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Mostri e leggende del Luganese La Madonna del gatto Maria CavalliniComisetti Fu verso la fine del 1500 che i terrieri di Croglio, mancando alla parrocchia una chiesa dedicata alla Madonna decisero di erigerne una e precisamente nella piccola frazione di Ronco tra Castelrotto e Beride. Dopo aver tracciato l'area per i fondamenti della nuova costruzione sopra un ripiano roccioso del paesello di Ronco, i terrieri dovettero dapprima pensare alla raccolta del materiale; a quell'epoca le pietre da costruzione si cercavano nel sottostante fiume Lisora o nella Tresa. Unico mezzo di trasporto, la gerla: sulle spalle dei portatori. Fu così che i contadini fecero a gara per scendere al fondovalle a cercarvi le belle pietre levigate dai millenni, bianche, bigie, azzurre, venate e striate, lucenti e massicce. Il primo giorno uomini e donne, di buzzo buono e con grande fatica, portarono a Ronco un bel numero di pietre che collocarono sullo spiazzo designato. Ma avvenne che il mattino del giorno seguente, con grande disappunto dei terrieri, le pietre erano scomparse. Non ci fu mezzo di rintracciarle. Quella brava gente pensò a un brutto scherzo. Scesero di nuovo per la loro nobile fatica a raccogliere pietre che allinearono al medesimo posto. Il mattino di poi quelle pure erano misteriosamente sparite. Avviliti e disgustati per quell'indegna commedia pensarono di rivolgersi al parroco e si recarono a Castelrotto a raccontare l'accaduto. Il curato disse alla buona gente di Ronco: "È bene che io sappia quanto accade a proposito delle pietre. Stamane è venuto il padrone della peschiera del Piano a riferirmi una cosa straordinaria: da due giorni su uno spiazzo erboso al limite della strada Regina, stanno ammucchiate in buon ordine belle e grosse pietre di fiume, vigilate da un enorme gatto bianco, mai veduto nei paesi. Un fatto veramente curioso. Chi può aver trasportato nottetempo le pietre da Ronco al Piano e per quale ragione?". I contadini promisero al parroco di vegliare la notte sulle nuove pietre trasportate. Ma nonostante la guardia notturna, al mattino non si trovò più un sasso. Allora si attribuì il fatto ad un miracolo; si venne alla conclusione che la Madonna non voleva la sua chiesa a Ronco bensì al Piano. E così, sorse la chiesa detta della Madonna del gatto, con un affresco dell'Assunta sulla facciata e una pala d'altare raffigurante Sant'Anna (la sagra si celebra il 26 luglio ). E il paese allineato sulla strada principale d'allora si chiamò Madonna del Piano. Malcantone, no. 9/10, 1965 Il conte Ruggero Virgilio Chiesa Nella zona occidentale del Malcantone, la leggenda attribuiva al conte Ruggero di Luino ogni sorta di misfatti. Il terribile uomo faceva trascinare quanti non si piegavano a' suoi voleri nei sotterranei del suo palazzotto; orridi sotterranei che comunicavano col lago, dove i malcapitati miseramente finivano la loro esistenza. Alla morte del conte Ruggero, le genti del Malcantone si sentirono liberate da grave incubo. L'anima di lui andò difilata all'inferno, ma il demonio davanti a quell'ombra così nera e così orrida, provò tale repulsione che, temendo di perdere il suo imperio, immediatamente la ricacciò nel luogo dond'era venuta. L'anima del conte Ruggero ritornò nelle convalli della Tresa. Nel buio delle tenebre, era essa inseguita da una muta di cani ululanti, che destavano nel popolo brividi di sgomento, peggio di quando il ribaldo s'aggirava co' suoi sgherri. L'aria, lacerata dai guaiti, ripeteva il sinistro nome del maledetto. Una notte, due animosi falciatori di fieno, nonostante l'indiavolato ululare, s'avventurarono nei prati dirimpetto ad Astano. Stavano già per essere presi fra due latranti branchi di segugi alla caccia di quel rifiuto dell'inferno, quando disposero a croce sull'erba le loro falci fienaie. Come per incanto, cessò ogni rabbia di cani; l'anima in pena disparve; l'aria ritornò quieta e le stelle scintillarono come non mai nel cielo del Malcantone. V. Chiesa, L'anima del villaggio, Gaggini, Lugano 1934 Il cavaliere fantasma Valtresana Raccontano i vecchi del mio paese che tanti secoli fa, ancora al tempo dei signorotti, viveva a B..., nel Malcantone, Felicita, una vedova povera e malaticcia che aveva un'unica figliuola. E la poveretta era sempre in angustia per il timore di vedersela portar via, in anima e corpo, dal cavaliere fantasma: quell'essere misterioso che sul far della sera si aggirava nei villaggi ed aveva la forza occulta di attirare a sé le giovani che, per caso o per curiosità, posavano gli occhi su di lui. Più d'una madre piangeva desolatamente la scomparsa misteriosa della figlia, e Felicita rabbrividiva al pensiero di perder in tal modo la sua Giovanna. Appena il sole calava dietro le colline ella sprangava la porta, chiudeva gli scuri e non faceva più un passo fuori di casa. Pregava, pregava con fervore e con la fiducia che la figlia non avrebbe mai incontrato il messo del diavolo. Ma una sera la povera donna, arsa dalla febbre e dalla sete, si lagnava forte, e Giovanna, per preparare una tisana, non trovò una goccia d'acqua nel secchio; bisognava proprio attingerla al pozzo, nel cortile. Tanto pregò che persuase la madre a lasciarla uscire: avrebbe tenuto gli occhi bassi e impiegato il minor tempo possibile; sicché la povera madre estenuata, dopo averle fatto mille raccomandazioni, accondiscese. Giovanna fu in un balzo al pozzo, calò il secchio di rame e, mentre snodava la corda, teneva gli occhi fissi nella voragine; stava per sganciarlo e dirigersi alla casa quando, nel voltarsi, si trovò davanti il cavaliere fantasma. La giovane si irrigidì per lo spavento, voleva gridare: "Mamma, aiuto!" ma non poteva: una forza irresistibile l'attirava verso l'ombra; depose il secchio e s'avviò come un automa verso il suo destino. In quell'istante, la madre, insospettita dal ritardo, balzò dal letto, schiuse le gelosie, appena in tempo per vedere la figlia allontanarsi sulla strada. In preda alla disperazione e in un supremo sforzo gridò con quanta voce aveva in petto: "Fermati, Giovanna! buttagli dietro gli zoccoli!". La giovane comprese, cavò gli zoccoletti e li scagliò con tutta forza dietro al cavaliere; ristette un momento, come inchiodata sulla strada, poi, sciolta dalla forza misteriosa, rientrò di corsa in casa ad abbracciare la madre piangente. Intanto sulla strada che conduce a Luino, galoppava un focoso destriero col suo tristo cavaliere, e dietro lui trotterellavano gli zoccoli minuscoli e leggiadri che parevano calzati dallo spirito folletto. Il cavaliere non era altro che il conte Ruggero, signore di quelle terre, principe crudele e dissoluto. Egli galoppò per un'ora buona nella notte fonda e quando, passato il ponte levatoio, si trovò nel recinto del castello, sceso da cavallo cercò invano la sua vittima. Stupì allora al vedersi tra i piedi due piccole cose insignificanti, due zoccoli ornati da un bel nodo di fettuccia rossa. Compresa la beffa, gli salì al volto una vampa di rossore: ghermì quelle innocenti zoccolette e con bestemmia orrenda le scagliò nel lago. Per la prima volta si vide beffato da una donna del popolo, e la maledisse. Un delirio folle lo pervase, e per tutta la notte meditò la vendetta; diceva a se stesso: "Andrò ancora domani in quei maledetti paesi, col cavallo più focoso e con un cane da caccia. Passerò in tutti i villaggi, penetrerò nei cortili, sotto i portici, in tutti gli anditi, davanti alle stalle, sotto le finestre e strapperò dalle case tutta la gioventù, come la faina, che piomba inaspettata sul pollaio a far strage di galline". Così a notte alta, coi pugni chiusi, si addormentò il conte Ruggero. Intanto, sulla campagna malcantonese, era sorto un mattino radioso; la notizia del caso straordinario toccato alla povera vedova girò tosto di casolare in casolare e fu come un raggio di sole. Alla casa di Felicita accorse molta gente, non mancarono il sindaco e il curato, e in quella riunione di popolo si tenne come un consiglio di guerra. Siccome il cavaliere fantasma sarebbe ritornato senz'altro a vendicarsi per lo scorno patito, occorreva giocargli l'ultima beffa: l'usciere comunale andò di casa in casa ad avvertire donne e uomini, vecchi e bambini di trovarsi al suono dell'Ave Maria, calzati di zoccoli, davanti alle proprie case, e dove più a loro piacesse, pronti a lanciare all'apparizione, ognuno per proprio conto, il suo bravo paio di zoccoli. Così avvenne che, alla vigilia di San Martino, tutte le case del Malcantone si vuotarono; la popolazione si era riversata in massa all'aperto, sulle porte delle case, sui muri degli orti, sotto le piante, in attesa dell'attacco. Quando scoccò il primo tocco di campana, si vide, dalla via maestra, venire a galoppo il cavaliere fantasma. Non un batter di ciglia in quella folla silenziosa; ma ecco nell'ora del crepuscolo si iniziò la più strana battaglia del mondo, col lancio di proiettili non mai veduti. Il cavaliere fantasma, sicuro della vittoria, ripartì verso il castello: dietro a lui saltarellavano a centinaia gli zoccoli dei malcantonesi. Un'ora durò la sfilata delle sue vittime sul ponte levatoio; quando si sentì al sicuro nel maniero, balzò da cavallo e spaziò lo sguardo sul seguito. Quale non fu lo stupore e la rabbia nel vedersi davanti un numero sterminato di zoccoli! Stavano lì, appaiati, in attesa del loro destino. Ve n'erano d'ogni dimensione e fattura: zoccoli nuovi, bianchi, ben levigati, che sapevano ancora di legno fresco, taluni legati con fettuccia rossa o verde, altri più modestamente con lo spago: ve n'erano di bassi, logorati dall'uso, smussati sulla punta, scheggiati, rabberciati alla meglio con filo di ferro; taluni minuscoli e graziosi, accanto a zoccoloni pesanti, mal tagliati, legati con una cinghia di cuoio duro unta di lardo, che portavano l'impronta della stalla.