<<

Diacronie Studi di Storia Contemporanea

N° 17, 1 | 2014 Periferie. Cultura, economia, politica

Jacopo Bassi, Luca Bufarale e Matteo Tomasoni (dir.)

Edizione digitale URL: http://journals.openedition.org/diacronie/976 DOI: 10.4000/diacronie.976 ISSN: 2038-0925

Editore Association culturelle Diacronie

Notizia bibliografica digitale Jacopo Bassi, Luca Bufarale e Matteo Tomasoni (dir.), Diacronie, N° 17, 1 | 2014, « Periferie. Cultura, economia, politica » [Online], online dal 08 mai 2014, consultato il 05 décembre 2020. URL : http:// journals.openedition.org/diacronie/976 ; DOI : https://doi.org/10.4000/diacronie.976

Questo documento è stato generato automaticamente il 5 décembre 2020.

Creative Commons License 1

INDICE

Nota introduttiva n. 17 – marzo 2014 Jacopo Bassi, Luca Bufarale e Matteo Tomasoni

I. Periferie e modelli di rappresentazione

Légitimer le pouvoir royal suédois à travers une nouvelle construction de l’histoire nationale de Suède Muriel Marchal

«A Muvra», 1920-1939: la caricatura in Marie-Claude Lepeltier

L’Anti-Macunaíma: l’industriale brasiliano Delmiro Gouveia attraverso la narrativa di Mário de Andrade Dilton Cândido Santos Maynard

La Seconda guerra mondiale sugli schermi: un’analisi del cinema nel Nordeste brasiliano (1939-1945) Andreza Santos Cruz Maynard

II. Economie periferiche e marginalità sociale

Nazione ed economia politica nell’impero luso-brasiliano Milena Fernandes de Oliveira

La marginalità a Piacenza e nel suo circondario nella tarda età napoleonica (1810-1814) Alessandro De Luca

La miniera e il petrolchimico Una questione storica nella Sardegna e nell’Italia del secondo dopoguerra Francesca Sanna

III. Crisi d’identità e ricomposizioni politiche

Il rapporto tra il sindacalismo rivoluzionario e le origini del fascismo: appunti di lavoro Marco Masulli

Fragmentación política del centrismo Español, 1981-1982 De la UCD al CDS en el caso de Zamora Darío Diez Miguel

L’Islam di Stato. La figura di Necmettin Erbakan nella Turchia contemporanea Emanuela Locci

Ecos de la Guerra Civil Española La derecha nacionalista y los frentes antifascistas en los espacios locales argentinos Rebeca Camaño Semprini

Tempo di inquietudini. La segreteria Natta raccontata da L’Unità (1984-1989) Michelangela Di Giacomo

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 2

IV. Recensioni

Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943 Mario De Prospo

Martha C. Nussbaum, La nuova intolleranza. Superare la paura dell’Islam e vivere in una società più libera Luca Zuccolo

Matteo Guglielmo, Il Corno d’Africa. Eritrea, Etiopia, Somalia Michele Pandolfo

Cecilia Bergaglio, Dai campi e dalle officine. Il Partito comunista in Piemonte dalla Liberazione al “sorpasso” Michelangela Di Giacomo

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 3

Nota introduttiva n. 17 – marzo 2014

Jacopo Bassi, Luca Bufarale e Matteo Tomasoni

1 Il numero 17 di Diacronie si articola intorno al concetto di periferia. Il termine – complesso e il cui significato spazia dall’ambito urbanistico a quello geografico, passando per l’economia e la politica – riunisce dodici articoli, differenti per approccio, tematica affrontata e strumenti d’indagine adottati.

2 Il lettore si troverà di fronte a un interrogativo che sorge dalla suddivisione in sezioni che è stata qui proposta: ha ancora senso adottare un approccio rigidamente «diffusionista»1 che individui nella cultura, nell’economia o nella politica il cardine intorno a cui ruota la dialettica centro-periferia?

3 La risposta – a dispetto della suddivisione in sezioni qui proposta – riteniamo che sia negativa. Come si noterà leggendo i saggi, l’analisi dei casi di studio fa emergere una necessaria contaminazione nel metodo d’analisi impiegato dagli autori. L’interpretazione proposta non è mai, in nessun caso, monoliticamente rivolta ad uno solo degli aspetti sopra elencati. L’aspetto preponderante è l’individuazione dell’origine dei cambiamenti che portano ad una ridiscussione dei rapporti fra centro e periferia; per usare le parole di Eisenstadt:

[...] gli orientamenti rivoluzionari alla radice di moltissimi balzi verso la modernità, avevano mirato ad una trasformazione completa della natura e del contenuto del centro dell’ordine sociale e culturale, delle norme che regolano la partecipazione e l’accesso al medesimo, e dei rapporti intercorrenti tra il centro e la periferia. Per quanto concerne il contenuto di tali centri, la principale trasformazione verificatasi in concomitanza all’ingresso della modernità è stata la loro sempre più netta secolarizzazione, l’«apertura» del loro stesso contenuto: contenuti e simboli,

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 4

cioè, cominciarono a non essere più accettati come dei dati di fatto, mentre si diffondeva l’idea della possibilità di un loro riesame.2

4 Ed è proprio a partire dalla messa in discussione dei rapporti centro periferia che si articolano i saggi qui presentati; la ridefinizione di queste relazioni non porta necessariamente in tutte le occasioni ad un miglioramento delle condizioni per le periferie, ma è indice del raggiungimento di un punto di rottura nelle relazioni preesistenti.

5 La prima sezione è consacrata al tema del rapporto tra la diffusione dei modelli culturali nelle periferie “geografiche” e la rielaborazione di questi stessi.

6 Muriel Marchal, con il suo saggio su Atlantica di Olaus Rudbeck prende in esame il processo di consolidamento della Svezia tanto come potenza regionale (nel Baltico) quanto come internazionale (in Europa) nel XVII secolo; lo fa prendendo in considerazione la produzione culturale del paese scandinavo. L’attenzione è rivolta ad Atlantica, opera di Olaus Rudbeck, scienziato e scrittore: attraverso questo trattato l’autore desiderava comprovare come la Svezia fosse, in realtà, il crogiolo della civiltà classica. In questo caso la rielaborazione di un corpus letterario e mitologico – divenuto comune europeo – era finalizzata all’elaborazione di una nuova storia nazionale che potesse essere in grado di nobilitare la monarchia svedese; è opportuno tenere in considerazione anche lo status di inferiorità di cui godeva, all’epoca, lo svedese come lingua letteraria3. L’opera di Rudbeck avrebbe poi dato l’avvio al movimento goticista.

7 Marie-Claude Lepeltier, con il suo articolo – che appare qui in traduzione italiana per gentile concessione della rivista Études corses – affronta il tema dell’autonomismo corso passando in rassegna le vignette apparse sul giornale «A Muvra». Fondato nel 1920 – e parzialmente in lingua corsa – divenne l’organo del Partitu corsu autonomista. Le vignette satiriche metto in evidenza i motivi del malessere corso e l’insofferenza nei confronti del “centro” francese, vissuto – sulle pagine di «A Muvra» – al contempo come sfruttatore, colonizzatore e censore. Il regionalismo degli anni Venti, pur non mettendo mai in discussione il legame fra l’isola e la Francia4 conobbe una rapida radicalizzazione sfociando nell’irredentismo e compromettendosi, nel corso degli anni Trenta, con il regime fascista.

8 Due articoli – nel solco di un consolidato progetto progetto di scambio e collaborazione con il gruppo di studiosi di GET, Grupo de Estudio do Tempo presente – gettano uno sguardo sull’influenza di alcuni modelli culturali nella società brasiliana.

9 Dilton Cândido S. Maynard si sofferma sulla produzione letteraria di Mário de Andrade, poeta e scrittore fra i fondatori del modernismo brasiliano. Proprio a partire dai suoi scritti il saggio proposto mette in rilievo la figura di Delmiro Gouveia quale contraltare a Macunaíma, il più celebre dei personaggi di De Andrade. Se Macunaíma è l’anti-eroe per eccellenza – odioso, dedito ai vizi e infido –, Delmiro Gouveia viene proposto come modello di un Brasile diverso, dedito al progresso, al lavoro ed eticamente inappuntabile. La figura storica di Gouveia – imprenditore brasiliano, “colonnello dei colonnelli” – diviene, attraverso l’antologia di brani presi in esame da Santos Maynard, dà luogo anch’essa a un personaggio simil-letterario, quasi il topos (in maniera probabilmente persino eccessiva in considerazione delle ombre che comunque gravano su Gouveia) del Brasile dei primi decenni del XX secolo, che ambisce a modernizzare se stesso inseguendo l’idea di progresso.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 5

10 Andreza Cruz Santos Maynard analizza l’avvento massiccio della produzione cinematografica statunitense nelle sale di proiezione brasiliane. Frutto del varo della politica roosveltiana di “buon vicinato”, l’afflusso di pellicole nordamericane sul mercato sudamericano – e brasiliano nel caso specifico –, contribuì anche economicamente al successo delle case di produzione americane. Il mutamento dell’immagine del vicino latinoamericano, che originò un vero e proprio filone cinematografico5, al quale prese parte anche la Disney (Saludos amigos, The tree caballeros), si accompagnò così all’allineamento del Brasile al campo alleato (il Brasile dichiarò guerra all’Italia e alla Germania il 22 agosto 1942). Si venne così a costituire un rapporto basato anche sulla trasmissione di prodotti culturali fra il centro statunitense e la periferia latinamericana che sarebbe, anche se solo parzialmente, entrato in crisi solo con l’inizio della Guerra fredda.

11 La sezione dedicata all’approccio economico al concetto di periferia si apre con il saggio di Milena Fernandes de Oliveira. Lo studio qui proposto mette in luce come le idee economiche dell’illuminismo portoghese, importate in un paese ancora profondamente legato all’ideologia economica d’Antico Regime dall’estrangeirado (cioè da quegli studiosi formatisi all’estero e latori di ideologie provenienti da altri paesi), abbiano posto le basi per la nascita di due nuovi nuclei statali: il Portogallo e i Brasile. L’idea di nazione, nel caso luso-brasiliano, sarebbe dunque nata a partire dall’economia politica e dall’idea di mercato.

12 Alessandro De Luca propone un saggio sulla marginalità sociale nel Dipartimento del Taro durante l’epoca napoleonica, toccando così al contempo aspetti economici, sociali e geografici. Proprio durante questo cruciale tornante storico, per effetto dell’incameramento statale delle proprietà ecclesiastiche abbinato ad una nuova concezione statale, si posero le basi per un nuovo approccio nei confronti dei marginali. La dominazione francese con la sua efficenza amministrativa fornisce una quantità di dati preziosa per il lavoro storiografico.

13 Francesca Sanna prende in esame un caso di rapporto centro-periferia nella gestione delle risorse territoriali: il declino, avviatosi nel secondo dopoguerra, dell’industria mineraria in Sardegna in favore del settore petrolchimico. Per effetto dei finanziamenti pubblici per la riconversione e la verticalizzazione (spiccano in questo i Piani di Rinascita) l’interesse generale si volse verso uno sviluppo basato sull’industria petrolifera. Fu così realizzato un settore industriale che non aveva legami con il territorio, mentre le miniere – gestite in maniera inefficiente – finirono per esaurirsi o per essere chiuse.

14 Gli articoli della terza sezione sono accomunati, pur nella diversità delle tematiche, da un approccio alla storia politica che privilegia i momenti di crisi identitaria e di reciproca influenza che hanno caratterizzato le vicende di partiti e di movimenti dall’Italia all’Argentina, dalla Spagna alla Turchia. Sono proprio queste aree ad essere oggetto dei cinque saggi della sezione in cui la perifericità – o meglio, la semiperifericità6 – è una condizione transitiva rispetto all’assetto politico nazionale e internazionale. Si spazia così dal rapporto ambivalente tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo, alle influenze della guerra civile spagnola nella lotta politica argentina, dalla crisi del Partito comunista italiano nella seconda metà degli anni Ottanta a quella dell’Unione di centro spagnola all’inizio dello stesso decennio, sino all’ascesa, sotto vari nomi, del partito islamico di Erbakan nella Turchia laica. In almeno due casi – l’articolo

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 6

sull’Argentina e quello sull’UCD spagnola – gli autori hanno scelto di occuparsi di una problematica più ampia a partire da casi locali.

15 Apre la sezione il saggio di Marco Masulli focalizzato su un tipico movimento “di confine” della storia politica italiana: il sindacalismo rivoluzionario. Nato “a sinistra” come contestazione delle tendenze riformistiche e gradualiste del socialismo italiano, il movimento di De Ambris, Corridoni e Olivetti contribuisce ad influenzare il fascismo “della prima ora”, quello che, mettendo insieme fermenti nazionalistici, istanze sociali e una generale ripulsa nei confronti dei partiti dell’anteguerra, possiede, per usare una celebre espressione di Salvatorelli, un “volto di sfinge”. Mettendo in discussione l’interpretazione che ritiene tale convergenza quasi scontata data la comune matrice antiparlamentaristica e volontaristica, l’autore individua diversi momenti dell’incontro tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo, soffermandosi in particolare sulla lotta contro il riformismo turatiano, sulla posizione interventista durante il primo conflitto mondiale e sulla concezione del corporativismo. Nell’idea di una società di “liberi produttori” risiede infatti il maggiore lascito del sindacalismo rivoluzionario al multiforme bagaglio culturale del fascismo ma anche il più aspro terreno di scontro, una volta che molti sindacalisti rivoluzionari si avvedono della sostanziale subalternità del nuovo sindacato fascista al partito-stato e alle richieste degli industriali.

16 L’articolo di Dario Diez Miguel analizza la decomposizione del partito centrista UCD, guidato da Adolfo Suarez nel contesto della transizione spagnola alla democrazia nei primi anni Ottanta. Erede dei settori “riformisti” del tardo regime franchista, l’Unión de Centro Democrático ingloba anche esponenti cattolici, liberali e socialdemocratici. La progressiva decomposizione di questa forza politica viene indagata attraverso un caso-studio costituito dalla provincia di Zamora (nella Castiglia-Leon). Utilizzando diverse fonti d’archivio, molte delle quali inedite, Díez propone quindi un valido approfondimento, attraverso il quale siamo in grado di comprendere meglio l’involuzione politica della UCD tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta; processo che anche nel caso di Zamora qui preso in esame, caratterizzò una parte del gruppo che finì per seguire il suo massimo dirigente, Suárez, nella nuova avventura politica rappresentata dal Centro Democrático y Social (CDS). L’adozione di una prospettiva locale permette all’autore di far risaltare l’importanza dello scontro tra centro e periferia (laddove la periferia è rappresentata, a differenza che in altri contesti, da un territorio senza particolari tendenze autonomistiche) e delle lotte di potere interne, caratteristiche della crisi del partito, in una prospettiva che al lettore italiano può ricordare, per alcuni versi, il processo di decomposizione della Democrazia cristiana all’inizio degli anni Novanta.

17 Il saggio di Emanuela Locci ha per argomento la lenta ma costante ascesa del partito islamico in Turchia negli ultimi quarant’anni seguendo le vicende politiche di uno dei suoi leader principali, Necmettin Erbakan. Considerato, sia pure con alcune differenze, il progenitore dell’AKP del primo ministro Erdogan al governo in Turchia da quasi un decennio e recentemente fatto oggetto di aspre contestazioni, Erbakan ha promosso varie formazioni che con svariate denominazioni (Partito per l’Ordine Nazionale, Partito del Benessere Nazionale, Partito della Prosperità, Partito della Felicità) si rifanno all’Islam politico. Malgrado l’opposizione dei vertici militari, Erbakan è stato negli anni Novanta il primo premier islamista in una Turchia che, a partire dalla rivoluzione kemalista dei primi anni Venti, ha fatto della laicità dello stato uno dei suoi caratteri distintivi. L’autrice evidenzia le contraddizioni del suo movimento politico, in

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 7

cui le prese di posizione a favore dei ceti più svantaggiati convivono con il sostegno ai processi di privatizzazione e gli stessi richiami all’islamismo si accompagnano ad una sorta di neo-nazionalismo (disposto però anche ad una convivenza con l’elemento curdo sulla base della comune identità islamica) senza che ciò comporti una rottura dei rapporti con l’Europa e gli USA. L’ascesa dell’islamismo diventa una sorta di cartina tornasole dei cambiamenti sociali e culturali della Turchia degli ultimi quarant’anni e della crisi dell’ideologia kemalista come collante della società turca.

18 Rebeca Camaño Semprini si occupa invece dei riflessi della guerra civile spagnola nella politica argentina della seconda metà degli anni Trenta scegliendo la provincia di Cordoba come caso studio. Facendo propria l’interpretazione di Hobsbawm del conflitto in Spagna come prima guerra ideologica internazionale per la sua capacità di mobilitare l’opinione mondiale (e non soltanto a livello puramente ideologico), l’autrice si concentra sulla visione che la stampa conservatrice e i gruppi cattolici e parafascisti danno del governo provinciale presieduto dal radicale Amadeo Sabattini. Quest’ultimo, infatti, viene accusato, per le sue politiche sociali, le sue aperture ai comunisti e le sue misure contro l’eversione di destra, di portare l’Argentina verso la stessa situazione di tensione della Spagna del 1936. La tesi del saggio è che i movimenti dell’estrema destra argentina, inizialmente alquanto minoritari, si galvanizzano e trovano una loro legittimazione presso i settori più conservatori della società argentina proprio riproponendo pedissequamente il parallelismo tra il Fronte popolare spagnolo e il governo provinciale di Sabattini e tra il pronunciamiento di Franco, necessario per salvare la Spagna dal caos, e la richiesta, da loro avanzata più volte, di un intervento del governo federale contro l’esecutivo Sabattini.

19 Chiude la sezione il saggio di Michelangela Di Giacomo sul Partito comunista italiano durante la segreteria di Alessandro Natta nella seconda metà degli anni Ottanta. Partito centralizzato e al tempo stesso fortemente ramificato nel territorio, con un grande bagaglio culturale e teorico alle spalle, il PCI viene attraversato da una crisi che per l’autrice è, prima ancora che politica, identitaria.

20 Divenuto segretario dopo la scomparsa nel 1984 di un leader carismatico come Enrico Berlinguer, Natta opera una difficile mediazione tra l’ala “migliorista” che punta al definitivo avvicinamento del PCI alle socialdemocrazie europee e a rapporti più stretti con i socialisti di Craxi (in quel momento a capo di un governo “pentapartito” con democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali) e la “sinistra” interna, attenta a non perdere i legami con il mondo operaio e i movimenti sociali emersi nel decennio precedente. Tale mediazione viene resa possibile, secondo l’autrice, propria da quell’autorappresentazione del PCI come “soggetto-forte” in grado di superare gli equilibri politici e sociali determinatisi in Italia dal 1947-1948 e di proporre una “via italiana al socialismo” che ancora negli anni ottanta continua a prevalere nei quadri così come nei militanti di base. Il venir meno di tale autorappresentazione, specie presso gli intellettuali e i dirigenti più giovani, risulta quindi centrale per capire come il più forte partito comunista dell’Europa occidentale, arrivato con le elezioni europee del 1984 all’obiettivo del “sorpasso” della DC e capace l’anno seguente di raccogliere la sfida del governo Craxi sul referendum per la scala mobile, abbia nel volgere di pochi anni cambiato nome, simbolo e ragione sociale.

21 Un ringraziamento particolare va ad Ange Rovere e Christian Peri per l’aiuto offerto facendoci avere il materiale iconografico necessario a offrire questa versione italiana

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 8

dell’articolo di Marie-Claude Lepeltier e alla rivista Études Corses per aver dato la propria disponibilità alla traduzione del saggio, comparso sul fascicolo numero 64.

22 Un grazie a Cristina Celani per il paziente lavoro di rilettura e di correzione di bozze, svolto negli ultimi giorni del suo tirocinio, con i consueti zelo, precisione e rapidità e a Carlos Hudson per il suo prezioso lavoro di revisione e assistenza, anche in questa occasione svolto con la solita disponibilità e spirito di servizio.

23 Obrigado ad Anita Lucchesi che, malgrado la tesi da discutere e gli altri mille impegni, ha trovato il tempo per aiutarci traducendo l’articolo di Andreza Cruz Santos Maynard.

NOTE

1. TARROW, Sidney, Tra centro e periferia: il ruolo degli amministratori locali in Italia e in Francia, Bologna, Il Mulino, 1979. 2. EISENSTADT, Shmuel N., Civiltà comparate. Le radici storiche della modernizzazione, Napoli, Liguori, 1990, p. 46. 3. KIRBY, David, Northern Europe in the Early Modern Period. The Baltic World 1492-1772, London-New York, Longman, 1990, p. 286. 4. PELLEGRINETTI, Jean-Paul, ROVERE, Ange, La corse et la République. La vie politique de la fin du second Empire au début du XXIe siècle, Paris, Editions du Seuil, 2004, p. 245. 5. WOLL, Allen L., «Hollywood’s Good Neighbor Policy», in Journal of Popular Film, 3, 4/1974, pp. 278-293. 6. ARRIGHI, Giovanni, Introduction, in ID. (ed.), Semiperipherial Development. The politics of Southern Europe in the Twentieth Century, Beverly Hills-London-New Dehli, Sage Publications, 1985, pp. 11-27.

AUTORI

JACOPO BASSI Nel 2006 consegue la Laurea Triennale in « Storia del mondo contemporaneo » presso l’Università di Bologna sostenendo una tesi in Storia e istituzioni della Chiesa ortodossa dal titolo Tra Costantinopoli e Atene: Il passaggio delle diocesi dell’Epiro all’amministrazione della Chiesa di Grecia e la ‘Praxis’ del 1928, relatore il Professor Enrico Morini. Nel 2007, nel quadro del programma di scambio Erasmus, ha frequentato per un trimestre l’École Normale Supérieure (ENS) di Parigi; ha effettuato un periodo di soggiorno durante i mesi di gennaio e febbraio 2008 presso l’ École Française d’ Athènes, sotto il tutorato del dottor Anastassios Anastassiadis, membro del comitato scientifico di questa istituzione. Nel luglio 2008 ha discusso la Tesi Specialistica in Storia della Chiesa – relatore il Professor Umberto Mazzone, correlatore il Professor Enrico Morini – dal titolo

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 9

Epiro crocifisso o liberato? La Chiesa ortodossa in Epiro e in Albania meridionale nel XX secolo (1912-1967). Ha lavorato come redattore per la casa editrice L’Inventaire e ha curato il progetto Dictionnaire universel des femmes créatrices – secteur “Femmes du livre” in corso di pubblicazione presso Editions des Femmes. Attualmente collabora con la casa editrice Il Mulino alla creazione dell’archivio digitale dei libri del Mulino, Darwinbooks e con la casa editrice Carocci.

LUCA BUFARALE Ha conseguito nel 2008 la laurea specialistica in storia d’Europa presso l’Università di Bologna e nel 2012 il dottorato di ricerca in scienze storiche (indirizzo contemporaneo) presso l’Università di Padova con una tesi dal titolo La giovinezza politica di Riccardo Lombardi (1919-1949). Ha condotto i suoi primi studi sull’Unione Sovietica pubblicando il saggio «Per un socialismo di mercato. Aspetti del dibattito economico in URSS negli anni sessanta» (in Storicamente, 2, 006, http://www.storicamente.org/05_studi_ricerche/02bufarale.htm); successivamente ha indirizzato le sue ricerche sulla figura politica e intellettuale del leader azionista e poi socialista Riccardo Lombardi. È membro della Società italiana per lo studio della storia contemporanea e dall’Association for the study of Modern . Su Lombardi ha pubblicato articoli su «Il Ponte», sugli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa» e su «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea». Ha partecipato come relatore ad un convegno promosso dall’Associazione nazionale Riccardo Lombardi (Torino, 7 novembre 2009) e alla sesta edizione di “Giellismo e azionismo: cantieri aperti” (Torino, 6 – 8 maggio 2010). Su Lombardi ha pubblicato un articolo su «Il Ponte» (marzo 2010). È di prossima pubblicazione un suo saggio negli «Annali della Fondazione Ugo La Malfa».

MATTEO TOMASONI Laureato nel 2005 presso l’Università di Trieste in Storia contemporanea (indirizzo informatico) con una tesi intitolata Il ruolo di Valladolid nella Spagna contemporanea, relatore il prof. Sergio Zilli. Nel 2004 partecipa ad un programma di scambio Socrates/Erasmus presso l’Universidad de Valladolid (Spagna), da cui nasce una collaborazione con il Dipartimento di Historia Moderna, Contemporánea y de América e quello di Geografía. Nel 2008 consegue il titolo di Laurea Specialistica (Master 2) in Storia d’Europa presso l’ Università di Bologna, con una tesi di laurea intitolata: Opinione pubblica e fascismo spagnolo. La Valladolid di Onésimo Redondo, sotto la direzione del Prof. Luciano Casali. Attualmente si è trasferito in Spagna dove ha iniziato il Dottorato di ricerca (“Cambios y comunicación en la historia”) presso l’Università di Valladolid. Si occupa di studi relativi alla Spagna contemporanea, soprattutto di carattere socio-politico, interessandosi inoltre a tematiche specifiche dell’area Castigliana, attraverso l’analisi della nascita dei primi movimenti legati al falangismo.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 10

I. Periferie e modelli di rappresentazione

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 11

Légitimer le pouvoir royal suédois à travers une nouvelle construction de l’histoire nationale de Suède

Muriel Marchal

On cite de temps en temps un ouvrage composé en Suede depuis peu par Olaus Rudbeckius. C’est un livre infolio intitulé Atlantica, qui nous n’avons encore vu. On nous le fait esperer au premier jour. On nous dit qu’il est plein de belles choses, & ceux qui savent que Mons : Rudbeckuis s’est engage de montrer que presque tous les peuples dont les histoires nous parlent, sont originaires de Suède, ont beaucoup d’impatience de voir comment il prouve ce paradoxe. Article de la République des Lettres, octobre 16841

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 12

1 Cet article de la République des Lettres, publié en octobre 1684, fait mention de la récente publication du premier volume d’Atlantica par Olaus Rudbeck. Spécialiste en anatomie et en botanique, Olaus Rudbeck est l’un des plus grands scientifiques suédois du XVIIème siècle. Il a également été historiographe et a écrit la plus grande œuvre dite historique sur la Suède et sa splendeur passée, Atlantica2. Dans cet ouvrage, il associe ses connaissances scientifiques novatrices et l’histoire de Suède pour démontrer que le royaume de Suède était le plus ancien et le plus prestigieux.

2 La Suède a obtenu son indépendance par rapport au Danemark en 1523 et a gagné rapidement de l’importance sur la scène européenne pendant la guerre de Trente Ans en Allemagne, lors des grandes victoires militaires de Gustave II Adolphe. Depuis cette séparation, le royaume de Suède était en état de guerres, en particulier contre le Danemark, pour pouvoir s’affirmer militairement et diplomatiquement. À cause des menaces constantes et des différentes guerres, le souverain suédois avait besoin de posséder une position forte à la tête de leur royaume, pour avoir le soutien de la population dans l’effort de guerres et des grandes cours européennes3.

3 C’est dans ce contexte d’affirmation et de grandeur suédoises, qu’Olaus Rudbeck publia cette œuvre en quatre volumes entre 1679 et 1702, année de sa mort. Il commença la rédaction d’Atlantica au début du règne de Charles XI, après une longue période de régence et pendant la guerre de Scanie (1676-1679), opposant la Suède au Danemark. Fils de Charles X Gustave (1622-1660), Charles XI eut de nombreuses difficultés à reprendre le pouvoir au Conseil du Royaume, qui s’était renforcé pendant la régence, et, malgré sa noble descendance et son droit héréditaire au trône, à affirmer sa légitimité, pour pouvoir asseoir son pouvoir royal.

1. La Suède du XVIIème siècle

4 La Scandinavie n’était pas à cette époque un ensemble pacifique et unifié. L’Union de Kalmar avait unifié les trois royaumes scandinaves sous l’autorité du souverain danois et était tombée en 1523, après les révoltes suédoises. L’hostilité interne entre le Danemark et la Suède devint une rivalité militaire ouverte sur la scène européenne. Cette longue période sous l’autorité danoise était considérée par les Suédois comme un véritable traumatisme, sur lequel la nouvelle identité suédoise s’est construite. Ce traumatisme eut une grande importance dans les rapports entre le Danemark et la Suède, marquant fortement leurs relations diplomatiques et orientant leurs politiques étrangères respectives4.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 13

5 Entre 1563 et 1720, eut lieu sept grandes guerres en Scandinavie, qui opposèrent le Danemark et la Suède. La rivalité entre ces deux royaumes dépassa le cadre militaire et diplomatique pour se répandre rapidement dans tous les domaines, en particulier scientifique et culturel. Le Danemark était considéré comme l’ennemi héréditaire de la Suède et le pouvoir en place, au fil des différents règnes, attisait la haine du peuple contre cet ennemi pour pouvoir asseoir durablement la position du souverain suédois. Nous retrouvons ce phénomène plus particulièrement pendant la période de grandeur de la Suède, qui correspond aux règnes des rois Charles X Gustave, Charles XI et Charles XII.

6 Pendant tout le règne de Charles X Gustave, le royaume de Suède fut en guerre contre la Pologne, la Russie et le Danemark5. Sa mort en 1660 marqua la fin de toutes ces guerres et le début d’une longue période de paix pendant la régence du souverain mineur, le futur Charles XI. En 1675, Charles XI fut couronné roi de Suède. La même année, le roi danois Christian déclara à nouveau la guerre à la Suède, notamment dans le but de récupérer les provinces que le Danemark avait perdu lors de la paix de Copenhague en 1660. La guerre de Scanie, qui dura jusqu’en 1679, ne fut ni une victoire pour la Suède, ni une défaite pour le Danemark, mais fut marquée par l’affirmation des limites de la puissance militaire suédoise. Cependant, le souverain suédois en était sorti renforcé, en particulier au niveau de son prestige personnel. Pour cela, Charles XI avait été obligé de mettre en place une propagande directe à l’intention de la population. Il fallait que le roi redonne à son peuple la fierté d’appartenir à ce royaume6.

7 Après sa victoire contre les Danois lors de la bataille de Lund en 1679, Charles XI put profiter d’une grande popularité, auréolée de ce succès militaire. Il profita également du mécontentement de la population contre la noblesse, pour l’affaiblir et mettre en place l’absolutisme en 1680 dans tout le royaume de Suède. Il pouvait s’appuyer sur le prestige de son ascendance royale et sur ses ancêtres, ainsi que sur leurs actes héroïques pour affirmer son pouvoir. Après la longue période de domination danoise, le royaume de Suède avait besoin de se reconstruire une nouvelle image, tant au niveau national qu’auprès des grandes cours européennes. Le but était de retrouver la splendeur passée du royaume de Suède et de faire oublier ce passé commun avec le Danemark, en prouvant sa supériorité. Pour devenir une grande puissance parmi les grandes puissances européennes déjà établies historiquement en Europe, il fallait absolument posséder une histoire nationale sur laquelle le souverain suédois pouvait se référer pour prouver la légitimité de la place qu’il demandait à occuper au sein de l’Europe. S’appuyer sur un prestige national important pour le présenter au reste de l’Europe était l’élément principal de cette construction, et l’histoire y jouait un rôle clé dans cette perspective politique.

2. Le mouvement göticiste en Suède

8 Ces guerres entre le Danemark et la Suède dépassèrent rapidement le cadre militaire pour s’étendre aux domaines culturel et scientifique. Sous cette impulsion, apparut dans ces deux royaumes un patriotisme culturel et linguistique très virulent, le mouvement göticiste. Tant au Danemark qu’en Suède, tout fut mis en place pour démontrer que l’histoire, la culture et le passé de son royaume étaient supérieurs à ceux de son voisin, pour pouvoir s’affirmer sur la scène européenne, tant d’un point de vue culturel que diplomatique7.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 14

9 Le mouvement göticiste consistait à retrouver les racines du pays, ainsi que son passé et le rendre le plus glorieux possible afin d’affirmer sa supériorité par rapport à tous les autres pays concurrents. Une réaction patriotique exalta, particulièrement face à l’invasion étrangère, les vieilles vertus nordiques de bravoure et d’ascétisme. Ce fut là un des thèmes récurrents du göticisme suédois. Il se basait sur la théorie qui voulait faire de la Suède le berceau des peuples et des cultures d’Europe. Ce mouvement consistait à revenir aux racines nationales, en se basant sur le passé de la Suède, comme les Vikings, la mythologie nordique et plus particulièrement les Goths, qui étaient considérés comme l’un des peuples les plus évolués, afin de permettre au passé national d’être le plus glorieux possible. Le but principal était d’affirmer sa supériorité par rapport à son ennemi.

10 Le mythe göticiste faisait des Suédois les descendants directs des Goths. Dans les premières mentions de ce peuple, ils y sont décrits comme un peuple germanique regroupé en un royaume solide. Ils étaient de fiers et braves guerriers, qui n’avaient peur de rien et qui voyageaient beaucoup, à la découverte de nouveaux territoires. C’est de là que venait le nom du mouvement göticiste, notamment parce qu’à l’étranger, la Suède était appelée Gothia8.

3. Olaus Rudbeck, un scientifique respecté, mais un historien décrié

11 Ce mouvement göticiste atteignit son apogée en Suède en la personne d’Olaus Rudbeck. Personnage hors du commun dans toute l’histoire suédoise, Olaus Rudbeck fut professeur de médecine et d’anatomie à l’université d’Uppsala9. Il se spécialisa également dans la botanique, ainsi que la géologie, la cartographie, l’architecture, et bien d’autres domaines10. Il a laissé de nombreux écrits en suédois, et ses différentes activités scientifiques lui permirent d’acquérir, de son vivant, une grande renommée européenne, devenant ainsi le savant suédois le plus important du XVIIème siècle. Il transforma durablement les pratiques scientifiques, faisant entrer la Suède dans l’ère de la modernité scientifique11.

12 À côté, il développa un intérêt très marqué pour les recherches sur les antiquités et l’histoire suédoises. Il considéra la rédaction d’Atlantica comme l’aboutissement suprême de sa carrière, pouvant mettre ainsi en application les nouvelles méthodes scientifiques, qu’il avait élaboré au début de sa carrière universitaire. Cela lui servit pour démontrer l’exactitude de toutes ses affirmations avec des preuves concrètes et scientifiquement fiables. Le poète romantique suédois Per Daniel Amadeus Atterbom décrivit cette œuvre par ces mots : si l’Altantica de Rudbeck est une des plus grandes folies que l’histoire ait connues, il faut admettre que cette folie est incomparablement plus intéressante que la sagesse de la plupart des juges. C’est dans cet esprit qu’il faut comprendre Atlantica, tant comme monument national que comme objet de recherches12.

13 Malgré une démarche scientifique et historique rigoureuse, Olaus Rudbeck écrivit cet ouvrage avec des intentions politiques précises. Il estimait que l’histoire était le moyen de diffusion le plus large pour son message politique, à travers ses théories sur l’origine de la Suède et son destin en Europe. La Suède était devenue la grande puissance de l’Europe du Nord en 1660, aux dépens de son voisin danois. Olaus Rudbeck s’était donné pour mission de redécouvrir le passé très prestigieux de la Suède, que l’histoire avait

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 15

oublié à cause de la domination danoise en Suède. Il voulait redonner à son royaume et à son souverain toutes ses lettres de noblesse, qui devaient lui revenir naturellement, à en croire l’histoire suédoise. Voilà comment nous pouvons expliquer l’apport de l’œuvre Atlantica d’Olaus Rudbeck au nouveau pouvoir suédois de Charles XI.

4. Charles XI de Suède

14 À la mort du roi Charles X Gustave en 1660, son fils Charles XI était âgé de 4 ans et un gouvernement de régence se mit en place jusqu’à la majorité du jeune souverain. Grâce à ce gouvernement, la noblesse suédoise put retrouver sa splendeur passée, qu’elle avait perdue sous le règne de Charles X Gustave, ainsi que le pouvoir absolu sur tout le royaume de Suède. Cette période de régence fut marquée par une paix suédoise avec le reste de l’Europe, et en particulier avec le Danemark. Cependant, elle fut aussi marquée par une propagande très virulente contre les Suédois au Danemark. La Suède était devenue la grande puissance de référence en Europe du Nord, aux dépens du Danemark en 1660, amputant ce royaume par la même occasion de plusieurs de ses régions les plus riches. Le traité de Copenhague, signé en mai 1660, avait développé au sein du Danemark un esprit de revanche très virulent contre les Suédois, dans l’espoir de pouvoir récupérer les provinces du Skåneland, dans le sud de la Suède actuelle, et la place de première puissance d’Europe du Nord13.

15 Couronné le 28 septembre 1675, Charles XI put commencer à gouverner dès 1672, mais le conseil du royaume, composé de la noblesse suédoise, continuait à avoir la main mise sur le pouvoir. Cette omniprésence du conseil empêchait le roi de profiter pleinement des pouvoirs. Charles XI était légalement sur le trône, mais il lui manquait une légitimité pour asseoir son autorité royale au début de son règne. En 1676, le Danemark profita de la mauvaise situation financière de la Suède et du fait que le roi de Suède était déjà en guerre contre la Hollande, aux côtés de son allié français Louis XIV, pour attaquer la Suède le 29 juin 1676. Cela marqua le début de la guerre de Scanie, qui s’acheva en 1679 par la victoire en demi-teinte de la Suède. La Suède avait gagné contre la Hollande, ce qui lui permit d’imposer ses conditions au roi danois, malgré le fait qu’il n’y avait pas eu de véritables vainqueurs dans cette guerre14.

16 Olaus Rudbeck entreprit la rédaction de ce qu’il qualifia l’œuvre de sa vie, Atlantica, à une époque où la Suède se battait pour conserver sa place de grande puissance du Nord sur la scène européenne. Il publia le premier volume en 1679. Cet ouvrage changea l’image de la Suède15, donnant au souverain une base historique solide pour légitimer son pouvoir et ses ambitions militaires et diplomatiques pour son royaume.

5. L’aspect historique d’Atlantica

17 Sa démarche première était purement historique16. Son ami Olof Verelius, professeur à la chaire des antiquités de l’université d’Uppsala, lui demanda de réaliser en 1672 des cartes de la Suède, afin d’expliquer le cheminement du texte d’une saga islandaise, qu’il voulait publier. Une saga islandaise était un récit originaire d’Islande, qui avait été écrit entre le XIIème et le XIVème siècle, sur le passé de l’Islande, mais également de la Scandinavie. Ces récits étaient considérés, à cette époque, comme une grande source de renseignement sur leur histoire au Moyen-Âge et étaient jugés comme étant des récits

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 16

véridiques. Les différents historiens danois et suédois de l’époque les considéraient comme étant des sources fiables sur le passé de leurs royaumes respectifs.

18 Dans ses études préparatoires, Olaus Rudbeck fut frappé par des ressemblances étonnantes entre les noms de personnes, de lieux et de peuples contenus dans cette saga et ceux qu’il avait auparavant lu dans des textes antiques pendant sa jeunesse. Ce fut le point de départ de son raisonnement. Dans sa correspondance avec son ami Magnus Gabriel De la Gardie, Olaus Rudbeck exprima tout son enthousiasme, parce qu’il estimait qu’il avait découvert la véritable identité de la Suède, qui était en réalité l’Atlantide des mythes antiques. Il mentionnait qu’il avait trouvé chez les auteurs grecs et “ de telles antiquités pour notre patrie que c’en était proprement stupéfiant »17. Quoi que puissent dire les plus grands érudits européens, le berceau de la culture s’était jadis trouvé en Suède, et non à Rome ou en Grèce. La Suède était le foyer originel du savoir et de la sagesse humaine, selon Olaus Rudbeck, et cela démontrait que le roi de Suède faisait partie des plus prestigieux souverains.

19 Le roi Charles XI vit dans cet ouvrage une très belle occasion pour redorer son image, tant auprès du peuple qu’auprès des grandes cours européennes. Olaus Rudbeck rédigea son ouvrage uniquement en suédois, mais avant la publication il fut convaincu d’y ajouter la traduction en , pour le rendre accessible aussi bien aux Suédois qu’au reste de l’Europe. En 1675, Magnus Gabriel de la Gardie, son protecteur, lui obtint une aide financière pour la publication d’Atlantica, mais Olaus Rudbeck étudiait une littérature très riche et dense, qui soulevait de nombreux problèmes. Il fit finalement publié le premier volume d’Atlantica au printemps 1679, quelques mois avant la signature du traité de Fontainebleau, qui mettait fin à la guerre de Scanie entre le Danemark et la Suède.

20 Ce premier volume était conçu comme un tout, sans qu’une suite soit prévue, mais la littérature tellement riche et les perspectives prestigieuses lui firent changer d’avis pendant la rédaction du premier volume, ainsi que l’accueil favorable réservé à Atlantica dans les milieux savants étrangers. Cela stimula l’ambition d’Olaus Rudbeck. En 1689, il publia le deuxième volume, puis le troisième en 1698 mais il n’eut pas le temps de finir la rédaction du quatrième volume et mourut avant, en octobre 1702. Ce volume inachevé fut publié immédiatement après sa mort. Mais l’essentiel de l’argumentation d’Olaus Rudbeck se trouve dans le premier volume d’Atlantica. Sa méthode historique rassembla les preuves prouvant l’âge fabuleux du royaume de Suède et sa véritable identité cachée : l’Atlantide ensevelie et les autres terres de l’âge d’or des mythes antiques.

21 Il était important de donner une image du roi de grand souverain guerrier. La guerre de Scanie épuisait la population suédoise, qui subissait directement les combats. Les troupes danoises et suédoises s’affrontaient dans le sud de la Suède, qui était l’enjeu principal de cette guerre. Charles XI avait déjà obtenu une grande victoire militaire sur les Pays-Bas, et après sa victoire sur les troupes danoises lors de la bataille de Lund en 1679, il obtint un grand prestige militaire et une popularité importante auprès de la population suédoise. Il se présentait comme le vrai défenseur de la Suède, alors que la population était en colère contre le comportement de la noblesse pendant la guerre de Scanie, qu’elle qualifiait de lâche.

22 Il était important pour le roi de pouvoir s’identifier avec les héros mythiques pour renforcer sa position sur le trône de Suède, obtenir les pleins pouvoirs par rapport au conseil du royaume et continuer sa propagande contre l’ennemi danois. Alors, pour

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 17

redonner toute sa splendeur historique à la Suède et à son roi, Olaus Rudbeck reprit les grands mythes antiques classiques un à un pour leur donner un aspect nordique achevé. Il récupéra tous les héros et mythes qu’il pouvait, afin de leur donner une touche suédoise, voir si possible de les suédiser complètement, et ainsi donner au royaume une légitimité et une supériorité historiques incontestables, en particulier face au Danemark.

23 À partir de ses recherches, il avait établi que toutes les mythologies prenaient leurs origines dans la mythologie nordique, qui se déroulait généralement en Suède, mais surtout pas au Danemark. Il expliqua aussi scientifiquement que certains épisodes des grands récits antiques ne pouvaient s’être déroulés qu’en Suède, même si la Suède n’était jamais mentionnée précisément, et que les dieux et les grands héros antiques étaient souvent d’origine suédoise.

6. La Suède des Hyperboréens

24 Pour commencer, Olaus Rudbeck se basa sur le mythe des Hyperboréens, raconté par Platon, dans son ouvrage le Timée et dans un fragment du Critias. Connu par les récits de Platon, les Hyperboréens étaient présentés comme un peuple, qui habitait aux confins septentrionaux du monde civilisé, décrits comme des voyageurs venus du Nord. Leur terre, connue sous le nom d’Hyperborée, était considérée comme parfaite, où le soleil brillait constamment. Au sens étymologique, cela caractérisait ceux qui vivent ‘‘au-delà de Borée, le vent du nord’’. Ils étaient considérés comme une peuplade instruite, qui n’avait peur de rien, possédant la plus grande sagesse, dans une société considérée comme idéale et parfaite. Les Hyperboréens étaient un symbole très fort, notamment grâce à Platon, qui, dans ses récits, faisait leur éloge.

25 Nombreux sont les savants suédois, qui se sont intéressés à l’historiographie de la Suède, en se basant sur le mythe des Hyperboréens, les situant, à chaque fois, dans le nord de l’Europe, et plus particulièrement en Suède, en se basant sur les données géographiques, astronomiques et géologiques énoncées par Platon. En effet, Platon caractérisait ce fameux pays, l’Hyperborée, comme l’endroit où le soleil brillait tout le temps pendant une partie de l’année et, pendant l’autre, la lune le remplaçait. Les Hyperboréens vivaient au pays du soleil de minuit, un phénomène typiquement nordique. Ce peuple était décrit comme étant heureux, sans maladie, n’ayant que des vertus, et sans aucun vice. La légende des Hyperboréens et un nombre considérable de témoignages avaient entraîné Olaus Rudbeck sur le fait que l’ancienne Suède avait été considérée comme le paradis sur terre, à partir duquel les dieux, les arts et les sciences étaient apparues, avant de se répandre dans le monde.

26 En plus des descriptions géographiques, Rudbeck se servit de la position des étoiles, décrites par Platon, pour situer le pays des Hyperboréen. À partir de cela, il put estimer que l’Hyperborée, pays situé au nord de la Grèce Antique, ne pouvait se situer qu’en Scandinavie, dans le nord de la Scandinavie, mais surtout pas au Danemark, notamment à cause de la latitude élevée. Il compara avec ce qu’il pouvait observer dans le ciel suédois.

27 Nous pouvons observer sur les cartes, qu’Olaus Rudbeck ajouta à son ouvrage, qu’il intégrait la Norvège comme faisant naturellement partie de la Suède, sous la même appellation Hyperborée. Mais le Danemark n’est pas nommé, dans une volonté d’essayer de l’intégrer aux pays celtes, rendant ainsi impossible pour le Danemark d’être le pays

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 18

des Goths. Il mettait ainsi en avant les ambitions politiques suédoises de conquérir la Norvège, alors une partie du royaume de Danemark, et se servait de ses théories pour légitimer les prétentions suédoises sur cette région, en mettant en évidence que la Norvège a été une partie naturelle et historique du royaume de Suède.

28 Atlantica était une œuvre de propagande politique, dont le but principal était de prouver que la Suède avait toujours été ce grand royaume très puissant, auquel le roi Gustave II Adolphe avait rendu sa splendeur passée. Les intentions politiques d’Olaus Rudbeck étaient visibles, malgré sa réelle envie de découvrir un vrai passé nordique universel en Suède. Son œuvre est très complexe, tant dans sa méthode que dans ses sources. Il faut mettre en évidence les sources sur lesquelles il a basé sa réflexion, sans oublier de mettre en rapport le but politique d’Olaus Rudbeck pour comprendre la portée de cet ouvrage. Son but principal était de légitimer la monarchie suédoise aux yeux du peuple, mais également au niveau des grandes cours européennes.

7. La Suède des mythes antiques classiques

29 Olaus Rudbeck remarqua les nombreuses similitudes entre certains faits rapportés dans les mythes antiques et la réalité suédoise. À partir de ses premières estimations, il comprit que la littérature classique antique devait très certainement receler de nombreux témoignages sur les Hyperboréens, leur pays, leur culture, leurs mœurs, et que cela pouvait donner des indications essentielles pour redécouvrir le véritable passé de la Suède.

30 Il a pu trouver dans des récits sur les grands héros antiques des détails, qui s’apparentaient parfaitement ou presque à la Suède. Il profita de ces petits détails pour pouvoir s’approprier ces célèbres héros et les transposer à son royaume. Il reprit tous les grands mythes et grands héros qui existaient et qui étaient connus et les transposa aux grands mythes suédois, dans le but de leur rendre leur véritable identité suédoise, ou bien il transposait quelques-unes des grandes aventures héroïques, pour faire en sorte que l’action se déroule en Suède. Pour faire cela, il se servit plus spécifiquement des descriptions géographiques et topographiques des paysages, de la position des étoiles et détermina qu’il ne pouvait s’agir que de la Suède. D’après les théories de Rudbeck, toutes les grandes mythologies d’Europe étaient liées à l’histoire de la Suède.

31 Il fut également capable d’établir que Ulysse était passé par la Suède lors de son voyage. Il avait attentivement étudié les grands textes classiques, en particulier ceux d’Homère, qui lui apportèrent une grande satisfaction intellectuelle dans ses recherches. Par exemple, Ulysse était connu pour sa longue errance dans l’Odyssée, vivant de grandes aventures très périlleuses, mais très prestigieuses. Olaus Rudbeck étudia toutes les descriptions du voyage d’Ulysse, jusqu’au moment où il en trouva une, dont les paysages correspondaient exactement à la Suède d’après ses estimations.

32 Ulysse aborda une île avec des forêts importantes et de nombreux lacs, l’île de Calypso, où il resta prisonnier pendant sept années. Calypso était une nymphe, fille d’Atlas, qui dirigeait l’île d’Ogygie. Située très loin dans la mer, au bout du monde selon Homère, l’île présentait une végétation très riche et variée, ainsi qu’une grande variété d’oiseaux. La perfection de cette île de délice était telle que “ dès l’abord en ces lieux, même un dieu aurait eu les yeux charmés et l’âme ravie ». Dans le Chant 1 de l’Odyssée, Calypso est nommée comme étant la “ fille d’Atlas, qui connaît les abîmes de la mer

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 19

entière et veille sur les hautes colonnes écartant l’un de l’autre le ciel et la terre ». Pour Olaus Rudbeck, l’île de Calypso correspondait également à l’île d’Atlas.

33 Après cela, il estima que d’autres héros de la mythologie grecque pouvaient également avoir des liens avec la Suède, comme le récit des douze travaux d’Hercules. Il estima que le onzième travaux d’Hercules s’était déroulé en Suède, celui des pommes du jardin des Hespérides. Les Hespérides étaient les filles d’Atlas et vivaient dans un jardin aux confins du monde. Ces pommes avaient été données par Gaïa à Héra comme cadeau de noces. Conservées dans le jardin des Hespérides, elles étaient le symbole de la sagesse et de la puissance, et elles étaient très convoitées. Seul Atlas pouvait s’en saisir. Ce jardin était considéré comme un jardin d’immortalité, réservé aux dieux. Olaus Rudbeck estimait cela comme un grand honneur et une véritable marque de prestige le fait qu’un de ses exploits les plus mythiques de ce grand héros mythologique se soit, d’après ses estimations, déroulé en Suède. Les descriptions de ce jardin correspondaient exactement aux paysages suédois, tant dans la hauteur des montagnes que dans la disposition des fleuves.

34 En réalisant ses recherches, il remarqua aussi que l’étymologie du nom grec Héraklès et son équivalent romain Hercules avaient des origines suédoises. La première signification, à partir du nom grec, démontrait que Hera provenait du suédois här, c’est à dire armée, klès de klädd, c’est à dire vêtement. La signification finale donnait le vêtement de l’armée, c’est à dire l’armure, symbole de protection et d’invincibilité. La seconde signification se basait sur le nom romain Hercule et signifiait Her pour här, en suédois, et kull, signifiant tête. Cela signifiait simplement le chef d’une armée. D’un point de vue strictement linguistique, Olaus Rudbeck estimait que Héraklès et Hercules, qui ont la même origine, étaient obligatoirement d’origine suédoise.

35 Il employa la même méthode avec les noms des dieux grecs notamment. Par exemple, le nom de la déesse Vénus venait du mot suédois vän, signifiant joli, gracieux. Sur le même modèle, Chimène provenait du mot suédois skinnmära, signifiant rosse, haridelle et la Thèbes égyptienne était en réalité la ville suédoise de Täby. Sur le même modèle, le mot grec Elyséen venait d’une déformation du mot suédois glysisvall, de glysa – briller. Le pays des Cimmériens d’Homère venait du mot suédois Kämparnäs, signifiant le cap des guerriers. Atlantica regorge d’explications de ce même genre, prouvant que l’étymologie des mots est suédoise18.

36 Ses recherches le ramenaient à chaque fois à l’île d’Atlas, le menant directement au célèbre mythe de l’Atlantide. Du grec ancien signifiant l’île d’Atlas, l’Atlantide est une île qui aurait été engloutie dans la pré-Antiquité. l’Atlantide est mentionnée pour la première fois par Platon dans le Timée, puis dans le Critias. Platon précisait dans ses dialogues “ qu’il ne s’agit pas d’une fiction, mais d’une histoire véritable ». Le mot île, en grec ancien nesos, pouvait également signifier presqu’île, ce qui arrangeait bien Rudbeck. À ses yeux, la presqu’île de la Scandinavie remplissait toutes les conditions définies par Platon, mais cela ne comprenait pas le Danemark et il ne planait aucun doute sur le fait que la Suède était bien l’Atlantide.

37 Selon les récits rapportés par Platon, l’Atlantide était une île fortement peuplée et militarisée, située face aux Colonnes d’Hercule, qui sombra dans la mer après le violent combat perdu par les Atlantes contre les Athéniens. Platon décrit l’Atlantide et son organisation sociale de manière concrète. Le dieu des mers Poséidon, qui avait reçu l’île en partage, y vivait avec son épouse et ses dix fils dans sa forteresse entourée de trois bras de mer.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 20

38 Tous les indices platonniens correspondaient à la géographie et la topographie de la Suède. Par exemple, Platon avait expliqué que l’île de l’Atlantide se situait après le passage des colonnes d’Hercule, symbole de la frontière entre le monde civilisé et un monde inconnu et dangereux. Cet élément était le plus distinctif de ces descriptions. Olaus Rudbeck détermina que les colonnes d’Hercule n’étaient pas le détroit de Gibraltar, comme tout le monde le pensait, mais en réalité le détroit de l’Öresund. Les caractéristiques et les descriptions pouvaient s’adapter parfaitement au détroit de l’Öresund, mieux qu’au détroit de Gibraltar. Bien que jamais situées précisément dans les différents témoignages, pour lui tous les détails correspondaient en réalité aux paysages suédois. De plus, avant que le terme géographique de Colonnes d’Hercule ne s’imposent au VIème siècle, les Grecs employaient celui de Colonnes d’Atlas, qui avait plus une fonction cosmologique. Et Atlantide signifiant île d’Atlas, Olaus Rudbeck avait déjà démontré que l’île d’Atlas correspondait au pays des Hyperboréens, donc à la Suède.

8. Atlantica, d’abord une œuvre politique

39 Grâce à Platon et sa renommée, Rudbeck put installer un rayonnement culturel important dans son œuvre Atlantica, donnant ainsi à l’histoire suédoise un statut prestigieux et solide d’un point de vue intellectuel et politique. D’après le récit de Platon, l’Atlantide était une grande puissance militaire, politique et sociale. C’était une île plus avancée que le continent européen, dans tous les domaines. Le système politique était un exemple de perfection, son armée était la plus puissante que le monde ait jamais vu. Les habitants vivaient heureux, en harmonie. Le système social était également un exemple de perfection, ne laissant personne sur le bord de la route. L’Atlantide était présentée par Platon comme la terre idéale, où tout était parfait. Il s’agissait de la propagande parfaite pour mettre son royaume en valeur et lui donner une légitimité inattaquable.

40 Il récupéra tous les héros et mythes, qu’il pouvait, afin de leur donner une touche suédoise, voir si possible de les suédiser complètement, et ainsi donner au royaume une légitimité et une supériorité historiques incontestables, en particulier face au Danemark. À partir de ses recherches, il avait établi que toutes les mythologies prenaient leurs origines dans la mythologie nordique, qui se déroulait généralement en Suède, et surtout pas au Danemark. Il expliqua aussi scientifiquement que certains épisodes des grands récits antiques ne pouvaient s’être déroulés qu’en Suède, même si la Suède n’était jamais mentionnée précisément, et que les dieux et les grands héros antiques étaient souvent d’origine suédoise.

41 Aucune difficulté ne résistait à Olaus Rudbeck avec son épuisable capacité inventive. Lorsque Platon parlait de vin et d’éléphants dans l’Atlantide, Rudbeck avait une réponse toute prête : par vin, il fallait entendre bière ou hydromel, et les éléphants étaient des loups. L’engloutissement de l’Atlantide dans la mer ne faisait que désigner métaphoriquement l’état désolé du pays après les premiers grands exodes. L’île était toujours présente dans le Nord, chacun pouvait venir la contempler, surtout à présent qu’elle était redevenue une grande puissance militaire et politique.

42 La Suède n’était jamais nommée explicitement, mais ce n’était pas un problème pour Rudbeck. Il savait qu’il s’agissait bien de son pays. Les descriptions cadraient parfaitement avec la topographie du pays. Il estimait qu’il était écrit quelque chose,

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 21

mais que cela signifiait autre chose. Les mots de Sten Lindroth, professeur émérite d’histoire des idées à l’université d’Uppsala, résument bien la conception d’Olaus Rudbeck de son travail : Pour Rudbeck, possédé par son idée, aucun texte n’offrait de telles résistances qu’il ne sût le tourner à son profit. La discipline méthodologique qu’il s’était imposé comme anatomiste n’était plus qu’un souvenir lorsqu’il faisait revivre l’Atlantide de jadis. Il n’y a pas lieu pour autant d’y voir une énigme psychologique. En tant qu’historien gotique, Rudbeck avait emprunté d’autres manières de procéder et habitudes mentales – simplement, tout ce qu’il touchait prenait aussitôt des proportions monumentales19.

43 Olaus Rudbeck était un homme très hétéroclite et cela se reflète dans son œuvre Atlantica, où il allia à la fois passé, avec les sources historiques, et futur, avec ses méthodes scientifiques visionnaires, pour obtenir le résultat qu’il voulait. Olaus Rudbeck ne s’arrêta pas uniquement aux textes classiques de l’Antiquité, et s’attaqua à l’ouvrage le plus important et le plus connu du moment : la Bible. Il en étudia de près tous les détails des descriptions et réussit à établir, de la même manière qu’il l’avait fait avec l’Atlantide, que la Suède était également le jardin d’Éden. Il argumenta l’origine suédoise des noms d’Adam, originaire du mot suédois damm, signifiant poussière, et Ève, Eva en suédois, venant de l’expression Eh vad, signifiant à quoi, qui proviendrait du hurlement que poussa Adam lorsqu’une de ses côtes lui fut prise pour créer la femme. Selon ses réflexions, le jardin d’Éden se trouvait en Suède, qui était aussi la représentation du paradis, symbolisé par les journées sans fin de l’été suédois, et de l’enfer, par les nuits sans fin de l’hiver suédois.

9. Conclusion

44 Olaus Rudbeck avait prévu d’écrire son histoire de la Suède en neuf volumes. Mais il mourut en octobre 1702, alors qu’il venait juste de commencer la rédaction du quatrième volume d’Atlantica. Ce volume inachevé fut publié immédiatement après sa mort. Cette nouvelle histoire nationale de la Suède fut une véritable révolution lors de la parution du premier volume. Elle permettait à ce royaume à la position très septentrionale, de se mettre en lumière auprès des grandes cours européennes et dans les cercles de savants et d’intellectuels. Mais, lors de la publication des trois volumes suivants, les critiques devinrent plus vives à l’encontre du contenu de l’ouvrage.

45 Malgré le fait que depuis la publication du second volume d’Atlantica les savants et les intellectuels des grandes cours d’Europe ne prenaient plus du tout au sérieux Olaus Rudbeck et son ouvrage, le nouveau roi de Suède était très attaché à l’image qu’il avait créé de la Suède. Cette image renforcée du royaume de Suède et de ses souverains à partir d’une histoire universellement reconnue apporta beaucoup de prestige au nouveau roi Charles XII. Sten Lindroth, qualifiait Atlantica dans ces termes : Atlantica se dresse comme le monument, à l’ère de grande puissance, de la recherche patriotique égarée, monument inquiétant et presque effrayant par le mélange qu’il offre de génie et de folie. Pour ce qui est de la grandeur de la vision et de l’énorme énergie déployée pour donner corps à celle-ci, cet ouvrage est sans équivalent dans l’histoire du savoir en Suède20.

46 En 1697, Charles XI mourut et son fils Charles XII fut couronné. Il commença à poser les bases de la grande guerre du Nord, qui ébranla toute l’Europe du Nord entre 1700 et 1721. Ce roi fut connu pour ses exploits militaires, qui furent rapportés dans l’Histoire de

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 22

Charles XII de Voltaire, publiée en 1731. Son règne fut marqué par la grande guerre du Nord, lors de laquelle Charles XII de Suède déclara la guerre à tous ses voisins du Nord. Cette guerre marqua la fin de la période de grandeur de la Suède, devenant alors un royaume de second plan en Europe.

47 Atlantica a probablement aidé le roi Charles XII à développer ses prétentions personnelles et militaires, lui démontrant que la puissance d’un royaume tenait dans son histoire et ses conquêtes militaires. Grâce à Atlantica, il pouvait se définir comme descendant d’une grande lignée historique, originaire du pays, qui avait inventé l’écriture et la science. Cette conscience de sa supériorité par rapport au reste du monde se retrouva pendant tout son règne, qui ne fut marqué que par des guerres de conquêtes, pour accroître le royaume de Suède et son prestige. Le roi Charles XII mourut au combat en 1718 en Norvège et le royaume de Suède perdit son statut de grande puissance d’Europe du Nord, ainsi que ses colonies dans l’espace Baltique et dans le nord de l’Allemagne. Ce fut la fin de la période de grandeur de la Suède, qui ne retrouva plus jamais cette grandeur et ce prestige atteints.

NOTES

1. Extrait de l’introduction de RUDBECK, Olaus, Atlantica, vol.1 [facsimile], Uppsala-Stockholm, Almqvist & Wiksell, 1937, p. 5. 2. RUDBECK, Olaus, Atlantica, 4. voll., [facsimile] Uppsala-Stockholm, Almqvist & Wiksell, 1937-1939 [Ed. orig., Atlantica, 4. voll., Uppsala, 1679-1702]. 3. BATTAIL, Jean-François, BOYER, Régis, FOURNIER, Vincent, Les sociétés scandinaves: de la Réforme à nos jours, Paris, Presses universitaires de , 1992. 4. NORDMANN, Claude, Grandeur et liberté de la Suède (1660-1792), Paris-Louvain, Nauwelaerts, 1971. 5. LOCKHART, Paul Douglais, Sweden in the seventeenth century, London, Palgrave, 2004. 6. SCHNAKENBOURG, Éric, MAILLEFER, Jean-Marie, La Scandinavie à l’époque moderne, fin XVème- début XIXème siècle, Paris, Belin, 2010. 7. BATTAIL, Jean-François, La Suède intellectuelle et savante, Uppsala, Uppsala Studies in History of Science, 1987. 8. DELBLANC, Sven, LONNROTH, Lars, Den Svenska Litteraturen: från runor till romantism, volume 1, Stockholm, Albert Bonnier, 1999. 9. BRUSEWITZ, Gunnar, Från Olof Rudbeck till Olof Thunman: 15 Uppsalaprofiler, Uppsala, Uppsala Nya Tidning, 1998. 10. Rudbecks-studier, Festskrift vid Uppsala Universitets minnesfest till högidlighållande av 300-årsminnet av Olof Rudbeck d.ä.s födelse, Uppsala, Uppsala Universitet, 1930. 11. DAHL, Per, Svensk ingenjörskonst under stormaktstiden: Olof Rudbecks tekniska undervisning och pratiska verksamhet, Uppsala, Uppsala Universitet, 1995. 12. ATTERBOM, Per Daniel Amadeus, Minne af professoren i medicinen vid Uppsala universitet Olof Rudbeck den äldre, Stockholm, s. e., 1849, p. 97. 13. FLORÉN, Anders, Karl X Gustav in FLORÉN, Anders, DAHLGREN, Stellan, LINDEGREN, Jan (red.), Kungar och Krigare, tre essäer om Karl X Gustav, Karl XI och Karl XII, Stockholm, Atlantis, 1992.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 23

14. DAHLGREN, Stellan, Karl XI in FLORÉN, Anders ; DAHLGREN, Stellan & LINDEGREN, Jan (red.), op. cit. 15. FRÄNGSMYR, Tore, A la recherche des Lumières: une perspective suédoise, Bordeaux, Presses universitaires de Bordeaux, 1999. 16. ERIKSSON, Gunnar, Rudbeck 1630-1702: liv, lärdom, dröm i barockens Sverige, Stockholm, Atlantis, 2002. 17. ANNERSTED, Claes : Olof Rudbeck den äldre : kort lefnadstekning; Stockholm, Nordstedt, 1905, p109 18. ERICSSON, Gunnar, The Atlantic Vision: Olaus Rudbeck and Baroque Science, Canton, MA, Science history publications, 1994. 19. LINDROTH, Sten, Svensk lärdomhistoria: Stormaktstiden, vol. 2, Stockholm, P.A. Norstedt, 1975, p. 327. 20. LINDROTH, Sten, op. cit., p. 330.

RÉSUMÉS

Charles XI de Suède accéda au trône de Suède après une longue période de régence, qui fut marquée par une période de paix avec le Danemark. Sa position avait été affaibli par la noblesse, et il avait besoin de consolider sa légitimité royale. Il décida de se servir de l’historiographie nationale pour se créer une bonne image de souverain à travers une nouvelle construction de l’histoire nationale de Suède. Le roi s’appuya notamment sur Atlantica d’Olaus Rudbeck, une nouvelle histoire suédoise.

Carlo XI di Svezia salì al trono svedese dopo un lungo periodo di reggenza, segnato da un’epoca di pace con la Danimarca. La sua posizione fu indebolita dalla nobilità e il sovrano ebbe la necessità di consolidare il proprio ruolo di legittimo regnante : decise così di servirsi della storiografia nazionale per dipingere una immagine positiva della Corona attraverso la costruzione di un nuovo immaginario per la storia nazionale svedese; il re fece largo uso, soprattutto, del trattato Atlantica di Olaus Rudbeck, una nuova storia della Svezia.

Charles XI of Sweden acceded to the swedish throne after a long period of regency, which was marqued by a period of peace with Denmark. His position had been weakened by the nobility, and he needed to consolidate his royal legitimacy. He decided to use the national historiography to create the sovereign’s good image though a new construction of the national history of Sweden. The king used specially Olaus Rudbeck’s Atlantica, a new swedish history.

INDEX

Keywords : Charles XI of Sweden, Danish-Swedish wars, historical rewriting, Olaus Rudbeck, patriotism Mots-clés : Charles XI de Suède, guerres dano-suédoises, Olaus Rudbeck, patriotisme, réécriture historique Parole chiave : Carlo XI di Svezia, guerre Dano-svedesi, Olaus Rudbeck, patriottismo, riscrittura della storia

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 24

AUTEUR

MURIEL MARCHAL Doctorante en études nordiques, travaille sur les relations entre le Danemark et la Suède entre 1563 et 1770. Elle est spécialiste en histoire moderne politique, diplomatique et des idées en Scandinavie.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 25

«A Muvra», 1920-1939: la caricatura in Corsica

Marie-Claude Lepeltier Traduzione : Jacopo Bassi

NOTA DELL'EDITORE

Il presente articolo viene pubblicato in traduzione originale italiana per gentile concessione della rivista Études Corses.

Introduzione

«La caricature est l’art de déformer une image pour en faire un tableau plus vrai»1. Ronald Searle

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 26

1 Nel periodo tra le due guerre la caricatura, che fino ad allora era stata impiegata principalmente dalla stampa specializzata, diviene appannaggio della pubblicistica rivolta ad un pubblico più ampio, spesso, per riprendere il giudizio di Ketty Pierrot2, a scapito della sua forza polemica. Più precisamente, il termine “caricatura” deriva dal verbo “caricare”, che significa esagerare. Secondo il Grand dictionnaire encyclopédique Larousse, si tratta di «une représentation grotesque, en dessin, en peinture, etc., obtenue par l’exagération et la déformation des traits caractéristiques du visage ou des proportions du corps, à des fins nettement satiriques». Nel primo dopoguerra, il termine evolve e assume il significato di vignetta velata da note umoristiche o satiriche3. È dunque un medium abitualmente utilizzato dai giornali d’opinione.

2 «A Muvra», nella sua veste di periodico di propaganda, ha il profilo ideologico (e i mezzi finanziari4) per utilizzare la caricatura come arma politica: corrisponde allo spirito del settimanale che «20 ans durant mena le combat du réveil et de la révolte insulaire»5. Apparso tra il 1920 e il 1939, «A Muvra» è l’organo di stampa dei corsisti e del loro partito, il PCA (Partitu Corsu d’Azione), creato nel 1922 e divenuto PCA (Partitu Corsu Autonomista) nell’ottobre 1926. Secondo Hyacinthe Yvia-Croce, «Etre corsiste, c’est en un mot, vouloir ardemment demeurer corse, vivre et agir en Corse, par et pour la Corse»6. Seguendo le orme di Santu Casanova e del suo «A Tramuntana»7, «A Muvra» è redatto in gran parte nella langue du maquis: la difesa della lingua corsa è una delle priorità dei corsisti. Il periodico vede la luce a Parigi, al termine della prima guerra mondiale. L’evento bellico, favorendo l’incontro della popolazione francese, il confronto di tutte le identità regionali francesi, è all’origine della presa di coscienza dell’esistenza di un’identità corsa e di valori corsi, che, per i corsisti, occorre difendere da una francesizzazione giudicata indebita. È necessario ricordare che il fondatore della rivista, Petru Rocca, viveva proprio a Parigi quando ebbe l’idea di creare il periodico: era pertanto osservatore attento della stampa parigina che aveva a disposizione e che leggeva certamente tutti i giorni. Aveva allora potuto misurare l’impatto che può avere un disegno sulla coscienza collettiva e sull’opinione pubblica. Si può dunque supporre che non potesse immaginare un tipo di stampa diversa da quella illustrata, soprattutto per un giornale di propaganda. In effetti, malgrado le difficoltà tecniche (la prima zincografia sull’isola viene aperta solo dopo la seconda guerra mondiale) e il costo finanziario che questa implica, la redazione di «A Muvra» si prende l’incarico di pubblicare uno o, a volte, due disegni per numero; questo per via del fatto che la caricatura non è una semplice illustrazione umoristica: proprio perché si nutre dell’attualità immediata, informa, testimonia, ma, soprattutto interpella. Il suo obiettivo è di suscitare una reazione: svolge una funzione impressiva8.

3 Dopo uno studio sulle caricature pubblicate dal periodico una considerazione si impone: queste sono, da sole, bastanti a illustrarne la linea. Non è indispensabile leggere gli scritti per comprendere il pensiero dei corsisti, il che ci permette di misurare il primato dell’immagine sul testo9. L’utilizzo della caricatura si traduce qui in

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 27

termini di necessità; proprio perché il disegno è un linguaggio universale e polisemico, si indirizza a un pubblico più vasto: anche gli illetterati possono avervi accesso. È più facile ricordare un disegno – che riassume una situazione, un’idea – che un articolo.

4 L’illustrazione è dunque un elemento essenziale della capacità attrattiva della stampa; la sua influenza sull’opinione pubblica risulta fondamentale; a riprova di ciò la tipografia di «A Muvra» pubblica a partire dal 1923 «l’Almanaccu di A Muvra» successivamente divenuto «U Librone di A Muvra» nel 1937. Sotto la direzione di Daniel Polacci il giornale edita 1.200 copie nel 1924 e il numero dei suoi abbonati è di 806; successivamente divengono 504 nel 1928 e l’almanacco – che ha una tiratura di 3.500 copie nel 1930 – viene venduto a un prezzo molto contenuto (8 franchi): è infatti destinato a diffondere le idee corsiste in ogni angolo dell’isola. Qui viene ripreso l’insieme delle caricature edite e a queste ne vengono aggiunte di nuove. Per ogni rivista (o almanacco) acquistato, quanti lettori – o, si potrebbe dire uditori, nei villaggi – si possono stimare? Non era infatti necessario acquistare la rivista per far cadere l’occhio sulla vignetta, generalmente inserita nella prima pagina: «l’image doit être vue avant d’être lue»10.

5 Le caricature erano realizzate da giornalisti, ma questi erano prima di tutto militanti convinti. Facendo leva su alcuni simboli, denunciavano la situazione economica e politica dell’isola, suggerendo – come se si trattasse di un’evidenza – la soluzione al problema corso: l’autonomia.

1. Le caricature corse

6 Nell’arco di diciannove anni la rivista ha pubblicato circa 500 caricature, contrassegnate da sole ventuno firme differenti, il che non significa necessariamente ventuno disegnatori diversi. Sembra che soltanto cinque disegnatori abbiano realmente contribuito alla rivista, quasi a confermare la teoria secondo la quale è più difficile improvvisarsi disegnatori piuttosto che giornalisti, almeno per lo spirito giornalistico dell’epoca. Il primo disegnatore a intervenire è Matteo Rocca (1896-1955), il fratello di Petru Rocca; questi è anche capo redattore e firma numerosi articoli celato sotto diversi pseudonimi (Petroniano, Egomet, …). Fino al 15 giugno 1921, Rocca è il solo disegnatore e il suo nome si rinviene regolarmente fino al 1923, per poi eclissarsi tra il 1924 e il 1928. Ritorna in forze nel 1929, con 23 disegni in quello stesso anno. A partire dal 1932 e fino alla soppressione della rivista, nel 1939, è l’unico disegnatore. Autore di circa 300 caricature, ossia più della metà, è, secondo L’Anthologie des écrivains corses: «un peintre de talent, un caricaturiste mordant et spirituel, et en cette qualité membre exposant à la société des beaux-Arts de Nice […]»11. Valutare l’aspetto qualitativo di un disegno, quale che sia – operazione che prospetta un giudizio di valore, ossia di parlare dell’aspetto estetico di una caricatura politica – è decisamente più difficile e non ci preme. Come sottolinea Jean-Baptiste Carpentier, l’immagine politica è un «messaggio per altri» e deve pertanto essere concepita, redatta e diffusa pensando costantemente al suo lettore sapendo che questi non è un richiedente del messaggio12. Se è vero che Matteo Rocca è un caricaturista «mordant et spirituel», il suo disegno, un po’ goffo all’inizio, col tempo si consolida. I tratti divengono più sicuri, più precisi: evidentemente ha preso gusto nel tratteggiare le sue caricature. Non si fissa su un solo stile grafico. Artista dei suoi tempi, è aperto al mondo e ispirato dalle diverse correnti artistiche che animano il periodo fra le due guerre (il cubismo, ma anche l’influenza dei

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 28

surrealisti). Questo periodo conosce un cambiamento nella formazione artistica dei disegnatori: « Ce ne sont plus des artistes peintres mais des journalistes qui s’expriment par le dessin»13. Matteo Rocca è dunque una figura intermedia fra queste due professioni; ma non ci si può ingannare sul fatto che fosse anzitutto un militante corsista. Aderisce completamente alle idee del movimento, ne è al contempo uno dei pilastri e mette il suo talento e la sua matita al servizio della causa.

7 Un secondo disegnatore, Kryn, ossia Dominique Massa14, gioca un ruolo essenziale. Pur essendo presente dal 1921 sotto diversi pseudonimi, è il principale disegnatore tra il 1924 e il 1928. Vanta al suo attivo più di 155 disegni ed è al contempo segretario di redazione e autore di alcuni articoli. Disegnatore di talento, con la sua matita esprime sentimento ed emozione: trova le espressioni idonee a riassumere le situazioni e sa essere d’effetto. Il suo tema prediletto è l’esilio dei Corsi: apparentemente è la cosa che ha più a cuore e che lo ispira maggiormente. Tratteggia un personnaggio presuntuoso e ridicolo: Canistro, un corso espatriato15. Niente sfugge al suo spirito caustico. Constatiamo che quando utilizza uno dei nomi fittizi (Ranfia, Vespa e Urticula, nomi che sono tutto un programma…) il contenuto dei suoi disegni risulta più incisivo, più impegnato politicamente; si firma infatti anche sotto il nome di Khi, EU, KS o Mangarelli.

8 Un altro disegnatore molto attivo tra 1923 e 1925, ma dotato di uno stile radicalmente differente è A. Dell Pellegrino, detto Toto, riconoscibile per alcuni ritratti-caricatura che rappresentano essenzialmente i suoi concittadini aiaccesi. L’obiettivo è unicamente il divertimento. I tratti sono precisi, il disegno è spoglio, limitato all’essenziale. Kyrn si è a sua volta interessato a questo genere d’esercizio di stile allorquando ha disegnato alcuni uomini politici corsi (Célestin Caïtucoli, Vincent De Moro-Giafferi…). Entrambi abbozzano il ritratto dei principali collaboratori della rivista (ill. 1). È un modo per mettere un viso su un nome, di associare il lettore alla grande famiglia dei corsisti: non essere più anonimi è un po’ come essere amici.

9 J.A. Geromini e P. Pollo, invece, firmano insieme 14 disegni tra il 1924 e il 1927; ma sono proprio questi disegni a risultare particolarmente importanti dal momento che il loro contenuto è molto forte. Il loro universo è cupo e l’umorismo assente: nei loro disegni si riscontra una discreta aggressività.

10 L’immagine della loro isola, ma anche il messaggio del P.C.A. – che i vignettisti trasmettono attraverso i loro disegni – sono affidati essenzialmente al talento e all’interpretazione dei due disegnatori, addirittura ad uno solo a partire dal 1932. Possiamo interrogarci sul valore delle testimonianze ma, in tutti i casi, se la rivista accetta di pubblicarle, queste corrispondono allo spirito della rivista e dunque all’idea che si vuole dare della Corsica. Come ha scritto Jacques Lethève: «[…] un dessinateur satirique n’est pas un isolé»16. Questi disegni riflettono lo stato d’animo di una minoranza; ma è una minoranza di cui non è possibile negare l’esistenza e, dal momento che si esprime, è una minoranza attiva. Malgrado si tratti di disegni di propaganda, sono una parte della narrazione storica. È una caricatura etnocentrata che permette di scoprire i disagi della società. Michel Ragon osserva, correttamente, che «le chauvinisme semble avoir lié un pacte avec la caricature»17: si indirizza a un pubblico mirato.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 29

2. Simboli

11 Per essere efficace, una caricatura deve risultare comprensibile a tutti. Un disegno si deve rivolgere a un pubblico che condivida gli stessi riferimenti storici e culturali, necessari per comprendere le allusioni e gli altri giochi di parole. Per realizzare questo i caricaturisti utilizzano codici e simboli. Ogni situazione, ogni personaggio, deve essere chiaramente identificabile, senza rischiare di ingenerare errori o confusione; a ciascuno viene attribuito il proprio attributo: alla feluca corrisponde il prefetto e così via.

12 Parallelamente ai codici in uso, i vignettisti hanno utilizzato simboli che sono per loro peculiari: così, a partire dal 1921, Kyrn (Ranfia) mette in scena un muflone.

Fig. 1. Ranfia, A Muvra, 22 settembre 1921

13 Secondo Bertrand Tillier la metamorfosi è un metodo di destituzione simbolica frequentemente utilizzato dai caricaturisti: «par exemple en représentant des régressions de l’humain vers le stade animal, végétal ou monstrueux»18. I disegnatori hanno fatto ricorso a questo procedimento, invertendolo, con l’obiettivo di valorizzarlo. Petru Rocca spiega che vedendo un muflone corso dimenarsi tra le barriere di una gabbia, allo zoo, ha avuto l’idea del nome «A Muvra» per la sua rivista; secondo Paul Simonpoli, questo animale è: «symbole de pureté, d’innocence, de fragilité, de maternité, [il] représente un idéal féminin»19; «est rebelle à la domestication, à la tutelle, à la soumission. Et même quand il est capturé, il sait garder la maîtrise de son destin»20. È proprio ciò di cui si tratta. I vignettisti, ispirandosi al titolo della rivista e al suo potere simbolico, hanno ripreso per conto proprio il tema del muflone facendone un eroe dalle sembianze umane. Nei primi disegni il muflone rappresenta la rivista in quanto vettore ideologico che è depositario della verità.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 30

Permette il risveglio delle coscienze e contribuisce alla lotta contro la francesizzazione indebita dell’isola; ma, dal 1924, il muflone diventa l’emblema della lotta della Corsica per la sua autonomia. I vignettisti hanno associato la rivista e la lotta per una Corsica autonoma in un identico simbolo. Su questo fronte, la rivista, creando coesione, vuole posizionarsi come il portavoce della maggioranza isolana: non bisogna infatti dimenticare che ambisce ad affermarsi come la voce della maggioranza corsa: non bisogna infatti dimenticare che il movimento corsista è minoritario.

14 Il secondo simbolo è una donna. Alla maniera di Marianna, che rappresenta allo stesso tempo la Francia e la République, i vignettisti hanno simbolizzato la Corsica come una donna vestita di nero. Così è possibile attribuirle sentimenti, come la collera, l’indignazione, la tristezza o, ancora, il dolore. Questi sentimenti vengono trasmessi al lettore, che sarà ugualmente preda delle stesse emozioni: la forza del disegno risiede in questo. Attraverso il periodico, i corsisti formulano rivendicazioni che si basano sullo stato economico, sociale, culturale e politico della Corsica in un preciso momento storico. Per questo motivo la scelta del vestito di questa donna è così importante: deve possedere attributi che lo pongano al di fuori del tempo. Veste dunque una larga gonna increspata, un corpetto attillato e un grande fazzoletto (U mandile) nero sulla testa. Le donne erano solite portare abiti lunghi, di colori sobri, mentre le ragazze gonne a fiori. Il simbolo utilizzato è una donna adulta, madre, capace di prendersi cura e di proteggere i suoi figli. I disegnatori tentano di fare prendere coscienza all’opinione pubblica del fatto che, come il simbolo che la rappresenta, la Corsica è capace di prendere in mano il suo destino: rivendica un’autonomia che può gestire.

15 Matteo Rocca la mette in scena per la prima volta nel gennaio 1921, in un disegno che da solo riassume esaurientemente quanto detto in precedenza. La scena si svolge in un cimitero: qui le tombe sono allineate all’infinito. In primo piano, su una di queste sono deposti un berretto e un elmetto da soldato; una donna seduta, vestita di nero, piange. Su ogni croce è scolpito un nome: i morti non sono anonimi. La didascalia pone l’interrogativo: Parchè? (Perchè?).

Fig. 2. Matteo Rocca, A Muvra, gennaio 1921

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 31

16 Il soggetto femminile vestito di nero rappresenta la donna corsa, che è rimasta al “paese” attendendo il ritorno del marito, del fratello, del padre. Allo stesso modo rappresenta la Corsica, che piange i suoi figli morti per una causa che forse non era la sua. La Corsica ha contribuito molto alla causa francese in occasione di questa guerra: è assai difficile quantificare il numero reale degli arruolati, dei feriti e degli invalidi di guerra in Corsica. Si tratta comunque di una cifra superiore alla media nazionale: più di 11.300 morti21.

17 Questa immagine femminile, simbolo dell’isola e dei suoi abitanti, è presente in un centinaio di caricature, ossia un disegno su cinque.

18 Così come i disegnatori si sono serviti di simboli, allo stesso modo hanno utilizzato il tratto grafico. I corsisti sono intimamente convinti dell’esistenza di una razza corsa e s’ingegnano di dimostrare questa idea. Kyrn si trova a suo agio in questo genere d’esercizio.

Fig. 3. Kyrn, A Muvra, 1 luglio 1928

19 Osservando con attenzione i disegni, possiamo scoprire alcune caratteristiche fisiche attribuite ai Corsi. Nei limiti del talento del disegnatore, gli isolani sono rappresentati belli e robusti e di dimensioni maggiori rispetto agli altri. Per affrontare l’aspro e rigido clima di montagna, la natura ha generato una razza robusta e vigorosa. Gli illustratori non caricano i tratti di questi visi, al contrario di quelli dei continentali o dei compatrioti esiliati. Questi ultimi, a causa del loro “tradimento”, hanno smarrito la loro identità: sono rifiutati e ignorati; non possono rivendicare l’appartenenza alla razza corsa, come si evince dai disegni. I Corsi sono belli, contrariamente a tutti gli altri: la bellezza esteriore sottende una bellezza interiore. I vignettisti hanno cercato di eliminare l’immagine del Corso pigro: sono quasi tutti rappresentati alle prese con qualche genere di attrezzo. Nella maggior parte dei disegni gli uomini portano la barba, che sull’isola è segno di lutto. I Corsi hanno quindi i tratti regolari, fermi e volitivi, a immagine e somiglianza del loro comportamento: la caricatura accentua questo lato

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 32

manicheo. Questo cliché si traspone anche nelle donne; anche se non hanno una tipologia fisica particolare i tratti dei loro visi risultano fermi, regolari e volitivi, espressione di nobiltà d’animo: il loro portamento è altero.

20 È sufficiente guardare qualsiasi album fotografico dell’epoca o, semplicemente, la galleria di ritratti disegnati da A. Dell Pellegrino – e apparsi su A Muvra – per convincersi del fatto che la realtà fosse tutt’altra.

21 Difendendo la tesi dell’esistenza di una razza, i corsisti fornivano argomenti per giustificare le loro rivendicazioni: se i Corsi sono una razza a parte, non hanno – né storicamente né biologicamente – nulla a che vedere con i Francesi e, a causa di ciò, vengono ingiustamente sottomessi da loro. Ogni razza ha il diritto di rivendicare per sé la libertà politica, economica e sociale: pertanto questa lotta è giusta. Ma la cosa più importante è preservare la razza, perchè se dovesse scomparire, ne verrebbe rivelata l’inferiorità: è dunque essenziale per i vignettisti definire con precisione le caratteristiche fisiche dei corsi e – laddove possibile – i tratti del loro carattere; ciascuno deve riconoscersi nel modello proposto. I disegnatori suggeriscono che ogni contatto con il continente comporti una degradazione morale o fisica, che lo stesso vignettista si diverte a trasporre visivamente. La caricatura diviene qui sininimo di manipolazione. Beninteso: è necessario prestare attenzione al contesto storico nel quale si situa questa discussione.

22 Facendo leva su questi simboli i caricaturisti diffondono così il loro messaggio.

3. Una caricatura propagandistica

23 Vengono utilizzati tutti i registri che la caricatura offre: la destituzione simbolica (scatologia, metamorfosi), la parodia, l’ironia, lo humour, l’emozione… Kyrn è più concentrato sui problemi insulari rispetto a Matteo Rocca, che adatta l’attualità nazionale – o internationale – alla visione corsa della situazione.

24 La lettura delle caricature può essere sviluppata su due livelli.

25 Su di un primo piano, noi cogliamo la storia del movimento corsista insieme a quella della rivista in considerazione del fatto che le due realtà risultano legate. «A Muvra» pubblica con regolarità caricature che danno notizia delle diverse manifestazioni culturali o politiche organizzate dal P.C.A. In questo modo, facendone partecipe il lettore, i corsisti si rendono accessibili, apportando un tocco di convivialità: cercano di dimostrare che compongono una grande famiglia unita.

26 Consideriamo, ad esempio,il caso della croce di Ponte Novu, illustrato da Kyrn. Non appena viene lanciata la sottoscrizione per l’erezione di una croce, Kyrn pubblica, nel 1923, un disegno rappresentante il ponte di Ponte Novu davanti al quale una donna vestita di nero – la Corsica – piange perché nessuna croce rende omaggio ai martiri della battaglia dell’8 maggio 1769. Nel 1925 il disegno viene ripubblicato, quasi identico: questa volta, tuttavia, la donna stringe con tutte le forze la croce tanto agognata. È un modo per ringraziare i donatori e per festeggiare questo evento, che sa di vittoria. Nello stesso anno viene celebrato il bicentenario della nascita di Pascal Paoli: J.A. Geronimi et P. Pollo rendono omaggio alla sua figura pubblicando un disegno allegorico. Il 14 luglio 1926, una grande festa riunisce i corsisti a , villaggio natale di Pascal Paoli: si tratta della loro terza merendella22. L’evento è illustrato da Kyrn23.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 33

27 Ma il lettore è compartecipe anche della realizzazione di eventi più schiettamente politici. Così nel 1927 il Partitu Corsu Autonomista si associa ai regionalisti bretoni e alsaziani per creare il Comité central des minorités nationales de France (CCMNF). A partire da questa data le “tre sorelle” – introdotte da un disegno di Matteo Rocca nel 1930 – appaiono con regolarità nelle caricature che vengono realizzate in occasione delle manifestazioni che le vedono protagoniste. Quando le illustrazioni non sono relative a ricorrenze, queste si ergono contro l’ingiustizia e le aggressioni di cui il movimento o il giornale sono vittime.

28 A titolo di esempio, in occasione dei secondi Stati generali che si svolgono nelle giornate del 27, 28 e 29 agosto 1935 a , la polizia fa irruzione nella sala. Il 29 agosto, la polizia municipale accompagnata da rinforzi vieta l’accesso alle sale a tutti coloro che non sono muniti della carta di delegato. In seguito a ciò, Matteo Rocca pubblica nell’edizione del 20 ottobre 1935 un disegno intitolato Libertà d’opinione. Con esso si sottende che è proprio la nazione corsa tutt’intera ad essere privata della libertà e non i rappresentanti di un partito politico. Per loro, la Corsica è la vittima di un abuso di potere da parte dello Stato francese.

Fig. 4. Matteo Rocca, A Muvra, 8 marzo 1931

29 Al pari della storia del movimento, anche quella del periodico è tormentata: i diversi avvenimenti riferibili alla rivista sono riportati. Sin dalla sua fondazione, la pubblicazione ha destato sospetti nelle autorità. Nel settembre 1923 è oggetto di censura e la sua vendita viene interdetta in Marocco. In seguito, a più riprese, è sotto processo per diffamazione contro «L’Oeuvre» nel 1937, e «La Corse» dal 1929 al 1931. A partire dal 1928, è vittima di una campagna stampa che la accusa di irredentismo. La perquisizione dei locali della rivista, il 3 febbraio 1928, è vissuta come un attentato alla

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 34

libertà di espressione. Il 10 febbraio 1928, la rivista pubblica un disegno di Kyrn: A Paghiella.

30 È una maniera per rimarcare che nessuno impedirà al periodico di esprimersi e di continuare la battaglia. Il 3 febbraio 1929, a mo’ di commemorazione, viene illustrato il primo anniversario di questa perquisizione. Tuttavia, trascinati dalle loro emozioni, i vignettisti possono essere contradditori: così avviene nel 1931. A seguito di problemi che il giornale ha conosciuto, i disegnatori si lamentano di non potersi esprimere liberamente. Matteo Rocca fa pubblicare un disegno intitolato E liberta di a Stampa. In questo disegno è la Corsica ad essere imbavagliata e non il periodico. Ancora una volta il lettore sussume l’idea che è proprio l’isola intera ad essere ridotta al silenzio: essi s’impongono come portavoce del popolo corso. Sette disegni sul tema della Corsica imbavagliata appaiono dal 1926 al 1939. Per converso, quando vincono il processo che li oppone al giornale «La Corse», sorto in seguito ad una protesta contro una caricatura che tale giornale riteneva diffamatoria, essi si tratta di un trionfo di dimensioni modeste, come è testimoniato dal disegno di Matteo Rocca intitolato Interru.

31 È la tumulazione del povero Dominique Antoine, deceduto leggendo l’arringa di V. de Moro-Giafferi contro gli autonomisti. «A Muvra» giubila e accomuna il lettore alla sua gioia. La giustizia ha riconosciuto che la rivista poteva esprimersi liberamente. Ma è bene non incorrere in fraintendimenti: questo comportamento, oltre ad una volontà di informare, rientra in un quadro più vasto di propaganda. Si direbbe ai nostri giorni “disinformazioneˮ. Ad un secondo livello, noi percepiamo le idee dei corsisti (il contenuto). Come non è evidente il processo che porta ad illustrare un concetto, poiché occorre risalire fino all’essenza per toccare il numero maggiore di persone, i vignettisti isolani si occupano di illustrare unicamente le cause e gli obiettivi della loro battaglia. Occorre utilizzare formule ad effetto. Tre temi spiccano: una Corsica povera e abbandonata; una Corsica che si esilia; una Corsica che resiste. La nozione di una Corsica povera è essenzialmente espressa attraverso l’idea di progresso. I disegnatori si sforzeranno di dimostrare che a partire dalla sua integrazione alla Francia nel 1769, l’economia dell’isola va alla malora. Essi denunciano lo stato e il costo dei trasporti, e fanno il paragone con i trasporti sardi che, per loro, sono di migliore qualità e meno cari. Parallelamente a questo, la caricatura denuncia la rivoluzione dei trasporti (maggiore tonnellaggio, rapidità e frequenza) come una delle cause del problema economico: l’isola è invasa da beni di consumo meno cari e di migliore qualità rispetto a quelli prodotti sul luogo e ciò determina un paradosso: «par l’intermédiaire des ports, ce sont les villes qui nourrissent les campagnes»24. Allo stesso tempo, se la caricatura ci fa comprendere che la Corsica ha delle possibilità in materia d’agricoltura, soffre volontariamente d’amnesia per ciò che riguarda la qualità dei suoi metodi di produzione e l’arcaismo delle sue tecniche. Non fa menzione degli sfruttamenti parcellari causati dalle divisioni dei terreni in seguito alle successioni e trascura del tutto le clausole doganiere che vessano la Corsica e che, peraltro, la stampa denuncia.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 35

Fig. 5. Ranfia, A Muvra, 5 febbraio 1922

32 I disegnatori segnalano unicamente ciò che è loro utile per le rivendicazioni: la nozione di progresso passa ugualmente per l᾿idea di confort (strade, ferrovie, elettricità). In tutti questi settori l᾿isola accusa un grande ritardo rispetto al continente. Se la caricatura denuncia questo ritardo, ignora gli ostacoli naturali (mare, montagna) che rallentano fortemente i lavori di costruzione delle differenti reti di comunicazione. Più che sulla povertà dell’isola, i disegnatori si focalizzano sull’idea di una Corsica abbandonata dalle autorità francesi: malgrado ciò, nessun disegno qualifica l’isola come dipartimento. L’equivoco è volutamente cercato. L᾿isola è presentata come una colonia, ma non ottiene dai poteri pubblici la stessa attenzione di una colonia: ancor più che una Corsica dimenticata, tra i cinque disegni dedicati al tema, quattro di questi (uno per anno, dal 1934 al 1937) illustrano una Corsica sconosciuta.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 36

Fig. 6. Matteo Rocca, A Muvra, 3 gennaio 1932

33 Lo humour permette ogni cosa, soprattutto ciò che non può essere scritto. I disegnatori creano e custodiscono un disagio: il lettore non può che ribellarsi di fronte a un᾿ingiustizia così palese. La causa di questo stato di fatto è, secondo loro, l᾿incuria del governo, sulla quale insistono, ma anche il clanismo che imperversa sull’isola. Per questo scopo non vengono risparmiati gli uomini politici: Adolphe Landry è particolarmente bersagliato. Tra il 1921 e il 1936, gli vengono dedicati ben ventuno disegni.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 37

Fig. 7. Matteo Rocca, A Muvra, 1 giugno 1933

34 Un secondo tema ricorre in modo ossessivo: l’emigrazione dei Corsi e le sue conseguenze. La causa essenziale di questa emorragia è la povertà dell’isola. Più di cinquanta disegni hanno un rapporto più o meno stretto con questo tema: qui più che per ogni altro tema i disegnatori utilizzano la carta dell’emozione.Gli illustratori sono Corsi e conoscono bene la mentalità dei loro concittadini: alcuni disegni possono generare senso di colpa. Matteo Rocca prende scientemente come esempio, per una vera presa di coscienza, la sepoltura di un padre: che cosa può accadere di peggio a una persona che fare l’ultimo viaggio nell’isolamento più completo, senza figli, senza amici? L’emigrazione massiccia comporta uno spopolamento dei villaggi, con una conseguente destabilizzazione irreversibile della vita sociale ed economica dell’isola. I disegnatori fanno leva sui punti sensibili, in particolare quando illustrano le conseguenze dell’esilio rivolgendosi al lettore. A più riprese Matteo Rocca insiste sul tema dell’invecchiamento degli isolani. Tenta di mettere sull’avviso la popolazione suonando una campana d’allarme, ma si assisterà, ancora nel 1935, a 13.700 partenze, che diverranno 14.800 nel 1937 e 16.700 nel 193925.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 38

Fig. 8. Matteo Rocca, A Muvra, 1 febbraio 1938

35 La caricatura ci fornisce una prospettiva preziosissima sul modo in cui i corsisti desideravano che i Corsi percepissero i loro compatrioti che avevano scelto di partire per il continente o le colonie. Emigrazione è sinonimo di funzionario: è per questo che i disegnatori trattano i Corsi esiliati con disprezzo. In più Kyrn caratterizza i suoi personaggi con sembianze semite: naso grosso e grandi labbra. Un’altra costante caratterizza l’emigrante di ritorno al paese: si crea una distanza rilevante fra ciò che si vuole rappresentare e ciò che è realmente. Nessuno può desiderare di somigliare a questo personaggio grottesco di cui ci si prende gioco. Non tutti i Corsi che sono emigrati sono nella stessa situazione: alcuni di loro hanno fatto carriera in seno all’amministrazione militare, come medici o avvocati; altri hanno avuto successo in ambito politico. Ma la caricatura ignora completamente quelli che hanno avuto successo: in nessun momento viene evocata questa possibilità. Se, casualmente, si sottende che il successo sia possibile è per insistere sulle conseguenze negative che questo può portare (malattia...). L’impatto di questi disegni non ha conseguito risultati dal momento che l’emorragia demografica è continuata: i Corsi hanno continuato a emigrare. I disegnatori hanno continuato a chiamare in causa i Corsi durante tutto questo periodo, in particolare dal 1929 al 1938, quando uno o due disegni l’anno vengono dedicati a questo tema. Tuttavia i disegnatori non lanciano frecciate verso i militari, quasi a scusarli. La prima guerra mondiale non è così lontana e la ferita non è cicatrizzata: i collaboratori del giornale hanno visto questa guerra. Petru Rocca era ufficiale ed è stato colpito; ha ricevuto la Croce di guerra con le palme e la Legion d’onore.

36 Inoltre i corsisti desiderano l’autonomia amministrativa della Corsica e non la sua autonomia militare.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 39

37 Le caricature non danno conto dell’emigrazione femminile. Come ricorda Janine Renucci: «C’est après 1920 que grossit la vague d’émigration masculine et que se déclenche l’émigration féminine, qui finit par prédominer»26.

Fig. 9. J. A. Geronimi e P. Pollo, A Muvra, 13 giugno 1926

38 Nel complesso la caricatura non si accontenta di denunciare una situazione: l’opinione pubblica è così allarmata che è allora possibile farla aderire alle soluzioni che le vengono proposte per far uscire l’isola dalla sua decadenza. È necessario resistere. La soluzione viene esposta in maniera chiara, non con parole mascherate o immagini codificate in senso enigmatico, sebbene sia, dal 1921 suggerita da un sol levante, simbolo della speranza dei giorni migliori, e da un muflone, simbolo della lotta della Corsica per l’autonomia. Dal 1921 al 1937 ben trentotto disegni evocano la resistenza. I disegnatori insistono a tal punto sul degrado economico e sociale dell’isola dopo la sua integrazione alla Francia, sull’incuria da parte del governo e sul non-senso storico di questa integrazione, che ha terminato una perdita della sua identità, al punto che la sola soluzione possibile sembra effettivamente essere l’autonomia. La parola autonomia appare sul testo della rivista dal 1920, prodotto della penna di Petru Rocca, ma il contenuto di questo concetto è ancora impreciso. Nel corso degli anni s’affina per affermarsi definitivamente nel 1926, data in cui la parola autonomia appare per la prima volta in una caricatura di J. A. Geronimi e P. Pollo: la Corsica parte alla deriva, ma rimane un’ancora di salvezza. Tuttavia, se questa parola pure è espressa, questo disegno non ci indica in alcun modo il contenuto di questo termine. I disegni sono quelli tipici degli ultimi anni. Questo testimonia che il movimento ha avuto bisogno di una certa maturità per arrivare a definire la sua posizione, dopo averla ricercata. A partire dal 1926 venticinque disegni ostentano la parola autonomia, di cui sette solo nell’anno 1937.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 40

39 Per giustificare le loro rivendicazioni, i corsisti si riallacciano a Pascal Paoli. Questo periodo è considerato come il più glorioso: il ricordo del Babbu è esaltato. Diciannove disegni vi fanno riferimento.

Fig. 10. Matteo Rocca, A Muvra, 6 giugno 1937

40 Per questo motivo è importante situare questo dibattito nel contesto internazionale dell’epoca. L’inizio del secolo è marcato dall’affermazione di un sentimento nazionale in seno al quale si sviluppano movimenti di protesta che rivelano, per riprendere il termine di Pierre Renouvin, minoranze nazionali27. È incontestabile che, negli ultimi anni del XIX secolo e i primi del XX, la protesta delle minoranze nazionali acquisisca, pressoché dappertutto in Europa, una nuova grandezza. Le forze che determinano questi movimenti sono talvolta legate alla situazione economica e sociale, ma sono soprattutto di ordine ideale: volontà di salvaguardare un sistema d’idee, di tradizioni, di credenze religiose; volontà di conservare il diritto di esprimersi nella propria lingua materna.

41 La stampa prende parte a questo risveglio; è attraverso questa che i movimenti di protesta si esprimono. La Corsica partecipa a questa grande corrente, che attraversa tutta l’Europa.

42 Malgrado ciò i corsisti si difendono dall’accusa di essere separatisti e la caricatura è orientata in tal senso. Daniel Polacci precisa che, a suo parere, è tra il 1932 e il 1937: «que A Muvra devient réellement irrédentiste, non plus seulement en tendance, mais consciemment et presque ouvertement»28. Dal 1932, otto disegni, su poco più di una decina, fanno riferimento all’irredentismo; ma, ed è un paradosso, le illustrazioni precedenti a questa data sono le più esplicite. Anche se i disegnatori preferiscono fare ricorso alla derisione o alla provocazione, è lo humour che domina. è un modo di approcciare un tema imbarazzante e di deviarne l’attenzione, dal momento che i

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 41

corsisti erano sospettati d’irredentismo: per questo verso, questi ultimi non rispondono esplicitamente agli interrogativi. O il non rispondere è, forse, un modo di confessare?

4. Conclusioni

43 Così, la caricatura politica sulla rivista A Muvra non rispecchia le testimonianze scritte. Sono illustrati i temi ricorrenti, come la povertà dell’isola, l’emigrazione dei suoi abitanti, il numero rilevante dei funzionari corsi o la nascita di un movimento regionalista poi autonomista. Ma la caricatura non è solamente il pallido riflesso dei documenti scritti: va ben oltre. In effetti, poiché è una caricatura politica di propaganda, orienta l’immagine della Corsica e dei Corsi verso una visione più conforme alle loro preoccupazioni. Gradualmente, a piccoli passi, in modo sornione, i disegnatori insistono su alcuni aspetti negandone altri. Così accentuano l’idea dell’abbandono dell’isola da parte dello Stato francese, mettendo in secondo piano la sua povertà: non inventano nulla, ma “creano degli squilibri”. Questi “aggiustamenti” sono difficilmente percepibili per i lettori dal momento che si fondano su realtà che nessuno contesta.

44 La caricatura illustra e completa il messaggio politico dei corsisti, che reclamano l’autonomia dell’isola e il ritorno alle tradizione e alla lingua dei maquis. La loro lotta è giustificata dalla loro storia: l’epoca di Pascal Paoli, quando la Corsica era indipendente, viene considerata come l’epoca d’oro a cui bisogna fare ritorno.

45 Per essere comprensibile la caricatura deve riassumere il suo messaggio e andare all’essenziale: circoscrivere un bersaglio implica l’operare delle scelte. La caricatura restituisce un’immagine incompleta e orientata: pecca di omissione. Insiste a tal punto sull’incuria del governo che la soluzione dell’autonomia che propone appare come un’evidenza e sembra effettivamente essere la migliore, se non l’unica.

46 La caricatura pecca così di esagerazione. Dal momento che è un documento iconografico, impone un’immagine stereotipata della “vera Corsicaˮ. L’immaginazione del lettore non è messa alla prova, dal momento che i disegni rappresentano fisicamente gli isolani e gli “altriˮ. Ispirandosi a correnti d’opinione, come la definizione d’una razza o la difesa di una minoranza nazionale, la caricatura impone dei clichés. Introduce la nozione di una “superiorità della razzaˮ corsa in rapporto alle altre. Una volta di più organizza l’opinione pubblica e prova ad influenzarne i comportamenti.

47 Ma, al contempo, la caricatura restituisce l’immagine di una Corsica ancorata al suo passato e alle sue tradizioni: dà l’impressione di rifiutare ogni modernismo, che rischia di intaccarla e di farle perdere la sua identità. Questo genera una forma di paradosso: da una parte denuncia la mancanza d’investimenti finanziari e di interesse da parte della Francia, ma anche, sistematicamente, tutto ciò che viene dal continente come la fonte della perdita dell’anima corsa.

48 Infine la peculiarità di una caricatura è di essere effimera. È vero che alcuni disegni hanno oggi perso il loro valore umoristico, appaiono persino troppo duri, ma non si può dubitare del fatto che risultassero molto divertenti. È dunque un paradosso se molte illustrazioni ci fanno ancora sorridere, se non ridere apertamente, e sembrano essere ancora molto attuali…

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 42

NOTE

1. SEARLE, Ronald, La caricature, art et manifeste: du 16. siècle à nos jours, Généve, A. Skira, 1974, p. 3. 2. PIERROT, Ketty, La caricature en France de 1919 à nos jours, Mémoire IEP, Aix Marseille 3, 1995. 3. GEORGI, Franck, TOUATI, François-Olivier, «Le dessin de presse et les dessinateurs: des objets d’étude pour l’historien» in Sources: travaux historiques, 26, 1991, pp. 69-80. 4. POLACCI, Daniel, Les autonomistes corses de l’entre-deux-guerres, Mémoire de Maîtrise, Aix en Provence, 1974. 5. YVIA-CROCE, Hyacinthe, Vingt années de corsisme: chronique corse de l’entre-deux-guerres, Cyrnos et Méditerranée, 1979, p. 8. 6. Ibidem, p. 14. 7. Il settimanale «A Tramuntana» fu edito dall’11 ottobre 1896 al 23 ottobre 1919; nato per iniziativa di Pierre-Toussaint Casanova aveva una connotazione politica, umoristica, satirica e letteraria ed era interamente redatto in lingua corsa. Fu espressione del regionalismo isolano portando avanti la denuncia delle condizioni di arretratezza economica, sociale e politica della Corsica. PELLEGRINETTI, Jean-Paul, ROVERE, Ange, La Corse et la République. La vie politique de la fin du second Empire au début du XXIe siècle, Paris, Seuil, 2004, pp. 233-239 [n.d.t.]. 8. SERRE-FLOERSHEIM, Dominique, Quand les images vous prennent au mot: ou comment décrypter les images, Paris, Ed. d’organisation, 1993, p. 37. 9. Durante la Terza Repubblica si giunse al punto per cui la censura rifiutava un disegno ma ne accettava la sua versione scritta, ovvero la descrizione del disegno e della sua didascalia. 10. CARPENTIER, Jean-Baptiste, «L’image fixe dans la communication politique», in Humanisme et entreprise, 3/1981, p. 29. 11. YVIA-CROCE, Hyacinthe, Anthologie des écrivains corses, t. 3, , Ed. Cyrnos et Méditerranée, 1987, p. 196. 12. CARPENTIER, Jean-Baptiste, «L’image fixe dans la communication politique», in op. cit., p. 27 13. DUCCINI, Hélène, «La caricature politique», in Historia, 251, 2001, p. 67. 14. È autore anche di alcune caricature apparse su «Corsica». 15. Kyrn ne fa una sapida descrizione in un articolo comparso su «A Muvra» nel 1927. 16. LETHÈVE, Jacques, La caricature sous la IIIè République, Paris, A. Colin, 1986, p. 77. 17. RAGON, Michel, Le dessin d’humour: histoire de la caricature et du dessin humoristique en France, Paris, Seuil, 1992, p. 58. 18. TILLIER, Bertrand, A la charge! La caricature en France de 1789 à 2000, Paris, Les éditions de l’Amateur, 2005, p. 178. 19. SIMONPOLI, Paul, «Le mouflon» in SIMONPOLI, Paul (sous la dir. de), La chasse en Corse, Ajaccio, PNRC, 1995, p. 153. 20. Ibidem, p. 168. 21. LAHLOU, Raphaël, «Chronique d’une relation difficile: la Corse et la Troisième République (1870-1940)», in BASTIANI, Tony (dir.), Encyclopaedia Corsicae, vol. V, Bastia, Ed. Dumane, 2004, p. 1019. 22. La merendella è l’equivalente italiano della scampagnata; nel caso specifico si trattava di ritrovi politici connotati dalla convivialità [n.d.t.]. 23. Le merendelle successive saranno documentate fotograficamente. 24. ARRIGHI, Paul (dir.), Histoire de la Corse, Paris, Privat, 1986, 25. Ibidem, p. 415. 26. RENUCCI, Janine, Corse traditionnelle et Corse nouvelle, Lyon, Audin impr., 1974, p. 136.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 43

27. RENOUVIN, Pierre, Le Mouvement des nationalités en Europe dans la seconde moitié du XIXe siècle, 3 voll., Paris, Centre de documentation universitaire, 1946 [n.d.t.]. 28. POLACCI, Daniel, Les autonomistes corses de l’entre-deux-guerres, Mémoire de Maîtrise, Aix en Provence, 1974, p. 146.

RIASSUNTI

La fine del XIX secolo vede una moltiplicazione dei movimenti nazionalisti in tutte le aree europee. In Corsica, in questo periodo emerge una corrente autonomista. Nel 1923 Petru Rocca, ispirandosi al Partito Sardo d’Azione, crea il Partitu Corsu d’Azione che assume successivamente la denominazione di Partitu Corsu Autonomista. I dirigenti affermano di non essere separatisti. Questo partito, nato in seno a una cerchia di intellettuali, denuncia il sistema politico francese quale causa dei problemi dell’isola e difende la lingua e la cultura corsa. Il giornale politico «A Muvra», fondato nel 1920 – e parzialmente redatto in lingua corsa – funge da tribuna del PCA. Nel corso degli anni il contenuto politico del giornale si fa più circostanziato fino ad approdare, nel 1927 ad una definizione dell’autonomia. Si batte per difendere gli interessi della Corsica lottando contro la “francesizzazione” forzata; per raggiungere le campagne il giornale pubblica degli spettacoli teatrali e della letteratura in lingua corsa, ma, al contempo, inserisce in prima pagina una vignetta, il cui compito è di raggiungere il grande pubblico: ad essa è affidato il compito di sintetizzare il pensiero dei corsisti.

La fin du XIXe siècle voit les mouvements nationalistes se multiplier dans les régions en Europe. En Corse un courant autonomiste émerge dès cette époque. En 1923 Petru Rocca, s’inspirant du Partito Sardo d’Azione, crée le Partitu Corsu d’Azione, et devient en suite Partitu Corsu Autonomista. Les dirigeants affirment qu’ils ne sont pas séparatistes. Ce parti, né dans un cercle d’intellectuels dénonce le système politique français, qui est source des problèmes de l’île, et défend la langue et la culture corse. Le journal politique «A Muvra» fondé en 1920 – rédigé en partie en langue corse – sert de tribune au PCA. Il s’attache à défendre les intérêts de la Corse en luttant contre la francisation abusive de celle-ci. Pour toucher les campagnes, le journal publie des pièces de théâtre et de la littérature en langue corse. Mais aussi, il insère en première page un dessin de presse qui doit être vu par le plus grand nombre de personnes et qui à lui seul résume la pensée des corsistes.

At the end of XIX century nationalist movements proliferated all over Europe. During this period, an autonomist tendency emerged in Corsica. In 1923, Petru Rocca, inspired by the Sardinian Action Party, founded Partitu Corsu d’Azione which subsequently took the name of Partitu Corsu Autonomista. This party, arisen in the inner circle of intellectuals, denounced that French political system was the cause of all of the island problems and defended Corsica’s and culture. The political newspaper «A Muvra», founded in 1920 – and partly edited in Corsican language – served as tribune of the PCA, fighting against Corsica’s “Frenchification”.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 44

INDICE

Mots-clés : autonomisme, Corse, gravure, langue corse, presse corse Parole chiave : autonomismo, caricatura, Corsica, lingua corsa, stampa corsa Keywords : autonomism, caricature, Corsica, Corsican language, Corsican press

AUTORI

MARIE-CLAUDE LEPELTIER Nata nel 1962 nella regione della Basse-Normandie. Giunta in Corsica, ha ripreso i suoi studi storia conseguendo la laurea nel 1997. Attualmente è bibliotecaria dell’Université Pascal Paoli di Corté. Responsabile del fondo regionale, lavora all’attuazione di un “piano di conservazione condivisa dei periodici corsi” in collaborazione con le biblioteche pubbliche e gli Archivi dipartimentali dell’isola.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 45

L’Anti-Macunaíma: l’industriale brasiliano Delmiro Gouveia attraverso la narrativa di Mário de Andrade

Dilton Cândido Santos Maynard Traduzione : Jacopo Bassi

1 In questo saggio intendo indagare come l’industriale brasiliano Delmiro Augusto da Cruz Gouveia (1863-1917), conosciuto come “colonnello dei colonnelli”, fu visto da Mário de Andrade (1893-1945) e come, in alcuni testi, lo scrittore paulista contribuì a mitizzarlo. Attraverso Mário de Andrade, emerge un brasiliano votato al progresso, immerso nel sertão e realizzatore di quasi tutto ciò che compete ai governanti. Tuttavia, a prescindere dall’ammirazione che traspare, de Andrade non fece che qualche menzione sommaria a Gouveia, all’interno un corpus documentale che spazia dalle cronache, alla corrispondenza, passando per Macunaíma (1928) 1, il suo libro più noto2. Ma, prima di tutto, è opportuno soffermarsi sulla figura del colonnello.

2 Delmiro nacque a Ipu (Ceará, Stato dell’attuale Nordeste brasiliano) e, secondo Mário, «abbandonò il Pernambuco ancora curumirim3»4. Visse a Recife fino al 1902; svolse diversi incarichi: da quello di funzionario della Brazilian Street Railways, fino a quello di dirigente della Keen Sutterly Company, esportando pelli. Astuto, si arricchì con questo commercio e, secondo Graciliano Ramos, «acquisì così tanta abilità [in ciò] che avrebbe potuto [...] scuoiare una capra viva senza che questa percepisse che veniva scuoiata»5. La ricchezza portò con sé progetti ambiziosi, come il mercato di Derby, realizzato alla fine dell’Ottocento, che funzionava giorno e notte, offrendo prezzi bassi

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 46

e diverse possibilita per i suoi visitatori6. Tuttavia questo stesso fasto portò con sé intrighi con politici di rilievo e lo obbligò ad esercitare una costante vigilanza sui suoi affari. In diverse occasioni Delmiro Gouveia commise «commerci illeciti»7. In diversi frangenti fu messo in custodia dalle autorità.

3 Gouveia subì l’incendio del Derby, fu arrestato e poco dopo dichiarò fallimento. Sposato ma invaghitosi di una figliastra di un avversario, lasciò Recife e si insediò nel sertão alagoano. Lì, nella città di Pedra, si occupò nuovamente dell’esportazione di pelli e inaugurò la compagnia agro-industriale mercantile, la Fabbrica di Pedra, specializzata in fili per cucire.

4 La città si sviluppò assieme a Gouveia. Convogli carichi di pelli giungevano da vari luoghi. Delmiro creò una scuola, un cinema, una pista di pattinaggio, una farmacia e portò l’acqua corrente e l’elettricità nel villaggio. Nel sertão alagoano le sue automobili spaventavano gli abitanti dell’interno: «Mamma mia che cos’è quello/Che stupisce la gente?/ – È l’auto di Delmiro/con un fuoco acceso sul davanti»8. Gli operai erano obbligati a studiare e a mandare i figli a scuola. L’industriale richiedeva la massima pulizia agli impiegati, che sanzionava con multe se gettavano carta a terra o se sputavano sul pavimento. Proibendo le bevande alcoliche e l’uso delle armi, Gouveia impressionò gli ospiti che ricevette nella città di Pedra, personalità come Assis Chateubriand e Oliveira Lima. Il primo affermò di vedere nella città «una risposta a Canudos»; il secondo riportava «nei magazzini ho visto pile di latte di té Lipton. Sembra Londra, ma in pieno sertão»9.

5 Delmiro fu assassinato a colpi d’arma da fuoco nel 1917, in una notte d’ottobre, mentre leggeva il giornale nella veranda della sua casa di campagna. A seguito di cio alcuni narratori costruirono intorno a lui un’aura civilizzatrice. È mia opinione che Mario de Andrade sia stato un importante contributore dell’opera di mitizzazione del cearense. Si ritrovano segni di cio nei passaggi – come quello riportato di seguito – delle pagine finali di Macunaíma: Macunaíma meditò ancora un poco, in dubbio se andare a vivere in cielo o nell’isola di Marajó. Per un momento pensò addirittura di andare ad abitare nella città di Pedra con l’energico Delmiro Gouveia, ma non ne ebbe il coraggio. Vivere là come era vissuto fino allora era impossibile. Anzi era proprio per questo che non aveva più voglia di star sulla Terra... [...] e per fissarsi nella città di Delmiro o nell’isola di Marajó che appartengono alla Terra è necessario un significato. Decise: «Per carità!... Quando l’urubu ha il malocchio, quello di sotto caga su quello di sopra: a questo mondo non c’è rimedio e io me ne vado in cielo10.

6 Pedra, città di Delmiro, sarebbe stata un palcoscenico inadeguato per l’«eroe senza nessun carattere». La diagnosi secondo la quale «a questo mondo non c’è rimedio» rivela i contrasti attraverso cui Macunaíma era passato, «si era divertito» (una delle metafore di Mario de Andrade per il sesso)11 e aveva conosciuto i simboli della civilizzazione, come il telefono e la Smith-Wesson12. A prescindere da ciò, cosa ci fa Delmiro Gouveia in uno dei maggiori classici della letteratura brasiliana, dove viene rappresentato come un contraltare a Macunaíma? Anzitutto ci si potrebbe limitare ad affermare che non si tratta di un discorso apologetico del Nordeste. In definitiva Mario de Andrade aveva tra i suoi obiettivi quello di «mancare di rispetto in maniera leggendaria» tanto alla geografia quanto alla zoologia e alla botanica. Così, in Macunaíma, in una pagina l’eroe è lungo il Solimões13, in quelle successive percorre il «Sergipe da un capo all’altro»14. In questo modo, scrisse de Andrade, «de-regionalizzava

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 47

il più possibile il creato mentre, al contempo conseguiva il mérito di distinguere letterariamente il Brasile come un’entità omogenea»15.

7 Macunaíma, poco dopo aver pensato di andare a vivere assieme a Delmiro Gouveia, scriverà su un masso: «Non sono venuto al mondo per essere una pietra». Un’affermazione casuale? Nient’affatto. Il passaggio, secondo Cavalcanti Proença16, consiste in una sorta di proverbio indigeno, raccolto da Couto Magalhães, e che può essere interpretato anche come rifiuto dell’eroe di conformarsi a determinati standard, come quelli tanto elogiati nella figura di Gouveia.

8 Forse il riferimento alla pietra non allude solamente alla città di Gouveia, ma anche all’arcinemico dell’eroe, Venceslau Pietro Pietra. Su questo conviene Albuquerque: «[...] dal momento che la pietra è il materiale da costruzione più rapidamente associabile alla resistenza e alla durevolezza, in Macunaíma rievoca [...] distruzione e predazione»17. Cosi le caratteristiche di inerzia e sterilità convivono con la rappresentazione di un’altra pietra – in questo caso vitale – all’interno dell’opera: l’amuleto dato all’eroe da Ci, il suo unico amore. I rapporti tra costruzione e decostruzione, comuni nel testo di Andrade, appaiono continuamente non solo nei riferimenti alle pietre, ma anche alle formiche e la pigrizia.

9 Queste ambiguità – che tanto piacevano a Mario de Andrade – suggeriscono una controversa interpretazione dell’ethos brasiliano. Macunaíma ripete frequentemente «Ahi! Che pigrizia...». L’espressione, presente in diversi passaggi del libro, si contrappone all’etica del lavoro, alla disciplina, ai valori che secondo Mario de Andrade incarnava Delmiro Gouveia, soprannominato dallo stesso intellettuale paulista “il grande cearense”. Lungi dal profilo dell’eroe distruttivo e pigro, il colonnello ricevette gli elogi dello scrittore. Ma come entrò in contatto con Delmiro Gouveia? Un tentativo di risposta a questa domanda – premetto che sarà insufficiente – mi porta a seguire le orme calcate dallo scrittore nello scrivere il suo classico. Secondo la corrispondenza e le diverse prefazioni di Mario de Andrade il libro (che tuttavia fu edito senza prefazione) venne scritto tra il 16 e il 23 dicembre 1926 presso la tenuta dello zio Pio, ad Araraquara, nello Stato di San Paolo, e, successivamente, rivisto e ampliato nel 1927. Dal momento in cui divenne un’entità conosciuta, l’antieroe di de Andrade catturò l’attenzione di molti intellettuali. Nel suo dizionario del folklore brasiliano Câmara Cascudo definì Macunaíma come «un’entità divina per i Macuxi, gli Acavais, gli Arecunas e i Taulipang, indigeni dei Caraibi, a ovest del tepui del Roraima e dell’Alto Rio Branco, nella Guiana brasiliana».

10 Per parte sua, Cavalcanti Proença rileva come i nomi di Macunaíma e dei suoi fratelli facciano riferimento ad un eroe che compare per la prima volta nel 1868, in un testo di William Henry Brett sulla silvicultura della Guiana18: «Misconoscendo la sua reale personalità i missionari hanno usato il nome di Macunaíma per tradurre quello di Dio nei catechismi». Lo stesso Cascudo spiega che, con il tempo, Macunaíma si era trasformato in un «mix di astuzia, malignità istintiva e naturale, di allegria beffarda e felice»19.

11 Conscio di questa polifonia, De Andrade affermava: «Questo è Macunaíma e questi sono io»20. L’autore che iniziò ad studiare il tedesco nel 1918, lesse l’opera Von Roraima zum Orinoco21 (Dal Roraima all’Orinoco) di Theodor Koch-Grünberg (1872-1924) e della quale si appropriò cannibalizzandola, alla maniera dei cantori nordestini «[...] che compravano dal primo rigattiere una grammatica, una geografia o un quotidiano di

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 48

quel giorno, e compongono con questo uno sfoggio di erudizione, o un romanzo tragico dell’amore vissuto nel Recife».

12 Leggendo le parole citate non è difficile sospettare che il cearense avesse impressionato Andrade. In fin dei conti, a 39 anni, lo stesso Gouveia fu personaggio di un romanzo conturbante. Non è improbabile che lo scrittore, nell’impeto di «conoscere letterariamente il Brasile», avesse incontrato riferimenti a Delmiro Gouveia nei cantanti e nei periodici nordestini. In definitva, questi era stato protagonista sui giornali e sulle riviste, sia nelle colonne sociali che in quelle dedicate alla fatti della politica e giudiziari22. Ma torniamo al modernista.

13 Tra il dicembre del 1928 e il marzo del 1929, Mario de Andrade compì il suo secondo “viaggio etnografico”. L’escursione lo portò anche nelle regioni del Nordeste. Di lì, grazie ai contatti intensi con figure come quelle di Manuel Bandeira, Cícero Dias e Luís da Câmara Cascudo, De Andrade potè raccogliere registrazioni audio di musiche stregonesche, Coco, racconti. Tra le reminiscenze registrate dall’autore, richiama l’attenzione, una conversazione in mezzo all’Atlantico con: «un uomo del Paranà che aveva vissuto a lungo con Delmiro e con il quale conversammo a lungo del grande cearense». Mario de Andrade rievocò quel giorno come caratterizzato dal brutto tempo e dal mare agitato. Ma che cosa ricordava la persona con cui si era intrattenuto di Delmiro? Un primo aspetto era quello dell’ethos disciplinatore. E De Andrade sembrò essere deliziato da ciò che udì: «[...] dicevano che Delmiro Gouveia fosse perverso, non lo era. Il mio compagno di viaggio afferma che fu l’Antônio Conselheiro del lavoro, non mandò a morire nessuno». Rincarando: «Delmiro era solito dire che il brasiliano senza bastonate non si muove, e per mostrare che bastonava e faceva bastonare, agiva bene». E scriveva ancora: «In un’occasione, una di queste [donne] fumava la pipa sull’uscio della porta, rimuginando intensamente». Gouveia, racconta de Andrade, «proseguì al trotto arrestandosi solo trenta metri oltre, girando l’animale di colpo, spinse la bestia al galoppo e con un preciso colpo di frusta strappò la pipa dalla bocca della donna. Che non fumò mai più»23. Il sarcasmo di questo passo si inserisce nell’ottica per cui la cronaca «può dire cose e più impegnate attraverso il suo zigzagare che una conversazione che procede apparentemente dritta filata»24.

14 Intrecciando le sue riminiscenze, Mario de Andrade descrive l’operato di Delmiro Gouveia come unico e contraddittorio. Pur non negando la violenza, presentandola satiricamente, egli vide con soddisfazione il processo di civilizzazione nell’Alagoas. Le innumerevoli trasformazioni portate dal cearense a Pedra venivano elogiate dal momento che la città aveva raggiunto una «perfezione nel meccanismo urbano senza eguali nella nostra terra»25.

15 Per de Andrade, il controllo rigoroso sui sertanejos evidenziava il suo ethos modernizzatore: «Se [sic!] un bambino parlava in classe, Delmiro mandava a chiamare il padre per domandarne la ragione. Giunse a scacciare i genitori che sottraevano giorni di studio ai figli impegnandoli in qualche piccola occupazione. Se per caso c’erano ragazzi pigri, il negoziante ne metteva assieme un gruppo e «mandava un nero a bastonare “africanamente” con la bacchetta le natiche di quelli»26. Vale la pena di ricordare che, come una narrazione, la cronaca «si riferisce al mondo e, così facendo, ora porta con sé le procedure di elezione, la scelta, il riconoscimento, la valutazione e l'esclusione»27.

16 Con un profilo proprio del personaggio andradiano, Delmiro Gouveia era stato classificato come il “genio della disciplina”. Mentre Macunaíma, tuttavia, se ne andò

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 49

perché non sopportava più questa terra, Gouveia fu assassinato perché questa terra non lo sopportava più28. Per Mario de Andrade, il colonnello, guardiano dei treni in gioventù, restava come una specie di: «teatrale manovratore di luci [...] dentro alla notte del carattere del Brasile», tratto che spiegava il suo tragico destino: «ebbe la fine che meritava: lo assassinarono. Non potevamo sopportare questo faro che feriva i nostri occhi, incubatori di illusioni, la città di Petra nell’Alagoas». In un altro breve riferimento, Mario de Andrade ricorda che dopo aver perso l’amuleto, il manufatto che gli avrebbe permesso di «riorganizzarsi una vita legittima e funzionale», Macunaíma «rinuncia ad andare a vivere con Delmiro Gouveia, il grande creatore» e si lancia nella sua ultima avventura, quella di andare sulla Luna29.

17 Ma che cosa significa andare sulla Luna? Secondo Cavalcanti Proença, possiamo considerare questa possibilità: ossia che il «luccichio inutile» della luna sia una metafora delle conclusioni tratte dall’eroe durante la vita terrena. Partendo dalla Terra, Macunaíma «continuerà a luccicare, finalmente senza finalità, né serietà, in questa vocazione per il luccicare puro, senza calore che Mario de Andrade censurò a più riprese negli artisti brasiliani»30. Un esempio di ciò appare nel 1928, in una delle sue molte lettere a Carlos Drummond, nella quale egli esorta l’amico a non «vivere il luccichio intenso delle stelle», ma «tentare a San Paolo» e, osserva: «chissà che con il contatto con una città in cui si lavora [...] tu abbia il coraggio per darti un’organizzazione e abbandonare questa soluzione a cui era arrivato Macunaíma»31. Così la sua scelta di andare sulla Luna, pone nuovamente in contrapposizione la figura di Delmiro e il personaggio di De Andrade.

18 Per Mário de Andrade, Delmiro era: «grande creatore», «genio della disciplina», «teatrale manovratore di luci» e «faro». Riferimenti tanto positivi al cearense riflettono una ammirazione, forse nata durante i viaggi fatti nel nord del Brasile. Ma tra gli epiteti attribuiti al cearense, quello di “Antônio Conselheiro del lavoro” ispira una riflessione più attenta. Che cosa esprime questa affermazione? De Andrade fonde, in un solo personaggio, due forti stereotipi del sertão brasiliano. Da un lato, ricorre alla figura di Antônio Conselheiro (1830-1897), il santone a capo della ribellione dei Canudos; dall’altro, la corregge con l’aggiunta del termine “lavoro”. Le due parole accostate indicano le influenze che la lettura euclidiana esercitò nella costruzione delle interpretazioni sul passato del Norte brasiliano. Mario de Andrade raffina la figura mitica delineata da Euclides da Cunha (1886-1909) come una sintesi di «tutte le credenze ingenue, dell’idolatria barbara derivante da aberrazioni cattoliche, tutte le tendenze impulsive delle razze inferiori liberamente esercitate nell’indisciplina della vita del sertão» individuando in Gouveia una nuova sintesi, una lettura positiva della vita sertaneja32. Abbiamo cosi un altro tipo di santone, un messia legato al mondo produttivo. Si avvia qui un dialogo discreto con una tradizione interpretativa inaugurata da Os Sertões33 (1902), considerata come la fonte «più adatta» sui confronti sorti nell’accampamento del sertão e, già al tempo in cui scriveva De Andrade, un’opera unica sia sul piano letterario sia su quello documentale34.

19 Giungendo così a vedere in Delmiro un “Conselheiro del lavoro”, Mário de Andrade stabilisce una curiosa connessione con le interpretazioni euclidiane dei problemi brasiliani. L’industriale emerge solo brevemente dai testi, ma sempre come figura esemplare. È descritto come un campione della civilizzazione – in contrasto con la paranoica «testimonianza rara di atavismo» rappresentata da Conselheiro. L’uomo che Euclides da Cunha affermò che era entrato nella storia nello stesso modo in cui

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 50

«sarebbe potuto entrare in un ospizio», si contrapponeva al «re delle pellicce», descritto da De Andrade come qualcuno in anticipo sui tempi. Delmiro Gouveia, tratteggiato da De Andrade come una figura illuminista, dello “gnostico rude” che una volta dominava sul sertão35. Se Conselheiro era un evangelizzatore mostruoso che aveva sempre intrapreso le professioni meno dure, Gouveia, energico e abile con la frusta è l’antitesi di questo. Il cearense, per de Andrade, era «dotato di un’energia maschile, preesistente e non casuale, come tra noi è ancora una consuetudine ereditata dal calore solare»36. Uno che con «la religione dell’igiene e l’ateismo delle elemosine religiose», trascinava con sé persone in nome del lavoro, di una vita organizzata e funzionale, suggerisce Mario de Andrade. Qualcosa di così evidente che anche Macunaíma ne era a conoscenza.

20 Ponendo Gouveia come una delle alternative al suo antieroe, Mário de Andrade contrappone allo spirito avventuriero del brasiliano un’esperienza apparentemente isolata del culto della disciplina, del lavoro. Come osserva Cavalcanti Proença: «questo spirito dell’avventura del brasiliano, che si contrappone al lavoro, non è un invenzione di Mario de Andrade, ma una constatazione – fatta con serietà – dei sociologi eruditi, maestri come Sérgio Buarque de Hollanda»37. Lo stesso Mario de Andrade riafferma la frustrazione provata nei confronti del destino del personaggio: «Quando, dopo un’esistenza inutile, Macunaíma dimette l’idea di voler stare tra la gente e di poter realizzare qualcosa come Delmiro Gouveia e preferisce andare a vivere il luccichio inutile delle stelle, i miei occhi si bagnano»38. In mezzo alle lacrime, alle beffe e ad elogi dispensati attraverso brevi e sparsi riferimenti come questi, assume rilievo la rappresentazione del colonnello dei colonnelli come una sorta di Anti-Macunaíma, antitesi dell’eroe andradiano e, in qualche modo, dello stesso popolo brasiliano.

NOTE

1. De ANDRADE, Mario, Macunaíma: o heroi sem nenhum caráter, São Paulo, Eugênio Cupolo, 1928. 2. «Per i Gesuiti Macunaíma era a turno Dio (indicato con questo nome nei catechismi delle missioni) e il diavolo, o meglio “il grande malvagio”. Mario de Andrade ne fa l’eroe della sua gente, e il personaggio è tutto suo. Eroe negativo, naturalmente, che permette di unire tra loro, collegandoli a schidionata sul filo della propria individuale avventura di picaro rabelaisiano, gli episodi disparati, le leggende colte a ogni livello del folclore nazionale, le storie indie e le “piadas” pauliste chiamate a costruire questa “rapsodia” ironica e popolaresca di motivi brasiliani[…]. Eroe senza carattere, indio-negro e poi bianco con gli occhi azzurri, pigro, lussurioso, crudele, cuore-tenero, avido di denaro, furbo, malfido, capace di ogni inganno e prodezza e sconfitto sul piano personale da avvenimenti sempre più grandi di lui […], Macunaíma si colloca sul rovescio della tradizione ufanista e alencariana dell’indio nobile-cavaliere-senza- macchia. Vuole rappresentare fuori di ogni schema retorico e di ogni costruzione miticamente aprioristica, il Brasile mistirazziale, nella sua realtà sociale e linguistica». STEGAGNO PICCHIO, Luciana, Storia della letteratura brasiliana, Torino, Einaudi, 1997, pp. 442-443 [NdT]. 3. Termine della lingua tupi che significa «fanciullo» [NdT].

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 51

4. De ANDRADE, Mario, O grande cearense, in ID., Os Filhos da Candinha, São Paulo- Brasília, Martins Editora-INL, 1976, pp. 39-44. La citazione è tratta da p. 39. 5. RAMOS, Graciliano, Viventes das Alagoas: quadros e costumes do Nordeste, Rio de Janeiro-São Paulo, Record-Martins, 1977, pp. 113-114. 6. Il mercato Derby fu inaugurato a Recife nel 1899. Gouveia fu ispirato dalla visita, compiuta nel 1893, dell’Esposizione Universale di Chicago, nella quale ebbe occasione di vedere il Fisheries Building di Ives Cobb. Il mercato venne bruciato nel 1900 [NdT]. 7. MOTA, Mauro, Quem foi Delmiro Gouveia?, São Paulo, Edições Arquimedes, 1967, p. 30. 8. DANTAS, Paulo, O filho do Mississipi, São Paulo, Clube do Livro, 1974, p. 127. 9. LIMA, Manuel de Oliveira, Um passeio a Paulo Afonso, in ID., Obra Seleta, Rio de Janeiro, INL, 1971, pp. 427-435. Il passo citato è a p. 431. 10. ANDRADE, Mario de, Macunaíma. L’eroe senza nessun carattere, Milano, Adelphi, 1970, p. 246. 11. «[...] espressioni convenzionali, rir ‘ridere’ e brincar ‘giocare’, usati nell’accezione di fare all’amore [...]». STEGAGNO PICCHIO, Luciana, op. cit., p. 443 [NdT]. 12. ANDRADE, Mario de, Macunaíma, cit., p. 203. 13. Ibidem, p. 208. 14. Ibidem, p. 211. 15. ANDRADE, Mario de, Prefácio, in ID., Macunaíma, o herói sem nenhum caráter, Rio de Janeiro, Agir, 2007, p. 217. 16. PROENÇA, M. Cavalcanti, Roteiro de Macunaíma, Rio de Janeiro-Brasília, Civilização Brasileira- INL, 1974, p. 12. 17. ALBUQUERQUE, Severino João, «“Construction and destruction” in Macunaíma», in Hispania, 70, 1/1987, pp. 67-72. La citazione proviene da p. 70. 18. BRETT, William H., The Indian Tribes of Guiana; Their Condition and Habits, London, Bell and Daldy, 1868. 19. CASCUDO, L. Câmara, Dicionário Brasileiro de Folclore, São Paulo, Global Editora, 2000, p. 347; PROENÇA, M. Cavalcanti, op. cit. 20. ANDRADE, Mário. A Raimundo Moraes cit. in LOPEZ, Telê Ancora (Org.), Táxi e crônicas do Diário Nacional, São Paulo, Duas Cidades, Secretaria da Cultura, Ciência e Tecnologia, 1976, p. 434. 21. KOCH-GRÜNBERG, Theodor, Von Roraima zum Orinoco: Ergebnisse einer Reise in Nordbrasilien und Venezuela in den Jahren 1911-13, 4 voll., Stuttgart, Strecker und Schröder, 1917-1928. 22. ROCHA, Tadeu, Delmiro Gouveia:o pioneiro de Paulo Afonso, Recife, Universidade Federal de Pernambuco, 1970. 23. De ANDRADE, Mario, O grande cearense, cit., pp. 43-44. 24. CANDIDO, Antonio, A vida ao rés-do-chão, in Para gostar de ler, vol. 5, São Paulo, Àtica, 2002, pp. 89-99. La citazione proviene da p. 98. 25. De ANDRADE, Mario, O grande cearense, cit., p. 42 26. Ibidem. 27. PESAVENTO, Sandra J., «Crônica: a leitura sensível do tempo», in Anos 90, 7, 1997, pp. 29-37. La citazione proviene da p. 33. 28. PROENÇA, M. Cavalcanti, op. cit., p. 60. 29. De ANDRADE, Mario, «Notas diárias», in A Mensagem. Quinzenário de Literatura e Arte, 2, 26/1943, p. 1. 30. PROENÇA, M. Cavalcanti, op. cit., p. 15. 31. De ANDRADE, Mario, A lição do amigo: cartas de Mário de Andrade a Carlos Drummond de Andrade, anotadas pelo destinatário, Rio de Janeiro, J.Olympio, 1982, p. 133. 32. CUNHA, Euclides, O Homem, in ID., Os Sertões: campanha de Canudos, Rio de Janeiro: Livraria Francisco Alves, 1997, p. 166. 33. Da CUNHA, Euclydes, Os Sertões, Milano, Sperling & Kupfer, 1953.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 52

34. GINZBURG, Carlo, Spie. Radici di un paradigma indiziario in ID., Miti, emblemi, spie: morfologia e storia, Torino, G. Einaudi, 1986, pp. 168-209. 35. CUNHA, Euclides, op. cit., 1997, pp. 165-166, 168. 36. De ANDRADE, Mario, O grande cearense, in ID., Os Filhos da Candinha, São Paulo-Brasília, Martins Editora-INL, 1976, p. 42. 37. PROENÇA, M. Cavalcanti, Roteiro de Macunaíma, Rio de Janeiro-Brasília, Civilização Brasileira- INL, 1974, p. 12. 38. De ANDRADE, Mário, Começo de crítica. Diário de Notícias. in Vida Literária, São Paulo, Edusp, 1993, pp.11-16. La citazione si trova a p. 12.

RIASSUNTI

Lo scopo di questo saggio è analizzare la costruzione della figura dell’industriale brasiliano Delmiro Gouveia, quale contraltare a Macunaíma nei testi di Mário de Andrade. Le fonti utilizzate saranno le cronache, gli epistolari e il romanzo Macunaíma. Da questi documenti emerge come, a differenza dell’indisposizione al lavoro, caratteristica principale del personaggio di de Andrade, Delmiro Gouveia sia rappresentato come un brasiliano non comune, dedito al lavoro e al progresso del proprio paese.

The purpose of this essay is to analyze the figure of Delmiro Gouveia, Brazilian industrialist, as a counterpart of Macunaíma in Mário de Andrade’s scriptures. Chronicles, letters and Macunaíma’s romance will be the sources for this research. Differently from the character in Andrade’s novel, in which Delmiro Gouveia is represented as a lazy worker, we will observe in these documents that this man was a unique Brazilian, dedicated to the progress of his own country.

INDICE

Parole chiave : Brasile, Delmiro Gouveia, letteratura brasiliana, Macunaíma, Mário de Andrade Keywords : Brazil, Brazilian litterature, Delmiro Gouveia, Macunaíma, Mário de Andrade

AUTORI

DILTON CÂNDIDO SANTOS MAYNARD Ha conseguito il postdottorato in Storia nell’Universidade Federal do Rio de Janeiro (UFRJ). È professore presso l’Universidade Federal e Sergipe (UFS).

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 53

La Seconda guerra mondiale sugli schermi: un’analisi del cinema nel Nordeste brasiliano (1939-1945)

Andreza Santos Cruz Maynard Traduzione : Anita Lucchesi

1 L’invenzione del cinema ed i primi film incantarono il pubblico in vari paesi: in Brasile si accontentò del consumo dei film stranieri. In virtù della scarsa produzione nazionale nei primi decenni del ventesimo secolo, per non menzionare la differenza della qualità tecnica delle produzioni patrie, i cinema brasiliani furono invasi dai film europei e nordamericani. Durante la Seconda guerra mondiale il Brasile strinse legami politici, economici e culturali con gli Stati Uniti. Questo riavvicinamento aprì ancora più le porte del paese alla produzione cinematografica hollywoodiana.

2 I grandi studi nordamericani lavoravano in Brasile fin dalla fine degli anni Dieci del Novecento. Grazie agli uffici stabiliti in alcune città, le produzioni nordamericane approfittavano della politica della Boa Vizinhança, del “buon vicinato”1, per riscuotere consenso presso il pubblico brasiliano che, secondo Cristina Menguello2, tra gli anni Trenta e Quaranta era il terzo più grande consumatore mondiale dei film prodotti negli Stati Uniti. In questo senso, l’articolo prende in esame il rapporto tra i cinema della città di Aracaju (capitale dello Stato del Sergipe) ed i film proiettati durante gli anni della Seconda guerra mondiale.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 54

3 I giornali che circolavano nella capitale di Sergipe tra 1939 e 1945 sono state le principali fonti documentali consultate per la realizzazione di questo articolo. Periodici come il «Correio de Aracaju», «Folha da Manhã», «A cruzada», «Sergipe Jornal» e «O Nordeste» venivano utilizzati come mezzi per la circolazione dei programmi giornalieri delle principali sale di proiezione del luogo. Ogni locale era in grado di inviare la lista dei film in proiezione, e assieme a questa, la sinossi o la rassegna stampa del film che arrivava alle sale di proiezione; in alcuni casi facevano in modo che si pubblicassero sui giornali anche delle immagini tratte dai film. Durante la guerra era normale che i film arrivassero in città col treno che veniva da Salvador (capitale dello Stato di Bahia), dove le case produttrici nordamericane avevano i loro uffici.

4 In quanto mezzo di comunicazione, il cinema era sotto la sorveglianza del DIP (acronimo portoghese per Departemento de Imprensa e Propaganda, Dipartimento per la Stampa e la Propaganda), creato per promuovere l’Estado Novo brasiliano3. I film nazionali ed internazionali che arrivavano ad Aracaju erano perciò in un primo momento valutati dal DIP. Questa misura mirava ad evitare critiche nei confronti del regime politico e la circolazione di notizie favorevoli alla Germania, all’Italia e al Giappone. L’attenzione verso i film proiettati in questo periodo diventava centrale per il governo, dato che il cinema non può essere considerato soltanto una forma d’arte, poiché esso è, «innanzitutto, un mezzo di comunicazione e riproduzione [...] può avere come obiettivo la semplice divulgazione di dati, senza che ciò abbia nulla a che vedere con l’estetica»4.

5 Il DIP lavorava in collaborazione con l’Office of Inter American Affairs (OCIAA)5, l’agenzia brasiliana che sviluppava attività anche in Brasile. Ne era capo Rockfeller e lo OCIAA era risponsabile dai rapporti di boa vizinhança degli Stati Uniti con gli altri paesi del continente. Ed il cinema ottenne un trattamento speciale nell’intento di far sì nessun film sembrasse offensivo ai latinoamericani; per questa ragione «[…] vennero censurate scene, furono proibiti certi argomenti, furono suggerite modifiche alle sceneggiature»6. Negli Stati Uniti le case produttrici potevano concorrere liberamente, però all’estero l’azione era legata alla Motion Picture Association of America, che improntava le sue attività sulla dinamiche della politica estera della Casa Bianca7.

6 Tuttavia gli Stati Uniti non speravano che i brasiliani acquisissero semplicemente e soltanto l’idea che loro erano buoni vicini. Lo sforzo per promuovere la diffusione del film nordamericano non voleva soltanto rafforzare i legami tra i due paesi. Il predecessore di Franklin Delano Roosevelt (1933-1945), Herbert Hoover (1929-1933) aveva già esplicitato che «dove entra il film americano, vendiamo più macchine americane, più cappelli, più giradischi americani»8.

7 Così in Brasile veniva a crearsi un immenso mercato per i film, ma anche per il modo di vivere nordamericano e per i prodotti industrializzati che avrebbero permesso di tramutare in realtà questo “sogno”. In questa senso la cultura nordamericana si avvicinò alla quotidianità dei brasiliani, dato che i film prodotti da Hollywood aiutarono a diffondere l’american way of life in tutto il continente.

8 I cinema erano tra le poche offerte di divertimento su cui poteva contare la populazione di Aracaju, che constava di circa 60.000 persone9. I principali locali erano i cinema Rio Branco, São Francisco, Guarany, Rex e Vitória. Ciascuno di essi disponeva di una sala di esibizione, però alcuni arrivavano a mille posti. Erano definiti anche “cineteatri” perché, oltre allo schermo, erano provvisiti anche di un palco che

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 55

permetteva rappresentazioni di gruppi teatrali, musicisti e di altri artisti. Tutti i giorni i “cineteatri” annunciavano i loro programmi, i prezzi, gli sconti speciali e le novità.

9 I film stranieri non trovavano grande concorrenza tra le produzioni nazionali, rare e di difficile distribuzione. Paulo Emílio Sales Gomes segnala la inespressività del cinema brasiliano durante la Seconda Guerra Mondiale. Il critico spiega che «tra il 1908 e il 1911, la città di Rio conobbe l’età dell’oro del cinema brasiliano, giudizio valido alla luce delle grigie frustrazioni nei decenni successivi»10,e che questo accadeva grazie alle iniziative degli stranieri che arrivavano nel paese, dal momento che era necessario investire e sapere adoperare i macchinari. Questo ragione sembra, almeno inizialmente, non aver attirato molti brasiliani verso l’attività cinematografica. In ogni modo il grande pubblico preferiva i film importati.

10 Sotto l’amministrazione del presidente Getulio Vargas11 comparvero le prime leggi che assicuravano la continuità dei «pessimi cinegiornali e che, in una fase posteriore, obbligarono le sale a proiettare un piccola percentuale di film brasiliani con una trama»12. Negli anni Trenta e Quaranta la produzione era stata quasi esclusivamente carioca. A São Paulo, erano stati realizzati alcuni studi cinematografici, ma venne prodotto solo il film Eterna esperança13. Secondo Gomes, tra il 1933 e il 1949, la produzione si limitò a questo film nello Stato di São Paulo, ad un altro nello Stato di Minas Gerais e ad un ultimo nel Pernambuco. Nel 1942, anno in cui il Brasile dichiarò guerra alla Germania e all’Italia, la produzione nazionale si limitò a due film e crebbe fino a raggiungere la quota di venti film solo nel 1949. La scarsa circolazione di queste pellicole contribuiva al successo dei film e delle serie che giungevano degli Stati Uniti.

11 In considerazione del fatto che si trattava di una possibilità di svago ed informazione accessibile, sia per il prezzo dei biglietti che per il linguaggio, il cinema si pose come un veicolo indispensabile per tenere aggiornata la popolazione su quello che accadeva dentro e fuori dalle pellicole.

12 Il film a colori comparve solo nel 1933, però era ancora una novità nella Aracaju degli anni Quaranta. Alcuni annunci di giornale mettevano in luce questo differenza nelle proiezioni. Il cinema São Francisco prometteva che il 1° luglio 1940 sarebbe entrato in programmazione il «film a colori della United “Nada é Sagrado” 14»15. Aldilà dei film e delle serie, proiettate per capitoli, i cinema mostravano anche i cinejornais (cinegiornali). La produzione naizonale rimase indietro anche in questo campo, lasciando spazio ai cinegiornali nordamericani.

13 Il 6 agosto il cinema Guarany annunciò il debutto del film della casa di produzione Metro Parnell Rei sem coroa16, «con Clark Gable e Myrna Loy, in una storia di emozione ed amore!» e «nell’ambito della stessa programmazione, il secondo cinegiornale di guerra “A Voz do Mundo” numero 40X76, rapporto speciale sulla guerra: il Belgio devastato, Attacchi aerei, Bombe incendiarie! Battaglie navali nel Mare del Nord, con in scena la Royal Oak, la portaerei inglese»17. Oltre al divertimento, le notizie sul Brasile ed il mondo giustificavano la frequentazione di questi locali.

14 Già nel 1939 venivano annunciavano film a colori, così come quelli presentati erano «integralmente doppiati in portoghese», caratteristiche importanti che fungevano da invito per il pubblico per recarsi in questi cinema. Il giornale «O Nordeste» annunciava il 13 marzo 1939 la proiezione di un film «in techinicolor! In tre dimensioni! 90 minuti di proiezione. Tutta doppiata in portoghese»18.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 56

15 Queste novità rappresentavano un cambiamento piuttosto significativo nella fruizione che il pubblico aveva del film. Essi si avvicinavano maggiormente alle immagini reali e, al contempo, lasciavano «un senso di irrealtà, un regno di fantasmi impalpabili»19. Come in una gioco di prestigio, il cinema mostrava simulacri di realtà, spesso utilizzando immagini più perfette della realtà. Così il cinema transitava tra reale ed irreale, sciogliendo o confondendo le barriere senza danneggiare lo spettacolo.

16 Simbolo di modernità e cosmopolitismo, fin dal principio il cinema si rivolse al grande pubblico. Esso si consegnava al bombardamento di stimoli proprio del Ventesimo secolo, che si proponeva in diverse forme: dall’inquinamento visuale degli annunci propagandistici fino agli spettacoli come quello del «giro della morte», nel quale una macchina eseguiva un’evoluzione in aria pima di toccare terra. Ed il cinema si trasformava anche in un divertimento sensazionalistico, dal momento che «la modernità aveva inaugurato le scosse sensoriali»20. Questo era un modo alla portata di tutti e relativamente democratico di accesso all’arte.

17 In questo senso, il cinema fu pensato da Walter Benjamin21 e Siegfried Kracauer 22 in relazione al suo rapporto con le masse. Questa peculiare forma d’arte integrava l’industria del divertimento e ha l’obiettivo di soddisfare un grande mercato. Dalla produzione di un film fino alla sua proiezione, una grande quantità di persone era coinvolta nel processo creativo. Tutti erano responsabili dell’opera finale. I costi erano alti e perciò la stessa produzione dei film veniva accompagnata dalla necessità che questi ultimi circolassero e avessero a disposizone locali per l’ospitare il pubblico durante la proiezione. In questi termini, lo sviluppo della pratica cinematografica, classificata da Benjamin come arte, si associata con l’attività industriale fin dai primordi.

18 Per definire il cinema come arte, Benjamin mise in discussione innanzitutto il significato dell’opera d’arte e la sua condizione nell’era della sua riproducibilità tecnica. Per lui non aveva senso mettere inserire la produzione dei film in un concetto che comprendesse singoli oggetti. Perché il cinema, diversamente da altre forme d’arte, non era un’opera per poche persone, ma alla base della sua stessa esistenza vi era il fatto che molte persone dovevano lavorare per la sua produzione per far sì che le masse consumassero il prodotto finale delle riprese, del montaggio e della distribuzione. Così, Anatol Rosenfeld afferma che «nel cinema, l’arte è a servizio della comunicazione. Lo interconnessione di questi elementi è alla base del suo sviluppo e della sua evoluzione – perché deriva da una struttura di dimensioni significative proveniente dalla produzione su larga scala»23.

19 La curiosità del pubblico nei confronti delle novità portò velocemente al perfezionamento dei macchinari utilizzati per le riprese, della performance degli attori, richiese la costruzione di scenografie, la creazione di case di produzione ed anche l’impiego di tempo dedicato alla commercializzazione e alla proiezione delle pellicole. E nonostante le prime proiezioni cinematografiche avessero avuto luogo in Francia, la produzione industriale dei film prosperò più velocemente dall’altra parte del globo terrestre.

20 Già all’inizio del Ventesimo secolo gli Stati Uniti svettavano come mercato in termini di produzione e consumo dei primi film. Agenzie di distribuzione su scala nazionale o regionale nacquero nel 1902 negli Stati Uniti, tra il1904 e 1905 in Francia e 1907 in Germania. Secondo Carlos Augusto Calil24, le prime case di produzione nordamericane si stabilirono inizialmente a New York e Chicago; soltanto nel 1908 il primo produttore

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 57

si spostò ad Hollywood. Il colonnello William Seling, infatti, tentava di scappare del brutto tempo, dal momento che le riprese erano dipendenti dalla luce solare. Un anno dopo la New York Motion Pictures Co. ebbe la stessa idea. Aldilà della luce naturale, cercavano di scappare dalla vigilanza e dalle richieste di permesso dalla Motion Picture Patents Co. di Thomas Edison (1847-1931). In questo modo, poco per volta, le case produttrici si trasferirono in California.

21 Hollywood si trasformava così nella Mecca del cinema nordamericano, in grado di concorrere con i film europei. Con investimenti e guadagni maggiori, i produttori e distributori di film nordamericani acquisirono il vantaggio necessario per il perfezionamento tecnico e la professionalizzazione di questo comparto. Il Brasile importava pellicole già dai primi anni del XX secolo e la situazione non ha cambiò tra la fine degli anni Trenta e l’inizio dei Quaranta.

22 I riferimenti alle grandi produttrici nordamericane comparivano ogni quotidianamente sui giornali del Sergipe durante la Seconda guerra mondiale. I nomi Paramount, United, RKO, Metro e 20th Century Fox erano costantemente citati per attirare l’attenzione del pubblico, che poteva così associare i film all’industria e all’estetica nordamericana. Secondo Calil, le grandi case di produzione nordamericane erano organizzate verticalmente, «cioè, controllavano gli affari del cinema dalla produzione fino all’esibizione nelle sale apposite o collegate»25. In questa logica il nome dello studio fungeva da vetrina «per un marchio già identificato dal pubblico»26.

23 Gli annunci invitavano le persone a guardare gli spettacoli che venivano proiettati in ogni “cineteatro”. La programmazione prevedeva anche più di un film. Il 30 luglio 1940 il “cineteatro” Rex presentava «una colossale combinazione di due superbi film, dal momento che il primo sarà la superproduzione di RKO Radio “Heróis sem Glória” 27 con Sally Elleres, John Bell ed altri, e il secondo sarà la straordinaria pellicola “Sensação no Circo” »28.

24 Tra 1939 e 1945 le produzioni hollywoodiane esplorarono le possibilità che il conflitto mondiale offriva agli studios. La guerra aveva portato alla realizzazione di scenaggiature dove si avviluppavano trame di romanzo, azione, dramma, commedia; anche gli studi Disney cercarono ispirazione in figure come quelle Hitler, Himmler e Goering per divertire ed insegnare i bambini attraverso i cartoni animati.

25 Successivamente all’agosto 1942, il Brasile fu direttamente coinvolto nel conflitto, dichiarando guerra alla Germania e all’Italia. Dopo i siluramenti delle navi brasiliane lungo la costa tra gli Stati del Sergipe e di Bahia, il posizionamento internazionale del paese genererà mutamenti anche della censura dei film prodotti fuori dal Brasile. I film europei, che già erano pochi, praticamente scomparirono dagli schermi brasiliani, mentre i nordamericani continuavano a dominare le sale di proiezione, con la differenza che dopo questo periodo non vi era più problema nel presentare discorsi sfavorevoli nei confronti della Germania, dell’Italia, del Giappone e dei loro governanti29.

26 Le critiche nei confronti dei regimi autoritari e contrari alla democrazia erano permesse. Già nel secondo semestre del 1942 si poté notare l’aumento significativo degli annunci dei film in cui l’argomento principale era la Seconda guerra mondiale. Nell’intento di promuovere il sentimento patriottico, ed anche la vendita dei biglietti, alcuni film finirono per essere presentati come “antinazisti”. Come, ad esempio, nel caso di O Espia submarino30; «O Correio de Aracaju» del 14 ottobre 1942 evidenziava come il film riproducesse «appieno l’eroico ed orribile dramma della guerra attuale nei

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 58

mari!!!»31. I cinema di Aracaju mettono in luce, con il loro funzionamento, il modo in cui le produzioni cinematografiche tenevano informata la popolazione sui problemi che il mondo affrontava.

27 Proprio in quest’ottica, il giornale «A Cruzada» raccomandava al pubblico il film Ser ou não ser32, che poteva essere considerato come «una satira tremenda degli uomini “integri” della Gestapo e allo stesso tempo esalta quasi allo stesso modo l’espressione del patriottismo dei figli della Polonia. È una commedia che diverte e insegna molto»33. La segnalazione dei film che mostravano l’aspetto quotidiano della guerra non è un elemento difficile da rinvenire sui giornali. Nell’esempio citato il cinema veniva visto come strumento pedagogico.

28 L’argomento della guerra compare anche nella sinossi del film Um louco entre loucos34, proiettato ad Aracaju nel 1943 e che veniva definito come «la commedia più stupida dell’anno! Semplicemente infernale! Cade dal cielo scappando dagli “Assi”...adotta la sua tattica... ed entrambi lasciano in mutande un colonnello nazista! Non lasciatevi sfuggire l’opportunità di andare a vedere questo sul film “Um louco entre loucos”»35. Il riferimento agli «Assi», «tattica» e «colonnello nazista» sono il segno della presenza degli argomenti e vocaboli dell’epoca del conflitto.

29 La recensioni dei film venivano inviate dai cinema per poter essere pubblicate sui giornali di Aracaju e attirare così il pubblico nelle sale di proiezione. Il film Nas assas da Glória36 sarebbe stato proiettato presso il Cinema Vitoria e la censura sottolineava che «La trama di questo film sviluppa nell’ambiente di una base di addestramento in prossimità di Panama. Il film ha passaggi emozionati, ma può essere visto da tutti, tranne i bambini»37. Ancora una volta il tema della guerra veniva preso in esame, questa volta con riferimento all’addestramento aereo nelle vicine basi di Panama.

30 Titoli come Lanceiros da Índia38 (proiettato ad Aracaju nel 1944), Gibraltar39 (proiettato nel 1942), Intriga da China (mostrato nel 1939) presentavano la guerra ed il mondo. I paesi erano venivano ritratti nel pieno della guerra, in situazioni che riguardavano pratiche di spionaggio oppure le attività degli eroici soldati nordamericani che avevano lasciato le comodità della loro casa per ristabilire la pace e la civiltà, a bordo di un sottomarino o di un aereo.

31 Lanceiros da Índia, ad esempio, fu annunciato sul giornale «A Cruzada» del 17 settembre di 1944 come una produzione che avrebbe mostrato agli spettatori «l’India e tutta la sua selvaggia ed esotica bellezza!» ed anche «La magnifica pompa dei palazzi dei raja e la magia della natura selvatica! E, in questo scenario, l’eroismo di alcuni soldati dediti alla lotta per il progresso e per la civilizzazione!»40. In questo caso i soldati non solo si battevano contro la distruzione causata dalle potenze dell’Asse, ma anche contro l’arretratezza derivante dalla mancanza di civilizzazione.

32 L’analisi della ricezione dei film hollywoodiani da parte degli aracajuani durante la Seconda guerra mondiale deve tenere conto delle condizioni di proiezione delle pellicole, del pubblico che frequentava i cinema e dell’interazione delle persone all’interno dei cinema della capitale di Sergipe. Indagando sulle pratiche di lettura, Roger Chatier ricorda che «la lettura è sempre una pratica incarnata nei gesti, negli spazi, nelle abitudini»41. In questo senso, anche la pratica della fruizione dei film ad Aracaju era ascrivibile ad una materialità che dev’essere presa in considerazione. I problemi che si verificavano nei cinema furono registrati dai periodici locali e offrono tracce sulla modalità di fruizione del film nella capitale sergipana.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 59

33 I periodici registrarono vari episodi in cui i frequentatori s’indignarono per ciò che accadeva nei cinema. Quando c’era qualche problema durante la riproduzione delle pellicole, ad esempio, il pubblico protestava. Il giornale «O Nordeste» del 25 febbraio 1939 conteneva una nota che esemplificava il disappunto degli aracajuani di fronte alle difficoltà tecniche sorte nella sala di proiezione. Le proteste si indirizzavano contro «il malcostume, contro la mancanza di educazione di coloro che, quando si trovavano di fronte a un nastro guasto, senza cerimonie, vi fossero o no delle famiglie intente ad assistere alla proiezione, facevano un frastuono assordante. Ieri, abbiamo visto questa situaizone, al cine Rex»42.

34 Le denunce del pubblico toccavano anche la precarietà del macchinari utilizzato per riprodurre le pellicole. Questo, del resto era un tema che attirava l’attenzione degli habitués dei cinema locali. L’8 luglio 1940 il cinema São Francisco annunciava la proiezione di O Prisioneiro de Zenda43, produzione della United con «scene eccitanti che catturano l’attenzione come pochi film». Oltre ad annunciare i nomi degli attori «Ronald Colman, Madaleine Carolle Douglas Fairbanks Jr.», il cinema prometteva che si trattava di una «copia assolutamente nuova e completa»44, al termine sarebbe stata presentata la serie Deusa de Joba45.

35 Le denunce dei frequentatori abituali ricadevano anche sui gruppi che si recavano nei locali. I cinema accoglievano tutte le classi e si trasformavano in luoghi per la manifestazione di atteggiamenti non solo apologetici, ma anche contrari all’ordine vigente. Nel buio del cinema, la popolazione si divertiva, imparava e si svelava. Una prova di ciò è che l’esecuzione dell’inno nazionale non sempre era rispettata.

36 Quando le luci si spegnevano, operai, commercianti, uomini e donne diventavano anonimi. E neppure i poliziotti o i dipendenti del DIP riuscivano ad imporne il rispetto. In questi momenti non era raro che si sentisse «un rumore assordante, originato da urle, scalpiccio e fischi [...] durante tutto il tempo dell’esecuzione dell’inno»46. Anche il fatto che alcuni rimanessero con i propri cappelli in testa non era gradito agli spettatori più conservatori.

37 I progetti che avevano l’obiettivo di omologare la visione di mondo dei brasiliani, non ottenevano risultati omogenei. In merito a questa diversità, Jacques Revel47 raccomanda agli storici di prendere in considerazione il fatto che le società sono gerarchizzate e non ugualitarie, e da questa situazione deriva il fatto che le società siano così complesse, permeata di rapporti tra il forte ed il debole. La possibilità di trovare lo stesso soggetto in contesti sociali diversi permette la costruzione di una storia costruita completametne a partire dal basso. Revel evidenzia le possibilità che si aprono con l’approccio del soggetto alla società.

38 In parte questa situazione era propiziata dalla distribuzione degli spazi, del tutto peculiare nei “cineteatri”. C’erano prezzi diversi per i posti: in platea o in galleria, in cui biglietto era più economico. Dal momento che i posti della galleria si trovavano sopra gli altri, era possibile fare confusione senza farsi vedere. Le denunce del comportamento di coloro che acquistavano i biglietti popolari erano frequenti. Il problema «è che “la galleria” parla ad alta voce, e che alcuni di loro, che già hanno visto il film, raccontano ciò che accadrà: “la ragazza cadrà”, “lui morirà”, “dopo si sposeranno” ed altre cose che levano il piacere della sorpresa e dell’attesa in chi guarda»48, denunciava un frequentatore dei cinema.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 60

39 Vi era un conflitto tra quelli che compravano i posti in platea e quelli che lo acquistavano in galleria. La conflittualità emergeva dai giornali. Molto spesso, coloro che acquistavanoposti in platea si lamentavano di chi andava galleria, perché questi ultimi pagavano meno di loro per entrare nei cinema. Nel cinema Guarany, ad esempio, durante la rappresentazione matinê, la platea costava Reais 1.500, mentre l’ingresso la galleria Reais 80049; già la soirée costava di più: in platea Reais 3.500, l’entrata a spettacolo iniziato Reais 1.700 e la galleria Reais 1.100.

40 Accompagnati da recensioni ufficiali e grazie all’entusiasmo nei confronti delle produzioni hollywoodiane, i cinema presentavano la guerra nell’ottica nordamericana. Però, ad Aracaju, le sale di proiezione erano anche luoghi in cui dare dimostrazione dell’ingresso nella modernità, anche se ciò non accadeva sempre.

41 Nell’epoca in cui si sperava di instillare l’ordine e l’obbedienza delle norme, alcuni aracajuani utilizzavano il buio del cinema per abusare della loro libertà. La mancanza di rispetto nell’esecuzione dell’inno nazionale, le battute pronunciate durante gli spettacoli ed anche l’abitudine di alcuni di assistere ai film più di una volta per annunciarne la trama in anticipo, irritava parte degli spettatori, scocciati dal dover condividere lo stesso spazio con certe persone.

42 Ma la confusione aveva anche una sua logica di funzionamento. La confusione si verificava solo a luci spente. I tentativi di controllare la condotta degli spettatori, in ossequio alla legislazione emanata dall’Estado Novo, si scontrava con le tattiche50 adottate dalla popolazione per sottrarsi all’intimidazione creata dalla presenza della polizia nelle sale di cinema. Oltre a prendere in esame questi artifici sociali del quotidiano, Michel de Certeau51 evidenzia come il quotidiano sia segnato da scontri tra i forti, che determinano le condizioni dei contrasti sociali, e i deboli, che cercano di ottenere vantaggi in certe situazioni resistendo all’ordine imposto.

43 Secondo Alexandre Busko Valim52, gli studi sul rapporto tra storia e cinema hanno suggerito la necessità di studiare la produzione, la mediazione e la ricezione dei film in modo integrato. Questo in modo da poter considerare importante non solo l’analisi della produzione di significato dei film, ma anche le condizioni in cui questo film è realizzato, i mezzi con cui è entrato in circolazione, le sue forme di promozione, di riproduzione e di ricezione.

44 La ricezione è definita come il punto più irraggiungibile dell’analisi del rapporto tra storia e cinema. Valim evidenzia come i film siano fonti importanti per lo studio delle rappresentazioni, ma non dicano molto sul pubblico o sulle condizioni di produzione, distribuzione e riproduzione. Negli ultimi venti anni si è preso in considerazione la proiezione considerandola come aspetto importante. L’autore afferma che gli studi «rivelano come le differenze tra le pratiche di riproduzione tra distinte città o piccole comunità rendano complesso il rapporto tra l’azione di andare al cinema ed altre pratiche sociali»53. Si propone, allora, una analisi più complessa,che consideri altri aspetti del rapporto tra storia e cinema.

45 La Seconda guerra mondiale era divenuta il tema di vari film, ma anche in questo campo il conflitto interferiva nella politica e negli affari esteri brasiliani. La rottura dei rapporti diplomatici con i paesi dell’Asse permise l’ingresso di film nordamericani, che erano latori di un discorso più tendenzioso in merito al confronto bellico. Solo dopo i siluramenti dell’agosto del 1942 e l’entrata in guerra del Brasile a fianco degli alleati alcuni film, ad esempio, O grande ditador54, poterono essere mostrati nel paese.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 61

46 I cinema aracajuani durante la Seconda guerra mondiale erano dai film nordamericani prodotti a Hollywood. Questi avevano la capacità di portare a conoscenza del pubblico le ultime novità che circolavano nel mondo, facendo ricorso a risorse tecniche differenti – come il film a colori o doppiato in portoghese – o grazie agli attori più famosi o parlando degli argomenti più attuali, come avveniva con i film di guerra. Accompagnati di recensioni ufficiali e grazie all’infatuazione nei confronti delle produzioni hollywoodiane, i cinema presentavano la guerra attraverso la prospettiva nordamericana.

47 In questo modo questi film spiegavano gli avvenimenti, le ragioni del conflitto, i nuovi mezzi bellici impiegati, gli effetti della distruzione di una guerra di simili proporzioni e i sentimenti che spingevano gli uomini a lottare contro la malvagità del nemico. La narrazione cinematografica nordamericana trovava risonanza tra il pubblico che frequentava i cinema aracajuani. Ed il governo federale appoggiava l’idea che tutti dovrebbero unirsi per combattere i regimi autoritari ed i nemici della democrazia fuori del Brasile.

NOTE

1. Secondo Maria Lígia Prado Coelho, questa pratica fu caratterizzata dal cambiamento dei pilastri fondamentali della politica estera degli Stati Uniti. Portata avanti dal presidente Roosevelt e dal suo sottosegretario Sumner Welles, consisteva nel rispettare la sovranità nazionale dagli altri paesi del continente. Cfr. PRADO, Maria Ligia Coelho, «Ser ou não ser um bom vizinho: América Latina e Estados Unidos durante a Guerra», in Revista USP São Paulo, 26 3/1995, pp. 52-61, URL: [consultato il 10 marzo 2014]. 2. Cfr. MENGUELLO, Cristina, Poeira de estrelas: o cinema hollywoodiano na mídia brasileira das décadas de 40 e 50, Campinas (SP), Editora da UNICAMP, 1996. 3. Creato per effetto del Decreto n. 9.915, del 27 dicembre 1939, il Dipartimento per la Stampa e la Propaganda (DIP) aveva il compito di controllare tutta la propaganda e la pubblicità in favore degli Enti pubblici, oltre ad organizzare celebrazioni per il presidente Getulio Vargas. Il DIP era il portavoce dell’Estado Novo. Cfr. ARAÚJO, Rejane, Dipartimento de Imprensa e Propaganda, sub vocem, in ABREU, Alzira Alves de, et al., Dicionário Histórico-Biográfico Brasileiro (Pós 1930), Rev. Amp. Atual, vol. 1, Rio de Janeiro, Editora FGV-CPDOC, 2001. 4. ROSENFELD, Anatol, Cinema: arte & indústria, São Paulo, Editora Perspectiva, 2002, p. 33. 5. Il Consiglio di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti creò l’Office for the Coordinator of Commercial and Cultural Relations between the American Republicas, il 16 agosto 1940. Tra il 30 luglio 1941 e il 23 marzo 1945 assunse la denominazione di Office of Coordinator Inter-American Affairs (OCIAA). L’ente si sarebbe dovuto occupare di coordinare il rapporto economico e culturale tra i paesi americani. 6. PRADO, Maria Ligia Coelho, op. cit., p. 60. 7. Erede dalla prospera ditta di esplorazione petroliera Standard Oil, Nelson Rockfeller era stato direttore generale del MOMA in New York e credeva poter utilizzare l’arte con fini politici. Cf. TOTA, Antonio Pedro, O imperialismo sedutor: a americanização do Brasil na época da segunda guerra, São Paulo, Companhia das Letras, 2000.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 62

8. HOOVER, Herbert, cit. in CALIL, Carlos Augusto, Cinema e Indústria, in XAVIER, Ismail (org.), O cinema no século, Rio de Janeiro, Imago Ed., 1996, pp. 45-70. La citazione si trova a p. 60. 9. Secondo il censimento del 1940, Aracaju aveva in quell’anno 59.031 abitanti. Cfr. IBGE, URL: [consultato il 24 gennaio 2014]. 10. GOMES, Paulo Emílio Sales, Cinema: trajetória no subdesenvolvimento, São Paulo, Paz e terra, 1996, p. 11. 11. Getúlio Dornelles Vargas fu a capo della Rivoluzione del 1930 in Brasile; divenne il 13º Presidente della Repubblica del paese e rimase al potere fino a 1945. Nel 1937 lo stesso Getulio Vargas attuò un colpo di stato che ha originò un regime centralista e autoritario chiamato Estado Novo, ispirato dai governi dei paesi fascisti europei. L’Estado Novo durò fino a 1945, quando il Brasile entrò in un fase di democratizzazione. 12. GOMES, Paulo Emílio Sales, op. cit., p. 14. 13. MARTEN, Leo, Eterna esperança, Cinédia, Brasil, 1940. 14. WELLMAN, William, Nothing Sacred, United, Stati Uniti, 1937, 77’. Il film è noto in Italia come Nulla sul serio. 15. Correio de Aracaju, 31 luglio 1940, p. 3. 16. STAHL, John M., Parnell, Metro-Goldwyn-Mayer, Stati Uniti, 1937, 118’. Il film è noto in Italia come Parnell. 17. Correio de Aracaju, 6 agosto 1940, p. 2. 18. O Nordeste, 13 marzo 1939, p. 2. 19. GUNNING, Tom, O retrato do corpo humano: a fotografia, os detetives e os primórdios do cinema, in CHARNEY, Leo, SCHWARTZ, Vanessa R. (org.), O cinema e a invenção da vida moderna, São Paulo, Cosac & Naify, 2004, pp. 33-65. La citazione proviene da p. 35. 20. SINGER, Ben, Modernidade, hiperestímulo e início do sensacionalismo popular, in CHARNEY, Leo, SCHWARTZ, Vanessa R. (org.), O cinema e a invenção da vida moderna, São Paulo, Cosac & Naify, 2004, p. 112. 21. BENAJMIN, Walter, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2000. 22. KRACAUER, Siegfried, La massa come ornamento, Napoli, Prismi, 1982. 23. ROSENFELD, Anatol, Cinema: arte & indústria, São Paulo, Editora Perspectiva, 2002, pp. 13-14. 24. CALIL, Carlos Augusto, Cinema e Indústria, in XAVIER, Ismail (org), O cinema no século, Rio de Janeiro, Imago Ed., 1996, pp. 45-70. 25. Ibidem, p. 52. 26. Ibidem. 27. LANDERS, Lew, Danger Patrol, RKO Radio, Stati Uniti, 1937, 59’. 28. Correio de Aracaju, 30 luglio 1940, p. 2. 29. Il Brasile solo dichiara guerra al Giappone nel giugno di 1945. 30. KORDA, Alexander, ASHER, Irving, The Spy in Black (U-Boat 29), Columbia, Regno Unito, 1939, 82’. Il film in Italia è conosciuto con il titolo La spia in nero. 31. Correio de Aracaju, 14 ottobre 1942, p. 3. 32. LUBITSCH, Ernst, To Be or Not to Be, United Artists, Stati Uniti, 1942, 99’. Il film è conosciuto in Italia con il titolo Vogliamo vivere! 33. A Cruzada, 23 aprile 1943, p. 4. 34. SCHULBERG, Percival B., The Wife Takes a Flyer, Columbia Pictures, Stati Uniti, 1942, 86’. 35. Ibidem. 36. BRISKIN, Irwing, Canal Zone, Columbia Pictures, Stati Uniti, 1942, 79’. 37. Ibidem. 38. HATHAWAY, Henry, The Lives of a Bengal Lancer, Paramount Pictures, Stati Uniti, 1935, 109’. Il film è noto in Italia come I lancieri del Bengala.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 63

39. RABINOVITCH, Gregor, Gibraltar, Ciné-Alliance, Francia, 1938, 105’. Il film è conosciuto in Italia come Allarme a Gibilterra. 40. A Cruzada, 17 settembre 1943, p. 3. 41. CHARTIER, Roger, «O Mundo como Representação», in Estudos Avançados, 11 5/1991, pp. 173-191. La citazione proviene da p. 178. 42. O Nordeste, 25 febbraio 1939, p. 1. 43. SELZNICK, David O., The Prisoner of Zenda, United Artists, Stati Uniti, 1937, 101’. Il titolo del film in Italia è Il prigioniero di Zenda. 44. Correio de Aracaju, 8 luglio 1940, p. 2. 45. LEVINE, Nat, Darkest Africa, Republic Pictures, Stati Uniti, 1937, 269’. 46. O Nordeste, 26 settembre 1939, p.1 47. REVEL, Jacques, Giochi di scala: la microstoria alla prova dell’esperienza, Roma, Viella, 2006. 48. Correio de Aracaju, 4 dicembre 1939, p. 1. 49. Folha da manhã, 3 gennaio 1939, p. 1. 50. Sul concetto di tattica, si veda: De CERTEAU, Michel, L’invenzione del quotidiano, Roma, Edizioni Lavoro, 2001. 51. Ibidem. 52. VALIM, Alexandre Busko, História e Cinema, in CARDOSO, Ciro Flamarion, VAINFAS, Ronaldo, Novos Domínios da História, Rio de Janeiro, Elsevier, 2012, pp. 283-300. 53. Ibidem, p. 288. 54. CHAPLIN, Charlie, The Great Dictator, United Artist, Stati Uniti, 1940, 125’. Il titolo italiano del film è Il grande dittatore.

RIASSUNTI

L’articolo prende in esame il rapporto tra i cinema della città di Aracaju (capitale dello stato di Sergipe) ed i film proiettati durante la Seconda guerra mondiale. La programmazione dei cinema è cambiata in funzione della produzione nordamericana anche in funzione del posizionamento del Brasile in guerra e nei confronti dei paesi coinvolti nel conflitto. I giornali e le riviste che davano conto delle nuove pellicole delle grandi produttrici nordamericane sono alla base di questa analisi della funzione del film in un periodo in cui i mezzi di comunicazione di massa erano controllati per finalità politiche.

This paper analyzes the relationship between the cinemas located in the city of Aracaju (located in Brazil’s Northeast) and the movies shown at the time of World War II. The cinemas’ scheduling varied according to changes in U.S. movie production, and it also depended on the international position of Brazil, considering the War and the countries involved in the conflict. Newspapers and magazines constitute the bulk of the documentation that supports an analysis of the films exhibition at a time when the mass media were controlled with political purposes.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 64

INDICE

Keywords : Brazilian movie theaters, Estado Novo, Good neighbour policy, Hollywood Movies, World War II Parole chiave : cinema brasiliani, Estado Novo, film hollywoodiani, politica del buon vicinato, Seconda guerra mondiale

AUTORI

ANDREZA SANTOS CRUZ MAYNARD Addottorata in Storia presso l’Universidade Estadual Paulista (UNESP) ed è attualmente post- dottoranda presso la Universidade Federal do Rio de Janeiro (UFRJ). È membro del Grupo de estudo do tempo presente (GET) dell’Universidade Federal de Sergipe.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 65

II. Economie periferiche e marginalità sociale

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 66

Nazione ed economia politica nell’impero luso-brasiliano

Milena Fernandes de Oliveira Traduzione : Jacopo Bassi

Introduzione

«Pelo Tejo, o Portugal marítimo abraça o Portugal agrícola, fundindo numa as duas fisionomias tipicas da Naçao»1. Oliveira Martins

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 67

1 Questo articolo nasce nell’ambito di una ricerca che è tuttora in corso di realizzazione e che ambisce a tracciare il quadro dei rapporti tra il mondo economico e l’idea di nazione che si venne delineando sui due lati dell’Atlantico durante la fase di crisi dell’Antico Regime e di disgregazione degli imperi d’oltremare di Portogallo e Spagna La domanda di fondo che orienta questo lavoro è se gli scritti economici di ispirazione liberale o contrari al liberalismo possano fornire alcune nozioni sulle differenti concezioni di nazione nel passaggio dal XVIII al XIX secolo, esattamente nel periodo nel quale l’economia politica si serve del termine nazione come di una comunità immaginata le cui frontiere sono delimitate da un’altra utopia: quella del mercato.

2 Anche se si ha una concezione generale della nazione che si sviluppa nell’alveo della Rivoluzione francese e si consolida durante la Primavera dei popoli, nel 1848, è importante metterne in luce le specificità. Questa nuova idea di nazione emerse dalla disintegrazione dello Stato assolutista e dalle fondamenta dell’Ancien Régime; reinventò, tuttavia, le frontiere di questo Stato all’interno di una comunità che si riconosceva nel luogo di nascita. Ovviamente quest’idea è anacronistica: dapprima si costituì il territorio e, solo successivamente, l’identità.

3 La nazione va dunque inserita nel contesto dell’unificazione dei mercati nazionali e della formazione delle strutture del capitalismo. Non deve dunque meravigliare che la sua idea più compiuta sia formulata dal Friedrich List, che associa l’idea di nazione al proprio Stato e ala sua capacità di realizzare l’edificazione di un insieme di forze produttive2 (ricordiamoci che la Germania non esisteva e la Prussia stava portando avanti con determinazione il processo di unificazione dei territori che facevano parte della Confederazione Germanica). Il presupposto costituito dalla nascita in uno stesso luogo, di una lingua uniformemente parlata in tutto il territorio, di un complesso di credenze e tradizioni comuni sono attribuiti solo successivamente all’unificazione territoriale e servono per legittimare l’unione.

4 Nella realtà l’idea di nazione, sin dai suoi primordi, ha poco a che vedere con la cultura e molto con l’economia e il potere. Se ci rifacciamo all’argomentazioni di Hobsbawm, una delle sue prime espressioni apparve nel 1740 con i Bürger in Germania. In questo contesto, nazione era sinonimo di appartenenza ad una corporazione, ad una categoria professionale. Non deve meravigliare che il termine riconduca ad un’ambiguità che dobbiamo tenere a mente quando studiamo il tema: quella per cui una nazione abbia nella sua origine qualcosa a che vedere con il commercio. I Bürger borghesi si sentivano, in primis, membri di una stessa comunità, una stessa fratellanza: anche se in seconda battuta, i legami che vincolavano i membri di questa comunità erano anche di tipo commerciale3.

5 All’interno del periodo che segna la crisi dell’Ancien Régime, la nazione assume significati ben distinti I diversi Stati europei sperimentarono la crisi in maniera differente e comprendere come l’idea di nazione appaia dagli scritti prodotti all’interno di Stati differenti significa anche capire come questi ultimi si relazionassero con la

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 68

società industriale e capitalista in corso di formazione. Troviamo paesi, come l’Inghilterra, che si lasciarono alle spalle l’Antico Regime e si incamminarono verso una società libera dalle sue pastoie (continuità e rotture non sono assolute nella storia). L’idea della nazione inglese esprimeva appieno una società di mercato e un mondo costituito da nazioni in cerca di una maggior prosperità; dall’altro lato dell’Atlantico, la sua controparte, l’America inglese, a partire da una diversa idea di nazione, rivendicava la sua indipendenza. L’idea di nazione, forgiata nel crogiolo del liberalismo, serviva per fini differenti: in Inghilterra fu funzionale all’obiettivo di affermare la sua posizione egemonica nell’ambito del capitalismo mondiale in formazione; nella ex colonia inglese risultò utile per rompere i legami che la tenevano unita alla sua antica madrepatria. I fondamenti economici alla base di entrambe le concezioni sono evidenti: in nessun momento si fece accenno a lingua, credenza religiosa e tradizione. La preoccupazione principale era quella di ottenere gli obiettivi del progresso e della ricchezza delle nazioni, che per poter essere conseguiti necessitavano della piena libertà di commercio e dello sviluppo manifatturiero. Non a caso l’Indipendenza americana venne raggiunta nello stesso anno, il 1776, in cui vide la luce la prima edizione de La ricchezza delle nazioni.

6 Nei paesi della penisola iberica, l’impressione che si ha è che la nazione, invece di esprimere un movimento in direzione del liberalismo, avesse fatto un tuffo ancor più in profondità nelle acque mercantiliste. Il liberalismo era presente, ma adeguato alla tradizione portoghese e ad una sorta di rimpianto per il mancato sviluppo dell’agricoltura in epoche anteriori. Il ricorso alla fisiocrazia manifestava l’urgenza della necessità dello sviluppo agricolo che, per secoli, era stato soppiantato dal commercio. Il risultato fu la reinvenzione della tradizione mercantilista mediata dall’influenza del liberalismo e della fisiocrazia. Il pensiero economico illuminista portoghese esprimeva queste tendenze.

7 Il dispotismo illuminato, il volto politico dell’Illuminismo portoghese, manifestava le contraddizioni di paesi che, come il Portogallo e la Spagna, avevano mantenuto le strutture dell’Ancien Régime, ma avevano bisogno di inserirsi nel nuovo mondo schiuso dal progresso industriale. La contraddizione tra la teoria, ricavata dall’Illuminismo inglese e francese, e la pratica, ancora legata alle radici mercantiliste, rivelava l’impasse che attanagliava all’epoca la penisola iberica: quella di chi si trovava a lottare con la tradizione senza potersene liberare; può darsi, tuttavia, che questa impasse fosse quella caratteristica di qualsiasi paese che si trovi ad essere pioniere in qualche processo. Il pionierismo nell’espansione marittima aveva infatti creato una borghesia che non differiva dalla nobiltà quanto allo stile di vita. La simbiosi tra le eredità medioevali e la modernità era tale che diveniva praticamente impossibile un’eliminazione delle prime, a meno che non si fosse deciso di rinunciare all’identità portoghese e che il Portogallo non si fosse trasformato in una “provincia della Spagna”. Non c’è da stupirsi, quindi, che uno dei principali esponenti del pensiero illuminista portoghese, Azeredo Coutinho, fosse un vescovo, prodotto della relazione simbiotica tra Stato e Chiesa, che furono i fondamenti dell’espansione d’oltremare e della costruzione dell’Impero portoghese: la tradizione dimorava in tutti i campi della vita portoghese.

8 In questo senso, nelle società iberiche, furono altre le cause determinanti alla base della creazione dell’idea di nazione: non erano legate alla Rivoluzione francese, all’ideologia secolarizzata e alla sua espressione liberale, ma ad un mercantilismo che faceva fatica a mascherare le sue radici medioevali. La reinvenzione di questo pensiero sotto forma di

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 69

un’economia politica, mantenne il suo stampo pragmatico facendo ricorso, dal punto di vista teorico, alle idee illuministe. La sua essenza mercantilista sopravvisse, tuttavia, alla pesante critica di Adam Smith nei confronti del sistema mercantilista. Si trattava quindi di scegliere tra i filoni dell’illuminismo continentale e le idee che risultavano più adeguate alla preservazione del Regno e delle sue colonie: si correva il rischio che, in definitiva, il Portogallo si trasformasse in una semplice provincia della Spagna. Quantomeno questa è la visione di Rodrigo de Sousa Coutinho nel suo Memória sobre os melhoramentos dos domínios de Sua Magestade na América del 1797: I domini di S. M. in Europa non costituiscono che la Capitale e il Centro dei suoi vasti possedimenti. Il Portogallo, ridotto a se stesso solamente, diverrebbe entro breve tempo una provincia della Spagna, mentre svolgendo il ruolo di punto di riunione e di residenza della monarchia, che si estende a ciò che possiede nelle isole dell’Europa e dell’Africa, al Brasile, alle coste orientali e occidentali dell’Africa e a ciò che ancora la nostra Reale Corona possiede in Asia, è senza dubbio una delle Potenze che possiedono al loro interno i mezzi per figurare in modo rispettabile e brillantemente tra le prime potenze d’Europa4.

9 D’altra parte, nelle colonie dell’America spagnola e portoghese, il campionario di idee nazionali assunse contorni ambigui, legati allo stesso tempo all’eredità della madrepatria e alla rottura dei legami con quest’ultima, alle strutture più profonde, che ambivano a delineare un destino indipendente, e a quelle nuove, modellate dalla nascita del capitalismo in Inghilterra, e, pertanto, dalle idee rivoluzionarie del liberalismo economico. Il nostro interrogativo è se l’economia politica che faceva la sua comparsa nei discorsi luso-brasiliani possa essere un buon parametro per capire la coscienza dell’identità che andava nascendo sui due lati dell’Oceano: tanto da parte della coloni, che affrontò il destino di trasformarsi in uno Stato e una nazione indipendente, quanto da parte della madrepatria, che dovette accettare l’evidenza che il suo impero non sarebbe stato eterno. L’ideologia nazionale stava sostituendo l’ideologia imperiale non senza incontrare pesanti resistenze.

1. L’idea di nazione e l’economia politica nei secoli XVIII e XIX

10 Ogni storia nazionale è – per presupposto – anacronistica dal momento che è a partire dalla storia nazionale che legittimiamo una determinata identità. Per questo motivo riteniamo, come Hobsbawm e Gellner, che la nazione venga dopo il nazionalismo e che rappresenti l’invenzione e la reinvenzione del campionario di idee sulle frontiere di uno Stato5.

11 Per tentare di evitare l’anacronismo proprio degli studi nazionali, cerchiamo di cogliere i primi momenti in cui la nazione moderna fece la sua comparsa nel discorso dell’economia politica. La nazione era un’idea della modernità e come tale era il prodotto del capitalismo in formazione. Non a caso nella misura in cui gli Stati conseguirono confini territoriali definiti, iniziarono ad avere una giurisdizione, sotto la quale ricadeva la fiscalità, così come una moneta nazionale, questi iniziarono a considerarsi come nazioni. Questo divenne più evidente con l’avvento dei processi di industrializzazione nazionali e allora le nazioni, intese come mercati, iniziarono a misurarsi attraverso i loro volumi di commercio e i loro potenziali produttivi.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 70

12 La pubblicazione de La ricchezza delle nazioni, nel 1776, segnò il primo momento in cui la nazione apparve come sinonimo di società di mercato6. Le nazioni, in quanto mercati, erano circoscritte territorialmente, ma, in realtà, facevano parte di un mondo in cui esisteva la divisione del lavoro e nel quale le nazioni trovavano, con i mercati, la possibilità di aumentare la loro ricchezza e il loro potenziale produttivo. Le nazioni non poggiavano su identità culturali differenti, come sarebbe accaduto in seguito, ma su attività diverse, nelle quali le une risultavano migliori delle altre. Il concetto di territorialità espresso ne La ricchezza delle nazioni, ha come sfondo, l’utopia di una società più ugualitaria e giusta. In questo senso le disuguaglianze in termini produttivi sarebbero risultate meno evidenti dell’uguaglianza che si sarebbe potuta conseguire con il commercio, al quale tutti – i paesi industriali come quelli agricoli – avrebbero potuto prendere parte, raggiungendo così, in forme diverse, la prosperità.

13 Secondo Pierre Rosanvallon, il mercato rappresentava una concezione innovatrice della società civile, tratta dal liberalismo inglese, nel quale gli individui, perseguendo i propri interessi, finivano per produrre involontariamente il benessere generale. Il mercato autoregolato contempla la realizzazione della politica nella sfera dell’economia e, in questo modo, libera la società dagli arbitri personalisti del monarca assolutista7. In un certo modo i liberali inglesi della generazione di Smith pensavano nei termini di una società di mercato che fosse un’“aritmetica delle passioni”. Si riteneva che gli interessi individuali potessero essere misurati e questo esprimeva un certo senso di giustizia, in grado di conferire legittimità al pensiero proprio dell’economia politica.

14 Questa costruzione costituì un primo passo per la formulazione dell’idea di nazione. Una nazione avrebbe dovuto esprimere il regno della libertà, dell’uguaglianza e della giustizia. Le differenze, tanto tra gli individui che risiedono in uno stesso territorio, così come in due territori diversi, dovevano essere puramente economiche, oltre che benefiche per la prosperità mondiale. Le differenze culturali che esprimono allo stesso tempo la singolarità di uno Stato e la sua superiorità in relazione ad un altro, sono prodotti del XIX secolo. L’idea di nazione passa per una trasformazione che, sebbene faccia ricorso agli elementi propri della vecchia idea di mercato, è quasi il suo contrario. Questa trasposizione nel suo contrario – forze produttive di uno Stato in relazione a un altro, commerci più efficaci e possibilità di esercizio pieno della sovranità, fabbriche attive e disponibilità a muovere guerra contro gli Stati più deboli – è ciò che si vede nella visione che Friedrich List aveva dell’economia politica smithiana: quest’ultimo la definì come un’economia «cosmopolitica»8.

15 Nelle concezione di Adam Smith, la nazione è al contrario, una costruzione che nasce dall’urgenza di pensare, rispetto a società in costante progresso, a come si possa ottenere la pace internazionale. In un certo senso è una continuazione del gioco a somma diversa da zero sul quale contano gli attori che fanno parte di una società civile quando decidono di stipulare un contratto sociale. La concorrenza tra le nazioni, diversamente dalla guerra, permette di conseguire un risultato che porta un beneficio a tutti. La divisione internazionale del lavoro contribuisce a un aumento della produttività della ricchezza di tutti, non solamente di uno. Questo è ciò che desideriamo mettere in evidenza con questa prima definizione di nazione, ossia che si tratta di un’utopia. Il liberalismo non era ancora l’ideologia della classe dominante, lo sarebbe divenuto dopo la Primavera dei popoli, così come il nazionalismo sarebbe stata l’ideologia che avrebbe giustificato le differenza fra uno Stato e l’altro.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 71

16 Il mondo del XVIII secolo era ancora un mondo di imperi di Ancien Régime, che convivevano con le nascenti nazioni. In questo primo momento l’impero non si era opposto alla nazione, così come non lo sarebbe stato nel XIX secolo, quando tutti gli Stati industriali sarebbero stati chiamati, per eccellenza, imperi9. In questo contesto, l’idea di nazione assumeva connotazioni incerte, in bilico tra un mercato contrassegnato da frontiere – legato quindi ad altri mercati nei quali si andava sviluppando una progressiva divisione del lavoro – e una nazione, al contrario, che rappresentava il centro di un impero senza frontiere. Era in Portogallo e in Spagna, imperi in decadenza, che questa ambiguità appariva nella sua forma più evidente. La nazione si intrecciava e si confondeva con l’idea di regno, a partire dal quale si articolava un immenso impero. Lo Stato non riusciva a liberarsi dalle catene dell’Ancien Régime, ma, al contrario, tentava di rinsaldarle probabilmente perché si trattava dell’unica alternativa in Stati con strutture medioevali ancora tanto solide e con l’urgenza di prendere parte a un mondo composto in misura crescente da nazioni liberali. L’idea di nazione in questi Stati ancora conservava intatta l’opposizione colonia-madrepatria: pensavano la loro economia e la loro società a partire da questa, non diversamente dall’Inghilterra del XVIII secolo, una nazione industriale che ereditava i vasti imperi marittimi dei suoi antichi concorrenti. Forse questa potrebbe essere una delle spiegazioni, oltre al pionierismo industriale, in grado di spiegare la loro arretratezza nel XIX secolo: erano nazioni anacronistiche, non solo in termini produttivi ma anche in termini ideologici.

2. L’economia politica dell’Impero luso-brasiliano, espressione di alcune contraddizioni specifiche

17 Prima di iniziare a discutere di alcuni elementi legati all’economia politica dell’impero luso-brasiliano, dobbiamo giungere alla comprensione della struttura imperiale di Antico Regime portoghese. Se non si fa riferimento a questo aspetto, abbiamo due possibilità di comprendere le relazioni tra madrepatria, colonia e impero: la concezione dell’antico sistema coloniale di Fernando Antonio Novais e la concezione dell’impero portoghese di Charles Boxer reinventata da Luis Felipe de Alencastro. A nostro modo di vedere l’idea di nazione e la sua formazione sui due lati dell’Atlantico, da un lato in Brasile, dall’altro in Africa e in Portogallo, deve prendere in considerazione la complementarietà di queste due visioni.

18 La prima concezione riposa sull’idea che l’impero che si costituì tra i secoli XVI e XVIII fosse il risultato della costituzione di Stati monarchici assolutisti che, in ordine di unificazione, si proiettarono sulla parte restante del mondo. Il mercantilismo, una delle soluzioni per la crisi del XVII secolo10, reinventava questo impero senza, tuttavia, modificare le basi sulle quali si era costituito. Le riforme che caratterizzarono l’epoca mercantilista, tanto in Portogallo quanto in Spagna o nella Francai del colbertismo, o nelle Province Unite erano elaborate partendo dal presupposto che questi Stati fossero ancora il centro di imperi le cui basi erano state gettate nel XVI secolo.

19 Nel caso specifico del Portogallo, il mercantilismo era, a sua volta, quasi una continuazione del pensiero barocco11. Il tema della decadenza che sorse con la fine del Mediterraneo di Filippo II era caratteristico nella penisola iberica ed esercitava una forte influenza sull’economia politica portoghese. Questa deve essere considerata come l’espressione ideologica del momento in cui le riforme di stampo mercantilista si

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 72

avvicinavano al loro limite. L’economia politica luso-brasiliana, nella sua dimensione teorica, ma principalmente pratica, intendeva ripensare l’impero portoghese. Al contempo, i paradossi emergevano con evidenza e uno di questi saltava agli occhi: il liberalismo portoghese.

20 L’impressione che si ha del liberalismo portoghese è quasi quella che si tratti di un’idea fuori posto, il che rievoca il dibattito di Roberto Schwarz sul liberalismo in Brasile12; tuttavia non possiamo che constatare come il liberalismo, o la stessa fisiocrazia, fossero idee totalmente impiantate dall’estrangeirado13. Ciò che più attira la nostra attenzione, utilizzando la chiave interpretativa di Rosanvallon, è che il liberismo fosse a tal punto plastico nel XIX secolo da poter risultare liberoscambista o protezionista, ma anche, nel XVIII secolo, a favore dello sviluppo dell’industria o dell’agricoltura. In questo senso gli illuministi portoghesi adoperavano le idee del liberalismo e della fisiocrazia che erano utili per lo sviluppo economico portoghese, tanto quello industriale, quanto quello agricolo. Liberalismo e fisiocrazia, in Portogallo, non si trovavano in opposizione, ma componevano la contraddizione che caratterizzava il pensiero economico portoghese riguardo al tema della decadenza. L’idea di impero non si contrapponeva all’idea di nazione, ma è necessario comprendere quale fosse il significato di entrambe in questo contesto. Ci si deve domandare come il discorso nazionale e il discorso imperiale si siano a più riprese e allo stesso tempo riconciliati e contraddetti nel pensiero illuminista che caratterizzava la crisi dell’Antico Regime in Portogallo. Da un lato i discorsi apparivano nuovi, ravvivati dalle idee del liberalismo inglese e della fisiocrazia; dall’altro la trattazione del tema era assimilabile al vecchio discorso mercantilista imperniato sulla necessità di preservare a qualsiasi costo l’impero e i possedimenti coloniali14.

21 La seconda concezione si fondava sull’idea che il Brasile si fosse formato fuori dal Brasile, in Africa. La genesi della nazione brasiliana era pensata, qui, a partire dai rapporti di produzioni schiavisti e di riproduzione del traffico negriero. L’interesse si focalizza maggiormente sui rapporti tra Brasile e Angola e meno su quelli tra l’America portoghese e la madrepatria. La territorialità che caratterizzala nazione brasiliana – e che nasce con il passaggio dal XVIII secolo al XIX, con la costituzione di un mercato interno – deve essere pensata a partire dall’aterritorialità che è rappresentata dalle relazioni mercantili tra l’economia della produzione saccarifera e l’economia di riproduzione del traffico negriero: […] è nello spazio più ampio dell’Atlantico meridionale che la storia dell’America portoghese e la genesi dell’Impero del Brasile assumono appieno la loro dimensione. La continuità della storia coloniale non si confonde con la continuità del territorio della colonia. In realtà gli elementi di condizionamento atlantici, africani – distinti dai legami europei – disparvero dall’orizzonte del paese solamente a seguito della fine del traffico negriero e della rottura della matrice spaziale coloniale, nella seconda metà del XIX secolo. Questi condizionamenti contrassegnano l’originalità della formazione storica brasiliana15.

22 Tuttavia, tanto la nazione pensata dal punto di vista del rapporto madrepatria-colonia, quanto la nazione pensata a partire dal rapporto tra i territori d’oltremare, rinviano a identità che si costruiscono su territorialità le cui frontiere sono commerciali, create dal capitalismo in formazione. All’interno della concezione del sistema coloniale, la nazione si formò a partire dalla rottura del patto coloniale e di un nuovo inserimento nella divisione internazionale del lavoro, egemonizzato dall’Inghilterra industriale. L’idea di nazione era basata su quella di un mercato libero dagli antichi monopoli che lo

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 73

vincolavano alla madrepatria. Per ciò che attiene alla periodizzazione di questo tipo di prospettiva, la nazione sarebbe sorta verso la metà del XVIII secolo, sull’onda dei movimenti nazionalisti di contestazione alla sola madrepatria. Questo processo terminò con il moto di indipendenza nazionale e la formazione dello Stato nazionale. Al contrario della maggior parte dei paesi europei, in cui la nazione fa seguito alla formazione dello Stato nazione, nell’America coloniale la nazione è anteriore allo Stato16.

23 Se, al contrario, la nascita della nazione è pensata all’interno di un impero, il territorio nazionale, inteso come mercato, si costruisce a partire dalla dissoluzione del traffico negriero che era il sostegno degli imperi di Antico Regime, incluso quello portoghese quello spagnolo. Il Brasile nasce dall’inasprimento delle contraddizioni tra America e Africa a partire dalla fine del XVIII secolo, quando le fonti che alimentavano il traffico iniziarono a venir meno. In quest’ultima concezione, i circuiti commerciali tra la madrepatria e la sua colonia. La formazione di un mercato interno nell’America portoghese si verificò, infatti, quando la sua “dolce metà”, l’Africa, più propriamente l’Angola, cessò di fornire schiavi all’impero. Si pretendeva dai domini portoghesi in America, una soluzione e questa si indirizzò nella direzione di modificare i circuiti mercantili interni, riorientati con la nascita dell’industria mineraria. Le slealtà [commerciali] furono l’espressione di questo nuovo orientamento del mercato interno, che ruppe con l’aterritorialità soggiacente al traffico negriero e inventò una territorialità legata ad un preteso mercato interno.

24 Osservare l’impero a partire da queste due prospettive – quella del rapporto tra colonia e madrepatria e quella del rapporto interno al mondo coloniale – è fondamentale per comprendere l’economia politica dell’impero luso-brasiliano così come i significati della nazione che rappresenta. Le due concezioni di nazione erano complementari e l’economia politica che nasceva dalla crisi dell’Antico Regime cercava tanto di trovare una nuova collocazione per le colonie all’interno del vecchio impero, come risolvere il problema della schiavitù. È significativo, in questo senso, come gli autori illuministi, utilizzando le influenze del liberalismo inglese e della fisiocrazia francese, avessero ripensato una divisione del lavoro che allo stesso tempo creasse un luogo per un’idea di nazione che facesse riferimento all’industrializzazione, che ripensasse il concetto di impero e che fosse un richiamo all’Antico Regime: Nella fase finale dell’Ancien Régime, lo sviluppo dell’industrializzazione ridefiniva le tensioni, obbligando ad accordi. Trovare un accordo, per l’esattezza mobilitando il pensiero illuminista, stemperandolo, applicandolo alla congiuntura specifica: questo è quello che cercavano i teorici e gli statisti dell’Illuminismo lusobrasiliano17.

25 In questo senso il pensiero di Rodrigo Domingos de Sousa Coutinho, Conte di Linares, era innovatore poiché non teneva conto degli aspetti della fisiocrazia e del liberalismo che non facevano al caso portoghese e rinforzava, invece, una nuova concezione di divisione del lavoro che si basava in misura minore sullo sviluppo della madrepatria a detrimento della colonia e maggiormente sullo sviluppo simultaneo delle due parti del sistema: Rodrigo de Sousa Coutinho, analizzando la situazione dell’industria mineraria, rigettava le versioni più comuni della fisiocrazia che condannavano senza appello le attività minerarie; evidenziava come l’utilità dei lavori di estrazione mineraria dipendesse dal grado di sviluppo manifatturiero della madrepatria, ossia, in altri termini, come l’assenza di manifatture si sarebbe rivelata dannosa per le miniere che, al contrario, integrate in un’economia più sviluppata, sarebbero risultate sempre vantaggiose. Così si sarebbero potute comprendere le condizioni profonde

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 74

della crisi: lo sfruttamento della colonia era la condizione di sviluppo della madrepatria e, al contempo, avrebbe presupposto lo sviluppo di questa stessa. Solamente un progresso simultaneo delle due parti (colonia e madrepatria) avrebbe potuto interrompere il circolo vizioso18.

26 Dai passaggi sopra citati vediamo quanto il lessico esiti tra l’uso del termine nazione, regno, Stato e impero. È indicativo che nell’ultimo estratto riportato Rodrigo Domingos de Sousa Coutinho, nella sua Memória sobre os melhoramentos dos dominios na América del 1797, faccia uso del termine potenza19. Inizialmente si ha l’impressione che questi termini siano intercambiabili; tuttavia è nello studio di come la differenza tra questi si fosse prodotta, che è possibile comprendere, tanto dal punto di vista portoghese quanto da quello brasiliano, come la costruzione di un’idea di nazione si stesse proponendo come un’alternativa all’impero.

27 Detto ciò, è nel rapporto con la forma attraverso cui si interpretano le relazioni del mercato, ossia dall’economia politica, che deve essere cercata l’origine dell’idea di nazione. Il concetto di impero e quello di sistema coloniale risultano complementari nello sforzo interpretativo, nella misura in cui si ambisca ad una interpretazione più attenta all’economia politica luso-brasiliana e ai differenti discorsi nazionalisti che si produssero sui due lati dell’Atlantico. Dallo sfaldamento dell’impero e dalla critica al sistema coloniale, questa economia luso-brasiliana non fu mai una sola: si divise in un’economia politica lusitana e una brasiliana, della quale gli esponenti più significativi furono José Bonifácio de Andrada e Silva e Bento da Silva Lisboa, il Visconte di Cairu.

28 È importante mettere in rilievo come le trattazioni portoghesi in merito all’impero e alla sua preservazione avessero ceduto spazio alle nuove costruzioni territoriali che, sotto l’influenza delle idee liberali, ricreavano il rapporto tra colonia e madrepatria senza, tuttavia, pensarli come spazi nazionali distinti. Significativo in tal senso è il pensiero del vescovo José Joaquim da Cunha Azeredo Coutinho, che proponeva un commercio deficitario tra la colonia e la madrepatria andando contro le antiche prerogative di esclusività della madrepatria: La madrepatria, anche nel caso in cui sia debitrice delle colonie, deve essere necessariamente creditrice due volte tanto nei confronti degli Stranieri; deve fare in modo di raddoppiare gli utili con gli uni e con gli altri; guadagnerà nelle vendite, guadagnerà nelle merci, guadagnerà nei trasporti, indipendentemente da dove essi siano diretti, grazie alla crescita della sua marina mercantile e del suo commercio. Cosa importa, in definitiva, di ciò che la madre deve ai suoi figli, quando essa è doppiamente creditrice nei confronti degli Stranieri20?

29 Benché questo discorso sia assimilabile a quello smithiano sulle colonie – che, curiosamente, non devono essere intese come sinonimo di monopolio, poiché sono, al contrario, utili alla divisione del lavoro21 – è importante considerarlo come uno dei tratti fondamentali del pensiero economico illuminista portoghese. Non è tanto la tematica del progresso, bensì quella dell’arretratezza ad essere unanimemente condivisa tra gli autori illuministi22. Perciò non dobbiamo soffermarci semplicemente a riflettere sul fatto che il pensiero illuminista portoghese sia liberale o meno, ma su quali siano le caratteristiche di questo liberismo dal momento che, come ha notato Rosanvallon, è necessario prestare attenzione alle sfumature di questa ideologia tanto contraddittoria: le sue declinazioni nazionali non sono meno contradditorie. In Portogallo fu il discorso sull’arretratezza in rapporto al mondo industriale ad affermarsi. Da lì nacquero le eccessive preoccupazioni per la protezione dell’industria nazionale e non per la sua liberalizzazione. José Manoel Ribeiro23 non si preoccupava

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 75

della ricchezza delle nazioni, ma scrisse il Discurso político sobre as causas da pobreza de Portugal. Il tema della decadenza era quello più in voga nel pensiero illuminista portoghese, contrariamente al liberismo inglese.

30 Un altro tratto caratteristico del pensiero economico illuminista portoghese era l’attenzione nei confronti dello sviluppo della agricoltura in misura minore di quello dell’industria. Troviamo monografie in ambito regionale sul tema, che trattano di vigne, olivi o sale24. Se l’agricoltura fu sempre una preoccupazione del pensiero economico portoghese, c’è di che interrogarsi sulla specificità del trattamento del tema in questo periodo. Probabilmente Domingos Vandelli fu colui che meglio rappresentò le nuove tendenze. L’agricoltura doveva essere trattata secondo un’aritmetica della politica e non più solamente in vuoti termini ideologici; tuttavia bisogna distinguere l’aritmetica dall’eccessiva sistematizzazione dell’economia. Questa non ricadeva all’interno del pragmatismo politico che caratterizzava l’economia politica portoghese, meno condizionata dalle astrazioni eccessive e maggiormente legate al pragmatismo della politica economica: «[…] tutti i rami della politica economica, perché siano utili al Regno, devono essere regolati da principi dedotti da una buona aritmetica politica, così non ci si deve attenere a sistemi senza averli prima esaminati e confrontati con le attuali condizioni della nazione»25.

31 La stessa attenzione che prestiamo agli influssi gettati dal liberismo inglese sul pensiero economico portoghese è necessaria per riflettere sull’influenza della fisiocrazia nel campo della teoria economica sull’agricoltura. Una delle caratteristiche difesa dell’agricoltura nel Portogallo del XVIII è che questa era accompagnata da una difesa, tanto dell’industria mineraria, tanto nel caso del liberismo, quanto in quello della fisiocrazia, importano meno le condizioni esterne rispetto alla consapevolezza che l’opera degli stranieri aveva causato il soffocamento dell’economia nazionale. In questo modo l’economia politica portoghese si serviva degli elementi provenienti tanto dal liberalismo quanto dalla fisiocrazia nella misura in cui risultavano necessari al caso portoghese.

32 La rivendicazione nei confronti dello sviluppo dell’agricoltura nazionale, in questo senso, non era in alcun modo nuovo26. L’ambizione di una terra molto votata al commercio e poco votata all’agricoltura è caratteristica di tutto il periodo rinascimentale portoghese, sin da quando l’espansione marittima diede avvio alla decadenza dell’agricoltura, al punto che il Portogallo necessitò di importare il grano per soddisfare i bisogni alimentari della popolazione: «La maggior parte della popolazione portoghese nel medioevo viveva di agricoltura. Nonostante ciò, il tratto caratteristico della vita economica non è dato dalle sole esplorazioni. L’attività commerciale e marittima che risultò dalla modalità di popolamento della costa e dall’esplorazione del mare e ciò che rappresenta l’elemento decisivo che definisce le condizioni di vita nazionale portoghese, basato sulla pesca, sulla salinazione e sullo scambio di prodotti commerciali della terra»27. Le rivendicazioni già erano state espresse dall’epoca di Dom João IV, che fu il primo a introdurre il sistema delle sesmarias28 e l’obbligo della coltivazione sotto la minaccia di perdere la concessione della terra: «L’acuta crisi agraria che non diminuì con le drastiche misure di Alfonso IV, ispirò a Fernando la celebre Lei das Sesmarias (del 1375, promulgata sotto suggerimento delle Cortes) […] Le legge successivamente accorpata alle Ordinanze Alfonsine , conserva, in realtà, una duplice sfumatura, non essendo né borghese, né aristocratica. Sarà, non accogliendo gli interessi dei proprietari agricoli, una vittoria

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 76

borghese, senza rappresentare un discredito per la nobiltà […] La scarsità di mezzi di sostentamento, obbligando alla coltivazione delle terre e costringendo i contadini al lavoro agricolo [era] una doppia coercizione che colpiva ad un certo punto il proprietario»29.

33 Forse è per i suoi rapporti anche con il pensiero economico medioevale – e qui notiamo anche un’altra caratteristica del pensiero economico illuminista portoghese – che la pratica economica precede la sua elaborazione formale. Secondo Fernando Novais, il Portogallo diede avvio alle sue riforme nel 1754, sebbene le elaborazioni teoriche sarebbero state approvate solo nel 1789. In Francia, al contrario, la fisiocrazia già abbozzava alcuni sistemi di economia politica, benché le riforme vennero attuate solamente a partire dalla Rivoluzione francese. Fu su questo pensiero economico medioevale, attingendo, probabilmente, allo stoicismo iberico, che si realizzò il mercantilismo portoghese nel XVII secolo, il quale diede luogo all’economia politica illuminista nel XVIII secolo. Meno caratterizzata dalla rottura e maggiormente dalla continuità con la tradizione del pensiero precedente, era ciò che stava forgiando l’economia politica portoghese e la sua concezione specifica della nazione.

34 In questo modo il mercantilismo illuminista portoghese, conservando alcune tradizioni, si caratterizzò per un forte pragmatismo. Questo mercantilismo passò attraverso una profonda riforma a partire dal XVIII secolo. Se questa riforma si fece sentire sotto l’influenza dell’estrangeirado fu perché questi, conoscitori della maggiori difficoltà nello sviluppo, furono capaci di combinare il realismo portoghese in materia di politica economica con i tratti più interessanti della fisiocrazia francese e del liberalismo inglese. Per questa ragione sostennero non solamente lo sviluppo dell’artigianato e della manifattura, ma anche lo sviluppo dell’agricoltura, data la carenza strutturale del Portogallo in questo settore è anche dell’industria mineraria, in considerazione del fatto che erano state scoperte vene in luoghi remoti che avrebbero trasformato la colonia portoghese, non in una colonia ma nella più ricca.

35 Così l’idea di nazione apparve come una novità che, al contrario dell’utopia liberale, non si contrappone nella pratica all’idea dell’impero. La nazione portoghese si definisce per la sua capacità di adottare i nuovi cambiamenti all’interno del suo antico impero, modernizzando i suoi domini, senza distruggere, tuttavia, l’esclusività della madrepatria. Riforma era la parola d’attualità e la modernizzazione si stava verificava senza rotture che potessero minacciare l’integrità dell’impero: «per il miglioramento dell’agricoltura, dell’artigianato e dell’industria, in Portogallo e nelle sue conquiste»30. In questo senso la nazione appare nei primi scritti degli illuministi come sinonimo di regno o di Stato: «[...] di ciò che la Nazione è e di ciò che può essere e per ciò che è già stata»31. La nazione qui si rapporta non a una nozione territoriale circoscritta a uno Stato che comanda un impero: «la sostanza della Nazione, e la sua ricchezza, l’abbiamo vista per lungo tempo passare agli stranieri nello scambio di generi che o crescevano spontaneamente nelle nostre terre o a cui sarebbe stato necessario un minimo di industria per raffinarli»32.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 77

NOTE

1. MARTINS, Oliveira. História de Portugal, Lisboa, Livraria Editora, 1908, p. 31. 2. LIST, Friedrich, Il sistema nazionale di economia politica, Milano, ISEDI, 1972, pp. 193-210. 3. Nel 1740 l’enciclopedista Johann Heinrich Zedler, sostiene che il termine nazione, nel suo significato originario e genuino, designa un «insieme compatto di Bürger […] che hanno in comune certi costumi, usanze e leggi. Dal che ne deriva che il termine nazione non ha alcuna connotazione territoriale visto che gli appartenenti a nazioni diverse […] possono vivere gli uni accanto agli altri nella stessa provincia per quanto piccola». Cfr. HOBSBAWM, Eric J., Nazioni e nazionalismo dal 1780. Programma, mito, realtà, Torino, Einaudi, 1991, p. 22. 4. I passi utilizzati in questo lavoro sono espunti dai testi di: NOVAIS, Fernando, O reformismo ilustrado luso-brasileiro: alguns aspectos, in ID., Aproximações: Estudos de História e Historiografia, São Paulo, Cosac Naify, 2005, pp. 167-181. Questo passo si trova a pagina 173. se encontra à página 173. Também usamos o texto de Un altro riferimento per questo saggio è CARDOSO, José Luís, (coord.), A economia política e os dilemas do império luso-brasileiro (1790-1822), Lisboa, Commissão Nacional para as Comemorações dos Descubrimentos Portugueses, 2001. La ricerca è ancora a uno stadio embrionale e ci rifacciamo alle citazioni già presenti nella letteratura senza ricorrere direttamente alle fonti. 5. Tra i principali studi consacrati al tema troviamo: HOBSBAWM, Eric J., op. cit.; GELLNER, Ernest, Nations and nationalism, Oxford, Blackwell, 1983 [trad. it., Nazioni e nazionalismo, Roma, Editori Riuniti, 1985]; ANDERSON, Benedict, Imagined communities: reflections on the origin and spread of nationalism, London-New York, Verso, 1982 [trad. it., Comunità immaginate. Origini e fortuna dei nazionalismi, Roma, Manifestolibri, 1991]; ARMSTRONG, John A., Nations before nationalism, Chapel Hill, The University of North Carolina Press, 1982; BREUILLY, John, Nationalism and the State, Manchester, Manchester University Press, 1982 [trad. it., Il nazionalismo e lo Stato, Bologna, Il Mulino, 1995]; HOBSBAWM Eric J., RANGER, Terence (orgs.), The invention of tradition, Cambridge, Cambridge University Press, 1983 [trad. it., L’invenzione della tradizione, Torino, Einaudi, 1983]; SMITH, Anthony D., Theories of nationalism, London, Duckworth, 1971; TILLY, Charles, The formation of national states in Western Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975 [trad. it., La formazione degli stati nazionali nell’Europa occidentale, Bologna, Il Mulino, 1984]. 6. L’autrice ha utilizzato la traduzione di Luiz João Baraúna di SMITH, Adam, A riqueza das naçoes – investigação sobre sua natureza e suas causas, São Paulo, Vova cultural, 1996 [ed. it., La ricchezza delle nazioni, Roma Newton Compton, 1995]. 7. ROSANVALLON, Pierre, Le libéralisme économique. Histoire de l’idée de marché, Paris, Editions du Seuil, 1979. 8. LIST, Friedrich, Il sistema nazionale di economica politica, Milano, ISEDI, 1972, pp. 149-159. 9. HOBSBAWM, Eric, L’età degli imperi 1875-1914, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 66-98. 10. TREVOR-ROPER, Hugh, La crisi generale del XVII secolo in ASTON, Trevor Aston (a cura di), Crisi in Europa: 1560-1660. Saggi da Past and Present Napoli, Giannini, 1968, pp. 83-134. 11. NOVAIS, Fernando, O reformismo ilustrado luso brasileiro, alguns de seus aspectos, in ID., Aproximaçoes: estudos de história e historiografia, São Paulo, Cosac Naify, 2005, pp. 167-181. 12. SCHWARZ, Roberto, Ao vencedor as batatas: forma literária e processo social nos inícios do romance brasileiro, São Paulo, Duas Cidades-Editora 34, 2000. 13. “Estrangeirado” era il termine che designava l’élite intellettuale portoghese che, attraverso i viaggi ed entrando in contatto con le idee illuministe, era tornata nel proprio paese volendole applicare nel campo della politica economica. Cfr. NOVAIS, Fernando, O reformismo ilustrado luso brasileiro, alguns de seus aspectos, in ID., Aproximaçoes: estudos de história e historiografia, São Paulo, Cosac Naify, 2005, pp. 167-181).

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 78

14. La convivenza tra il vecchio e il nuovo si trova espressa nella seguente memoria di Antonio Nunes Ribeiro Sanches, Dificuldades que um velho reino tem de se emendar (cit. in Novais, O pensamento ilustrado…, cit.). Le strutture arcaiche dell’impero creavano difficoltà, anziché permettere, la penetrazione delle novità. Quanto più il regno è antico e lo sono le sue strutture imperiali, più difficile è una trasformazione radicale, il che conferisce il carattere di “rattoppato/ emendato” della nazione portoghese. 15. De ALENCASTRO, Luiz Felipe, O trato dos viventes: formação do Brasil no Atlântico sul, São Paulo, Cia. das Letras, 2000, pp. 20-21. 16. FORASTIERI DA SILVA, Rogerio, Colonia e nativismo. A historia como “biografia da naçao”, São Paulo, Hucitec, 1997. 17. NOVAIS, Fernando, op. cit., p. 173. 18. Ibidem. 19. Le memorie degli scrittori illuministi portoghesi sono stati pubblicati in 12 volumi dal Banco de Portugal. Siamo ancora ad uno stato iniziale della ricerca, come già accennato in precedenza e, ci rifacciamo alle fonti indicate in bibliografia: «I domini di S. M. in Europa non costituiscono che la Capitale e il Centro dei suoi vasti possedimenti. Il Portogallo, ridotto solamente a ciò, diverrebbe entro un breve periodo una provincia della Spagna, dal momento che serve quale punto di riunione e sede della monarchia, che si estende a ciò che è posseduto nelle isole dell’Europa e dell’Africa e in Brasile, dalle coste orientali e occidentali dell’Africa a ciò che la nostra Real Corona possiede, ancora, in Asia, è senza dubbio una delle Potenze che hanno tutti i mezzi per figurare convenientemente e brillantemente tra le prime potenze d’Europa». De SOUSA COUTINHO, Rodrigo Domingos, Memória sobre os melhoramentos dos dominios na América cit. in NOVAIS, Fernando, op. cit., p. 173. 20. Da CUNHA AZEREDO COUTINHO, José Joaquim, cit. in NOVAIS, Fernando, op. cit., p. 175. 21. SMITH, Adam, op. cit., cap. VII. 22. NOVAIS, Fernando, op. cit., p. 167. 23. Ibidem, p. 172. 24. Ibidem, p. 170. 25. VANDELLI, Domingos, Memorial sobre a preferência que em Portugal se deve à agricoltura, cit. in NOVAIS, Fernando, op. cit., pp. 171-172. 26. Sul significato dell’estrangeirado in relazione alla tradizione del pensiero politico portoghese, si veda: CARNEIRO, Ana, DIOGO, Maria Paula, SIMÕES, Ana, «Imagens do Portugal setecentista. Textos de estrangeirados e de viajantes» in Revista Penélope, 22, 2000, pp. 73-92. 27. NUNES DIAS, Nunes, O capitalismo monárquico português, vol. 2, Coimbra, Faculdade de Létras da Universidade de Coimbra, Instituto de Estudos Históricos, 1964, pp. 217-218. 28. Il sistema delle sesmarias era un’istituzione giuridica volta a regolamentare la distribuzione delle terre destinate alla produzione di viveri: per organizzarne la produzione questa veniva affidata direttamente ai privati. Il sistema venne introdotto dallo Stato portoghese nel XVI secolo anche in Brasile, seppur con qualche adattamento [NdT]. 29. FAORO, Raymundo, Os donos do poder-formação do patronato político brasileiro, São Paulo, Globo, 2008, p. 51. 30. Da COSTA, José Inácio, Memórias económicas cit. in NOVAIS, Fernando, op. cit., p. 172. 31. VANDELLI, Domingos, Memorial sobre a preferência que em Portugal se deve à agricoltura cit. in NOVAIS, Fernando, op. cit., pp. 171-172. 32. Ibidem.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 79

RIASSUNTI

L’articolo indaga la costruzione dell’idea di nazione durante la crisi dell’Antico Regime in Portogallo. La premessa della ricerca è quella di comprendere come la nazione fosse pensata sui due lati dell’Atlantico: nel Portogallo decadente della fine del Settecento e nell’America portoghese che stava abbandonando il suo status di colonia, cominciando a considerare se stessa come Brasile. L’intento è quello di rapportare l’idea di nazione alle forme moderne di interpretazione della società, basate principalmente sull’idea di mercato. Il caso portoghese si mostra particolarmente ricco di contraddizioni.

This paper examines the idea of nation during the Ancient Regime’s crisis in Portugal. The research’s foreword tries to understand how the nation was thought across the two sides of the Atlantic sea: from the late XVIII century Portugal to the American colonies, who began to consider themselves as an independent state, Brazil. The proposal is to compare this idea of nation to the modern forms of society interpretations, based on the market conception. The Portuguese case is particularly rich for his contradictions.

INDICE

Parole chiave : antico regime, Brasile, economia politica, nazione, Portogallo Keywords : ancient regime, Brazil, nation, political economy, Portugal

AUTORI

MILENA FERNANDES DE OLIVEIRA Professoressa dell’Universidade Estadual de Campinas (Stato di São Paulo). La sua attività di ricerca è incentrata sull’analisi del rapporto tra l’idea di nazione e l’economia politica nel passaggio dal XVIII al XIX secolo. Si occupa di storia economica, principalmente dei secoli XVIII e XIX e in particolare dei processi di formazione del capitalismo.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 80

La marginalità a Piacenza e nel suo circondario nella tarda età napoleonica (1810-1814)

Alessandro De Luca

1. L’alienazione dei beni del clero e l’assistenza sociale pubblica

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 81

1 I francesi governarono il parmense ed il piacentino in un periodo contrassegnato da continue guerre e rivolgimenti tra Napoleone e gli Stati d’Europa anche se il teatro bellico non fu mai nel Dipartimento del Taro, costituito quando l’ex ducato di Parma e Piacenza fu annesso al resto dell’Impero con il senatoconsulto del 24 maggio 1808, le vicende della guerra ne condizionarono pesantemente lo sviluppo, al pari di quanto accadde negli altri territori assoggettati da Napoleone. Molte risorse dei differenti territori, sia umane che economiche, furono sacrificate sull’altare della grandeur dell’Impero, producendo conseguenti e duraturi danni a cascata sulle contrade d’Italia e d’Europa. Per il Dipartimento del Taro si trattava di confrontarsi con bilanci assai scarni, cosa resa più grave dal generale grado d’arretratezza complessiva di quelli che furono sotto Moreau1 gli stati parmensi, specie se paragonati all’attività produttiva coeva del vicino Regno d’Italia. In questo e in altri casi l’unico espediente a cui poteva ricorrere il governo francese era l’esproprio dei beni mobili ed immobili della Chiesa di Parma e di Piacenza, in modo da utilizzare le strutture esistenti anche per finalità di utilità sociale. Del resto il contesto socio-economico piacentino era largamente agricolo e presentava una diffusa arretratezza. A Piacenza e nel contado la coltivazione più diffusa era quella del granturco, le cui rese erano però scarse e sfavorite da un’organizzazione produttiva costituita da proprietari assenteisti, dalla presenza del latifondo e dell’ignoranza dei contadini2. Questi ultimi erano spesso ridotti alla fame, pieni di debiti e preda di stenti tali che non avevano la forza di dedicarsi all’allevamento ovino, che pure sarebbe stato fiorente sulle colline piacentine3. In un contesto socio-economico a tal punto depresso era facile ammalarsi (frequenti erano la febbre terzana e la cecità), divenire inabili al lavoro e passare quindi tra le schiere dei marginali, in cui rientravano da subito, giocoforza, anche parte della numerosa prole delle famiglie contadine4. Tecnicamente parlando marginale è colui che “ si trova ai margini della società” e quindi un termine sinonimo di “marginale” è “emarginato”5. Tornando al territorio piacentino appare chiaro che il tema della marginalità a Piacenza e provincia fosse molto sentito e si intrecciasse quindi, anche se solo parzialmente, con le espropriazioni dei beni immobili ecclesiastici; a tal proposito i dati francesi sono certi e riportano come tra il 1805 e il 18106 fossero stati incamerati dal demanio pubblico 35.000 ettari di terra, di cui 25.000 dati in affitto tramite i patti agrari tradizionalmente in uso e 10.000 acquistati dai proprietari terrieri, che arrivarono ad avere in media 3,32 ettari a testa; una misura, questa, simile a quella dei proprietari lombardi e sufficiente per avviare la trasformazione in senso capitalistico dell’economia, grazie al ricorso al grande affitto.

2 Beninteso: quest’ultima era lungi dallo svilupparsi nel piacentino, tuttavia è incontestabile che le espropriazioni permisero l’accumulazione di quelle ricchezze che sarebbero state necessarie per attuare investimenti di tipo capitalistico in futuro. Nell’area piacentina, soprattutto nel settore tessile, questa primigenia accumulazione di risorse era visibile in minima parte già in età napoleonica. A ben vedere, il passaggio di consistenti ricchezze dalla Chiesa a parte della nobiltà innovatrice e della borghesia produttiva costituì un travaso di beni che uscivano dall’area prevalente della rendita

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 82

per entrare potenzialmente in quella del profitto, con conseguenze visibili solo nel lungo periodo. L’opera di espropriazione francese riguardò il 13% circa delle terre, a cui erano da aggiungere tutte quelle rimaste a disposizione del demanio e quindi inutilizzate o destinate a finalità sociali o assistenziali. Si era così creata la base sia per la modernizzazione dei rapporti di produzione nell’agricoltura, sia per creare dei centri di produzione, necessariamente in un momento iniziale in mano allo Stato, in grado di connettere il settore primario con il secondario e contribuire così alla modernizzazione e contemporaneamente all’accrescimento dell’economia del piacentino. Nella tabella 1 vengono mostrati i dati delle espropriazioni ecclesiastiche nel circondario di Piacenza7:

COMUNE NUMERO CONFRATERNITE ESPROPRIATE

Piacenza 22

Borgonovo 2

Ponte dell’Olio 2

San Giorgio Piacentino 1

Vicobaronco 1

Gragnano 1

Alseno * 1

Castell’Arquato* 4

Castelvetro Piacentino* 4

Cortemaggiore* 4

Fiorenzuola* 4

3 * Comuni all’epoca ricadenti nel circondario di Borgo San Donnino, odierna Fidenza, ed oggi facenti parte della provincia di Piacenza

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 83

Tab. 1. Le espropriazioni ecclesiastiche nel piacentino

4 Il patrimonio immobiliare espropriato era comunque così ingente che nemmeno il grande apparato produttivo del Regno d’Italia sarebbe forse riuscito ad utilizzarlo interamente per i propri fini produttivi e; del resto era chiaro che in un luogo economicamente non progredito come Piacenza e il suo territorio il rapporto tra proprietà ecclesiastiche e sviluppo delle moderne forze produttive non poteva che essere inversamente proporzionale. Una transizione della proprietà, al netto degli squilibri esistenti prima dell’avvento di Napoleone, era del resto così necessaria che il restaurato governo ducale di Maria Luigia si guardò bene dal restituire alla Chiesa i beni mobili ed immobili che aveva perso durante il decennio e poco più di dominio francese. Bisogna quindi comprendere l’utilità dell’alienazione dei beni ecclesiastici non solo nel breve periodo del governo francese, in cui essi furono sottoutilizzati, ma anche per la ricaduta che essa ebbe nei decenni successivi8. Grazie a una più ampia disponibilità di beni mobili ed immobili immessi progressivamente sul mercato, i ceti proprietari allargarono le loro fortune, creando così una base patrimoniale più solida che potesse giocare un ruolo propulsore nell’economia; la conseguenza di ciò fu l’adesione massiccia dei ceti proprietari alla causa dell’Unità d’Italia, al contrario di quanto avvenne per i contadini che a Piacenza restarono legittimisti9. Questa polarizzazione politica fu così evidente che Carlo III a metà Ottocento si fidava più dei contadini che dei proprietari, la qual cosa generò la leggenda storiografica del duca “socialista”, quando invece egli favorì i contadini poveri solo perché essi erano tenacemente attaccati al trono. Nel mentre si era sviluppata questa nuova classe di capitalisti agrari che sosteneva l’Unità perché aveva bisogno di mercati più vasti di quelli racchiusi negli angusti confini degli Stati preunitari.

5 I francesi, consci, viste le vicende rivoluzionarie degli anni precedenti, dell’importanza dei provvedimenti di alienazione dei beni del clero (che avevano permesso alla Rivoluzione di tenersi in piedi nel difficile decennio 1789-1799) per l’economia dei territori conquistati, pubblicizzavano con ogni mezzo questo processo, presentandolo come un’occasione di progresso sociale e civile per Piacenza e il suo circondario.

6 Con questa finalità venne annunciata sul Giornale del Taro10 l’imposizione di una tassa di 150.000 franchi sulle rendite dei beni delle confraternite, destinata a finanziare il regolare funzionamento del Deposito di Mendicità che si trovava a Borgo San Donnino, come si evince dalla seguente tabella:

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 84

Tab. 2. La tassazione delle chiese in provincia di Piacenza

COMUNE CHIESA IMPORTO TASSAZIONE

Bardi Del Suffragio 365 franchi

Besenzone Tre chiese 1.500 franchi

Cong. San Giuseppe, Castell’Arquato Chiesa di San Francesco, Dato non disponibile Tre Sacramenti

7 I provvedimenti in tal senso vennero quindi sempre presi a Parigi e presentati come frutto dell’ineluttabile volontà dell’imperatore, cui le stesse autorità locali, forse timorose della possibile reazione popolare (che non vi fu, a differenza di quanto era avvenuto nelle varie insorgenze verificatesi tra il 1796 e il 1799) facevano mostra di aderire in considerazione del fatto che si trattava di ordini superiori. Tra questi va ricordato il decreto imperiale del 22 giugno 181311 che stabiliva un prelievo fiscale di 60.000 franchi dalle casse delle confraternite e delle congregazioni per finanziare in tutto l’Impero le strutture assistenziali e di reinserimento sociale. Queste ultime passarono così in via definitiva dal monopolio clericale alla gestione da parte dello Stato, che cominciò a considerare la gestione come uno dei suoi compiti; alla gestione pubblica si poteva aggiungere l’aiuto fornito da istituzioni private – e tra queste le cattoliche continuarono a svolgere un ruolo preponderante – senza però che queste potessero più avere la possibilità di esercitare una forte influenza sociale tramite il controllo delle coscienze, logica conseguenza delle molteplici attività che la Chiesa controllava in questo settore, riconosciuto in passato dagli stati d’Ancien Régime come materia di esclusiva competenza ecclesiastica. Le attività dello Stato in tal senso si reggevano, come sottolineato, non solo sulle espropriazioni, ma anche sulle tasse imposte al clero per finanziare le attività di assistenza e di rieducazione sociale previste per i marginali sin dai tempi di Moreau ed ora destinate ad essere realizzate per effetto dei decreti imperiali e dei conseguenti sforzi del prefetto Delporte12. Tenuto conto del fatto che l’unico plesso assistenziale e produttivo era quello di Borgo San Donnino, esterno alla provincia di Piacenza, a cui si affiancavano ospedali ed ospizi delle capitali circondariali, viene da ipotizzare che tale gettito fiscale non sia andato tutto agli enti assistenziali ma abbia finito per rimpinguare anche le casse del tesoro imperiale, ricordato del resto dagli abitanti del Taro come da quelli di tutto l’Impero come il massimo beneficiario dell’esoso fiscalismo napoleonico13.

8 Rimaneva la sorda opposizione della Chiesa e delle autorità locali ai progetti francesi e spesso questa si incarnava nella ricerca di pretesti atti a ritardare l’alienazione dei beni ecclesiastici allo Stato, chiamando in causa debiti che privati cittadini dovevano ancora risarcire agli istituti clericali che i francesi volevano espropriare. A questo proposito Delporte emise un decreto14 che prevedeva il passaggio dei debiti contratti dai privati con istituzioni clericali espropriate al Deposito di Mendicità stesso, con l’obiettivo di non ritardare la consegna dei beni alienati e di aumentare i fondi a disposizione di questo ente assistenziale e rieducativo. Si trattava di uno stratagemma in grado di consentire il reperimento di fondi e contemporaneamente accelerare la costruzione e la

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 85

messa in funzione del Deposito, che accoglieva quindi anche i marginali e le tasse del piacentino, per la prima volta in grado di vedere risorse – sino ad allora appannaggio della Chiesa – liberate in parte consistente in favore dell’assistenza sociale.

2. Regolamentare la marginalità

9 All’espropriazione ecclesiastica faceva da contraltare l’impegno delle autorità per frenare ed incanalare il fenomeno della marginalità e del vagabondaggio. Si trattava di un male endemico delle società preindustriali e il territorio piacentino in ciò non faceva eccezione. Tuttavia l’esoso fiscalismo francese e soprattutto la diffusa renitenza alla leva, finivano per trasformare tanti giovani contadini in vagabondi, irregolari o briganti, costretti a vivere ai margini della società e di una legge che sconvolgeva le loro ataviche abitudini sociali e familiari.

10 Nel 1805 l’amministrazione francese introdusse la coscrizione militare, generando sin da subito malcontento tra la popolazione15. Dato che i borghesi potevano ricorrere al rimpiazzo (ossia pagare per trovare un sostituto) ed i nobili erano in grado imboscarsi in qualche corpo onorifico o di rappresentanza, era evidente come il peso della coscrizione ricadesse tutto sulle classi popolari, in massima parte contadine. I coscritti erano giovani che, compiuti 20 anni, dovevano svolgere servizio militare per i cinque anni successivi o fino alla fine della guerra per cui erano stati chiamati a servire l’imperatore. Tali dure leggi generavano una diffusissima renitenza alla leva16. Chi non si presentava alla chiamata alle armi esponeva la propria famiglia alle spese di mantenimento dei soldati che si stabilivano sine die nella casa del renitente 17. Chi si dava alla macchia era inseguito dalle temute colonne mobili di soldati, molto attive nei comuni di montagna. In certi casi scattava addirittura l’arresto dei familiari del renitente18, determinando un fenomeno di ribellismo sociale che andava ben al di là del rifiuto della leva. Con l’andare degli anni esso aumentò di pari passo con l’incremento di richieste di uomini da parte dell’imperatore, in particolare dall’inizio della campagna di Russia in poi: nel luglio 1813 su 475 coscritti piacentini ben 109, oltre il 20%, risulta essere refrattario19.

11 Delporte si prodigò quindi sul terreno della prevenzione come su quello dell’assistenza, che poteva contare complessivamente su tre ospedali nel circondario di Piacenza. C’erano poi due istituti per i trovatelli ed i poveri e sei case ospedaliere per le fanciulle abbandonate o orfane. L’alimentazione per i contadini nel nord Italia era basata su mais, frutta e verdura; carne, pesce e, in misura minore, il vino erano un privilegio di pochi o una rarità per i più. I lavoratori giornalieri nei campi erano quelli peggio retribuiti, seguiti a ruota dai mezzadri che a Parma e a Piacenza erano, nei fatti, lavoratori subordinati che ben conoscevano la fatica di vivere costretti com’erano ad abitare in casupole di legno, con poche finestre e tetti bassi. La questione della regolamentazione della marginalità andava di pari passo con la dinamica demografica della popolazione piacentina, che negli ultimi anni del dominio francese era tendente alla crescita20.

12 Bastava quindi poco (una carestia, un’epidemia, una guerra) per precipitare nella vera miseria21. Del resto da questo punto di vista Piacenza era più esposta perlomeno a partire dal 1749, quando i Borbone trasferirono stabilmente la residenza del Ducato a Parma, abbandonando a se stessa la prima capitale farnesiana, privandola anche

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 86

dell'economia parassitaria foraggiata dalla corte ducale, che pure giocava un ruolo importante nel generare reddito per la cittadinanza22.

13 Con il dispiegarsi del potere francese, Napoleone si preoccupò anche di normare in modo accurato le questioni riguardanti i poveri e i marginali con un decreto ad hoc, emesso dal palazzo delle Tuileries il 19 gennaio 181123. In esso si sosteneva che l’educazione e il mantenimento dei giovani da parte della carità pubblica (ossia dell’intervento dello Stato) era destinato ai trovatelli, ai bambini abbandonati e agli orfani poveri e a tal fine si stabiliva che ogni circondario di ogni dipartimento dovesse avere per legge almeno una struttura di questo tipo.

14 Il decreto prevedeva che i bambini abbandonati – e quindi ospitati presso questi istituti – fossero nutriti fino ai sei anni, avessero un proprio corredo, e andassero da quell’età in poi a pigione dagli agricoltori o dagli artigiani che desideravano ospitarli con l’obiettivo di insegnare loro un mestiere. Lo Stato cercava di coinvolgere i privati nella gestione delle risorse umane degli istituti, con il malcelato intento di ridurre al minimo i costi di formazione lavorativa di questa manodopera. Dai dodici anni in poi essa veniva destinata al Ministero della Marina, che aveva bisogno di risorse umane per provare a tenere testa agli inglesi sul mare, punto debole del dominio napoleonico. Qualora i genitori naturali dei trovatelli avessero deciso di riprendersi i propri figli era obbligatorio per questi rimborsare l’amministrazione di tutte le spese sostenute in precedenza per il mantenimento dei medesimi (norma questa che fa intuire la rarità di un simile evento), anche perché erano previste pene serie per chi abbandonava i piccoli e li affidava alle strutture pubbliche d’assistenza. Il decreto più volte sopracitato preannuncia per il 1812 una legge ad hoc per la riorganizzazione del settore dell’assistenza ai marginali, in particolare per quanto concerne i regolamenti sulle funzioni dell’amministrazione pubblica; tuttavia già questa iniziativa di Napoleone contiene le linee-guida caratteristiche dell’approccio universalista e utilitarista dell’epoca, volto a fare dei trovatelli dei buoni soldati oppure operai e artigiani al servizio della forza militare ed economica dell’Impero.

15 Il marginale veniva finalmente considerato una risorsa e non un paria da cui la società “per bene” avrebbe dovuto stare il più possibile lontana; questo cambiamento di mentalità in una realtà piccola come quella oggetto di questo studio costituì un avanzamento tanto rapido quanto fondamentale per lo sviluppo sociale ed economico della provincia piacentina in particolare e del Dipartimento del Taro più in generale; questo sviluppo lo si doveva anche ai buoni risultati produttivi dati dagli opifici del Deposito di Mendicità, concentrato a Borgo San Donnino, ma ospitante manodopera marginale proveniente da vari punti del Dipartimento del Taro, di cui Piacenza e il suo territorio costituivano una parte importante. A questo aspetto propositivo mostrato dal potere francese si affianca anche quello puramente repressivo del fenomeno della marginalità, come dimostra la lettera del 18 agosto del 1807 del maresciallo Catherine- Dominique de Pérignon a Hugues Eugène Nardon24 sulla questione della mendicità diffusa nel costituendo Dipartimento del Taro.

16 In essa si chiedeva di fare una statistica precisa per sviluppare l’assistenza a domicilio dei mendici, ove ciò fosse stato possibile, e comunque di adottare provvedimenti di reclusione per i mendicanti, di cui non si voleva più la presenza nelle strade25. Le autorità finirono così per vantarsi di aver estinto la mendicità in tutto il Dipartimento, ma si trattava di pura propaganda: le cause della marginalità non erano affatto scomparse e con esse non era ovviamente venuta meno la marginalità stessa. Essa era

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 87

stata irreggimentata ed in parte avviata al lavoro produttivo. Se da un lato dunque i francesi nascondevano la polvere sotto il tappeto, dall’altro svolgevano un’opera di formazione professionale e di recupero sociale importante, in grado di dispiegare i suoi benefici effetti in tutto il piacentino. La marginalità venne infatti trattata dai francesi in riferimento alla società e alle sue esigenze, differenziate dalla prospettiva segregazionista esistente ai tempi del ducato borbonico e del resto diffusissima anche nel resto d’Europa.

3. Le statistiche sulla marginalità a Piacenza e provincia

17 Se si vogliono quindi valutare la marginalità e l’esclusione sociale nel suo complesso è opportuno dunque legarle ai dati statistici complessivi del territorio piacentino ed in particolare a quelli demografici ed economici, da cui si evince il grado di integrazione che le nuove strutture – razionalizzate o realizzate ex novo per i marginali – avevano raggiunto. I francesi hanno lasciato in tal senso un’ampia e documentata serie di statistiche che, opportunamente incrociate, fanno emergere costi e benefici portati al corpo sociale dagli istituti di accoglienza per marginali, che diventavano opifici e, all’occorrenza, anche ospedali militari. Queste statistiche tengono conto anche del numero dei “poveri vergognosi”, fino ad allora trascurati dalle precedenti statistiche d’Ancien Régime.

18 La poliedrica funzione attribuita ai centri d’assistenza statale, conferma indirettamente l’importanza che essi avevano nel piacentino come strutture, dal grande valore politico, produttivo e sociale, in un territorio sottoposto ad un notevole processo di modernizzazione. La mendicità e la marginalità erano trattate con attenzione dai francesi sia per questioni umanitarie, sia per ottimizzare le risorse umane all’interno dell’Impero; marginali e mendicanti rappresentavano una cospicua percentuale del complesso della popolazione, il che faceva di loro una vera e propria piaga sociale. Per ciò che riguarda l’incidenza dei poveri sul numero complessivo di abitanti la tabella 3 ci mostra per Piacenza e provincia i seguenti risultati:

COMUNE NUMERO DI ABITANTI NUMERO DI POVERI

Piacenza 34.393 3.000

Agazzano 2.228 28

Borgonovo 3.945 75

Castel San Giovanni 5.976 500

Gropparello 3.629 403

Castelvetro 2.965 83

Vigoleno 1.660 1.180

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 88

Tab. 3. Incidenza numerica numerica della povertà sul totale della popolazione26

19 La presenza di numeri così differenti da paese a paese riguardo l’incidenza della marginalità e della povertà sul tessuto socio-economico permette di comprendere la fragilità della condizione sociale in questo contesto. Molte persone che vivevano sulla soglia della povertà potevano trasformarsi in marginali veri e propri in caso di eventi eccezionali, come potevano essere quelli bellici, che tanto eccezionali non erano, visto lo stato endemico di guerra che pervase l’Impero di Napoleone per tutta la durata della sua esistenza.

20 Analizzando più nel dettaglio i dati emerge quanto variegato fosse il mondo dei marginali e quindi quante impervie vie potesse seguire la vicenda personale di ognuno degli abitanti del tempo. Tra i marginali troviamo infatti fanciulli di 8, 9 o 11 anni, bambini di 2 o di 5, adolescenti di 17 o 18 anni; molto rappresentati sono anche gli anziani di 50, 60, 78, 80 o – addirittura – ancor più. La fascia di età tra i 20 e i 50 anni è quella meno rappresentata, principalmente per via delle strutture familiari da cui si era esclusi o in giovanissima età, a causa dell’abbandono della prole – che avveniva per differenti motivi, ma principalmente per l’indigenza dei genitori – o nella vecchiaia – a causa della sopraggiunta morte dei congiunti più stretti – evento frequente in special modo per gli ultra settantenni, che nel piacentino non mancavano27.

21 I malati e gli inabili al lavoro erano circa il 50% del totale dei marginali: il che significa che un’altra buona metà precipitava nella spirale degli stenti per le condizioni aggravate dalla gestione praticata per tutto il Settecento delle strutture di ospitalità. Uomini e donne erano invece rappresentati paritariamente, questo dato dimostra come sotto la dominazione francese la marginalità fosse dettata da condizioni economiche e familiari che non rendevano particolarmente vulnerabili le donne. Per queste ultime era stata creata ad hoc una società maternale, gestita però – e la differenza non era di poco conto – da donne laiche (a capo delle quali c’era la moglie di Delporte) e non più da sacerdoti. La società maternale, dall’aprile 1812 fino alla fine dello stesso anno soccorse 225 donne e 12 bambini, sostenendo le spese per oltre 5.000 franchi28. Essa costituiva un esempio non solo laico, ma anche di solidarietà di genere, tra i più avanzati. Forse anche per questo un’esperienza così avveniristica cadde nel vuoto al

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 89

momento della Restaurazione: non aveva dietro di sé un humus autoctono che potesse far perpetuare solidarietà di genere, introdotta dall’alto anche a Piacenza.

22 Nella prima capitale farnesiana, invece, coloro i quali furono restituiti alla vita nei campi furono 165 e quelli sottratti dall’istituto 18. Questo dato mostra come, a volte, i genitori o persone che si offrivano per fare i tutori si muovessero per sottrarre i bimbi agli istituti e per avviarli al lavoro, in massima parte agricolo, consuetudine del resto esistente già nell’età prenapoleonica. Tuttavia l’efficacia di questo meccanismo, che prevedeva una collaborazione tra Stato e privati cittadini era ancora blanda: i 59 trovatelli di Piacenza morirono nel corso dello svolgimento delle loro attività di lavoro nelle campagne, mentre 42 decedettero negli istituti29. Le percentuali di decesso erano molto alte, a Piacenza come a Parma, nell’ordine del 30% circa: ciò costituiva una tragedia umana, ma anche un depauperamento delle risorse umane – soprattutto per l’alta numero di giovani – presenti nel piacentino. Nonostante i progressi, dunque, c’era molto da fare per i governanti francesi, che impiegarono risorse e intelligenze amministrative e tecniche per ridurre al minimo la piaga della marginalità. Essa però aveva radici antiche ed era stata provocata anche dalle requisizioni, dalla coscrizione – e dal conseguente brigantaggio –, dall’esosa tassazione e dall’endemico stato di guerra che caratterizzarono il regime francese, fino a vanificare parti consistenti degli aspetti positivi che esso aveva portato in un contesto arretrato come il piacentino. Da un punto di vista demografico si poté assistere a una moderata crescita della popolazione come ci mostra la tabella 4:

Tab. 4. La crescita demografica a Piacenza30

COMUNE ANNO NATI MORTI SALDO

1811 4.871 4.119 +758 Piacenza 1812 4.625 4.153 +472

23 In aggiunta è bene notare che non si fosse verificato, a Piacenza e provincia, nessun divorzio, segno di come questo istituto – introdotto dai francesi in Italia, ma osteggiato dalla Chiesa – non fosse penetrato tra i costumi degli abitanti del piacentino, in compenso, diedero vita ad un consistente tasso di abbandoni di minori, frutto della povertà o di relazioni illegittime31. La marginalizzazione dei legami affettivi non canonici portava con sé la marginalità sociale vera e propria dei figli concepiti fuori dal matrimonio e ciò basta a spiegare perché l’unità delle famiglie non favorisse il compito dell’assistenza pubblica ai marginali, il cui numero continuava a mostrarsi alto.

4. Conclusioni

24 Gli elementi di riflessione che questi dati numerici relativi agli ultimi anni del dominio napoleonico nel piacentino portano sono molteplici ed interessano vasti ambiti della vita sociale. In particolare la sostituzione della Chiesa nelle attività assistenziali, ora appannaggio dello Stato, si abbinò con un gigantesco trasferimento di fondi che solo in parte furono riassegnati all’assistenza, mentre una quota consistente di essi rimase

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 90

nelle mani del demanio o finì in quelle dei privati. Tuttavia l’assistenza fu organizzata su basi pratiche e concettuali nuove e fu favorita nella prassi dalle precise e puntuali serie statistiche create dall’apparato amministrativo francese. Esse erano del tutto sconosciute alla burocrazia piacentina di Ancien Régime e costituivano un formidabile strumento d’analisi e d’intervento destinato a diventare imprescindibile, dall’età napoleonica in poi, per l’autorità istituzionale. Se ne desume quindi che, pur in un quadro economico spesso difficile per il territorio piacentino, le innovazioni di carattere amministrativo e assistenziale, nonché le riforme economiche inerenti al passaggio della proprietà terriera dalle mani della rendita a quelle di operatori privati, ancora solo potenzialmente interessati al conseguimento del profitto, avrebbe permesso nei decenni successivi di raggiungere un complessivo irrobustimento delle attività produttive. A questo dato di affiancò una sostanziale opera di modernizzazione sociale, proseguita nei lunghi anni tranquilli ma proficui di Maria Luigia.

NOTE

1. CATTANEI, Giuseppe, Piacenza città fortezza, in Storia economica e sociale di Piacenza e del suo territorio, Piacenza, Tip.Le.Co, 2011, p. 160. 2. ARTOCCHINI, Carmen, L'economia agraria nel piacentino in un'inchiesta rurale del primo ’800, in Ottocento piacentino ed altri studi in onore di G.S. Manfredi, Piacenza, Cassa di Risparmio di Piacenza, 1980, p. 147. 3. Ibidem, p. 149. 4. Ibidem, pp. 151-152. 5. Marginale in DOGLIOTTI, Miro, ROSIELLO, Luigi (a cura di), Lo Zingarelli 1995, Bologna, Zanichelli, 1995, p. 1056, sub vocem. 6. SPAGGIARI, Pier Luigi, Economia e finanza negli stati parmensi (1814-1859), Milano, Istituto editoriale cisalpino, 1961, pp. 36-37. 7. Archivio di Stato di Parma (d’ora in poi ASP), Fondo Dipartimento del Taro, serie II, busta 79, fascicolo 119. 8. Sull’argomento si veda anche BANTI, Aberto Mario, Terra e denaro: una borghesia padana dell’800, Venezia, Marsilio, 1989, passim. 9. SPAGGIARI Pier Luigi, op. cit., pp. 255-257. 10. Il Giornale del Taro, 55, 10 settembre 1811. 11. Ibidem, numero 63, 7 agosto 1813. 12. Per una breve nota biografica sul Prefetto Delporte si veda: Un prefetto del Dipartimento del Taro nel primo ’800, in Bollettino storico piacentino, anno 58, 1963, p. 21. 13. PIAZZA, Stefania, «Il Ducato di Parma di fronte all’occupazione napoleonica: il Dipartimento del Taro e l’ integrazione imperiale», in Malacoda: bimestrale di varia umanità, 5, 1994, pp. 26-32. 14. Il Giornale del Taro, 102, 21 dicembre 1813. 15. CARRÀ, Ettore, Le coscrizioni napoleoniche a Piacenza, in Ottocento piacentino ed altri studi in onore di G.S. Manfredi, Piacenza, Cassa di Risparmio di Piacenza, 1980, p. 162. 16. Ibidem, pp. 164-165. 17. Ibidem, p. 171. 18. Ibidem, p. 172.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 91

19. Ibidem, p. 182. 20. ALFANI, Guido, Popolazione, ambiente urbano e aspetti socio-economici, in Storia economica e sociale di Piacenza e del suo territorio, Piacenza, Tip.Le.Co, 2011, p. 74. 21. DAL PANE, Luigi, Storia del lavoro in Italia dagli inizi del secolo XVIII al 1815, Milano, Giuffrè, 1958, pp. 176-184. 22. LEVATI, Stefano, La lenta e tortuosa via alla modernità: la società piacentina tra ancien regime ed Unità, in ALFANI, Guido et al., Storia economica e sociale di Piacenza e del suo territorio, vol. 2, Piacenza, Tip.Le.Co, 2011, p. 199-261, p. 203. 23. ASP, Fondo Dipartimento del Taro, serie II, busta 103, fascicolo 177. 24. Il politico francese fu messo dallo stesso Junot addirittura in carcere nel corso di uno scontro tra l’autorità civile e quella militare seguente a quei tristi eventi. Si veda: PALTRINIERI, Vincenzo, I moti contro Napoleone negli stati di Parma e Piacenza (1805-1806), Bologna, Zanichelli, 1927, p. 65. 25. Per la fonte archivistica si veda supra nota 23. 26. Ibidem. 27. Ibidem. 28. ASP, Fondo Governatorato di Parma, busta 90, fascicolo 149. 29. Ibidem. 30. Ibidem. 31. ASP, Fondo Governatorato di Parma, busta 215.

RIASSUNTI

Il saggio tratta la situazione degli individui marginali a Piacenza nella tarda età napoleonica (1810-1814). In quel periodo la dominazione francese rimpiazzava la Chiesa cattolica nel settore dell’assistenza delle persone povere ed organizzava un servizio di Stato. Parte del denaro necessario per completare questa trasformazione arrivava dagli espropri ecclesiastici, principalmente di terre e monasteri. Oggi noi possiamo studiare questo periodo di trasformazioni perché la dominazione francese ha portato l’efficienza amministrativa e con essa la registrazione di molti dati riguardo il fenomeno della marginalità sociale. Nella storia moderna di Piacenza ed anche dell’Italia la dominazione francese ha portato un’importante modernizzazione nei campi sociale ed economico assieme con uno sfruttamento collegato ai progetti di egemonia europea perseguiti da Napoleone.

This paper wants to be a frame about the situation of poorest people in Piacenza during the late Napoleonic age (1810-1814). In that period the French domination replaced the catholic Church in the assistance and caring of people in need, organizing a State service. To complete this transformation, they used part of the money raised by ecclesiastic dispossession, principally lands and monasteries. Today we can study this period of transformations thanks to the administrative efficiency of the French domination whom registered a lot of information about the social marginality’s phenomenon. The French domination brought an important modernization of social and economic sectors in the modern history of both Piacenza and Italy; it also brought an exploitation related to the European hegemony’s project pursued by .

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 92

INDICE

Keywords : dispossessions, marginality, Napoleonic age, Piacenza, Taro department Parole chiave : Dipartimento del Taro, espropriazioni, età napoleonica, marginalità, Piacenza

AUTORE

ALESSANDRO DE LUCA Nato nel 1979, è docente di materie storiche e letterarie presso le scuole medie superiori. Addottoratosi in Storia presso l’Università di Parma nel 2012, ha scritto vari saggi e monografie sull’età napoleonica in Italia, trattata dal punto di vista politico ed economico.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 93

La miniera e il petrolchimico Una questione storica nella Sardegna e nell’Italia del secondo dopoguerra

Francesca Sanna

1 La storia della Sardegna è un mosaico dalle mille tessere, una per ogni regione che la compone. Barbagia, Sulcis- Iglesiente, Logudoro, , Ogliastra sono solo alcuni dei nomi posti a designare la geografia di una terra solcata dalla varietà: differenze economiche, sociali, culturali crearono nel passato ambienti di vita propri e peculiari, di cui anche oggi si conservano le tracce. Fra questi, il mondo minerario del Sulcis Iglesiente costituisce un unicum nella storia della Sardegna, come un tentativo di industria accolto e insieme contrastato, mai ben ambientato in una terra che risultò e risulta tutt’ora ostile a certa modificazione antropica1. L’impianto di una moderna attività industriale mineraria, a partire dalla metà del XIX secolo, fu infatti caratterizzato da un continuo alternarsi di atti pionieristici e momenti stagnanti, “periodi aurei” e crisi economiche, fino al lento declino del secondo dopoguerra.

2 Nell’Archivio Storico Minerario di Monteponi, una delle più grandi miniere dell’isola, un affresco dipinto da Aligi Sassu nel 1950 può gettare una luce sul contraddittorio rapporto che si creò fra la miniera e il mondo circostante.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 94

Fig. 1. SASSU, Aligi, La Miniera, 1950, affresco, 350×1200. Foresteria della miniera, Monteponi, Iglesias

3 L’opera, esposta in fedele riproduzione nella sala conferenze dell’Archivio, si intitola “I tre mondi del lavoro della Sardegna” e mostra tre gruppi di uomini che incarnano le occupazioni topiche dell’isola: pastore, contadino e minatore. La raffigurazione dei personaggi non è casuale: i minatori, “uomini della notte”, si trovano nell’ambiente angusto della galleria, piegati su se stessi e avvolti dal buio, mentre il contadino e il pastore, pur in una situazione di lavoro e fatica, sono dipinti in un campo aperto dalla lunga prospettiva visiva.

4 Il linguaggio artistico, testimone del proprio tempo, disvela qui l’ambivalenza con cui era percepito il mondo minerario in Sardegna: da una parte, accostato alle attività tradizionali, si imponeva come parte integrante della vita dell’isola, dall’altra, isolato in un ambiente chiuso, suscitava diffidenza ed estraneità in una società generalmente agro-pastorale.

5 Posto originariamente nella foresteria di Monteponi, l’affresco costituisce una prima chiave di lettura dell’essenza di questo mondo, in cui l’occupazione in miniera aveva risvolti non solo economici, ma anche culturali.

6 Nel cantiere minerario come luogo di lavoro, foriero di nuove possibilità economiche, si riversarono infatti le speranze di modernizzazione per un territorio, quello del Sulcis- Iglesiente, fino ad allora sostenuto soltanto da un settore primario arretrato e arcaico.

7 In questa prospettiva, la miniera diventò “fatto sociale”2 perché fu percepita come elemento integrato ai caratteri del Sulcis-Iglesiente, ad un livello che superava la sola dimensione di scambio fra salario e prestazione d’opera. Tuttavia, essa rimase oggetto di un dualismo fra celebrazione e diffidenza, così percepito a tutti i livelli della società: seppur con diverso grado di sensibilità, ognuno avvertiva lo stesso contraddittorio proporsi della “seconda questione storica della Sardegna”3.

8 Dopo quella agro-pastorale, la dimensione mineraria è stata appunto definita una “questione”, cioè un soggetto carico di problematicità sia nella dimensione dei reali cambiamenti apportati al territorio e alla popolazione, sia nella dimensione del dibattito e della riflessione, prodotti dalla presa di coscienza dei detti cambiamenti. Per la sua lunga durata e la sua pervasività la questione è diventata anche “storica”4. Storico poi è anche il valore del dibattito che ritornò e ritorna tutt’ora a osservare il mondo minerario, poiché esso influenzò l’azione della politica regionale e nazionale nei riguardi della Regione a partire dalla metà del XIX e soprattutto nel XX secolo.

9 All’interno di questo duraturo confronto sul tema minerario, emerse il peculiare modo di percepire “l’oggetto miniera”, da una parte come ricchezza, dall’altra come fonte di tensioni sociali e pericoli ambientali. Tale contrasto riverberò i suoi effetti nelle scelte di politica economica, intraprese nel secondo dopoguerra, per far fronte al lento

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 95

declino dell’industria estrattiva, che incominciò a metà degli anni Sessanta. Il fatto che la miniera portasse con sé speranze di sviluppo industriale, ma che contemporaneamente mostrasse segni di decadenza (meno si pensava all’inizio ai problemi ambientali) condusse a politiche disorganiche, costellate da misure palliative come finanziamenti dispersi e indirizzati a risolvere problemi contingenti, per esempio il ripianamento dei debiti societari. Quando invece il finanziamento era mirato a sostenere interventi strutturali, come la riconversione della produzione in vista di seconde lavorazioni, esso era dissolto da scelte progettuali e tecniche legate non all’integrazione col territorio, ma al generale orientamento della politica economica nazionale5.

10 Nasce qui il principio di una tendenza che giunge, fra ramificate trasformazioni, sino a tempi recenti, caratterizzati dall’emigrazione giovanile, dalla mancanza di uno sviluppo industriale integrato al territorio e dalla difficoltà di rovesciare i frequenti deficit di bilancio.

11 La storia delle esperienze di industrializzazione della Sardegna costituisce, al di là della dimensione prettamente regionale, un esempio in scala ridotta dell’orientamento della politica economica nazionale dell’epoca, focalizzato sui grandi poli industriali e sul petrolio, nel quadro del cosiddetto modello di sviluppo squilibrato.

12 L’isola fu infatti oggetto, dagli anni Sessanta in poi, di quella che un economista come Giulio Sapelli considera una “modernizzazione senza sviluppo”, cioè una crescita relativa della potenzialità industriale, non accompagnata però da un parallelo impulso al retroterra locale, economico, sociale o culturale6.

13 L’esito di tale politica fu, nell’ambito minerario, quello che si può vedere oggi, anche a superficiale colpo d’occhio: lo spopolamento del territorio, dovuto all’immigrazione per sfuggire alla disoccupazione, creata dal mancato rilancio del secondo settore attraverso la verticalizzazione e la riconversione verso attività industriali legate alle risorse locali.

14 A ciò si aggiunge, per contro, l’ipertrofia amministrativa delle città e la presenza di poli industriali completamente alieni dal territorio, come quello di Porto Vesme, da tempo e forse da sempre oggetto di una crisi che dipende soprattutto da un assetto completamente votato all’esportazione.

15 Il quadro della Sardegna rispecchia inoltre un’altra tendenza peculiare degli anni del dopoguerra e del post-boom industriale e cioè, all’aggravarsi delle difficoltà economiche, il ricorso al sostegno statale e ai programmi di (speranzosi) interventi in ogni settore dell’economia.

16 Lungi ormai da definire questa situazione economica come il prodotto di un trattamento “coloniale” della Sardegna da parte dell’Italia (Lussu), la storia mineraria sarda non è più percepita come l’imporsi di un’élite “forestiera” sull’isola (cosa che poteva valere forse fino alla metà del secolo XX), ma come un’attività legata al settore minerario nazionale (Moro, Sabattini) e alla storia successiva dei poli petrolchimici (Ruju, Fadda), condotta verso quello scenario non dalla fuga delle società private, ma piuttosto a causa dei caratteri dell’intervento pubblico. L’isola, dunque, si pone come uno specchio ridotto della realtà italiana, in cui dagli effetti di certe scelte (o non- scelte) si sono sviluppati fenomeni simili a quelli nazionali, ma inaspriti dal carattere isolato e originariamente difficile della Regione.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 96

1. «Una lenta ed estenuante agonia»7

17 Tutta la Sardegna è interessata dal “fenomeno miniere”8: un carattere economico e industriale fondato sulla ricchezza naturale del suolo sardo riconosciuta già in tempi remoti, ma studiata e sistematicamente sfruttata a partire dalla seconda metà del XIX secolo.

18 Nel 1871 Quintino Sella, nella sua relazione sulle condizioni dell’industria mineraria in Sardegna, ne rilevava infatti l’importanza9, ma solo a partire dal XX secolo essa assunse caratteri industriali meno pionieristici e più razionali: meccanizzazione e nuove tecniche di estrazione e lavorazione (flottazione, elettrolisi) permisero di aumentare produttività e concentrazione del metallo nei grezzi.

19 Negli anni del Fascismo, la produzione fu protetta e sottoposta a regime autarchico. Il ventennio in Sardegna si caratterizzò per le vicende del bacino del Sulcis e di Carbonia, città fondata da Mussolini nel 1938 allo scopo di produrre il carbone necessario alla politica del regime e in risposta alle sanzioni comminate dalla Società delle Nazioni dopo l’invasione dell’Etiopia10.

20 Dopo la Seconda guerra mondiale, la Sardegna fu attraversata da contraddittorie tendenze: da un lato una situazione economica precaria e destabilizzata, dall’altro la speranza nella ricostruzione, che sembrò imprimere energia alle attività economiche.

21 Un periodo “aureo” per l’attività estrattiva si collocò dunque fra il 1950 e il 1960, spinto dalla domanda di materie prime e favorito anche dal basso costo della manodopera. Nel 1951 la Sardegna contribuiva, in una percentuale del 30%, al totale della produzione mineraria nazionale e, dal censimento di quello stesso anno, si evince che gli occupati attivi nel settore raggiungevano i 23.826 corrispondenti al 36,5% degli addetti al settore secondario sardo11.

22 Il secondo dopoguerra, come è noto, mostrò dal punto di vista economico due facce: quella del Boom e quella degli aiuti dello stato all’economia, il cui più esteso progetto fu ovviamente la Cassa per il Mezzogiorno. Istituito il 10 agosto 1950 dal governo De Gasperi VI su proposta dell’economista Pasquale Saraceno e di altri membri del gruppo Svimez, questo ente aveva come scopo il finanziamento di attività industriali tese a migliorare la situazione economica nel Meridione12. L’azione dello Stato si sarebbe concretizzata attraverso il cosiddetto piano A.S.I., cioè un piano per la creazione di Aree di Sviluppo Industriale attraverso l’istituzione di consorzi fra Comuni, Province e Camere di Commercio, atti a imprimere energia al settore industriale e alla costruzione delle infrastrutture.

23 In Sardegna, i finanziamenti della Cassa furono indirizzati a trasporti, istruzione, banche, agricoltura e soprattutto a opere di bonifica delle zone acquitrinose e alla lotta antimalarica, piaghe che funestavano la Regione da tempi immemorabili. Tuttavia, nonostante gli ingenti stanziamenti, i risultati furono esigui e concentrati soprattutto sulle regioni agricole del Campidano e sui progetti dei grandi poli industriali, che si concretizzeranno poi negli anni Sessanta13. Se l’agricoltura di sussistenza diminuì radicalmente e aumentò il livello di vita dell’insieme della popolazione, l’orientamento dell’industria non si indirizzò al consumo, ma alle produzioni ad alta intensità di capitale (e bassa intensità di lavoro).

24 Per quanto riguarda il settore minerario, il panorama era ancora dominato dalle Compagnie private, le quali praticavano politiche individuali, votate alla quasi totale

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 97

esportazione della materia grezza, impedendo così lo svilupparsi di un’industria verticalizzata di lavorazioni secondarie.

25 Inoltre, il secondo dopoguerra sardo si aprì in un clima di turbolenze sociali: nel febbraio-marzo del 1948 esplose infatti lo sciopero dei 72 giorni, provocato dal comportamento della SMCS (Società Mineraria Carbonifera Sarda), che violava gli accordi sui trasferimenti delle maestranze e degli impiegati. Gli operai ottennero nel dicembre un accordo con la società, ma ciò non impedì una escalation di licenziamenti- rappresaglia di 2.000 operai14. Lo sciopero del 1948 dilagò poi nell’Iglesiente per 45 giorni: esso fu provocato dal tentativo delle Aziende Minerarie di destabilizzare l’unità della protesta introducendo il cosiddetto Patto Aziendale15. Contro di esso si mobilitarono 9.000 minatori in tutto il bacino metallifero dell’Iglesiente, i quali protestarono attraverso la “non collaborazione”16 o l’occupazione dei pozzi finché, nel febbraio-marzo molti, trovandosi in evidente difficoltà, tornarono al lavoro.

26 Le notizie di quei travagliati avvenimenti arrivarono al Consiglio Regionale attraverso l’attività dei consiglieri di opposizione socialisti e comunisti, autori di numerose interrogazioni e interpellanze17. A fronte della situazione, nell’ottobre 1952 il Consiglio istituì una Commissione Speciale per lo studio delle condizioni delle miniere sarde, ma l’Associazione Industriali insorse dichiarando l’illegittimità della Commissione, accusata di essere “presupposto al disordine” e invitando le Direzioni delle Aziende Minerarie a non rispondere alle richieste18. Il Consiglio Regionale inserì allora la commissione di studio nella Commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione dei lavoratori in Italia, ma l’AMI (Associazione Mineraria Italiana) persistette nell’ostilità e così fecero molti Direttori, che si rifiutarono di consegnare le relazioni ai rappresentanti della Commissione Parlamentare19.

27 Se nel Sulcis, gli anni dal 1948 al 1957 furono caratterizzati da una stagnazione produttiva, almeno nel settore metallifero (piombo-zinco) il bilancio produttivo degli anni Cinquanta rimaneva stabilmente positivo20. Tuttavia, l’entusiasmo, generato dalla relativa prosperità, si dimostrò eccessivo e accecò lo sguardo di lungo periodo, impedendo di scorgere l’incedere di uno spettro mortale, l’impoverimento dei giacimenti, e di opporvi resistenza attraverso provvedimenti di riqualificazione o riconversione. In seguito, l’entrata dell’Italia nella CECA (1951), il crollo delle quotazioni di piombo e zinco alla Borsa di Londra (1956) e l’entrata nel MEC (1957) cancellarono le ultime compensazioni che fino a quel momento avevano tenuto a galla l’industria estrattiva sarda21.

28 L’entrata nella CECA ebbe ripercussioni soprattutto nel bacino del Sulcis, dove l’apertura delle frontiere commerciali eliminò la relativa protezione di cui godeva il carbone sardo.

29 Infatti, anche a causa della sua scarsa qualità originaria, il carbone Sulcis si vedeva preferito al carbone proveniente dall’estero, più elevato in qualità, ma anche in quantità.

30 Per quel che riguarda i metalli non ferrosi, il crollo della Borsa di Londra nel 1956 comportò una caduta dei prezzi di piombo e zinco, che si propagò fino al 1973 nell’ordine del 35% in media per entrambi i comparti22. Subito dopo, l’entrata dell’Italia nel MEC mise le Compagnie minerarie di fronte al problema che già aveva scosso precedentemente il Sulcis, cioè l’apertura delle barriere doganali. L’unione doganale entrò progressivamente in vigore fra il 1958 e il 1970 con l’adeguamento tariffario sulle importazioni e gli scambi fra i paesi membri e il settore estrattivo sardo ne fu

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 98

penalizzato, poiché impreparato ad affrontare la concorrenza di paesi dalla produzione molto più ingente. In Italia il comparto minerario usufruì di un periodo di isolamento fra 1957 e 1966 per procedere ad un adeguamento delle strutture che avrebbe dovuto rinforzare la sua posizione commerciale, tuttavia ciò avvenne solo parzialmente o non avvenne affatto e la situazione ne fu aggravata23.

31 Nel 1967, vista la mancanza di «integrazione in loco della base estrattiva con quella di trasformazione»24 si decise in sede CEE di prorogare al 1969 la permanenza dell’isolamento per il comparto piombo-zincifero, che altrimenti sarebbe stato travolto dalla concorrenza. Nonostante questi accorgimenti, l’industria estrattiva sarda di soffrì ripercussioni negative sia dirette (sui prezzi e quindi sui bilanci) sia indirette (sull’occupazione e sulle politiche aziendali).

32 I primi visibili sintomi delle difficoltà furono i licenziamenti di massa25 e le chiusure di importanti miniere come l’Argentiera nella Nurra (1962) e Ingurtosu nell’Iglesiente (1968) di proprietà della francese Pertusola, poi nel 1964 la liquidazione del settore ferrifero (miniere di Antas, San Leone e Canaglia). Il passaggio delle miniere carbonifere da SMCS a ENEL (dal 1963) costituì invece un preludio alla tendenza del decennio successivo: il trasferimento alla proprietà statale. Per fronteggiare questa nuova situazione, nel luglio 1960 il Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, accogliendo suggerimenti della CEE, invitò le società a predisporre programmi di risanamento che avessero come obiettivi il pareggio dei bilanci e in seguito il potenziamento della ricerca e la verticalizzazione26. Le società risposero elaborando programmi per il periodo 1961-1969, miranti a risolvere il problema principale, cioè la verticalizzazione, con l’obiettivo di creare un’industria integrata e competitiva a livello internazionale27. Tuttavia, presupposto indispensabile ai predetti programmi era il ripianamento dei deficit di bilancio delle società, che però non si realizzò nemmeno con la proroga dei termini di attuazione, reiterando un problema che ostacolò una potenziale riconversione del sistema al momento della chiusura dei cantieri di estrazione.

33 Il tipo di sfruttamento minerario condotto sino ad allora dalle Compagnie private aveva mantenuto un carattere contingente, con poca attenzione ed esigui investimenti sulla ricerca geologica di altri filoni o su nuovi metodi tecnici per ottimizzare il tipo di minerale estratto.

34 Perciò, nel momento in cui l’impoverimento dei giacimenti incise sempre più prepotentemente sulla produttività dei singoli cantieri, le Società non poterono avvalersi di soluzioni diverse dalla liquidazione. Per comprendere il divario fra l’invocazione alla verticalizzazione e l’effettiva attuazione di misure atte a metterla in pratica, basti pensare che all’epoca l’intero bacino minerario dell’Iglesiente contava su una sola fonderia, dislocata a San Gavino e di proprietà della Monteponi S.p.a. Le altre società, come la Pertusola, avrebbero dovuto pagare un canone per utilizzarla oppure esportare il minerale grezzo e, nella maggior parte dei casi, sceglievano quest’ultima opzione.

35 Le crisi produttiva inasprì le turbolenze politiche e sociali, cominciate con la protesta del 1948. Nell’estate del 1960 si verificò un serio contrasto fra la Regione Sardegna e Pertusola, proprietaria delle miniere iglesienti di San Giovanni, Arenas, Ingurtosu, Su Zurfuru e Buggerru. In conseguenza della grave situazione di mala gestione e sfruttamento della manodopera, i sindacati avevano aperto una vertenza con l’occupazione prolungata dei pozzi per ottenere una perequazione dei salari rispetto a

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 99

quelli delle miniere Pertusola ubicate in Toscana e nel Friuli Venezia Giulia (miniera di Riabl). La Pertusola assunse un atteggiamento rigido e intransigente provocando, fra maggio e luglio, scioperi sostenuti dalla CGIL e dalle camere del Lavoro di Bologna, Reggio Emilia, Milano e Torino28. Il culmine della tensione fu raggiunto in settembre, quando il Consiglio Regionale votò l’applicazione del R.D. 29.7.1927 comma 3, cioè il decreto di «non gradimento» verso il Direttore Generale della Pertusola Paul Audibert29. L’episodio segnala non solo le tendenze delle società ad una gestione «di sussistenza» delle miniere sarde, ma anche che, a livello politico, non si comprese o si ignorò la necessità di superare la sola logica di preservare senza innovare.

36 La realtà del declino minerario emergeva infatti sempre più esplicitamente e la reazione delle aziende fu l’abbandono delle miniere minori e la concentrazione della produzione. Dal 1961 al 1978, il settore minerario si trasformò in «campo di battaglia del pubblico contro il privato»30: le società francesi, belghe e inglesi abbandonarono i cantieri alle sigle del capitale pubblico statale (EGAM, SOGERSA, AMMI, AMMISarda, Cuprifera, ENEL), regionale (EMSa) e della multinazionale ENI (SAMIM). La politica regionale sembrò incapace di reagire alla fuga dei privati che si traduceva poi in licenziamenti di massa e liquidazione delle attività, per esempio nel caso di Ingurtosu, in cui tutti i dipendenti Pertusola furono licenziati nel passaggio a Monteponi- Montevecchio. Intanto, con la Legge 588 del 1962, si erano avviati i Piani di Rinascita e, in questi, il progetto della “Supercentrale” di Porto Vesme, su cui si riversavano le speranze di creare non solo un segmento della verticalizzazione dei non-ferrosi, ma anche un bacino occupazionale alternativo al settore minerario31. Non mancarono però le disillusioni poiché, a fronte della decisione di alimentare la centrale a nafta, apparve chiaro che, con quelle scelte, inquadrate in un processo industriale basato sul petrolio, si era condannato lo sviluppo economico e sociale del Sulcis-Iglesiente32.

37 Gli anni Settanta si aprirono sotto i peggiori auspici per via di un contrasto fra la Regione e l’ENEL, intenzionata ad abbandonare le miniere del Sulcis. Il 22 settembre 1971 ENEL preannunciò la liquidazione di tutte le sue attività, poi procrastinata, ma intanto «volendo eludere i suoi compiti istituzionali nel settore minerario» vanificò «sistematicamente gli investimenti facendo mancare il personale che avrebbe dovuto utilizzarli e renderli produttivi» ed infine interruppe ogni attività nel luglio 197233. La condizione di oggetto passivo e non di soggetto attivo dell’attività industriale emerse proprio nel periodo della gestione pubblica, in cui la richiesta di sostegno si trasformava in attesa del salvataggio. Giunsero infatti i capitali per il risanamento societario, per il mantenimento dell’occupazione e per un’invocata verticalizzazione, ma dei tre si realizzò, per altro in modo effimero, solo la prima: l’espulsione di manodopera fu costante, la verticalizzazione sostanzialmente inesistente.

38 Dalla metà degli anni Settanta, la Sardegna cominciò a scrivere il capitolo finale della sua esperienza mineraria: la vita del settore fu ridotta allo stato vegetativo, l’intervento pubblico scivolò verso il salvataggio o la liquidazione delle attività ed infine si riaccese la lotta sindacale con l’occupazione dei pozzi, le vertenze e le manifestazioni dei lavoratori34. Le difficoltà colpivano ancora e soprattutto le realtà più deboli: nel luglio 1977 la Commissione Industria del Consiglio Regionale fu incaricata di esaminare la situazione della popolazione del Fluminese e di Buggerru gravate dal fermo della miniera di Santa Lucia (Serramin). I lavoratori di quella miniera, collocati in cassa integrazione, non ricevevano lo stipendio da quattro mesi e, nonostante l’interessamento della Commissione, la maggior parte degli operai non si salvò dal

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 100

licenziamento35. Il Consiglio Regionale continuava a rilevare la gravità della situazione, ma la lentezza dei procedimenti di unificazione gestionale, previsti dal Progetto di promozione del settore minerario e metallurgico piombo-zincifero, lo obbligarono ad attuare interventi di tamponamento tanto onerosi quanto effimeri36.

39 All’inizio degli anni Ottanta l’EMSa ricevette 10 miliardi di Lire per la gestione delle sue società consociate fino alla definizione delle trattative con SAMIM (di ENI) e Bariosarda (L.R. 4.9.1980 n.48), poi altri 7,3 miliardi per appianare le passività delle società confluende in SAMIM, infine fra il 1981 e il 1982, a causa di ritardi dovuti all’irrigidimento di SAMIM sulle intese sindacali, altri 5.850 milioni e 1.650 milioni per mantenersi37.

40 L’area dell’Iglesiente, fortemente legata alla sua storia mineraria e viziata dal carattere monoculturale, risentì enormemente del declino della produzione estrattiva, tanto che si osservò una dinamica negativa anche nei settori non direttamente legati alle miniere38. Questo fatto è imputabile alla fisionomia dell’Iglesiente come sub-regione economica mancante di un nucleo polarizzante, caratterizzata dal policentrismo di quella attività39.

41 Infatti, nonostante la zona fosse stata individuata come «nucleo di industrializzazione», si collocava fra le meno finanziate (3,87%), e gli investimenti si indirizzavano al capitale e non al lavoro40. Per quanto riguarda la politica regionale, non si può dire che ci sia stata mancanza di consapevolezza della situazione, perché il problema era fra i più dibattuti: si è calcolato infatti che, nelle prime sette legislature, si approvarono 79 O.d.G., si svolsero 526 interventi e si approvarono 13 leggi specifiche sul settore minerario41. Tuttavia, la politica regionale appare variabile in orientamento, spesso disorganica, a tratti impotente di fronte alla crisi, ora immersa nella ricerca di soluzioni ai gravissimi problemi del settore, ora dimentica della vocazione dell’Iglesiente.

42 Nel secondo dopoguerra, la storia dell’Iglesiente minerario e del Sulcis, a dispetto delle tante attese e temporanei successi, fu quella di una «lunga ed estenuante agonia»42: le ultime miniere attive furono chiuse definitivamente negli anni Novanta e la gestione dei loro resti passò a società compartecipate dalla Regione Sardegna, responsabili della conservazione delle strutture abbandonate.

2. Un destino inevitabile?

43 Coloro che oggi percorrono le tortuose strade della Sardegna meridionale non possono non carpire i segni superstiti della sua passata stagione industriale: fra i monti boscosi del Sulcis-Iglesiente, appaiono i neri imbocchi di gallerie abbandonate, gli edifici fatiscenti delle laverie e delle sale argani, gli scheletri ferrosi e arrugginiti dei pozzi di estrazione. Il deserto dei cantieri fantasma, nascosti dal verde della macchia mediterranea, portano seco la suggestione del rudere, ma anche il dubbio del come o del perché lì si trovano. Molte sono le domande suscitate dai resti sparpagliati fra gli alberi: da cosa scaturì il declino minerario degli anni Sessanta? perché non si riuscì ad arrestarlo? Quale legame unisce quel passato al presente economico della Sardegna? A prima vista pare che la risposta sia semplice e cioè che il destino di una miniera si inscrive nella sua stessa natura di fonte non rinnovabile: un destino, dunque, inevitabile.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 101

44 Le statistiche tendono a confermare il procedere di una crisi difficile da arrestare. Guardando alla regione metallifera dell’Iglesiente negli anni Cinquanta, la produzione di piombo e zinco mantenne livelli stabili con un minimo decremento del 2,04% dal 1951 (226.804 tonn) al 1961 (222.168 tonn)43 coprendo il 67% della produzione italiana al 196044. In seguito, dal 1960 al 1972, si assistette ad un crollo che sfiorava il 50% per un comparto che nel 1972 costituiva il 56% del settore estrattivo sardo e il 53,77% del valore prodotto su tutta la produzione mineraria regionale45. Alla diminuzione della produzione si accompagnò una parallela concentrazione degli organici: nel 1951 il settore piombozincifero occupava quasi 9.000 lavoratori (circa la metà di tutto il settore estrattivo sardo), mentre nel 1961 si scese a circa 5.000 e all’inizio degli anni Settanta se ne contarono poco più di 3.00046. Durante il decennio 1970-1980 l’occupazione subì un ulteriore decremento di più di 1000 lavoratori scendendo a quota 1.846 unità nel 197947.

45 Il percorso discendente di tutti i valori induce a considerare il trentennio 1950-1980 come un periodo di progressivo declino del comparto, nonostante si possano cogliere, nei documenti delle società minerarie, fiduciose attribuzioni di ruolo trainante o di impulso all’economia isolana.

46 La forza lavoro si riversò allora nell’edilizia o nei flussi migratori verso il “Continente”, che provocarono un cospicuo decremento della popolazione pari a quasi un quarto degli abitanti dell’Iglesiente fra 1951 e 196148. A fronte di questi dati, il destino delle miniere appare a posteriori già segnato, tuttavia il determinismo è sempre una risposta liquidatoria, perché ogni attività economica, seppur viziata da problemi strutturali, nasce, si sviluppa e termina secondo il modo in cui la si conduce e procede secondo le scelte degli attori coinvolti.

47 Nelle miniere sarde l’attività industriale fu spesso ostacolata da problemi strutturali, «caratteri oggettivi dell’attività», come la dispersione naturale e la dimensione dei giacimenti, la qualità e il tenore dell’estratto, lo stato delle riserve e l’incidenza dello sfruttamento49.

48 La dispersione dei giacimenti aveva da tempo indotto una localizzazione a carattere puntiforme dei cantieri la quale, assommandosi alle carenze infrastrutturali e alla difficile morfologia del territorio, aggravò ulteriormente i costi di trasporto e la questione dell’integrazione produttiva. Questa geografia industriale fu affiancata e, per certi versi, dipese dalla dimensione medio-piccola o esigua dei giacimenti che, conseguentemente, comportarono sia uno scarso tonnellaggio produttivo sia l’impossibilità di impiegare tecnologia di grande scala50. Dal punto di vista mineralurgico, nel secondo dopoguerra i giacimenti sardi si presentavano impoveriti nel tenore e nella quantità di estratto, inquinato da altri componenti: zolfo nel carbone Sulcis, zinco nel ferro, argille e silice nel piombo e nello zinco51. A ciò si deve aggiungere l’irregolarità e la profondità delle mineralizzazioni che condusse ad un sempre maggior approfondimento dei pozzi di coltivazione.

49 Le escavazioni profonde non solo opposero un maggior costo per le difficoltà di lavoro in sotterraneo (acqua da pompare, ventilazione e sostegno della galleria), ma soffrirono anche dell’ulteriore abbassamento dei tenori, effetto naturale dei processi geologici di mineralizzazione52. Infine, nella povertà quantitativa dei giacimenti si può individuare un processo di esaurimento di ordine storico: il «vizio di origine» delle aziende del settore, cioè la monocoltura mineraria, si ricollega al continuo e reiterato rilascio di concessioni sulle medesime zone le quali, in forza del carattere naturalmente esauribile della risorsa minerale, si sono progressivamente impoverite53. Tuttavia, ancora più

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 102

determinanti per l’aggravarsi della crisi furono le scelte, ma soprattutto le non scelte, degli attori economici.

3. Verticalizzazione: questo è il problema?

50 Già nel 1966, come sottolineato dallo studio delle Camere di Commercio, Industria e Agricoltura, vi era la consapevolezza del potenziale pericolo dovuto alla mancanza di verticalizzazione: Si è parlato tanto di verticalizzazione: una condizione essenziale perché l’industria mineraria sarda facesse un salto di qualità, passando da una fase di pura e semplice produzione e commercio dei mercantili alla produzione dai suoi minerali di beni a più alto valore aggiunto54.

51 La produzione mineraria è costituita da tre fasi – estrazione, lavorazione, raffinazione – che costituiscono una unità processuale, ma possono essere svolte o da imprese separate tra loro o da un’unica impresa, attraverso il cosiddetto processo di verticalizzazione dell’industria estrattiva. La scelta fra separazione o concentrazione dipende da molteplici fattori di natura tecnica (caratteri naturali delle miniere che comportano determinate scelte di tecnologia applicabile), economica e politica55. L’applicazione del processo di verticalizzazione a gruppi di società comporta da un lato la creazione di economie di scala con l’eliminazione di costi comuni, dall’altro irrigidisce la gestione perchè organizza gli impianti secondo uno schema dato.

52 In Sardegna, molte volte fu posto l’obiettivo di verticalizzare, ma sia la gestione privata sia quella pubblica lo mancarono, definendo così una frattura non sanata fra le fasi produttive56.

53 Per il comparto piombo-zincifero, il processo di verticalizzazione seguì un percorso travagliato, dibattendosi fra la monocoltura e la mancanza di una struttura industriale differenziata, finché alla fine degli anni Cinquanta si intraprese una strada, quella degli impianti di elettrolisi di zinco di Porto Vesme, che però ripropose una situazione di estraneità rispetto al territorio. Nel pieno degli anni Settanta, quando ormai la crisi era inarrestabile, la politica gestionale dell’EGAM riprese ancora il problema in termini più di previsione che di effettiva attuazione, in cui mancava del tutto la prospettiva di un’inversione verso impianti di seconda lavorazione, cioè la raffinazione, del processo produttivo minerario. Si era consapevoli che «le prospettive dipendevano dalla capacità di inserirsi nella tendenza a mettere in moto processi di verticalizzazione per creare condizioni strutturali-produttive che avrebbero superato situazioni di “scambio ineguale” con l’estero, liberandosi da strozzature e subordinazioni che stavano alla base della crisi»57, ma anche i grandiosi progetti per il polo di Porto Vesme comportarono conseguenze di sviluppo fittizio, figlio di un modello di industrializzazione squilibrato. Il Consiglio Regionale, a margine della “Conferenza nazionale Mineraria di Cagliari”, ribadiva: l’interesse della Sardegna [...] all’unificazione delle aziende piombo-zincifere e al loro collegamento con un sistema di trasformazione dei metalli non ferrosi che realizzasse nell’isola un’industria metallurgica di livello nazionale e mediterraneo58.

54 Infatti, nel 1974 finalizzò il rifinanziamento del Piano di Rinascita alla «creazione e sviluppo, mediante le necessarie verticalizzazioni e unificazioni [...] di una moderna base di trasformazione mineralurgica, metallurgica, manifatturiera di minerali non ferrosi» salvo poi doversi confrontare con i bilanci deficitari delle società di gestione

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 103

deputate a realizzare questo progetto59. Il modello pensato con i Piani di Rinascita dagli anni ’60 si basava sulla creazione di poli di sviluppo con al centro grandi industrie di base, che avrebbero trainato e integrato la nuova struttura industriale in un sistema economico di raggio nazionale e internazionale60. Il modello di industrializzazione per poli venne però intrapreso da una Regione evidentemente sottosviluppata, per la quale non era possibile applicare le stesse logiche di altre realtà dal tessuto economico già vivace, perciò il modello assunse connotati marcatamente polarizzati e soprattutto scollegati dalla media industria regionale di trasformazione.

55 Infatti, lo stabilirsi dell’industria chimica in Sardegna fu un calarsi dall’alto favorito dall’orientamento del Piano di Rinascita, che prevedeva e finanziava una trasformazione strutturale nel senso di una industrializzazione di base a bassa intensità di manodopera61. Ispirati a un modello di gigantismo, questi poli industriali assunsero ben presto i connotati di cattedrali nel deserto62 e disgregarono i già precari equilibri fra la produzione e mercato sardo. Non potendo assorbire prodotti industriali di livello avanzato, il sistema assunse evidenti connotati di esogeneità con una marcata tendenza all’esportazione63. La crisi del settore minerario sardo si può allora mettere in relazione a questo modello poichè, scollegato dal mercato interno che non inviava impulsi per la mancanza di imprese di seconda lavorazione, esso si rivolse all’esterno, dove però non raggiunse il grado di competitività necessaria a sopravvivere al confronto con altre realtà minerarie.

56 La strategia adottata dalle società per ovviare ai problemi dell’industria estrattiva fu allora quella della programmazione: proiezioni, previsioni, programmi, piani di ricerca costituiscono una gran parte dei documenti presenti negli archivi degli enti che si occupano di conservare la storia industriale della Sardegna. Tuttavia, nonostante l’affermazione della volontà di pianificare (almeno dagli anni Sessanta), non si mise in pratica un’effettiva organizzazione razionale del settore: si scrissero e si dichiararono obiettivi di produzione o di unità gestionale64, ma la loro attuazione fu ben lungi dall’inverarsi. Il capitale privato, soprattutto dalla fine degli anni Cinquanta, tralasciò le fase di ricerca e valutazione giacimentologica per gettarsi esclusivamente sullo sfruttamento del minerale sperando di appianare così i propri deficitari bilanci65. In tal modo vennero progressivamente esaurendosi non solo le riserve materiali, ma anche le conoscenze tecnico-scientifiche necessarie per ovviare a quel declino. Dopo un’indagine fra il 1967 e il 1969, così scrisse la Commissione Consiliare per l’industria come si vede, attualmente il disordine governa l’attività mineraria in Sardegna. Gli imprenditori hanno sempre operato e continuano ad operare ciascuno per proprio conto. L’indagine ha offerto alla Commissione un quadro del tutto frammentario e disorganico66.

57 Negli anni Settanta l’intervento del pubblico, pur creando svariate società di gestione e ricerca (EGAM, EMSa, SOGERSA...), non migliorò il quadro organizzativo, ancora una volta orfano di una visione d’insieme «strategicamente rivitalizzante» dell’intero comparto67. Alla fine degli anni Settanta, la Nota di specificazione operativa del progetto minerario, metallurgico e manifatturiero, ribadendo lo stato di crisi del settore estrattivo, evidenziò una «politica gestionale di sopravvivenza, caratterizzata dal contenimento massimo delle spese»68. La sfida industriale era stata affrontata con piani produttivi generici e poco adeguati conducendo alla polverizzazione degli interventi. Le previsioni furono sistematicamente sconfessate dai rendiconti di fine anno e i piani programmatici non trovarono mai piena realizzazione: da una situazione tale discese la dispersione delle energie e dei finanziamenti69.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 104

58 La verticalizzazione era una questione di primordine soprattutto in relazione alla situazione internazionale. Dagli anni Sessanta, giunse poi a compimento una decisa traslazione dei centri decisionali dei prezzi dei minerali nei continenti extra-europei, da Londra all’altra sponda del’Atlantico: il settore minerario italiano si configurò allora come area a «sovranità economica limitata»70, maggiormente sottoposta alla fluttuazione del corso internazionale dei prezzi. Nel quadro critico delineatosi dopo lo shock del 1973, i gruppi oligopolistici americani e europei si impegnarono in uno scontro in cui i primi emersero con successo: tendendo a verticalizzare solo nelle proprie industrie metropolitane, essi dominavano il mercato da una posizione ben munita, accumulando rendita nell’headquarter e riducendo al minimo le dispersioni finanziarie nei paesi di estrazione71. Questa politica schiacciò le imprese meno propense all’innovazione, come quelle della sarde, in quel momento gestite con logiche del salvataggio dal capitale pubblico72. Le imprese con un esiguo numero di miniere non verticalizzate subirono le variazioni dei prezzi senza poterli influenzare, essendo marcata la predilezione del mercato verso i trasformatori piuttosto che verso i produttori di materie prime.

59 L’Italia e la Sardegna, si trovarono in quel momento ad affrontare anche l’unione doganale europea, in conseguenza della quale si prospettò un adeguamento delle strutture, in primis lo sviluppo delle lavorazioni secondarie. Per agevolare l’operazione il comparto minerario italiano usufruì di un periodo di isolamento fra 1957 e 196673, tuttavia la verticalizzazione avvenne solo parzialmente o non avvenne affatto, così nel 1967, in sede CEE, fu prorogato per evitare che il settore minerario italiano fosse travolto, «mancando di integrazione in loco della base estrattiva con quella di trasformazione»74. In previsione dell’avvio del nuovo mercato, invece di modernizzare le strutture, le società minerarie in Sardegna assunsero provvedimenti che scaricarono i costi del cambiamento sui lavoratori: la Società Monteponi, la Società Montevecchio, AMMI, Pertusola e Ferromin avviarono dalla seconda metà del 1957 licenziamenti e riduzioni dell’orario di lavoro per preservare l’equilibrio finanziario75. Dunque le società non agirono nel senso di un rinnovamento strutturale di lungo periodo, ma operarono cambiamenti contingenti per ovviare temporaneamente al deficit di bilancio. A fronte di tale comportamento, il Consiglio Regionale approvò un O.d.G. (O.d.G n°4 10.10.1957) che impegnava la Giunta a intervenire per bloccare un flusso dei licenziamenti, quantificabile in circa 4.000 unità nell’intero settore, di cui circa 2.000 solo nel comparto piombo-zincifero76. Provvedimenti di tal fatta, volti a salvare le attività agendo esclusivamente sul costo della manodopera, non poterono non provocare numerose agitazioni sindacali e sociali: nell’estate calda del 1960 molte miniere, fra cui quelle della Pertusola nell’Iglesiente, furono teatro di vertenze e occupazioni dei pozzi che proseguirono fino a metà del 1961.

60 La Sardegna mineraria si trovò dunque nel secondo dopoguerra catapultata in un circuito internazionale popolato da concorrenti aggressivi e superiori per potenzialità produttiva e livello tecnologico fra i quali, impreparata, si perse in un’area marginale della competitività. Tuttavia, il declino non fu un improvviso lampo precipitato come fatale destino sull’isola, poiché già negli anni Cinquanta, periodo di relativo benessere, un’oculata osservazione poteva scorgere i primi segni di squilibrio. A tal proposito, è la fuga delle multinazionali private come la Pertusola a segnalare l’intuito pericolo di scivolamento nella crisi: le società abbandonarono il campo prima di restarne intrappolate. Certo, è a posteriori che si connette il processo con l’evento, ma all’epoca

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 105

i privati avvertirono prima del pubblico la china in cui l’isola stava pericolosamente scivolando e che non poteva essere affrontata con la vigente struttura economica non verticalizzata. Il pericolo maggiore, cioè l’esaurimento delle risorse, era emerso prima tenue, con le diseconomie fra costi di produzione e rendimento, e poi sempre più oneroso, nonostante i seppur minimi miglioramenti tecnologici. Le società private captarono l’avvertimento e abbandonarono la zavorra al pubblico che la caricò sulle proprie spalle finché piani di rilancio sempre più utopici non resero evidente l’assurdità di continuare a considerare il settore come attiva ricchezza produttiva.

61 La storia mineraria della Sardegna si costruisce a partire da un’esperienza industriale complessa e a tratti anche contraddittoria, perché vede intrecciati segni di profondo radicamento e insieme estranea coesistenza col territorio. La vita della Sardegna e delle sue miniere può infatti apparire da un lato convergenza organica, per le modificazioni materiali e culturali che si realizzarono nel corso del tempo, ma dall’altro uno scontro mai sopito, in cui la dinamica azione-reazione fra i protagonisti comportò una situazione di crescita senza sviluppo.

62 La Sardegna conserva però molteplici “eredità minerarie”, fra cui il lascito materiale della miniera: le costruzioni, le discariche di materiale inerte o le montagne traforate dalle gallerie non possono che testimoniarlo, ma il loro stato di abbandono è indice della subalternità dell’isola all’applicazione delle tecniche estrattive al proprio corpo fisico.

63 Tuttavia, l’attività estrattiva provocò anche un processo graduale di cambiamento della società, che dal punto di vista culturale si presenta come onda lunga, tendenza estesa attraverso i tempi. Da una parte essa emerge, materiale e concreta, attraverso l’ibridazione dei modelli urbani del Sulcis Iglesiente, dall’altra interessa la storia della vita quotidiana, investita da un mutamento radicale nella dimensione del lavoro e della percezione del tempo.

64 Nel caso dell’urbanizzazione del Sulcis Iglesiente, la miniera ha sovrapposto elementi nuovi a borghi essenzialmente agro-pastorali, come costruzioni legate all’attività mineraria (magazzini, pozzi di estrazione, laverie), ma anche opere infrastrutturali (strade, ferrovie, canalizzazioni idriche) e nuovi palazzi ospitanti case operaie, ospedali, scuole e anche strutture sportive.

65 Pur conservando la loro originaria organizzazione (case generalmente basse e “familiari”, strade strette e tortuose, una o poche vie principali di collegamento con altri paesi) il loro modello di urbanizzazione è riconoscibile come «habitat minerario»77, anche se il caso propone caratteri peculiari.

66 Studiato dal professor Pasquale Mistretta, Rettore dell’Università di Cagliari, l’habitat mineraro dell’Iglesiente è ibrido, perché giunto a modificare uno stato di urbanizzazione in parte già esistente, in primis ampliandolo in dimensioni, grazie all’aumento demografico generato dal miglioramento del reddito familiare degli abitanti, e poi anche con le costruzioni citate più sopra.

67 L’influsso della miniera fu però recepito in modi diversi: in alcuni casi rimase temperato dal pre-esistente carattere agro-pastorale, in altri si legò indissolubilmente al destino dell’attività estrattiva, tanto da condurre, dagli anni della crisi mineraria, prima a un graduale spopolamento e poi al completo abbandono di centri come il villaggio di Arenas e il paesino di Ingurtosu.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 106

68 Il punto discriminante fu appunto il diverso grado di dipendenza dall’attività estrattiva, che, non superando mai la monocolturalità, non propose alcuna alternativa economica post-mineraria alla popolazione di quei borghi sviluppatisi da originari villaggi operai sorti a ridosso dei cantieri.

69 Il carattere di doppia natura dei paesi che invece sopravvissero, seppur con difficoltà, si ritrova nelle considerazioni sul sistema di vita, sulle abitudini e su tutto ciò che concerne la “cultura del quotidiano” degli abitanti del luogo.

70 Da sempre abituati ad un ritmo “agricolo” dell’esistenza, ritmo di “attesa”, legato alla natura, alle stagioni, alle pause necessarie alle colture, gli abitanti che entrarono a lavorare in miniera si ritrovarono a far fronte a un modo di concepire il lavoro completamente estraneo e incomprensibile, per lo più imposto dall’alto.

71 La nuova e rigorosa disciplina della miniera, l’irregimentazione della manodopera, il tentativo di creare gruppi di lavoro coesi e fidelizzati, attraverso istituzioni di dopolavoro e villaggi operai, incisero fortemente, ma non ribaltarono del tutto il modello di vita dell’area, ridefinendo perciò un sistema ibrido di «vita a due tempi»78.

72 La resistenza al cambiamento e una concezione temporanea del lavoro in miniera - come parentesi nella vita del contadino, del pastore o anche dell’artigiano, necessaria a guadagnare un piccolo capitale da utilizzare nella propria attività principale - da un lato fece fallire il tentativo delle società di creare paternalisticamente una propria classe operaia, dall’altro sconvolse i ritmi degli abitanti, che cercarono di adattarsi senza però perdere il loro modus vivendi originario.

73 In un alternarsi fra resistenza e accettazione della scansione oraria dell’industria, la “vita a due tempi” rappresentava la divisione della giornata del lavoratore fra casa e miniera, percepiti come due mondi diversi, regolati da tempi diversi appunto.

74 La separazione fra casa e luogo di lavoro era quindi definita dal percezione del tempo: tempo tradizionale e tempo nuovo, quest’ultimo sovente avvertito come nemico e straniero, tanto più che i ritmi di lavoro furono, almeno fino alla famosa “cacciata” dell’Ing. Audibert, regolati dal cronometro e dal cottimo.

75 L’esito del compromesso fra casa e lavoro fu allora un comportamento di amore-odio verso la miniera, che da un lato speranza di maggior guadagno e dall’altro estranea al proprio modo di vivere.

76 Nonostante ciò, la miniera penetrò, come oggetto fondamentale alla definizione della sub-regione Sulcitana e Iglesiente, nel processo culturale e nella coscienza identitaria locale, visibile dall’esterno – ed esplicitamente – anche solo attraverso i molteplici murales a tema minerario che adornano i muri delle case di questi paesi.

77 L’importanza regionale dello studio del passato estrattivo della Sardegna, è ribadito poi dalle recenti dinamiche economiche dell’isola79, ancora legate alle scelte nazionali degli anni del dopoguerra, che inducono ad approfondire le dinamiche del mondo minerario, rivelatrici di quel passato senza il quale saremmo vinti dall’ignoranza del presente

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 107

ALLEGATO

Appendice

Tav. 1 – La Sardegna mineraria, confronto concessioni 1921-1973

Fonte: Notiziario tecnico-economico EMSa, 1973, pp. 10-11.

Tab. 1 – Produzione dei concentrati 1951-1971 (tonn)

SETTORI 1951 1961 1971

Galena 92,6 82,7 70,7

blenda 54,4 49 40,6

Calamina 90,4 77,6 99,5

solfuri misti pb zn - - 100

Pirite 4,2 1,4 1,3

Rame 98,6 59,9 23,3

Antimonio 62,2 100 -

Manganese 0,2 0,5 -

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 108

Arsenico 100 100 -

Ferro 1,3 22,8 -

Alluminio - 1,7 -

Baritina 33,3 58,3 68,6

Fluorina 11,9 26,4 64,4

Argille 15,3 12,7 27

Caolino e talco 21,6 25,3 34,8

Carbone 52,9 31,7 16,2

Acque minerali 2 2,4 1,6

TOTALE 32,3 21 15,5

Fonte: EMSa (a cura di), Ipotesi per un piano minerario regionale, Cagliari, s.e., 1973, tavola 9, p. 52.

Tab. 2 – Addetti all’industria estrattiva: confronto Sardegna-Italia 1951-1961

Censimento 1951 Censimento 1961

% sul % sul Ripartizioni Addetti totale Addetti totale Addetti Addetti industrie occupati industrie occupati industrie industrie estrattive secondo estrattive secondo settore settore

Sardegna 24.550,00 68.501,00 35,83 13.270,00 69.979,00 18,96

Italia 118.662,00 4.241.901,00 2,79 101.214,00 5.635.322,00 1,79

% Sardegna sul totale occupati 20,68 1,68 13,11 1,24 industrie estrattive Italia

Fonte: CAMERE DI COMMERCIO, INDUSTRIA E AGRICOLTURA DELLA SARDEGNA (a cura di), op. cit., p. 62.

Tab. 3 – Sardegna, industria mineraria: Occupazione 1951-1979

SETTORI 1951 1961 1971 1976 1979

Piombo e zinco 8.126,00 5.040,00 3.100,00 2.494,00 1.846,00

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 109

Rame 135,00 103,00 122,00 110,00 114,00

Antimonio 275,00 87,00 24,00 13,00 13,00

Manganese 18,00 23,00 0,00 0,00 0,00

Arsenico 115,00 41,00 0,00 0,00 0,00

Ferro 57,00 534,00 0,00 0,00 0,00

Alluminio 0,00 125,00 0,00 0,00 0,00

Baritina 178,00 390,00 731,00 274,00 249,00

Fluorina 90,00 440,00 313,00 561,00 521,00

Argille 133,00 108,00 66,00 100,00 101,00

Caolino 237,00 275,00 182,00 155,00 119,00

Carbone 8.905,00 2.731,00 1.177,00 318,00 180,00

Totale 18.296,00 9.797,00 5.715,00 4.025,00 3.159,00

Fonte: EMSa, Ipotesi… op. cit., tavola 13 e Notiziario tecnico-economico EMSa, 1-2/1980.

Indice delle sigle delle Società minerarie

AMMI Associazione Mineraria Metallurgica Italiana

AMMISarda Costola regionale dell’Associazione Mineraria Metallurgica Italiana

EGAM Ente Gestione Attività Minerarie

EMSa Ente Minerario Sardo

ENI Ente Nazionale Idrocarburi

SAMIM Società Azionaria Minerario-Metallurgica

SMCS Società Mineraria Carbonifera Sarda

SOGERSA Sociètà Gestione Risorse Minerarie Sarde

NOTE

1. Il Sulcis-Iglesiente è una regione storica della Sardegna sud-occidentale caratterizzata sin dall’antichità dall’attività di estrazione mineraria ed è composta da due subregioni distinte storicamente e geologicamente: a nord l’Iglesiente metallifero e specialmente piombo-zincifero e a sud il Sulcis carbonifero. Tav. 1.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 110

2. CICCU, Raimondo, «Prospettive dell’industria estrattiva in Sardegna», in Sardegna Economica : Quaderno 8, 11/1992, p. 48. 3. CARDIA, Maria R., Dal Piano Levi al Piano Minerario Regionale (1949-1984): 35 anni di dibattito al Consiglio Regionale, in MANCONI, Franco, Miniere e minatori della Sardegna, Cagliari, Silvana Editoriale S.p.a., 1986, p. 207. 4. La trasformazione da processo di lunga durata a problema storico è inteso qui nel modo in cui J. Le Goff lo descrive nella Prefazione a Apologia della storia di M. Bloch: «I fatti non sono dei fenomeni oggettivi esistenti senza lo storico, ma sono il risultato del lavoro e della costruzione da parte dello storico, creatore di fatti storici». LE GOFF, Jacques, Prefazione, in BLOCH, Marc, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Giulio Einaudi, 1998, p. X. 5. Riguardo le interazioni fra politica nazionale ed investimenti nei settori industriali sardi, una puntuale ricostruzione è pubblicata in BERLINGUER, Enrico, MATTONE, Antonello (a cura di), Sardegna, Torino, Giulio Einaudi, 1998. 6. Cfr. SAPELLI, Giulio, RONCHI, Veronica (a cura di), Modernizzazione senza sviluppo. Il capitalismo secondo Pasolini, Milano, Bruno Mondadori, 2005. 7. ACCARDO, Aldo (a cura di), Politica, economia e cultura nella Sardegna autonomistica, in ACCARDO, Aldo (a cura di), L’Isola della Rinascita: cinquant’anni di autonomia della Regione Sardegna, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 15. 8. MEZZOLANI, Sandro, SIMONCINI, Andrea, Sardegna da salvare: paesaggi e architetture delle miniere, Nuoro, Ed. Archivio Fotografico Sardo, 1993, p. 15. 9. SELLA, Quintino, Relazione sulle condizioni dell’industria mineraria in Sardegna, Nuoro, Ilisso, 1999 [ed. orig. Relazione sulle condizioni dell’industria mineraria in Sardegna, Firenze, Tipografia Eredi Botta, 1871]. 10. PERSICO, Cristina, DE ARCA, Antonella, SPADA Francesca (a cura di), Le industrie estrattive in Sardegna: analisi economica e strutturale, Cagliari, Osservatorio Economico della Sardegna, 2007, p. 11. 11. BRIGAGLIA, Manlio, MASTINO, Attilio, ORTU, Gian G., Storia della Sardegna: La Sardegna contemporanea, vol. 5, Roma, Laterza, 2002, p. 66. 12. Sulla Cassa per il Mezzogiorno e i suoi risultati esiste una sterminata letteratura, che si è occupata non solo delle tematiche generali, di natura storica, giuridica, sociale ed economica, ma anche delle sue forme di articolazione territoriale e settoriale. Si rivela complicato proporre una sintesi della bibliografia esistente, in cui anche i pilastri fondamentali sono molti. Nonostante ciò, si propone qui un elenco che, lungi dall’avere pretese di esaustività, vuole essere una semplice indicazione per un inizio di ricerca sul tema; Cfr. PESCATORE, Gabriele, L’intervento straordinario nel Mezzogiorno d’Italia, Milano, Giuffrè, 1962; ID., «Il progetto speciale nel quadro dell’intervento straordinario», in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1974, pp. 885-899; SARACENO, Pasquale,«Il Mezzogiorno tra congiuntura e riforma», in Mondo economico, 38, 1972, pp. 41-46; ID., Il meridionalismo dopo la ricostruzione, Milano, Giuffrè, 1974. 13. LELLI, Maurizio, Proletariato e ceti medi in Sardegna, una società dipendente, Bari, De Donato, 1975. 14. CARDIA, Maria R., op. cit., p. 207. 15. Il Patto, proposto per la prima volta dalla Direzione della Montevecchio, prevedeva aumenti salariali dal 45% al 60% previo un minimo di 20 giorni di lavoro continuato che, se disatteso per qualunque causa, avrebbe comportato la perdita di ogni diritto e del premio di collaborazione. Inoltre si imponeva la sostituzione delle Commissioni Interne ai sindacati in sede di trattativa ed era vietato il tesseramento al PSI e al PCI, cosa che palesava un intento politico. Il Patto aziendale fu poi abolito nell’aprile del 1961 in seguito ad uno sciopero e alla fusione Montevecchio- Monteponi. BERLINGUER, Enrico, MATTONE, Antonello, op.cit., p. 810. 16. La «non collaborazione» è un tipo di protesta attuata dai lavoratori che si recano sul posto di lavoro ma si rifiutano di attivare macchinari e svolgere i propri compiti, bloccando così la catena

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 111

del ciclo produttivo. In ambito minerario la «non collaborazione» permetteva di bloccare il cantiere senza ufficialmente fare ricorso alle occupazioni, contro cui le Compagnie avrebbero reagito in modo più duro, facendo ricorso specialmente alle forze dell’ordine. 17. CARDIA, Maria R., op. cit., p. 210. 18. Ibidem. 19. Ibidem. 20. Tab. 1. 21. Vedi numeri, relativi agli anni successivi a quelli indicati, del periodico curato dall’EMSa, «Industria mineraria» e CARDIA, Maria R., op. cit. per una sintesi sulla ricezione politica degli accordi europei. 22. EGAM (a cura di), Piano minerario e metallurgico nazionale EGAM, Roma, EGAM, 1973, p. 77, Archivio Storico Minerario Monteponi, Iglesias (d’ora in avanti ASMM). I documenti provenienti dall’ASSM non presentano notazione archivistica in quanto l’iter di inventariazione nell’Archivio di Monteponi era ancora in essere al momento della consultazione dei documenti. 23. MINISTERO DELL’INDUSTRIA, DEL COMMERCIO E DELL’ARTIGIANATO, Relazione generale mineraria, art. 7 marzo 1973, Roma, Bardi, 1975, p. 273, ASMM. 24. EMSa, «Comunicazione dell’abbattimento dei dazi al 31 dicembre 1969», in Industria mineraria, 2/1970, p. 101. 25. Per esempio la SMCS (Società Mineraria Carbonifera Sarda), in ordine all’attuazione di un «riassetto economico produttivo» conseguente all’applicazione delle quote CECA, licenziò 2500 operai nel 1956 e altri 1600 nel 1958. CARDIA, Maria R., op. cit., p. 212. 26. MANTEGA, Paolo, Studio sui programmi di ricerche minerarie, studi e sperimentazioni realizzati e da realizzare in Sardegna, secondo le finalità dell’ART 26 della Legge n°588 sul Piano di Rinascita, Cagliari, s. e., 1973, p. 20, ASMM. 27. Ibidem. 28. Ibidem. 29. Il provvedimento consisteva nell’allontanamento del direttore e nel divieto per quest’ultimo di restare in Sardegna. Ibidem, p. 213. 30. FADDA, Paolo, Gli anni dell’Associazione degli Industriali in DEL PIANO, Lorenzo, SIRCHIA, Achille, FADDA, Paolo, Uomini e industrie. Settant’anni di storia dell’Associazione provinciale degli industriali di Cagliari nell’evoluzione dell’economia sarda, Cagliari, GAP, 1995, p. 303. 31. La legge n°588 dell’11 giugno 1962 cioè il Piano di Rinascita economica e Sociale della Sardegna, con l’Art. 26 dedicato all’industria minero-metallurgica, prevedeva uno stanziamento di 11.500 milioni di lire per il periodo 1963-1974 (su 400 miliardi stanziati per l’intero Piano), il quale venne poi frazionato in 4 programmi biennali e triennali fra 1 e i 3,5 miliardi e in un piano quinquennale 1965-1969. Il Piano finalizzava questi contributi alla copertura del 50% delle spese per impianti pilota e ammodernamenti, assumendosi anche gli oneri di ricerca. Il Piano quinquennale del 1965 prevedeva «un programma straordinario» di 6 miliardi per l’incremento della produttività nel settore minerario, a fronte dei 670 miliardi di lire per l’intero secondo settore. I motivi dell’evidente esiguità dell’intervento sono ravvisabili nelle considerazioni presenti nel Piano stesso che recita «questo settore può dare un contributo solo limitato all’espansione del settore industriale». Il Piano prevedeva inoltre la creazione dell’EMSa (Ente Minerario Sardo) per la ricerca lo studio e la sperimentazione, in modo da creare un unico centro coordinatore delle miniere destinatarie degli interventi: la gestione unitaria venne individuata come uno degli elementi basilari alla ripresa del settore, ma la reiterata presenza di questa osservazione nei documenti induce alla considerazione di una sua mancata attuazione. I piani di programmazione si configurarono come”investimento economicamente malato” sia per il loro carattere “straordinario”, che li trasformò in sostitutivi e non aggiuntivi rispetto a quelli statali sia perché finalizzati, nella filosofia pubblica dell’epoca, al mantenimento dei livelli occupazionali e non a un effettivo binomio modernizzazione-integrazione che avrebbe consentito lo sviluppo.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 112

Quando alla fine degli anni ’60 le società private abbandonarono definitivamente il campo minerario e le attività furono acquisite del capitale pubblico, la logica di gestione si indirizzò al mantenimento dei livelli occupazionali e solo in secondo luogo a obiettivi di produzione. A Porto Vesme l’AMMI aveva progettato la creazione di un impianto metallurgico Imperial Smelting, ma ancora alla fine degli anni ’60 esso restava inattuato per l’opposizione dei gruppi minerari privati e per la mancata istituzione dell’EMSa, che avverrà con la Legge Regionale 8 maggio 1968 n.24, la quale avrebbe dovuto coordinare e finanziare il progetto. 32. FADDA, Paolo, op. cit., p. 224. 33. CARDIA, Maria R, op. cit., p. 225. 34. SABATTINI, Gianfranco, MORO, Beniamino, La crisi delle attività minerarie regionali e il ruolo del settore pubblico, Cagliari, Editrice Sarda Press, 1975, p. 85. 35. Ibidem, p. 230. 36. Infatti dal 1977 tutta l’attività mineraria sarebbe dovuta passata in gestione all’ENI tramite la Società SAMIM S.p.a. Si veda OTTELLI, Luciano, Monteponi (Iglesias, Sardegna), , Delfino, 2010, p. 286. 37. CARDIA, Maria R., op cit., p. 232. 38. DETRAGIACHE, Angelo, CAMERE DI COMMERCIO, INDUSTRIA E AGRICOLTURA DELLA SARDEGNA (a cura di), Sardegna, Milano, Giuffrè, 1966, p. 88. 39. Ibidem, p. 131. 40. CLARK, Martin, La storia politica e sociale (1915-1975), in GUIDETTI, Massimo (a cura di), Storia dei sardi e della Sardegna. Vol IV: L’età contemporanea, dal governo piemontese agli anni sessanta del nostro secolo, Milano, Jaca Book, 1989, p. 438. 41. ACCARDO, Aldo, op. cit., p. 15. 42. Ibidem. 43. DETRAGIACHE, Angelo, op. cit., p. 66. 44. COLLEGIO NAZIONALE SINDACATO INGEGNERI DEL MINISTERO PER L’INDUSTRIA E IL COMMERCIO (a cura di), Centenario del Corpo delle Miniere, 1860-1960, Faenza, Stabilimento grafico Lega, 1960, p. 184. 45. SABATTINI, Gianfranco, MORO, Beniamino, op. cit., pp. 28-29. 46. Ibidem cit., p 14. 47. Tab. 2 e Tab. 3, Cfr. Notiziario tecnico-economico EMSa, 1-2/1980, p. 61. 48. DETRAGIACHE, Angelo, CAMERE DI COMMERCIO, INDUSTRIA E AGRICOLTURA DELLA SARDEGNA (a cura di), op. cit., p. 157. 49. SABATTINI, Gianfranco, MORO, Beniamino, op. cit., p. 67. 50. DETRAGIACHE, Angelo, op. cit., p. 12. 51. La presenza dello zolfo nel carbone Sulcis è individuata fra il 3 e il 5%, valore definito notevole, in CAVINATO, Antonio, Depositi minerari: con speciale riguardo alle miniere ed ai materiali utili italiani, Torino, Libreria Tecnica V. Giorgio, 1952, p. 115. « […] uno dei motivi che ne rendono difficile l’uso se non in seguito ad arricchimento». Ibidem, p. 233. Nella nota di Mario Steri, direttore dei lavori della laveria Mameli di Monteponi, si afferma: «purtroppo le speranze di ottenere concentrati di buona qualità si realizzarono solo parzialmente per la presenza di silice solubile nei prodotti» in STERI, Mario, Le laverie delle miniere di Monteponi, anni 1960-1965, Iglesias, CTE Iglesias, 2005, cit. in OTTELLI, Luciano, op. cit., p. 275. 52. ZUFFARDI, Piero, Le risorse minerarie in Sardegna, in I problemi storici della Sardegna : atti del Convegno di studi tenuto a Pavia il 12-13 ottobre 1985, Milano, Cisalpino-Goliardica, 1986, p. 63. 53. S.a.,«Programma generale straordinario di ricerca: metodologie e finalità» in Notiziario tecnico-economico EMSa, 3/1973, p. 7. 54. SALVATORI, Ilio, ZUFFARDI, Piero, I giacimenti minerari in MANCONI, Francesco (a cura di), op. cit., p. 142. 55. Ibidem, p. 257.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 113

56. SABATTINI, Gianfranco, MORO, Beniamino, op. cit., p. 90. 57. A.MI.ME, Associazione Minatori Memoria (a cura di), Atti del Convegno delle Regioni minerarie “Miniere, Regioni, Programmazione Nazionale” Firenze 6-7-8 luglio 1973 in Sardegna: minatori e memorie, Cagliari, Arti Grafiche Pisano Srl, 2006, p. 112. 58. CARDIA, Maria R., op. cit., p. 228. 59. Ibidem. 60. BOSCOLO, Alberto, BULFERETTI, Luigi, DEL PIANO, Lorenzo, SABATTINI, Gianfranco, Profilo storico economico della Sardegna dal riformismo settecentesco ai piani di rinascita, Milano, Franco Angeli, 1991, p. 199. 61. SAPELLI, Giulio, op. cit., p. 169. 62. L’espressione indica la costruzione di impianti industriali caratterizzati da gigantismo e assenza di integrazione alle attività economiche del territorio. Paradigmatico è, nel caso sardo,l’esempio dell’industria petrolchimica di Ottana costruita nel 1973, trattato in BERLINGUER, Enrico, MATTONE, Antonello, op. cit. 63. «La strategia dello sviluppo alla base del Piano quinquennale della Sardegna può essere configurata come un’azione volta a modificare la struttura dell’offerta regionale, non per adeguarla alle esigenze quantitative e qualitative del mercato isolano, ma per consentirle di inserirsi nel mercato nazionale ed estero» in REGIONE AUTONOME DELLA SARDEGNA Piano di rinascita economica e sociale delle Sardegna (L.11.6.1962, N. 588 e L.R. 11.7.1962 N. 7.): piano quinquennale 1965-1969 , Cagliari, Regione Autonoma della Sardegna, 1966, p. 26. 64. EGAM (a cura di), op. cit., pp. 14 e 83, ASMM e EMSa (a cura di), op. cit., p. 17, ASMM. 65. SALVATORI, Ilio, ZUFFARDI, Paolo, op. cit., pag 142. 66. CARDIA, Maria R., op. cit., p. 220. 67. FADDA, Paolo, op. cit., p. 344. 68. CARDIA, Maria R., op. cit., p. 230. 69. Confrontando i già citati Piani Programmatici di EMSa, EGAM e Piombozincifera Sarda degli anni Settanta con i Notiziari EMSa degli anni Settanta e Ottanta si evince l’esistenza di una discrepanza fra le proiezioni degli esiti d’investimento, riguardanti soprattutto mantenimento dell’occupazione e ripianamento dei debiti, e gli esiti stessi. 70. ROSSI, Giovanni, «Considerazioni sulla situazione mineraria in Sardegna» in Sardegna Economica : quaderno 8, Cagliari, 11/1992, p. 40. 71. Conferenza Nazionale Mineraria. Cagliari 9/11 marzo 1973. Atti cit., p. 348. 72. CICCU, Raimondo, op. cit., p. 48. 73. MINISTERO DELL’INDUSTRIA, DEL COMMERCIO E DELL’ARTIGIANATO (a cura di), op. cit, p. 273. 74. CARDIA, Maria R., op. cit., p. 220. 75. Ibidem, p. 214. 76. OPPO, Anna, La vita in miniera negli anni ’50, in MANCONI, Francesco (a cura di), op. cit., p. 191. 77. Il concetto di habitat designa ambienti di sviluppo umano, caratterizzati da un certo tipo di utilizzazione delle risorse, la quale crea peculiari strutture incidenti economicamente, socialmente e culturalmente sulla zona interessata, in modo duraturo e pervasivo. Per approfondire il tema si veda: MISTRETTA, Pasquale, Gli habitat minerari della Sardegna in MANCONI, Francesco, op. cit., pp. 115-139. 78. Per approfondire il tema della visione del mondo dei sardi del Sulcis Iglesiente si rinvia ad OPPO, Anna, op. cit. pp. 191-198; ATZENI, Paola, «Lavoro e Tempo in miniera» in La Ricerca Folklorica, 10/2008, pp. 121-136. 79. Si fa riferimento alle vicende dello stabilimento ALCOA di Porto Vesme e della società Igea S.p.a., titolare della gestione dei cantieri minerari, della bonifica del territorio e dell’organizzazione dell’Archivio Storico Minerario di Monteponi.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 114

RIASSUNTI

Durante il secondo dopoguerra, la Sardegna fu interessata dal declino di una delle sue più importanti attività economiche, l’estrazione mineraria. I finanziamenti pubblici erogati per la riconversione e la verticalizzazione, soprattutto coi Piani di Rinascita, si mossero però verso un modello di sviluppo polarizzato e fondato sul petrolio, comune al generale orientamento nazionale. L’esito fu la creazione di un settore industriale alieno al territorio e l’esaurimento delle miniere, nel susseguirsi di gestioni pubbliche sempre più deficitarie.

During the Postwar Era, was interested by the decline of its most important economic activity: the mining industry. Public investiments for industrial convertion and integration were oriented to a polarized, petroleum based development model, just like the general politics in Italian’s economy. The result was the creation of an unitegrated industry and the depletion of mines, in the general deficit of state-owned societies.

INDICE

Keywords : industrial reconversion, mining industry, oil industry, Piani di Rinascita, Sardinia Parole chiave : industria mineraria, industria petrolifera, Piani di Rinascita, riconversione industriale, Sardegna

AUTORE

FRANCESCA SANNA Ha conseguito la Laurea Triennale in Storia con lode presso l’Università degli studi di Milano nel 2012. Attualmente è iscritta alla Laurea Magistrale in Scienze storiche dell’Università di Bologna ed è stata selezionata per partecipare al Corso integrato Storia e civiltà comparate in cotutela con l’Université Denis Diderot – Paris 7.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 115

III. Crisi d’identità e ricomposizioni politiche

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 116

Il rapporto tra il sindacalismo rivoluzionario e le origini del fascismo: appunti di lavoro

Marco Masulli

1 In questo breve contributo non ci soffermeremo sulla natura del sindacalismo fascista quanto, piuttosto, sui presupposti politici, culturali e conflittuali che influirono nella definizione dei caratteri assunti in pieno regime dall’organismo sindacale. Ci concentreremo, più nello specifico, sulla − più o meno profonda − influenza esercitata da alcuni settori di quella complessa tendenza sindacalista rivoluzionaria che si manifestò in età giolittiana, e che di essa fu uno dei prodotti tanto quanto lo fu da certi punti di vista il fascismo stesso. La tendenza sindacalista rivoluzionaria ebbe, infatti, origine proprio da quella fase travagliata della storia d’Italia che vide acuirsi il conflitto sociale e presiedette ai tentativi di incanalarlo all’interno delle istituzioni grazie alla sponda offerta − con gravi conseguenze interne − dai socialisti riformisti e, soprattutto, che accompagnò la progressiva trasformazione della società e dell’economia italiane.

2 In ambito storiografico l’attenzione verso questa esperienza originale del movimento proletario si è spesso concentrata solo sui motivi che spinsero molti dei suoi promotori e militanti a confluire nel movimento fascista e, in alcuni casi, anche nelle strutture del

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 117

regime. Questa scelta può essere spiegata anche con l’intenzione manifestata da certa storiografia di creare un filo diretto tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo, come se la confluenza nel fascismo fosse un prodotto quasi “automatico” delle idee e delle pratiche elaborate dal sindacalismo rivoluzionario. In genere, i caratteri che più si prestano ad una simile operazione sono quelli, evidenti, della nuova riflessione sulla violenza di matrice soreliana: l’antiparlamentarismo, il volontarismo e la fiducia riposta in una non ben definita “aristocrazia del pensiero e dell’azione” che, forzatamente, si è voluta paragonare alla categoria delle “minoranze attive”, di ben altro spessore e riferibile a quella dell’autonomia del pensiero e, poi, dell’azione diretta. In realtà, come nota Massimo Bertozzi «affannarsi a ricercare questo rapporto – tra sindacalismo rivoluzionario e fascismo – in un apparato ideologico-culturale, irrazionalista e antidemocratico che avrebbe fatto del sindacalismo rivoluzionario una sorta di terreno di coltura del fascismo è in definitiva poco producente»1. Questo, continua Bertozzi, sia perché già Alceo Riosa dimostrò che il problema delle libertà democratiche non era affatto trascurato dai sindacalisti e sia perché il fatto che «gli esiti di queste esperienze, da una parte il fascismo e dall’altra l’“Ordine nuovo”, siano stati diversi starebbe a dimostrare proprio come questi fossero tutt’altro che scontati»2.

3 Sarebbe forse il caso di iniziare a ragionare sull’influenza esercitata dal sindacalismo rivoluzionario italiano sulle origini del fascismo ponendosi su terreni meno convenzionali. Accogliendo, ad esempio, lo stimolo interpretativo lanciato, in verità molto tempo fa, da Alceo Riosa – ma che non fu mai raccolto totalmente da una storiografia divisa nei chiusi campi del revisionismo da un lato e della militanza politica dall’altro – si potrebbe forse riflettere sull’opportunità di considerare la confluenza di esponenti del sindacalismo rivoluzionario italiano nel movimento fascista come un tentativo di fare emergere, concentrandosi sul terreno della lotta sociale più che di quella politica, le contraddizioni create dallo stesso regime fascista imponendo un sindacato unico3. Sappiamo, infatti, che il sindacato avrebbe dovuto rappresentare, per i sindacalisti puri, la cellula embrionale di una società futura da costruirsi su un terreno di giustizia sociale. Quale migliore occasione, dunque, di un sindacato unico, ma dotato di una certa autonomia, specie se relazionata all’impossibilità di costituire spazi di autogestione svincolati dallo Stato, per conseguire, finalmente, quell’unità di classe auspicata dai teorici e organizzatori sindacalisti che avrebbe condotto al rovesciamento dello Stato per mezzo di una sua stessa creatura? Da questo punto di vista si dovrebbero dunque tenere sempre presente le fasi del fenomeno sindacale in età fascista. La prima, durata fino alla seconda metà degli anni Venti, avrebbe rappresentato un tentativo di imprimere al regime un carattere sindacalista che avrebbe dovuto, infine, inglobarlo; la seconda fase, avrebbe visto la riduzione del sindacato al ruolo di semplice strumento politico di controllo sociale subordinato in maniera assoluta allo Stato-partito. Se questo spunto offre una prospettiva affascinante del fenomeno lascia, tuttavia, scoperti altri aspetti del problema rivelando la sua natura essenzialmente provocatoria. In particolar modo, vanno sicuramente tenuti in considerazione quei legami tanto intellettuali quanto legati alla pratica militante che sono stati esposti da studiosi quali Sternhell, specialmente nell’opera dedicata alla nascita dell’ideologia fascista4. In questo caso, non appare totalmente appagante l’interpretazione che spesso accomuna fascismo e sindacalismo rivoluzionario ricorrendo alla categoria dell’irrazionalismo5. Senza parlare, poi, della categoria tutta psicologica dell’ opportunismo e del tradimento. Gli stimoli e le influenze che possono essere posti alle origini della peculiare forma di organizzazione sindacale sotto il regime autoritario fascista, sono

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 118

molteplici. Sicuramente valida rimane l’attenzione riposta all’esperienza interventista e, successivamente, al combattentismo. Un altro spunto utile potrebbe essere partire dalla natura stessa del sindacalismo rivoluzionario italiano, dal suo ruolo all’interno del partito socialista d’origine e dai complessi sentieri intrapresi dopo la svolta organizzatrice del 1907. Sarebbe, pertanto, possibile soffermarci sullo scontro interno all’Unione Sindacale Italiana andando anche oltre la sola questione dell’interventismo, dando così la giusta importanza al dibattito sul rinnovamento dei modelli organizzativi – la creazione dei Sindacati nazionali d’industria – proposti da quella che sarebbe stata definita come tendenza “produttivistica”, rappresentata al meglio da Corridoni e De Ambris, che influì non poco sulla successiva unione del sindacalismo con il mito della nazione. Ma, rimanendo sempre in argomento, si potrebbe parlare delle responsabilità del PSI, incapace di dare una risposta efficace al fenomeno del combattentismo. Nel nostro caso, partiremo proprio dai contrasti interni al mondo sindacalista per risalire alle peculiarità di questa tendenza e cercare in esse le possibili spiegazioni di una convergenza apparentemente inspiegabile, eppure così determinante e fondativa di alcune problematiche storiografiche legate alla natura del fascismo stesso.

4 In Italia, come è ormai noto, il sindacalismo rivoluzionario si modella sull’archetipo del sindacalismo francese da un punto di vista più formale che sostanziale. Come sottolineò Roberto Michels, il sindacalismo rivoluzionario seguì, infatti, una strada del tutto diversa rispetto al modello sindacale francese a causa di «disparità di ordine organico» dovute al fatto di non essere «cresciuti sullo stesso ceppo» identificandosi, in sostanza, con l’ala sinistra del Partito Socialista e continuando a rivendicare per un lungo periodo una forte matrice marxista6. Gli esponenti italiani del primo sindacalismo rivoluzionario, quindi, non mettendo mai in discussione il proprio contributo alla lotta politica, e quindi al partito, non rappresentarono che una corrente interna al partito stesso, espressione di un antagonismo al riformismo turatiano che trovò nell’esperienza francese una fonte di rinnovamento ideologico. Questa ambiguità di fondo non passava, del resto, inosservata neanche negli ambienti ouvrieristi francesi che, nel commentare le vicende del socialismo italiano non esitavano a definire la fazione sindacalista rappresentata da Labriola e Leone come un «syndicalisme batard, moitié révolutionnaire et moitié parlamentariste, que se résoud en une contradiction sinon en une equivoque»7. Del resto le influenze sindacaliste in Italia arrivarono esclusivamente sotto sembianze intellettuali, soprattutto tramite Sorel e Lagardelle. Si tratta, dunque, di un sindacalismo artefatto e strumentale alla lotta partitica che muterà il proprio volto, attestandosi su posizioni sinceramente sindacaliste solo tardivamente e ad opera, soprattutto, di Alceste De Ambris che ebbe, tra gli altri, il merito di proiettare il sindacalismo rivoluzionario italiano in una dimensione finalmente internazionale attivando rapporti fino ad allora inesistenti o, almeno, non determinanti nella concretezza conflittuale. Tale cambiamento fu, tuttavia, agevolato dalla rottura dell’unità all’interno della CGdL causata dal contrasto insanabile tra cameralisti e federalisti sul tema dello sciopero generale e dell’autonomia dal Partito Socialista che avrebbe portato, dopo il convegno del 3 novembre 1907 tenuto a Parma, alla costituzione del Comitato Nazionale della Resistenza quale punto di aggregazione del movimento sindacalista autonomo e rivoluzionario, avente nel periodico «L’Internazionale», diretto da Alceste De Ambris, il suo organo ufficiale8. Tale contrasto, infatti, rese incolmabile la distanza che separava la maggioranza riformista della CGdL dalla minoranza rivoluzionaria, il che si palesò chiaramente nel parmense nel periodo in cui la direzione della locale Camera del Lavoro fu assegnata a De Ambris.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 119

Egli, come primo atto, fece votare un ordine del giorno che proclamava l’adesione della CdL di Parma alla Confederazione Generale del Lavoro sperando in tal modo di contrastare la debolezza delle classi contadine attraverso l’unità anche con la maggioranza riformista della Camera del Lavoro, nonché di riuscire a influenzare i vertici riformisti per modificarne gli indirizzi moderati. Il riscontro pratico di questa strategia si ebbe in occasione dello sciopero del 1907 indetto dai riformisti e avente come obiettivo un aggiornamento dei salari e degli orari minimi di lavoro, al quale seguì una ottusa contrapposizione dei proprietari terrieri che portò, infine, alla proclamazione di uno sciopero generale unitario9. Questo ebbe tra i suoi immediati effetti la creazione di una solidarietà proletaria prima sconosciuta nel territorio parmense nonché la prima vittoria sindacale nei confronti del padronato.

5 L’ indirizzo combattivo che portò a questo clamoroso successo, avrebbe condotto nel 1908 a ciò che fu considerato il primo esperimento sindacalista dello sciopero soreliano in Italia, generato «dalla necessità di imporre il rispetto di patti pretestuosamente violati dagli agrari e dalle richieste di un aumento delle tariffe salariali e di migliori condizioni di lavoro» e causato, secondo De Ambris, dalla volontà del padronato di vendicarsi della sconfitta dell’anno precedente. In realtà è molto dubbia la visione secondo la quale De Ambris volle dare allo sciopero generale del 1908 i connotati dello sciopero rivoluzionario, soprattutto considerando la natura prevalentemente economica di tale mobilitazione. Ciò, del resto, emergerebbe da quanto affermato ne «L’Azione diretta» in cui dall’analisi deambrisiana sul senso dello sciopero generale emerge «una visione in parte gradualistica che si era lasciata dietro la mistica fiducia nello sciopero violento» ponendo piuttosto «come elemento preliminare allo sciopero generale la maturazione politica e la conoscenza del sistema economico»10 da parte del proletariato. Lo sciopero di Parma del 1908 andò, tuttavia, incontro ad un clamoroso fallimento che, a causa del significato di «banco di prova del sindacalismo rivoluzionario» affidatogli da esponenti come Angelo Oliviero Olivetti, provocò una brusca battuta d’arresto delle tendenze sindacali rivoluzionarie almeno fino alla fondazione dell’Usi del 1912, istillando anche la convinzione dell’impossibilità di approdare ad un’unità sindacale con le correnti riformiste, che in quell’occasione mutarono radicalmente atteggiamento nei confronti delle tendenze rivoluzionarie, sfociando in aperta ostilità. Questa sarebbe stata denunciata da De Ambris come una delle maggiori cause del fallimento dello sciopero parmense, allorché le correnti riformiste avevano assunto un atteggiamento più prudente fino ad arrivare a trattare apertamente con il Prefetto per la consegna delle chiavi della Camera del Lavoro, che avevano consegnato quasi subito ai sindacalisti, ottenendone in cambio la fine dello sciopero. Era chiaro che «i riformisti cercarono di cogliere l’occasione per infliggere un duro colpo a quel sindacalismo il quale, ormai da diverso tempo, gli contestava i metodi di lotta e stava acquisendo sempre più consensi»11. Intanto, mentre De Ambris, dopo la partecipazione al Congresso di Marsiglia della Cgt (1908), si convinceva della reale possibilità da parte del sindacalismo rivoluzionario di incidere profondamente sulle Confederazioni generali, il II congresso delle Leghe di resistenza tenutosi a Modena nel settembre 1908, nonché il congresso fiorentino del Psi sconfessarono il sindacalismo rivoluzionario dichiarandolo incompatibile con i principi del socialismo ed infine, nel maggio 1909, le organizzazioni sindacaliste decisero di rientrare in massa nella CGdL con la sola eccezione della CdL di Parma che fu rifiutata dalla Confederazione.

6 A sconvolgere ulteriormente l’ambiente sindacalista rivoluzionario sarebbe stato il dibattito serrato sulla guerra di Libia del 1911 che avrebbe spaccato i sindacalisti nella

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 120

corrente interventista e in quella antimilitarista. Entrambe le correnti partivano dalla convinzione che qualunque nazionalismo fosse estraneo alle masse proletarie ma, nonostante ciò, esponenti sindacalisti come Olivetti finirono per ammettere dei «sostanziali punti di contatto e degli obiettivi comuni» tra sindacalismo rivoluzionario e nazionalismo individuabili nelle affini radici «antidemocratiche, antipacifiste e antiborghesi». Dall’associazione della guerra libica al carattere di “guerra rivoluzionaria” – capace di assumere il ruolo di “palestra rivoluzionaria” per il proletariato – si sarebbe arrivati, con Labriola, a sottolineare perfino «i risvolti razziali» positivi per le «razze mediterranee» che la guerra libica avrebbe comportato. A fronte di simili posizioni, che rendevano indispensabile un ripensamento generale delle teorie sindacaliste rivoluzionarie e che rispondevano probabilmente ad una crisi generale del movimento, De Ambris, appoggiato dalla maggioranza dello schieramento sindacalista rivoluzionario, rispose mobilitando il proletariato parmense in una grande manifestazione antimilitarista nel 1912. Egli valutava l’infondatezza delle posizioni interventiste alla luce delle pesanti conseguenze economiche e politiche che la guerra tripolina avrebbe causato nei confronti del proletariato in termini di disoccupazione e rafforzamento delle istituzioni monarchiche. I socialisti, nel medesimo periodo, soffrirono un generale sbandamento dovuto alle incertezze dei moderati e dei riformisti timorosi delle possibili conseguenze di una chiara politica antimilitarista.

7 Uno dei pochi socialisti a parlare apertamente di “sabotaggio antimilitarista” fu, in questo contesto, Benito Mussolini, allora capo indiscusso del socialismo forlivese, che sia dalle colonne del foglio «Lotta di Classe», da lui diretto, sia dai pulpiti delle piazze minacciò uno sciopero generale antimilitarista sulla base del fatto che se «la patria – menzognera finzione che ormai ha fatto il suo tempo – chiederà [sic!] nuovi sacrifici di denaro e sangue, il proletariato che segue le direttive socialiste risponderà con lo sciopero generale e la guerra fra le nazioni diventerà allora una guerra fra classi»12. In tal maniera si può affermare la profonda influenza che le pratiche del sindacalismo rivoluzionario, intese come pratica dello sciopero generale e dell’azione diretta contro le tendenze riformiste, ebbero nel costruire la figura politica di Mussolini fino alla fase del fascismo sansepolcrista. La rottura dell’equilibrio interno al sindacalismo rivoluzionario sulla questione della guerra di Libia, metteva in risalto l’esistenza di due gruppi ben distinti: gli organizzatori, come De Ambris e Corridoni – che fu tra i promotori dello sciopero generale contro la guerra, appoggiato anche dalla Cgdl ed il Psi – erano nettamente contrari all’intervento; i teorici, da Labriola ad Olivetti erano favorevoli; questa divisione, inoltre, era lo specchio anche della realtà interna al Paese, che vedeva schierati i settori della piccola e media borghesia a favore del conflitto e contrarie le masse popolari13. Una parte, seppur minoritaria, del sindacalismo rivoluzionario sposava perciò una concezione aristocratica ed elitaria del sindacalismo fondata su «una volontà di potenza che aborre la pallida uguaglianza conventuale sterilmente sognata dal collettivismo e prelude alla formazione di élites battagliere e conquistatrici, sfrenate all’assalto della ricchezza e della vita»14 che spinse lo stesso Olivetti ad azzardare un primo significativo accostamento del sindacalismo rivoluzionario al “futurismo” – che tanta parte avrebbe avuto in seguito sull’impresa fiumana e sulla formazione dello spirito del primo fascismo – riscontrabile nella decantazione del volontarismo eroico e dell’impresa diretta.

8 Il processo di distacco tra la corrente di maggioranza antimilitarista e quella di minoranza interventista poteva dirsi completato con la sospensione delle pubblicazioni della rivista «Pagine Libere» nel gennaio 1912 e la costituzione, nello stesso anno,

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 121

dell’Unione Sindacale Italiana come organizzazione autonoma e rivoluzionaria promossa da De Ambris una volta realizzata l’impossibilità di una conquista dall’interno della Cgdl. Parallelamente si avviava una maggiore cooperazione tra i sindacalisti interventisti e i nazionalisti che portò alla sempre più stretta vicinanza di esponenti come Enrico Corradini e Marco Viana agli ambienti sindacalisti rivoluzionari palesatasi con le frequenti collaborazioni congiunte sulle colonne de «La Lupa», giornale che «sin dai suoi inizi si fece banditore della necessità e del dovere della espansione coloniale»15, nonostante le precisazioni di Olivetti che teneva a sottolineare come il sindacalismo fosse il perfetto contrapposto del nazionalismo in quanto ne ignora l’idea fondamentale, quella di patria, e la combatte quando questa accenna a tramutarsi in un’idea di forza, spingendo i popoli ad opposizioni e conflitti nei quali il proletariato, con sistema attuale di leva obbligatoria e di eserciti permanenti, dovrebbe avere contro il suo genio ed i suoi interessi di una parte preponderante16.

9 Intanto, Mussolini, capo indiscusso del socialismo rivoluzionario, esprimendo dure critiche alla «verbosità rivoluzionaria» del vecchio riformismo, si rendeva conto che era difficile prescindere dalle tesi sindacaliste. I precedenti di questo atteggiamento di Mussolini nei confronti del sindacalismo rivoluzionario sono rintracciabili durante il 1913, l’anno in cui l’Usi iniziò ad organizzare scioperi e manifestazioni […]. Mussolini aveva sempre creduto che sostenere apertamente le rivendicazioni e le lotte sindacali significasse battere il terreno migliore per contrastare il giolittismo, trovare l’arma che più d’ogni altra poteva mettere in crisi il sistema. Ciò spiega la nascita di una sorta di unità d’intenti tra socialisti rivoluzionari e sindacalisti, e anche i contatti che Mussolini teneva regolarmente con De Ambris e Corridoni17.

10 Del resto, oltre ogni forma di tatticismo politico, Mussolini, scrive De Felice, sindacalista rivoluzionario nel senso stretto, nel senso politico-organizzativo non fu mai […], nella dottrina e nella pratica del sindacalismo rivoluzionario trovò alcuni motivi destinati a divenire capisaldi della sua concezione politica […] per lui il sindacalismo rivoluzionario non era solo la forma più vigorosa di reazione contro il riformismo, ma era la dottrina che, con la teoria dell’azione diretta e dello sciopero generale, conferiva un vigore nuovo alla concezione rivoluzionaria del socialismo […]. Per un uomo come Mussolini, il cui socialismo era soprattutto uno stato d’animo […], il sindacalismo rivoluzionario non poteva non costituire la pratica ideale del socialismo, la leva per scalzare il capitalismo facendo leva sull’anelito volontaristico di autoemancipazione delle masse proletarie18.

11 Lo stesso Mussolini, nella seconda parte della voce Dottrina del fascismo redatta per l’Enciclopedia Treccani, scriverà che «nel grande fiume del fascismo troverete i filoni che si dipartirono da Sorel, dal Peguy, dal Lagardelle e dalla coorte dei sindacalisti italiani, che tra il 1904 e il 1914 portarono una nota di novità nell’ambiente socialistico italiano, già svirilizzato e cloroformizzato dalla fornicazione giolittiana»19. La settimana rossa fu, dunque, interpretata sia dai sindacalisti rivoluzionari che dai socialisti guidati da Mussolini come una verifica politica dell’indirizzo assunto dal rivoluzionarismo italiano più che come una prova rivoluzionaria e, ancora una volta, la decisione della Cgdl presa il 10 giugno 1914 di sospendere lo sciopero generale venne accolta come l’ennesima dimostrazione del «ciarlatanismo incapace e colpevole» dei dirigenti socialisti imponendo, al di là delle critiche, un’ulteriore revisione della strategia rivoluzionaria in Italia che avrebbe nuovamente spaccato in due correnti il sindacalismo rivoluzionario. Da un lato De Ambris intraprese una strada opposta a quella indicata nell’«Azione Diretta» indicando la via per la creazione dell’unità tra tutte le forze intimamente rivoluzionarie ai fini della sostituzione delle istituzioni

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 122

politiche vigenti con un’organizzazione federale ispirata ai liberi comuni medievali, dall’altro i suoi oppositori, tra cui lo stesso Mussolini, accusarono la deviazione “politica” deambrisiana di aver tradito il sindacalismo puro, riproponendo cosi il vecchio dibattito sul tema dell’egemonia sindacale. Secondo De Ambris, come nota Umberto Sereni nel suo saggio sulle origini dell’interventismo rivoluzionario, «la grande novità delle “giornate rosse” stava nella dimostrazione dell’esistenza di ragioni politiche come potenziale fattore di un movimento rivoluzionario. Il terreno economico non esauriva le motivazioni dell’iniziativa delle forze interessate a rovesciare il sistema sociale»20. Questo mutamento strategico da parte di De Ambris avrebbe provocato, tra l’altro, un avvicinamento con certi settori del repubblicanesimo con i quali il rivoluzionario convergeva nella definizione della «meta a cui comunemente si tende» scorgibile nella formula del “meno Stato”, obiettivo raggiungibile sostituendo al centralismo il comunalismo, o almeno un largo federalismo regionale, e al parlamentarismo l’amministrazione diretta. Si trattava, dunque, di individuare un movimento dai caratteri inediti tramite cui, facendo salva la posizione centrale del sindacato e della classe proletaria, mirare alla conquista diretta dello Stato21. Impossibile, a questo punto, non scorgere una certa affinità di vedute con il programma sansepolcrista, specialmente mettendolo in relazione con un passo del discorso nel quale Mussolini afferma: «per quanto riguarda la democrazia economica, noi ci mettiamo sul terreno del sindacalismo nazionale e contro l’ingerenza dello Stato, quando questo voglia assassinare il processo di creazione della ricchezza»22.

12 In questo senso il fascismo pare aver assorbito quello che Sternhell ha definito come «l’aspetto più originale del contributo italiano alla teoria sindacalista rivoluzionaria»23 e cioè la revisione del marxismo sul terreno delle concezioni economiche. Secondo questa visione, l’obiettivo del sindacalismo rivoluzionario sarebbe stato quello di organizzare una «società di liberi lavoratori» nella quale, conseguentemente, il ruolo dello Stato sarebbe divenuto secondario. In questo senso la rivoluzione economica, agendo sulla struttura, avrebbe mutato anche la sovrastruttura supplendo, così, attraverso il sindacato, ai meccanismi deterministici teorizzati da Marx. A questo punto sarebbe emerso l’altro elemento di novità così decisivo per il futuro, e cioè la sostituzione del modello marxista della lotta di classe con quello corporativo basato sulla conseguente trasformazione dei proletari in “liberi produttori” che avrebbe aperto la strada sia alle teorizzazioni deambrisiane sia, soprattutto, alla costruzione delle basi ideologiche del primo fascismo. Ed ecco, quindi, innestarsi un ulteriore carattere che, sviluppatosi negli ambienti intellettuali del sindacalismo rivoluzionario d’età giolittiana soprattutto per mezzo di Georges Sorel, sarebbe stato trasmesso all’apparato ideologico-propagandistico del fascismo: la creazione dell’Uomo nuovo. E’ l’Uomo-nuovo, infatti, che nel sindacato, diventa il produttore, il depositario di un disegno altro della società in cui vorrà operare.

13 Il dibattito sul nuovo indirizzo da imprimere al sindacalismo rivoluzionario dopo i fatti della settimana rossa avrebbe, tuttavia, avuto vita breve essendo presto sostituito da quello incentrato sulle posizioni da assumere in merito alla prima guerra mondiale. Al momento dello scoppio della guerra, dopo l’iniziale posizione neutralista presa dall’Usi, si avviò un serrato dibattito interno in base alla constatazione di trovarsi davanti ad un conflitto diverso dai precedenti e nel quale erano in gioco le sorti dell’Europa, «un conflitto che avrebbe potuto segnare la vittoria del militarismo e del pangermanesimo, che avrebbe potuto rafforzare il capitalismo e bloccare il processo di emancipazione del

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 123

proletariato»24. Pur sottolineando l’ostilità nei confronti di ogni calcolo di egoismo nazionale e contro lo spargimento di sangue proletario per servire le cause colonialiste del capitalismo, De Ambris il 18 agosto 1914, durante un discorso tenuto nella sede dell’Unione sindacale milanese, si pronunciò a favore dell’interventismo causando la spaccatura interna all’Unione, la nomina a segretario di Borghi e la conseguente creazione del Comitato sindacalista milanese, cui aderì l’Unione sindacale milanese guidata da Filippo Corridoni, formata dagli elementi del sindacalismo rivoluzionario interventista fuoriusciti dall’Usi. Nell’ottobre 1914 Olivetti, Cesare Rossi, Michele Bianchi e Filippo Corridoni fondarono il Fascio Rivoluzionario d’azione Internazionalista. Nel programma esposto da De Ambris il 15 gennaio 1915 durante un comizio, questi qualificò l’interventismo del Fascio come «intervento di sovversivi, rivoluzionari e anticostituzionali […] che costituirà un passo avanti della causa della libertà e della rivoluzione»25. Tutti i sindacalisti rivoluzionari concordano ormai sul carattere potenzialmente rivoluzionario della grande guerra europea, tutti vedono un impegno per la nazione e non solo per lo stato borghese. E tutti coloro che si erano opposti all’intervento in Libia, compresi i capi degli scioperi antimilitaristi del 1911, compresi Corridoni e Mussolini, si gettano nella battaglia in nome della nazione26.

14 Per quanto riguarda la storia del socialismo mussoliniano il momento vero della svolta, tuttavia, non si situa nel passaggio dal neutralismo all’interventismo, per quanto drastiche ne saranno le conseguenze personali, quanto «nel tentativo di tradurre in pratica una linea più efficace al fine di inverare il suo antico sovversivismo»27. Mussolini pensava fosse giunto il momento di superare l’internazionalismo, nazionalizzando il socialismo pur facendolo “permanere a se stesso” e trovando una comunanza ideale con Olivetti. Quest’ultimo ribadì la necessità di affermare che la classe non sta contro ma entro la nazione, che la questione sociale non è questione internazionale ma anzi la massima questione nazionale, che la classe non nega la nazione ma vuole conquistarla, che tutti gli atteggiamenti fattivi e tutto il movimento operaio debbono essere costantemente subordinati ai supremi fini nazionali […] di definire chiaramente che vogliamo essere non dei simili, dei vicini e degli affini al partito socialista ufficiale ed alla vassalla Confederazione del lavoro, ma degli avversari e degli antagonisti irreducibili […], che Carlo Marx era una canaglia di generale tedesco in abito laico28.

15 Dal momento della fuoriuscita dei sindacalisti interventisti rivoluzionari dall’Usi si erano, dunque, poste le basi per la nascita di un “nuovo” sindacalismo alla cui base, esplicitamente elitaria ed aristocratica, non vi era tanto la negazione della lotta di classe quanto l’individuazione di un suo limite rappresentato dall’interesse generale della nazione. Alla base di questa concezione stava il principio secondo il quale le parti opposte, datori e prestatori di lavoro, avrebbero dovuto conciliare i loro conflitti qualora si fossero rivelati pericolosi per gli interessi della nazione. Da questa nuova tendenza sindacale sarebbe nata, nel giugno 1918 a Milano, l’Unione Italiana del Lavoro divisa nell’ala rossoniana, rivendicante un sindacalismo apolitico e apartitico, e nell’ala deambrisiana, fautrice di un’unità tra attività economica e attività politica29. Largo spazio acquistò, oltre alla forte connotazione nazionale del nuovo sindacato, la tematica della riconversione dell’economia di guerra e l’urgenza di una redistribuzione della ricchezza e dei beni di produzione nazionali teorizzando in questo contesto produttivistico il progetto di una collaborazione diretta tra lavoratori e datori di lavoro, rispondente a motivazioni economiche e di pacificazione nazionale. Gli scritti di De Ambris, del resto, dalle colonne della rivista «Il Rinnovamento» sembravano

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 124

indirizzati verso una “rivoluzione conservatrice”. Non stupisce quindi il fatto che lo stesso sindacalismo fascista nacque «in un certo senso proprio all’interno della Uil, dalla vicinanza al fascismo delle origini dell’ala repubblicano-deambrisiana». Del resto Mussolini dalle colonne de «Il Popolo d’ Italia» – unico giornale ad occuparsi del congresso milanese da cui nacque la Uil – non nascose la sua preferenza per l’impostazione deambrisiana. De Ambris e Mussolini intrattenevano ormai, nonostante dissapori e polemiche passate, rapporti di collaborazione che spinsero il primo «a intensificare i rapporti fino al punto di fornire sul piano programmatico un notevole contributo ai neonati Fasci di Combattimento»30 dichiarando di considerare, almeno fino al 1919, la nuova organizzazione, pur con tutti i suoi limiti, come «l’unico movimento politico italiano che contrasti con efficacia e con energia la gretta incapacità delle classi dirigenti e il demagogismo socialneutralista»31, e il secondo a pubblicare gli interventi e dare risalto alle attività della Uil come nel caso dell’articolo di Agostino Lanzillo, apparso il 13 maggio 1919 sul «Popolo d’ Italia» che, con un programma nettamente di sinistra elaborato dai Fasci milanesi, riproponeva la tesi dell’«esproprio necessario (o parziale)» teorizzato proprio da De Ambris ne «I problemi dell’ora» nel 1919. Durante il congresso costitutivo della Uil a contrapporsi fu, dunque, da un lato l’idea di un sindacalismo capace, gradualmente, di assorbire in sé le funzioni economiche e politiche proprie di un’organizzazione statuale e dall’altro l’impostazione, espressa da De Ambris e Livio Ciardi, basata su una rinuncia alle classiche prerogative antistatalistiche proprie del sindacalismo delle origini e l’avvio di un più intenso collegamento tra attività economica e politica, prefigurando in un certo senso quello che sarebbe stata l’idea del corporativismo fascista prima del suo irrigidimento nella forma di stato autoritario. Proprio quest’ultima tendenza attirò maggiormente l’attenzione di Mussolini che notava, così, la possibilità di contrapporre ad una Confederazione Generale del Lavoro asservita al Partito socialista ufficiale una Unione Italiana del Lavoro che, “depuratasi” del motivo antistatalista originario, accettando cioè «quella formidabile, complessa, enorme realtà che è lo Stato»32, rimaneva ancorata a quell’apoliticismo che avrebbe permesso l’inserimento politico del fascismo delle origini denunciato, del resto, dallo stesso Edmondo Rossoni. Quest’ultimo, infatti, in occasione del III Congresso nazionale della Uil, tenuto a Forlì nel 1919, sostenne polemicamente che, nonostante le dichiarazioni di apoliticità fatte proprie dall’unione, essa si presentava sempre di più alle masse come una «appendice dei partiti ostili al bolscevismo» causando il venir meno del motivo principale di distinzione dalla concorrente Confederazione generale del Lavoro33, cioè l’autonomia dalla politica. Del resto, proprio durante il discorso di fondazione dei fasci di combattimento di piazza San Sepolcro, Mussolini aveva espresso un chiaro appoggio nei confronti di quel sindacalismo impegnato nel dimostrare che «dalle masse si possono trarre gli uomini direttivi indispensabili e naturalmente capaci di assumere la direzione del lavoro»34 e che del resto dimostrava di tenere conto di due realtà imprescindibili per il fascismo: la realtà della produzione e quella della nazione.

16 La rottura tra Uil e fascismo si consumò, tuttavia, dopo le elezioni politiche del 1919 che segnarono il tentativo fascista di crearsi uno spazio a destra assumendo i connotati di “guardia armata della borghesia”. Lo esprime bene De Ambris riflettendo su come inizialmente «il programma del fascismo fosse francamente rivoluzionario» propugnando fra l’altro l’abolizione del Senato, la convocazione della Costituente, la formazione dei Consigli Nazionali del Lavoro con poteri legislativi, la giornata legale di otto ore, i minimi di paga, il controllo operaio dell’industria […], l’espropriazione

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 125

parziale di tutte le ricchezze», salvo poi cadere nella trappola della borghesia che «si dispose a fare del fascismo – raggruppamento di forze italianamente rivoluzionarie – il presidio della conservazione politico-sociale del paese, intesa come la conservazione della refurtiva accumulata nell’opera antinazionale e del privilegio di classe più odioso»35. D’altra parte già nel novembre del 1920 si era verificata un’importante scissione interna alla Uil che portò alla fondazione della Confederazione italiana dei sindacati economici che, nel gennaio del 1922, avrebbe cambiato nome in Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali alla cui segreteria generale fu chiamato Edmondo Rossoni, mentre parallelamente veniva fondata l’Alleanza del Lavoro che raccoglieva le tre sigle sindacali principali (Cgdl, Usi e Uil). La rottura tra sindacalisti rivoluzionari e fascismo era, dunque, dopo il tradimento fascista di Fiume e la spaccatura interna, ormai arrivata al suo culmine. Non bastava, a detta di De Ambris, «risolvere il problema coniando la frase di sindacalismo fascista o nazionale e copiando la Costituzione della Reggenza Italiana del Carnaro la denominazione di corporazioni […]; il sindacato può chiamarsi corporazione e può aggettivarsi fascista o nazionale fin che vuole: sarà sempre un’organizzazione d’interesse di classe in contrasto fatale con altri interessi di classe» avviandosi cosi a diventare «o un movimento trasformativo e rinnovatore […] o un gruppo politico di estrema destra, inutile duplicato del nazionalismo, come questo dichiaratamente reazionario, espressione di interessi egoisticamente rapaci»36. Questo duro giudizio, del resto, non farebbe che confermare quella tendenza storiografica inaugurata da Renzo De Felice volta a revisionare l’interpretazione dei rapporti tra esperienza fiumana e fascismo che, evidentemente, riguardano anche il tema da noi affrontato. Questa interpretazione, dunque, privilegia l’individuazione all’interno della vicenda fiumana di due fasi distinte, caratterizzate, nel caso della prima da una egemonia esercitata dagli ambienti nazionalisti, mentre nella seconda si individua una profonda influenza del sindacalismo rivoluzionario. Durante questa seconda fase, nota Perfetti, «iniziata con la nomina di De Ambris a Capo di Gabinetto del Comandante, sarebbe stata tentata la creazione di un ponte tra movimento fiumano e sinistre italiane, nel quadro di un progetto politico che avrebbe dovuto risolversi nella edificazione di uno Stato dall’impronta inequivocabilmente sindacalista ispirata alla Carta del Carnaro»37. Il fascismo, da questo punto di vista, non avrebbe fatto altro che attingere dall’apparato esteriore dell’esperienza fiumana svuotandola, invece, dei suoi esemplari progetti di democrazia sindacale. Questo dato è, dunque, essenziale per comprendere la scelta antifascista che avrebbe condizionato le successive tappe che portarono alla scissione interna alla Uil e alla costituzione della Confederazione italiana dei sindacati economici, guidata da Rossoni.

17 Il 21 aprile 1921, al Congresso regionale di Bologna fu siglato l’atto di nascita ufficiale del sindacalismo fascista che, secondo Rossoni, si sostanziava della necessità da parte dello Stato di rendere la struttura sindacale partecipe del potere legislativo nel campo dei problemi del lavoro essendo esso l’unico strumento per fare aderire le masse lavoratrici allo Stato nazionale. Ma Rossoni aveva un progetto ancora più ambizioso, e lo espose in occasione del Convegno interregionale dei sindacati nazionali tenuto il 10 ottobre 1921 quando manifestò l’avvertita necessità di dare vita ad un organismo sindacale nazionale superando le divergenze tra sigle sindacali e coinvolgendo, quindi, in questa nuova struttura tutti i sindacati nati in affinità con il fascismo e dirigendo la loro attività verso nuove conquiste economiche associate ad una emancipazione morale e spirituale del popolo italiano38. La questione sarebbe, dunque, stata riproposta in occasione del Congresso costitutivo del PNF, tenuto a Roma nel novembre 1921 durante

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 126

il quale il metodo corporativo venne finalmente riassunto nel conseguimento della fascistizzazione dell’organizzazione sindacale che, quindi, avrebbe dovuto mirare programmaticamente all’eliminazione della lotta di classe, alla subordinazione dell’interesse individuale e di gruppo all’interesse della Nazione e proponeva, inoltre, una sostanziale conformità dell’organizzazione sindacale alle direttive politiche del partito. I rapporti tra partito e sindacato si sarebbero rafforzati ancor di più quando, nel gennaio 1923, la direzione del PNF dichiarò l’incompatibilità tra qualità di fascista e appartenente ad un organismo sindacale non facente parte della Confederazione delle corporazioni. A sancire definitivamente il carattere del sindacalismo fascista sarebbe giunto il riconoscimento all’unanimità di un ordine del giorno presentato al Gran Consiglio da Rossoni e Farinacci, che vedeva nelle Corporazioni sindacali uno degli aspetti della rivoluzione nazionale fascista pur respingendo ogni monopolio sindacale. Questa posizione fu ribadita in occasione della seduta del Gran Consiglio del maggio 1923 durante la quale il massimo organo dello Stato fascista negava nuovamente la tendenza alla realizzazione di un monopolio sindacale.

18 Inserendosi nel dibattito in merito al “sindacalismo integrale” elaborato da Rossoni, mirante ad integrare nell’organizzazione corporativa datori di lavoro e prestatori d’opera, ma divergendo da esso quanto al ruolo del partito all’interno dell’attività sindacale, Olivetti, appoggiato da Mussolini – soprattutto nel periodo in cui la crisi sindacale successiva al delitto Matteotti faceva propendere il capo del fascismo per una separazione del sindacato dal partito e per una conseguente defenestrazione di Rossoni – contribuì al dibattito sulla riforma sindacale in quanto aderente alla Commissione dei quindici nominata dal Governo nel gennaio del 1925. All’interno della Commissione, Olivetti si sarebbe quindi contrapposto a Rossoni propugnando l’idea di «una libertà associativa e sindacale che avrebbe dovuto condurre ad una graduale formazione corporativa» contrapposta all’idea rossoniana di un «monopolio sindacale, cioè del riconoscimento per ogni categoria, da parte dello Stato, di un solo tipo di sindacato operaio e di un solo tipo di sindacato padronale»39. A prevalere erano le tesi olivettiane, che godevano anche dell’appoggio esterno dello stesso Mussolini, il quale incoraggiava l’attività di Olivetti soprattutto tramite la pubblicazione degli articoli di quest’ultimo sulle colonne del «Popolo d’Italia». Tuttavia, la crisi delle relazioni tra industriali e fascismo ribaltarono la situazione. La crisi, in particolare, fu causata dalle proteste dei primi per la polemica anti-industriale delle corporazioni e dalle pretese di queste ultime non solo di assicurarsi un ruolo determinante sul piano costituzionale, ma anche di sostituire le commissioni interne con i fiduciari di fabbrica e culminate con l’accordo Fiat tra industria e comunisti in merito alla vertenza relativa alle commissioni interne. A questo punto Mussolini decise di optare per la creazione di un regime di monopolio sindacale e per il varo della legge sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro. Il 2 ottobre 1925 venne firmato il Patto di Palazzo Vidoni che stabiliva il riconoscimento reciproco della Confindustria e della Confederazione dei sindacati fascisti come unici ed esclusivi rappresentanti degli imprenditori e dei lavoratori. Neanche la promulgazione della Carta del Lavoro del 1927 avrebbe fatto cambiare idea sul sostanziale fallimento dell’idea corporativista a causa della persistenza di «confederazioni generiche, universalistiche e schematiche tagliate giù con l’ascia in base a confini e definizioni verbali» e che, pervase dallo spirito della lotta di classe e di un’anima politica nonostante il ruolo dello Stato, «non sono corporazioni, anzi la negazione delle corporazioni e perciò dello Stato Corporativo»40.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 127

19 Alle polemiche olivettiane, del resto, lo stesso Mussolini risponderà in forma privata41 ammettendo i limiti della manovra, giustificandosi con la grande confusione dovuta proprio al fatto di non trovarsi ancora in un regime corporativo e, quindi, in un contesto soggetto a contrasti di interesse e promettendo, nel contempo, successivi perfezionamenti che poi, effettivamente sopraggiunti, non sarebbero serviti comunque a dare una fisionomia pratica allo Stato corporativo. Questa era del resto la percezione anche dei più accesi sostenitori del corporativismo, che, infatti, già nel periodo successivo al 1934, come sostiene Santomassimo, notavano come si andasse «diffondendo un intervento statale “non corporativo”, che si muoveva al di fuori delle istituzioni corporative stesse, e che non differiva molto da quello di tutti gli altri paesi capitalistici e che poteva perciò non dispiacere ai liberisti»42 . Probabilmente, proprio perché, come sottolineato da De Ambris nel suo testamento politico del 1934 dal titolo Dopo un ventennio di rivoluzione. Il corporativismo, lontano da quel «corporativismo liberale» e troppo vicino a «quello profondamente illiberale e reazionario» del fascismo che allo Stato corporativo aveva preferito uno «Stato di polizia che aveva ridotto l’Italia in un carcere immenso»43.

20 Nonostante ciò Carlo Pinzani faceva notare come «nessun altro fenomeno italiano, dopo la fondazione del Regno d’Italia ha mai ricevuto altrettanta considerazione all’estero quanto il corporativismo»44. Proprio mentre all’estero il corporativismo fascista e autoritario si poneva ormai come modello esemplare, in Italia c’era chi scorgeva in quanto realizzato nulla più che una premessa di ciò che il corporativismo sarebbe dovuto diventare. Berto Ricci, esponente di spicco del cosiddetto “fascismo di sinistra”, nel 1935 teneva infatti a precisare che «le parole Stato corporativo […] implicano l’intero governo della produzione e l’intera revisione della distribuzione: cioè presumibilmente la fine della borghesia patrimoniale e della ricchezza improduttiva, la sintesi tecnica-capitale-lavoro […] la trasformazione radicale dei concetti di proprietà e d’impresa»45. Nonostante tutto, insomma, continuava ad essere presente all’interno del fascismo, seppur in limitate aree culturali, la speranza di realizzare alcune delle istanze proprie del sindacalismo d’azione diretta. Questo, sorto molti anni prima e in un contesto sociale e politico del tutto diverso, auspicava la creazione di una società modellata sulle esigenze della classe lavoratrice. Tuttavia, nel frattempo, esso aveva perso la sua natura di classe in attesa di una redenzione rivoluzionaria, coniugandosi con il più conciliante mito della nazione prima, della Nazione-fascista poi.

NOTE

1. BERTOZZI, Massimo (a cura di), Sindacalismo rivoluzionario. Quale approccio storiografico?, , Pacini Editore, 1980, p. 5. 2. Ibidem. 3. Ibidem, pp. 66-67. 4. STERNHELL, Zeev, La nascita dell’ideologia fascista, Milano, Dalai Editore, 2008.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 128

5. Alceo Riosa, in proposito, noterà infatti come «se si propone il rapporto sorelismo- volontarismo-irrazionalismo-fascismo, tale discorso vale molto meno per il nostro sindacalismo rivoluzionario, in quanto la componente irrazionalista e volontaristica c’è, ma fino ad un certo punto […] sul piano pratico, sul piano delle lotte concrete continuo ad avere l’impressione che la storia del sindacalismo rivoluzionario è in Italia una storia delle occasioni mancate». Cit. in BERTOZZI, Massimo (a cura di), op. cit., p. 71. 6. ANTONIOLI, Maurizio, MASINI, Pier Carlo, Il sol dell’avvenire. L’anarchismo in Italia dalle origini alla I guerra mondiale, Pisa, Bfs Edizioni, 1999, p. 88. 7. «Après le Congrès de Rome, 20 octobre 1906» in Le Libertaire, 12-18 novembre 1906. 8. FURIOZZI, Gian Biagio, Alceste De Ambris e il sindacalismo rivoluzionario, Milano, FrancoAngeli, 2002, p. 11. 9. LONGHI, Enrico Servetti, Alceste De Ambris. L’utopia concreta di un rivoluzionario sindacalista, Milano, Franco Angeli, 2011, p. 27. 10. FURIOZZI, Gian Biagio, op. cit., p. 29. 11. Ibidem, p.40. 12. DE FELICE, Renzo, Mussolini, il rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1965, p. 104. 13. FURIOZZI, Gian Biagio, op. cit., p. 53. 14. OLIVETTI, Angelo Oliviero, Dal sindacalismo rivoluzionario al corporativismo, Roma, Bonacci, 1984, pp. 39-40. 15. ORANO, Paolo, Il fascismo, vigilia sindacalista dello Stato corporativo, Roma, Pinciana, 1939, pp. 53-54. 16. OLIVETTI, Angelo Oliviero, op. cit., p. 19. 17. FURIOZZI, Gian Biagio , op. cit., p. 66 18. DE FELICE, Renzo, op. cit., pp. 41-42. 19. MUSSOLINI, Benito, Opera omnia, vol.34, Firenze, La Fenice, 1961, p. 122. 20. SERENI, Umberto, «Alle origini dell’interventismo rivoluzionario», in Ricerche storiche, XI, 23, 2/1981, pp. 535-536. 21. Ibidem, p. 537. 22. SCHWARZENBERG, Claudio, Il sindacalismo fascista, Milano, Mursia, 1973, p. 14. 23. STERNHELL, Zeev, op. cit., p. 197. 24. OLIVETTI, Angelo Oliviero, op. cit., p. 46. 25. FURIOZZI, Gian Biagio , op. cit., p. 76. 26. STERNHELL, Zeev, op. cit., p. 237. 27. SETTEMBRINI, Domenico, Fascismo controrivoluzione imperfetta, Firenze, Sansoni, 1978, p. 75. 28. OLIVETTI, Angelo Oliviero, op. cit., pp. 55-56. 29. Ibidem, pp. 55-56. 30. Ibidem, p. 58. 31. DE AMBRIS, Alceste, «Sempre e più che mai sindacalisti», in Il Rinnovamento, 31 maggio 1919, p. 308. 32. PERFETTI, Francesco, Fiumanesimo, sindacalismo e fascismo, Roma, Bonacci Editore, 1988, p. 64. 33. Ibidem, pp. 65-68. 34. SCHWARZENBERG, Claudio, op. cit., p. 14. 35. DE FELICE, Renzo, Sindacalismo rivoluzionario e fiumanesimo, Brescia, Morcelliana, 1966, p. 331. 36. Ibidem. 37. Ibidem, p. 10. 38. SCHWARZENBERG, Claudio, op. cit., p. 16. 39. OLIVETTI, Angelo Oliviero, op. cit., p. 85. 40. Ibidem, pp. 97-99. 41. Ibidem.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 129

42. SANTOMASSIMO, Gianpasquale, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Roma, Carocci, 2006, p. 221. 43. FURIOZZI, Gian Biagio , op. cit., p. 87. 44. SANTOMASSIMO, Gianpasquale, op. cit., p. 181. 45. Ibidem, p. 185.

RIASSUNTI

Il sindacalismo rivoluzionario italiano influì sulla formazione dell’ideologia fascista. Rappresentò per lungo tempo un punto di contatto tra fascismo e ambienti rivoluzionari italiani, utile tanto nelle fasi di ascesa al potere quanto nel mantenimento di un volto rivoluzionario anche nella sua fase autoritaria. Ma, nel frattempo, il sindacalismo rivoluzionario aveva perso gran parte della propria identità, perdendosi in percorsi che ne avrebbero contraddetto alcuni suoi fondamentali capisaldi ideali.

The Italian revolutionary syndicalism influenced the formation of the fascist ideology. For a long time, it had been a link between fascism and revolutionary circles in italy, useful for both the rise of fascist power during the early stages, and the maintaining of a revolutionary face during its authoritarian phase. But at the same time, the revolutionary syndicalism lost much of its own identity, getting lost in paths which would have contradicted some of his ideal cornerstones.

INDICE

Parole chiave : corporativismo, fascismo, interventismo, riformismo, sindacalismo rivoluzionario Keywords : corporatism, fascism, interventism, reformism, revolutionary syndicalism

AUTORE

MARCO MASULLI Laureato in Storia presso l’Università degli studi di Messina ed è laureando in Scienze storiche presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca vertono sul movimento operaio, anarchico e sulle origini del fascismo.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 130

Fragmentación política del centrismo Español, 1981-1982 De la UCD al CDS en el caso de Zamora

Darío Diez Miguel

NOTA DEL EDITOR

Este artículo se enmarca dentro del proyecto de tesis doctoral titulado “Adolfo Suárez y el Centro Democrático y Social: 1982-1991”, tutelada por el profesor titular de la Univ. de Valladolid José-Vidal Pelaz López. La base de este trabajo son las fuentes primarias de UCD existentes en el Archivo Histórico-Provincial de Zamora (AHPZ), fondo UCD, de aproximadamente 80 cajas y varios vademécum. Dicho fondo ha sido clasificado ex profeso en el marco de esta investigación, si bien, está a expensas de ser inventariado definitivamente por parte del AHPZ. A lo largo de este trabajo, se han omitido los nombres propios de algunos miembros de la UCD de Zamora, cuando se ha considerado que podía ser doloso u ofensivo para los mismos y no afectaba a nuestra argumentación. Con anterioridad, este fondo ha sido trabajado por GONZÁLEZ CLAVERO, Mariano, Fuerzas Políticas en el Proceso Autonómico de Castilla y León 1977-1983, Tesis Doctoral, Univ. de Valladolid, 2002.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 131

1 En nuestro estudio, recorreremos los últimos compases de la Transición española, centrándonos en la trayectoria del partido político en el gobierno, la UCD, creada en el entorno del presidente Adolfo Suárez hacia 1977.

2 La UCD fue un conglomerado heterogéneo de familias ideológicas y políticas que aglutinaba a democristianos, socialdemócratas, liberales y con una fuerza singular, a los sectores reformistas del régimen franquista. A pesar de los éxitos electorales de 1977 y 1979, no se consiguió lograr la consolidación de este partido político, que desapareció en 1983 tras un largo período de tensiones internas, recrudecidas al hilo de la dimisión de Suárez a comienzos de 1981 y su abandono definitivo de UCD apenas un año después para fundar el CDS. A través de la exposición de este estudio de caso, esperamos contribuir a la comprensión de este complejo proceso, la crisis de UCD, que afectó sensiblemente a la consolidación del sistema de partidos español.

3 A día de hoy, el debate historiográfico acerca de la entidad de UCD como partido político permanece abierto. Si para algunos la UCD fue una herramienta política que únicamente podía servir para llevar a cabo la Transición, para otros la consolidación hubiera sido posible si el comportamiento político de sus miembros hubiese sido distinto1. Sin embargo, a pesar de la cantidad de estudios referentes a UCD, no es exagerado afirmar que su análisis ha recibido un tratamiento historiográfico desigual. Aunque el papel político de UCD ha sido espléndidamente sintetizado por numerosos autores2, persiste cierto vacío, en el estudio de la intrahistoria del partido en los niveles provinciales y locales3. Asimismo, los partidos surgidos de la descomposición centrista, como el CDS, el PDP o el PAD, apenas han suscitado el interés de los investigadores, biógrafos o periodistas4. La explicación más plausible a estas ausencias, no sólo tiene que ver con lo reciente de estos fenómenos, también nos habla de que las fuentes primarias para el análisis de esta realidad no son muy abundantes y las existentes no han sido objeto de un estudio sistemático hasta el momento.

4 De este modo, a la hora de analizar las causas de la fractura de la UCD en Zamora y su relación con la constitución del CDS en la provincia, durante el verano de 1982, nos hemos encontrado con la inexistencia de trabajos específicos5. En el transcurso de nuestra investigación, por un lado, ha resultado revelador el análisis de las trayectorias de quienes encabezaron la gestación a nivel local-provincial del nuevo partido de Adolfo Suárez, – el CDS –, a lo largo de sus dos últimos años de pertenencia a UCD. Por otra parte, el marco teórico desarrollado por Jonathan R. Hopkin en su análisis de la descomposición de UCD nos ha proporcionado sugerentes claves interpretativas para abordar los distintos sucesos que tuvieron lugar6.

1. Génesis de la crisis en la UCD zamorana

5 La UCD había resultado vencedora indiscutible en los procesos electorales de 1977 y 1979 celebrados en Zamora, con unos porcentajes7 que superaban holgadamente la media nacional, erigiéndose en el grupo político más poderoso de la provincia. En 1977,

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 132

UCD obtuvo en Zamora un 46,59%, frente a un 34,44% a nivel nacional; en 1979, alcanzó el 50, 57% frente a un 34,84%. Incluso, en las elecciones de 1982, Zamora fue una de las pocas provincias donde UCD obtuvo representación, gracias a la elección como diputado de Luis Ortiz González. Los diputados y senadores electos por Zamora en 1977 y 1979 fueron:

DIPUTADOS 1977 SENADORES 1977

UCD JOSE A.OTERO MADRIGAL UCD VALERIANO ENRÍQUEZ GONZÁLEZ

UCD MODESTO ALONSO PELAYO UCD VICTOR M. CARRASCAL FELGUEROSO

AP FEDERICO SILVA MUÑOZ UCD LUIS RODRÍGUEZ SAN LÉON *

PSOE DEMETRIO MADRID LOPEZ PSOE MANUEL ALONSO NOVO

DIPUTADOS 1979 SENADORES 1979

UCD VICTOR M. CARRASCAL FELGUEROSO UCD LUIS RODRÍGUEZ SAN LÉON *

UCD CESAR MARTIN MONTES * UCD RICARDO RODRÍGUEZ CASTAÑÓN

UCD JESUS PEREZ LOPEZ *8 UCD ONÉSIMO LÓPEZ CHILLÓN

PSOE DEMETRIO MADRID LOPEZ AP CARLOS PINILLA TURIÑO

6 Fue precisamente en este contexto de éxito político, el momento en el que se gestó el origen de la futura división y descomposición del partido a nivel provincial. El grupo de UCD Zamora evidenciaba síntomas de desunión desde 1979, apenas año y medio después de la formalización definitiva de sus órganos de gobierno, cuando el diputado Víctor Carrascal Felgueroso fue elegido presidente en la II Asamblea Provincial9 del partido, con la ausencia de más de la mitad de los convocados y la negativa del antiguo presidente provincial, Luis Rodríguez San León10 a ser incluido en las listas. Luis Rodríguez San León había presentado su dimisión el 3 de mayo de 197911, poco después de ser elegido senador por UCD en la circunscripción zamorana. Sobre, la nueva dirección política del partido en Zamora comentaba un destacado dirigente centrista: A. No, no existían [las baronías], curiosamente vinieron a continuación. Es decir, de los que estaban que subieron a la ejecutiva en la asamblea siguiente [1979] […] es ahí donde comenzó el primer error y la primera caída de la UCD provincial […] la historia de este país es que todo el mundo quiere ser diputado, pero por ej. los que crearon la UCD, todo el mundo quería ser diputado por Madrid, pero claro, el presidente Suárez decía, bueno, es que en la lista de Madrid son 25, yo lo que no puedo hacer es meter a 48 […] todo lo que ha ocurrido en UCD es una razón completamente personal […] Q. Entonces en estas luchas no fue muy importante asuntos ideológicos ni de organización. Simplemente la lucha por el poder. A. La lucha por el poder…12

7 La situación de la UCD en Zamora, hacia 1979, estaba atravesada por una fractura política entre el cuadro directivo saliente (encabezado por Luis Rodríguez San León) y

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 133

el entrante, (con Víctor Carrascal Felgueroso al frente), que asimismo dividió a las bases y cargos electos del partido durante los años siguientes. La lucha por el control del aparato provincial y los problemas en la composición de las listas electorales fueron las causas subyacentes de este distanciamiento.

8 En 1981, las diferentes tensiones existentes dentro de la UCD, más o menos soterradas hasta entonces, estallaron a raíz de la dimisión del presidente y líder centrista, Adolfo Suárez, a finales de enero; una dimisión, en la que se entremezclaban, por un lado, la contestación interna en el seno de su propio partido y por otra parte, la fuerte oposición del PSOE, el distanciamiento de la Corona, la presión de los “poderes fácticos”, etc. El ambiente de división en UCD tuvo su reflejo en el II Congreso Nacional, (celebrado entre el 6 y el 8 de febrero de 1981), en el que mostraron su fuerza dos grandes corrientes13: la oficialista/suarista/aparato de UCD, – que consiguió la presidencia del partido para Agustín Rodríguez Sahagún y la secretaría general para Rafael Calvo Ortega14–, y los llamados “críticos” (de tendencia más conservadora). Aunque primó la posición suarista, era imposible obviar el fuerte ejercicio de contestación interna. Asimismo, en aquellas fechas, se confirmó a Leopoldo Calvo- Sotelo como relevo del dimisionario Adolfo Suárez en la presidencia de gobierno15.

9 En el ámbito provincial, a comienzos de julio de 1981, tuvo lugar un proceso de renovación de cargos que repitió en sus formas y enfrentamientos lo sucedido a nivel nacional, si bien, con algunos matices particulares. La preparación de la III Asamblea Provincial de Zamora, celebrada en julio de 1981, ahondó la división existente en la provincia. Los dos bloques que se habían fraguado en 1979 dentro del partido estaban a la altura de 1981 perfectamente perfilados y presentaron sus listas respectivas en abierta oposición16. Por un lado, se presentaba una lista apoyada por quienes habían llevado las riendas de la UCD en Zamora desde 1979, entre ellos el presidente provincial Víctor Carrascal Felgueroso17. Al frente de esta lista se encontraba el Ministro de Obras Públicas, Luis Ortiz González, uno de los hombres de gobierno más cercanos a Leopoldo Calvo-Sotelo. Frente a ellos, se había constituido una auténtica plataforma opositora auspiciada por aquellos que no participaron en la II Asamblea Provincial18. Estaban encabezados por el senador Luis Rodríguez San León, los diputados César Martín Montes, Jesús Pérez López y el Presidente de la Diputación Provincial, José Miguel López Martínez, quienes entre junio y julio de 1981 firmaron una serie de artículos en El Correo de Zamora en los que presentaban sus propuestas de renovación de los órganos de gobierno provinciales19: La lista ahora llamada “oficialista” (observen la paradoja), para la que se obtuvieron refuerzos foráneos mediante el aterrizaje de conocidos políticos madrileños […] De cara a la asamblea del 5 de julio las posiciones están tomadas. Continuismo o renovación. Colonialismo o autonomía política provincial20.

10 Sobre Luis Ortiz añadían, «no nos dice qué motivaciones de conciencia le indujeron a acordarse de Zamora, precisamente de Zamora, para el ejercicio de su misión salvadora»21. A diferencia de lo que ocurría en el resto de España, en Zamora, el enfrentamiento político en el seno de UCD se identificaba sólo parcialmente con “el oficialismo” y con “el sector crítico”. Como vemos, las luchas de poder a nivel local y provincial entre los líderes de la UCD cobraron forma en base a la polémica entre los que se consideraban defensores de los intereses de Zamora frente a los políticos colocados desde Madrid -cuneros-, y sólo a posteriori, desembocaron en la vinculación de los dos bloques a unas u otras de las familias del partido, en función de su afinidad ideológica. El grupo encabezado por Luis Rodríguez San León se posicionaba

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 134

políticamente en abierta discrepancia con el llamado sector crítico y apostaba por el resurgir, desde la UCD, de una oferta política de centro-centro22, en sintonía con los hombres más cercanos de Adolfo Suárez. Sin embargo, su poder no residía tanto en la presión del aparato suarista del partido, como en la importancia de los cargos que desempeñaban y su capacidad de influencia a nivel local y provincial.

2. De los últimos intentos de integración a la división definitiva

11 Los resultados de la II Asamblea Provincial de Zamora depararon una apretada victoria, – 247 votos frente a 21723 –, de la lista encabezada por Luis Ortiz González, quien se convirtió en el nuevo presidente de la UCD zamorana, junto a él, José Díez de Ulzurrun Mosquera, resultó elegido secretario general, apoyados por el ex presidente provincial Víctor Carrascal Felgueroso. Asimismo, como miembros con voz pero sin voto de la nueva ejecutiva –en tanto que parlamentarios de la provincia – se encontraban Luis Rodríguez San León, Jesús Pérez López y César Martín Montes24. A partir de entonces, la situación en la UCD de Zamora, se fundió totalmente con la del centrismo nacional y el pulso político del grupo centrista provincial pasó a ser un reflejo sintomático de la convulsa situación de la UCD entre los años 1981 y 198225.

12 En el otoño de 1981, tuvo lugar la dimisión del sector socialdemócrata del partido centrista, tanto a nivel nacional, como provincial. Ricardo Rodríguez Castañón26, senador socialdemócrata por Zamora, comunicaba oficialmente su renuncia a la militancia centrista indicando explícitamente que la situación del partido en Zamora, «no puede sustraerse a la realidad del Partido a nivel Nacional»27. La marcha de la facción socialdemócrata se solapaba con los cambios en la presidencia/secretaría general de UCD de noviembre del 198128, tras el fracaso centrista en las elecciones autonómicas gallegas. Leopoldo Calvo-Sotelo se hacía cargo del partido, en lugar de Agustín Rodríguez Sahagún, e Íñigo Cavero recalaba en la secretaría general sustituyendo a Rafael Calvo Ortega. De este modo, el sector suarista era relegado del poder.

13 La reunión del Comité Ejecutivo Provincial celebrada con posterioridad a estas dimisiones y encabezada por el ministro Luis Ortiz González, consciente de la peligrosa situación que se estaba generando, trató de quitar hierro a los problemas mostrando su total afinidad a la nueva dirección del partido: «es necesario transmitir la situación de noramalidad [sic] a todos los sectores de nuestra provincia»29. A aquella reunión del Comité Ejecutivo no asistieron ni Jesús Pérez López, ni César Martín Montes30; por aquellas fechas, miembros del sector suarista comenzaron a ausentarse también de las reuniones de la ejecutiva nacional31. Sin embargo, todavía había una posibilidad de convergencia de intereses entre las dos facciones.

14 Por un lado, de aquellas reuniones de la ejecutiva provincial se trasluce que la mayor preocupación era evitar que se consumase la división del partido existente en la provincia, con el fin de no perjudicar aún más al partido/gobierno estatal32, – hemos de recordar que el presidente provincial Luis Ortiz González era en ese momento ministro de Obras Públicas del gobierno de Leopoldo Calvo-Sotelo, a su vez, presidente del partido centrista. Por otra parte, en la dialéctica entre aumentar su presencia en los órganos directivos del partido o abandonarlo definitivamente, al hilo de los desarrollos

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 135

teóricos de J. Hopkin aplicados a UCD – el grupo del senador Luis Rodríguez San León estaba en condiciones – debido a la importancia de sus cargos y su liderazgo a nivel provincial/local, de exigir nuevas fórmulas de participación: Tras largas y extensas conversaciones con los Parlamentarios Luis Rodríguez San León, César Martín Montes y Jesús Pérez López, y con el Presidente de la Diputación, para tratar de llegar a un acuerdo en el que se lograra la plena integración de estos en el seno del Partido, se ha elaborado un documento que se somete a consideración de este Comité Ejecutivo para que adopte los acuerdos correspondientes33.

15 En este documento, se proponía la creación de un Comité de Coordinación y Acción Provincial que contase con la presencia de todos los grandes cargos provinciales y tuviese destacados poderes en la formación de las listas (una de las cláusulas requería la inclusión de los parlamentarios electos en 1979 en las futuras listas de forma automática). Aunque se realizó una votación que resultó favorable a la formación del nuevo Comité – salvo el apartado referente a la inclusión, por defecto, de los parlamentarios elegidos en 1979 en las nuevas listas – esta fórmula de integración, consensuada en cierto modo por ambas facciones, llegó demasiado tarde; suponía el último intento, al margen ya de las fórmulas estatutarias, de integración política. Una anotación a mano, junto al acta de aquella reunión resumía el estado de ánimo dentro del partido: «Desde UCD, no podemos permitirnos el lujo de pregonar la democracia, el progreso, la paz. Yo pido a todos, generosidad, y que nadie se mire a sí mismo, sino a los demás. Ni vencedores, ni vencidos. No todos los problemas están resueltos»34.

16 En las semanas siguientes, el bloque de parlamentarios enfrentado a la cúpula provincial35 acentuó sus actividades como un grupo autónomo, cada vez más abiertamente explícito en sus acusaciones al ejecutivo centrista, identificado con la dirección provincial del partido36 […] ha ignorado, marginado, y menospreciado al Presidente del Partido, y a los Parlamentarios, cargos Provinciales y Locales, miembros del Comité Ejecutivo y militantes en general que no forman parte del grupo perdedor en la Asamblea Provincial de 1981, que encabeza el Senador D. Luis Rodríguez San León quien recientemente abandonó UCD para incorporarse al nuevo Partido Centro Democrático y Social […] Tal connivencia, que ya quedó apuntada en el apartado anterior, se ha materializado en numerosas visitas realizadas por ambos a pueblos de la Provincia; visitas […] a las que nunca fueron invitados el Presidente o Secretario Provincial del Partido, Parlamentarios del otro grupo etc. Estas visitas han quedado reflejadas sobradamente, en la radio y prensa local […]37

17 De este modo, los posicionamientos de ambos grupos, a la altura de la primavera de 1982 estaban perfectamente clarificados. El Comité Ejecutivo Provincial se identificaba con la política gubernamental y la gestión de UCD por parte de Leopoldo Calvo-Sotelo; por su parte, el grupo encabezado por Luis Rodríguez San León, partidario del centro- centro, agotó definitivamente la búsqueda de una alternativa integradora en el seno de la UCD provincial, expresión de “voz”, al encontrar un nuevo cauce de representación política junto a otros cuadros provinciales de UCD, a nivel nacional, a lo largo de junio y julio de 1982, cuya demanda principal era la vuelta de Adolfo Suárez a la presidencia del partido38. Leopoldo Calvo-Sotelo, tras el fracaso de las elecciones andaluzas de mayo del 82’, había cedido la presidencia de UCD a Landelino Lavilla. La situación del partido de gobierno, a esas alturas, era desesperada, teniendo lugar incluso unas últimas negociaciones entre Suárez, Calvo-Sotelo y Lavilla que no dieron ningún resultado.

18 La “opción de salida” primó sobre cualquier otra solución cuando el líder centrista, Adolfo Suárez, abandonó UCD y creó el CDS, institucionalizando esta mezcla de

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 136

suarismo y malestar político existente en el verano de 198239. Así, la creación de este nuevo partido permitió dar una solución razonable a las numerosas luchas de poder enquistadas en el conglomerado centrista, cuyas causas, como estamos viendo se remontaban años atrás: ANTE LA CRISIS DE UCD [doble subrayado] […] CONSCIENTES [subrayado] de que las causas originantes de estos hechos son de índole muy diversa, y vienen de tiempo atrás sin que puedan reconducirse a una sola por la heterogeneidad de las mismas40.

19 Cuando se impuso “la opción de salida” sobre la negociación, las relaciones en el seno de UCD-Zamora estaban muy deterioradas y es difícil achacarlas a cuestiones meramente ideológicas. Las bajas de Luis Rodríguez San León41, César Martín Montes, Jesús Pérez López y José Miguel López Martínez estuvieron acompañadas de dimisiones y expulsiones de UCD a lo largo de toda la provincia42, habiéndose identificado más de una decena de incoaciones de expedientes por parte del Comité de Disciplina Provincial, resueltas definitivamente en una reunión mantenida el 9 de agosto de 198243. Las acusaciones versaban sobre todo acerca de la pertenencia de los militantes expulsados a la órbita de Luis Rodríguez San León y por ende, al naciente CDS: «está llevando a cabo una política de desprestigio del actual aparato del Partido [….] y en apoyo, de la política que actualmente está llevando el Presidente de la Diputación y el ex-Senador de UCD [Luis Rodríguez San León]»44; «recorre la Provincia […] en nombre del ex-senador de nuestro Partido, añadiendo que es quien manda en la Provincia»45; «siempre ha sido un hombre muy adicto a cierto ex-Senador de nuestro partido»46; «es persona que sigue totalmente la línea que le marca el nuevo Partido del Duque»47.

20 El día 7 de agosto tenía lugar el primer acto del CDS en la provincia, en el que estuvieron presentes Luis Rodríguez San León, quien encabezaba el grupo, César Martín Montes y Jesús Pérez López y, como representante a nivel nacional, Agustín Rodríguez Sahagún48. El evento se celebró apenas una semana después de la presentación nacional del CDS en el Hotel Ritz de Madrid. La celeridad en la formación del CDS de Zamora confirmaba la existencia de un grupo perfectamente delimitado, homogéneo y clarificado en la UCD zamorana, cuya división era previa a la escisión suarista. Posteriormente, y tras la adhesión al naciente CDS zamorano de José Miguel López Martínez49, se creó la comisión gestora del partido a nivel provincial50, con el fin de presentar oficialmente las candidaturas para las inminentes elecciones que iban a tener lugar en el otoño de 198251.

3. Conclusión

21 El presente artículo ha pretendido analizar el papel que las luchas de poder político a nivel provincial tuvieron en la génesis de la descomposición del partido ucedista y el nacimiento del CDS, y lo hemos hecho, resaltando el valor y la utilidad del marco teórico desarrollado por J. Hopkin. En un primer momento, en el caso de Zamora, la lucha por el control político de las estructuras centristas provinciales se entremezcló con un discurso en el que se oponía a los llamados cuneros con los considerados auténticos defensores de los intereses zamoranos. Sin embargo, al hilo del agudizamiento de la crisis nacional de UCD, dichos grupos hubieron de tomar partido por las distintas familias que operaban en el conglomerado centrista. Si al principio, primó la búsqueda de soluciones políticas o “expresiones de voz” (la presentación de dos listas a la III Asamblea de UCD-Zamora, la propuesta de creación de un Comité de

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 137

Coordinación, etc.), posteriormente, fue la salida del partido la fórmula más viable para solventar el enfrentamiento político.

22 Podemos concluir, a partir de este estudio de caso, que resulta equívoco afirmar que a nivel provincial fue la diversidad ideológica la principal causa de la descomposición centrista. La mímesis entre el proceso de descomposición nacional y provincial aunque real, lo es más en sus estrategias y ritmos, que en sus motivaciones, pergeñadas de adhesiones personales y clientelares, retóricas localistas, etc. En el caso de la formación del CDS, hemos visto, como la constitución política del suarismo trascendió también la pura discrepancia política e ideológica, solapándose a un proceso de división de las elites políticas locales que lo antecedía temporalmente. Finalmente, a lo largo de este proceso, hemos pretendido resaltar algunos detalles acerca del modus operandi de un partido, que a pesar de gobernar durante más de cinco años, apenas ha dejado testimonios documentales y es que, el precipitado ocaso político de UCD se llevó consigo buena parte de sus vestigios materiales52. En definitiva, la singularidad del testimonio documental de los fondos de UCD del Archivo Histórico Provincial de Zamora radica en el hecho de que nos permite reconstruir desde dentro y en profundidad, un proceso, al que en la mayor parte de los casos, tanto a niveles provinciales como nacionales, sólo es posible acceder a través de fuentes indirectas, fundamentalmente, la prensa.

BIBLIOGRAFÍA

Fuentes documentales utilizados (Archivos y Hemerotecas)

AHPZ (Archivo Histórico-Provincial de Zamora), Fondo UCD.

AHPS (Archivo Histórico Provincial de Soria), Fondo UCD.

Archivo General de Castilla y León.

Hemerotecas digitales de El País, ABC y el Periódico de Catalunya.

Archivo Gunther de fuentes orales.

NOTAS

1. Una interesante síntesis de esta cuestión es: MOLINA JIMÉNEZ, Daniel, «La desintegración de la UCD: estado de la cuestión», in El Futuro del Pasado, 2, 2011, pp. 255-264, URL: [consultado el 10 de junio de 2006]. Para una perspectiva política general, se aconseja la lectura de: POWELL, Charles, España en democracia, Barcelona, Plaza & Janes, 2001. 2. ALONSO CASTRILLO, Silvia, Apuesta del centro: una historia de UCD, Madrid, Alianza Editorial, 1996; HOPKIN, Jonathan Richard, El partido de la transición. Ascenso y caída de la Unión de Centro Democrático, Madrid, Acento, 2000; HUNEEUS, Carlos, La Unión de Centro Democrático y la Transición a la Democracia en España, Madrid, CIS, 1985, etc. Desde el punto de vista de las memorias políticas,

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 138

quizá la obra más interesante resulta, CALVO-SOTELO, Leopoldo, Memoria Viva de la Transición, Barcelona, Plaza & Janés, 1990. 3. Destacan las obras de periodistas y comentaristas políticos de la época como JÁUREGUI, Fernando, SORIANO, Manuel, La otra historia de UCD, Madrid, Emiliano Escolar, 1980; FIGUERO, Javier, UCD. La empresa que creó Adolfo Suárez, Madrid, Grijalbo, 1981; CHAMORRO, Eduardo, Viaje al Centro de UCD, Barcelona, Planeta, 1981. 4. El tratamiento historiográfico del CDS ha sido prácticamente nulo hasta el momento, aparte del breve recorrido que realizan sobre él los biógrafos de A. Suárez destacando la obra del profesor FUENTE ARAGONÉS, Juan Francisco, Adolfo Suárez: la historia que no se contó, Planeta, 2011. Asimismo, cabe destacar la visión de conjunto de, QUIROSA-CHEYROUZE MUÑOZ, Rafael, «El Centro Democrático y Social. Auge y caída de un proyecto político (1982-1996)» in MATEOS LÓPEZ, Abdón, SOTO CARMONA, Álvaro (dir.es), Historia de la época socialista: 1982-1996, Madrid, Ed. Sílex, 2013, pp. 405-430. Sobre sus primera etapa, FERNÁNDEZ AMADOR, Mónica, QUIROSA- CHEYROUZE MUÑOZ, Rafael, «La creación de Centro Democrático y Social en 1982» in QUIROSA- CHEYROUZE Y MUÑOZ, Rafael, (ed.) Los partidos en la Transición, Madrid, Biblioteca Nueva, 2013, pp. 201-220. 5. Hay numerosos estudios de la etapa final de la UCD a nivel provincial y regional como los análisis de Carlos Navajas Zubeldia para el caso riojano, NAVAJAS ZUBELDIA, “Desconcierto” y “zozobra”. La segunda transición autonómica en la Rioja (1982-1983), in Actas del III Simposio de Historia Actual. Logroño, 26-28 de octubre de 2000, Logroño, Gobierno de La Rioja, Instituto de Estudios Riojanos, 2002, pp. 285-320; o para el caso de Valencia, aunque no se centre especialmente en la crisis política del partido a nivel interno, GASCÓ ESCUDERO, Patricia, UCD-Valencia. Estrategias y grupos de poder político, Valencia, Universidad de Valencia, 2011, pp. 69-91. 6. En este marco teórico, Jonathan Hopkin pone en relación el desarrollo de fórmulas alternativas de integración política que den respuesta al descontento interno, ejercicios de “voz”, con la existencia de “opciones de salida”, que se negocian y ejecutan cuando fracasa la primera vía, «la incapacidad para aumentar su influencia en las decisiones […] incrementó indudablemente el atractivo de la estrategia de “salida”». Hopkin utilizó este modelo, especialmente, para explicar las “deserciones” de los sectores conservadores del partido centrista y subrayar que «los desacuerdos sobre objetivos ideológicos no constituyen una explicación suficiente para la gravedad del conflicto interno del partido», HOPKIN, Jonathan Richard, El partido de la transición. Ascenso y caída de la Unión de Centro Democrático, cit., p. 292 et seq. 7. Base de datos electorales del Ministerio del Interior de España; in URL: < http:// www.infoelectoral.mir.es> [consultado el 1 de noviembre de 2013]. 8. Con un asterisco señalamos aquellos parlamentarios de UCD que se integraron en el CDS en agosto de 1982. Es necesario hacer una breve semblanza política y profesional de los que van a ser los protagonistas de este suceso. Por un lado, se encontraban el senador Luis Rodríguez San León quien era un conocido empresario zamorano y director de diversas asociaciones locales, César Martín Montes, palentino, vinculado al Servicio Nacional de Inspección de las Administraciones Locales, trabajando en la provincia de Zamora desde 1966, y Jesús Pérez López, zamorano, asesor jurídico de la UCD provincial desde sus inicios. Por otra parte, Víctor Carrascal Felgueroso, político oriundo de Madrid, con amplia formación académica y vinculado a Ignacio Camuñas en el tardofranquismo, José Andrés Díez de Ulzurrun Mosquera (nº 4 en la listas al congreso de 1979), zamorano, ingeniero técnico agrario en el I.R.Y.D.A. desde 1966, y Onésimo López Chillón, zamorano, agricultor y promotor de la Asociación Independiente de Ganaderos y Labradores de Zamora. AHPZ, Fondo UCD, caja 21, Dossier de la Secretaría de Información de UCD, Biografías de Diputados y Senadores. 9. El País, 17 julio 1979. 10. Luis Rodríguez San León fue elegido presidente provincial de UCD en Zamora el 9 diciembre 1977. AHPZ, Fondo UCD, caja 21, Dossier de la Secretaría de Información de UCD.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 139

11. AHPZ, Fondo UCD, caja 2, Carta de Dimisión de Luis Rodríguez San León. 12. Archivo Gunther. Interview undertaken by Richard Gunther in 1983 (june). C 22, pp. 4-5. 13. A este respecto hay cierta discusión entre los autores que han investigado, desde distintas perspectivas, la historia de UCD. Para Carlos Huneeus, desde la prensa se exageró el poder del aparato de UCD atribuyendo a Suárez un control sistemático del partido desde fuera, HUNEEUS, Carlos, La Unión de Centro Democrático y la Transición a la Democracia en España, cit., p. 337. En abierta oposición a esta interpretación, ALONSO CASTRILLO, Silvia, Apuesta del centro: una historia de UCD, cit., p. 506 et seq. 14. Ambos, elegidos en aquel II Congreso, habían sido ministros en los gobiernos de Suárez y en 1982, pasaron a formar parte del Comité Nacional del CDS. 15. Anteriormente, Leopoldo Calvo-Sotelo había ocupado diversos ministerios en los gobiernos de Carlos Arias Navarro y Adolfo Suárez. Asimismo, había sido el encargado de gestionar la formación de la coalición que dio lugar a la UCD, formación en la que no se adscribía a ninguna familia o facción. 16. «UCD renueva este fin de semana 12 ejecutivas provinciales […] también en Zamora se presenta una situación de enfrentamiento», en El País, 4 julio 1981. 17. «Soy una de las personas que más ha trabajado en la aproximación […] desde el principio en el que se planteó la presidencia de Luis Ortiz yo dije que iba a estar a su lado y en este apoyo me mantengo asumiendo los errores que haya podido cometer»; cfr., AHPZ, Fondo UCD, caja 64, Acta del Comité Ejecutivo Provincial de UCD Zamora, 6 marzo 1982, p. 3. 18. Un fenómeno de división interna equiparable al de Zamora, por su premura y consistencia, es el caso de Segovia en el que una de las causas de la ruptura es la integración o no de Segovia en la naciente comunidad autónoma castellano-leonesa, PÉREZ LÓPEZ, Pablo y GONZÁLEZ CLAVERO, Mariano, La transición en Segovia, Palencia, Cálamo, 2007, pp. 146-153, p. 189 et seq. 19. Dichos artículos se encontraban como documentos anejos a una de las fichas de expulsión del Comité Disciplinario de UCD, en agosto de 1982: «Desde el Congreso de Palma», in El Correo de Zamora, 30 junio 1981, «Contestando al ministro del M. O. P. U.», in El Correo de Zamora, 3 julio 1981 y «Ante la Asamblea de UCD», in El Correo de Zamora, 4 julio 1981. AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados. 20. In El Correo de Zamora, 30 junio 1981; cfr., AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados. 21. In El Correo de Zamora, 03 julio 1981; cfr., AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados. 22. In El Correo de Zamora, 30 junio 1982; cfr., AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados. Una amplia polémica sobre la definición de centro-centro, centro-izquierda y las acusaciones de pseudoprogresismo, en RODRÍGUEZ SAHAGÚN, Agustín, «De la división a la desnaturalización» en Historia de la Transición, Grupo 16, 1984, pp. 708 et seq. 23. In El País, 07 julio 1981. 24. AHPZ, Fondo UCD, caja 21, Dossier de la Secretaría de Información de UCD. 25. El paradigma de esta nueva fase de la crisis de UCD es la sustitución del recurso a la “voz”, por la estrategia de la “salida”; cfr., HOPKIN, Jonathan Richard, El partido de la transición. Ascenso y caída de la Unión de Centro Democrático, op. cit. p. 294. Lógicamente, no sucedió así en todas las provincias, por ejemplo en la vecina León, «en 1982 el leonés [Martin Villa] seguía siendo presidente del Consejo Político Provincial de UCD […] Las disensiones de Madrid, llegan tarde a León»; cfr., FERNÁNDEZ, Pedro Víctor, La transición en León, Salamanca, Diputación de León, 2008. 26. Sobre su participación en el PAD de Francisco Fernández Ordóñez, jefe del ala socialdemócrata de UCD y ministro en diversos gobiernos de A. Suárez y L. Calvo-Sotelo, véase: Partido de Acción Democrática. Congreso Constituyente, Madrid, PAD, 1982, pp. 17-42. 27. AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados. Carta de Rodríguez Castañón, 13-11-1981. 28. Véase: HUNEEUS, Carlos, La Unión de Centro Democrático y la Transición a la Democracia en España, op. cit., pp. 373 et seq. 29. Ibidem, p. 3.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 140

30. Esta reunión constituye la última de la que tenemos constancia de la presencia de Luis Rodríguez San León. AHPZ, Fondo UCD, caja 64, Acta de la reunión del Comité Ejecutivo Provincial de U.C.D. de Zamora, 11 diciembre 1981, 22 enero 1982 y 6 marzo 1982. 31. Supone el abandono de Suárez de facto del Comité Ejecutivo de UCD; cfr., ABELLA, Carlos, Adolfo Suárez: El hombre clave de la Transición, Madrid, Espasa, 2006, p. 543. 32. AHPZ, Fondo UCD, caja 64, Acta de la reunión del Comité Ejecutivo Provincial de U.C.D. de Zamora, 11 diciembre 1981, 22 enero 1982 y 6 marzo 1982. 33. AHPZ, Fondo UCD, caja 64, Acta de la reunión del Comité Ejecutivo Provincial de U.C.D. de Zamora, 6 marzo 1982. 34. AHPZ, Fondo UCD, caja 5, Acta de la reunión del Comité Ejecutivo Provincial de U.C.D. de Zamora del 06 marzo 1982 con anotaciones manuscritas. De cara a la opinión pública se daba una versión maquillada de los hechos: «Ayer día 5 de julio se cumplió el primer aniversario de la elección de Luis Ortiz González como presidente de UCD en Zamora, […] La elección fue dura y reñida y provocó un cierto malestar en algunos de los miembros de la candidatura derrotada, origen, quizás, de las discrepancias que, a lo largo del año, se han manifestado, sobre todo por parte de los parlamentarios que quedaron fuera del Comité Ejecutivo […] El señor Ortiz González considera que sus tres aspiraciones se han visto cumplidas […]», in El Correo de Zamora, 6 julio 1982. AGCYL, Gabinete de información, caja 243, Informe Diario nº317. 35. Entre la documentación adjunta a uno de los expedientes de expulsión, se hallaban los siguientes artículos, destinados a demostrar las actividades de este grupo: «Los parlamentarios Pérez López, Martín Montes y Rodríguez San León, con el ministro de Trabajo y S. S. Les acompañaban el presidente de la Diputación y el alcalde de Toro» en El Correo de Zamora, 27 marzo 1982; «Acompañado por el senador Luis Rodríguez San León. El Ayuntamiento de Cubillos, visita al presidente de la Diputación Provincial» in El Correo de Zamora, 28 marzo 1982; «El presidente de la Diputación y el senador Rodríguez San León, con el subsecretario del ministerio de agricultura» in El Correo de Zamora, 19 junio 1982. AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados. 36. Pasando de calificar como “eficiente” a Leopoldo Calvo-Sotelo en «Desde el Congreso de Palma», in El Correo de Zamora, 30 junio 1981 in AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados; a pedir su dimisión en mayo de 1982, «Luis Rodríguez San León apuntaba que queríamos haberle dicho que se marchara y lo dejara. En un país medianamente serio, el presidente no espera a informar, sino que se marcha a su casa», in ABC, 28 mayo 1982. 37. Cargos para la incoación de un expediente disciplinario. AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados, Informe 6 agosto 1982. 38. Serafín Abilio Martínez Fernández, Secretario Regional de UCD de Asturias, remitía a la secretaría provincial de Zamora un texto elaborado en Madrid, en una reunión mantenida días atrás, por unos 30 secretarios provinciales en el que se concluía: «es necesario adecuar la dirección del Partido al momento presente, estableciendo un claro liderazgo en el mismo, que, consideramos, debe recaer en la persona del Fundador del Partido, Adolfo Suárez González». AHPZ, Fondo UCD, caja 5. En la misma línea, aunque sin aludir explícitamente a Adolfo Suárez, véase: Archivo Histórico Provincial de Soria (AHPS), Fondo Unión de Centro Democrático, caja 3350, Conclusiones del Comité Ejecutivo Regional de UCD-Asturias del 8 junio 1982. 39. El depósito de los estatutos del partido tuvo lugar a finales de julio de 1982, quedando inscrito definitivamente el 23 de agosto del mismo año. Ministerio del Interior, Registro de Partidos Políticos, Dossier CDS, año 1982, protocolo notarial nº 1771. 40. AHPS, Fondo UCD, caja 3350, Conclusiones del Comité Ejecutivo Regional de UCD-Asturias, 8 junio 1982, p. 2. 41. Cabe añadir, que Luis Rodríguez San León fue uno de los primeros políticos ucedistas que solicitó su baja en UCD para integrarse en el CDS: «y el primer ucedista que solicitó la dimisión de Leopoldo Calvo Sotelo tras el fracaso de la UCD en las elecciones andaluzas», in El Periódico de Catalunya, 30 julio 1982.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 141

42. Asimismo hubo muestras de inquebrantable adhesión a la UCD provincial por parte de alcaldes, concejales y militantes centristas, AHPZ, Fondo UCD, caja 5. 43. AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados, Acta de la reunión del Comité de Disciplina Provincial del 9 agosto 1982. 44. AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados, Informe de la Secretaría Provincial, 5 agosto 1982. 45. AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados, Informe de la Secretaría Provincial, 5 agosto 1982. 46. AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados, Informe de la Secretaría Provincial, v 47. AHPZ, Fondo UCD, caja 65, Dossier de Expulsados, Informe emitido de la Secretaría de Acción Municipal, 6 agosto 1982. 48. «Rueda de prensa de Agustín Rodríguez Sahagún», in El Correo de Zamora, 08-08-1982, véase: AGCYL, Gabinete de información, caja 243, Informe Diario nº317. 49. «Baja en UCD y cese en el Ayuntamiento, en la Diputación y en el Consejo de Castilla y León», in El Correo de Zamora, 5 septiembre 1982, véase: AGCYL, Gabinete de información, caja 242, Informe Diario nº225. 50. Además, Luis Rodríguez San León publicó en la prensa local, «Centro Democrático y Social: una vía de esperanza», in El Correo de Zamora, 5 septiembre 1982, véase: AGCYL, Gabinete de información, caja 243, Informe Diario nº317. 51. «Presentación pública de los candidatos del CDS» in El Correo de Zamora, 23-09-1982; con la asistencia de Fernando Castedo. Véase: AGCYL, Gabinete de información, caja 317, Dossier CDS. 52. «Probable embargo de la sede de UCD [en Murcia] para cumplir una sentencia por despido», in El País, 29 marzo 1983; «Entre tanto, la comisión liquidadora de las siglas centristas, […], ha puesto en venta, en pública subasta, las sedes locales y provinciales propiedad del partido, con el fin de atender las deudas más inmediatas del mismo», in El País, 23 marzo 1983; «La Telefónica reclama a UCD el pago de una deuda de 11 millones», in El País, 10 abril 1983.

RESÚMENES

El presente artículo se centra en el estudio de la descomposición de Unión de Centro Democrático (UCD) y su interrelación con la génesis del Centro Democrático y Social (CDS) en la provincia de Zamora, tomando como referencia la dimensión nacional de ambos procesos dentro del contexto de la Transición española. Para ello, nos serviremos de fuentes documentales directas y artículos de prensa. Con el fin de entretejer nuestra argumentación nos moveremos en el marco teórico desarrollado por Jonathan R. Hopkin en su estudio clásico sobre la crisis de UCD. Valoraremos el peso de las luchas de poder y las convicciones ideológicas como causas de la descomposición de UCD y formación posterior del CDS.

Il presente contributo è incentrato sull’analisi della dissoluzione della UCD (Unión de Centro Democrático) e della relazione fra quell’evento e la nascita del CDS (Centro Democrático y Social) nella provincia di Zamora; lo studio prende di riferimento la dimensione nazionale di entrambi i processi nel contesto della Transizione spagnola e si avvale, per la descrizione del quadro generale, di fonti documentali dirette e di articoli tratti dalla stampa dell’epoca. Il procedere della tesi si sviluppa nel solco delle argomentazioni portate da Jonathan R. Hopkin nel suo studio ormai classico sulla crisi della UCD e si basa sulla valutazione del peso che ebbero le lotte di

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 142

potere e le convinzioni ideologiche come cause delle dissoluzione della UCD e della successiva formazione del CDS.

The present article focuses on the study of UCD (Unión de Centro Democrático)’s decomposition and its interrelation with the genesis of the CDS (Centro Democrático y Social) in the province of Zamora, referring to the national dimension of both processes, within the context of the Spanish Transition. For this purpose, we will use documentary direct sources and articles of press. In order to interweave our argumentation, we will move on the theoretical frame developed by Jonathan R. Hopkin in his classic study on UCD’s crisis. We will value the weight of the fights of power and the ideological beliefs as reasons of UCD’s decomposition and later formation of the CDS.

ÍNDICE

Keywords: Adolfo Suárez, CDS, political mobility, Transition, UCD Palabras claves: Adolfo Suárez, CDS, movilidad política, Transición, UCD Parole chiave: Adolfo Suárez, CDS, mobilità politica, Transizione, UCD

AUTOR

DARÍO DIEZ MIGUEL Licenciado en Historia por la Universidad de Valladolid desde 2011 y cursa actualmente el 5º año de la licenciatura de Filosofía por la UNED. En la actualidad (desde marzo de 2013) es becario de investigación en la Universidad de Valladolid, donde está realizando el doctorado con un proyecto de tesis titulado: Adolfo Suárez y el Centro Democrático y Social, 1982-1991.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 143

L’Islam di Stato. La figura di Necmettin Erbakan nella Turchia contemporanea

Emanuela Locci

1. Una breve biografia

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 144

1 Necmettin Erbakan nacque a Sinope nel 1926: il padre era un giudice della corte penale. Dopo essersi laureato in ingegneria a Istanbul nel 19481, proseguì gli studi in Germania per poi stabilirsi nuovamente a Istanbul e insegnare nella stessa università dove si era laureato. La sua carriera politica iniziò alla fine degli anni Sessanta, quando fu eletto deputato tra gli indipendenti2. La sua ideologia si delineò più precisamente l’anno successivo, quando fondò il Partito per l’Ordine Nazionale (Millî Nizam Partisi) che presentava istanze islamiste3. Questo partito era supportato dalla piccola borghesia presente nelle province, che non avevano beneficiato dello sviluppo economico degli anni Sessanta4. A questa prima, timida, apparizione seguì lo scioglimento del partito islamico nel 1971 e la rifondazione, due anni dopo, sotto il nome di Partito per la Salvezza Nazionale (Millî Selamet Partisi). Il suo leader divenne vicepremier quando si unì in coalizione con il partito guidato da Ecevit5, il Partito Popolare Repubblicano (Cumhuriyet Halk Partisi), CHP. Nel 1977, Erbakan partecipò al governo guidato da Süleyman Demirel6, ma in seguito al colpo di Stato militare del 12 settembre 1980, fu allontanato dalla scena politica e arrestato. Il diritto di esercitare l’attività politica gli fu restituito nel 1987. Fu un ritorno in grande stile, visto che il suo partito era ormai diventato il più importante della Turchia, con una tendenza confermata dalle elezioni di metà anni Novanta. Nel luglio del 1996 divenne primo ministro, alla guida del Partito della Prosperità (Refah Partisi), il primo esponente politico appartenente a un partito islamico a ottenere questa carica dai tempi di Atatürk. Costretto alle dimissioni pochi mesi dopo, a causa delle forti pressioni politiche esercitate dai militari, nel 1998 fu nuovamente allontanato dalla politica per cinque anni. In seguito, Necmettin Erbakan ha fatto parte del Partito della Felicità (Saadet Partisi) l’unico nel panorama politico turco a essere apertamente favorevole al superamento della scelta laicista imposta alla Turchia da Atatürk e dai militari7. Erbakan morì a Ankara a causa di problemi cardiaci nel 2011, all’età di ottantaquattro anni8.

2. Gli ideali e le linee guida

2 Le formazioni politiche a cui Erbakan prese parte erano tutte accomunate da alcuni punti. Il più importante era una visione dell’Islam in senso politico9, affinché non fosse vissuto come una questione personale, secondo quanto ideato da Atatürk, ma come una religione presente nelle scelte quotidiane, anche quelle politiche. Un ritorno a un Islam puro, con le sue regole, restrizioni e ruoli. Un altro punto collegato al primo era la lotta contro l’occidentalizzazione della Turchia. In un periodo, successivamente alla Seconda guerra mondiale, in cui la Turchia si era avvicinata sensibilmente all’Europa e all’Occidente in genere, Erbakan chiedeva un passo indietro, un nuovo nazionalismo. Vi era anche la questione di Israele, che Erbakan considerava alla stregua di un nemico dello stato nazionale. Egli si dichiarava antisionista e antisemita, ma non antigiudaico, descrivendo spesso il giudaismo come una religione meritevole di rispetto10. Non secondaria era anche la sua spinta antistatunitense11, che rendeva di dominio pubblico

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 145

organizzando frequentemente manifestazioni di protesta contro la presenza degli Stati Uniti in Turchia12. Rimase famosa la sua condanna all’embargo imposto alla Libia di Gheddafi nel 1992, di cui chiese l’abrogazione13. Strenuo oppositore dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea, voleva, invece, creare un’Unione Islamica che raccogliesse tutti i paesi musulmani, e con questo obiettivo, nel 1996 e nel 1997, Erbakan visitò vari paesi musulmani per portare avanti il suo progetto, ma le sue dimissioni dal governo, nel 1997, lo costrinsero ad interrompero questo disegno14.

3. Prime esperienze politiche

3 Da sempre legato agli ambienti della destra conservatrice turca, venne alla ribalta sulla scena politica nazionale nel 1969, con la nomina a presidente dell’Unione delle Camere di Commercio e di Industria. Durante la sua campagna elettorale aveva cercato di rappresentare gli interessi della piccola e media borghesia industriale, composta dagli uomini d’affari emergenti in quel periodo. Aveva accusato Süleyman Demirel leader di destra del Partito della Giustizia (Adalet Partisi) di avere un atteggiamento servizievole e remissivo nei confronti delle società che possedevano ingenti capitali, specialmente quelle straniere. Da subito nei discorsi di Erbakan si insinuò una nota religiosa, in particolare quando accusò Demirel di aver dimenticato i valori islamici per proteggere gli interessi di sionisti e massoni15. Nello stesso 1969 lasciò il partito e si candidò al Parlamento come indipendente riuscendo a ottenere il seggio in rappresentanza della città di Konya16.

4 L’anno successivo, insieme ad altri due deputati indipendenti, fondò il primo partito di ispirazione islamica, il Partito dell’Ordine Nazionale. Per la prima volta nella storia della Repubblica, anche quella parte della società turca che si riconosceva nell’Islam politicizzato ebbe modo di essere rappresentata17. L’ideologia portata avanti dal partito entrava in collisione con la dottrina kemalista di uno stato laico, per la quale l’Islam era religione nazionale ma non doveva sovrapporsi alle questioni statali. Dopo pochi mesi di attività il partito fu dichiarato fuorilegge dalla Corte Costituzionale, che ravvisava nei suoi fondamenti la violazione della norma che vietava l’uso della religione per scopi politici18. Quando il partito venne dichiarato fuorilegge il suo leader lasciò la Turchia e si trasferì per un breve periodo in Svizzera.

5 Accanto al partito, Erbakan aveva creato un’altra organizzazione conosciuta come Millî Görüș(Punto di Vista Nazionale) un’associazione di chiara ispirazione islamica che si occupava di tutti gli aspetti della vita degli aderenti19.

6 Nel 1972 Erbakan e i suoi fedelissimi fondarono un altro partito, denominato Partito della Salvezza Nazionale, che si dichiarava democratico, ma che si richiamava costantemente ai valori fondanti dell’Islam. Con questo partito l’Islam politico si ripropose con fermezza nel panorama politico turco. Erbakan fece della religione il suo di battaglia, mostrandosi apertamente contrario alla volontà dei governi che si erano susseguiti al comando del paese e che intendevano occidentalizzare la nazione invece di avvicinarsi ai paesi arabi20. Alle elezioni del 1973 il partito ottenne l’11,8% dei voti: era la prima volta che un partito di ispirazione islamica otteneva un tale risultato. Anche se altri partiti, per allargare la propria base elettorale usavano la religione come strumento, Erbakan utilizzava un linguaggio che faceva riferimento ad un Islam nazionalista, ben lontano sia dallo stato laico di Atatürk, sia dall’Islam moderno e razionale voluto dai governanti negli anni Cinquanta. Il partito si sviluppò fino al colpo

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 146

di Stato del settembre 1980, quando venne dichiarato fuorilegge, come del resto tutti gli altri partiti esistenti. Erbakan subì una condanna a dieci anni di esclusione dalla vita politica attiva.

4. Le elezioni del 1973, una svolta nazionale

7 Le elezioni dell’ottobre 1973 si tennero in un clima teso: la situazione economica del paese era particolarmente delicata, perché all’industrializzazione del paese non era corrisposto un progresso sul piano sociale e l’esercito si sentiva defraudato del suo ruolo di difensore del kemalismo. Regnava un clima di forte instabilità e la politica non riusciva a dare risposte concrete; i partiti attraversavano un periodo di grande insicurezza, caratterizzata da frequenti scissioni e contrasti interni.

8 Alla tornata elettorale parteciparono otto partiti: tra essi vi era l’MSP, che aveva come presidente Suleyman Arif Emre, ma che vedeva in Necmettin Erbakan il suo uomo di punta. Durante la campagna elettorale furono le dichiarazioni di quest’ultimo a chiarire la posizione del partito: Erbakan si presentava con una chiara ispirazione islamica, che intendeva fare propri alcuni principi del socialismo e del capitalismo e utilizzarli in chiave nazionalista. Per le sue dichiarazioni di stampo religioso fu spesso oggetto di attacchi degli organi di stampa, che avanzarono l’ipotesi che il partito ricevesse sovvenzioni dai paesi arabi, in particolare dalla Libia di Gheddafi, che voleva riportare la Turchia nell’orbita dei paesi musulmani21. La polizia tenne sotto stretta sorveglianza alcuni esponenti del partito e secondo le autorità vi era la possibilità che il partito stesse portando avanti azioni per cambiare il sistema statale, da laico a confessionale. Il risultato elettorale mise in luce che il caposaldo kemalista della laicità statale, considerato inviolabile, era stato svuotato del suo significato intrinseco, ciò a causa della nascita del partito islamico, sintomo della nascita o rinascita di un islam politico nel paese. Dopo le elezioni ci si aspettava la formazione di un governo di coalizione, che vedeva in prima posizione il CHP di Bület Ecevit e come suo alleato l’MSP di Necmettin Erbakan, lasciando l’AP di Demirel come maggiore partito all’opposizione. Le cose non andarono così perché per questioni interne al partito islamico in un primo momento Erbakan rifiutò l’offerta di Ecevit, aprendo una stagione di forte instabilità politica. Il bandolo della matassa si sciolse alla fine di gennaio del 1974, quando i due partiti si allearono dando vita a un governo di coalizione che vedeva Ecevit primo ministro e Erbakan suo vice22. Era la prima volta che un esponente di un partito filoislamico poteva andare al potere, anche se non come primo partito, in un’alleanza che vedeva preponderante il CHP. Il governo rimase in carica per circa nove mesi, durante i quali affrontò la questione di Cipro, la cui risoluzione accrebbe molto la popolarità di Ecevit, che pensò di dimettersi mentre era all’apice della popolarità per poi ripresentarsi da vincitore alle elezioni anticipate già in programma. Le cose non andarono in questo senso e si aprì per la Turchia un quinquennio denso di avvenimenti, contrassegnato dalla costante discontinuità politica23.

5. Il colpo di stato del 1980

9 L’esercito ha da sempre occupato un ruolo preminente nel sistema politico turco24 e si è imposto in diverse occasioni come guardiano del kemalismo: nel 1960, nel 1971 e infine nel 198025. Il 12 settembre 1980, mentre era in carica il governo Demirel, l’esercito

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 147

guidato dal generale Kenan Evren26 prese il potere, legittimando questo atto con la legge dei servizi interni. Secondo i vertici militari gli organi statali avevano smesso di funzionare, su iniziativa militare fu sciolto il Parlamento, il governo fu deposto, furono sciolti i partiti e arrestati gli uomini politici che fino a quel momento avevano retto le sorti nazionali. I militari ritenevano loro dovere salvare la democrazia dall’operato dei politici e si capì subito che nella Turchia dei militari non vi era posto per i vecchi politici. Erbakan fu arrestato e processato insieme a Alparslan Türkeș27, con l’accusa di aver progettato un cambiamento nell’assetto repubblicano, da laico a confessionale. Successivamente le accuse caddero e i due furono scagionati, ma si dovrà attendere il 1983 per vedere i vecchi leader politici tornare sulla scena politica. Erbakan lo fece con un nuovo partito islamico il Refah Partisi, che alle elezioni ottenne il 4,5% dei voti non riuscendo a entrare al governo. La nuova formazione partitica prese avvio dalla mobilitazione politica del movimento Millî Görüșche vedeva nel partito una possibilità di rappresentanza politica. Nei primi anni Novanta ci fu una recrudescenza dei rapporti tra gli islamisti e i laici e accanto al partito di Erbakan si formarono altri gruppi più radicali28. Il partito islamico attraversò una fase di crescita che durò dal 1983 fino al 1991, anni in cui alle diverse tornate elettorali si registravano continui successi29. Il partito conquistò consensi anche nei bassi ranghi dell’esercito e nel 1987 molti cadetti che frequentavano l’accademia militare furono espulsi perché accusati di attività islamiste; lo stesso accadde nel 1994 ad alcune decine di membri della marina militare sospettati dello stesso reato.

6. Anni Novanta, nuova vita per l’Islam politico

10 Le elezioni politiche del 1991 decretarono il ritorno al potere di Demirel ma sancirono anche la rinascita del partito di Erbakan, che riuscì a ottenere il 17% dei consensi, anche se si deve considerare l’alleanza con gli ultranazionalisti di Türkeș. Le elezioni del 1994 rappresentarono un altro banco di prova importante e rivelarono l’importanza che stava assumendo il Refah all’interno del panorama politico turco. Le città chiave della Turchia, Istanbul e Ankara, finirono in mano al partito islamico, che raddoppiò i consensi rispetto alle precedenti elezioni. Il successo elettorale derivò essenzialmente dalla campagna portata avanti creando uno stretto contatto con la gente, soprattutto nelle periferie urbane delle grandi città, dove si registrò il consenso maggiore. Importante fu il contributo delle donne islamiste30 durante la campagna elettorale31. Il Refah si propose di risolvere la questione kurda offrendo una piattaforma di unità tra turchi e kurdi – senza escludere le altre minoranze – basata sull’Islam. Le linee guida del partito indicavano un riconoscimento dell’identità kurda e proponevano la libertà di espressione culturale, ma i mass media attaccarono duramente il partito, accusato di essere dalla parte dei kurdi contro l’identità nazionale turca. In economia veniva proposto il cosiddetto giusto ordine economico, basato sull’equità economica, dettata dall’Islam. Allo stesso tempo le linee guida si esprimevano in favore delle privatizzazioni32 e Erbakan prometteva una rigenerazione morale della nazione, la lotta alla corruzione, aiuti alle imprese private, libertà di espressione per tutti: erano questi i punti che avrebbero fatto della Turchia una nazione libera dall’Occidente33.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 148

7. Elezioni del 1995 e governo Erbakan

11 La fase più importante delle vicende legate all’islam politico e alla figura politica e personale di Erbakan inizia alla fine del 1995, quando le elezioni confermarono, rafforzandola, la tendenza che si era già registrata nella precedente tornata elettorale. Il Refah diventò il primo partito del paese, con il 21, 32% dei voti e questo risultato segnò uno spartiacque nella storia della Repubblica turca. Ebbe così il periodo d’oro dell’Islam politico. Il Partito della Madre Patria arrivò secondo e il Partito della Giusta Via, terzo34. Erbakan venne incaricato della formazione del governo ma quasi subito dovette rinunciare poiché non riuscì a ottenere l’appoggio di nessuno dei partiti all’opposizione35. I due partiti, capeggiati da Mesut Yilmaz36 e da Tansu Çiller 37, cercarono di formare un governo di coalizione ma, a causa delle divergenze personali tra i due, non vi riuscirono. Vista la situazione di crisi politica il presidente Demirel decise di affidare l’incarico di formare un governo al vincitore delle elezioni, Erbakan, che si mise subito al lavoro per formare il suo primo governo. Questa volta riuscì nell’intento, perché a sorpresa Tansu Çiller, in passato sua acerrima oppositrice, decise di affiancarlo e di collborare con lui38. Una strana coalizione che vedeva fianco a fianco Islamisti e laici. Tansu Çiller ricoprirà il ruolo di vice primo ministro e ministro degli esteri, il suo partito avrà i dicasteri più importanti quali, industria, difesa e interni. Dopo aver ottenuto la fiducia del Parlamento39 iniziò l’avventura di questo peculiare governo, che potè contare su 550 seggi. Nacque così la “Grande Unità” tra gli islamisti di Erbakan e gli ultra laici della Çiller, che dovette affrontare una serie di emergenze, economia, sicurezza e crisi curda40. L’ascesa al potere del partito islamico creò uno shock molto importante nel sistema politico turco, da decenni guidato secondo i principi kemalisti attraverso governi non confessionali41. I militari lo guardarono con sospetto e dichiararono che avrebbero controllato da vicino le azioni del governo: in pratica il premier divenne un sorvegliato speciale42. Nei primi mesi il governo si impegnò nel dare solidità all’esecutivo e furono abbandonate sia le istanze nazionalistiche, come per esempio le richieste di nazionalizzazione delle grandi imprese, sia la retorica islamica43. Il programma di governo prevedeva una serie di misure miranti all’equità sociale, che includevano giustizia, sviluppo economico, lotta alla corruzione, protezione della proprietà, rafforzamento del rapporto Stato-nazione e fine dell’influenza occidentale sulla Turchia44. Dopo circa sei mesi la coalizione sembrava aver raggiunto una certa stabilità e i due leader avevano tutte le ragioni per fare in modo che questa unità continuasse: la Çiller viste le accuse di corruzione a suo carico non poteva permettersi di interrompere l’idillio e Erbakan, che vedeva crescere il suo consenso, non poteva permettersi di fallire. L’unico neo erano i rapporti tra governo ed esercito. La Çiller spesso era riuscita a mediare tra i militari e il Refah ma nel 1997 la situazione improvvisamente precipitò. Ci furono una serie di iniziative da entrambe le parti che non fecero che deteriorare ulteriormente i rapporti. Le denunce dei militari avevano un solo obiettivo: convincere la Çiller a abbandonare il governo e costringere così Erbakan alle dimissioni45. Il governo rimane in piedi ancora per qualche mese, perché Erbakan dichiarò di voler seguire i “consigli” dei militari e di non voler far diventare la Turchia un paese con un governo confessionale. La situazione politica era molto instabile: Erbakan a capo di un governo di coalizione con un partito scomodo come il Partito della Giusta Via; la Çiller, era pressata dall’esercito affinché abbandonasse l’esecutivo. Il governo per ovviare a questa situazione annunciò elezioni anticipate, giustificando l’annuncio con l’impellente necessità di nuovi successi

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 149

economici. In realtà sembrava che il governo fosse oramai incapace di guidare il paese46.

12 L’epilogo appariva quasi scontato: Erbakan a metà giugno decise di rassegnare le dimissioni, ponendo fine all’anno più importante della storia dell’Islam politico in Turchia e chiudendo l’esperienza di governo. Dopo aver cercato di resistere alle pressioni dei militari, di una parte dei mass media e della società civile, che non accettava la prospettiva di uno stato confessionale, fu costretto a cedere. Anche l’ultima delle sue proposte, cioè di cedere il comando alla Çiller, trovò l’opposizione del presidente Demirel, che non concesse il rimpasto di governo. L’ultimo atto fu quello delle dimissioni per cercare di dare un nuovo governo alla Turchia, che continuava a attraversare un periodo di profonda crisi economica, sociale, e politica. L’esercito riuscì così a portare a termine quello che è conosciuto come il primo colpo di stato post- moderno.

8. Processo contro il Refah

13 Nel maggio del 1997 il partito Refah fu accusato di appoggiare il fondamentalismo islamico e di voler sovvertire l’ordinamento laico della Turchia. Si trattò di un duro attacco nei confronti del leader Erbakan, e di alcuni dei suoi esponenti di spicco come Recep Tayyp Erdoğan47 che furono accusati di incitamento all’odio religioso e furono arrestati, processati e condannati.

14 Nel gennaio 1998 la Corte Costituzionale decise di far dichiarare fuori legge il partito48 e di vietare a Erbakan di praticare attività politica per cinque anni49. La chiusura del Refah e la messa al bando dei suoi dirigenti, chiuse una campagna ispirata dai militari che non hanno mai gradito la presenza degli islamisti nel contesto politico nazionale. Gli islamisti corsero ai ripari e Recep Tayyp Erdoğan e Abdüllah Gul50, che all’interno del Refah rappresentavano l’ala più progressista, fondarono il Partito della Virtù (Fazilet Partisi)51, ma anche questa formazione partitica fu posta fuori legge. I progressisti, usciti sconfitti anche in un conflitto interno, fondarono allora il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Adalet ve Kalkinma Partisi).

15 Intanto Erbakan52, dopo aver invitato gli aderenti al partito a mantenere la calma, non si diede per sconfitto, si rivolse alla Commissione per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa e continuò il suo impegno politico fondando il Partito della Felicità (Saadet Partisi).

16 La storia recente vide l’ascesa del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, che alle elezioni del 2002 sbaragliò tutti i partiti avversari53. I turchi votarono Erdoğan perché lo ritenevano capace di eliminare la povertà54 e la corruzione e non perché desideravano uno stato islamico55. La percezione dell’uomo comune era cambiata, era finita l’era d’oro dell’Islam politico, almeno di quello rappresentato da Necmettin Erbakan.

17 Anche se Erdoğan è considerato il successore politico di Erbakan56, quest’ultimo negli anni non mancò di criticare l’operato del suo delfino57, accusando il governo guidato da Erdoğan di essersi avvicinato politicamente all’Europa e a Israele58. Erdoğan, almeno nei primi anni di governo, si era schierato inequivocabilmente per l’ingresso della Turchia in Europa. Questa posizione era giustificata da ragioni economiche, il nuovo leader turco in contrapposizione con il suo predecessore, si dichiarò favorevole al capitalismo, associando una rapida ripresa economica con una altrettanto veloce riduzione

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 150

dell’inflazione. Tutto ciò non escludeva però i rapporti con gli altri paesi musulmani: nel primo decennio degli anni Duemila ci fu un incremento degli investimenti economici in paesi come l’Arabia Saudita59.

Conclusioni

18 Erbakan, con la sua decennale carriera politica, è stato uno dei più importanti uomini politici della Turchia. La sua importanza è espressa da diversi fattori che hanno concorso a fare di lui uno degli uomini più importanti della storia recente del Paese. Egli ha lasciato la sua impronta nella società civile turca in diversi modi, il più importante è l’introduzione dell’Islam politico in una nazione che da settanta anni si reggeva sul principio inviolabile e imprescindibile della laicità di Stato. Questa sua azione ha creato una frattura nella società e nel contempo una nuova consapevolezza per quanti erano sottoposti al kemalismo senza condividerne pienamente tutti i principi. Con la sua instancabile azione propagandistica ha cambiato il volto della politica nazionale, che era spesso statica perché basata sui principi di Atatürk, che risultavano datati considerando i passi avanti fatti dalla Turchia negli ultimi cinquanta anni. Il fatto stesso di aver creato varie formazioni partitiche di ispirazione islamica in un paese che lo vietava è un fattore innovativo. Erbakan, con i suoi estremismi e la sua dialettica, non era il solito politico cui la Turchia era abituata. Scosse gli animi, sia di chi condivideva i suoi ideali, sia di chi lo avversava nell’arena politica o attraverso i canali di informazione.

19 Il fatto di essere stato il primo capo di governo appartenente a una formazione politica di chiara ispirazione islamica, dopo più settanta anni dalla rivoluzione kemalista, ha creato uno spartiacque storico che ha fatto riprendere vigore all’Islam politico. Erbakan è l’ideologo di questo pensiero politico che unisce elementi nazionalistici, religiosi e di identità. Per tutti questi motivi Necmettin Erbakan, per quanto si tratti di una figura controversa, merita di essere considerato il padre dell’islam politico e uno degli innovatori della politica turca. I suoi ideali si possono condividere o meno ma ciò non toglie valenza alla sua azione politica e alla sua vicenda personale. I diversi partiti che ha concorso a fondare hanno rappresentato in Turchia l’islam politico per eccellenza.

20 La Turchia ha riscoperto l’islamismo: il percorso è durato circa trenta anni e ha avuto come protagonista Erbakan, che è stato abile a sfruttare diversi fattori. Uno di questi fu certamente il crescente inurbamento di persone che provenivano dalle provincie economicamente più arretrate; questo incontro con la realtà cittadina, provocava una frizione e le persone si rifugiavano in quello che gli era più familiare: non lo Stato, ma la religione. L’altro fattore fu la crisi economica, che generò in sempre più estese fasce di popolazione insofferenza nei confronti dei politici e delle loro soluzioni.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 151

NOTE

1. Durante gli anni universitari Erbakan conobbe, tra gli altri, Suleyman Demirell in quanto era il capo del suo gruppo di preghiera e membro della confraternita Nașbendiyye. 2. Necmettin Erbakan, sub vocem, Encyclopaedia Britannica online, URL: [consultato il 8 gennaio 2014]. 3. ZÜRKER, Erik, Storia della Turchia, Roma, Donzelli, 2007, p. 438. 4. NASSER, Momayezi, «Civil-Military Relations in Turkey», in International Journal on World Peace, 15, 3/1998, p. 15. 5. Bület Ecevit nacque a Istanbul nel 1925, abbandonati gli studi di letteratura fece studi di giornalismo negli Stati Uniti. Tornato in patria nel 1957 fu eletto al Parlamento e da quel momento iniziò la sua lunga carriera politica che lo vide leader del Partito della Sinistra Democratica. Fu primo ministro per cinque mandati. Nel 1974 prese la decisione di invadere Cipro. Negli anni Ottanta fu bandito dalla politica. Si riproporrà anni dopo, nel 1999 vinse le elezioni e rimase a capo del governo fino al 2002, quando il suo partito fu sconfitto alle elezioni. 6. Süleyman Demirel è nato nel 1924 a Isparta. Laureato in ingegneria, nel 1960 entrò nel mondo degli affari, alle dipendenze di una società statunitense. La sua carriera politica iniziò quattro anni dopo, quando venne eletto leader del Partito della Giustizia. La sua ascesa subì uno stop nel 1980 a causa del colpo di Stato. La sua lunga carriera politica lo vide cinque volte primo ministro (1965-71; 1974-78; 1991-93) e nono Presidente della Repubblica di Turchia dal 1993 al 2000, stesso anno in cui il suo partito scomparve dalla scena politica nazionale. 7. Il Saadet Partisi alle politiche del 2002 ottenne il 2,5% dei voti, insufficienti a superare la soglia di sbarramento del 10% prevista nel sistema elettorale turco. Il partito però è l’unico ad avere una struttura organizzativa diffusa sul territorio e spesso svolge più una funzione sociale che politica. Grazie a questo suo radicamento territoriale, SP ha ottenuto alle amministrative del 2004, il 4,1% dei voti. Il magro risultato del 2002 era stato determinato dall’affermazione del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, anch’esso filo-islamico, anche se più moderato. 8. FAULKNER, Thomas, «Necmettin Erbakan obituary», in The Guardian, 28 February 2001, p. 2. 9. L’espressione “Islam politico” è stata coniata dall’orientalista francese Oliver Roy nel libro ROY, Oliver, L’Échec de l’Islam politique, Paris, Le Seuil, 1992. Non è facile dare una definizione certa del concetto di Islam politico, in generale si rifà alla dottrina portata avanti dai Fratelli Musulmani in Egitto, ma la Turchia presenta delle caratteristiche peculiari soprattutto rispetto alla sua società civile, suddivisa in due blocchi. Da un lato chi ha uno stile di vita occidentale, laico e moderno, dall’altro quanti seguono uno stile di vita improntato ai dogmi religiosi. Il linguaggio politico occidentale fa spesso un uso ampio, elastico e scorretto di questi termini, confondendo l’islamismo con l’Islam. 10. MUSAWI, Sadrodin, «Erbakan’s anti-Zionist Identity», in Islamic Awakening, 1, 8/2013, p. 6. 11. Gli Stati Uniti durante il governo Erbakan del 1996 continuarono a mantenere un atteggiamento di distanza, non lo invitarono a Washington, ma seguirono sempre il protocollo previsto. 12. MANGO, Andrew, Turkey, the Challenge of a New Role, London, Praeger, 1994, p. 17. 13. MAKOVSKY, Alan, «How to deal with Erbakan», in Middle East Quaterly, 3/1997, p. 4. 14. MAZLUMI, Mohammad Reza, «Erbakan’s Most Popular Speeches», in Islamic Awakening, 1, 8/2013, p. 8. 15. Questa posizione si rifà alla tesi del complotto ebraico massonico che investì anche la Turchia nei primi anni Sessanta del Novecento. 16. La città di Konya era una roccaforte dell’Islam politico.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 152

17. KRAMER, Heinz, A changing Turkey, Washington, Brookings Institution Press, 2000, p. 64. 18. Ibidem, p. 65. 19. Fino alla fine degli anni Novanta era un movimento che aveva come base geografica la Turchia e non aveva ancora avuto l’occasione di espandersi. Dopo tale data si affermò anche fuori dai confini nazionali, creando sezioni anche nei paesi europei. Oggi l’associazione è presente soprattutto in Germania, ma anche in Francia, Paesi Bassi, Austria, Italia ed in altri paesi europei per un totale di circa mezzo milione di membri. 20. NOCERA, Lea, La Turchia Contemporanea, Roma, Carocci, 2011, p. 64. 21. CARRETTO, Giacomo E., «La crisi di governo in Turchia e la formazione del governo Ecevit», in Oriente Moderno 54, 1 3/1974, p. 40. 22. Gli esponenti del MSP che facevano parte del governo Ecevit erano Süleyman Arif Emre, Ministro dello Stato; Şevket Kazan, Ministro della Giustizia; Oğuzhan Asıltürk, Ministro degli Interni; Fehmi Adak, Ministro del Commercio; Korkut Özal, Ministro dell’Approvvigionamento, Agricoltura e Allevamento; Abdülkerim Doğru, Ministro dell’Industria e della Tecnologia. 23. Tra il 1975 e il 1980 si ebbero un governo di transizione guidato da Sadi Irmak, tre governi guidati da Demirel, (due dei quali con l’appoggio di Erbakan, Fronte nazionalista), e due governi di Ecevit. 24. In Turchia l’esercito ha costruito la Repubblica attraverso la guerra di Liberazione Nazionale, questo gli conferisce un potere enorme, rendendolo un simbolo nazionale e, al contempo, uno strumento per preservare la nazione voluta da Atatürk e portata avanti dai suoi successori, primo fra tutti Ismet Inönü. 25. IMTIAZ, Ali, «Refletions on the army and the Islamist in Turkey», in Pakistan Horizon, 51, 1/1998, p. 64. 26. Ahmet Kenan Evren è nato nel 1917 vicino a Manisa. Dopo il colpo di Stato del 1982 divenne uno degli uomini più potenti della Turchia. Lasciato l’esercito fu eletto Presidente della Repubblica, detenendo il potere fino al 1989. 27. Alparslan Türkeș, nato a Cipro nel 1917, durante la Seconda guerra mondiale era un fervente panturchista, fu uno dei principali organizzatori del colpo di Stato del 1960. Nello stesso anno divenne addetto militare in India. Tornò in patria nel 1965 e poco dopo diventò il leader dell’ultranazionalista Partito d’Azione Nazionalista. Collegato al Partito il movimento dei Lupi Grigi, movimento nazionalista accusato di vari attentati, il più famoso quello compiuto ai danni di Giovanni Paolo II. Dopo il colpo di stato del 1980 Alparslan fu allontanato dalla politica, rientrò in scena nel 1987. Morì dieci anni dopo. 28. Tra essi il più famoso, anche tra i turchi emigrati in Europa, era il gruppo della Voce nera, di Hoca Cemalettin Kaplan, che viveva in Germania e teorizzava uno Stato islamico, alla stregua dell’ayatollah Khomeyni in Iran. 29. Alle elezioni comunali del 1984 il Refah ottenne il governo di 17 comuni e due province, cinque anni dopo i comuni controllati erano 100. 30. Per approfondimenti vedere: ARAT, Yeșim, «On Gender and Citizenship in Turkey», in Middle East Report, 1/1996, pp. 28-31. 31. DEVRIM-BOUVARD, Nukte, «Turkish Women and the Welfare Party. An interview with Şirin Tekeli», in Middle East Report, april-june 1996, p. 28. 32. GÜLALP, Haldun, «Islamist Party Poised for National Power in Turkey», in Middle East Report, 194-195/1995, p. 56. 33. FEROZ, Hamed, «Politics and Islam in Modern Turkey», in Middle Eastern Studies, 27, 1/1991, p. 16. 34. FERRARI, Antonio, «Turchia patto laico contro gli islamici», in Corriere della Sera, 27 dicembre 1995, p. 7. 35. FERRARI, Antonio «Turchia, Erbakan rinuncia», in Corriere della Sera, 20 gennaio 1996, p. 9.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 153

36. Mesut Yılmaz è nato nel 1947 a Istanbul; nel 1971 si è laureato in scienze politiche all’Università di Ankara, proseguendo poi gli studi a Colonia. Nel 1983 è stato tra i fondatori del Partito della Madrepatria; è stato nominato dapprima Ministro degli Esteri e poi, per due volte, nel 1991 e nel 1996, Primo ministro. 37. Tansu Çiller è nato a Istanbul nel 1946; dopo aver ricevuto un’istruzione di tipo occidentale si dedica alla carriera accademica. È entrata in politica all’inizio degli anni Novanta, diventando in breve tempo leader del Partito della Giusta Via e subito dopo Primo ministro (1993). È stata protagonista della scena politica fino al 1996; a partire da questa data si aprì un lungo periodo di declino che culminò con il ritiro, nel 2002. 38. Varie fonti ventilavano l’ipotesi che i due leader avessero raggiunto l’accordo perché Erbakan promise di votare contro l’inchiesta che coinvolgeva la Çiller per presunti fondi neri; in cambio la Çiller lo sostenne e votò assieme ai compagni di partito la fiducia in Parlamento. 39. BOHLEN, Celestine, «Islamic-Secular Coalition Cabinet Is Approved in Turkey», in New York Times, 9 July 1996. 40. FERRARI, Antonio «Erbakan salvato dai voti della Çiller. Via al governo», in Corriere della Sera, 9 luglio 1996, p. 8. 41. AYDITAȘBAȘ, Aslı, «The Malaise of Turkish Democracy», in Middle East Report, 209/1998, p. 33. 42. FERRARI, Antonio, «Turchia: il premier sorvegliato speciale», in Corriere della Sera, 30 giugno 1996, p. 7. 43. Per quanto riguarda la politica estera, Erbakan si dedicò alla costituzione di un gruppo economico denominato D8, che costituiva secondo il premier un alternativa economica all’Europa. 44. YAVUZ, Hakan M., «Political Islam and the Welfare (Refah) Party in Turkey», in Comparative Politics, 30, 1/1997, p. 73. 45. FERRARI, Antonio, «I militari processano Erbakan», in Corriere della Sera, 1 marzo 1997, p. 12. 46. FERRARI, Antonio, «Turchia, voto anticipato Erbakan messo all’angolo», in Corriere della Sera, 2 giugno 1997, p. 12. 47. Recep Tayyip Erdoğan è nato a Istanbul nel 1954. Ha intrapreso l’attività politica alla fine degli anni Settanta diventando leader del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo. Il suo partito vinse le elezioni legislative del 3 novembre 2002, è primo ministro dal 14 marzo 2003. Figura di spicco del disciolto Partito del Benessere, di ispirazione islamico-conservatrice, è divenuto una figura politica di rilevanza nazionale come sindaco di Istanbul. 48. Per approfondimenti vedere: KOGACIOĞLU, Dicle, «Progress, Unity, and Democracy: Dissolving Political Parties in Turkey», in Law & Society Review , 38, 3/2004, pp. 433-462. 49. RAMPOLDI, Guido, «Turchia, fuorilegge gli Islamici», in la Repubblica, 17 gennaio 1998, p. 15. 50. Abdullah Gül (1950), economista e professore universitario, ha studiato scienze economiche alla Facoltà di Economia dell’Università di Istanbul. È stato eletto in Parlamento nel 1991 come deputato del collegio di Kayseri tra le file del Partito del Benessere (Refah Partisi). A seguito della dissoluzione del Partito è stato tra i fondatori del Partito della Virtù (Fazilet Partisi). Allo scioglimento di questo, nel 2001, ha aderito al Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi). La sua carriera politica è stata in continua ascesa: dopo essere stato deputato in varie legislature, è stato nominato Ministro degli Esteri nel marzo del 2003, Primo Ministro dal 18 novembre 2002 all’11 marzo 2003 ed è attualmente Presidente della Repubblica di Turchia. 51. Questo partito fu disciolto nel 2001: al suo interno si accese una disputa tra l’ala conservatrice e l’ala progressista che voleva trasformare il partito in un movimento di centrodestra che non faceva più ricorso alla retorica religiosa. 52. DUMAN, Ismail, «Divisions in Erbakan’s movement», in Islamic Awakening, 1, 8/2013, p. 14. 53. Per approfondimenti vedere: UGUR, Ikinci, «The Walfare Party’s Municipal Track Record: Evaluating Islamist Municipal Activism in Turkey», in Middle East Journal, 53, 1/1999, pp. 75-94.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 154

54. Per approfondimenti vedere: SEBNEM, Gumuscu, DENIZ Sert, «The Power of the Devout Bourgeoisie: The Case of the Justice and Development Party in Turkey», in Middle Eastern Studies, 45, 6/2009, pp. 953-968. 55. Questa teoria è dimostrata dai risultati elettorali che vede gli islamisti del Partito della Felicità sconfitti anche nella loro roccaforte storica, Konya. 56. SHANKLAND, David, «Islam and Politics in Turkey: the 2007 Presidential Elections and Beyond», in International Affairs 83, 2/2007, p. 361. 57. Anche se entrambi sono considerati islamisti, la loro politica, specialmente quella estera è completamente differente, per approfondimenti su quest’aspetto vedere: BRENT, E. Sasley, «Turkish Leaders and Foreign Policy Decision Making: Lobbying for European Union Membership», in Middle Eastern Studies 48, 4/2012, pp. 553-566. 58. BOZKURT, Abdullah, «Erbakan criticizes Israel accuses Erdogan of being part of Jewish cospiracy», in Today’s Zaman, 12 juny 2006, p. 1. 59. PUPCENOKS, Juris, «Democratic Islamization in Pakistan and Turkey: Lesson for the Post Arab Spring Muslim World», in Middle East Journal, 66, 2/2012, p. 285.

RIASSUNTI

Fin dai suoi albori la repubblica turca ideata da Atatürk ha rifiutato l’islam politico, facendo di questa negazione uno dei suoi cardini. Necmettin Erbakan, scaltro e navigato uomo politico, ha cercato per anni di scardinare questo principio e ha rappresentato la frangia più importante dell’Islam politico in Turchia. La sua parabola è stata una cartina di tornasole degli avvenimenti politici e sociali che hanno interessato il paese, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso fino alle soglie del Duemila. La sua statura politica lo ha reso un attore della scena politica turca e uno degli uomini più temuti dal sistema militare, che in Turchia ricopre da sempre un ruolo di primo piano per la stabilità dello Stato. Scopo di questo saggio è scoprirne la figura e l’opera politica, contestualizzandole all’interno del sistema politico turco.

From its earliest years, one of the cornerstones of the Turkish Republic created by Atatürk had been the rejection of political Islam. Necmettin Erbakan, who was an astute and skilled politician, had tried for years to demolish this principle. He was the symbol of political Islam in Turkey. His parable has been a litmus test of the political and social events that affected the country, from the 1960s to the 21st century. His political stature made him an actor on the Turkish political stage, feared by the military system, which has always played a very important role in the protection of the state solidity. The purpose of this essay is to discover his figure and his political work, contextualizing it within the Turkish political system.

INDICE

Keywords : Necmettin Erbakan, political Islam, Refah Party, Turkey, Turkish political party system Parole chiave : islamismo politico, Necmettin Erbakan, Partito Refah, sistema partitico turco, Turchia

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 155

AUTORE

EMANUELA LOCCI Dottore di ricerca presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Cagliari. Il suo principale filone di ricerca riguarda la storia della massoneria nell’Impero Ottomano e nell’area del Mediterraneo, con particolare attenzione ai paesi musulmani.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 156

Ecos de la Guerra Civil Española La derecha nacionalista y los frentes antifascistas en los espacios locales argentinos

Rebeca Camaño Semprini

Introducción

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 157

1 La Guerra Civil Española ha sido interpretada como la expresión suprema de un enfrentamiento global que se desenvolvía al compás del avance de los años treinta. En efecto, para el historiador inglés Eric Hobsbawm esta contienda puede ser entendida como una guerra civil ideológica internacional porque suscitó el mismo tipo de respuestas en la mayor parte de los países occidentales y porque en todas las sociedades se registró el enfrentamiento entre fuerzas pro y antifascistas1. En este sentido, tuvo la facultad de polarizar la opinión pública mundial, convirtiendo al fascismo y la democracia en los dos polos del discurso político capaces de funcionar en contextos políticos muy distintos2.

2 En Argentina, su estallido coincidió con la reactivación de una vida política hasta entonces languideciente, otorgándole a los conflictos locales una proyección inusitada3. Para entonces ya habían transcurrido casi seis años desde el golpe de Estado que derrocó al presidente radical Hipólito Yrigoyen. Luego de una breve dictadura militar y un fracasado ensayo corporativista encarnados en el general Uriburu, a partir de 1932 bajo la presidencia del general Justo se había reafirmado el orden institucional liberal pero subordinado al uso sistemático del fraude electoral con el objetivo de evitar el retorno de los radicales al poder4. Si hasta 1935, éstos le allanaron el camino al mantener la táctica abstencionista, su decisión de concurrir a las elecciones significó un sinceramiento de las urnas que, en aras de mantenerse en el poder, llevó al Ejecutivo nacional y al bloque oficialista a profundizar los dispositivos de manipulación electoral5.

3 Las particularidades de su conservadorismo reformista permitieron que en el espacio cordobés fuera respetada la transparencia de los comicios, aun frente a la amenaza del radicalismo sabattinista6. Llegaría así a la gobernación un dirigente cuyos rasgos laicistas y anticlericales provocaron una fuerte oposición de los sectores conservadores y católicos que, con el escenario español como trasfondo, veían en este «liberal izquierdista» la amenaza del «caos y la anarquía».

4 Teniendo en cuenta dicho contexto, en el presente artículo nos proponemos reconstruir las respuestas que tanto el discurso como el accionar del gobierno sabattinista provocaron entre los sectores conservadores y católicos de Córdoba. Centramos nuestro análisis en las reacciones suscitadas por al menos cuatro aspectos: la decisión del gobernador Sabattini de combatir a las organizaciones paramilitares actuantes en la provincia; el apoyo electoral recibido del Partido Comunista y las posteriores libertades que se le otorgaban en el espacio provincial; la política social impulsada por el gobierno sabattinista en el marco de una nueva concepción del Estado y de las funciones que le correspondían; y, finalmente, el accionar de las autoridades provinciales y el posicionamiento del propio gobierno con respecto a los

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 158

enfrentamientos producidos entre fuerzas pro y antifascistas. Sirve como hilo conductor de nuestro trabajo la hipótesis de que la Guerra Civil Española operó como fermento para una campaña opositora tendiente a la desestabilización e intervención federal del gobierno de Amadeo Sabattini. Estos objetivos llevarían a los sectores conservadores y católicos a buscar en el suelo español un espejo donde proyectar la política cordobesa y en la guerra que lo ensangrentaba, un reflejo de las amenazas que la ceñían7.

1. «Si Córdoba es Madrid, el gobernador es su Largo Caballero»8: la política cordobesa en clave española

5 Como ya hemos mencionado, en 1936 el estallido de la Guerra Civil Española coincidió con una reactivación de la política argentina que en el caso cordobés adquirió características particulares. Contraviniendo los deseos del presidente Justo, en noviembre de 1935 el radicalismo cordobés triunfó sobre el Partido Demócrata en las elecciones provinciales y llevó a la gobernación al médico Amadeo Sabattini. El 17 de mayo de 1936, en su discurso inaugural ante la asamblea legislativa, sostuvo que 1930 había marcado el inicio de la «subversión institucional» en Argentina, en un contexto internacional signado por la «revisión del sistema democrático» y la proclamación de «gobiernos fuertes y de dictaduras sin control». Frente a estas sombras que asechaban a la democracia, Sabattini les advirtió a los grupos de extrema derecha: «Toda agrupación armada, que atente contra la libertad, la seguridad del Estado y las instituciones democráticas, será inexorablemente disuelta y enjuiciada por los organismos de la justicia represiva»9.

6 Las respuestas de los sectores conservadores no tardaron en llegar. Si el diario del Arzobispado cordobés criticó su «noción errónea de libertad, que sólo concibe amplia hacia la izquierda, pues mientras nada dijo de las dictaduras rojas extranjeras y de las formaciones comunistas de nuestro medio, se especializó en el ataque a las dictaduras derechistas y la disolución de las legiones armadas»10, el diario riocuartense «El Pueblo», de tendencia conservadora, denunció la orientación marcadamente izquierdista, tanto en lo económico como en lo social y en lo político del flamante gobernador11. Esta apreciación se repetiría días más tarde, cuando en una nota editorial el diario veía en España «Un espejo en que mirarnos» y advertía que «si no nos curamos a tiempo corremos el mismo riesgo de caer en la anarquía y en el caos»12.

7 Menos desapercibido aún fue este discurso para las organizaciones de la derecha nacionalista que operaban en la provincia de Córdoba. Especialmente fuerte en Río Cuarto, la Acción Nacionalista Argentina13 emitió un comunicado respondiendo al discurso de Sabattini, en el que identificaba «una simple y pura declaración de guerra». Vinculando esta actitud al apoyo que el comunismo le había prestado en las elecciones que lo llevaron al poder, los adunistas acusaban al gobernador de «[rendir tributo] a las pasiones de la turba comunista que contribuyó a exaltarlo al poder que hoy detenta. Ello constituía parte esencial del pacto celebrado, en vísperas electorales, con los grupos que obedecen las sugestiones de Moscú»14. Desairando las advertencias del gobernador, declaraban: las organizaciones adunistas de la Provincia continuarán su labor de proselitismo a pesar de la amenaza de disolución con que se les anatematiza sin nombrarlas. Bien saben ellas que legalmente no puede disolvérselas como a un terrón de azúcar en un

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 159

vaso de agua […] Hemos atendido de pie la declaración de guerra que importa el mensaje que replicamos. Con la fuerza invencible de nuestro ideal sabremos responder en toda emergencia15.

8 Cabe remarcar que este duelo entre el sabattinismo y el nacionalismo de derecha tenía lugar en un escenario marcado por la ofensiva conservadora (encarnada en la mayoría conservadora del Senado provincial, los sectores nacionalistas y la Iglesia Católica) contra el gobierno provincial, en pos de una malograda intervención federal16. Esto le otorgó al enfrentamiento ciertos rasgos característicos. En primer lugar, si bien las organizaciones no fueron disueltas como se había prometido, se multiplicaron las detenciones de sus dirigentes y militantes, se incautaron publicaciones e impidió la movilización de sus grupos de choque, haciendo de Córdoba el único lugar del país donde los grupos del nacionalismo de derecha fueron efectivamente reprimidos. En segundo lugar, la extracción social del nacionalismo de derecha cordobés remitía a aquellas familias que tradicionalmente habían mantenido un nexo privilegiado con el Estado, teniendo en sus manos el poder judicial, la universidad y los principales cargos en la administración pública. Una tercera característica remite al tipo de fascismo que, en el plano ideológico, se esbozó en Córdoba, cuyos «pies estaban en Italia, pero su mirada estaba puesta en España»17.

9 En el espacio cordobés el estallido de la Guerra Civil Española operó, en consecuencia, como un catalizador de tendencias pre-existentes dentro de la derecha conservadora provincial18. Las lecturas de la política local en clave española que proliferaron a partir de entonces, no solo obedecían al impacto emocional generado por el estallido de la guerra sino también a un objetivo político específicamente cordobés: la desestabilización del gobierno de Sabattini19. Una anticipación de lo que sería una constante en las editoriales de todo el período, fue dada poco antes del estallido de la guerra, cuando hacia mediados de julio de 1936, y en cumplimiento de lo decidido en el XXIII Congreso Ordinario del Partido Socialista el Centro Socialista riocuartense invitó tanto al partido radical y al comunista como a la Federación Obrera Local a integrar un frente popular20: «en defensa de las libertades políticas y civiles del pueblo argentino, de la integridad de la Ley Sáenz Peña21 y de las instituciones democráticas que consagra la Constitución; para sancionar el castigo de la violencia y el fraude electorales; la amnistía de los presos sociales y políticos y la derogación de la ley de residencia y de todo decreto o resolución administrativa que trabe el ejercicio de los derechos de palabra, de reunión, de asociación y de prensa; para obtener el reconocimiento legal de los partidos que aceptan la lucha en el terreno democrático, el cumplimiento de las leyes obreras, el control del capital financiero y la liberación nacional de la política imperialista y de los monopolios privados, y para luchar contra la desocupación, por la elevación del nivel de vida de la clase trabajadora y por los derechos de la juventud obrera y estudiosa»22.

10 La prensa conservadora no tardó en condenar esta posible acción conjunta, catalogándola de “contubernio” con fines meramente electoralistas. Para sostener sus argumentos, presentaba un tendencioso análisis del caso español: En España, para batir a los partidos de derecha, formóse el “Frente Popular”, en el que – como solo se trataba de aumentar cifras – se admitió desde el socialismo moderado de Prieto y al extremista de Largo Caballero, hasta los comunistas y anarco-sindicalistas. Los resultados no tardaron en dejarse sentir. Desde que triunfara ese “Frente Popular”, España no ha vivido un día tranquilo: la demagogia se ha desencantado con una serie interminable de crímenes y depredaciones23

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 160

11 Centrando el blanco de sus críticas en los comunistas, advertía que «Todas las uniones que se pretenda realizar integradas por agrupaciones de orientación antagónica, fatalmente habrían de conducirnos a situaciones caóticas como, por ejemplo, está ocurriendo en España en estos momentos»24. Leyéndolo en clave local, resulta clara en esta advertencia la alusión al apoyo electoral que el Partido Comunista le había prestado al sabattinismo en las pasadas elecciones provinciales. En efecto, ante la imposibilidad del triunfo de sus candidatos y del socialismo, los comunistas habían decidido apoyar a Sabattini, confiando en sus declaraciones de que «desde el gobierno, perseguirá a las legiones, dará libertad al movimiento obrero y al Partido Comunista, combatirá al imperialismo y el latifundio»25.

12 Estas no demasiado solapadas alusiones al gobierno sabattinista que, ahora en el poder, se negaba a reprimir al comunismo, se volvieron más explícitas con el estallido de la guerra: […] Esta cruenta tragedia que desangra al pueblo español, estaba prevista desde hace tiempo. Los gobiernos que se han venido sucediendo, no han podido imponer, en ningún momento, el principio de autoridad. Un pueblo sin gobierno capaz de dirigir sus destinos por las sendas del orden y de la libertad, es un barco que va a la deriva, expuesto a todos los embates […] El gobierno, atado por compromisos electorales, no tuvo la autoridad suficiente para hacer respetar la ley y España fue aceleradamente hacia la anarquía26.

13 Llamando la atención hacia el panorama provincial, alertaba: Es hora ya de que nos compenetremos de las realidades vivientes y palpables del momento actual. Hemos de convencernos de que [los comunistas] ya no se trata de “fantasmas” sino de organismos vivientes y activos, que van agrandando su figura y aumentando su prepotencia, al amparo de la imprevisión, de la tolerancia, de la inactividad y hasta de la desorganización de parte de quienes más obligados están a la defensa de nuestro régimen democrático, de nuestras instituciones y de nuestra organización social que, si tiene defectos, pueden y habrán de ser subsanados, sin la necesidad de encender la hoguera fratricida y destructora27.

14 También en clave española fue leída la política social impulsada por el gobernador Sabattini. Así, «El Pueblo» presagiaba un futuro sombrío para la provincia como consecuencia de la «política pseudo obrerista que viene desarrollando el actual gobierno» y de la tolerancia de la propaganda anarco-comunista28. Estas nuevas condiciones políticas, más favorables al mundo del trabajo, obedecían a la concepción sabattinista del Estado, haciendo de éste guardián de leyes y creador de derechos y desplazando la imagen del Estado vigilante, predominante en la provincia durante las primeras décadas del siglo XX29. El diario consideraba que esta política, lejos de cumplir con los postulados de la libertad, no hacía sino «burlarla, desconceptuarla, haciéndola servir para su propia destrucción»30, pues veía en toda campaña y toda acción de los comunistas «un veneno espiritual para el proletariado argentino»31.

15 Envolviendo así sus argumentos con el trasfondo internacional de la Guerra Civil Española, como un claro ejemplo de lo que Hobsbawm denominó guerra civil ideológica internacional, afirmaba: […] En momentos excepcionales como son los presentes, con la experiencia de lo puede dar y quiere el sovietismo ruso, con el ejemplo espeluznante del pueblo español, que sangra por todos sus costados, por la infiltración en el suelo de la madre patria de los extremistas más virulentos, lo menos que se puede pedir a los hombres que tienen sobre sí la responsabilidad del poder, es que, dejando de lado sus opiniones o criterios personales, se consagren a trabajar por el bien del pueblo

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 161

[…] Desgraciadamente el panorama actual, presenta un aspecto completamente distinto. Son los propios hombres de gobierno y sus organismos oficiales, los que encienden o fomentan los conflictos entre el capital y el trabajo. Desde arriba se auspician o miran con simpatía las frecuentes tentativas de extorsión de algunos gremios contra el capital privado […]32.

16 También en los editoriales del diario del Arzobispado cordobés se planteaban esmeradas analogías entre los republicanos españoles y los radicales cordobeses con el comunismo. En este sentido, bajo el título de «El comunismo y la protección oficial» a comienzos de agosto afirmaba: Tampoco los gobernantes de la España republicana han sido marxistas. Ni Alcalá Zamora ni Azaña lo son. Sin embargo […] pactaron con el marxismo […] y ha sido necesario que el Ejército, desesperadamente heroico, hiciera el máximo sacrificio, […] en procura de ahogar en sangre la hidra moscovita injertada en el pueblo español. No estamos lejos nosotros de seguir la misma suerte que la ensangrentada España. Vivimos los momentos preliminares de la revolución […] el comunismo de Córdoba canta loas diarias al gobierno, porque le permite el desenvolvimiento de su acción […] el propio gobierno está entregando armas a los comunistas […] En Córdoba se están formando ya milicias rojas, comunistas, como las que en España han arrojado contra el Ejército33.

17 Después de establecer como premisa inviolable que el gobierno cordobés ya no podía seguir protegiendo al comunismo, pues no se trataba de una «simple prédica, ya se preparan a la acción», instaba: «las autoridades superiores de la nación, por los medios a su alcance, deben investigarlo y obrar en consecuencia»34.

18 Haciéndose eco de esta información, «El Pueblo» advertía: «Se asegura que en los últimos meses, han entrado muchas armas en el territorio provincial, como igualmente que se fabrican explosivos clandestinamente»35. Vinculando estos rumores tanto con la posibilidad de una huelga poco menos que revolucionaria como con una eventual intervención federal, el diario nuevamente trasladaba el escenario español al provincial, previniendo: Diríase que los trágicos sucesos que ensangrientan el suelo hispano, tienen su repercusión en nuestro país, no solamente bajo una faz afectiva, sino que también, de reflejo, no estamos muy lejanos a correr el mismo riesgo. No faltan los que atribuyan al comunismo, el propósito de aprovechar el estado-ambiente, provocado por la guerra civil española, para presionar al proletariado argentino, mediante un plan de agitación intensiva36.

19 Una lectura similar fue realizada con motivo de la organización de un «Mitin de Adhesión a la República Española» del que participaron representantes del Partido Socialista, la Unión Cívica Radical, el Partido Comunista, la Federación Socialista Cordobesa, el Comité Pro Presos y Exiliados Políticos, diversos sindicatos locales y miembros de la colectividad española37. Advirtiendo sobre los peligros que acarreaba la inclusión de los comunistas, aseveraba que, en medio de una opinión pública riocuartense muy dividida en la apreciación de la Guerra Civil Española, «detrás de las masas populares que tan generosamente vierten sus sangre por la libertad», muchos veían «la acción de los que ansían imponer, en todo el mundo, la dictadura del proletariado, que son precisamente las organizaciones que – preparando sus milicias – venían preparando – para los campos de batalla – lucha de clases durante tantos años […] desde la tribuna, desde el libro y desde las columnas de la prensa»38. Por el contrario, con respecto a las filas revolucionarias del General Franco estos sectores no veían «solamente a unos generales dispuestos a implantar una dictadura de derechas, sino a ejército y pueblo dispuestos a librar la gran batalla para evitar que España caiga

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 162

en las garras de un régimen brutal, destructor de todas las tradiciones y de la paz social»39.

20 Teniendo en cuenta estos antecedentes, así como los rumores sobre el accionar comunista en la provincia ya referidos, «El Pueblo» instaba a radicales y conservadores a unir fuerzas y cerrar sus filas a la influencia extranjera: Por eso, por encima de los puntos que separan a nuestras dos grandes fuerzas políticas tradicionales, debe primar el interés superior de la Patria y de la República […] es necesario que, haciendo un paréntesis a sus diferencias, unan su acción para salvar nuestra democracia y hacer imposible la germinación de todo tendencia exótica en nuestro suelo. Y – en cuanto a la tragedia hispana – que tanta repercusión ejerce sobre nosotros, no ha de tener – para el bien de todos – otros efectos, que los de aprovechar las sabias enseñanzas que el final de la sangrienta lucha fratricida nos brinde40.

21 Un momento especialmente ríspido en esa hostilidad constante entre grupos nacionalistas de derecha y sectores antifascistas se daría a mediados de mes cuando, durante una visita extraoficial del Presidente Justo, fueron colocadas en la capital provincial dos bombas dirigidas contra la Iglesia Católica y el Ejército41. Si para el matutino cordobés del Arzobispado se trataba solo de las «primeras bombas» de un comunismo que empezaba «ya a razonar con la dinamita», llevándolo a sentenciar: «Estamos como en España. Los escalones para que los ácratas escalonen el parapeto de la anarquía, se encuentran en el gobierno»42, éste último buscó a los responsables entre las organizaciones políticas que promovían la intervención federal de la provincia43.

22 La orientación de las tareas de investigación de la policía cordobesa y la detención de militantes de organizaciones de derecha provocaron la indignación de la derecha católica y nacionalista44. Nuevamente la Junta Regional Sur de la Acción Nacionalista Argentina emitió un comunicado en el que declaraba: Que esas imputaciones solo constituyen el pretexto de que se ha querido echar mano para perseguir y encarcelar caprichosamente a los hombres del nacionalismo. Que mediante esas maniobras se pretende, además, confundir a la opinión honrada de la Provincia, que es la única que interesa a las fuerzas nacionalistas, ese intento no lo verán logrado los torpes calumniadores, porque es monstruosamente absurdo imaginar a los nacionalistas atentando contra el Ejército Nacional o la Iglesia Católica […] nadie ignora que “el prestigio” de barbarie y salvajismo de los enrolados bajo el trapo rojo, no necesita demostración y basta echar una mirada al sangriento escenario de la España actual, para saber cuál es la capacidad destructora y cual el designio criminal que caracterizan comunismo y a sus aliados[…]45.

23 Los enfrentamientos entre grupos nacionalistas y sectores radicales o de izquierda tendieron a recrudecerse en las semanas siguientes, siendo la Universidad Nacional de Córdoba y su colegio Monserrat el epicentro de la contienda. Al mediodía del 24 de agosto los profesores Nimio de Anquín (líder de la Unión Nacional Fascista)46 y Luis Martínez Villada fueron insultados por estudiantes antifascistas. Esa misma noche, militantes de la Federación Juvenil Comunista y de diversas agrupaciones reformistas irrumpieron en una conferencia que se dictaba en el Instituto de Derecho Civil de la UNC con vivas a la República Española y mueras al fascismo. En el colegio Monserrat «los estudiantes respetuosos de la Patria, de la Religión y de la Disciplina» reaccionaron violentamente ante los intentos de los estudiantes Alberto Sabattini y Pereyra Duarte de distribuir la revista «Estudiantina». Como consecuencia de estos incidentes

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 163

estudiantiles, fueron detenidos varios derechistas, lo que provocó la disconformidad de la prensa conservadora ante el comportamiento de la policía47.

24 Si para el diario católico los sucesos no sólo demostraban la existencia en la provincia de fuerzas comunistas organizadas sino también la colaboración de la policía, que había hecho «causa común con los rojos»48, «El Pueblo» criticaba su accionar, acusándola de una «tolerancia equivalente a la complicidad»: Pruebas irrebatibles han mostrado que elementos extraños a la Universidad participaron en las reyertas, formando en el bando de los comunistas o simpatizantes con esta tendencia, mientras que la policía se ha ensañado contra los estudiantes de tendencia nacionalista, a quienes ha atropellado, insultado y vejado; no solamente a ellos, sino también a sus amigos y familiares, entre los que se encuentran expectables caballeros de la sociedad cordobesa, incluso altos funcionarios de justicia49.

25 Y, bajo el editorial «Es necesario reaccionar», reclamaba la actuación del gobierno nacional: Los lamentables sucesos que acaban de ocurrir en Córdoba, imponen el deber – de parte de las altas autoridades de la Nación – de reaccionar a tiempo, impidiendo el avance de intromisiones extrañas a las casas de estudios […] La agitación comunista en la Universidad de Córdoba, se viene manifestando desde hace tiempo, habiéndose agudizado en los últimos días con la profusa difusión de panfletos y otros elementos de propaganda, hasta degenerar en la acción agresiva […] Todo eso pone de manifiesto una imperdonable subversión que el propio gobierno debe ser el más interesado en reprimirla, corregirla y evitarla. Los gritos de ‘Viva el Comunismo’, ‘Abajo el Fascismo’ y los de ‘Abajo el ejército’, lanzados en el interior de la Universidad de Córdoba, hablan con harta elocuencia de la necesidad de reaccionar a tiempo, si es que se quiere evitar dolorosas e ingratas consecuencias50.

26 Una lectura similar se produjo un mes más tarde, cuando el enfrentamiento entre componentes nacionalistas y antifascistas tuvo como escenario a la plaza principal de Río Cuarto. El 25 de septiembre, después de haber distribuido folletos bajo el título de «Alístense», miembros de la Acción Nacionalista Argentina fueron atacados por elementos comunistas. Los altercados se renovaron al día siguiente, incluyendo un despliegue de autos y disparos en la Plaza Roca. Esto motivó la movilización de las fuerzas policiales, la consecuente detención de varios nacionalistas, entre ellos Horacio Turdera y Luis G. Torres Fotherigham, dirigentes locales del adunismo y el secuestro de los referidos volantes51. Sugestivamente, uno de los diarios locales transcribe íntegramente su contenido: Alístese! No demore ni un día más. La Patria está en peligro. El comunismo, el capitalismo judío, los partidos socialistas, anarquistas e izquierdistas están complotados para undir [sic] el país en el abismo del desorden y el crimen. Los partidos políticos son incapaces de evitar la catástrofe que amenaza a la Patria. […] Entre tanto la marea roja sube amenazadora. La engrosan aun los que sin ser comunistas, sufren la desesperación que enjendra [sic] la actual organización política y social. Los partidos de los frentes (popular y Nacional) son incapaces de evitar el peligro que se avecina. España es un ejemplo de ello. […] El Nacionalismo es la única fuerza que puede salvar a la Patria de ese peligro. Está listo para salir contra el comunismo y sus aliados, contra el capitalismo explotador, contra todos los monopolios y oligarquías, contra todas las fuerzas del mal que se preparan para el asalto a mano armada. La Acción Nacionalista Argentina invita a todos (…) a ingresar a sus filas bajo el lema invencible de Todo por la Patria52.

27 En protesta por estas detenciones, la Junta Regional Sur de la A.N.A. volvió a emitir un comunicado, dirigido al Ministerio del Interior, en el que denunciaba a la policía de la

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 164

provincia y pedía el amparo de las autoridades nacionales, por no existir en Córdoba «ningún resorte eficaz para prevenir tales acontecimientos»53. A partir de entonces, esta organización apelaría recurrentemente al Ministro del Interior, Ramón Castillo, en un procedimiento similar al adoptado por la Unión Nacional Fascista, para denunciar al gobierno cordobés, entre otras razones, por la inexistencia de garantías constitucionales54. El diario conservador, por su parte, encontraba el origen de los enfrentamientos en «la acción de unos mozalbetes de tendencia roja» que malentendían el concepto de libertad con la aquiescencia de las esferas gubernativas, por lo que sentenciaba: «Si no se evitan esos atentados contra la libertad sin irritantes distingos, a no tardar tendremos que lamentar hechos muy graves que todavía estamos a tiempo de evitar»55.

2. Conclusiones

28 Trascendiendo las fronteras, la Guerra Civil Española permeó el discurso de contextos políticos muy diversos, multiplicando infinitamente los escenarios de una guerra civil ideológica internacional. En el espacio cordobés, su estallido prácticamente coincidió con la llegada a la gobernación del radical Amadeo Sabattini, dirigente caracterizado por su sesgo laico y anticlerical. Esto le permitió a la oposición conservadora y católica una pronta identificación con la España republicana, motivada no solo por el impacto emocional provocado por la guerra sino, fundamentalmente, por la búsqueda de desestabilización del gobierno sabattinista.

29 Tanto la efectiva represión de las organizaciones paramilitares de derecha y las libertades otorgadas en la provincia al comunismo – en marcado contraste con el resto del país – como la política social impulsada desde el gobierno merced a una nueva concepción del Estado, fueron los argumentos esgrimidos por los opositores para hacer de Sabattini el Largo Caballero argentino y de su gestión la antesala de una revolución anarquizante que solo podía evitarse con una Intervención Federal.

30 Dotada así de un fuerte arsenal discursivo que remitía constantemente a la trama de una guerra en la que proyectaba un reflejo de la política cordobesa, la oposición buscó influir no solo en una escindida opinión pública a través de los editoriales de la prensa católica y conservadora, sino también en el gobierno nacional. Denunciando la represión del accionar de las organizaciones nacionalista y las faltas de garantías constitucionales de que se consideraban víctimas, éste era interpelado a actuar antes de que fuera demasiado tarde y la política sabattinista desembocara en los trágicos sucesos que por entonces ensangrentaban el suelo hispano.

NOTAS

1. HOBSBAWM, Eric, Historia del siglo XX, Barcelona, Crítica, 1995, pp. 150-162. 2. ROMERO, Luis Alberto, Sociedad democrática y política democrática en la Argentina del siglo XX, Bernal, Universidad Nacional de Quilmes, 2006, p. 101.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 165

3. ROMERO, Luis Alberto, La Guerra Civil Española y la polarización ideológica y política: la Argentina 1936-1946, in Anuario Colombiano de Historia Social y de la Cultura, 38, 2/2011. Disponible en URL: p. 14. 4. Ibidem. 5. MACOR, Darío, Partidos, coaliciones y sistema de poder, in CATTARUZZA, Alejandro (Dir.) Nueva Historia Argentina, Tomo VII, Crisis económica y avance del Estado e incertidumbre política (1930-1943), Buenos Aires, Sudamericana, 2001, p. 80. 6. Ibidem, p. 62. 7. Para la elaboración de este artículo hemos consultado el Archivo del Arzobispado de Córdoba y el Archivo Histórico Municipal de Río Cuarto. 8. El senador nacional Matías Sánchez Sorondo había afirmado: «En el teatro Rivera Indarte uno de los oradores dijo, al rendirse un homenaje al asaltante y fugado Durruty, que “Córdoba será el Madrid de la Argentina”. Cuando leí esto, yo agregué: “Y Sabattini su Largo Caballero”». «Los Principios», 5 de diciembre de 1936. 9. TCACH, César, Entre la tradición conservadora y la tentación fascista: la derecha cordobesa contra Amadeo Sabattini, in Actas XI Jornadas Interescuelas/Departamentos de Historia, Universidad Nacional de Tucumán, 19 al 22 de septiembre de 2007. Versión en CD-Rom. 10. Los Principios, 18 de mayo de1936. 11. El Pueblo, 19 de mayo de 1936. 12. El Pueblo, 2 de junio de 1936. 13. Esta agrupación, también denominada ADUNA, había sido fundada en 1932 por uriburistas como Juan P. Ramos, Carlos Obligado y Alberto Uriburu. En 1935 parte del grupo cordobés se había unido al Fascismo Argentino de Córdoba, adoptando primero el nombre de Frente de Fuerzas Fascistas y luego, en 1936, el de Unión Nacional Fascista. Ver: BUCHRUCKER, Cristian, Nacionalismo y peronismo, Buenos Aires, Sudamericana, 1987, pp. 119, 176. 14. El Pueblo, 29 de mayo de 1936. 15. Ibidem. 16. TCACH, César, Un parto frustrado: la intervención federal a Córdoba (1936-37), in MACOR, Darío, PIAZZESI, Susana (Eds.), Territorios de la política argentina. Córdoba y Santa Fe, 1930-1945, Santa Fe, Universidad Nacional del Litoral, 2009, pp. 61-86. 17. TCACH, César, Entre la tradición conservadora y la tentación fascista: la derecha cordobesa contra Amadeo Sabattini, cit., p. 16. 18. Ibídem, p. 5. 19. Ibídem. 20. Hacia 1936 tanto el comunismo – siguiendo los lineamientos del VII Congreso de la Komintern de 1935 – como el socialismo promovían la conformación de Frentes Populares antifascistas. 21. Sancionada en 1912, esta ley había establecido el voto secreto, universal y obligatorio y, a la postre, permitido la llegada del radicalismo al poder. 22. El Pueblo, 15 de julio de 1936. 23. El Pueblo, 18 de julio de 1936. 24. Ibidem. 25. Los Principios, 27 de octubre de 1935, cit. in TCACH, César, UCR y PDNC: Democracia interna, voto directo y campañas electorales en la Córdoba de los ’30, Serie Voces y Argumentos, Documento de trabajo Nº 7, Córdoba, CEA, 2005. 26. El Pueblo, 22 de julio de 1936. 27. El Pueblo, 28 de agosto de 1936. 28. El Pueblo, 24 de septiembre de 1936. 29. PHILP, Marta, En nombre de Córdoba, Córdoba, Ferreyra, 1998, p. 82. 30. El Pueblo, 24 de septiembre de 1936. 31. El Pueblo, 1 de noviembre de 1936.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 166

32. El Pueblo, 24 de septiembre de 1936. 33. Los Principios, 2 de agosto de 1936. 34. Ibidem. 35. El Pueblo, 13 de agosto de 1936. 36. Ibidem. 37. El Pueblo, 8 de agosto de 1936. 38. El Pueblo, 9 de agosto de 1936. 39. Ibidem. 40. El Pueblo, 13 de agosto de 1936. 41. La primera estalló el 16 de agosto, rompiendo la puerta del Colegio Salesiano Pío X. La segunda, colada en los balcones de la sede de la 4ª División del Ejército, no llegó a explotar. Ver: TCACH, César, Entre la tradición conservadora y la tentación fascista: la derecha cordobesa contra Amadeo Sabattini, cit., pp. 11-12. 42. Los Principios, 17-18 de agosto de 1936. 43. TCACH, César. Entre la tradición conservadora y la tentación fascista: la derecha cordobesa contra Amadeo Sabattini, cit., p. 12. 44. Ibidem. 45. Los Principios, 22 de agosto de 1936. 46. Durante el bienio 1934-1935, Nimio de Anquín promovió la ruptura del Partido Fascista Argentino con el objeto de articular una organización fascista con epicentro en Córdoba y proyección nacional. Conocida primero como Fascismo Argentino de Córdoba, y luego como Frente de Fuerzas Fascistas (logró la incorporación de un sector de la A.N.A.), adquirió su denominación definitiva en 1936 con el nombre de Unión Nacional Fascista. Al respecto, ver: TCACH, César, La derecha ilustrada: Carlos Ibarguren, Nimio de Anquín y Lisardo Novillo Saravia (H), in Revista Estudios Digital, 22, 2009, URL: [consultado el 12 de febrero de 2014]. 47. TCACH, César, Entre la tradición conservadora y la tentación fascista: la derecha cordobesa contra Amadeo Sabattini, cit., p. 14. 48. Los Principios, 26 de agosto de 1936. 49. El Pueblo, 27 de agosto de 1936. 50. El Pueblo, 27 de agosto de 1936. 51. Ver: Justicia, 25-26 de septiembre de 1936 ; La Voz del Interior, 26 de septiembre de 1936. 52. Justicia, 25 de septiembre de 1936. Destacado en el original. 53. Los Principios, 3 de octubre de 1936. 54. TCACH, César, Entre la tradición conservadora y la tentación fascista: la derecha cordobesa contra Amadeo Sabattini, cit., p. 14. 55. El Pueblo, 27 de septiembre de 1936.

RESÚMENES

Trascendiendo las fronteras, en 1936 la Guerra Civil Española polarizó la opinión pública mundial, generando un amplio movimiento de apoyo tanto al gobierno republicano como al nacional. En Argentina, su estallido coincidió con una reactivación de la hasta entonces languideciente política, dándole a los conflictos locales una proyección inusitada. En Córdoba

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 167

sirvió como catalizador de tendencias preexistentes dentro de la derecha conservadora y operó como fermento para una campaña opositora al gobierno de Amadeo Sabattini.

Superando i limiti imposti dalle frontiere geografiche, nel 1936 la Guerra civile spagnola polarizzò l’opinione pubblica mondiale, creando un ampio movimento di sostegno sia al governo repubblicano sia a quello nazionale. In Argentina, lo scoppio del conflitto coincise con un risveglio della politica fino a quel momento sopita e diede agli scontri di portata locale una risonanza straordinaria: a Cordoba, la Guerra civile spagnola animò le tendenze preesistenti all’interno della destra conservatrice e operò da elemento scatenante per l’inizio di una campagna di opposizione al governo di Amadeo Sabattini.

Transcending frontiers, in 1936 the Spanish Civil War polarized world’s opinion, creating a broad movement of support for the Republican government and the national government. In Argentina, its outbreak coincided with a revival of the policy hitherto languishing, giving to local conflicts an unusual projection. In Cordoba it was a catalyst for pre-existing trends within the conservative right wing, and it operated as ferment for an opposition campaign to the government of Amadeo Sabattini.

ÍNDICE

Keywords: conservative press, Córdoba (Argentina), nationalist right, opposition, Spanish Civil War Palabras claves: Córdoba (Argentina), derecha nacionalista, Guerra Civil Española, oposición, prensa conservadora Parole chiave: Córdoba (Argentina), destra nazionalista, Guerra civile spagnola, opposizione, stampa conservatrice

AUTOR

REBECA CAMAÑO SEMPRINI Profesora y Licenciada en Historia por la Universidad Nacional de Río Cuarto (Córdoba, Argentina), Maestranda en Partidos Políticos en el Centro de Estudios Avanzados de la Universidad Nacional de Córdoba. Es becaria de posgrado del Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas y secretaria adjunta del Centro de Investigaciones Históricas de la Facultad de Ciencias Humanas de la UNRC.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 168

Tempo di inquietudini. La segreteria Natta raccontata da L’Unità (1984-1989)

Michelangela Di Giacomo

1 Quel che qui si propone è un esercizio di riordino degli eventi, focalizzando l’attenzione sulla rappresentazione di sé costruita dal vertice del Partito Comunista Italiano – e su ciò che di quella riflessione veniva trasmesso alla base attraverso «l’Unità» – negli anni della Segreteria di Alessandro Natta, cominciata nel 1984 dopo la morte improvvisa di Enrico Berlinguer e terminata con l’ascesa di Achille Occhetto, il Segretario “liquidatore” del Partito.

2 Non è questo il luogo per entrare nei dettagli dell’analisi sulle trasformazioni dei partiti nel post-fordismo1. Basterà dire che congiunture economiche positive, politiche neoliberiste finalizzate alla ristrutturazione e al rilancio delle grandi economie capitalistiche, una regressione sul terreno del welfare, nuovi modelli ideologici individualisti e l’assottigliarsi dei confini tradizionali di classe ingenerarono una reazione a catena che, a partire da revisioni strategiche e di articolazione dei fini, condusse molti partiti ad un vuoto identitario e ad una auto-contestazione ideologica che ne appannarono la funzione sociale e culturale. I partiti di massa si sono così trasformati in operatori del mercato della politica, “pigliatutto” che offrono beni di rapido consumo in cambio di favori elettorali, anziché incentivi simbolici e senso di appartenenza. Gli sviluppi del Pci e dei partiti sorti dopo il suo scioglimento non hanno fatto eccezione a questo schema2, sebbene il corpo dei legami che univano il “compagno” alla propria subcultura fosse ancora molto forte3.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 169

3 L’idea centrale è che ancora negli anni di Natta l’auto-rappresentarsi del Pci come soggetto forte della scena politica italiana permetteva alla sua leadership di mediare il conflitto tra le due soluzioni che pure ne fratturavano il gruppo dirigente, soluzioni coagulatesi nella dicotomia tra chi ancora definiva il Pci come un soggetto di alterità rispetto agli equilibri politici sorti dall’apertura della conventio ad excludendum e chi sempre più propendeva per un cambio di riferimenti culturali e un avvicinamento rapido alla sfera del nuovo socialismo. Nel momento in cui la centralità del proprio ruolo cominciò ad essere messa sotto accusa da una nuova leva di dirigenti e di intellettuali – che andavano acquisendo protagonismo dentro e intorno al partito – la mediazione al centro, operata più o meno proficuamente dai precedenti Segretari, risultò impossibile e si fece inevitabile lo slittamento verso posizioni che si ponevano come una rottura rispetto alla tradizione di “rinnovamento nella continuità”. Il saggio vuole ripercorrere questo processo di revisione, con tutte le sue contraddizioni, espresso dalla direzione del partito e trasmesso alla base attraverso il quotidiano. Dopo la vastissima monografia di Paolo Turi su “l’ultimo Segretario”4, questo non vuole essere né un tentativo di ricostruzione psicologica sul personaggio né tanto meno un lavoro esaustivo. Quel che si propone, piuttosto, è focalizzare l’attenzione attorno ad un periodo della storia del Pci alquanto poco studiato, offuscato dalla visibilità della gestione di Berlinguer prima e di Occhetto poi.

1. Aspettando il XVII Congresso

4 Natta, “il Professore”, era uno studioso, cresciuto nel solco della tradizione togliattiana, collaboratore di Berlinguer e sostenitore dell’“alternativa democratica” e della “questione morale”. Non era in cerca dell’incarico quando la situazione del Partito lo indusse ad assumersi tale responsabilità. Egli non si riconosceva né le doti di “creatività politica” e di inventiva, né il carisma e l’appeal del leader che riteneva fossero intrinseche al ruolo che gli si chiedeva di ricoprire. Nonostante ciò, «sia per il temperamento, sia per la mancanza di ambizione, sia per l’età avanzata, Natta era dunque una soluzione di garanzia per tutti»5.

5 Criticato da più parti, egli tentò di non smarrire il tracciato Togliatti-Berlinguer e di garantire un’immagine unitaria del gruppo dirigente e del partito in un momento propizio a divisioni. Natta, così come e forse persino più del predecessore – pur senza averne il fascino –, mirava ad un movimento innovatore, all’articolazione dei fini e all’ampliamento della garanzia del dibattito democratico con andamento impercettibile6. Interessante è la valutazione di Turi in merito all’atteggiamento di Natta: Di fronte ai mutamenti proposti, Natta non è mai stato un conservatore a oltranza, ma ha spesso assunto il ruolo di colui che appunta la sua attenzione al ‘riconoscimento’ di ciò che nel processo di innovazione si deve alla tradizione, piuttosto che garsi promotore in prima persona o sponsor acritico del nuovo7.

6 La necessità di porre rimedio alle evidenti tensioni tra miglioristi (Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Luciano Lama, e Napoleone Colajanni, per citarne alcuni, che si rifacevano a Giorgio Amendola e premevano verso la socialdemocrazia), sinistra ingraiana (con un radicalismo sempre più spinto verso le riforme istituzionali e l’attenzione ai movimenti) e “nuove leve” (con Occhetto e la sua idea di “governo di programma”) condusse Natta ad eccessive mediazioni, che lo esposero dapprima alla

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 170

critica del suo tradizionalismo, poi ad una generica richiesta di innovazione ed infine alla sostanziale pretesa di una «maggiore omologazione sia ai comportamenti politici sia agli orientamenti culturali e ideali che in quel momento raccoglievano più facili consensi»8.

7 Nel 1984 il Pci aveva ancora più di un milione e 600 mila iscritti9, ma si portava addosso il fardello dell’eredità di Berlinguer, il quale, accantonati “solidarietà nazionale” ed “eurocomunismo”, era venuto a mancare dopo aver solo enunciato una nuova linea senza aver avuto il tempo di chiarirla10. La Segreteria Natta doveva perciò rispondere a questioni incalzanti coniugando slancio propositivo e mantenimento delle posizioni, senza sapere come andare avanti ma non potendo tornare indietro11.

8 La ristrutturazione postfordista dell’economia industriale e l’esaurimento della spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre stavano modificando il sistema su cui il Pci aveva sviluppato quarant’anni di linea politica. La riorganizzazione della produzione e del mercato; la mondializzazione dell’economia e il parallelo regionalismo; la crisi dello Stato–Nazione; le politiche neoliberiste reaganiane e thatcheriane e le loro declinazioni neoconservatrici provinciali; la crisi del welfare e delle esperienze socialdemocratiche; l’emergere di nuove figure professionali e la perdita di identità della classe operaia; l’autonomo sviluppo dell’Europa comunitaria; l’aprirsi di orizzonti innovatori all’Est con la “perestrojka” di Gorbacëv; i grandi temi della pace, con le nuove possibilità di distensione offerte dai negoziati di Ginevra e al tempo stesso il sostegno all’economia basato sul riarmo; il divario crescente tra sviluppo e sottosviluppo, tra Nord e Sud del mondo; l’ecologismo; il rilancio dell’emancipazione femminile; la nuova caratterizzazione delle giovani generazioni. Ed ancora: la sensazione di opulenza anche in Italia, con un aumento del PIL del 2,5% annuo tra il 1983 e il 1987, comunque con tutte le tare di fondo – corruzione, consociativismo, indebitamento pubblico, distribuzione clientelare della spesa –; il blocco del sistema democratico nella prassi democristiana della cooptazione; lo spostamento centrista dei socialisti di Craxi e l’inasprimento della tensione a sinistra; e non ultimo lo sviluppo di una concezione della politica come gestione della quotidianità o espressione di un carisma personalistico12. Tutto ciò costituì una spinta ad intensificare nel Pci un’innovazione e un dibattito che sino ad allora rimanevano relegati ad alcune iniziative minori. La visibilità non si fece attendere. Il 17 gennaio 1985, in una conferenza stampa, Occhetto, membro della Segreteria e responsabile della Sezione Stampa e Propaganda dichiarò che il Pci era pronto a trattare, sulla base di programmi, con «tutte le forze democratiche, laiche e cattoliche, senza problemi di etichette»: era la “rivoluzione copernicana”13.

9 La sovrapposizione della nuova strategia all’“alternativa democratica”, sommata ai non rassicuranti dati sul tesseramento e sul bilancio14 , indusse ad affrettare la chiarificazione delle nuove scelte al Comitato Centrale già il 31 del mese. Dalla relazione del Segretario al CC traspariva quell’eccesso di mediazione che tanto gli veniva contestato: Natta si prodigava nella difesa della linea del giovane “delfino”, ma si guardava dall’adottarne le forzature15, riconducendo la “svolta” a quotidiano riassestamento della rotta, mentre personaggi autorevoli quali Sergio Segre e Colajanni16 mostravano segni di insofferenza rispetto ai modi con cui tale “svolta” era stata gestita.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 171

1.1 Il 12 maggio

10 All’alba di una nuova campagna amministrativa, il Pci era un partito non ancora stanco della sua tradizione17, che respingeva le «suggestioni venute avanti per una nuova Conferenza dei partiti comunisti» e si diceva pronto a rapportarsi con tutte le forze del movimento operaio indipendentemente dal loro nome18. Si auto-rappresentava come l’unico, forte ingrediente necessario per sbloccare il sistema del “bipolarismo imperfetto”19.

11 Sottesi a questa immagine, si mostravano però già alcuni segnali di dubbio. È il caso dell’intervento di Silvano Andriani, presidente del CESPE, che esprimeva la propria preoccupazione perché, sebbene il partito fosse riuscito a mantenere un alto grado di consenso, la sua area complessiva (sindacati, autonomie locali, comunicazione) stava perdendo potere a causa dell’insufficiente individuazione di «un insieme coerente di obiettivi e idee forza» trasversali alle forze sociali e del ritardo nella trasformazione delle organizzazioni e istituzioni (regioni, comuni ecc.) per adeguarle alla società20.

12 Mentre il tema del rinnovo delle giunte locali si intrecciava con quello del Referendum sui quattro punti di contingenza, la propaganda assumeva toni politici e imponeva la presenza sulla scena del gruppo dirigente centrale, chiamato ad affrontare temi che ben poco avevano a che vedere con la riprogettazione delle giunte di sinistra: dai convegni sul riformismo (Bologna, 23 febbraio 1985) e sui rapporti con la SPD (Frattocchie, 2-4 marzo), a quelli sui rapporti con i cattolici (Brescia, 16 marzo), agli incontri con gli operai dei poli industriali, quali Porto Marghera (1 marzo) e Bari (4 marzo), passando per tribune televisive21, elezioni primarie (17 marzo) e distribuzione di questionari di valutazione della gestione di sinistra (Genova, 10 marzo). Il tutto inframezzato da eventi che catalizzavano l’attenzione collettiva, quali il congresso di “rifondazione” della FGCI (Napoli, 21-24 febbraio) o l’incontro tra Natta e il neo- Segretario del PCUS Gorbacëv (Mosca, 14 marzo).

13 L’impressione rispetto al comportamento pre-elettorale del Pci è quella di una dispersività che distoglieva l’attenzione tanto dallo sbandierato “puntare ai programmi” quanto dalla valutazione dell’esperienza delle “giunte rosse”. Il tema di una “perdita di slancio” della vicenda amministrativa di comunisti e socialisti apparve solo nella prima intervista di Natta dopo le elezioni22 e non scalfiva la rivendicazione del significato storico di quell’esperienza23.

14 Un altro aspetto della campagna elettorale fu lo slittamento della richiesta di consenso dall’ambito locale a quello di governo. Natta, molto sicuro dei risultati e forse con ottimistica leggerezza, il 22 febbraio dichiarava che, qualora il Pci avesse riconfermato i risultati delle europee del 1984, si sarebbe sentito ulteriormente legittimato a richiedere un ruolo di governo24. Ma, osservava correttamente Paolo Mieli, così spaventò l’elettorato moderato con l’incubo del “sorpasso”25. Anche gli avversari, in primo luogo il Psi, avevano però interesse nel mantenere alto il livello di tensione, puntando a raccogliere i frutti di una rottura a sinistra e di uno sfondamento al centro. Le regionali26 videro un recupero della DC – che tornò al 35,5%. Il Pci si bloccò invece al 30,2%, non riuscendo né ad eguagliare i propri risultati della tornata amministrativa precedente (31,5% nel 1980) né a realizzare il sorpasso. Era la fine delle “giunte rosse”.

15 Il motto diventò «avviare subito l’esame critico»27 dato il risultato «non soddisfacente»28. Repentina fu la pioggia di voci che davano per spacciato il Pci, a partire da Scalfari29 – che leggeva i risultati come una secca sconfitta decretata dalla

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 172

fine dell’“effetto Berlinguer” e dall’insufficienza della questione morale a fronte dell’assenza di un programma –, passando per Mieli30 – per cui l’errore strategico, che mai Berlinguer avrebbe compiuto e che decretava la bocciatura della Segreteria Natta, era stato mettersi contro sia il Psi che la Dc – fino a Giorgio Bocca31 – secondo cui lo stallo elettorale corrispondeva a quello della funzione sociale e politica. Il Pci era però ancora il secondo partito italiano e aveva perso consensi non a favore degli avversari storici ma di schieramenti nuovi, quali i Verdi (alla loro prima candidatura, 1,7%), che l’elettorato aveva percepito come meno legati a prassi consociativistiche.

16 Nell’attesa del CC, si profilarono alcuni temi del dibattito che vi si sarebbe svolto. Uno degli interventi più lucidi fu quello di Luciano Guerzoni, Segretario regionale emiliano, il quale mise in luce quanto il partito avesse ignorato il calo di consenso che interessava i governi locali delle sinistre già da alcuni anni. La riflessione pre- e post- elettorale si era svolta a suo parere entro gli schemi di una consueta «riduzione della realtà entro categorie note» che non faceva cogliere la portata dei processi di mutazione sociale, finendo per non rappresentare nè la base sociale tradizionale nè una nuova base potenziale32.

17 Su questa linea, Natta propose una lettura del voto realistica, ma non disfattista. Riconosceva l’eccessiva politicizzazione del confronto, cui lui stesso aveva contribuito33, e la perdita di slancio dopo il primo quinquennio delle giunte di sinistra, dato che esse non avevano sempre mantenuto alti standard di moralità e correttezza e avevano avuto una «gestione troppo istituzionale e verticistica» che aveva fatto perdere il contatto con la base sociale. A ciò si sommava l’incapacità di rispondere adeguatamente allo spostamento “centrista” del Psi e di dare compattezza ad un movimento di massa. Aggiungeva, tuttavia, che era doveroso ricollocare queste incertezze in un ambito più ampio perché, di fronte all’inadeguatezza delle politiche neoconservatrici, «le forze di sinistra – e noi con esse – stentano nelle proprie risposte, ove non vogliano rendersi subalterne di orientamenti contraddittori con i propri valori costitutivi».

18 Il Segretario leggeva il voto come una sfiducia dell’elettorato al suo operato34 e come sintomo della necessità di avviarsi ad un più risoluto aggiornamento del partito, senza però riuscire ad imporre una nuova rotta. Le novità c’erano, ma ancora in controluce, e i contenuti avevano nuove sfumature ma affondavano ancora nelle categorie tradizionali. L’aspetto più rilevante era la menzione della necessità di una revisione della vita interna del partito: incalzante era l’esigenza di dare più alta considerazione alle istanze emerse dal dibattito, senza mettere in dubbio il fatto che «noi abbiamo sempre considerato – tutti – che non rappresentasse un incremento di democrazia l’organizzazione di tendenze e correnti e questo deve restare un punto fermo».

19 La relazione di Natta fu un brillante esempio di capacità diplomatiche, consentendogli di definire la linea della maggioranza che decide senza dover scontentare nessuno. Praticamente tutti35 finirono per adattarsi alla sua linea, piuttosto vaga, che voleva coniugare alternativa democratica, ricerca di convergenze, rapporto coi movimenti36 e difesa, critica, del proprio patrimonio identitario. Dietro l’unità, tuttavia, il seme delle divisioni era evidente nel carattere congressuale che aveva assunto questo CC con quasi 140 iscritti a parlare.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 173

1.2 Il Referendum

20 Nel frattempo, si era inasprito il confronto sul Referendum sulla revisione del sistema di indicizzazione dei salari noto come “scala mobile”, risalente al dopoguerra e reso più incisivo nel 1975 con l’adozione dei “punti di contingenza”. Il suo processo di revisione nel 1984, complicato dalle diverse posizioni assunte dai sindacati – e all’interno della Cgil tra socialisti e comunisti –, dal “decisionismo” del nuovo esecutivo socialista e dall’inasprirsi dell’opposizione comunista, sfociò in un documento del Ministro del Lavoro Gianni De Michelis, in cui si prospettava di ridurre gli scatti da pagare e compensarli con misure fiscali. Trasformato immediatamente in decreto, fu sottoposto al Parlamento dove i comunisti ricorsero all’ostruzionismo, che non evitò la trasformazione in legge37. Nonostante il dissenso della destra interna, il partito decise di mobilitare le piazze lungo la via referendaria come difesa della legalità costituzionale38. Il Pci vestì la corazza del solitario difensore della democrazia, sbandierando il vessillo morale di Berlinguer39. Mantenne basso il profilo del premio in palio, identificandolo nella correzione di rotta del governo e non nella fiducia ad esso, mentre Craxi alzava la posta scommettendo sulle proprie dimissioni in caso di vittoria del “Sì” e dipingendo scenari catastrofici per l’economia e l’occupazione.

21 Il 9 giugno si andò alle urne: la vittoria fu del “No” con il 54,3%. Il “Sì” raggiunse però il 45,7%, a riprova di un malcontento verso la politica economica del governo che andava oltre il solo elettorato comunista40. Il Partito comunista sostenne che, sebbene il “Sì” non avesse vinto, aveva avuto successo la formula del «voto secondo coscienza»41: il Pci non era affatto sconfitto e aveva dimostrato di essere ancora in grado di mobilitare da solo grandi masse. Mentre si infittivano «i dubbi intorno all’interpretazione data della realtà socioeconomica, all’adeguatezza degli strumenti di analisi, alla struttura del partito (comunicazione, linguaggio, rapporto con la società)»42, che si rispecchiavano nell’incalzante uso di termini come “rinnovamento”, “modernizzarsi”, “riformismo” negli interventi su «l’Unità»43, la Direzione delineava invece il profilo di una forza ancora grande, pronta a impegnarsi per trasformare le sconfitte in vittorie44.

1.3 Un’estate

22 In questo clima di sommessi fermenti e di apparente lentezza, il 5 luglio Natta spiazzò tutti, dicendosi intenzionato a convocare un Congresso entro la primavera dell’anno seguente. Era un’idea già ventilata45, ma Natta non chiedeva un Congresso straordinario46, quanto l’applicazione dello Statuto, che prevedeva la scadenza quadriennale come limite massimo. Tuttavia, un quadriennio è un arco temporale assai vasto durante il quale possono verificarsi avvenimenti e situazioni di grande rilievo che rendono opportuno un tempestivo appuntamento congressuale47.

23 Dietro la scelta di Natta vi erano la necessità di non diventare un Segretario della disgregazione e una serie di obiettivi precisi: perseguire il mutamento nella continuità; avviare un processo di rinnovamento – non un progetto nuovo –; adottare una politica che supplisse alla scarsa credibilità della proposta dell’alternativa, provata dal ridotto elettorato; rinnovare e rinsaldare il gruppo dirigente, impedendo che l’insuccesso mettesse in crisi il processo di accreditamento, nell’élite centrale del partito, del gruppo dei giovani dirigenti della “generazione dei quarantenni”, che hanno dato una prova

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 174

non soddisfacente nell’organizzazione della campagna elettorale e del referendum 48.

24 Si infittì da quel momento lo scambio di battute nel e con il Pci, approfittando dei mesi caldi per la riflessione. Lo scambio diretto riguardò «la Repubblica» e «l’Unità» e vi si toccarono tutti i nodi salienti dell’identità, dell’organizzazione, della rappresentatività, delle idealità e finalità dell’aggregato politico “Pci”. Tra luglio e settembre, solo su «l’Unità» e solo sotto il titolo Il dibattito sulla politica del PCI, furono pubblicati una quarantina di contributi: da Colajanni a Aldo Tortorella, da Occhetto a Andriani a Gaetano Arfè, da Armando Cossutta a Luciano Ghelli, Corrado Vivanti, Paolo Cantelli, Luciana Castellina, Lanfranco Turci fino agli operai della Piaggio e dell’Alfa di Arese.

25 In questa fase l’identità venne sempre più interpretata come qualcosa di contingente e perciò necessitante di molteplici corollari. Anzitutto vi era la questione del rapporto con la propria storia, soprattutto con il passato prossimo berlingueriano49: il passaggio all’alternativa, rimasto nel cambio di segreterie un tracciato nebbioso, diventava allora un processo per rinsaldare le convergenze, basandole su un programma che desse una nuova immagine al partito senza inseguire altrui modelli e lo facesse uscire dall’isolamento.

26 Il riferimento all’Europa e alle socialdemocrazie come carattere imprescindibile fu la novità più corposa. Uscire dal legame “affettivo” con l’URSS era l’ostacolo più arduo, poiché ad esso si collegava una radicata visione del mondo: la fuoriuscita dal capitalismo, il giudizio della democrazia, la gestione statale dell’economia. Ad esso si collegava anche la questione del centralismo democratico, della prassi dell’innovazione nella continuità e persino quella del nome. La conferma venne CC del 22-25 luglio, che fu quasi una prova generale del Congresso, in cui Natta propose una ricca agenda di impegni per il rinnovamento poi in massima parte disattesi50. Le direttrici europeistiche e riformatrici sembrarono diventare i nuovi binari per un ennesimo ed ancora indolore aggiustamento della ricollocazione del Pci al di fuori del vincolo esterno.

27 La confusione raggiunse l’apice e la base del partito ebbe l’impressione di una scarsa chiarezza tra gli stessi dirigenti, chiedendo che il Congresso avesse come precipua funzione quella di fornire alle periferie una linea unica da valutare e cui aderire51. Riassumere le posizioni emerse in quell’estate fu lo scopo del discorso con cui Natta concluse la Festa Nazionale dell’Unità. Mostrando «diffidenza per alcune fra le richieste di rinnovamento che mirano a superare la diversità di costume nella vita interna del Pci», egli sostenne che «il Pci non ha da recitare nessun mea culpa davanti a nessuno, né per il suo nome né per il proprio passato»52; che esso era critico tanto da riconoscere che il XX secolo era stato dominato dalle conquiste della socialdemocrazia ma che non smetteva di tenere presente che la stessa socialdemocrazia era in crisi poiché dai suoi traguardi erano scaturite condizioni nuove che non aveva saputo affrontare e su cui si basava l’offensiva di destra. Rispondere a quest’attacco con un “annacquamento” delle esigenze di fondo sarebbe stato un fallimento. Si apriva così una “seconda fase” di questo dibattito, caratterizzato da uno slittamento dalle tematiche generali al rapporto con le socialdemocrazie e il Psi. Al riguardo intervennero Giorgio Ruffolo53, Napolitano54, Baget Bozzo55, Pietro Ingrao56 e Massimo Salvadori 57, riproponendo la diatriba ormai “classica” che vedeva i “miglioristi” sempre più impegnati a difendere un avvicinamento ai socialisti – linea sostenuta dalla seconda metà dell’anno anche da Occhetto58.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 175

1.4 Un Congresso

28 Il CC che si apriva il 7 dicembre era chiamato ad esprimere la propria valutazione dei lavori della “Commissione dei 77”, voluta dall’assise precedente per delineare un progetto di documento sulla cui base indirizzare i lavori dei Congressi. La composizione della commissione aveva tentato di ricucire le scomposizioni, inserendo tutti i notabili del partito per svellere le aggregazioni correntizie e generazionali, dando a Occhetto e Massimo D’Alema il timone a riprova della volontà di “svecchiamento”. Due i perni innovativi del testo: appartenenza alla sinistra europea e partito di programma. All’abbandono della propria diversità, implicita nella dichiarata necessità di unirsi alle altre forze di progresso59, faceva da contrappeso la difficoltà di tagliare il cordone con l’URSS, evidente nella rivendicazione del valore storico dell’esperienza del 1917 60. Analogamente il desiderio di agire solo in base ai programmi era abbondantemente diluito61, presentando come dicotomiche le prospettive della Dc e del Pci. Insomma: nella gestione centrista di Natta, abile nell’alternare fermezza e flessibilità in modo da rendere coeso il gruppo dirigente, i cambiamenti ravvisabili nelle Tesi e nella piattaforma del Congresso costituiscono solo una parziale articolazione dei fini: il socialismo rimane fine ultimo62, sebbene sfumato dalla centralità democratica, dall’abbandono di ogni rivoluzionarismo e dal rifiuto della statizzazione integrale. In questa cornice si inserivano poi le considerazioni sulle “trasformazioni della società” (Capitolo III), sui nuovi “movimenti” (Capitolo IV) e sulle istanze del mondo che cambiava: la pace63, l’ecologia64, i rapporti tra i sessi65, l’occupazione66, le giovani generazioni67.

29 Le critiche a questa piattaforma non mancarono: un esempio fu una lettera di sette dirigenti della “destra” alla Commissione dei 7768 che venne pubblicata dal quotidiano del partito l’8 marzo. Vi si riconosceva l’oggettiva esigenza della base di trovare chiarezza e la scelta corretta del CC di non sottoporle testi contrapposti, ma vi si sottolineava al tempo stesso l’altra esigenza di salvaguardare la libertà di espressione delle idee di minoranza. Per riuscire in questo delicato equilibrio sarebbe stata appropriata una maggiore chiarezza, anzitutto sulle due linee del programma e dell’alternativa, ma anche sui futuri assetti al vertice e su eventuali dissensi nel gruppo dirigente, di cui la base aveva notizia ma rispetto alla cui risoluzione sentiva di essere inutile. Peraltro questa lettera si riferiva polemicamente a quella già scritta da un gruppo della “sinistra indipendente”, nella quale ci si dichiarava “sconcertati” non solo perché dall’esterno si sollecitava «un totale rovesciamento dell’identità» del partito, ma perché anche dall’interno si alzavano voci «tese a licenziare ogni discorso di valori e di fini»69.

30 Il dibattito stava sempre più uscendo dalle sedi precostituite per andare ad innestarsi in altri contesti: interviste e articoli, lettere aperte o manifestazioni “autopromosse”. Un atteggiamento diventato talmente diffuso da essere sancito dal Congresso, che decretò il diritto al dissenso anche al di fuori degli organismi interni70. Riconoscere la prerogativa di pubblicizzare posizioni personali anche contrarie a quella di maggioranza fu la chiave di volta dell’intero Congresso. La situazione si presentava composta da una svariata gamma di sfumature intorno alla dicotomia comunismo/ capitalismo; alle alleanze, in particolare col PSI, ma anche con i movimenti; e poi su una serie di corollari quali l’identità diversa in base alla questione morale o la rivendicazione della propria storia71.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 176

31 I riflettori restavano puntati anche sugli avvenimenti occorsi tra l’inizio dell’iter congressuale e l’apertura dell’assise72: il tormentato cammino per l’approvazione della Legge finanziaria 1986, per ottenere la quale il governo era stato costretto a chiedere più volte la fiducia; le dimissioni di Luciano Lama, che aveva passato il testimone della Cgil ad Antonio Pizzinato; la comunicazione dell’ISTAT in cui si registrava un calo del tasso di inflazione fino al 7,2%, toccando il livello minimo dal 1970, il che, accompagnandosi ad un rialzo record della borsa di Milano, aveva contribuito ad accrescere l’impressione di una notevole ripresa; le polemiche sull’intesa tra Franca Falcucci e il Card. Ugo Poletti per l’insegnamento della religione nelle scuole statali; i decreti di oscuramento e ripristino delle reti di Berlusconi in Piemonte; il caso Sindona. Una delegazione della Segreteria Natta aveva fatto inoltre il suo secondo ingresso al Cremlino per incontrare Gorbacëv, incontri che furono letti come l’attesa riconciliazione tra i due partiti, sebbene Natta fosse stato chiaro al in proposito73 . Non si trattava di un allontanamento dalla linea di Berlinguer, quanto piuttosto di uno sguardo favorevole all’«acuta riflessione critica sull’ultimo quindicennio», favorita dalla nuova gestione del Pcus e dal suo atteggiamento di apertura rispetto al dialogo con le socialdemocrazie. L’incontro fu salutato positivamente soprattutto da chi, come Cossutta, restava legato all’idea di una riformabilità del sistema sovietico, lasciando inalterato il giudizio sulla realizzabilità del socialismo74, ma ebbe notevole influenza anche su quella maggioranza di delegati che ancora consideravano l’URSS come un Paese modello75.

32 Il 9 aprile si aprì il XVII Congresso. Natta esordì: Noi siamo qui riuniti per trarre le conclusioni di una esperienza democratica che ha pochi paragoni possibili. La discussione che ci ha impegnati per molti mesi nei congressi delle sezioni e delle federazioni – e ancor prima di essi – ha appassionato non solo i comunisti, ma moltissimi che comunisti non sono; altri che duramente ci avversano76.

33 L’aura del “dibattito” faceva da filo conduttore al suo discorso, nell’insistere sulla «limpida discussione democratica», sui «limiti che il nostro dibattito ha avuto: limiti di quantità e di qualità», sull’ampliamento che lo avrebbe dovuto interessare per iniziare «una valutazione serena anche del periodo della solidarietà nazionale». Ci si è detto che noi comunisti dovevamo ripensare noi stessi; e qualcuno ha dubitato o dubita che fossimo capaci di farlo. Abbiamo dimostrato e stiamo dimostrando il contrario, ammenocché non si intenda la pura e semplice nullificazione più che del nome della cosa stessa che noi siamo e rappresentiamo77.

34 Senza «gettar via quasi fosse cosa indegna il patrimonio immenso di elaborazione, di sacrifici, di lotte di cui è fatto il nostro passato», le trasformazioni del partito si sarebbero dovute basare sulla capacità di «operare con nettezza le cesure che erano necessarie» nella rivisitazione della propria storia, costruendo un’identità “nel cambiamento”, mirando ad un «rinnovamento ideale, programmatico, organizzativo» e ad un «ringiovanimento dei quadri». L’obiettivo era «rafforzare e regolare con precisione il dibattito interno», per tutelare le possibilità di espressione delle «affinità di culture» che erano sorte nel Pci, evitando la loro cristallizzazione nel frazionismo e nell’ostilità reciproca. Così il partito avrebbe potuto tornare a trovare un’autonoma collocazione internazionale, in funzione dell’«inscindibile rapporto tra idealità socialista e cultura di pace». «Ci consideriamo parte integrante della sinistra europea»78, per e con la quale elaborare un programma che consentisse

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 177

l’individuazione esatta delle politiche necessarie a mantenere in equilibrio il rapporto tra Stato e mercato in situazioni diverse.

35 Il Congresso ebbe esito unitario, vedendo il ritiro di tutti gli emendamenti alle Tesi e l’acclamata riconferma di Natta. Nonostante ciò, le divisioni apparivano sempre meno conciliabili. Cossutta definì «un errore di storia, ma anche una capitolazione» le posizioni che identificavano democrazia e capitalismo, riproponendo la linea del superamento del secondo con esigenze nuove: «essere moderni non significa seguire la moda e i modelli altrui»79. Ingrao inseriva il problema del rinnovamento del partito in quello di un’ «alternativa strutturale che chiami in discussione l’assetto proprietario, i poteri dell’impresa, la natura dei rapporti tra Stato e società, la costruzione di una nuova unità politica europea», riproponendo a questo scopo un “governo costituente” per le riforme, indispensabili alla realizzazione successiva di un governo di programma. Piero Fassino, delegato di Torino, sfumavava in un accenno l’identità comunista, radicandone le basi non tanto nella Rivoluzione d’Ottobre, quanto nella «razionalità del secolo dei Lumi, nei valori di uguaglianza e di libertà della Rivoluzione Francese e del Risorgimento», potendo così invitare su questa base il PSI a costruire «insieme una modernità vera». Napolitano incalzava sulla necessità di compiere un «balzo in avanti nella caratterizzazione del nostro partito nel senso di un “moderno partito riformatore parte integrante della sinistra europea”», ovvero «il nostro modo di essere comunisti oggi», guardando all’aprirsi della «possibilità di portare avanti un processo effettivo di avvicinamento tra forze fondamentali della sinistra».

36 Quello che si concludeva senza Occhetto, impedito da un lutto familiare, ma con l’approvazione di gran parte delle Tesi nella versione cui lui stesso aveva lavorato, fu un Congresso che avrebbe voluto impostare alcune novità per l’organizzazione80, snellendone la struttura e la burocrazia. Ma che ribadì anche «il rifiuto delle correnti» e mantenne un’aura mitica attorno allo sbocco decisionale unitario e ad una diversità foss’anche solo formale. La struttura non subì una trasformazione evidente: il CC e la CCC non furono interessati da mutamenti funzionali e il 68,6% dei loro membri fu riconfermato. La Direzione vide invece l’ingresso di 19 elementi nuovi, a scapito di Cossutta, Barca, Perna e Vecchietti81, esclusioni che costituirono solo l’abbozzo di un turn over giacché la generazione dominante era ancora quella degli ultrasessantenni: segnava comunque l’avvio di un processo, sebbene dal carattere di spiccata gradualità. La Segreteria fu “ringiovanita” con l’inserimento di tre “quarantenni” (Gavino Angius, D’Alema e Livia Turco). «La logica unitaria è nelle intenzioni una copertura all’operazione di passaggio generazionale, con l’intento di evitare le conseguenze laceranti della redistribuzione di potere in corso82», nel cui ambito Occhetto diventava Coordinatore della Segreteria. Nuova era poi la decisione di attuare un “Ufficio di programma”, presieduto da Natta e diretto da Lama, in cui si rifugiarono i “sessantenni”.

37 Fu un Congresso che, per quanto carico di volontà e ambizioni rinnovatrici, nei fatti non riuscì ad essere molto più di un’indicazione per l’avvio di un iter trasformatore, perché le innovazioni non «costituiscono una massa critica sufficiente» e perché erano «promosse da una leadership connotata come continuista ed ortodossa», mancando inoltre un «turn over accelerato negli organismi dirigenti» e «una decisiva pressione esterna»83. Il Pci non era immobile, ma ancora poteva muoversi lentamente e nel segno della continuità.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 178

38 Il movimento si fece brusco dal 1987, quando il Pci subì una cocente sconfitta elettorale84, la colpa della quale fu attribuita all’inadeguatezza della struttura a raccogliere le nuove esigenze che venivano dalla società: molta parte dell’élite del partito abdicò alla difesa del suo ruolo storico e sociale per farlo invece slittare in una rincorsa alle nuove forme di “modernità socialista”. Se l’input esterno imposto dalla caduta del Muro di Berlino due anni dopo fu la causa occasionale della crisi finale, quella crisi era però già ben presente nel Pci stesso da alcuni anni e il suo sintomo era proprio il crollo nell’immagine di sé e nella fiducia in sé stesso negli animi dei suoi dirigenti più giovani.

NOTE

1. Per un’agile raccolta del dibattito e delle ricerche recenti sui partiti e sulle loro trasformazioni: BARDI, Luciano (a cura di), Partiti e sistemi di partito, Bologna, Il Mulino, 2009. 2. IGNAZI, Piero, Dal PCI al PDS, Bologna, Il Mulino, 1992, p. 7. 3. ACCORNERO, Aris, MANNHEIMER, Renato, SEBASTIANI, Chiara, L’identità comunista: i militanti, la struttura e la cultura del Pci, Roma, Editori Riuniti, 1983; POSSIERI, Andrea, Il peso della storia, Bologna, Il Mulino, 2007. 4. TURI, Paolo, L’ultimo Segretario. Vita e carriera di Alessandro Natta, Padova, Cedam, 1996. 5. MAFAI, Miriam, Botteghe oscure, addio, Milano, Mondadori, 1996, p. 141. Cfr. anche CHIARANTE, Giuseppe, Da Togliatti a D’Alema, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp. 197-199. Per una biografia: TURI, Paolo, op. cit. 6. Lo notava già Luciano Lama: BADUEL, Ugo, «Lama: “Vi dico con franchezza”, intervista a Luciano Lama», in l’Unità, 19/7/1985. 7. TURI, Paolo, op. cit., p. 455. 8. CHIARANTE, Giuseppe, op. cit., p. 203. 9. Dati in l’Unità, 20 gennaio 1985. 10. Sull’ultimo Berlinguer: AGOSTI, Aldo, Storia del PCI, Roma-Bari, Laterza, 1999; VALENTINI, Chiara, Berlinguer il segretario, Milano, Mondadori, 1987; GUALTIERI, Roberto, Il PCI nell’Italia repubblicana, Roma, Carocci, 2001; BARBAGALLO, Francesco, Enrico Berlinguer, Roma, Carocci, 2006. 11. ASOR ROSA, Alberto, La sinistra alla prova, Torino, Einaudi, 1996, p. 69. 12. Tra gli altri per un quadro generale: LANARO, Silvio, Storia dell’Italia repubblicana, Padova, Marsilio, 1992; COLARIZI, Simona, CRAVERI, Pietro, PONS, Silvio, QUAGLIARIELLO, Gaetano, Gli anni Ottanta come storia, Soveria Mannelli, Rubettino, 2004; SABBATUCCI, Giovanni, VIDOTTO, Vittorio, Storia d’Italia, vol. VI, Roma-Bari, Laterza, 1999; CRAINZ, Guido, Il Paese reale, Roma, Donzelli, 2013. 13. BOTTA, Gregorio, «Ora il PCI apre a tutti ‘Trattiamo sui programmi’», in la Repubblica, 18 gennaio 1985; «’Convenzione elettorale’ del PCI: confronti, programmi e candidature», in l’Unità 18 gennaio 1985. 14. IBBA, Fausto, «Come sono i comunisti? Il computer li vede così», in l’Unità, 20 gennaio 1985: «Comunque è un’attenuazione dell’emorragia che colpisce il PCI dal ’77, con un -11% di iscritti fino all’84 […]. È acuto il problema giovanile, soprattutto nella fascia 18-24 anni. Il gruppo più folto è 30-40 anni, entrati dopo il 1969 o tra il ’75-’79. […] È l’immagine di un partito mobile, con

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 179

tessere nuove, che esercita attrazione ma che non è capace di conservare le adesioni»; «Bilancio del PCI consuntivo 1984», in l’Unità, 27 gennaio 1985. 15. NATTA, Alessandro, «Relazione al Comitato Centrale. 31 gennaio-1 febbraio 1985», in l’Unità, 1/2/1985. 16. Ibidem. 17. NATTA, Alessandro, «Conclusioni al Comitato Centrale del PCI, 31/1-1/2/1985», in l’Unità, 2 febbraio1985. 18. Cfr. intervista di Natta al jugoslavo Nin, gennaio 1985; intervento di Ugo Pecchioli al Congresso del PCF, in l’Unità, 9 febbraio 1985. 19. GALLI, Giorgio, Il bipartitismo imperfetto, Milano, Mondadori, 1966. 20. ANDRIANI, Silvano, «Intervento al CC. 31 gennaio-1 febbraio 1985», in l’Unità, 1 febbraio 1985. 21. Le apparizioni televisive di Natta: Punto 7, Canale 5, 3 febbraio 1985; Tribuna Elettorale, RAI1, 6 aprile 1985; Rete4, 7 aprile 1985. 22. LEDDA, Romano, «Intervista con Natta», in l’Unità, 19 maggio 1985. 23. «L’unica garanzia che non si tornerà indietro», appello del PCI per le elezioni amministrative, in l’Unità, 12 maggio 1985. 24. «Tavola quadrata con Natta», intervista collettiva della Redazione, in il Manifesto, 22 febbraio 1985. 25. MIELI, Paolo, «Sul PCI una doccia fredda, ma Natta dice: ci rifaremo», in la Repubblica, 14 maggio 1985. 26. Dati in l’Unità, 14-15 maggio 1985. 27. LEDDA, Romano, «Intervista con Natta», in l’Unità, 19 maggio 1985. 28. SEGRETERIA PCI, «Un primo giudizio», in l’Unità, 14 maggio 1985. 29. SCALFARI, Eugenio, «Un Paese che vuole stabilità», in la Repubblica, 14 maggio 1985. 30. MIELI, Paolo, «Sul PCI una doccia fredda», in la Repubblica, 14 maggio 1985. 31. BOCCA, Giorgio, «Più deboli e più soli», in la Repubblica, 16 maggio 1985. 32. BADUEL, Ugo, «Buona in Emilia la tenuta del PCI», intervista a Luciano Guerzoni, in l’Unità, 15 maggio 1989; GUERZONI, Luciano, «Non si è colta la mutazione sociale e culturale», in l’Unità, 22 maggio 1985. 33. NATTA, Alessandro, «Analisi del voto, prospettiva politica e compiti del Partito», relazione al CC del 23-25 maggio 1985, in l’Unità, 24 maggio 1985. 34. COLARIZI, Simona, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 667. 35. Tutti gli interventi in l’Unità, 25 maggio 1985. 36. NATTA, Alessandro, «Conclusioni del CC, 23-25/5/1985», in l’Unità, 26 maggio 1985. 37. GALLI, Giorgio, I partiti politici italiani. 1943-2004, Milano, Rizzoli, 2004. 38. Sulla scala mobile cfr. CORBETTA, Piergiorgio, LEONARDI, (a cura di), Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni. Edizione 1986, Bologna, Il Mulino, 1987. 39. ROGGI, Enzo, «Perché Sì», intervista ad Alessandro Natta, in l’Unità, 2 giugno 1985. 40. Dati tratti dall’indagine del prof. Stefano Draghi, in SANSONETTI, Piero, «Non voto come il mio partito», in l’Unità, 13 giugno 1985. 41. Cit. in DI BLASI, Rocco, «Natta: il divario non è grande», in l’Unità, 11 giugno 1985. 42. DE ANGELIS, Alessandro, I comunisti e il partito. Dal partito nuovo alla svolta dell’89, Roma, Carocci, 2002, p. 303. 43. PASQUINO, Gianfranco, «Più attenzione ai reali processi di cambiamento», in l’Unità, 15 giugno 1985; D’ALEMA, Massimo, «Chi voleva ridimensionare il PCI ha fallito», in l’Unità, 23 giugno 1985. 44. DIREZIONE PCI, «Comunicato sui lavori della riunione del 12 giugno», in l’Unità, 14 giugno 1985. 45. MIELI, Paolo, «Un congresso per il nuovo PCI», in la Repubblica, 17 maggio 1985.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 180

46. DIREZIONE PCI, «Documento della riunione dell’11/7/1985», in l’Unità, 12 luglio 1985; NATTA, Alessandro, «Relazione al CC, 22-25/7/1985», in l’Unità, 23 luglio 1985. 47. ROGGI, Enzo, «Natta: in primavera il PCI a congresso», in l’Unità, 6 luglio 1985. 48. TURI, Paolo, op. cit., p. 573. 49. SCHIAVONE, Aldo, Per il nuovo PCI, Roma-Bari, Laterza, 1985; TORTORELLA, Aldo, «Alle radici di una fase nuova», in l’Unità, 12 luglio 1985; CARANDINI, Andrea, «Quella grande illusione», in la Repubblica, 22 agosto 1985, VIVANTI, Corrado, «Meglio la cuoca di Lenin che una democrazia di Robot», in l’Unità, 23 agosto 1985. 50. Cfr. GUALTIERI, Roberto, L’ultimo decennio del PCI, in BORIONI, Paolo (a cura di), Revisionismo socialista e rinnovamento liberale. Il riformismo nell’Europa degli anni ottanta, Roma, Carocci, 2001, p. 195. 51. «Discussione in tre sezioni sul Congresso», in l’Unità, 21 luglio 1985. 52. NATTA, Alessandro, «Discorso conclusivo della Festa dell’Unità», in l’Unità, 16 settembre 1985. 53. RUFFOLO, Giorgio, «Dovrà essere tutta la sinistra a trasformarsi», in l’Unità, 15 settembre 1985. 54. NAPOLITANO, Giorgio, «Così potremo parlare a tutta la sinistra», in l’Unità, 22 settembre 1985. 55. BADGET BOZZO, Gianni, «IL PSI è ‘interno’ al PCI come il PCI è ‘interno’ al PSI», in l’Unità, 24 settembre 1985. 56. INGRAO, Pietro, «Va bene il richiamo all’unità, ma qual è la politica del PSI?», in l’Unità, 26 settembre 1985. 57. SALVADORI, Massimo Luigi, «É l’idea di sinistra ad essere oggi in crisi», in l’Unità, 12 ottobre 1985. 58. OCCHETTO, Achille, «Ben detto Ruffolo: giova solo alla DC la rottura a sinistra», in l’Unità, 17 luglio 1985. 59. «Proposte di tesi per il XVII Congresso», in l’Unità, 15 dicembre 1985. Tesi 12. 60. Ibidem, Tesi 14. 61. Ibidem,Tesi 37. 62. DE ANGELIS, Alessandro, op. cit., p. 313. 63. Ibidem, Tesi 2. 64. Ibidem, Tesi 4 e Tesi 5. 65. Ibidem,Tesi 6. 66. Ibidem, Tesi 7. 67. Ibidem, Tesi 29. 68. I sette sono: Castellano, Galluzzi, Colajanni, Turci, Fanti, Villani e Perna. 69. LA VALLE, Raniero, NAPOLEONI, Claudio, OSSICINI, Adriano, «Lettera ai comunisti italiani», in l’Unità, 24 gennaio 1986. 70. PCI, Tesi, Statuto e Programma del XVII Congresso, Roma, Editori Riuniti, 1987. 71. Un quadro abbastanza chiaro è dato da FUCCILLO, Mino, «Il partito divenne uno e trino», in la Repubblica, 21 febbraio 1986. 72. IBBA, Fausto, «Un congresso al nuovo livello di democrazia», in l’Unità, 23 febbraio 1986. 73. ROGGI, Enzo, «Con Gorbaciov ci siamo detti…», in l’Unità, 9/2/1986. 74. «Compagno Cossutta, spieghiamoci», in l’Unità, 24/2/1986. 75. Dato in IGNAZI, Piero, I partiti e la politica, in SABBATUCCI, Giovanni, VIDOTTO, Vittorio, op. cit., p. 205. 76. NATTA, Alessandro, «Relazione al XVII Congresso del PCI», in l’Unità, 10/4/1986. 77. Ibidem. 78. E non più del “movimento operaio” dell’Europa Occidentale, come invece disse Berlinguer al XVI Congresso del 1983. Sulle diverse impostazioni delle relazioni dei due Segretari cfr. BARTH URBAN, Joan, Il XVII Congresso del PCI e il ‘nuovo internazionalismo’, in CORBETTA, Piergiorgio,

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 181

LEONARDI, Robert (a cura di), Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni. Edizione 1987, Bologna, Il Mulino, 1987. 79. Tutti gli interventi citati in: XVII Congresso del PCI, Roma, Editori Riuniti, 1987. 80. PCI, «Documento sull’organizzazione del Partito», in l’Unità, 14 aprile 1986. 81. NATTA, Alessandro, «Relazione a CC 23/4/1986», in l’Unità, 24 aprile 1986; IBBA, Fausto, «Gli organismi dirigenti», in l’Unità, 24 aprile 1986 in cui cita la relazione di Cossutta al CC del 23 aprile 1986: «Si tratta di una esclusione che non ha riferimento al processo di rinnovamento e rotazione ma che ha una motivazione politica, cioè il voler escludere un compagno che è stato portatore di un dissenso». 82. TURI Paolo, op. cit., p. 599. 83. IGNAZI, Piero, Dal PCI al PDS, cit., p. 58. 84. Il Pci ebbe una netta flessione rispetto alle politiche del 1983 del 2,5% al Senato (con 7 seggi in meno) e del 3,3 alla Camera (21 deputati), tornando ad assestarsi sui livelli del 1968. Dati in l’Unità, 21 giugno 1987.

RIASSUNTI

Il saggio ripercorre gli anni di Alessandro Natta come Segretario del Partito Comunista Italiano dal 1984 al 1988. Ricostruisce l’auto-rappresentazione della classe dirigente del partito attraverso la lettura del suo quotidiano. L’idea è che in quegli anni l’auto-rappresentarsi del Pci come un soggetto forte sulla scena politica italiana permetteva alla sua leadership di mediare il conflitto tra le diverse posizioni interne, cosa che non fu più possibile quando i suoi dirigenti smisero di avere una visione chiara del ruolo del Pci nella società italiana.

The paper aims to describe the years of Alessandro Natta as Secretary of the Italian Communist Party from 1985 to 1988. It reconstructs the self-representation of the party’s leadership through its newspaper. During those years, the self-representation of Pci as a strong actor in the Italian politics gave to its leadership the opportunity to mediate the conflict between the different positions in the body of the party. That wasn’t possible anymore when its leaders lost a clear vision of the role of Pci in the Italian society.

INDICE

Keywords : Achille Occhetto, Alessandro Natta, Italian Communist Party, Italian political parties, L’Unità Parole chiave : Achille Occhetto, Alessandro Natta, L’Unità, partiti politici italiani, Partito Comunista Italiano

AUTORE

MICHELANGELA DI GIACOMO Addottorata presso l’Università di Siena; è Borsista presso l’Institut d’Estudis Catalans di Barcellona e Cultore della materia presso il Dispi-Università di Siena. Ha vinto con le sue tesi il

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 182

premio della Presidenza della Repubblica/Fondazione Spadolini nel 2012 e di quello del Senato della Repubblica nel 2009.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 183

IV. Recensioni

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 184

Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943

Mario De Prospo

NOTIZIA

Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Jugoslavia (1941-1943), Roma-Bari, Laterza, 2013, 205 pp.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 185

1 Questo volume è il punto di arrivo di oltre dieci anni di ricerche, attraverso le quali Eric Gobetti, partendo dal periodo di occupazione italiana dei territori dell’ ex- Jugoslavia e dalle vicende belliche che la sconvolsero, ha provato a far comprendere la storia di questa complessa area del vecchio continente1.

2 Si ritiene opportuno sottolineare che questo contributo esce circa un anno dopo la pubblicazione del lavoro di Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti che si è già avuto modo di presentare2. Entrambe le opere, infatti, trattano della presenza dei militari italiani nei territori balcanici, ma sono differenti i focus principali. Mentre Aga Rossi e Giusti si concentrano soprattutto sulla crisi che affrontarono i reparti del regio esercito al momento dell’annuncio dell’armistizio; Gobetti, invece, dedica il suo lavoro a quanto succede prima dell’8 settembre 1943, concentrandosi sull’occupazione di questi territori da parte delle truppe del nostro paese.

3 Le caratteristiche che contraddistinguono lo scacchiere jugoslavo tra il 1941 e il 1943 sono sicuramente la complessità e l’ambiguità. È lo stesso autore a premettere che quanto succede nei Balcani del sud con il loro coinvolgimento nella Seconda guerra mondiale, non differentemente da molti altri pesi dell’Est europeo, «resta tutt’oggi l’evento cardine della storia dei popoli jugoslavi, ora perlopiù interpretato nella logica della guerra civile, sminuendo il valore morale della resistenza all’invasore»3. In questo ingarbugliato contesto si trovano le truppe italiane a partire dall’aprile del 1941. Una presenza, quella dei nostri connazionali, che non può essere considerata come quella di semplici spettatori di quanto succede in questa regione. Infatti, come sottolinea opportunamente l’autore, sebbene sia stata rimossa dalla memoria collettiva dei nostri connazionali4, l’idea dell’occupazione di questi territori parte da lontano, una precisa visione strategica, affinata negli anni precedenti, di un Mediterraneo egemonizzato dall’Italia – in cui lo Stato Jugoslavo nato dopo la Grande Guerra rappresenta un antagonista e un ostacolo per il predominio dell’Adriatico – che porta all’allontanamento dalla tradizionale politica filo-serba che aveva caratterizzato l’età liberale, in favore del sostegno alle aspirazioni albanesi e croate, che dovrebbero diventare i pilastri dell’influenza italiana della regione5. Aspirazioni che si traducono concretamente con l’occupazione dell’Albania nel 1939 e la costituzione dello stato croato guidato dal “protetto” Ante Pavelić, nel momento stesso dell’invasione della Jugoslavia, al fianco dei tedeschi, nella primavera del 1941.

4 Le ambizioni italiane si devono misurare con una situazione che, mese dopo mese, diventa ancora più complicata. Il controllo del territorio si rivela difficile: il dialogo con le preesistenti élites locali è controproducente e risultati migliori non arrivano neppure

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 186

dalla collaborazione con la neonata Croazia guidata da Pavelić. Il crollo dell’entità statale jugoslava fa esplodere aspri conflitti lungo fratture sia etniche, che politiche.

5 Nel giro di pochi mesi gli italiani sono costretti a cambiare strategia: gli interessi economici e politici passano in secondo piano e la nostra presenza diventa soprattutto militare, tanto che il Regio Esercito, ad inizio 1942, arriva ad avere oltre 300.000 soldati nella regione. Questa evoluzione viene orientata e condivisa dallo stesso Mussolini, per cui l’occupazione si tramuta in «una politica imperialista di stampo ottocentesco, basata sul controllo militare del territorio e delle risorse piuttosto che sull’egemonia politico-economica»6.

6 In questo contesto i principali avversari si rivelano le forze partigiane comuniste comandate da Tito, in ascesa dopo l’invasione dell’URSS e il coinvolgimento diretto nella guerra della potenza guidata da Stalin, con cui si deve ingaggiare una logorante azione repressiva. Contemporaneamente, per poter controllare e amministrare i territori occupati, i vertici in grigioverde promuovono l’alleanza con un ampio fronte locale anticomunista, che porta nel 1942 all’istituzione della Milizia Volontaria Anticomunista (Mvac), che formalizza i rapporti di cooperazione con le milizie cetniche, avviati ormai da diversi mesi. Da qui il titolo dell’opera, Alleati del nemico, perché le milizie cetniche, sono espressione del nazionalismo serbo di stampo conservatore, che immagina una Jugoslavia egemonizzata dai serbi. Il capo di queste milizie è Draža Mihailović, ministro della guerra del governo monarchico jugoslavo, in esilio a Londra dopo l’invasione dell’Asse. I cetnici, infatti, oltre a contrapporsi ai comunisti, combattono duramente, sin all’inizio dell’occupazione nazifascista, contro le forze croate dell’alleato Ante Pavelić.

7 All’interno di questa complicata e contraddittoria rete di alleanze, i vertici italiani chiedono alle proprie truppe vigore e spregiudicatezza, per smentire lo stereotipo, già allora percepito, del buon soldato italiano7. In questo contesto si spiega la circolare 3C emanata dal generale Mario Roatta nel marzo del 1942, che rimarrà in vigore fino all’armistizio. Con questa circolare gli italiani accolgono «esplicitamente il principio di correità della popolazione residente in un’area di attività partigiana» e fanno proprio «come metodo la politica del terrore contro i civili, ordinando rappresaglie, deportazioni, confische, catture di ostaggi, fucilazioni»8. Strumenti principali della strategia repressiva, ricorda Gobetti, sono l’internamento dei civili, che arrivano alla cifra 100.000 individui deportati, in gran parte sloveni e montenegrini9 e l’utilizzo della tattica della terra bruciata, ovvero la distruzione di case e villaggi per rappresaglia. I metodi del Regio Esercito, sottolinea l’autore, ricordano da vicino quelli attuati negli scenari coloniali10. In questo contesto e in base a queste scelte, vengono compiuti crimini efferati anche dai militari italiani, senza che l’intera strategia attuata vada incontro a critiche. Al contrario, chi nel dopoguerra è stato inquisito per i crimini commessi in Jugoslavia si è autodifeso sostenendo che l’escalation di violenza sia stata causata dalla brutalità dei partigiani comunisti, una convinzione – quella della violenza dei comunisti jugoslavi – entrata nell’immaginario del nostro paese, che però, ci tiene a sottolineare l’autore, non trova riscontro nelle fonti relative a questo periodo, con le dovute tragiche eccezioni11. La memoria dei reduci è sicuramente influenzata da questa situazione, che farà il paio con la sopraggiunta difficoltà nel collocare questa esperienza in un dopoguerra che vedrà l’esaltazione, nei partiti di sinistra, della retorica partigiana. Per questo motivo nei volumi di ricordi di quest’esperienza, secondo Gobetti, emergono, da parte italiana, due elementi, a suo avviso solo apparentemente

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 187

contraddittorii: «una quotidianità annoiata di cui si evidenziano soprattutto i buoni rapporti stabiliti con la popolazione civile; una serie di improvvisi eventi drammatici, che mostrano la brutalità della guerriglia»12. L’autore sostiene che questa memoria contraddittoria viene alimentata anche dal crescente spaesamento dei soldati italiani, che vedono crescere i consensi a favore della resistenza comunista, dimostratasi spesso molto più umana delle altre parti in conflitto, spuntando così le armi della propaganda anti-partigiana. Allo stesso tempo, i nostri soldati fanno fatica a comprendere la presenza di diverse e spesso contrapposte milizie locali, che si rendono frequentemente protagoniste di spietati atti di violenza, a sfondo etnico, compiuti proprio davanti ai loro occhi senza la possibilità di intervenire13, con l’unica eccezione di diverse migliaia di ebrei messi in salvo con il contributo del Regio Esercito14.

8 Con il passare dei mesi diventa sempre più difficile, davanti ai croati e ai tedeschi, giustificare da parte dei vertici italiani, l’alleanza con quelli che sono, ufficialmente, i nemici cetnici. Una situazione che favorisce un crescente avvicinamento degli ustascia di Pavelić ai tedeschi.

9 Il capovolgersi complessivo delle sorti della guerra, con le vittorie in Nord Africa degli anglo-americani e, nel giro di pochi mesi, il passaggio all’offensiva dei Sovietici rende consci i comandanti italiani che è necessario cominciare un disimpegno dall’area, per prepararsi all’imminente difesa dei confini nazionali. Il colpo di grazia alla strategia dei generali del Regio Esercito nei territori Jugoslavi arriva tra marzo e giugno del 1943 con la sconfitta nella battaglia della Neretva, in Erzegovina. I partigiani di Tito riescono a sfuggire all’accerchiamento delle truppe nazi-fasciste e sbaragliano i cetnici, imponendosi definitivamente come i protagonisti della resistenza nell’area15. Le sorti della guerra, in particolar modo quelle dell’Italia con la contemporanea definitiva sconfitta in Tunisia, a questo punto sono irrimediabilmente segnate. «All’annuncio dell’Armistizio, i soldati italiani in Jugoslavia possono contare solo su stessi» e gran parte di essi verranno fatti prigionieri dai tedeschi16.

10 L’autore basa tutta la ricerca su un impressionante apparato di fonti primarie e secondarie, di cui la documentazione italiana è solo una, seppur importante, parte. Il risultato, oltre ad un ulteriore ed utile approfondimento sulla presenza italiana e le politiche di occupazione attuate dai nostri connazionali, è un’efficace interpretazione dei motivi per cui il conflitto ha avuto determinati esiti in questa parte d’Europa, con valutazioni che vanno ben oltre il piano dei rapporti di forza militari.

11 Il passo ulteriore che l’autore sviluppa in questo testo, rispetto alle sue opere già pubblicate su questo tema, è il tentativo di inserire con precisione le ricerche nel più ampio contesto della Seconda guerra mondiale e, contemporaneamente, fornire una lettura agevole e di sintesi su vicende delicate e particolarmente ricche di sfaccettature ed elementi contraddittori.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 188

NOTE

1. Cfr. GOBETTI, Eric, Dittatore per caso. Un piccolo duce protetto dall’Italia fascista, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2001; ID., L’occupazione allegra. Gli italiani in Jugoslavia (1941-1943), Roma, Carocci, 2007; si ritiene utile menzionare anche questo testo dell’autore, testimonianza dell’interesse a 360° per i territori della ex-Jugoslavia: ID. Nema problema! Jugoslavie! 10 anni di viaggi, Torino, Miraggi, 2011. 2. Cfr. AGA ROSSI, Elena, GIUSTI, Maria Teresa, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Bologna, Il Mulino, 2011, Cfr. DE PROSPO, Mario, «Recensione: Elena AGA ROSSI, Maria Teresa GIUSTI, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Bologna, Il Mulino, 2011, 660 pp.», in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea: La satira fa storia. Eventi, pratiche, linguaggi, 29 ottobre 2012, URL: . È giusto rilevare che il volume dell’Aga Rossi e della Giusti abbraccia un’area territoriale più vasta oltre quella jugoslava, comprendente anche Grecia e Albania. 3. GOBETTI, Eric, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, Roma-Bari, Laterza, 2013,p. 9. 4. Ibidem, p. 7. 5. Ibidem, pp.14-15 . Cfr. anche RODOGNO, Davide, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista (1940-43), Torino, Bollati Boringhieri, 2003. 6. GOBETTI, Eric, Alleati del nemico, cit., p. 76. 7. Cfr. GOBETTI, Eric, L’occupazione allegra, cit.,pp.173-176. Sulla creazione e del ‘mito’ del buon italiano la bibliografia è corposa, segnaliamo su questi argomenti il recente FOCARDI, Filippo, Il cattivo tedesco e il bravo italiano, la rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013. Cfr. la recensione del volume in VERONESI, Oreste, «Recensione: Filippo FOCARDI, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Roma-Bari, Laterza, 2013, XIX + 288 pp.», Diacronie. Studi di Storia Contemporanea : Spazi, percorsi e memorie, 29/10/2013. URL: . 8. GOBETTI, Eric, Alleati del nemico, cit., p. 91. 9. Ibidem, p. 95. Cfr. CAPOGRECO, Carlo Spartaco, I campi del duce. L’internamento nell’Italia Fascista (190-43), Torino, Einaudi, 2004, pp.135-152; KERSEVAN, Alessandra, Lager italiani. Pulizia etnica e campi di concentra mento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943, Roma, Nutrimenti, 2008. 10. GOBETTI, Eric, Alleati del nemico, cit., p. 100. Cfr. anche RODOGNO, Davide, op. cit., pp. 400-410; SALA, Teodoro, Guerra e amministrazione in Jugoslavia 1941-1943. Un’ipotesi coloniale in POGGIO, Pier Paolo, MICHELETTI, Bruna (a cura di), L’Italia in guerra 1940-43, Brescia, Fondazione Luigi Micheletti, 1992, pp. 83-97. 11. GOBETTI, Eric, Alleati del nemico, cit., p. 104. 12. Ibidem, p. 108. 13. Ibidem, p. 115. 14. Ibidem, pp. 138-141. 15. Ibidem, pp. 150-152. 16. Ibidem, pp. 170.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 189

AUTORI

MARIO DE PROSPO Dottorando (Phd student) in Storia Contemporanea presso L’Istituto Italiano di Scienze Umane – SUM (Firenze, Napoli), dove sta svolgendo una ricerca dal titolo Mezzogiorno 1943. Soldati allo sbando sotto la tutela di Paolo Macry. Ha conseguito la laurea magistrale nel 2007 presso l’Università degli Studi di Napoli – Federico II con una tesi in Storia Contemporanea dal titolo Dall’asse alla cobelligeranza. I prigionieri di guerra italiani negli Stati Uniti (rel. Paolo Macry).

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 190

Martha C. Nussbaum, La nuova intolleranza. Superare la paura dell’Islam e vivere in una società più libera

Luca Zuccolo

NOTIZIA

Martha C. Nussbaum, La nuova intolleranza. Superare la paura dell’Islam e vivere in una società più libera, Milano, Il Saggiatore, 2012, 259 pp.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 191

1 «L’ignoranza – vale a dire la paura dell’ignoto – è l’origine del pregiudizio più odioso»1. In questa affermazione si può riassumere il nuovo saggio di Martha Nussbaum, la quale intrecciando filosofia e storia ai più recenti fenomeni di intolleranza traccia una lucida analisi della paura religiosa e, in modo particolare, della paura dell’Islam.

2 Studiosa di filosofia e autrice del saggio Disgusto e Umanità (2011) 2, Nussbaum si cimenta in un’analisi della paura umana del diverso, incentrando la sua tesi sulla religione, sul rapporto Stato-religione e sull’approccio alla religione islamica e al mondo musulmano, come nuovo bersaglio delle paure occidentali. Sebbene riporti anche esempi sul rapporto con le religioni in India e sulla tolleranza in Europa, l’analisi dell’autrice si concentra essenzialmente sugli Stati Uniti. Tuttavia, come ricorda Stefano Rodotà nella sua prefazione: il tema della paura va ben al di là degli schemi che hanno abitualmente accompagnato la fittissima bibliografia sulla paura americana dopo l’11 settembre, non a caso mai richiamata da Martha Nussbaum. Rivolta com’è alla paura dell’Islam, la sua analisi indaga nel profondo comportamenti e strutture sociali che mettono a rischio le condizioni stesse della libertà. Manifesta il bisogno di apprestare strumenti che possano portarci oltre gli scontri di civiltà, e le pessime politiche che la perdurante scelta di questo punto di vista incessantemente produce3.

3 Se il punto di partenza del nuovo studio di Nussbaum e di questo saggio è stata la proposta europea di bandire il burqa, lo scopo finale che l’autrice si propone, tuttavia, è molto più ampio e va al di là della tolleranza religiosa stricto sensu: conosci te stesso in modo da poter uscire al di fuori della tua persona, servire la giustizia e promuovere la pace4.

4 Un messaggio sviscerato e ripetuto più volte nel testo, il quale con un’analisi chiara e accessibile e una struttura agile e di facile comprensione si presenta come un buon saggio per gli specialisti, ma anche per il pubblico non specialistico di lettori, a cui è specificamente indirizzato. Infatti, se la paura è il core topic del saggio altrettanto rilevante è l’intenzione dell’autrice di coinvolgere e ispirare nei suoi lettori un cambiamento di prospettiva, che si può ottenere innanzitutto con «un bel po’ di storia e di informazioni contestuali corrette»5. Informazioni che l’autrice non solo invita a ricercare prima di dispensare giudizi e pregiudizi, ma che propone essa stessa all’interno dell’impianto testuale, alternandole a una teorizzazione filosofica ed etica molto stimolante, sebbene a volte un po’ troppo autocelebrativa nei riguardi degli Stati Uniti.

5 Il campo d’analisi nordamericano, infatti, emerge fin dal primo capitolo dove, in chiave introduttiva, Nussbaum descrive i differenti atteggiamenti e le diverse risposte date da Stati Uniti ed Europa relativamente al tema religioso e all’Islam. Dopo aver enunciato i

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 192

tre elementi su cui si concentrerà la sua analisi etico-filosofica – principi politici egalitari, coerenza analitica e immaginazione (sviluppo degli “occhi interiori”) – l’autrice passa in rassegna alcuni dei principali nodi contemporanei legati alla tolleranza religiosa e al rapporto delle nostre società con l’Islam. Mette a confronto le polemiche e i divieti europei contro il burqa e i minareti con il diverso approccio Statunitense al foulard e alla Sharia, concludendo la sua analisi preliminare con il tema dell’identità nazionale e la sua diversa declinazione in Europa (omogeneità) e Stati Uniti (appartenenza).

6 Il secondo capitolo, invece, si concentra sulla paura descrivendola come un’emozione narcisistica. Attraverso lo studio dei filosofi greci e moderni e l’analisi di esempi “classici” dell’antisemitismo come i Protocolli dei savi di Sion Nussbaum propone un’analisi dettagliata della paura a partire dai suoi aspetti biologici per poi passare a quelli culturali e retorici e, infine, ai suoi aspetti psicologici, in cui sottolinea i principali modi in cui essa si sviluppa: la disponibilità euristica6, la cascata reputazionale o informazionale7 e il disgusto proiettivo8. La paura, presentata come una tendenza biologica innata, tuttavia, non viene rigettata come eminentemente negativa. Per spiegare la duplicità di questo sentimento e il suo essere solo potenzialmente deleterio, l’autrice propone due serie di esempi. La paura razionale giustificata come forma di protezione viene rappresentata dalla tecnica del profiling nelle procedure di controllo aereoportuali e dalle misure prese per contrastare l’uragano Irene. La paura “irrazionale”, invece, viene analizzata attraverso due esempi strettamente legati alla religione islamica: il divieto di costruire minareti in Svizzera e gli omicidi di Utøya in Norvegia.

7 Riprendendo le fila di quanto descritto nei primi due capitoli su religione e paura, nel terzo capitolo Nussbaum entra nel core topic del suo saggio proponendo un’analisi dettagliata del primo dei suoi tre principi fondamentali: la necessità di avere buoni principi di eguaglianza. Il capitolo si incentra sui diritti e sulla dignità e propone un’analisi di alcuni significativi casi giuridici americani relativi al tema della tolleranza religiosa. Casi analizzati confrontando la teoria del filosofo inglese John Locke e quella accomodazionista formulata dal filosofo anglo-americano Roger Williams nel XVII secolo. Il capitolo si conclude con alcune considerazioni sulle attuali relazioni tra Stato e religione e sull’importanza dell’eguaglianza per tutti i cittadini.

8 L’analisi dei tre principi di Nussbaum prosegue nel quarto capitolo, dove l’autrice esamina, partendo da alcuni dialoghi platonici per poi passare all’approccio cristiano- kantiano, il tema della coerenza e della vita esaminata. Fin dal titolo dato al capitolo – La pagliuzza nell’occhio di mio fratello – l’autrice spiega qual è il suo obiettivo, ovvero criticare alcuni atteggiamenti distorti che le società occidentali odierne hanno nei riguardi del diverso e della religione islamica. A sostegno della tesi teorica e degli esempi filosofici Nussbaum propone una dettagliata analisi dei motivi per cui il dibattito sul burqa è incoerente dimostrando con cinque motivazioni come in questi casi si parli spesso a sproposito e si dimentichi l’incongruenza, rispetto ai principi generali di tolleranza ed eguaglianza, di alcuni nostri atteggiamenti quotidiani. Tra queste motivazioni, di notevole rilievo – perché maggiormente notiamo la pagliuzza nell’occhio del nostro vicino senza accorgerci della trave nel nostro – quella relativa alla reificazione della donna. In questo paragrafo, infatti, Nussbaum sottolinea come i critici occidentali del burqa lo interpretino come sintomo e simbolo della reificazione della donna islamica, senza accorgersi o senza voler accorgersi che «le società moderne

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 193

sono imbevute di simboli di supremazia maschile che trattano le donne come oggetti»9. Un tema oltremodo rilevante poiché mette in evidenza come i principi che Nussbaum propone per la tolleranza religiosa siano adattabili anche ad altri aspetti della vita quotidiana dei nostri tempi come, appunto, il rapporto con le donne o con gruppi sociali, come gli omosessuali, che sebbene siano sempre più accetti scontano ancora dei gravi problemi sociali dovuti all’ignoranza e a paure immotivate radicate nelle nostre società.

9 Il quinto capitolo conclude la descrizione dei tre principi analizzando quello decisivo e più difficile da ottenere: l’immaginazione empatica. L’analisi dell’importanza degli “occhi interni” si sviluppa attraverso lo studio di alcuni volumi, romanzi e libri per l’infanzia che, a partire dal XVII-XVIII secolo e dal saggio di Roger Williams sugli indiani e il modo “corretto” di interagire con loro, hanno proposto esempi significativi di ciò che significa tolleranza religiosa e sforzo di comprensione del diverso. Accanto al già ricordato saggio di Williams, quindi, troviamo l’opera teatrale Nathan de Weise di Lessing del 1770, il romanzo Daniel Deronda di George Eliot del 1876, entrambi incentrati sul tema degli ebrei e dell’antisemitismo – testimonianza di un problema critico per l’Europa e gli Stati Uniti non ancora del tutto superato e anticamera dell’attuale anti- islamismo – e, infine, i libri per l’infanzia della scrittrice americana Marguerite de Angeli (1889-1987)10.

10 Descritti analiticamente i tre principi attorno a cui ruota la sua tesi, Nussbaum passa alla pratica nel sesto capitolo descrivendo il caso Park51: il progetto di costruzione di un centro multiconfessionale gestito da un gruppo islamico nel Lower Manhattan a pochi isolati da Ground Zero. Esposti i fatti, descritto il dibattito acceso che si è sviluppato attorno a questo progetto e presentati gli errori più evidenti dei costruttori e dei detrattori, l’autrice propone un esempio di come utilizzare i suoi convincimenti in un caso concreto, dimostrando come solo attraverso principi egualitari, coerenza e immaginazione empatica sia possibile superare le barriere pregiudiziali e raggiungere una vera tolleranza.

11 Nelle pagine conclusive del saggio Nussbaum riassume le sue analisi incentrando le sue conclusioni sulla necessità di combattere la politica della paura al fine di aprire il nostro sguardo all’altro e alla diversità senza ripiegarsi su noi stessi.

12 Il tema della intolleranza/tolleranza religiosa è senza dubbio contemporaneo e rilevante, ma allo stesso tempo ostico e spinoso; Nussbaum, tuttavia, riesce a proporlo in modo semplice e dettagliato, anche grazie ad un apparato di note completo e aggiornato ai più recenti avvenimenti, che le permette di rendere fruibile ad un ampio pubblico il tema e il suo saggio. Che il volume sia indirizzato anche ad un pubblico di non specialisti è senza dubbio meritorio, ma rende ancor più impegnativo l’obiettivo che si pone l’autrice. Mutare le prospettive sociali su argomenti così complessi, infatti, non è semplice, anche a causa della profondità con cui certi stereotipi sono radicati in noi e nelle nostre società. Nonostante ciò, il saggio di Nussbaum è un ottimo punto di partenza e conserva uno spirito analitico, in virtù del quale la sua lettura andrebbe caldamente consigliata.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 194

NOTE

1. NUSSBAUM, Martha C., La nuova intolleranza. Superare la paura dell’Islam e vivere in una società più libera, Milano, Il Saggiatore, p. 212. 2. NUSSBAUM, Martha C., Disgusto e Umanità, Milano, Il Saggiatore, 2011. 3. RODOTÀ, Stefano, Prefazione, in NUSSBAUM, Martha C., La nuova intolleranza, cit., p. 11. 4. NUSSBAUM, Martha C., La nuova intolleranza, cit., p. 17. 5. Ibidem, p. 217. 6. «Se possiamo facilmente richiamare alla memoria un problema impresso in modo vivido nella nostra esperienza, saremo portati a sopravvalutarne l’importanza. […] Se le persone sentono parlare molto di un determinato problema […] tenderanno a pensare che quel pericolo sia più significativo di quanto non sia e a sottovalutare il pericolo di altri fenomeni che non appaiono altrettanto vividi e restano sullo sfondo». NUSSBAUM, Martha C., La nuova intolleranza, cit., p. 47. 7. «Gli individui rispondono al comportamento di altri individui uniformandosi a esso. Talvolta lo fanno in virtù della reputazione di quelle persone (la “cascata reputazionale”), e altre volte perché pensano che il comportamento degli altri fornisca loro nuove informazioni (la “cascata informazionale”)». NUSSBAUM, Martha C., La nuova intolleranza, cit., p. 47. 8. «A queste possibili fonti di condizionamento possiamo aggiungere l’ansia che la maggior parte delle persone prova nei confronti della propria corporeità animale e delle vulnerabilità che questa comporta […] il fenomeno che ho chiamato “disgusto proiettivo”». NUSSBAUM, Martha C., La nuova intolleranza, cit., p. 48. 9. Ibidem, p. 117. 10. DE ANGELI, Marguerite, Thee, Hannah!, Herald Press, Scottsdale, 2000; ID., Bright April, Doubleday, New York, 1947.

AUTORI

LUCA ZUCCOLO Dottorando (PhD student) in Storia Contemporanea presso il SUM (Istituto Italiano di Scienze Umane) di Napoli dove sta sviluppando una ricerca sulla stampa francofona ottomana e la sua rappresentazione dell’Impero d’Oriente. Già dottore magistrale in Storia d’Europa (Bologna, 2008), il suo campo di ricerca si rivolge allo sviluppo della modernità durante l’ultimo secolo dell’Impero Ottomano, al confronto/scontro tra modernità e tradizione in un contesto cosmopolita e allo sviluppo dei movimenti sociali che hanno preparato l’avvento della società turca contemporanea. Luca Zuccolo è il referente di Diacronie per la storia turca e ottomana.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 195

Matteo Guglielmo, Il Corno d’Africa. Eritrea, Etiopia, Somalia

Michele Pandolfo

NOTIZIA

Matteo Guglielmo, Il Corno d’Africa. Eritrea, Etiopia, Somalia, Bologna, Il Mulino, 2013, 190 pp.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 196

1 Il nuovo lavoro di Matteo Guglielmo1 si intitola Il Corno d’Africa. Eritrea, Etiopia, Somalia pubblicato dalla casa editrice Il Mulino nella collana Universale Paperbacks nei primi mesi del 2013.

2 Questo testo cerca di analizzare una regione del mondo che è sempre stata al centro degli interessi politici ed economici sia delle grandi potenze europee – come Gran Bretagna e Francia –, sia degli Stati Uniti d’America e dell’Unione Sovietica durante gli anni della Guerra Fredda. La complessità storica, geografica e politica di questa regione africana porta Matteo Guglielmo a cercare un filo conduttore lungo il quale costruire una narrazione approfondita del Corno d’Africa. Questa prima difficoltà incontrata nella ricerca ben si evince sin dalle prime parole dell’autore che a tal proposito afferma: Su questo punto ho trovato utile considerare proprio il “conflitto” come il tratto distintivo che attraversa – a vari gradi e livelli – tutto il Corno d’Africa, e l’approccio cronologico il miglior metodo di rappresentazione, in quanto la sequenzialità degli eventi può forse rendere più visibili quelle che sono le ciclicità storiche che continuano a segnare quest’area. Ciò che si può affermare con certezza, trovando riscontro sia nel passato sia nel presente, è che il Corno d’Africa è in perenne conflitto 2.

3 Dopo aver trovato il termine che sarà il perno attorno al quale far emergere la ricerca, un’altra questione d’affrontare è quella della posizione geografica di una così complessa regione. L’autore, prima di tutto, si chiede quali siano i confini naturali del Corno d’Africa e quali Stati si possano inglobare politicamente in tale definizione: […] la sua particolare posizione geografica tra Africa e Medio oriente pone l’intero complesso regionale al centro di importanti interessi globali, dalla lotta al terrorismo al contrasto della pirateria marittima. Le numerose crisi ivi presenti hanno radici profonde e peculiari, tanto che non sarebbe del tutto impreciso definire il Corno d’Africa quasi un’invenzione dettata più dalla necessità di inquadrare un’area di congiunzione tra il continente africano e il Medio Oriente, che dalla sua effettiva uniformità sociopolitica. Per convenzione, da un punto di vista geografico, il Corno d’Africa è spesso identificato come l’insieme dei paesi membri dell’IGAD (Inter-Governmental Authority on Development), l’organizzazione regionale che comprende Eritrea, Etiopia, Somalia, Gibuti, Uganda, Kenya, Sudan e Sud Sudan. Nel testo si è preferito tuttavia concentrare l’oggetto di studio ai primi tre stati, che presi sia singolarmente sia nel loro insieme possono meglio rappresentare le caratteristiche politiche e conflittuali della regione3.

4 La linea cronologica scelta da Matteo Guglielmo parte dalla storia antica del Corno d’Africa che ha rappresentato nel corso dei secoli un insieme di migrazioni, spostamenti, crocevia, incontri culturali tra diverse popolazioni e scambi economici tra l’Africa, la penisola arabica e l’Asia. L’espansione coloniale europea ha determinato, anche in questa parte dell’Africa, la divisione in zone d’influenza diplomatica ed

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 197

economica che in seguito si sono trasformate in vere e proprie aree di dominio politico e militare. I paesi europei che hanno sviluppato i loro interessi in questa regione sono stati la Gran Bretagna, la Francia e anche l’Italia4. Come ben ricorda Matteo Guglielmo, infatti, la debole Italia postunitaria trova in questa regione d’Africa una concreta possibilità di realizzare le proprie mire espansionistiche e coloniali, inserendosi con circospezione e talvolta ambiguità tra le rivalità diplomatiche delle altre potenze europee. L’interesse italiano più antico è quello per la fascia costiera affacciata sul Mar Rosso chiamata Eritrea. In seguito l’Italia occupa le regioni costiere somale meridionali, mentre la Gran Bretagna quelle della Somalia settentrionale, mentre la Francia si impossessa di Gibuti, punto strategico di passaggio per le rotte commerciali nel golfo di Aden. Gli italiani tentano poi per decenni di espandere inutilmente la propria influenza sul grande impero etiopico.

5 Il testo di Matteo Guglielmo si divide in tre capitoli che, dopo aver riassunto brevemente la storia antica del Corno d’Africa, intraprendono un’analisi più approfondita della regione a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale e si soffermano sui movimenti politici interni sorti nelle ex colonie europee per il raggiungimento delle singole indipendenze nazionali. L’attenzione dello storico si concentra ciclicamente verso tutti e tre i maggiori paesi oggetto d’analisi – l’Eritrea, l’Etiopia e la Somalia – attraversandone le varie fasi storiche che comprendono anche i conflitti militari scoppiati nella regione e le alleanze con Stati Uniti d’America e Unione Sovietica. In questa maniera l’autore analizza tutti i passaggi storici più importanti: la delicata fase della decolonizzazione, la federazione dell’Eritrea all’impero etiopico, il periodo dell’Amministrazione fiduciaria italiana della Somalia, la nascita della repubblica somala e l’avvento della dittatura di Siad Barre, la caduta del Negus Hailé Selassié in Etiopia e l’avvento al potere della giunta militare del Derg dalla quale emergerà la figura politica di Menghistu, le drammatiche guerre tra Somalia ed Etiopia per la regione frontaliera dell’Ogaden e l’inizio della guerriglia eritrea contro il dominio etiopico. Tutti questi processi storici vengono analizzati da Matteo Guglielmo sempre all’interno della grande cornice geopolitica globale rappresentata dallo scontro tra gli Stati Uniti d’America e l’Unione Sovietica. Entrambi questi paesi cercano continuamente nel corso dei decenni di spartirsi nuove zone d’influenza nella cartina geografica mondiale, ma questa perenne ingerenza risulta particolarmente pesante nel Corno d’Africa che viene coinvolto e poi abbandonato a se stesso sull’onda di scelte politiche che vengono prese senza tener conto delle vere problematiche e delle esigenze della regione.

6 Il traumatico momento di svolta per i principali paesi della regione è rappresentato proprio dalla caduta di questo sistema di dominio che è cessato con lo scioglimento dell’Unione Sovietica e la conseguente fine della Guerra fredda. Infatti proprio agli inizi degli anni Novanta anche i due principali regimi del Corno d’Africa, quello etiopico e quello somalo, sono crollati portando l’intera regione a livelli di instabilità mai raggiunti prima. Al crollo della dittatura in Etiopia ha fatto seguito la guerra civile con l’Eritrea, che diventerà indipendente nel 1993, e un delicato processo di democratizzazione all’intero dell’ex impero etiopico. In Somalia, invece, la situazione generale si è evoluta in maniera notevolmente più complessa. Allo scoppio della guerra civile nel gennaio del 1991 è seguita la fuga del dittatore Siad Barre e l’inizio di una guerra clanica che ha distrutto qualsiasi forma statuale all’interno dei vecchi confini politici della Somalia. La delicata fase d’intervento internazionale negli anni 1992-1993

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 198

con la missione Restore Hope delle Nazioni Unite avviene parallelamente ai vari tentativi falliti di riconciliazione nazionale rappresentati da alcune conferenze di pace.

7 Dopo la fase del disimpegno internazionale dal Corno d’Africa, e in particolare nel conflitto somalo, seguono gli attentati dell’11 settembre 2001: questi cambiano completamente l’agenda mondiale, che adotta come nuove ragioni del conflitto il pericolo del terrorismo internazionale soprattutto di matrice islamica e la lotta per contrastarlo. In questo nuovo quadro generale, che pure coinvolge la regione del Corno d’Africa, Matteo Guglielmo individua i traffici delle grandi organizzazioni terroristiche, le rotte problematiche della pirateria internazionale e l’ingerenza dell’Etiopia nel caos somalo con l’obiettivo dello scioglimento delle Corti Islamiche che detenevano il controllo di molte città, tra cui l’ex capitale Mogadiscio. Ed è proprio la Somalia a essere tornata al centro dell’instabilità dell’intera regione orientale africana, come afferma Guglielmo: Il conflitto somalo è oggi il fulcro attorno al quale sembra reggersi “l’equilibrio instabile” del Corno d’Africa, che dopo vent’anni dal suo inizio può essere considerato ormai strutturale. Mogadiscio si trova direttamente esposta a tutte le grandi tendenze politiche, sociali ed economiche globali. Per capirne il sistema, quindi, è necessario riportare alla luce quei processi politici sotterranei che i molti anni di instabilità hanno contribuito a mascherare. È proprio attraverso un’analisi degli attori, e del loro agire in più contesti, che è forse possibile dare un senso ai conflitti complessi emersi in questa zona di confine tra Africa e Medio oriente martoriata da faide e scontri armati apparentemente senza fine5.

8 Il nuovo testo di Matteo Guglielmo, che risulta di facile lettura, presenta caratteristiche originali che interessano non solo il lettore più attento e specialista, ma anche un pubblico più vasto. Inoltre il giovane studioso dedica in maniera esaustiva la parte finale della sua ricerca ai passaggi storici degli anni Novanta e Duemila, con particolare attenzione sia all’intervento internazionale in Somalia durante le fasi iniziali della guerra civile, sia all’arrivo nel contesto somalo di alcuni gruppi terroristici di matrice islamica. Il volume è fornito di un buon apparato cartografico e di quattro schede esplicative che riassumono alcuni temi di difficile comprensione: Il ruolo dei clan in Somalia, Le etnie dell’Etiopia, L’Eritrea e la geopolitica del confine e La riforma dell’Unione africana e il ruolo di AMISOM. Infine la bibliografia è ben strutturata e ricostruisce i maggiori studi italiani e internazionali riguardanti la complessa regione del Corno d’Africa.

NOTE

1. Matteo Guglielmo è dottore di ricerca in Studi africani e membro del Centro studi sull’Africa contemporanea (CeSAC) presso l’Università Orientale di Napoli. Tra le sue pubblicazioni ricordo: GUGLIELMO, Matteo, «La crisi di confine tra Eritrea ed Etiopia apre un altro fronte in Somalia», in Afriche e Orienti, 3, 4/2006, pp. 119-123; ID., Somalia: le ragioni storiche del conflitto, Pavia, Altravista, 2008; ID., «Dinamiche politiche e regimi di conflitto nella Mogadiscio contemporanea» in Storia Urbana, 126-127, 1/2010, pp. 17-36; ID., Somalia: conflitti interni e destabilizzazione regionale, Milano, ISPI, 2011; ID., Unravelling the Islamist Insurgency in Somalia: The Case of Harakat al-Shabaab

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 199

Mujahideen, in SHARAMO, Roba, MESFIN, Berouk (ed. by), Regional Security in the Post-Cold War Horn of Africa, Pretoria, Institute for Security Studies, 2011, pp. 119-146; GUGLIELMO, Matteo, La Somalia dal collasso alla frammentazione: la posta in gioco a Londra, Milano, ISPI Analysis, 2012. 2. GUGLIELMO, Matteo, Il Corno d’Africa. Eritrea, Etiopia, Somalia, Bologna, Il Mulino, 2013, p. 9. 3. Ibidem, pp. 9-10. 4. Per una bibliografia ragionata di studi italiani sul colonialismo rimando brevemente ai seguenti titoli: ROCHAT, Giorgio, Il colonialismo italiano, Torino, Loescher, 1974; DEL BOCA, Angelo, Gli italiani in Africa Orientale, 4 voll., Roma-Bari, Laterza 1976-1984; DEL BOCA, Angelo, L’Africa nella coscienza degli italiani: miti, memorie, errori, sconfitte, Roma-Bari, Laterza, 1992; GOGLIA, Luigi, GRASSI, Fabio, Il colonialismo italiano da Adua all’impero, Bari, Laterza, 1993; CALCHI NOVATI, Giampaolo, Il Corno d'Africa nella storia e nella politica: Etiopia, Somalia e Eritrea fra nazionalismi, sottosviluppo e guerra, Torino, SEI, 1994; LABANCA, Nicola, Oltremare: storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, Il Mulino, 2002; DEL BOCA, Angelo, Italiani brava gente? Un mito duro a morire, Vicenza, Neri Pozza, 2005; STEFANI, Giulietta, Colonia per maschi. Italiani in Africa Orientale: una storia di genere, Verona, Ombre corte, 2007; CALCHI NOVATI, Giampaolo, L’Africa d’Italia. Una storia coloniale e postcoloniale, Roma, Carocci, 2011. 5. GUGLIELMO, Matteo, Il Corno d’Africa. Eritrea, Etiopia, Somalia, cit., p. 11.

AUTORI

MICHELE PANDOLFO Ha conseguito la Laurea Specialistica in Filologia Moderna; è oggi Dottorando in Storia Culture e Strutture delle Aree di Frontiera, Università degli Studi di Udine, in cotutela con l’Université Paul Valery di Montpellier.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 200

Cecilia Bergaglio, Dai campi e dalle officine. Il Partito comunista in Piemonte dalla Liberazione al “sorpasso”

Michelangela Di Giacomo

NOTIZIA

Cecilia Bergaglio, Dai campi e dalle officine. Il Partito comunista in Piemonte dalla Liberazione al “sorpasso”, Torino, Edizioni SEB27, 2013, 203 pp.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 201

1 Il volume di Cecilia Bergaglio, opera prima frutto del riconoscimento della dignità di stampa della tesi di laurea specialistica dell’autrice, fornisce un originale panorama del Partito comunista in Piemonte lungo il trentennio che si apre con il 1946.

2 Il primo punto a favore del lavoro è che esso ridimensiona quell’immagine del Piemonte appiattito su Torino che ha fatto parte di tanta storiografia e che ha prodotto una deformante lente di ingrandimento rispetto al peso della classe operaia nel sistema sociale1 – e dunque politico – dell’area. Il Piemonte, sottolinea la Bergaglio, è – ed è stato – un composto disomogeneo di strutture produttive, di culture e mentalità che ha dato luogo negli anni a tanti diversi partiti comunisti, pur riuniti sotto l’unica bandiera del Pci2. Soprattutto, come emerge dal libro, i vari “Piemonti” sono stati strutture dinamiche, alle cui trasformazioni il Pci ha dovuto adattarsi, con cui ha dovuto confrontarsi. E, dunque, che occorre studiare lungo un arco temporale di almeno un trentennio

3 Osservazioni, queste, che l’autrice ricava da una meticolosa raccolta e comparazione di dati quantitativi provenienti dalle singole Federazioni provinciali e dall’Istat, e che le consentono di verificare quanto il Pci, nelle differenti realtà, sia stato in grado di modellarsi sul tessuto sociale in cui si trovava a lavorare, di aderirgli, di rappresentarlo e dunque di espandersi. Da un approccio preminentemente sociologico e sociografico – che è il secondo punto di forza di una ricerca che rimane storica pur usando strumenti propri di altre discipline – risulta una fotografia composita del Pci. Un partito che, pur partendo da posizioni radicate nella classe operaia in quasi tutte le aree del Piemonte, ha saputo però in alcune di esse seguire i processi di terziarizzazione e dunque stabilire canali di dialogo e di attrazione con classi e ceti non immediatamente di riferimento. Per tale ragione, per quella che l’autrice definisce la sua “plasticità”, il Pci è stato una grande esperienza collettiva, un canale di integrazione unico nell’esperienza dell’Italia repubblicana: svincolarsi dai canoni di certa letteratura che lo ha descritto come un corpo unico e calarsi nelle singole realtà locali è dunque un punto di osservazione che la più recente ricerca storica sta valorizzando3 – terzo aspetto da segnalare a favore del lavoro della Bergaglio – per comprendere appieno la natura della militanza comunista, che è andata ben al di là della semplice aderenza ideologica.

4 Questo volume dunque si domanda quali siano stati i fattori che hanno spinto persone , individui, dall’esperienza umana diversa, a riconoscersi in una determinata entità politica dalle forti caratteristiche identitarie e ad impegnarsi attivamente in essa con una costante azione militante nelle urne o fuori di esse. Proprio l’analisi sociografica di otto federazioni del Pci piemontese ha consentito sostanzialmente all’autrice di rispondere che la pluralità dei “Pci” possibili – prodotti dalle diverse realtà sociali in

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 202

cui operava – sia stata la chiave di volta della sua capacità di attrazione. E che tuttavia non sempre questa capacità si è dispiegata con la giusta sincronia rispetto ai fenomeni sociali, finendo dunque per creare una discrasia tra evoluzione elettorale ed evoluzione organizzativa e tra riferimenti analitici e dati di fatto.

5 Il libro si articola in una lunga introduzione – in cui si presenta dettagliatamente la frammentata e discontinua realtà archivistica relativa alle federazioni provinciali piemontesi; un’articolata analisi delle curve di iscritti e consensi elettorali delle otto federazioni oggetto di studio – valutando il movimento delle adesioni in relazione alle congiunture politiche internazionali, nazionali e locali; una dettagliata rassegna della composizione sociale della militanza; una larga parte di descrizione del caso cuneese, con una densa comparazione con le altre aree del Nord Italia (in particolare il Veneto); e infine una rassegna della letteratura esistente sui concetti di “provincie bianche” e di “subculture”. A conclusione, una breve bibliografia dei testi principali per lo studio del Pci in Italia e in Piemonte, sottolineando la scelta di selezionarne alcuni, meno di quanti evidentemente usati per la strutturazione della ricerca.

6 Per quanto riguarda il panorama degli archivi piemontesi, l’autrice evidenzia una diffusa lacunosità del materiale disponibile, che attribuisce al “clima di confusione” che ha accompagnato la svolta del post-1989. Segue una breve nota metodologica sul trattamento informatico dei dati quantitativi e sull’organizzazione di un database per l’analisi di questi. Sull’analisi del consenso e degli iscritti, Cecilia Bergaglio segnala che già nel primo decennio dopo la svolta di Salerno, quando pure le adesioni sembrano aumentare un po’ ovunque con ritmo celere, in realtà si andava stratificando una diversificazione nella distribuzione geografica delle iscrizioni – con un vero e proprio crollo nell’area del triangolo industriale. Una regressione giustificata dalle trasformazioni sociali imponenti provocate dal “miracolo economico”: trasformazioni che, da un lato cambiano il volto degli iscritti, rendendo il loro obiettivo non il socialismo, ma la vittoria elettorale, e che, dall’altro, il Pci non sa cogliere. Così, all’interno dell’area piemontese, il Pci perdeva voti a Torino – per ragioni di repressione anti-operaia che si radicavano nella congiuntura nazionale e internazionale – e soprattutto nelle campagne torinesi, in cui mai fu possibile per il partito radicare una struttura funzionale. Mentre crescevano le aree della piccola industria e impresa agricola, evidenziando così, come il Piemonte non finisse a Torino. In questa fase, nota l’autrice, si verificò la massima attività del Partito nelle aree rurali del Piemonte, con il fine di “inventarsi” un altro partito tra le colline.

7 Per quanto concerne la composizione sociale, lo studio della Bergaglio si mostra assai composito: poco senso avrebbe riassumerlo per quanto esso sia utilissimo a chi intenda approcciarsi allo studio dell’area piemontese. L’idea di fondo è quella di valutare non solo quali fossero le identità socioprofessionali della base del Pci nelle varie aree del Piemonte, ma anche quali siano state le diverse e mutevoli strategie adottate dal partito per radicarsi nelle diverse aree. Per far ciò, l’autrice formula una ricostruzione sintetica della struttura socio-economica delle varie aree, per avere un quadro di riferimento. Segnalando come Istat e Pci abbiano seguito griglie diverse per la rilevazione di tali dati sociografici e deducendone dunque una differente percezione dei due soggetti rispetto alla società: ad esempio, l’aggiunta di varie categorie professionali è letta come indice della progressiva comprensione delle trasformazioni sociali verificatesi negli anni Cinquanta-Sessanta.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 203

8 Opportuno, data la rilevanza che ha voluto attribuirle l’autrice, spendere due parole sul caso di studio privilegiato: la provincia di Cuneo. Alla cui realtà, per la presenza di dati più consistenti, di fonti meno frammentarie e più omogenee, viene dedicata gran parte del volume. Con una notevole conoscenza della lettura storiografica e socio-politologica di riferimento, si definiscono le ragioni per cui, a tutti gli effetti, il cuneese può definirsi una “regione bianca”, chiarendo i termini in cui utilizzare i concetti di “subcultura” ed analizzando le più o meno valide strategie adottate dal Pci per uscire dalla marginalità cui era relegato. Ampio spazio è dedicato alla proposta politica del Movimento di Rinascita, elaborata nel 1954 e rivolta a sfidare l’egemonia democristiana nei consensi dei contadini e piccoli proprietari terrieri. Una vera e propria sfida lanciata alla Coldiretti per intercettare le esigenze di uno strato sociale che era stato sostanzialmente abbandonato a favore di un focus sul nucleo duro di consensi provenienti dalla Snos di Savigliano o dalla Ferrero di Alba, del tutto insufficienti a permettere un reale radicamento del partito in un’area che continuava ad essere in gran parte agricola o terziaria nei suoi centri principali. Una proposta che rispecchia – e in parte anticipa – la generale tendenza del Pci in quegli anni a slegarsi dalle posizioni classiste per andare ad analizzare le realtà concrete. A distruggere le ambizioni legate al successo della proposta di Rinascita, in grado di mobilitare vaste masse e di costringere la Dc a una posizione trainata anziché trainante, arrivano però i grandi eventi della politica nazionale e internazionale: il 1956 con il suo strascico di contrasti interni al Pci. Tanto più acuiti nel cuneese dalla presenza carismatica di Antonio Giolitti, che appare come l’unico portavoce delle esigenze dell’area in Parlamento e sulle cui posizioni si sposteranno molti al momento della sua uscita dal Pci. Un partito tornato operaista saprà riguadagnare consensi solo all’inizio degli anni Settanta, quando il riesplodere delle proteste operaie e l’insoddisfazione di molta parte dell’elettorato per l’attività governativa del Psi ricollocano il Pci al centro della scena sociale ed elettorale. Il fatto che nel 1976 il Pci diventasse davvero un avversario temibile per la Dc, non era perciò risultato scontato, e presto si rivelò essere un alquanto effimero risultato.

9 L’autrice definisce il suo lavoro come un semplice punto di partenza. Effettivamente, si tratta di un lavoro su cui innestare ricerche di taglio più propriamente “storiografico”, ma del tutto originale e che apre un altro piccolo cammino in quel panorama di regional studies applicati al Pci cui si faceva riferimento all’inizio. La descrizione minuziosa di dati e metodi può rendere a tratti ostica la lettura di una ricerca che invece spazia agevolmente dal micro al macro, dal locale all’internazionale. Una descrizione che, però, al contempo, rende il volume uno strumento di base di alto valore e ne è, perciò, nodale punto di forza.

NOTE

1. La bibliografia su Torino è sterminata. Riferimenti fondamentali: TRANFAGLIA, Nicola (a cura di), Storia di Torino, 9 voll., Torino, Einaudi, Torino, 1997-1999; CASTRONOVO, Valerio, Torino, Roma-Bari, Laterza, 1987. Tra le più recenti, sul Pci torinese: LEVI, Fabio, MAIDA, Bruno, (a cura

Diacronie, N° 17, 1 | 2014 204

di), La città e lo sviluppo, Milano, Franco Angeli, 2002; MAIDA, Bruno (a cura di), Alla ricerca della simmetria, Torino, Rosenberg & Sellier, 2004. 2. Un punto di partenza sulla molteplicità degli aspetti del movimento operaio piemontese: AGOSTI, Aldo, BRAVO, Gian Mario, Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, 4 voll., Bari, Di Donato, 1979. 3. Sugli studi regionali recenti sul Pci si veda il panel Le periferie del Pci: locale e nazionale nelle territorialità del Presentato ai Cantieri Sissco, Salerno, 10-12 settembre 2013, coordinato da L. Masella, con contributi di V. Vetta, Comunisti pugliesi fra partito, territori e amministrazioni locali negli anni della segreteria Berlinguer (1972-1984); N. Dines, L’eterno abietto? Il PCI/PDS e le classi popolari napoletane (1968-1998)”; S. Giordani, La base e il vertice. Il PCI in Emilia-Romagna negli anni del compromesso storico (1972-1979). Mi permetto di citare anche il mio intervento nella stessa sede: Alla prova dell’immigrazione. Appunti su PCI e amministrazione comunale a Torino 1945-1985.

AUTORI

MICHELANGELA DI GIACOMO Dottore di ricerca presso l’Università di Siena. Si è laureata in Storia Contemporanea presso l’Università degli Studi di Roma la Sapienza, con la tesi Identità eurocomuniste: PCE e PCI negli anni ’70, con cui ha vinto il Premio di Laurea del Fondo “Carlo Leuzzi” del Senato della Repubblica nel 2009. Si è poi addottorata presso la Scuola di Dottorato in Scienze Storiche in età contemporanea dell’Università di Siena con la tesi Alla prova dell’immigrazione. Movimento operaio e immigrazione meridionale nella Torino degli anni Sessanta. Ha pubblicato: «Migrazioni, industrializzazione e trasformazioni sociali nella Torino del “miracolo”. Uno stato degli studi», in Storia e Futuro, 21, 2009, http://www.storiaefuturo.com/it/numero_21/ percorsi/; «Il ’68 presentato ai ragazzi», in Le classi, la storia, 0/2009; «Le migrazioni interne», in Bollettino di Storiografia, allegato a Storiografia, 13, 2010, pp. 29-53; «Identità eurocomunista: la traiettoria del Pce negli anni Settanta», in Studi Storici, 2/2010, pp. 461-492.

Diacronie, N° 17, 1 | 2014