Baudelaire I Fiori Del Male

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Baudelaire I Fiori Del Male Baudelaire I fiori del male Introduzione Nella gabbia del lessico Non è vastissimo il lessico poetico di B., ma, come dice Calasso, ”La sua parola è carica, qualsiasi cosa dica. C’è un ingorgo di linfa, un addensamento di energia, una pressione dall’ignoto che la sostengono –e alla fine la abbattono”. Si tratta quindi di un lessico “poetico” per eccellenza, fatto di poche parole pesanti, ma spesso vaghe. Le occorrenze dei singoli termini infatti superano spesso i confini del campo semantico loro assegnato. In certi casi, piuttosto che addentrarsi nella scelta di nuovi vocaboli, il poeta costringe quelli da lui prediletti a “significare oltre”; per questo una torcia, una fiaccola, una fiamma possono essere “vaste”, perché l’aggettivo vaste ha un suo utilizzo ottimale nel verso di B.. In altri casi l’aggettivo lourd (pesante) viene usato anche per indicare la durevolezza di un ricordo (Et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs! Cfr. Il Cigno). Certe occorrenze per esempio del termine monotone sono un po’ stupefacenti per estensività, in quanto si applicano a inverno, sole, neve, paesaggio, suono, universo. In altre parole ciò significa che il poeta possiede una sorta di scrigno “limitato” di vocaboli molto pregiati e accuratamente coltivati, che stanno insieme, si cercano, si rispondono, si ritrovano, alla fine. Ciò fa pensare ad un sistema soggiacente, quasi una rete lessicale che sottende la lingua poetica o forse una rete che imprigiona il cervello in una visione strutturata del mondo, da cui né il mondo né il poeta che lo descrive possono sfuggire. Si può scartare l’ipotesi che tale rete di vocaboli sia stata scelta con spirito parnassiano, in quanto quei termini non rispondono all’esigenza della buona fattura del verso, essendo il verso di B. piuttosto scabro e puntuto sia sul piano semantico che su quello musicale. In effetti i parnassiani non amarono I Fiori del Male alla loro prima uscita. Non resta quindi che abbracciare l’altra ipotesi, e cioè che il lessico di B. risponda a un dettato ideologico, ad una visione del mondo molto ragionata e forse più ragionata che sentita. In effetti se una critica sorge spontanea di fronte a certe sue contorsioni linguistiche, si tratta di una critica alla freddezza poetica o alla eccessiva cerebralità del verso. In ogni parola, in ogni vocabolo del suo lessico noi percepiamo una classica tragicità. Questo è il primo dato che impreziosisce il suo linguaggio: le parole ricorrono sempre di nuovo eguali, pescate nello scrigno della sua Poetica. Tutto il suo inferno vetero-romantico, di cui lo accusavano i detrattori, in realtà poggia su di un uso classico della parola. E come nei classici latini il vespertillus è stridens e il senex è loquax e l’anus è tremula e via dicendo, così in Baudelaire gli aggettivi noir, atroce, affreux, furieux, come gli aggettivi clair, limpide, pur, vaste, profond e via dicendo si sposano sempre a termini classicamente ricorrenti e sembrano come la vite che si sposa sempre all’acero campestre, il popolare chioppo. Esiste un uso classico quindi sia dell’aggettivazione che della sintassi –i tanti ablativi assoluti espressi col participio presente!- ed esiste un uso classico della prosodia, su cui l’autore stesso insisteva negli abbozzi per una sua prefazione a I Fiori del Male. Il sistema su cui si struttura il lessico è costituito da una specie di schema a croce con due poli verticali, uno in alto e uno in basso, e due poli orizzontali, uno a sinistra e uno a destra. I vocaboli vi stanno collocati in una sorta di equilibrio forzoso, per cui se in alto ci sta la luce e il cielo, in basso ci sta la terra e le tenebre, se a sinistra si colloca lo spazio e la vastità a destra troviamo i termini che rievocano l’angustia e la meschinità, anche in absentia. Sistema dialettico, quindi, che suppone sempre una sorta di equilibrio. Il poeta parlava della capacità del verso di andare in verticale, salendo e precipitando, vertiginosamente, ma anche della capacità di trovare corrispondenze orizzontali, vicine e lontanissime, direttamente incontrate o inseguite a zig-zag. Le Corrispondenze, poesia forse anche troppo citata quale manifesto poetico della modernità, non sono che un programma poetico espresso in poesia, sicché possiamo parlare in questo caso di una vera e propria meta-poesia. Gli emistichi filosofici In effetti se teniamo presenti tutti questi spunti nel momento della traduzione in italiano ci corre l’obbligo di rispettare in qualche modo quella sua freddezza filosofica a scapito di ogni altra tentazione di belluria poetica e ricordare che Baudelaire odiava la scorrevolezza. Lo stesso si deve dire per la musicalità del verso, che non deve ingannare, non è parnassiana. La musicalità si esprime nella scelta di un verseggiare su metro alessandrino (tanto disprezzato dai critici: Ah! Il martelliano!), ma che risponde ad una esigenza argomentativa. In effetti normalmente incontriamo il primo emistichio o il primo verso, che pone una ipotesi a cui segue una tesi, il cui stile suona spesso come una inevitabilità: Se nel debosciato l'alba bianca e vermiglia si mette in sodalizio con l'Ideale corrosivo per qualche strano congegno vendicativo nel bruto addormentato un angelo si sveglia. Questi versi scritti a colpi di zappa portano dentro di sé l’ipotesi e la tesi dell’argomentazione filosofica. Ci si riconosce uno stile deciso, rotto, inelegante, ma che cerca la verità e si struttura in questi due momenti per cercarla, nei due emistichi settenari o nei due versi interi o nelle due coppie di versi che formano la quartina, che talvolta affaticano troppo il lettore e forse anche il poeta, che si abbandona, per intervalli, ad uno stile più cantabile, da romanza, dove il verso cerca solo di baciare il verso successivo in una catena virtualmente infinita di rime. E poi ci sono anche i momenti di grande complessità espressiva, dove il ductus è lento e si svolge come un pitone per giungere ad un finale sempre strabiliante, segnato spesso da una chiusa con ossimoro. Ecco il ricordo che volteggia nella caligine inebriante; gli occhi si chiudono, Vertigine afferra l'anima vinta e la spinge a due mani nell' abisso oscurato dai miasmi umani; l'abbatte ai bordi d'un abisso millenario, ove Lazzaro maleodorante lacera il sudario, si muove nel risveglio il cadavere spettrale d'un vecchio amore rancido, splendido e sepolcrale. L’unione dei contrari Fra le figure stilistiche domina l’ossimoro, che risponde ad una esigenza ideologica: niente è privo del suo contrario. A questo proposito G. Bufalino nella sua introduzione ai Fiori del Male evoca l’ombra di De Sade, secondo il quale ad ogni tortura soggiacerebbe un tacito accordo fra vittima e carnefice. In Baudelaire l’accordo tacito fra tiranno e popolo tirannizzato, per esempio, scatta con chiarezza solo dopo l’esperienza del quarantotto fallito, ma va oltre i limiti del fatto storico o del gioco erotico, attingendo a verità filosofiche e teologiche di carattere “caotico”, che ricercano cioè una verità nel caos, dove appunto Satana conviveva con Dio. In altri termini B. abbraccia una visione della vita come ambivalenza pura, dove il giudizio non è scetticamente “sospeso”, ma “cade” e si propone sempre bifacciale come ne La maschera. Il giudizio cade sempre come una mannaia, ma è bifronte, ci riporta ad una essenza arcaica delle cose, ad una loro vita caotica, dove il tutto racchiude il tutto, in uno stato di minore entropia. Ed ecco che scatta l’ossimoro, spesso come chiusa della “meditazione” poetica: o lottatori eterni, o fratelli implacabili! (L’uomo e il mare) perfino quel gelo, che ti rende più amabile (Ti adoro) O fangosa grandezza! O sublime ignominio! (Metteresti l’universo…) è Lei! è nera e tuttavia splendente (Un fantasma) veleno caro, preparato dagli angeli! liquore che mi corrode, vita e morte del mio cuore. (Il flacone) più acuto del ghiaccio e del ferro il piacere? (Cielo arruffato) dentro l’ossimoro si realizza l’unione dei contrari, che tiene unito il mondo. Non si dà mai il caso che il poeta nel pronunciare una verità si dimentichi del suo contrario, del principio di contraddizione che la sottende. Se maledice la femmina, poi l’abbraccia e la chiama sorella, e altrettanto fa con l’assassino, l’ubriaco, l’impiccato, fino a dialogare con i vermi, allegri filosofi senza vista né udito. E ritrova nell’universo una profonda unità di tutti gli esseri, dalla gigantessa al grillo, alla larva, alla formica. Unione dei contrari sia sul piano della qualità che sul piano della quantità: il dolce e l’amaro, la bellezza e l’orrore, il grandissimo e il piccolissimo, il muto e il sonoro, la luce e la tenebra. Il mondo come allegoria e come epifania Assieme all’ossimoro la figura stilistica dell’allegoria, si presenta ripetutamente nel corso della sua poesia. Ma cos’è l’allegoria in B.? Perché riaffiora sempre persistente? Nella visione poetica e filosofica del poeta in buona sostanza tutta la realtà, il mondo intero, l’universo appare come allegoria e l’Uomo che fruisce della visione allegorica del mondo ne diviene per così dire l’archivio storico, il testimone che resiste alle ingiurie del Tempo e che salva il mondo dalla rovina delle varie epoche storiche. Parigi cambia! ma nella mia malinconia niente muta! ponteggi, blocchi, nuovi edifici, vecchi sobborghi, tutto diventa allegoria e i miei cari ricordi più duri delle selci. (Il cigno) Il ricordo si presenta dunque come ancora di salvezza a cui si aggrappa il reale prima di essere fagocitato dal Tempo. E, altro grande ossimoro, il ricordo, per definizione labile, diventa più duro delle selci. Ma il ricordo non basta, non si dà infatti ricordo senza rielaborazione artistica del medesimo e non si dà ricordo senza quel “visionarismo” che sappia vedere oltre i fatti, per cui lo scenario della memoria acquista spesso la funzione di epifania, come ne I Sette vecchietti, come ne I Ciechi, come ne Le Piccole vecchie e in moltissime altre poesie, dove la visione diventa visione di un aldilà che sta sempre in agguato dietro cieli nuvolosi ed è pronto a scendere minaccioso sulla Terra come i nanetti infami de La Beatrice.
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