crisi del sistema liberale e le origini del fascismo. Come ha notato Andrea Baravelli, nel nostro paese, infatti, gli stessi motivi che hanno favorito la nascita di un precoce interesse per il periodo storico preso in esame (ovvero l’analisi dei motivi della crisi dello stato liberale e del conseguente avvento del regime fascista) hanno poi contribuito a consolidare una particolarmente tenace forma di presbiopia storica36.

19 Molte di queste analisi si servono sovente di categorie di interpretazione della politica posteriori ai fatti, che in quel frangente storico non erano assolutamente centrali nel pensare e nell’agire politico. Una su tutte: la democrazia. Una questione che già Brunello Vigezzi rilevò parecchi anni fa, parlando dell’«antistorico rimprovero ai socialisti del 1919-20 di non avere realizzato con i liberali, i popolari ed i combattenti un centrosinistra ante litteram»37.

20 In tutto questo è logico che il massimalismo finisce per essere un pezzo d’antiquariato, che, se non viene condannato e considerato un eccesso dovuto ai quattro anni di guerra di trincea e frutto di quella che Mosse definì brutalizzazione della politica, può, nel migliore dei casi, solo far sorridere. Per capire il massimalismo bisogna capire in primo luogo l’Italia massimalista e in secondo luogo le parole della politica del primo dopoguerra, riconoscendo quello che era centrale nel dire e nel fare la politica e quello che invece non lo era, senza voler anticipare la storia dell’Italia repubblicana38. Solo in questo modo si può riuscire a capire come e perché il massimalismo dominò il socialismo italiano in un momento cruciale. È necessaria, insomma, una specie di rivoluzione copernicana nello studio del “biennio rosso”, come si fece nello studio del fascismo tra anni Sessanta e Settanta, quando si abbandonarono definitivamente le letture del fascismo come di una parentesi o di un fenomeno di follia collettiva e si iniziò a parlare dell’esistenza di una ideologia e di una cultura fascista.

21 Il massimalismo fu un grande contenitore, dentro il quale si celarono posizioni divergenti e che spesso vennero considerate qualcosa di esterno e distinto al massimalismo. A grandi linee, per il biennio 1919-1920, all’interno del massimalismo si possono individuare almeno due posizioni. Non sono correnti, né frazioni, né gruppi costituiti, ma tendenze, i cui limiti sono pertanto incerti e ambigui39. La prima è quella che si riunisce attorno a Serrati, direttore dell’«Avanti!»; la seconda quella rappresentata da Bombacci, segretario politico del PSI fino al febbraio del 1920. Sono due posizioni con notevoli punti di similarità e che si vanno evolvendo, e distanziando, col passare dei mesi. La rottura del massimalismo a Livorno è rappresentativa di questa differenziazione: da una parte, Serrati, strenuo difensore dell’unità del partito, rimarrà nel PSI; dall’altra parte, Bombacci, con Gennari, Graziadei ed altri, sarà tra i fondatori del PCd’I, Sezione della Terza Internazionale.

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5. Individuare le parole della politica: il dibattito sulla costituzione dei Soviet

22 Livorno è però la conclusione di un processo. È la fine di una lunga partita di poker, quando le carte sono già scoperte sul tavolo. Una partita in cui tutti hanno giocato e tutti hanno perso. È molto più utile tornare indietro di qualche mese. Quando ancora i giocatori avevano tutte le carte in mano. Nei primi mesi del 1920 sulla stampa socialista si sviluppò un intenso dibattito: l’evento scatenante fu il progetto di costituzione dei soviet proposto da Bombacci al Consiglio Nazionale del PSI di Firenze (11-13 gennaio 1920), che seguiva alla lettera il modello bolscevico. Il progetto soviettista – pubblicato sull’«Avanti!» il 28 gennaio e ampliato da Egidio Gennari il mese seguente – divenne però un pretesto per dare la possibilità alle diverse frazioni, correnti e tendenze del PSI (e del movimento operaio italiano) di esplicitare la propria idea di socialismo40. Rispondere (e criticare) il progetto soviettista di Bombacci significava parlare della Rivoluzione, del Partito, del Sindacato, dei consigli, dei soviet, delle masse. Significava fare il punto della situazione e indicare il peso che in Italia veniva dato (o meno) all’Ottobre russo ed alle sue innovazioni politiche, mettendo in primo piano la centralità della questione dell’incontro con il leninismo e del rapporto con il passato41.

23 Per i socialisti italiani del “biennio rosso”, il modello e il mito non potevano essere altro che la Rivoluzione d’Ottobre. Le informazioni su ciò che avveniva in Russia erano ancora poche e le traduzioni dei testi di Lenin incomplete, ma la forza di attrazione del primo paese dove il proletariato aveva preso il potere era sufficiente42. Ai bolscevichi si guardava come a dei maestri vittoriosi. La parola d’ordine era dunque “Fare come in Russia!”: ossia, la rivoluzione doveva ripetersi nel medesimo modo. Un’impresa davvero impossibile, con la fine della guerra e la smobilitazione dei soldati43. Il punto cruciale – che rilevò per primo Franco De Felice – era, appunto, come doveva avvenire l’incontro con Lenin ed il leninismo, quali dovevano essere le forme specifiche d’intervento politico attraverso cui tutto il nucleo essenziale dell’esperienza rivoluzionaria russa poteva essere appropriato da un movimento che aveva un’altra storia, come esperienza politica e tradizione organizzativa, e che per di più aveva sulle spalle un fallimento storico come quello della disgregazione di fronte alla guerra imperialista44.

24 Nel dibattito sulla costituzione dei Soviet dei primi mesi del 1920, gli ordinovisti adottarono una prospettiva consiliare, per quanto vi fossero tendenze diverse all’interno del piccolo gruppo torinese. I bordighiani si schierarono su una prospettiva nettamente partitica. I riformisti rimasero fedeli alla loro impostazione tradizionale e l’attuazione della CGdL nel momento chiave di tutto il biennio fu impeccabile dentro questa logica. I massimalisti, dopo la breve luna di miele del Congresso di Bologna dell’autunno del 1919, seguirono due strade diverse la cui meta si sarebbe palesata a Livorno: Serrati adottò una posizione unitarista e in certo qual modo attendista; Bombacci, invece, fu passionalmente soviettista, terzinternazionalista, filobolscevico. Parteciparono, anche se poco ascoltati, gli anarchici – l’USI di Borghi, il giornale «Umanità Nova» con Errico Malatesta, soprattutto – la cui posizione, in linea con il loro pensiero, fu esplicitata durante l’occupazione delle fabbriche: allargamento rivoluzionario attraverso un fronte unico che non doveva essere né centralizzato, né burocratizzato.

25 In questo dibattito è possibile riconoscere quelle che furono le parole chiave del primo “biennio rosso” italiano: Partito, Soviet, Rivoluzione. La Guerra rimase un modus vivendi

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et operandi dell’epoca, tanto che il sintagma di guerra rivoluzionaria fu ricorrente ed ambiguo. Se Soviet fu una parola che sparì presto, per lo meno dal lessico politico occidentale (venendo sostituita dai consigli, presenti, a fasi alterne, per tutto il Novecento), così non fu per Guerra, Rivoluzione e Partito, che si mantennero al centro del linguaggio e del pensiero fino al 1989. Ciò non significa affatto che altre parole non risuonarono nei comizi, nelle riunioni di partito e nella stessa Camera dei Deputati durante gli interventi dei dirigenti socialisti o che non si lessero nella stampa, negli opuscoli e nei testi di propaganda del movimento operaio, ma, per quanto importanti o ricorrenti, esse non possono considerarsi centrali da un punto di vista di storia della politica e di analisi del linguaggio politico in quanto non permettono di aprire altre porte del pensiero e dell’azione politica.

6. Una parola chiave e una questione: il Partito

26 Nel biennio 1919-1920 la grande novità fu senza dubbio il Partito. Non che prima d’allora il Partito non esistesse: la sua centralità era evidente almeno dalla fondazione della Seconda Internazionale, ma fino al 1917 il Partito rappresentava sempre e solo una classe rispetto allo Stato. Uno Stato condizionato dalle relazioni tra le sue parti organizzate. Con l’Ottobre invece la questione del Partito si legò alla questione del potere: Lenin insegnò a pensare il Partito organizzato in modo da farsi Stato. Il partito bolscevico fu difatti il primo partito del XX secolo che si legò al potere45.

27 In un interessante pamphlet dedicato alla Comune di Parigi, Alain Badiou poneva a grandi termini la questione. Dopo il 1871 e grazie all’interpretazione marxiana della Comune, il partito è allo stesso tempo libero nei confronti dello stato e consacrato all’esercizio del potere. «È un organo puramente politico, costituito per adesione soggettiva, per rottura ideologica e, come tale, esterno allo stato. […] è portatore della tematica della rivoluzione, della distruzione dello stato borghese», ma è anche «l’organizzatore di una capacità centralizzata e disciplinata, tesa interamente verso la presa di potere di stato. È portatore della tematica di un nuovo stato, lo stato della dittatura del proletariato». La figura del partito-stato è dunque, secondo Badiou, una creazione del partito, concepito come «il luogo politico di una tensione fondamentale tra il carattere non statale, o addirittura anti-statale, della politica d’emancipazione e il carattere statale della vittoria e della durata di questa politica»46.

28 In quest’ambito va inserito il dibattito sulla funzione del partito prima, durante e dopo la rivoluzione. Il partito doveva essere il detonatore della rivoluzione, una semplice sovrastruttura o l’avanguardia del proletariato? Una problematica estremamente complessa, soprattutto dove, come in Italia, rimase al mero stadio teorico. Dagli articoli che i rappresentanti delle varie correnti del PSI pubblicarono sull’ «Avanti!» o su altri periodici del socialismo del “biennio rosso” come «L’Ordine Nuovo», «Il Soviet» e «Comunismo» tra la fine di gennaio e la metà di aprile del 1920 si può comprendere quale era la concezione che del partito avevano gli ordinovisti torinesi, il gruppo bordighiano, i massimalisti serratiani, i massimalisti bombacciani ed anche i rappresentanti sovietici in Italia47. Se per Bombacci e Gennari il partito era «il cervello che raccoglie[va] le sensazioni e guida[va] i movimenti», l’organo che dirigeva e controllava la costituzione dei Soviet prima e durante la rivoluzione, mentre dopo l’evento rivoluzionario, anch’esso, al pari del Soviet, sarebbe divenuto «della classe proletaria», per Serrati il partito doveva essere innanzitutto socialista e doveva dirigere

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gli esperimenti di costituzione dei Soviet, vigilando, spronando ed indirizzando il movimento di organizzazione economica. Per il direttore dell’«Avanti!» la bussola dell’azione era l’unità del partito, come si palesò qualche mese dopo a Livorno, e più che i Soviet – «organi politici della collettività» – o i Consigli di fabbrica – che si dovevano occupare solo del «lato della produzione o del controllo della fabbrica» e covavano il germe delle «tendenze riformistiche» –, era il sindacato ad essere il solo che possedesse la «visione universale della situazione economica». Serrati dimostrava così una «concezione collaborazionista e relativistica» del processo rivoluzionario48, distinta dalla concezione di Bombacci e Gennari che vedeva necessaria la «conquista del potere politico» per la successiva trasformazione economica. I due leader massimalisti, futuri fondatori del PCd’I, consideravano i Soviet, controllati dal partito, la «base dello Stato socialista», degli organi «politici» di «direzione» e «potere supremo», mentre i Consigli di fabbrica venivano a essere unicamente degli organi esercitanti «il controllo operaio» prima della socializzazione49.

29 Amadeo Bordiga definì il partito «l’avanguardia del Proletariato» in lotta per «l’effettuazione pratica del programma comunista», lo «strumento della lotta politica di classe del Proletariato», il «medico» della rivoluzione. Bordiga considerava i Soviet gli «organi di Stato del proletariato», i «figli della rivoluzione», dei «contenitori» per l’azione del Partito comunista. Non «per essenza rivoluzionari», i Soviet potevano essere un mezzo mediante i quali la classe lavoratrice poteva esercitare «il potere politico» dopo la rivoluzione, mentre i Consigli di fabbrica non erano altro che una «rappresentanza di interessi operai limitati»50. L’ingegnere napoletano era in perfetta sintonia con il rappresentante dei bolscevichi in Italia, Carlo Niccolini, il cui vero nome era N. M. Ljubarskij. Niccolini sosteneva che il partito «comunista» doveva essere «forte, risoluto ed attivo» e per poter divenire l’elemento trainante della rivoluzione – che doveva essere anzitutto politica – esso doveva sbarazzarsi delle «concezioni riformistiche». Per Niccolini, i Consigli di fabbrica erano sì «l’asse del movimento rivoluzionario», ma spesso erano penetrati da «idee localistiche e riformistiche», mentre i Soviet erano gli «istituti d’azione proletaria rivoluzionaria della dittatura comunista», risultato dell’urto rivoluzionario51.

30 Gli ordinovisti si dimostrarono invece meno interessati alla questione del partito in questi mesi, dato che la politica veniva concepita come sovrastruttura e il partito era considerato «esterno al luogo centrale dello scontro di classe», in netta antitesi all’interpretazione bordighiana. Togliatti, Terracini e Leonetti, che furono coloro i quali parteciparono più di Gramsci e Tasca nel dibattito, misero in primo piano l’elemento spirituale della «coscienza» rispetto all’elemento funzionale dello «strumento» e ai Soviet – definiti solo come la «forma dello Stato» e «l’estrema impalcatura politica della società» – privilegiavano i Consigli di fabbrica, che venivano ad essere «l’applicazione di un principio nuovo» e la base d’una «organizzazione naturale di massa che sorge sul terreno della produzione». Così se per gli ordinovisti la rivoluzione doveva essere prima di tutto economica, ossia doveva partire dalla «intimità della vita produttiva» avendo come scopo principale di «far diventare rivoluzionaria in modo permanente una grande massa umana», per Bordiga la rivoluzione non poteva che essere prima di tutto politica, ossia «del Partito di Classe», e solo in un secondo momento economica, ossia per la «costruzione del nuovo meccanismo di produzione»52.

31 La questione del ruolo del partito presentava tre corollari. Il primo corollario riguardava la differenziazione tra periodo storico rivoluzionario e momento

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rivoluzionario (sarebbe a dire, l’inizio effettivo della rivoluzione sociale) che fu teorizzato al XVI Congresso nazionale del PSI (Bologna, ottobre 1919) da Antonio Graziadei. Il secondo corollario concerneva la relazione tra partito e masse, che si semplificava nella domanda: chi guidava chi? Una problematica che ritornò poi nelle analisi del “biennio rosso”, in cui si imputava al PSI di essere «alla coda» e non «alla testa» delle masse. Il terzo corollario, infine, aveva a che fare con il rapporto tra partito e sindacato.

32 Questo terzo corollario risulta di fondamentale importanza per un triplice ordine di ragioni, che dimostrano come uno studio comparato dei due “bienni rossi” del Novecento italiano non sia affatto fuori luogo. La prima di queste ragioni è la lunga durata di tale questione, che proprio nel secondo “biennio rosso” ritorna prepotentemente al centro del dibattito politico, con tutta la sequela di critiche all’azione sindacale da parte del PCI e le connesse accuse di «supplenza» e «pansindacalismo». In una comparazione del sindacalismo confederale nei due bienni, Fabrizio Loreto sottolinea come nel 1919-20 si mantenne la naturale divisione tra partito e sindacato sancita dalla Seconda Internazionale e riaffermata dal patto di alleanza tra PSI e CGdL nel settembre 1918 – dopo un tentativo frustrato di affermazione di un proprio programma politico di riforme, l’autonomia politica della CGdL dall’autunno del 1919 si trasformò in una semplice autonomia tecnico- contrattuale, con la rinuncia ad un ruolo politico nella società e nelle fabbriche –, mentre nel 1968-69 venne a cadere la divisione storica tra partito e sindacato, il rapporto divenne dialettico e il sindacato si propose come soggetto politico a tutti gli effetti53. La seconda di queste ragioni è che il rapporto (e le tensioni) tra partito e sindacato è legato a doppio filo alla questione del potere, un potere che è inteso in forme e modi diversi nel primo e nel secondo biennio. La terza ragione è che tale rapporto e la maniera in cui viene risolto rimanda necessariamente ad un altro problema a monte di tutto, ossia il rapporto tra politica ed economia. È una questione annosa ed ancora aperta quella del primato della politica sull’economia o dell’economia sulla politica, che si cercò di risolvere nel 1919-1920 e che ritorna nel 1968-69, supportata dalla rilettura storiografica e politica del primo biennio54.

33 La valutazione della questione del partito rimase difatti inalterata in sede storiografica almeno fino alla fine degli anni Settanta – a parte alcune eccezioni –, riproponendo due soluzioni inconciliabili che si rifacevano esplicitamente a quelle che potremmo definire le tradizioni gramsciano-togliattiana e bordighiana. Se ci fu chi, come Tommaso Detti55, pose l’accento sulla concezione leniniana del partito, Franco De Felice rilevò la centralità dell’insegnamento leniniano nella modificazione dei rapporti politici fra le classi. Anche in alcune opere che rimangono delle pietre miliari per lo studio del primo dopoguerra italiano e delle origini del PCI – si pensi a Spriano e Livorsi – si finì per condannare Bordiga per una limitata appropriazione leninista, nella quale la preminenza del partito e della politica rischiava di risolversi in una semplice ipotesi palingenetica di rivoluzionari puri. L’attenzione di Bordiga sarebbe stata solo per lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria e la preparazione dell’insurrezione56. Nelle parole di Giuseppe Berti: mentalità secondinternazionalista e fissazione dottrinaria da ingegnere.

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7. Conclusioni

34 In queste pagine si è scelto il Partito come esempio di una parola chiave del linguaggio politico e come questione cruciale della politica (socialista, ma non solo) del primo “biennio rosso”. Ma il Partito, come si è detto, non fu l’unica parola che permise di pensare la politica in quel frangente storico: il dibattito sulla costituzione dei Soviet che coinvolse il PSI e tutto il movimento operaio italiano tra il gennaio e l’aprile del 1920 mostrò la centralità di almeno altre tre parole: Rivoluzione, Soviet e Guerra. Procedere a un’analisi di tali parole, seguendo i suggerimenti di chi nell’ultimo decennio ha proposto un ripensamento del primo dopoguerra italiano, permetterebbe di intraprendere nuove strade per l’interpretazione del primo “biennio rosso” e aprirebbe cammini finora poco esplorati.

35 Ci si è proposti di tentare una prima, parziale definizione della strada che si vorrebbe percorrere. Per poter fare questo si è considerato necessario, innanzitutto, tracciare un (breve) bilancio delle diverse interpretazioni storiografiche esistenti – sia del primo che del secondo “biennio rosso” – e, in secondo luogo, dopo aver deciso di centrarsi su ciò che disse e ciò che fece il movimento operaio italiano del 1919-1920, eseguire una radiografia del socialismo italiano del primo “biennio rosso”. In questo modo, si è potuto rilevare: a. lo stretto legame instauratosi tra le interpretazioni storiografiche del primo “biennio rosso” e il pensiero politico degli anni immediatamente successivi al secondo “biennio rosso”; b. la relazione tra le interpretazioni storiografiche del primo “biennio rosso” date durante tutto il Novecento e le divisioni politiche del movimento operaio italiano del 1919-1920; c. l’importante ruolo ricoperto dal massimalismo nel primo dopoguerra e la quasi totale assenza di studi su di esso.

36 Vi è ancora parecchia strada da percorrere, per quanto negli ultimi anni si sia tentato di superare le posizioni ormai consolidate delle diverse interpretazioni storiografiche del primo “biennio rosso” e si sia finalmente tentato di avanzare verso delle analisi comparative sul lungo periodo della storia italiana del Novecento, come il congresso I due bienni rossi del Novecento, 1919-20 e 1968-69: studi e interpretazioni a confronto, tenutosi a Firenze nel settembre del 2004, ha ampiamente dimostrato57. Il 1919-1920 è ancora in attesa di una sua rivoluzione copernicana dal punto di vista dell’analisi della storia della politica e del linguaggio politico – una rivoluzione copernicana che utilizzi nuove prospettive d’interpretazione, togliendo così le troppe stratificazioni sedimentatesi su ciò che si disse e ciò che si fece in quel biennio –, mentre il 1968-1969 sta aspettando i suoi storici, dopo i racconti e le memorie dei suoi protagonisti e delle sue comparse.

NOTE

1. FABBRI, Fabio, Le origini della Guerra civile. L’Italia dalla Grande guerra al fascismo (1918-1921), Torino, Utet, 2009, p. XIII.

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2. Già Angelo Tasca criticò la definizione “biennio rosso”, così poi, tra gli altri, R. Vivarelli, G. Turi e P. Ginsborg. A. Lepre sostenne che quella di “biennio rosso” è «una definizione limitata e fuorviante. Limitata, perché tiene conto solo della lotta politica, trascurando gli aspetti della vita quotidiana, altrettanto importanti; fuorviante, perché quegli anni furono rossi soltanto nei sogni dei socialisti italiani e nei timori della borghesia», citato in FABBRI, Fabio, op. cit., p. XVII. 3. Oltre a E. Nolte, sono stati soprattutto C. Pavone e, recentemente, E. Traverso a porre in primo piano la categoria di guerra civile per l’interpretazione della storia italiana ed europea del Novecento. Vedasi, PAVONE, Claudio Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991; TRAVERSO, Enzo, A ferro e fuoco. La guerra civile europea 1914-1945, Bologna, Il Mulino, 2007. Fabbri propone di applicarla al primo dopoguerra, augurandosi che «possa finalmente assumere un carattere esplicativo e non solo descrittivo», FABBRI, Fabio, op. cit., p. XXII. 4. In un recente articolo, Claudio Natoli ha apprezzato il lavoro di Fabbri, pur criticando l’uso della categoria di «guerra civile» a cui preferisce «controrivoluzione preventiva» e «riorganizzazione autoritaria dello Stato e della società». Vedasi, NATOLI, Claudio, «Guerra civile o controrivoluzione preventiva? Riflessioni sul “biennio rosso” e sull'avvento al potere del fascismo», in Studi Storici, 53, 3/2012, pp. 205-236. 5. Traverso ha sviluppato queste riflessioni nella conferenza Entre memoria e historiografía. Lecturas del siglo XX tenuta all’Università Autonoma di Barcellona l’11 maggio 2010. 6. VENTRONE, Angelo, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003; ALBANESE, Giulia, La marcia su Roma, Roma-Bari, Laterza, 2006; BARAVELLI, Andrea, La vittoria smarrita: legittimità e rappresentazioni della Grande Guerra nella crisi del sistema liberale (1919-1924), Roma, Carocci, 2006; PASETTI, Matteo, Tra classe e nazione. Rappresentazioni e organizzazione del movimento nazional-socialista (1918-1922), Roma, Carocci, 2008. 7. Rispettivamente, GIOVANNINI, Elio, L’Italia massimalista. Socialismo e lotta sociale e politica nel primo dopoguerra italiano, Roma, Ediesse, 2001, p. 19 e ALBANESE, Giulia, Programmi e strategie eversive della destra nel primo biennio, in I due bienni rossi del Novecento, 1919-20 e 1968-69: studi e interpretazioni a confronto, Atti del Convegno nazionale, Firenze, 20-22 settembre 2004, Roma, Ediesse, 2006, p. 198. 8. TASCA, Angelo, La naissance du fascisme, Parigi, Gallimard, 1938 [Ed. italiana: La nascita del fascismo, Firenze, La Nuova Italia, 1950]; NENNI, Pietro, Storia di quattro anni. La crisi socialista dal 1919 al 1922, s.l., Libreria del Quarto Stato, 1927; BUOZZI, Bruno, Scritti dall’esilio, a cura di Alessandro Schiavi, Roma, Opere Nuove, 1959. 9. SABBATUCCI, Giovanni, Fare come in Russia, in BELARDELLI, Giovanni et al., Miti e storia dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 107-114. 10. Il riferimento è a SALVEMINI, Gaetano, Lezioni di Harvard. L’Italia dal 1919 al 1929 in Scritti sul fascismo, vol. I, Milano, Feltrinelli, 1961. 11. TOGLIATTI, Palmiro, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1967-84, 6 voll.; BERTI, Giuseppe, «Il gruppo del Soviet nella formazione del PCd’I», in Stato Operaio, Parigi, dicembre 1934 e più in generale, ID., Appunti e ricordi 1919-1926, Milano, Annali Feltrinelli, 1966. Sulla stessa linea anche DETTI, Tommaso, Serrati e la formazione del Partito comunista italiano. Storia della frazione terzinternazionalista, 1921-1924, Roma, Editori Riuniti, 1972. 12. Sulla traiettoria di Nicola Bombacci, vedasi NOIRET, Serge, Massimalismo e crisi dello Stato liberale. Nicola Bombacci (1879-1924), Milano, Franco Angeli, 1992; SALOTTI, Guglielmo, Nicola Bombacci: un comunista a Salò, Milano, Mursia, 2008; FORTI, Steven, «Partito, Rivoluzione e Guerra. Un’analisi del linguaggio politico di un transfuga: Nicola Bombacci (1879-1945)», in Memoria e Ricerca, 17, 31/2009, pp. 155-175; ID., El peso de la nación. Nicola Bombacci, Paul Marion y Óscar Pérez Solís en la Europa de entreguerras, Santiago de Compostela, USC, 2014.

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13. Per quanto riguarda il “biennio rosso”, SPRIANO, Paolo, L’occupazione delle fabbriche. Settembre 1920, Torino, Einaudi, 1964 e soprattutto ID., Storia del Partito Comunista Italiano. Da Bordiga a Gramsci, vol. I, Torino, Einaudi, 1967. 14. GRAMSCI, Antonio, Quaderni dal carcere, Torino, Einaudi, 1948-1951, 6 voll. I Quaderni furono ripubblicati molte volte, tra cui vale la pena ricordare, per ciò che si sostiene in queste pagine, l’edizione completa del 1966 e quella in 4 volumi curata da Valentino Gerratana nel 1975, entrambe pubblicate da Einaudi. 15. CORTESI, Luigi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione 1892/1921, Bari, Laterza, 1969 (poi, ID., Le origini del PCI, Roma-Bari, Laterza, 1977); DE CLEMENTI, Andreina, Amadeo Bordiga, Torino, Einaudi, 1971; LEPRE, Aurelio, LEVRERO, Silvano, La formazione del Partito comunista d’Italia, Roma, Editori Riuniti, 1971. Alla base di tutto vi è una rilettura della storia della sinistra comunista scritta dallo stesso Bordiga: [s.a.], Storia della sinistra comunista, Milano, Il Programma Comunista, 1964 (poi, in 3 voll., Milano, Il Programma Comunista, 1972-1986). 16. Soprattutto, MAIONE, Giuseppe, Il biennio rosso: autonomia e spontaneità operaia nel 1919-1920, Bologna, Il Mulino, 1975 e DEL CARRIA, Renzo, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne italiane dal 1860 al 1950, Milano, Edizioni Oriente, 1966. In parte anche, CORVISIERI, Silvano (a cura di), Il biennio rosso 1919-1920 della Terza internazionale, Milano, Jaca Book, 1970. 17. ARFÈ, Gaetano, Storia dell'Avanti, 1896-1926, Milano-Roma, Avanti!, 1956; PEDONE, Franco (a cura di), Il Partito socialista italiano nei suoi congressi, 5 voll., Milano, Avanti!, 1959-1968; AMBROSOLI, Luigi, Né aderire né sabotare, 1915-1918, Milano, Edizioni Avanti!, 1961; VALIANI, Leo, Il partito socialista italiano nel periodo della neutralità, 1914-1915, Milano, Feltrinelli, 1962. 18. ARFÈ, Gaetano, Storia del socialismo italiano, (1892-1926), Torino, Einaudi, 1965; MANACORDA, Giuseppe (a cura di), Il socialismo nella storia d'Italia. Storia documentaria dal Risorgimento alla Repubblica, Bari, Laterza, 1966; RIOSA, Alceo, Il Partito socialista italiano dal 1892 al 1918, Bologna, Cappelli, 1969. 19. MARCHETTI, Luciana (a cura di), La Confederazione generale del lavoro negli atti, nei documenti, nei congressi (1906-1926), Milano, Feltrinelli, 1962; PEPE, Adolfo, Storia della CGdL dalla guerra di Libia all’intervento 1911-1915, Bari, Laterza, 1971; ID., Storia della CGdL dalla fondazione alla guerra di Libia 1905-1911, Bari, Laterza, 1972; BARBADORO, Idomeneo, Storia del sindacato italiano dalla nascita al fascismo, vol. II., La C.G.d.L., Firenze, La Nuova Italia, 1973. 20. L’intervento di Turati alla Camera dei Deputati del 26 giugno 1920 venne pubblicato in opuscolo con il titolo Rifare l’Italia! Vedasi il lunghissimo elenco di pubblicazioni che a partire dalla metà degli anni Settanta recupera la storia dimenticata del riformismo italiano dalla fondazione del PSI all’esilio parigino. Sintomatici i congressi Anna Kuliscioff e l'età del riformismo (Milano, 1976), Prampolini e il socialismo riformista (Reggio Emilia, 1978) e Filippo Turati e il socialismo europeo (Milano, 1982), in cui l’allora segretario del PSI tenne un discorso dal titolo che non ha bisogno di spiegazioni: Turati e Pertini. O la serie di incontri organizzati dalla Fondazione Giacomo Matteotti nei primi anni Ottanta: Filippo Turati cinquant’anni dopo (Roma, 1982), Riformismo e socialdemocrazia ieri e oggi (Milano, 1983) e Giacomo Matteotti a sessant’anni dalla morte (Rovigo, 1984). Vedasi, tra le molte ricerche, anche l’interessante CARTIGLIA, Carlo, Rinaldo Rigola e il sindacalismo riformista in Italia, Milano, Feltrinelli, 1976 e la serie di studi di DEGL’INNOCENTI, Maurizio, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Roma, Editori Riuniti, 1976; ID. Geografia e istituzioni del socialismo italiano, Napoli, Guida, 1983; ID. (a cura di), Filippo Turati e il socialismo europeo, Napoli, Guida, 1985 che avrebbero portato all’ultima storia “ufficiale” del PSI, CIUFFOLETTI, Zeffiro, DEGL’INNOCENTI, Maurizio, SABBATUCCI, Giovanni, Storia del P.S.I., 3 voll., Roma-Bari, Laterza, 1992-1993. 21. TRENTIN, Bruno, Autunno caldo: il secondo biennio rosso 1968-1969, Roma, Editori Riuniti, 1999. 22. BECCHETTI, Margherita, Operai in scena. L’occupazione delle fabbriche e il primo antifascismo nel teatro giovanile degli anni settanta, in I due bienni rossi del Novecento, cit., pp. 373-386. Significativi furono soprattutto due spettacoli: La grande paura. Settembre 1920. L’occupazione delle fabbriche della

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Compagnia del Collettivo di Parma (1970) e Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone? di Dario Fo (1971). 23. Citato in DETTI, Tommaso, Biennio rosso, in LEVI, Fabio, LEVRA, Umberto, TRANFAGLIA, Nicola (a cura di), Il mondo contemporaneo. Storia d’Italia, vol. I, t. I, Firenze, La Nuova Italia, 1978, p. 60. 24. La fortuna storiografica del 1968-1969 ha avuto generalmente a che fare con gli anniversari di quegli avvenimenti. Ad esempio, SCALZONE, Oreste, Biennio rosso: ’68-’69. Figure e passaggi di una stagione rivoluzionaria, Milano, SugarCo, 1988. O come si è palesato per il quarantesimo anniversario del ’68 con le “celebrazioni”, la pubblicazione di memorie e interviste, di saggi e documentari, dove sovente il ’68 finisce per essere la culla della stagione del terrorismo. 25. ROMITELLI, Valerio, Il Sessantanove/Settanta sindacale: di che biennio si è trattato?, in ID., Storie di politica e di potere, Napoli, Cronopio, 2004, pp. 125-148. 26. GIUGNI, Gino, Il sindacato tra contratti e riforme: 1969-1973, Bari, De Donato, 1973; ID. et al., Gli anni della conflittualità permanente: rapporto sulle relazioni industriali in Italia nel 1970-1971, Milano, Franco Angeli, 1976; FOA, Vittorio, Sindacati e lotte operaie, Torino, Einaudi, 1975; PIZZORNO, Alessandro (a cura di), Lotte operaie e sindacato: il ciclo 1968-1972 in Italia, 6 voll., Bologna, Il Mulino, 1974-1978. Vedasi anche i più recenti CIAMPANI, Andrea, PELLEGRINI, Giancarlo (a cura di), La storia del movimento sindacale nella società italiana. Venti anni di dibattiti e storiografia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005 e LORETO, Fabrizio, L’unità sindacale (1968-1972): culture organizzative e rivendicative a confronto, Roma, Ediesse, 2009. 27. ROMAGNOLI, Guido, Consigli di fabbrica e democrazia sindacale, Milano, Mazzotta, 1976; GIGLIOBIANCO, Alfredo, SALVATI, Michele, Il maggio francese e l’autunno caldo: la risposta di due borghesie, Bologna, Il Mulino, 1980; DE MASI, Guido et al., I consigli operai, Roma, Samonà e Savelli, 1972. 28. Le citazioni di Cella e Ginsborg, rispettivamente, in I due bienni rossi del Novecento, cit., pp. 355, 459. 29. Interessante anche l’ipotesi proposta da Francesco M. Biscione di una lettura del 1919-20 come di un fenomeno di isolamento e di «alterità sostanziale» e non come forma di egemonia dentro la storia dell’Italia contemporanea. Le citazioni di Revelli e Biscione si trovano, rispettivamente in I due bienni rossi del Novecento, cit., pp. 234 e 199-200. 30. VANDER, Fabio, Livorno 1921. Come e perché nasce un partito, Manduria-Roma-Bari, Lacaita, 2008. Per Vander, la fondazione del PCd’I significherebbe la rottura con la tradizione del socialismo italiano e la sua principale debolezza: voler «governare senza avere responsabilità di governo» (p. 56). 31. STEDMAN JONES, Gareth, Languages of class. Studies in English working class history, 1832-1982, Cambridge, Cambridge University Press, 1983; CHARTIER, Roger, La rappresentazione del sociale. Saggi di storia culturale, Torino, Bollati Boringhieri, 1989; HUNT, Lynn, La Rivoluzione francese. Politica, cultura, classi sociali, Bologna, Il Mulino, 1989. 32. FOUCAULT, Michel, Nietzsche, la genealogia, la storia, in ID., Microfisica del potere, Torino, Einaudi, 1978, p. 34. 33. BOSIO, Gianni, La grande paura: settembre 1920. L’occupazione delle fabbriche nei verbali inediti delle riunioni degli Stati generali del movimento operaio, Roma, Samonà e Savelli, 1970; GIOVANNINI, Elio, L’Italia massimalista, cit. 34. Oltre agli studi di Bosio e Giovannini, poche sono le eccezioni: BERMANI, Cesare, Tutti o nessuno. Lo sciopero agricolo dei cinquanta giorni e l'occupazione delle fabbriche nel biennio rosso a Novara (1919-1920), Milano, Shake, 2005; DE FELICE, Franco, Serrati, Bordiga, Gramsci e il problema della rivoluzione in Italia, 1919-1920, Bari, De Donato, 1971; NOIRET, Serge, «Protagonismo delle masse e crisi dello stato liberale», in Intersezioni, 2, 1988, pp. 269-299; ID., Il partito di massa massimalista dal PSI al PCd’I, 1917-1924: la scalata alle istituzioni democratiche, in GRASSI ORSINI, Fabio, QUAGLIARELLO, Gaetano (a cura di), Il Partito politico dalla grande guerra al fascismo. Crisi della rappresentanza e riforma dello Stato nell’età dei sistemi politici di massa (1918-1925), Bologna, Il Mulino,

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1996, pp. 909-965; FRANCESCANGELI, Eros, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917-1922), Roma, Odradek, 2000; BIANCHI, Roberto, Pace, pane, terra. Il 1919 in Italia, Roma, Odradek, 2006. 35. BOSIO, Gianni, op. cit.; Il Consiglio nazionale socialista. Sessione tenutasi a Milano dal 18 al 22 aprile 1920. Testo stenografico integrale inedito, 3 voll., Milano Edizioni del Gallo, 1967-1968; GRAMSCI, Antonio, BORDIGA, Amadeo, Dibattito sui Consigli di fabbrica, Roma, Samonà e Savelli, 1973. 36. BARAVELLI, Andrea, Propagandare l’eccezionale. L’eroismo bellico nel linguaggio politico dei candidati francesi e italiani (1919), in RIDOLFI, Maurizio (a cura di), Propaganda e comunicazione politica. Storia e trasformazioni nell’età contemporanea, Milano, Bruno Mondadori, 2004, p. 83. 37. Citato in GIOVANNINI, Elio, L’Italia massimalista, cit., p. 229. Un «antistorico rimprovero» che mantiene soprattutto Marco Gervasoni che lamenta la «scarsa diffusione di una civic culture democratica in larga parte delle masse operaie e contadine». GERVASONI, Marco, Speranze condivise. Linguaggi e pratiche del socialismo nell’Italia liberale, Cosenza, Marco, 2008, p. 12. 38. Alcuni passi in questo senso furono fatti a suo tempo da alcune ricerche su questioni specifiche, come sul dualismo Soviet-Consigli (BENZONI, Alberto, TEDESCO, Viva, «Soviet, Consigli di fabbrica e “preparazione rivoluzionaria” del PSI (1918-1920)», in Problemi del socialismo, 13, 2-3/1971, pp. 188-210 e pp. 637-665), sulla struttura del socialismo (MESSERI, Andrea, Socialismo e struttura di classe, Bologna, Il Mulino, 1978) o sulla relazione tra socialismo e combattentismo (ISOLA, Gianni, «Socialismo e combattentismo: la Lega Proletaria», in Italia Contemporanea, 32, 141, 1980). 39. Giovannini ha sollevato una questione centrale nell’analisi del socialismo prefascista, troppe volte risolta con categorizzazioni semplicistiche. Sarebbe a dire, che «nel Commonwealth socialista non è così importante quella distinzione fra riformisti e rivoluzionari pur così fortemente sottolineata da gran parte della storiografia del primo biennio», in GIOVANNINI, Elio, Federterra e FIOM, in I due bienni rossi del Novecento, cit., p. 180. Una problematica individuata anche in DE MARIA, Carlo, Alessandro Schiavi: dal riformismo municipale alla federazione europea dei comuni. Una biografia: 1872-1965, Bologna, CLUEB, 2008. 40. Il progetto di Bombacci fu ripubblicato poi in opuscolo: SEZIONE SOCIALISTA DI PISTOIA, Per la costituzione dei Soviet. Relazione presentata al Congresso Nazionale da Nicola Bombacci, Pistoia, Tipografia F.lli Cialdini, 1920. La proposta di Egidio Gennari si pubblicò con il titolo «Per un Soviet urbano» sull’edizione milanese dell’«Avanti!» nei giorni 21, 22 e 24 febbraio 1920. L’interesse suscitato da tale progetto, checché ne dica gran parte della storiografia che lo ha bollato unicamente come astruso, «famigerato» (SABBATUCCI, Giovanni, “Fare come in Russia”, cit., p. 109) o come «astratte progettazioni» (CARETTI, Stefano, I socialisti italiani, in BENZONI, Alberto et al., La dimensione internazionale del socialismo italiano. 100 anni di politica estera del PSI, Roma, Edizioni Associate, 1993, p. 121), fu invece notevole. Nel febbraio del 1920, ad esempio, fu pubblicato nella rivista «España», fondata da Ortega y Gasset e diretta in quel tempo da Luis Araquistáin, mentre nel 1921 lo si pubblicò informa di opuscolo in Argentina, Hacia una sociedad de productores. Lucha de ideas sobre los organismos de la Revolución Proletaria en Italia, Buenos Aires, Editorial Argonauta, 1921. 41. Un dibattito che ho affrontato più a fondo in FORTI, Steven, «“Tutto il potere ai Soviet!”. Il dibattito sulla costituzione dei Soviet nel socialismo italiano del biennio rosso: una lettura critica dei testi», in Storicamente, 4, 2008, URL: [consultato il 10 settembre 2014]. Uno dei pochi studi che ha dedicato una certa attenzione a questo dibattito è CARETTI, Stefano, La rivoluzione russa e il socialismo italiano (1917-1921), Pisa, Nistri-Lischi, 1974, pp. 243-254. 42. Tra gli altri, KÖNIG, Helmut, Lenin e il socialismo italiano, Firenze, Vallecchi, 1972; VENTURI, Antonello, Rivoluzionari russi in Italia 1917-1921, Milano, Feltrinelli, 1979; PETRACCHI, Giorgio, La Russia rivoluzionaria nella politica italiana 1917-25, Roma-Bari, Laterza, 1982.

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43. ROMITELLI, Valerio, DEGLI ESPOSTI, Mirco, Quando si è fatto politica in Italia? Storia di situazioni pubbliche, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, pp. 212-216. Revelli individua il fallimento del “biennio rosso” proprio nella «impossibilità di replicare altrove un’esperienza già conosciuta», in I due bienni rossi del Novecento, cit., p. 233. 44. DE FELICE, Franco, op. cit. Cfr. anche VANDER, Fabio, op. cit. 45. ROMITELLI, Valerio, DEGLI ESPOSTI, Mirco, op. cit., pp. 70-71. 46. BADIOU, Alain, La Comune di Parigi, Napoli, Cronopio, 2004, p. 20. 47. I riformisti non parteciparono al dibattito, considerando i soviet un’importazione straniera che poco o nulla aveva a che fare con la realtà italiana fatta di camere del lavoro e cooperative. Turati, Treves, Modigliani e compagni si concentrarono su altre questioni, come la relazione tra socialismo e democrazia e tra socialismo e libertà, stigmatizzando l’esperimento russo, criticando il rivoluzionarismo parolaio del massimalismo e ribadendo la necessità di un gradualismo che avrebbe portato il socialismo ad inserirsi “naturalmente” nello Stato liberale, portando un giorno al socialismo. «Critica Sociale» non dedicò nemmeno un articolo al dibattito sui Soviet nei primi quattro mesi del 1920. Solo in maggio, dopo il Consiglio nazionale del PSI di Milano si toccò l’argomento, ma solo per ribadire la giustezza della via riformista, che Claudio Treves spiegò bene nell’opposizione tra «Rivoluzione trascendente» (la via massimalista) e «rivoluzione reale» (le riforme), in TREVES, Claudio, «La nostra crisi», in Critica Sociale, 16-31 maggio 1920, pp. 150-151. 48. Le citazioni sono tratte da SERRATI, Giacinto Menotti, «I Soviety in Italia», in Comunismo, 11, 1920, pp. 757-764 e ID., «Qualche osservazione critica preliminare», in Avanti!, 14 marzo 1920. 49. Le citazioni sono tratte da BOMBACCI, Nicola, «La costituzione dei Soviet in Italia», in Avanti!, 28 gennaio 1920; ID., «I Soviet in Italia. Pregiudiziali, critiche e proposte concrete», in Avanti!, 27 febbraio 1920; GENNARI, Egidio, «Per un Soviet urbano», in Avanti!, Milano, 21, 22 e 24 febbraio 1920; ID., «Formiamo i Soviet», in La Squilla, 28 febbraio 1920; ID., «Come a Bologna!», in Avanti!, 21 marzo 1920. 50. Le citazioni sono tratte da BORDIGA, Amadeo, «Per la costituzione dei Consigli operai in Italia», in Il Soviet, 4 gennaio 1920; ID., «Per la costituzione dei Consigli operai», in Il Soviet, 11 gennaio 1920; ID., «La costituzione dei consigli operai», in Il Soviet, 1, 8 e 22 febbraio 1920; «Tesi. Sulla costituzione dei Consigli operai proposte dal C. C. della Frazione Comunista Astensionista del P.S.I.», in Il Soviet, 11 aprile 1920. 51. Le citazioni sono tratte da NICCOLINI, Carlo, «La costituzione dei Soviety», in Avanti!, 5 febbraio 1920; ID., «La costituzione dei Soviet», in Avanti!, 15 febbraio 1920; ID., «La costituzione dei Soviety», in Comunismo, 12, 1920, pp. 821-833; ID., «Soviet e Consigli di fabbrica. Non bisogna temporeggiare», in Avanti!, 30 marzo 1920. 52. Le citazioni sono tratte da «La costituzione dei Soviet in Italia», in l’Ordine Nuovo, 7 febbraio 1920; TOGLIATTI, Palmiro, «La costituzione dei Soviet in Italia (Dal progetto Bombacci all’elezione dei Consigli di Fabbrica)», in l’Ordine Nuovo, 14 febbraio e 13 marzo 1920; LEONETTI, Alfonso, «Lo Stato dei Consigli», in Avanti!, 1 aprile 1920. 53. LORETO, Fabrizio, Il sindacalismo confederale nei due bienni rossi, in I due bienni rossi del Novecento, cit., pp. 161-178. Anche TRENTIN, Bruno, Autunno caldo, cit., pp. 123-126. 54. Non è un caso che Trentin, nella sua intervista sull’autunno caldo, rievochi il dibattito sugli «istituti di fabbrica» e le possibili forme del controllo operaio che si aprì sulle pagine dell’«Unità» nell’estate del 1956 e i dibattiti interni alla sinistra in occasione di due importanti incontri organizzati dall’Istituto Gramsci a Roma sulle Tendenze del capitalismo italiano nel 1962 e sulle Tendenze del capitalismo europeo nel 1965. In tutti e tre i dibattiti Trentin rileva due linee principali: la prima che si affidava al primato della politica (e dunque del partito) sull’economia (e dunque sul sindacato), l’altra al primato dell’economia sulla politica. Vedasi, TRENTIN, Bruno, Autunno caldo, cit., pp. 23-38. 55. DETTI, Tommaso, Serrati e la formazione del Partito comunista italiano, cit.

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56. SPRIANO, Paolo, Storia del Partito Comunista Italiano, vol. I, cit. e l’introduzione di Franco Livorsi a BORDIGA, Amadeo, Scritti scelti, Milano, Feltrinelli, 1975. 57. I due bienni rossi del Novecento, cit.

RIASSUNTI

Dopo un bilancio delle diverse interpretazioni che la storiografia ha dato del biennio 1919-1920 e del loro stretto legame con la politica e dopo un breve bilancio delle interpretazioni date del biennio 1968-1969, nell’articolo si presenta una radiografia del socialismo italiano del primo “biennio rosso” – rilevando il ruolo centrale giocato dal massimalismo – e si illustra una nuova proposta interpretativa che, a partire da una rilettura dei dibattiti politici e dall’analisi dei testi, dia centralità allo studio del linguaggio politico e delle parole della politica. A una di queste parole chiave – il Partito – si dedica l’ultima parte del testo, come prima, seppur parziale, esplicazione della suddetta proposta interpretativa.

After a review of the different interpretations given by historiography to the biennium 1919-1920 and their close link to politics as well as after a short summary of the interpretations of the biennium 1968-1969, the article presents a radiography of Italian socialism in the first biennio rosso – observing the central role played by maximalism – and discusses a new interpretive proposal, which, starting from a reinterpretation both of the political debate and the analysis of texts, gives centrality to the study of political language and words of politics. The last part of the text is dedicated to one of these keywords – Party –, as a first, albeit partial, explanation of this interpretation.

INDICE

Parole chiave : Biennio rosso, linguaggio politico, partito, socialismo, storiografia sul socialismo Keywords : historiography on socialism, party, Political language, Red Biennium, socialism

AUTORE

STEVEN FORTI

Dottore di ricerca per l’Universidad Autónoma de Barcelona con una tesi sulla questione del passaggio di dirigenti politici di sinistra al fascismo nell’Europa interbellica, è attualmente ricercatore presso l’Instituto de História Contemporanea dell’Universidade Nova de Lisboa (IHC- UNL). Membro del CEFID (Centre d’Estudis sobre les Epoques Franquista i Democràtica), del gruppo HISPONA, del SIdIF (Seminario Interuniversitario de Investigadores del Fascismo) e dell’Asociación de Historia Contemporánea (AHC) spagnola.

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Il quarto governo Fanfani e la crisi di Cuba del 1962 Una chiave di volta per l’apertura a sinistra

Matteo Anastasi

1. Introduzione

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1 L’intento principale di questo saggio è mostrare l’importanza della crisi di Cuba sulle dinamiche politiche interne dell’Italia dei primi anni Sessanta. Le vicende dell’autunno 1962 andavano, infatti, a coincidere con un momento di profondo cambiamento del panorama politico italiano, culminato nella formazione del quarto gabinetto di , esecutivo che aprì ai socialisti rompendo la precedente tradizione legata al “centrismo”, elemento dominante sin dalla fine degli anni Quaranta. Il coinvolgimento italiano nella crisi cubana derivava dalla presenza nella penisola di missili Jupiter, dislocati fra Puglia e Basilicata fin dal 1960. Essi, puntati verso est su richiesta della Casa Bianca, furono, insieme ai missili collocati in territorio turco, al centro del braccio di ferro ingaggiato da Kennedy e Chruščëv nell’ottobre 1962. La presenza dei missili all’interno del paese fece si che «il caso italiano fosse […] sempre presente [nelle trattative fra sovietici e statunitensi], direttamente o indirettamente, sin da quando venne ricercata e trovata la via di un compromesso pacifico»1. Soluzione alla crisi che sarà raggiunta anche grazie all’intenso lavoro diplomatico intrapreso dal governo di Roma e in particolare da Fanfani, che si attiverà a più riprese per convincere Kennedy a rinunciare allo scontro frontale.

2. La questione dei missili Jupiter

2 A partire dagli anni Cinquanta, il possesso di armi nucleari sempre più potenti determinò, fra Stati Uniti e Unione Sovietica, un costante confronto tecnologico sul piano della realizzazione di missili a lunga gittata. Tale competizione si inasprì quando i sovietici, poco dopo aver testato con successo un Icbm2, superarono con i loro esperimenti quelli di Washington, riuscendo a portare in orbita per la prima volta un satellite, lo Sputnik, il 4 ottobre del 1957.

3 I due test effettuati da Mosca ebbero fortissime ripercussioni negli Stati Uniti poiché dimostravano che gli avversari sarebbero stati in grado di raggiungere e colpire con missili a testata atomica il suolo americano, fino a quel frangente immune da pericoli diretti di questo tipo3. Allo stesso modo, in Europa, i paesi alleati svilupparono forti preoccupazioni per la loro sicurezza, aspettandosi dalla Casa Bianca risposte strategiche valide a contrastare la crescente potenza sovietica. Come ha ricordato David Schwartz: When viewed from the perspective of Washington, the Europeans seemed to have conflicting concerns. On the one hand, they worried that the United States would not execute strategic retaliation in response to aggression against Western Europe; for Washington to do so would be suicidal. On the other hand, they worried about what would happen if the United States did execute a strategic retaliation in response to aggression against Europe, because that could provoke Soviet retaliation against entire Nato alliance; the Europeans would have no influence on a decision that would reduce their society to rubble4.

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4 La sicurezza europea contro un eventuale attacco comunista dipendeva dunque totalmente dal sostegno degli Stati Uniti e dal loro potenziale atomico, per cui gli Stati membri dell’Alleanza atlantica guardarono da subito con grande interesse a quali sarebbero stati i provvedimenti che Washington avrebbe preso dopo il lancio dello Sputnik. La reazione politica immediata dell’amministrazione Eisenhower fu di rinforzare militarmente il blocco occidentale con i mezzi di cui disponeva, e cioè con missili di raggio intermedio che solo da basi europee avrebbero potuto raggiungere e colpire quelle sovietiche. Nel dicembre del 1957, durante una riunione del Consiglio atlantico a Parigi, il presidente Eisenhower informò gli alleati dei nuovi e necessari programmi di difesa, proponendo l’installazione di missili balistici sul territorio di quei partner che avessero accettato il progetto 5. Il fatto che per la prima volta, da quando l’Alleanza aveva avuto origine, alla riunione fossero presenti in rappresentanza dei paesi membri gli stessi capi di Stato, dimostrava come vi fosse grande tensione intorno agli eventi di quei mesi6.

5 Fra tutti gli alleati, ancor prima dell’inverno 1957, la Gran Bretagna era stata la prima a essere coinvolta nei progetti di Washington. Infatti, in seguito all’intesa raggiunta con il governo statunitense dal primo ministro Harold MacMillan durante la conferenza delle Bermuda del marzo 19577, Londra aveva già posto le premesse per raggiungere un accordo con gli Stati Uniti analogo a quello che Eisenhower avrebbe successivamente proposto agli altri membri dell’Alleanza8. Gli inglesi avevano alcune importanti ragioni per accettare gli Irbm nel loro territorio. Anzitutto i Thor sarebbero stati operativi prima dei Blue Streak, «che erano dei missili a medio raggio alla cui realizzazione la Gran Bretagna aveva rivolto i suoi sforzi fino a quel momento»9, e il dispiegamento dei missili statunitensi avrebbe consentito anche di acquisire informazioni interessanti riguardo tecnologie più avanzate, permettendo in tal modo un’accelerazione nella fabbricazione dei Blue Streak. Inoltre, ospitare i missili americani avrebbe permesso un notevole risparmio di fondi da dedicare al potenziamento delle armi convenzionali; infine, con questo accordo, la special relationship fra i due paesi sarebbe uscita particolarmente rinsaldata, come era nelle intenzioni del governo britannico dopo gli eventi di Suez. Anche gli Stati Uniti, dal canto loro, vedevano nel dispiegamento dei Thor in Gran Bretagna, non solo un significativo rafforzamento sul piano strategico, ma anche altri vantaggi, fra cui la possibilità che gli inglesi lasciassero da parte il loro progetto sui missili Irbm e dedicassero tutta la loro attenzione al potenziamento delle armi convenzionali10.

6 Il fatto che dal dicembre 1957 la proposta di detenere vettori nucleari fosse stata estesa anche agli altri alleati, ai quali fino a quel momento la Casa Bianca non aveva concesso di partecipare attivamente alla gestione diretta delle armi atomiche, fa immaginare lo stato di assoluta urgenza in cui l’amministrazione Eisenhower si trovò per porre rimedio alla sensazione di crescente inferiorità nei confronti dei sovietici. Bisogna comunque considerare che nell’ambito della strategia del new look, seguita dall’amministrazione di Washington fin dai primi mesi del 1953, il fatto di ampliare la quantità di armi nucleari possedute al fine di scoraggiare […] ogni iniziativa minacciosa della controparte, era considerato di normale attuazione, così come del resto le armi nucleari erano valutate al pari di quelle convenzionali. Di conseguenza il tipo di strategia che si pensò di attuare faceva parte comunque di un disegno già studiato e predeterminato senza che potesse apparire come una misura straordinaria11.

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7 Tuttavia, la condivisione del proprio arsenale nucleare con gli alleati poneva vari problemi ai dirigenti della Casa Bianca, dal momento che il McMahon Act12, approvato dal Congresso degli Stati Uniti nel 1946, proibiva espressamente di fornire informazioni o armi nucleari a paesi terzi. Eisenhower doveva perciò trovare una formula che consentisse di venire incontro alle richieste degli europei senza violare apertamente la legge13. In merito alla politica nucleare da seguire, il Congresso e il presidente avevano, infatti, opinioni divergenti, poiché il numero uno della Casa Bianca riteneva eccessivamente restrittiva la legge che regolava la condivisione e il possesso delle armi atomiche statunitensi con gli alleati14.

8 Il problema del controllo delle testate atomiche era inoltre strettamente connesso alla questione della Germania. Mosca si opponeva all’eventualità che la Germania federale ricevesse dai suoi alleati armi atomiche di cui potesse condividerne l’utilizzo, poiché ciò avrebbe rappresentato una minaccia quanto mai temibile in caso di guerra, almeno fino a quando il governo di Bonn non avesse riconosciuto come legittima l’esistenza della Germania orientale. I sovietici avrebbero preferito che la Germania divenisse un territorio neutrale, «perché ciò avrebbe rappresentato la logica premessa per la definitiva stabilizzazione delle frontiere dell’Europa centrale, e quindi non avrebbero accettato che la Repubblica federale tedesca potesse avere un arsenale atomico sotto il suo diretto controllo»15. Contrariamente il presidente Eisenhower era convinto che la Germania ovest, facendo parte dell’Alleanza atlantica, non potesse essere discriminata rispetto agli altri Stati membri e che quindi dovesse avere accesso all’armamento atomico degli occidentali. I sovietici insistevano per affermare le proprie ragioni facendo leva su quello che in Europa era un punto debole, e cioè puntando sul problema di Berlino e sulla questione del riconoscimento della Germania orientale da parte dei paesi occidentali. Come messo in luce dallo storico statunitense Marc Trachtenberg, che ha dedicato uno studio approfondito a questi problemi: There were two basic ways of dealing with the issue of control of a Nato, and eventually a European, nuclear force. In both cases the problems were enormous. The first alternative was for this force to be organized in the same way as the rest of Nato on a national basis, under ultimate national control, but with plans worked out within the Nato structure, and with a unified command becoming fully effective in the event of war. Planning, and especially targeting, could be done primarily on an alliance-wide basis, although there was no reason why arrangements for various fallback contingencies could not also be worked out on a national basis. […] The second and more basic problem with a Nato or European nuclear force organized on a national basis was that it meant Germany finger on the nuclear trigger. A German state with a nuclear capability of its own would no longer be locked into a purely defensive policy; and if it looked like Germany was developing a nuclear force under national control, the Soviets might be tempted to act before it was too late16.

9 Rispetto ai rapporti che gli Stati Uniti avevano con il governo inglese, quelli con gli altri alleati determinavano quindi una situazione più complessa, per cui il programma presentato al Consiglio atlantico del 1957, a parte l’immediata risposta entusiastica della Turchia17, non trovò facilmente altre offerte di collaborazione. Si può affermare che, dinanzi alla proposta di Eisenhower, i paesi alleati si divisero in tre gruppi, individuabili in base alle loro reazioni: quelli favorevoli all’attuazione del programma, e cioè Francia, Olanda e Turchia, altri sei paesi che assunsero un atteggiamento più contrastato, ovvero Belgio, Repubblica federale tedesca, Grecia, Italia, Lussemburgo e Portogallo, e gli ultimi due, Danimarca e Norvegia, che furono nettamente contrari18. Infine, ad accettare la possibilità di ospitare le armi offerte dagli Stati Uniti furono

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soltanto Italia e Turchia, in quanto gli altri paesi presentarono problemi politici interni o di altra natura che non consentirono la conclusione dell’accordo. Per esempio, benché la Francia si trovasse in cima alla lista dei possibili ospitanti e avesse espresso apertamente il proprio interesse per il programma degli Irbm già prima dell’annuncio che Eisenhower aveva fatto alla Nato, non si riuscì a raggiungere con essa alcuna intesa. A Parigi si ambiva a realizzare un progetto nucleare autonomo, e perciò si considerava assai preziosa la collaborazione con gli Stati Uniti. Tuttavia i negoziati sui missili Jupiter si arenarono sul punto riguardante il controllo delle testate, che i francesi volevano sotto la loro diretta responsabilità, senza dipendere né dall’Alleanza né dal suo "comandante" in Europa. Obiettivo del Quai d’Orsay era di occupare una posizione privilegiata nei rapporti con Washington analoga a quella detenuta dalla Gran Bretagna19. Il dialogo franco-statunitense si protrasse a lungo (passando in mezzo alle vicende politiche che in Francia portarono alla caduta della Quarta Repubblica e al ritorno al governo di De Gaulle) ma, vista l’intransigenza transalpina, il negoziato fu definitivamente abbandonato nell’autunno 1958. I militari statunitensi, del resto, già da alcuni mesi avevano iniziato le consultazioni con i rappresentanti degli altri paesi, assegnando una priorità secondaria a quelle con i francesi20.

10 Nella Germania federale la possibilità di ospitare gli Irbm si unì a un più ampio dibattito sulla questione delle armi nucleari. Sebbene Adenauer, condividendo il parere di Washington, ritenesse opportuno lo schieramento di quei missili, sia l’opinione pubblica tedesca sia le forti perplessità dei militari, condizionarono l’andamento dei negoziati, finché lo stesso Supreme Allied Commander Europe (Saceur) concluse che non era possibile raggiungere alcun accordo21.

11 La Turchia era stata invece l’unico paese ad aver immediatamente dimostrato la propria disponibilità verso i progetti statunitensi. Il governo di Ankara, infatti, considerava di grande rilevanza l’occasione di possedere armi atomiche al fine di conseguire il prestigio internazionale che le sarebbe derivato da una stretta collaborazione con la Casa Bianca.

12 In Italia, intanto, le elezioni del maggio 1958 erano state vinte dalla Democrazia cristiana con il 42,4% dei voti22. Tale esito elettorale rese possibile la formazione di un esecutivo moderato (costituito dal partito cattolico insieme ai socialdemocratici e con l’appoggio esterno dei repubblicani) guidato da Amintore Fanfani, il quale ambiva a realizzare, oltre a una serie di riforme sociali e economiche, anche una politica estera “neo-atlantica”, in conformità della quale l’Italia avrebbe dovuto svolgere un ruolo più attivo ed autonomo nelle relazioni internazionali. Uno dei principali obiettivi del nuovo corso di Fanfani era aumentare l’influenza diplomatica di Roma nel Medio Oriente, attribuendole un ruolo di mediazione nei rapporti fra quest’area e gli Stati Uniti, come del resto la crisi di Suez aveva fatto sperare con la disfatta di Francia e Gran Bretagna. Per muoversi in tale direzione, tuttavia, era necessario innanzitutto rafforzare i rapporti con l’alleato principale e quindi manifestare a Washington una fedeltà politica e un appoggio diplomatico indiscussi23.

13 Se si accetta questa interpretazione, sembra plausibile ipotizzare che la disponibilità a ospitare i missili Jupiter con testate atomiche, non fosse quindi per l’Italia una scelta sostenuta semplicemente da motivi di sicurezza collettiva, ma bensì il risultato dell’applicazione di una politica che rispondeva soprattutto a una logica di tipo nazionale. Nell’accettare la proposta statunitense per il dispiegamento di quelle armi, l’Italia si metteva in una condizione di assoluto prestigio anche perché, essendo

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divenuta di conseguenza un bersaglio per eventuali attacchi sovietici, avrebbe potuto avere dalla Nato una più cospicua assistenza militare, senza così doversi sobbarcare un aumento delle spese riguardanti le armi convenzionali24. Ciò si sposava perfettamente con la volontà statunitense di trovare alleati disponibili all’attuazione del programma25.

14 Un altro punto da mettere a fuoco, per meglio comprendere il senso della decisione italiana, sono le caratteristiche del tipo di arma in discussione, che la rendeva di per sé poco interessante agli occhi degli alleati: i missili Jupiter erano in posizione fissa, facilmente individuabili e difficili da nascondere al nemico. La nazione destinata a ospitarli assumeva perciò il rischio di divenire il primo e immediato obiettivo di un attacco, al quale forse non avrebbe potuto rispondere in tempo utile26. In sostanza si trattava di armi che «avevano […] un valore politico molto più alto di quello militare. Esse costituivano il simbolo di una reazione immediata a un eventuale attacco dei sovietici, della costante presenza di Washington a difesa degli europei, del prestigio che conferivano al paese che le deteneva»27.

15 Gli accordi fra i due governi furono conclusi attraverso uno scambio di note che, differentemente da un vero e proprio trattato, avrebbe permesso di aggirare le eventuali difficoltà politiche che la sinistra avrebbe potuto frapporre in Parlamento al momento della ratifica28. Fu la necessità di evitare questa possibile reazione negativa a convincere Fanfani a procedere con la dovuta cautela, invitando gli Stati Uniti a condurre a termine la missione con il massimo riserbo, facendola apparire, non come un incremento dell’arsenale atomico già presente in Italia, ma come un’attività militare di normale attuazione29.

16 Durante i negoziati, che si svolsero fra l’estate del 1958 e il marzo del 1959, il governo di Washington ebbe qualche esitazione a concedere a quello italiano margini decisionali sull’uso delle armi in questione. Preoccupazione americana era quella di evitare equivoci che avrebbero potuto consentire un’interpretazione allargata degli accordi anche riguardo l’utilizzo degli altri armamenti nucleari statunitensi, già presenti nel territorio italiano, ma sotto l’assoluta responsabilità della Casa Bianca. Come messo in luce da Leopoldo Nuti, il dipartimento di Stato suggeriva di evitare che nelle proposte presentate formalmente agli italiani ci fosse qualche riferimento, da parte americana, alla formula sull’uso congiunto dei missili: una clausola del genere, infatti, poteva pregiudicare eventuali intese su altre armi nucleari che in quel momento si trovavano in Italia e che erano controllate dagli Stati Uniti; inoltre sarebbe stato desiderabile mantenere il più a lungo possibile il pieno controllo de facto degli Stati Uniti e del Saceur in merito all’impiego degli Irbm30.

17 Il problema venne comunque sollevato da parte italiana e si risolse con l’adozione di una formula di compromesso che prevedeva la possibilità di un uso congiunto dei missili, previo ordine del Saceur e in base agli impegni reciproci assunti. Per quanto concerneva invece il lancio vero e proprio, esso sarebbe stato effettuato da una squadra costituita da tecnici italiani comandati dal loro ufficiale, «il quale avrebbe tenuto sempre appesa al collo, per motivi di sicurezza e prontezza, la chiave che avrebbe permesso l’avvio del conto alla rovescia. Un’altra chiave sarebbe stata tenuta da un ufficiale americano e sarebbe servita invece per effettuare l’ultimo passaggio del count down»31. Le testate nucleari, di cui tutti i missili erano forniti, sarebbero dovute rimanere in ogni caso sotto la custodia delle autorità statunitensi, collocate a parte e non montate stabilmente sui vettori. Il punto centrale degli accordi restava però per gli italiani la questione economica, poiché il governo precisò immediatamente che il

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proprio sostegno allo schieramento dei Jupiter non corrispondeva a un’analoga disponibilità ad assumersi l’intero costo dell’operazione32. Roma chiese perciò che una quota degli investimenti fosse sostenuta da Washington e così avvenne, poiché le spese intraprese da parte italiana si limitarono sostanzialmente alla fornitura dei terreni e alla copertura dei costi per la realizzazione delle strutture33. Il generale Lauris Norstad, comandante supremo delle forze Nato in Europa, in seguito a numerose consultazioni con i militari italiani, decise che il sito strategicamente migliore su cui collocare le rampe missilistiche fosse il sud della penisola, in particolare le zone della Puglia e della Basilicata. Fra queste due regioni vennero individuate dieci località34, a bassa densità abitativa e abbastanza lontane dai centri più popolosi, nelle quali sarebbero sorte le postazioni di lancio, ognuna ospitante tre missili.

18 Le basi rimasero attive per tre anni, dal gennaio 1960 all’aprile 1963, quando vennero smantellate in seguito agli accordi intervenuti fra Stati Uniti ed Unione Sovietica dopo la crisi di Cuba. Il ritiro dei Jupiter italiani fu una conseguenza diretta dell’intesa informale fra Kennedy e Chruščëv, in base alla quale Mosca avrebbe rinunciato alle sue basi missilistiche sul territorio caraibico in cambio della rimozione dei vettori nucleari collocati in Turchia (le rampe turche, infatti, più vicine di quelle italiane al territorio sovietico, costituivano per il Cremlino una minaccia particolarmente concreta). I missili italiani vennero in seguito sostituiti, tra la primavera e l’estate del 1963, con sistemi più moderni ed efficaci installati su sommergibili, i cosiddetti missili Polaris. Essi, collocati su basi mobili e forniti di propellente solido, divenivano un obiettivo molto più difficile da colpire e quindi anche più sicuro. Inoltre, a differenza dei Jupiter, i Polaris non erano soggetti al controllo congiunto dei due governi, ma erano posti esclusivamente sotto la custodia degli Stati Uniti. Il presidente Kennedy, infatti, aveva gradualmente mutato la strategia nucleare di Washington, fino ad attuare una politica molto diversa da quella voluta dal suo predecessore Eisenhower: fra gli scopi della nuova teoria della flexible response35, vi era anche quello di tenere maggiormente sotto controllo l’arsenale atomico in Europa, cercando di incoraggiare gli alleati a partecipare sempre più attivamente alle spese convenzionali per la propria difesa. Ciò provocò una certa apprensione fra i governi europei che iniziarono a temere che la Casa Bianca cominciasse a propendere per un disimpegno nella difesa del continente, soprattutto per quanto potesse concernere l’aspetto specificamente finanziario36. In realtà, dal punto di vista di Kennedy, l’opzione di Eisenhower, secondo il quale era auspicabile che anche la Germania federale potesse avere accesso all’arsenale nucleare dell’Alleanza (sviluppando così un potenziale che facesse da contrappeso alla potenza sovietica in Europa), permettendo agli statunitensi di ridurre il loro impegno nella difesa europea, era assolutamente irrealizzabile. Il nuovo presidente propendeva per il mantenimento dello status quo, aumentando il controllo degli Stati Uniti sulle armi atomiche collocate nei territori degli alleati europei, e mirando a raggiungere un dialogo sempre più efficace con i sovietici37.

3. Il ruolo di mediazione italiano

19 Le intenzioni moderate di Kennedy, a un anno e mezzo dalla sua ascesa alla Casa Bianca, furono messe a dura prova dalla crisi di Cuba. La gestione dell’emergenza ebbe carattere prettamente bipolare e l’Europa, che era all’origine della tensione e ne era la posta in gioco, non fu coinvolta dagli Stati Uniti nelle decisioni che il presidente varò

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appoggiandosi all’Executive Committee of the National Security Council ( Excomm), il comitato di esperti costituito da Kennedy per fronteggiare la crisi38. Fin dalle prime discussioni del comitato esecutivo di Washington, l’Italia assunse un ruolo centrale, poiché ospitava basi missilistiche americane ed era uno dei possibili bersagli della rappresaglia sovietica. Secondo le decisioni stabilite in tale consesso, Roma doveva essere informata preventivamente dell’eventuale decisione statunitense di attaccare Cuba39. Oltre a Gran Bretagna, Francia e Repubblica federale tedesca, Kennedy inviò pertanto una lettera al presidente del Consiglio italiano. In essa chiedeva di garantire il sostegno agli Stati Uniti in sede Onu e si diceva certo che Fanfani gli avrebbe comunicato le sue valutazioni rispetto al collegamento di tale iniziativa con altre in Europa. Infine, ribadì l’estrema importanza di un lavoro a stretto contatto e in piena armonia, nonché il proprio impegno a informare l’alleato degli ulteriori sviluppi. Fanfani diede notizia della missiva al presidente della Repubblica Segni e al ministro degli Esteri Piccioni e disse all’ambasciatore statunitense a Roma Reinhardt di temere che i sovietici volessero far scattare una trappola che avrebbe avuto ripercussioni a Berlino e altrove. Il 23 ottobre Fanfani rispose a Kennedy con una lunga lettera in cui dichiarava la comprensione e la solidarietà dell’Italia per il difficile frangente che gli Stati Uniti stavano attraversando: L’Italia comprende e sente quali vive preoccupazioni per il mantenimento della pace nel mar dei Caraibi, nell’emisfero occidentale e in ogni altra parte del mondo susciti il concentrarsi di armi nucleari offensive nell’isola di Cuba. Però mancherei ad ogni elementare dover di amicizia […] se non dicessi che le misure da Lei decise possono far correre a tutti gravissimi pericoli. Perciò sono stati apprezzati: il ricorso degli Stati Uniti all’Onu, che noi appoggeremo; il Suo appello diretto al primo ministro Chruščëv; la Sua calorosa riconferma di essere disposto a qualsiasi esame in qualsiasi sede di tutti gli altri gravi problemi che oggi turbano il malfermo equilibrio su cui poggia l’instabile pace del mondo. Come Ella da tempo ben sa, signor presidente, fermamente credo che, poggiando sulla sicura volontà di pace degli Stati Uniti, utilizzando in primo luogo la sede dell’Onu e giungendo ad una discussione esauriente ed anche diretta tra Lei e il signor Chruščëv, è possibile, con un costruttivo esame globale di tutti i problemi oggi aperti, far passare il mondo dall’attuale gravissima tensione all’inizio di una nuova fase di tranquillità. Occorre giungere con coraggio e determinazione a un esame globale di tutti i problemi esistenti. E questo esame deve essere il primo obiettivo di coloro che oggi hanno la massima responsabilità nella condotta del mondo, e cioè i capi degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Ritengo che altri paesi e altri uomini potranno o sapranno affiancare e sostenere una tanto ardita, ma indilazionabile operazione. L’Italia e i suoi governanti certamente l’appoggerebbero con la stessa convinzione con la quale la auspicano […]. Che Iddio ed il consiglio di sinceri amici della Sua persona e del Suo paese l’assistano, signor presidente, in questo momento decisivo per tutti. Tra gli amici che Le sono vicini, auspicando il Suo pieno successo nelle opere di pace e di difesa della libertà, si conferma cordialmente il Suo devotissimo A. Fanfani40.

20 Lo stesso 23 ottobre Fanfani ricevette una lettera di MacMillan. Il premier britannico gli proponeva di mantenere strettissimi contatti e lo informava di aver assicurato a Kennedy il pieno appoggio del Regno Unito all’Onu. Fanfani gli rispose lo stesso giorno dicendosi favorevole a un continuo aggiornamento reciproco sull’evoluzione della crisi. Si dichiarò molto preoccupato per l’estrema gravità della situazione e, non essendo l’Italia in quel momento nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, affermò di poter solo auspicare che in tale sede si trovasse una soluzione pacifica.

21 Fanfani intervenne poi in Parlamento, mentre Piccioni si trovava a Bruxelles per la riunione dei ministri degli Esteri dei Sei, da dove rientrò il giorno successivo41. Il

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presidente del Consiglio dichiarò alla Camera il pieno appoggio del governo agli Stati Uniti, ma «fece anche appello al dialogo per la rimozione delle cause che avevano spinto Washington al blocco e al mantenimento del contatto fra Washington e Mosca» 42. Fanfani proseguì: proprio nel momento in cui più intensi si svolgono i dialoghi per il disarmo e la tregua nucleare, appaiono contraddittori gli atti rivolti a creare basi dove non esistono, ad accrescere preoccupazioni ove già ne esistono, ad aggravare il già troppo precario equilibrio, dal cui mantenimento, in attesa di auspicabili ragionevoli e leali accordi, dipende ancora la malferma pace del mondo. L’Italia giudica positivo il fatto che il governo degli Stati Uniti abbia chiesto all’Onu di decidere un intervento che sotto controllo internazionale accerti ed elimini le cause dell’allarme stesso43.

22 Tornato a Roma, Piccioni convocò gli ambasciatori statunitense e sovietico, poi inviò Carlo Russo, sottosegretario agli Esteri, a New York per seguire le trattative e dirigere la delegazione italiana alle Nazioni Unite con l’incarico di favorire l’azione del segretario generale U Thant.

23 Il 26 ottobre, giorno in cui Kennedy ricevette la lettera privata di Chruščëv che gli proponeva la smobilitazione in cambio dell’assicurazione di non invadere Cuba, Russo incontrò l’ambasciatore americano presso l’Onu Adlai Stevenson, che lo ringraziò per le parole di appoggio agli Stati Uniti pronunciate in Parlamento da Fanfani e gli chiese un giudizio sull’ipotesi di uno scambio tra il ritiro dei missili nell’isola caraibica e di quelli in basi europee, specie se superati44. Russo interpretò questa richiesta come puramente esplorativa e rispose che sarebbe stato preferibile negoziare la smobilitazione delle postazioni missilistiche europee nel quadro della conclusione delle trattative sul disarmo, ma non opporre ostacoli di principio. L’Italia seguì l’evoluzione della crisi e cercò di incoraggiare i negoziati principalmente dal foro delle Nazioni Unite, dove U Thant stava trattando per evitare l’escalation nucleare. Il segretario generale dell’Onu aveva rivolto il 24 ottobre un appello a Chruščëv, chiedendo la sospensione dell’invio di armi, e a Kennedy, domandando la dilazione del blocco navale. Nei giorni successivi proseguì la febbrile attività del palazzo di vetro per una mediazione e un’individuazione delle misure di controllo e di assicurazione reciproca fra Stati Uniti e Unione Sovietica.

24 Kennedy non fece ricorso alle Nazioni Unite e rispose ufficialmente al messaggio di Chruščëv del 26 ottobre dichiarando la disponibilità a non invadere l’isola e la generica condiscendenza a lavorare per un accordo più generale riguardante altri armamenti. Simultaneamente Robert Kennedy, ministro degli Esteri di Washington, incontrò l’ambasciatore sovietico Dobrynin al ministero di Giustizia accordandosi sul compromesso sostanziale che prevedeva lo smantellamento dei missili in Turchia, e accessoriamente in Italia, in cambio della smobilitazione da Cuba45. L’amministrazione statunitense conosceva la posizione del governo italiano che, diversamente da quello turco, era favorevole al ritiro dei Jupiter, auspicandone la sostituzione con mezzi più adeguati e sicuri46. Il ministro della Difesa, Andreotti, aveva ripetutamente ribadito tale disponibilità e, proprio alla vigilia dei fatti di Cuba, lo aveva confermato a McNamara47. L’esecutivo di Roma sosteneva, infatti, con forza una soluzione pacifica alla crisi ed era a tal fine impegnato sul fronte delle trattative all’Onu. Sia nella lettera a Kennedy che nell’intervento in Parlamento Fanfani aveva appoggiato la soluzione negoziale ed espresso la condiscendenza all’apertura di colloqui su tutte le questioni che erano suscettibili di turbare la pace internazionale.

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25 La posizione assunta dal presidente del Consiglio e dal suo governo erano, inoltre, congeniali anche per l’effettiva convergenza della posizione governativa con quella dei socialisti. Nel Psi la corrente degli autonomisti, guidata da Nenni, si schierò su posizioni pacifiste, chiedendo un serrato dialogo tra Stati Uniti e Unione Sovietica e il ricorso alla mediazione dell’Onu48. Si trattava di una posizione coerente con quanto era emerso in occasione dell’ultimo congresso socialista, il XXXIV, tenutosi a Milano fra il 15 e il 19 marzo del 1961. In questa circostanza, la contrapposizione fra autonomisti nenniani – la cui linea sarebbe prevalsa con duecentosettantamila voti favorevoli e duecentocinquemila contrari49 – e sinistre interne si era manifestata duramente. In politica interna, Nenni aveva accelerato la marcia verso l’area democratica, staccandosi in maniera netta dai comunisti, tanto sul piano ideologico quanto su quello politico. Viceversa, le sinistre interne, guidate da Basso e Vecchietti, «pur facendo dichiarazioni di adesione alla politica di autonomia del partito, tentavano di fatto di ricondurre il Psi su posizioni di solidarietà e in definitiva di subordinazione nei confronti dei comunisti» 50. In politica estera, gli autonomisti si presentarono come difensori del Patto Atlantico, ritenuto fattore oramai ineliminabile per un paese come l’Italia, geograficamente e culturalmente occidentale. Tale posizione si scontrò accesamente con quella delle sinistre interne, filo-comuniste e ostili alla Nato51. A complicare ulteriormente il quadro intervenne, circa un anno più tardi, la posizione dell’autonomista Riccardo Lombardi che, l’11 gennaio 1962 presso il Comitato centrale del Psi, sottolineò come i socialisti accettassero la Nato solo in chiave difensiva. Tale posizione era già stata chiaramente espressa da Nenni. Lombardi la riprese, precisando, tuttavia, che l’espressione «difensiva» era da intendersi esclusivamente come monito a non favorire un riarmo tedesco52.

26 Ad ogni modo, durante la crisi di Cuba, le perplessità italiane circa il ricorso di Washington alla quarantena e il costante riferimento alle Nazioni Unite quale foro competente per il negoziato si conciliavano, di fatto, con le manovre politiche interne. Tuttavia è necessario sottolineare come esse rispondessero altresì ad alcuni basilari obiettivi di politica estera, svincolati dalle considerazioni relative alle alleanze domestiche. L’Italia fu, infatti, costantemente una tenace sostenitrice del ruolo dell’Onu per attutire la tensione est-ovest e per gestire le crisi bipolari.

27 L’adesione totale dell’Italia alle decisioni statunitensi circa la risoluzione della crisi e la corrispondenza delle posizioni dei due esecutivi portò un “atlantista” intransigente quale Sergio Fenoaltea, ambasciatore a Washington, a descrivere così i rapporti tra i due Stati: «L’amministrazione Kennedy ha una grande fiducia verso il primo ministro Fanfani e considera l’Italia, soprattutto con Fanfani alla sua guida, come uno dei suoi alleati più fedeli e più importanti»53. Fenoaltea telegrafò a Roma dopo il discorso del presidente del Consiglio al Parlamento, comunicando che esso era stato ben accolto alla Casa Bianca ed era stato interpretato come la manifestazione di un appoggio totale a Kennedy.

28 Più sfumato fu l’apprezzamento nei confronti italiani del dipartimento di Stato americano, per i distinguo che avevano caratterizzato la posizione di Roma rispetto a Washington nel corso della crisi54. Qui si giudicava che i motivi dell’appoggio incondizionato fossero da ricercarsi nella necessità di rafforzare politicamente l’asse di centro-sinistra, nell’orgoglio nazionale e nella maggiore prosperità del paese. Tali fattori, anche se nel complesso positivi, avrebbero comportato in futuro un appoggio meno scontato e totale dell’Italia alla politica statunitense55.

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29 Diverso fu invece il giudizio che ne diedero alcuni organi di stampa italiani, che considerarono l’intervento governativo come manifestazione di una pericolosa tendenza al neutralismo e all’indebolimento dell’Alleanza atlantica56. Nel dibattito alla Camera sul bilancio degli Esteri, che si svolse dal 26 al 30 ottobre, si delinearono posizioni molto variegate e al governo pervennero critiche da settori della destra, anche interni alla Dc, che accusarono l’esecutivo di aver sostenuto troppo timidamente gli Stati Uniti57. Il deputato del Pri Randolfo Pacciardi parlò a tal proposito di «svuotamento dall’interno» dell’Alleanza58. Nel Psi emerse il travaglio dell’avvicinamento all’area governativa e del definitivo abbandono dell’alleanza con i comunisti. I socialisti autonomisti mostrarono, infatti, comprensione per l’orientamento dell’esecutivo e ribadirono che esso dimostrava che anche nella cornice della Nato c’era posto per iniziative di pace. I socialisti di sinistra si unirono invece al Pci nello stigmatizzare il moderatismo del governo59.

30 Concludendo il dibattito, Piccioni disse il 30 ottobre che il governo italiano si era sempre mostrato favorevole ai negoziati nel quadro Onu e che non aveva cessato di lavorare in tal senso. Affermò poi: «Il sottosegretario Russo ha trasmesso l’incoraggiamento dell’Italia all’azione conciliativa del segretario generale dell’Onu, U Thant; al tempo stesso abbiamo fatto conoscere alle parti più direttamente interessate nel conflitto il nostro desiderio di una soluzione pacifica. La solidarietà tra alleati atlantici si è rivelata totale»60.

31 Se dal punto di vista interno la crisi di Cuba rappresentò in Italia un momento di coesione tra le forze che promuovevano il centro-sinistra e di dissenso con i gruppi che, sia a destra che a sinistra, vi si opponevano, dal punto di vista delle relazioni internazionali costituì un momento di non minore importanza. Gli Stati Uniti, infatti, dopo lunghi mesi di progressivo avvicinamento e maturazione di una disposizione favorevole, si decisero ad appoggiare più apertamente l’esperimento dell’apertura ai socialisti, constatando che la coalizione che si veniva a formare in Italia aveva dimostrato di reggere alla prova dell’atlantismo ed aveva assicurato il totale sostegno alle decisioni della Casa Bianca61. Testimonianza di ciò risiede nel fatto che quando Fanfani, nel gennaio 1963, si recò negli Stati Uniti, fu accolto a Washington con grande cordialità62, per una visita durante la quale «furono verosimilmente discusse sia le questioni riguardanti lo smantellamento dei Jupiter sia le scelte politiche che avrebbero successivamente governato l’Italia»63.

4. Conclusioni

32 Secondo Sergio Romano, il centro-sinistra […] divenne gradito a Washington nel momento in cui fu chiaro che la nuova costellazione [il governo Fanfani IV] […] sarebbe stata ancora più infeudata all’America, per certi aspetti, del vecchio centrismo degasperiano. L’Italia era, infatti, la più piccola e la più debole delle grandi potenze, ma poteva sfruttare la forza degli altri e concorrere a risultati in cui il suo ruolo sarebbe stato valorizzato […] Era, quella di Fanfani, la versione aggiornata e volontaristica di quella politica del peso determinante che il paese aveva praticato per gran parte della sua storia unitaria64.

33 Leopoldo Nuti, dal canto suo, ricorda che «in ogni discussione sulla politica estera di un futuro governo di centro-sinistra, la questione centrale era sempre la stessa: quale atteggiamento avrebbe assunto un governo di centro-sinistra nei confronti

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dell’Alleanza atlantica?»65. Le parole di questi due autorevoli studiosi dei rapporti italo- americani e più in generale delle relazioni di Roma con il resto del mondo, mettono in risalto ciò che si è cercato di evidenziare in questa ricerca, ovvero l’intima connessione esistente tra questioni domestiche italiane e politica estera. Si tratta di un dualismo che affonda le sue radici nella seconda metà del XIX secolo: Romano allude a un fil rouge che da Cavour giunge sino ad Amintore Fanfani per poi proseguire e arrivare ai giorni nostri. Il tradizionale "pendolarismo" italiano, fatto di machiavellismo e razionalità, costituisce, infatti, una costante della tradizione diplomatica del paese. Per dare credito a tale tesi si può partire addirittura dal 1855, quando Cavour e i dirigenti piemontesi vararono l’invio di truppe nella lontana Crimea allo scopo, raggiunto dati gli esiti successivi, di favorire il processo di unificazione nazionale. Ancora, si può pensare alla celebre enunciazione del più volte ministro degli Esteri Emilio Visconti-Venosta che, con fredda lucidità, amava sottolineare la necessità per gli italiani di essere «indipendenti sempre, isolati mai». Furono poi e, soprattutto, , vero astro della politica del peso determinante, a cercare di fare dell’Italia l’ago della bilancia durante le due guerre mondiali.

34 Successivamente, nel secondo dopoguerra, il paese si trovò nella necessità di prendere posizione nell’ambito del bipolarismo emerso dopo gli eventi bellici. La scelta a "stelle e strisce" trovò il suo momento emblematico nel viaggio di De Gasperi a Washington del 1947. Da allora il primato dell’atlantismo nella politica estera italiana fu indubbio, nonostante le perplessità avanzate da diverse parti politiche, non solo della sinistra (si pensi a quei settori interni alla Dc che, sedotti dal neutralismo e dal non allineamento, osteggiarono l’ingresso nella Nato66). La testimonianza più rilevante dell’assoluta fedeltà agli Stati Uniti si deve probabilmente rintracciare proprio nel periodo considerato in questo lavoro. A cavallo fra la seconda metà degli anni Cinquanta e la formazione del primo governo di apertura al Psi, infatti, le questioni interne furono affrontate da Palazzo Chigi sempre con estrema cautela, attenzione volta a comprendere se le dinamiche italiane fossero gradite e approvate dalla Casa Bianca. In politica estera, inoltre, per Roma si dimostrò evidente che l’unica possibilità di concorrere alle scelte fondamentali dell’Alleanza e al suo dispositivo di difesa nucleare era quella di appoggiare le proposte statunitensi, orientate ad una maggiore integrazione ed al controllo americano sull’arsenale atomico della Nato. Per questo l’Italia, sotto la guida del secondo esecutivo Fanfani, accettò di ospitare sul suo territorio missili a media gittata provenienti da Washington e gestiti da un sistema che prevedeva il simultaneo consenso della Casa Bianca e di Roma per il loro utilizzo.

35 Durante la crisi di Cuba, Fanfani si strinse ancora di più attorno al blocco occidentale. Prima, il 23 ottobre, si rivolse a Kennedy con una missiva colma di parole piene di riguardo nei confronti del “grande alleato”, che informò del suo pieno sostegno; poi non oppose alcuna resistenza alla rimozione dei Jupiter, che pure costituivano il simbolo tangibile dell’importanza che Washington conferiva al partner italiano, oltre che uno strumento concreto di difesa in caso di attacco sovietico. Quando gli Stati Uniti proposero il ritiro dei vettori, i dirigenti italiani accolsero la richiesta, non volendo contrastare gli interessi fondamentali dell’amministrazione americana. «Anche se consapevoli che il ritiro dei missili Jupiter era stato oggetto di trattativa segreta tra i sovietici e gli americani, mantennero un contegno riservato, accettando la versione ufficiale statunitense che il ritiro era dovuto all’obsolescenza di quel sistema difensivo» 67.

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36 Fanfani e il suo entourage compresero che un’eventuale azione di opposizione alle decisioni americane sarebbe stata tanto inutile quanto dannosa per il paese, che avrebbe rischiato di subire ritorsioni e di compromettere, di fatto, tutto il lavoro diplomatico che, da De Gasperi in avanti, gli statisti italiani avevano condotto allo scopo di ottenere la benevolenza di Washington. Per questo il governo di Roma decise intelligentemente di assecondare Kennedy che, in cambio, sostenne senza indugi il connubio Dc-Psi. La nuova coalizione di governo, in una situazione delicata come quella dell’ottobre 1962, aveva dimostrato di saper agire con compattezza e, soprattutto, nel pieno rispetto della fedeltà atlantica. Furono proprio gli sviluppi della crisi cubana a far comprendere definitivamente agli Stati Uniti come il centro-sinistra costituisse «una formula […] decisamente migliore, dal punto di vista americano, di tutte le altre alternative disponibili»68.

NOTE

1. DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, Firenze, Polistampa, 2010, p. 421. 2. L’Icbm, acronimo dell’espressione inglese Intercontinental Ballistic Missile, è un missile balistico per il trasporto a lungo raggio di ordigni nucleari. Esso si distingue da altri missili balistici, come gli Irbm (Intermediate Range Ballistic Missile) e gli Srbm (Short Range Ballistic Missile), per la sua ampia gittata, superiore a cinquemila km. Cfr. CARTER, Ashton, SCHWARTZ, David, Ballistic Missile Defense, Washington, The Brookings Institution, 1984, pp. 122-153. Il primo Icbm della storia, l’R-7 Semërka, fu lanciato in orbita dai sovietici il 21 agosto 1957. Cfr. GADDIS, John Lewis, La guerra fredda: rivelazioni e riflessioni, Milano, Mondadori, 2007, p. 471. 3. Cfr. NASH, Philip, The other missiles of october: Eisenhower, Kennedy and the Jupiters 1957-1963, London, North Carolina University Press, 1997, p. 13. 4. SCHWARTZ, David, NATO’s Nuclear Dilemmas, Washington, The Brookings Institution, 1983, p. 35. 5. «Durante il Consiglio atlantico di Parigi del 16-19 dicembre 1957, gli Stati Uniti, per superare il cosiddetto missile gap, proposero la dislocazione di missili del tipo Jupiter e Thor in alcuni paesi europei, fra cui l’Italia». FERRARIS, Luigi Vittorio, Manuale della politica estera italiana, Bari, Laterza, 1996, p. 113. 6. Cfr. NUTI, Leopoldo, La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche 1945-1991, Bologna, Il Mulino, 2007, p. 139. 7. Il summit alle Bermuda fu organizzato congiuntamente da MacMillan ed Eisenhower per dimostrare pubblicamente il permanere di buoni rapporti fra Londra e Washington, dopo che gli eventi di Suez dell’anno precedente avevano fatto sorgere delle frizioni fra le due amministrazioni. In questa circostanza, dopo aver ricordato cordialmente il servizio militare prestato fianco a fianco in nord Africa durante la seconda guerra mondiale, i due leader discussero della questione mediorientale e raggiunsero un accordo in base al quale MacMillan si impegnava a ospitare sul suolo britannico sessanta missili statunitensi Irbm del tipo Thor. Cfr. MAMMARELLA, Giuseppe, Europa-Stati Uniti. Un’alleanza difficile (1945-1973), Firenze, Vallecchi, 1973, p. 198. 8. «In early 1957, Eisenhower formally accepted the principle of providing the British with Irbm. He did not insist or even suggest at the time that these missiles would be subject to Nato control.

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The agreement with Britain simply called for missiles to be “made available by the United States for use by British forces” and said nothing at all about Nato. It was clear that Eisenhower intended to treat the British generously. In late 1957, he wanted to “take the British into the fold on the basis of mutual confidence”, and called for a full exchange of information». TRACHTENBERG, Marc, A Construed Peace. The Making of the European Settlement 1945-1963, Princeton, Princeton University Press, 1999, pp. 207-208. 9. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, Roma, Edizioni Associate, 2003, p. 12. 10. «The Thors might convince the British to abandon Blue Streak. This would indirectly strengthen Western defense by preventing wasteful duplication and preserving British funds for conventional forces, while it would also head off what might become a fully independent British missile capability». NASH, Philip, The other missiles of october: Eisenhower, Kennedy and the Jupiters 1957-1963, cit., pp. 10-11. 11. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., p. 13. 12. Il McMahon Act (noto anche come Atomic Energy Act) fu firmato dal presidente Harry Truman nell’agosto 1946 ed entrò in vigore nel gennaio dell’anno successivo. Ispirato dal senatore democratico del Connecticut Brien McMahon, tale provvedimento affermò il monopolio di Washington nella gestione e nel controllo della tecnologia nucleare sviluppata congiuntamente da Stati Uniti, Gran Bretagna e Canada durante il secondo conflitto mondiale. Cfr. LEVI, Edward Hirsch, Memories about the McMahon Act, Chicago, University of Chicago Press, 1984, pp. 1-3. 13. Cfr. NASH, Philip, The other missiles of october: Eisenhower, Kennedy and the Jupiters 1957-1963, cit., p. 12. 14. In un discorso ufficiale dell’ottobre 1957 Eisenhower enunciò chiaramente le sue perplessità riguardo il McMahon Act: «‘The Atomic Energy Act had been a great mistake. The policy it mandated seemed to run counter to common sense’, he told De Gaulle in September 1959. ‘The law’, he told the French leader a few months later, was ‘somewhat absurd’. […] The president took exactly the same line in meetings with United States officials. In May 1959, for example, he complained about being handcuffed by the ‘senseless limitations’ Congress had placed on the administration». TRACHTENBERG, Marc, A Construed Peace. The Making of the European Settlement 1945-1963, cit., p. 197. 15. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., p. 14. 16. TRACHTENBER, Marc, A Construed Peace. The Making of the European Settlement 1945-1963, cit., pp. 201-203. 17. Cfr. NASH, Philip, The other missiles of october: Eisenhower, Kennedy and the Jupiters 1957-1963, cit., p. 18. 18. Cfr. Ibidem. 19. Cfr. SCHWARTZ, David, NATO’s Nuclear Dilemmas, cit., pp. 69-70. 20. Cfr. NASH, Philip, The other missiles of october: Eisenhower, Kennedy and the Jupiters 1957-1963, cit., pp. 53-56. 21. Ibidem. 22. Cfr. NUTI, Leopoldo, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra: importanza e limiti della presenza americana in Italia, Bari, Laterza, 1999, p. 128. 23. Cfr. Ibidem, pp. 130-155. A due mesi dalla nomina a capo del governo, il 27 luglio 1958, Fanfani rilasciò un’intervista al Washington Post nella quale dichiarò a chiare lettere la fedeltà italiana nei confronti della Casa Bianca. Lo statista aretino affermò: «La più completa e operante solidarietà atlantica è, oggi come ieri, la stella polare della politica estera italiana». WOLLEMBORG, Leo, Stelle, strisce e tricolore. Trent’anni di vicende politiche fra Roma e Washington, Milano, Mondadori, 1983, p. 65.

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24. Cfr. NUTI, Leopoldo, «Dall’operazione Deep Rock all’operazione Pot Pie: una storia documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia», in Storia delle Relazioni Internazionali, 1, 1996-1997, p. 107. 25. Ibidem, pp. 146-147. 26. Cfr. CORALLUZZO, Valter, La politica estera dell’Italia repubblicana 1946-1992. Modello di analisi e studio di casi, Milano, Franco Angeli, 2000, p. 116. 27. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., p. 18. 28. «[…] Fanfani aveva chiesto che l’accordo fosse perfezionato nella forma di uno scambio di note, per evitarne il passaggio parlamentare e le prevedibili polemiche delle sinistre. […] Gli Stati Uniti acconsentirono a tale richiesta e l’intesa fu siglata il 26 marzo 1959 con uno scambio di note tra il ministro degli Esteri Pella e l’ambasciatore americano a Roma Zellerbach. Se fu possibile aggirare il voto delle Camere con l’artificio dello scambio di note non si evitarono però le polemiche. La reazione in Parlamento fu vivace e trovò concordi i deputati comunisti e socialisti, seppur con numerosi distinguo, nello stigmatizzare l’accordo che portava l’Italia, secondo la valutazione dei parlamentari dell’opposizione di sinistra, ad abdicare alla sovranità nazionale e ad esporsi al rischio di distruzione atomica. […] Successivamente anche le dichiarazioni di Pella a Washington in occasione della riunione convocata per il decimo anniversario della Nato suscitarono una vivace polemica per lo spirito bellicoso che le sinistre attribuivano al governo. Il ministro aveva affermato: 'Se mia figlia dovesse correre il rischio di vivere in un mondo comunista, io come padre scelgo per la mia bambina piuttosto il rischio della bomba atomica'». MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), Milano, Guerrini e Associati, 2008, pp. 114-115. L’accordo raggiunto fra Roma e Washington «poneva le basi per la dislocazione sul territorio italiano di 30 missili a media gittata […] Jupiter, che sarebbero divenuti operativi sin dal 1960, prima dell’ascesa alla presidenza di Kennedy». DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit., p. 424. 29. Cfr. NUTI, Leopoldo, «Dall’operazione Deep Rock all’operazione Pot Pie: una storia documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia», cit., pp. 97-101. 30. Ibidem, p. 102. 31. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., pp. 19-20. 32. Cfr. TRACHTENBERG, Marc, A Construed Peace. The Making of the European Settlement 1945-1963, cit., pp. 146-200. 33. In particolare durante le trattative si stabilì che il governo americano avrebbe contribuito all’operazione con una somma totale di oltre dodici milioni di dollari, più una quota ulteriore destinata agli imprevisti. A ciò si sarebbe aggiunta anche la fornitura di materiali e servizi per lo stesso ammontare, mentre il governo italiano si impegnò a finanziare la costruzione delle strutture delle basi missilistiche, il loro funzionamento e la loro manutenzione per una spesa annua di circa nove milioni di dollari. Cfr. NUTI, Leopoldo, «Dall’operazione Deep Rock all’operazione Pot Pie: una storia documentata dei missili SM 78 Jupiter in Italia», cit., pp. 111-112. 34. Le dieci località erano: Acquaviva delle Fonti, Altamura (Castel Sabini e Santeramo), Gioia del Colle e Gravina in Puglia, Laterza, Mottola e Spinazzola in Puglia; Irsina e Matera in Basilicata. Cfr. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., p. 10. 35. La strategia della flexible response prevedeva risposte proporzionali, da parte della Casa Bianca, in base alla gravità delle situazioni da affrontare. Si trattava di un’inversione di tendenza rispetto alla massive retaliation, sostenuta in precedenza dall’amministrazione Eisenhower, e richiedente risposte militari rapide e decise dinanzi ad ogni minaccia nemica. Cfr. DAALDER, Ivo, The Nature and Practice of Flexible Response. Nato Strategy and Theater Nuclear Forces since 1967, New York, Columbia University Press, 1991, pp. 4-16. 36. Cfr. SORRENTI, Deborah, L’Italia nella guerra fredda. La storia dei missili Jupiter, cit., p. 21.

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37. «Kennedy hoped the two major powers could find some way to live with each other in peace […] A European force that included a German contingent was out of the question, because it meant in the final analysis a German finger on the nuclear trigger, and a force built up from British and French contingents alone would scarcely solve Germany’s security problem, or lead the Germans to accept a permanent non-nuclear status. […] The assumption was that the development of a German nuclear force would be a source of instability both in itself and because of the likely Soviet reaction. […] And that general policy implied that the U.S. government would have to tighten control over American nuclear weapons with the Nato forces in Europe. The deployment of American strategic missiles on European soil would also have to be opposed, because these weapons might fall too easily into the hand of host country forces». TRACHTENBERG, Marc, A Construed Peace. The Making of the European Settlement 1945-1963, cit., pp. 283-285. 38. Del comitato, ufficializzato il 16 ottobre, facevano parte il numero due della Casa Bianca Lyndon Johnson, il segretario di Stato Dean Rusk, il segretario della Difesa Robert McNamara, il direttore della Cia John McCone, Robert Kennedy e i più stretti consiglieri del presidente. Cfr. SMITH, Thomas, Encyclopedia of the Central Intelligence Agency, New York, Facts on File, 2003, p. 90. 39. Cfr. NUTI, Leopoldo, L’Italie et les missiles Jupiter, in VAÏSSE, Maurice (a cura di), L’Europe et la crise de Cuba, Parigi, Armand Colin, 1993, p. 140. In particolare l’Excomm stabilì, in caso di via libera all’offensiva sull’isola caraibica, di avvertire preventivamente MacMillan, Adenauer, De Gaulle e, solo nell’imminenza dell’attacco, Fanfani e i turchi. La decisione di informare Palazzo Chigi solo all’ultimo momento era dettata dalla volontà di impedire che Roma tentasse di opporsi all’eventuale offensiva statunitense. Cfr. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit., p. 390. 40. Lettera di Amintore Fanfani a John F. Kennedy, Roma, 23 ottobre 1962, citata in GENTILONI SILVERI, Umberto, Fanfani visto da Washington, in GIOVAGNOLI, Agostino, TOSI, Luciano (a cura di), Amintore Fanfani e la politica estera italiana: atti del convegno di studi (Roma, 3-4 febbraio 2009), Venezia, Marsilio, 2010, pp. 113-114. 41. Come ha ricordato Evelina Martelli, «la concomitanza della crisi di Cuba fece sì che nella riunione fossero discusse principalmente le questioni internazionali ed in particolare le possibili ripercussioni della crisi nei Carabi su Berlino» mentre, invece, «non furono fatti progressi nelle trattative europee». MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit. p. 391. 42. Ibidem. 43. VILLANI, Angela, L’Italia e l’ONU negli anni della coesistenza competitiva (1955-1968), Padova, Cedam, 2007, p. 166. 44. Cfr. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit., p. 392. In realtà quella avanzata da Stevenson era, per i dirigenti della Casa Bianca, più che una semplice ipotesi. La necessità di rimuovere le basi statunitensi in Europa in cambio di un’azione analoga dei sovietici a Cuba, era emersa come unica soluzione alla crisi fin dalla metà di ottobre: «Sin dal 19 ottobre McNamara sostenne la necessità di un compromesso basato sulla rinuncia alle basi turche ed italiane, spingendosi persino ad ipotizzare una rinuncia alla base americana di Guantanamo, nell’isola di Cuba. Una posizione, questa, condivisa anche da Adlai Stevenson […]. A tale ipotesi si opponevano risolutamente soltanto i militari ed alcuni "falchi" della diplomazia americana [tutti presenti all’interno dell’Excomm], come Paul Nitzte [assistente del segretario alla Difesa per gli affari internazionali di sicurezza], Maxwell Taylor [membro dello Stato Maggiore statunitense] e Douglas Dillon [segretario del Tesoro]. Lo stesso presidente Kennedy condivideva questa posizione». DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit., p. 428. 45. «Uno dei momenti centrali per l’evoluzione della crisi fu l’impegno segreto, preso da Robert F. Kennedy il 27 ottobre […] con il nuovo ambasciatore sovietico a Washington Anatoly Dobrynin,

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di smantellare le basi di missili Jupiter situate sul territorio della Turchia e, in subordine, anche quelli posti in Italia, entro un termine ragionevole, dopo il ritiro dei missili sovietici da Cuba». DI NOLFO, Ennio, L’Italie et la crise de Cuba en 1962, in VAÏSSE, Maurice (sous la dir. de), L’Europe et la crise de Cuba, cit., p. 109. 46. La disponibilità italiana era ben nota all’amministrazione statunitense. A tal proposito l’ambasciatore americano alla Nato, Thomas K. Finletter, in una lettera indirizzata a Rusk, scriveva: «L’ipotesi di smobilitare i missili da Turchia ed Italia presenta problemi specialmente in relazione ad Ankara, che non sembra interessata all’obsolescenza dei mezzi ed al fatto che sono facili bersagli quanto piuttosto al fatto che essi rappresentano la garanzia americana contro l’invasione dell’Unione Sovietica. Sembra pertanto preferibile, essendo Cuba fuori dall’area Nato, proporre la smobilitazione di basi esterne a tale area. Ci sembra che invece gli italiani siano più propensi a smantellare i missili Jupiter, se si trova un’adeguata sostituzione». KEEFER, Edward, Cuban Missile Crisis and Aftermath, Washington, United States Government Printing Office, 1997, p. 202. Analogamente l’ambasciata statunitense a Roma comunicava, il 26 ottobre, che la rimozione dei missili dall’Italia «sarebbe probabilmente fattibile», essendo sufficiente che il governo di Washington consultasse preventivamente quello italiano. Cfr. Ibidem, p. 215. 47. Cfr. KEEFER, Edward, Cuban Missile Crisis and Aftermath, cit., p. 205. «Andreotti incontrò McNamara alla vigilia della crisi e gli disse che gli italiani sarebbero stati lieti di rinunciare ai vecchi missili, se gli americani lo avessero voluto». DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit., p. 428. 48. «Il governo di centro-sinistra italiano accettò la quarantena [decretata da Kennedy alle navi sovietiche in rotta verso Cuba] con una certa reticenza. Durante la crisi, soprattutto all’interno del palazzo di vetro, esso fece il possibile per migliorare le relazioni con i sovietici e per spingere Kennedy verso un negoziato con Chruščëv. Quando, il 27 ottobre, l’attacco americano parve imminente, il primo ministro democristiano, Amintore Fanfani, chiese a Kennedy di rinviare la scadenza dell’ultimatum e si dichiarò favorevole a un compromesso concernente i Jupiter dislocati in Turchia. Il Psi, dal quale dipendeva il fragile equilibrio della coalizione, aveva condannato la quarantena e senza dubbio aveva incoraggiato negoziati che mettessero fine alla crisi». BERNSTEIN, Barton Bernstein, «The Cuban Missile Crisis: Trading the Jupiter in Turkey?», in Political Science Quarterly, 95, 1/1980, p. 101. 49. Cfr. PARTITO SOCIALISTA ITALIANO, 34° Congresso nazionale, Milano, Ed. Avanti!, 1961, p. 9. 50. D’AURIA, Elio, Gli anni della «difficile alternativa». Storia della politica italiana 1956-1976, Napoli, ESI, 1983, p. 108. 51. Cfr. VOULGARIS, Yannis, L’Italia del centro-sinistra (1960-1968), Roma, Carocci, 1998, pp. 111-116. 52. Cfr. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit., pp. 340-341. 53. DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit., p. 431. 54. Il Dipartimento di Stato di Washington, infatti, si era espresso contrariamente all’intervento dell’Onu, richiesto invece a più riprese da Fanfani. Cfr. VILLANI, Angela, L’Italia e l’ONU negli anni della coesistenza competitiva (1955-1968), cit., p. 166. 55. Cfr. NUTI, Leopoldo, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra: importanza e limiti della presenza americana in Italia, cit., p. 551. Agli occhi del dipartimento di Stato e della diplomazia statunitense (in particolare dell’ambasciata a Roma), l’azione del governo italiano era stata pesantemente condizionata dall’atteggiamento di Nenni che, non volendo perdere terreno rispetto ai comunisti in vista delle prossime elezioni politiche, aveva aderito ad una linea dichiaratamente filo- statunitense. Tuttavia, secondo i funzionari di Washington, tale posizione, non essendo altro che il frutto di scelte di convenienza, sarebbe potuta venir meno in breve tempo e con grande facilità. Cfr. DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit., p. 432. La diffidenza del dipartimento di Stato nei confronti dei socialisti si evince da una missiva inviata alla fine dell’ottobre 1962 da Arthur Schlesinger, come si è detto fra i maggiori fautori dell’apertura a sinistra in Italia, a McGeorge

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Bundy, National Security Advisor del presidente Kennedy: «Da quindici mesi [scriveva Schlesinger] la Casa Bianca si sforza di convincere il dipartimento di Stato che un atteggiamento di simpatia verso i socialisti di Nenni favorirebbe gli interessi degli Stati Uniti e delle democrazie occidentali. […] Durante tutto questo periodo quasi tutti gli eventi hanno dimostrato la fondatezza della nostra opinione secondo la quale i socialisti di Nenni hanno definitivamente rotto i ponti con i comunisti e sono risoluti a far aderire il loro partito alla causa della democrazia. […] Ciò nonostante, durante questo periodo il Dipartimento di Stato ha ostacolato ogni possibilità d’intesa tale da accelerare l’inserimento dei socialisti nel campo democratico». DI SCALA, Spencer, Renewing Italian Socialism. Nenni to Craxi, New York, Oxford University Press, 1988, p. 93. 56. Fra gli altri, «Il Giornale d’Italia», avrebbe commentato in data 18 novembre: «La linea della nostra politica estera inquieta i gruppi più coscienti […] della Democrazia cristiana […]. Non è esagerato affermare che alcuni settori della Democrazia cristiana, suggestionati e spinti dal neutralismo del Psi, stanno divenendo, non neutralisti, ma "pacifisti". Dal pacifismo a un atlantismo emascolato e inerte non c’è che un passo: più esattamente, non v’è alcun passo, sono la stessa cosa». Citato in MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit., pp. 395-396. 57. «La destra interna al partito e anche la maggioranza dei "dorotei" entrarono in fibrillazione ai primi segni di ammorbidimento della rigorosa fedeltà italiana all’alleato d’oltreoceano, ritenendo l’atteggiamento di Fanfani del tutto strumentale, atto solo a compiacere l’alleato socialista. All’ambasciata americana fu riferito che Moro aveva addirittura minacciato le dimissioni da segretario della Dc per far rientrare la critica, definita una vera e propria 'rivolta della destra interna per l’annacquamento delle posizioni del governo su Cuba'. Ancor più duramente, Flaminio Piccoli [deputato democristiano esponente di spicco dei "dorotei"] andò a sostenere di fronte ai funzionari statunitensi che Fanfani era inaffidabile, perché dietro la vantata amicizia con Kennedy stavano le tendenze, sue e del suo gruppo, a volere un’Italia neutrale ed equidistante. Completava il quadro […] il nervosismo crescente del nuovo presidente della Repubblica Segni, che più volte cercò di scavalcare il governo […] per correggere a destra la politica estera del governo». FORMIGONI, Guido, Fanfani, la Dc e la ricerca di un nuovo discorso di politica estera, in GIOVAGNOLI, Agostino, TOSI, Luciano (a cura di), Amintore Fanfani e la politica estera italiana: atti del convegno di studi (Roma, 3-4 febbraio 2009), cit., pp. 88-89. 58. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit., p. 395. 59. Cfr. WOLLEMBORG, Leo, Stelle, strisce e tricolore. Trent’anni di vicende politiche fra Roma e Washington, cit., pp. 136-151. 60. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), p. 395. 61. Cfr. NUTI, Leopoldo, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra: importanza e limiti della presenza americana in Italia, cit., pp. 545-553. 62. «Il 16 gennaio 1963, durante il brindisi al termine di una colazione alla Casa Bianca che vedeva Fanfani ospite ufficiale in qualità di presidente del Consiglio, dopo averne elogiato i notevoli meriti nella recente straordinaria rinascita del Paese dopo il 1945, [Kennedy] ne tratteggiò in modo efficace e sintetico la concezione di base: Esso mi rammenta un aneddoto di Abramo Lincoln. Dopo che egli fu eletto presidente, qualcuno disse: Signor Lincoln, che farete con i vostri nemici? Lincoln rispose: Li distruggerò. Li farò miei amici. Questo sta facendo in Italia il primo ministro [chiosò Kennedy con chiaro riferimento all’apertura democristiana nei confronti dei socialisti]». GENTILONI SILVERI, Umberto, Fanfani visto da Washington, in GIOVAGNOLI, Agostino, TOSI, Luciano (a cura di), Amintore Fanfani e la politica estera italiana: atti del convegno di studi (Roma, 3-4 febbraio 2009), cit., p. 114. 63. DI NOLFO, Ennio, La guerra fredda e l’Italia, cit., p. 431. 64. ROMANO, Sergio, Lo scambio ineguale. Italia e Stati Uniti da Wilson a Clinton, Bari, Laterza, 1995, p. 94.

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65. NUTI, Leopoldo, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra: importanza e limiti della presenza americana in Italia, cit., p. 423. 66. Nell’ambito della copiosa letteratura sul tema, cfr. FORMIGONI, Guido, La Democrazia cristiana e l’alleanza occidentale (1943-1953), Bologna, Il Mulino, 1996. 67. MARTELLI, Evelina, L’altro atlantismo: Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), cit., p. 445. 68. NUTI, Leopoldo, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra: importanza e limiti della presenza americana in Italia, cit., p. 665.

RIASSUNTI

Il presente saggio è incentrato sull’analisi del ruolo giocato dall’Italia durante uno dei momenti di maggiore attrito della guerra fredda: la crisi dei missili di Cuba. La scelta di questo tema deriva dalla volontà di esaminare un frangente della storia contemporanea particolarmente battuto, quale la tensione dell’ottobre 1962, alla luce dell’azione italiana nella crisi, quest’ultimo aspetto, invece, relativamente poco studiato. Obiettivo del lavoro è dimostrare da un lato l’impegno profuso da Roma per favorire una soluzione pacifica della contesa, dall’altro la profonda influenza che gli eventi cubani, e più in generale, l’acuirsi delle tensioni sovietico-statunitensi, ebbero sulle dinamiche politiche italiane.

The current essay is focused on the analysis of the role played by Italy during one of the most fractioning moment of the Cold War: the Cuban missile crisis. The choice of this topic derives from the willingness to examine a particularly studied period of the contemporary history, that is the tension of October 1962, in the light of the Italian action during the crisis (this latter relatively less studied). The aim of the work is to demonstrate from one side the strong effort made by Rome to promote a pacific solution of the dispute, from the other side the deep influence that the Cuban events and, in general, the increase of the Soviet-American tensions had on the Italian political dynamics.

INDICE

Keywords : Amintore Fanfani, Cuban missile crisis, Democrazia Cristiana, opening to the left, Partito Socialista Italiano Parole chiave : Amintore Fanfani, apertura a sinistra, crisi dei missili di Cuba, Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano

AUTORE

MATTEO ANASTASI

Ha conseguito la laurea in Storia presso l’Università Europea di Roma discutendo una tesi sull’attività del quarto governo di Amintore Fanfani. Attualmente si sta specializzando in Relazioni Internazionali presso l’Università LUISS Guido Carli, sotto la supervisione del professor

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Francesco Perfetti. I suoi campi di studio sono l’analisi del fenomeno politico dell’ apertura a sinistra nel dopoguerra e la storia diplomatica italiana.

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Mussolini, Franco y los judíos: una relación controvertida

David Pérez Guillén

Introdución

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1 Con este artículo pretendemos contribuir a la producción historiográfica de lo que Jaime Contreras definió, en uno de sus artículos, como «historiar a los judíos»1, y puesto que nos encontramos ante un artículo científico, con espacio limitado, no es posible, ni lo pretendemos, hacer una “historia total” de los judíos, como puede ser la obra de Paul Johnson, convertida ya en referencia mundial2. Lo que pretendemos, en palabras de Elder y Paul, hablando de la lógica de la Historia, es « crear una “historia” sobre el pasado que capture su dinámica»3, en este caso sobre el pasado de las comunidades judías españolas e italianas en la primera mitad del siglo XX.

2 Esta investigación, que se inscribe en el ámbito de la Historia Social Comparada, va más allá del estudio aislado de las comunidades judías en Italia y España bajo los regímenes dictatoriales de Mussolini y Franco, para comprobar si el trato aplicado a las comunidades judías afincadas en sus respectivos territorios fue similar o divergente. El análisis de la documentación recabada para este artículo permitirá comprobar esta realidad histórica4.

3 No son muchos los autores que han dedicado sus obras al estudio de los judíos en la Historia de la España Contemporánea, y de todos es conocido que el tema judaico ha interesado mucho más a medievalistas, y en los últimos años a arqueólogos, que a los historiadores cuya investigación se centra en los siglos XIX y, sobre todo, XX. No es de extrañar este hecho, pues ni siquiera la pregunta ¿qué son los judíos? es baladí, a pesar de su aparente inocencia. Como consecuencia directa de esto, la escasez de obras se hace especialmente evidente en el caso español, no tanto así en el italiano. Aun con ello, no podemos minusvalorar las obras que ya han sido publicadas, pues de no ser así, este tipo de investigaciones no se podrían llevar a cabo. Como decía Bernardo de Chartres, «somos enanos a hombros de gigantes», y si podemos ver más lejos, ir más allá, es gracias a la dedicación y el trabajo de los historiadores que nos han precedido: H. Avni, R. Rein, Lustiger o B. Rother, entre otros.

1. El caso italiano: un aliado del Tercer Reich

1.1 El pueblo judío italiano en el periodo prefascista

4 El periodo que se extiende desde 1900 a 1920 en Italia nos presenta a los judíos totalmente insertados en la sociedad italiana, sin ningún tipo de recelo; además, su presencia es importante, tanto cuantitativa como cualitativamente, haciéndose esto último especialmente evidente en la ocupación por judíos italianos de puestos políticos de especial delicadeza y de marcado carácter nacional, como pudieron ser la Presidencia del Consejo de Ministros (Luigi Luzzati), el Ministerio de Guerra (Giuseppe Ottolenghi) o el curioso caso del Ministerio de Gracia y Justicia y de los Cultos – de todos los cultos existentes- (Ludovico Mortara). No puede pasar desapercibido el hecho de encontrar a un judío como máximo encargado de los cultos, también del cristiano.

5 En palabras de Eugenio Artom, el judío «vive su vida de trabajo y su mentalidad basándose únicamente en la nación y no como miembro del colectivo hebraico,

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escogiendo la política, el arte, la filosofía, los partidos y las escuelas, aquéllos que mejor se correspondían con sus propias tendencias personales», mientras otros, además, «reniegan pertenecer a la religión de sus padres y abandonan la comunidad, proclamando el laicismo de su pensamiento y de su vida»5. Vemos que lejos de ser un grupo aislado y extraño, el judío era un italiano más, y su participación y compromiso con la sociedad italiana fue tan estrecha, que incluso lo encontramos en los partidos políticos, siendo curiosa su militancia en el Partido nacional fascista (Pnf) en los primero años pero, eso sí, sin llegar a ocupar puestos relevantes ni a formar parte de grupos dirigentes. Tal es su reconocimiento dentro de la sociedad, que Italia se pronunció oficialmente a favor de un «Centro nacional judío»6, hecho que constituyó para los judíos italianos un estímulo moderno y concreto en la redefinición de la propia pertenencia judía, italiana y judeo-italiana.

6 En cuanto al bando ideológico y político opuesto al Pnf, se puede observar la participación de judíos en el periódico antifascista Critica Sociale a través de los índices anuales de autores, al igual que está constatada la adhesión de un significativo número de ellos al manifiesto antifascista de Benedetto Croce (1 mayo 1925). En cambio, nada se sabe de la dimensión cuantitativa de la adhesión de los judíos a movimientos políticos de orientación marxista o liberal en estos años. A pesar de todo, y en opinión de Piero Treves, «los judíos antifascistas eran, respecto a los judíos fascistas o filofascistas, una proporción muy superior a la media nacional»7.

1.2 Las leyes raciales (1938): la persecución de los derechos

7 Los judíos italianos gozaban de una total emancipación jurídica desde el siglo XIX, en estrecha relación con el proceso del Risorgimento y la unidad nacional. Ya en 1930-1931 se sancionó la existencia de veinticinco comunidades judías, pertenecientes a la Ucii (Unione delle comunità israelitiche italiane), dirigida por un Consejo, una Junta y un Presidente. Esto no significaba estar al margen de la sociedad, siendo Ravenna quien reafirmaba la “italianidad” de todo el grupo dirigente de la Ucii: L’Unione cree que es un deber para los judíos libres como somos nosotros, participar, con el consenso del gobierno, en las reuniones y las conferencias […], adoptando medidas de orden económico, social y político, capaces de aliviar la miseria de los miles de perseguidos y resolver su grave problema moral y material8.

8 De hecho, antes de dar comienzo la persecución de los judíos en Italia, las fuentes indican que el número de matrimonios mixtos se situaba cerca de igualar al de matrimonios propiamente judíos, lo que supondrá un especial problema para los legisladores racistas y la burocracia nacional a la hora de querer llevar a cabo una clasificación con fines persecutorios.

9 No será hasta 1938 cuando Mussolini declare oficialmente antisemita al Pnf. No obstante, con anterioridad, en su etapa en el Partido socialista italiano, el ya había hecho declaraciones de marcado carácter antisemita: presentación de los judíos como el pueblo deicida, ataques a banqueros judíos de Londres y Nueva York, defensa de la civilización heleno-latina, etc. Mussolini llegó incluso a afirmar en uno de sus discursos que esperaba que los judíos italianos continuaran siendo lo suficientemente inteligentes para no suscitar el antisemitismo que hasta entonces no había existido en la península.

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10 No obstante, durante los primeros años de su gobierno, Mussolini desarrolló una posición ambigua y confusa con respecto al tema judío9: condenó la adhesión de judíos italianos al sionismo pero no el sionismo como movimiento nacional, e instó a los judíos a nacionalizarse e integrarse en el fascismo nacional, mientras defendía la catolicidad del país.

11 Entre las primeras medidas persecutorias de Mussolini estará un lento y progresivo alejamiento de los judíos de esos altos cargos del Estado y posiciones privilegiadas que hemos visto que ostentaban, sustituyéndolos de manera escalonada. Esa política ambigua y lenta a la que hacemos referencia, se convertirá en los años 30 en una política antijudía pública, generalizada y explícita10. A pesar de la inexistencia de antisemitismo a la que el propio Mussolini hacía referencia en uno de sus discursos, el Duce tendrá que superar precisamente dicha carencia y convertir a Italia, en tan sólo siete años, en un país oficialmente antisemita, tal y como afirma Bartosová11.

12 Sin duda alguna, esta decidida posición antisemita de persecución a los judíos estuvo relacionada con distintos aspectos como la alianza con la Alemania nazi, el desarrollo de una política racista, sobre todo contra los africanos en Etiopía, la construcción de una «dignidad imperial» y la estructuración del totalitarismo12. La finalidad de esta nueva política era eliminar a los judíos y judías de la sociedad y de la nación italiana: había que inculcar en la conciencia colectiva la imagen de un judío extraño e inadmisible, tanto desde el punto de visto étnico como espiritual13. En cuanto a la visión de este judío como extraño e inadmisible espiritualmente, no podemos dejar de hacer mención a la teoría del “racismo espiritual” de Julius Evola: El nudo de la doctrina establecida por Evola sobre la raza, se centra en las diferencias entre cuerpo, alma y espíritu. Para Evola, la raza no es solamente un bagaje biológico o psicológico, sino algo mucho más profundo. De la misma forma que existe una "raza del cuerpo", Evola nos habla de una "raza del espíritu14.

13 En un primer momento las persecuciones se llevaron a cabo de manera parcial, en torno a características cuantitativas y cualitativas. En cuanto a las personas que debían ser objeto de las persecuciones, quedarían definidas en el documento teórico oficial Il fascismo e i problemi della razza, publicado el 14 de julio de 1938, en el que el concepto de raza aparece ligado únicamente a aspectos puramente biológicos. Y respecto a los judíos extranjeros, aquéllos que no tenían nacionalidad italiana, se tomaron las siguientes medidas: prohibición de ingreso de nuevos judíos en el país, alejamiento de aquéllos que no llevaran residiendo en la península al menos veinte años y prohibición, incluso, de tránsito por el país. Éstas fueron las medidas tomadas sobre el papel, pero sabemos que la realidad fue otra, y que no se pudieron llevar a la práctica en su totalidad.

14 Es ahora cuando el gobierno toma la decisión de comenzar con el internamiento en comunas o campos, aunque esta medida no fue acompañada de la violencia física y simbólica de otros regímenes, ni fueron obligados a portar una identificación distintiva amarilla o de otro tipo. Finalmente, en junio de 1943, se instituyeron cuatro campos de internamiento y trabajos forzados. Todos los perseguidos fueron censados y la pertenencia judía mencionada en todos los certificados, a excepción del pasaporte y el carnet de identidad para facilitar el éxodo. Para apreciar la situación que estos judíos llegaron a vivir, recogemos las palabras de un profesor universitario: «me ha sido truncada improvisadamente toda actividad como ciudadano y como profesor: he sido

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expulsado de la cátedra y, a través de mis libros, asisto a la destrucción de cuanto formaba la razón misma de mi vida»15.

15 Entre otras medidas contra los ciudadanos judíos se tomaron las siguientes: no podían poseer bienes inmuebles que superaran el valor de 5.000 liras, se les prohibió la posesión de aparatos de radio, se les retiró la licencia para conducir, el cese de las publicaciones de los periódicos judíos, la prohibición de celebrar sus festividades, y las sinagogas comenzaron a ser atacadas y destruidas, comenzando por las de Ferrara, Turín, Casale Monferrato y Trieste16.

2. La persecución de la vida

16 La primera caída de Mussolini, el 25 de julio de 1943, conllevó la firma de un armisticio con los gobiernos de Estados Unidos y Gran Bretaña, y a partir de éste la península quedaba dividida en dos partes: al sur de la línea del frente (Italia meridional y las islas) bajo poder anglo-americano y el Reino de Italia; el norte bajo el poder aliado-ocupante alemán y la nueva República Social Italiana (RSI), con sede en Salò.

17 Las primeras acciones que tuvieron como finalidad el arresto de judíos se llevaron a cabo el sábado 9 de octubre en Trieste y el sábado 16 en Roma17. Tras estos primeros arrestos vinieron otros como los de la región de la Toscana, Bolonia y Turín-Génova- Milán y entre septiembre de 1943 y enero de 1944, los alemanes deportaron a la mayor parte de los judíos que habían sido arrestados, con la colaboración italiana, suficientemente documentada18.

18 El 30 de noviembre de 1943 se decretó el arresto de todos los judíos, pertenecieran a la nacionalidad que pertenecieran, y su posterior reclusión en campos provinciales, a la espera de reunirlos en campos de concentración especiales. En ese momento se trasladó a las víctimas al único campo nacional preparado hasta ese momento, el campo de Fossoli di Carpi (Módena). Posteriormente serían recluidos en el Campo di transito o Campo de Bozen-Gries (en alemán, Durchgangslager Bozen) en Bolzano19, más al norte y, por tanto, más práctico para los alemanes. También cabe señalar la existencia de la Risiera di San Sabba, en Trieste, primero como campo de concentración y, durante la ocupación nazi, también de exterminio (1944-45)20. Fueron eximidos aquéllos que estuvieran gravemente enfermos, los mayores de setenta años y los que tuvieran un progenitor o cónyuge de raza aria.

19 Serían los alemanes los que se encargaran de las deportaciones, principalmente al campo de Auschwitz-Birkenau y, en menor medida, a Bergen Belsen y Ravensbrück. La mayoría fueron destinados a cámaras de gas, o murieron frecuentemente por agotamiento como consecuencia de los trabajos forzosos, por asesinatos, por las condiciones de vida o por las evacuaciones conocidas como «marchas de la muerte». La confiscación de sus bienes21 se llevó a cabo mediante un decreto de 4 de enero de 194422, que establecía que éstos pasarían a ser propiedad del Estado, administrándolos a través del Ente di gestione e liquidazione immobiliare (Egli) 23. En junio-agosto de 1944 fueron liberadas Roma y Florencia; en enero de 1945, Auschwitz; en abril de 1945, la llanura padana. Así se puso fin a la sangre y al Holocausto nazi-fascista.

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3. El caso español: Franco y los judíos

3.1 Antecedentes: II República y Guerra Civil

20 «El advenimiento de la Segunda República en abril de 1931, lejos de cuestionar la política prosefardí de Alfonso XIII, ofrecerá, en cambio, un contexto mucho más favorable al acercamiento hispanojudío»24. Pero no fue así de sencillo, pues durante el gobierno republicano, la actuación no fue igualitaria y lineal en el tiempo, si bien el nuevo régimen político republicano inició una campaña llevada a cabo por líderes como Alcalá Zamora, Fernando de los Ríos, Lerroux, o diplomáticos en el exterior como Américo Castro o Madariaga, en la que se invitaba oficialmente a los judíos a volver a la antigua Sefarad, considerado como la reparación del «error histórico de la expulsión»25. Américo Castro, haciendo referencia a la expulsión, la calificará de pérdida incalculable para España. Este hecho se puede poner en conexión con la nueva ley para la concesión de la nacionalidad española por carta de naturaleza a los sefardíes originarios de España, de la que se deriva que la expulsión y sus consecuencias eran consideradas como un proceso histórico inconcluso. Una de las primeras figuras históricas que cabe mencionar en este sentido, aunque más adelante hablaremos de él, fue Ángel Pulido Fernández26.

21 No obstante, este proceso iniciado con el gobierno de la Segunda República, se vio influenciado por la oleada antisemita que, en directa relación con los acontecimientos, se estaba produciendo en Europa Central, especialmente en Alemania y Austria, así como por el ataque de algunos partidos de la derecha española, que asociaban el judaísmo con el comunismo y la masonería. Fue a partir de 1932 cuando la cuestión judía se politizó y comenzó a alcanzar un mayor protagonismo, aunque con diferencias, dependiendo de cada partido o corriente ideológica, y desde ese momento se planteó la disyuntiva de ofrecer la nacionalidad a los sefarditas, de manera especial a aquéllos que huían del horror nazi en Alemania y del comunismo en la Unión Soviética.

22 Como decíamos, esta política de retorno no seguirá una tendencia lineal, pues irá sufriendo variaciones conforme se vayan sucediendo en el poder los distintos gobiernos republicanos. Así, al comienzo de la Segunda República será cuando dé comienzo esta política, pero se verá frenada entre 1934-1936 con la llegada al gobierno del centro- derecha, y vivirá su impulso definitivo con la presidencia de Manuel Azaña en febrero de 1936, cuando esta medida se impulse de manera más clara, con una protección especial a los judíos sefarditas griegos.

23 Pero el comienzo de la Guerra Civil, el 18 de julio de 1936, supuso para la relación de los judíos con el gobierno republicano el cese de toda la actividad relacionada con las nacionalizaciones, siendo ahora la República quien busque el apoyo de los judíos a su causa.

24 La situación de los judíos europeos alcanzó su punto más delicado en 1938, cuando el antisemitismo comenzó a tener un desarrollo importante durante el Tercer Reich, desembocando en la tristemente conocida como Noche de los Cristales Rotos (9 de noviembre de 1938), en la que se destruyeron numerosos negocios regentados por judíos y sinagogas. Ante estos hechos, el gobierno republicano recibió por parte de Bernard Lecache, y a través de Marcelino Pascua, embajador en París, un informe detallado de las actuaciones que se iban a llevar a cabo en la ‘Asamblea Mundial contra

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el Racismo y el Antisemitismo’, en defensa de los pueblos amenazados por estas ideologías, ya fuera de carácter nacional o internacional.

25 Paralelo al despliegue del antisemitismo nazi, fue notorio el apoyo recibido por la República de parte del mundo judío, especialmente desde el ámbito intelectual, que se vio materializado en dos vías fundamentales: la prensa judía y la presencia de judíos en la Brigadas Internacionales27. Fueron muchos los periódicos judíos que decidieron apoyar a la República, de hecho, según Arno Lustiger, será en el diario Naylaben de Nueva York, un periódico judío publicado en yidish, donde aparezca por vez primera el apelativo de fascistas. Y también fue un periódico estadounidense de izquierdas, el Jewish Life, el que advirtió de las terribles consecuencias de que los rebeldes se hicieran con la victoria final: Una victoria de Franco en España sería la señal para una conflagración mundial. Significaría la maldición para esos millones de seres humanos que pertenecen a las minorías nacionales de diversos países europeos; significaría muerte y perdición para millones de judíos. ¡Franco no debe ganar!28.

26 En cuanto a las reacciones frente al conflicto bélico español en Italia, Mussolini llevó a cabo una campaña basada, fundamentalmente, en dos acusaciones: que los judíos fundamentaban ideológicamente al Frente Popular y al comunismo soviético en España, y que prestaban un relevante apoyo económico a la causa republicana.

27 No cabe duda que la Guerra Civil despertó todo tipo de sentimientos y apoyos en el contexto internacional, como también es cierto que la inmensa mayoría del judaísmo del continente europeo se posicionó a favor de la causa republicana.

3.2 Los judíos españoles tras la victoria de Franco (1939-45)

28 El periodo cronológico elegido, 1939-1945, responde a que será tras la Guerra Civil, y hasta 1945, cuando el régimen de Franco conoció su fase totalitaria de corte más fascista, y en el que, por tanto, las ideas y medias antisemitas se dejaron ver de manera más evidente. En palabras de Maite Ojeda: «El triunfo del franquismo no sólo significó la recuperación del vínculo privilegiado entre Iglesia y Estado, sino la exclusión, de derecho y de hecho, de los no-católicos del acceso a la igualdad jurídica, incluyendo la adquisición de la ciudadanía española»29.

29 No obstante, el antisemitismo en los primeros años de la España franquista, según la tesis de José Lisbona, fue difundido de manera exagerada en el exterior, incluyendo informaciones falsas sobre leyes antijudías. De hecho, la Embajada alemana en Madrid presentará quejas por la escasa presencia de antisemitismo en España, tal y como ellos lo entendían. Aun así, no podemos cometer el error de considerar a la España de la época un país con ausencia de antijudaísmo, pues los judíos encontraron trabas y problemas, tales como la prohibición de la circuncisión, los enlaces matrimoniales y los entierros judíos. A estas medidas habría que sumar la prohibición de registrar a los hijos de judíos si no habían sido bautizados, y la obligación de los niños y niñas en edad escolar de asistir a clases de religión católica.

30 Habrá que esperar a 1945, cuando la Ley de Educación Primaria permita a los hijos de extranjeros no católicos no asistir a clases de religión, y el Fuero de los Españoles (17 de julio) otorgue la posibilidad de la práctica privada de religiones no católicas, abriéndose las sinagogas que habían sido cerradas, junto con los cementerios. Aun así, el férreo control ideológico que se llevó a cabo sobre el sistema educativo, llevará a incluir en los

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manuales una «historia oficial» que presentaba a los judíos como enemigos históricos del país, llegando incluso a culpabilizarlos de la guerra.

31 Pero fue en 1941 cuando se llevó a cabo la medida más amenazante y peligrosa contra los judíos españoles, y no por casualidad, sino coincidiendo con el momento de mayor relación entre la España franquista y la Alemania de Hitler. La Dirección General de Seguridad ordenó a los gobernadores civiles provinciales redactar y enviar informes sobre todos los judíos que residían en el país, destacando entre los datos a recoger, la inclinación política y el «grado de peligrosidad»30.

32 En cuanto al discurso público de Franco, podemos encontrar declaraciones de carácter abiertamente antisemita: alianza del espíritu judío con el marxismo, equiparación de los términos capital-judaísmo-marxismo, y una carta dirigida al Papa Pío XII en la que acusaba al judaísmo de llevar a cabo un programa de odio contra la civilización católica. A diferencia del caso italiano, en el caso franquista no aparecen las teorías de la raza, con una única referencia en un discurso al hablar de las razas que se caracterizaban por su codicia. Podemos asegurar que Franco se posicionó contra los judíos, pero su actuación distaba mucho del antisemitismo radical de la Alemania nazi o la Italia fascista. Resulta muy interesante para ver la imagen que se proyectaba del judío en la España franquista la obra de Álvarez Chillida31.

3.3 El régimen franquista frente al Holocausto

33 Los consulados de España, Turquía, Chile, Suiza e Irán pusieron interés en que sus ciudadanos detenidos en París fuesen liberados, pero a principios de septiembre de 1941, sólo Italia lo había conseguido. Así las cosas, a mediados de 1942 y en contra de lo recomendado por el embajador alemán en París, Otto Abetz, el Ministerio de Asuntos Exteriores alemán decidió eximir de las deportaciones de Francia a Auschwitz, a los judíos de los países aliados, neutrales e, incluso en algún caso, enemigos. A pesar de la insistencia de Adolf Eichmann en las deportaciones (su objetivo era que todo el pueblo judío hubiese sido deportado, como muy tarde, a mediados del año 1943), la Alemania nazi dio, como ultimátum, dos alternativas: la repatriación o la deportación.

34 El conocimiento que el gobierno franquista tenía sobre la situación del Holocausto, remite a la pregunta acerca de hasta qué punto los dirigentes españoles eran conocedores o no de la persecución y asesinato de los judíos. En palabras de Martín de Pozuelo, «el exterminio de los judíos y otras minorías por parte de los nazis no fue un secreto que se descubrió por sorpresa a final de la II Guerra Mundial tal como nos han intentado hacer creer. Se supo lo que sucedía –y se supo con detalle- pese a que los nazis trataron de ocultarlo […]»32.

35 Dicho autor señala el noble, pero aislado, papel jugado por ciertos diplomáticos españoles en la protección de los judíos, derivó en una visión falaz explotada por el propio régimen de un Franco filosemita. Esta supuesta acción humanitaria de Franco, se ha visto desmentida y desacreditada por diversos trabajos históricos desde mitad de los años setenta, tal y como afirma Rozenberg33.

36 Las primeras informaciones de lo que estaba ocurriendo llegaron de manos de un grupo de médicos que había estado en Austria y Polonia, que avisaron en un informe al ministro español de Gobernación sobre la eutanasia y el encierro de la población judía en guetos. Posteriormente se desarrollará uno de los hechos más conocidos de esta

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época con respecto a la persecución y eliminación de los judíos: el papel jugado por algunos diplomáticos españoles, cuyas acciones de rescate fue encomiable, no dudando en algunos casos ir más allá de sus competencias, infringiendo medidas ministeriales e incluso arriesgando su propia vida. Entre estos diplomáticos habría que destacar los siguientes nombres: Bernardo Rolland (París), Sebastían Romero Radigales (Atenas), que ha recibido en el año 2014 la distinción de Justo entre las Naciones, Ginés Vidal (Berlín), Julio Palencia (Sofía) llamado “el magnífico amigo de los judíos”, José Rojas y Moreno (Bucarest) y Ángel Sanz Briz (Budapest) al que el Memorial Yad Vashem otorgó la distinción de “Justo entre las Naciones”34. No obstante, y pese a la actuación de estos diplomáticos, es necesario seguir reflexionando sobre la complicada relación entre España y los judíos, ya que por lo visto: […] no es solamente la conexión Franco-Hitler en el contexto europeo lo que nos vincula al Holocausto, sino el hecho de que en la España de Franco y mucho más allá de la dictadura, el genocidio nazi fuera considerado un tema “de judíos y alemanes”. ¿Cómo pensar que eso no nos afecta – recoge el autor palabras de Reyes Mate – cuando tantos españoles fueron educados en una España franquista, es decir, con categorías que privaban de significación a esta catástrofe?35.

3.4 La defensa de los judíos por Franco: ¿mito o realidad?

37 Fue ya durante la II Guerra mundial cuando el gobierno franquista comenzó a querer presentarse como salvador de los judíos ante las potencias aliadas occidentales y ante las organizaciones judías. A esto contribuyó de manera especial el embajador de España en Washington, quien permitió que en Estados Unidos se proyectara una imagen positiva de España en este sentido.

38 En un primer momento, el rabino Maurice Perlzwieg, presidente del Congreso Mundial Judío (CMJ), envió varias peticiones al gobierno de Franco para que éste le permitiera ayudar a los refugiados en España, a la vez que solicitaba que el gobierno franquista interviniese ante Alemania a favor de la evacuación de niños judíos. Las peticiones del CMJ fueron reiteradas, pero su gran decepción vino cuando se supo que, en la primavera de 1944, España había establecido que el requisito sine qua non para la entrada de más sefardíes en la Península, era su posterior evacuación a otros países.

39 No será hasta el final de la guerra, cuando se desarrolle de manera específica una cooperación entre organizaciones judías y el gobierno franquista, en el que ambas partes salían beneficiadas. Las organizaciones intentaron salvar a un gran número de judíos de los campos de concentración y exterminio y, como contrapartida, el gobierno de Franco sería debidamente reconocido por los medios de comunicación de los aliados. Por supuesto, para Franco no se trataba, en absoluto, de lograr buenas relaciones con los judíos y ayudarlos en su situación, como de asegurarse una posición pública favorable en la política internacional de posguerra. Haim Avni lo describe así: El interés de España en mejorar las relaciones públicas no fue lo suficientemente fuerte como para actuar como impulso para la salvación. Además, este interés ha estado ampliamente servido por las estrechas relaciones que embajadores españoles labraron con un número de líderes judíos, los cuales beneficiaron a España fomentando el mito de la amplitud de sus actividades a la hora de salvar judíos36.

40 Si Franco puede ser considerado como salvador de los judíos, ya hemos visto que es muy relativo. De hecho, Martín de Pozuelo afirma que el diplomático franquista Sanz Briz envió a Madrid, basándose en lo que se conocen como los Protocolos de

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Auschwitz37, información de lo que estaba sucediendo en los campos de concentración, que incluía el dato de que se estaba utilizando grasa humana para elaborar jabón. Este documento se archivó en Madrid sin darle importancia alguna, por lo que Franco, siguiendo a Martín de Pozuelo, permitió la muerte de judíos de nacionalidad española pese a poder salvarlos mediante las oportunidades reiteradas que le ofreció la Alemania nazi de deportarlos a España. Es más, las veces que el gobierno franquista ayudó y socorrió a los judíos, fue por causas ajenas a su voluntad y por intereses propagandísticos, concluye Pozuelo. También el historiador de la Universidad de Jerusalén, Yehûda Bauer, especializado en la Shoah, reflexionó sobre esta cuestión en su obra American Jewry and the Holocaust, en la que expuso la hostil indiferencia del gobierno español, haciendo referencia a los miles de judíos que el franquismo dejó de salvar.

Conclusiones

41 Comenzaremos apuntando que en este artículo, en el que se compara la actitud de dos regímenes dictatoriales frente a un mismo colectivo, el pueblo judío, a priori ambos podrían resultarnos similares, pero a lo largo de este estudio hemos podido comprobar cómo las políticas del fascismo italiano y español para con las comunidades judías, pueden presentar puntos convergentes, pero para nada idénticas. Esta hipótesis que apuntábamos al comienzo del artículo, la similitud de dos dictaduras fascistas en su comportamiento hacia “lo judío”, se va diluyendo conforme avanzamos en la investigación.

42 Si nos planteamos, en primer lugar, cuál era la situación de los judíos en ambos países antes de la llegada al poder de Mussolini y Franco respectivamente, comprobaremos rápidamente que la situación de la comunidad italiana nada tenía que ver con la de la española. Nos encontramos, como hemos señalado, con una comunidad judía italiana totalmente integrada en la sociedad (lo que podríamos dar en llamar judíos “italianizados”), llegando incluso a desempeñar su labor en importantes puestos políticos – recordemos la presidencia del Consejo de Ministros de Luzzati –, a lo que habría que sumar la presencia en movimientos políticos de distinto posicionamiento ideológico.

43 Por el contrario, en España observamos una comunidad judía que comenzará a alcanzar visibilidad con la llegada de la Segunda República (a pesar de intentos anteriores, como el de Ángel Pulido, “El apóstol de los judíos”) y sus intentos de regreso de los judíos a Sefarad, pero cuya propuesta de concesión de nacionalidad siempre fue puesta en entredicho y se hizo uso de ella como pretexto para numerosos enfrentamientos políticos. Vemos, por tanto, que mientras en Italia, los autores nos hablan de que en los judíos de la península itálica prevalecía la nacionalidad a la pertenencia al grupo/ comunidad, o por lo menos ambas cosas no eran excluyentes, en España estamos haciendo referencia a unos judíos a los que se les quiere facilitar, de manera oficial, el retorno, tras la expulsión de 1492.

44 Atendiendo ahora a la situación con ambos dictadores ya en el poder, las actuaciones llevadas a cabo también fueron distintas. Sería conveniente recordar las palabras de Mussolini en uno de sus discursos tras su llegada al poder, en las que presentaba a Italia como la nueva Sión, antes, por supuesto, de que el Pnf se declarase abierta y oficialmente antisemita. Mussolini, en sus primeros años de gobierno, se debate entre

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el apoyo y la condena a los judíos, años en los que prima la ambigüedad. Este carácter ambiguo será la principal característica de la postura franquista durante los primeros años de gobierno: la controversia y la ambigüedad sí serán un punto común entre ambas dictaduras.

45 Pero, pasados los primeros años de gobierno, en Italia se comenzó a desarrollar una persecución oficial y pública de los judíos que, iniciada con la destrucción de sus derechos, finalizó destruyendo sus vidas. Este giro radical está directamente relacionado con la presión realizada por el Tercer Reich sobre Mussolini, hecho que Franco pudo “evitar” con el inminente final de la Guerra Civil. Recordemos las palabras que recogíamos de aquel profesor de universidad y cómo vio truncada su vida de la noche a la mañana, para hacernos una idea del giro que experimentó la postura mussoliniana.

46 Por esa presión y relación de Italia con Hitler, las políticas llevadas a cabo (leyes raciales) y las actuaciones (persecuciones, detenciones, deportaciones) en Italia se asemejaron más al llamado “perfecto plan” alemán de acabar con la existencia del pueblo judío. Es por ello que, actuaciones como los ataques a sinagogas, la confiscación de bienes y la existencia de campos de internamiento y trabajos forzosos, no puede sino recordarnos a las medidas del gobierno nazi. En la España franquista, sin que el latente recelo hacia los judíos pase inadvertido (recordemos la existencia del Archivo Judaico), las medidas que se llevaron a cabo nunca alcanzaron en agresividad a las italianas, aunque esto no puedo hacernos olvidar la reclusión en cárceles en penosas condiciones de vida.

47 Si buscamos hacer un balance de la actitud del gobierno de Franco, podemos exponer las palabras de Rother: No se le puede atribuir a la dictadura de Franco que haya apoyado la persecución judía llevada a cabo por el nacionalsocialismo. Este gobierno estaba tan ligado a los valores católicos tradicionales que no pudo compartir las terribles consecuencias que los nacionalsocialistas extrajeron de su ideología racista desde el principio de la Segunda Guerra Mundial. Sin embargo, la dictadura tampoco fue un refugio para los judíos perseguidos38.

48 Cabe recordar que la dictadura franquista sí facilitó el tránsito de los judíos hacia otros países, pero nunca permitió la permanencia de éstos en la península, más por temor político (contubernio judeo-masónico) que por otras cuestiones. Avni recoge, con palabras certeras, cuál era la actitud franquista para con el paso de los judíos: debían pasar «como la luz por el cristal, sin dejar rastro»39. Pero no debemos caer en la tentación de considerar, tanto en un caso como en otro, en la Italia de Mussolini y la España de Franco, que no actuar de manera directa (en Italia sólo durante los primeros años) exime de responsabilidad. Dicho de otra manera: se puede “pecar” de acción pero también de omisión.

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NOTAS

1. CONTRERAS CONTERAS, Jaime, Historiar a los judíos: un asunto de pueblo, nación y etnia, in Actas de la IV Reunión Científica de la Asociación Española de Historia Moderna de Alicante, vol.2, 1997, pp. 117-144. 2. Véase JOHNSON, Paul, La historia de los judíos, Barcelona, Ediciones B, 2006. 3. ELDER, Linda, PAUL, Richard, Los fundamentos del pensamiento analítico, p. 33, en URL: [visitado el 15 de julio 2014]. 4. Quisiera agradecer a los evaluadores externos (colaboradores de la revista Diacronie. Studi di Storia Contemporanea) su valoración del artículo y sus propuestas de mejora que, sin duda, han contribuido a enriquecer este trabajo. 5. SARFATTI, Michele, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Torino, Einaudi, 2007, p. 13. 6. En este largo proceso de reconocimiento influyó también, desde el impacto del libro de Theodor Herlz, El Estado de los judíos (1896), hasta la Declaración Balfour formulada en noviembre de 1917 por el ministro de Asuntos Exteriores británico, Arthur James Balfour, en la que comunicaba a la comunidad sionista en Londres, mediante carta, que ‘el gobierno de Su Majestad contemplaba favorablemente el establecimiento de una patria nacional para el pueblo judío en Palestina’. Véase SEGURA, Antoni, Más allá del islam. Política y conflictos actuales en el mundo contemporáneo, Madrid, Alianza Editorial, 2001, p. 238. 7. SARFATTI, Michele, Gli ebre nell’Italia fascista, cit., p. 25. 8. Ibidem, p. 114. 9. Mario Avagliano sostiene que en los primeros años del fascismo italiano el “problema judío” no existía, basándose en unas palabras del propio Mussolini en Il popolo d’Italia, en 1920: «Italia no hace absolutamente ninguna diferencia entre judíos y no judíos […]; los judíos italianos tienen aquí la nueva Sión, en nuestra adorable tierra». AVAGLIANO, Mario, «Ebrei e fascismo, storia de la persecuzione», en Patria Indipendente, 6-7, 2002, en URL: [consultado el 6 de julio 2014]. 10. Uno de los aspectos más relevantes de esta campaña antijudía se desarrollará en la prensa. Véase URL: [visitado el 8 de noviembre 2014] 11. BARTOSOVÁ, Jana, Gli ebrei nell’Italia fascista. Lo sviluppo e gli obiettivi della politica razziale in Italia, (Tesis doctoral), Masarykova Univerzita, Brno (República Checa), 2006, p. 17. URL: [visitado el 22 de mayo 2013]. 12. En la historiografía española, los caracteres del Estado mussoliniano en perspectiva comparada con el Estado nazi, en FERNÁNDEZ GARCÍA, Antonio, RODRÍGUEZ JIMÉNEZ, José Luis, Fascismo, Neofascismo y Extrema Derecha, Madrid, Arco/Libros, 2001, pp. 30-33; autores que señalan las diferencias en cuanto al tema del racismo entre la Alemania nazi y la Italia fascista, y que el Manifiesto de defensa de la raza de 1938 en Italia, pese a sostener la desigualdad de las razas humanas y la aproximación de forma lenta de la Italia fascista a los ideales de su aliado natural, las medidas de 1938 deben entenderse como recursos de refuerzo de los lazos con su aliado antes que aplicación de principios intrínsecos del régimen. 13. MINERBI, A., Il veleno delle parole. La propaganda antisemita del fascismo en 1938, Milán, CDEC, 2002, en URL: [visitado el 7 de julio 2014]. 14. En URL: < http://juliusevola.blogia.com/2006/102101-sintesis-de-la-doctrina-de-la-raza-08- raza-y-espiritu.php> [visitado el 6 de noviembre 2014].

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15. SARFATTI, Michele, La Shoah in Italia, Torino, Einaudi, 2005, p. 87. 16. Ibidem, p. 92. 17. Cabe pensar que la elección del sábado como día de arresto fue una medida práctica, puesto que la mayoría de los judíos se encontraría en sus domicilios guardando el precepto del shabbat. 18. SARFATTI, Michele, La Shoah in Italia, cit., p. 100. El film de Constantin Costa-Gavras: “Amén” (Francia-Alemania), 2002, 132’, aborda, desde una perspectiva crítica, la diplomacia del Vaticano con respecto al Holocausto, así como la gesta heroica de muchos sacerdotes que se opusieron a la barbarie incluso con su vida, caso del jesuita protagonista de la película, el joven padre Ricardo, frente a la indiferencia y complicidad de otros. Véase URL: [visitado el 30 de julio 2014]. 19. GIACOMOZZI, Carla, PALEARI, Giuseppe, Il lager di Bolzano. Note storiche e documenti, Progetto “Storia e memoria: il Lager di Bolzano”, Comune di Bolzano, 2006, URL: [visitado el 3 de noviembre 2014]. 20. Véase el siguiente enlace, URL: [visitado el 3 de noviembre 2014]. 21. En el siguiente enlace se muestran documentos de la época referentes a la confiscación de bienes. URL: [visitado el 8 de noviembre 2014] 22. En el siguiente enlace puede verse el decreto de confiscación firmado por el Duce. URL: [visitado el 10 de noviembre 2014] 23. En cuanto a la Resistencia y la lucha clandestina, y la participación judía, no podemos adentrarnos por las limitaciones extensivas de este artículo, pero puede consultarse SARFATTI, Michele, La Shoah in Italia, op. cit. El origen y desarrollo de la Resistencia en Italia durante los años de la clandestinidad, en AMENDOLA, Giorgio, La lucha antifascista, Barcelona, Ed. Laia, 1980; autor que fue un destacado en la historia antifascista italiana, miembro del comando de las Brigadas Garibaldi, responsable del Triunvirato Insurreccional piamontés, y miembro del PCI desde 1945. 24. ROZENBERG, Danielle, La España contemporánea y la cuestión judía, Madrid, Ed. Marcial Pons, 2010, p. 136. 25. GONZÁLEZ, Isidro, «Los judíos y la Segunda República», in Historia, 16, 299, 2001, p. 83. 26. Véase BEL BRAVO, María Antonia, «Ángel Pulido y el sefardismo internacional», en Hispania Sacra, 108, 2008, pp. 327-349 y también el ensayo de TOUBOUL TARDIEU, Eva, «Ángel Pulido Fernández, un régenérationniste sui generis», in Bulletin d'histoire contemporaine de l'Espagne, 47, 2012, pp. 217-230. 27. IBÁNEZ SPERBER, Raquel, «Judíos en las Brigadas Internacionales. Algunas cuestiones generales», in Historia Actual Online, 9, 2006, p. 108. URL: [visitado el 7-08-14]. 28. LUSTIGER, Arno, ¡Shalom libertad! Judíos en la Guerra Civil Española, Barcelona, Flor del Viento Eds., 2001, p.63. Resulta paradójico y curioso que el conocimiento que tenemos sobre la participación activa de apoyo de los judíos al bando republicano, venga dado precisamente por fuentes de la Alemania nazi y la Italia fascista, que utilizaron la presencia judía en el bando republicano como argumento esgrimido para justificar su intervención. Desde la historiografía italiana cabe destacar el estudio de Luciano Tas (TAS, Luciano, La partecipazione ebraica nella Guerra Civile Spagnola, in Italiani nella guerra di Spagna. Un contributo di libertà, Roma, Istituto di Studi per la storia del Movimento Repubblicano, 1982). 29. OJEDA MATA, Maite, «Sefardíes, identidad y ciudadanía en la España contemporánea (siglo XIX y primera mitad del XX)», en URL: [visitado el 3-11-2014].

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30. ISRAEL GARZÓN, Jacobo, «El Archivo Judaico del Franquismo», en Raíces, 33, 1977, p. 60. URL: [visitado el 03 de julio 2014]. 31. ÁLVAREZ CHILLIDA, Gonzalo, El antisemitismo en España. La imagen del judío (1812-2002), Madrid, Marcial Pons, 2002. 32. MARTÍN DE POZUELO, Eduardo, El franquismo, cómplice el Holocausto, Barcelona, La Vanguardia Ediciones, 2012, p.17. 33. ROZENBERG, Danielle, La España contemporánea y la cuestión judía, op. cit., p.214. Entre otras aportaciones cabe destacar: la del historiador israelí AVNI, Haïm, España, Franco y los judíos, Madrid, Altalena, 1982; las de Antonio Marquina (MARQUINA, Antonio, La España de Franco y los judíos, in MACÍAS KAPÓN, U. et al., Los judíos en la España contemporánea. Historia y visiones, 1898-1998, Cuenca, Universidad de Castilla-La Mancha, 2000); o tesis como las de OUAHNON, Josette, L'Espagne et les juifs séfardites depuis 1920, (Tesis doctoral), Universidad de la Sorbona, 1981, BLIN, Pascale, Franco et les juifs: paroles et actifs. De sa rencontre avec les juifs à la reconnaissance de la communauté juive d'Espagne (1968): un itinéraire controversé, Paris, Etudes ibériques, 1992, así como la de ROTHER, Bernd, Franco y el Holocausto, Madrid, Marcial Pons, 2005. 34. El papel jugado por estos diplomáticos ha sido recogido en una exposición itinerante promovida por el Centro Sefarad-Israel con sede en Madrid y el Ministerio de Asuntos Exteriores de España, bajo el título “Visados para la libertad”, 2014. 35. BAER, Alejandro, «Los vacíos de Sefarad. La memoria del Holocausto en España», en Política y Sociedad, 48, 3/2011), p. 504. URL: [visitado el 8 de julio 2014]. 36. ROTHER, Bernd, Franco y el Holocausto, cit., p. 396. 37. Denominación que hace referencia a dos informes sobre los asesinatos masivos que se llevaron a cabo en Auschwitz, basados en datos proporcionados por cuatro prisioneros que lograron escapar en 1944. Los protocolos fueron enviados a través de diversos canales a Occidente. La información llegó al Departamento de Estado norteamericano el 16 de junio, y la BBC difundió partes del informe el 18 de junio de 1944. Véase ZADOFF, Efraim, Enciclopedia del Holocausto, Jerusalén, E.E.Z. Ediciones Jerusalén, 2004, pp. 138-139. 38. ROTHER, Bernd, Franco y el Holocausto, cit., p. 405. 39. AVNI, Haïm, España, Franco y los judíos, cit., p. 209.

RESÚMENES

Son muchas las investigaciones realizadas sobre la situación de los judíos en la Alemania de Hitler, sin embargo, hay una clara deficiencia de estudios científicos sobre las comunidades judías bajo las dictaduras de Mussolini y Franco, especialmente en el último caso. Este artículo contribuye al conocimiento de la controvertida relación que estas dictaduras del Sur de Europa mantuvieron con sus respectivas comunidades judías, y profundiza, en perspectiva comparada y desde el ámbito historiográfico, en los puntos de convergencia y divergencia entre ambos poderes dictatoriales y su relación con lo judío, analizándose las similitudes en cuanto a las acciones llevadas a cabo contra los judíos.

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Sono molte le ricerche realizzate sulla condizione degli ebrei nella Germania di Hitler; si riscontra invece una carenza di studi scientifici sulle comunità ebraiche sotto le dittature di Mussolini e Franco, specialmente in quest’ultimo caso. Questo articolo contribuisce alla conoscenza della controversa relazione tra le dittature dell’Europa meridionale e le loro comunità ebraiche, e analizza, in prospettiva comparata e in ambito storiografico, i punti di convergenza e divergenza tra i poteri dittatoriali e il loro legame con gli ebrei, analizzando le similitudini sulla base dell’azione portata avanti nei loro confronti.

A lot of research has been done on the situation of the Jews in Hitler’s Germany, however, there is a clear deficiency of scientific studies on the Jews communities under the dictatorships of Mussolini and Franco, especially in the latter case. This article contributes to the knowledge of the controversial relationship that these dictatorships of southern Europe had with their Jewish communities, and it goes into detail in the common grounds and points of divergence between the two dictatorial powers and their relationship with Jewish, in comparative perspective and with a historiographical insight, analyzing the similarities in the actions taken against the Jews.

ÍNDICE

Parole chiave: antisemitismo, , Ebrei, Francisco Franco, olocausto Palabras claves: antisemitismo, Benito Mussolini, Francisco Franco, holocausto, Judíos Keywords: antisemitism, Benito Mussolini, Francisco Franco, holocaust, Jews

AUTOR

DAVID PÉREZ GUILLÉN

Licenciado en Historia por la Universidad de Murcia (España). Ha cursado el Máster en Historia Social Comparada y recientemente ha emprendido sus estudios doctorales en la Universidad de Murcia, donde pretende analizar la posición de los regímenes fascistas (la Italia de Mussolini, la España de Franco y el Portugal de Salazar) ante las comunidades judías y el Holocausto.

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Epistemologie del Sud: il postcolonialismo e lo studio delle relazioni internazionali

Antônio Manoel Elíbio Júnior e Carolina Soccio Di Manno De Almeida Traduzione : Jacopo Bassi

NOTA DELL'EDITORE

Il presente articolo viene pubblicato in traduzione italiana per gentile concessione di Cadernos do Tempo Presente nell’ambito del progetto di collaborazione tra le due riviste.

1. L’interazione fra relazioni internazionali e studi postcoloniali

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1 Il Ventesimo secolo è stato lo scenario di profonde e multiformi trasformazioni nella totalità del globo, di carattere politico, culturale, economico e sociale, verificatisi con una rapidità senza precedenti nella storia del mondo. Questo processo portò a una nuova divisione internazionale del lavoro, la transnazionalizzazione della produzione e del consumo, la frammentazione e la diffusione delle culture, accompagnato dal multiculturalismo, la dissoluzione delle frontiere e la pretesa multipolarità di un mondo fino ad allora bipolare e, prima di quel momento, contrassegnato dalla presenza degli imperi. In questo contesto è necessario riconoscere l’importanza della decolonizzazione dell’Africa e dell’Asia come momento rilevante dal punto di vista geopolitico, dal momento che segnala un drastico mutamento nello scenario internazionale. La liberazione di più della metà della popolazione mondiale dal dominio diretto dei paesi europei e la diaspora dei popoli di questi luoghi sviluppatasi lungo flussi migratori che riproducevano le rotte coloniali richiede una riflessione crescente sui regimi coloniali e le conseguenze ancora sconosciute dei fenomeni che emergevano nel periodo definito “postcoloniale”. A partire da ciò, una serie di analisi e studi rivolti a questo nuovo scenario mondiale, sorto dai residui del colonialismo, cominciarono a prendere corpo e a tratteggiare una nuova corrente teorica, il postcolonialismo.

2 Allacciando diverse aree delle scienze umane e sociali, il postcolonialismo è stato per lungo tempo ignorato come disciplina nell’ambito delle Relazioni Internazionali, rimanendo assente dai grandi dibattiti teorici e dai corsi di studio, così come dai manuali e dalle riviste specializzate. Questa sconcertante mancanza di dialogo tra gli studi postcoloniali e le relazioni internazionali può essere dovuta a due ragioni fondamentali: da un lato, al fatto che gli studi postcoloniali erano legati ai cosiddetti studi culturali ed incontrarono una certa resistenza a superarlo; tuttavia muoversi tra gli studi di economia internazionale è prodromico all’elaborazione di una critica al capitalismo globale. Dall’altro, al rifiuto da parte dell’establishment dei teorici delle relazioni internazionali, di orientamento eminentemente protezionista e conservatore, di un approccio che, scientificamente e politicamente, sovverte la maggior parte – per non dire la totalità – dei suoi presupposti principali.

3 Tuttavia, in questo primo decennio del XXI secolo, la diffusione del postcolonialismo nelle scienze sociali, assieme allo sforzo dei teorici provenienti dalle più disparate aree della conoscenza ha portato ad un approfondimento del tema, articolato in differenti campi, ed è possibile percepire questo sforzo nelle relazioni internazionali. Si sta costituendo un nucleo di accademici che ha sviluppato linee di ricerca e prodotto pubblicazioni che collocano gli studi postcoloniali e le questioni che solleva, nel solco di questa disciplina.

4 Il dibattito rimane comunque in una posizione marginale nell’ambito della disciplina, la questione che poniamo inizialmente è dunque la rilevanza dell’approccio postcoloniale per le relazioni internazionali esplorando le potenzialità e le difficoltà di questo dialogo. Per questa ragione abbiamo bisogno di mettere a fuoco le principali questioni sollevate dal postcolonialismo per giungere alla conclusione che questo dialogo

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richiede una riconfigurazione radicale del complesso teorico e della pratica politica delle relazioni internazionali, sostenuta da tre orientamenti principali: la revisione della storia delle relazioni internazionali, il rovesciamento di concetti centrali come potere e Stato-nazione e, infine, il tornante epistemologico nella “geopolitica della conoscenza”.

5 Lo studio delle relazioni internazionali non è assolutamente recente: al contrario, considerazioni ed elaborati sul contesto internazionale sono ricorrenti nelle scienze sociali, principalmente nella storia e nella scienza politica. La guerra del Peloponneso di Tucidide è considerata da molti teorici come un’opera paradigmatica in questo campo di studi, al pari di quelle di Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes per la teorizzazione moderna del sistema internazionale e di interazione tra gli Stati1. Tuttavia è stato solamente durante gli anni Cinquanta, Sessanta e Sessanta del XX secolo che le relazioni internazionali si sono ritagliati una certa autonomia, separandosi dalla scienza politica e costituendo un proprio filone narrativo2.

6 Lo studio delle relazioni internazionali rimane strettamente legato alla realtà politica internazionale: le sue origini risalgono agli anni immediatamente successivi alla Prima guerra mondiale, in cui nacque con il chiaro intento di evitare il verificarsi delle circostanze che avrebbero potuto portare ad un’altra guerra. Come ricorda Halliday3 fu in questo periodo che vennero creati in Gran Bretagna, nelle università, le prime cattedre e i dipartimenti relativi a questa materia: nella Aberystwyth, nella London School of Economics a Oxford e, nel mondo non accademico nel Royal Institute of International Affairs, votato a proporre e portare avanti politiche pubbliche. Questa tendenza fu perseguita dagli Stati Uniti che, contemporaneamente, crearono cattedre nelle università statunitensi e il Council of Foreign Relations. Come afferma Hoffman4, modernamente lo studio delle relazioni internazionali negli Stati Uniti si è profondamente legato al problema, tanto politico quanto accademico, di come il Paese avrebbe dovuto amministrare la sua egemonia internazionale contrastando la costante minaccia sovietica, in modo che gli studiosi delle relazioni internazionali ponessero le basi teorico-scientifiche per una “nuova diplomazia nordamericana”, di tendenze imperialiste, che potesse mettere gli studi strategico militari in una posizione centrale5. Da allora la concettualizzazione della forza, del potere e delle sue dinamiche, interessi tipicamente nordamericani, si trasformarono in fondamenti della teoria delle relazioni internazionali successivamente divenuta ad una monocultura realista, che per questa ragione – e per un lungo lasso di tempo – ha detenuto il monopolio della discussione in questo campo di studi.

7 L’ondata liberale che investì la teoria delle relazioni internazionali nei primi decenni del XX secolo incentrata sul diritto internazionale e sulla sua connotazione al mutare del sistema internazionale per via istituzionale-legale, ricevette l’etichetta ampiamente diffusa e accettata di “idealista”; venendo considerata ingenua, di poca rilevanza scientifica è stata accusata di essere alla base del ritardo con cui le relazioni internazionali sono emerse come scienza. Ad Edward Carr toccò, con la sua opera fondamentale Twenty years’ Crisis6, l’incombenza di inaugurare la trattazione scientifica, obiettiva ed empirica di un contesto politico definito come una lotta per il potere oramai incompatibile con le sue proposizioni normative. Tuttavia fu solamente negli Stati Uniti del dopoguerra, che erano allora emersi come superpotenza, che le relazioni internazionali si stabilirono sulla base del realismo politico di Hans Morgenthau, un concetto sviluppato nel suo Politics among Nations7. Proprio quest’ultimo nella sua opera

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cercò di identificare quelle regolarità che avrebbero potuto fornire una prevedibilità nel comportamento degli Stati basandosi principalmente sui concetti di potere e di interesse nazionale. Fu proprio l’ambizione di Morgenthau di fissare i principi irrefutabili della politica internazionale, unita alla sua argomentazione molto fragile a generare un dibattito e una serie di letture volte a reagire proprio nei confronti dell’approccio realista. In questo modo il campo di studi si consolidò in rapporto o in contrapposizione con il realismo e, in una certa misura, continua a farlo.

8 Il cosiddetto secondo dibattito delle relazioni internazionali si svolse tra gli approcci definiti “tradizionalisti” che ricavavano alcuni contributi dal behaviorismo, almeno per quel che afferma riguardo alle metodologie che dovrebbero essere impiegate in questo campo, ma non apportarono contributi all’estensione della materia di competenza della disciplina, che continuò in larga scala a far riferimento ai dettami iniziali del realismo. Secondo Hedley Bull fu solo al termine degli anni Settanta, con il movimento pacifista mondiale, la fine di Bretton Woods, la percezione di una crescente interdipendenza tra le economie nazionali e certi movimenti politici di contestazione del Terzo Mondo, che la smisurata attenzione nei confronti delle dinamiche di potere e forza diede vita ad altre problematiche, legate soprattutto all’accresciuta importanza della politica economica internazionale8. Questa apertura nel campo teorico, intensificatasi negli anni Ottanta, fece sì che fossero riconosciute tematiche che fino a quel momento erano state messe al margine dalle stringenti formulazioni del Realismo, come gli studi sulla pace le analisi di politica estera e l’importanza assunta dall’economia politica internazionale.

9 In questo senso Halliday afferma che dopo una fase “protezionista”, recentemente le relazioni internazionali si stanno aprendo a contributi provenienti da altri campi del sapere che non erano tradizionalmente legati alla sua sfera teorica9. Il risultato ottenuto è che dalla fine degli anni Ottanta e, soprattutto, con le questioni sollevate dal “terzo dibattito” delle relazioni internazionali sono stati introdotti in questo campo i Critical Legal Studies (Crits), il costruttivismo, il postmodernismo e il femminismo, e abbiamo assistito all’emergere di quegli itneressi, di quelle critiche e di quelle operazioni di decostruzione che fino ad allora erano state escluse dal campo teorico della disciplina. Tuttavia è necessario mettere in evidenza come la maggior parte della produzione teorica risponda ad una prospettiva realista e sia riconducibile ai suoi interessi tradizionali, ancorché riadattati ai tempi10. Al di fuori degli Stati Uniti si è fatta sentire la dipendenza teorico-strutturale, consolidatasi nel corso dei decenni, che ha impedito una teorizzazione indipendente o, se vogliamo, non egemonica, delle relazioni internazionali, allora legata a livello globale, al linguaggio del potere, dello Stato-Nazione e dell’interesse nazionale. Slater osserva come benché i teorici del Nord possano concedersi il lusso di disconoscere o ignorare le teorie del Sud del mondo, mentre lo stesso non avvenga con la controparte del Sud, la cui teorizzazione è sempre stata in accordo, rifiuto o opposizione alla teoria sociale del Nord11.

10 Halliday sottolinea come, forse, tra tutte le scienze sociali le relazioni internazionali, siano quelle che più si sono tenute lontane dal marxismo e dalle questioni di genere; ciò ha comportato una serie di problemi che hanno contribuito al loro indebolimento come l’incapacità di mettere in dubbio criticamente il complesso delle relazioni Nord-Sud e le stesse strutture globali di sfruttamento12. Non per niente, le relazioni internazionali appaiono anche adesso come l’area delle scienze sociali che si mostra più indifferente nei confronti degli approcci postcoloniali. Questa distanza si rende ogni volta più

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deleteria in un mondo che è maggioritariamente non-occidentale, in cui le asimmetrie di potere e ricchezza sono aumentate e in cui i nuovi attori, non-statali o subnazionali, iniziano a farsi sentire e a imporre nuove necessità. Debitrice nei confronti del predominio teorico anglo-americano, la disciplina si è costruita attorno ad una molteplicità di concetti, presupposti e interessi tipicamente occidentali e che non avevano un grande significato in altri contesti, Paesi e regioni che ancora non erano considerabili come attive nell’ambito politico e analitico delle relazioni internazionali13. È in questo contesto che gli studi postcoloniali si trasformano in uno strumento essenziale, teorico e politico, per identificare e inquadrare da un punto di vista teorico la grande quantità di attori, dinamiche ed esigenze che ruotano intorno allo Stato, al di fuori delle concezioni egemoniche di oggi e di un tempo.

2. Epistemologie del Sud

11 Quali sarebbero, perciò, i principali fondamenti teorici dell’approccio post-coloniale? In primo luogo è importante mettere in luce che il “post” del postcoloniale non significa, in termini assoluti, una rottura con il periodo precedente, quello coloniale, e neppure un suo superamento, dal momento che «la fine del colonialismo in quanto relazione politica non comportò la fine del colonialismo inteso come relazione sociale, mentalità e forma di sociabilità autoritaria e discriminatoria»14. L’accezione fondativa degli studi postcoloniali presuppone una revisione critica del passato considerato nei termini della modernità occidentale e la sua identificazione con un presente ancora permeato da una serie di narrative, pratiche, rappresentazioni e relazioni politiche che confluiscono nella perpetuazione della distribuzione asimmetrica del potere e della ricchezza a livello globale.

12 Come sostiene Boaventura de Sousa Santos, uno dei fondamenti teorici principali dell’approccio postcoloniale è «la diluizione della frontiera tra critica e politica»15. In maniera più esplicita Said afferma: Ciò che qui tengo a sottolineare è che il consenso generalizzato ,nelle società liberali, sulla nozione che il “vero” sapere sia fondamentalmente non politico (e, inversamente, che un sapere politico non sia “vero” sapere) oscura l’enorme importanza, anche se spesso difficile a descriversi e dimostrarsi, dalle circostanze politiche per il prodursi del sapere umano in ogni sua forma16.

13 Riconoscendo le intricate relazioni sapere-potere soggiacenti ad ogni pratica accademica, gli studi postcoloniali propone una critica – un sapere – che sia cosciente della sua funzione politica e che sappia opporsi all’asimmetrica distribuzione globale del potere e a tutte quelle ingiustizie che essa porta con sé. In questo senso gli studi postcoloniali devono conseguire lo scopo di ottenere l’implosione dei discorsi egemonici coloniali/occidentali che, soprattutto attraverso la retorica della modernità, considerano naturali le disuguaglianze fra paesi, classi, razze e popoli17.Quando Gayatri Spivak pone la domanda «Can the subaltern speak?», lega la messa ai margini dei gruppi e della retorica subalterna al fatto che siano stati ridotti al silenzio: individua nella parola la conditio sine qua non per il sovvertimento della subalternità18. Per questa teorica indiana lavorare perché emerga questa parola richiede un’attività politica che oltrepassa la retorica accademica, segnando un vero e proprio impegno della critica postcoloniale in favore dei “subalterni della Terra”. Boaventura de Sousa Santos si appropria di questa volontà di privilegiare la subalternità in quanto luogo di enunciazione da cui gli studi postcoloniali possano emergere, ponendo questa

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prospettiva nella premessa secondo la quale i margini e le periferie sono i loci (o i luoghi) di enunciazione privilegiati per identificare e sovvertire le strutture di potere del sapere19.

14 Un altro punto caro agli studi postcoloniali è il rifiuto dell’essenzialismo. La critica dei regimi coloniali ci mostra come il potere e la retorica coloniale si siano costituiti facendo ricorso ad una “violenza epistemica”, che forgiò il soggetto colonizzato in quanto Altro rispetto al colonizzatore. Del resto il colonizzatore e – in un’accezione più ampia – l’Occidente hanno costruito loro stessi in relazione con il Self, a partire dal quale il resto del mondo è subalterno/reso subalterno. Il rifiuto degli studi postocoloniali di queste opposizioni binarie, a partire dalle quali le narrative coloniali hanno realizzato tutte le forme di razzismo, si verifica nella misura in cui l’intento è quello dicercare identità complesse e multisfaccettate, ma coerenti con la realtà politica.

Considerazioni finali

15 Gli studi postcoloniali contengono al loro interno la critica dei presupposti epistemologici su cui si afferma la retorica della modernità e, conseguentemente, della superiorità europea. Spivak considera la subalternità come un prodotto delle penetranti relazioni di “violenza epistemica” causate dall’imposizione coloniale di un ordine scientifico e di un sistema legale20. In questo modo la celebrazione della modernità e dei suoi presupposti si iscrive in una relazione di potere regolata dalla differenza coloniale fra quelli che “pensano, quindi, esistono” e quelli che non esistono e non sono in ragione del fatto che sono oggetto di un’egemonia.

16 Il consolidamento della critica postcoloniale in un corpus teorico potrebbe trasformarlo facilmente in generalizzazioni: si incorrerebbe negli stessi essenzialismi e generalizzazioni che questa corrente teorica ambisce a combattere. Benché possa essere concepito come un “sistema” di caratteristiche fondamentali condivise, il colonialismo non si impose in maniera omogenea nei differenti contesti storici, sociali e geografici su cui estese il suo dominio. Per questo motivo non è possibile fare generalizzazioni, così come questo non rappresenterebbe un arricchimento per il dibattito all’interno della corrente teorica.

17 Il post-colonialismo può fornire un contributo nell’ambito delle analisi culturali, sociali e politiche di qualche parte del mondo, principalmente per ciò che afferma riguardo alle asimmetrie del potere. Non volendo perdere di vista le potenzialità analitiche e politiche dell’approccio postcoloniale e allo stesso tempo cercando di inquadrare il problema della sua applicabilità, Boaventura de Sousa Santos propone un “postcolonialismo circoscritto”, che prenda in conto la grande specificità di ogni contesto storico dove i differenti colonialismi sono utili alla comprensione dei diversi contesti postcoloniali21.

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NOTE

1. INAYATULLAH, Naeem, BLANEY, David L., International Relations and the Problem of the Difference, London Routledge, 2004, p. 45. 2. HOFFMAN, Stanley, An American Social Science: International Relations, in DER DERIAN, J. (org.), International Theory: Critical Investigations, London, MacMillan, 2005, p. 134. 3. HALLIDAY, Fred, Rethinking international relations, London, MacMillan, 1994. 4. HOFFMAN, Stanley, An American Social Science: International Relations, in DER DERIAN, James (org.), International Theory: Critical Investigations, London, MacMillan, 2005. 5. HOFFMAN, Stanley, An American Social Science: International Relations, in DER DERIAN, James (org.), International Theory: Critical Investigations, London, MacMillan, 2005, p. 135. 6. CARR, Edward H., Twenty years’ crisis 1919-1939: an introduction to the study of international relations, London-New York, MacMillan-St Martin’s Press, 1946. 7. MORGENTHAU, Hans J., Politics among nations: the struggle for power and peace, New York, Alfred A. Knoff, 1952. 8. BULL, Hedley, The theory of International Politics, 1919-1969, in DER DERIAN, James (ed. by), International Theory: Critical Investigations, London, MacMillan, 2005, p. 36. 9. HALLIDAY, Fred, Rethinking international relations, London, MacMillan, 1994, p. 26. 10. DER DERIAN, James, Introduction: Critical Investigation, in DER DERIAN, James (org.), International Theory: Critical Investigations, London, MacMillan, 2005, p. 56. 11. SLATER, David, «Post-colonial questions for global times», in Review of international Political Economy, 5, 4/1998, p. 28. 12. HALLIDAY, Fred, Rethinking international relations, London, MacMillan, 1994, p. 130. 13. HOFFMAN, Stanley, op. cit., p. 136. 14. SANTOS, Boaventura de Sousa, Entre o próspero e o Caliban: Colonialismo, Pós-Colonialismo e interidentidade, in RAMALHO, Irene, RIBEIRO, António Sousa (orgs.), Entre ser e estar: Raízes, Percursos e Discursos da Identidade, Porto, Afrontamento, 2001, p. 38. 15. Ibidem, p. 39. 16. SAID, Edward W., Orientalismo. L'immagine europea dell'Oriente, Milano, Feltrinelli, 2006, p. 19. 17. BHABHA, Homi K., The location of culture, London, Routledge, 1994, p. 17. 18. SPIVAK, Gayatri Chakravorty, Can the subaltern speak?, in ASHCROFT, Bill, GRIFFITHS, Gareth, TIFFIN, Helen, The postcolonial studies reader, London, Routledge, 1988, p. 54. 19. SANTOS, Boaventura De Sousa, Do Pós-Moderno ao Pós Colonial. E para além de um e outro, Coimbra, Centro de Estudos Sociais, Universidade de Coimbra, 2004, p. 12, URL: [consultato il 16 novembre 2014]. 20. SPIVAK, Gayatri Chakravorty, op. cit., p. 57. 21. SANTOS, Boaventura De Sousa, op. cit, p. 34.

RIASSUNTI

L’articolo affronta lo sviluppo degli studi postcoloniali, contestualizzando i dibattiti teorici avvenuti nel campo delle relazioni internazionali. A partire dalla seconda metà del XX secolo, in

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concomitanza con i processi di decolonizzazione e globalizzazione, iniziarono a prendere colpo una serie di analisi e studi influenzati da questo nuovo scenario mondiale e tracciarono una nuova corrente teorica: il postcolonialismo.

The article discusses the emergence of postcolonial studies, situating the theoretical debates of the field of study of International Relations. It was from the second half of the twentieth century, with the processes of decolonization and globalization, that a series of analyzes and studies related to this new world scenario began to take shape and draw a new line of theory, the Post- Colonialism.

INDICE

Keywords : decolonization, global South, globalization, post-colonialism, subaltern studies Parole chiave : decolonizzazione, globalizzazione, studi postcoloniali, subaltern studies, Sud del mondo

AUTORI

ANTÔNIO MANOEL ELÍBIO JÚNIOR

Ha conseguito un dottorato in Storia sociale presso l’Universidade Estadual de Campinas- UNICAMP e un post-dottorato in Scienze politiche presso l’Universidade Federal de Pernambuco- UFPE. Attualmente è professore nel Dipartimento di Storia nell’Universidade Estadual da Paraíba- UEPB.

CAROLINA SOCCIO DI MANNO DE ALMEIDA

Laureata in Scienze politiche nell’Universidade Federal de Pernambuco.

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La Società Dante Alighieri da Costantinopoli a Istanbul. 1895-1922: diffusione della lingua e pedagogia nazionale

Stefania De Nardis

1. Italiani a Costantinopoli, «dove costumi e favelle diversissime si incrociano e si sommano in un tumulto discorde», 1895-1911

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1 «Qui ci sono 15 mila italiani. Dove sono?»1 si chiedeva Alarico Buonaiuti2 in una lettera inviata da Costantinopoli il 18 febbraio 1908 a Giuseppe Zaccagnini, già presidente del comitato locale della Società Dante Alighieri, divenuto poi segretario generale della società presso la sede centrale di Roma.

2 Nella storia del comitato di Istanbul della Società Dante Alighieri lo sforzo dei dirigenti locali per implementare l’adesione dei connazionali fu un tratto costante fin dall’atto di fondazione, il 20 settembre 18953, un’esigenza ovviamente insita nei fini della Società, ma rafforzata anche dalle direttive societarie centrali, che vedevano da tempo nella comunità italiana della città una delle piazze dalle maggiori potenzialità per gli scopi della Dante.

3 Già durante i lavori del IV° Congresso generale di Firenze del novembre 1893, infatti, i territori del Levante erano stati confermati di prioritario interesse, in linea con una tendenza inaugurata proprio a partire da fine Ottocento, con lo sviluppo dei comitati esteri, e concorde con la visione espansionistica crispina.

4 L’idea di creare un comitato a Istanbul trovò in questo clima un terreno fertilissimo. Nella capitale ottomana meglio che altrove poteva attecchire il Leitmotiv del ritornare ad antiche grandezze. La decisione fu presa in una giornata dell’Agosto del 1895, fra una schiera di giovani riuniti a banchetto nell’incantevole altura di Giamligià [Çamlıca]. La mole altera della torre di Galata, e laggiù, nello sfondo cupo del mar Nero, i ruderi del Castello dei Genovesi, parlavano loro dell’antica grandezza d’Italia, mentre nell’azzurro denso del Bosforo, dallo Stazionario delle navi mercantili sventolava al sole il tricolore della patria risorta, anelante a nuovi destini4.

5 I giovani in questione erano alcuni membri della Società operaia di mutuo soccorso5 e la nascita del comitato di Istanbul coincise con una fase di svolta che la Dante stava avviando a livello nazionale rispetto all’impostazione che si era data nel 1889, anno della sua fondazione6.

6 Con lo sviluppo dei primi comitati esteri, essa ridefinì le sue finalità passando da un programma ispirato all’esigenza di «preparare l’annessione di territori irredenti all’Italia in piena Triplice Alleanza»7, a una visione più ampia e meglio strutturata, una missione che si estese alle comunità degli emigrati ovunque esse si trovassero, e segnatamente a quelle residenti in territori di più spiccato interesse politico ed economico per l’Italia. L’uomo più rappresentativo di questa virata fu il senatore Pasquale Villari8. Il nuovo orientamento prevedeva di affiancare all’originario mandato che la Dante si era imposta – la diffusione della lingua italiana – un programma di matrice più pedagogica che avrebbe dovuto fare leva sulle istituzioni scolastiche e educative: biblioteche, corsi di lingua italiana, conferenze, serate musicali e iniziative culturali in genere.

7 Fin dai primi anni della sua esistenza il comitato di Costantinopoli, inaugurato in occasione del XXV anniversario della liberazione di Roma, fece registrare un’intensa attività tesa a perseguire fedelmente questa linea programmatica. Nel primo quinquennio il numero di soci crebbe dai ventidue fondatori ai 225 del 1899; purtroppo

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la documentazione prodotta dal comitato è scarsa e lacunosa, ma dai pochi fogli relativi ai primi mesi dalla fondazione si possono già avere indicazioni interessanti sulla colonia e sul suo livello di conoscenza, qualitativa e quantitativa, della lingua e della cultura italiane, e sulla funzione di queste ultime nella riflessione sul nesso fra cultura e idea nazionale9.

8 Le relazioni inviate a Roma dai presidenti locali evidenziano soprattutto le due consuete questioni che riguardarono quanti operavano per il mantenimento e lo sviluppo dell’italianità della colonia, e che avrebbero analogamente caratterizzato il primo decennio di esistenza della Dante, vale a dire il rapporto con le numerosissime scuole congregazioniste presenti in città e la concorrenza con le associazioni culturali francesi che avevano rispettivi, analoghi scopi. Fra queste ultime la più acerrima concorrente fu l’Alliance Française.

9 A questo si aggiungeva, elemento comune a tutti i comitati della Dante, una pressoché continua richiesta di fondi, indirizzata direttamente alla sede centrale o al ministero degli Affari esteri10. Ma le relazioni non mancano di mostrare anche uno spaccato sul clima interno alla comunità dei soci, sui legami fra questa e le autorità diplomatiche italiane e, infine, specie nei momenti di maggiore tensione dovuti alle crisi internazionali che coinvolsero Italia e Turchia, i complessi rapporti con le autorità locali11.

10 Se a livello nazionale, all’influente personalità del senatore Pasquale Villari seguirono Luigi Rava (1903-1906) – ministro dell’Agricoltura nel secondo governo Giolitti e poi dell’istruzione nel terzo – e il senatore con la sua trentennale presidenza conclusasi nel 1932; il periodo che va dalla fondazione al 1911 vide susseguirsi sette presidenti alla guida del comitato12. I primi due anni di vita della Dante ad Istanbul furono affidati alla presidenza del prof. Federico Morandi13. Dalla sua corrispondenza con la sede centrale si rileva che il numero dei soci già due mesi dopo l’inaugurazione della sede – stabilita provvisoriamente presso la scuola tecnico-commerciale italiana Principe Amedeo – «supera la sessantina», che si sarebbero tenute tre conferenze per i soci e che dal gennaio successivo si sarebbe pubblicata una rivista quindicinale per iniziativa della Camera di commercio, «che sarà anche organo ufficiale di questo comitato»14. Si tratta de «La Rassegna Italiana», rivista nata, di fatto, dall’accordo fra le due società ma che due anni dopo sarebbe rimasta organo ufficiale esclusivamente della Camera di commercio15, mentre la Dante avrebbe visto la pubblicazione del suo primo Bollettino ufficiale solo nel 1920.

11 La corrispondenza di questo primo periodo di attività si sofferma spesso sul rapporto del comitato con gli ambienti cattolici presenti e operanti in città. Non di rado i soci influenti agirono da mediatori fra la Roma dei ministri e quella del papa, durante gli anni della questione romana. Ne è un esempio la vicenda di padre Aurelio Palmieri16, appartenente all’ordine degli Agostiniani dell’Assunzione. Il 17 dicembre 1895 il presidente Morandi inviò una lettera alla presidenza centrale – che dopo la morte di Ruggero Bonghi, nell’ottobre del 1895, fu retta per un breve periodo da Ernesto Nathan – in cui esprimeva le sue opinioni in merito all’agostiniano. Qualche tempo prima, infatti, padre Palmieri – missionario a Istanbul, nel quartiere di Kumkapı – aveva scritto sia alla presidenza nazionale sia a quella di Istanbul richiedendo libri e riviste italiane, testi di Manzoni, De Amicis, Stoppani e copie de «La Nuova Antologia». L’agostiniano così concludeva la sua lettera a Morandi: «sappia che nel clero italiano l’amor della Patria è sempre vivo, sempre fecondo, e da per tutto malgrado le influenze politiche

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che sembrano schiacciarci di giorno in giorno, noi inalberiamo il vessillo dell’italianità» 17. Morandi, invitato dalla presidenza generale a esporre il suo parere in merito all’opportunità di esaudire le richieste di Padre Palmieri, rispondeva senza indugio che la sua richiesta di libri italiani non solo merita di essere soddisfatta, ma io, a nome di questo comitato, la raccomando vivamente […] perché egli ci sarà di sommo aiuto alla nostra propaganda. Sappia che il villaggio di Cadichioi (Calcedonia) e tutta la costa asiatica sotto Scutari (Haider-pascià, Moda, Fanaraki ecc.) formavano, ancora pochi anni fa, quasi un’isola italiana, la parrocchia era italiana, italiani i preti, ed italiane le principali famiglie che potevano influire sulla gente che va aumentando ogni giorno su quelle ridenti spiagge. Ma dacché vi si stabilirono i preti e le suore francesi, aiutati dalla Santa Sede, qui rappresentata dal Legato apostolico Mons. Bonetti18 (un piemontese!) e ancor più dall’Alliance Française, che qui spende somme favolose, mandando gratuitamente casse di libri, i poveri pochi italiani dovettero ritirarsi, cedere la parrocchia e la chiesa (costruita con denari italiani!) e non fiatare, se non volevano incorrere in disgrazia dei loro superiori. Il padre Aurelio, col quale ho parlato lungamente, è uno dei pochi che abbia resistito, e ci può essere davvero utilissimo, poiché non avendo residenza fissa conosce e frequenta, per i bisogni del suo ministero, la massima parte delle famiglie di Stanbul, di Cadikioi e di Fenerbagè19.

12 Due anni dopo, da Roma si invitava nuovamente la presidenza di Istanbul a inviare notizie su padre Palmieri in seguito a una sua nuova richiesta di volumi. Questa volta il presidente Zaccagnini fu ancora più esplicito nel riferire al segretario generale Donato Sanminiatelli quale sarebbe dovuto essere, secondo la sua opinione, il tipo di rapporto che si sarebbe dovuto istaurare con i religiosi italiani presenti in città: Il padre Palmieri è persona ottima e un bravo italiano: quindi confermiamo le notizie già altre volte date e preghiamo il consiglio di mandargli i libri che chiede. Il parroco di Sant’Antonio, Padre Caneve [Superiore dei Conventuali], ci chiede per la sua scuola: una carta dell’Europa, una carta dell’Italia e una carta mappamondo. Preghiamo vivamente di compiacere anche lui, che, insieme con altri padri della parrocchia è anche socio del nostro comitato e che può, amico, esserci assai utile e, indifferente o ostile, nuocerci o, almeno, non giovarci. Bisogna che anche noi, una volta o l’altra, ci decidiamo, sull’esempio dei francesi, a servirci dell’opera del clero20.

13 I propositi di Zaccagnini erano in sintonia con quelli della presidenza generale – a propria volta in linea con gli indirizzi politici del governo Di Rudinì, di cui Villari era stato ministro dell’istruzione nel primo governo del 1891-92 – e l’impegno profuso da Villari per una nuova impostazione della Dante, più attenta agli aspetti sociali delle comunità italiane e non solo a quelli prevalentemente scolastici, e per caratterizzare la Dante come società, oltre che apolitica, laica ma distante da posizioni anticlericali21, trovò in Zaccagnini un buon interlocutore e un valido esecutore.

14 È stato sottolineato che con la presidenza Villari si istituì fra la Dante e l’istituzione statale «un rapporto dialettico e cooperativo che non vedrà mai la Dante in posizione anti-istituzionale»22, una presa di posizione che, pur essendosi definita proprio durante gli anni del delicato passaggio dal governo Crispi a quello Di Rudinì, in cui il ridimensionamento della prospettiva espansionistica crispina ebbe fra i suoi primi effetti la soppressione, nel 1891, di circa cinquanta scuole governative nel Levante23, fu sostanzialmente seguita anche dal comitato di Istanbul senza far registrare grosse incomprensioni, almeno fino agli anni del fascismo.

15 Se a Roma la Società si rapportava agevolmente con le autorità governative centrali, e soprattutto con il ministero degli affari esteri, deputato a gestire le questioni

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d’emigrazione, i comitati locali avrebbero dovuto trovare i corrispettivi interlocutori nei rappresentanti del governo presso le colonie, vale a dire nel corpo diplomatico italiano. Le relazioni suggeriscono, invece, un rapporto che nei primi anni di vita della Dante non fu sempre piano con il console e l’ambasciatore italiani. Più volte si sollecitò la direzione centrale affinché “facesse pratiche” perché i diplomatici italiani partecipassero più attivamente alle attività promosse dalla società.

16 Avvocato, insegnante e direttore della scuola tecnico-commerciale24, Giuseppe Zaccagnini fu una delle personalità di maggior rilievo all’interno della comunità italiana di inizio secolo. Il suo nome è noto soprattutto come autore dei due volumi, La vita a Costantinopoli, del 1909, e la riedizione con aggiornamenti dello stesso, nel 1926, Ricordi di Costantinopoli25. Poco nota invece la sua attività alla presidenza del comitato locale della Dante, che, seppure durata solo un triennio, dal 1897 al 1899, si distinse per un’intensa operosità che si sarebbe protratta anche al suo rientro in Italia, dove sempre presso la Dante ricoprì la carica di segretario generale dal 1907 al 1926, posizione che gli permise di continuare ad avere un rapporto diretto e intenso con i presidenti suoi successori a Istanbul. Così Zaccagnini descriveva la situazione linguistica e culturale della colonia nel 1897, all’inizio della sua presidenza: Oggi, è vergogna, dirlo, la massima parte degli Italiani che figurano iscritti nei registri del nostro R. consolato, non sanno l’italiano. La loro lingua è il greco o il francese e, se qualcuno, raramente, se ne vergogna, molti ritengono naturalissima la cosa. Però un risveglio, piccolo se si vuole, ma positivo ci fu quando vennero istituite scuole italiane governative; e oggi, moltissimi si lamentano d’essere stati lasciati per il passato privi di mezzo d’istruirsi nella loro lingua e, specialmente tra le signore, non poche replicatamente manifestarono vivissimo il desiderio dell’istituzione d’un corso di studi superiore a quello delle scuole elementari che appunto noi vorremmo istituire26.

17 Alle sue riflessioni lucide e scevre da retorica nazionalista, corrispose un programma altrettanto concreto: intensificare i rapporti fra la Dante e le autorità diplomatiche italiane sul posto – «non già perché si reputi necessario alla vita prospera della “Dante Alighieri” il sigillo della ufficialità, ma perché, all’estero specialmente, dove gli equivoci sono frequenti, e non sempre si hanno pronti e facili i mezzi per dissiparli, il sapere consenzienti e quasi collaborativi in un’opera, quelli che rappresentano il paese, significa per lo meno risparmiare molto tempo e molto lavoro»27 –; ampliare la cerchia dei soci cercandoli, sull’esempio dell’Alliance Française, anche fra gli stranieri; fare leva soprattutto sulle scuole, anche quelle straniere e religiose, per la diffusione della lingua; «se l’Alliance Français, da una colonia che è appena la quinta parte, per numero, della nostra, trova mezzi per sussidiare largamente istituti e diffondere la sua lingua e francesizzare completamente l’ambiente, non c’è ragione, pur riconoscendo per forza la nostra inferiorità in molte cose, per cui anche noi con costanza e buon volere non si debba arrivare a qualche pratico risultato»28.

18 Nel corso del 1898 si finanziarono corsi di italiano nel collegio dei Mechitaristi di Vienna, a Pera, nella scuola parrocchiale di Pangalti diretta dai Frères des écoles chrétiennes, nella scuola dei «padri Giorgiani» di Feryköy, si distribuirono inoltre libri in italiano agli allievi meritevoli della «scuola elleno-cattolica Syphnia» e della scuola parrocchiale dei Conventuali di Sant’Antonio. Fu poi stanziato un sussidio destinato a una scuola di assunzionisti francesi a Zonguldak, importante centro di estrazione carbonifera sul Mar Nero, perché si rendesse obbligatorio l’insegnamento dell’italiano, vista la forte presenza di operai italiani in quella zona29. Vennero istituiti due corsi per

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le «signore e signorine italiane e straniere residenti a Costantinopoli» tenuti da Ernesto Nelli, professore presso la scuola tecnico-commerciale, e dal prof. Ortensio Puorto. I due corsi, uno di livello più avanzato e l’altro destinato a quante ignorassero completamente la lingua, furono frequentati rispettivamente da quattordici e da oltre trenta allieve di varia nazionalità, greca, armena, inglese, tedesca, francese e austriaca. Lo stesso Nelli scriveva al segretario generale, Arturo Galanti, in novembre: Dalla relazione sul mio corso estivo che ti ho inviato, si rileva che 42 sopra i cinquanta iscritti erano non italiani che vennero ad imparare l’italiano l’insegnamento del quale era gratuito e obbligatorio; 20 appartenevano ad altre scuole (turche, greche, armene, ebree); 18 alla preparatoria nostra che è il vivaio della scuola secondaria; perché in essa sono accolti gli alunni che hanno già fatto qualche anno di studio in altra scuola e vi rimangono finché, imparato l’italiano, entrano in uno dei quattro corsi nostri. […] Mi pare che nessuna impresa si possa fare all’estero che più e meglio e tutt’intera entri nel programma della Dante Alighieri30.

19 Dopo le dimissioni di Zaccagnini, l’11 aprile 1900 fu eletto il nuovo consiglio direttivo e Angelo Zanotti ne assunse la presidenza, che avrebbe mantenuto solo per un anno. Giuseppe Zaccagnini lasciava al suo successore 225 iscritti e una riflessione amara, scritta nella sua ultima relazione spedita a Villari il 20 agosto 1899: «sarebbe veramente da disperare del nostro patriottismo se, quale indice, se ne dovesse prendere il rigoglio che la Dante sorta sotto sì lieti auspici e con così alti propositi, ha raggiunto da noi dopo vari anni di vita»31.

20 Zanotti fece suo questo quadro poco incoraggiante attribuendo le deficienze della Dante prevalentemente alle condizioni economiche della colonia – «la nostra colonia è così fatta che pochissimi sono gli aventi, moltissimi i poveri» –, alla quale le già molte società di beneficenza chiedevano sacrifici economici, e chiudeva una delle sue lettere a Roma invocando l’impegno dell’Ambasciatore italiano almeno per accrescere il numero dei soci – «Studieremo, non di meno di fare qualche cosa, ma abbiamo poca fiducia. L’esperienza insegna che da queste parti l’uovo di una buona idea non schiude se non è covato dalla gallina governativa» – e ricordando come, nonostante le difficoltà, l’impegno della Dante aveva portato risultati concreti nell’adempiere al suo scopo di diffusione della lingua italiana all’interno della società di Istanbul: «qui l’opera della Dante è interessantissima. Da che questo Comitato esiste, circa 150 alunni di nazionalità straniere, ogni anno, in collegi e scuole stranieri, imparano l’italiano»32.

2. La stampa e la scuola

21 Dall’aprile del 1901 al settembre del 1907 la presidenza della Dante fu retta da Lewis Mizzi33, anch’egli avvocato a Istanbul e, per la prima volta dalla fondazione del comitato, un presidente di nazionalità non italiana. Lewis era infatti maltese, figlio del magistrato Francesco Mizzi, fratello minore di Fortunato Mizzi34 – fondatore del movimento antiriformista e figura di spicco nella lotta contro l’amministrazione inglese per la difesa della supremazia della lingua italiana nell’istruzione e del cattolicesimo a Malta35. La storia della famiglia Mizzi non è solo la storia del loro impegno politico, ma anche quella di una dinastia di editori e giornalisti. A Malta, fino alla vigilia della seconda guerra il giornale nazionalista «Malta», fondato proprio da Fortunato Mizzi nel 1883, fu l’ultimo baluardo della stampa politica italofona36. Presidente della Dante, Lewis Mizzi proseguì dunque a Istanbul l’azione familiare di

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diffusione della lingua italiana, si trovò però nella curiosa situazione di presiedere il sodalizio deputato a questo scopo essendo contemporaneamente proprietario di un giornale inglese, il «Levant Herald».

22 Fra gli strumenti più efficaci ai fini della diffusione della lingua, la stampa italiana fu invece una nota dolente all’interno della comunità nel XIX e XX secolo. Nonostante fosse unanimemente riconosciuta dai notabili della colonia l’opportunità e anzi l’esigenza di promuovere la creazione di un giornale italiano, non si arrivò mai a dare vita una testata che potesse eguagliare o almeno tentare di concorrere con quelle in lingua francese e inglese37. A voler indagare le cause di questa carenza – che, considerati la consistenza numerica della comunità e i proclami governativi di quegli anni, tutti tesi a promuovere azioni di diffusione culturale, appare quanto meno singolare – essa non sembra potersi attribuire alla totale mancanza di personalità in grado di portare avanti una simile iniziativa. Almeno tre testate a Istanbul infatti, il francese «Beyoğlu», dell’italo-levantino Gilberto Primi, «La Turquie», bilingue italo- francese e l’inglese «Levant Herald», erano di proprietà di italiani, o, come nel caso di Mizzi, di italofoni sensibili alla causa della diffusione della lingua. La «Rassegna Italiana», come accennato sopra, nonostante le iniziali ambizioni della Dante divenne presto organo ufficiale esclusivamente della Camera di commercio, rimanendo di fatto l’unica rivista della comunità pubblicata continuativamente fino agli anni Settanta del Novecento, pur avendo rinunciato a una vocazione prevalentemente culturale.

23 In questo periodo merita invece qualche attenzione la tormentata vicenda del quotidiano «La Turquie», fondato dal giornalista italiano Guglielmo de Bondini nel 1906. Il progetto editoriale di de Bondini non ebbe un esito felice, la testata non si impose mai come organo ufficiale della cultura o degli interessi politici, finanziari e commerciali italiani, come il direttore-proprietario avrebbe voluto, nonostante un milieu politico e sociale almeno teoricamente disposto, anzi desideroso di aver finalmente un giornale italiano di ampio respiro, prezioso strumento di diffusione, oltre che di notizie, della lingua italiana. L’analisi di questo fallimento, tuttavia, può contribuire a fare un po’ di luce su alcune dinamiche in atto fra il 1905 e il 1908 tanto a livello nazionale quanto, soprattutto, all’interno della comunità.

24 Nell’agosto del 1905 de Bondini scrisse al Console italiano a Costantinopoli, il Cav. Ciapelli, affinché intercedesse per ottenere l’iradè imperiale, ossia l’autorizzazione ottomana necessaria per dare avvio alla pubblicazione del quotidiano. Così si presentava: «il sottoscritto, Guglielmo di Bondini, italiano, residente in questa città da molti anni datosi al giornalismo, vorrebbe fondare qui in Costantinopoli un giornale quotidiano, politico, finanziario e di commercio, italiano nello spirito e che potrà un giorno essere redatto tutto interamente in italiano: ma che ora, per poterlo far conoscere, bisognerebbe redigere parte in italiano e parte in francese: italiano però intanto il titolo: “La Turchia”»38.

25 A partire da questa richiesta, l’avventura editoriale di de Bondini fu costantemente accompagnata, da parte delle autorità governative e di buona parte della colonia, da un atteggiamento altalenante fra il concreto appoggio e un’aperta avversione. Questa prima richiesta di de Bondini fu inviata dal Console Ciapelli all’allora ambasciatore a Costantinopoli, il Marchese Imperiali di Francavilla, il quale a sua volta la inoltrò al ministro degli esteri, Tommaso Tittoni. Quest’ultimo rispose molto sinteticamente all’ambasciatore che per la necessaria autorizzazione si sarebbe rimesso al suo giudizio,

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e riferendosi al sostentamento economico dell’iniziativa, aggiunse, «è però evidente che, se il giornale non può essere vitale, è meglio che non se ne inizi la pubblicazione»39.

26 La chiosa di Tittoni faceva presagire una non scontata disponibilità, da parte del governo, di intervenire con finanziamenti a sostegno del giornale. Di fatto, de Bondini iniziò presto a scrivere numerose lettere a Zaccagnini, all’ambasciatore Imperiali e, tramite il gentiluomo di corte il Marchese di Villamarina, scrisse perfino alla regina madre, chiedendole, in occasione dell’uscita del primo numero (ottobre 1906), «un segno che valga a infondermi forza e coraggio per sopportare i sacrifizii impostimi, superarne le difficoltà e tenere, così, alto il nome italiano»40, oltre che una meno esplicita richiesta di aiuti più materiali. Da Stupinigi uno dei Cavalieri di corte di sua maestà scrisse laconicamente a Imperiali di riferire a de Bondini che la regina avrebbe potuto al massimo – e solo nel caso in cui questo fosse ritenuto «meritevole di tale segno della Reale benevolenza» – sottoscrivere un paio di abbonamenti, e aggiungeva di riferirgli inoltre di desistere dall’inviare «carte e giornali» al Marchese di Villamarina, deceduto oramai da anni. Il tono distaccato di queste missive avrebbe sempre accompagnato l’iniziativa di de Bondini, tanto in patria quanto presso la stessa colonia di Istanbul, come lui stesso ebbe a lamentarsi presso l’ambasciatore Imperiali nell’agosto del 1907: «Da tutte le istituzioni italiane, dalle grandi case bancarie, negozianti ed altro, il giornale non ha avuto una sovvenzione qualsiasi, e per gli abbonamenti stessi carità di patria vuole che io non faccia un apprezzamento […]»41.

27 La Dante fu direttamente coinvolta nella vicenda, al punto che gran parte della corrispondenza fra il comitato locale e Roma in questo periodo riguardò proprio il quotidiano. Mizzi, sensibile per esperienza di vita e professionale alle questioni editoriali, riconoscendo il nesso che avrebbe dovuto legare l’esistenza della società e la presenza di un quotidiano italiano, scrisse nel marzo del 1907 a Zaccagnini una lunga lettera nella quale attribuiva la responsabilità del fallimento del progetto debondiniano innanzitutto alla stessa presidenza generale della Dante42.

28 Nel novembre del 1907 Tittoni si mosse in favore di De Bondini, comunicando a Imperiali – che aveva già fatto ottenere a «La Turchia» un sussidio annuo dalla Banca Imperiale Ottomana43 – di attivarsi per fare avere fondi al giornale, suggerendo che «sarebbe opportuno che venissero officiati la Società Commerciale d’Oriente, il Delegato italiano al Debito Pubblico – che può fare molto – le Camere di commercio italiane di Costantinopoli, Salonicco, Smirne, i R.R. consolati d’Italia nell’Impero ottomano, e quante altre istituzioni italiane possano trarre, direttamente o indirettamente, vantaggio da una bene intesa pubblicità politica od economica», e ancora nel luglio del 1908, Tittoni, su sollecitazione di Imperiali, concesse un sussidio di cinquemila lire al giornale, «a carattere di concessione straordinaria, fatta in via di esperimento, e senza impegno per l’avvenire»44.

29 Il 1908 segnò la fine di questo esperimento, decretandone il sostanziale fallimento. Con l’annessione della Bosnia da parte dell’Austria-Ungheria e a seguito dei provvedimenti per la libertà di stampa introdotti con il ripristino della Costituzione dopo la rivoluzione dei Giovani turchi, de Bondini impresse al suo giornale un indirizzo politico marcatamente antitriplicista, che spinse anche l’ambasciatore Imperiali, che fin dall’inizio era stato principale interlocutore e sostenitore dell’iniziativa nell’ambiente governativo (attirando sull’ambasciata non poche critiche da parte della colonia), a ritenere oramai sconveniente qualsiasi sostegno al giornale – «Io avevo propugnato l’idea di un giornale italiano a Costantinopoli, in altri tempi e in altre condizioni, cioè

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quando, con la censura, si era al riparo di ogni pericolo di disquisizioni politiche di alcun genere». Posizione che il ministro Tittoni fece sua e chiaramente espresse allo stesso Imperiali il 23 novembre 1908: «La condotta del de Bondini ha sufficientemente dimostrato che non si possa prendere in seria considerazione l’offerta dei suoi servizi e sempre più mi convinco che sia meglio di non aver rapporti con lui. Rimane soltanto il vivo rincrescimento di avergli corrisposto una somma non indifferente»45.

30 La dichiarazione di Tittoni, che suonava come l’epigrafe funebre dei legami fra de Bondini e il governo del Regno, comportò in realtà solo un’interruzione di questi ultimi. Con l’avvicendamento di Antonino di San Giuliano a Tittoni al ministero degli esteri, nel 1910, e quello di Camillo Garroni a Imperiali all’ambasciata, «La Turchia» fu presentato dal nuovo ambasciatore come «organo ufficioso dell’Ambasciata, cui non ha mai rifiutato il proprio concorso»46, riuscendo così a ottenere dal ministero degli esteri una sovvenzione mensile di milleduecento lire. De Bondini sospese poi le pubblicazioni nel giugno del 1915 quando, con l’ingresso dell’Italia in guerra accanto all’Intesa, la censura ottomana non consentì più la pubblicazione di articoli che non fossero in favore degli Imperi centrali. È difficile stabilire se le cause del disinteresse da parte degli ambienti romani, governativi e della Dante, debba attribuirsi esclusivamente alla personalità di De Bondini, personaggio indubbiamente controverso e discusso all’interno della comunità italiana di Istanbul. Certamente, in linea teorica, il comitato di Costantinopoli avrebbe potuto godere di straordinarie attenzioni nella particolare fase che stava attraversando la Società a livello nazionale.

31 Bisognerà aspettare il 1920 perché la Dante si doti di un proprio organo di stampa. A partire dal maggio di quell’anno, infatti, fino al maggio del 1924, si dispone di una fonte preziosa e dettagliata per seguire le attività dell’associazione nella comunità: il «Bollettino della Dante. Organo del comitato di Costantinopoli». Annunciato da Joli a Zaccagnini a gennaio47, il primo numero si aprì con il programma del comitato, che ribadì come dovere di ogni italiano dimorante fuori dai confini della patria doveva essere usare, conservare e diffondere la lingua nonché «persuadere chiunque che la Dante Alighieri è inspirata unicamente dal più schietto sentimento d’italianità e che è aliena da qualsiasi competizione politica e religiosa»48. Il Bollettino conteneva inoltre un articolo sull’attività della Dante in Italia e all’estero dalla sua fondazione, l’elenco dei 63 soci perpetui – ossia quanti versavano una soluzione unica di 150 Lire italiane – l’annuncio della ripresa dei due corsi femminili, notizie sulla biblioteca circolante e un articolo in cui si riportava la cronaca della festa annuale commemorativa della fondazione della Dante. Infine, le ultime pagine erano dedicate agli sponsor, l’uso sapiente dei quali, come scrive lo stesso Joli, consentì di coprire tutte le spese per la pubblicazione. Quel che appare subito evidente scorrendo l’elenco dei nomi o dei luoghi che riempiono le pagine pubblicitarie di questo primo numero del Bollettino, è la valenza anche politica che essi esprimono, che va oltre la stretta funzione di finanziamento e che a ben guardare stride con le dichiarazioni di apoliticità del programma del comitato – le stesse, tra l’altro, della Società a livello centrale.

32 Concepito come strumento di penetrazione culturale, il Bollettino fu infatti sostenuto dai principali protagonisti della parallela azione di espansione economica e commerciale italiana, vale a dire la Banca italiana di sconto, la Banca commerciale italiana, il Banco di Roma, la Riunione Adriatica di Sicurtà, la Società italiana di servizi marittimi, l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni, la società di trasporti e comunicazioni Intercontinentale, le Assicurazioni Generali di Venezia e il Lloyd

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Triestino, tutti organismi che ricoprirono un’incisiva funzione politica nei territori di interesse coloniale o inclusi nel raggio d’azione della spinta imperialistica. Del resto, la pretesa di mantenere una posizione apolitica venne ribadita proprio nel 1920 anche a livello nazionale, dove da tempo era in corso uno scontro fra due correnti interne, una a favore dell’intervento attivo della Dante anche nel territorio nazionale – e non solo nell’ambito dei comitati esteri, come sanzionato dallo Statuto – l’altra invece aperta a una partecipazione attiva dei comitati nella vita nazionale in occasioni di significativi avvenimenti anche politici. Questa seconda linea, respinta fino al 1920, prevalse inevitabilmente dopo la guerra, ancora accompagnata da una condizione di apoliticità destinata però a infrangersi presto contro le ingerenze (e le seduzioni) dell’ascesa fascista49: una seduzione che nel comitato di Istanbul avrebbe dato presto i suoi frutti.

33 Per quanto concerne le scuole italiane a Istanbul volute dalla Dante, la loro vicenda seguì l’andamento del dibattito nazionale. Dopo il 1903 il tentativo di imprimere definitivamente alla Dante un’impostazione basata sugli ideali democratici risorgimentali lasciò il posto a una visione che, da questo momento in poi, avrebbe risposto prevalentemente alle tensioni imperialistiche50. Neppure la crescente attenzione per i grandi centri d’emigrazione transoceanica riuscì a far prevalere le ragioni sociali dell’azione della Dante sul vigore della spinta espansionista. Nel XV congresso nazionale fu esplicitamente dichiarato che le scuole del Levante non avevano in realtà alcuna utilità in quei paesi in cui l’emigrazione propriamente detta non era più numericamente interessante, perché gli italiani presenti erano oramai prevalentemente figli di quanti, legati al mondo del commercio, si erano stabiliti in quei territori51, ma già nel congresso nazionale dell’anno successivo, il Levante, e più in generale il mondo musulmano si imposero nuovamente all’attenzione dell’assemblea. Le relazioni di Enrico Insabato52 e i suoi progetti per l’insegnamento nei paesi musulmani e quella sulle scuole italiane del Levante di Giuseppe Solimbergo riportavano entrambe l’attenzione sui potenziali vantaggi che un sistema di scuole italiane nel Levante avrebbe potuto restituire in termini politici ed economici. E a quanti obiettavano che i numeri dell’emigrazione imponevano maggiori interventi nelle Americhe, Solimbergo replicava che la valenza politica dell’area mediterranea costituiva un fattore imprescindibile: le altre nazioni hanno altro: dei continenti interi popolati della loro razza, vasti imperi coloniali, colossali interessi industriali e commerciali noti al mondo. Noi non abbiamo in vista che il Mediterraneo – come in antico. Quello è il nostro naturale campo, e il più importante, di osservazione e di operazione: con l’Italia che vi si slancia attraverso; con tante vive traccie [sic] che vi abbiamo lasciato dappertutto, nel nostro passato, sulle isole e sulla terraferma – rovine che ora accennano come a rianimarsi, nel sentimento e nella fede dei nostri, che vi stanno intorno, con la coscienza di una patria che va crescendo nella sua produzione e nei mezzi della sua difesa, che comincia a contare; con la penisola Balcanica che rasenta l’Adriatico; con l’Africa che si arriva a vedere53.

34 Più analitica e più orientata verso il delicato problema della comprensione dell’Islam – tematica che si sarebbe posta in termini più concreti dopo la guerra di Libia ma già presente nel dibattito politico italiano a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento54 – si presentava la relazione di Insabato. Sostenitore di un modello di scuola italiana all’estero laica, specie nelle province musulmane, Insabato proponeva di creare scuole differenziate per italiani e per indigeni e intanto di introdurre dei corsi di giurisprudenza m,usulmana al fine di incoraggiare i locali ad inviare i propri figli in scuole percepite come amiche e rispettose della religione del luogo55.

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35 Considerando la virata nazionalista e l’attenzione verso il mondo mediterraneo, ci si aspetterebbe in questo periodo un’intensa e organizzata attività del comitato di Costantinopoli, invece se si mettono a confronto le linee programmatiche emergenti dagli atti dei congressi nazionali e la corrispondenza inviata dal comitato di Istanbul a palazzo Firenze, si riscontra come alle strategie di diffusione della lingua e di propaganda nazionale elaborate presso il comitato centrale corrispose in realtà un’attività a Istanbul in cui l’elemento prevalente fu la forte conflittualità interna fra le personalità più in vista della colonia. Dopo la fine della presidenza Mizzi e una breve parentesi di D’Agostino, fu eletto il marchese Alberto Theodoli di Sambuci, fondatore della locale sede del Banco di Roma e futuro senatore del Regno, partito però poco dopo l’elezione, lasciando il suo posto all’architetto Edoardo De Nari, il quale impresse effettivamente un indirizzo più decisionista alla Dante dopo un periodo di tendenziale immobilità, ma fu a sua volta al centro di numerose polemiche sollevate soprattutto rispetto ai suoi atteggiamenti esterofili.

36 Alla vigilia della rivoluzione dei giovani turchi quindi, la Società aveva all’attivo 283 soci, finanziava corsi per signore e signorine, aveva sospeso i corsi di italiano nelle scuole straniere – «un’esperienza di alcuni anni che pare non abbia dato risultati soddisfacenti»56 – promuovendo però corsi diurni destinati a studenti di istituti stranieri. Questi ultimi furono frequentati da novantuno allievi, e a essi si aggiunsero corsi serali destinati a impiegati e artigiani cui si iscrissero in ventiquattro. I centoquindici frequentanti queste due tipologie di corso erano tutti stranieri, e proprio sulla maggiore partecipazione dei non nazionali alle attività della Dante, De Nari, recuperando l’impostazione che era già stata di Zaccagnini, puntò per un rilancio delle attività della Società57. Quanto alle iniziative in ambito scolastico, allo stesso Zaccagnini De Nari scrisse rilanciando l’idea, più volte carezzata nella comunità, di fondare una scuola elementare gratuita: Ultimo e più importante dei progetti. Creazione di una scuola italiana, popolare gratuita a Galata. E punto! […] Dove, secondo lei, la Dante dovrebbe manifestare il più d’attività? Per me in Oriente – Egitto – Costantinopoli – Albania. Ora in Turchia, a Costantinopoli c’è la doppia utilità, influenza morale e beneficio materiale. Colla conoscenza della lingua c’è la conoscenza del paese e con questa quella dei suoi prodotti, delle sue potenzialità artistiche, industriali, commerciali. […] Tutti grideranno che i miei progetti son pazzi (come chi li fa) ma io li sosterrò, se lei mi dà buone speranze, e se questo consiglio non ha l’energia voluta, l’anno venturo farò scegliere altri elementi o più forti che mi secondino, o più deboli che mi lascino fare58.

37 La scuola elementare fu probabilmente, in questa prima fase, una delle idee meglio concepite dal Comitato. Nel 1909 il ministero degli esteri avallò la proposta della sua istituzione, la già esistente scuola elementare di Pera divenne a pagamento e al comitato, sprovvisto dei mezzi economici necessari per creare dal nulla l’edificio scolastico, fu messo a disposizione gratuitamente il terreno adiacente al regio ospedale italiano e la garanzia di un contributo dal ministero. Progettata da Mongeri e De Nari e costruita in tempi sorprendentemente brevi, la scuola fu aperta il 10 dicembre 1910.

38 L’11 marzo 1909 Emilio Marchione, direttore della nuova scuola elementare della Dante, inviava al dottor Riccardo Zeri, allora presidente del comitato locale, la prima, lusinghiera relazione sull’andamento dell’istituto: Gl’insegnanti comandati a prestar servizio in essa furono due, ma per il numero sempre crescente di allievi, presto si rese indispensabile l’opera di un nuovo educatore, che fu fatto venire dall’Italia, non trovandosi in città persona idonea al

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delicato ufficio. Oggi la nuova scuola conta 224 alunni, ed a misura che se ne conosce l’indirizzo educativo, le decenza del locale e la bontà della refezione, aumentano le iscrizioni; cosicché comincia persino ad imporsi la necessità di provvedere alla nomina di un altro insegnante59.

39 Marchione riferiva anche la ripartizione secondo la nazionalità dei 244 iscritti, 96 italiani e 123 ottomani, di questi ultimi poi, 60 erano turchi, 12 armeni, 25 israeliti e 26 greci. A questi si aggiungevano 2 russi, 1 austriaco, 1 francese e un persiano. Si istituirono quattro classi che seguirono gli stessi programmi delle scuole del Regno, «con qualche lieve modificazione per renderli più conformi alle esigenze ed ai bisogni locali». Dalle 14 alle 16, «dopo due ore di riposo assegnate alla refezione e alla ricreazione, vengono svolti i programmi delle materie complementari, destinate ad imprimere il carattere particolare della scuola, e cioè: il turco, il francese, il lavoro manuale, il disegno industriale, la plastica e la musica», queste ultime tre materie, specificava Marchione, erano insegnate a titolo gratuito. La scuola dunque rispose fin dalla sua istituzione alla missione di mantenere l’italianità fra i connazionali e diffondere lingua e cultura italiana fra le popolazioni autoctone e straniere, eppure già dal maggio del 1911 Marchione scriveva a Zaccagnini che le pesantissime difficoltà economiche avrebbero presto minato l’esistenza della scuola se il governo italiano non fosse intervenuto con sussidi congrui, non solo, ma riferiva di un atteggiamento inizialmente poco propenso da parte delle autorità consolari per la concorrenza che la scuola della Dante stava esercitando nei confronti della regia scuola elementare, atteggiamento divenuto favorevole, scrive ancora Marchione, dopo che il Console ebbe verificato l’efficienza dell’istituto60. L’intervento del Console presso il ministero degli esteri non diede frutti, come scrive il presidente Zeri nella relazione di luglio sulle attività svolte dalla Società durante l’anno, relazione che, dopo avere illustrato i risultati eccellenti della scuola, si concludeva con una sorta di ultimatum al governo, il cui mancato intervento avrebbe comportato inevitabilmente la chiusura della scuola61.

40 L’ipotesi di dover porre fine a un’iniziativa che stava dando ottimi frutti, perfettamente rispondente alle oramai decennali aspirazioni espansionistiche del Paese, sorta inoltre in una delle zone di maggiore interesse politico e commerciale e in un periodo di fortissima rinascita del sentimento nazionalista, sia a livello governativo sia presso la direzione centrale della Società, si presentava quanto meno come un’anomalia, la cui origine si può probabilmente rintracciare in una sorta di profonda incomprensione fra la base dei comitati locali e il governo centrale62. La chiusura della scuola sopravvenne comunque nel 1911, imposta infine non dalla mancanza di fondi ma dalla deflagrazione della guerra di Libia, per la quale la colonia italiana si trovò improvvisamente a vivere in territorio nemico. È in questa occasione che per la prima volta, nella documentazione a diposizione fanno irruzione elementi di vissuto relativi ai rapporti della colonia con l’ambiente esterno, le corrispondenze del presidente Zeri a Zaccagnini offrono uno spaccato di quotidianità durante i mesi di conflitto che, pur immerso in un clima ovviamente teso, non rivela momenti particolarmente drammatici63: […] il punto nero era però la questione finanziaria, che, dopo lunghe trattative col R. Ministero e col comitato centrale, si era potuta infine favorevolmente risolvere per l’anno scolastico 1911-1912. Ma sopravvenne la guerra. Ci trovammo allora costretti a chiudere la scuola; il Ministero e il comitato centrale ci sospesero il sussidio, mentre il nostro bilancio era già in deficit, e mentre avevamo presi degli impegni con alcuni insegnanti. Dopo lunghe pratiche col Comitato centrale, questi indennizzò l’insegnante D’Ardes che noi avevamo già impegnato per l’anno scolastico e indennizzò l’insegnante di francese. Non fu però indennizzato

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l’insegnante di turco, malgrado che questi, avendo presi impegni con noi, per la nostra scuola, avesse rinunziato ad altre lezioni, e, essendo straniero, più degli altri avrebbe meritato qualche riguardo. […] Ora ci domandiamo; la scuola popolare deve continuare o no? Il consiglio è stato sfavorevole alla riapertura della scuola, primo perché l’impresa è grande in paragone delle risorse finanziarie della società, secondo non crede che il momento sia opportuno per avere due scuole; tutti i nostri sforzi devono ora farsi, onde la scuola governativa risorga rigogliosa per qualità e per numero d’alunni; quando ciò sarà avvenuto si cercherà di risolvere i problemi della scuola a pagamento e della scuola popolare»64.

41 In effetti la soppressione della scuola della Dante risanò la regia scuola elementare. Secondo le cifre riportate dall’Annuario scolastico, nel 1911 risultavano iscritti alla scuola elementare governativa 23 alunni, mentre alla scuola popolare della Dante 245. Soppressa quest’ultima e riprese le attività scolastiche dopo la conclusione del conflitto, nel 1913 gli iscritti alla scuola regia furono 144, tornando sostanzialmente agli stessi numeri fatti registrare prima dell’apertura della scuola della Dante65. Purtroppo non si dispone della documentazione dettagliata delle iscrizioni per entrambe le scuole, ma si può verosimilmente dedurre, visto l’andamento dei numeri, che si trattò degli stessi iscritti che passarono da una scuola all’altra, ed essendo i programmi di studio, in entrambi i casi, ricalcati su quelli governativi, la brevissima parentesi della scuola elementare popolare della Dante non rappresentò tutto sommato un elemento di discontinuità nell’ambito del progetto educativo italiano ad Istanbul. Fu però un’esperienza interessante rispetto agli equilibri interni della parte più attiva della comunità italiana. Contrariamente a quanto stava accadendo in quegli stessi anni intorno alla vicenda de «La Turchia», che aveva evidenziato ed esacerbato alcune tensioni fra i soci – tensioni che, si vedrà successivamente, negli anni della fascistizzazione della Dante sarebbero riemerse – la gestione della scuola italiana fu caratterizzata da una laboriosa e unanime collaborazione. La scuola, non più operativa dal 1912, fu chiusa definitivamente nel 1913 e lo stabile venduto al governo.

42 Del resto la situazione nel Paese era radicalmente cambiata. Mentre il nazionalismo italiano cercava le proprie declinazioni più consone ai suoi obiettivi nell’Impero, il nazionalismo turco aveva fatto irruzione nell’età hamidiana fra il luglio del 1908 e l’aprile del 1909. La rivoluzione dei Giovani turchi aveva imposto prima il ripristino della costituzione del 1876 e poi l’abdicazione di Abdulhamid. Quali furono le ripercussioni di questi cambiamenti nella vita della Dante di Istanbul? A giudicare dalla corrispondenza conservata, si direbbe nessuna. Fatta eccezione per un appunto inviato a Roma da Luigi Joli, capo contabile alla manifattura dei tabacchi, in cui riferiva che «le sorti della Regìa sono indecise, poiché i Giovani turchi, malgrado le molte belle cose fatte, sono poco propensi a rinnovare la concessione nel monopolio tabacchi»66. Per quanto ci è dato sapere, il vento rivoluzionario del luglio 1908 passò dunque sulla Dante senza stravolgere la vita del sodalizio, le cui attività non subirono variazioni di programma. Risonanza assai maggiore ebbe presso il comitato, anche per la provenienza di molti dei suoi soci, la notizia del terremoto che devastò Messina e Reggio Calabria nel dicembre dello stesso anno, in seguito alla quale tutte le attività della Dante vennero sospese escluse quelle relative alle scuole.

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3. Le donne, i giovani, “Italica Gens”. Prove di nazionalizzazione, 1912-1922

La condizione economica del nostro comitato è peggiore di quando ebbi l’onore di scriverle lo scorso novembre. Causa la guerra balcanica il paese è nella più grande miseria, ed è difficile di incassare le quote, e tanto più di dare una festa in favore della Dante. […] Il corso d’italiano alle signore e signorine è cominciato sin dal gennaio u.s.; l’affluenza delle allieve della migliore società di Pera è stato numerosissimo. Il primo corso è frequentato da 50 allieve, e il corso superiore da 30. È stato anche organizzato un ciclo di conferenze e tra breve ne sarà data una anche dal nostro console generale cav. Tritoni67.

43 Così il dottor Riccardo Zeri riassumeva la situazione della colonia e del comitato alla presidenza generale nel marzo 1913. Tutta la prima parte del decennio 1912-1922 fu dominata dal clima bellico che si estese dalla guerra di Libia al primo conflitto mondiale senza soluzione di continuità, e dal giugno del 1915 al luglio del 1919 non si conserva alcuna comunicazione fra Istanbul e la sede centrale. Fino al 1915 tuttavia, le attività della Dante, pure dovendo svolgersi fra difficoltà ancora più accentuate rispetto agli anni precedenti, specie dal punto di vista economico, procedettero, e in alcuni casi anche con successo.

44 I corsi femminili nel febbraio 1914 fecero registrare un aumento tale che fu necessario creare quattro classi distinte e affidarle ad altrettanti insegnanti. È interessante che fin dalla sua istituzione, il corso di lingua destinato alle donne ebbe sempre un numero elevato di iscritte, tanto che questi corsi furono gli unici a non essere mai sospesi – al di là dei periodi di guerra e di conseguente cessazione totale delle attività. Fino ai primi anni Venti non si dispone di informazioni più dettagliate relativamente alle iscritte, non è dato dunque sapere di che nazionalità fossero, di che estrazione sociale e cosa le spingesse ad imparare la lingua italiana. Successivamente, si riferirà che le partecipanti furono prevalentemente donne di nazionalità europea, soprattutto greche, ma non turche, a parte qualche rara eccezione. Certamente a livello propositivo la partecipazione attiva dell’elemento femminile della comunità nel comitato di Istanbul non sembra essere stata particolarmente significativa. In un appunto del 1901, probabilmente di Mizzi, si annotavano le imminenti proposte del comitato e fra queste si annunciava che sarebbe stato costituito un «comitato di signore», proprio «allo scopo di porgere alimento nuovo e perenne ai corsi d’italiano già da qualche anno iniziati da questo comitato», oltre che per «promuovere e bandire concerti, rappresentazioni, conferenze a pagamento, ricreatori popolari, allo scopo infine di compiere qualunque atto che il consiglio, l’assemblea, le circostanze e il discernimento innato degli animi femminili suggeriranno»68. Qualche settimana dopo, in effetti, fu inviata una comunicazione firmata da sette donne, molte delle quali erano mogli o familiari dei dirigenti del comitato, con la quale si sollecitavano tutte le signore italiane residenti a Istanbul a dare vita al comitato femminile. A questo fine erano invitate a un’assemblea generale dove «verranno esposte le ragioni e gl’intendimenti per cui la donna è chiamata a partecipare ai lavori di una istituzione così nobile ed elevata»69. Oltre questo invito, nella documentazione non c’è più traccia del comitato. La Dante di Istanbul d’altronde, pur non mancando di dedicare attenzioni al modo femminile70, non si distinse mai per posizioni particolarmente progressiste. Tale era stata del resto a inizio secolo la posizione della Società centrale, che promosse sì proprio in questi anni un sempre maggiore coinvolgimento della componente femminile, ma solo in quanto

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questa era ritenuta ancestralmente in grado di risultare efficiente nell’opera di propaganda71. Si dovrà aspettare la svolta nazionalista, dopo il primo decennio del Novecento, per una ridefinizione del ruolo femminile oramai strettamente connesso con la missione di sostegno alla patria, e definitivamente consacrato, dopo la grande guerra, alla visione epica del sacrificio della madre72.

45 La biblioteca della Dante del resto, assorbita successivamente da quella della Società operaia e ancora consultabile nella sede di quest’ultima, non offriva alle socie letture di ampio respiro. Nel primo numero della rivista «Italia!»73, per esempio, la rubrica La pagina della donna italiana ospitò un articolo di Teresita Guazzaroni significativamente intitolato Dall’ufficio alla casa, L’esperienza di una donna, in cui l’autrice fa confessare alla sua amica la sua scelta di tornare, dopo una parentesi lavorativa come segretaria in un ufficio – non a caso in Inghilterra, terra delle suffragette, dove la protagonista del racconto si era laureata e aveva infine trovato lavoro – alle faccende casalinghe. Concludeva la Guazzaroni: «La breve storia della giovane donna che dalle cure dell’ufficio, attraverso piccole tristi esperienze torna al lavoro sempre fresco e nuovo della casa è una storia vera. Io non faccio neppure i commenti»74. Questa e altre letture non dissimili proponevano un modello di donna remissiva, posta a distanze siderali dalle coeve battaglie di Emmeline Pankhurst e assoggettata al giudizio strisciante di una pubblica opinione tutta al maschile che si limitava a esprimere una visione conservatrice nel caso delle italiane, ma si manifestava e si accaniva anche con veemenza sulla componente levantina della comunità femminile. La donna levantina di Istanbul era considerata irrimediabilmente corrotta dalla componente orientale, lasciva per sua natura, canonizzata in certa pubblicistica ed espressa negli umori popolari attraverso una serie di stereotipizzazioni entrate a far parte del comune linguaggio – «chi vuol far la sua rovina, sposi donna levantina»75. Immersa in questo clima, dai documenti a disposizione emerge come l’opera della parte femminile della colonia si esaurì, di fatto, nell’impegno in beneficenza, in attività assistenziali o di cura dell’infanzia, per esempio presso i refettori delle scuole elementari.

46 Alla fragile esperienza del comitato femminile, si affiancò quella breve ma inizialmente più consistente di un sottocomitato studentesco, fondato nel novembre del 1913. Prima esperienza di questo genere fra tutti i comitati esteri della Dante, il sottocomitato era sorto per iniziativa del professor Giovanni Ferretti, insegnante dell’istituto tecnico commerciale e patrocinato anche dalla Società operaia. Come recitava il regolamento, esso era aperto a «tutti i giovani italiani o stranieri che frequentino scuole italiane o straniere a Costantinopoli e accettino lo statuto sociale e il presente regolamento. Tutti i soci a qualunque nazionalità appartengano dovranno parlare la lingua italiana e aderire consapevolmente agli scopi della Dante»76. Nella relazione che Mario Zelempopulo, presidente del sottocomitato inviava il 26 giugno a Roma, egli riferisce di 80 soci in regola con i pagamenti, di questi, 25 erano studenti provenienti dalla regia scuola tecnico-commerciale, 19 dal corso preparatorio per questo stesso istituto, 16 dalla regia scuola elementare maschile, 3 dalla regia scuola femminile italiana, 2 dal convito italiano dei salesiani, gli altri 15 da scuole straniere.

47 Questa prima esperienza di associazionismo giovanile in ambito scolastico nasceva di poco in ritardo rispetto alle prime iniziative che, entro i confini del Regno, stavano coinvolgendo a tutti gli effetti gli ambienti della gioventù italiana nel grande processo di costruzione identitaria nazionale77. Così come in patria la nazionalizzazione dell’infanzia andava sempre più imponendosi come «un fattore decisivo della

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nazionalizzazione delle masse»78, a Istanbul il tentativo di coinvolgere la fascia più giovane della colonia riproponeva in proporzione la stessa dinamica: nazionalizzare i giovani studenti per rafforzare il sentimento di appartenenza della colonia. E nuovamente, anche rispetto allo sviluppo dell’associazionismo giovanile ritorna in questo periodo il ruolo centrale dell’imperialismo e le conseguenti potenzialità insite nella comunità di Istanbul a questo riguardo. Ricorda ancora Gibelli che «l’imperialismo come fenomeno sociale e culturale complesso sconta una dipendenza dal controllo e dalla mobilitazione dell’immaginario. Le missioni imperiali devono essere raccontate con immagini fascinose per ottenere il consenso e suscitare le energie necessarie al loro sviluppo», e come in questo senso la guerra di Libia fu il primo grande evento catalizzatore prima della grande guerra. L’avvento della prima guerra mondiale interruppe presto l’azione del sottocomitato, che pure ebbe modo di intraprendere e portare a termine alcune iniziative, fra le quali la diffusione di riviste italiane presso circoli giovanili di altre nazioni79, ma l’attivismo del sodalizio andò declinando nel dopoguerra, come riferisce Luigi Joli a Roma: Il sottocomitato studentesco si ricompose con elementi non più disciplinati come prima. Gli ex scolari erano diventati giovinotti azzimati e boriosi, con pose d’impiegati superiori del Banco di Roma o della nuova banca commerciale o della nuovissima banca di Sconti. E la loro attività si svolse piuttosto a dar delle feste di ballo, e ne diedero un paio, devolvendo una buona parte degl’introiti ad offrire “champagne” e pasticcini alle signore e signorine civettuole. Il locale della Dante era diventato nient’altro che il ritrovo di questi neo-superuomini […]. Fra i cortigiani v’era però qualche elemento possibile. Da questo fu presa l’iniziativa – a onor del vero – di ricominciare un corso d’italiano per le signorine affidandone l’incarico ad un certo sig. Porta, architetto, che faceva pure provvisoriamente l’insegnante alle RR. Scuole, aperte sì, ma pericolanti, perché il governo non mandava i maestri […]80.

48 Rispetto a quanto stava avvenendo dal punto di vista educativo nel territorio nazionale, come si è già detto, la comunità italiana di Istanbul aveva fatto registrare un minimo ritardo, mancando, per esempio, esperienze centrali di aggregazione giovanile quali quella dello scoutismo, e neppure la guerra di Libia – che porterà la stessa Dante a maturare il definitivo passaggio dall’adesione agli ideali risorgimentali a quelli nazionalistici81 – aveva comportato cambiamenti significativi nell’organizzazione dell’infanzia e della gioventù italiana della colonia. Alla fine della grande guerra invece, anche la comunità italiana di Istanbul mostrò i segni della profonda cesura che il conflitto aveva impresso nelle popolazioni coinvolte. Anche se a livello strettamente societario il baricentro delle grandi discussioni del comitato centrale si era inevitabilmente spostato sull’azione dei comitati nelle terre irredente82, gli effetti più generali del conflitto non tardarono ad investire il Levante e uno dei primi segnali ad Istanbul fu proprio la riorganizzazione dei luoghi di sociabilità giovanile. Dell’indisciplina lamentata da Joli negli ambienti del sottocomitato studentesco non si ha più notizia, mentre lungo la grand Rue de Péra si impose il ritmo marziale delle parate dei Giovani esploratori che sfilavano nelle loro ordinate uniformi83, «ammiratissimi pel loro portamento corretto e disciplinato»84.

49 Il loro programma andava oramai oltre il generico attaccamento alla patria e all’amore per la lingua, «Il programma di vita dei “Giovani Esploratori” è un programma di rettitudine, di energia, di educazione morale e civile»85. Anche la Dante riprese le sue attività animata da nuovo spirito:

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Questo comitato locale ha deciso di tenere, fra qualche giorno, l’assemblea generale dei soci, che non aveva più avuto luogo dal principio della guerra, onde il nuovo consiglio che verrà eletto, possa riprendere l’attività dell’ante-guerra, e darsi con maggior lena alla propaganda dell’idea e della lingua italiana che devono imporsi in tutto il Levante, ora specialmente, che la dura guerra da noi vinta, ci ha innalzati alla vera funzione di grande potenza civilizzatrice nel mondo86.

50 Nel luglio 1920, in un lunghissimo articolo intitolato L’Italia sul mare, ripercorrendo le antiche glorie italiche dalle imprese di Roma a quelle del Duca degli Abruzzi, si riproponeva il consueto topos del ritorno allo splendido passato, per poi chiudere con l’esortazione dannunziana «arma la prora e salpa verso il mondo!»87. L’autore dell’articolo era Padre Ferdinando Parri da Pesaro88, che sarebbe divenuto solo pochi mesi dopo uno dei più energici sostenitori del fascismo di Istanbul. Parri fu anche uno dei promotori, nel 1922, del segretariato cittadino dell’“Italica Gens”89, la Federazione per l’assistenza degli emigranti d’oltre oceano e del Levante. L’associazione, improntata a uno spirito patriottico e nazionale, faceva parte di quella costellazione di organismi sorti nel primo decennio del Novecento per rispondere all’esigenza della Chiesa di intervenire in chiave assistenziale nella questione migratoria.

51 Quanto ai rapporti fra la Dante e la Chiesa, a livello nazionale l’influente personalità di Ernesto Nathan, alla vicepresidenza della Dante dal 1889 al 1920, aveva mantenuto con fermezza una linea di laicità – seppure mai connotata da anticlericalismo – che a partire dal 1920 sarebbe venuta meno, denotando una maggiore apertura agli ambienti clericali90. La prima adunanza dell’“Italica Gens” si tenne nella consueta sala della Società operaia, il primo dato evidente che emerge dal resoconto che propone il Bollettino è come i membri del comitato siano i soliti Joli, Mongeri, Pellegrini, Chabert, Leone (le stesse persone cioè che animavano e guidavano la Dante, la Società operaia, la Società di beneficienza e praticamente tutte le altre forme di associazionismo italiano della colonia). L’elemento di novità era costituito invece dalla presenza di Padre Parri, che tenne il discorso inaugurale e spiegò quale sarebbe stata l’azione del nuovo organismo – «essa, in perfetta intesa con le autorità governative, si propone di coordinare la sua attività a quella spiegata dallo Stato e di supplire colla sua organizzazione ai molti bisogni e ai molti compiti cui l’azione governativa non può arrivare» – quali le sue finalità – «migliorare le condizioni religiose, morali, intellettuali ed economiche degli italiani all’estero» – e quali i mezzi – «Chiesa, Scuola, Segretariato»91.

52 Dopo aver ribadito che l’Italica aveva un carattere eminentemente nazionale e sociale, e che non era un’associazione religiosa, Parri spiegava il motivo per cui la Chiesa aveva, di fatto, un ruolo essenziale come luogo dove «nel rito, nella lingua, nelle manifestazioni dell’arte trovino la Patria, mantengano il loro carattere e conservino il conforto di congiungere insieme i due grandi ideali: Dio e Patria». La morale umana, sosteneva Parri, doveva essere alla base di ogni azione, a prescindere dalle posizioni sociali, religiose o politiche degli individui, ma mentre una piccolissima parte dell’umanità poteva rintracciarla al di fuori della religione, nella scienza o nella filosofia, continuava il francescano, il popolo non conosceva queste distinzioni, dunque, concludeva, per il popolo moralità e religione coincidono, «insegnare al popolo la religione è insegnargli la base della morale, la sorgente dei suoi doveri, la ragione ultima della sua onestà, il segreto della sua grandezza»92. Altrettanto importante per la conservazione del sentimento nazionale era considerata la scuola, non solo in quanto luogo di apprendimento della lingua e della cultura natie, bensì anche come spazio di formazione di una sorta di coscienza dell’emigrato che veniva così affrancato dal ruolo

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che – nella visione dei nazionalisti – gli era stato attribuito dai liberali, quello cioè di protagonista in negativo di un’emigrazione che svuotava il paese delle sue forze vitali e produttive93. Il nuovo emigrante doveva essere invece investito in modo diretto e consapevole della sua novella missione imperialista: la Federazione si interessa perché si dia alla lingua italiana un’importanza uguale a quella della lingua del luogo, dove s’ispiri all’emigrato che il suo esilio non è effetto di decadenza della nostra Nazione, ma di fenomeni transitori economico-sociali. È questo un punto che L’“Italica Gens” vuole ben chiarito e sviluppato nelle scuole, affinché i giovani abbiano del fatto dell’emigrazione una comprensione esatta. Essi devono restar persuasi che certi fenomeni economico-sociali sono inevitabili nella vita di un popolo come il nostro di antica civiltà, ma di forze sempre giovani; di un popolo cui all’esuberanza dello sviluppo demografico sempre crescente, è venuto meno il relativo concomitante sviluppo economico; devono comprendere insomma che l’emigrazione, se considerata nei suoi effetti immediati e negli interessi individuali, può sembrare una triste e deplorevole necessità; considerata però negli effetti remoti e negli interessi nazionali, deve essere giudicata come mezzo di penetrazione italiana all’estero94.

53 Si preparavano così le basi di quella trasformazione dell’emigrazione che il fascismo, soprattutto attraverso l’azione di Dino Grandi, avrebbe formalizzato a partire dal 1926 nel passaggio da emigrati a italiani all’estero, un passaggio che non trovò impreparata la comunità di Istanbul95.

54 Infine, il segretariato della federazione si sarebbe occupato delle esigenze più materiali della popolazione, esso sarebbe stato aperto a tutti, «a qualsiasi partito o fede appartengano. La miseria non è né cattolica, né ortodossa, né israelita e non ha colore politico: essa è semplicemente miseria»96. Rispetto all’azione praticamente uguale che svolgeva già la società italiana di beneficenza – Padre Parri aveva comunque specificato che l’Italica Gens non si proponeva di sostituirsi alle istituzioni già esistenti, ma di integrarne l’opera in perfetto accordo – il segretariato si prefiggeva di porre un’attenzione particolare all’assistenza agli ex-combattenti97, questa nuova categoria di bisognosi che, seconda solo a quella dei caduti, in tutta Europa e non solo oramai meglio di qualunque altra incarnava l’eroismo e il sacrificio nazionale98. Alla sacralità della patria si affiancò in questo periodo la sacralità della madre, della donna, sancita già negli anni della guerra di Libia99 ma che a Istanbul si manifestò soprattutto nel primo dopoguerra, dove oramai le commemorazioni erano sempre più spesso affidate alla potenza simbolica ed evocativa delle donne, come nel caso delle cerimonia di consegna delle bandiere durante la festa dello Statuto, uno dei pochi riferimenti alle idee risorgimentali sopravvissuti alla bufera nazionalista, ma declinato anch’esso oramai all’etica del sacrificio, alla commemorazione non più dei confini dell’Italia del 1861 ma dei «desiderati confini» del 1919, che tali erano rimasti alla fine della guerra.

55 Con questo spirito, durante la festa del giugno 1921 la marchesa Garroni, moglie del regio ambasciatore, consegnò la bandiera d’Italia all’Associazione nazionale dei combattenti: «Al grido di guerra Voi, Italiani qui residenti, avete corrisposto accorrendo baldi e vigorosi col nome d’Italia sulle labbra, ma più ancora nel cuore, sotto la patria bandiera. […] Onore a voi, o valorosi combattenti! A noi, donne d’Italia qui riunite, la soddisfazione di consegnarvi questo Vessillo che è segnacolo di valore in guerra e bandiera di civiltà in pace, di quella civiltà d’antica data che ha lasciato orme incancellabili in questo Oriente, che ci auguriamo veder ritornato a quella pace che è nel desiderio di tutti»100. Un onore tanto più meritato in quanto «moltissimi di questi soldati non avevano mai visto l’Italia, che lo spirito mancava totalmente in questo

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paese e che parecchi non conoscevano neppure la lingua italiana!»101. Anche la raccolta di fondi per l’edificazione del monumento alla madre italiana riscosse grandi adesioni e, «con imponente solennità che non ha precedenti qui»102, in concomitanza con la tumulazione romana all’altare della patria, la colonia si raccolse nella giornata di commemorazione del milite ignoto, aperta dalla lunga prolusione del consueto Padre Parri.

56 Questo rigoglio di sentimento nazionale non poteva non ripercuotersi sulle attività più strettamente legate all’educazione dei giovai italiani di Istanbul. Il bollettino di agosto- settembre 1920 fu in gran parte dedicato al resoconto sul XXV congresso della Dante – il primo dopo l’interruzione del 1913 – che significativamente si svolse a Trieste, ma conteneva anche, oltre alle indicazioni sui soci e un articolo celebrativo per i caduti italiani nella guerra di Crimea, la cronaca della cerimonia di giuramento del corpo dei Giovani esploratori celebrata in concomitanza con le celebrazioni per il 50° anniversario della presa di Roma, organizzata dalla Società Operaia.. Come già accennato, a parte il sottocomitato studentesco della Dante, che attraversava una fase di declino, la nascita del corpo dei Giovani esploratori fu la prima esperienza di associazionismo organizzato del dopoguerra destinata alla gioventù stambuliota103. La cronaca della cerimonia di giuramento è un esempio concreto della forza dell’impatto della grande guerra sulla riorganizzazione delle strutture sociali, riprendendo il percorso già avviato a inizio secolo, la cura dell’educazione nazionale dei più giovani – o meglio, di educazione alla nazione – nel giro di pochissimi anni stravolse i suoi riferimenti, e in questo caso con maggiore evidenza, laddove i giovani italiani avevano l’arduo compito di rappresentare il corpo della nazione pur essendone, dimorando oltre i suoi confini, membra staccate: I Giovani Esploratori avevano formato un largo quadrato, su due righe, al comando del capo-drappello di 2° grado Tenente M. Pari. – Da un lato si erano schierate tutte le rappresentanze degli Esploratori stranieri, accorse numerose a festeggiare i compagni italiani. A un tratto, in mezzo a un silenzio imponente, il Tenente Pari s’avanza innanzi al gruppo delle Signore e delle Autorità riunite e stendendo la mano, pronunzia a voce chiara la formula del giuramento, a cui tutti gli esploratori rispondono col grido “lo giuro!”. Un brivido di commozione percorre l’assistenza, mentre le musiche intonano la marcia reale. […] Poi, la signora Arlotta, dominando l’emozione, impugna con virile baldanza la bandiera del corpo e dice ai giovani l’alto significato che deve avere per essi la bandiera che loro consegna, e aggiunge nobili parole, improntate di squisita gentilezza femminile. Infine la bandiera è consegnata al graduato Sig. Umberto Sogno. Gli esploratori sfilano in platea, con ordine perfetto, davanti alle Autorità ed alla folla plaudente104.

57 Il passo da questo tipo di cerimonia a quelle dei Balilla sarebbe stato brevissimo. La scarsa documentazione a disposizione non consente di sapere chi fossero i giovani esploratori, ma proprio sul Bollettino si legge che fin dalle sue prime settimane di esistenza si registrarono oltre duecento adesioni e che dalla comunità si raccolsero quarantamila lire italiane per provvedere alle esigenze di equipaggiamento. Le foto che corredano le cronache dei campi dei Giovani esploratori erano oramai immagini di soldati – «68 giovani italiani vissero per 20 giorni attendati, sotto il solleone di luglio ed a regime militare»105 – ragazzi in perfetta forma fisica ritratti nelle varie fasi del campo, “l’attendamento”, “le esercitazioni sul mare”, “il rancio”, “il saluto alla bandiera”, immortalati in pose atletiche e festose che ricordano lo spirito di agosto del 1914. Sublimati i morti della grande guerra attraverso la loro eroicizzazione, si preparava in questi anni una nuova generazione di combattenti e il nuovo nesso fra «guerra,

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gioventù e bellezza»106 era oramai riscontrabile anche a Istanbul, dove a questi presupposti si aggiunse la necessità di concorrere con i movimenti scoutistici di altra nazionalità sorti in città.

58 La Società nel frattempo continuò a promuovere le consuete iniziative. Sempre sotto la presidenza di Luigi Joli, nel novembre del 1920 i soci furono 802 ma già nel mese successivo si toccò quota 900, e il resoconto al 30 giugno 1921 riferisce di 1004 soci che sarebbero diventati 1122 a dicembre. Fu questo il quinquennio di maggiore crescita della Società, che avrebbe raggiunto i suoi massimi nel 1924 con 1252 soci. Nel 1921 ripresero i cicli di conferenze interrotti durante il conflitto, e anche in questo campo la profonda frattura rispetto ai temi dell’anteguerra fu evidente, come si deduce dal titolo della prima conferenza: L’aviazione come ausilio di guerra all’armata d’Italia107. I corsi femminili continuarono a essere svolti e nel 1921 si sperimentò un corso serale misto per impiegati di banca e del commercio frequentato da circa 30 allievi. Nel 1922 i corsi per signore fecero registrare 55 iscritte, mentre in quelli serali gli allievi, che solitamente si attestavano sulla cinquantina, si ridussero della metà a causa dei licenziamenti legati al fallimento della Banca di sconto, che aveva messo ingentissimi capitali a disposizione delle scalate borsistiche dell’Ansaldo in quegli anni di profonda crisi legata alla riconversione postbellica delle industrie pesanti italiane108.

59 Ciò che non portò i risultati sperati fu il tentativo di avvicinare la popolazione studentesca turca allo studio della lingua italiana. Nel maggio 1921 dalla pubblicazione sul Bollettino di un elenco di nomi di allievi dei corsi serali segnalati per merito, si osserva una prevalenza di cognomi italiani, moltissimi ebraici di nazionalità non specificata e una piccolissima presenza di cognomi turchi. Nel 1922 il ministero degli affari esteri finanziò con diecimila lire corsi presso scuole turche e Joli, sfruttando la sua personale amicizia con il ministro ottomano all’istruzione, Said bey, riuscì ad istituire un corso di italiano nell’Istituto superiore del commercio di Istanbul e nella Scuola di belle arti. In quest’ultima, riferiva Joli, «già l’amico nostro arch. Mongeri è insegnante da circa quindici anni, spiegandovi un’ottima azione di propaganda per la cultura artistica italiana e lottando quotidianamente contro la potente e ben organizzata propaganda francese»109. Entrambi i corsi furono frequentati inizialmente da 22 allievi ciascuno, ma dopo quattro o cinque lezioni, il prof. Colasanti rinunziò all’incarico, visto l’atteggiamento passivo, noncurante e velatamente ostile dei colleghi turchi, donde l’impressione che agisse di sottomano l’intrigo dei concorrenti. Tale atteggiamento si ripercoteva nella scolaresca, che si diradava ad ogni lezione. La questione era delicata ed occorreva prudenza, dato anche il momento alquanto difficile per lo stato d’animo degli ambienti turchi, mentre fra l’altro si stava inaugurando a Stanbul le nuove vie intitolate a Pierre Loti e a Claude Farrère! M’intesi dunque col direttore della scuola di commercio, Hulussi Bey, per sostituire il prof. Colasanti, “indisposto”, col prof. Lacchia. […] Il prof. Lacchia non ebbe miglior fortuna, ma seppe resistere sino alla fine, con vera abnegazione, di cui gli è dovuta ampia lode. Ed anche alla scuola di belle arti, ostacoli e difficoltà continue vennero ad intralciare la sua opera zelante ed assidua. Così, mentre fino a marzo le sue lezioni erano costantemente seguite da una quindicina di allievi, vennero aperti dei corsi liberi, di figura, con orario contemporaneo alle lezioni d’italiano. Nonostante le proteste fatte alla direzione, non fu possibile ottenere uno spostamento d’orario e molti alunni malgrado i richiami e gli sforzi per trattenerli, preferirono, ed era naturale, la lezione di figura che rappresentava per essi un interesse più diretto. Poi sorsero nuovi ostacoli, per causa di forza maggiore, come: “l’influenza”, per cui tutte le scuole turche furono chiuse per una ventina di giorni; poi lo “sciopero degli

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studenti” delle scuole superiori, per il dissidio prodottosi fra essi ed i professori dell’Università, causa una malaugurata affermazione sostenuta da un insegnante, a proposito del celebre poeta nazionale Faissulì110, che sarebbe… persiano e non turco! Poi venne il “Ramazan”, e poscia le feste di “Bairam”, indi le frenetiche dimostrazioni in onore di Ferrére e finalmente le scuole turche si son chiuse per le vacanze estive! […] Ad ogni modo, se questo nostro primo esperimento non ha prodotto, per cause di forza maggiore, l’esito sperato, noi siamo convinti della necessità di persistere a continuarlo per l’anno prossimo, interessando anzi il R. Governo a far pratiche dirette presso l’autorità ottomana, affinché i corsi di lingua italiana siano ufficialmente riconosciuti ed appoggiati nelle scuole turche e, almeno per il momento, in quelle scuole superiori a cui la Dante offre gl’insegnanti111.

60 Già trapelano fra queste righe le effervescenze che agitavano il paese alla vigilia della proclamazione della Repubblica. E proprio a partire dal 1923 si verificò un mutamento profondo nella vita del comitato, legato sia agli sviluppi della vita politica turca che di quella italiana. La proclamazione della repubblica di Turchia da una parte, dall’altra la fondazione di istituzioni fasciste in città, generarono inevitabilmente attrito fra due nazionalismi sempre più esuberanti e sempre meno propensi a condividere spazi destinati alla propaganda politica. Fra questi spazi, quello destinato all’educazione dei giovani era considerato da entrambi i paesi un terreno eletto su cui coltivare il futuro delle due nazioni.

NOTE

1. Archivio Storico Dante Alighieri (da qui, ASDA), fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. La cifra indicata da Buonaiuti non corrisponde probabilmente con esattezza alla realtà, e lo stesso Zaccagnini in una sua pubblicazione del 1909 indica una cifra di circa 8.000 italiani regolarmente registrati in città, cfr. ZACCAGNINI, Giuseppe, La vita a Costantinopoli, Torino, F.lli Bocca, 1909, p. 71. Angiolo Mori – cui si deve uno dei primi e più completi studi sulla comunità italiana di Istanbul, nel 1906 – premettendo che non era possibile risalire al numero esatto poiché non tutti i residenti italiani a Istanbul si iscrissero ai registri consolari, afferma che «mentre i nuovi registri consolari, aperti il 1° gennaio 1881, danno al 31 dicembre 1905 un numero di iscritti di 8922 nazionali, i calcoli più recenti farebbero ammontare la nostra colonia a 12.500 per alcuni, a 14.000 nazionali per gli altri», MORI, Angiolo, Gli italiani a Costantinopoli. Monografia coloniale presentata alla Camera di Commercio italiana di Costantinopoli alla mostra degli italiani all’estero, Modena, Società tipografica modenese, 1906, p. 210. 2. Fratello di Ernesto, storico e sacerdote esponente del modernismo. 3. Secondo quanto si può dedurre dalle relazioni inviate alla sede centrale e, dal 1920 al 1925, dal Bollettino ufficiale della Dante di Istanbul, il numero di soci iscritti per anno fu: 22 al momento della fondazione, nel 1895; 102 nel 1896; 150 nel 1897; 210 nel 1898; 225 nel 1899; 283 nel 1908, 269 nel 1909; 168 nel 1918; circa 600 nel 1919; 1206 nel 1922; 1258 nel 1923; 1197 nel 1924; 1102 nel 1925; meno di 900 nel 1931, circa 1000 nel 1938. 4. MORI, Angiolo, Gli italiani a Costantinopoli, cit., p. 269. 5. «Nel vasto Lavorio di propaganda di assimilazione che si fa in Oriente da tutte le nazioni europee, nella lotta aspra ed incessante che si combatte per l’incremento politico e commerciale, il predominio della lingua ha evidentemente una importanza massima. Gli è perciò che a dare

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sempre più vasto sviluppo al patrio idioma, sorse, in seno alla Società Operaia l’idea di fondare un comitato della Dante Alighieri». GOSLINO, Pietro, PROVIDENTI, Ferdinando, Società Operaia di Mutuo Soccorso in Costantinopoli. Memoria storica (1863-1906), Costantinopoli, Tipografia Ferd. Walla, 1906, p. 138. Nonostante questo rapporto di filiazione con il trascorrere degli anni, come si vedrà più avanti, le relazioni fra le due «consorelle» furono caratterizzati da diversi momenti di tensione, che si acuiranno nel periodo fascista, quando le fratture politiche all’interno della comunità si riversarono inevitabilmente nelle sedi dell’associazionismo italiano. 6. Sulla storia della Società si vedano: BARBERA, Piero, La Dante Alighieri. Relazione storica al XXV congresso Trieste-Trento 1919, Roma, Società Nazionale Dante Alighieri, 1919; SCODNIK, Enrico, «La Società Nazionale Dante Alighieri nei suoi primi anni di vita», in La Rivista Dalmatica, 1-4/1966; CAPARELLI, Filippo, La «Dante Alighieri», Roma, Bonacci, 1987; SALVETTI, Patrizia, Immagine nazionale ed emigrazione nella Società «Dante Alighieri», Roma, Bonacci, 1995; PISA, Beatrice, Nazione e politica nella Società «Dante Alighieri», Roma Bonacci, 1995. 7. SALVETTI, Patrizia, op. cit., p. 16. 8. Ibidem, pp. 31 et seq. Villari fu presidente della Dante dal 1896 al 1901. La rinnovata impostazione che Villari diede alla Società era perfettamente in linea con la sua formazione di storico meridionalista e di uomo del Risorgimento. Sulla sua figura si vedano MORETTI, Mauro, Pasquale Villari, storico e politico, Napoli, Liguori, 2005, p. 157; BALDASSERONI, Francesco, Pasquale Villari. Profilo biografico e bibliografia degli scritti, Firenze, Galileiana, 1907; SALVEMINI, Gaetano, Pasquale Villari, in ID., Scritti vari (1900-1957), Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 57-80. Sulla sua presidenza alla Dante in rapporto all’irredentismo cfr. MONTELEONE, Renato (a cura di), Dai carteggi di Pasquale Villari: la Società “Dante Alighieri” e l’attività nazionale nel Trentino (1896-1916), Trento, Istituto per la storia del Risorgimento italiano, 1963. 9. Cfr. PISA, Beatrice, op. cit. 10. SALVETTI, Patrizia, op. cit., p. 25. 11. In generale sulla comunità italiana di Istanbul si vedano PANNUTI, Alessandro, La comunità italiana di Istanbul nel XX secolo. Ambiente e persone, Isis, Istanbul 2006; DE GASPERIS, Attilio, FERRAZZA, Roberta (a cura di), Gli italiani di Istanbul. Figure, comunità e istituzioni dalle riforme alla repubblica (1839-1923), Torino, Centro altreitalie, 2007. 12. Dal 1895 al 1945 furono diciassette i presidenti della società: Giuseppe Zaccagnini (1895-1900); Angelo Zanotti (1900-1901); Lewis F. Mizzi, (1901-1907); dal 1907 al 1910 C. D’Agostino, Alberto Theodoli, Edoardo De Nari; dal 1910 al 1915 Riccardo Zeri e Aldo Lombardo; Luigi Joli (1920-1930); Aldo Mei (1930-1934); Carlo Rocco Simen (1934-1935); Francesco Feliziani (1935-1936); Giulio Jacopi (1936-1938); Lamberto Biancone (1938-1940); Ezio Bartalini (1940-1945). 13. I primi presidenti, soci della Società operaia, erano quasi sempre insegnanti presso le scuole italiane. Di queste purtroppo molta documentazione precedente la grande guerra è andata smarrita a causa di un incendio. 14. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 15. Quanto successe viene spiegato in una relazione inviata alla sede centrale nel settembre 1897 dal presidente Giuseppe Zaccagnini: «Nel primo anno la Dante Alighieri pensò subito all’utilità di due cose: avere un giornale italiano a cercar di riallacciare […] le sparse vestigia della colonia promovendo delle riunioni e per mezzo di letture o di conferenze su svariati argomenti. Il giornale sorto dal vecchio organo della nostra camera di commercio s’intitolò Rassegna Italiana. Tre giovani volenterosi e valorosi che meritano tutti gli elogi e molta gratitudine, l’avv. Giorgio Chabert, l’avv. Alberto Vuccino e il dott. Luigi Mongeri, ne assunsero a tutto loro rischio la pubblicazione avendo redattori principali tutti i componenti il consiglio direttivo del comitato della nostra società. Il giornale così rinnovato, in grande formato in 16 e 32 pagine, uscì puntualmente due volte il mese per tutto un anno. Finito l’anno gli assuntori, per qualche divergenza di criteri con la Camera di commercio, restituirono la Rassegna, secondo i patti stabiliti colla camera stessa, restando perdenti di una somma non indifferente. Sarebbe troppo

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lungo, e inutile, indagare qui la causa dello insuccesso: ché insuccesso, economicamente almeno, la pubblicazione fu. Però restò l’iniziativa che, seguita, non può che dare risultati degni di non essere abbandonati», ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. Un’analisi dei temi della rivista è in PANNUTI, Alessandro, op. cit., pp. 119-152. 16. Padre Palmieri fu inoltre autore di una cronaca dell’“Associazione commerciale artigiana di pietà in Costantinopoli”, PALMIERI, Aurelio, Associazione Commerciale Artigiana di pietà in Costantinopoli. Cenni storici 1837-1902, Napoli, Giannini&figli, 1902. Cfr. PANNUTI, Alessandro, op. cit., pp. 110-114. 17. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 18. A Mons. Augusto Bonetti, Delegato Apostolico a Istanbul dal 24 giugno 1887 fino alla morte, nel 1904, si deve la fondazione a Istanbul dei due istituti dei Salesiani e delle Suore Carmelitane. Alla sua morte lasciò ai Salesiani della città la somma che permise loro di consolidare e garantire il futuro della scuola di arti e mestieri. Cfr. BISKUPSKI, Ludwik, L’origine et l’historique de la Représentation officielle du Saint-Siège en Turquie (1204-1967), Istanbul, Ümit Basımevi, 1968, pp. 81-83; MORI, Angiolo, op. cit., p. 254. 19. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 20. Ibidem. 21. SALVETTI, Patrizia, op. cit., p. 34. 22. Ibidem, p. 17. 23. Giuseppe Lombardo-Radice, in un polemico volume sulla «indecorosa politica della Consulta da Rudinì a Tittoni» – come tuona il sottotitolo – applicata alla gestione delle scuole italiana all’estero, così sintetizza la situazione del decennio 1888-98: «Fu quello il periodo dell’entusiasmo [dopo la fondazione delle scuole governative, nel 1888], a cui seguì ben presto quello dell’insania, poiché quando i germi gettati cominciavano a dare i loro buoni frutti e le scuole andavano sempre più acquistando credito presso le popolazioni, il Ministero Rudinì, nel 1891, per ragioni di gretta economia, procedette alla chiusura di oltre 50 scuole, alcune delle quali popolatissime. Una passeggera fioritura si ebbe nel 1894 con il ritorno di Crispi al potere, ma fu di breve durata; dal 1895 in poi si ebbe il periodo della decadenza […]. Furono i 14 anni di dominio assoluto e senza controllo del commendatore Scalabrini, ispettore generale, durante i quali la scuola di stato decadde, intisichì, intristì; sulle sue rovine cominciò a spuntare o rifiorire la scuola confessionale… sussidiata e favorita dallo Stato, e contro le scuole di stato e le stesse scuole confessionali italiane ebbero a poco a poco ragione le scuole fondate da altre nazioni, che assorbirono in pochi anni migliaia e migliaia dei nostri alunni […]», LOMBARDO-RADICE, Giuseppe, Le scuole italiane all’estero. Note sulla indecorosa politica della Consulta da Rudinì a Tittoni, Ortona a mare, Vincenzo Bonanni Editore, 1910. Sulla soppressione degli istituti attuata dal governo Di Rudinì si vedano anche: Relazione sulle scuole italiane all’estero, A.P., Camera dei Deputati, Documenti, Ses. 1890-92, Seduta del 9 marzo 1892. CORSI, Carlo, La soppressione delle scuole italiane in Levante, Venezia, s.e., 1893. 24. MORI, Angiolo, op. cit., p. 252; PANNUTI, Alessandro, op. cit., p. 74-79. 25. ZACCAGNINI, Giuseppe, Ricordi di Costantinopoli, Lucchetti, Cingoli 1926. 26. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 27. Ibidem. 28. Ibidem. 29. Cfr. QUATAERT, Donald, Miners and the State in the . The Zonguldak Coalfield. 1822-1920, Oxford, Berghahn Books, 2006. 30. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 31. Ibidem. 32. Ibidem. 33. Lewis Mizzi fu una delle figure più poliedriche presenti a Istanbul nel quarantennio a cavallo fra il XIX e il XX secolo. Avvocato, si trasferì a Istanbul negli anni Settanta, cfr. SCHIAVONE,

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Michael J., SCERRI, Louis J., Maltese Biographies of the Twentieth Century, Pietà, Pubblikazzjonijiet Indipendenza, 1997. 34. Su Fortunato Mizzi cfr.: VOLPE, Gioacchino, Italia moderna, Firenze, Sansoni, 1973, p. 209; MEYNIER, Gilbert, RUSSO, Maurizio, L’Europe et la Méditerranée. Stratégies et itinéraires politiques et culturels en Méditerranée France et Italie. XIXe-XXe siècles, une approche comparative, Paris, L’Harmattan, 1999, p. 143; CASSAR, Carmel, Society, Culture and Identity in Early Modern Malta, London, Mireva, 2000, p. XXIX; GOODWIN, Stefan, Malta, Mediterranean Bridge, Westport, Greenwood Publishing Group, 2002, p. 87. La figura di Mizzi è ricordata inoltre in due discorsi di commemorazione: CORTIS, Giulio, Fortunato Mizzi, padre della patria. Discorso commemorativo pronunziato nell’aula magna della R. Università di Malta il 20 maggio 1922, La Valletta, Tipografia del Malta, 1922; SAMMUT, Giovanni, Orazione ad esaltazione di Fortunato Mizzi, padre della Patria, nel 30. annuale della sua morte, pronunziata nel Circolo La Giovine Malta, il 18 maggio 1935, La Valletta, Editrice Melitense, 1935. 35. Cfr. DOBIE, Edith, «Malta and her Place in the Commonwealth», in The Western Political Quarterly, 9, 4/1956, pp. 873-883. 36. PORTELLI, Sergio, op. cit., p. 344. 37. Cfr. GROC, Gérard, ÇAĞLAR, İbrahim, La presse française de Turquie de 1795 à nos jours. Histoire et catalogue, Istanbul, Isis Press, 1985. 38. ASDMAE, Ambasciata d’Italia in Turchia (1829-1937), b. 101, f.5. 39. Ibidem. 40. Ibidem. 41. Ibidem. 42. La “Turchia” è molto maltrattata dalla Dante non solo ma anche dal Governo italiano. Sebbene questo sia precisamente lo identico stato di cose del quale fruisce il mio Levant Herald, pure non posso non capire né disapprovare i tristi lamenti del de Bondini […]. In un momento in cui si sta facendo tutto per risvegliare il sentimento e la favella d’Italia in queste regioni, eccoti spuntare sotto i migliori auspici un “giornale italo-francese”. Gli italiani naturalmente lo devono tenere caro ed il Marchese Imperiali non ha omesso una sola circostanza nella quale non lo raccomandò come opera nazionale italiana. Ora quale è l’accoglienza che è stata fatta dalla Dante e dal governo italiano? Assolutamente nulla. La Dante, né come società, né come comitato locale non ha ancora, per così dire, salutato l’arrivo di un giornale italiano. Ora, tu sai meglio di me che gli scopi della dante sono, spargere la lingua e la coltura italiana ovunque. Se il giornale di Bondini pro tanto non isparge gran fatto di coltura italiana, egli sparge certamente ed indubitabilmente la lingua italiana. Sotto questo aspetto dunque ha diritto alla simpatia ed all’incoraggiamento della Dante. Ora tu sai meglio di me che la dante come comitato locale non può fare gran cosa pel Bondini, perché non è ricca […]. Ma la cosa è bene diversa colla Dante in Italia. La società madre vede gli sforzi di Bondini, e se il governo non ha fatto nulla per lui, mi sembra che la colpa tutta sia della Dante la quale ha voce in capitolo in Italia e non perderebbe nulla se si mettesse un poco in campagna a prò di lui. […] Lo “Stanboul” riceve una splendida sovvenzione dal governo francese, perché la “Turchia” non dovrebbe riceverne una dagli italiani? il Levant Herald non ha un soldo dal governo inglese, ma anche lo stato inglese non ha né viste né ambizioni in Turchia e se ne infischia dei giornali in generale e del Levant Herald in particolare. […] E rifletti che se il governo non dà prova di buona volontà a l’interesse per il giornale italiano locale, non si può, non si deve pretendere che la colonia lo prenda a ben volere. Tu sai come vanno le cose qui. Se il movimento viene comunicato dall’alto, i nazionali, come le pecore del nostro Padre Dante, seguiteranno a capo fitto, e quello che la prima fa, le altre faranno. Io ti parlo in questo senso, come ho sempre parlato a tutti, sebbene che il mio interesse personale sia precisamente che voi seguitiate a trattare la Turchia come l’avete trattata fin d’ora. Anche io ho un giornale e, naturalmente, non ho nessun interesse a farne prosperare un altro. Ora tu sai benissimo quali siano i miei veri sentimenti in proposito. Tu sai che ho avuto un

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fratello che ha lasciato la sua preziosissima vita dopo una lotta omerica di 27 anni in difesa della lingua italiana e tu sai che egli mi ha lasciato cotesto retaggio. E lo eseguisco fedelmente, sinceramente e del mio meglio. […] Fa dunque del meglio per Bondini. Egli mi ha pregato di scrivertene ed io te ne scrivo in tutta coscienza. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 43. ASDMAE, Ambasciata d’Italia in Turchia (1829-1937), b. 101, f.5. 44. Ibidem. 45. Ibidem. 46. Ibidem. 47. «Un solo foglietto di 4 pagine, col quale si farà propaganda dando conto ai soci di ciò che fa il consiglio, di ciò che fanno, in ristretto succinto, gli altri comitati, notizie sui corsi, sulla biblioteca, libri ricevuti, donazioni, movimento soci, brevi recensioni di pubblicazioni letterarie e di conferenze […]. Io mi riprometto un risultato eccellente di propaganda nella Colonia nostra e nelle altre di qui con questa pubblicazione – modesta da principio – ma che può avere grande sviluppo, tanto più che, salvo quel povero bollettino della camera di commercio, fatica particolare di Melia, qui non si stampa una parola d’italiano», Joli a Zaccagnini, 11 gennaio 1920, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 48. Bollettino, I, 1/1920, p. 1. 49. PISA, Beatrice, op. cit., p. 356. 50. PISA, Beatrice, op. cit., p. 14. 51. SALVETTI, Patrizia, op. cit., p. 90. 52. Stretto collaboratore di negli anni in cui fu ministro degli interni, operò principalmente in Egitto. Sulla figura di Insabato e sulla sua politica in questi anni cfr. IANARI, Vittorio, La politica islamica dell’Italia durante la Triplice Alleanza. L’attività di Enrico Insabato, in TRINCHESE, Stefano (a cura di) Mare nostrum. Percezione ottomana e mito mediterraneo all’alba del ’900, Milano, Guerini, 2005, pp. 199-246. 53. SOLIMBERGO, Giuseppe, Le scuole in Levante. Relazione al XVI Congresso della “Dante Alighieri”, Roma, Tipografia La Sapienza, 1905, p. 11. 54. Cfr. MARONGIU BUONAIUTI, Cesare, Politica e religioni nel colonialismo italiano (1882-1941), Milano, Giuffrè, 1982. 55. SALVETTI, Patrizia, op. cit., p.98. 56. Come scrisse Theodoli a Zaccagnini, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 57. «Ragiono e dico che i 200 soci della Dante degli anni passati erano in gran parte italiani, e più di tanti non ne avremmo mai avuti, che se volevamo aumentare sensibilmente il numero bisognava cercare fra gli stranieri ed invogliarli. Gli stranieri si faranno soci della Dante per ciò che la Dante darà loro e pagheranno pure per la festa a pagamento in riconoscenza del profitto avuto, ma è illogico pensare che stranieri si faccian soci per gli scopi patriottici della Dante, o per istruirsi in conferenze e commedie o in letture nelle quali poco ci capiscono. Alle prime 2 feste furono ogni sera 300 gli intervenuti. Su 300 le assicuro che ce n’erano appena 100 che capivano l’italiano». ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 58. De Nari a Zaccagnini, 8 dicembre 1907, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 59. Emilio Marchione a Riccardo Zeri, 3 marzo 1911, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 60. Marchione a Zaccagnini, 16 maggio 1911, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 61. «Il risultato della scuola popolare è stato veramente superiore ad ogni previsione. Sorta per iniziativa di pochi, in mezzo alla diffidenza generale della colonia italiana che credeva non essere il quartiere adatto per una scuola, l’affluire immediato degli allievi sia italiani sia di altre nazionalità, venne subito a confermare le giuste previsioni dei fondatori. Non solo osservammo il numero degli allievi, ma ci colpì il progresso in breve tempo dei loro studi […]. Voi sapete il risultato finale degli iscritti nella scuola, questi sono stati 275, di cui ben 206 assidui e di questi 99 erano italiani, 126 ottomani, 44 greci, e 2 persiani; divisi per religione si contarono: 91 cattolici, 90 musulmani, 52 israeliti, 42 ortodossi. Gli esami finali ci hanno infine data la prova del

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progresso reale fatto dagli alunni negli studi impartiti […]. Ottimi risultati, ottimi insegnanti che ci lascerebbero fare le migliori previsioni per l’avvenire, se il punto nero non venisse dal nostro bilancio. [...] In tali condizioni, visto l’indifferenza del R. Ministero a noi non resterebbe che chiudere la scuola. Ci conforta il pensiero che avendo sacrificato tutto il suo capitale nell’impianto della scuola popolare, la Dante ha potuto far sorgere in pochi mesi una scuola così prospera e popolata come mai la scuola elementare governativa è stata in più di 20 anni». ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 62. Questo tipo di difficoltà è riferito, per esempio, da Marchione, il quale riferendo di incomprensioni con il Console, riferiva all’Ambasciatore: «Ho creduto necessario d’esporre quanto sopra, non per risentimento o rancore, né per dimostrare come viene gratificata alle volte l’opera concordemente apprezzata e lodata di un insegnante, ma solo per dimostrare la necessità d’un accordo fra la direzione generale delle RR. Scuole all’estero e il comitato centrale della Dante Alighieri, perché, se non bastano le tassative disposizioni del regolamento, con opportune istruzioni, si compiacciano di stabilire i limiti delle competenze e delle ingerenze del R. consolato generale sulla scuola popolare di Costantinopoli, a fine di evitare in seguito nuovi equivoci e malintesi, i quali potrebbero danneggiare una scuola che, sorta sotto lieti auspici e circondata da molte simpatie, sembra destinata ad un ottimo avvenire», ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 63. «Caro Zaccagnini, da quattro giorni qui non abbiamo che notizie disastrose per l’Italia; ripresa dai turchi, Bengasi riespugnata e così via. Sono immolati montoni per ringraziare Allah della vittoria e con che aria [parola incomprensibile] ora siamo guardati se lo può ben immaginare lei […]. Notizie di qui non gliene do’: finora siamo restati tranquilli e non ci hanno ancora trucidati, né evirati […]. Solamente mi volevano chiudere l’ospedale e poi non l’han fatto, e nel quartiere turco dove si trova l’ospedale sono furibondi. Non posso andare da casa mia all’ambulatorio perché quei bravi turchi che prendono il caffè in quelle bottegucce hanno voglia di bastonare gl’italiani. Io pensando che è meglio di non dar loro tale fatica passo da un’altra strada. Ed ora le chieggo aiuto per la scuola popolare che non è aperta. Io della Dante non ho più un soldo; la cassa è vuota e non è questo il momento di domandar le quote ai soci. Ma il bidello lo devo pagare, l’abbonamento dell’acqua anche; poi ci sono delle altre piccole spese […], per ora pago io, ma se la guerra continua dovrei licenziare il bidello, e mentre tutti i lavoranti italiani soffrono la fame non vorrei farne soffrire uno in più […]». Zeri a Zaccagnini, 2 novembre 1911, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 64. Relazione sull’andamento del comitato di Costantinopoli negli anni 1911-12, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 65. A partire dall’anno scolastico 1902-1903 fino al 1909 gli iscritti alla scuola elementare governativa furono rispettivamente 265, 219, 156, 157, 156, 124 Cfr. le corrispondenti pubblicazioni dell’Annuario delle scuole italiane all’estero governative e sussidiate, Ministero degli affari esteri, Roma. 66. Joli a Zaccagnini, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 67. Riccardo Zeri alla presidenza centrale, 3 marzo 1913, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 68. Proposte del comitato, Appunto, 26 marzo 1901, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 69. ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 70. Nel 1897 l’avvocato Rosasco conferì su “La dignità della donna” e nel 1898 Carmelo Melia su “La donna nella società”, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 71. Cfr. PISA, Beatrice, op. cit., pp. 162 e sg. 72. Ibidem, pp. 280 et seq.; MOSSE, George L., Sessualità e nazionalismo. Mentalità borghese e rispettabilità, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 128. 73. Il periodico fu fondato nel 1912 come integrazione al Bollettino generale della Dante, ritenuto troppo asettico ed eccessivamente incentrato sulle vicende interne della Società. PISA, Beatrice, op. cit., p. 165.

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74. «Ero lieta di non dover rendere conto del mio tempo di cui mi pareva di essere assoluta padrona, mentre pur mi assoggettavo alle esigenze di un orario. Ma tale importanza davo al mio lavoro, che le ore dedicate ad esso mi parevano così preziosamente riempite, e così feconde che non osavo neppure a me stessa confessare la mia stanchezza. E con un profondo senso di compatimento io consideravo la sorte delle altre donne, fanciulle o spose, le quali erano costrette alla vita incolore imposta dalle esigenze domestiche. Ma poco a poco il mio entusiasmo si attenuò senza che neppure io riuscissi a rendermene conto. A un certo punto mi accorsi di sentirmi come straniera nella casa dove tornavo la sera, ove tutto era disposto senza il mio intervento che non poteva e non doveva esser necessario mai. Non avevo più tempo neppure per i miei libri di sociologia e di storia; e qualche volta, quando riuscivo ad aprirli, essi parevano parlarmi di un mondo lontano, che non avrei raggiunto mai, poiché quello in cui vivevo, che pure era il più ampio che potesse venir consentito alla mia attività femminea, non mi riconduceva, o per lo meno non mi richiedeva quasi mai quel che i miei libri mi avevano insegnato», «Italia!», I, 1912, p. 487. 75. CORSI, Carlo, op. cit., p. 62. «La generazione dei Levantini è come un anello intermedio che unisce l’Occidente all’Oriente: fra l’Europa e l’Asia v’ha un terreno neutro che è stato preso da loro: là si vengono ad incontrare due correnti opposte di civiltà e si corrompono scambievolmente. Così tante volte all’imboccatura dei fiumi, l’acqua dolce mescolandosi all’acque salse si guasta e riempie l’aria di pestifere esalazioni». Ibidem, p.67. 76. Regolamento interno del sottocomitato studentesco, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 77. Cfr. GIBELLI, Antonio, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla grande guerra a Salò, Torino, Einaudi, 2005. 78. Ibidem, p. 4. 79. «La gran maggioranza dei soci è costituita da giovanotti sudditi italiani; vi sono pure alcuni ottomani, elleni, tedeschi e austriaci. Il numero dei soci è dunque, chi consideri le condizioni della colonia e delle altre società italiane, ragguardevole. […] Il sottocomitato si è dovuto contentare di iniziative modeste sia per l’esiguità delle proprie risorse, sia perché le iniziative più utili e più importanti erano già state assunte dal comitato maggiore, verso il quale i nostri sentimenti sono sempre stati deferentissimi e i nostri rapporti cordiali. Abbiamo voluto dotare di riviste italiane le sale di lettura dei vari circoli e clubs di qualsiasi nazionalità che ne erano privi e che si manifestarono disposti a gradirne l’invio. Le riviste scelte furono: Patria e Colonia, Lettura, Noi e il mondo. [Le riviste vennero spedite a varie associazioni giovanili] Young Man Christians Association; Union des employèes grecs de commerce; Società dalmata di beneficenza; Club grec; Unione italiana di Haidar-pascià; Club-Verein der deutschen juden […]. Ma ci pareva doveroso che la maggior parte delle nostre risorse fosse quest’anno devoluta ad un atto che significasse la nostra devozione alla scuola nella quale la maggior parte dei nostri soci sono educati. Abbiamo provveduto ad acquistare e far inquadrare in eleganti e sobrie cornici riproduzioni in tricromia di insigni opere d’arte italiane. Sono dieci grandi quadri che, decoreranno la bella sala di disegno dei nostri regi istituti medi; e confidiamo che anche questo omaggio attesterà durevolmente quanto schiettamente noi siamo affezionati alla Scuola della Patria, e quanto il nostro stesso sodalizio si proponga di rinsaldare in ciascuno di noi questo sentimento», ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 80. Joli a Zaccagnini, 11 gennaio 1920, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 81. PISA, Beatrice, op. cit., pp. 285 sg. 82. Ibidem, p. 355 et seq. 83. Sull’attività del corpo dei Giovani esploratori durante la guerra, riferimenti in VENTRONE, Angelo, La seduzione totalitaria. Guerra, modernità, violenza politica (1914-1918), Roma, Donzelli, 2003, p. 68; FERRETTI, Lando, Il libro dello sport, Roma, Libreria del Littorio, 1928. 84. Bollettino della Dante (da qui Bollettino), IV, 21/1923, p. 77. 85. I Giovani Esploratori, Trento, Tip. Art. Tridentina G. Moncher, 1916, p. 11.

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86. Zeri alla presidenza centrale, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 87. Bollettino, I, 2/1920, p. 14. 88. Autore di un volume sulla missione francescana a Istanbul, PARRI, Ferdinando, Costantinopoli e i Francescani, Pesaro, Tip. Federici, 1930. 89. Sulla “Italica Gens” cfr. ROSOLI, Gianfausto, «La federazione “Italica Gens” e l’emigrazione italiana oltreoceano, 1909-1920», in Il Veltro, 24, 1-2/1990, pp. 87-100; TOMASI, Silvano M., «Fede e patria: the “Italica Gens” in the United States and Canada, 1908-1936. Notes for the History of an Emigration Association», in Studi Emigrazione 28, 103, 1991, pp. 319-341; SARESELLA, Daniela, La lingua italiana nel mondo attraverso l’opera delle congregazioni religiose. Atti del convegno di studio, Perugia, 10 dicembre 1999, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001. Si vedano in particolare le pp. 51 et seq. 90. PISA, Beatrice, op. cit., pp. 398-399. 91. Bollettino, III, 15/1922. 92. Ibidem. 93. Cfr. SORI, Ercole, L’emigrazione italiana dall’Unità alla seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1979. 94. Bollettino, III, 15, 1922. 95. Sulla politica estera del fascismo e la sua genesi fra la vasta bibliografia si vedano: COLLOTTI, Enzo (a cura di), Fascismo e politica di potenza. Politica estera 1922-1939, Scandicci, La Nuova Italia, 2000; GARZARELLI, Benedetta, Parleremo al mondo intero. La propaganda del fascismo all’estero, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2004; CAROCCI, Giampiero, La politica estera dell’Italia fascista (1925-1928), Roma-Bari, Laterza, 1969; RUMI, Giorgio, Alle origini della politica estera fascista (1918-1923), Roma-Bari, Laterza, 1968; DE FELICE, Renzo, L’Italia fra tedeschi e alleati. La politica estera fascista e la seconda guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1973; PETRELLI, Matteo, Il fascismo e gli italiani all’estero, Bologna, Clueb, 2010; CAVAROCCHI, Francesca, Avanguardie dello spirito. Il fascismo e la propaganda culturale all’estero, Roma, Carocci, 2010. 96. Bollettino, III, 15, 1922. 97. Esisteva già in città una sezione locale dell’Associazione nazionale combattenti e reduci, fondata nel maggio 1921. 98. «Ricordiamolo sempre noi italiani, troppo avvezzi a dimenticare quello che di bene e di bello compimmo, dappoi che una turba dolorante di madri orbate dei loro figli, di vedove, di orfani, di giovani deturpati dalle ferite, passa ogi davanti ai nostri occhi ed attesta, come un quadro vivente di storia imperitura, il grande contributo dato all’Italia per il trionfo della causa comune […], il doveroso tributo di onore a tutti quelli che caddero per un santo ideale», La festa del 4 novembre data in occasione del secondo anniversario della vittoria italiana, Bollettino, I, 4, 1920. 99. PISA, Beatrice, op. cit., pp. 279 et seq. 100. La festa dello “Statuto”, Bollettino, II, 8, 1921. 101. Ibidem. 102. «Oggi, in Roma immortale, baciata dal sole autunnale, che indora i suoi monumenti, eterni come la sua bellezza, là, sull’altare della Patria che sovrasta l’Urbe, sull’altare della Patria simbolo magnifico della nostra unità indistruttibile, si è compiuta l’apoteosi dell’Eroe ignoto. […] Questo figlio di tutte le madri è stato tumulato sull’altare sacro, mentre s’inchinavano davanti alle sue misere spoglie le mille bandiere lacere che sanno le battaglie […] esso rappresenta il sacrifizio più sublime per il trionfo di un’idea, il sacrifizio della propria vita!». Ibidem. 103. Il termine “stambuliota” è stato di recente oggetto di discussione e ritenuto preferibile, insieme a stanbuliota, rispetto alle varianti stambulino/stanbulino, pure utilizzate. Si coglie qui l’occasione per ringraziare Fabio L. Grassi per le preziose indicazioni in merito alla terminologia in lingua turca. 104. Bollettino, I, 3, 1920, p. 30. 105. Bollettino, III, 15, 1922.

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106. MOSSE, George, Sessualità e nazionalismo cit., pp. 129-151; si segnalano inoltre solo alcuni dei testi che maggiormente hanno approfondito questi aspetti fra la vastissima bibliografia a disposizione: ID. Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, Laterza, 2005, pp. 79-118 (per il mito del soldato caduto); FUSSEL, Paul, La grande guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 2000, pp. 345-394, GIBELLI, Antonio, La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Torino, Bollati Boringhieri, 1998. Per il periodo precedente si veda BONETTA, Gaetano, Corpo e nazione: l’educazione ginnastica, igienica e sessuale nell’Italia liberale, Milano, Franco Angeli, 1990. 107. Bollettino, II, 2, 1921-1922. 108. LUPO, Salvatore, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2005, p. 62. 109. Joli a Zaccagnini, 7 luglio 1922, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A. 110. Si tratta del poeta Fużūlī, nome di penna di Mehmed bin Süleyman (1483c.-1556), uno dei principali esponenti della poesia classica ottomana, «Fuzuli, Mehmed bin Süleyman», sub vocem in Encyclopædia Britannica, URL: [consultato il 16 novembre 2014]. 111. Joli a Zaccagnini, 7 luglio 1922, ASDA, fasc. Costantinopoli 1895-1921, 167A.

RIASSUNTI

La Società Dante Alighieri fu fondata a Roma nel 1889. La sede di Costantinopoli fu inaugurata nel 1895; da allora è stata un centro di aggregazione sociale e culturale per la comunità italiana di Istanbul operando attraverso iniziative quali l’istituzione di scuole, la biblioteca, l’organizzazione di pubbliche conferenze, la promozione della lingua italiana. Ma la Società è stata anche il riflesso dei cambiamenti sociali e politici che da Roma si imponevano alle comunità italiane all’estero. Attraverso le fonti conservate presso l’Archivio della Società, questo articolo intende analizzare da una parte il modo in cui la direzione centrale della Società ha affrontato il passaggio cruciale fra XIV e XX secolo, quando visse il passaggio da un’impostazione basata su ideali risorgimentali a una più marcatamente nazionalista, che sfocerà nella fascistizzazione della Società stessa, dall’altra il modo in cui questa nuova concezione si scontra con il nascente nazionalismo turco alla vigilia del crollo dell’impero.

The Dante Alighieri Society was founded in 1889 in Rome, in Istanbul it was inaugurated in 1895 and since then it became a reference point for italian community of the city working through cultural initiatives such as the establishment of schools, libraries, the organization of public conferences, the constant promotion of the Italian language. But the Society also reflected the social and political changes imposed by Rome to the Italian communities abroad. Through the sources preserved in the Archives of the Society, on the one hand this article aims to analyze the way in which Rome addressed the crucial step from the ideals of Risorgimento to a more markedly nationalist orientation (which will lead to a complete ‘fascistization’ of the Society), on the other the way in which this new approach clashes with the nascent turkish nationalism on the eve of the fall of the Ottoman empire.

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INDICE

Parole chiave : comunità italiane all’estero, identità culturale, lingua e nazione, Società Dante Alighieri, Turchia Keywords : cultural identity, Italian communities abroad, nation and language, Società Dante Alighieri, Turkey

AUTORE

STEFANIA DE NARDIS

Dottore di ricerca in Storia contemporanea, collabora con la cattedra di Storia contemporanea dell’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara e con la Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna.

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La cooperazione di consumo nel Monfalconese nella seconda metà del Novecento Dalla Cooperativa Consumo Lavoratori del Monfalconese alla Coop Consumatori Nordest

Enrico Bullian

NOTA DELL'EDITORE

Il saggio – pubblicato su due numeri della rivista – è frutto della borsa di ricerca dedicata allo studio di alcune aziende del Monfalconese. La borsa è stata gestita dal Consorzio per l’AREA di ricerca scientifica e tecnologica di Trieste (con cofinanziamento del Fondo Sociale Europeo), mentre il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Trieste è stato la struttura ospitante dell’attività di ricerca, in collaborazione con le 4 imprese partner (TreCoFer, Nuovo Arsenale Cartubi, Strato e Coop Consumatori Nordest).

1. La rinascita della cooperazione nel secondo dopoguerra e la creazione della prima rete di negozi

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1 La storia della cooperazione – se considerata come associazione spontanea di soggetti che si prefiggono delle finalità comuni attraverso decisioni condivise a proprio beneficio – si potrebbe far iniziare con l’avvento della specie umana. Nel mondo contemporaneo ha raggiunto una maggior strutturazione, inserendosi in molti settori dell’economia e della vita sociale1. In questa ricerca interessa in particolare l’evoluzione della cooperazione di consumo nel mandamento Monfalconese a partire dal secondo dopoguerra2.

2 I combattimenti e i bombardamenti avvenuti nel corso dell’ultimo conflitto bellico segnarono profondamente il territorio Monfalconese, che fu pesantemente condizionato dalla “costruzione” del nuovo confine con la Jugoslavia, che rappresentava anche la separazione fra due mondi. Il Monfalconese subì le conseguenze della sconfitta dell’Italia e rientrò fra le aree contese dalla Repubblica socialista guidata da Tito, che intendeva annetterle al proprio territorio. Tuttavia la Liberazione dai nazifascisti permise una nuova stagione di fioritura per la cooperazione a livello nazionale e anche nel Monfalconese.

3 La ricerca storica non si è ancora mai focalizzata sull’evoluzione della cooperazione di consumo nel Monfalconese, se non attraverso passaggi molto sintetici all’interno di pubblicazioni che si soffermavano sull’Italia nord orientale, come nel caso di Franco Bojardi: La Cooperativa Consumo Lavoratori del Monfalconese nasce nel novembre del 1945, frutto della tradizione e della storia cooperativa già esistente a Monfalcone prima dell’avvento del fascismo e sulla spinta delle esigenze di tutela dei salari della classe operaia locale. I primi due negozi sono ubicati uno all’interno della città e l’altro nelle vicinanze dello stabilimento C.R.D.A. (Cantieri riuniti dell’Adriatico) che tanta parte ha della storia della città di Monfalcone. La prima quota di adesione fu fissata in L. 500 con la possibilità di versamenti rateali di L. 50 al mese. In breve tempo la piccola cooperativa superò le 5.000 adesioni e su questa spinta si sviluppò con una rete di negozi in alcuni comuni del mandamento monfalconese e della bassa friulana ed anche con un negozio di tessuti ed abbigliamento a Cormons. In quest’opera si sono senz’altro distinti i primi presidenti Pangher, De Lise ed inoltre Tonizzo rimasto alla guida della cooperativa sino al 1977. Ed ancora vanno ricordati alcuni cooperatori come Mauchigna di Ronchi dei Legionari, Benfatto di Turriaco, Goia e Gallovics di Monfalcone3.

4 Cercando di approfondire maggiormente tale ricostruzione, si può iniziare la riflessione contestualizzando la realtà del mandamento Monfalconese, ovvero di un territorio nel quale non era stata ancora definita la collocazione nazionale. Qui il mondo cooperativo rinacque – come ricorda Bojardi – già a partire dal 1945. Lo dimostra anche lo Statuto sociale della Cooperativa Consumo dei Lavoratori del Monfalconese (CCLM)4, che rappresentò la prima tappa della costruzione della rete di negozi che rimase operante fino alla seconda metà degli anni Settanta. È interessante notare che l’avvio di questa fase era precedente al riconoscimento della funzione sociale della cooperazione nella

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Costituzione (art. 45), addirittura antecedente alla stessa elezione dell’Assemblea Costituente (2 giugno 1946). Il primo Statuto della CCLM risentiva del contesto di allora e del clima di incertezza legato al destino della Venezia Giulia. Procedendo con ordine, l’impostazione dello Statuto era già chiara nel suo art. 1, dove si stabiliva che la società cooperativa «è costituita in Monfalcone tra operai, impiegati e intellettuali» e che «potrà aprire filiali nei comuni della Venezia Giulia». All’art. 5 si affermava che i soci dovevano risiedere nella Venezia Giulia, area che tuttavia in quel momento non era semplice identificare in maniera condivisa e che fu separata prima dal confine tra la zona A e la zona B (1946-1947), poi da quello tra l’Italia, il Territorio Libero di Trieste e la Jugoslavia (1947-1954) e, infine, tra l’Italia e la Jugoslavia (dopo il 1954). Qui riaffiora la complessità della storia del confine orientale, dove fino al 1947 operava il Partito Comunista della Venezia Giulia, che sosteneva per questo territorio (e quindi anche per il Monfalconese) l’ingresso nella Repubblica socialista Jugoslava. Quindi, probabilmente in considerazione di tale incertezza, il primo statuto della CCLM – in attesa della definizione dei confini – si riferiva alla Venezia Giulia senza citare la realtà statuale. Inoltre il perimetro dei soci era limitato a «operai, impiegati e intellettuali». Nello Statuto si ritrovava la consapevolezza di aver acquisito la libertà e per la gestione della cooperativa si creava un percorso democratico, che per molti cittadini fu sicuramente un’occasione per esercitare concretamente forme di diritto di voto e di partecipazione alle decisioni (art. 20, le deliberazioni dell’assemblea dei soci «sono prese a maggioranza assoluta di voti dei soci presenti»5). Si segnala l’art. 17, che sanciva un principio fondamentale della cooperazione che continua a differenziarla da una società di capitali («Il socio ha diritto ad un solo voto nell’assemblea, qualsiasi sia il numero delle azioni in suo possesso») e l’art. 36 sulla ripartizione degli utili netti, che vedeva il 10 per cento destinato per l’«assistenza ai soci ed alle famiglie dei Caduti per la causa della liberazione». All’art. 38 si affermava che «tutte le cariche sociali sono normalmente gratuite».

5 Questi ultimi due articoli non vennero riproposti nel nuovo statuto approvato nel 19636. Da una parte si prevedeva di utilizzare i residui attivi di bilancio per più generici scopi di assistenza sanitaria, culturale, ricreativa e mutualistica a favore dei soci e delle famiglie (art. 22). Dall’altra, ai membri del Consiglio di Amministrazione (CdA) – che a tempo pieno di occupavano della cooperativa – spettava un compenso (art. 30). Lo Statuto del 1963 lasciava intravedere una situazione in espansione rispetto al 1945: il numero minimo di soci passava da 5 a 50 (art. 4); i componenti del CdA aumentavano da 5 a un numero variabile fra 7 e 17 (art. 30); veniva prevista la possibilità di svolgere assemblee nelle località sedi di negozi per favorire la partecipazione dei soci (art. 29); si istituiva un Comitato consultivo di spaccio (art. 41). All’art. 1 la CCLM aderiva alla “Lega Nazionale delle Cooperative e Mutue” e ai collegati organismi regionali o provinciali, riconoscendosi nell’organo ufficiale di stampa, il giornale la «Cooperazione Italiana». All’art. 3 si creava una sezione di risparmio e si citava anche la figura del “consumatore non socio”, al quale andavano rivolte delle attività di sensibilizzazione. Ora i soci potevano appartenere a qualsiasi mestiere (salvo quelli concorrenti) e dovevano essere residenti nel Friuli Venezia Giulia (FVG), che allora si costituiva in Regione autonoma. In un passaggio dell’art. 6 si obbligava i soci «ad acquistare presso gli spacci della Società il proprio fabbisogno di consumo in distribuzione presso i medesimi», anche se non venivano specificate le modalità di verifica e non erano previste delle sanzioni per eventuali violazioni (pare più una dichiarazione di volontà che un autentico obbligo). Attraverso alcune documentazioni conservate si può fotografare la rete degli 8 spacci

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operanti nel 1963: Monfalcone, Monfalcone-porto, Turriaco, Ronchi dei Legionari, San Canzian d’Isonzo, Pieris, Fiumicello e Papariano, con oltre 3.000 soci complessivi7. Lo storico Presidente del Consiglio di Amministrazione degli anni Sessanta e di buona parte dei Settanta è Silvestro Tonizzo. L’orientamento politico della CCLM è legato a quello del Partito Comunista Italiano (PCI). I negozi si configurano come spacci di limitate dimensioni (solitamente di 200-300 mq), in linea con quanto avveniva a livello nazionale, seguendo il motto «una cooperativa sotto ogni campanile», mutuato dalla nota linea togliattiana volta al radicamento del partito di massa («una sezione comunista e una Casa del Popolo sotto ogni campanile»8). Tuttavia, in quegli anni, iniziava per le cooperative di consumo «la lunga marcia delle unificazioni» e contemporaneamente l’aumento della superficie dei punti vendita (Renzo Testi). Proprio nel 1963 a Reggio Emilia si inaugurava il primo supermercato cooperativo di 1.400 mq di superficie di vendita, il Coop 1, organizzato su due piani9. Da lì prese avvio, ad esempio, il percorso di concentrazione delle cooperative di Reggio Emilia, prima su base comunale, poi intercomunale e successivamente provinciale. Nel 1974 costituirono la Coop Nordemilia, assieme a quelle di Parma, Mantova e Piacenza che avevano seguito itinerari simili10. Questi processi di fusione furono appannaggio – per il momento – dell’avanguardia del movimento cooperativo, che storicamente aveva le sue roccaforti nell’Italia centrale. Secondo Patrizia Battilani, a livello nazionale, «l’opera di modernizzazione procedette molto lentamente […]: i negozi tradizionali restarono l’ossatura della cooperazione di consumo per tutti gli anni Sessanta»11. Ciò avvenne anche nel Monfalconese e proseguì allo stesso modo nella prima metà degli anni Settanta. I tempi non erano ancora maturi per un’autoriforma della rete di vendita, anche se esisteva la consapevolezza delle difficoltà nella gestione dei negozi. Il CdA della CCLM nel Bollettino d’informazione dell’aprile 1968 – nell’invito ai soci all’assemblea di approvazione del bilancio per l’esercizio 1967 – scriveva: le vendite, purtroppo, non hanno avuto quello sviluppo che il Consiglio di Amministrazione ovviamente si aspettava: ciò è dovuto a diversi fattori. Enunciamo soltanto i principali, che possono così essere indicati: - il perdurare della seria crisi del settore industriale, con il conseguente diminuito potere di acquisto dei lavoratori; - la massiccia presenza delle grandi catene di distribuzione che attraverso i loro supermarket sviluppano una spregiudicata politica tesa a confondere il consumatore nelle sue scelte alimentari; - l’attuarsi di una politica degli investimenti nel settore distributivo nel preminente interesse dei gruppi finanziari monopolistici; - il perdurare di una ormai intollerabile pressione fiscale che colpisce soprattutto il Movimento Cooperativo ed i lavoratori a reddito fisso. Nell’esercizio passato, la presenza e la funzione della nostra Cooperativa e del Movimento Cooperativo nel suo insieme, nell’azione contro il caro vita, la speculazione, le frodi, le sofisticazioni alimentari, in difesa del potere di acquisto dei lavoratori e della salute del consumatore, si è maggiormente sviluppata. In particolare, le iniziative prese dal nostro Movimento si sono caratterizzate con l’affermazione e lo sviluppo del MARCHIO COOP e di tutti quei prodotti garantiti e controllati da COOP-ITALIA il grande CONSORZIO delle COOPERATIVE di CONSUMO ITALIANE12.

6 Da questa lettera ai soci si può concludere che non esisteva ancora un’autocritica sulla gestione della rete dei negozi, mentre i supermercati erano ancora considerati con sospetto, dal momento che svolgevano una «spregiudicata politica tesa a confondere il consumatore nelle sue scelte alimentari». Sono stati riportati anche i passaggi

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promozionali finali, per dimostrare quali erano le parole d’ordine di allora, che, in diversi casi, attraverso un messaggio attualizzato rappresentano ancora oggi un patrimonio consolidato del movimento cooperativo.

7 Un altro passaggio interessante fa emergere l’impostazione di genere ancora imperante all’epoca. Si plaudeva alla nuova apertura della Coop a Ronchi dei Legionari, «negozio che corrisponde alle più moderne esigenze delle massaie e del consumatore»13, dove appare netta la sottesa separazione fra le donne, massaie massificate, e l’uomo, consumatore consapevole.

Immagini di lavoro e dell’inaugurazione del negozio ristrutturato n. 3 della CCLM, Turriaco 30 agosto 1967. Archivio del Consorzio Culturale del Monfalconese

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8 Nella Relazione del CdA dell’anno successivo, si può leggere come nel 1968 la CCLM abbia «contribuito alla creazione del nuovo grande magazzino COOP-ITALIA di Pordenone, che rifornirà le cooperative del Friuli-Venezia Giulia e del Veneto con una completa gamma merceologica», necessario per coordinare almeno una politica unitaria degli acquisti14. Nello stesso documento si comunicava dell’acquisizione di un terreno a San Canzian d’Isonzo «per la imminente costruzione di uno stabile da adibirsi a un modernissimo COOP»15. Lo sviluppo dei fatti è emblematico per dimostrare la prossimità (se non la sovrapposizione) che esisteva fra la CCLM e le organizzazioni del PCI. La “modernissima Coop” di San Canzian d’Isonzo fu inaugurata qualche anno dopo, il 29 maggio 1975, come si riportava addirittura in una cartolina dell’epoca.

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Casa del Popolo e Coop di San Canzian nel 1975. Archivio della Casa del Popolo di San Canzian

9 Le immagini dimostrano chiaramente la commistione fra le due strutture, la Casa del Popolo e la Coop, tanto da far svettare sopra la nota insegna di quest’ultima, la Falce e il Martello con la Stella. Il simbolo del lavoro era riferibile all’iconografia della sinistra e in particolare al Partito Comunista: evidentemente, ancora nel 1975, non veniva visto come un “limite” per il punto vendita la stretta correlazione fra le due simbologie, entrambe molto riconoscibili nell’immaginario collettivo. È opportuno rilevare che ciò avveniva in un Comune dove il PCI, da solo, godeva di una maggioranza assoluta di consensi, che gli permise di essere fortemente radicato sul territorio e di amministrare il Municipio lungo tutto il corso della Prima Repubblica. In altre parole, lungi

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dall’essere considerato un limite, in un siffatto contesto, l’associazione delle due simbologie poteva rappresentare un’opportunità, nonostante tali impostazioni cominciassero a modificarsi in contesti maggiormente “moderni”.

2. La rivoluzione del Discount di Monfalcone nella seconda metà degli anni Settanta e la chiusura dei vecchi negozi

10 Gli anni Settanta furono una stagione di grandi cambiamenti nella distribuzione commerciale a livello nazionale, come già evidenziato dalla storiografia. Nel 1973 Carrefour inaugurò a Carugate, in provincia di Milano, il primo centro commerciale con ipermercato in Italia, in grado di fatturare 21 miliardi di lire all’anno, mentre Standa, in collaborazione con la francese Euromarché, si avviava nella stessa direzione16. Contemporaneamente erano comparsi i primi discount, che vengono così descritti dalla storica economica Patrizia Battilani: «strutture che non superavano i 500 m2, impostate principalmente sui non deperibili, che trattavano un numero ridotto di referenze, tra le 400 e le 1.000, e che proponevano scaffalature da magazzino per contenere i costi di manodopera»17. A metà degli anni Settanta, dunque, il movimento cooperativo nazionale si trovò davanti all’alternativa di introdurre uno dei nuovi modelli di negozio che andavano diffondendosi: i discount o gli ipermercati. Dopo alcuni anni di dibattito, Coop scelse inizialmente i primi. Fu una stagione intensa, caratterizzata da grande entusiasmo e risultati spesso positivi, come ricordato enfaticamente nelle testimonianze. Ciò è caratteristico delle fasi pionieristiche di fondazione di strutture innovative. Tuttavia i discount rappresentarono una parentesi di circa un decennio nel mondo della cooperazione di consumo, compresa fra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta. In seguito le Coop basarono la propria rete di punti vendita su ipermercati e supermercati. Le valutazioni che fornisce Battilani sono molto nette: La crisi economica degli anni 1974-77 fece propendere il movimento cooperativo verso la formula discount, che ben presto avrebbe rivelato tutti i suoi limiti: il primo venne inaugurato a Pomigliano d’Arco nel febbraio 1976. Molteplici furono le ragioni della preferenza accordata ai discount invece che agli ipermercati: da una parte vi era la convinzione che la crisi avrebbe prodotto un effetto permanente sul modello di consumo, creando una forte domanda di prodotti non artificialmente abbelliti con pubblicità, promozioni o packaging accattivanti e che la formula del discount fosse quella più adatta a rispondere a questa esigenza; dall’altra vi era la necessità di trovare una risposta al fenomeno sempre più diffuso degli spacci aziendali voluti e gestiti dagli stessi operai in forma cooperativa; infine, aspetto non trascurabile l’investimento necessario era incomparabilmente minore. «Noi dobbiamo avere il discount come alternativa, come risposta agli spacci aziendali. Non possiamo rispondere con dei no perché abbiamo visto che quando rispondiamo con dei no gli spacci aziendali sono stati fatti lo stesso ed allora dobbiamo rispondere con alternative valide»18. Il discount venne ritenuto l’investimento più adatto per diversificare l’offerta della cooperazione di consumo e questo allontanò di un decennio l’ingresso nel comparto degli ipermercati19.

11 Lo storico Andrea Baravelli si focalizza in particolare sulla nuova generazione di dirigenti che subentrò nel movimento cooperativo a partire dagli anni Sessanta. Infatti, investendo gradualmente nella grande distribuzione, le Coop adottarono, in parte per i discount e soprattutto per i super e poi per gli ipermercati, «modelli di esercizio che

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imponevano di compiere – per i fortissimi investimenti, finanziari e di competenze, che richiedevano – un ulteriore scatto nel senso dell’adozione di una compiuta mentalità aziendale»20. Fu infatti il nuovo gruppo dirigente, di formazione più spiccatamente manageriale rispetto alla precedente generazione, a puntare sul ruolo organizzatore dei consorzi provinciali e sul dispiegamento di un’indefessa opera di razionalizzazione. Con una storia a balzi, fatta di accelerazioni e rallentamenti, si sarebbe giunti al progressivo abbandono della concezione della cooperativa di consumo quale espressione della comunità locale, riuscendo ad allestire una rete di vendita moderna – centrata sui grandi supermercati e sul dislocamento strategico – e arrivando alla costruzione di una struttura reticolare del settore in grado di funzionare quale elemento di raccordo tra cooperative di consumo ed altri soggetti economici. Parallelamente, si sarebbe pian piano superato il grande limite del passato: l’esasperata competizione politica – alimentata dalle forti identità di parte – che nei decenni precedenti aveva invariabilmente inquinato ogni possibilità di sviluppo21.

12 Perché dunque soffermarsi sul caso del Discount di Monfalcone se in fondo rappresentò, in linea con quanto avveniva a livello nazionale, un’esperienza di breve durata? Perché sicuramente fu un fatto straordinariamente innovativo, che diede ottimi risultati a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta, permise di accrescere il numero dei cooperatori e dei soci e preparò le condizioni per le tappe e gli investimenti successivi. Ricostruito il contesto nazionale, ora si riporta quanto scriveva il già citato Bojardi nel 1994 in merito alla situazione Monfalconese. Nei primi anni ’70 in alcune fabbriche del Monfalconese nascono le esperienze degli spacci aziendali situati all’esterno degli stabilimenti e gestiti dai consigli di fabbrica (Nest Pack e Cartiera Timavo). In quest’opera vanno senz’altro ricordati i cooperatori che vi hanno lavorato in particolare il compianto Giorgio Fari. Nel 1977 la cooperativa sulla spinta sindacale dell’Italcantieri e delle altre aziende del territorio, mediante CGIL-CISL-UIL e le ACLI [Confederazione Generale Italiana del Lavoro, Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori, Unione Italiana del Lavoro e Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani, ndA] si trasforma e si ristruttura concentrando la propria attività in un unico negozio discount a Monfalcone ove ancora oggi la Coop Consumatori ha il suo più grande supermercato della rete di vendita. Aperto per soli soci che svolge politica calmieratrice per volontà dei sindacati. Tutti i piccoli negozi furono ceduti ai responsabili che li avevano sino ad allora gestiti per la Cooperativa. La tipologia di vendita discount, oggi così prepotentemente ritornata sul mercato, fu allora provata a Monfalcone anche grazie ad una sperimentazione che il movimento cooperativo nazionale volle provare, inviando a collaborare con i dirigenti locali alcuni cooperatori emiliani e lombardi che seguirono i risultati altamente positivi raggiunti, in pochi mesi, dalla formula discount che aveva riscontrato l’alto gradimento del servizio e dei prezzi praticati ai soci-consumatori della cooperativa. Tra il 1977 e il 1984 la cooperativa si sviluppa con una nuova generazione di supermercati a Villa Vicentina (UD), Ronchi dei Legionari e Gorizia [nella citazione andrebbero aggiunti i punti vendita di Torviscosa e Panzano, ndA]22.

13 Citata la storiografia, si ricostruisce tale periodo con documentazione e testimonianze più puntuali rispetto a quanto sopra riportato. A metà anni Settanta maturarono le condizioni per una radicale ristrutturazione della distribuzione cooperativa nel Monfalconese. Ci furono diversi fattori che permisero sostanzialmente di smantellare la rete di piccoli negozi per creare – inizialmente – un unico grande punto vendita, nella versione del discount (hard si direbbe oggi). I fattori alla base di questo percorso

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intrecciano inevitabilmente trend nazionali con aspetti più locali, la “grande” e la “piccola” storia che si intessono: i due principali elementi che consentirono questa virata furono da una parte l’avvento di una nuova generazione dentro il PCI e quindi negli organismi dirigenti delle Coop, più aperta a soluzioni innovative e concorrenziali; dall’altra l’intuizione di diversi Consigli di Fabbrica (CdF) di costituire degli spacci aziendali rivolti soprattutto alla tutela del potere d’acquisto dei lavoratori. Quanto si verificò nel Monfalconese corrispondeva alla fase nazionale espansiva del PCI, che non temeva il confronto e la contaminazione con altre forze politico-sindacali, accettandone il contributo anche all’interno di settori – come quelli della cooperazione rossa – che venivano considerati, fino a poco prima, di proprio esclusivo appannaggio. Questo si sovrapponeva alla fase di unità sindacale, che consentì – attraverso l’adesione degli organismi di rappresentanza – di orientare verso la cooperazione di consumo grandi masse di lavoratori, nonostante, almeno inizialmente, diverse iniziative di spacci aziendali fossero sorte dal basso in maniera spontanea, anche se successivamente alle mobilitazioni sindacali contro il caro vita. Infatti, negli anni Settanta, CGIL, CISL e UIL della provincia di Gorizia aprirono una vertenza per migliorare le condizioni in fabbrica ma anche “sul territorio”, rivendicando servizi e alloggi sociali, trasporti, difesa del potere d’acquisto, strutture di medicina del lavoro23. In altre parole, dentro la CCLM ci fu il passaggio da una struttura filo-PCI a una legata alla fase unitaria del sindacato.

14 Una prima avvisaglia del cambiamento è riscontrabile nell’intervento dello storico Presidente della CCLM, Tonizzo, al V Congresso nazionale dell’Associazione Nazionale delle Cooperative di Consumo (ANCC) tenuto nel 1974. Il documento è interessante perché permette di cogliere la fase di rinnovamento che stava iniziando a svilupparsi nel Monfalconese, con l’ingresso nel CdA della CCLM di rappresentanti delle organizzazioni territoriali dei lavoratori. Il Presidente Tonizzo – che non a caso lasciò l’incarico nel 1977 pur non essendosi opposto alle innovazioni – annunciava che nell’ultima assemblea della nostra cooperativa i lavoratori sono entrati a far parte del Consiglio di Amministrazione per portare avanti assieme un programma di ristrutturazione della cooperativa stessa in modo da renderla strumento idoneo alle richieste provenienti dal mondo del lavoro che hanno trovato un positivo riscontro a livello delle Organizzazioni sindacali unitarie. Riteniamo che la richiesta unitaria delle Organizzazioni sindacali costituisca un importante fatto di maturazione perché testimonia l’impegno del Sindacato a livello unitario nell’affrontare i problemi esterni alla fabbrica24.

15 Si chiarisce che entrarono nel CdA i rappresentanti delle organizzazioni sindacali territoriali e non i lavoratori dipendenti della Cooperativa (non si trattava di una cogestione di modello tedesco). Inoltre, Tonizzo lucidamente ammetteva che, «per le condizioni particolari che hanno delle profonde radici storiche nel Friuli-Venezia Giulia il nostro Movimento [mandamentale e regionale] si trova in ritardo e deve superare l’attuale frazionamento», considerato che si procedeva «nel quadro del rafforzamento e dell’espansione del sistema nazionale di imprese cooperative»25.

16 Per ricostruire la fase “pionieristica” che portò da 8 piccoli negozi a un unico grande discount sono state raccolte, nel corso del 2014, diverse interviste ai promotori diretti di quella ristrutturazione. Questi testimoni sono i protagonisti del cambiamento, quelli che sostennero la necessità di tale scelta. Quindi sono i “vincitori” rispetto alla linea tradizionale degli spacci di limitate superfici e, pur nella diversità di opinioni che emerge in seguito fra i vari “riformatori”, c’è una condivisione di fondo su molti punti

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di partenza. Relativamente a questa fase iniziale di sviluppo, sono stati intervistati in particolare Adriano Persi, Mario Dal Canto, Mile Marchese, Livio Aleotti e Lucio Pieri (quest’ultimo divenne un cooperatore qualche anno dopo rispetto agli altri)26. Ciascuno ha rivestito un ruolo diverso nella genesi del Discount di Monfalcone.

17 Ad esempio Persi – sindaco di Monfalcone negli anni Novanta – era un giovane militante del PCI, che era stato inserito nel CdA della CCLM dal Partito e che svolse una funzione importante nella ristrutturazione dei punti vendita. Persi è un testimone diretto dello scontro ideologico e generazionale che ci fu all’interno del CdA, dove i “vecchi” non erano disponibili a modificare l’impostazione finora data alla CCLM: gli fu affidato – come lui stesso ricorda – il ruolo di “ariete” dentro il CdA, ma questo non gli pesò particolarmente perché «ti sentivi forte di queste idee nuove».

18 Quella generazione sicuramente appariva maggiormente aperta al confronto con il mercato e le sue regole, pur rimanendo in un quadro di forte spinta solidaristica e volontaristica. Affiorano spesso nelle memorie i racconti, legati soprattutto alla fase di immediato avvio del Discount, dei lavori volontari e gratuiti che venivano effettuati. Marchese era un giovane operaio della Nestpack che, finito il turno di lavoro, andava alla Coop a saldare le scaffalature e a predisporre il capannone per l’apertura del Discount. Non doveva essere infrequente nei primi anni di gestione del Discount vedere i componenti del CdA caricare la merce nelle scaffalature o spostare i pallets dal magazzino all’area vendita.

19 In generale, in tutti gli intervistati esisteva la chiara consapevolezza dei limiti della gestione precedente, considerata inefficiente e non più rispondente alle esigenze di consumo dei lavoratori. I gerenti dei negozi cooperativi, che occupavano al massimo 2-3 persone ciascuno, venivano quasi associati a una conduzione privatistica, caratterizzata alle volte da ammanchi. In risposta all’incapacità dei punti vendita delle Coop di essere convenienti, diversi CdF del Monfalconese costituirono degli spacci aziendali, che acquistavano della merce in blocco per poi rivenderla ai lavoratori quasi a prezzo d’acquisto. Non trascorse molto tempo per collegare queste esperienze dal basso dei CdF al magazzino di Coop Italia di Pordenone, che si premurò di soddisfare le richieste dei lavoratori. Il primo spaccio aziendale nacque nel Monfalconese attorno alla metà degli anni Settanta all’ex Solvay, la cui denominazione di allora era Nestpack. I promotori – impressi nella memoria collettiva – furono Giorgio Fari e i fratelli Dal Canto, Mario e Gino, tutti operai della stessa fabbrica. La formula era semplice ma dirompente: veniva comprata merce dai grossisti e rivenduta solo con il rincaro della fattura, con pochi articoli (Mario Dal Canto). Adriano Persi ricorda come l’azienda concesse l’utilizzo del vecchio edificio della pesa per adibirlo a piccolo spaccio. È opportuno citare che molti lavoratori della Nestpack provenivano da Rosignano Solvay (in Provincia di Livorno) e si erano stabiliti a Monfalcone in seguito all’acquisizione della Nestpack da parte della Solvay. Quest’ultima mantenne a Rosignano Solvay il ciclo della soda, mentre riconvertì la fabbrica di Monfalcone alla produzione di materie plastiche. Per far questo, una ventina di livornesi vennero mandati nel 1971 a un corso di riqualificazione professionale a Giussano (in provincia di Monza e della Brianza), dove esisteva già un impianto della Nestpack e nel 1972 furono trasferiti a Monfalcone (Mario Dal Canto). Molti dei testimoni originari del Monfalconese considerano utile l’esperienza dei livornesi che conoscevano Coop Proletaria, anche se Dal Canto – unico livornese intervistato – non conferma questa interpretazione, sostenendo piuttosto che ebbero molta fantasia e pragmatismo nell’inventare il Discount di Monfalcone. Ad ogni

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modo, dopo l’esperienza della Nestpack seguirono altre aziende e quindi nacque l’idea di avere un unico spaccio comune. Per questo alla fine del 1976 si formò nella Provincia di Gorizia un Comitato di Coordinamento per la Cooperazione, promosso da CGIL, CISL, UIL, Lega delle Cooperative (Federcoop), Confederazione Cooperative (Unione) e ACLI. In quegli anni si stabilì che la presidenza della CCLM veniva gestita con una rotazione biennale tra CGIL, UIL, CISL e ACLI, seguendo l’ordine esposto.

20 Il numero monografico «Speciale cooperazione» del novembre 1976 è dedicato proprio alla nascita del Comitato in preparazione della prossima apertura del Discount di Monfalcone. Nell’annuncio evidenziavano che quest’ultimo rappresentava la «seconda esperienza della Regione, dopo quella positiva avviata nel giugno 1976 presso le officine Danieli di Buttrio, dove attualmente si registrano vendite giornaliere per 4 milioni»27 e venivano sintetizzate le principali caratteristiche della struttura, con allegata la planimetria: Il Comitato di Coordinamento per la Cooperazione, oggi è in grado di presentare concretamente una soluzione attraverso l’utilizzazione, come punto vendita discount, di un capannone di 700 metri quadrati con altri 2600 mq di parcheggio, sito lungo la Statale 14 per Trieste, nell’immediata perifieria di Monfalcone, nei pressi della Zona industriale del Lisert28.

Planimetria del Discount Coop di Monfalcone29

21 Così, da questa pubblicazione del novembre 1976 si apprendono le tipologie merceologiche che proponeva il punto vendita (ad esempio non era ancora presente la carne) e si veniva a conoscenza della localizzazione. Anche questa risultava un’innovazione importante: la scelta strategica consisteva nel collocarsi immediatamente fuori dal centro cittadino, mettendo però a disposizione un’ampia area di parcheggio sulla Strada Stadale ad alta percorrenza in direzione Trieste.

22 L’individuazione dell’area del capannone di via Colombo è rimasta impressa a tutti i cooperatori di allora, anche perché seguirono lunghe prassi amministrative per ottenere la licenza. Fu Adriano Persi a “scoprire” il capannone, che era un magazzino di

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materiali edili: quello era il precedente utilizzo, considerato che, in quegli anni, la destinazione di tutta l’area – stando al Piano regolatore comunale – era industriale. Qui sotto si inseriscono delle immagini che mostrano come si presentava la struttura, di proprietà della Stignano, che fu affittata alla CCLM e che immediatamente avviò i lavori per consentire l’apertura del Discount.

Ristrutturazione del capannone in preparazione dell’apertura del Discount Coop di Monfalcone, 1976. Archivio personale di Mario Dal Canto

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23 Come si nota, l’area si prestava per impostare un hard Discount, che facesse della concorrenzialità sul prezzo il proprio cavallo di battaglia, dal momento che si trattava di un capannone che si collocava in una zona industriale e che solo a seguito di un rifacimento completo avrebbe potuto eventualmente trasformarsi in supermercato.

24 La CCLM, effettuata la scelta di concentrare la vendita in un unico discount, procedette con la dismissione degli 8 piccoli negozi di paese, rivendendoli ai gerenti e lasciandoli la possibilità di affiliarsi a Conad30, con i quali fu raggiunto un accordo anche per trasferire una parte della ventina di dipendenti (Adriano Persi). Una minoranza di operatori restò invece alla CCLM, che iniziò l’attività con solo 7 addetti; uno di questi fu Claudio Parolisi, che diventò in seguito capo negozio nel nuovo Discount di Monfalcone.

25 Il Discount Coop di Monfalcone aprì il 23 marzo 197731, mentre fu inaugurato il 4 giugno 197732. Si riporta integralmente il volantino diffuso in quest’ultima giornata, anche per evidenziare l’impostazione che veniva data al punto vendita: Monfalcone – Via Colombo – SS 14 per Trieste Un negozio radicalmente nuovo in difesa dei consumatori Il nuovo negozio di tipo “DISCOUNT” nasce dalla collaborazione tra le forze democratiche della Cooperazione, della Federazione unitaria CGIL-CISL-UIL e le ACLI, e dalla volontà e dall’impegno dei soci e dei dipendenti della COOPERATIVA CONSUMO LAVORATORI. La nuova struttura di vendita è impostata con dei criteri assolutamente nuovi: infatti tutta una serie di costi di impianto e di servizio sono stati ridotti o eliminati: scaffalature più semplici, meno spazi frigoriferi, meno casse, migliore utilizzazione dello spazio. L’assortimento è limitato ai prodotti essenziali, quelli che servono realmente a soddisfare oggettive necessità familiari. Si pensi che in un normale supermercato vi sono oltre 3000 prodotti: a Monfalcone, nel nuovo “DISCOUNT” COOP, le referenze sono circa 700, ma che rappresentano l’80% dei consumi. Un’offerta selezionata e vantaggiosa nei settori: pulizia della casa, igiene personale, scatolame, salumi, formaggi e latticini, ortofrutticoli stagionali, bevande, vini e liquori. Gli articoli in vendita sono in gran maggioranza prodotti dalle Cooperative agricole o realizzati sotto il controllo della COOP ITALIA che garantisce con il proprio marchio la genuinità dei prodotti33.

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26 La sede dell’assemblea dei soci, con il primo intervento riservato a Giorgio Fari come rappresentante del Comitato Unitario di Coordinamento per la Cooperazione, era – significativamente – la Sala della Federazione Unitaria Metalmeccanica. Lo slogan del volantino recitava: «Forme nuove di distribuzione nell’interesse del consumatore nella lotta al carovita»34.

27 In un comunicato ai soci diffuso 9 mesi dopo l’apertura in occasione della campagna promozionale per gli acquisti natalizi, si parla di 6.000 soci, che crescevano man mano si raccoglievano le adesioni dei CdF e in particolare dell’Italcantieri, di gran lunga la maggiore azienda del territorio, che, rimasta inizialmente esterna alla costituzione del Discount, poi assicurò la “massa” dei soci. Lo slogan scelto a chiusura del materiale pubblicitario era: La Cooperativa Consumo Lavoratori non mira al profitto. È un servizio sociale al consumatore. Chi può dire altrettanto35?

28 Già nel marzo 1978 fu organizzato a Udine da Associazione Regionale Cooperative di Consumo FVG, Lega nazionale cooperative e mutue e Coop Italia, un seminario sulla nuova formula e struttura distributiva dei discount. Nel convegno un intervento fu dedicato alla comparazione tra 10 discount cooperativi, tutti aperti fra il 1976 e il 197736. Da questa importante pubblicazione si possono trarre alcune informazioni significative per la ricerca. Quello di Monfalcone è l’unico discount a essere considerato “extra cittadino”, mentre la maggioranza erano “cittadini”, due “extra urbani di zona” (Buttrio e Gemona) e solo il discount di Fidenza risultava “aziendale”. Per estensione delle superfici coperte, quello di Monfalcone (650 mq) era secondo solo a quello di Buttrio (1.000 mq). Per i parcheggi, Buttrio aveva 2.400 mq e Monfalcone 2.000 mq, superati da Gemona con 4.450 mq. Da notare che ben 4 discount non possedevano parcheggi riservati, non trovandosi dunque in condizioni ottimali. Monfalcone, Buttrio e Fidenza erano i tre discount riservati solo ai soci, mentre gli altri possedevano la licenza di vendita al pubblico. A Monfalcone i locali erano ancora in affitto, per un valore di 8.400.000 lire annue. A Monfalcone c’erano le scaffalature in ferro (solo a Trieste risultavano in legno), i frigoriferi murali e le celle frigorifere, ma non le isole frigo. Si utilizzavano i pallets, i transpallets e i muletti (solo a Trieste ciò non avveniva) e 4 registratori di cassa. Lo scontrino medio a Monfalcone (22.500 lire) era secondo solo a Buttrio (24.658 lire), mentre gli altri punti vendita variavano dalle 6.000 alle 13.000 lire. Monfalcone non si caratterizzava per un numero particolarmente alto di clienti per giornata d’apertura (211) rispetto ad altri punti vendita, come Trieste che raggiungeva anche gli 888 clienti, ma con spese medie molto più basse (6.461 lire). Per quanto riguarda la parte commerciale del punto vendita, a Monfalcone i prezzi erano praticati per 7 fasce di ricarico. Qui ogni discount si organizzava autonomamente, infatti in 4 casi non si adottava il metodo delle fasce di ricarico, mentre in altri casi le fasce erano minori (5 o 6) e in altri arrivavano fino a 17. Le referenze totali in assortimento a Monfalcone erano 688 (nella media rispetto agli altri discount), di cui 567 di generi vari (82%), 81 di deperibili e semideperibili (12%) e 40 non alimentari (6%). Quest’ultima categoria allora era presente solamente in 3 discount. Le vendite nel 1977 ammontavano a Monfalcone a 1.097.984.000 lire, secondo solo al risultato di Pisa di 1.847.299.000 lire, che però era già stato aperto a fine 1976 e dunque non aveva perso i primi mesi dell’anno, come invece succedeva a Monfalcone. Se riferissimo le vendite all’intero anno, il gap si ridurrebbe e Monfalcone arriverebbe a 1.300.000.000 lire; tuttavia sarebbe superata – stando allo stesso ragionamento – da Trieste che

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giungerebbe a 1.776.000.000 lire. Ad ogni modo, tutti i discount riuscivano a garantire un utile. Monfalcone dichiarava un margine lordo di 8,7 per cento.

29 Anche questa pubblicazione dimostra come Coop Italia, a livello nazionale, fosse impegnata a sostenere iniziative sui discount (fino a poco prima assenti dal panorama nazionale) e a incentivare progetti pilota che all’epoca erano all’avanguardia. Non a caso, Coop Italia trasferì Livio Aleotti (che allora era un trentunenne assistente alle vendite nei supermercati cooperativi di Reggio Emilia) a Monfalcone per avviare il Discount, mentre Mario Dal Canto andò da Monfalcone al punto vendita cooperativo di Cavriago, in provincia di Reggio Emilia (Livio Aleotti; Mario Dal Canto). Sostanzialmente non esistevano esperienze nazionali da seguire e il metodo era molto innovativo; per questo Coop Italia favoriva uno scambio di conoscenze e delle migliori prassi.

30 Il ricercatore Baravelli, pur riferendosi all’«epoca pionieristica del movimento cooperativo» di fine Ottocento, parlò di distorsioni che riguardano la percezione sull’opera dei protagonisti di quella fase. I pionieri cooperatori vengono così usualmente rappresentati come persone fin dai primissimi esordi ben consapevoli di quali fossero i passi da compiere per assicurare un futuro di prosperità alla propria creatura associativa […]. Per restituire valore a quegli stessi individui, invece, credo che occorra sottolineare il clima di incertezze, organizzative e di metodo, che segnarono gli esordi. Bisogna ricordare i successi ma anche i fallimenti, le incertezze e la perseveranza37.

31 La stessa valutazione è ascrivibile anche per i cooperatori degli anni Settanta, che con l’ottimismo della volontà e molta creatività affrontarono la ristrutturazione della rete di vendita, introducendo la formula del discount, che a Monfalcone rappresentò un autentico “nuovo inizio”. Non a caso Lucio Pieri, Presidente della CCLM (1979-1981) e poi in Direzione organizzativa, ricorda che «la professionalità ce la siamo fatta sul campo».

32 La formula vincente nella gestione aziendale e commerciale del Discount di Monfalcone è rimasta impressa nella memoria di tutti gli intervistati. In sintesi, alcuni elementi chiave erano: i prezzi estremamente bassi; i (relativamente) pochi prodotti con merce spesso esposta direttamente negli scatoloni e/o lasciata sui pallets; i dipendenti disponibili a svolgere le mansioni e i lavori necessari («tutti i dipendenti facevano tutto», Mario Dal Canto); l’adesione alla filosofia “tutto vendita” tipica del discount, con riduzione al minimo delle aree destinate a magazzino e dei costi per scaffalature, impianti e strutture. Infatti, nei primi anni, il “magazzino” era ricavato perfino nel perimetro interno dell’area vendita, sopra le merci esposte (Mario Dal Canto). All’apertura del 1977, il Discount di Monfalcone non era fornito della gastronomia, del banco salumi e della macelleria, anche se di lì a poco si raggiunse un accordo con un commerciante locale, Dino Bergamasco, che forniva carne e salumi già confezionati. Anche l’ortofrutta inizialmente veniva venduta solo come prodotto confezionato (Mario Dal Canto). Il successo fu immediato, tanto che il punto vendita veniva identificato nell’immaginario collettivo più come il “Discount” che la “Coop” (Lucio Pieri). D’altra parte era il primo discount nella Provincia di Gorizia e uno dei primi a livello nazionale, quindi rappresentò una novità rilevante. Mario Dal Canto addirittura ricorda le corriere che venivano a rifornirsi periodicamente al Discount dall’Ungheria. Il Discount nel 1977 (e fino al 1983) non possedeva la licenza e quindi fu aperto esclusivamente per i soci, a differenza di quanto avveniva nei vecchi negozi di paese. In molti ricordano che Giorgio Fari, memore della sua esperienza nell’Associazione

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Ricreativa e Culturale Italiana (ARCI), preparò le tessere-socio di colore blu, mutuandole da quelle dell’ARCI (Mario Dal Canto; Adriano Persi).

Discount Coop di Monfalcone, seconda metà anni Settanta. Archivio del Consorzio Culturale del Monfalconese

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Discount Coop di Monfalcone, seconda metà anni Settanta. Archivio personale di Mario Dal Canto

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33 Le condizioni di lavoro nel primo periodo di attività del Discount di Monfalcone non dovevano essere ottimali, a causa delle carenze strutturali che solo diversi anni dopo (con la prima ristrutturazione-ampliamento del 1984) sarebbero state sanate.

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L’ambiente di lavoro al Discount Coop di Monfalcone, seconda metà anni Settanta. Archivio personale di Mario Dal Canto

34 A titolo d’esempio, nell’immagine di sinistra si nota come operava allora la cassiera: non era ancora stato introdotto il banco per agevolare la raccolta dei prodotti, che spesso non erano ancora prezzati. Ciò significava che i prezzi dovevano essere memorizzati. Fra l’altro, i primi banchi erano leggermente inclinati per favorire il scivolamento degli articoli, mentre solo successivamente si diffusero con il tappeto scorrevole. Nell’immagine a destra si vede la movimentazione delle merci in magazzino, effettuata da Mario Dal Canto, che nei primi anni Ottanta era il Responsabile commerciale del Discount di Monfalcone. Ciò dimostra anche la

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commistione di lavori e mansioni che ogni cooperatore allora svolgeva. Il capannone era industriale, senza isolamento e controsoffittature, decisamente anomalo per una destinazione commerciale, almeno se considerata con i canoni attuali. Dal Canto ricorda come fino alla ristrutturazione-ampliamento del 1984 la luminosità fosse poca, mentre non c’era il riscaldamento in un capannone alto 9 metri. Non a caso le cassiere avevano le stuffette ai piedi in inverno e nelle giornate più rigide si provvedeva con un cannone rumoroso che sparava aria calda (di quelli utilizzati nell’edilizia, Lucio Pieri). Alla domanda sull’ambiente di lavoro di allora, Pieri rispose «allargo le braccia» e lo definì «ruspante», pur non segnalando problemi particolari di sicurezza; tutti i testimoni escludono casi di infortuni o malattie professionali invalidanti. Le condizioni di lavoro non apparivano massacranti, perché si movimentava una buona parte dei prodotti a bancale, mentre erano più pesanti a livello mentale (Mario Dal Canto). In quella fase iniziale si lavorava con passione – di fatto senza differenziazioni di livello – dove «tutti i dipendenti facevano tutto» (Mario Dal Canto).

35 Considerato che la scelta di aprire i discount cooperativi avvenne nella seconda metà dei “caldi” anni Settanta, si può intuire come quella decisione non fosse stata presa senza difficoltà all’interno del movimento. Non era solo la volontà di conservazione dell’impostazione originaria dei vecchi componenti dei CdA, ma esisteva anche un acceso dibattito attorno al “modello discount”. Per ricostruirlo, si possono ripercorrere alcuni passaggi del già citato seminario del marzo 1978. Giorgio Riccioni, Vice Responsabile del Settore programmazione e sviluppo dell’ANCC, affermava che «il discount rappresenta oggi la formula più avanzata dell’organizzazione capitalistica del lavoro e dell’impresa e come tale, è compatibile soprattutto con un tasso di sviluppo generalizzato dei beni di consumo di massa»38. È ovvio che questo aprisse una discussione in particolare all’interno del movimento sindacale e dei partiti della sinistra. Secondo Riccioni ciò significava che i maggiori livelli di produttività erano il frutto di una politica del lavoro che porta all’eccesso ogni forma di incentivo ed utilizza in maniera sfrenata il part-time. Per dare un’idea di questo fenomeno basti ricordare come in Germania fino al 30-35% delle ore lavorative costituenti il budget di un punto di vendita sono gestite in assoluta libertà dal capo negozio. Ciò lascia facilmente supporre l’esistenza di un mercato del lavoro praticamente irripetibile, giustamente, nel nostro Paese39.

36 D’altra parte la politica del discount mirava alla minimizzazione dei costi attraverso la massimizzazione delle vendite, tendendo al soddisfacimento della clientela di ogni livello socio-economico. Per questo vi era la assoluta consapevolezza che «il discount offre il prezzo a scapito del servizio, della possibilità di scelta, della completezza dell’assortimento: tutti elementi, questi, presenti invece all’interno del supermercato» 40. Inoltre, il limitato assortimento non consentiva grandi margini alle manovre sul prezzo di ogni prodotto: «Il discount è di per sé l’espressione più avanzata della stabilità del prezzo nel tempo in quanto ogni minima variazione influenza direttamente l’immagine del negozio e quindi le vendite»41. Infatti, un esperto del Despar del FVG, Piero Cattaruzzi, affermava che «La selezione dell’assortimento riduce al massimo, nel più breve tempo possibile, la decisione del consumatore che nel discount vede non un punto di scelta, ma un punto di approvigionamento»42. Cattaruzzi concludeva che Senza eccezioni di sorta i prezzi di vendita dei prodotti devono essere inferiori del 10-15% rispetto a quelli praticati dalla migliore concorrenza presente sul mercato. […] Azioni promozionali ed offerte speciali sono assolutamente evitate per non creare nel consumatore l’immagine che, in qualche modo, il punto vendita possa scendere al di sotto del prezzo normalmente praticato43.

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37 Così, all’interno del mondo della cooperazione, ma anche in quello collegato politico- sindacale, si scelse il “modello discount”. Ciò significa che fu considerato più determinante ridurre i prezzi rispetto al contrasto della maggiore flessibilità introdotta dai discount, almeno nella formula adottata originariamente nei Paesi europei più avanzati. In effetti, la versione italiana del discount fu rivista rispetto a quanto avveniva altrove, come ricordava Fulvio Riva nelle conclusioni del seminario. Se da una parte «Gli effetti più evidenti di questa razionalizzazione generale sono le cadute dei monopoli di posizione e il ridemensionamento del lucro, che viene ad assumere la più consona figura di giusta remunerazione della produttività»44, dall’altra «i discounts italiani hanno in maggioranza l’apparenza di superettes che sono state riprese in chiave di riduzione di assortimento, in chiave di risparmio di scaffalature, nonché di riduzione degli oneri del personale»45.

NOTE

1. Nel 1924 Sandro Pertini, nell’introduzione della propria tesi di laurea dedicata alla cooperazione, sosteneva: «Se rendiamo il faticoso cammino percorso da l’umanità, possiamo – volendo – trovare i germi delle odierne società cooperative in antichissime istituzioni greche romane ed anche ebraiche – ed in altre meno remote apparse nell’età di mezzo: ma noi riteniamo oziosa una tale indagine storica, perché se si possono trovare delle analogie tra le cooperative odierne ed alcune antiche istituzioni, è tuttavia evidente la differenza del principio economico, sul quale esse riposano». PERTINI, Sandro, La cooperazione, Savona, Associazione per lo studio del mutualismo e dell’economia solidale, 2013, p. 3. Per quanto attiene l’età contemporanea, la storiografia ha convenzionalmente individuato delle cesure dalle quali si sviluppano le attuali cooperative. A livello internazionale l’origine storica è stata individuata nella definizione degli obiettivi dell’associazione degli Equitables pioneers of Rochdale del 24 ottobre 1844, mentre a livello nazionale il 4 ottobre 1854 apriva il primo Magazzino di previdenza (un distributorio sociale) della Società generale degli operai di Torino. Cfr. BOJARDI, Franco (a cura di), Dalla cooperazione di Consumo alla Cooperazione dei Consumatori nell’Italia del Nord-Est, Reggio Emilia, Coop Consumatori Nordest, 1994, pp. 5-6; ZAMAGNI, Vera, BATTILANI, Patrizia, CASALI, Antonio, La cooperazione di consumo in Italia. Centocinquant’anni della Coop consumatori: dal primo spaccio a leader della moderna distribuzione, Bologna, Il Mulino, 2004, pp. 5-11. 2. Al mandamento Monfalconese – che conta circa 70.000 abitanti – appartengono i Comuni di Monfalcone, Ronchi dei Legionari, Staranzano, San Canzian d’Isonzo, Turriaco, San Pier d’Isonzo, Fogliano Redipuglia, Sagrado e Doberdò del Lago. 3. BOJARDI, Franco (a cura di), op. cit., pp. 42, 46. 4. Archivio Storico Sindacale “Sergio Parenzan” della CGIL di Gorizia (d’ora in avanti, A. CGIL), Lettura Record: n. file 312/1/1, Statuto sociale della Cooperativa Consumo dei Lavoratori del Monfalconese C.C.L.M. Società cooperativa a responsabilità limitata Monfalcone, Monfalcone, Stabilimento Tipografico Moderno, 1945. In occasione di questa prima citazione della documentazione proveniente dall’A. CGIL, si specifica il significato delle cifre della Lettura Record, che seguirà la medesima impostazione nelle successive note: n. file 312/1/2= faldone n. 312; cartella/fascicolo n. 1; documento n. 2. Nell’Archivio sono contenuti importanti documenti sulla cooperazione di consumo nel Monfalconese in particolare nei seguenti Record: faldone n.

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312; cartella/fascicolo nn. 1-2 (quasi tutti i documenti contenuti in entrambe le cartelle/ fascicoli). 5. Il titolo IV (artt. 19-34) definiva gli organi sociali e le rispettive competenze. 6. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/3, Cooperativa Consumo tra Lavoratori sede sociale in Monfalconese. Statuto sociale, Monfalcone, Stabilimento Tipografico Moderno, 1963 (annotato a penna). 7. Cfr. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/6, Le funzioni della Cooperazione in difesa dei lavoratori: invito a spesarci nei nostri spacci!, Monfalcone, settembre-ottobre 1963. Gli spacci di Fiumicello e Papariano escono dal mandamento Monfalconese, ma insistono su un’area limitrofa. Fra il 1964 e il 1967, nella documentazione si ritrova anche lo spaccio di Cormons, il cui territorio rientra nell’area Goriziana. Cfr. A. CGIL, Lettura Record: nn. 312/1/7 e 312/1/12. 8. Intervista di Enrico Bullian a Renzo Testi, Reggio Emilia, 18 marzo 2014. Dopo la prima nota, il nome degli intervistati compare fra parentesi direttamente nel testo alla fine delle successive citazioni. 9. BOJARDI, Franco (a cura di), op. cit., p. 56. Si segnala che non fu la cooperazione di consumo a introdurre la moderna grande distribuzione in Italia, infatti il primo supermercato di Supermarkets Italiani aprì a Milano nel 1957. ZAMAGNI, Vera, BATTILANI, Patrizia, CASALI, Antonio, op. cit., pp. 344, 350. 10. BOJARDI, Franco (a cura di), op. cit., p. 56. 11. ZAMAGNI, Vera, BATTILANI, Patrizia, CASALI, Antonio, op. cit., p. 350. 12. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/13, Consiglio di Amministrazione della CCL sede Monfalcone (a cura di), Bollettino di informazione, Monfalcone, Stabilimento Tipografico Moderno, aprile 1968. 13. Ibidem. 14. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/14, CCL – Soc. Coop. a r.l. Monfalcone, Relazione del Consiglio di Amministrazione sull’Esercizio Sociale chiuso il 31 dicembre 1968, Monfalcone, 27 aprile 1969. 15. Ibidem. 16. Il supermercato è una struttura con un’area di vendita al dettaglio che va dai 400 mq ai 2.500 mq, mentre nell’ipermercato supera i 2.500 mq, arrivando anche a 12.000 mq. A differenziarli dal discount non è solamente l’estensione delle superfici, ma anche la filosofia di organizzazione degli acquisti, del lavoro e delle vendite, come si vedrà in seguito. 17. ZAMAGNI, Vera, BATTILANI, Patrizia, CASALI, Antonio, op. cit., p. 354. 18. Intervento di CHECCUCCI, Fulvio, presidente dell’ANCC, Assemblea dei soci per l’anno 1975, in Coop Italia, 3-4 giugno 1976. 19. ZAMAGNI, Vera, BATTILANI, Patrizia, CASALI, Antonio, op. cit., pp. 354-355. Va ricordato che dopo l’abbandono da parte delle Coop della formula dei discount a metà anni Ottanta, all’inizio del decennio successivo, sull’onda di una nuova crisi economica (1992-1993), si diffusero in Italia i discount di seconda generazione, portati da società soprattutto tedesche. Così, a metà anni Novanta, una parte della cooperazione investì nuovamente nella realizzazione di questi punti vendita e gli sforzi di varie Coop confluirono nel 1999 nella Di.Co spa, che nel 2002 contava 188 discount cooperativi. Tuttavia, recentemente, Coop è uscita dalla gestione dei Di.Co. Ibidem, pp. 362-363. 20. BARAVELLI, Andrea, Il giusto prezzo. Storia della cooperazione di consumo in area adriatica (1861-1974), Bologna, Il Mulino, 2008, p. 341. 21. Ibidem, pp. 30-31. 22. BOJARDI, Franco (a cura di), op. cit., p. 46. 23. Non era la prima volta che le Leghe delle cooperative affrontavano pubblicamente tali dibattiti e anche parte del movimento sindacale (CGIL) già negli anni Sessanta si era mobilitata a riguardo. Tuttavia con gli anni Settanta si modifica la portata di tali iniziative che divennero di

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massa, organizzate unitariamente da CGIL, CISL e UIL. Per cogliere la differenza fra le mobilitazioni degli anni Sessanta e Settanta, cfr. A. CGIL, Lettura Record: nn. file 312-1-5; 312-3-1; 312-4-7; 312-4-10; 313-1-15; 98-1-15 e 106-3-6; manifesti nn. 235-236. 24. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/15, Intervento del Presidente della Cooperativa Consumo Lavoratori di Monfalcone comp. Silvestro Tonizzo al V Congresso nazionale dell’Associazione Nazionale delle Cooperative di Consumo – tenutosi a Roma il 26-27-28 giugno 1974. 25. Ibidem. 26. Interviste di Enrico Bullian a: Livio Aleotti, Reggio Emilia, 18 marzo 2014; Lucio Pieri, Ronchi dei Legionari, 31 marzo 2014; Mile Marchese, Ronchi dei Legionari, 31 marzo 2014; Mario Dal Canto, Fogliano-Redipuglia, 11 aprile 2014; Adriano Persi, Ronchi dei Legionari, 14 luglio 2014. 27. A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/18, Comitato di Coordinamento per la Cooperazione- Provincia di Gorizia, in Speciale cooperazione, Monfalcone, stampato in proprio, novembre 1976. 28. Ibidem. 29. Ibidem. 30. Conad, acronimo di Consorzio Nazionale Dettaglianti, è una società cooperativa con sede centrale a Bologna attiva nella grande distribuzione organizzata. 31. Atti del seminario Discount: nuova formula e struttura distributiva. Udine 1-2-3 marzo 1978, Bologna, Associazione Regionale Cooperative di Consumo Friuli Venezia Giulia, Lega nazionale cooperative e mutue, Coop Italia, 1978 (presunta), p. 47; A. CGIL, Lettura Record: n. file 312/1/20, Coop Discount Cooperativa Consumo Lavoratori Monfalcone, «Obiettivi raggiunti dal programma Coop 79: 1) 23 marzo 1977-23 marzo 1980 / tre anni al servizio dei consumatori associati». 32. Archivio personale di Ezio de Luisa, San Canzian d’Isonzo, Cooperativa Consumo Lavoratori sede sociale Monfalconese, Volantino inaugurazione Discount Coop di Monfalcone e assemblea generale dei soci, 4 giugno 1977. 33. Ibidem. 34. Ibidem. 35. Archivio personale di Ezio de Luisa, San Canzian d’Isonzo, Cooperativa Consumo Lavoratori sede sociale Monfalconese, Comunicato ai soci, 19 dicembre 1977. 36. VALERIANI, Valerio, PERTOLDI, Alberto (a cura di), Elementi di comparazione tra alcuni discounts cooperativi, in Atti del seminario Discount, cit., pp. 42-54. Tutti i dati che seguono sono tratti dalle schede da p. 47 a p. 54. I discount cooperativi interessati dalla ricerca erano: Unicoop Firenze discount di Siena; Unicoop Pontedera discount di Pisa; A.C.M. Modena discount di Carpi; A.C.M. Modena discount di Modena; Coop Nord Emilia discount di Fidenza; Coop Operaie di Trieste discount di Trieste; Cooperativa di Monfalcone; Cooperativa di Buttrio; Cooperativa Carnica discount di Tolmezzo; Cooperativa Carnica discount di Gemona. La pubblicazione è interessante anche perché ripercorre l’evoluzione dei discount in Europa e approfondisce la situazione della Germania Federale e in particolare l’ALDI dei fratelli Albrecht. Sulla base del raffronto fra la situazione tedesca e quella italiana si ipotizzavano scenari futuri, riadattando le più avanzate esperienze europee al contesto socio-economico italiano. 37. BARAVELLI, Andrea, op. cit., p. 26. 38. Relazione di RICCIONI, Giorgio, op. cit., in Atti del seminario Discount, cit., p. 3. 39. Ibidem, p. 7. 40. Ibidem, p. 6. 41. Ibidem, p. 8. 42. Relazione di CATTARUZZI, Piero, op. cit., in Atti del seminario Discount, cit., p. 11. 43. Ibidem, p. 14. 44. Conclusioni di RIVA, Fulvio, op. cit., in Atti del seminario Discount, cit.,p. 56. 45. Ibidem, p. 57.

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RIASSUNTI

Lo studio sull’evoluzione della cooperazione di consumo nel Monfalconese dal secondo dopoguerra restituisce un quadro mai ricostruito dalla storiografia, perlomeno su una dimensione locale. Si analizzano da una parte la crescita delle strutture aziendali dall’originaria Cooperativa Consumo Lavoratori del Monfalconese (1945), alla Coop Consumatori Friuli (1985) e infine alla Coop Consumatori Nordest (1995); dall’altra i passaggi dai “negozi di paese” al Discount di Monfalcone degli anni Settanta fino alla successiva sostituzione con un rinnovato Supercoop. In particolare la costituzione di uno dei primi Discount a livello nazionale rappresentò per il territorio e per la cooperazione di consumo un’esperienza sperimentale fondante, resa possibile dai collegamenti con gli enti locali e le organizzazioni politiche e sindacali di allora.

The study on the evolution of the consumer co-operation in the area around Monfalcone in the post-WWII period draws a picture never retraced before by historiography, at least locally. Subject of the analysis is, on the one hand, the growth of business organizations – from the early Cooperativa Consumo Lavoratori del Monfalconese (1945), through the Coop Consumatori Friuli (1985) and up to the Coop Consumatori Nordest (1945); on the other hand, the transition from the small town shops to the first Discount Store in Monfalcone in the 70s up to the following substitution with the updated Supercoop. Specifically, the foundation of one of the first nationwide Discount Stores was – for the Monfalcone area and the consumer co-operation – a pilot experience achieved through the relationship with the local authorities, the political organizations and the trade unions of that time.

INDICE

Parole chiave : beni di consumo, cooperativa, discount, Monfalcone, punti vendita Keywords : consumer goods, cooperative, discount, Monfalcone, points of sale

AUTORE

ENRICO BULLIAN

Classe 1983, ha conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Scienze Umanistiche a indirizzo storico presso l’Università degli Studi di Trieste. Ha pubblicato monografie e saggi storici in particolare sull’emergenza amianto e sulle condizioni di lavoro nella cantieristica navale. Attualmente è borsista presso il Consorzio per l’AREA di ricerca scientifica e tecnologica di Trieste.

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III. Recensioni

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Aldo Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano

Jacopo Perazzoli

NOTIZIA

Aldo Agosti, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2013, 296 pp.

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1 Il partito provvisorio rappresenta l’ultimo sforzo in ordine cronologico di Aldo Agosti, uno dei massimi studiosi della storia del movimento operaio italiano ed internazionale e professore emerito di storia contemporanea dell’Università di Torino. Il libro si inserisce all’interno di una lunga serie di lavori sulle forze socialiste e comuniste, iniziata con una biografia su Rodolfo Morandi1 e proseguita con la stesura di un vasto numero di monografie come, per esempio, Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi europei2, Storia del Partito comunista italiano 1921-19913 e Togliatti: un uomo di frontiera4 e con la direzione dell’ Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo5. L’attenzione complessiva all’evoluzione della sinistra può essere considerata una delle motivazioni che hanno spinto Agosti ad interessarsi al secondo Partito socialista italiano di unità proletaria (il primo era quello sorto ed affermatosi in Italia tra il 1943 e il 1946, quando, a seguito della scissione di Palazzo Barberini rinacque da un lato il Psi di Nenni e dall’altro il Psli di Saragat) sul quale, nota lo stesso autore, sembra essere calata una vera e propria damnatio memoriae. Damnatio dovuta in special modo al fatto che il Psiup venne considerato tanto un «partito provvisorio» dal Psi, per dirla con la famosa espressione di Gaetano Arfé6, quanto un «partito inopportuno», come lo giudicò fin dal principio il Pci7.

2 Colmare questo grande vuoto è, da un punto di vista storiografico, l’obiettivo degli sforzi di Agosti, tanto più che, ad eccezione di Mondo Nuovo e le origini del Psiup di Anna Celadin, che si sofferma sulla nascita del partito e sul contributo portato dalla rivista «Mondo Nuovo»8, non si registrano lavori di natura scientifica. Per queste ragioni, l’autore ha deciso di lavorare su due precise categorie di fonti: da una parte, il materiale archivistico, come il fondo del Psiup depositato presso la Fondazione Gramsci, la documentazione prodotta dalle federazioni locali (viene fatto esplicito riferimento al caso torinese), e alcuni faldoni conservati nell’archivio del Pci e nella Fondazione Lelio e Lisli Basso; dall’altra, al fine di meglio tratteggiarne l’evoluzione politica, la pubblicistica dei partiti della sinistra italiana e, in special modo, «Mondo Nuovo», il giornale nato nell’estate del 1959 per dar voce alle istanze della sinistra socialista che, in seguito alla scissione, divenne il foglio ufficiale del nuovo partito. Il libro si basa anche sugli apporti della tesi di dottorato di Mauro Condò, intitolata Per una storia del Psiup (1964-1972). Un tentativo di organizzazione della sinistra socialista9 che, come evidenziato dallo stesso Agosti, gli «ha spianato la strada […], individuando diverse piste»10.

3 Il volume si articola in sei capitoli. Nel primo, Due partiti in uno, si sostiene con lucidità come all’interno del Psi la scissione dell’ala sinistra, verificatasi nei fatti all’inizio del 1964, fosse in realtà preventivabile sin dal 1956, quando Nenni decise di riannodare i fili

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con il Psdi di . Alle prime aperture del leader di Via Del Corso nei confronti della riunificazione con i socialisti democratici ribatté sull’«Avanti!» Tullio Vecchietti, il futuro primo segretario del Psiup: Noi non abbiamo nulla da condannare o da rivedere della politica del Psi in questi ultimi dieci anni […] ci rifiutiamo di […] vedere grigio tutto il mondo, laddove rimane viva e più necessaria di prima la lotta di classe, la lotta […] alle posizioni capitolarde che così generosamente ci offrono gli amici della ventiquattresima ora11.

4 Discrepanze di non poco conto, ulteriormente aggravate, nota Agosti, dalla differente prospettiva che autonomisti e sinistra intendevano assumere nei confronti del Pci dopo la rivoluzione ungherese del 1956 e la susseguente repressione armata sovietica. Se per i nenniani si doveva giocoforza andare incontro ad una revisione di fondo, per gli esponenti della minoranza il rapporto con il Pci non soltanto era irrinunciabile, ma, con la solidarietà di classe e il ruolo guida dell’Urss, costituiva uno dei punti cardine della propria impostazione politica.

5 A questa importante premessa, l’autore fa seguire una puntuale descrizione delle differenze presenti all’interno della stessa minoranza socialista, andando ad individuare tre componenti: la prima coincideva con i membri di estrazione morandiana; la seconda viene definita «sentimentale»12 e si caratterizzava per un impasto ideologico fatto di «massimalismo e orgoglio di partito, con venature di anti- conformismo pregiudiziale»13; la terza ed ultima coincideva con l’area dell’Alternativa Democratica di Lelio Basso, che proveniva direttamente dall’esperienza del Movimento di unità proletaria (Mup). Fin dai passaggi preliminari del volume appare evidente un elemento: le divergenze già presenti all’interno di quelle che poi sarebbero state le componenti del Psiup erano senz’altro un punto di forza del partito, ma a lungo andare lo avrebbero fortemente indebolito, logorandone la solidità.

6 Dopo averne appurato le origini, l’autore, nel corso del secondo capitolo, Il difficile consolidamento, oltre a fare luce sulla struttura organizzativa e sull’attivismo politico del partito, tanto a livello nazionale quanto in ambito locale, illustra a fondo le relazioni internazionali che il Psiup instaurò fin dalla sua nascita. Questa è una pagina sorprendentemente ricca di spunti: grazie all’intraprendenza del responsabile degli esteri Pino Tagliazucchi, «una singolare figura di intellettuale e sindacalista, membro dell’ufficio internazionale della Cgil»14, il partito di via della Vite riuscì a costituire una fitta serie di relazioni con alcune rilevanti componenti del socialismo europeo, dal Psu francese alla sinistra del Labour Party inglese, fino alla Sds nella Repubblica federale tedesca. Vi è da notare che queste forze politiche erano quanto di più lontano vi fosse da una concezione rigidamente filo-sovietica, a dimostrazione di come il Psiup non si basasse esclusivamente sulla fedeltà a Mosca, ma fosse anche intenzionato a costituire dei collegamenti autonomi con le sinistre dei partiti socialisti dell’Europa occidentale. Ma ciò risulta ancora più sbalorditivo – ed ecco un altro tema fondamentale toccato dall’autore in questa sezione – se si guarda ai cospicui finanziamenti che l’Urss assegnò con regolarità alla sinistra socialista fin dal 1957 e che, nel corso degli otto anni di vita del Psiup, corrisposero a 2 miliardi e mezzo di lire dell’epoca. Il sostegno economico sovietico, che serviva anche per «esercitare una certa pressione […] sul Pci, il quale proprio in quegli anni accenna a muoversi secondo direttrici più autonome da Mosca» 15, fu sempre una sorta di rubinetto ad intermittenza, pronto a chiudersi in caso di posizioni non affini alle finalità del Cremlino: anche su questi il partito di via della Vite si mostrava sostanzialmente provvisorio.

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7 Maggiormente incentrato sugli aspetti ideologico-culturali è il terzo capitolo, Un partito vitale ma diviso e le sue coordinate culturali. In queste pagine l’autore, confermando ancora una volta la sostanziale provvisorietà del Psiup teorizzata nel già ricordato articolo di Arfé, mette bene in evidenza i pregi e i difetti del partito di via della Vite. Tra i primi rientrava una notevole vivacità culturale, cui la storiografia – è il caso di dirlo – non ha mai prestato la giusta attenzione. Proprio gli intellettuali vicini al Psiup, infatti, cercarono di riparametrare il pensiero marxista alla luce delle mutazioni sociali in atto nell’Italia degli anni Sessanta e lo fecero servendosi di «Mondo Nuovo» che, di conseguenza, non si limitava «alla funzione di bollettino del partito»16, ma si ergeva a tribuna di riflessione teorica. Sulle sue pagine trovarono ampio spazio delle tematiche sino a quel momento non centrali nel dibattito della sinistra, dalla riscoperta di Trotskij e Luxemburg alle rivolte nel mondo universitario statunitense, dall’attenzione verso le correnti pittoriche più vicine al sociale alla critica cinematografica che vedeva di buon occhio il cinema d’autore italiano. Dei secondi facevano parte le discrepanze di carattere politico-ideologico che si manifestarono fin dal principio: da un lato vi era chi, come il vice-segretario Valori, riteneva errata la formazione di un dissenso interno perché avrebbe favorito il frazionismo; dall’altro vi era chi, come Avolio, uno dei direttori di «Mondo Nuovo», considerava sensato lasciare spazio alle minoranze, anche per non smentire il carattere libertario con cui il Psiup si voleva connotare.

8 Sull’onda di alcune importanti differenze apparse al suo interno, il Psiup si avviava ad entrare nel Sessantotto, come è illustrato dal quarto capitolo, Il movimento studentesco e la gelata di Praga, a mio modo di vedere l’acme dell’intero volume di Agosti. In questa parte vengono alla ribalta con forza le contraddizioni del partito di via della Vite: se già di fronte alle contestazioni studentesche del 1968 il Psiup aveva messo in mostra una doppiezza di fondo dovuta tanto alla cooptazione nei suoi organismi dirigenziali di Luigi Bobbio e Mauro Rostagno, «due dei dirigenti più attivi nelle occupazioni»17, quanto ad una serie di crescenti incomprensioni con lo stesso movimento studentesco, è in occasione della «primavera di Praga» e della reazione sovietica dell’agosto 1968 che il partito di via della Vite si trovò «in grave imbarazzo», entrando in una fase «di non ritorno non solo nella sua politica internazionale, ma nella sua storia tout court»18. A differenza del Pci, che criticò senza mezzi termini la repressione messa in campo dall’Urss, il Psiup assunse una posizione sostanzialmente a favore di Mosca, ufficializzata dal comunicato del 22 agosto in cui «non c’è una riga che esprima chiara condanna dell’invasione e solidarietà a Dubček e al gruppo dirigente del Pcc»19. Con efficacia Agosti fa notare che sarebbe un errore ritenere che tali concetti derivassero esclusivamente dai «rubli di Brežnev» versati nel budget psiuppino: tra i socialisti proletari era presente, infatti, «un filo-sovietismo profondamene radicato»20, come dimostrato dalle posizioni a favore della politica russa espresse da diversi dirigenti di primo piano, da Emilio Lussu a Oreste Lizzadri, da Lucio Luzzato a Vincenzo Gatto. Ma non mancarono neanche, confermando la tesi dell’incoerenza teorica, delle voci contrarie all’atteggiamento della maggioranza che, tra le altre cose, aveva troncato quei rapporti con le sinistre delle socialdemocrazie occidentali avviati da Tagliazucchi. Oltre ad una serie di reazioni anti-sovietiche provenienti dalle federazioni locali, esplicativo fu in questo senso l’atteggiamento di Lelio Basso, che non esitò a difendere il nuovo corso cecoslovacco in quanto «tentativo di rinnovamento […] promosso […] dal basso, […] che il partito dopo una lunga battaglia […] aveva finito con l’accettare»21.

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9 Sorta su questioni internazionali, la tematica centrale del quinto capitolo, «La storia ha la febbre», la cristallizzazione delle differenti anime del Psiup venne confermata anche dal II congresso del dicembre 1968. Nonostante l’ondata di critiche cui andò incontro qualche mese prima, la maggioranza filo-russa riuscì ad allargare il suo potere nel partito, come risultò evidente dalle figure che vennero inserite nel nuovo ufficio politico: fatta eccezione per Foa, l’inclusione di Vecchietti, Valori, Gatto e Ceravolo rappresentava l’emblema del trionfo del vecchio gruppo dirigente. Tuttavia, proprio in un momento in cui sembravano fossilizzarsi le divisioni, in un partito che parlava «quasi […] due linguaggi diversi»22, la maggioranza, sotto l’impulso di Valori, decise di assorbire molte iniziative della sinistra con l’intenzione di ricompattare l’intera organizzazione. Andò però incontro ad un buco nell’acqua: benché vi fosse un generale assenso sulle tematiche proprie del movimento di sinistra, come, ad esempio, l’autogestione dei lavoratori, il controllo operaio e l’ampliamento della democrazia in fabbrica, il mutamento di rotta non fu sufficiente a far crescere le iscrizioni al partito che invece, proprio nel 1969, sfociarono in una prima e significativa diminuzione. Ancora più rilevante fu il fatto che, come correttamente sottolineato da Agosti, la parte più attiva dei militanti psiuppini, a fronte di un partito egemonizzato da posizioni filo- sovietiche, cominciò a confluire in quei movimenti anche estremisti che davano linfa alle contestazioni operaie e studentesche, privando in tal modo il Psiup di alcuni potenziali contribuiti politici di livello.

10 A questi fattori d’instabilità endogeni, se ne aggiunsero altri due di natura esogena che aggravarono la già complessa situazione in seno al partito: la crisi dell’unificazione socialdemocratica e la conseguente rinascita del Psi e la capacità di riassorbire le istanze contestatarie da parte del Pci. Come emerge dal sesto ed ultimo capitolo, Il declino, lo scioglimento e l’eredità, le rotte intraprese dai due partiti principali della sinistra furono prese sempre più in considerazione dagli iscritti del Psiup che vedevano il loro partito in progressivo disfacimento. La rottura effettiva, iniziata con il III congresso nazionale del marzo 1971 a causa della decisione della maggioranza di presentare anticipatamente «un documento scialbo»23, confermata da alcune dimissioni eccellenti dal partito, tra le quali spiccava quella di Lelio Basso, venne ufficializzata dopo i pessimi risultati delle elezioni amministrative del 1971 e, soprattutto, delle politiche del 1972, dove il Psiup, con appena l’1,9%, non ottenne alcun seggio alla Camera. Il IV congresso nazionale del giugno 1972 non poté che confermare la dissoluzione ormai in atto, mettendo in mostra tre differenti opzioni per i militanti psiuppini: confluire nel Pci, come ipotizzato fin dal maggio dalla maggioranza di via della Vite; rientrare nel Psi, come sostenuto da un piccolo nucleo tra cui spiccava la figura dell’ex direttore di «Mondo Nuovo» Avolio; proseguire la battaglia nel Psiup, idea che trovava concordi Foa e alcuni esponenti della sinistra radicale. Al di là delle rispettive scelte, Agosti, nelle pagine finali del suo libro, fa notare come tutte e tre andarono incontro ad un destino comunque beffardo: se per coloro che decisero di aderire alle due forze principali della sinistra italiana si trattò di un ingresso «dalla porta di servizio»24, per i militanti che rimasero nel Psiup la sorte non fu migliore perché si dispersero nelle battaglie di retrovia del movimento operaio senza alcuna possibilità di incidere sulla realtà.

11 Sono diversi, in conclusione, i pregi del libro di Agosti: oltre ad aver riscoperto un’importante cultura politica come quella del socialismo di sinistra e ad aver portato alla ribalta personaggi come Tagliazucchi e Vecchietti, solo per citarne due, che

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meriterebbero degli studi appositi, l’autore è sostanzialmente riuscito nella non semplice impresa di contribuire allo sviluppo della storiografia sul Psiup. Ma, forse, la qualità maggiore de Il partito provvisorio è un’altra ancora: aver saputo contenere al suo interno non una, bensì due storie intersecate fra loro. Da un lato, quella di un gruppo dirigente vicino alle posizioni espresse dall’Urss e, dall’altro, quella di una base spesso molto più libertaria rispetto ai suoi leader ufficiali. Questi percorsi, che nel volume restano giustamente paralleli, confermano la tesi di fondo e cioè che l’amalgama tra le varie componenti non si realizzò mai, impedendo a questa area comunque rilevante di trasformarsi in un partito a tutti gli effetti.

NOTE

1. AGOSTI, Aldo, Rodolfo Morandi. Il pensiero e l'azione politica, Bari, Laterza, 1971. 2. ID., Bandiere rosse. Un profilo storico dei comunismi europei, Roma, Editori Riuniti, 1999. 3. ID., Storia del Partito comunista italiano 1921-1991, Roma-Bari, Laterza, 1999. 4. ID., Togliatti: un uomo di frontiera, Torino, UTET, 2003. 5. ID. (a cura di), Enciclopedia della sinistra europea nel XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 2000. 6. ARFÉ, Gaetano, «Psiup: un partito provvisorio», in Mondo Operaio, n. 12, dicembre 1968. 7. AGOSTI, Aldo, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Roma-Bari, Laterza, 2013, p. V. 8. Cfr. CELADIN, Anna, Mondo Nuovo e le origini del Psiup: la vicenda socialista dal 1963 al 1967 attraverso cinque anni di editoriali, Roma, Ediesse, 2006. 9. CONDÒ, Mauro, Per una storia del Psiup (1964-1972). Un tentativo di organizzazione della sinistra socialista, tesi di dottorato in Storia dell’Italia contemporanea, Università di Roma Tre, a. a. 2000-2001. 10. AGOSTI, Aldo, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, cit., p. VIII. 11. Cit. in Ibidem, pp. 18-19. 12. Ibidem, p. 29. 13. Ibidem. 14. Ibidem, p. 72. 15. Ibidem, p. 71. 16. Ibidem, p. 129. 17. Ibidem, p. 151. 18. Ibidem, p. 169. 19. Ibidem, p. 171. 20. Ibidem, p. 173. 21. Ibidem, p. 180. 22. Ibidem, p. 213. 23. AGOSTI, Aldo, Il partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, cit., p. 244. 24. Ibidem, p. 270.

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AUTORI

JACOPO PERAZZOLI

Laureato in storia presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sul rinnovamento della Socialdemocrazia tedesca nel corso degli anni cinquanta. Dal novembre 2011 è dottorando di ricerca in scienze storiche presso l’Università degli Studi del Piemonte Orientale e dal febbraio 2013 al luglio 2013 è stato visiting student presso la Kingston University di Londra. Il suo progetto di ricerca è dedicato allo studio comparato dell’evoluzione del partito laburista inglese, della SPD e del PSI a cavallo tra gli anni cinquanta. Ha curato il volume Antonio Greppi. Novant’anni di socialismo. Scritti scelti (Milano, Edizioni l’Ornitorinco, 2012) e contribuito alla stesura del saggio La sinistra arancione. Da Milano all’Italia? (Milano, Edizioni l’Ornitorinco, 2012).

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Amedeo Osti Guerrazzi, The Italian Army in Slovenia. Strategies of antipartisan Repression, 1941-1943

Niall MacGalloway

REFERENCES

Amedeo Osti Guerrazzi, The Italian Army in Slovenia, Strategies of antipartisan Repression, 1941-1943, New York, Palgrave Macmillan, 2013, 196 pp.

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1 The explosion of the myth of Italiani brava gente has ushered in a host of new work on the brutality of Italian regimes throughout Europe and Africa. Marco Cuzzi, Davide Rodogno, Eric Gobetti, Giorgio Rochat, H. James Burgwyn and Angelo Del Boca have laid the foundations of work on Italian conduct prior to and during the Second World War.1 It has opened new avenues in the study of Italian history, removing a layer of protection that has prevented the Italian government and armed forces from coming under the same criticism that their German counterparts have. This shield has, in the past, obscured the views of historians wishing to conduct meaningful and comprehensive studies that have too readily brushed over the complexities of the occupied territories. These works have gradually constructed a nexus of investigations that have revealed fascinating, but sometimes difficult to accept, conclusions, particularly those who have benefitted from the aforementioned vested interest. Amedeo Osti Guerrazzi’s work on anti-partisan tactics in occupied Slovenia can now join them, filling a geographical lacuna in the historiography, while providing a useful point of comparison with other territories.

2 The central thesis of this work is clear: that Italian military action in Slovenia was not only brutal, but unnecessary and damaging to Italian-Slovenian relations for the duration of the war. On the whole, Guerrazzi is successful in showing this. The volume is divided into five chronological chapters, with a final chapter on the commemoration of Italian actions. The structure of this book is one of its main strengths in demonstrating how Italian actions became increasingly violent and callous within the zone. This is undoubtedly aided by the chronological structure, which allows the reader to see these increases as the duration of the occupation went on. Appropriate distinctions are made in the book between particular commanders, comparing and contrasting their actions, whilst analysing how far their particular methods went to shaping policies and levels of violence. Guerrazzi, however, is not content to allow the “great men” alone to shape these policies, and skilfully weaves the actions of units and individuals into this narrative.

3 Perhaps most importantly, Guerrazzi’s work moves away from the idea that violence was restricted to unruly or psychologically imbalanced individuals, or the more excessive units such as the MVSN. In this, Guerrazzi succeeds in bringing study of the Slovenian occupation in line with work carried out by Omer Bartov and Christopher Browning, who have concluded that far from extremist minorities, killings in the German-occupied Eastern European territories were very much the work of “ordinary men”.2 The idea that Italian excesses in Slovenia were brought on by “hot” violence – spur of the moment killing carried out due to anger or grief at the loss of comrades – is

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blatantly false. Guerrazzi goes to great lengths to show that ordinary soldiers were bombarded with propaganda which de-humanised the enemy as racially inferior, easing the process of killing and mass execution. Moreover, Italian commanders went to great lengths not only to de-humanise, but to de-legitimise Slovenian partisans as “irregular combatants”. This allowed their killing not only to become justified, but legal. These were important steps that were, ultimately, the culmination of a long process of de-Slavicisation in Fascist Italy. Those soldiers and units from the Venezia Giulia could be particularly brutal their actions against the Slovenians, at least partially due to the fact that they had been exposed to the greatest amount of anti-Slavic propaganda. Yet, Guerazzi also shows the convergence of politics and race during this period with great skill. Many of the Italian troops were told that they were not only fighting Slavs, but Communists, to the point where the two terms became practically synonymous terms in the zone.

4 These are not radical or new ideas within Guerazzi’s study. In this sense, Guerazzi builds upon groundwork laid by other scholars, yet he augments this with his own noteworthy archival digging. Not content with resting upon the laurels of those who carried out work in the very same archives, Guerazzi has spent time examining not only the propaganda which the soldiers were fed, but the historical diaries which allow the author to analyse how it was digested. While no section makes this its distinct or sole focus, Guerazzi does examine these reactions in detail. Indeed, this forms a central part of his argument that violence against Slovenes was not “hot”, but cold and calculated, even from the ordinary soldiers who carried it out. The propaganda which produced this effect was almost certainly driven from the high echelons of the Italian army. Both Roatta and Robotti pushed for harsh actions against the partisans, with the now infamous “Circular 3C” forming the apex of a policy which drove for increasingly bloody actions.

5 This increase in violence leads naturally to the final theme in Guerazzi’s study – that partisan war moved the war away from set pieces between armies and brought the war to Slovenia as a whole. Ljubljana is a prime example. The work skilfully shows how the city was increasingly developed as a large-scale prison or concentration camp, while uncertainty about exactly who the enemy was made Italian and Slovenian co-operation increasingly unlikely to the point of impossible. Again, this point is not a new thesis developed by Guerazzi, but it serves to cover this important aspect of partisan warfare. The study successfully shows how partisan warfare in Slovenia – and this is true of the rest of Yugoslavia and Greece, to say nothing of German occupied territories in the Soviet Union – blurred lines between combatant and non-combatant so greatly that everyone was treated as a potential combatant. The result was that the increasingly brutal treatment of combatants mentioned above was meted out to growing portions of the population. This would be one of the most salient features of warfare in the Balkans during the Second World War and one of the primary reasons why attempts to occupy and annex territories in the former Yugoslav states came to such bitter conclusions. As “Balkanisation” swelled and more and more communities were pitted against one another, the situation was exacerbated. Guerazzi makes this point with flair, emphasising its role in the conflict. As the work points out, anti-partisan warfare served only to radicalise portions of the Slovene community, whose participation in resistance in turn radicalised an already extreme set of repressive tactics.

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6 Perhaps the only real failing of the book is a lack of comparisons with other territories in any real sense. Prior to its annexation as part of the , Slovenia had formed part of the former Yugoslavia. Comparisons with Italian anti-partisan actions in Dalmatia and Montenegro, for example, could have provided a rounder analysis of the zone. Slovenia’s status as an annexed territory, to be integrated fully as part of Italy ultimately meant that actions differed slightly in this zone to others, yet Guerazzi does not exploit this to its full advantage. The reader is kept guessing at points as to how different Italian actions in Slovenia were, or whether they formed part of a larger pattern that could be applied to the Balkans in large brush strokes. This is where studies such as Rodogno’s make their most powerful points. By presenting different zones of Italian occupation side by side, the reader can examine thematic issues in the broadest sense. This, however, should not be intended as too great criticism for the book to be of any merit. Guerazzi’s work was never intended to be an overarching study of Italian occupation zones as a phenomenon, yet the most successful monographs focusing on one Italian occupation in particular succeed not only by analysing the chosen territory in detail, but by making these comparisons, either implicitly or explicitly.

7 Despite this, Guerazzi has obviously produced a work of real quality. It should be of interest not only to those interested in Balkan or Italian history, but those interested in guerrilla warfare and responses to this style of fighting. The author not only weaves an easy to follow narrative, but highlights the key themes in an area where academics are only beginning to shine light.

NOTES

1. CUZZI, Marco, L’occupazione italiana della Slovenia, 1941-1943, Roma, Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, 1998; RODOGNO, Davide, Fascism’s European Empire, Italian Occupation during the Second World War, Cambridge, Cambridge University Press, 2006; GOBETTI, Eric, Alleati del nemico, L’occupazione italiana in Jugoslavia, Rome-Bari, Laterza, 2013; ROCHAT, Giorgio, Le guerre italiane, 1935-43: dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Torino, Einaudi, 2005; DEL BOCA, Angelo (a cura di), I gas di Mussolini: il fascismo e la guerra d’Etiopia, Roma, Editori Riuniti, 2007. 2. BARTOV, Omer, The Eastern Front, 1941-45: German Troops and the Barbarisation of Warfare, Oxford, Palgrave, 2001; BROWNING, Christopher R., Ordinary Men, Reserve Police Battalion 101 and the Final Solution in Poland, London, HarperCollins, 1998.

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AUTHORS

NIALL MACGALLOWAY

PhD student at the University of St Andrews in Scotland. His thesis is entitled, The Italian Occupation of South-Eastern France, 1940-43, and his interests focus on the Second World War, Italo-French relations, and inter-war Italy and France.

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Diego Dilettoso, La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli. Sulle orme di un umanista in esilio

Michele Mioni

NOTIZIA

Diego Dilettoso, La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli. Sulle orme di un umanista in esilio, Milano, Biblion, 2013, 317 pp.

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1 Il filone di studi biografici su Rosselli, sul suo pensiero e sull’impatto della sua attività politica all’interno dell’antifascismo italiano prima, durante e dopo l’esilio parigino è da sempre fiorente e in continuo aggiornamento1. Ultimo in ordine di tempo in questo campo di studi biografici, è il lavoro La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli. Sulle orme di un umanista in esilio2 dello storico Diego Dilettoso, un “italiano di Parigi”.

2 Il suo lavoro, sotto un profilo metodologico, cerca di unire una tradizione storiografica focalizzata sul pensiero politico con lo studio dell’ambiente “reale” in cui tali idee furono in grado di evolversi. In realtà, questa biografia sui generis degli ultimi otto anni della vita e della militanza di Carlo Rosselli è un tentativo ben riuscito di rendere testimonianza dell’esperienza degli esuli in Francia (una Francia “ufficiale” spesso tutt’altro che solidale con il fuoriuscitismo antifascista), e precisamente in quella Parigi che era considerata il cuore della modernità europea e dell’antifascismo italiano. Per quanto possibile, l’autore cerca di dedicare uguale spazio sia al Rosselli “politico” e “intellettuale”, sia al Rosselli “privato”, per usare una dicotomia forse un po’ abusata. Inevitabilmente le due figure vanno a coincidere, eppure nelle pagine del libro di Dilettoso è possibile cogliere i frammenti di vita familiare – le vacanze nel Midi e nei dintorni parigini, le incerte condizioni di salute della moglie Marion, le cene nelle case dei compagni dell’esilio – ; gli interessi culturali che spaziavano dalla nuova cinematografia sovietica sino ai libri di Céline e, ovviamente, alla musica classica, passando per la frequentazione di cenacoli culturali e letterari parigini; i frequenti cambi di abitazione, dalla “filistea” e borghese Passy, alla centrale Place du Panthéon, vicini al cuore, e alla testa, della storia repubblicana e della sinistra francese.

3 L’altra grande protagonista del libro di Dilettoso è – più che la Francia –la «Parigi delle libertà»3, sebbene Carlo Rosselli restasse sempre rivolto emotivamente e politicamente all’Italia, rimanendo volutamente appartato dagli aspetti più “mondani” della vita parigina4. Gli anni dell’esilio furono invece passati in un frenetico attivismo, che vide il gruppo di Giustizia e Libertà affrancarsi dal “vecchio” antifascismo della Concentrazione Antifascista, per impegnarsi ad affermare la necessità dell’azione “diretta” contro il fascismo in Italia. Tale volontà d’azione spinse Rosselli a non adagiarsi sulle frequentazioni delle sedi parigine dell’emigrazione politica “ufficiale”, ma a considerare Parigi come il punto d’appoggio per proiettare la lotta contro il fascismo su scala europea. Egli, infatti, antepose la militanza politica giellista agli stessi affetti familiari, i quali, rispetto a quel «mondo nuovo [che] nasce»5 nella guerra in Catalogna, venivano apparentemente solo in un secondo momento. Questa sua posizione “defilata” rispetto alle altre componenti e personalità dell’antifascismo in

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esilio fu ad ogni modo favorita anche dalle condizioni economiche agiate della famiglia Rosselli, come suggerito anche dall’autore6. La relativa tranquillità economica permise a Carlo di estendere la sua rete di relazioni sociali ben aldilà del solo contesto antifascista italiano “geograficamente” circoscritto perlopiù ai quartieri settentrionali di Parigi. Ciò significò entrare in contatto con un ambiente politico e intellettuale sicuramente più trasversale di quelli legati direttamente ed esclusivamente ai partiti operai transalpini, dato che la stessa Giustizia e Libertà non aveva referenti diretti nel panorama politico francese dell’epoca.

4 L’obiettivo dell’autore di fornire una “biografia geografica” degli anni parigini del leader di G.L. – di rendere conto cioè del contesto politico e ambientale entro cui il suo pensiero si è evoluto fino a Bagnoles-de-l’Orne attraverso una guida della “Parigi di Rosselli” – è supportato dall’uso di foto d’epoca, di lettere, e dalla minuziosa ricostruzione degli indirizzi di case, sedi di partito e di giornali, brasseries, cinema e luoghi di ritrovo di esuli e associazioni politiche. L’apparato fotografico e l’uso di documenti di prima mano – molti dei quali inediti – attraverso una rigorosa ricerca d’archivio tra Italia e Francia non possono che impreziosire questo libro, che ha il merito di dare testimonianza quasi “palpabile” del modo in cui le idee circolavano e permisero agli antifascisti italiani di entrare in contatto con le nuove tendenze che si stavano sviluppando in seno al socialismo europeo e francese. Fanno parte di quel periodo, per esempio, la corrispondenza avuta tra Carlo Rosselli e il dirigente néo- socialista Déat, in seguito pesantemente compromesso con Vichy7; la collaborazione – sebbene sporadica – con le riviste dell’ambiente dei “non-conformisti” francesi; la conferenza tenuta all’École Normale Supérieure sulla guerra civile in Spagna; la consuetudine con i cafés di Montparnasse sotto lo sguardo vigile delle spie fasciste e degli stessi cagoulards francesi che assassineranno i due fratelli Rosselli il 9 giugno 1937. Una nota a parte merita, invece, la frequentazione con lo storico di origine ebraica Élie Halévy, già conosciuto dal giovane Rosselli a Firenze negli anni Venti. Carlo divenne un ospite pressoché fisso di casa Halévy, dove ebbe modo di entrare in contatto con l’ambiente artistico e accademico parigino, e con numerosi intellettuali provenienti, soprattutto, dall’Ecole Normale Supérieure tra cui spiccano i nomi di Dominique Parodi e di Raymond Aron.8

5 Un altro tassello della bibliografia su Carlo Rosselli va quindi a comporsi nel contributo di Dilettoso. Il libro, in effetti, non fornisce nuove interpretazioni riguardanti la teoria politica dell’autore di Socialismo Liberale o sul processo di formazione del movimento politico di “Giustizia e Libertà”, specie in relazione ai rapporti con gli altri partiti della Concentrazione Antifascista, sebbene – come lo stesso autore suggerisce – la sporadica frequentazione dei luoghi “istituzionali” del fuoriuscitismo italiano suggerisca anche “fisicamente” una distanza che è anzitutto politica9. D’altronde non è questo lo scopo principale dell’autore. La consolidata storiografia in materia fornisce il necessario “background” per l’approfondimento della vicenda biografica e intellettuale di Rosselli durante l’esilio parigino. Nondimeno, il lavoro di Dilettoso si presenta innovativo nella forma e molto rigoroso da un punto di vista storiografico. Si pensi alle planimetrie di Parigi “sulle orme di Rosselli” (i percorsi rosselliani in appendice al suo lavoro)10; all’apparato fotografico riguardante tanto la Parigi dell’entre-deux-guerres e dell’antifascismo italiano in esilio quanto i frammenti di vita familiare dei Rosselli; ai carteggi privati. Tutti documenti che rendono piacevole la lettura del libro e al tempo stesso forniscono la base per futuri approfondimenti storiografici.

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6 Come è stato notato, il pensiero socialista e liberale di Rosselli è tutt’oggi attuale11; esso vive ancora attraverso le pagine di Socialismo Liberale, delle numerose riviste pubblicate durante la lotta antifascista, e attraverso il grande lavoro storiografico e biografico che ancora oggi circonda la sua figura. Il libro di Dilettoso cerca di fornirci anche una concreta ricostruzione geografica e “visiva” della vita di Rosselli e dei suoi ultimi anni, quelli che – dopo la prima pubblicazione parigina di Socialismo Liberale e la fondazione di GL – gli hanno assicurato un posto di primissimo piano nel “pantheon” dell’antifascismo italiano e nella sua eredità politica. Nel farlo, l’autore cerca, per quanto possibile, di privilegiare la dimensione familiare e “quotidiana” di Carlo; eppure, ancora una volta il ritratto che ne esce è quello di un uomo che ha – tragicamente – identificato fino all’ultimo la sua vita con l’impegno politico e con la battaglia contro il fascismo, subordinando anzi gli aspetti più personali e privati alla lotta per il socialismo e la democrazia, perché egli la considerava – come scrisse alla moglie Marion – «un’opera santa, grande, per cui tu pure riconosci tutto va sacrificato, salute dei figlioletti a parte»12.

NOTE

1. Tra i lavori più importanti o conosciuti sulla vita di Carlo Roselli, come GAROSCI, Aldo, La vita di Carlo Rosselli, 2 voll., Roma-Firenze-Milano, Edizioni U, 1945; le opere di TRANFAGLIA, Nicola, Carlo Rosselli dall’interventismo a “Giustizia e Libertà”, Bari, Laterza, 1968, ID., Carlo Rosselli e il sogno di una democrazia sociale moderna, Milano, Dalai Editore, 2010; BAGNOLI, Paolo, Carlo Rosselli: tra pensiero politico e azione, Firenze, Passigli, 1985; CALABRÒ, Carmelo, Liberalismo, democrazia, socialismo, Firenze, Firenze University Press, 2009. Sulle dinamiche inerenti all’assassinio dei fratelli Rosselli, con taglio più divulgativo, ma ampio uso di fonti, si veda FRANZINELLI, Mimmo, Il delitto Rosselli. 9 giugno 1937. Anatomia di un omicidio politico, Milano, Mondadori, 2007. 2. DILETTOSO, Diego, La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli. Sulle orme di un umanista in esilio, Milano, Biblion, 2013. 3. Ibidem. p. 66. 4. Ibidem. pp. 68-72. 5. Ibidem. pp. 204. 6. Ibidem. pp. 270-271. 7. Su Marcel Déat, si veda la biografia di COINTET, Jean-Paul, Marcel Déat: du socialisme au national- socialisme, Paris, Perrin, 1998. 8. DILETTOSO, Diego, La Parigi e la Francia di Carlo Rosselli. Sulle orme di un umanista in esilio, pp. 150-155. 9. Ibidem. pp. 271-272. 10. Ibidem. pp. 282-308. 11. Sull’attualità e l’influenza di Rosselli nel pensiero politico contemporaneo, si veda BAGNOLI, Paolo, Carlo Rosselli: un pensiero che torna in ID., Il socialismo delle libertà, Firenze, Edizioni Polistampa, 2002, pp. 34-49. 12. DILETTOSO, Diego, op.cit., p. 206.

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AUTORI

MICHELE MIONI

Dottorando in cotutela presso l’Imt di Lucca (Political History) e presso l’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne, con una tesi sulle politiche in sociali in Gran Bretagna, Francia e Italia durante la Seconda guerra mondiale. I suoi principali interessi di ricerca vertono attorno alla storia del pensiero politico ed economico del XX secolo, alla storia delle politiche sociali e alla storia comparata dei partiti politici nel secondo dopoguerra.

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Paolo Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera Dc. Nazione, Europa, Comunità atlantica (1943-1954)

Rosaria Leonardi

NOTIZIA

Paolo Acanfora, Miti e ideologia nella politica estera Dc. Nazione, Europa, Comunità atlantica (1943-1954), Bologna, Il Mulino, 2013, 246 pp.

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1 Da circa un decennio la storiografia sembra aver riscoperto e trovato un rinnovato interesse verso la Democrazia Cristiana e una stagione politica che ha caratterizzato quasi tutta la storia repubblicana della penisola. I recenti lavori di Vera Capperucci1, Daniela Saresella2, Maria Chiara Mattesini3 sono esempi validissimi di una ricerca volta soprattutto a presentare il partito nella sua complessità, nelle sue divisioni interne, nelle sue molteplici anime e nella loro evoluzione. Il volume di Paolo Acanfora si colloca pienamente in questa tendenza, all’interno di un percorso storiografico sulla politica estera democristiana, che vede tra i suoi maggiori interpreti Guido Formigoni4, sulla scia delle recenti acquisizioni sull’europeismo degasperiano, di cui sono esempi i validi lavori di Antonio Varsori5 e Daniela Preda6 e sulla politica estera della sinistra democristiana7.

2 Suddiviso in sei capitoli e sostenuto da un corposo lavoro in archivi italiani e stranieri nonché dallo studio oculato della pubblicistica democristiana del periodo, il contributo di Acanfora analizza le modalità tramite cui la maggioranza degasperiana all’interno della Democrazia Cristiana – dall’immediato dopoguerra fino alla metà degli anni Cinquanta – avviò un processo di costruzione dell’identità nazionale e internazionale dell’Italia. Tale costruzione avrebbe dovuto avere il triplice scopo di contrapporsi efficacemente all’emergente ideologia comunista e al rinascente nazionalismo, di restituire al paese un ruolo e una posizione internazionali dopo la parentesi fascista e di legittimare l’egemonia e le scelte politiche della stessa DC, permettendole di autorappresentarsi quale unico vero partito nazionale ovvero l’unico partito in grado di incarnare e difendere i caratteri originari e identitari della nazione italiana. Per raggiungere questi obiettivi vennero elaborati un variegato quadro di riferimenti teorico-ideologico, un universo simbolico e mitico, un insieme di strumenti propagandistici aventi lo scopo di ottenere la legittimazione e il consenso delle masse.

3 Coerentemente con una riflessione, interna al mondo cattolico, che trovava i propri fondamenti nel popolarismo ma anche nel cattolicesimo politico d’inizio secolo, la Democrazia Cristiana provò a dare esito concreto a quel dialogo fra nazionale e internazionale che, nelle intenzioni democristiane, non avrebbe dovuto determinare la rinuncia alla nazione in favore di sodalizi sovranazionali ma, al contrario, la scoperta del significato più intimo, dei pilastri fondanti la nazione stessa: uno sviluppo ulteriore del concetto di nazione perfettamente congruente con essa e nella quale la stessa nazione avrebbe potuto trovare un ruolo coerente con le sue caratteristiche.

4 Le identità che la DC tentò di costruire per l’Italia furono tre, ciascuna non confliggente, ma integrata con la precedente e determinata dall’esigenza di adattarsi ai

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cambiamenti che, in quegli anni, si susseguirono nel contesto internazionale nonché dalla necessità di ritrovare per il paese un ruolo e una posizione di primo piano.

5 Il primo capitolo del volume, dedicato all’immediato dopoguerra, si concentra sul concetto di nazione latina e sul processo di costruzione identitaria attorno a tale tema. La tradizione e la storia avevano consegnato al paese un patrimonio di caratteri e valori che avevano i propri fondamenti nel diritto romano e nel cristianesimo. La civiltà latina che scaturiva da tali basi trovava nell’Italia la maggiore interprete e la principale rappresentante, la nazione che più di altre ne incarnava le caratteristiche. Era quindi fondamentale non solo divenire coscienti di tali qualità, riscoprendole, valorizzandole e conservandole, ma comprendere la naturale vocazione che da tali caratteri scaturiva per il paese: una missione universale, di civilizzazione, di mediazione, di pacificazione tra popoli e culture differenti. In un contesto internazionale ancora liquido e poco definito, quindi, la DC tentava di restituire al paese un’identità che gli permettesse di ritrovare uno status sovranazionale di rilievo e fosse coerente con i termini fondamentali dello stesso partito. Tuttavia, l’ambizione di costruire in Europa un blocco di paesi latini nel quale l’Italia potesse ritrovare prestigio internazionale dovette scontrarsi con l’andamento della conferenza di pace e la stipula del Trattato del 1947, con la strutturazione del sistema internazionale in due blocchi nel quale l’Italia non solo non avrebbe avuto a disposizione quegli spazi che credeva di possedere ma, nella sua qualifica di nazione latina, non sarebbe riuscita a scrollarsi di dosso la mancanza di autonomia e sarebbe stata costretta ad occupare un posto di secondo piano. Diveniva dunque fondamentale non rinunciare alla propria ritrovata identità, ma renderla coerente con i cambiamenti in corso, sfumare il concetto di civiltà latina all’interno della più ampia famiglia occidentale.

6 Nel secondo capitolo del volume, Paolo Acanfora analizza i modi e gli strumenti tramite cui la Democrazia Cristiana operò tale trasformazione. Le fondamenta romane e cristiane della civiltà latina di cui l’Italia era la maggiore rappresentante altro non erano che i caratteri fondamentali, primigeni della stessa civiltà occidentale. L’identità italiana, dunque, si inseriva pienamente all’interno del più ampio concetto di Occidente. Anzi, proprio in virtù di questa ampia appartenenza, la Penisola sarebbe potuta entrare nel nuovo blocco occidentale non da una posizione defilata ma a pieno titolo, e avrebbe potuto, quindi, ritagliarsi specifici spazi di autonomia, rivendicando a sé quel ruolo che le era peculiare in quanto paese latino: quello di mediatore e di civilizzatore. Tale processo di trasformazione dell’Italia da nazione latina a nazione occidentale si concluse con l’ingresso del paese nell’Alleanza Atlantica e determinò l’accentuazione da parte italiana degli aspetti comunitari della stessa Alleanza, a discapito di quelli prettamente militari. In tal modo, si intendeva creare una vera e propria comunità sovranazionale – naturale evoluzione di quella nazionale – erede dei caratteri, dei valori e delle tradizioni della civiltà latina, romano-cristiana e democratica.

7 A partire dai primi anni Cinquanta, mentre diveniva chiara l’impossibilità di dare concretezza – almeno nel breve periodo – alle istanze comunitarie all’interno dell’Alleanza Atlantica e mentre il sistema internazionale andava assumendo rigide posizioni bipolari, divenne palese che nel contesto occidentale non c’erano spazi per poter esercitare una presenza attiva e autonoma. Emerse per tale ragione la necessità di costruire una nuova identità che, ancora una volta, non mettesse in discussione le precedenti acquisizioni e consentisse al paese di ritrovare autonomia e prestigio

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internazionali. L’Europa, come sottolinea Paolo Acanfora, infatti, era rimasta fino ad allora in secondo piano nei progetti degasperiani e della maggioranza democristiana; ma nei primi anni Cinquanta, il progetto europeista riprese vigore tanto che per lo stesso De Gasperi l’atlantismo divenne progressivamente «lo sfondo, il contesto di riferimento su cui sviluppare la strategia europeista»8. Nel terzo, quarto e sesto capitolo del volume l’autore analizza l’evoluzione dell’identità italiana dalla macro appartenenza occidentale all’identificazione con la civiltà europea. Tale civiltà, infatti, come la civiltà occidentale, era una evoluzione di quella latina di cui condivideva principi e valori: non una terza forza ma un’Europa pienamente inserita nella civiltà occidentale, che si affiancava agli Stati Uniti. L’immagine dell’Italia nazione europea non andava quindi a contrapporsi alle identità precedentemente elaborate ma ne rappresentava una naturale evoluzione; anzi ci si persuase che l’identità europea potesse, più di altre, penetrare nella coscienza del popolo italiano divenendo identità veramente condivisa e suscitando quindi consenso e partecipazione. La Democrazia Cristiana, particolarmente impegnata nel processo di costruzione dell’Europa unita e convinta che le fondamenta della civiltà europea andassero cercate nel cristianesimo e nel diritto romano, tese ad autorappresentarsi come l’unica forza politica in grado di costruire un’Europa coerente con i suoi caratteri fondamentali e tradizionali, dunque l’unico partito in grado di rappresentarne e difenderne pienamente l’identità. All’interno della Democrazia Cristiana, tuttavia, non mancavano opinioni che si differenziavano da quella di . Nel quinto capitolo del volume Paolo Acanfora getta, quindi, uno sguardo, rapido ma efficace, sulle minoranze interne al partito e sulle posizioni internazionali di tali minoranze: da Giovanni Gronchi che a lungo rimase legato all’identità latina della nazione italiana, prima di approdare a un terzoforzismo europeo affrancato da qualsiasi patto militare; a Giuseppe Dossetti, vicino per molti aspetti alle idee identitarie e sovranazionali di De Gasperi, ma distante per metodo politico e diplomatico e per approccio ideologico.

8 Come l’autore illustra, e come le note vicende della CED (Comunità Europea di Difesa) dimostrano, la strategia degasperiana si rivelò un fallimento istituzionale, ideologico e propagandistico. Lo statista trentino, infatti, non riuscì a trovare a livello continentale partner altrettanto convinti del valore identitario dell’Europa e della necessità di definire organismi sovranazionali con specifiche funzioni politiche. All’interno della sua stessa maggioranza, lo statista dovette fronteggiare le posizioni poco convinte di uomini come e , ancorati ad un anticomunismo ortodosso e ad un ormai vetusto nazionalismo. Tuttavia, De Gasperi riuscì a radicare nelle masse, come lo stesso Acanfora sottolinea, una «nuova identità politica»9 e quell’immagine della Democrazia Cristiana quale unico soggetto politico ad aver compreso e incarnante esso stesso i caratteri originari e fondamentali della nazione italiana e quindi l’unico partito in grado di tutelarne l’identità.

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NOTE

1. CAPPERUCCI, Vera, Il partito dei cattolici. Dall’Italia degasperiana alle correnti democristiane, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010; ID., Le correnti della Democrazia Cristiana di fronte all’America. Tra differenziazione culturale e integrazione politica, 1944-1954, in CRAVERI, Piero, QUAGLIARELLO, Gaetano, L’antiamericanismo in Italia e in Europa nel secondo dopoguerra, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004, pp. 249-289. 2. SARESELLA, Daniela, Cattolici a sinistra. Dal modernismo ai giorni nostri, Roma-Bari, Laterza, 2011. 3. MATTESINI, Maria Chiara, La Base. Un laboratorio di idee per la Democrazia Cristiana, Roma, Edizioni Studium, 2012. 4. FORMIGONI, Guido, La Democrazia Cristiana e l'alleanza occidentale (1943-1953), Bologna, Il Mulino, 1996; ID., «Democrazia Cristiana, politica estera, identità nazionale della Repubblica», in ROMERO, Federico (a cura di), «L’identità dell’Italia repubblicana. Un dibattito sugli orientamenti storiografici», in Italia Contemporanea, 220-221/2000, pp. 414-418. 5. BALLINI, Pier Luigi, VARSORI, Antonio (a cura di), L’Italia e l’Europa (1947-1979), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2004; VARSORI, Antonio, La Cenerentola d’Europa? L’Italia e l’integrazione europea dal 1947 a oggi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2010. 6. PREDA, Daniela, De Gasperi, la CECA e la scelta europea dell’Italia, in RUGGERI, Raniero, TOSI, Luciano (a cura di), La comunità europea del Carbone e dell’Acciaio (1952-2002). Gli esiti del trattato in Europa e in Italia, Padova, CEDAM, 2004, pp.257-303; ID., Alcide De Gasperi federalista europeo, Bologna, Il Mulino, 2004. 7. Cfr. CAPPERUCCI Vera, La sinistra democristiana e la difficile integrazione tra Europa e America (1945-1958), in CRAVERI, Piero, QUAGLIARELLO, Gaetano (a cura di), Atlantismo e Europeismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 71-93; GIORGI, Luigi, Giuseppe Dossetti e la politica estera italiana, 1945-1956: metodo, prospettive, sviluppo, Cernusco sul Naviglio, Scriptorium, 2005; MARTELLI Evelina, L’altro atlantismo. Fanfani e la politica estera italiana 1958-1963, Milano, Guerini e Associati, 2008; SERIO MAURIZIO, Il mito della democrazia sociale. Giovanni Gronchi e la cultura politica dei cattolici italiani (1902-1955), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009. 8. ACANFORA, Paolo, Miti e ideologia nella politica estera Dc. Nazione, Europa, Comunità atlantica (1943-1954), il Mulino, Bologna, 2013, p.238. 9. ACANFORA, PAOLO, Miti e ideologia nella politica estera Dc. Nazione, Europa, Comunità atlantica (1943-1954), cit., p. 245.

AUTORI

ROSARIA LEONARDI

Dottore di Ricerca in Storia dell’Europa Moderna e Contemporanea. Dopo la laurea triennale in Scienze Storiche e Sociali presso l’Università degli Studi di Bari, ha conseguito, presso la medesima università, la laurea specialistica in Storia e Società, con una tesi in Storia delle Relazioni internazionali sul conflitto arabo-israeliano e la questione dei rifugiati palestinesi, e il Dottorato di Ricerca con una tesi sulla politica arabo-mediterranea e atlantica dell’Italia negli anni Cinquanta, nella quale ha analizzato, in modo particolare, le posizioni della Democrazia

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Cristiana. Nel 2012 ha partecipato al VII Seminario nazionale Dottorandi organizzato dalla SISSCO e alla Summer School organizzata presso la London University dall’ASMI (Association for the Study of Modern Italy) di cui tuttora è membro. Ad oggi continua le sue ricerche sulla Democrazia Cristiana e sulla politica estera della DC.

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Giovanni Pedrini (a cura di), Studia Orientis. Venezia e l’Oriente: un’eredità culturale

Luca Zuccolo

NOTIZIA

Giovanni Pedrini (a cura di), Studia Orientis. Venezia e l’Oriente: un’eredità culturale, Vicenza, Editrice Veneta, 2013, 382 pp.

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1 Fin dalle origini della sua potenza marinara Venezia è stata definita “porta d’Oriente”, non solo per i suoi stretti rapporti politico-diplomatici e commerciali con i Basileus Bizantini o con i Sultani Ottomani, ma soprattutto per l’ampia mole di transfer culturali che la Repubblica Veneta ha saputo tracciare tra la laguna e il Mediterraneo Orientale. Di questi scambi ampie tracce sono conservate negli archivi della Serenissima, come ci testimonia l’interessante contributo curato da Giovanni Pedrini qui presentato.

2 Frutto del convegno di Studi Orientalistici, tenutosi a Vicenza il 1 Giugno 2013 presso la Biblioteca Internazionale “La Vigna”, il volume Studia Orientis fa parte della serie Hodoeporica e si propone come la terza pubblicazione emersa dal progetto coordinato da Nico Veladiano1 in collaborazione con i Dipartimenti di Studi sull’Asia e l’Africa Mediterranea e di Filosofia e Beni Culturali dell’Università Ca’Foscari di Venezia, la Biblioteca Internazionale “La Vigna”, il consorzio di Pro Loco Astico-Brenta, i comuni di Precalcino e Monticello Conte Otto, la Fondazione Masi e la Regione Veneto. La raccolta composta da quattro saggi ha il fine e il merito di rendere disponibili fonti inedite e non della lunga storia di Venezia mettendo in risalto alcuni aspetti del suo lungo rapporto con l’Oriente Ottomano e non solo. Infatti, come sottolinea Roberto Ciambetti – Assessore della Regione Veneto – nella presentazione del volume, «interrogarsi nel legame con l’Est, vicino come lontano, studiare l’imprinting d’oriente a Venezia non significa solo ricercare segni del passato, noti come no, quanto vedere come questo passato oggi ritorni di attualità»2. Questa affermazione posta come incipit all’opera, sembra essere il suo filo conduttore che frequentemente riappare nelle pagine dei quattro saggi che con mirabile profondità e acume studiano aspetti tra loro diversi ma al tempo stesso integrati di una relazione secolare che ha visto negli scambi culturali tra Venezia e l’Impero Ottomano in tutte le sue mille sfaccettature un canale privilegiato di reciproca conoscenza. Comprensione che ancor oggi, attraverso lo studio delle fonti più vicine a noi ci permette di penetrare un mondo altro, come la Turchia e il Vicino/Medio Oriente, la cui storia recente e passata si intreccia a doppio filo con la nostra ma che troppo spesso e scarsamente conosciuta o capita.

3 Studia Orientis, pertanto, pur concentrando la sua attenzione su fonti e documenti veneti, permette al lettore di spaziare su un mondo culturale molto più vasto passando dalle regioni Azere all’Isola lagunare degli Armeni, per dirigere, poi, nuovamente il lettore agli ampi spazi della regione siro-mesopotamica e iraniana, facendogli percorrere le antiche vie carovaniere attraverso i racconti odeporici dei viaggiatori/“studiosi” della Serenissima, fino a trasporlo su di un livello altro con lo studio della musica Ottomana.

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4 Da un lato, quindi, troviamo Venezia quale centro culturale ed editoriale di età moderna, fortemente attivo e interessato alla conoscenza approfondita dell’Oriente; dall’altro lato, invece, si trova il vasto Impero Ottomano, analizzato – in quest’occasione – attraverso le sue “periferie” più che nei suoi centri testimoniandone, anche grazie allo studio della musica ottomana, la sua complessa e multiforme realtà. Il saggio di apertura di Giampiero Bellingeri3, Sull’area d’Azerbaigian: qualche stilla dalle fonti venete4, è certamente il più significativo esempio di quanto appena detto. Grazie alle “stille” recuperate e descritte dal Prof. Bellingeri, infatti, il lettore è in grado di viaggiare fino al lontano Azerbaijan e di osservare quali fossero i legami tra la laguna e il Mar Caspio utile mezzo per conoscere il popolo Azerì e la sua cultura ancora troppo poco conosciuta e spesso appiattita sugli interessi energetici di una regione ricca di petrolio e gas naturale ma anche di una ricca e varia storia.

5 A bilanciare – si potrebbe dire – e completare questo intervento troviamo il saggio di Boghos Levon Zekian5, Venezia, il luogo delle ‘rivelazioni’ della Provvidenza per gli Armeni6, in cui, lo spazio caucasico si amplia toccando le antiche regioni del Regno Armeno. L’autore analizzando l’arrivo e la stabilizzazione degli armeni Mechitariti nella laguna di Venezia sottolinea l’importante ruolo relazionale e di mediazione tra Oriente e Occidente svolto dagli Armeni, proponendo un modo, certamente, nuovo per conoscere gli Armeni e la loro cultura, ma anche per comprenderne le dinamiche culturali Diasporiche e i loro concetti di Stato e Comunità.

6 Ancora più ampio è lo spazio indagato da Giovanni Pedrini nel terzo saggio della raccolta, Carovane d’Oriente. Mercanti, viaggiatori, missionari sulle vie carovaniere tra Siria, Mesopotamia e Persia. Grazie alle fonti odeporiche venete, ottimamente integrate e comparate con quelle di altri viaggiatori e mercanti europei quali Pedro Teixeira, Jean- Baptiste Tavernier, Jean Thèvenot e Jean Chardin, l’autore ci conduce nel lungo viaggio attraverso le principali vie carovaniere che univano l’Impero Ottomano nella sua regione del Vicino Oriente – Siria e Mesopotamia – e la Persia, principale canale per giungere alle più lontane regioni indo-cinesi. Le vie carovaniere e le descrizioni dei viaggiatori veneto-europei, infatti, sono un ottimo canale per gli scambi, siano essi commerciali o culturali. Lungo le pagine e i racconti di mercanti e viaggiatori della Serenissima, Pedrini ci propone e commenta non solo un racconto di viaggio ma soprattutto l’attenta analisi etnografica e culturale operata sulle popolazioni di volta in volta incontrate lungo il cammino. La narrazione odeporica, quindi, non è solo volta a consigliare – quale vademecum – il mercante e il viaggiatore, me si propone come utile strumento per conoscere realtà fino ad allora praticamente sconosciute o quanto meno conosciute solo attraverso la lente degli stereotipi. Sebbene anche le narrazioni dei viaggiatori sei e settecenteschi non siano prive di linee d’ombra e di pregiudizi orientalistici, come ci dimostra Pedrini sono anche un utile strumento di conoscenza delle vaste regioni vicino-orientali, le quali, sebbene parte dell’Impero Ottomano, sono forse le meno note. Ancora una volta le fonti venete, opportunamente contestualizzate e inserite nel panorama europeo, sono un ottimo strumento di conoscenza dell’altro ottomano-persiano grazie all’analisi accurata di viaggiatori/esploratori antesignani delle spedizioni etno-antropologiche e sociologiche moderne.

7 Mutato lo spazio, che ritorna ad essere quello della capitale ottomana, ma senza abbandonare la ricca messe di fonti veneziane, l’ultimo saggio presentato da Giovanni De Zorzi – Vivere a Costantinopoli con le orecchie bene aperte. Giambattista Toderini (1728-1799) e la “musica turchesca” – presenta un’interessante analisi della musica

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Ottomano-turca, attraverso il trattato di Giambattista Toderini e la sua contestualizzazione con opere affini quali i trattati di Wojciech ‘Ali Ufki Bobowski e Dimetrius Cantemir. Questo saggio di musicologia risulta di notevole interesse non solo per le nozioni sugli sviluppi della musica ottomana ma anche per le descrizioni degli strumenti e per l’analisi del ruolo della musica nel “rito” Mevlevì.

8 Il volume qui presentato, che si completa con una bibliografia dettagliata, alla fine dei singoli saggi, e di un apparato fotografico molto utile e interessante per inquadrare gli argomenti trattati, nonché di alcuni spartiti di musica ottomana, tratta di incontri, di viaggi, di relazioni e di scoperte. Si propone come una descrizione di quella vasta e articolata rete di interconnessioni culturali e non solo che partendo dalla città lagunare si sono estese su tutto l’oriente ottomano-persiano, permettendoci, oggi, grazie allo studio delle fonti venete, una migliore e più approfondita conoscenza di una regione che molto ha dato a Venezia e all’Europa sia in termini culturali che umani, durante tutto il corso della sua lunga storia e ancora oggi.

9 Utile agli specialisti ma rivolto ad un pubblico di lettori certamente più ampio, il volume curato da Pedrini si prospetta come un libro di notevole interesse storico culturale e come un valido tassello nelle continue relazioni tra Oriente e Occidente consentendo una migliore e rinnovata comprensione di quell’Oriente ottomano a noi così vicino e ancor più chiaramente parte del nostro sostrato culturale europeo.

NOTE

1. Nico Veladiano è consulente per attività di informazione, comunicazione e marketing culturale, collabora con quotidiani e riviste ed è coordinatore di numerosi progetti tra cui la collana Hodoeporica. Da più di un ventennio si interessa di temi etico-filosofici relativi ai processi evolutivi del genere umano. Tra le sue principali pubblicazioni si segnalano: VELADIANO, Nico, Ilfilodargento, Vicenza, Editrice Veneta, 2002; ID., Solo il silenzio è giusta voce, Vicenza, Editrice Veneta, 2008; ID., Il settimo sogno di Giovanni, Vicenza, Editrice Veneta, 2011. Utili informazioni sull’autore e sulla sua attività culturale si possono anche trovare nel sito internet: URL: [consultato il 21 giugno 2014]. 2. CIAMBETTI, Roberto, in PEDRINI, Giovanni (a cura di), Studia Orientis. Venezia e l’Oriente: un’eredità culturale, Vicenza, Editrice Veneta, 2013, p. 11. 3. Professore di Lingua e Letteratura Turca e Filologia Uralo Altaica presso l’Università Ca’Foscari di Venezia, Giampiero Bellingeri si occupa di letteratura contemporanea di Turchia e nella sua attività scientifica segue in modo peculiare la ricezione della cultura ottomana e persiana a Venezia e in Europa tra XV e XVIII secolo. Traduttore tra gli altri di Nazim Hikmet, Orhan Pamuk, Yahya Kemal e dei classici turcofoni, di Persia, azerbaigiani, turkmeni e di transcaucasia, vede tra le sue più recenti pubblicazioni l’edizione bilingue del catalogo della mostra Venezia e Istanbul in epoca Ottomana/Osmanlı Döneminde Venedik ve Istanbul, Electa, 2009, e il volume: BELLINGERI, Giampiero, Nedim: la Canzone d’Istanbul nel primo Settecento. Odi, canti, liriche dal Corno d’Oro, Milano, Ariele, 2012.

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4. BELLINGERI, Giampiero, «Sull’area d’Azerbaigian: qualche stilla dalle fonti venete», in PEDRINI, Giovanni (a cura di), Studia Orientis, cit., pp. 29-74. 5. A lungo docente di Lingua e Letteratura Armena all’Università Ca’Foscari di Venezia, attualmente Boghos Levon Zekian insegna Istituzioni Ecclesiastiche Armene al Pontificio Istituto Orientale di Roma e compie ricerche sull’impatto della civiltà classica nella formazione dell’ideologia dell’Armenia Cristiana. Tra i suoi ultimi contributi ricordiamo: ZEKIYAN, Boghos Levon, VACCARO, Luciano, Storia religiosa dell’Armenia. Una cristianità di frontiera tra fedeltà al passato e sfide del presente, Milano, Centro Ambrosiano Ed., 2010. 6. ZEKIYAN, Boghos Levon, Venezia, il luogo delle ‘rivelazioni’ della Provvidenza per gli Armeni, in PEDRINI, Giovanni (a cura di), Studia Orientis, cit., pp. 75-102.

AUTORI

LUCA ZUCCOLO

Dottorando (PhD student) in Storia Contemporanea presso il SUM (Istituto Italiano di Scienze Umane) di Napoli dove sta sviluppando una ricerca sulla stampa francofona ottomana e la sua rappresentazione dell’Impero d’Oriente. Già dottore magistrale in Storia d’Europa (Bologna, 2008), il suo campo di ricerca si rivolge allo sviluppo della modernità durante l’ultimo secolo dell’Impero Ottomano, al confronto/scontro tra modernità e tradizione in un contesto cosmopolita e allo sviluppo dei movimenti sociali che hanno preparato l’avvento della società turca contemporanea. Luca Zuccolo è il referente di Diacronie per la storia turca e ottomana.

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