Capitolo I La Frode in Competizioni Sportive
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Introduzione Lo sport è vita, cultura, passione; è spettacolo, puro divertimento, ma anche business. Viene dunque da chiedersi: com’è mai possibile che proprio lo sport, che per sua natura dovrebbe rappresentare un momento di esaltazione di valori etici e di serena aggregazione sociale, sia invece diventato un fattore criminogeno? La ragione di questa contaminazione è fin troppo evidente e va ricercata negli ormai enormi interessi economici che connotano il mondo dello sport (o almeno degli sport più popolari) sotto forma di ingaggi, sponsorizzazioni, diritti televisivi, etc.. Lo sport, in particolare talune discipline quali il pugilato, la corsa, il salto, il lancio del disco e del giavellotto, ha origini molto antiche, come del resto è testimoniato dalle vivaci descrizioni di prove atletiche contenute nei poemi omerici. Desta quindi meraviglia che, per designare l’insieme di tali discipline, sia oggi usato un vocabolo di conio relativamente recente. Il termine “sport”, ancorché mutuato dalla lingua inglese, deriva dall’etimo francese “desport” che, nell’originaria eccezione, significa semplicemente “divertimento”. La ragione di ciò va tuttavia ricercata, forse, nella ontologica diversità esistente tra gli agoni atletici dell’antica Grecia e quella che oggi viene definita come attività sportiva. Nella Grecia classica, a partire dal V secolo a.C., le competizioni ginniche organizzate in occasione delle Olimpiadi, dei giochi Delfini, Istmici, Nemei, o di altre similari manifestazioni panelleniche, avevano, infatti, un carattere essenzialmente etico, sociale e religioso: sotto l’aspetto etico rappresentavano l’esaltazione degli ideali di virtù e di bellezza fisica e morale, ispirati al modello degli eroi epici; dal punto di vista sociale costituivano il momento forse più importante di aggregazione tra comunità distinte e spesso rivali; sotto il profilo religioso, infine, i giochi altro non erano che un’espressione di 1 culto, tanto che erano preceduti da un solenne giuramento e da sacrifici e dovevano svolgersi nel sacro recinto del tempio. Col tempo – già in epoca ellenistica, ma soprattutto romana, con l’introduzione dei ludi circensi e medievali, con la diffusione di tornei, giostre e cacce – l’attività agonistica perse tutto l’originario carattere sacrale e finì per diventare, invece, occasione per dare spettacolo di forza fisica e abilità combattiva. Soltanto nell’Ottocento, in Inghilterra, con l’avvento dell’era industriale, le migliorate condizioni economiche del ceto medio e una maggiore disponibilità di tempo libero, comincia a delinearsi la nuova nozione di sport intesa appunto come divertimento, come attività compiuta per svago, per mero diletto, senza motivi di lucro. Oggi, però, che gran parte degli atleti sono professionisti, che le società sportive hanno giri d’affari di milioni di euro e che lo sport, grazie anche alla enorme risonanza ad esso conferita dai mass-media, è divenuto un fenomeno sociale di vaste proporzioni, è evidente che tale definizione è da considerarsi ormai superata in quanto non più aderente alla realtà. Vero è che nel linguaggio corrente si usa ancora dire che fa dello sport colui il quale pratica una qualsiasi attività fisica per fini esclusivamente salutistici o ludici, però è innegabile che quando si parla di sport si allude, per lo più, ad un concetto che è ben diverso da quello originario, non solo e non tanto perché comprensivo anche di discipline che richiedono non già una particolare prestanza fisica, ma un elevato grado di destrezza e prontezza di riflessi (per esempio, l’automobilismo), quanto per il fatto che nel mondo moderno lo sport è ormai concepito in chiave agonistica. Tanto che si ritiene coessenziale all’esercizio di una qualsiasi attività sportiva (ma non di una mera attività fisica) l’intento emulativo. In altri termini, affinché un gioco o una disciplina possano essere considerati “sport”- o più precisamente “sport-spettacolo”- è indispensabile che essi siano organizzati in forma di competizione e regolati in 2 modo che essa possa concludersi con la vittoria di una atleta (o di una squadra) e la sconfitta degli altri partecipanti (o della squadra avversaria). Stando così le cose, si ritiene che, ai fini che qui interessano, possa rientrare nell’ampia definizione di sport qualsiasi attività caratterizzata da uno sforzo fisico e da un certo grado di destrezza, esercitata a scopo di agonismo, con l’osservanza di regole prestabilite. Tre, quindi, sono i requisiti essenziali affinché una determinata attività possa essere considerata sportiva: che essa comporti per chi la esercita la spendita di energie psico-fisiche; che sia finalizzata a conseguire la vittoria sugli altri partecipanti al gioco o alla competizione; che venga esercitata secondo le regole convenzionali proprie del gioco o della competizione. La trattazione del fenomeno sportivo, inteso come spettacolo, non può omettere di considerare gli effetti delle sostanze dopanti sulle prestazioni degli atleti. Le clamorose rivelazioni sul fenomeno del doping che hanno coinvolto, tra l’altro, il ciclismo e il calcio – i due sport più popolari nel nostro Paese – hanno gettato nello scompiglio il mondo sportivo. La ridda di conferme e di smentite provenienti dai mass-media lascia intatta la gravità del problema, la cui estensione va al di là dei settori denunciati. Si può dire che tutti gli sport, sia pure in misura e forme diverse, risultano interessati dal fenomeno. È da quando nell’umanità prese forza il concetto di agonismo, nel senso della volontà spietata di emergere ad ogni costo l’uno nei confronti dell’altro, vuoi in manifestazioni puramente sportive, vuoi negli scontri bellici individuali o di gruppo, che cominciò a delinearsi la ricerca da parte dell’uomo di migliorare artificiosamente le proprie capacità fisiche e fisiopsichiche. Importante, dunque, appare «vincere» e non solo «partecipare» a dispetto della famosissima massima di De Coubertin. La prima volta che storicamente viene ufficialmente introdotto, in campo sportivo, il vocabolo “doping” risale, secondo alcuni studi, all’anno 1889, con preciso riferimento ad una miscela costituita da oppio, altri narcotici e 3 tabacco che veniva somministrata negli ippodromi dell’America del Nord ai cavalli da corsa. La parola “doping” sembra trarre origini dall’olandese “doop” nel suo significato di salsa o da “dopen” adoperato nel significato di mescolare. Da questa etimologia sarebbero poi derivati sia il verbo inglese “to dope”(alla lettera drogare), che il termine “dope”, nel senso di estratto liquido denso. Taluni autori riconducono, invece, l’origine del termine al “dop”, bevanda alcolica primitiva, usata dagli indigeni africani della tribù Kafir nelle danze cerimoniali. È vero che gli esperti sono divisi sulla definizione di doping e che esistono obiettivamente differenze marcate tra sostanze e sostanze, ma è fuor di dubbio che il ricorso a comportamenti che provocano in modo artificioso un miglioramento delle prestazioni dell’atleta, compromettendo in maniera consistente la sua salute, costituisce un attentato alla stessa natura dell’attività sportiva. L’acquisizione di una momentanea potenza energetica, tesa a produrre prestazioni gonfiate rispetto alle potenzialità naturali, sbilancia i valori reali dei contendenti, generando atteggiamenti di slealtà e di frode, che sono agli antipodi degli ideali che lo sport deve custodire e promuovere. Prima ancora di essere un abuso farmacologico, il doping è, dunque, una forma di mascheramento del vero talento sportivo ottenuto mediante aggiustamenti velleitari e illusori che, oltre a rivelarsi, spesso a distanza, controproducenti, alterano la vera identità dello sport. D’altra parte, a rendere ancora più allarmante la situazione è la facilità con cui quanti operano in questo campo dell’attività umana, in primo luogo gli atleti, si lasciano suggestionare dal miraggio del successo facile entrando in una spirale inarrestabile dagli esiti ingannevoli e distruttivi. Il fenomeno doping non sembra più coinvolgere soltanto le scelte e le ambizioni di singoli atleti desiderosi di restare sulla “cresta dell’onda” o comunque di raggiungerla, ma costituirebbe una pratica, non di rado 4 preordinata in modo sistematico da allenatori, dirigenti, medici sportivi, società di appartenenza, quando non addirittura dalle federazioni. Essa, inoltre, si estenderebbe dalle più alte sfere del professionismo sino all’inquietante zona d’ombra dello sport amatoriale. Il proseguire delle inchieste sembra poi, da ultimo, aver portato all’emersione di vere e proprie strutture associative, ramificate sull’intero territorio nazionale, aventi come scopo il traffico di sostanze “dopanti” e facenti capo, tra l’altro, ad illustri medici sportivi. L’ordinamento sportivo ha palesato, alla prova dei fatti, la propria inadeguatezza a gestire seriamente quel compito di lotta al doping che, nella sostanza, gli era stato quasi per intero delegato. L’alterazione delle prestazioni agonistiche avverrebbe utilizzando, in modo spregiudicato, pratiche e sostanze suscettive di provocare danni, anche consistenti, all’integrità psico-fisica degli atleti. In gioco non sarebbe soltanto, il fair play sportivo ma, ben più significativamente, un bene di rilevanza costituzionale come la salute, individuale e collettiva. Un sondaggio della rivista americana “Sport Illustrated” ha svelato che quasi tutti gli atleti sarebbero disposti ad assumere sostanze proibite se avessero la garanzia di non essere scoperti e che, pur di vincere un oro olimpionico, più della metà di loro