Tesi-Bruno-indice http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Indice.htm

di Bruno Chiaravalloti

INDICE

Indice delle tavole

1 Del fare ricerca sull'identità

1.1) Presentazione dei campi profughi saharawi 1.1.1)Ballando salsa nel deserto 1.1.2) Quando il nonluogo diventa campo ed il campo viene a sedersi al tuo 'tavolino' 1.2) Per un discorso sull'identità 1.2.1) Due o tre cose sull'identità: da assoluta ad assolutamente ambigua 1.2.2) Identità come luogo di interazione. I Saharawi dal confino al laboratorio 1.3) Percorso

2 Profilo storico-etnografico dei Saharawi

2.1)Profilo storico 2.1.1)Problemi e linee d'indagine per una storia dei Saharawi 2.1.2) I Berberi prima dell'islamizzazione (XII sec. a.c. - VII sec. d.c.) 2.1.3) Islamizzazione del (VII - XI sec. d.c.) 2.1.4) Arrivo dei e fusione con i berberi (XIII - XVII sec. d.c.) 2.1.5) Primi contatti con le potenze occidentali (XIV sec. - 1885) 2.1.6) Conferenza di Berlino e prime resistenze alla colonizzazione 2.1.7) Nascita del nazionalismo saharawi 2.1.8) La guerra col Marocco ed il processo di pace 2.2) Struttura sociale tradizionale dei Saharawi 2.2.1) Composizione 2.2.2) Lignaggi 2.2.3) Asaba 2.2.4) Tribù 2.2.5) Tributi 2.2.6) Gerarchie interne 2.2.7) Organizzazione politica 2.3) Creazione di un sentimento di popolo e di nazione 2.3.1) Presentazione del problema 2.3.2) Idea di popolo 2.3.3) Idea di nazione 2.3.4) La rivoluzione sociale del Fronte Polisario. Tesi-Bruno-indice http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Indice.htm

3 Politica e poetica della museificazione fra i Saharawi

3.1) Introduzione 3.2) Museo Nacional del Pueblo Saharaui 3.2.1) Storia del Museo Nacional del Pueblo Saharaui 3.2.2) Struttura ed allestimento 3.2.3) Intervista a Lehbib Abidin 3.3) Museo della Guerra 3.3.1) Museo della Guerra 3.3.2) Intervista a Mohamed Sidi Aupa 3.4) Deserto 3.5) Politica e poetica della museificazione fra i Saharawi

4 Mettere in scena l'identità

4.1) Tutte le piste portano a Smara 4.2) Descrizione ed analisi delle manifestazioni 4.2.1) Le immagini come testo: rappresentazione di un'autorappresentazione 4.2.2) Passato e presente-tradizione e modernità 4.2.3) Abiti 4.2.4) 'Spettattori' 4.2.5) 20 de Mayo

5 Pittura

5.1) Introduzione 5.1.1) Scoperta 5.1.2) Introduzione 5.2) Raffigurazione ed 5.3) Pittura contemporanea nel Maghreb 5.4) Pittura fra i Saharawi 5.4.1) Pittura fra i Saharawi 5.4.2) Soggetti e temi 5.4.3) Analisi delle opere 5.5) Disegni dei/delle bambini/e 5.5.1) Disegni dei/delle bambini/e 5.5.2) Descrizione dei disegni

Conclusioni

Bibliografia Tesi-Bruni-Cap1 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap1.htm

L'etnografia è come l'oceano. Tutto quel che vi serve è una rete, una rete qualsiasi; e allora se vi mettete per mare e gettate la vostra rete, state pur certi che qualche pesce lo prendete. . (Marcel Mauss) (1)

1.1) Presentazione dei campi profughi saharawi 1.1.1)Ballando salsa nel deserto 1.1.2) Quando il nonluogo diventa campo ed il campo viene a sedersi al tuo 'tavolino' 1.2) Per un discorso sull'identità 1.2.1) Due o tre cose sull'identità: da assoluta ad assolutamente ambigua 1.2.2) Identità come luogo di interazione. I Saharawi dal confino al laboratorio 1.3)Percorso

1.1) Presentazione dei campi profughi saharawi

1.1.1) Ballando salsa nel deserto (Inizio pagina)

Novembre 1998, campi profughi saharawi. Sto aspettando Brahim per andare a cena. Mi chiamano per andare a mangiare alla mensa dei cooperanti internazionali; ringrazio declinando la chiamata. Finalmente arriva Ibrahim, passiamo a prendere Antonella e Carla e raggiungiamo gli spagnoli. Antonella, persino nel deserto o forse proprio perché l'occasione lo richiede, si stava truccando per uscire. Siamo attesi all'ospedale dei medici cubani per una cena di benvenuto per l'arrivo dell'ambasciatore cubano ad Algeri. L'ospedale è una costruzione in muratura ad un solo piano, a poche centinaia di metri dalla 'reception' per i visitatori internazionali. Si trova in una posiziona relativamente isolata ed ha un grande cortile centrale intorno al quale si susseguono le sale operatorie e le abitazioni dei medici cubani. Cuba è uno dei paesi amici dei Saharawi e da anni gruppi di medici dell'isola caraibica trascorrono lunghi periodi nel deserto. Il pasto è decisamente più ricco di quello offerto dalla direzione della 'reception' di Rabouni. Finito la cena veniamo invitati ad andare in una sala dove proseguirà il benvenuto all'ambasciatore. Attraversiamo il cortile ed entriamo in una stanza allestita per una festa danzante. La pietra del pavimento nel centro della sala è stata ormai resa liscia dai passi di salsa e rumba di tanti anni passati nel deserto aspettando di tornare a casa. Vicino allo stereo un triangolo di segnalazione stradale pieno di luci colorate crea un atmosfera da discoteca ed un tavolo pieno di bottiglie di coca cola e rum è pronto per gli invitati. Ma è sulle pareti che si concretizza la realtà, solo a prima vista paradossale, di questa situazione. Campeggiano i poster con i volti di Che Guevara, Camilo Cienfuegos, Fidel Castro e Mustapha Sayed El Ouali e Mohamed Abdelaziz(2) . Comincia la musica e fra una chiacchiera e l'altra mi rendo conto di come i Saharawi presenti non sfigurino affatto, nel ballare la salsa, di fronte ai medici cubani. Molti di loro hanno vissuto e studiato all'Avana anche per dodici anni ed oggi sono rientrati nei campi profughi. Provo a dare un ordine a quello che ho davanti agli occhi: sto ballando salsa all'interno di un ospedale cubano nel bel mezzo del deserto algerino, che in realtà non è , ma è un'altra cosa che ancora non è.(3)

1.1.2) Quando il nonluogo diventa campo ed il campo viene a sedersi al tuo 'tavolino' (Inizio pagina) Il processo di globalizzazione che stiamo vivendo ha comportato il fiorire di nonluoghi; posti che non rispondono più al concetto di luogo della tradizione etnologica, che vuole una cultura localizzata nel tempo e nello spazio. Scrive Marc Auge': I nonluoghi sono tanto le installazioni necessarie per la Tesi-Bruni-Cap1 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap1.htm

circolazione accelerata delle persone e dei beni (strade a scorrimento veloce, svincoli, aeroporti)(4) , aggiungerei anche Internet con tutte le possibilità di connessione che offre, quanto i mezzi di trasporto stessi o i grandi centri commerciali o, ancora, i campi profughi dove sono parcheggiati i rifugiati del pianeta. Viviamo, infatti un'epoca paradossale anche sotto questo aspetto. Nel momento stesso in cui l'unità dello spazio terrestre diviene pensabile e in cui si rafforzano le grandi reti multinazionali, si amplifica anche il clamore dei particolarismi, di coloro che vogliono restare soli "a casa loro" o di coloro che vogliono ritrovare una patria, come se il conservatorismo degli uni e il messianismo degli altri fossero condannati a parlare lo stesso linguaggio: quello della terra e delle radici .(5) I Saharawi vivono da venticinque anni in un nonluogo; un nonluogo particolare che sono i campi profughi. Proprio per la sua natura di luogo di raccolta di persone appartenenti ad una stessa etnia o con uno stesso presente politico, il campo profughi generalmente non produce individualismi ed alienazione, come altri nonluoghi tendono a fare. Hanno sviluppato un sistema di coesione sociale e di trasmissione e mutazione delle proprie tradizioni coerente con il loro presente politico e storico. I Saharawi entrano continuamente in contatto con 'turisti solidali' e giornalisti, medici ed ingegneri, professori universitari e funzionari dell'ONU. Una ricerca antropologica, oggi ed in un tale contesto, deve tenere presenti tutti questi aspetti e non sperare di isolarsi in un contatto esclusivo con l'altro, perché gli altri si sono moltiplicati. L'altro con cui sono entrato in contatto e relazione, paradossalmente, nel momento in cui è stato confinato nei campi profughi, ha viaggiato molto di più e molto più lontano di quanto non avesse fatto nel suo recente passato nomade; ha visto il 'proprio territorio' varcato da individui, portatori di culture, con cui in passato non aveva mai dialogato direttamente. La cena nell'ospedale cubano è solo uno delle tante situazioni 'impreviste' accadutemi durante la mia ricerca. Ancora più inaspettato e benvenuto è stato il verificare che il mio campo di ricerca, come un organismo vivente e mobile, mi ha seguito a 'casa', si è seduto con me a 'tavolino' indipendentemente dalla mia volontà. Sei mesi dopo il mio secondo viaggio nei campi profughi, la telefonata di una rappresentante del Fronte Polisario, mi preavvisava che sarebbero arrivati due studenti saharawi a Perugia. Avevano ottenuto una borsa di studio dal Dipartimento di Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, per frequentare le facoltà di Economia e Scienze Politiche. Oggi, a distanza di un anno e mezzo da quella prima telefonata, ci sono cinque studenti saharawi iscritti all'Università di Perugia, con cui ho proseguito a negoziare le conoscenze acquisite in viaggio. Il campo di ricerca mi si è materializzato in cucina, con la stessa subitaneità ed ineluttabilità con cui io mi sono materializzato nella tenda della famiglia che mi ha ospitato. Se ormai non è più possibile pensare le culture come oggetti statici, risulterebbe quantomeno illogico pretendere di immaginarci immobili i/le loro portatori/trici. James Clifford in 'Strade' attacca questa visione con l'aiuto di Arjun Appadurai. Arjun Appadurai contesta le strategie antropologiche che localizzano i non-occidentali come "nativi". Egli scrive del loro "confinamento" e addirittura "imprigionamento" attraverso un processo d'ipostatizzazione rappresentativa che chiama "congelamento metonimico": un processo in cui una parte o un aspetto della vita dei soggetti sono assunti a compendio della loro totalità, finendo col costituire la loro nicchia teorica in una tassonomia antropologica. L'India è assimilata alla gerarchia, la Melanesia allo scambio, e così via. "I nativi, intesi come esseri umani confinati nei - e delimitati dai - luoghi cui appartengono, come gruppi non contaminati dal contatto con un mondo più vasto, non sono probabilmente mai esistiti" (Appadurai, 1988) . (6)

1.2) Per un discorso sull'identità (Inizio pagina)

1.2.1) Due o tre cose sull'identità: da assoluta ad assolutamente ambigua (Inizio pagina) Il termine identità ha subito, nel corso del XX secolo, un processo di accumulazione di significati ed ambiti di riferimento. Marco d'Eramo a conclusione de 'Lo sciamano in elicottero' compie una rapida ed interessante analisi del progressivo ampliamento degli utilizzi e delle discipline, che hanno fatto proprio il termine identità. All'inizio del XX secolo diviene di uso comune grazie alla psicologia che lo adopera per individuare l'identità individuale. Poco dopo assume una specifica valenza nel linguaggio burocratico di molti Stati nazionali: ogni cittadino comincia ad essere munito di un documento d'identità. Nel 1926 il regime fascista l'ha resa obbligatoria per tutte le persone sospette e pericolose. E solo con il testo unico di pubblica sicurezza del 1931 la carta d'identità è stata estesa a tutti i cittadini italiani. Ha meno di settant'anni quest'istituzione che ci sembra così ovvia. (8) Tesi-Bruni-Cap1 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap1.htm

L'antropologia e la sociologia solo più recentemente si sono occupate criticamente dell'identità, quasi sempre di tipo collettivo. In questa introduzione citerò solo una minima parte della messe di pubblicazioni che hanno incrinato la determinazione di tipo biologico-scientifico che aveva assunto questo concetto così delicato. Uno dei primi testi ad assumere e stimolare una prospettiva critica ed articolata, volta ad evidenziare contraddizioni e costruzioni identitarie è stato 'Orientalismo' (1979) di Edward W. Said(9) , che mostra come il concetto Oriente debba considerarsi quasi interamente un'invenzione europea. James Clifford, con 'I frutti puri impazziscono'(10) (1988), ci introduce nella 'modernità etnografica' fatta di contaminazioni ed attraversamenti culturali evidenti ed ormai innegabili. Jean-Loup Amselle, in 'Logiche meticce'(11) (1990), si interroga sui meccanismi politici e di forza, ereditati dal colonialismo e dall'etnologia, che hanno classificato e spesso determinato in Africa il fiorire di identità nettamente distinte su un tessuto in realtà meticcio. Ugo Fabietti in 'L'identità etnica'(12) (1995) e Francesco Remotti in 'Contro l'identità'(13) (1996), come Amselle, avvertono il pericolo, che l'irrigidimento e la reificazione del concetto di identità, generino meccanismi di appartenenza e fondamentalismo sfocianti in contrapposizioni conflittuali. In questa prospettiva Fabietti fornisce degli esempi di identità fluida; vere e proprie costruzioni d'identità come nel caso degli Uroni del Quebec e continui passaggi-scambi d'identità come avviene fra Shahsevan e Tat nell'Iran settentrionale. Enrico Castelli con i suoi studi sulla costruzione dell'immaginario coloniale italiano culminati nella mostra 'Immagini e Colonie'(14) ha messo in luce le strategie manifeste ed i meccanismi inconsci e subliminali attraverso cui si è voluto creare e si è tramandata un'immagine dell'altro, in particolare dell'Africa, a seconda delle volte desolante, selvaggia e raccapricciante, tale da giustificare ed auspicare un ingresso 'civilizzatore' degli Italiani. L'identità comincia oggi ad assumere il profilo dell'ambiguità e della provvisorietà se confrontata con l'aurea di assolutezza e determinazione di stampo positivista che la circondava nel passato. Hobsbawm(15) ha recentemente sostenuto l'idea di una compresenza di molteplici identità collettive interscambiabili fra loro. Ha distinto fra 'identità pelle' ed 'identità magliette'. Le prime dovrebbero essere oggettivamente condivise e si baserebbero su elementi quali il colore della pelle ed il genere biologico; le seconde, che stanno prendendo il sopravvento, sono interscambiabili a seconda delle situazioni, proprio come capi d'abbigliamento. La metafora della maglietta è ancora più calzante se consideriamo l'aspetto coercitivo insito nell'abito indossato rispetto ad un altro. Determinate occasioni imporrebbero abiti determinati sino al caso estremo dei manicomi in cui ai pazienti erano imposte rigide regole comportamentali fra cui l'obbligo di indossare abiti uguali per tutti. Queste divise, vere e proprie camicie di forza dell'identità individuale favorivano l'annullamento della personalità degli individui ed in molti casi castravano all'origine la possibilità di un personale 'recupero alla normalità'. Si continuava comunque ad essere vestiti da 'matti'. Analogamente, come risulta a chi visiti la mostra 'Immagini e Colonie', nel nostro passato coloniale i 'sarti' della propaganda e dell'opinione comune hanno vestito le popolazioni africane con gli abiti dell'ignoranza, della violenza e della natura, creando vere e proprie mitologie, che in alcuni casi sono state fatte proprie dalle popolazioni native. L'identità, chiamata in causa per spiegare e giustificare ogni sorta di comportamento, individuale o collettivo, è ormai spoglia di ogni determinazione scientifica, ma continua ad agire nelle scelte operate da attori spesso inconsapevoli.

1.2.2) L'identità come luogo d'interazione. I Saharawi dal confino al laboratorio (Inizio pagina) Se accettiamo il concetto di identità fluida e mutevole, dobbiamo interrogarci su quali siano i processi che determinano oggi, cambiamenti un tempo impensabili, almeno nell'arco di un tempo limitato. Per iniziare ad addentrarci nel tema specifico di questa ricerca, la rappresentazione che i Saharawi danno della loro identità in cambiamento, riprendo il concetto di confine etnico così come era stato proposto da Frederik Barth in 'Ethnic Groups and Boundaries'(16) (1969) e poi ridiscusso da Fabietti nei suoi recenti studi sull'identità etnica (Fabietti 1995). Un identità fluida esige l'esistenza di confini identitari che vanno intesi in senso ampio ed articolato. Il confine etnico di Barth è una linea di distinzione più che di separazione, ma è soprattutto un luogo di attraversamento ed emergenza, una sorta di stadio liminale dell'identità, che permette il contatto e quindi il passaggio da un'identità ad un'altra sino a contemplare, in alcuni casi, la formazione di una terza. Barth dimostrava che numerosi paradigmi dell'antropologia dovevano essere rimessi in discussione: le distinzioni etniche non erano più pensabili come dovute all'isolamento geografico, all'assenza di contatti, ma erano da addebitare proprio all'esistenza di confini, che nel momento stesso in cui favorivano attraversamenti e cambiamenti identitari, consolidavano l'esistenza d'identità differenti. Le distinzioni rimanevano e se ne generavano addirittura di nuove, ma erano le Tesi-Bruni-Cap1 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap1.htm

comunità e gli individui, gli attori sociali, a 'migrare' da un'identità all'altra. Quali erano in passato e quali sono oggi i confini etnici dei Saharawi? Quale tipo di 'migrazione' identitaria stanno compiendo attraverso l'esperienza dei campi profughi e la rivoluzione sociale guidata dal Fronte Polisario? Esiste una frattura e quanto è profonda fra attori sociali consapevoli ed inconsapevoli all'interno dei Saharawi? In quale maniera il progetto rivoluzionario viene mostrato al loro interno ed all'esterno? Come rappresentano visualmente i cambiamenti identitari in atto? La rivoluzione sociale del Fronte Polisario viene pensata agli inizi degli anni settanta, ma è con l'esilio iniziato nel 1975, che comincia ad essere messa in pratica. I Saharawi si trovano a rinegoziare i loro confini etnici nel momento preciso in cui vengono a trovarsi delimitati da precisi confini geografici che non appartenevano loro: i campi profughi. L'esperienza del confino diventa ben presto quella di un vero e proprio laboratorio politico e sociale, un laboratorio identitario. Nei primi due paragrafi ho voluto introdurre con due esempi concreti, la cena all'ospedale cubano e gli studenti saharawi a Perugia, la complessità di questa situazione che ha molte sfaccettature. I campi profughi, i territori della RASD sono un porto di mare nel mezzo del deserto. I loro confini vengono attraversati in continuazione, in entrata ed in uscita da Saharawi e da non Saharawi provenienti da ogni parte del mondo e dalle competenze, scopi ed intenzioni più diversi. Popolazione un tempo nomade, con una struttura gerarchica di tipo segmentario, da venticinque anni vivono stanziati in una porzione di deserto concessa dal governo algerino, organizzati come uno Stato moderno. Un cambiamento così radicale, sebbene sia stato favorito dalla drammaticità degli eventi, ha attraversato fasi graduali e non si è ancora completato. Nel capitolo 2 traccio un profilo storico ed etnografico dei Saharawi, dal loro arrivo, nell'Africa nordoccidentale nell'XI sec. d.c., ad oggi. I cambiamenti intercorsi nella struttura sociale saharawi, il passaggio dalla struttura segmentaria dei nomadi all'idea di popolo unico, con una patria da liberare, sono presentati alla fine di questo capitolo. Particolare attenzione viene dedicata alle strategie, messe in atto dal Fronte Polisario, per costruire un sentimento di unità nazionale e alle risposte della popolazione. I capitoli successivi (3-4-5) affrontano, attraverso l'analisi di tre campi d'indagine particolari e delimitati, in quale maniera, concretamente, i Saharawi, attraverso le operazioni del Fronte Polisario, rappresentino, giustifichino e favoriscano i cambiamenti identitari di cui sono attori. Il capitolo 3 analizza le politiche e le poetiche messe in atto in tre operazioni di museificazione sorte nei campi profughi. Il Museo Nacional del Pueblo Saharaui, il Museo della Guerra ed il processo di museificazione di alcuni luoghi del deserto operano una riscrittura della storia saharawi, una nazionalizzazione della memoria funzionale al progetto del Fronte Polisario. Nel capitolo 4 propongo un'interpretazione, attraverso l'analisi di sequenze fotografiche da me realizzate, di come i Saharawi abbiano messo in scena la loro identità in cambiamento, in occasione di due manifestazioni pubbliche: il XXV anniversario dell'inizio della lotta armata e la prima e per il momento unica visita del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, nei territori della RASD. Il capitolo 5 offre una lettura della produzione di opere figurative dei pittori saharawi e l'analisi dei disegni dei bambini. Partendo dalle problematiche legate alle arti figurative nella cultura musulmana, viene discussa la produzione di quadri all'interno dei campi profughi nella sua funzione di rappresentare e mostrare le sofferenze della storia recente ed i nuovi 'confini etnici' dei Saharawi. Ognuno di questi capitoli può essere inteso come una discussione delle strategie dei Saharawi per dare visibilità alla loro causa ed un documento che testimonia, al di là dei singoli messaggi veicolati, il cambiamento in atto dell'identità saharawi solo attraverso lo 'scandalo' della sua presenza. Credo che non si sia mai vista una popolazione nomade creare dei musei e produrre dei quadri.

1.3) Percorso (Inizio pagina) Agli inizi di dicembre 1997 vengo a conoscenza dell'esistenza dei campi profughi Saharawi attraverso le pagine del Manifesto. Sono alla ricerca di un argomento per la mia tesi di laurea Inizialmente penso di studiare la struttura organizzativa dei campi profughi partendo dal concetto di non luogo. Vorrei verificare se realmente i Saharawi sono stati in grado di sviluppare un sistema di solidarietà sociale e trasmissione coerente delle proprie tradizione in mutamento tale da superare lo stadio di non luogo. Vado subito alla rappresentanza di Roma del Fronte Polisario dove lavorano e vivono i rappresentanti saharawi per l'Italia. Non si tratta di una vera e propria ambasciata, (l'Italia non riconosce la RASD) ma di un appartamento vicino alla stazione Termini, dove i rappresentanti del Fronte Polisario vivono e lavorano. Mi viene assicurato da Mohamed Salem Hamada che potrò andare nei campi, sebbene non per un lungo periodo; Tesi-Bruni-Cap1 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap1.htm

più avanti studieremo il programma. Nei mesi successivi vado a Roma per cercare materiale alla Fondazione Lelio Basso e per incontrare Salem e Fatima Mahfud. Ad aprile mi dicono che per le celebrazioni del 20 de Mayo(17) andranno nei campi due giornalisti della RAI; sarebbe opportuno per me viaggiare con loro. Nelle due settimane di soggiorno avrei un'assistenza che non sarebbero in grado di assicurarmi altrimenti. Partiamo il 9 maggio 1998 ed arriviamo nei campi profughi vicino a Tindouf nel sud ovest algerino il 10. Giunti a Rabouni, la "reception" dei campi si delinea il nostro gruppo che comprende, oltre a me, Khandud Hamdì (il nostro informatore ed accompagnatore sul campo), Maila Boscherini, Walter Daviddi (giornalista) e Adriano Orsi (operatore). Ognuno ha una motivazione ed un compito diverso che lo spinge a trovarsi lì. I due giornalisti della RAI sono la vera ragione di questa spedizione. Devono raccogliere materiale per un servizio per la trasmissione "Mediterraneo", e per il TGR toscano. Io e Maila ci siamo inseriti ognuno portando avanti la propria ricerca. Grazie alla presenza dei giornalisti ho potuto visitare luoghi ed incontrare persone che nella migliore delle ipotesi avrebbero richiesto una permanenza molto più lunga. I risultati sarebbero stati comunque altri. Mi sono reso conto di quale potere intrusivo, e non solo, possieda la TV. La presenza di una telecamera mi ha reso accessibili caserme, distaccamenti militari nel deserto e centri di identificazione dell'ONU. In particolare nel centro di identificazione di Auserd la telecamera è stato il nostro lasciapassare. Abbiamo potuto seguire le pratiche di identificazione mentre a Khandud (in quanto membro del Fronte Polisario) non è stato concesso di entrare. Il fatto di essere giornalisti televisivi (questa è stata l'unica volta in cui non mi sono presentato come studente di antropologia) ha fatto in modo che venissimo trattati con grande attenzione. Era come se fossimo diventati gli ispettori dell'ONU; eravamo gli ispettori degli ispettori. Un funzionario indiano ha voluto una foto con noi; un americano ci ha dato il suo biglietto da visita nel caso avessimo avuto bisogno di ulteriori informazioni in futuro. La presenza della TV è la prova nel mondo che l'ONU si sta occupando della questione del Sahara Occidentale. Una relazione della Minurso (Commissione Nazioni Unite Sahara Occidentale) sullo stato del processo di identificazione va bene per i governi e per le ONG, ma per l'opinione pubblica mondiale è più utile un servizio televisivo. Probabilmente nel CV del funzionario dell'ONU non entrerà la foto scattata con la troupe italiana, ma quella foto nella sua memoria intima e per i suoi amici sarà una delle tracce del lavoro svolto nel Sahara. Come in un gioco di specchi lui ha affidato ad un altro funzionario il compito di scattargli una foto con noi che eravamo lì a registrare visualmente il suo lavoro. Per due settimane ho seguito l'operatore mentre riprendeva e il giornalista mentre intervistava oltre a condividere con loro i momenti di vita quotidiana. Anche per loro rappresentava una novità lavorare con persone che non fossero giornalisti. Eccezione fatta per le interviste filmate e per i ringraziamenti 'ufficiali' alle persone ed alle delegazioni che incontravamo, le interviste informative venivano condotte generalmente a due. Io e Walter avevamo presente i nostri obbiettivi, ma non abbiamo mai fissato una scaletta predeterminata e malgrado fossero interviste aperte ne sono risultate spesso delle conversazioni registrate. Non solo le risposte degli interlocutori, ma anche gli interessi e le necessità dell'altro intervistatore suscitavano nuove riflessioni e nuovi quesiti. Se non si trovava una lingua comune interveniva Khandud come interprete.

giornalista interlocutore (interprete) antropologo

Khandud ha avuto, fra gli altri, il merito di tenere presente quelle che erano le mie esigenze di studente. Come ho già scritto, il soggiorno nei campi nelle modalità in cui si è svolto, è stato possibile grazie all'interesse del Polisario per un servizio televisivo sulla situazione dei Saharawi, soprattutto allora che si pensava che il referendum fosse vicino, ma grazie alla disponibilità ed alla sensibilità di Khandud, Walter e Adriano le mie esigenze e curiosità non sono state sottovalutate. Khandud sin dal nostro arrivo nei campi ha reso chiare le sue intenzioni rispetto al nostro lavoro a prescindere da quelli che potevano essere i nostri programmi. Il 10 maggio sera, una volta scaricati i bagagli dalla jeep, quando ancora non ci era stata assegnata una stanza, ci siamo seduti in uno dei "salottini" di pietra all'aperto del campo di Rabouni. Copio dal mio taccuino. 10\5\98 Khandud gioviale ed ironico durante questi due giorni di viaggio blocca Walter, il giornalista, e Tesi-Bruni-Cap1 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap1.htm

per la prima volta diventa guida sul campo da guida in transito e tuttofare burocratico che è stato sino ad ora. Khandud: "Ho già lavorato con molte troupe televisive: tedesche, giapponesi, italiane che sono tornate con buone immagini. Avevano ottime attrezzature, ma secondo me la cosa più importante è capire e non si possono capire veramente i Saharawi, se non si capiscono i tempi del deserto. Io potrei studiare un programma di lavoro in modo tale che voi possiate tornare indietro con i vostri servizi ben girati, ma senza aver veramente capito. L'importante è saper attendere; è da 25 anni che noi Saharawi aspettiamo. Bisogna ogni tanto lasciar perdere l'attrezzatura e provare a capire, fermarsi e stare con la gente; poi verranno i servizi". Il primo viaggio si è dimostrato un'utile ricognizione per individuare e delimitare il tema preciso della mia ricerca e per gettare le basi per un secondo soggiorno. Le conversazioni con Enrico Castelli, docente di antropologia visuale all'università di Perugia, mi hanno spinto ad indagare le strategie adottate dal Fronte Polisario per dare visibilità alla causa saharawi. Approfondendo questa tematica mi sono reso conto, che stavo toccando qualcosa di più ampio e complesso: la ricerca di visibilità si è trasformata a poco a poco nella necessità di promuovere, giustificare e rappresentare la rivoluzione sociale ed il cambiamento d'identità che la situazione politica e l'esperienza dei campi profughi esigevano. In quest'ottica ho preparato il secondo viaggio, che ha avuto luogo fra novembre e dicembre del 1998. Sono arrivato nei campi profughi avendo chiari gli aspetti che dovevo indagare: la museificazione ed i pittori. L'ennesima crisi irachena ha ritardato la visita di Kofi Annan, consentendomi di partecipare a questo evento e di potere metterlo in dialogo con le celebrazioni per il 20 de Mayo, a cui avevo preso parte durante il mio primo soggiorno. Ho speso quasi tutto il mese nel campo 27 Febrero ospite di Haha Ahmed e del marito Ahmed Dafia. Durante il primo viaggio avevo incontrato Nasra Ahmed, sorella di Haha, che era stata cinque anni in Italia grazie ad una borsa di studio e che quindi parla italiano. Nasra vive nella tenda della madre, accanto a quella di Haha e mi ha introdotto nella famiglia e nel campo. La due tende della famiglia di Nasra erano per mia fortuna uno dei luoghi più 'trafficati' del campo, data l'ospitalità della famiglia e la presenza di una piccola bottega(18) di generi di prima necessità gestita da Embarca (la madre di Nasra ed Haha). Di solito nessuno straniero, a parte i 'turisti solidali' che vengono in visita alle famiglie per pochi giorni, risiede nei campi profughi, ma si viene ospitati al protocollo di Rabuni dove alloggiano i cooperanti delle ONG. L'ospitalità della famiglia di Nasra mi ha permesso di lavorare alla mia ricerca con maggiore libertà e comodità. Il campo 27 de Febrero è infatti considerato la capitale culturale dei territori della RASD, sede della scuola femminile, del centro audiovisuale e soprattutto del Museo Nacional del Pueblo Saharaui e dell'Expò dei pittori. Soggiornando al 27 de Febrero potevo raggiungere in ogni momento a piedi due importanti campi di ricerca. Del resto non sarebbe stato possibile avere a disposizione una macchina. Ero solo con il mio taccuino, il registratore e la macchina fotografica; non c'era più la telecamera dei giornalisti. Il Fronte Polisario mi aveva assegnato un membro del ministero della cultura, Brahim Cheik Breih, come interprete(19) ed assistente. Brahim (25 anni) era da poco rientrato da Cuba, dove aveva fatto le scuole superiori e seguito corsi di sociologia e cinema. Insieme a lui sono andato al Museo della Guerra ed a condurre le interviste nelle altre tendopoli oltre a condividere numerosi momenti di vita quotidiana. Utili ed inevitabili, vista la natura dei campi profughi saharawi, sono stati gli incontri con i rappresentanti delle ONG, perlopiù spagnoli ed italiani che da anni si recano nei territori della RASD. A questo riguardo le conversazioni con Sandro Guiglia del Cospe, Carla Pagano del Cric, Paco Carrion, professore di archeologia dell'università di Granada, Fermin Oliveros Garcia, educatore Antolin Sabatè, pedagogo teatrale e Alessandro Rabbiosi, ricercatore della facoltà di Scienze e Politiche di Firenze, sono state preziose per ampliare ed approfondire la mia conoscenza della questione saharawi e per procedere nella mia ricerca. Ritornare nei campi è stato fondamentale non solo, ovviamente, per proseguire le mie indagini, ma per entrare in contatto con la popolazione. Durante il mio primo viaggio non ho avuto nessuna difficoltà a trovare occasioni di dialogo con i Saharawi, ma il presentarmi di nuovo negli accampamenti ha contribuito a procurarmi maggiore attenzione dai miei interlocutori. Malgrado la natura delle mie ricerche risultasse a molti poco chiara, incontrare uno studente, quindi non un lavoratore pagato, che si recava due volte a fargli visita ha contribuito a fornirmi più credibilità ed, in un certo senso, simpatia. Essere l'unico non Saharawi a risiedere al 27 de Febrero, ha significato esperire e comprendere direttamente la mia figura ed il mio ruolo di ricercatore e 'ricercato', di osservatore ed osservato al contempo. Camminare liberamente per il campo senza la presenza di jeep, autista, guida o affini mi ha Tesi-Bruni-Cap1 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap1.htm

permesso di realizzare e sentire sin dai primi giorni che i due occhi con cui 'mi guardavo intorno' erano controbilanciati da innumerevoli sguardi altri, rivolti verso di me.

1. Questa affermazione di Mauss si trova citata in James Clifford, I frutti puri impazziscono, p. 162, Bollati Boringhieri, Torino, 1993 2. Insieme ai volti noti degli eroi della rivoluzione cubana ci sono i volti, nell'ordine, del primo Segretario Generale del Fronte Polisario, morto nel 1976, e dell'attuale. Il Fronte Polisario è il movimento politico riconosciuto come unico rappresentante dei Saharawi e delle loro rivendicazioni. 3. I campi profughi saharawi e quindi l'ospedale cubano si trovano nel deserto algerino dell'Hammada, di cui una parte è stata data nel 1975 dall'Algeria al Fronte Polisario, perché organizzasse l'accoglienza dei profughi che scappavano dal Sahara Occidentale. In questo fazzoletto di deserto i Saharawi hanno dato vita alla RASD (Repubblica Araba Saharawi Democratica); uno Stato in esilio che aspetta di ottenere l'indipendenza di territori rivendicati, ora occupati dal Marocco. Nei paragrafi successivi e soprattutto nel capitolo 2) Profilo storicoetografico dei Saharawi verranno date le essenziali coordinati etnografiche, storiche e geografiche per potersi orientare nella lettura di questa ricerca. 4. Marc Auge', Nonluoghi, p. 36 eleuthera, 1993, Milano. 5. Ibidem 6. James Clifford, Strade, pp.35,36, Bollati Boringhieri, Torino, 1999. L'affermazione di Appadurai citata da Clifford si trova nell'articolo di Arjun Appadurai, Putting Hierarchy in its place, pubblicato su Cultural Anthropology, 3 (1), pp.36-49, 1988. 7. Marco d'Eramo, Lo sciamano in elicottero, Feltrinelli, 1999, Milano. 8. Ibidem, pp.173-174. 9. Edward W. Said, Orientalismo, Bollati Boringhieri, Torino,1991. 10. James Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, Torino, 1993. 11. Jean-Loup Amselle, Logiche meticce, Bollati Boringhieri, Torino, 1999. 12. Ugo Fabietti, L'identità etnica, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1995. 13. Francesco Remotti, Contro l'identità, Laterza, Bari, 1996. 14. Enrico Castelli (curatore), Immagini e Colonie, Centro di Documentazione del Museo Etnografico Tamburo Parlante, Perugia, 1998. Enrico Castelli e David Laurenzi (curatori), Permanenze e metamorfosi dell'immaginario coloniale in Italia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2000. 15. E.J. Hobsbawm, Identity, Politics and the Left, in 'New Left Rewiew', n.217, p.38, maggio-giugno 1996. 16. Frederik Barth, Ethnic Groups and Boundaries, Little Brown, Boston, 1969. La traduzione in italiano del saggio di Barth, che nell'edizione originale introduce l'omonima raccolta di contributi, si trova nella raccolta di saggi a cura di Vanessa Maher, Questioni di etnicità, Rosenberg & Sellier, Torino, 1994. 17. Il 20 maggio si celebra il XXV anniversario dell'inizio della lotta armata del Fronte Polisario. 18. Tutti i generi di sussistenza e la fornitura di corrente elettrica, acqua e bombole di gas sono assicurati dal Fronte Polisario, che ridistribuisce nei campi gli aiuti umanitari. Con la fine della guerra nel 1991, è stato permesso lo sviluppo di piccole forme di commercio privato. 19. Quasi tutte le interviste sono state condotte in spagnolo senza bisogno di interprete. Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

… il passato ha un significato allegorico, è un racconto modellato dal desiderio. Lo ieri di una persona è sdrucciolevole e dubbio quanto quello di una nazione .(1) Osvaldo Soriano (1995)

2.1) Profilo storico 2.1.1)Problemi e linee d'indagine per una storia dei Saharawi 2.1.2) I Berberi prima dell'islamizzazione (XII sec. a.c. - VII sec. d.c.) 2.1.3) Islamizzazione del Maghreb (VII - XI sec. d.c.) 2.1.4) Arrivo dei Maqil e fusione con i berberi (XIII - XVII sec. d.c.) 2.1.5) Primi contatti con le potenze occidentali (XIV sec. - 1885) 2.1.6) Conferenza di Berlino e prime resistenze alla colonizzazione 2.1.7) Nascita del nazionalismo saharawi 2.1.8) La guerra col Marocco ed il processo di pace 2.2) Struttura sociale tradizionale dei Saharawi 2.2.1) Composizione 2.2.2) Lignaggi 2.2.3) Asaba 2.2.4) Tribù (2) 2.2.5) Tributi 2.2.6) Caste interne 2.2.7) Organizzazione politica 2.3) Creazione di un sentimento di popolo e di nazione 2.3.1) Presentazione del problema 2.3.2) Idea di popolo 2.3.3) Idea di nazione 2.3.4) La rivoluzione sociale del Fronte Polisario

2.1) Profilo storico

2.1.1) Problemi e linee d'indagine per una storia dei Saharawi (3) (Inizio pagina) Scrivere anche solamente un profilo storico dei gruppi etnici che costituiscono oggi il popolo Saharawi è un opera difficoltosa, forse impossibile se si dovesse rendere conto di tutte le loro singole storie. La storia presso le popolazioni nomadi ed in particolare presso quelle di cui mi occupo è un processo attraverso cui ogni tribù ha continuamente rielaborato il proprio passato per situarsi nel presente. Tutti i dati storici, che i nomadi utilizzavano, erano il frutto di tradizioni conservate nella memoria e trasmesse era mai situato in un anno preciso riconoscibile da tutti, ma in un punto del passato ricostruibile con un percorso, che dal presente si snodava a ritroso attraverso le generazioni; un percorso quindi soggettivo, quantomeno per ogni tribù. Quando moriva una persona anziana si perdeva con essa la memoria di persone e fatti della sua gioventù. Ogni tribù disponeva comunque di un sistema di annali per situare gli eventi, che era legato a fatti concreti riguardanti la vita nel deserto quali una siccità, un conflitto, una migrazione, un'epidemia, piuttosto che al computo generale del tempo dopo l'islamizzazione. Si poteva dare il caso che in un anno non avvenisse niente di così memorabile da poter essere conosciuto da tutta la tribù ed in tal caso ogni subfrazione riconosceva l'anno a seconda di avvenimenti particolari, determinando così differenze anche all'interno della tradizione di una singola tribù. Vi è poi una serie di tradizioni legate all'origine dei singoli gruppi tribali e delle loro subfrazioni che si rifanno alla storia mitica ed alla poesia epica e che sono manipolate, in continua concorrenza con le tradizioni storiche degli altri gruppi tribali, a seconda che Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

intervengano periodi di pace, alleanze o conflitti. Questa è una storia fatta di narrazioni ricche di elementi soprannaturali che contribuiscono a dare un carattere sacro, oltre che autorevole, al lignaggio. Il fondatore è quasi sempre un taumaturgo, un eroe civilizzatore direttamente discendente da Maometto a cui vengono attribuiti detti e fatti che giustificano lo status e le mire del gruppo tribale. Se volessimo visualizzare il corso della storia di questi gruppi tribali, dalle origini sino al XX sec., dovremmo immaginare tante linee che si intersecano in continuazione, allontanandosi e ritornando sui propri passi, come se avessimo davanti la struttura di un atomo in continua ridefinizione. Il popolo Saharawi così come si presenta a noi oggi è fondamentalmente il frutto di due aspetti principali. Da un lato vi è l'incontro fra una cultura berbera soggiacente ed una araba che vi si è sovrapposta e dall'altro il risultato di tutta quella serie di eventi che hanno visto le potenze occidentali nel corso del XIX e XX sec. estendere il loro dominio sul resto del mondo e che prende il nome di Imperialismo e Decolonizzazione. Cercherò quindi di affrontare il problema della storia Saharawi, o meglio del processo di formazione del popolo Saharawi, prendendo in considerazione gli eventi più importanti che riguardano le relazioni fra Berberi e Arabi, e l'evoluzione dei contatti avuti con le potenze europee soffermandomi in quest'ambito principalmente sul XX sec.; sul periodo della colonizzazione spagnola e dell'invasione marocchina.

2.1.2) I Berberi prima dell'islamizzazione (XII sec. a.c. - VII sec. d.c.) (4) (Inizio pagina) L'origine delle tribù che oggi si riconoscono sotto il nome di Saharawi si può ricondurre all'immigrazione di tribù arabe Maqil provenienti dallo Yemen, passate dall'Egitto in nell'XI sec. e venute ad insediarsi nella regione merdionale del Marocco, nel Sahara Occidentale ed in Mauritania agli inizi del XIII sec.. In queste regioni vennero a sovrapporsi alle tribù berbere autoctone: essenzialmente i e secondariamente gli . Abbiamo poche notizie su queste popolazioni berbere antecedenti all'arrivo della prima ondata araba nel VII sec. d.c.. Dal XII sec. a.c. i mercanti Fenici cominciarono a spingersi lungo le coste atlantiche del Maghreb dove commerciavano con le popolazioni berbere Imazighen, 'uomini liberi' o 'nobili' come usavano chiamarsi i discendenti delle popolazioni neolitiche. Contemporaneamente altri Berberi, altri Imazighen avevano iniziato spedizioni verso l'interno del deserto. Il più famoso di questi viaggi, conosciuto in Europa, ebbe luogo intorno al 450 a.c. quando il cartaginese Annone con 60 pentecotere oltrepassò le Colonne d'Ercole e si spinse a sud, costeggiando l'Africa Nord Occidentale e toccando l'isola di Cerne, che gli storici ritengono sia una piccola isola vicino a Villa Cisneros, nella zona centrale dell'attuale Sahara Occidentale. I contatti fra il Mediterraneo e gli Imazighen si interruppero con la distruzione di Cartagine ad opera dei Romani nel 146 a.c.. La colonizzazione romana della costa nord africana completata nel 29 a.c. non si spinse mai oltre il Marocco. I Romani conoscevano l'esistenza di tribù dedite al commercio attraverso il deserto e sappiamo che Plinio conosceva l'esistenza del fiume Draa, ai confini fra Marocco e Sahara Occidentale, ma non c'è evidenza di una penetrazione romana in quest'area. Le popolazioni berbere nei primi secoli dell'era cristiana si dividevano in tre gruppi principali: gli Zenata, nell'interno dell'attuale Tunisia, i Masmuda, nella regione dei monti dell'Atlante in Marocco ed i Sanhaja, che vivevano nella vasta area desertica fra il Sus marocchino, la meridionale Trarza in Mauritania e la città di Timbuctoo nell'odierno in Mali. I Sanhaja erano una confederazione di tre principali tribù: Gadala, Messoufa e Lemtuna. Insieme con gli Arabi Maqil sono i principali antenati degli attuali Saharawi e dei della Mauritania. Dai Sanhaja discendono anche i Tuareg del sud dell'Algeria e del nord del Mali e del Niger, i Kabili algerini ed i Rifians del Medio-Atlante marocchino. La loro migrazione verso l'interno del Sahara iniziò probabilmente nel X sec. a.c.. Incisioni rupestri risalenti a questo periodo, quando il processo di desertificazione non era così avanzato come oggi, rivelano la presenza di carri trainati da cavalli ed iscrizioni in , gli antichi caratteri berberi, attestano l'origine berbera di queste popolazioni. L'utilizzo del cavallo e del ferro da parte dei Berberi e la pratica del nomadismo pastorale determinò probabilmente la loro supremazia sulle popolazioni nere Bafots, che furono costrette a spostarsi verso sud. I Bafots erano i precedenti abitatori del Sahara, dediti all'agricoltura sedentaria. La penetrazione berbera del deserto deve essersi protratta per un millennio e si completò solo fra il I ed il IV sec. d.c. quando il cammello si diffuse nella regione, anche grazie alle prime migrazioni degli Zenata dal nord verso l'interno. Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

2.1.3) Islamizzazione del Maghreb (VII sec. d.c. - XI sec. d.c.) (Inizio pagina) Nel VII sec. d.c. ebbe luogo un avvenimento fondamentale per il continente africano: nel 640 d.c., otto anni dopo la morte di Maometto, arabi musulmani sotto la guida del califfo Umar ibn al-Khattab conquistano la penisola araba, parte dell'impero sassanide e le province di Siria ed Egitto dell'impero bizantino. Prima della fine del VII sec. i musulmani sono penetrati nel Maghreb e nel 711 attraversano lo stretto di Gibilterra con un esercito di berberi convertiti, insediandosi nel sud della Spagna. L'islamizzazione del territorio del Sahara, dove nomadizzavano i Sanhaja e gli Zenata, avvenne lentamente e superficialmente a partire dalla metà dell'VIII sec. Le prime ondate arabe non penetrarono direttamente nel deserto, ma furono piuttosto le popolazioni berbere a diffondere inizialmente l'Islam in queste zone. Risale a questo periodo l'estensione della supremazia dei Sanhaja sulle popolazioni dell'Africa sub- sahariana comprese fra il ed il lago Ciad. Tracce di questa dominazione si trovano nel nome del fiume Senegal, nella attestata presenza di re bianchi in questa regione abitata da popolazioni nere e nella presenza di una minoranza nera fra gli attuali Saharawi. R. Mauny ha riconosciuto le stazioni di una via carovaniera aperta intorno al 700 d.c. che si snodava attraverso 142 tappe, contrassegnate da altrettanti simboli rupestri di carri, dal colle di Zenega sino a Goundam nell'attuale Mali vicino a Timbuctoo, passando per Tauz, Fum el Hassan, Zemmur (Sahara Occ.), Adrar (Mauritania), Tagant, Tichit (Mauritania), Oualata (Mauritania). Un'altra importante via era quella che andava da Sijilmassa nel sud del Marocco sino al Ghana. I mercanti nomadi volevano spezie, schiavi, avorio e l'oro delle valli fluviali del Senegal e del corso superiore del Niger. In cambio portavano bestiame, cavalli, rame, ferro, cauri ed a poco a poco anche l'Islam. Le popolazioni nomadi divennero il tramite tra la grande area berbera, che comprendeva la Libia ed il Maghreb attuali, prima e dopo l'islamizzazione, e l'Africa sub-sahariana: due zone di popolazioni sedentarie unite da una grande rete di tribù nomadi. All'inizio del IX sec. i Lemtouna (la più potente frazione dei Sanhaja), si scontrarono vittoriosamente con le popolazioni nere Soninke e fissarono il loro principale insediamento ad Aoudaghost: una città di 5.000 abitanti, 600 chilometri ad est di Nouakchot. Nel secolo successivo i Sanhaja dovettero fronteggiare le pressioni delle tribù berbere Zenata da nord e delle popolazioni nere del regno del Ghana da sud. Gli Zenata nel corso dell'VIII sec. avevano fondato nella regione di Tafilalet (sud-est del Marocco) l'insediamento di Sijilmassa e poi esteso la loro autorità sulla valle del fiume Draa (sud del Marocco), dove controllavano numerose oasi. In questo modo ostacolarono le tradizionali migrazioni ed i commerci dei Sanhaja dall'Atlante verso l'interno del deserto. Alla fine del X sec. il regno Soninke del Ghana aveva riconquistato Aoudaghost ed imponeva tasse ai Sanhaja che vi risiedevano. I Sanhaja si videro così costretti dagli Zenata a nord e dai Soninke a sud a ripiegare verso Atar, sulle montagne mauritane dell'Adrar. All'inizio dell'XI sec. l'Islam si diffonde fra i berberi Sanhaja con grande intensità. Mentre l'Africa mediterranea accolse subito la nuova fede, le popolazioni nomadi dell'interno del deserto si dimostrarono refrattari ad ogni tentativo di islamizzazione durante i primi quattro secoli di contatto, mantenendo le originarie credenze animiste. Solamente quando il predicatore fu uno di loro accettarono la nuova religione. Secondo la tradizione fu Yahya Ibn Ibrahim, uno cheikh Sanhaja, che, rientrato da un pellegrinaggio alla Mecca e vergognatosi dell'ignoranza della sua gente, chiese al marabutto Abdallah Ibn Yacin di seguirlo a sud ed aiutarlo a diffondere l'Islam presso i Berberi del deserto. , lo storico del XIV sec., riporta come, nel 1030, Ibn Yacin e due cheikh Lemtouna 'si ritirarono dal mondo andando in una collina circondata dall'acqua ….e, scegliendo ciascuno il proprio luogo, si dedicarono ad una vita di preghiera'. Inizialmente si individuò il luogo nell'isola di Tidra, 150 km. a sud di Capo Blanco (Mauritania), ma tuttora non è stato trovato accordo sull'esatta ubicazione. Presto si creò un convento (ribat) i cui appartenenti furono conosciuti come al-murabitun (da cui Almoravidi). Attirarono l'attenzione delle tribù nomadi vicine e conquistarono alla nuova fede numerosi discepoli (telamid) appartenenti soprattutto alle tribù Lemtouna che vi si recarono per meditare ed imparare i precetti dell'Islam sunnita di rito malekita e le tecniche di conversione. Quando nel 1041-42 uscirono dal ribat erano un esercito, dedito alla propaganda della vera fede e pronto alla jihad (guerra santa) contro chiunque rifiutasse di seguirli nella loro lotta contro l'animismo, la superstizione e l'eresia. In breve numerose tribù Sanhaja aderirono: Gadala, Lemtouna e Massoufa si unirono sotto il comando dello cheikh Lemtouna, Yahya Ibn Omar. Nel 1054 Yahya Ibn Omar conquistò Aoudaghost prendendosi Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

la rivincita sul regno Soninke del Ghana; nello stesso periodo Abdallah Ibn Yacin prese Sijilmassa togliendola agli Zenata. Con queste due vittorie i Sanhaja ripresero il controllo delle rotte carovaniere trans-sahariane a discapito dei loro storici rivali. Gli Almoravidi proseguirono nel loro cammino verso nord, conquistando il Marocco (nel 1062 fondano la capitale Marrakech), l'Algeria occidentale e riunificando la Spagna musulmana contro la reconquista cattolica guidata da Alfonso VI, che aveva messo in crisi il califfato umayyade. Le tribù Sanhaja rimaste nel deserto attraversano un periodo di lotte interne per la supremazia e di ribellione nei confronti degli Almoravidi, stabilitisi nel nord del Maghreb. Il potere degli Almoravidi dura solamente un secolo, ma porta all'islamizzazione di tutta l'Africa occidentale evitando il frazionamento in riti diversi. Agli Almoravidi succedette la dinastia degli Almohadi (1130-1269), aiutati dai berberi Masmouda dell'Alto Atlante ed il cui impero nel suo momento di massima estensione comprendeva Marocco, Algeria Tunisia e la parte musulmana della Spagna. Le tribù Sanhaya ripiegano nelle regioni che vanno dalla Saguia el Hamra al Senegal (gli attuali Sahara Occidentale e Mauritania). Una nuova invasione si preparava da est ed avrebbe portato nel corso dei secoli successivi all'arabizzazione delle tribù berbere del deserto ed alla configurazione sociale e politica delle popolazioni che oggi si chiamano Saharawi.

2.1.4) Arrivo dei Maqil e fusione con i Berberi (XIII - XVII sec.) (Inizio pagina) I Maqil, una popolazione di beduini arabi di origine yemenita, migrarono attraverso il nord Africa, dall'Egitto alla Libia, passando lungo il bordo settentrionale del deserto, raggiungendo lo Oued Draa (a sud dei monti dell'Atlante) e l'Atlantico durante il XIII sec.. Le tribù Maqil inizialmente aiutarono la dinastia dei Merinidi, appartenenti alle tribù Zenata e destinati a soppiantare la dinastia degli Almohadi. La successiva ostilità dei Merinidi spinse i Maqil ed in particolare il gruppo dei Beni Hassan a spostarsi verso sud. Dalla fine del XIII sec. Maqil e Sanhaja si sono fronteggiati all'interno degli attuali Sahara Occidentale e Mauritania. Il processo di integrazione fra Sanhaja e Beni Hassan fu multiforme e complesso e ci furono numerose variazioni regionali. Nel sud del Sahara Occidentale furono gli Oulad Delim, una delle tribù dei Beni Hassan a prendere il sopravvento. Nel nord, nelle regioni dello Oued Noun e Oued Draa, i Sanhaja ed i Beni Hassan si fusero gradualmente, dando origine alle tribù . Nel XVI sec. la Saguia el-Hamra era conosciuta come la 'terra dei santi', abitata da mistici e marabutti dediti alla preghiera ed all'insegnamento e dotati di baraka(5) . In questo periodo si ritiene che siano state fondate molte tribù, destinate a segnare la storia saharawi in futuro. Sotto la guida dei marabutti Sidi Ahmed Reguibi, Sidi Ahmed el Arosi e Sidi Ahmed Bou Ghambor, fondatori rispettivamente delle tribù Reguibat, Aroisen e Oulad Tidrarin, i Sanhaja ristabilirono la loro supremazia sui Beni Hassan nella maggior parte di quei territori, che diverranno colonia spagnola. Ne risulta un susseguirsi di scontri ed alleanze che hanno continuamente rimodellato gli equilibri interni alle tribù, che nomadizzavano in quest'area. L'assimilazione della cultura e della lingua araba, (nel caso dei Saharawi si tratta del dialetto hassaniya) avviene attraverso la forza, la compatibilità ed anche espedienti sociali quali la pretesa discendenza da Maometto, rivendicata da molte tribù berbere per migliorare la propria posizione all'interno della complessa struttura di relazioni tribali. Nell'attuale Mauritania la resistenza dei Sanhaja nei confronti dei Beni Hassan culminò in una guerra durata trent'anni, la guerra di Char Bouba(6) (1644-1674). Guidati da Nacer ed-Din, un marabutto dei Lemtouna, un gran numero di tribù Sanhaja, da Tiris fino al fiume Senegal , lottarono contro i Beni Hassan, fino a quando, indeboliti da divisioni interne, furono sconfitti e sottomessi, nel 1674 con l'accordo di Tin Yedfad. Si ritiene che questo coflitto abbia consacrato il sistema di gerarchico tribali, che divenne una delle caratteristiche fondamentali delle società della Mauritania e del Sahara Occidentale. Le tribù vittoriose dei Beni Hassan, conosciute come arabe o hassan, formarono la casta dei 'guerrieri'. Molte delle tribù Sanhaja sconfitte divennero 'tributarie' e presero il nome di znaga (derivazione dal nome Sanhaja). Non fu comunque un processo uniforme. Alcune tribù si allearono o fusero con i Beni Hassan ed altre recuperarono la loro posizione sociale attraverso la pratica religiosa ed il suo insegnamento, divenendo tribù zawiya (gente del libro) o, pratica frequente, manipolando la propria genealogia per rivendicare origini arabe, assumendo lo status di chorfa (discendenti di Maometto).

2.1.5) Primi contatti con le potenze occidentali (XIV sec. - 1885) (Inizio pagina) Le isole Canarie furono la prima tappa dell'espansione europea verso l'Africa, La penetrazione diretta Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

attraverso la costa del Mediterraneo era infatti ostacolata dalla presenza dei regni arabi, con cui l'Europa intratteneva relazioni commerciali. Il 1309 vede l'inizio di numerose spedizioni verso le Canarie, da parte soprattutto di Portoghesi e Spagnoli, che a partire dal XV sec. si contendono il controllo delle rotte commerciali delle coste atlantiche dell'Africa e dell'entroterra. Gli europei sono interessati alle materie preziose, quali oro, malachite, ambra grigia e gommalacca, provenienti dai regni africani del sud che scambiano con sale, grano, tessuti ed oggetti. Successivamente inizierà anche la tratta degli schiavi. Vengono fondate numerose basi commerciali sulla costa, punti di partenza per esplorazioni verso l'interno. Nel 1433/34 il portoghese Gil Enanes tocca per la prima volta la costa dell'attuale Sahara Occidentale ed arriva sino a Capo Bojador. Poco dopo il Portogallo installa la propria prima base commerciale sull'isola di Arguin, a sud di Capo Blanc. Alla fine del XV sec. il Trattato di Tordesillas (1494) definisce le sfere d'influenza di Spagna e Portogallo non solo sulle terre 'scoperte' due anni prima da Cristoforo Colombo, ma anche sui territori africani. Il Portogallo ottiene il controllo delle coste a sud di Capo Bojador sino alla Guinea; la Spagna quelle a nord sino ad Agadir.(7) Entrambe le potenze europee sono impegnate prevalentemente nella colonizzazione del continente americano e, malgrado la presenza militare, non si impegnano per controllare i territori interni, che sono conosciuti come le 'terre della dissidenza'. I sultani marocchini tentano a più riprese di assoggettare le popolazioni nomadi ed in alcuni casi, come in seguito alla spedizione del sultano Ahmed el-Mansour alla fine del XVI sec., riescono ad imporre dei tributi ed a controllare alcune vie carovaniere, ma sono sempre risultati effimeri e di scarsa durata, che non giungono mai a stabilire veri legami di sovranità territoriale e di controllo governativo. Nei documenti che precedono il trattato di (1767) fra Spagna e Marocco, destinato fra le altre questioni a stabilire l'insediamento di una base commerciale spagnola sulle coste di fronte alle isole Canarie, risulta chiaramente l'autonomia dei territori dell'interno. Sidi Mohammed Ben Abdallah, sultano del Marocco, dichiara di declinare ogni responsabilità sui territori a sud del fiume Noun, dove abitano Arabi con cui è difficile applicare risoluzioni, dato che non hanno fissa dimora, si spostano liberamente sul territorio e piantano le loro tende dove vogliono. Gli abitanti delle Canarie verranno certamente assaliti da questi Arabi(8) . Re Carlo III di Spagna risponde che il sultano del Marocco si deve astenere dall'esporre un parere riguardante la base commerciale che desidera insediare a sud del fiume Noun , dato che non può assumersi la responsabilità per incidenti che potrebbero verificarsi, in quanto i suoi domini non si estendono fino a quella regione. Questi documenti verranno utilizzati nel 1975, durante i colloqui all'interno del Tribunale Internazionale di Giustizia, per controbattere le rivendicazioni territoriali del Marocco sul Sahara Occidentale.

2.1.6) Conferenza di Berlino e prime resistenze alla colonizzazione (Inizio pagina) Verso la fine del XIX sec. la presenza spagnola si intensifica, in seguito alla corsa ingaggiata dalle potenze europee per colonizzare l'Africa. Nel 1884, in seguito alla spedizione di Emilio Bonelli ed ai contatti avuti da lui con alcuni cheikh, la Spagna dichiara proprio protettorato la regione del Rio de Oro da Capo Bojador a Capo Blanc. L'anno successivo la conferenza di Berlino ratifica la spartizione dell'Africa e la Spagna vede riconosciuta la propria sovranità sul Sahara Occidentale, i cui confini vennero rinegoziati a più riprese con la Francia prima e col Marocco poi. La Francia, potenza dominante nell'Africa Nord Occidentale, e la Spagna dovettero fronteggiare per più di 50 anni la resistenza delle popolazioni del deserto. Il primo movimento di resistenza fu guidato all'inizio del XX sec. da Cheikh Ma El-Ainin, un marabutto di origini mauritane che fondò nel 1895 la città di Smara e guidò una coalizione di tribù provenienti da Mauritania, Rio de Oro e Saguia el Hamra. Nel 1905 chiese il sostegno del sultano del Marocco nella jihad contro gli invasori europei. Dopo iniziali promesse il sultano raggiunse accordi con i Francesi. Ma El-Ainin tentò di rinnovare l'impresa degli Almoravidi puntando all'interno del Marocco ed occupando la città di Marrakesh nel 1910. I ribelli quello stesso anno, dopo la morte di Ma El-Ainin, furono fermati dai francesi, che nel 1912 ottennero il protettorato del Marocco e portarono numerose incursioni all'interno del Sahara Occidentale, i cui territori non erano ancora realmente controllati dalla Spagna. Gli scontri si susseguirono sino al 1936, quando la Francia minacciò la Spagna di occupare il Sahara Occidentale. L'alleanza delle due potenze europee riuscì a pacificare il Sahara Occidentale e la Spagna per la prima volta prese veramente possesso della sua colonia. Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

2.1.7) Nascita del nazionalismo saharawi (Inizio pagina) L'insediamento dell'amministrazione spagnola che attribuisce alla popolazione uno stato civile ed un documento d'identità e l'introduzione di un visto obbligatorio per la transumanza verso i territori francesi, consolidano nel tempo l'autoidentificazione della popolazione autoctona nei confronti dell'interlocutore spagnolo, con il quale cominciano a trattare i propri margini di autonomia. Molti Saharawi si sedenterizzano ai margini delle imprese, delle guarnigioni e dei porti spagnoli, anche se i nomadi continuano a rappresentare la maggioranza della popolazione. Il sentimento di legame territoriale al Sahara Occidentale non attecchisce subito. Il concetto di confine nazionale, tracciato ed immobile nello spazio e nel tempo non appartiene ai Saharawi. Chi ancora conduce una vita nomade inizia comunque a confrontarsi con l'esistenza di confini al di là dei quali occorre il visto Contemporaneamente il fiorire dei movimenti di liberazione nazionale in Africa, aiuta la formazione di una presa di coscienza della popolazione Saharawi, contro l'amministrazione coloniale, anche se permangono le divisioni tribali. Negli anni 50 molti Saharawi guardano con speranza all'indipendenza del Marocco e si arruolano nell'Armée di Liberation che nel 1956 porta il Marocco all'indipendenza. Riprendono gli scontri fra Saharawi e Spagnoli, ma nel 1958 l'operazione franco-ispanica Ecouvillon-Ouragan riporta l'ordine e lo scioglimento dell'Armée di Liberation, ad opera del re marocchino Mohammed V, conduce al trattato di Sintra (1958), in cui la Spagna cede al Marocco la provincia di Tarfaya a sud del fiume Draa, che sino ad allora era stata sotto la dominazione spagnola ed era abitata da Saharawi. Vengono scoperti i giacimenti di fosfati di Bou Craa che spingono la Spagna ad intensificare la colonizzazione, proprio quando nel resto dell'Africa si sviluppano i movimenti di liberazione nazionale. La colonia del Sahara Occidentale viene trasformata nelle province di Saguia el Hamra e Rio de Oro. Vedremo più avanti come questo cambiamento si ripercuote sull'organizzazione interna e sulla struttura sociale saharawi. La nuova politica coloniale della Spagna ed il risveglio del nazionalismo in Africa, determinano la nascita di un movimento nazionalista saharawi, che culmina nel 1968 con la fondazione da parte di Mohamed Bassiri del Movimento di Liberazione del Sahara (MLS), che avrà però breve vita(9) . Un secondo movimento si origina dall'incontro dei superstiti del MLS con un gruppo di studenti saharawi in Marocco, dove emerge la figura El Ouali Mustafa Sayed. Il 10 maggio 1973 viene fondato il Fronte Polisario (Fronte Popolare di Liberazione di Saguia el Hamra e Rio de Oro).

2.1.8) La guerra col Marocco ed il processo di pace (Inizio pagina) Dopo la solenne dichiarazione del diritto dei popoli coloniali all'autodeterminazione da parte dell'Assemblea generale dell'Onu nel 1960, il Sahara Occidentale viene incluso, a partire dal 1963, nella lista dei territori cui tale principio deve essere applicato. Dal dicembre 1965 fino al 1973 vengono approvate annualmente dall'ONU, con il voto contrario della Spagna, risoluzioni con l'esplicita richiesta di un referendum di autodeterminazione. La risoluzione del 1972 include per la prima volta anche il diritto all'indipendenza. Nell'agosto del 1974, la Spagna annuncia di volere tenere un referendum, sotto gli auspici dell'ONU, entro l'anno successivo. Nell'autunno del 1974, procede al primo censimento della popolazione. Non si fa attendere la reazione di Hassan II, re del Marocco. Sono anni in cui il potere della monarchia è in grave crisi, e si sospettano i vertici militari di essere responsabili di due attentati alla vita del re. Hassan II prende in mano la bandiera del recupero del 'Sahara marocchino', chiamando a raccolta, intorno al tema dell'integrità nazionale, tutti i partiti, distogliendo l'attenzione dai problemi interni e neutralizzando, anche con la violenza, ogni opposizione. Le rivendicazioni di Hassan II sul Sahara Occidentale sono solo una parte del sogno del Grande Marocco che mira al 'recupero' anche di parte di Algeria e Mali e dell'intera Mauritania. Hassan II, non potendo andare oltre una guerra verbale con la Spagna, decide di ricorrere alla Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja (settembre 1974) affinché si pronunci sulla legittimità del Marocco ad insediarsi nel Sahara Occidentale. Il 16 ottobre 1975 la Corte dell'Aja emette il suo parere. Il pronunciamento è chiaro: se da una parte il Sahara Occidentale non era 'terra di nessuno' prima dell'occupazione spagnola, dall'altra i rapporti che sono esistiti, con il Marocco e la Mauritania non sono di natura tale da stabilire un vincolo territoriale e da impedire l'applicazione del principio di autodeterminazione. Il re organizza la 'marcia verde' con cui 350.000 marocchini scortati dall'esercito, penetrano nel nord del Sahara Occidentale. Il 24 novembre 1975, quattro giorni dopo la morte di Franco, la Spagna si ritira cedendo i territori a Marocco e Mauritania, come stabilito negli accordi segreti di Madrid. Il Fronte Polisario, che durante una visita di osservatori dell'ONU, nel maggio del 1975, era stato riconosciuto come la forza rappresentativa della maggioranza dei Saharawi, organizza la fuga di migliaia Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

di persone attraverso estenuanti marce nel deserto fino in Algeria, dove nei pressi di Tindouf viene allestita una prima tendopoli. Dalla fine del 1975 alla primavera del 1976, continua l'esodo di massa verso l'Algeria guidata da Houari Boumedienne, che anche in passato si era mostrato avverso alle mire espansionistiche del Marocco. L'aviazione marocchina bombarda i fuggiaschi con bombe al napalm, al fosforo ed a frammentazione facendo numerose vittime nei pressi di Guelta Zemmour e Bir Lahlou. Il Fronte Polisario, sebbene in esilio, proclama l'indipendenza e la nascita della R.A.S.D. (Repubblica Araba Saharawi Democratica) il 27 febbraio 1976 a Bir Lahlou. La costituzione provvisoria definisce la nuova repubblica: araba, islamica, democratica e sociale. L'Islam è la religione di stato e l'arabo la lingua ufficiale. La popolazione saharawi è divisa in due. Da una parte chi è rimasto nei propri territori sotto la dominazione marocchina e dall'altra chi è fuggito nei campi profughi, nel nuovo Stato in esilio. La guerra continua sia dal punto di vista militare che diplomatico. Il 9 giugno 1976 El Ouali Mustapha Sayed viene ucciso in un scontro con l'esercito mauritano. Nel 1979 la Mauritania ratifica un accordo di pace. Mohammed Abdelaziz viene eletto segretario generale, carica che ricopre tuttora. Nel 1982 la R.A.S.D. viene ammessa all'OUA (Organizzazione dell'Unità Africana) quale 51° stato membro, inducendo così il Marocco ad uscirne. Nel 1991 termina la guerra ed in seguito alla risoluzione 690 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU inizia un lunghissimo processo d'identificazione che deve portare al referendum sull'autodeterminazione del popolo Saharawi. Per gestire l'identificazione è stata istituita la MINURSO (Missione Internazionale delle Nazioni Unite per il Referendum del Sahara Occidentale). Dopo anni di stallo ed un comportamento ambiguo degli ultimi due segretari Generali dell'ONU Perez de Cuellar e Boutros Ghali, gli impegni presi dal nuovo Segretario Generale Kofi Annan ed il coinvolgimento degli Stati Uniti nella figura di James Baker facevano presagire dei progressi. In realtà la data del referendum continua a venire rinviata. Oggi il processo d'identificazione è terminato e si stanno analizzando le decine di migliaia di ricorsi presentati dal Marocco. Se si dovesse votare in questo momento prevarrebbe la mozione che vuole un Sahara Occidentale libero ed indipendente, ma nel consiglio di Sicurezza dell'ONU sta prendendo corpo l'idea dell'autonomia all'interno del Marocco. Il Fronte Polisario si oppone fermamente e fa sapere che se entro l'inizio del 2001 non sarà fissata una data prossima per il referendum, che preveda le due mozioni originarie (annessione o indipendenza), come stabilito dagli accordi di Houston, la parola tornerà alle armi.

2.2) Struttura sociale dei Saharawi (Inizio pagina)

2.2.1) Composizione (Inizio pagina) I Saharawi appartengono alle popolazioni nomadi di lingua araba che vivono nella distesa desertica che va dal fiume Draa a sud dell'Atlante marocchino, sino alle valli dei fiumi Senegal e Niger. Storicamente sono il risultato della graduale fusione di popolazioni berbere (Sanhaja), che si insediarono nell'area occidentale del Sahara nel primo millennio a.c., beduini arabi conosciuti come Beni Hassan, che iniziarono a penetrare in questa regione nel XIII sec. d.c. proveniendo dallo Yemen e popolazioni nere della Africa subsahariana schiavizzate durante i numerosi conflitti con i regni del sud. La genesi dell'insieme di tribù, che prende oggi il nome di Saharawi e che nel passato erano identificati dalle tribù vicine come Ahel es-Sahel (gente del Sahel), è il risultato di un lungo e complesso processo d'interazione fra questi elementi costitutivi attraverso guerre, alleanze, sottomissioni e commercio di schiavi. Il sistema che si è originato rispecchia sostanzialmente il sistema delle tribù segmentarie il cui primo teorizzatore, sulla scia degli studi condotti da Robertson Smith alla fine dell'800 sugli Arabi del deserto, fu Evans Pritchard. Ne risulta un insieme di tribù diversificate fra loro, prive di un organo di potere centrale permanente, ma unite dal fatto di riconoscersi come un gruppo omogeneo ed indipendente.

2.2.2) Lignaggi (Inizio pagina) La società saharawi si struttura verticalmente in tribù (qaba'el, sing. qabila) ed in caste. J.C.Baroja preferisce utilizzare il termine 'cabila' invece di 'tribù' in quanto maggiormente comprensibile per i Saharawi con cui entra in contatto durante i suoi studi negli anni 50. Oggi sono i Saharawi che vanno incontro agli interlocutori stranieri, alla ricerca di tracce della struttura passata e non solo, utilizzando il termine 'tribù'. In realtà solo ultimamente e non senza difficoltà ed un certo sospetto, che il termine 'tribù' sta ricomparendo nel vocabolario dei Saharawi(10) . In questo caso specifico si tratta evidentemente di un Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

retaggio coloniale ed è quindi un termine da usare con attenzione e consapevolezza. Il suo utilizzo in questa ricerca deve essere letto secondo l'accezione classica con cui è stato fatto proprio dall'antropologia: un gruppo costituito da lignaggi i quali si riconoscono tutti come discendenti da un unico antenato(11). Non deve quindi essere considerato in alcun senso, se mai ci fosse bisogno di spiegarlo, in termini svalutativi o dispregiativi, come i recenti dibattiti, che hanno attraversato le discipline antropologiche, hanno giustamente criticato. Alla base di questo sistema segmentario vi sono i lignaggi che rappresentano l'unità di riferimento fondamentale per stabilire discendenze e relazioni all'interno della tribù e delle sue subfrazioni (afkhad, sing. fakhd). I membri di ogni tribù possono tracciare la loro discendenza per via patrilineare, da un comune antenato posto all'apice dell'albero genealogico della tribù. La tribù porta quasi sempre il nome del fondatore che è conosciuto quale un uomo valente in guerra e profondo conoscitore della religione se non addirittura santo per la sua devozione ed i suoi poteri particolari. I suoi discendenti a loro volta, rappresentano i fondatori delle frazioni e delle subfrazioni in cui si divide la tribù. L'ultima cellula è rappresentata dalla famiglia. Invece di considerare il lignaggio da un punto di vista discendente come negli studi genealogici occidentali, li si prende in considerazione da un punto di vista ascendente. Il lignaggio per queste tribù nomadi ha un valore soprattutto funzionale e pragmatico piuttosto che di interesse puramente intellettuale e storico. Lo stabilire una discendenza comune, il riconoscere l'appartenenza ad una medesima frazione, rappresenta l'unica garanzia di sicurezza ed aiuto in un ambiente dove le risorse sono scarse e gli scontri frequenti. Si ritiene che ogni individuo debba conoscere il nome di almeno sette antenati, per risalire nel tempo almeno sino al fondatore di una subfrazione sufficientemente importante. Inoltre determina lo status di una persona all'interno della società, i suoi diritti e le sue obbligazioni in caso di pagamenti di debiti di sangue e politiche matrimoniali. Il debito di sangue o diya viene contratto da un gruppo quando uno dei suoi componenti commette un omicidio. All'interno delle tribù Saharawi, tradizionalmente il prezzo che il singolo deve pagare è all'incirca di cento cammelli, che essendo al di sopra delle possibilità, spesso anche di una sola famiglia, viene raccolto fra gli agnati dell'assassino o fra tutte le persone legate a lui da patti o asaba. Questo tipo di solidarietà agnatica viene chiamata asabiya.

2.2.3) Asaba (Inizio pagina) Il dispiegarsi dell'asabiya, attraverso patti detti asaba, unisce fra loro individui o gruppi con una discendenza comune, ma può anche sancire l'inizio di un rapporto di solidarietà fra persone o gruppi che scelgono convenzionalmente di legarsi. In teoria entrambe le parti si trovano ad uno stesso livello e non si richiedono ne un sacrificio, ne il pagamento di un tributo. Questo patto di solidarietà può presentarsi in varie forme. Attraverso l'asaba un individuo isolato può essere ammesso all'interno di una frazione con cui non vi sono legami agnatici, od un gruppo di persone difronte allo sfaldamento della loro subfrazione od alla grande distanza che li separa dal nucleo centrale, decidono di unirsi ad un'altra. Si può anche dare il caso in cui intere frazioni stabiliscono asaba. Attraverso questi processi venivano continuamente ridefinite le alleanze e le relazioni fra tribù, scavalcando spesso l'originaria struttura segmentaria, che mutava nella sua configurazione, ma non nel suo significato. Oggi come nel passato nessun gruppo etnico è costituita solo dai discendenti dei fondatori, ma è il frutto di una serie di processi all'interno dei quali l'asaba ha svolto un ruolo fondamentale.

2.2.4) Tribù (Inizio pagina) Il contatto fra tribù di origine diverse ed il lungo processo di arabizzazione hanno portato nel corso del tempo ad una stratificazione sociale, che in base alla reale o rivendicata discendenza dal fondatore delle tribù arabe (Beni Hassan) e dallo stesso Maometto, posiziona verticalmente ed orizzontalmente le 40 tradizionali tribù Saharawi e le loro frazioni.. Le tribù di origine araba occupano un posto di rilievo rispetto a quelle di origine berbera (Sanhaja) e sono chiamate anche 'tribù libere', in contrapposizione alle altre dette anche 'tributarie' (znaga). Le tribù arabe si dividono in guerriere e religiose. Coraggio e santità sono i due attributi distintivi per queste popolazioni del deserto. Le prime sono anche chiamate ahel mdafa (gente del fucile), o hassan in quanto discendenti delle tribù arabe Beni Hassan fondate da un parente di Alì (genero di Maometto) e che giunsero nel Sahara occidentale nel XIII sec. d.c.. All'interno di questa casta troviamo gli Oulad Delim ed i Tekna di cui nel Sahara Occidentale sono maggiormente presenti gli Izarguien e gli Ait Lahsen. Sono considerate le tribù Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

più temibili del deserto per il loro orgoglio e la loro violenza negli scontri. Le seconde sono le tribù chorfa (sing. cherif) che si considerano dirette discendenti di Maometto. Caro Baroja scrive di cheikh in grado di tracciare a memoria l'albero genealogico che conduce a Maometto attraverso più di trenta nomi di antenati (12) legati ai lignaggi della dinastia Idriside. In realtà come abbiamo già visto si tratta spesso di operazioni politiche attraverso cui si acquisisce lo status di tribù 'libere' malgrado l'origine berbera. Le principali tribù chorfa sono: Reguibat, Arosien, Oulad Bou Sbaa, Ahel Cheikh Ma el-Ainin, Taoubalt e Filala. I Reguibat che presero il sopravvento alla fine del XIX sec. si affidarono alla loro abilità di guerrieri più che alla loro devozione religiosa. Le genealogie ufficiali si basano spesso sulla vita di figure di santi quali per l'appunto Sidi Ahmed Reguibi, che appartengono più al mito che alla storia. Inoltre è certo che, malgrado l'adozione del dialetto arabo hassaniya, molte di queste tribù erano di origine berbera (Sanhaja), e grazie alla loro forza militare ed a genealogie chorfa inventate, sono sfuggite al destino di altre tribù Sanhaja divenute tributarie (znaga). Un'altra categoria di tribù con una spiccata vocazione religiosa, in grado di riscattarla in alcuni casi dallo status di znaga (tributario) è quella degli zawiya. Le tribù zawiya, anche conosciute come ahel ktub (gente del libro), benché non rivendicassero la discendenza da Maometto, erano costituite da eruditi dediti allo studio ed all'insegnamento della religione e delle scienze. Sono presenti soprattutto in Mauritania; nel Sahara Occidentale sono rappresentati dagli Oulad Tidrarin. All'ultimo gradino della fluida struttura gerarchica dei Saharawi vi sono le tribù znaga o tributarie, di origine berbera e che maggiormente resistettero al processo di arabizzazione. Il loro nome deriva chiaramente da Sanhaja, il ceppo di tribù berbere che abitavano il deserto prima dell'arrivo degli arabi Beni Hassan. Il termine znaga o aznaga era usato nel XV e nel XVI sec. dai primi esploratori europei con una valenza etnolinguistica per indicare le popolazioni nomadi non arabe di questa zona del Sahara, che non parlavano l'hassaniya. ma una lingua chiamata azeneguy. In seguito il termine 'znaga' perdette la sua connotazione etnolinguistica per adottare quella sociale di 'tributario'. Questa evoluzione riflette il processo attraverso cui gli arabi presero il sopravvento, introducendo l'hassaniya e obbligando i berberi a pagare loro tributi. Gli znaga venivano anche chiamati lahma o 'carne senza ossa' ad indicare il fatto che non erano in grado di difendersi e dovevano pagare tributi, per ottenere la protezione delle tribù guerriere. Fra le tribù znaga significativo è il caso degli Oulad Tidrarin, che hanno oscillato nel corso della loro storia dallo status di zawija (gente del libro) a quello di znaga, divenendo sottoposti degli Oulad Delim. Le tribù saharawi così ripartite, nomadizzavano in aree distinte, anche se naturalmente fluide. Le tribù tributarie erano per lo più dedite alla pesca ed all'agricoltura e vivevano sulla costa, le tribù guerriere, dedite alla pastorizia, si trovavano nelle regioni interne, settentrionale e meridionale, in continuo contrasto con i tentativi di assoggettamento da parte dei sultani marocchini a nord e degli emiri mauri a sud. Le tribù religiose o chorfa nomadizzavano prevalentemente nelle zone centrali dell'interno, risultando essere il punto di contatto di questa 'confederazione' di nomadi. Queste divisioni sono il frutto di rapporti di potere in continua ridefinizione attraverso scontri, ma anche abili manipolazioni genealogiche e storiche, volte a costruire rappresentazioni delle proprie origini spendibili politicamente nei confronti delle tribù vicine. Non bisogna quindi meravigliarsi se, secondo dati della fine del XIX sec., le tribù znaga rappresentano solo un ottavo della popolazione. Gli Spagnoli giunti nel Sahara Occidentale, non intuirono il mutevole sistema di rappresentazioni che i Saharawi davano di se, o più probabilmente non erano interessati a conoscere una popolazione con cui ancora non avevano deciso di entrare veramente in contatto. Solo più tardi, compreso il sistema di relazioni competitive fra le tribù, privilegiarono i rapporti con alcune a svantaggio di altre, per stressarne le divisioni e mantenere i Saharavi divisi. In quest'ottica il censimento spagnolo del 1974 fu attuato su base tribale ed analogamente si sono svolte le operazioni d'identificazione delle Nazioni Unite negli anni 90.

2.2.5) Tributi (Inizio pagina) Un complesso sistema di relazioni tributarie rappresenta la base dei rapporti attorno a cui si struttura la società tradizionale saharawi. Alcuni tributi avevano carattere degradante e mettevano a dura prova l'economia delle tribù, altri sancivano patti ed alleanze e non avevano queste connotazioni negative. Il tributo più frequente e dalle implicazioni più umilianti era la . Veniva pagato dalle tribù znaga a quelle guerriere o hassan in cambio di protezione. La horma era pagata individualmente da ogni capo famiglia znaga ad una famiglia designata, all'interno della tribù guerriera a cui si era soggetti. Ogni anno il tributario doveva consegnare un cammello, un pezzo di tela o l'uso del latte di un animale, obbligando il ricevente a dargli protezione od ad aiutarlo in caso di bisogno. Questo tipo di relazione imponeva il Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

tributario a non portare armi e quindi a non potere difendersi od organizzare ghazzi, condizione umiliante all'interno di una popolazione dove il prestigio si acquisiva per discendenza, ma soprattutto attraverso la saggezza mostrata nella risoluzione delle controversie e l'onore ed il coraggio mostrati in battaglia. Il ghaffer rappresenta un tipo di tributo, spesso dato sotto forma di un dono, che viene pagato collettivamente e non ha carattere umiliante. Un'intera tribù o una sua frazione paga il ghaffer (in genere una o due dozzine di cammelli) ad un'altra, per mantenere un patto od un alleanza. Un esempio conosciuto di ghaffer era rappresentato dal dono annuale di otto cammelli dati agli Izarguien dagli emiri di Trarza (Mauritania) sino all'inizio del xx sec.. Si trattava di un segno di riconoscenza per l'aiuto militare fornito dallo cheik Hammou Said all'emiro Ali Chandora, all'inizio del XVIII sec.. Il terzo tipo di tributo che analizziamo, ha le caratteristiche di un sacrificio. La debiha, attraverso la quale si stabilivano accordi, si risarcivano danni o si compensavano debiti si effettuava sacrificando una capra od una pecora difronte alla khaima (tenda) o al friq (accampamento) della famiglia o della frazione a cui si chiedeva protezione od a cui si doveva qualcosa. Per esempio i Reguibat si sottoponevano alla debiha ogni qualvolta, per recarsi a nord, ai mercati dello Oued Noun e dello Oued Draa, dovevano attraversare i territori delle tribù Tekna. Nel caso invece che si trattasse della compensazione per un crimine commesso, la debiha assolveva solamente i reati minori come la rissa o l'avere sparato a qualcuno senza colpirlo. Nel caso di un ferimento era richiesto un sacrificio più oneroso (targhiba): un cammello.

2.2.6) Gerarchie interne (Inizio pagina) Una volta caratterizzate le gerarchie ed i lignaggi, attraverso cui si relazionavano le tribù, prendiamo in considerazione alcune divisioni verticali che le attraversavano al loro interno. In ogni tribù, sia che si trattasse di guerriere, religiose o tributarie, erano presenti persone che appartenevano a caste sociali inferiori e che non caratterizzavano lo status della tribù, pur partecipandone alla vita comune. Vi erano le caste degli artigiani o maalemin e dei bardi o iggauen ed al gradino inferiore gli schiavi, che si dividevano in abid ed . I maalemin svolgevano il ruolo di carpentieri, fabbri, costruttori di selle e gioielleri. Lavoravano il ferro ed il legno, mentre le loro mogli erano specializzate nel lavorare la pelle per ricavare abiti, recipienti e le tele con cui erigere le tende. I maalemin potevano soddisfare tutte le necessità tecniche di una tribù nomade e, benché fossero apprezzati per la loro bravura, erano tenuti in disparte, non avevano potere decisionale all'interno della comunità ed erano considerati detentori di poteri occulti, in grado di influenzare negativamente la vita delle persone. Potevano rimanere legati alle medesime famiglie o frazioni per più generazioni, ma continuavano a rappresentare una casta ereditaria inferiore. Al pari dei maalemin si trova la casta dei musici o iggauen. Erano dei veri e propri bardi, giullari del deserto che viaggiavano liberamente da un accampamento all'altro, in cerca di cheikhs che assicurassero loro protezione e compenso in cambio di intrattenimento. Questi nomadi fra i nomadi erano prevalentemente diffusi in Mauritania, ma si trovavano anche nelle regioni meridionali del Sahara Occidentale. Venivano accompagnati nel canto dalle donne ed eseguivano componimenti su schemi fissi, elogiando il valore e la generosità dell'ospite, ma anche versi satirici nel caso quest'ultimo non si dimostrasse generoso. La generosità e l'ospitalità sono due valori sacri dell'Islam e particolarmente sviluppati all'interno delle popolazioni nomadi del deserto; non bisogna quindi stupirsi se, sebbene appartenessero ad una casta inferiore ed in cerca di protezione, gli iggauen si potessero permettere di irridere i loro ospiti. Come gli artigiani, anche i musici erano ammirati e temuti al contempo. Al gradino più basso della società tradizionale saharawi, vi erano gli schiavi o abid (abd sing.) ed i liberti o haratin (hartani sing.) che appartenevano alle popolazioni nere dell'Africa subsahariana. I primi schiavi erano i discendenti delle popolazioni nere Bafot, soppiantate dai Berberi nell'Africa nord occidentale, nel I millennio a.c.. A questo primo nucleo di schiavi si aggiunsero quelli ottenuti attraverso gli scontri ed il commercio con i regni del sud. L'arrivo degli Europei sulle coste del sahara, nel XV e XVI sec., aumentò il commercio degli schiavi. Il numero di schiavi presenti all'interno delle tribù non fu mai elevato. Gli schiavi ottenuti attraverso razzie o acquistati (terbia), erano quelli sottoposti ai lavori più duri e maggiormente disprezzati, mentre quelli nati all'interno della famiglia nomade da genitori schiavi (nama), venivano utilizzati per lavori domestici e riuscivano ad integrarsi sino ad ottenere, in alcuni casi, la libertà. Il Corano descrive la liberazione degli schiavi come lodevole, ma non obbligatoria. Gli schiavi liberati (haratin) rimanevano quasi sempre presso i loro ex padroni.

2.2.7) Organizzazione politica (Inizio pagina) Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

I Saharawi sono romanticamente conosciuti come 'i figli delle nuvole', in perenne spostamento dietro alle nubi, alla ricerca di oasi o di zone del deserto, dove sia probabile l'arrivo della pioggia. Il loro accentuato nomadismo e lo spirito di libertà, che li ha sempre contraddistinti, li ha spinti a lottare in continuazione per mantenersi indipendenti dai regni del nord e del sud, ma anche a trovarsi in perenne contrasto fra loro. Ne risulta, come già scritto all'inizio di questo capitolo, un insieme di tribù diversificate, ma omogenee al contempo. Tribù in grado di definirsi competitivamente al loro interno, ma anche di unirsi in contrapposizione a forze esterne. Le regioni dell'attuale Sahara Occidentale erano anche conosciute come bilad ed-siba ('terre della dissidenza'), in contrapposizione alle zone settentrionali sottomesse ai sultani marocchini e conosciute come bilad el-makhzen ('terre del governo'). Malgrado molti studiosi come M. Barbier descrivano i Saharawi come una popolazione che vive in una situazione di 'anarchia tribale', questi stessi studiosi hanno riconosciuto, con sfumature diverse, la presenza di organismi politici con rappresentanti e compiti ben determinati. Ancora una volta, come nel caso dei lignaggi, il riconoscimento e la gestione del potere fra i Saharawi rispecchia generalmente i modelli di tribù segmentarie, presenti fra la maggior parte delle tribù nomadi del mondo arabo. Ogni tribù aveva la propria organizzazione interna costituita dalla yemaa, un'assemblea di notabili che aveva poteri legislativi, giudiziari ed esecutivi. I notabili erano gli anziani più rispettati per il loro lignaggio e ricchezza, il valore dimostrato in battaglia, la saggezza e la pietà con cui risolvevano le controversie e la conoscenza e la devozione religiosa. La yemaa si riuniva periodicamente qualora si dovesse stabilire un'alleanza (asaba), si dovesse pagare un tributo, risolvere un caso giudiziario o prendere altre decisioni importanti per la vita della comunità, quali la scelta del luogo dove spostare l'accampamento. A capo della yemaa era posto uno cheikh. La giustizia, il cui corpo di norme era chiamato orf, e che era complementare alla legge islamica (sharia), era presieduto da un altro cheikh: il qadi. La pratica e lo svolgimento delle riunioni della yemaa, le cui decisioni erano collettive, indica che la società saharawi era relativamente democratica, malgrado solamente gli anziani, appartenenti alle caste degli uomini liberi, potessero parteciparvi. Le decisioni della yemaa dovevano essere osservate, pena l'allontanamento dalla comunità. La yemaa rappresenta comunque l'assemblea di una subfrazione o di una frazione e, malgrado riunisca rappresentanti di più accampamenti, non si può certo considerare un'organizzazione supertribale. Per alcuni questa organizzazione è rappresentata dall'Ait Arbain o assemblea dei 40, dove sarebbero presenti gli cheikhs delle 40 tribù tradizionali, costituenti l'insieme saharawi. Proprio l'Ait Arbain che si riuniva in caso di pericolo esterno, per decidere ed organizzare i conflitti, è considerata da molti quel potere centrale che, sebbene non permanente, è all'origine dell'idea, non di nazione, ma almeno di popolo saharawi. Rappresentanti del Fronte Polisario come Mohamed Sidi Aupa (direttore del Museo della Guerra) e Baba Juli (vice Ministro della Cultura), durante le conversazioni avute con loro, mi hanno descritto l'Ait Arbain come una struttura amministrativa vera e propria, in grado di controllare il territorio in cui nomadizzavano i Saharawi ed in grado di mobilitare le tribù, anche in conflitti che non le interessavano direttamente. Risulta evidente la necessità da parte della classe dirigente saharawi di stressare elementi culturali e politici, propri ed innegabili del passato, per legittimare e rafforzare delle rivendicazioni, che fra l'altro sono riconosciute da tutti gli organi internazionali. L'Ait Arbain in realtà non rappresenta un'istituzione supertribale, ma secondo gli studi di Hodges e Barbier è una yemaa allargata, in grado di riunire gli cheikhs di un'intera tribù in caso di conflitti e ghazzi, alla cui guida viene nominato uno cheikh con poteri particolari (moqadem).

2.3) Creazione di un sentimento di popolo e di nazione (Inizio pagina)

La Rasd, c'est la somme de nos sacrifices, le cumul de nos douleurs et de nos espérances, c'est l'addition de nos certitudes, le refuge de nos identités (13). Mohammed Sidati

2.3.1) Presentazione del problema (Inizio pagina) L'affermazione di Mohammed Sidati porta in se alcune questioni che verranno problematizzate in questa Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

sezione. La Rasd, un giovane Stato in esilio, fuori dai territori che rivendica e su cui, come Nazione moderna non ha mai esercitato la sua sovranità, viene descritta come il rifugio delle identità Saharawi. Il termine rifugio evoca le parole tempesta e necessità. Le identità sono viste come molteplici, ma tutte apparteneti ad un noi (nos) collettivo. Il rifugio, nel nostro immaginario è rappresentato da una locanda dove i viandanti, sorpresi dal temporale, interrompono il loro cammino e trovano riparo. Seduti intorno ad uno o più tavoli avvengono incontri, che nelle finzioni letterarie e cinematografiche sono destinati a cambiare i programmi di viaggio dei protagonisti ed il corso delle loro storie. La Rasd in un certo senso è come la locanda-rifugio, ma diversamente da quella incontrata dal viandante, è stata creata dai Saharawi nel mezzo della tempesta (c'est la somme de nos sacrifices). Alla sua edificazione hanno contribuito identità diverse, accomunate da un unico obbiettivo e dirette da un unico regista: il Fronte Polisario. In quale maniera è stato possibile in così breve tempo fare scaturire all'interno di gruppi tradizionalmente nomadi ed in competizione fra loro, il sentimento di appartenenza ad un unico popolo ed ad un unico territorio? La questione è particolarmente delicata, perché potrebbe essere oggetto di strumentalizzazioni politiche da parte di chi ha interesse a dare un immagine dei Saharawi come di un gruppo di novelli ed opprtunisti secessionisti o sull'altro fronte può essere vista con fastidio da chi è stato protagonista di una rapida rivoluzione sociale e preferirebbe che certe questioni non venissero risollevate in continuazione. Voglio quindi premettere che le mie analisi sul popolo saharawi e sulla nazione saharawi, non sono di tipo giuridico. In questo ambito valgono la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia dell'Aja che nella sua delibera del 18 ottobre 1975 esclude senza ambiguità le rivendicazioni territoriali del Marocco e della Mauritania e riafferma, relativamente a questo territorio non autonomo, la priorita del diritto all'autodeterminazione, come sancito dalla risoluzione 1514 (XV) dell'ONU sulla concessione dell'indipendenza ai paesi e ai popoli coloniali. Inoltre il Fronte Polisario, nelle numerose risoluzioni dell'ONU volte a favorire il processo di autodeterminazione del popolo saharawi, è stato riconosciuto come unico e legittimo rappresentante dei Saharawi e come tale ha firmato gli accordi di Houston sottoscritti anche da Marocco e Nazioni Unite, che avrebbero dovuto portare allo svolgimento del referendum. A questo riguardo sono stati compiuti numerosi studi. Vorrei segnalare i contributi dei seminari tenuti a Bologna il 15 e 16 novembre 1984 presso il centro Amilcare Cabral e pubblicati dalla Fondazione Lelio Basso all'interno del Cahier n.4 (14). Si trovano raccolti gli articoli di storici, giuristi, politologi ed islamisti, che danno un ampio quadro della situazione e delle sue implicazioni. Per la mia ricerca, pur tenendo presente questi contributi, metterò in relazione le conoscenze acquisite direttamente parlando con i Saharawi ed un'interessante e prezioso articolo dell'antropologa Sophie Caratini (15), apparso recentemente, di cui intendo seguire la struttura ed i passaggi logici.

2.3.2) Idea di popolo (Inizio pagina) Il progetto del Fronte Polisario si sviluppa sin dalla sua nascita su piani diversi e paralleli: da un lato la lotta di liberazione nazionale ed indipendenza, dall'altro la rivoluzione sociale. Questo secondo aspetto è favorito dal contesto in cui i Saharawi si trovano: i campi profughi, la Rasd in esilio si trovano in territorio algerino, nel deserto dell'Hammada, uno spazio vuoto di storia e lontano dalla popolazione algerina. I primi fondatori del Fronte Polisario si inspiravano ai modelli del FLN algerino per riorganizzare la popolazione politicamente, militarmente, socialmente e culturalmente. L'idea di fare attecchire i modelli importati di democrazia e libertà nel sistema di valori delle società nomadi non è paradossale; la contraddizione da superare era soprattutto di tipo strutturale. La struttura sociale precedente doveva essere modificata, mantenedo i valori di ospitalità, fratellanza, generosità ed onore. Le nozioni di identità ed uguaglianza entrano in contrasto,… à penser que pour etre tous égaux, il leur fallait d'abord se convaicre qu'ils étaient tous 'les memes' (16). In una società dove prevale l'ideologia del sangue, bisogna rimettere tutto in discussione; si devono neutralizzare e contraddire le strategie di alleanze inscritte nel sistema di parentela. Una nuova politica deve essere messa in atto per modificare le regole di parentela e riproduzione sociale sia dal punto di vista pratico che rappresentativo e simbolico. Il Fronte Polisario, sotto l'influenza del pensiero occidentale, capisce che l'idea di popolo può e deve essere un'arma politica. Riconoscere l'esistenza di un popolo equivale a riconoscere il diritto ai suoi membri di creare una nazione. Sin dalla sua fondazione, nel 1973, il Polisario tenta di rendere i Saharawi non solo un popolo, ma un popolo esemplare. Dal 1975, l'esperienza dei campi profughi ha accellerato e Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

favorito questo processo. Il principale ostacolo era rappresentato dal sistema di relazioni tradizionale, che ripartiva gli individui in gruppi patrilineari gerarchizzati ed in competizione fra loro. La colonizzazione spagnola aveva vietatato i conflitti e la pratica della razzia (ghazu (17)). La pacificazione spagnola aveva diminuito la presenza di interessi economici comuni che univano i membri di uno stesso lignaggio. Le tribù, come unità sociale e politica, erano comunque sopravvissute alla scomparsa degli interessi economici comuni. La prima operazione del Polisario fu di eliminare il termine qabila (18) (pl. qaba'il) ed i nomi che designavano le singole qaba'il, come se eliminando la parola si eliminasse il fenomeno. Consapevole della potere performativo del linguaggio, il Fronte Polisario introduceva gradualmente la noziohne di popolo, senza svelarne tutte le riforme sociali connesse. I concetti chiave veicolati erano siamo Saharawi prima di essere figli, abbiamo dei territori nazionali prima di avere proprietà di terreno e soprattutto non siamo più un insieme di tribù alleate di fronte ad un nemico, ma un popolo con legittime aspirazioni di fronte ad altri popoli. Nell'arabo moderno, il termine sa'b (popolo) si riferisce a realtà diverse. Nel Maghreb, la genesi del concetto di popolo è legata al periodo delle lotte anticoloniali; in Medio-Oriente la connotazione è più complessa e legata al rifiuto dell'idea nasseriana di grande nazione araba. Il Polisario utilizza sa'b nell'accezione di asaba wahda (19) : un unico gruppo di parentela. L'asaba indica il patto attraverso cui si stabiliscono alleanze ed attraversamenti lignatici, sino ad individuare il legame di consanguineità agnatica sancito dal patto naturale, che risulta dall'idea di condividere lo stesso sangue. La stessa idea si ritrova nel termine usma wahda, che indica la mobilitazione degli anziani. Usma è la corda di cuoio, tesa tra i due pali interni della tenda, che dà equilibrio a tutta la struttura. Usma wahda rappresenta quindi un'unità organica, un corpo legato da un comune destino i cui elementi non hanno altra scelta che collaborare per organizzare la propria difesa. Sophie Caratini esemplifica questo concetto con il motto francese, caro ai moschettieri di Dumas, 'un pour tous, tous pour un' (20). Mobilitare i Saharawi e soprattutto quelli fra loro che ancora praticavano la pastorizia, ponendo subito termine alla schiavitù sarebbe stata un'operazione troppo radicale, anche se naturalmente conseguente al progetto del Polisario. Introdurre l'idea di popolo, attraverso l'utilizzo della lingua era un primo passo, ma il termine rimaneva evasivo. Venne inizialmente inteso come estensione del patto di fratellanza a tutte le qaba'il, mantenedo inalterate le gerarchie interne. Il divenire un popolo, per fronteggiare, prima gli Spagnoli e poi Marocchini e Mauritani, significava per il momento solo stressare l'idea di eguaglianza fra gruppi, ma non ancora quella fra individui.

2.3.3) Idea di nazione (Inizio pagina) Parallelamente, era necessario sviluppare l'idea di apparteneza a dei territori nazionali, l'idea di una patria. Anche in questo caso la difficoltà era strutturale e non legata al concetto. Le popolazioni nomadi saharawi non erano estranee all'idea di controllo su un territorio. Un complesso sistema di tributi e relazioni regolava in passato l'accesso a mercati e pascoli od il passaggio attraverso i territori, che ricadevano sotto la sfera d'influenza di un determinato gruppo. Tuttavia l'idea di un territorio, delimitato da confini immutabili era del tutto assente. A questo concetto doveva aggiungersi quello di watan (patria), necessario per mobilitare la popolazione e per utilizzare la referenza spaziale per scavalcare la referenza genealogica. Una volta avviato il processo di costituzione di un'identità costruita sull'idea di una comunanza generalizzata di sangue, i rivoluzionari tentavano di affiancare a poco a poco l'idea di un'identità legata ad uno spazio, ad un territorio originariamente condiviso. Inizialmente questo tipo di manipolazione ideologica era funzionale a mobilitare i Saharawi che risiedevano nei paesi vicini (soprattutto Marocco, Mauritania e isole Canarie). L'atteggiamento del Marocco e della Mauritania che stigmatizzavano i Saharawi come nomadi, e ne perseguitavano anche quelli sedentari, e le siccità degli anni 70 e 80 favorirono l'arrivo di un considerevole numero di militanti nei campi profughi, oltre a chi aveva scelto l'esodo sin dal 1975. Malgrado le amministrazioni coloniali francese e spagnola avessero fornito carte d'identità, L'appartenenza lignatica rimaneva l'unico 'documento' d'identità valido ed efficace. Separare identitariamente con un confine politico e con un'amministrazione coloniale differente chi era al di qua o al di là di una linea virtuale, che aveva senso solo per chi l'aveva tracciata, era allora impensabile. Nessuno può negare l'intensità di relazioni fra nord e sud nel deserto del sahara, che non è mai stata una barriera, ma uno spazio di intensa circolazione di persone, merci ed idee. Frontiera della conquista araba, polo estremo da cui partivano i pellegrini verso la Mecca, ultima tappa dei carovanieri dell'Africa Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

subsahariana, deserto propizio a santi e miracoli, la Saguia el-Hamra (21) ha sempre rappresentato nel mondo arabo, anche simbolicamente, un luogo di convergenze. Dirsi originario della Saguia el-Hamra, significa essere discendente di qualcuno che abitò in questo pezzo di deserto e che quindi ha fra i suoi avi un santo od un marabutto imparentato con il Profeta. In un interminabile gioco di negoziazioni e di specchi, la Saguia el-Hamra, frontiera ovest del mondo arabo, diventa simbolicamente un luogo delle origini per molti gruppi che vivono in Marocco, Algeria ed anche più ad oriente. Una volta che il popolo, Saharawi, e lo spazio, Saguia el-Hamra, sono venuti a sovrapporsi simbolicamente, non è stato difficile per il Fronte Polisario trovare dei militanti al di fuori dei campi profughi, ma ancora meno difficile per Hassan II è stato trovare coloni, che si proclamassero Saharawi e che quindi chiedessero di partecipare al referendum. Lo stesso Hassan II amava definirsi cugino dei Reguibat e degli Arosien, cugini come lui del Profeta.

2.3.4) La rivoluzione sociale del Fronte Polisario (Inizio pagina) Con l'emergenza del 1975 i giovani del Fronte Polisario ottenevano dagli cheikh, che si attuasse un processo di unità nazionale: non solo l'unione dei Saharawi, ma anche l'abolizione del sistema tribale; il termine wuld al-'amm (fratello, consanguineo) era sostituito da rafiq/a (22) (compagno/a). Bisognava porre termine alle rivalità interne di cui il concetto di qabail era portatore. Col nuovo patto sociale gli anziani rinunciavano ai privilegi sui giovani, i liberi sugli schiavi, gli uomini sulle donne. I militanti del Polisario convenirono di non utilizzare il nome della propria qabail, per designare la propria origine e quindi statuto sociale tradizionale, e di non narrare la storia della propria qabail ai discendenti. Il passato veniva accantonato da chi lo conosceva e nascosto alle nuove generazioni, stava nascendo un nuovo popolo, che aveva intenzione di tracciare una cesura netta, fra lo ieri e l'oggi. I Saharawi si trovarono d'accordo a censurarsi per dimenticare le loro differenze (23), portatrici di problemi per il loro nuovo progetto politico e sociale. La nuova identità saharawi occultava il passato dei legami agnatici e della struttura tribale e stressava il passato del legame con lo spazio ed il presente legato al tempo. Ogni accampamento ed ogni quartiere prendeva il nome di una wilaya (regione) e di una daira (località) del territorio occupato dal nemico. Le scuole che a poco a poco venivano fondate all'interno della Rasd in esilio, venivano battezzate con date importanti per la storia del giovane stato. Per compensare la perdità d'identità, che negare il passato poteva generare, si sono impegnati ad impedire l'oblio di quello che tentavano di conquistare: lo spazio. Tanti fattori hanno contribuito al successo iniziale della rivoluzione sociale del Fronte Polisario. La lunga guerra col Marocco, durata sino al 1991, generava una solidarietà generalizzata all'interno della popolazione, dove combattevano e morivano fianco a fianco tutti i Saharawi, indipendentemente dalla loro provenienza tribale. L'esperienza dell'esilio, piuttosto che della diaspora, l'essere confinati in un territorio circoscritto, dove le famiglie vivono insieme e le donne hanno assunto un ruolo centrale nell'amministrazione pubblica, nella sanità e nell'educazione in assenza degli uomini impegnati al fronte. I Saharawi hanno cumulato intelligentemente questi 'vantaggi' non solo per elaborare la loro rivoluzione sociale, ma anche per metterla in atto. Al termine della guerra, per gli anziani risulta ancora difficile ignorare le loro origini, ma è normale per i giovani, che in seguito alla politica demografica, rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione. Molti di loro non conoscono i miti di fondazione delle tribù di appartenenza, ne la storia dei conflitti intestini. Il Polisario aveva inoltre impedito alle famiglie di suddividersi negli accampamenti in base a criteri di appartenenza lignatica. Soltanto i vecchi artigiani e gli schiavi, le due classi inferiori nella gerarchia tradizionale, non hanno potuto rimanere nell'anonimato. Il savoir faire degli artigiani è stato preservato per l'allestimento dei campi. Oggi il sistema degli aiuti umanitari ha praticamente fatto sparire questa categoria. Gli ex schiavi si distinguevano per il colore della pelle. Sui muri delle prime costruzioni in mattoni d'argilla comparivano slogan scritti con la henna come: 'il tribalismo è un crimine contro la nazione'. A cavallo fra gli anni 80 e 90, la stanchezza per la guerra prima ed il primo rinvio del referendum poi, fanno emergere dei dissensi all'interno del Polisario, che riportano a galla vecchi atriti tribali. A rendere più problematica la situazione, e da certi punti di vista grottesca, è intervenuta la decisione dell'ONU, negli anni 90, di pensare le commissioni d'identificazione per il referendum sulla base del censimento spagnolo del 1974, che aveva tentato di cristallizzare le divisioni interne ai Saharawi. Nel 1994 la Minurso (24) inizia a diffondere per radio l'inventario delle tribù e dei gruppi lignatici catalogati dagli Spagnoli vent'anni prima e prosegue sino al luglio 1999. Il giorno della prima diffusione radiofonica Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

viene ricordato da molti per lo stupore con cui ognuno ha scoperto o riscoperto la propria identità e quella del vicino. Le parole che erano state vietate ed accantonate per vent'anni, tornavano ad essere pronunciate senza che nessuno potesse intervenire; la popolazione doveva rispondere agli appelli dell'ONU, gli anziani cheikh erano paradossalmente chiamati in causa per collaborare con le commissioni, che identificavano; che riconoscevano ed assegnavano l'identità saharawi dei partecipanti al voto di un referendum, che doveva sancire la fine definitiva del loro ruolo e dei loro privilegi. I giovani imparano così a familiarizzare con il volto nascosto della loro identità ed in alcuni si fa strada il desiderio di posizioni sociali differenti. Capiscono il senso degli scontri politici all'interno della Rasd e rileggono il loro presente alla luce delle recenti scoperte. La diffusione radiofonica delle liste prosegue quotidianamente sino al luglio 1999. Le scandale était inevitable. Mais un scandale qui dure maintenant depuis six ans est devenu une habitude (25) . La nuova identità saharawi, formatasi con la guerra e l'esilio non ha perso forza e credibilità, ma deve oggi articolarsi su un fronte ancora più articolato, complesso e delicato.

1. Osvaldo Soriano, L'ora senz'ombra, p. 92, Einaudi, Torino, 1996 2. L'utilizzo del termine tribù viene discusso e spiegato all'inizio del paragrafo 2.2.2) Lignaggi. 3. Per le problematiche che riguardano la ricostruzione la narrazione della storia all'interno delle tribù nomadi ed in particolare di quelle che oggi prendono il nome di Saharawi mi sono rifatto essenzialmente a Julio Caro Baroja, La Historia entre los Nomadas in Estudios saharianos a cura del Consejo Superior de Investigaciones Cientìficas, Ed. Instituto oralmente. Ogni racconto, ogni fatto, anche dopo l'avvento dell'Islam, non Estudios Africanos, Madrid 1955 pp. 391-422. 4. I testi di riferimento che ho adottato maggiormente per tracciare il profilo storico dei Saharawi, oltre a Baroja (1955), sono: Tony Hodges, (Historical Dictionary of),Scarecrow Press, Inc., Metuchen, New Jork, 1982. Questo testo è stato inoltre prezioso per la trascrizione fonetica della maggiore parte di nomi di luoghi, persone e gruppi etnici presenti in questa ricerca. John Mercer, Spanish Sahara, George Allen & Unwin Ltd, Londra, 1976. Jose Ramon Diego Aguirre, Historia del Sahara Espanol, Kaydeda, Madrid, 1988. Alessandro Rabbiosi, Costruire la propria storia, in AA. VV., Saharawi, pp.43-152, Associazione Ban Slout Larbi, Firenze, 1994. 5. La baraka è una qualità, un potere spirituale, che i Saharawi, tradizionalmente, ritengono sia dato da Allah agli individui dotati di saggezza e santità. Le persone dotate di baraka hanno poteri taumaturgici e sono in grado di esorcizzare e combattere l'azione degli spiriti maligni. Può essere trasmessa ereditariamente. Char o shar è il termine hassanya per guerra o conflitto armato privato di connotazioni religiose e quindi opposto a jihad. 6. Char o shar è il termine hassanya per guerra o conflitto armato privato di connotazioni religiose e quindi opposto a jihad. 7. Le isole Canarie, di fronte ad Agadir, erano già controllate dagli Spagnoli. 8. Le dichiarazioni del sultano marocchino e quelle successive del re spagnolo si trovano in Tony Hodges, op. cit., pp.223,224. 9. Bassiri scompare il 18 giugno 1970, un giorno dopo la sanguinosa repressione, da parte spagnola, della manifestazione di Zemla organizzata dal MLS. 10. Questo argomento verrà affrontato nei paragrafi riguardanti le strategie adottate dal Fronte Polisario, per favorire la nascita ed il radicamento di un sentimento di appartenenza ad un popolo ed ad un territorio. 2.3) Creazione di un sentimento di popolo e di nazione 11. Ugo Fabietti, L'identità etnica, p.56, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1995. 12. I dati di Baroja risalgono ai suoi studi condotti negli anni 50. L'attitudine a ricostruire il proprio albero genealogico è sempre stata un'operazione con forti connotazioni politiche ed è variata negli ultimi venticinque anni come si vedra meglio in 2.3) Creazione di un sentimento di popolo e di nazione. 13. Questa affermazione si trova come incipit dell'articolo di Sophie Caratini, Système de parenté sahraoui, comparso sulla rivista L'Homme, pp. 431-456, numero 154-155, aprile settembre 2000. 14. AA.VV., La question sahraouie, un probleme historique-politique, Fondazione Internazionale Lelio Tesi-Bruno-Cap2 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap2.htm

Basso, Roma, settembre 1985. 15. Sophie Caratini, op.cit. Sophie Caratini, responsabile della sezione etnologica dell'Institut du Monde Arabe e collaboratrice del Musée de l'Homme, ha pubblicato numerosi studi sui Saharawi ed in particolare sulla questione femminile. Segnalo i due volumi Les Rgaybat, L'Harmattan, Parigi, 1989 e l'articolo Le role social de la femme au Sahara Occidental, La Pensée 308: pp.115-124, 1996. 16. Sophie Caratini, op. cit., p.432. 17. Le razzie potevano coinvolgere pochi individui od interi lignaggi. Ugo Fabietti in Sceicchi, santi e beduini, p.87, Franco Angeli, Milano, 1994, ne descrive gli obbiettivi e la logica. Come nella maggior parte delle società 'tribali', la logica delle ostilita non era retta dal principio della distruzione del nemico e dei suoi mezzi di riproduzione, ma dal prelievo di una parte di questi ultimi secondo modalità discontinue, lasciando così ai gruppi ostili la possibilità di ricostituire le basi della propria sussistenza. 18. Qabila è il termine arabo corrispettivo all'italiano tribù. 19. Si veda il paragrafo 2.3.4) Asaba. Wahda significa uno ed unico. 20. Sophie Caratini, op. cit., p.436. 21. Il Sahara Occidentale è costituito da due e regioni: Saguia el-Hamra e Rio de Oro. 22. Il primo a tentare di introdurre questo termine fu Bassiri, che aveva studiato in Egitto ed era entrato in contatto con i marxisti arabi. sul finire degli anni 60, quando diede vita al Movimento di Liberazione del Saguia el-Hamra e Oued ed-Dahab, MLS. Alcuni superstiti del MLS, represso definitivamente dagli spagnoli durante la manifestazione di Zemla nel giugno 1970, si affiancarono ai 'giovani' nel fondare il Fronte Polisario. 23. Oubli de leurs differénds comme de leurs differences, …Sophie Caratini, op. cit. p.440. 24. Missione delle Nazioni Unite per il referendum del Sahara Occidentale. 25. Sophie Caratini, op. cit., p.442. Tesi-Bruno-Cap4 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap4.htm

I nativi rifiutano il doppio inganno della museificazione e della omologazione. La terza via si presenta come una sfida decentrata, delicata, creativa in cui ogni soggettività ed ogni etnia assume i tempi, i modi e i gradi della trasformazione. Il mutamento culturale appartiene alla storia di ogni cultura (37) . Massimo. Canevacci (1995)

4.1) Tutte le piste portano a Smara 4.2) Descrizione ed analisi delle manifestazioni 4.2.1) Le immagini come testo: rappresentazione di un'autorappresentazione 4.2.2) Passato e presente-tradizione e modernità 4.2.3) Abiti 4.2.4) 'Spettattori' 4.2.5) 20 de Mayo

4.1) Tutte le piste portano a Smara Ogni anno il deserto dell'Hammada, la sera del 19 maggio, si trasforma in un'unica, indifferenziata autostrada. Tutte le piste portano a Smara. Nell'oscurità della notte i Saharawi cercano passaggi su ogni mezzo disponibile, jeep, macchine, autobus. Non è difficile trovarsi a salire su un mezzo pubblico di Guadalajara o dell'ATAG(38) diretto verso la tendopoli di Smara. Questo è il luogo deputato per le parate, che si svolgono in occasione delle manifestazioni pubbliche. Il 20 maggio si celebra l'anniversario della prima azione militare del Fronte Polisario(39) (20 maggio 1973). Ho avuto l'occasione di partecipare alle celebrazioni per il XXV anniversario del 20 de Mayo (1998) ed alla manifestazione organizzata per la visita del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan (30 novembre 1998). Entrambe, con dinamiche diverse, sono uno dei mezzi più evidenti con cui i Saharawi mettono in scena, agiscono la loro identità in cambiamento di fronte alla comunità internazionale ed a quella locale. Come vedremo dalle successive analisi non dobbiamo immaginarci una messa in scena dove i ruoli di attore e spettatore sono immutevoli, ma dove le relazioni sono fluide e più complesse. I giorni che precedono il 20 de Mayo sono interamente dedicati alla preparazione di questi due eventi. Tutti sono mobilitati a cooperare e spesso lasciano i loro impieghi usuali: bisogna accogliere gli ospiti, le delegazioni straniere, bagnare il terreno dove avrà luogo la parata, perché non si sollevi troppa polvere (e quindi permettere la "visibilità" della manifestazione), cucire vestiti e bandiere, organizzare le attività parallele quali concerti ed incontri sportivi, preparare l'accampamento con le tende tradizionali, dove si terrà il mercato, allestire mostre ed organizzarsi in famiglia per la trasferta. La visita di Kofi Annan, importante da un punto di vista storico, ma anche segno della crisi nel processo di pace, è durata solo poche ore e non prevedeva un programma così articolato di attività parallele. Lo stato d'animo con cui i Saharawi hanno preso parte a questi eventi sono stati completamente opposti, almeno nel sentire generale. Il 20 maggio 1998 i Saharawi pensavano che il referendum si sarebbe tenuto l'8 dicembre dello stesso anno o comunque non sarebbe stato rinviato ancora a lungo. Nel dicembre 1998 la visita di Kofi Annan segna l'inizio di un'ennesima fase di stallo che, a distanza di quasi due anni, lascia intravedere oggi la possibilità di una ripresa del conflitto fra il Fronte Polisario ed il Marocco, dopo dieci anni di tregua. Parlando del 20 de Mayo, Lehbib Abidin(40) lo definisce "una specie di coreografia momentanea, qualcosa di organizzato, suddiviso in minuti, che permette allo straniero, al mondo di vedere." Poco più avanti aggiunge: "Non possiamo però vedere la giornata del 20 de Mayo come qualcosa di slegato, come una serie di blocchi a se stanti che sfilano l'uno dopo l'altro; si tratta di un blocco unico che mette in mostra nei suoi aspetti differenti quella che è oggi la nostra vita, la nostra quotidianità." Queste poche righe, a mio avviso, sono una chiara e sintetica interpretazione delle celebrazioni per il 20 de Mayo e delle manifestazioni per la visita di Kofi Annan. Il Fronte Polisario mette in scena per un pubblico di stranieri, ma parimenti anche di Saharawi, l'identità del proprio popolo. Un'identità che è fatta soprattutto della loro quotidianità attuale, dove coerentemente si integrano e si contraddicono la storia ed i costumi passati con la guerra e l'esperienza dei campi profughi attuali. Una tale operazione non serve solo a dare visibilità alla causa saharawi nel mondo, ma a riconfermare ai Saharawi stessi l'esistenza e le ragioni del Tesi-Bruno-Cap4 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap4.htm

progetto politico e sociale di cui sono autori ed attori, attraverso l'azione del Fronte Polisario.

4.2.1) Le immagini come testo: rappresentazione di un'autorappresentazione L'antropologia visuale, come ci illustra per esempio Massimo Canevacci (1995)(41), è o dovrebbe essere, per sua natura, una delle discipline maggiormente attenta e partecipe del cammino che molti popoli nativi hanno intrapreso nella lotta per documentare e rendere visibili cambiamenti ed 'aggiustamenti' culturali, dovuti all'incontro con l'altro, in particolare, ma non solo, con l'Occidente. I mezzi di riproduzione visuale, sono forse gli aspetti della tecnologia che maggiormente hanno suscitato l'interesse di molte popolazioni native e che sono stati fatti propri da esse. Esiste naturalmente una documentazione fatta dai Saharawi su tutte le più importanti manifestazioni organizzate negli ultimi anni. Nel campo 27 de Febrero c'è un piccolo centro audiovisuale, nato grazie ad un progetto del COSPE dove sono raccolti materiali fotografici e soprattutto video girati dai Saharawi sin dall'inizio del conflitto. Le manifestazioni di cui tratteremo sono delle grandi messe in scena pubbliche, dei rituali politici ed identitari, la cui analisi non può non riguardare anche l'antropologia visuale. Per l'analisi che condurrò sul 20 de Mayo e sulla visita di Kofi Annan mi servirò del materiale fotografico da me prodotto nel corso di questi due eventi. Si tratta quindi di una soggettiva rappresentazione/interpretazione dell'autorappresentazione agita dai Saharawi. La mia presenza in questo capitolo è più evidente che negli altri, dove ho registrato dei documenti, poi analizzati a posteriori. Le foto che analizzerò, sono alla loro origine frutto di una prima scelta, parziale e soggettiva, operata nel momento stesso in cui ho scattato. Risultano impraticabili (e comunque non sono cercati) tentativi e pretese di mimetizzazione e registrazione oggettiva dei fatti, ed è evidente come l'esito di questa studio sia il frutto della rappresentazione di una rappresentazione. Inoltre le fotografie, più che altrove in questa ricerca, vogliono essere testo e non illustrazione. I testi che le accompagneranno non saranno quindi didascalie più o meno articolate, ma le riflessioni scaturite dall'osservazione delle immagini; la loro analisi ed interpretazione. Paul Rabinow in un provocatorio articolo(42) , prendendo in considerazione la posizione degli antropologi interpretativi afferma che sia l'antropologo che il nativo sono intenti ad interpretare il significato della vita quotidiana. I problemi della rappresentazione sono centrali per entrambi, e sono i luoghi dell'immaginazione culturale. Le rappresentazioni non sono, però sui generis: servono come mezzo per dare un senso ai mondi della vita (che esse contribuiscono a costituire)(43) … La rappresentazione, in questo caso la parata ed il suo contorno, nel momento stesso in cui mettono in scena, danno forma visuale ad un'idea, ad una struttura, concorrono a strutturare concretamente, a reificare quell'idea. La struttura pensata, attraverso la sua rappresentazione, si consolida e trova ulteriori ragioni del suo esistere. Attraverso le immagini proverò a spiegare come questo avviene.

4.2.2) Passato e presente - tradizione e modernità Elementi della vita nomade passata e dell'attuale processo storico, che vede i Saharawi costruttori di uno stato moderno, si ritrovano nelle manifestazioni politiche, spesso posti di fianco a simboleggiare la continuità e la consapevolezza della loro storia. I radicali cambiamenti imposti alla società saharawi dagli avvenimenti storici e dal progetto del Fronte Polisario, impongono alla leadership politica di mantenere visibile la tradizione da cui provengono. Se da un lato elementi simbolici quali il cammello e la jaima sono proposti come affascinanti elementi esotici per gli osservatori internazionali, sono anche messaggi diretti alla popolazione. Il Polisario è sempre stato attento, pur nella radicalità del suo progetto, che prevede lo smantellamento della struttura sociale e politica tradizionale, a mostrare rispetto verso le istituzioni del passato. Diversamente l'atteggiamento del movimento nazionalista guidato da Mohammed Basiri che ha preceduto il Polisario, è stato di totale rottura, soprattutto nei confronti degli cheikhs tribali, accusati di collaborazionismo con la Spagna(44) . Manifestazioni per il '20 de Mayo', XXV anniversario dell'inizio della lotta armata del Fronte Polisario. Fig.1: M. Abdelaziz, Segretario del Polisario, rivolto verso la tribuna in cui si trovano rappresentanti politici e di organizzazioni solidali con la causa Saharawi, tiene le redini di un cammello. Il cammello ha rappresentato nel passato il principale mezzo di trasporto e di sostentamento di tutte le popolazioni nomadi del deserto ed anche l'unità di misura per transazioni economiche, per la stipulazione di patti ed il pagamento di debiti. Oggi, per chi vive nei campi profughi, rappresenta ancora una delle poche forme di sostentamento autoprodotte, ma è soprattutto il simbolo della vita nomade del passato; della sua durezza, ma anche dello spirito di libertà che i Saharawi hanno sempre rivendicato come proprio elemento identitario. Tesi-Bruno-Cap4 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap4.htm

Fig.2: La jaima tradizionale e la bandiera della R.A:S:D: sono poste una di fianco all'altra nella creazione dell'accampamento creato per il '20 de Mayo': L'abitazione tradizionale del periodo nomade e la bandiera quale simbolo della casa/tenda comune che i Saharawi sognano per il loro futuro. Oggi i Saharawi vivono in tende fornite dall'UNDP (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) ed adottano la jaima tradizionale solo in occasione di manifestazioni pubbliche. La bandiera per tutti i movimenti nazionalisti, ma non solo, è l'elemento identitario per antonomasia e risulta quasi sempre assumere il ruolo d'icona sacra per il gruppo che si riconosce in essa. La bandiera della R:A:S:D: presenta oltre ad una precisa simbologia dei colori, due elementi che ne affermano l'appartenenza al mondo arabo e l'adozione dell'Islam come religione ufficiale: rispettivamente la mezzaluna e la stella. I fondatori del Polisario, come dei movimenti nazionalisti precedenti, sognarono inizialmente di unire il punte sono racchiusi i cinque pilastri mondo arabo contro le potenze colonizzatrici. La mezzaluna è presente specialmente nelle bandiere di alcuni paesi del Maghreb: Algeria. Mauritania e Tunisia. Nella stella a cinque dell'Islam: 1-professare che non esiste nessun Dio all'infuori di Allah e che Maometto è il suo Profeta, 2-pregare ritualmente cinque volte al giorno rivolti verso la Mecca, 3-recarsi almeno una volta nella vita in pellegrinaggio alla Mecca (Hajj), 4-osservare il digiuno dall'alba al tramonto nel periodo del Ramadan, 5-dare una percentuale dei propri guadagni per opere di carità o pubblica utilità in cui rientra il valore dell'ospitalità. Il colore nero rappresenta la sofferenza del colonialismo e dell'esilio; il rosso la lotta per la libertà, il bianco la lealtà ed il verde la speranza per il futuro. Il giorno dell'indipendenza il nero ed il verde vedranno le loro posizioni invertite a simboleggiare l'inizio di una nuova era. Fig.3: Tre donne avvolte nelle tradizionali melfe, da cui spuntano maglioni e felpe arrivate probabilmente con gli aiuti internazionali, osservano da lontano la tribuna politica. Mentre le prime due immagini documentano un'operazione di messa in scena di elementi simbolici da parte degli organizzatori della manifestazione, quest'ultima coglie un momento, privato, distante dall'ufficialità e dalle strategie comunicative del Fronte Polisario. Rispecchia comunque uno dei tasti su cui fa maggiormente leva la propaganda saharawi per dare un'immagine di modernità all'opinione pubblica internazionale: la libertà delle donne nella società saharawi dal periodo nomade alla costruzione della R.A.S.D.. La questione femminile è un punto delicato per ogni comunità islamica che si affaccia all'occidente. Le donne saharawi partecipano attivamente all'amministrazione dei campi profughi e si stanno a poco a poco facendo largo anche negli organi governativi. D'altro canto questa immagine può essere letta anche con una sfumatura differente dettatami da una conversazione con Mariem Salek(45) , direttrice della scuola femminile del campo 27 de Febrero. 'Le donne saharawi non sono come le altre donne dei paesi arabi che hanno partecipato alla guerra, ma una volta terminata, sono state messe da parte dagli uomini, perdendo il loro lavoro. Noi cerchiamo e cercheremo di non dare agli uomini la possibilità di fare questo. Quando vinceremo il referendum vogliamo che questa scuola continui ad essere viva, sia presente nella capitale ed in altri centri. Non dimenticheremo questa esperienza'. Le donne saharawi con l'esperienza dei campi profughi hanno avuto lo spazio per ottenere importanti riconoscimenti e conquiste. Oggi aspettano che si attui il referendum per tornare a casa, ma allo stesso tempo osservano attentamente i loro politici, perché in futuro continuino a favorire la loro emancipazione.

4.2.3) Abiti Fig. 4-5: Le due manifestazioni politiche a cui ho assistito avevano un carattere ed una messa in scena differente anche dal punto di vista degli abiti indossati dai dirigenti del Polisario qui rappresentati dal loro segretario M. Abdelaziz. In occasione del 20 de Mayo XXV anniversario dell'inizio della lotta armata, M. Abdelaziz, che qui discute con Said Abadu (fig.4), Ministro dei Moujahidin del governo algerino(46), indossa abiti militari. Diversamente (fig. 5), durante la prima e per il momento unica visita di Kofi Annan nei campi profughi (novembre 1998), indossa l'abito tradizionale saharawi (darrà). La visita del Segretario Generale delle Nazioni Unite è legata al delicato processo d'identificazione che deve stabilire gli aventi diritto al voto nel referendum. L'identità saharawi è al centro di aspre contese con il Marocco, che mentre in passato si ostinava a dichiarare che i Saharawi non esistevano, oggi istruisce i coloni a vestire metaforicamente e non, i panni dei Saharawi per partecipare al voto(47) . Risulta chiaro quindi l'utilizzo di abiti militari in occasione di una manifestazione che, pur mettendo in Tesi-Bruno-Cap4 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap4.htm

scena diversi aspetti della vita dei Saharawi oltre a quello militare, commemora l'inizio della lotta armata; mentre ci si mostra vestiti tradizionalmente di fronte alle Nazioni Unite, che dagli anni 60 hanno emanato risoluzioni favorevoli all'indipendenza del Sahara Occidentale, riconoscendo l'identità dei Saharawi ed il loro diritto all'autodeterminazione e che oggi regolano questo delicato processo. Se durante il 20 de Mayo, con la parata e gli abiti militari, i Saharawi facevano intendere di essere pronti a riprendere il conflitto, in occasione della visita di Kofi Annan indossano gli abiti della 'legalità', della loro identità già riconosciuta e del processo di pace che li deve portare a decidere del loro futuro. 4.2.4) 'Spettattori' Fig. 6-12 Il 20 de Mayo e la visita di Kofi Annan rappresentano due momenti in cui il Fronte Polisario mostra il popolo saharawi alla comunità internazionale ed al popolo saharawi. Inizialmente l'impressione è che tutto quello che passa di fronte ai miei occhi sia stato studiato perché solamente i cosidetti 'internazionali' ne fruiscano. Riguardando le fotografie del 20 de Mayo alla luce di quanto visto e fotografato sei mesi dopo, ne è scaturita una nuova lettura, più articolata. Non c'è una chiara distinzione fra attore e spettatore; sia i saharawi che gli internazionali ricoprono entrambi i ruoli; sono 'spettattori'. Il 20 de Mayo era organizzato in modo tale che la parata sfilasse fra due ali di folla e che, sottostante la tribuna dove sedevano e dai cui parlavano i rappresentanti del Polisario e di paesi ed associazioni 'amiche', si trovassero giornalisti, cooperanti e delegazioni straniere. A prima vista sembra di potere dare una chiara lettura di quello che sta succedendo: ci sono un regista, il Polisario; degli attori, i Saharawi e degli spettatori, le delegazioni straniere. Sembra di trovarsi di fronte allo schema classico della comunicazione, che prevede un emittente, un messaggio ed un ricevente. In realtà neppure la comunicazione è così semplice e tantomeno il teatro che ci viene in aiuto per chiarire questo punto. La pratica attoriale prevede quasi sempre dei periodi di prove in cui una compagnia lavora su un nuovo testo o performance. Solitamente non ci sono incontri con il pubblico sino alla Prima. Durante le prove è ormai uso comune che sia presente tutta la compagnia, non solo per conoscere meglio il lavoro dei propri colleghi-compagni, ma anche per 'recitare il pubblico' in sua assenza. La presenza di qualcuno che guarda le prove è fondamentale per chi sta recitando, perché la propria azione non venga risucchiata nel buio della sala vuota, ma ritorni indietro attraverso lo sguardo e la presenza riflettenti degli attori non coinvolti in quella scena. Del resto anche fisici e filosofi del linguaggio si domandano se il suono possa esistere indipendentemente dalla presenza di un qualcuno o qualcosa in grado di percepirlo e di essere così suo testimone e quindi suo demiurgo. Qualcosa di simile ho potuto registrare nelle due manifestazioni presenziate. Tralasciando i discorsi degli ospiti stranieri, la cui funzione si esplicita nelle parole di solidarietà ai Saharawi, mi sono reso conto del duplice ruolo svolto dai giornalisti e dalle troupe televisive ospiti. Evidentemente registravano quanto accadeva, per ritrasmetterlo nel mondo, tramiti ed ipotetici occhi critici, costruttori dell'opinione pubblica internazionale, ma non solo. Il loro muoversi ai bordi e dentro la sfilata per registrare immagini, suoni e parole rappresentava uno spettacolo per i Saharawi di cui gli attori erano solo in parte consapevoli. Più di altri, giornalisti televisivi e fotografi sanno per esperienza e formazione che nel momento stesso che riprendono e scattano, che guardano, sono a loro volta guardati, osservati, studiati. In questo caso il loro soggetto era stato scritto in parte anche dal Polisario, che lasciava libertà di movimento ed azione in ogni ambito della manifestazione (fig. 6-7). Pure io potevo muovermi tranquillamente con la mia macchina fotografica, pur essendo un osservatore privato e non un giornalista. La nostra presenza, il nostro agire era un chiaro messaggio rivolto dal Polisario al popolo: 'non siamo soli e questo anche grazie alle vittorie diplomatiche che i vostri rappresentanti hanno ottenuto in questi anni in cui avete dato loro fiducia'. Ne ho ricevuto la conferma durante le manifestazioni per la visita del Segretario Generale delle Nazioni Unite. Il Fronte Polisario ha adottato in questa occasione un protocollo visivamente opposto, con gli stessi fini e risultati. La brevità della visita non permetteva di allestire nulla di articolato come in precedenza. Il luogo dell'azione è il medesimo: la lunga arena della tendopoli di Smara. Gli elicotteri dell'ONU atterrano lontano (fig.8), ma visibili, dalle due ali di folla, che attendono. Mohamed Abdelaziz aspetta Kofi Annan a poche centinaia di metri, insieme ai giornalisti. La prima stretta di mano fra i due, all'interno dei territori della RASD, viene registrata da questi. L'elemento chiarificatore, a mio avviso, di questa analisi giunge ora: I due Segretari Generali(48) salgono sulla prima jeep, seguiti dai giornalisti (fig.9). Questa volta non sono più i Saharawi a sfilare, bensì noi, con in testa i due politici. Le prime centinaia di metri il corteo di Toyota passa in mezzo ai soldati schierati (fig.10), poi fra i cammelli (fig.11) ed infine fra due ali di gente(49) (fig.12). Spiccano i cartelli che ringraziano Kofi Annan e l'ONU, quelli che chiedono giustizia Tesi-Bruno-Cap4 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap4.htm

(fig.12) e quelli che denunciano lo stato di ultima colonia dell'Africa per il Sahara Occidentale. Le persone sulle jeep sono il motivo e 'l'attrazione' per le persone ai lati e viceversa. Il Fronte Polisario è riuscito intelligentemente a creare un gioco di specchi ed a capovolgere visivamente dei ruoli, che in realtà non sono distinti, ma si definiscono nella loro complessità: Saharawi e stranieri sono entrambi 'spettattori'.

4.2.5) 20 de Mayo (fig.14) 'Hermanas, hermanos Een nombre de todos vosotros doy la bievenida a nuestros honorables invitados por sus participacion con nosotros en este historico acontecimiento. El aniversario que conmemora el transcurriri de un cuarto de siglo del desencadeniamento de la lucha Armada en Saguia Hamra y Rio de Oro. Vuestra presencia hoy, entre nuestro pueblo es la mas sincesra expresion de solidaridad con nuestra justa causa. Es una actitud que os agradecemos, a la vez que os deseamos una agradable estancia con nuestro pueblo.' Questo è l'inizio del testo, distribuito agli ospiti, pronunciato da Mohamed Abdelaziz in apertura delle attività per il 20 de Mayo, dove sono sfilati davanti agli occhi dei Saharawi e degli ospiti stranieri, spezzoni della realtà della RASD. Durante la mattinata ha luogo la parata militare con le diverse divisioni dell'esercito. Fra queste si vedono le rappresentanti del corpo femminile di polizia (fig.15), gli sminatori (fig.16) e gli incursori subacquei (fig.17). La figura 3 ha già raccontato alcuni aspetti della personale lotta di emancipazione e dei timori delle donne saharawi. Nel suo discorso Mohamed Abdelaziz non ha mancato di parlare di questa questione: 'Deseamos expresar nuestra admiraciòn a la mujer saharaui por todos los esfuerzos aportados y todos sus sacrificios en los diversos frentes de la lucha, cuestion que ha contribuido a vencer infintas dificultades en la vereda militante la que hizo posible la mujer saharaui. Arranque el reconocimiento y el respeto. Por ello: Felicidades intrépida mujer saharaui' In un passo precedente, parlando delle linee ispiratrici del futuro Stato saharawi affermava: 'Serà el pais de la igualdad entre el hombre y la mujer, … Non a caso le donne marciano con la bandiera della RASD (fig. 15), cosa che non accade con gli altri corpi militari. Si riafferma una volta di più il loro ruolo fondamentale nella costruzione del futuro saharawi, uno dei fiori all'occhiello della propaganda del Polisario ed una delle questioni più delicate dell'eventuale indipendenza, come affermava Mariem Salek(50). Il problema delle mine (fig.16) affligge il Sahara Occidentale come moltissimi altri paesi nel mondo. Malgrado dichiarazioni d'intenti e nuove leggi bandiscano in sempre più paesi la produzione ed il commercio di mine, in realtà la loro vendita continua ad essere una delle voci più 'remunerative' del bilancio di tanti paesi occidentali e non solo. Si è calcolato che lungo il muro, fatto costruire da Hassan II nel Sahara Occidentale, vi siano circa 10 milioni di mine(51). Sembra un paradosso; ad un certo punto passa un gruppo di incursori (fig. 17) con tanto di muta, bombola e pinne in pieno deserto. Si vuole fare intendere che in caso di ripresa del conflitto i Saharawi saprebbero impegnare il Marocco anche dal mare. Ritorniamo all'accampamento per pranzare, riposarci ed aspettare le cinque del pomeriggio, quando riprenderanno le attività con le 'esibizioni civili'. Cominciano a sfilare i bambini (fig.18- ), altro elemento fondamentale della politica e della propaganda del Polisario. Sono in rappresentanza delle scuole presenti nei campi profughi: alcuni indossano abiti militari e sventolano le bandiere della RASD (fig.18), altri passano su biciclette giunte con aiuti umanitari (fig.19) altri ancora sono il gruppo che per un anno ha abitato a Rimini (fig.20), ospitati da famiglie dell'associazione Hammada(52) . Durante il loro soggiorno in Italia hanno seguito gli studi con un modulo studiato per loro ed hanno costituito una squadra di calcio. Da pochi giorni sono rientrati nei campi profughi e sfilano con le loro tenute sportive, insieme ai bambini rimasti nel deserto, che incontreranno il giorno dopo per l'assegnazione della coppa 20 de Mayo(53) . Dopo di loro alcuni bambini saharawi, sotto la tribuna politica e gli occhi delle telecamere internazionali mettono in scena l'attuazione del referendum (fig.21, 22), sancito dai piani di pace dell'ONU, che dopo quasi 10 anni non ha ancora avuto luogo. I bambini, simbolo del futuro e frutto di una politica demografica del Fronte Polisario volta ad accrescere il numero dei Saharawi, ripongono le schede referendarie nello scatolone da cui esce la bandiera della R.A.S.D indipendente. Segue la sezione folclorica: Sotto il palco vi sono alcuni musicisti ed alcune cantanti che danno il via alle Tesi-Bruno-Cap4 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap4.htm

danze tradizionali (ragsa taklidia), prima interpretate dalle nuove generazioni (fig.23) e poi dagli adulti (fig.24). Le danze del 20 de Mayo sono danze di festa, come quelle agite durante matrimoni e battesimi(54) . Le bambine portano sul capo le trecce tradizionali (dafra taklidia)(55) , ma sebbene eseguano danze tradizionali, sono vestite con i colori della bandiera nazionale. Indossano un abito nero, simbolo dell'oppressione e della sofferenza, mentre i colletti hanno i restanti colori. Sulle donne spiccano le trecce e le mani decorate con henna. Alcune di loro (fig.25) portano delle bambole (admiet), vestite in bianco e nero ed anch'esse con le trecce, come le donne. Vi sono poi alcuni guerrieri a cavallo (fig.26) ed infine, tornando al presente, chiude la manifestazione un gruppo di studenti/esse che hanno usufruito in passato di borse di studio in Algeria, Cuba, Spagna, Italia, … (fig.27). Indossano abiti civili e richiamano l'attenzione per il turbante e le borse da viaggio/lavoro di fattura occidentale.. Il turbante, indossato in modo da coprire interamente il volto, come si usa quando c'è una tempesta di sabbia e le borse possono essere viste come i segni distintivi della loro condizione e di quella di tutti i Saharawi: rimangono una popolazione nomade, obbligata dal loro presente storico a muoversi per tutto il pianeta e non solo nel deserto del Sahara.

37. Massimo Canevacci, Antropologia della comunicazione visuale, p.163, costa &nolan, Genova, 1995. 38. Fra gli aiuti umanitari, che i Saharawi ricevono, vi sono i mezzi pubblici in disuso dei "paesi amici". 39. Tony Hodges da una precisa descrizione della prima operazione militare del Fronte Polisario in T. Hodges, Historical Dictionary of Western Sahara, pp.112-113, The Scarecrow Press, Inc., Metuchen, N.J.,London, 1982. 'La prima azione militare del Fonte Polisario ebbe luogo, ad El-Khanga, il 20 maggio del 1973, dieci giorni dopo la sua fondazione (10 maggio 1973). El-Khanga, un piccolo presidio militare spagnolo, nel nord-est del Sahara Occidentale, era composto da un'esigua guarnigione di Saharawi al comando di un ufficiale spagnolo, assente al momento dell'attacco. Il gruppo dei guerriglieri era composto da sette uomini, fra cui il segretario generale del Fronte Polisario, El-Ouali Mustapha Sayed, armati con alcuni vecchi fucili ed una pistola subacquea. Il successo avrebbe dovuto essere garantito dal fattore sorpresa dato che il gruppo aveva sufficenti munizioni per cinque minuti di fuoco. Dopo aver posto l'accampamento vicino ad El-Khanga, due guerriglieri, fra cui El-Ouali furono mandati a cercare dell'acqua. Sulla via del ritorno si imbatterono in un gruppo di soldati di El-Khamga; furono arrestati e portati al presidio. Dopo aver realizzato cosa fosse accaduto, i rimanenti cinque guerriglieri decisero di attaccare la sera, dopo il tramonto. Malgrado avessero fatto prigionieri due persone sospette, il cui arresto era già stato comunicato alla base spagnola più vicina, la guarnigione Saharawi non aveva idea che l'attacco fosse imminente. Quando avvenne, si arresero senza sparare un colpo. I due prigionieri furono liberati, nuove armi furono rubate ed i soldati Saharawi arrestati, una volta messi a conoscenza degli obbiettivi politici del Fronte Polisario, furono lasciati liberi.' 40. Lehbib Abidin, responsabile del Museo Nacional del Pueblo Saharaoui, parla del 20 de Mayo nell'intervista,.riportata nel paragrafo 3.2.3) Intervista a Lehbib Abidin. 41. M. Canevacci, Una tipologia di ricerca sulla comunicazione visuale, pp. 143-175, in op. cit. 42. Paul Rabinow Le rappresentazioni sono fatti sociali. Modernità e postmodernità in antropologia pp. 293-326 all'interno della raccolta di articoli curata da James Clifford e George E. Marcus Scrivere le culture: Poetiche e Politiche in etnografia, Meltemi, Roma, 1997. 43. P. Rabinow, p. 320 in op. cit. 44. Mohammed Sidi Ibrahim Bassiri, nato circa nel 1942-44 nei pressi di Tan Tan, appartenente ai Reguibat, fu il leader del primo movimento moderno anti-coloniale nel Sahara Occidentale: Harakat Tahrir Saguia el-Hamra wa Oued ed Dahab (Movimento per la Liberazione del Saguia el- Hamra e Oued ed-Dahab o MLS). Il progetto di Bassiri prevedeva non solo l'indipendenza dalla Spagna, ma anche una radicale rivoluzione sociale. L'MLS secondo molti ha fatto l'errore, che ilPolisario non ha commesso, di attaccare apertamente l'autorità degli cheikh conservatori, generalmente favorevoli alla Spagna. Il 17 giugno 1970 Bassiri organizzò una manifestazione a Zemla (un sobborgo di El-Ayoun) in concomitanza con le manifestazioni ufficiali organizzate nella Tesi-Bruno-Cap4 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap4.htm

giornata della 'Lealtà' verso la patria Spagna. L'allora governatore generale, Generale José Maria Pérez de Lema y Tejero tentò di fare sciogliere la manifestazione, mandando come mediatori gli cheikh Saharawi. I manifestanti, fatto unico nella storia dei Saharawi, accolsero gli cheikh a sassate. Il rispetto dovutogli dal loro status, era venuto meno in quanto collaboratori della Spagna. Poco dopo giunse l'esercito che sparò sulla folla facendo 12 morti e numerosi feriti. Alle tre del mattino del 18 giugno, Bassiri fu arrestato e da allora non si sono più avute sue notizie. 45. Ho incontrato Mariem Salek durante entrambi i miei soggiorni nei campi profughi. La frase riportata fa parte di una conversazione avuta durante la mia seconda visita nel dicembre del 1998. 46. Said Abadu fu una delle figure di spicco del FLN durante la guerra d'indipedenza contro la Francia, ed in qualità di Ministro dei Moujahidin, partecipa alle celebrazioni del 20 de Mayo. La sua carica prevede che si occupi di amministrare i rapporti fra il governo da una parte ed i moujahidin (i combattenti della guerra di liberazione algerina) ed i loro parenti dall'altra; oltre a mantenere vivo il ricordo della guerra di liberazione. Attraverso il suo ministero si è istituzionalizzata l'indipendenza algerina. 47. Si veda al riguardo il quadro fotografato nel campo 27 de Febrero dove è rappresentata una mano che fuorisce da una darrà sorreggendo un uovo. 48. Mohamed Abdelaziz, Segretario Generale del Fronte Polisario e Kofi Annan, Segretario Generale delle Nazioni Unite. 49. Durante il 20 de Mayo, analogamente avevano sfilato primi i corpi dell'esercito e dopo la gente si veda sezione 4.2.5) 20 de Mayo. 50. Mariem Salek, direttrice della Scuola Femminile del campo 27 de Febrero. Riporto alcune battute di un'intervista avuta con lei nell'analisi della figura 3 di questo stesso capitolo. 51. Del muro e delle mine si parla anche nel terzo capitolo all'interno dei paragrafi 3.3.1) Museo della Guerra e 3.3.2) Intervista a Mohamed Sidi Aupa 52. Hammada è il nome dell'area di deserto algerino amministrata dalla RASD in esilio. Associazione di solidarietà con il popolo Saharawi "Hammada" c/o "Casa della Pace, della Solidarietà e dei Diritti 53. Umani", via Luigi Tonini 5, 47037 Rimini, tel.+ fax. 0541/50555. 54. Molti dei bambini rimasti nel deserto si presentano in campo scalzi o con al massimo una scarpa per il piede con cui calciano abitualmente; gli 'Italiani' arrivano indossando magliette di nylon e scarpette. Dopo pochi minuti questi ultimi, in difficoltà per le condizioni ambientali, cominciano a spogliarsi di maglie e scarpette. L'incontro si conclude 4-0 per la squadra di 'casa'. . Esistono altri tipi di danza, che hanno una connotazione rituale più forte. Due o più uomini danzando mimano uno scontro, esorcizzando così il conflitto. Attraverso un altro tipo di danza, i Saharawi raccontano la loro storia passata. 55. Le trecce rappresentano uno dei simboli identitari delle donne saharawi. Si veda il paragrafo 5.4.3) Analisi delle opere, fig. 4. Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

Dei due generi di piacere, l'uno provato immediatamente dai sensi a contatto con le superfici estetiche, e l'altro che è un piacere tratto dalla comprensione, è evidentemente quest'ultimo, ovvero il piacere intellettuale, che abbiamo in mente quando parliamo dell'educazione che l'università deve fornire, o quando pensiamo a un uomo colto(1) . Ananda K. Coomaraswamy (1977)

5.1) Introduzione 5.1.1) Scoperta 5.1.2) Introduzione 5.2) Raffigurazione ed Islam 5.3) Pittura contemporanea nel Maghreb 5.4) Pittura fra i Saharawi 5.4.1) Pittura fra i Saharawi 5.4.2) Soggetti e temi 5.4.3) Analisi delle opere 5.5) Disegni dei/delle bambini/e 5.5.1) Disegni dei/delle bambini/e 5.5.2) Descrizione dei disegni

5.1) Introduzione

5.1.1) Scoperta (Inizio pagina) Mi trovo(2) nel campo 27 de Febrero, dove Walter Daviddi ed Adriano Orsi(3) hanno appena intervistato Mariem Salek, direttrice della scuola femminile, con cui avrò modo di conversare durante la mia seconda visita nei territori della RASD. Abub, il nostro autista, non si trova; è probabilmente andato a visitare qualche parente che vive al '27'. L'autista è uno dei mestieri più considerati fra la popolazione. Permette di guidare la toyota, il moderno cammello del deserto, di fornire prova della propria abilità e della conoscenza del territorio. Il deserto è solcato da piste individuate da segni, che questi autisti sanno leggere in ogni condizione. Il deserto diventa un testo che sono in grado di interpretare. Khandud Hamdì(4) ci propone di aspettare il rientro di Abub all'interno dell'Expo dei pittori saharawi, che si trova nel cortile della Scuola Femminile. Si tratta di una grande sala rettangolare dove sono esposte e messe in vendita opere di artisti saharawi: essenzialmente quadri ad olio ed alcune tecniche miste. Al centro della sala su un tavolo troviamo oggetti di artigianato come le pipe, il bastone lavorato (er-hal) con cui si costruisce la sella del cammello destinata alle donne, piccole pelli decorate con disegni geometrici e souvenir come rose del deserto, posacenere, portachiavi, anelli e specchi dove risultano ben visibili la bandiera della RASD e la sagoma del Sahara Occidentale. All'interno nessuno dipinge, ma i tre uomini presenti, fra cui il pittore Mohamed Salem, soprannominato Picasso, stanno preparando degli striscioni per la parata del 20 de Mayo. Mancano pochi giorni ed ovunque nei campi profughi la popolazione si sta organizzando. Abbiamo poco tempo per guardare i quadri; Abub ci ha raggiunti. Sulle tele abbiamo visto immagini di vita quotidiana nel deserto e rappresentazioni legate al presente politico saharawi. Mi riprometto di tornare all'Expo con più tempo, per osservare meglio le opere. L'utilizzo della pittura, ed in particolare modo la produzione di quadri, rappresenta un'assoluta novità nella storia dei Saharawi, dove l'arte è sempre stata prerogativa di poeti e musicisti e può essere letto come uno dei tanti mezzi di comunicazione che questo popolo utilizza per parlare di sé al proprio interno ed all'esterno. Mohamed Salem: Tutto è iniziato con la Rivoluzione del Fronte Polisario. Questo cambiamento politico ci ha dato la possibilità di prepararci all'estero, la possibilità di vedere, di apprendere le tecniche e l'importanza che ha un'immagine visuale come strumento di comunicazione. I quadri qui presenti si differenziano nello stile. Artisticamente ognuno utilizza lo stile che preferisce e con cui può esprimere Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

meglio il proprio sentimento. Nonostante la differenza di stile c'è un'unione d'idea. L'idea è chiara per te e per tutti quelli che visitano l'Expo o le esposizioni che facciamo nelle wilaya(5) , in occasione di particolari celebrazioni, o all'estero. Tutti rappresentano il problema del nostro popolo

Durante il mio secondo soggiorno ho occasione di visitare l'Expo con più calma, anche se non sempre lo trovo aperto. Vi ho sempre trovato Mohamed Salem e Said con cui ho avuto modo di conversare sui quadri. Fungeva da interprete Lebib Abidin, il responsabile del Museo Nacional del Pueblo Saharaui.

5.1.2) Introduzione (Inizio pagina) Costruire un discorso sulla pittura all'interno dei campi profughi saharawi può sembrare, di primo acchito, una stravaganza degna di un aspirante antropologo alla continua ricerca di nuovi campi d'indagine, anche laddove non sembrino indicativi o che abbia preso troppo alla lettera Clifford Geertz quando definiva il proprio mestiere quello del 'complicatore di professione'. Nello specifico affrontare la pittura figurativa saharawi rappresenta quantomeno una complicazione delle mie ricerche. Come si può pretendere di analizzare una forma d'arte, che è un'assoluta novità per la popolazione in questione e che nel resto del mondo islamico ha sempre sofferto della disapprovazione, se non del divieto, da parte della religione e quindi della società? Inoltre il materiale da me raccolto e quello che ho potuto visionare non è certo esaustivo della produzione saharawi e pochi sono stati gli incontri che ho avuto con i pittori. Risulta pertanto difficile condurre un'accurata analisi estetica sulla pittura saharawi. Arnold Rubin nell'introduzione di Art as technology(6) esorta a ricordarsi che qualunque discorso si voglia fare sull'arte, deve partire dalla considerazione che ciò che analizziamo sono oggetti. Di questi oggetti, tralasciando giudizi estetici etnocentrici, dobbiamo capire da dove provengano, perché assumano determinate forme, cosa significhino. Gli oggetti sono documenti di processi culturali e forniscono una testimonianza diretta, una via d'accesso non mediata ai valori ed alle esperienze di chi li produce; se siamo in grado di leggerli(7) . Si tratta di analizzare quale ruolo abbia la pittura all'interno della RASD, come sia nata ed in che modo rappresenti un utile campo d'indagine, per tentare di capire meglio chi siano i Saharawi oggi, quale percezione abbiano della loro identità e come la mettano in mostra. Per fare questo evidenzierò ove siano presenti le influenze artistiche più significative, ma porrò l'attenzione soprattutto sul ruolo che questa forma d'arte assume e su quali siano le tematiche maggiormente affrontate dalle opere. Il dato interessante risiede proprio nella presenza della pittura figurativa in quanto tale, nei legami che questa ha con la storia presente dei Saharawi e quindi con la loro cultura in rapido mutamento. Ogni forma d'arte rappresenta ed esprime i valori, le credenze, le aspirazioni consce o inconsce dell'artista che opera all'interno di una comunità. I prodotti artistici sono parte integrante di ogni cultura ed attraverso l'osservazione della loro evoluzione, possiamo analizzare i mutamenti avvenuti all'interno di una società. La pittura rappresenta un mezzo nuovo attraverso cui i Saharawi rappresentano la loro realtà o meglio un mezzo artistico mai sperimentato in precedenza, dati lo stile di vita nomade e la disapprovazione religiosa. Non ne possiamo quindi analizzare ancora l'evoluzione, ma la sua stessa presenza rappresenta uno 'scandalo' ricco di significati.

5.2) Raffigurazione ed Islam(8) (Inizio pagina) Alla base della concezione estetica islamica vi è il presupposto metafisico che mentre il tempo è formato da una serie successiva d'istanti non connessi fra loro, Dio è immutabile ed eterno. Ne risulta che tutte le cose sono prive di consistenza in quanto risultanti da continui e perpetui atti creativi di un Dio onnipotente, incorporeo e non localizzabile. L'idea elaborata dalla tradizione classica occidentale, che pone l'uomo come misura di tutte le cose e l'idea stessa dell'arte come imitazione della natura, sono rifiutati dall'Islam come tentativi blasfemi di imitare e ripetere l'atto creativo di cui solo Dio è detentore. L'attitudine negativa risulta maggiormente chiara se prendiamo in considerazione l'utilizzo di alcuni termini all'interno del Corano, come fa Ettinghausen in 'La peinture arabe'(9). Dans le Coran, le terme signifiant 'faire, former' (sawwara) est synonyme de celui qui veut dire 'créer' (bara'a). On ne qualifie pas seulament Dieu(10) de Créateur (al-bari') mais de mousssawwir, le mot qui désigne le peintre. L'artiste, lorsqu'il représente un etre vivant, assume une attitude blasphematoire: il entende rivaliser avec Dieu. Nel Corano non ci sono comunque espliciti riferimenti alla disapprovazione nei confronti di chi produce immagini, ma sono lanciati più anatemi verso chi utilizza le immagini ed in particolare la adora. Nelle Hadiths, raccolte di detti, azioni e gesta del Profeta, le cui diverse codificazioni risalgono alla Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

seconda metà del IX sec., troviamo un atteggiamento esplicitamente ostile alla pittura. I fabbricatori di immagini sono definiti i 'peggiori fra gli uomini' e si indica di non entrare mai in una casa dove vi siano un'immagine od un cane, poiché la loro presenza impedisce l'ingresso dell'angelo del perdono. Il rigorismo religioso ed il conseguente aconicismo hanno determinato nel mondo arabo l'enfatizzazione della parola a discapito dell'immagine. Poeti e musicisti sono gli artisti per eccellenza. Nell'ambito delle arti decorative fu la calligrafia che assunse il ruolo predominante, in quanto strumento di diffusione della parola di Dio, seguita dalla produzione di arabeschi che su moschee e palazzi, ma anche libri e tessuti ripetono all'infinito elementi geometrici o vegetali estremamente stilizzati. Esiste una pittura figurativa all'interno del mondo islamico? Ancora oggi il senso comune e la scarsa disponibilità di fonti ed opere ci fanno pensare che l'interdizione dell'Islam alla rappresentazione di immagini sacre in particolare e di essere animati in generale, abbia determinato l'assenza totale di ogni tipo di arte pittorica figurativa. Nei territori conquistati dagli Arabi nel VII sec. sottratti agli imperi bizantino e sassanide troviamo esempi di arte figurativa in affreschi, mosaici, miniature e ceramiche. La produzione di raffigurazioni di essere animati, mai di immagini sacre, proliferò all'interno dei palazzi di sultani e califfi dove fiorì la produzione di immagini legate alla vita di corte come musicisti e danzatrici. Purtroppo la quasi totale distruzione della pittura parietale e della miniatura fino alla metà del XIV sec., non hanno consentito lo sviluppo di studi adeguati e l'interesse verso questa forma d'arte. Permangono resti di affreschi in Siria ed in Transgiordania in castelli e padiglioni di caccia dei califfi ommaiadi (VII- VIII sec.), in Irak nella residenza dei califfi abbassidi di Samarra a nord di Baghdad (I metà del IX sec.). La pittura fiorita in Siria, Egitto ed in Africa settentrionale sotto i Fatimidi (X-XII sec.) è andata quasi del tutto perduta. Significativi sono le pitture del soffitto ligneo della Cappella Palatina di Palermo eseguite per conto del re normanno Ruggero II ad opera di artisti provenienti da Siria ed Egitto fra il 1132 ed il 1143. L'analisi di U. Monneret de Villard(11) dei soffitti lignei con la caratteristica cornice di nicchie ed alveoli di tradizione araba è stata ripresa e citata più volte da studiosi italiani(12)che si sono dedicati al problema della raffigurazione pittorica all'interno dell'Islam. Le decorazioni e le immagini di vario genere non sono distinguibili a distanza. Troviamo incisioni in caratteri cufici con parole augurali (vittoria, felicità etc.), decorazioni geometriche, rappresentazioni stilizzate di piante, ma anche animali ed esseri umani. Monneret de Villard identifica le raffigurazioni di musicisti, danzatrici, falconieri e bevitori come appartenenti al ciclo della vita signorile tipico dell'arte orientale di influsso iranico ed ellenistico. La metà del XIV sec. segna l'inizio della decadenza della pittura araba. Ettinghausen(13) ne ha individuato i motivi nella concomitanza di tre fattori: vittoria dell'ortodossia religiosa, peggioramento delle condizioni di vita economiche e sociali, dominazione ottomana di Siria, Egitto ed Irak incapaci di operare una sintesi fra l'impero turco e le proprie tradizioni.

5.3) Pittura contemporanea nel Maghreb (Inizio pagina) I contrasti ed i cambiamenti scaturiti nelle culture maghrebine dal contatto con altre culture hanno determinato nel corso del XX sec. lo sviluppo di varie forme d'arte come la musica rai in Algeria e le arti plastiche figurative soprattutto in Marocco ed Algeria, dove gli elementi tradizionali delle arti decorative sono stati ripresi, al di fuori dell'arte tradizionale, della teologia e della grammatica classica, contrasti e cambiamenti, nella produzione di una pittura figurativa ed astratta influenzata dall'occidente. Sottratti al testo teologico e letterario, i segni della scrittura e le forme delle varie calligrafie (naskhi, tulut, cufica ecc.) conservano un potere evocativo e la calligrafia resta ancora una fonte feconda di ispirazione(14). Tra gli anni 20 e gli 60, all'interno del Maghreb e non solo, le arti hanno giocato un ruolo molto importante nell'elaborazione di una cultura nazionale moderna. Le strade intraprese dagli artisti maghrebini che avevano studiato nelle accademie europee sono state varie e differenti. Il patrimonio artistico tradizionale, minacciato dalla colonizzazione occidentale e dal processo di industrializzazione che questa stava determinando, ha spinto molti artisti ad imitare alcune tecniche della pittura classica islamica come la miniatura; altri hanno inizialmente rifiutato la ripresa e la rielaborazione delle arti pittoriche tradizionali ed hanno adottato forme derivanti dalle accademie e dal postimpressionismo occidentale (paesaggi, ritratti, pittura di genere), frutto di influenze coloniali che non hanno permesso quasi mai di emanciparsi verso risultati originali. Ad Algeri nel 1930 era stato fondato il Musée National des Beaux Arts(15) dove erano raccolte opere che mostrano le tappe essenziali della pittura europea dal XV sec. agli inizi del XX sec., con particolare attenzione alla pittura francese a cavallo fra XIX e XX sec.. Vi Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

si potevano ammirare, fra gli altri, dipinti di Delacroix, Degas, Monet, Renoir ed alcune sculture di Rodin. Il Musée National des Beaux Arts di Algeri era all'epoca l'istituzione più importante dove i pittori maghrebini potevano vedere le opere occidentali prima di recarsi nelle accademie di Parigi, Roma e Londra. Chiuso poco prima dell'indipendenza algerina, riaprì nel 1970 con le opere originarie cui si è aggiunta una sezione dedicata ai pittori algerini contemporanei. Sotto l'influenza di un certo orientalismo accademico, negli anni 40 la maggiore attenzione fu suscitata da generi non ben definiti riconducibili alla definizione ambigua di pittura naïf. Alcuni artisti riscossero interesse in Francia. L'algerino Mahieddine Baya fu presentato a Parigi nel 1947 da André Breton. Negli anni 60, dopo l'indipendenza, il desiderio di rottura con il passato coloniale si è accompagnato alla ripresa di elementi tradizionali vitali quali i segni calligrafici e gli arabeschi, che sono stati spogliati delle valenze passate e sono stati inseriti in rappresentazioni figurative ed astratte. Alcuni artisti come il gruppo algerino Aouchem (Tatuaggi) ha approfondito una moderna ricerca su aspetti tradizionali quali i segni derivati dai tatuaggi. I marocchini Mohamed Cherkaoui e Houcine Miloudi si sono dedicati ad una pittura ricca di elementi iconografici ripresi dalla calligrafia. La ricerca sul 'segno' calligramma ha conquistato un'intera generazione di pittori maghrebini sviluppando correnti astratte, rigorosamente geometriche ed una pittura astratta lirica e informale, determinando negli anni 70 il definitivo superamento del naïf e del realismo esotico di tipo accademico. Lo sviluppo della pittura contemporanea nel Maghreb è stato il frutto di una continua tensione tra la figurazione, influenzata dalle accademie occidentali, e l'astrattismo evocato dai 'segni' delle proprie tradizioni. Oggi questa seconda linea di tendenza è quella predominante ed è coerentemente l'unica che permette di raggiungere risultati originali.

5.4.1) Pittura fra i Saharawi (Inizio pagina)

La pittura figurativa nasce fra i Saharawi con l'esilio nei campi profughi nel 1975. L'esilio determina paradossalmente opportunità di viaggiare all'estero prima inesistenti. Il Polisario, nel condurre la lotta di liberazione, ha operato su vari livelli: militare, diplomatico e sociale. Come molti movimenti di liberazione nazionale in tutto il mondo e specialmente in quelli che avevano portato alla decolonizzazione in Africa, ha sempre considerato fondamentale arrivare all'appuntamento con l'indipendenza dotato di una classe dirigente formatasi all'estero ed in grado di amministrare la nuova nazione. I quadri saharawi si sono formati nei paesi amici o laddove operano associazioni di solidarietà in grado di fornire borse di studio. In questa maniera Cuba, Algeria, Libia, Messico ma anche Spagna ed Italia vedono arrivare giovani, studenti e studentesse di medicina, psicologia, pedagogia, ingegneria, economia. Insieme a loro vi sono, seppure in percentuale minore, studenti e studentesse che frequentano le accademie di belle arti. Tre anni fa il Ministero della Cultura ha promosso la creazione dell'Expo all'interno del campo 27 de Febrero e si è impegnato a fornire sempre più materiali ed occasioni espositive. Chi vuole dipingere deve in ogni modo essere in grado di recuperare i materiali autonomamente, di solito nella vicina città algerina di Tindouf. Il Polisario ha deciso di dare spazio anche ad un genere di studi che a prima vista non sembra potere rappresentare una risorsa per questo popolo. Al contrario la pittura svolge una funzione politica di propaganda e di ponte culturale verso il resto del mondo su vari livelli. I Saharawi, attraverso la pittura, stanno tentando di fare proprio un ulteriore mezzo con cui rappresentare la loro identità e mostrare la loro realtà. I messaggi che i quadri comunicano sono rivolti tanto alla popolazione indigena, quanto allo straniero che visita i campi profughi o che ha la rara occasione di vederne una mostra altrove. Un'esposizione all'estero non è mai un fatto puramente culturale, ma è sempre un'occasione per una sensibilizzazione politica sulla causa saharawi. All'interno dei campi, le visite delle scolaresche alla sala espositiva sono un'occasione per riflettere sul loro presente; riflessione che non può astrarsi dall'analisi politica, considerati i soggetti di molti quadri. I pittori(16) saharawi che si recano all'estero, entrano in contatto non solo con un sapere tecnico, ma anche con un gusto estetico a loro completamente sconosciuto. I loro studi, anche laddove avvengano in paesi arabi, risentono della tradizione occidentale. Queste influenze si ritrasmettono sui molti autodidatti che non hanno l'opportunità di viaggiare, ma avvertono ugualmente la necessità di esprimersi attraverso la pittura. Il Polisario ha favorito in questo modo la nascita di una forma d'arte che tenta di avvicinare il piccolo stato in esilio alla cultura di quelle potenze occidentali cui si chiede di essere legittimati ad esistere. Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

Non ritengo si possa definire una pittura di Stato. Non ci sono discussioni su quale sia l'arte da prediligere per supportare la Rivoluzione Sociale, né direttive su quali stili adottare e su quali soggetti ritrarre. L'operazione che questi pittori stanno portando avanti è il frutto di sempre maggiori contatti con l'Occidente e dell'esigenza di rappresentare la situazione del loro popolo con ogni mezzo disponibile. Adottano una forma d'arte nuova, ispirandosi al proprio bagaglio visuale di popolazione che ha sempre vissuto nel deserto e che da ormai tre decenni è una popolazione militante. Studiosi come Maurice Barbier(17) hanno definito i Saharawi come un popolo che esiste perché è mobilitato su un obiettivo comune, un popolo che esiste perché combatte a prescindere dai legami culturali e storici delle tribù che lo costituivano. I pittori saharawi risentono, come tutti, dell'alto grado di politicizzazione della vita nella RASD e la loro produzione ne è una chiara dimostrazione. Spesso un opera d'arte rappresenta un documento storico più significativo e diretto, quando lo si sappia interpretare, di tanti documenti ufficiali. L'artista con le sue opere, i suoi lavori, esprime il proprio sentimento che rispecchia il suo percorso esistenziale ed individuale e, contemporaneamente, fornisce notizie utilissime sulla comunità in cui opera in un preciso momento della storia. I Saharawi stanno adottando una forma d'arte che a loro non appartiene e le loro opere ne risentono. Affrontano le tematiche della vita nel deserto e delle sofferenze del loro popolo adottando tecniche e rifacendosi a stili della pittura occidentale senza sviluppare la propria tradizione iconografica e soprattutto grafica, legata alle arti decorative. Mancano opere dove l'esperienza calligrafica dialoghi con l'estetica occidentale, come avviene nel resto del Maghreb, ma probabilmente è ancora troppo forte l'esigenza di rappresentare la loro identità ed il loro presente in maniera diretta e figurativa, per tentare una fusione di questo genere. La pittura fra i Saharawi si trova ancora in una fase embrionale dove l'ideologia, la scarsità di mezzi materiali ed occasioni di studio e la novità della forma d'arte adottata prevalgono sulla riflessione estetica e su rari tentativi di sintesi veramente originali. La calligrafia e la pittura rimangono ancora due mondi separati, ma sarà interessante vedere quali strade prenderanno i pittori saharawi in un futuro meno drammatico del presente. La produzione saharawi rispecchia il dramma del loro presente politico e storico non solo attraverso i soggetti scelti, ma anche attraverso la mancanza di una proposizione di elementi forti della propria cultura nell'avvicinarsi ad una forma d'arte appresa dall'Occidente. Gli stili adoperati si limitano quasi sempre ad un'imitazione della pittura figurativa europea, in certi casi legata al mondo delle accademie ed in altri alle avanguardie storiche, che agli inizi del '900 sovvertirono proprio le accademie; senza possederne, in entrambi i casi, le basi, la grammatica necessarie. Natura morta, ritratto, paesaggio, surrealismo di tipo quasi magico, un certo figurativismo retorico, cubismo, la pittura naïf sono abbozzati nelle loro opere. Le opere in cui si vede un tentativo consapevole di produrre un'opera in grado di comunicare al di là della tematica raffigurata sono poche. Non è un caso che questo avvenga dove si usino tecniche libere, meno legate all'influenza occidentale, e dove il soggetto, anche se politico, abbia un forte legame con la letteratura o con la tradizione iconografica di questi luoghi come in un bassorilievo simbolico della RASD ed in alcuni quadri che reinterpretano oggi le pitture rupestri di cui è ricco il Sahara. Gerbrands ci fornisce un'utile definizione di 'arte'. Quando un processo creativo individuale fornisce a valori culturali una personale interpretazione, attraverso la materia, il movimento, il suono o una natura tale che le forme risultanti dal processo creativo rispecchino gli standard di bellezza validi nella sua società, allora chiamiamo questo processo creativo e le forme risultanti da esso 'arte(18)' . Questa definizione risale al 1957 e va inserita all'interno di un dibattito volto a criticare l'approccio etnocentrico nei confronti dell'arte, come di ogni altro aspetto delle culture non occidentali; attitudine sulle cui basi, nel XIX sec., era nata l'Antropologia. Le parole chiave dei nostri giorni sono 'globalizzazione' e 'meticciato'. Trovare dei criteri di bellezza, universalmente validi, anche all'interno di una singola cultura, rappresenta un'ardua impresa. I criteri vengono continuamente rinegoziati e sono il frutto di ibridazioni, incontri, incastri, sincretismi fra culture un tempo distanti. Nel caso dei quadri saharawi trovare degli standard di bellezza; addentrarsi in un discorso estetico, rappresenta un'operazione difficile e rischiosa. Quasi tutte le opere che osserveremo, non rispondono ad alcun criterio estetico legato alla loro cultura e non rispondono agli standard di bellezza della tradizione occidentale cui si rifanno. Molti pittori sono autodidatti, altri hanno potuto frequentare le accademie di belle arti straniere per poi tornare a vivere nel deserto. Cinque, sei anni di studi non permettono certo di assimilare una tradizione altra; a questo si aggiunga l'assenza di una vera riflessione sulla propria. Inoltre la particolare condizione di profughi non permette a nessuno di vivere della propria arte. L'unico mercato è rappresentato dai cosiddetti 'turisti solidali' che si recano nei campi due volte l'anno per visitare di solito i bambini che Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

hanno ospitato a casa loro. Anche fra i turisti solidali sono pochi ad acquistare questi quadri, che semmai sono comprati dalle famiglie saharawi e regalati ai visitatori. Gli europei in visita e quelli che lavorano nei campi profughi preferiscono comprare oggetti e souvenir laddove l'ospitalità dei profughi non ne abbia già esaurito il desiderio e la curiosità. La produzione di souvenir aiuta a chiarire ulteriormente la situazione dei Saharawi che si sono trovati a passare repentinamente nel giro di cinquanta anni da un tipo di vita nomade ad uno sedentario e per di più oggi rifugiati stanziati in tendopoli, appartenenti ad uno stato in esilio sconosciuto a gran parte del mondo. L'arrivo delle merci spagnole prima e degli aiuti umanitari oggi, insieme alla priorità della guerra, hanno determinato oltre al tentativo di assimilare la pittura figurativa dall'occidente, la perdita di abilità tradizionali come quelle degli artigiani, che non devono più produrre gli oggetti, gli utensili necessari alla vita quotidiana. Molti souvenir come collane, bracciali, pipe e tessuti sono importati dalla Mauritania; altri oggetti come posacenere, scatole, specchi, pelli dipinte sono prodotti in serie e sono tutti decorati con elementi grafici tradizionali accompagnati dalla bandiera e dalla sagoma della RASD. La scomparsa dell'artigianato, la presenza di questo nuovo genere di oggetti: i souvenir per i 'turisti solidali' e la comparsa della pittura nelle forme descritte ci danno un ulteriore quadro della cultura saharawi oggi. Marco Aime in 'Diario Dogon'(19) descrive come presso questa popolazione del Mali 'si mettono le statuette ad invecchiare nella terra umida per fare sì che acquistino un aspetto vissuto e datato'. L'idea dell'autenticità affascina comunque il turista. Mi racconta Alberto Sanza di ragazzini che, nei villaggi, fanno da sentinelle: "Quando avvistano i turisti, sostituiscono le poche vecchie porte dei loro granai con porte nuove, prodotte dagli artigiani. Il turista vuole la porta vera e, quando vede staccare la 'sua' direttamente dal granaio, è convinto di avere comperato un oggetto autentico, realmente usato dalla gente del posto". I turisti che si recano presso i Saharawi sono spinti da interessi e prospettive diverse. Non sono spinti ad un viaggio nel deserto da un particolare interesse per le culture africane, dalla suggestione di letture antropologiche come molti di coloro che si recano presso i Dogon sull'onda della lettura di 'Dio d'acqua'(20) di Marcel Griaule, ma si recano nei campi profughi sull'onda di una solidarietà umana ancor prima che politica, spinti da campagne di sensibilizzazione attuate da associazioni di solidarietà. Nella maggiore parte dei casi si trovano nel mezzo del deserto algerino, come si sarebbero potuti trovare nel Chiapas messicano presso gli Zapatisti o in Turchia per celebrare il capodanno curdo. In un certo senso sono degli ambasciatori della causa saharawi e non cercano manufatti più o meno autentici della cultura di questo popolo. I Saharawi da parte loro amano presentarsi come una popolazione del deserto con proprie tradizioni e propri costumi, ma soprattutto come un popolo unito, impegnato nella costruzione di una nazione indipendente. Anche per questi motivi è nato un certo tipo di pittura e si vendono anelli con la sagoma della RASD. Molte volte mi è capitato di risvegliare l'interesse e la curiosità dei miei interlocutori nominando il Fronte Polisario piuttosto che i Saharawi. Il movimento di liberazione è molto più conosciuto del suo popolo. La bandiera della RASD per i 'turisti solidali' ed in parte anche per i Saharawi è ormai più 'autentica' di una darrà o di un turbante. Una volta accantonati i concetti di bellezza e di autenticità, mi servo nuovamente di Arnold Rubin per giustificare l'interesse suscitatomi dalla pittura sviluppatasi fra i Saharawi. Possiamo identificare tre aree che individuano a grandi linee quale sia il ruolo dell'arte nella società. Primo: l'arte stabilisce e proclama i parametri dell'identità individuale e collettiva. Secondo: l'arte è didattica, è un metodo d'insegnamento, il canale principale per entrare in contatto con una cultura e per infondere il concetto di appartenenza ad un gruppo. L'arte rappresenta una catena che unisce le generazioni in una rete di credenze e comportamenti condivisi. Terzo: l'arte può essere descritta come una forma di tecnologia, una parte del sistema di strumenti e tecniche attraverso le quali l'uomo si relaziona col proprio ambiente ed assicura la propria sopravvivenza(21) . Proviamo ora a considerare lo sviluppo della pittura fra i Saharawi alla luce di questi argomenti. L'identità saharawi è in rapido cambiamento da almeno 60 anni ed i quadri prodotti dai pittori negli ultimi 25 anni ne sono un manifesto ed uno strumento. Le nuove generazioni nascono all'interno di una società mutata nella sua struttura e nelle sue rappresentazioni di cui i quadri sono un esempio. Rubin parla di arte come tecnologia per introdurre il concetto di efficacia. Azioni rituali che includano canzoni, danze ed altre forme d'arte sono utilizzate nelle società tradizionali per scongiurare catastrofi naturali, intervenire sull'esito di una battuta di caccia od esorcizzare la paura di misteri incomprensibili per l'uomo. L'arte è uno strumento di cui l'uomo si serve per interagire con altri individui o con forze soprannaturali. Sono forse gli 'standards di bellezza' e le 'interpretazioni personali' importanti, quando l'oggetto è usato per Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

portare la pioggia nella sua stagione, prevenire una malattia, favorire la fertilità o ridare al sole la sua brillantezza? … Considerare l'arte come una tecnologia presuppone una condizione eticamente neutrale. … I significati artistici possono essere giudicati come efficienti ed efficaci, inefficienti ed inefficaci nel compimento di particolari fini sociali e culturali (22). La pittura sviluppatasi fra i Saharawi non è investita di alcun potere magico o simpatico, anche se, come vedremo nell'analisi delle opere, un quadro in particolare (fig. 1) è stato scelto per influenzare il sonno di Kofi Annan. Aneddoti a parte, la pittura può essere vista come una forma di tecnologia, in quanto rappresenta uno strumento didattico ed un mezzo di comunicazione adottato per spiegare e mostrare alla popolazione dei campi ed al mondo, chi siano oggi e quali siano le fondamenta della loro identità sottoposta a drammatici cambiamenti.

5.4.2) Soggetti e temi (Inizio pagina) Diversamente dagli stili che sono vari e differenti, i soggetti dei quadri che ho visto si possono dividere in due categorie principali che chiamerò: simboli dell'identità e presente politico. In alcuni casi questi elementi sono presenti nella stessa opera dialogando fra loro in un evidente gioco di richiami. In nessuna opera sono raffigurati personaggi storici, non vi è nessun ritratto di Mustapha Sayed El Ouali o di Cheikh Ma el-Ainin, tantomeno di Mohamed Abdelaziz, bensì persone; donne, uomini e bambini che hanno il potere simbolico di rappresentare tutto il popolo saharawi. Simboli dell'identità Gli elementi identitari con cui i Saharawi si autorappresentano sono quelli legati al loro passato di nomadi del deserto. 'Figli delle nuvole', 'uomini azzurri', 'gente del deserto' sono alcuni degli epiteti con cui erano conosciuti nel passato. 'Instancabili viaggiatori', 'guerrieri valorosi' 'uomini dallo spirito libero', 'ospiti generosi' sono alcune delle caratteristiche con cui si definiscono ed hanno finito per essere identificati. Vi sono quadri i cui soggetti sono scene di vita quotidiana nel deserto o nella jaima dove spiccano i vestiti tradizionali quali la darrà per gli uomini e la melfa per le donne. Vi sono uomini a dorso di cammello che si incontrano e un anziano, con turbante e lunga barba bianca che fuma la pipa, visioni notturne del deserto dove campeggia la luna piena e scene di vita familiare come una festa di matrimonio (boda) sotto una jaima. Abbiamo delle nature morte vere e proprie come un set da tè all'interno di una jaima. Sono immagini che mostrano la vita del passato nomade, che l'esperienza dei campi profughi in alcuni casi ripropone accentuata. La cerimonia del tè scandisce ogni incontro. La lunga attesa nel deserto ed i prolungati periodi di inattività dovuti al clima ed alla condizione di rifugiati, ne fanno una pratica sociale più frequente che nel passato. La jaima attuale non ha la stessa foggia di quella tradizionale a pianta circolare e con un unico palo centrale a sorreggerla, ma è di tradizione pakistana, giunta nel Sahara con i primi aiuti algerini e libici nel 1975.Oggi i Saharawi riproducono questo nuovo tipo di tenda, più piccola e dalla pianta rettangolare, ma a livello iconografico utilizzano nella quasi totalità dei casi la tenda tradizionale. Non ho visto raffigurato in un nessun quadro, anche laddove compare il nuovo tipo di tenda, la stanza in mattoni d'argilla cotti al sole che ogni famiglia ha costruito di fianco alla jaima. L'abitazione per eccellenza è rappresentata dalla jaima e mai da abitazioni in muratura; solo nei disegni dei bambini compaiono veri e propri edifici o case: abitazioni collegate al loro rientro nel Sahara Occidentale, al futuro. Presente politico In questa ipotetica sezione rientrano le immagini dove maggiormente i pittori Saharawi fanno propria l'esperienza surrealista e adottano simboli, anche di tradizione occidentale, come l'uovo ed il serpente o che sono entrati a far parte dell'iconografia internazionale quali la colomba. Vi sono scene del drammatico esodo nel deserto dove compaiono tende di fortuna e le capre diventano inaspettatamente animali da soma, immagini di prigionieri torturati nelle prigioni marocchine ed altre dove una donna, ritratta con gli elementi indentitari che la caratterizza fra i Saharawi, è posta come spartiacque fra delle sagome di persone impiccate ed altre che ballano sotto una jaima. Sono rappresentazioni di sofferenza dove una donna stenta ad uscire dalla terra, ma anche di partecipazione collettiva dove più mani erigono una jaima sotto gli occhi di un bambino plaudente. Bisogna considerare che tutti i pittori appartengono ad una generazione che ha combattuto, in età giovanissima, gli ultimi anni della guerra ed ancora oggi molti svolgono periodicamente il servizio militare. Malgrado questo non ho visto opere descrittive della guerra col Marocco cui hanno partecipato, ma sono numerose le raffigurazioni simboliche del conflitto ed in generale del frangente storico che i Saharawi, come popolo, stanno affrontando. Sono questi i quadri di cui più difficilmente si possono sintetizzare i contenuti, dato il simbolismo di cui Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

sono tutti permeati. Rimando la loro descrizione alle pagine in cui ci confronteremo con le immagini di questi come di quelli che in parte ho anticipato nella sezione precedente.

5.4.3) Analisi delle opere (Inizio pagina) Risulta difficile condurre un'analisi estetica dei quadri, anche se possono risultare chiare alcune correnti artistiche cui si rifanno i pittori Saharawi. Un discorso incentrato su un'indagine di questo tipo rischierebbe di allontanarci dai messaggi che i Saharawi vogliono lanciare con le loro opere, per farci cadere nella trappola di un discorso incentrato sulle categorie del bello e del brutto, soggettive per loro natura e fuorvianti quando ci si allontana dalla propria cultura. Un'analisi solamente estetica non avrebbe senso in uno studio antropologico, soprattutto se condotta da una persona che non appartiene alla cultura, da cui provengono le opere prese in esame. Nei paragrafi precedenti non mi sono sottratto totalmente ad alcune valutazioni estetiche, perché ho ritenuto fossero utili, per capire quale sia lo stato della cultura saharawi oggi. Per avvicinarci alle opere, dobbiamo ora in primo luogo affidarci al 'piacere tratto dalla comprensione(23)' rispetto a quello 'provato immediatamente dai sensi. Il piacere della comprensione non viola né impedisce il piacere dei sensi, ma include molto di più di quanto la "facoltà intrinseca dell'occhio" possa notare o godere'(24) . Dobbiamo mettere da parte i giudizi estetici, anche se possono affiorare, considerando che le opere analizzate si rifanno esplicitamente alla tradizione pittorica occidentale e concentrarci sui soggetti, sulle narrazioni interne alle immagini e sul loro utilizzo da parte dei Saharawi. Nel fare questo sono partito da quello che i pittori ed altri Saharawi successivamente, quando ho mostrato loro le fotografie dei quadri, mi hanno raccontato. Quella che segue è essenzialmente la lettura che i Saharawi danno delle opere prodotte. In questo frangente la mia vuole essere più che altrove una registrazione critica delle descrizioni e delle interpretazioni che i Saharawi forniscono di fronte ad opere che hanno il compito di rappresentarli al loro interno ed al loro esterno. Partirò dalle loro descrizioni per inoltrarmi in alcuni casi in precisazioni etnografiche ed in considerazioni più generali.

Fig.1 Salek Brahim Senza titolo L'autore ha frequentato la Scuola di Belle Arti ad Algeri ed ha partecipato alla Biennale di Algeri del 1989. Da una darrà (abito tradizionale maschile che può essere azzurro o bianco) esce una mano al posto del collo, che sorregge un uovo. L'autore ci comunica l'incertezza con cui i Saharawi guardano al futuro ed alle sue incognite racchiuse nell'uovo. L'uovo nell'iconografia di molte religioni simboleggia il principio creativo, è un simbolo di nascita, di armonia. Possiamo contestualizzare questa immagine, come fanno i Saharawi che la conoscono, riferendola al delicato processo di identificazione che deve stabilire l'elenco degli aventi diritti al voto al referendum di autodeterminazione che i Saharawi aspettano dal 1991.Il Marocco, una volta accettata, almeno ufficialmente, l'idea di vedere risolta la questione del Sahara Occidentale con un referendum, ha fatto di tutto per ritardarlo ed influenzarne l'esito a proprio favore, istruendo coloni e rappresentanti di tribù del sud marocchino, nel tentativo di vederli riconosciuti come Saharawi e quindi come votanti. L'artista mostra come sia possibile esteriormente indossare l'identità saharawi, rappresentata dalla darrà, e tentare così di manipolare il risultato del referendum. Del resto la società capitalista occidentale offre in continuazione esempi di presunte ed immaginifiche identità indossate e dismesse come magliette: dalla politica allo sport. Il tifoso della squadra di calcio si riconosce la domenica come facente parte di un 'noi' contrapposto a dei 'loro', grazie a pochi, colorati segni di riconoscimentol, quali i colori sociali della propria squadra, che campeggiano sui suoi indumenti ed accessori. L'uovo per alcuni rappresenta addirittura la busta in cui è racchiuso il voto, per tutti comunque rappresenta il futuro dei Saharawi che nessuno sa in quali mani si trovi. La darrà potrebbe anche rappresentare gli cheikhs tribali saharawi che svolgono un ruolo importante all'interno delle commissioni di identificazioni della Minurso, ma tutti hanno interpretato il quadro dandone una lettura legata ai tentativi di brogli da parte del Marocco. Riguardo questo quadro che ho acquistato all'interno dell'Expo per 12.000 pesetas, mi è stato raccontato da Mohamed Salem un curioso aneddoto. Durante la visita di Kofi Annan nel dicembre 1998, il Ministero dell'Informazione a chiesto ad alcuni pittori fra cui lui di allestire le sale della conferenza stampa e degli incontri privati con alcuni quadri. Ogni sala presentava dei quadri scelti appositamente. Nella piccola stanza preparata nel caso Kofi Annan si fosse voluto riposare un momento, erano stati sistemati due quadri: un paesaggio notturno del deserto dello stesso Mohamed Salem (fig.11) che conciliasse il riposo Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

ed il quadro di cui stiamo parlando, perché il Segretario Generale delle Nazioni Unite, anche nel sonno, avesse presente la questione del Sahara Occidentale. Riaffiora in forma aneddotica una delle prerogative dell'arte nelle società tradizionali: l'essere efficace in quanto dotata od investita di poteri magici o simpatici. Durante la sua visita Kofi Annan non è mai entrato in questa stanza per riposarsi.

Fig.2 senza titolo Questo quadro risente dell'influenza del surrealismo è presenta delle connotazioni di tipo quasi magico Un uomo esce dalla terra tenendo nella mano sinistra un uovo e tendendo la destra verso una colomba che ha nidificato su un albero. In basso a sinistra una donna tenta faticosamente di uscire dalla terra dove è intrappolata fino al seno. In alto a destra si vede spuntare fra le nuvole il sole la cui luce illumina la scena nonostante l'oscurità dello sfondo. Sofferenza e speranza per il futuro si incontrano in questo quadro dove la colomba che troveremo anche in altre opere assume il valore di icona internazionale della pace mutuato dal significato cristiano di messaggera dello Spirito Santo. La donna che ha un ruolo simbolico in molte opere e nella retorica politica della RASD è raffigurata come l'essere che soffre maggiormente per il dramma del suo popolo ed al contempo è in grado di riscattarsi con le sue forze. Ci sono molti testi dedicati al ruolo della donna nella società tradizionale saharawi e nella costruzione del nuovo stato(25) . Le donne delle popolazioni nomadi sono sempre state considerate maggiormente libere, rispetto a quelle delle popolazioni sedentarie nel mondo islamico. Durante l'esilio hanno assunto un ruolo decisivo nell'organizzazione amministrativa dei campi profughi mentre gli uomini erano impegnati in guerra. Ancora oggi detengono in maggioranza le cariche di consigliere per tutte le questioni quali istruzione, sanità, distribuzione degli aiuti umanitari, riguardanti la vita quotidiana all'interno dei campi profughi, mentre sono una minoranza all'interno dell'amministrazione nazionale.

Fig.3 senza titolo Quadro di tipo surrealista, che sembra rifarsi all'esperienza dei murales rivoluzionari messicani di inizio 900. Cinque mani collaborano nell'erigere il palo centrale di una jaima tradizionale nel deserto, sotto lo sguardo plaudente di un bambino. Il popolo collabora solidale nel costruire la casa del futuro. La jaima tradizionale è uno dei simboli maggiormente utilizzati per rappresentare l'identità saharawi e metaforicamente la nazione per cui lottano. Come molti movimenti di liberazione il Fronte Polisario ha condotto una vera e propria campagna tesa all'incremento della popolazione determinando un aumento significativo della popolazione nonostante la guerra e le dure condizioni di vita. Il bambino simboleggia la speranza per il futuro ed il destinatario degli sforzi compiuti nel presente.

Fig.4 Said senza titolo Stilisticamente potremmo affermare che si tratta di un tentativo di rifarsi all'esperienza cubista ed a Picasso. La donna è presente in posizione centrale e predominante con tre elementi che la identificano fortemente fra i Saharawi anche se non sono esclusivi della loro cultura. Nella mano sinistra impugna l'er- hal, uno dei quattro bastoni intagliati con disegni geometrici che contribuisce a formare l'ossatura della sella del cammello adoperata dalle donne. La sella risulta essere una specie di portantina, che una volta fermatisi, è tolta dal dorso del cammello e capovolta funge da tavolo e da luogo di riparo per coperte ed oggetti. Il palmo e le dita della mano destra, aperta verso chi osserva il quadro, sono colorati con l'henna e decorati anch'essi con disegni geometrici. Sul capo indossa le trezas, trecce di pelli animali decorate con perline colorate. L'immagine della donna è posta come spartiacque temporale e spaziale al centro del quadro. Sul lato sinistro vi sono immagini che richiamano il presente politico dei saharawi: sagome di persone impiccate e pietre tombali. Sul lato destro immagini di vita quotidiana con alcune persone che ballano sotto una jaima, probabilmente in occasione di una festa di matrimonio. Questo quadro, in occasione della visita di Kofi Annan è stato posto nella sala della conferenza stampa, alle spalle del piccolo pulpito da cui sono intervenuti il Segretario Generale delle Nazioni Unite e Mohamed Abdelaziz, Segretario del Fronte Polisario. Insieme ad alcuni oggetti come la sella del cammello per le donne, spade e vecchi fucili era ben visibile a tutti come elemento rappresentativo dei Saharawi nel corso dei colloqui di pace avvenuti nel dicembre 1998.

Fig.5 Said senza titolo Delle donne con indosso la melfa e le trezas eseguono delle danze tradizionali, mentre sullo sfondo un Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

uomo con la darrà ed il turbante sorregge con la mano sinistra un sole che illumina la scena. La danza rappresenta una delle tematiche preferite per ritrarre aspetti di vita quotidiana tipici dei Saharawi, che ancora permangono nei campi profughi, dove i musicisti ormai utilizzano comunemente strumenti amplificati elettricamente. Le danze tradizionali sono uno degli aspetti che i Saharawi mettono in scena all'interno del Festival di Cultura, che si tiene ogni anno ad aprile e durante le manifestazioni politiche, come le parate per il 20 de Mayo. Si noti che l'autore ha utilizzato alcuni elementi decorativi e segni grafici nella parte inferiore del quadro, fra cui è riconoscibile la stilizzazione dell'er-hal (bastone descritto nella fig.4). Questi elementi non sono, in ogni modo, valorizzati.

Fig.6 Said senza titolo Ritratto di un anziano Saharawi dove spiccano molti elementi tradizionali quali la darrà, il turbante, la pipa, il tè, la barba bianca. Gli elementi grafici sullo sfondo acquisiscono in quest'opera un rilievo maggiore. Malgrado molti elementi identitari e la presenza di segni grafici che rimandano alle arti decorative tradizionali, si notano elementi contraddittori che non possiamo dire se siano dovuti a scarsa abilità del pittore od ad una precisa volontà. L'uomo connotato come Saharawi dagli abiti, dalla pipa e dal bicchiere di tè, si trova probabilmente su una sedia, che non è certo un elemento tradizionale di questo popolo nomade e tiene nella mano sinistra un bicchiere di dimensioni più grandi del classico bicchiere da tè. Assume quindi una postura innaturale malgrado voglia simboleggiare la figura di uno cheikh tribale.

Fig.7,8,9 Salek Brahim senza titolo Tre quadri di Salek Brahim (fig.1) di tipo figurativo dove prevalgono le tinte gialle e marrone del deserto ed una certa retorica priva di un forte slancio epico. Il quadro, raffigurante due Saharawi a cammello che si incontrano nel deserto (fig.7), ci propone un elemento tipico della vita nomade passata. Pochissimi sono i nomadi rimasti e minore è l'importanza del cammello che rimane in ogni caso uno degli elementi identitari per eccellenza. Il mezzo di trasporto utilizzato oggi è rappresentato dalle moderne jeep Toyota e Land Rover cui sono dedicati addirittura delle poesie. Gli altri due quadri che a prima vista possono fare pensare a scene di vita quotidiana nel deserto, rappresentano un momento storico ben preciso: l'esodo del 1975 dal Sahara Occidentale verso l'Algeria. Mi è stato fondamentale per interpretare questi due quadri, osservare le fotografie con Man Sidi Mouloud e Mohamed Cheikh Mohamed, due studenti Saharawi giunti a Perugia nel 1999 con una borsa di studio del Ministero degli Affari Esteri italiano. Della fig. 8 dove si vede un anziano sdraiato in primo piano è importante notare oltre allo sfondo che si perde nel deserto i due recipienti di ferro ed il riparo che la donna utilizza per cucinare in fondo sulla sinistra. I due recipienti di ferro, malgrado possano fare pensare ad oggetti acquisiti dall'occidente, sono manufatti prodotti tradizionalmente dagli artigiani saharawi nel passato. Il riparo arrangiato sullo sfondo rappresenta una tenda di fortuna che i Saharawi si sono trovati ad utilizzare solo durante l'esodo del 1975 quando in fuga non potevano erigere le loro jaimas tradizionali. Della fig.9 dove sono rappresentati una donna con due bambini ed una capra in cammino nel deserto, Man Sidi Mouloud e Mohamed Cheikh Mohamed hanno richiamato la mia attenzione sulla capra per spiegarmi che cosa racconti l'immagine. I Saharawi allevano da sempre le capre, ma non le hanno mai utilizzate come animali da soma, tranne durante i drammatici giorni della fuga attraverso il deserto.

Fig.10 senza titolo Si tratta di una natura morta che ha come soggetto un tradizionale set da tè composto da un recipiente per lo zucchero appoggiato su un panno che serve per pulire e asciugare il vassoio su cui si trovano i bicchierini e la teiera dove si prepara il tè. Sulla destra troviamo la teiera utilizzata come recipiente per l'acqua. Sul fondo il braciere ed a destra la scatola dove si conserva il tè ed all'occorrenza la menta. Questi utensili erano fabbricati un tempo dagli artigiani. Oggi rimangono i vecchi utensili che a poco a poco sono sostituiti da nuovi che non sono più di produzione locale o da barattoli di plastica. Il braciere, ancora presente nelle tende, si utilizza generalmente quando si vuole aromatizzare l'ambiente con incensi, ma e soppiantato ormai dalle bombole a gas da campeggio. Da sempre il tè è stato importato; oggi come nel passato si consuma il tè verde di provenienza cinese. Il tè con il suo servizio sono l'unico 'comfort' presente in ogni famiglia ed insieme a coperte e cuscini Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

rappresenta gli unici oggetti presenti in ogni jaima. La cerimonia del tè è costituita dal bere insieme tre tè che sono sempre meno forti e più dolci. Un proverbio saharawi dice: ' il primo tè è amaro come la vita, il secondo dolce come l'amore ed il terzo soave come la morte'. Questa bevanda rappresenta il più comune momento di socialità fra i Saharawi che lo preparano per ricevere un ospite, per radunare la famiglia che altrimenti non mangia insieme (donne e uomini tradizionalmente mangiano separatamente anche se fra le giovani coppie si sta perdendo questa abitudine), per acquisire zuccheri fondamentali per sopportare il duro clima del deserto. Il set da tè è sempre disponibile sia lo voglia preparare l'uomo sia la donna sia l'ospite. Solo quando ho incontrato una famiglia di nomadi(26) vicino Tifariti a dieci ore di viaggio dai campi profughi, vicino ad una caserma di militari, il tè è stato preparato dal capo famiglia mentre le donne sedevano alle sue spalle.

Fig.11 Mohamed Salem senza titolo Mohamed Salem fu tra i primi studenti che partirono per la Libia nel 1976 all'età di nove anni. Nel 1984 ha avuto la possibilità di trasferirsi ad Algeri dove ha frequentato la Scuola di Belle Arti per poi diplomarsi nel 1989 presso l'Accademia di Belle Arti di Orano. Nel 1989 è rientrato nei campi profughi dove lavora per il Ministero della Cultura. Paesaggio notturno del deserto dotato di un certo lirismo. Questo quadro con i suoi giochi di luce ci fornisce un'immagine che non risente di certi tentativi di avvicinarsi ad una pittura colta e comunica direttamente e con semplicità l'attaccamento dei Saharawi al loro ambiente naturale.

Fig.12 Mohamed Salem recogiendo lena (raccogliendo la legna) Di questo quadro risulta evidente l'incontro fra l'influenza impressionista e la tematica di vita quotidiana nel deserto. Una donna ed un bambino/a strappano rami dai piccoli alberi che crescono nel deserto per accendere il fuoco al loro rientro nella jaima.

Fig.13 Ebn Chahid Ahmed festival de cultura L'autore si è diplomato all Scuola di Belle Arti di Algeri ed ha partecipato nel 1988 alla Biennale di Algeri. Ogni anno, ad aprile, si tiene nei campi profughi un festival culturale dove si raduna tutta la popolazione per assistere a concerti, competizioni di vario genere come la corsa dei cammelli, esposizioni di quadri, recitazioni di poesia ed altre manifestazioni. Viene ricreato un accampamento con le jaimas tradizionali all'interno del quale si celebrano le attività. Le donne, tratteggiate con un marcato chiaroscuro, sono l'elemento dominante. Nella parte superiore un gioco di linee curve e rette disegna uno strumento musicale e la bandiera della RASD. Sullo sfondo si vedono le jaimas tradizionali sormontate da bandiere che mancavano nel passato e che quindi non possono essere altre che quelle della RASD:

Fig.14 Hseina (1987) senza titolo Questo bassorilievo di bronzo rappresenta a mio parere una delle opere più originali fra quelle che ho avuto modo di vedere. Comunica con semplicità ed immediatezza un chiaro messaggio. Si trovano insieme la letteratura popolare, la situazione politica presente ed i colori del deserto, dati dalle varie tonalità fatte prendere al bronzo. L'opera è la riproposizione in chiave attuale di un detto tradizionale saharawi, antecedente al conflitto recente col Marocco, che recita: 'se vuoi fare un viaggio non recarti a nord, perché da lì sempre viene il male; se vuoi recarti ad occidente fallo, ma con prudenza; a sud puoi andare senza preoccupazioni'. Il Sahara Occidentale nei suoi confini coloniali, rivendicati dal Fronte Polisario, con al centro la mezzaluna e la stella che sono presenti nella bandiera nazionale e connotano il mondo arabo ed islamico, è circondato da chiari elementi simbolici. Un serpente proviene dal nord (Marocco), mentre due colombe imbrigliate nella sagoma di due aquile si trovano ad oriente ed occidente. Un occhio osserva il tutto sempre da nord, più distante rispetto agli altri elementi. Il Marocco, stato aggressore, prende le sembianze del serpente, mentre le deboli speranze di pace provengono dall'Algeria che ospita la RASD dal 1976 e dall'Occidente. L'occhio di Allah o della comunità internazionale, secondo le interpretazioni è testimone delle sofferenze dei Saharawi. Dio e l'occidente, in particolare gli americani sono gli arbitri per i Saharawi della loro causa. Un altro detto, recente, esemplifica questo concetto e la duplice interpretazione dell'occhio in alto a destra. Quando nel 1998 chiedevo quali speranze avessero per l'ottenimento Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

dell'indipendenza, spesso mi veniva risposto in due tempi, con due semplici frasi. 'Inch'Allah' (se Dio vuole) in un primo tempo e poco dopo ironicamente 'si los Americanos lo quieren' (se lo desiderano gli Americani).

Fig. 15-16 senza titolo Queste due tecniche miste rappresentano le uniche due opere, fra quelle da me visionate, dove l'artista, evitando di operare un'imitazione di uno stile riproposto con una tematica propria, è riuscito ad operare una sintesi originale fra le arti plastiche occidentali e la propria cultura. Il Sahara è ricco di incisioni e pitture rupestri che vengono qui riprese in forma stilizzata utilizzando materiale ferroso riciclato e la stessa sabbia del deserto. Il ferro, materiale tradizionalmente lavorato dagli artigiani e che oggi si trova in grande quantità sotto forma di rifiuti bellici e non, e la sabbia, la propria terra, vengono adottati per cercare una forma nuova di fare arte. Queste due opere non sono riconducibili alla pittura araba, ai segni calligrafici ed agli arabeschi, ma rappresentano la riproposizione, con una tecnica che non si richiama alle accademie occidentali, di elementi appartenenti al territorio che i Saharawi conoscono per esperienza diretta, avendolo attraversato in ogni direzione da molti secoli.

5.5) Disegni dei/delle bambini/e

5.5.1) Disegni dei/delle bambini/e Desidero concludere questo capitolo analizzando brevemente alcuni disegni di bambini/e Saharawi raccolti nel dicembre 1998. Durante il mio secondo viaggio ho risieduto quasi esclusivamente presso una famiglia saharawi, all'interno del campo 27 de Febrero. Mi sono recato nei campi profughi con alcuni album da disegno e scatole di pastelli con l'intento di fare disegnare i bambini/e, senza sapere cosa aspettarmi da questo lato della ricerca. Le occasioni non sono mancate visto che sono subito diventato un divertimento, una curiosità ed anche un compagno di giochi per i bambini/e della 'mia famiglia' ed i loro amici/che. Spesso la mia presenza era, non solo un'occasione di gioco, ma anche di scontro. I bambini/e volevano, in un certo senso, avere 'l'esclusiva' di passare il tempo con questa persona che non parlava la loro lingua. In più di un'occasione è stato necessario l'intervento energico e risolutivo di qualche donna per ristabilire l'ordine. Non è stato quindi difficile organizzare nella jaima di Mbarka Hassan, la madre di Nasra ed Aha presso di cui risiedevo, un incontro per farli disegnare. Non ho dato nessuna indicazione, ho semplicemente preparato il materiale, portato dall'Italia, e sono stato aiutato poi da Nasra e dalla sua amica Nejette per avere dai bambini/e delle basilari notizie su di loro e sui loro disegni. Dopo questo primo incontro ho ricevuto frequentemente nella tenda di Aha le loro visite. Mi chiedevano di fare altri disegni. Ne ho tenuti alcuni, che mi aiuteranno in questa veloce presentazione. L'età varia dai cinque ai nove anni. Questi disegni sono dei documenti visuali indicativi della condizione saharawi. Non sono un'autorappresentazione ufficiale od ufficializzata come quadri, musei e manifestazioni politiche, ma forniscono alcune indicazioni sul bagaglio di immagini e fantasie sviluppate da bambini/e, nati in campi profughi nel deserto, in grado di utilizzarli consapevolmente. Si noteranno delle influenze legate alla loro esperienza ed alle rappresentazioni e messe in scena ufficiali dei loro genitori. I soggetti disegnati mostrano quanto sia forte la presenza di elementi connessi al presente politico del popolo saharawi. Nei disegni identifichiamo una vera e propria grammatica iconica, dove la scelta di rappresentare una tenda, rispetto ad una casa è il frutto di un'operazione simbolica consapevole, legata alla conoscenza della loro situazione attuale ed alla partecipazione alla lotta ed alle attese del loro popolo. Non dimentichiamo che tutte le scuole, compreso il campo 27 de Febrero, portano il nome di date importanti per la storia della RASD(27) . Durante le celebrazioni ufficiali, come il 20 de Mayo, sfila ogni spezzone del popolo fra cui, anche bambini e bambine; chi in tenuta militare, chi in abiti tradizionali, chi in abiti sportivi. Nei disegni compaiono frequentemente la bandiera nazionale; sono assenti gli animali, specialmente i cammelli, soppiantati dalle jeep, che distribuiscono il pane, e da altri elementi della modernità di grande importanza per la vita quotidiana come i pannelli solari. Molti di loro hanno scelto di disegnare contemporaneamente i campi profughi, in cui vivono, e le città, che si aspettano di abitare nel Sahara Occidentale indipendente. L'attitudine ad identificare i campi profughi, il presente, disegnando le tende ed il futuro disegnando delle abitazioni, è uno degli aspetti più interessanti che si evincono. Nei Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

campi profughi ogni famiglia possiede una tenda ed una stanza di mattoni d'argilla cotti al sole. In quasi tutti i disegni queste stanze sono assenti, mentre compaiono case in muratura che rappresentano le abitazioni del futuro. La consapevolezza di vivere in una situazione particolare, destinata a cambiare nel futuro, è forte. Anche l'ambiente naturale cambia nei disegni ed è legato a particolari esperienze come una vacanza all'estero od alla nozione della differenza, che i bambini/e si sono fatti, della loro condizione attuale legata al deserto e di quella futura, dove li aspetta il paesaggio del Sahara Occidentale, affacciato sull'oceano Atlantico. La vegetazione ed i colori 'esplodono' nei disegni di chi è stato in vacanza in Spagna (fig.21). Le case in muratura, rappresentanti le abitazioni del futuro, sono accompagnate da alberi e fiori, naturalmente assenti nelle rappresentazioni dei campi profughi. Questi elementi sono stati acquisiti dai bambini/e, nati nelle tendopoli e senza alcun'esperienza del Sahara Occidentale, attraverso i racconti dei loro genitori, dove grande è l'enfasi posta sulla presenza del mare e sulla vegetazione costiera, e grazie alla visita della sezione di 'Flora e fauna' del Museo Nacional del Poble Saharaui. Questa sala, composta da pannelli con immagini e testi, non presenta fotografie dell'Hammada(28) ,ma solo dei territori del Sahara Occidentale e specialmente delle zone costiere, più ricche di vegetazione. I soggetti scelti ed il modo in cui sono abbinati, mostrano che anche i bambini/e, attraverso i disegni, le loro autorappresentazioni partecipano a questo momento critico della storia dei saharawi, in bilico fra la vita quotidiana dei campi profughi e la speranza di vivere in uno Stato indipendente.

5.5.2) Descrizione dei disegni Fig.17 Uleida Hassan (anni cinque) Uleida Hassan è nato ed ha sempre vissuto nei campi profughi. La jeep, guidata da Uleida nel buio, si dirige verso il Sahara Occidentale rappresentato dagli alberi in alto a sinistra. Sul tetto della jeep Uleida trasporta la casa in muratura, dove si aspetta di vivere nel Sahara Occidentale. I piccoli cerchi blu sul retro della macchina rappresentano la verdura, che la jeep, inizialmente, era venuta a vendere nel campo profughi. Una jaima verde e la figura stilizzata della sorella Nasra, che va a comprare il pane, portato da una seconda jeep in basso a destra, sono disegnati nell'altra metà del foglio. Presente e futuro si trovano in questo disegno. La composizione di questo disegno dove la jaima, il presente, si trova a destra e la macchina è diretta a sinistra, sembra capovolgere i criteri di composizione e di lettura occidentali. Osserviamo una fotografia dove lo sguardo od il moto di una persona è indirizzato a destra; abbiamo la sensazione che questi siano rivolti verso l'orizzonte, il futuro, in quanto seguono il vettore del nostro abituale modo di leggere da sinistra verso destra. Questo di solito si riflette anche nella prima lettura che facciamo di un'immagine. Nel caso di Uleida Hassan, che ha da poco iniziato a leggere, si riflette forse il modo di lettura da destra a sinistra della lingua araba.

Fig.18 Maghuba (anni otto) Maghuba è nata ed ha sempre vissuto nei campi profughi. Il tipo di composizione è simile a quello della fig.17. Sulla destra sono rappresentati una jaima, una jeep venuta a portare il pane ed una persona con un sacco, che va a prenderlo. Sulla sinistra una casa che si trova ad Auserd, nel Sahara Occidentale e degli alberi (in alto ed in basso). Nel mezzo Maghuba si è raffigurata mentre, con uno zaino, si reca alla scuola, rappresentata da una piccola jaima arancione. Risulta indicativo osservare che la scuola, sebbene nel deserto sia uno dei pochi edifici in muratura, sia rappresentata, forse proprio perché situata nei campi profughi, da una tenda.

Fig.19 Bassiri Saleh (anni otto) Bassiri Saleh è nato ed ha sempre vissuto nei campi profughi. Sulla destra troviamo una casa con più stanze. Nell'ultima (la stanza blu sormontata dal tetto) c'è la fotografia della famiglia di Bassiri. Sulla sinistra, il grande quadrato nero con le linee blu rappresenta un pannello solare, uno dei comfort più utili e desiderati nei campi profughi. Permette, infatti, di avere energia elettrica al di fuori degli orari in cui questa è distribuita dall'amministrazione della RASD. Bassiri afferma che ha disegnato la casa, senza specificare in questo caso dove si trovi, perché è una delle cose che mancano nel deserto e lui desidera maggiormente insieme al mare.

Fig.20 Aloea Mohamed (anni otto) Aloea Mohamed è nato ed è sempre vissuto nei campi profughi. Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

Tre luoghi differenti si trovano in questo disegno e sono evidenziati da altrettanti elementi. In basso a sinistra una jaima blu situata nei campi profughi; al centro una jeep della polizia algerina, vista da Mohamed Aloea nella vicina città di Tinduf, e sulla destra due case che si trovano nel Sahara Occidentale. Sulla sinistra ha disegnato una bandiera della RASD.

Fig.21 Bakita Mohamed (anni nove) Bakita Mohamed è nata nei campi profughi. Nell'estate del 1997 ha trascorso due mesi in Galizia (Spagna) con altri bambini/e saharawi. Bakita Mohamed è rimasta colpita dalla vegetazione e dai colori nuovi, visti durante le vacanze in Spagna. Nel disegno compaiono montagne, fiori, un albero da frutta, una farfalla (l'elemento giallo e rosso sulla sinistra). In alto, sopra le nuvole ed a destra della propria firma vi sono la mezzaluna e la stella della bandiera nazionale.

Fig.22 Kdeja Mahrauf (anni nove) Kdeja Mahrauf è nata nei campi profughi. Nell'estate del 1997 ha trascorso due mesi in Spagna ad Alicante. Anche Kdeja Mahrauf è rimasta colpita dalla novità del paesaggio ed ha disegnato le barche ed il mare. Il mare rappresenta una grande attrattiva per questi bambini nati nel deserto, ma nell'immaginario nazionale è anche il luogo su cui si affaccia il Sahara Occidentale.

1. A. K. Coomaraswamy, La filosofia dell'arte medievale e orientale, p.65, in Il grande brivido, Adelphi, Milano, 1987. 2. Mi sono recato in due occasioni nei campi profughi saharawi nel sud dell'Algeria. Il primo viaggio ha avuto luogo nel maggio 1998, il secondo nel novembre-dicembre dello stesso anno. 3. Due giornalisti della RAI al cui seguito mi sono recato per la prima volta presso i Saharawi. 4. Rappresentante del Fronte Polisario a Roma, che ci ha accompagnato nel maggio 1998. 5. Ogni accampamento prende il nome di una regione (wilaya) ed al suo interno è diviso in diversi villaggi (daira) o nuclei amministrativi. 6. Arnold Rubin, Art as technology, Zena Pearlstone, pp.11-24, Beverly Hills, 1989. 7. Ibidem, p.12 (mia traduzione). 8. Riguardo alla questione della raffigurazione all'interno del mondo islamico si vedano, oltre alcuni testi citati in questo paragrafo e presenti nella bibliografia finale, la bibliografia di R. Ettinghausen, La peinture Arabe, Editions d'Art Albert Skira, pp.93-95, Geneve, 1962. 9. Ibidem. 10. Ibidem, p. 13 11. U. Monneret de Villard, Le pitture musulmane al soffitto della Cappella Palatina in Palermo, Roma, 1950. 12. G. Levi della Vida, Leggenda e realtà sul divieto delle immagini nell'arte islamica in Colloqui del Sodalizio vol. .II, L'Erma di Bretschneider, pp.17-18, Roma, 1956. F. Gabrielli, Aspetti della civiltà arabo-islamica, ed. Radio Italiana, Roma, 1956. 13. R. Ettinghausen, op. cit., pp. 183-184. 14. Toni Maraini, La calligrafia: un'importante fonte di ispirazione in Maghreb, AA. VV., Il Saggiatore- Bruno Mondadori, 1993. 15. Per farsi un'idea della collezione presente ad Algeri fra il 1930 ed il 1960 si può consultare a cura di J. Alazard Chef d'oeuvre du Musée National des Beaux Arts d'Alger, ed. Arts et Métiers Graphiques, Paris, 1931. 16. I pittori che espongono nei campi profughi ed all'estero sono, per quanto attiene alla mia esperienza, quasi tutti uomini. Vi sono donne che hanno frequentato le accademie di belle arti all'estero, ma generalmente mettono in pratica le conoscenze acquisite in questo campo all'interno Tesi-Bruno-Cap5 http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Cap5.htm

degli asili e delle scuole, dove il disegno svolge una funzione di supporto all'attività pedagogica. 17. M. Barbier, Le processus historique de la formation du peuple saharaoui, Ed. L'Harmattan, Parigi, 1987. Il medesimo articolo si trova anche all'interno di La question sahraouie, un probleme historique-politique Cahiers n.4, pp.26-34, a cura della Fondazione Internazionale Lelio Basso, Roma, 1985. 18. Adrian Gerbrands, Art as an Element of Culture, especially in Negro Africa, p.139, E. J. Brill, Leiden, 1957. 19. M. Aime, Diario dogon, Bollati Boringhieri, pp. 72-73, Torino, 2000. 20. M. Griaule, Dio d'acqua, Bompiani, Milano 1976 (ed. or. 1948). 21. A. Rubin, op. cit. p. 16. 22. Ibidem, p. 16. 23. A. K. Coomaraswamy, op.cit., p.65. 24. Ibidem. 25. Fra questi libri ed articoli segnalo il testo della docente di antropologia dell'università di Barcellona Dolores Juliano, La causa saharaui y las mujeres, Icaria, Barcelona, 1998 e Eduardo Rodriguez Nunez, Las mujeres saharauis, Asociacion de Mujeres por la paz, Madrid. 26. Si trattava di una famiglia che si considera nomade in quanto non ha accettato di vivere all'interno dei campi profughi, ma che comunque necessita per vivere degli aiuti umanitari distribuiti dal Fronte Polisario. 27. Il campo 27 de Febrero sorto intorno all'omonima scula femminile deve il suo nome alla data della proclamazione della RASD nei drammatici giorni dell'esodo attraverso il desert verso l'Ageria (27 febbraio 1976). 9 de Junio è il nome della scuola elementare e 12 de Octubre quello della scuola media situate all'esterno dei campi profughi e dove i Saharawi trascorrono gli anni dell'istruzione obbligatoria. Nel calendario nazionale saharawi il 9 giugno è il giorno dei Martiri, scelto in memoria del primo segretario del Fronte Polisario, Mustapha Sayed El Ouali morto in combattimento il 9 giugno 1976. Il 12 ottobre è il giorno dell'Unità Nazionale e ricorda l'assemblea in cui i Saharawi nei giorni del ritiro delle truppe spagnole proclamarono l'i'tenzione di creare uno stato indipendente (12 ottobre 1975). Hammada è il nome con cui viene designato il deserto di pietra algerino, al confine con Marocco, Sahara Occidentale e Mauritania, dove si trovano i campi profughi saharawi. 28. Hammada è il nome con cui viene designato il deserto di pietra algerino, al confine con Marocco, Sahara Occidentale e Mauritania, dove si trovano i campi profughi saharawi. Tesi-Bruno-Conclusioni http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Conclusioni.htm

Considero questo lavoro un punto di partenza e non d'arrivo. La situazione storico-politica dei Saharawi e l'argomento affrontato: l'identità, impongono questa prospettiva. Il presente ci parla di una possibile ripresa del conflitto fra il Fronte Polisario ed il Marocco. In questo caso l'identità saharawi sino a qui costruita ed esperita dai suoi autori ed attori, può prendere due strade differenti. Si può riconfermare, radicalizzandosi di fronte alla drammaticità degli eventi od affievolirsi, quando la popolazione non sia più disposta a vivere nei campi profughi né ad affrontare una nuova guerra, determinando così la fine del progetto politico del Fronte Polisario. Nel mezzo si trova la via dell'autonomia all'interno di un Sahara Occidentale governato dal Marocco, scelta questa che produrrebbe un ennesimo cambiamento d'identità per i saharawi. Il Fronte Polisario e la popolazione saharawi si oppongono a questa soluzione, che parrebbe vanificare gli sforzi e le sofferenze degli ultimi venticinque anni. Nel caso fosse invece accettata la soluzione prospettata di uno svolgimento regolare del referendum, i Saharawi si troveranno di fronte ad un passaggio storico, una cartina di tornasole per verificare il loro sentire collettivo, costruito in questo quarto di secolo. Una volta esauritosi il compito del Fronte Polisario ed avviata la nuova nazione sulla strada del multipartitismo e del libero mercato, com'è previsto dai discorsi dei politici e voluto dalla gente, s'impongono domande cui non si può certo rispondere oggi, ma che costituiscono di per sé avvincenti campi d'indagine. Su quali basi nasceranno i nuovi partiti? Ci saranno divisioni di tipo ideologico o riemergeranno differenziazioni di tipo lignatico, magari favorite da un libero mercato, che ben sappiamo essere in grado di incrinare ogni tipo di solidarietà, in nome della competitività e dell'affermazione individuale? In quale maniera l'esperienza dei Saharawi che hanno vissuto nei campi profughi, si andrà ad integrare con il sentire di chi ha vissuto sotto la dominazione marocchina? Comprensibilmente i Saharawi oggi rispondono 'il giorno dell'indipendenza ci sarà solo una grande allegria', poi verranno i problemi e poi vedremo, ma quel giorno ci sarà solo allegria'. Tutte queste prospettive, che si aprono sul futuro dei Saharawi e l'analisi sino a qui condotta sulle modalità con cui i 'confini identitari' saharawi sono mutati e vengono oggi rappresentati, non fanno altro che confermarci che parlare d'identità, significa parlare di un concetto fluido, che in quanto tale prende la forma del contenitore in cui si trova. Questo non significa che l'identità sia priva di sostanza. Al contrario vediamo continuamente riconfermati il suo carattere oppositivo ed il suo potere performativo. L'identità continua ad avere un forte potere performativo quando si esplicita attraverso luoghi di culto, altamente simbolici come in Palestina o quando perturba l'identità del diverso perché altro, come hanno mostrato le recenti polemiche sorte in Italia contro omosessuali e musulmani. Lo vediamo in questi giorni sui telegiornali con le drammaticamente ripetitive immagini degli scontri mortali nei territori palestinesi occupati. La visita di Ariel Sharon, capo della destra israeliana e protagonista dei massacri di Chabra e Shatila nel 1982, al Monte del Tempio(1) o 'spianata delle moschee', come viene chiamato lo stesso luogo dagli Israeliani, ha fatto esplodere la rabbia della popolazione palestinese, che nei giorni successivi ha assaltato la tomba di S.Giuseppe(2) . Due luoghi di culto, due luoghi dell'identità sono stati il pretesto ed il teatro di gravissimi scontri, che perdurano tuttora. All'origine di questi drammatici eventi ci sono ben altre motivazioni, come la disperazione di un popolo che da più di cinquant'anni ha perso la propria terra. I luoghi di culto, icone sacre dell'identità come lo sono tutte le bandiere, hanno in questo caso mostrato drammaticamente il loro potere performativo, armando la rabbia di una parte e la cecità dell'altra. In Italia, in occasione del Gay Pride a Roma, abbiamo visto il Vaticano e alcuni settori più arretrati dell'opinione pubblica schierarsi contro gli omosessuali(3). In modo analogo posizioni intransigenti, nei confronti della presenza mussulmana hanno portato agli incresciosi episodi di Lodi, pilotati dalla Lega, in disperata ricerca di consensi(4). Le preoccupazioni del cardinale Biffi e di Bossi appaiono far leva su un concetto ristretto di identità, cattolica da un lato e padana dall'altro. L'arrivo dei musulmani, portatori di un'identità altra, e che mantengono saldamente anche lontano dai propri luoghi d'origine, spaventa la chiesa cattolica ed è un ennesimo pretesto per la propaganda leghista. Entrambe queste posizioni, o meglio queste opposizioni, non solo sono miopi e spesso insensate, ma sono soprattutto creatrici e giustificatrici di istanze inquietanti Tesi-Bruno-Conclusioni http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Conclusioni.htm

e pericolose. L'identità saharawi si è andata formando in opposizione ad ogni tipo di dipendenza da un potere centrale e, solo con la svilupparsi del nazionalismo, è stata percepita come l'indipendenza da ogni tipo di potere centrale, non saharawi. La vita nomade legata al deserto era un dato di fatto, comune ad altre popolazioni dell'area come i Tuareg, ma aveva e tuttora mantiene un carattere oppositivo nei confronti dei berberi sedentari del Marocco. L'identità saharawi non si nutre di differenze religiose e linguistiche, dato che condivide questi due aspetti con la gran parte delle popolazioni del Maghreb. Bisogna precisare che l'hassanya, parlato dai Saharawi, non coincide totalmente con l'arabo, ma ne è comunque una sua derivazione. Semmai è la seconda lingua dei Saharawi, lo spagnolo imposto dai colonizzatori, che li identifica oppositivamente nei confronti degli altri popoli dell'Africa nord occidentale, che hanno vissuto sotto l'amministrazione francese. La particolare condizione femminile, cioè gli spazi decisionali e le libertà conquistati dalle donne grazie alla rivoluzione sociale del Fronte Polisario, talvolta anche in contrasto con i suoi organi politici, è divenuto elemento identitario dei Saharawi, che se fa discutere all'interno, unisce ed identifica in maniera oppositiva tutto il popolo Saharawi nei confronti del mondo arabo. Per vedere delinearsi i nuovi 'confini identitari' di questo popolo, sempre passibili di nuove mutazioni, si devono poi aggiungere le strategie politiche e sociali, un certo uso di alcuni termini linguistici, il processo di nazionalizzazione della memoria ed i contatti e gli attraversamenti culturali messi in atto dai continui passaggi di non Saharawi nei campi profughi e dalle prolungate permanenze dei Saharawi all'estero. Un tale processo di sviluppo ed adozione di una nuova identità è stato possibile solo grazie al coinvolgimento, nella sua elaborazione e messa in atto, di tutta la popolazione. Da questo punto di vista la drammaticità del contesto, in cui tale cambiamento è avvenuto, passa in secondo piano, pur rimanendo un aspetto fondamentale e forse necessario. Penso a due sequenze di 'L'evangile selon les Papous(5)' di Thomas Balmès (1999). Questo documentario evidenzia i processi disgregativi della cultura tradizionale papua a Hulis(6) , operati dai missionari. Si apre con le ironicamente desolate affermazioni di due anziani, che affermano di non saper più dire a quale religione appartengono, dato il gran numero di volte che sono stati battezzati, divenendo cattolici, protestanti, di nuovo cattolici e poi 'qualcos'altro che adesso non ricordiamo'. La narrazione s'incentra sulla figura di Ghini, un anziano capo che dopo molti tentennamenti ha accettato di farsi battezzare da un missionario cattolico. Il missionario, anch'egli papua, veste Ghini con abiti occidentali. La vestizione per il battesimo termina con una cravatta, che più che un accessorio, sembra essere un vero e proprio cappio culturale. L'identità maglietta di Hobsbwam si ritrova nella cravatta, che il missionario mette scrupolosamente al collo di Ghini. Per cambiare religione, bisogna cambiarsi d'abito; la nuova identità s'indossa con un capo d'abbigliamento. La nuova identità saharawi è stata indossata velocemente, considerando che venticinque anni sono un nulla di fronte ad una tradizione di secoli, ma questo nuovo vestito è il frutto di un'azione collettiva, seppur diretta dal Fronte Polisario, e per questo, pur con le sue contraddizioni, non potrà essere accantonata facilmente. Clifford Geertz, analizzando il processo di formazione del nazionalismo nei paesi ex coloniali ed i cambiamenti sociali che si originano nei nuovi Stati e nelle loro popolazioni, divenute popoli, parla della concomitante interazione e tensione di essenzialismo ed epocalismo(7) , laddove il primo esprime un'esigenza di coerenza e di continuità con i valori su cui si basava la struttura sociale e politica tradizionale ed il secondo un desiderio di dinamismo e contemporaneità, che fa leva sui valori dominanti intorno ai quali organizzare i nuovi Stati e che permette la ridefinizione di sé in antitesi all'altro, rappresentato dalle potenze coloniali. L'interazione dell'essenzialismo e dell'epocalismo non è [quindi] un tipo di dialettica culturale, un logicismo di idee astratte, ma un processo storico concreto come l'industrializzazione e tangibile come la guerra. I problemi non vengono dibattuti solamente a livello della dottrina e dell'argomentazione - benchè ce ne siano in abbondanza - ma, in modo molto più importante, nelle trasformazioni sostanziali a cui sono sottoposte le strutture sociali di tutti i nuovi Stati. Il mutamento ideologico non è una corrente di pensiero indipendente che scorre a fianco del processo sociale e lo riflette (o lo determina), è una dimensione di quello stesso processo(8) . James Clifford, nel suo ultimo libro, invita a ripensare a livello teorico e politico le nozioni consuete dell'etnicità e dell'identità. Le articolazioni diasporiche sono caratterizzate da irrisolti dialoghi storici tra continuità e rottura, essenza e posizionalità, omogeneità e differenze. Queste culture della dislocazione e del trapianto sono inseparabili da vicende specifiche, e spesso violente, d'interazione economica, politica e culturale: storie che generano quelli che potremmo chiamare cosmopolitismi Tesi-Bruno-Conclusioni http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Conclusioni.htm

discrepanti(9) . La nuova identità saharawi è un complesso meccanismo, frutto dell'interazione e del tentativo riuscito di sovrapporre queste componenti. Per analizzare questi processi, nell'era dell'abbattimento delle distanze spaziali e temporali, della cultura in continua tensione fra omogeneizzazione e recupero di tradizioni diversificanti, recupero di proprie identità, è sempre più difficile tentare di circoscrivere il campo d'indagine della antropologia contemporanea. I campi di ricerca dell'antropologia, ormai da anni, non possono più essere pensati come compartimenti stagni, ipotetici cassetti da aprire, frugare e richiudere, ma come concetti e pratiche fluide. L'antropologia contemporanea diverrebbe

quindi una sorta di spugna, in un mare di contatti, opposizioni, attraversamenti; in grado di accogliere l'antropologo come tanti altri soggetti, in un flusso continuo di scambi(10). Scrive Canevacci: Se l'oggetto antropologico non è più qualcosa di globale e unitario, cui corrisponda un isomorfo concetto di cultura, bensì un oggetto frammentario e ibrido, la scrittura antropologica non può che essere un montaggio- mosaico che, nella sua stessa forma espositiva, "parla" -metacomunica- sulla complessità della rappresentazione etnografica. La nuova antropologia è sincretica e polifonica nell'oggetto e nel metodo (11). La permanente tensione fra omogeneizzazione e diversificazione, che il periodo storico in cui viviamo sta attraversando, obbliga l'antropologia a questa scelta, soprattutto quando parliamo d'identità. Al riguardo trovo illuminante il recente saggio di Amin Maalouf: 'L'identità'(12) . L'autore è nato in Libano ed appartiene alla comunità cristiana; è di madrelingua araba, la lingua sacra dell'Islam, ma da oltre vent'anni vive a Parigi e scrive i suoi libri in francese. Queste notizie non vogliono appagare nessuna curiosità particolare su Amin Maalouf, ma sono le medesime, in forma ovviamente meno articolata, che egli presenta all'inizio del libro. Maalouf invita a 'farsi l'esame d'identità', a riflettere sulla convivenza, non sempre consapevole, ma comunque innegabile, all'interno di ogni individuo, d'identità e quindi appartenenze plurime. L'identità di ogni persona è costituita da una moltitudine di elementi che non si limitano ovviamente a quelli che figurano sui registri ufficiali. Per la stragrande maggioranza degli individui c'è, di sicuro, l'appartenenza a una tradizione religiosa; a una nazionalità, talvolta a due; a un gruppo etnico o linguistico; a una famiglia più o meno allargata; a una professione; a un'istituzione; a un certo ambiente sociale… Ma la lista è assai più lunga, virtualmente illimitata: si può sentire un'appartenenza più o meno forte a […] un quartiere, a una […] squadra di sportivi, […]a una comunità di persone che hanno le stesse passioni, le stesse preferenze sessuali, gli stessi handicap fisici, o che sono messe di fronte agli stessi rischi. Tutte queste appartenenze non hanno evidentemente la stessa importanza, a ogni modo non nello stesso momento. Ma nessuna è totalmente insignificante. Sono gli elementi costitutivi della personalità, si potrebbe quasi dire 'i geni dell'anima', a patto di precisare che la maggior parte non sono innati. Se ciascuno di questi elementi può riscontrarsi in un gran numero di individui, non si ritrova mai la stessa combinazione in due persone diverse, ed è proprio ciò che fa sì che ogni essere sia unico e potenzialmente insostituibile(13). Pure Remotti parla d'identità plurime e ricorda che anche la psicologia è coinvolta, è protagonista nel ripensare il suo approccio all'identità. Nel momento in cui si assiste in psicologia a una pluralizzazione dell'"Io" o del "se", è opportuno istruire la crititca del pregiudizio identitario anche per quel che riguarda il "noi". Se lo stesso corpo individuale è più concepibile come "un esercito, uguale a se stesso nel tempo solo per il nome", dato che i suoi soldati sono di continuo sostituiti (Liotti 1994: 146), se in altre parole lo stesso "Io" è concepito come un "noi" molteplice e variegato, ovvero come un insieme che - pur con istanze di coerentizzazione - muta inesorabilmente nel tempo, che ne è del "noi", ovvero della presunta fonte della "nostra" identità sociale?(13) Remotti giustamente insinua il tarlo della ambiguità, della finzione; sovrappone l'immagine della maschera su un concetto, che si è prestato a terribili manipolazioni. Bisogna fare uscire l'identità dal mito e spogliarla di tutto ciò che la rende pensabile come naturale ed immutabile. Nella mia esperienza personale sono anch'io portatore d'identità plurime. Limitandomi alle provenienze geografiche della mia famiglia vedo integrarsi luoghi, appartenenze geografiche, che vanno dalla Calabria alla Valtellina. Per quello che riguarda la mia storia personale, si mescolano un luogo di nascita (Roma), uno di residenza (Milano) ed uno di domicilio (Perugia) notevolmente differenti fra loro. Rimanendo nell'ambito del mio percorso di studente vorrei citare un episodio, che ritengo significativo, di come due sistemi si siano integrati, mantenendo ognuno le proprie Tesi-Bruno-Conclusioni http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Conclusioni.htm

prerogative, senza entrare in conflitto. Come studente della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Pavia, ho usufruito nell'anno 1996/97 di una borsa di studio Erasmus, per seguire i corsi dell'Università di Hull, nel nord dell'Inghilterra. Il sistema universitario italiano ed inglese sono profondamente differenti. Valga adesso una distinzione di base: in ogni ambito, non solo umanistico, uno/a studente/ssa dell'università italiana dovrebbe terminare i suoi studi con una conoscenza generale della materia, con una certa facilità nello spaziare in più settori. Uno/a studente/ssa dell'università inglese invece affronta studi più specialistici, spesso con applicazioni pratiche, che l'università italiana permette spesso solo a ricercatori e docenti. La differenza dei sistemi, non è dovuta solo ad un diverso approccio teorico allo studi, ma anche a numerose altre componenti quali diverse possibilità finanziarie, una diversa relazione con le istituzioni ed altro ancora. Rimane il fatto che possiamo definire l'apprendimento nell'università italiano di tipo orizzontale, contrapposto ad uno inglese di tipo verticale. Anche il sistema burocratico ed il rapporto dello studente con l'università divergono nei due paesi. In Inghilterra sono numerosi i campus universitari come quello di Hull; separati dal resto della città, con tutti i servizi per lo studio e la vita quotidiana degli studenti/esse che vi vivono. Questo ha determinato un sistema di controllo delle attività, da parte dell'università, che ha l'intenzione di coprire ogni ambito: studio, divertimento, sport, sanità etc.. Come studente dell'Università di Hull, ero dotato di un documento d'identità magnetico con foto, che mi permetteva l'accesso alla biblioteca, alla mensa, al pub etc.; di una casella di posta ordinaria, con cui l'università mi mandava ogni genere di comunicazioni, di una casella di posta elettronica gratuita ed illimitata e di un tutor, un/a docente a mia disposizione per chiarimenti e suggerimenti riguardanti il mio corso di studi. I corsi che avevo scelto di seguire, concordati dall'Italia in base al mio piano di studi, mi hanno portato a frequentare tre dipartimenti diversi in Inghilterra. Gli studenti dell'università britannica, quando scelgono un corso di studi, finiscono con 'l'appartenere' al loro dipartimento ed ad avere tutti i documenti universitari legati ad esso. Mi sono trovato così ad avere una tutor del Drama Department, le caselle postali di American Studies ed il documento universitario del Sociology-Anthropology Department. Rappresentavo un individuo con una triplice identità universitaria nel sistema inglese, mentre ne ho una sola in quello italiano. La consapevolezza della diversità di sistemi, e la volontà di favorire il progetto Erasmus, fanno in modo che ci sia un'integrazione tale da favorire, almeno negli scambi di breve durata, la circolazione all'estero degli/delle studenti/esse. Una tale situazione di ordine burocratico-amministrativo raramente può portare a violenti conflitti. Quando entrano in gioco, o vengono manipolati, altre appartenenze identitarie come quella religiosa, etnica o linguistica, solo per fare alcuni esempi, i rischi di trovarsi di fronte ad una vera e propria guerra aumentano. In nome di queste differenti identità vediamo ogni giorno nascere e riaccendersi nuovi e vecchi conflitti. 'I geni dell'anima' improvvisamente rimescolano le carte e dividono le stesse persone che avevano unito in precedenza e viceversa. Questo non ci permette di sottrarci ad uno sforzo di comprensione chiamando in causa fatalità ed irrazionalità. Tutte queste appartenenze non hanno evidentemente la stessa importanza, a ogni modo non nello stesso momento(15) , scrive Maalouf. Ci sono momenti della storia in cui rivendicare un certo tipo di appartenenza 'torna utile' , risulta più efficace o viene sentito necessario e naturale. Negli Stati Uniti e nel Canada degli anni 60/70, quando l'idea del politically correct prendeva corpo, a partire da quella grande fabbrica di immagini ed idee che è Holliwood (16) , si fece largo presso le popolazioni native, anche fra chi aveva in passato rinnegato o perso traccia delle sue origini, la pratica di rivendicare lo status di nativo per ottenere agevolazioni e contributi dalle amministrazioni o per sfruttare a fini turistici nuova identità rispolverata. Le rivendicazioni 'etniche', negli Stati Uniti ed in Canada, negli anni 60/70, e non solo, hanno ottenuto maggiore attenzione da parte di politici ed opinione pubblica, che non le rivendicazioni di classe, che nello stesso periodo hanno animato la vita politica europea (17). Maalouf evidenzia con numerosi esempi che in certi momenti della Storia numerose persone si mettono a privilegiare un elemento della loro identità a scapito degli altri. Così, attualmente, affermare la propria appartenenza religiosa, considerarla come l'elemento centrale della propria identità, è un atteggiamento corrente; meno diffuso, senza dubbio, di trecento anni fa, ma indiscutibilmente più diffuso di cinquant'anni fa. […] Che cosa fa sì che un musulmano della Jugoslavia smetta un giorno di definirsi jugoslavo per dichiararsi prima di tutto musulmano? (18) Maalouf fornisce alcune chiavi d'interpretazione per analizzare questo quesito, ma soprattutto lancia un appello ai suoi lettori. Ogni individuo è portatore d'identità plurime e deve in primo luogo riflettere sulla sua complessità, per poi essere in grado di divulgare questo concetto. Risulta auspicabile che una tale presa di coscienza, insieme alla consapevolezza che l'unica Tesi-Bruno-Conclusioni http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Conclusioni.htm

appartenenza in grado di accomunare ogni persona è quella al genere umano, possa ostacolare lo svilupparsi di nuovi conflitti e 'purificazioni' etniche. Essere consapevoli delle proprie plurime appartenenze e dell'incredibile varietà di prestiti ed attraversamenti culturali di cui ogni individuo è portatore/trice, non è un'invenzione recente per l'antropologia, ma solo ultimamente riscuote attenzione e credito. Fabietti in 'L'identità etnica' cita un brano tratto da 'Lo studio dell'uomo' di Ralph Linton, pubblicato nel 1936. Il cittadino americano medio si sveglia in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel vicino Oriente ma che venne poi modificato nel Nord Europa prima di essere importato in America. […] Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. […] Andando a fare colazione si ferma a comprare un giornale, pagando con delle monete che sono una antica invenzione della Lidia. […] Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che s'agitano all'estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica, di averlo fatto al cento per cento americano. (19) L'accelerazione odierna degli spostamenti e delle comunicazioni, se da un lato fornisce gli strumenti per pensare prestiti ed attraversamenti culturali, come inevitabili e fertili, contemporaneamente rischia di confondere le origini, le provenienze sotto un velo omogeneizzante. Amin Maalouf torna in nostro aiuto per spiegare quest'ultima affermazione. "Gli uomini sono più figli del loro tempo che dei loro padri", diceva lo storico Marc Bloch. È sempre stato vero,senza dubbio, ma mai quanto oggi. […] In realtà, siamo tutti infinatamente più vicini ai nostri padri contemporanei che ai nostri antenati. Esagererei se dicessi che ho molte più cose in comune con un passante scelto a caso in una via di Praga, di Seul, o di San Francisco, che con il mio bisnonno? Non solo nell'aspetto, nell'abbigliamento, nell'andatura, non solo nel modo di vivere, nel lavoro, nell'habitat, negli strumenti che ci circondano, ma anche nelle concezioni morali, nelle abitudini di pensiero. (20) Una terza persona che si fosse trovata quest'estate a camminare per Roma in compagnia mia e di Nasra Ahmed si sarebbe reso conto di come lei, nata nel Sahara Occidentale e vissuta nei campi profughi, fosse in grado di orientarsi nella mia città natale meglio di me; continuava in un certo senso, anche a 'casa mia', ad essere il mio informatore sul campo. Nasra ha usufruito in passato di una borsa di studio per venire in Italia ed ha vissuto un anno a Roma e tre ad Anzio; i miei genitori, quando avevo tre mesi, si sono trasferiti a Milano, ed io con loro. Possiamo forse dire che Nasra è 'più romana di me'? Possiamo invece affermare che abbiamo un'appartenenza in comune? Questi quesiti non hanno senso, se le identità che chiamano in causa sono prese come immutabili compartimenti stagni, ma, adoperando una prospettiva aperta e delle identità fluide, ci aiutano a comprendere quale fertilità e varietà d'incontri identitari, l'epoca odierna e la nostra consapevolezza ci permettano oggi.

1. Il Monte del Tempio è un complesso, nel centro di Gerusalemme, che comprende più edifici. Al suo interno si trova la Cupola della Roccia, che secondo la tradizione islamica è stata costruita per custodire la roccia da cui Maometto ascese al cielo, per raggiungere Allah. Per la tradizione ebraica, la Cupola della Roccia fu edificata nel punto in cui Abramo si preparò a sacrificare il figlio Isacco. 2. La tomba di S.Giuseppe è luogo di culto per i cristiani, ma rappresenta sempre una presenza non araba e si trova in una zona controllata dagli Israeliani. 3. L'8 luglio 2000 si è tenuto a Roma il Gay Pride, annuale manifestazione dell'orgoglio omosessuale. La scelta di Roma, per questa manifestazione, nell'anno giubilare ha scatenato aspre polemiche all'interno del mondo cattolico, del mondo politico e della società civile italiani. Le più alte sfere del Vaticano, compreso il Papa, hanno tentato di impedire lo svolgersi della manifestazione, stigmatizzando le persone omosessuali come pericolosi/e devianti dalla dottrina religiosa e dall'umanità. 4. Il 14 ottobre 2000 si è verificata a Lodi una marcia, promossa dalla Lega Nord contro la costruzione di una moschea e l'immigrazione musulmana in Italia. Sul luogo previsto per l'edificazione è stata celebrata una messa officiata da un prete cattolico e sono stati lasciati striscioni con scritte quali 'terreno concimato con urina di suino' (Tg3 delle 19:00 del 14 ottobre 2000). In difesa di una presunta identità padana è stata chiamata in causa la propria religione e si è utilizzato, in maniera provocatoria, un tabù alimentare, portatore dell'identità dell'altro. Tesi-Bruno-Conclusioni http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Conclusioni.htm

5. Thomas Balmès, L'evangile selon les Papous, prodotto da Canal+ e Les Films d'Ici TBC Productions e distribuito da Images, Francia, 1999. 6. Hulis è una delle 700 isole della Papua Nuova Guinea. 7. Clifford Geertz, Dopo la rivoluzione: il destino del nazionalismo nei nuovi Stati, in Interpretazione di culture, pp.295-318, il Mulino, Bologna, 1987. 8. Clifford Geertz, op. cit., p.306. 9. James Clifford, Strade, p. 51, Bollati Boringhieri, Torino, 1999. 10. L'incipit del capitolo 1 Del fare ricerca sull'identità, riporta una bella immagine di Marcel Mauss, per cui l'etnografia è un mare in cui lanciare una rete da pesca. 11. Massimo Canevacci, op. cit., p.75. 12. Amin Maalouf, L'identità, Bompiani, Milano, 1999. 13. Amin Maalouf, op. cit., pp.16,17. 14. Francesco Remotti, Contro l'identità, pp. 101,102, Laterza, Bari, 1996. 15. Ibidem. 16. Sono gli anni in cui si cominciano a produrre e vedere pellicole come Il piccolo grande uomo di Arthur Penn (Usa, 1970), Un uomo chiamato cavallo di Elliot Silverstein (Usa, 1970) e Soldato blu di Ralph Nelson (Usa, 1970). 17. Al riguardo si veda Politiche dell'identità e strategie del riconoscimento in L'identità etnica di Ugo Fabietti, pp.117-135, La Nuova Italia Scientifica, Roma, 1995. Fabietti analizza in particolare le strategie di riconoscimento dello status di nativo, con le loro contraddizioni ed invenzioni, degli Uroni del Canada. 18. Amin Maalouf, op. cit. pp. 99-112. 19. Ugo Fabietti, op. cit. pp.19,20. Il brano citato da Fabietti, è tratto da Ralph Linton, Lo studio dell'uomo, Il Mulino, Bologna, 1973 (ed. orig. 1936). 20. Amin Mallouf, op.cit., pp.113,114. Tesi-Bruno-Bubliografia http://www.saharawi.org/oldsite/tesi/bruno/Tesi-Bruno-Bubliografia.htm

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