RASSEGNA STAMPA di giovedì 15 giugno 2017

SOMMARIO

“Sopraffatti da una solitudine che trasforma e impoverisce. Quel disagio urbano che colpisce anziani e giovani” è il titolo del pezzo di Elisa Manna su Avvenire di oggi: “Beata so litudine! Non sono pochi quelli che sottoscriverebbero questa esclamazione: la condizione di isolamento può essere cercata come una modalità per stare con se stessi, per riflettere profondamente o solo ritagliarsi uno spazio di tranquillità. Di più. Nelle riflessioni di poeti, scienziati e artisti di genio spesso ci si imbatte in un’aspirazione gioiosa alla solitudine, vista come momento creativo, come atto di indipendenza dalla futilità della quotidianità, come rifugio meraviglioso per ritrovarsi con i propri pensieri. Da Jung a Picasso molte personalità eccellenti hanno celebrato la solitudine come antidoto perfetto alla banalità. Ma non è di questo tipo di solitudine, agognata e corteggiata, che vogliamo parlare. La solitudine su cui vogliamo richiamare l’attenzione è quella subìta, temuta, inutilmente esorcizzata con i mille, piccoli passatempi che riusciamo a inventare, quasi a frapporre tra noi e “lei” un’invisibile muraglia. Parliamo delle giornate che non finiscono mai perché nessuno sguardo, nessun s orriso viene a illuminarle; le giornate in cui ci si sente abbandonati e dimenticati, le ombre della sera che vengono a inquietarci perché non ci sono braccia che ci cingono le spalle a confortarci. Parliamo di quel lasciarsi andare, di una trascuratezza che avvolge a poco a poco tutte le nostre azioni, tutti i momenti delle giornata. Non si tratta di indulgere in suggestioni tardoromantiche. Proprio no. La solitudine di cui parliamo è concreta, quotidiana, tangibile. Soprattutto “urbana”, perché non attecchisce o prende corpo in misura molto minore, nei piccoli centri, ma dilaga nelle grandi città come Roma. La verità è che nelle nostre metropoli affollate, nei palazzi alveare, nelle strade ingolfate di automobili ci sono davvero tante, troppe solitudini; tante, troppe persone povere di relazioni umane. Il direttore della Caritas di Roma, monsignor Enrico Feroci, le ha chiamate «povertà nascoste» nel corso di un recentissimo convegno promosso dalla Caritas diocesana a Roma proprio sul tema delle solitudini c he si celano nelle case della metropoli. Già, perché le persone povere e sole non sono soltanto quei barboni coperti di stracci che si accovacciano sotto i tunnel o ai margini delle stazioni ferroviarie e che guardiamo purtroppo ormai con indifferenza: si va estendendo nelle nostre città una forma di “barbonismo domestico”, dove la casa diventa una tana in cui barricarsi per paura e diffidenza verso l’esterno avvertito come minaccioso e ansiogeno. Una casa che finisce col sopraffare le povere creature che vi si nascondono. E sono tanti anziani, certo, che spaccano il centesimo di una pensione risibile (ricordiamo che a gennaio 2017 secondo la più recente stima dell’Istat le persone ultrasessantacinquenni hanno superato per la prima volta in Italia la soglia del 22%). Ma ci sono anche tanti adulti, magari impoveriti e isolati a seguito di una separazione. E tanti giovani; non solo ed esattamente i “giovani Neet” (quelli che non lavorano e non studiano), che pure hanno le loro fragilità. No, stiamo parlando di una fenomenologia più subdola, cui i giapponesi hanno trovato un nome: li chiamano hikikomori e sono quei ragazzi che si rifugiano nelle loro camerette e accettano di avere con l’esterno soltanto relazioni virtuali attraverso la Rete. In questo caso la solitudine non è proprio subita, come può essere per pensionati e anziani soli. Loro, i giovani hikikomori hanno “soltanto” perso ogni fiducia nell’umanità e si sentono a proprio agio tra le quattro mura della loro camera con una finestra virtuale sul mondo mediato però da uno schermo, da un monitor: niente odori, sapori, niente di “pericolosamente” umano. Del resto i giovani che non lavorano e non studiano sono ormai in Italia ben oltre 3 milioni, non sono più certamente un fenomeno minoritario. Siamo di fronte a un comportamento estremo, patogeno, come ha sottolineato lo psichiatra Tonino Cantelmi, che però rivela come una cartina al tornasole il rifiuto da parte dei ragazzi di una società individualista, basata sulla competizione, la furbizia, l’arrivismo. D urante il Convegno della Caritas si è cercata anche un’interpretazione più generale del fenomeno: la diffusione della solitudine è certamente un male per i singoli. Ma il sociologo Mauro Magatti (tra i relatori del Convegno) ha sottolineato efficacemente come l’idea di individuo isolato, preesistente al sistema di relazioni umane, sia un grande abbaglio antropologico della nostra contemporaneità. Un’idea semplicemente falsa. L’individuo da solo è un’astrazione; la vita comincia da una relazione e attraverso una relazione simbiotica rafforza i primi battiti del suo cuore. Ma la solitudine è anche un male per la collettività tutta in termini sociali ed economici. Un’imponente letteratura medico- scientifica internazionale ha ormai verificato il rapporto tra sol itudine, indebolimento del sistema immunitario, insorgenza di depressioni e disturbi cardiovascolari, che si traducono in costi sociali ed economici per l’intero sistema Paese. E sulla rilevanza del fenomeno non si debbono nutrire troppi dubbi: il “Servizio aiuto alla persona” della Caritas di Roma, ha evidenziato durante il Convegno il responsabile Massimo Pasquo, nel corso del 2016 ha effettuato oltre 40.000 interventi domiciliari a persone sole, portando nelle case cibo, medicine o più semplicemente compagnia, un sorriso. Tra gli utenti raggiunti a domicilio dalla Caritas prevalgono le donne, forse perché le donne più facilmente mostrano le loro debolezze, forse perché più facilmente parlano di emozioni e stati d’animo. La solitudine non conosce steccati: persone affette da patologie importanti vivono abbandonate a se stesse, persone con disturbi mentali che nessuno accompagna e segue, donne e uomini vittime di una crisi matrimoniale, anziani senza parenti o con parenti lontani che non possono o non vogliono accudirli, disabili che hanno perso i genitori ; sono gli “scarti” di una società che corre troppo veloce per accorgersi di loro. Spesso i volontari della Caritas che li raggiungono fin dentro le loro abitazioni debbono impegnarsi e dar fondo a tutta la loro capacità di persuasione per stabilire un contatto, una relazione serena di aiuto. In un vecchio film americano con un giovanissimo Di Caprio, all’epoca assai sottovalutato dalla critica, “The beach” si raccontano le vicende di una comunità hippie che aveva cercato (e trovato) un paradiso, la spiaggia incontaminata del titolo, per vivere ed essere felici. Tutto scorre serenamente finché un giovane norvegese di nome Christo (un caso?), non viene assalito da uno squalo che lo lascia con profonde ferite. La comunità decide, dopo una cura di pochi giorni, che Christo si lamenta troppo e rovina l’atmosfera ìlare delle loro giornate; Christo viene portato nella boscaglia per essere abbandonato al suo destino... Non possiamo abbandonare nelle loro case i tanti poveri cristi che la vita ha piegato: per affrontare la contemporaneità non bastano i piccoli egoismi incubati a ridosso del terzo Millennio, serve una visione universale cristianamente ispirata” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA

AVVENIRE Pag 16 “Un abbraccio cura un cuore infelice” Francesco: Dio compie il primo passo verso di noi con amore incondizionato

Pag 17 Verso una Curia Romana più “vicina” alle diocesi di Mimmo Muolo Fra le proposte del “C9” la consultazione di laici e religiosi per nominare i vescovi

CORRIERE DELLA SERA Pag 10 Lottiamo insieme contro la corruzione di Francesco L’appello del Papa contro “la peggiore piaga sociale”

Pag 11 L’accelerazione nella nomina dell’arcivescovo di Milano di Gian Guido Vecchi La scelta del successore di Angelo Scola dovrebbe arrivare a breve e non dopo l’estate

AVVENIRE di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 4 “La povertà, uno scandalo che cresce”. Il Papa: non possiamo restare inerti L’invito ad aiutare gli ultimi non a parole ma con fatti concreti

SETTIMO CIELO (Blog di Sandro Magister) Nome per nome la metamorfosi della Pontificia Accademia per la Vita

5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

AVVENIRE Pag 1 Un record non basta di Leonardo Becchetti Italia, Europa e veri nodi del lavoro

Pag 3 Sopraffatti da una solitudine che trasforma e impoverisce di Elisa Manna Il dramma personale, il problema sociale. Quel disagio urbano che colpisce anziani e giovani

CORRIERE DELLA SERA di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 21 Perché non facciamo figli? di Alessandra Arachi Istat, nascite ancora in calo costante dal 2008. Una mamma su qua ttro si ferma al primogenito

AVVENIRE di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 6 Garante dell’infanzia: i minori le prime vittime della crisi di Luca Liverani Triplicati in 10 anni i bambini in povertà

Pag 8 Siamo un po’ meno e con le culle vuote di Giulio Isola Nemmeno l’immigrazione ci basta: “persi” in un anno 76.000 cittadini

CORRIERE DEL VENETO di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 1 Il divorzio oggi è liquido di Vittorio Filippi Il fenomeno

7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO Pag 12 Teme la seconda bocciatura, si impicca di Davide Tamiello Tragico gesto di un ventunenne in un pa rco di Mestre. I risultati scolastici non sono ancora pubblicati

Pag 22 “Stanotte a Venezia”, record di ascolti di Roberta Brunetti Ma sui social si è scatenato il dibattito: sotto accusa alcuni errori e l’immagine da cartolina

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Si toglie la vita nel bosco, a 21 anni di Davide Tamiello Nel quartiere lo conoscevano tutti: “Lui per gli amici c’era sempre”. Don Valentino l’aveva convinto a collaborare per il Grest e le varie attività

Pag XXVI Venezia si spacca sulla notte di Angela di Roberta Brunetti e Daniela Ghio Lo speciale sulla città catalizza i commenti sui social. La critica: errori storici. Il consenso: immagine positiva

LA NUOVA Pagg 20 – 21 “Bilancio in utile di 6,7 milioni, più ricerca e internazionalità” di Vera Mantengoli Intervista al rettore di Ca’ Foscari Bugliesi. Tornano i cervelli in fuga, l’omaggio dell’Europa

Pag 37 Venezia di Angela, una città che esiste solo in televisione di Manuela Pivato Trionfo di spettatori per un affresco confezionato che dimentica grandi navi, suk e desertificazione

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di mercoledì 14 giugno 2017 Pag III Ma nessuno può sentirsi sicuro dei voti “in libertà” di Tiziano Graziottin

8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 2 Vaccini obbligatori, legge impugnata. “E in Veneto non la applicheremo” di Marco Bonet e Michela Nicolussi Moro Zaia pronto alla disobbedienza fino all’esito del ricorso

10 – GENTE VENETA

Gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 24 di Gente Veneta in uscita venerdì 16 giugno 2017:

Pag 1 Venezia secondo Angela, bella senz’anima di Giorgio Malavasi

Pag 1 La pena non sia vendetta: rieducare è possibile di Michele Azzoni

Pagg 1, 4 – 5 Tanti e “foresti”: così non va di Giulia Busetto Allarme in laguna e campagna: invasi da specie estranee. La cura del creato - lo sottolinea il Papa nella Laudato si’ - è difesa della biodiversità: ne va del nostro futuro

Pag 9 Collaborazioni pastorali, c’è un vademecum per farne sintesi di Alessandro Polet L’opuscolo raccoglie i principi di fondo, le modalità e gli obiettivi della collaborazione fra comunità. Don Danilo Barlese: «Da un lato, per i contenuti rimanda alle fonti; dall’altro, calato nel quotidiano, orienterà le scelte in base al territorio e alla situazione pastorale, da attuare con gradualità»

Pag 10 I Giubilei sacerdotali, tra la festa e la conferma di un impegno di Giovanni Carnio Festeggiati alla Salut e i presbiteri veneziani che ricordano 1, 25, 50 o 60 anni di ordinazione. Il Patriarca ricorda la figura biblica del paziente Tobi, don Michele Falabretti (Cei, pastorale giovanile) la laboriosità inesausta del contadino a indicare come prendersi cura del popolo di Dio. Nell’occasione benedetta la nuova cappella, accanto alla chiesa della SS. Trinità, dedicata ad un sacerdote eccellente educatore: il beato Luigi Caburlotto, nato duecento anni fa

Pag 11 Agesci in carenza capi scout: via alla rivoluzione organizzativa di Lorenzo Mayer Nel 2017 dieci nuove entrate a fronte di diciotto veterani che hanno lasciato l’incarico. E altri capi adulti saranno costretti a lasciare nel tempo. L’associazione conta oggi 556 iscritti tra bambini, ragazzi e giovani che vanno dagli 8 ai 20 anni, suddivisi in 7 gruppi; 139 i capi in servizio. Base scout di Mazzorbetto: tremila presenze da tutta Italia previste nel 2017

Pag 14 Padri Conventuali: un volume ai fedeli per salutarli Sacro Cuore di Mestre: i frati hanno prodotto una raccolta di voci e immagini per esprimere l’affetto nei confronti della comunità che li ha ospitati per 65 anni, in attesa del congedo di giovedì 31 agosto. Lasceranno la guida della chiesa, che passerà a un sacerdote diocesano

Pag 17 Ex Umberto I: «Quando non varrà più niente, si farà qualcosa» di Chiara Semenzato La denuncia del c omitato Mestre Second Life: nell’area aumentano il degrado e la percezione di scarsa sicurezza; gli edifici superstiti diventano via via più fatiscenti, a partire dal padiglione Cecchini. Prosegue il trend di perdita di valore economico degli immobili vicini

Pag 21 Lavori utili avviati. Ma solo 6 su 120 gli immigrati impegnati di Giuseppe Babbo Jesolo: dopo mesi d’attesa, da lunedì scorso una mezza dozzina di migranti lavora gratuitamente alla manutenzione dei parchi pubblici. L’adesione è volontaria. La prestazione gratuita. La Cri paga l’assicurazione. I lavori sono iniziati dopo la provocazione di Salvini di «espropriare la Croce rossa»

Pag 22 Péguy, idee attuali di Giuseppe Goisis Poeta, polemista, militante socialista e ardente convertito da Cristo: uno spirito inquieto che trova pace solo nell’Assoluto

… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Evitiamo pericolose tentazioni di Ferruccio de Bortoli La forza della ripresa

Pag 1 Eterni paradossi del nostro Sud di Gian Antonio Stella

Pag 9 Scia di sangue, dai presidenti al Congresso di Massimo Gaggi

LA REPUBBLICA Pag 1 Il Medioevo di Grillo di Ezio Mauro

LA STAMPA Quella legge illogica che piace a tutti di Ugo Magri

AVVENIRE Pag 3 (Ri)educazione alla cittadinanza di Giuseppe Savagnone L’astensionismo e il senso perduto della “polis”

IL GAZZETTINO Pag 1 Processo penale, la riforma e le contraddizioni di Carlo Nordio

LA NUOVA Pag 1 La Caporetto che rischia il Pd di Renzi di Roberto Weber

Pag 19 Turista? No, meglio parlare di cittadino temporaneo (Intervento di Francesco Antonich)

CORRIERE DELLA SERA di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 1 I vantaggi di un nuovo bipolarismo di Angelo Panebianco Le riforme e il voto

Pag 3 Un movimento legge e ordine che ora attenua l’antieuropeismo di Massimo Franco

Pag 6 Le due Italie di Fi e Lega di Renato Benedetto e Marco Cremonesi Il Carroccio bene al Nord, al Sud dominano gli azzurri. Le liste civiche spostano l’asse verso i moderati

AVVENIRE di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 1 Con quale coscienza di Marco Tarquinio I politici che fanno guerra ai poveri

Pag 2 Le formiche e il malato scarto dell’umanità di Ferdinando Camon Una donna incosciente abbandonata in ospedale

IL GAZZETTINO di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 1 Frenata antisistema, un’occasione da non perdere di Biagio De Giovanni

Pag 17 La “civica azzurra” è la nuova Forza Italia voluta da Berlusconi di Mario Ajello

LA NUOVA di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 1 A destra una “non” coalizione di Fabio Bordignon

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3 – VITA DELLA CHIESA

AVVENIRE Pag 16 “Un abbraccio cura un cuore infelice” Francesco: Dio compie il primo passo verso di noi con amore incondizionato

Cari fratelli e sorelle, buongiorno. Oggi facciamo questa udienza in due posti, ma collegati nei maxischermi: gli ammalati, perché non soffrano tanto il caldo, sono in Aula Paolo VI, e noi qui. Ma rimaniamo tutti insieme e ci collega lo Spirito Santo, che è colui che fa sempre l’unità. Salutiamo quelli che sono in Aula! Nessuno di noi può vivere senza amore. E una brutta schiavitù in cui possiamo cadere è quella di ritenere che l’amore vada meritato. Forse buona parte dell’angoscia dell’uomo contemporaneo deriva da questo: credere che se non siamo forti, attraenti e belli, allora nessuno si occuperà di noi. Tante persone oggi cercano una visibilità solo per colmare un vuoto interiore: come se fossimo persone eternamente bisognose di conferme. Però, ve lo immaginate un mondo dove tutti mendicano motivi per suscitare l’attenzione altrui, e nessuno invece è disposto a voler bene gratuitamente a un’altra persona? Immaginate un mondo così: un mondo senza la gratuità del voler bene! Sembra un mondo umano, ma in realtà è un inferno. Tanti narcisismi dell’uomo nascono da un sentimento di solitudine e di orfanezza. Dietro tanti comportamenti apparentemente inspiegabili si cela una domanda: possibile che io non meriti di essere chiamato per nome, cioè di essere amato? Perché l’amore sempre chiama per nome … Quando a non essere o non sentirsi amato è un adolescente, allora può nascere la violenza. Dietro tante forme di odio sociale e di teppismo c’è spesso un cuore che non è stato ri- conosciuto. Non esistono bambini cattivi, come non esistono adolescenti del tutto malvagi, ma esistono persone infelici. E che cosa può renderci felici se non l’esperienza dell’amore dato e ricevuto? La vita dell’essere umano è uno scambio di sguardi: qualcuno che guardandoci ci strappa il primo sorriso, e noi che gratuitamente sorridiamo a chi sta chiuso nella tristezza, e così gli apriamo una via di uscita. Scambio di sguardi: guardare negli occhi e si aprono le porte del cuore. Il primo passo che Dio compie verso di noi è quello di un amore anticipante e incondizionato. Dio ama per primo. Dio non ci ama perché in noi c’è qualche ragione che suscita amore. Dio ci ama perché Egli stesso è amore, e l’amore tende per sua natura a diffondersi, a donarsi. Dio non lega neppure la sua benevolenza alla nostra conversione: semmai questa è una conseguenza dell’amore di Dio. San Paolo lo dice in maniera perfetta: «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Mentre eravamo ancora peccatori. Un amore incondizionato. Eravamo “lontani”, come il figlio prodigo della parabola: «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione…» (Lc 15,20). Per amore nostro Dio ha compiuto un esodo da Sé stesso, per venirci a trovare in questa landa dove era insensato che lui transitasse. Dio ci ha voluto bene anche quando eravamo sbagliati. Chi di noi ama in questa maniera, se non chi è padre o madre? Una mamma continua a voler bene a suo figlio anche quando questo figlio è in carcere. Io ricordo tante mamme, che facevano la fila per entrare in carcere, nella mia precedente diocesi. E non si vergognavano. Il figlio era in carcere, ma era il loro figlio. E soffrivano tante umiliazioni nelle perquisizioni, prima di entrare, ma: «È il mio figlio!». «Ma, signora, suo figlio è un delinquente!» – «È il mio figlio!». Soltanto questo amore di madre e di padre ci fa capire come è l’amore di Dio. Una madre non chiede la cancellazione della giustizia umana, perché ogni errore esige una redenzione, però una madre non smette mai di soffrire per il proprio figlio. Lo ama anche quando è peccatore. Dio fa la stessa cosa con noi: siamo i suoi figli amati! Ma può essere che Dio abbia alcuni figli che non ami? No. Tutti siamo figli amati di Dio. Non c’è alcuna maledizione sulla nostra vita, ma solo una benevola parola di Dio, che ha tratto la nostra esistenza dal nulla. La verità di tutto è quella relazione di amore che lega il Padre con il Figlio mediante lo Spirito Santo, relazione in cui noi siamo accolti per grazia. In Lui, in Cristo Gesù, noi siamo stati voluti, amati, desiderati. C’è Qualcuno che ha impresso in noi una bellezza primordiale, che nessun peccato, nessuna scelta sbagliata potrà mai cancellare del tutto. Noi siamo sempre, davanti agli occhi di Dio, piccole fontane fatte per zampillare acqua buona. Lo disse Gesù alla donna samaritana: «L’acqua che io [ti] darò diventerà in [te] una sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14). Per cambiare il cuore di una persona infelice, qual è la medicina? Qual è la medicina per cambiare il cuore di una persona che non è felice? [rispondono: l’amore] Più forte! [gridano: l’amore!] Bravi! Bravi, bravi tutti! E come si fa sentire alla persona che uno l’ama? Bisogna anzitutto abbracciarla. Farle sentire che è desiderata, che è importante, e smetterà di essere triste. Amore chiama amore, in modo più forte di quanto l’odio chiami la morte. Gesù non è morto e risorto per sé stesso, ma per noi, perché i nostri peccati siano perdonati. È dunque tempo di risurrezione per tutti: tempo di risollevare i poveri dallo scoraggiamento, soprattutto coloro che giacciono nel sepolcro da un tempo ben più lungo di tre giorni. Soffia qui, sui nostri visi, un vento di liberazione. Germoglia qui il dono della speranza. E la speranza è quella di Dio Padre che ci ama come noi siamo: ci ama sempre e tutti. Grazie! (La riflessione del Papa si è soffermata sul brano Luca 15, 20-24a)

Pag 17 Verso una Curia Romana più “vicina” alle diocesi di Mimmo Muolo Fra le proposte del “C9” la consultazione di laici e religiosi per nominare i vescovi

Prosegue il lavoro del C9, il Consiglio di cardinali che aiutano il Papa nella riforma della Curia. Nella 20ª sessione tenutasi nei primi tre giorni di questa settimana sono state prese in esame ipotesi come la possibilità di ordinare sacerdoti i diaconi permanenti vedovi o non sposati e l’estensione ai laici delle consultazioni che si fanno in vista della nomina dei nuovi vescovi. A riferire sull’andamento dei lavori è stato ieri il direttore della Sala Stampa vaticana, Greg Burke, che ha sottolineato anche la costante presenza del Papa, tranne che nella sessione di ieri mattina, data la concomitanza con l’udienza generale. Erano presenti tutti i membri del Consiglio, a eccezione del cardinale Sean O’Malley, arcivescovo di Boston. Curia Romana e Chiese locali. Nelle sessioni di lavoro molto spazio è stato dedicate ad approfondire i modi nei quali la Curia Romana può servire meglio le Chiese locali. «Per esempio – ha precisato il direttore della Sala Stampa vaticana –, una consulta più ampia, costituita anche da membri della vita consacrata e dei laici, per i candidati proposti per la nomina a vescovo». Fra le altre proposte, è stata avanzata anche la possibilità di trasferire alcune facoltà dai dicasteri romani ai vescovi locali o alle Conferenze episcopali, «in uno spirito di sana decentralizzazione». Anche in questo caso Burke ha chiarito con un esempio. Si è parlato del «trasferimento dal dicastero per il clero alla Conferenza episcopale di alcuni esami come l’autorizzazione di ordinare sacerdote un diacono permanente non sposato; il passaggio a nuove nozze di un diacono permanente rimasto vedovo; la domanda di accedere all’ordinazione sacerdotale di un diacono permanente rimasto vedovo». Testi da sottoporre al Papa. I cardinali hanno fatto ulteriori considerazioni su diversi dicasteri della Curia, in particolare sulla Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, e riletto alcuni testi proposti da sottoporre a papa Francesco a proposito dei dicasteri per il dialogo interreligioso, le Chiese orientali, i testi legislativi e tre tribunali: la Penitenzieria Apostolica, la Segnatura Apostolica e la Rota Romana. La Segreteria per l’economia. Il cardinale George Pell ha aggiornato sul lavoro della Segreteria per l’economia, da lui presieduta. In particolare si è parlato del processo di pianificazione delle risorse economiche e del monitoraggio dei piani finanziari per il primo trimestre del 2017 che hanno confermato i dati di budget. A breve si inizierà il processo di budget per il 2018 e il monitoraggio per il secondo trimestre 2017. La Segreteria per la comunicazione. Anche questo nuovo dicastero sta ottenendo «buoni risultati», ha riferito monsignor Dario Edoardo Viganò, presentando un rapporto sullo stato della riforma del sistema comunicativo della Santa Sede. Viganò ha spiegato i progetti in fase di realizzazione del nuovo sistema comunicativo, in linea con quanto precisato dal Papa alla prima Plenaria del dicastero. La prossima riunione del C9 si terrà dall’11 al 13 settembre. Le vacanze dei cardinali. A margine Burke ha risposto alle domande sulla lettera inviata dal Papa al decano del collegio cardinalizio, Angelo Sodano, che, a sua volta, ha chiesto ai cardinali residenti a Roma di «segnalare al Santo Padre, per il tramite della segreteria di Stato, il periodo delle loro assenze da Roma e l’indirizzo del loro soggiorno». Francesco ha ripreso «una sana tradizione», ha spiegato il portavoce vaticano.

CORRIERE DELLA SERA Pag 10 Lottiamo insieme contro la corruzione di Francesco L’appello del Papa contro “la peggiore piaga sociale”

La corruzione, nella sua radice etimologica, definisce una lacerazione, una rottura, una decomposizione e disintegrazione. Sia come stato interiore sia come fatto sociale, la sua azione si può capire guardando alle relazioni che ha l’uomo nella sua natura più profonda. L’essere umano ha, infatti, una relazione con Dio, una relazione con il suo prossimo, una relazione con il creato, cioè con l’ambiente nel quale vive. Questa triplice relazione - nella quale rientra anche quella dell’uomo con se stesso - dà contesto e senso al suo agire e, in generale, alla sua vita. Quando l’uomo rispetta le esigenze di queste relazioni è onesto, assume responsabilità con rettitudine di cuore e lavora per il bene comune. Quando invece egli subisce una caduta, cioè si corrompe, queste relazioni si lacerano. Così, la corruzione esprime la forma generale della vita disordinata dell’uomo decaduto. Allo stesso tempo, ancora come conseguenza della caduta, la corruzione rivela una condotta anti-sociale tanto forte da sciogliere la validità dei rapporti e quindi, poi, i pilastri sui quali si fonda una società: la coesistenza fra persone e la vocazione a svilupparla. La corruzione spezza tutto questo sostituendo il bene comune con un interesse particolare che contamina ogni prospettiva generale. Essa nasce da un cuore corrotto ed è la peggiore piaga sociale, perché genera gravissimi problemi e crimini che coinvolgono tutti. La parola «corrotto» ricorda il cuore rotto, il cuore infranto, macchiato da qualcosa, rovinato come un corpo che in natura entra in un processo di decomposizione e manda cattivo odore. Cosa c’è all’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo? Cosa, all’origine del degrado e del mancato sviluppo? Cosa, all’origine del traffico di persone, di armi, di droga? Cosa, all’origine dell’ingiustizia sociale e della mortificazione del merito? Cosa, all’origine dell’assenza dei servizi per le persone? Cosa, alla radice della schiavitù, della disoccupazione, dell’incuria delle città, dei beni comuni e della natura? Cosa, insomma, logora il diritto fondamentale dell’essere umano e l’integrità dell’ambiente? La corruzione, che infatti è l’arma, è il linguaggio più comune anche delle mafie e delle organizzazioni criminali nel mondo. Per questo, essa è un processo di morte che dà linfa alla cultura di morte delle mafie e delle organizzazioni criminali. C’è una profonda questione culturale che occorre affrontare. Oggi molti non riescono anche solo a immaginare il futuro; oggi per un giovane è difficile credere veramente nel suo futuro, in qualunque futuro, e così per la sua famiglia. Questo nostro cambiamento d’epoca, tempo di crisi molto vasta, ritrae la crisi più profonda che coinvolge la nostra cultura. In questo contesto va inquadrata e capita la corruzione nei suoi diversi aspetti. Ne va della presenza della speranza nel mondo, senza la quale la vita perde quel senso di ricerca e possibilità di miglioramento che la rende tale. In questo libro il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, oggi prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, e già presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, spiega bene la ramificazione di questi significati di corruzione, e lo fa concentrandosi in particolare sull’origine interiore di questo stato che, appunto, germoglia nel cuore dell’uomo e può germogliare nel cuore di tutti gli uomini. Siamo, infatti, tutti molto esposti alla tentazione della corruzione: anche quando pensiamo di averla sconfitta, essa si può ripresentare. L’uomo va visto in ogni suo aspetto, non va scisso a seconda delle sue attività, e così la corruzione va letta - come si legge in questo libro - tutta insieme, per tutto l’uomo, sia nelle sue espressioni di reato sia in quelle politiche, economiche, culturali, spirituali. Nel 2016 si è concluso il Giubileo straordinario della misericordia. La misericordia permette di superarsi in spirito di ricerca. Cosa avviene se ci si arrocca in se stessi e se il pensiero e il cuore non esplorano un orizzonte più ampio? Ci si corrompe, e corrompendosi si assume l’atteggiamento trionfalista di chi si sente più bravo e più scaltro degli altri. La persona corrotta, però, non si rende conto che si sta costruendo, da se stessa, la propria catena. Un peccatore può chiedere perdono, un corrotto dimentica di chiederlo. Perché? Perché non ha più necessità di andare oltre, di cercare piste al di là di se stesso: è stanco ma sazio, pieno di sé. La corruzione ha, infatti, all’origine una stanchezza della trascendenza, come l’indifferenza. Il cardinale Turkson - come si comprende da questo dialogo che via via si snoda secondo un itinerario preciso - esplora i diversi passaggi nei quali nasce e si insinua la corruzione, dalla spiritualità dell’uomo fino alle sue costruzioni sociali, culturali, politiche e anche criminali, ponendo insieme questi aspetti anche su quel che più ci interpella: l’identità e il cammino della Chiesa. La Chiesa deve ascoltare, elevarsi e chinarsi sui dolori e le speranze delle persone secondo misericordia, e deve farlo senza avere paura di purificare se stessa, ricercando assiduamente la strada per migliorarsi. Henri de Lubac scrisse che il pericolo più grande per la Chiesa è la mondanità spirituale - quindi la corruzione - che è più disastrosa della lebbra infame. La nostra corruzione è la mondanità spirituale, la tepidezza, l’ipocrisia, il trionfalismo, il far prevalere solo lo spirito del mondo sulle nostre vite, il senso di indifferenza. Ed è con questa consapevolezza che noi, uomini e donne di Chiesa, possiamo accompagnare noi stessi e l’umanità sofferente, soprattutto quella che più è oppressa dalle conseguenze criminali e di degrado generate dalla corruzione. Mentre scrivo mi trovo qui in Vaticano, in luoghi di una bellezza assoluta, nei quali l’ingegno umano ha cercato di elevarsi e trascendere nel tentativo di far vincere l’immortale sul caduco, sul corrotto. Questa bellezza non è un accessorio cosmetico, ma qualcosa che pone al centro la persona umana perché essa possa alzare la testa contro tutte le ingiustizie. Questa bellezza deve sposarsi con la giustizia. Così, dobbiamo parlare di corruzione, denunciarne i mali, capirla, mostrare la volontà di affermare la misericordia sulla grettezza, la curiosità e creatività sulla stanchezza rassegnata, la bellezza sul nulla. Noi, cristiani e non cristiani, siamo fiocchi di neve, ma se ci uniamo possiamo diventare una valanga: un movimento forte e costruttivo. Ecco il nuovo umanesimo, questo rinascimento, questa ri-creazione contro la corruzione che possiamo realizzare con audacia profetica. Dobbiamo lavorare tutti insieme, cristiani, non cristiani, persone di tutte le fedi e non credenti, per combattere questa forma di bestemmia, questo cancro che logora le nostre vite. È urgente prenderne consapevolezza, e per questo ci vuole educazione e cultura misericordiosa, ci vuole cooperazione da parte di tutti secondo le proprie possibilità, i propri talenti, la propria creatività.

Pag 11 L’accelerazione nella nomina dell’arcivescovo di Milano di Gian Guido Vecchi La scelta del successore di Angelo Scola dovrebbe arrivare a breve e non dopo l’estate

Città del Vaticano. C’è un’accelerazione nella nomina del nuovo arcivescovo di Milano. La scelta di Francesco è compiuta e, si dice Oltretevere, l’annuncio una questione di giorni, se non di ore. Negli ultimi tempi pareva che la decisione del Papa slittasse a dopo l’estate, si parlava di novembre. Ma lasciare in sospeso la diocesi più grande d’Europa con le sue 1.107 parrocchie sarebbe stato problematico e il cardinale Angelo Scola, che ha compiuto 75 anni il 7 novembre dell’anno scorso, ha già preparato il «buon retiro» in una parrocchia di Imberido, in provincia di Lecco, non lontano dalla sua Malgrate. Sia Scola sia il predecessore Dionigi Tettamanzi, del resto, furono nominati alla fine di giugno, in modo che il nuovo arcivescovo potesse fare ingresso in città a settembre, l’inizio dell’anno pastorale. Ai piani alti del Vaticano si spiega che oggi è festa, per il Corpus Domini, ma la nomina potrebbe comunque arrivare «questa settimana o la prossima». Il riserbo è assoluto, anche perché Francesco ascolta tutti ma alla fine decide da solo. Da ultimo, dopo il Regina Coeli del 21 maggio Francesco ha annunciato un concistoro per la creazione di cinque cardinali tra la sorpresa generale, anche dei diretti interessati. Così Oltretevere nessuno si sbilancia né azzarda previsioni. Alcuni nomi, peraltro, circolano da mesi. A cominciare dal vicario generale della diocesi Ambrosiana, il vescovo Mario Delpini, 65 anni, un profilo molto «pastorale» e un buon rapporto con i sacerdoti: Scola gli ha affidato la formazione permanente del clero, lo stesso ruolo che aveva a Roma monsignor Angelo De Donatis, appena scelto da Francesco come Vicario. Altri nomi ricorrenti sono quelli del vescovo di Bergamo Francesco Beschi, tra l’altro in prima fila sul tema dell’accoglienza dei migranti, e del vescovo teologo di Novara Franco Giulio Brambilla, che insegnava nella Milano del cardinale Martini. Ma di ipotesi se ne sono fatte tante, dal cappuccino Paolo Martinelli - altro vescovo ausiliare di Milano - al vescovo di Carpi Francesco Cavina, dopo la visita del Papa alla diocesi in aprile. Tutte deduzioni alla ricerca del profilo da «pastore con l’odore delle pecore» che Francesco ha mostrato di seguire nelle nomine compiute finora. La cattedra del successore di Ambrogio, però, è la scelta più delicata per ogni pontefice. E non si esclude la possibilità di una sorpresa, come quando Giovanni Paolo II decise di mandare a Milano il rettore gesuita dell’università Gregoriana: padre Carlo Maria Martini. Per questo sono circolate pure ipotesi come quella del francescano Pierbattista Pizzaballa (l’ex Custode di Terrrasanta, nel frattempo, è stato nominato amministratore apostolico del Patriarcato di Gerusalemme), del vescovo teologo Bruno Forte e perfino del segretario di Stato Pietro Parolin. Speculazioni che si infittiscono da mesi, in attesa di Francesco.

AVVENIRE di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 4 “La povertà, uno scandalo che cresce”. Il Papa: non possiamo restare inerti L’invito ad aiutare gli ultimi non a parole ma con fatti concreti

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO I GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

Domenica XXXIII del Tempo Ordinario 19 novembre 2017

Non amiamo a parole ma con i fatti

1. «Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità» (1 Gv 3,18). Queste parole dell’apostolo Giovanni esprimono un imperativo da cui nessun cristiano può prescindere. La serietà con cui il “discepolo amato” trasmette fino ai nostri giorni il comando di Gesù è resa ancora più accentuata per l’opposizione che rileva tra le parole vuote che spesso sono sulla nostra bocca e i fatti concreti con i quali siamo invece chiamati a misurarci. L’amore non ammette alibi: chi intende amare come Gesù ha amato, deve fare proprio il suo esempio; soprattutto quando si è chiamati ad amare i poveri. Il modo di amare del Figlio di Dio, d’altronde, è ben conosciuto, e Giovanni lo ricorda a chiare lettere. Esso si fonda su due colonne portanti: Dio ha amato per primo (cfr 1 Gv 4,10.19); e ha amato dando tutto sé stesso, anche la propria vita (cfr 1 Gv 3,16). Un tale amore non può rimanere senza risposta. Pur essendo donato in maniera unilaterale, senza richiedere cioè nulla in cambio, esso tuttavia accende talmente il cuore che chiunque si sente portato a ricambiarlo nonostante i propri limiti e peccati. E questo è possibile se la grazia di Dio, la sua carità misericordiosa viene accolta, per quanto possibile, nel nostro cuore, così da muovere la nostra volontà e anche i nostri affetti all’amore per Dio stesso e per il prossimo. In tal modo la misericordia che sgorga, per così dire, dal cuore della Trinità può arrivare a mettere in movimento la nostra vita e generare compassione e opere di misericordia per i fratelli e le sorelle che si trovano in necessità. 2. «Questo povero grida e il Signore lo ascolta» (Sal 34,7). Da sempre la Chiesa ha compreso l’importanza di un tale grido. Possediamo una grande testimonianza fin dalle prime pagine degli Atti degli Apostoli, là dove Pietro chiede di scegliere sette uomini «pieni di Spirito e di sapienza» (6,3) perché assumessero il servizio dell’assistenza ai poveri. È certamente questo uno dei primi segni con i quali la comunità cristiana si presentò sulla scena del mondo: il servizio ai più poveri. Tutto ciò le era possibile perché aveva compreso che la vita dei discepoli di Gesù doveva esprimersi in una fraternità e solidarietà tali, da corrispondere all’insegnamento principale del Maestro che aveva proclamato i poveri beati ed eredi del Regno dei cieli (cfr Mt 5,3). «Vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno» (At 2,45). Questa espressione mostra con evidenza la viva preoccupazione dei primi cristiani. L’evangelista Luca, l’autore sacro che più di ogni altro ha dato spazio alla misericordia, non fa nessuna retorica quando descrive la prassi di condivisione della prima comunità. Al contrario, raccontandola intende parlare ai credenti di ogni generazione, e quindi anche a noi, per sostenerci nella testimonianza e provocare la nostra azione a favore dei più bisognosi. Lo stesso insegnamento viene dato con altrettanta convinzione dall’apostolo Giacomo, che, nella sua Lettera, usa espressioni forti ed incisive: «Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disonorato il povero! Non sono forse i ricchi che vi opprimono e vi trascinano davanti ai tribunali? [...] A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta» (2,5-6.14-17). 3. Ci sono stati momenti, tuttavia, in cui i cristiani non hanno ascoltato fino in fondo questo appello, lasciandosi contagiare dalla mentalità mondana. Ma lo Spirito Santo non ha mancato di richiamarli a tenere fisso lo sguardo sull’essenziale. Ha fatto sorgere, infatti, uomini e donne che in diversi modi hanno offerto la loro vita a servizio dei poveri. Quante pagine di storia, in questi duemila anni, sono state scritte da cristiani che, in tutta semplicità e umiltà, e con la generosa fantasia della carità, hanno servito i loro fratelli più poveri! Tra tutti spicca l’esempio di Francesco d’Assisi, che è stato seguito da numerosi altri uomini e donne santi nel corso dei secoli. Egli non si accontentò di abbracciare e dare l’elemosina ai lebbrosi, ma decise di andare a Gubbio per stare insieme con loro. Lui stesso vide in questo incontro la svolta della sua conversione: «Quando ero nei peccati mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e usai con essi misericordia. E allontanandomi da loro, ciò che mi sembrava amaro mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo» (Test 1-3: FF 110). Questa testimonianza manifesta la forza trasformatrice della carità e lo stile di vita dei cristiani. Non pensiamo ai poveri solo come destinatari di una buona pratica di volontariato da fare una volta alla settimana, o tanto meno di gesti estemporanei di buona volontà per mettere in pace la coscienza. Queste esperienze, pur valide e utili a sensibilizzare alle necessità di tanti fratelli e alle ingiustizie che spesso ne sono causa, dovrebbero introdurre ad un vero incontro con i poveri e dare luogo ad una condivisione che diventi stile di vita. Infatti, la preghiera, il cammino del discepolato e la conversione trovano nella carità che si fa condivisione la verifica della loro autenticità evangelica. E da questo modo di vivere derivano gioia e serenità d’animo, perché si tocca con mano la carne di Cristo. Se vogliamo incontrare realmente Cristo, è necessario che ne tocchiamo il corpo in quello piagato dei poveri, come riscontro della comunione sacramentale ricevuta nell’Eucaristia. Il Corpo di Cristo, spezzato nella sacra liturgia, si lascia ritrovare dalla carità condivisa nei volti e nelle persone dei fratelli e delle sorelle più deboli. Sempre attuali risuonano le parole del santo vescovo Crisostomo: «Se volete onorare il corpo di Cristo, non disdegnatelo quando è nudo; non onorate il Cristo eucaristico con paramenti di seta, mentre fuori del tempio trascurate quest’altro Cristo che è afflitto dal freddo e dalla nudità» (Hom. in Matthaeum, 50, 3: PG 58). Siamo chiamati, pertanto, a tendere la mano ai poveri, a incontrarli, guardarli negli occhi, abbracciarli, per far sentire loro il calore dell’amore che spezza il cerchio della solitudine. La loro mano tesa verso di noi è anche un invito ad uscire dalle nostre certezze e comodità, e a riconoscere il valore che la povertà in sé stessa costituisce. 4. Non dimentichiamo che per i discepoli di Cristo la povertà è anzitutto una vocazione a seguire Gesù povero. È un cammino dietro a Lui e con Lui, un cammino che conduce alla beatitudine del Regno dei cieli (cfr Mt 5,3; Lc 6,20). Povertà significa un cuore umile che sa accogliere la propria condizione di creatura limitata e peccatrice per superare la tentazione di onnipotenza, che illude di essere immortali. La povertà è un atteggiamento del cuore che impedisce di pensare al denaro, alla carriera, al lusso come obiettivo di vita e condizione per la felicità. E’ la povertà, piuttosto, che crea le condizioni per assumere liberamente le responsabilità personali e sociali, nonostante i propri limiti, confidando nella vicinanza di Dio e sostenuti dalla sua grazia. La povertà, così intesa, è il metro che permette di valutare l’uso corretto dei beni materiali, e anche di vivere in modo non egoistico e possessivo i legami e gli affetti (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 25-45). Facciamo nostro, pertanto, l’esempio di san Francesco, testimone della genuina povertà. Egli, proprio perché teneva fissi gli occhi su Cristo, seppe riconoscerlo e servirlo nei poveri. Se, pertanto, desideriamo offrire il nostro contributo efficace per il cambiamento della storia, generando vero sviluppo, è necessario che ascoltiamo il grido dei poveri e ci impegniamo a sollevarli dalla loro condizione di emarginazione. Nello stesso tempo, ai poveri che vivono nelle nostre città e nelle nostre comunità ricordo di non perdere il senso della povertà evangelica che portano impresso nella loro vita. 5. Conosciamo la grande difficoltà che emerge nel mondo contemporaneo di poter identificare in maniera chiara la povertà. Eppure, essa ci interpella ogni giorno con i suoi mille volti segnati dal dolore, dall’emarginazione, dal sopruso, dalla violenza, dalle torture e dalla prigionia, dalla guerra, dalla privazione della libertà e della dignità, dall’ignoranza e dall’analfabetismo, dall’emergenza sanitaria e dalla mancanza di lavoro, dalle tratte e dalle schiavitù, dall’esilio e dalla miseria, dalla migrazione forzata. La povertà ha il volto di donne, di uomini e di bambini sfruttati per vili interessi, calpestati dalle logiche perverse del potere e del denaro. Quale elenco impietoso e mai completo si è costretti a comporre dinanzi alla povertà frutto dell’ingiustizia sociale, della miseria morale, dell’avidità di pochi e dell’indifferenza generalizzata! Ai nostri giorni, purtroppo, mentre emerge sempre più la ricchezza sfacciata che si accumula nelle mani di pochi privilegiati, e spesso si accompagna all’illegalità e allo sfruttamento offensivo della dignità umana, fa scandalo l’estendersi della povertà a grandi settori della società in tutto il mondo. Dinanzi a questo scenario, non si può restare inerti e tanto meno rassegnati. Alla povertà che inibisce lo spirito di iniziativa di tanti giovani, impedendo loro di trovare un lavoro; alla povertà che anestetizza il senso di responsabilità inducendo a preferire la delega e la ricerca di favoritismi; alla povertà che avvelena i pozzi della partecipazione e restringe gli spazi della professionalità umiliando così il merito di chi lavora e produce; a tutto questo occorre rispondere con una nuova visione della vita e della società. Tutti questi poveri – come amava dire il Beato Paolo VI – appartengono alla Chiesa per «diritto evangelico» (Discorso di apertura della II sessione del Concilio Ecumenico Vaticano II, 29 settembre 1963) e obbligano all’opzione fondamentale per loro. Benedette, pertanto, le mani che si aprono ad accogliere i poveri e a soccorrerli: sono mani che portano speranza. Benedette le mani che superano ogni barriera di cultura, di religione e di nazionalità versando olio di consolazione sulle piaghe dell’umanità. Benedette le mani che si aprono senza chiedere nulla in cambio, senza “se”, senza “però” e senza “forse”: sono mani che fanno scendere sui fratelli la benedizione di Dio. 6. Al termine del Giubileo della Misericordia ho voluto offrire alla Chiesa la Giornata Mondiale dei Poveri, perché in tutto il mondo le comunità cristiane diventino sempre più e meglio segno concreto della carità di Cristo per gli ultimi e i più bisognosi. Alle altre Giornate mondiali istituite dai miei Predecessori, che sono ormai una tradizione nella vita delle nostre comunità, desidero che si aggiunga questa, che apporta al loro insieme un elemento di completamento squisitamente evangelico, cioè la predilezione di Gesù per i poveri. Invito la Chiesa intera e gli uomini e le donne di buona volontà a tenere fisso lo sguardo, in questo giorno, su quanti tendono le loro mani gridando aiuto e chiedendo la nostra solidarietà. Sono nostri fratelli e sorelle, creati e amati dall’unico Padre celeste. Questa Giornata intende stimolare in primo luogo i credenti perché reagiscano alla cultura dello scarto e dello spreco, facendo propria la cultura dell’incontro. Al tempo stesso l’invito è rivolto a tutti, indipendentemente dall’appartenenza religiosa, perché si aprano alla condivisione con i poveri in ogni forma di solidarietà, come segno concreto di fratellanza. Dio ha creato il cielo e la terra per tutti; sono gli uomini, purtroppo, che hanno innalzato confini, mura e recinti, tradendo il dono originario destinato all’umanità senza alcuna esclusione. 7. Desidero che le comunità cristiane, nella settimana precedente la Giornata Mondiale dei Poveri, che quest’anno sarà il 19 novembre, XXXIII domenica del Tempo Ordinario, si impegnino a creare tanti momenti di incontro e di amicizia, di solidarietà e di aiuto concreto. Potranno poi invitare i poveri e i volontari a partecipare insieme all’Eucaristia di questa domenica, in modo tale che risulti ancora più autentica la celebrazione della Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo, la domenica successiva. La regalità di Cristo, infatti, emerge in tutto il suo significato proprio sul Golgota, quando l’Innocente inchiodato sulla croce, povero, nudo e privo di tutto, incarna e rivela la pienezza dell’amore di Dio. Il suo abbandonarsi completamente al Padre, mentre esprime la sua povertà totale, rende evidente la potenza di questo Amore, che lo risuscita a vita nuova nel giorno di Pasqua. In questa domenica, se nel nostro quartiere vivono dei poveri che cercano protezione e aiuto, avviciniamoci a loro: sarà un momento propizio per incontrare il Dio che cerchiamo. Secondo l’insegnamento delle Scritture (cfr Gen 18,3-5; Eb 13,2), accogliamoli come ospiti privilegiati alla nostra mensa; potranno essere dei maestri che ci aiutano a vivere la fede in maniera più coerente. Con la loro fiducia e disponibilità ad accettare aiuto, ci mostrano in modo sobrio, e spesso gioioso, quanto sia decisivo vivere dell’essenziale e abbandonarci alla provvidenza del Padre. 8. A fondamento delle tante iniziative concrete che si potranno realizzare in questa Giornata ci sia sempre la preghiera. Non dimentichiamo che il Padre nostro è la preghiera dei poveri. La richiesta del pane, infatti, esprime l’affidamento a Dio per i bisogni primari della nostra vita. Quanto Gesù ci ha insegnato con questa preghiera esprime e raccoglie il grido di chi soffre per la precarietà dell’esistenza e per la mancanza del necessario. Ai discepoli che chiedevano a Gesù di insegnare loro a pregare, Egli ha risposto con le parole dei poveri che si rivolgono all’unico Padre in cui tutti si riconoscono come fratelli. Il Padre nostro è una preghiera che si esprime al plurale: il pane che si chiede è “nostro”, e ciò comporta condivisione, partecipazione e responsabilità comune. In questa preghiera tutti riconosciamo l’esigenza di superare ogni forma di egoismo per accedere alla gioia dell’accoglienza reciproca. 9. Chiedo ai confratelli vescovi, ai sacerdoti, ai diaconi – che per vocazione hanno la missione del sostegno ai poveri –, alle persone consacrate, alle associazioni, ai movimenti e al vasto mondo del volontariato di impegnarsi perché con questa Giornata Mondiale dei Poveri si instauri una tradizione che sia contributo concreto all’evangelizzazione nel mondo contemporaneo. Questa nuova Giornata Mondiale, pertanto, diventi un richiamo forte alla nostra coscienza credente affinché siamo sempre più convinti che condividere con i poveri ci permette di comprendere il Vangelo nella sua verità più profonda. I poveri non sono un problema: sono una risorsa a cui attingere per accogliere e vivere l’essenza del Vangelo.

Dal Vaticano, 13 giugno 2017

Memoria di Sant’Antonio di Padova

SETTIMO CIELO (Blog di Sandro Magister) Nome per nome la metamorfosi della Pontificia Accademia per la Vita

Finalmente, dopo tanta attesa, è stata diramata martedì 13 giugno la lista dei nuovi membri della Pontificia Accademia per la Vita, tutti di nomina papale. Manca ancora la lista del consiglio direttivo, anch'esso di nomina pontificia, come pure quella dei membri "corrispondenti", la cui designazione compete al presidente dell'Accademia, monsignor Vincenzo Paglia. Ma il più è fatto. Rispetto ai precedenti 132 membri a vario titolo dell'Accademia, tutti messi in congedo il 31 dicembre del 2016, gli attuali membri sono 45, più 5 "ad honorem". I confermati sono 33, i nuovi 17 e i loro nomi, con i relativi titoli, sono in questo elenco diffuso dalla sala stampa della Santa Sede. I depennati sono quindi parecchi. E tra loro spiccano alcuni studiosi di grande autorevolezza, che si sono però distinti nel criticare pubblicamente i nuovi paradigmi morali e pratici entrati in auge col pontificato di Francesco. Vi sono tra questi il filosofo tedesco Robert Spaemann, amico di Ratzinger d'antica data; il filosofo del diritto John Finnis, australiano, autore con Germain Grisez di una "lettera aperta" a papa Francesco di forte critica ad "Amoris laetitia"; l'inglese Luke Gormally; gli austriaci Josef Maria Seifert e Wolfgang Waldstein. Non sono state confermate nemmeno attiviste pro-life di rilievo internazionale come la guatemalteca Maria Mercedes Arzú de Wilson e la venezuelana Christine De Marcellus Vollmer, tra le prime chiamate da Giovanni Paolo II a far parte dell'Accademia, ora lasciata sguarnita su questo fronte. Sono spariti anche tre rappresentanti dell'Est europeo cresciuti alla scuola di Karol Wojtyla e rimasti a lui fedelissimi, come il polacco Andrzej Szostek, l'ucraino Mieczyslaw Grzegocki e il ceco Jaroslav Sturma, psicologo e psicoterapeuta fieramente contrario all'ideologia del "gender". Così come è stata messa una croce sopra Etienne Kaboré del Burkina Faso, perfettamente in linea con le posizioni della Chiesa africana su matrimonio, famiglia e sessualità, viste all'opera durante i due ultimi sinodi. Dall'Europa mancheranno gli apporti del francese Bernard Kerdelhue, discepolo e grande estimatore del beatificando Jérôme Lejeune, primo presidente dell'Accademia, e dei belgi Schooyans e Philippe Schepens, fervente difensore dell'etica medica ispirata a Ippocrate. Mentre tra gli accademici latinoamericani non vi sarà più il cileno Patricio Ventura-Junca, molto vicino all'altro ex presidente dell'Accademia Juan de Dios Vial Correa, suo connazionale. Dagli Stati Uniti mancherà il contributo di Thomas William Hilgers, ginecologo molto impegnato sui metodi naturali di regolazione delle nascite. Fedelissimo a "Donum vitae" e ad "Humanae vitae" e fermo oppositore di contraccezione e fecondazione "in vitro", è probabile che proprio per questo sia stato escluso, in vista di una revisione delle posizioni della Chiesa su questi temi, di cui in Vaticano si vocifera con crescente insistenza. Ma anche le riconferme e i nomi nuovi sono indicativi di una svolta di direzione. Tra i confermati, i cinque nuovi membri "ad honorem" rappresentano un doveroso tributo al passato, nelle persone dei cardinali Carlo Caffarra ed Elio Sgreccia, della signora Birthe Lejeune, vicepresidente della Fondazione che porta il nome di Jérôme Lejeune, suo marito e primo presidente dell'Accademia nel 1994, e degli altri due ex presidenti Juan de Dios Vial Correa, cileno, e Ignacio Carrasco de Paula, spagnolo. Doverose sono state anche le riconferme del cardinale olandese Willem Jacobus Eijk e dell'arcivescovo di Sydney Anthony Colin Fisher, entrambi "conservatori". Ma se si guarda agli altri nomi, si può notare come gli ex membri "corrispondenti" ora promossi a membri "ordinari" sono tra i più docili alle aperture di papa Francesco e al nuovo corso guidato da monsignor Paglia. Si possono citare tra questi il vescovo canadese Noël Simard, il vescovo argentino Alberto German Bochatey, il messicano Rodrigo Guerra López, la cattolica giapponese Etsuko Akiba. Sono stati inoltre confermati personaggi di peso, anche finanziario, apprezzati per le loro doti di insostituibilità e adattabilità, come il capo supremo dei Cavalieri di Colombo, l'americano Carl A. Anderson, da molti anni generoso mecenate sia dell'Accademia che del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia, o il francese Jean-Marie Le Mené, presidente della fondazione intitolata a Jérôme Lejeune e finanziatore del suo processo di beatificazione. Tra i 17 neonominati, tre sono non cristiani: il giapponese e premio Nobel per la medicina Shinya Yamanaka, il musulmano tunisino Mohamed Haddad e l'ebreo israeliano Avraham Steinberg, direttore dell'Unità di etica della medicina presso lo Shaare Zedek Medical Center di Gerusalemme e direttore del Comitato editoriale della Talmudic Encyclopedia. Monsignor Paglia ha preferito quest'ultimo all'altro ebreo Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma e anche lui medico ed esperto di bioetica, vicepresidente del Comitato nazionale di bioetica italiano, su posizioni però più conservatrici e talvolta esplicitamente critiche di papa Francesco. Un'altra indicativa "new entry" è quella di Angelo Vescovi, personaggio discusso negli ambienti scientifici ma legatissimo a Paglia fin da quando questi era vescovo di Terni, dove lo aiutò a creare un centro di studio sulle cellule staminali e propiziò poi la sua nomina a direttore scientifico della Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, fondata da Padre Pio. Ma il nome nuovo forse più emblematico del nuovo corso dell'Accademia è quello del teologo moralista Maurizio Chiodi, docente alla facoltà teologica di Milano e dell'Italia Settentrionale. Chiodi si è espresso da tempo in termini critici su punti importanti di "Humanae vitae", di "Donum vitae", di "Evangelium vitae". È anche in evidente discontinuità con l'enciclica "Veritatis splendor" di Giovanni Paolo II, mentre viceversa appare in sintonia con le correnti aperture a un nuovo "discernimento" su questioni quali la contraccezione, la fecondazione in vitro, gli orientamenti sessuali, il "gender", l'eutanasia passiva, il suicidio assistito. Con più prudenza, anche altre colonne dell'Accademia che pure hanno sostenuto in passato posizioni intransigenti si mostrano oggi disponibili a non ostacolare questa svolta. È il caso di Francesco D'Agostino, filosofo del diritto e presidente onorario del Comitato nazionale di bioetica italiano; di Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano; di John Haas, presidente del Centro nazionale cattolico di bioetica degli Stati Uniti e amico del cardinale Kevin J. Farrell, prefetto del dicastero per i laici, la famiglia e la vita; di Ángel Rodríguez Luño, professore di teologia morale alla Pontificia Università della Santa Croce e consultore della congregazione per la dottrina della fede, molto ascoltato dal cardinale Gerhard L. Müller. Con una Pontificia Accademia per la Vita messa così, l'opposizione che ancora si ispira a Lejeune, a Sgreccia, a Caffarra, a Giovanni Paolo II, a Benedetto XVI, non avrà vita facile.

POST SCRIPTUM – Il "Catholic Herald" ha riferito che uno dei nuovi membri della Pontificia Accademia per la Vita, l'inglese Nigel Biggar, anglicano, docente di teologia morale a Oxford, è un aperto sostenitore dell'aborto fino a "18 settimane dopo il concepimento".

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5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO

AVVENIRE Pag 1 Un record non basta di Leonardo Becchetti Italia, Europa e veri nodi del lavoro

Il dato sul record di occupati in Europa rilasciato ieri da Eurostat (234,2 milioni) non deve trarre in inganno e non segna la soluzione di tutti i mali. È intanto una somma degli occupati del Nord e del Sud dell’Eurozona e sappiamo bene che il problema dell’area è stato proprio sino a oggi quello delle asimmetrie e disparità territoriali. L’apparente contraddizione tra il progresso (non il record) del numero di occupati anche nello specifico del nostro Paese (che ci lascia comunque agli ultimi posti dell’Eurozona) e la crescita dei poveri si spiega con una quota importante di sottoccupati e di lavoratori poveri. È stata la stessa Banca centrale europea qualche tempo fa a sottolineare quanto sia serio il problema per l’Europa intera, suggerendo di cambiare indicatori e sostenendo che a coloro che cercano lavoro e non lo trovano (i disoccupati appunto) vanno aggiunti gli inattivi scoraggiati (chi non cerca più perché pensa di non poter trovare) e i sottoccupati o chi è involontariamente in part-time, ovvero lavora poco e vorrebbe lavorare di più. Per un progresso più sostanziale che promuova la dignità del lavoro bisogna avere innanzitutto una direzione di marcia. L’Italia oggi è all’avanguardia nell’indicare una meta grazie al lavoro sul Benessere equo e sostenibile (Bes) i cui indicatori sono diventati riferimento per lo stesso Documento di economia e finanza (Def) del governo. Se vogliamo andare ancora più a fondo la definizione di bene comune come «insieme di quelle condizioni sociali che consentono e favoriscono negli esseri umani lo sviluppo integrale della loro persona» (Giovanni XXIII, Mater et Magistra, n. 51, anno 1960) appare ancora più centrale. Il vero obiettivo deve essere quello di rimuovere tutti gli ostacoli che impediscono alle persone di realizzare la fioritura della propria vita. Vengono in mente i dati recentemente presentati da Alessandro Rosina che ha sottolineato come i giovani di oggi non siano poi così diversi da quelli delle generazioni che li hanno preceduti. Chi mette su famiglia vorrebbe almeno due figli come in passato, ma sono pochissimi quelli che riescono a farlo per difficoltà economiche e mancanza di lavoro stabile e ben remunerato. Aiutarli a colmare il gap tra realtà e desideri è ciò che vuol dire nello specifico rimuovere ostacoli nell’ambito del lavoro. Per questo nel percorso “Cercatori di LavOro”, integrato nel cammino delle Settimane sociali dei cattolici, si cerca di articolare risposte concrete alle domande di oggi a partire dal dato empirico. È stato chiesto ai giovani di ogni territorio di individuare le migliori pratiche del Paese, le “risposte” date da 100-200 Olivetti dei nostri giorni e quelle articolate in modo più convincente da amministrazioni e istituti di formazione, riflettendo assieme con loro sulla replicabilità delle buone pratiche (sugli ostacoli incontrati e gli errori che possono essere d’insegnamento ad altri) e su ciò che la politica può e deve fare in proposito. Ne sta uscendo un quadro veramente interessante in grado di fornire stimoli e suggerimenti per passi ulteriori. Una prima questione ineludibile è quella dei macrofenomeni. C’è bisogno di armonizzazione fiscale per evitare che paradisi fiscali nell’Ue ci sottraggano base fiscale, di investimenti pubblici ad alto moltiplicatore svincolati dalle regole sul patto di stabilità e di una Bce che si ponga statutariamente l’obiettivo della riduzione della disoccupazione. Se infatti Mario Draghi ha fatto di necessità virtù, e ha mosso di fatto in tale direzione versando vino nuovo in otri vecchi, un cambiamento di statuto appare però fondamentale. Quanto al nostro Paese sono quattro gli imperativi fondamentali. Il primo è rimuovere ostacoli per chi il lavoro lo può creare (significativo che un Papa argentino accusato da alcuni di non capire l’economia di mercato abbia citato, a questo proposito, Luigi Einaudi nel suo discorso all’Ilva di Genova...) guardando a giustizia, banda larga, burocrazia e a tutte quelle misure che possono rilanciare gli investimenti nel Paese. Il secondo è invertire la rotta di un sistema che alimenta la corsa al ribasso sui costi del lavoro incidendo negativamente sulla dignità delle persone. Su questo fronte miglioramento dell’infrastruttura informativa, forza organizzata del “voto di portafoglio” di consumi e risparmi e rimodulazione dell’Iva per premiare le filiere ad alta dignità di lavoro appaiono direzioni fondamentali da perseguire. Il terzo è ridare dignità agli scartati e agli esclusi, favorendo il reinserimento nel mondo del lavoro (la gestione ottimale del Reddito d’inserimento appena varato dal governo appare da questo punto di vista d’importanza fondamentale). Il quarto è la promozione di tutto quel nuovo fronte dell’economia rappresentato dall’insieme di arte, cultura, turismo, storia e biodiversità naturale di cui il nostro Paese è ricchissimo e che ancora non riusciamo a valorizzare appieno. Nelle economie del futuro la creazione di valore sarà sempre più realizzata non attraverso la produzione di beni di prima necessità, ma attraverso la capacità di combinare con la fornitura di beni e servizi valori simbolici ed esperienze in grado di soddisfare la domanda di generatività dei cittadini. E su questo ambito per ricchezza di eredità e tradizione l’Italia ha e avrà molto da dire.

Pag 3 Sopraffatti da una solitudine che trasforma e impoverisce di Elisa Manna Il dramma personale, il problema sociale. Quel disagio urbano che colpisce anziani e giovani

Beata solitudine! Non sono pochi quelli che sottoscriverebbero questa esclamazione: la condizione di isolamento può essere cercata come una modalità per stare con se stessi, per riflettere profondamente o solo ritagliarsi uno spazio di tranquillità. Di più. Nelle riflessioni di poeti, scienziati e artisti di genio spesso ci si imbatte in un’aspirazione gioiosa alla solitudine, vista come momento creativo, come atto di indipendenza dalla futilità della quotidianità, come rifugio meraviglioso per ritrovarsi con i propri pensieri. Da Jung a Picasso molte personalità eccellenti hanno celebrato la solitudine come antidoto perfetto alla banalità. Ma non è di questo tipo di solitudine, agognata e corteggiata, che vogliamo parlare. La solitudine su cui vogliamo richiamare l’attenzione è quella subìta, temuta, inutilmente esorcizzata con i mille, piccoli passatempi che riusciamo a inventare, quasi a frapporre tra noi e “lei” un’invisibile muraglia. Parliamo delle giornate che non finiscono mai perché nessuno sguardo, nessun sorriso viene a illuminarle; le giornate in cui ci si sente abbandonati e dimenticati, le ombre della sera che vengono a inquietarci perché non ci sono braccia che ci cingono le spalle a confortarci. Parliamo di quel lasciarsi andare, di una trascuratezza che avvolge a poco a poco tutte le nostre azioni, tutti i momenti delle giornata. Non si tratta di indulgere in suggestioni tardoromantiche. Proprio no. La solitudine di cui parliamo è concreta, quotidiana, tangibile. Soprattutto “urbana”, perché non attecchisce o prende corpo in misura molto minore, nei piccoli centri, ma dilaga nelle grandi città come Roma. La verità è che nelle nostre metropoli affollate, nei palazzi alveare, nelle strade ingolfate di automobili ci sono davvero tante, troppe solitudini; tante, troppe persone povere di relazioni umane. Il direttore della Caritas di Roma, monsignor Enrico Feroci, le ha chiamate «povertà nascoste» nel corso di un recentissimo convegno promosso dalla Caritas diocesana a Roma proprio sul tema delle solitudini che si celano nelle case della metropoli. Già, perché le persone povere e sole non sono soltanto quei barboni coperti di stracci che si accovacciano sotto i tunnel o ai margini delle stazioni ferroviarie e che guardiamo purtroppo ormai con indifferenza: si va estendendo nelle nostre città una forma di “barbonismo domestico”, dove la casa diventa una tana in cui barricarsi per paura e diffidenza verso l’esterno avvertito come minaccioso e ansiogeno. Una casa che finisce col sopraffare le povere creature che vi si nascondono. E sono tanti anziani, certo, che spaccano il centesimo di una pensione risibile (ricordiamo che a gennaio 2017 secondo la più recente stima dell’Istat le persone ultrasessantacinquenni hanno superato per la prima volta in Italia la soglia del 22%). Ma ci sono anche tanti adulti, magari impoveriti e isolati a seguito di una separazione. E tanti giovani; non solo ed esattamente i “giovani Neet” (quelli che non lavorano e non studiano), che pure hanno le loro fragilità. No, stiamo parlando di una fenomenologia più subdola, cui i giapponesi hanno trovato un nome: li chiamano hikikomori e sono quei ragazzi che si rifugiano nelle loro camerette e accettano di avere con l’esterno soltanto relazioni virtuali attraverso la Rete. In questo caso la solitudine non è proprio subita, come può essere per pensionati e anziani soli. Loro, i giovani hikikomori hanno “soltanto” perso ogni fiducia nell’umanità e si sentono a proprio agio tra le quattro mura della loro camera con una finestra virtuale sul mondo mediato però da uno schermo, da un monitor: niente odori, sapori, niente di “pericolosamente” umano. Del resto i giovani che non lavorano e non studiano sono ormai in Italia ben oltre 3 milioni, non sono più certamente un fenomeno minoritario. Siamo di fronte a un comportamento estremo, patogeno, come ha sottolineato lo psichiatra Tonino Cantelmi, che però rivela come una cartina al tornasole il rifiuto da parte dei ragazzi di una società individualista, basata sulla competizione, la furbizia, l’arrivismo. Durante il Convegno della Caritas si è cercata anche un’interpretazione più generale del fenomeno: la diffusione della solitudine è certamente un male per i singoli. Ma il sociologo Mauro Magatti (tra i relatori del Convegno) ha sottolineato efficacemente come l’idea di individuo isolato, preesistente al sistema di relazioni umane, sia un grande abbaglio antropologico della nostra contemporaneità. Un’idea semplicemente falsa. L’individuo da solo è un’astrazione; la vita comincia da una relazione e attraverso una relazione simbiotica rafforza i primi battiti del suo cuore. Ma la solitudine è anche un male per la collettività tutta in termini sociali ed economici. Un’imponente letteratura medico-scientifica internazionale ha ormai verificato il rapporto tra solitudine, indebolimento del sistema immunitario, insorgenza di depressioni e disturbi cardiovascolari, che si traducono in costi sociali ed economici per l’intero sistema Paese. E sulla rilevanza del fenomeno non si debbono nutrire troppi dubbi: il “Servizio aiuto alla persona” della Caritas di Roma, ha evidenziato durante il Convegno il responsabile Massimo Pasquo, nel corso del 2016 ha effettuato oltre 40.000 interventi domiciliari a persone sole, portando nelle case cibo, medicine o più semplicemente compagnia, un sorriso. Tra gli utenti raggiunti a domicilio dalla Caritas prevalgono le donne, forse perché le donne più facilmente mostrano le loro debolezze, forse perché più facilmente parlano di emozioni e stati d’animo. La solitudine non conosce steccati: persone affette da patologie importanti vivono abbandonate a se stesse, persone con disturbi mentali che nessuno accompagna e segue, donne e uomini vittime di una crisi matrimoniale, anziani senza parenti o con parenti lontani che non possono o non vogliono accudirli, disabili che hanno perso i genitori ; sono gli “scarti” di una società che corre troppo veloce per accorgersi di loro. Spesso i volontari della Caritas che li raggiungono fin dentro le loro abitazioni debbono impegnarsi e dar fondo a tutta la loro capacità di persuasione per stabilire un contatto, una relazione serena di aiuto. In un vecchio film americano con un giovanissimo Di Caprio, all’epoca assai sottovalutato dalla critica, “The beach” si raccontano le vicende di una comunità hippie che aveva cercato (e trovato) un paradiso, la spiaggia incontaminata del titolo, per vivere ed essere felici. Tutto scorre serenamente finché un giovane norvegese di nome Christo (un caso?), non viene assalito da uno squalo che lo lascia con profonde ferite. La comunità decide, dopo una cura di pochi giorni, che Christo si lamenta troppo e rovina l’atmosfera ìlare delle loro giornate; Christo viene portato nella boscaglia per essere abbandonato al suo destino... Non possiamo abbandonare nelle loro case i tanti poveri cristi che la vita ha piegato: per affrontare la contemporaneità non bastano i piccoli egoismi incubati a ridosso del terzo Millennio, serve una visione universale cristianamente ispirata.

CORRIERE DELLA SERA di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 21 Perché non facciamo figli? di Alessandra Arachi Istat, nascite ancora in calo costante dal 2008. Una mamma su quattro si ferma al primogenito

È un’emorragia che non accenna a finire. Siamo sempre meno in Italia, con l’indice di fertilità più basso d’Europa. E anche quest’anno l’Istat segnala una diminuzione della popolazione: 76 mila persone in meno in dodici mesi e il numero si contiene solo grazie alla presenza dei cittadini stranieri che ormai superano l’8% del totale della popolazione, ovvero 60 milioni 589 mila 445 di cittadini (al 31 dicembre 2016). Le culle del nostro Paese sono vuote, e continuano a svuotarsi. È dal 2008 che le nascite in Italia calano e nel 2016 il trend si è confermato con decisione: sono venuti al mondo 12 mila bimbi in meno rispetto all’anno precedente, per un totale di meno di mezzo milioni di bimbi (473.438 per la precisione), con 69 mila bimbi stranieri. Ma non è solo colpa della crisi economica. In una ricerca mirata, Giorgio Alleva, presidente dell’Istat, ha messo a fuoco come una donna su quattro che ha già un figlio dichiara di non volerne un altro. Solo il 21% di queste mamme dice che è per problemi di soldi. E quindi? Perché in Italia si finisce per non fare figli? Il ragionamento è articolato. Il presidente Alleva lo riassume così: «Tutti i tempi si sono spostati in avanti e i tassi di fertilità ne risentono». In effetti a guardare la ricerca si vede come dal ‘76 l’età del primo figlio si è alzata dai 24,7 anni ai 30,8. Ma c’è altro. Alleva parla della «cultura del free child » che qui non abbiamo ancora studiato con basi scientifiche, ma che ci circonda e si diffonde nel nostro quotidiano: «È un fenomeno che si sta studiando a livello internazionale e che da noi si sta sviluppando. Donne che non hanno intenzione di mettere al mondo figli, semplicemente perché preferiscono fare altro, non avere legami». Guardiamo i numeri della ricerca Istat: nel 1926 la media di figlio per donna in Italia era 3,51, diventata 2,34 nel 1952 e ancora sopra il due (2,11) nel 1976. È da allora che si comincia ad andare sotto la soglia della riproduzione paritaria (due figli che nascono da due genitori). E nel 2015 abbiamo questo triste record: 1,35 figli per donna. Il free child non è stato ancora studiato come fenomeno statistico o scientifico, ma ci vuole poco a capire quanto sia diffuso nella società . E molto di questo dipende dal desiderio di occuparsi a tempo pieno del proprio lavoro e anche della carriera. Secondo l’Istat quasi una mamma su tre (32,2%) non lavorava prima di avere figli e non lavora nemmeno dopo, il 14% abbandona invece il lavoro durante la gravidanza - volontariamente, oppure perché lo perde - e soltanto il 4% inverte la tendenza e trova un lavoro dopo aver avuto un figlio.

AVVENIRE di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 6 Garante dell’infanzia: i minori le prime vittime della crisi di Luca Liverani Triplicati in 10 anni i bambini in povertà

Roma. I quasi 26mila minori stranieri non accompagnati, che sbarcano in Italia dopo viaggi traumatici pericolosi. E il milione e 131mila minori italiani in povertà assoluta, triplicati in dieci anni. Minori fuori dalle famiglie, perché lontane o inesistenti. E minori poveri, prime vittime della crisi cui hanno pagato il prezzo più alto. Sono i dati più preoccupanti che emergono dalla Relazione annuale 2016 presentata, nella Sala della Regina di Palazzo Montecitorio, dalla Garante nazionale per l’infanzia e l’adolescenza, Filomena Albano. A introdurre la presentazione la Presidente della Camera: «In Italia i minori sono i soggetti che in termini di povertà e deprivazione hanno pagato il prezzo alto della crisi», dice Laura Boldrini. «Ho rivolto l’azione dell’Autorità ai vulnerabili tra i vulnerabili», spiega la Garante per l’infanzia. «E tra di essi i minori non accompagnati: bambini e adolescenti tre volte fragili, perché minori, soli e stranieri. L’Italia si è storicamente distinta come Paese all’avanguardia nella affermazione dei diritti», rivendica Filomena Albano. «In questo momento, tuttavia, il principio d’uguaglianza, che si riteneva acquisito per l’affermarsi di una società sempre più inclusiva nei confronti dell’infanzia ai margini, torna ad essere attuale, diventa appunto una sfida. La sfida dell’uguaglianza». Se l’Italia si è da poco dotato di una legislazione ad hoc per la tutela dei migranti forzati minorenni che arrivano da soli, resta il problema dei care leavers, i minori soli - stranieri e italiani - che al compimento del 18 esimo anno rischiano di perdere ogni sostegno assistenziale. Il nodo dei diciottenni 'care leavers'. «È anche indispensabile - rimarca infatti l’Autorità Garante per l’infanzia - pensare al momento in cui i ragazzi, che stanno vivendo fuori famiglia, compiono 18 anni e viene loro a mancare il sostegno, economico e residenziale, da parte dello Stato. Difficilmente questo momento viene a coincidere con una reale autonomia dei ragazzi e delle ragazze. I cosiddetti care leavers - da care (cura) e to leave (perdere) - si trovano improvvisamente di fronte alla necessità di risolvere problemi pratici che sembrano insormontabili e spesso lo sono: trovare una casa, un lavoro, un legame affettivo, ma anche semplicemente portare a termine il loro percorso di studi». I 26 mila non accompagnati, più 46% in un anno. In Italia nel corso del 2016 sono stati 25.846 i minorenni soli arrivati dopo viaggi pieni di insidie e di pericoli, fuggiti da guerre e povertà, senza adulti di riferimento e in condizione di particolare vulnerabilità e fragilità. «L’assenza di una rete parentale espone questa tipologia di minorenni, oltre al rischio di marginalità sociale, ad un alto rischio di sfruttamento », avverte l’Autorità garante per l’infanzia. «Per questo è necessario garantire loro non solo l’accoglienza, ma anche una effettiva tutela legale, linguistica e culturale, con una adeguata assistenza psicologica ed un percorso che consenta di rielaborare l’esperienza vissuta». Un importante passo avanti è stato fatto con l’approvazione della legge 47/2017. «Un segnale di avanzamento sul fronte dei diritti che adesso è necessario tradurre in termini concreti», spiega la Garante: «La legge prevede un tutore che non ha solo rappresentanza giuridica ma è una figura attenta alla relazione con i bambini e i ragazzi che vivono nel nostro Paese senza adulti di riferimento, capace di farsi carico dei loro problemi ma anche di farsi interprete dei loro bisogni. Privati cittadini, adeguatamente selezionati e formati». La nuova legge fissa per i minori soli un limite di 30 giorni di permanenza nei centri di prima accoglienza, l’identificazione del minore – entro 10 giorni – e l’accertamento multidisciplinare dell’età, la selezione e formazione dei tutori volontari, il rilascio di di un permesso di soggiorno, misure specifiche per favorire l’obbligo scolastico e formativo e l’affido familiare più che l’ospitalità in strutture. Bambini poveri nel 18% delle famiglie con 3 minori. Secondo l’Istat in Italia nel 2015 1,1 milioni di minori vivevano in condizione di povertà assoluta, senza cioè poter accedere a un paniere di beni e servizi essenziali. Nel 2005 erano circa 400mila. Particolarmente a rischio povertà sono le famiglie numerose: il 18,3% dei nuclei familiari con almeno tre figli è in condizioni di povertà assoluta. Una condizione che riguarda 1 milione 582 mila famiglie, cioè 4 milioni 598 mila persone. Accanto alle condizioni di povertà materiale si registrano segnali allarmanti anche per i casi di povertà educativa, che «va intesa sia come privazione delle possibilità di accesso ad opportunità educative, sia – precisa l’Autorità garante – come privazione della possibilità e della libertà di scelta di quelle opportunità. La povertà educativa è direttamente correlata a quella economica delle famiglie». E «rischia di perpetuarsi da una generazione all’altra, come in un circolo vizioso».

Pag 8 Siamo un po’ meno e con le culle vuote di Giulio Isola Nemmeno l’immigrazione ci basta: “persi” in un anno 76.000 cittadini

Siamo 60 milioni, isole comprese: dalle quali peraltro scappano in tanti... L’Istat pubblica il bilancio demografico nazionale 2016, e come al solito è una miniera di dati e curiosità. Anzitutto continua, lento ma inesorabile, il calo della popolazione nel Belpaese: al 31 dicembre 2016 eravamo 60.589.445, ovvero 76.106 in meno rispetto all’anno precedente. E ciò nonostante la pezza messa dai «nuovi italiani», perché gli stranieri che hanno acquisito la cittadinanza sono stati 202.000 (in pole position albanesi, marocchini, rumeni, indiani e bengalesi) ma evidentemente non è bastato: perché, dopo anni nei quali i flussi migratori hanno compensato il calo demografico, nel 2015 e 2016 c’è stato un decremento di popolazione (-0,13%). Culle vuote, insomma. Nel 2016 sono state registrate 473.438 nascite e 615.261 decessi, con saldo naturale negativo per 141.823 unità; unica eccezione la provincia autonoma di Bolzano, dove i nati hanno superati i morti. Ma la discesa continua ormai dal 2008 ed è più accentuata nelle isole; i neonati sono stati 12.000 in meno rispetto al 2015 e ormai il fenomeno contagia le coppie straniere, che peraltro hanno partorito 69.000 bambini (14,7% del totale). Il calo demografico, che interessa tutte le aree geografiche, è più accentuato al Sud e nelle isole e si spiega anche con l’aumento del movimento migratorio verso Nord e Centro Italia, solo parzialmente bilanciato dagli arrivi sulle coste meridionali di migranti che non riescono a compensare la perdita di autoctoni; nel Mezzogiorno la presenza straniera resta così più contenuta: 4,2 stranieri ogni cento abitanti (3,6 nelle isole). Nel 2016 i trasferimenti di residenza interni hanno comunque coinvolto 1 milione e 330mila persone (circa 46.000 in più rispetto al 2015); Emilia Romagna, Toscana, Liguria sono le regioni più attrattive. In totale gli stranieri in Italia sono più di 5 milioni, l’8,3% dei residenti, e appartengono a circa 200 nazionalità; nella metà dei casi si tratta di cittadini europei (oltre 2,6 milioni) e la provenienza più numerosa è quella romena (23,2%) seguita da albanesi (8,9%) e ucraini (4,6%). Gli Stati africani sono rappresentati per il 20,7% del totale degli stranieri, più o meno come gli asiatici, mentre il continente americano tocca il 7,3%. La comunità estera che aumenta di più in percentuale – richiedenti asilo e profughi a parte – è la nigeriana, cresciuta del 14,6% in un anno, seguita da pakistani (6%), cinesi (3,9%), bengalesi (3,1%), senegalesi (3,1%), egiziani (2,6%), cingalesi (2,5%); diminuiscono invece albanesi, marocchini, moldavi e polacchi. La distribuzione sul territorio si polarizza soprattutto attorno ad alcune città metropolitane come Roma, Milano, Bologna e Firenze. Il primato delle presenze in termini assoluti va al Nord-ovest, con 1.704.918 persone di cittadinanza estera. Nel complesso – dice l’Istat – nel 2016 si è avuta un’attenuazione dei flussi migratori. Gli iscritti in anagrafe provenienti dall’estero sono stati 300.000, cittadini stranieri nell’87,4% dei casi; gli italiani che rientrano dopo un periodo di emigrazione all’estero sono invece quasi 38.000, in crescita di 8 mila unità. Però continua la fuga verso altri Paesi e nel 2016 hanno lasciato l’Italia circa 157 mila persone, di cui quasi 115.000 connazionali, con un incremento di 12.000 unità rispetto al 2015. Aumenta pure il numero di italiani nati all’estero: oltre 27.000 nel 2016, prevalentemente stranieri che dopo aver trascorso un periodo in Italia hanno acquisito la nostra cittadinanza. Per la prima volta dagli anni Novanta, quando l’Italia è diventata Paese di immigrazione, la componente femminile all’interno della popolazione straniera diminuisce leggermente (- 1.767 unità); crescono invece gli uomini (+22.642); anche la flessione complessiva dei residenti nello Stivale è comunque più marcata per le donne (meno 65.526) rispetto agli uomini (solo 10.580 unità in meno).

CORRIERE DEL VENETO di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 1 Il divorzio oggi è liquido di Vittorio Filippi Il fenomeno

In un mondo in cui da tempo l’amore è divenuto liquido, senza più schemi e comportamenti da seguire, anche il divorzio sembra seguire la stessa strada. In due modi. Il primo è dato dal fatto che due anni fa il «dirsi addio» è entrato in una fase di accelerazione: è il cosiddetto divorzio breve, che permette di chiudere il matrimonio più velocemente ed anche di fronte al sindaco o all’avvocato e non più solo davanti al giudice. Il fatto di poter divorziare entro sei mesi dalla separazione (prima ci volevano tre anni) o in dodici se non c’è accordo tra i coniugi (prima occorrevano anche cinque anni) ha prodotto una accelerazione dei procedimenti di cinque o sei volte rispetto al vecchio sistema, con un ovvio incremento del numero dei divorzi avvenuti nel 2016. Solo quelli celebrati nei tribunali sono infatti cresciuti del 15 per cento rispetto all’anno prima in Italia e di una percentuale uguale in Veneto. A cui andrebbero aggiunti, come si diceva, quelli trattati da sindaci ed avvocati. Insomma chiudere il matrimonio è divenuto finalmente un percorso più snello, anche se spesso l’etica ed il bon ton sono assenti nei congedi amorosi: ma questo è un altro discorso. Con due conseguenze curiose se non paradossali. La prima è l’incremento del cosiddetto divorzio congiunto, cioè senza (tanti) litigi e veleni: conviene, perché ci si sbriga con l’alta velocità dei sei mesi. Inoltre la semplificazione delle rotture coniugali sembra portare ad un incremento dei matrimoni. Pongono meno remore perché, se non dovessero funzionare, potranno sciogliersi con minori costi e minor burocrazia degli addii. La seconda novità sta nella storica sentenza della Cassazione di un mese fa in tema di assegno divorzile all’ex coniuge economicamente più debole. Basta con il mantenimento del tenore di vita matrimoniale, se uno (o una) ha la possibilità di farcela economicamente deve arrangiarsi. Sentenza ripresa in pieno dal tribunale di Venezia che qualche giorno fa ha negato l’assegno di mantenimento all’ex moglie dato che quest’ultima ha «capacità e possibilità effettive di lavoro personale». Il matrimonio, dice la Cassazione, non è più una «sistemazione definitiva», ma un «atto di libertà e autoresponsabilità». Tradotto: la concezione arcaica e talvolta furbesca del matrimonio come vitalizio si estingue, rimane il dovere della solidarietà ma che va accordato con i (crescenti) diritti dell’individuo e delle individualità. Per cui lo scioglimento del matrimonio deve garantire il ripristino delle individualità dei coniugi, come persone singole che si autodeterminano nella scelta di mutare le condizioni di vita. D’altronde se l’amore è liquido, lo deve essere anche la sua conclusione e ciò che ne segue. Quindi anche il divorzio si fa leggero, veloce, low cost: un divorzio liquido insomma.

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA

IL GAZZETTINO Pag 12 Teme la seconda bocciatura, si impicca di Davide Tamiello Tragico gesto di un ventunenne in un parco di Mestre. I risultati scolastici non sono ancora pubblicati

Frequentava un liceo di Mestre, e temeva di essere bocciato. Pare che non fosse la prima volta che subiva un risultato negativo a scuola. Probabilmente è anche per questo che ieri mattina ha spedito un messaggio alla fidanzata, ha preso una corda acquistata nel negozio vicino a casa, e si è impiccato in un bosco di città. Ha pianificato così il suo ultimo giorno, con drammatica lucidità, il ventenne di Mestre che si è tolto la vita ieri mattina nell'area verde di via Forte Gazzera, di fronte al campo da calcio, a lato di un sentiero che lo collega alla pista ciclabile. A trovare il corpo, poco prima delle 13, un ragazzo della zona che dopo averlo notato ha avvisato immediatamente le autorità. Le ipotesi su cui si concentrano gli inquirenti portano alla depressione alimentata dalle difficoltà scolastiche. Un male oscuro che, nonostante gli sforzi di chi gli stava vicino, non è riuscito a vincere. Ieri mattina, quindi, ha preso la sua bicicletta ed è andato in un negozio per comprare la corda. Quella stessa corda che, poi, avrebbe stretto con un cappio attorno alla gola. L'unico messaggio d'addio è quello mandato alla fidanzata. «Vivi, non seguire il mio esempio», ha scritto sul telefonino. Poi, fissata la corda all'albero, si è lasciato andare. Una storia che ha choccato un'intera comunità: il ragazzo era molto conosciuto nel quartiere: frequentava la parrocchia dove per anni era stato chierichetto. Nell'ultimo periodo il parroco gli aveva chiesto di collaborare con la parrocchia, anche per aiutarlo. Davanti al bosco di Forte Gazzera, ieri mattina, alla spicciolata sono arrivati parrocchiani e coetanei del ragazzo mentre le forze dell'ordine e il medico legale completavano i rilievi. La questura non ha voluto rilasciare nessuna notizia ufficiale sul caso, ma non ci sarebbero dubbi sul fatto che si sia trattato di suicidio. La morte del ventenne ha un drammatico precedente. Sempre nello stesso quartiere mestrino e sempre in questo periodo dell'anno. Due anni fa, infatti, un sedicenne, l'8 giugno 2015, si tolse la vita lanciandosi dalla torre dell'acquedotto, a poco più di duecento metri dal bosco di via Forte Gazzera dove ieri si è tolto la vita il ventenne. Allora, il ragazzo era sparito per tutta la notte e solo la mattina seguente era stato trovato dal personale dell'acquedotto.

Pag 22 “Stanotte a Venezia”, record di ascolti di Roberta Brunetti Ma sui social si è scatenato il dibattito: sotto accusa alcuni errori e l’immagine da cartolina

Una trasmissione da record di ascolti. Una città che si divide tra commenti pro e contro, come sempre capita in laguna. Una cosa è certa: martedì, Stanotte a Venezia ha battuto gli altri programmi della prima serata tv. La tappa veneziana del viaggio tra le bellezze d'Italia, guidato da Alberto Angela, è stata seguita da quasi 5 milioni di telespettatori, con uno share del 25.04%. Risultati «entusiasmanti»: commentano dalla Rai. «Ancora una volta Alberto Angela ha saputo proporre un racconto magnetico che ha unito il pubblico attorno a una delle meraviglie di arte, storia e bellezza che caratterizza il nostro paese» sottolinea il direttore di Rai 1, Andrea Fabiano. Per Angela «ad essere premiati sono Venezia, il nostro incredibile patrimonio e la Rai che ha saputo puntare sulla cultura in prima serata. È la cultura che ha vinto ieri. La nostra cultura. È la dimostrazione che se viene proposta nel modo giusto, consente di raggiungere grandi traguardi. Il mio pensiero va a tutti quelli che silenziosamente e tra mille difficoltà lavorano per la protezione e la valorizzazione dei nostri tesori su tutto il territorio. Il nostro passato è il nostro futuro». Ben 13 milioni gli spettatori unici, oltre un italiano su cinque, hanno dedicato alla visione del programma circa un'ora del proprio tempo. Picco di ascolto alle 21.52 con oltre 6,1 milioni di ascoltatori, picco di share alle 23.45, sul finale del docufilm, con il 29,1%. Coinvolte tutte le fasce di pubblico, in primis i laureati (33% di share), gli individui di classe socioeconomica medio-alta e alta (30% di share) e i cittadini del Veneto (share superiore al 48%). Record di interesse e consenso sui social network con oltre 83.000 interazioni che hanno coinvolto 55.000 utenti su Twitter e Facebook. A Venezia commenti articolati, a cominciare proprio dai social. Molti hanno apprezzato il taglio della trasmissione, la sua qualità. Ma tanti l'hanno anche criticata, per un'immagine definita da cartolina, per alcuni errori nella ricostruzione storica. Dal ruolo attribuito a Torcello, al nome sbagliato di Antonio Da Ponte. Giovanni Distefano, storico veneziano, punta il dito su una serie di «strafalcioni», come il «commercio veneziano che si sviluppa grazie alla scoperta dell'America. Esatto il contrario: entra in crisi!». O i cavalli di bronzo dorato di San Marco, mentre sono di una lega di rame dorata. «Non spetta a me fare il difensore di Alberto Angela - ribatte lo scrittore veneziano Alberto Toso Fei, che ha collaborato alla trasmissione - che sa difendersi da solo con il suo lavoro di sempre. Angela non è la Gabanelli, non fa inchieste. Quello è il suo taglio. Poi, è vero, ci sono state alcune inesattezze. Questo è evidente. Sul perché ci siano, non lo so. Ma sono state ingigantite dai social. Resta il fatto che Angela ha fatto un grande servizio a Venezia, l'ha raccontata come sa fare lui, senza tradirla. Dispiace che per un nome di battesimo sbagliato si mettano in discussione tre ore di lavoro su Venezia in cui si sono fatte vedere cose che molti non avevano mai visto. La critica ci sta, ma ci vuole anche misura». Ma la critica fa parte di Venezia, come l'ironia. E sull'ironia punta Arrigo Cipriani. «Il programma è stato un brutto servizio per Venezia - premette - Vogliono far vedere Venezia senza conoscerla. La mancanza della popolazione, quello bisognava far vedere! Invece hanno fatto vedere una Venezia per turisti. E ora non vorrei che il risultato di questo programma in notturna fosse la nascita di un altro gruppo di pendolari. Quelli notturni, appunto, che arrivano a mezzanotte e se ne vanno alle otto nel mattino. Per dire: che straordinaria Venezia di notte!».

IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Si toglie la vita nel bosco, a 21 anni di Davide Tamiello Nel quartiere lo conoscevano tutti: “Lui per gli amici c’era sempre”. Don Valentino l’aveva convinto a collaborare per il Grest e le varie attività

Un messaggio alla fidanzata, una corda acquistata nel negozio vicino a casa, la morte tra gli alberi di un bosco. L'aveva pianificato così, il suo ultimo giorno, con drammatica lucidità. Un ventenne della Gazzera si è tolto la vita ieri mattina, impiccato nell'area verde di via Forte Gazzera, di fronte al campo da calcio, a lato del sentiero che lo collega alla pista ciclabile. A trovare il corpo, ieri poco prima delle 13, un ragazzo della zona che dopo aver notato il corpo ha avvisato immediatamente le autorità. Sul posto, gli uomini delle volanti e gli agenti della polizia municipale. Il ragazzo, che frequentava un liceo cittadino, temeva di essere bocciato. Pare, inoltre, che non fosse la prima volta. Potrebbe essere stato questo il motivo della sua depressione. Un male oscuro che, nonostante gli sforzi di chi gli stava vicino, non è riuscito a vincere. Ieri mattina, quindi, ha preso la sua bicicletta ed è andato in un negozio per comprare la corda. Quella stessa corda che, poi, avrebbe stretto con un cappio attorno alla gola. L'unico messaggio d'addio è quello mandato alla fidanzata. «Vivi, non seguire il mio esempio». Poi, fissata la corda all'albero, si è lasciato andare. Una storia che ha choccato un'intera comunità: il ragazzo, alla Gazzera, era molto conosciuto. Aveva frequentato a lungo l'ambiente della chiesa locale, per anni era stato chierichetto. Nell'ultimo periodo, poi, don Valentino Cagnin gli aveva chiesto di collaborare con la parrocchia. Un modo, forse, per aiutarlo a uscire e a distrarsi anche dalle ultime delusioni. Don Valentino, appresa la notizia, ieri si è precipitato in zona per portare conforto ai famigliari e al ragazzo che aveva trovato il corpo. Davanti al bosco di Forte Gazzera, ieri mattina, alla spicciolata sono arrivati parrocchiani e coetanei del ragazzo. I rilievi sono proseguiti fino all'arrivo del medico legale, Silvano Zancaner, e della polizia scientifica. La questura non ha voluto rilasciare nessuna notizia ufficiale sul caso, ma non ci sarebbero dubbi sul fatto che si sia trattato di suicidio. La morte del ventenne ha un drammatico precedente. Sempre alla Gazzera, sempre in questo periodo dell'anno. Due anni fa, infatti, un sedicenne, l'8 giugno 2015, si tolse la vita lanciandosi dalla torre dell'acquedotto. Sempre in via Brendole, a poco più di duecento metri dal bosco di via Forte Gazzera. Allora, il ragazzo era sparito per tutta la notte e solo la mattina seguente era stato trovato dal personale dell'acquedotto.

Lo conoscevano tutti, ma in pochi sapevano davvero chi fosse. Il ventenne della Gazzera che si è tolto la vita ieri, in realtà, era un ragazzo solitario. Amava frequentare i luoghi di aggregazione della zona, ma amava anche chiudersi nel suo mondo. «Aveva frequentato a lungo la parrocchia - raccontano dal quartiere - era stato anche chirichetto per tanti anni. Poi per un periodo si era allontanato». Un ragazzo fragile, con qualche problema nel legare con gli altri. «Faceva fatica a integrarsi con i gruppi - racconta uno degli animatori - cercavamo spesso di farlo partecipare alle attività, ma non era semplice». Don Valentino, appunto, proprio per questo motivo lo aveva riavvicinato alla parrocchia. L'aveva convinto a collaborare per il Grest e le varie attività, finché non avesse deciso se ricominciare con la scuola o se trovare un lavoro. «Era un ragazzo estremamente sensibile - dice un'amica - ma era una persona davvero buona. Per gli amici c'era sempre, era sempre pronto a dare una mano». «Una tragedia immensa - racconta la mamma della ragazza - aveva un sorriso luminoso ed era bello come il sole. É incredibile che un ragazzo così giovane abbia preso una decisione tanto triste e tanto drammatico. Il mio pensiero ora va ai suoi genitori, che dovranno affrontare una tragedia immensa». Si attende il nulla osta del magistrato di turno per conoscere la data dei funerali. Difficile che il pubblico ministero, a questo punto, decida di disporre l'autopsia sul corpo del ventenne. Il responso dell'ispezione cadaverica sul luogo del ritrovamento del medico legale, Silvano Zancaner, dovrebbe sciogliere qualunque dubbio. La cerimonia funebre, che come prevedibile sarà alla chiesa della Gazzera, verrà fissata nelle prossime ore.

Pag XXVI Venezia si spacca sulla notte di Angela di Roberta Brunetti e Daniela Ghio Lo speciale sulla città catalizza i commenti sui social. La critica: errori storici. Il consenso: immagine positiva

Stanotte Venezia divide la città. Capita spesso, a Venezia. E non poteva non capitare anche alla trasmissione che Alberto Angela ha dedicato alla città. Record di ascolti, ma anche di commenti pro e contro, con i soliti social a moltiplicare le critiche. Sotto accusa alcune inesattezze storiche, ma anche un'immagine della città un po' da cartolina. Dall'altro lato, c'è chi ha apprezzato proprio il taglio della trasmissione, la scelta dei contenuti, la qualità delle immagini esaltate dalla tecnica. A FAVORE - Tra gli entusiasti la presidente della Fondazione Musei Civici, Mariacristina Gribaudi, che ha vissuto il dietro le quinte della trasmissione. «Sono entrati in punta di piedi, creando una sintonia perfetta». Sul risultato giudizio più che positivo: «Angela é riuscito a dare un taglio diverso a questa Venezia che si racconta nel silenzio della notte, con un linguaggio che arriva a tutti». Per Paola Marini, direttrice delle Gallerie dell'Accademia, la «trasmissione è stata una grandissima opportunità, verrà proposta anche all'estero. Bella la qualità delle riprese. Mi sarebbe piaciuto però che avessero fatto anche una proiezione su presente e futuro di Venezia». Soddisfatto il presidente della Querini Stampalia, Marino Cortese: «A parte qualche scivolone storico, è stata una trasmissione molto bella, fatta bene. Certo in chiave divulgativa, non per specialisti. Comunque una carrellata storico-artistica, per nulla dolciastra, anzi con qualche passaggio erudito». Amerigo Restucci, ex rettore Iuav: «Ho visto solo l'ultima parte del documentario. Mi è piaciuta molto, una ricognizione attenta della città, anche se le recite erano troppo folkloristiche». Per Enrico Bressan, di Fondaco, un «bel viaggio all'interno delle città e della sua storia. Finalmente Venezia torna in prima serata per far vedere quello che è. Un programma fatto da veri professionisti che ci hanno regalato visuali mai viste, grazie alla tecnologia». Tra i collaboratori della trasmissione, per le rievocazioni storiche, Massimo Andreoli: «Pur con degli errori, la trasmissione ha centrato l'obiettivo. E alla fine i commenti positivi superano le critiche». Per Ernesto Pancin, direttore Aepe, «è un invito a conoscere la vera Venezia, a capirne la sua vera essenza». CONTRO - Tra i critici, Arrigo Cipriani è provocatorio: «Un brutto servizio per Venezia. Vogliono far vedere Venezia senza conoscerla. Mancava l'anima. Speriamo, piuttosto, che ora non ci arrivino anche i pendolari notturni». Per lo storico Michele Gottardi troppi gli errori. «Ci sono cose che danno fastidio: il passaggio su Torcello, il nome sbagliato di Da Ponte, l'arrivo degli austrungarici quando c'era ancora l'impero austriaco... E poi possibile che non ci fosse una presenza veneziana! Per carità, un prodotto bello, professionale, vendibile all'estero. Ma anche un altro tassello di una leggenda che non è vera». Marino Folin, ex rettore Iuav, attacca: «La trasmissione aveva un fracasso di errori storici, non mi ha emozionato per nulla, anzi mi sono annoiato. Mi è sembrato di assistere alle prove generali di Venezia Disneyland». Noia anche per Gianni De Checchi, segretario Confartigianato Venezia: «Di solito seguo con attenzione questo tipo di trasmissioni. Questa volta ho visto un'immagine un po' stucchevole e divulgativa della città e ho preferito andare a dormire». Più pacato Gherardo Ortalli, presidente Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti: «Ho trovato il documentario una vetrina turistica ed ho cambiato canale dopo un po' perché ci sono cose più interessanti». Il regista Gianni De Luigi la mette sul tecnico: «Angela ha sbagliato tutte le luci del documentario, non si illumina la città in quella maniera. Mancano poi pezzi fondamentali di Venezia. Non si può sbagliare avendo molti mezzi e tecnici di qualità. Non è questa Venezia».

LA NUOVA Pagg 20 – 21 “Bilancio in utile di 6,7 milioni, più ricerca e internazionalità” di Vera Mantengoli Intervista al rettore di Ca’ Foscari Bugliesi. Tornano i cervelli in fuga, l’omaggio dell’Europa

Quasi sette milioni di utili di bilancio consuntivo e un futuro all'insegna della ricerca. Il rettore Michele Bugliesi, alla guida dell'ateneo da ottobre 2014, è soddisfatto: «Siamo un'eccellenza e investiremo sempre di più su ricerca, qualità e internazionalità». Qual è stato l'andamento che si è delineato negli ultimi anni a livello di iscritti? «Ci sono stati sempre più iscritti, tanto che a un certo punto i numeri non erano più sostenibili e abbiamo deciso consapevolmente di introdurre una selezione. Siamo un'università pubblica e vogliamo essere aperti a tutti, ma anche puntare sulla qualità. Abbiamo introdotto il numero programmato nell'area scientifica dove abbiamo i laboratori con una certa capienza, per esempio per Chimica, poi nell'area linguistica abbiamo richiesto il possesso del certificato di livello B2 e in quella economica siamo stati più selettivi nei test. Questo ha di sicuro limitato le iscrizioni, come si evince dal 5% in meno di iscritti, ma è in linea con la scelta fatta. Nell'anno accademico 2014/2015 abbiamo avuto 6.083 iscritti, nel 2015/2016 erano 7.029 e nel 2016/2017, quando abbiamo applicato le restrizioni, 6.671. Per avere una fotografia più ampia: nel 2010/2011 c'erano 5200 iscritti, mentre oggi ne abbiamo il 30% in più di allora». Che tipo di politica state applicando? «Vorremmo adeguarci agli standard internazionali, in modo che ci sia un rapporto più equilibrato tra docenti e studenti per garantire la qualità. Gli standard internazionali QS (ideati dal World University Rankings della società britannica Quacquarelli Symonds, ndr) premia dei rapporti bassi tra studenti e docenti affinché la didattica sia migliore. Noi attualmente siamo in media 1 a 40, molto se contiamo che in Italia la media è 1 a 30 e in Europa 1 a 18 e tenendo presente che a lingue si arriva anche a 1 a 80. La politica che stiamo mettendo in atto è quella di applicare dei filtri per avere fin dall'inizio studenti con una preparazione più alta, come la richiesta di avere il certificato linguistico B2, già garanzia di un certo livello. Anche per questo vorremmo aumentare il corpo docenti del 10%, passando dagli attuali 500 a 550 entro al massimo il 2020. Vorremmo anche cambiare la popolazione studentesca. Quando sono arrivato era composta da un 80% proveniente dalla Regione e un 20% extra. Oggi siamo già sul 72% dalla Regione e un 28% extra, ma l'obiettivo è arrivare al 2020 con 60% regionali e 40 extra di cui il 10% vorremmo fossero studenti internazionali. Come dimostrano i numeri ci stiamo riuscendo, questo anche grazie alle rotte che abbiamo avviato dall'anno scorso che ci hanno portati a presentare l'ateneo in Sicilia, Toscana, Liguria e altre regioni. Per gli studenti internazionali abbiamo quest'anno messo 100 borse di studio. L'anno scorso, 2016/2017, abbiamo ricevuto dall'estero 1038 richieste e ne abbiamo accettate 74, mentre per il 2017/2018 ne abbiamo ricevute ben 2562 e accettate 522, le altre le stiamo vagliando. Recentemente aveva annunciato un bilancio consuntivo positivo. Conferma? «Sì, anzi. A breve faremo una comunicazione ufficiale, ma di utili abbiamo quest'anno 6 milioni e 700 mila euro, l'anno scorso 4. Ci serviranno per investire sulla ricerca. Il bilancio preventivo lo faremo il prossimo autunno. Per quanto riguarda i tre campus. A che punto siamo? «A Santa Marta ci saranno 643 posti letto per una spesa totale di 35 milioni: 4 milioni e mezzo dal Miur, mentre gli altri di CDP Investimenti SGR e Fondo Aristotele quotisti rispettivamente al 60% e al 40% del Fondo Erasmo gestito da Fabrica Sgr. A luglio dovrebbero iniziare i lavori di costruzione che si concluderanno nel 2019, con una preview a ottobre 2018. A San Giobbe, dove abbiamo eseguito la bonifica, verranno creati 228 posti letto finanziati dal Miur con 23 milioni. A fine estate si assegnerà la direzione lavori che si concluderanno in un paio di anni. Infine in Via Torino ci saranno 140 posti, ma siamo ancora all'inizio e abbiamo un finanziamento di 4 milioni e mezzo dal Miur e gli altri 4 circa li metteremo noi. In totale avremo 1010 posti letto in più entro il 2020. Lo scambio con lo Iuav tra Terese e San Sebastiano dovrebbe invece avvenire dopo l'estate, ma stiamo ritardando solo per motivi burocratici, contiamo di farlo al più presto».Quali le novità in generale? «Per quanto riguarda i ricercatori siamo stati i primi in Europa a utilizzare quest'anno una legge che ci ha permesso di richiamare alcuni cervelli italiani che erano all'estero e stiamo aspettando la conferma di due ERC. È stato un passo molto importante che l'Europa stessa ci ha riconosciuto come best practice. Poi adesso partiranno i nuovi corsi interamente in inglese. Oltre ai due che sono partiti l'anno scorso, il Pise (Philosophy, International and Economic Studies) e il Computer Science, ci saranno per la prima volta Digital Management, Science and Technology of Bio and Nanomaterials, Conservation Science and Techonology of Cultural Heritage e, infine, Global Development and Entrepreneurship. Altri corsi, in inglese e in italiano, invece ci sono già. Sempre rimanendo in ambito internazionale quest'anno abbiamo aperto una sede a Suzhou in Cina e ne vorremmo aprire altre, forse in India e a Londra e un'altra, sempre nell'area geografica dell'Eurasia. Ci teniamo molto all'internazionalità e questi punti di appoggio ci servono proprio come base per richiamare studenti dall'estero. Per il territorio un'altra novità è la Science Gallery, realizzata in collaborazione con il Distretto veneziano per la ricerca a San Basilio con un investimento nostro di circa 6 milioni con 1000 posti studio. Qui verranno sviluppati progetti europei o con le imprese che poi saranno mostrati al pubblico. Cosa riservate per il territorio? «Grazie all'Ufficio Placement abbiamo in dieci anni avuto contatto con 24 mila imprese. Renderemo noti alcuni progetti alla Biennale dell'Innovazione, mentre per i 150 anni di Ca'Foscari stiamo organizzando qualcosa di speciale che avrà una ricaduta nel territorio, ma è ancora top secret».

Hanno dovuto andare a studiare all'estero, ma il loro cuore batteva ancora per l'Italia. Adesso finalmente, dopo anni trascorsi lontano da casa, quattro cervelli sono tornati e hanno messo radici nell'ateneo veneziano come ricercatori. In particolare, nel caso dell'antropologa veneziana Valentina Bonifacio, l'Università Ca' Foscari ha il merito di aver utilizzato per la prima volta in Italia una legge speciale che ha permesso di assumere con chiamata diretta la docente di Antropologia visiva e applicata. La scelta è stata apprezzata dall'Unione Europea che ha perfino scritto un articolo sul caso dell'ateneo veneziano (http://ec.europa.eu/programmes/horizon2020/en/news/marie- sklodowska-curie-msca-fellowships-tenure-track-positions-university--ca-foscari). Così, tra i motivi di orgoglio del rettore Michele Bugliesi c'è anche quello di essere riuscito ad assumere quattro docenti italiani, oggi di età tra i 40 e i 45 anni, che per anni erano stati all'estero e un neozelandese che invece, caso contrario, ha trovato lavoro proprio in Italia. I loro nomi sono: Valentina Bonifacio, antropologa che ha studiato per anni in Inghilterra e in America e che adesso è tornata come docente presso il Dipartimento di Studi Umanistici e Discipline Demoetnoantropologiche; Olga Tribulato, catanese vincitrice del Rita Levi Montalcini ed esperta di Lettere antiche, arrivata da Cambridge a Venezia al Dipartimento di Studi Umanistici. Stefania Bernini, fiorentina costretta a emigrare in Australia e adesso docente di Storia contemporanea presso il Dipartimento di studi sull'Asia e sull'Africa Mediterranea e l'economista Andrea Teglio che dalla Spagna torna in Italia a insegnare Politica economica nel polo di San Giobbe. Infine, tra i ricercatori assunti c'è il neozelandese Craigh Martin, chiamato come docente di Storia delle scienze e delle tecniche presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali.Se Bernini, Teglio e Craigh sono stati chiamati perché erano già docenti nelle università all'estero, Bonifacio ha seguito un iter nuovo, promosso dalla Comunità Europea e applicato in Italia con lei la prima volta e poi con Tribulato. Bonifacio ha infatti vinto anni fa la prestigiosa borsa di studio Marie Curie Global Fellowship, datale direttamente dall'Europa, che può valere come requisito per la chiamata diretta: «Non mi aspettavo che sarebbe successo» racconta l'antropologa «ed è stata una bellissima sorpresa. Ca' Foscari mi ha sostenuta molto e io sono contenta perché, dopo aver passato anni all'estero, posso tornare in Italia, nell'Università dove ho studiato da ragazza e contribuire a far crescere il Dipartimento di Antropologia che negli ultimi anni si sta espandendo».

Pag 37 Venezia di Angela, una città che esiste solo in televisione di Manuela Pivato Trionfo di spettatori per un affresco confezionato che dimentica grandi navi, suk e desertificazione

Che notte, l'altra notte. Una Venezia maliosa e silente, carica di ori, marmi e affreschi, popolata di dogi dal sospetto accento romano, ma perlopiù desertificata come dopo una pestilenza; una Venezia con i masegni lucidi, Palazzo Ducale scintillante e il ponte di Rialto intonso, dove ogni cosa brillava di perfezione, come se trenta milioni di turisti all'anno non l'avessero neppure guardata; questa Venezia qui, riconoscibile - forse - solo dai netturbini del turno all'alba, martedì sera è entrata nelle case degli italiani con Alberto Angela e lo speciale dedicato alla città come non l'avete mai vista. La trasmissione "Stanotte a Venezia" andata in onda in prima serata su Rai1 è stata un trionfo: quasi 5 milioni di telespettatori, con uno share del 25 per cento; il che significa che uno su quattro ha preferito la storia della Serenissima alla sfida di MasterChef su Cielo. La notizia è doppiamente buona: la cultura batte chi ha il coltello più lungo e l'appeal di Venezia, negli ultimi tempi macchiato da foto e video incresciosi, è ancora forte. Certo, Alberto Angela ci ha messo del suo. Sbarcato in laguna di giorno, ha scelto la notte per confezionare un grandioso spot, reso a tratti spettacolare grazie all'impiego di elicotteri e droni, e alla profusione di effetti visivi, elaborazioni grafiche al computer, immagini in altissima definizione. Due ore di una Venezia notturna immaginifica, come lo fu la Venezia diurna di "The Tourist", o di "Casinò Royale", o quella della pubblicità di Vuitton, Gucci e di tutti i marchi che l'hanno scelta non per quello che non è più, ma per quello che ancora rappresenta. L'iconografia di Venezia, così sfacciata da rischiare la banalità, oggi sembra in grado di sublimarsi solo nella finzione e nell'estetica. Se quattro milioni e 950 mila italiani saranno subito andati su internet a prenotare il loro prossimo soggiorno in laguna pregustando una visita one to one alla Pala d'oro, almeno un parte dei 50 mila veneziani è rimasta a bocca aperta per ragioni opposte. Alberto Angela ha parlato più nella direzione dei legittimi desideri di audience che della realtà. Una laguna solcata dalle grandi navi, svuotata dei suoi abitanti e trasformata nel suk dell'orrido non fa spettacolo; la morsa dei turisti, la svendita dei suoi palazzi, il moto ondoso non sono gioielli da esibire. Ecco che per raccontare «la città più bella del pianeta», «unica al mondo come unica è la sua storia», nella quale «ogni meraviglia si trasforma in sogno», il conduttore è inciampato nella retorica e in qualche svista clamorosa che è subito stata sbertucciata sui social.«Non so come si possa a dire che Venezia e Torcello fossero concorrenti economiche fino alla supremazia della prima nel XV secolo o come si sia pensato di far suonare Vivaldi a Uto Ughi alla Fenice e non alla Pietà» dice lo scrittore Tiziano Scarpa, fine studioso della sua città «ma al di là degli errori grossolani e di un racconto senza capo né coda, ho avuto l'impressione che l'unica mira di Angela fosse quella di creare emozione, come se Venezia non fosse in grado di crearla da sé e come se fosse una gemma estranea ai suoi problemi». Il florilegio di imprecisioni - Andrea Da Ponte invece di Antonio, la Serenissima consegnata all'impero austroungarico, la forma "storta" della gondola per non far cadere il gondoliere in acqua -, ma anche passaggi eccentrici come l'intervista all'astronauta Luca Parmitano, il Casanova con le fattezze di Lino Guanciale ("Don Matteo 10"), le perle di saggezza della cortigiana Veronica Franco («le donne mentono, sono come loro i belletti, appaiono quelle che non sono») sono stati il sale sull'insofferenza tutta veneziana di appartenere a una città come non l'hanno mai vista; e come non la vedranno mai più.

Ci sarà stata anche qualche imprecisione, come i solerti tuttologi della rete si sono affrettati a segnalare. Ma resta il fatto che la trasmissione "Stanotte a Venezia" di Alberto Angela, andata in onda martedì sera su Raiuno, ha segnato un punto importante nella storia della televisione pubblica. Un successo travolgente - 5 milioni di spettatori e uno share del 25 per cento - e un progetto che ha portato la cultura in prima serata. Raccontando le meraviglie d'Italia con strumenti tecnici di grande livello e la professionalità del comunicatore Angela. «Un risultato formidabile», dice, «la dimostrazione che se la cultura viene proposta nel modo giusto consente di raggiungere grandi traguardi. Grazie a Venezia, ai suoi cittadini e alle sue istituzioni per averci permesso di raccontarla come mai prima d'ora». Squadra collaudata, con il regista Gabriele Cipollitti, il centro di produzione di Napoli e il suo direttore Francesco Pinto. «Una grande impresa creativa e produttiva», dice soddisfatto il direttore di Raiuno Andrea Fabiano. Due ore e mezza di immagini e suoni, girati per cinque settimane alle tre del mattino. Quando la città è vuota e silenziosa, non ancora invasa dai rumori e dai piedi di milioni di turisti. Inquadrature efficaci, storie e tradizioni. E inserti di minifiction, con gli attori chiamati a interpretare Carlo Goldoni, il doge, Giacomo Casanova. Un affresco di qualità, destinato al grande pubblico. Premiato con un record di ascolti.

IL GAZZETTINO DI VENEZIA di mercoledì 14 giugno 2017 Pag III Ma nessuno può sentirsi sicuro dei voti “in libertà” di Tiziano Graziottin

Gran brutta bestia, il ballottaggio. Chiedete a Michele Carpinetti, ex sindaco di Mira, che dall’alto di quasi 30 punti percentuali di distacco 5 anni fa si ritrovò asfaltato dai 5 stelle. Nessuno può sentirsi tranquillo, nemmeno la Pavanello a Mirano, anche se con i grillini esclusi dalle sfide del 25 giugno dovrebbe evitarsi l’effetto di totale riversamento dei voti (da centrodestra o da centrosinistra) decisivo non solo a Mira nel 2012 ma anche a Chioggia un anno fa. In ogni caso le variabili sul tappeto sono infinite. Pensate a Marcon, dove il serbatoio di voti del sindaco uscente - che era alla guida di una coalizione di centrosinistra - in linea teorica dovrebbe portare acqua al molino della sua parrocchia. In realtà Follini si tiene le mani libere, parla di “due liste di centrodestra rimaste in campo”, e in sostanza fa capire che chi lo ha silurato non deve aspettarsi nulla, anzi. E a Jesolo? Vero che i quasi 13 punti di vantaggio di Valerio Zoggia sono un tesoretto ragguardevole, ma è altrettanto pacifico che i voti della destra “verace” (Fratelli d’Italia e dintorni) stanno nel 20% preso da De Zotti al primo turno, e (sempre teoricamente, per carità) dovrebbero trovare collocazione naturale sulla sponda del leghista Carli più che in una coalizione che imbarca anche il Pd. A Mira Dori può probabilmente contare sull’amicizia alle urne di “Mira In Comune” (pesantissimo il comunicato di lunedì sull’alleanza che sostiene la Trevisan “aggregazione di destra revanchista, legata ai poteri forti e al denaro”), ma è tutto da vedere cosa farà quel marpione di Roberto Marcato del suo 9%. Conterà quindi tanto il 20% dei 5 Stelle, furbescamente corteggiati da Luigi Brugnaro, e anche se Elisa Benato annuncia il “liberi tutti” potrebbe pesare la stima che lega il sindaco uscente Maniero a Dori (definito lunedì “il miglior candidato del centrosinistra di Mira degli ultimi decenni”). Spigolatura finale: la Lega Nord è l’unica forza politica che sarà presente col suo simbolo nei 4 ballottaggi - esprimendo tre candidati: Carli Semenzato e Romanello - dopo aver già contributo alla vittoria di Fragomeni a Santa Maria di Sala. Non a caso Salvini si appresta al nuovo tour veneziano.

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8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 2 Vaccini obbligatori, legge impugnata. “E in Veneto non la applicheremo” di Marco Bonet e Michela Nicolussi Moro Zaia pronto alla disobbedienza fino all’esito del ricorso

Venezia. La Regione Veneto impugnerà davanti alla Corte costituzionale il «decreto Lorenzin» che ha alzato da 4 a 12 le vaccinazioni obbligatorie, ne ha fatto un requisito necessario per l’ammissione agli asili nido e alle scuole materne e ha stabilito pesanti sanzioni a carico dei genitori che decidessero di sottrarre comunque i loro bambini alla profilassi. Lo farà, come ha spiegato ieri il governatore Luca Zaia, non perché contraria ai vaccini («Siamo assolutamente convinti dell’importanza della prevenzione, se io avessi un figlio lo vaccinerei, punto»), non per mere ragioni politiche («Quando c’è di mezzo la salute dei cittadini non esiste destra e sinistra») e men che meno per questioni economiche (sebbene l’assessore alla Sanità Luca Coletto abbia spiegato che l’adempimento ai nuovi obblighi previsti dal decreto comporta per Palazzo Balbi una maggior spesa di 12 milioni l’anno, non coperti dai Livelli Essenziali di Assistenza) ma perché, essenzialmente, non condivide il metodo utilizzato dal governo: «Obblighi, fatti valere con multe sproporzionate, genitori portati di fronte ai tribunali in un clima da caccia alle streghe, famiglie ridotte a comparse, nessuna intesa con le Regioni: io mi rifiuto di innescare una guerra con i miei cittadini» ha detto Zaia. La delibera è stata approvata dalla giunta all’unanimità, se il decreto verrà convertito in legge dal parlamento (è stato approvato dal consiglio dei ministri il 19 maggio e firmato dal Presidente della Repubblica il 7 giugno) il Veneto impugnerà pure quella: «Speriamo non mettano la fiducia, sarebbe una follia». In attesa della sentenza, il nostro sistema sanitario non applicherà le norme scritte dal ministero insieme all’Istituto superiore di sanità e all’Agenzia italiana del farmaco, ufficialmente perché «non ci sono i tempi tecnici» e perché, come ha spiegato Coletto, «le case farmaceutiche non sono neppure in grado di fornire tutti i 12 sieri richiesti». «Io non metto in discussione le conclusioni a cui è pervenuta la comunità scientifica - ha precisato Zaia - ma a ben vedere, cosa intendiamo per comunità scientifica? In Europa le idee sul tema sono molto diverse: 15 Paesi, come la Germania, non hanno alcun obbligo; altri 14 hanno un vaccino obbligatorio soltanto. E noi ne vogliamo 12? Imponendoli con la forza?». Sembra che a convincere il governatore, oltre al parere delle strutture tecniche della Regione («Ho approfondito molto la questione»), siano stati i tanti incontri avvenuti durante le ultime settimane, complice la campagna elettorale per le amministrative, con «mamme e papà preoccupati, alle volte con le lacrime agli occhi. Persone che non sono affatto contro i vaccini, non sono dei disperati ma chiedono di poter scegliere il programma vaccinale più adeguato per i loro figli, che non vogliono somministrare tutti i 12 sieri, che chiedono di poter dialogare con le istituzioni, esprimere i loro dubbi, conoscere e capire. Bisogna sempre fidarsi dell’istinto materno». La decisione, assicura Zaia, comunque non è stata presa sull’onda dell’emotività: «I dati parlano chiaro: in Veneto, dove non c’è obbligo vaccinale ma solo una recente, blanda delibera che garantisce l’immunità di gregge negli asili e nelle materne, la copertura è al 92,6% e siamo sempre aggiornati grazie all’anagrafe digitale, che siamo l’unica Regione in Italia ad avere. L’imposizione rischia di creare l’effetto opposto a quello desiderato, spinge verso l’abbandono». E l’assessore Coletto avverte: «Abbiamo ricevuto lettere di mamme che si dicono pronte ad allestire nidi domiciliari. Così si scivola nell’ombra e si rende impossibile qualunque tipo di controllo». La notizia, com’era prevedibile, ha scatenato immediate reazioni polemiche. Alessandra Moretti del Pd accusa: «Zaia getta la maschera e si mette dalla parte dei No Vax, invece di difendere la stragrande maggioranza di genitori coscienziosi e responsabili che vaccinano i loro figli. Il governatore usa i vaccini come un argomento buono da spendere in campagna elettorale, sulla pelle dei bambini, in particolare i più fragili». Anche Roberto Burioni, medico Pro Vax divenuto uno star del web, stiletta: «Zaia si vanta della copertura del Veneto dove da gennaio sono stati registrati 200 casi di morbillo. Se la copertura fosse stata sufficiente i casi sarebbero stati zero. È come un allenatore che perde la Champions League 10 a 0 e si vanta del gioco efficace della sua difesa».

Venezia. Sono diversi da quelli presentati dalla Regione i numeri e la loro lettura sulla situazione vaccinale del Veneto forniti dal ministero della Salute. Che si affida a Walter Ricciardi, presidente dell’Istituto superiore di Sanità, per esporli: «I dati di copertura 2016 mettono in evidenza che poca strada è stata fatta in Italia per risalire la china delle coperture. Escluso il recupero dell’anti-meningococco B e C, fondato prevalentemente sulle emozioni suscitate dalle recenti discussioni mediatiche, la cultura della vaccinazione stenta ad affermarsi nel suo significato più profondo della prevenzione e della tutela della salute di tutti. Ed è proprio l’analisi approfondita di questi dati a dimostrare la necessità delle misure urgenti espresse dal decreto, anche in regioni virtuose come il Veneto, dove nel 2007 è stato sospeso l’obbligo, costruendo un sistema di monitoraggio e promuovendo un’adesione consapevole. Ciò però non è riuscito a impedire un livello insoddisfacente di copertura proprio sulle vaccinazioni obbligatorie - sottolinea Ricciardi - infatti inferiore di oltre un punto rispetto alla media nazionale. La copertura di vaccinazioni raccomandate come l’anti morbillo, parotite e rosolia è superiore di quasi 2 punti rispetto al resto d’Italia ma comunque inferiore al livello critico del 95%, necessario al raggiungimento dell’eliminazione del morbillo». E, secondo il presidente dell’Iss, se questo accade nel contesto di una Regione dove pure c’è un’offerta vaccinale ampia e gratuita, oltre a una particolare attenzione alla comunicazione, «significa che senza interventi mirati e omogenei sul territorio nazionale il rischio di un ulteriore calo delle coperture è molto elevato». In più, secondo il report del ministero, la nostra regione risulta fra le poche a mostrare un recupero della copertura dell’esavalente (contro polio, tetano, pertosse, difterite, Haemophilus influenzae B ed epatite B) inferiore al 5% a 36 mesi. Ciò significa che solo il 5% dei bambini non immunizzati secondo il calendario prestabilito si mette in pari entro i 3 anni. Invece del resto del Paese il recupero avviene con percentuali intorno al 18%. «Rendere obbligatori tutti i vaccini serve a fare chiarezza - chiude Ricciardi - sono tutti importanti, dappertutto. E tutti insieme rappresentano un atto di responsabilità verso la salute pubblica. Siamo convinti che è auspicabile favorire un’adesione volontaria e che bisognerà lavorare per promuoverla, in particolare attraverso una corretta informazione. La situazione attuale però è ferma da troppo tempo e non si può rischiare oltre. Bisogna dare indicazioni precise e regole certe. La priorità ora è raggiungere la soglia di sicurezza per tutti». Diretto il ministro dell’Istruzione, Valeria Fedeli: «Come si fa a fare ricorso contro un metodo e non contro un contenuto? Ci sarà un dibattito in Parlamento: il passaggio da 4 a 12 vaccini obbligatori è una scelta importante per il Paese, così come lo sono le norme transitorie. Soprattutto la campagna di informazione dei genitori. Su questo anche il dibattito parlamentare mi auguro sia qualitativo e che approvi il decreto. Poi vedremo cosa deciderà di fare Zaia». Nel frattempo i no vax non si fermano. Il Corvelva (Coordinamento veneto per la libertà vaccinale) sta organizzando una serie di serate in diverse città per spiegare ai genitori perchè rifiutare l’obbligo vaccinale, come «resistere» e gli effetti collaterali di questa forma di prevenzione. Gli incontri, finora frequentati da 200/300 persone a serata, sono organizzati insieme a Radio Gamma 5, che ha pure lanciato una raccolta di fondi per sostenere le spese legali di Roberto Gava, il medico radiato dall’Ordine di Treviso con l’accusa di essere un antivaccinista.

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… ed inoltre oggi segnaliamo…

CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Evitiamo pericolose tentazioni di Ferruccio de Bortoli La forza della ripresa

Hanno ragione Gentiloni e Padoan a rallegrarsi per i buoni dati della ripresa economica, senza usare aggettivi fuori luogo. E anche chi è accusato di guardare sempre il bicchiere mezzo vuoto (gufi, rosiconi e altri animali notturni del dibattito italiano) non può che esprimere soddisfazione leggendo le stime Istat sull’aumento del prodotto interno lordo. Un incremento dello 0,6 per cento è già acquisito quest’anno. Si andrà oltre l’uno. Il Fondo monetario poi, a conclusione della sua missione in Italia, si è spinto a prevedere una crescita a fine 2017 dell’1,3 per cento. Ma, dato sul quale si è riflettuto poco, il Fondo si aspetta uno sviluppo assai più lento negli anni successivi, temendo forse rischi politici e scarsa disciplina di bilancio. Gli esperti di Washington non mancano di sottolineare la bassa produttività, i pochi investimenti e soprattutto la colpevole distrazione di questi ultimi anni sulla dinamica del debito pubblico. Anche l’Ocse appare cauto nelle stime sulla crescita italiana. L’organizzazione di Parigi, che raggruppa i Paesi industrializzati, la calcola all’1 per cento nel 2017 e in discesa, allo 0,8, il prossimo anno. Nella sostanza si può dire che cresciamo un po’ più del previsto ma a una velocità inferiore a quella degli altri. Se ci misuriamo su noi stessi dobbiamo trarre un sospiro di sollievo. Senza dimenticare, però, che tutto avviene al riparo dell’ombrello della Banca centrale europea destinato fatalmente a finire con ripercussioni immediate sul costo del debito. Se ci confrontiamo con gli altri, non abbiamo molti motivi di soddisfazione. La congiuntura europea è più favorevole del previsto. Un solo dato, significativo. Nel primo trimestre, le più grandi aziende quotate europee - è scritto in un report dell’analista Vincent Deluard - hanno aumentato gli utili del 37,8 per cento contro il 14,8 delle americane nello stesso periodo. Secondo le ultime analisi del Centro studi Confindustria diretto da Luca Paolazzi, la «crescita mondiale prosegue a un ritmo superiore alla media dei passati 25 anni». Ne beneficia l’export italiano salito del 4 per cento a marzo a prezzi costanti ma bisogna ricordare che il contributo della domanda estera alla crescita è stato negativo nel primo trimestre. Le macchine utensili vivono un autentico boom di commesse anche grazie alle norme sugli ammortamenti. Segnali positivi arrivano dal tessile-abbigliamento e dalla meccanica. Ma la novità forse più incoraggiante riguarda la ripresa dei servizi, che incidono ormai per i due terzi dell’economia. Alla recente assemblea dell’Assolombarda che ha eletto il nuovo presidente Carlo Bonomi, lo stato di salute e le grandi potenzialità dell’industria milanese, lodigiana e brianzola non sono stati celati dal consueto understatement . L’export lombardo cresce a ritmi superiori a quelli delle zone a più alta industrializzazione d’Europa. Il clima di fiducia nel terziario è ancora più alto. La produzione industriale, su base nazionale, è in recupero a maggio (più 0,5 per cento), ma dopo essere diminuita dello 0,3 per cento nel primo trimestre. Anche sul versante dell’occupazione una certa cautela nel leggere i dati dovrebbe portare a qualche valutazione più sobria. È vero, in base alle rilevazioni Istat sul primo trimestre, che in un anno abbiamo avuto 326 mila occupati in più ma i contratti a tempo indeterminato sono cresciuti solo dello 0,8 per cento rispetto al primo trimestre del 2016, quelli precari di oltre il 10. L’employment outlook dell’Ocse, appena pubblicato, è piuttosto severo nei nostri confronti. Il tasso di disoccupazione, oggi all’11,1 per cento, è il terzo più alto fra gli Stati membri. La percentuale degli occupati è al 57 per cento contro la media Ocse del 66 per cento. La ripresa c’è e va consolidata. Il rischio di indebolirla è tutt’altro che remoto. La tendenza italiana a considerare archiviata la crisi al primo raggio di luce è stata negli anni irresistibile. Insieme alla predisposizione a scambiare la stagione delle riforme e del rigore come un fastidioso periodo di forzata apnea, di dieta ingiusta e dannosa. Il ciclo della spesa, che fatalmente riprende vigore nell’imminenza delle urne, può essere scongiurato da una legge di Bilancio attenta alla gestione della finanza pubblica e allo stimolo degli investimenti. L’ulteriore flessibilità, che probabilmente verrà concessa da Bruxelles, non ci obbliga a ridurre il deficit, come da impegno peraltro scritto nel Documento di economia e finanza (Def) di aprile, all’1,2 per cento nel 2018. Ma non va sprecata come in passato. Serve per scongiurare gli aumenti Iva, ma anche per ridurre il peso fiscale sul lavoro (esempio il cuneo per i nuovi assunti). Siamo fiduciosi che Gentiloni e Padoan faranno della sobrietà e del realismo le linee guida della legge di Bilancio, respingendo le tentazioni elettorali di tradurre la spesa in consenso o promettere tagli all’Irpef difficilmente sostenibili. In un’Europa che ritrova vigore e crescita, la serietà in politica paga più della facile spesa e della rimozione colpevole del debito.

Pag 1 Eterni paradossi del nostro Sud di Gian Antonio Stella

Poche manciate di chilometri e un fantastilione di anni luce.Le distanze che separano i teatri degli ultimi duedisastri ferroviari pugliesi, Galugnano e Andria, dalla vicina Monopoli sono l’immagine plastica dicome esistano due Sud attaccati l’uno all’altro eallo stesso tempo immensamente diversi e lontani. Dove nel raggio di un’oretta di automobile puoi vedere il Mezzogiorno allo sbando e uno dei centri mondiali della ricerca d’avanguardia sui sistemi di sicurezza. È andata (quasi) bene l’altro giorno, si fa per dire, sulla linea Lecce-Zollino, nello scontro frontale fra due convogli che fortunatamente ha contato solo una decina di feriti. Poteva finire come meno di un anno fa sulla ferrovia Bari-Barletta, la sciagura con ventitré morti e oltre una cinquantina di feriti. La stessa Puglia, le stesse ferrovie, gli stessi clienti, i pendolari. La cui sorte è ogni giorno appesa al rischio dell’errore umano. Rischio che i sistemi diagnostici di Monopoli avrebbero ridotto a zero. O quasi. Un paradosso che contrappone l’orgoglio per la fantasia, l’intelligenza, la tecnologia di una Italia straordinaria, alla vergogna per l’altra Italia. Quella della sciatteria, dei rinvii, del pressappoco, delle scartoffie burocratiche che tengono inchiodati i progetti. Di qua c’è la MerMec di Vito Pertosa, che da anni investe a Monopoli e in tutti i continenti sull’innovazione e sui giovani scienziati ed è arrivata ad aver circa settecento ingegneri («ma andiamo a assumerne un altro centinaio»), cioè tre ogni quattro dipendenti, e dopo esser partita dalle macchine per raccogliere l’uva dalle vigne è diventata in pochi anni un colosso planetario. Capace di conquistare 56 tra i principali mercati mondiali e guadagnarsi la fiducia delle più importanti metropolitane (da Londra a Seul, da Parigi a Singapore…) che hanno scelto di affidare la propria sicurezza alla multinazionale barese. Così come hanno scelto i sistemi diagnostici pugliesi le ferrovie tedesche, francesi, turche, australiane, finlandesi… Fino alla Shinkansen, l’alta velocità giapponese celebre per i «treni proiettile». Meraviglie destinate a venir superate dall’«Hyperloop», l’ultratreno che andrà da Toronto a Montreal in quaranta minuti toccando i 1.220 chilometri l’ora. Ancora col contributo dell’azienda di Monopoli. Di là la situazione descritta un anno fa dal nostro Enrico Marro dopo la catastrofe sull’Andria-Corato: «Sono passati quasi dieci anni dalla decisione, ma dei lavori per ammodernare la ferrovia tra Corato e Barletta non c’è traccia. Addentrarsi nelle carte e procedure che stanno dietro quest’opera fantasma, che se realizzata avrebbe salvato la vita di 23 persone, significa perdersi in un labirinto burocratico che sembra costruito apposta per allontanare e complicare l’apertura dei cantieri. Un sistema kafkiano dove le responsabilità sono disperse in mille rivoli affinché ciascuno possa ricorrere allo scaricabarile e lavarsi la coscienza. Come si spiega che un’opera tutto sommato piccola sulle Ferrovie del Nord Barese, deliberata nel 2007 e per la quale sono disponibili i 180 milioni di euro necessari, non sia stata ancora realizzata?» Come può la stessa terra sopportare un contrasto così abbagliante? Ma non è solo la Puglia, dove i chilometri ferroviari a doppio binario sono 297 e quelli a binario unico 531, col ripetitore di segnale che blocca automaticamente il treno in caso di errore umano attivo solo su 170 chilometri di rete, a essere in sofferenza. «Alcuni numeri raccontano meglio di tante parole come la questione meridionale esista eccome in Italia nel 2016», accusa l’ultimo rapporto «Pendolaria» di Legambiente, «Al Sud circolano meno treni. L’attuale livello di servizio è imparagonabile per quantità a quello del Nord. Ogni giorno in tutto il Sud circolano meno treni regionali che nella sola Lombardia. Per fare un esempio, ogni giorno le corse dei treni regionali in tutta la Sicilia sono 429 contro le 2.300 della Lombardia, una differenza di 5,3 volte, ma a livello di popolazione la Lombardia conta «solo» il doppio degli abitanti siciliani (10 e 5 milioni). Per la sola Trenitalia il numero di corse giornaliere nelle regioni del Sud è passato da 1.634 nel 2009 a 1.276 nel 2016, una diminuzione del 21,9%». Certo, i ritardi sono storici e il dossier riconosce che «si cominciano a vedere segnali positivi» come «il nuovo contratto Intercity, appena firmato, che stabilisce risorse certe in un orizzonte di dieci anni (347 milioni nel 2017 e 365 milioni all’anno per gli anni successivi)». Ma se il Sud dei privati è in grado di mostrare al mondo certe eccellenze possiamo accontentarci di «questo» nostro sistema pubblico?

Pag 9 Scia di sangue, dai presidenti al Congresso di Massimo Gaggi

Enorme emozione, tutta la politica americana mobilitata, discorsi, orazioni e riti religiosi nelle aule del Congresso e un intervento fermo e insolitamente sobrio del presidente Donald Trump anche se, attentatore a parte, non ci sono vittime e l’unico deputato colpito, Steve Scalise, non ha riportato ferite gravi. Ma per il Parlamento Usa l’attentato di ieri segna una svolta profonda, un vero cambio di stagione. Anche se l’America è un Paese violento, armato fino ai denti, fin qui il Congresso era rimasto abbastanza al riparo dagli assalti, gli omicidi e i tentativi di assassinio che hanno colpito soprattutto i presidenti, i candidati alla Casa Bianca e le autorità locali: sindaci, giudici distrettuali, sceriffi, governatori. Può apparire sorprendente, ma proprio per questo deputati e senatori repubblicani che si allenavano all’alba alla periferia di Washington per la partita bipartisan di baseball in programma oggi nella capitale, erano completamente privi di protezione della polizia, anche se tra loro c’erano personaggi di spicco come il senatore Rand Paul, uno dei candidati alla Casa Bianca nelle ultime elezioni presidenziali. L’attentatore è stato colpito ed eliminato solo grazie alla presenza dello stesso Scalise che, essendo il numero tre nella linea di comando del partito conservatore, aveva con sé due agenti di scorta. È chiaro che d’ora in poi molto cambierà. Del resto già da tempo parecchi parlamentari avevano manifestato il timore di essere colpiti da qualche estremista o anche da un folle nel clima surriscaldato della contrapposizione politica esasperata dell’era Trump. Ma deputati e senatori temevano per la loro incolumità soprattutto quando tornavano nei loro collegi elettorali nella periferia americana, mentre a Washington si sentivano protetti dalla «bolla» della città della politica: cintura antiterrorismo con forte sorveglianza nelle strade, negli edifici delle istituzioni federali e nei luoghi di tutti gli eventi pubblici. Del resto quella della violenza politica negli Usa fin qui è stata soprattutto una storia di attacchi contro l’istituzione presidenziale. Quattro dei 45 presidenti americani sono stati assassinati: Abramo Lincoln nel 1865, James Garfield nel 1881, William McKinley nel 1901 e John Kennedy nel 1963. Poi ci sono Ronald Reagan che negli anni Ottanta se l’è cavata sopravvivendo alle gravi ferite di un attentato, ed altri presidenti sfuggiti per un pelo a tentativi di assassinio: Franklin Delano Roosevelt, Harry Truman, Theodore Roosevelt e Gerald Ford. Un livello di violenza politica impressionante, una tendenza endemica all’attentato che non ha paragoni negli altri Paesi avanzati che, pure, hanno conosciuto le loro stagioni del terrorismo: dall’assassinio di Aldo Moro a quello di Olof Palme. Ma se a Chicago sono stati ammazzati due sindaci nel secolo scorso, mentre a San Francisco il primo cittadino George Moscone fu ucciso nel suo ufficio in municipio insieme al sovrintendente della città, Harvey Milk, divenuto l’icona della comunità gay, il parlamento federale è stato sempre relativamente al riparo da attacchi di questa gravità. L’ultimo assassinio di un parlamentare risale a quasi mezzo secolo fa: nel 1968 Robert Kennedy, fratello minore di John, fu ucciso ma non per il suo ruolo di senatore di New York: a Los Angeles Shiran Shiran eliminò il candidato democratico ormai lanciato verso la conquista della Casa Bianca. L’ultimo attacco è quello del 2011 a Tucson in Arizona: un folle fanatico colpì la parlamentare democratica Gabby Giffords e uccise sei persone che partecipavano a un evento pubblico, tra le quali un giudice federale. La Gifford, gravemente ferita alla testa, riuscì a sopravvivere ma le menomazioni subite l’hanno costretta ad abbandonare il Parlamento. In tutta la storia americana solo quattordici parlamentari sono scomparsi per morte violenta. E in alcuni casi, nell’Ottocento, a uccidere furono altri membri del Congresso: deputati e senatori decisi a tutelare il loro onore sfidandosi in duelli all’ultimo sangue. Nel 1838, quando un deputato del Kentucky uccise un collega del Maine, il Congresso votò una legge che metteva al bando questo tipo di regolamento di conti. Non bastò a impedire che vent’anni dopo, nel 1859, il «Chief Justice» della California, Terry, uccidesse il senatore dello Stato, David Broderick, per una disputa sull’abolizione della schiavitù. La sparatoria di ieri nel campo di baseball di Alexandria è anche il primo attacco simultaneo a più di un parlamentare dal 1954, quando un gruppo di separatisti portoricani si mise a sparare dalla tribuna del pubblico contro i deputati seduti in aula durante un dibattito parlamentare. Anche allora non ci furono vittime, ma cinque membri del Congresso rimasero feriti.

LA REPUBBLICA Pag 1 Il Medioevo di Grillo di Ezio Mauro

Non è automaticamente di destra il tema dell'immigrazione, perché qualunque democrazia deve rispondere alle inquietudini dei suoi cittadini, soprattutto i più fragili e impauriti. È sicuramente di destra il modo, il tono, la postura politica con cui il tema è stato estratto da qualche alambicco della Casaleggio e associati, collegato automaticamente alla sicurezza e trasformato da Grillo nel nuovo manifesto identitario dei Cinquestelle, con la firma gregaria della sindaca di Roma Virginia Raggi. Quando chiede al prefetto, nell'intervallo tra i due turni elettorali, di bloccare l'arrivo dei migranti nella Capitale denunciando un''evidente pressione' con 'devastanti conseguenze', Raggi ingigantisce un fantasma sociale che non trova corpo né nei numeri (8600 richiedenti asilo tra Roma e provincia, contro gli 11mila programmati) né nella coscienza della comunità cittadina, né nella vita concreta e reale della capitale. Si tratta dunque del calcolo preciso di un investimento politico sulla paura, evocata strumentalmente per poterla combattere, regalando al movimento un profilo artificiale di governo che compensi il vuoto amministrativo di questi mesi. Quando Grillo rilancia nel vangelo del blog la svolta romana, e la arricchisce aggiungendo agli immigrati i rom, le tendopoli, i mendicanti, disegna un paesaggio spaventato che evoca una politica d'ordine, allineando - forse inconsapevolmente - tutte le figure simboliche della devianza sociale che una politica autoritaria ha sempre e dovunque scelto come bersagli, trasformandoli in colpevoli, e additandoli come avversari ai ceti sociali garantiti, scelti come base di riferimento, e dunque rassicurati. Gruppi sociali marginali, scarti umani, soggetti esclusi, corpi che chiedono di sopravvivere: ridotti tutti insieme a pura quantità da respingere - i moderni 'banditi' -, annullando storie, biografie, geografie, come se il valore di una civiltà contasse esclusivamente per gli inclusi, e soltanto a danno degli altri. Di più: come se si fosse spezzato il concetto di società, lasciando precipitare nella deriva finale la parte sconfitta, i perdenti della globalizzazione, per i quali si sancisce l'impossibilità di salvezza e di emancipazione, tanto da decretare il loro bando definitivo, che li escluda dalla comunità, comunque dalla vista, certamente dalla tutela politica, persino dallo spazio marginale che oggi pretendono di occupare. Liberando così simmetricamente la parte vincente del mondo in cui viviamo da ogni vincolo con la parte sommersa, sgravandola di qualsiasi legame, e soprattutto sciogliendola da ogni responsabilità politica nei confronti di quella comunità di destino che fino a ieri avevamo chiamato società: ma a cui dovremo inventare un nuovo nome, visto che vale soltanto per noi e si configura per esclusione, credendo di trovare nella differenza l'unica garanzia di sopravvivenza. Verrebbe da chiedere a Grillo e alla sua sindaca se davvero il paesaggio sociale che hanno in mente nell'Italia 2017 è fatto di città assediate da migranti, popolate da mendicanti con minorenni al seguito o da falsi nullatenenti con auto di lusso, una specie di gigantesca tendopoli che confina con un campo rom. È la costruzione meccanica di un presepio politico, che trasfigura la realtà in un iper-realismo grottesco, evocando tutti i personaggi di comodo del grande disordine fantasmatico che visita le fragilità del nostro Paese e abita le solitudini sociali esposte dalla crisi. Una proiezione di comodo, a fini politici, come la geografia immaginaria di Di Maio, la fantascienza delle scie chimiche, la medicina prêt-à-porter del no ai vaccini. È ben chiaro che l'Italia minuta, dei piccoli Paesi e delle lunghe periferie, sotto i colpi della crisi riscopre antiche paure, un inedito egoismo del welfare, una nuovissima gelosia del lavoro, uno smarrimento identitario sconosciuto. A tutto questo bisogna rispondere ma dentro un sentimento di comunità, su una scala europea, nella fiducia in una tradizione occidentale di inclusione responsabile e di apertura culturale. Tutto questo si chiama politica, senso dello Stato e del Paese. Mentre invece è una ben scarsa rivoluzione, quella che rinuncia a cambiare il mondo per rinchiuderlo su se stesso come un pacchetto fragile, cercando così di comprare governo al mercato della paura, a un prezzo stracciato. Vien fuori un'idea balorda dell'Italia, amputata in alto delle competenze delle élite, colpevoli di tutto: e liberata in basso dalla scomoda presenza dei disperati. Un Paese di singoli, arrabbiati con chi ha vinto e con chi ha perso, per l'invidia del successo, la noncuranza del sapere, il fastidio della responsabilità generale. L'immagine non è nemmeno quella del muro di Trump. In quel muro Grillo infatti si limita ad alzare il ponte levatoio, come in un Medioevo impaurito. Fuori, c'è il mondo.

LA STAMPA Quella legge illogica che piace a tutti di Ugo Magri

È previsione unanime che, salvo miracoli, finiremo col tenerci le due leggi elettorali figlie della Consulta. Voteremo con mezzo «Italicum» e metà «Porcellum». Ma la ragione della rinuncia al modello tedesco dipende solo in parte dai «franchi tiratori» che impazzano alla Camera. Il vero motivo per cui torneremo alle urne con un sistema sbilenco, illogico e destinato a produrre instabilità sta proprio, paradossalmente, in questa sua natura ambigua, incoerente, anche un po’ assurda. Le contraddizioni denunciate fin qui senza successo dal Presidente della Repubblica hanno la caratteristica di piacere a tutti (tutti tranne, beninteso, che ai cittadini) perché ciascun partito ne ricava una convenienza. Nella patria del Guicciardini, ognuno bada in primis al proprio «particulare». Per esempio: non muovere foglia va benone a quanti vorrebbero il maggioritario, perché così il «premio» sopravvive alla Camera, dunque chi lì supera il 40 per cento conserva la possibilità (teorica) di conquistare l’intera posta. Renzi, Grillo, Berlusconi e Salvini verranno sicuramente a dirci che sono fiduciosi di potercela fare. Nel nome di questo ipotetico «premio» metteranno in moto tutto l’ambaradan dei candidati premier, dei programmi per governare, delle squadre ministeriali scalpitanti per entrare in azione che avrebbero senso in un sistema maggioritario. Come se, appunto, in Italia ce ne fosse uno. Ma tenere tutto com’è va bene pure agli altri che stanno preparando l’«inciucio». Calza loro a pennello perché il «premio» è rimasto solo ed esclusivamente alla Camera; per cui avere la maggioranza lì e non anche in Senato sarebbe francamente inutile. Inoltre, superare il 40 per cento sembra più arduo che scalare la parete nord del Cervino. Con l’elettorato diviso in tre, è facile scommettere che nessuno vincerà il «premio», cosicché il sistema sarà tutto quanto proporzionale. Ne conseguirà l’obbligo, all’indomani delle elezioni, di stipulare alleanze con gli avversari che, se venissero dichiarate in anticipo, farebbero perdere un sacco di voti. Ma non ci sarà bisogno di scoprire le carte. L’attuale sistema elettorale è perfetto in quanto permetterà il trionfo dell’ipocrisia: consentirà ai partiti di dire che vogliono vincere da soli e, intanto, di preparare ammucchiate «dopo». Non finisce qui. Il pessimo sistema in vigore va strabene ai grandi partiti perché a Palazzo Madama vige una soglia talmente alta, l’8 per cento, che mette nell’angolo i «cespugli». Ma centristi e bersaniani si fregano ugualmente le mani soddisfatti perché a Montecitorio la soglia rimane al 3 per cento, dunque «no problem»; e pure al Senato, in fondo, basta coalizzarsi con un partito più grosso per aggirare il problema. La confusione in materia elettorale è manna dal cielo per la Casta: tutti i boss di partito si candideranno come «capilista bloccati» alla Camera, dove questa contestatissima possibilità è sopravvissuta al setaccio della Corte costituzionale. Ma gli anti-Casta a loro volta potranno consolarsi con le preferenze introdotte dalla Corte nell’altro ramo del Parlamento: i candidati gareggeranno dentro circoscrizioni grandi come la Lombardia, il Piemonte, il Lazio o la Sicilia, senza badare a spese per farsi propaganda. E ciò renderà euforiche le Procure della Repubblica che, con le severe normative sul voto di scambio e sul traffico di favori, dopo questo festival di preferenze saranno in condizione di fare autentiche retate. A quel punto sarà felicissimo l’intero popolo italiano, che nella confusione del dopo-voto, potrà confermare tutti i luoghi comuni sulla politica e sui suoi protagonisti. In sintesi: contenti tutti.

AVVENIRE Pag 3 (Ri)educazione alla cittadinanza di Giuseppe Savagnone L’astensionismo e il senso perduto della “polis”

Si è molto parlato, in questi giorni, dei vincitori e degli sconfitti del voto di domenica scorsa. È stata anche segnalata, con allarme, in particolare su queste pagine, la crescita dell’astensionismo, con i votanti scesi al 60%, sette punti in meno rispetto alle amministrative del 2012. È necessario però tornare e insistere sul significato che questo fenomeno assume in una tornata elettorale specificamente dedicata al rinnovo delle amministrazioni comunali. Si attribuisce spesso l’astensionismo alla lontananza della politica, fatta nei palazzi del “potere romano”, dai reali problemi della gente. Il cittadino medio a volte stenta a rendersi conto che le leggi varate nelle aule parlamentari incidono poi in modo decisivo sul suo tenore di vita quotidiano e, di conseguenza, è via via diventata più forte in lui la tentazione di considerare irrilevante la scelta dei suoi rappresentanti a livello nazionale. In questo caso, però, non si trattava dei “massimi sistemi”. Non erano in questione le grandi scelte della politica economica e di quella internazionale, ma i problemi che le persone si trovano a vivere nella loro quotidianità – la qualità dei trasporti, l’accesso agli asili-nido, la pulizia delle strade. Per questo il livello dell’astensionismo in queste elezioni deve preoccuparci ancor più di quello nelle consultazioni nazionali. Perché rivela la perdita, in larghe fasce della popolazione, non solo del senso dello Stato, già da tempo consumata, ma anche dell’appartenenza, più elementare, alla comunità cittadina, da cui dipende, anche terminologicamente, la cittadinanza. Perché una città non è innanzi tutto un insieme di edifici, di strade, di servizi – quello che i latini chiamavano urbs – ma un tessuto di relazioni umane che stringono coloro che ne fanno parte in un unico destino (in latino, civitas, in greco polis). Lo stesso insieme urbanistico, con le sue strutture di cemento e di pietra, non è altro che il racconto che questa comunità fa di se stessa nel tempo, costruendo, ricostruendo, o anche semplicemente abitando gli edifici, le strade, le piazze. È a questo livello che si dovrebbe acquisire il senso della cittadinanza politica, imparando nella vita di ogni giorno cosa significa perseguire, con i propri sforzi e i propri sacrifici, un bene comune che può rendere più umana la vita di tutti e da cui trae la sua esistenza la comunità. Senza questa esperienza, il grande racconto con cui la città esprime se stessa, sia pure in una fisiologica diversità di toni e di punti di vista, si disgrega in una babelica molteplicità di rivendicazioni, di proteste, di accuse reciproche. E se questo accade nell’ambito cittadino, c’è da aspettarsi purtroppo che diventi impossibile, a maggior ragione, quella partecipazione responsabile al governo della nazione che la formula democratica implicherebbe. La reazione più drammatica, di fronte a questa involuzione, è la muta disperazione di chi, evidentemente, percepisce l’irrilevanza della propria voce in questa Babele al punto di rinunziare perfino alla contestazione. È un atto di denunzia, più eloquente di qualunque “voto di protesta”, della difficoltà delle nostre città di essere ancora raccolte intorno a dei fini che siano veramente comuni, e non rispecchino solo interessi di partiti, di gruppi, se non addirittura di singoli. Il problema allora riguarda la qualità della cittadinanza non solo di quelli che si sono astenuti, ma anche di coloro che sono andati a votare e degli amministratori che sono stati eletti. La risposta corretta a questa crisi non sono certo gli slogan propagandistici che in questi giorni vincitori e vinti si scambiano, pensando già alle prossime occasioni di scontrarsi e di misurare le proprie rispettive forze. Si tratta, piuttosto, di avere il coraggio di ripensare la politica a partire dall’esperienza concreta della polis, della città. E il primo passo da fare, al di là delle diverse prospettive in campo, è di restituire alla gente la sensazione di essere ascoltata e di poter avere un ruolo nel decidere il destino comune. Questo comporta che si cerchi di creare – in tessuti urbani dove proliferano quelli che Marc Augé chiama “non luoghi” – spazi di comunicazione tra i cittadini, e tra i cittadini e i loro amministratori. Comporta soprattutto, però, che questi spazi si aprano dentro le persone. Per far rinascere dal basso la vita pubblica bisogna metter mano, proprio a partire dall’esperienza delle città, a una radicale opera di (ri)educazione alla cittadinanza, su basi non solo tecniche, ma innanzi tutto etiche. Se non vogliamo che sempre più numerosi siano coloro che si rintanano nel privato, non perché peggiori degli altri, ma per disperazione.

IL GAZZETTINO Pag 1 Processo penale, la riforma e le contraddizioni di Carlo Nordio

Per chi è digiuno di giuridichese, occorre una premessa. Il codice penale, che prevede i delitti e le pene, è stato promulgato nel 1930 ed è firmato da Mussolini. Dopo settanta anni di Costituzione nata dalla Resistenza questo codice regge ancora,ed è stato modificato solo in modo marginale. Al contrario,il codice di procedura penale, che disciplina lo svolgimento delle indagini e del processo, ha meno di trent'anni, ed è firmato da Giuliano Vassalli, partigiano valoroso e illustre giurista. Ebbene, questo codice, sulle cui modifiche ieri il governo ha posto la fiducia, è stato ristrutturato, emendato, corretto, integrato e rettificato almeno un centinaio di volte. Per di più, la Corte Costituzionale (dove, paradossalmente sedeva il Prof. Vassalli) ne ha dichiarato alcune parti manifestamente irragionevoli. Questo la dice lunga sulla capacità tecnica del nostro legislatore di affrontare una sua riforma sistematica. Ieri, l'ennesimo tentativo ha riguardato, tra le altre cose, la prescrizione e le intercettazioni. Due terreni minati sui quali sono saltate, nei decenni, parecchie maggioranze. La soluzione ha scontentato magistrati e avvocati, e questo è abbastanza normale. Senofane affermava che se un triangolo potesse immaginare Dio, lo descriverebbe come un triangolo: intendeva dire che ognuno vede le cose secondo la lente deformante dei propri pregiudizi. Così i Pm chiedono più rigore, e i difensori più garanzie. Purtroppo la riforma non accentua il rigore e diminuisce le garanzie. Un pasticcio che si aggiunge ai precedenti. La prescrizione. Essa consiste nell'estinzione del reato per decorso del tempo,e ubbidisce a due criteri: la perdita dell'interesse dello Stato a punire il reo dopo un certo periodo dalla commissione del crimine, e il diritto del cittadino ad avere una sentenza definitiva in tempi ragionevoli: il cosiddetto giusto processo, garantito dalla Costituzione. Ora, gli attuali termini di prescrizione sono troppo brevi per giustificare la rinunzia dello Stato a punire, ma anche troppo lunghi per la tollerabilità emotiva di una persona inquisita. Si prenda la frode fiscale, o la gran parte dei reati economici: si prescrivono, grosso modo, in otto anni. È ragionevole pensare che dopo così poco tempo lo Stato perda interesse a incriminare l'evasore? Evidentemente no, anche perché questi reati sono di accertamento difficile, richiedono esami documentali, riscontri bancari e altro: quando arriva la denuncia metà dei termini è già trascorsa. E nessuno griderebbe allo scandalo se fossero aumentati, e anche raddoppiati. Ma sette o otto anni sono anche troppi per la durata di un processo. Uno Stato che non sappia concludere in un tempo così lungo è a dir poco incivile: perché per l'inquisito, innocente o colpevole che sia, questi anni sono un'eternità. Ora questi termini vengono aumentati. Perderemo la faccia, davanti a Dio e all'Europa, e non guadagneremo in Giustizia. Eppure il rimedio ci sarebbe. Basterebbe far decorrere i termini di prescrizione non, come accade ora, dalla commissione del delitto, ma dal momento in cui il malcapitato viene inquisito. Distinguere cioè la prescrizione del reato, che è troppo breve, da quella del processo, che è troppo lunga. Prediche inutili. Le intercettazioni. Qui lo sforzo del governo è certamente encomiabile, ma assolutamente vano e velleitario. La riforma vuole (vorrebbe ) evitare che finiscano sui giornali le intercettazioni irrilevanti, che spesso sputtanano (per usare un'espressione icastica dell'Onorevole D'Alema) il cittadino estraneo all'indagine. È un obiettivo sacrosanto, ma la battaglia è persa in partenza. Perché la decisione sulla rilevanza o meno delle conversazioni è devoluta al PM e al Gip, in contraddittorio con le parti. Come dire che, nel frattempo, i famigerati brogliacci della Polizia saranno finiti tra mille mani, e in caso di divulgazione sarà impossibile individuarne il responsabile. Non solo: la decisione del Pm e del Gip sulla rilevanza è insindacabile. Se quindi un magistrato fantasioso ritenesse che alcuni dialoghi intimi fossero significativi nel cosiddetto contesto, nulla gli impedirebbe di trascriverli rendendoli, alla fine, di pubblico dominio. È quello del resto che si sta facendo da anni, anche se esiste una norma assai simile a quella ieri promulgata: è l'art. 268 del codice di procedura, quello del defunto prof Vassalli. Ma questa norma è stata così male applicata e interpretata dai magistrati che ha perso completamente significato. A conferma del noto detto di Platone che è meglio avere una legge cattiva a e un giudice saggio, piuttosto del contrario.

LA NUOVA Pag 1 La Caporetto che rischia il Pd di Renzi di Roberto Weber

L'Undicesima battaglia dell'Isonzo, combattuta nell'agosto del 1917, fu l'ultimo tentativo di sfondamento dell'esercito Italiano, cui seguì - nell'ottobre dello stesso anno - la Dodicesima, meglio conosciuta come Battaglia di Caporetto. Con molta serenità, ma anche con una certa dose di prudenza, lo Stato Maggiore del Partito Democratico, forse dovrebbe riandare a quei momenti e riflettere se non si stia avvicinando, a qualcosa che - sotto il profilo della imprevedibilità, della soggettiva impreparazione e delle conseguenze drammatiche - non assomiglia a Caporetto. A guardare l'evoluzione delle dinamiche politiche, si ha infatti la sensazione che il tentativo del Pd di sfondare al "centro" sia riuscito assai parzialmente e che in realtà oggi il centro-destra mostri un'inattesa vivacità in tutte le aree del paese, mentre il M5S - considerato fino a ieri il nemico "principale" - sembra essersi inabissato, in parte volontariamente, in parte per precisi limiti di presidio territoriale. Naturalmente questo ultimo test elettorale, deve trovare ancora trovare il suo epilogo nei ballottaggi, ma i segnali per il Pd sono tutti (o quasi) di segno negativo. Scoperti sulla sinistra - anche se nessuno sembra in grado di approfittarne - rarefatti nelle fasce produttive della società, deboli fra i giovani, incapaci di recuperare consensi dall'immersione del M5S, i democratici sbandano anche a livello di orientamento strategico. In meno di un mese il Pd e il loro leader sono passati dall'abbandono al suo destino del povero Alfano, al tentativo fallito di far passare una legge elettorale di tipo proporzionale di segno opposto a quella dell'Italicum, all'apertura nei confronti di Pisapia e del suo Campo Progressista, dall'esaltazione dell'esperienza di Macron in Francia, al riconoscimento (e alla sorpresa) per l'inatteso recupero di Corbyn in Gran Bretagna, da una forte spinta al voto anticipato, alla disinvolta accettazione della fine naturale della legislatura, dall'idea del partito autosufficiente a vocazione maggioritaria, alla ricerca delle alleanze. Il tutto lascia trasparire uno stato "confusionale" e una linea politica che si fa "giorno per giorno", a seconda delle micro- congiunture, delle opportunità anche personali, del variabile atteggiarsi di avversari e alleati. Si tratta - nell'analisi del gruppo dirigente del Pd - di un mondo "post": post destra e post sinistra, post credenti e non credenti, post ricchi e poveri, con tutte le sfumature che questi termini si portano appresso. Nella cancellazione di queste categorie rimane solo l'impatto della comunicazione e del carisma del leader, della presunta sapienza nel cogliere il mutare dell'opinione, della capacità di cogliere il "tempo", della velocità, della prontezza di risposta su Twitter. In tutto ciò i democratici perdono ogni capacità di lettura. Non si chiedono, ad esempio, se non stia crescendo alla loro sinistra una domanda assai estesa di radicalità, di una radicalità composta, seria che - a fronte di un paese che progressivamente si "allunga" - chiede politiche economiche che ripristino condizioni di uguaglianza. Oppure, a Padova, leggono tardivamente le ragioni di una candidatura come quella di Lorenzoni sostenuta da civiche ciascuna delle quali si avvicina al risultato elettorale del Pd. E come a Padova accade in decine di altri centri. Nel frattempo il centro-destra mostra quasi ovunque una capacità di raccogliere entro il proprio perimetro coalizionale una pluralità di umori, segmenti, cifre politiche e promette di affermarsi ai ballottaggi e di essere ben competitivo fra qualche mese alle elezioni nazionali, cogliendo il riaffiorare di antichi radicamenti. Quello che non accade ai democratici, incapaci di prendere il "nuovo" e di conservare "il vecchio". Servirebbe loro "una linea", qualcosa che assomigli a una traiettoria politica più o meno certa e comprensibile per gli elettori, ma curiosamente è proprio la volatilità delle posizioni di Renzi, il suo "velocismo" ad impedire che accada. Servirebbe il tempo per fermarsi, riflettere, analizzare, ma ciò ha un costo elevato. Probabile che si vada verso la fatale Dodicesima battaglia dell'Isonzo, con questo assetto. Persa quella, penseranno a un nuovo Diaz.

Pag 19 Turista? No, meglio parlare di cittadino temporaneo (Intervento di Francesco Antonich)

Non solo Venezia, ma anche altre città, borghi e altri tesori del patrimonio culturale e naturale italiano reclamano con urgenza una modalità per rendere arrivi e presenze sostenibili, imprimendo un nuovo "andamento lento" e costante verso i luoghi italiani per viverne l'estetica, la sicurezza, la qualità della vita e la dimensione urbana storica e contemporanea, insomma lo stile urbano italiano. Sfida difficile: oggi i flussi sono prodotti e orientati dalla regia di multinazionali i cui scopi e le cui strategie non sono condivisi con le mete che tendono a sfruttare. Come cercare di muoverci verso questo obiettivo, ben presente nel Piano strategico nazionale del turismo, da poco approvato, ma che necessita di impegno e perseveranza sia da parte degli enti locali che degli imprenditori del settore per essere realizzato? Bisogna andare oltre il "prodotto turistico", concept un po' troppo markettaro per abbracciare il respiro ampio del patrimonio di beni culturali, ambientali e di risorse imprenditoriali che dà plasticità al valore e allo stile italiano dell'ospitalità. È giunto il momento di far sentire - magari, perché no, anche educare... - l'ospite come un vero e proprio "concittadino temporaneo", che non solo fruisca dell'offerta del luogo, ma ne condivida anche i valori di rispetto, la fragilità dei luoghi, i comportamenti consoni, proprio come un vero "temporary citizen". Un modo per promuovere l'appetibilità di una destinazione in quanto "ambient" in grado di far condividere agli ospiti la gioia di vivere in quel luogo dove si decide di vivere il tempo di una stanzialità di pochi giorni. In queste località occorrerà una vera politica dell'accoglienza che vada oltre la valorizzazione di un business e ridisegni un valore non più meramente utilitaristico, anzi: "utilituristico". Non si tratta di creare un turismo di élite: Stendhal e Goethe appartengono alla loro epoca, ma è possibile diversificare in parte la cosiddetta "monocultura turistica" di batteria che in alcune realtà rischia per i residenti - ma anche per il patrimonio del Paese - di produrre in prospettiva gli stessi effetti negativi di certe monoculture tropicali nei Paesi afroasiatici. Ciò incoraggia chi da tempo propone una revisione delle politiche urbanistiche e della residenzialità che interessano trasversalmente la dimensione dell'ospitalità, a studiare formule nuove per offrire un ambiente "heimlich", per dirla con Sigmund Freud, cioè condivisibile perché familiare, intimo, immediatamente riconoscibile e parte della propria identità individuale e comunitaria. Anche nel rispetto delle norme e dei comportamenti adatti al luogo. Nel contempo, demistificare i non-luoghi polivalenti e densi, "ipertestuali" ma anche assimilanti che portano non di rado a dissolvere ogni relazione umana genuina con la collettività ospitante. È necessaria quindi coerenza strategica tra la visione di città o località con la vocazione ad ospitare e la sua evoluzione urbanistica, demografica, sociale, della quale gli interventi di natura infrastrutturale ed immateriale vanno condivisi, progettati insieme tra cittadini, operatori economici e Amministrazione. È questo processo che dovrebbe favorire l'esperienza piena del "concittadino temporaneo", elemento oggi più che mai catalizzatore della scelta di un luogo e che consente la fidelizzazione non più per ogni singola stagione ma, nel tempo, intergenerazionale. Potremo dire di essere riusciti almeno a compartecipare alla governance con i soggetti multinazionali che pianificano altrove destinazioni e flussi se, con una vera opera di agency dell'ospitalità saremo stati in grado fidelizzare al luogo, alla sua qualità della vita e al rispetto delle sue fragilità anche questi odierni "concittadini ad elevata mobilità", perché no anche e... ducati, a vivere pienamente e a rispettare lo stile italiano che tanto ricercano.

CORRIERE DELLA SERA di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 1 I vantaggi di un nuovo bipolarismo di Angelo Panebianco Le riforme e il voto

A giudicare dai commenti di molti politici sulle amministrative di domenica l’Italia sembra una Repubblica fondata non sul lavoro ma su una diffusa incapacità di comprendere quanto siano importanti le istituzioni (tutte, sistemi elettorali compresi). Dove non è chiaro se quei politici non capiscono proprio oppure capiscono ma sfruttano cinicamente la credulità del pubblico. Non si può affermare (lo hanno fatto esponenti sia di centrosinistra che di centrodestra) che le amministrative «dimostrano» che uniti si vince e poi difendere, per le politiche, la proporzionale, ossia un sistema elettorale fatto apposta per esaltare le divisioni. Così come non si può dire che i 5 Stelle siano finiti o quasi. Risultano ora esclusi in un gioco elettorale con doppio turno e ballottaggio. Ma la musica sarà tutt’altra quando si voterà alle politiche con la proporzionale. Sia perché il meccanismo non esclude nessuno sia perché gli altri andranno tutti quanti in ordine sparso. Nella confusione di linguaggi che caratterizza le elezioni con proporzionale chi urla di più si fa notare di più. In Italia l’incapacità di valutare l’importanza delle istituzioni si manifesta in tanti modi. Ad esempio, ci sono quelli che temono l’instabilità di governo pur essendo, contraddittoriamente, a favore del bicameralismo simmetrico. Oppure ci sono quelli che tifano Macron, che sono deliziati per il fatto che egli sia diventato presidente e che si aspettano da lui grandi cose. Quelle stesse persone griderebbero al golpe fascista se qualcuno proponesse di fare eleggere direttamente anche da noi il presidente della Repubblica conferendogli gli stessi poteri di cui dispone oltr’Alpe. Semplicemente, non capiscono che un Macron al vertice (e dotato degli strumenti di governo di cui dispone) può esistere solo perché esiste quella istituzione. O ancora, ci sono quelli che dichiarano che le elezioni britanniche (nessun partito ha raggiunto la maggioranza assoluta) «dimostrerebbero» che il sistema maggioritario, se mai ha funzionato (sic), ormai non funziona più. Ma il maggioritario non determina necessariamente il bipolarismo (nel caso britannico, il bipartitismo). Ci sono stati altri casi simili nella storia britannica. Però, il maggioritario è un potente costrittore che favorisce, con frequenza, esiti bipolari. In effetti, tornare a una competizione bipolare, usando allo scopo un sistema elettorale appropriato, sarebbe importante. La competizione bipolare favorisce la stabilità ma anche una certa moralizzazione della vita pubblica: rende difficile lo scaricabarile, inchioda i governanti alle loro responsabilità. Se chi governa è scelto di fatto dagli elettori, non può in seguito scaricare - e se tenterà di farlo non sarà credibile - le proprie inefficienze sugli altri, quelli con cui ha dovuto patteggiare dopo le elezioni. Giudicate come vi pare i governi (di destra e di sinistra) che si sono succeduti in Italia dal 1994 (prime elezioni con il maggioritario) al 2011 (caduta dell’ultimo governo Berlusconi) ma è un fatto che vennero scelti dagli elettori, i quali ebbero in seguito la possibilità, dal loro punto di vista, di giudicarne virtù e difetti. Dove la competizione non è bipolare e i governi si formano dopo il voto per effetto di trattative fra i partiti, si entra in una notte in cui tutti i gatti sono bigi, in cui lo scaricabarile è la regola e nessuno è in grado di capire chi è responsabile di cosa. Va sfatato il mito secondo cui un cambiamento di legge elettorale potrebbe non sconvolgere i partiti e il sistema di partiti oggi esistenti. È un errore comune. Pochi capiscono che una nuova legge elettorale modificherebbe l’offerta politica (non ci sarebbero più gli stessi partiti) e il cambiamento dell’offerta politica inciderebbe sul comportamento degli elettori (i quali voterebbero in modo diverso da come hanno fatto in precedenza). Roberto Giachetti (Pd), sul Foglio del 9 giugno, ha ricordato giustamente quanto i tentativi di reintrodurre il maggioritario siano stati contrastati negli anni passati proprio da alcuni di coloro che oggi fingono nostalgia per quel metodo di voto. Ma Giachetti ha torto, a mio avviso, quando afferma che la legge bloccata in Aula sarebbe stata il «male minore» rispetto al rischio di andare a votare con il sistema elettorale disegnato dalle sentenze della Corte costituzionale. Quella legge, se fosse stata varata, avrebbe imposto al Paese un sistema proporzionale (spacciandolo per «tedesco»), legittimato dall’accordo fra i partiti. Per lo meno, la (pessima) legge elettorale ora in vigore non dispone di legittimazione politica, è stata disegnata da sentenze che si sono sostituite (a mio giudizio, arbitrariamente) a decisioni parlamentari. È quindi lecito conservare la speranza di una riforma migliore, se non in questa nella prossima legislatura. Nelle nostre condizioni la proporzionale genera ingovernabilità. Chi raccoglierà da terra (Renzi? O chi?) la bandiera della democrazia maggioritaria abbandonata dagli altri potrebbe diventare, nei prossimi anni, il punto di riferimento di quella parte del Paese che è stanca di scivolare lungo un piano inclinato.

Pag 3 Un movimento legge e ordine che ora attenua l’antieuropeismo di Massimo Franco

Pensare che il giro di vite contro campi rom e immigrati deciso a Roma dal Movimento 5 Stelle sia solo frutto della sconfitta alle Comunali, appare fuorviante. C’è anche quello, nella richiesta di moratoria sui nuovi arrivi, fatta al prefetto dalla sindaca Virginia Raggi. L’impressione, tuttavia, è che Beppe Grillo stia abbracciando temi tradizionali della destra: in funzione anti-Pd e per insidiare sul suo stesso terreno la Lega; e, più in generale, per calamitare la voglia di «sicurezza» di un’opinione pubblica spaventata dalla gestione dell’immigrazione e dalla microcriminalità. Si tratta dunque della tappa di una strategia più che di una trovata. Con spregiudicatezza, gli stessi Cinque Stelle che in passato sembravano pronti all’accoglienza, promettono un argine contro «una forte pressione migratoria. Così non si può andare avanti», twitta Raggi. E viene subito assecondata da Grillo che chiede la chiusura dei campi rom. E assicura più vigilanza «nelle metropolitane contro i borseggiatori». Per gli avversari è fin troppo facile far notare al M5S che se ne accorgono in ritardo. Lega e FdI si scagliano contro la sindaca di Roma, defraudati di una delle loro bandiere. Ma questo non impedirà ai Cinque Stelle di continuare così fino al voto. La loro parola d’ordine è una sorta di «legge e ordine contro il sistema». Un ossimoro, che però per Grillo e i suoi non è tale. La premessa è che se le cose vanno male è colpa degli «altri», intesi come partiti tradizionali. Non a caso, il Movimento appoggia le perplessità di parte della magistratura sulla riforma del processo penale, sulla quale il governo pone la questione di fiducia. E accusa il Pd di «imbavagliare il Parlamento» e «distruggere la giustizia». Avviene lo stesso sull’economia, dove la maggioranza viene incalzata nel tentativo di screditare i segnali di ripresa che affiorano. Il motivo è la gran fretta di archiviare l’insuccesso alle Comunali; e proiettarsi sulle Politiche, nella convinzione che il «vero» M5S si vedrà lì. D’altronde, lo schema è confortato dalle analisi dei flussi fatta dell’Istituto Cattaneo, che disegna un elettorato grillino «a fisarmonica»: in estensione a livello nazionale, rattrappito localmente. In più, il vertice del Movimento crede di captare uno spostamento dell’opinione pubblica verso posizioni radicali. E si comporta di conseguenza. Per quanto post-ideologico, o forse proprio per questo, cerca voti dovunque. Il doppio binario punta a intensificare lo scontro tra «noi» e «loro» sul piano interno; e a arginare le diffidenze profonde che Grillo raccoglie in Europa come forza estremista: per questo ora annacqua l’antieuropeismo. La conferma viene dall’incontro che il vicepresidente della Camera e possibile candidato premier del M5S, Luigi Di Maio, avrà oggi a Roma con i ventisette ambasciatori dei Paesi dell’Ue.

Pag 6 Le due Italie di Fi e Lega di Renato Benedetto e Marco Cremonesi Il Carroccio bene al Nord, al Sud dominano gli azzurri. Le liste civiche spostano l’asse verso i moderati

«Se serve al Paese non faccio un passo indietro ma un chilometro indietro». Matteo Salvini esibisce il suo volto più conciliante. Ieri sera, il suo essere «a disposizione» per la leadership del centrodestra è stato smorzato a favore del gioco di squadra: «L’abbiamo fatto in tanti Comuni, pur essendo il primo partito, lo posso fare anche a livello nazionale per portare avanti il progetto». Salvini il tattico risponde a Giovanni Floris e, almeno per il momento, tira il freno sul match che già si stava innestando nel centrodestra. Amici e nemici, alleati e rivali, Forza Italia e Lega non avevano perso tempo: a minuti dalla chiusura delle urne, Salvini già attribuiva al suo partito il «ruolo trainante» dentro il centrodestra. Silvio Berlusconi liquidava netto: «Il perno della coalizione rimane Forza Italia che è nettamente» primo partito per numero di voti e diffusione. Concetto rimarcato da Renato Brunetta: «Forza Italia in molti casi ha tirato da sola la carretta con ottimi risultati». Tagliente precisazione: «Soprattutto al Sud». In realtà, in una consultazione caratterizzata da bassa affluenza e dai vistosi exploit delle liste civiche, trarre indicazioni nitide sull’argomento è complicato. Una risposta alla questione l’ha data Youtrend, che ha sommato i risultati in 145 Comuni con oltre 15 mila abitanti. Risultato: parità, o quasi. I berlusconiani sarebbero al 6,8%, la Lega al 6,7% e i Fratelli d’Italia al 2,5%. È un criterio. Ma nell’Italia delle città il boom delle civiche complica i calcoli. L’Istituto Cattaneo, per esempio, sceglie un’altra strada, attribuendo agli azzurri anche i voti delle liste civiche. Così, il partito di Berlusconi sarebbe in testa in modo assai più netto: nei capoluoghi, al 24,1 contro l’11,9% dei leghisti. Ma lo stesso Cattaneo osserva che Forza Italia, dalle precedenti amministrative nei 25 capoluoghi, perde circa il 2,2%, ma rispetto all’allora Pdl. Più o meno quanto guadagna la Lega (2,6%). Silvio Berlusconi può però rivendicare per Forza Italia il «radicamento territoriale diffuso in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale». Perché al di là del tormentone tra Lega «nazionale» e Lega nordista, i numeri dicono che Noi con Salvini è ancora realtà tutta da costruire. Sui nove capoluoghi di provincia al voto nel Centrosud, Noi con Salvini si è presentata soltanto in tre. Significativo il risultato all’Aquila (6,8%), poco scintillante quello di Lecce (0,6%), mentre a Palermo per arrivare al 2,6% si sono dovuti mettere insieme i salviniani, Fratelli d’Italia e una civica. Insomma, la forza della Lega, a giudicare dal primo turno delle amministrative 2017, trae spinta proprio dai territori di vocazione originaria, il Nord. È qui che i sostenitori di Salvini battono quasi regolarmente i forzisti. Il che certifica che l’elettorato leghista non ha nulla in contrario a votare una Lega nazionale. Però, scendendo per lo Stivale, i voti leghisti si rarefanno fino quasi a scomparire. Per arrivare a Trapani, dove Noi con Salvini non è sulla scheda e Forza Italia è al 15,2%. Per contro, dove Forza Italia mostra la sua debolezza è proprio nell’Italia settentrionale. A Genova, la Lega è al 13% (triplicando il risultato del 2012) e Forza Italia all’8%. Ad Asti si registra la parità tra i due partiti fino al secondo decimale: entrambi sono al 5,89%. In Brianza guida ancora la Lega: a Monza è al 14,2, contro gli azzurri al 12,3. Rapporto invertito a Como, dove i berlusconiani sono all’11,2 e gli (ex) padani al 10. Ma ecco che a Piacenza si torna al 12,9 della Lega contro l’8,4 di Forza Italia. Fino a Parma, dove gli azzurri non superano il 2,7% e il Carroccio è al 12,1%. In generale, Forza Italia sembra soffrire assai più della Lega la concorrenza delle civiche. A Verona: il candidato del centrodestra Federico Sboarina è in testa al primo turno sfiorando il 30%. La sua lista ha conquistato il 13,7%, quella della Lega l’8,8% mentre Forza Italia soltanto il 3,4%.

AVVENIRE di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 1 Con quale coscienza di Marco Tarquinio I politici che fanno guerra ai poveri

Immigrato, profugo, richiedente asilo, rifugiato, rom, residente straniero... Queste parole – che non evocano astrattamente numeri di statistica o di bilancio, ma dicono della vita e della condizione di persone concrete – possono davvero diventare marchi di sospetto e persino d’infamia nell’Italia del secondo decennio del XXI secolo? Possono sul serio trasformarsi in slogan taglienti nella battaglia per il consenso in un Paese assediato dai clamori politici e mediatici di una campagna elettorale permanente? Possono dolorosamente e rumorosamente diventare le mazze e i ferri con cui ci s’ingegna a inchiodare i nostri occhi e i nostri pensieri sulla croce della contrapposizione ingiusta e spesso feroce tra poveri italiani e poveri stranieri, tra perseguitati 'venuti da fuori' e depredati di 'casa nostra', tra delinquenti 'invasori' e italiani autorizzati 'a difendersi' con ogni mezzo e a ogni costo, tra figli nostri e figli loro anche se tutti sono nati qui e sono cresciuti nelle stesse scuole e sugli stessi campi d’oratorio? Non riusciamo a crederlo, e non vogliamo che accada. Per questo non stiamo zitti e non ci rassegniamo a un dibattito come quello andato in scena ieri, nel semi-silenzio imbarazzato delle forze 'moderate' e di governo, tra i grandi capi del Movimento 5 Stelle, da Beppe Grillo a Virginia Raggi, e i leader delle formazioni della 'destra nazional-sovranista', da Matteo Salvini a Giorgia Meloni. Un dibattito all’insegna dell’«avevo detto (e fatto) prima io» a proposito della chiusura dei campi in cui sono confinate a Roma (e altrove) centinaia di famiglie di cittadini italiani e stranieri di etnia rom e sinti e riguardo alla dichiarata indisponibilità ad accogliere nella capitale (e altrove) nuovi scampati all’ignobile e spesso mortale traffico di esseri umani attraverso il Mediterraneo. Sia ben chiaro: vanno chiusi i campi dove vengono tenuti, in condizioni che dovrebbero essere inconcepibili per chiunque, coloro che con disprezzo misto a timore in tanti chiamano ancora e sempre «gli zingari». Vanno chiusi una volta per tutte. Così come si deve far finire lo sciupìo di risorse che, per primi, e già da anni, su queste pagine abbiamo denunciato all’unisono con quanti lavorano con tenacia e generosità al fianco di rom e sinti per invece costruire dignità, legalità e autentica cittadinanza. Ma la chiusura dei campi non può e non deve succedere come se le persone che abitano in baracche e roulotte non fossero davvero persone, cioè come se esistessero soltanto come 'problema' e non come famiglie che non possono essere divise e bambini che debbono continuare (o ricominciare) ad andare a scuola... Si può chiuderli in modo civile e giusto. E la Milano degli ultimi anni ha qualcosa di assai importante da insegnare a Roma anche a questo proposito. Sia chiaro, poi, che nessuno chiede a Roma di accogliere 'sopra le forze'. Ma per giustizia e per verità bisogna riconoscere che i 'collassi' che purtroppo la prima città italiana sta vivendo non sono certo quelli sul fronte dell’asilo garantito a immigrati, rifugiati e richiedenti asilo, ma nell’erogazione a tutti i cittadini dei servizi essenziali e per cui essi pagano fior di tributi. Ecco perché la lettera al prefetto della capitale con cui ieri la sindaca Raggi ha annunciato di voler sbarrare le porte della Città Eterna ai 'profughi' appare soprattutto una mossa propagandistica e in nessun modo la credibile constatazione di una nuova emergenza. L’emergenza, pure a Roma, anzi soprattutto a Roma, è segnalata piuttosto dalle tante risposte che anche (ma non solo) sul fronte della regolazione e 'civilizzazione' della vita degli immigrati vengono articolate 'dal basso' e in forma 'auto-organizzata' grazie all’impegno delle comunità cristiane e di gruppi moralmente impegnati che, spesso in confronto e in collaborazione con istituzioni diverse e superiori a quelle locali, cercano di affiancare la pur pesantissima macchina comunale romana e di porre rimedio alla sua intermittenza ed evanescenza. Mentre l’Unione Europea decide finalmente di irrogare sanzioni agli Stati membri che rifiutano di fare la propria parte al fianco dell’Italia e degli altri Paesi euromediterranei nell’azione umanitaria comune verso i migranti forzati da Vicino Oriente e Africa, sarebbe semplicemente paradossale se tra le città italiane non si ponesse fine, ma si scatenasse definitivamente una corsa sul piano inclinato della non-solidarietà. Con la giunta romana 'a cinque stelle' in gara con i sindaci salviniani nel dire 'no' a prescindere. Ieri papa Francesco, pubblicando il suo messaggio per la Giornata dei poveri che si celebrerà il prossimo 19 novembre, ci ha ricordato che i poveri sono persone come noi e hanno «il volto di donne, di uomini e di bambini sfruttati per vili interessi, calpestati dalle logiche perverse del potere e del denaro». Un volto segnato «dal dolore, dall’emarginazione, dal sopruso, dalla violenza, dalle torture e dalla prigionia, dalla guerra, dalla privazione della libertà e della dignità, dall’ignoranza e dall’analfabetismo, dall’emergenza sanitaria e dalla mancanza di lavoro, dalle tratte e dalle schiavitù, dall’esilio e dalla miseria, dalla migrazione forzata». Italiani o stranieri, essi sono ugualmente fratelli tra loro e con ognuno di noi. E davanti a Dio e all’umanità il 'passaporto' di ogni povero, ovunque sia nato, è sempre in regola. Certamente più in regola delle coscienze di quei politici che hanno il potere e il dovere di cambiare le cose e di sanare le ingiustizie. E invece le ingiustizie contribuiscono a commetterle e a perpetuarle, utilizzandole, magari a forza di parole rese dure e di frasi incendiarie, per accrescere sospetto e risentimento nella convinzione di riuscire a conquistare così ancora più potere. Ma non c’è verità né sicurezza su questa via. E nessuno, su questa via, vince davvero. I poveri, tutti, si servono, non si usano. E soprattutto dovremmo aver chiaro che non si possono più fare 'guerre' contro di loro.

Pag 2 Le formiche e il malato scarto dell’umanità di Ferdinando Camon Una donna incosciente abbandonata in ospedale

Le formiche (a centinaia, in fila indiana o in ordine sparso), sul letto di una paziente in stato d’incoscienza dentro un ospedale italiano, ci fanno vergognare. La pulizia è un requisito indispensabile in tutti i luoghi dove ci stanno uomini, case, scuole, uffici, ma soprattutto in quelli dove ci stanno uomini malati. Perché i malati hanno bisogno di scacciare le malattie e di evitare nuovi contagi, nuove infezioni. Hanno bisogno di igiene. Se non c’è igiene in un ospedale, non ci sono le pre-condizioni per la guarigione. E questo ci umilia tutti. Anche se sappiamo, o dovremmo sapere, che in Italia abbiamo un servizio sanitario che in tanti altri Paesi se lo possono sognare. Finora non ho detto che si tratta di un ospedale del Sud, perché non vorrei che il lettore sentisse questo problema come limitato territorialmente, che è un modo per sentirlo come un problema degli altri: stavolta è Napoli, d’accordo, ma in passato si trattava di Torino, dove nel corridoio antistante la sala operatoria furon visti correre dei topi. E non è che i topi siano animali più lontani dalle malattie. Sui topi come portatori di malattie esiste una grande letteratura. E la malattia portata dai topi era la peste. Nei luoghi di cura dove manca l’igiene e insetti o animali entrano nelle stanze degli ospiti, sentiamo un disapprezzamento (volevo dire disprezzo, ma mi sembra troppo pesante) verso gli ospiti stessi. Inimmaginabile verso gli ospiti di qualche albergo. In qualche ospedale succede. Specialmente con certi malati. Quali? Tra le visite più deprimenti in ospedale ne ricordo una che m’ha lasciato nel cervello una domanda a cui ho difficoltà a rispondere. Andavo a trovare un’amica, malata di cancro. L’ospedale era grande, perché i visitatori non si perdessero c’era una mappa nell’atrio. Cerco nella mappa la stanza dove devo andare, è lontanissima, pare un’appendice dell’edificio. Più grave è il malato, più in disparte viene sistemato. Nei Sette piani di Buzzati alla fine vien sistemato sulla terrazza del tetto, da dove un elicottero lo porta via senza che nessuno lo veda. Andando a cercare l’amica, sbircio nelle stanze che incontro. Belline: lettini, armadietti, tavolini. Arrivo alla stanza dell’amica, malata terminale. È in un’ala in rifacimento, fuori ci sono attrezzi da muratore, scala, secchi di malta. Entro. L’amica è a letto, semiaddormentata. La stanza è vuota, c’è quel letto e basta. Accanto al letto c’è una cosa che m’incuriosisce: il cestino della carta straccia. Ma non è un cestino per la carta, è un cestino 'di carta': un giornale piegato a cassetta. I malati inguaribili eran confinati in un angolo dell’ospedale, quasi espulsi, con loro si lavorava senza risultato, 'senza soddisfazione', i medici ne parlavano malvolentieri. Arredando la stanza con un cestino di carta, mi è parso che esprimessero un concetto del tipo: 'Qui non vale la pena di sprecare un cestino vero'. La malata era semicosciente. Philippe Forest nel bellissimo libro 'Tutti i bambini tranne uno' racconta la morte della sua bambina, malata di cancro, e di quando andava a trovarla nelle cliniche, e sentiva che i medici ne parlavano malvolentieri: con lei le cure non erano efficaci, lei 'non dava soddisfazione'. Se la mia amica era semicosciente, la malata di Napoli sul letto pieno di formiche era incosciente. Degli incoscienti ci si occupa di meno…, mi correggo: ci si preoccupa di meno. Perché 'non danno soddisfazione'. Non sono testimoni. Non ti sono grati, non ti sono ingrati. Dovresti occuparti di un incosciente come di un cosciente? Ah sì, anche di più. Dovresti riempire con la tua coscienza il vuoto della sua coscienza. Dovresti correre per primo dagli incoscienti. Se sono attaccati alle macchine, dovresti controllare per prime le loro macchine. Loro hanno più bisogni degli altri, e a loro dovresti dedicare più energie. Ma c’è un problema: le tue energie (come le tue attrezzature, i fondi che hai a disposizione, il personale di assistenza…) sono quel che sono, e tu devi dosarle. Non puoi darle tutte a tutti. Ad alcuni non potrai darle. La cultura, il tempo, vorrei dire la 'civiltà' in cui viviamo ce l’impone. Ad alcuni darai il massimo, altri li scarterai. Sono quelli che papa Francesco chiama 'gli scarti'. E un malato incosciente, abbandonato in un ospedale, col letto e il corpo pieni di formiche che camminano in fila indiana o in ordine sparso, ecco cos’è: uno scarto dell’umanità.

IL GAZZETTINO di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 1 Frenata antisistema, un’occasione da non perdere di Biagio De Giovanni

Come spesso avviene da noi in Italia, i temi elettorali, riforme o risultati o referendum che siano, sono analizzati con lo sguardo rivolto tutto dentro il proprio recinto nazionale, mentre, a costo di sbagliar previsione bisogna provare a spingere lo sguardo oltre di esso per connessioni ormai inevitabili tra le cose che accadono nel mondo, in Europa e da noi in Italia. Sta cambiando la fase politica in Europa (limitiamoci a essa) con la medesima accelerazione con la quale si era avviata, anche se la situazione resta labile e non fornisce nemmeno all'analisi che sto per proporre nessuna garanzia di stabilità. Regredisce la fase populista, culminata con Brexit e Trump, e, per restare in Europa, il risultato delle elezioni nel Regno Unito ne sono palmare conferma: sembra rafforzarsi il fronte per una Brexit più addolcita, l'elettorato non risponde all'appello della May a darle ogni potere sulla gestione delle trattative da lei preannunciate come di una assoluta durezza. Risposta negativa a questo appello, perfino con il rafforzamento di un Corbyn da tutti finora giudicato cavallo fuori corsa che contribuisce alla riemersione di temi dimenticati. E poi la vittoria oltre ogni previsione di Macron in Francia, tassello decisivo dell'analisi. Marine Le Pen, lo spauracchio di qualche mese fa, è ai margini, Melanchon collocato nei suoi limiti, e i vecchi socialisti in archivio, almeno per ora. Si va facendo strada, forse, il timore di non spingere troppo avanti le cose, ritrovandosi poi in un luogo carico solo di slogan e di grida e di odio, di ascoltare meno di prima le sirene che giungono dai linguaggi della violenza e dell'avventura. Insomma, si sta forse assistendo a una certa normalizzazione dell'opinione pubblica, più per la paura sottile di una situazione che vada fuori da ogni controllo che per un ritornante agnosticismo. Giungendo in Italia, l'innegabile sconfitta dei Cinque Stelle (che parlano anche loro in politichese se proclamano di aver vinto!) sembra dovuta assai più all'astensionismo di suoi vecchi elettori che allo spostamento di voti pentastellati verso altre forze. Non corrisponde affatto alla realtà (una fake news) che il Movimento di Grillo non sia attrezzato per il voto locale, quando esso non solo vinse a Roma e a Torino, circa due anni fa, ma entrò anche in ballottaggio in molti comuni dove allora si votò. E dunque? Oggi perché la caduta verticale? Sia perché un'opinione più normalizzata riesce forse a vedere il disastro di Roma e l'inadeguatezza di Torino, cose che in altre congiunture sarebbero restate invisibili; sia, soprattutto, perché il senso di paura che si va diffondendo chiede protezioni più consolidate, non grida ma governo, non insulti ma reciproci riconoscimenti, non sdegni manettari a senso unico, ma più riflessive distinzioni, in una situazione di lieve ma significativa ripresa economica. Il malcontento resta intatto, ma più nascosto sotto una coltre di paura più ragionata, che chiede, forse, meno strappi e più progressione nelle cose. Le elezioni politiche non hanno affatto il carattere di quelle amministrative, dove le liste civiche le più diverse e improvvisate (spesso puri raccoglitori di voti) fanno coalizione su un nome. Vi immaginate la stessa cosa trasposta a livello dei partiti e della politica generale? Immaginate quali ircocervi nascerebbero? Vi immaginate D'Alema, Renzi, Bersani e Fratojanni sotto lo scudo magari di Pisapia, tutti a far coalizione? Un invito a nozze per i Cinque Stelle e credo un disastro per l'Italia. E insieme, sul lato opposto, Salvini Meloni Berlusconi, e ciò significa Le Pen e il Partito popolare europeo tutti uniti, sotto la stessa bandiera? Ma dove avvengono cose simili? Vi immaginate la ragionata paura che si diffonderebbe in Europa? E dunque? L'intuizione dell'Italicum, con il premio alla lista, era, nel suo principio, giusta, ma purtroppo fu sotterrato dopo il 4 dicembre sotto i colpi del conservatorismo italiano raccolto in unico afflato. Ora c'è il tempo necessario, si combatta a viso aperto e con argomenti seri una battaglia chiara, argomentata, ogni partito con il proprio programma e una necessaria correzione in senso maggioritario della legge elettorale, con premio alla lista. Ha osservato Giuliano Amato sul Corriere della sera di ieri che la Corte non ha affatto sanzionato l'obbligo del criterio proporzionale, e ci sarebbe mancato altro! La sovranità politica resta del Parlamento che deve però saperla usare, e, facendo tesoro delle osservazioni della Corte, esso può provare a giungere a un sistema maggioritario corretto, non cadendo nel precipizio in cui si stava affondando con il fasullo metodo tedesco. La responsabilità principale ricade sul Pd e sulla sua nuova classe dirigente. Partito di governo, e il problema è vedere se riuscirà a far svegliare il Parlamento dal suo sonno dogmatico. Il sonno della ragione genera mostri, ma siamo ancora in tempo perché la ragione si svegli e provi a dare una prospettiva a questa Italia, e a non abbandonarla come nave senza nocchiero in gran tempesta.

Pag 17 La “civica azzurra” è la nuova Forza Italia voluta da Berlusconi di Mario Ajello

Se fosse un fatto di cinema, la chiamerebbero la nouvelle vague. Invece, trattandosi del centrodestra, che ha provato alle amministrative il format che userà nelle politiche, si può parlare di una nuova leva civico-liberal, che anche quando porta i colori di Forza Italia è in una dimensione non meramente partitica ma volenterosamente trasversale. Berlusconi ha voluto un mix di politici e figure della società civile, di volti inediti e di amministratori che già si sono fatti le ossa sui territori e questa variegata compagnia, da Nord a Sud e ritorno, ha prodotto il seguente risultato: il centrodestra in vantaggio in 12 ballottaggi su 22. Occhio a Taranto, per esempio. Stefania Baldassari, donna combattiva, dirigeva il carcere della città dell'Ilva. Si è sospesa dal suo ruolo, si è candidata in chiave acchiappa-tutto con il centrodestra e adesso come un Brugnaro a Venezia (archetipo dell'outsider sparigliatore diventato sindaco) può andare a guidare la sua città togliendola al centrosinistra. Al ballottaggio è arrivata prima. Più su, Marco Bucci, imprenditore nel campo della tecnologia, vicino al governatore Toti ma l'opposto dell'uomo di partito, è destinato a strappare Genova alla sinistra. Di nuovo nel Mezzogiorno, ecco Mauro Giliberti, 38 anni. Faceva l'inviato per Porta a Porta. Decide di candidarsi, Bruno Vespa gli dice: «Tu sei pazzo, ma Lecce è troppo bella!». Lui ci crede ed è finito primo, con largo distacco rispetto al candidato di centrosinistra: 45,2 a 28,9. Dove ora c'è Giliberti, al vertice forse di una città importante, potrebbe esserci su scala nazionale un altro giornalista - Paolo Del Debbio - che è il sogno continuamente risognato da Berlusconi per fare del centrodestra una cosa tutta diversa da ciò che è stato. Una ragazza, presa dalla rete dei giovani amministratori locali di centrodestra, Marina Sassoli, capolista a Monza, è stata la donna più votata in tutta la Lombardia. Roberto Di Stefano, un quadro di base, ha portato questo schieramento al ballottaggio nella ex Stalingrado d'Italia: a Sesto San Giovanni. E c'è Fabio Chies, 43 anni, eletto al primo turno sindaco di Conegliano. E Sergio Caci, 45 anni, di nuovo sindaco di Montalto di Castro. Casi grandi, casi piccoli. Si tratta di politici e non politici, ma con un approccio orizzontale ai problemi dei territori e non con un'ottica da consorteria - «Prendete esempio dal sindaco di Ascoli», dice loro Berlusconi, cioè da Guido Castelli il prototipo della «politica depoliticizzata» - e tra questi Silvio vuole pescare per le elezioni nazionali. Per preparare le politiche, e non in chiave di listone unitario con Salvini ma in quello del rafforzamento innovativo del suo partito, Berlusconi si sta rivolgendo a una serie di talent scout: soprattutto il vice-presidente di Confindustria Giovani, Francesco Ferri. In certi casi, questa rete di scouting è già servita a trovare candidati per le comunali. Così la vede la sondaggista Alessandra Ghisleri: «È finito il nostalgismo per il vecchio centrodestra. Ora invece ci sono, come stanno dimostrando le amministrative ma poi vediamo come andranno a finire dopo il ballottaggio, un desiderio e una curiosità per un centrodestra capace di mostrarsi diverso. Il mix di volti freschi e di persone di esperienza territoriale, messo in campo in questa tornata di voto, sembrerebbe rispondere alle domande di novità e di buona amministrazione diffuse nell'elettorato di area forzista e in quello più largo che è attratto dal civismo piuttosto che dal partitismo». Così Berlusconi crede di aver trovato il format per sbarrare ai grillini anche la strada d'ingresso nel prossimo Parlamento».

LA NUOVA di mercoledì 14 giugno 2017 Pag 1 A destra una “non” coalizione di Fabio Bordignon

Bisognerà attendere l'esito dei ballottaggi, per tratteggiare il quadro completo della tornata elettorale amministrativa 2017. Del resto, dei 160 comuni maggiori andati al voto domenica, ben 111 attendono di conoscere il nome del prossimo sindaco. Ciò nondimeno, due importanti indicazioni sono già arrivate dal primo turno: la deludente performance del M5s; la ritrovata competitività del centro-destra unito.Letti insieme, questi risultati sembrerebbero suggerire un parziale ritorno allo schema bipolare. Si tratta però di interpretazioni condizionate dalle peculiarità del voto locale e dalle regole della competizione. Tutta da dimostrare, anzitutto, la crisi del terzo polo pentastellato. Il M5s ha ottenuto, con i propri candidati, poco più dell'11% nei comuni maggiori (130 su 160) nei quali si è presentato. Aveva ottenuto più del doppio alle Europee 2014. Ma non si tratta di una novità: alle comunali dello scorso anno, i candidati 5s avevano fatto segnare complessivamente quasi il 21%, ma, depurato dagli exploit di Roma e Torino, il risultato scendeva sotto il 14%. Completato il primo ciclo del grillismo di governo (locale), apertosi nel 2012 con i successi in quattro comuni, il bilancio è a dir poco deludente. Solo il piccolo comune vicentino di Sarego ha visto la riconferma del primo cittadino pentastellato. Nel caso di Parma e Comacchio, il M5s ha assistito al buon risultato dei due sindaci uscenti (dalla precedente amministrazione) ma già espulsi (dal Movimento). Mentre a Mira, in provincia di Venezia, la candidata 5s si è fermata al terzo posto. Nel complesso, il M5s ha dunque conquistato solo due comuni su oltre mille - a Sarego si aggiunge Parzanica, nel bergamasco. E si deve accontentare di appena nove ballottaggi: nessuno dei quali nei 25 capoluoghi di provincia alle urne e uno soltanto nel Nord. Nei sondaggi nazionali, per contro, il M5s continua a viaggiare intorno al 28-30%. E sarebbe sbagliato sottovalutarne la persistente forza, come movimento d'opinione e di protesta.Il ritorno al bipolarismo appare così un "fatto" discutibile, se proiettato in ottica nazionale, ma tuttavia presente, nel responso del voto municipale. Seppur in un quadro fortemente frammentato, reso poco decifrabile da un numero esorbitante di liste civiche, non c'è dubbio che le comunali ripropongano anzitutto la tradizionale competizione tra (centro)destra e (centro)sinistra. E se i vincitori di centro-sinistra sono un po' di più nei comuni già assegnati al primo turno, la gran parte dei confronti a due, il 25 giugno, sarà in "stile Seconda Repubblica". Il centro-destra, in particolare, vede ricomporsi, in periferia, le profonde fratture che ormai dividono i vertici di Forza Italia e Lega. Con il partito di Salvini a fare da traino e il #LeaderEterno, Berlusconi, ancora in campo.Nei 60 comuni maggiori del Nord al voto, i due partiti erano su fronti contrapposti solo in 10, concentrati perlopiù in Lombardia. Schieramento compatto, invece, in Liguria, dove il polo forza-leghista di Toti e Rixi cerca di espugnare Genova, e (anche se non sempre) nel Nord Est, dove i riflettori sono puntati sulle sfide in quattro capoluoghi. 1) Gorizia, con il candidato di centro-destra fermatosi a pochi voti dal successo al primo turno. 2) Belluno, con la sfida tra candidati "civici" (di centro-destra e di centro-sinistra). 3) Padova, dove il leghista Bitonci, dopo il burrascoso abbandono di Palazzo Moroni, è insidiato da Giordani. 4) E infine Verona, con il duello tra il candidato ufficiale del centro- destra unito e la tosiana Bisinella.Anche dall'esito di questi confronti sapremo qualcosa sullo "stato di salute" del centro-destra italiano, per il quale, tuttavia, il test delle amministrative rischia di essere fuorviante. Così come per il M5s: un non-partito che ancora fatica a misurarsi con il voto locale. Dall'altra parte, uno schieramento virtuale, unito per necessità. Una non-coalizione, i cui leader sembrano avere imboccato sentieri divergenti.

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