24-09 Ore 17 Euridice
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Torino Ensemble Les Nations Piccolo Regio Maria Luisa Baldassari Giacomo Puccini direzione al cembalo Mercoledì 24.IX.08 Peri-Caccini ore 17 Euridice Jacopo Peri Giulio Caccini (1561-1633) (1551-1618) Euridice, dramma musicale Ensemble Les Nations Gabriele Raspanti, Manuel Vignoli, violini Claudia Pasetto, viola da gamba Maurizio Less, violone, lirone Stefano Rocco, chitarrone Marina Scaioli, organo Maria Luisa Baldassari, direzione al cembalo Vincenzo Di Donato Orfeo Laura Antonaz Euridice - Proserpina Stefano Albarello Arcetro Elena Biscuola Tragedia - Ninfa Andrea Crescente Tirsi - Radamanto Andrea Favari Plutone - Pastore Raffaele Giordani Aminta Alida Oliva Dafne Enea Sorini Caronte - Pastore Patrizia Vaccari Venere - Ninfa Beatrice Santini, regia e costumi Stefano Iannetta, pittore Federica Bani, Irene Ferrari, Cristina Ilioiu, allestimento Monica Levetto, assistente alla regia e movimenti mimici Loredana Oddone, luci Videoimpaginazione e stampa • la fotocomposizione - Torino Euridice Sinossi a cura di Pietro Mussino PROLOGO La Tragedia, il cui uso era mettere in scena spettacoli truci e sanguinosi, dichiara di aver cambiato le proprie abitudini e promette di rappresentare “dolci affetti” e di dare agli spettatori “dolce diletto”. Il merito del nuovo genere di teatro viene attribuito alla Regina Maria de’ Medici di cui si festeggiano le nozze. SCENA PRIMA Pastori e ninfe celebrano lo sposalizio appena avvenuto di Orfeo ed Euridice. Euri- dice dichiara la propria gioia e porta le sue compagne nel boschetto lì vicino a rac- cogliere fiori e intonare canti. Pastori e ninfe riprendono a inneggiare a “sì beato giorno”. SCENA SECONDA Orfeo dichiara la propria gioia ad Arcetro: ora non dovrà più innalzare mesti canti d’amore, poiché il suo desiderio è stato realizzato. Arcetro ricorda di aver incorag- giato più volte Orfeo nella speranza di conquistare l’amata. Dal boschetto soprag- giunge Dafne, scossa e spaventata. Ha timore nel comunicare la notizia che porta e resiste più volte alle insistenze di Arcetro e di Orfeo. Infine narra la triste ventura di Euridice che, mentre danzava, è stata morsa da un serpente. Caduta a terra, ha avuto appena il tempo di invocare Orfeo e morire. Orfeo si dispera e invoca la propria morte per potersi unire all’amata. Arcetro, le ninfe e i pastori compiangono l’amico. SCENA TERZA Arcetro racconta di aver seguito da lontano Orfeo, mentre si recava sul luogo dove la morte aveva colto Euridice e si disperava nello scorgere ancora le tracce del san- gue di lei. Poi, all’improvviso, una luce dal cielo aveva impedito lo sguardo ed era comparso un carro di zaffiro trainato da due colombe gemelle. Dal carro era scesa una donna bellissima che aveva preso per mano Orfeo, offrendogli conforto. SCENA QUARTA Nell’inferno, Venere incoraggia Orfeo a commuovere Plutone col proprio canto, af- finché lasci tornare in vita Euridice. Plutone rifiuta di infrangere la dura legge che non permette ai morti di tornare in vita. Orfeo invoca allora l’aiuto di Proserpina che, commossa, intercede per lui. Anche Caronte argomenta a favore di Orfeo, fin- ché Plutone acconsente. I cori infernali sottolineano l’eccezionalità dell’evento. SCENA QUINTA Mentre Arcetro e le ninfe si interrogano sul destino dell’amico, giunge Aminta ad annunciare la gioia di Orfeo e il ritorno in vita di Euridice. Gli altri non credono alle sue parole, allora egli racconta come li ha visti comparire. I due amanti soprag- giungono, tra lo stupore dei presenti. Euridice si fa riconoscere, Orfeo narra come Venere l’abbia scortato nell’inferno e come il suo canto abbia meritato un dono così grande. Tutti gioiscono, il coro intona un ballo a cinque. l dramma per musica, cioè la rappresentazione teatrale completamente canta- Ita, nasce a Firenze alla fine del Cinquecento all’interno di un cenacolo – o “camerata”, come si chiamò – di musicisti, teorici della musica e umanisti che svilupparono ampie riflessioni e alcune concrete esperienze intorno al problema del teatro musicale. Tra loro possiamo nominare Giovanni Bardi, Vincenzo Gali- lei, Pietro Strozzi, Giulio Caccini e, con molta probabilità, Ottavio Rinuccini, Jacopo Corsi e Jacopo Peri. A loro fu senz’altro legato anche l’umanista romano Girolamo Mei, importante punto di riferimento per la conoscenza del teatro gre- co. L’interesse principale della camerata non era il semplice utilizzo della musi- ca all’interno del teatro, poiché gli spettacoli rappresentativi dell’epoca prevede- vano già inserti musicali di vario tipo: accompagnamento di canti, musica di scena per danze e pantomime, cornici sonore per prologhi, intermezzi, cori. Quegli studiosi piuttosto si domandavano come recuperare la potenza espressiva del teatro greco nel quale, secondo le concordi testimonianze degli antichi scrit- tori, la rappresentazione scenica unita alla parola cantata muoveva gli spettato- ri a emozioni fortissime. Il genere vocale più in voga alla fine del Cinquecento nell’ambito della musica colta, quello polifonico, sembrava invece assai lontano da un risultato di questo tipo, poiché in esso l’unità psicologica del personaggio era dissolta nella molteplicità delle voci e l’espressione del testo risultava com- pletamente subordinata alla costruzione contrappuntistica. La polifonia rinasci- mentale, in effetti, anche quella profana, non aveva alcuna vocazione rappre- sentativa, ma mirava ad esprimere i significati testuali all’interno di un gioco colto e raffinato che si svolgeva tra esecutori che ne dovevano essere anche gli ascoltatori e, alla fine, i destinatari ultimi. E anche se era presente un pubblico, lo “spettacolo” doveva giungere alla mente degli ascoltatori non attraverso gli occhi, ma attraverso le orecchie, come ci conferma Orazio Vecchi nel famoso prologo dell’Amfiparnaso (1597). La musica più avanzata e moderna, insomma, sembrava rimanere ancora molto al di sotto dei risultati di quella antica e nep- pure lontanamente orientata a eguagliarli. A fronte di ciò, la proposta della camerata fiorentina era: ritorno al canto monodico per favorire l’identificazione drammatica del personaggio e assoluta intelligibilità del testo, al quale va resti- tuita la giusta priorità rispetto alla musica «a quella maniera tanto lodata da Pla- tone et altri filosofi», scriveva Caccini, «che affermarono la musica altro non essere che la favella et il ritmo et il suono per ultimo, e non per lo contrario». Mettendo insieme le testimonianze dell’epoca ricaviamo un’essenziale cronolo- gia dei primi esperimenti di teatro musicale. Sembra che il primato in ordine di tempo spetti a Emilio de’ Cavalieri, gentiluomo romano nominato sovrinten- dente musicale dal Granduca di Toscana, che musicò e mise in scena per il suo sovrano tre favole pastorali, Il satiro, La Disperazione di Fileno, entrambe del 1590, e Il Giuoco della cieca, del 1595. La terza favola è però preceduta di un anno (1594) dalla Dafne di Jacopo Peri su parole di Ottavio Rinuccini, gli stessi autori che produrranno di lì a poco la prima opera in musica completa che ci sia pervenuta, l’Euridice. Questa fu rappresentata a Palazzo Pitti il 6 ottobre 1600 in occasione dei festeggiamenti fiorentini per il matrimonio di Maria de’ Medici con Enrico IV di Francia e stampata lo stesso anno con dedica alla nuova regi- na. Durante quei festeggiamenti, il nuovo tipo di teatro musicale presentò anche altre novità, come il Dialogo tra Giunone e Minerva di Emilio de’ Cavalieri su testo di Guarini e Il rapimento di Cefalo di Gabriello Chiabrera, allestito con grande sfarzo al Teatro degli Uffizi. Ancora di Cavalieri e dello stesso anno (1600) è la Rappresentazione di Anima e di Corpo, la cui prima messa in scena fu però romana. Scorrendo i titoli delle opere citate, può apparire paradossale che il recupero delle modalità drammatiche del teatro greco avvenisse attraverso una dedizione quasi esclusiva a favole pastorali, piuttosto che a commedie e tragedie. All’epo- ca, tuttavia, era questo il teatro più in voga tra i letterati, i quali ritenevano di poter infondere in esso il meglio di generi ormai corrotti e tramontati. Le com- medie infatti erano degenerate in spettacoli a pagamento infarciti dagli espe- dienti più vari e frammentati dagli spettacolari e bizzarri “intermezzi”, tanto che alcuni teorici si chiedevano se erano questi a interrompere le commedie o il con- trario. Le tragedie, invece, erano considerate spettacoli tristi o addirittura di malaugurio, «spettacoli malinconici», scriveva Angelo Ingegneri, «alla cui vista malamente s’accomoda l’occhio disioso di dilettazione». L’estetica del tempo era, in effetti, tutt’altro che greca: lo scopo del teatro era «dilettare le svogliate orecchie de’ moderni uditori», argomentava Guarini, e non certo provocare l’a- ristotelica catarsi, ormai resa inutile dall’annuncio cristiano: «che bisogno ab- biamo noi oggi di purgar il terrore e la commiserazione con le tragiche viste, avendo i precetti santissimi della nostra religione che ce l’insegna con la parola evangelica?». La favola pastorale rispondeva perfettamente allo scopo di offrire diletto e in più poteva riunire in sé gravità tragica e leggerezza comica nella for- bita eleganza della più raffinata versificazione poetica. Significativamente, il prologo dell’Euridice di Peri è cantato dalla Tragedia che, in perfetti endecasil- labi, rassicura gli ascoltatori di non offrire più “spettacolo infelice” di “sangue sparso” e “ciglia spente”, ma di voler cambiare abito e argomento: «ecco i mesti coturni e i foschi panni / cangio, e desto nei cor più dolci affetti». Ancor più esplicitamente,