RASSEGNA STAMPA di lunedì 18 maggio 2015

SOMMARIO

“Al nuovo beato - ha affermato il Patriarca Moraglia al termine della celebrazione di sabato mattina in Piazza S. Marco a Venezia (su www.patriarcatovenezia.it il testo integrale) - bene si addice l’immagine del prete-pastore “…con l’odore delle pecore” di cui si serve Papa Francesco e con la quale ha delineato l’identità del ministro ordinato. Tanto la Chiesa quanto la città di Venezia sono grate al Signore per aver ospitato questa solenne liturgia della beatificazione che, di nuovo, ci ha fatto sentire la bellezza d’esser Chiesa. Don Luigi - il cui vero nome era Ludovico Gasparo Maria Paolo - era un veneziano doc, nacque a Venezia il 7 giugno 1817; il papà Angelo era gondoliere, la mamma Elena proveniva da una famiglia di barcaioli specializzati nel trasporto delle merci… Oggi, per tutti noi, per la Chiesa che è in Venezia e per le Figlie di San Giuseppe è un momento di grande gioia perché siamo toccati da vicino dalla santità che, oggi, in questa Piazza, non risuona come parola astratta e lontana ma come deve essere in realtà, ossia storia vissuta, ed assume un volto concreto e dei lineamenti personali: quelli di Luigi Caburlotto, figlio del gondoliere Angelo. Il fatto, poi, che un parroco veneziano sia stato dichiarato beato interpella innanzitutto il presbiterio di Venezia (vescovo e presbiteri) sul valore della santità, intesa come vera ed irrinunciabile forza evangelizzatrice. Guardando a don Luigi Caburlotto, cogliamo subito il profondo legame che ebbe con tutta la città e non solo con la Chiesa veneziana. Qui a Venezia è nato e a Venezia è cresciuto; soprattutto a Venezia - tra campi, campielli e calli e in questa magnifica piazza, simbolo della città - si è speso nel suo instancabile ministero sacerdotale, generando frutti abbondanti e duraturi e rispondendo, così, alla chiamata alla santità nella forma della carità pastorale. E, proprio grazie a Lui e al suo apostolato, la Chiesa e la città di Venezia - partendo da quelle realtà “popolari” che oggi Papa Francesco chiamerebbe “periferie” - sono state attraversate da una luce che ancora mostra una traccia concreta, in particolare grazie alla presenza delle Figlie di san Giuseppe. Di don Luigi rimane viva la sua “carità pastorale” portata avanti con tenacia, creatività e fedeltà. Sì, la “carità pastorale” ha connotato l’intero corso della sua vita e del suo ministero, divenendo vera benedizione per quanti lo incontrarono. Carità pastorale vuol dire che il prete risponde alla personale chiamata alla santità essendo e facendo sempre il prete, e non attraverso scelte di vita o devozioni collaterali al suo esser prete. Don Luigi Caburlotto è, infine, attualissimo come educatore. Egli, nella non facile situazione della Venezia di metà Ottocento, era solito dire: “Per risanare una società occorre impegnarsi nel campo educativo”. Tale frase, oggi, risuona profetica; il nostro, infatti, è tempo in cui si avverte, più che mai, il bisogno di educatori che siano testimoni appassionati di quanto insegnano. “Gli educatori - sono parole del Caburlotto - devono vedere tutto, correggere poco, castigare pochissimo… devono propriamente vestirsi di Gesù Cristo e pensare che si addossano non solo la cura del corpo, ma bensì quella dell’anima, cosa assai delicata…”. La Chiesa che è in Venezia eleva così il suo grazie a Dio per il dono grande di don Luigi che - come ogni santo e beato - arricchisce tutta la Chiesa, ma conserva un legame speciale con la Chiesa particolare del suo battesimo e della sua ordinazione presbiterale. La Vergine Maria - a Venezia venerata con i titoli di Nicopeia e Madonna della Salute e dinanzi alle cui icone don Luigi si fermava a pregare -, attraverso l’intercessione del nuovo beato, ci doni santi sacerdoti, testimoni e guide sapienti, capaci d’educare i giovani sulla via di una fede gioiosa e capace di donare la vera felicità”. E durante l ’omelia il card. aveva così tratteggiato la figura del nuovo beato: “Nella Lettera Apostolica Papa Francesco chiama il Beato Luigi Caburlotto, sacerdote e fondatore, «eminente educatore dei giovani, apostolo infaticabile della carità evangelica e maestro fedele della dottrina cristiana». Sono tutte qualifiche encomiabili, che hanno radice nella sua santità di parroco dinamico, ricolmo di carità pastorale e di saggezza educativa, convinto com’era che per il risanamento di una società occorresse l’impegno in campo educativo. Alla scuola della parola di Dio, quindi, il Beato si è rivestito «di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità», glorificando Dio in parole e in opere ed edificando il prossimo con la sua carità pastorale. In una recente biografia del Beato, le Suore ne hanno sintetizzato l’esemplarità con queste parole: «Come sacerdote ha vissuto l’obbedienza a Dio attraverso le mediazioni umane, quale cammino sicuro sulla strada della santità. Come fondatore ha incarnato l’ascolto, l’umiltà e la carità, luci che guidano orientano, illuminano e rivelano la volontà di Dio. Come educatore ha guidato molti sulla strada della responsabilità personale e della ricerca appassionata della salvezza delle anime»… La speranza fu la virtù che lo accompagnò nel fondare e guidare le sue opere educative a favore dei più bisognosi. Nella povertà di mezzi economici, nelle incomprensioni di ogni genere, nella promozione del suo obiettivo formativo non si perdeva d’animo, ma proseguiva con fiducia, sostenuto dalla certezza della presenza e dell’aiuto della divina Provvidenza e della collaborazione di persone magnanime. Per questo egli stesso tendeva la mano a chiedere aiuto. Un giorno gli fu suggerito di ridurre il vitto alle alunne. Ma egli si rifiutò decisamente, rispondendo: «Non sarà mai che le mie orfanelle abbiano a patire: aumentate se volete il loro numero e diminuite le retta, io cercherò altrove aiuti per continuare la mia opera». Nel processo di beatificazione, un testimone, Eugenio Canova, afferma: «Quando il governo voleva prendere le chiavi a mons. Caburlotto per distruggere gli orfanotrofi maschile e femminile, monsignore risoluto rispose: “Vi darò le chiavi quando non vi sarà più né un orfano, né un’orfana nella città di Venezia”, e continuò le sue opere con zelo indefesso». Era chiamato l’uomo della provvidenza, perché era un sacerdote di fede profonda e di viva speranza… L’amore a Dio si traduceva in carità verso il prossimo. Nelle memorie di Suor Gertrude Giuliani si legge questo episodio: «Ad un muratore, che pareva non volere accostarsi a far pasqua, [il Beato] chiese: “Figlio mio, perché non adempi il precetto pasquale? Perché non vai a ricevere Gesù?”. Rispose il muratore: “Monsignore, lo farei molto volentieri, ma sono senza scarpe e non ho i mezzi per procurarmele”. Allora il santo ministro di Dio, levatesi dai piedi le scarpe quasi nuove, le consegnava al pover’uomo ed egli infilava un paio di vecchi stivali che già da qualche tempo teneva sotto il letto perché diventati inservibili». Con la sua carità generosa provvedeva ai bisogni delle suore. Se erano ammalate le visitava premurosamente, mandava a chiamare un medico e procurava tutti i rimedi necessari. La stessa premura mostrava versp le piccole bisognose, per le quali aveva attenzioni paterne. Chiedeva aiuto ai benefattori e una volta scrisse anche a Vienna, all’Imperatrice, commuovendola con la descrizione della miseria delle bambine e ottenendo l’aiuto di cui aveva bisogno. Era generoso nelle elemosine e spesso a chi gli rimproverava la troppa prodigalità rispondeva, in dialetto veneto: «Per me, soldi e chiodi sono un tutt’uno». Per lui la carità non era mai in eccesso, ma sempre in difetto” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA

CORRIERE DELLA SERA Pag 25 Il tenente scampato al naufragio. Per la Chiesa fu un “miracolo” di Vittorio Messori Il caso del sommergibile Pacocha nell’88 in Perù con cui fu beatificata suor Maria

LA REPUBBLICA Pagg 14 – 15 Dal Medi o Oriente a Cuba, così Francesco rivoluziona la diplomazia del Vaticano di Paolo Rodari e Giampaolo Cadalanu Due sante palestinesi dopo il riconoscimento dello Stato. Restano aperti i dossier asiatici, Cina in testa

L'OSSERVATORE ROMANO di domenica 17 maggio 2015 Pag 7 Sanità, carità, educazione I tre messaggi di don Luigi Caburlotto, beatificato a Venezia

AVVENIRE di domenica 17 maggio 2015 Pag 17 Amato: Caburlotto parroco santo ricolmo di carità di Francesco dal Mas Ieri la beatificazione in piazza San Marco. Il patriarca Moraglia: ancora un sacerdote della nostra Chiesa elevato agli onori degli altari in pochi anni

CORRIERE DELLA SERA di domenica 17 maggio 2015 Pag 20 La spinta del Papa per un sinodo della Chiesa italiana di Alberto Melloni Sarebbe la prima assemblea di vescovi nazionale

CORRIERE DEL VENETO di domenica 17 maggio 2015 Pag 21 Il miracolo e la beatificazione. Don Luigi, 4mila per la festa di Margherita Cargasacchi La cerimonia a Venezia

IL GAZZETTINO di domenica 17 maggio 2015 Pag 10 In migliaia da tutto il mondo per don Caburlotto beato di Vettor Maria Corsetti Parroco veneziano e fondatore delle Figlie di San Giuseppe

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 17 maggio 2015 Pag V Don Caburlotto beato tra i 5mila di piazza San Marco di Vettor Maria Corsetti Maria Grazia, guarita dalla malattia: "Mi ha detto: cammina. E l'ho fatto"

LA NUOVA di domenica 17 maggio 2015 Pagg 18 19 Don Caburlotto Beato, cinquemila in festa di Nadia De Lazzari Fedeli da tutto il mondo per la cerimonia del secondo parroco veneziano elevato a questo titolo. Il Patriarca: "Figura attualissima di educatore". La gioia della miracolata: "Cammino grazie a lui"

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 16 maggio 2015 Pag 7 In mezzo a frotte di ragazzi scalmanati di Roberta Balduit A Venezia la beatificazione di don Luigi Caburlotto

AVVENIRE di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 Con i più poveri di Gerolamo Fazzini La Chiesa, noi e il dramma nepalese

Pag 2 Comunicare è innanzitutto generare di Chiara Giaccardi Domani la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali

Pag 16 Oggi beato Caburlotto, apostolo dell’educazione di Francesco Dal Mas e Chiara Santomiero A Venezia fondò le Figlie di S. Giuseppe. Moraglia: ha lasciato una scia luminosa. La superiora suor Del Ben: è il sigillo a un carisma rimasto attuale e moderno

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 16 maggio 2015 Pag VII Don Caburlotto beato. “Invasione” a San Marco Oggi la cerimonia

CORRIERE DEL VENETO di sabato 16 maggio 2015 Pag 15 Caburlotto beato, oggi la messa a San Marco con 4000 persone

LA NUOVA di sabato 16 maggio 2015 Pag 20 Dieci vescovi e 150 sacerdoti per il beato Luigi Caburlotto In piazza S. Marco

WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT I cristiani di Aleppo e le trappole del «persecuzionismo» di Gianni Valente Intervista a Antoine Audo SJ, Vescovo caldeo di Aleppo: a orchestrare l’espulsione dei cristiani dal Medio Oriente sono i Paesi della regione da sempre allineati con l’Occidente

4 – MARCIANUM, ASSOCIAZIONI, ISTITUZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V “I racconti dal paese perduto”, il genocidio del popolo armeno Domani al Laurentianum

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

LA NUOVA di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 Dove sta il senso della vita di Ferdinando Camon

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV In seicento al corteo della Festa della Sensa di Lorenzo Mayer Celebrato l’antico rito dello sposalizio con il mare. Affollate le rive a San Nicolò

LA NUOVA Pag 9 Il commissario “sposa” il mare. Candidati a sindaco contro i tagli di Giorgio Cecchetti Moraglia canta le canzoni dei gondolieri

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 17 maggio 2015 Pag IX In moschea solo attività culturali di Giorgia Pradolin Ma qualche fedele continua ad entrare nella Misericordia per pregare

Pag XXXV La Biennale e la vicenda della moschea di Franco Miracco

LA NUOVA di domenica 17 maggio 2015 Pag 20 "Una lezione di civiltà dalla Comunità islamica" di Marta Artico, c.m. e Vera Mantengoli Pax Christi risponde all'invito dei musulmani a non praticare riti religiosi ne lla chiesa della Misericordia. Don Pistolato: "Il dialogo c'è sempre stato". Interviene il padiglione islandese: "Quella chiesa è sconsacrata, si può utilizzare per usi profani"

IL GAZZETTINO di sabato 16 maggio 2015 Pag 10 Moschea a Venezia: preghiere, anzi no di Paolo Navarro Dina I musulmani si sono radunati nel padiglione nella chiesa di Santa Maria della Misericordia. Il documento: “Non andateci più, per noi non è un luogo di culto”

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 16 maggio 2015 Pagg II III L’imam “sfida” anche il divieto islamico di Paolo Navarro Dina e Giorgia Pradolin La Comunità chiede lo stop alle preghiere nelle moschea, ma il rito del venerdì si è svolto comunque. Testi religiosi e filosofici e bussole per La Mecca nel banco all’ingresso . Donne e uomini separati, tolta la circolare del Comune

Pag XV Una passeggiata artistica tra Aquae e il polo tecnologico di m.dor. Inaugurazione con il Patriarca di “Primo Ramo”

LA NUOVA di sabato 16 maggio 2015 Pagg 20 – 21 Cento fedeli alla preghiera di venerdì di Vera Mantengoli e Marta Artico “Basta riti religiosi in quel padiglione”: l’invito della comunità islamica ai propri fedeli

Pag 31 Chiesetta Mattei come nuova, tra percorsi verdi e divanetti di g.co.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 Arte e islam, la terza via di Massimiliano Melilli La chiesamoschea di Venezi

Pag 5 Moschea piena per la preghiera. La comunità islamica: ora basta riti di Alice D’Este

8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO di domenica 17 maggio 2015 Pag 5 Il vescovo e la lettera per la candidata di Zaia: "Io frainteso, scusatemi" di Davide Orsato Mons. Zenti dopo le polemiche: "L'ho ritirata per senso di responsabilità ma contro di me è in atto una guerra"

IL GAZZETTINO di domenica 17 maggio 2015 Pag 13 Verona, il vescovo chiede scusa: "Sono stato frainteso"

LA NUOVA di domenica 17 maggio 2015 Pag 11 Santino elettorale a Verona: le scuse del vescovo Zenti

CORRIERE DEL VENETO di sabato 16 maggio 2015 Pag 7 Il vescovo appoggia la candidata di Zaia. A Verona nasce un caso di Alessio Corazza e Francesco Bottazzo La lettera di Zenti (poi stoppata) e le perplessità del Patriarca

IL GAZZETTINO di sabato 16 maggio 2015 Pag 13 Sponsorizza la candidata di Zaia, bufera sul “vescovo verde” di Verona M5S all’attacco

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Bene e male, quella linea incerta di Angelo Panebianco Medio Oriente

Pag 1 Un confronto davvero libero sui nuovi diritti civili di Aldo Cazzullo Il richiamo di Mattarella

LA REPUBBLICA Pag 1 Salvini – Le Pen, relazioni pericolose di Ilvo Diamanti

LA STAMPA Una scelta difficile ma doverosa di Francesco Manacorda

IL GAZZETTINO Pag 1 Ma i veri conti si faranno dopo le elezioni di Marco Conti

LA NUOVA Pag 1 Una scelta dettata dal voto di Andrea Sarubbi

Pag 1 Immigrazione, la reazione alle chiusure di Giovanni Palombarini

CORRIERE DELLA SERA di domenica 17 maggio 2015 Pag 1 Le radici della crisi dei partiti di Ernesto Galli della Loggia Trasformismo dilagante

Pag 1 Perché l'Europa non può tacere sulla condanna di Morsi di Franco Venturini La sentenza capitale

LA REPUBBLICA di domenica 17 maggio 2015 Pag 1 Chi comanda da solo piace a molti ma ferisce la democrazia di Eugenio Scalfari

AVVENIRE di domenica 17 maggio 2015 Pag 1 L'aiuto migliore di Giorgio Ferrari Santa Sede, Israele e Palestina

Pag 2 Solitudini mortali esplose "per niente" di Marina Corradi Fatti di cronaca, a Nord e a Sud, che scuotono

Pag 3 Anticorruzione: le attese e i voti di Danilo Paolini Alti richiami, regole e scelte dal basso

Pag 8 Intolleranti: avversari veri o alla fine solo complici?

IL GAZZETTINO di domenica 17 maggio 2015 Pag 1 Via della seta, la strada che riporta l'Italia in Cina di Romano Prodi

Pag 1 Le sette vite di Berlusconi non sono finite di Mario Ajello

LA NUOVA di domenica 17 maggio 2015 Pag 1 Profughi tra stereotipi e falsità di Francesco Jori

CORRIERE DELLA SERA di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 Il gesto di un’Europa avara di Michele Ainis Immigrazione

Pag 1 Il dialogo e gli spiragli per l’Italia di Francesco Verderami

LA STAMPA di sabato 16 maggio 2015 Perché è illusorio pensare di fermare i popoli che emigrano di Roberto Toscano

AVVENIRE di sabato 16 maggio 2015 Pag 3 Fame e povertà, il tempo della cura di Leonardo Becchetti Expo: visitando il Padiglione Zero

Pag 3 Nozze gay negli Stati Uniti. Le conseguenze di una scelta di Elena Molinari La decisione della Corte suprema mette in gioco molti diritti

IL GAZZETTINO di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 Elezioni regionali, Matteo e i rischi di una mini vittoria di Bruno Vespa

LA NUOVA di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 La destra del Cav non c’è più di Bruno Manfellotto

Pag 4 Il consenso e la buccia di banana di Renzo Guolo

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3 – VITA DELLA CHIESA

CORRIERE DELLA SERA Pag 25 Il tenente scampato al naufragio. Per la Chiesa fu un “miracolo” di Vittorio Messori Il caso del sommergibile Pacocha nell’88 in Perù con cui fu beatificata suor Maria

Stando alle statistiche, sulla Grande Rete il tema religioso è tra i primissimi per presenza e partecipazione, spesso talmente appassionata da giungere talvolta sino al diverbio. Tra i temi più caldi e ricorrenti, vi è quello del «miracolo»: la possibilità, cioè, di «spiegare» eventi umanamente inspiegabili solo ipotizzando un intervento soprannaturale. Sono molti, ovviamente, coloro che negano questa possibilità. Uno di questi scettici (un intellettuale piuttosto noto) in un forum internazionale mi ha amichevolmente sfidato, chiedendomi di portare un caso, anche uno solo, documentato in modo inoppugnabile e che fosse recente, non avvolto nelle nebbie di secoli lontani. A lui e ai frequentatori del sito ho così raccontato una storia che si è svolta la sera del 26 agosto del 1988, a poche miglia dal porto di Callao, il maggiore del Perù, dove al termine di una esercitazione si stava dirigendo il sommergibile Pacocha. Lungo oltre 100 metri, dall’aspetto imponente, era in realtà un ferrovecchio: costruito nel 1943 per la marina degli Stati Uniti, era stato ceduto nel 1974 a quella peruviana, che lo usava per pattugliare le coste. Poiché l’attracco alla banchina del porto era imminente, tutti i portelli erano già aperti e sollevati. All’improvviso, la collisione con una baleniera giapponese in uscita: una grande nave con la prua corazzata per rompere il ghiaccio nella battute antartiche. Sventrato a poppa, il Pacocha imbarca subito un’enorme quantità di acqua e comincia ad inclinarsi verso il fondo. Intrappolati tra le paratie, muoiono tre marinai, tra i quali il comandante. Quello in seconda, il trentaduenne tenente di vascello Luìs Cotrina, ordina l’evacuazione attraverso il portello di prua, dal quale in effetti riescono a gettarsi in mare alcuni membri dell’equipaggio, prima del rapidissimo affondamento totale. Quando il sommergibile è interamente coperto dalle acque, ci si rende conto che quel portello usato come via di fuga non si è chiuso e non può chiudersi: per l’urto, le leve di chiusura sono uscite dai loro alloggiamenti e ne impediscono la serrata. Resta aperta, così, una larga fessura, da dove entra una cascata di acqua la cui portata, a causa della pressione, diventa tanto più violenta quanto più il sommergibile scende verso il fondo. Intanto, il giovane Cotrina giace ferito sul pavimento: proprio mentre cercava di aiutare i suoi marinai ad uscire, è precipitato dalla scaletta. Ed ecco, proprio allora, l’imprevedibile. Il tenente di vascello testimonierà poi, davanti alle commissioni militari e nei processi ecclesiastici cui sarà convocato, che fu investito da una «esplosione di luce», al centro della quale stava il volto sorridente di suor Maria di Gesù Crocifisso, nata nel 1892 in Croazia e morta a Roma nel 1966, fondatrice delle Figlie della Misericordia e il cui processo di beatificazione era allora aperto a Roma. L’anno prima, l’ufficiale era stato ricoverato all’ospedale di Lima e una delle suore infermiere gli aveva donato la biografia della religiosa. In quei momenti drammatici, il volto di suor Maria, visto sulla copertina del volume, gli appare come in un flash accecante e gli dà la certezza misteriosa di un aiuto risolutivo. Come investito da una forza sovrumana, pur ferito per la caduta e vincendo la forza dell’acqua che precipita, riesce ad arrampicarsi per la scaletta e a raggiungere il portello. In quel momento, il sommergibile è inclinato di alcune decine di gradi ed è alla profondità di oltre venti metri. Come stabiliranno le inchieste della marina peruviana (affiancate da un’indagine della US Navy americana e passate infine al vaglio dei tecnici nominati dalla Congregazione per i santi) la pressione esercitata dall’acqua sul portello equivale a un minimo di cinque tonnellate, compensate per circa una tonnellata dalla pressione interna del sommergibile. Il giovane, dunque, deve sollevare quel portello, vincendo una spinta di quattro tonnellate, per permettere ai ganci di chiusura di rientrare nei loro alloggiamenti. Deve anche, nel frattempo, tenere una mano aggrappata a una maniglia per reggere alla violenza dell’acqua che rischia di travolgerlo. Inoltre, sanguina con abbondanza. A quanto pare, i massimi campioni di sollevamento pesi riescono a staccare dal suolo poco più di 450 chili. Ebbene, sotto le acque del porto di Callao il portello fu sollevato, i ganci furono fatti rientrare, la falla fu richiusa: il peso sollevato dal marinaio peruviano fu, dunque, di quasi dieci volte superiore ai primati olimpici. Davvero un miracolo, oppure un fatto raro ma spiegabile in certe condizioni, quando l’istinto vitale può spingere a prestazioni straordinarie? Sia i tecnici peruviani che, in seguito, quelli degli Stati Uniti e poi quelli nominati dai tribunali vaticani, hanno discusso tutte le possibilità, giungendo alla conclusione che anche le condizioni più estreme non possono giustificare il sollevamento di 4.000 chili, per molti centimetri e per molti minuti, usando per giunta un braccio solo. Non a caso il Pacocha è stato recuperato e poi demolito, ma la torretta e il portello sono esposti davanti all’accademia navale del Perù, con una targa che non parla solo di valore di un militare ma anche esplicitamente di milagro. Di miracolo, insomma. Quel miracolo che, riconosciuto alla fine come autentico, ha permesso la beatificazione di suor Maria, avvenuta a Ragusa, in croato Dubrovnik, per mano di Giovanni Paolo II stesso, il 6 giugno del 2003. Narrando questa storia, pur documentata come poche altre, non ho ovviamente vinto lo scetticismo del mio antagonista ma, forse, gli ho procurato almeno un attimo di esitazione. Gli ho comunque ricordato che gli archivi della Marina peruviana e americana e quelli della Congregazione vaticana per i Santi sono aperti e a sua disposizione.

LA REPUBBLICA Pagg 14 – 15 Dal Medio Oriente a Cuba, così Francesco rivoluziona la diplomazia del Vaticano di Paolo Rodari e Giampaolo Cadalanu Due sante palestinesi dopo il riconoscimento dello Stato. Restano aperti i dossier asiatici, Cina in testa

Città del Vaticano. La mediazione a tutti i costi. A rinverdire i fasti della migliore diplomazia vaticana ci sta pensando papa Francesco che, aiutato dagli esponenti di quella scuola del dialogo di casaroliana memoria, è anzitutto sul medio Oriente che dall'inizio del suo pontificato concentra ogni sforzo. Ieri la canonizzazione di quattro suore vissute tra il 1800 e l'inizio del '900, fra cui le prime due palestinesi, e con Abu Mazen seduto in prima, questo dice: l'alternativa alle divisioni è soltanto il negoziato. Certo, da Israele si è levata qualche critica per l'accoglienza al presidente palestinese «Abbiamo bisogno tutti di angeli di pace, ma devono essere angeli veri e pace vera», ha commentato fra gli altri il rabbino di Roma Riccardo Di Segni ma, come ha spiegato padre Federico Lombardi, portavoce vaticano, l'obiettivo non è far proprie le ragioni di una parte quanto «incoraggiare l'impegno per la pace». «Guardare con speranza al futuro» è, non a caso, la richiesta fatta dal Papa durante l'Angelus salutando le delegazioni presenti in piazza San Pietro, anche Israele. «La Chiesa del silenzio non è più tale, parlerà attraverso la mia voce», disse Giovanni Paolo ad Assisi II il 5 novembre 1978, pochi giorni dopo l'elezione al soglio di Pietro. E oggi è Francesco a fare propria, attualizzandola, l'Ostpolitik che fu di Wojtyla, intesa non più come dialogo con l'Oriente comunista bensì come dialogo globale, con tutti i protagonisti di quella "terza guerra mondiale" che oggi, come ha detto lo stesso Bergoglio sul volo di ritorno la scorsa estate dalla Corea, «si combatte a pezzi, a capitoli». Fra questi, il dossier più spinoso è il Medio Oriente, per il quale si conferma un attivismo vaticano del tutto simile a quello messo in campo anni fa per la Guerra Fredda. Le notizie parlano di intere popolazioni innocenti, e non soltanto cristiane, costrette alla diaspora. Il dialogo è a tutto campo, ma soprattutto con quelle parti in grado di intraprendere un'azione più incisiva per contribuire al raggiungimento di una pace duratura. La strada l'ha tracciata a Tv2000 il cardinale Parolin, quando ha ricordato che la firma di un accordo con lo stato di Palestina avvenuta due giorni fa «si colloca esattamente nell'ottica di contribuire in maniera concreta alla realizzazione di un disegno che permetterebbe a due popoli di avere un proprio Stato». Accanto all'azione diplomatica c'è l'urgenza del dialogo interreligioso, «una priorità del ministero di Francesco», ha detto il suo "luogotenente" in terra "infidelium", il cardinale francese JeanLouis Tauran. Un dialogo che non cede, tuttavia, di fronte alla necessità di dire la verità. Di qui il coraggio di chiamare «genocidio» la deportazione armena nella Turchia d'inizio Novecento, ed anche il lavoro sfiancante ma efficace svolto a Cuba. Il Papa callejero sorvola sulle critiche che gli provengono dal mondo economico statunitense e media per il disgelo definitivo tra Stati Uniti e Cuba. All'ordine del giorno restano aperti anche i dossier asiatici, Cina in testa. Anche qui Francesco non ha mire di conquista. Soltanto la volontà del dialogo e dell'amicizia con le autorità civili «per trovare ha detto ancora Parolin la soluzione ai problemi che limitano il pieno esercizio della fede dei cattolici e per garantire il clima di un' autentica libertà religiosa».

La religione è sempre sullo sfondo: per uno scrittore israeliano "doc" come Etgar Keret, le vicende dei luoghi sacri sono un denominatore comune di tutti gli avvenimenti, che siano i piccoli gesti quotidiani o le grandi decisioni politiche. Persino nei racconti del suo ultimo libro, Sette anni di felicità (edito in Italia da Feltrinelli), la religione è un orizzonte inevitabile dell'esistenza, che diventa accettabile solo attraverso l'ironia. Signor Keret, papa Francesco ha mostrato una forte attenzione per i luoghi santi: dopo il riconoscimento vaticano della Palestina, ha sottolineato le difficoltà dei cristiani in Terra Santa e ha incontrato il presidente Abu Mazen. Ieri ha proclamato sante due suore palestinesi, le prime dell'era moderna. Ma in Israele se n'è parlato? «Non credo che in Israele qualcuno possa avere da ridire sulla proclamazione di due sante in Vaticano. Ovviamente la decisione non ha niente a che vedere con la politica, la scelta è motivata da quello che hanno fatto in vita». Quando la Santa Sede ha firmato un trattato con lo Stato di Palestina, di fatto riconoscendolo dopo il voto dell'Onu del 2012, il governo di Israele si è detto "deluso". Che ne pensa? E qual è stata la reazione della popolazione israeliana? «So che il governo israeliano era contrario. Molte persone hanno giudicato quella decisione come se il Vaticano avesse deciso di schierarsi da una parte e non dall'altra. Ho sentito che se ne parlava in giro, qualcuno era deluso, altri erano portati a giustificare la decisione. Ma in realtà fra la popolazione, la notizia non ha avuto molto seguito. Capisco che in Europa le parole del Papa abbiano ben altro significato, ma qui in Israele è molto diverso. Non credo che siano stati molti quelli che si sono posti il problema. E l'indomani c'erano già altre notizie da commentare». Ma il controllo dei Luoghi Santi resta uno degli elementi più delicati, di divisione forte. Crede che ci sia la possibilità di una soluzione di compromesso, che preveda magari due Stati? «Le ultime elezioni hanno portato al potere una coalizione di destra, Benjamin Netanyahu ha vinto proprio indicando la sua indisponibilità a ogni compromesso. Il Paese adesso è così diviso che sembra popolato da due tribù rivali, con una spaccatura enorme fra gli uni, disponibili a fare concessioni, e gli altri, che pensano di continuare a usare la forza per controllare tutto». Vede una soluzione praticabile per i Luoghi Santi? «Non al momento, anche se penso che questo tema possa essere alla base di ogni futura trattativa di pace». La religione sembra avere un ruolo fondamentale nella vita politica israeliana. Ma il dibattito politico può farne a meno? «Non credo, anche perché ci sono forze politiche legate unicamente all'ispirazione religiosa, che hanno programmi incompatibili con ogni compromesso». Che ruolo ha la comunità cristiana nel dibattito israeliano? «Non è davvero al centro delle discussioni. In questo momento si parla di temi come l'Islam radicale. Oppure si parla della cittadinanza, un tema che interessa tutti in Israele, musulmani, ebrei o cristiani».

Città del Vaticano. «La canonizzazione avvenuta ieri delle quattro religiose, e in particolare delle due suore della Palestina, ha un significato importante non soltanto per la Chiesa cattolica e la sua comunità religiosa, ma anche per tutta la società e in particolare per le popolazioni mediorientali. La diplomazia messa in campo da papa Francesco segue quella dei suoi predecessori, da Benedetto XVI a Giovanni Paolo II, e tende sempre e soltanto alla pace, alla risoluzione dei conflitti, al bene comune. Non ci sono altri scopi. Ed è bene che tutte le parti chiamate in causa tengano presente questo aspetto». Il cardinale Paul Poupard, per anni "ministro" della Cultura del Vaticano e già presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo con i non credenti, riannoda i fili di una canonizzazione «emblematica» nella linea della diplomazia pontificia, la quale, spiega, lavora sempre e soltanto per la pace nel mondo, «per il bene di tutti, in particolar modo delle popolazioni che soffrono a causa dei conflitti». Cardinale Poupard, sabato Francesco ha ricevuto il presidente dell'Anp Abu Mazen in Vaticano, e a lui ha chiesto di lavorare per la pace. La strada è ancora lunga? «Di fronte alle tragedie, alle guerre e alle divisioni come quelle esistenti purtroppo in Medio Oriente, la strada è sempre difficile e in salita. Ma la canonizzazione di ieri resta un barlume di speranza a cui guardare. Ne parlavo, proprio dopo la cerimonia, anche a Villa Bonaparte, sede dell' Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, con i rappresentanti del governo francese giunti per la canonizzazione di suor Jeanne Emilie de Villeneuve. Gli sforzi di papa Francesco restano unici e notevoli, e molto si deve anche all'aiuto di una diplomazia vaticana avvezza a certi sforzi». Lei ha lavorato a lungo nella curia romana, dove ancora abita, occupandosi anche di conflitti fra religioni e in particolare di Islam. Perché ritiene che le canonizzazioni siano un passo per una nuova speranza specie per quell'area? «Perché le religiose canonizzate sono testimoni di un modo di vivere diverso, nuovo. Conducevano una vita non soltanto di contemplazione e di preghiera, ma anche di azione. O meglio, alla preghiera, al rapporto personale con Dio, facevano seguire l'azione, l'impegno per la pace e per i poveri. E qui c'è il segno di speranza per tutti. Spesso a essere divisi sono uomini che seguono religioni differenti. Mentre la religione integralmente vissuta può aiutare, può permettere di aprire gli occhi e far vedere che per vivere in pace occorre essere in due, che le ragioni di parte vanno sempre relativizzate, vissute tenendo conto di tutti». Israele ha però criticato l'accordo siglato fra Santa Sede e Palestina due giorni fa, e altre critiche sono state indirizzate ad Abu Mazen che "usa dei forum internazionale per attaccare Israele astenendosi dal tornare ai negoziati". «Non voglio scendere su questo terreno, non è mia competenza. Siamo uomini di fede, rispettiamo tutti e chiediamo il medesimo rispetto da tutti. Ogni comunità si regge secondo le proprie convinzioni, l' importante è cercare di costruire tutti insieme la pace e la convivenza».

L'OSSERVATORE ROMANO di domenica 17 maggio 2015 Pag 7 Sanità, carità, educazione I tre messaggi di don Luigi Caburlotto, beatificato a Venezia

Un «richiamo alla santità, alla carità verso i poveri e all’educazione dei giovani» è il messaggio che don Luigi Caburlotto riconsegna oggi nel giorno della sua beatificazione. A presiedere il rito, in rappresentanza di Papa Francesco, è stato il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, sabato mattina 16 maggio, in piazza San Marco a Venezia. Hanno concelebrato il patriarca veneziano Francesco Moraglia con i presuli del Triveneto e il cardinale arcivescovo di San Paolo del Brasile, Odilo Pedro Scherer. Veneziano doc, figlio di un gondoliere, don Caburlotto (18171897) ha animato tante opere carità, fondando anche la congregazione delle figlie di San Giuseppe. E così nella Lettera apostolica il Pontefice lo definisce «eminente educatore dei giovani, apostolo infaticabile della carità evangelica e maestro fedele della dottrina cristiana». Queste, ha spiegato il cardinale Amato, «sono qualifiche che hanno radice nella sua santità di parroco dinamico, ricolmo di carità pastorale e di saggezza educativa, convinto com’era che per il risanamento della società occorresse l’impegno educativo». Accostandosi alla figura del nuovo beato attraverso le testimonianze di quanti lo hanno conosciuto, il porporato ne ha ricordato anzitutto la fede e i pratici consigli spirituali alle sue suore. E il suo essere uomo di speranza: «Nella povertà di mezzi economici, nelle incomprensioni di ogni genere, nella promozione del suo obiettivo formativo non si perdeva d’animo». Tanto da essere chiamato «l’uomo della provvidenza». Del resto, ha rimarcato il cardinale Amato, «la carità era l’unica giustificazione della sua attività sacerdotale e apostolica». Così non si stancava mai di ripetere che «la misura dell’amore è quella di essere senza misura». In lui, sempre «l’amore a Dio si traduceva in carità verso il prossimo». Perciò per aiutare ammalati e poveri, soprattutto i più piccoli, non si fermava davanti a nulla, arrivando anche a scrivere all’imperatrice a Vienna. Insomma «per lui la carità non era mai in eccesso, ma sempre in difetto». Quella di Caburlotto è quindi una testimonianza così attuale che interpella anzitutto le sue suore, presenti in Italia, Brasile, Filippine e Kenya, soprattutto con «tre messaggi» essenziali. Anzitutto la santità, senza la quale «l’apostolato inaridisce e l’entusiasmo sfiorisce. Con la santità la carità si espande nella gioia e nella fraternità e rende leggere le fatiche e le immancabili tribolazioni della vita quotidiana». Poi ecco «il servizio a Gesù mediante l’aiuto alle persone bisognose, grandi e piccole, ricche e povere, fervorose e deboli nella fede». Il terzo messaggio riguarda la centralità dell’opera educativa. «La scuola ha concluso il cardinale è un meraviglioso campo di apostolato, fatto di istruzione civile ma anche di formazione umana e spirituale. La finalità dell’impegno scolastico è l’educazione dei giovani perché siano buoni cristiani e onesti cittadini». Ma «sempre con lo stile della pazienza e della carità». Da parte sua il patriarca Moraglia tracciando il profilo spirituale di Caburlotto ne ha ricordato il servizio come parroco veneziano a San Giacomo dall’Orio per ventitré anni e come fondatore. «Al nuovo beato ha detto bene si addice l’immagine del pretepastore con l’odore delle pecore» delineata da Papa Francesco. Così, ha concluso, «a soli due anni dalla beatificazione di don Luca Passi (fondatore della Pia Opera e dell’istituto delle suore maestre di Santa Dorotea) la Chiesa veneziana vive un nuovo momento di grazia» grazie a «due preti che seppur in modi differenti appartengono alla Chiesa di Venezia».

AVVENIRE di domenica 17 maggio 2015 Pag 17 Amato: Caburlotto parroco santo ricolmo di carità di Francesco dal Mas Ieri la beatificazione in piazza San Marco. Il patriarca Moraglia: ancora un sacerdote della nostra Chiesa elevato agli onori degli altari in pochi anni

«Ricordatevi di non temere mai d’essere troppo indulgenti, perché è meglio eccedere in questo, che trattare con durezza». Una raccomandazione di papa Francesco? No, di don Luigi Caburlotto, alle superiore del suo Istituto, le Figlie di San Giuseppe, ancora nell’800. A significare l’attualità di questo sacerdote ed educatore veneziano, ieri proclamato beato, è stato il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, che ha presieduto la solenne celebrazione in piazza San Marco, davanti al patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, al cardinale Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo, e a una decina di vescovi, e a più di 4mila fedeli. Il carisma educativo del beato Caburlotto, ha sottolineato Amato, è tutto improntato alla carità e alla dolcezza. «Figlie mie, io non vi parlerei che di dolcezza, perché con la dolcezza si cangiano le fiere in mansueti agnelli» era solito ripetere alle sue suore. Nato nel 1817, papà gondoliere, 11 fratelli, parroco per 33 anni, Caburlotto ha speso la sua vita per l’educazione delle ragazze e dei ragazzi poveri nella convinzione che sull’educazione poggia ogni società. È stato il patriarca Moraglia, accompagnato dalla postulatrice, Silvia Correale e dalla sua vice, suor Francesca Lorenzet, a chiedere, all’inizio del rito, che il venerabile servo di Dio fosse iscritto nel numero dei beati. In prima fila la miracolata, Maria Grazia Veltraino. Ed è stata proprio lei ad accompagnare all’altare la superiora generale delle Figlie di San Giuseppe, madre Idangela Del Ben, con le reliquie di Caburlotto. È accaduto dopo la scopertura, fra gli applausi, del drappo con l’immagine del nuovo beato. Don Luigi come ha ricordato Moraglia è il secondo parroco veneziano a essere beatificato, negli ultimi anni, dopo il beato Giovanni Olini. Amato, dunque, ha attualizzato «la santità di parroco dinamico, ricolmo di carità pastorale e di saggezza educativa» del prete veneziano, «convinto com’era che per il risanamento di una società occorresse l’impegno in campo educativo». La fede era la sua prima istanza. «In ogni circostanza egli aveva l’abitudine di giudicare situazioni, problemi e persone alla luce della volontà di Dio – ha infatti ricordato Amato –. La fede gli dava conforto, forza e pace nelle incomprensioni, nelle difficoltà, nelle angustie dello spirito. E così formava le sue Figlie spirituali». La fede e poi la speranza. Nella povertà di mezzi economici, nelle incomprensioni di ogni genere, nella promozione del suo obiettivo formativo ha ricordato ancora Amato don Luigi non si perdeva d’animo. Numerose le Figlie di San Giuseppe arrivate dal Brasile, dalle Filippine e dal Kenya, oltre che dall’Italia. Tre i messaggi per loro che Amato ha attualizzato: l’invito a santificarsi, l’impegno di servire Gesù aiutando i più bisognosi, la pazienza e carità nell’opera educativa. «Oggi, don Luigi Caburlotto; due anni fa, Luca Passi. Due preti – ha concluso il patriarca Moraglia – che, proprio alla vigilia dell’Anno giubilare della Misericordia, ci interpellano sulla santità, la vera firma che autentifica l’apostolato in ogni epoca».

CORRIERE DELLA SERA di domenica 17 maggio 2015 Pag 20 La spinta del Papa per un sinodo della Chiesa italiana di Alberto Melloni Sarebbe la prima assemblea di vescovi nazionale

Domani inizia l’ultima assemblea generale della Conferenza episcopale italiana (Cei) prima del Convegno ecclesiale nazionale, che si terrà a Firenze. Ma, attorno ad essa, si torna a parlare dell’esigenza di superare quest’ultimo strumento e di convocare un sinodo nazionale italiano o, meglio, di porre in stato sinodale la Chiesa italiana. Di sinodi diocesani cioè di assemblee di vescovi di una specifica area geografica ce ne sono stati molti; mai, però, ce n’è stato uno nazionale. Le ragioni sono molte: la diffidenza antica e istintiva del papato verso questi incontri, che dura dai tempi del Borromeo; la convinzione moderna che l’Italia abbia come solo dovere quello di lodare il Papa; il timore, cresciuto dopo il sinodo nazionale della Chiesa tedesca di Würzburg del 19711975, che la libertà di un sinodo generi più polarità che comunione, più asprezza che santa pazienza. Così, dopo il Concilio Vaticano II, l’Italia prese subito la via dei convegni: quello di monsignor Bartoletti, fisicamente stroncato dalle tensioni che lo precedettero; quelli dell’era Ruini Loreto, Palermo, Verona che hanno celebrato, più dell’atto liturgico del concilio nazionale, quello politico del compromesso con il potere, impersonato allora da Berlusconi, con corredo di esclusioni, annessioni, ricatti, opere, progetti e seduzioni. Quello di Firenze sarebbe stato un appuntamento simile, senza l’elezione di papa Francesco? Forse sì, come dice anche monsignor Galantino, segretario generale della Cei. La Chiesa di Della Costa e Milani, di La Pira e Balducci, ora guidata da un biblista come il cardinal Betori, avrebbe sognato con la forza della sua testimonianza e del suo essere stata nel Novecento un vero chiostro dei «folli di Dio»? Forse: ma la presenza di Francesco ha scompaginato l’impianto e ha portato l’asticella all’altezza del più piccolo. Il Papa ha già messo a nudo, con l’autorità dell’uomo di fede, le difficoltà e le piaghe della Chiesa italiana. Ma nella Chiesa per i problemi facili c’è l’autorità; per quelli difficili c’è la comunione. E le difficoltà denunciate dal Papa cercato dal Conclave «alla fine del mondo» sono grandissime. Un Sinodo della Chiesa italiana, dunque; un cammino e uno stato sinodale, fatto di ascolto e di istanze intermedie. Un processo sinodale che corra il rischio di mobilitare quadri ideologicamente diversi e accomunati dalla pigrizia interiore, rompa il quieto vivere di un cattolicesimo «federale», dove spiritualità e potere convivono come separati in casa. Un Sinodo che diventi punto d’incontro dei Sinodi locali; un atto non da interpretare come segno di più partecipazione o «democrazia», ma di più fede. Quella di usare lo strumento sinodale, infatti, non è solo scelta di governo: è prima di tutto una grazia. È la possibilità di «rappresentare» l’unità donata da Dio. È la presa d’atto che esiste qualcosa «quod omnes tangit» (che riguarda tutti); la prova provata che il popolo cristiano non è massa periodicamente raggruppata per garantire visibilità a capi e capetti, ma luogo teologico. È l’organo d’un «sensus fidei» che agisce nella storia perché talora segue, talora guida la stessa autorità. È la convinzione che chi ha avuto un ministero deve «esporsi» alla comunione; lo spazio e l’effetto dove si rende presente il Cristo povero e sommo sacerdote, che insegna parole di verità e riconciliazione, prima che menzogna e divisione ci travolgano. Se Francesco continuerà a spingere la Chiesa su una via sinodale, data la funzione oggettiva di esempio che ha la Chiesa di cui il vescovo di Roma è primate, potrebbe dunque segnare una fase del papato (o almeno di questo papato): una fase che non si limita ad aprire ovunque delle porte perché la misericordia sia sentita, ma che ovunque sperimenta il farsi della Chiesa, «una» pur nella diversità riconciliata delle varie. In politica la si chiamerebbe «fase due». Nel cristianesimo è solo un altro passo dell’ininterrotta sequela che rende buono lo stare insieme.

CORRIERE DEL VENETO di domenica 17 maggio 2015 Pag 21 Il miracolo e la beatificazione. Don Luigi, 4mila per la festa di Margherita Cargasacchi La cerimonia a Venezia

«Quella del miracolo, fu una notte stupenda. Vidi una luce nella mia camera, mi svegliai dal dormiveglia e vidi la figura di don Luigi Caburlotto, un po’ sfocata, avvolta in nuvole bianche. Mi disse: “Cammina!”, e senza sofferenza mi alzai dal letto». Ricorda così la notte tra l’1 e il 2 febbraio del 2008, Maria Grazia Veltraino, seduta in prima fila a Venezia, per partecipare alla messa di Beatificazione di Luigi Caburlotto. Il sacerdote veneziano nato nel 1817 da una famiglia di gondolieri e morto nel 1897, è il secondo parroco veneziano a essere beatificato dopo Giovanni Olini, Piovano di San Giovanni Decollato nel 1200. «La miracolata» a 85 anni, dopo 15 anni bloccata in carrozzella a causa di una dermatomiosite cronica, ieri è arrivata in Piazza San Marco da Roma, la città in cui vive e a cui si è affidata per cercare tra le boutique un abito elegante da indossare in una giornata unica per lei. «Sono emozionatissima ha detto . Luigi Caburlotto è in cielo, per le calli di Venezia, chiacchiera per le fondamenta anche con i gondolieri, che gli ricordano la sua origine. Questa festa è un inno di ringraziamento a chi mi ha aiutato». Maria Grazia è sempre stata credente, ma non ha mai pregato. Era troppo inasprita dai disagi della sua giovinezza e poi era una ragazza ribelle. Ma all’età di 22 anni, venne prelevata dalla strada da Madre Girolama che le permise di studiare iscrivendola alla Congregazione fondata da Caburlotto. E qualcosa cambiò. «L’ho avuta vicino per 29 anni, 8 mesi e 20 giorni poi è andata in cielo. Mi ha fatto amare don Luigi dal primo giorno ha detto . Un anno e mezzo prima del miracolo, l’ho sognato su una scala rossa e Madre Girolama mi diceva “sali”, ma non potevo salire, ero in carrozzella. Questo sogno per me, ha sollecitato il miracolo». Piazza San Marco ieri, era gremita di gente che ai miracoli ci crede. Oltre 4mila persone hanno assistito alla celebrazione che ha avuto inizio alle 10.30, presieduta dal Cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione dei Santi e delegato di Papa Francesco, che il 9 maggio dell’anno scorso ha autorizzato la promulgazione del decreto del riconoscimento del miracolo. E’ diventato Beato un sacerdote veneziano che nell’educazione vedeva la chiave del successo di ogni società. «Nella scuola si impara a crescere cittadini onesti e utili», diceva. Fu ordinato nel 1842 e assegnato alla parrocchia veneziana di S. Giacomo dall’Orio, dove si occupò per sei anni delle conseguenze provocate dalla guerra del 1848/1849 e da una grave epidemia di colera. Nel 1850 diede inizio a una scuola popolare per le fanciulle più trascurate dalle famiglie, che divenne successivamente la Congregazione delle Figlie di S. Giuseppe e nel 1857 fondò l’Istituto Manin femminile. Ieri alle 10.50, dopo la lettura della lettera apostolica con la quale Papa Francesco ha iscritto Caburlotto nell’Albo dei Beati, è stato scoperta una gigantografia del sacerdote. «Il nostro Beato pose tutte le sue energie per il bene della parrocchia e dei giovani ha detto Amato . Papa Francesco chiama il Beato Luigi Caburlotto sacerdote e fondatore, eminente educatore dei giovani, apostolo infaticabile della carità evangelica e maestro fedele della dottrina cristiana». «A soli due anni dalla beatificazione di don Luca Passi, la Chiesa veneziana vive un nuovo momento di grazia ha detto il Patriarca Francesco Moraglia . Don Luca Passi nacque a Bergamo, ma era per parte di madre veneziano, esercitò a lungo il suo ministero a Venezia e qui fondò le suore di Santa Dorotea».

IL GAZZETTINO di domenica 17 maggio 2015 Pag 10 In migliaia da tutto il mondo per don Caburlotto beato di Vettor Maria Corsetti Parroco veneziano e fondatore delle Figlie di San Giuseppe

Oltre quattromila fedeli e 230 tra religiosi e religiose, in una piazza San Marco prima sotto un cielo grigio ma senza una goccia di pioggia e poi baciata dal sole. Con il cardinale Angelo Amato, rappresentante di Papa Francesco e prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, che ha celebrato la liturgia eucaristica insieme al patriarca Angelo Scola e alla presenza del cardinale e arcivescovo brasiliano Odilo Pedro Scherer, per il secondo parroco veneziano assurto alla dignità di Beato dopo Giovanni Olini. Tra i moltissimi che ieri a Venezia hanno seguito la funzione religiosa all'aperto in onore di don Luigi Caburlotto, anche tante suore Figlie di San Giuseppe, la Congregazione da lui fondata nella prima metà dell'Ottocento "per l'assistenza e l'educazione di fanciulle povere e abbandonate", giunte espressamente da tutta Italia, dal Brasile (con tanto di sventolio di bandiere nazionali), dalle Filippine e dal Kenya. E in prima fila tra le autorità, non meno emozionata anche Maria Grazia Veltraino, l'anziana romana miracolata nel 2008 per intercessione del sacerdote ancora ricordato in città per la creazione di una scuola di carità, la direzione dell'istituto di beneficenza «Manin», un impegno a favore di piccole bisognose che fece commuovere anche l'imperatrice d'Austria e una prodigalità nelle elemosine che gli faceva rispondere a chi lo rimproverava per questo: «Per me i soldi e i chiodi sono tutt'uno». «Oggi è un giorno di ringraziamento enorme ha detto Maria Grazia, immobilizzata per 15 anni su una sedia a rotelle per una grave malattia e che dal 2008, dopo la visione notturna del nuovo Beato, ha ripreso a camminare senza problemi di sorta Luigi Caburlotto è in cielo, per le calli di Venezia. Chiacchiera per le fondamenta anche con i gondolieri, che gli ricordano le sue origini». Sì, perché don Luigi, di venezianissimo non ebbe solo l'impegno pastorale e come educatore in un secolo tra i più difficili per la città lagunare (come sottolineato da Amato nella sua omelia e da Moraglia nel suo intervento), ma anche il fatto di essere uno dei 12 figli del matrimonio di un gondoliere con una figlia di barcaioli. Aspetto confermato dalla partecipazione alla cerimonia di Aldo Reato, presidente dell'Assemblea dei Bancali, e di Vincenzo e Tommaso, giovani rappresentanti dei "" di appena 20 e 23 anni.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 17 maggio 2015 Pag V Don Caburlotto beato tra i 5mila di piazza San Marco di Vettor Maria Corsetti Maria Grazia, guarita dalla malattia: "Mi ha detto: cammina. E l'ho fatto"

Dopo Giovanni Olini, piovano di San Zan Degolà, è il secondo parroco veneziano ad assumere la dignità di Beato. E il primo nato dal matrimonio di un gondoliere con una figlia di barcaioli specializzati nel trasporto merci. Quasi 5mila fedeli e 230 tra preti e suore hanno seguito ieri in piazza San Marco la celebrazione eucaristica per la conclusione del processo di beatificazione di don Luigi Caburlotto (Venezia, 181797), in una mattina grigia poi baciata dal sole. Messa officiata dal cardinale Angelo Amato, rappresentante di Papa Francesco e prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, e concelebrata dal patriarca Francesco Moraglia (sul palco anche Odilo Pedro Scherer, cardinale e arcivescovo brasiliano). Tra le autorità, il commissario Vittorio Zappalorto, i sindaci di Spinea, Vedelago, Vodo e Vittorio Veneto e Aldo Reato, presidente dell'Assemblea dei Bancali insieme a Vincenzo e Tommaso, gondolieri di 20 e 23 anni. E particolarmente vivace ed emozionatissima la delegazione di suore Figlie di San Giuseppe, provenienti da tutta Italia, dal Brasile, dalle Filippine e dal Kenya. Tra i fedeli, invece, moltissimi i veneziani e i veneti, ma non meno numerosi quelli giunti da altre parti del Paese. Mentre gli inni e i canti per organo d'accompagnamento alla funzione religiosa, sono stati eseguiti da 200 coristi diretti da Giorgio Susana. «Il papà Angelo, gondoliere, e la mamma Elena furono i primi educatori del piccolo Luigi, in una famiglia allietata da 12 figli ha ricordato nella sua omelia il cardinale Amato Sacerdote dal 1842 e parroco a 33 anni, per 23 si occupò della chiesa di San Giacomo dell'Orio e diede subito vita a una scuola di carità per fanciulle povere e abbandonate, fondando la Congregazione delle Figlie di San Giuseppe e assumendo nel 1869 la direzione del prestigioso istituto di beneficenza "Manin". Un parroco dinamico, ricolmo di carità e saggezza educativa, convinto che per il risanamento della società occorresse un impegno particolare a quest'ultimo livello. Come fondatore delle Figlie di San Giuseppe, incarnò l'ascolto, l'umiltà e la carità». Nel suo intervento, invece, monsignor Moraglia ha sottolineato che «Venezia è grata al Signore per aver ospitato questa solenne liturgia di beatificazione che, di nuovo, ci ha fatto sentire la bellezza d'esser Chiesa». Parlando di Caburlotto come di «un veneziano doc vissuto tra campi, campielli, calli e in questa magnifica piazza, generando frutti abbondanti e duraturi a partire da realtà popolari che oggi Papa Francesco chiamerebbe periferie». E associandolo al Beato don Luca Passi, fondatore della Pia Opera e dell'Istituto delle Suore Maestre di Santa Dorotea. Lungo l'applauso allo scoprimento del ritratto di don Luigi, al «Magnificat» e all'omaggio alle sue reliquie.

«Questo è un giorno di ringraziamento enorme: da oggi Luigi Caburlotto è in cielo, per le calli di Venezia, e chiacchiera per le fondamente anche con i gondolieri». In prima fila tra le autorità e visibilmente emozionata, durante la cerimonia di beatificazione in piazza San Marco, anche l'anziana Maria Grazia Veltraino, miracolata a Roma nel 2008 per intercessione del sacerdote veneziano. Colpita da dermatomiosite cronica e per 15 anni costretta su una carrozzina, nella notte tra l'11 e il 12 febbraio di quell'anno, tra il sonno e la veglia, ebbe la visione di don Luigi Caburlotto: «Un'immagine sfocata ma riconoscibile, avvolta in nuvole bianche. Mi pareva di essere nel cortile del mio condominio ricorda Maria Grazia Sentii poi una voce che mi disse: "Cammina!". Mi svegliai impaurita, ma sentendo l'istinto di alzarmi dal letto. Lo feci subito, e riuscii a stare in piedi senza sostegno e dolori». Da allora Maria Grazia non ha più bisogno di sedia a rotelle, bastone o medicine, e può muoversi senza difficoltà. Il suo completo recupero è stato definito dal medico curante "qualcosa d'inspiegabile per la scienza", ed è all'origine del processo di beatificazione di Caburlotto. Iniziato nel 2012 e tecnicamente concluso nel 2014, dopo il pronunciamento unanime di 9 periti medici e 7 consultori teologi. «Non soffrire più e riprendere a camminare? Una gioia immensa conclude Di quella notte stupenda non dimenticherò mai la luce. E don Luigi, che è anche un bell'uomo».

LA NUOVA di domenica 17 maggio 2015 Pagg 18 19 Don Caburlotto Beato, cinquemila in festa di Nadia De Lazzari Fedeli da tutto il mondo per la cerimonia del secondo parroco veneziano elevato a questo titolo. Il Patriarca: "Figura attualissima di educatore". La gioia della miracolata: "Cammino grazie a lui"

È stato un giorno di fede e di festa. Il veneziano don Luigi Caburlotto, fondatore della Congregazione delle Figlie di San Giuseppe, è Beato. In Piazza San Marco sono arrivati in cinquemila dai quattro angoli del pianeta per partecipare alla cerimonia di beatificazione. Cardinali, vescovi, sacerdoti, seminaristi, religiose, autorità, parenti, allievi, ex allievi, docenti, genitori, amici, la miracolata (in prima fila con il picchetto d’onore dei gondolieri), persino i turisti a ridosso delle transenne non hanno voluto perdere lo storico evento di grazia. Tutto è filato liscio con il sole, la presenza dei volontari della Diocesi e del Comune e di uno schieramento consistente, ma discreto, delle forze dell’ordine. Il rito è iniziato alle 10,30 con la lunga processione dei concelebranti e il canto d’ingresso animato da una corale di oltre 300 persone provenienti da più formazioni musicali (Caorle, Chirignago, Lentiai, Spinea, Venezia, Vittorio Veneto) coordinate dal maestro Giorgio Susana e le “voci bianche” (circa duecento bambini). Sull’altare posto davanti al Museo Correr, il Patriarca Francesco Moraglia, accompagnato dalla postulatrice Silvia Correale e dalla vice, suor Francesca Lorenzet, vicaria generale della Congregazione delle Figlie di San Giuseppe, ha aperto il rito di beatificazione chiedendo al celebrante, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione vaticana per i Santi e delegato di Papa Francesco, di iscrivere nel numero dei Beati il venerabile Servo di Dio Luigi Caburlotto. Hanno concelebrato il cardinale brasiliano Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo, e altri arcivescovi e vescovi provenienti da Triveneto, Africa e Medio Oriente. Tra questi il vescovo di Vicenza, monsignor Beniamino Pizziol, l’arcivescovo di Tunisi monsignor Ilario Antoniazzi e il vescovo ausiliare di Gerusalemme monsignor Giacinto–Boulos Marcuzzo. Dopo la lettura della lettera del Papa è stata svelata la gigantesca immagine del novello Beato. Momenti di emozione e di silenzio. «Il papà Angelo, gondoliere, e la mamma Elena furono i primi educatori del piccolo Luigi Caburlotto», ha detto nell’omelia il Cardinale Amato. «Il sacerdote e parroco pose tutte le sue energie per il bene della parrocchia, delle suore, dei giovani in un’attività apostolica di grande impatto educativo. Don Luigi Caburlotto è il secondo parroco veneziano a essere beatificato dopo il Beato Giovanni Olini». Il porporato ha ricordato la santità del dinamico parroco che ha segnato la sua vita «ricolma di carità pastorale e di saggezza educativa, convinto com’era che per il risanamento di una società occorresse l’impegno in campo educativo». Anche il Patriarca Moraglia a conclusione del rito ha consegnato a tutti «l’immagine del pretepastore, attualissimo come educatore» e le parole «santità, vera e irrinunciabile forza evangelizzatrice» e «sfida educativa». Momenti indimenticabili tra gli applausi e il volo di centinaia di palloncini colorati lanciati verso il cielo dai bambini. Questa mattina alle 10, nella chiesa parrocchiale di San Giacomo dall’Orio il cardinale Scherer presiederà una messa di ringraziamento per il novello Beato.

Per il Beato Caburlotto prima assoluta dell’operaoratorio “Sacerdote Luigi Caburlotto. Uomo di ardente carità”. Alle 16 di ieri in tanti si sono riuniti per ascoltare l’opera religiosa nella basilica dei Frari dove è custodito il registro dei Battesimi 1817 che documenta l’atto del piccolo Luigi battezzato con il nome di Lodovico Gasparo Maria Paolo. A comporre libretto e musica su incarico della Congregazione delle Figlie di San Giuseppe, l’ordine religioso fondato dal Beato, il maestro Pietro Bonadio. Attualmente il musicista vive a Milano e per comporre l’opera ha alloggiato sei mesi in centro storico in una “cella” delle suore di Casa Caburlotto. Qui ha studiato i vari testi scritti del Beato. Qui l’ispirazione. Il musicista, nato nel 1942 a Cittanova di Eraclea, ha iniziato all’età di tre anni a suonare un’armonica a bocca: “Mio padre fu lungimirante. Gli amici lo deridevano perché invitava a cena musicisti che alla sera andavano a suonare nelle feste popolari. Lo faceva solo per me. Aveva capito la mia predisposizione alla musica». Il compositore ha compiuto gli studi musicali al Conservatorio Pollini di Padova. Dopo tournée in Italia e all’estero dove sperimenta ogni genere di musica, si dedica all’insegnamento dell’educazione musicale in Lombardia. Nel tempo ha dato vita a corsi di guida all’ascolto della musica nelle scuole e nelle università popolari. Numerosi i premi conseguiti: tra questi il “Segattini” e quello ad un concorso nazionale per romanze liriche. Ha chiesto i diritti alla casa Feltrinelli per trarre dal romanzo “Il Dottor Zivago” un’opera lirica dedicata a San Giovanni Paolo II programmata al Teatro dell’Ermitage di San Pietroburgo.

Cammina senza carrozzella, bastone, dolori. Maria Grazia Veltraino di Roma è in Piazza San Marco seduta in prima fila. Le stanno accanto i gondolieri Aldo Reato e Vincenzo Inguanotto. L’anziana signora è guarita da una malattia: il miracolo avvenne nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2008. Dopo gli accertamenti del Tribunale ecclesiastico. Papa Francesco, a maggio 2014, ha firmato il decreto del miracolo ottenuto per intercessione del Venerabile monsignor Luigi Caburlotto: «È un giorno di ringraziamento e sono contenta per Venezia perché ora ha un Santo tutto suo e pure gondoliere», dice emozionata. «Oggi il Beato sta in mezzo a noi tra le calli e i campi a chiacchierare. La mia vita? Quindici anni di malattia, sette di carrozzella poi il miracolo. Fu una notte stupenda: nella mia camera vidi una luce e la sua figura. Una luce che era nel condominio dove c’era una bellissima fontana. Cominciai a camminare, mi impaurii, continuai a camminare». Centinaia i bambini in Piazza. Giulia e Luca dell’Istituto Caburlotto Papafava spiegano: «Don Luigi mi ha fatto conoscere la Venezia dell’800. Ci è rimasta impressa una sua frase: “Se salverai una giovane donna salverai un’intera famiglia”». In mezzo alla gente anche i discendenti del Beato. Numerosi sono arrivati da Padova. Angelo Bonaldo con la moglie Renata è giunto da Milano: «Mia mamma, pronipote, era una Caburlotto. A casa ho sempre sentito racconti su padre Luigi». Nel numeroso gruppo di Spinea due mamme, Alessandra Bau e Donatella Scattolin, esultano: “Un Beato veneziano, è uno di noi!». Da Oderzo un gruppo numeroso e allegro di 53 volontarie accompagnate dal sindaco. Parlano Lionella Bucciol e Piera Paola Pillon: «Le suore del Caburlotto vivono il carisma del Beato che era quello di stare in mezzo alla gente. Quelle opitergine aprirono due orfanotrofi e nel 1934 crearono laboratori di maglieria per le ragazze. La moglie dell’imprenditore Stefanel fu loro allieva. Per i ragazzi avviarono allevamenti di conigli d’angora». Tantissime le religiose in Piazza, italiane, brasiliane, filippine. Le suore Grace, Consolata e Giacinta sono arrivate dal Kenya: «Nutriamo ed educhiamo 90 bimbi». Suor Guidalma e suor Elena di Chirignago: «È una festa familiare. Il Beato Luigi l’avrebbe pensata così. Questo giorno ci ha fatto prendere coscienza dell’attualità della sua missione». Don Paolo Ferrazzo, attuale parroco di San Giacomo dall’Orio, guarda felice la folla e conclude: «È una grande giornata per la Chiesa e per Venezia. Umile, intelligente, attuale: affrontò una Venezia che veniva dalla guerra. Era di una povertà estrema. Intervenne nelle situazioni di marginalità del suo tempo e mosse la gente verso le periferie, soprattutto a sostegno delle donne. Marginalità che oggi si ripresentano in altre forme. Per la nostra città è un riconoscimento e un’opportunità. Il Beato aiuterà Venezia».

L’OSSERVATORE ROMANO di sabato 16 maggio 2015 Pag 7 In mezzo a frotte di ragazzi scalmanati di Roberta Balduit A Venezia la beatificazione di don Luigi Caburlotto

Ottant’anni trascorsi tutti nella città natale, Venezia, accompagnandone il difficile e doloroso trapasso da Repubblica libera a città soggetta a governi stranieri, in rivolta per la riconquista della libertà perduta, infine provincia periferica in quel regno d’Italia che l’aggregava senza particolari entusiasmi. Cristiano e cittadino per don Luigi Caburlotto (18171897) che sabato 16 maggio, in rappresentanza di Papa Francesco, il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei santi, beatifica in piazza San Marco a Venezia sono state realtà inscindibili: nel consorzio sociale si vive infatti secondo i valori e i principi cui mente, cuore e anima aderiscono. Fin dall’infanzia, Luigi è segnato dalla fede cattolica accolta e vissuta in famiglia e nella parrocchia. Già a 17 anni lascia intravvedere la sua vocazione mentre parla di san Giuseppe Calasanzio, fondatore delle scuole cristiane, ispiratore e protettore della scuola dei venerabili fratelli Cavanis, che egli sta frequentando ormai da cinque anni. Il santo, racconta Luigi ai suoi condiscepoli, mentre per via si imbatteva in frotte di ragazzi scalmanati e senza alcuna disciplina, «lesse in essi vivamente impressa la sua vocazione» e avvertì nel cuore risuonare il salmo 9: «A te è affidato il povero, dell’orfano tu sarai il sostegno». È questa la sigla della vita di Luigi Caburlotto, fin da subito: passare accanto, passare in mezzo vedendo e avvertendo nel cuore una chiamata di Dio cui rispondere con sollecito amore, con tutte le energie di mente, di cuore, di relazione, di iniziativa, di dedizione spinta fino al totale sacrificio di sé. Alla scuola dei venerabili Antonangelo e Marcantonio Cavanis, suoi maestri per sei anni, e con la guida spirituale di don Andrea Salsi suo parroco e collaboratore dei Cavanis, assorbe il senso di unità tra fede e vita, riconoscendo nella loro dedizione educativa paterna, attenta, diuturna l’espandersi del loro amore di Dio. Da chierico si impegna a dare mete di santità alla sua vita radicandola nell’ardente amore per Dio e nell’impegno di evangelizzazione attraverso l’annuncio della parola e la cura educativa delle giovani generazioni. Da sacerdote avverte di essere scelto senza suo merito come lampada sul candelabro per la gloria di Dio, per confortare l’afflitto cuore del popolo annunciando la misericordia. Ha individuato e scelto il cuore della missione sacerdotale nell’essere ponte tra Dio e gli uomini, tra gli uomini e Dio, tra uomo e uomo. Si definirà più avanti un “punto mediano”, colui che ha il compito, e lo assume, di districare i nodi, di appianare le difficoltà, di riconoscere i fili comuni e riannodarli. Don Luigi era parroco da soli sei mesi, nella parrocchia di San Giacomo dall’Orio, che ben conosceva per i sei anni di ministero pastorale accanto al parroco da poco defunto. Erano stati anni in cui il vedere povertà, fatica, desolazione, aggravate dai rivolgimenti degli anni 18481849, avevano scavato nel suo cuore una sofferenza che egli divenendo parroco chiama “cordoglio”. È a quel momento che egli fa risalire la scintilla decisionale che farà nascere il 30 aprile 1850 una scuola popolare di carità nella parrocchia e contemporaneamente, sebbene ancora in germe, una famiglia religiosa: le figlie di San Giuseppe. Essa cresce da sé, dal volontariato delle prime tre collaboratrici, nelle quali matura il desiderio della consacrazione. Don Luigi, una volta ancora, legge nella richiesta di queste prime tre giovani, tutte catechiste della sua parrocchia, un appello di Dio. Lasciando la parrocchia don Luigi confesserà ai suoi parrocchiani di avere «un cuore che ama assai», uno sguardo che possiamo definire “cordiale”. Dal 1856, e molto più dal 1869, fino alla fine dei suoi giorni, don Luigi si trova a lavorare con e in istituzioni pubbliche, nella direzione degli istituti Manin, femminile e maschile, e più tardi degli orfanotrofi cittadini. Gli fu chiaro fin da subito che la sua presenza nella direzione dell’istituto era ben delimitata dall’ente gestore e che, se voleva guadagnare quella autorevolezza che gli avrebbe permesso di incidere in modo determinante sull’indirizzo educativo, unica cosa che gli stava a cuore, doveva anzitutto lavorare a solo titolo di carità, rinunciando a ogni stipendio e rivendicando per sé la scelta del personale docente sul fronte della “moralità” e dell’orientamento di pensiero. Per don Luigi la vita di Gesù deve essere la nostra vita: di questo era così certo da ripeterlo in molti modi e a tutti. E questo è stato il suo luminoso segreto, il perno coagulante del suo esistere, la ragione propulsiva del suo pensare e operare.

AVVENIRE di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 Con i più poveri di Gerolamo Fazzini La Chiesa, noi e il dramma nepalese

In tanti abbiamo ancora negli occhi le immagini, trasmesse nei giorni iniziali di Expo, che mostravano alcuni italiani generosamente al lavoro nel padiglione nepalese, a fianco delle maestranze asiatiche, per garantirne la regolare apertura. Molti altri non hanno dimenticato lo sguardo dell’operaio nepalese, col tradizionale copricapo in testa, scelto per far parte del drappello di persone che hanno sfilato, il giorno dell’inaugurazione, in rappresentanza dell’immenso esercito di operai e tecnici che hanno contribuito alla realizzazione della grande kermesse milanese. Erano trascorsi, allora, solo pochi giorni dal terribile terremoto che il 25 aprile scorso ha squassato il tetto del mondo, mettendo letteralmente in ginocchio il piccolo Paese asiatico. Oggi, però, il cordoglio collettivo è svanito e il flusso di aiuti donati via sms sull’onda delle emozioni sta rallentando il passo. Forse che in Nepal la ferita si sta cicatrizzando? Nient’affatto. Come puntualmente accade, secondo una perversa legge della comunicazione (per la quale la normalità non fa notizia), il Nepal è quasi sparito da giornali, notiziari tv e siti internet. Restano, a presidiarlo, poche testate, fra cui questo giornale e alcune agenzie di stampa cattoliche specializzate. Ma là, in mezzo alle montagne più maestose e impervie del globo, la gente continua a soffrire. I soccorsi – come documentiamo nelle pagine interne – procedono fra mille difficoltà. E le recenti, nuove scosse di terremoto di pochi giorni fa hanno reso ancor più vulnerabile una popolazione già molto provata. Una popolazione la cui prima esigenza, in assoluto, è quella di avere la certezza che il resto del mondo non l’ha dimenticata, che l’opinione pubblica non ha archiviato il disastro del 25 aprile scorso come una fatalità cui arrendersi passivamente. Come se l’entità tremenda dell’accaduto (una scossa di proporzioni eccezionali, oltre 8.000 morti e 17 mila feriti) potesse essere un alibi per non spendersi, per non promuovere una convinta solidarietà. Ebbene. Domani avremo l’occasione di stringerci attorno alle mamme nepalesi, che ogni giorno – da 3 settimane a questa parte – si alzano domandandosi cosa daranno ai figli da mangiare. Domani ci è offerta una piccola, ma concreta, opportunità per ridare un briciolo di speranza allo sguardo dei tanti che si aggirano nei villaggi tagliati fuori dal mondo e, in particolare, ai bambini (l’Unicef parla di 1,7 milioni) in balìa di un futuro quanto mai incerto. La Chiesa italiana ha promosso una colletta straordinaria per il Nepal e la sua gente. Lo ha fatto ben sapendo che anche nel nostro Paese milioni di persone e di famiglie faticano ad arrivare alla fine del mese, per i motivi più diversi. Ma i cristiani sono fatti così: non possono chiudersi nel recinto dei loro problemi, lasciando il mondo fuori. Lo si è già visto in queste settimane: parrocchie, scuole, gruppi di volontariato si sono mobilitati, per raccogliere fondi o per inviare in Nepal vestiti dismessi o altro materiale utile. Come accadde oltre dieci anni fa, ai tempi del terribile tsunami che colpì parte dell’Asia, in casi come questi si scopre che spesso sono i più poveri a dare lezione di generosità. Da un lancio dell’agenzia AsiaNews, ad esempio, apprendiamo che alcune ex 'donne di conforto' della Corea del Sud (che, durante l’occupazione giapponese, furono sfruttate sessualmente) hanno deciso di destinare parte dei loro risparmi a un’ong buddista che aiuta i terremotati del Nepal. L’obiettivo dell’iniziativa dei nostri vescovi è quello di rispondere concretamente all’emergenza inviando un sostegno economico. Ma,visto che – come ama ripeterci papa Francesco – la Chiesa non è un’ong, l’invito è a vivere questo gesto in spirito di autentica solidarietà cristiana. Siamo chiamati a un segno di condivisione con i poveri dall’altra parte del mondo: non chiederemo loro di che etnia o religione sono, perché già sappiamo l’essenziale. Sono figli dell’unico Dio. E questo ci dovrebbe bastare, per farci allargare il cuore.

Pag 2 Comunicare è innanzitutto generare di Chiara Giaccardi Domani la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali

Perché papa Francesco ha scelto la famiglia come simbolo della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali che si celebra domani? Il cammino della Chiesa è uno: non ci sono compartimenti stagni, ma ogni angolatura aiuta a illuminare l’insieme di una luce diversa e la famiglia, in questo momento, è una lente privilegiata per leggere il presente, per decifrare i segni dei tempi. Intanto si prepara il Sinodo sulla famiglia: vederla come scuola di comunicazione può aiutare a capire meglio sia la comunicazione che la famiglia stessa, in questo difficile e necessario cammino di discernimento. Poi è l’anno della misericordia: che significa lasciarsi toccare il cuore, non restare indifferenti, prendersi cura. Senza misericordia non c’è vita familiare, e la famiglia può diventare addirittura un inferno. La misericordia è invece scuola di una comunicazione fatta di prossimità e silenzi, contatti e lacrime condivise, abbracci e sorrisi: tutte forme che non si imparano sui libri, ma si ricevono in dono, si respirano e per questo possono diventare parte di noi, linguaggio del corpo e del cuore che impariamo a nostra volta a parlare. Ma c’è una affermazione ancora più radicale in questa scelta del Papa, che tocca il senso più profondo delle nostre esistenze: la prima comunicazione è quella della vita che nasce dalla differenza di maschio e femmina, e si trasmette tra le generazioni. Possiamo affittare, surrogare, comprare ma non cancellare questo dato originario: perché ci sia vita, maschile e femminile devono incontrarsi, e questo incontro tra diversi, questo “comune” che si costruisce nella relazione, è l’inizio di qualcosa di nuovo e irripetibile. Il cui primo messaggio è che la vita è un dono ricevuto, non un prodotto delle nostre mani. Possiamo generare perché siamo stati generati. Possiamo dare perché abbiamo ricevuto. Possiamo essere padri e madri perché siamo figli e figlie: è qui, nella libertà dei figli amati e non nella pretesa sovranità di individui assoluti, la matrice generativa di ogni comunicazione, e anche la misura della sua autenticità.

Pag 16 Oggi beato Caburlotto, apostolo dell’educazione di Francesco Dal Mas e Chiara Santomiero A Venezia fondò le Figlie di S. Giuseppe. Moraglia: ha lasciato una scia luminosa. La superiora suor Del Ben: è il sigillo a un carisma rimasto attuale e moderno

«La prova dell’amore è la dimostrazione delle opere» è stata la testimonianza di don Luigi Caburlotto, sacerdote veneziano, vissuto nel 1800. Le Figlie di San Giuseppe, che sono la sua eredità, in Italia ma anche in Brasile, nelle Filippine e in Kenya, non hanno dubbi: il suo insegnamento è di strettissima attualità, l’ha confermato il Concilio Vaticano II e oggi è espresso con coinvolgente testimonianza da papa Francesco. Un santo di oggi, dunque, e che proprio questa mattina alle 10.30 in piazza San Marco sarà proclamato beato nella sua Venezia, in una solenne concelebrazione, davanti a quattromila fedeli, presieduta dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi e delegato di papa Francesco per questo evento, assieme al patriarca Francesco Moraglia, al cardinale Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo, numerosi vescovi provenienti da tutto il mondo, tra cui Ilario Antoniazzi di Tunisi e GiacintoBoulos Marcuzzo di Nazaret. Esiste una fantasia nella carità che diventa realtà? L’ha dimostrata appunto don Caburlotto. «Grazie a don Luigi, la comunità veneziana soprattutto nelle sue realtà 'popolari' è stata attraversata da una scintilla di vera santità che ha lasciato una scia tutt’ora luminosissima – testimonia Moraglia –. Di lui risplende ancora quella 'carità pastorale', vissuta sempre con perseveranza ed umiltà, creatività e fedeltà assoluta, capace di connotare l’intero corso della sua esistenza e del suo ministero, divenendo vera e propria benedizione per quanti lo incontrarono tra le calli e i campielli di Venezia». Chi era, dunque, Caburlotto, sacerdote e parroco, educatore e formatore di educatori in istituzioni pubbliche e private, uomo di dialogo? Nato il 7 giugno 1817, da una famiglia di gondolieri (la categoria oggi farà da cornice al solenne rito), ordinato sacerdote il 24 settembre 1842, parroco a San Giacomo dall’Orio, nel 1850 don Caburlotto ha aperto una scuola popolare per le ragazze più trascurate dalle famiglie, preoccupandosi immediatamente della formazione, anche religiosa, delle insegnanti. Ed ecco che le donne piene di zelo, coinvolte in questa missione, si sono costituite, già quattro anni dopo, in istituto religioso di suore, con la Regola scritta da don Luigi stesso; le Figlie di S. Giuseppe; le «beppe» come vengono ancor oggi, simpaticamente, definite. Da un’opera di carità all’altra, dall’assistenza ai molti poveri della città e l’istituzione di un patronato maschile serale per la formazione scolastico professionale: don Caburlotto ha lasciato davvero spazio alla fantasia pastorale e caritativa. Nel 1857 ha accolto le ragazze povere aiutate dalla pubblica assistenza dando vita all’Istituto Manin e nel 1859 ha fondato a Vittorio Veneto una scuola elementare popolare gratuita ed un collegio per studi più qualificati. Trovatosi al centro del dibattito politicoreligioso che rendeva aspri i rapporti tra cattolici e liberali all’indomani dell’annessione del Veneto al Regno d’Italia, ha regolato le sue scelte tenendo fede alla vocazione che gli imponeva di esprimere l’amore per Dio attraverso la cura educativa dei giovani, anche a costo di subire incomprensioni e opposizioni. È morto, assistito dall’allora patriarca di Venezia Giuseppe Sarto (poi diventato Papa con il nome di Pio X e quindi canonizzato) il 9 luglio 1897. Il processo di beatificazione è stato aperto nel 1963 e il 9 maggio 2014 papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle cause dei Santi a promulgare il decreto del riconoscimento del miracolo (2008) attribuito alla sua intercessione.

Nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2008, Maria Grazia Veltraino allora 78enne, affetta da dermatomiosite cronica da più di tredici anni, sette dei quali in carrozzella guarì improvvisamente dichiarando di essere certa di aver ricevuto tale dono per intercessione di don Luigi Caburlotto. Oggi a Venezia ci sarà anche lei, accanto alla postulatrice della causa di beatificazione Silvia Correale. «Quella notte – racconta Maria Grazia –, verso mattina, ho visto tra il sogno e la veglia la figura di don Luigi, un po’ sfocata, ma riconoscibile, avvolta in nuvole bianche, mi pareva di essere nel cortile del mio condominio. Volevo guardarlo più distintamente avvicinandomi, ma ero ferma e non riuscivo a camminare. In quel momento ho sentito una voce che mi diceva: 'Cammina'. Quella voce mi ha svegliata, impaurita, ma sentendo l’istinto di alzarmi dal letto, l’ho fatto subito e sono riuscita a stare in piedi senza sostegno e senza sofferenza». La signora Veltraino ha sentito parlare di padre Caburlotto fin dal 1954, quando ha conosciuto le Figlie di San Giuseppe. Anche lei lo ha pregato, ma non per guarire dal suo male. Fatto si è che quel 12 febbraio Maria Grazia è tornata a letto, ha atteso Valentina, la badante, e quando l’ha sentita arrivare, ha aperto lei stessa la porta, con grande sorpresa della stessa Valentina. «Non le raccontai nulla. Le chiesi invece di uscire con me, ma senza la carrozzina che da sei anni e sette mesi non lasciavo mai. Uscimmo per un’ora intera senza bastone e perfino senza appoggiarmi, passeggiando intorno al palazzo dove abito e nel quartiere. Il giorno dopo ho desiderato comprarmi un paio di ciabatte. Nel negozio, per un guasto dell’ascensore, dovetti fare 22 gradini in discesa e risalirli, ci riuscii e senza fatica» Quando, una settimana dopo, la dottoressa di Maria Grazia, Stefania Gianelli, ebbe modo di visitarla, si commosse lei stessa e commentò dicendo che quello era un miracolo per chi crede, qualcosa di inspiegabile per la scienza. Centodieci giorni dopo l’evento, Maria Grazia era a Venezia per venerare Caburlotto. Un anno fa, dopo approfonditi esami clinici, l’autorizzazione di papa Francesco a promulgare il decreto sull’autenticità del miracolo attribuito all’intercessione del venerabile.

In cuor loro lo hanno sempre considerato 'santo', cioè un testimone di fede incrollabile in Dio e anche nell’uomo, considerato che ha speso tutta la vita per educare ragazzi e ragazze, specialmente i più poveri perché credeva nella loro capacità di costruirsi un futuro se adeguatamente formati. La beatificazione mette un 'sigillo' su un carisma che il tempo non ha appannato, anzi, come spiega madre Idangela Del Ben, la superiora generale delle Figlie di San Giuseppe, «l’insegnamento di don Luigi ha trovato piena attuazione nel Concilio Vaticano II». La Congregazione fondata nel 1850 dal sacerdote veneziano è oggi presente in diverse diocesi d’Italia, dal nord al sud, oltre che in Brasile, Filippine e Kenya. Una trentina di comunità in cui operano oltre duecento suore che coinvolgono nel progetto educativo del fondatore quasi 1.000 laici, raggiungendo più di 9.500 famiglie dal nido alla scuola superiore, dall’accoglienza di minori a quella di mamme con bambino. La corresponsabilità dei laici è uno dei 'fili d’oro' che le Figlie di San Giuseppe dipanano dalla memoria sempre viva di Caburlotto all’interno della Congregazione: «è fondamentale – aggiunge madre Del Ben – collaborare insieme religiose e laici per prendersi cura di tutti coloro che ci vengono affidati». Non solo la presenza nella pastorale delle parrocchie e l’insegnamento, ma anche le opere sociali: in Kenya, accanto alla scuola per i bambini, è nato un ambulatorio e progetti per la cura dell’Aids e la malattia mentale. La sfida è «riuscire a guardare la realtà con gli occhi di Gesù per accogliere le domande dei poveri di oggi, così come Caburlotto guardò alla povertà materiale e spirituale dei ragazzi abbandonati del suo tempo». «Essere poveri non è una disgrazia» ripeteva il beato ai suoi giovani ma insisteva, racconta madre Del Ben, «sulla responsabilità di darsi da fare per il futuro studiando e diventando non solo buoni cristiani ma, come diremmo oggi, cittadini consapevoli. Lui li invitava ad essere 'membri della società non disorganizzanti' ». Ancora di più puntava sulle bambine: «formando una donna – sottolinea la superiora – sosteneva che si rispondesse due volte al bisogno educativo perché si formava una futura famiglia». «Aveva fiducia che le donne sapessero moralizzare la società ma per questo – sorride la superiora –, come ebbe a dire una volta a una suora che rimproverava delle ragazze un pò vivaci, occorre formare 'ragazze di senno, non baciabanchi e picchiapetti'...». Una passione educativa che continua nelle scuole dove operano le Figlie di San Giuseppe guidate dall’imperativo che «educare è arte del cuore» e «con la dolcezza si formano i santi»: da qui il grande impegno che accompagna da sempre la formazione dei formatori. Qual è l’emozione più grande per questa beatificazione? Madre Del Ben non ha dubbi: «La gioia che oggi l’esempio di don Luigi sia vissuto con un profondo senso di appartenenza non solo dalla nostra congregazione ma dai sacerdoti e da tutta la Chiesa di Venezia».

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 16 maggio 2015 Pag VII Don Caburlotto beato. “Invasione” a San Marco Oggi la cerimonia

Saranno 150 i sacerdoti e 10 i vescovi presenti alla celebrazione per la beatificazione di Luigi Caburlotto oggi in Piazza San Marco. Oltre 4mila persone fedeli, allievi, genitori, docenti, collaboratori, exallievi e amici provenienti dalle scuole in cui operano le Figlie di San Giuseppe, la congregazione fondata da Caburlotto occuperanno posti a sedere già allestiti nella piazza. La celebrazione che avrà inizio alle 10.30 sarà presieduta dal card. Angelo Amato, Prefetto della Congregazione dei Santi e delegato di Papa Francesco. All’inizio del rito, il Patriarca di Venezia, mons. Francesco Moraglia, accompagnato dalla postulatrice, Silvia Correale, e dalla vice postulatrice, suor Francesca Lorenzet, vicaria generale della Congregazione delle Figlie di san Giuseppe, chiederà al celebrante, secondo la formula tradizionale, che il venerabile Servo di Dio Luigi Caburlotto, sia iscritto nel numero dei Beati. Seguirà, quindi, la lettura di un breve profilo del beato (nato a Venezia l’8 giugno 1817 e qui morto nel 1897) che ha speso la sua vita per l’educazione delle ragazze e dei ragazzi poveri nella convinzione che sull’educazione poggia ogni società. Il rito potrà essere seguito anche attraverso la diretta televisiva (dalle ore 10.10) curata da Telepace e rilanciata anche da Telechiara (canale 14 del digitale terrestre). Nel pomeriggio alle 16.00, nella basilica di S. Maria Gloriosa dei Frari è prevista l’esecuzione dell’Opera/oratorio “Sacerdote Luigi Caburlotto, un uomo ardente di carità”, realizzata dal maestro Pietro Bonadio. Doman i alle 10 nella Chiesa di S. Giacomo dall’Orio, il card. Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di S. Paolo del Brasile, presiederà una Messa di ringraziamento.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 16 maggio 2015 Pag 15 Caburlotto beato, oggi la messa a San Marco con 4000 persone

Venezia. Saranno 150 sacerdoti e dieci vescovi a concelebrare questa mattina la celebrazione per la beatificazione di Luigi Caburlotto. In piazza San Marco sono attese oltre quattromila persone tra fedeli, allievi, genitori, docenti, collaboratori, exallievi e amici provenienti dalle scuole in cui operano le Figlie di San Giuseppe, la congregazione fondata da Caburlotto. La celebrazione che avrà inizio alle 10.30 sarà presieduta dal cardinale Angelo Amato, Prefetto della Congregazione dei Santi. Il processo di canonizzazione di Caburlotto, promosso dalle Figlie di San Giuseppe, si è concluso il 9 maggio del 2014 con il decreto firmato da Papa Francesco con l’autorizzazione alla beatificazione in seguito al riconoscimento della guarigione prodigiosa di Maria Grazia Veltraino avvenuta nel 2008. Sarà proprio lei ad accompagnare la Superiora generale delle Figlie di San Giuseppe, madre Idangela Del Ben, che porterà all’altare le reliquie di Caburlotto dopo la scopertura del drappo con l’immagine del nuovo Beato. Nato a Venezia l’8 giugno 1817 e qui morto nel 1897), il sacerdote ha speso la sua vita per l’educazione delle ragazze e dei ragazzi poveri nella convinzione che sull’educazione poggia ogni società.

LA NUOVA di sabato 16 maggio 2015 Pag 20 Dieci vescovi e 150 sacerdoti per il beato Luigi Caburlotto In piazza S. Marco

Saranno 150 i sacerdoti e 10 i vescovi presenti alla celebrazione per la beatificazione di Luigi Caburlotto questa mattina alle 10.30 in Piazza S. Marco. Oltre 4000 persone fedeli, allievi, genitori, docenti, collaboratori, exallievi e amici provenienti dalle scuole in cui operano le Figlie di S. Giuseppe, la congregazione fondata da Caburlotto ieri hanno ritirato i pass per accedere ai posti a sedere già allestiti in Piazza. La celebrazione che avrà inizio alle 10.30 sarà presieduta dal cardinal Angelo Amato, Prefetto della Congregazione dei Santi e delegato di Papa Francesco. All’inizio del rito, il Patriarca Francesco Moraglia, accompagnato dalla postulatrice Silvia Correale, e dalla vice postulatrice, suor Francesca Lorenzet, vicaria generale della Congregazione delle Figlie di san Giuseppe, chiederà al celebrante, secondo la formula tradizionale, che il venerabile Servo di Dio Luigi Caburlotto, sia iscritto nel numero dei Beati. Il rigoroso programma di vita di don Caburlotto era riassunto nell’espressione: «Dar gloria a Dio, cercare la propria santificazione, servire con ogni dedizione i fratelli».

WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT I cristiani di Aleppo e le trappole del «persecuzionismo» di Gianni Valente Intervista a Antoine Audo SJ, Vescovo caldeo di Aleppo: a orchestrare l’espulsione dei cristiani dal Medio Oriente sono i Paesi della regione da sempre allineati con l’Occidente

«Forse rimarremo in pochi. Ma rimarremo. Anche se ci imporranno di pagare la Jizya, la tassa di sottomissione». È vescovo nella città martire di Aleppo, il gesuita Antoine Audo. E vescovo della Chiesa caldea, la comunità cattolica orientale più decimata dall'emorragia di fedeli innescata dalle convulsioni mediorientali degli ultimi decenni. Ma non si lamenta. Non invoca interventi militari, mobilitazioni e proteste per difendere i cristiani. Piuttosto, mette in guardia da chi non si esita a strumentalizzare anche le sofferenze dei battezzati pur di perseguire i propri interessi di potere. E così snatura il senso cristiano del martirio. E ricorda che a orchestrare l’espulsione dei cristiani dal Medio Oriente sono i Paesi della regione da sempre allineati con l’Occidente. Lei ha detto che nei conflitti in Medio Oriente c'è chi usa anche le sofferenze dei cristiani per nascondere le dinamiche reali delle guerre. L'allarme ricorrente sui cristiani perseguitati può essere letto da almeno due punti di vista. In certi ambienti c'è una propaganda intensa che punta a aumentare la paura indistinta dell'Occidente nei confronti dell'islam, per suscitare la spinta emotiva popolare e così giustificare un maggior controllo sugli ambienti musulmani, soprattutto in Europa. Dall'altro, ci sono Paesi della regione che con il loro islam wahhabita e l'ansia di rivalse storiche verso la cristianità non riescono a sopportare nemmeno l'idea di una presenza dei cristiani in Medio Oriente. Queste due logiche, per paradosso, si sostengono l'una con l'altra, e convergono fatalmente nello spingere i cristiani fuori da tutta la regione. In Siria non era così. E anche adesso è falso presentare il conflitto siriano come una guerra tra cristiani e musulmani. Ma è questo il messaggio che vogliono far passare, perché fa comodo a tutti. Il tema della persecuzione dei cristiani viene strumentalizzato nelle strategie geopolitiche? I Paesi che ho citato sono gli unici che si muovono nella prospettiva di “ripulire” il Medio Oriente dai cristiani autoctoni. Il wahhabismo poi collega il cristianesimo alla modernità, all'eguaglianza dei diritti e al principio di cittadinanza. Tutte cose che loro rifiutano. Eppure proprio quei Paesi sono gli alleati storici dell'Occidente nella regione. E i circoli occidentali che fanno propaganda e mobilitazione permanente sul tema della persecuzione dei cristiani si accordano splendidamente con la loro strategia. E intanto usano il tema della persecuzione dei cristiani per spingere le loro opinioni pubbliche a giustificare i loro nuovi interventi armati nella regione e aumentare la paura verso gli islamici. Dicono che le guerre servono per difendere i cristiani. Così cercano di motivare la loro presenza nella regione. Una cosa che non era successa ai tempi delle guerre nel Golfo, quando Papa Wojtyla non aveva dato nessuna sponda a chi voleva presentare gli interventi a guida Usa come nuove Crociate. Però anche capi delle Chiese cristiane d'Oriente hanno applicato alle sofferenze attuali dei cristiani la definizione di “genocidio”. Certe affermazioni vanno messe nel contesto del Centenario del Genocidio degli armeni e del Genocidio assiro. In molti siamo ancora segnati da quelle vicende. Anche il mio bisnonno è morto in Turchia in quei massacri, e il resto della famiglia si salvò trovando rifugio a Aleppo. Ci viene spontaneo parlare di Genocidio, anche esagerando. Ma un modo per dire che abbiamo paura. Temiamo che possa riaccadere quello che abbiamo già visto accadere. Servono a qualcosa le mobilitazioni, o le richieste di interventi internazionali? Per quattro anni ho ripetuto instancabilmente che l'unica via d'uscita era la soluzione politica del conflitto, che potesse aprire la via alla riconciliazione. Ma ora mi sembra sempre più chiaro che c’è una agenda per distruggere il Paese, spezzettarlo su base settaria senza mettere in conto la permanenza dei cristiani, che devono solo andare via. Questo è il messaggio che ci arriva adesso. Stavolta, come ne uscirete? Come Chiesa faremo di tutto per rimanere. Anche se dovessimo vivere sotto il potere dei jihadisti e pagare la Jizya, la tassa di sottomissione. Quelli che vogliono partire, partiranno. Ma un piccolo gruppo resterà. I vecchi, i poveri, i sacerdoti, i religiosi. Continueremo in ogni modo a confessare la nostra fede nel nostro Paese, nella condizione data. Anche se si consolidasse il regime del Califfato. Rimarremo lì, e vedremo cosa succede. Possiamo provare a trovare una soluzione, un modo per andare avanti, come abbiamo già fatto nella storia. Non è la prima volta. Questo è il mistero della Chiesa, che nel mondo rimane inerme. E la sua forza non consiste mai negli interventi e nei sostegni esterni. Ci sono organizzazioni che aiutano i cristiani a andar via. E il Patriarca caldeo è da tempo in conflitto con alcuni preti che sono emigrati in America senza il consenso dei superiori, dicendo che erano minacciati di morte certa. Io rispetto le famiglie che hanno i bambini e vanno via. Non dirò mai una parola, un giudizio non benevolo su chi va via perché vuole proteggere i suoi figli dalle sofferenze. Ma per i sacerdoti è diverso. Chi ha delle responsabilità nella Chiesa e va via, lo fa perché sceglie la soluzione più comoda. Se poi si giustifica presentandosi come vittima della persecuzione, questo è anche oltraggioso nei confronti dei veri perseguitati.

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4 – MARCIANUM, ASSOCIAZIONI, ISTITUZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag V “I racconti dal paese perduto”, il genocidio del popolo armeno Domani al Laurentianum

I “racconti dal Paese Perduto” della scrittrice di origine armena Antonia Arslan autrice di libri di grande successo sulla tragedia del suo popolo d’origine (come “La masseria delle allodole”, “La strada di Smirne” e “Il libro di Mush” fino al più recente “Il rumore delle perle di legno”) saranno al centro dell’incontro in programma a Mestre nel pomeriggio di domani alle 18 presso l’aula magna dell’Istituto di cultura Laurentianum, a fianco del Duomo di S. Lorenzo. L’iniziativa organizzata da Laurentianum e Fondazione del Duomo di Mestre offrirà l’opportunità di riparlare di Armenia, scavando dentro i temi e le suggestioni presenti appunto nei romanzi di Antonia Arslan, e aiuterà soprattutto a ravvivare la memoria sul primo genocidio del XX secolo che causò (a partire dal 1915) un milione e mezzo di vittime nel popolo armeno.

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

LA NUOVA di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 Dove sta il senso della vita di Ferdinando Camon

Grande affetto e grande turbamento ieri mattina, tra la folla che assisteva ai funerali dello studente padovano caduto da un albergo milanese, ma c’era anche dell’altro? Pentimento? Senso di colpa? Noi guardavamo ieri la folla, e guardiamo oggi le foto, esattamente come fa la polizia: cercando di leggere nei volti. Ieri correva la notizia che un po’ alla volta il fronte dell’omertà, tra i compagni di classe e di scuola e di gita di Domenico, si stesse aprendo: che fosse trapelata qualche confessione, e qualche nome. Ma aspettiamo ancora le conferme. Si alludeva a un compagno che avrebbe versato il lassativo nella birra di Domenico, innescando il dramma. Questo compagno, o gruppetto di compagni, se esiste, era ai funerali: guardiamo le foto e ci chiediamo: Chi è? Cos’ha fatto? Cosa voleva fare? Alla domanda «Cos’ha fatto» risponde il funerale: ha causato questa tragedia, la morte di un coetaneo, di 19 anni. L’altra domanda è più delicata e complessa: cosa voleva fare. Se (ragazzo o gruppetto di ragazzi) è qui al funerale (e certamente è qui), non voleva far morire un compagno. Se sapessimo chi è e lo guardassimo in faccia, non vi leggeremmo cattiveria e ostilità, ma incredulità e costernazione. Quel che è accaduto è andato al di là delle intenzioni di chi l’ha compiuto, questo è chiaro, ma anche, lasciatemelo dire, della sua intelligenza, della sua capacità di capire. Se il gesto che ha scatenato il tutto è stato quello di mettere un potente lassativo liquido dentro un bicchiere di birra, non è un gesto scherzoso o goliardico, è un gesto idiota. Nell’idiozia è compreso il sadismo. Il sadismo consiste nel programma di divertirsi alle spalle di un amico che corre in cerca di un bagno libero e non lo trova. Una scena che avrebbe reso indelebile, nel ricordo, quella gita. Le scuole organizzano le gite come occasione d’istruzione, di apprendimento, d’integrazione dello studio, e questa gita all’Expo di Milano, possiamo pure dirlo, non è una cattiva idea. Nonostante le denigrazioni a cui l’han sottoposto, l’Expo resta una grande cosa. Se ne parlerà a lungo. Per i ragazzi, poter dire «io l’ho visto» è un vanto. Bene dunque, questa gita. Ma i ragazzi hanno un’altra idea delle gite, vanno in gita per divertirsi, e divertirsi vuol dire combinarne più che possono. Lo potrebbero pure fare. Qual è il limite? Non devono farsi o fare del male. Hanno superato il limite, questi ragazzi del Nievo? Purtroppo sì. Poteva anche andar bene, e non finire in tragedia, ma era comunque un gesto stupido e pesante. Se sapessimo qual è, il ragazzo o il gruppetto di ragazzi che han versato il lassativo (sempre che questa sia l’ipotesi giusta), e lo guardassimo nelle foto del funerale, vi leggeremmo in faccia l’avvilimento: «Che stupido sono stato!». Essere stupido è una cosa, essere cattivo o violento è un’altra cosa. Questa è negativa moralmente, quella intellettualmente. Il limite intellettuale e culturale si vede anche nel comportamento successivo: ma ragazzi, un vostro compagno è morto per colpa vostra (non dico per vostra volontà), tra voi c’è, a quanto pare, chi sa com’è successo, e non fiata? Non c’è qualcuno che salti fuori a dire: «Sono stato io, volevo fargli uno scherzo, sono un perfetto idiota, chiedo scusa a lui e ai suoi genitori e a tutti»? Siamo qui, noi tutti, a guardare le foto dei ragazzi al funerale, a decifrare il loro sgomento, e ci chiediamo: «A chi tocca fare il primo passo?». Stiamo aspettando. Se qualcuno ha fatto questa cretinata, se adesso lo dichiara la sua vita riacquista un senso. Se no, no.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV In seicento al corteo della Festa della Sensa di Lorenzo Mayer Celebrato l’antico rito dello sposalizio con il mare. Affollate le rive a San Nicolò

«Uno spettacolo, e un panorama, splendido per gli occhi. Mi ha colpito soprattutto questo movimento di popolo veneziano per partecipare alla festa. Mi auguro che questo sia un segnale di ripresa e rilancio anche per la vita dell'intera città. Di ripartenza». Queste le parole del commissario Vittorio Zappalorto a commento della Festa della Sensa 2015 che ieri mattina, nello specchio d'acqua antistante San Nicolò al Lido, ha rinnovato l'antico rito dello Sposalizio di Venezia con il mare. Una tradizione che risale all'anno mille e si rinnova nel giorno dell'Ascensione. Nella presenza del commissario sta racchiusa anche la particolarità della Sensa di quest'anno: senza il sindaco, è toccato a Zappalorto gettare in acqua l'anello quasi a conclusione del suo mandato, a due settimane dalle prossime elezioni amministrative che rinnoveranno il governo della Serenissima. La manifestazione è diventata anche una passerella ideale per i candidati sindaci a caccia di consensi, (Felice Casson, Luigi Brugnaro, che era ai remi nella «peata» in testa al corteo acqueo, Francesco Mario d'Elia, oltre a una nutrita schiera di candidati al consiglio comunale e alla municipalità). La splendida giornata di sole ha favorito un grande bagno di folla: circa cento imbarcazioni, con seicento rematori, hanno dato vita al corteo acqueo. Tutte le remiere della città (una trentina) erano presenti con almeno un'imbarcazione. E, nella chiesa di San Nicolò, è risuonato forte, nel giorno dell'Ascensione, anche il monito del Patriarca, monsignor Francesco Moraglia, che ha presieduto l'Eucarestia, insieme ai sacerdoti e ai fedeli della Comunità pastorale del Lido. Moraglia ha sottolineato nell'omelia il valore della vita. «Questa festa ha detto ci ricorda come la realtà politica, non partitica ma intesa come partecipazione alla vita civica, e la Chiesa, pur nelle diversità del loro ruolo, debbano collaborare insieme per il bene comune». Ad ascoltarlo, in prima fila, il prefetto Domenico Cuttaia e il questore Angelo Sanna. Centinaia di persone assiepate lungo la riviera di San Nicolò si sono godute l'evento, organizzato da Vela, presieduta da Piero Rosa Salva, per conto dell'amministrazione. «Una festa ha sottolineato Rosa Salva che, pur di una tradizione millenaria si conferma di grande attualità. È positivo il fatto che siamo riusciti ad organizzare l’evento mantenendo integro l'intero programma». Il comitato culturale della Sensa ha tenuto alta la tradizione del gemellaggio Adriatico con l'isola di Lesina.

LA NUOVA Pag 9 Il commissario “sposa” il mare. Candidati a sindaco contro i tagli di Giorgio Cecchetti Moraglia canta le canzoni dei gondolieri

Da oltre due secoli il Doge non c’è più, quest’anno neppure il sindaco c’è, ma Venezia ha celebrato egualmente il suo intimo rapporto con il mare, grazie alla Festa della Sensa, attraverso il commissario straordinario. Venezia, con la frase «Ti sposo mare», e il lancio di un anello in acqua, ha rinnovato il suo voto che vale rispetto e protezione reciproca con le acque, secondo una tradizione nata nell'anno mille. Ieri, nell’occasione del giorno dell'Ascensione, a gettare l'anello è stato il commissario Vittorio Zappalorto, nella Bocca di Porto del Lido circondato da decine di barche a remi delle Associazioni Remiere, mentre la messa, officiata dal Patriarca Francesco Moraglia, si è tenuta nella chiesa di San Nicolò del Lido. Quest’anno, però, una nuvola nera proietta la sua ombra proprio sulla relazione tra Venezia e la sua laguna, quella creata dal taglio della misera cifra di 200 mila euro rispetto ai numerosi milioni di “rosso” deciso da Zappalorto e dai suoi per le regate della Stagione remiera 2015, compresa la Storica del 6 settembre. Taglio che ha sollevato contestazioni e polemiche, anche se l’Associazione regatanti si è già rimboccata le maniche per organizzare in proprio la prossima scadenza, la Regata di Sant’Erasmo. Ieri, in barca o dal Lido, c’erano anche alcuni candidati sindaco presenti alla cerimonia. «Si tratta di tagli inaccettabili», sostiene Felice Casson, «il Commissario non si rende conto di quello che vuole la città, a questo punto è meglio che lasci la questione a chi verrà eletto prossimamente». «La festa della Sensa è un'importante occasione per tornare a pensare e rivivere la storia veneziana e le tradizioni di Venezia», afferma Gian Angelo Bellati, «Alla luce delle nostre tradizioni risulta pertanto ancor più incredibile un ulteriore atto contro la cittadinanza da parte del commissario Zappalorto, che vorrebbe tagliare, se non addirittura eliminare, i finanziamenti alle regate e allo sport di Venezia. Si tratta di un insulto alla storia della nostra città e di un gravissimo insulto ai veneziani». Infine, Luigi Brugnaro dichiara: «Quelle della voga e delle regate è una tradizione veneziana che non solo va conservata ma rilanciata. Non ci può essere futuro se non si salvaguarda il cuore della città a partire dall’elemento del legame di Venezia con l’acqua». Ad accompagnare, ieri, l’imbarcazione della «Serenissima», a bordo della quale c’erano il Commissario e il Patriarca, sono state decine di barche a remi delle Remiere: il corteo è partito dal bacino San Marco per raggiungere la Bocca di Porto del Lido, dove si è svolta la cerimonia dello Sposalizio con il mare. Quindi, messa e grande festa a San Nicolò del Lido, dove anche monsignor Francesco Moraglia si è intrattenuto a cantare le canzoni tradizionali dei gondolieri assieme alla gente. Il rito dello sposalizio del mare era stato ideato per commemorare due importanti eventi: il soccorso portato dal doge Pietro II Orseolo alle popolazioni della Dalmazia, minacciate dagli Slavi, il 9 maggio dell'anno 1000, e la stipula, nel 1177, del trattato di pace tra il doge Sebastiano Ziani, Papa Alessandro III e l'imperatore Federico Barbarossa.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 17 maggio 2015 Pag IX In moschea solo attività culturali di Giorgia Pradolin Ma qualche fedele continua ad entrare nella Misericordia per pregare

C'è chi entra e si fa il segno della Croce, chi si toglie le scarpe e si inginocchia a pregare il Corano. All'indomani delle dichiarazioni della Comunità islamica di Venezia e Provincia che ha invitato i propri fedeli a non utilizzare più «The Mosque» come un luogo di culto, regna un po’ di confusione. Alla fine, dopo la richiesta del Patriarcato, l'allontanamento dei musulmani veneziani dall'opera è arrivata, ma solo per quanto riguarda le attività religiose. «Continueremo in sordina solo con le attività culturali precisa il presidente della Comunità Islamica di Venezia Mohamed Amin Al Ahdab finché Prefettura e Comune non si esprimeranno sulla questione. Nel programma erano previsti incontri nel padiglione, corsi per capire la religione islamica e tavole di confronto sull'immigrazione ma per ora restiamo fermi per non urtare la sensibilità di nessuno e riaccendere polemiche». Il tirarsi indietro della Comunità islamica viene definito dal movimento Pax Christi «una grande lezione di pacatezza e civiltà» ma per ora non sembrano esservi cambiamenti nell'installazione: ieri si pregava come nei giorni scorsi. Mustafa e , i due musulmani che ricevono i turisti all'ingresso dell'edificio fornendo informazioni, non se la sentono di impedire i momenti di raccoglimento sul tappeto, ma quando ieri un visitatore tedesco ha chiesto esplicitamente se si poteva ancora pregare, i due si sono guardati allargando le braccia: «Non lo sappiamo». Nel frattempo, la mostramoschea dell'artista Christoph Büchel all'interno della chiesa privata di Cannaregio continua ad esser oggetto di attenzione da parte dei politici: ieri mattina c'è stato un blitz del deputato tosiano Emanuele Prataviera che ora promette un'interrogazione parlamentare per portare la questione lagunare a livello governativo. «Dentro l'installazione afferma Prataviera non ho trovato nessun riferimento alla Biennale». Sulla stessa scia anche Sebastiano Sartori, portavoce di Forza Nuova: «Noi riteniamo che la circolare del Comune che vieta qualsiasi forma di culto nel "padiglione" e l'utilizzo di regole islamiche al suo interno vada rispettata. Ovviamente da parte di queste persone non c'è la volontà di rispettare le regole e la legalità, ma solo arroganza e noncuranza delle leggi». Si muove anche il Comitato Marco Polo a Difesa del Cittadino che ieri mattina ha inviato un esposto/segnalazione per mano del presidente Luigi Corò alle forze dell'ordine, ai Vigili del fuoco, alla Soprintendenza e all'Ulss 12 per verificare che la situazione nell'edificio sia conforme alla normativa vigente in materia di tutela del patrimonio storico e di somministrazione bevande, in quanto all'interno vi è un distributore d'acqua e bibite. Non solo, anche sulla presenza dei tappeti «che non sappiamo cita la segnalazione se essere inifughi» e se l'impianto elettrico sia a norma. «Ieri hanno sistemato scrive Corò allegando una foto una barriera a protezione dell'acqua alta di legno (tavola) sigillata agli antichi marmi con due tipi di "malte" che personalmente ritengo essere con tutta probabilità, una composta componenti chimici ed una con componenti naturali, oggi rimossa anche se ne rimangono evidenti i segni».

Pag XXXV La Biennale e la vicenda della moschea di Franco Miracco

Se fosse almeno riapparso Saddo Drisdi nel padiglione islandese della Biennale, si sarebbero, forse, potuti centrare alcuni sostenibili temi della modernità artistica. Ma chi era Saddo Drisdi? Semplicemente l'ultimo musulmano autorizzato ad essere tale sia dalla Repubblica di Venezia che dall'Impero Ottomano e che scomparve all'improvviso nel 1838, dopo aver lavorato e vissuto a lungo nel Fontego dei Turchi. I veneziani di allora (cioè a dire i bisnonni dei veneziani meno giovani di oggi) gli avevano reinventato il nome chiamandolo Saddo Drisdi. In realtà, si chiamava Sa'dullah Idrisi, e non aveva voluto ascoltare ragione alcuna quando gli fu imposto di andarsene dal Fontego, dato che ormai una lunga storia era per davvero finita. Vale la pena rileggere le orgogliose e venezievolmente identitarie parole con cui Saddo Drisdi prese definitivo e per lui dolorosissimo congedo da Venezia e dal suo Fontego: "Il Fontego esser stato prima dei Pesaro, poi del duca di Ferrara,poi dei Priuli, poi dei Pesaro, poi dei Manin. Ma San Marco aver dato Fontego per casa dei Turchi e mi voler star in Fontego". Se fosse ancora vivo Ennio Concina, grande storico dell’arte e dell'architettura sia bizantina che islamica, ci avrebbe ricordato autorevolmente come nel Fontego potevano essere ospitate più di 300 persone,tra i quali i mercanti di merci molto apprezzate dai veneziani: stoffe di pelo di cammello e di lana mohair. In quell'edificio,unico nel suo genere sul Canal Grande, la Repubblica di Venezia aveva autorizzato la presenza scontata di un Bagno,ma udite, udite anche di una Sala da preghiera, ossia di una Moschea. Ecco perché Saddo Drisdi si era richiamato a San Marco,l'evangelista che aveva dato il Fontego per casa dei Turchi. Che tristezza e che noia allora nel dover assistere ad operazioni di vigilanza comunale, di scartabellate consultazioni di documenti per accertare la sacralità o meno della fu Chiesa dell'Abbazia della Misericordia, ovvero di Santa Maria di Val Verde, di indagini della magistratura, e così via di seguito ampliando la risonanza di una vicenda che nulla ha a che vedere con ciò che s'intende per arte contemporanea,quella vera però. D'altra parte,il silenzio della Biennalegià, perché tutto ciò accade in ambito suo conferma che la Biennale ipertrofica e bulimica degli "eventi collaterali" incontrollati e dei padiglioni stranieri "fai date" diffusi in palazzi e appartamenti in città, si spiega nei termini di una gestione culturale che privilegia il modello Bed and Breakfast o i suggerimenti del mercato dell'arte. Dunque, Biennale come mercato,né più né meno di una qualunque seppur frequentatissima Fiera dell'arte contemporanea;Biennale come B&B ,perché questa è la "missione " vincente negli anni terribili dei milioni di vaganti che sciamano per Venezia illudendosi di essere turisti.Cosi come ,negli stessi termini,alcuni si illudono di essere artisti solo per aver portato delle loro "cose" a Venezia,distribuendole in appartamenti,palazzi e chiese di una città che ha urgente bisogno di ripensare la sua politica e le sue scelte culturali.

LA NUOVA di domenica 17 maggio 2015 Pag 20 "Una lezione di civiltà dalla Comunità islamica" di Marta Artico, c.m. e Vera Mantengoli Pax Christi risponde all'invito dei musulmani a non praticare riti religiosi nella chiesa della Misericordia. Don Pistolato: "Il dialogo c'è sempre stato". Interviene il padiglione islandese: "Quella chiesa è sconsacrata, si può utilizzare per usi profani"

«Vogliamo ringraziare la comunità islamica per l’alta lezione di civiltà che ci ha dato». Pax Christi, punto pace di VeneziaMestre risponde alla nota diffusa venerdì dalla Comunità Islamica di Venezia e provincia, che ha invitato i fedeli, in nome del dialogo e per evitare fraintendimenti, a non praticare riti religiosi all’interno del padiglione islandese, la chiesa trasformata in moschea dall’installazione di Christoph Buchel. «Ci sono gesti che sottolineano i confini invalicabili, altri che aprono agli incontri fecondi, gesti che marcano le distanze e quelli che conciliano identità differenti», scrive Pax Christi. E ancora: «Ci sono i gesti del rispetto e dell'amore disinteressato per la propria città sentita come la città di tutti: sono quelli del primo passo, dell'attenzione sollecita al bene e a volte al turbamento, pur ingiustificato, del prossimo, i gesti gratuiti e nobili della pacatezza fraterna». Sono questi ultimi che il Punto pace riconosce ai fedeli musulmani: «Li abbiamo respirati leggendo le parole che la Comunità islamica dedicato alla propria città chiudendo, con un'alta lezione di civiltà, giorni di pesanti prese di posizione sull'opera artistica del padiglione islandese. Per questo vogliamo ringraziarla, la sentiamo sorella e rinnoviamo l'impegno comune del dialogo interreligioso e interculturale». Il vicario episcopale Don Dino Pistolato, spiega di aver parlato con i portavoce della Comunità e che per lui, il caso è chiuso. «Il dialogo c’è, c’è sempre stato e continuerà». L’eco che si è creato, forzature e amplificazioni sensazionalistiche così come l’aver portato la discussione sul piano della guerra di religione che nulla c’entra – fa capire – fanno solo male alla stessa comunità. «Nessuno si è mai arrabbiato, la stessa Comunità islamica chiede di andare oltre per non alimentare sofferenza. Ribadiamo quel che abbiamo detto sin dall’inizio, che la forzatura dal punto di vista giuridico e artistico c’è stata e rimane. L’artista aveva un obiettivo e l’ha raggiunto». «La Comunità Islamica», riflette il sociologo Gianfranco Bettin, «mi sembra molto ragionevole, migliore dei contestatori, capace di interloquire con la città e di fare dei passi indietro, quindi in sintonia con il Patriarcato nel ragionamento di fondo, ossia il diritto al culto e il diritto ad avere la moschea vera e propria in uno spirito di dialogo, senza forzature». Precisa: «Ci sono figure della Chiesa che hanno da anni un rapporto con la Comunità, la Curia ha sempre coltivato il dialogo interreligioso e spero continui così. Voci stonate ce ne sono state da una parte e dell’altra, ma alla fine il dialogo ha prevalso. La Comunità islamica sta dando un contributo a riportare il confronto su livelli ragionevoli, per uscire dalla mera dimensione di provocazione e riannodare i fili di una richiesta che viene da lontano».

I controlli del Comune continuano. E ogni giorno l’elenco delle irregolarità rilevate dagli agenti della polizia locale e dai tecnici del Comune si allunga. Da una settimana la “Moschea” realizzata all’interno della chiesa di Santa Maria della Misericordia, è un’osservata speciale. Da ultimo viene contestato il fatto che venerdì, per l’ora della preghiera, i responsabili dell’installazione hanno fatto entrare 128 persone. Loro hanno l’autorizzazione di far accedere, contemporaneamente, al massimo 99 persone. Si tratta, infatti, per il Comune, di un’installazione artistica che rappresenta l’Islanda alla Biennale Arte. Venerdì, inoltre, alla sermone del presidente della Comunità islamica islandese erano presenti anche alcuni agenti della polizia scientifica che hanno ripreso l’intera cerimonia. Infatti erano lì per controllare se si registravano episodi di intolleranza verso chi voleva entrare per visitare l’installazione e non per pregare o per ascoltare il sermone. Questo dopo che, sabato 9 maggio, alcuni visitatori non erano stati fatti entrare perché non si erano tolti le scarpe, come previsto quando si entra in un luogo di preghiera musulmano. Mentre si allunga la lista delle infrazioni, quasi tutte amministrative registrate dal Comune, si avvicina il 20 maggio. Si tratta della data ultima, entro la quale gli organizzatori devono fornire al Comune il nulla osta della Chiesa veneziana, sul fatto che all’interno dell’edificio si possono organizzare attività aperte al pubblico che siano profane. In sostanza che la Chiesa di Santa Maria della Misericordia è una chiesa sconsacrata. Nullaosta che dovrebbe avere la proprietà, una società di Monza. Quella che si apre domani è la settimana decisiva per la Moschea realizzata all’interno della chiesa della Misericordia. Infatti il Comune presenterà il conto a chi ha allestito il padiglione che a questo punto rischia la chiusura. Anche se in molti opterebbero per una soluzione meno drastica.

La chiesa di Santa Maria della Misericordia è stata ufficialmente sconsacrata e venduta il 28 marzo 1973. La firma del documento è dell’allora Patriarca Albino Luciani che, nel 1978, divenne Papa Giovanni Paolo I. Allo scadere del termine (20 maggio) imposto da Ca’ Farsetti al Padiglione Islandese per la consegna dei documenti necessari a tenere aperta l’esposizione «La Moschea» dell’artista Christian Büchel, il Ministero dell’Educazione, della Scienza e della Cultura islandese ha fornito la propria spiegazione sulla vicenda, fornendo alcuni documenti. Il primo dimostra che la chiesa in questione è stata venduta e «chiusa al culto» con possibilità «di essere destinata a usi profani». Lo ha fatto andando a recuperare il decreto in cui si attesta che «la Provincia Lombardo Veneta dei Servi di Maria, non potendo conservare al culto di Venezia la Chiesa denominata Santa Maria della Misericordia e avendone pertanto decisa l’alienazione a mezzo del suo Rev.mo Padre Provinciale, dichiara che il ricavato servirà a fare fronte ai debiti che gravano l’amministrazione provinciale». L’Islanda ha inoltre un documento in cui si attesta la destinazione d’uso dell’immobile che può essere: «musei, sedi espositive, biblioteche, teatri, sale di ritrovo, attrezzature religiose». «Il Padiglione Islandese – si legge in un documento – è un’esposizione di arte pubblica, aperta a tutti, con il vessillo della Biennale di Venezia, presente in un edificio privato conosciuto come Chiesa di Santa Maria della Misericordia. Secondo le leggi del Comune, è completamente legale per le persone di qualsiasi religione (esempio Musulmani) esercitare un culto nelle esposizioni di arte pubblica». Se quindi il rischio che si trattasse di una chiesa ancora consacrata sembra essere stato fugato, rimane però ancora in sospeso la questione del luogo di culto che va al di là del semplice esercizio di preghiera. Venerdì scorso, giorno di festa per i musulmani, un centinaio di fedeli si è presentato infatti per il sermone dell’Imam islandese Alì. Dimostrando che l’immobile viene utilizzato come una moschea. «È illegale – ha detto l’onorevole Emanuele Prataviera che ieri mattina si è recato sul posto, esigendo spiegazioni da qualche responsabile – perché allora significa che da domani si possono creare moschee in ogni luogo che si spaccia per esposizione. Farò un’interrogazione parlamentare». Oltre quindi all’autorizzazione della Prefettura, mancano ancora la Scia (segnalazione certificazione inizio attività) da portare al Comune e il problema dei bagni realizzati senza permesso.

IL GAZZETTINO di sabato 16 maggio 2015 Pag 10 Moschea a Venezia: preghiere, anzi no di Paolo Navarro Dina I musulmani si sono radunati nel padiglione nella chiesa di Santa Maria della Misericordia. Il documento: “Non andateci più, per noi non è un luogo di culto”

L’invocazione "Allah Akbar" intonata dal cantore all’inizio della preghiera è stata ricca di suggestioni. Parole che hanno risuonato in tutta la sala grazie agli altoparlanti. Nel giorno di venerdì, dopo giorni di polemiche e anche di proteste, la chiesa di Santa Maria della Misercordia è diventata veramente una moschea. Un separè tra maschi e femmine, spuntato dopo giorni nella grande navata, ha certificato, con un ulteriore dettaglio, come l’edificio religioso realizzato nel XII secolo sia diventato, in tutto e per tutto, una moschea. La prima a Venezia dopo secoli. Solo la Storia ricorda che, forse, nel Fondaco dei Turchi c’era un luogo di preghiera islamico. Ma qui tutto è stato uniformato a qualsiasi altra moschea nonostante sia (o dovrebbe essere) il padiglione nazionale dell’Islanda alla Biennale Arte. Il Minhab, l’altare verso La Mecca, il tempo della preghiera scandito da alcuni orologi, le luci circolari, il pergamo per il sermone. E soprattutto loro: i fedeli. Ci sono bengalesi, egiziani, marocchini, algerini, qualche italiano convertito. Gente che sbarca il lunario: chi fa il venditore ambulante; chi il lavapiatti o il cameriere. C’è il magazziniere o il piccolo impresario edile. Tutti qui a pregare nonostante il Comune ne abbia espresso il divieto e lo abbia comunicato con nota scritta. Documento che fino all’altro giorno era esposto nella bacheca all’ingresso e che ieri è stato tolto. E tra i fedeli ieri, forse raccogliendo l’invito del Patriarcato di Venezia a non essere strumentalizzati, non si sono fatti vedere i rappresentanti ufficiali della Comunità islamica di Venezia che hanno la loro aula di culto a Marghera. In un comunicato ufficiale hanno preso le distanze spiegando che non possono impedire ai musulmani di pregare, ma che non considerano l’installazione una vera moschea. E chiedono ai loro aderenti di non praticare più alcun rito religioso nel padiglione islandese. Ma per ora chi ci è andato si dichiara felice: «Questa ex chiesa è tornata ad essere un luogo di culto dice Abou . Ed è bello. Venezia è città dell’accoglienza, è multireligiosa ed è patrimonio dell’Umanità. E sarebbe giusto che a noi musulmani venisse concesso un luogo per pregare». Lui, senegalese, 40enne, in Italia da quando ne aveva venti. É un piccolo imprenditore edile, sposato con un’italiana, ha una figlia. ««É un luogo di culto spiega Nabir, arrivato dall’Algeria quindici anni fa, che ha moglie e tre figli Venezia è città di tutti. In Italia ho trovato un senso di ospitalità speciale». In un angolo si vendono oggetti sacri, libri e opuscoli in italiano e arabo. E anche bussole per rivolgersi alla Mecca. Al termine, tocca all’Imam Ibrahim Sverrir Agrasson, declamare il sermone. «Islam e Cristianesimo ha detto sono religioni di pace. I politici e i fanatici hanno sempre usato la religione per i propri scopi politici. La cosa più importante di questo allestimento è che i musulmani di Venezia hanno un luogo dove pregare. Genti e popoli differenti possono vivere in pace e armonia, ma diciamo anche che i politici e i fanatici devono tenere la lingua e le mani a posto». Poi l’ultima invocazione al Misericordioso e i fedeli si sono salutati e abbracciati l’uno con l’altro. Salam Aleikum.

A consigliare l’artista Christoph Buchel nella realizzazione di «The Mosque» era stata la Comunità islamica di Venezia e provincia. Che però non pregherà più all'interno dell'installazione e ha invitato i suoi aderenti a non farlo. Ieri mattina, nel padiglione islandese nella chiesa di Cannaregio, la rappresentanza della comunità islamica veneziana non era presente. La preghiera era stata affidata a un imam fatto venire dall’Islanda. Ormai la questione procede a suon di «note» tra le comunità religiose, con quella islamica che si esprime tramite il presidente Mohamed Amin Al Ahdab: «fornire all'artista le informazioni corrette relative agli aspetti tecnici necessari perché l'opera rispondesse a una rappresentazione rispettosa e pienamente coerente ai dettami della nostra fede». I musulmani di Venezia riconoscono la bellezza dell'opera elogiando l'artista e ringraziando gli islandesi, ma si dichiarano anche consapevoli che l'installazione è limitata nel tempo «e di conseguenza non viene considerata dalla Comunità come vera e propria Moschea.» Le preghiere nel padiglione degli ultimi giorni sono state frutto di «spontanee manifestazioni di sentimento religioso» che però, non si ripeteranno. «Nel rispetto della città di Venezia dei buoni rapporti con la comunità tutta e per tranquillizzare le coscienze dei cittadini la Comunità islamica si impegna a chiedere ai propri aderenti che vi si recassero di non praticare più alcuna rito religioso nel padiglione islandese, a evitare fraintendimenti e strumentalizzazioni, che invece di favorire il dialogo interreligioso in città, lo inquinano. Chiediamo al contempo ai visitatori il dovuto rispetto all'opera, che riveste per noi un alto valore artistico e simbolico».

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 16 maggio 2015 Pagg II III L’imam “sfida” anche il divieto islamico di Paolo Navarro Dina e Giorgia Pradolin La Comunità chiede lo stop alle preghiere nelle moschea, ma il rito del venerdì si è svolto comunque. Testi religiosi e filosofici e bussole per La Mecca nel banco all’ingresso. Donne e uomini separati, tolta la circolare del Comune

Non c’è dubbio fa un certo effetto. Il cantore con la barba folta che, con il microfono in mano intona i versetto scandendo "Allah Akbar" (Dio è il più grande) tra le colonne in marmo, gli altari trasformati con alcuni paramenti che riportano alcuni versetti coranici. E poi gli scudi con le scritte rigorosamente in verde scuro "Dio è misericordioso". E poi oltre cento, 140 musulmani, molti dei quali residenti da oltre vent’anni in città e in provincia. Sul viso di tanti l’orgoglio della preghiera, il timore di dire una parola di troppo che potrebbe essere male interpretata. Già, perché la preghiera del venerdì, nella moschea del padiglione islandese della Biennale, ieri si è tenuta comunque. Malgrado la circolare del Comune che proibisce di considerare la chiesa non un luogo di culto. E malgrado la nota della Comunità islamica di Venezia e della provincia che ieri mattina è stata chiara: «Nel rispetto della città di Venezia, dei buoni rapporti con la comunità tutta e per tranquillizzare le coscienze dei cittadini recita una nota la Comunità Islamica si impegna a chiedere ai propri aderenti che vi si recassero di non praticare più alcuna rito religioso nel padiglione islandese, ad evitare fraintendimenti e strumentalizzazioni, che invece di favorire il dialogo interreligioso in città, lo inquinano. chiediamo al contempo ai visitatori il dovuto rispetto all’opera, che riveste per noi un alto valore artistico e simbolico». Un altolà alle preghiere, dunque. Con la consapevolezza che ogni fuga in avanti sarebbe pericolosa, tanto che nella stessa nota, riferendosi all’opera "The Mosque" dell’artista Christoph Buchel, pur apprezzandone il valore artistico, si precisa che «la Comunità Islamica è cosciente che quest’opera d’arte è limitata nel tempo e di conseguenza non viene considerata dalla Comunità come vera e propria moschea; e le preghiere che sono state svolte nel padiglione, sono state il frutto di una spontanea manifestazione di sentimento religioso favorita dalla bellezza ed evocativita dell'opera, nonché espressione di gratitudine per l'attenzione ed il rispetto tributato alla nostra comunità da un paese amico». Una giornata "bifronte" dunque, quella di ieri, dove da una parte si sono registrate le prese di posizioni chiare e nette delle istituzioni (Comune e Comunità islamica, che si sono aggiunte alla nota del Patriarcato dei giorni scorsi) e dall’altra una sorta di "fuga in avanti" degli organizzatori della mostra. Resta da capire ora cosa accadrà nei prossimi giorni, con la scadenza dell’ultimatum per la messa in regola dal punto di vista amministrativo (il 20 maggio), la presumibile relazione della Digos presente ieri in moschea a filmare ogni gesto e, soprattutto, di fronte a questi altolà perentori. Intanto dalle 13 la preghiera si è snodata come se nulla fosse. Tra i fedeli c’erano magazzinieri algerini, lavapiatti bengalesi, operai della Fincantieri che arrivano dall’Egitto, siriani emigrati quando non c’era la guerra civile, venditori ambulanti del Marocco. Sembrava quasi di essere all’Onu del mondo islamico, con tanto di merchandise: in un angolo un distributore di "Mecca Cola", l’alternativa araba alla Coca Cola, mentre nel presbiterio, è stata installata una fontana per le abluzioni. In un’altra zona ancora, una sorta di negozietto con una serie di oggetti in vendita (come riferiamo qui sopra). Al termine della preghiera e le ultime invocazioni, è toccato all’imam Alì (al secolo Ibrahim Sverrir Agrasson, islandese musulmano) declamare il sermone. «Islam e Cristianesimo ha detto in inglese anche con un pizzico di emozione sono religioni di pace. I politici e i fanatici hanno sempre usato la religione per i propri scopi politici. La cosa più importante di questo allestimento è che finalmente i musulmani dell’area di Venezia hanno un luogo dove pregare. Genti e popoli differenti possono vivere in pace e armonia, ma diciamo anche che i politici e i fanatici devono tenere la lingua e le mani a posto». Ma quel luogo per pregare, stando alla Comunità islamica, non può durare a lungo.

In un angolo all’esterno dell’area di culto, c’è anche un negozietto. Un banchetto ricco di pubblicazioni religiose, ma anche di oggetti religiosi. C’è anche un cofanetto con bussola incorporata che arriva dalla moschea di Al Aqsa a Gerusalemme che consente ad ogni fedele, dovunque si trovi, di poter rivolgere verso La Mecca. E tanti opuscoli. A due euro in italiano e arabo si può acquistare "I Cristiani nel Corano". Poco più in là un manualetto su "Come si assolve la preghiera islamica"£, stampato da una casa editrice di Imperia per il costo di tre euro e poi "Le regole del diritto islamico". Giochi didattici per bambini "Who is Allah?", una sorta di "trivial pursuit" in versione islamica e album da colorare con le immagini del deserto. E poi tappetini con le principali moschee del mondo islamico, ritratti di personaggi famosi dell’Islam antico e recente come il poeta Ibn Battuta o il filosofo Avicenna (Ibn Sina)

Donne da una parte, uomini dall'altra. Separati da un divisorio per non guardarsi durante la preghiera. Mai come ieri nella Chiesa della Misericordia sono stati applicati tutti i crismi della religione islamica: venerdì scorso, all'inaugurazione di "The Mosque", i fedeli erano numerosi, ma con loro, sul tappeto rivolto verso la Mecca e il Mihrab, c'erano anche turisti, veneziani e curiosi. Nessun confine tra uomini e donne, né tra fedeli e visitatori. Perché pur sempre di un padiglione della Biennale si tratta. Ieri invece, in occasione del venerdì islamico (giorno in cui i musulmani si recano alla moschea per le preghiere pubbliche dette Jumùah) si doveva restare divisi, e solo chi era intenzionato all'orazione avrebbe dovuto salire sul tappeto. Tanto che la curatrice della mostra, Nina Magnusdottir, ha invitato i giornalisti a rimanere fuori dall'area di preghiera. Una questione di rispetto, insomma, dove non era più sufficiente togliersi le scarpe per accedere. Nel frattempo, ieri dalla bacheca della chiesa era sparito l'ultimo dei tre fogli della circolare del Comune, quello che imponeva il divieto di utilizzo del padiglione come luogo di culto. Tra i fedeli, anche il presidente della Comunità musulmana islandese Ibrahim Sverrir Agnarsson che non comprende le polemiche degli ultimi giorni. «Moschea è solo il nome dell'opera, questo luogo non lo è, ma per l'Islam "tutto il mondo è una moschea" e si può pregare ovunque. Serve forse un'autorizzazione per farlo?». Tra le donne con il velo inginocchiate dietro il paravento Jamila, tunisina di 52 anni, e Maha, egiziana, che proprio ieri compiva 42 anni. Vivono entrambe nel centro storico veneziano e per loro è scomodo andare fino alla moschea di Marghera. «Per venire qui stamani ha spiegato Jamila ho chiesto un permesso a lavoro. A Venezia manca una moschea e per noi, che non abbiamo parenti e famiglia qui, è anche un luogo in cui trovare un po’ di conforto, dove pregare e sfogarsi, piangere a volte». «Sappiamo che si tratta di un'opera temporanea aggiunge Maha inginocchiata davanti al libro del Corano e delle polemiche, ma sarebbe sbagliato salire con le scarpe sul tappeto, si rovinerebbe. E finché la chiesa sarà aperta e accessibile, verremo a pregare il venerdì che per noi è un giorno di festa». E mentre Ali, l'imam islandese, esponeva il proprio intervento, alcuni fedeli si recavano nella stanza adibita a lavatoio per sciacquarsi mani e piedi, anche se nel foglio scomparso dalla bacheca c'era anche il "divieto di utilizzo da parte del pubblico delle strutture denominate "trono" e "lavatoio".

Pag XV Una passeggiata artistica tra Aquae e il polo tecnologico di m.dor. Inaugurazione con il Patriarca di “Primo Ramo”

Giornata d'inaugurazioni per il Vega. Ieri è stata la giornata della chiesetta di Santa Maria del Rosario, appena restaurata, dove ieri il patriarca Francesco Moraglia è tornato a celebrare messa, benedicendola e affidandola ai frati francescani. Il patriarca ha colto l'occasione anche per benedire e visitare il padiglione di Expo , distante pochi metri. «Un piccolo seme per guardare oltre», ha detto il patriarca, che finita la celebrazione ha incontrato anche Annamaria Cremasco e Giancarlo Gambini, che 53anni fa si sposarono proprio in quella chiesa. La giornata era iniziata con il taglio del nastro di Primo Ramo, il percorso espositivo ideato da Andreas Kipar per unire il Vega al padiglione che ospita «Aquae». Un progetto per dare anche un'immagine diversa del Vega, più verde e colorato, e più a misura di città. Ad esempio è stata pedonalizzata (parzialmente) la strada interna che porta ai padiglioni Lybra e Antares. L'asfalto è stato colorato in modo sgargiante e le vecchie strisce blu hanno lasciato posto a piccoli alberi in vaso. Un lungo boulevard che va dalla piazza sopraelevata di Auriga per l'occasione abbellita con le installazioni fatte in Lisotech al padiglione che ospita la collaterale dell'Expo. Nel mezzo anche la bella mostra italocinese «Across Chinese Cities» di Beijing Design Week e Dontstop architettura, gratuita e aperta (giovedìdomenica) dal 16 maggio al 31 ottobre, nella quale si può ammirare il plastico 3D più grande del mondo, realizzato dalla veneziana FabLab.

LA NUOVA di sabato 16 maggio 2015 Pagg 20 – 21 Cento fedeli alla preghiera di venerdì di Vera Mantengoli e Marta Artico “Basta riti religiosi in quel padiglione”: l’invito della comunità islamica ai propri fedeli

«Molti musulmani che abitano a Venezia hanno bisogno di un posto decente dove pregare, mentre tante chiese sono vuote. Genti con differenti credo e culture possono e devono vivere in pace. Politici e fanatici devono tenere la lingua e le mani a posto». È iniziato così il discorso dell’Imam islandese Alì, ieri alle 13.45 all’interno dell’opera «La Moschea» al Padiglione islandese della Biennale, in occasione del Venerdì, il giorno di festa dei musulmani. Il sermone è stato pronunciato prima in lingua araba, poi inglese e, infine italiana, grazie alla traduzione di un convertito all’Islam. Se c’era ancora qualche dubbio che l’opera di Christian Büchel venisse usata anche come luogo di culto, ieri la risposta è stata evidente. Un centinaio di fedeli si sono infatti presentati all’appuntamento, incluse una decina di donne che hanno pregato a lato degli uomini, separate da un paravento. Tra loro anche Anahid, una ragazza palestinese in vacanza che, cercando su Google “moschea a Venezia” era stata indirizzata sul posto. A parte qualche turista di passaggio, non c’erano invece veneziani, né contestatori all’esterno. Prima dell’inizio della celebrazione, la curatrice del Padiglione Islandese Nina Magnusdottir, ha intimato ad alcuni giornalisti di uscire per rispetto dalla zona delimitata. Ma a chi è rimasto non è poi stato chiesto di uscire. I tappeti verdi decorati di giallo erano pieni di fedeli scalzi che cantavano e pregavano, inginocchiandosi in direzione della Mecca. Qualcuno indossa un copricapo, tutte le donne il hijab, il velo che lascia il viso scoperto. Anche loro eseguono gli stessi movimenti degli uomini, inchinando la testa verso terra più volte. L’Imam islandese Alì, vestito con una lunga tonica écru e un grigio, entra e si posiziona sul minbar, il pulpito. «Allah dice: vi ho fatti diversi affinché vi possiate conoscere. La cura migliore contro il pregiudizio è conoscersi. Spesso le cose meravigliose accadono. L’ignoranza e l’odio diventeranno rispetto e amicizia». Tra il pubblico molti musulmani veneziani: «Nostro padre è egiziano e nostra madre veneziana» raccontano i due fratelli lidensi Elwalid e Elsayed Hassouna di 21 e 23 anni, uno diplomatosi al Tecnico navale e l’altro al Liceo artistico «siamo felici di essere qui. In genere ci mettiamo sempre oltre un’ora ad arrivare a Marghera, e con lo sciopero saremmo dovuti partire prestissimo. Per noi è un orgoglio che le persone vengano qui per vedere cosa facciamo». Il presidente della comunità musulmana islandese, Ibrahim Sverrir Agrarsson, continua a ribadire che è un’opera, all’interno della quale si prega: «Non capisco questa polemica» ha detto «questo è uno dei posti più belli d’Europa, è chiuso al culto cristiano e ogni giorno tante persone vengono qui a chiedere che cos’è una Moschea. Non ci vedo proprio nulla di male».

«Nel rispetto della città di Venezia, dei buoni rapporti con la comunità e per tranquillizzare le coscienze dei cittadini, la Comunità Islamica si impegna a chiedere ai propri fedeli di non praticare più alcun rito religioso nel padiglione islandese, ed evitare fraintendimenti e strumentalizzazioni, che invece di favorire il dialogo interreligioso in città, lo inquinano. Chiediamo al contempo ai visitatori il dovuto rispetto dell’opera, che riveste per noi un alto valore artistico e simbolico». È stato un passo sofferto quello della Comunità Islamica di Venezia e Provincia, che ieri ha diffuso un messaggio indirizzato alla città e alla comunità internazionale, per evitare che ci sia chi trasforma un Allahu Akbar, che significa semplicemente “Dio è grande”, o un semplice gesto di lode, in qualche cosa di diverso. Da qui anche la scelta, visto che alcuni punti ancora non sono stati chiariti da parte dell’organizzazione, di evitare riti religiosi quali la preghiera del venerdì, senza limitare invece le iniziative prettamente culturali e scolastiche, come quella di domani, quando i bambini della scuola della comunità andranno in visita alla chiesamoscheapadiglione. La Comunità assicura «che il suo ruolo è stato quello di fornire all’artista le informazioni corrette relative agli aspetti tecnici necessari perché l'opera rispondesse ad una rappresentazione rispettosa e pienamente coerente ai dettami della fede e riconosce all’artista, a opera compiuta, una superlativa capacità realizzativa, meritevole di elogio». Non solo. «Siamo coscienti» scrive il direttivo «che quest’opera d’arte è limitata nel tempo e di conseguenza non viene considerata dalla Comunità una vera e propria Moschea, le preghiere che sono state svolte nel padiglione sono state il frutto di una spontanea manifestazione di sentimento religioso favorita dalla bellezza ed evocatività dell'installazione, nonché espressione di gratitudine per l'attenzione e il rispetto tributato alla nostra comunità da un Paese amico». Ancora. «La collaborazione con l’artista, di cui siamo orgogliosi, aveva anche lo scopo di favorire quel dialogo che ogni giorno nasce e che però spesso si spegne». Da qui la richiesta di circoscrivere le espressioni prettamente religiose per non in correre in distorsioni. «Come Comunità siamo da sempre impegnati a promuovere la legalità, la solidarietà e la partecipazione attiva alla vita pubblica della città che abbiamo eletto a nostra casa comune e della quale facciamo parte a pieno titolo, da cittadini italiani, contribuenti, lavoratori, professionisti, imprenditori e genitori che guardano con amore al futuro di questa città unica al mondo». Il direttivo non perde la speranza che un “miracolo” del dialogo possa ancora compiersi. «Facciamo appello alle istituzioni e alle forze migliori della società civile veneziana perché insieme sappiamo cogliere la sollecitazione ad essere all'altezza di un grande compito culturale e di pace che Venezia ha svolto ed è chiamata a svolgere in un mondo segnato dai conflitti nelle società complesse e multiculturali». Low profile, finché il nodo gordiano non sarà sciolto.

Pag 31 Chiesetta Mattei come nuova, tra percorsi verdi e divanetti di g.co.

Rinnovata la terrazza di piazza Auriga, riqualificato il tratto di strada interna che conduce in via dell'Industria e, soprattutto, restaurata la piccola chiesa della Madonna del Rosario, proprio all'angolo con la trafficata via della Libertà: l'intervento sul cosiddetto “primo ramo” del parco scientifico e tecnologico Vega, a cavallo tra Mestre e Marghera, è finalmente concluso e ieri mattina, per inaugurare il nuovo altare, è arrivato a officiare messa il patriarca, Francesco Moraglia, accompagnato per l'occasione dal sottosegretario del ministero dell'Economia, Pier Paolo Baretta, e dall'amministratore di Vega, Tommaso Santini. Erba verde e divanetti sagomati come onde spuntano ora dalla zona rialzata che connette gli edifici del gruppo Lybra e la torre centrale, mentre il tratto di strada che passa proprio di fronte ai palazzi Pegaso e Antares, oltre a divenire area semipedonale, ha guadagnato alberi e colore; proprio all'interno di Antares, poi, trovano spazio eventi ed esposizioni collaterali ad Expo 2015, in un percorso ideale che conduce al padiglione Aquae. Fiore all'occhiello dell'intervento, però, è proprio la chiesetta voluta da Enrico Mattei in ricordo delle vittime del lavoro di Porto Marghera: da anni sepolta dalle macerie, la piccola chiesa senza campanile ha ritrovato il suo splendore: i muri bianchi e il legno grezzo dell'ingresso appaiono in linea con i francescani che ora l'avranno in gestione, e l'edificio ha guadagnato una nuova finestra proprio alle spalle dell'altare, un'apertura che permette di vedere l'alto crocifisso di legno piantato nel giardino sul retro in un gioco prospettico che termina sul muro opposto, dove si trovano invece i nomi dei tanti lavoratori deceduti nelle fabbriche veneziane.

CORRIERE DEL VENETO di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 Arte e islam, la terza via di Massimiliano Melilli La chiesamoschea di Venezi

Arte e religione non sono un binomio facilmente digeribile. Ai giorni nostri la questione si complica ulteriormente, se di mezzo c’è l’islam. Meglio. Dietro l’angolo c’è quasi sempre una distorta percezione del rapporto islamcattolicesimo. Ora, se in un ambito già fragile di suo, si aggiunge un carico da novanta come la Biennale, dove ontologicamente e in nome dell’arte libera e ad ogni costo, tutto (e tutti) sono consentiti, ecco deflagrare il caso esplosivo. Come la performance di Christoph Buchel, che ha riadattato la Chiesa di Santa Maria della Misericordia, a Venezia, in moschea. Nella miopia degli opposti schieramenti opera d’arte o provocazione si tralascia la terza via possibile. La stessa che pragmaticamente Alessandro Baschieri nel suo blog ha definito «furbata». Alla resa dei conti il tema centrale è il rapporto islamarte. Anche l’arte islamica è da sempre influenzata da considerazioni sulla rappresentazione che gli uomini esprimono di Dio. Attenzione però. E’ fuorviante, se non falso, sostenere che la tradizione islamica abbia sempre proibito l’arte figurativa. Il mondo islamico vanta una millenaria tradizione di manoscritti e opere, escluso il Corano e altri lavori meramente religiosi. Sebbene il Corano non contenga un esplicito divieto nei confronti di tali opere, tra gli studiosi musulmani si è sviluppato un atteggiamento in gran parte di ostilità verso ogni sorta di immagine raffigurativa. Tale postulato si basa su una tesi: la rappresentazione di esseri viventi, costituisce una sfida al genio creativo che solo Dio possiede. Ancora. Sura è «immagine», «forma», «modello» mentre taswir è «pittura», «ritratto». L’islam assume la proibizione delle immagini dall’ebraismo, per il quale il volto è immagine di Dio. Altro particolare: il divieto è fondato dagli scrittori arabi sul Corano ma in realtà, nelle Sure, sono citati solo i principi generali che giustificano l’obbligo di non fare immagini ma non esiste la forma positiva. Poiché Allah è il grande «modellatore o formatore» di immagini avendo creato l’uomo, colui che modella immagini pretende di imitarlo ed è passibile di punizione. Idealmente e in astratto, è lo stesso profilo di Christoph Buchel. Secondo il Corano, anche le case che contengono immagini, cani e persone «ritualmente impure, sono evitate dai fedeli e dagli angeli della misericordia». Non è proibita invece «la copia di alberi, selle di cammelli e di altre cose non viventi». Anche qui serve un distinguo. Nonostante il rigorismo di fondo, il mondo musulmano ha frequentemente infranto la norma. Si pensi alle celebri miniature dei manoscritti turchi e persiani o alle immagini di Maometto, con o senza rappresentazione del volto, usate correntemente.

Pag 5 Moschea piena per la preghiera. La comunità islamica: ora basta riti di Alice D’Este

Venezia. Hanno pregato. Con le donne nella zona «riservata», separate da un paravento. E gli uomini, un centinaio, di là a pochi passi simbolici, radunati per la preghiera del venerdì nella «moschea» di Venezia, pensata per la Biennale arte da Christoph Büchel. I fedeli c’erano, mancavano invece le autorità della comunità musulmana veneziana. Un segnale forte che si è chiarito solo qualche ora più tardi. «Nel rispetto della città di Venezia recita il comunicato della comunità dei buoni rapporti con la comunità tutta e per tranquillizzare le coscienze dei cittadini la comunità islamica si impegna a chiedere ai propri aderenti che vi si recassero di non praticare più alcuna rito religioso nel padiglione islandese, ad evitare fraintendimenti e strumentalizzazioni, che invece di favorire il dialogo interreligioso in città, lo inquinano». Una frenata decisa, dopo la querelle dei giorni scorsi che non ha ancora visto i titoli di coda. La prossima settimana scade il conto alla rovescia per la presentazione dei permessi ovvero la «documentazione dell’effettiva riduzione ad uso profano dell’edificio già adibito al culto» e l’adeguamento alla Scia (segnalazione certificata di inizio attività) presentata dall’artista per «mostra espositiva privata» e non per «luogo di culto». «Il ruolo della comunità musulmana si legge ancora nel comunicato è stato unicamente quello di fornire all’artista le informazioni corrette relative agli aspetti tecnici necessari perché l’opera rispondesse ad una rappresentazione rispettosa e pienamente coerente ai dettami della nostra fede – recita il comunicato della comunità – siamo coscienti che quest’opera d’arte è limitata nel tempo e di conseguenza non viene considerata come vera e propria Moschea. La collaborazione con l’artista, di cui siamo orgogliosi, aveva anche lo scopo di favorire quel dialogo che ogni giorno nasce e che però spesso si spegne». Ieri mattina, intanto, nella moschea di Venezia si pregava. Dietro quello che un tempo era l’altare della chiesa della Misericordia c’è il lavatoio (per i piedi). E lì era un via vai continuo anche durante l’«Allah Huakbar», l’invocazione che da inizio alla preghiera. «Tutte e due le religioni, sia quella cristiana che quella musulmana sono religioni di pace – dice al microfono Alì, l’imam islandese non è la religione il problema sono i politici e i fanatici che rovinano queste cose, che usano la religione per i loro scopi personali. Molti musulmani vivono a Venezia e volevano solo un luogo in cui pregare. Questo spazio era l’ideale. Vogliamo vivere in pace, del resto non ci interessa». La preghiera è iniziata in ritardo, per la folla fedeli, giornalisti, curiosi, poliziotti in borghese. «Non è il luogo che conta – ha detto Ibrahim Sverrir Agnarsson, presidente della comunità musulmana islandese – un musulmano può pregare ovunque. I veneziani sono molto aperti e positivi nei nostri confronti, come fanno le amministrazioni a proibire alle persone di pregare? Molti dei presenti oggi non sono musulmani – ha detto l’imam – è una cosa insolita ma vorrei che fosse presa come punto di partenza. Vorrei che fosse un luogo per incontrarci, questo, per vivere in pace e farci conoscere».

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8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO di domenica 17 maggio 2015 Pag 5 Il vescovo e la lettera per la candidata di Zaia: "Io frainteso, scusatemi" di Davide Orsato Mons. Zenti dopo le polemiche: "L'ho ritirata per senso di responsabilità ma contro di me è in atto una guerra"

Verona. «Davvero non mi aspettavo reazioni del genere. Avessero almeno letto la mia lettera e capito quello che davvero ho scritto». C’è delusione e abbattimento nelle parole del vescovo Giuseppe Zenti, al centro di una polemica senza precedenti nei suoi otto anni di incarico nella Chiesa veronese. A scatenare il tutto una lettera inviata a parroci e insegnanti di religione e è emerso ieri anche ad altro «personale» della diocesi, come le persone impegnate nella Caritas. Lettera che, va sottolineato, è durata lo spazio di una mezza giornata visto che già nella serata di mercoledì un’altra mail, sempre proveniente dagli uffici della Curia, ha avvertito i destinatari di «non tenere conto» della missiva. Il contenuto della lettera era, in tutti gli effetti, un «endorsement», un appoggio a Monica Lavarini, personalità molto attiva nella diocesi (fa parte del Simposio dei Laici) e tesserata Lega Nord, ma che si candiderà alle regionali con la lista civica di Luca Zaia. «Voglio sperare che nessuno pregiudizialmente mi giudichi “schierato” aveva scritto il vescovo nei confronti della dottoressa Monica Lavarini. Data però la posta in gioco, ne condivido il programma che ha elaborato da sola, imperniato sulla difesa dei diritti delle famiglie in difficoltà, cioè sul sociale debole e sulle scuole cattoliche». La conseguenza è stata una pioggia di repliche, anche forti, proveniente da tutto il mondo politico. Monsignor Zenti, aveva messo in conto reazioni del genere? «Assolutamente no, molte le ho trovate esagerate e infondate. Il mio obiettivo era chiaro: volevo solo alzare l’attenzione su due questioni che ne hanno disperatamente bisogno. Il sociale debole, per l’appunto, e le scuole cattoliche. Due realtà spesso ignorate e trattate malissimo nel corso degli ultimi anni. Si parla di persone con gravi handicap, di bambini, bambine, ragazzi e ragazze autistici. Non mi sembrano cose da sottovalutare, né capisco da dove possa nascere tanta indignazione quando si toccano argomenti del genere» Lei ritiene di aver lanciato una candidatura? «Per niente. La candidata che avevo segnalato ripeto segnalato, si è candidata da sola. Non ho fatto altro che leggere il programma e, dato che lo condividevo, ho fatto presente a persone che operano nella Chiesa, che esisteva. Come detto nelle ultime ore sono pronto a discutere e a segnalare altri candidati pronti ad impegnarsi sugli stessi fronti». Finora la Regione si è comportata bene nei confronti del sociale debole e delle paritarie? «Direi proprio di no. Ci sono molte lacune e le scuole cattoliche, soprattutto le materne, sono a rischio chiusura, pur offrendo un servizio insostituibile per la comunità». La segnalazione è arrivata per una candidatura a sostegno di Zaia. Non si tratta di un appoggio in vista di una continuità politica? «Ripeto: si è trattato di un gesto completamente svincolato dai partiti. L’avrei fatto per qualsiasi altra persona in qualsiasi altra lista. Il programma di Lavarini è ben diverso da quanto è stato fatto negli ultimi anni». Cosa l’ha spinta a ritirare la lettera il giorno stesso? «Sono state ricamate ipotesi prive di fondamento. Si è vociferato di pressioni che non ci sono state. È accaduto semplicemente che la lettera sia stata divulgata nel giro di poche ore nonostante fosse strettamente riservata. Ho capito che clima si stava creando. Ritirarla è stato un gesto di responsabilità nei confronti della comunità». Sente di dovere delle scuse? «Ho chiesto scusa alla mia comunità, ai cristiani di Verona se quanto accaduto ha creato polemiche e imbarazzo. Mi spiace perché non pensavo potesse accadere. Mi sarebbe piaciuto che chi mi ha attaccato avesse letto la lettera. Mi sono sentito come se ci fosse una guerra contro di me».

IL GAZZETTINO di domenica 17 maggio 2015 Pag 13 Verona, il vescovo chiede scusa: "Sono stato frainteso"

Verona «Chiedo scusa se sono stato frainteso: mi sono appellato al mio senso di pastore che si interessa delle famiglie in difficoltà, in particolare delle realtà socialmente deboli». Lo ha detto il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti, dopo la bufera scoppiata per la mail, prima inviata a 400 insegnanti di religione e poi stoppata, con la quale 'sponsorizzava' una candidata iscritta alla Lega, Monica Lavarini, inserita nella lista civica di Luca Zaia. «La mia è stata la valutazione di un programma ha sottolineato e l'ho ritenuto in sintonia con le priorità della Diocesi. Comunque invito qualunque altro candidato a proporre il suo programma se fosse egualmente condivisibile».

LA NUOVA di domenica 17 maggio 2015 Pag 11 Santino elettorale a Verona: le scuse del vescovo Zenti

Verona. «Chiedo scusa se sono stato frainteso, mi sono appellato al mio senso di pastore che si interessa delle famiglie in difficoltà, in particolare delle realtà socialmente deboli». Lo ha detto il vescovo di Verona, Giuseppe Zenti dopo la bufera scoppiata per la mail, prima inviata a 400 insegnanti di religione e poi stoppata, con la quale “sponsorizzava” una candidata della Lega, l’infermiera Monica Lavarini, inserita nella lista civica di Luca Zaia. «La mia è stata la valutazione di un programma», ha sottolineato «e l'ho ritenuto in sintonia con le priorità della Diocesi». «Comunque invito qualunque altro candidato», ha concluso il vescovo «a proporre il suo programma se fosse egualmente condivisibile». Secco “no comment” di Luca Zaia mentre il sindaco di Verona Flavio Tosi getta acqua sul fuoco: «Non intendo in alcun modo entrare in polemica con il nostro vescovo Zenti, abbiamo un ottimo rapporto di collaborazione».

CORRIERE DEL VENETO di sabato 16 maggio 2015 Pag 7 Il vescovo appoggia la candidata di Zaia. A Verona nasce un caso di Alessio Corazza e Francesco Bottazzo La lettera di Zenti (poi stoppata) e le perplessità del Patriarca

Verona. A Verona non si parla d’altro. Ma l’eco della lettera inviata giovedì dal vescovo Giuseppe Zenti agli insegnanti di religione e rapidamente diffusasi tra preti, parroci e associazioni cattoliche, con una chiara indicazione di voto a favore della leghista Monica Lavarini, candidata alle Regionali con la lista Zaia, («Ne condivido il programma»), ha travalicato i confini della città. A Venezia, il patriarca Francesco Moraglia è diplomatico: «Non so che dica Zenti, a noi sta a cuore una politica attenta alle realtà fragili e deboli, alle fasce sociali in difficoltà. Ci stanno a cuore i temi sociali legati a problemi dell’accoglienza e dell’integrazione, non possiamo chiudere gli occhi. E ci stanno a cuore le tematiche educative in grado di offrire una proposta buona per l’uomo attuale, per la collettività, per la vita della città». Non a caso, l’attenzione al «sociale debole» e il sostegno alle scuole paritarie cattoliche sono i temi indicati come prioritari dal vescovo di Verona. Che però nella sua missiva si è spinto oltre, ovvero nell’appoggio al programma della candidata Lavarini, ribadito anche da un documento del suo vicario, monsignor Giancarlo Grandis. Giusto quindi che la Chiesa indichi, per nome e cognome, per chi votare? Risponde il Patriarca: «A noi compete dare delle indicazioni politiche sui valori, confidando sulle persone che sappiano discernere in modo corretto». Certo è che negli ambienti ovattati della Chiesa veronese, la lettera di monsignor Zenti ha creato un terremoto. Ieri si sarebbe dovuta tenere una conferenza stampa in cui il vescovo avrebbe dovuto chiarire «pubblicamente le motivazioni che lo hanno spinto a far sentire la sua voce in un momento delicato della vita sociale e politica nel contesto della campagna elettorale» ma nel pomeriggio di giovedì, l’appuntamento è stata annullato,«viste le reazioni e i fraintendimenti emersi». Quali reazioni e fraintendimenti? Circolano le ipotesi più disparate: c’è chi parla di un intervento dall’alto, forse da Roma, chi riferisce di scudi levati all’interno alla Curia che avrebbe convinto il vescovo a tornare sui suoi passi. Per altro, già da giorni, attorno alla candidatura di Monica Lavarini, un’infermiera ex consigliere comunale della lista Tosi, iscritta alla Lega e membro del simposio dei Laici, si registrava un certo fermento in alcuni ambienti ecclesiastici. Lei stessa aveva presentato la sua discesa in campo con Zaia attorniandosi di esponenti dell’associazionismo cattolico e lo stesso vescovo Zenti, ancor prima di inviare la lettera, aveva confermato al Corriere del Veneto il suo appoggio al programma della Lavarini. Questo aveva provocato i primi malumori, sfociati ieri in una dura presa di posizione da parte del Movimento Cinque Stelle. «Quanto accaduto nella Chiesa di Verona non ha precedenti attacca la deputata Francesca Businarolo L’indicazione per un candidato vicino alla Lega, partito che non si è certo distinto per l’attenzione al “sociale debole”, suona perfino paradossale». E il candidato governatore Jacopo Berti ironizza: «Avevamo sempre sentito parlare di santini elettorali, ma qui si esagera». Il deputato Pd Vincenzo D’Arienzo si dice «imbarazzato come cattolico» perché «una scelta politica e personale così specifica rischia di creare divisione e inficiare la credibilità dell’Istituzione ecclesiastica» mentre Giancarlo Conta, consigliere regionale ricandidato di Ncd scuote la testa: «In questa campagna elettorale sta davvero accadendo di tu tto».

IL GAZZETTINO di sabato 16 maggio 2015 Pag 13 Sponsorizza la candidata di Zaia, bufera sul “vescovo verde” di Verona M5S all’attacco

Verona Polemiche a Verona per la 'sponsorizzazione' da parte del vescovo, Giuseppe Zenti, di una candidata iscritta alla Lega, Monica Lavarini, inserita nella lista civica di Luca Zaia, candidato alla rielezione in Veneto. Al centro del caso una mail che l'alto prelato avrebbe prima inviato, e poi 'stoppato', chiedendo a 400 insegnanti di religione (tra cui molti parroci) di prendere in esame una riflessione del progetto culturale diocesano sul tema del sociale debole, cioè i poveri, e sulla scuola paritaria di ispirazione cristiana. Con una nota finale, Zenti avrebbe caldeggiato, in particolare, la candidatura di Lavarini per l'attenzione nel suo programma alla difesa delle famiglie in stato di difficoltà socioeconomica ed educativa. L'imbarazzo per il clamore suscitato dalla questione avrebbe spinto il vescovo ad annullare in tutta fretta, senza nessuna spiegazione, una conferenza stampa prevista per ieri. «Quanto accaduto nella Chiesa di Verona sembra non avere precedenti, almeno negli ultimi decenni attacca Francesca Businarolo, deputata del Movimento 5 Stelle Un'indicazione netta da parte del vescovo Zenti a sostegno di un tesserato leghista che milita nella lista civica di Zaia». Caustico il candidato governatore per il M5S, Jacopo Berti: «Avevamo sempre sentito parlare di santini elettorali, ma qui si esagera». Monsignor Zenti in passato era stato soprannominato "il vescovo verde": la notte del Natale 2013, dopo la celebrazione, aveva invitato i fedeli a trattenersi in chiesa per ascoltare le parole del primo cittadino Flavio Tosi.

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Bene e male, quella linea incerta di Angelo Panebianco Medio Oriente

C’è stato un tempo, il tempo della Guerra fredda, in cui gli amici e i nemici, il bene e il male erano facilmente riconoscibili. Una volta presa la decisione fondamentale (stare con i democratici occidentali oppure con i comunisti sovietici) tutto discendeva di conseguenza. Era un mondo «semplice», chiaro e limpido sotto il profilo morale, ove si sapeva sempre da che parte stare, ove era sempre evidente dove fossero ubicati il bene e il male. Ed era anche un mondo in cui ciascuno era in grado di calcolare, per lo meno all’ingrosso, il proprio interesse. Oggi non è più così. Si guardi all’atteggiamento di noi europei di fronte all’intricatissima situazione del Medio Oriente. Non solo il bene e il male si confondono ogni giorno, non è possibile distinguerli, ma anche decidere quale sia l’interesse che a noi europei (come gruppo di Stati o come Stati singoli) conviene perseguire non è sempre facile. In molti casi ci troviamo di fronte a scelte che hanno contemporaneamente un lato luminoso e un lato oscuro, che sono segnate da un’ineliminabile ambiguità. Ad esempio, come ha scritto giustamente Franco Venturini sul Corriere di ieri, gli europei dovrebbero fare pressione sull’Egitto del generale AlSisi perché la condanna a morte dell’ex presidente Morsi non venga eseguita (probabilmente non lo sarà. AlSisi non è uno sciocco, non ha interesse a suscitare l’ostilità della comunità internazionale). Ma al tempo stesso è un fatto che non possiamo dare alla società egiziana l’impressione di parteggiare per i Fratelli musulmani, un errore che gli occidentali commisero (alienandosi molte simpatie fra gli egiziani) quando Morsi era ancora al potere. E sempre a proposito dell’Egitto: i regimi militari nati da colpi di Stato sono sicuramente una gran brutta cosa ma sono anche peggiori dello Stato autoritario islamico che il maldestro Morsi a un certo punto tentò di imporre nel suo Paese? Dove stanno il bene e il male? Oppure prendiamo il caso di Saddam Hussein e di Gheddafi. Fu una buona cosa spazzare via due regimi sanguinari o era meglio lasciarli al potere tenuto conto di ciò che ne è seguito sia in Iraq che in Libia? E c’è poi il caso del dittatore siriano Assad. C’è chi pensa che convenisse, e che convenga tuttora, all’Occidente impegnarsi per abbatterlo, tenuto conto di quante cose tremende quel dittatore ha fatto al suo stesso popolo. Sì, ma dopo? Anche ammesso (e non concesso) che fosse stato possibile mandare al potere in Siria uomini ragionevoli anziché fanatici, anziché estremisti islamici, come saremmo riusciti, ad esempio, ad assicurare protezione a quella minoranza cristiana che in Siria sta con Assad perché teme le persecuzioni che seguirebbero a una eventuale vittoria sunnita? E l’elenco non è finito. È chiaramente nel nostro più vitale interesse colpire con la massima durezza lo Stato islamico (ex Isis), indebolirlo militarmente e fare in modo che il mito del Califfato prima o poi si appanni e si sgonfi, che il suo carisma smetta di eccitare e di attrarre giovani islamici da ogni parte del mondo. Ma per perseguire questo vitale interesse abbiamo forse anche bisogno di rendere esplicita, consolidandola, l’alleanza militare fino ad oggi implicita, di fatto, con Assad di Siria e con l’Iran (sciita)? C’è il rischio che un’alleanza esplicita di tal fatta faccia pagare a noi occidentali costi molto elevati. I sunniti (che sono la netta maggioranza nel mondo islamico) diventerebbero ancora più ostili di quanto già oggi non siano nei confronti degli occidentali laddove questi risultassero anche formalmente alleati con i loro arcinemici sciiti. Anche la trattativa con l’Iran per il nucleare ha il suo lato oscuro. È una trattativa ragionevole se riesce a ritardare nel tempo l’avvento di un Medio Oriente nucleare (quando l’Iran si doterà della bomba, l’Arabia Saudita, l’Egitto, e forse anche altri, seguiranno immediatamente). Ma non è ragionevole se contribuisce a spezzare i residui esili fili fra gli occidentali e le potenze sunnite. E ancora: forse abbiamo fatto bene a tenere la Turchia, con i suoi ottanta milioni di musulmani, fuori dall’Europa. Ma, forse, il prezzo di una Turchia in via di accelerata riislamizzazione (quanto sta oggi accadendo), impegnata a sostenere l’islamismo politico ovunque esso si trovi (per esempio, in Libia) è, per gli europei, ancor più salato. Come si vede, non solo il bene e il male si confondono, ma la stessa definizione di quali siano i nostri interessi in una così complicata vicenda è difficile da stabilire. Alla fin fine, forse, possiamo dire che in Medio Oriente gli europei dovrebbero avere, oltre diversi obiettivi pragmatici, da definire e ridefinire giorno per giorno (si tratti di business, rifornimenti energetici, controllo dei flussi migratori, contenimento delle minacce terroriste, eccetera), due soli obiettivi duraturi e irrinunciabili, due soli obiettivi che possiamo chiamare «di civiltà», collegati alla storia e alla identità europee e occidentali: fare il possibile perché non avvenga mai una seconda Shoah (quella distruzione di Israele che continua ad essere sognata e invocata da tanti musulmani in Medio Oriente) e proteggere le minoranze cristiane colpite dalla violenza dei fondamentalisti islamici. Al primo ministro britannico ottocentesco Benjamin Disraeli è attribuita l’affermazione secondo cui le nazioni non hanno amici o nemici stabili ma solo interessi permanenti. Forse è così. Ma non sempre si riesce a capire come soddisfarli.

Pag 1 Un confronto davvero libero sui nuovi diritti civili di Aldo Cazzullo Il richiamo di Mattarella

L’Italia è l’unico Paese dell’Occidente a non avere una legge che riconosca le unioni civili. E sulla cittadinanza conserva norme concepite quando era un Paese di emigranti, e non un Paese anche di immigrati. Il richiamo del presidente Sergio Mattarella contro l’omofobia e «ogni discriminazione» è arrivato nel momento opportuno. Sarebbe sbagliato attribuire al presidente parole che non ha detto e intenzioni che non ha manifestato. Il Quirinale non interverrà nella definizione delle nuove regole che il Parlamento è chiamato a scrivere, per sanzionare crimini ma anche per riconoscere diritti. M a può avere un ruolo significativo, a maggior ragione perché sul Colle si è insediato un uomo di formazione cattolica; proprio ora che è finita la stagione dei veti di Oltretevere. Questo non significa ovviamente che la Chiesa sia pronta a riconoscere le coppie di fatto. Ma il clima non è più di scontro frontale. E il tempo è propizio per un confronto libero. In molti, ricordando che le ultime elezioni politiche non hanno dato una maggioranza parlamentare né alla sinistra né alla destra, sostengono che in questa legislatura sia impossibile introdurre nuovi diritti civili. È vero il contrario. Proprio perché non esiste alle Camere un orientamento culturale e politico prevalente, questa è la stagione giusta per trovare un minimo comune denominatore, una maggioranza vasta che vada oltre gli schieramenti precostituiti e approvi norme destinate a durare, e non a essere spazzate via nella legislatura successiva. Già lo si è visto sul divorzio breve. Inoltre, le categorie storiche di destra e sinistra, già logore di loro, in questo campo aiutano poco a capire; non a caso il matrimonio omosessuale con diritto di adozione è rimasto in vigore nella Spagna governata dai popolari e nell’Inghilterra conservatrice. In Italia un simile cambiamento non troverebbe una maggioranza in Parlamento, e probabilmente neppure un ampio consenso nella società. Però la discussione deve essere aperta e rispettosa delle varie culture e sensibilità. Il dissenso non può essere demonizzato. Chi difende le proprie idee non può essere tacciato di omofobia, ma neppure di libertinaggio. È giusto discutere di tutto. Ad esempio le parole di Domenico Dolce e Stefano Gabbana sono state irrise, ma indicavano una questione su cui è lecito interrogarsi: oggi una coppia omosessuale o una donna sola possono andare all’estero e avere un figlio grazie a ovuli donati (o comprati) e uteri in affitto; ma una coppia omosessuale o una donna sola non possono andare in un orfanotrofio italiano ad adottare un bambino. La discussione però dura da tempo, e non può essere infinita. Prima della fine della legislatura si dovrà trovare un accordo, diciamo pure un compromesso, parola di cui non si deve avere paura, perché non rappresenta il tradimento di un ideale ma la conquista di un terreno comune; che dovrebbe allargarsi anche al tema cruciale del fine vita. Il governo Renzi fa bene a rivendicare una funzione propulsiva, ma dovrà evitare forzature. Anche a proposito della nuova legge sulla cittadinanza. Oggi il figlio di italiani è italiano anche se non vive e non vivrà mai nel nostro Paese: potrà ad esempio contribuire a decidere come spendere tasse che non paga. Invece il figlio di stranieri nato in Italia non è italiano e non lo diventa per troppo tempo: questo anacronismo genera estraneità e irresponsabilità; è difficile per i nuovi italiani riconoscersi in una comunità di valori da cui si viene esclusi. Siamo un Paese troppo permeabile per introdurre lo ius soli. La fase storica impone rigore e serietà, compenetrazione di diritti e di doveri. Ma è possibile fin da ora legare la cittadinanza al completamento di un ciclo di studi: deve essere la scuola dell’obbligo, oggi troppo spesso evasa anche dai figli di italiani, a trasmettere la lingua e i princìpi a cominciare dall’uguaglianza tra l’uomo e la donna conquistati con il travaglio di generazioni, che non vanno dispersi ma diffusi. È una «grande società» quella che possiamo costruire, in cui nessuno verrà discriminato per i suoi orientamenti sessuali e per il colore della sua pelle. L’occasione è adesso.

LA REPUBBLICA Pag 1 Salvini – Le Pen, relazioni pericolose di Ilvo Diamanti

Matteo Salvini continua il suo viaggio attraverso le province d'Italia. Da Nord verso Sud. Inseguito, dovunque, dalle proteste dei Centri sociali. Così rafforza la costruzione della nuova identità leghista. Nazionale e di Destra. Nello stesso periodo, si è consumata la frattura nella "famiglia reale dell'estrema destra francese", come l'ha definita Bernardo Valli. Marine Le Pen, attuale leader del Front National, ha sospeso dal partito il padre e fondatore JeanMarie. Il quale l'ha ripudiata come figlia. Un conflitto politico, e familiare, che riflette il tentativo di "normalizzare" l'immagine del FN. È il tracciato dei percorsi incrociati di Marine Le Pen e Matteo Salvini. Partiti da posizioni politiche, simboliche e strategiche distanti, per alcuni versi opposte, tendono ad avvicinarsi. Nell'intento di conquistare nuovi spazi politici. Con esiti ancora difficili da verificare. Marine Le Pen ha ereditato la leadership del FN dal padre. Non è raro, nei partiti populisti, che il "comando" si trasmetta per via familiare. Ma, rispetto al padre, ha riposizionato il partito. Il conflitto "familiare" in atto non sembra, infatti, un semplice gioco delle parti, per allargare i consensi. Al di là degli indubbi elementi di continuità con la tradizione, Marine Le Pen ha "nazionalizzato" l'immagine del partito in senso "popolare" (e populista). E, dunque, antieuropeo. Prima, invece, la "nazione" era utilizzata come simbolo di un'identità "sostanziale" ed esclusiva. Perché il FN è sempre stato "solo". Inavvicinabile per ogni altra forza politica di destra. Oltre che di sinistra. Non per caso, alle presidenziali del 2002, quando Le Pen (padre) andò al ballottaggio (per la frammentazione del voto di sinistra), Jacques Chirac, candidato neogollista, venne eletto con oltre l'82% dei voti. Grazie al sostegno massiccio degli elettori di sinistra e di centro, oltre che dei propri. Con una partecipazione elettorale superiore al primo turno. Marine Le Pen ha cercato di ridimensionare l'isolamento del partito, contraddicendo, in particolare, il tradizionale discorso antisemita principale motivo di rottura con il padre. Ha, invece, accentuato il discorso securitario della proposta politica. In particolare, ha amplificato le paure degli stranieri e dell'Islam. Drammatizzati dal sanguinoso attacco a Charlie Hebdo. Infine, ha riassunto i temi sociali e il nazionalismo nell'opposizione all'Europa dell'Euro. Una recente indagine, condotta da Ipsos e Sciences Po per Le Monde (e diretta da Pascal Perrineau), osserva il radicamento di queste idee nella società francese, sottolineato dalla crescita elettorale del FN. La Lega, invece, nella fase di maggiore crescita (19952010), si è proposta come un partito "estremista di centro" (vista la posizione politica dichiarata dalla maggioranza dei suoi elettori). Federalista. E governativo. Perché Berlusconi l'ha coinvolta, nei suoi governi, dal 1994 e fino al 2011. Inoltre, si è imposta come partito di governo a livello locale. E regionale. Nelle regioni del Nord ma anche nel Centro. È divenuto il sindacato del (Centro) Nord a Roma. In questo modo ha avvicinato e, talora, superato il 10% dei voti (alle politiche del 1996 e alle europee del 2009). Fino agli scandali "familiari" (anche nella Lega i parenti contano...) che, nel 2012, hanno coinvolto il leaderfondatore, Umberto Bossi. Matteo Salvini, eletto segretario nel dicembre 2013, ha rilanciato il partito in tempi relativamente brevi. Da un lato, ha sfruttato la crisi del Pdl "logorato" dal "logoramento" di Silvio Berlusconi. Dall'altro, ha riproposto, con successo, il ruolo dell'Imprenditore politico della Paura. Ha, dunque, ripreso, con violenza, la campagna contro gli immigrati. E, al tempo stesso, contro l'Unione europea. E contro l'euro. Salvini ha, quindi, "lepenizzato" la Lega, proiettandola oltre il Nord Ha, così, delineato una Ligue Nationale, nel solco della nuova Destra (anti) europea. Una scelta marcata dall'alleanza esplicita con Casa Pound. I dati dei sondaggi, fino ad oggi, gli hanno dato ragione, spingendola oltre il 13%. In attesa delle prossime elezioni regionali che, almeno in Veneto, dovrebbero premiare il suo candidato. Il governatore uscente, Luca Zaia. Tuttavia, per entrambi i partiti ed entrambi i leader, le prospettive di questa via nazional (anti) europea della Destra restano incerte. Per ragioni, in parte, opposte. Il FN di Marine Le Pen (come ha osservato JeanYves Camus su Le Monde) mira a guidare lo Stato. Il padre non ci aveva mai pensato. E ha sempre agito per massimizzare la sua rendita di opposizione. Ora, però, le idee del FN (di Marine Le Pen) hanno attecchito. Ma quasi l'80% dei francesi continua a considerare il FN di estrema destra, mentre il 60% lo ritiene "pericoloso per la democrazia", come mostra il sondaggio IpsosSciences Po. Così, al momento del voto, il FN ha ottenuto un buon risultato, ma è stato largamente superato dal Centrodestra repubblicano, trainato dal ritorno di Sarkozy. Perché, fra gli elettori francesi, le paure e i valori promossi dal FN sono largamente condivisi. Ma riesce ancora difficile accettarlo come forza di governo. In Italia, invece, la Lega di Salvini deve affrontare un problema molto diverso, ma dagli esiti simili. La sua marcia decisa verso destra e centrosud, infatti, ha sollevato da una catena di proteste, che danno ulteriore enfasi alla svolta di Salvini. Un "provocatore di talento", come l'ha definito ieri Francesco Merlo. Tuttavia, resta difficile immaginare che la Lega Padana possa sfondare nel Sud. E la Ligue Nationale nel Nord. Mentre non si comprende come la nuova Destra di Salvini possa tornare al governo, senza il sostegno di Berlusconi, ora marginale. E come possa, dopo il sostegno di Casa Pound, essere "sopportata" a lungo dal FN di Marine Le Pen, impegnata a uscire dal ghetto dell'estrema destra. L'unione tra FN e LN (nationale), dunque, potrebbe delineare una "relazione pericolosa", anche per i due partiti coinvolti. Con l'esito, contraddittorio, di rafforzarli sul piano elettorale ma, al tempo stesso, di allontanarli dal governo. Costringendoli a interpretare la protesta. Contro i governi nazionali e contro l'Europa dell'euro. Considerata "necessaria", nonostante tutto, dalla maggioranza dei francesi e degli italiani. Così, l'Unione di Front et Ligue Nationale rischia di apparire, agli elettori, uno strumento di "lotta", ma non "di governo". Una prospettiva, forse, accettabile per la Ligue di Salvini, intento a occupare lo spazio di destra. A ogni costo. Ma intollerabile per il FN di Marine Le Pen, che conta di ottenere un risultato importante alle prossime presidenziali.

LA STAMPA Una scelta difficile ma doverosa di Francesco Manacorda

Non è una scelta popolare, quella di Matteo Renzi. Annunciare in tv, sebbene con toni trionfalistici, che ai pensionati verranno rimborsati «una tantum» solamente 2 miliardi di euro, mentre la sentenza della Corte Costituzionale sul blocco dell’indicizzazione apriva la strada a un rimborso che sarebbe potuto arrivare a oltre 18 miliardi, susciterà di certo le proteste della categoria. Annunciarlo poi alla vigilia di elezioni anche se solo regionali espone al rischio che l’impopolarità della scelta pesi sul voto, aggiungendosi alle proteste degli insegnanti. Ma proprio perché difficile, la scelta di Renzi contiene anche coraggio e responsabilità. Non solo per le elezioni in vista, ma anche e soprattutto perché prende atto che la sostenibilità dei conti pubblici non offre spazi di manovra e fa un’operazione di verità. Che dire però ai pensionati che vedono confermata gran parte dei sacrifici imposti nel 2011 dal governo Monti? E a chi oggi riceve oltre 3000 euro lordi non certo un trattamento da nababbi e sarà escluso anche dal minirimborso? Hanno le loro ragioni e si confermano come quelli chiamati a pagare in un momento difficile. Perché il loro sacrificio abbia un senso bisognerà che i soldi risparmiati a spese loro siano il più possibile indirizzati per aumentare l’occupazione. Quel che pagano i padri serva almeno ai figli.

IL GAZZETTINO Pag 1 Ma i veri conti si faranno dopo le elezioni di Marco Conti

«Noi non siamo vecchia politica. Quella che rinvia le decisioni per paura di un voto». Però «altro che uomo solo al comando...». Per scucire a Matteo Renzi i due miliardi e spiccioli per rivalutare le pensioni più basse, sono servite due settimane. Non è stato infatti facile convincere il premier, e i consiglieri economici Filippo Taddei e Yoram Gutgeld, che avrebbero dovuto usare i soldi del tesoretto per coprire il buco lasciato in eredità dai governi precedenti. Soprattutto non è stato semplice convincere il Rottamatore che occorreva rispondere con tempestività ad una sentenza in grado, da sola, di far saltare i conti pubblici. Una decisione, quella della Corte Costituzionale, che Renzi non ha ancora compreso e che ritiene ”poggiata” su principi che non tengono conto non solo degli obblighi europei, ma anche di una situazione che vede nel Paese sempre più contrapposte vecchie e nuove generazioni. Questo circuito perverso, il premier pensa di spezzarlo o quanto meno, con l'aiuto del nuovo presidente dell'Inps Tito Boeri, di incrinarlo. Restava però da affrontare il nodo di una sentenza e il decreto che oggi adotterà il consiglio dei ministri servirà per porre fine ad attese e per tranquillizzare Bruxelles e gli investitori europei che da due settimane si interrogavano nuovamente sulla voragine possibile che si sarebbe potuta aprire nei conti dell'Italia. Anche stavolta Renzi ci ha messo la faccia e ieri pomeriggio è andato in tv ad annunciare i 500 euro come una tantum per le pensioni più basse mentre a il sottosegretario De Vincenti limava il testo con i tecnici di palazzo Chigi e del Tesoro. Sul tavoli due proposte di decreto. La prima che prevedeva l'erogazione dei 500 euro come una tantum per gli anni arretrati e il rinvio della questione alla legge di stabilità. La seconda, sempre con l'una tantum ma con anche l'indicazione della platea e della percentuale di rivalutazione. Alla fine, per togliere ogni possibile incertezza, si è deciso per la soluzione più chiara per gli investitori e per la Commissione, ma che certamente poco piacerà ai pensionati specie quelli con i redditi più alti che da quindici giorni minacciano ricorsi. Oltre cinque milioni di pensionati, colpiti dal blocco delle indicizzazioni, da domani masticheranno amaro e Renzi ha già messo in conto le conseguenze che sul piano elettorale potranno esserci per una scelta del genere. Per Renzi non c'è bisogno di evocare la decrescita felice o meno per considerare una «illusione» l'idea che ci siano diritti assoluti e irrinunciabili in qualunque contesto e momento. Precari, cassintegrati, più o meno finte partite iva devono per Renzi spingere la politica ad assumere decisioni difficili «senza rinvii elettoralistici». Scontentare un parte dell'elettorato, come accaduto sulla scuola e accadrà da domani per le pensioni, non preoccupa il premier che è convinto di arrivare alle elezioni del 2018 con un progettoPaese compiuto e sicuramente migliore e più ottimista dell'attuale. Abbandonata la tentazione dello slittamento, Renzi è consapevole di mettere per la prima volta la sua firma sotto un provvedimento che risulterà impopolare a molti dei pensionati e dei sindacati che in massima parte compongono. Ma drenare altre risorse ed impegnarne di future per rimpinguare pensioni che forse mai le nuove generazioni verranno, significa per Renzi venir meno allo spirito con il quale ha imposto il taglio delle retribuzioni sopra i 240 mila euro e reso impossibile doppi incarichi, tripli emolumenti e quadruple pensioni.

LA NUOVA Pag 1 Una scelta dettata dal voto di Andrea Sarubbi

La campagna elettorale è una brutta bestia, soprattutto se governi, e quando ti cade in testa una sentenza come quella della Consulta sulle pensioni non deve essere facile restare in piedi. Detto ciò, la promessa renziana di restituire ai pensionati due miliardi di euro ad agosto, annunciando di toglierli al piano di lotta alla povertà, fotografa perfettamente il rapporto tra la società italiana e la politica: da un lato, l’importanza del portafoglio nel guidare le scelte al seggio; dall’altro, l’assoluta irrilevanza delle fasce più deboli sul consenso popolare. Con una postilla, però, che non tutti conoscono: quei soldi, al momento, erano ancora in salvadanaio, e che sarebbero stati destinati davvero all’inclusione sociale è tutto da dimostrare. Il fondo per la lotta alla povertà è storicamente la Cenerentola di tutti gli stanziamenti: da diversi anni e diversi governi, ormai, il mondo dell’associazionismo si sente promettere risorse che arrivano solo di rado e con qualche zero in meno rispetto al fabbisogno. Tanto per dare un’idea delle cifre in ballo, nel ddl stabilità di fine 2013 il governo Letta mise 250 milioni di euro per la carta acquisti e la sperimentazione di nuove misure di sostegno, e si gridò al miracolo. I due miliardi di ora (in realtà un miliardo e 600 milioni, quelli del famoso tesoretto) sarebbero stati dunque un colpaccio, se il governo avesse dato retta alla richiesta avanzata dalla Commissione Affari Sociali della Camera nel parere al Def: a sentire il Renzi di ieri sembrerebbe di sì, ma tra gli stessi parlamentari del Pd c’è chi avanza dubbi. Al presidente del Consiglio la sentenza della Corte non è andata giù, questo è chiaro. E far sapere all’opinione pubblica che ci hanno rimesso i più poveri, alla fine, è una mossa mediatica molto scaltra. In più, c’è da considerare il clima attuale, a due settimane dal voto, e ricordare che i tagli (veri o eventuali che siano) al fondo per la povertà hanno un pregio enorme per chi cerca consenso: nessuno riempirà le piazze per scongiurarli, o affollerà i talk show per impostarci sopra la propria campagna elettorale. Se metti i poveri come priorità, infatti, hai molte più probabilità di diventare un santo sul calendario che non di finire a Palazzo Chigi. L’altra lezione che l’annuncio di Renzi conferma rassicurando i pensionati è che l’unica esca per catturare voti in un panorama postideologico, in cui “l’uno o l’altro per me pari sono”, rimane la convenienza personale. Lo dimostrano gli 80 euro in busta paga alla vigilia delle Europee: nel corso dei mesi non si saranno dimostrati la misura migliore per rilanciare i consumi, ma di certo hanno avuto un ruolo fondamentale nel portare il Pd al record del 40,8%. E infatti, nel Partito democratico, non c’è nessuno che rimpianga quella scelta. Alla medesima filosofia appartengono i 500 euro promessi ieri per il prossimo agosto: se c’è un’obiezione che gli avversari politici anch’essi a caccia di voti muovono a Renzi, in piena campagna elettorale, non è che quei soldi vengano tolti ad altri fondamentali capitoli di spesa, ma piuttosto che siano troppo pochi («Dovevano essere duemila», rilancia Brunetta) o che siano solo una toppa. Onestà vorrebbe, per non prendere in giro nessuno, che destra e sinistra dicessero quale sarà il prezzo di tutto ciò. A caldo, prendendo sul serio la volontà del governo di destinarli all’inclusione sociale, viene da pensare che si chiudano qui, prima ancora di iniziare, i dibattiti in corso sul reddito di cittadinanza, sui quali la sinistra Pd e il Movimento 5 Stelle si stanno lanciando messaggi. E così anche tutti i buoni propositi di sradicare la povertà estrema, ripetuti allo sfinimento dal Centrosinistra nelle ultime legislature. Che l’annuncio di ieri possa effettivamente servire a Renzi per aumentare i voti alle prossime Regionali è difficile, perché il risultato di un anno fa è irripetibile oggi; di certo, però, lo aiuterà a perderne qualcuno in meno, perché la platea dei pensionati fino a 3 mila euro è proprio un pezzo di elettorato storicamente vicino al Pd. E perderne qualche voto in meno, in alcune Regioni in bilico, potrebbe anche fare la differenza tra la sconfitta e la vittoria.

Pag 1 Immigrazione, la reazione alle chiusure di Giovanni Palombarini

Negli ultimi tempi per merito del sindaco Massimo Bitonci (Lega Nord) Padova è assurta all’onore delle cronache nazionali. Se fino a qualche tempo fa erano i giornali locali a dedicare articoli e commenti alle iniziative del sindaco, oggi sono i maggiori quotidiani e i più famosi talkshow a interessarsi da vicino alle sue decisioni. Padova è ormai diventata un caso nazionale non per iniziative che riguardino lo sviluppo della città, o grandi tematiche culturali o artistiche, o le prospettive di un’antica Università, ma essenzialmente per un solo problema, quello dello straniero. La presenza dello straniero, in quanto frutto essenzialmente di fenomeni migratori di diversa natura, è difficile da accettare per molti italiani. Di qui una generica domanda “di sicurezza”, che finisce per riguardare le questioni più diverse (anche un non meglio definito decoro della città). Ebbene, spregiudicatamente, su questo tipo di timori, sollecitandoli, ha lavorato il nuovo sindaco di Padova. Ha cominciato con il diniego dei permessi di utilizzazione delle strutture pubbliche per le cerimonie religiose dei mussulmani. Costoro (a Padova sono circa 8.000) non hanno mai creato problemi quando si sono riuniti per pregare durante il Ramadan, e per l’utilizzo delle palestre comunali hanno sempre chiesto il permesso e pagato l’affitto. Niente da fare. Massimo Bitonci, appena eletto sindaco, è stato perentorio. Non verranno più concessi permessi ai musulmani: «Le palestre comunali devono essere utilizzate per lo svolgimento delle attività sportive, l’educazione e l’avviamento allo sport». Come se la preghiera non avesse nulla a che fare con l’educazione. Nei giorni immediatamente successivi ha aperto una sua personale crociata di stampo clericale: «Il crocefisso dovrà essere obbligatoriamente esposto nelle scuole e in tutti gli edifici pubblici». È inutile chiedersi se c’è stato qualcuno, in ambienti cattolici, che gli ha suggerito questa bella pensata, per la semplice ragione che proprio in questi ambienti ormai da tempo ci si fa carico di una soluzione civile e condivisa dei problemi che una società ormai multietnica quotidianamente pone. Ma il rifiuto di altre religioni sollecita quella generica esigenza di sicurezza e di protezione, che il diverso di per sé ispira. E il sindaco si è attivato, alimentando il rifiuto dello straniero (degli “infedeli”?) anche con la storia dei crocefissi. È seguita una guerra aperta ai mendicanti, anche attraverso sanzioni paradossali, come il sequestro di quanto ottenuto da costoro grazie alla carità di alcuni. Molti di loro sono di etnia rom, e rendere difficile la loro vita è cosa apprezzata da una parte della cittadinanza, infastidita dalla loro “indecorosa” presenza. Si è aperta poi, per effetto delle tante guerre e persecuzioni che affiggono una parte del pianeta, la questione dei profughi da ospitare. Il no di Bitonci si è estrinsecato in varie forme. Alla continua ostilità all’opera del prefetto che in queste settimane è andato organizzando nella provincia, con serietà, una serie di concreti moduli di accoglienza, si è affiancato il boicottaggio nei confronti di alcuni sacerdoti che operano attivamente per l’accoglienza; fino al tentativo di vietare ai privati con apposita ordinanza l’ospitalità verso migranti e rifugiati. Le norme relative all’abitabilità dei locali adibiti ad affitto o ospitalità, finalizzate a tutelare coloro che di tale forma di accoglienza usufruiscono, sono state utilizzate in modo ribaltato per riuscire a escludere i profughi dall’uso di un alloggio. E una fotografia ha immortalato il sindaco con un suo assessore mentre fermi in strada davanti alla casa di una persona che aveva dato ospitalità ad alcuni profughi, sembrano indicare le finestre dell’abitazione “incriminata”. Questo è l’aspetto di rilievo pubblico che ha reso nota a livello nazionale la vita della città da un anno a questa parte. Che dire? Per fortuna si va sviluppando in vari modi un’intensa reazione a questa politica di molti cittadini padovani e di tante associazioni. La grande manifestazione del 15 maggio in piazza Garibaldi è stata un segno importante in favore dell’accoglienza. Ciò induce a sperare che le cose possano presto cambiare.

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CORRIERE DELLA SERA di domenica 17 maggio 2015 Pag 1 Le radici della crisi dei partiti di Ernesto Galli della Loggia Trasformismo dilagante

Destra e Sinistra appaiono in crisi e quasi in via di scomparsa, mentre al loro posto si va delineando per il futuro un ampio schieramento ultramaggioritario, tendenzialmente centrista, capace di inglobare quasi tutte le componenti parlamentari. Contemporaneamente si diffonde, sempre più massiccio nelle periferie ma ormai anche nel Parlamento nazionale, il fenomeno del trasformismo. Oggi è questa, nella sua essenza, la situazione che ci sembra nuova della nostra vita politica. Ma a ben vedere lo è solo relativamente. La situazione odierna, infatti, ricorda da vicino la situazione che si verificò in Italia già negli ultimi decenni dell’Ottocento dopo l’esaurimento della Destra e della Sinistra risorgimentali. Le quali, peraltro, anche durante il Risorgimento erano state sì contrapposte, ma fino a un certo punto. Non a caso Cavour governò per anni, come si sa, con una maggioranza che in pratica escludeva solo la Destra e la Sinistra estreme: maggioranza battezzata con il nome significativo di «connubio». Questo connubio paratrasformistico che di fatto s’interruppe solo per pochi anni subito dopo l’Unità durò in pratica fino alla Prima guerra mondiale. In tutto questo tempo l’amplissimo schieramento politico che si riconosceva nelle istituzioni dello Stato l’eterogeneo «partito costituzionale» non fu capace di dividersi stabilmente in una Destra e in una Sinistra contrapposte. Sicché la rappresentanza parlamentare rimase perlopiù identificata, nella sostanza, in una vasta palude filogovernativa. Fu solo con la comparsa nell’aula di Montecitorio, all’inizio del Novecento, dei socialisti prima, poi dei cattolici, dei fascisti e dei comunisti, e dei loro rispettivi partiti, che le cose cambiarono. Fu solo allora che nel Parlamento come nel Paese si stabilirono vasti schieramenti con discrimini veri e contrapposizioni non aggirabili; per tutto il XX secolo c’è stato posto, così, solo per le grandi ideologie, per le alternative drammatiche, per i grandi partiti organizzati. Ma è proprio tutto ciò cui si doveva storicamente la fine del monopartitismo virtuale e del trasformismo, propri della precedente tradizione italiana che è scomparso tra il 1992 e il 1994 sotto i colpi di Mani pulite. Ancora nel ventennio successivo è più o meno sopravvissuta una forma spuria di contrapposizione DestraSinistra grazie all’arrivo sulla scena di Berlusconi: grazie cioè all’accanimento del padrone di Mediaset nell’agitare il fantasma dell’anticomunismo, e alla risposta dei suoi avversari con il controfantasma dell’antifascismo. Finalmente però, con lo spappolamento di Forza Italia, il Novecento italiano è terminato, e di conseguenza ha potuto scomparire anche quanto restava di ciò che un tempo si chiamava comunismo. L’Italia post novecentesca si ritrova così oggi riconsegnata alla sua più antica peculiarità. Ritorna in un certo senso alle origini post risorgimentali e incontra di nuovo il trasformismo. Sconfitta nel sangue l’illusione fascista, tramontate le grandi ideologie d’impianto transnazionale le cui divisioni erano servite in passato a modellare le nostre divisioni, il sistema politico italiano si trova oggi costretto a utilizzare i materiali ideologici autoctoni, a derivare il suo discorso unicamente dal Paese reale, dalle risorse intellettuali e morali che esso riesce a mettere in campo. Che però non sembrano gran cosa. Se oggi ci riesce così difficile dare contenuti effettivi a questa o a quella piattaforma di partito, dividerci tra Destra e Sinistra, non è perché nella realtà manchino i contrasti d’interesse e le divisioni. È innanzi tutto perché la società italiana sembra avere perduto la capacità di pensare realmente se stessa, a cominciare dalle ragioni di fondo della crisi del Paese. Sembra non avere più la fantasia e l’audacia di immaginare vie e strumenti nuovi, nuovi compiti e nuovi doveri. Ed è come se l’assenza di queste cose si porti con sé anche un’assenza d’interesse e di voglia di futuro, anche il desiderio e il gusto delle contese forti sulle cose vere: che è per l’appunto ciò che genera i partiti. In questo modo al posto delle lotte abbiamo le risse, al posto delle discussioni le polemiche, al posto dei giornali e dei libri i talk show popolati di «ospiti» capaci solo di ripetere slogan a cui si sospetta che essi siano i primi a non credere. La nostra vita e il nostro discorso pubblici mancano di profondità e di passione. Appaiono sempre più poveri, ripetitivi, privi di orizzonti e di progetti. Come possono nascere dei veri partiti in queste condizioni? Esiste poi un altro insieme di ragioni che spiegano il ritorno alla convergenza generale verso il centro e del trasformismo. Una società che è tornata ad essere fragile oggi per giunta con pochi giovani e molti anziani , una società dalle risorse di nuovo tendenzialmente scarse, è spinta naturalmente a stringersi intorno al potere, a cercarne la protezione, così come ha fatto per secoli. È spinta naturalmente a credere solo nel potere, e prima di ogni altro nel potere politico: tanto più quando questo, come accade oggi, assume un aspetto marcatamente personale che lo rende più visibile e temibile, e perciò più forte. È spinta a credere, del resto, non solo nel potere di chi ha in mano la cosa pubblica. Anche il potere malavitoso, ad esempio, appare oggi ben più forte di venti anni fa, se è vero come è vero che ci si mette sotto la sua tutela non più soltanto nelle tradizionali zone del Mezzogiorno ma anche in Emilia, anche in Lombardia. Mentre dal canto suo pure il familismo, la protezione familiare, appaiono più forti che mai. Chi l’avrebbe detto agli albori della Seconda Repubblica che alla fine essa ci avrebbe ricondotto all’Italia dello Statuto: senza partiti e con un governo di fatto privo di alternative.

Pag 1 Perché l'Europa non può tacere sulla condanna di Morsi di Franco Venturini La sentenza capitale

Testo non disponibile

LA REPUBBLICA di domenica 17 maggio 2015 Pag 1 Chi comanda da solo piace a molti ma ferisce la democrazia di Eugenio Scalfari

Accade in tutte le trasmissione televisive che, oltre a diffondere informazioni sui fatti avvenuti in quel giorno, cercano anche di capire e di far capire al pubblico che le ascolta qual è il giudizio che gli italiani danno sui vari protagonisti della vita pubblica del nostro paese. E poiché ormai da molti mesi il protagonista è uno soltanto, la domanda ricorrente è: «Che cosa pensa di Renzi?». Le risposte sono varie ma la domanda è sempre questa, a tal punto ripetuta da essere ormai diventata noiosa anche perché è almeno in parte sbagliata. Il problema e quindi le domande che debbono esser poste sono: «Che cosa è il popolo italiano? Che cos'è la destra e cos'è la sinistra?». Questo tema me lo sono posto da tempo e da tempo lo studio; sono infatti domande che hanno radici lontane, storiche, perché un popolo, la sua mentalità, i suoi comportamenti, la sua sensibilità e infine il suo amor di patria (se c'è) non si formano da un giorno all'altro e neppure da un anno all'altro; ci vogliono secoli per farne un popolo che merita d'esser chiamato sovrano; c'è una storia che l'ha scolpito di virtù e di vizi. È un percorso molto complesso. L'Inghilterra moderna inizia a formarsi con la guida della grande Elisabetta, all'inizio del Seicento; la Francia più o meno nello stesso periodo con Enrico di Borbone e poi con il Re Sole, Luigi XIV; idem la Spagna con Filippo II e la Germania con Carlo d'Asburgo; la Russia con Pietro il Grande e poi con Caterina. Insomma l'Europa moderna nacque sotto il potere assoluto dei monarchi, ma insieme a loro nacque una nobiltà di spada, una magistratura, una borghesia mercantile e culturalizzata. Tre secoli dopo quella borghesia rovesciò i poteri assoluti e diventò la classe dominante. Ma un secolo dopo anche i lavoratori presero coscienza e nacque il socialismo. Questa, ridotta in pillole, è stata la storia d'Europa con i suoi pregi e i suoi difetti come avviene sempre e dovunque nella vita di cui la storia è il racconto. E in Italia? Anche da noi il tema si pose in quello stesso periodo e furono molti a studiarlo e a tentare di risolverlo. In alcune regioni, specialmente in quelle centrali del Paese, tentarono di risolverlo la casata dei Medici, alcuni capitani di ventura che fondarono tiranniche Signorie, la casata dei Borgia, quella dei Farnese, quella dei Della Rovere e insomma un Papato intriso di temporalismo. Al Sud dominavano gli spagnoli d'Aragona, a Nord i francesi e poi ancora gli spagnoli e infine gli austriaci. Il Piemonte fu per secoli un principatocuscinetto e in questo modo, con un lavoro assai lungo e tormentato, alla fine diventò indipendente. Non è caso che proprio di lì nacque quel motore che, dopo le cosiddette guerre d'indipendenza, costruì lo Stato d'Italia, proclamato da Cavour nel 1861 pochi mesi prima della sua morte. Il nostro Stato compare sulla scena europea con un ritardo di tre secoli rispetto agli altri. Ritardo che ebbe un'influenza terribilmente negativa, soprattutto per la cultura del bene comune e della partecipazione del popolo (sovrano se lo è) all'andamento della vita pubblica. Fino ai primi del Novecento la massa degli italiani era contadina, lavorava nelle campagne di proprietà dei latifondisti. Figliava e lavorava, si nutriva di fagioli o di polenta, arava, seminava, zappava, potava, per il padrone. Non aveva diritto al voto. Non era popolo, erano plebi e servitù della gleba. Per sottrarsi a questa situazione di servaggio e di fame, nella seconda metà dell'Ottocento e fino allo scoppio della guerra del 1915 emigrarono 29 milioni di italiani. Giovani soprattutto, in prevalenza dalle terre del Sud, ma non soltanto. Poi si scatenò la grande guerra, 600 mila morti, un milione i feriti. E molte cose cambiarono, ma il nocciolo del problema rimase e c'è ancora: la profonda diseguaglianza tra il Nord e il Sud, il disprezzo per lo Stato, una visione assai pallida del bene comune, una corruzione a tutti i livelli, le mafie ricche e potenti, clientele numerose e di basso conio. E soprattutto il desiderio diffuso, ossessivo, dominante, di comandare. A qualunque prezzo. Comandare anche al prezzo di essere comandati. Non sembri paradossale: ognuno vuole comandare da solo, al proprio livello. Se ad un livello superiore al suo qualcuno vuole il suo appoggio per comandare da solo, io glielo do incondizionatamente, purché io a mia volta sia autorizzato a comandare da solo. E così via, da livelli alti fino ai più bassi. Alla base c'è la plebe, alla quale non puoi dare diritto di comando perché è plebe. Ne hai bisogno però in un'epoca di diritti generali. Hai bisogno che ti voti, localmente e poi su su fino al comando del Capo. Quella plebe te la conquisti con la demagogia e qualche tozzo di pane in più. Questa, a guardarla e studiarla senza occhiali scuri che ti falsino la vista, è la situazione. Se fosse diversa non saremmo in testa nelle classifiche della corruzione e in coda in quelle dell'efficienza e della produttività. Queste cose del resto le avevano già viste e studiate Machiavelli e Guicciardini cinquecento anni fa. Se vi andate a rileggere Il Principe di ser Niccolò e le Storie del Guicciardini, la descrizione del popolo italiano sembra scritta oggi nella sua essenza eticopolitica. Machiavelli sperava che, mettendocela tutta, quel popolo sarebbe cresciuto. Guicciardini invece pensava di no. Purtroppo aveva ragione. Anche Mazzini sperava. Cavour no. Ma lo Stato unitario lo fece Cavour. Mazzini avrebbe voluto uno Stato repubblicano creato dal basso, dalle rivoluzioni popolari. Cavour quello Stato lo conquistò; si avvalse anche di Garibaldi che la pensava come Mazzini ma non fu il popolo contadino a farlo trionfare nel Sud, furono i suoi volontari, quasi tutti del Nord, a farlo vincere a Calatafimi, a Marsala e sul Volturno. Con Mazzini nella rivoluzione di Roma del 1849 aveva perso contro i francesi a porta San Pancrazio sul Gianicolo. A Calatafimi vinse con l'appoggio indiretto di Cavour, ma quando tentò da solo di conquistare Roma partendo dalla Calabria, il governo italiano lo fermò (e lo ferì) sull'Aspromonte. Andate a rileggervi il Gattopardo o a rivederne il film di Visconti. Il nucleo essenziale della storia d'Italia (democratica?) è tutto lì. Due articoli pubblicati sull'ultimo numero de l'Espresso mi hanno molto colpito. Uno è la Bustina di Minerva di Umberto Eco e racconta l'aneddoto di una signora che, parlando della sinistra italiana, si rallegra per una vittoria elettorale del Pd e dice al suo interlocutore: «Che bellezza, abbiamo vinto ed ora possiamo fare un'opposizione coi fiocchi!». Dal che Eco deduce che la sinistra ha nel sangue il suo compito di opposizione per non mescolarsi con il potere corruttore. La sinistra ha una sua vocazione morale prima ancora che politica e se il suo partito vince e cede alla tentazione del potere, allora molti dei suoi militanti l'abbandonano e ne fanno un altro più radicale (come sta accadendo oggi nel Pd). L'altro articolo è del direttore de l'Espresso, Luigi Vicinanza, che considera le vicende della destra di Berlusconi che per vent'anni l'ha guidata ed oggi che è allo sfascio pretende ancora di guidarla. Secondo Vicinanza quella destra italiana, quand'anche si presenti come moderata e liberale, ha sempre voluto governare a qualunque costo e con qualunque tipo di alleanza con lobby di varia natura, allo scopo di tutelare e rafforzare gli interessi aziendali del Capo nonché delle lobby e delle varie clientele alleate. Questa essendo la natura della destra berlusconiana, la visione del bene comune è sempre finita sotto i piedi e gli interessi particolari hanno avuto la netta prevalenza. Riassumendo: una sinistra che dà la prevalenza alla questione morale ed ha la vocazione dell'opposizione; una destra che si mette il bene comune sotto i piedi e tutela gli interessi privati. Con la conseguenza che un sistema bipolare diventa inesistente e il partito che spregiudicamente ottiene la maggioranza si colloca al centro e riduce le ali a una poltiglia. È appunto quanto sta accadendo. Queste cose noi le scriviamo da un pezzo e direi che siamo il solo giornale a dirle in modo compiuto e argomentato. Anche sul Corriere della Sera talvolta affiorano diagnosi analoghe. Ricordo un de Bortoli, già dimissionario, che ha chiarito la natura del partito renziano con parole poco riguardose e cito un articolo di venerdì scorso di Gian Antonio Stella che scrive così: «Come è possibile che dopo tante denuncie, inchieste e condanne, tante promesse e assicurazioni di rottamatori più o meno improvvisati, tutti i partiti sono alle prese con cacicchi locali, arroccati nei loro feudi e ben decisi a far pesare le loro rendite di posizione? Accade dappertutto, dalla Campania alla Liguria, alle Marche e soprattutto nel Pd dove la Bindi ha aperto un'inchiesta dell'antimafia sui candidati "discutibili" delle liste sulle quali si voterà il prossimo 31 giugno». Dopo questo ampio quadro di storia passata e contemporanea, posso rispondere alla domanda su Renzi: è uno dei pochi che sa convincere e sa tradurre in fatto politico il consenso ottenuto. Guida un partito di centrosinistra che cerca di prendere voti al centro, al punto tale che ormai è diventato un partito di centro dove lui decide e lui comanda. E fin qui nulla da dire, salvo due osservazioni. La prima: la sua legge elettorale ha organizzato benissimo il potere decisionale della maggioranza, cioè di lui che è il capo del partito ed anche del governo, ma ha completamente dimenticato l'elemento della rappresentanza che non è presente in un partito di "nominati", i quali non sono soltanto i 100 capolista, ma 200 perché si presentano in tre circoscrizioni e se risultano eletti in più di una optano lasciando il posto a chi viene dopo nella lista, che è stato anche lui scelto centralmente. La seconda: l'abolizione del Senato, come già scritto infine volte, indebolisce ulteriormente il potere legislativo a vantaggio di un esecutivo che si concentra nelle mani di un capo che comanda da solo. In questo modo si passa da una democrazia parlamentare ad una democrazia esecutiva, che è cosa del tutto diversa e sommamente pericolosa in un paese come il nostro. Mazzini avrebbe deprecato. Garibaldi si sarebbe ribellato. Machiavelli ne avrebbe avuto il cuore infranto. Guicciardini avrebbe avuto ragione. Il paese è fatto così. Un governo autoritario gli piace. Renzi dovrà dunque combattere contro questo paese che lo vuole al potere da solo purché si ricordi di chi gliel'ha regalato. Ce la farà a tenersi alla larga da questa po' po' di tentazione? Dovrebbe avere come esempio papa Francesco, ma personalmente ne dubito molto. È uno scout e Crozza lo descrive meglio di tutti.

AVVENIRE di domenica 17 maggio 2015 Pag 1 L'aiuto migliore di Giorgio Ferrari Santa Sede, Israele e Palestina

Il breve incontro in Vaticano fra papa Francesco e il presidente dell’Anp Abu Mazen alla vigilia della canonizzazione delle prime religiose palestinesi della storia contemporanea suggella senza ombre il passo decisivo della Santa Sede verso il riconoscimento giuridico dello Stato di Palestina. Un accordo destinato a regolare libertà di azione della Chiesa, giurisdizione, statuto personale, luoghi di culto, attività sociale e caritativa, mezzi di comunicazione sociale e questioni fiscali e di proprietà e la cui firma imminente si colloca – come afferma il segretario di Stato vaticano, cardinal Parolin – «nell’ottica di contribuire in maniera concreta alla realizzazione di un disegno che permetterebbe a due popoli di avere un proprio Stato, di vivere all’interno di ciascuno con confini sicuri e internazionalmente garantiti ». Accordo che, come è noto, viene da lontano: da quell’intesa siglata fra la Santa Sede e l’Organizzazione per la liberazione della Palestina il 15 febbraio 2000 e perfezionatasi nel corso degli anni fino a raggiungere un testo condiviso nell’incontro di Ramallah del febbraio 2014 fra le due delegazioni in continuità con la risoluzione Onu 67/19 del 29 novembre 2012 che riconosceva la Palestina quale 'Stato osservatore non membro' delle Nazioni Unite. L’accordo, che comprensibilmente suscita preoccupazione e anche contrarietà in Israele, non vuol privilegiare l’uno o l’altro degli attori della lunga disputa in Terra Santa. «Israeliani e palestinesi – ha detto il Papa al termine dell’incontro con Abu Mazen – prendano decisioni coraggiose a favore della pace, con l’auspicio che si possano riprendere i negoziati diretti tra le parti per trovare una soluzione giusta e duratura al conflitto». Poche ore prima, il nuovo gabinetto guidato da Benjamin Netanyahu otteneva la fiducia alla Knesset, il Parlamento israeliano. Una maggioranza risicatissima, un solo seggio, per un governo che è forse il più schierato a destra della pluridecennale storia del Paese e dove il tema della sicurezza ha fatto premio in campagna elettorale su ogni altra istanza e il processo di pace è stato deliberatamente tenuto fuori dalla porta anche dai laburisti e dai partiti che oggi si trovano all’opposizione. Netanyahu stesso aveva promesso alla vigilia del voto che fino a quando fosse rimasto alla guida di Israele non avrebbe mai permesso la nascita di uno Stato palestinese. Le poltrone ministeriali e i posti chiave del resto sono in mano agli ultranazionalisti, come l’organismo militare che amministra e controlla i territori occupati. Né sfugge che nelle intenzioni del nuovo governo c’è una significativa ripresa degli insediamenti in Cisgiordania nonostante il monito – che come sempre cade nel vuoto – del Palazzo di Vetro. Prigioniero dell’ansia per un futuro che non sa come affrontare, Israele si trova di fronte all’analogo radicalismo da parte dell’ala più intransigente dell’arcipelago palestinese, quella di Hamas che controlla la Striscia di Gaza e che costringe l’anziano leader Abu Mazen a un perenne stallo politico, in bilico com’è fra la linea del dialogo con Israele e quella dello scontro interno con Hamas. Entrambi, la destra israeliana che vive in muta circospezione circondata da muraglie, girelli e checkpoint e la destra (sì, la destra!) palestinese di Hamas che vive rinchiusa in simmetrica prigione – quella di Gaza – avendo come unico programma l’annientamento dello Stato di Israele e la conservazione del proprio potere, stanno marciando fuori dalla storia. Ed è significativo che, da molti mesi, sia la diplomazia pontificia a far ripartire la ruota del mondo che non si consegna alla logica della separazione e della guerra: la mediazione tra Cuba e Stati Uniti, il digiuno per la Siria e i continui appelli per le minoranze perseguitate, l’impegno ad allentare la tensione bellica in Ucraina e lo scontro tra mondo occidentale e Russia, la prudente Ostpolitik con la Cina, e ora – di nuovo – l’impegno sul fronte del conflitto israelopalestinese. Un nodo che i due contendenti non sono mai stati in grado di sciogliere da soli. Per questo hanno bisogno di aiuto a scorgere le strade possibili e necessarie della pace. Le strade più giuste, l’aiuto migliore disponibile.

Pag 2 Solitudini mortali esplose "per niente" di Marina Corradi Fatti di cronaca, a Nord e a Sud, che scuotono

A Napoli, all’inizio è stato un nulla. Ieri, in strada, la gente del quartiere Miano attonita alzava ancora gli occhi e indicava quel balcone, e i fili per la biancheria. Tutto è cominciato per quei fili, per una innocua, piccola, stupida bega fra condòmini. Poi, il litigio è esploso in strage: come se il battibecco fosse stata la piccola miccia, che dà fuoco a una polveriera. Ed era una polveriera di rabbia e di armi, la casa di Giulio Murolo. Oltre ai fucili da caccia sotto al letto teneva un kalashnikov, e in cucina l’innesto per far scoppiare la bombola del gas. Eppure né tra i vicini, né all’ospedale dove Murolo era infermiere, nessuno aveva mai sospettato in lui tanta rabbia, tanta follia. Non un collega, o un amico, che in anni passati fianco a fianco si sia accorto che qualcosa nella testa di quell’uomo non andava. Ci sono sempre più spesso, nelle cronache, storie che sembrano possibili solo quando si viva profondamente soli, come monadi che appena incidentalmente hanno rapporti con l’altro. Pensiamo al lavoro di un infermiere nell’ospedale di una grande città, ai momenti di stress che mettono i nervi alla prova, o alle ore lente dei turni notturni, in cui fra colleghi si scambia qualche parola. Nulla: nessuno mai si è accorto di nulla. Per spegnere in tempo la miccia della rabbia di quell’uomo sarebbe forse bastato un amico, vero, che intuisse, che lo inducesse a curarsi. E un’altra storia di cronaca batte alla porta, straziante, perché è morto un liceale di 19 anni, in gita scolastica, e sembra morto senza alcuna ragione. Domenico, dice chi lo conosceva, era uno studente sereno. Non si sarebbe mai buttato giù dal quinto piano di quell’albergo di Milano. Fino a sera aveva scherzato con i compagni di un liceo padovano: e ti immagini la festa e il disordine di una gita scolastica, le risate, le luci accese fino a tardi, le birre, in una notte calda che sembra già d’estate. Anche a Milano, quella notte, all’inizio è stato un niente. Baldoria, eccitazione, forse dell’alcool di troppo, forse uno stupido scherzo goliardico – del lassativo in un bicchiere. Sta di fatto che, all’alba, Domenico sta male ed è chiuso fuori, senza scarpe, senza occhiali, dalla stanza che divide con dei compagni. Poi, c’è come un buco di due ore. Lo trovano degli inservienti all’alba, sul selciato del cortile. I genitori escludono che il figlio abbia potuto volontariamente morire. Ma nessuno dei compagni sa, nessuno ha visto. E anche se fosse vero, resterebbe un fatto: che mentre un ragazzo stava male non c’è stato un amico capace di avvicinarsi e prenderlo per mano e riportarlo a letto, o di chiamare un medico. I compagni di stanza non lo hanno cercato, non vedendolo. Le birre, forse, o forse la convinzione che tutto era solo uno scherzo. Ma è terribile pensare a quel figlio dell’età dei nostri, da solo, sofferente, confuso, in un’alba che stenta a arrivare. Davanti al parapetto di un balcone e sotto, vertiginoso, il vuoto: a 19 anni, senza una ragione. Lasciando una madre e un padre impietriti, al funerale, che chiedono almeno di capire perché. Ma nessuno sa niente. Omertà, accusano i giornali, ed è possibile, che qualcuno taccia per paura. E non si può neanche escludere che tutti davvero non sappiano. Che tutti stessero smaltendo la birra, o dormendo. Domenico però, era solo in corridoio, sofferente, forse non lucido. Sarebbe bastato un amico, uno solo. Una pacca sulle spalle: «Vieni a letto, hai bisogno di dormire». E ora Domenico starebbe studiando per la maturità. In realtà, dietro a tante cronache dolorose, più che una cattiveria, c’è un’assenza: lo sguardo indifferente e distratto di chi sta accanto, ma non vede. L’indifferenza, non è un reato. Però corrode il nostro stare insieme, questo vivere, in fondo, solo per sé. Dentro a una spessa diffusa solitudine talvolta la routine quotidiana si inceppa, e deflagra. Attorno non sanno, non immaginavano, non hanno visto nulla. Ed è vero, ma è proprio in questa collettiva diffusa distrazione, attenta solo ai propri pensieri, che covano le tragedie che poi i giornali raccontano. Quelle di cui nessuno si spiega il perché.

Pag 3 Anticorruzione: le attese e i voti di Danilo Paolini Alti richiami, regole e scelte dal basso

La corruzione da devianza a «concezione» della vita. Un pessimo salto di qualità, se così si può dire, che il capo dello Stato Sergio Mattarella ha segnalato con preoccupazione qualche giorno fa a Torino, per contrasto rispetto alla bella realtà di generosità e condivisione che stava visitando: l’'Arsenale della pace' di Ernesto Olivero. Una «concezione rapinatoria», ha detto per la precisione il presidente della Repubblica, che si è ormai diffusa come gramigna nella politica, nell’economia, nella società. Inasprire le pene come si accinge a fare il Parlamento nella settimana che comincia domani sicuramente non è uno sbaglio, ma difficilmente sarà risolutivo. E non perché, come ha scritto una commissione del Consiglio superiore della magistratura in un parere che mercoledì dovrà passare l’esame del plenum, manca un intervento legislativo organico. Ma perché norme e sanzioni rischiano di non bastare. Innanzi tutto per una ragione banalmente pratica: per punire severamente un crimine bisogna prima scoprirlo e individuarne in tempi rapidi i responsabili. Altrimenti, la severità resta sulla carta, trasformandosi nella caricatura dell’impunità. È un po’ quello che accade per certi reati considerati a torto 'minori' ma di grande impatto sociale, come i furti di veicoli e quelli in casa, per i quali di tanto in tanto si alza l’asticella della punizione senza che ciò comporti la minima scalfittura nelle statistiche delle condanne. Né si può pretendere, tornando ai reati di corruzione e affini, di supplire a tali difficoltà investigative espandendo in maniera abnorme i tempi di prescrizione, com’era nelle intenzioni di una parte della maggioranza di governo. La quale bene ha fatto a ridimensionare (per il momento solo al tavolo della trattativa con gli alleati) i fattori di calcolo, nell’ambito di quest’altra importante riforma in materia processuale. Mentre è plausibile congelare il decorso dei termini per un tempo limitato dopo i processi di primo e secondo grado, infatti, non è pensabile che un delitto contro la pubblica amministrazione punito nel massimo con 10 anni di reclusione si prescriva dopo 18 o 21 anni: la ragionevole durata del processo, che è un principio contenuto in Costituzione, è infatti un pilastro dello Stato di diritto tanto quanto la necessità di garantire la certezza della pena. Inoltre, non si può dare per scontato che il cittadino sotto inchiesta sia per ciò stesso colpevole e che sia quindi una forma di giustizia preventiva lasciarlo per vent’anni ad attendere la sentenza. La norma (costituzionale anche questa) è la presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, non il suo contrario. Detto ciò, è evidente che per sperare di sconfiggere un fenomeno che «blocca il Paese e lo sviluppo» parole del presidente dell’Autorità anti corruzione Raffaele Cantone serve un salto di qualità maggiore, ovviamente in positivo, rispetto a quello di cui si parlava. Una svolta culturale, innanzi tutto, che cominci in famiglia, a scuola, in parrocchia, nei circoli sportivi o con iniziative come la 'Notte bianca della legalità' che si è svolta ieri al Tribunale di Roma: chi bara non è furbo e sveglio, è solo un disonesto e come tale va trattato. Ma per non passare da ingenui, oltre a preparare un futuro migliore occorre aggredire con energia il presente: vanno disboscate senza riguardi consorterie, burocrazie, concentrazioni di potere politico ed economico. Soprattutto a livello locale, dove spesso la «concezione rapinatoria» non si esaurisce nel penale. Come definire altrimenti certe normative sui rimborsi e sui vitalizi ai consiglieri regionali a cui, soltanto ora e solo in alcuni casi, si sta cercando di porre rimedio? Come lo spreco dei fondi destinati alla formazione professionale, la giungla di municipalizzate dai misteriosi bilanci, l’uso sfacciato dell’autonomia da parte di alcune Regioni a statuto speciale, l’ipertrofia diffusa di quelle a statuto ordinario? A fine mese si voterà per il rinnovo dei Consigli (e quindi delle giunte) di ben sette Regioni. È un grande banco di prova per la credibilità, già largamente compromessa, della politica: i partiti, tutti, dovranno dimostrare di sapere (e volere) tradurre in pratica sul territorio quanto predicano a livello nazionale.

Pag 8 Intolleranti: avversari veri o alla fine solo complici?

La libertà di parola è il fondamento di qualsiasi democrazia, perciò deve essere garantita a tutti. Anche a chi sceglie di farsi propaganda sparandole grosse, sempre più grosse, soffiando persino sul fuoco degli istinti peggiori (razzismo, xenofobia, populismo) o, semplicemente, cercando di sfruttare a suo vantaggio (elettorale) il disagio e l’esasperazione delle fasce sociali più provate dalla crisi economica. Insomma, anche a Matteo Salvini va assicurato di potersi muovere e sostenere certe enormità che mai condivideremo nei comizi, senza rischiare l’incolumità sua e di chi ne protegge la persona. Chi si scaglia contro la sua auto e gli tira le uova dimostra la stessa intolleranza che, a parole, dice di voler contrastare ed eliminare dalla scena politica. Proprio a costoro viene voglia di rivolgere una domanda tutta politica: trasformando ogni giorno il leader della Lega in una 'vittima' davanti a telecamere e giornalisti, siete sicuri di non fargli in realtà un gran favore?

IL GAZZETTINO di domenica 17 maggio 2015 Pag 1 Via della seta, la strada che riporta l'Italia in Cina di Romano Prodi

Le tensioni in Ucraina e le tragedie del Mediterraneo hanno giustamente allontanato la nostra attenzione dai rapporti fra Cina e Stati Uniti, che pure costituiscono e costituiranno il tema dominante della politica mondiale. Data la ormai cronica divisione dell'Europa e la fragilità russa, la primazia mondiale si materializza infatti sempre di più nella sfida fra questi due giganti. Una sfida che si estende in tutti i campi, da quello economico a quello scientifico a quello militare. Per fortuna tale sfida, negli ultimi mesi, si è soprattutto concentrata nel settore economico, dove abbiamo assistito a mosse e contromosse destinate a cambiare in maniera sostanziale il futuro del pianeta. Il tutto in presenza di un dibattito che tende a mettere in rilievo le debolezze dell'avversario, per cui da parte cinese si è con enfasi sottolineata la diminuzione del tasso di crescita dell'economia americana, mentre da parte americana si è dato un enorme rilievo alla minore velocità dello sviluppo cinese. Entrambe le osservazioni hanno una certa validità ma non possono mettere in dubbio né il primato degli Usa né la persistenza di una crescita cinese che da decenni desta meraviglia. Lo sviluppo del prevedibile futuro del paese asiatico non sarà a due cifre ma, presumibilmente, tra il sei ed il sette per cento. Questo rallentamento ha aperto il dibattito su un'inevitabile crisi dell'economia cinese, dovuta alla fine di una fase di sviluppo spinta dall'illimitata offerta di mano d'opera a cui la nuova struttura demografica cinese porrebbe fatalmente fine. Da parte cinese si risponde invece che il 67% di crescita corrisponde alla "nuova normalità" di un paese che ha già raggiunto un ragguardevole livello di sviluppo. Fino ad ora vi sono tutti gli elementi per credere che questa "nuova normalità", che ancora costituisce una crescita impressionante, possa prolungarsi in futuro, anche se ci sono pericolosi squilibri in alcuni grandi settori (ad esempio la bolla dell'edilizia) e urgenti necessità di riforma nel campo bancario e nel debito delle comunità locali. In questa grande sfida per il primato economico gli Stati Uniti hanno preso un'iniziativa di grande portata con la proposta di un grande accordo economicocommerciale (TransPacific Partnership) con dodici paesi dell'area del Pacifico ma che, almeno per il presente, esclude la Cina. Non si tratta solo di una sfida commerciale ma di un disegno per costruire un'estesa area economica capace di costituire un'alternativa alla Cina nella produzione e nell'attrazione degli investimenti stranieri. I cinesi non si sono mostrati particolarmente turbati, anche se quest'accordo è evidentemente rivolto a mutare i rapporti economici di molti paesi che oggi hanno nella Cina il maggiore partner economico e commerciale. Non si sono turbati ma hanno preparato un contrattacco in grande stile, prima di tutto annunciando una serie di fusioni e concentrazioni che ridurranno da 116 a 40 il numero delle maggiori imprese pubbliche cinesi, trasformando cioè queste aziende che sono già giganti in supergiganti capaci di dominare la sfida mondiale. La risposta cinese si è poi materializzata in due importanti decisioni strategiche: in primo luogo nella creazione della Banca Asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti (AIIB) e quindi nel progetto della Nuova Via della Seta. La AIIB è una chiara alternativa alla Banca Mondiale e agli Stati Uniti che ne hanno sempre controllato la gestione. Essa si propone di agire con criteri operativi più rapidi e più aderenti agli interessi dei paesi in via di sviluppo, al di fuori dei condizionamenti che hanno tradizionalmente guidato l'azione della Banca Mondiale. La forza della proposta cinese è stata tale che ad essa hanno aderito non solo la maggioranza dei paesi asiatici ma anche i grandi paesi europei, a cominciare dalla Gran Bretagna, che ha scelto di accettare la proposta di Pechino nonostante la durissima opposizione dell'amministrazione americana. A questa prima mossa del governo cinese si è accompagnato il lancio della "Nuova Via della Seta" volta a legare Cina ed Europa con poderosi investimenti sia nella via marittima che in quella terrestre. Non è solo un messaggio verso l'Europa, che della Cina è il maggior partner commerciale, ma verso tutti i paesi dell'Asia Centrale e soprattutto della Russia, con la quale sono stati contemporaneamente siglati accordi di grande portata in tutti i campi, a cominciare da quello energetico per finire con quello militare. Il tutto reso più facile dalle rotture che si sono create fra l'Occidente e la Russia in conseguenza delle accresciute tensioni in Ucraina. Si tratta quindi di una risposta alla strategia americana nel Pacifico con una rapidità, una estensione e un impiego di mezzi che hanno stupito tutti gli osservatori politici, anche se era in qualche modo atteso che la Cina si sarebbe affrettata a dare una risposta alla nuova politica americana. Senza volere entrare nelle previsioni sull'evoluzione dei rapporti tra Europa, Cina e Russia mi limito ad una breve riflessione sugli interessi italiani e sulle necessarie azioni da compiere. I rapporti fra Asia ed Europa in ogni caso aumenteranno ulteriormente. Già i primi treni viaggiano tra la Cina Centrale (Chongqing) e Duisburg, in Germania. Diviene quindi imperativo ed urgente che l'Italia costituisca un terminale importante sia del cammino terrestre che di quello marittimo. Il nostro grandioso potenziale marittimo è stato fino ad ora relegato in secondo piano rispetto a Grecia e Spagna sia dalle vicende del porto di Gioia Tauro sia dagli incredibili, incomprensibili e colpevoli intralci burocratici che hanno impedito il decollo del porto di Taranto nel commercio con l'Asia. Oggi si apre un nuovo capitolo che prende perfino il nome dal legame che per secoli ha unito l'Italia alla Cina. Vogliamo di nuovo lasciare passare quest'occasione senza una strategia nazionale che ci renda di nuovo protagonisti attivi della Via della Seta?

Pag 1 Le sette vite di Berlusconi non sono finite di Mario Ajello

Una persona diversa da Silvio Berlusconi avrebbe già gettato la spugna. Ma lui, come lo chiamano i nipotini, è Superman. E’ alle prese con una situazione quasi impossibile. Ha fatto semiflop il primo tour elettorale. Una persona diversa da Silvio Berlusconi avrebbe già gettato la spugna. Ma lui, come lo chiamano i nipotini, è Superman. E’ alle prese con una situazione quasi impossibile. Ha fatto semiflop il primo tour elettorale dell’ex Cavaliere per le Regionali, in Puglia. A Napoli, il suo candidato governatore Stefano Caldoro preferisce che non si faccia vedere, temendo che lo possa danneggiare piuttosto che aiutare come avveniva un tempo. In Veneto, Forza Italia viaggia su standard bassini, secondo i sondaggi, anche se è la regione in cui la coalizione alternativa al centrosinistra crede, non senza qualche motivo, di poter vincere, ma poi si vedrà. E ancora: doppia scissione in atto in Forza Italia, con Raffaele Fitto e Denis Verdini. Totale sbandamento nei gruppi parlamentari e basta ascoltare un qualsiasi deputato o senatore berlusconiano, per sentirsi dire: «Ma il Presidente esiste ancora?». Proprio questo è il punto. Berlusconi è distante dalla politica e allergico ad essa, in questa fase, e se ne occupa in maniera riluttante e svogliata, anche perchè la situazione in cui versa il suo partito fa impressione e tristezza soprattutto a lui. Ma che non creda in se stesso, e che sia sulla via dell’autopensionamento, è ancora una volta una pia illusione dei suoi avversari, soprattutto quelli interni. «Ha molte vite», ha appena detto di lui Matteo Renzi. Ciò che è certo è che Berlusconi, tipo pratico e molto duttile, uno schema di rimonta, sia pure non immediata, sostiene di averlo. E si adatta alla legge elettorale. Il cosiddetto Italicum prevede il ballottaggio tra i due partiti arrivati primo e secondo, se nessuno tocca il 40 per cento che dà diritto al premio di maggioranza. Ebbene, arrivare primo Berlusconi lo esclude. Ma arrivare secondo, alle elezioni politiche del 2018, lo ritiene un obiettivo abbordabilissimo e possibile per uno come lui, esperto di rimonte. «Abbiamo a livello nazionale intorno al 14 per cento», va dicendo. E dunque: «Dovremo rimontare otto punti, arrivare al 22 per cento superando i grillini e piazzarci secondi dopo il Pd. E poi al ballottaggio....». In quella consultazione bis, Supersilvio è convinto di fare il pienone, anche grazie ai grillini che preferirebbero Forza Italia (o come si chiamerà) piuttosto che Pd e la «dittatura» renziana e grazie a tutti gli astenuti del primo giro che si mobiliterebbero in seconda battuta, quando il gioco si fa duro. Molti dei suoi amici più stretti, affezionati e fidati, quando l’ex Cavaliere parla loro così, lo prendono per folle. Ma poi aggiungono: «Anche nel ’94 ci sembrava un pazzo...». Da allora, però, sono passati più di vent’anni.

LA NUOVA di domenica 17 maggio 2015 Pag 1 Profughi tra stereotipi e falsità di Francesco Jori

Non solo Padova, e non solo per un giorno: ci sono oggi, in tema di profughi, altre due marce contrapposte, e di lungo periodo. Quella dei profughi stessi, in tragica fuga dalla persecuzione che subiscono in casa loro, spesso risolta con la morte. E quella delle polemiche continue di casa nostra, che in troppi casi fanno leva su stereotipi basati su numeri sparati a spanne. Se davvero si vuole risolvere il problema, bisogna porre fine ad entrambe. Proviamo a cominciare dalla seconda, accostando alle principali obiezioni i dati reali. 1) L’Europa è invasa. I richiedenti asilo nella Ue nel 2014 sono stati 626mila. Nello stesso periodo, il piccolo Libano ne accoglieva 1,1 milioni, la Turchia 800mila, la Giordania 645mila. Quindi ciascuno di questi Paesi, da solo, si fa carico di un numero di persone superiore a quello di tutti i 28 Paesi della Ue messi assieme. Un divario ancor più evidente considerando il numero di profughi per mille abitanti: in Libano 257, in Giordania 114, in Turchia 11, nella Ue 1,2. 2) L’Italia è invasa. Sempre nel 2014, le domande di asilo sono state 64.625, pari a 1,1 per mille abitanti. In Svezia siamo a 8,4, in Ungheria a 4,3, in Austria a 3,3, a Malta a 3,2, in Danimarca a 2,6, in Germania a 2,5. 3) Il Veneto è invaso. La Sicilia ospita il 22 per cento dei profughi, il Lazio il 12, la Puglia il 9, la Calabria e la Campania il 7 ciascuna. Il Veneto è al 4: la regione del Nord con la minor presenza percentuale (la Lombardia è al 9). 4) I profughi portano via risorse agli italiani. Ogni profugo riceve 2,5 euro al giorno, con un tetto di 7,5 per nucleo familiare. Non ne intasca 35: quella è la cifra che va alle strutture di accoglienza. In entrambi i casi, sono soldi spesi in Italia e incassati da italiani. 5) Bisogna aiutarli a casa loro. I profughi sono una realtà diversa dagli immigrati. Arrivano da zone devastate dalla guerra: quelli in fuga dalla Siria in un anno sono passati da 50mila a 123mila; il 60 per cento di loro è diretto in Germania e Svezia. Altri arrivi massicci provengono da Somalia, Eritrea, Mali. Per fare un paragone di casa nostra, che aiuto si sarebbe potuto portare cent’anni fa nelle nostre terre, per far sì che 600mila profughi restassero a casa loro, anziché riversarsi in tutta Italia dopo la rotta di Caporetto, con metà Triveneto invaso? 6) Lo Stato scarica sulle amministrazioni locali l’onere, e in modo confuso. Vero, anzi verissimo, ma non da oggi: la politica italiana sull’immigrazione è da sempre ambigua e carente, supplendo con il ricorso agli editti; nessun partito escluso. Un esempio? 28 marzo 2011, intervista al “Corriere della sera” dell’allora ministro degli Interni Maroni: rivolto alle Regioni, «accogliete i profughi o agiremo d’imperio». Quanti? «Il tetto è di 1.000 per ogni milione di abitanti». Tradotto per il Veneto: 4.857. Oggi, sono meno della metà (2.287). Una curiosità: è lo stesso Maroni che oggi da governatore della Lombardia tuona «non ci possono imporre i profughi», o è solo un omonimo? Ma il problema vero è ovviamente l’altro, come mettere fine alla prima marcia. Nessuno ha la formula giusta in tasca: se così fosse, lo farebbero governatore del mondo. Da qualcosa però si deve e si può partire. L’Europa si è mossa tardi e male. Ha chiuso a lungo gli occhi, lasciando i governi a fare lo scaricabarile tra loro. Anche adesso adotta misure inadeguate: come la convenzione già ribattezzata “il muro di Dublino”, che di fatto blocca i rifugiati nei Paesi Ue a cui sono stati ricollocati in quota. L’Italia ci mette come sempre del suo: a partire dalla durata delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, che rimane lunga e incerta nell’esito, scaricando sugli operatori l’onere di gestire le ansie, le frustrazioni e talvolta la rabbia dei profughi. Questi sono i fatti, troppo consistenti per liquidarli con battute a volte meschine. Come quella di chi definisce i rifugiati «giovanotti venuti qui in vacanza». A chi lo sostiene, si potrebbe consigliare un viaggio alla rovescia: salga su un barcone affollato, attraversi il Mediterraneo in senso contrario, sbarchi in Libia, affronti una lunga marcia verso i Paesi subsahariani o verso la Siria, e vi trascorra un periodo anche breve. Poi, sugli appositi moduli dei villaggi turistici, indichi il suo gradimento di questa vacanza allinclusive. Bombe comprese.

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CORRIERE DELLA SERA di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 Il gesto di un’Europa avara di Michele Ainis Immigrazione

L’Unione Europea ha aperto un ufficio postale. Ma in questo caso i pacchi da spedire contengono persone, non merci. È l’effetto della relocation decisa dalla Commissione: la folla dei migranti andrà divisa in quote diseguali tra 25 Paesi, tenendo conto delle loro popolazioni, del Pil, del tasso di disoccupazione. A prima vista, un gesto di solidarietà da quest’Europa ben poco solidale. Finalmente ci lasciamo alle spalle il regolamento di Dublino, che scarica i flussi migratori sugli Stati in cui avvengono gli sbarchi. A seconda vista, una misura secondaria. Senza un’assunzione di responsabilità davanti all’emergenza più drammatica del terzo millennio. Senza un calcolo realistico delle sue concrete conseguenze. E infine senza rispetto per la dignità degli individui. Per quali ragioni? Intanto perché il provvedimento s’applica ai richiedenti asilo. Non alle altre categorie d’immigrati, che sono il maggior numero: loro continueranno ad essere un rompicapo nazionale. L’anno scorso ne sbarcarono in Italia 170 mila, un record; nei primi quattro mesi di quest’anno il pallottoliere segna già 85 mila migranti assistiti dalle nostre strutture, un ultrarecord. Per identificarli attraverso il fotosegnalamento dobbiamo acquistare macchinari, reclutare personale. Per ospitarli servono alloggi, quando ci mancano perfino le caserme. Sicché nel 2014 abbiamo speso 650 milioni nella gestione degli immigrati, nel 2015 la stima s’impenna a 800 milioni. Tuttavia l’Europa ha stanziato la miseria di 60 milioni per tutti i 25 Stati coinvolti da questa nuova Agenda sulla migrazione. Nemmeno Arpagone, l’avaro di Molière, avrebbe fatto peggio. La via d’uscita? Costruire campi d’identificazione in Africa, nei cinque Paesi della fascia sub sahariana. E lì respingere o accettare le richieste d’asilo, dirottando da subito i migranti nei vari Stati europei. Il governo italiano l’aveva già proposto l’anno scorso, ma l’Unione ha fatto orecchie da mercante. E il mercante ora progetta un esodo di massa, o meglio un trasferimento degli immigrati da una sponda all’altra del Vecchio continente, per rispettare quote e percentuali. Tu leggi il nuovo editto, e subito t’immagini aerei che rombano da Lubiana a Madrid, da Atene a Francoforte. T’immagini il loro carico dolente, e quasi sempre anche nolente. Quanti migranti vorranno separarsi dai luoghi, dagli affetti, dal lavoro che hanno trovato nel frattempo? E quanta forza militare servirà per addomesticare i più recalcitranti? Eccola perciò la vittima di questa misura: la dignità, il rispetto che si deve a ogni individuo. E la dignità non ammette distinzioni fra stranieri e cittadini, né fra immigrati regolari e irregolari. Come ha stabilito la Corte costituzionale nella penultima sentenza firmata anche da Sergio Mattarella (n. 22 del 2015), annullando una norma che negava agli extracomunitari ciechi la pensione d’invalidità, ove quelle persone prive della vista fossero anche prive della carta di soggiorno. Una lezione per l’Europa, ma pure per l’Italia. Perché non possiamo pretendere dagli altri il rispetto di questo valore, se non sappiamo rispettarlo a casa nostra. Sta di fatto che il Testo unico sull’immigrazione è stato denunziato in 264 occasioni dinanzi alla Consulta, oltre una volta al mese. Ciò nonostante, le nostre leggi hanno più buchi d’un gruviera. Manca una disciplina organica sulla gestione degli stranieri che reclamano asilo o in generale protezione umanitaria; eppure le soluzioni sono già nero su bianco, come quella elaborata dall’Isle nel 2014. Manca una differenziazione chiara fra i migranti economici e le altre categorie di sfollati. Manca la legge sul diritto d’asilo, benché siano trascorsi settant’anni da quando i costituenti la previdero. Manca altresì sui rifugiati, per estendere la tutela a chi venga perseguitato per ragioni etniche o sessuali, oltre che politiche. Manca un supporto normativo che garantisca ai migranti informazioni e procedure certe. Manca perfino il diritto ad avvalersi d’una lingua conosciuta. Risultato: se non annega nelle acque del Mediterraneo, chi sbarca sulle nostre coste finirà per annegare tra i flutti della burocrazia italiana. A Roma non meno che a Bruxelles, urge acquistare un salvagente.

Pag 1 Il dialogo e gli spiragli per l’Italia di Francesco Verderami

L’Europa che si prepara all’azione nel Mediterraneo contro i trafficanti di uomini è la stessa Europa che si prepara a litigare sulle quote di accoglienza dei migranti. Eppure, per quanto sembri paradossale, sono entrambi due buoni segnali. Perché è vero che non c’è ancora un accordo tra i Paesi comunitari sull’equa distribuzione degli «asilanti», ma è altrettanto vero che intanto è passato il principio di reciproca assistenza, prima breccia nel muro di Dublino. Tutto ciò mentre la diplomazia del Vecchio Continente è all’azione per dare il via alla missione militare, siccome finalmente come ha detto in un vertice del Ppe a Berlino il ministro della Difesa tedesco «il fronte a Sud è da considerarsi strategico quanto il fronte a Est. L’immigrazione, infatti, oltre a essere un problema umanitario è un serio rischio per la sicurezza europea. Dunque è un problema di tutti». E tutti sono all’opera a Bruxelles, dove si sta preparando l’intervento per contrastare il flusso proveniente dalla Libia: da mesi sono allo studio le linee di comando, le opzioni militari e i rischi derivati dagli effetti collaterali. In attesa della risoluzione alle Nazioni Unite si mira a inserire tra i caveat «l’inseguimento fino a terra dei trafficanti»: un deterrente per far capire agli scafisti che non potranno pensare di agire impunemente. Certo, servirà l’ok dell’Onu che passerà (anche) dal consenso del governo di Tobruk, con cui è stato avviato il dialogo per arrivare al negoziato. È toccato alla Mogherini il primo approccio, è l’Alto rappresentante europeo per gli Affari esteri che ha avuto un colloquio a New York con l’ambasciatore libico al Palazzo di Vetro, mentre attraverso canali politici e diplomatici Londra esorta Roma ad assumersi direttamente la responsabilità del dossier. Così sta per materializzarsi quel «rischio che nasconde un’opportunità», come disse il ministro dell’Interno a Renzi, quando il premier voleva tenersi a distanza dal problema: «Perché comunque si affronti la questione immigrazione, si beve». Ma alla fine il capo del governo ha convenuto con Alfano, dato che «il rischio» della missione nasconde «l’opportunità» di prospettare per l’Italia un ruolo di potenza regionale, con il Mediterraneo come sfera di influenza: «Non si è leader di politica interna senza un ruolo in politica estera». D’altronde Renzi deve far di necessità virtù, visto che Obama ricevendolo alla Casa Bianca disse che gli Stati Uniti erano «pronti a dare una mano» sulla Libia, ma che «quel problema dovrete affrontarlo voi». La «cabina di regia» italiana nella soluzione diplomaticomilitare del caso libico è la conseguenza della soluzione comunitaria che si sta trovando sul dossier immigrazione. E non c’è dubbio che il passaggio determinante si è avuto durante il semestre di presidenza guidato da Renzi, quando Alfano che si sentiva lasciato solo a Roma disse ai partner europei: «Non ci potete lasciare soli». Furono giorni difficili, con la Merkel che insisteva: «Dovete chiudere Mare Nostrum», perché l’operazione era considerata un fattore di «pull factor», che incoraggiava le partenze dei barconi e faceva il gioco dei trafficanti. Il titolare del Viminale assicurò il suo impegno tra lo scetticismo dei colleghi e le critiche del ministro dell’Interno tedesco: «Non vi attenete alle regole di Dublino». «Non è così», fu la risposta: «Però riteniamo quelle regole ingiuste e da cambiare». «Su questo concordo», disse de Maizière. Da lì ebbe inizio la trattativa sulla missione Triton che Renzi assecondò malgrado le resistenze nel suo partito consapevole ormai che un problema di politica estera non poteva restare confinato a un problema di politica interna. Triton fu il primo segno di una presa di coscienza collettiva dell’Europa, «che fino ad allora come sostiene Alfano aveva solo saputo portare i fiori a Lampedusa». Da allora il premier italiano ha esposto se stesso e il suo governo, e dopo l’ennesima strage del mare ha chiesto e ottenuto il vertice d’emergenza, «evento disse in Consiglio dei ministri capitato solo ai tempi dell’Undici settembre». Ora che l’Europa ha potenziato Triton, ora che lavora per una risoluzione all’Onu, ora che definisce i piani d’intervento militare, ora la stessa Europa si prepara a litigare sulle quote di accoglienza, con i Paesi più piccoli pronti a fare resistenza, a fronte dell’Italia che mira a redistribuire tra i 20 e i 50 mila migranti negli altri Stati dell’Unione. Eppure anche questa lite è una buona notizia, perché il principio è passato, perché si è di fatto riconosciuto che le regole di Dublino non hanno funzionato e vanno cambiate. Non sarà la soluzione del problema, forse nel breve periodo la svolta non verrà percepita dall’opinione pubblica. Ma insieme alle mappe militari c’è oggi una rotta politica tracciata in Europa anche dall’Italia.

LA STAMPA di sabato 16 maggio 2015 Perché è illusorio pensare di fermare i popoli che emigrano di Roberto Toscano

Si parla tanto di globalizzazione – o meglio, per usare la più calzante espressione francese, di mondializzazione – ma poi finiscono sempre per prevalere le analisi limitate, autoreferenziali. Analisi che ci fanno perdere di vista la vera natura ed entità dei problemi, e anche il fatto che non solo è impossibile sottrarci a quelle sfide, ma che potremo affrontarle sono in chiave realmente e non retoricamente globale. E’ vero anche per le migrazioni, quegli spostamenti apparentemente incontrollabili di grandi e dolente masse umane che cercano di sottrarsi alla violenza e alla fame. Che sia così dovrebbero ricordarcelo le cifre: dei 45 milioni di rifugiati attualmente registrati dagli organismi dell’Onu soltanto una minima parte è ospitata in Paesi sviluppati, mentre la maggioranza si trova in campi – spesso vere e proprie città – situati in Africa, Asia, Medio Oriente. In altri termini, in Paesi che molto meno dei nostri possono permettersi di dedicare le loro scarse risorse a un impegno umanitario di tali dimensioni. E anche le migrazioni economiche avvengono in gran parte in direzione SudSud piuttosto che SudNord: dai bangladeshi in India ai congolesi in Sudafrica. Ma se non vogliamo guardare alle cifre, in questi giorni dovrebbe bastare aprire la televisione e vedere il tragico spettacolo di gente alla deriva su imbarcazioni di fortuna. No, non vengono dal Nord Africa, e non si dirigono verso le nostre coste. Appartengono a una minoranza musulmana di Myanmar, che cerca di sottrarsi a discriminazioni e persecuzioni che rendono la loro vita impossibile, e si dirigono verso Thailandia, Indonesia, Malaysia. Paesi che non stanno certo gestendo operazioni come «Mare Nostrum» (un capitolo che, sarebbe bene non dimenticarlo, ci fa onore), ma anzi li respingono mettendone al rischio la sopravvivenza, dato che spesso quando si avvicinano alle coste hanno terminato sia viveri che acqua. Gli scettici, che non mancano anche su questo drammatico tema, dicono che la miseria è sempre esistita e che ogni Paese dovrebbe farsi carico dei propri problemi, delle proprie miserie. Che il nostro «buonismo» è disastrosamente autolesionista e ci espone a insostenibili danni economici e a rischi per la nostra stessa sicurezza. Dimenticano che in materia di rifugiati esistono norme internazionali, da applicare magari aggiornandole, come sta oggi cercando di fare l’Europa, alle esigenze del nostro tempo, ben diverse da quelle che avevano ispirato, nel 1951, la Convenzione sull’asilo politico, basata su casi individuali di persecuzione politica piuttosto che su spostamenti di grandi masse umane. Ma oltre le norme dovremmo anche considerare la realtà del mondo contemporaneo. Un mondo in cui è diventato illusorio applicare la libera circolazione ai capitali e impedirla per gli esseri umani, i cui spostamenti sono invece simili all’effetto del principio fisico dei vasi comunicanti. Ormai, per citare Zygmunt Bauman, anche le popolazioni sono «liquide» e difficili da fermare. Non ci riescono gli americani, difficilmente accusabili di essere «buonisti» ma incapaci di impedire il passaggio di migranti illegali dal Messico e dal Centro America. E, per quanto riguarda l’Europa, non esiste solo il transito mediterraneo, ma i migranti arrivano anche via terra, spesso con lunghi percorsi che attraversano Turchia, Grecia, Albania, Kosovo per puntare verso la Germania e la Scandinavia. E’ un flusso che va regolato, certo – come ormai sembra evidente che andrebbe fatto anche per quanto riguarda la finanza – ma in un modo che rispetti la legalità internazionale e l’umanità. E nello stesso tempo cercando di collaborare per affrontare alla radice gli squilibri politici ed economici che producono queste traumatiche e massicce migrazioni. Davvero siamo sorpresi che si cerchi disperatamente di fuggire dalla Siria, dall’Eritrea, dalla Somalia, da Myanmar? Un duplice compito certamente difficile, ma ineludibile. Nel Mediterraneo, ma non solo.

AVVENIRE di sabato 16 maggio 2015 Pag 3 Fame e povertà, il tempo della cura di Leonardo Becchetti Expo: visitando il Padiglione Zero

Il 30% della produzione di cibo viene sprecata ed è pari a quattro volte quanto è necessario per sfamare gli 800 milioni di persone che soffrono nel mondo di fame cronica. Allo stesso tempo 42 milioni di bambini sotto i 5 anni sono sovrappeso e 500 milioni di adulti sono affetti da obesità. Il paradosso dello spreco è l’approdo finale del Padiglione Zero, il primo nel quale i visitatori di Expo s’imbattono appena arrivati dall’entrata principale, quella da cui si accede da ferrovia e metropolitana. Il padiglione si propone di ripercorrere in un battito d’ali la storia 'economica' dell’umanità. Si parte da una parete gigantesca nella quale sono proiettati una serie di cortometraggi alla Olmi che raccontano un’agricoltura e una pastorizia di sussistenza, per poi procedere verso sale che raccontano la meccanizzazione dell’agricoltura, la nascita dell’industria e delle grandi metropoli fino a confluire nella sala della finanza, un grande ambiente dove scorrono sulle pareti i dati finanziari dei prezzi dei futures sulle derrate agricole. Usciti da questa sala ci sono le riproduzioni di montagne di cibo buttato e i dati sul paradosso dello spreco assieme alle notizie di alcuni importanti progetti che si propongono di affrontare il problema. Parlare del paradosso dello spreco è efficace, scuote le coscienze ma il problema della fame non è solo un problema logistico, che si risolve annullando gli sprechi e redistribuendo a chi ha fame. È un po’ come se organizzassimo un servizio che pulisce la tovaglia del ricco Epulone per portare le sue briciole a Lazzaro e pensassimo, in questo modo, di aver risolto il problema. Dobbiamo invece interrogarci sul perché Lazzaro si trova in quella condizione e in che modo è possibile che si riappropri della sua dignità. Papa Francesco dice spesso con enorme efficacia che non si dà dignità al povero dandogli il pane, ma mettendo il povero in condizione di portare il pane a casa e alla sua famiglia. Sappiamo che dietro il problema della fame degli 800 milioni ci sono problemi locali di guerre e di corruzione dei governi che fanno venir meno le condizioni per lo sviluppo, ma anche problemi globali legati alla difficoltà degli ultimi di risalire la catena del valore. Ed è per questo che l’accento sul progresso tecnologico e sulla crescita delle rese agricole non è sufficiente. A poco serve far crescere la dimensione della torta globale (cosa che il sistema economico mondiale sa fare ottimamente) se poi chi ha più bisogno non è nelle condizioni di ritagliarsi una fetta necessaria per promuovere la propria dignità. Per risolvere il problema dobbiamo dunque lavorare su due fronti. Creando condizioni di pace e qualità delle istituzioni all’interno dei Paesi più disastrati dal punto di vista politico. E offrendo opportunità agli ultimi per risalire la catena del valore, attraverso i molti modi che oggi conosciamo. Tra questi, spiccano il garantire pari opportunità attraverso l’accesso all’istruzione e al credito con politiche e progetti opportuni e, su un piano complementare, il rendere economicamente conveniente attraverso il 'voto col portafoglio' (propri del consumo e del risparmio consapevoli) un comportamento di maggiore responsabilità sociale e ambientale delle grandi imprese che controllano le filiere alimentari e non solo. Il tema dell’Expo 2015 – 'Nutrire il pianeta, energia per la vita' – è senz’altro indovinato e di successo. Mettere al centro il cibo, e non qualcosa di più astratto, consente di stuzzicare la curiosità e i palati dei visitatori che si aggirano tra i padiglioni attirando, allo stesso tempo, la loro attenzione verso problemi chiave per il nostro futuro come quelli della sostenibilità ambientale e della lotta alla fame e alla miseria. Sarebbe però bello se da questa iniziativa, che mette il nostro Paese al centro dell’attenzione, partissero delle iniziative più concrete e meno dichiarazioni di principio per rendere il sistema economico più ambientalmente e socialmente sostenibile. Non c’è, infatti, nulla di nuovo da scoprire, perché la fame è una malattia di cui conosciamo benissimo ragioni e cura. Il problema è creare le condizioni perché la cura sia somministrata. Rendendoci conto che il mercato non è qualcosa che passa sopra le nostre teste. Il mercato siamo noi. La responsabilità sociale e ambientale d’impresa è cosa bella, buona e giusta, fa fiorire la vita di chi la pratica ed è probabilmente l’unica via di salvezza del pianeta da nuove catastrofi economiche, politiche e finanziarie. La nostra missione è renderla praticabile dalla maggioranza dei cittadini ed economicamente sostenibile per le imprese. Una missione affascinante su cui si gioca il bello della nostra vita che fiorisce e si realizza se e quando ognuno di noi capisce di essere parte della soluzione e non del problema.

Pag 3 Nozze gay negli Stati Uniti. Le conseguenze di una scelta di Elena Molinari La decisione della Corte suprema mette in gioco molti diritti

Ancora una volta, l’America si trova al limitare di un mutamento epocale nelle sue norme etiche e sociali e ancora una volta, come già nel 1973 con la sentenza sull’aborto, il cambio di direzione sta per essere imposto in modo non democratico. Alla fine di giugno la Corte suprema statunitense deciderà se la costituzione americana garantisce alle coppie omosessuali il diritto di sposarsi. Un potenziale via libera, come sembra essere l’orientamento della maggioranza dei nove giudici, volterebbe la pagina di secoli di storia, riscrivendo il diritto di famiglia e interrompendo bruscamente un dibattito in corso da anni nei singoli Stati americani. È quest’ultima una delle conseguenze della sentenza più temute negli ambienti giuridici, e non solo tra gli oppositori delle nozze gay. Persino Ruth Bader Ginsburg, il giudice più liberal e proaborto della Corte, ha infatti criticato la sentenza 'Roe contro Wade' che legalizzò l’interruzione di gravidanza 42 anni fa, per essersi «arrogantemente sostituita al processo politico», e aver rimosso del tutto «la palla del dibattito dal suo campo legittimo, quello dei legislatori». Un altro elemento che preoccupa sia la comunità religiosa che quella accademica Usa è il rischio che un’apertura federale per via giudiziaria alle nozze gay violi la libertà di coscienza di molti americani, che insieme al federalismo costituisce un pilastro dell’ordinamento americano. Come ha fatto notare il giudice della Corte suprema Alito durante la fase del dibattito pro e contro il matrimonio gay, un sì della Corte rischia di togliere alle Chiese, alle associazioni non profit, agli ospedali e alle università che rifiutano di celebrare o riconoscere le unioni omosessuali sia ogni sovvenzione federale che la loro esenzione legale dalle tasse. Quest’ultima cancellazione avrebbe a sua volta due conseguenze: un immediato incremento dei costi sommato all’ancora più grave diniego delle detrazioni fiscali per i donatori privati, che prosciugherebbe la principale fonte di introiti di questi enti. Per questo motivo, alcuni degli Stati che non hanno legalizzato i matrimoni fra due uomini o due donne (37 lo hanno già fatto, insieme alla capitale Washington) si sono affrettati in questi mesi a presentare leggi sulla libertà religiosa che garantiscano ai funzionari che non desiderano celebrare nozze gay o ai gruppi non profit che non desiderano riconoscerli il diritto all’obiezione di coscienza. Uno degli ultimi a muoversi in ordine di tempo è la Louisiana, dove il governatore, il cattolico convertito Bobby Jindal, non solo ha promesso una norma di tale senso, ma ha anche assicurato che non farà marcia indietro se minacciato di boicottaggi economici da parte di colossi privati, come è successo in Indiana e Arkansas. La legislazione della Louisiana dovrebbe proibire allo Stato di negare a una persona, società o gruppo senza scopo di lucro una licenza, l’accreditamento, un finanziamento o un appalto in base alle loro opinioni sull’istituzione del matrimonio. Ci sono infatti ancora molte regioni degli Stati Uniti che si oppongono strenuamente al matrimonio tra persone dello stesso sesso e determinate a non cedere al potere centrale la definizione di famiglia che le ha rette per secoli. L’Alabama, ad esempio, rimane in uno stato di caos giuridico da febbraio, quando la Corte suprema Usa ha deciso di mantenere in vigore le nozze omosessuali nello Stato, nonostante il governo e la Corte suprema statali, oltre alla maggioranza della popolazione, le avessero respinte. Nel 2008, infatti, l’81 per cento degli elettori dell’Alabama aveva approvato un emendamento alla Costituzione locale che proibiva i matrimoni fra persone dello stesso sesso, e dopo il pronunciamento della Corte costituzionale federale il principale magistrato dello Stato ha ribadito quel risultato, proibendo ai funzionari pubblici di celebrare nozze gay. Lunedì prossimo invece il Senato texano comincerà a discutere una misura che proteggerebbe da cause legali le istituzioni non profit che rifiutano di fornire servizi alle celebrazioni di matrimoni gay. Intanto Ohio, Michigan, Kentucky e Tennessee, che hanno esplicitamente proibito nel loro ordinamento le nozze omosessuali, stanno attivamente difendendo i rispettivi divieti di fronte alla Corte suprema. Sono proprio questi quattro casi, che hanno provocato verdetti contrastanti presso alcuni tribunali federali d’appello, ad aver costretto la Corte suprema, finora restia nel pronunciarsi sul tema, ad intervenire e a prendere in esame la questione. La cautela della Corte nell’entrare nel dibattito si era notata già nel 2013, quando i nove magistrati estesero alle coppie omosessuali i benefici riconosciuti dal governo federale alle coppie eterosessuali, ma solo negli Stati che già riconoscevano le unioni gay. Un verdetto d’incostituzionalità nei confronti dei divieti dei quattro Stati andrebbe ben oltre, creando un precedente in grado di trasformare la società americana. Per questo alcuni gruppi stanno cercando di prepararsi a un’eventuale sentenza che attribuisca al governo federale il potere di imporre agli Stati la sua definizione di matrimonio. Una possibilità è un emendamento alla costituzione federale, il 28esimo, che attribuisca di nuovo quel potere all’ordinamento statale. La maggior parte dei candidati repubblicani alla presidenza hanno già promesso che proporrebbero una tale via. «Nutro ancora la speranza che la Corte suprema deciderà, come è la tradizione, che gli Stati sono i luoghi che definiscono ciò che è il matrimonio – ha detto di recente il senatore repubblicano Marco Rubio –. Se per qualche ragione non lo farà, credo che sia ragionevole per il popolo d’America prendere in considerazione una modifica costituzionale che affermi la capacità degli Stati di fare proprio questo». Neanche il mondo della fede sta a guardare. Mentre i nove togati discutevano pubblicamente i meriti del caso sottoposto loro, rivelando profonde divisioni, più di 30 capi religiosi in rappresentanza di diverse comunità di fede in tutti gli Stati Uniti hanno ribadito il loro impegno comune per il matrimonio e la libertà religiosa con una lettera aperta a tutte le Amministrazioni pubbliche. L’arcivescovo Kurtz di Louisville in Kentucky, presidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti, ha firmato la missiva dal titolo 'La difesa del matrimonio e il diritto di libertà religiosa'. «Speriamo che questa lettera costituisca un incoraggiamento a tutti noi, in particolare quelli dedicati al servizio pubblico, per continuare a promuovere il matrimonio e la libertà religiosa come parte integrante di una società sana e libera – vi si legge –. Il matrimonio come l’unione di un uomo e una donna offre il migliore contesto per la nascita e l’allevamento dei figli e deve essere appositamente protetto dalla legge». I leader religiosi concludono invitando tutti i livelli del governo a «proteggere i diritti delle persone con opinioni diverse di esprimere le loro credenze e convinzioni, senza timore di intimidazioni, emarginazione o accuse ingiustificate che i loro valori implicano ostilità, animosità, o l’odio degli altri».

IL GAZZETTINO di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 Elezioni regionali, Matteo e i rischi di una mini vittoria di Bruno Vespa

Sei a uno o cinque a due? Alle elezioni regionali del 31 maggio, Matteo Renzi non si giocherà la pelle come accadde a Silvio Berlusconi nel 1995 e a Massimo D’Alema nel 2000. Nel primo caso il Cavaliere, sceso in campo soltanto da un anno, non aveva una struttura articolata sul territorio: per di più, tra il ’94 e il ’95 la procura di Milano aveva aperto 27 procedimenti giudiziari a suo carico con le conseguenze mediatiche che ricordiamo. Nel secondo, D’Alema aspettava dalle urne la legittimazione elettorale che gli era mancata al momento di salire con il ribaltone di Mastella a palazzo Chigi: in campagna elettorale visitò 66 città in 50 province partecipando a 111 manifestazioni politiche e istituzionali. Alla vigilia delle elezioni confessò incautamente in un’intervista che l’aspettativa del centrosinistra era di vincere in 10 o 11 regioni su 15, dando in pegno il suo prestigio di professionista della politica. Finì 8 a 7 per il centrodestra e D’Alema correttamente si dimise. Renzi non corre rischi del genere: la sua forza politica nel partito è molto più forte di quella che aveva a suo tempo D’Alema, vincolato peraltro da una coalizione ampia ed eterogenea che l’attuale presidente del Consiglio si è per sua fortuna risparmiato. Eppure la cura con cui Renzi sta impegnandosi in frequentissimi viaggi elettorali dimostra che vincere per sei a uno o cinque a due (o non si sa mai che altro) per lui fa una differenza politica assai notevole. Le elezioni inglesi ci hanno confermato che fidarsi dei sondaggi è un esercizio spesso rischioso. Quelli di cui disponiamo tuttavia sono unanimi nel dire che in Veneto il presidente uscente di centrodestra Luca Zaia non è stato penalizzato dalla scissione di Flavio Tosi e stacca di una decina di punti la candidata del Pd Alessandra Moretti; in Campania De Luca non stacca in modo significativo il presidente uscente di centrodestra Caldoro, ma potrebbe farcela; in Liguria la partita tra la candidata ufficiale del Pd Raffaella Paita e il suo avversario del centrodestra (unito) Giovanni Toti è apertissima, grazie alla presenza di una lista di forte disturbo guidata da Luca Pastorino (Sel e sinistra Pd). Non è un segreto che – al di là delle dichiarazioni di rito sulla indefettibile lealtà – larga parte della minoranza Pd tifi perché Renzi vinca il meno possibile. Alcuni ex leader si limitano a sperarlo, altri si muovono attivamente perché questo accada. È evidente che una sconfitta di Renzi in Liguria avrebbe un significato politico che il presidente del Consiglio non sottovaluta, mentre – comunque vadano le cose in Campania – pochi scommettono sul fatto che un uomo abile come De Luca riesca a farsi votare da una compagnia di giro discutibile senza pagare pesanti pegni post elettorali. Come si difende Renzi? 1. Cambiando approccio nei confronti di chi nutre dubbi sulle due riforme. Meno minaccioso, più disponibile al dialogo. 2. Facendo l’impossibile per arginare i danni che una riforma della scuola oggettivamente apprezzabile sta procurandogli presso l’elettorato più fedele al Pd, quello degli insegnanti. 3. Restituendo al più presto un po’ di soldi delle pensioni possibilmente a quattro dei cinque milioni di italiani penalizzati dalla legge MontiFornero del 2011. Basterà? È vero che – conti alla mano – due terzi dei soci fondatori del Pd hanno ormai lasciato il Pd o comunque sono stati pensionati. Ma il terzo rimasto, se confortato da qualche risultato elettorale, certo non vincerà la guerra, ma è capace di fastidiosissime guerriglie.

LA NUOVA di sabato 16 maggio 2015 Pag 1 La destra del Cav non c’è più di Bruno Manfellotto

La politica, si sa, ama i paradossi, il più diffuso dei quali appartiene alla modalità “volevo avvantaggiare me ed è finita che ho dato una mano a te “. Matteo Salvini ci pensa spesso, Beppe Grillo è un esperto del ramo, Matteo Renzi ne è a volte vittima, altre attento regista. Stavolta il teatro della vicenda paradossale è la Liguria, una delle sette regioni dove si vota domenica 31 maggio, e a gioire delle mosse altrui potrebbe essere una destra frantumata, abbattuta, priva del capo. Ma andiamo per ordine. Il centrodestra abilmente federato da Silvio Berlusconi all’inizio dei Novanta, non c’è più. Ed è comodo dire che è così perché B. non è più B. e la particella “ex” davanti alla qualifica di Cav. smonta un mito, segnala un passato, ricorda processi, olgettine e interdizioni. No, la verità è che il progetto che teneva insieme liberali e postfascisti, ex socialisti e populisti della secessione, si è sciolto come neve al sole. A spazzarlo via, sono stati la lunga crisi economica e l’irrompere sulla scena di Renzi. Vediamo perché. Prometteva, l’ex Cav, di abbassare le tasse, creare un milione di posti di lavoro, portare in ogni famiglia un po’ del sogno berlusconiano che lui stesso incarnava. La trasformazione del consiglio dei ministri in un consiglio d’amministrazione, il suo personale carisma e la disponibilità pressoché illimitata di mezzi finanziari, resero gli alleati docili e fedeli e cancellarono ogni residuo ideologico condizionante e divisivo. Bastò per esempio accollarsi i debiti della “Padania” per fare di Umberto Bossi un senatùr che alle sorgenti del Po urlava, ma che a Roma seguiva le direttive del Capo. Sembrava un’imbattibile macchina da guerra. È durata fino a quando la crisi economica non ha mandato all’aria sogni di crescita e riforme fiscali e gli italiani non si sono resi conto che non sarebbero mai diventati dei piccoli Berlusconi. Il resto lo ha fatto la presa di potere di Renzi, leader di un partito di centrosinistra che, per vincere, per la prima volta non pensa ad alleanze col centro moderato stile D’Alema, ma pretende di dialogare direttamente con chi finora guardava altrove. E l’operazione sta riuscendo. L’impatto sull’ex impero berlusconiano è stato devastante: il campo è attraversato da bande in guerra, piccoli ras di provincia una volta fedelissimi sognano di scalzare il leader e prendere il suo posto, mentre il monarca è chiuso nel suo fortino accudito da un cerchio magico sempre più ristretto. Ma forse il dato politicamente più rilevante è un altro: esaurita la spinta propulsiva, disperse le truppe, infiacchito il carisma del capo, di quel progetto di destra è rimasto solo il suo contrario incarnato da Salvini: populismo gridato, strizzata d’occhio al vecchiume neofascista di Forza Nuova e disprezzo della politica e dello Stato. Nulla a che vedere con il liberalismo che aveva ispirato i fondatori di Forza Italia. Viene da pensare che lo sforzo di Berlusconi non abbia inciso più di tanto, o forse era solo un po’ di belletto, tanto che alla fine a prevalere è stato il volto della destra più becera e antimoderna. In attesa che all’orizzonte appaia un altro leader. Vabbè, e il paradosso di cui si parlava? È in salsa ligure e potrebbe manifestarsi con la vittoria a sorpresa di Giovanni Toti, portavoce di Forza Italia e candidato alla carica di governatore. Possibile? Possibile. Il Pd si presenta anche stavolta diviso dopo la figuraccia delle primarie: Sergio Cofferati, uscito dal partito sbattendo la porta e gridando ai brogli, si è vendicato sponsorizzando il ribelle Luca Pastorino contro la candidata ufficiale Raffaella Paita. Per certificare la sua esistenza in vita, insomma, la dissidenza del Pd potrebbe regalare la vittoria alla destra. Del resto, Grillo e Salvini, forti nei sondaggi che in totale assegnano loro un terzo abbondante dei consensi, sanno di poter essere decisivi nella scelta finale. Suspense. Il primo giugno sarà un giorno importante per il rampante Renzi e il declinante Berlusconi.

Pag 4 Il consenso e la buccia di banana di Renzo Guolo

Mentre il disegno di legge sulla “Buona Scuola” muove i suoi primi passi in Parlamento, non si ferma la mobilitazione contro una riforma sulla quale, Renzi ha più che mai “messo la faccia”. Il video show con lavagna e gessetto che voleva evocare più che il Berlusconi nella “terza camera” vespiana, il mitico maestro Manzi, eroe civile al quale l’Italia facile alla smemoratezza non tributerà mai abbastanza il riconoscimento che merita e che, antropologicamente prima ancora che politicamente, forse mai avrebbe dato fiducia al Gianburrasca divenuto mecchiavellico Fiorentino, è stata l’ennesima dimostrazione di abilità nella comunicazione politica di Renzi . In veste di docente, il presidente del Consiglio ha difeso con forza la riforma. Eppure, per la prima volta, persino il fautore del “tireremo dritto”, della Decisione e della Velocità a ogni costo, ha dovuto spiegare, convincere, dirsi disponibile al dialogo. Del resto, il dissenso nel mondo della scuola è largo. Gli oltre seicentomila che hanno scioperato contro la riforma hanno fatto suonare un campanello d’allarme sia a Palazzo Chigi che al Nazareno, dove l’inquilino è lo stesso. Il sindacato, descritto nella narrazione renziana come ostacolo principale alla “modernizzazione del paese” ha segnato un punto nel conflitto. Mobilitando sotto le sue insegne parte rilevante dell’universo scolastico. Così come, agli stessi indirizzi, preoccupa la massiccia campagna contraria alla riforma sul web e su Twitter, strumenti di cui Renzi conosce anche troppo bene la potenzialità. Il fatto è che la scuola può essere un terreno scivoloso per il maestro Renzi. Non tanto in termini parlamentari: l’Italicum, che offre al capo del governo e leader del Pd un potere dissuasivo enorme nei confronti degli eventuali recalcitranti e il probabile soccorso verdiniano nei passaggi critici, lo mettono al riparo da rischi in aula. Ma quel dissenso ostinatamente riaffermato, pone il problema del consenso. Storicamente gli insegnanti rappresentano un pezzo importante della base elettorale della sinistra, e del Pd in particolare. Ignorarlo sarebbe suicida. Nessun partito che mira a vincere può evitare di fidelizzare il proprio elettorato tradizionale. A meno di non voler mutare il proprio blocco sociale di riferimento con un travaso di consensi che dovrebbe avere i caratteri di una mutazione genetica. Tra docenti, le loro famiglie e quelle degli “utenti” ostili a una scuola ritenuta lontana da quella in cui si riconoscono, si tratta di una enorme fetta di voti. Oggi quel mondo è più che scontento. Certo, centomila assunzioni in tempi di vacche magre per la spesa pubblica non sono poche. Anche se nel girone infernale del precariato divide la decisione del governo di arruolare solo dalle graduatorie a esaurimento e non dagli altri canali che lo Stato italiano, con la decisione di precedenti governi, aveva indicato come altrettanti bacini di reclutamento. Sollevano critiche i nuovi poteri manageriali dei dirigenti scolastici: nessuno può garantire che in talune aree del paese , caratterizzate da quello che Banfield definiva “familismo amorale”, o in presenza di affinità politiche e religiose quei poteri siano esercitati con una discrezionalità eccessiva. Incidendo su pluralismo e qualità dei singoli istituti. Una reazione che ha come sfondo il senso di frustrazione a abbandono che gli insegnanti, privi di status e riconoscimento sociale, con stipendi bassi e oltretutto bloccati da sei anni, con scarse risorse a disposizione per affrontare nodi rilevanti come la presenza di alunni stranieri in classe o la trasformazione nei processi di apprendimento legata alle nuove tecnologie della comunicazione, provano ogni giorno tra i banchi. È un mondo che a Renzi chiede non solo marinettiana e esplodente Velocità ma condivisione, ascolto, riconoscimento. Se il Fiorentino, facendosi prendere dal suo stesso Mito, fondato sulla Decisione senza mediazione, non gli desse credito, quel mondo tornerebbe sconfitto in aula ma cercherebbe di riprendersi la rivincita nelle urne.

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