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Giorgio Ravasio

Crespi d’

La città del lavoro proficuo, dell’utopia sociale e della metafora architettonica www.crespidadda.it

Crespi d’Adda

La città del lavoro proficuo, dell’utopia sociale e della metafora architettonica. 2012, PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA. A mia madre e mio padre che hanno ostacolato tutte le mie scelte senza mai impedirmi completamente di seguire la mia strada.

Un amico mi racconta che, durante la propaganda per la collettivizzazione, in un villaggio vicino al Danubio cercò di convincere un contadino riguar- do la superiorità dei nuovi metodi, al vantaggio di lavorare a orario fisso e in , come un fun- zionario, per raggiungere il maggior rendimento. Ma il contadino, che prudentemente non voleva dire né si né no, si limitò ad additare, come rispo- sta, un uccello che stava volando sopra di loro. Non osò parlare di libertà, ma ebbe il coraggio di indicarne il simbolo.

Emile Marie Cioran 10 11 1

Introdursi

Le ricostruzioni dello storico non sono mai com- plete perché manca sempre qualcosa, un residuo o alcuni frammenti che consentirebbero una rico- struzione diversa se riuscissimo a scoprire come metterli insieme o dove trovare i pezzi mancanti. La ricerca dell’autentica verità finisce così per ap- prodare a una serie di innumerevoli enigmi, pro- blemi e misteri contro i quali ci si scontra peren- nemente.

Walter Prescott Webb

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“Tra le infinite maniere di dar principio ad un libro, che og- gigiorno sono in uso in tutto il mondo conosciuto, ho fiducia che la mia sia la migliore; e sono certo che sia anche la più pia, perché comincio con lo scrivere il primo periodo e mi affido a Dio Onnipotente per il successivo”. Così Laurence Sterne1 avvia “La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo” e così dovrebbe essere per il viaggiatore che fa il primo passo, intraprende il tragitto, percorre il primo chilometro e, da quel momento in poi, segue quello che gli indica il cielo. Così farò io, e vi invito a seguirmi nel cammino che le prossime righe andranno ad intraprendere. Questo è un viaggio dentro una aspirazione industriale e alle origini di una utopia, in fondo ad una storia di macchine e di formiche, di ostinazione e di illusioni, di presunzione e di fatiche disumane. È il resoconto della testarda volontà di un uomo ricco, autoritario, ostinato a concretizzare i propri sogni, e di suo figlio che cercherà di realizzarli compiutamente. È la vicenda del luogo che doveva diventare, all’inizio di questa sto- ria, nel 1876, un modello ideale di vita ma che si è trasformato in una miraggio irraggiungibile, nel segno evidente di una de- cadenza prematura e ineluttabile. È l’appassionante cronaca dell’ascesa di una speranza e del declino di una ambizione. Ma non si faccia conto su di me, ventriloquo di questo cimelio che il tempo ha arbitrariamente conservato, semplice e fedele trascrittore delle azioni e dei pensieri di altri, per l’arduo com- pito di ricostruire nel dettaglio le vicende e la filosofia che si è fatta manifesta a Crespi d’Adda. In altri resoconti si ricerchino la minuzia e la precisione enciclopedica, superflui a rivelare la cadenzata andatura di una processione che ancora segna il passo sul sagrato. 12 13 Lì si farà palese come la storia possa essere riportata in tan- te differenti versioni quante sono le penne che hanno provato a raccontarla e come la memoria può assumere forme molto diverse: rassicurante come una tela che avvolge il passato e lo protegge o affilata come un pugnale che seziona gli avveni- menti e ne mostra i lati più sconosciuti. Qui, al di là del racconto cronologico e documentario di que- sta avventura, si è, invece, puntato a raggiungere il cuore del mistero della creazione di questa per rilevarne l’intima personalità, l’eccezione, lo spirito. Nelle pagine che seguono si è cercato di trasformare in filigrana, per fissarle su una materia meno labile di quanto lo sia la coscienza umana, e la mia in particolare, le riflessioni che mi hanno accompagnato nel ripe- tuto percorrere il geometrico reticolo stradale di questo luogo incantato, uno dei pochi dove è ancora possibile immergersi e annegare negli echi delle pitture di Mario Sironi2 e nelle parole di Simone Weil3. Ciò che si offre non è una analisi neutrale ma una ricerca impegnata ed estremamente parziale, dal mo- mento che limitata è anche la verità, accessibile solo quando prende posizione, senza, per questo, aspirare all’universalità. Jean de La Bruyére4 scrisse che “la gloria o il merito di certi uomini consiste nello scrivere bene, quello di altri consiste nel non scrivere”. Per questi motivi e per la mia ferrea educazione cattolica, mi preme, tenute in conto la brevità della vita e la prolissità del mondo, sconsigliare la lettura di questo testo a coloro che della tassonomia e della sottigliezza fanno oggetto di rigorosa e minuziosa ricerca5, invitandoli ad investire il poco tempo concessoci dal Signore su questa terra per meglio im- piegarlo su testi di maggiore illuminazione o in faccende più appaganti. Qualora invece il lettore faccia parte di quella nutrita schie- ra di convinti indecisi che già hanno intuito che l’architettura può essere qualcosa che si spinge oltre il semplice costruito e che desiderano, più di tutto, edificare il loro pensiero su fon- damenta di dubbio, lo pregherei di non rallentare il passo e proseguire la lettura del testo. Seguendo le parole stese sulle linee immaginarie di questi fogli si cercherà non di compren- 12 13 dere cosa è stato, cos’è e cosa sarà lo spiazzo di utopia scara- ventato dalle circostanze su questo fazzoletto di terra, ma di approfittare dell’occasione che la storia ci ha consegnato per comprendere l’uomo6, il suo spirito, i suoi orizzonti e quel suo eterno ed irrefrenabile desiderio di superarli. Forse anche per tale ragione, questo libro non è un romanzo e non è nemmeno un saggio, ma è solo un contenitore di pen- sieri, forse vaghi e confusi, e se leggendolo vi sembrerà poco, è perché proprio poco è. Ciononostante, sono sinceramente felice che questa opera si aggiunga, con cinica leggiadria, alle inutili pubblicazioni7 che negli ultimi anni sono state dedicate a questo villaggio operaio grazie a coloro che, con compiaciuto dilettantismo, si sono affannati a scrivere di questo sito come studenti che appuntano le materie di insegnamento a mano a mano che credono di apprenderle. Qui, caro lettore, si tratta di impressioni, di occhi che vagano e accettano il rischio di non captare l’essenziale perché magneticamente attratti dal superfluo. Una wunderkammer di idee e di congiunzioni, una macchina ottica le cui rifrazioni potrebbero incitarci a vedere il presente con uno sguardo differente. Chi scrive avrebbe potuto tranquillamente scegliere di riassu- mere al lettore, con la sottigliezza di un ricercatore e la minu- ziosa dovizia di un abate certosino, la storia di questo villaggio operaio e le vicende dei suoi abitanti, ma gli sarebbe apparso di descrivere una cattedrale dicendo che è un ammasso di pie- tre che culminano in una guglia8. Ma come il vocabolario della nostra lingua è un’abbondante miniera di concetti racchiusi ordinatamente in scarabocchi di inchiostro o in colonne d’aria fatte vibrare dalle corde voca- li9, così l’architettura è uno degli argomenti che dall’eccesso di chiarezza potrebbero essere danneggiati e, pertanto, bisogna sfidarne le contraddizioni rispettandone il profondo mistero. Scrisse William Least Heat-Moon10 che “un libro dovrebbe aprire mondi sconosciuti tramite le sue parole quanto i chilo- metri percorsi da un viaggiatore”. Se, alla fine di questo per- corso letterario e contemplativo, sarai la stessa persona che eri prima del tuo arrivo, il viaggio sarà stato perfettamente inutile. 14 15 Sarebbe stato meglio, almeno per l’economia del nostro paese, che fossi andato al supermercato. Penso a Ernst Bloch11 che ripeteva che ogni utopia ha il suo orario, sottolineando nei suoi testi l’esistenza di un treno della storia diretto da qualche parte e che arriva in qualche luogo ma che, inesorabilmente, passa. Pensando a Crespi d’Adda, condivido il pensiero per il quale, già nel momento della sua nascita, il sogno è superato e può servire alle generazioni fu- ture solo come reperto utopico, pensiero fossilizzato, monu- mento commemorativo. In fondo, non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non sia dapprima annunciato liberando visioni irrealizza- bili come tante scintille sprizzate dalla coda di una cometa. La forma chimerica è di per sé una significativa riflessione sulla differenza, sull’alterità radicale e sulla natura sistemica della totalità sociale. In sé, anche questo libro è, a suo modo, una piccola utopia e, come tale, ha il suo orario. Finché saranno in tempo, vorrei che lo leggessero coloro che sono serenamente consapevoli che la confusione è il solo luogo dove ha un senso cercare la verità, senza correre, ovviamente, il pericolo di trovarla. Per loro ho lavorato a questo scritto ed è a loro che lo vorrei riservare.

14 15 Note

1 Scrittore irlandese vissuto tra il 1713 ed il 1768.

2 Nato a nel 1885, è il pittore che seppe meglio scorgere nelle tetre periferie urbane lo squallore metallico della città moderna, rappresentando, nelle sue opere, l’implacabile monotonia dei muri, la rigorosità delle palizzate e delle finestre, gli alti falansteri che fiancheggiano le strade rettilinee e la geometria, non meno brutale, dei e degli autoveicoli. Morì a Milano nel 1961.

3 Scrittrice e pensatrice parigina. Nata nel 1909, dopo aver insegnato filosofia, fece una esperienza di lavoro come operaia nelle officine Renault per vivere, sulla pro- pria pelle, le condizioni di vita nelle fabbriche. Nel 1938 si convertì al Cristianesi- mo, che visse in modo del tutto personale, tra la rassegnazione alla necessità del dolore, la speranza di un mondo di uguaglianza e la costante partecipazione alla sofferenza dei derelitti. Morì in sanatorio a trentaquattro anni. Il suo testo più , “La condizione operaia”, venne pubblicato nel 1951.

4 Critico e saggista francese. Visse tra il 1645 ed il 1696.

5 Ho un grande rispetto per gli storici. Penso che svolgano un compito di enorme responsabilità e delicatezza. In essi apprezzo l’onestà, l’obiettività, la capacità di consumare una vita intera a disseppellire una verità. E sono tutto tolleranza e com- prensione per gli errori commessi in buona fede, perché non sempre gli archivi sono a portata di mano e perché tra mille interpretazioni di un evento non c’è altro da fare che sceglierne una. Quel che non perdono è che i fatti vengano distorti in base alla propria o all’altrui convenienza. Non si scherza con le cose serie, e non esiste nulla di più serio della storia del genere umano.

6 Confesso che proprio l’essere umano era l’elemento inquieto e mutevole a cui mi- ravo quando varavo le prime imbarcazioni di carta nei giorni della mia infanzia letteraria ed è stato l’aver frettolosamente abbandonato le mie radici per le ragioni della vita che mi ha dato lo slancio decisivo per imbarcarmi in questa spedizione intellettuale sebbene, già da tempo, le valigie mi aspettassero sulla porta.

7 Mille opinioni non qualificate non ne valgono una sola autorevole. La democrazia culturale è la selva oscura in cui prolifera ogni specie di incompetenza.

8 L’architettura non può ridursi a materia letteraria. È, per sua stessa natura, una disciplina cinestesica che pretende l’esplorazione dello sguardo e che esige il movi- mento dell’osservatore.

16 17 9 Non riuscire ad onorare un ricco dizionario è un sacrilegio perorato da coloro che vorrebbero ridurre l’estensione del nostro lessico a misura del loro limitato modo di esprimersi.

10 Autore di origini inglesi, irlandesi e native americane.

11 Filosofo tedesco di ideologia marxista e teologo dell’ateismo, nacque a Ludwigsha- fen nel 1885. Nella sua opera “Il principio speranza”, sostenne che speranza e utopia sono elementi essenziali dell’agire e del pensare umano e pose in luce il contenuto utopico del pensiero di Karl Marx che assunse, nella sua interpretazione, una peculiare tensione messianica. Tentò, inoltre, di stabilire un collegamento tra marxismo e Cristianesimo poiché, in quest’ultimo, riconobbe un significato utopico nella speranza di una redenzione che il marxismo avrebbe potuto trasformare in una prospettiva rivoluzionaria. Morì a Tubinga nel 1977.

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Perdersi e ritrovarsi a Crespi d’Adda

A mio avviso chiunque, per una volta almeno nella vita, dovrebbe concentrare tutta la propria atten- zione su una terra che ricorda, abbandonarsi to- talmente a una terra che ha conosciuto, guardarla da ogni possibile punto di vista, esaminarla con curiosità, indugiarci sopra. Dovrebbe immaginare di toccarla con le mani ogni stagione e ascoltare i suoni ch’essa promana. Dovrebbe immaginare le creature che ci vivono sopra e ogni più piccolo mo- to del vento. Dovrebbe rivedere il bagliore del mez- zogiorno e tutti i colori dell’alba e del tramonto.

Navarre Scott Momaday

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Girovagando per il disordinato territorio che unisce e contem- poraneamente separa l’incantevole Città dei Mille dalla opero- sa capitale dell’economia nazionale potrebbe inaspettatamente capitare, come spesso succede a coloro che non amano fare le code in automobile e che cercano meticolosamente di evitarle con scorciatoie che non si rivelano mai tali finendo per ritro- varsi in luoghi più seducenti e sorprendenti di quelli che inten- devano raggiungere alla fine dell’interminabile processione di veicoli, di ritrovarsi in un posto ameno e singolare. Un luogo silenzioso, statico come una fotografia sigillata in una cornice e del tutto estraneo alla realtà che ne assedia i confini, in grado di sedurre un urbanista, inquietare un poeta, ispirare un artista e incantare le sensibili menti dei suoi visitatori più curiosi. Infatti, in prossimità della frontiera liquida1 che delimita i ter- ritori, un tempo celti, poi romani, longobardi e viscontei, ora milanesi e orobici, proprio sulla punta meridionale estrema dell’Isola Bergamasca, precisamente sul tracciato ideale che li congiunge come una linea decisa tracciata dal bisturi di un esperto chirurgo, nelle vicinanze del punto esatto in cui la tor- bida Adda, dopo essersi ripiegata su se stessa come un intestino nel verde capiente della pianura circostante, accoglie nei suoi rivoli le umorali acque del Brembo2, sorge una piccola città dalle fragili architetture di sogno e di ingenua speranza che nacque, più di un secolo fa, su di un terreno di sabbia e nessuna certezza. Un luogo che se ne sta lì, con un tasso impressionante di indifferenza per il contesto e la cultura che lo circondano, come in attesa che arrivi il giorno in cui l’attenzione per queste esperienze potrà avere una degna sepoltura nel pantheon degli interessi legittimi. Il luogo perfetto per illustrare un delirio. 20 21 Questa piccola realtà urbana è Crespi d’Adda, una località fortemente introversa, dove il tempo sembra essersi dimentica- to il suo ruolo di implacabile metronomo del mondo per ave- re, per una volta e di proprio insindacabile arbitrio, stabilito che una idea fattasi materia potesse conservarsi e mantenersi intatta per giungere fino a noi, e a noi sopravvivere, logorata ma comunque chiara, come un messaggio infilato dentro una bottiglia che ha attraversato l’oceano al solo fine di raccontarci la sua storia e da essa lasciarci trarre insegnamento. Non è certo cosa ignota la circostanza che il cuore della Lom- bardia, pulsante in modo accelerato come quello di un atleta olimpico dopo uno sforzo, batta proprio tra Milano e Berga- mo3 e che, proprio qui, confluiscano i vasi sanguigni dell’eco- nomia nazionale. Quale luogo migliore per diventare simbolo involontario di una dicotomia così estrema e palese? Pertanto, qualora capiti anche a voi di imboccare la strada sbagliata4 che qui vi conduca o qualora, caso ancora più stra- no, abbiate seguito consapevolmente le appositamente confu- se indicazioni5 che indirizzano a questa amena quint’essenza dell’altrove, consiglio di evitare assolutamente di ritornare sui vostri passi ma vi incito invece ad approfittare dell’occasione, più unica che rara oggigiorno, di fermarsi, annusare l’alito del tempo, misurare l’insensata follia del lavoro dell’uomo e riflet- tere su ciò che vi circonda e, per transitiva conseguenza, anche su voi stessi. Marcel Proust scrisse che “il viaggio di scoperta non è cercare nuove terre ma avere nuovi occhi”. È nel mondo, nello spec- chio delle cose e degli altri uomini, si dice che si finisce per trovare se stessi, come quel pittore di cui parla una parabola di Jorge Luis Borges, che dipinge paesaggi, monti, alberi, fiumi e alla fine si accorge di aver ritratto, in questo modo, il proprio volto6. Proprio per questa ragione è bene che, trovandosi ora a Cre- spi d’Adda, il lettore ne approfitti per risvegliare i propri sensi assopiti, se non del tutto atrofizzati dal logorio della vita mo- derna7, e ne riscopra l’utilizzo per immergersi nella profondità 20 21 di questa piccola area, evitando di lasciarsi sopraffare da un facile desiderio di superficialità, da una assuefazione al vedere che non risparmi un poco di spazio all’osservazione, alla con- templazione, all’approfondimento. Il presupposto di questa analisi potrebbe essere definito sined- docale nel senso che l’oggetto in questione, per il solo fatto di essere stato realizzato in una data epoca ed in un dato luogo, può considerarsi un frammento dal quale si può intuire il tutto. Mi permetta il lettore una divagazione che potrà suonare co- me una riflessione retorica ma che vorrei, in ogni caso, con lui spartire: a questo punto della vita una tra le poche certezze che l’esperienza mi ha insegnato è che per ritrovarsi, non c’è altra possibilità che smarrirsi8. Per questo motivo mi domando se il perdersi, in questo luogo, equivalga al venirci di proposito. Ogni vero viaggio è un’odissea, un’avventura, la cui grande domanda è se ci si perde o ci si trova attraversando il mondo e la vita, se ne si afferra il senso o se si scopre l’assurdità dell’esi- stenza. Perdersi alla fine non è che smarrire le proprie coordi- nate geografiche e risvegliarsi in un punto nuovo su di un altro meridiano e parallelo, ma sempre e comunque perpendicolare a qualche altro. A Crespi d’Adda, installazione minossiana in cui sembra di non uscire mai da una infinita serie di corridoi, mi sono perso e mi sono ritrovato più di una volta. È stato fonte di insegnamento, ispirazione, gioia condivisa ma anche di espiazione, delusione e dolore. È stato a lungo il mio centro di gravità permanente. Pensi il lettore che, quando ho iniziato a conoscere in questo luogo, gli stessi suoi abitanti non ne comprendevano il signifi- cato e l’importanza e vivevano in questa amena bellezza come naufraghi su di un isola nebbiosa. Tuttora molte persone che ci vivono non ne hanno ancora colto la straordinarietà, ma, d’altronde, a molte cose della vita non c’è rimedio. Non me ne voglia il lettore già intento alla visita se, come un buon padre di famiglia, mi prodigo a suggerirgli di riporre tut- te le eventuali idee preconcette e precostituite su esperienze vagamente simili che gli tornano alla memoria, che spesso non 22 23 sono nulla di più del frutto della superficiale educazione sco- lastica abbinata ad una confusa dottrina ideologica, e lo invito a lasciare davvero i sensi liberi di lavorare come di rado vie- ne loro consentito. Si lasci il lettore andare alla contemplativa comprensione di questo luogo, che potrà apparirgli enigmati- co, insieme semplice e complesso, armoniosamente insondabi- le ed esatto come l’interno di un orologio. Come gli angeli di Wim Wenders che contemplavano la de- solazione di Potsdamer Platz ne “Il cielo sopra Berlino”, che i vostri occhi guardino, che le vostre orecchie ascoltino e che la vostra mente respiri ciò che qui i decenni hanno cristallizzato. Non ci si lasci convincere dall’immediata impressione di tro- varsi di fronte alla mediocre uniformità di un modello archi- tettonico dalla razionale e impercettibile sincronia instancabil- mente ripetuto, frutto di una melliflua torrenzialità semantica, ma ci si zittisca e, nel silenzio, si cerchi di cogliere il senso, l’idea, il valore di ciò che vi circonda, di quel progetto totale che investì questo territorio e di cui l’architettura doveva essere la via maestra della sua trasformazione. Questa è una città dove bisogna orientarsi non con un libro o una mappa, ma con lo stesso camminare a piedi, con la vista, l’abitudine e l’esperienza. Quello che stiamo per conoscere è molto di più di un esempio insigne della storia architettonica. È un prodotto dell’opinione eccessivamente raffinata dell’Ot- tocento secondo cui le cose utili potevano e dovevano essere anche belle, e ciascuno aveva l’assoluto dovere di fare ogni co- sa nel modo più elegante possibile. A chi legge chiedo di non accettare la banalità della sua for- ma. Il ruolo di Crespi d’Adda non può essere ridotto all’inutile compito di esibire l’ovvio, ma al più complesso scopo di utiliz- zare il territorio, la città, l’architettura come mezzi di riflessio- ne, di meditazione e di esplorazione. Per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti, diceva un mio autorevole maestro9. Occorre, per prima cosa, scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute e le im- magini precostituite che continuano ad ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere. Il vedere va spesso oltre 22 23 l’analisi formale o le interpretazioni simboliche. Spogliare gli oggetti della loro realtà ordinaria fa emergere una visione - tente, surrealista, dando vita a objets à rèaction poétique10. È per questo motivo che, sempre che l’intorpidimento mentale non sia già irreversibile, lo stupore che vi avvolgerà all’inizio, sono certo, diventerà prima attenzione, poi interesse vivo, dap- prima velato di ironia, quindi, sempre più consapevole, poi vo- glia di sapere, desiderio di capire, brama di conoscere. La prima impressione che si insinua nel visitatore più sensibile è quella di essere stato non solo catapultato indietro nel tempo, ma che sia stato quest’ultimo a prendersi la briga di arrestarsi in questo luogo silenzioso senza sentirsi affatto inadeguato ri- spetto al dinamismo e all’irrequietezza del resto del mondo che lo circonda. Il lettore potrà rimanere colpito dalla circostanza per cui a Crespi d’Adda manchi l’impronta che le altre città ricevono dal lento apporto dei secoli, dalle vestigia di tante generazio- ni ma ciò è dovuto alla semplice circostanza che il villaggio sorse, si sviluppò e iniziò il suo declino, nel breve volgere di cinquant’anni. Dieci lustri incisi sul territorio, come inchiostro sulla carta, come sangue sul campo di battaglia. Cinque decen- ni, rapidi e interminabili. Una vita11. Per queste ragioni, colui che, ritrovatosi in questo luogo per caso o per scelta, potrà scoprire tra queste righe una guida per far riaffiorare ai suoi occhi il mondo del villaggio operaio di Crespi d’Adda, la sua gente, le idee e l’impalpabile vita che in esso abitava. Altrimenti vi troverà solo case, mura e capannoni, che non gli parranno diverse da tanti altri luoghi già visti o che vedrà, per la semplice ragione che queste sono cose terrene, che rimarranno nella terra, e con le quali si fa l’unica storia possibile. Si dice che i libri siano inventari di cose perdute. E, poiché quando si perde qualcosa si prova sofferenza, essi sono, gene- ralmente, anche storie tristi, storie di dolori. Chi scrive si rammarica che una riga di parole non sia una catena di immagini, di luci, di suoni, che fra di esse non circoli il vento, che su di esse non piova e che, per esempio, sia impos- 24 25 sibile attendersi che, per dirla come la scriverebbe Josè Sara- mago, “nasca un fiore dentro la parola fiore”. Così non potrò esprimere compiutamente tutte le impressioni che mi suscita questo luogo ma cercherò di far nascere le stesse sensazioni nell’animo di chi legge per farle vivere invece che raccontarle. Proprio come quando capita di aver sentito l’odore delle foglie bagnate, ma non si sa dove sia la parola che dovrebbe esprime- re questo odore, questa foglia e quest’acqua. Un’unica parola per dire tutto, visto che molte non ci riescono. Sono consapevole che il rettilineo letterario su cui gli occhi del lettore andranno tra poco a scivolare non potrà essere levigato e scorrevole come le strade su cui cammineranno i suoi piedi ma mi avventuro, comunque, in questa vicissitudine letteraria spinto da un senso di responsabilità verso i pochi che potranno apprezzarne i contenuti non sempre chiari e comprensibili. Ciò forse e soprattutto perché, anche se mi piacerebbe posse- dere il talento che Archiloco12 scaraventava nei suoi irosi giam- bi, non temo di esporre al pubblico ludibrio i miei già, peraltro, evidenti limiti letterari e critici, che i più attenti ritroveranno nei giudizi zoppicanti e nelle opinioni maldestre che seguono. Mi è stato infatti inevitabile, durante la stesura del testo, scivo- lare in esclusioni, sottintesi e più o meno volontarie dimenti- canze, senza per questo farmi mancare il masochistico piacere di abbattermi in approssimazioni, genericità ed inesattezze, che da alcuni non saranno per lo più perdonate. Ma è invece palpabile, nell’attraversare le case imbalsamate in un sogno da cui non sapevano che si sarebbero mai più svegliate, avvertire una aerea e sfuggente sensazione di essere in compagnia della vita trascorsa e passata. Un pendolo in pe- renne oscillazione tra passato e presente. Qui, spazio, tempo e architettura sono un tutt’uno. Un congegno in funzione come un meccanismo perfetto13. Perché il tempo è la carne di questo organismo urbano dove all’inizio della sua storia industriale non era più il momento per essere fatti della stessa materia dei sogni. Crespi d’Adda è una distinta vecchia signora che dimostra la sua età non cercando di nasconderla ma piuttosto tenendosi in 24 25 ordine, pulita e pettinata, consapevole dei vantaggi che, a volte, ha una luce clemente. Un museo della vita quotidiana. Un archetipo di civiltà matematicamente ordinata. Qui, al centro dell’attenzione, è quello che proprio nei musei, nelle gallerie e nelle esibizioni viene regolarmente ignorato: i contesti, le architetture, il cielo stesso con le sue nuvole o il suo sereno, il respiro dei fili d’erba. Saranno forse gli sguardi della gente antica14 che fissano se- veramente l’intruso visitatore con magnetica nostalgia, i tratti scolpiti senza accenno di simpatia e l’espressione grave di chi ha imparato a non attendersi dalla vita altro che brutte notizie, pronipoti di una generazione cui restava da perdere soltanto l’ultima speranza, e che emanano una sensazione di vibrante turbamento diffuso anche dalle costruzioni, matrici che con- servano e trasmettono dolori e gioie, storie e memoria. Un’inquietudine che non ha niente a che vedere con il peso dell’edificio, ma forse ha a che fare con il diritto che a ogni onesta pietra spetta di scrollarsi dalle proprie dolenti spalle in- sopportabili pesi fisici e morali. Così come capita alle persone che ivi abitano unite dallo stesso sforzo, dallo stesso abbando- no, dalla stessa solitudine, giacché i dolori che da essi nacquero un giorno sono troppo antichi per avere degli eredi. Quando il destino di una città diventa il destino delle persone. Oggi, che la fabbrica non c’è più, si potrà pensare che la gente di qui avesse vissuto in paradiso, come un tempo, invece, si pensava di abitare ad un passo dall’inferno, accalcati all’ombra delle sue caliginose ciminiere. Ma nonostante il manifesto e avanzato stato di decomposi- zione sociale del luogo, qui il paesaggio non è semplicemente una discarica di sogni e ambizioni fallite ma, piuttosto, il triste risultato di cui bisogna accontentarsi quando le ambizioni del- l’uomo non centrano l’obiettivo. Il lettore percorra lentamente le strade e le vie del villaggio, oggi, tutto un giardino dai viali curati e dagli alberi rigogliosi, un buon posto per le coppiette di innamorati ai primi approcci e per qualche eccentrico ricercatore di bizantinismi storici o di 26 27 compostezze geometriche. Perché non mancano le ragioni per guardare con sospetto all’ambizione di creare grande architettura. Le città sono la- birinti difficilmente penetrabili. Di rado gli edifici riescono a trasmettere gli sforzi richiesti dalla loro costruzione. Tacciono timidamente i fallimenti, i ritardi, la paura e la polvere che hanno imposto. Forse le pietre avrebbero preferito continua- re a dormire dove si erano coricate in ere geologiche lonta- ne, proprio come il ferro delle ringhiere avrebbe forse scelto di restare nel cuore della terra coperta dai boschi, prima che qualcuno li blandisse e li facesse uscire dalla loro sonnolenza insieme con una sinfonia di altre materie prime per partecipa- re a una colossale composizione urbana. Ma Crespi d’Adda potrebbe anche essere un esercizio di stile per uno studio alternativo delle sue storie da raccontarsi da davanti all’indietro, aspettando che giungano al termine per poi, a poco a poco, risalire la corrente fino allo sbocco della sorgente, identificando via facendo gli affluenti e navigarli, e in maniera lenta, cadenzata, attenta a ogni scintillio dell’ac- qua, a ogni gorgoglio che sale dal fondo, ad ogni accelerazione in pendenza, ad ogni pantanoso arresto, per raggiungere la conclusione del racconto e mettere al primo di tutti gli istanti l’ultimo punto finale, impiegandoci lo stesso tempo che fossero effettivamente durate le storie così narrate. Una quotidiana metafora della sovrapposizione del tempo e dello spazio. Ricordi il lettore che ogni vita è unica e questa storia è solo una delle possibili: la storia di un paese, della sua gente, delle sue idee. Spostando anche soltanto di un metro la visuale, di storia se ne potrebbe raccontare un’altra. Nessun posto appare uguale agli occhi di due persone. Cambia a seconda del punto di vista, della strada che lo raggiunge. I luoghi raccolgono le nostre memorie e i nostri desideri pro- fondi. Potremmo dire che si viaggia per scoprire la propria geografia interiore. È una occasione di fermarsi a guardare e scoprire qualcosa che è sotto gli occhi e che, improvvisamente, appare. È importante 26 27 avere il coraggio di contemplare, avere uno sguardo che ha una durata in un quotidiano in cui siamo presi dalla veloci- tà, ossessionati dalla densità, impauriti dagli spazi inabitati. È l’occasione di riprendersi la fisicità della città, la corporeità dei luoghi. E ripenso ai quadri di Mario Sironi. Guardando le sue periferie la maggior parte delle persone pensa all’angoscia e alla solitudine, ai colori spettrali. Ma non è così. In quelle ope- re si racconta la tensione che c’è nell’assenza, quando il vuoto riempie se stesso con la forma dello spazio. Capisco che ciò sarà difficilmente comprensibile per coloro che sopravvivono nella convinzione che una sedia serva solo a sedersi e una lampada soltanto a interrompere il buio, ma non voglio scoraggiarmi anche se, spesso, stento a capire la difficol- tà degli uomini di cogliere le cose belle e la facilità con cui ri- petono le brutte. Del resto, impegnarsi a decifrare il messaggio in codice di un interruttore o di un rubinetto significa rendersi più vulnerabile del normale alla derisione di chi da certi acces- sori si aspetta solo ed unicamente che illuminino una camera da letto o che permettano di lavarsi i denti. La comprensione richiede una specie di coraggio: non sempre la bellezza è ac- cessibile e, spesso, richiede un atto di fede. Ho il sopito desiderio che il lettore possa, una volta tornato alle proprie occupazioni e ai propri impedimenti, mantenere viva l’idea che Crespi d’Adda, quinta architettonica dello spettaco- lo di noi stessi, rappresenti l’ambizione di un mondo che vuole essere migliore e che si impegna affinché tale desiderio non resti una mera chimera anche perché le aspirazioni e gli sfor- zi dell’attuale imprenditoria economica, a differenza di quelli dei loro predecessori, hanno il suono secco e deciso dell’ultimo chiodo piantato in una bara.

28 29 Note

1 Il fiume Adda nasce nelle Alpi Retiche, a duemiladuecentotrenta metri sul livello del mare, dal monte Feno. Percorre tutta la Valtellina per confluire nel lago di Co- mo, nei pressi di Colico. Riprende il suo corso a Lecco, per allargarsi nei laghetti di Pescarenico, Olginate e Garlate. Serpeggia, poi, lento e maestoso verso la foce, con meandri a ampia curva, fino a gettarsi nel Po’, presso Castelnuovo Bocca d’Adda, tra e Cremona, dopo un viaggio di trecentotredici chilometri.

2 Il Brembo nasce nelle Alpi Orobie da diversi rami sorgentiferi. Dopo avere percor- so tutta la Valle Brembana si getta, dopo settantadue chilometri, nell’Adda proprio tra Crespi d’Adda e Vaprio d’Adda.

3 Per i bergamaschi il lavoro significa sicurezza e identità, dovere, necessario e giusto, correttezza etica, che la fatica è espiazione necessaria e che porta diritto alla giusti- zia. In fondo i bergamaschi vivono in modo integralista una sorta di mistica della fatica e del lavoro, unica strada che li può condurre ad una salvezza sicura.

4 Spesso veniva criticato perché portava fuori rotta i suoi com- pagni di viaggio. Al che lui ribatteva stizzito che “non andava se non là, appunto, dove si trovava; che per lui era impossibile sbagliare o allungare la strada, non avendo egli altro progetto che girovagare per luoghi sconosciuti”.

5 Ciò che rende spesso invisibili i luoghi come Crespi d’Adda è l’immotivato pregiu- dizio in base al quale è stravagante esprimere eccessivi sentimenti di ammirazione per un qualsiasi edificio industriale o, in genere, per qualsiasi aspetto del mondo del lavoro.

6 Mi preme di riportare il passo scritto da Jorge Luis Borges per l’illuminante meta- fora che esprime. “Un uomo si propone il compito di disegnare il mondo. Trascor- rendo gli anni, popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne di baie, d’isole, di pesci, di dimore, di strumenti, di astri, di cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto”.

7 Il logorio della vita moderna era la minaccia a cui Ernesto Calindri cercava di far fronte con un bicchierino dell’amaro Cynar. Questo slogan è sopravvissuto all’epo- ca del carosello per la sua antesignana attualità e per l’intuito e la lungimiranza dei creativi a cui venne affidata la realizzazione dello spot.

8 “Da quando so chi non sono ho cominciato il viaggio verso me stesso” ha scritto

28 29 Thomas Mann. Ogni viaggio è una ricerca, un cammino, un’emozione. Non è ne- cessario che esso sia fisico. Jules Verne non andò mai al centro della Terra. Walter Benjamin scrisse che “non sapersi orientare in una città non significa molto. Ci vuole invece una certa pratica per smarrirsi in essa come ci si smarrisce in una foresta”.

9 Josè Saramago, premio Nobel per la letteratura nel 1998. È autore di capolavori assoluti come “Cecità”, “L’uomo duplicato”, “Manuale di pittura e calligrafia”, “La caverna”, “La zattera di pietra” e “Storia dell’assedio di Lisbona”.

10 Parole rubate a Charles-Edouard Jeanneret-Gris.

11 Cinquant’anni era la durata media della vita di un lavoratore nel 1876.

12 Poeta lirico greco, a Paro e vissuto nella prima metà del settimo secolo avanti Cristo. Divenuto mercenario, sembra sia morto nel corso di una battaglia tra Paro e Taso. I circa centoquaranta frammenti pervenuti della sua opera poetica, rivelano un temperamento appassionato e fiero, capace di una sconcertante e spregiudicata sincerità nel narrare le proprie disavventure e del sarcasmo più feroce contro gli avversari, ma anche dell’amore più tenero per l’amata Neobule. Secondo l’iscrizio- ne incisa sulla tomba, fu lui “il primo ad immergere una Musa amara in veleno di serpe e a macchiare di sangue il gentile Elicona”, un riferimento alla storia secondo cui poteva provocare suicidi con la violenza dei suoi insulti giambici.

13 Luciano Bianciardi, scrittore milanese vissuto tra il 1922 ed il 1971, direbbe di Crespi d’Adda che “non è una città, non è un paese, non è niente. È solo una gran macchina, senza cielo sopra e senza anima dentro”.

14 Spesso persone di poco avere e di molto sentire, ancora rurali nelle abitudini e nella comprensione del mondo.

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La fabbrica estinta e l’archeologia del lavoro

Le reliquie dei mezzi di lavoro hanno, per il giudi- zio su formazioni sociali scomparse, la stessa im- portanza che ha la struttura delle reliquie ossee per conoscere l’organizzazione di generi umani estinti. Non è quel che viene fatto, ma come viene fatto, con quali mezzi di lavoro, ciò che distingue le epo- che economiche. I mezzi di lavoro non servono sol- tanto a misurare i gradi di sviluppo della forza la- vorativa umana, ma sono anche indici dei rapporti sociali nel cui quadro viene compiuto il lavoro.

Karl Marx

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Nella piena maturità del secolo diciannovesimo, la libertà po- litica sopraggiunse insieme alle trasformazioni sollecitate dal- l’invenzione della macchina a vapore e dell’elettricità bussando con energia alla porta della Storia che, da secoli assopita nel cadenzato ritmo contadino, dovette spalancare così i battenti alla modernità. Dal 1869, simbolico inizio di questa nuova epoca, la rivoluzio- ne industriale1 andò diffondendosi con l’energia di un catacli- sma; è, però, incredibile come in Europa tale fenomeno, dopo meno di due secoli, si sia già pressoché esaurito, condensandosi in una disparata serie di sopravvivenze architettoniche. Niente di più che il divenire della società contemporanea, rap- preso nelle sue testimonianze fisiche. I profeti del mattone ci intravedono soltanto ruderi da abbattere e sostituire con cuba- ture di spazzatura edilizia. Nel mentre, giacciono abbandonate a se stesse, utili soltanto per essere visitate da pletore di scolari ottusi e insegnanti indolenti. Sotto quest’ultimo profilo il caso Crespi d’Adda è piuttosto emblematico. Chi scrive ritiene, invece, che tali esperienze debbano essere analizzate con la scrupolosa attenzione con cui i chiromanti guardano i fondi di caffè perché, più quelle che questi, pos- sono offrire elementi di riflessione per comprendere il nostro futuro. Non sembra perciò possibile raccontare del luogo senza prima presentare al lettore il fenomeno diffuso di cui questo villaggio operaio è straordinario esempio, anche se risulta sempre bizzar- ro parlare di archeologia per qualcosa che sembra ancora oggi vivo, tangibile, quotidiano come la produzione industriale. Le vorticose accelerazioni della società moderna hanno con- tratto presente, passato prossimo e passato remoto tanto che le 32 33 costruzioni del secolo scorso già ci appaiono fossili architetto- nici di un industrialesimo in via di estinzione. A volere essere precisi, più che di estinzione sarebbe corretto parlare di transumanza. In questo preciso istante, infatti, in alcuni paesi del mondo, la rivoluzione industriale dell’Ottocento britannico riappare, svi- luppandone con più rapidità le medesime contraddizioni. Sarà sufficiente al lettore muoversi di circa undicimila chilome- tri a est e raggiungere il villaggio cinese di Huaxi2, per avere la sensazione, ribaltata la propria clessidra, di trovarsi in una an- tichità contemporanea. Una archeologia del presente, dunque, dal momento che la produzione industriale non è scomparsa ma si è spostata in luoghi dove la storia del Novecento europeo non ha ancora fatto il suo corso3. Sta di fatto che un fenomeno come la nascita, lo sviluppo e la caduta dell’industria europea ha già lasciato di sé un’epoca caratterizzata dalla sua prematura trasformazione in preistoria e il suo studio in archeologia4. Un sottovalutato esperto5 della cultura materiale ripeteva spes- so che, per non accontentarsi di una analisi superficiale e co- gliere l’essenza di questo fenomeno, bisognerebbe partire dal- l’esegesi del termine “industriarsi”, con cui si definisce l’attività dell’uomo intento a conseguire qualcosa. L’uomo è da sempre stato industrioso, è una sua caratteristica vitale. In questo senso, l’Italia è un paese in cui si lavorava nell’indu- stria ben prima che il vapore e le macchine facessero esplodere la rivoluzione industriale inglese6. Il suo territorio fu disegnato da città sedi di opifici e di com- merci; città ammantate di gelosia per la propria identità e per i propri interessi sino a farsi guerra. L’una contro l’altra, ma, an- che e soprattutto, contro il feudalesimo rappresentato dall’Im- peratore. Fu questa la matrice della civiltà urbana moderna. Milano ebbe la sua prima guerra civile tra classi contadine nel 1057. I grandi canali di irrigazione che resero florida l’agricoltura lombarda furono tracciati e scavati, già nel 1176, dai comuni liberatisi di Federico Barbarossa. 32 33 comperò i servi affrancandoli nel 1276 e Firenze vide la prima rivolta operaia nel 1378. Le città erano libere. Furono struttura portante del nascente capitalismo. Ogni borgo, gran- de o piccolo, era una comunità operosa e produttiva legata alle altre molto più di quanto si possa immaginare. Non punti isolati, ma vertici di una geometria che ridisegnava il territorio dopo la caduta dell’Impero. La cittadina precapitalistica e antifeudale era il prodotto di sconvolgimenti immani, di lotte di popoli e di migrazioni. Il tessuto urbano ricalcava la struttura sociale delle botteghe e dei mestieri. Un tutto organico con la popolazione seppur divisa tra borghesi, artigiani, garzoni e servi. Al suo avvio la Rivoluzione Industriale7 determinò una frat- tura nei ritmi della vita economica e segnò un cambiamento nella civiltà che, a partire da allora, verrà fondata sul primato dell’economia, della tecnica e della scienza. Spirito tecnico e capacità di calcolo generarono la mutazione. Charles Dickens descrisse questo periodo storico con enfasi ma, allo stesso tempo, con disincanto e paura. “Era l’epoca migliore di tutte, e peggiore di tutte, era l’epoca della saggezza e della follia, era l’epoca della fede, era l’epoca dell’incredulità; era la stagione della Luce e la stagione dell’Oscurità; era la Primavera della speranza e l’Inverno della disperazione; ave- vamo tutto davanti a noi, e nulla davanti a noi; andavamo di- rettamente verso il Cielo; insomma era così lontana dall’epoca presente, che alcune delle autorità più in vista insistevano nel qualificarla solo al superlativo, in bene o in male”. Possiamo af- fermare che le testimonianze dell’industrializzazione sono, per certo, le più rappresentative della grande metamorfosi storica e culturale da cui ha avuto origine il mondo così come lo cono- sciamo oggi8. La loro presenza garantisce solidità alla memoria del nostro recente passato. In questo senso, la cancellazione dei ruderi industriali, fabbri- che dismesse o case operaie abbandonate che siano, ci espone al pericolo di legare la memoria collettiva soltanto a quanto resta di fasi lontanissime della nostra civiltà, senza poterla ra- dicare in quelle più prossime. 34 35 Il quadro sociale della nostra identità culturale rischierebbe di venire sconquassato9. L’Archeologia Industriale10 non è dunque una invenzione e tanto meno una moda accademica: essa nasce dal fatto che le innovazioni tecnologiche, l’accelerato modello di produzione e le mutazioni geopolitiche trasformano rapidamente in reperti organi vivi come impianti, fabbriche e destinazioni industriali. Questa è la regola della società tecnologica e del mercato glo- bale in cui viviamo. La storia non crea la materia prima dell’archeologia industria- le. È l’obsolescenza a farlo: non il tempo ma il progresso. Il suo metro di giudizio non è l’estetica, ma l’economia. Ecco allora che la fabbrica, protagonista di cambiamenti che hanno travalicato i suoi muri, collo di bottiglia in cui sono pre- cipitate tutte le esperienze di disciplinamento avviate con l’età moderna, rischia di diventare una grande parentesi della no- stra storia. Per questo dobbiamo preservarla. Torna alla mente, dallo Zibaldone, un pensiero di Giacomo Leopardi: “fu proprio carattere delle antiche opere manuali la durevolezza e la solidità, delle moderne la caducità e brevità”. Del resto, pensando alla monumentalità degli opifici ottocente- schi o delle prime stazioni ferroviarie non possiamo che ricono- scerci una estrema resistenza all’effimero. Il diffuso fenomeno del revival nell’architettura industriale può essere interpretato come un bisogno: celare l’inevitabile destino di standardizza- zione e di rapida sostituzione che il nuovo modo di produrre stava per inaugurare. Da parte mia, ritengo più romantico pensare a ciò che questa esperienza ha rappresentato e rappresenta ancora in relazione all’uomo, al lavoratore. L’architettura industriale superstite non è solo uno scenario esausto ma uno strumento per conoscere l’uomo che, all’interno di fabbriche, centrali elettriche, stazio- ni, cantieri, miniere ha consumato e consuma la sua esistenza. Il romanzo di fabbrica è un racconto straordinario. Ne sono protagonisti uomini separati dalla lotta di classe, dal profitto e dal salario, ma uniti dalla consapevolezza che il loro destino 34 35 dipendeva dal successo di una partita giocata insieme. Sotto questo aspetto è estremamente interessante l’analisi di quel che resta del costruito industriale, diffuso nel territorio, come testimonianza della vita che ne pulsava all’interno. Ciò è ancora più manifesto nelle città operaie dove casa e la- voro convissero fino al momento in cui non riuscirono più a produrre valore e che restano, oggi, rovine viventi. Nell’intraprendere una breve storia di queste forme organizza- tive dello spazio urbano, il lettore mi consentirà di muovere da un significativo evento, a suo modo esemplare. Lo scrivente si riferisce all’ampliamento della città medievale di Augsburg, in Baviera, che fu promosso nei primi anni del Cin- quecento dal banchiere Jacob Fugger, con la realizzazione di centosei case a schiera disposte su reticoli di strade parallele. Peculiare di questa nuova addizione urbana fu la collocazione in continuità con il tessuto preesistente, ma da questa sepa- rata con un muro. Dall’atto di fondazione, che reca la data del 1521, possiamo leggere: “le case devono essere date gra- tuitamente agli operai e agli artigiani che abitano nella città di Augsburg come atto di ringraziamento verso Dio da parte di chi11 ha accumulato grandi mezzi di fortuna”. Questa iniziativa edilizia è ispirata alla tradizione medievale di riscattare la ricchezza attraverso opere di benevolenza. Al- la necessità di tale riabilitazione terrena esplicitamente allude la lapide12 posta sull’ingresso principale del quartiere. In essa ritroviamo pietà e devozione ma anche consapevolezza di un ruolo sociale attento al benessere comune e ai delicati equilibri della vita urbana. Nella riflessione storica sul rapporto tra industrializzazione e sviluppo urbano, la company town, o villaggio operaio per dirla all’italiana13, è quell’insediamento fondato da un singo- lo imprenditore con l’intento di raccogliere, all’interno di un ipotetico recinto, la propria fabbrica14, le abitazioni e i servizi per la vita quotidiana dei lavoratori che, in un silenzio com- postissimo, come mossi da un invisibile burattinaio maniaco dell’ordine, sarebbero andati a costruire il nostro presente. Si tratta prevalentemente di insediamenti realizzati in aree ex- 36 37 traurbane, relativamente autonomi, edificati in funzione del nucleo produttivo costituito dalla fabbrica e dagli stabilimen- ti, risolvendo così le esigenze residenziali degli operai15 in essa impiegati. L’industria pianifica l’urbanistica, facendone uno strumento di guida cosciente dei fenomeni sociali, e strappa definitiva- mente lo sviluppo delle città allo spontaneismo manifesto della loro crescita precedente basata sul lento e continuo stratificarsi del tempo come i cerchi concentrici che mostrano l’età di un albero. Il capitale fonda una comunità privata esclusiva, modellata sulla fedeltà che gli operai giurano al padre padrone dove il paternalistico abbraccio tra le classi, l’addestramento e la cre- scita di corpi e menti fedeli al lavoro si svolgono in uno spazio opportunamente perimetrato. L’attribuzione delle abitazioni, la pianificazione delle attività extralavorative, la disposizione fisica degli edifici appaiono volti a condizionare il comporta- mento morale dei lavoratori, considerati incapaci di far fronte ai loro bisogni e inevitabilmente destinati a una vita grama e viziosa se lasciati a se stessi. All’atto della sua fondazione, la città azienda dichiara di orga- nizzare il territorio in funzione dell’attività produttiva16. Del resto, la pratica di costruire nelle adiacenze degli stabili- menti singole case, quartieri o addirittura villaggi, si diffuse in Italia dall’esempio di modelli inglesi e francesi negli ultimi tre decenni dell’Ottocento, in concomitanza con il decollo indu- striale della nazione e, certo, non fu una esperienza isolata. Il problema di alloggiare le maestranze si poneva dovunque sor- gessero nuove fabbriche che spesso spopolavano la campagna dando impulso alla formazione di nuovi centri urbani. I villaggi operai rappresentano forme di organizzazione che trovano la loro fisionomia caratteristica nell’omogeneità e nel- la frequenza con cui reiteravano la loro matrice anglosassone. Costituiscono una interessante testimonianza di quelle iniziati- ve assistenziali17 volte ad arginare, con spirito filantropico, il di- sagio sociale provocato dal processo di industrializzazione che richiamava una grande quantità di manodopera dalle campa- 36 37 gne. Tutti questi interventi hanno un comune denominatore: la visione della fabbrica come una grande famiglia guidata con forza e responsabilità da una figura paternalistica18, l’autorita- rio imprenditore sempre attento alle esigenze dei suoi figli ope- rai in un clima di costante sottomissione e forzata ubbidien- za. Un maestro del liberalismo novecentesco, Isaiah Berlin19 sintetizzava con “la libertà dei lupi non sempre è compatibile con la libertà degli agnelli” il pensiero che anche il capitalismo più umano si fondava sul controllo occhiuto e ineludibile dei dipendenti. Nelle grandi aziende il paternalismo industriale diviene uno degli strumenti centrali per la costruzione del consenso all’in- terno dei luoghi di lavoro. In questo quadro la metafora del pater familias emerge come pilastro tradizionale e insostitui- bile per legittimare il sistema gerarchico della fabbrica. Tale politica, evocando modelli derivanti dalla struttura familiare, richiama legami in cui la componente affettiva si coniuga ad una concezione di interesse comune e ad una accettazione del sistema gerarchico percepito come naturale. Tuttavia, essa non può, però, essere imposta unilateralmente ma deve essere otte- nuta, riscuotendo un grado di apprezzamento dalla contropar- te e, di conseguenza essere liberamente scelta. In realtà, il paternalismo esprime l’esigenza da parte degli im- prenditori di giustificare e razionalizzare un sistema nel quale esistono ineguaglianze stridenti che occorre attutire. In que- sta prima fase del processo di industrializzazione la resisten- za operaia alle norme della fabbrica è molto forte soprattutto perché il distacco dalla società agraria tradizionale è definitiva e senza ritorno, tanto che l’impresa viene a ricoprire un ruolo pressoché assoluto nella vita dell’operaio in un’epoca in cui, tramontato l’ammortizzatore costituito dal residuo legame con il mondo rurale, risultano ancora insufficienti quelli costituiti dall’intervento pubblico dello Stato. Solo dall’azienda, infatti, la forza lavoro può attendersi tutto quanto le necessita ed è all’azienda che tutto si chiede. Si configura così questa risposta dei datori di lavoro alla tenace opposizione operaia alla fabbrica in quanto tale e all’esigenza 38 39 di evitare interventi legislativi a favore della manodopera da parte dello Stato. Una combinazione di repressione e persua- sione. Il paternalismo diventerà, poi, anche strategia di gestione per fondare una vera e propria cultura di impresa, in grado di supportare i nuovi compiti produttivistici trasformandosi poi, lentamente, in una forma di orgoglio collettivo capace di espri- mere un senso di appartenenza aziendale trasversale a tutti i gruppi sociali presenti all’interno dell’azienda. Il primo nome italiano che viene alla mente parlando di pater- nalismo industriale20 è quello del vicentino Alessandro Rossi21, autentico portabandiera dell’industrialismo nazionale. Nato da una famiglia di imprenditori lanieri, impresse al suo stabili- mento di Schio una fortissima spinta verso l’innovazione intro- ducendo macchinari moderni e caldaie a vapore. Già intorno al 1880, la sua poteva essere considerata una tra le aziende più avanzate di tutto il nostro paese. Il suo impegno in campo sociale fu ispirato ad un paternalismo di stampo cattolico22, che si prefiggeva di coniugare sviluppo industriale e pace so- ciale. Fece edificare un villaggio modello denominato la “Nuo- va Schio”, dove è ancora possibile passeggiare nella piacevole alternanza di villini per i dirigenti, casette singole o bifamiliari per gli impiegati e abitazioni a schiera per gli operai, il tutto contornato da giardini e strutture di servizio. Molto simile è l’esperienza della Borgata Leumann, complesso edilizio realizzato tra il 1892 e il 1914 dall’architetto piemon- tese Pietro Fenoglio su precisa indicazione dell’illuminato im- prenditore svizzero Carlo Giovanni Napoleone Leumann. Su di una superficie triangolare di sessantamila metri quadrati, questi edificò una città sociale che si sviluppa attorno al pree- sistente opificio il cui ingresso è spiccatamente identificato da due torrette di chiaro stile liberty. Adiacente allo stabilimento, un dedalo di stradine consente al visitatore di osservare i qua- rantadue villini23 e gli edifici destinati ai servizi. Le casette, che, nell’ottica del fondatore, dovevano rappresentare una sorta di anello di congiunzione tra città e campagna, società tradizio- nale e industriale, sono, ancora oggi, provviste dell’orto che 38 39 consentiva all’operaio di conservare abitudini e consuetudini tipiche del mondo contadino. Tra le strutture del villaggio24 colpiscono maggiormente gli edifici dell’asilo, delle elementari, la scuola serale e quella “della massaia”. Sorprenderà forse il lettore che, nel 1789 ossia molto prima delle esperienze settentrionali, poco lontano da Caserta, re Ferdinando IV di Borbone fece edificare la “ opificium Leucianorum” per la tessitura e la colorazione delle sete filate. Progettata dall’architetto Francesco Collecini, avrebbe dovuto essere la prima città industriale italiana e chiamarsi Ferdinan- dopoli. Nel progetto originale, mai compiuto a causa della rivoluzio- ne del 1799, le case operaie vennero pensate in due blocchi simmetrici, aperti verso un elemento scenografico centrale: la statua del sovrano. La reale colonia venne disciplinata da leggi e regolamenti spe- ciali25. Il villaggio e lo stabilimento vennero chiusi nel 1843. In questa carrellata nazionale, non può essere esclusa la fabbri- ca della società belga Solvay26 che fu istituita, ai piedi del colle di Rosignano Marittimo, nel 1913. Intorno allo stabilimento la società diede vita ad un villaggio operaio, organizzando uno spazio urbano di chiara ascendenza nord-europea che, con le molte aree verdi e la razionalità dell’impianto, rispondeva alla teorizzazione della città-giardino. Gli alloggi erano diversifica- ti sulla base dei profili professionali dei lavoratori. Il villaggio comprendeva altri edifici, come l’ospedale, il teatro, la farma- cia, la fabbrica del ghiaccio, l’ufficio postale, le scuole elemen- tari che prevedevano successivamente corsi di avviamento al lavoro, e altre strutture di sostegno per le attività degli operai e delle loro famiglie. Il contesto internazionale è anch’esso fecondo di esperienze simili che ricalcano consuetudini tipiche di questo fenomeno. Nell’ottica di una architettura carica di significazioni e mistici- smo, non è affatto inusuale la circostanza che il progetto scelto nel 1871 per la fonderia reale di Luigi XVI a Le Creusot, nel territorio sudorientale della Francia, fosse del tutto simile a quello di una tenuta nobiliare della fine del Seicento. La duris- 40 41 sima realtà di una industria pesante come poteva essere quella siderurgica venne forzatamente inserita in una proprietà ter- riera, curioso simulacro dell’ordine prestabilito. All’interno di un sistema abitativo realizzato in adiacenza alla fabbrica, le ore della lunga giornata lavorativa erano scandite da un grosso orologio che fregiava l’entrata del blocco principale alle fon- derie. Tra i progetti più ambiziosi realizzati in Francia meritano si- curamente di essere ricordate anche le saline reali di Claude- Nicolas Ledoux ad Arc et Senans, realizzate nel 1778. Il loro progetto neoclassico, con i suoi richiami riccamente manieri- stici, consisteva in dieci edifici principali costruiti a mezzaluna aperta in pietra e mattone. Al centro si posizionava la casa del direttore, chiave di volta di tutta la planimetria della struttura. Era il centro di controllo dello stabilimento e ospitava, inoltre, l’amministrazione, una cappella e la sorveglianza. Denomina- to temple de survellaince, da qui si irradiava ogni autorità, per- sino spirituale. Nella mezzaluna, ogni padiglione per gli operai aveva un corpo centrale a doppia altezza che ospitava una ci- miniera circondata dai dormitori per i lavoratori. Assoluta simmetria e geometria purissima. La Gran Bretagna fu la terra più fertile allo sviluppo di idee e concezioni rivoluzionarie. La New Lanark Twist Company era situata in una sperduta valle del Strathclyde. Non appena Robert Owen27, divenuto genero e socio di David Dale, ci venne catapultato nel 1799, cominciò a declinare le sue idee progressiste sulla gestione del- la fabbrica, cristallizzate poi28 nel testo “A New View of So- ciety”. L’ammessa ingiustizia del sistema produttivo gli ispirò l’immediato divieto di impiegare in fabbrica bambini indigenti e innalzò l’istruzione ad asse portante del suo castello di idee. Ai ragazzi veniva offerta una scolarizzazione a tempo pieno fino all’età di dieci anni, al termine dei quali venivano inco- raggiati a proseguire gli studi con i corsi serali. Per favorire i genitori, ridusse l’orario di lavoro sottoponendo la produzione a strumenti di controllo della resa operaia individuale. Titus Salt29, fondatore di Saltaire, si prefiggeva traguardi più 40 41 modesti ma era profondamente convinto che fosse compito degli industriali “rendere tutte le mansioni coinvolte nella pro- duzione, o nel trasporto, di massimo beneficio per gli uomini impiegati”. Era perfettamente consapevole che le famiglie di operai che vi- vevano in case decenti, con servizi come bagni pubblici o casse di risparmio a loro disposizione, costituivano una manodopera più stabile30, con grande giovamento della produttività e degli affari. Ecco, allora, il luogo dove l’utopia degli oligarchi dell’era mo- derna si fa industria lungimirante che, coniugando ovvi propo- siti di auto-rappresentazione con un autentico impegno socia- le, cercava di cavalcare i nuovi slanci di un paese animato dal cambiamento e dalle grandi speranze. Crespi d’Adda attraversa questo spazio bordeggiando tra inte- resse privato e beneficio pubblico, proprio come fanno i grandi fiumi della terra padana, con le anse che aggirano gli ostacoli naturali, altrimenti insuperabili. A Crespi d’Adda, i diversi elementi del complesso vengono disposti secondo uno schema geometrico che, rispettando i rapporti armonici tra le diverse parti, si adatta perfettamente alle esigenze della produzione. Nonostante alcuni avessero con sarcasmo sostenuto che i fondatori soffrissero della sindrome di Asperger31, il loro ordine spaziale rappresenta l’esito di precise strategie economiche in base alle quali un migliore ambiente di vita e di lavoro, un’esistenza moderata e regolare, comuni bi- sogni e aspirazioni, avrebbero rafforzato il legame dell’operaio con la fabbrica accelerandone il rendimento e la produttività. È così che mentre, dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, il generale George Armstrong Custer veniva sbaragliato dai Lakota di Cavallo Pazzo, nello stesso anno in cui usciva il edi- cola il primo numero del Corriere della Sera, e mentre mo- riva, a Berna, Michail Alexandrovicˇ Bakunin, Cristoforo Be- nigno Crespi32 trasformava l’incolta campagna tra Capriate e Canonica, provincia di Bergamo33, in un avamposto della modernità34. Era il 1878. La Rivoluzione Industriale approdava su questa 42 43 sponda dell’Adda nel giorno di luglio35 dedicato a San Cristo- foro, quasi fosse proprio quest’ultimo il traghettatore verso il mondo nuovo. Come capita a tutte le iniziative che modificano uno stato del- le cose consolidato e accettato dai più, i contadini della zona non subirono quella metamorfosi senza indignazione ma si dovettero rassegnare a lasciare i loro campi coltivati a grano e abituarsi rapidamente al fumo delle ciminiere e al lavoro di fabbrica. “Gli uomini non sono macchine e la fabbrica non è soltanto un complesso di impianti ed è per questo che cercherò di mi- gliorare le condizioni di vita dei meno fortunati per raggiun- gere l’ideale di una vera armonia di classe”36. Lo immagino il fondatore ispirarsi a queste parole e fu forse con questa fi- losofia, con l’aggiunta di un pizzico di “Rerum Novarum”37, che Cristoforo Benigno Crespi trasformò il villaggio intitolato alla propria famiglia in una città autonoma con il suo welfare ante litteram a tutto campo38. D’altra parte sarebbe difficile pensare alla costruzione della cittadina come opera funzio- nale alla produzione senza passare per una precisa volontà di occuparsi delle condizioni dei propri operai39. È certamente questa filantropia, sebbene non disinteressata40, a distinguere Cristoforo Benigno Crespi e suo figlio Silvio41 dagli altri im- prenditori coevi. Nel 1929, la famiglia Crespi slega il suo destino da quello del paese42, innescando un lento e inesorabile declino che si com- pleterà, dopo alterne vicende, nel 2003 con lo spegnimento della fabbrica e della vita nel villaggio, che dopo gli anni di splendore si trasformava in una moderna Pompei del mondo industriale43.

42 43 Note

1 La prima utilizzazione del termine potrebbe essere fatta risalire al 1799 quando l’inviato francese a Berlino Louis Guillaume Otto scrisse che, nel suo paese, aveva già preso avvio la Rivoluzione Industriale.

2 Si tratta di una cittadina industriale creata dal nulla dall’ex segretario del partito comunista cinese, Wu Renbao, emblematica sintesi di una esperienza ancora in atto al di fuori dei confini europei. Nella sua piazza principale, di fronte ad una enorme gallina di cemento, un cartello riporta una poesia: “A casa hai una tonnellata d’oro, ma mangi solo tre volte al giorno. Possiedi un palazzo nel punto più alto del paese, ma un uomo ha bisogno di un solo letto”.

3 Il profetico Gafyn Llawloch scrisse, nel 1920, che “all’inizio gli operai sono andati dove c’erano le fabbriche, poi le fabbriche andranno dove ci sono gli operai, alla fine la produzione diventerà mobile e gli operai dovranno inseguirla”.

4 “Ora che l’archeologia è tutta intorno a noi, non ha più senso dire che un sito archeologico è quel posto dove scavano gli archeologi”. È la condivisibile tesi soste- nuta da Cyprien Gaillard, artista.

5 Il riferimento è al professor Edo Bricchetti, ricercatore e archeologo industriale ante litteram, tra i primi studiosi ad interessarsi all’importanza del villaggio operaio.

6 Uno dei grandi enigmi della rivoluzione industriale è come mai sia cominciata in Inghilterra. La gran parte degli storici si concentrano sulla circostanza che la Gran Bretagna disponeva, per esempio, di grandi quantità di carbone, che possedeva un sistema di brevetti collaudato e che, essendo i costi della manodopera relativamente alti, si incoraggiò la ricerca di innovazioni che fossero in grado di contenerli. In un interessante articolo pubblicato nel 2011, invece, gli economisti Ralf Mei- senzahl e Joel Mokyr individuano una spiegazione diversa: il vantaggio in termini di capitale umano. I due studiosi ritengono, infatti, che la Gran Bretagna abbia potuto dominare la rivoluzione industriale poiché rispetto ai suoi rivali possedeva un numero assai maggiore di ingegneri e artigiani qualificati: uomini intraprendenti e creativi che presero le invenzioni cardine dell’era industriale e le perfezionarono, rifinendole, migliorandole e facendole funzionare. Nel 1779 Samuel Crompton, un genio in pensione del Lancashire, inventò un par- ticolare tipo di filatoio detto spinning mule, che permise di meccanizzare la produ- zione del cotone. Ma il vero punto a favore dell’Inghilterra fu il fatto di avere Henry Stones, di Horwich, che al mulo aggiunse dei cilindri metallici; e James Hargreaves,

44 45 di Tottington, che trovò il modo di rendere più fluide l’accelerazione e la decelera- zione del meccanismo; e William Kelly, di Glasgow, che capì come applicare l’ener- gia idraulica alla torsione delle fibre; e John Kennedy, di Manchester, che adattò la macchina in modo tale da produrre filati sottili; e infine Richard Roberts, anche lui di Manchester, maestro nella creazione di macchinari di precisione, nonché perfe- zionatore supremo. Fu lui a creare il mulo automatico: una reinvenzione precisa, veloce e affidabile del macchinario ideato da Samuel Crompton. Furono uomini come questi, sostengono i due economisti, a fornire le “microinvenzioni necessarie per rendere le macroinvenzioni altamente produttive e redditizie”.

7 Il giudizio storico più diffuso sull’Italia che si affacciava all’alba del Novecento è che fosse il fanalino di coda del processo di industrializzazione europeo. È altrettanto vero però che, seppur trascinandosi dietro un carico di problemi irrisolti e arretra- tezze, il nostro paese fu l’unico della parte meridionale del continente a conoscere un duraturo e significativo sviluppo industriale. Ciò grazie al ruolo svolto dallo Stato nella promozione dell’integrazione delle diverse aree geografiche in un unico mer- cato nazionale, dotandolo delle infrastrutture necessarie a favorire la circolazione delle merci prodotte e sviluppando, attraverso politiche protezionistiche e interven- tistiche, settori strategicamente sensibili e alla presenza di una imprenditoria diffusa che operava a mezzo di piccole e medie imprese cresciute prevalentemente intorno a produzioni specifiche distrettuali.

8 L’evoluzione del sistema produttivo, fin dalle sue origini, ha profondamente intera- gito con la città e il territorio, determinando forti mutamenti sull’assetto territoriale e sulle strutture urbane. I rivolgimenti socioeconomici hanno determinato una pro- fonda metamorfosi di molte realtà territoriali dove, in breve tempo, i borghi rurali si sono trasformati in città industriali. Inoltre, le epoche di scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche si accompagnano frequentemente alla formulazione di so- luzioni innovative in ambito sociale, residenziale e urbano, motivate sia dall’amplia- re i benefici del progresso economico che per far fronte alle conseguenze negative di tali trasformazioni.

9 L’abbandono dei contenitori manifatturieri non è altro che il segno architettonico lasciato sul terreno dal passaggio del parapiglia della Rivoluzione Industriale, esito di una grande trasformazione che ha mutato paesaggi, mentalità, identità collettive. Ci si dimentica che, per una sorta di metabolismo insito nell’accelerazione e nello sviluppo esponenziale del processo produttivo, la Rivoluzione Industriale trasforma e abbandona molto rapidamente gli strumenti, le strutture e le aziende che mano a mano si rendono obsolete, distruggendo le testimonianze stesse delle sue origini e della sua storia. Nonostante la profonda impronta umanistica e crociana che, consi- derando veramente degno dell’uomo solo ciò che attiene alle lettere, alla filosofia e all’arte, disdegna la tecnicalità in generale, si comincia a comprendere soltanto oggi che la cultura industriale è la cultura del mondo di oggi e che la fabbrica ed i luoghi di produzione sono i veri contenitori di scienza, di tecnologia, di ardimento, di capacità imprenditoriale, di fatica, di dolore, di umanità e di progresso del mondo moderno.

10 Alcuni sostengono che il singolare accostamento dell’aggettivo “industriale” al

44 45 sostantivo “archeologia” sia stato proposto per la prima volta dallo storico René Evrard nel 1950 ma questa improbabile associazione di termini dal valore suggesti- vo molto potente, incontrò la sua reale fortuna in Inghilterra, dove Donald Dudley, professore all’Università di Birmingham, e Michael Rix cominciarono a utilizzarlo per definire un campo di ricerca dalla collocazione storica dai confini incerti, in equilibrio instabile tra storia, antropologia, urbanistica, economia, storia della tec- nologia, dell’architettura e dell’arte. Si racconta che, mentre Donald Dudley non fece molto di più che evocare questa espressione nel corso di una conversazione, probabilmente virgolettandolo in via metaforica, Michael Rix inserì tale espressio- ne in un articolo che pubblicò sulla rivista “The Amateur Historian” nell’autunno del 1955, assumendosene in via perentoria la paternità. Ne seguì un lungo dibatti- to legato all’ampiezza da attribuire a questa scienza che divide tuttora gli studiosi connettendosi alla difficoltà di una definizione di Rivoluzione Industriale del tutto soddisfacente, se non altro perché quel complesso fenomeno storico si è manifestato e si sta manifestando ancora, secondo modi e tempi assai diversi nelle differenti aree geografiche. Nel 1967, quando in Inghilterra la ricerca sul campo aveva già portato a significativi risultati e gli studiosi avevano avviato una prima sistematizzazione dei dati e delle conoscenze acquisite Michael Rix, propose questa tassonomica definizione: “l’Ar- cheologia Industriale è la catalogazione, la conservazione e l’interpretazione dei luoghi e delle strutture della prima attività industriale, specialmente dei monumenti della Rivoluzione Industriale”. L’Archeologia Industriale in Italia ha un luogo e una data di nascita precisa: il 24 giugno 1977 a Milano, in occasione del primo congresso internazionale organizzato alla Rotonda della Besana, nell’ambito della mostra “: archeologia, sto- ria, progetto”. Contemporaneamente, viene fondata la Società Italiana di Archeo- logia Industriale.

11 In questo caso da parte del ricchissimo banchiere Jacob Fugger.

12 La scritta recita precisamente che “per rendere grazia e in lode all’Altissimo e Cle- mente Signore, i Fugger per pietà e particolare liberalità, che deve servir da esem- pio, hanno dato, regalato e consacrato questa fondazione ai loro concittadini poveri ma probi”.

13 Esistono in Italia diverse eccellenti esperienze di villaggi operai ma di notevole in- teresse per il lettore potrebbero essere anche gli esempi di Larderello, di Varano Borghi, di Villa Perosa, di Metanopoli, di Torviscosa, del villaggio Umanitaria di Milano, dei villaggi Falck e Breda di Sesto San Giovanni che, pur rappresentando alcuni degli esempi minori di questo fenomeno, posseggono caratteristiche peculiari di grande interesse per gli appassionati del genere.

14 Una tale premessa può rappresentare una guida efficace nello sforzo collettivo di comprensione del “che cosa è” una città industriale, non intesa strictu sensu, come città che fornisce asilo alla manodopera o che ospita un arco di attività industriali, ma come centro il cui sviluppo dipende, nei suoi principali aspetti, dall’industria e la cui società si struttura complessivamente attorno all’industria, che non genera solo lavoro ma nuove comunità sociali.

46 47 15 In virtù dell’impossibilità di avvalersi di masse lavoratrici mobili, il loro ordine spa- ziale rappresenta l’esito di precise strategie economiche, politiche e di pianificazio- ne, in base alle quali un migliore ambiente di vita e di lavoro, un’esistenza regolare e moderata, comuni bisogni e aspirazioni avrebbero indubbiamente rafforzato il legame dell’operaio verso la fabbrica, aumentandone al contempo la produttività e il rendimento.

16 Le parole con cui, nel 1804, Claude Nicolas Ledoux descrisse il piano generale della salina di Chaux ci permettono di cogliere le origini di questo principio: “uno dei grandi ingranaggi che collegano i governi ai risultati che mettono in causa ogni più piccolo istante è la disposizione generale d’una planimetria che riunisce ad un centro illuminato tutte le parti che lo compongono. L’occhio sorveglia agevolmente la linea più corta, il lavoro la percorre con passo rapido, il fardello del tragitto si allevia per la speranza di un pronto risultato”.

17 Oltre all’etica puritana del lavoro che incoraggerebbe chi è premiato dal successo a restituire alla comunità una parte della sua fortuna, le città operaie sono il risultato di una esigenza maturata in ambito riformatore, frutto anche di quel pensiero uto- pista in cui l’obiettivo dell’armonia universale si concretizza nei concetti di famiglia, attività economica, educazione, lavoro e momenti comunitari, il tutto organizzato in un assetto topografico ordinato, dalle geometrie semplici e simmetriche, in cui nasce e si sviluppa il modello di una società sana, laboriosa e ordinata. Sotto un profilo prettamente utilitaristico mi ha sempre sedotto la definizione di “utopie a responsabilità limitata” che è stata spesso abbinata a queste esperienze imprenditoriali dalla forte connotazione sociale o socialista. Del resto, a differenza dello spirito ideale e dello slancio religioso che muoveva gli animi soggiogati da tale passione, qui, a muovere gli ingranaggi di ciò che si manifestava come slancio sociale era nulla più che il profitto. Si tratta beninteso di qualcosa che non ha nulla di male in sé, tanto che la nostra società lo ha eretto come proprio secondo nome ma che non ci venga ipocritamente spacciata come elevazione una politica mirata solo ed esclusivamente a creare super-uomini macchine destinate alla produzione ed al guadagno. La soluzione del concreto ed immediato problema della lontananza del luogo di lavoro dall’abitazione forniva all’imprenditore considerevoli vantaggi, tanto pratici quanto ideologici. I loro promotori furono infatti ben consapevoli di perseguire, insieme agli enunciati obbiettivi di miglioramento della condizione abitativa ope- raia, risultati economici vantaggiosi per la loro impresa derivati dal maggiore attac- camento all’azienda e dal maggiore impegno produttivo di dipendenti gratificati dalla concessione di un alloggio soddisfacente, soprattutto in un periodo di grande penuria abitativa. Da un lato, la formazione di una sorta di comunità attorno alla fabbrica poteva diffondere l’idea del lavoro industriale come estraneo ai conflitti di classe, fondan- dolo sulla solidarietà di imprenditori ed operai, dall’altro, i miglioramenti igienico sanitari connessi alle nuove abitazioni contribuivano sensibilmente alla riduzione dell’assenteismo, mentre la disponibilità di un servizio come l’asilo favoriva il meno costoso lavoro femminile. Non ultima, la concentrazione dei lavoratori in alloggi contigui alla fabbrica ma isolati dai centri urbani sovraffollati, rendeva infine assai più facile il controllo sociale e politico.

46 47 In queste esperienze urbane ci si trova di fronte a fenomeni di progettazione com- plessiva, pensata in funzione di un insediamento industriale in cui la caratteristica comune è la meccanizzazione della vita della collettività, la implicita programma- zione da parte imprenditoriale sia del tempo occupato dai propri dipendenti nel la- voro, ma anche della loro vita al di fuori della fabbrica. I villaggi operai sono pensati come macchine per lavorare e per abitare, dove i movimenti collettivi si sviluppano lungo percorsi predeterminati, in tempi che lasciano poche possibilità di varianti individuali. In compenso essi offrono una qualità della vita certamente superiore agli standard della classe operaia ad essi coeva. Frammenti di natura avevano la funzione di mimetizzare, nel limiti del possibile, l’artificio in una organizzazione del genere: frequentemente le case operaie dispo- nevano di un piccolo giardino e di un orto che, oltre a dare un’illusione di continuità con il passato contadino, poteva dare vita ad una sorta di economia di sussistenza ad integrazione dei salari provenienti dal lavoro industriale.

18 Gli storici sociali, integrando schemi interpretativi di derivazione marxiana, hanno raggiunto un certo grado di accordo nel definire il paternalismo industriale come “un insieme strutturato di mezzi materiali, ideologici e politici, utilizzati per for- mare e rinnovare la manodopera necessaria al funzionamento di un processo di lavoro determinato, in una regione data” e, ancora, come “una serie di pratiche, sia materiali che simboliche, sviluppate dagli imprenditori per attrarre, organizza- re, provvedere, disciplinare, formare e, attraverso la famiglia, riprodurre la forza lavoro”.

19 Filosofo britannico.

20 In modo emblematico, nel 1876, un esponente di rilievo del ceto dirigente del no- stro Paese, Luigi Luzzati, si espresse in questi termini nei confronti del paternalismo di fabbrica: “quando il ministro Giuseppe Zanardelli visitò gli opifici del senatore Alessandro Rossi a Schio, esclamò commosso: qui è la soluzione migliore del pro- blema sociale. Dall’asilo il giovanetto passa alla scuola, dalla scuola alla fabbrica, dalla fabbrica alla casetta propria e pulita. Suppongasi che tutti i fabbricanti d’Italia imitino questo esempio, e l’Internazionale ha perduto molta probabilità di successo fra operai contenti e piegati al nobile egoismo della proprietà privata”.

21 Imprenditore e politico italiano vissuto tra il 1819 ed il 1898. Riuscì a risollevare l’economia scledense portando grandi riforme e innovazioni soprattutto nell’indu- stria laniera facendo dell’industria fondata dal padre una delle maggiori aziende italiane.

22 Nel 1879, Alessandro Rossi fece edificare una statua di marmo con dedica “ai miei tessitori”. La chiamano tutti “l’Omo” perché, come spiegano i vecchi di Schio “si te si un omo, te lavori”, una cultura e una filosofia che ha radici profonde in questo territorio.

23 Sei sono le diverse tipologie degli edifici del villaggio, alcuni con mattoni a vista, altri con intonaco liscio o spruzzato, altri ancora a finitura mista, senza con questo

48 49 interrompere il carattere omogeneo del complesso, realizzato mediante l’assem- blaggio di moduli elementari, fantasiosamente combinati tra di loro.

24 Numerose furono le altre istituzioni fondate e finanziate dal cotonificio: l’ambula- torio, i bagni pubblici, il refettorio, il lavatoio pubblico, il convitto, la biblioteca, la palestra, la stazionetta, l’ufficio postale, il teatro ed il cinematografo.

25 Qui vigeva un codice giuridico ed economico emanato direttamente da Ferdinando IV di Borbone, che prevedeva l’abolizione di ogni distinzione di classe, l’istruzione obbligatoria fino ai sei anni di età, il matrimonio per libera scelta e senza dote, l’obbligo di indossare abiti uguali per tutti, l’istituzione di una cassa per gli invalidi e per la vecchiaia.

26 Nel 1914 avviò la produzione della soda.

27 Vissuto tra il 1771ed il 1858, Robert Owen è considerato uno dei primi socialisti della corrente che va sotto il nome di socialismo utopistico. Benché i suoi esperi- menti utopici siano falliti, la sua attività nel campo dell’associazionismo e del sinda- calismo lo rende di fondamentale importanza nella storia del movimento operaio britannico. Divenuto, a soli 19 anni, dirigente di una fabbrica di cotone a Manchester che impiegava un centinaio di persone, grazie alle sue capacità gestionali e imprendito- riali, ne fece uno dei migliori impianti della Gran Bretagna. Durante una visita a Glasgow, si innamorò di Caroline Dale, figlia del proprietario di una fabbrica a New Lanark. Dopo averla sposata, nel 1799 divenne responsabile e comproprietario dello stabilimento e, incoraggiato dal suo precedente grande suc- cesso nell’amministrazione dei cotonifici a Manchester, fra il 1800 e il 1825 tentò di condurre la manifattura di New Lanark secondo i suoi principi ideali, mettendo in secondo piano le logiche commerciali. In questo senso, aprì uno spaccio dove gli operai potevano comprare merci di buo- na qualità a poco più del costo e dove la vendita di alcoolici era strettamente con- trollata. I risparmi dell’acquisto all’ingrosso venivano trasferiti agli operai dando vita a quei principi che sarebbero divenuti la base dei negozi cooperativi che ancora oggi operano in Gran Bretagna. All’istruzione dei giovani Robert Owen dedicò un’attenzione particolare. Fu il fon- datore della scuola materna in Gran Bretagna. Benché le sue idee riformatrici assomiglino a quelle allora emergenti in Europa, erano di sua concezione e probabilmente per nulla influenzate da altri. Guardato al principio con sospetto come forestiero, in breve si guadagnò la fiducia della sua gente. Negli anni seguenti l’opera di Owen a New Lanark ebbe rilevanza nazionale e persino europea. I suoi progetti per l’istruzione degli operai si completarono con l’apertura della scuola di New Lanark nel 1816. Robert Owen adottò nuovi metodi per alzare la qualità della produzione. Sopra ogni postazione era installato un cubo con facce colorate, che indicavano la qualità e la quantità della produzione: poiché ogni operaio segnalava agli altri la qualità del suo lavoro, aveva un interesse a fare del suo meglio. D’altra parte, le condizioni per gli operai e le loro famiglie erano idilliache per gli standard dell’epoca.

48 49 A New Lanark il comportamento dei bambini era libero, inventivo e beneducato. Salute, abbondanza e soddisfazione prevalevano. L’ubriachezza era sconosciuta e i figli illegittimi rarissimi. Le relazioni tra l’imprenditore e gli operai erano eccellenti, la fabbrica funzionava con la massima fluidità e regolarità e l’impresa era un grande successo commerciale. In breve tempo, New Lanark divenne uno dei centri industriali più importanti nella produzione e filatura del cotone a livello europeo ed il sistema socialista creato da Robert Owen divenne immediatamente un centro di studi per tutta l’emergente borghesia inglese e dimostrò come un lavoratore felice e soddisfatto rendesse meglio di un lavoratore oppresso e sfruttato. Nel 1825 un esperimento simile fu tentato dal suo seguace, Abram Combe, che diede vita alla comunità di Orbiston, nei pressi di Glasgow. Un anno dopo, lo stesso Robert Owen fondò un’altra colonia a carattere comunitario negli Stati Uniti, a New Harmony, nello stato dell’Indiana. Dopo un tentativo durato circa due anni, entrambi fallirono completamente nel 1828. Dopo un lungo periodo di attriti con William Allen e altri suoi soci, Robert Owen rescisse ogni connessione con New Lanark nel 1828.

28 Nel 1813.

29 Imprenditore e uomo politico nato nel 1803 vicino a Leeds, ideatore del villaggio operaio di Saltaire il cui nome deriva dalla combinazione del cognome del fondato- re e dal nome del fiume Aire accanto al quale sorse l’insediamento. Questo esperi- mento abitativo iniziò nel 1853 con la costruzione di case, di stabilimenti balneari, di un istituto ospedaliero, di ospizi e di chiese, che compongono il villaggio modello di Saltaire. Morì a Crow Nest nel 1876. Al suo funerale parteciparono centomila persone.

30 In quel periodo gli imprenditori sono ben consapevoli dell’importanza politica del villaggio operaio come strumento per arginare la diffusione delle idee socialiste.

31 Disturbo pervasivo caratterizzato da un estremo bisogno di ordine e prevedibilità.

32 Nato a Milano nel 1833, studiò nella scuola dei padri Rosminiani e cominciò a lavorare come semplice contabile in banca. Figlio di Antonio Crespi, discendente di una famiglia di imprenditori tessili di Busto Arsizio, sposò Pia Travelli e avviò la sua carriera di imprenditore. Aprì fabbriche a Vaprio d’Adda e sulla sponda piemontese del lago Maggiore. Nel 1884 trasferì il suo domicilio a Milano, nella casa di via Borgonuovo, dove ebbe sede l’azienda. Nel 1904 costruì la centrale idroelettrica di Trezzo sull’Adda. Morì a Milano nel 1920.

33 Nella prima metà dell’Ottocento, nella provincia bergamasca le attività produttive hanno ancora dimensioni artigianali e la loro localizzazione è strettamente connes- sa al reperimento delle materie prime e delle risorse energetiche costituite preva- lentemente dai corsi d’acqua lungo i quali si strutturano i primi sistemi insediativi industriali. Quando si avviò l’attività del Cotonificio Benigno Crespi, la plaga dell’alta pianura dell’Adda era una zona dedita ad una mera agricoltura di sussistenza. Non allevia-

50 51 vano la povertà endemica né la faticosa e misera industria delle cave di puddinga, né la bachicoltura, né il quasi inesistente artigianato. La situazione dei lavoratori bergamaschi, alle soglie del 1878, appariva ancora dif- ficile. Oltre un terzo della popolazione attiva era analfabeta e lavorava tra le dodici e le quattordici ore al giorno. Il locale giornale di matrice cattolica “Il Campanone” denunciava la gravità delle malattie professionali: tisi, artriti, bronchiti, pellagra, tifo intestinale. Scriveva un commentatore dell’epoca: “riaffacciasi quindi alla mente il ritratto di una delle nostre operaie e non si tarderà a comprendere come una perso- na improntata all’anemia, alla scrofola, cagionata da fatiche smodate e dalla cattiva alimentazione sia un vero tipo femmineo predisposto all’aborto o a frutti immaturi condannati presto a perire”. Parallelamente alle Società di Mutuo Soccorso, anche il mondo cattolico si an- dava mobilitando a favore della classe lavoratrice con la costituzione dell’Opera Nazionale dei Congressi che contribuì a porre all’attenzione pubblica la situazione operaia. Dopo la costituzione locale del Partito Socialista, il 14 settembre 1893 fu procla- mato il primo sciopero dei cotonifici bergamaschi. Le richieste, elaborate da una affollata assemblea di duemila operai, erano semplici: dodici ore di lavoro al giorno, fine del lavoro notturno, aumenti salariali. A condurre gli scioperi e le trattative fu la Lega Socialista che ottenne solamente l’abolizione del lavoro notturno per le donne e i fanciulli, tredici ore di lavoro al giorno ma nessun aumento salariale. Nel 1828 un imprenditore svizzero del cantone di Zurigo, Giacomo Zuppinger, si insedia con la propria filatura a e poi a Torre Boldone. A Ranica, nel 1867 prende avvio la filatura e la torcitura di Gioacchino Zopfi. Nel 1874, a Scanzo la tessitura Caprotti e Guttinger. Nel 1875 è la volta della famiglia Legler che, sfrut- tando la presenza del fiume Brembo per muovere le macchine, la vicinanza della ferrovia e la presenza di manodopera a basso costo, a costruisce una filatura e una tessitura con modernissimi telai meccanici. Coevo è lo sviluppo della industrializzazione della Valle Seriana. La ditta Walty a Cene nel 1875, due anni dopo è la volta della tessitura meccanica Blumer e Luchsinger a Nembro, poi la Honegger ad Albino. Nel 1877 nel settore erano occupati duemila operai. I due terzi erano donne e bambini.

34 Lo scrittore francese Alain De Bottom sostiene che siamo diventati moderni quando abbiamo smesso di aspettare gli sporadici doni divini e abbiamo cercato di rendere disponibile all’istante ogni prodotto e a ripetizione qualsiasi sensazione gradevole.

35 Il 25 di luglio, nel giorno, appunto, dedicato a San Cristoforo, da sempre venerato come il patrono dei barcaioli.

36 Le parole sono di Friedrich Engels.

37 Rerum Novarum è il titolo dell’enciclica sociale promulgata il 15 maggio 1891 da papa Leone XIII con la quale per la prima volta la Chiesa cattolica prese posizione in ordine alle questioni sociali e fondò la moderna dottrina sociale cristiana. A quel tempo, il movimento cattolico era diviso in varie correnti sull’atteggiamento da tenere nei confronti del capitalismo avanzante. Una parte voleva un avvicina- mento al movimento socialista, per tentare di mediare sull’ateismo professato dai

50 51 marxisti. Altri auspicavano una sostanziale benedizione del progresso, del commer- cio, e del “laissez faire”. Una ulteriore corrente era inoltre rappresentata dai cor- porativisti, che auspicavano un ritorno alle istituzioni economiche medievali, allo scopo di ricomporre la tensione sociale in atto. L’originalità dell’enciclica risiede nella sua mediazione. Il Papa, ponendosi esatta- mente a metà strada fra le parti, ammonisce la classe operaia di non dar sfogo alla propria rabbia attraverso le idee di rivoluzione, di invidia ed odio verso i più ricchi, e chiede ai padroni di mitigare gli atteggiamenti verso i dipendenti e di abbandonare lo schiavismo cui erano sottoposti gli operai.

38 Si legge in una lettera scritta dall’imprenditore inglese Mark Robinson a Richard Sennet, autore di un trattato sulle comunità industriali modello: “quando abbiamo costruito questa fabbrica, abbiamo espressamente fatto in modo che essa avesse un aspetto piacevole, in parte come dovere verso il vicinato in cui siamo insediati, in parte perché crediamo che un ambiente piacevole abbia un effetto benefico su coloro che ci lavorano incrementando il senso dell’autostima ed il tono generale della comunità. La somma di denaro spesa a questi fini è molto esigua: alcune file di mattoni lavorati qui e là, sulla facciata, qualche pilastro in rilievo, una disposizione simmetrica delle finestre”.

39 “Come vediamo che certe terre incolte, se sono grasse e fertili, abbondano di cen- tomila specie di erbe selvatiche e inutili, e per farle fruttare bisogna piegarle all’uso di certe sementi, così avviene anche per gli spiriti”. Parole che Michel de Montaigne scrisse nel 1573.

40 Assimilabile a questa esperienza è anche il caso di Pullman, comunità modello per la produzione di vagoni letto ferroviari, edificata nella periferia di Chicago, nel 1880. Il principio regolatore dell’esistenza della comunità era quello dell’efficienza capitalistica da perseguire attraverso il controllo esclusivo della manodopera come unica e sicura garanzia di profitto economico. “Il nostro obiettivo” dichiarava lu- cidamente George Mortimer Pullman nel 1894 “era di organizzare l’attività sulla base di solide e precise considerazioni economiche. Avevamo deciso di costruire, in prossimità delle fabbriche, alloggi per i lavoratori con caratteristiche architet- toniche e ambientali tali da richiamare in luogo la manodopera più qualificata piuttosto che altre categorie di operai. Desideravamo, inoltre, organizzare l’intera comunità in modo da escludere tutte le influenze nocive provenienti dall’esterno, convinti che, in questo modo, avremmo conseguito i maggiori vantaggi, considerati dal punto di vista del profitto economico”.

41 Che dire di un uomo che giovanissimo si reca in Inghilterra e ne torna convinto della superiorità tecnica e industriale? E che quella superiorità vuole trasformarla da fine in mezzo per liberare l’uomo dalla sofferenza nel lavoro e fondare il rispetto della persona non solo nel lavoro di fabbrica ma anche in quella rete di relazioni sociali tramite cui la persona avrebbe potuto farsi consapevole cittadino.

42 Sebbene sia una tendenza generalizzata quella di perdonare e santificare coloro che non ci sono più, bisogna ammettere che la caduta di Crespi d’Adda fu re- sponsabilità diretta della proprietà che predilesse una gestione finanziaria allegra

52 53 e spensierata ad un rigore e ad una ferrea disciplina di bilancio. La conduzione familiare spesso poco competente, alcuni sfortunati cambi generazionali e diversi erronei investimenti in materie prime che avrebbero voluto essere speculativi ma che furono completamente destabilizzanti completarono l’opera.

43 Crespi d’Adda rappresenta sicuramente il messaggio di un naufrago. Un messaggio conficcato dentro una bottiglia e tramandato ai posteri che contiene quella lucida consapevolezza che caratterizza l’utopia come progetto, rispetto a molti ideali aspi- razioni che si fermano sulla soglia di una affermazione di principi morali e di valori, senza approfondire le conseguenze sociali di ciò che viene propugnato.

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Per una visita consapevole del villaggio operaio

Ma la città non dice il suo passato, lo contiene co- me le linee d’una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua vol- ta di graffi, seghettature, intagli, svirgoli.

Italo Calvino

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Nei panni di un qualsiasi curioso sopraggiunto a Crespi d’Ad- da, mi dedicherei ad una visita scanzonata del villaggio nel velleitario tentativo di coglierne l’anima e procederei, come nella vita, in una mescolanza di programma e di casualità, me- te prefissate e impreviste digressioni che portano altrove. Bruce Chatwin1 avrebbe fatto così. In una situazione del genere, spetterebbe a chi legge il gravo- so compito di risolvere, unicamente con l’ausilio delle sole sue facoltà, il rebus edilizio ritrovatosi davanti agli occhi, disteso come un “diavolo addormentato”. Il mio ruolo di guida, invece, mi vincola a una pedissequa scientificità per garantire la chiarezza espositiva ricercata da ciascuno dei lettori di questo testo nel tentativo di esaurire questo luogo italiano, registrando ciò che succede quando non succede niente, se non il tempo, i silenzi, le persone, le nuvole. La visita al compiuto disegno di Crespi d’Adda inizia percor- rendo la anonima Via Crespi che, a partire dall’unico sema- foro di Capriate, traccia, in direzione meridionale, una retta perpendicolare al continuo flusso di persone e di cose che quo- tidianamente percorrono la trafficata direttrice della strada provinciale che da Milano conduce a Bergamo e viceversa. Come se fosse la rappresentazione stradale della devianza re- lativa alla nozione della soggettività del concetto spazio tempo, la relatività fattasi asfalto, questi due chilometri di nulla servo- no al turista consapevole per spogliarsi lentamente del proprio tempo. Una volta attraversata la camera bianca di decontami- nazione dalla contemporaneità, questi potrà riemergere, para- dossalmente immergendosi, in una realtà conservatasi appa- rentemente sottovuoto, dove, al primo incontro non si coglie la regressione continua, legata al deperimento dell’avanguardia, 56 57 fattasi prima contemporaneità, poi passato prossimo, infine passato remoto. Superate alcune tipiche villette a due piani progettate da geo- metri di bassa caratura, il rettilineo oltrepassa il ponte sull’au- tostrada più trafficata d’Europa e il raccolto cimitero di Ca- priate che giace poco dopo sulla destra del cavalcavia. La strada comincia, quindi, a declinare quasi ad accompa- gnarci in un qualcosa di ameno, nascosto, sottocelato. Ci si può facilmente accorgere che Crespi d’Adda si intravede proprio quando ci si cala nel vero e proprio senso fisico della parola, come se il buio e l’oblio, il disordine della storia e la damnatio memoriae si fossero preoccupati di conservare certe testimonianze con l’occulto scopo di riportarle alla luce al mo- mento opportuno. Scendendo il declivio si dovrebbero comin- ciare ad annusare gli elisir della malinconia, passando oltre lo specchio del sogno. Ecco, all’orizzonte, apparire prima una, poi due ciminiere2, sentinelle d’argilla a custodia del sogno, poi la guglia della chiesa che ci ricorda come lo spirito alberghi sempre nei luoghi dove la carne ha sofferto e, infine, il rosso tappeto del cotto che copre le sommità visibili degli edifici. Poco dopo l’inizio del declivio, il percorso incontra un bivio tra il proseguimento della strada ed un’altra che riprende a salire. A questo punto, per apprezzare la fisionomia del villaggio è opportuno pazientare e, invece di proseguire la discesa, imboc- care l’attuale Via Stadium3, evitando, oltretutto, di incappare nel cartello “Crespi d’Ada”, muto testimone di un campanili- smo greve e coriaceo. Risalendo per questa strada e volgendo lo sguardo verso destra, si intuiscono, tra le rade fronde di robinie e betulle, il silenzioso dialogo dei tetti in lontananza e la goticheggiante costruzione a forma di castello. Dopo pochi passi, il visitatore giungerà in prossimità di due ville, divise e legate da una cancellata in ferro attraverso cui si apre una quasi completa panoramica dell’abitato. Da qui inizierei la visita del villaggio che, ora, si trova, quasi tutto riassunto, nei nostri occhi. 56 57 Decine di villette a pianta quadrata, incoronate da orti e cir- condate da staccionate, che se ne stanno in fila come gli spet- tatori in un anfiteatro affacciato sulla fabbrica, protagonista assoluta della scena. Se ci si guarda bene intorno tra queste rovine moderne che sembrano ancora fumare di vita lavorativa, degli echi della dittatura del proletariato non ne è rimasta nemmeno lonta- namente l’ombra. Solo una distesa di edifici immersi nel ver- de e in una quiete surreale. Pensando a quanto lo circonda, potrebbe sembrare quasi che Crespi d’Adda non sia sorta in quel luogo, che non faccia parte di quel paesaggio ma che vi sia stata portata per errore o per desiderio dalla fantasticheria di un visionario. Ma si immagini il lettore cosa doveva essere questa città per coloro che si affacciavano da questo terrazzamento alla fine dell’Ottocento: un groviglio urbano, un’immensa tela di Pene- lope che non smetteva mai di fumare, di crescere e di trasfor- marsi, un posto infernale ma nello stesso tempo estremamente romantico, animato da una tensione alla modernità che non si immaginava mai possibile potesse smettere di agire. Frank Lloyd Wright4 scrisse che un edificio dovrebbe sempre apparire “come se sorgesse spontaneamente dal terreno dove è situato”. E Crespi d’Adda non può che sintetizzarsi come un sedimento lavico emerso da una faglia nel bel mezzo della campagna. Potrà apparire inusuale al lettore pensare come il lavoro possa essere stimolante da osservare quanto qualsiasi cosa in mostra su di un palcoscenico o sul muro di una chiesa. La fisionomia della città immaginata da Cristoforo e Silvio Crespi è immediata. Del resto l’arte del tessere teli è simbolo e metafora del fabbricare stesso. Apparirà subito evidente l’ordinata planimetria che regola i rapporti tra gli edifici, le strade e il territorio, che rivela, già nelle premesse progettuali, la filigrana sottilmente specifica della poetica architettonica del villaggio. Questo risulta, infatti, suddiviso in modo ordinato in tre parti che sono separate da due strade che seguono la direttrice che 58 59 da nord conduce a sud5. La divisione è netta tra la zona residenziale, disposta in regola- ri linee rette parallele nella parte orientale, la zona di pubblica utilità, dove si dispongono gli edifici di interesse comunitario e la zona industriale, dove ciò che resta dell’originario cotonifi- cio è steso immobile nella parte più a ovest della cittadina. Tale divisione, frutto di una cultura urbanistica anglosassone, è funzionale alle attività che si svolgevano all’interno del paese. Una parte, quella più vicina al lettore, è destinata ad accogliere le abitazioni di coloro che erano impiegati nella fabbrica. La parte centrale dedicata ad ospitare edifici come il lavatoio, il dopolavoro, l’albergo, la chiesa, il teatro e la scuola e, più avan- ti, anche se non immediatamente visibili, il piccolo ospedale, il centro termico, la caserma dei vigili del fuoco e, distanzia- to, alla fine del paese, il cimitero. L’ultima parte, quella più a ovest, destinata alla attività lavorativa, con la fabbrica e la villa padronale, cinte tra la strada principale e il fiume Adda di cui si intravede solo la valle. Come gli edifici sono immersi nel verde dei loro giardini, il paese è incorniciato dalla fitta boscaglia della valle del fiume e dal Fosso Bergamasco6. D’altronde qui, come anche nella regione di Manchester, capostipite di questa tipologia di inse- diamenti diffusa su tutto il territorio britannico, gli industriali cotonieri furono attratti in aperta campagna dai terreni a buon mercato, dalla docile popolazione operaia che ivi risiedeva e dal facile accesso alla forza motrice. L’edificio più grande rappresenta le spoglie di ciò che fu il Cotonificio Benigno Crespi, vero e proprio propulsore della cittadina. Si stende, o meglio, giace su di uno spiazzo di quasi quattro chilometri quadrati, poco meno della metà di tutto il villaggio, e alla data in cui lo scrivente vi sta a raccontare è vuoto, completamente privato del suo contenuto tecnologico e archeologico, involucro muto e deanimizzato, testimone deca- dente del glorioso passato che fu. Edificato a partire da 1876, tra alterne vicende industriali e produttive, rimase in funzione fino al 2003, quando impresari di dubbia competenza e spessore iniziarono a pianificarne un 58 59 dolce domani senza, ad oggi perlomeno, riuscire a tramutare il potenziale progetto in proficua speculazione. Grazie al cielo. Inaugurato nel luglio del 1878, lo stabilimento, nel periodo di massima occupazione, arrivò a raggiungere la dimensione eroica di quasi quattromila dipendenti, reclutati, fatta eccezio- ne per coloro che abitavano nel villaggio, nei paesi limitrofi. Un crogiuolo di vita e lavoro, una concentrazione di fabbrica e famiglia, lavoro industriale e affetti di sangue. Nella casa, chie- sa e bottega di Crespi d’Adda visse per decenni una comunità di uomini e donne che, seppur separati dagli status individuali, agivano perfettamente integrati nei ritmi quotidiani dettati dal- la famiglia che presidiava la propria fabbrica e che era presente in ogni luogo del villaggio, come Dio e la forza di gravità. Del resto la necessità di vivere in prossimità del proprio posto di lavoro costituiva un retaggio della vita agricola e una esigen- za dettata dalla assoluta mancanza di mezzi di trasporto che consentissero di spostarsi quotidianamente dal proprio tetto al proprio lavoro. Mentre la fabbrica giace svuotata come un relitto affondato nell’oblio, le casette che appaiono sotto gli occhi del visitato- re, invece, sono tutte abitate, per la gran parte da discendenti diretti di coloro che vissero i tempo d’oro della Crespi d’Adda produttiva. Esse vennero infatti “privatizzate” negli anni Settanta, grazie all’intervento del Comune di che ne ri- tirò la proprietà dalla fabbrica per assegnarle a privati cittadini a condizioni agevolate7. Ovviamente, a coloro che abitavano quelle case venne garantita la prelazione, esercitata soprattutto da coloro che ne sconsigliavano vivamente l’acquisto agli altri. Ciò ha consentito di mantenere un tessuto sociale aderente alla storia del paese, caratteristica che rende ancora più speciale questo luogo. Crespi d’Adda è quindi un paese vivo, o sarebbe meglio forse definirlo condannato a vivere o, addirittura, sopravvivere. È, comunque evidente che, pur essendo abitato, è privo della linfa vitale che alle città viene fornita dalle attività produttive, dal 60 61 lavoro, dal commercio e dalla vitalità sociale. Rimane soltanto la pacifica convivenza di ricordo e testimonianza posata come rugiada su tutto il costruito. Spostandosi verso il belvedere8, ci è possibile osservare da vi- cino le prime due abitazioni che, collocate al di sopra di un terrazzo rialzato rispetto al resto del villaggio, sembra ne vegli- no il sonno tranquillo. Dalle loro finestre, rivolte alle abitazio- ni, pare ancora che debbano affacciarsi coloro che un tempo avevano il meritevole compito di curare le anime e i corpi dei lavoratori della fabbrica e delle loro famiglie. Il visitatore attento rivedrà in questo una citazione di ciò che aveva immaginato il visionario inglese Jeremy Bentham9 che, cento anni prima della posa della prima pietra del villaggio operaio crespese, ideò il “panopticon”. Il suo progetto esprime con ineguagliabile forza un principio importantissimo, social- mente e culturalmente incubato nell’età dei Lumi e pronto per essere posto in essere in tutti i dispositivi accentrati moderni, a partire dalla fabbrica dove “il potere disciplinare, per essere veramente efficace, deve perpetuarsi in maniera automatica e invisibile”10 o, come scriveva John Gray, “deve costringerci a vivere come se fossimo liberi”. E, in effetti, chi ha bisogno della repressione diretta quando può convincere il pollo a dirigersi liberamente11 al macello? La casa d’ispezione ideata dal filosofo inglese si fondava sul- l’ideologia dello sguardo indagatore secondo cui tutte le strut- ture che necessitano di controllo sugli esseri umani sono mate- rializzate in precise coordinate spaziali. Per Jeremy Bentham, la forma ideale era circolare, un centro che vede, senza essere visto, i movimenti svolti lungo la sua circonferenza. In questo senso, l’osservatore rileverà immediatamente che la planimetria ortogonale di Crespi d’Adda è più simile al “parallelogram”, il recinto quadrato proposto dall’industriale filantropico Ro- bert Owen a New Lanark e a New Harmony, il cui dispositivo urbano, finalizzato a migliorare le condizioni dei lavoratori, è uno spazio chiuso, controllato, un laboratorio dove addestrare scientificamente il carattere superiore dell’uomo-macchina. Ritornando sui nostri passi, le due abitazioni a noi più prossi- 60 61 me erano assegnate al cappellano, quella più piccola, a destra per chi guarda dal villaggio, e al medico, un po’ più grande, per ospitare anche la sua famiglia, l’altra. Il ruolo di queste due figure, tra le poche che all’epoca era- no in grado di leggere e di scrivere, viene urbanisticamente e architettonicamente evidenziato attraverso la posizione del- le dimore che gli venivano assegnate, distanziate e, appunto, rialzate dalle altre, quasi a simboleggiare un distacco dal ceto operaio e dalle attività manuali della fabbrica e una maggiore importanza. Del resto tali figure avevano, nel diciannovesimo secolo, un ruolo sociale di grandissima importanza che andava anche ol- tre la loro funzione. I preti, scriveva Paul Lafargue già più di un secolo fa, tornano sempre utili quando c’è da far ingoiare alla gente una disgra- zia, far sopportare una sofferenza12, vincere la fatica e, a vol- te, lo stremo. In questo, sono degli specialisti. “È dai tempi di Giobbe13 che riescono a far rendere grazie al loro Dio per il male che c’è nel mondo”. E che il lavoro sia una disgrazia, lo si è sempre saputo. Lo af- ferma la Bibbia: è una maledizione14. Lo stesso Geova testimoniò questa assoluta verità lasciandoci il supremo esempio di pigrizia ideale: dopo sei giorni di lavoro, si riposò per l’eternità. E a Crespi d’Adda, mentre il prete era impegnato a far passare cammelli15 attraverso la cruna di un ago, moltissimi operai sacrificarono l’esistenza alla costruzione di una utopia industriale. Giulio Vavassori, una vita vissuta all’ombra dello stabilimento, ricordava che “Silvio Crespi era una cattolico molto ligio al dovere religioso e volle che la vita spirituale del villaggio fosse amministrata da un cappellano da lui direttamente assunto. In questo senso entrò anche in una garbata polemica con il vescovo di Bergamo, al quale definì con meticolosa precisione le caratteristiche del cappellano ed i doveri ai quali questi si sarebbe dovuto sottoporre”. Del resto, non sarebbe stato possibile creare l’età moderna se non si fosse imposto e legalizzato il senso del dovere kantia- 62 63 no intesa come forza propulsiva finalizzata alla creazione del mondo nuovo16. La morale capitalistica, pietosa parodia della morale cristiana, colpiva d’anatema la carne del lavoratore, assumendo come ideale ridurre il produttore al minimo dei bisogni, sopprimere le sue gioie e le sue passioni, condannarlo al ruolo di mac- che sforna lavoro senza tregua né remissione. Educare, sorvegliare anziché punire, disciplinare anziché costringere con la forza, organizzando razionalmente il tempo e lo spazio: sono le caratteristiche del nuovo potere che si incarnano in prescrizioni, distribuzioni ordinarie di compiti, orari e regole di condotta che sopperiscono l’esigenza di moralizzare la po- polazione lavoratrice. Si predica il lavoro quotidiano e si vuole un regime salariale capace di istituzionalizzarlo in nome di una battaglia contro l’ozio. In altre parole, è per poter contare su di un esercito regolare e affidabile di lavoratori che si deve dare loro quotidianamente quanto basta a vivere per un giorno: so- lo così lavoreranno tutti i giorni della loro esistenza. Del resto siamo stati gettati fuori dall’eternità e dobbiamo attraversare il tempo, penosamente, un minuto dopo l’altro. Questa pena è la nostra eredità e la monotonia del lavoro ne è soltanto una forma. In questo ambiente nuovo e proteso al progresso soltanto le macchine erano al loro vero posto perché rappresentavano l’espressione dell’ordine, dell’utilità, della regolarità senza la necessità meccanicamente inutile di amore, sentimento e bel- lezza17. Proprio per questi motivi la famiglia Crespi, seguendo l’esem- pio della borghesia imprenditoriale ottocentesca, intese puntel- lare con la religione la propria supremazia economica e politi- ca, predicando ai salariati l’astinenza, il valore dell’operosità, l’obbedienza. Fu davvero un successo che gli abitanti di Crespi d’Adda, ma anche quelli degli altri villaggi operai coevi, mantenessero viva la fede all’interno di logiche di lavoro al limite dello sfinimento e della abiezione. Che le classi operaie riuscissero ad allevare la propria famiglia e a salvare i loro figli dalla degradazione 62 63 fisica deve essere ascritto alla fibra eroica di questi argonauti dell’era moderna. L’unico strumento di rivolta pacifica promosso dai socialisti, lo sciopero, era considerato dai cattolici illegale e immorale. Oltretutto, gli scioperanti, senza lavorare, si sarebbero potuti inoltrare nella strada del vizio e, attraverso il gioco, il vino e il fumo, sperperare tutti i denari deteriorando il rapporto con il padrone dal quale, scioperando, non avrebbe avuto più né l’af- fetto, né la benevolenza, né la beneficenza. La stessa enciclica “Rerum Novarum” predicava la rassegnazione per l’operaio vessato dai padroni. E così si raccomanda nella lettera pastora- le del 1891 agli operai di essere contenti del proprio stato, poi- ché “non avranno qui dimora perpetua, e coi patimenti della presente vita si possono aumentare il gaudio e la gloria della vita futura; né sono le ricchezze che formano la grandezza e la felicità dell’uomo, ma è la virtù”. Non si fece neppure manca- re, nella pubblicistica cattolica, il tema della infelicità che col- pirebbe le classi agiate, una sorta di “anche i ricchi piangono” ante litteram. Se il Cattolicesimo, in un bell’esempio di confusione tra travi e pagliuzze, da un lato rese l’operaio dimentico del suo reale ambiente, troppo paziente verso l’oppressione, di troppo facile rassegnazione al suo basso stato nella vita, dall’altro lo salvò dallo sprofondare spiritualmente al livello del suo ambiente materiale. In parte è a questo timido bagliore religioso, divul- gato da un sacerdote stipendiato dallo stabilimento, che va at- tribuito probabilmente il merito di aver salvato le maestranze da una barbarie estrema18. Se il cappellano rappresentava il sostegno spirituale degli ope- rai dell’infernale macchina produttiva, il medico rappresenta- va, invece, l’occhio vigile dell’imprenditore sulla salute delle maestranze. Da un lato una attenzione necessaria a garantire una miglioria sociale in un epoca falcidiata da malattie banali ma mortali, dall’altro un controllo sulle condizioni della salute dei dipendenti che evitava e limitava il fenomeno dell’assentei- smo ingiustificato. In questo modo il medico di fabbrica poté porsi come funzio- 64 65 nario pubblico, selettore della forza lavoro19, regolatore della sanità e perciò della qualità e della continuità della prestazione lavorativa. Il lettore tenga presente che le condizioni di vita coeve al perio- do oggetto di analisi erano, a dir poco, ancora deficitarie sotto il profilo igienico. Inoltre, il retroterra storico deve tenere in considerazione che Crespi d’Adda nasce ereditando la malfamata opinione per cui la città industriale è sinonimo di luogo malsano e insicuro, più che di un luogo produttivo e dinamico. D’altro canto, ancora per tutto l’Ottocento, come ha osserva- to Maria Luisa Betri20, nelle campagne italiane la figura del medico, distante e spesso ignorata, fu recepita con diffidenza e sospetto, anteponendogli gli interventi terapeutici che il sapere tramandato insegnava e, al più affidandosi alle terapie miraco- listiche imbonite in occasione di fiere o mercati da chi medico non era. Tra le malattie tipiche del periodo vi era il rachitismo, diffuso dove le abitazioni erano umide, poco soleggiate, mal areate e anguste, che iniziò a diffondersi anche come malattia profes- sionale che colpiva soprattutto i bambini occupati nelle na- scenti industrie, in particolare nei cotonifici dove si usava tene- re bagnati permanentemente i locali per mantenere umido il cotone. Secondo gli osservatori del tempo l’espansione dell’in- dustria era anche responsabile dell’aumento della scrofola21. Tipica malattia industriale si configurò la febbre tifoide, nome con cui si definivano le malattie gastro-enteriche, spesso deno- minate con il nome del sintomo più evidente, diarrea, o di uno stato morboso ad esse associato, dissenteria o gastrite. La causa di questa malattia era da ricercarsi nell’ingestione di cibi o di acqua contaminata da materie fecali, e la loro diffusione era il sintomo più evidente di un approvvigionamento idrico carente e di un sistema fognario inadeguato. In generale le malattie dell’apparato digerente furono complessivamente responsabili di un quinto del totale della mortalità della provincia di Ber- gamo. Uno spazio a sé merita la pellagra, detta anche mal di miseria, una avitaminosi che assunse nel territorio bergamasco 64 65 un carattere endemico. Diffusasi nella seconda metà del Sette- cento, venne debellata solo nei primi decenni del Novecento. Essa consisteva nell’assenza della Niacina nel granoturco che, consumato sotto forma di polenta, era diventato l’alimento fondamentale e, in molti casi esclusivo, della dieta contadina. I contadini e gli operai bergamaschi, a causa delle condizioni di indigenza economica, erano stati costretti a modificare la propria alimentazione e a nutristi sempre meno con il pane bianco e sempre di più con la polenta di mais. Diversi giornali dell’epoca ci ricordano che si mangiava “un poco di pane duro e una fetta di polenta”22. L’analisi dell’aspetto esterno delle due costruzioni ci porta ad osservare gli elementi decorativi delle strutture, tipici dello sti- le neogotico lombardo diffusamente sviluppato all’interno del villaggio, che, seppur con un disegno semplice ma di grande impatto scenografico e con materiali poco costosi e di facile reperibilità come il cotto, impreziosiscono la modesta forma cubica a due piani di pianta rettangolare. Le decorazioni sono ben visibili nei contorni delle finestre, dove i mattoni, disposti l’uno a fianco dell’altro, incorniciano l’affaccio, nella linea de- corativa a greca realizzata in prossimità del sottotetto, e tra le finestre del primo e quelle del secondo piano dove, percorren- do tutto il perimetro dell’abitazione, ne individua idealmente la linea di divisione tra i piani. Come a segnalare la demarca- zione di due piani in una linea perimetrale detta marcapiano. Le abitazioni avevano un ampio giardino digradante verso il villaggio di cui godono un panorama quasi totale al termine del quale, in prossimità dell’attuale Via Progresso, è ancora presente una apertura che consentiva al cappellano e al medi- co di raggiungere tempestivamente il villaggio in caso di emer- genza. Affacciate, inoltre, su Via Stadium, godevano di una entrata di servizio, più riservata, su questo passaggio. Ora, voglia il lettore soffermare la sua attenzione sulla sem- plicità strutturale23 dei due edifici, entrambi di due piani, che diventano tre nella parte digradante, e di base vagamente ret- tangolare. Per rendere agevole il collegamento tra queste abitazioni, iso- 66 67 late, per così dire, dalle altre, venne realizzato un selciato che partendo dal fianco orientale della casa del cappellano, con- sentiva una rapida discesa al villaggio. Il selciato, recentemen- te risistemato, è ancora oggi parzialmente fiancheggiato dai sopravissuti carpini bianchi che, incurvati e potati al fine di favorirne l’attaccamento, creano un incantevole berceau che il visitatore discenderà, come un tempo faceva il cappellano di corsa per le estreme unzioni, per le sante messe e per osservare da vicino le casette operaie. Scendendo invece dalla scalinata che, da metà della discesa conduce a sinistra, invito il visitatore a percorrere un itinera- rio di scoperta dell’architettura residenziale del villaggio, che si rivelerà ricca di riferimenti simbolici alla struttura gerarchica del lavoro tipici non solo di questa realtà, ma di tutti i villaggi operai coevi. Completata infatti la discesa e immessi sulla via asfaltata che, per puro interesse a destarvi curiosità sopite, lo scrivente se- gnala che un tempo era realizzata in terra battuta con ai la- ti una canalizzazione in cui convergevano le acque piovane, sono osservabili da vicino le abitazioni operaie che vennero realizzate originariamente per ospitare due famiglie24, al tem- po solitamente allargate e numerose, attraverso una divisione verticale, metà di ciascun piano a famiglia, o orizzontale, un piano a famiglia. Risulterà evidente al lettore come sia davvero improprio parla- re di edilizia popolare per questi alloggi che, al giorno d’oggi, anche il meno loquace degli agenti immobiliari definirebbe si- gnorili, ma la cui concezione architettonica era basata su poche ma chiare idee essenziali, tanto scarne a volte da potere appa- rire addirittura banali, che ricordano allo scrivente i precetti dell’architetto tedesco Heinrich Tessenov25. Le decorazioni in cotto che un tempo ingentilivano gli edifici operai come i pre- cedenti descritti non sopravvissero alla banalizzazione fascista degli anni Trenta di cui si darà notizia nel testo. Ogni casetta è pressoché equidistante dall’altra al fine di con- ferire una spazialità atmosferica quantitativamente sufficiente a creare alternanze ritmate dalla geometria dell’insieme e del 66 67 verde, mentre le recinzioni delle singole proprietà accentuano maggiormente tale riquadratura. Dal punto di vista semantico, non è semplicità per amore di semplicità, né di rigore fine a se stesso, ma una diretta metafo- ra visiva dei concetti di equità sociale che sono alla base della cultura della meccanica dell’ingranaggio dove ciascun elemen- to contribuisce al tutto e il tutto al singolo. Le distanze, anche dal punto di vista estetico, non erano così marcate: a vederli vicini, il padrone ed il proletario non erano tanto distanti ma al visitatore colto ed attento non può sfug- gire la metafora che è il cuore di questa moderna esperienza urbana dove, al di là di tutto, il ricco rimane ricco ed il povero rimane povero. Le abitazioni operaie, nella loro ripetitiva consequenzialità, rappresentano l’obelisco supremo dell’ipocrisia, ma non solo questo. Quello progettato in questo villaggio era un sistema educativo che assomigliava alla tortura della goccia26, e questa goccia maledetta era sempre uguale a se stessa. Sempre uguale. Ripetitiva. Assordante. In questa ossessiva consequenzialità, si manifesta lo spirito e ci serve la disciplina che ci viene garantita dalla somiglianza, proprio come i bambini hanno bisogno di orari regolari a cui andare a dormire e di cibi insipidi e familiari. Le casette hanno un aspetto semplice ma dignitoso, si innalza- no di due piani sulla base quadrata di circa dodici metri di lato. All’interno la divisione in stanze quadrate non comprendeva in origine il bagno le cui funzioni venivano svolte da una latri- na posizionata nel giardino di ogni casa e dai bagni27 e docce pubbliche localizzate in una struttura collettiva al centro del villaggio. La regolarità del tessuto urbano potrebbe al lettore suscitare l’idea di trovarsi innanzi una città monotona, come sono mo- notone le arnie colme di miele. Gli edifici, con la loro architettura consacrata all’abolizione del tempo, come blocchi di eternità cristallizzati al fianco della 68 69 strada, si adattano perfettamente alla popolazione anziana di questo rifugio, ma anche a un mondo più vasto che attende la sua vecchiaia. Anche la gente che si incontra può già sembrare il fantasma di se stessa. Quasi che qui tutto sia già accaduto e che non potrà accadere mai più nulla28. Alcuni storici sostengono che gli operai non sentivano il biso- gno di sapere che aspetto avesse la fabbrica dove lavoravano perché erano ragionevolmente convinti che ciò non gli avreb- be reso più piacevole la prospettiva di essere sfiancato per il resto della propria vita. Come dar loro torto? Le case venivano assegnate a due famiglie che si dividevano le stanze in proporzione al numero dei componenti, general- mente molti dato che la famiglia poteva comprendere una sorta di vera e propria comunità composta anche da suoceri, cognati, zii e cugini, secoli di vita vissuta a servizio dello stesso padrone. L’assegnazione avveniva, quando era possibile, nel momento dell’assunzione e, essendo la loro funzione strettamente riser- vata alle esigenze di fabbrica, veniva revocata nel caso in cui il capofamiglia o i componenti della famiglia cessavano, per qualsiasi motivo, il rapporto di lavoro. Il figlio dell’operaio era già lui stesso mezzo operaio: discipli- na, senso del dovere, etica del lavoro facevano già parte del suo metabolismo naturale, costituivano un valore aggiunto al- la forza lavoro che egli rappresentava in quanto tale29. Le case sono tutte circondate da un giardino quadrato recin- tato in modo caratteristico con basse cancellate nere che veni- vano realizzate intrecciando le “reggette” dell’imballaggio del cotone grezzo che giungeva in fabbrica. Nella parte antistante la casa veniva di solito curato un giar- dino con fiori e aiuole, mentre la parte posteriore veniva dedi- cata esclusivamente all’orto, che consentiva di arrotondare lo stipendio con la coltivazione autarchica di verdure e ortaggi, retaggio di un mondo abituato a imprecare Dio, a confidare 68 69 nelle proprie mani e nella forza della loro schiena. Non si immagini il lettore che questi edifici fossero così realiz- zati per puro mecenatismo. Queste opere rappresentavano un sistema di autodifesa di tutto il corpo sociale così come lo furo- no le prime regolamentazioni igieniche relative alle costruzioni delle case e come la presenza di molte finestre e l’altezza dei soffitti non ebbero origine da istanze filantropiche e umanita- rie, né da ammirevoli ideali politici o sociali. Esse furono messe in atto come provvedimenti necessari alla conservazione della intera comunità urbana e alla sopravvivenza di tutta la popo- lazione a prescindere dalla condizione economica e sociale di cui si faceva parte. Oltre a consentire a Silvio Benigno Crespi di scrivere che, gra- zie ad esse, “la tranquillità e l’igiene del villaggio operaio so- no perfette: le morti sono rarissime, le malattie infettive o non attecchiscono o non si propagano: le nascite troppo frequenti formano la più seria preoccupazione30 del proprietario”, queste abitazioni furono lo strumento indispensabile per creare una manodopera affezionata evitando lo spauracchio di ritrovarsi con “operai girovaghi, cupidi soltanto di un maggior guada- gno”, che un imprenditore odierno chiamerebbe mercenari. Per molti altri critici l’alloggio costituisce piuttosto un mezzo di ricompensa se si è docili nei confronti del padrone, se non si è ubriaconi31, se si è precisi e puntuali sul lavoro, buoni padri di famiglia con figli ben allevati. Essa è uno strumento di stabiliz- zazione della parte indispensabile della manodopera. L’assenza di elementi decorativi riconducibili agli elementi ornamentali delle abitazioni del medico e del cappellano non colga in errore poiché, un tempo, anche le abitazioni operaie erano ingentilite da decorazioni in cotto rosso nel contorno delle finestre, nella fascia del sottotetto e nel marcapiano, co- me risulta in parte visibile nelle case oggetto di più recente ristrutturazione dove la pulizia delle facciate le ha riportate alla luce. Nel 1929, infatti, quando la direzione della fabbrica era di orientamento fascista e il nome del villaggio era stato modi- ficato in “Tessilia”, venne deciso un ammodernamento delle 70 71 strutture abitative da attuarsi con la realizzazione, in aderenza della parte posteriore delle abitazioni, di un parallelepipedo, ben osservabile in tutte le costruzioni, in cui vennero realizzati i bagni per ché “chi possiede un luogo di decenza è insomma padrone di defecare in maniera conveniente e profittevole”. La fisionomia delle casette fu anche trasformata “fisicamente” in senso mussoliniano, attraverso la politica del “piccone risa- natore”, secondo le linee di uno stile nazionale32, cioè di quel linguaggio architettonico che nella sua chiarezza e linearità apparivano come la tangibile rappresentazione dei valori di purezza e dirittura morale tanto cari all’etica fascista: sfrutta- mento di materiali tradizionali per una sperimentazione stili- stica nel segno della semplicità e del rigore formale. La sparizione di fregi e decorazioni che fanno posto a linee or- togonali, semplici, sinonimo di funzionalità e ripetibilità venne giustificata anche da incontrovertibili esigenze di bilancio. I contorni delle finestre in mattoni rossi, che spiccavano sul co- lore delle bianche pareti in intonaco civile, vennero scalcinati, così come le civettuole decorazioni del sottotetto che, seppur modeste, non incarnavano la semplicità ed il rigore coevo. Il marcapiano venne invece completamente eliminato. È in que- sto periodo che si modifica la colorazione delle abitazioni che, per spirito patrio, vengono ridipinte con uno dei colori della italica bandiera: bianche, rosse o verdi. In origine, le casette vennero edificate con una impostazione moderna e “igienica” per il tempo. Ogni stanza aveva almeno due grandi finestre e i soffitti erano molto alti al fine di favorire la presenza di aria pulita e sole all’interno dell’abitazione33. A titolo di corrispettivo per la loro concessione, al lavoratore crespese la fabbrica tratteneva direttamente un canone dallo stipendio. Questi non doveva nemmeno occuparsi della ma- nutenzione dell’immobile, attività demandata direttamente ad un gruppo di operai a questo scopo dedicata. La lettura di alcuni brani del libro “Dei mezzi per prevenire gli infortuni e garantire la vita e la salute degli operai nell’in- dustria del cotone in Italia”, pubblicato nel 1894 potrebbero fare oggi sorridere. Silvio Benigno Crespi vi riporta la ferma 70 71 convinzione che “ultimata la giornata di lavoro, l’operaio deve rientrare con piacere sotto il suo tetto: curi dunque l’imprendi- tore ch’egli si trovi comodo, tranquillo ed in pace: adoperi ogni mezzo per far germogliare nel cuore di lui l’affezione, l’amore alla casa. Chi ama la propria casa, ama anche la famiglia e la patria, e non sarà mai la vittima del vizio e della neghittosità”. E continuava sostenendo che “i più bei momenti della gior- nata sono per l’industriale previdente quelli in cui vede i ro- busti bambini dei suoi operai scorazzare per fioriti giardini, correndo incontro ai padri che tornano contenti dal lavoro; sono quelli in cui vede l’operaio svagarsi ad ornare il campiello o la casa linda e ordinata: sono quelli in cui scopre un idillio od un quadro di domestica felicità; in cui fra l’occhio del padrone e quello del dipendente scorre un raggio di simpatia, di fratel- lanza schietta e sincera. Allora svaniscono le preoccupazioni d’assurde lotte di classe, e il cuore si apre ad ideali sempre più alti di pace, d’amore universale”. Ormai ebbro di sentimento, il visitatore può proseguire la pas- seggiata lungo la Via Giuseppe Mazzini che trova innanzi a sé o, comunque, lasciandosi guidare dal proprio sollazzo attra- verso il regolare reticolato residenziale, ad un certo punto del suo percorso, dopo avere attraversato, rimirato e fotografato le numerose, cinquantacinque in tutto, casette operaie, potrà os- servare che la tipologia costruttiva si impreziosisce di elemen- ti architettonici rievocanti la sfarzosa epoca della Secessione Viennese. Quello che ci si para innanzi, una volta giunti in prossimità dell’intersezione con la Via Fiume, sono le abitazioni destinate ai capireparto, villette abitate da tre nuclei familiari e, quin- di, di dimensioni evidentemente maggiori rispetto agli alloggi operaie. Tutti gli edifici si distinguono decisamente per la rigorosa im- postazione strutturale e distributiva e si presentano con un in- gresso rialzato, diversi balconcini e ricercati elementi decora- tivi che, oltre ad impreziosire il sottotetto con disegni a greca, assolvono alla funzione di qualificare gli elementi costruttivi dell’edificio. 72 73 La struttura edilizia non è più semplicemente cubica ma si presenta maggiormente articolata e dinamica dove la massic- cia presenza di spigoli che mitiga almeno in parte la palese severità del fabbricato. Le abitazioni di questo tipo sono quattro, disposte tutte intor- no ad un giardinetto alberato. Pur essendo basate sullo stesso disegno vennero realizzate con la medesima fisionomia archi- tettonica in modo da presentarsi speculari l’una all’altra facen- do sembrare la visione d’insieme più interessante, quasi a dare l’idea che il ruolo dei capireparto non fosse ripetitivo come l’attività operaia tout court ma nemmeno autonomo e respon- sabile come quella del dirigente di cui si dirà più avanti. Asimmetriche nella pianta e nel prospetto, rivelano nel mo- vimentato gioco di rientranze e di sporgenze, di chiari e di scuri, di materiali diversi, la loro destinazione. Il ceppo d’Adda come rivestimento esterno, ora parziale, ora totale, simula il bugnato. Esso contrasta con la calce nuda, con le decorazioni a o su maiolica, con il legno delle balconate, delle verande, delle mansarde; con il cotto dei comignoli, dei pinnacoli ornamen- tali, del tetto. È un alito di arte neomedievale, romantica, che ritorna con la decadenza del liberty. Proseguendo verso sud, a distanza di poche decine di metri, il lettore raggiunge l’angolo più suggestivo della parte residen- ziale del villaggio. Qui, potrà ammirare nove splendide ville, residenze un tempo della mente strategica e gestionale dello stabilimento. Le famiglie della dirigenza, infatti, risiedevano in queste abitazioni monofamiliari dall’ampia metratura che consentiva loro anche di ospitare, in alcuni casi, il personale di servizio. Circondate da giardini ricchi di alberi, con una articolazione volumetrica differente che le rende uniche e conferisce loro una immagine di prestigio, si sviluppano su più piani dove si alternano elementi decorativi che richiamano la Secessione Viennese, elementi in pietra, decorazioni in ceppo dell’Adda e sassi di fiume. Localizzate, di proposito, in una zona distante dalla fabbrica 72 73 e isolate rispetto al resto delle casette operaie, ritraggono un esempio mirabile delle commistioni stilistiche che rappresenta- no la prima metà del Novecento. Osservandone con attenzione l’esterno, tutto pare annunciare la tranquillità dei salotti della dirigenza: portici a colonne bi- nate, terrazzi con giardini pensili, trifore, cornicioni, metope in legno, davanzali e balconate che non sporgono ma formano un solo blocco di verande incastonate tra due prominenze della facciata. Non c’è più l’orto, ma il giardino, con alberi a fusto, piante rampicanti e macchie di arbusti. Uno scorcio borghese in un ingranaggio proletario perfetto. Per alcuni critici, la distribuzione spaziale di operai, capirepar- to e dirigenti crea uno spazio urbano che permette di conso- lidare le distinzioni sociali altrimenti rese incerte dal processo di industrializzazione, e di garantire la stabilità dell’ordine ge- rarchico cittadino. Come uno strumento di identificazione, gli edifici rendono manifesta l’appartenenza di ogni dipendente non solo alla fabbrica, ma anche a una delle diverse categorie sociali che la compongono. Al fine di completare la visita delle parti residenziali invito il visitatore a uno sforzo fisico che lo avvicini alla fatica del lavoro di fabbrica per ripercorrere a ritroso Via Gaetano Donizetti e Via Alessandro Manzoni e infilarsi nella spigolosa Via Priva- ta Crespi per raggiungere, finalmente, l’architettonico vertice gerarchico rappresentato dalla villa padronale. Una casa al- l’apparenza abbandonata che fa sempre un effetto sinistro ma non sembra affatto un rudere pur recando ancora le stigmate di quel gusto eclettico che, insieme al liberty, caratterizzerà i primi quindici anni del Novecento. Ha piuttosto l’aria di una di quelle gentil dame decadute ca- riche di antichi veli sdruciti e di cianfrusaglie fuori moda che vivono isolate dal mondo tra i fantasmi di un glorioso passato. L’aristocrazia industriale, infatti, non è benedetta da Dio e consacrata dagli antenati crociati. Non è una aristocrazia del sangue. Qui si tratta di meritocrazia, di personaggi dalle indi- scusse virtù affaristiche e mercuriali, spesso uomini che comin- ciarono da poco o nulla. 74 75 Uomini che dimostravano il loro potere economico34 appellan- dosi alla logica urbanistica e alle categorie vitruviane di bellez- za, solidità e convenienza in apparente aderenza alle abitudini ostentatrici della ricchezza del più avido bottegaio o il più di- sinvolto faccendiere. Villa Crespi è un vero e proprio castello, realizzato sulla scia citazionista del tempo che si inserisce nel particolare clima im- prenditoriale coevo, pensato come uno zibaldone di architet- tura neomedioevale caratterizzato da torrette, polifore e cuspi- di con l’evidente intenzione di enfatizzare il ruolo di moderno “feudatario” del villaggio che, alla stregua di un vero e proprio signorotto, un giorno regalava ai suoi sudditi asili e scuole ed il giorno dopo poteva anche condannarli all’ignominia e alla fame. Il paramento in mattoni a vista, le decorazioni in pietra, i cor- nicioni sporgenti, il complesso intreccio di balconi, loggiati e la merlatura ghibellina sono tutti elementi che contribuiscono a caratterizzare questa inconfondibile architettura. Tuttavia, più che il rigore filologico nei confronti degli stili storici, il palazzo rivela la volontà di far rivivere la severa atmosfera dei manieri medievali. Esuberanti stemmi gentilizi, fregi con animali mostruosi, bifore e trifore neoromantiche, archetti decorativi esaltano la poten- za economica dei Crespi. Il loro stemma figura in un affresco allegorico tra Mercurio e Flora che reca la conocchia, simbolo dell’industria tessile. Altro riferimento medievalista che non sfuggirà al visitatore è la posizione dell’edificio di culto che si trova sullo stesso asse della villa padronale35, dando un forte senso al collegamento tra i poteri spirituale e temporale. All’interno gli spazi prevedevano quarantaquattro stanze e tre balconate che si affacciano sul grande e scenografico atrio cen- trale quadrato. Si può immaginare che ogni pietra che lo sosteneva fosse for- giata con il sangue ed il sudore di intere generazioni di crespesi che non avrebbero mai potuto permettersi neppure di sognare di mettere piede in un palazzo come quello36. 74 75 Allo scrivente piace riportare la descrizione che dell’edificio scrive Tullo Massarani37 all’ipotetico visitatore che si accinge all’ingresso nel villaggio, dove l’autore, nonostante i riferimenti desunti da un Medioevo liberamente rivisitato, guarda al ca- stello come a un edificio simbolo non tanto del potere feudale bensì del bagaglio letterario del proprietario e del suo architet- to, intriso di evidenti suggestioni romantiche. Siamo nel 1906. “Ecco rizzarglisi innanzi, cinto, è vero, non da fossati e baluar- di, ma da un ampio ed ombroso giardino, un castello doppia- mente turrito, una vera apparizione medioevale, evocata però in tutta quella nitidezza di fronti , che è propria di un edificio modernissimo, illeso, intatto in ogni sua parte. Che singola- rità è mai questa? Ne richiedete il primo fanciullo che passa, e vi dirà che quello è il palazzo del Scior, del padrone, in al- tro linguaggio; del Deus ex-machina, da cui pendono, fino a che non venga, beninteso, a mescolarsene malauguratamente un qualche sciopero, le sorti di tutta questa numerosa briga- ta, quasi due migliaia, di ben assestati e provvisti lavoratori. Ma perché, di grazia, invece di un palazzo o di una villa, un castello? Ha egli voluto, l’artista, compiacersi di una bizzar- ria architettonica, ovvero di un epigramma sociale? Forse egli ha voluto mettere in canzone, avendo l’aria di assecondarla, quella insinuazione tendenziosa, come oggidì si direbbe, quel- la frase fatta, con cui da taluni il ceto dei grandi industriali si suole battezzare di feudalità moderna. L’architetto Pirovano è un giovane di spirito, al quale non si fa torto apponendo- gli la maliziosa intenzione di questa frecciata. Sicuro – pare ch’ei voglia dirvi – questi signori innalzano bastite e torri, le coronano di più ordini di merlature, fanno correre cammini di ronda coperti sugli aggetti dé piombatoj, riempiono di blasoni ogni insenatura, scolpiscono fazioni d’armi in tutto tondo o di mezzo fin sui segmenti lasciati liberi dalle arcate dei loro vero- ni, fin sui capitelli delle colonnine che partiscono le bifore o le trifore dei loro loggiati. Ma badate un po’ intorno: dove sono i vassalli, dove i lanzi e gli sgherri? Linde casette e verdi orticelli, ampi, ventilati salubri laboratori; pei fanciulli cure affettuose 76 77 e solerti, da disgradarne quelle dei genitori medesimi, che il lavoro allontana, per buona parte della giornata, dai propri focolari; per tutti infine, poveri e ricchi, una chiesa, un asilo in cui incontrarsi in uno stesso ideale di speranze oltremondane, in cui abbracciarsi riuniti da uno stesso divino insegnamento di mutua benevolenza”. Roberto Romano riporta che all’inizio del Novecento al ser- vizio della famiglia Crespi lavoravano nel castello due cuochi, due domestici, una cameriera, due cocchieri, due istitutrici, una balia e un portinaio. In un angolo dei quasi diecimila metri quadrati del giardino che circonda l’edificio, riconoscibile dalla tradizionale decora- zione del sottotetto, si osservano gli edifici che originariamente erano le stalle per i cavalli della famiglia Crespi e che oggi, dopo essere stati utilizzati come depositi di materiale e mac- chinari, sono stati riadattati in abitazioni. In prossimità di queste ultime, il visitatore potrà osservare da vicino, oltre agli elementi decorativi tipici dei cascinali lom- bardi, anche gli edifici chiamati “palasòcc”, i tre palazzotti, le prime abitazioni edificate a Crespi d’Adda. In linea generale, è comune ad altre realtà industriali che le prime realizzazioni abitative consistano nei cosiddetti caser- moni dai bassi costi e ospitanti numerose famiglie. Questo tipo di edifici residenziali fatti realizzare da Cristoforo Benigno Crespi, utilissimi in fase di avvio dell’esperienza cre- spese per ospitare le maestranze esterne che dovevano istruire la manodopera inesperta locale vennero abbandonate dal fi- glio Silvio in favore delle più adatte casette operaie. Quest’ultimo scrisse che “il sistema di fabbricare case grandi, a più piani, capaci di contenere dieci e fino a venti famiglie: que- sto era un errore. Si facevano delle caserme, non delle case, in cui il pianto dei bambini, i pettegolezzi fra donne, i rumori di ogni genere interrompono continuamente la quiete necessaria al riposo, e la vita si fa quasi in comune, con grave pericolo del- la moralità e della pace domestica, e la troppa vicinanza delle famiglie ingenera malumori, che finiscono in diverbi e risse”. I tre palazzotti che oggi sono di proprietà comunale non sono 76 77 più le dimore “comode e sane” ideate dal fondatore della cit- tadina industriale e, a vederli oggi, non hanno più nulla a che vedere con le condizioni abitative che avrebbero dovuto “favo- rire l’elevazione mentale e morale degli operai”. Poco più a sud, si innalzano due edifici simmetrici di tre piani e di base pressoché quadrata che ospitavano all’inizio del secolo scorso i convitti per gli operai e le operaie che si trattenevano per tutta la settimana. Oggi ospitano abitazioni private e una caffetteria. Ora, ritrovandosi nell’ombelico del paese, ci è possibile proce- dere con l’analisi di una forte peculiarità del luogo. Ciò che rese Crespi d’Adda un sito avanguardista fu la presen- za nel villaggio di attività e servizi moderni, per lo più ora non esistenti o attivi, che erano collocati nel suo spazio centrale, quasi a cesura e a divisione funzionale tra il lavoro e il riposo, tra la fabbrica e l’abitazione, tra la matrice delle fatiche e il giaciglio della ristorazione. Gli edifici dei servizi dedicati alla comunità, dotati ciascuno di autonomia e specificità proprie, sono tuttavia tutti ricondu- cibili alla finalità ultima di dare forma e significati allo spazio esterno in cui si svolgono e rappresentano le relazioni e i riti collettivi dell’uomo. Il visitatore che avrà trascorso, a questo punto, del tempo nel ventre del villaggio, potrà aver così abbandonato l’approccio ecologista per trasformarsi in un cacciatore di nostalgia, in fu- ga dalla complessità della vita moderna verso un passato idea- lizzato che in realtà non è mai esistito. Scendendo il berceau sotto il riparo naturale dai raggi sola- ri fornito dall’intreccio miracoloso dei carpini bianchi si rag- giunge Via Progresso, che denota non tanto la strada che il villaggio intendeva imboccare quanto l’effettivo stato di fatto di una situazione che si ergeva, per l’unicità della sua delineata fisionomia, ad esperienza pre-modernista. A dividere la bene augurante carreggiata dalla piazza della chiesa, sorge un grazioso ma abbandonato lavatoio dove il pas- sato non ha un’aria tanto storica quanto solo malconcia. A testimonianza della modernità della cittadina, il lavatoio ven- 78 79 ne edificato per consentire a tutte le massaie di lavare i propri panni senza dover raggiungere ogni volta il fiume con pesanti ceste colme di lenzuola e panni. La comodità di averne uno costruito nella vicinanza delle abitazioni e, nelle cui vasche, veniva fatta confluire l’acqua riscaldata in fabbrica, non può che essere considerato dal visitatore come un segno di atten- zione da parte della fabbrica nei confronti della popolazione operaia38. La copertura consentiva inoltre di lavare i panni non solo nelle giornate di sole. Scriveva lo stesso Silvio Benigno Crespi che “il lavatoio pub- blico risparmia alle donne di fare lunga strada col peso della biancheria sul dorso o sulle braccia per recarsi al fiume, e cor- rere il rischio di lavare nelle sue acque impetuose. Esso è diviso in due parti, di cui l’una serve a lavare e l’altra a risciacquare ed, in quest’ultima entrano circa cento litri di acqua al minuto, che passa poi nella prima sopra apposito sfioratolo, e si scarica immediatamente in un tombino”. La piccola struttura è costruita interamente in mattoni rossi a vista, con finte lesene sui pilastri, archi e gradevoli decorazioni geometriche che lo rendono perfettamente inserito nel gusto estetico del resto del villaggio. Il lavatoio sorse per iniziativa del Comune che impose la sua costruzione agli industriali in cambio della concessione del permesso a realizzare la passerella che ancora oggi congiunge Crespi d’Adda a Concesa superando sia il canale di derivazio- ne delle acque sia il fiume Adda. In un mondo in cui i servizi igienici erano ancora collettivi e in uno stato primitivo, la maggiore minaccia endemica alla salute era rappresentata dalle infezioni gastro-intestinali, che venivano trasmesse attraverso mani non lavate che erano ve- nute in contatto con escrementi umani. La mancanza di indu- menti intimi facilmente lavabili favorivano le irritazioni della pelle e le escoriazioni e in tal modo si facilitava la trasmissione di agenti patogeni dal corpo alle mani, al cibo e all’apparato digerente. L’introduzione della biancheria intima e la conse- guente possibilità di lavarla con facilità e frequenza, insieme 78 79 ai nuovi saponi, costituirono uno dei maggiori vantaggi per la salute del villaggio. L’attuale stato di incuria in cui versa questo piccolo gioiello architettonico, simbolo nolente della cittadina, rappresenta una emblematica sintesi della decadenza, non solo edilizia, di questo sito. A fianco del lavatoio, sorge l’edificio che, nel ventennio, fu la sede del dopolavoro39. La struttura aveva lo scopo di promuo- vere la ricreazione della popolazione durante il tempo libero attraverso attività sportive e culturali, ma anche di assistenza, di beneficenza e di soccorso tra i soci. Vi erano diverse se- zioni: sportiva, filodrammatica, cinematografica, culturale e musicale. La proprietà, creando occasioni di associazionismo aziendale, intendeva promuovere il consolidamento di legami interfami- liari e intrafamiliari cercando di stimolare nella popolazione il rispetto della morale e dell’ordinamento esistente, elementi indispensabili per trasformare in comunità una fila ordinata di case. Tale funzione acquisisce un enorme valore poiché la coattiva emigrazione dal paese di origine di chi cercava una occupa- zione verso dove veniva edificata una fabbrica, rappresentava per ogni individuo uno strappo lacerante da una realtà in cui si esisteva in virtù di una consolidata identità familiare. Si pensi a quella frequente e bonaria abitudine, tipica non solo delle piccole comunità paesane, di affibbiare un soprannome ai capostipiti delle famiglie contadine o artigiane e ai discen- denti di questi, per distinguerne i diversi rami dallo stesso ori- ginati, uso che si perde nella notte dei tempi e che non rappre- senta altro che il perpetuarsi della esigenza di identificare e di identificarsi. Spesso, il meccanismo era quello di prendere la caratteristica principale di un individuo e, dopo averla stor- piata e adattata, affibbiarla senza che quest’ultimo abbia poi possibilità di scucirsela di dosso. Ora, per coloro che dovettero lasciare una comunità che li aveva identificati, classificati, inte- riorizzati e soprannominati, questo nuovo inizio rappresentava un anno zero geologico, una ritorno alla casella del via, un 80 81 nuovo debutto. Il ruolo del dopolavoro, che già dal nome che gli venne affibia- to “uniti e forti” lascia intuire le energiche spinte aspirazionali, quindi, svolgeva una funzione di aiuto e supporto favorendo, in modo sostanziale, la creazione di una comunità sociale e lavorativa e portando, inoltre, ulteriore benevolenza alla fami- glia dei fondatori. Gli operai qui si radunavano per le assemblee, per chiacchie- rare tra amici, spesso anche per alzare il gomito. Il locale a mezzogiorno era a disposizione per il pranzo al sacco dei pen- dolari. L’edificio è semplice, di tre piani e, al primo di essi, ospitava, tra l’altro, lo spaccio di bevande alcoliche. Al fianco sinistro, guardando l’edificio dal centro della piazza, sorgeva, un tempo, il campo da bocce. Ancora più a sinistra si erge l’edificio dell’albergo. Sembrerà sicuramente un paradosso la presenza di una pigione in una città del lavoro. Ma il lettore si tranquillizzi, la sua funzione non era quella di accogliere turisti e villeggianti né tantomeno quella di ospitare una casa di piacere per i lavoratori come al- cuni maliziosi disinformati hanno sostenuto, bensì di ospitare i clienti e le maestranze specializzate in visita al villaggio che necessitavano di una camera o un alloggio. A pochi metri di distanza, sopra un digradante verso Corso Alessandro Manzoni emerge, bronzeo e impettito, il bu- sto di Cristoforo Benigno Crespi. Costruito nel 1903, ancora prima che questi fosse dipartito per migliori o peggiori lidi, rimane ancora eretto come il custode sorridente di una realtà che oramai non esiste più, simbolo materiale di una dittatura tanto lontana che non è nemmeno più il caso di abbatterlo. Del resto si sa che, dopo la morte, anche il peggior politico o il più terribile satrapo viene progressivamente riabilitato la- sciando dietro di sé i ricordi migliori mentre l’oblio cancella i misfatti, le angherie e le ingiustizie causate. Posizionato originariamente di fronte ai cancelli rossi dello sta- bilimento per ricordare quotidianamente a tutti gli operai le fattezze e l’occhio vigile del padrone, imprenditore esemplare, 80 81 capace di grandi realizzazioni e alla ricerca di ricompense nel- le Esposizioni Universali, al quale tutti devono “ammirazione e gratitudine”. Alle sue spalle, realizzata dalla parte opposta di Piazza Cleopa- tra Bagnarelli, costruita su modello della chiesa di Santa Ma- ria in Piazza di Busto Arsizio, la chiesa40 rappresenta l’idea- le collegamento tra la città natale della famiglia Crespi e la città che compiutamente ne rappresentava l’ascesa ai vertici dell’imprenditoria industriale italiana. L’edificio progettato da Bramante è qui copiato41 con rigida osservanza di dimensioni e decorazioni, tanto da farla chiamare da alcuni sedicenti esperti una replica dell’originale. La rivista “L’Edilizia Moderna” dell’ottobre del 1894 ripor- ta che “la riproduzione dell’edificio sacro di Busto Arsizio a Crespi d’Adda venne eseguita scrupolosamente tanto rispetto alla dimensione d’insieme che rispetto ai più minuti particolari architettonici e decorativi. La sola variante introdotta sta nel- l’avere tenuto il piano del pavimento rialzato di circa settanta centimetri sul piano della circostante piazza, con l’aggiunta di uno zoccolo in ceppo del paese e di una scalinata in marmo di Verona in corrispondenza della porta della chiesa. Il materiale impiegato per le parti architettoniche delle cornici del loggiato ottagonale che recinge la cupola è il marmo chiamato cengia di Verona, alternato al rosso pure di Verona per le colonnine del loggiato e per la porta principale: nella chiesa di Busto Ar- sizio venne invece impiegata la pietra di Breno”. Disposta con indifferenza rispetto al piazzale che la affianca, quasi a negargli il carattere di luogo di incontro per privilegia- re il carattere di frontalità tra i luoghi del vivere e i luoghi del lavorare42, divisi da un rettilineo che, come perfetta metafora dell’inesorabile procedere dell’esistenza, conduce, alla fine del suo procedere, nel fondale incombente del cimitero dove la ge- rarchia sociale assume il carattere dell’eternità. Un articolo pubblicato il 7 maggio 1893 dal quotidiano locale L’Eco di Bergamo riportava che l’idea ispiratrice della realiz- zazione di una copia43, tale e quale, del tempio di Santa Maria di Piazza, fu di Pia Travelli, la signora Crespi. 82 83 La messa della domenica mattina, alla quale devono parte- cipare tutti i lavoratori e che registra anche la presenza della famiglia degli imprenditori è un momento di fondamentale importanza per evidenziare i diversi ruoli sociali e per riba- dire, in chiave simbolica, il loro potere. Tutte le feste religiose sono celebrate con solennità e impegno. Rappresentano infatti momenti in grado di coinvolgere l’intero villaggio, favorendo l’integrazione e creando, intorno agli industriali e alla loro fab- brica, una forte e significativa identità. Il cappellano svolge, in tal senso, un ruolo centrale. Egli è alle dipendenze dell’impren- ditore e deve quindi rappresentare e interpretare le volontà di quest’ultimo, se non altro per via del fatto che dall’altare gli sarebbe stato impossibile distogliere gli occhi dalla torre della Villa Crespi, edificata proprio sullo stesso asse che, dal centro dell’altare, attraversando l’ingresso principale della chiesa pro- segue all’infinito verso occidente. È davvero un buon Pastore che, con la sua “nodosa mazza”, si- gnoreggia le domeniche dell’operaio, sospingendolo rudemen- te ad entrare nel tempio e minacciando perdizione a chiunque si ostini a restarne fuori. Del resto le grandi religioni hanno sempre riflettuto sul ruo- lo svolto dall’ambiente nella formazione dell’identità e quindi hanno dimostrato di avere meglio compreso il nostro bisogno di riferimenti assoluti. Il principio stesso dell’architettura religiosa ha origine dal con- cetto che il luogo in cui ci troviamo determina ciò che siamo in grado di credere. Per i sostenitori dell’architettura religiosa noi restiamo fedeli a un culto solo se i nostri edifici lo riaffer- mano convincentemente e anche quando, a livello intellettua- le, siamo già persuasi della nostra adesione. Il pericolo è che le passioni ci corrompano o che la dimensione commerciale o vociante della nostra società ci porti fuori strada: perciò ci servono luoghi in cui i valori esteriori incoraggino e rafforzino le nostre aspirazioni interiori. Ci avviciniamo a Dio o ce ne al- lontaniamo a seconda di ciò che è raffigurato sulle pareti o sui soffitti. Abbiamo bisogno di tavole d’oro e lapislazzuli, vetrate colorate e giardini dove la ghiaia viene rastrellata con regolari- 82 83 tà per restare più fedeli alla parte più sincera di noi stessi. Lo spirito della regola di San Benedetto da Norcia, “ora et la- bora” che si esplicitò nelle unità monasteriali compiute, funzio- nalmente e formalmente ben organizzate, adattato ovviamente alle esigenze del tempo, potrebbe avere ispirato il modello di questo villaggio44. Costruito tra il 189145 e il 189346, l’edificio ha una pianta quadrata con un basamento in ceppo dell’Adda e culmina in un’ampia cupola ottagonale, circondata, nella parte esterna, da un loggiato ingentilito da colonnine in marmo. All’interno, le piccole dimensioni dell’edificio lo rendono rac- colto e suggestivo. Le ricche decorazioni delle pareti interne ri- calcano in modo pressoché fedele quelle della chiesa bustocca, e raggiungono l’apice nella cupola, nella rappresentazione di un cielo stellato in una notte serena. Le stelle dorate, realizzate in stucco rilevato in ciascuno degli otto spicchi in cui è divisa la cupola, sono sempre trentatré, uno dei numeri a significato simbolico teologico della cultura medioevale e rinascimentale. Nella parte inferiore delle otto vele della cupola si aprono altrettanti loculi che danno sul- la soggetta esterna e sono fiancheggiati da sibille alternate a profeti. Le figure a due a due sono in piedi, di grandezza superiore al naturale; intorno alle teste ondeggiano cartigli volanti con l’indicazione del rispettivo personaggio. Si noteranno l’austera nobiltà dei volti, i paludamenti ampi, a poche pieghe ferme e spiccate, i colori caldi, i toni robusti e dotati di profonde ombreggiature, gli ori frequenti, come del resto in tutta la decorazione interna del tempio. La cupola si appoggia sull’ottagono ad archi mediante una lar- ga fascia con cornicione in cotto, tagliata da lesene che unisco- no i pilastri ai costoloni, delimitando sopra ogni arco un rettan- golo nel quale si aprono quattro nicchie, in tutto trentadue. Sotto di esse la decorazione si riversa sui pilastri, gira sugli archi e sotto gli archivolti con dovizia di ori e colore, con putti alati e ricciuti che tengono in mano strumenti musicali e simboli della Passione. Grotteschi e arabeschi, festoni, gabbie, nastri, rosari, 84 85 mascherine e perfino piccole tartarughe appese per la coda allietano questi spazi. Nei triangoli tra gli archi e i pilastri sono dipinte, oltre ai profe- ti47, teste di sibille48 e di donne49 celebri dell’antico testamento, in una commovente testimonianza di fede non solo nella conti- nuità tra cultura classica e cultura cristiana, nella paragonabi- lità tra protagonismo storico maschile e protagonismo storico femminile, giustificato quest’ultimo non esclusivamente dal fatto di essere celebrato all’interno di un santuario mariano. La decorazione pittorica venne conclusa da Luigi Cavenaghi50 nel 1895. Del 1921 sono gli angeli in adorazione dipinti dal milanese Carlo Prada ai quattro angoli e i tre affreschi di Fer- dinando Monzio Compagnoni intorno all’altare. A fianco della chiesa, proprio di fronte all’ingresso dello sta- bilimento, in cima ad una scalinata che compensa il declivio, sorge l’edificio scolastico. Costruito nel 1892, fu la sede delle scuole elementari, dell’asilo e della scuola di economia domestica. La sua posizione rap- presenta perfettamente, oltre alla funzione educativa rivolta ad una comunità che si andava ampliando, l’idea che fosse l’in- cubatore delle future maestranze che, frequentando le lezioni con la stessa serietà, con la stessa disciplina e i riconoscimenti che avrebbero poi ricevuto nello stabilimento, venivano tecni- camente formati51 per lo svolgimento dei compiti che avrebbe- ro assunto nel loro futuro operaio. La scuola era privata ed i programmi, pressoché uniformi a quelli delle altre scuole, erano affidati ad una direttrice. Una educazione privata generalizzata non è altro che un siste- ma per modellare gli uomini tutti uguali; e poiché il modello è quello gradito al potere dominante, quanto più è efficace e ha successo, tanto maggiore è il dispotismo che instaura nella mente, e che per tendenza naturale porta a quella sul corpo. Ricordava Ida Azzimonti, insegnante a Crespi d’Adda tra il 1946 e il 1979, che “la scuola era una istituzione privilegiata. I bambini godevano di grande attenzione, erano i lavoratori del futuro e dovevano essere molto disciplinati e pronti a recepire lo stile di vita voluto dalla direzione dell’azienda”. Continuava 84 85 il racconto ricordando anche che “durante il fascismo, venne a farci visita a scuola l’onorevole Giuseppe Bottai, allora Mini- stro della Pubblica Istruzione. Che emozione per noi bambini! Ricordo che, all’improvviso, la porta della classe si spalancò e comparve Silvio Benigno Crespi affiancato dal Ministro. Fummo invitati a inneggiare una canzonetta fascista chiamata “Giovanottino”, ma la mia compagna di banco stonò. Poveri- na, venne punita dalla maestra con un sonoro ceffone”. L’attuale rigore estetico è il frutto degli interventi di manu- tenzione effettuati durante il periodo fascista. Oggi l’edificio è sede di una scuola materna ed è il vuoto contenitore malfatto di un museo costosamente progettato ed in attesa di essere rea- lizzato. Nella parte posteriore venne realizzato anche un teatro, recu- perato alla sua funzione da pochi anni seppur con un interven- to decisamente opinabile, frutto, probabilmente, più di incom- petenza che malafede. Nulla a che vedere con il decadente fascino dell’edificio del- l’Ambulanza Medico Chirurgica. Nel 1904 la famiglia Crespi incentivò la costruzione di un pic- colo ospedale per le esigenze del paese. Lo incontrerà il lettore che, una volta scesa la scalinata prospiciente l’edificio scolastico e, imboccato nuovamente Corso Alessandro Manzoni verso la propria sinistra, raggiunga l’intersezione con il perpendicolare Viale Vittorio Emanuele II. Il presidio medico venne costruito nei pressi dell’ingresso del- la fabbrica in modo da poter intervenire prontamente sui fre- quenti infortuni da lavoro. È sempre Silvio Benigno Crespi a scrivere che “una cura pronta ed energica dei feriti sarà il primo mezzo per diminuire le conseguenze di una disgrazia” avvenuta all’interno dello stabilimento52. Dotato delle più moderne tecnologie medico chirurgiche e di un reparto di radiologia, ospitava anche tutte le persone che avevano bisogno di assistenza continua che non poteva essere svolta nelle proprie case. Scriveva, nel 1951, Il Giornale del Popolo a proposito di que- sta struttura sanitaria: “vediamo il gabinetto di terapia fisica, 86 87 una modernissima apparecchiatura per i raggi, un attrezzatis- simo gabinetto dentistico che può venir preso a modello, l’ap- parecchio per i cardiogrammi ed un ambulatorio chirurgico signorilmente corredato e, soprattutto, ammiriamo, e qui ci piace insistere, molta pulizia, molto candore. Nell’ambulatorio medico-chirurgico gli operai vengono assistiti e, una volta a settimana da Milano giunge un noto radiologo e da Bergamo un valente medico dentista. Prima di essere assunti gli operai vengono sottoposti a una visita scrupolosissima, completata con il cardiogramma e l’analisi radioscopica. Al piano supe- riore del fabbricato è stato istituito l’asilo nido, grazioso con i lettini rosa e celesti bene allineati e con la sala di ricreazione provvista dei giuochi più svariati, con la terrazza ampia, piena di luce e di sole. Le mamme, durante il giorno, lasciano i bam- bini affidati alle affettuose cure delle custodi, che hanno segui- to corsi speciali di puericultura e si dedicano nell’allevamento dei bambini con cura materna”. Nella memoria dei più anziani residenti del villaggio è ancora vivo e presente il ricordo che tutti gli abitanti godevano dei ser- vizi sanitari in via del tutto gratuita e che, gli stessi imprendi- tori, intervenivano nei casi di maggiore gravità per richiedere l’intervento di medici specializzati dai più importanti istituti sanitari di Milano. Tra gli attuali abitanti si tramanda che le mogli di Silvio e di Cristoforo Benigno erano solite visitare periodicamente gli ammalati del villaggio, buona abitudine per alcuni, ulteriore controllo per altri. Nei pressi dell’ambulanza medico chirurgica, è possibile os- servare un edificio di un solo piano, con una base di forma rettangolare, sede un tempo dei bagni pubblici che vennero utilizzati dagli abitanti fino a quando non furono realizzati i bagni collegati alle abitazioni. All’interno dell’edificio esisteva una grande vasca in cui i ragazzi del villaggio potevano dedi- carsi al nuoto e divertirsi con i tuffi. Ricorda il signor Giuseppe Crotti che “si andava lì a fare la doccia al sabato. Pur essendo aperto tutti i giorni ci si anda- va al sabato perché, a quel tempo, ci si lavava meno spesso 86 87 di oggi. Il bagno era gratuito ma per accedere all’edificio era necessario esibire un tesserino che veniva rilasciato dal capo- reparto o in portineria. All’interno c’era anche la piscina, che oggi è coperta. Mi ricordo che era in cemento levigatissimo e che c’erano quindici spogliatoi in legno. La fontana che ali- mentava la vasca era una vasca di un quarto di sfera appesa al muro e che l’acqua cadeva giù come da una cascata. Bei tempi quelli”. Proseguendo per il Viale Vittorio Emanuele II, che piomba perpendicolarmente su Corso Alessandro Manzoni proprio a rappresentare l’ideale prosecuzione a terra della ciminiera, e superato il crocevia con Via Guglielmo Marconi, ideale incro- cio del cardo e del decumano crespesi, si può raggiungere la piazza53 antistante la pineta. Pensata in origine per ospitare sui suoi lati palazzi per residenze e negozi, venne solo parzialmen- te completata e, l’unico edificio realizzato, a sinistra di chi vi sopraggiunge, è oggi sede della cooperativa di consumo54. Tirando diritto, invece, per l’interminabile rettilineo di Cor- so Alessandro Manzoni che, come una storia già scritta che si avvia all’epilogo e con la secca linearità di un’asse infinito, confluisce nella digradante Via Gaetano Donizetti che condu- ce, attraversa e supera il villaggio, il visitatore si avvia verso il paesaggio immortale del cimitero cittadino. A chiunque lo percorra di sicuro non mancherà di fare una certa impressione il muto e declinante percorso che conduce al camposanto, metafora dello scorrere della vita che porta il ric- co e il povero sotto gli stessi centimetri di terra e che rammenta l’infausto latino memento “homo, qui pulvis est et in pulvis reverteris”. Passo dopo passo, lentamente, ci si accorgerà che è come se il silenzio si impadronisse del vicolo cieco in fondo al quale i crespesi abitavano. Osservando lo scenario cui, mano a mano, ci si avvicina, ci si accorge che non si saprebbe dire esattamente da quanto tempo quel fabbricato si trovi lì. La costruzione ha un’aria sia familia- re che estranea, impressa nella topografia della terra a testimo- nianza del suo essere. Le sue forme nette e lineari sono immerse in un paesaggio 88 89 completamente naturale. L’accumulo di riferimenti culturali differenti e significativi in un complesso molto semplice, riescono a rendere interessan- te un luogo solo apparentemente diroccato, triste come solo i monumenti in rovina riescono ad esserlo. Una sorta di eremo abbandonato, eretto un tempo da uno spa- ruto manipolo di fedeli uniti dall’idea di poter costruire una vita nuova con il proprio lavoro e con la smisurata fiducia nel progresso. Un infinito monumento della funebre vanità di una classe la- voratrice piena di speranza, decisa a cambiare l’economia e il mondo e a celebrare la propria triade di virtù ideali: famiglia, onestà e lavoro che, con la famiglia Crespi innanzi a tutti, dalla città dei morti sognava di guardare quella dei vivi crescere ed espandersi. In fin dei conti, quando si passa l’esistenza a lottare con la vita, la morte non è mai una sconfitta ma una resa dignitosa e il rito funebre diviene spesso il simulacro riparatorio del potere, che richiede l’oblio totale delle proprie azioni e la loro sostitu- zione con l’attribuzione di un appariscente omaggio alle sue vittime. In questo senso i cimiteri hanno assunto più di un significato prettamente monumentale, simulando in microscopia, la di- mensione estetica delle città e delle sue architetture. La collocazione del cimitero ha costituito il legame e lo sfondo insostituibile per un’idea di pace paradisiaca, dove il paesaggio diviene risarcimento per lo spirito e fonte di sostegno per co- loro che soffrono. Il camposanto ha una forma planimetrica rettangolare. L’en- trata si trova a metà del lato maggiore, proprio di fronte ad un maestoso monumento funebre di forma piramidale, che ri- corda, in una forma rivisitata in senso industriale, gli ziqqurat centro americani. Nei prati centrali della necropoli, concepita in stile evidente- mente anglosassone, sono ordinatamente disposti i piccoli cip- pi, tutti rigorosamente uguali, a perenne memoria di coloro che vennero sepolti a spese dell’azienda. Le prime file sono 88 89 spesso occupate da infanti che, a quel tempo, come piccoli fio- ri, cadevano a terra quasi con la stessa velocità con cui sboccia- vano. Allora la morte non viveva nell’anonimato di oggi e la si poteva vedere e annusare dappertutto mentre divorava anime che non avevano ancora avuto il tempo di peccare. Sulle piccole lapidi non si concede all’individuo che il nome e due date, la nascita e la scomparsa. Soltanto, alle volte, un’im- magine. Sul perimetro venivano invece disposte le tombe di coloro che, per propria aspirazione personale, preferivano a proprie spese avere una tomba più importante. Si soffermi il lettore sugli in- tensi epitaffi che i sofferenti sopravissuti dedicavano al defunto, dove si infittiscono epigrafi agiografiche che, in una sorta di ac- canimento letterario volto a celebrarne la vita operosa, rispon- dono alla più importante e sentita funzione dell’arte funeraria: risarcire i sopravvissuti del dolore della perdita elaborando un’immagine nobilitata e nobilitante degli estinti. Al centro, a sovrastare tutto, immenso, maestoso, ingombran- te, si innalza il mausoleo Crespi. Una piramide di cemento e ceppo dell’Adda che emerge dalla terra e abbraccia tutti colo- ro che hanno dato la vita per la grandezza della fabbrica. Un ipogeo di cemento armato dove si impartisce, con un rigore ascetico ed un silenzio trappista, la devozione moderna del tra- passo, esponendo i visitatori a dosi omeopatiche di sublime. La sua spiccata valenza simbolica e rappresentativa gli assegna una posizione emergente nel contesto cimiteriale, facendone un importante fulcro compositivo, in traguardo ottico con il viale di accesso al cimitero e in diretto rapporto visivo con la città. Un edificio rigoroso e massiccio, quasi fosse espressione del do- lore delle persone chiamate a visitarlo. Collocato in cima ad una scalinata, con il suo percorso ascensionale allude al con- seguimento progressivo delle virtù e al messaggio edificante trasmesso dagli esempi di vite insigni, come il Foscolo aveva cantato nei Sepolcri a proposito de “l’urne de’ forti”. Attraversare il camposanto, come può capitare scuotendo le ragnatele dai polverosi scaffali della memoria, risveglia alle af- 90 91 frante coscienze dei superstiti il culto degli incorporei valori di spiritualità di cui la società si nutriva nel passato, quando il basso materialismo che impera oggi non si era ancora impos- sessato di volontà che immaginavamo forti e che, in definiti- va, erano la stessa e insanabile immagine di una schiacciante debilità morale55. La negazione dei valori, infatti, rappresenta la condizione normale e quotidiana dell’individuo nel mondo dominato dalla tecnica, in embrione nel tardo Ottocento. La tecnica, che non va confusa con il progresso, è il principio or- ganizzativo delle nuove società industriali: è la trasformazione di tutti gli elementi della vita umana in una funzione. Il singolo individuo, trasformato in un mero strumento di un apparato le cui finalità gli sono spesso oscure e non hanno nulla a che vedere con le sue reali necessità, perde la sua unicità e si tra- sforma in massa. L’unico senso che un individuo funzione può possedere è quello di fare parte di una massa di persone che abbiano lo stesso scopo. Imboccato l’ingresso della cancellata in ferro battuto e lasciato alle proprie spalle il lungo viale contornato dai maestosi ci- pressi, punto di contatto e segno di riconciliazione tra le due città, quella dei vivi e quella dei morti, il visitatore si imbatte in un paesaggio silenzioso, uno scenario per la riflessione e per il ricordo, un luogo in cui l’architettura si lascia timidamen- te attraversare e incorporare alla filosofia, al simbolismo, alla scultura, alla religione e alla poesia. Un paesaggio che diviene risarcimento per lo spirito e fonte di sostegno per coloro che soffrono la perdita dei loro cari. Nessun cedimento al macabro, nessuna necrofilia. Al visitatore necropolitano, come li definisce lo scrittore parigino Michel Dansel, una passeggiata tra le tombe può riservare l’emozione di un tuffo nel passato, la sorpresa di veder balenare in una la- pide, come in una improvvisa Spoon River bergamasca, un’in- tera esistenza. Se la visita agli antichi sepolcreti è una immer- sione in riti, passioni e credenze di popoli scomparsi, il viaggio in un cimitero del nostro tempo consente di ascoltare il cuore di una città, svelando così il tema cruciale di ogni civiltà: il suo rapporto con la morte e con la vita. 90 91 E proprio qui, una vicenda come la nostra che dovrebbe con- cludersi nel silenzio della terra, vi trova invece il clamore di altri possibili racconti56, un epilogo che sembra diventare un inizio. Le voci che, anziché affievolirsi, si moltiplicano, poiché il luogo della morte è in realtà un luogo straordinariamente loquace. È la città industriale quella che parla e rappresenta le proprie virtù professionali, ricorda i successi mondani, esibisce cariche e onori e racconta l’epopea di una comunità che, sul crinale dell’ultimo secolo, prese il volo, salvo poi avvitarsi nel declino. La necropoli operaia si configura infatti sia come lo scenario per l’evento doloroso e riservato del lutto, sia come specchio eloquente dell’intera società: un doppio in miniatura della città, con sentimenti e passioni, bontà e cattiverie, differenze e uguaglianze. Le sepolture ne ripetevano gli schemi per co- struire le identità private e celebrare le virtù di singoli percorsi biografici. Quello che si evidenzia è una idea di cimitero come di città dei trapassati dove i riflessi del mondo dei vivi si dilatano e si in- tensificano, riverberando le contraddizioni e gli scenari sociali come la profondità dei pensieri connessi alla morte quale de- stino ineluttabile dell’esperienza umana. Un luogo dove i segni della memoria appaiono primariamente come testimonianza di identità sia nella dimensione collettiva e pubblica, sia nel- la dimensione individuale e privata, le cui esistenze dovevano contribuire a illustrare e costruire l’identità del paese attraverso la celebrazione delle singole virtù e dei percorsi biografici che inneggiavano alla vita operosa. Un luogo dove è possibile ammirare la funebre coreografia dei ricordi, delle statue, delle lapidi e delle commemorazioni varie, e trarne la conclusione che l’uomo è vanitoso anche quando non ha più alcuna ragione per continuare ad esserlo. Vi si trova l’epitaffio eroico e quello familiare. La “madre pre- murosa” e “l’operaio laborioso” continuano a vivere nelle po- che parole incise nel marmo che riassumono con maestà im- personale tutto quello che il mondo ha bisogno di sapere sul loro conto57. 92 93 La figura dell’operaio definito “brav’uomo”, ma sfruttato nel più vergognoso dei modi e a cui veniva beffardamente attri- buita, dopo la morte, la confortante etichetta di uomo “onesto e virtuoso”, prova che il contesto sociale necessario per perpe- tuare la situazione immobilista poteva essere ottenuto senza difficoltà grazie all’isolamento che metteva la comunità al ri- paro dalle perturbazioni esterne. É il cordoglio che predispone favorevolmente i sopravvissuti di fronte al defunto. Tra le pietre coperte dai licheni e corrose dal tempo, i necrologi abbondano delle virtù del caro estin- to non solo perché, scomparso il timore che destava da vivo, non c’è più ragione di non riconoscergli i meriti da morto, ma anche per una sorta di ritrosia di fronte ad una loro vendetta, andando a rafforzare il carattere e il significato del cimitero quale depositario di memorie civili, laiche prima ancora che confessionali, lasciandogli una funzione soltanto simbolica e rappresentativa. É un peccato che, coltivata per secoli, l’arte di dettare per i defunti una sentenza che sintetizzi la vita, si sia estinta. Nel percorrere i viottoli del poligono planimetrico cimiteriale tra l’eterno rimpianto, il pietoso ricordo, che giace, alla memo- ria di questi caduti tra angeli con ali sbeccate, lacrimose figure, dita intrecciate, pieghe composte, panneggi raccolti, colonne spezzate, viene spontaneo chiedersi se le abbiano realizzate già così i marmisti o le abbiano consegnate intere perché le po- tessero rompere poi i parenti del defunto come segno di lutto, come chi, solennemente, alla morte del capo, spezza gli scudi. L’evidenza della morte “è il velo con cui la morte si camuffa”, sosteneva Fernando Pessoa. Nel tentativo di riannodare i valori della memoria con quelli del progetto, o meglio, come scriveva Luca Beltrami, di sta- bilire un legame virtuoso tra “il ricordo del passato e l’intuito dell’avvenire”, lasciamoci alle spalle il compassionevole cam- posanto e, percorrendo a ritroso il rettifilo che ci riporta nella città dei vivi, ci avviamo a raggiungere il fulcro del sistema solare crespese: la fabbrica. Un tempo rude, fragorosa e effi- ciente, ora silente e addormentata. 92 93 Alla sinistra dei visitatori giacciono i capannoni, scintillanti reggimenti in parata, che si scolorano con aria nobile e ma- linconica. Il loro intonaco si è arreso, flagellato dagli agenti atmosferici. Sembra quasi che piangano ancora la morte del loro padrone, mentre arrugginiscono con onore. Decorazioni in cotto, finestre goticheggianti, bugnati di sapore rinascimentale nobilitano ancora le strutture dove il sibilo dei fusi e il ritmato ed assordante battito dei telai hanno costituito la colonna sonora di intere generazioni di operai. I fabbricati, disposti in linea orizzontale a sfruttare l’abbon- danza degli spazi a disposizione, sono ingentiliti da finestre or- bicolari cieche con ghiera stellata a otto punte in cotto mentre le finte porte verticali neogotiche sono impreziosite da rosoni incastonati nei contorni delle stesse. Poco innanzi, le due palazzine simmetriche, di aspetto quasi dechirichiano, ospitavano gli uffici della dirigenza. Un proflu- vio di decori e di orpelli sulle finestre a bifora, nel sottotetto in mattoni e legno, e nel marcapiano. Di fronte al monumentale ingresso dei “cancelli rossi”, pos- siamo ben comprendere in che senso il villaggio rappresen- tasse per i fondatori il modello materialmente realizzato della propria utopia sociale del lavoro: la città produttiva, la città del lavoro industriale, il luogo dove le più moderne tecnologie, anziché entrare in contrasto con la qualità ed il benessere della vita sociale, diventavano la necessaria premessa per garantire ai cittadini operai un livello di vita più che decoroso, un luogo di lavoro e di vita assistito da un sistema di servizi assai più elevato di quanto non avvenisse nel resto del Paese. L’effetto è suggestivo, una rarità nel panorama degli orribili stabilimenti dell’Italia di oggi. È l’esempio di come l’industria abbia voluto conquistarsi una propria dignità anche formale e non solo economica liberan- dosi dalle remore della triste fabbrica fuligginosa, bagno pe- nale di lavoratori indigenti. Non una vergogna da nascondere, piuttosto una costruzione destinata a sfidare i secoli, un oggetto di culto, espresso e valorizzato con coerenza rispetto alla civiltà contemporanea. La fabbrica poteva diventare un simbolo rap- 94 95 presentativo dell’epoca così come lo era stato il convento per l’alto medioevo, l’edificio pubblico per i Comuni, il palazzo dei Signori per il Rinascimento. Purtroppo, c’è una fase tetra, rapida e ancora fluida che ogni opificio dismesso ha attraversato, prima di ossificarsi in reper- to di archeologia industriale. Una volta capannoni produttivi, zeppi di macchinari e di utensili accatastati insieme a scarti, residui e rifiuti. Ora, ambienti morti dove tutto si accumula: calcinacci, fili elettrici, cartoni, polvere, finestre fracassate. La fabbrica uscita dall’economia, diventa priva di scopo, vuota di senso. Era il luogo dove si producevano merci e valore: ora produce e riproduce il suo stesso sfasciume. Svaniti per sempre i tempi del lavoro, lo spazio diventa il contenitore di roba az- zerata che si disfa, aspetta rottamazioni, ricicli. E nel silenzio e nel disordine destinato a crescere, assume aspetti mostruosi. Nelle cose abbandonate a se stesse, resta unicamente l’inor- ganicità selvaggia, l’inerzia senza scopo delle trasformazioni ingestibili o malgestite. La solitudine meridiana del monumento58 diventa statico em- blema del desiderio di una eternità italiana. Quasi a sottolineare la possibilità di conciliare efficienza, es- senzialità e ricerca estetica, l’edificio che ospita la fabbrica si presenta con la magnificenza degna dell’ideale del lavoro che in essa doveva trovare formale espressione59. Il suo aspetto ar- chitettonico venne curato dagli architetti Ernesto Pirovano, già autore del palazzo Crespi di via Borgonuovo a Milano, e da Gaetano Moretti, emergente esponente dell’architettura milanese di inizio Novecento. La loro ricerca intendeva legare insieme un’eleganza del rigore con la dignitosa austerità di uno stabile utilitaristico, fondendo insieme lo stile floreale dell’Art Nouveau e il Neodecadentismo di provenienza austriaca. Del resto il secolo scorso, per quasi tre quarti del suo svolgimento, mancò di uno stile architettonico proprio, ma visse di rilanci degli stili del passato, secondo quel fenomeno generale e già vi- sto designato come revivalismo o storicismo. Diviene così com- prensibile la presenza di strutture Neogotiche e Neomedievali, espresse attraverso l’accentuato verticalismo, le aperture sul- 94 95 l’esterno di porte e finestre, in genere strette, che ricalcano il motivo dell’arco a sesto acuto o dell’ogiva. Cristoforo Benigno e Silvio Crespi e i loro collaboratori erano persuasi che un buon edificio urbano dovesse stimolare la me- moria collettiva rievocando stili che la crudele velocità della modernizzazione travolgeva senza nemmeno accorgersene. Come le immagini presenti nella chiese sotto forma di pittu- re, mosaici, vetrate, drappi appesi alle pareti, erano concepiti come simboli materiali in grado di spiegare in modo figurato la storia sacra e ammaestrare i fedeli, così l’architettura qui intendeva educare l’uomo agricolo al progresso facilitando la sua trasformazione in uomo industriale60. La ciminiera, ad esempio, realizzata per disperdere il più in al- to possibile i neri residui della combustione del carbone, sorge sopra un portale ad archi acuti, con paraste e capitelli a foglie d’acanto, sormontato da pinnacoli di ferro battuto, con fiori riccioli e foglie opera di Alessandro Mazzuccotelli, massimo artigiano del ferro battuto nel liberty italiano. Nella visione centrale dell’entrata principale, evocatrice di più di una suggestione, si eleva a settanta metri di altezza che sem- bra quasi sia stata conficcata nel terreno da un demone alla ri- cerca di uno sfogo dei fumi infernali. Quasi a prendere il posto dei campanili, si erge a simbolo imperituro non solo del lavoro, ma anche di tutto il villaggio. Del resto, il territorio è sempre occupato da impronte, segni, tracce lasciati dall’uomo, testimoni di una appropriazione e ca- paci di fornire degli strumenti per dare leggibilità al paesaggio e stabilendo nella geografia umana delle barriere che acquista- no ancora più importanza. È così che le ciminiere si sovrap- pongono al paesaggio crespese, producendo effetti scenici ca- paci di consacrarne la terra. La verticalità, posta a sostegno del mondo, assicura la comunicazione tra cielo e terra, acquista centralità e diviene l’elemento portante della visione paesistico territoriale, stabilendo così un proprio ordine cosmologico60. Così, alla vertiginosa ciminiera leggermente conica, che in- consapevolmente domina il silenzio con la sua perpendicola- re indifferenza, viene affidato un significato emblematico che 96 97 non è casuale. Al di là della semplicistica visione fallica che potrà provocare pruriginosi turbamenti nelle più frigide delle visitatrici, questo obelisco innalzato verso il cielo pretende da un lato di esprimere la propria individualità e personalità che lo differenzi da un camino qualsiasi e, dall’altro, di denuncia- re a distanza e con orgoglio la propria presenza. Un fallo di mattone sparato fino a settanta metri di altezza, che, come il mero entusiasmo scultoreo di un paesaggio umano, conferma la vecchia storia del “dimmi di cosa ti vanti e ti dirò di cosa sei privo”61. L’archeologo industriale o il visitatore appassionato, di fronte a questa immagine, può entrare in uno stato di meraviglia silen- ziosa e soddisfatta, come succedeva agli stanchi pellegrini giun- ti davanti ai contrafforti di Chartres dopo un lungo viaggio. È la sostituzione del dio trinitario con dei ed idoli nuovi. È l’impresa che va alla ricerca di fedeli, raccogliendoli intorno ad una serie di immagini simboliche che, a volte, evocano an- che la memoria di riti magici e pratiche esoteriche. Un gigantesco punto esclamativo di mattoni, scultura appro- priata per una storia grandiosa giunta al crepuscolo, la cimi- niera, perduta la virtù che possedeva, diviene l’orologio solare di un deserto arido. Il simbolo di una modernità in movimento, esempio della vo- lontà umana di oltrepassare di continuo i propri limiti in una competizione senza fine. Nella verticalizzazione dell’architet- tura c’è qualcosa di prometeico che affascina gli uomini, ma che può far loro anche molta paura. Alla base della ciminiera, al centro della visione prospettica delle palazzine che un tempo ospitavano gli uffici direzionali, sta l’orologio. Il simbolo del tempo. Un monito sulla caducità delle cose. Il cronometro della nostra storia. Un quadrante bianco, banale, scialbo, con i numeri arabi. Mia nonna, una vita spesa in fabbrica, mi raccontava che guar- dando quell’orologio si aveva la sensazione che in quel luogo i minuti durassero molto più a lungo che altrove. 96 97 Proprio qui il visitatore avrebbe l’occasione buona per doman- darsi con le parole del teorico dell’urbanistica Kevin Andrew Lynch62 “che ora è in questo posto?”. Ma che senso poteva avere mettere un orologio bene in vista in un posto in cui si cerca in tutti i modi di far dimenticare l’ora? L’orologio rappresenta il passaggio dal ritmo di vita contadi- no cadenzato dalla natura al tempo ritmato dalla convenzione sociale. Non è solo uno strumento per fissare la traccia delle ore che passano, ma un mezzo per sincronizzare le azioni degli uomini. L’orologio, non la locomotiva, come invece spesso si crede, è lo strumento chiave della moderna età industriale. In rapporto alle quantità determinabili di energia, alla standardizzazione, agli automatismi e, infine, al suo prodotto peculiare, ossia la misurazione accurata del tempo, l’orologio è il congegno di gran lunga più importante della tecnica moderna. È grazie ad esso che il lavoro diventa disciplina del tempo e forma di organizzazione sociale, più ancora che produttiva. Se i nostri orologi fossero solo oggetti che misurano il tempo, il cambiamento non sarebbe tanto importante. Determinante è il fatto che esse sono macchine che creano il tempo, che lo producono. La storia del tempo, infatti, ebbe inizio con la modernità63, o meglio, l’età moderna corrisponde all’epoca in cui il tempo ha una storia. L’orologio è lo strumento dell’uomo che diventa macchina. E fu così che, a Crespi d’Adda, il tempo standar- dizzato si alleò all’isolamento per proteggere il luogo dagli in- trusi. Il primo particolare che, nella giornata dell’operaio crespese, rendeva sensibili alla schiavitù erano le lancette, metronomo regolatore di tutto il villaggio64. La strada che va da casa propria alla fabbrica è dominata dalla necessità d’esser là prima di un dato secondo meccanicamente determinato. È inutile essere cinque o dieci minuti in antici- po: lo scorrere del tempo appare per questo come qualcosa di spietato che non lascia alcun margine al caso. È, nella giornata operaia, il primo colpo di una regola la cui brutalità domina 98 99 tutta quella parte dell’esistenza che viene trascorsa tra le mac- chine. Il caso non ha diritto di cittadinanza in fabbrica. Certo, il lavoro non è il gioco. È inevitabile e insieme oppor- tuno che in esso ci siano la monotonia e la noia; e poi non c’è nulla di grande a questo mondo, in nessun campo, senza una parte di esse. C’è più tediosa insofferenza in una messa in gregoriano o in un concerto di Bach che in un’operetta. Questo mondo nel quale siamo caduti, esiste realmente. Noi siamo realmente carne, siamo stati gettati fuori dall’eternità e dobbiamo realmente attraversare il tempo, penosamente, un minuto dopo l’altro. Questa pena è la nostra eredità e la monotonia del lavoro ne è solo una forma. Ma non è vero che il nostro pensiero è fat- to per dominare il tempo e che questa vocazione deve essere preservata intatta in ogni essere umano. La successione assolu- tamente uniforme e insieme variata dei giorni, dei mesi, delle stagioni e degli anni conviene esattamente alla nostra sofferen- za e alla nostra grandezza. Fra le cose umane, tutto quel che è, in qualche misura, bello e buono, riproduce in qualche misura questa unione di uniformità e di varietà; tutto quel che ne dif- ferisce è cattivo e degradante. Il lavoro del contadino obbedi- sce per necessità al ritmo che procurano il sole e gli astri che occupano le sedi del tempo con una varietà limitata e ordinata in regolari ritorni; quello dell’operaio, per sua stessa natura, ne è largamente indipendente. L’avvenire di chi lavora in una fabbrica è vuoto per l’impos- sibilità di prevedere un domani diverso, ed è più morto del passato per l’assoluta ripetitività degli istanti che si succedono uguali a loro stessi come il tic e il tac di un orologio. La costan- te assenza di speranza produce un tempo inabitabile all’uomo, irrespirabile. La ciminiera, il vapore e ancora di più l’orologio, usati come simboli metaforici di modifiche tecnologiche molto più ampie e complesse, trasformarono prima l’Europa, poi il mondo in- tero. Domani nessuno storico sarà in grado di comprendere il nostro tempo senza considerare la Rivoluzione Industriale e le sue conseguenze come i progenitori di un nuovo tipo di 98 99 modernità. Noi siamo i suoi figli e, anche se spesso i figli cer- cano di svalutare i propri genitori, nulla può togliersi alla loro paternità ed alla loro importanza. Nelle fabbriche ha inizio una nuova vita, schiava delle macchi- ne. Chiusi in uno spazio rumoroso, i soldati semplici di questa battaglia per il progresso sono donne e bambini: costano meno e hanno mani piccole per districarsi tra i mille fili dei telai. So- prattutto sono le vittime più deboli. Siamo nel 1878 e la don- na, in questo momento, per l’opinione pubblica ha a malapena un’anima. I bambini sono soltanto delle bocche da sfamare. Gravi minacce all’onestà e all’onore delle operaie venivano perpetrate da parte di capireparto, sorveglianti e padroni che, non contenti di sfruttarle in fabbrica, esercitavano una sorta di ius primae noctis nei loro confronti. Ricatti di questo tipo erano usuali, facilitati dallo stato di sottomissione in cui il ge- nere femminile si trovava nell’ambiente familiare, prima che in quello di fabbrica, che era addirittura vista come luogo di corruzione e degradazione morale. Il caporeparto aveva una mansione uguale e contraria a quella di San Pietro: custodiva le chiavi delle porte dell’Inferno. Do- veva essere diritto come un fuso e doveva avere l’aspetto più di un ufficiale intento a richiamare all’ordine i suoi subalterni più che quelli di un mite ecclesiastico intento a esortare i suoi fratelli in Cristo. La denuncia di questi soprusi non avrebbe comportato che l’allontanamento della denunciante dallo stabilimento con la conseguente ignominia di quest’ultima e l’abbandono a se stessa da parte della famiglia e della comunità, costringendo la poveretta in condizioni a cui mancava poco per finire negli alloggiamenti posteriori di un carro funebre. Ma ciò non era altro che uno degli abusi a cui si poteva incor- rere in fabbrica. Non è dato sapere se anche a Crespi d’Adda, come capitava usualmente nelle fabbriche inglesi, i capireparto avessero l’abitudine di impiegare la violenza fisica, soprattutto nei confronti di donne e bambini, nel caso arrivassero in ritar- do al lavoro o, soprattutto per i più piccoli, si addormentassero nel pomeriggio. Certo è che l’atteggiamento dei responsabi- 100 101 li di ogni reparto era spesso vessatorio e, avendo un potere sanzionatorio pressoché assoluto, la violenza psicologica era all’ordine del giorno. Il dolore del lavoro, in cui risuonava ancora per le orecchie de- gli uomini di questa generazione la maledizione biblica, giunse non poche volte a un tale punto di intensità che la promessa dell’altra vita non bastava quasi più a revocarne lo scandalo. La speranza tremò spesso di fronte all’insensatezza di una vita dove il dolore pareva farsi irrimediabilmente insensato. La fabbrica del villaggio veniva così kafkianamente dilatata a simbolo del destino umano, con l’aria malvagia di un animale ingordo, appiattita lì per divorare gli uomini. Una angoscia ben rappresentata dal fumo che fuoriesce dai camini nei dipinti di Luigi Russolo65. Le maestranze che quasi meccanicamente entravano come un lento e inarrestabile fiu- me per rinchiudersi in capannoni chiusi e dal rumore assor- dante per uscire sotto forma di fumo dalle ciminiere con un respiro che si faceva a volte più faticoso e più lungo, come se lo stabilimento fosse appesantito dalla digestione di tutta quella carne umana. E una volta inghiottita la sua quotidiana razione di uomini, sarebbe stato possibile, incollando l’orecchio alla parete esterna dei suoi capannoni, udire all’interno il brusio di tutti quegli insetti umani in moto. Un rumore più tremendo della tromba di Dio che chiama a giudizio un peccatore. Mo- notono come il suono di un motore, una macina di pietra che frantuma inesorabilmente il tempo e la coscienza delle perso- ne, il rumore della tessitura era il canto più antico che faceva da ninnananna ai bambini crespesi. Questa modernità solida corrispose di fatto all’epoca del capi- talismo pesante. Del legame tra capitalismo e lavoro, fortifica- to dalla reciprocità della loro dipendenza la sopravvivenza dei lavoratori dipendeva dall’avere un lavoro, mentre la riprodu- zione del capitale dipendeva dalla capacità di assumere ma- nodopera. Il loro punto di incontro aveva un indirizzo fisso e nessuno dei due poteva trasferirsi facilmente altrove. Le massicce mura delle fabbriche stringevano e asserragliavano entrambi in una 100 101 prigione comune. Capitale e lavoratori erano uniti, si potrebbe dire, nel bene e nel male, nella salute e nella malattia e finché morte non li avrebbe separati. L’officina era il loro habitat co- mune, campo di battaglia per una guerra e, allo stesso tempo, casa naturale per sogni e speranze. A mettere faccia a faccia ca- pitale e lavoro e a legarli l’uno all’altro era la transazione della compravendita. Così, per restare vivi, ciascuno dei due doveva essere pronto ad un compromesso: i proprietari del capitale dovevano essere costantemente in grado di comperare il lavo- ro, mentre i proprietari del lavoro dovevano stare all’erta, sani, forti e appetibili, così da non scoraggiare potenziali acquirenti e non addossare loro l’intero costo della propria condizione. Ciascuna parte aveva i propri interessi costituiti nel tenere la controparte in buona salute. Ora, immagini il visitatore, chiudendo gli occhi solo per qual- che attimo, l’avanzata di questa comitiva di disgraziati alla ri- cerca di un salario66 miserabile. L’infini d’en bas di Victor Hugo o la vile moltitude di Adolphe Thiers. È un’ingiustizia che gli si fa il costringerli ad alzarsi ancora a notte fonda, a percorrere mezzo addormentati e con lo sto- maco molle la strada, corta o lunga, che li separa dal posto di lavoro, e poi lì per tutto il giorno, fino al calar del sole, morti di stanchezza, ammesso che sia ancora stanchezza, e non già ago- nia. Ma questi uomini sono tutti vivi e ciò basta, perché i morti c’è solo da seppellirli e non è possibile farli lavorare. Ognuno di essi è solo uno fra migliaia. Tutti uguali. Tutti sofferenti. Tutti ignari del male che hanno fatto per meritare un simile castigo. Eccoli lì, che par di vederli, andare e venire dalla fabbrica, camminando meccanicamente, a testa bassa, senza nemme- no fare attenzione al selciato, come vecchi cavalli imbolsiti che fanno ritorno alla scuderia. La vita non sarà altro che questo trascinarsi. Bestia che, sulla sommità della terra, si accompagna ad altre bestie. È la storia che si ripete in ogni fabbrica gigantesca riempita da pesanti macchinari e brulicanti di operatori di macchina, volta ad emulare gli antichi templi eretti per adorare l’eternità e per 102 103 la gloria eterna degli adoratori. “Se i Ciclopi con i loro seguaci dalle mani e dai visi consumati dalla fatica non si fossero allontanati dalle oscure regioni del sottosuolo e non si fossero stabiliti sulla terra tra sinistri baglio- ri e ombre, non si sarebbero potuti realizzare i grandi progressi della civiltà moderna”67. Rifletta il visitatore sulle parole di Le Rochefoucauld, “chiun- que possiede abbastanza forza da sopportare i mali altrui”. Osservi attentamente il dipinto di Eduard Munch che rappre- senta l’abiezione dei “lavoratori che tornano a casa”. Chi potrà raccontare questo dolore e questa miseria? L’inti- rizzimento dell’inverno, la rigida gelata del mattino, geloni violacei e sanguinanti, il percorso verso lo stabilimento ancora circondati dal buio della notte con nella testa un unico pensie- ro: la speranza che con il sorgere dell’alba il freddo si sarebbe fatto sentire meno. Non a caso le canzoni delle operaie delle filande sono canzoni tristi e di denuncia di situazioni inumane. Le strofe sono intrise delle cronache dei patimenti, della “aria bona che là dent la manca”. Ma non importa se manca l’aria buona all’interno dei capannoni, mi preme, continua la canzone, prendere qual- che “palanca”, qualche soldo perché “gho i mè vegitt da man- tegni”. E per mantenere prima gli anziani genitori e poi i nu- merosi figli sono indispensabili sacrifici, moltissimi sacrifici68. Heinrich Heine69, in una poesia del 1822, scrive a proposito dei tessitori delle fabbriche tedesche che “non han negli sbar- rati occhi una lacrima, ma digrignano i denti e ai telai stanno; tessiam, Germania, il tuo lenzuolo funebre, e tre maledizioni l’ordito fanno, tessiam, tessiam, tessiam”. Stanchi, spremuti fino al midollo dall’insaziabile fabbrica. Pal- lidi come se fossero sul punto in cui la vita sta per estinguersi. Una vita lanciata su binari che nessuno aveva scelto e in una direzione da nessuno voluta. Lo stesso stabilimento, circondato da un robusto muro di cinta, imponeva la stessa disciplina coatta della prigione: il silenzio forzato, la routine dei gesti ripetuti, la continua sorveglianza del controllore. Non sarebbe stato progettato molto diversa- 102 103 mente se l’unico scopo dell’edificio fosse stato la punizione. Essi consideravano come scontate la tirannia e l’oppressione e facevano il possibile per difendersi contro i soprusi70, ben sa- pendo che un superiore maligno e di pochi scrupoli non aveva alcuna difficoltà a interpretare i regolamenti nella maniera per lui più vantaggiosa. Con una grande abbondanza di uomini disoccupati dall’altra parte del muro era più conveniente toccarsi il berretto davanti al proprio capo che discutere con lui. Ma era pur sempre la loro fabbrica, non quella del direttore tecnico: senza di loro i disegni e i consigli di amministrazione non sarebbero serviti a nulla, secondo un pensiero che è oggi piuttosto comune ma che, al tempo, era assolutamente fuori luogo. All’interno del cotonificio, poi, le condizioni di lavoro poteva- no essere discrete o infernali. In alcuni reparti si raggiungeva la temperatura di sessanta gradi, il rumore dei telai era assordante al punto che i lavoratori comunicavano attraverso la labiolettu- ra, l’aria era così piena di polvere di cotone da provocare una tosse particolare e permanente e gli incidenti, a volte mortali, erano all’ordine del giorno. Anche per queste ragioni nessuna invettiva di agitatore turba e incrina la vita operosa del villaggio. Giorno dopo giorno è una esistenza sempre uguale: ogni mattina gli operai lasciano le loro linde casette e, fatte poche decine di metri, entrano nel- lo stabilimento dove il cilicio del servizio riprende a stringersi intorno alle loro coscia, mentre i figlioletti si recano a scuola, dove ascolteranno, compunti e disciplinati, gli insegnamenti della maestra. Giorno dopo giorno. Senza mai fine. O quasi.

104 105 Note

1 Bruce Charles Chatwin è stato l’autore di capolavori letterari come “In Patagonia”, “Le vie dei canti”, “Utz” e “Anatomia dell’irrequietezza”. Vissuto tra il 1940 e il 1989, è apprezzato per il suo stile essenziale, lapidario e la sua innata abilità di nar- ratore di storie. È stato, comunque, anche molto criticato per gli aneddoti fantasiosi che attribuiva a persone, posti e fatti reali.

2 A Schio, in relazione alle altezze delle ciminiere, si diceva che “perché più ti va in alto e più ti xe visin al padreterno”.

3 In tal modo denominata perché originariamente conduceva alla cosiddetta Pista, un centro sportivo comprensivo di un circuito ciclistico, appunto, di uno stadio di calcio e di un campo da tennis in terra battuta e di uno per il gioco del tamburello. Questo centro sportivo divenne noto per le competizioni ciclistiche che, tra gli anni Venti e gli anni Trenta, avevano il traguardo proprio nel velodromo. In particolare il Giro della Bergamasca a cui si iscrivevano ciclisti di fama nazionale e internazio- nale.

4 Vissuto tra il 1867 ed il 1959, è stato uno dei maggiori esponenti del Movimento Moderno in architettura.

5 Con la modernità, infatti, le strade cessano di seguire le irregolarità della topogra- fia naturale per trasformarsi, come sosteneva il sociologo Lewis Mumford, in una “pianta urbana speculativa”.

6 Il Fosso Bergamasco è un canale artificiale situato nella pianura bergamasca di origine tardo medioevale che collega l’Adda al Serio per poi riprendere e collegare quest’ultimo all’Oglio. Il suo tracciato, lungo circa trentacinque chilometri e largo mediamente “tre passi veneziani”, circa cinque metri, si sviluppava da ovest dira- mandosi dalla sinistra orografica del fiume Adda, proprio a Crespi d’Adda. Era paragonabile ad un vero e proprio fossato, al pari di quelli che cingevano le fortificazioni dei borghi di quel tempo, differenziandosi non poco dalle seriole d’ir- rigazione che costellavano l’intera pianura bergamasca.

7 In quegli anni la politica padronale in materia di suolo e di manodopera seguì uno sviluppo sempre più autonomo nei confronti del fenomeno urbano e della sua gestione politica e istituzionale. Non soltanto l’industrializzazione non condusse più allo sviluppo della città, in un processo che si era quasi del tutto spento già dagli anni Trenta, ma l’industria si sforzò di liberarsi, con ogni mezzo, di qualsiasi responsabilità in materia di fenomeno urbano.

104 105 8 Opera di arredo urbano realizzata dall’Amministrazione Comunale capriatese nel 2006.

9 Il filosofo tradusse nel linguaggio della sua teoria morale un percorso di ricerca da tempo praticato dalla cultura architettonica.

10 L’abate architetto Gasparo Antonio Turbini, nella sua opera “Economia per la fila- tura delle sete”, stampata a ne 1778, paragonò l’ordine che doveva regna- re nelle filande e nei mulini a seta con quello della “clausura di un monastero di monache”. Nel suo progetto il setificio ideale era composto, oltre che dall’opificio, dalle case di abitazione per gli operai, dall’infermeria, da una chiesa e da una torre con orologio a campana, atto a scandire il tempo in forma pubblica e inesorabi- le. Il mulino, emblematicamente, vi era sviluppato in senso orizzontale, invece che in verticale come voleva l’antica tradizione costruttiva: ciò, esplicitava l’abate, per permettere “al direttore di poter scoprire in una sola occhiata tutto l’edificio e di osservare il proprio interesse”.

11 Oriana Fallaci scrisse, una volta, che “il vero potere non ha bisogno dell’arroganza, di una lunga barba e di una voce tonante. Il vero potere ti strangola con nastri di seta, fascino e intelligenza”.

12 In verità non è mai esistita una società in cui le passioni non fossero controllate, limi- tate, contrastate da istanze antipassionali come la religione, la morale, l’educazione, le usanze e i costumi, per cui la civiltà è strutturalmente conflittuale. Le modalità con cui si governano le passioni variano a seconda delle epoche e dei luoghi ma la più efficace è sicuramente quella che ne inibisce, non solo l’espressione, ma persino la rappresentazione mentale, rendendole impensabili. È significativo che la morale cattolica, processando l’intenzione stessa, consideri peccati anche le trasgressioni che avvengono oltre che come opere, ma anche sotto forma di pensieri, parole ed omissioni. Al posto delle passioni rimosse subentrano allora sentimenti e stati d’ani- mo più socialmente gestibili.

13 Patriarca idumeo che rappresenta biblicamente l’immagine del giusto la cui fede è messa alla prova da parte di Dio.

14 Cristo nel suo discorso della montagna, predicò la pigrizia: “guardate i gigli dei campi, essi non lavorano e non filano, eppure, io vi dico, Salomone in tutta la sua gloria non è stato mai vestito più splendidamente”.

15 Come sapranno i biblisti che leggono, a causa di una consonante del testo originale (Vangelo di Matteo 19,24) che è stata erroneamente interpretata, la gomena (gamta) della parabola è diventata un cammello (gamel) e così il gioco di parole perse l’atti- nenza che aveva un tempo con i pescatori del lago di Tiberiade.

16 Nel Cattolicesimo, il concetto di nobiltà del lavoro si applicava per definizione per lo più al ruolo svolto dai preti al servizio di Dio, mentre le attività pratiche e com- merciali erano relegate in una categoria decisamente inferiore, separata dall’eser- cizio di qualsiasi virtù cristiana. In tal senso, la religione diveniva solo strumento di

106 107 contenimento e di coercizione. Al contrario, ad esempio, la concezione del mondo protestante sviluppatasi nel sedicesimo secolo tentò di redimere il valore delle fati- che quotidiane, suggerendo che molte attività apparentemente prive di importanza potevano , in realtà, consentire a chi vi si dedicava di esprimere la qualità della propria anima. Su tali premesse, l’umiltà, la saggezza, il rispetto e la gentilezza potevano essere praticate in una bottega con altrettanta sincerità che in un mona- stero. Grazie al lavoro, la salvezza poteva essere ottenuta nel corso della normale esistenza quotidiana e non solo nei solenni momenti sacramentali, privilegiati dal Cattolicesimo. Spazzare il cortile, rispettare l’orario di lavoro, ordinare i fusi diven- tavano così atti intimamente collegati ai temi più profondi dell’esistenza.

17 L’operaio tessile svedese Folke Fridell, uno dei maggiori rappresentanti della cor- rente del romanzo proletario del Novecento, compiutamente esprime questa logica nel racconto “Una settimana di peccato”, in cui il peccato niente altro è che l’assen- za prolungata dal luogo di lavoro dell’operaio Konrad Johnson che si prende una settimana di vacanza dalla vita perché il titanico e velleitario obiettivo che si pone, nei sette giorni di dichiarata libertà, è quello di ripartire dalle origini e provare a ricreare l’uomo, ridandogli la dignità e il lavoro perduti, cercando di restituirgli una dimensione al di là dei confini dell’utile.

18 Crespi d’Adda si colloca sullo spartiacque tra la tenebrosa cripta della cristianità ottocentesca e la mostruosa progenie della scienza moderna. Entrambi i movimenti sminuiscono la vita quotidiana: la scienza la riduce a meccanismi e materia, la religione a transitorietà e peccato.

19 La visita medica obbligatoria di tutti gli operai in assunzione veniva considerata sia un vantaggio diretto dell’operaio stesso che dell’industriale, perché si sosteneva nel primo congresso internazionale per le malattie del lavoro, tenutosi a Milano nel 1906, che fosse assolutamente necessaria per “essere certi che nessuno dei nuovi assunti porti agli altri operai, attraverso il quotidiano contatto, i germi di una infe- zione o di qualsiasi altro contagio”.

20 Autrice della ricerca “Il medico e il paziente: i mutamenti di un rapporto e le pre- messe di una ascesa professionale (1815-1959)”.

21 Il prefetto di Bergamo Lucio Fiorentini nel 1880 denunciò che “il lavoro troppo pre- coce e prolungato dei fanciulli, snerva la numerosa popolazione operaia e prepara generazioni fiaccate dal germe insidioso che si trasmette per eredità gentilizia”.

22 Da questi cambiamenti e da queste condizioni si può capire il senso del detto po- polare “la polenta la contenta”, assai diffuso ancora oggi nel nostro territorio. Ma la polenta, assunta come alimento esclusivo provocò guasti irreparabili all’orga- nismo e alla mente di molti operai e contadini. La denominazione di pellagra fu data per i sintomi che connotavano la comparsa del male: si screpolavano le mani e la pelle delle parti esposte al sole si fendeva e squamava . Il secondo stadio era caratterizzato da vertigini, debolezza fisica e da disturbi gastrointestinali con forti diarree. Se non intervenivano fattori che modificavano la dieta, insorgeva spesso, come scriveva Giacomo Facheris, “una lesione particolare al sistema nervoso, per

106 107 cui gli ammalati deboli dapprincipio e quasi paralitici passavano a una sorta di malinconia che può dirsi pavida e spesso religiosa” che veniva curata con il ricovero manicomiale. Nei casi più gravi si poteva arrivare alla morte.

23 Del resto, il decoro non può non associarsi all’economia e, difatti, l’ornamento non è mai minuzioso, più dedito all’utile che all’estetica.

24 Il numero dei componenti della famiglia in quel periodo poteva raggiungere anche le quindici unità.

25 Il suo comandamento architettonico affermava che l’uomo doveva trovare nelle ca- se che costruiva un alloggio confortevole, non un’utopia estetica e, di conseguenza gli fu rimproverato spesso mancanza di fantasia. Mirò invece a contrastare risolu- tamente ogni falsa ampollosità e l’effettismo fine a se stesso dell’architettura per ricondurla ad una edificazione più semplice, fondata sul buon senso artigianale. “Il criterio decisivo è l’impiego di mezzi minimi” sosteneva, e premise ad uno dei suoi libri questo motto: “la cosa più semplice non è sempre la migliore, ma la migliore è sempre semplice”.

26 Sevizia praticata tra il Trecento ed il Quattrocento, nel vicino castello visconteo di Trezzo.

27 Per riconoscere la portata della rivoluzione che il bagno casalingo moderno rap- presentò per la quotidianità occidentale si deve tenere conto del fatto che fino al XVIII secolo la evacuazione non era mai stata considerata una faccenda privata. I vespasiani romani erano dotate di file di sedili marmorei sui quali gli occasionali defecatori sedevano l’uno accanto all’altro, mentre, quando non addirittura in stra- da, coloro che non potevano pagare l’ingresso alle pubbliche latrine si liberavano nelle intercapedini tra casa e casa, dove erano montati soppalchi di legno. Non era soltanto la “gente bassa” a prediligere la deiezione en plein air. Ancora Luigi XIV era solito accordare a pochi fortunati cortigiani il privilegio dell’udienza en selle e si dovette attendere la fine del suo regno perché venisse emessa una ordinanza avente per oggetto la rimozione almeno settimanale di feci dai corridoi di Versailles. La regina Maria Antonietta fu la prima a pretendere un porta per rendere privati i suoi bisogni. Parimenti sul finire del Settecento, i membri delle elites dei notabili dei regni europei iniziarono ad adottare il wc, una sorta di armadio chiuso. Le sedie inglesi smisero allora di essere parte del mobilio dei boudoirs per appartarsi dietro discreti tramezzi.

28 Georges Perec stigmatizzò che “tutte le utopie sono deprimenti perché non lasciano posto al caso, alla differenza, alla diversità. Tutto è messo in ordine e l’ordine regna sopra ogni cosa. Dietro ad ogni utopia c’è sempre un grande disegno tassonomico: un posto per ogni cosa e ogni cosa al suo posto”. Lo scrittore francese, vissuto tra il 1936 ed il 1982, è noto per il libro “La vita: istruzioni per l’uso” dedicato alla memoria di Raymond Queneau, nel quale descrive, in modo metodico, la vita dei diversi abitanti di un immobile parigino seguendo uno schema circolare.

29 Questo concetto è efficacemente espresso nel testo “La casa a chi lavora”, pubbli-

108 109 cato dalla SNIA nel 1939, in relazione all’insediamento industriale di Torviscosa. Sebbene l’esperienza sia di un cinquantennio successiva a quella di Crespi d’Adda, viene sottolineato con forza che la politica della casa punta a legare l’operaio al luo- go e ad indebolire la conflittualità sociale. Infatti con la casa a chi lavora “l’azienda lega il beneficio individuale ad un’altra funzione dell’interesse collettivo, rafforza l’istituto della famiglia, nucleo insopprimibile di ogni ordinamento civile. La sta- bilità riduce il nomadismo della manodopera, sopprime l’eclettismo per creare la specializzazione”.

30 La preoccupazione derivava dalla circostanza che le puerpere avrebbero dovuto assentarsi dalle due alle quattro settimane per la nascita del figlio. Lo scrivente sottolinea che non era prevista alcuna tutela, molte donne partorirono in fabbrica o lavorarono fino al giorno prima del travaglio.

31 Non era inusuale il caso di lavoratori che esageravano con le bevande alcoliche, bevendosi, insieme al vino, anche il resto dei loro giorni.

32 Tessilia andava ad aggiungersi alle città littorie di Mussolinia, Fertilia, Aprilia, Car- bonia, Guidonia, Littoria, Sabaudia, Pontinia e Pomezia.

33 Tenga, comunque, presente il lettore che ciò non eliminava del tutto l’aria appe- santita della casa che usualmente conservava un calore animale, “quel soffoco che si respira nelle stanze, per bene tenute che siano, e che sa di bestiame umano”.

34 Era il filone di una industria ancora lungimirante che, coniugando ovvi propositi e forti velleità di auto rappresentazione con un autentico impegno politico e cultura- le, cercava di cavalcare i nuovi slanci di un paese animato dal cambiamento e dalle grandi speranze.

35 Scrisse il poeta Andrew Marvell: “Perché l’uomo costruisce dimore così spropor- zionate? Le bestie sono espresse dalle loro tane e gli uccelli concepiscono un nido uguale a loro. Le tartarughe si fanno la casa in luoghi adatti a contenere il loro guscio. Nessuna creatura ama lo spazio vuoto. I loro corpi misurano il posto che occupano. Ma egli (l’uomo), supremamente disteso, richiede più spazio vivo che morto. E va, nel suo palazzo vuoto, dove i venti, come lui, si possono perdere”.

36 I Crespi non si sentirono mai crespesi, il baricentro sentimentale della famiglia era a Milano, nella elegante sede di via Borgonuovo.

37 Autore del libro “Le ville Crespi”.

38 Ciò anche se, come per la costruzione delle scuole, per la realizzazione dell’impian- to di conduttura del lavatoio, il cotonificio Benigno Crespi ottenne finanziamenti dal comune di Capriate in danaro.

39 Nella seconda metà dell’Ottocento, a seguito delle profonde trasformazioni econo- miche e sociali conseguenti all’avvio dell’industrializzazione e alla formazione dello Stato unitario, si sviluppano le prime esperienze del movimento associativo delle

108 109 classi lavoratrici. Nascono da queste premesse le prime Società Operaie di Mutuo Soccorso con finalità di assistenza, beneficenza e mutualità ma ponendosi, fin dal principio, come punto di riferimento per la nascente classe operaia. In questo con- testo e da questi stimoli sorge a Milano la prima Camera del Lavoro. La storiografia fascista ci insegna che, ufficialmente, il Dopolavoro, inteso come istituto di tutela e di previdenza dei lavoratori, nasce con un decreto nel 1925 che ne fissava gli scopi: “promuovere il sano e proficuo impiego delle ore libere dei lavoratori, con istituzioni dirette a sviluppare le loro capacità fisiche, intellettuali e morali”.

40 Alcuni critici ci sollecitano a tornare con la memoria alle città medievali dove gli affaristi ed i mercanti, che non erano meno avidi di lucro degli speculatori contem- poranei, solevano spendere una parte dei loro guadagni, spesso acquisiti in maniera ribaldesca, facendo dono alla città di chiese, ospedali o cimiteri. Ciò, non tanto perché fossero più buoni dei loro omologhi odierni, ma per salvarsi l’anima e per garantire a sé e ai propri discendenti una reputazione di piena rispettabilità, in quanto il guadagno materiale a se stesso finalizzato si riteneva spandesse intorno a sé un sulfureo sentore di Inferno.

41 Il periodo dell’arte italiana cui appartiene l’edificio della chiesa viene comunemen- te denominato “Rinascimento Maturo”. L’architettura rinascimentale è di norma considerata come una rinascita dell’architettura antica. Affermazione che trova fondamento negli scritti degli architetti del tempo che sostenevano di “ritornare alla maniera antica di costruire”, dopo un lungo periodo di decadenza. Tuttavia è necessario sforzarsi per individuare dei punti di contatto tra un tempio romano e i migliori esempi di chiese a pianta centrale del Rinascimento poiché la grammatica classica veniva interpretata liberamente dagli architetti cinquecenteschi. L’architettura del Rinascimento è, come quella classica, antropomorfica o meglio è antropometrica. Antropomorfica perché architetti, pensando e operando nei ter- mini di una nuova concezione organica della natura, sostenevano che le parti di un edificio devono essere connesse tra di loro e rapportate all’intero come le membra del corpo umano. Antropometrica in quanto erano proprio i rapporti di misura del corpo umano ad interessarli sopra ogni cosa. Del resto era stata la Bibbia ad avere insegnato loro che l’uomo fu creato a immagine e somiglianza di Dio e che la perfezione delle propor- zioni umane rifletteva l’armonia universale. Da qui l’aspirazione a far si che queste servissero di modello e di norma agli edifici innalzati dall’uomo. Del resto il principio umanistico di integrazione metrica delle singole parti gli ar- chitetti lo avevano ricavato dall’architettura antica. Vitruvio aveva dimostrato che un uomo ben proporzionato si inscrive perfettamente, con le braccia e le gambe aperte, in un quadrato ed in un cerchio. Essi consideravano questa come una prova della simpatia matematica esistente tra il microcosmo dell’uomo e il macrocosmo dell’universo. Secondo una tradizione molto antica si tendeva a riconoscere nella figura del cerchio, che non ha un inizio e una fine, un simbolo di Dio. Da ciò si deduceva che la chiesa a pianta centrale, coronata dalla cupola, assicurava l’unione più completa dell’uomo con Dio e che la perfezione metrica delle chiese a pianta centrale, nelle quali unità ed equilibrio sono assoluti, poteva significare la realizza- zione terrena più adeguata all’ordine e all’armonia cosmici.

110 111 42 La presenza, nel cuore nel paese, di questo edificio rinascimentale sembra voler rappresentare la centralità dell’uomo all’interno della nuova rinascita industriale.

43 Non di una replica come sostenuto da alcuni studiosi superficiali.

44 Secondo Alamario da Metz è possibile tradizionalmente concepire l’immagine del- la chiesa come un edificio materiale dove ogni cristiano costituisce la struttura dei muri, il fondamento è Cristo, le pietre sono i Santi e i Dottori, la malta è costituita da calce, acqua e sabbia, che rappresentano rispettivamente la carità, lo Spirito Santo e le opere terrene.

45 I lavori di costruzione vennero eseguiti sotto la direzione dell’ingegner Pietro Bru- nati.

46 Aperta al culto nel 1893 come chiesa sussidiaria di Capriate d’Adda, divenne Vi- cariato parrocchiale nel 1926 e, dopo essere stata donata alla comunità, nel 1990 divenne chiesa parrocchiale.

47 Amos, Baruch, Osea, Zaccaria, Aggeo, Michea, Geremia ed Ezechiele.

48 Iponitea, Prutea, Alburnea e Tiburtina.

49 Ester, Rachele, Eva e Giuditta.

50 Nato a Caravaggio nel 1844, frequentò l’Accademia di Brera. Dal maestro Giu- seppe Bertini assimilò la precisione figurativa e la vena coloristica. Divenne celebre come restauratore, e tra i suoi lavori si annovera anche il restauro del Cenacolo di Leonardo da Vinci. Morì a Milano nel 1918. A Crespi d’Adda prestò la sua arte pittorica nella chiesa e nella villa padronale. Avendo restaurato l’edificio originale di Busto Arsizio, lavorò sugli stessi temi anche a Crespi d’Adda.

51 L’obbligatorietà e la gratuità della frequenza scolastica venne emanata soltanto il 15 luglio 1877 durante il periodo di governo della sinistra storica di Agostino De- pretis. Le spese per il mantenimento delle scuole rimasero, però, a carico dei singoli comuni che non furono in grado di sostenerle disattendendo, così, la normativa.

52 Lo stesso imprenditore promosse l’insegnamento delle tecniche del primo soccorso all’interno delle maestranze operaie.

53 Molto interessante è la planimetria del centro del piazzale che disegna una ruota dentata visibile soltanto dal cielo, a metà tra un simbolo massonico e scanzonata goliardia architettonica.

54 La cooperativa era la società costituita dagli addetti allo stabilimento per la vendita di prodotti alimentari e generi vari, unica esistente in paese, a quei tempi ed oggi. Ospita, ancora oggi, la rivendita del pane, di generi alimentari e abbigliamento.

55 Quasi certamente il lettore non si ricorderà del libretto intitolato “I doveri dell’uo-

110 111 mo”, scritto, nel 1860, dal repubblicano Giuseppe Mazzini che, con uno spirito im- bevuto di religiosità, pensava a una nazione la cui saldezza fosse assicurata da un solido ancoraggio a valori comunitari e nella quale la cittadinanza non fosse solo un catalogo di diritti ma anche un insieme di doveri verso i consanguinei, verso la pa- tria, verso Dio. Al di là delle contingenti origini storiche della formula “Dio, patria e famiglia”, questa rinvia comunque ad un ideale di “buona società” nella quale le vir- tù civiche sono trasmesse da una generazione all’altra grazie al calore e alla stabilità dei rapporti familiari, sono sostenute da salde credenze religiose e sono indirizzate a tutelare il benessere materiale e spirituale della comunità allargata. Quelle virtù civiche, inoltre, guidano, dandole un senso e una prospettiva, la libertà personale.

56 La percezione che ognuno di noi ha del paesaggio dipende fortemente dalla propria coscienza che lo seleziona, lo elabora e, attraverso i sentimenti, se ne appropria defi- nendolo dentro lo scenario generale della natura. Il paesaggio sacro è nello sguardo dell’uomo che lo individua e ne afferra il senso più profondo. L’uomo si rivolge ad esso e riconosce in lui la sua storia, la sua memoria. Spesso i paesaggi si dimenticano del loro passato, degli uomini che li hanno attraversati o disegnati, ma il paesaggio sacro, il paesaggio dei morti ha memoria, sopravvive, e fedelmente protegge la terra dei defunti.

57 Solo alle donne è dato esprimere tanta angoscia, giocando a loro favore la possibi- lità di indagare l’ampio spettro dei sentimenti che dalla rassegnazione giunge alla desolazione più cupa, come di dare forma a una suggestione estetica della morte intrisa di bellezza e abbandono sensuale aderente all’idea dell’antico connubio tra Eros e Thanatos. Le sepolture dove domina la figura femminile spesso non raccon- tano molto sulle identità individuali, ma raccontano molto sull’identità della donna nel secolo scorso, sul suo ruolo nella famiglia e nella società. Come vedova piange la perdita del consorte , come madre, in un’epoca segnata da un elevatissimo tasso di mortalità infantile, deve soggiacere anche all’insopportabile dolore della perdita dei figli. Sono questi i casi più struggenti dove l’essenza di una vita sembra concentrasi nel- l’esperienza del dolore, poiché nella perdita che va oltre il naturale avvicendarsi delle generazioni e che tocca la cerchia dei propri cari, risiede la soglia massima dell’infelicità con cui la morte obbliga a confrontarsi. n? La squadra, simbolo di giustizia, equità, rettitudine, dovere, strumento indispensa- bile per il passaggio dalla pietra grezza alla pietra cubica. L’ingranaggio, emblema del progresso e del lavoro di fabbrica. Il compasso simbolo di armonia, ordine, razionalità, rappresentazione simbolica delle scienze esatte, ma anche del rigore al quale devono essere improntate le azioni umane. La sua forma richiama quelle della lettera a, principio di tutte le cose.

58 “Il deserto è di una fedeltà assoluta. Qualsiasi cosa vi lasci, la custodisce per sem- pre”. Si tratta di un detto indiano che ben sintetizza come sovente l’abbandono possa essere una forma di tutela e di conservazione migliore di qualsiasi attenzione tecnica.

59 Poco più di mezzo secolo più tardi, Adriano Olivetti scriverà che “l’estetica indu-

112 113 striale deve improntare a sé ogni strumento, ogni espressione, ogni momento del- l’attività produttiva e affermarsi, nella più complessa espressione, nell’edificio della fabbrica che l’architetto deve disegnare sulla scala dell’uomo e alla sua misura, in felice contatto con la natura. Perché la fabbrica è per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”.

60 Silvio Benigno Crespi descriveva questa manodopera che, “tolta ieri ai lavori cam- pestri, ha tutti i caratteri della volubilità, dell’ignoranza, della disattenzione e della curiosità”.

60 Molto diffusa nelle tradizioni popolari è l’immagine della colonna universale, del palo sacro che collega e sostiene il cielo e la terra.

61 Parole di Carlos Ruiz Zafòn, scrittore catalano.

62 Architetto statunitense, vissuto tra il 1918 ed il 1984. Concentrò la sua attività di ricerca nello studio della percezione del paesaggio urbano da parte delle persone. La sua pubblicazione più nota è “L’emergere della città”, edito nel 1960.

63 Il nuovo senso del tempo fu una delle più notevoli caratteristiche psicologiche della Rivoluzione Industriale; prima gli oggetti che si modificavano molto lentamente potevano essere considerati come affatto immobili, ma ora le esigenze funzionali più precise e l’abitudine a far previsioni economiche anche a lungo termine non consentono di mantenere questa approssimazione. Ci si abitua a percepire acuta- mente le modifiche dei valori, e l’attenzione si sposta sugli aspetti dinamici anziché su quelli statici. Qui il tempo, le ore, i minuti diventano tempo di produzione, di lavoro e di fatica.

64 Con il basso Medio Evo, racconta lo storico Jacques Le Goff in un saggio memo- rabile, al tempo della Chiesa che segnava con il rintocco delle campane le varie tappe della giornata, si è aggiunto il tempo del mercante, scandito dal commercio, lo spazio temporale che divide la promessa di pagamento al saldo. Al tempo di Dio si aggiunge il tempo dell’uomo che è il solo tempo che è rimasto a noi oggi.

65 Compositore e pittore futurista vissuto tra il 1885 ed il 1947.

66 “Tu proverai sì come sa di sale il pane altrui” ammoniva . La parola salario, infatti, deriva dal sale. Salarius era propriamente la razione di sale che di- venne, poi, l’“indennità per l’acquisto di sale e di altri generi alimentari concessa ai funzionari della magistratura e dell’esercito” e, quindi, nel latino imperiale, stipen- dio o retribuzione. Una volta, per via dell’importanza della conservazione dei cibi, il sale era considerato un bene primario indispensabile, una vera e propria moneta di scambio.

67 Parole di Charles Shaw.

68 Charles Shaw racconta nella sua autobiografia che “Molte volte, dopo quattordici o quindici ore di lavoro, mi toccava camminare un miglio e mezzo per arrivare a

112 113 casa con un altro bambino miserabile e stanco, ciondolando e appoggiandoci l’uno all’altro sulla strada, sorpresi di riuscire ancora a raccapezzarci. Non c’è da meravi- gliarsi che si vedessero fantasmi nel buio, nel nero della notte priva di illuminazione a gas, con le luci delle fornaci a distanza e con il rumore dell’acqua proveniente dal mulino nella valle”.

69 Poeta tedesco vissuto tra il 1797 ed il 1856. È considerato il maggior esponente del periodo di transizione tra il Romanticismo ed il Realismo.

70 Nel mondo di Crespi d’Adda la vita degli individui era appesa a un “si” oppure a un “no”. Quel crocevia tra si e no era il bivio tra il paradiso e la dannazione.

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Simbolismo iconografico della metafora architettonica.

Costruire significa collaborare con la terra, impri- mere il segno dell’uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre; contribuire inoltre a quella lenta trasformazione che è la vita stessa della città.

Marguerite Yourcenar

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Oltre che un dolce modo di perdere il proprio tempo, cammi- nare nel reticolo stradale del villaggio operaio può diventare un esercizio di esplorazione in grado di tramutare l’irreprensi- bile visitatore nell’ingegnoso scassinatore di un forziere in cui si custodiscono profondi segreti architettonici e umani. Del resto si può fare anche a meno del cinema, si può trascorrere una intera vita senza darsi pensiero di alcuna opera d’arte, si può persino evitare la musica ma, in nessun caso, è possibile sot- trarsi all’architettura. Sebbene sia spesso sottovalutato, il patrimonio edilizio è un im- portantissimo documento storico che, se adeguatamente letto, diviene un preciso indicatore per lo studio dei fenomeni sociali che in ogni contesto sono nati, maturati e scomparsi. È uno strumento utilissimo per distinguere il “sapere” dove sia- mo dal “comprendere” dove siamo. In questo senso, Crespi d’Adda è oggetto perfetto ed emblema- tico della rappresentazione di diversi fenomeni esemplari della febbrile epoca della Rivoluzione Industriale, stele di Rosetta del linguaggio architettonico ottocentesco. È come un palcoscenico la cui drammaturgia è il lavoro. E co- me ogni buon teatro lirico è di per sé commedia e opera. Molto da studiare, molto da non afferrare. La intrigante scelta di porsi oltre il fatto meramente architet- tonico, infatti, suscita spesso uno slancio a cavalcare spazi di indagine che sarebbe meglio confinare ai margini della real- tà disciplinare. Il confusionario approccio ideologico da molti scambiato per critica spesso evidenzia l’assenza di una appro- fondita analisi di fronte alle sfide progettuali imposte dalle con- dizioni di vita della seconda metà dell’Ottocento. Ma andare oltre il problema della forma è anche un modo per 116 117 offrirsi impunemente all’arbitrio più assoluto e per derubricare ogni registro di interpretazione. Tutto apparirà possibile e nel contempo impossibile, legittimo ed illegittimo, serio e ridicolo, umano e, allo stesso modo, disumano. Risulta così molto complesso, di fronte ad una così vasta babe- le di enunciati, entrare nel merito del costruito per una analisi minuziosa ed una valutazione credibile laddove non si tenesse in considerazione che l’opera architettonica sia simile ad un iceberg, ove la parte emersa, la sola visibile, si muove secondo leggi che sarebbero incomprensibili se non si tenesse conto del- la parte immersa, non visibile. Per fortuna la visita di questo spigolo di Lombardia sembra appagarsi spesso da una fruizione disattenta e superficiale, in sintonia con i tempi moderni dove slogan, mode, artifici che ammiccano al visitatore prevalgono rispetto al più impegnati- vo confronto con lo scomodo approfondimento storiografico. L’orizzonte del rendimento, la nostalgia del passato, l’ege- monia dell’estetismo, il trionfo della geometria assecondano il visitatore ad ignorare la circostanza che l’ambiente che lo circonda è politicamente significativo. In fondo, fare architettura è fare politica. Architettura è pensa- re per i cittadini un ambiente più vivibile. Infatti, superando la funzione meramente utilitaria della costruzione, la bellezza è, nelle case private, il lato più propriamente civico e sociale. È il lato in cui il committente esprime la propria virtù di cittadino1 nei confronti degli altri. Un concetto assai difficile da afferrare per i molti che sono stati educati ad identificare la moralità architettonica ad un utilita- rismo così rozzo da stizzire l’animo meglio disposto. Non per nulla Palladio2 enunciava come dovere civico il dare alle proprie abitazioni “forma bella e varia”. La preminenza della rappresentazione non investe soltanto il lato costruttivo, in quanto è preminenza di ciò che nella fab- brica del villaggio è rappresentativo rispetto a ciò che è mera- mente funzionale3. Mentre la funzionalità dell’edificio riguarda soltanto chi quel fabbricato deve utilizzare, la bellezza riguarda tutti, in quanto 116 117 la contemplabilità di un edificio ha per destinataria la totalità dei cittadini e di coloro che in quel luogo, in quel momento, si trovano. Con una geniale intuizione, Louis Khan4 affermava che “l’ar- chitettura non esiste. Ciò che esiste è l’opera di architettura”. Nessuna opera umana può essere spiegata al di fuori del conte- sto economico, sociale, politico e culturale che l’ha vista nasce- re ma, una volta finita, compiuta, realizzata diviene essa stessa strumento di divulgazione dell’ambiente che la circonda e che le ha dato i natali. Tutte le civiltà hanno lasciato dietro di loro opere che ne hanno raffigurato i loro ideali più ambiziosi. È la modernità che, nel suo ateismo e materialismo, ha la feno- menologia di una religione con le sue divinità, i suoi miracoli, la sua morale e i relativi peccati mortali. E, se l’edificio è come un documento, occorre imparare a leg- gere i muri. Perché è nella pietra che è intrappolata la tensione verso il cielo. Comprendere un edificio nella complessità di re- lazioni che instaura con il contesto significa prescindere da una cultura dell’immagine spesso fine a se stessa che siamo portati ad accettare. “L’architettura è il quadro di vita che una società si assegna” ripeteva sempre Saskia Sassen5. In questo contesto fare dell’architettura significa partecipare, coi propri mezzi, alla realizzazione di una politica il cui obiet- tivo è la trasformazione radicale della società così come del modo di vivere che ne è l’espressione. Edificare non si riduce ad un fatto tecnico. La sua bellezza deriva necessariamente dalla coerenza con cui raggiunge il suo scopo utilitario, dove la vera decorazione risulta dalla disposi- zione più conveniente e più economica degli elementi struttu- rali. In questo senso, Crespi d’Adda è capsula della memoria a cielo aperto e, al tempo stesso, il regno dell’oblio: nulla muta, com- presi i vivi, anche se l’illusoria eternità degli oggetti preservati non è a beneficio di alcuna memoria, poiché essi, anche se solo agli occhi del resto del paese, cessano di esistere. È uno dei pochi luoghi lombardi nel quale si può avere la mi- 118 119 sura dello spazio e, allo stesso tempo, dove gli orizzonti sono ancora infiniti. Tra piante e industria, tra natura e macchina, tra meccanica, progresso, miseria e speranza di sostentamento il rapporto è, per forza di cose, complicato, ma in certi casi riesce a diventare addirittura poetico. Il confronto continuo tra la semplicità delle forme costruite e l’andamento organico della natura ammorbidisce il rigore del- l’opera e crea una relazione spaziale armonica dove manufatto e paesaggio si alternano e si contrappongono maestosamente in una dialettica di grande fascino. Qui si conserva tutto in un presente interminabile che relati- vizza la sua storia e i suoi stessi accadimenti. Per fortuna la magia della composizione geometrica, la purez- za e la sapienza nell’aggregazione di forme primarie e l’essen- zialità del linguaggio architettonico hanno resistito, attraverso il tempo, all’assalto di intrepidi modernizzatori. Il fascino di Crespi d’Adda sta nel suo costituirsi come un tea- trino esplicito del potere e dei condizionamenti che operarono nella complessa società industriale ottocentesca. In un trionfo trigonometrico, come a voler assicurare una mi- sura antica e un’aura nobile e religiosa alla serialità industriale, lunghe file di regolari casette stanno lì, fisse, immobili come soldati in parata intenti al giuramento, ipnotizzate dalla fab- brica, vate delle future umane speranze. Lo stabilimento non è più un edificio, il contenitore di una funzione, ma un sistema urbano: un rione, un quadrivio, un alveare, un portico medievale che raccoglie tutti i suoni e i percorsi concentrici del borgo chiocciola. Nonostante le vertiginose acrobazie teoretiche per giustificare l’insardinamento di esseri umani, ogni dettaglio della costru- zione sembra pensato in funzione della dimostrazione dell’an- nullamento del singolo, ridotto a parte insignificante di una massa sterminata di comparse. La rappresentatività non solo primeggia sulla funzionalità ma addirittura sembra indirizzar- la tanto che le esigenze della vita attiva, cui sono asservite le costruzioni, vengono trasvalutate in se stesse, liberandosi dalla 118 119 loro pesantezza e servilità, trovando riposo nella contempla- zione6. Gli edifici sono concepiti come scenari per attori di una rap- presentazione idealizzata dell’esistenza operaia. Una scultura sociale. Il palinsesto architettonico, le scelte decorative si fanno in- terpreti a Crespi d’Adda della volontà di creare nuovi spazi monumentali, moderni, igienici e educativi. Coloro che vi la- voravano e vivevano dovevano subirne il fascino ed esserne al tempo stesso protagonisti assoluti: le forme e i decori sono chiamati a essere il manifesto, l’ostensione della nuova società che si affaccia al nuovo secolo. È la città che cambia al ritmo del lavoro. È la dimostrazione della smisurata fiducia nel progresso, nel lavoro e nell’industria, attrezzi inconsci della storia. Gli spazi e le forme possiedono qui una forte carica comunica- tiva che arriva a farsi narrazione attraverso la chiara leggibilità dei segni disposti come a continuare un racconto, una storia che non c’è più e dove proprio l’ornamento è lo strumento principe di questo narrare. È tanto forte la sensazione di trovarsi all’interno di un allesti- mento scenico che lo stesso villaggio, talvolta, dà l’impressione di non esistere. È il tutto ed insieme il nulla, un alfa ed un ome- ga geologico di architettura e metafora, misurabile in respiri, silenzi, equilibri e pace. “Un buco nero” lo definì impressiona- ta Linda Kaiser7 quando si trovò a visitarlo, sintetizzando la percezione di trovarsi in non-luogo, in uno terreno anonimo della contemporaneità in cui si annullano le coordinate di spa- zio e di tempo. Marco Iannucci8 dettaglia che “Crespi d’Adda non è stato mo- dellato dalla vita ma da un’idea. La vita è un miscuglio di esi- genze disordinate e contraddittorie. Qui l’atmosfera è diversa: da un lato più nitida, dall’altro è come se mancassero alcuni segni della vita a cui siamo abituati. E tutto ha qualcosa di sospeso e un po’ irreale”. Questa non è una città che cresce per parti, disomogenee nei tempi e nei modi della loro edificazione, e che diversifica ma, 120 121 contemporaneamente, rende più riconoscibili professioni e la- vori. La sua edificazione è insieme strumento di stabilizzazione della popolazione e luogo di omogeneizzazione di lavoratori diversi per professionalità e provenienza. “Un sogno che nemmeno si può sognare di realizzare. Un de- siderio struggente di irrealtà” lo definirebbe Le Corbusier9. Tranquillo ma rigoroso, accogliente e inquietante, Crespi d’Ad- da è allo stesso tempo torre di Babele e labirinto di Cnosso. Un singolare ingranaggio che abbraccia calcolo e sogno di una bellezza attraente ma indefinibile, come un verso il cui senso ultimo, se davvero ne esiste uno, sfugge continuamente al suo traduttore. Come uno di quei disegni di Escher in cui scalinate infinite sbucano dal nulla per finire nel nulla, in un brivido di mistero, nel soffio di un enigma che tutto invade, che dap- pertutto si insinua, che non lascia respiro e dove nessuno, in nessun punto, è in grado di distinguere una strada che porta in cima da una china discendente. Qui decade il dogma della separatezza tra l’industriale e l’arti- stico, tra il funzionale ed il contemplativo, tra il razionale ed il fantastico, tra l’utile ed il bello, trovando compiuta sintesi nel territorio. Crespi d’Adda riesce a rendere omogeneo il differente, isotopo l’asimmetrico, assicurando a tutti i suoi cittadini una pari par- tecipazione simbolica e facendo convivere l’immagine di una città democratica che regola l’appartenenza dei cittadini alla comunità, con l’evidente fatto che nella sua consistenza fisica si specchia la gerarchia sociale e lavorativa, denunciando visiva- mente lo scarto tra l’orizzonte immaginario e la realtà. Ciononostante le differenze simboliche che nella città rispec- chiano le diversità di ruolo e di importanza tra gli abitanti non vengono percepite in modo così aspro da incrinare il mito del- la sua idealità. Gli edifici del lavorare e del vivere si combinano per creare una unica poetica della forma, imponendo una visione cul- turale che permea completamente l’esistenza personale ed, al contempo, stabilendo il mirabile equilibrio formale del nuovo paradigma costruttivo della fabbrica totale: una utopia di co- 120 121 tone e di mattoni, di telai e di sudore operaio che ti prendeva la vita senza chiederti il permesso. La visita diviene un viaggio iniziatico nella religione del lavoro che fu l’elemento propulsore dello sviluppo industriale ed eco- nomico che pose le fondamenta dei valori della società in cui viviamo oggi. Lo spirito nuovo che animò le correnti del pensiero e dell’azio- ne e che investì con la sua forza propositiva e il suo impegno morale tutte le discipline, portò in architettura la carica neces- saria a superare il pragmatismo accademico per promuovere la ricerca di nuove regole con cui il costruire doveva aprire strade consone alle tecniche, ai materiali e alle funzioni dell’epoca moderna. Fu proprio il campo della costruzione per l’industria che spe- rimentò ed adottò per primo in larga scala l’idea della nuo- va espressione come caratterizzante la creatività tecnica della produzione. La fiducia in se stessi diede un impulso nuovo all’eterna curio- sità umana per il futuro. Tutte le moderne chimere come que- sta non furono mai mere profezie, e ancor meno vacui sogni: apertamente e nascostamente, esse erano dichiarazioni di in- tenti ed espressioni di fede che ciò che si desidera poteva essere fatto e sarebbe stato fatto. Se il senso ultimo di ogni utopia è sempre stato l’instaurazione di una società di uguaglianza, giustizia e libertà risulta evidente che, con tale chimera, si legittima una progettualità indifferen- te alle debolezze umane autorizzando quest’ultima a raggiun- gere la purezza ideale di un sistema perfetto da imporre con la forza ai suoi abitanti imperfetti e riluttanti. L’accusa che una certa scuola di pensiero le rivolge è legata alla circostanza che, dietro la cortina dei temi nobili che sviluppa, si annidano prospettive perverse che legittimano all’infinito lo status quo dei rapporti di potere e confinano l’uomo nei limiti di una ragionevolezza senza futuro, riducendolo a soggetto so- cioeconomico e limitandone la possibilità di crescita solo agli aspetti più utilitaristici e conformistici. Secondo Karl Popper10, il sogno di una città ideale ha il torto 122 123 di ignorare che una società perfetta è una società aperta che si dà di continuo i propri obiettivi, e che il fatto stesso di imma- ginarla confinata in un modello stabile, negandone l’intrinseca dialettica, contribuisce a legittimare lo stato totalitario che si faccia carico di realizzarlo11. In quell’epoca, nella società degli industriali, il futuro era con- siderato alla stregua di un prodotto come tutti gli altri: qualco- sa da pensare per bene, progettare e, quindi, produrre. Il progresso era la creazione di lavoro ed il lavoro era la fonte di qualsiasi altra creazione. La fabbrica avrebbe dovuto produrre beni, salari e felicità. Ecco allora che i luoghi industriali animano l’anonima campa- gna con la forza eloquente delle loro strutture razionali e così spesso emblematiche. Anche per la famiglia Crespi l’architettura fu evidentemente un mezzo, una leva, un’arma utilizzata per lo scopo più ele- vato che gli uomini si possano assegnare: uno strumento per trasformare la loro comunità e, in senso più ampio, tutto il genere umano12. La fabbrica aveva bisogno di una nuova funzionalità e di una forma che fosse in grado di significare l’efficienza moderna degli impianti. Se l’immagine di tale costruzione sia divenuta un logotipo del- la stessa architettura moderna è certo perché l’intuizione tra- valicò il contesto storico del momento. Se il mondo aveva cambiato base, si doveva costruire una so- cietà nuova, fondata su nuovi rapporti di produzione tra gli uomini che, rapidamente avrebbe fatto nascere un uomo nuo- vo, libero dai pregiudizi e dalle abitudini del vecchio mondo. L’appena scoperta libertà andava dispiegata appieno nel tenta- tivo di creare l’ordinata routine del futuro: l’obiettivo era quel- lo di formare, in una zona vergine, una nuova classe operaia che avrebbe potuto riprodursi e rimanere stabile all’interno dell’azienda. Anche per questa ragione, come quasi tutte le esperienze di medesima matrice il villaggio venne ubicato in campagna13, non solo per il costo irrisorio del terreno su cui venne edificato 122 123 ma, soprattutto, per tenere lontani i dipendenti dalle tentazioni eversive o rivoluzionarie delle cittadine vicine. Il mutamento che rompe i tempi del lavoro agricolo ha l’esi- genza di una armatura urbana al servizio dell’industria. All’attento e sensibile visitatore lo spettacolo di precisione degli edifici crespesi, allineati come ballerini che obbediscono al ba- stone di un severo coreografo, offre un’impressione di bellezza legata alla regolarità e all’uniformità, che lo induce a conclu- dere che, al cuore di un certo genere di grandezza architettoni- ca, ci sia il concetto di ordine14. Niente andava lasciato al proprio volubile e imprevedibile cor- so, alla contingenza, alla causalità. Nulla andava preservato nella sua forma presente se tale forma poteva essere migliora- ta, resa più utile e efficiente. Questa nuova società e questo uomo nuovo non potevano na- scere e svilupparsi nei tuguri formatisi nella società passata ma era indispensabile un sistema di vita diverso e strutture spaziali particolari. Questo sistema andava però creato subito, perché è vivendovi che l’uomo arretrato si trasforma in uomo rinnovato. Si defi- nisce così una concezione dialettica del ruolo dell’habitat an- tropico: riflesso di una società nuova ma anche matrice nella quale essa stessa si forma. La nuova architettura è concepita come un apparecchio or- topedico destinato a raddrizzare, a trasformare, a migliorare l’essere umano. Non viene più intesa come come inevitabile sfondo della vita cittadina, ma fu strumento di persuasione e di consenso, simboleggiandone l’aspirazione a interpretare il cambiamento e rappresentando una nuova epoca attraverso un nuovo stile. Georges Bataille15 osservava che “l’architettura è l’espressione dell’essere stesso delle società, nello stesso modo in cui la fi- sionomia umana è l’espressione degli esseri degli individui. In effetti solo l’essere ideale della città, quello che ordina e proibi- sce con autorità, si esprime nelle composizioni architettoniche propriamente dette. Così i grandi monumenti si elevano come delle dighe che oppongono la logica della maestà e dell’autori- 124 125 tà a tutti gli elementi torbidi e di disturbo. È tramite la forma delle cattedrali e dei palazzi che la chiesa e lo stato si rivolgono e impongono il silenzio alle moltitudini.” E la vita, anche presa nelle minute occupazioni di tutti i giorni, è qui, in questo luogo, una contemplazione che ci fa sentire li- brati, come diceva di sé l’abate Sugerio16, in una regione inter- media “nec tota in terrarum faece, nec tota in coeli puritate” quasi che il sopramondo della contemplazione fosse calato in terra, e l’assorta estatica visione della bellezza fosse diventata una condizione istitutiva del nostro vivere quotidiano quasi co- me se fosse un sollevarsi nella bellezza, intesa come liberazione dalle meschinità e dal tritume giornaliero. Molto tempo fa, infatti, gli uomini erano convinti che ciò che era bello doveva per forza essere anche buono. Il pensiero pri- mitivo non era andato così lontano dall’essenziale sostenendo che se l’amore è l’unico antidoto alla morte, la bellezza si dà il suo da fare per ingannarla. Lo stesso Platone sosteneva che lo spazio della città andasse cu- rato perché avrebbe generato quell’assuefazione estetica dalla quale la stessa educazione etica non può prescindere: “Biso- gnerà prestare la dovuta cura all’architettura della città poiché quest’ultima che sovrintende all’inanimato incide sulla politi- ca delle anime”. L’organizzazione dello spazio era, secondo il pensatore, politicamente performativa. E le città17 avrebbero dovuto formare l’uomo non solo con l’ortografia e la calligra- fia delle grandi steli poste sugli edifici, ma anche con l’intero ordinamento del loro ambiente, con l’eloquenza politica, etica e simbolica del loro dispositivo estetico e topografico, tendente ad affermare lo spazio come decisivo bene sociale. “Io credo che si debba estendere a tutti gli artefici il nostro controllo, e il divieto di raffigurare nell’architettura tutto ciò che richiama il vizio, la bassezza, la volgarità, l’indecenza e credo che se non faranno altrimenti si debba impedire loro di esercitare l’arte. C’è infatti il pericolo che i nostri cittadini crescano tra imma- gini viziose, finendo per accogliere senza accorgersene qualche brutto veleno nell’anima”, sosteneva nei suoi scritti18. Uno dei primi progetti tesi a sostituire un piano regolatore ar- 124 125 chitettonico e politico allo sviluppo spontaneo della città più antica fu pensato ed elaborato da Ippodamo da Mileto19, tanto che si parla tra accademici di tracciato ippodameo in quella che si indica oggi come storia dell’urbanistica. Questa concezione del progetto e della bellezza che non si au- tonomizza, è guidata da un disegno complessivo teso ad assicu- rare una sana nutrizione della vita. Essa la si ritrova in Vitru- vio20 per il quale “nella costruzione delle mura di una città” è senz’altro necessario “rispondere al requisito della salubrità”. Ancora una volta, Platone affermava che la grazia del movi- mento, l’armonia della vita e la stessa disposizione morale del- l’animo, sono determinate dal sentimento estetico, dal ricono- scere il valore del ritmo e dell’armonia. Continuava il filosofo “del ritmo e dell’armonia è ripiena la pittura e ogni altra arte consimile, e la tessitura e l’ornato e l’architettura e la fabbri- cazione di tutti gli altri utensili, e così del pari la natura del corpo e degli altri organismi, che in tutti questi è insito decoro o bruttezza e la bruttezza e aritmia e disarmonia sono sorelle del cattivo parlare e del carattere, mentre le opposte qualità sono sorelle e imitazioni dell’opposto, del carattere saggio e buono”. Del resto, quando gli antichi teologi ipotizzarono che fosse più facile diventare fedeli servitori di Dio guardando piuttosto che leggendo, espressero una convincente apologia dell’elemento visivo. Argomentarono a tal proposito che l’architettura poteva educare l’umanità con maggiore efficacia delle Scritture e poi- ché l’uomo è una creatura dotata di sensi, i principi spirituali avevano maggiore possibilità di fortificare l’anima se venivano assorbiti con gli occhi, più che con l’intelletto. Difatti, si potevano imparare più cose sull’umiltà osservando una fila di piastrelle che studiando il Vangelo e più cose sulla natura della bontà verso il prossimo da una vetrata colorata che non da un libro sacro. Si riteneva, quindi, che trascorrere il tempo in luoghi belli, senza però indulgere al lusso, fosse la via per diventare persone rispettabili21. Ciò premesso, chi scrive condivide pienamente l’idea che la nostra identità sia legata indissolubilmente ai luoghi in cui vi- 126 127 viamo e si modifichi con essi, ma non si può rimanere indif- ferenti all’acuta osservazione di John Ruskin22 che, in un mo- mento di deprimente lucidità, ammise che in effetti ben pochi veneziani sembravano essere stati nobilitati dalla loro città23, forse la più bella scenografia urbana di tutto il mondo. Ma a chi, ci si potrebbe chiedere, potrebbe spettare l’onere e l’onore di indicare l’ideale espressione di bellezza? Del resto Romolo24 non fu né architetto, né urbanista creativo, né sociologo. Afferrò l’aratro e mosse i buoi a tracciare l’area sacra di Roma secondo quel che gli dettavano gli archetipi so- ciali rispetto alla futura comunità. Il mito sacrificale comportò che uccidesse suo fratello perché aveva schernito tale disegno. Tutte le città della storia crebbero modellate dal terreno, dalle strade, dai nemici che richiedevano fortificazioni e dagli dei che pretendevano templi. Ma soprattutto dal lavoro degli uomini che l’abitavano. Fu il lavoro a modellarle, non furono modella- te per il lavoro e nessuna comunità odierna può muovere forze simili a quelle che eressero piramidi, acropoli e cattedrali. Karl Marx scrisse che la borghesia aveva innalzato ben altro che piramidi, anche in relazione ai muri e alle barriere imma- teriali create dalle classi e dalla soggezione lavorativa. Ma i nostri promotori sono ben lungi dal fondare insediamenti in cui si rincorra esclusivamente l’utopistico obiettivo di un ra- dicale rinnovamento sociale. Essi praticano una politica azien- dale saldamente ancorata al senso degli affari, subordinando a questo obiettivo anche le libertà personali degli abitanti tra- sformando i villaggi industriali in una specie di utopia a re- sponsabilità limitata25. Per la società anonima, la pietra di paragone per il successo sociale, infatti, non poteva essere l’aver edificato delle buone abitazioni o l’aver contribuito ad una vita sana e ad un am- biente propizio: il solo metro di misura era il reddito che ne scaturiva per l’imprenditore. Se i suoi guadagni diminuivano, l’impresa era sbagliata, e ne doveva seguire automaticamente la cessazione per fallimento se non per decisione spontanea. Se i guadagni aumentavano, l’impresa era benedetta e doveva espandersi. Il tempo dell’Illu- 126 127 minismo, come disse incisivamente Wilhelm Heinrich Riehl26, “fu un periodo in cui tutti si struggevano per l’umanità, mentre nessuno aveva a cuore i propri familiari, quando tutti filosofa- vano sullo Stato e dimenticavano la comunità”. Di fatto, l’estendersi speculativo della città industriale significò lo svilupparsi e l’estendersi di un triste ambiente carcerario. La mercede che un galantuomo riceveva per l’onesto lavoro quotidiano non era sensibilmente diversa da quanto un reietto della società riceveva come pena. In effetti, la libertà per il pri- mo non significava che ansietà, mancanza di sicurezza ed umi- liazione spaventosa, mentre metà dei sintomi antisociali che esplodevano nelle nuove città, le risse, l’ubriachezza diffusa, l’amore della violenza erano solo cieche reazioni all’ambiente. In questo senso, il villaggio può essere considerato un vero e proprio “condensatore sociale”, contemporaneamente matri- ce e riflesso della nuova società. Matrice perché è all’interno di questi edifici che l’uomo “antico” diverrà uomo “nuovo”, riflesso perché concepiti a immagine della società futura. La proposta urbanistica di Cristoforo Benigno Crespi vuole contrapporre all’improvvisazione, alla irrazionalità, alla cau- salità e all’arbitrio imperanti all’epoca, la programmazione, la razionalità, la determinazione della regola, nell’ambito di un modello che non è solo sociale ed economico, ma che si ma- terializza in una precisa e definita proposta formale. La forma è quindi al tempo stesso l’inizio della possibile trasformazio- ne della società e la conclusione pragmatica di una filosofia socioeconomica: l’ordine, la regolarità e la razionalità della forma sono lo specchio dell’ordine, della regolarità e della ra- zionalità della società. Crespi d’Adda possiede una forma ben definita, è geometrica- mente conclusa, simmetrica, ordinata. Al suo interno viene as- segnata una precisa suddivisione delle funzioni come specchio di un geometrico assetto dell’organizzazione della vita. Una transustanziazione in materia dei nostri ideali individuali. Sul suo pianeggiante terrazzo fluviale, i diversi elementi del complesso vennero disposti secondo uno schema geometrico27 che, rispettando rapporti armonici tra le diverse parti, si adat- 128 129 tarono perfettamente alle esigenze della produzione. Qui si trova un abbozzo della nozione moderna di unità di abi- tazione, di attrezzature tecniche e socioculturali e soprattutto l’idea che una città non è una serie di piazze a disimpegno di monumenti collegate fra loro da viali fiancheggiati da case su entrambi i lati, ma un insieme di unità sociali concepite come altrettanti organismi capaci di fornire ai propri abitanti i ne- cessari servizi. Tuttavia non è la semplice suggestione della planimetria orto- gonale a comporre l’ordine della company town, bensì un più sofisticato meccanismo fondato sul progetto degli edifici, dove il dispositivo urbano viene inserito in una coinvolgente scena teatrale costruita sulle memorie architettoniche classiche e go- tiche, modelli adottati per incutere timore ed esigere rispetto. Una teoria morale costruita architettonicamente in uno spazio chiuso e controllato, come in un laboratorio dove si addestra scientificamente il carattere superiore dell’homo faber. Un concetto di architettura che si innesta su quello basato sulle categorie di Vitruvio dove armonia formale, armonia morale e armonia sociale sono strettamente connesse. È la geometria di una religione massonica e l’architetto, at- traverso le sue virtù medianiche, si trasforma nell’officiante di un culto politico, un ascetico produttore di bellezza pronto a riempire lo spazio consacrato. Nella sua manifestazione più sincera, l’impulso architettonico è sempre legato a un desiderio di comunicare e commemora- re, di dichiararsi al mondo tramite un registro diverso dalle parole, con il linguaggio degli oggetti, dei colori e dei mattoni: all’ambizione di far sapere agli altri chi siamo e, con questo, di ricordarlo anche a noi stessi. È l’architettura che si rappresenta, per confermare il proprio mandato storico di documento che simula nel proprio codice i malesseri, i valori e gli enigmi sotto forma allegorica e dove le diverse parti della struttura devono garantire l’unità dell’orga- nismo e la sua efficacia espressiva e funzionale. È il modo più diretto di tradurre nella pietra l’intelligenza del- la disciplina, di rendere l’architettura trasparente alla gestione 128 129 del potere, di ordinare lo spazio secondo la nuova teoria del lavoro. Ogni mattone rappresenta il singolare conglomerato di una volontà, di una memoria, a volte di una sfida. Ogni edifi- cio sorge sulla planimetria di un sogno. Una provocatoria osservazione di a proposito del- l’eloquenza dell’architettura ci ricorda che gli edifici non sono solo oggetti visivi senza legami con concetti che possiamo ana- lizzare e quindi valutare. Gli edifici parlano continuamente e ci raccontano di argomenti che si possono comprendere con facilità. Parlano di democrazia e di aristocrazia, di disponibi- lità e di arroganza, di accoglienza e di minaccia, di partecipa- zione al futuro e nostalgia per il passato. Ci parlano del genere di vita più adatto a svolgersi intorno ad essi o al loro interno. Ci rivelano gli stati d’animo che cercano di suscitare e mante- nere nei loro abitanti. “La monumentalità in architettura si può intendere come una qualità spirituale che rende esplicito il carattere eterno del- la costruzione” scriveva Louis Khan, mentre “l’architettura non si occupa unicamente di costruzione” sosteneva Siegfried Giedion28. È una nuova società quella che venne anticipata in queste rea- lizzazioni, in questi progetti e anche nei sogni di Cristoforo Benigno e di Silvio Crespi. Un nuovo mondo che si mostrerà attraverso “il gioco sapiente, corretto e magnifico dei volumi sotto la luce”29. Perché se l’architettura è questo gioco essa è anche, al tempo stesso, il quadro di vita a cui una società aspira. Ciò che la famiglia Crespi è riuscita a realizzare negli ettari di terreno incolto acquistati da Cristoforo Benigno nel 1876 dai comuni di Canonica d’Adda e di Capriate, è un inconsapevole capolavoro di sintesi ed espressione che corrisponde alle ne- cessità di un luogo visivamente denso, pur del tutto moderno, la cui funzione risulta chiaramente leggibile attraverso le sue audaci sottigliezze citazioniste ed architettoniche. Ritengo che questa operazione non fosse stata pensata con la consapevolezza di dove si voleva arrivare, ma comunque certo è che rimane a testimonianza reale di una epoca che sta agli 130 131 albori della nostra società, la preistoria del nuovo mondo. Riesco a immaginarmi Cristoforo Benigno Crespi che, nella spontaneità che nasce spesso in concomitanza con l’avanza- re dell’età, preoccupato a tal punto della proporzione e della precisione classica, si svegli all’alba e, lasciato il suo sfarzoso castello con un paio di forbici in mano, si diletti a girovagare per il paese ad assicurarsi che i cespugli dei giardini crescessero simmetrici30. Di sicuro non si trattava di una ricerca fine a se stessa, ma di qualcosa di più. Dietro l’ossessione per la forma, per la struttu- ra e per il movimento, si cela una passione inesauribile per la ricerca filosofica. Memore di Spinoza, come gli ingegneri pro- dotti dalle nostre università, i fondatori attraverso l’ausilio di tecnici, postulati, regole e ferrei teoremi, sembrano impegnati nella creazione di un sistema morale che giustifichi le azioni e i desideri umani sulla base di una dimostrazione geometrica. Inscritto nelle linee, nei piani e negli edifici di Crespi d’Adda c’è il miraggio di una vita migliore. L’urbanesimo e l’urbanistica padronale sono soltanto un’esten- sione, una propaggine solidificata, una generalizzazione di una certa filosofia sociale. Se si tratta, poi, di reclutare e stabilizzare la manodopera, la politica dell’abitazione è un’arma assolutamente essenziale dell’impresa perché senza una manodopera stabile non si ot- tiene una produzione regolare. Ecco, quindi, una architettu- ra che opera nella trasformazione degli individui per agire su coloro che essa ospita, fornire una presa sulla loro condotta, ricondurre fino a loro gli effetti del potere, offrirli a una cono- scenza, modificarli. Le pietre possono rendere docili e conoscibili. La sua forza è non intervenire mai, esercitarsi spontaneamente e senza ru- more, costituire un meccanismo i cui effetti si concatenano gli uni agli altri al fine di fabbricare individui utili. Ciò giustifica il non occasionale ricorso all’utilizzo di dettagli riconducibili alle città ideali del passato, rispondenti a una pre- cisa ratio mathematica, laddove la qualifica di ideale non deve ritenersi sinonimica rispetto a utopica o velleitaria. Si tratta 130 131 di città progettate da uomini per la vita concreta e storica di società umane, e da costruirsi gradualmente in un “futuro pos- sibile”. L’impegno prioritario degli abitanti dei paesi utopici consiste nella salvaguardia dell’inemendabile ordinamento imposto al- le comunità da antichi e veneratissimi legislatori, una sorta di semidei infallibili che poco sembrano possedere di umano e i cui ammonimenti a soffocare le dinamiche storiche e ogni tipo di riformismo sono dai discendenti tramandati di padre in figlio con zelo costante da tempo immemorabile. La coercizione dissimulata diventa totalitarismo dietro le paro- le rassicuranti del proselitismo industriale. Una sorta di invisibile ma concreta propaganda31 verso il pro- gresso e l’abnegazione operata attraverso l’allestimento sceni- co ed il disegno architettonico, che potrebbe far storcere il naso al lettore purista incline a credere che la vera arte debba essere immune dalle ideologie e ammirata solo per la sua intrinseca qualità. Il termine propaganda, però, può essere riferito alla promo- zione di qualsiasi dottrina o convinzione e, in sé e di per sé, non dovrebbe avere connotazioni negative. La circostanza che, nella maggior parte dei casi, questa promozione sia stata as- servita a programmi politici e commerciali spregevoli è più un incidente storico che una colpa della parola stessa. I fondatori del villaggio e gli architetti che collaborarono con loro fecero dell’urbanistica e della pianificazione una realtà, perché l’obiettivo di questa rivoluzione consisteva nell’instau- razione di un nuovo ordine delle cose, di una nuova società fondata sui nuovi rapporti di produzione e di scambio, secondo una dottrina che è quella del socialismo scientifico di cui Karl Marx ed Friedrich Engels avevano posto le basi teoriche. E ciò perché, come già ribadito nelle pagine che precedono, il “segno” architettonico è il solo in grado di raggiungere il valore di una forza iconica assoluta. È lo strumento che più di ogni altro comunica un messaggio di qualità, di perfezione, di sostanza concettuale, di potenzialità intellettiva, in grado di raggiungere ogni strato della pubblica attenzione. 132 133 Se in altri campi dell’architettura, gli edifici devono assumere una forma congrua con la funzionalità propria ed una espres- sione che ne specifichi i contenuti, il settore industriale di que- sto periodo ha trovato nella creatività della disciplina una di- sponibilità a fornire una “oggettualità emblematica” in grado di rendere all’esterno e al mondo clientelare attraverso la forza dell’espressione e la sostanza della sua potenzialità. Il principio che espressività e significato architettonico di un edificio industriale si fondano, nasce dalla potenzialità creativa della dirigenza, che richiede alla forma architettonica un con- tenuto di valore aggiunto indicativo delle qualità del prodotto che in essa viene realizzato. I più carismatici creatori d’azien- da, anche oggi, mentre si riconoscono nel valore della pro- duzione che hanno attivato, tendono per istinto, a riprodurre nell’immagine architettonica la forza del loro carisma creativo. È così che l’impianto architettonico racconta al mondo ester- no la vivacità inventiva e la potenzialità economico commer- ciale dell’azienda. Non è solo l’ordine, la pulizia, il grado di luminosità e la negazione dell’apatia da ripetibilità che risulta positiva alla resa operativa. Vi è un livello superiore, difficil- mente pronunciabile e non di facile esplicazione che è la resa architettonica dell’insieme. L’architettura è uno strumento di educazione e di aiuto al comportamento; è il primo veicolo di comunicazione con l’animo dell’uomo, pure a livello inconscio e subliminale. La filosofia comportamentale dell’architettura è quella di far sì che ogni cosa costruita abbia in sé questa qualità misteriosa di rendere l’ambiente fonte di esaltazione allo spirito dell’uomo. Certamente stimolati dalla loro illuminata committenza, gli architetti che progettarono Crespi d’Adda intendevano far si che le loro costruzioni parlassero del futuro, con la sua promes- sa di tecnologia e velocità, democrazia e scienza. Volevano che esprimessero la vigoria dell’industria, il dinami- smo dei treni, la potenza delle turbine e la radiosità dell’avve- nire e ben pochi progetti avrebbero dato agli abitanti di Cre- spi, in modo adeguatamente poetico, l’idea di modernità che il villaggio prometteva. 132 133 “Con questa macchina si dichiara guerra alla miseria e alla rassegnazione”32. Purtroppo, nel corso dell’ultimo secolo la fabbrica, luogo prin- cipe dell’innovazione dell’architettura moderna, è stata pro- gressivamente emarginata dalla visione architettonica33. Il risultato fu una convergenza della tipologia costruttiva di fabbriche, magazzini e spazi commerciali che assunsero le ca- ratteristiche di scatoloni senza luce, senza volto e senza iden- tità, dove la mobilità di macchinari e attrezzature impone che gli spazi industriali siano intercambiabili. L’incarico di proget- tazione per una fabbrica è ora una decisione economica che viene presa separatamente da fattori e necessità esterni, quindi meno costa e meglio è. Non è più necessario che una fabbrica sia affascinante. La sua progettazione tipologica ne consente anche l’adattamento a qualsiasi altra attività in caso di falli- mento dell’impresa che la costituisce. Un tempo le fabbriche venivano costruite per l’eternità. Oggi vengono innalzate e abbattute per il tempo che può ga- rantire ai loro proprietari margini di profitto superiori di quelli che potrebbe realizzare altrove. Oltre alle fisionomie e alle posture riscontrabili nel bronzeo busto dedicato al fondatore, anche gli stili adottati negli edifici del villaggio operaio rivelano tratti di mentalità che sembrano sostanziare le evoluzioni del gusto coevo. Il castello, la chiesa e i capannoni richiamano l’imponenza e la ricercatezza di palazzi medievali o rinascimentali, quasi a esprimere che la novità delle tecnologie industriali e l’autore- volezza delle forze economiche che ne erano fautrici dovessero completarsi nel rassicurante richiamo al passato34. Il revival che connota l’architettura di molti edifici ottocente- schi potrebbe perciò essere letto come segno di un rapporto contraddittorio con il nuovo, come un tentativo di rendere me- no deflagrante la rottura rappresentata dalla grande industria. Molti interpretano tale fenomeno come una tra le tante ma- nifestazioni di quel trionfo del progresso che costituì un tema dominante nella mentalità della borghesia del secolo scorso, una mentalità contraddistinta dalla fiducia che ebbe l’età della 134 135 macchina di poter superare e riassumere in sé le esperienze precedenti, una mentalità secondo cui il tempo non pone più problemi. La macchina può impunemente recuperare il passa- to. Recuperarlo e utilizzarlo. Molti storici identificano Crespi d’Adda come un fenomeno eclettico ma, se l’Eclettismo è un modo di comporre passato e presente scegliendo gli elementi più adatti alla soluzione del problema dato, allora mi sembra ancora troppo lusinghiero volerlo applicare all’attività di coloro che operarono alla co- struzione di questo ideale mondo della produzione. Il compito degli architetti fu quello di rivestire, con uno stile dato, degli edifici concettualmente concepiti dalla committen- za che scelse, in funzione dei propri gusti personali, lasciando i tecnici vittime delle loro preferenze estetiche. Cristoforo Benigno Crespi aveva studiato l’equilibrio coperni- cano del villaggio dal punto di vista stilistico, dove la fabbrica doveva essere il fulcro di un equilibrio sociale senza conflitti tra il padrone e i suoi dipendenti. Questi sapeva che l’uomo ha bisogno di un rapporto di osmosi spirituale con la propria città, nella quale ha la necessità di ritrovare dei punti di rife- rimento, dei luoghi fissi, istituzionali necessari a ricostruire un nesso spirituale con il territorio in cui vive. E questo tessuto faceva si che anche coloro i quali non fruivano direttamente delle istituzioni collettive se ne sentissero tuttavia parte. Chi lavorava qui doveva sentirsi protetto dall’azienda anche quando si lasciava dietro le spalle i cancelli dello stabilimento per la fine del turno. E la città dell’armonia, abbozzata dal fondatore dell’impero industriale, si sarebbe completata sotto la regia di Silvio Crespi, che ultimò il disegno del padre. L’intero complesso si basa su di un modulo proposto secon- do diversi rapporti proporzionali, dove la fabbrica assurge a ruolo fondamentale e attorno a cui si sviluppa una ordinata e regolare struttura urbana che, dietro l’ossessione per la forma, per la struttura e per il movimento, cela, o sembra celare, una passione inesauribile per la ricerca filosofica. Inoltre, alla fine del secolo diciottesimo veniva considerata igienica una città composta di case salubri, allineate lungo 134 135 tracciati stradali regolari, che favorivano la circolazione del- l’aria e imprimevano nel volto urbano le forme dell’ordine e dell’eleganza. È indubbio che la linearità dei tracciati urbani e il prevalere di schemi geometrici dove predomina la disposizione ortogonale delle strade possa trovare molteplici spiegazioni. Si tratta in ogni caso di schemi che si prefiggono l’intento di disporre ra- zionalmente lo spazio urbano e tale razionalità può corrispon- dere ad una volontà di ordine economico e sociale. Ma non solo. Essi sigillano la forte idea che la città in quanto tale sia una struttura simbolica, una forma portatrice di signi- ficati profondi. L’impressione è che l’ordine architettonico precostituito, rea- lizzato attraverso la sua regolare espressione, fosse così estremo e ricercato per aderire a quelle idee coeve alla fondazione che pensavano che la disposizione delle costruzioni potesse influen- zare l’ordine morale e che vivere in un contesto abitativo di qualità potesse evitare la nascita e lo sviluppo di devianze com- portamentali. L’ordine diveniva, quindi, il fondamento su cui far poggiare il sistema morale della vita e del lavoro anche se sarebbe potuto diventare opprimente con la sua ossessiva ripetitività. L’armonia architettonica del villaggio rafforza la volontà, affi- na le capacità attraverso la costante ricerca della verità e orga- nizza l’esistenza in modo da contribuire a quell’opera che è la vita dell’intera comunità. Questa particolare armonia, dovuta a un ordine e a una pro- porzione non casuale, è il raffinato risultato di una progetta- zione basata sul principio del modulo usato secondo un calcolo matematico che condiziona le varie parti di un edificio, così che ogni dimensione, ogni distanza e ogni parte sono effetti di un sistema razionale. Ciò permetteva di sopraggiungere alla definitiva dimostrazione della teoria secondo la quale chi ha una vita migliore diventa una persona migliore. Un baluardo contro il decadentismo e la spinta autodistruttiva della nostra società. Per creare cittadini perfetti di una cittadina perfetta. 136 137 “Nobili figli del lavoro, non lasciate mai la Città Nera”, scrive- va George Sand35 nel 1860 raccontando la storia di una città industriale che, firmando la pace sociale, cancella improvvi- samente tutti gli infernali aspetti scaturenti dal ritmo produt- tivo. È nel dialogo con questa sofferenza che molte cose acquistano il loro valore. E conoscere il dolore si rivela inaspettatamente uno dei requi- siti essenziali per apprezzare l’architettura. A prescindere da tutti gli altri fattori, forse dobbiamo proprio essere un po’ tristi affinché gli edifici ci commuovano per dav- vero. E, in questo angolo isolato di mondo, l’architettura solenne cela il dolore di operai, di madri e di bambini, il cui sacrifi- cio ha consentito ad una società di agricoltori inconsapevoli e di coraggiosi imprenditori di traghettare l’umanità dall’antica arretratezza delle comunità agricole all’attuale post modernità della società globale. Furono operai dall’espressione compunta e fiduciosa che co- struirono un ponte sopra una voragine, ma senza l’ausilio di un solo pilone. Questi uomini, tanto divisi nella vita quanto uniti nella storia, trascinati da aspettative, da sogni, da problemi, hanno dato vita ad una rivoluzione che ha cambiato la storia del mondo intero. La repentina trasformazione della società fondamentalmente basata sulla produzione di ampia scala e sugli scambi di merci e di persone comportò rilevanti drammi negli uomini, nel ter- ritorio e nell’assetto sociale di un mondo dove andava fiorendo una nuova civiltà fondata sulle contraddizioni ancora attuali della nostra epoca. Da un lato l’industria che genera benessere, migliora la vita, prolunga l’esistenza dell’uomo ed è protagonista della nostra vita, dall’altro l’industria nega dignità culturale pari al peso che essa ha nella vita economica e sociale. Dietro la calibrata quadratura di razionalismo e ricerca este- tica si celano sofferenze, pianti, desideri di riscatto, ingiusti- 136 137 zie, oppressione, speranze che, tendendo l’orecchio, si possono quasi sentire emergere dai muri o dalle poetiche prospettive urbanistiche del villaggio. Possiamo immaginare il tumulto che deve aver preceduto la calma che ora regna in questo luogo: le lunghe giornate in cui riecheggiarono il rumore del martello e della sega di centinaia di manovali guidati tutti dallo stesso urbanista. “Sono certamente le vittime a far progredire la società” scrive- va Lev Davydovic Trockij36. Chiudete gli occhi e pensate alla durezza di una vita relegata in pochi chilometri quadrati, come oggetti destinati a produrre, hominum producens, piccoli ingranaggi di non si sa che cosa, inconsapevoli ma indispensabili ruote dentate di un complesso meccanismo che non è possibile fermare, sospendere, rallen- tare neppure per un momento, un respiro, un impercettibile battito delle ciglia. Immaginate di trascorrere la vita nei capannoni sopra i quali il sole faceva tutti i giorni lo stesso percorso e spostava, da un lato all’altro, fino a farla salire lungo la parete e scomparire, una striscia di luce sul pavimento consunto dove si lavorava. Pensate a quanto sia buia una vita senza speranza, a quanto sia amara un’esistenza trascorsa senza conoscere la meta dei propri passi che stanchi, lenti, incespicanti vanno avanti, avan- ti verso un futuro che ha nella morte la sua unica riposante certezza. L’elemento meccanico travalica quello umano mentre il frago- re bombarda la silenziosa solitudine della valle. Pensi il lettore al severo destino di tutte quelle donne condan- nate alle maternità eterne, esperte nel decifrare le profezie del vento, dei crepuscoli o degli aloni nebbiosi che talvolta pare emani la luna, per prevedere il tempo d’ogni giorno e i lavori da intraprendere; quelle donne che lottando come gli uomini per il loro sostentamento produssero quello che noi chiamiamo progresso. Fu un cantiere epistemologico su cui si poggiava una intera visione del mondo e dal quale torreggiava maestosamente sulla totalità dell’esperienza di vita. 138 139 Del resto, qual è una pena più crudele della morte se non la schiavitù perpetua? Cesare Beccaria sosteneva che il dolore della schiavitù è per il condannato divisa in altrettante par- ticelle quanti sono gli istanti che gli restano da vivere e, per- tanto, assai meno severa del giudizio capitale che d’un colpo raggiunge il supplizio. La disperazione e il tempo corrodono i legami di ferro e ac- ciaio, ma nulla vale contro l’unione abituale delle idee che non fanno che rinserrarsi sempre di più. Sulle molli fibre del cervel- lo è fondata la base incrollabile dei più solidi imperi. Jean Jacques Servan37 sosteneva che “quando avrete formata in questo modo la catena delle idee nella testa dei vostri citta- dini, potrete allora vantarvi di guidarli e di essere i loro padro- ni. Un despota imbecille può costringere gli schiavi con catene di ferro, ma un vero politico li lega assai più fortemente con la catena delle proprie idee. È al piano primo della ragione che egli ne attacca il primo capo. Legame tanto più forte perché ne ignoriamo la tessitura e lo crediamo opera nostra”. Il progetto pedagogico e rousseauviano dello stato totalitario sa che una credenza religiosa o politica si fonda sulla fede ma senza i riti o i simboli, non potrebbe durare. La circolarità tra mito, rito e simbolo è una condizione necessaria per instillare e mantenere viva una fede collettiva. La massa ha bisogno di spiritualismo, di religiosità, di catechismo e di rito. Il progetto realizzato a Crespi d’Adda venne concepito con fantasia drammaturgica e coreografica: fu la sapiente regia della famiglia bustocca a far credere al popolo che era chiama- to a partecipare come protagonista. La certezza, su questo mutevole pianeta, appartiene al dogma- tico, dalle cui schiere cerco di tenermi alla larga, probabilista come sono, un modesto soldato di fanteria al seguito del pos- sibile. È la probabilità che mi porta a credere che i contadini che vivevano a Capriate, a Trezzo, a Vaprio e nei paesi limitrofi, non avessero intenzione di collaborare materialmente alla co- struzione nel 1876 del Cotonificio Benigno Crespi. Eppure lo fecero, e la storia di come accadde, con le sue deplorevoli con- 138 139 seguenze per gli attuali residenti che ci vivono diventa evidente mentre ci si avvicina al termine della visita. Tutta una problematica va allora sviluppandosi: quella di una architettura che non è più fatta per essere vista, come succe- deva per la fastosità dei palazzi, o per sorvegliare lo spazio esterno, ma per permettere un controllo interno articolato e dettagliato, per rendere visibili coloro che vi si trovano. Più in generale, una architettura che sarebbe diventata un operatore nella trasformazione degli individui: agire su coloro che essa ospita, fornire una presa sulla loro condotta, ricondurre fino a loro gli effetti del potere, offrirli ad una conoscenza, modificar- li. Le pietre possono rendere docili e riconoscibili. Al vecchio schema del chiudere e del rinchiudere comincia a sostituirsi il calcolo delle aperture, dei pieni e dei vuoti, dei passaggi e delle trasparenze. Scrupoli infiniti di una sorveglian- za che l’architettura rinnova attraverso mille dispositivi senza onore. L’apparato disciplinare perfetto avrebbe permesso di vedere tutto in permanenza. Un punto centrale sarebbe stato insieme fonte di luce rischiarante ogni cosa e luogo di convergenza per tutto ciò che deve essere saputo. È quello che aveva immaginato Claude Nicolas Ledoux, co- struendo Arc et Senans. Anche la decorazione assume una valenza celebrativa della fa- tica dei dipendenti come del rigore imprenditoriale. Grazie al suo continuo ricorrere, in modi marcati o appena accennati ma pur sempre unitari, essa diviene il legante dell’intero inse- diamento: una continuità estetica che aspira a farsi sigillo di una unità di intenti dell’aggregato sociale . Da un lato padri e padroni, impregnati di un paternalismo38 che miscelava autorità e generosità, disciplina e protezione, passione e denaro; dall’altro gli operai, eroi silenziosi e ano- nimi di un’epopea collettiva, di una ambizione comune alla sicurezza sociale. Finito il turno, spogliati gli abiti da lavoro, l’operaio conser- vava il legame con un universo che non si esauriva nei tempi e nei ritmi della produzione, legato come era allo status che 140 141 la fabbrica, a prescindere dal ruolo nella scala gerarchica, ti assegnava per tutta la vita. Fuori dai cancelli rossi c’erano il dopolavoro, il teatro, le scam- pagnate di fabbrica e l’orto. La tragica durezza del turno in fabbrica, del caldo torrido delle tintorie e dell’assordante bru- sio dei telai si ammorbidiva nella gratificazione di possedere una identità collettiva. O almeno di pensare di possederla. È, invece, nei caldi e luminosi salotti dove si incontrano gli im- prenditori ottocenteschi che si costruisce la più ferrea e im- placabile struttura industriale del Novecento nascente mentre, sullo fondo del melenso giardino romantico delle loro ville fio- riscono le ciminiere della tragica produzione letteraria inglese. La letteratura dell’Ottocento sui villaggi operai si divide tra critiche impietose avanzate contro le “colonie operaie” e scritti apologetici di coloro che ne esaltano senza riserve le esperien- ze virtuose. In queste ultime si celebrano la tranquillità della vita, la funzionalità delle casette e delle attrezzature, la grade- volezza dell’ambiente, la rarità di manifestazioni di protesta da parte degli abitanti e, insomma, l’assenza di conflittualità sociale. Non è affatto escluso, tuttavia, che dietro la facciata di queste forme di integrazione sociale si siano potuti nascondere stati di tensione, insoddisfazioni o rivendicazioni sopite. Pare perciò non del tutto improbabile che anche a Crespi d’Adda siano esistite condizioni ideali di equilibrio e armonia, e di collaborazione tra le classi. È comunque innegabile l’im- pegno sociale dei fondatori che si manifestò con l’introduzione di provvedimenti migliorativi negli ambienti di lavoro e con la costruzione di insediamenti destinati a eliminare i disagi de- rivanti dalla distanza tra luogo di lavoro e abitazione. Quanti attuali pendolari possono fino in fondo cogliere l’aspetto pecu- liare di questi insediamenti? Ecco però che il sogno di una vita migliore si scontra con l’in- cubo della sottomissione e della perdita della propria libertà. In altre parole, il muto ossequio non soffoca solo la realtà ma anche il sogno. Un sogno che resta impresso nella memoria non più del riflesso di un’ala di uccello nell’acqua di un fiume che 140 141 scorre. L’idea viva, l’uomo realmente vivo rifiuta di sorvegliare e di essere sorvegliato. Accetta la sorveglianza e l’appoggia solo l’uomo che vive morto o il cui pensiero è morto. Sotto questo punto di vista, per molti il paternalismo39 crespese è come se dicesse alla sua gente: “non avete una intelligenza che vi dia la possibilità di distinguere il bene dal male, non avete la capacità di mutare l’ordine delle cose e di giudicarlo. Il vostro padrone non si sbaglia: si regge su queste priorità per il vostro bene e in vostro onore. A voi non resta che tacere, volenti o nolenti”40. Un regime siffatto governa una città e delle persone già morte. E non è che uno dei tanti travestimenti della morte. D’altra parte si potrebbe sostenere che ciò che viene percepi- to come libertà, non lo sia affatto. Si potrebbe pensare che le persone siano soddisfatte del loro destino anche laddove tale destino sia ben lungi dall’essere oggettivamente soddisfacente, ossia che, pur vivendo in schiavitù, esse si siano sentite libere e dunque non avessero avvertito alcuna urgenza di affrancar- si, in tal modo facendosi sfuggire o rinunciando apertamente alla possibilità di diventare realmente libere. Corollario di tale possibilità sarebbe la supposizione che l’uomo potesse essere un giudice incompetente della propria condizione e dovesse dunque essere costretto o indotto, ma comunque guidato, ad avvertire l’esigenza di essere oggettivamente libero e trovare il coraggio e la determinazione di lottare a tal fine. C’è poi un ancor più minaccioso presentimento che mi colpisce drit- to al cuore: che l’uomo potesse semplicemente non desiderare di essere libero e dunque rifiutare la prospettiva dell’emanci- pazione, alla luce delle sofferenze che l’esercizio della libertà avrebbe potuto infliggere. Anche l’assoluta sottomissione può essere una forma di libertà. “La routine disgrega, ma può anche proteggere”; così affer- mava Richard Sennet41, ricordando la vecchia controversia tra Adam Smith42 e Denis Diderot43. Laddove il primo metteva in guardia contro i degradanti e in- validanti effetti della routine lavorativa, Diderot non credeva che la routine lavorativa fosse degradante, anticipando i mo- derni sociologi che sostengono l’importantissimo valore del- 142 143 l’abitudine sia nell’espletamento delle attività sociali che per la comprensione del sé. Del resto molti restano intrappolati nelle molle delle macchine sadiane44 e, a questi ultimi, non resta che rassegnarsi ad un supplizio calibrato e inesorabile, come la volontà del dissoluto che lo ha architettato. In una scena del film “Tempi moderni” 45 il protagonista viene risucchiato dagli ingranaggi della catena di montaggio fordi- sta: Charlie Chaplin, mentre gli ingranaggi rotanti lo stritola- no, non smette di sorridere. Molti hanno voluto rilevare una connotazione di carattere neofeudale nell’assetto spaziale adottato dalla famiglia Crespi per il villaggio operaio. Questo aspetto, oltre ad essere confermato dalla tipologia ar- chitettonica di alcuni edifici, si evidenzia con la strategia ge- stionale attuata con l’edificazione di opere pubbliche come la chiesa, l’asilo, la scuola, i bagni pubblici, il piccolo ospedale, il teatro. Ma dove ciò emerge con nettezza è nel cimitero, dove trapela la convinzione di controllare tutto l’arco di vita dei loro dipendenti, fino alla morte. In queste condizioni, come osserva un testimone oculare delle vicende crespesi46, “è difficile rispondere se la gente fosse felice, certamente mostrava di esserlo. Sotto una crosta di relativa tranquillità vi erano, comunque, gelosie e competitività: nella vita sociale si riflettevano i ruoli e le mansioni ricoperti in fab- brica. Chi veniva promosso era stimato ma anche invidiato. Nel villaggio si respirava un clima di relativo isolamento dal mondo esterno, che tuttavia generava campanilismo ma anche un certo orgoglio”. Se la grandezza degli architetti si misura non solo dalla me- raviglia delle loro opere, ma anche dal modo in cui il loro in- segnamento ha inciso nel lento mutare delle cose, non si può fare altro che complimentarsi con loro. La loro eredità rimane negli ideali che hanno saputo tramandare e negli insegnamen- ti, nel metodo, nelle idee e nei consigli che con la loro opera ancora trasmettono. Nonostante la certificabile benevolenza locale, Cristoforo Be- 142 143 nigno Crespi e suo figlio Silvio ebbero schiere di detrattori tra gli ideologi socialisti che criticarono il fenomeno dei villaggi operai. Insieme agli altri imprenditori coevi furono accusati di lusinga- re e rabbonire il proletariato per poter conseguire un maggior profitto dalle migliorate condizioni di benessere fisico degli operai e dalla facilità di accesso alle fabbriche47. Ebbero, inoltre, critiche da parte di numerosi sociologi in quan- to cercarono di perpetuare uno stato di schiavitù o di sudditan- za psicologica, in termini più moderni e attuali, ghettizzando e isolando le maestranze operaie rispetto agli altri strati sociali. “Uno Stato che rimpicciolisce i suoi uomini perché possano essere strumenti più docili nelle sue mani, anche se a fini bene- fici, scoprirà che, con dei piccoli uomini non si possono com- piere cose davvero grandi” scriveva John Stuart Mill48. Le opposizioni politiche coeve li accusavano di megalomania, di ambizione, di paternalismo interessato con il quale si ma- scherava il vero, unico obiettivo: il mantenimento del rapporto di sudditanza e ricatto tra operaio e padrone, tra lavoro e fab- brica49. Ciononostante, furono tra i pochi che produssero forme di in- sediamento che affrontarono di petto e, in molti casi risolsero, i problemi posti dalla modernità e dall’urbanizzazione, ope- rando negli ampi spazi lasciati vuoti dallo Stato50, rispondendo all’amorfismo urbano generato dal laissez faire, traducendo in esempi concreti, precisi e definiti le teorie che, senza un riscon- tro sul territorio sarebbero rimaste apporti sterili all’evoluzione dell’urbanistica moderna e dimostrando che la fabbrica non era una malattia da confinare nella squallida periferia, lazza- retto della cultura del fare, ma una forza vitale che con il suo potenziale economico e innovativo doveva e poteva determi- nare una precisa identità urbana. In questo senso, la personalità del fondatore è del resto molto simile a quella degli imprenditori coevi. Fu un uomo di una grande autorevolezza e determinazione, tenace sostenitore del disegno di creare un’isola, un luogo ideale che, utilizzando le caratteristiche topografiche della zona potesse svilupparsi al ri- 144 145 paro di prementi sollecitazioni esterne, secondo una sua logica autonoma: si potrebbe dire, metaforicamente, come un’arnia armoniosa. Come ha rilevato Roberto Romano51, Cristoforo Benigno Crespi non fu certo il Robert Owen lombardo, non fu un utopista ma un accorto calcolatore che, con la copertura ideologica di migliorare le condizioni sociali dei dipendenti, perseguì soprattutto l’obiettivo di incrementare i profitti e ren- dere competitiva la produzione della sua fabbrica. Al mondo della produzione occorreva “una classe operaia in buone condizioni economiche”, dunque “più attiva al lavo- ro” e atta a “rendere di più”, “più disposta ad assecondare il miglioramento delle nostre aziende”. Frasi che sembrano vo- ler comporre un manifesto riformista, specialmente quando vengono rafforzate dall’invito a “concedere volontariamente, spontaneamente, tutto ciò che è possibile, a favore dei nostri operai, senza attendere di farcelo strappare con l’imposizione degli scioperi”. A chi scrive è fonte di gioia citare un pensiero del filosofo au- striaco Ludwig Wittgenstein52 che, nel 1947 scrisse: “l’architet- tura immortala e glorifica sempre qualcosa. Per questo laddo- ve non vi è nulla da glorificare non può esservi architettura”. E qui in questo piccolo angolo di mondo l’architettura glorifica- va il progresso, il lavoro, l’industria. Per tutti questi motivi le istituzioni operaie di iniziativa padro- nale di cui Crespi d’Adda è modello perfetto e di cui la struttu- ra urbana non costituisce altro che un aspetto particolarmente spettacolare, si inscrivono in un sistema di condizionamento dell’operaio orientato, almeno all’inizio, dagli interessi dell’im- presa. Tuttavia esse non sono assolutamente separabili da una ideologia filantropica. Da una parte, perché gli industriali sono convinti che il progresso economico farà avanzare la civiltà morale e materiale, dall’altra, perché essi si sentono personal- mente responsabili di questo progresso. Essi hanno raggiunto i loro fini sviluppando uno spirito associativo equivalente a quello che viene chiamato oggi “consenso”: associare operai e padroni nell’interesse comune rappresentato dalla prosperità dell’industria e condurre l’operaio ad uniformarsi all’immagi- 144 145 ne idealizzata che il padrone ha predisposto. Ideologia liberale, d’altra parte, anti-statale e anti-interventista: grandi notabili senza fiducia nel potere centrale, la famiglia Crespi ha volu- to dimostrare di possedere i mezzi, grazie alla loro posizione politica, economica e sociale per risolversi da sola i propri pro- blemi sociali. Il risultato è una industria che non smercia solamente manu- fatti, ma produce cultura e anche paesaggio. Un modo di es- sere fabbrica che, tra il 1878 e il 1928, ridisegna un pezzo di vecchia provincia italiana. Per tutto ciò, ma non solo per questo, l’ingresso a Crespi d’Ad- da è un viaggio a ritroso nel tempo. Due chilometri di pas- seggiata per tornare all’inizio, là dove tutto comincia e dove, in fondo ad un rettilineo lungo come la storia, tutto finisce, sbattendo contro il cancello del cimitero. Di quell’esperienza si è salvata l’idea che sia possibile coniuga- re bellezza e lavoro. Ogni edificio, qui, nacque dalla comprensione del suo contesto e da una valutazione razionale di bisogni, obiettivi ed oppor- tunità. La sua non fu semplicemente una architettura di rispo- sta, né un’architettura puramente ideologica volta ad applicare uno schema teorico preesistente a qualunque situazione. La committenza vide piuttosto il progetto come una possibilità per analizzare e raffinare le proprie idee e i propri principi, per mettere alla prova quanto teorizzato a fronte della sfida del costruire. È da questo processo di traduzione dell’ideale in spazio reale, di passaggio dal concetto alla struttura vera e propria, che gli edifici del villaggio operaio acquistano la loro complessità ed energia. Ed è proprio per bellezza e per lavoro, per passione e guada- gno che sarebbe bello che anche qui, oggi, si possa andare al cinema, a teatro, al ristorante, che si vedano mostre, concerti, eventi sportivi e che ci si incontri, si beva e si faccia l’amore. Che si viva e che si lavori. E che si tenga memoria di ciò che Silvio Crespi, imprenditore avveduto e intelligente, uomo di cultura, politico nel senso più nobile del termine, ci ha lasciato, 146 147 impedendo che si disperda tra i rumori del mondo. Che lo si ricordi per i fuochi che ha acceso nella notte, per le porte che ha spalancato alla modernizzazione della società, soprattutto ora che la crisi fa riscoprire alle anime pure che l’economia non è reificazione impersonale ma un insieme di comportamenti che dipendono, più che da altro, dalla libera scelta dell’uomo.

146 147 Note

1 A tal fine andrebbe istituito un reato per coloro che offendono il senso del pudore architettonico.

2 , pseudonimo di Andrea di Pietro fu l’architetto più importante del- la Repubblica di Venezia. Influenzato dall’architettura greco-romana, è considerato la personalità più influente nella storia dell’architettura rinascimentale. Pubblicò il trattato “I quattro libri dell’architettura” attraverso il quale i suoi modelli hanno avuto una profonda influenza nell’architettura occidentale.

3 Le interpretazioni odierne sulla progettazione, oggi, oscillano tra due estremi. Da un lato quella artistica, secondo cui, ciò che conta è il segno forte e indimenticabile e, dall’altro, quella più classicamente ingegneristica ed ergonomica, secondo cui la forma deriva dalla funzione.

4 Louis Isidore Kahn è stato un architetto statunitense vissuto tra il 1901 ed il 1974.

5 Professore di sociologia e autore del libro “La città globale”.

6 Il saggista americano Gretel Ehrlich, nel 1987, scrisse che “vedere e conoscere un posto è un atto contemplativo, significa svuotare la mente e lasciare che vi entri ciò che esiste in quel posto nella sua molteplice e infinita varietà”.

7 Critico e curatore genovese, ha contribuito a sviluppare il tema della cultura d’im- presa attraverso l’analisi e la comparazione di strutture museali, architettoniche e archivistiche in relazione al territorio.

8 Autore del testo “Da Busto Arsizio a Crespi d’Adda”.

9 Le Corbousier, pseudonimo di Charles-Edouard Jeanneret-Gris viene ricordato, assieme a Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius, Frank Lloyd Wright e pochi altri, come un maestro del Movimento Moderno. Pioniere nell’uso del cemento armato per l’architettura, è stato anche uno dei padri dell’urbanistica contempora- nea. Membro fondatore dei Cogrès Internationaux d’Architecture moderne, fuse l’architettura con i bisogni sociali dell’uomo medio, rivelandosi geniale pensatore della realtà del suo tempo.

10 Nato a Vienna nel 1902 da una famiglia medio borghese di origini ebraiche, è considerato uno dei più influenti filosofi del Novecento. Difensore della democrazia e del liberalismo e avversario di ogni forma di totalitarismo, morì a Londra, il 17

148 149 settembre 1994.

11 Differente è il caso delle teorie estetiche delle città ideali, eleganti esibizioni di un esercizio intellettuale che possiamo apprezzare per la sua fantasia fino a quando le inclinazioni autoritarie del ventesimo secolo non hanno consentito che quanto era semplice teoria diventasse pratica devastante.

12 Nel passato, quando il popolo veniva ammesso alla visione delle opere, come nelle chiese o nei palazzi comunali, il fine non era mai destarne il godimento estetico la crescita intellettuale ma rafforzarne la stupita subordinazione al potere che, con la potenza dell’arte, dimostrava la propria schiacciante superiorità.

13 Quando Richard Arkwright nel 1768 trova il modo di applicare alla filatura l’ener- gia idraulica, e Edmund Cartwright nel 1784 di applicarla alla tessitura, queste operazioni si concentrano dove è possibile utilizzare l’energia dell’acqua corrente. Solo quando la macchina a vapore di James Watt, brevettata nel 1769, comincia ad essere usata in sostituzione della forza idraulica producendo energia in qualsiasi luo- go, i fiumi iniziano a perdere la loro centralità nel processo di sviluppo industriale.

14 L’ordine architettonico ci affascina anche perché è una difesa contro la sensazione che le cose siano troppo complicate. Salutiamo con favore gli ambienti creati dal- l’uomo perché ci danno l’impressione di essere regolari e prevedibili e facciamo affidamento su di essi perché la nostra mente trovi pace. Queste manifestazioni di ordine ci regalano la sensazione di avere domato i fattori imprevedibili cui siamo soggetti e, simbolicamente, di avere conquistato il dominio di un futuro minaccioso e ignoto.

15 Scrittore, antropologo e filosofo francese vissuto tra il 1897 e il 1962.

16 L’abate Sugerio di Saint-Denis è stato un religioso francese vissuto tra il 1081 ed il 1151.

17 La città, secondo Platone, è il territorio della legge e, come tale, deve essere il ter- ritorio del ripetibile e del conosciuto. Ciò che è volgare è tale perché non segue una legge e non conosce o non rispetta affatto nella proporzione numerica o nella simmetria la possibilità immutabile dell’arte. In ogni caso l’aspetto architettonico della città somministra a poco a poco, attraverso la sua eloquenza muta ma potente il nutrimento estetico, l’educazione che dovrebbe essere apollinea. E il cittadino non getta soltanto un breve sguardo su questo fisso sfondo inanimato ma, abitando in esso, forma il suo ethos , le sue abitudini percettive e motorie, la sua disposizione alla ripetizione o all’abbandono della legge. La città è un teatro architettonico e la sua epica deve generare buona assuefazione.

18 La congiunzione di bellezza e di utilità era già stata elaborata dal filosofo greco Gorgia, che ne traeva la possibilità per operare una riduzione relativistica del bello all’utile. Inoltre, il pensatore riteneva che la palingenesi legiconforme dello spazio dovrebbe realizzare altresì anche una sorta di superamento etico dell’uomo, della sua separazione soggettivistica, del suo sentire individualisticamente orientato e

148 149 predeterminato.che dovrebbe risolversi in una fratellanza cosmica e comunitaria. “E l’uomo? Anch’egli non dovrà essere nulla in sé stesso e solo una parte del tutto; e perdendo il suo meschino e patetico orgoglio individuale sarà felice nel paradiso terrestre per lui creato”.

19 Ippodamo figlio di Eurifonte, da Mileto.

20 Marco Vitruvio Pollione, vissuto tra l’80 ed il 23 a.C., è il più famoso teorico dell’ar- chitettura di tutti i tempi. La sua importanza è dovuta al suo trattato “De architec- tura”, scritto probabilmente tra il 29 e il 23 a.C..

21 Fu , pseudonimo di Marie-Henri Beyle, a offrire l’espressione più cristalli- na dell’intima affinità che intercorre tra il gusto visivo e i nostri valori quando scrisse che “la bellezza è una promessa di felicità”.

22 John Ruskin è stato uno scrittore, pittore, poeta e critico d’arte inglese vissuto tra il 1819 e il 1900. La sua teoria generale, per la quale l’uomo e la sua arte devono essere profondamente radicati nella natura e nell’etica, può riassumersi in questa sua frase: “il mondo non può diventare tutto una officina, come si andrà imparando l’arte della vita, si troverà alla fine che tutte le cose belle sono anche necessarie”.

23 Mi domando spesso se tale considerazione possa essere valida anche per i crespesi.

24 La regolare disposizione degli edifici del villaggio non può non ricordare la struttura definita delle città romane. Nella pianta delle città romane, l’intreccio dei due assi del cardo e del decumano esprimevano il concretarsi delle idee dell’ordine e della regolarità dell’universo. Lo storico dell’architettura Joseph Rykwert ricorda così il procedimento simbolico che contraddistingueva la definizione della forma della città nel metodo di orienta- zione descritto da Vitruvio: “un’asta di bronzo era collocata in verticale, al centro di un cerchio, su di una tavoletta di marmo. I due punti in cui l’estremità dell’ombra proiettata dall’asta toccava la circonferenza prima e dopo il mezzogiorno venivano segnati e congiunti tra loro. L’asse di questa corda, definito dal suo punto di mezzo e dal centro del cerchio, corrispondeva al cardo, mentre la direzione della corda era quella del decumano”.

25 La definizione si deve a Charles Dellheim, autore di “Utopia Ltd., Bournville and Port Sunlight”.

26 Storico della cultura tedesco vissuto tra il 1823 e il 1897.

27 L’impianto planimetrico generale ha radici antiche: dal castrum proto-romano, dal Palazzo di Diocleziano tardo-romano, alle città ideali del Rinascimento dei vari Filerete, Alberti, Leonardo, la forma simmetrica a uno o più assi di simmetria è stata usata frequentemente nella storia non solo della civiltà occidentale.

28 Siegfried Giedion è stato un ingegnere, storico e critico dell’architettura svizzero vissuto tra il 1888 e il 1968.

150 151 Laureatosi in ingegneria a Vienna nel 1913, insegnò al MIT e a Harvard dove di- ventò preside della Scuola di Design. I suoi numerosi libri hanno avuto una grande influenza, in particolare “Spazio tempo e architettura” pubblicato nel 1941.

29 Parole di Charles-Edouard Jeanneret-Gris.

30 Non frutto di immaginazione o di balzani pensieri di fantasia ma decisamente em- blematici sono i racconti che narrano di Titus Salt, fondatore e proprietario del- l’azienda e del villaggio operaio di Saltaire, protagonista, tra le vivaci proteste delle donne che vi risiedevano, di scorribande a cavallo lungo i vicoli per tagliare, con la spada affilata, i fili dei panni abusivamente tesi tra le case che deturpavano l’ordine del paese.

31 Del resto, l’intera storia del Novecento sarebbe impensabile senza la propaganda. Nessun regime politico del secolo ha scelto di farne a meno, nessun sistema totali- tario o democratico avrebbe potuto sopravvivere in generale, e nei momenti difficili in particolare, senza ricorrervi. Ancora oggi un paese potente ed economicamente avanzato come gli Stati Uniti d’America, la più grande democrazia del pianeta, fa un uso massiccio della propaganda, sia nelle forme più sfacciate che in quelle più sofisticate.

32 Citazione di .

33 L’industria moderna, pur presentando alcuni elementi di continuità con l’industria storica, si distingue da quest’ultima per il progressivo processo di omologazione che investe gli insediamenti produttivi, determinato dall’esigenza di spazi sempre più grandi e flessibili, dalla diffusione di nuove tecniche costruttive e e da logiche sempre più funzionali e pratiche. Il risultato è quello del diffondersi di una architet- tura inespressa che, salvo solo rare eccezioni, non ha più rapporti significativi con il contesto in cui si insediano e le attività di produzione.

34 Nella sua opera “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, Karl Marx scriveva: “la tradi- zione di tutte le generazioni scomparse pesa come un incubo sul cervello dei viventi e proprio quando sembra che essi lavorino a trasformare se stessi e le cose, a creare ciò che non è mai esistito, proprio in tali epoche di crisi rivoluzionaria essi evocano con angoscia gli spiriti del passato per prenderli al loro servizio, ne prendono a prestito i nomi, i costumi e gli stili per rappresentare sotto questo vecchio travesti- mento la nuova scena della storia.”

35 George Sand, pseudonimo di Amantine Aurore Lucile Dupin, è stata una scrittrice francese vissuta tra il 1804 ed il 1876. È autrice di romanzi, di novelle, di opere teatrali, di critiche letterarie e di testi politici. Femminista molto moderata, fu attiva nel dibattito politico e partecipò, senza assumere una posizione di primo piano, al governo provvisorio del 1848, esprimendo posizioni vicine al socialismo, che abbandonò alla fine della sua vita per un moderato repubblicanesimo.

36 Politico russo. Attivo antizarista fin dall’adolescenza, fu deportato in Siberia da do- ve, nel 1902, riuscì a fuggire in Inghilterra dove divenne collaboratore della rivista

150 151 marxista “Iskrà”, diretta da Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin. Tornato in Russia nel 1905 partecipò alla rivoluzione presiedendo l’effimero soviet di Pietroburgo e fu nuovamente arrestato e deportato in Siberia, da dove riuscì ancora una volta a fug- gire, rifugiandosi prima in Europa occidentale, poi negli Usa. Rimpatriato nel 1917, aderì al Partito bolscevico, svolgendo un ruolo di primo piano nella rivoluzione d’ottobre. Dotato di eccezionali qualità di organizzatore, fu nominato commissario del popolo alla Guerra; creò l’Armata rossa, che sotto la sua guida vinse la guerra civile. Ancor prima della morte di Vladimir Il’ič Ul’janov Lenin, entrò in contrasto politico e ideologico con Stalin, contro la cui concezione del socialismo in un solo paese sostenne la teoria della rivoluzione permanente, elaborata tempo addietro e resa pubblica nel 1922 nella sua raccolta di saggi. Progressivamente emargina- to, dopo la morte di Lenin peggiorò la sua posizione con la pubblicazione delle Lezioni d’ottobre, tentativo di analisi della storia del partito che offrì ai suoi avver- sari un ulteriore motivo per attaccarlo. Nel 1925 i suoi oppositori lo obbligarono ad abbandonare la carica di commissario del popolo. Nel 1926, dopo il passaggio all’opposizione di Kamenev e Zinov’ev, propose al Comitato centrale una piatta- forma alternativa alla linea staliniana. Sconfitto, nel 1927 fu espulso dal partito, nel 1928 confinato ad Alma Ata e nel 1929 esiliato. Dall’estero continuò a difendere il vecchio bolscevismo, sostenendo l’avvenuta degenerazione della rivoluzione nel libro “La rivoluzione tradita” e creando una Quarta internazionale fieramente an- tistalinista. Condannato a morte in contumacia ai processi di Mosca, dopo lunghe peregrinazioni si stabilì nel 1937 a Città del Messico dove fu assassinato da agenti di Stalin.

37 Politico francese vissuto tra il 1924 ed il 2006.

38 La politica paternalistica rappresenta lo strumento per disciplinare e moralizzare la forza lavoro e ha l’obiettivo di legittimare il ruolo e la struttura dell’impresa stessa. Tale politica diviene preziosa poiché, evocando modelli derivanti dalla struttura familiare, richiama legami in cui la componente affettiva si coniuga ad una conce- zione di interesse comune e ad una accettazione di un sistema gerarchico percepito come naturale. In generale, il paternalismo esprime, da parte degli imprenditori, l’esigenza di giustificare e razionalizzare un sistema nel quale esistano disegua- glianze stridenti che occorre attutire, così da indurre i datori di lavoro a cercare di soddisfare i bisogni più sentiti dai lavoratori in una combinazione di repressione e persuasione.

39 Viene denominato paternalismo l’atteggiamento di coloro che si comportano nei confronti degli altri come il padre di famiglia che vuole il bene dei propri figli e pensa di essere il solo in grado di sapere ciò che devono o non devono fare. Egli prenderà perciò delle decisioni che mettono in gioco l’avvenire dei suoi figli. Però, nonostante la sua buona volontà, non è infallibile e alcune delle sue decisioni avran- no conseguenze deleterie. Deleterie per i figli che subiranno le conseguenze degli errori paterni. Si definisce paternalista una organizzazione al cui interno qualcuno è abilitato a prendere decisioni per gli altri, decisioni le cui conseguenze, talvolta catastrofiche, saranno subite unicamente degli altri e non da chi ne è responsabile.

40 Citazione di Friedrich Nietzsche.

152 153 41 Sociologo e scrittore statunitense, nato a Chicago nel 1943, che si è occupato so- prattutto dei temi della teoria della socialità e del lavoro, dei legami sociali nei contesti urbani, degli effetti sull’individuo della convivenza nel mondo moderno urbanizzato.

42 Filosofo ed economista scozzese vissuto tra il 1723 ed il 1790, che, a seguito degli studi intrapresi nell’ambito della filosofia morale, gettò le basi dell’economia politi- ca classica.

43 Denis Diderot è stato un filosofo, enciclopedista e scrittore francese vissuto tra il 1713 ed il 1784. Fu uno dei massimi rappresentanti dell’Illuminismo e il promotore e l’editore della “Encyclopédie”.

44 Il conte Donatien Alphonse Francois De Sade, meglio conosciuto come marchese De Sade, è stato un filosofo, scrittore, poeta, drammaturgo e saggista francese vis- suto tra il 1740 ed il 1814. Autore di diversi libri erotici è considerato un esponente dell’ala estrema del libertinismo. Il suo nome è all’origine del termine sadismo.

45 Nella premessa del film uscito nel 1936 Charlie Chaplin usa queste parole: “Tempi moderni è la storia dell’industria, dell’iniziativa privata. La storia del- l’umanità alla conquista della felicità”. Charlie Chaplin realizzò il film contro l’equivalenza uomo-macchina ma lo fece in un momento in cui il ricorrere alla macchina, dopo la grande crisi economica americana, era unanimemente consi- derato salvezza e benessere. Per questi motivi fu accolto con entusiasmo solo in Inghilterra, patria del luddismo. Il film è una critica feroce allo stacanovismo. In un saggio divenuto famoso, Sergej Michajlovic Eisenstein scrisse che Tempi moderni “aveva l’occhio capace di vedere l’inferno di Dante Alighieri e il ca- priccio di Francisco Goya sotto l’aspetto della spensierata allegria”. Oggi Charlot ci appare lontanissimo, non solo per quella bombetta troppo piccola, ma perché la fabbrica ha perduto la sua centralità, anche simbolica, e i mezzi di produzione sono più lontani ed invisibili. Nel finale del film, il vagabondo, dopo aver provato l’alienazione della società industriale, si allontana verso un orizzonte luminoso sottobraccio alla sua fidanzata. L’antieroe ha avuto la meglio sull’ingra- naggio.

46 Ettore Castellanza, vissuto a Crespi d’Adda, tra il 1920 ed il 1998.

47 Luciano Bianciardi descrisse, nel 1962, questo tipo di esperienze come “un labirin- to di monotone strade. Strade che non sono luoghi ma arnesi, rotaie”.

48 John Stuart Mill è stato un filosofo ed economista britannico vissuto tra il 1806 ed il 1873. L’opera più importante della sua produzione letteraria è senza dubbio i “Principi di economia politica”. Il testo racchiude in sé gran parte del pensiero liberale dell’autore, presentandoci la sua dottrina politico-sociale in tutta la sua complessità.

49 Aldous Huxley sosteneva che “sia in politica che in teologia, la bellezza è perfetta- mente compatibile con l’irrazionalità della tirannia”.

152 153 50 La negligenza delle amministrazioni pubbliche europee derivava dall’orientamento del pensiero economico e politico diffuso all’epoca secondo cui la liberalizzazione totale era il mezzo per abbattere la società basata sui privilegi di casta che aveva caratterizzato gli stati governati dalle assolutistiche dinastie europee.

51 Professore di Storia dell’Industria presso l’Università degli Studi di Milano. È auto- re del testo “I Crespi. Origini, fortuna e tramonto di una dinastia lombarda”.

52 Il filosofo e logico Ludwig Wittgenstein visse tra il 1889 ed il 1951. L’unico libro che pubblicò in vita, il “Tractatus logico-philosophicus”, è considerato una delle opere filosofiche più importanti del Novecento.

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Prospettive e (de)gradazioni

Le modifiche al modo di costruire contemporaneo sono consentite soltanto se rappresentano un mi- glioramento, in caso contrario attieniti alla tradi- zione poiché la verità, anche se vecchia di secoli, ha con noi un legame più stretto della menzogna che ci cammina al fianco.

Adolf Loos

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Passato. Presente. E futuro. Oscar Wilde sosteneva che una carta del mondo che non aves- se contenuto il Paese dell’Utopia non sarebbe stata degna nem- meno di uno sguardo. Ma come si muoverebbe, oggi, un viaggiatore in tale mappa terracquea? E dove si disporrebbe l’immaginifico progetto di Crespi d’Adda su questo quadro topografico? A chi lo ammira oggi, sentendosi un nano di fronte ad un gi- gante, l’enorme cotonificio appare come un dinosauro di pie- tra addormentato che potrebbe, da un momento all’altro, ri- svegliarsi e chiamare a raccolta misteriose forze telluriche. Una meraviglia, bella come un dramma, tra il colpo di genio e la follia. È il lascito dei Crespi, una di quelle impronte che hanno segna- to il suolo e cambiato radicalmente il paesaggio di questo ter- ritorio: l’ambizione di uno stabilimento che diventa comunità, che rompe le barriere e da luogo della produzione diventa luo- go del vivere trasformando, in un attimo, un popolo in classe operaia. Una esperienza destinata a rimanere niente di più che un breve diversivo della traiettoria principale della storia. Le cattedrali di mattoni e di ghisa come questa sono alfieri e simulacri della modernità che celebrano la grandezza della società industriale, un insieme di individui che, tra la metà del Settecento e la metà del Novecento, ha traghettato l’umani- tà dall’antica arretratezza delle comunità agricole all’attuale post-modernità della società globale. Una utopia su piccola scala ma tanto potente da stravolgere costumi e abitudini e rivoluzionare la società coeva. Oggi, però, questo sistema creato per cambiare il mondo e az- zannare l’avvenire è diventato una gabbia dove nemmeno il 156 157 presente può essere intravisto1. Chissà se anche i luoghi hanno un destino, se sono soggetti a eventi inevitabili. Il visitatore attento avrà osservato qui una realtà contradditto- ria: ad un progetto originale che, tuttora, sembra futuro, rea- lizzato nel tempo con cura e profusione di mezzi, corrisponde, adesso, uno stato di conservazione precario dove emergono la tristezza del vecchio e l’afflato incombente dell’agonia. Sembra quasi che Crespi d’Adda si sia ritirata, di nuovo crisa- lide, nel piccolo bozzolo da cui era uscita farfalla2. Un sogno abbandonato al cimitero delle buone intenzioni. Le ciminiere senza fumo, le turbine elettriche spente, i telai smantellati, il silenzio delle sirene che, un tempo, scandivano, con un sibilo acuto e ansiogeno, i turni di lavoro, hanno tra- sformato questa ideale città produttiva nel luogo di una mera avventura estetica. Il degrado, la chiusura definitiva del suo immenso stabilimen- to3, l’abbandono del castello, la rovina del suo storico lavatoio, il cambiamento della destinazione d’uso di edifici importanti come il dopolavoro e una serie di interventi edilizi irresponsa- bili4, rischiano di dissolvere la memoria molecolare della cit- tadina. Qui, inesorabilmente, nel breve volgere di pochi anni, con la fiacca indolenza che muove le lancette dell’orologio di un con- dannato a morte, si è assistito prima al declino, poi al crepu- scolo e, infine, al decesso5 di una grande fabbrica6. Ciononostante, questa reliquia continua ad esercitare uno straordinario potere attrattivo. Sarà il fascino della rovina che riacquista la sua natura origina- ria di sola materia e diviene architettura pura che, persa la sua funzione, ritorna alla sua dimensione semplicemente formale di oggetto inutile, sopravvissuto alla necessità e venerato per quello che è, non per quello a cui serve o è servito. Come le vestigia di un edificio antico, spiritualmente pieno, immortale, fuori dalle regole e dallo scorrere degli avvenimen- ti, a suo agio avvolto dalle foglie, sfiorato dai venti e inumidito dalla pioggia. 156 157 Soltanto a questo punto, quando l’uso di un edificio si esau- risce e la costruzione diventa maceria, ritorna ad essere per- cepibile la meraviglia del suo inizio. Forma, sogno e memoria racchiudono le chiavi di questo mistero. Affermava con ragione, nel 1982, Eugenio Battisti7 che “l’ar- cheologia industriale può essere una disciplina non innocua perché i suoi interventi toccano una civiltà che ancora vive, o almeno è calda sotto le ceneri” ma, di fronte alla velocità del trapasso e alla quantità di fossili storici che ingenerosamente produciamo, è vitale che si sviluppino le capacità di rintrac- ciare, raccogliere e riesumare la immensa eredità del passato, rievocandone echi e significati. Oggi che, più che mai, si avverte il bisogno di mettere la parola fine allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, è evidente che il sistema socioeconomico del capitalismo globale, risultato ter- minale dello slancio prometeico e del sacrificio estremo degli argonauti dell’industria italiana, non ci ha portato né libertà, né giustizia sociale, né futuro. Ha creato invece nuove forme di asservimento collettivo ac- celerando i processi di alienazione, al fine di perseguire la cre- scita ipertrofica dei profitti e un minuzioso controllo sociale esercitato attraverso il potere del denaro. La ambigua società capitalista, sospesa tra grandi promesse di emancipazione e la concreta negazione di tali prospettive per la gran parte dell’umanità, produce un nuovo mondo in cui i protagonisti non sono gli uomini ma le merci con i loro riflessi incantatori e feticistici. Le fabbriche scompaiono per fare posto ai centri commerciali8, stabilimenti della compravendita, templi della libera circola- zione delle merci dove perdere il tempo che abbiamo e trovare soddisfazione ai bisogni che non sapevamo di avere9. E se un tempo l’identità umana veniva determinata, in primo luogo, dal ruolo produttivo svolto nella divisione sociale del lavoro, oggi, essa si associa al potere di acquisto del singolo. La lotta di classe ha lasciato, così, il posto alla lotta individuale lasciando proliferare uomini intenti a desiderare un presente diverso per ciascuno, invece che pensare seriamente a un futu- 158 159 ro migliore per tutti. La Rivoluzione, purtroppo, non ha apparecchiato il suo pran- zo di gala. I cortili degli stabilimenti non sono più il luogo dove coltiva- re le speranze di un radicale cambiamento sociale, né, forse per fortuna, il terreno di addestramento dove si formano le colonne in marcia per le imminenti lotte di classe. Con lo spet- tro della rivoluzione proletaria che si dissolve, le rimostranze sociali si ritrovano orfane, senza un terreno dove progettare strategie condivise per raggiungere obbiettivi comuni. Ora, ciascuno deve cavarsela da solo, con le proprie forze ed il pro- prio ingegno. L’idea di un mondo migliore è evaporata allo stato di rivendicazioni contingenti di sempre più piccoli gruppi o categorie. I segni della vita collettiva, un tempo saldamente visibili nei nostri centri abitati, vengono così progressivamente abbando- nati e l’urbanistica diviene incapace di esprimere appieno la complessità della vita moderna. Una inattendibile anticipazione di questo fenomeno è para- dossalmente riscontrabile in Henry Ford, quando si dichiarò fermamente convinto che le scelte economicamente più effi- caci erano quelle giustificate dall’etica. “Noi abbiamo impa- rato che l’unico mezzo per ottenere merci veramente a buon mercato è di corrispondere salari più alti e da questi ritrarre il maggior profitto mediante una direzione intelligente. I salari bassi non furono mai economicamente sani. Nessuno ha mai preteso che essi fossero moralmente desiderabili. Il pagare sa- lari alti oggi non è affatto indizio di anima caritatevole. È sol- tanto una prova di buon senso. Il modo migliore di fare affari è quello morale”. Un’elevata remunerazione del lavoro e un regime di orario contenuto dovevano stare al centro di un processo di crea- zione della ricchezza in incessante espansione che facesse da traino allo sviluppo dei consumi. Nella sua citazione, “la gente che lavora cinque giorni la settimana consumerà più merci di quella che lavora sei giorni la settimana”, è possibile rintrac- ciare la preistoria della società di massa e del consumo che 158 159 conosciamo oggi. Che la nostra sia una Repubblica fondata sul lavoro, non do- vrebbe rappresentare semplicemente un epigramma program- matico, ma una dichiarazione solenne che pone al centro del supremo atto fondante la nostra nazione colui che lavora. Ma questo enunciato è stato superato dalla realtà, che pone al centro del nostro mondo il consumo attraverso il cui solo filtro l’uomo di oggi esiste10. Non è più il lavoro che ci rende ricono- scibili ma è il consumare che ci nobilita11. Tramontato il principio etico kantiano secondo cui “l’uomo va trattato sempre come un fine e non un mezzo”, ciascuno di noi ha diritto di cittadinanza non in quanto esiste o in quanto è uomo, ma solo se rappresenta un mezzo di profitto. È il ma- nifesto del partito consumista che ci porterà alla “shopocalyp- se”. Viene in mente la profezia del 1926 di Gafyn Llawloch, l’anarchico gallese, che scrisse: “il socialismo perderà perché il capitalismo convincerà i servi di essere padroni”. Alla vecchia società verticale basata sul rispetto dei rapporti gerarchici, se ne è sostituita un’altra sempre più orizzontale e democratica, dove a tutti sono offerte le stesse opportunità. Dall’uguaglianza dei diritti si è passati alla teorica uguaglianza delle possibilità o delle impossibilità. Se, una volta, si picchettavano i cancelli delle fabbriche perché era lì intorno che il mondo ruotava, adesso che il pianeta si ali- menta attraverso il consumo, è qui che bisogna scioperare per fare sentire la propria voce. Ma nessuno lo insegna agli ingenui contestatori che intasano le strade del centro con le bandiere rosse ed i fischietti. Il consumismo produce nuove merci, genera nuova umanità, crea nuovi rapporti sociali e costruisce le cattedrali della sua religione. I non-luoghi12 che, sporadicamente, si affiancavano alle nostre periferie per consentire la decentralizzazione dei servizi al cit- tadino, prima che ce ne potessimo accorgere, si sono trasfor- mati in oggetti architettonici permanenti che consumano suo- lo e aggrediscono il territorio, costringendolo ad adattamenti radicali e stravolgenti. È l’epoca degli scatoloni progettati per 160 161 lo sfruttamento intensivo e prepotente dello spazio, del just in time dell’urbanistica, del pret-a-porter dell’architettura. I centri commerciali moderni costituiscono una vera e propria rinuncia alla città perché rappresentano la clonazione della nostra esistenza quotidiana e avvalorano il concetto che il con- sumare sia l’unica attività pubblica concessa13. Il mondo umanizzato deve, invece, essere concepito per acco- gliere la vita individuale e sociale, in teatri che hanno il carat- tere di interni a cielo aperto. Questa condizione si è progressivamente erosa e, per mitigare l’inospitale realtà dei centri metropolitani, si predispongono delle pseudo-città che possano dare una parvenza di libero ar- bitrio alla pseudo-vita del cittadino che compera in ambienti architettonicamente fasulli dove tutti ingannano e tutti sono ingannati. Per questi motivi, la maggiore ambizione che è stata conces- sa al cotonificio in disuso per salvarlo dal destino di diventare un magazzino di civilizzazioni defunte, è stata quella di tra- sformarlo nell’ennesimo centro commerciale. Fortunatamente, dopo un ingiustificabile entusiasmo iniziale, il progetto venne abortito, e il manifesto tentativo di circonvenzione di incapaci mosso a carico dei cittadini e degli amministratori rimase pro- posito e non divenne reato. Il solo traffico generato dall’attività mercantile, infatti, avrebbe sconvolto l’abitato ottocentesco, eliminandone la connotazio- ne che più di tutto lo rende distintivo: l’isolamento. Oscar Wilde sosteneva che il cinico è colui che conosce il prez- zo di ogni cosa e il valore di nessuna ma, se questo mondo lo vogliamo cambiare dobbiamo essere reazionari e la nostra redenzione passa dal valore e non dal prezzo. Già Karl Marx, nel 1806, denunciò gli economisti che non dibattevano del va- lore delle cose “per il timore che l’immoralità del commercio divenga troppo visibile”. Per molti salvare Crespi d’Adda significa semplicemente re- staurare il lavatoio che si sgretola sotto gli occhi degli abitanti perché difficilmente resisterà all’azione corrosiva della pioggia, che imbeve i mattoni, e del vento, che continua a rasparla co- 160 161 me se fosse di carta vetrata. Per altri, proteggerlo significa trasformare l’intero villaggio in un museo diffuso14 aperto al turismo di massa, dove creare eco- nomia attraverso il commercio di cartoline e boule de neige. Per altri ancora, cementificare il verde per costruire condomini e negozi e importare nuovi abitanti e nuovi consumatori. A immaginare un destino e progettare un futuro per Crespi d’Adda hanno dedicato invano molto tempo e incalcolabili energie una schiera di cittadini zelanti, amministratori improv- visati e operatori culturali di opinabile competenza. Da nessuno, come era plausibile attendersi, è mai emersa una idea od un progetto realizzabile che potesse dirsi all’altezza dell’oggetto di tali riflessioni. Quando, sul finire del 1995, Crespi d’Adda venne inserito, per certi versi a sorpresa, nella lista dei siti del Patrimonio Mon- diale dell’Umanità, grazie ai proficui sforzi di alcuni giovani di ingenuo spirito ma di brillante acume15, ci si aspettava il primo passo di un nuovo rinascimento crespese che avrebbe dovuto riportarci allo splendore vissuto nei primi decenni del Novecento. Purtroppo, a molti anni di distanza, il villaggio non ha saputo ripensarsi e cogliere l’occasione di questa “promessa di felici- tà” ma è stato, al contrario, testimone inerme di speculazioni immobiliari che hanno fatto ingiustificatamente lievitare il va- lore delle abitazioni. Questa terra sta facendo i conti con la sua notorietà da allora, da quando da sconosciuta meta per intellettuali vagabondi, è venuto alla ribalta come nuova imperdibile destinazione turi- stica preconfezionata. Alcuni residenti ne hanno approfittato e, in mancanza di al- ternative, si sono inventati una occupazione attraverso la ge- stione, non proprio disinteressata, delle attività di accoglienza turistica16. A fianco del piccolo caffè sito al termine della discesa sulla de- stra, sono spuntati un moderno bar e un ristorante ambizioso che abbina una forzata atmosfera paesana ad una cucina tra- dizionale sopravvalutata. 162 163 Per il resto, lo stabilimento ha chiuso i battenti, il medico si è spostato nel paese vicino, la cooperativa è stata smantellata. Anche gli innamorati che venivano qui ad inventare l’amore se ne vanno a civettare altrove. Ci rimane soltanto il parroco, che era l’unica cosa di cui si poteva fare a meno. È un vuoto inarrestabile, che avanza come un’avida malattia che giorno dopo giorno divora il paziente. Tuttavia, questa pe- nosa agonia non può lasciarci indifferenti. Noi siamo una macchina complicata, in cui i fili del presente si intrecciano nella tela del passato, aggrovigliandosi in nodi e cappi, e se capita che la vita, improvvisamente, ci crolla addos- so, ci ritroviamo, d’un tratto, amputati del futuro. John Maynard Keynes17 scriveva che “distruggiamo la bellez- za del paesaggio perché gli splendori della natura non hanno alcun valore economico. Saremmo capaci di spegnere il sole e le stelle perché non pagano dividendi”. Se è vero che la bellezza salverà il mondo18, allora Crespi d’Ad- da potrà salvarci se sapremo prima salvarla noi. Purtroppo, non è possibile che si attui un rinnovamento ma- teriale se prima non si realizza una evoluzione della mentalità dei cittadini e dei loro amministratori, unici possibili protago- nisti e interpreti del cambiamento. Faremmo bene a riflettere che non è con un bollino di ga- ranzia che si risolve la protezione di un bene collettivo, ma è necessario adoperarsi e dare vita a una politica di tutela, pro- muovere una cultura della bellezza e incoraggiare una educa- zione all’estetica. Molti sostengono, per superficialità, dolo o semplice incompe- tenza, che, per via dell’assenza di un piano di sviluppo adegua- to, l’Unesco potrebbe escludere19 Crespi d’Adda dal Patrimo- nio dell’Umanità. Questa remotissima ipotesi potrebbe essere una nuova occasio- ne per questo esperimento urbanistico perché le consentirebbe di rimanere oggetto di interesse da parte di chi sa mettere sulla stessa linea di mira il cuore, la mente e l’occhio, tralasciando l’attenzione pubblica che ne svilisce la complessa realtà in se- 162 163 ducente scenografia di perdigiorno, fastidiosi suonatori di tam- buro e turisti della domenica. Ma l’anomalia di questa città è la sua inerziale incapacità di prendersi cura di sé. Tutelarsi significa coltivare le proprie tradizioni, le radici della memoria e della propria identità. Le città sono come gli alberi20, vanno coltivate con la fiducia nel futuro e nutrite con la memoria e occorre, fin d’ora, trac- ciare il disegno di una città meno discriminante e più bella, sulle cui linee incominciare a ricalcare la nostra quotidianità. La nostra salvezza potrà emergere da una coraggiosa ed intran- sigente politica di tutela e valorizzazione dell’unicità dei nostri panorami, della non riproducibilità del nostro patrimonio arti- stico e dei nostri sapori e dalla interdizione immediata di tutti i geometri21 che hanno accondisceso in modo incompetente ad ogni possibile committenza22. La restituzione all’architettura della capacità di offrire speranze per l’uomo contemporaneo è la sfida che ci presenta il domani. “Il bello è ciò che, senza concetto, è riconosciuto come oggetto di un piacere necessario” sosteneva Blaise Pascal23. Indispensabile, non accessorio. Per contro, invece, è stato l’imbarbarimento estetico a coglierci di sorpresa proprio nel momento in cui pensavamo di potere tutto, di volere tutto, di sapere tutto. Questa superbia neobabilonese ci ha fatto costruire le pareti armate delle nostre individualità dove la gioia della condivisio- ne ha lasciato il posto alla sorda meschinità della nostra emar- ginazione. Ci siamo distratti concedendo che i nostri panorami venissero stravolti e riempiti di alveari, in cui occupare una piccola cella ci sembrava chissà quale fortuna, trasformandoci in un popolo di fuchi che non si merita fiori ma solo la grigia fatica di lavori ripetitivi destinati a realizzare oggetti inutili da accumulare nei nostri armadi. “Se si insegnasse la bellezza alla gente, si fornirebbe loro un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’im- provviso con tutto il loro squallore da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, 164 165 le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pa- re dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore”24. La città che rivendica la sua esistenza deve continuare a co- struirsi su se stessa rispettando preesistenze e memoria, senza limitarsi a sopravvivere assecondando i gusti di un turismo che passa e se ne va, ma vivendo la contemporaneità al servizio del benessere del cittadino. Compiango gli integralisti della conservazione, i sostenito- ri della musealizzazione totale che, di fronte alla miseria del presente e alla tirannia di un nuovo senza origini, scelgono di rifugiarsi nel passato atterriti di costruire un oggi virtuoso e cercando illusori alibi nella tutela di ciò che rappresenta un prima che, per il solo fatto di esserci già, diviene meritevole di una considerazione spesso ingiustificata. La nascita di musei dedicati alla carriola, piuttosto che alla polenta, non rappre- senta un incremento della varietà del panorama culturale ma una perdita dell’orientamento estetico. Se non si percepisce più la differenza tra un’opera di Michelangelo ed un animale in formaldeide non ci stiamo arricchendo ma gettando gli ulti- mi risparmi dalla finestra. Abituati a immaginare che un’opera d’arte consista in una fi- gura immutabile dove l’artista ha impresso una volta per sem- pre la sua personalità creativa, ci si dimentica che la città è l’esito di una volontà collettiva mutevole, per la quale non sa- rebbe possibile invocare i medesimi criteri di coerenza cristalli- na dei quali è testimone un quadro o un palazzo disegnato da un architetto. La pratica urbanistica è consistita nell’affacciarsi successivo di singoli temi generali dalle specifiche regole gram- maticali, di strade e piazze tematizzate con le loro sequenze, e nel loro diventare progressivamente di impiego corrente per affrontare e risolvere gli specifici problemi estetici mano a ma- no si presentavano. La realtà che appare davanti ai nostri occhi stride nel contrasto 164 165 tra una falsa attenzione alla memoria e l’apparente disinteresse nel modo di costruire e progettare il nuovo: come se vivessimo altrove. La comunità, invece, deve imparare a fondere passato e fu- turo senza assopirsi sulla sua storia, evitando di cadere nella tentazione di fare del facile folclorismo e costruire un teatro di pantomime burlesche. Il patrimonio immateriale non si tutela con l’intrattenimento ma con la quotidianità. In questa visione, politica e architettura sono congiunte. Se non c’è un potere politico forte e autorevole, lo spazio urbano, espressione dello spirito pubblico di un popolo non è più tute- lato e i particolarismi predatori dei faccendieri senza scrupoli lo aggrediscono inesorabilmente. Abbiamo dimenticato che ciò che ci circonda può e deve an- che essere bello. Si dice che discuterne sia già un po’ salvare. Questo è parti- colarmente vero in un campo nel quale le conoscenze sono frammentarie, dove non si è ancora stabilizzata una vera gra- duatoria dei valori e le tentazioni assurde del conservare ogni cosa si scontrano spesso con quella, assai più risolutiva, dell’in- vio delle ruspe. Crespi d’Adda non può diventare un parco tematico con bi- glietti di ingresso e spettacoli ad orari programmati perché è un museo che “non ha pareti ma alberi”, che è fatto di movi- mento e di pensiero invece che di mattoni e calcestruzzo, dove interni ed esterni si mescolano ed i legami con le vite vissute e con le tracce dell’esistere diventano essenza stessa del cammi- no e guardiani del ricordo. Crespi d’Adda non può essere valorizzata dalle patetiche rie- vocazioni realizzate da mediocri impresari della cultura, in cui gli abitanti diventano macchiette travestite da operai e da la- vandaie come se dovessero rimanere appesi al filo del ricordo per guadagnarsi un pezzo di pane e una fetta di dolce celebri- tà. Una città che diventa la maschera di se stessa non disturba l’occhio degli imbecilli ma ferisce in profondità l’animo degli onesti25. 166 167 Bisognerebbe avere il coraggio di eliminare tutto il materiale pubblicitario che promuove le atmosfere silenziose e pacifiche di questo universo chiuso e assolutamente confortevole a orde di chiassosi pellegrini per favorirne la prostituzione culturale. Non è nel promuovere la risposta. La soluzione è semplice, visibile come una mosca intrappola- ta nell’ambra: conservare e proteggere la bellezza e, nel caso, anche produrla. Il turismo trasforma il viaggiatore in controllore, la scoperta in verifica, lo stupore in avvistamento. Il pionierismo del Grand Tour26 è stato sostituito dall’escursio- nismo organizzato che riempie le strade di confusionarie comi- tive impegnate in safari fotografici, dove non è più importante il soggetto che si visita ma la sua inquadratura27. Un tempo il viaggio era sinonimo di avventura e di incertez- za, era considerato una impresa eroica in grado di formare l’individuo che sfidava rischi e pericoli imprevedibili pur di raggiungere la meta prefissata28. A spingere gli uomini ad af- frontare faticosi spostamenti era, oltre alla religione, la sete di conoscenza che ha segnato la via di dotti e letterati, ai quali le autorità riconoscevano un ruolo di grande prestigio perché autori di testi che ne legittimavano il potere29. Questa esperienza aristocratica e romantica si concluse defini- tivamente alle soglie del Novecento30, quando il tempo libero irruppe sempre con maggiore incisività nelle abitudini quoti- diane dei ceti lavorativi emergenti. Fu con l’Unità che nacque negli italiani il desiderio di viaggiare e di conoscere quello che l’abate Antonio Stoppani31 chiamò “Il Bel Paese”. È così che si è andato affermando il modello fordista della libertà32. Sedotti dalla convenienza di un pacchetto turistico standardizzato33, abbandoniamo per qualche giorno la no- stra quotidianità per riprodurla, seppur con aspetti diversi, da un’altra parte consumando chilometri vuoti ed energie inutili. Il viaggiare si trasforma in un obbligatorio tour de force, che poco ha a che fare con il piacere della scoperta. “Nella fase in cui il turismo diventa un fenomeno di massa, l’elemento che serve di norma al viaggio è la cosa da vedere, 166 167 classificata con una, due o tre stelle, secondo il suo valore”, sintetizza il sociologo Asterio Savelli34. Ma la cultura non è nel luogo, è nell’uomo35. Se Crespi d’Adda rappresentò a lungo una meta di turismo culturale fu perché colti erano coloro che venivano a visitarla. Oggi è la massa che la utilizza come passatempo domenicale, esaurendo i luoghi in cui posa il suo piede fugace, inconsape- vole di portarsi a casa una conoscenza fittizia e infiniti scatti fotografici stereotipati. È vero che mettersi in cammino appartiene alla natura del- l’uomo ma, proprio adesso che è così semplice muoversi, è il momento di mettere radici36. Vengono in mente le marce di Alessandro Magno e di Giulia- no l’Apostata oltre i confini misteriosi della Persia, le avventure di Ulisse oltre le Colonne d’Ercole o Cristoforo Colombo che salpa dalla Spagna per raggiungere l’Oriente. Ma l’impresa audace si può compiere anche entro i confini di una stanza, co- me fece Albert Einstein che, in pochi metri quadri, rivoluzionò la fisica37 o Giacomo Leopardi che trasformò la celebre siepe del suo natio borgo selvaggio, simbolo stesso della chiusura e della limitatezza, in una vertiginosa finestra sull’infinito, facen- do di Recanati una regione dell’anima. Anche se potrebbe sembrare un taccuino di indignazioni o il diario di una sconfitta che coglie soltanto le opacità del nostro tempo, questa che avete letto è una dichiarazione d’amore a Crespi d’Adda, per quello che ne permane, al di là degli uomi- ni che l’hanno popolata, visitata e amministrata nel tempo. È un omaggio alla sua componente minerale e alla sua memoria. Bella o brutta che sia. Soren Kierkegaard38 ha scritto che la vita deve essere vissuta con lo sguardo rivolto in avanti, ma può essere capita soltanto guardando all’indietro. Ciò che resta è lì a ricordarci che il nostro destino è ciclico39. Che nulla è per sempre. La rovina architettonica ne è la più elegante e commovente di- mostrazione, evento temporaneo ma che, prima o poi, accade. In bilico tra ammirazione e desolazione, ci affascina perché ci 168 169 restituisce la consapevolezza che dietro c’è sempre qualcosa che è andato storto. Ralph Waldo Emerson40 scrisse che “per quanto viaggiamo in tutto il mondo per trovare ciò che è bello, dobbiamo portarlo con noi oppure non lo troveremo”. Con le sue parole mi congedo, augurandovi di trovare, nelle biblioteche del mondo o dentro voi stessi, la mappa geografica in cui realizzare il Grand Tour del vostro universo. Pellegrini di pagine, prima che viaggiatori. Nomadi del pensie- ro, prima che vagabondi. E, mentre ce ne staremo in poltrona a leggere un libro o a cercare di calcolare l’algoritmo della rivoluzione proletaria, manterremo accesa la speranza che la minaccia di distruzione universale che incombe risvegli rapidamente la assopita abilità dell’uomo di riconoscere la bellezza. Di desiderarla. E di pre- tenderla. Non c’è via di mezzo tra salvezza e dannazione. E questo è il nostro giorno del giudizio.

168 169 Note

1 È normale che, se le teorie accettate dagli scienziati in un’epoca vengono confutate in quella successiva, se le innovazioni tecnologiche intese a migliorare la condizione umana contribuiscono a creare nuovi bisogni e nuovi problemi e se le democrazie moderne, malgrado le loro promesse, non pongono fine al dominio dei pochi sui molti, il progresso sia destinato ad apparire solamente un’illusione. Così, infatti, non possiamo capire in che misura i nostri predecessori, nonostante le loro sconfitte, fossero comunque sulla strada giusta. Tutto quello che riusciamo a scorgere è il loro inevitabile fallimento nel realizzare il fine che si sono posti. In questo senso, la storia servirà solo a ricordarci che le mete dell’uomo sono sempre al di là della sua portata.

2 La Gran Bretagna è stata la prima nazione industrializzata del mondo ed è stata anche una delle prime a vivere il drammatico degrado dell’industria tradizionale, sperimentando la conservazione ed il riuso di fabbriche abbandonate. La loro riqualificazione ha comportato la salvaguardia di una continuità rispetto all’introduzione di nuove funzioni e alle istanze di conservazione pura e semplice. La fornace dove, per la prima volta, è stato fuso l’acciaio nel 1709, viene ossequiata come lo scrigno di Ironbridge, terra natia della rivoluzione industriale britannica.

3 L’ultimo fischio della sirena è rimbalzato nella valle dell’Adda il 19 dicembre 2003 congelando definitivamente l’immagine di un sistema solare roteante attorno alla fabbrica, stella madre. “Per sessantasette anni quella sirena aveva scandito la mia vita” racconta Adriana Benaglia, una vita vissuta in questo fazzoletto di terra, “da bambina l’ingresso a scuola, alle otto in punto, come gli impiegati in fabbrica. Poi, a quattordici anni, quando in fabbrica ci sono entrata da operaia, il fischio scandiva i turni di lavoro”. Un giorno dopo l’altro, fino all’onorata pensione.

4 Lo scrivente si riferisce, in particolare, alla costruzione di rimesse per le automo- bili in cemento, realizzate sia nei pressi dei palazzotti, che nel centro del paese, in prossimità della centrale termica. Inoltre, la colorazione pastello di alcuni edifici ridipinti in conformità all’abaco comunale, testimonia i limiti di gusto dei tecnici incaricati alla gestione del bene pubblico.

5 La speranza cattolica ci insegna che ogni morte implica una rinascita. E allora qua- le posto migliore di un luogo abbandonato, lasciato al silenzio, che non conta quasi nulla e sul punto di scomparire, in disparte tra le pieghe del mondo, per ritrovare l’inizio del cammino? Dobbiamo inseguire la polvere ripensando ai luoghi da un altro punto di vista, quello del tempo che lascia tracce del suo passaggio per chi sa coglierle. Per ritrovare la vera sacralità e non il suo doppio artificiale in quei lego

170 171 impazziti che sono le moderne costruzioni imposte da una tecnica senza criterio.

6 La presenza di un apparato industriale avrebbe dovuto rappresentare la matrice di un cambiamento culturale in senso moderno. Essere modernissimi significa pro- durre di tutto e sviluppare tecnologie d’avanguardia, ma anche continuare a con- dannare a morte i dissidenti o far lavorare i bambini in fabbrica. Il grande errore da rimproverare alla nostra epoca è avere lasciato il ruolo di guida del mondo alla disciplina economica, dimenticando che essa è mero frutto della fredda matemati- ca. Non dovrebbe essere l’economia a guidare il mondo ma la civiltà, quella cosa com- plicata che è fatta soprattutto di storia, religione, geografia, tradizione filosofica, e di cui ci sono naturalmente tanti esemplari, ognuno diversissimo dall’altro. Quella cosa che non si può toccare, né produrre, né calcolare e di cui perciò ci accorgiamo solo quando viene meno. Non possiamo misurare la felicità con il “prodotto interno lordo”. Questo com- prende l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, contabilizza le serra- ture speciali per le porte della nostra casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Cresce con la produzione di armi, missili e testate nucleari. Non tiene conto invece della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza del- la nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei nostri rapporti. Non misura né la nostra arguzia, né il nostro coraggio, la saggezza, la compassione e la devozione al paese. Misura tutto tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta.

7 Critico d’arte e storico, vissuto tra il 1924 e il 1989.

8 Sotto l’innocua denominazione tecnica di “trasformazioni urbanistiche” si celano i peggiori crimini ambientali.

9 La società post-industriale, segnata dalla rivoluzione informatica, dal dilatarsi degli orizzonti dell’economia, dalla flessibilità dei processi produttivi, dalla mobilità di massa e dall’immediatezza della comunicazione, incide in modo radicale sull’orga- nizzazione sociale dello spazio e sulle sue destinazioni d’uso.

10 Mi ha molto colpito una fulminante frase del regista americano Spike Lee: “sapete che differenza c’è tra i ricchi e i poveri oggi? I poveri vendono droga per comprarsi le Nike e i ricchi vendono le Nike per comperarsi la droga”.

11 È l’homo sapiens che sta alla scimmia come il consumatore sta al lavoratore.

12 L’antropologo francese Marc Augè è stato il primo, all’inizio degli anni Novanta, a parlare del concetto di non-luogo, identificandovi gli spazi di utilità sociale come gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e i centri commerciali che condividevano la carat- teristica di essere contenitori anonimi, incapaci di esprimere una propria identità, zone vuote di senso e di storia.

13 In un preveggente film di George Romero, “Down with the Dead”, sono proprio i

170 171 centri commerciali il luogo in cui convergono gli zombie che, tornando dal regno dei morti, sotto la spinta di una inveterata abitudine tendono a radunarsi nell’unico posto in cui ricordano di essere stati vivi tutti insieme, collettivamente.

14 La meravigliosa metafora del museo diffuso è quella che, parafrasando Gino Paoli, lo rappresenta come una stanza che non ha più pareti ma alberi, e dove, sul soffitto viola, si apre una finestra zenitale che lascia intravedere le nuvole e che permette alla natura e alla luce di pioverci dentro insieme al frinire assordante delle cicale in estate, alla pioggia o al vento freddo d’inverno.

15 Fui un diretto protagonista e fortunato testimone degli sforzi di Enzo Galbiati, Andrea Biffi, Emilio Cornelli e Roberto Pedroncelli che furono in grado, con un supporto minimo, più inerziale che proattivo, da parte delle istituzioni locali, di far meravigliare il professor Louis Bergeron, capo della delegazione inviata dall’Une- sco, e far comprendere al mondo il valore di questo luogo. Nel 1993 il Centro Sociale Fratelli Marx di Capriate elaborò il “progetto di ri- valutazione culturale per Crespi d’Adda”, all’interno del quale era prevista come iniziativa prioritaria la presentazione della documentazione per l’inserimento del villaggio operaio nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità. Nel 1994 il Comune di Capriate San Gervasio accolse e fece sua la proposta e presentò, nel mese di luglio, la candidatura ai competenti uffici dell’Unesco. In ottobre venne organizzato il convegno internazionale “Crespi d’Adda: realtà e prospettive”, du- rante il quale vennero tratteggiate le linee guida per l’esecuzione dell’ambizioso progetto. Nel gennaio del 1995, l’International Council for Monuments and Sites inviò un suo esperto per valutare le caratteristiche del sito. Accompagnai personalmente il professore Louis Bergeron a Crespi d’Adda e, dopo esserne rimasto completamente affascinato, comunicò il suo parere favorevole, considerando il sito “di un valore assoluto nell’ambito dei siti di archeologia industriale”. Il Comitato per il Patrimonio Mondiale, nella riunione svoltasi a Berlino tra il 4 ed il 9 dicembre 1995, accolse Crespi d’Adda nel Patrimonio Mondiale dell’Umanità, undicesimo sito in Italia, terzo in Lombardia, quinto al mondo per l’archeologia industriale.

16 Fino al 1998, le attività di promozione culturale e turistica del sito di Crespi d’Adda erano gestite direttamente dal Comune di Capriate che ripose fiducia in incaricati che privatizzarono il servizio avviato a loro esclusivo beneficio.

17 Economista britannico vissuto tra il 1883 ed il 1946, è considerato il padre della macroeconomia e uno dei più grandi economisti del Novecento. I suoi contributi alla teoria economica hanno dato origine a quella che è stata definita la”rivoluzione keynesiana”.

18 È la frase che viene fatta pronunciare dal principe Lev Nicolaevic Myskin, nel libro “L’idiota”, da Fedor Dostoesvkij.

19 Nel 2009 la città di Dresda e la Valle del fiume Elba vennero cancellati dalla lista dei siti del Patrimonio dell’Umanità dopo che i suoi cittadini, attraverso un referen-

172 173 dum popolare in cui furono invitati a scegliere tra la costruzione di un ponte che potesse, a scapito del paesaggio, alleggerire il traffico e il prestigioso riconoscimento, optarono per il cavalcavia. Prima di questo, nel 2007, era stato cancellato il santua- rio dell’orice d’Arabia, situato nel deserto centrale dell’Oman, dopo che il sultano Quabus ibn Said decise di sterminare la quasi totalità dei quattrocentocinquanta orici, una razza particolare di antilopi, in via di estinzione, a cui la riserva era stata dedicata e grazie a cui era stato ottenuto l’ambito riconoscimento.

20 Di recente, la nostra classe politica, poco incline a considerare le ragioni di qualità dello spazio architettonico e ancor meno di quello più immateriale del paesaggio come risorsa su cui investire, pare rinsavire e considerarla, insieme ai beni culturali in generale, fra le emergenze cui dedicare nel futuro prossimo molta energia. Del resto, in caso contrario, l’Italia sarà surclassata dai paesi in vorticosa via di sviluppo, nei confronti dei quali non potremo opporre resistenza alcuna in relazione a pro- duttività, investimento e ricerca.

21 Paolo Villaggio evidenziava la limitatezza della categoria affiancando al più noto ragioniere Ugo Fantozzi il degno collega Renzo Filini, geometra. Alcuni sostengono che queste due categorie professionali ed umane siano alla base del disfacimento del nostro territorio e della nostra economia.

22 La circostanza che la percezione del paesaggio dipenda fortemente dalla coscienza individuale che lo seleziona, lo elabora e se ne appropria, definendolo dentro lo sce- nario generale della natura, non può essere un alibi per coloro che hanno deturpato il nostro paese.

23 Mente tra le più geniali della sua generazione in Francia, fu matematico, fisico, filosofo e teologo, visse tra il 1623 e il 1662.

24 Parole rubate a Peppino Impastato, politico e giornalista, famoso per le denunce delle attività della mafia in Sicilia che gli costarono la vita.

25 “Signore Gesù Cristo, figlio di Dio, abbi pietà delle città, delle isole e dei villaggi della nostra terra ortodossa, così come dei monasteri, afflitti dall’ondata turisti- ca mondiale. Donaci la grazia di una soluzione a questo drammatico problema e proteggi i nostri fratelli, messi duramente alla prova dallo spirito modernista di questi invasori occidentali contemporanei”. È la preghiera formulata nel 1971 dalla chiesa greca per sostenere i monaci delle Meteore, tra i primi a fare i conti con la pressione nascente dell’industria del turismo.

26 Nel 1670, fu Richard Lassels nel suo “The Voyage of ” a usare per primo l’espressione Grand Tour per descrivere la moda che già da alcuni anni dello stesso secolo si era diffusa tra i giovani aristocratici del nord Europa. Si trattava di viaggi molto lunghi, grazie ai quali intellettuali e rampolli delle ricche famiglie entravano in contatto con il vasto patrimonio storico-artistico della classicità.

27 Le immagini artificiali, infedeli riproduzioni della realtà che confermano le im- magini pubblicitarie che hanno spinto l’individuo a scegliere quella determinata

172 173 meta, sono le uniche cose “da vedere” durante il percorso della maggior parte dei moderni turisti.

28 Il viaggio allora aveva un valore di per se stesso e la meta di arrivo aveva importanza relativa o era addirittura ignota al viaggiatore. Ho sempre invidiato gli antichi viaggiatori che partivano alla scoperta delle meravi- glie del mondo e le trovavano sempre o se le inventavano. Non era tanto raro il caso di viaggiatori che pensavano di arrivare in un luogo e ne arrivavano in un altro.

29 Per questo motivo, gli stessi sovrani garantirono tutela nel corso dei viaggi ai pelle- grini per amore dello studio. Ne è un famoso esempio l’istituzione dell’Authentica Habita, con cui Federico Barbarossa assicurò protezione agli studiosi che viaggia- vano al di fuori della sua giurisdizione. Si racconta che mentre l’imperatore era in viaggio per Roma si accampò nei pressi di Bologna e ricevette l’omaggio dei maestri e degli scolari dell’università già famosa. Gli studenti si lamentarono con l’impera- tore per i soprusi spesso subiti in città, perché forestieri e quindi senza diritti. Per risolvere il problema, Barbarossa emanò una legge che “aboliva le rappresaglie per i «peregrinantes, amore scientie facti exules» e che concedeva agli scolari il privilegio del foro, cioè di essere giudicati per qualsiasi reato civile o penale non dai tribunali cittadini ma dai loro stessi professori o, a loro scelta, dal vescovo”.

30 La svolta storica avvenne in Europa occidentale dopo la seconda guerra mondiale: è ormai tempo del turismo di massa fatto di viaggi di svago, volti a creare una situa- zione di tranquillità in un ambiente più piacevole del proprio luogo di residenza.

31 Geologo e sacerdote lecchese, vissuto tra il 1824 e il 1891. Si deve applicare alla nazione, egli scrive, quell’adagio nosce te ipsum che la sapienza dell’antichità ha posto come base della sapienza dell’individuo.

32 Ogni volta ci illudiamo di essere immuni al martellamento pubblicitario, ogni volta ci riteniamo più forti dell’illusionismo di un qualche modello aspirazionale, pensan- do di decidere senza condizionamenti. O di decidere.

33 “L’impulso economicista tende ad erodere i pilastri morali della società” sosteneva il filosofo Michael Pollan.

34 Professore di Sociologia dell’Ambiente e del Territorio presso l’Università di Bo- logna. È autore del testo “Sociologia del turismo” nel quale sostiene che l’oggetto che i turisti ammirano è solo un’immagine sradicata dalla sua originaria realtà e trasferita in un universo senza profondità, che riflette solo degli atteggiamenti so- cialmente approvati.

35 Il turismo culturale non è il movimento di persone che si recano a visitare una città d’arte ma è il modo di affrontare un viaggio, un percorso, la conoscenza di un po- sto. Oggi anche la ricerca di un luogo è diventata prodotto. Tra la partenza e l’arrivo c’è il vuoto, un tratto di matita sulla cartina geografica, senza incontri, senza passaggio, senza avventura. Sono chilometri ciechi di cui non si serba memoria.

174 175 36 Per tutta la vita l’alchimista pazzo Oramerendus cercò un pietra che annullasse la forza di gravità. Sosteneva che girando la Terra a velocità forsennata, per viaggiare sarebbe bastato sollevarsi dal suolo e farsela scorrere sotto i piedi.

37 Nel racconto “La rosa di Paracelso”, scritto da Jorge Luis Borges, ad un certo punto della storia, l’allievo chiede al maestro: “Qual è la meta?” e il maestro risponde: “Ogni passo è la meta”.

38 Filosofo e teologo danese, vissuto tra il 1813 ed il 1855.

39 È prevedibile la storia? L’idea si riaffaccia di solito con la constatazione di una diffusa decadenza dei costumi, della cultura o della politica. Quando oggi sentiamo dire che non ci sono più le persone eminenti di una volta, dovremmo ricordarci che Cicerone diceva, esattamente ai tempi suoi, la medesima cosa. Mentre Lucrezio già lamentava la fine di una più fiorente agricoltura, aggiungendo che le stagioni non erano più quelle di una volta. Lo storico Polibio aveva divinato la fine dell’impero romano, anticipando di molti secoli che una delle cause sarebbe stata esterna, pro- venendo dai barbari che premevano ai confini. Ma la decadenza, a volte, è anche poetica. Racconta Santo Mazzarino che Attila, entrato a Milano, vide una pittura raffigurante due imperatori romani su troni d’oro con gli Unni sconfitti ai loro piedi e subito volle un altro quadro con lui in trono e gli imperatori ai suoi piedi ad offrirgli l’oro.

40 Scrittore, saggista e filosofo statunitense vissuto tra il 1803 ed il 1882. Il critico letterario Harold Bloom lo considera una “figura centrale nella cultura americana” mentre il filosofo Stanley Cavell lo ritiene uno dei pensatori americani più sottova- lutati in assoluto.

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Dardi bibliografici

L’arciere assomiglia al saggio perché quando la sua freccia non raggiunge il centro del bersaglio è in se stesso che cerca la causa.

Confucio

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184 185 A cura di Franco Mancuso, Un manuale per “Nuova Schio”. Piano particolareggiato per la riqualificazione urbanistica ed ambientale del quartiere operaio “Alessandro Rossi”. Arsenale Editrice, 1990. A cura di Carlo Olmo, Costruire la città dell’uomo. Adriano Olivetti e l’urbanistica. Edizioni di Comunità, 2001. A cura di Enzo Quarenghi, Crespi d’Adda. La fabbrica e il villaggio. Il filo di Arianna, 1984. A cura di Loredana Truffo, Il territorio, la memoria, le cose. Per un laboratorio di storia contemporanea al Villaggio Leumann. IRRSAE Piemonte Associazione “Amici della Scuola Leumann”, 1999. A cura di Franco Barbieri e Antonello Negri, Archeologia industriale. Indagini sul territorio in Lombardia e Veneto. Edizioni Scolastiche Unicopli, 1989. A cura di Rossana Bossaglia e Valerio Terraroli, Il liberty a Milano. Skira editore, 2003. A cura di Valerio Castronovo e Antonella Greco, Prometeo. Luoghi e spazi del lavoro 1872 - 1992. Sipi e Electa, 1993. A cura di Antonio Medici e Fiorano Rancati, Immagini dal lavoro. La fabbrica, la terra, la città, il mare, la miniera, la ferrovia, la frontiera in cento film. Casa editrice Ediesse, 2001. A cura di Loretta Mozzoni e Stefano Santini, Architettura dell’eclettismo. Il rapporto con le arti. Liguori Editore, 2007. A cura di Mario Barenghi, Gianni Canova e Bruno Falcetto, La visione dell’invisibile. Saggi e materiali su Le città invisibili di Italo Calvino. Mondatori Electa, 2002. A cura di Alberta Garlandini, Bruna Micheletti e Pier Paolo Poggio, Il patrimonio storico-industriale della Lombardia. Censimento regionale. Fondazione Luigi Micheletti, 1991.

186 187 186 187 Questo libro non avrebbe mai visto la luce senza il prezioso aiuto di coloro che, anche inconsapevolmente o involontariamente, hanno contribuito al suo concepimento e alla sua realizzazione. Eccoli di seguito, in un ordine più casuale che ragionato: Angelo Mariani, modesto e schivo ispiratore di tutte le attività di promozione del villaggio, Ivaldo Leonardi, impagabile consigliere di buone letture, Mario Mariani che mi diede fiducia prima che potessi meritarmela, Giorgio Monzani per averci comunque sempre creduto, Vittorio Riva per la poesia con cui affronta ogni situazione, Paola Palladini perché ha sempre avuto tanta pazienza, Andrea Ravasio per il solo fatto di esserci, Chiara Corti che mi ricorda sempre nelle sue preghie- re, Silvia Punzi, a suo modo, patrimonio dell’umanità, Georges Ivanovicˇ Gurdjieff, perché adesso trovo sempre più spesso l’alba dentro l’imbrunire, Diego Torri che ha scovato errori dove non riuscivo a vederli, Josè Mourinho per averci dimostrato che i sogni si possono realizzare con talento e fatica, Emanuela Stucchi per la leggerezza che mi regala, Josè Saramago che ha riempito la mia vita con la sua fantasia, Stefania Ravasi per non avermi risparmiato nulla, Teresa Salgueiro per l’accompagnamento musicale ad ogni parola del testo, Gesù Cristo che ha dato un senso a tutto. Loro, a diverso titolo, ringrazio con poche ma bellissime parole di Gabriele D’Annunzio: “Abbiamo atteso, abbiamo ansato, abbiamo sperato, abbia- mo resistito, abbiamo fallito. Ci siamo lasciati prendere dalle tentazioni dell’inerzia e della stanchezza. Ci siamo lasciati disputare e valutare come una cosa da mercato. Abbiamo gettato nella bilancia dei mercanti la nostra anima e non aveva peso”.

188 189 188 189 Giorgio Ravasio vive, con Andrea e Paola, a Crespi d’Adda. Nel 1991, con l’aiuto di Angelo Mariani ed il supporto dell’Amministrazione Comunale di Capriate San Gervasio, ha creato il primo movimento di valorizzazione culturale del villaggio operaio contribuendo sostanzialmente alle iniziative promosse dal Centro Sociale Fratelli Marx che culminarono, nel 1995, nell’inserimento del sito nella World Heritage List dell’Unesco. Nel 2002 ha pubblicato “Il castello sul fiume. La storia e le storie della fortificazione di Trezzo”.