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Carlo Cannella

LA CITTA’ E’ QUIETA… OMBRE PARLANO

IO 11 1977 13 GLI ALTRI 17 TELEBOYS 21 SHINO 27 IL FLUSSO ELETTRICO 37 L’OLTRAGGIO 43 NO GESTAPO 49 DICTATRISTA 55 BELLADONNA 63 UN RECORD MONDIALE 65 UN GRAZIE 67 MAXIMUM ROCK’N’ROLL 69 PREAVVISATI... MA NON PREMUNITI 73 ESTREMO ATTO D’AMORE 77 LA VOLGARITA’ DEL SUCCESSO 85 SULLE TRACCE DEI DICTATRISTA 87 STIGE 91 L’ULTIMA VOLTA AL VIRUS 95 GODDAM CHURCH 99 PEOPLE OF THE PIT 103 NO-FRILLS STYLE 107 LASCIA O RADDOPPIA? 113 UNITI NELL’ABBRACCIO 117 MACELLO 123 GLI ADDII 127 LA FINE DEGLI STIGE 131 AFFLUENTE 135 DONNA, PARA IL CULO! 139 141 UFO DIKTATORZ 145 CAZZI MOSCI E ALTRE STORIE 149 SLAPSHOT 153 L’ANNO DEGLI AFFLUENTE 155 DALLA DREAM MACHINE A VERI SUONI DELLA LIBERTA’ 159 CIAO 169 Per contatti: Carlo Cannella - [email protected]

Lasciate che vi presenti la mia stupida piccola band. E’ duro da capire. Suoniamo anche se sappiamo che non verrà nessuno. Accenderemo i nostri Marshall di seconda mano, stupidi piccoli amplificatori che paghiamo con i nostri stupidi piccoli lavori. Il tipo al bar dice che siamo ok, gli ricordiamo un po’ i Green Day, ma siamo una stupida piccola band e non c’è molto da dire. Forse ci vedremo un giorno in qualche locale vuoto, noi facciamo un disco all’anno che tanto nessuno ascolta. Ogni anno ci distruggiamo un po’. Ci sciogliamo quando il batterista ci lascia. Quando lo convinciamo a fare ancora un concerto, ci lascia il bassista e ci sciogliamo di nuovo. Non riusciamo ad essere normali e non sappiamo cosa fare delle nostre stupide piccole vite. Non abbiamo nulla da provare e meno male, perché siamo una stupida piccola band. Siamo sempre in giro. Smontiamo tutta la roba nel nostro stupido piccolo furgone, suoniamo qualche pezzo e poi la rimontiamo di nuovo. I nostri amici sono tutti occupati a farsi i soldi col . Loro incidono i dischi live all’Hollywood Bowl, noi attacchiamo i volantini ai pali del telefono. Nessuno capisce come facciamo a continuare a suonare, senza nessuno che ci venga a vedere. Ma noi tiriamo avanti suonando le nostre stupide piccole canzoni, perché siamo una stupida piccola band. Ecco, una stupida piccola band.

Dumb Little Band, Stupida Piccola Band – THE MR T EXPERIENCE

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IO

Guardami. Sono una pozzanghera melmosa nella pancia di mia madre. Lei è una donna semplice e dai modi gentili. Sta cercando di rendersi degna di me. Esprime la sua felicità con gioiosi discorsi sul significato della maternità, dell’educazione, del sentirsi utili. In certi momenti pensa lucidamente che mi dedicherà la sua vita. Ma la creatura che porta in grembo è una canaglia, una testa di cazzo. Ha assunto una posizione obliqua nell’utero, forse per morire, forse per ucciderla. Allora la povera donna cerca conforto in prolungate lamentazioni, acuti sibili che scuotono l’aria e hanno il potere di stremarla. Mio padre non può aiutarla, non sa usare le parole. Ha ormai dimenticato le belle frasi che in gioventù hanno caratterizzato il suo periodo di mistica pazzia. Ma è pur sempre un cavatore di tempra forte. Ha mani ruvide, la pelle grinzosa come corteccia d’albero, gli occhi rossi irretiti dalla polvere. Per far coraggio alle donne gli restano i baci e il vino, e la mamma sceglie il vino. Si scola un mucchio di bottiglie, le conseguenze sono terribili. Animato da un furioso gorgoglio l’alcool raggiunge il mio cervello, alterandomi per sempre i meccanismi della ragione e dando forma a una creatura capace di fare cose orribili.

Andiamo avanti. Adesso ho dieci anni. Sono un bimbetto malinconico, gracile e malaticcio, ossessionato dalle ombre e da oscuri presentimenti. Leggo i meravigliosi libri di Wilhelm Reich: Il coito e i sessi, Il tic come equivalente della masturbazione, tutta roba così, migliaia di fervide pagine scritte con le scintille negli occhi. La notte faccio degli strani sogni. La mia bocca s’appiccica alle cosce delle donne e ne succhia l’anima. Allora divento un essere mostruoso, con la pancia enorme e l’alito puzzolente. E c’è dell’altro: mani 11 tremanti, capelli scarruffati, mancanza di ogni esigenza, una predisposizione alla pigrizia che mi priva di forze. A volte mi sveglio con il sorriso sulle labbra, la mente un attimo sgombra dalle tecniche per il raggiungimento dell’orgasmo, come paralizzato da un insopprimibile desiderio di restarmene a poltrire sotto le coperte. Non voglio fare niente, non voglio pensare a niente. Desidero far esplodere i pensieri nel nulla, questo sì, dimenticarmi di me stesso per l’eternità. Ma è solo un istante, perché poi il respiro torna a farsi affannoso, l’aria irrespirabile. Ho perso le illusioni delle fiabe, questa è la verità. E la vita bisogna affrontarla con lo spirito di un condottiero antico, questa è un’altra verità, altrimenti si rischia di fare la stessa fine di tutti quegli sbandati che imperversano nelle strade urlando slogan contro gli imprenditori e la polizia, senza un’educazione, senza un briciolo di prospettiva storica, senza alcun rispetto per la convivenza civile. Eppure devo ammettere che ho un interesse chiaramente intellettuale per le dottrine libertarie e il rifiuto dell’autorità.

12 1977

Nel 1977 prendo coscienza del caos che sovrasta il mondo. Ho la buona abitudine di leggere i giornali, e davvero questo è un periodo in cui ne succedono di tutti i colori. Nell’aria dev’esserci qualcosa che fa salire il sangue al cervello, il mondo sembra un manicomio. Tanto per cominciare i giocatori di rugby hanno rinunciato all’etica della palla ovale e si prendono a morsi come cani. Poi c’è tutta questa gente che stampa fumetti pornografici, un mucchio di porcherie ispirate alle care fiabe dei nonni, Pinocchio, Biancaneve, quella roba lì. Perfino i televisori a colori sembrano animati da una volontà assassina, emettono radiazioni che possono causare forme tumorali della pelle e il rimbambimento cronico degli utenti. Se cerco di capire meglio quello che succede m’impantano nella politica. I radicali hanno presentato alla Camera una mozione sui beni della Chiesa. Alla vigilia del dibattito in aula “noi, e cioè il paese, il suo parlamento, il suo governo”, afferma Silvano Villari in un articolo sul Corriere della Sera, “ignoriamo totalmente la consistenza dei beni ecclesiastici sul nostro territorio, né conosciamo i meccanismi che hanno favorito la loro accumulazione. Nessuna seria indagine è stata mai fatta, né dagli organi dello Stato, né privatamente dagli studiosi: e come si potrà discutere di qualcosa che non si conosce?” Si intuisce però che possa essere imponente. Silvio Pergameno, magistrato alla corte dei conti, calcola che soltanto a Roma la “roba clericale” supera i cinquanta milioni di metri quadrati, un quarto della superficie della capitale. Anche le donne hanno alzato la cresta. Adesso possono esibire il seno in spiaggia, hanno perfino il diritto di abortire. Forse dovremo abituarci a tante cose nuove. A non strabuzzare gli occhi davanti alla minatrice impegnata nell’ultimo traforo alpino, alla siderurgica addetta al controllo di colata, alla tranviera che con il solito gesto di 13 stizza rimette al suo posto il trolley uscito dalla guida. E anche a considerare normale la figura del puericultore, del papà in permesso dall’ufficio per assistere il piccolino a letto con il morbillo. Le femministe esultano con le braccia al cielo, ci mancherebbe altro, loro vogliono rivoltare il mondo, ma poi succede che il mondo s’incazza. Non per niente un’indagine condotta in varie università denuncia un notevole aumento delle infezioni vaginali e vulvari tra le giovani studentesse, e non è mica un caso, perché i medici mettono in relazione queste alterazioni con l’uso della minigonna. Anche il fronte del lavoro comincia a ribollire. Gli imprenditori licenziano gli operai che aderiscono agli scioperi. L’astensione dal lavoro viene giudicata un’autentica ribellione, un ammutinamento non previsto dalle regole della buona educazione. I traditori, accantonati dal processo produttivo, diventano terroristi pronti a rivendicare con orgoglio i delitti più efferati. In nome di che? Della giustizia sociale, si capisce, della redistribuzione delle ricchezze e della lotta antimperialista. Ma qui sparano tutti. I brigatisti rossi, gli estremisti di destra, i collettivi autonomi studenteschi, gli adolescenti con manie di persecuzione, tutti quei professori che omettono di fornire un quadro organico di interpretazione della storia. I poliziotti no, quelli hanno le pistole per farsi belli agli occhi delle donne. A volte ammazzano qualche sovversivo anarchico, ma niente di così grave come invece si ostinano a far credere nelle “case del popolo”, un gesto di solidarietà verso il governo, niente di più. Anche ad Ascoli devi stare attento a dove metti i piedi. E’ un continuo mulinare di pugni nell’aria, agguati, sassaiole. Nei vicoli, nelle piazze, nelle scuole, dappertutto c’è chi si ostina a stringere nel pugno il frutto marcio della verità. Eccheccazzo. I giovani devono pur avere un nemico contro cui scaricare la loro aggressività, ma se mi limito ad elencare in una sintesi certamente imperfetta quello che si è detto su di loro negli ultimi otto mesi, allora sembra che nessuno abbia le idee chiare. In primavera sono “porci con le ali”. In estate salgono alla ribalta i sedicenni disimpegnati, realisti, senza utopie. A settembre, con la riapertura delle scuole, pare di assistere ai funerali 14 dell’attivismo giovanile: studiano, non fanno assemblee, disertano le manifestazioni. Poi basta una circolare “sbagliata” del ministro della pubblica istruzione e nelle università riprende il ’68 o quasi. In Inghilterra è diverso. Sembra che i giovani non siano molto interessati alla politica, ma soltanto ad imbottirsi di droga e a fare casino. Sono bacati nel cervello, e quel che è peggio non c’è modo di farli rinsavire. Vanno in giro con giubbetti di pelle borchiati, spille da balia infilate nella pelle e anfibi militari sporchi di piscio. Sono marci dentro, perversi, figli di puttana. Ascoltano una musica di merda, rumorosa e insensata. E’ punk rock, dicono. Proprio in questo momento una banda di stupidi idioti chiamata Sex Pistols sta scendendo il Tamigi su una chiatta. Suonano e urlano mentre si sta festeggiando il giubileo per Elizabeth. “Dio salvi la regina, che il regime fascista ha reso cretina”, la canzone è una rivisitazione in chiave punk e antimonarchica dell’inno nazionale inglese. I poliziotti interrompono la festa in barca distribuendo manganellate e calci nel culo, ma ormai tutta Londra è in mano a questi smidollati, guarda un po’ che brutta fine sta facendo il mondo, roba da mettersi le mani nei capelli e sperare che sia solo un sogno tragico. E invece no. Il punk non è solo un genere musicale. Se si manifesta nella musica è solo perché altri canali sono diventati impraticabili. Che forza d’impatto e che credibilità hanno ormai l’arte, la politica, la filosofia? La musica uno se la può costruire come gli pare, perché lo strumento principale è il corpo umano. Questo è importante, no? Può anche rimanerti solo il tuo corpo, malato, malmesso, può bastare. Il punk non è forse l’ultima delle grandi avanguardie di questo secolo? Sì, è il sigillo. Nasce su un assunto che è parte di tutte le sue componenti: NON C’E’ FUTURO. Uno può dire che non c’è futuro partendo da centomila cose, però sul fatto che il futuro non c’è alla fine ci si ritrova tutti. E’ una certezza. Come è sicuro che non c’è spazio per nessuna nuova avanguardia, perché l’avanguardia è un moto dell’anima, è un moto dell’esistenza, e il punk riassume questo concetto come meglio non si potrebbe. Eppure i miei pensieri sono al momento dolcemente inteneriti. 15 Studio pedagogia e didattica all’istituto magistrale, ho nella mente questa vaga idea di fare l’insegnante, reclamo l’attivazione di un intervento psicosociale nelle scuole. Insomma ho il senso della vita stretto nel pugno e affanculo il punk. Il punk, per me, è solo l’istinto della bestia che prevale sulla coscienza dell’uomo. Nel mio modo di aprire gli occhi alla vita, a quattordici anni, non c’è spazio per la decadenza. Non ho nulla della grossolana esuberanza di un fascistello imberbe, né della fastidiosa solennità di un marxista che si arroghi il diritto alla verità. Parlo in modo cattivo, feroce, ho capito tutto e risolverò tutto. Vi rendete conto, dico con un senso di malcelato stupore nella voce, che gli scaffali si spaccano dopo sei mesi? La stessa cosa succede con le case e i vestiti. Gli scienziati hanno inventato materiali plastici con i quali potrebbero costruire case di durata eterna, e invece le tengono su con lo sputo. Sono in grado di fabbricare stoffe che durano per sempre, ma preferiscono vendere merci a poco prezzo. Vogliono che la gente continui a lavorare, a mettere la firma sotto l’orologio marcatempo e a organizzarsi in sindacati malinconici, mentre milioni di persone muoiono ogni anno sulle strade a causa delle gomme che si surriscaldano e scoppiano. Non è vergognoso? E tutt’intorno a me, su e giù per le scale dell’istituto, nella grande sala delle assemblee, ovunque, rumori strani, inspiegabili risolini e colpetti, scricchiolii e scalpiccii, schiamazzi, isterismo e confusione. E poi la fine. A coronamento di un anno di merda vengo bocciato con argomentazioni risibili. Questo ragazzo, dicono i prof, si sta abbandonando a lunghe profonde solitudini, fantasticherie malate nelle quali può immaginare assurdità di ogni genere, di essere un eroe, un principe, un grande pugile, un guerriero o un dio. Per colpa della sua delicata salute, naturalmente. Naturalmente. Quando a settembre entro nella mia nuova classe sono un fantasma alla ricerca di giustificazioni impossibili, un’ombra senza volontà animata da un’attitudine oscena da segaiolo. Scruto i miei nuovi compagni con lo sguardo cinico di chi è stato ingannato. Guarda quello, ad esempio, che tipo insignificante… 16 GLI ALTRI

Peppe Angelini lavora oggi con disinvolta facilità e senza nervosismo nella sua tipografia in Via delle Torri. Se gli guardi la faccia rotonda e la pancia da maiale non potresti mai immaginare la figura magra e schizzata del 1977. Del ragazzo incarognito e ostile di quel tempo è rimasto infatti molto poco: la risata sarcastica, un barlume di cattiva filosofia negli occhi, una cicatrice sotto il mento vasta come un oceano. In quel tempo amava la musica e le ragazze. Un giorno era riuscito a conciliare entrambi gli interessi, forse perché in cuor suo non aveva mai smesso di desiderare un certo tipo di donna: la fomentatrice che funge da stimolo, l’oppositrice, la femmina satanica in grado di far crescere sessualmente la società. Insomma aveva incontrato questa ragazza punk con gli occhi celesti e la faccia piena di lentiggini, e in due minuti aveva capito che sarebbe diventata la donna della sua vita. Lei aveva già diciott’anni, lui solo tredici. Io la chiamavo Beky Bondage, perché era scapigliata come una pazza e vestiva con i giubbetti borchiati e i tacchi a spillo. Me la ricordo come una medusa irascibile, stravagante, che urlava imprecazioni e picchiava i fascisti. Oggi è un’altra persona. Gli occhi sono diventati grigi, le lentiggini sono scomparse e ha perfino l’aspetto di una donna innocua. Qualche volta cerco di farla saltare in aria dicendole che assomiglia a una vecchia rincoglionita, ma lei non perde il controllo, mi da un calcetto negli stinchi e si mette a ridere. Non c’è proprio niente da fare. Non è più alla ricerca di una filosofia in grado di atterrire il nichilismo, e nemmeno strappa i capelli di chi odia con la stessa furia devastatrice di una volta. Sembra contenta. Da quasi trent’anni giace incatenata con il suo uomo nello stesso letto. Divide i suoi pasti con gatti e pesci, racconta favole alle nipoti e grugnisce di soddisfazione. Però ascolta ancora Damaged dei Black Flag e Group sex dei Circle Jerks, e questo 17 è bello. Quel che di scabroso può esservi nella vicenda, l’approccio pedofilo e la donna perversa fino al midollo, è attenuato dall’atmosfera irreale di un sogno senza conclusione tragica. In tutti questi anni Peppe si è aggrappato alla sua donna con la sicurezza di un sonnambulo, si è sempre fidato di lei, l’ha sempre protetta. A volte le loro strade si sono divise, magari lei trovava nella monotonia di tutti i giorni un motivo sufficiente per tirare fuori la lingua, lui invece continuava a canticchiare senza fervori eccessivi. Questo succedeva soprattutto agli inizi, quando Peppe non aveva ancora maturato quell’attitudine iconoclasta che l’avrebbe contraddistinto in futuro. Anche nella musica aveva gusti diversi da Beky Bondage. A lei piacevano gli Stooges, a lui i Beatles. Il disco che non lo faceva dormire la notte si chiamava Revolver. “Me lo aveva regalato mio zio”, ricorda oggi ridacchiando, “naturalmente sto parlando dello zio pazzo, quello col fuoco al culo, che se cominciava a parlare della letteratura russa, o del misticismo cristiano, o anche solo del ticchettio di un orologio o del gocciolio di un rubinetto, riusciva comunque a suscitare in chi lo ascoltava un fanatismo demente”. Era un uomo davvero strano, lo zio pazzo, sempre invischiato in un mucchio di guai, con una forza incredibile per le iniziative sceme e allegramente rassegnato a morire da un momento all’altro. Negli anni sessanta aveva suonato la batteria nei Lupi, un gruppo ispirato dal blues e dal primo rock americano. Poi era finito a Darwin, sulla costa nord-orientale dell’Australia, a gestire un ristorante e a mettere le mani ovunque. Un giorno a Darwin era venuto giù l’inferno, era stato un giorno da diecimila morti. Un uragano dalla furia omicida si era arrogato il diritto di decidere su tutto, aveva sollevato migliaia di corpi e li aveva frantumati sulla nuda terra. Nel raggio di cento chilometri non era rimasta in piedi una sola casa. Così al pover’uomo non era rimasto altro da fare che raccogliere in una valigia le sue poche cose e prendere il primo aereo per l’Italia. Fra le cose riposte in quella valigia c’era Revolver. Un altro a cui piacevano i Beatles era Ludo Whap. Ludo è oggi è un cantante lirico piuttosto affermato e per ovvie ragioni di opportunità 18 eviterò di rivelarti il suo vero nome. Vive e lavora fra Milano e Parigi, e non ti nascondo che la cosa mi sorprende un po’. Chi l’avrebbe mai detto? Più ci penso e più mi sembra incredibile. Da ragazzo era uno spilungone tenebroso e ostinato, con una lieve condiscendenza negli atteggiamenti, occhi blu, freddi, e un’aria di inviolabile dignità con cui cercava di opporre resistenza al suo stesso egoismo. Il primo giorno che lo incontrai camminava lungo i corridoi della scuola fissando tutti con un’aria tetra ed arcigna, come se domandasse: “chi sono questi cretini?” Era come se temesse di esplodere per la paura di parlare un idioma incomprensibile. Una profonda inquietudine lo sovrastava, e più ancora dell’inquietudine era terrorizzato dalla possibilità di non trovare nessuno con cui condividerla. Ora lascia invece che ti parli di Leonardo Bonfanti, il piccolo grande Leo senza sconfitte. In questa storia lo lascerò in disparte per un po’, ma ricordati di lui quando entrerà in scena. Era un ragazzo geniale, molto comprensivo, che poteva improvvisamente scoppiare in una grassa risata oppure assumere un’espressione oscura e sentimentale. Quando qualcuno gli parlava aveva l’abitudine di alzare gli occhi con aria trasalita piena di stupore, ma in verità non potevi sorprenderlo su nulla. Ancora lo rivedo: traccia sulla lavagna linee improbabili spiegando il senso delle formule matematiche, ma sa che non c’è senso. Discute animatamente di sistemi filosofici, ma sa che la filosofia è una malattia della mente. Prende lezioni di kung-fu e diventa campione italiano di categoria. Compra una canoa da quattro soldi e combatte come un ossesso per essere il migliore, ancora una volta, e scende giù per i tortuosi fiumi d’Italia guerreggiando con muscoli d’acciaio. Riversa la sua gioiosa esuberanza su quello che gli sta intorno, le acque sporche e gialle che esplodono sulla roccia, uomini e donne che impressiona favorevolmente. E poi ancora: prende in giro, ride, fa scherzi continuamente, vuole fare tutto, fa tutto. Oggi è una guardia forestale persa fra le mucche delle valli piemontesi. Vive a Cuneo con il piccolo Liam e Roberta Serra. Se sei un appassionato di sci potresti ricordarla come una ragazza un po’ fuori di testa, capace di 19 guadagnare un secondo a Deborah Compagnoni nella prima manche dello slalom, e poi venire giù a capriole o con strabiche evoluzioni nella seconda. Una volta è arrivata settima alle Olimpiadi. Ora, mentre io distoglievo lo sguardo dalle cose reali, nauseato dal mondo, gli altri ruggivano ridendo, avevano lampi di gioia negli occhi e correvano benevolmente incontro alla vita. La musica era il loro interesse principale. Ludo sentiva sempre più impellente il desiderio di formare un gruppo, Peppe era convinto che prima o poi sarebbe successo e aspettava solo che la scintilla si generasse. L’occasione sembrò arrivare nell’inverno del 1979, intorno al letto di Paolo Barca febbricitante, un ragazzo untuoso e sudaticcio con cui Ludo e Peppe condividevano il delirio dell’amicizia. Quel pomeriggio erano in uno stato di esaltazione totale. Mentre il tempo scorreva il virus influenzale si trasmetteva da un corpo all’altro, incendiando la fronte dei tre giovanotti e rendendoli capaci di pensare autentiche mostruosità. Quando la febbre cominciò a divorargli pure il cervello, Ludo guardò negli occhi i suoi amici e cominciò a interrogarli. “Peppe, ragazzo mio, che strumento sai suonare?” Con le lacrime agli occhi quello rispose: “io? Nessuno”. Disse allora Ludo: “suppongo che abbiamo bisogno di uomini come te alla batteria”. Poi Ludo si rivolse a Paolo Barca, che per la verità era già malato da tre giorni e stava smaltendo la febbre. “Tu cosa sai suonare?” chiese Ludo. “Io vorrei restarmene a casa” disse Paolo. Così fu arruolato al basso. Ludo si rivolse infine a se stesso: “tu come te la passi?” disse. “Sono il miglior chitarrista della provincia, mica frottole” rispose. E così nacquero i Lee Bark, un gruppo che aveva l’intenzione di suonare le canzoni dei Beatles, ma che in realtà durò lo spazio di un attimo, il tempo di prendere tre romanzi russi, cominciare a picchiarci sopra con dei coltelli e avere l’impressione di essere dei coglioni.

20 TELEBOYS

Le origini dei Teleboys risalgono a quello stesso anno. In Inghilterra le armi eversive del punk avevano appena esploso i loro colpi migliori contro il potere. I graffiti insolenti e fantasiosi dei Buzzcocks erano ancora considerati una forma inquietante della poetica urbana, ed erano passati soltanto due anni da quando i Sex Pistols erano transitati all’Electric Circus con il loro fatale “Anarchy in the UK tour”, insieme ai Clash e agli Heartbreakers. Ad Ascoli erano arrivati gli ultimi sussulti del movimento, l’estetica delle borchie sui giubbetti di pelle, dei jeans sdruciti e cernierati, dei capelli decolorati tenuti su dallo sputo o dallo zucchero, ma i suoi caratteri primari, politici nel senso antagonista del termine, o semplicemente nichilisti e autodistruttivi, erano ancora lontani da una presa di coscienza reale. La situazione era praticamente la stessa in tutto il paese. Solo l’anno dopo si sarebbe formato a Milano il collettivo dei punk anarchici, un gruppo di strani individui, inquieti e trasgressivi, uniti da un progetto di cultura autonoma e autogestita senza fini di lucro. Il primo passo dei Teleboys verso questo nuovo mondo fu dettato dallo stupore, dalla sana meraviglia di trovarsi di fronte a un oggetto di origine sconosciuta, ma in qualche modo carico di energia positiva. Non sarebbe stato così anche per te? Pensa per esempio a cosa sarebbe stato della tua vita se un pomeriggio qualunque di un giorno qualunque fosse atterrata nel cortile sotto casa tua un’astronave proveniente da un altro pianeta. Le ipotesi sono due: o avresti avuto davanti un mostro deforme e repellente che con abili mosse avrebbe preso possesso del tuo corpo e della tua mente per dichiarare guerra al genere umano, oppure ti saresti trovato di fronte una colonia di extraterrestri più o meno simili a te, che aveva navigato per tutta la galassia solo per stringerti la mano. 21 Nel nostro caso la navicella aliena atterrò ad Ascoli suonando Never mind the bollocks dei Sex Pistols. Era un afoso pomeriggio di metà luglio. “La prima cosa che mi venne in mente ascoltando i Sex Pistols” dice oggi Peppe con un sorriso vagamente imbarazzato, “fu che avevano una visione della vita profondamente tragica, tutto qui. Non mi piace dirlo, ma davvero non trovai nessun interesse per quel genere di roba, per me era solo casino”. Ludo aveva naturalmente un’opinione ben diversa. Per lui Never mind the bollocks fu un’autentica rivelazione. Fino a quel momento aveva pensato che i gruppi suonassero con l’orchestra, ora sapeva che non era vero. In più c’era nella musica questa istintività primitiva che lo eccitava fino al parossismo. Finalmente sapeva cosa fare della sua vita. Pochi giorni dopo Beky Bondage regalò a Peppe la sua prima batteria, un gioiellino smaltato di grigio che il ragazzo si limitò ad osservare con larghi sorrisi e rapidi sguardi di rispetto per un’intera settimana. Quando finalmente cominciò a colpirla con delle bacchette di legno e a utilizzarla come strumento i Teleboys diventarono una realtà. Beky Bondage era allora una meravigliosa creatura. Quando non scorrazzava per le vie della città sulla sua mitica cinquecento, ascoltando musica a tutto volume e scuotendo furiosamente la testa su e giù come una pazza, si guadagnava da vivere con lavori occasionali. Per lo più cucinava pappette di manzo e puliva il culo ai neonati. Nessuno aveva intenzione di farle pesare che era la sola a disporre di un reddito, ma in qualche modo il miracolo avvenne. Rinunciò a soddisfare tanti piccoli piaceri personali e comprò la batteria. Dopo di ciò passarono tutti e tre un intero pomeriggio a discutere sul gruppo e a scrivere le loro tavole della legge. Pochi punti, ma inderogabili. Primo: il rifiuto del calcolo e della tecnica fine a se stessa. Secondo: l’epica, l’etica e il pathos del punk, insomma un modo di suonare rock inaudito e avventuroso. 22 La vita dei Teleboys era in quel periodo un miscuglio di intensità creativa da una parte, e di caos personale dall’altra. Avevano una forte consapevolezza di quello che volevano, ma sapevano anche che sarebbe stato difficile trovare delle persone che fossero in grado di rispettare quel tipo di leggi. Eppure il punto di svolta era proprio dietro l’angolo. Ancora non lo sapevano, ma i Teleboys erano già in piena attività. Il primo a entrare nel gruppo fu Sergio Federici, un ragazzone occhialuto e strampalato, a suo modo affascinante. Suonava la chitarra con entusiasmo, ma aveva un approccio minimale verso la tecnica strumentale. Non era privo di sottigliezze psicologiche e sfumature intellettuali. Poteva parlarti per ore del rock matematico dei Rush, di come potevi arrivare a calcolare le linee metronomiche o poliritmiche delle percussioni, o di come riuscire a distinguere la forma diluita o compressa dei pezzi. Eppure, se frugavi fra i suoi dischi, finivi col trovarci i sette pollici dei più sconosciuti gruppi punk inglesi. Era anche un eccellente fotografo. Le pareti della sua camera erano completamente tappezzate di fotografie, vecchie immagini di ogni tipo, alcune ingiallite dal tempo e dalla polvere, altre piene di simboli: animali sadicamente torturati, erezioni, concitate azioni nella penombra, sguardi perduti nella tetra oscurità, tutte caratterizzate da una tecnica fotografica rigidamente in bianco e nero, a grana ruvida, dilatate, lancinanti. Poi fu la volta di Sergio Salvi. Con lui le cose furono facili, gli fu messo un basso fra le mani con l’ordine perentorio di suonarlo. Tutto qui. Era un tipo di persona completamente diverso. A volte aveva una gran voglia di divertirsi, era rumoroso ed esultante, e disprezzava ogni argomentazione intellettuale. Altre volte era come assente. Si metteva in un angolo e non apriva bocca. Per motivi oscuri entrò nel gruppo anche un tastierista, Jury D’Emidio, che contribuì subito a rendere piuttosto originale il suono dei Teleboys, un misto fra l’urgenza espressiva dei gruppi punk californiani e le sonorità sperimentali della new wave inglese. Alcuni sono pronti a giurare di averlo visto completamente nudo in alcuni 23 quadri dipinti da artisti sconosciuti. Le voci più accreditate lo ricordano nella posa del David di Michelangelo, con un’espressione del viso severa e autoritaria, e una lattina di coca-cola stretta nel pugno. Naturalmente la ricerca del cantante fu lunga ed estenuante. Quando infine apparve improbabile riuscire a trovare un personaggio completamente americanizzato e meccanizzato, pronto a sputare in faccia al pubblico senza rimorsi, Ludo Whap scoppiò a ridere. Non era una risata prudente e cauta, ma un’esplosione rauca e viscerale, simile a un lamentoso ruggito. Allora Ludo e Peppe si scambiarono un’occhiata, quel tipo di occhiata furtiva e solenne di due ragazzi che hanno vissuto le stesse esperienze, la stessa pazzia, che si sono conosciuti perfettamente attraverso un’associazione di giorni e notti, e che perciò non si curano di quello che possono pensare o dire gli altri di loro. Peppe capì immediatamente. Fu in questo modo che diventò il cantante dei Teleboys. Alla batteria lo sostituì un aristocratico con una buffa vocetta sprezzante. Era uno stronzetto dall’aria contorta e patetica. Niente di vertiginoso e selvaggio gli scaldava le budella, la sua attitudine era quella di un figlio di papà cresciuto a buone maniere e a pancia piena. “Non fu la scelta migliore” ricorda Peppe sfregandosi le guance speculativamente, “noi eravamo quanto di peggio si potesse trovare in giro, come dire, media-bassa schifezza, sempre sulla strada. Lui invece no, era figlio di professori, roba forte… Aveva una bella casa, due genitori comprensivi, che c’entrava con i Teleboys ?” Per tutto l’autunno e l’inverno di quell’anno il gruppo provò nella cantina di Sergio Federici, un posto invitante, pieno di botti di vino, ma freddo come una cella frigorifera. Non fu un periodo facile. Alla composizione dei pezzi s’intervallavano lunghi momenti di sconforto per la temperatura glaciale. Nelle giornate più gelide i ragazzi se ne stavano raggomitolati sui loro strumenti, a sfregarsi le mani screpolate e a battere i piedi con una specie di impaziente tristezza. Quando poi il freddo era troppo pungente, o semplicemente aleggiava nell’aria una sana voglia di non combinare niente, abbandonavano la musica per 24 dedicarsi alla degustazione del vino. Spesso bevevano e ridevano fragorosamente per ore, e sotto la spinta di una segreta e potente allegria cominciavano a cadere in avanti e a soffocare per le convulsioni. Finirono col bere talmente tanto che nel giro di qualche mese rischiarono d’impazzire, ma gli dei furono buoni, e nessuno di loro si giocò definitivamente il cervello. Nella primavera del 1980 una viva curiosità li accolse in Piazza Diaz per il loro primo concerto. Già allora i Teleboys potevano essere considerati uno dei gruppi più provocanti e corrosivi mai apparsi nel capoluogo piceno, anche se per molti rimanevano dei bulletti che giocavano a fare i teppisti, insomma degli idioti. Il loro repertorio era pronto, marchiato a fuoco dalla lucida pazzia dei testi. Le canzoni volevano irridere in egual misura l’atteggiamento conformista dei clerico-fascisti e quello politicamente corretto della sinistra giovanile, e sollevare boati d’eccitazione fra i tanti ragazzi annoiati e non ideologizzati dei quartieri periferici. Ascoli brucia, Aborto obbligatorio, Belsen era una pacchia, con il loro corollario di funesta follia e nichilismo inverosimile, diventarono ben presto veri e propri inni da canticchiare a scuola e nelle feste fra amici. Un suono e un’attitudine erano già stati impiantati, il punk c’era. In quanto al concerto, penso che durò appena dieci minuti. Nessuno riusciva a credere a quello che stava succedendo. Dei ragazzini irriguardosi e ostili stavano sputando addosso al pubblico, facevano gesti osceni, mandavano affanculo tutti. E più la gente s’incazzava più il gioco si faceva duro. In un attimo la piazza cominciò a svuotarsi, ben presto non rimase più nessuno, solo questo ragazzo dall’aspetto eccitato, con le sopracciglia aggrottate in atteggiamento offensivo e un’alcolica imbarazzante capacità di fare tutto il casino del mondo. Era pieno di felicità. Aveva appena scoperto i Teleboys.

25

SHINO

Sarebbe ingenuo e ridicolo parlare di lui come di un mostro dal comportamento odioso, parlare del suo nervosismo, delle sue corse in macchina, dell’abuso di alcool. No, qui si deve raccontare di una combinazione di tumulto e di estasi, di un’esperienza di fatti, colori, ritmo, scena, di un prodotto organico che impedisca qualsiasi facile imitazione. Tutti lo chiamavano Shino, forse per via di quella canzone dei Ramones, Sheena is a punk rocker. O forse perché era riuscito a trasportarci in un mondo immaginario, un punto di osservazione senza difetti. Lì i nomi nascevano e morivano come impulsi mentali, con un sentimento luminoso senza direzione che non faceva crescere muffa tra la percezione e l’atto della comunicazione. Da sempre era perseguitato dai fantasmi della sua fanciullezza, i De Sade, i Rimbaud, i piccoli John Fante sopraffatti dalla consapevolezza del patetico destino dell’uomo, un tale Charles Bukowski ancora ignorato dalla critica letteraria. Eppure, nonostante risultasse snervante per i suoi stessi ammiratori intellettuali, rimaneva uno degli uomini più intelligenti della sua epoca. Un gigante. Una leggenda. A vederlo potevi anche credere che fosse il diavolo in persona. Sembrava che nei suoi occhi grigi sfavillasse una luce sinistra, una scintilla cattiva, ma a ben guardare non era nient’altro che il tenue bagliore dell’uomo-animale. Una volta mia madre disse: “se beve un sorso d’acqua a casa mia, dopo sfascio il bicchiere, così non potrà usarlo nessun altro”. Lui era un bevitore formidabile, ma non gli sarebbe mai venuto in mente di perdere il suo tempo con l’acqua. Così mia madre non fu mai costretta a spaccare i bicchieri di casa. La sua reputazione antimaterialistica era ben meritata. Solo occasionalmente si preoccupava del denaro. Se aveva soldi in tasca per comprarsi il paradiso, allora se lo comprava. Nei giorni di magra 27 non mangiava nemmeno. Suo padre aveva cominciato a guardarlo con aria sempre più sofferta. All’inizio non poteva crederci, poi semplicemente non voleva, ma alla fine si era arreso. Era arrivato alla conclusione che ogni tentativo di contrastare la decadenza morale del suo ragazzo sarebbe stato vano. Fu così che questo vecchio signore malinconico, con gli occhi appena velati da un tratto di diffidenza, diventò per noi “l’incredulo”. E non era ancora finita. Dopo che “l’incredulo” ebbe richiamato l’attenzione degli amici di suo figlio per dire: “non c’è niente di originale che lo possa descrivere”, o “abbiate cura di lui ogni volta”, dopo che quelli ebbero finito di dargli manate sulle spalle e di abbracciarlo, dopo che gli stessi amici avevano finito di chiedersi se Shino si fosse veramente fatto una sega di fronte a tutti e avesse schizzato le loro facce di sperma, dopo che a maggioranza avevano concluso che sì, le cose erano veramente andate in quel modo, dopo che ebbero finito di picchiarlo spezzandogli i denti, e dopo che a causa del tremolio prodotto dall’eccitazione il pazzo onanista era ruzzolato per le scale del suo palazzo affondando fino alle ginocchia nel sangue e nel dolore, solo allora, soltanto nell’abisso della paura e della solitudine, Shino aveva sentito la necessità di scrivere. Scrivere di tutto, perdio, il succo della sua concentrata animosità, i diversi gradi della sua comprensione o del suo disprezzo per gli altri, anzi no, scrivere soltanto sulle cose che non sapeva, “perché ho una cupidigia irrazionale di mettere giù quello che non so”, mai sull’amore, “perché se penserò all’amore allora non sarò niente”, stancamente, “perché voglio che la mia mente esploda su ogni immagine e ogni ricordo”. Ora prova a immaginarlo mentre si sveglia di primo mattino. Ha la nausea, gli occhi cisposi, la bocca amara. Una pozza di sangue secco, eruttato la sera prima da una ferita tetra e pidocchiosa, gli riempie la fronte rugosa. Non ha nessuna intenzione di scoprire chi sia stato a riempirlo di pugni, sente solo il bisogno di sorprendere il mondo con la potenza elettrica della sua scrittura. E allora scrive: senza fatica, senza perdere tempo in correzioni, guardando sempre avanti. La 28 punteggiatura segue un suo percorso particolare, respira affannosamente con l’autore. Il racconto si chiama “Il pescivendolo di cristo”. “E’ universalmente noto che il pesce è la panacea di tutti i mali”, la storia comincia così, e quando finisci di leggerla hai l’impressione di volteggiare in un mondo astorico, fra le pagine di una letteratura antropologica, che offende il sentimento morale e la pietà cristiana per pura gioia, una felicità archetipica mai piegata completamente alla capacità logica, alla tendenza della mente a trasmettere concetti e a giustificarli con argomentazioni. No, qui si tratta di darci “una clessidra spirituale, un equilibrio, una meta che ci permetta di riflettere su spiriti acquatici e costellazioni ipertrofiche, falci di luna e gangli nervosi, orsi polari e picchi nevosi, grandangoli satellitari e cuori spinosi, bulbi pensanti e insetti pelosi, mondi a parte…” Pazzo? Può essere, ma intanto lascia che ti racconti questa… Come ogni mattina si attacca alla bottiglia del gin e ne scola una buona metà, poi comincia a buttare giù dalla finestra le prime cose che gli capitano fra le mani, e sono cose importanti, roba che uno porta a casa dopo averla pagata un mucchio di soldi, posate, pentole in acciaio, qualche statuetta di porcellana, con conseguenze certamente letali per gli sconsiderati che giù in basso trovano il coraggio di attraversare lo spazio. Quando sfascia il televisore è il turno dei carabinieri. Succede sempre così, puoi anche scommetterci le palle, lui butta un televisore giù dalla finestra e un minuto dopo arrivano i carabinieri. Come sempre cercano di farlo ragionare, mica si chiedono da dove cazzo saltano fuori tutti questi televisori che sfascia, no, cercano solo di calmarlo e di farlo ragionare. Naturalmente lui ragiona a modo suo. Sghignazza, li deride, li manda affanculo. E’ il segnale. A forza lo trascinano in caserma. In quelle stanze lo conoscono a memoria. Il maresciallo di turno cerca di fare lo spiritoso: “Cerchiamo di cooperare, va bene?” “Sissignore”. “Fai quello che ti si dice e non avrai noie,va bene?” “Sissignore”. 29 “Hai intenzione di farci arrabbiare?” “Nossignore”. “Bene. Slacciati i pantaloni. Cosa nascondi sotto i pantaloni?” “Il cazzo, signore”. “Cosa?” “Un cazzo bello turgido, signore, in culo a quella gran troia di sua moglie. Se l’immagina signore?” Quando lo rilasciano dalla caserma ha la faccia tutta piena di sangue. Ha l’aspetto di una bestia, occhi muti, un’espressione paralizzata, forse sta cercando rifugio in pensieri senza importanza. Il sangue gli zampilla copioso dalla fronte, gli scende sul viso e gli riempie la bocca. Il giorno dopo, puoi starne certo, quel sangue diventerà un’ombra marrone e la ferita sembrerà segnata da una piega amara. Allora un altro televisore volerà giù dalla sua finestra, farà un baccano d’inferno, arriveranno i carabinieri. Sarà interrogato in questura e la ferita si riaprirà. Intanto va a trovare il suo amico di sbronze, così, per distrarsi dalla noia. Lui è uno studente in giurisprudenza, un fascista socialisteggiante lontano da qualsiasi preoccupazione letteraria, con una risata roboante e un lirismo disinibito nelle parole. Un sarcasmo acido gli riempie i polmoni e gli esce dalla bocca soltanto per il piacere di sentire la propria forza. Un giorno diventerà un vero avvocato, con la sua targa in ottone sulla porta e il suo numero di telefono segnato in grassetto nella guida della città. Intanto ha un programma di sopravvivenza per la serata, e la presenza di Shino lo aiuta a delineare i contorni dell’impresa. Naturalmente si ubriacano. Sono amici di sbronze, dicevo, ma non hanno affinità alcolica. Mentre l’avvocato passa in rassegna il suo solito repertorio di ruggiti boriosamente pretenziosi, generando ammirazione fra i vagabondi e gli eroinomani, Shino comincia a piagnucolare, sentimentale e infantile. Si lascia cogliere dal panico e finisce per fare il pagliaccio. Bestemmia, sbraita come un ossesso, manifesta apertamente il proprio disprezzo. E’ profondamente avvilito. Per cercare di tirarlo su, l’avvocato carica in macchina due 30 ragazze e si dirige a tutta velocità verso la casa dell’amico. Una bella scopata, pensa, lo rimetterà in sesto per un po’, giusto il tempo per scalfire la sua dura corazza di combattente perseguitato. Mentre sfrecciano a folle velocità fra le vie della città, entrambi sentono che a tenerli uniti sono legami affettivi e affinità spirituali molto più forti di qualunque altra cosa di natura puramente fisica. Nei loro sguardi c’è qualcosa di assolutamente unico che li coinvolge, qualcosa di “particolare”, un sentimento appena meno intenso di un approccio sessuale. Ora, però, le cose assumono un aspetto grottesco. Ad aspettarli sotto casa c’è infatti Ludo Whap. Non c’è niente da fare, pensa l’avvocato, questo figlio di buona donna sente gocciolare la fica a chilometri di distanza. Appena entrano in casa si delineano i ruoli. Ludo Whap e l’avvocato si chiudono in camere separate a scopare le due ragazze, Shino rimane in cucina a farsi le seghe. Non è una situazione che il piccolo Bukowsky può sopportare a lungo. Dopo pochi minuti si catapulta nella camera di Ludo Whap e pretende la fica. Ludo è un uomo molto comprensivo e si fa da parte. “Il pasto è bello umido” dice, “serviti pure, amico mio”. Il problema è la ragazza. Sembra che sia pienamente soddisfatta del trattamento ricevuto fino ad ora. Non ne vuole sapere di cambiare programma, e ha la compiacenza di rendere espliciti i suoi intendimenti. Dalla sua bocca esce un rifiuto deciso, qualcosa come “lontano da me, brutto stronzo”. Shino solleva la testa boccheggiando. Gli sembra di aver sentito la ragazza sussurrare qualcosa sul suo conto. “Brutto stronzo”, gli sembra, o qualcosa del genere. No, nessun dubbio. Ha proprio detto “lontano da me, brutto stronzo”. Questa puttana, pensa Shino, viene a scopare in casa mia e mi chiama “brutto stronzo”. Vede la sua immagine riflessa nello specchio della camera. Si avvicina. “Ehi, tu, brutto stronzo” grida a se stesso, “è inutile che fai finta di niente. Sei in casa tua, sì, in casa tua. Una puttana sta scopando nella 31 tua camera da letto, le lenzuola del tuo letto sono imbrattate di sperma alieno, e tu sei uno stronzo. E la puttana dice che è meglio se non rompi i coglioni. La puttana dice che devi andartene fuori dalle palle, capito? Fuori dalle palle, fino a quando il suo buco del culo non sarà in grado di ospitare un intero esercito e suonare in fa bemolle una lunga scoreggia verminosa, un’ave maria di Schubert, suppongo, perché questa puttana, vedi, è una nobile puttana che in casa tua, brutto stronzo, può permettersi di scegliere i cazzi migliori e dettar legge su tutto, su tutto”. Torna in cucina, impugna un coltello di venti centimetri con la lama seghettata, sghignazza una porcamadonna che dura fra i denti almeno dieci secondi. Con la bava alla bocca fa un ingresso trionfale in camera da letto. La ragazza riesce a rendersi conto della minaccia con la coda dell’occhio, lancia un grido, fa un salto all’indietro, comincia a tremare come una foglia. Shino ha già inserito mezza lama nella sua fica. Il suo muso è a pochi centimetri dal ventre sudato della donna. A questo punto l’avvocato si desta finalmente dal torpore, entra nella camera di Ludo, grida una porcamadonna pure lui, si avventa su Shino con educazione scientifica, psicologica, e toglie delicatamente il coltello dalla fica della ragazza. E’ la fine di un’amicizia. Un’ora dopo Shino è nuovamente sulla pagina.

Il, esso, lo, l’attuale, il nextpescivendolo giudacristo…Il sant’ominide sulla superfixion, presidente di un comitato votato a una miglior causa esibitosi senza rete e senza paratie sotto l’ineffabile tendone di una x lacustre…LAAAZZZAAAR…

E poi vomita. Ma sì, ma sì, pensa alle donne che hanno rifiutato di scopare con lui, a come avrebbe potuto renderle felici se solo lo avessero degnato di uno sguardo, agli sberleffi di tutte quelle puttane che con la loro aria aristocratica gli hanno tirato fuori di bocca solo oscenità, e trafitto da un brivido di febbre infanga il loro ricordo con un ultimo grugnito masticato fra i denti. Poi sviene sul pavimento del bagno. 32 Il rumore della caduta è avvertito chiaramente dall’inquilino del piano inferiore. L’uomo ha talmente poca fantasia che decide di chiamare i pompieri. Gli eroi arrivano a sirene spiegate, fanno salire una scala mobile su per la facciata esterna del palazzo, il più coraggioso sale fino alla finestra del bagno. Vede un ragazzo completamente nudo e privo di sensi sul pavimento, sfonda il vetro, entra. Shino rinviene proprio in quel momento. Ha l’impressione che il pompiere voglia ucciderlo, e cristo santo lo colpisce con un pugno sul mento. Il pompiere s’incazza, s’incazza come una bestia, e i due iniziano a picchiarsi in maniera disgustosa. La colluttazione è furibonda, il sangue fuoriesce copioso dai corpi ammaccati. Grida disarticolate e bestemmie si avvertono distintamente dalla strada. Allora l’uomo senza fantasia chiama i carabinieri. Quelli ne hanno le palle piene prima ancora di arrivare, ma il dovere è dovere, se devono arrestare qualcuno lo fanno col sorriso sulle labbra. In caserma il solito maresciallo cerca di fare lo spiritoso: “Cerchiamo di cooperare, va bene?” “Sissignore”. “Fai quello che ti si dice e non avrai noie, va bene?” “Sissignore”. “Hai intenzione di farci arrabbiare?” “Nossignore”. “Bene, slacciati i pantaloni. Cosa nascondi sotto i pantaloni?” “Il cazzo, signore”. “Cosa?”

“Nun te voglio resuscitare”, disse il giovine vecchio pescivendolo futurefficace e pericol vanaglorioso vendolo all’icona semovente galleggiante sull’acque, nebula evangelica, costruzione piratesca, arlecchino volteggiante della superstizione, coacervo tombiforme di speranzielle malriuscite, gasdotto bipede e ingannatore, torcia ed attore di commedia millenaria, già smentita e più volte rappresentata con la complicità della folla in uno dei più spaventevoli teatri del mondo, l’empireo satanico, la fossa senza vittoria, il buco privo di 33 scappatoia, la tanazza del verme, il luogo da cui esultanti si entra e non si esce.

Poi succede che una donna magra, con una faccia rinsecchita, le labbra ridotte a una fessura, bussi alla sua porta per raccontargli che è degno della considerazione di dio, della sua benignità, che non deve temere nessun attacco frontale da parte di forze demoniache. Uno si immagina la donna mentre cerca di rincuorare questo povero ragazzo con gli angoli della bocca tutti neri. La cosa più sensata da fare sarebbe aspettare che smaltisca la sbronza, ma la donna ha fretta, deve tornare fra le braccia di dio per le preghiere della sera, preparare la cena per il marito obeso e la figlia scema, dar da mangiare ai polli (ha due polli in cucina, uno cammina avanti e indietro, sa fare la retromarcia, ha due polli intelligenti). Così si limita a dargli la sua benedizione e se ne torna in casa. Shino resta fermo sul pianerottolo con un’espressione infastidita. E’ animato da un idealismo che rasenta l’assurdo, sembra un pipistrello colossale che ha solo voglia di prenderla a calci. Un attimo dopo bussa alla porta della donna e la riempie di pugni. Quasi l’ammazza. Mezzo palazzo si rivolta. Il maresciallo non sa più che pesci pigliare. Stavolta è meno spiritoso del solito: “Lo sai, vero?” “Sissignore”. “E’ la volta buona che ti sbattono in galera e buttano via la chiave”. “Sissignore”. “Non sai dire altro? Ti conviene fare una dichiarazione spontanea. Vuoi fare una dichiarazione spontanea?” “Aspetto solo che mi dica di slacciarmi i pantaloni, signore”.

“Tu no fosti capace de laburar” disse lo spettro della spiaggia al camminateur acquatico, “Io fui fatto per laburar, pesco lo pesce sacro, volume e incrollabile scrigno di incontrollabili virtù, ma io che riconosco in te l’uomo, poiché rare ma effettive volte riflessi la mia persona nello specchio d’acqua, voglio dirti che tu sei la parodia di 34 scappatoia, la tanazza del verme, il luogo da cui esultanti si entra e colui che volevo incontrare. Io vulevo incontrar il mistico satanico, il non si esce. giucatur de la roulette, il bidone a quattro zampe, il bambiota Sivigliano, la summa stessa insomma di tutto ciò che fu allegramente Poi succede che una donna magra, con una faccia rinsecchita, le deprecato, non perseguitato, non massacrato senza alcuna pietas, labbra ridotte a una fessura, bussi alla sua porta per raccontargli che è bensì ciò che fu ironizzato, cancellato, depredato, tesoro di molti, con degno della considerazione di dio, della sua benignità, che non deve un semplice fuoco di molti, battuta infelice, piano obliquo, necessità temere nessun attacco frontale da parte di forze demoniache. Uno si permanente, peraltro irrisolta di concludere un ramo di complessa immagina la donna mentre cerca di rincuorare questo povero ragazzo attività e di folle vittoria”. con gli angoli della bocca tutti neri. La cosa più sensata da fare “Et voilà” disse lo camminateur acquatico, “sono io l’essere che sarebbe aspettare che smaltisca la sbronza, ma la donna ha fretta, deve cercavi con vigoroso batacchio…” tornare fra le braccia di dio per le preghiere della sera, preparare la cena per il marito obeso e la figlia scema, dar da mangiare ai polli (ha E’ sera. Piove. Shino cerca una difesa contro i suoi pensieri. Si due polli in cucina, uno cammina avanti e indietro, sa fare la appoggia a una casa con i muri scrostati. Volge lo sguardo al cielo retromarcia, ha due polli intelligenti). Così si limita a dargli la sua piovoso, ai singhiozzi sanguigni dei lampioni. Riempie di pioggia gli benedizione e se ne torna in casa. Shino resta fermo sul pianerottolo occhi malinconici, i vestiti perfettamente neri, stazzonati, e ridacchia con un’espressione infastidita. E’ animato da un idealismo che rasenta nervosamente mentre s’inventa una storia senza né capo né coda, una l’assurdo, sembra un pipistrello colossale che ha solo voglia di storia disgustosa, la storia di un uomo che decide di bere fino allo prenderla a calci. Un attimo dopo bussa alla porta della donna e la sfinimento. Si distruggerà, sissignore, riempirà la sua notte di catarrosi riempie di pugni. Quasi l’ammazza. Mezzo palazzo si rivolta. Il avvertimenti contro il mondo, e se anche a un certo punto il mondo gli maresciallo non sa più che pesci pigliare. Stavolta è meno spiritoso del si rivolterà contro, a lui che importa? Il mondo già diffida di lui. Forse solito: ha già deciso di farlo fuori, perché emana un odore di sbalordita “Lo sai, vero?” angoscia puzzolente, angoscia istantanea, qualcosa di terribilmente “Sissignore”. perdente e appiccicoso. “E’ la volta buona che ti sbattono in galera e buttano via la chiave”. Entra nei bar, nei ristoranti, nei pub, ovunque attira l’attenzione sulla “Sissignore”. spiacevole necessità della sua ubriachezza, sullo stato comatoso che “Non sai dire altro? Ti conviene fare una dichiarazione spontanea. gli appartiene per diritto generazionale, fino a quando lo rincorrono Vuoi fare una dichiarazione spontanea?” con l’aria minacciosa e i pugni chiusi, fino a quando lui sprofonda “Aspetto solo che mi dica di slacciarmi i pantaloni, signore”. nelle pozzanghere delle buie strade secondarie accennando un timido tentativo di difesa. Un urlo raggiante di fierezza si spegne col sangue “Tu no fosti capace de laburar” disse lo spettro della spiaggia al in bocca, sui denti spezzati, sulla lama del coltello che taglia via camminateur acquatico, “Io fui fatto per laburar, pesco lo pesce l’orecchio. Coraggio, vecchio mio, coraggio. Raccogli il tuo orecchio, sacro, volume e incrollabile scrigno di incontrollabili virtù, ma io che raccoglilo prima del vorticoso assalto dei topi, dei gatti rognosi, prima riconosco in te l’uomo, poiché rare ma effettive volte riflessi la mia che sia divorato dai cani bavosi e pulciosi di una qualsiasi signora persona nello specchio d’acqua, voglio dirti che tu sei la parodia di dalla commuovente bruttezza, raccogli quella piccola parte di te e 34 35 cucila di nuovo al suo posto. Con ago e filo, come meglio viene. Alla malora!

Il pescatore non aveva di che rispondere di fronte a questa infinita giaculatoria, ma dotato com’era di temperamento e fresca vivacità derivante dalle opprimenti moltitudini di decine di migliaia di albe spaventose e notti, notti gonfie di non piovuta ipotetica, mai sgorgata pioggerellina di deserto, si scosse, chiamò a raccolta le forze vigorose dell’animo suo, e colmo di livore gridò: “Oh, camminateur, non era per ascoltare ciò che non comprendo che richiamai la tua attenzione, ma per ottenere un’equa distribuzione delle parti. Voglio anch’o, come te, essere un aforisma navigante nel lago del deserto, affrancarmi dal vortice umiliante delle energie gravitazionali, voglio come te essere libero di fluttuare e abbandonare quando voglio queste sponde meschine, ove il/lo pesce mai abbonda e raramente guizza, vittima di una tetra maledizione di ambigua obliquità che lo rende statico ma sfuggente, rapido ma demente, pesce buono per una tavola già imbandita d’argenti e doverosi ricami, ma non buono per essere preso al laccio, alla lenza, per essere truffato, trascinato via penzoloni per l’aere, disperatamente oscillante sull’amo nell’aria ultrararefatta del mattino blu”. “Uh Uh, un democratico”, esclamò sorpresa l’assolutistica apparizione. Tremolò, si sfibrò e scomparve, navigando leggera, a piedi nudi, sulle acque.

36 cucila di nuovo al suo posto. Con ago e filo, come meglio viene. Alla malora! IL FLUSSO ELETTRICO Il pescatore non aveva di che rispondere di fronte a questa infinita giaculatoria, ma dotato com’era di temperamento e fresca vivacità derivante dalle opprimenti moltitudini di decine di migliaia di albe La prima volta che vidi i Teleboys fu un giorno di ottobre del 1980. spaventose e notti, notti gonfie di non piovuta ipotetica, mai sgorgata Ero stato invitato a una festa di compleanno con il segreto motivo di pioggerellina di deserto, si scosse, chiamò a raccolta le forze vigorose rattristare la serata verso la mezzanotte, quando tutti avrebbero fissato dell’animo suo, e colmo di livore gridò: “Oh, camminateur, non era lo sguardo altrove alla ricerca di un approccio. Evidentemente era per ascoltare ciò che non comprendo che richiamai la tua attenzione, opinione comune che i miei discorsi filosofici della mezzanotte ma per ottenere un’equa distribuzione delle parti. Voglio anch’o, costituissero una versione piuttosto attendibile dell’enciclopedia delle come te, essere un aforisma navigante nel lago del deserto, stronzate. affrancarmi dal vortice umiliante delle energie gravitazionali, voglio Arrivai con la paura di sentirmi fuori posto. Temevo di trovarmi di come te essere libero di fluttuare e abbandonare quando voglio queste fronte alla solita festicciola per adolescenti idioti, alla corrente sponde meschine, ove il/lo pesce mai abbonda e raramente guizza, sotterranea di ansietà che normalmente li pervade, all’irriducibile vittima di una tetra maledizione di ambigua obliquità che lo rende isteria di chi vuole mostrarsi ad ogni costo controcorrente. statico ma sfuggente, rapido ma demente, pesce buono per una tavola Le cose andarono più o meno nel modo che avevo previsto. Ogni già imbandita d’argenti e doverosi ricami, ma non buono per essere tanto qualcuno mi si avvicinava aggrappato al suo bicchiere di birra e preso al laccio, alla lenza, per essere truffato, trascinato via mi interrogava con occhi spiritati. Gli argomenti erano sempre quelli: penzoloni per l’aere, disperatamente oscillante sull’amo nell’aria fiche, culi e grosse tette. C’era perfino chi mi raccontava di quella ultrararefatta del mattino blu”. volta che era riuscito ad accendere una magnifica quarantenne con “Uh Uh, un democratico”, esclamò sorpresa l’assolutistica ritmi misteriosi e movimenti intensi. A un certo punto, diceva, la sua apparizione. Tremolò, si sfibrò e scomparve, navigando leggera, a fica si era aperta implorante e lo aveva supplicato di riempirla di piedi nudi, sulle acque. schizzi, un desiderio legittimo che aveva provveduto ad esaudire. Questo era tutto, la mia filosofia non sarebbe servita a niente, e stavo annoiandomi a morte. Finalmente cominciarono a suonare i Teleboys. Ebbi un sussulto. Un ritmo terroristico mi colpì al cervello. Non avevo mai sentito roba del genere. Trasudava disprezzo. Sembrava che il mondo non riuscisse a sopportarlo e stesse uscendo dalla stanza come impazzito, correndo a perdifiato per respirare aria pulita. Non è che fossi ingenuo. E’ che in quel tempo tutto quello che sapevo sulla musica riguardava le canzoni di Bob Dylan. Sarebbe più esatto dire che non ero affatto interessato alla musica. Piuttosto ero 36 37 ossessionato da Jack Kerouac, William Burroughs, Allen Ginsberg, insomma la beat generation. Insomma la scrittura. La musica dei Teleboys era come un flusso elettrico. La distorsione plumbea e oppressiva delle chitarre non aveva niente a che vedere con le timide ballate folk di Bob Dylan. Per molti sarebbe stata una semplice constatazione, per me rimaneva un mistero. Come funzionava quella roba? I musicisti saltavano come ossessi, avevano un’espressione di eccitazione volgare che fuoriusciva dai loro occhi come una ferita, e sembravano animati da una meschinità e una durezza di modi decisamente sgradevoli. Il rumore che usciva dai loro amplificatori riempiva la stanza e aggrediva il pubblico. Sembrava la grande bocca di un rettile che se lo mangiava, il pubblico. Mi piaceva. Un desiderio intenso mi penetrò nel sangue, un pensiero invidioso lo avvelenò per un attimo. Peppe era bravo, sì, ma io ero meglio. Tornai a casa cercando di salvaguardare la mia dignità. No, mi dicevo, cosa ti salta in testa, cosa stai architettando… Non facevo altro che ripetermi le stesse cose, continuamente, in un modo sempre più vivo e palpitante. Non c’è alcun modo, pensavo, per giustificare un’idea così sbagliata della libertà. Cosa vogliono dimostrare? Di essere soli? Lontani dalla vita? La mia filosofia di mezzanotte era molto meglio. Non aveva bisogno di oscuri latrati per affermare le sue facoltà vitali e intuitive, di stridore meccanico per esaltare la sua inquietante forza di volontà. La mia filosofia di mezzanotte aveva il suo fine ultimo nella produzione di un mondo interamente ragionevole. Ecco cos’era la libertà, un mondo ragionevole. Eppure, man mano che la ragione veniva elettrizzata da un fremito convulso che penetrava duro e inesorabile nelle vene, da una febbre intossicante, cominciavo a sentire quel mondo sempre più ostile, freddo, vagamente disgustoso. Lentamente il desiderio prese il posto della ragione, fino a diventare un’ossessione, un pugno che mi colpiva alle tempie a intervalli regolari: Peppe era bravo, sì, ma io ero meglio. Per la prima volta nella mia vita avevo le idee chiare, volevo salire sul palco e instaurare una democrazia del contatto umano. In quanto a spunti ce n’erano in abbondanza. Fino a quel momento avevo perfino 38 ossessionato da Jack Kerouac, William Burroughs, Allen Ginsberg, ignorato l’esistenza del punk. Era la migliore forma di espressione che insomma la beat generation. Insomma la scrittura. avessi mai desiderato e non l’avevo mai conosciuta. Tutto mi sembrò La musica dei Teleboys era come un flusso elettrico. La distorsione così assurdo, avrei voluto subito unirmi al suono vibrante degli plumbea e oppressiva delle chitarre non aveva niente a che vedere con strumenti e disciogliermi nell’aria insieme ad esso. Sì, dannazione, sì, le timide ballate folk di Bob Dylan. Per molti sarebbe stata una stavo finalmente arrivando. semplice constatazione, per me rimaneva un mistero. Come Ascoltai nuovamente i Teleboys quello stesso autunno. La funzionava quella roba? I musicisti saltavano come ossessi, avevano formazione era cambiata. Le cose erano andate più o meno in questo un’espressione di eccitazione volgare che fuoriusciva dai loro occhi modo. Sergio Salvi aveva caricato il batterista sul sellino posteriore come una ferita, e sembravano animati da una meschinità e una della sua moto. Lui era quello che lo odiava di più, lo considerava un durezza di modi decisamente sgradevoli. Il rumore che usciva dai loro professorino senza nerbo che sporcava l’integrità dei Teleboys. Senza amplificatori riempiva la stanza e aggrediva il pubblico. Sembrava la aspettare che l’ansia spirituale del dubbio lo travolgesse si era poi grande bocca di un rettile che se lo mangiava, il pubblico. Mi piaceva. scagliato a tutta velocità contro un’auto in sosta. Non so bene cosa Un desiderio intenso mi penetrò nel sangue, un pensiero invidioso lo volesse fare, probabilmente ucciderlo. Il problema è che il mondo è avvelenò per un attimo. Peppe era bravo, sì, ma io ero meglio. complesso, non sempre le cose vanno come uno se le immagina. Tornai a casa cercando di salvaguardare la mia dignità. No, mi Sergio era rimbalzato contro le lamiere dell’auto, cadendo dicevo, cosa ti salta in testa, cosa stai architettando… Non facevo altro violentemente sull’asfalto e sperimentando la sua prima trance che ripetermi le stesse cose, continuamente, in un modo sempre più ipnotica. Nell’impatto i denti gli avevano tagliato di netto la punta vivo e palpitante. Non c’è alcun modo, pensavo, per giustificare della lingua, riducendolo a un fantasma sovreccitato e instabile. A un un’idea così sbagliata della libertà. Cosa vogliono dimostrare? Di tratto la sua spiccata sensibilità per gli atti eroici era diventata un essere soli? Lontani dalla vita? La mia filosofia di mezzanotte era ricordo. Di tutta la strisciante angoscia che pervadeva il mondo molto meglio. Non aveva bisogno di oscuri latrati per affermare le sue occidentale non gli importava più niente. Aveva cercato soltanto le facoltà vitali e intuitive, di stridore meccanico per esaltare la sua parole per restare vivo, ma il colpo gli aveva spento l’area inquietante forza di volontà. La mia filosofia di mezzanotte aveva il specializzata del cervello dove nascevano la grammatica e il suo fine ultimo nella produzione di un mondo interamente linguaggio. Tutto quello che gli era uscito di bocca era stato un fruscio ragionevole. Ecco cos’era la libertà, un mondo ragionevole. Eppure, impercettibile, una frase smozzicata, con le parole appiccicate le une man mano che la ragione veniva elettrizzata da un fremito convulso alle altre da una disperata concentrazione. che penetrava duro e inesorabile nelle vene, da una febbre Il passeggero invece se l’era cavata con un grosso spavento e intossicante, cominciavo a sentire quel mondo sempre più ostile, qualche graffio sul gomito. Era rimasto sospeso nell’aria come una freddo, vagamente disgustoso. Lentamente il desiderio prese il posto creatura del paradiso, lasciando sull’asfalto solo una striatura regolare della ragione, fino a diventare un’ossessione, un pugno che mi colpiva di vomito. Il luccichio dei suoi occhi scintillanti sembrava avergli alle tempie a intervalli regolari: Peppe era bravo, sì, ma io ero meglio. donato perfino una nuova intelligenza. Era come se qualcosa di Per la prima volta nella mia vita avevo le idee chiare, volevo salire assolutamente inusuale e grandioso si fosse preso cura di lui nel sul palco e instaurare una democrazia del contatto umano. In quanto a momento cruciale. spunti ce n’erano in abbondanza. Fino a quel momento avevo perfino Con la faccia tutta piena di sangue e sputando denti dalla bocca, 38 39 Sergio si era diretto tartagliando verso il coglione incolume. Era furioso. Non poteva accorgersi delle forze misteriose che si erano sprigionate intorno a lui e che lo assalivano di continuo. Era troppo concentrato sulla timida purezza del compito, cacciare quell’idiota dai Teleboys, fargli credere di essere a pezzi, così malridotto da non riuscire mai più a suonare la batteria. Chi avrebbe avuto il coraggio di contrastare la sua interpretazione dei fatti? “C-c-c-c-c-c-cazzo!” gridava. “Ooooh, dessstino del c-cazzo. Sei quasi morto, amico mio, quasi morto… s-s-stai perdendo sangue d-d- d-dappertutto”. Il professorino sembrava non raccogliere l’odiosa provocazione. “Non è niente” diceva, “niente, solo qualche graffio. Tu, piuttosto…” “C-c-c-c-c-cazzo dici, sei pazzo, pazzo… Il tuo tipo di s-s-schianto è gravissimo, è il tipo di s-s-schianto di cui ta-ta-t’accorgi solo quando è troppo tardi. E’ una questione di equilibrio ps-ps-psicologico. I danni al cervello, amico mio, non ci pensi? Chissà i danni riportati dal tuo cervello… già adesso mi s-s-sembri ri-ri-rimbambito”. Anche il resto del gruppo era arrivato a perorare la causa di Sergio. “Sai una cosa” diceva Peppe, “c’è un sacco di gente che con un colpo del genere ha perso la ragione. Sono impazziti tutti. Sono diventati scemi”. “Cosa avresti intenzione di fare, eh?” insisteva Ludo, “cosa ti frulla in quel cervelletto bacato? Devi curarti. Ci vorrà tempo. La tua carriera è finita, capisci? Finita”. Il poveretto non riusciva a distaccarsi da un senso d’inferiorità servile. Muoveva le labbra, tentando di ripetere le parole dei suoi “amici” mano a mano che venivano pronunciate. Non sapeva bene come reagire, era tremendamente soggiogato e confuso, ma la visione di una vita passata a vomitare per la nausea lo aveva infine consumato. Quella sera stessa era tornato a casa imbottito di tranquillanti, il volto pallido, orbite nerastre al posto degli abituali occhi inespressivi, contaminato, impaurito, consapevole dei gravissimi danni al cervello e delle fatiche che l’attendevano. La vita non gli era mai parsa tanto priva di significato. Era solo. E non avrebbe suonato 40 mai più. Per tutto il 1981 i Teleboys si esibirono con la nuova formazione. Il nuovo batterista aveva suonato nei Ricchi e Poveri. Bella roba! All’inizio non mollarono la presa di un millimetro. Restarono aggrappati alla brutta abitudine dell’oscenità; si ubriacarono, soffocarono nel vomito, sventolarono bandiere naziste, tirarono fuori la lingua ai diritti umani, sputarono in faccia al pubblico senza chiedere mai scusa, e così non fu difficile, per quelli che si sentivano in armonia con le necessità e le aspirazioni del nichilismo, continuare a credere che i detriti, la spazzatura, le macerie, avrebbero finalmente seppellito la meravigliosa civiltà bianca occidentale. Tutti quelli che avevano disprezzato l’etica del profitto, che avevano sparato a zero sull’immoralità della vita borghese, che non avevano mai preso sul serio tutte quelle cose così insignificanti e banali, il denaro, il potere, la gratitudine, tutti quelli che avevano annuito all’esplosione dell’insensatezza e farneticato sul magnifico disordine, erano ora morbosamente affascinati dal suono alieno dei Teleboys. L’entusiasmo era generale. Era una splendida occasione, la possibilità di osservare da vicino il sovvertimento di tutti i valori, la distruzione di un metodo, un momento di trasformazione di un sistema. Con il tempo, però, le cose cambiarono, la loro carica eversiva si attenuò. Non so perché successe. Forse perché non si può rimanere vivi con il fuoco sempre acceso dentro. La combustione è un processo irreversibile. Ti consuma piano piano, e ogni volta ti toglie un pezzetto. Alla fine diventi cenere, non servi più a niente, ti disperdi nell’aria. E’ così. Tutto marcisce, tutto è destinato inevitabilmente a spegnersi. Così, quando un giorno l’unico sentimento che i Teleboys riuscirono a generare fu l’indifferenza, la stessa fredda indifferenza che si regala agli animali docili e inoffensivi; quando loro stessi cominciarono ad applaudirsi nella silenziosa indifferenza del docile e inoffensivo mondo animale, lanciando sguardi annoiati, barcollando nella tenue luce fosforescente dei neon, gridandosi a vicenda le ultime pietose bugie; quando la mitologia dell’eccesso, dell’offesa, del rancore, che 41 in modo quasi perfetto avevano fatto coincidere con la loro vita, crollò sotto il peso dell’abitudine, del leggendario quanto sterile radicamento del gesto ripetuto, del gesto che in quanto ripetuto si trasformava in funzione, mito, celebrazione di messa; quando tutto questo si fece infine avida bocca conformista e divorò ogni cosa, allora la scintilla si spense. Sergio Salvi si fece riattaccare la parte di lingua che gli mancava e abbandonò il gruppo. Sergio Federici ricucì diligentemente i suoi rapporti con il mondo e cominciò a fotografarlo di nuovo. Anche lui lasciò i Teleboys. Peppe vagabondò una notte intera chiedendosi se c’era qualcosa che potesse cancellare la squallida immagine che aveva di sé, ma non la trovò. In compenso gli sembrò di non essere più troppo spaventato dalla vita per affrontarla, che l’incendio che aveva dentro avesse acquisito consapevolezza della fiamma che lo alimentava, della consistenza della fiamma, del suo elemento chimico, del tormento e dell’ossessione puerile che l’aveva tenuto in vita per così tanto tempo. Era tutto. Poco altro da dire. Una sceneggiatura comica aspettava la sua battuta definitiva.

42 in modo quasi perfetto avevano fatto coincidere con la loro vita, crollò sotto il peso dell’abitudine, del leggendario quanto sterile radicamento del gesto ripetuto, del gesto che in quanto ripetuto si trasformava in L’ OLTRAGGIO funzione, mito, celebrazione di messa; quando tutto questo si fece infine avida bocca conformista e divorò ogni cosa, allora la scintilla si spense. Sergio Salvi si fece riattaccare la parte di lingua che gli Se c’era una cosa che Shino non avrebbe mai potuto permettere era mancava e abbandonò il gruppo. Sergio Federici ricucì diligentemente la fine dei Teleboys. Da quando li aveva visti per la prima volta una i suoi rapporti con il mondo e cominciò a fotografarlo di nuovo. gioia pagana aveva tumultuato dentro di lui. Era stato come se una Anche lui lasciò i Teleboys. Peppe vagabondò una notte intera concreta estensione metaforica del suo Io avesse preso possesso di chiedendosi se c’era qualcosa che potesse cancellare la squallida altre vite e si fosse catapultata contro il mondo con la forza immagine che aveva di sé, ma non la trovò. In compenso gli sembrò di dirompente di un esercito. Da quel momento aveva capito che la sua non essere più troppo spaventato dalla vita per affrontarla, che vita solitaria, la cosciente rigorosa segregazione della sua vita, si l’incendio che aveva dentro avesse acquisito consapevolezza della sarebbe risvegliata da uno stato ipnotico e sarebbe esplosa in mille fiamma che lo alimentava, della consistenza della fiamma, del suo pezzi. Insieme ai Teleboys aveva odiato, avvilito, disprezzato, elemento chimico, del tormento e dell’ossessione puerile che l’aveva provocato, e di sicuro non c’era altro che avrebbe potuto regalargli le tenuto in vita per così tanto tempo. Era tutto. Poco altro da dire. Una stesse emozioni. Nemmeno la realtà poteva farlo, nemmeno le lotte sceneggiatura comica aspettava la sua battuta definitiva. politiche che in quegli anni incendiavano il mondo. La grande questione di quel tempo riguardava il disarmo. Da molti anni Stati Uniti e Unione Sovietica si confrontavano in ricerca scientifica e tecnologia bellica. Cercavano di superarsi di continuo, per intimorire l’avversario e metterlo in ginocchio. Ben presto erano arrivati ad accumulare una tale quantità di ordigni nucleari da essere in grado di distruggere il mondo centinaia di volte. Era una situazione paradossale. Potevi sbellicarti di risate o angosciarti fino al suicidio. Fu in questo contesto che il 25 ottobre del 1981 milioni di persone scesero in piazza in tutte le principali capitali europee per chiedere la disattivazione dei missili SS20 sovietici e per protestare contro l’installazione dei Cruise e dei Pershing 2 nella base Nato di Comiso, in Sicilia. In Italia la protesta assunse toni molto duri. La riorganizzazione dell’esercito americano, resa inevitabile dalla necessità di intervenire velocemente in ogni angolo del mondo, aveva infatti spostato il centro focale strategico nel Meridione, attraverso il potenziamento delle basi e delle installazioni militari, che gli Stati Uniti usavano direttamente o attraverso la Nato. Una straordinaria 42 43 mobilitazione di ideali e persone rappresentò la migliore espressione del disagio e del senso di frustrazione che si respirava dappertutto. Anche i comunisti ascolani organizzarono una manifestazione di protesta al vecchio cinema Olimpia, in Corso Trieste. Con piccole bocche perfette chiamarono gli studenti alla mobilitazione generale, e poi a una specie di happening culturale, un incontro dedicato alla discussione politica, alla poesia, alla musica. Un po’ a sorpresa anche i Teleboys furono invitati a dare il loro sostegno alla giornata antimilitarista. Tutti sapevano che erano dei nichilisti, che più volte avevano sottolineato il solco che li separava dall’impegno politico dei pacifisti, ma evidentemente erano anche gli unici in grado di dare una sterzata al sonnambulismo politicamente corretto della sinistra giovanile. Il giorno precedente gli organizzatori del meeting chiamarono i Teleboys a una specie di riunione generale. C’erano tutti: studenti, insegnanti, sindacalisti, poeti, musicisti, insomma tutti quelli che erano stati invitati a dare il loro contributo in termini di partecipazione. Si convenne che era assolutamente necessario dare un indirizzo politico alla manifestazione, sembrava che per diritto divino solo i comunisti fossero chiamati alla redenzione pacifista. “Era una specie di sindrome da telefonino” dice Peppe ridendo, “se oggi sei giovane devi avere per forza il cellulare, se lo eri allora dovevi per forza essere pacifista”. In realtà i Teleboys non erano né pacifisti né guerrafondai. Non erano niente, se ne fregavano, e se anche non se ne fregavano non erano disposti a condividere il principio della pace con chi semplicemente ne faceva un uso strumentale. Finalmente arrivò il giorno fatidico. Si annunciò subito molto interessante, con interventi appassionati e generosi. Fin dal mattino un’ansia spirituale e un’agitazione febbrile animarono ogni gesto, ogni respiro, ogni temperamento speculativo. Sembrava che i missili fossero destinati a scomparire di lì a poco per volontà popolare o per un intervento divino. Lo spettacolo andò avanti per tre ore senza interruzioni. E’ inutile 44 che stia qui a perdere tempo per spiegarti tutto in modo analitico, si sa come vanno queste cose: la concentrazione politica, la tensione emotiva, l’inutile bla bla bla… un disastro. Poi le cose cambiarono. Iniziarono a suonare i gruppi, e un’atmosfera gioiosa e amichevole coinvolse i mille ragazzi presenti. I Teleboys furono gli ultimi a salire sul palco. I due nuovi componenti sorrisero leggermente imbarazzati. Erano i classici bravi ragazzi della porta accanto. Odoravano di pulito e odiavano il punk. Si erano limitati a provare i pezzi un pomeriggio appena, e per la verità dopo pochi minuti non vedevano l’ora di finire quella buffonata e tornarsene a casa. L’incantesimo pacifista si ruppe non appena i Teleboys entrarono in scena. Vestivano divise militari, croci di ferro naziste, salutavano romanamente all’inizio e alla fine di ogni canzone. I pezzi erano quelli di sempre. Quando Shino salì sul palco e annunciò Belsen era una pacchia, un senso di rabbia dolorosa e impotente assalì la platea. Dalle prime file iniziò un fitto lancio di oggetti e residui organici, ma i Teleboys rimasero insensibili a tutto. Le parole della canzone fecero strage della sensibilità altrui. “Belsen era una pacchia, porcoddio. Gli ebrei succhiavano il cazzo mio. Se parlavano male di me, li ammazzavo a tre a tre. Sii un uomo, uccidi un uomo”. Era troppo, un massacro di parole che aveva le dimensioni del suicidio premeditato. Quando il concerto finì la platea era ormai completamente vuota. Un migliaio di persone era corsa fuori ad aspettare che i Teleboys uscissero. Volevano picchiarli. Shino li affrontò urlando e schiumando rabbia dalla bocca. I fascisti si accanirono su di lui prendendolo a calci. Qualcuno disse che la sua performance aveva disgustato perfino loro, io credo invece che ne fossero rimasti talmente affascinati da invidiarlo a morte. Peppe invece fu preso a cazzotti dai pacifisti. Converrai con me che non c’è destino più amaro. Essere menato da chi predica la pace è come andare alla mensa dei poveri e mangiare lische di pesce. Tornò a casa con la faccia insanguinata e un occhio nero, e con la segreta convinzione di essere un eroe. Quello fu l’ultimo concerto dei Teleboys. Il giorno dopo il gruppo si sciolse. 45 Dopo di ciò la situazione ristagnò fino ai primi mesi del 1982. Già allora avevo una voglia incredibile di mettermi in gioco, ma evidentemente il mio tempo non era ancora arrivato. Quello era invece il tempo dei Cupi e dei Porco Porco, due gruppi sperimentali con Shino alla voce e Peppe alla batteria. Durarono poco entrambi. Registrarono un demotape e poi si sciolsero. Fu in quel periodo che mi capitò fra le mani un disco della Attack punk di Bologna. Era il primo disco di punk italiano, una compilation con alcuni fra i gruppi più politicizzati di quel tempo, Irah, Quinto Braccio, Sottocultura, Collettivo, e poi gli inglesi Total Chaos, i tedeschi Stromsperre e i finlandesi Kaaos. Oggi fa parte della mia collezione d’epoca, e ogni tanto lo riascolto. Se mi faccio vincere dalla curiosità e sfoglio le pagine interne della confezione, leggo qualcosa che mi fa ancora sobbalzare dalla sedia. E’ tutto così attuale: “C’è chi pensa che il punk inglese sia l’unico vero punk, che gli stranieri siano dei bastardi perché ci portano via il lavoro, che la tal regione deve essere indipendente, e che la nostra nazionale fa mangiare la merda a tutte le altre. Ma intanto il mostro cingolato del sistema se ne fotte del campanilismo, del nazionalismo, degli odii tribali. Tutte le volte che può li sfrutta per i suoi interessi, mandando schiere di coglioni a farsi ammazzare. Il suo intento è sempre quello: aumentare i suoi profitti e il suo potere di controllo, dando in cambio una misera minestrina col dado chiamata Amor di Patria”. In città quell’estate ci fu molto movimento fra le bande giovanili. Ragazzi di opposta fede politica si fronteggiarono più volte con le spranghe, e anche i concerti furono spesso un pretesto per continuare ad affrontarsi con implacabile ostilità. Una sera suonarono i Reig alla festa dell’Unità. Erano un gruppo di Macerata orientato verso il punk inglese stile Exploited, con alle spalle una vasta esperienza di concerti in Italia e due pezzi appena registrati per il loro disco d’esordio. Le loro creste colorate ebbero un impatto devastante sui fascistelli ascolani. Il concerto fu interrotto più volte per i disordini sotto al palco, e alla fine degenerò in rissa. Per me fu un’esperienza importante, perché per la prima volta entrai in 46 Dopo di ciò la situazione ristagnò fino ai primi mesi del 1982. Già contatto con l’elemento tribale del punk, mi resi conto cioè di allora avevo una voglia incredibile di mettermi in gioco, ma condividere con altre persone un segno distintivo, avevamo lo stesso evidentemente il mio tempo non era ancora arrivato. Quello era invece modo di essere e di contrapporci alla norma. il tempo dei Cupi e dei Porco Porco, due gruppi sperimentali con I Reig portarono grandi notizie. A Milano pulsava ormai da qualche Shino alla voce e Peppe alla batteria. Durarono poco entrambi. mese la grande realtà del Virus, un collettivo di punk anarchici che Registrarono un demotape e poi si sciolsero. Fu in quel periodo che mi aveva trovato rifugio in un capannone insonorizzato di Via Correggio capitò fra le mani un disco della Attack punk di Bologna. Era il primo 18. L’area era stata occupata dagli anarchici fin dal 1975, ma adesso disco di punk italiano, una compilation con alcuni fra i gruppi più era un concentrato di punk e creature simili che vi organizzavano politicizzati di quel tempo, Irah, Quinto Braccio, Sottocultura, concerti e varie altre attività. Collettivo, e poi gli inglesi Total Chaos, i tedeschi Stromsperre e i Ad aiutare i punk anarchici nella stesura del progetto e nella finlandesi Kaaos. Oggi fa parte della mia collezione d’epoca, e ogni realizzazione del Virus, era stato un professore ascolano reduce tanto lo riascolto. Se mi faccio vincere dalla curiosità e sfoglio le dall’attivismo in Lotta Continua. Marco Philopat, cantante degli HCN pagine interne della confezione, leggo qualcosa che mi fa ancora e occupante di case, ne da un ritratto molto interessante in “Costretti a sobbalzare dalla sedia. E’ tutto così attuale: “C’è chi pensa che il punk sanguinare”, un romanzo sul punk italiano scritto in uno stile convulso inglese sia l’unico vero punk, che gli stranieri siano dei bastardi e febbricitante, edito da ShaKe nel 1997: perché ci portano via il lavoro, che la tal regione deve essere “Gianbruno insegna italiano in un liceo dell’hinterland – occupante indipendente, e che la nostra nazionale fa mangiare la merda a tutte storico di Correggio – alla fine delle riunioni quando gran parte dei le altre. Ma intanto il mostro cingolato del sistema se ne fotte del compagni va a dormire apre casa sua per far proseguire la campanilismo, del nazionalismo, degli odii tribali. Tutte le volte che discussione – attorno al tavolo con l‘ottimo vino toscano versato può li sfrutta per i suoi interessi, mandando schiere di coglioni a farsi direttamente nei bicchieri dalle damigiane – ogni mese ce lo porta un ammazzare. Il suo intento è sempre quello: aumentare i suoi profitti e compagno ex occupante – ora vive in una comune nelle valli del il suo potere di controllo, dando in cambio una misera minestrina col Chianti – Gianbruno si siede a capotavola e inizia lo show – il suo dado chiamata Amor di Patria”. appartamento è al primo piano – le pareti nascoste dai bullonati – i In città quell’estate ci fu molto movimento fra le bande giovanili. ripiani sembrano cedere sotto il peso dei troppi libri – molti altri Ragazzi di opposta fede politica si fronteggiarono più volte con le volumi sono impilati in disordine dovunque sul pavimento – anche sul spranghe, e anche i concerti furono spesso un pretesto per continuare grande letto matrimoniale sempre incasinato – taccuini quaderni ad affrontarsi con implacabile ostilità. scarabocchiati e fogli per appunti svolazzanti – piccolo con la barba Una sera suonarono i Reig alla festa dell’Unità. Erano un gruppo di incolta nera corvina come i capelli – due piccoli occhi furbi e Macerata orientato verso il punk inglese stile Exploited, con alle velocissimi – i suoi discorsi tumultuosi agitati sono però trasparenti – spalle una vasta esperienza di concerti in Italia e due pezzi appena gesticola irrequieto come fosse un mimo schizzato – quel movimento registrati per il loro disco d’esordio. Le loro creste colorate ebbero un facilita l’ascolto – ossessionato dai poteri segreti dello stato e dalle impatto devastante sui fascistelli ascolani. Il concerto fu interrotto più logge massoniche sfiora sempre la paranoia – verso fine nottata volte per i disordini sotto al palco, e alla fine degenerò in rissa. Per me quando la stanchezza lo fiacca nessuno riesce a fermarlo mentre si fu un’esperienza importante, perché per la prima volta entrai in dirige nel tunnel oscuro dei suoi meandri “una trappola – questa casa 46 47 ce la lasciano per controllarci meglio – o forse non esiste neanche – è tutta una mia allucinazione – un complotto contro di me – si può arrivare ad affermare che anche voi fate parte dei congiurati – mi volete fare la pelle eh!? – ditelo chiaramente!” Per mille giorni il Virus avrebbe rappresentato un punto di riferimento importante per i punk italiani, un simbolo di ribellione, di lotta reale, di comunicazione alternativa. I Reig vi avevano suonato in aprile per “l’offensiva di primavera”, una tre giorni contro la repressione poliziesca, più di cinquanta gruppi sul palco, più di tremila punk a condividerne lo spirito. E in tutta Europa, dicevano, era la stessa cosa. Ovunque stava divampando lo stesso fuoco. Si stava creando un vero e proprio circuito alternativo che investiva tutti i settori dell’attività punk. Un fremito di eccitazione mi attraversò. In maniera definitiva sentii crescere dentro di me l’urgenza di urlare. Non potevo più aspettare, era arrivato il momento di far sentire la mia voce.

48 NO GESTAPO

Era un giorno di novembre. Stavo camminando dalle parti della vecchia osteria in cui mi ubriacavo qualche volta. Serravo i pugni nelle tasche sfondate del cappotto, cercando di assumere quell’aria trasandata tipica dei poeti romantici e degli sfaccendati. Stavo imparando dalla bohème di Rimbaud, ma non ero ancora bravo. Ero depresso, non avevo soldi e parlavo con me stesso in maniera molto concitata. Improvvisamente la mia attenzione fu attratta dal bancone di un edicola. In un angolo, sommersa da montagne di riviste, s’intravedeva una copia spiegazzata di Rockerilla, con una foto dei Gun Club in copertina. I Gun Club erano allora uno dei gruppi più interessanti e sottovalutati del rock indipendente americano. Suonavano una miscela veramente esplosiva, la loro musica era come la tela di un pittore voodoo, spruzzata di blues, punk e rock’n’roll. Non so perché quella foto mi colpì così tanto. E’ vero, da qualche tempo avevo nella testa questa idea del gruppo punk, l’esigenza di aggredire la società, di farla sanguinare con la musica. Forse fu per quello. Mi venne in mente la voce stridula e allucinata di Jeffrey Lee Pierce, e finalmente trovai lo spunto per buttarmi nel caos montante dell’alternativa hardcore, il mondo incerto e fragile del rifiuto generalizzato. Ecco, mi dissi, c’è tutto. C’è il grido forte del punk, sta chiamando a raccolta le folle dementi del mondo, niente è morto, lo senti? Rockerilla era in quel tempo l’unica rivista musicale di un certo interesse. Esplorava i meandri cupi dell’underground estremo, seguiva l’evolversi della scena punk globale, recensiva i dischi dei , dei Bad Brains, degli Adolescents. Non lo faceva per passione, ma per soldi. Era un progetto furbescamente commerciale, il punk vendeva ancora bene, ma io non l’avevo capito. Del resto non 49 sono mai stato troppo furbo. Non ho mai capito un cazzo del mondo reale, nemmeno oggi ci riesco, figurati se ero in grado di fare certi ragionamenti quando mi pisciavo ancora nei pantaloni… Comunque le cose andarono più o meno così. C’era questo collaboratore della rivista, un tipo con il pallino del controllo totale. Si era messo in testa di schedare i gruppi punk italiani, roba da fucilazione sul posto. Io, lo ammetto, volevo esserci a ogni costo. Sembrava che per legge naturale dovessero spuntare gruppi punk dappertutto, e io ero d’accordo. Fu in questo modo che inventai i No Gestapo. Presi un foglio di carta, su un lato disegnai un uomo senza braccia, probabilmente morto. Accanto all’uomo scrissi le prime cose che mi vennero in mente, una biografia della band, una dichiarazione d’intenti più o meno farneticante, qualche testo ricavato da alcune vecchie poesie. A fondo pagina allegai il numero di telefono di Leonardo per i contatti. Lui ancora non lo sapeva, ma era il bassista dei No Gestapo. Imbustai la lettera quello stesso giorno. Era meraviglioso, ero in un gruppo. Esisteva solo nella mia testa, ma era come se pulsasse già di vita propria, crudo selvaggio hardcore-punk in puro stile californiano, con muggiti deliranti di chitarra e testi politicizzati cantati in italiano. Qualche giorno dopo Leo arrivò a scuola ridendo come un pazzo. Cominciò a prendermi in giro, prima in maniera simpatica, poi sempre più cattiva. Alla fine voleva strozzarmi. Era proprio vero, il tipo della schedatura punk gli aveva telefonato per un’intervista. A suo dire era riuscito a dominare la situazione. Con il suo solito sangue freddo aveva sostenuto la parte del musicista punk come un attore consumato. Aveva perfino creato dal nulla una vera scena, facendo risultare in attività i Tetano, un gruppo skinhead che Peppe voleva metter su insieme a Shino, e anche i Destroy Tradition, che avevano fatto un solo concerto e poi si erano sciolti. Ora avevamo tutti in testa questa idea dei No Gestapo. Dovevamo solo formare il gruppo. Il tempo dei progetti era finito. Dopo pochi giorni Peppe abbandonò l’idea di formare i Tetano ed entrò alla batteria nei No Gestapo. Lo fece con l’atteggiamento di chi 50 crede di giocarsi le ultime carte, non senza l’imbarazzo di doversi affidare a gente senza coglioni. D’altro canto lo spazio intorno a sé era ormai desolatamente vuoto, non aveva più nessuno vicino che avesse la volontà di progettare sulla musica. L’attitudine che aveva animato i Teleboys sembrava essere svanita con i disordini al cinema Olimpia. La sua fu perciò una scelta obbligata, fatta più per disperazione che per convinzione. Alla chitarra fu arruolato Fabrizio D’Ottavio, un ragazzino di quattordici anni che non aveva la minima idea di cosa fosse l’hardcore. Era un piccolo attore. Interpretava San Pietro nella rappresentazione pasquale della passione e morte di Gesù, suonava covers di Franco Battiato e Roberto Vecchioni, e sembrava disturbato dall’idea di dover utilizzare la sua Ibanez rossa scintillante per suonare musica di merda. A distanza di così tanti anni posso tranquillamente affermare che era una specie di fenomeno. In definitiva fu quello che diede un’impronta al gruppo, riuscendo a mediare fra la ruvidezza del punk e l’acerba convinzione di dover guardare oltre gli angusti confini del rumore. Il progetto No Gestapo si sviluppò sulla base dell’amicizia. Affittammo una rimessa d’attrezzi in Rua della Peschiera, una specie di angolo buio ricavato fra i muri di un cortile, e con l’entusiasmo dei bambini che fanno le capriole cominciammo a buttare giù i primi accordi. Il risultato che ne scaturì fu un grezzissimo inno antipatriottico con un ritornello scontato e ai limiti dell’indecenza. Se ricordo bene si chiamava Italia Vaffanculo o qualcosa di simile. Il pezzo contribuì a rovinare i rapporti con gli abitanti della zona più della nostra sana avversione per le formalità. Le donne rivendicarono il diritto di educare i propri figli lontano dalle allucinazioni dei drogati, gli uomini levarono in alto le mani e minacciarono più volte di spararci. A un certo punto erano talmente esasperati che provarono a sbarrare l’ingresso della sala prove con il filo spinato. Fu in quel periodo che ci diplomammo all’istituto magistrale. Le valutazioni della commissione furono severe, evidentemente qualcosa di marcio ci uscì di bocca anche durante gli esami. Siccome volevamo 51 comprarci una strumentazione migliore e registrare i primi pezzi, andammo tutti a lavorare. Peppe cominciò a fare il tipografo in una cooperativa di sinistra, Leonardo si mise a capo di una combriccola di pazzi che vendeva apparecchi acustici ai sordi, io invece non trovai niente di meglio che bussare alle porte delle case per vendere la sacra bibbia. Era uno di quei lavori che mi riuscivano bene per vocazione. A volte fingevo di essere un missionario che raccoglieva fondi per una scuola in Uganda, altre volte rivendicavo la necessità di un’educazione improntata ai sacri principi del cristianesimo. Mi piaceva mentire ai cattolici, in più guadagnavo un sacco di soldi. Quando pensavo a mio padre comprendevo il senso di questa ingiustizia. Lui spaccava pietre da trent’anni per un salario da fame, io mi arricchivo corrompendo la ragione dei deboli con le favole. Nel dicembre di quell’anno il gruppo tenne il suo primo concerto. I Reig avevano appena pubblicato il loro disco d’esordio, Disarm, e per l’occasione avevano organizzato una grossa manifestazione nella piazza principale di Macerata. Il concerto avrebbe chiamato a raccolta centinaia di creature irregolari da tutta la regione. Bella roba, naturalmente, ma non eravamo pronti per una cosa così grande. Il confronto con i Reig era improponibile. “Ci faranno a pezzi” disse Peppe. “Chi se ne frega” dissi io. Era un’occasione troppo importante per lasciarsela sfuggire. Le cose non andarono bene fin dal principio. Quel giorno rimasi invischiato fino a tardi con i miei traffici biblici. Arrivai sul posto mentre stavano concludendo la loro esibizione i Paper’s Gang, un gruppo improntato al punk rock politicizzato in puro stile Clash. Il resto dei No Gestapo era lì dal pomeriggio e aveva ormai perso la speranza di vedermi arrivare in tempo per il concerto. La cosa buffa era che avevo appena perso la mia verginità e il mondo aveva preso a girare in un modo diverso. Un donnone con un culo enorme e la bocca avida s’era trastullata con il mio scheletrino per l’intero pomeriggio. Il mio campionario di sacre bibbie e vite di Gesù, con miniature medievali del XIII secolo e frontespizi rilegati in oro zecchino, aveva istigato la pia donna a dissolute pratiche erotiche che mi avevano 52 favorevolmente impressionato. Ma dove eravamo rimasti? Ah, si, il concerto… Osservai dal palco la marea umana che intendevo dominare con gli insulti e le parole corrosive dei testi, e un ghigno sadico m’illuminò il volto. “Noi siamo i No Gestapo” dissi, “e affanculo quanti siete”. Un brusio lisergico di gente sfatta anticipò la prima scarica di confuso rumore vomitata dagli amplificatori. Fu l’inizio di uno spettacolo indecoroso, la cosa più appassionata e sinceramente punk che io ricordi. Credo di non aver mai ascoltato un concerto peggiore nella mia vita. Sembrava che in quel momento ognuno di noi avesse una sua particolare idea del repertorio in programma. Era come se ogni strumento fosse completamente abbandonato a se stesso, avulso da un progetto comune, suonato da ubriachi. Divertente… Un silenzio di tomba accompagnò il nostro ultimo pezzo. Scendendo dal palco potevo sentire le cerniere dei giubbetti di pelle che si chiudevano, i respiri affannosi dei guerrieri crestati. Dappertutto era un guardarsi negli occhi per cercare una giustificazione, un motivo di assimilazione, invano… Un timore di schemi infranti, di sospetta neutralità, trasformò ben presto il loro silenzio in indifferenza. Attraversammo la piazza con frenetico imbarazzo, lo sguardo chino sulle custodie degli strumenti. Qualcuno cominciò a sghignazzare alle nostre spalle, ma fu solo un attimo. I Reig attaccarono Violent charge e fu il tripudio.

53

DICTATRISTA

Tornammo a casa con il presentimento di aver concluso definitivamente la nostra esperienza hardcore. All’inizio volevamo solo mettere ordine nei nostri pensieri. Avevamo attribuito questo bisogno all’agitazione per il concerto, ma col passare del tempo la paura cominciò a divorarci. Pian piano fu tutto così evidente che la paura si trasformò in dolore fisico, poi in una specie di ossessione. Il sogno di sconvolgere il mondo con il disordine, la nostra perversa attitudine da bestiame brucante, l’indicibile e soffocante lordume della volgarità, era finito per sempre. Cominciai a ripetere fra me e me quelle ultime parole, per sempre, per sempre. Maledizione… D’un tratto crepitarono le nuvole basse a occidente. Uno schianto cupo c’investì con fragore e parve animato di voce propria. “Perché” disse lo schianto cupo, “perché avete fatto questo? A che serve? Della vostra fatica non rimarrà niente. La vostra voce è fiacca e non ha centro. L’annientamento è inevitabile”. Leonardo trasalì. Anche lui aveva sentito la voce rimbalzargli in petto, e un tremito aveva cominciato a scuoterlo in tutto il corpo. I nostri occhi s’incontrarono per cercare di decifrare il segnale, ma solo per un istante. Poi fuggirono via. Perché è così che succede in questi casi, non è vero? Ci si guarda cercando di nascondere il proprio disagio, ognuno con un grido represso che vorrebbe esplodere, e con il desiderio di far sapere al mondo che lui no, lui ha le spalle larghe e la coscienza a posto, lui non ha problemi di nessun genere. Lui potrebbe mettersi a vendere consigli, perché è immune dalla depressione e sa come infondere il coraggio per combatterla. Lui potrebbe gridare al mondo che conosce la verità, il modo per raggiungere un equilibrio interiore che allontani per sempre i fantasmi della sofferenza, e potrebbe insegnarla anche, la verità. Solo non glielo permettono, 55 perché altrimenti le leggi dell’economia andrebbero a rotoli. Nessuno sentirebbe più il bisogno di ricorrere ai filosofi, ai sociologi, agli psicologi… t’immagini? Tutta questa gente sarebbe costretta a guadagnarsi da vivere con il sudore della fronte, e non ci si può mica ridurre a concepire il lavoro come una tortura inevitabile, nossignore, perché alla lunga uno comincerebbe a rompersi il capo con le domande, a farsi prendere dallo sconforto, e a chiedersi se ci sia ancora qualcuno in grado di capire quello che succede. Io non so se Leonardo fosse in grado di capire. Immaginai di sì. Era un uomo libero, libero di abusare della sua libertà, di scagliarsi sul volante della sua macchina con febbrile compiacimento e gioia feroce, di rimbalzare sui marciapiedi con tonfi apocalittici, e di lanciare fragorosi hurrà di vittoria soffocati dalla concentrazione. “Non c’è ragione di preoccuparsi” borbottò accigliato notando nei miei occhi un’espressione di tristezza, “conosco i complicati meccanismi della delusione post-orgasmica. So come uscire fuori da uno stato di sofferenza psichica. E’ la mancanza di coraggio, capisci? Dobbiamo combattere la mancanza di coraggio”. Per evitare imbarazzanti risposte diedi un’occhiata furtiva attraverso il vetro del finestrino. Gente accigliata sbucava da ogni angolo imprecando, vecchie utilitarie piene di conducenti atterriti deviavano la traiettoria con un rombo di motore arrabbiato, figure indefinite gettavano le loro malinconiche ombre sulle lamiere della nostra macchina, quando rapidamente flagellavamo lo spazio con frenetici tentativi per evitarle. Ovunque là fuori era confusione e strepito e stordente afflizione. Eppure Leonardo ululò felice, pigiò il piede sull’acceleratore e si affrettò. Il giorno dopo camminai a lungo. Non so quanti chilometri feci, erano tanti. A un certo punto ero talmente stanco che cominciai a sudare e a non reggermi più in piedi. Allora andai a casa e fondai un movimento politico. Lo chiamai “Ascoli fai schifo”. Volevo partecipare alle elezioni amministrative e diventare sindaco della città. Volevo fare le stesse cose di dei Dead Kennedys. Lui si era candidato a sindaco di l’anno prima. Il suo 56 perché altrimenti le leggi dell’economia andrebbero a rotoli. Nessuno programma era delirante, voleva trasformare la polizia municipale in sentirebbe più il bisogno di ricorrere ai filosofi, ai sociologi, agli un esercito di clown, con tanto di maschera, pallina rossa sul naso e psicologi… t’immagini? Tutta questa gente sarebbe costretta a tutto il resto. Non era riuscito ad essere eletto, ma io ero più furbo. Sì, guadagnarsi da vivere con il sudore della fronte, e non ci si può mica lo so, ti ho appena detto di non esserlo mai stato, ma quella volta era ridurre a concepire il lavoro come una tortura inevitabile, nossignore, diverso, mi sentivo sicuro di me. Avrei cominciato a offendere perché alla lunga uno comincerebbe a rompersi il capo con le indistintamente a destra e a sinistra, a trattare tutti come bambini, e se domande, a farsi prendere dallo sconforto, e a chiedersi se ci sia non volevano essere bambini li avrei frustati a sangue, li avrei ridotti ancora qualcuno in grado di capire quello che succede. allo stato embrionale. Sudditi, perdio. Sarei salito su un palco e avrei Io non so se Leonardo fosse in grado di capire. Immaginai di sì. Era detto loro che avevano bisogno di un uomo forte, uno che aveva gli un uomo libero, libero di abusare della sua libertà, di scagliarsi sul occhi ovunque e si prendeva cura di ogni cosa. La gente ha un volante della sua macchina con febbrile compiacimento e gioia feroce, mucchio di rispetto per stronzi simili. Basta dirgli che non capiscono di rimbalzare sui marciapiedi con tonfi apocalittici, e di lanciare un cazzo e sono pronti a baciarti il culo per almeno dieci anni. fragorosi hurrà di vittoria soffocati dalla concentrazione. A notte fonda tornai in strada. L’idea di darmi da fare con la politica “Non c’è ragione di preoccuparsi” borbottò accigliato notando nei era già tramontata. Adesso volevo fare lo scrittore. Un tale con una miei occhi un’espressione di tristezza, “conosco i complicati lunga barba incolta aveva attaccato l’amplificatore della sua chitarra meccanismi della delusione post-orgasmica. So come uscire fuori da alla cabina elettrica di un cantiere edile e stava dando spettacolo. uno stato di sofferenza psichica. E’ la mancanza di coraggio, capisci? Suonava le canzoni dei Clash, Janie Jones, White riot, London’s Dobbiamo combattere la mancanza di coraggio”. burning, Tommy gun. Pensai che fosse ingiusto. Andai a dormire con Per evitare imbarazzanti risposte diedi un’occhiata furtiva attraverso un senso di nausea nella gola. L’idea di fare lo scrittore se ne andò il vetro del finestrino. Gente accigliata sbucava da ogni angolo nello stesso modo in cui era venuta. Non volevo più fare lo scrittore, imprecando, vecchie utilitarie piene di conducenti atterriti deviavano adesso, volevo continuare a cantare in un gruppo punk. la traiettoria con un rombo di motore arrabbiato, figure indefinite Il mattino dopo fui convocato in ufficio dall’agente per il quale gettavano le loro malinconiche ombre sulle lamiere della nostra lavoravo, un uomo con una faccia rossa e grassa e una barbetta a macchina, quando rapidamente flagellavamo lo spazio con frenetici punta. L’alito gli puzzava di fumo come tutte le mattine. In compenso tentativi per evitarle. Ovunque là fuori era confusione e strepito e conosceva il vangelo a memoria, e anche se le parole di Gesù lo stordente afflizione. Eppure Leonardo ululò felice, pigiò il piede annoiavano a morte, come mi aveva confessato un giorno sull’acceleratore e si affrettò. allegramente, aveva imparato a commuoversi quando citava episodi Il giorno dopo camminai a lungo. Non so quanti chilometri feci, rocamboleschi della vita del profeta, come le passeggiate sulle acque o erano tanti. A un certo punto ero talmente stanco che cominciai a i morti resuscitati. sudare e a non reggermi più in piedi. Allora andai a casa e fondai un Cominciò illustrandomi la sua “teoria dell’avere esistenziale”. Era movimento politico. Lo chiamai “Ascoli fai schifo”. Volevo veramente una bella teoria, piena di strani segni che dovevano essere partecipare alle elezioni amministrative e diventare sindaco della città. interpretati. Funzionava più o meno in questo modo. La nostra vita, Volevo fare le stesse cose di Jello Biafra dei Dead Kennedys. Lui si perché è di questo che mi stava parlando, la vita, era un barattolo era candidato a sindaco di San Francisco l’anno prima. Il suo vuoto. Così come ci veniva rappresentata equivaleva a una tragedia. 56 57 Se vogliamo una piccola tragedia, ma molto più grande della capacità umana di sopportarla. Non tutti avevano infatti la forza per reagire alle avversità del destino. Alcuni rinunciavano al sorriso troppo presto, venivano risucchiati nel vortice della rassegnazione e finivano col vedere la felicità degli altri come una tortura insopportabile. Secondo la loro visione delle cose ogni piccola particella della propria felicità era soppressa a vantaggio di quella altrui. Insomma diventavano dei nichilisti senza speranza, che toglievano senso alla passione e si tormentavano nel dubbio fino ad impazzire. A volte li vedevi chiusi in un angolo, muti, col viso infuocato, coscienti di aver fallito, ossessionati dalla dolorosa convinzione che non ci fosse nulla per cui valesse la pena di continuare a vivere… Potevano ancora salvarsi? Come potevano farlo? L’unica risposta era cresciuta nel loro cuore, era già dentro di loro, si era fatta carne attraverso il loro corpo, e consisteva nella teoria dell’avere esistenziale, cioè nel bisogno, che avevano tutti, di possedere e conservare gli strumenti necessari a nutrire la speranza. Cosa mi stava dicendo, questo pazzo? Che il bisogno di dio era innato in ognuno di noi? E che altro? Che avrei dovuto scegliere fra la salvezza della mia anima e il rifiuto della vita eterna? E che altro ancora? Che avrei dovuto continuare a vendere le sue fottutissime bibbie per il resto dei miei giorni? Questo mi stava dicendo? Questo, sì, ma come avrei potuto farlo se non confessavo? Se non traducevo in parole quello che avevo fatto e pensato, un peccato dopo l’altro? Così va il mondo, amico mio. Magari vendi bibbie tutto il giorno, poi prendi un treno per sentirti rivoltare le budella almeno una volta, e siccome l’occasione ti sembra buona per esagerare, allora cambi pelle. A un certo punto cominci a urlare Italia vaffanculo davanti a centinaia di banditi drogati che venderebbero la madre per un bicchiere di birra. E’ un po’ ipocrita, lo so, ma tu credi che sia normale. E invece no. Gli adoratori di cristo ti stanno alle costole anche di notte, sanno quello che ti ribolle nel cervello, perfino quello che combini sotto le coperte. Come ti permetti, stronzo? Mica puoi entrare nelle case con la parola di dio sotto il braccio e poi pisciare sulle pagine appena esci dalla 58 porta. Nossignore. Gli adoratori sanno tutto, ti hanno visto sul palco con i No Gestapo, trasportato dai vortici del peccato, avvolto dalle insaziabili lingue di fiamma. Fortunatamente può ancora salvarti la teoria dell’avere esistenziale. E’ sufficiente pentirsi, confessare. Lo farai? L’uomo con la faccia rossa e grassa mi osservò con rispettoso silenzio, non lontano dalle sue abitudini di placida ubbidienza. Era chiaro, non avrebbe più parlato prima di conoscere le mie intenzioni. E allora eccole, le mie intenzioni. Vaffanculo, vaffanculo, VAFFANCULOOOO… E me ne andai sbattendo la porta.

Contrariamente a quanto avevo temuto tornai a concentrarmi su di me abbastanza presto, un po’ più ombroso e inquieto del solito, ma non troppo scontroso per risultare antipatico. Il mio destino sembrava racchiuso nell’ambito di un estremo e inutile romanticismo, e i No Gestapo erano una proiezione di quel destino. Sapevo che in quel momento non avrei potuto sopportare lo scioglimento del gruppo, né immaginare la mia vita al di fuori delle emozioni che stavo provando. Se tutto si fosse spento così, improvvisamente, ne avrei sofferto fino ad impazzire. Sarebbe stato come privarmi dell’aria, come torturare la mia intima essenza, come svuotarmi di ogni energia, di ogni senso, della mia stessa immonda corruzione. La mia vita si sarebbe fermata. Non potevo permetterlo. Il primo concerto era stato solo un atto di superbia, una sfida rivolta a noi stessi, alla nostra gentilezza e alla nostra poesia. Ma dentro di me sapevo che molte cose dovevano ancora accadere. Un fremito di passione indecente, una caparbietà sottile nelle parole, il contagio dell’eccitazione e della gioventù, avrebbero nuovamente e rumorosamente scalfito la sicurezza del mio mondo. Dovevo solo avere la pazienza di aspettare, prima o poi sarebbe arrivato il momento di entrare nuovamente in scena. Sarebbe stato un momento crudo, efferato, ripugnante. Oh, quanto era gelido e strano pensare a tutto questo… Di sicuro aveva molto a che fare con il modo in cui ero cresciuto. Far parte di un gruppo punk aveva rivalutato la mia vita, perché per vent’anni non mi aveva ascoltato 59 nessuno. Ero stato incapace di esprimere rabbia e dolore. Cantare in un gruppo mi aveva finalmente garantito un minimo di attenzione. Non ero più il moccioso invisibile, non più la creatura chiusa in un angolo. Finalmente avevo un modo di esprimere la mia rabbia. La gente ha da sempre una pessima percezione della rabbia. Siamo portati ad associarla alla violenza e al dolore, invece esprimere la propria rabbia aiuta a vivere. Ma fino ad allora non sapevo come farlo. Mettevo tutto dentro, fino a esplodere in maniera incontrollabile. Ora avevo imparato a indirizzarla, a non averne paura, a trarne profitto. Per nessuna ragione al mondo avrei rinunciato al mio gruppo. Con una testa da rivoltoso che voleva penetrare con superbia le porte più strette e chiuse, decisi perciò di ricominciare da capo. Per prima cosa mi occupai del nome. Il vecchio No Gestapo non mi piaceva più, mi sembrava stupido. Volevo qualcosa di più cerebrale, qualcosa che fosse in grado di stupire. Perciò cominciai a consultare un vocabolario di latino alla ricerca di un nome che in qualche modo riuscisse a colpirmi. Fu così che scelsi Dictatrista, che vuol dire parole minacciose. Poi venne il resto. Siccome non era più possibile continuare a provare nella vecchia rimessa di attrezzi, perché altrimenti ci avrebbero ammazzato a fucilate o fatto divorare dai cani, ci trasferimmo in un casolare di campagna non lontano dallo stadio, pieno di lumache bavose che percorrevano i pavimenti con entusiasmo aristocratico. Il proprietario della casa era un contadino omosessuale che strizzava gli occhi in continuazione. Le pieghe scimmiesche del volto gli conferivano un aspetto trasandato e sciocco, tipico di quelle persone che non hanno il senso della misura mentre parlano di qualunque cosa con superflua emozione. Spesso quelle pieghe assumevano l’aspetto di un sorriso innocuo, a volte ingiustificato, che persisteva sulle sue labbra anche quando appariva ormai palesemente inopportuno. I suoi appetiti sessuali erano straordinariamente esagerati, a tal punto che le pareti scalcinate della casa vibravano sotto i colpi dei suoi vigorosi amplessi. I suoi amanti erano giovani ballerini con voci squillanti e teatrali, dall’accento indecifrabile e lievemente nostalgico. Quasi sempre avevi 60 l’impressione che fossero saltati fuori dal cilindro di un mago, oppure dagli angoli più oscuri di un mondo parallelo. Poi tutto tornava tranquillo per un po’, fino a quando una nuova tempesta ormonale si abbatteva sulla casa con la forza di un dio pagano o di un uragano tropicale. Allora tornavamo a chiederci come fosse stato possibile incontrare un essere simile, chi fra noi l’avesse conosciuto per primo, ma forse per un pregiudizio represso nessuno riusciva a confessarlo. Lì, fra un terremoto e l’altro, i Dictatrista scrissero alcune delle loro canzoni più belle: Facce stupide, Menzogne programmate, Normalità criminale, Guerra, Libertà, La rosa morta, piccoli manifesti di un malessere furioso, pallide minacce buone a compiacere il cattivo gusto degli intellettuali. Schizzarono fuori come feti piagnucolosi dal ventre della madre, con la forza belluina di un essere ostile. Erano semplicissime partiture per due accordi di chitarra, brevi scariche elettriche che scuotevano l’aria con ispirazioni sorprendenti. In mezzo a questa anarcoide levitazione strumentale, alle ritmiche frammentate e disordinate, s’intravedeva già allora uno studio assolutamente perfetto dell’intuizione, cosa che contribuì a rivestire quei pezzi di un alone magico.

61

BELLADONNA

Nel febbraio del 1983 suonammo per la prima volta in città. Il posto scelto per l’esordio era un pub in Via di Vesta, il Belladonna. Occupava lo spazio sufficiente a respirarsi addosso, era praticamente un buco, con il pavimento ridotto quasi sempre a un pantano di piscio. I suoi clienti abituali erano quanto di peggio la città potesse offrire in quel momento. Di sicuro era tutta gente che non aveva sete di conoscenza, in gran parte strafatta di droghe e alcool. Anche il proprietario era il rappresentante di una strana fauna, una specie di prete che urlava le sue arrabbiate omelie vestito nei modi più strambi. Il suo capo preferito era una tuta da sommozzatore, con tanto di fucile a pressione e maschera subacquea. Era preda di un delirio orgiastico che sembrava non avesse mai fine. Una volta si era perfino preso a morsi con il suo cane. Era ubriaco, non aveva un posto per dormire e faceva molto freddo. Il padre era rimasto disgustato dal suo stato e gli aveva chiuso la porta in faccia, lui però non si era perso d’animo. Si era scolato un’altra bottiglia di whisky e aveva cominciato a battagliare con il cane. Dopo due ore di furiosi corpo a corpo era riuscito a vincere la guerra e si era addormentato nella cuccia. La mattina dopo, quando suo padre lo aveva invitato a uscire fuori dal rifugio, lui si era limitato a guardarlo con mielosa gentilezza. Aveva ancora sonno e doveva smaltire la sbronza. Aveva fatto bau bau con una voce terribilmente impastata dall’alcool, il tono lieve lieve, appena annoiato, molto di convenienza, poi era tornato a dormire pulendosi il muso con la zampa. Non so dove sia finito. Mi piacerebbe sapere cosa combina, o forse soltanto se è ancora vivo.

Il concerto durò lo spazio di un attimo, l’esplosione della rabbia nei 63 primi accordi, il presentimento fisico e spirituale che anticipa l’indignazione. Poi arrivarono gli agenti della Digos, staccarono le spine degli amplificatori e lasciarono Peppe a colpire il suo rullante con le bacchette di legno. Sembrava incredibile, ma era già tutto finito. Guardai il pubblico con un sorriso appena accennato, alimentato da una contrazione nervosa delle mascelle. Tutti sembravano compiaciuti dell’incursione poliziesca, in qualche modo era l’ennesima dimostrazione della loro pericolosità sociale. Non c’era niente di più eccitante, per quei figli di puttana, che sentire sulla propria pelle il respiro affannoso degli sbirri. Era come se quel respiro, quello solo, potesse alimentare il fuoco della loro ribellione. Ma noi? A noi non importava nulla del loro bisogno di sentirsi eroi, delle birre sorseggiate con vigore animalesco, delle grida rancorose e intorpidite dall’alcool, dell’eroina sparata nelle vene. Che cazzo di ribellione era quella? Erano talmente ubriachi o fatti di droga da non riuscire nemmeno a reggersi in piedi. Si trascinavano penosamente sul pavimento, o si ergevano a malapena sulle sedie, fra pozzanghere di piscio e vomito, ridendo fra di loro come imbecilli. Chiunque avrebbe potuto scaraventarli in una pentola e cuocerli a fuoco lento, farne sapone, oppure bollito per i poveri. Noi avremmo voluto esprimere concetti, offrire un motivo di riflessione, e invece potevamo soltanto leccarci le ferite, raccogliere la nostra povera strumentazione e andarcene. E così ce ne andammo.

64 primi accordi, il presentimento fisico e spirituale che anticipa l’indignazione. Poi arrivarono gli agenti della Digos, staccarono le spine degli amplificatori e lasciarono Peppe a colpire il suo rullante UN RECORD MONDIALE con le bacchette di legno. Sembrava incredibile, ma era già tutto finito. Guardai il pubblico con un sorriso appena accennato, alimentato da Quell’estate dovevamo suonare con i Diaframma e gli Embryo, un una contrazione nervosa delle mascelle. Tutti sembravano compiaciuti gruppo di rock psichedelico tedesco. Eravamo caricatissimi, pronti a dell’incursione poliziesca, in qualche modo era l’ennesima spaccare tutto, ma nemmeno quella volta gli dei furono dalla nostra dimostrazione della loro pericolosità sociale. Non c’era niente di più parte. eccitante, per quei figli di puttana, che sentire sulla propria pelle il La sera prima Peppe si ritrovò al Belladonna con il suo amico Shino. respiro affannoso degli sbirri. Era come se quel respiro, quello solo, Tutti e due indossavano magliette logore e scarpe da tennis sfondate, potesse alimentare il fuoco della loro ribellione. Ma noi? A noi non si sentivano molto punk. Andarono avanti in bevute e vaneggiamenti importava nulla del loro bisogno di sentirsi eroi, delle birre fino alle due di notte, poi ognuno riuscì finalmente a comprendere le sorseggiate con vigore animalesco, delle grida rancorose e intorpidite potenzialità dell’altro. Erano entrambi ubriachi. dall’alcool, dell’eroina sparata nelle vene. Che cazzo di ribellione era Per chiudere la serata decisero di fare un giro in macchina con la quella? Erano talmente ubriachi o fatti di droga da non riuscire musica degli Abrasive Wheels a tutto volume, evidentemente una nemmeno a reggersi in piedi. Si trascinavano penosamente sul scelta molto coraggiosa. Mentre nell’abitacolo imperversava una pavimento, o si ergevano a malapena sulle sedie, fra pozzanghere di terroristica versione di Burn ’em down, la macchina cominciò infatti a piscio e vomito, ridendo fra di loro come imbecilli. Chiunque avrebbe rotolare sull’asfalto come trascinata da una mano invisibile. Per un potuto scaraventarli in una pentola e cuocerli a fuoco lento, farne lungo interminabile minuto rimbalzò contro le auto in sosta, sembrava sapone, oppure bollito per i poveri. Noi avremmo voluto esprimere l’anticamera dell’inferno. Peppe maledisse il suo destino, implorando concetti, offrire un motivo di riflessione, e invece potevamo soltanto un difficile accordo fra la sua volontà e i suoi istinti. Riuscì a fermare leccarci le ferite, raccogliere la nostra povera strumentazione e quell’istante nella sua mente. Era l’attimo in cui la vita diviene andarcene. E così ce ne andammo. discorso sospeso, carezza di bordello, visione avvolta nella nebbia. Quante volte l’aveva sentito dire? Quando si muore si ritorna indietro nel tempo, la vita ti scorre davanti come in un film. Beh, non era vero, non era vero niente, erano delle stronzate, perché lui riusciva a concentrarsi solo sul frastuono di quel momento. Quando finalmente la macchina fermò la sua corsa, accartocciandosi su se stessa con un ultimo lamento metallico, Peppe cominciò a domandarsi se era ancora vivo. Shino giaceva in silenzio fra le lamiere contorte. Poteva vederlo, era immobile e muto, sicuramente morto. Lui invece no, sentiva un forte dolore a una spalla, e per quanto ne sapesse il dolore era una prerogativa dei vivi. Uscì dall’abitacolo 64 65 barcollando, volgendo un ultimo sguardo alla devastazione causata dallo scontro, all’ammasso di rovine fumanti sulla strada. Ancora non lo sapeva, non poteva nemmeno immaginarlo, ma Shino era riuscito a distruggere in un colpo solo dodici macchine, un record mondiale tuttora imbattuto. La sua mente si riempì di rumorosi flash senza speranza, immagini di corpi mutilati e insanguinati, membra maciullate di giovani uomini che si erano spenti con un ultimo disperato brivido percorrendo le strade a forte velocità, gioiosi e alteri e fiduciosi prima di schianti inutili che li avevano privati dell’utilità della vita. Vide corpi morti sulle nude pietre degli obitori, vide madri distrutte che ricucivano con ago e filo gli squarci di quei corpi, che si prostravano lacrimose sulle pelli tumefatte. Vide tutto questo e ne rimase sconvolto. Per un paio d’ore vagabondò nella notte senza una meta, come frastornato da un pensiero lancinante, un urlo rauco che gli faceva scoppiare il cuore e lo tormentava nell’anima. Poi i ricordi tornarono nitidi ad occupargli la mente e un lungo brivido lo percorse da capo a piedi. Soltanto allora si toccò la spalla dolorante. Ne ottenne un sentimento di paura, di vivido orrore, come se il gelo della morte avesse irrigidito la sua sfrontata irrequietezza. Tremava di commozione e d’ansia, e capiva che stava andando in pezzi. Si diresse verso l’ospedale con i sintomi fisici e spirituali di un cuore in tumulto. Vi giunse all’alba, accolto da un’esibizione rumorosa, un lungo straziante porcoddio, quasi un ululato di raffinata spregiudicatezza, e di chi poteva essere se non di Shino? I medici del pronto soccorso stavano lottando disperatamente per resistere alla seduzione della sua bocca, all’impeto esaltato delle sue maledizioni, ma era vivo, maledettamente vivo, pervicacemente attaccato alla radice della vita. E il paradosso era questo: lui aveva tutte le ossa al posto giusto, Peppe non sarebbe riuscito a suonare la batteria per almeno due mesi.

66 UN GRAZIE

Oggi che ci ripenso rimpiango ancora la facoltà di cui allora disponevo, prepararmi a nuove esperienze con l’entusiasmo di un bambino, mentre adesso puoi parlarmi di tutte le meraviglie del mondo senza farmi smuovere il culo dalla sedia. Sto invecchiando, è vero, e quel che è peggio non posso farci niente. Per darti un’idea di quello che mi frullava nella testa in quel periodo ti racconto di quando volevo fare la rivoluzione. Da un po’ di tempo mi sentivo molto portato all’estremismo. Avevo gli occhi sempre puntati sui grandi avvenimenti, e quella volta stava succedendo qualcosa di grosso in Sicilia. Migliaia di punk stavano arrivando a Comiso da tutta l’Europa per protestare contro l’installazione dei missili Cruise e Pershing 2. Io arrivai a Palermo il 20 luglio, e fui ospitato da una ragazza che avevo conosciuto a Napoli l’anno prima. Insieme a suo fratello avremmo dovuto raggiungere Comiso due giorni dopo, per partecipare all’occupazione della base americana. A capo del movimento era l’anarchico insurrezionalista Alfredo Buonanno. Lui aveva le idee chiare. “Occupamu a basi” diceva, “e ci ghiatamu i pumaaadoruuu, i mulanciaaanii”. Ma il giorno in cui era prevista l’azione avevo la febbre alta e restai a casa con la ragazza. Il fratello tornò tre giorni dopo, sfinito e sfigurato dalla tensione. I mafiosi gli avevano sparato contro, e non era stato il solo a vedersela brutta. Era successo di tutto: arresti in massa, feriti, mostruose cariche notturne della polizia, desperados nelle campagne sicule che avevano sparato a vista su qualunque cosa che potesse ricordare un anarchico o soltanto un pacifista. Se penso a quello che ero allora, un moccioso più sprovveduto e imbranato di adesso, sono portato a credere che la febbre sia stata un’invenzione della ragazza, un modo per proteggermi dai pericoli e salvarmi la vita. Non ricordo il suo nome, solo il sorriso, le mani piccole con le unghie sbocconcellate e la cresta gialla striata di 67 viola. Se un giorno leggerà queste righe sappia che io m’inchino di fronte a lei. MAXIMUM ROCK’N’ROLL

Ora, però, lascia che ti parli della prima cassetta autoprodotta dei Dictatrista. Era un gioiello grezzo, conteneva nove pezzi e si chiamava Preavvisati…ma non premuniti. In qualche modo la faccenda dei missili e la mia avventura in Sicilia furono determinanti per la scelta del titolo. Registrammo le canzoni in un giorno solo, in presa diretta, prendendo in affitto l’attrezzatura necessaria. Non potevamo permetterci un vero studio di registrazione, così ci arrangiammo in sala prove. Per insonorizzare il locale tappezzammo le pareti con fogli di polistirolo. Era tutto quello che sapevamo in materia di registrazione e forse per questo il risultato finale non fu per niente entusiasmante. A stento si riuscivano a percepire i giri di chitarra, ma dopo tutto eravamo punk, no? Dunque poteva andare. Ora c’era questa fanzine americana, Maximum Rock’n’Roll, che recensiva qualsiasi cosa le giungesse in redazione. Così decidemmo di spedirgli la cassetta. Non ci facevamo illusioni, volevamo solo dare all’universo punk una prova della nostra esistenza. Di Maximum Rock’n’Roll è stato ormai detto tutto il possibile. Sicuramente ne avrai sentito parlare. Se ne possiedi almeno una copia sai che una delle sue qualità è aver contribuito in maniera sostanziale alla creazione di un network internazionale del punk rock. Altrimenti ti dico che il giornale è stampato ancora oggi su carta da quotidiano di bassa qualità, che perde facilmente inchiostro a contatto con le dita. Lo fondò Tim Yohannan nel 1982, e fin dal principio si rivelò uno strumento fondamentale per la nascita della coscienza punk americana. Tim è morto nella sua casa di San Francisco il 3 aprile 1998. Aveva cinquantatre anni ed era un attempato signore di origine greco- iraniana con una passione smisurata per il punk rock. La sua storia è quella di un pazzo completamente organizzato, flippato per la maggior 68 69 MAXIMUM ROCK’N’ROLL

Ora, però, lascia che ti parli della prima cassetta autoprodotta dei Dictatrista. Era un gioiello grezzo, conteneva nove pezzi e si chiamava Preavvisati…ma non premuniti. In qualche modo la faccenda dei missili e la mia avventura in Sicilia furono determinanti per la scelta del titolo. Registrammo le canzoni in un giorno solo, in presa diretta, prendendo in affitto l’attrezzatura necessaria. Non potevamo permetterci un vero studio di registrazione, così ci arrangiammo in sala prove. Per insonorizzare il locale tappezzammo le pareti con fogli di polistirolo. Era tutto quello che sapevamo in materia di registrazione e forse per questo il risultato finale non fu per niente entusiasmante. A stento si riuscivano a percepire i giri di chitarra, ma dopo tutto eravamo punk, no? Dunque poteva andare. Ora c’era questa fanzine americana, Maximum Rock’n’Roll, che recensiva qualsiasi cosa le giungesse in redazione. Così decidemmo di spedirgli la cassetta. Non ci facevamo illusioni, volevamo solo dare all’universo punk una prova della nostra esistenza. Di Maximum Rock’n’Roll è stato ormai detto tutto il possibile. Sicuramente ne avrai sentito parlare. Se ne possiedi almeno una copia sai che una delle sue qualità è aver contribuito in maniera sostanziale alla creazione di un network internazionale del punk rock. Altrimenti ti dico che il giornale è stampato ancora oggi su carta da quotidiano di bassa qualità, che perde facilmente inchiostro a contatto con le dita. Lo fondò Tim Yohannan nel 1982, e fin dal principio si rivelò uno strumento fondamentale per la nascita della coscienza punk americana. Tim è morto nella sua casa di San Francisco il 3 aprile 1998. Aveva cinquantatre anni ed era un attempato signore di origine greco- iraniana con una passione smisurata per il punk rock. La sua storia è quella di un pazzo completamente organizzato, flippato per la maggior 69 parte del tempo, ma anche lucidamente affascinato dalla sua missione. Ho raccolto i suoi ricordi poco prima che morisse, quando per la prima volta mi venne in mente di scrivere questo libro. Mi ha raccontato un po’ della sua vita, e non ti nascondo di esserne rimasto affascinato. E’ stato come raggiungere la consapevolezza di aver perduto il periodo più bello della storia umana. Non mi resta che lasciargli la parola… “Negli anni sessanta” dice, “ero un hippie assai coinvolto dalla politica. Diversamente dalla maggior parte degli hippies, però, non mi piaceva la musica psichedelica. Piuttosto ero attratto dal punk di quel periodo, gruppi come Velvet Underground e Stooges. Agli inizi degli anni settanta approfondii maggiormente l’interesse politico. Lavoravo per una comunità di sinistra di Berkeley, che successivamente avrebbe vinto le elezioni cittadine. Era interessante, ma anche molto noioso. Quando la controcultura punk iniziò a germogliare mi sentii molto più a mio agio. Lo preferivo insomma ad un approccio puro della politica. E’ questo più o meno il mio background”. Maximum Rock’n’Roll era all’inizio soltanto un programma radiofonico. “Più o meno si parla del 1974. Molti di noi pensavano che qualcosa di nuovo dovesse accadere. Nessuno aveva un’idea precisa di come si potesse originare, ma di sicuro c’era una sorte di ribellione sotterranea nei confronti dello status quo. Intorno alla metà degli anni settanta potevi vedere l’inizio di tutto: New York Dolls, Patty Smith, Modern Lovers, e tanti altri che hanno dato origine alla “bolla” come Wayne County. Cominciavano in quegli anni ad uscire parecchi singoli indipendenti. Compravo tutti quei dischi, ma non riuscivo a capire perché nessuno li passasse alla radio. Ora c’era questa mia amica che lavorava in una stazione. Un giorno mi invitò e mi disse: “ok, il programma è tuo”. Trasmettere mi rendeva nervoso e perciò mi ubriacavo. Durante il primo anno dovevo essere ubriaco per poter trasmettere. Era divertente”. La stazione era molto potente, raggiungeva l’80% della del nord: Bakerfield, Fresno, Sacramento, Santa Rosa, Santa Cruz. Tim proponeva il punk rock in tutti questi posti dove non avevano mai 70 ascoltato niente del genere, generalmente la domenica a tarda ora. Qualche anno dopo, nel 1977, le cose erano decisamente cambiate. In seguito a una dimostrazione di 150 punk davanti agli uffici della radio, il programma venne infatti spostato in prima serata. Come ho già detto Maximum Rock’n’Roll divenne una rivista soltanto nel 1982, quando insieme a Ruth Swartz, la proprietaria dell’etichetta indipendente Mordam Records, e al suo amico di sempre Jeff Bale, Tim si trovò a lavorare al doppio album compilation Not so quiet on the western front, contenente 47 pezzi di altrettanti gruppi dell’area nord californiana e del Nevada. Un bellissimo discorso di Jello Biafra, cantante e animatore dei Dead Kennedys, agitatore sociale fra i più temuti, autentica miniera di idee e di iniziative, divenne una specie di introduzione alla rivista: “Una volta, tanto tempo fa, nel 1977, San Francisco fu animata da una delle migliori scene punk degli Stati Uniti. Bands come Dils, Avengers, Negative Trend avevano un sound originale e vibrante e un tipo di prospettiva politica radicale…Ma quel magico momento passò troppo presto. Quella comunità, che fu responsabile del brillante Search and destroy magazine, del capitolo americano di Rock against the racism e di New Youth, gradualmente perse direzione… Oggi, cinque anni dopo, Maximum Rock’n’Roll vendica gli sforzi underground di chi non ha voluto mai arrendersi. In superficie è una semplice cronaca delle punk bands della California del nord e del Nevada, ma in realtà simbolizza un fatto ben più grosso. Da un lato testimonia della tremenda espansione numerica del pubblico punk Usa (nessuno avrebbe previsto nel 1979 una simile espansione). Dall’altro fa luce sugli incredibili cambiamenti che si sono verificati in questi anni nella sottocultura della provincia americana… Ma, ciò che più conta, questo LP dimostra che il punk è ben vivo, sia come stile musicale, che come istanza politica progressiva”. Ancora Tim: “Allegai la rivista al disco perché in fase di realizzazione ne compresi l’importanza: era un modo completamente differente di comunicare. Alla radio potevo anche comportarmi stupidamente e passare dischi, mentre sulla carta stampata avevo la 71 possibilità di approfondire maggiormente. Presi quindi la decisione di continuare il giornale, e a distanza di così tanti anni, anche se sto morendo, continuo a farlo con lo stesso entusiasmo di allora, perché come allora continuo a divertirmi. Insomma mi piace aiutare nuovi gruppi, fornire un mezzo che aiuti gli altri a comunicare. E anche se parecchie persone si indirizzano verso le multinazionali, io preferisco tranquillamente mandarle affanculo e continuare a non avere una copertina patinata e a colori”. Oggi in verità Maximum Rock’n’Roll non è più così politica come allora. Non tanto perché Tim è morto, ma semplicemente perché come tutte le riviste ha i suoi alti e bassi. Lo stesso Tim si divertiva a dire: “le cose funzionano più o meno così: quando gli altri tendono verso la politica noi ce ne allontaniamo, se invece all’estero c’è una china ilare noi diventiamo più seri. Insomma siamo in continuo mutamento, è come un flusso. Gli anni 82-83 erano eccitanti perché si andava formando la rete internazionale: wow, un disco dal Brasile, dalla Finlandia, dall’Italia, dalla Spagna! Da ogni paese arrivavano gruppi punk! Oggi è un po’ diverso, ma quel che conta è che l’avventura si è protratta fino ai giorni nostri, e in questo senso non è cambiato niente. Come allora, infatti, siamo un mezzo d’espressione per la base della scena punk”. Beh, che mi dici? Non è stato un uomo meraviglioso? Ciao, Tim. E grazie.

72 PREAVVISATI… MA NON PREMUNITI

Quando spedimmo la cassetta a Maximum Rock’n’Roll non avevamo un’idea ben precisa di quello che ci sarebbe successo. In quel tempo il gruppo rappresentava per noi soltanto una valvola di sfogo, lo strumento per aggredire il mondo e sentirci vivi. Non ci facevamo illusioni di nessun genere, non avevamo altre aspettative se non quella di liberare la nostra energia e la nostra forza. Poi un giorno ci arrivò una lettera da San Francisco. Dentro c’erano tre dollari per una copia di Preavvisati…ma non premuniti. Allora il nostro metro di valutazione cambiò. Cominciammo a credere che Maximum Rock’n’Roll avesse parlato bene del gruppo. Da qualche mese avevamo fatto l’abbonamento alla rivista per essere informati sulle nuove produzioni e sugli sviluppi delle varie scene internazionali, ma i numeri ci arrivavano in ritardo di un paio di settimane, forse per un pregiudizio divino, o forse per uno scrupolo di coscienza delle poste italiane. Così, quando finalmente riuscimmo a leggere la recensione, avevamo già ricevuto decine di lettere da tutto il mondo e capito che la nostra vita si stava arricchendo di un’esperienza nuova e stimolante. Le parole di Tim Yohannan, che parlava in termini entusiastici della nostra musica, ci riempirono d’orgoglio e fecero schizzare l’adrenalina alle stelle. Certo, la qualità della registrazione non era un gran che, diceva Tim, ma il valore del gruppo non era in discussione. Insomma era convinto che avremmo potuto produrre qualcosa di veramente buono in futuro, se non altro nella speranza che un giorno ci sarebbe stata fornita l’occasione di registrare i nostri pezzi in maniera migliore. Fra tutte le lettere che ci arrivarono, una ci colpì in maniera particolare. Era stata scritta da Michelle, una ragazza sedicenne del New Jersey. Sua madre era ascolana. Venti anni prima era partita per una vacanza negli Stati Uniti e non era più tornata a casa. Michelle 73 aveva inserito nella busta una sua foto, e wow, era proprio una creatura meravigliosa. Era stupita dal fatto che ad Ascoli ci fossero dei punk, perché ci veniva in vacanza ogni anno, e non aveva mai visto in giro dei ragazzi con la cresta o con il giubbino di pelle. Arrivò in Italia ai primi di luglio e per strani motivi che non ricordo fui il primo a riceverla. Lei probabilmente si trovò di fronte questo ragazzo misteriosamente imbronciato, gli angoli della bocca pieni di rinuncia, e sembrò annegare di sorpresa mentre mi abbracciava. Allora il mio cuore si tuffò dentro di lei, a fondo, di testa, perdutamente. E vidi questo: labbra morbide, rosse, succose. Le ciocche rossastre le increspavano a tratti la fronte liscia e candida. Spostava il suo peso su una gamba sola con la pigrizia di una gatta. Io posavo lo sguardo vuoto al di sopra della sua testa cercando di pensare ad altre cose, ma era impossibile. Con il suo corpo di donna esigente e vibrante entrò nei miei pensieri con la forza di una pallottola. Avrei forse dovuto dirle un migliaio di cose, profonde, incantevoli, pericolose, pulsanti come stelle. Ma non lo feci, perché ero un bimbetto rachitico e avevo ancora un po’ d’orgoglio. E questo aspetto della storia finisce qui. Michelle suonava il basso nei Sand in the Face, un gruppo hardcore- punk di Towaco. Avrebbero registrato il loro primo LP quello stesso autunno e si apprestavano ad andare in tour per gli Stati Uniti con gli Adrenalin O.D., una band molto conosciuta del New Jersey. Restò in Italia venti giorni, il tempo necessario per ascoltare con scarsa attenzione le poche idee confuse che potevo proporle: l’utopia anarchica, l’arroganza degli eserciti, il senso della vita. Lei mise fine all’avvilimento di questi discorsi innamorandosi di un ragazzo molto più grande che aveva il dono della passione. Prima di ripartire baciò le labbra di quell’uomo, trattenendosi un istante per apprezzarne il disegno. Allora mi venne una gran voglia di ucciderla. Fui come avvolto da un improvviso impeto interiore, una tenerezza profonda e dolorosa, e nello stesso tempo oscura e assassina. Avrei voluto strozzarla, ma mi accontentai di chiederle che mi spedisse il disco dei Sand in the Face appena pronto, e che si desse da fare per organizzarci un tour americano l’estate successiva. Ero proprio un coglione, non è 74 vero? Quella stessa estate Peppe lasciò i Dictatrista per svolgere il servizio militare. Naturalmente l’attività del gruppo ne risentì profondamente. Tutto quello che potevamo fare era scrivere lettere e restare in contatto con le varie realtà nel mondo. Fu in quel periodo che cominciai a curare personalmente la corrispondenza del gruppo, per cercare di dare un senso all’esigenza di sentirmi utile. Nella primavera del 1984 fui contattato dalla Masking Tapes. Era un’etichetta nata per produrre la musica sperimentale dei Doc War Mirran, ma da qualche tempo si era aperta a nuovi gruppi e nuovi generi musicali. Volker Stewart, uno dei proprietari della Masking Tapes, era venuto in possesso di Preavvisati…ma non premuniti e voleva utilizzare un paio dei nostri pezzi per Numb tongue, no taste, una compilazione internazionale su cassetta. In quel tempo il mondo delle cassette era in piena attività. I cd erano appena stati inventati, i dvd e gli mp3 erano solo un sogno, e anche il vinile era qualcosa che pochi gruppi potevano permettersi. “Era un periodo davvero eccitante” ricorda Volker, “l’integrità e il rispetto di se stessi significavano ancora qualcosa. Le case discografiche erano disprezzate, e un distributore importante come Systematic riusciva a vendere 100 copie di una cassetta autoprodotta in un solo giorno. Ricordo che assemblammo Numb tongue, no taste in una stanza dell’Università statale di San Francisco, era la nostra prima cassetta, c’erano tredici fra i migliori gruppi punk e post punk della metà degli anni ’80. Maximum Rock’n’Roll la recensì benissimo”. Quando la riascolto mi viene da ridere. Non posso farne a meno, è più forte di me. Accanto a nomi completamente sconosciuti, ormai persi in esperienze simili a quelle dei Dictatrista, spicca quello di una band che ha invece riscosso un grosso successo commerciale negli anni ’90. Con Mark bowen e Arabian disco i si candidano tranquillamente a peggior gruppo dell’intera raccolta, con una voce orribile e una disomogeneità strumentale a livelli record. Le vie del caso, amico mio, sono davvero infinite.

75

ESTREMO ATTO D’ AMORE

Dopo un paio di mesi Peppe fu trasferito al battaglione di fanteria piceno, così gli fu possibile tornare in sala prove e ricominciare a suonare. La madre aveva sgomitato nel mondo politico e si era data un gran da fare anche fra i preti e i militari. Alla fine era riuscita a riportarsi a casa il figlio. Al suo posto mi sarei vergognato come un cane. Piuttosto che pietire di fronte al potere avrei preferito mangiare mosche per l’eternità, ma che ne sapevo io della vita militare? In quel tempo avrei voluto fare l’obiettore, patire in galera le pene dell’inferno, far sapere al mondo che non avrei mai imbracciato il fucile, ma a causa del mio fisico mingherlino ero stato riformato per insufficienza toracica e rispedito a casa con un calcio nel culo. Quanto avrei desiderato essere perseguitato… non per masochismo, si capisce, ma per assecondare la mia natura di eroe perdente e romantico. E invece niente. In compenso l’attività del gruppo riprese spedita, sebbene in una direzione che non mi piaceva. Per esigenze che non tardai a definire sciocche e ridicole, espressione di un rigorismo artistico che non riuscivo a comprendere, Fabrizio cominciò a rifiutare l’hardcore-punk. Improvvisamente sembrò che non avesse più bisogno di nessuno. Si sentiva grande, rifiutava ogni consiglio, sentenziava su cosa era bene fare e cosa no, viveva per cospirare. Il suo modo di suonare la chitarra non aveva ormai niente a che vedere con la furia omicida di Vinnie Stigma, con la forza dirompente e i muggiti metallici di Greg Ginn, o con l’energia e la gioia emozionale di Lyle Preslar. Era alla ricerca di una sintesi perfetta, intensamente lisergica, sfregiata da saltuarie incursioni rumoristiche, ma sempre più lontana dai canoni hardcore. Penso che in cuor suo odiasse profondamente la musica punk, e penso 77 anche che il resto della formazione fosse pronto ad assecondarlo nel suo processo di “evoluzione artistica”. In pratica temevo che mi sfuggisse di mano la situazione, e perciò cominciai a offendere tutti in una maniera sempre più pesante. Uscii e rientrai dal gruppo più volte, insomma non riuscivo a capire cosa cercassi, nessuno riusciva a capirlo. Forse scopavo poco, ma questo mi pare di intuirlo soltanto adesso. Nella primavera del 1984 tornammo a suonare al Belladonna. Ormai non eravamo più degli sconosciuti, il posto era pieno fino al soffocamento. C’erano anche dei punk friulani, arrivati non ricordo bene per quale ragione. Erano dei punk veri, non come noi, vestiti comunemente e con visi sorridenti, ma ricoperti di stracci puzzolenti e catene d’acciaio. Avevano sguardi duri e volgari, e capelli tirati su con i chiodi. Sembravano usciti fuori dalla fantasia di uno scrittore noir, li odiavo, erano tetri pupazzi animati da espressioni deridenti che pensavano di avere il mondo nelle loro mani. Shino li guardò sogghignando. “Questi stronzi” disse, “non sanno nemmeno pisciarsi nei pantaloni. Ci scommetto quello che vuoi, non sono liberi di fare niente, di pensare a niente, nemmeno di raccontarci delle stronzate. Sono falsi fino al midollo. Sono stupide bestie col dorso pieno di aculei, ma se soltanto gli aliti sul muso muoiono di paura. Vengono a farci ridere fino allo sfinimento, con i loro vestiti sgargianti, i loro atteggiamenti da pagliacci falliti, ma se poi vai a frugargli nel cervello non ci trovi niente. Niente, capisci? Ho passato vent’anni in questa città ripugnante, ho subito l’ottusità dei suoi stupidi abitanti, migliaia di psicopatici che con la loro mediocrità intellettuale hanno ucciso qualsiasi cosa diversa da loro, qualsiasi cosa che non fosse ottusa e ripugnante come loro. E adesso eccomi qui a dover difendere la loro sensibilità artistica, la sensibilità artistica di questi ripugnanti ottusi ascolani che hanno respirato lo spirito maligno fuoriuscito dalle fessure dei loro muri, ogni giorno, per anni e anni, e che tuttavia non hanno mai nascosto il loro debole carattere dietro la maschera punk. Sono dei malati, capisci? Hanno preconizzato il loro suicidio, e non contenti di questo vogliono farci pagare anche il prezzo della 78 pallottola. Sono dei bastardi”. Io avevo la stessa sensazione, e anche una mezza idea di giocare con loro. Quando il concerto iniziò mi buttai addosso al pubblico con una vigoria fisica insospettabile. I duri punk friulani furono i primi a subire il mio virtuosismo poetico, e caddero tutti all’indietro con un’espressione stupita. L’unico a reggere l’urto fu proprio Shino. Le sue membra erano talmente intorpidite dall’alcool da non riuscire a percepire il dolore. Mi restituì subito il colpo con un assalto animale, dettato da un istinto selvaggio e da una sana propensione alla lotta. Allora crollammo sul pavimento avvinghiati l’uno all’altro, nella stessa pozzanghera di sudore, nella stessa desolante certezza che l’estetica punk fosse ormai un ridicolo dettaglio, a tal punto ridicolo e meschino che non suscitava in noi nient’altro che un senso di pena. Il microfono rimase schiacciato sotto il peso dei nostri corpi e andò completamente distrutto. Che bello… il concerto era iniziato da dieci secondi e non avevo più un microfono. Continuai a cantare cercando di non soccombere alla potenza degli amplificatori. Pensaci bene, la mia nuda voce contro il rombo elettrico degli strumenti, una sfida che sostenni dignitosamente per tutta la durata del concerto. Alla fine cercai lo sguardo dei punk friulani. Invano, perché non c’erano più.

Ad aprile si svolse a Milano un convegno-farsa sulle “bande giovanili metropolitane”. Il convegno, ufficialmente intitolato “le bande spettacolari giovanili”, era patrocinato dall’assessore ai servizi sociali e culturali della provincia di Milano ed era il risultato di un anno di lavoro dei sociologi del CSERDE, il centro studi e ricerche sulla devianza e l’emarginazione. La conferenza stampa per la presentazione del convegno si tenne mercoledì 4 nella sala degli affreschi in Corso Monforte. Per il fine settimana era invece previsto un incontro al Teatro di Porta Romana, con la presenza di Giorgio Bocca e Francesco Alberoni. L’evento si rivelò un disastro per gli enti promotori, perché il Teatro fu subito invaso dall’orda del Virus. Centinaia di appartenenti alle fantomatiche “bande spettacolari giovanili” regalarono effettivamente ai presenti una particolare forma 79 di spettacolo, dapprima tagliuzzandosi il petto con coltelli e lamette, poi distribuendo fra il pubblico e il tavolo degli ospiti i loro volantini imbrattati di sangue. Fu il colpo di coda del punk italiano, quello primigenio, quello vero. Il 15 maggio il Virus fu sgomberato dalla polizia. Gli occupanti si trasferirono allora in un edificio fatiscente di Viale Piave, dove rimasero fino a quando il tetto crollò loro addosso. Poi in una ex lavanderia di Piazza Bonomelli, dove respirarono gli ultimi sussulti del movimento. Noi vivevamo questi fatti solo di riflesso. La nostra realtà era quella di una pulciosa città di provincia che non lasciava spazio a nessun tentativo di riabilitazione. Ci sentivamo parte di un sentimento, di un modo particolare di percepire le cose e il mondo, ma era come se un oceano si frapponesse fra noi e quel mondo. Potevamo soltanto accarezzarne il profilo, annusarne l’odore, ascoltarne il battito cardiaco, ma non esserne carne, parte fisica, organo vitale.

A luglio ritornò Michelle. I Sand in the Face avevano appena registrato un disco per una etichetta del New Jersey e a settembre avrebbero cominciato un tour con i mitici Bad Brains. Il loro disco non mi piaceva gran che, era suonato male e registrato peggio, ma a lei dissi che era bellissimo. Cosa vuoi farci… ero un ragazzetto innamorato, e poi Michelle doveva ancora organizzarci i concerti in America. La prima cosa che mi chiese fu come era andata con il sesso. Che cazzo di domanda, pensai, fino a prova contraria la gringa sa benissimo che sono un tipo pieno di chiacchiere, che ho nella testa solo scienza e letteratura, e che devo ancora farmi trascinare da una passione profonda. Sa anche che ho i nervi sfilacciati, che la colpa è sua, che il mio amore per lei mi ha ridotto a uno straccio, che sospiro di sconforto, che non riesco a distogliermi dai cattivi pensieri. Perché mi tratta così? Il mio turbamento ricominciò, più degradante e osceno dell’anno prima. Mi domandai che ruolo avesse quella donna nel mio casino interiore e mi parve di capire che mi sarebbe piaciuto cercare conforto fra le sue gambe, non per mettere al mondo figli o scoprire il 80 di spettacolo, dapprima tagliuzzandosi il petto con coltelli e lamette, piacere, ma per curare il mio “terrore metafisico”, per compiacermi poi distribuendo fra il pubblico e il tavolo degli ospiti i loro volantini del peccato, dell’azione bestiale, per combattere con l’energia del imbrattati di sangue. Fu il colpo di coda del punk italiano, quello corpo il programma di annichilimento portato avanti dalle forze primigenio, quello vero. Il 15 maggio il Virus fu sgomberato dalla democratiche. A un tratto le sue labbra schiumarono di saliva. Era un polizia. Gli occupanti si trasferirono allora in un edificio fatiscente di richiamo irresistibile, un invito esplicito. Avrei voluto succhiarle Viale Piave, dove rimasero fino a quando il tetto crollò loro addosso. anche l’anima, divorarla dentro, mangiarla tutta, ma ancora una volta Poi in una ex lavanderia di Piazza Bonomelli, dove respirarono gli l’educazione religiosa tornò a dominare la mia persona. Cos’ero se ultimi sussulti del movimento. non un cristiano represso che non riusciva a liberare il cervello dalla Noi vivevamo questi fatti solo di riflesso. La nostra realtà era quella melma e dalla genuflessione facile? Il mio modo di comportarmi… di una pulciosa città di provincia che non lasciava spazio a nessun una tragedia! tentativo di riabilitazione. Ci sentivamo parte di un sentimento, di un Cercai di dimenticare tutto concentrandomi sul nuovo corso dei modo particolare di percepire le cose e il mondo, ma era come se un Dictatrista. Ormai avevamo materiale sufficiente per una nuova oceano si frapponesse fra noi e quel mondo. Potevamo soltanto registrazione, e anche la possibilità di lavorare con un tecnico del accarezzarne il profilo, annusarne l’odore, ascoltarne il battito suono nostro amico. In verità ero profondamente insoddisfatto. cardiaco, ma non esserne carne, parte fisica, organo vitale. Qualche pezzo mi sembrava troppo lontano dai furori hardcore degli inizi, che invece prediligevo. Così, a costo di rovinare il lavoro, decisi A luglio ritornò Michelle. I Sand in the Face avevano appena di cantare bene solo nei pezzi duri e di sporcare con un tono di voce registrato un disco per una etichetta del New Jersey e a settembre catarroso le canzoni più lente e articolate. Il mio intento era quello di avrebbero cominciato un tour con i mitici Bad Brains. Il loro disco convincere Fabrizio che la vera natura del gruppo era quella hardcore. non mi piaceva gran che, era suonato male e registrato peggio, ma a Volevo riportarlo sulla “buona strada”, volevo che i Dictatrista lei dissi che era bellissimo. Cosa vuoi farci… ero un ragazzetto tornassero ad essere il gruppo rabbioso e incazzato degli esordi. Non innamorato, e poi Michelle doveva ancora organizzarci i concerti in riuscivo a capire che i nuovi pezzi erano invece dei veri gioiellini America. punk. Fossero stati valorizzati da parti vocali calde e robuste La prima cosa che mi chiese fu come era andata con il sesso. Che avrebbero potuto trovare l’apprezzamento di un pubblico molto più cazzo di domanda, pensai, fino a prova contraria la gringa sa numeroso di quello a cui eravamo abituati. benissimo che sono un tipo pieno di chiacchiere, che ho nella testa Registrammo i pezzi di Estremo atto d’amore in una sola notte. Il solo scienza e letteratura, e che devo ancora farmi trascinare da una giorno dopo avrei dovuto cominciare a lavorare in una marmeria ed passione profonda. Sa anche che ho i nervi sfilacciati, che la colpa è ero angosciato dall’idea di doverci passare i migliori anni della mia sua, che il mio amore per lei mi ha ridotto a uno straccio, che sospiro vita. La cassetta fu recensita sul numero 59 di Rockerilla, dallo stesso di sconforto, che non riesco a distogliermi dai cattivi pensieri. Perché giornalista che due anni prima aveva “scoperto” i No Gestapo. Quella mi tratta così? Il mio turbamento ricominciò, più degradante e osceno recensione avrebbe significato molto per il futuro del gruppo, ma dell’anno prima. Mi domandai che ruolo avesse quella donna nel mio soprattutto significò molto per me, perché stabiliva casino interiore e mi parve di capire che mi sarebbe piaciuto cercare inequivocabilmente che l’hardcore era morto e che ad ucciderlo erano conforto fra le sue gambe, non per mettere al mondo figli o scoprire il stati i Dictatrista: 80 81 “Che l’ondata ultracore si sia esaurita, è un dato di fatto ormai acquisito; la violenta sferzata è stata data, i frutti maturati sono stati raccolti. Alcuni sono marciti, altri cercano tuttora di conservarsi nella speranza di procrastinare il più possibile la scrittura della parola fine. Cosa rimane oggi dei vecchi gruppi? Molti sono definitivamente morti, in quanto al loro interno divampava evidentemente solo la furia hardcore. Una volta domata questa non hanno saputo rinnovarsi e la fine è stata quindi inevitabile. Altri hanno saputo invece rinnovarsi e vuoi per naturale evoluzione, vuoi per furbesco adattamento, hanno imboccato strade varie e diverse: il dark nella maggior parte dei casi, l’heavy metal e lo psyco billy in altri. Vi sono però anche casi di gruppi che sono riusciti a conciliare le storiche tematiche del puro rock’n’roll con la più moderna lezione punk. Questo splendido ibrido, nato dalla ripresa del vecchio attraverso la rivitalizzazione col nuovo, ha dato vita a ottimi prodotti discografici, e visto lo stato attuale di questo nuovo genere musicale penso che per fortuna molti altri ne vedranno la luce. L’ultimo che in ordine di tempo mi è capitato di ascoltare è italiano, di Ascoli Piceno. Per la precisione si tratta di “Estremo atto d’amore”, la seconda produzione dei Dictatrista…Il concetto relativo alla cassetta è semplice: è bellissima. Con questo non intendo affatto dire che sia priva di difetti perché ciò non rifletterebbe la realtà. Alcuni difetti vi sono: la registrazione e il mixaggio non sono certo ottimi, e la voce è a volte decisamente troppo forzata e sporca. Nonostante ciò sono ottimista. Sono canzoni del calibro di “Crociate”, “Deserti”, “Controllo della vita” e “Chiacchiere” che mi portano ad esserlo. L’unico consiglio che mi sento di dare ai Dictatrista è quello di chiudersi in sala prove per migliorarsi e per far sì che non trascorra molto tempo prima di poter ascoltare quel piccolo gioiello che, non ho dubbi, essi possono produrre”. Il successo di Estremo atto d’amore superò ogni più ottimistica previsione e proiettò a buon diritto i Dictatrista nella schiera dei migliori gruppi punk italiani. Alcuni nostri pezzi balzarono subito nella top 10 di Radio Popolare a Milano e vi stazionarono 82 ininterrottamente per diverse settimane. Nello stesso tempo la nostra cassetta delle lettere era invasa da centinaia di richieste provenienti da tutta Italia, e non esisteva fanzine o rivista specializzata che non si sentisse in dovere di parlare di noi in termini più o meno positivi. Se in principio potevano esserci dubbi sulla strada che i Dictatrista avrebbero dovuto percorrere, beh, ora quei dubbi non c’erano più. Ero stato sconfitto. Un ragazzino di quindici anni era riuscito a mettermi all’angolo, aveva dettato le sue tavole della legge, e aveva bandito per sempre la parola hardcore dal futuro dei Dictatrista. Io naturalmente non potevo sopportare un affronto del genere, era una di quelle cose che altrimenti mi avrebbe divorato dentro fino a farmi esplodere. I Dictatrista erano il mio gruppo, il gruppo che io avevo formato, a cui io avevo dato un senso. I Dictatrista erano solo un’estrinsecazione della mia personalità, dovevano essere soltanto me, il mio magnifico me stesso. E’ vero, i riscontri di critica e pubblico erano stati così incoraggianti da riuscire a mantenere nel limbo la mia frustrazione, ma per quanto tempo ancora ci sarebbero riusciti? Ben presto la confusione e il silenzio si fecero strada nella mia mente. Per mesi non riuscii a concentrarmi su niente. Il piccolo gioiello dei Dictatrista stava veramente prendendo forma e io non riuscivo nemmeno a trovare la forza per scrivere i testi. Era terribile. Per darti un’idea del mio stato d’animo dovrebbe essere sufficiente raccontarti questa storia. Un pomeriggio entrai in un negozio di alcolici con il fiero proposito di scolarmi una bottiglia di vodka. Avevo un sacco di cose da dimenticare. Avevo anche deciso di lasciare il gruppo. Non c’era più spazio per un divulgatore di felicità nei Dictatrista, e poi avevo troppa considerazione di me per continuare a perdere tempo con quei rammolliti. Uscii dal negozio e cominciai a bere. Non che i bevitori mi fossero simpatici, anzi per lo più mi disgustavano, perché erano troppo inclini alla violenza e al vomito. Io bevevo qualche volta, ma non così tanto. Una volta il vecchio Shino, sepolto nel profondo della sua anima stanca e tormentata, aveva pronosticato per me un futuro da alcolizzato. Lui di bevitori se ne intendeva, ma io non volevo crederci. Un giorno mi aveva guardato 83 negli occhi, una volta sola, per un solo istante, e tanto gli era bastato per capire. “Sono occhi di serpente” aveva sentenziato, “quel tipo di occhi che appartengono agli ossessionati, ai malinconici e ai bevitori”. Cominciai a bere, dicevo, e dopo appena dieci minuti rotolai sulla strada ubriaco fradicio. Sto morendo, pensai, il mondo mi sotterra. Non avevo idea di dove fossi. Le strade avevano cominciato ad allargarsi, vedevo bestie ovunque, la realtà era tutta deformata. A un tratto sentii una voce rimbalzarmi nella testa. Sembrava un martello. Mi colpiva sulla fronte, sulle tempie, dappertutto. Diceva: “brutto figlio di puttana, si può sapere che cazzo ti sei messo in testa, eh, si può sapere?” Sapevo che ero ridotto male, questo sì, e sapevo che avrei dovuto dare tutta la colpa a una misteriosa malattia. In realtà era tutto quello che sapevo. Aprii gli occhi. Una specie di mostro ipnotizzatore stava cercando di dare un taglio drastico alla situazione. Mi sorreggeva sulle spalle e cercava d’infilarmi in una macchina. Era Peppe. Da dove diavolo era sbucato fuori? “Nei Dictatrista” dissi, “non c’è più spazio per un divulgatore di felicità. Una maggioranza silenziosa ha adottato misure repressive nei miei confronti”. Peppe meditò tristemente cercando una soluzione definitiva. “Ne ho abbastanza di te e di tutte le tue stupidaggini” replicò, “se non chiudi quella maledetta bocca ti scarico in una fogna”. Mi accompagnò a casa, infilò le chiavi nella toppa, mi distese sul letto, bofonchiò qualcosa a mia madre per rassicurarla e se ne andò.

84 negli occhi, una volta sola, per un solo istante, e tanto gli era bastato per capire. “Sono occhi di serpente” aveva sentenziato, “quel tipo di occhi che appartengono agli ossessionati, ai malinconici e ai bevitori”. LA VOLGARITA’ DEL SUCCESSO Cominciai a bere, dicevo, e dopo appena dieci minuti rotolai sulla strada ubriaco fradicio. Sto morendo, pensai, il mondo mi sotterra. Non avevo idea di dove fossi. Le strade avevano cominciato ad Registrammo le sei canzoni di Istinto selvaggio nel maggio del allargarsi, vedevo bestie ovunque, la realtà era tutta deformata. A un 1985, in uno studio professionale gestito da incompetenti. In pratica di tratto sentii una voce rimbalzarmi nella testa. Sembrava un martello. professionale aveva solo il fatto che costava un mucchio di soldi, per Mi colpiva sulla fronte, sulle tempie, dappertutto. Diceva: “brutto il resto potevi permetterti di scoreggiare lì dentro per ore senza che figlio di puttana, si può sapere che cazzo ti sei messo in testa, eh, si nessuno riuscisse a capire se stavi suonando uno strumento o può sapere?” Sapevo che ero ridotto male, questo sì, e sapevo che svuotando le budella. Teoricamente avrebbe dovuto assicurarci un avrei dovuto dare tutta la colpa a una misteriosa malattia. In realtà era prodotto di buona qualità, in pratica ci ritrovammo fra le mani una tutto quello che sapevo. Aprii gli occhi. Una specie di mostro cosa orribile. Successe di tutto. Seguendo i consigli dei loro tecnici ipnotizzatore stava cercando di dare un taglio drastico alla situazione. utilizzammo perfino una batteria elettronica. Punk elettronico, era il Mi sorreggeva sulle spalle e cercava d’infilarmi in una macchina. Era massimo, stavamo precorrendo i tempi. Naturalmente l’esperimento Peppe. Da dove diavolo era sbucato fuori? “Nei Dictatrista” dissi, fallì. Il suono che ne derivò era qualcosa di assolutamente “non c’è più spazio per un divulgatore di felicità. Una maggioranza improbabile, ricordava una lattina di birra presa a calci nella strada. silenziosa ha adottato misure repressive nei miei confronti”. Peppe Dal canto mio improvvisai sul posto tutto ciò che riguardava la voce: meditò tristemente cercando una soluzione definitiva. “Ne ho impostazione, timbrica, parole, tutto. Il risultato finale assomigliò a abbastanza di te e di tutte le tue stupidaggini” replicò, “se non chiudi una sorta di muggito, una meditazione trascendente avvolta da timidi quella maledetta bocca ti scarico in una fogna”. Mi accompagnò a rumori di fondo. casa, infilò le chiavi nella toppa, mi distese sul letto, bofonchiò Qualsiasi giustificazione era ora inammissibile. In definitiva si qualcosa a mia madre per rassicurarla e se ne andò. trattava soltanto di riconoscere che avevamo fallito, estendere questo fallimento in termini di consapevolezza, arrenderci prima che l’irrequietezza di ciascuno assumesse le caratteristiche della minaccia. I Dictatrista erano ormai allo sbando, questa era la verità, il flusso dell’esperienza si stava esaurendo. Eravamo ancora interessati a quello che avevamo detto e provato negli ultimi tre anni, ma eravamo anche chiaramente distaccati dal nostro presente. Non ci sentivamo ancora pronti per disperderci, ma indugiavamo già nel terrore. Oh, quanto sottilmente sfuggivamo un accordo sulla nostra paura, sul caos montante che correva all’impazzata qua e là nei nostri cervelli… Era il modo più stupido per sopportare la volgarità del nostro successo. Non c’era niente di più inutile della nostra voglia di 84 85 annientamento, eppure non trovai altra soluzione se non quella di sciogliere definitivamente il gruppo. Non dissi niente, non feci niente, ogni dettaglio della faccenda era già chiaro prima ancora che mi decidessi ad aprir bocca. Con un ultimo sussulto nichilista Peppe trovò il modo di assecondare la mia decisione. Così, senza esserci messi d’accordo preventivamente, ululando e sogghignando, cominciammo a progettare insieme un nuovo gruppo, ferocemente e genuinamente punk. Anzi no, hardcore-punk. La sorpresa fu che Leo e Fabrizio non accettarono lo scioglimento. Con la stessa intransigenza di chi non è disposto ad arrendersi mai, continuarono a suonare come Dictatrista per un altro anno. Alla voce subentrò Anthony, un ragazzo italo-americano appena rientrato da Baltimora. Alla batteria Daniele D’Ottavio, il gemellino di Fabrizio. Anthony tradusse i miei testi in inglese e li adattò perfettamente alla musica. Era un ragazzo simpatico e intelligente. Aveva già cantato in diversi gruppi heavy metal americani, di sicuro non gli mancava l’esperienza per stare sul palco, e poi era bravo, più bravo di me. L’unica cosa che non andava era il suo umore. Ad Ascoli si sentiva estremamente a disagio, per quanti sforzi facesse non riusciva ad ambientarsi. Baltimora era la più violenta delle città americane, una metropoli da decine di omicidi al giorno, insomma un’altra storia. Cercò di farcela in tutti i modi, ma quando il suo istinto gli suggerì di ubriacarsi dalla mattina alla sera, allora capì che non ce l’avrebbe mai fatta. Sei mesi dopo era di nuovo a Baltimora, a scambiare minacce e a rischiare una pallottola. Ma nemmeno stavolta i Dictatrista si arresero all’evidenza. Leonardo passò alla voce e un ragazzino di sedici anni lo sostituì al basso. Quel ragazzino si chiamava Saturnino Celani, fu l’ultimo dei Dictatrista, e oggi suona il basso nella band di Jovanotti. Con la nuova formazione tennero un unico concerto, l’ultimo respiro prima della resa. Dopo di ciò riuscirono a rendersi conto che non avevano dentro una quantità sufficiente di delirio per continuare. Si sciolsero definitivamente nella primavera del 1986. Non c’era altro da aggiungere, la loro storia era finita. 86 SULLE TRACCE DEI DICTATRISTA

Il tempo è come un animale ferito, si contorce nella tagliola fino a staccarsi la zampa con un morso. I suoi lamenti sembrano contrapporsi alle vere imprudenze di bellezza del passato. Ed è stato il tempo a fare del punk uno spettacolo da circo. Ha mangiato la sua anima, lo ha divorato in maniera schifosa, come si fa con le carogne: a pezzi, a frasi, a rimpianti. Il rigurgito nostalgico ha attirato l’interesse dei sociologi, degli studiosi di costume, dei collezionisti di dischi, ma fortunatamente ha anche riservato un pezzo del suo cuore ai Dictatrista. Sentii nuovamente parlare di loro nel 1995. Fu in quel tempo che la Anthology, un’etichetta indipendente fiorentina, dedicò la sua attenzione alle bands hardcore della prima ora, pubblicando alcune compilazioni internazionali a loro dedicate. Nel febbraio del 1996 il mensile musicale Dynamo, a firma di Stefano Gilardino, recensì il terzo e quarto volume della Anthology. L’odore che esalava dalle parole era quello greve dei mobili di famiglia: “Ecco un ottimo esempio di sano utilizzo del cd: il recupero intelligente di materiale altrimenti introvabile. I ragazzi della Anthology continuano con la loro opera meritoria con due nuovissimi volumi del loro “Punk Territory”. Il primo, il numero tre per intenderci, concentra nuovamente l’attenzione sul punk americano, documentando questa volta il periodo 81-84. Ritroviamo con piacere alcuni nomi classici come i White Cross, gli strepitosi Sin 34 e i N.O.T.A., uniti ai meno conosciuti Shellshock, State e così via, per finire con i Queer Pills, cioè gli Angry Samoans sotto falso nome. Tempi memorabili! E se erano memorabili negli Stati Uniti lo erano in egual misura anche in Italia. Potrete accorgervene ascoltando il quarto volume, dedicato appunto all’hardcore nostrano più oscuro. Chi si ricordava più dei mitici Dictatrista?...” 87 In Punk Territory vol.4 suonavano gruppi che avevano fatto la storia della primordiale scena hardcore italiana, Wrong Boys, Crapping Dogs, Wops, Stazione Suicida, Warhead, U.N.S., Traumatic, Skulls, Blaxfema, ma se ascolti il disco sono sicuro che i più bravi ti sembreranno ancora i Dictatrista. I tre pezzi scelti dal curatore della compilation erano originariamente inclusi in Estremo atto d’amore. Quelle canzoni sono tutto quello che mi resta oggi del mio vecchio gruppo. Ho frugato nei miei cassetti per giorni e giorni senza trovare altro. Con la tenacia di un investigatore, però, sono riuscito a scovare chi ancora possiede e distribuisce la cassetta originale. Se dunque non riesci a contenere la tua curiosità puoi richiedere Estremo atto d’amore a Horst Firmanty, postfach 65 04 24, D-13304, Berlin, Germany.

Di Preavvisati…ma non premuniti non rimane invece quasi niente. Solo qualche pezzo in alcune vecchie compilazioni su cassetta. Di Numb tongue ti ho già parlato, adesso ti dico di una collezione retrospettiva di valore storico. E’ stato un miracolo di Dirk Dirksen, il papa del punk. Nel pantheon storico dei più rinomati showmen di San Francisco questo gioioso ciccione con i baffi a manubrio e lo sguardo di un bue da macello occuperà sempre un posto di rilievo. Negli anni settanta, mentre la scena musicale di San Francisco era dominata dai Dooby Brothers e i Jefferson Airplane, lui era quello che gettava in pasto al pubblico il suono marcio e lacerante dei primi gruppi punk: Dead Kennedys, Nuns, Ramones, Crime, Devo, Mutants… Attualmente il suo interesse è più orientato alle produzioni video, in particolare alla rivoluzione digitale nell’ambito dei video musicali, alle pellicole indipendenti, alla creazione di un nuovo modello nelle arti. Non è più un ragazzino, d’accordo, ma l’energia che lo anima è quella dei vecchi tempi, ed è sempre la musica il motore che lo scuote. Dopo la morte di Tim Yohannan gli frullò nel cervello questa idea di andare alla ricerca delle registrazioni radiofoniche di Maximum Rock’n’Roll, le vecchie performances degli anni settanta e primi 88 ottanta, in cui Tim e la sua amica Ruth Schwartz presentavano gruppi punk da tutto il mondo, valutandone l’impatto con la scena di San Francisco. Il suo intuito fu premiato dalla buona sorte. Una trentina di nastri saltarono fuori dagli archivi di Maximum Rock’n’Roll e furono ritrasmessi su Radio LUVeR (Love Underground Visionary Revolution). Il nastro contrassegnato con il numero 148 andò in onda il 29 marzo 2001. Includeva una nuova presentazione di Dirk, ma per il resto era materiale originale dell’epoca, insomma la stessa trasmissione del 1984. Fra i gruppi in scaletta figuravano gli italiani Claxon, Stalag 17, Raw Power e Dictatrista. I conduttori del programma alternavano i gruppi musicali agli interventi in diretta degli ospiti in studio, persone che avevano partecipato a dimostrazioni o subito abusi polizieschi durante la Convenzione Democratica di quell’anno, altre coinvolte nelle proteste contro Jerry Falwell & the Moral Majority, nell’organizzazione del Democratic War Chest Tour e del concerto Rock against Racism. Mi venne spontaneo richiedere a Dirk una copia di quella cassetta. Avevo voglia di ascoltare la voce di Tim Yohannan mentre presentava al suo pubblico i Dictatrista. La sua risposta fu immediata. Mi sentii un idiota. Passai ore a camminare avanti e indietro nella mia stanza con le crude parole di risposta di Dirk stampate nella testa, perfino la mia immagine riflessa nello specchio mi sembrò intollerabile. Avevo tradito la spinta ideale, lo spirito originario, avrei voluto sparire.

“Caro Carlo, grazie per la lettera e per la tua richiesta di acquisto dei nastri di Maximum Rock’n’Roll. Noi abbiamo però definito una politica che non ci permette di duplicare o commercializzare le registrazioni originali. Tim Yohannan, quando era vivo, era un forte fautore del concetto che la musica dovesse essere a buon mercato e accessibile a tutti. Non possiamo perciò lucrare con la vendita dei nastri duplicati. Ciò potrebbe facilmente alimentare un fenomeno di sfruttamento dei nastri. Crediamo che Tim e i musicisti di quel tempo sarebbero pronti a manifestarci il loro apprezzamento per una scelta del genere, che si limita a dare l’opportunità di ascoltare la musica di 89 allora attraverso Radio LUVeR. Siamo noi stessi a consigliare gli ascoltatori a non registrare il materiale trasmesso e a limitasi ad ascoltarlo soltanto per il proprio godimento personale. Ogni tentativo di avere accesso a questa musica che fosse generato dal profitto non sarebbe in armonia con il testamento spirituale di Tim Yohannan. Con amicizia Dirk Dirksen”.

Giù il sipario.

90 allora attraverso Radio LUVeR. Siamo noi stessi a consigliare gli ascoltatori a non registrare il materiale trasmesso e a limitasi ad ascoltarlo soltanto per il proprio godimento personale. Ogni tentativo STIGE di avere accesso a questa musica che fosse generato dal profitto non sarebbe in armonia con il testamento spirituale di Tim Yohannan. Con amicizia Il programma era questo: suonare duro e veloce. Insomma Dirk Dirksen”. fregarsene delle mode, del declino dell’hardcore-punk, della deriva heavy metal di molti gruppi simbolo come i Suicidal Tendencies, e Giù il sipario. continuare invece a proporre la musica di sempre: poca tecnica, niente fronzoli, rabbia e sudore. Per qualche giorno il nuovo gruppo si chiamò Befriend, cioè amicizia, ma siccome l’intento era quello di suonare fino allo sfinimento cambiammo il nome con qualcosa di più forte. Fu un gesto di sfida, una specie di flash fotografico, un’immagine a tinte forti impressa nella mente di Peppe. Le sue labbra sillabarono il nome. “Lo so, non suona molto bene” disse, “ma preserverà il gruppo da un veloce scioglimento”. Lo Stige era infatti il fiume in cui Tetide, una bellissima dea marina, aveva immerso suo figlio per renderlo immortale. Dunque era vero, ogni cosa era finalmente al suo posto, eravamo nuovamente nella mischia. Come per incanto Shino comprò un basso Gibson quello stesso giorno. Voleva imparare a suonarlo ed entrare nella band, così cominciò a dedicarsi allo strumento con una dedizione quasi maniacale. Il suo ritmo respiratorio cambiò. Si fece affannoso, asmatico, doloroso, una specie di spasmo prolungato che lo costringeva a suonare in apnea. Il suo approccio alla musica ci piaceva. Aveva qualcosa di sconclusionato e anarchico che ci metteva di buon umore, e in più era dannatamente efficace per risolvere i nostri problemi d’organico. A completare la formazione entrò alla chitarra Maurizio Taccia, un personaggio ombroso e inquietante di cui il mondo non sapeva niente, nemmeno che avesse intenzione di governarlo con l’indifferenza. Dopo tre giorni documentammo la prima fase degli Stige con una registrazione occasionale in sala prove, non musica, ma cieco furore. 90 91 A volte avevo l’impressione che fosse la cosa più dignitosa che avessi mai prodotto. Altre volte percepivo la demenza del progetto e me ne vergognavo. Ma non ebbi molto tempo per rifletterci su, qualcosa di assolutamente irreale stava già accadendo. Maurizio aveva cominciato ad esternare il suo lato assurdo. Le corde della sua chitarra sembravano esili fili d’erba che saltavano al primo ruvido approccio con gli accordi. Benedetto ragazzo, pensai, forse il plettro con cui picchia sulle corde è titanio utilizzato dall’esercito americano per la fabbricazione dei meravigliosi ordigni a guida laser di precisione, o forse le sue dita adunche e selvagge mancano della necessaria morbidezza, oppure è semplicemente un masochista e si diverte ad assaporare il gusto della sconfitta. L’aspetto più deprimente della vicenda era la sua completa indifferenza a questo stato di cose. Spezzava le corde e si rifiutava di sostituirle. Era come se si divertisse a farci incazzare. Ruppe la prima e disse: “non mi era mai successo, lo giuro”. Ruppe la seconda e disse: “il suono è molto più corposo, adesso, più cattivo”. Con tre corde lanciò un fragoroso hurrà e disse: “sono un mito, non è vero?” E ascolta questa, perdio, ascolta questa… non cercò di essere indecente anche con due corde? “Che problema c’è?” disse mordendosi le labbra e cercando di mascherare in qualche modo l’imbarazzo, “siamo un gruppo punk, no?” Quando però si presentò in sala prove con una sola corda e con l’espressione del pazzo che non conosce i tormenti del dubbio, Shino anticipò la sua battuta con un urlo rancoroso. Fu l’ultimo atto di una recita improvvisata e patetica. Non c’erano più le condizioni per il confronto. La storia era finita. Così cominciammo a guardarci in giro per trovare un sostituto. La scelta cadde su Fabio Montanari, uno spilungone nostalgico comunista con un orribile look dark e un desiderio smodato di sperimentazione. Fino ad allora aveva suonato in diversi gruppi d’ispirazione new wave, ma nessuno era riuscito a soddisfarlo. Quello che cercava era una band che volesse sperimentare qualcosa di nuovo, che insomma fosse alla ricerca di vie musicali alternative. Quello che invece gli Stige volevano da lui era che si adattasse semplicemente all’hardcore- 92 punk più estremo, cioè quanto di meno innovativo potesse offrire il panorama musicale di quel tempo. Stranamente le nostre diverse esigenze trovarono un punto d’incontro nel primo demo ufficiale della band, Desperate days. I tre pezzi del nastro furono recensiti da Tim Yohannan con espressioni incoraggianti. Il suono iperspaziale della chitarra trovò la giusta considerazione del guru punk americano, cosa che riempì Fabio d’orgoglio e lo spinse a continuare. Quando le cose sembravano finalmente girare per il verso giusto il contadino omosessuale ci scaraventò fuori dalla sala prove. In quei giorni era ossessionato dalla travolgente passione per un noto cantautore italiano, un’esperienza che raccontava con le lacrime agli occhi. Siccome gli aveva chiesto la massima riservatezza, la conseguenza immediata fu il trasloco degli Stige in una rimessa di attrezzi agricoli fuori città, un posto dimenticato dalle leggi climatiche che governano il mondo, freddissimo in inverno e incandescente d’estate. Qui decisi di ritornare lo strambo personaggio di un tempo. Mentre il gruppo sputava sangue nella ricerca degli accordi, io me ne restavo tranquillo nel mio angolo del silenzio. Assecondando i principi di una filosofia feroce, rifiutavo di scrivere i testi delle canzoni e di prepararmi per i concerti. Di solito sul palco mugugnavo frasi sconnesse in un improbabile inglese, dando più o meno l’idea di sputare sentenze contro gli apparati governativi e le strutture di potere. A volte qualche spettatore particolarmente attento avvertiva il mio disagio nel dare senso a quella specie di grugnito selvatico che mi usciva di bocca, ma quasi sempre riuscivo a riacquistare credibilità con i salti e i tuffi dal palco. La cosa degenerò quando decisi di cambiare nome. Non più Carlo Cannella, no, ma Heinmont Tooyalaket, che vuol dire tuono che rimbomba fra le montagne. “Un giorno” dissi, “sarò l’artefice del dispiegamento della ragione nel mondo”. Allora gli altri si guardarono negli occhi con un’espressione timorosa e dubitativa. Per un momento credettero di doversi occupare di un pazzo, dandomi sempre ragione su tutto e battendomi i palmi delle mani sulle spalle. Ero disturbato da un senso di onnipotenza che mi portava a credere di essere superiore a 93 qualsiasi avversità, ma deliravo a tal punto che a nessuno sarebbe venuto in mente di farmi cambiare idea sul destino dell’umanità. Io ero il perfetto risvegliato, l’illuminato, io avrei guidato il mondo al nuovo ordine e al dolce amore.

94 L’ ULTIMA VOLTA AL VIRUS

Nel frattempo moriva ammazzata la prima ondata punk italiana. A Milano i sopravvissuti alla repressione poliziesca si erano asserragliati in una ex lavanderia in Piazza Bonomelli, un edificio fatiscente che neanche lontanamente ricordava i fasti di Via Correggio 18. Per rivitalizzare il circuito alternativo ed evitare lo sgombero, avevano deciso di far suonare gruppi di una certa importanza, primi fra tutti Scream e Youth Brigate. Gli Scream erano uno dei miei gruppi preferiti. Così, con il cuore in tumulto e gli occhi lucidi, decisi di partire per Milano. Un concerto del genere era ormai un evento rarissimo in Italia e come per i Government Issue a Ferrara il mese dopo, la partecipazione delle frange più calde del movimento punk italiano sarebbe stata enorme. Peppe mi accompagnò in questa nuova spedizione con l’intento di vivere l’ennesima esperienza devastante della sua militanza hardcore. L’anno prima era stato picchiato dagli skinheads a Certaldo, durante la prima rassegna oi e hardcore italiana, e voleva prendersi una bella rivincita su di loro. Non certo gonfiare di botte eventuali skinheads presenti al concerto, ma semplicemente gustarsi in pace un gruppo come gli Scream. Con i suoi ultimi risparmi aveva anche comprato una di quelle strane apparecchiature che non sai mai se sono vere macchine fotografiche o scatole di plastica confezionate per gli scemi. In realtà, contrariamente a quanto avrei mai potuto immaginare, avrebbe realizzato uno splendido documento sugli ultimi sussulti del punk italiano. Sbarcammo alla stazione di Milano nel primo pomeriggio. Dappertutto fra i binari era un pullulare di gente marcia e fuori di testa. Con la nostra semplicità idealista e provinciale ci sentimmo un po’ a disagio in quel terribile miscuglio di umanità ferita, ma bastò dare un’occhiata agli sguardi preoccupati dei ferrovieri per ritrovare il 95 nostro ottimismo e il nostro orgoglio. Ecco qua, da tutta Italia stavano arrivando centinaia di punk, era il segno tangibile di una vitalità non sottomessa. Usciti dalla stazione incontrammo uno dei tipi più incredibili che io abbia mai conosciuto. Era un ragazzino con un’aria terribilmente perbene, gli occhialini da intellettuale e l’aria giudiziosa di un liceale. Girava l’Italia dei concerti punk e ovunque piazzava il suo banchetto con centinaia di dischi. Era un mostro di conoscenza. Sapeva veramente tutto di tutti i gruppi del mondo, ed era capace di conquistare l’attenzione di chiunque con descrizioni fantasiose fino all’eccesso. Era anche un omosessuale dichiarato, cosa che non lo metteva per niente in difficoltà. Difendeva la sua identità con fiero cipiglio. Era come se si divertisse a metterci in imbarazzo, con i nostri pregiudizi e le nostre paure. Dieci anni più tardi avrebbe contribuito alla diffusione del “queer punk” in Italia, una corrente musicale e di pensiero decisamente orientata verso la militanza omosessuale. Quel giorno aveva inavvertitamente messo i piedi fra i binari di un tram, con le spalle rivolte al bestione metallico. Il conducente si era fermato a dieci centimetri dalle sue gambe, aveva incrociato le braccia con l’atteggiamento tipico del buon padre di famiglia e si gustava la scena con gli occhi pieni di stupore. Cercai di avvisarlo. “Hai un tram in mezzo alle gambe” gli dissi. Lui si voltò, alzò lo sguardo sul conducente e chiese scusa arrossendo, poi s’incamminò in direzione del Virus con il viso ancora stravolto dall’emozione. Ci arrivammo insieme con largo anticipo. Nella ex lavanderia stavano ultimando il loro sound-check gli Indigesti e i Wretched, i due gruppi italiani di supporto. Gianpiero Capra, il bassista dei Kina, stava invece discutendo di democrazia e fascismo con alcun ragazzi del Virus. Lo faceva con la semplicità e la simpatia che tutti gli riconoscevano. “Siamo circondati dall’ordine democratico” diceva, “basta sollevare una pietra e salta fuori un democratico, non è incredibile? E’ una specie di miracolo, una moltiplicazione di pesci in senso moderno. In una situazione del genere parlare di repressione è perfino un oltraggio alla decenza. Certo, uno si domanda dove sia 96 finita la stampa alternativa, sembra quasi che il dissenso sia una specie di peccato originale che va lavato con l’olio di ricino. Beh, insomma… democrazia, pre-fascismo, stessa roba…” Quella sera i Wretched annichilirono il pubblico con il loro classico repertorio di pezzi allucinati. L’urlo del cantante era simile a un ruggito, gli strumenti si univano in una specie di amplesso cosmico, esplosivo. Sembravano un mucchi di rottami rugginosi che scendevano da una montagna con un suono cupo di tragedia. Quando sul palco salirono gli Indigesti, appena tornati dal loro tour americano, l’atmosfera diventò magica. Jello Biafra, il cantante dei Dead Kennedys, li aveva inseriti nella sua top ten, e insomma erano il gruppo del momento. Il loro show fu pieno di energia, unico per tensione emotiva. Fu riempito dai tuffi di centinaia di persone sotto il palco. Grandi! Gli Scream cominciarono a suonare dopo la mezzanotte. Quando le prime note di Cry wolf rimbalzarono fra le pareti scrostate del Virus, un istinto diabolico s’impossessò del popolo hardcore. La gente cominciò a schizzare sangue dappertutto, le articolazioni scricchiolarono pericolosamente, una passione delirante s’iniettò nelle nostre vene come febbre malarica. Peppe fotografò enormi mucchi umani intorpiditi dalle droghe e dall’alcool, sequenze ininterrotte di corpi che si sfracellavano gli uni sugli altri con fraterna allegria. A volte dava quasi l’impressione di voler salire sul palco e buttarsi di sotto come tanti altri pazzi. Mi porgeva la macchina fotografica con l’atteggiamento fremente e pallido del tossicodipendente, volgeva lo sguardo sul delirio che si faceva carne proprio sotto i suoi occhi, ma era solo l’istante che lo separava dalla ragione. Mai ebbe modo di oltrepassare il confine. Il concerto finì alle due di notte, giusto in tempo per prendere l’ultimo autobus diretto in stazione. Con noi si raccolsero sul piazzale del Virus decine di scheletri e membra sfinite. Il conducente caricò quell’ammasso di degenerati con una smorfia di disgusto dipinta sul volto. Filò velocissimo per le strade deserte di Milano, le mani strette sul volante, lo sguardo perso sullo specchietto retrovisore, con uno 97 stridore di freni impazzito sulle curve a novanta gradi. Alle sue spalle già bruciava l’ultima notte del punk italiano.

98 stridore di freni impazzito sulle curve a novanta gradi. Alle sue spalle già bruciava l’ultima notte del punk italiano. GODDAM CHURCH

Qualche mese dopo fu sgomberata anche l’ex lavanderia di Piazza Bonomelli. Il Virus era finito per sempre. Con lui era morta un’esperienza, un momento fatto di pratica antagonista, ma anche una delle poche realtà veramente di rottura in Italia. A breve tutto si sarebbe stemperato nel circuito dei centri sociali così come li conosciamo oggi, spazi di aggregazione ma non d’identità, luoghi di rifugio ma non di alternativa. Il punk come espressione musicale declinò di pari passo. I grandi gruppi di un tempo, quelli che avevano dato origine alla bolla, Wretched, Crash Box, Cheetah Chrome Moterfucker, Impact, Declino, si sciolsero come neve al sole. Alcuni, come gli Indigesti, avrebbero atteso un mitico concerto con i Negazione a Bologna prima di abbandonare definitivamente le scene. Altri, come i Raw Power, avrebbero continuato a singhiozzo, legando il proprio nome alla leggenda del tempo, integri nello spirito ma fuori dai clamori che ne avevano accompagnato la storia. L’acqua non nutriva più la radice, tutto era finito, giù dove l’illusione e l’ingenuità non si erano mai assoggettate all’usura del cinico mondo reale. I nuovi gruppi si svilupparono su basi diverse, con un’impronta programmatica decisamente innovativa, orientata al recupero di sonorità industriali. Suonavano bidoni di latta, trapani, seghe a motore, smerigliatrici, oggettistica derivante dai cantieri edili e dalla tecnologia domestica. Contemporaneamente si sviluppò il circuito delle posse. Rap e ragamuffin diventarono sinonimo di espressione musicale deviante, riempiendo gli spazi che con molta fatica il punk e l’hardcore avevano occupato anni prima. Per chi come me intendeva invece proseguire sulla strada di sempre, le opportunità di espressione si stavano riducendo in maniera incredibile. In Italia era ormai tempo di assoggettarsi alle mode del 98 99 momento, oppure ripiegare su se stessi con l’orgoglio degli sconfitti. Stando così le cose rivolsi la mia attenzione a quei paesi in cui il morbo dell’hardcore continuava a fare le sue vittime. Nel 1985 le scene di Amsterdam e Berlino pulsavano ancora come sangue infetto. A sua volta l’America era sempre quell’inesauribile serbatoio di emozioni che mi aveva sconvolto l’adolescenza, e Maximum Rock’n’Roll continuava a recensire migliaia di gruppi provenienti dai più sperduti angoli del mondo. Per gli Stige c’era un solo modo per continuare a suonare e portare avanti il loro progetto: unirsi al grande flusso internazionale. Così ritornai con la mente alla Goddam Church Tapes. Era il nome che i Dictatrista avevano dato alla loro etichetta ai tempi di Preavvisati…ma non premuniti. Volevo produrre compilazioni su cassetta e distribuirle nel mondo, dare agli Stige la possibilità di uscire dagli angusti confini nazionali e di suonare in Europa. Solo in quel modo la speranza di non arrendersi allo sfascio del punk italiano sarebbe stata ben coltivata. Cominciai a leggere con morboso interesse i vari report sulle scene estere, a interessarmi di quei gruppi che promettevano scintille, e a contattarli direttamente per l’invio di pezzi inediti. A volte il risultato era veramente interessante. Gli Offspring furono fra i primi a spedirmi del materiale. Erano un gruppo scalcagnato senza alcuna produzione all’attivo, nessuno poteva presagire che sarebbero diventati ricchi e importanti. Erano anche molto più incazzati e bravi di oggi. Il loro suono somigliava tantissimo a quello degli ultimi T.S.O.L., non era insomma quella salsina mielosa e opprimente che hai imparato a considerare come la migliore espressione punk rock di tutti i tempi. Due dei loro pezzi migliori fecero la loro bella figura in Follow the sun, la mia prima compilazione internazionale, uscita nel febbraio del 1986. Attraverso il circuito delle fanzine e delle riviste specializzate il nastro fu recensito quasi sempre in maniera positiva, suscitando un discreto interesse nella scena. Il mio unico canale di distribuzione era l’entusiasmo. Rispondevo alle lettere che mi arrivavano dai posti più incredibili: Ecuador, Brasile, Venezuela, Cipro, Turchia, Isole 100 momento, oppure ripiegare su se stessi con l’orgoglio degli sconfitti. Canarie… A un tratto sembrava che il mondo avesse deciso di Stando così le cose rivolsi la mia attenzione a quei paesi in cui il convergere verso di me. Era bellissimo. morbo dell’hardcore continuava a fare le sue vittime. La mia seconda produzione, Visions of disease, fu la migliore in Nel 1985 le scene di Amsterdam e Berlino pulsavano ancora come assoluto. In scaletta c’erano gruppi che ancora oggi amo sangue infetto. A sua volta l’America era sempre quell’inesauribile profondamente. Gli inglesi Pro Patria Mori, ad esempio, autori di un serbatoio di emozioni che mi aveva sconvolto l’adolescenza, e hardcore a volte furioso e incontenibile, altre volte melodico e intenso, Maximum Rock’n’Roll continuava a recensire migliaia di gruppi con testi politicizzati e bellissimi che mi avrebbero influenzato in provenienti dai più sperduti angoli del mondo. Per gli Stige c’era un futuro. Penso anche ai californiani Final Conflict, molto vicini alle solo modo per continuare a suonare e portare avanti il loro progetto: sonorità dei connazionali Crucifix, una delle bands seminali del primo unirsi al grande flusso internazionale. hardcore americano. E poi ancora: , tecnicamente a livelli Così ritornai con la mente alla Goddam Church Tapes. Era il nome stratosferici; Spastic Rats, un piccolo culto; Pent-up Aggression, che i Dictatrista avevano dato alla loro etichetta ai tempi di potenti e catarrosi; i ferraresi Impact, convulsi fino al parossismo; i Preavvisati…ma non premuniti. Volevo produrre compilazioni su Raf Gier, tedeschi di Wuppertal, con un cantato schizzato e cassetta e distribuirle nel mondo, dare agli Stige la possibilità di uscire perverso… E poi naturalmente gli Stige, un gruppo che stava dagli angusti confini nazionali e di suonare in Europa. Solo in quel acquistando un certo credito fra gli appassionati della musica modo la speranza di non arrendersi allo sfascio del punk italiano hardcore. sarebbe stata ben coltivata. A questo punto stava crescendo in me il desiderio di migliorare le Cominciai a leggere con morboso interesse i vari report sulle scene mie produzioni. Le cassette non mi bastavano più. Fu così che decisi estere, a interessarmi di quei gruppi che promettevano scintille, e a di trasformare la Goddam Church in una vera e propria etichetta contattarli direttamente per l’invio di pezzi inediti. A volte il risultato discografica. Feci frettolosamente uscire la mia ultima produzione su era veramente interessante. Gli Offspring furono fra i primi a spedirmi cassetta, Fire on Europe, dedicata ad oscuri gruppi nordeuropei, e del materiale. Erano un gruppo scalcagnato senza alcuna produzione cominciai a selezionare le formazioni che avrebbero preso parte alla all’attivo, nessuno poteva presagire che sarebbero diventati ricchi e prima compilazione internazionale hardcore mai uscita in Italia su importanti. Erano anche molto più incazzati e bravi di oggi. Il loro vinile. Nella mia lista dei preferiti entrarono subito i californiani suono somigliava tantissimo a quello degli ultimi T.S.O.L., non era Corrupted Morals. La loro musica era pura adrenalina che spaccava le insomma quella salsina mielosa e opprimente che hai imparato a vene e schizzava a fiotti. Il cantante e il chitarrista, Mike Dirnst e considerare come la migliore espressione punk rock di tutti i tempi. Billy Joe Armstrong, avrebbero sciolto il gruppo l’anno successivo, Due dei loro pezzi migliori fecero la loro bella figura in Follow the ma una volta ripulito il suono e scritto testi per adolescenti idioti, sun, la mia prima compilazione internazionale, uscita nel febbraio del avrebbero formato i Green Day con il batterista Trè Cool. Nel 1994, 1986. Attraverso il circuito delle fanzine e delle riviste specializzate il firmando per l’etichetta Reprise, avrebbero venduto 14 milioni di nastro fu recensito quasi sempre in maniera positiva, suscitando un dischi con l’album Dookie. Soldi a palate, insomma. discreto interesse nella scena. Il mio unico canale di distribuzione era Gli Stige ai soldi non ci pensavano proprio. Il loro obiettivo l’entusiasmo. Rispondevo alle lettere che mi arrivavano dai posti più immediato era quello di partecipare al nuovo progetto della mia incredibili: Ecuador, Brasile, Venezuela, Cipro, Turchia, Isole etichetta con due pezzi inediti. In quei giorni potevi vederci suonare in 100 101 sala prove con un entusiasmo particolare. Eravamo molto eccitati dalla prospettiva di apparire su un disco. Vivevamo il nostro momento importante con un trasporto emozionale che solo l’ingenuità e la spensieratezza di un bambino potevano equiparare. Era il nostro battesimo del fuoco. Ma naturalmente le cose si complicarono.

102 PEOPLE OF THE PIT

Una sera, ancora eccitati dal morboso desiderio dell’amicizia, ci ritrovammo in un pub per prenderci una sbronza. Volevamo starcene un po’ tranquilli, godercela più che potevamo, dire quattro cazzate giusto per ridere. Era il nostro modo per conciliare il sonno e abbandonarci nel letto senza sconforto. Ma quella sera, dannazione, c’erano troppe cose da dire, e l’alcool scendeva nelle budella troppo velocemente. A un tratto Shino cominciò a tracannare una notevole quantità di superalcolici, la birra non gli bastava più. Fu terribile. Il gin e il whisky devastarono il suo sistema nervoso, lo trasformarono in una marionetta impazzita, e la serata degenerò in rissa. “Ehi, tu, cameriere di merda” gridò al titolare del locale schiumando rabbia dalla bocca, “non raccontarmi cazzate. Tua moglie è una mignotta tedesca che fa schifo al cazzo. Pazienza. Le tue figlie puttane regalano la fica ai cani. A me no, ma ai cani sì. Pazienza anche stavolta, pazienza. Ma tu, porcaccio iddio, tu sei un maiale abruzzese che viene a rubarci i soldi con una birra che sa di merda. Sai cosa significa questo? Lo sai cosa significa? Pazienza col cazzo!” E detto questo salì sul tavolo mulinando i pugni nell’aria, pronto al combattimento. Non ricordo quante botte ci scaricarono addosso, forse un bel mucchio, perché in pochi secondi ci trovammo sbattuti fuori dal locale con le ossa a pezzi. Shino provò a buttare giù la porta con vigorosi calci da ubriaco, ma non ci riuscì. Un attimo dopo arrivò la polizia. Il suono stridulo della sirena ci restituì come per incanto la lucidità necessaria per tentare la fuga. Evitammo l’arresto per intercessione demoniaca, credo, bestemmiando come pazzi e ululando nella pioggia. Alla fine riuscimmo a raggiungere la nostra macchina e a scappare con i fari spenti, guidando a folle velocità e zigzagando paurosamente. Dopo dieci minuti Shino si addormentò sul volante e si schiantò su un 103 guard-rail all’altezza dello stadio. Nessuno di noi si fece niente, ma io ne avevo abbastanza. Scesi dalla macchina e mi diressi a piedi verso casa. Appena fuori gridai qualcosa in direzione di Shino, chino sul volante in meditazione lacrimosa, qualcosa che lo tirasse fuori dal gruppo quella sera stessa. Lui si calmò improvvisamente, reclinò la testa all’indietro, e disse “va bene”. Qualche giorno dopo fu sostituito al basso dal fratello di Fabio, un tipo tosto, capace di memorizzare i pezzi in pochi giorni. Appena una settimana dopo riuscimmo a registrare le due tracce per la compilation. Lo studio era situato a Senigallia, in un capannone abbandonato fra l’autostrada e il mare. Il tecnico del suono, un ragazzo completamente incasinato e grande amico da quel giorno, era Alessandro Castriota. Il disco uscì nel gennaio del 1987. Lo chiamai People of the pit, e in copertina misi la foto di un’ammucchiata al Virus durante un concerto degli Indigesti. La prima copia la spedii a Stiv “rottame” Valli, il mitico Stiv della fanzine T.V.O.R. (Teste Vuote Ossa Rotte), la bibbia del punk italiano. Sennonché il punk italiano era morto e T.V.O.R. pure. Stiv curava adesso Into your flesh, una striminzita paginetta dedicata all’hardcore sulla solita Rockerilla. Fu molto buono con noi. Questi ragazzi, disse, stanno in culo al mondo senza lamentarsene troppo. Dimostrano una volontà ed un impegno non comuni nella promozione del movimento hardcore. “Un gran bel disco, davvero, e anche per gli Stige c’è un bel futuro se continuano così”. Il secondo a ricevere People of the pit fu Paolo Piccini, uno dei collaboratori di H.M., un’altra delle terribili riviste musicali che guerreggiavano nelle edicole per la conquista del mercato. L’offerta editoriale di settore stava arricchendosi di nuove proposte, a volte specializzandosi per generi musicali. L’heavy metal in particolare, trovando un pubblico sempre più numeroso nei ragazzini senza coscienza degli ultimi anni ’80, stava infestando le edicole con giornali tutti uguali e dai contenuti deprimenti. Ma Paolo Piccini, uno che avrebbe cantato nei Growing Concern ed esaltato la scena straight edge romana, non si faceva certo scrupolo nel recensire i gruppi punk. 104 guard-rail all’altezza dello stadio. Nessuno di noi si fece niente, ma io Su H.M. curava una rubrica incentrata sull’hardcore, Thrashin, e in ne avevo abbastanza. Scesi dalla macchina e mi diressi a piedi verso quelle pagine potevi trovarci qualsiasi cosa, anche informazioni su casa. Appena fuori gridai qualcosa in direzione di Shino, chino sul sconosciuti gruppi finlandesi. volante in meditazione lacrimosa, qualcosa che lo tirasse fuori dal La recensione di People of the pit fu estremamente positiva. “La gruppo quella sera stessa. Lui si calmò improvvisamente, reclinò la compilation” diceva Piccini, “assembla nomi ultra-nascosti della testa all’indietro, e disse “va bene”. scena euro-americana con risultati in alcune occasioni realmente Qualche giorno dopo fu sostituito al basso dal fratello di Fabio, un eclatanti. E’ stata realizzata e curata in autoproduzione dagli Stige di tipo tosto, capace di memorizzare i pezzi in pochi giorni. Appena una Ascoli Piceno, che fra l’altro appaiono nell’album con due ottimi settimana dopo riuscimmo a registrare le due tracce per la brani di hardcore-punk ultraveloce. Ma “People of the pit” riserva compilation. Lo studio era situato a Senigallia, in un capannone altre ottime sorprese, come le due tracks d’apertura dei Corrupted abbandonato fra l’autostrada e il mare. Il tecnico del suono, un Morals, puro e furente hardcore ribelle; i californiani Corruption (il ragazzo completamente incasinato e grande amico da quel giorno, era cui lead singer è stato il temporaneo sostituto di Katon De Pena negli Alessandro Castriota. Hirax), autori di un violentissimo thrashcore metal di cui una track, Il disco uscì nel gennaio del 1987. Lo chiamai People of the pit, e in “Beef to the core”, si candida come la migliore del disco; gli copertina misi la foto di un’ammucchiata al Virus durante un concerto incredibili svedesi Raped Teenagers, che con una formula di punk degli Indigesti. La prima copia la spedii a Stiv “rottame” Valli, il jazzato tecnicissimo riescono a stupire in più di una occasione; i No mitico Stiv della fanzine T.V.O.R. (Teste Vuote Ossa Rotte), la bibbia Fraud di Venice, non copiatori ad oltranza dello skate-thrash-style del punk italiano. Sennonché il punk italiano era morto e T.V.O.R. delle bands provenienti da quell’area. Altri acts presenti, come Puke, pure. Stiv curava adesso Into your flesh, una striminzita paginetta False Liberty, Pure Hate, Barn Av Regnbuen e Subterranean Kids, dedicata all’hardcore sulla solita Rockerilla. Fu molto buono con noi. delineano la perfetta riuscita di questo interessante documento sul Questi ragazzi, disse, stanno in culo al mondo senza lamentarsene vero underground mondiale. Un disco fondamentale”. troppo. Dimostrano una volontà ed un impegno non comuni nella Per la prima volta Goddam Church suscitò l’interesse dei promozione del movimento hardcore. “Un gran bel disco, davvero, e distributori indipendenti, persone disposte a far girare i dischi anche per gli Stige c’è un bel futuro se continuano così”. semplicemente perché avevano un entusiasmo incredibile e amavano Il secondo a ricevere People of the pit fu Paolo Piccini, uno dei l’hardcore. Grazie a loro People of the pit riuscì a vendere 1400 copie collaboratori di H.M., un’altra delle terribili riviste musicali che in soli sei mesi. Per gli Stige fu un’ottima occasione per farsi guerreggiavano nelle edicole per la conquista del mercato. L’offerta conoscere. Finalmente la loro musica rimbalzava fra le pareti di editoriale di settore stava arricchendosi di nuove proposte, a volte mezzo mondo, a volte qualcuno ci scriveva per dichiararci il suo specializzandosi per generi musicali. L’heavy metal in particolare, amore, “siete i miei Duran Duran”, cose di questo genere, che trovando un pubblico sempre più numeroso nei ragazzini senza nutrivano la nostra vanità e ci davano la forza per continuare. coscienza degli ultimi anni ’80, stava infestando le edicole con Tuttavia il nuovo bassista lasciò la band quell’estate, spinto da giornali tutti uguali e dai contenuti deprimenti. Ma Paolo Piccini, uno un’insana passione per il calcio e dalla necessità di dedicare il suo che avrebbe cantato nei Growing Concern ed esaltato la scena straight tempo alla realizzazione di un sogno, quello di diventare un calciatore edge romana, non si faceva certo scrupolo nel recensire i gruppi punk. professionista. Così Shino tornò a suonare il basso negli Stige l’anno 104 105 successivo. Bastò bere insieme un’intera notte per renderci conto che eravamo ancora amici. Non ci fu bisogno di molte parole, era tutto già chiaro prima ancora di cominciare. Quella sera, mentre Ben Johnson vinceva i 100 metri alle olimpiadi di Seul, gonfiato dagli anabolizzanti come un ippopotamo, il tempo cominciò a scivolare via velocemente. L’alba arrivò mentre i pensieri assumevano la strana forma di un animale addomesticato, sazio di cibo e carezze borghesi. Eravamo ubriachi, ma lucidi nello stesso tempo. Quando infine la prima luce filtrò dai rami di un albero secolare, quasi morto sul ciglio della strada, lui fu scosso da un brivido. Un senso di colpa lo assalì improvvisamente. Allora giurò solennemente che non avrebbe bevuto mai più. Non che avrebbe evitato di ubriacarsi, ma che in assoluto non sarebbe più transitata una sola goccia di vino sulle sue labbra, “mai più, per sempre”. Io lo guardai sghignazzando. Avevo l’impressione che la sua sbronza fosse stranamente poco cattiva, che i suoi occhi acquosi nascondessero nel profondo delle pupille un dramma shakespeariano, uno spartito di Beethoven, un clown da circo. Ma che mi dici del fatto che avrebbe mantenuto la sua promessa per più di tre anni?

106 NO-FRILLS STYLE

Shino amava gli Stige più di se stesso. Credeva che non ci potesse essere altro destino per lui se non morire suonando il basso negli Stige. Aveva vissuto il periodo dell’allontanamento soffrendo come un cane bastonato, ma nella sua mente, più e più volte, era riaffiorato lo stesso pensiero: ritornare negli Stige. Per riuscirci aveva cercato di lasciare un segno in una band superbamente influenzata dal garage- punk dei sixties, i Superflui. In quegli anni il destino stava loro riservando l’onore delle cronache nazionali. Erano stati selezionati da Rockerilla per una compilation che avrebbe raggruppato i migliori esponenti italiani di questo particolare genere musicale, che un po’ inopinatamente stava vivendo un revival senza confini. Dagli Stati Uniti all’Australia era tutto un ribollire di gruppi garage-punk che riprendevano i vecchi hit delle storiche bands degli anni sessanta. Ma a Shino non importava la gloria, voleva essere uno degli Stige. E dunque lo fu, di nuovo e per sempre. L’occasione di ricompattarci ci fu offerta da un concerto a Bari, nell’ambito di una manifestazione antimilitarista organizzata dagli anarchici. Da pochi giorni avevano occupato uno spazio nella parte vecchia della città, una specie di fabbrica col tetto sfondato e le pareti attaccate con lo sputo. L’atmosfera che vi si respirava era gioiosa e confusionaria, animata da manate sulle spalle, richiami all’attivismo e gesti istintivi non mediati. Quando uscimmo da lì per dirigerci sul luogo del concerto alcune vecchie signore sorridenti si sporsero dalle finestre delle loro case. Erano edifici secolari con i muri scrostati, incorniciati da edera rampicante e fiori gialli. “Che c’è oggi, che c’è?”, chiedeva una. “Un concerto contro tutte le guerre” le rispondeva un’altra, “per un mondo migliore e in pace con tutti”. Allora la voce correva di casa in casa. Dai balconi si levavano le grida di donne rugose e poppute che 107 stendevano biancheria canticchiando oscure litanie. Uomini senza mestiere bofonchiavano qualcosa in dialetto indicando il luogo del concerto, un piccolo spiazzo sul lungomare battuto dalla brezza. I vecchi sorridevano, e pregustando l’evento si avvicinavano verso il mare, ognuno trascinando a fatica la sua sedia di vimini intrecciati. Quando il concerto iniziò ebbi l’impressione di vivere in una fiaba. Frontalmente avevo questo muro umano che si alimentava di sudore succhiato, urla senza suono, braccia e corpi aggrovigliati che reclamavano il doloroso diritto allo sfinimento. Un popolo giovane che mi sputava la propria angoscia dritto in faccia, che farneticava con orgoglio un legame con gli alberi e le bestie, che strappava il microfono per lasciare una traccia della sua presenza, della sua utilità, o che semplicemente cercava un pretesto per convincersi che sì, era vivo, respirava, si frantumava. Ma se lo sguardo oltrepassava il primo fronte, la sana vigoria dell’adolescenza, allora vedevi questi volti segnati dal tempo, lievemente sorridenti, dolcemente malinconici, perduti sullo sfondo della piazza, placidamente seduti sulle loro seggiole, applaudire con un cenno del capo appena abbozzato. Era una magia. Mai più avrei provato quelle emozioni…

Fu in quel periodo che nacque l’esigenza di fare un disco. La gente lo voleva, noi ci sentivamo pronti. Lo studio di registrazione ci fu consigliato dagli Infezione, era perduto in splendida solitudine nella campagna toscana e uno dei tecnici del suono era Alessandro Paolucci dei Raw Power. Così prenotammo due stanze in una pensione della periferia pisana. Il prezzo era buono, ma le lenzuola dei letti pullulavano di strani animaletti che volevano banchettare con la nostra carne, e i bagni erano pieni di stronzi enormi e puzzolenti che avevano intasato i condotti. In più c’era la proprietaria dell’albergo, una vecchia avida e dall’aspetto truculento, che ogni sera ci fulminava con uno sguardo maniacale da assassina. Era un incubo. Passavamo le notti con gli occhi aperti, svegli fino all’alba, per la paura che venisse a scannarci nel sonno. Shino fu colpito da un attacco di panico. “Ci ucciderà, 108 stendevano biancheria canticchiando oscure litanie. Uomini senza vedrete, ci entrerà nelle viscere con i coltelli” diceva ogni volta che mestiere bofonchiavano qualcosa in dialetto indicando il luogo del l’oscurità scendeva sull’albergo con il suo carico di mistero e concerto, un piccolo spiazzo sul lungomare battuto dalla brezza. I afflizione. vecchi sorridevano, e pregustando l’evento si avvicinavano verso il Ogni mattina ci dirigevamo verso lo studio con gli occhi gonfi e il mare, ognuno trascinando a fatica la sua sedia di vimini intrecciati. cuore a pezzi. Durante la registrazione non riuscivamo a scaricare Quando il concerto iniziò ebbi l’impressione di vivere in una fiaba. sugli strumenti la rabbia necessaria. I risultati erano così deludenti… Frontalmente avevo questo muro umano che si alimentava di sudore dannazione, dove era finito il terrorismo sonoro degli Stige? Anche i succhiato, urla senza suono, braccia e corpi aggrovigliati che soldi finirono troppo presto. Riuscimmo a incidere solo sei pezzi. reclamavano il doloroso diritto allo sfinimento. Un popolo giovane Erano troppo pochi per giustificare l’uscita di un disco, e infatti il che mi sputava la propria angoscia dritto in faccia, che farneticava con disco non uscì. orgoglio un legame con gli alberi e le bestie, che strappava il Fabio rimase profondamente deluso e lasciò il gruppo pochi giorni microfono per lasciare una traccia della sua presenza, della sua utilità, dopo. Si sentiva frustrato dall’esperienza pisana, ma era anche tentato o che semplicemente cercava un pretesto per convincersi che sì, era dall’opportunità di suonare nei Superflui, sempre più esaltati dal vivo, respirava, si frantumava. Ma se lo sguardo oltrepassava il primo movimento garage-punk italiano. Da un giorno all’altro ci ritrovammo fronte, la sana vigoria dell’adolescenza, allora vedevi questi volti così senza chitarrista e senza disco, e per un paio di mesi il futuro segnati dal tempo, lievemente sorridenti, dolcemente malinconici, della band rimase appeso a un filo. Nonostante i nostri sforzi non perduti sullo sfondo della piazza, placidamente seduti sulle loro riuscivamo a trovare un sostituto che fosse all’altezza del compito. seggiole, applaudire con un cenno del capo appena abbozzato. Era una Nell’attesa che la situazione si chiarisse, assemblai i pochi pezzi magia. Mai più avrei provato quelle emozioni… registrati a Pisa e ne feci il secondo demo ufficiale degli Stige. Ancora una volta la buona accoglienza delle fanzine e delle riviste Fu in quel periodo che nacque l’esigenza di fare un disco. La gente specializzate salvarono il gruppo dallo scioglimento. Paolo Piccini lo voleva, noi ci sentivamo pronti. Lo studio di registrazione ci fu esaltò senza mezzi termini quello che lui stesso definì il nostro “no- consigliato dagli Infezione, era perduto in splendida solitudine nella frills style”. campagna toscana e uno dei tecnici del suono era Alessandro Paolucci “La musica?” scriveva con feroce determinazione sulle pagine di dei Raw Power. H.M., “purissimo speedcore senza compromessi, veloce e violento, Così prenotammo due stanze in una pensione della periferia pisana. impreziosito da rabbiosi assoli di chitarra e da sporadiche influenze Il prezzo era buono, ma le lenzuola dei letti pullulavano di strani metal che comunque non modificano l’impronta massicciamente animaletti che volevano banchettare con la nostra carne, e i bagni hardcore ostentata dai quattro ascolani. Un cauto accostamento può erano pieni di stronzi enormi e puzzolenti che avevano intasato i essere fatto con i Raw Power, ma gli Stige sono parecchio più veloci condotti. In più c’era la proprietaria dell’albergo, una vecchia avida e della band emiliana, con la quale hanno però in comune una notevole dall’aspetto truculento, che ogni sera ci fulminava con uno sguardo intelligenza compositiva, che evita la caduta nel “rumore” anche alle maniacale da assassina. Era un incubo. Passavamo le notti con gli andature più accelerate…Le nuove tracks radicalizzano ulteriormente occhi aperti, svegli fino all’alba, per la paura che venisse a scannarci lo stile già parecchio estremista del recente passato, rivelandosi nel sonno. Shino fu colpito da un attacco di panico. “Ci ucciderà, nettamente superiori. “Charlie” è una track ispirata a Charles 108 109 Manson, un pezzo incredibilmente potente, dominato, come gran parte dell’intero demo, dalla ruvida chitarra di Fabio; un grandissimo brano che da solo vale l’acquisto del nastro. Nel resto della cassetta si assiste ad altri ottimi episodi di hardcore terroristico, soprattutto in “Rispondi” e “Lasciato solo”, che aggirano molti dei luoghi comuni di questo stile, definendo un attacco tanto intenso quanto personalizzato”. Era incredibile. Se tornavo con la mente agli incubi della pensione pisana il successo del demo mi appariva sinceramente inspiegabile. Eppure la realtà era nel tono divertito ed entusiastico con cui tutti parlavano dei nostri nuovi pezzi. Tornai ad essere ottimista. La voglia di esplodere contro l’orrore della massificazione mi salì nuovamente al cervello come un cancro in fase avanzata. Improvvisamente ero nuovamente alla ricerca del contatto violento nell’esibizione live, dei colpi sordi e dolorosi, dell’agire col mio corpo sul corpo di un altro. In aggiunta a questo il nuovo chitarrista venne fuori come per incanto. Alvaro aveva solo sedici anni. Suonava il violino e il pianoforte, con una vera passione per l’heavy metal gotico e classicheggiante. Era un bimbetto strampalato e confuso, lo stesso che puoi incontrare oggi lungo i viali alberati della periferia assonnata, le mani regolarmente sprofondate nelle tasche del cappotto, i capelli scarruffati, il bavero rialzato per difendersi dall’ultimo refolo di vento. Quando gli chiesi di suonare negli Stige accettò con entusiasmo. Era la prima volta che faceva parte di un gruppo e la cosa gli piaceva. Per la verità fin dal primo giorno mi diede l’impressione di adattarsi al rumore solo per i sussulti dell’emozione, ma quando cominciai ad offenderlo perché interpretava alcuni vecchi pezzi in stile thrash metal, lui non si scompose per niente. Mantenne quell’atteggiamento orgoglioso da borghesuccio che tanto mi faceva incazzare, così, per sfida. Superava i miei giudizi con un sarcasmo agghiacciante. Dopo tre mesi di prove il vecchio repertorio era pronto. Avevamo anche ricominciato a fare concerti, in verità con risultati non molto soddisfacenti. Io continuavo a grugnire in un idioma incomprensibile, gli altri sembravano dei pazzi che correvano a velocità supersonica 110 Manson, un pezzo incredibilmente potente, dominato, come gran parte senza preoccuparsi di dare una struttura ben precisa alle canzoni. dell’intero demo, dalla ruvida chitarra di Fabio; un grandissimo Sembrava che il buon nome del gruppo fosse destinato a imbastardirsi brano che da solo vale l’acquisto del nastro. Nel resto della cassetta per l’avventatezza con cui tiravamo dritto per la nostra strada, ma per si assiste ad altri ottimi episodi di hardcore terroristico, soprattutto in dirla con le parole di Maurizio Taccia eravamo pur sempre un gruppo “Rispondi” e “Lasciato solo”, che aggirano molti dei luoghi comuni punk, no? di questo stile, definendo un attacco tanto intenso quanto Nell’estate del 1988 cominciai a progettare Attitudine Mentale personalizzato”. Positiva, l’ennesima compilation per Goddam Church Records. Era incredibile. Se tornavo con la mente agli incubi della pensione Stavolta il mio desiderio era quello di mettere insieme 32 gruppi pisana il successo del demo mi appariva sinceramente inspiegabile. italiani in un solo disco. Volevo coprire l’intero spettro della musica Eppure la realtà era nel tono divertito ed entusiastico con cui tutti underground, dal punk all’hardcore, dal garage all’heavy metal… Era parlavano dei nostri nuovi pezzi. Tornai ad essere ottimista. La voglia un progetto ambizioso ma eccitante. Il doppio LP uscì nel dicembre di di esplodere contro l’orrore della massificazione mi salì nuovamente quell’anno. Penso che sia ancora oggi l’unica esperienza del genere al cervello come un cancro in fase avanzata. Improvvisamente ero progettata e portata a termine da un’etichetta indipendente. Gli Stige nuovamente alla ricerca del contatto violento nell’esibizione live, dei vi parteciparono con una versione di Charlie, che il solito Piccini colpi sordi e dolorosi, dell’agire col mio corpo sul corpo di un altro. In recensì con toni evangelici: “Power hardcore di razza. Un muro aggiunta a questo il nuovo chitarrista venne fuori come per incanto. sonoro di proporzioni immani per la nuova versione del miglior Alvaro aveva solo sedici anni. Suonava il violino e il pianoforte, con episodio dell’ultimo loro demo. Eccezionali e sottovalutati: due una vera passione per l’heavy metal gotico e classicheggiante. Era un aggettivi che dispiace vedere accostati”. Il disco includeva, in bimbetto strampalato e confuso, lo stesso che puoi incontrare oggi incognito, anche una canzone dei Dictatrista, ripresa dalla session per lungo i viali alberati della periferia assonnata, le mani regolarmente Istinto selvaggio. Il nome che utilizzai per il gruppo, Un Falso sprofondate nelle tasche del cappotto, i capelli scarruffati, il bavero Scherzo, era un trucco. Non lo avevo ancora rivelato a nessuno. Sei un rialzato per difendersi dall’ultimo refolo di vento. Quando gli chiesi di privilegiato, ti rendi conto? suonare negli Stige accettò con entusiasmo. Era la prima volta che faceva parte di un gruppo e la cosa gli piaceva. Per la verità fin dal primo giorno mi diede l’impressione di adattarsi al rumore solo per i sussulti dell’emozione, ma quando cominciai ad offenderlo perché interpretava alcuni vecchi pezzi in stile thrash metal, lui non si scompose per niente. Mantenne quell’atteggiamento orgoglioso da borghesuccio che tanto mi faceva incazzare, così, per sfida. Superava i miei giudizi con un sarcasmo agghiacciante. Dopo tre mesi di prove il vecchio repertorio era pronto. Avevamo anche ricominciato a fare concerti, in verità con risultati non molto soddisfacenti. Io continuavo a grugnire in un idioma incomprensibile, gli altri sembravano dei pazzi che correvano a velocità supersonica 110 111

LASCIA O RADDOPPIA?

Intanto si avvicinava il giorno della mia morte. Avrei tirato le cuoia il 26 marzo 1989, secondo le previsioni di una mucca nera sognata a tre anni. Da bambino la rivelazione non mi aveva turbato per niente. Ero uno spiritello agitato con una spiccata simpatia per la magia e il senso tragico, la morte non rappresentava ancora la fine di tutto. Il disagio e la paura mi assalirono più tardi, quando fu sempre più evidente che la profezia era vera. Come era possibile mettere in dubbio la parola della mucca nera, il suo presentimento di morte? A vent’anni cominciai a dare forma alla rigidità cadaverica. Associai l’odore del disfacimento della carne alla vuota cavità del nulla, al sordo rimbombo delle ossa che diventano polvere. Era un’ingiustizia. Non solo, era una forma di violenza. Così, mentre il gruppo cominciava a lavorare ai nuovi pezzi, quelli che avrebbero dato forma e sostanza al nostro sospirato LP d’esordio, io cercavo di mettere a posto le povere cose della mia avventura terrena. Affidai le ultime volontà a un taccuino da viaggio, in cui erano elencate con rigido formalismo le mie proprietà: sei milioni di vecchie lire da lasciare in eredità alla riserva indiana di Pine Ridge, per l’educazione tradizionalista e l’istruzione dei giovani; una bandiera del Torino football club, che chiesi accanto a me nell’oscurità della bara per alleviare il mio senso di solitudine e lo stordimento dettato dalla confusione; la mia raccolta degli albi a fumetti di Ken Parker, che decisi di lasciare a una ragazza irlandese che faceva ricerca scientifica sull’alga sbirulina. La immaginai con i capelli rosso fuoco, sola e testarda nella poesia delle maree, con un solo desiderio marchiato a fuoco nella testa: riportare gli abitanti dell’isola alla vecchia dieta di un tempo, quando evidentemente i tumori alla mammella erano rari esempi di corruzione morale. 113 All’inizio del mese di marzo il destino mi giocò l’ultimo scherzo. Fui convocato negli studi televisivi di Corso Sempione a Milano per una riedizione di Lascia o Raddoppia?, un gioco a quiz affidato alla conduzione di Lando Buzzanca e Bruno Gambarotta. Dovevo rispondere a domande sulla storia degli Indiani d’America, un argomento che potevo affrontare ad occhi chiusi. Conoscevo ogni minimo particolare di migliaia di battaglie e piccole scaramucce. Sapevo quanti feriti e quanti morti c’erano stati in uno scontro e quanti in un altro, quanti cavalli erano caduti sul campo ogni volta, a che ora del giorno o della notte un generale aveva deciso di aggirare la retroguardia nemica con una manovra a tenaglia o con un atto di codardia. Insomma avevo questa allucinante catena di conflitti stampigliata nel cervello, pronta ad essere tirata fuori per rispondere a tutte le domande del mondo. In palio c’erano trecento milioni di lire ed ero sicuro di vincerli. Certo, non avrei potuto godermeli, perché fra pochi giorni sarei morto, ma i ragazzi di Pine Ridge, i piccoli guerrieri cresciuti all’ombra primordiale dell’unico modo di vivere, il modo tradizionale, mi avrebbero ricordato con lo stesso amore che dedicavano allo “strano uomo degli Oglala”, Tashunka Witko, il misterioso capo di guerra Sioux Cavallo Pazzo. Naturalmente le cose andarono in una maniera un po’ diversa. Fin dal principio gli autori pretesero da me un certo decoro istituzionale. Come dire… maniere e linguaggio degni di un leccaculo di professione, abbigliamento conforme a uno stato di allucinazione permanente, una faccia impiastricciata di cerone caramelloso, perché nascondesse quel pallore atavico che sembrava appiccicato alla stirpe dei Cannella dall’origine dei tempi. Rifiutai categoricamente tutte le opzioni. Così, fra Buzzanca che bestemmiava per l’inettitudine di Gambarotta, Gambarotta che piagnucolava per l’insensibilità di Buzzanca, ballerine che si aggiravano completamente nude per lo studio generando confusione nei concorrenti, responsabili di produzione che si guardavano negli occhi cercando di capire come fossero capitati in quella gabbia di matti, la tragica farsa ebbe finalmente inizio. “Signore e signori, da Ascoli Piceno, il signor Carlo 114 All’inizio del mese di marzo il destino mi giocò l’ultimo scherzo. Cannella”. Eccolo, avanza accompagnato da una bellissima ragazza Fui convocato negli studi televisivi di Corso Sempione a Milano per del corpo di ballo, sembra un barbone che abbia appena rubato un una riedizione di Lascia o Raddoppia?, un gioco a quiz affidato alla maglioncino ai grandi magazzini. Sfoggia un sorriso ebete come se conduzione di Lando Buzzanca e Bruno Gambarotta. Dovevo fosse imbarazzato, si gratta la testa, si muove nello spazio come un rispondere a domande sulla storia degli Indiani d’America, un robottino programmato male che sbaglia i passi e non sa guardare argomento che potevo affrontare ad occhi chiusi. Conoscevo ogni nello schermo. “Bene” dice Gambarotta, “questo signore ha valicato minimo particolare di migliaia di battaglie e piccole scaramucce. gli Appennini per salire fino a Milano, pensate…” Gli Appennini?!? Sapevo quanti feriti e quanti morti c’erano stati in uno scontro e quanti Poi arrivano le domande, e il signor Cannella scopre che forse ha fatto in un altro, quanti cavalli erano caduti sul campo ogni volta, a che ora troppo lo spiritoso, che questi pagliaccetti si sono perfino incazzati, del giorno o della notte un generale aveva deciso di aggirare la che tramano nell’ombra per sbatterlo fuori dalla competizione. C’è un retroguardia nemica con una manovra a tenaglia o con un atto di complotto, è chiaro. Nessuna mania di persecuzione, solo il doloroso codardia. Insomma avevo questa allucinante catena di conflitti tentativo di sostituire questo sovversivo con un buon signore in giacca stampigliata nel cervello, pronta ad essere tirata fuori per rispondere a e cravatta, solo questo… “Come si chiamava il cavallo sopravvissuto tutte le domande del mondo. In palio c’erano trecento milioni di lire alla battaglia del Little Big Horn, e in quale museo è custodita la sua ed ero sicuro di vincerli. Certo, non avrei potuto godermeli, perché fra carcassa?” Eccheccazzo... un complotto, un verminoso complotto pochi giorni sarei morto, ma i ragazzi di Pine Ridge, i piccoli guerrieri della nomenclatura Rai. Un atto purissimo di vigliaccheria. “Il cavallo cresciuti all’ombra primordiale dell’unico modo di vivere, il modo si chiamava Comanche” dico, ma dove cazzo è custodito, perdio, non tradizionale, mi avrebbero ricordato con lo stesso amore che lo so. “Diciamo nel museo del Montana, va bene?” No che non va dedicavano allo “strano uomo degli Oglala”, Tashunka Witko, il bene, è quello dell’Università del Kansas. E allora? Allora fuori… misterioso capo di guerra Sioux Cavallo Pazzo. davvero? Chi, io? Un complotto, dannazione, un complotto. Bieco, Naturalmente le cose andarono in una maniera un po’ diversa. Fin ringhioso, imputridito… dal principio gli autori pretesero da me un certo decoro istituzionale. Come dire… maniere e linguaggio degni di un leccaculo di professione, abbigliamento conforme a uno stato di allucinazione permanente, una faccia impiastricciata di cerone caramelloso, perché nascondesse quel pallore atavico che sembrava appiccicato alla stirpe dei Cannella dall’origine dei tempi. Rifiutai categoricamente tutte le opzioni. Così, fra Buzzanca che bestemmiava per l’inettitudine di Gambarotta, Gambarotta che piagnucolava per l’insensibilità di Buzzanca, ballerine che si aggiravano completamente nude per lo studio generando confusione nei concorrenti, responsabili di produzione che si guardavano negli occhi cercando di capire come fossero capitati in quella gabbia di matti, la tragica farsa ebbe finalmente inizio. “Signore e signori, da Ascoli Piceno, il signor Carlo 114 115

UNITI NELL’ ABBRACCIO

Tornai in fabbrica con il respiro della morte addosso. Ero un sacco vuoto, un vecchio muto, una bestia stordita. Roteavo gli occhi nel nulla, un odore acre di polvere mi scendeva nelle budella e mi dava la nausea. Il 25 marzo, il giorno prima della mia morte, andai a Senigallia per la registrazione del disco. Il gruppo aveva già suonato le parti strumentali in un’unica sessione, otto ore senza interruzioni vissute col fiato corto. Gli Stige erano a pezzi. Un sudore lucido era scivolato sui loro corpi infradiciandoli da capo a piedi. La sera, sfiniti, avevano passato tutto il tempo a guardarsi negli occhi. La fatica li aveva innervositi e trasformati in fantasmi silenziosi. Quando li raggiunsi si erano appena addormentati. Così mi ritrovai più impaurito e solo che mai, dovevo ancora scrivere i testi delle canzoni e non sapevo nemmeno di cosa parlare. Passai la notte a riempire di pensieri contraddittori decine di fogli di carta svolazzanti. A volte il dolore fisico si mischiava a quello della mente, generando un suono breve e lamentoso che era soltanto il preludio di un nuovo concetto. Per una specie di concessione riservata ai condannati a morte, riuscii a scrivere i testi in sei ore. La prima luce dell’alba filtrò nella camera proprio nel momento in cui mettevo a posto l’ultimo verso di Cleptocrazia. Aprii la finestra, guardai il mare mentre si frantumava sulla scogliera. L’aria odorava di sale, e io la respirai avidamente. Era il mio ultimo giorno di vita, ero triste, e mi sentivo rimbalzare il cuore in gola. Richiusi la finestra e cominciai a radermi. Guardavo la mia faccia nello specchio e non mi riconoscevo. Più il tempo passava più mi sentivo un estraneo. Ma non ero un nichilista, io? Sì, sì, il profeta dell’attitudine bieca e distruttiva, dunque fanculo tutti, cosa c’era da dire o da guardare? Niente, solo ascoltare il rantolo del condannato, il 117 disgusto che fuoriusciva dalla bocca del guerrigliero, quello che aveva fatto cinquanta guerre e le aveva perse tutte… “Mondo, mi senti? Schiavo del rispetto, della preghiera, della subordinazione, mi senti? Ripostiglio della stupidità, adoratore genuflesso del simbolo, del mito, della moralità, mi senti? Marcio sistema di dominio della razza di cristo, mi senti? Eredita la sua croce, succhia il sangue dolce della redenzione, mangia la figlia prediletta della ragion di stato, la conformità. Allora, mondo, mi senti? Io te lo dico, io lo urlo: tu sopravviverai nell’oscurantismo per l’eternità, io muoio adesso nella luce!” Urlai così forte che l’universo si svegliò. Peppe disse che era stato per il ticchettio nervoso del mio rasoio sul lavandino del bagno, ma io penso che sia successo per la vibrazione dell’aria. Altrimenti, pensai, l’universo si sarebbe riaddormentato senza una parola, e invece lo potevo sentire mentre borbottava rancoroso contro di me. Deglutiva fiele per la rabbia e giurava vendetta. Beh, alla malora… Dopo due ore di brutale eruzione vocale il primo disco degli Stige fu pronto per il mixaggio. Ad un primo ascolto il timbro della voce si rivelò cattivissimo. Mai avevo raggiunto una forma di espressione così violenta e disperata. E i testi erano talmente abrasivi e incazzati che potevano tranquillamente essere fuoriusciti dalla mente di un ammalato astioso e decadente. Il mixaggio andò avanti per tutta la giornata. Secondo la rivelazione della mucca nera mi restavano solo poche ore di vita. Era terribile. Ma alle dieci di sera ero ancora vivo e il gruppo si accingeva a riavviarsi verso casa con la gioia di avere finalmente registrato un disco. “Ragazzi miei” dissi, “io, adesso, devo morire. Non portatemi in macchina con voi. Aspettiamo insieme”. Ecco, vedi? Temevo di accomunare al mio destino quello di poveri innocenti che mai avevano sognato mucche o altri animali con proprietà divinatorie. Il mio senso di responsabilità sfiorava la paranoia. “La strada” dico ancora, “è un nemico subdolo, di notte”. “La strada” mi risponde Shino, “è il marchio di fabbrica della gente con i coglioni”. 118 Bene, non so se per la vendetta di un dio nemico, oppure per l’impressione esercitata, il viaggio di ritorno assunse i contorni di una tragedia greca, di quelle che si raccontano ai nipotini quando si è vecchi e inutili. In quel tempo nessuno di noi sapeva che Shino soffriva di devastanti crisi d’ansia, momenti di panico che lo assalivano improvvisamente senza una ragione precisa, privandolo di ogni residua forza interiore e abbandonandolo alla tetra disperazione. Lo scoprimmo all’altezza del casello di Ancona nord, quando il suo volto picchiò sul volante con un lungo aggrrr pieno di orrore e la macchina sbandò fino a sfiorare il guard-rail che delimitava la corsia. Un fiotto di saliva, denso e caramelloso come zucchero, fuoriuscì dalla sua bocca schiumando impazzito. Solo allora, mezzo paralizzato dalla paura, riuscì ad accostare sulla corsia d’emergenza. Respirò profondamente, ma non permise a nessuno di sostituirlo alla guida, né di scendere dalla macchina. Dopo un po’ riprese la sua corsa bestemmiando, chino sul volante, nel tentativo di ritrovare la ragione. Inutilmente. Il viaggio fu contaminato dal nostro sano istinto di conservazione, con un turbinare di mani impetuoso e un vociare isterico che cercavano di strappare il conducente al suo stato di alterazione psichica. Peppe tornò con la mente allo spaventoso aggrovigliarsi di lamiere a cui era già sopravvissuto una volta, ai diecimila capottamenti e alle feroci bestemmie della sua notte più tenebrosa. La buona fortuna era già stata dalla sua parte sei anni prima e non c’era motivo per stuzzicarla ancora. Eppure la macchina fiancheggiò centinaia di autotreni con agghiaccianti tentativi di schianto laterale, ribaltamento, strambe evoluzioni a smodata velocità, senza sfracellarsi contro i fantasmi delle nostre ossessioni, né trovare il modo di cancellare per sempre i nostri nomi dal libro del mondo. All’alba, dopo otto ore di viaggio inframmezzate da stordenti allucinazioni, soste ristoratrici e nuove convulsioni, le prime case di Ascoli accolsero quattro fantoccetti sfigurati dalla tensione, pallidi come stracci, anemici, deliranti. Alle sette di quella mattina mi addormentai sfinito e senza pensieri, dimenticando di sorprendermi 119 per la profezia della mucca nera, sbagliata come tutte le profezie del mondo. E non mi sorpresi nemmeno durante il sonno, quando la stessa mucca m’apparve sfolgorante di luce, bianca come il latte, con un cannone di marijuana in bocca e l’aria beffarda di un filosofo cinico. “In verità, in verità ti dico” esclamò a gran voce la mucca bianca, “tu sarai immortale”. Il disco uscì in estate, prosciugando il mio conto corrente. I bambini della riserva indiana di Pine Ridge avrebbero purtroppo aspettato invano la mia eredità. Adesso ero un immortale, capisci? Sulla copertina c’era la figura scarnificata di un uomo senza braccia, che risorgeva dalla morte col cuore espulso dalla cassa toracica, viti e bulloni fra le giunture degli arti e il desiderio assassino di distruggere il mondo con la sua rabbia. La mia intenzione era quella di farne un simbolo della rinascita hardcore, del senso di appartenenza a una visione del mondo e delle cose, e forse per questo lo chiamai Uniti nell’abbraccio. In agosto, approfittando di un periodo di ferie, raggiunsi gli Infezione a Napoli, da dove proseguimmo insieme per una serie di concerti nei centri sociali occupati di mezza Italia. Approfittai dell’occasione per pubblicizzare l’uscita del disco e per contattare nuovi distributori. Ma la spinta definitiva venne ancora una volta da Paolo Piccini, che recensì Uniti nell’abbraccio nella sezione del suo giornale dedicata alle grandi uscite internazionali, fra Dirty love dei Motorhead e Join together dei redivivi Who. “Gli Stige, quartetto proveniente da Ascoli Piceno, fanno parte di quel tipo di bands che piuttosto di cercare di attirare sempre e comunque l’attenzione del pubblico su di loro con polemiche, prese di posizione, arroganza e chi più ne ha più ne metta, preferiscono rimanere in un certo senso ai margini del circuito e lavorare duro sul proprio progetto, non cercando necessariamente l’affermazione su vasta scala che probabilmente snaturerebbe sotto vari aspetti l’attitudine di tutta la faccenda. Inevitabile che chi scelga atteggiamenti di questo tipo venga alla fine tagliato fuori dai giri che altre formazioni ritengono “fondamentali”, ed ecco dunque spiegato perché gli Stige, malgrado una qualità sonora e compositiva 120 incredibile, risulteranno probabilmente sconosciuti a gran parte del pubblico estremista, troppo spesso “underground” soltanto a parole. Senza la minima enfasi da parte dei propri autori, esce in questi giorni “Uniti nell’abbraccio”, l’LP di debutto dei marchigiani, che segue la realizzazione di un eccellente demo e la partecipazione a due compilations, “People of the pit” e “Attitudine mentale positiva”, prodotte da loro stessi. L’album è una grande prova di hardcore rabbioso e maturo, a metà fra l’urgenza espressiva e la velocità smodata dell’hardcore nazionale epoca ‘84/’85 ed elementi più moderni, influenze metal non escluse, seppure contenute. Nove brani diretti e durissimi, che dimostrano una coesione interna arrivata a livelli invidiabili ed un’originalità più che dignitosa. Violenti ma lucidissimi nelle soluzioni strumentali, gli Stige infilano una serie di winners da fare invidia ai loro colleghi più quotati, come “L’inferno dentro”, “Fede”, una lunga ed intensa “Cleptocrazia”, “Tendenze omicide” e la terremotante “Stige”, una scarica di cruda elettricità che conclude in maniera degna un disco che riconferma la statura qualitativa di tutto rispetto in possesso di Heinmont Tooyalaket (fra l’altro ex-componente dei Dictatrista, punk band ascolana della primissima ora) e soci. L’unico motivo di disappunto è la non inclusione di “Charlie”, una delle tracks più intense del loro repertorio…” Anche Maximum Rock’n’Roll ritornò ad occuparsi di noi con una recensione di Jeff Bale: “Nove potentissime canzoni ottimamente registrate ci mostrano un gruppo fautore di un hardcore che per molti versi ricorda i Negazione. Questa somiglianza si deve in gran parte all’impostazione e alla timbrica del cantante. Tra i brani, tutti corredati da testi interessantissimi, si elevano “Lacrime inutili”, “Fede” e “L’inferno dentro”. Un buon lavoro”.

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MACELLO

Non so perché Paolo pensasse che il pubblico non si accorgesse di noi. Non era così. Nel 1989, forse l’anno più buio e difficile per il movimento hardcore, solo i Negazione e i Raw Power potevano vantare in Italia un interesse e una considerazione maggiori. Sì, è vero, questi gruppi incidevano per etichette indipendenti ma prestigiose, la tedesca We Bite, l’americana Toxic Shock, erano in tour per buona parte dell’anno, davano un senso alla loro militanza confrontandosi con centinaia di migliaia di persone sparse su cinque continenti. Gli Stige, invece, languivano in Ascoli Piceno, si guardavano negli occhi con un vago accenno di crudeltà, cercavano di convincersi che un giorno sarebbero saliti su un autobus scassato e avrebbero suonato da qualche parte verso questo mondo, anche loro, dettando nello stesso tempo le nuove condizioni della loro esperienza umana, i principi ideologici della loro nuova vita di vagabondi e dignitosi eroi primordiali. Ma intanto la gente ci amava. Avremmo potuto suonare ogni giorno, raccogliere l’invito di tanti amici che erano pronti a sacrificare per noi il loro tempo e il loro denaro. E invece no. Aggrappati al nostro piccolo maleodorante spazio vitale, ai nostri meschini lavori di merda, dedicavamo ai sogni lo spazio necessario per continuare a sopravvivere. Qualche concerto me lo ricordo bene, però. Quello di Firenze, ad esempio, con un pazzo amico danese steso sul portabagagli del treno Bologna-Firenze, a picchiettare con l’indice sul cappello del controllore. Era una bestia d’uomo, lui, nato da madre scandinava e padre piceno, perennemente ubriaco, casinista, con una pancia enorme e il braccio teso in atteggiamento offensivo. Aveva un soprannome da battaglia che non poteva descriverlo meglio, Macello, solo e inarrivabile nel suo delirio narcisista. Sbraitando come un ossesso sbarcò quel giorno alla stazione di Santa Maria Novella, dove vomitò 123 la sua ultima sbornia in un cestino dei rifiuti. Poi, evidentemente ristorato, vagabondò con il suo skate fra le rotaie dei treni, fino a far impallidire il macchinista di un intercity in arrivo, un ometto col volto paonazzo e gli occhi sgranati per l’incredulità. Il pover’uomo vide questo bestione di un quintale arrestare il suo skate a dieci centimetri dal treno in movimento, temendo fino all’ultimo di veder esplodere quell’ammasso di carne in centomila pezzi di budella e sangue. Allora il vichingo sghignazzò molto delicatamente, con lieve accenno da femmina, sollevando la manina in un saluto stridulo da omosessuale e mandando affanculo il macchinista. Il mondo sorrise. Il concerto doveva tenersi all’Indiano occupato, una palazzina in fondo alle Cascine che marciva da anni, inutilizzata e dimenticata come tanti altri edifici pubblici di Firenze. Ora era un posto in cui con molti sforzi si creava aggregazione fra i giovani, un sasso lanciato negli stagni immobili dell’apatia, una lotta giornaliera contro i mercanti del divertimento istituzionale. E all’Indiano scoprimmo anche la bella storia del Maharajah di Kholapur, Rajaram Chuttraputti, che inconsapevolmente aveva dato il nome al posto. Con il punk e gli Stige non c’entra gran che, ma te la racconto lo stesso, per darmi le arie di uno scrittore vero. In realtà è un trucco per allungare i tempi… Era il novembre del 1870. Arrivò a Firenze questo indiano di vent’anni, con un sontuoso seguito di sedici persone e, si disse, tre mogli. Scesero alla Locanda della Pace, nella piazza di Ognissanti. Tornavano in India e dovevano imbarcarsi per Bombay da Livorno. I fiorentini erano curiosi di vedere quel gran signore e il suo corteggio: invano. Cinque giorni dopo l’arrivo era morto. Di una gastroenterite fulminante, si disse. Lo spettacolo venne dopo. Fu concessa una speciale autorizzazione al rogo funebre, da tenersi in piena notte, sull’Arno, alla punta estrema delle Cascine, nella massima segretezza. In realtà fin dalla sera si radunò una folla di centinaia di persone. Il corteo funebre, di soli uomini, arrivò alle due e mezza. La cerimonia fu lenta e solenne. Il principe era avvolto in sete rosse e oro, tempestato di gemme. Aveva una collana di perle di madornale grandezza. La pira fu unta e profumata, e incendiata. Le ceneri sparse 124 nell’Arno. Il terreno cosparso di riso e ceci, e asperso d’acqua. Angelo De Gubernatis, professore a Firenze, il più famoso indianista italiano, spiegò la tradizione ai lettori del Fanfulla. Quattro anni dopo una delegazione venne a inaugurare solennemente un monumento al Maharajah in nome della principessa madre Ahilya Race. Era un’edicola. Al centro aveva un busto policromo scolpito dal famoso Fuller. Scrisse un popolare cronista: “Quelli che si aspettavano di vedere un orribile moro col naso schiacciato, le labbra rigonfie, e i capelli a imbottitura di canapè, rimasero di sale a vedere quella bella faccia dalle linee purissime, modellato sul tipo nostrano e meridionale”. Il monumento è ancora prediletto dai turisti e dalle cartoline illustrate. Una volta, in un chiosco non lontano dal luogo del concerto, si vendevano addirittura certe bottiglie di liquore “indiano”. Adesso basta, però. Se vuoi saperne di più leggiti L’Indiano di Firenze, un’elegante edizione numerata e illustrata, curata da Costanza Olschki e scritta da Giustino Santi. Il concerto me lo ricordo bene, dicevo. E’ strano, di solito dimentico tutto. Sto scrivendo questo libro per guarire, queste pagine sono una terapia per la memoria. La cena fu servita alle otto in punto, subito dopo il sound-check. Il cuoco era un attempato sessantenne con la fronte imperlata di sudore e le mani incerottate. Alvaro lo immaginò malato di Aids e incattivito dal suo destino di morte. Quando lo vide gettare a mani nude la pasta nell’acqua, un fremito d’indignazione agitò il suo corpo. Succede a tutti, penso, di sentire il peso di un’educazione improntata ai sacri principi del rispetto altrui. Alvaro aveva in sé i sogni della costruzione morale, del rigido formalismo, il senso del rispetto reciproco, e non voleva convincersi che l’universo stesse rotolando verso l’abisso come uno spuntone di roccia. Rifiutò il cibo con l’aria stizzita e bullesca di un ergastolano, a nulla valse la mia preghiera perché accettasse quel cibo con riconoscenza. E quando arrivò il momento di salire sul palco lo fece con il fastidioso convincimento che fosse tutto inutile, tutto esagerato, tutto squallidamente improntato alla decadenza. Macello, invece, fece onore al suo nome saltando addosso alla gente con 125 un’energia da pazzo invasato e arringando il popolo hardcore al selvaggio mucchio umano. Quando il concerto finì un furioso uragano avvolse Firenze in una atmosfera da incubo caraibico. Una pioggia incessante, sferzata da un vento gelido, picchiò sulle pareti dell’Indiano. Il telone di plastica che copriva lo stanzone adibito ai concerti crollò sotto il peso dell’acqua. I Fall Out di La Spezia, che avrebbero dovuto chiudere la serata, furono costretti a improvvisarsi idraulici, elettricisti ed ingegneri. Non so se riuscirono a ripristinare gli impianti e a suonare. Noi eravamo già in viaggio verso la stazione, con la segreta convinzione di saper generare eventi soprannaturali. Scaricammo Macello in uno scompartimento vuoto. Era talmente ubriaco che non riusciva a stare in piedi, vomitava a intermittenza e biascicava invettive dal vago sapore terroristico. Aspettammo che si addormentasse per prendere posto in un altro scompartimento della stessa carrozza. Eravamo stanchi e volevamo abbandonarci, non pensare a niente, solo dormire, dormire, dimenticare… e invece no. Verso le due l’urlo furente di Macello squarciò il silenzio della notte. Dal buio fuoriuscì un’ombra atterrita, era un controllore. Si precipitò verso di noi con gli occhi fuori dalle orbite. Era bastato che chiedesse il biglietto al gigante danese per scatenare la sua furiosa reazione. Aveva la divisa tutta imbrattata di vomito. Tremava. Quasi piangeva. “Lo conoscete, quello? E’ un amico vostro, quello?” Noi ci guardammo in viso nel tentativo di nascondere la vergogna. Negammo come tanti apostoli di cristo. “Chi, lui? No”.

126 GLI ADDII

Ora immagina il mio turbamento. Dicono che un ragazzo abbia deciso di farla finita con un colpo di fucile in testa. Dicono pure che abbia premuto il grilletto ascoltando il nostro disco, lì dove la voce non riesce a nascondere il dolore. La canzone si chiama Lasciato solo. L’ho scritta col fiato della mucca nera sul collo. Il ragazzo vaga nella notte alla guida di una macchina scassata. Ascolta la canzone con il suo registratore portatile. La senti? “Ho nascosto tutto il mio dolore, ed ho nascosto la pazzia, ed ho nascosto me. Il mio cuore si è fermato…” Al ragazzo non piacciono le città né gli assembramenti. Perciò si ferma davanti a un vecchio convento abbandonato. Scende dalla macchina, sale i gradini sdrucciolevoli, va e viene per i corridoi scrostati con l’impazienza triste di un recluso. Ha una maniera di muoversi che è un raro miscuglio di virilità e gentilezza. La canzone lo avvolge. “Ho gridato tutta la mia rabbia, come un pazzo, senza risposte. Ora cosa devo fare? Sono stanco di esser messo dalla parte del marciume dell’umanità. E’ tutto così strano, non ho più nessuno vicino…Sono stanco, e sono uno sconfitto”. Ora la storia è agli sgoccioli. Il ragazzo respira la puzza di dio che ha impregnato le pareti del convento per tre secoli, poi avvicina la canna del fucile al mento, ed elabora una lista di peccati gravi da rivendicare all’inferno con orgoglio. Anche la canzone è alla fine. “Chi mi ricorderà, chi piangerà per me quando sarò morto? Chi darà un senso, dopo, ai miei passi di adesso, alla mia voce, al mio amore per le cose che fuggono nel tempo, con il tempo?” Adesso il ragazzo è morto. Sembrava infrangibile, invece ha scritto un biglietto di addio con i suoi ultimi desideri, come fanno i deboli. Vuole il disco degli Stige nella tomba, e così, forse, viene disposto. Altrove un ombroso professore di lettere passeggia nervosamente. 127 E’ il vecchio Gianbruno, l’ossessionato agitatore del Virus, tornato in Ascoli Piceno con la ferma convinzione di avere alle spalle un esercito di spie, e uomini dei corpi speciali pronti a torturarlo per fargli rivelare segreti inconfessabili. L’occupazione di Via Correggio è ormai alle spalle, il Virus non c’è più, e lui si sente vuoto e inutile. Sopporta questa prova senza un lamento. Poi, un giorno, scrive l’ultima pagina dei suoi oscuri presentimenti. Passeggia, si ferma sul ponte, guarda giù, mentre il tempo scivola verso la propria liberazione, vertiginoso, lentissimo, accecato da una luce metallica. E’ un attimo, si butta, galleggia nel vuoto. Il suo ultimo viaggio è iniziato e non può più essere interrotto. Sembra animato dal respiro del mondo, non giungere mai a conclusione, ma è solo la percezione di una fine imminente. Eccola, finalmente, la fine, è un tonfo sordo di ossa rotte. Silenzio prima di nascere, silenzio dopo la morte. La vita è puro rumore fra due insondabili silenzi. Ma la città è quieta, sempre. Muore anche Michelle, non fisicamente ma nel mio cuore. Come ogni anno mi annuncia il suo arrivo con una lettera, I just wanted to tell you…, I’m very excited about meeting all of you…, hope you feel the same…, più o meno vuole dirmi le stesse cose di sempre: abbracci e bacini sulle guance. Io mi preparo ad andarle incontro con l’atteggiamento della canaglia ripugnante. Mi sento incapace di nascondere la mia rabbia, di contenere il mio disappunto. Lasciami in pace, penso. Il tuo ragazzo è bellissimo, ti ha promesso i dieci bambini che hai sempre desiderato, relazioni di alto bordo, gusti più raffinati dei miei. Cosa vuoi ancora da me? Io non ti amo più, non ti voglio più. Voglio dirle questo, lo giuro, glielo voglio gridare in faccia, voglio seppellirla con parole terribili. Una volta sono rimasto affascinato dai suoi occhi luminosi e dalla sua bocca carnosa. Questo non posso negarlo. Le sue labbra piene di succo, buone da mordere, mi avevano acceso il fuoco dentro. Ma il tempo ha spento quel fuoco definitivamente. Voglio dimenticarmi di lei, dimenticarmene per sempre, abbracciarla un’ultima volta e fuggire via. 128 Inoltre voglio scegliere un argomento di cui parlarle mentre l’abbraccio, un modo sprezzante e aggressivo di procedere nella conversazione, una litania di frasi compassionevoli che abbiano il potere di offenderla e di farmi odiare a morte, di allontanarla per sempre da me. Ma il destino decide in maniera diversa. Il suo aereo ritarda di sei ore e io non l’aspetto. Così non la vedo più, non ci sentiamo più, non ricevo più le sue lunghe lettere. Forse torna ogni anno, ancora adesso, forse esce da un bar un attimo prima che ci entri io. Forse è una mamma bellissima, forse è ingrassata e irriconoscibile, forse è impazzita. Di lei mi resta il suo ultimo pensiero, una maglietta con l’immagine stampata di Bugs Bunny che sgranocchia una carota. La storia è finita per sempre, ormai è troppo tardi per rimediare. E anche un’altra storia sta per finire, ancora una volta, per sempre…

129

LA FINE DEGLI STIGE

Spesso mi sono chiesto perché lasciai gli Stige. Non ho ancora trovato una risposta che soddisfi il mio innato carattere speculativo. Non lo so. Forse l’ho fatto perché non sono mai stato in grado di sopportare le peggiori sorprese, e quale sorpresa più amara di quella che ti prende alla gola quando ti senti rivoltare dalla rabbia? Il gruppo suonava ormai una forma evoluta di trash metal. Non era più lo stesso. Sono sicuro che ascoltato oggi, quindici anni dopo, sarebbe attualissimo. Ma cosa vuoi, un vecchio punk come me, non soggetto al cambiamento… E poi c’erano le ossessioni, i problemi di ognuno. Per Shino il problema era l’alcool. Da tre anni non buttava giù un goccio di vino. L’essere passato da un eccesso all’altro, da sbornie colossali all’astinenza penitente, dall’odio furente e maniacale alla riflessione e al contegno intellettuale, l’aveva trasformato in un burattino nevrotico, sempre sul punto di esplodere, ansioso e tremebondo. Per Alvaro, invece, il problema era l’onore. Il nonno aveva scritto un libro, una volta. Un vocabolario italiano-ascolano, roba da dedicargli un monumento. Povero vecchio, avesse avuto la possibilità di vedere e ascoltare quello che combinava quel suo nipote squinternato si sarebbe rivoltato nella tomba. E lui, Alvaro, il punk, era divorato dai fantasmi del dubbio, dalla paura di contravvenire ai dettami della buona educazione, dall’immagine della propria decadenza morale. Così, nonostante l’aria strafottente di sempre, era come se cercasse di costruire argini sicuri e accoglienti, e camminare nell’alveo di un fiume che scorresse placido e tranquillo. Ancora oggi cerca di distogliere da sé ogni pensiero che possa originare la scintilla del disordine, il rischio delle domande troppo difficili, quelle che restano sospese nel limbo dei pregiudizi e delle risposte inevase. E poi Peppe. Con lui le cose erano un poco più complicate. Lui, vedi, era il classico tipo che non mostrava considerazione per i problemi particolari. 131 Quello che lo interessava era il contesto generale. Se l’hardcore stava perdendo la sua carica eversiva originaria, se cercava di contaminare il suo spirito con vigorose spruzzate di musica alla moda, non per naturale evoluzione ma per rendersi più accettabile agli occhi dei ragazzini scemi, l’unica maniera di affrontare il problema, per lui, era quella di virare nella stessa direzione. E allora giù, ambizione tecnocratica, trame chitarristiche attorcigliate al nodo cruciale della complessità, cerimoniose, vulnerabili. Facile, ma non per me. Io ancora reggevo muto il confronto con la musica, aspettando di confrontarmi con la necessità, con le parole improvvisate, con l’interpretazione del testo. Cominciavo a capire quello che stava succedendo, ma non avevo il coraggio di crederci. Ogni dubbio, però, sparì nella primavera del ‘91, quando registrammo il secondo disco, Nuova sensazione freak. Le nuove canzoni erano strane, senza respiro, costruite intorno al sacro concetto dell’evoluzione tecnica. Sembrava che per qualche oscura ragione dettata dall’opportunismo il gruppo fosse stato costretto a “migliorare” la sua proposta, arrampicarsi su percorsi alternativi, appagare il desiderio di novità e crescita interiore dei suoi protagonisti. Io odiavo tutto questo. E assunsi lo stesso scorbutico atteggiamento di otto anni prima, quando ero stato “costretto” a sporcare il lavoro dei Dictatrista con una performance vocale ai limiti dell’indecente. Questa volta il timbro della voce risultò pulito e lineare, ma freddo e impersonale, completamente avulso dal contesto strumentale. Una porcheria. Durante il mixaggio, senza consultare nessuno, presi la decisione di occultare quella registrazione. Così, una volta tornato a casa, nascosi i nastri in soffitta. Da lì sono usciti solo per Attitudine Mentale Positiva Vol.2, l’ultima compilation curata da Goddam Church, con la prima traccia in assoluto su vinile dei Marlene Kuntz e Jara Vagga (la vecchiaia) degli Stige. E il giorno dopo, col sorriso sulle labbra e l’aria furba dello stronzo, annunciai ai miei vecchi compagni la terribile disgrazia di una madre folle, la mia, che trovandosi fra le mani delle strane pizze col nastro nero aveva pensato di liberarsene buttandole nel secchio dell’immondizia. Oh quale tormento, quale 132 indicibile sofferenza… e in aggiunta a tutto questo la mia decisione di lasciare il gruppo, mica cazzi. Gli Stige si sciolsero subito dopo. Alvaro rinunciò per sempre alla musica, Shino e Peppe cercarono di continuare con i Masters Of Metal, parodia di loro stessi e delle loro nuove manie metallare. L’esperienza si esaurì nel giro di poche settimane, solo il tempo di rendersi conto del baratro in cui stavano precipitando. Chi pagò il prezzo più alto per lo scioglimento degli Stige fu Shino. Per usare le sue stesse parole “la fine del gruppo fu un fatto spaventoso”. Per lui fu come essersi lasciato con una donna che aveva amato alla follia, e come spesso succede agli amanti traditi tornò ad ubriacarsi per addormentare la coscienza e anestetizzare la sofferenza. Gli Stige erano stati la cosa più importante della sua vita, non so se abbia più trovato qualcosa in grado di equiparare quell’amore. “Vedi” mi confessò un giorno, “gli Stige erano così importanti perché erano pericolosi. Nelle cose che facevamo, dietro il rumore, c’era un grosso bagaglio culturale, e la cultura spaventa sempre. I gruppi successivi, invece, sono stati una pagliacciata, un insulto a quello che avevo fatto prima. Purtroppo sono sceso a compromessi pur di continuare a suonare. I Masters of Metal erano già ridicoli nel nome e gli Urban Power, beh, quelli erano gli Articolo 31 dei poveri, in anticipo sui tempi ma in tempo reale con lo squallore”. L’esperienza con gli Urban Power finì una sera del 1992, quando Shino salì sul palco completamente ubriaco, con un caprone disegnato sul giubbotto e il numero 666 nero sfavillante sulla schiena. A un tratto “la bestia” inciampò nei cavi elettrici e crollò fra il pubblico. Il giorno dopo regalò tutta la sua strumentazione. Il sogno era finito per sempre. Rimanere giovane in eterno, impossibile.

133

AFFLUENTE

Finita l’esperienza negli Stige mi ritrovai a trent’anni con lo spirito di un giocatore stanco che chiede la sostituzione a bordo campo. Non riuscivo a fare niente. Sputavo tutto il giorno, aspettavo con le mani sui fianchi e sospiravo. La testa mi girava, anche le labbra mi tremavano. Dopo cento seghe il bambino che mi porto dentro sedette sul letto accanto a me e mi fissò con serietà. “Sono pronto a scommettere quello che vuoi” mi disse, “che in quella tua stupida testa c’è qualcosa che neanche tu sai cos’è. Beh, vai avanti, non ti preoccupare. Ricordati dell’eccitazione dei viaggi, degli amici dappertutto, dei treni e dell’andare e venire. Sai cosa provo per quello che fai, sai che mi piace, e sai che io prego per te”. Non potevo crederci. Stavo scoppiando per l’indignazione e avevo una voglia matta di andarmene dalla camera sbattendo la porta. M’immaginai mentre lo facevo, orgoglioso di rabbia, la fronte corrugata da un cipiglio astioso. “Ah” sospirai improvvisamente con disgusto, “e chi lo sa? Chi lo sa cosa sarebbe di me senza l’eccitazione dello sguardo sanguigno? Senza le pagine bianche da riempire? Senza la necessità di riempirle?” Così m’incamminai verso la città con una velocità spaventosa, alla ricerca dei piccoli bastardi che avrebbero suonato negli Affluente. Avevo scelto il nome del gruppo leggendo Anatomia della distruttività umana di Erich Fromm. Discutendo della penuria economica fra i cacciatori primitivi e degli attuali parametri di povertà, Fromm era giunto alla conclusione che per “affluente” doveva intendersi un tipo di società in cui venivano facilmente soddisfatti tutti i bisogni. Era un concetto puramente speculativo, ma soddisfaceva appieno il mio “momento sociologico”. Per tutta una serie di motivi che affondavano la loro origine nel mito del progresso, si preferiva credere che la splendida condizione del soddisfacimento dei bisogni fosse una 135 conquista esclusiva della civiltà industriale, ma non era così. Sotto questo aspetto la società dei cacciatori-raccoglitori di cibo, e perfino di molti gruppi marginali sfuggiti all’etnografia, era stata di gran lunga più efficace. D’altro canto le cose erano sempre andate nello stesso modo. Per soddisfare facilmente i desideri erano sempre esistite due possibilità, produrre molto o desiderare poco, e vi erano sempre state, di conseguenza, due strade diverse per raggiungere la prosperità. Questo concetto l’avrei espresso abbastanza bene nel primo pezzo del gruppo, Società affluente. Quella della penuria, dissi, è l’ossessione particolare di un’economia commerciale e la condizione prevedibile di coloro che ne fanno parte. Il mercato mette infatti a disposizione una gamma vertiginosa di prodotti, un mucchio di “cose buone” a portata di mano, mai veramente raggiungibili, perché non si è mai abbastanza ricchi da comprare tutto. Esistere, in una economia di mercato, significa vivere una doppia tragedia, cominciando dall’insufficienza e finendo nella privazione. Siamo condannati ai lavori forzati per tutta la vita. Ma torniamo per un attimo ai piccoli bastardi. Francesco Giaconi, il chitarrista, era uno di quelli con un lieve accenno di alcolica taciturnità dipinta sul volto. Niente di grave, si capisce, ma a volte avevi l’impressione che mancasse completamente di rispetto verso il mondo. Per educazione e senso civico era un gentiluomo, affabile e generoso, ma se aveva problemi di stomaco era in grado di ruttare per ore senza vergognarsene nemmeno un po’, e se in testa gli frullava un pur minimo accenno d’incazzatura allora era perfino capace di mettere in dubbio la verginità della madonna. Se trovavi il coraggio di sdrammatizzare la situazione potevi chiedergli di tutto. Ad esempio: “Frankie, caro, cos’è questo cieco furore che ti porti dentro?” E lui: “Carlo, con tutto il rispetto, beato te che non hai capito un cazzo”. Giorgio Olori, il bassista, era un ciccione cinico e baro. Su di lui potrei raccontarti episodi stupefacenti, ma siccome dovrei affrontare argomenti troppo delicati mi fermo qui. Però sia chiaro: non aveva un briciolo di attitudine punk. Piero Angelini, l’altro chitarrista, era il fratellino di Peppe. Era 136 conquista esclusiva della civiltà industriale, ma non era così. Sotto cresciuto con il tremendo desiderio di mettersi in un angolo a guardare questo aspetto la società dei cacciatori-raccoglitori di cibo, e perfino il mondo mentre passava. A lui interessavano poche cose: la chitarra, di molti gruppi marginali sfuggiti all’etnografia, era stata di gran il computer e le ragazze. Il resto assumeva una forma indistinta. lunga più efficace. D’altro canto le cose erano sempre andate nello Poteva anche andare a fuoco, tanto lui non avrebbe mosso un dito per stesso modo. Per soddisfare facilmente i desideri erano sempre esistite spegnere l’incendio. due possibilità, produrre molto o desiderare poco, e vi erano sempre Naturalmente Peppe provò a dare il suo solito apporto alla batteria, state, di conseguenza, due strade diverse per raggiungere la prosperità. ma negli ultimi tempi, cristo santo, aveva mangiato davvero troppo. Questo concetto l’avrei espresso abbastanza bene nel primo pezzo del Era enormemente ingrassato. La pancia gli tracimava sul rullante, gruppo, Società affluente. Quella della penuria, dissi, è l’ossessione sudava come un porco e non aveva più la velocità di una volta. particolare di un’economia commerciale e la condizione prevedibile di Quando scoprì che un virus di origine sconosciuta gli stava divorando coloro che ne fanno parte. Il mercato mette infatti a disposizione una il timpano dell’orecchio sinistro abbandonò le scene definitivamente. gamma vertiginosa di prodotti, un mucchio di “cose buone” a portata Al suo posto entrò in formazione Massimetto Ferranti. Con Frankie di mano, mai veramente raggiungibili, perché non si è mai abbastanza e Giorgio aveva suonato per cinque anni nei Furious Barking, un ricchi da comprare tutto. Esistere, in una economia di mercato, gruppo death metal con un mini LP all’attivo per Goddam Church e significa vivere una doppia tragedia, cominciando dall’insufficienza e un secondo grande disco registrato prima dello scioglimento e mai finendo nella privazione. Siamo condannati ai lavori forzati per tutta uscito. la vita. I tre metallari si adattarono benissimo a quello che io intendevo fare Ma torniamo per un attimo ai piccoli bastardi. Francesco Giaconi, il con gli Affluente, cioè suonare nello stile dei gruppi hardcore-punk chitarrista, era uno di quelli con un lieve accenno di alcolica americani dei primi anni ’80. Quella era la musica che io adoravo e taciturnità dipinta sul volto. Niente di grave, si capisce, ma a volte con spirito dittatoriale imposi a tutti dieci ore di ascolto forzato. I avevi l’impressione che mancasse completamente di rispetto verso il dischi da amare erano quelli che anche mia madre, dopo un notevole mondo. Per educazione e senso civico era un gentiluomo, affabile e fastidio iniziale e una certa indifferenza fra il 1985 e il 1990, aveva generoso, ma se aveva problemi di stomaco era in grado di ruttare per imparato a distinguere e a rispettare: Rock for light dei Bad Brains, ore senza vergognarsene nemmeno un po’, e se in testa gli frullava un Fresh fruit for rotting vegetables dei Dead Kennedys, Group sex dei pur minimo accenno d’incazzatura allora era perfino capace di mettere Circle Jerks, Damaged dei Black Flag, Dehumanization dei Crucifix, in dubbio la verginità della madonna. Se trovavi il coraggio di Still screaming degli Scream, degli Agnostic Front, In sdrammatizzare la situazione potevi chiedergli di tutto. Ad esempio: my eyes e Out of step dei Minor Threat. Inoltre pensai che il modo “Frankie, caro, cos’è questo cieco furore che ti porti dentro?” E lui: migliore per tornare nella mischia fosse registrare subito i primi pezzi “Carlo, con tutto il rispetto, beato te che non hai capito un cazzo”. e cercare di capire se il progetto poteva andare avanti oppure no. E Giorgio Olori, il bassista, era un ciccione cinico e baro. Su di lui così fu. I cinque episodi di Logica dominante, arricchiti o rovinati da potrei raccontarti episodi stupefacenti, ma siccome dovrei affrontare una mia interpretazione di Democrazia, una poesia del bambino pazzo argomenti troppo delicati mi fermo qui. Però sia chiaro: non aveva un Arthur Rimbaud, vennero fuori in due settimane di prove disperate, e briciolo di attitudine punk. sono forse ancora oggi quelli più arrabbiati e genuini. Costruiti con Piero Angelini, l’altro chitarrista, era il fratellino di Peppe. Era pochi accordi, ma molto diretti e immediati, catturarono subito 136 137 l’attenzione di Paolo Petralia, voce dei Comrades e boss di Soa Records, un’etichetta indipendente romana con un catalogo ormai vastissimo e ancora attiva sulla scena. Nell’autunno del 1992 il disco fu recensito da Maximum Rock’n’Roll come la risposta italiana ai No For An Answer, un gruppo americano che riscuoteva grandi consensi fra il pubblico straight edge di quel periodo, e anche in Italia qualcuno provò ad attirare l’attenzione su questo cerchietto di vinile colorato. “Affluente nasce dall’esperienza degli Stige” diceva Emilio Celora dalle pagine di Dynamo, “ovvero le radici di un veloce e chiassoso hardcore italian-style. Molto buoni i testi in italiano, come pure l’adattamento delle parole alla musica. Molto bravi!” Gli faceva eco Luca Frazzi sul numero 31 di Rumore: “Ottimo esordio degli Affluente. Sei brani di puro italian hardcore old-style, secco, diretto ed incazzato. Verificate voi stessi”. Il messaggio fu subito recepito. La prima stampa di 600 copie fu infatti esaurita in poche settimane. Altre due stampe furono messe in circolazione per esaudire le richieste più immediate, ma ben presto Logica dominante risultò sold out nel catalogo Soa e alcuni ordini rimasero inevasi. Oggi il disco è praticamente introvabile per vie ufficiali, ma nel circuito dei collezionisti può essere ancora recuperato, sebbene a prezzi indecorosi.

138 DONNA, PARA IL CULO!

A un certo punto cominciarono a crocefiggermi. Ricevevo molte lettere, ma non tutte erano piene d’entusiasmo. C’era un sacco di gente che voleva farmi a pezzi. La causa risiedeva in una canzone contenuta nel disco, che un po’ incautamente avevo chiamato Donna, para il culo! La canzone aveva un testo semplice e chiaro, ma molti equivocarono sul significato delle parole. Prendeva spunto dal pensiero di una coraggiosa ragazza dell’avanguardia berlinese, Lou Salomé, inteso a caratterizzare il maschile e il femminile come entità autonome. Nella sua filosofia si potevano enucleare i presupposti indispensabili per la configurazione di una cultura femminile alternativa alla “modernità”, nel segno di un rinnovato umanesimo. Il tema concettuale del pezzo era dunque la tematizzazione della differenza, la rivendicazione di una diversità, di due modi distinti di autenticazione. La Salomé si opponeva insomma alla virilizzazione delle donne, al fatto che le donne modellassero la loro immagine secondo i valori proposti dall’uomo. E dunque mi era parso legittimo riconoscere, nell’enfasi posta dal femminismo liberale sulla “eguaglianza delle opportunità”, una degenerazione della potenza femminile, il riflesso della sua divinizzazione dell’uomo. In particolare ero rimasto colpito dalle rivendicazioni avanzate dalle più agguerrite sostenitrici dell’emancipazione femminile, che chiedevano a gran voce l’inserimento delle donne nell’esercito. Dall’inizio dei tempi, pensai, la barbarie della guerra era stata una pulsione degenerativa del carattere maschile. A questa pulsione si era sempre opposto il primo rudimento della civiltà umana, il fascino promanante dal principio di affermazione della vita, caratteristica essenziale di tutte le antiche società matriarcali. La struttura matricentrica dei villaggi neolitici dell’Anatolia, ad esempio, consolidava la mia ipotesi di una società relativamente egualitaria, 139 senza gerarchia, sfruttamento o marcata aggressività. Paradossalmente, sette anni dopo, il primo contingente italiano di donne-soldato giurava la sua fedeltà allo stato a uno sputo di distanza dal mio muso. Ancora le guardo in faccia, trecento signorine- sissignore messe sull’attenti, “poste a tutela dei profitti della casta industriale-militare”. Le parole di Donna, para il culo!, il concetto della donna gendarme, diventavano improvvisamente attuali. La possibilità di chiudere definitivamente il discorso, o almeno di legittimare le mie osservazioni, mi fu offerta da una recensione di Giovanni Mieli su Stampa alternativa, che considerò il testo della canzone “una riflessione finalmente intelligente sulla condizione della donna”. Mai avrei immaginato di dovermi cullare nella vanità per dare un senso ai miei pensieri.

140 senza gerarchia, sfruttamento o marcata aggressività. Paradossalmente, sette anni dopo, il primo contingente italiano di donne-soldato giurava la sua fedeltà allo stato a uno sputo di distanza AGNOSTIC FRONT dal mio muso. Ancora le guardo in faccia, trecento signorine- sissignore messe sull’attenti, “poste a tutela dei profitti della casta industriale-militare”. Le parole di Donna, para il culo!, il concetto Al di là di questo, e allargando lo sguardo sul mondo per deviare da della donna gendarme, diventavano improvvisamente attuali. un eccessivo provincialismo, il 1993 si stava rivelando un anno molto La possibilità di chiudere definitivamente il discorso, o almeno di particolare. L’avvento del punk rock, per un seguace dell’underground legittimare le mie osservazioni, mi fu offerta da una recensione di più estremo come me, non rappresentava più una di quelle utopie Giovanni Mieli su Stampa alternativa, che considerò il testo della “militanti” a cui dedicare una vita e in cui credere fino alla morte. canzone “una riflessione finalmente intelligente sulla condizione della Contro tutte le aspettative, e in barba a tutte le tendenze che i primi donna”. Mai avrei immaginato di dovermi cullare nella vanità per anni ’90 avevano indicato, c’era nell’aria questo ritorno al punk dare un senso ai miei pensieri. originale. Sì, al caro vecchio punk di una volta, quello delle creste rosse, degli sputi e delle spille da balia nelle orecchie, non quello riverniciato e messo a nuovo dalla generazione che aveva partorito Offspring e simili, gruppi musicalmente eccitanti e trascinanti finché si vuole, ma fortemente edulcorati nell’atteggiamento, nell’impatto visivo, e in definitiva poco pericolosi per il sistema. In Inghilterra la vecchia guardia si stava riformando quasi tutta: Exploited, Chaos UK, Lurkers, Business, G.B.H., Cock Sparrer, UK Subs, Red Alert e decine di altre bands si stavano riorganizzando. Dopo anni di oblio erano di nuovo incredibilmente in scena. Il Fuck Reading Festival inglese, regolarmente ignorato dai mass media locali, richiamò quell’anno 4000 persone, di cui gran parte ragazzini. Cosa stava succedendo? Anni di tentativi, peraltro riusciti, di dare al punk una veste socialmente accettabile, di togliergli quell’attitudine “fuck and destroy” che ne aveva probabilmente decretato l’apparente estinzione, erano stati forse spazzati via da un vento nuovo? Non proprio. Molto più semplicemente i Green Day o i Bad Religion non rispecchiavano in musica la rabbia dei punk da strada, quelli che al matrimonio fra punk e pop non avevano mai creduto, gente che mal digeriva gli intellettualismi e che dalla musica voleva soltanto energia, divertimento e frastuono. Il punk rock come nuovo terrorismo sonoro, insomma. 140 141 Eppure qualcosa di molto importante del puro spirito punk stava cedendo. Contrariamente ai vecchi gruppi inglesi, che fuoriuscivano dalle nebbie di un antico passato per celebrare il loro ritorno sulle scene, c’era infatti chi annunciava la fine della propria storia dopo anni e anni d’ininterrotta attività. Erano ad esempio gli Agnostic Front, un mito dell’hardcore newyorchese. Animati da un’attitudine fieramente incompromissoria e da una cruda filosofia di vita, questi autentici teppisti, figli d’immigrati cubani e napoletani, erano riusciti a sopravvivere nel tempo alle critiche più spietate, soprattutto all’etichetta di band di destra, che ne aveva fortemente limitato le potenzialità espressive. Anche per loro era dunque arrivato il momento di salutare gli amici, quelli che li avevano accompagnati durante il cammino e ne avevano celebrato il culto. In realtà si sarebbero riformati due anni dopo, ma chi poteva immaginarlo? Sembravano finiti per sempre. Io volevo vederli sul palco per l’ultima volta, così telefonai all’agenzia che stava organizzando i loro concerti in Italia. La situazione era ancora molto confusa. Le date di Roma e Bologna erano già state fissate, ma per ammortizzare le spese del tour stavano cercando di metter su almeno un’altra serata. Purtroppo sembrava che nessuno avesse intenzione di far suonare dei fascisti. Quando mi chiesero se per caso potevo risolvere il problema, risposi che sì, naturalmente, perché la possibilità di far suonare gli Agnostic Front a casa mia mi eccitava sensibilmente. In pochi giorni riuscii ad organizzare tutto. Un piccolo club, Le zanne, si dichiarò disponibile ad ospitare l’evento. I ragazzi che lo gestivano non avevano la minima idea di chi fossero gli Agnostic Front, ma accettarono di buon grado di mettere a disposizione il loro impianto e la loro birra. Per pubblicizzare il concerto preparai una locandina che incollai sui muri di mezza città. La foto del cantante, Roger Miret, risaltava con la sua aria da teppista e i suoi tatuaggi enormi sullo sfondo fluorescente del foglio. La cosa mi sembrò ben riuscita, ma non entusiasmò la polizia. Due giorni dopo fui convocato in questura dalla Digos. Gli 142 agenti avevano occhi di fuoco e schiumavano rabbia dalla bocca. Quello che sembrava essere il capo, un giovanotto sui trent’anni pervaso da un lacrimoso sentimento di commiserazione, mi fissò per un istante con l’aria di chi crede di saperla lunga. Fu il preludio a due ore fitte di domande, una sorta di procedimento inquisitorio. Non so se fui esauriente nelle risposte o semplicemente rassicurante, comunque mi lasciarono andare. Ero felice, sghignazzavo come un pazzo, così lanciai al cielo il mio esultante sentimento di gioia e realizzazione. Era terribilmente eccitante sapere che la polizia aveva finalmente del lavoro nel mio buco di città. La mattina del 20 gennaio mi svegliai esausto dopo una notte insonne. Andai a lavorare con la mente già proiettata al concerto e come spesso succede in questi casi il tempo passò molto lentamente. Quando raggiunsi gli Agnostic Front erano già le sette della sera. Trovai Roger Miret che leggeva Al di là del bene e del male disteso sul pavimento. Era talmente immerso nella lettura che avresti potuto dargli un calcio nel culo senza che se ne accorgesse. Vinnie Stigma, il chitarrista, stava rispondendo alle domande di un giornalista, qualcosa del tipo: “non dire cazzate, amico, niente cazzate, va bene? Chi ci conosce sa che siamo antirazzisti, sa cosa veramente pensiamo dei fascisti. Mio figlio è mezzo cinese, mia moglie è cinese. Roger è cubano e sua figlia è mezza ebrea. Che cazzo di fascisti saremmo? Noi siamo semplicemente una street band, va bene? Siamo sicuramente contro il sistema. Puoi scriverlo: ogni governo del mondo è corrotto, amministrato da gente ricca che se ne frega dei poveri. Il sistema scolastico americano è corrotto e tutto ciò che riguarda la storia americana è una grossa bugia”. I primi a salire sul palco furono i . Il loro cantante era il fratellino di Roger, un invasato che saltava come una molla e vomitava lava incandescente. Quando cominciarono a suonare ero ancora all’ingresso a vendere biglietti. Aprii le porte e rinunciai a una parte dell’incasso. La voglia di gettarmi nella mischia e godermi lo spettacolo era troppo forte. Quando fu la volta degli Agnostic Front il posto esplose. Penso che 143 iniziarono con Society suker, una frustata d’energia che incendiò il cuore di tutti, ma continuarono ad essere meravigliosi per l’intero concerto. La gente conosceva i loro pezzi a memoria e li cantava insieme a Roger: Victim in pain, Your mistake, Liberty and justice, Power, Public assistance, Crucified, United and strong… Non erano canzoni, erano frammenti irreali provenienti da un pianeta sconosciuto, brevi scariche di incredibile intensità. Non avevo mai visto nessuno suonare con quella energia, sembrava che stessero cercando di rompersi in pezzi con la propria musica. Fu una delle cose più potenti a cui abbia mai assistito. Dopo il concerto accompagnai il gruppo all’albergo. Avevo prenotato delle camere in una pensione scalcinata nella parte vecchia della città. Salutai questi ragazzi mentre salivano nelle loro stanze e m’incamminai a piedi verso casa. Erano le due di notte, avevo cinque chilometri di strada da fare e iniziai a sentirmi depresso. E’ sempre stato così, ho sempre sofferto le lunghe passeggiate Quando cammini l’unica cosa che puoi fare è pensare, e se hai la sfortuna di avere un cervello che funziona il pensiero è qualcosa che può farti davvero del male. D’altro canto la realtà non si può mai nascondere, e in quel momento era tutto così semplice, così semplice… Gli Agnostic Front erano ragazzi che stavano cercando di fare qualcosa con le loro vite. Non avevano uno stipendio fisso e vivevano come cani, ma stavano godendosi la vita molto più di me. Io avevo uno stipendio e dei risparmi in banca, ma avevo anche un lavoro che mi incatenava. Dovevo essere lì tutto il tempo, spaccar pietre dalla mattina alla sera, vedere le stesse strade e le stesse persone ogni giorno. Il mio lavoro copriva la maggior parte delle ore in cui ero sveglio. Dopo quella sera capii che c’era molto più da fare e da vedere, ma che non avrei avuto il coraggio di farlo. Mentre camminavo verso casa la mia vita diventò insignificante. Ebbi un attacco di panico a basso livello. Vidi la mia esistenza dipanarsi di fronte a me: stessa città, stessa gente, stesso tutto. Per un attimo pensai che la vita mi avesse legato e mi stesse picchiando.

144 UFO DIKTATORZ

Di lì a poco Massimetto lasciò la band. Sapeva che avevo una voglia pazza di fare concerti, che avrei preteso il massimo in ogni occasione, che il gruppo doveva venire prima di ogni altra cosa. Lui non era per niente entusiasta di questa prospettiva. Prima ancora che certe contraddizioni esplodessero, fece un sorriso e se ne andò. Ora il problema era che in giro non si trovavano batteristi in grado di suonare hardcore-punk. La mia depressione aumentò fino a farmi sfiorare la paranoia. Più il tempo passava più mi lasciavo prendere dallo scoramento. Sembrava che avessi smarrito la direzione e il controllo della mia vita. Una sera ero alle Zanne a bermi una birra. Dovevano suonare gli Ufo Diktatorz. Io non li avevo mai sentiti, ma girava voce che il loro primo EP, Kastrat Guitar, avesse conquistato il numero uno nella classifica mensile di Maximum Rock’n’Roll. Con una certa sorpresa scoprii che il cantante era Pierpaolo De Iulis. Dieci anni prima, quando era ancora un ragazzino, aveva collaborato con me in Danza Selvaggia, una fanzine dedicata ai gruppi hardcore italiani. Non lo rivedevo da quel tempo, quando si era trasferito a Roma per frequentare l’Università. Nel frattempo era diventato un guru del punk. Aveva messo su un’etichetta, la Rave Up Records, e aveva cominciato a sfornare dischi a getto continuo. Produceva in gran parte gruppi punk rock degli anni ’70. Recuperava le vecchie registrazioni di un tempo e le stampava su vinile. Era quasi un miracolo, su Rave Up potevi trovare i gruppi più oscuri dell’underground mondiale: The Vectors, Los Reactors, Tazers, Grim Clone Band, The Contenders, The Backstabbers, The Penetrators, Dry Heaves, Nervebreakers, The Genaral Foodz, Skunks, Dennis Most and the Instigators, Injections, Chainsaw, Village Pistols, The Products, The Transplants e tanti altri ancora. 145 In un impeto d’entusiasmo aveva anche formato questi Ufo Diktatorz. Il detonatore che aveva acceso la miccia, mi disse, era stata la raccolta Feel Lucky Punk, una compilation che raccoglieva grezzissime e misconosciute bands americane e australiane della primissima ondata punk. Un po’ come le raccolte Pebbles o Back from the Grave, che avevano avuto il merito di far luce sulle migliaia di gruppi garage minori, Feel Lucky Punk aveva annunciato la riscoperta e la rilettura del punk rock marginale. Fondamentalmente, per chi come lui aveva sempre amato il suono sporco di certe bands degli anni ’60, non era stato poi così difficile indirizzare gli Ufo Diktatorz verso un suono più distorto e più veloce. Insomma in pochi mesi la mappatura del nuovo mondo era stata compiuta, i riferimenti si erano spostati di un decennio… dai Sonics ai Crime, dai Count V ai Pagans… stessa roba, stesso sporco rock’n’roll. Il loro primo concerto, praticamente strumentale a causa di un pogo distruttivo, lo avevano fatto in un locale a Trastevere. A seguire avevano suonato in vari centri sociali e feste private. In repertorio avevano molte covers e pochi pezzi originali, era un po’ l’eredità del passato “garagista” che giustamente non volevano recidere. I componenti del gruppo erano quasi tutti ascolani. Fabio Fabiani era stato il cantante dei Superflui, Lorenzo Paolini me lo ricordavo da bambino (era stato suo fratello a farmi conoscere i Bad Brains), Daniele D’Ottavio aveva suonato la batteria nei Dictatrista quando io e Peppe ne eravamo usciti. L’ultimo ad entrare nel gruppo era stato il chitarrista, Antonello Rendina, un junkie foggiano che di solito saliva sul palco in giarrettiere e tacchi a spillo. Il suo innesto aveva dato al gruppo una levatura tecnica decisamente maggiore rispetto allo standard precedente. Il suo carattere caotico e creativo aveva trasmesso ai loro brani caratteristiche particolari, ma nel contempo aveva anche aumentato la vena dissacratoria, provocatoria e nichilista del gruppo. In breve si erano fatti un sacco di nemici. In alcuni ambienti la situazione era diventata davvero pesante. Al Forte Prenestino non potevano più farsi vedere, l’ultima volta Antonello aveva rimediato una bottigliata fra i denti. Pierpaolo era stato anche 146 allontanato dai microfoni di Radio Onda Rossa, dove conduceva un programma settimanale intitolato “I hate music”. Quella sera il loro concerto finì con una rissa gigantesca. Sul palco volò di tutto. Una sedia aprì la testa di una ragazza, gli strumenti furono completamente distrutti. Non mi piaceva vedere la gente farsi male, ma l’energia che trasudava dalla musica degli Ufo era qualcosa di viscerale, aveva il potere di farti capire che il punk era prima di tutto oltraggio. Il giorno dopo ero così eccitato che pesavo tre chili in meno e avevo l’aria stralunata. Molti avranno anche pensato che ero sotto l’effetto di qualche droga, ma ti giuro che la mia faccia era sfigurata solo dalla tensione. L’avrai capito, ero alla ricerca di un batterista, e alla fine saltò fuori questo spilungone dall’andatura ciondolante, con una leggera balbuzie nella voce e un tic nervoso che gli deformava la faccia. Si chiamava Pierpaolo Sita, era innamorato dei Ramones, e alla batteria sembrava un dio. Ancora qualche giorno e un ragazzino di nome Massimo Leonardi mi telefonò da Viterbo per farci suonare a Valle Faul. Pierpaolo mise a disposizione il suo furgone per il viaggio. Guidò spostandosi continuamente verso il centro della carreggiata, dove si poteva andare più veloci e sentire l’ebbrezza del rischio. Per una volta ebbi l’impressione di aver trovato la persona giusta

147

CAZZI MOSCI E ALTRE STORIE

Il centro sociale Valle Faul era una specie di grande cantina, con il pavimento sterrato e l’aria irrespirabile. Sorgeva in un’area pubblica degradata, non molto lontano dalla cinta muraria e dalle torri fortificate, ed era stato occupato nel 1993. E’ ancora attivo. In tutti questi anni ha organizzato corsi di studio, cicli di lettura dedicati ai grandi autori della letteratura, iniziative contro la schiavitù, training di formazione alla non-violenza. Nondimeno è stato al centro di inchieste giudiziarie per l’attività “sovversiva” di alcuni suoi componenti, ma il potere reticolare e invasivo della democrazia, si sa, costruisce di volta in volta le palizzate del fortino occidentale, manipola l’informazione, utilizza le armi del terrorismo psicologico per colpire chi lo combatte con le risorse realmente sovversive dell’intelligenza e del libero pensiero. Niente di nuovo sotto il sole, è vero, ma se ci penso mi spavento un po’. Arrivammo a Viterbo nel tardo pomeriggio. Il nostro entusiasmo era palpabile, sembravamo dei bambini piccoli. Era il nostro primo concerto e le mani ci formicolavano per l’eccitazione. Eravamo come attraversati dalla corrente elettrica, pronti a scaricare sul palco tutta l’energia accumulata nei giorni precedenti. Parcheggiammo il furgone nell’area antistante. Era una bella giornata di sole e l’aria profumava di terra. Scendemmo dal furgone con un salto, lanciando piccoli gridi e ridacchiando. Ancora non potevamo immaginare la delusione che ci avrebbe investito di lì a poco. Dopo un primo scambio di battute con gli occupanti, fu come se il tetto dell’edificio ci crollasse addosso. Là dentro nessuno sapeva niente degli Affluente. Quella sera in programma c’era un concerto dei Cavalla Cavalla, un gruppo elettronico di Bologna. Chiamai subito Massimo Leonardi, ma il telefono squillò a vuoto. Che imbecille, pensai, ci aveva fatto fare tutti quei chilometri per 149 niente. E adesso era scomparso. Avrei voluto strozzarlo. Lasciai Franckie a bestemmiare intorno al furgone e mi avvicinai al ragazzo che dava l’impressione di occuparsi dei concerti. Era un tipo basso e robusto, con la testa rasata e una tuta da metalmeccanico. Cercai di farmi spiegare tutta la faccenda, ma non venni a capo di niente. Massimo Leonardi, mi disse, a Valle Faul si vedeva poche volte. Aveva idee troppo radicali, non era ben visto da nessuno. Comunque non avrebbe mai potuto organizzare il nostro concerto senza prima confrontarsi con la realtà dell’occupazione, e sicuramente non l’aveva fatto. Insomma ci aveva fregato, solo che adesso il prezzo dovevamo pagarlo noi. Lui era sparito, e chissà quando saremmo riusciti a mettergli le mani addosso. Con un po’ di fatica riuscii a mettermi d’accordo con il ragazzo pelato. Avremmo suonato senza rimborso dopo i Cavalla Cavalla. Ad ascoltarci sarebbero rimasti in pochi, ma almeno non saremmo tornati subito a casa con la coda fra le gambe. Tornai al furgone con un sorriso forzato. Dissi a Frankie di stare tranquillo, avremmo suonato e spaccato il culo a tutti quegli stronzi. Il rimborso ce lo avrebbero spedito con un vaglia postale qualche giorno dopo. Naturalmente non era vero, stavo pagando di tasca mia pur di far suonare il gruppo quella sera. I Cavalla Cavalla salirono sul palco verso le dieci. Erano dei tamarri vestiti con pantaloni di cuoio e giubbetti da cow-boy con le frange. Il cantante balbettava slogan rivoluzionari che inneggiavano alla lotta armata. Dava l’impressione di stringere nel pugno una pistola, ma era solo la sua piccola mano tremebonda, con l’indice e il medio puntati verso il pubblico. Dopo le prime note i loro fans cominciarono a percuotere dei fusti di lamiera arrugginita. Li facevano rotolare sul pavimento e li battevano con dei bastoni di legno. Ben presto si alzò un gran polverone e l’aria diventò irrespirabile. Stavo per uscire all’aperto quando il cantante attirò nuovamente la mia attenzione. Mi chiesi se lo stava facendo veramente. Mi risposi che si, si stava veramente calando giù i pantaloni. Mostrava il cazzo al pubblico e si grattava i coglioni. Era un 150 niente. E adesso era scomparso. Avrei voluto strozzarlo. cazzetto moscio che non avrebbe avuto un’erezione nemmeno a Lasciai Franckie a bestemmiare intorno al furgone e mi avvicinai al sparargli col cannone. ragazzo che dava l’impressione di occuparsi dei concerti. Era un tipo L’esibizione andò avanti per più di un’ora. Il pubblico era basso e robusto, con la testa rasata e una tuta da metalmeccanico. entusiasta, ma io non riuscivo a capire cosa ci fosse di buono in quel Cercai di farmi spiegare tutta la faccenda, ma non venni a capo di ruminare di frasi scontate e cazzetti gratis sbattuti in bocca alla gente. niente. Massimo Leonardi, mi disse, a Valle Faul si vedeva poche Solo dopo mezzanotte riuscimmo a caricare i nostri amplificatori sul volte. Aveva idee troppo radicali, non era ben visto da nessuno. palco. Non ci volle molto per metterci a posto. Eravamo talmente Comunque non avrebbe mai potuto organizzare il nostro concerto incazzati che il rumore cominciò a sommergere tutto appena senza prima confrontarsi con la realtà dell’occupazione, e sicuramente vomitammo i primi accordi sul pubblico. Ad ascoltarci erano rimasti non l’aveva fatto. Insomma ci aveva fregato, solo che adesso il prezzo in dieci, ma erano dieci canaglie per bene. Si colpivano a vicenda dovevamo pagarlo noi. Lui era sparito, e chissà quando saremmo facendo la faccia feroce e gridando come selvaggi. Un ragazzetto alto riusciti a mettergli le mani addosso. mezza sega sembrava scosso dagli elettrodi e si spaccava in tante Con un po’ di fatica riuscii a mettermi d’accordo con il ragazzo piccole parti per i salti. A un tratto me lo ritrovai sul palco. Fu un pelato. Avremmo suonato senza rimborso dopo i Cavalla Cavalla. Ad attimo. Mi rubò il microfono e cominciò a cantare al mio posto. Non ascoltarci sarebbero rimasti in pochi, ma almeno non saremmo tornati potevo crederci, conosceva i testi delle canzoni a memoria. subito a casa con la coda fra le gambe. Probabilmente era uno di quelli che avevano amato Logica dominante Tornai al furgone con un sorriso forzato. Dissi a Frankie di stare fino allo sfinimento. Cantai insieme a lui le ultime strofe di Legge dei tranquillo, avremmo suonato e spaccato il culo a tutti quegli stronzi. Il ricchi e lo abbracciai, poi la mia vanità prese il sopravvento e ritornai rimborso ce lo avrebbero spedito con un vaglia postale qualche giorno a concentrarmi su di me. Quando finimmo di suonare cercai di dopo. Naturalmente non era vero, stavo pagando di tasca mia pur di rintracciarlo. Per l’eccitazione mi aveva riempito di pugni. Avevo le far suonare il gruppo quella sera. costole a pezzi e la faccia piena di lividi. Avrei voluto restituirgli a I Cavalla Cavalla salirono sul palco verso le dieci. Erano dei tamarri sangue freddo un po’ dei suoi colpi, ma i suoi occhi scintillanti e la vestiti con pantaloni di cuoio e giubbetti da cow-boy con le frange. Il sua fronte sudata sembravano essere stati inghiottiti dal buio della cantante balbettava slogan rivoluzionari che inneggiavano alla lotta notte. armata. Dava l’impressione di stringere nel pugno una pistola, ma era solo la sua piccola mano tremebonda, con l’indice e il medio puntati verso il pubblico. Dopo le prime note i loro fans cominciarono a percuotere dei fusti di lamiera arrugginita. Li facevano rotolare sul pavimento e li battevano con dei bastoni di legno. Ben presto si alzò un gran polverone e l’aria diventò irrespirabile. Stavo per uscire all’aperto quando il cantante attirò nuovamente la mia attenzione. Mi chiesi se lo stava facendo veramente. Mi risposi che si, si stava veramente calando giù i pantaloni. Mostrava il cazzo al pubblico e si grattava i coglioni. Era un 150 151

SLAPSHOT

A Pasqua organizzai un concerto degli Slapshot alle Zanne. Gli Slapshot erano un gruppo storico della east coast americana, e avevano al loro attivo uno dei dischi più ascoltati degli ultimi dieci anni: Back on the map. La mia curiosità era tutta rivolta verso Choke, il loro cantante. Le leggende narravano di un cattivissimo gigante fascista che se ne andava in giro per le strade di Boston a spaccare teste con una mazza da baseball. Per tanti anni aveva indossato la stessa t-shirt bianca con una scritta molto eloquente sul davanti: “Boston, la città dove gli uomini sono uomini e la carne è rossa”. Poi, come fulminato da un’improvvisa rivelazione, aveva cominciato a prendere la vita con più filosofia. Aveva disteso i muscoli della faccia, imparato ad ascoltare tutti con attenzione e perfino a sorridere qualche volta. Non l’avesse mai fatto. I suoi vecchi fans avevano cominciato a prenderlo in giro in maniera feroce, facendo girare la notizia che fosse diventato una checca isterica e un ebreo militante. In realtà era solo diventato un parrucchiere per signore, ma per i punk di Boston significava più o meno la stessa cosa. Di tutto questo a lui non importava gran che. Se la gente diceva che era un porco fascista era pronto a difendere la sua integrità e a menare le mani, ma se qualcuno si divertiva a dirgli che era un finocchio, allora scrollava le spalle con indifferenza e cambiava strada. Il giorno del concerto la sala ribolliva di gente come nelle migliori occasioni. Io, curiosamente, ho ancora nella mente questa immagine di Choke mentre apre la porta del bagno, con quell’espressione disgustata che si disegna sulla sua faccia. Il pavimento era così pieno di piscio che in quel momento non poteva fare a meno di convergere in grosse ondate verso le sue gambe. Quando i liquami schiumosi e giallognoli lo investirono, gorgheggiando nelle sue scarpe, una grossa vena piena di rabbia gli gonfiò la fronte. Fu come se in quel preciso 153 istante disegnasse un confine immaginario fra sé e gli altri. Cominciò a bestemmiare e a maledire tutti i fottuti italiani assembrati in quel posto. Punk rock, gridava, bella roba. Poi sul palco si vendicò. Fu straordinariamente energico. Urlò come una bestia, e anche il gruppo sparò forte la sua musica in faccia alla gente. Credimi, non sembrava musica, era piuttosto una lama ben affilata che lacerava la carne in profondità. Non potevi nemmeno sperare che qualcuno si muovesse a pietà e lasciasse cicatrizzare le tue ferite. Eri completamente investito dal rumore e dalla rabbia. E’ così che dovrebbe essere sempre… Mi ubriacai e me ne tornai a casa felice.

154 istante disegnasse un confine immaginario fra sé e gli altri. Cominciò a bestemmiare e a maledire tutti i fottuti italiani assembrati in quel posto. Punk rock, gridava, bella roba. L’ ANNO DEGLI AFFLUENTE Poi sul palco si vendicò. Fu straordinariamente energico. Urlò come una bestia, e anche il gruppo sparò forte la sua musica in faccia alla gente. Credimi, non sembrava musica, era piuttosto una lama ben Il 1994 fu l’anno degli Affluente. A primavera uscì un disco diviso a affilata che lacerava la carne in profondità. Non potevi nemmeno metà con i Monkeys Factory di Latina. Fu prodotto dalla Fabbrica sperare che qualcuno si muovesse a pietà e lasciasse cicatrizzare le tue Bulloni di Cagliari, un’etichetta che aveva appena dato alle stampe ferite. Eri completamente investito dal rumore e dalla rabbia. E’ così una compilation con i migliori gruppi punk e hardcore italiani di che dovrebbe essere sempre… Mi ubriacai e me ne tornai a casa quegli anni. Per motivi che non sono mai riuscito a capire il disco fu felice. distribuito malissimo. In Sardegna potevi trovarlo dappertutto ma nel resto del mondo era una specie di leggenda di cui facevi fatica a rintracciare l’origine. Due anni dopo avremmo deciso di registrare di nuovo i pezzi migliori dello split per inserirli in Veri suoni della libertà, il lavoro più ambizioso e musicalmente importante degli Affluente. Fra un concerto e l’altro trovammo anche il tempo di registrare i pezzi per un nuovo disco. Ci furono “commissionati” da un ragazzo che aveva messo su una nuova etichetta, la Applequince. Al telefono mi era sembrato entusiasta del gruppo e abbastanza sincero per meritarsi la mia attenzione. Così registrammo Moltitudine suina in un giorno. Il disco uscì in mille copie nei primi mesi dell’anno seguente, e ancora oggi è il disco più venduto degli Affluente. Fu ristampato tre volte con copertine differenti, ed è rimasto così a lungo nella testa della gente che ad ogni concerto dobbiamo suonare canzoni come Su la testa, Forza Italia e L’Italia ai negri. Appena proviamo a “dimenticarle” qualcuno salta sul palco e non se ne va fino a quando non le suoniamo. La sorpresa più grande fu scoprire chi era il factotum della Applequince. Ci incontrammo a Roma per un concerto degli Affluente. Quando ci abbracciammo lui mi offrì gli stessi occhi scintillanti del ragazzo che aveva cantato insieme a me a Valle Faul. E quando gli chiesi il nome, quasi si vergognava a dirmelo. Era Massimo Leonardi. Sul momento ebbi un impeto di rabbia che quasi gli costava la faccia, ma alla fine tutto finì con una pacca sulle spalle. 154 155 Qualche giorno dopo ricevetti una lettera veramente sorprendente. Rimasi talmente sbalordito dal suo contenuto che dovetti deglutire almeno dieci volte mentre la leggevo. Il ragazzo che l’aveva scritta era un seminarista sardo. Aveva diciotto anni e voleva fare il prete. Gli piaceva l’attitudine punk e anche la musica hardcore, ma questo per lui non era un problema. Aveva trovato Moltitudine suina in un negozio di Cagliari e il suo primo impulso era stato quello di comprarlo. La nostra musica gli piaceva, era un fan degli Affluente. Poi gli era balzato agli occhi il primo pezzo del disco. Si chiamava Rinneghiamo dio, e il testo era molto diretto: “E’ la paura che suscita l’idea dell’esistenza di un dio e delle religioni. Religioni del terrore, rafforzate e rese stabili dalla formazione di caste sacerdotali”. E ancora più avanti: “Le religioni distruggono le menti, uccidono la verità e la ragione, riducono i popoli all’imbecillità, condizione essenziale della loro schiavitù”. Povero ragazzo, non riusciva a crederci, gli veniva da piangere. La sua lunga lettera era piena di meraviglia e cupa tristezza. “Ho preso e rimesso al suo posto il disco un migliaio di volte” diceva. Aveva paura che qualcuno frugasse fra le sue cose. Per un giovane prete non c’era niente di peggio. Alla fine si era fatto coraggio e l’aveva comprato, però non riusciva a capire perché affrontassi l’argomento religioso in una maniera così dura. Era talmente colpito dalla mia intolleranza che era seriamente intenzionato a incontrarmi per discuterne faccia a faccia. Naturalmente non gli ho mai risposto, non per vigliaccheria ma perché sarebbe stato perfettamente inutile. Avrei dovuto dirgli quello che pensavo, e cioè che il volgare ciarlatanesimo e l’impudente menzogna erano alla base di tutti i culti, e che fra tutte le malattie mentali che l’uomo si era posto sistematicamente nel cervello la peste religiosa era la più orribile, in quanto mostruosamente dannosa per le capacità intellettuali umane. Insomma avremmo finito col parlare due lingue diverse, incompatibili fra di loro e destinate a non incontrarsi mai. Lui forse oggi fa il prete per davvero, magari va anche ai concerti con il 156 colletto bianco appiccicato al collo. Me lo immagino mentre raccoglie intorno a sé i ragazzi con la bandana in testa e le camicie a scacchi sbrindellate, mentre racconta di quando Gesù andava vestito come loro e scriveva bei testi punk, politicamente impegnati, e di come il potere l’avesse ucciso per tacitare la rivolta. Beh, è tutta una stronzata. Non ho mai avuto voglia di sentirmi raccontare la favola di un Gesù rivoluzionario. Non ho mai creduto a Gesù. Sono intollerante verso tutte le religioni, sono tutte stupidaggini di cui possiamo fare a meno. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno è una coscienza dell’egualitarismo. Di uno spirito illuminato, razionale, perfettamente umano. Nemico pubblico di tutte le religioni.

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DALLA DREAM MACHINE A VERI SUONI DELLA LIBERTA’

Pierpaolo ci lasciò senza preavviso dopo la registrazione di Moltitudine suina. Aveva la nausea, voleva staccare la spina, non pensare a niente per almeno un paio d’anni. In pratica eravamo di nuovo sulla strada. Come se non bastasse la situazione si complicò ancora di più. Una notte una banda di fottuti stronzi sfondò la porta della sala prove e ci rubò gli strumenti. Sembrava il colpo definitivo, quello che ti fa mancare il fiato e ti stende al tappeto, ma non so perché ci venne solo una voglia immensa di ricominciare daccapo. Ricomprammo gli strumenti, e nel giro di una settimana trovammo anche un batterista per un concerto ad Avellino, un ragazzino metallaro che suonava la cassa con due sacchetti di sabbia attaccati ai polpacci. L’esperienza non lo entusiasmò. Non era abituato alle atmosfere dei centri sociali occupati, alla gente che premeva da tutte le parti, agli ubriachi che ti rompevano il cazzo e agli sbandati. Dopo il concerto dormì accanto alla batteria per paura che gliela rubassero e la mattina dopo era già lontano dagli Affluente. Noi dormimmo invece sul pavimento di una stanza, raggomitolati nelle coperte. Eravamo ancora allucinati da una seduta alla Dream Machine, un aggeggio che proiettava luci a intermittenza. Per certi versi era una macchina sorprendente. Era stata inventata nel 1959 da Brion Gysin, un ottico-artista poi espulso dall’ambiente dei surrealisti. Gysin aveva portato in America il metodo del cut-up, adoperandolo come pratica di alterazione della visione. Secondo la sua teoria, le brillanti visioni interiori prodotte dalla macchina erano un mezzo per viaggiare nella geometria della mente. La cosa sembrava interessante. Così ci eravamo sparati quindici minuti di luci psichedeliche dopo il concerto, rimanendone leggermente allucinati. 159 La mattina dopo eravamo già pronti per una nuova avventura. Organizzammo un nuovo concerto degli Slapshot al Roller disco. Quella sera suonarono anche i californiani Ignite e i tedeschi Growing Movement. I primi avevano in formazione ex componenti dei gloriosi Uniform Choice e dei No For An Answer. Erano molto bravi, con un cantante dal vocione potente e una base ritmica che non perdeva un colpo. Certo, non erano propriamente impegnati nella difesa dei diritti civili. Bevevano coca cola e facevano i fotomodelli, ma ascoltandoli i miei pregiudizi scomparvero come per incanto. I Growing Movement furono invece una sorpresa. Non li avevo mai sentiti, non li conoscevo nemmeno di nome, ma mi bastò vederli quella volta per non dimenticarli mai più. Il cantante era un animale. A un tratto si tolse la t-shirt che indossava e si strizzò in bocca due litri di sudore. Bevve tutto d’un fiato, con un’avidità impressionante. Poi continuò il concerto più incazzato di prima. A loro volta gli Slapshot chiusero degnamente la serata. Choke cercò di coinvolgere il pubblico offrendo il microfono per i cori, ma dovette arrendersi quasi subito, perché decine di persone invasero il palco e sequestrarono il gruppo. Pochi mesi più tardi fu la volta dei Business, uno dei gruppi storici dell’oi punk inglese. Per la verità io mi aspettavo i G.B.H., ma all’ultimo momento qualcosa era andato storto e il loro tour era stato annullato. Al danno si era aggiunta la beffa. Senza nemmeno avvisarmi l’agenzia li aveva sostituiti con i Business, e sai quale fu la cosa peggiore? Non potevo mica star lì a dire che certe cose andavano decise insieme, insomma a reclamare più democrazia, perché vedi, la democrazia non fa per me. Come dicevo in quella canzone? La democrazia è il marcio sistema della classe di dio, la classe dei ricchi. Il potere è nelle mani di chi lo può comprare, ma le mani del popolo sono sempre vuote. Così niente G.B.H., dannazione, ma solo degli alcolizzati sfatti che chiedevano tonnellate di birra in continuazione e urlavano bestemmie in un idioma strascicato. I Business erano quelli, facevano parte di quel tipo di gruppi che a torto o a ragione erano considerati molto 160 La mattina dopo eravamo già pronti per una nuova avventura. orientati a destra. Di sicuro non mi appartenevano per cultura, e Organizzammo un nuovo concerto degli Slapshot al Roller disco. nemmeno mi piacevano musicalmente. Per assurdo correvo perfino il Quella sera suonarono anche i californiani Ignite e i tedeschi rischio di riempire la sala con centinaia di skinheads provenienti dalla Growing Movement. I primi avevano in formazione ex componenti Slovenia. Fortunatamente le cose andarono meglio del previsto. I dei gloriosi Uniform Choice e dei No For An Answer. Erano molto Lurkers, un’altra storica punk band inglese, aprirono la serata con un bravi, con un cantante dal vocione potente e una base ritmica che non pugno di vecchi pezzi ormai usciti dai ricordi della gente. C’erano perdeva un colpo. Certo, non erano propriamente impegnati nella New guitar in town, Just thirteen, e qualche altro raro esempio di un difesa dei diritti civili. Bevevano coca cola e facevano i fotomodelli, certo successo, come la cover degli Sham 69, If the kids are united. ma ascoltandoli i miei pregiudizi scomparvero come per incanto. I Business si limitarono a reggersi in piedi e a far cantare i loro fans, I Growing Movement furono invece una sorpresa. Non li avevo mai giunti da tutta l’Italia centrale per dare il loro contributo alla buona sentiti, non li conoscevo nemmeno di nome, ma mi bastò vederli riuscita della serata. quella volta per non dimenticarli mai più. Il cantante era un animale. Questo fu l’ultimo concerto che organizzai mentre ero ancora A un tratto si tolse la t-shirt che indossava e si strizzò in bocca due impegnato negli Affluente. Ormai la spinta ideale si stava litri di sudore. Bevve tutto d’un fiato, con un’avidità impressionante. affievolendo, cascavo a pezzi dalla stanchezza, forse stavo solo Poi continuò il concerto più incazzato di prima. cercando un pretesto per uscire di scena definitivamente. A loro volta gli Slapshot chiusero degnamente la serata. Choke L’occasione mi si presentò nel giugno 1996. Avevo passato l’ultimo cercò di coinvolgere il pubblico offrendo il microfono per i cori, ma anno ad andare su e giù per l’Italia con il gruppo, era stato dovette arrendersi quasi subito, perché decine di persone invasero il massacrante e per la prima volta nella mia vita avevo voglia di lasciar palco e sequestrarono il gruppo. perdere. Questo succedeva proprio nel momento migliore degli Pochi mesi più tardi fu la volta dei Business, uno dei gruppi storici Affluente. La formazione aveva trovato una sua stabilità con dell’oi punk inglese. Per la verità io mi aspettavo i G.B.H., ma l’ingresso di Sebastiano Massetti alla batteria, un ragazzo che all’ultimo momento qualcosa era andato storto e il loro tour era stato alternava alcuni momenti brillanti a periodi di assoluto mutismo. Non annullato. nel senso che si rifiutasse di parlare o cose del genere, solo che in certi Al danno si era aggiunta la beffa. Senza nemmeno avvisarmi l’agenzia momenti non si riusciva a capire assolutamente niente di quello che li aveva sostituiti con i Business, e sai quale fu la cosa peggiore? Non diceva. Dalla sua bocca uscivano suoni brevi e acuti, la sua voce era potevo mica star lì a dire che certe cose andavano decise insieme, più simile allo squittio di un topo piuttosto che al timbro vocale di un insomma a reclamare più democrazia, perché vedi, la democrazia non essere umano. Mi faceva impazzire. In quanto a quel periodo, dicevo, fa per me. Come dicevo in quella canzone? La democrazia è il marcio avevo la testa pesante e volevo smettere. Però c’erano pur sempre i sistema della classe di dio, la classe dei ricchi. Il potere è nelle mani pezzi nuovi che mi piacevano un casino, e insieme al gruppo avevo di chi lo può comprare, ma le mani del popolo sono sempre vuote. una voglia pazza di spararli in sala d’incisione. Così niente G.B.H., dannazione, ma solo degli alcolizzati sfatti che Così registrammo T.S.O.L-Veri suoni della libertà in tre giorni chiedevano tonnellate di birra in continuazione e urlavano bestemmie quella stessa estate, con un’ultima sofferta prova di prosa spontanea in un idioma strascicato. I Business erano quelli, facevano parte di durante la stesura dei testi. L’intento era quello di far uscire il disco quel tipo di gruppi che a torto o a ragione erano considerati molto per un’etichetta importante, tipo Profane Existence o Lookout, ma le 160 161 cose non andarono come previsto. I contatti si protrassero per un mucchio di tempo senza mai concretizzarsi. A un certo punto sembrava che non ci fosse più la possibilità di farlo uscire. Io avevo già deciso di dedicarmi a tempo pieno al mio nuovo lavoro (avevo lasciato il mio posto in fabbrica per aprire un negozio di videogiochi), e nessuno degli altri aveva intenzione di spendere soldi per stamparlo. Lasciai gli Affluente nell’estate del 1998. Per festeggiare i miei sedici anni di attività organizzai un concerto dei brasiliani Ratos de Porao al centro sociale di Via delle Terme. Fu veramente una gran bella cosa. Gordo, l’immenso cantante dei Ratos, ebbe seri problemi per entrare dalla stretta porta principale. Tentò più volte d’infilare la sua enorme mole nel portoncino d’ingresso, ma era proprio impossibile. In breve nacque un comitato spontaneo per trovare una soluzione. Dopo un sacco di tentativi inutili riuscimmo ad infilare Gordo di traverso attraverso la porta. Lui trattenne il fiato e scoreggiò per la fatica. Fu così che il comitato riuscì a spingerlo dentro, lanciando un lungo hurrà per la riuscita dell’impresa. Fu molto bello vedere Gordo in concerto quella sera, mentre investiva il pubblico con onde d’urto terrificanti che avevano il potere di spiaccicare la gente alle pareti e di convertire il mondo al crudo impatto dell’hardcore. Gli Affluente continuarono la loro attività in maniera molto intensa fino a tutto il 2002. Il mio sostituto, Ciccio Sabatucci, era stato per tanti anni un fan del gruppo. Conosceva i pezzi a memoria, sapeva come cantarli, e non gli ci volle molto per entrare in sintonia col pubblico durante i concerti. Io rimasi neutrale per un po’, poi trovai il modo di concentrarmi nuovamente sul disco e di farlo uscire per Goddam Church nella primavera del 2000. Le recensioni furono ovunque entusiastiche. Scrisse Roberto Liuzzi sul numero 18 di Contro-antagonismo musikulturale: “C’era una volta un master che per varie traversie rischiava di stagnare nel cassetto, dove giaceva dal 1997. Quei pochi che ne erano entrati in possesso o che l’avevano ascoltato ne riferivano in termini epici, ma nonostante ciò niente si smuoveva…Quando ormai nessuno 162 se l’aspettava più, ta-ta-ta, eccolo finalmente materializzato: meglio tardi che mai! E’ questa l’attesissima opera prima degli Affluente nel formato argentato, venti dirompenti canzoni che sono la fulgida dimostrazione della lucidità e dello spessore del quintetto. I testi sono provocatorie armi puntate contro i meccanismi che sostengono quell’ingranaggio infernale chiamato sistema, espressi in maniera meno sloganistica e più articolata della media (da sempre loro caratteristica), espressi con una intensità davvero palpabile, segno di uno straordinario acume critico contro il quale si scontrerà la nostra coscienza, cibandola letteralmente. Non mi sbilancio affatto dicendovi che questa band e questo disco si pongono fra le massime espressioni hardcore italiane di sempre. Sì, una bomba ideologica-sonora ad orologeria: a voi interiorizzarla ed azionarla. Unici: reale fondamentalismo hardcore”. Ma se pensi che questo possa essere il massimo dell’incensamento e dell’esaltazione che mi dici di quello che scrisse Giordano Simoncini sul numero 3 della sua fanzine Stewey’s Star? “Bene. Questo disco è in circolo nel sistema cardiovascolare dell’hardcore italiano oramai da molto tempo. E allora perché cazzo parlarne adesso? Perché a volte le cose vanno un po’ così. Mi arriva una mail di un ragazzo forlivese che per la sua fanzine fa un’inchiesta del tipo “i migliori e i peggiori album hardcore-punk italiani usciti negli anni ‘90” (il ragazzo si chiama Michele, la fanzine E.P.). Ragazzi, che bella domanda! Ci ho pensato tantissimo, sforzandomi all’inverosimile di rispettare quel parametro esplicito, “hardcore- punk”…e mi sono corsi nella mente “L’appeso” dei Frammenti, “Benvenuti Persone” dei Crunch, poi non so perché i Redemption, certamente Concrete e Notorius, e poi altro. Eh, ma al primo posto? Alla fine, dopo un turnover speculativo devastante, ho deliberato: “Moltitudine suina” degli Affluente (Applequince, 1995). Magari ora penserete che si tratti di una scelta azzardata, in molti si dissoceranno senz’altro…chiaramente io persisto nel mio avviso prima di tutto per l’essere praticamente da sempre un fan integralista della formazione marchigiana in questione, in secondo luogo perché, al di là delle 163 riserve di ognuno, credo non sia possibile evitare di riconoscerne le qualità. E da buon amante del confronto democratico (senza contraddittorio, perché voi per ora dovrete limitarvi a leggere…la democrazia è una cosa un po’ così, dovreste saperlo), mi è venuto lo sghiribizzo di motivare le ragioni della mia valutazione con la recensione di questo non recentissimo cd, che ad ogni modo è pur sempre l’ultima produzione disponibile della band ascolana. Dunque: TSOL sta per True Sounds Of Liberty, ed introduce efficacemente il divertissement che perdura per tutto l’album, quello di intitolare le canzoni con i nomi (italianizzati) delle bands che costituiscono la bibbia essenziale dell’old school di ogni tempo. E così ecco “Bandiera nera”, “Battaglione di santi”, “Gli idioti del circolo”, “Scelta uniforme”, “Distorsione sociale”, “Approccio negativo” e via seguitando. Un congegno, ve lo concedo, quantomeno singolare…lascerebbe quasi supporre una certa pochezza contenutistica, una qualche imperdonabile banalità, una sorta di limitatezza cronica in fatto di poetica…invece, neanche a dirlo, non è così: è il perfetto contrario. Piuttosto è come dire: “alle nostre canzoni possiamo dare i titoli che vogliamo, che a loro volta possono sembrare idiozia pura ai più; ad ogni modo, in ogni caso, riusciamo a cavarne fuori tematiche, idee, argomenti, e neanche tra i più facili. Lo SAPPIAMO FARE, anche partendo dagli spunti più ingenui”. Ecco com’è. Gli Affluente sono una band di contenuti, il che presuppone sia l’avere qualcosa in testa, sia il saperlo esprimere, sia il saperci riflettere sopra. Sicché “Bandiera nera”, la prima traccia (troppi negri, troppi ebrei perversi, troppi froci e puttane), è un peana caustico, una litania derisoria ed irriverente, una sberla alla retorica destrorsa nazionale, conservatrice solo quando le fa comodo (nella società e non nell’economia) e ordinata col vizietto, una ganascia stretta sulla ruota del progredire umano e sociale. Da ridere, ma manco tanto. Non si tira neppure il fiato, ed ecco “Un aspetto delle cooooo/SE!”, a ricordarci che la verità “non esiste, è una costruzione degli Stati Uniti”, antiamericanismo puro, ragionato, con gli occhi aperti su “Iraq, Somalia, poveri del mondo” ed una affermazione, 164 politologia di prima essenza, che lascia trasparire una qualche impostazione neoweberiana: “L’America è una terra di selvaggi fascisti che ragionano col buco del culo”, un velato messaggio che credo passerà nella maggior parte dei casi. Velocizzo: “Codice d’onore”, ovvero “le schiavitù dell’uomo moderno”: la vacuità, il simbolo, il mito, il sapere; “Sette secondi”, “la tua ignoranza è il loro potere”, forse la frase più banale e più vera pronunciata al mondo; “Scelta uniforme”, rifiuto globale del mondo militare, ed astio, tanto, nei riguardi del filoautoritarismo femminile di nuova generazione; “Articoli di fede”, ateismo spinto al margine, altro che l’essere agnostici in quel modo così disimpegnato e noncurante che tanto risulta essere in voga fra le file delle odierne mandrie giovanili impantanate nella palude del moderno, edulcorato, anestetizzato, “alternativismo”…quasi una sessione teatrale, un fiume in piena, un exploit politico: “credere in dio è una follia, un crimine contro l’umanità, qual è il contributo della religione al bene del mondo? Articoli di fede? Forse la gente non sa che cristo è vanità!”. Sulla stessa traiettoria “Pupazzi di carne”, ma meno collera e più concezione, e un acume invidiabile fuso nella frase “l’uomo libero ha bisogno di qualcuno di fronte al quale odiare la propria libera condizione di uomo. A chi genufletterci?” Ed ancora, “Abuso verbale”, stupido gioco; “Piacere malato”, che è sociologia pura, riflessione sull’annullamento della dignità umana alla macchina e sul desiderio inconscio di autodistruzione; “Proprietà del governo”, sbocco antidemocratico e coscienza piena della grande truffa della cultura politica occidentale dal secondo dopoguerra a oggi; “Sporchi Marci Imbecilli”, ancora antiamericanismo in versione piuttosto no global, “chi muore per l’utilitarismo, chi muore per il trionfo della civiltà bianca occidentale, chi cazzo muore?” Ed infine il pezzo di gran lunga migliore, la vetta della “società affluente”, “Incerti al 76%”, una rifulgente canzone dedicata al dubbio, alle considerazioni sulla verità, alla coscienza della sua inesistenza, strangolamento, afasia, dissanguamento a seguito di ciò che rimane all’uomo, il dubbio, “l’unica fede dell’umanità”, il punto di arrivo e di una nuova 165 partenza (è filosofia, questa, detta per inciso). “Dubbio, scopami!” è la conclusione, una resa non triste, qualcosa di simile all’accettare una permeazione positiva. Il tutto su di una base musicale Bad Religion come mai. Eh, la musica degli Affluente…Si fa presto a dire Old School Hardcore, si minimizza e non è giusto farlo. Già dall’E.P. “Logica dominante”, e poi soprattutto in “Moltitudine suina” (“dissenso per la non cultura del non-senso”, vi ricordate quale genialità?), gli ascolani hanno sempre giocato al proclamare il “fondamentalismo punk/hc” ed al contaminare allo stesso tempo, semplicemente ma con gusto…tanto le cose semplici sono sempre le più belle! TSOL è uno strano ircocervo musicale. E’ densissimo, veloce, sì, le tracce sono spesso unite, incalzano…foga punk, certo, ma non solo. Nell’album si passa da riffs spudoratamente banali (tre, quattro canzoni sono un semplicissimo LA FA SOL) a…crossover, mi vien da dire. Credo che sia la definizione più calzante per svarioni simil rap come “L’America controlla le ricchezze del mondo con il ricatto della potenza militare…”di “Esperimenti Uniti d’America” o recitazioni massimali e borderline stile “Articoli di fede”, mid tempo di maniera come quello di “Codice d’onore”, dissonanze appena accennate ma ad ogni modo soniche genere “Scelta uniforme”, gli accenni “goth stuprato punk” in “7 secondi” ed in generale il continuo ponte tra vecchio e nuovo che copre tutta la durata dell’album, il continuo giostrarsi tra la sudata tradizione punk e la rilettura di questa attraverso vent’anni di musica trascorsa e sventrata in lungo e in largo. Sono una band superiore, gli Affluente, c’è poco da dibattere. Quando li ascolti ti vengono in mente i libri (lì dove per molti altri ensamblement di settore ci si ferma alle bestemmie): la sociologia americana degli anni ’60, gli studi sulla cultura di massa, il pensiero filosofico libertario in secoli di differenti codificazioni, tanto altro. E poi, della voce scuola Youth Brigade di Cannella ne vogliamo parlare? E’ un prete (anarchico ed ateo ma sempre prete), e la sua interpretazione è una liturgia in LA costante. Semplice ed efficacissima. A questo punto la sparo: gli Affluente, e qui potete constatare come il cerchio si chiuda, sono la migliore 166 formazione hardcore-punk old school moderna della penisola italiana”. Veri suoni della libertà ha rappresentato per gli Affluente il punto più importante della loro storia. Ma siccome il punk non è solo musica ma è anche un furgone scalcinato che cammina per centinaia di chilometri al giorno, è anche dormire sui pavimenti delle case occupate, è telefonare ogni sera alle mogli e alle ragazze, e magari ai figli solo perché si è rimasti coinvolti in alcune cose, siccome il punk è fottersene delle regole e fare ciò in cui si crede veramente, Veri suoni della libertà è soprattutto il compendio di uno stile di vita e di un modo di dire no. Ok, d’accordo, forse non siamo stati così feroci, cattivi ed estremi come mi sono divertito a raccontarti, il fatto è che quando dici le stesse cose per così tanto tempo inevitabilmente perdi la tua carica dissacrante. Insomma sei più portato ad assumere un atteggiamento concettuale. E di concetti gli Affluente ne hanno espressi parecchi. Se da molti anni continuano a suonare le stesse canzoni, non aggiungendo altri capitoli alla loro già consistente produzione, è forse perché quello che c’era da dire l’hanno già detto. D’altro canto chi avrebbe mai potuto pensare ai tempi di Logica dominante che sarebbero esistiti così a lungo? Come puoi immaginare sono stati una parte importante della mia vita. Il periodo punk mi ha regalato emozioni indimenticabili, ma con gli Affluente è stato speciale. Se c’è stato un posto in cui mi sono sentito me stesso, beh, quello è stato il palco mentre cantavo con gli Affluente. Forse perché hanno sempre suonato puro hardcore-punk senza contaminazioni di nessun genere. I dischi del gruppo suonano ancora oggi come una stupenda istantanea d’epoca, trasudano rabbia e immediatezza, hanno una forte componente politica che riesce a mantenere sempre alta la tensione. Negli ultimi sei anni come puoi immaginare hanno avuto molti problemi di formazione, ma ormai hanno fatto i calli a questo genere di situazione, sanno come superare i momenti difficili, insomma sono sempre in pista. Quando Ciccio si è trasferito in Spagna è arrivato a 167 sostituirlo Pippo Abrami. Quando lui si è spaccato le corde vocali, sono ritornato io. Adesso che sono in Olanda chissà che succede, ma intanto gli Affluente vanno avanti. Lo sai? Non è vero che non hanno più fatto canzoni nuove. Stanno preparando un altro disco, stai a vedere che nel giro di qualche mese hai fra le mani questo pugno di pezzi in grado di farti schizzare in aria per l’eccitazione. Vogliamo scommettere?

168 CIAO

Oggi è un giorno grigio e senza forza. Ogni parte del mio corpo soffre il freddo. Avverto anche un’ombra d’infelicità che oltrepassa i muscoli e le ossa, ma fortunatamente si ferma prima di raggiungere il cuore. L’ho educato bene, il cuore. So come fare per continuare a vivere senza il doloroso supporto dei sentimenti, è la mia forza. Dopo tutto posso sorridere continuamente, quando voglio, se occorre, per scrupolo inconsapevole, se un certo tremore della mano è un effetto laborioso dei pensieri. Questa sera gli Affluente avrebbero dovuto suonare a Perugia, ma poi le cose si sono complicate ed è saltato tutto. Io sto partendo per l’Olanda, il batterista è in Irlanda a suonare con un altro gruppo, la cosa più sconvolgente è che la gente non lo sa. Molti stanno pregustando la gioia di vederci suonare dal vivo, quasi ci abbracciano con il pensiero… ci vogliono così bene, e noi li stiamo tradendo. Mi fa male a pensarci. La gente meriterebbe più rispetto. Qui non c’entra niente l’arte della trasgressione, qui si tratta di camminare per chilometri verso una maggiore consapevolezza di quello che si sta facendo. Le cose che ho in testa dovrebbero legarsi meglio alla realtà che vivo, ecco tutto. Magari domani riesco a togliermi le mani dalla faccia o da dietro la schiena, l’importante è che riesca a mettermi sempre in discussione, cercare di investire meglio in certi contenuti. Intanto chiedo scusa.

Poi, siccome è il mio ultimo giorno ad Ascoli Piceno, mi metto a camminare. Quando sono nervoso cammino, è l’unico modo in cui riesco a calmarmi. Guardo un po’ in giro, e ho come l’impressione che le strade siano piene di fantasmi, la città è così quieta… Improvvisamente la figura di un uomo diabolico mi si concretizza davanti in un’apparenza 169 singolare. Indossa una giacca di velluto giallo, una camicia di tipo hawaiano e una cravatta di seta color malva, le labbra gli tremano e ha una bollicina all’angolo del naso, gli occhi sembrano animati da una volontà peccaminosa. A guardarlo ti rendi subito conto che ha ridotto da trent’anni il suo tempo di sonno e riposo. Nei movimenti schizzati e nella fretta di raccontare conserva l’immagine del bevitore, la consunzione del bevitore, l’onestà di chi legge sudici libri di poesia ogni giorno. E’ Shino. Le cose, dice, non vanno molto bene. Non è più così sicuro di essere il miglior scrittore in circolazione. Il punk lo ascolta tutte le volte che ha bisogno di una scossa, ma non sente più in giro i gruppi di una volta. Io gli racconto di questi Paloia che ho sentito appena una settimana fa. I Paloia sono forti, sono la nuova sensazione hardcore ascolana; poi, dico, ci sarebbero anche questi ragazzi che hanno una fame insaziabile di hardcore-punk primigenio, vengono in negozio ogni giorno a chiedermi i dischi degli anni ’80. Anche loro hanno un gruppo, non ricordo il nome, non li ho ancora sentiti. Una volta rifacevano i pezzi degli Affluente, ma adesso hanno una nuova formazione e magari suonano da paura pure loro. Shino fa una smorfia. Non gli piacciono questi giochetti, non ha nessuna considerazione per quelli che tentano di dargli dei consigli, il suo nichilismo è ancora a livelli esasperati. “Ho la nausea” dice, “il mondo è vanità, tutto deve crollare”.

Ma prima che succeda, amico mio, stammi bene a sentire. Lo so che non sono riuscito a regalarti quelle due ore di lettura struggente e appassionata che ti aspettavi, che sono andato avanti con le parolacce fregandomene della letteratura, che non c’è niente di più superfluo della nostalgia che ogni tanto ha pervaso queste pagine, ma la cosa peggiore sai qual è? E’ che non ti ho svelato nemmeno la metà dei miei oscuri segreti. Per finire eccomi qui a salutarti come fossi un vecchio amico, a chiederti da bere se magari un giorno c’incontriamo. Non sono uno stronzo? Ciao. 170 singolare. Indossa una giacca di velluto giallo, una camicia di tipo hawaiano e una cravatta di seta color malva, le labbra gli tremano e ha una bollicina all’angolo del naso, gli occhi sembrano animati da una volontà peccaminosa. A guardarlo ti rendi subito conto che ha ridotto da trent’anni il suo tempo di sonno e riposo. Nei movimenti schizzati e nella fretta di raccontare conserva l’immagine del bevitore, la consunzione del bevitore, l’onestà di chi legge sudici libri di poesia ogni giorno. E’ Shino. Le cose, dice, non vanno molto bene. Non è più così sicuro di essere il miglior scrittore in circolazione. Il punk lo ascolta tutte le volte che ha bisogno di una scossa, ma non sente più in giro i gruppi di una volta. Io gli racconto di questi Paloia che ho sentito appena una settimana fa. I Paloia sono forti, sono la nuova sensazione hardcore ascolana; poi, dico, ci sarebbero anche questi ragazzi che hanno una fame insaziabile di hardcore-punk primigenio, vengono in negozio ogni giorno a chiedermi i dischi degli anni ’80. Anche loro hanno un gruppo, non ricordo il nome, non li ho ancora Teleboys, primi approcci - 1979 sentiti. Una volta rifacevano i pezzi degli Affluente, ma adesso hanno una nuova formazione e magari suonano da paura pure loro. Shino fa una smorfia. Non gli piacciono questi giochetti, non ha nessuna considerazione per quelli che tentano di dargli dei consigli, il suo nichilismo è ancora a livelli esasperati. “Ho la nausea” dice, “il mondo è vanità, tutto deve crollare”.

Ma prima che succeda, amico mio, stammi bene a sentire. Lo so che non sono riuscito a regalarti quelle due ore di lettura struggente e appassionata che ti aspettavi, che sono andato avanti con le parolacce fregandomene della letteratura, che non c’è niente di più superfluo della nostalgia che ogni tanto ha pervaso queste pagine, ma la cosa peggiore sai qual è? E’ che non ti ho svelato nemmeno la metà dei miei oscuri segreti. Per finire eccomi qui a salutarti come fossi un vecchio amico, a chiederti da bere se magari un giorno c’incontriamo. Non sono uno stronzo? Ciao. Sergio Salvi, Peppe Angelini e Sergio Federici (Teleboys, 1980) 170 Ludo Whap, Sergio Federici e Sergio Salvi (Teleboys, 1980)

Peppe Angelini al Cinema Olimpia Beky Bondage e Peppe Angelini, 25 ottobre 1981 1982 Dictatrista - approssimativamente 1984

In nome di un nuovo umanesimo: Beky Bondage educazione all’attitudine punk, e la sua mitica 500, 1984 Ferrara, 1985 Gli Scream al Virus, 1985

Gli Stige fra la spazzatura (1988)

Stige (1989): Alvaro - Peppe Shino - Io Gli Affluente in studio per “T.S.O.L.-Veri suoni della libertà”, 1996

Un acrobatico Frankie al CSA Totem e Tabù, San Benedetto 1998 La bestia dei Growing Movement (Roller Disco, 1995).

Affluente, Libera Comunanza, San Benedetto 2002 stampato presso grafiche angelini, ascoli piceno giugno 2005