Prologo Primo

C’era Una volta...ovvero le favole non esistono

C'era una volta….Così cominciava l’ultima versione di que- sto libro, che ha avuto una gestazione curiosa, partecipe sia della favola che della realtà. L’aspetto favolistico era rappresentato dalla promessa, più volte fattami, direttamente, in privato ed in pubblico, di una bene- ficenza “letteraria”; il promittente si era impegnato, ed aveva impegnato me, che avevo impegnato tanti altri, a sostenere il costo del libro. Pensate, aveva detto che sarebbe stata una cosa in grande..parlando, addirittura, di migliaia di copie! Mi sentivo inondato di pagine e di invidia. Non rideteci tanto, ma alcuni individui, avendo appresa la notizia della futura elargizione, mi invidiavano già! Allora è vero che l’invidia alligna facilmente, anche sulle semplici promesse! La ricchezza non ci sarebbe stata, lo sapevo e lo so; il benes- sere nemmeno, ma il libro sarebbe stato regalato a migliaia di persone,consentendo, in conseguenza, di far conoscere un picco- lissimo spicchio del mondo francescano da me conosciuto. Voi sapete bene che nelle favole esistono, paradigma della vita, degli ostacoli da superare, dei mali, spesso; anche in questo caso, si verificò un primo incidente di percorso: il libro non sarebbe stato pubblicato più ad Agosto, per la festa del Perdono, ma..a Natale, come strenna; gradita o meno che fosse (a caval donato non si guarda.. in bocca!). Nel frattempo, proprio per essere anticipatamente ricono- scente nei confronti di chi aveva promesso cosi tanto (dando, tut- tavia, fino ad allora, nulla), e per trovargli spazio, (i limiti della

7 nostra libertà!) avevo deciso di raccontare meno della mia vita e più di lui. Non era stata una decisione spontanea e sentita, ma quasi un sollevamento familiare contro quella che fu definita una irrilevante e tutto sommato mia mania di raccontare di fatti altrui, dinanzi alla necessità di ottenere un contributo vitale. Dinanzi a quella promessa di contributo, avrei dovuto piega- re il libro alle esigenze economiche, sembravano dire i miei con- siglieri. In verità, nonostante io riscrivessi il libro continuamen- te, fino a farne sette bozze, non mi piaceva; non lo sentivo del tutto mio; non era tutto quello che raccontare io; e si sentiva, infine, l’assenza di emotività passionale in quelle forza- ture narrative. Avevo fatto rifare anche le copertine, mutando titolo e colo- re; ma qualcosa non funzionava. Sarà stata, forse, l’assenza di concretezza monetaria e il dubbio, che si faceva sempre più spa- zio, che, forse, quei non sarebbero mai arrivati. Mano a mano che il tempo passava, senza che l’orizzonte portasse sole di primavera , era ormai giunto l’autunno, mese nel quale, da secoli, cadono le foglie. Nel mio caso, cominciarono a cadere le basi, abbastanza fragili, delle speranze. Prima che il ter- reno fosse coperto di speranze morte, accartocciate, mio fratello Cesare, francescano, per il quale il promittente diceva di nutrire anmmirazione, ed io, avevamo deciso di recarci a casa del bene- fattore linguistico (nel senso che tutto, fino ad allora, aveva fatto con la lingua), nella speranza di tornarcene a casa con qualche foglio di filigrana o qualche altro strumento di pagamento accet- tato in tutta Italia. Ma.. nonostante la la celebrazione della Messa, da parte di Padre Cesare,e l’ulteriore promessa di un acconto, che sarebbe stato inviato a breve, erano arrivate solo le prime piogge e i primi freddi. Avendo fretta di pubblicare il libro, snaturato, in verità, nella sua ispirazione originaria, e non avvertendo alcun segnale positivo da parte di chi aveva creato entusiasmi sulla quantità di copia da fare stampare, chiamai quell’entusiasmatore per cono-

8 scerne le intenzioni. E sapete come è andata a finire? Ve lo dico subito, cosi non state in ansia. Il teorico dispensiere, che avrebbe dovuto fare la magia di sostenere il costo del libro, dopo ben otto bozze e varie conversazioni, e dopo che si era già diffusa la voce sulla sua beneficenza, in verità mai quantificata, mi disse, da vici- no (ma c’erano state nuvolaglie telefoniche) che sarebbe stato opportuno fermare tutto, rinviando la pubblicazione a data da destinarsi. L’autunno era in pieno svolgimento; e pioveva, quel giorno. Vi risparmio i particolari sull’ambiente circostante e sull’at- mosfera lugubre che che aveva pervaso le mie orecchie. Cosi vi risparmio sulla ulteriore promessa fatta. Questo aspetto, che, come vi ho detto, attiene alla favola possibile, si è poi intrecciato con la realtà delle rocce, contro le quali non si può combattere, perché si rischia di farsi male. Avevo superato, infatti, la delusione (una leggerissima ferita ad un entusiasmo provocato da altri) della mancata magìa mone- taria. Consegnai, finalmente, l’ultima bozza del libro, convinto della ormai certa pubblicazione. Ma.. (questa la realtà) l’editore mi comunicò, con chiarez- za, che alcuni passi su Padre Bergamaschi non erano stati visti bene, in positivo, cioé, da due suoi consiglieri; secondo costoro, la valenza del Padre sarebbe stata sminuita, addirittura, dal mio racconto. E, quindi, non mi avrebbe dato il marchio della sua casa editrice. Un sorriso invase la mia mente; un sorriso che andò a posar- si sulla prima ferita, che si era, per fortuna, rimarginata, aiutata dai dubbi che sin dall’inizio avevo avuto, sulla necessità di modi- ficare la struttura del libro per fare spazio ad una persona che non conoscevo a fondo. Quanto è vero il detto che non tutti i mali vengono per nuo- cere! Libero dalle restrizioni alla libertà, sono tornato alla primi- genia stesura del libro, che aveva lo scopo accennato in esso. Questo libro, cioé, voleva e vuole raccontare del mio amore verso

9 il mondo francescano; e di alcuni frati che ho avuto la fortuna di incontrare nel mio percorso di vita. Non vi sono, nè si ha prete- sa che le abbia, mire commerciali. Ho voluto strutturare il libro secondo uno stile quasi cinematografico, corredando il testo di alcune foto, perchè la lettura risulti leggera e i luoghi appaiano animati. So bene che non si usa dotare i testi di foto, ma il mio è un racconto particolare, un atto di amore verso alcune persone, frati, che si sono sedimentati nella mia anima, consentendomi di resi- stere agli uragani della vita. Infine, per cercare di rendere più piacevole l’insieme, ripub- blico, integrati e arricchiti, alcuni racconti, in qualche modo lega- ti al mondo francescano. La vera favola, se mai se ne possa par- lare, sarebbe quella di un avvicinamento di persone alla umiltà ed alla concezionedivita francescana

10 Secondo Prologo

Non avrebbe senso raccontarvi dei frati se non vi raccontas- si anche di me, e del mio amore francescano; se non vi dicessi dove e come li ho conosciuti, i frati che mi hanno fatto crescere, e maturare, e dei quali conservo, a distanza di anni, l’impronta francescana. E quindi, dovete per forza seguirmi per un buon trat- to di strada, che va dalla mia entrata in Collegio a Reggio Emilia. Ho strutturato il libro, come dicevo, illustrandolo in alcune parti, per farvi respirare e farvi capire dove si svolgevano i fatti di cui scrivo: nessuna pretesa di originalità, ci mancherebbe, ma non sarebbe male che anche i romanzi venissero, a volte, illustra- ti, come dei fotoromanzi. Orbene, nonostante il dispiacere di una conferma, di come, cioé, la realtà sia molto diversa dalle parole e da qualsiasi procla- mazione sulle libertà di cui tutti godono, e penso che sia davvero ora di cominciare il racconto di questo cammino lungo il quale ho conosciuto i miei Frati.

11 12 Capitolo I I Miei anni in collegio: da Pietrafitta a Tropea

Allora, anche se la notizia non è di vostro interesse, sono stato in collegio per cinque anni, nel collegio di Pietrafitta, che si trova in provincia di Cosenza; avevo dieci anni quando arrivai, dopo quasi tre ore di viaggio, nel piazzale del collegio. Ero stato accompagnato da mio padre, ed eravamo stati accolti dal rettore e dal Maestro di disciplina; in collegio c'era già mio fratello, Cesare, entrato due anni prima, che faceva parte della categoria dei grandi, cioè quelli dai tredici ai quindici anni. Dopo la visita degli spazi destinati ai fratini, il Maestro di Disciplina aveva illu- strato a tutti coloro che erano arrivati, raccolti in gruppo, nel salone dello studio, le regole del collegio: ore sei, sveglia; pulizia perso- nale (in silenzio); subi- to dopo, rifare il proprio letto; quindi, preghiera e messa; cola- zione, e via.. a.. scuola! Alle 15, dopo il pranzo e la ricreazione, tutti nella stanza dedicata allo studio per circa due ore; intervallo per la merenda e ricreazione per una mezzora; poi ancora studio, fino a circa le diciannove; breve preghiera e cena. Brevissima ricreazione.. e.. a letto! Sotto la sorveglianza dei prefetti e dei frati.

13 I locali del convento erano vietati allo sguardo dei fratini; così come i locali destinati alle suore; i fratini non avrebbero dovuto avere contatti con altri esterni; vi era una rigida separazio- ne (che allora io non comprendevo) tra ragazzi piccoli e ragazzi grandi, per evitare promiscuità "pericolose". Nel corso delle passeggiate settimanali (quasi sempre lungo la strada, non frequentata, che porta al cimitero di Pietrafitta) non avrebbero dovuto guardare, ovviamente, le ragazze; insomma non avrebbero dovuto "distrarsi", per non cadere in tentazione. Quell'anno erano approdati, in Collegio, quasi settanta ragazzi, provenienti da tutte le province della Calabria.

I collegi e i seminari supplivano, a quei tempi, alle carenze dello Stato.. si entrava in collegio per studiare, più che per diven- tare sacerdoti. Il collegio era un luogo di crescita, culturale, e di discipli- na; nei collegi, anche i poveri avrebbero potuto avere il respiro della dignità. Molti di coloro che entravano nei collegi, però, sarebbero andati via molto presto, al massimo due o tre mesi dopo, non resistendo alle regole rigide vigenti; regole simili a quelle in vigore nella società civile, dove i maestri, alle elementari, e i pro- fessori, nelle scuole medie e superiori, utilizzavo, per l'educazio- ne e la disciplina, metodi quasi fisici.

14 - Arrivo a Tropea Al termine delle medie inferiori, i fratini futuri ginnasiali, fummo trasferiti, con un pulmino, al Convento di Tropea; dei set- tanta ragazzi dell'anno del suo arrivo, avevano resistito solo sette. Di quel gruppo facevano parte i miei compagni, Padre Francesco Caloiero, Padre Carmelo Andreacchio e Padre Bruno Mezzatesta. La mia stanza, con un terrazzino in cemento, affacciava sul mare, dal quale sentivo provenire il fruscio,quasi ininterrotto, delle onde. Con l'arrivo a Tropea, si chiudeva il tempo dell'età puberta- le, ed era cominciata subito, ormai già in atto, quello dell'adole- scenza, che scoppiò in tutta la sua impetuosità: emersero le prime curiosità, le prime pruriginosità umane. Quando, ad esempio, per la passeggiata quotidiana, ci accom- pagnavano lungo la spiaggia (il convento è situato a pochi metri dal mare) e guardavo, con insistenza, le ragazze del vicino colle- gio femminile, sentivo la voce del rettore che diceva, "Ragazzi" guardate in basso, e camminare, camminare". Vennero fuori, anche, le ribellioni ai metodi educativi, le contestazioni teo- logiche, musicali e letterarie. E come puntualmente accade in questa età, i gran- di, spesso, non capi- scono che le efferve- scenze, le esuberan- ze, alcune violente manifestazioni adolescenziali sono la prova di resistenza della crescita,la sfida contro i grandi, la messa in discussione di certi valori e giudizi, al fine della propria afferma- zione, e della scoperta di una propria identità. Ma allora, dati i tempi, si andava sul liscio, sul consueto, sulle equazioni, insomma si preferivano le semplificazioni tran- quillanti, piuttosto che gli sforzi di comprensione: ribellione egua-

15 le indisciplinatezza; indisciplinatezza eguale immeritevolezza, questa eguale a non idoneità alla vita francescana. Non mi senti- vo compreso. Veniva messa in discussione quella che ritenevo, già fin da allora, la mia vocazione francescana. Dai tempi della mia presunta attitudine all'estasi o alla santi- tà, dal mio ruolo di armonista ufficiale, mai spodestato, ero stra- piombato in un momento di totale disistima, di dequalificazione, personale e francescana. Niente più Harmonium, niente più stima, niente seguito di credibilità! La mia creatività e il mio dinamismo non venivano considerati. Mio padre, al quale avevo inviato, di nascosto, una lettera in cui avevo manifestato quel mio malessere, pregandolo di venirmi a prendere perché non mi sentivo voluto, venne di sera, e preci- pitosamente, al mattino presto, mi portò via dal collegio. Erano trascorsi circa sei mesi.

16 Capitolo II

Il Piacere del Perdono e La Dignità del Dolore

Andare via, quasi fuggire, da Tropea non era stata una deci- sione spontanea, ma, come ho detto, quasi costretta. Per anni, specie quando il mondo sembrava non accettarmi, ma in verità ero io a non volerlo accettare, il mondo, ho avuto la tentazione di bussare ad un convento qualsiasi, e chiedere di potermi fermare, indossando quel saio che mio fratello aveva vestito. Mi è, quindi, sempre rimasta la passione francescana , nono- stante il mio percorso di fede sia stato abbastanza frastagliato. Anche nei momenti più difficili della mia esistenza, quando tutto sembrava precipitare, e la mente era, spesso, attraversata da pen- sieri di annullamento o di inutilità, vedevo come in microfilm i corridoi del collegio di Pietrafitta, le aule dello studio e della scuola; la cappella, il piazzale. In tanti miei scritti, mi ricor- dava qualche amico, si avvertiva spesso, un'aria francescana; uscivano, come da uno scrigno nel quale erano custoditi, da anni, i pensieri, i comportamenti, i gesti e i volti di alcuni frati. Pensieri e comportamenti che mi avevano corretto il senso dell'esistere e il grande piacere, rigenerante, del Perdono; che è, a sua volta, donare senza corrispettivi e attese di

17 riconoscenza, accantonando, senza sopprimerla, ma dandole una veste meno terrena, anche la dignità, per addolcire l'altrui soffe- renza ed infelicità. Mi accorgevo, cioè, col passare degli anni, e nel fluire delle asprezze della vita, che si diventa forti facendo del bene perché il bene, venendo rielaborato da colo- ro ai quali è destina- to, ritorna ancora a noi sotto forma di energia di fiducia e di speranza; ed allo- ra ci si accorge di quanto sia una ele- vazione dell'anima e una purificazione delle amarezze impegnare la propria esisten- za al servizio degli altri o intingere di francescanità e cristianità la nostra normalità di esseri umani. E tra i tanti mestieri che avrei potuto scegliere di tentare di esercitare, mi ero orientato verso quello di ufficiale Giudiziario. Io non sapevo quale attività avrebbe dovuto svolgere un Ufficiale Giudiziario; mi era stato detto, dai miei fratelli, del gua- dagno e della libertà di cui avrei potuto godere. In verità, però, lo compresi meglio in seguito, avevo scelto quel mestiere perché esso mi avrebbe consentito, secondo le ven- tate ideologiche o filosofiche, cristiane e politiche, di allora, di dare forza e sostegno, riparo, in qualche modo, ai poveri disgra- ziati che, spesso, per colpe loro, o per vicende diverse della vita, non avevano una casa dove stare, o soldi per acquistare cibo. Erano i diseredati della società, della vita, persino, di cui pochi si occupavano; nemmeno gli enti di assistenza, perché essi stessi non amavano elemosinare aiuti e volevano consumare, con dignità, le loro disgrazie. Quando mi recavo nelle case dei "debitori", come "inviato" del potere esecutivo dello Stato, trovavo, spesso, madri e mogli che mi richiedevano, non di eludere o violare la legge (trascura- re qualche bene al quale erano legati, dal punto di vista affettivo), ma di fermarmi, fossero stati anche pochi minuti, a chiacchiera- re; perché erano sole; la povertà era stata aggravata dalla disgra- zia fisica, o morale, dall'arresto del figlio o del marito. In tanti anni di attività processuale esecutiva, avevo impara- to cosa fosse il dolore vero; cosa significasse il desiderio di un sorriso; cosa volesse dire la paura della vita, del giorno dopo, di un campanello suonato o di un colpo di tosse in piena notte. Ed avevo appreso, a contatto con tantissime persone, sempre composte nella loro sofferenza, senza mai un lamento, e senza abbassare il livello della loro cristianità e della loro Fede, cosa volesse dire, per davvero, avere il coraggio di vivere. Avevo incontrato e conosciuto persone speciali, sia in Collegio che fuori. Ed era, pertanto, sempre presente, quasi immanente, in me, il desiderio di raccontare di loro, di queste bel- lissime, spesso straordinarie, persone, riparate nella loro mode- stia e aperte, nella loro umiltà, ai bisogni degli indigenti, menta- li, affettivi e materiali.

19 20 Capitolo III L’idea di una Trilogia: dai Miei avvocati ai Miei Frati

Scrivevo, ormai, da quasi venti anni, su vari giornali locali; non erano scritti di cronaca, ma riflessioni, elzeviri, racconti di vita, pensieri contenuti in momenti di vita, quadri di diversa uma- nità, che volevo fare conoscere ad una umanità frettolosa ed indifferente alla riflessione. Da qui l'idea, iniziale, di raccoglierli, quegli scritti, e di farne un lungo ed unico racconto; il libro, però, alla fine, fu suddiviso in Tre volumi, come se avesse dovuto costituire una Trilogia. Tutti e tre avevano, infatti, come punto comune, l'aggettivo possessivo "Miei"; il primo avrebbe dovuto essere "I miei Frati" (Francescani); il secondo, "I miei avvocati" (di sesso maschile); il terzo, era stato dedicato (nella fase della elaborazione) ai miei avvocati donne. I frati francescani, si sa, sono poveri; e difficilmente si lamentano o protestano; quelli di Calabria, poi, conformi alla loro terra, sono ancora più poveri e meno visibili di tanti altri. Così, il libro a loro dedicato, come spesso accade anche in altre vicende della vita, dal primo passò al secondo posto; men- tre gli avvocati, che non solo protestano, ma come caratteristica peculiare generale hanno la lamentela, oltre che la loquela, ebbe- ro il primo e il secondo posto. Il primo libro ad essere pubblicato fu, infatti, I Miei Avvocati sorrisi e memorie; poi venne il turno di Donne in Toga e altri. Non me l'ero sentita di ripetere il titolo del primo (le mie avvocatesse donna…) sia perché la ripetitività avrebbe dato l'idea di una saga; sia perché dire "le mie donne in toga" avrebbe potu-

21 to offendere la sensibilità di qualcuna, sentendosi definire "mia" dall'autore, soprattutto se non era stata mai di alcuno. Per togliermi dall'imbarazzo, e per non lasciare le donne da sole (con i tempi che viviamo, è meglio non lasciarle da sole nemmeno nei libri…potrebbero essere aggredite dai punti.. inter- rogativi), vi avevo inserito qualche maschio, che avesse qualche collegamento, di sensibilità o di mia conoscenza, con le donne. Alla presentazione del secondo libro, un giornalista arguto, frizzante e ironico, si era domanda- to, ma ne era davvero convinto, se l'autore, visto il canale, non avesse scritto, in futuro, altri libri dal tito- lo simile, tipo " I Miei Magistrati", i Miei chissà che cosa. Non era andato molto lontano, nella sua previsione, dal progetto; in effetti, era già pronto nel casset- to (della mente), il terzo libro (che in verità, come detto, era stato il primo ad essere ideato), dedicato ai Frati Francescani della Calabria e di Reggio Emilia. E lo avevo intitolato, come vi ho detto, tanto per non smentirmi, "I Miei Frati- Ricordi di un fratino".

- La parrocchia di San Francesco d'Assisi a Cosenza Il libro era stato scritto, nella sua maggior parte, a Cosenza, quando, nel mese di febbraio, l'autore ero andato a trovarel Padre Cesare, ,che mi aveva telefonato per chiedermi se avessi voluto passare qualche giorno da lui,come avevo sempre fatto, almeno una volta l'anno, da quasi trent'anni. Avendo capito il suo desiderio di compagnia o, qualche giorno dopo la richiesta, avevo prenotato il treno ed ero sceso in

22 Calabria. . Non attraversava un bel periodo, Padre Cesare: dopo oltre dieci anni di permanenza a Terranova, dove si era trovato bene, era stato destinato alla parrocchia di San Francesco d'Assisi, a Cosenza, appunto, sua prima misssione circa trent'an- ni prima, nel pieno delle sue energie. La parrocchia di San Francesco d'Assisi, quasi conforme al suo santo protettore, è sempre stata povera, con un territorio occupato da gente variamente disagiata. Vi allignavano, già negli anni settanta, spezzoni del degrado, ambientale e sociale, che il quartiere trasmetteva; sembrava, a quei tempi, un quadro in cui la reiezione sociale raggiungeva la sua massima espressione. I muri delle volte dei vicoli erano scuri e umidi, con tracce di acqua sporca o addirittura di scarichi igienici; le case erano composte di stanze disadorne e squallide, dove ragazze e ragaz- zi, fuori da ogni linfa culturale e spirituale, sembravano lavorare su orditi criminali e anticipare la loro futura criminosità. La situazione del quartiere non era certo quella di trenta anni addietro, per fortuna, ma la par- rocchia era,comunque, rimasta sempre povera; alla Messa della Domenica partecipavano, si e no, una decina di fedeli, forse anche venti, non di più. Sembra, queste erano le considerazioni che face- vamo, nelle serate accanto al camino, ravvivato da schioppettii di legni, composti da piedi di seggiole e di tavoli, che i poveri siano destinati a rimanere sempre poveri, i disgraziati sempre disgraziati, senza possibilità di riscatto generale sociale, se non provvisorio o illusorio. Vi sono delle sacche, nella società,ci dicevamo, quasi per conforto, di disgraziati multipli: non sono solo sventurati, fisica-

23 mente, ma soprattutto perché non riescono ad emettere respiri di dignitosa umanità. Per scrivere il libro, me ne stavo al computer tutta la matti- na, mentre Padre Cesare faceva i suoi giri, tra messa, funerali e malati. Inoltre, in quel periodo, erano cominciati i lavori di scavo nel pavimento della Chiesa, e stavano portando via tanti schele- tri; una volta, infatti, i morti venivano seppelliti sotto le chiese; la necessità del Cimitero nacque, infatti, per motivazioni sanitarie, molto tardi.

- L e mie vacanze con Padre Cesare a Terranova Con Cesare sto sempre bene; si mette a mia disposizione e rinuncia, se rinunciabili, agli impegni assunti, per farmi compa- gnia. Ci sono due anni di differenza tra lui e me; lui è entrato in collegio due anni prima di me, sempre a Pietrafitta; a causa delle rigide regole esistenti nel collegio, per poter parlare insieme, avemmo una dispensa speciale. Quando lui andò a Mesoraca per l’anno di Noviziato, io andai a Tropea. Diciamo che lo seguivo a ruota. Da Mesoraca egli andò ad Assisi, e poi un anno anche a Monselice. Ed io lo seguivo sempre, in ogni posto. Quando lavoravo a Varese, andai a trovarlo a Monselice, in provincia di Padova; gli aveva fatto piacere, ed avevo mangiato insieme agli altri frati, alcuni dei quali calabresi. Ma ero andato a trovarlo anche ad Assisi, a San Damiano. Ed avevo visitato, per la prima volta, Santa Maria degli Angeli. Dopo la parentesi a Tropea dopo il 1995, Padre Cesare era stato assegnato alla comunità di Terranova, paese di circa seimi- la abitanti, situato nella provincia di Cosenza, a ridosso del fiume Esaro, dove è sviluppata la coltivazione delle arance e dei man- darini. Qui, dicono, si coltivano i mandarini più buoni d’Italia Quello con Terranova fu un colpo di fulmine. I terranovesi amano i francescani; i frati, infatti, non hanno mai dovuto acqui- stare molto, perché molto veniva loro donato dai parrocchiani, o

24 da amici del convento. Non mancavano, mai, infatti, vino e olio, agrumi d’inverno, verdura; spesso, poi, alcun famiglie prepara- vano addirittura da mangiare per i frati. A Cesare piaceva, ogni tanto, mangiare fuori, giusto per il gusto di non cucinare i. Cosi, qualche giorno dopo il mio arrivo, sapendo che a me piace girare e conoscere nuovi posti, mi propo- se di andare, un martedì, a Laino Borgo,sempre in provincia di Cosenza; un bellissimo paese , distante circa settanta silometri da Terranova, sulla strada che porta Praia a Mare.

Arrivammo a Laino verso le undici. Laino è diviso in due; Laino alto e Laino basso; prima di entrare nel paese, c’è un famoso Santuario, la cui caratteristica sono le piccolissime cappelle. La sensazione che si ha, visitando quelle cappelle in miniatura, è di intensa religiosità; senza alcun irriverente accostamento, la “piccolezza” della cappelle, mi ricor- dava l’appartamento dei nani, al Palazzo Ducale di Mantova, che mi aveva affascinato. Famose sono, inoltre, le gole di Laino, dove si svolgono gare di canoa. Verso mezzogiorno, pranzammo in una trattoria, dove Cesare

25 era già stato. Seduti sotto un pergolato, mangiammo “scilatelli”, ossia pasta, a forma allungata, fatta in casa; del pesce ai ferri e vino rosso locale, molto buono. Verso le quattordici e trenta, ci avviammo per Terranova. Ma tanti altri posti ho visitato, insieme a lui; e che senza di lui non avrei mai potuto conoscere: S.Agata di Ninea, San Demetrio Corone, Lungro, la capitale religiosa degli albanesi ita- liani; e poi ancora, Rotonda, Pedace, Serra San Bruno. D’estate, mentre al Nord, a Reggio Emilia, in particolare, faceva un caldo soffocante, nel convento si stava bene: il conven- to di Terranova, peraltro, a parte lo spessore dei muri che non lasciano passare il caldo, è situato su uno spiazzo che è sempre ventilato. Dopo pranzo o dopo cena, andavamo sempre a fare due passi; di giorno nel chiostro del convento, fresco e non soleggiato; di sera sul piazzale. Anche per lui era un’oc- casione per liberarsi di pensieri e di dubbi, che non rivelava a nessuno. Pensieri diversi, umani; confessioni innocenti, che trovavano in me uno che tentava di aprirgli la mente, forte delle espe- rienze vissute, e della mia impostazione razionale e prudente. In quei sette giorni di vacanze trascorsi a Cosenza, nella parte residuale dell'antico convento del 1300, ora ceduto alla Sovraintendenza, Padre Cesare ed io avevamo parlato del primo libro pubblicato a Reggio Emilia, e intitolato "I Miei avvocati" . Ma fu anche l'occasione, un giorno che erano sul terrazzo a godersi un venticello leggero, mentre dal balcone attendevano il passaggio della littorina, per parlare della intenzione di comple- tare la scrittura e pubblicarlo, poi, del libro sui " Frati". Padre Cesare non si era detto subito d'accordo. " A chi vuoi che interessi un libro del genere?" aveva obiet- tato subito; "quelli di cui tu vorresti parlare sono morti tutti, i giovani non li conoscono nemmeno; e poi, quanti libri si potreb- bero vendere ? Quanti lo leggerebbero?". In effetti, i frati della Calabria erano, all'epoca, in tutto, circa una ventina; quelli anziani,e di cui si parlava nel libro nel frat- tempo, erano morti; il pubblico dei lettori sarebbe stato, quindi, davvero molto ridotto. Insomma, Padre Cesare non mi era apparso molto entusiasta. È vero che l'entusiasmo non viaggia sugli eurostar delle nostre vite, ma la sua espressione era alquanto argillosa. Considerata la scarsa opportunità di un libro su pochissimi frati francescani della Calabria, ma tenuto conto, tuttavia, sia della mia voglia di raccontare di loro, che dello scopo, storico e di memoria, di uno libro simile, mi aveva suggerito di parlarne con il Padre Provinciale, o con i responsabili "editoriali" della Provincia; chissà, magari avrebbero offerto, quanto meno, il loro entusiasmo; o, peggio che fosse andata, la loro approvazione. E così, in effetti, feci, qualche tempo dopo. Non arrivarono nè l’approvazione nè l’entusiasmo. ma il libro, era stato deciso, sarebbe stato pubblicato, a tutti i costi.

27 28 Capitolo IV Le partenze per il nord e i miei nonni

Le vacanze a Cosenza terminarono. Sette giorni passano in fretta; un respiro e di nuovo bisogna partire. Avevo visitato, sempre in compagni di Cesare, tanti posti,; rivisitato il Duomo di Cosenza, di stile gotico cistercense, il Vallone di Rovito, dove furono fucilati, nel 1844, i fratelli Bandiera, ridotto (poveri fratelli del Risorgimento italiano) ad un ammasso di erbacce, sulle quali si riversano le liberazioni istan- tanee; il Castello aragonese, ormai in degrado progressivo. Le partenze non sono mai allegre; se sono state delle belle giornate ti dispiace che finiscano; se sono state brutte, sei triste egualmente. Quanti viaggi della nostalgia! Ogni volta che, da ragazzo, prima di tornare al Nord, anda- vo a salutare i miei nonni, detti i "Liscari", mi dicevano, con le lacrime agli occhi: " Chissà se ci troverai ancora la prossima volta!". Non facevo caso a quella frase, ormai un ritornello; non comprendevo il rullio della malinconia del tempo che passa e che non copre ancora l'allegria. I vecchi, una volta, aspettavano la morte, anche quando erano malati, perché la morte era una faccia della vita; anzi, era l'altra faccia della vita; non scappavano da lei e dalle malattie, che cercavano di curare. Non avevano paura di morire. Così come non avevano paura della vita, qualunque essa fosse, di fatica e disgrazie o di gioie misurate. La loro serenità derivava proprio dall'accettazione della normalità esistenziale e 29 del loro essere in una condizione umana, senza salti nei disegni dei desideri impossibili. I miei nonni io li ho visti sempre vecchi; curvi e vecchi; per- ché i contadini, del sud, in particolare, hanno il volto scavato come pietre. Mio nonno, quando tornava dalla campagna, e dopo essersi cambiato di vestito, se ne andava alla "Maranna", un rione del paese; si sedeva, con i suoi amici, sugli scalini della chiesa, dalla parte retrostante, che affaccia sul viale della "bellavista" e lì pas- sava il tempo, parlando di tutto ciò di cui parlano i contadini e le persone modeste. Li ho visti sempre vecchi, i nonni, e ricurvi di fatiche; ecco perché non facevo caso a quella loro frase che, forse, non li avrei visti mai più. Ricordo, però, che quindici giorni volavano; non facevo in tempo a disfare la valigia, che dovevo rifarla. Arrivavo con il sorriso, e partivo con la malinconia. Fino a circa diciotto anni, prima di ripartire facevo il giro della vastissima parentela; per non perdere il "postale", e volen- do fare il giro di tutti gli zii, i vicini di casa, i nonni, gli amici, dovevo muovermi da casa almeno due ore prima. Con il passare degli anni, avevo diminuito il numero di per- sone da salutare e da abbracciare; via alcuni zii, via alcuni amici; solo nonni e qualche zio. Era sempre mio padre che mi accompagnava alla corriera (il Postale, come si chiamava una volta, il Bus), aspettando che par- tissi, per salutarmi. Spesso si raccomandava con l'autista che mi desse un'occhiata. Mia madre, a casa, mi abbracciava stretto, come solo sanno fare le mamme, raccomandandosi di darle notizie, mi chiedeva se avessi salutato i nonni. Me li sono davvero goduti, i nonni. Di tanto in tanto amavo andare con il nonno, Carmine si chiamava, nella sua campagna di "scardiato", fuori paese; mi

30 faceva raccogliere dei rami secchi, o della frutta caduta per terra. Mi sentivo, questo lo ricordo bene, immerso nella campa- gna, dove respiravo, con fierezza, l'aria contadina. Non parlavo molto, a quei tempi, sicché il nonno, ingannato dal mio silenzio, spesso mi perdeva di vista; preoccupato, a volte, mi veniva a recuperare, trovandomi, finalmente, perso tra i solchi aridi e secchi, dove me ne stavo a meditare. Quando mio padre era arrabbiato o c'erano avvisaglie di botte, andavo da mia nonna. Erano botte, quelle che si preannunciavano, o che mi veni- vano date, sacrosante, posso dirlo con onestà; mio padre non pic- chiava volentieri, mia madre men che meno. Ma i fatti, quando le avevo prese, erano stati così gravi, che una punizione maggiore non sarebbe stata sbagliata. Mia madre stava sempre in pena, con tanti figli in giro; ma qualcuno di noi era più maldestro e più indisciplinato di altri. Io ero uno dei più giramondi; mia madre mi chiamava "Girantoni", perché ero sempre in giro, e cantavo; cantavo e gira- vo. E lei penava. La mia casa, a Petilia Policastro, era in Via salita Tiberio, nello stesso stabile in cui avevano abitato la famiglia Madia e un farmacista, un certo Don Lorenzino. Una casa molto grande e spaziosa, con un terrazzo in pietra che affacciava sul rione delle carceri; dal terrazzo, mia madre vedeva quando Francesco, il primo di casa, che lavorava in Pretura, stava per tornare a casa. Si affacciava, mia madre, perché voleva fare trovare al "signorino" (così e chiamava Francesco) la pasta al dente. Non voleva rimproveri o arrabbiature. Le ansie, le aveva in abbondanza. Vicino a casa, infatti, c'era uno strapiombo, in pendenza; a vederlo, anni dopo, sui sedici anni, mi venivano i brividi; quan- do ero bambino, stavo sempre lì, in mezzo alle cose vecchie nonostante i divieti di mia madre; con il pericolo, che allora io

31 non vedevo, che potessi scivolare e restarci secco. Di fronte, alla fine delle scale, in cemento bianco, c'era un fabbro, che faceva anche da maniscalco. Mi piaceva e mi piace tuttora l'odore degli zoccoli di ferro nuovi, di muli e asini, bruciati con il fuoco .

32 Capitolo V Pensieri sulla Libertà

Il giorno della partenza, Cesare mi aveva accompagnato alla stazione di Cosenza; non si sa come, o forse lo so troppo bene, fu costruita secondo criteri da metropoli; sarebbe stata adeguata più a città del Nord o, nel sud, a stazioni come Paola e Lamezia Terme. In attesa dell'arrivo del treno, c'era un po' di ritardo di circa mezz’ora, ormai abituale, camminavamo avanti ed indietro, par- lando del tutto; in particolare, delle persone che avevamo saluta- to o con le quali avevamo chiacchierato o mangiato. Arrivarono altri partenti, tutti verso il Nord, Bologna o Milano. Dissi a Cesare di andare, perché si sarebbe fatto troppo tardi e troppo buio; ma volle rimanere: " Tanto, se vado al convento non trovo nessuno". Così era rimasto. Non è mai stato un chiacchierone, preferendo ascoltare; spesso, però, se ritiene che uno vada oltre i tempi sopportabili, lo dice chiaramente, invitandolo ad essere succinto. Quando il treno arrivò, presi posto, sedendo quasi a metà, sulla destra; dal finestrino potevo vedere Cesare che si allonta- nava. Ero riposato. Tornavo sempre rilassato al ritorno dal convento. Quando qualcuno o qualcuna, al rientro dalla Calabria, veden- domi rilassato, mi domandava dove avessi trascorso le vacanze, ed io rispondevo sempre allo stesso modo:" In Convento", era un coro di meraviglia e di incredulità, a volte con qualche punta di invidia bonaria : La risposta era la stessa, da anni, ormai:. "Rivivo la Calabria che non vivo da anni, ripasso le memo- 33 rie contadine, rivedo i solchi del tempo sui volti degli anziani. Insomma, riposo lo spirito e ristoro me stesso. Quando torno al Nord, sono fresco e ho la mente pronta e libera. Non so voi, come tornate". Il buio, ormai, avvolgeva le campagne, sicché a guardare fuori si vedevano solo pochissime luci. Al buio, la Calabria sem- brava ancora più povera di quanto apparisse di giorno. Non avevo sonno; i sedili non erano una comodità conciliante. Ripensavo alle coincidenze della vita, agli strani percorsi che la nostra esistenza compie per consumare il tempo che ci è stato assegnato; e mi chiedevo se davvero noi siamo liberi o il nostro cammino sia stato già prefissato e prestabilito da qualcu- no, da una mente ordinatrice. Un tema, quello sulla nostra effettiva libertà di volere e di agire, che ha arrovellato le menti di tanti, prima di me, e certa- mente arrovellerà altri. Quando stavo per preparare la tesi di Laurea, avrei voluto affrontare, in Diritto Penale, il tema del Libero Arbitrio, e quindi della libera volontà dei soggetti nel compiere i reati, ovvero di un determinismo umano, causato dall'essere nati in certi ambien- ti sociali o da determinate persone. Anche la coscienza popolare,senza fiumi di dottrina penali- stica o filosofica, arriva alla domanda che in tanti si pongono e si sono sempre posta: ma siamo davvero liberi? O, invece, tutto è già stato segnato? È davvero tutto affidato al destino, il nostro futuro, la fortu- na economica, la riuscita di un matrimonio o dei figli? O qualcosa è affidato anche a noi? Quando avevo proposto al professore la mia idea, era scoppiato in una miscela di risata e di compassione! Mi aveva guardato dall'alto in basso, con quell'aria impieto- sa e deprimente che assumono spesso i professori universitari quando vogliono fare i cattedratici di vita (e non solo a vita), dimenticando di essere stati anche loro studenti.

34 Il professore, nel mio caso, non aveva tutti i torti: "un tema così", (quello sul libero arbitrio, cioè), mi aveva risposto, "è stato affrontato, dai più grandi pensatori dell'umanità, e persino da Sant' Agostino, che non so se lei ha mai sentito nominare. E nessuno lo ha mai risolto. Non penso che Ella" (mi aveva proprio detto così; per insolentirlo? Chissà!) "sia più capace di questi grandi pensatori che hanno scritto volumi e volumi. Dia retta a me, scelga un altro argomento, più leggero. Per poterle solo assegnare un qualcosa sull'argomento, lei dovrebbe poi lavorarci due anni; ce li ha lei due anni per prepa- rare la tesi? Dia retta a me, lasci perdere!". E lasciai perdere. Ma non senza rimpianto.

Avevamo superato da un bel pezzo Lagonegro, che si trova in Basilicata, ai confini della Calabria; un luogo legato agli anni sessanta e settanta, quando, ad agosto e a Natale, alcuni di noi fratelli tornando al paese per le ferie, ci fermavamo, ad una fon- tana, a Lagonegro, appunto, per bere e mangiare. Era una sosta obbligata, sia per sgranchirsi le gambe che per fare riposare il motore. Erano, quelli, i viaggi della nostalgia; abbeverarsi alla fonte delle nostre origini, per poi andare avanti tutto l'anno, e non sen- tirsi forestieri, portando dentro di noi un pezzo di memoria delle nostre terre arse. I miei vicini di scompartimento dormivano fin dalla parten- za, quasi; erano genitori che andavano a Milano a trovare i figli; ne seguivo i discorsi, per me conosciuti; li avevo sentiti fare quasi trent'anni prima, quando mi ero allontanato dalla Calabria per la prima volta. Li sentivo, ogni volta che scendevo in Treno; trovavo la Calabria sempre più povera e ascoltavo gli stessi ragionamenti, bagnati in quel pessimismo realista, che nessuna riforma di governo potrà mai debellare, perché affonda nell'anima, nelle anime dei calabresi, avvizzite dal sole delle illusioni e dai fiumi delle speranze.

35 Non potendo dormire, di tanto in tanto davo un'occhiata alla segnaletica, per verificare i posti dove ero stato, lungo il cammi- no dei miei anni. Ecco Pompei, dove si sono sposati Francesco e Lina, nel Santuario dedicato alla Madonna del Rosario; ero ancora fratino, ed avevo partecipato al loro matrimonio. Ricordo Francesco magrissimo, come sono magri, in gene- re, tutti coloro che devono sposarsi, in attesa di ingrassare a matrimonio avvenuto, forse. Un bagliore di luci ed ecco Napoli, dove mio padre si reca- va, a bordo di un camion, per fare rifornimento di gioielleria e argenteria, in contanti. Mio padre ha sempre avuto la fissazione del pagamento in contanti e non ha avuto il senso del rischio. Ogni volta che andava a Napoli, portava con sé il contanti, perché, diceva, riusciva a spuntare un prezzo migliore e ad otte- nere prodotti più buoni.

Me ne stavo con le cuffie del lettore cd negli orecchi, ascol- tando il "sogno di una notte di mezza estate" di Mendelsohn; avevo gli occhi socchiusi, nella speranza che mi si chiudessero le palpebre e fermassero i pensieri, che girovagavano dalle perso- ne incontrate nei conventi o nel mio paese, dai compagni di col- legio ai tanti mestieri che aveva esercitato. Sul mio libretto di lavoro figuravano, in ordine di tempo, quello di apprendista bigiottiere, a Firenze, in Via Giotto; quello di apprendista tessitore a Gallarate, in un maglificio ; quello di operaio tessile in un Cotonificio, e poi di apprendista tornitore meccanico; e poi ancora di inserviente, al Convitto De Filippi; e ancora altri, fino a quello di ufficiale giudiziario, e Avvocato. Finirà qui, mi chiedevo? E rividi,come in un film, le sequenze che mi avevano portato al Nord, dopo la mia uscita dal collegio.

36 Capitolo VI L’uscita dal collegio

La mia uscita dal collegio di Tropea non era stata una scel- ta, ma un fuggire da un luogo in cui non mi ero trovato bene; non potevo essere ritenuto un cattivo ragazzo; ero vivace, certo, ma non cattivo. Dopo anni di collegio, di preghiere e di suggestive, presun- te, estasi, di isolamento dal mondo civile, mi ritrovavo come sbattuto dal vento sul mare della normalità quotidiana, che io, non conoscendola, consideravo una meta da raggiungere a tutti i costi, quasi un cibo per la sopravvivenza. Non sapevo di cosa parlare, e chiedevo a qualche mio amico quali fossero gli argomenti più trattati; come passassero il tempo, che cosa bisognasse dire, quando si era compagnia. Mio fratello Carmelo mi portava insieme a lui, in una Osteria, in località Le Manche, una località dopo il cimitero, sia per farmi passare la malinconia che per farmi vedere come ci si comporta- va nel mondo civile. La compagnia di Carmelo, era composta da bravi ragazzi, che lavoravano quasi tutti, sebbene in modo precario; avevano quasi tutti sostenuto dei concorsi, ed erano in attesa di essere chiamati tra gli idonei. Alcuni erano idonei permanenti; idonei ai concorsi signifi- cava essere in posizione utile in una graduatoria di concorso, ma non vincitori. I loro nomi mi sono risuonati in testa per anni; da Carlo dìu Milugno, a Ciccio Topinaru; anche Carmelo aveva il suo soprannome: Scatozza. Avevano all'incirca la stessa età, sui venticinque anni; si riu- nivano, di solito, la domenica pomeriggio, per giocare a carte e

37 bere qualche bicchiere di vicino o di gassosa. Una compagnia così allegra, e così ironica, che davvero imparai come si fa a stare al mondo. Dopo avere superato gli esami da privatista, la prima desti- nazione, partendo da Petilia Policastro, (paese situato nella pic- cola Sila e nel comprensorio di quello che viene conosciuto come il Marchesato, in provincia di Crotone) fu Gallarate. Inseguivo il sogno letterario e musicale; avrei voluto pubbli- care le poesie e le canzoni, pensavo di diventare poeta o cantau- tore, come nel collegio di Pietrafitta avevo sognato di diventare un calciatore famoso.

Abitai, per una settimana, presso una zia, nel quartiere San Rocco, in una casa che aveva un terrazzo comune ad altre abita- zioni. Dirimpetto alla casa abitava una ragazza, Loredana, dai caratteri mediterranei: capelli neri, carnagione olivastra, non eccessivamente esile, occhi neri e vivaci; occhi di Calabria, quasi. La fissavo per ore, e quando non c'era, spiavo dalla tenda della finestra, nella speranza che uscisse. Lei, che aveva uno sguardo luminoso, si faceva prima intra- vedere, e poi, notando la mia attesa, usciva sul terrazzo a pren- dere lo straccio o lo spazzettone, o stendendo qualche panno; si capiva (ma lo capisco solo adesso) che voleva giocare. Se avesse voluto davvero sbrigare le faccende di casa, ci avrebbe impiegato pochi minuti; invece, usciva ed entrava, facen- do finta di aver dimenticato qualcosa; o affacciandosi al balcone per scuotere prima i tappeti, poi la tovaglia, e poi ancora lo strac- cio della polvere. Un gioco che mi aveva irretito, tenendomi avvinghiato ai suoi occhi, che erano davvero le luci che mi abbagliavano e sta- gliavano su di me la loro potenza penetrante. A volte ci guardavamo fissi, come fossimo incantati, e i nostri sorrisi si incrociavano senza mai diventare atti concreti, lasciando nell'aria disegni di desideri.

38 Francesco venne a riprendermi, a Gallarate, per portarmi a vivere a Firenze, dove già era stata fatta arrivare Rosa, la sorella più grande, alla quale avrei dovuto fare compagnia. Francesco aveva trovato e affittato, per noi due, vicino a Piazza Gioberti, un appartamentino sullo stesso suo , di proprietà di una signo- rina; vicino a noi abitava anche, una famiglia di Firenze, compo- sta da quattro persone, marito e moglie con due figlie, molto carine. Erano i tempi del Twist, e del cha cha cha; volendo impara- re a vivere da non da fratino, avevo chiesto alle due ragazze di insegnarmi a ballare. E loro mi insegnarono a muovermi, quel tanto che bastava a stare su un pedana. Un giorno andai, sollecitato dalla signora e dalle figlie, in una balera, a ballare, appunto. Ballai quasi tutta la sera; e mi dimenavo, mi ricordò, negli anni seguenti, Francesco, come un invasato, come se avessi dovuto farlo per l'ultima volta. Per rendermi indipendente, e per non farmi annoiare, Francesco mi aveva trovato anche un posto di lavoro, presso una bigiotteria, dalle parti di Via Giotto. Accompagnato dal canto del cognato del titolare, amante della lirica, che intonava quasi sempre "Una furtiva lacrima", imparai, come apprendista bigiottiere, ad incastonare pietre pre- ziose, topazi e camei, in anelli e bracciali. Il guadagno me lo spendevo quasi tutto andando al cinema, o comprando le prime sigarette. Un pomeriggio, nella frenesia di diventare grande, e prova- re il fumo della sigaretta, andai a comprarsi un pacchetto, da dieci, di esportazioni senza filtro; erano le sigarette più forti, forse, dopo le Gauloise. Volevo consumare in fretta l'esperienza; siccome non potevo portare le sigarette a casa, e non volendo nemmeno buttarle,avevo deciso di fumarmele tutte quel pomeriggio!. Ero ubriaco di fumo; sbandavo, nel tornare a casa. La tabaccheria era nel quartiere Affrico.

39 Francesco non si era accorto della fumata, anche se si era insospettito del mio stato; non ci aveva fatto tanto caso perché in quel tempo stavo facendo una cura ricostituente; punture endove- nose e intramuscolari. A volte ci ridevo, ma una volta intramuscolare e un'altra volta endovenosa, ero diventato esperto sia nel tendere il braccio che nel porgere le natiche. Le punture endovenose me le facevano in un ambulatorio pubblico; quelle intramuscolari le suore. Dopo un anno di permanenza a Firenze, e dato che Rosa era rientrata al paese, ero tornato a Gallarate, sempre da mia zia. Loredana, che avevo cercata subito, (appena entrato in casa ero uscito subito sulla veranda), era del tutto cambiata: mi era apparsa più grassa di come l'avevo lasciata, e persino più invec- chiata. " Per forza" mi aveva detto un cugino, che già l'anno prima mi aveva consigliato di lasciarla perdere, " è rimasta incinta ed ha avuto un bambino; non so se sia sposata o meno. Ma sai… ma tanto tu non capisci, tu sei monaco!". Quando ebbi l'occasione di vederla, sempre sul terrazzo, il suo sguardo non aveva più la luminosità dell'anno passato, e mi dava la sensazione di non conoscermi; anzi, di ignorarmi del tutto.

40 Capitolo VII Il periodo gallaratese

Dopo circa un mese e mezzo, lasciai la casa della zia, tro- vando altro alloggio. Lavoravo, come apprendista tessitore, in un famoso maglifi- cio, lungo il viale dei Tigli; i dipendenti erano quasi tutte donne; solo tre o quattro maschi. Posso dire di essere stato svezzato da quelle donne, che par- lavano, in mia presenza, con disinvoltura, di cose proprie e altrui, di noie periodiche, di desideri e liti sessuali con il marito, di figli, di affitti, di sogni e di bisogni, di corna e di abbandoni, di delu- sioni e di fregature. Spesso mi provocavano, al mattino presto (facevo i turni dalle sei del mattino fino al pomeriggio), per saggiare la mia esperienza in materia. Ero partito dalla Calabria per realizzare un sogno, e mi ritro- vavo, nelle albe umide e fredde, sulle macchine rettilinee, ad estrarre pezzi di stoffa. La paga che percepivo non mi consentiva di mangiare, così avevo cambiato, a malincuore, lavoro, trovando impiego in un cotonificio. Per guadagnare di più, avevo scelto di fare i turni serali, e dilatando, oltre i suoi confini, i limitiorari consentiti per i minorenni, e, anche quelli notturni. Ma non bastava ancora; per ottenere il tanto che mi consen- tisse una vita meno misera, mi ero fatto, allora, assegnare al reparto tintoria, dove pochi volevano andare e dove si era paga- ti di più. Si lavorava in mezzo agli acidi, e ci facevano bere sempre un litro di latte, con l'obbligo di usare i guanti. Ero attratto dai

41 colori, per quanto soffocato dagli odori, brucianti, degli acidi necessari per formare le tinte. La necessità di vita mi aveva indotto ad abbandonare gli studi, che erano stati sempre il mio lievito di vita. Non riuscivo a stare senza leggere o scrivere. Ma non avrei potuto farcela. Mi svegliavo, per recarmi al lavoro, in bicicletta, alle cinque del mattino. Ricordo che, anche nei mattini gelidi e nebbiosi di quelle zone lombarde, non usavo il cappotto perché non avevo soldi per comprarlo; vestivo solo una giacchetta di cotone, di colore grigio. Digiunavo, spesso, e masticavo solo una volta al giorno, alla mena aziendale, o, nei giorni di festa, a quella dei ferrovieri, nella stazione di Gallarate. Ero magrissimo. Abitavo in una pensione alla periferia della città, gestita da una donna giunonica. In una stanza attigua alla mia, abitava un ragazzo di circa ventiquattro anni, che suonava il pianoforte; un bel ragazzo, alto, capelli neri, di una città lombarda, forse Bergamo. La proprietaria della pensione lo vezzeggiava, ogni volta che lo vedeva, chiedendogli di suonarle qualcosa, magari una delle canzoni di quel tempo. Erano di moda Paul Anka e Neil Sedaka. Sentivo, quasi ogni giorno, specie al tramonto, verso le 17, suonare e cantare Dyana e alcune canzoni di Celentano. La mia stanza era molto grande, con un comò a quattro cas- setti; uno specchio appena dietro la porta, un armadio, un letto con la testata in legno, un piccola scrivania e una sedia in paglia; troppo grande, e così vasta che la malinconia sbatteva da una parete all'altra e la solitudine proiettava pensieri di malessere, ininterrottamente, verso la finestra, che affacciava su uno spiaz- zo sterrato. Tornavo dalla fabbrica alla fine del turno, e mi chiudevo in camera, dopo avere vagato per la città, dove non trovavo, per le

42 strade, o sotto i lampioni umidi di nebbia, nemmeno avanzi di sorrisi. Me ne stavo lì, in stanza, a scrivere poesie; versi che poi stracciavo, racconti che non mi piacevano; me ne stavo a pensa- re ai miei, in Calabria. In quella pensione consumavo gli occhi sui libri, anche per non farli piangere; pensavo, quasi come una protezione contro una solitudine che io non aiutavo certamente ad allontanare, ad una ragazza, Angelina, conosciuta, in modo del tutto superficia- le, al mio paese, la quale rappresentava e avrebbe rappresentato, per molti anni ancora, un mito di bellezza fisica, di voce e di sen- sualità. Mentre quella signora si cullava il pianista, mi si stringeva l'anima; e tendevo, per farmi forza, il pensiero verso il sogno di vedere pubblicate le mie poesie. Era quel sogno che mi teneva in vita; l'illusione, a quei tempi era una illusione, sotto forma di speranza o di disperazione, che, forse, i miei versi sarebbero arrivati al cuore o alla mente di qual- cuno; che, chissà, le mie parole non erano parole qualsiasi, e non erano vestite di grigio, come i cieli della Lombardia. Ed era per quel sogno che io mi trovavo al Nord, dopo anni di collegio. Me ne stavo seduto alla scrivania, spesso con la testa fissa nel vuoto, con la penna in mano che non muoveva verso il foglio.

- E venne il Natale del 1963 Intanto, era arrivato l'inverno. A Gallarate sembrava che l'inverno fosse arrivato prima che in altre città; al mattino era grigio e scuro; l'umidità lasciava sci- volare sui vestiti gocce che penetravano fin nella pelle. Al pomeriggio, il cielo era sempre così grigio che la malin- conia non mi abbandonava, riportandomi ai fiumi e ai cieli della mia Calabria, al mio girovagare per i paesi, o alle mie giornate nella campagna di mio nonno, tra il concerto dei grilli e il raglio

43 dell'asino. I miei non sapevano dove fossi, né dove abitassi, se fossi vivo o meno. Io non avevo voluto informarli, per non farli stare male; anche perché la decisione di andare al Nord era stata mia, solo mia, all'inseguimento di quel sogno . Ero uscito, la mattina, per farmi sentire vivo con me stesso, con la tristezza che mi faceva compagnia; ero uscito per vedere gente, per sentire le voci delle persone, per leggere le scritte delle insegne. Avevo freddo, e mi accartocciavo contro me stesso, nella speranza che provenisse del calore chissà da dove, forse dalle antiche memorie familiari. Dopo avere girato abbastanza per le strade che sentivo estra- nee, tornai alla pensione. C'era odore di festa; luci ai balconi, l'albero di Natale e il presepe nell'atrio; la titolare della pensione vestita di festa. Il pia- nista era tornato a casa sua, nella provincia di Milano. Un vociare classico delle feste di Natale riempiva gli spazi della pensione. A mezzogiorno ero ancora li, che piangevo; man- giavo le mie lacrime, i miei ricordi, facevo a pezzi i miei sogni, per ingoiarli e sfamarmi. Aprii tutti i cassetti del comò e della scrivania, dell'armadio, persino, nella speranza di trovare qualche briciola di pane o di dolce, avanzato chissà quando. C'erano pochi indumenti, nei cas- setti, e non vi erano briciole. Consumai la mia fame mettendomi a letto e fissando il sof- fitto, come fosse il cielo della mia Calabria, e guardando tra le memorie i visi dei miei genitori, ai quali avevo scritto, una volta, di stare bene e che avrei trascorso il Natale in qualche posto. Passò quel Natale. Continuai, però, per diversi mesi, a mangiare solo una volta al giorno. I soldi, nonostante i turni di notte, non bastavano; solo l'affitto della pensione assorbiva quasi tutto lo stipendio. Così pensai di farmi assumere come manovale muratore da

44 un paesano; provai anche l'esperienza di trascorrere qualche gior- no di prova in una tornerai meccanica; ma capii subito che non erano lavori per me. Avevo già cominciato a pensare di riprendere gli studi.

45 46 Capitolo VIII

Un pranzo doppio ed un cappotto

Una domenica mattina, mentre me ne stavo nello spiazzo della Pensione, vidi arrivare mio fratello Francesco e sua moglie Lina; stavo riparando la bicicletta. Rimasi solo sorpreso; non ero né commosso né contento; ero come impaurito. La paura della fame e del freddo che mi faceva ancora tre- mare, e la cinghia della solitudine che mi stringeva la mente, mi avevano come impietrito; i miei occhi sembravano essere stati chiusi nei cassetti del comò della pensione, dove erano rimasti, avvolti dal buio della palpabile non speranza. Non avevo più lacrime, e non avevo nemmeno il senso del dolore o del dispiacere; mi mancava la capacità di provare una emozione qualsiasi. Il tempo aveva lacerato i miei sensi e il gusto dell'esistere. A diciassette anni, ragionavo come uno avvezzo alle elemo- sine di affetti e di vita. Riuscivo, già allora, a vedere me stesso parlare, proiettato nella vita, mentre la mia mente andava oltre, sempre in luoghi diversi e lontani dai sentimenti. Volevo bene a Francesco, come poi ebbi a dimostrargli in tanti modi, scrivendo di lui e andandolo sempre a trovare, ma quella volta non provavo nulla. Fu lui a venirmi incontro, come sapeva fare, e con gli occhi lucidi, timoroso di non farsi vedere piangere, mi abbracciò, tenendomi stretto contro il petto per alcuni minuti. Era riuscito, attraverso investigazioni minuziose, forse chie- dendo anche presso il maglificio dove lavoravo, a conoscere dove io abitavo.

47 Così magro dovetti apparirgli che, senza darmi la possibilità di contestarlo, mi portò a mangiare in una trattoria, dicendomi di fare il bis. Aveva ancora gli occhi umidi di dolcezza, mentre mi guar- dava mangiare, e mostrava quella tenerezza avvolgente che ha sempre avuto, dietro una sua apparente burberità, e che hanno i finti severi, quando liberano la loro anima. Non aveva saputo nulla, Francesco, di me, ma, abituato al suo ruolo di protettivo affettuoso, e preveggente, oltre che previ- dente, mi aveva portato un cappotto e una maglia di lana, ester- na, pesante: " Mettiteli, qui fa freddo; come fai a resistere con questa giacchetta?" e con gli occhi, sempre protettivi e vigili, aveva guardato Lina. Francesco si era precipita- to a rintracciarmi, sia perché, essendo il maggiore dei figli, è sempre stato il supervisore della famiglia, fino a quando siamo stati tutti piccoli, sia perché mia madre gli aveva scritto, chiedendogli di scopri- re che fine io avessi fatto. Mia Madre, respiro di Fede " Tu parli poco della mamma!" mi aveva fatto pre- sente Tonino, dopo avere letto il mio secondo libro. Io gli avevo risposto che, sì, era vero, parlavo più di mio padre. Ma avevo anche aggiunto: "Non ho bisogno di parlare della mamma. Le mamme sono le nostre nutrici, noi viviamo di loro. Io non ho bisogno di parlare di lei, perché lei è nel mio viso, io somiglio a lei; mia madre è nella mia storia di vita, lei è la mia sensibilità femminile, la mia voglia di amare, nel silenzio, di dare

48 energia; mia madre è nella mia Fede, in quella grandissima forza che è il respiro di Dio. Le mie mani sono sempre state attaccate alla sue; ho le sue fattezze fisiche, sono intriso del suo incanto religioso, della sua francescana umiltà. Non ho bisogno di scrivere di lei, perché lei è qui, in queste pagine, in queste righe che sono le lacrime versate quando non la vedevo e non la potevo godere". Conservo ancora, di lei, in qualche posto, la lettera che mi aveva scritto, per chiedermi notizie; lei non scriveva molto, lasciando il compito a mio Padre. Ma in quella lettera, dieci righe in tutto, mi aveva doman- dato di farmi vivo; e aveva scritto :" Noi ti vogliamo bene, sem- pre, ovunque tu sarai, e ci manchi". Una lacrima aveva stinto la scrittura, tra le parole "ti abbrac- cio e ti vogliamo bene".

49 50 Capitolo IX

L’approdo a Varese

Dopo la visita di Francesco, era maturata, anche, del tutto, la mia decisione di cambiare città e di andare in qualche posto dove avessi potuto lavorare e studiare, nello stesso tempo; maga- ri di sera. Ero capitato, così, per caso, a Varese, dove, in un con- vitto famoso, cercavano del personale. A Varese diventai uomo presto. Dormivo,insieme ad altri, in una stanza al seminterrato, appena dietro la cucina. Al convitto ho conosciuto persone che si sono sedimentate, in misura e con intensità diverse, nelle arterie della mia esistenza, diventando energia quando gli uragani della sofferenza sembravano travol- gere tutto, e luce miracolosa per una ricostruzione paziente della vita. La mia qualifica era di inserviente; non cameriere, ma inser- viente, addetto un poco a tutto: servire ai tavoli, pulizia dei loca- li, compresi quelli igienici; sguattero, anche, addetto al lavag- gio dei piatti. Erano quelli i tempi. Altrove non era diverso. Qualche volta, quando i miei amici erano venuti per svolge- re i compiti insieme a me o prelevarmi per uscire, mi avevano trovato che lavoravo nei bagni. Non mi vergognai allora e non mi vergogno adesso. Non mi sono mai vergognato di qualsiasi lavo- ro io abbia svolto; non tanto e non solo perché, come si dice, “ il lavoro nobilita”, quanto perché mi sono sempre fatto piacere anche la noia, il dolore, il grigiore e le nebbie. Non possiamo eliminare il dolore, né vi sono scorciatoie per la serenità o per il paradiso; non vi sono giochi di prestigio che facciano sparire le angosce o le malattie, e nemmeno possiamo fare quello che ci piace. Quello che possiamo fare, invece, è accetta-

51 re l’esistente, lavorandoci sopra, e rendendolo accettabile, sop- portabile;come se noi verniciassimo la realtà quotidiana con tinte fosforescenti, che ci aiutano a vedere colorato il cammino. La realtà rimane quella che è, reale, appunto; ma noi la viviamo meglio; senza illuderci che sia diversa. Fare il cameriere, o, peggio, l’inserviente, era uno mestieri più umilianti della società di allora; peggio che fare l’operaio, che aveva una sua dignità sindacale e sociale, sebbene subordinato. Ma imparai la dignità del lavoro accanto a chi lavorava con me. In cucina, a lavorare eravamo in quattro; il cuoco, Luigi Monica, di Scurano; Sante, cameriere anziano, sempre di Scurano, Angelo, ed io. Angelo Mai (come il personaggio della poesia di Leopardi), aiu- tante di cucina, era stato raccolto e portato in Convitto, in condizioni di degrado umano. Deportato e “ospite” nei campi di concentramen- to di Mathausen, raccontava, spesso, delle albe in cui i prigionieri venivano svegliati e portati, nudi, nei cortili, o delle patate che bisognava mangiare, crude. Non ho mai controllato da dove dav- vero provenisse, e se quelle albe fossero state vere o meno. Erano vere, comunque, le sue paure, erano reali i suoi sguardi di terrore. Era buono, Angelo, alto e grosso, un gigante quasi; aveva uno sguardo dolcissimo, che diventava tristissimo quando rievo- cava quegli anni. Spesso, da uno stato di riposo mentale e quasi di benessere, passava a reazioni di tremore, di ribellione e di vio- lenza verbale contro esseri non presenti sul posto; si metteva sul- l’attenti e diceva di vedeva ombre, divise; diceva di sentire rumo- ri di passi militari, e di armi. Lo si vedeva impallidire, sudare, tre- mava come un bambino, e solo quando gli si diceva si stare tran- quillo, sentendo una voce umana, si calmava. Non lavorava con noi in cucina, ma mangiava insieme a noi, una donna, veneta di origine, di cui non sapevo moltissimo, se non che fosse sola, ed alcolizzata. Aveva la faccia sempre rossiccia, e una caduta di capelli evidente. Non amava parlare del suo passa- to, dicendo che non ne valeva la pena, e che meglio sarebbe stato riderci sopra.

52 Capitolo X In nome della legge: il terremoto degli sfratti

Varese fu anche la mia prima sede di Ufficiale Giudiziario, lavoro che mi precipitò nell’arena della vita, mettendomi a con- tatto con la miseria reale, economica, spesso con lo squallore, e molte altre volte ancora con la abitualità debitoria; ma avevo davanti, questo avevo imparato dai miei francescani, dignità umane. Il mestiere di ufficiale giudiziario lo considero e l’ho sempre considerato uno delle professioni più delicate e anche più tristi di quelle da me esercitate. Si è organi esecutivi, si eseguono, cioè i comandi della legge, senza poter distinguere tra il giusto e l’in- giusto; anche quando il comando è fondato (e lo è quasi sempre), vi sono motivi umanitari che la legge non tiene in considerazio- ne;ed è in questi casi che l’anima di chi esegue dovrebbe emer- gere. Quando Francesco mi aveva suggerito di tentare il concorso, io non sapevo esattamente in cosa consistesse l’attività dell’uffi- ciale giudiziario; sì, avevo sentito parlare di notificazioni, di pignoramenti esattoriali, anche di sfratti; mai, però, avrei imma- ginato l’attività concreta da svolgere. La mia prima volta “esecutiva”, avevo appena 24 anni, fu in occasione dello sfratto, da un appartamento alla periferia della città, di un padre e di una figlia . A quei tempi mi ero già ribellato, in modo timido, non cono- scendo il mestiere e i pericoli delle insubordinazioni, contro la prassi in forza della quale i mobili, insieme alle persone, veniva- no messi in strada; quasi una esposizione alla pubblica vergogna; la forza pubblica assisteva l’ufficiale giudiziario che avrebbe dovuto invitare, diffidare le persone obbligate a lasciare l’immo- 53 bile, senza preoccuparsi di dove andassero. In nome della Legge gli esseri umani venivano trattati come cose! Ribellarmi a quell’ordinario dramma sociale che erano gli sfratti, ed ai silenzi delle coscienze collettive su quanto accadeva non lontano da loro, fu, per me, una cogenza cristiana. Ma davvero il cammino della speranza è lungo e spesso senza speranza finale. Ancora oggi, vi sono casi di sfratti: i nuovi poveri, li chia- mano, quelli che non riescono a pagare l’affitto o non hanno denaro per vestirsi. Ma saranno davvero nuovi questi poveri? O non si tratta degli stessi poveri, di cui la società dell’ apparire si vergogna e tenta di nasconderli, definendoli nuovi per non dover- si vergognare della propria inerzia e degli egoismi di cui sono pieni le arterie sociali? Mi avevano spinto a studiare seriamente per tentare il con- corso due elementi: la libertà di orario, e quindi, la non scriva- nizzazione dell’attività, io non essere un burocrate classico; e la voglia, quella sì consapevole e precisa, di aiutare, di essere utile,. Di svolgere un lavoro utile. Ero, cioè, fermamente convinto che non avrei mai esercita- to una qualsiasi attività impiegatizia, che non fosse stata di utili- tà per le persone povere e bisognose.

- Il Mandato di Vivere Era cominciata da tempo l’applicazione alla quotidianeità della idealità francescana e sociale: emergevano, in tutta la loro potenza, tutte quelle concezioni che da fratino erano entrate in quel contenitore infinito che sono le menti dei bambini. Come, ad esempio, il concetto del mandato di vivere, per cui noi dobbiamo mettere a disposizione di altri la nostra esistenza, perché non è nostra ma ci è stata affidata perché ne facessimo l’uso migliore secondo la diligenza del buon amministratore. O come il concetto di amore, inteso nel senso di donazione, senza alcuna attesa di ricompensa. O, infine, l’istinto, forte come uno

54 spasimo, di aiutare i deboli, di dare voce ai senza voce, di stare accanto a coloro che nessuno difende. L’attività di ufficiale giudiziario, nella sua crudezza, mi con- sentiva di fare tutto ciò in cui credevo; quando, nell’eseguire dei pignoramenti, trovavo le donne, mamme e mogli, cariche di pen- sieri e di ansie, cercavo di aiutarle, prestandomi ai consigli più svariati. E quando cominciai a vedere, negli anni successivi, che gli sfratti erano eseguiti buttando in strada il mobilio, insieme alle persone, che gridavano, o piangevano, mi ribellai; senza paura delle denunce, ovviamente attento alle contro denunce, che pun- tualmente arrivavano, e attento ad utilizzare gli strumento legali.

55 56 Capitolo X La mia rabbia contro l’assenzadi Dio

Ho sempre avuto una predilezione per i deboli, per le anime infelici, per gli oppressi; la mia anima si dilata, quando li incon- tro, soffocando personali respiri. E considero, quelle anime, quegli oppressi, le persone soffe- renti, i miei veri insegnanti, i miei proiettori di esistenze. Mi ritengo fortunato ad avere conosciuto persone speciali; e spesso il mio petto scoppia di voglia di scrivere di loro; perché le mie parole sono le loro parole; i miei pensieri sono i loro giorni, che esse raccontavano a me, negli incontri, spesso rapidi, che avevamo. Ho avuto maestri di vita e di pensiero in tanti momenti della mia esistenza; signori del diritto e della vita; signori del coraggio e portatori, anch'essi, di una Fede profonda e illuminante. Sono stato aiutato dalla Fede, anche quando mi pareva di averla persa. Perché pensavo di averla persa la fede. Non credevo più in un Dio giusto e misericordioso, non cre- devo nel libero arbitrio, e dinanzi ai miei occhi sfilavano i dise- redati della terra, gli occhi scavati delle terre africane,i fiumi d'Africa sui cui galleggiavano scheletri, i sepolcri imbiancati dei grandi della terra, che da una parte pregavamo Dio, dall'altra spa- ravano e uccidevano, in nome di una libertà che era solo quella di uccidere milioni di persone. Di questo parlavo a Padre Cesare, in alcune lettere degli anni settanta; la mia rabbia si scagliava su quelle tremende foto di corpi mutilati, di uomini e donne, senza nome e senza futuro, di sguardi impietriti, atterriti dal rumore delle bombe e dalla sporci-

57 zia che li circondava. E chiedevo a lui spiegazioni; che egli tenta- va di darmi. Sentivo che Dio C'era, da qualche parte. Anche se lo contestavo, lo cercavo dapperttutto. La mia rabbia verso le ingiustizie del mondo, di quelle che vediamo tutti i giorni, di quelle che leggiamo, dell'esistere danna- to che molte persone vivono, lo nascondevano, però;e non lo vedevo. Ho gridato spesso al Dio del creato del perchè dei fiumi di morti galleggianti sulle loro acque, o degli scheletri umani che camminano lungo i vicoli delle tante favelas del mondo, delle tante guerre e delle distruzioni di terre e di persone. Forse era nelle corsie di ospedali dove persone che avreb- bero avuto diritto a gridare all'assenza di Dio, lo cercavano e lo pregavano; o forse lungo la favelas, dove pure qualcuno lo vede- va, o sotto i ponti dove i clochard dormivano. Io ne sentivo parlare nelle Chiese, ma a quei tempi mi pare- va che le chiese puzzassero di vigliacchi; vedevo persone che non erano il massimo della bontà e dell'onestà e ci soffrivo. Vedevo estatici che assumevano la comunione, per poi attua- re maltrattamenti o sfruttamenti; e tutto mi portava a tenere lon- tano Dio, anche se lo cercavo sempre. Non capivo, come non capiscono gli adolescenti, come potesse- ro avere cosi libera coscienza delle menzogne e come Dio con- sentisse devastazioni ai limiti della follia. Di tanto in tanto entravo in una qualunque Chiesa; me ne stavo in silenzio, a guardare l'altare, o la statua della Madonna; senza pregare; poi uscivo. Sentivo in me un forte turbamento, uno spirito che volava nella mente, a scompaginare i pensieri. Più mi ribellavo e più il pensiero di Dio si faceva prepotente; non ero soddisfatto di me; non si erano aperte le strade del cielo e della consistenza umana, della essenza dell'esistere. Il turbinio umano intorno a me era strano, non lo capivo; quel correre dei miei amici, quel loro cercare senza sosta un qual-

58 cosa che nemmeno loro sapevano cosa fosse, aveva cominciato afarmi pensare. La loro inquietudine era la prova della umana incompiutezza e della mancanza del senso della vita. Nonostante io attraversassi quel periodo di ribellione, quasi di repulsa verso antichi concetti, stabili, che però io consideravo residuati inerti, non condividevo l'orizzonte ristretto di quei miei amici, che riducevano la vita allo stare insieme per star insieme, alla discoteca, al cibo e al sesso, soprattutto parlato. C'era qualcosa che non mi convinceva nel loro quotidiano e nella loro ricerca; volevano a tutti i costi convincermi della giu- stezza della loro asetticità, della loro impermeabilizzazione alla Fede e a tutto quello che era trascendente. E mi ribellai a quella loro vita; loro che volevano portarmi a ballare o nelle loro discussioni senza meta concreta, avevano ria- perto, in me, il flusso della Fede. Cominciai a vedere chiaro in me, e non potetti che ripensa- re, allora, a tutte quelle persone che si erano affacciate, anche solo per pochi minuti, sulla mia vita, salutandomi, dandomi un fiore, un sorriso, o una parola; e con quei doni io avevo poi crea- to un giardino di anime. Mi sovvenne, allora, il mio buono e umile maestro, profes- sore d'Italiano, Vittorio Morosini, devoto di Padre Pio, che anda- va a trovare, ogni estate, con la sua moto Guzzi (il famoso Galletto Guzzi) il quale mi aveva aiutato, il primo anno, a Varese, valorizzando i miei scritti, spesso leggendoli in classe fino a met- termi in imbarazzo. Aveva compreso appieno la mia solitudine, e la mia fatica di vivere, mescolata alla mia istrionaggine.

59 60 Capitolo XI

L’arrivo a Reggio Emilia

Da Varese andai via verso la fine degli anni sessanta, dopo avere superato il concorso di Ufficiale Giudiziario, con prima destinazione Trino Vercellese. Fu una scelta “liberatoria”, moti- vata dalla mia voglia di indipendenza e dai conflitti, ideali prima ancora che ideologici, con un certo modo di vedere il mondo. Avevo lavorato sodo, studiando e lavorando. Mi ero alzato, per anni, alle cinque del mattino per prepara- re la colazione ai ragazzi del convitto; poi, alle otto, a scuola; al ritorno, alle tredici, servivo il pranzo; una pausa di qualche ora, dopo avere pulito le sale e lavato i piatti, e versole sedici, prepa- razione della merenda; una brevissima pausa ancora fino alle diciotto e poi servire la cena e lavare ancora tutto. Avevo, per mancanza di denaro e per inconciliabilità degli orari, rinunciato, in parte, alla mia adolescenza; non conoscevo cosa fosse l’affettività quotidiana, se non di straforo, e quando viag- giavo, lo facevo sui binari della nostalgia. Per il resto dell’anno, con- sumavo gli occhi sui libri, e la mente nel pensiero di essere altro. Il sogno letterario era stato accantonato, troppo impellente la vita che premeva con i suoi bisogni elementari; troppo soffocan- te il nodo della solitudine, anche se con alcuni amici qualche volta ci si trovava alla birreria delle grotte di Valganna, gestita dai genitori di una ragazza bionda, legata ad un mio amico, Giulio, che abitava, allora, a Sant’Ambrogio. Non ripresi quel sogno che anni dopo, a Reggio Emilia, quando gli occhi si erano riposati su terre tranquille e l’anima, assetata di giustizia terrena, cominciò a guardare al cielo, in cerca di una risposta alle mie rabbie, ai miei dubbi. 61 - La mia ubriacatura ideologica politica Non amavo le prediche di routine, in chiesa vedevo forme e rituali che non portavano, cosi mi pareva, serenità. La mia ricer- ca era l’ombra dei tempi dei Convitto quando la coascienza di adolescente, intriso di colori netti, bianco o nero, non riusciva ad accettare lo stridore di comportamenti commerciali con lo spirito cristiano; non riusciva a comprendere, cioè, come un Prete, una istituzione ecclesiastica, un cristiano, potessero comportarsi come un qualsiasi altro locatore o imprenditore. Cosi, cambiavo continua- mente chiesa, nella speranza di incontrare qualcuno che calmas- se la mia inquietudine, che era inquietudine di mancata colloca- zione esistenziale. Pur continuando a lavorare, avevo in mente di tornare ad indossare il saio; non pensavo ad altro; il mondo mi appariva come la mia condizione interiore lo faceva diventare; avvertivo la vacuità dell’esistere. E volevo dare un senso ai miei giorni, al mio agire; non mi bastava essermi impegnato nell’aiutare, con- cretamente, gli sfrattati e i poveri. Cosi cominciai a rifrequentare le parrocchie; mi iscrissi anche al sindacato, la CGIL, e poi al Partito Comunista, convin- to, come si diceva allora, che anche Gesù Cristo fosse stato un socialista; quindi, era possibile essere comunisti e cattolici. Cosi come si diceva che anche San Francesco d’Assisi aveva privile- giato i poveri, andando fuori dalla Chiesa Ufficiale e, quindi, avrebbe potuto essere considerato un operaio dell’anima. Erano gli anni delle abbuffate ideologiche. Mia moglie, di tradizioni comuniste, suo padre era stato par- tigiano, mi diceva che mettevo troppa passione politica nelle cose, che il mondo er a quello e certo non lo avrei cambiato io. Vi erano mesi in cui partecipavo ad ogni forma di sciopero; di sera frequentavo le riunioni nella mia sezione,dove ascoltavo le solite introduzioni e le solite conclusioni. Mi ribellavo a quel modo rutinario di fare politica; la cosid- detta base, lo capivo quando constatavo che ogni decisione pas-

62 sava sulle nostre teste, non ha mai contato nulla. Cosi come presi atto che dinanzi al denaro e al potere, non esistono colori politici e ideali. Avvenne ciò in occasione di uno sfratto, a Reggio Emilia. Chi aveva richiesto l’esecuzione dello sfratto era un signore qual- siasi; esponente, però, di area politica di sinistra (vogliamo dire comunista? e diciamolo); dirigente di un movimento cooperativo. La famiglia era composta di cinque persone; si trattava di uno sfratto per finita locazione; non c’era,quindi, urgenza di riottene- re la libertà dell’appartamento. Ma quel signore aveva insistito, mettendo in atto tutte le sue conoscenze (Forza Pubblica) per ottenere la liberazione dell’im- mobile. Non vi fu modo di convincerlo a desistere per qualche mese; la sua inflessibilità mi apparve sgradevole, glaciale, disu- mana, quasi. Venni a conoscenza, tuttavia, prima della data fissa- ta per lo sfratto, del suo curriculum e del suo stato patrimoniale: esponente del partito comunista, e forse della lotta partigiana (dato sul quale io ebbi molti dubbi), dirigente di movimento coo- perativo, proprietario di ben sei appartamenti! Collegai quel fatto alle discussioni che allora, eravamo nel 1975, si facevano sul diritto alla casa e sulla necessità di regola- rizzare il mercato degli affitti. Sentivo, nelle sezioni, e nei comi- zi, che molti politici si riempivano la bocca di paroloni altisonan- ti circa i diritti degli inqulini, ma non erano mai presenti quando venivano eseguiti gli sfratti. L’unica strada seguita, e che sarebbe stata seguita anche in seguito, era un decreto di rinvio di tutti gli sfratti. ma le angosce delle famiglie, sulle quali pebndeva la minaccia di essere cacciata in strada? Silenzio! Dovetti giungere a minacciare di portare gli sfrattati sotto il Comune per ottenere un coordinamento tra ufficio esecutivo e ufficio casa; quel che mi riusciva difficile accettare era il vedere trattati i casi di sfratto come ordinarie procedure amministrative; non riuscivo a notare una qualche solidarietà al dramma degli sfratti. Non esistevano partecipazioni umane, ma solo burocrati-

63 che, sia che si trattasse di partiti, che di sindacati. Man mano che comprendevo la politica, e le sue contorsioni, spesso perverse, di più mi avvicinavo ai francescani, sempre presenti nella mia vita. E in quel mio avvicinamento, costante, inavvertito a livello di coscienza, ai francescani stava la mia voglia di rinascere, di un rinnovamento interiore, di un rifiuto del mondo civile, della sua precarietà, dell’etereo rincorrere le ombre delle nostre stesse inessenze. Fu lungo quel percorso, reggiano, di rinascita e di iriconversio- ne che conobbi, Padre Celestino Minuti e Padre Aldo Bergamaschi. E da allora io ho i miei conventi interiori. ma è davvero giunta l’ora di presentarvi questi frati e i conventi dove hanno vissuto.

64 PARTE SECONDA I miei Frati (Ricordi di un Fratino) 66 Terzo Prologo

Ve li faccio conoscere , i miei frati, sia dandovi alcune noti- zie biografiche, per meglio inquadrarli, sia facendovi partecipi dei miei ricordi di fratino, per quanto riguarda i frati della Calabria, sia di adulto, per quelli di Reggio Emilia. Altri, ne sono certo, avrebbero potuto scrivere meglio e più di me, sui frati di cui io racconto; qualcuno potrebbe, anche, dirvi che il racconto è incompleto, lacunoso, quindi, parziale, e persino riduttivo della personalità (complessa, si dice sempre cosi, delle persone chde non sono piu in questo mondo) dei frati. Altri, ancora, potrebbero lamentare una carenza di trattazio- ne, nel senso che qui non si parla di taluni frati (anch’essi dece- duti) che avrebbero meritato un cenno, in considerazione, appun- to, dei loro meriti. Infine, volendo, qualcun altro potrebbe critica- re lo stile narrativo , forse troppo disinvolto e a a tratti cabaretti- stico, del libro; forse, anche, poco rispettoso dell’appartenenza dei frati al mondo francescano. Orbene, io non sono un biografo o uno storico dei conventi o dei Frati, della Calabria e di altre regioni; non è nemmeno mia intenzione diventarlo. Come ho scritto e come si capirà scorren- do le pagine, ho voluto scrivere dei “miei” frati, ossia solo di alcuni frati e basta; non di tutti i frati, ripeto, ma solo di quelli che maggiormente mi sono rimasti dentro per ragioni diverse..E quindi, ho raccontato solo di coloro che piu ho conosciuto. Siccome la libertà possono limitarla solo i detentori del pote- re, politico e sociale, e costoro sono quelli che detengono denaro e autorità, come ho potuto constatare anche in occasione di que- sto libro, io mi godo questa mia libertà mentale, che è la libertà di scrivere di chi e di quel che voglio. Non scriverò quanto e come voglio, lo so bene, ma almeno mi conservo questa l’illusio-

67 ne di ella libertà di benedire (dire bene) di chi mi pare. Eccole allora, in ordine di anzianità e di in contro, queste meravigliose espressioni di purezza francescana. Si parte dai frati conosciuti a Pietrafitta, Padre Paolo, Padre Rosario, Padre Stefano, Padre Pierluigi, Padre Modesto, Zabatti, per arrivare a Tropea con Padre Carlo, Padre Davide, Padre Timoteo, Padre Pacifico. Infine, il viaggio con ifrati si conclude a Reggio Emilia.

68 Padre Celestino Minuti Testimone d'Amore

Ciascuno ha la missione voluta da Dio…basta vederla.

Francesco Minuti (questo il nome di Battesimo di Padre Celestino) era a nato a Seriate (Bergamo), l'11 novembre 1927; a soli dicias- sette anni, nel 1944 entrò nel seminario di Albino (BG), per poi passare a Varese. Per problemi di salute entrò nel noviziato di Fidenza, nel dicembre del 1948. E mise la professione solenne l'8 dicembre 1952 a Reggio Emilia dove aveva sede lo studentato teologico. Ricevette l'ordinazione sacerdotale a Carpi (MO), il 29 giugno 1955, dalle mani di Mons. Artemio Prati. Fu superiore di Scandiano. Morì nel 1988. * * * Lo avevo incontrato tante volte, in città, nelle corsie dell'Ospedale, ma lo conobbi, da vicino, e parlai con lui, una domenica, a casa di un mio amico, Sandro, che organizzava, ogni anno, un pranzo con gli amici più veri; un pranzo spirituale, quasi. Insieme a me c'erano, ovviamente Sando, Rino e, mi pare, ma non ne sono certo, mia moglie. La madre di Sandro, Maria, aveva cucinato la Polenta, che piaceva a tutti; era molto brava, 69 "anche se " diceva "dopo tanti anni di vita a Foggia, non sono più tanto capace. Questo era il cibo della povera gente, quando ero ragazza, e vivevo a Bedonia. Adesso, per fortuna, si sta bene; e poi, era un cibo dei climi freddi". Nel corso di quel pranzo, fui colpito dall'umanità e dalla chiarezza di quel Padre, dalla sua capacità di consigliare, di pene- trare l'animo delle persone e di leggere tra le righe, in senso let- terale; egli, infatti, era grafologo, e tante volte aveva fatto il peri- to per il tribunale, sicché non gli fu difficile l'analisi, sommaria, della mia personalità. A quei tempi, ero ufficiale giudiziario e avrei voluto, per una riflessione che durava da anni, magari tornare in convento, a fare il Frate Francescano, dal quale mi ero allontanato, come già sape- te non per mia decisa volontà; e avevo manifestato quella mia intenzione a P. Celestino. E lui, così serafico, così fragile fisica- mente ma roccioso cristianamente, mi aveva risposto che "cia- scuno svolge la propria missione a seconda della volontà di Dio, che noi, esseri umani, distratti dai nostri egoismi, non riusciamo a decifrare; "io so" disse, "lo sento dire in giro… che tu fai tanto bene ai poveri, ai bisognosi… come ufficiale giudiziario… ecco, questa è la tua missione, la missione a cui sei chiamato da Dio! Chi ha mai detto che tutti, per fare il bene, devono essere sacerdoti? Continua, quindi… in questa strada… puoi fare bene più tu che un sacerdote. Tu, di cui nessuno sospetta… sei più adatto a creare speranze e fiducia". Poi, leggendo, la mia scrittura, confermò il suo giudizio. Da allora… avvenne, dentro, di me, una conversione, pro- gressiva, sotterranea, autentica: via tanti egoismi! Via tante sovrastrutture mentali! Vidi più chiaro nelle vicende esistenziali, diedi il giusto posto alle ambizioni, agli affetti, rielaborai il con- cetto di amore. Non parlai con Padre Celestino per anni, pur incontrandolo spesso per le vie della città. Seppi della sua morte dal mio amico Sandro, che mi fece avere il supplemento al periodico dei

70 Cappuccini, "Frate Francesco", nel quale si rievocava la sua figu- ra, e nel quale, soprattutto, era contenuto il Testamento spirituale di questo straordinario Frate, che bene sarebbe fare salire sugli onori degli altari. Ma preferisco lasciarlo raccontare, questo padre delle anime in pena, questo cristiano che si muoveva in silenzio e con discrezione tra i terremoti delle umane disgrazie, dal padre Provinciale di allora, Padre Oriano Granella. "In quegli anni scandianesi, Padre Celestino si prestò per i religiosi del convento, per i fedeli e rivelò le sue preferenze per i poveri, gli ammalati, le persone sole che egli, aiutato da persone

Seminario di Scandiano disponibili, cominciò ad assistere e a soccorrere a domicilio. Nel 1973, quando fu assegnato al convento di Reggio Emilia, allargò l'orizzonte della sua carità e diede inizio ad una imponente opera di assistenza e di soccorso domiciliare, ai pove- ri, a tutte quelle persone bisognose, sole o meno, che egli riusci- va a rintracciare. Tutto quello che poteva sottrarre alle sue esigen- ze, tutto quello che poteva raccogliere dentro e fuori convento,

71 tutto quello che la comunità religiosa assegnava periodicamente per le sue numerosissime iniziative di carità, Padre Celestino lo portava con fedeltà scrupolosa e a costo di enormi sacrifici, a quei suoi amici nascosti e sofferenti. Sistemava porte e finestre, per difendere la povera gente dal freddo, provvedeva legna, sistema l'impianto elettrico e quello idraulico con un'abilità da professionista. Provvedeva a ricovero in Ospedale, o in Casa di Riposo di casi urgenti, noti a lui solo. Assisteva ammalati e moribondi, fino all'ultimo respiro, come una mamma. A volte doveva provvedere lui a funerali e sepoltura di per- sone abbandonate da tutti: costante era pure la sua preghiera di suffragio per questi defunti. D'inverno e d'estate, spesso a piedi. Qualche volta condotto in auto da affezionati collaboratori, sem- pre, di giorno e di notte, per le strade più remote e oscure della città e della campagna, a scovare fra- telli bisognosi di carità e di conforto e a consolare con l'amore di Cristo. Così prodiga e prodi- giosa attività Padre I piedi di Padre Celestino Celestino la compì con tanto pudore, riserbo e con tanta francesca- na umiltà e semplicità, che tanti neppure si accorsero di una pre- senza e di una testimonianza così benefica e così profetica…". Il suo Testamento Spirituale In una specie di testamento spirituale lasciato da Padre Celestino, possiamo conoscere le alte motivazioni evangeliche della sua scelta: "Con i fatti, voglio proclamare la buona novella ai poveri. La più grande opera d'amore è dare la vita a chi può ricavarne vantaggio, mi sacrificherò giorno e notte per i poveri, gli anziani, per i tribolati di ogni genere, per i malati di mente get- 72 tati fuori dagli Istituti, per i vedovi e le vedove, ma soprattutto per gli orfani, i moribondi, gli incapaci… Starò sempre con loro a condividere la loro povertà vera, il freddo, il caldo, le paure, la disperazione.Vorrei morire in casa di qualche povero o di qualche ammalato: vivere e morire nelle case dei poveri e di chi può avere bisogno di me come persona, come cristiano, come sacerdote: così come mi spinge da sempre la vocazione…La più grande disgrazia che possa capitare è di non riuscire ad essere utile a nes- suno."

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Padre Aldo Bergamaschi Il Filosofo

L’inferno non esiste perchè contrasta con la misericordia di Dio

Aldo Bergamaschi, nato a Torrano di Pontremoli (MS) nel 1927, si è laureato in Pedagogia presso l'Università Cattolica di Milano con una tesi su P. Gratry, di cui ha curato e tradotto l'inedito Diario della mia vita (Milano 1966). Professore ordinario di Pedagogia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Verona. Giovane sacerdote dell'Ordine dei Frati Cappuccini, ha collaborato con la redazione della rivista "Adesso" di Primo Mazzolari (1952-1959-1962) e successivamente (1965) ha parte- cipato alla fondazione delta rivi- sta "Momento". Per più di trent'anni ha redat- to articoli per la rivista "Frate Francesco".Tra le numerose opere citiamo le principali: Mazzolari e lo scandalo di Adesso (Torino 1968); Quale storia insegnare? (Roma 1972); Manzoni fra storia e verità (Reggio Emilia 1973); Pedagogia e Vangelo (Milano 1974) Quale educazione cristiana? (Roma 1976); La pena di morte tra sociologia e pedagogia (Reggio Emilia 1978), Quale vocazione? (Firenze 1982); Francesco tra Chiesa e Vangelo (Firenze 1985); Francesco tra natura e grazia (Firenze 1990); Oltre Giotto il vero

75 Francesco (Verona 1995); Logos e Parola (Reggio Emilia 2001). È stato curatore dei Diari Mazzolariani, di cui quattro già pubblicati da Edizioni Dehoniane, Bologna. E’morto il 15 giugno 2007. * * *

È stato un padre dalle prediche "scorticanti"; un sacerdote, cioè, che toglie la pelle dal corpo della Chiesa, per fare vedere la carne, sanguinante, del cristiano. Un pensatore evangelico che ha suscitato scalpore e le ire della Chiesa Ufficiale, negli anni passati, ma che, pur nel rispet- to di tutti gli altri confratelli e sacerdoti, proponeva, nelle sue omelie, una lettura delle vicende cristiane meno ovattata; meno romana-istituzionale e più apostolica. Avevo ascoltato le sue omelie, occasionalmente, sul finire degli anni settanta, e devo dire che le prime volte mi aveva quasi infastidito, ritenendolo troppo eletto, a dispetto della apostoli- cità, e, quindi, della elementarità e semplicità evangelica. Era, quello, il periodo cosiddetto "rosso" della mia vita, un colore che aveva accompagnato il mio cammino, a scuola e sul lavoro; un rosso vivo, puro, puramente ideale, lontano, quindi, dalle verifiche storiche; in breve, un rosso solo ideologico, sia pure provocato dalle condizioni di lavoro e da certi stridori com- portamentali ed incoerenti di alcuni cosiddetti cristiani. Avevo ritenuto, per diverso tempo, che quel suo modo di predicare, di "criticizzare", ossia di porre in crisi, frantumandone la apparente rocciosità, le comuni e tradizionali spiegazioni di certi concetti o di alcune figure evangeliche, o, addirittura, di alcuni sacramenti, fosse una scelta tutto sommato classista, padronale quasi, per la non idoneità della maggioranza dei fede- li domenicali a comprendere le sue parole, profondamente lega- te da un filo conduttore e fortemente filosofiche. Chi non aveva la costanza di seguire le sue "prediche", ogni domenica, o, per sua sventura, si distraeva, guardando chi entra-

76 va (per umana e salottiera curiosità, ad esempio), avrebbe, poi, fatto fatica a tenere il filo dei ragionamenti. Ma anche coloro che possedevano i minimi fondamenti cul- turali, evangelici o filosofici, annaspavano a stargli dietro; perché sentir dire che la Comunione era inutile, così come veniva assun- ta, o che la confessione era un sacramento non istituito da Cristo, pertanto, non del tutto essenziale alla fedeltà evangelica, scuote- va le certezze catechistiche delle persone. Così avevo pensato io; avevo pensato, cioè, che le sue paro-

Reggio Emilia. Chiostro del Convento le non fossero state "capite" e i suoi concetti non "trattenuti e assimilati". Invece no! La Chiesa, quando Padre Aldo predicava, era stracolma; e c'era silenzio; tutti guardavano e ascoltavano quel Padre, quel sacerdote, che, con veemenza, si scagliava contro i farisei e i sepolcri imbiancati, contro le distorsioni del Vangelo, contro le Istituzioni. C'erano alcune persone, che poi avrebbero formato il gruppo "Amici di Padre Aldo", raccogliendo in un libro le sue

77 omelie, le quali gli dettavano il tempo trascorso; temeva, infatti, di annoiare l'uditorio. La chiesa era troppo affollata, per quanto silenzio si potes- se fare, persino i respiri facevano rumore. Nel frattempo, dal cen- tro storico, dove abitavo, in un appartamentino, vicino al Liceo Classico e ad un giardino, detto Campo Tocci, mi ero trasferito in altra zona. Così, per diverso tempo, non lo ascoltai più. Lavoravo in Centro, però, e spesso, la sera, prima di rinca- sare, insieme ai miei amici ci si incontrava nella piazza principa- le di Reggio Emilia, all'angolo di un bar, che scherzosamente io avevo definito l'angolo dei Ministeri. Si parlava di donne e di Sud, di clima e di stipendi, di politica e di sindacato; tutti argo- menti leggeri, tipici dei "disintegrati". Qualcuno, per sottrarsi a quella lamentologia, decideva di muoversi per le vie del centro. " Non se ne può più! E tutti i giorni, tutti i santi i giorni que- sta lagna! E le donne, e lo stipendio, e tua madre, e tuo padre! Ma siete qui al Nord e state al Nord in santa pace! Se non volete stare al Nord, tornate al Sud!", aveva detto, esplodendo, Giuseppe, uno che lavorava in Tribunale e sognava di tornare in Sicilia, a Terrasini, di cui portava gli accenti di lingua, di sole e di allegria. Di quel gruppo faceva parte uno che frequentava la chiesa dei Cappuccini; era del Sud anche lui, come quasi tutti noi, forse Calabrese come me, ma non si lamentava mai; se ne stava insie- me a noi, vantando, anche per la sua carica, amicizie del posto. E fu proprio lui, che sentendomi parlare dei cappuccini, dove io avevo alloggiato, mi domandò se avessi mai ascoltato Padre Bergamaschi. "Ascoltalo, se non ti è mai capitato; è uno "tosto!", uno che ti dovrebbe piacere!". Alla mia idea di una non apprezzata, da me, "nobiltà" di pen- siero di Padre Aldo, ritenendolo lontano dalla mia trasognante utopia, a volte frenesia e delirio, politica e sindacale, della ditta- tura di un proletariato già in via di estinzione nel mondo occiden- tale ed emiliano in particolare, egli mi aveva risposto che mi stavo sbagliando. "Rimedita tutto; ascoltalo con attenzione; se ci

78 farai caso, è in linea con il tuo pensiero politico. Ti renderai conto che nelle sue parole potrai trovare, quanto meno, una rispo- sta alle tue perplessità e ai tuoi dubbi. Va seguìto con fedeltà, e ascol- tato con attenzione. Non ci si può consentire di distrarsi, con lui. D'altra parte, in Chiesa non ci si distrae. O mi sbaglio?". Ovviamente, potetti constatare, in seguito, che non si era sbagliato. Anni dopo, dovendo edi- tare un giornale per una parrocchia del Centro storico, pensate un poco, dedicata a San Francesco di Assisi, e volendo pro- porre, ad un pubblico di studenti degli istituti tec- nici, argomenti interes- santi e diversi, sia nella sostanza che nel merito, Cenacolo Francescano. Reggio Emilia avevo deciso che l'argomento sarebbe stato la Confessione.

E ancora utile, oggi, la confessione? Questo sarebbe stato il titolo del servizio. E quale soggetto, più adatto, allo scopo, di Padre Aldo Bergamaschi? Scartata l'idea di fare scrivere un articolo a lui, (temevo il suo linguaggio, colto, difficile per una immediata, e frettolosa comprensione) avevo optato per l'intervista. Mi ero informato sulla sua eventuale disponibilità, anche di tempo, domandando ad un amico; "Ma sarà ben felice di incontrarti! A dispetto della sua severità di pen- siero, è una persona amabilissima. Vai pure, e non te ne pentirai. Ha una tale lucidità di pensiero che si viene rischiarati. E' davve- ro una gran bella mente!".

79 Andai, quindi, a trovare Padre Aldo, una prima volta, dopo essermi fatto annunciare da un amico, avvocato, professore e tanto altro ancora. Lo trovai in portineria; si era a mezzogiorno, a breve sareb- be andato a pranzo, per cui gli lasciai il mio numero di telefono, pregandolo di chiamarmi, anche sul cellulare, e anticipandogli l'argomento che avrei voluto trattare con lui in una libera conver- sazione; cioè, la Confessione. Non attesi che mi chiamasse lui; conoscendo la vita dei con- venti e presumendo i suoi impegni, qualche giorno dopo mi pre- sentai in portineria, verso le dieci del mattino; c'era un signore che conoscevo da anni. Era stato nell'arma dei carabinieri e allora svolgeva lavori di volontariato. "Come stai?" mi domandò. "Ti ricordi di me? ". La fisionomia non mi era sconosciuta; e non mi era scono- sciuta nemmeno l'espressione buona che ero abituato a vedere stampata sul volto di tanti miei amici e conoscenti carabinieri di allora. Pensai, allora, che la mansuetudine e la bonarietà fosse- ro appannaggio solo dei Carabinieri; non avevo intravisto la stes- sa seraficità nei militari di altre armi. "Certo che mi ricordo di te; non ricordo come ti chiami, ma so che eri Carabiniere". "Ah, allora ti ricordi! Quante volte ci siamo visti in udienza! Bei tempi, vero?". Avendo, forse, intuito la mia probabile domanda, mi aveva anticipato : " Adesso, cosa vuoi, passo il tempo cosi, do una mano a questi fraticelli. Hanno tanto da fare! Altrimenti che faccio?" Mi fece salire al primo piano, dopo essersi accertato che Padre Aldo fosse nella sua stanza. Padre Aldo era seduto alla sua scrivania; mi salutò e aspettava di essere "interrogato". Conversare con luì, non si trattava di una novità, è stato come ricevere dei pugni nello stomaco; pugni che non fanno male, certamente, ma che svegliano; e direzionano verso una razionalità ed una fede sostenibili, anche in quest'epoca di mas-

80 saggi rilassanti, di libertà indistinte e creatrici di ambiguità e di nuove schiavitù morali. Per serietà, gli promisi che le sue parole sarebbero state "vir- golettate', in modo che i lettori avessero capito; ma non ve ne sarebbe stato bisogno perché il suo pensiero sarebbe stato imme- diatamente riconoscibile per lo spessore dei concetti. - "La Confessione" cominciò a parlare, "senza un'autentica conversione interiore (il pentimento sincero, con il proposito di non ricadere nel peccato), senza uno sforzo diretto al cambiamen- to-interiore, non serve; è un rito; anzi, uno stimolo verso la ripe- tizione del Peccato. Sapendo che, tanto, si viene assolti, ogni set- timana oppure ogni due-tre giorni, la persona non desiste dal pec- care. La Confessione richiede una Conversione Interiore, profon- da". -"Mi faccia qualche esempio, mi faccia capire. Questa sua affermazione va contro millenni e trattati di dottrina. Quindi, hanno ragione quelle religioni che non conoscono la confessione?". "Noi" rispose, "abbiamo un esempio splendido e chiaro, nel vangelo: la storia di un uomo, che faceva l'esattore delle tasse; ricco da non lamentarsi, Zaccheo non viene chiamato da Gesù, ma è lui, che, toccato dalla Grazia, restituisce parte delle sue ric- chezze e segue Gesù. In sostanza, si converte a nuova vita, a nuovi valori, e non torna sulla vecchia strada del benessere stordente e deviante. Senza la conversione autentica, ossia fattuale, e coerente, l'uomo appare come un animale religioso; ossia un abitudinario, una per- sona che ripete, in modo meccanico e formale, i riti; in modo meccanico partecipa ai sacramenti…insomma, si accontenta di purificazioni esterne…Come se il confessionale fosse una fonta- na, alla quale ci si lava le mani prima di toccare altre impurità. Invece, la Confessione richiede una Riforma, morale e men- tale, nel profondo. D'altro canto, l'equivoco nasce dal collegamento tra la Comunione e la confessione; siccome per accostarsi alla comu- nione bisogna essersi confessati, ecco che ci sì confessa come ci

81 si lava le mani prima di sedersi al ristorante". Ma non si tratta di Vera Confessione. Confessione significa ammettere le proprie colpe; come colpe; quindi, coscienza dei propri errori e condan- na di essi, con il proposito di non ricadere più. L'istituzionalizzazione della Confessione è avvenuta con San Colombano, di Bobbio. A quei tempi, si usava assegnare tante penitenze per quanti erano i peccati. E che cosa accadeva, di curioso? Accadeva che i Principi, padroni delle terre e delle libertà dei servi, invece che scontare personalmente le penitenze, le facevano scontare ai servi! Vedete che i Padroni le inventava- no tutte anche allora, per non pagare il dazio!". Sorrideva Padre Aldo, mentre diceva queste cose; ma era uno di quei sorrisi amari, di chi vede il sogghigno del peccatore, il quale cerca di sfruttare a suo vantaggio persino le occasioni di pentimento. Si riposò, prese fiato, e ripartì con ardore, quasi con rabbia: "Hai voglia a dire che bisogna resistere; se non hai la gra- zia, non si resiste alle tentazioni di peccare nemmeno un minuto; soltanto con la Grazia, e quindi con la conversione interiore, con la riscoperta dei veri valori dettati da Cristo, si può resistere alla sirena del Peccato". Perché la Grazia agisce nel profondo; disso- da il terreno dell'anima e vi pianta fiori ascensionali, che profu- mano di Divino; la Grazia avvicina alle Opere di Cristo, e rende gli esseri umani veramente liberi dal terreno e persino liberi dal dolore e dall'idea del possesso; liberi dalla paura della Morte. "Ma è evidente, lo ripeto, che la Confessione ha un senso, specie nell'epoca attuale, solo se l'uomo riscopre le radici dei valori cristiani; se opera lungo la strada del peccato, che è strada impervia, con lo spirito di rinnovamento e di cambiamento; se opera una svolta nella sua vita". La conversazione avrebbe potuto durare a lungo; ma si era giunti a mezzogiorno. E a mezzogiorno, si prepara da mangiare, di solito. Sulla Confessione, avevo imparato quanto bastava per il servizio che avrei voluto fare. E confessai tutto ciò a Padre Aldo, il quale aveva confessato alcuni episodi che io ritengo dei

82 piccoli esempi di catechesi. Io, ve lo confesso, credo molto nella Confessione come strumento liberatorio, di remissione dei pecca- ti; e come occasione di umiliazione delle umane superbie (alme- no le mie); come occasione di rinascita. Ma devo percorrere ancora molta strada; perché, come ha detto Padre Aldo, la ripetizione dei peccati confessati non dipen- de tanto dalla fragilità umana (la carne è debole...), quanto dalla mancata convinzione che il peccato sia veramente peccato. Sino a quando non si muta vita, continueremo a peccare perché sare- mo convinti che non sia peccato.

Reggio Emilia. Chiesa del Convento dei Cappuccini, i tre Portali E lo confesseremo solo perché dobbiamo assumere la comu- nione. Bisogna spezzare questo circolo vizioso. Allora sì che la Confessione acquista il suo spessore purificatorio interiore e sal- vifico. Salutai Padre Aldo, con la promessa di fargli leggere il pezzo quando sarebbe stato pubblicato, e di rincontrarlo qualche altra volta, per parlare di altro. Quando il giornale fu stampato, glie lo feci avere. Lo ascoltai, da allora, sempre più spesso, attento, tuttavia, ad ogni parola, ad ogni sfumatura del tono della voce, nella quale si posavano i suoi dissensi.

83 Poi, come a tanti accade, avanti negli anni, si è ammalato, e non potetti ascoltarlo, alla Messa delle undici e trenta. Un giorno, venni a sapere che sarebbe stato presentato un suo libro, una rac- colta di alcune omelie, a cura dei suoi amici. Così, andai dai Frati Cappuccini; la presentazione sarebbe avvenuta presso la sala della biblioteca, al primo piano del Convento. Fu il Guardiano, Padre Gianfranco Melioli, a venirmi incontro, presentandomi ad alcune signore, che aiutavano i frati a portare avanti il mercatino missionario. Padre Aldo arrivò di lì a venti minuti, su una carrozzella. La sala era piena; gente colta, che sapeva di filosofia, ed era avvezza, si percepiva dalla loro partecipazione e attenzione, dal linguaggio, alla sostanza di Padre Aldo, il quale, dopo l'introdu- zione, disse qualcosa, con la voce fievole, accennando, con un sorriso, al suo essere, ormai, un rudere di uomo. In una delle ultime omelie ascoltate, Padre Aldo enunciò un concetto cosi scardinante e così sconvolgente che sentii quasi l'impellenza di diffonderlo. Aveva accennato, tra le altre cose, alle categorie, non evangeliche, dell'Inferno, del Paradiso e del Purgatorio. L'inferno, come categoria, secondo lui, come luogo e come concetto, è assurda; è contraddittoria con l'infinita miseri- cordia di Dio. Dio non può, per la sua infinita misericordia, puni- re e mandare all'inferno, per l'eternità, i suoi figli. Questa categoria è tipica della Istituzione Chiesa, che aveva bisogno, per riempire le sue chiese, e avere potere, di creare figu- re, paure, timori, sottomissioni, e denaro, anche.

84 Padre Pierluigi Caputo Manager di Fede

L’uso della violenza è inerzia dell’intelligenza

Nato a San Giovanni in Fiore (CS) il 14 maggio del 1924, aveva ricoperto sempre incarichi di responsabilità: Vicerettore e maestro di Disciplina a Pietrafitta, e insegnò anche Italiano e Latino, Padre Guardiano a Cosenza, a Pietrafitta e Catanzaro; Padre pro- vinciale, e per moltissimi anni, definitore. Era lui che si occupava di risolvere le questioni legali (relative, spesso, ad espropriazio- ni di terreni conventuali), mante- nendo i contatti con gli avvocati di Fiducia della Provincia Francescana. È morto il 18 ottobre del 2001, a Rende.

* * * Parlare di Padre Pierluigi Caputo significa fare la storia di tanti conventi della Calabria e di tanti ragazzi cresciuti, sotto il suo insegnamento, nel collegio di Pietrafitta. Avevo dieci anni, quando entrai in collegio; ero minuto, come tanti bambini di quei tempi di non eccessivo benessere. Avevo palpato subito lo stile rigoroso, secco, determinato di quel padre francescano un po' curvo e dalla voce bianca; mi colpì il suo parlare schematico, ma chiaro e comprensibile a tutti; l'uso

85 di pochi aggettivi e pochissimi superlativi; intuii ciò che avrei compreso, con pienezza, tanti anni dopo; ossia, che Padre Pierluigi aveva un linguaggio matematico-filosofico. Dettava subito, ai fratini in arrivo, le regole da osservare: "Qui bisogna studiare; chi studia avrà, un domani, anche dalla vita; chi studia potrà giocare; nelle camerate non si può fare baccano, ciascuno deve fare il proprio letto da solo, e si va a fare colazione, solo dopo essere stati a messa; dopo il pranzo, ricrea- zione per un'ora; poi, studio, ancora una mezz'oretta di ricreazio- ne... studio, cena e... a.. a letto." Linguaggio matematico filosofico, perché egli cercava di fare capire alle nostre menti bambine, che il premio "ha una pro- pria logica soltanto in contrapposizione con il bene; ed in funzio- ne del bene occorre combattere il male"; faceva capire, ad esem- pio, che "dire parolacce non è espressione di vivacità"; che "l'uso della violenza è inerzia dell'intelligenza". Quando qualcuno gli faceva rilevavate che i bambini non capivano alcuni concetti, egli soleva rispondere che " i bambini sono dei contenitori a futuro sviluppo; devono ascoltare; così come l'affamato non deve capire che mangia, ma deve mangiare". Maestro di disciplina equilibrato; in quattro anni di perma- nenza in collegio ho potuto constatare il suo equilibrio e persino la sua sofferenza nell'infliggere le "punizioni" (un male necessa- rio, avrebbe detto, anni dopo....). Così com'era rigoroso nella disciplina, altrettanto era affettuoso e complice con i ragazzi; durante la ricreazione stava con loro, a parlare e scherzare; egli era il primo a rimboccarsi le maniche del saio. I ragazzi lo stimavano, perché ne avevano accettato l'autori- tà e l'autorevolezza. A quei tempi non si usava la parola manager, ma egli lo era; organizzava gite, predisponeva programmi; aveva progettato il giardino e il campo sportivo; si interessò, fino alla morte, dei compiti amministrativi della provincia francescana, tenendo i contatti con i pubblici uffici.

86 Mantenne queste caratteristiche, anche quando fu Padre Provinciale. Quando lo rividi, a Pietrafitta, dove era stato inviato, in via temporanea, come Padre Guardiano, notai sul suo viso uno sguar- do di filosofica bontà, tipica delle persone che si affidano al buon Dio, nella speranza che voglia avere pietà di lui. L'essere stato organizzatore e Manager di conventi e collegi lo avevano reso ancora di più realista; pregava, come tutti, forse di più, ma stava con i piedi per terra. "Chissà" aveva escla- mato un giorno, durante un pranzo, "Che cosa ci aspetta, dopo la morte. Ci sarà il Paradiso? E l'infer- no non è su questa terra?" E aveva concluso la sua riflessione con il suo soli- to sospiro. Di lui si soleva met- tere in risalto solo l'aspet- to manageriale economi- co, il lato esteriore, social- mente apparente. Invece, io ho visto questo Frate, minuto, curvo, come un Manager di Fede.

Da sinistra, G. A Silipo, Padre P. Caputo Un manager non perde e Padre Cesare Silipo tempo in discussioni teo- logiche o in convegni, ma opera, agisce, compie buone azioni; un manager trasforma lavativi in lavoratori, gli scettici in creden- ti, i credenti in praticanti; un Manager ha come obiettivo acquisi- re consensi alla Fede cattolica e all'idea Francescana. Padre Pierluigi mi ha fatto capire, sia pure tardi, che la Fede è costru- zione faticosa, un continuo rinsaldare i fili della speranza attra-

87 verso i miracoli della bontà e della generosità;che la Fede è eser- cizio di eroismo quotidiano, perché richiede coerenza, rigore morale ed umano; perché è sottoposta ad attacchi diversi, persi- no da parte dei nostri compagni di strada.

88 Padre Modesto Calabretta Frate della Riconciliazione

Solo con la Preghiera si rifugge dalle tentazioni

Nato a Serra San Bruno il 26 novem- bre 1919, è stato Vicerettore nel col- legio di Pietrafitta, negli anni del Dopoguerra; poi negli altri conventi della Calabria, dove veniva "manda- to": a Cutro, come Guardiano, detto anche Padre Superiore, dal 1965 al 1971, quindi dal 1995 al 1998; poi a Tropea, a Bisignano, a Commenda, e forse in altri ancora. Era ricercatissi- mo in tutta la Provincia Calabra, per la predicazione e le confessioni. È morto a Bisignano il 15 gennaio del 2004. * * * La prima volta lo conobbi quando avevo circa undici o dodi- ci anni; era venuto in collegio, a Pietrafitta, per i tre giorni tra- dizionali degli esercizi spirituali. Egli aveva il compito di stare con noi fratini, ed insegnarci a pregare, di confessarci e comunicarci. Raccontarlo adesso fa sorridere, perché i tempi sono profondamente mutati, anche nei conventi; per comprendere il fatto nei suoi giusti confini, occor- re riportarsi agli anni tra il Cinquantasette e il Sessanta, quando

89 il sesso era tabù, in ogni sua manifestazione; e tutto veniva visto in una prospettiva satanica e comunque. Peccaminosa. Che cosa si può fare a Dodici anni? Quali reati si possono commettere? E, soprattutto quali pec- cati avremmo potuto compiere? Eravamo dalla mattina alla sera in collegio; vigilati dal Maestro di disciplina; il tempo e gli spazi erano stati assegnati in modo rigoroso; era ben difficile che qualcuno si potesse isolare, se non per le strette esigenze… igieniche. I peccati più frequenti, anzi, il peccato più frequente consi- steva quindi, non nelle bestemmie, che sarebbero state punite gravemente con la sospensione del pasto, delle partite di calcio o della ricreazione, ma nella masturbazione, che veniva considera- ta, secondo le vedute di quel tempo, un peccato.

I Peccatori sono Persone che hanno sbagliato Il primo giorno di esercizi, al mattino, andò bene; mi ero confessato il giorno prima perché Padre Modesto aveva racco- mandato di presentarsi "puliti dentro". Ma al pomeriggio sentii il bisogno, irresistibile, di confes- sarmi di nuovo; era tanto il peso e il rimorso del peccato che non potevo resistere; e così, quando Padre Modesto ci domandò se ci fosse stato qualcuno che avrebbe voluto ancora confessarsi, io mi ero precipitato davanti a lui. Padre Modesto aveva il pregio, rarissimo, di non farci senti- re peccatore, ma di considerarci persone che hanno sbagliato, e che avrebbero potuto e saputo risorgere; non sgridava colui che aveva peccato, come qualche volta capitava e capita (il sacerdo- te non smette mai di essere uomo, a volte) ma gli raccomandava di mettersi nelle mani del Signore, di stare vicini a Lui, perché da soli non ce l'avremmo potuto fare. Non è un pregio di poco conto, credetemi; perché se la confessione è il Sacramento della Riconciliazione con Dio, per averne offeso la dignità, non si dovrebbe, in nome di un potere conferito, sgridare o negare il

90 perdono, ma convincere alla pacificazione dell'anima, in lotta con le tentazioni. A noi fratini capitava, spesso, e molte volte è capitato a me, negli anni seguenti, e ad alcuni miei amici, di cambiare confes- sore per evitare quel senso, o certe espressioni, di rimprovero che a volte avevano alcuni confessori quando i peccati si ripetevano (i recidivi reiterati) e la debolezza era manifestamente incapaci- tà di una vera conversione interiore.

Bisignano. Chiesa e Convento della Riforma

Padre Modesto, invece, ascoltava, ascoltava sempre, e poi comunicava il suo pensiero, con un tono di voce sommesso, quasi fosse stato egli il peccatore. Il pomeriggio di quel primo giorno di esercizi spirituali, quindi, tornai da lui, a ripetergli che avevo peccato due volte ancora, dalla mattina; ero contrito davvero, mentre mi confessa- vo; ossia, non era un atto di stile, quasi che fosse un automatismo peccare e confessarsi. Egli, scuotendo la testa e abbozzando un sorriso, mi invitò a concentrarmi sulla preghiera, a tenere occu-

91 pata la mente, a non distrarmi, a tenere lontano satana, che cerca- va di penetrare in me. La pubertà, lo si sa bene adesso, nel Duemila, è l'età delle scoperte, delle accensioni, delle prime e continue fantasie; è anche l'età dell'incompleto, ancora governo, delle proprie facoltà volitive, per cui non si riesce ad inibire alcune pulsioni. Così, fui costretto a recarmi varie volte da Padre Modesto, per confessar- mi. Padre Modesto… asciugandosi le labbra (produceva molta salivazione….), mi disse, allora: "Caro il mio ragazzo…. Capisco… ti sei venuto a confessa- re un'ora fa….. in due giorni già sei volte…. Ti farai del male…. Devi sforzarti… prega tanto… pregando.. si rifugge dalla tenta- zioni…" e dandomi un buffetto sulla guancia, mi licenziò con quel suo sorriso che era un cestino di comprensione, di bontà, di meraviglia, di preghiera. Era ricercatissimo, in tutta la provincia per la sua capacità devozionale e di confessore. Molti frati si avvalevano solo di lui, per confessarsi. Davvero si può dire che sia stato il Frate, Sacerdote della Riconciliazione. E Ministro, in terra, della Misericordia divina.

92 Padre Rosario Serrao Musicista e Artigiano di Dio

Nato a Mesoraca (KR) il 20 aprile 1918, entrò nel collegio di Pietrafitta (CS) a quattordi- ci anni; nel 1936 fu novizio e nel 1937 emise la professione solenne. Dal 1942 al 1946 fu a Tropea per gli studi teologici e fu ordinato sacerdote il 29 giu- gno 1946 da S.E. Mons. Felice Cribellati. Dopo un anno tra- scorso a San Marco Argentano (CS), venne assegnato alla fra- ternità di Pietrafitta, dove tra- scorse quasi tutta la sua vita. È morto il 29 Ottobre del 1994, pres- so l'infermeria provinciale dei Frati, a Tropea.

* * *

Uno dei ricordi più belli, allegri e costruttivi della mia infan- zia, è la figura di questo Padre Francescano che ha sempre svol- to un compito preminentemente pratico, operativo, alieno da ogni formalismo e concettualismo. In quegli anni, in cui i "fratini" erano circa una settantina, poi ridotti ad una cinquantina, biso- gnava darsi da fare, e girare per procurare da mangiare...E Padre Rosario, alla guida del Furgoncino Fiat tipo pulmino, andava e correva dappertutto... accompagnava i frati e i fratini ai vari fune- rali (che fruttavano al convento degli oboli o della provviste), li

93 riportava al convento, andava a ritirare il cibo, sempre in giro per uffici. Ma non solo; egli insegnava a suonare l'Harmonium; perché sapeva anche suonare; dietro quella sua apparente rudezza e immediatezza espressiva, priva di fronzoli letterari, stava, digni- tosa, una capacità musicale spessa. Si arrabbiava, quando lo si comparava con padre Giambattista Strippoli, che tutti consideravano l'intellettuale musicista, quindi più apprezzato di lui. Padre Giambattista era considerato, non so se giustamente o meno, un virtuoso, e come tanti virtuosi, assimilati agli artisti. Egli, invece, amava stare nel classico, nel tradizionale; amava il canto gregoriano e da lì non dipartiva. Volendo dare a Cesare quel che è di Cesare, e con la saggez- za degli anni, non vi è dubbio che se gli artisti sono artisti, il mondo viene costruito e retto da persone operose, normali; il mondo, cioè, è governato da artigiani del vivere: bene, Padre Rosario era, può, a tutto merito, essere considerato Artigiano di Dio. Non ha, certo, ricoperto cariche prestigiose (Padre Provinciale, ad esempio....) ma il suo contributo, specie negli anni che vanno dal 1950 al 1970, è stato enor- me. Sono state le persone come lui a consentire che il Convento di Pietrafitta potesse sopravvi- vere economicamente. Insegnava, tra i tanti com- piti a lui affidati, Francese; si rideva, qualche anno dopo, sul fatto che uno come lui, di Mesoraca, avesse potuto inse- gnare il Francese; eppure, quel- lo che imparammo allora ci è rimasto "perché" diceva lui "dovete mettervelo nella cucuz- Convento di Mesoraca, Chiostro za, dovete imparare il francese".

94 Era stato lui ad insegnarmi la musica, gli essenziali accordi musicali e a suonare l'armonium, perchè io diventassi, in seguito, l'armonista ufficiale del collegio. Il fatto di essere l'armonista ufficiale, mi obbligò, per quattro anni, a partecipare a tutte le fun- zioni, in primo luogo quelle funebri. La mia esperienza nelle par- tecipazioni alle veglie funerarie, in forza della mia carica di armonista, mi ha fatto prendere, in modo equilibrato la vita. Vedendo la morte, ho imparato a vivere la vita. Cominciò, forse, dal vedere tantissimi defunti, magari molto importanti in vita, ma nella bara inermi e ugali a tanti altri morti; o dai vari Miserere e De Profundis, suonati e cantati in oltre quat- tro anni, la mia filo- sofia di vita, secondo la quale nulla davvero ci appartiene, nemme- no i figli; e che senza una ricchezza interio- re, che travalichi il pre- sente, e l'egoismo che il presente produce, Convento di Mesoraca noi siamo nulla, senza identità. La nostra vera identità è l'inessen- za. Non ho più avuto paura della morte, e non ho mai temuto il dolore, che ho imparato a masticare ogni giorno, non temendo che il tempo portasse altri stritolamenti. Nel corso di quelle trasferte funebri, spesso bisettimanali (in alcuni paesi, come Aprigliano o Spezzano Piccolo, le persone sembravano morire più spesso) ho anche imparato l'ironia del dolore; ho appreso che le parole producono, spesso, ilarità, quan-

95 do si stagliano su persone, il cui giudizio sociale, negativo, si è consolidato sulla base di fatti. I pianti dei parenti o di amici, qualche volta del tutto indif- ferenti alla morte di colui o colei che piangevano, erano una svento- lata di recitazione. Io sentivo i commenti, aciduli, e spesso diver- titi, dei critici. Ma allora non capivo; subito dopo le preghiere, se si faceva in tempo, saremmo tornati a scuola. Poi arrivò la malattia. Il morbo di Alzheimer.. e quel frate dinamico, un tempo vulcanico, musicale, operativo, così appa- rentemente resistente, cedette..... Anni dopo, dalla mia uscita dal collegio, quando ero adulto, lo avevo rivisto, e lo avevo salutato con festosità, memore della medesima festosità con la quale egli accompagnava e trattava i ragazzi. Ormai i ragazzi, i suoi fratini non c'erano più e non c'era più bisogno della sua fatica per andare in giro a guadagnare, o tra- sportare alimentari. "Simo poveri vicchiarielli" diceva sempre a chi gli domandava come andasse. Un'estate degli anni Novanta, lo avevo visto malato; non mi aveva riconosciuto, e non ricor- dava nemmeno cosa gli dicessi: fu mio fratello ad informami, malvolentieri, della sua malattia. Si scordava dove andava e dove si trovava; aveva eccessi d'ira... con subitanei sorrisi dol- cissimi, come ai bei tempi del collegio, quando con una battuta cercava sempre di mettere buon umore. E arrivò anche la volta in cui, smarrito il senso dell'orientamento, si era perso in un bosco, vicino a Pietrafitta, e lì era rimasto per tre notti, al freddo. Era stato ritrovato integro, come se fosse stato ibernato!

96 Padre Venanzio Marturano Una moralità Silvana e Solitaria

Custode del Convento fino alla Morte

Padre Venanzio (al secolo Francesco Antonio) Marturano era nato a Rom- biolo il 10 agosto1910 e dal 1951 fu il responsabile del Convento della Sacra Spina. * * * Quell'uomo dal vocione "fore- stale", robusto, alto, che per anni resse il Convento della Sacra Spina, sito in Petilia Policastro (KR), non aveva, ricordo, molto seguito "cultu- rale"; sia da parte della popolazione Petilina, sia da parte dei francescani. Nessuno gli rimproverava caren- ze sacerdotali, o francescane, per carità; ma l'aver vissuto, per anni, sempre solo, lontano da contatti pub- blici, e quindi, il non avere avuto fre- quenti scambi, di opinioni, con perso- nalità, del mondo civile e religioso, lo avevano reso, in qualche modo rude, qualcuno diceva (con ironia bonaria) "selvaggio", "silvano". In effetti aveva modi immediati, certamente non aveva il dono della diplomazia o della duttilità dialettica; non era abi- tuato al confronto; e non possedeva, per i motivi detti, quella delicatezza di tratti e di accenti, che di solito offrono all'ascol- tatore, fedele o meno, coloro che vivono tra la gente. E tuttavia…tut- 97 tavia, occorre dare merito a questo Padre francesca- no, di essere riu- scito, con spirito ammirevole, con sforzi, umani, ed economici davve- ro fuori dai limiti umani, a mantene- re la festa della Sacra Spina sotto Padre Marturano in compagnia di alcuni fedeli il crisma della spi- ritualità, lottando contro una secolarizzazione ed una commercia- lizzazione dei valori religiosi, che già allora si intravedeva. Egli si è sempre adoperato, fino alla morte, per non far dimenticare il passato del convento quale luogo di contemplazio- ne e di riflessione, riattando il luogo. È stato "legato", quasi indissolubilmente, al convento della Sacra Spina, dal quale non si muoveva quasi mai se non per scen- dere in paese, Petilia Policastro, o per recarsi nel convento vici- no del SS Ecce Homo a Mesoraca o, al massimo, a Catanzaro, dove aveva sede la Provincia dei Frati Minori di Calabria. Ha sempre accettato il mandato dei superiori, svolgendo il suo apostolato nella solitudine (i primi tempi e per oltre un decennio, non c'erano mezzi, e percorreva la strada sempre a piedi), al servizio di chi lo chiamava e delle persone che viveva- no, come lui, nella montagna. Ma non basta: nonostante la sua solitudine, mai si è sentita una chiacchiera sulla sua moralità, Umana e Francescana; mai che si sia sparlato di qualche sua debolezza, di qualsiasi genere, pur possibile, come la storia (francescana e non, calabrese e non, dei tempi andati e di quelli presenti) insegna. Se il santuario della Sacra Spina, lontano dai mass media,

98 dalle sollecitazioni partitiche, ha potuto far vivere il culto religio- so francescano, beh, qualche merito dobbiamo certamente darlo anche a questo frate.

Il mio primo Pellegrinaggio alla Santa Spina. Il Primo Vino non si scorda mai

Il mio ricordo della Santa Spina e del mio incontro con que- sto Padre fu prima della mia entrata in collegio; penso sia stato negli anni 1952 o 1953, in occasione dell'annuale pellegrinaggio, al Santuario, del secondo venerdì di marzo, per rendere omaggio e devozione alla Reliquie della Sacra Spina. I pellegrinaggi alla Santa Spina riflettono un folclore pro- prio, fatto di persone appartenenti ai diversi ceti sociali e a diver- se età (donne, bambini, anziani, in prevalenza da gente semplice e umile, che ha ereditato e tramanda la fede per la Reliquia e il santuario, da generazione a generazione, ormai da seco- li..). Per l'occasione, uomini e donne indossano l'abito festi- vo di colore scuro; le donne anziane si coprono il capo con lo scialle a frangia. Con i miei compagni di strada avevamo organizzato di andare anche noi al pellegrinaggio, e di fare festa; ma una bella festa! Ciascuno avrebbe dovuto por- tare qualcosa da casa: chi sal- siccia o lardo, chi pane, altri, dolci; io mi ero assunto il compito di procacciare il vino. Convento della S. Spina

99 Mentre per i miei compagni l'impresa non era affatto dif- ficile, perché sarebbe bastato, comunque, sottrarre furtivamente il cibo, senza temere alcunché e senza dover sborsare soldi, per me il compito si era presentato abbastanza arduo, perché per acquistare il vino, sarebbe occorsi dei soldi. Da anni, io ero stato l'inviato speciale, dai miei genitori, per andare dal "bottegaio" a comprare il vino; nessuna devia- zione era mai stata compiuta, né di soldi né di vino; per cui, quando mi presentai dal bottegaio per dirgli di darmi due litri di vino, su ordine di mio padre, il bottegaio, nonostante qualche per- plessità, conoscendo il consumo "statistico" della famiglia, me lo diede, raccomandandosi, ricordo, di stare attento e di andare subito a casa. "Sì, certo!" avevo risposto prontamente io. E con il fiasco di vino, mi avviai verso la località "Il Castello" o "Belvedere" dove mi attendevano i complici, anche loro con involucri contenenti cibaria diversa. Insieme, ci erava- mo mescolati alla folla di "pellegrini" che si recava alla Santa Spina; il nostro passo era veloce; andavamo spediti, perché avremmo voluto arrivare tra i primi alla meta. Erano quasi le Nove quando giungemmo alla Santa Spina; c'erano anche mia Madre e alcune sue sorelle ed amiche, che però pregavano, davanti al convento. C'era anche Padre Venanzio, con la stola e la cotta, che aspettava i pellegrini devoti e diceva di fare presto. Il ricordo di quella giornata è che volevo sentirmi grande, facevo di tutto per mostrarmi maturo, anche fisicamente maturo. Così, tenevo atteggiamenti da guappo buono, diciamo esibizioni- sti; andavo in giro a guardare le ragazze più carine. Fu forse per quella voglia di "grandezza anticipata" che avevamo deciso di fare i grandi. Siccome gli altri, i maschi, dopo la cerimonia e la messa, avevano cominciato a mangiare, seduti sull'erba, anche noi ave- vamo cominciato a mangiare, per i fatti nostri, avendo detto di no ai nostri genitori, i quali si erano fidati di noi, in quanto mai ave-

100 vamo dato loro motivo di preoccupazione. Alla fine del pasto, tra smargiassate esagerate, tipiche dei bambini, che, però, a noi commensali di allora, sembravano cose serie, e bicchieri di vino, eravamo tutti quanti ubriachi. Ci sentivamo forti; e qualcuno, che era timido, aveva tro- vato anche il modo di fare qualche complimento alle ragazze, le quali, sorridendo, certo, ma anche infastidite, ci avevano detto, in dialetto "Viditi due vi naviti ire" (vedete dove dovete andarve- ne). Ma eravamo tanto ubriachi!

Il ritorno, in discesa, in Paese.Un Assassinio Mancato

Lo stato di ubriachezza non era scoppiato subito; diciamo che eravamo riusciti a restare "integri" fino all'arrivo in paese; forse con il favore del clima (alla Sacra Spina siamo quasi a sei- cento metri, in paese a trecento metri). Non ricordo degli altri miei amici, i quali avevano avuto un ruolo secondario nell'organizza- zione della scampagnata "alco- lico-religiosa"; ma ricordo benis- simo di me. Arrivato, chissà come, sullo spiazzo antistante la chiesa dell'Annunziata, nella località "Fumarello", mi ero seduto, e non riuscivo fisicamente ad andare avanti; parlavo come parlano gli ubriachi; a coloro, ai vicini, che mi conoscevano, i quali mi dicevano di tornare a casa, perché altrimenti avrei preso delle botte, rispondevo, con il tipico senno dei grandi ubriachi, che li avrei picchiati e, Pellegrini della S. Spina

101 magari, ammazzati tutti… tutti.. tutti! "Tuttiii" era la parola che ripetevo in continuazione, in preda all'eco vinicola. Vedevo la chiesa dell'Annunziata molto più grande del soli- to e le persone in penombra; avevano sorrisi grandi, quasi defor- mati; li vedevo vecchie, brutte e brutti, tutti, tutti, tutti. Fino a quando qualcuno non era andato ad avvertire mia madre, la quale, come tutte le mamme, se ne venne vicino, e, promettendomi in anticipo (per farmi calmare; guai a contestare gli u briachi) che mi avrebbe acconsentito di ammazzare tutti, ma proprio tutti tutti, mi prese per mano e mi accompagnò a casa. Mio padre era lì, in casa, che mi aspettava; magari aveva anche già litigato con mia madre, colpevole di non avermi sor- vegliato a sufficienza; e avrebbe voluto, glie lo si leggeva in fac- cia, punirmi; ma mia madre disse di no, e con quella sua ironia, della quale io sono in parte portatore, disse a mio padre: "No stasera no; stasera va a dormire: Rimandiamo tutto a domani. Altrimenti ci ammazza tutti. Ma tutti tutti, ha detto. Vero che hai detto così?". Ed io, che ormai non sapevo chi fossi, e dove fossi, e che cosa avevo fatto, con la testa che mi girava, e il letto che mi atti- rava, ebbi la forza di ripetere, per l'ultima volta: "Sì. Tutti tuttii". E sull'onda di quella parola, prolungata nella vocale fina- le, mi addormentai. Mio padre si accorse dell'acquisto truffaldino, quando, andan- do ad acquistare altro vino, il bottegaio volle da lui che provve- desse all'estinzione di quel piccolo debituccio di un fiasco di vino, acquistato, per suo conto, da me, un giorno di Marzo, il cosiddetto "Venere Santu" (Venerdì santo). Incontrai, anni e anni dopo, quando ero più grandicello (sui sedici anni, e poi a venti e poi ancora a trenta) Padre Venanzio, insieme a Padre Cesare (devo ricordare ancora che è mio fratel- lo? Sì, è mio fratello!).

102 Ricordo che ci fece visitare il convento, l'oratorio, molto bello, dietro il convento, in mezzo al bosco, la reliquia della Sacra Spina, il coro, e altro che solitamente non era visibile al pubblico . Devo dirvi che, in quei momenti, forse anche perché erava- mo in serena conversazione ed egli si sentiva rivestiva del ruolo di "cultore-custode artistico" di un patrimonio religioso e storico, mi era sembrata una persona, Pia e buona, e non rude, o "tamar- ra" come l'immaginario o i racconti di taluni, spesso acritici malevoli, lo descrivevano.

Pellegrini della S. Spina

E così, tutto sommato, ricordo ancora oggi, che egli è morto, sempre nel convento della Santa Spina, quel Padre Francescano umile e sbrigativo, al cui sacrificio, umano, e alla cui devozione e ubbidienza francescana, si devono le migliorie apportate al Convento ed al Santuario, oltre che la conservazione, come già detto, entro confini spirituali, del culto della Sacra Spina.

103 104 Padre Davide Munnizza Un Piccolo Grande Servitore

Nato a Taverna (CZ) il 19 luglio 1902, ha iniziato la sua vita religiosa nel Seminario Serafico di Badolato, ed è stato ordinato sacerdote il 2 feb- braio 1925. Ha ricoperto, per obbe- dienza, numerosi incarichi di respon- sabilità: per molti anni maestro dei Novizi a Mesoraca, maestro dei chie- rici, Guardiano, definitore e Segretario della Provincia. Trasferito a Catanzaro nel 1974, vi è rimasto fino alla morte, sempre impegnato nel ministero della confessione e nella visita agli ammalati. Colpito da ictus cerebrale nella sera del Natale del 1990, si è spento il 4 gennaio 1991. * * * Lo incontrai a Tropea, nei primi anni del 1960, dove faceva il padre spirituale, ossia colui che dovrebbe badare alle anime; che dovrebbe essere il consigliere, il suggeritore di coloro che sbagliano o che sono incerti sul cammino da percorrere. E quel compito svolse benissimo. Aveva, nella sua personalità il germe della santità e della bontà; sì, dico santità nel senso più autentico della parola; ossia uomo di Dio, uomo votato a Dio, al bene degli altri, uomo che comprendeva, e assumeva su di sé le sofferenze e le ansie degli altri. Era di corporatura minuta, gracile; mangiava pochissimo, e sembrava una canna al vento.. Ma aveva una resi- stenza fisica eccezionale. Prestò servizio non solo a Tropea ma

105 anche a Catanzaro, Cutro, Crotone… Dico prestò servizio, e non svolse la sua missione sacerdotale, perché egli era conscio, lo ripeteva spesso, che "Noi non siamo degni di parla- re di missione" concetto trop- po elevato per noi umani…."; e perché, anche questo egli ripe- teva spesso "Noi dobbiamo essere al servizio dei nostri fra- telli che sono fratelli in Cristo…". Ecco, per quanto egli non fosse molto loquace, quando parlava come padre spirituale, enunciava questi Convento di Tropea. Chiostro concetti che non attecchivano subito nella mia mente di adole- scente, già in fase di incertezza, ma che si sarebbero sedimentati, negli anni… nel pieno della materialità sociale. Ecco la grandezza di quest'uomo, di questo piccolo e grande Padre Francescano, che univa la potenza della sua personale sag- gezza alla ispirazione divina. Non fu un caso che il suo confes- sionale sia stato sempre affollatissimo; non era un caso se anche molti frati amavano andare da lui per confessarsi. Non era un caso, perché la sua persona emanava spiritualità trascendente, e nello stesso tempo umana; emanava dolcezza e perdono; si chinava con il peccatore, lo teneva per mano, quasi a dirgli: "Non ti umiliare per i tuoi peccati, basta che tu ti impe- gni a riconoscerti debole. E riconoscendoti debole tu sappia apprezzare i tuoi fratelli, aiutarli e perdonarli come io, Ministro di Dio, perdono te". Ricordo, a Tropea, dove io frequentavo il quarto ginnasio, che mi assisteva, mi consigliava, mi suggeriva, mi diceva di stare

106 tranquillo… che i contrasti con il rettore (allora era Padre Carlo Gentile) erano solo apparenti e momentanei; il rettore, egli dice- va, sembra un uomo burbero, ma ha tanta bontà E pregava, pregava sempre. Non aveva soste nella preghiera. Sopportò la malattia con pazienza e con il silenzio della sua dolcezza: nessuno lo sentì mai

Convento di Tropea

lamentarsi di qualcosa; nessuno mai dovette rimproverargli qual- che disubbidienza. Sì, posso dirlo, un po' di quella dolcezza mi è stata travasata. Non so se riesco a trasmetterla agli altri; ma avere conosciu- to questo francescano, questo santo, certamente mi è sufficiente per dovere ringraziare Iddio della mia esistenza.

107 108 Padre Stefano Fonte Il Matematico

Nacque a Laureana di Borrello il 27 maggio del 1916; ricevuto l'Ordine sacerdotale, venne mandato nel Seminario serafico di Pietrafitta dove insegnò, con serietà e dedizio- ne, scienze matematiche ai fratini; a Cosenza fu accanto ai giovani del convitto "francescano": Visse sem- pre da semplice frate; per motivi per- sonali rinunciò formalmente a qual- siasi carica gli potesse essere affida- ta. Dopo oltre quattro anni di soffe- renza e di dolore, che sorbì con sere- nità e rassegnazione cristiana, morì a Grimaldi, nella casa di riposo, il 27 novembre del 1997. * * * Nonostante la sua mole (era alto quasi un metro e ottanta...) era buonissimo; certo, essere professore di una delle materie, tra- dizionalmente antipatiche, come Matematica, non deponeva a suo favore, ma il modo di interrogare, quasi mai in modo catti- vo, quella sua disponibilità ad un sorriso anche quando affibbia- va uno zero lo rendevano non antipatico; il che, per ragazzi dai dieci anni in su, non era un risultato da poco. Era fratello di Padre Fedele, che insegnava, invece, materie letterarie ed aveva una fama di dotto, di mente illuminata. La mia battaglia di alunno, per quanto fratino, che odiava la matematica, aiutato alla rovina dalla convinzione diffusa che per i frati ciò che 109 sarebbe servito sarebbe stato il campo letterario o umanistico in genere, con Padre Stefano durò ben Tre anni, ossia fino agli esami di terza media. Padre Stefano ripeteva sempre che io ero un "ciuccio", che non capivo la matematica e che avrei preso Zero anche agli esami di licenza media.. In effetti, il corso triennale non aveva dato otti- mi risultati; gli zeri ottenuti, intervallati da qualche misero tre o quattro, non avrebbero mai potuto fare sperare in un risultato diverso dalla bocciatura in matematica.... Eppure, eppure... eppure, quando fui agli esami di licenza media... riuscii, non so come (non copiai, lo giuro, anche ades- so a distanza di quasi un secolo!) a svolgere benissimo il compi- to di matematica (si trattava di espressioni algebriche.. mi pare...)! Padre Stefano non credette a quella mia improvvisa bra- vura.. sicché, agli orali, cercò di farmi svolgere altri esercizi... ma ce la feci! Dopo oltre mezz'ora di interrogazioni e di graticola, si arrese, dicendo: evidentemente, i miracoli esistono ancora! Non so come tu abbia fatto, ma le vie del signore sono infinite e la matematica non è mistero per il padreterno! E fui promosso. A distanza di anni, lo confesso, neppure io so come avessi fatto a svolgere il compito di matematica... certo, anche in forza di quel miracolo, io cominciai, ad anni di distan- za, a credere in Dio.... con certezza quasi matematica.

110 Padre Carlo Gentile Tra Musica e Matematica

Quando arrivai a Tropea, dopo quattro anni di permanenza nel colle- gio di Pietrafitta, per frequentare il ginnasio, rettore del collegio era un padre di Mesoraca, Padre Carlo Gentile: insegnava matematica. Era già avanti con gli anni; alto, magro, dinamico, deciso, sbrigativo nei modi, privo di perifrastiche, aveva il vezzo della musica. Era stato parroco, per moltis- simo tempo, di parrocchie vicino a Pietrafitta; e percorreva, lo ricordava- no i suoi confratelli, chilometri e chilo- metri, sempre a piedi, fosse bello o brutto tempo, con il sole, la pioggia o la neve; per esempio, per andare a Pedace, ad Aprigliano.. occorrono una decina di chilometri; chi conosce le zone di Pietrafitta, può comprendere. Amava tutti i ragazzi, ma prefe- riva i "matematici", che si portava sem- pre a fianco.. se poi amavano la sua lita- nia, sarebbe stata una bella compa- gnia….! A me, come a tanti, non piaceva la matematica; non solo non mi piaceva, ma ero un ragazzo che diceva, apertamente, al professore, di non avere capito; nemmeno gli altri avevano ben compreso, ma non

111 avevano il coraggio di dirlo. Così Padre Carlo, che era sicuro di insegnare bene (e insegnava bene, con scrupolo e passione), cominciò a darmi dei voti pessimi, ritenendomi un lavativo e uno che cercava rogne. Quando si andava in gita, nel centro di Tropea, passavamo davanti ad un collegio femminile; io mi distraevo nel guardare qualche collegiale carina; così anche quando andavamo in spiag- gia, nel tratto riservato, per via naturale, ai collegi, le mie occhia- te cadevano sulle ragazze. Padre Carlo, pur riprendendoci, e raccomandandosi di evita- re le tentazioni, sempre dietro l'angolo (o dietro lo scoglio?), comprendeva bene le effervescenze giovanili e non ci puniva. Lo scontro, ideologico, con il Rettore fu, però, a proposito di una sua creazione musicale. Egli aveva composto, cioè, una litania, che aveva un ritmo veloce; uno stile non gregoriano. E' probabile, anzi, altamente probabile che io non avessi la sensibilità, musicale e umana, di percepire o comprendere la sua originalità musicale, ma a me quella litania era sembrata, allora, e mi sembra tuttora ( la ricordo bene ancora) un tantino "taran- telleggiante" e, quindi, non del tutto suonabile in chiesa. Così, essendo l'armonista ufficiale del collegio, mi ero rifiu- tato di suonarla e cantarla. L'offesa fu, evidentemente, ritenuta "mortale"; mi sentii dire che non capivo di musica (oltre che di matematica…). E fui rimosso dall'incarico di armonista. Non fu, devo dirlo con onestà, una vendetta; c'era un mio amico, tche avrebbe potuto con migliore soddisfazione dei supe- riori, occupare il posto; era bravo, sia a suonare che a scuola; sapete, quei bravi ragazzi da otto in condotta, che non protestano mai, non marinano mai la scuola? Ecco, quello era un santo, nel vero senso della parola: ubbi- diente, scrupoloso, rispettoso, studioso, bravo in qualunque campo operasse (dalla matematica alla musica ). E il merito di Padre Carlo fu quello di individuarne, in anticipo, e nonostante le apparenze, le potenzialità, sia religiose che musicali.

112 Padre Pacifico Zaccaro Pittore e Poeta

Nome di Battesimo Bonifacio, Padre Pacifico Zaccaro nasce il primo gennaio 1919 a Cerchiara di Calabria (CS) da Francesco Zaccaro e Mariannina Ramundo, dove, insieme con i suoi cinque fratelli trascorre l'infanzia e la fanciullezza. Entrato nel 1932 nel seminario serafico di Pietrafitta (Cs), dopo la terza media si tra- sferisce nel convento del SS. Ecce Homo di Mesoraca. Il 4 ottobre 1935, preso il nome di fra Pacifico, inizia l'anno di Noviziato. Al termine del Noviziato (cinque Ottobre 1936), emet- te la Professione temporanea e l'8 dicembre 1940 quella solenne. II 25 luglio 1943, in Tropea, riceve l'Ordinazione Sacerdotale per le mani di Mons. Felice Cribellati. * * * Dotato di una memoria prodigiosa ha potuto dotarsi di una profonda e vasta cultura umanistica e letteraria. Conosceva a memoria una notevole parte della Divina Commedia e gli piace- va, al momento opportuno, citare alcuni versi. Così come di Manzoni conosceva in profondità "I Promessi Sposi"; che hanno rappresentato il suo cavallo di battaglia. Il suo ministero sacer- dotale si è svolto, a parte la parentesi di Tropea, a Cutro.

113 La prima volta vi approda nell'ottobre 1946, come Guardiano del Convento. Sono gli anni dell'immediato dopoguerra; anni dif- ficili per le condizioni penose di vita. Padre Pacifico trascorre quegli anni svolgendo un ruolo non di secondo piano. Quell'esperienza, durata fino al 1951, per Padre Pacifico significò, tra l'altro, la conoscenza e l'incontro di persone, di Cutro, alle quali si sentì legato per tutta la vita. A Tropea dove trovava il tempo e il modo per mettere a frut- to il suo talento artistico, scriveva liriche e dipingeva tramonti suggestivi. Io, però, lo ricordo come suonatore di fisarmonica, strumento che mi è sempre piaciuto, fin da bambino, e che, anche da grande, quando posso, ascolto volentieri. A Tropea insegnava Italiano e storia; ricordo che assegnava quasi sempre gli stessi temi, sicché, io copiavo quelli di mio fra- tello, scritti davvero bene. Di sera gli piaceva intrattenersi con i ragazzi sul terrazzino del convento, a parlarci del Mondo Ellenico in generale o approfittava per recitarci alcune sue liri- che. Non capivo molto di poesia, a quei tempi (in verità nemme- no in seguito) ma quelle sue liriche le ritenevo troppo auliche; erano liriche tecnicamente ben composte, rispettando i canoni della poesia classica, ma non mi piacevano. Nel 1974, poiché l'unica Parrocchia di Cutro si presentava troppo vasta, e poiché il vescovo aveva deciso di affidare ai Frati Minori, custodi del Santuario del SS. Crocifisso, una porzione della succitata Parrocchia, il Provinciale di allora, tenendo anche conto della sua precedente esperienza, individuò in Padre Pacifico il frate che godeva del necessario ascendente e che aves- se le qualità per potersi inserire nell'ambiente e per assolvere il delicato incarico di Parroco. È così che, il 29 maggio 1975, Mons. Giuseppe Agostino erige, canonicamente, la Parrocchia del SS. Crocifisso e P. Pacifico diventa il primo Parroco. Il 5 dicembre 1993 celebra il cinquantesimo anno di Sacerdozio. Trascorre gli ultimi quattro anni della sua esistenza, dedican-

114 dosi, finché ha potuto, allo studio e alla preghiera. Sono stati pub- blicati due volumi di sue poesie. Nel 1998 l'Amministrazione Comunale, guidata dall'Avv. Salvatore Migale, prese l'iniziativa di conferirgli la Cittadinanza onoraria. Sabato 4 dicembre 1999, all'età di ottanta anni, consu- mato dal diabete che lo tormentava da svariati anni, alle quattor- dici e cinquanta, porta a termine la sua giornata terrena.

115 116 Padre Paolo Broccolo Un Garibaldino delle anime

Era nato, Padre Paolo, a Castrolibero (Cosenza) nel 1882, lo stesso anno in cui morì Giuseppe Garibaldi, "l'eroe dei due mondi" come egli stesso ripeteva. Visse, da frate, sempre a Pietrafitta, dove morì nel 1977. * * * Lo ebbi come insegnante, di storia, alla quinta elementare; sem- brava che dettasse le lezioni a memoria, tanto era preciso nelle date e negli episodi. Noi fratini, e allievi, come tutti i bambini, approfittavamo della coincidenza della sua data di nascita con la data di morte di un personaggio storico famoso, per interrompere la lezione. Ed egli, consapevo- le, ma facendo finta di cascarci, si prestava al trucco. Lo sentivamo arrivare nel corridoio, al piano alto del colle- gio di Pietrafitta, con il suo passo lento (aveva, allora, settant'an- ni!) e appena entrato in aula, cominciava a fare recitare la pre- ghiera, che voleva corale. Aveva dei parenti in America, i quali avevano mantenuto i rapporti con lui fino alla fine della sua vita; ricordo che inviava- no in modo sistematico, a lui e al convento, qualche decina di dollari. Quando gli chiedevamo, sempre con il segreto scopo di non fare svolgere la lezione, come mai non fosse andato in America insieme ai suoi fratelli, egli rispondeva sempre: "È stata 117 la volontà di Dio! Voi adesso siete piccirelli ma un giorno capire- te che cosa sia la volontà di Dio". E alcuni, tra quelli più "monelli" (come egli li chiamava) insistevano a sentirsi spiegare cosa fosse quella volontà di Dio. Ed egli, con decisione, dimostrando di avere capito tutto il gioco, diceva: "Piccirè…! Adesso basta: non è cosa vostra!". Ma le nostre domande vertevano tutte, quasi ogni volta, sul fatto se avesse o meno conosciuto Giuseppe Garibaldi; oppu- re, se fosse vero che erano solo mille i garibaldini, o, magari fos- sero stati meno… Le prime volte rispondeva, parlando di Garibaldi, e raccon- tando aneddoti che i libri di storia non scrivevano; poi… si era stancato e di Garibaldi non si parlò più. Pregava sempre; quando non leggeva, o non insegnava; discreto, educato, rispettoso dei superiori, sollevava poche obie- zioni, ed emetteva poche lamentele.. era dedito alla confessio- ne… ci si confessava volentieri con lui.. non perché perdonasse (tutti perdonano, quando ci si pente…) quanto per quel suo spi- rito di bonarietà che, pur facendoti sentire peccatore, ed errante, non ti umiliava come persona. Gli ultimi anni della sua vita nel convento di Pietrafitta non si muoveva quasi più, tanto che celebrava i sacramenti nella sua stanza. Egli è stato un padre francescano che aveva fatto del rigo- re delle regole francescane una sua etica, anche personale; rigo- re in tutto; ordinato e preciso; mai sbavato, mai che andasse fuori dalla calma ufficiale. E una bontà che non era mielosa, ma sostanziale, che pene- trava, cioè senza fare rumore. Un vero garibaldino delle anime.

118 Padre Timoteo Rago Un Instancabile Rigoroso

Nato a Cerchiara (CS) il 25 otto- bre del 1920, entrò nel Seminario Serafico di Pietrafitta a dodici anni. Emise la professione perpe- tua il 26 ottobre 1941; Fu ordina- to sacerdote il 29 giugno del 1941. Terminati gli studi teologi- ci, fu mandato all'istituto "Santa Chiara" di Napoli, per consegui- re il lettorato nelle discipline clas- siche. Ricoprì diversi incarichi (Guardiano e Rettore a Pietrafitta dal 1949 al 1952; Guardiano a Tropea per due trienni; definitore dal 1952 al 1955); insegnante di latino e Greco nel collegio di Tropea, era una persona molto viva, colta, e sempre attiva.Si è spento a Tropea, nell'infermeria del convento "La Sanità", che fu per lui una seconda patria. * * * In quella città, infatti, aveva compiuto gli studi. Fu un Padre e Sacerdote esemplare e laborioso. Esemplare, in quanto obbe- diente agli insegnamenti evangelici e alle regole della comunità francescana; inoltre, era sempre puntuale nell'espletamento degli impegni che gli erano stati, di volta in volta, affidati dai superio- ri. Laborioso, perché era instancabile; fino a quasi ottanta anni ha lavorato e confessato, attivandosi sempre dove e quando c'era da attivarsi. Senza attendere di esserne richiesto.

119 La prima volta che ne sentii parlare fu a Pietrafitta, in occa- sione degli esami di licenza media: sarebbe venuto, come com- missario esterno, in funzione di supervisore, un certo Padre Timoteo Rago, da Tropea, padre e insegnante severissimo. Chi ha studiato avendo l'incubo delle commissioni esterne, composte da professori mai conosciuti, sa cosa significa la paura dell'esterno; dell'ignoto giudizio che si sarebbe riversato sulle preparazioni, spesso sintetiche, furbastre, e "bignaminiche o copiative" dei maturandi o dei diplomandi. E la voce dell'arrivo di Padre Timoteo aveva sollevato timo- ri persino tra coloro che si erano sempre dedicati agli studi, senza mai fare assenze strategiche (per le interrogazioni di matematica o di latino). Eravamo solo nella terza media, ma a quei tempi, in tutta la società civile, e a maggior ragione in quella religiosa, il rigore e la bocciatura erano la regola; specie se si andava male nelle materie considerate fondamentali, ossia Italiano, latino e matematica. Come spesso accade però, come si dice.. tanto rumo- re per Nulla! Quel Frate, che godeva di fama di uomo colto, seve- ro e, qualche volta, punitivo, si era rivelato, almeno per me, solo colto e buono. Certo, la sorpresa per me, fratino di quattordici anni, fu pro- prio quella di scoprire Padre Timoteo, una persona dolcissima, che per mettere a proprio agio gli esaminandi, faceva, addirittu- ra, qualche battuta sulla loro origine geografica ("Ah! Sei di Samo?") o sulla squadra di calcio per quale tifavano. Lo ebbi come professore di Greco a Tropea, dove andai a frequentare, l'anno seguente, il ginnasio. Non rimasi a Tropea molto tempo; ma posso dire di avere ricevuto, sia pure in quel breve lasso di tempo di circa sette mesi, alcuni semi dalla sua per- sonalità, nella quale molti vedevano severità, e che io definirei meglio, e così l'ho sempre definita, Rigorosità. Prima di tutto con sé stesso. Amava camminare a piedi e mal tollerava, come detto, gli oziosi.

120 Frà Benildo Masino Il Sordo che sentiva Dio

Nato a Montevideo in Uruguay, il 25 marzo del 1916, da genito- ri lucani emigrati dal paese di Sarconi (PZ) il suo nome di bat- tesimo era Francesco. Fino all'età di quindici anni, fece l'ap- prendista sarto sotto la guida del fratello maggiore. Tornato in Italia, maturò in lui la vocazione di farsi frate; nel 1932, allora, fu accolto nel Convento francesca- no di Santa Maria in Potenza. Forse nell'inverno del 1932 (non si hanno notizie certe dell'episodio), a causa di un terremoto che colpì la Lucania, Fra' Benildo, insieme ad altri confratelli, fuggi- rono, scalzi, attraverso le terre coperte di neve. Da quel momen- to si rese conto che il suo udito non funzionava più perfettamen- te e ben presto divenne sordo per tutta la vita. È deceduto alle ore venti del 31 dicembre 2003. Fino alle ore diciannove e trenta era stato a pregare nella Cappella; il superiore del convento di Tropea lo aveva trovato riverso sul letto, esanime... * * * I cutresi conoscevano bene il volto di Frate Benildo, un Frate Minore, che, per ben diciotto anni, è stato nel convento della Riforma; era approdato a Cutro nel 1974, insieme con Padre Pacifico Zaccaro. In questi diciannove anni di permanenza, espletò la mansione di cuoco, portinaio e compì altri lavori utili. 121 È stato visto, ogni mattina, partecipare alla Santa Messa. Ogni giorno ha percorso le vie del paese impegnato a fare la spesa e, come dovrebbe fare ogni vero figlio di S. Francesco d'Assisi, sempre sorridente. Fra' Benildo era un semplice fratello laico; il suo esistere quotidiano è stato reso più sacrificato dall'essere privo dell'udito e quindi dall'isolamento più completo. Faceva del suo meglio per mettersi in relazione con le persone e con le cose che lo circon- davano. Spesso toccava il braccio delle persone per richiamarne l'attenzione o addirittura si avvicinava fin sotto gli occhi per farsi notare. Questo suo darsi da fare per provocare una comunicazio- ne veniva spesso fraintesa e vista come invadenza o curiosità eccessiva e, a volte, infastidiva. Fra Benildo, allora, dinanzi alla difficoltà di essere compre- so, per farsi capire, cominciò ad aiutarsi con lo scritto; con sé portava sempre l'agendina per scrivere le domande e far scrivere le risposte. Avvertiva il bisogno di comunicare e quando ciò dive- niva irrealizzabile, per lui, era motivo di enorme sofferenza… Il mio ricordo di lui, nelle pochissime volte che lo avevo incontrato a Pietrafitta, era la sua voce acuta e sottile, spesso gar- rula e gioiosa, sempre tesa a farsi capire, a comunicare la gioia dell'esistenza e della mano protettrice di Dio; e quelle poche volte che lo avevo incontrato, a Pietrafitta, specialmente, mi aveva domandato, facendomi cenno con il braccio e il dito puntato, chi fossi… E non comprendendo la risposta, mi porse un'agendina, nella quale egli aveva scritto.. "Chi sei?"; io gli avevo risposto che ero il fratello di Padre Cesare.. ed egli emise un grido garru- lo, pieno di gioia… francescana… poi.. tentò di dire altro.. ma vista la mia incomprensione.. smise. Non l'ho più rivisto da allo- ra. E ho saputo della sua morte tramite un amico che si è premu- rato di inviarmi degli estratti di giornali, in cui si parlava di lui.

122 Zabatti Adolfo "Il Muto"e i suoi fuochi artificiali

La nostra vita è, in fin dei conti, vita, in movimento e sempre incompleta, com- posta di tanti episodi acca- duti chissà quando, spesso confinati nei magazzini della mente, là dove nessuno va, nemmeno noi, perché abbia- mo paura di trovarvi bran- delli di sogni o deturpazioni delle nostre aspirazioni e delle nostre trasparenze. I nostri sorrisi sono le sofferenze altrui o le altrui allegrie; le nostre ansie sono le paure di tantissimi anni fa, quando nessuno ci protegge- va o ci credeva; perché, que- sto il vero guaio, spesso, i Adolfo Zabatti bambini non vengono creduti; e, prima ancora, non vengono ascoltati; si dà loro retta solo quando le ansie e le paure hanno assunto la forma della normalità. Le storie di alcune persone non vengono, in genere, raccon- tate perché sono considerate fatti minori, e non fanno storia. Ma la vita segue percorsi diversi dalla linearità della nostra mente, e le persone si sedimentano in noi, nelle nostre memorie, in modo quasi inavvertito. 123 Io vi parlo, adesso, di un uomo che andava sempre di corsa, come fosse in fuga, e questa immagine attraversa i vicoli della mente, anche quando essa é occupata; basta un segno qualunque; un uomo con i capelli ricci e neri, appena gobbo, con lo sguardo mite e in attesa di una carezza. La sua storia fa comprendere come avvenga, nella società, o nelle nostre coscienze, intrise di egoismi, la nascita "artificio- sa" di tanti falsi mostri. Un Trovatello e uno specialista dei Fuochi Artificiali.. Mimati Zabatti era un trovatello, sordomuto, e si chiamava Adolfo. Nato a Taverna, il paese del pittore Mattia Preti, era stato raccol- to, vagabondo e abbandonato dai genitori, dai frati francescani, i quali pensarono di "adottarlo", facendolo vivere nel collegio. Non era un frate, certo, ma la sua collocazione in questa galleria di ricordi ha un senso perchè ha vissuto quasi quarant'anni a Pietrafitta, insieme ai Frati. Quand'ero fratino, ricordo che molti di noi ragazzi, intrave- dendo quell'uomo, curvo, che non parlava, e che alla vista di per- sone sconosciute che lo guardavano incuriosite scappava... lo credemmo, i primi tempi, quasi come uno dei tanti mostri, o delle tante paurose figure dei racconti serali. Lo ritenevamo un essere strano, nato chissà da chi, magari un emissario del diavolo... un essere da evitare...Non ce lo face- vano incontrare perché i superiori avrebbero voluto prevenire scene di scherno da parte dei ragazzi, i quali, per quanto comu- nemente definiti innocenti, sono terribili nel portare ferite in animi deboli e fragili. Nessuno ci aveva informati che si trattava di un essere umano, normale, che era stato "raccolto" e "accolto", che era orfano, che era muto; la mancanza di informazioni aveva creato, in tanti fratini, l'idea che si trattasse di una specie di mostro, di un folletto che scappa.. "alla vista degli esseri umani".

124 Forse, l'avessimo saputo.. chissà... Del lavoro che svolgeva io venni a conoscenza solo molti anni dopo dalla mia uscita dal collegio; i fratini non potevano accedere alla cucina. Il suo compito, quasi la sua specializzazione, era sempre stata quella di lavare e pulire le pentole, lavori di pulizia nella cucina; insomma, pelare le patate, nettare i piselli, e fave ecc.. E svolgeva tutto con precisione. Quando il cuoco o qualche altro fadre gli si avvicinava, egli, con quegli occhi lucidi della bontà, sembrava domandare un cenno di consenso sulla sua opera, come se avesse voluto dire: "Vado bene, sto lavorando bene?". Qualcuno, giusto per scherzarci, considerandolo un suo compagno di gioco e di affetti, gli diceva che non aveva lavorato bene, o che, magari, le patate non erano state mondate bene, egli si arrabbiava, ribellandosi, e, a riprova della sua capacità, mostra- va tutte le patate nettate, o tutte le pentole lavate e asciugate, ed emetteva un mugugno di lamento. Al che, si ritrovava abbracciato per la tenerezza che provo- cava. Egli, contento di quel consenso, e di quella carezza che lo "certificava", riprendeva a lavorare, aumentando la velocità del lavoro. Era uno specialista dei fuochi artificiali simbolici; tutti si divertivano a fargli imitare qualcosa; ma, soprattutto, i fuochi artificiali. Si preparava, si toglieva il grembiule e cominciava la sua sceneggiata: con le mani che si muovevano, la gamba che andava indietro, quasi a fare forza, le braccia che mimavano una girandola che andava verso l'alto, verso il cielo...finiva la sua esi- bizione con il botto... finale! L'aspetto più divertente, e tenero, della rappresentazione mimata dei fuochi artificiali consisteva nella paura sua; ossia, mentre imitava i fuochi artificiali, si pie- gava ancora di più, coprendosi il volto con il braccio, per difen- dersi dal pericolo di scintille! Aspettava sempre gli applausi o i plausi dei presenti; se non arrivavano, ci rimaneva male... Felice e contento di quella rap-

125 presentazione se ne tornava nella sua cameretta ordinata e pulita. Quasi trent'anni dopo che avevo lasciato il collegio, lo incontrai, spesso, nelle mie permanenze, estive o invernali, a Pietrafitta; scherzavamo con lui, in cucina, o appena fuori dalla cucina. Quando qualcuno gli dava un bicchierino di liquore o un dolce, un cioccolatino o una caramella, era felice; felice di avere ricevuto un gesto di amore; era una felicità che gli apriva gli occhi e il sorriso, diventando energia vitale, per lui, e occasione di umiltà per gli altri. Anche se veniva invitato da qualche Frate, non si muoveva prima di avere finito i suoi lavori; le pentole dovevano essere state lavate tutte e se avesse dovuto nettare fagiolina o altro, prima il lavoro e dopo il piacere. La Domenica, puntuale, si presentava alla Messa vestito a nuovo, con la giacca grigio scura, la camicia bianca, con il mes- salino delle preghiere, che seguiva con attenzione. E mai mancava all'appuntamento della Comunione, dopo l'assunzione della quale si inginocchiava e stava lì, concentrato e assorto, quasi. La sua Devozione e la sua attenzione erano dav- vero esempio di Fede. Poi, finita la messa, se ne tornava nella sua cameretta, linda ed ordinata, rivestiva i panni del lavoratore (del patataio…) e scendeva in cucina. Metodico e preciso nel suo lavoro, non aveva quasi mai soste; ogni tanto lo si sentiva grida- re; era il segnale che qualcosa non gli era andata bene, o una pata- ta che non era stata sbucciata bene, o una pentola che non gli risultava pulita, nonostante il suo impegno. Zabatti e mio figlio Cesare Un anno portai con me, a Pietrafitta, anche mio figlio Cesare; aveva sei o sette anni; volevo fargli trascorrere una vacanza diversa, con tanto spazio per giocare; mostrargli come ci si diverte in alcuni paesi, dove non esistono luoghi di divertimento e bisogna inventarsi tutto,anche l'infanzia. Era stato un mio desiderio, comunque, che venisse con me a

126 trovare lo Zio che portava il suo stesso nome, e vedesse, anche, i luoghi dove io sono nato e cresciuto. A Pietrafitta abbondava lo spazio: il giardino, con la vasca dove nuotavano alcuni pesci rossi; il piazzale dove giocare a pal- lone; gli alberi su cui arrampicarsi, il magazzino dove erano acca- statate sedie e tavolini; avrebbe potuto, come in effetti fece, sbiz- zarrirsi e correre come mai aveva fatto. Stava tutto il tempo fuori; a Reggio Emilia, invece, abitava-

Pietrafitta, da sin. Adolfo Zabatti, Cesare figlio e Padre Cesare. mo in un piccolo appartamento del centro storico, di fronte al liceo classico Ariosto; lo spazio per giocare era rappresentato da una cameretta, con le pareti di perlinato, dove Cesare studiava e giocava (spesso contemporaneamente), tentando di comporre interminabili costruzioni con i Lego. Allora, come cuoca, c'era una signora, giovane, con un figlio della stessa età di mio figlio, abituato alla vita di paese, che gli insegnava come catturare le lucertole e prendere le lumache. Per mio figlio tutto era scoperta; spesso, non comprendendo

127 il dialetto calabrese, veniva a farsi tradurre alcuni vocaboli. Cesare aveva conosciuto Zabatti, con il quale aveva giocato e sui cui ginocchi si era seduto per farsi fotografare; e quando gli dissi della sua morte, aveva prodotto quel suo tipico sguardo di composto dispiacere che spesso lo raffigura. Quando lo aveva visto, la prima volta, mi aveva domandato cosa facesse, cioè che lavoro svolgesse; gli raccontai allora la sto- ria, come io venni ad impararla, negli anni. Lo avevo preventivamente informato della bontà e dolcezza di quell'uomo e gli avevo fatto cenno dell'attenzione che bisogna portare verso taluni esseri umani, i quali hanno solo la sfortuna di non parlare come noi; e che la società, nei suoi continui tentativi di creare mostri, rifiutava e rifiuta per liberarsene. Cesare, allora, con la sensibilità che lo ha sempre contraddi- stinto, e senza alcun bisogno di farsi ripetere nulla, gli stava vici- no, meravigliato ed incuriosito; gli stava vicino, guardandolo e quasi volendolo proteggere, con quella sua straordinaria delica- tezza che ha sempre nei confronti delle persone deboli, quasi avesse, nell'anima, un motore di bontà e fosse il paladino delle missioni della tenerezza. Zabatti è morto a Pietrafitta, dov'era sempre vissuto. E dove adesso riposa.

128 PARTE TERZA Altre Storie

129 130 Tutta Colpa del Dante L'avventura di un povero francescano

La giornata era iniziata come tante altre giornate; e anche il frate, persona metodica e meditativa, si era svegliato bene, invian- do uno sbadiglio verso il cielo azzurro, mentre apriva le finestre. - Cambiare aria - ripeteva, con un incedere linguistico ten- denzialmente satirico, può sembrare una fisima, ma preferisco darmi delle arie ogni mattina -. Dopo aver ripulito la sua persona delle incrostazioni e depo- sitato gli aliti notturni, aveva celebrato messa e recitato le pre- ghiere mattutine; infine, una bella tazza d'orzo misto a polvere di caffè. Non era carattere irruento, e non amava le voci stridule, il vociare stimpanante, il chiacchiericcio da mercato, egli, abituato a parlare, a bassa voce, persino con se stesso, verso il quale nutri- va un profondo rispetto. Verso le dieci di quella mattina, iniziata, appunto, bene, dopo che si era ben vestito e riavviati gli ultimi capelli sugli spazi antistanti le pareti della testa, aveva consentito all'autovettura, una Fiat Uno di colore blu azzurro "Lorica", di accoglierlo sui suoi sedili; e lui, sempre attento e delicato nel muovere le parti del corpo che non cadevano sotto i suoi occhi, sedette sul sedile, stringendo il volante. Conosceva bene quelle strade della provincia di Reggio Calabria; erano quelle della sua terra, della sua infanzia; vi era tornato, spesso, per trovare i suoi; amava quella terra brulla che tanta miseria rappresentava; amava quegli alberi che sembravano incurvati dalla povertà dei frutti. Non poteva dire che stesse com- ponendo una poesia, o scrivendo uno dei suoi racconti interiori, ma, certo, non avrebbe mai pensato a qualcosa di brutto. Ed invece… “Documenti, Prego!” Vide, appena, un signore 131 che si sbracciava, con una paletta; indossava una divisa che, quando fu vicino, individuò come quella della Guardia di Finanza. “Prego, documenti!” ripetè quel sott’ufficiale con l'aria indagatrice che cercava di spiare all'interno dell'autovettura, alla alla ricerca, forse, di persone sequestrate o di merce rubata. Il frate, che impiegava sempre un pochino prima di ritrovar- si sulla terra dei paradossi e delle assurdità umane, senza comu- nicare la sua appartenenza all'Ordine dei Francescani della Calabria, mostrò i documenti: patente, libretto di circolazione, tutti tenuti bene, ciascuno al proprio posto, contenuti in apposite e distinte custodie. Il graduato, con la voce sempre più interrogativa e l'aria anti- sommossa, gli ordinò di aprire il baule; il frate, con passo appe- na appena accennato, si portò sul dietro dell'auto, pusciò il puslante e sollevò il baule. Apriti cielo! Vi erano, all'interno, dei sacchi, contenenti indumenti e gio- chi, destinati ad una pesca di beneficenza, che il frate aveva orga- nizzato nella sua parrocchia; indumenti e giochi che non avreb- bero voluto neanche alla Croce Rossa; merce, insomma, che tutti avrebbero giudicata come destinata ai conventi o alle parrocchie; merce che alcuni benefattori avevano magari comprata nei saldi di fine stagione e che non avevano avuto il coraggio di indossa- re. Quando si dice del bene che si fa in beneficenza! Tutti l'avrebbero giudicata inindossabile, destinata ai terremotati; tutti, meno quel finanziere, il quale fu raggiunto dall'altro collega, armato di mitra, puntato contro il Frate, il quale, a diretto contat- to con il Padreterno, con il quale aveva un dialogo silenzioso (a causa del fastidio che gli procurava il vociare stridulo), tentò di giustificare la provenienza della merce. -Vedete…signori..si tratta di mercanzia destinata ad una lot- teria (amava le rime, alternate, però, in prevalenza a quelle bacia- te); mi sono state donate, come obolo, da un benefattore; potete chiamare il Dante…s i chiama… potrà confermare… sapete… io

132 non sapevo che… bisognasse… come dire… pagarci le tasse - (era naturale per lui, parlare con la rima; anche a tavola, spesso, giocava con la provola). Il sott'ufficiale, con quella serietà che bisogna usare soprat- tutto con le persone oneste e con la povera gente, le quali devo- no sentire l'autorità dello Stato, quasi intimorito dal linguaggio pieno di puntini sospensivi, che dovevano essergli sembrati dei vuoti di certezza nei quali il potenziale criminale aveva nascosto la merce, riprese il comando della situazione: - Telefono io al signor Dante… per chiedergli spiegazioni dell'origine della Merce e come mai non sia stato assolto l'obbli- go fiscale…-. Il frate, che sapeva parlare, che amava il latino e il greco (oltre alla frutta di stagione), che si dilettava di racconti e di diti- rambi, di settenari e di novenari, tentò di suggerire a quel sott'uf- ficiale della Guardia di Finanza che con l'espressione il Dante aveva voluto alludere al donatore, al benefattore, al proprietario della merce; ma il graduato fu inflessibile (quando si dice della serietà, severità e rigorosità degli organi dello Stato; altro che corruzione!); al frate non riuscì di spiegarsi, in quanto si sentiva ormai assediato. Nel mentre avvenivano quelle operazioni di controllo, altri automezzi, carichi di merce, passavano per la strada; carichi di frutta, di legname, di latticini (magari andati a male, chissà), di autovetture usate (magari rubate, chissà…). Quando, però, c'è l'autorità dello Stato, che passino pure i carichi; non si tratta di una partita a briscola. Il Frate, che, come ho detto, soleva parlare a voce bassa, non seppe farsi sentire (ah! Quelle belle voci da tenore, da predicatore viandante) da quei due militari, i quali continuarono nella loro attività di assogettamen- to, dei contravventori, alla Forza dello Stato; e si era quasi rasse- gnato a vedersi elevato uno di quei verbali che costituiscono il piacere degli esperti tributari. Non aveva perso il senso della rima, anche se, in quei momenti, altri erano i sentimenti.

133 - Scusate, Signori, ho commesso degli errori? Tutta questa mercanzia… ora…devo darla Via? Queste scarpe e questi orpel- li…vanno tutti… ai poverelli!- - Non faccia lo spiritoso, Lei, con queste canzoni di Jovanotti! Si prepari, invece, ad una bella multa di Tre Milioni! -. Il cielo era ancora azzurro, e la campagna, ai lati della sua auto, era sempre brulla. Nella sua memoria circolante, si presen- tarono alcuni ricordi della sua infanzia, quando i carabinieri del paese, piuttosto che perseguire i veri criminali, elevavano con- travvenzioni ai contadini che sporcavano le strade attraverso i loro somari, o che trasportavano, sulle Moto Piaggio, troppi pomodori. Improvvisamente, quasi venissero dalla memoria, si fermarono due agenti della Polizia, in perlustrazione nella zona. - Buon Giorno, Padre! Cosa fa qui? - - Sono qui con questi signori. Spiegavo che… Il Dante… ma fa niente. E voi… tutto bene? - - Si, grazie, padre! Appena posso, devo venirla a trovare con mia moglie, che vuole tanto parlarle; magari, anche stasera. Ha bisogno di qualcosa? Ci vediamo alla Pesca di Beneficenza, allo- ra! Porterò anch'io, qualcosa che mi hanno dato alcuni amici! Arrivederci, Padre e… Sia Lodato Gesù Cristo -. - Sempre Sia Lodato. Sempre -(l'ultima parola, "sempre", la disse a bassissima voce, come sempre gli capitava nei momenti di sconforto). A quel punto, i due finanzieri, con la dignità che sempre dimostrano, in simili occasioni, gli organi dello Stato, felici che il frate non fosse un criminale o un affiliato alla criminalità orga- nizzata, e che, al contrario, era amico della Polizia, oltre che un Padre Francescano, salutarono il Frate dei Poverelli e si allonta- narono. Il Frate, in un ultimo sussulto di spiegazione (metodico com'era, non lasciava una parola fuori posto; gli era rimasta in bocca…), aveva detto: -Sono stato titubante…per spiegare che… il Dante… era un vecchio colonnello… così pio… poverello!

134 Pio, Pio! Dio mio! -. E pensò, senza ovviamente farsene accorge- re: “La Provvidenza sempre ci sovviene.. quanto ti aspetti che ti mettano in catene”. Ma quei due finanzieri, che lo avevano scam- biato per un pregiudicato (proprio lui che aveva la testa, e la fac- cia, di un patrizio romano), non avevano potuto sentire. Di tutta la vicenda, egli non aveva apprezzato, tuttavia, il fatto che i due finanzieri avessero scambiato i suoi versi e le sue rime, per canzoni di Jovanotti. Per il resto, tante lodi a Dio. E a anche a Padre Pio.

135 136 Il lupo di Gubbio

Avevamo deciso, un gruppo di amici, di visitare un poco d'Umbria; non solo Assisi, cioè, ma anche Perugia, Spoleto, Foligno, Terni e qualche altro paesino poco rinomato. Eravamo in tutto cinque, quattro donne ed io, in rappresen- tanza del genere maschile; non c'erano posti per dormire o allog- giare, negli alberghi; come prevedibile, d'altronde: era il periodo Pasquale, con un tempo primaverile che invogliava a muoversi da casa e viaggiare. Alle prime risposte negative, "tutto occupato", non ci erava- mo preoccupati; eravamo giovani e in cinque; le donne facevano per dieci, in fatto di energia. Con l'avanzare della sera, però, cominciammo a chiederci dove avremmo potuto sostare, anche per poco; giusto il tempo per assestarsi, cambiarsi, e rinfrescarsi; le donne, soprattutto, per ragioni intuibili ma svelate ( la presenza di un maschio non le intimoriva o tratteneva più di tanto) avvertivano la necessità di ripararsi, per liberarsi di ogni peso, interno ed esterno. Dopo avere suonato ad alcune pensioni, modeste, e bussato a tante case private, ( la sinergia tra pubblico e privato a Perugia funzionava benissimo già a quei tempi), ci arrendemmo; si era fatta sera tardi, quasi le ventidue; s'era stanchi e avevamo biso- gno anche di mangiare qualcosa; le donne, a dire il vero, non pen- savano tanto al cibo; le donne hanno esigenze più funzionali e meno di stomaco.. Il cibo è una fissazione dei maschi in genere. Ormai sulla strada dello scoramento (ma su cinque eravamo in quattro, muni- ti di fede; sicché si sperava che qualcosa accadesse) , bussammo da una signora, a Foligno, addirittura, dove ci aveva indirizzati il titolare di una pensione; lì, forse, avremmo trovato. La signora ci fece entrare; guardò prima le donne; avevano, 137 stando alla sua espressione del dopo indagine, tutte quante visi rassicuranti, da brave ragazze; ma.. niente comunelle! Io non avrei potuto dormire insieme a loro; e nemmeno insieme alla mia fidanzata (che poi sarebbe diventata moglie); queste cose, a casa sua, non si facevano! Prendere o lasciare! Tentai di convincere la signora che io avevo sempre rispettato la mia fidanzata, con la quale non avevo, peraltro, ancora avuto alcun contatto ravvicinato, e che, quindi, non l'avrei turbata pro- prio in terra Francescana, e alla presenza di altre quattro donne! Capivo la sua preoccupazione, ma un poco di rispetto anche per me! Non avevo certo la faccia di un maniaco! Per ammorbidir- la, avevo cercato di coinvolgerla in una specie di solidarietà fidanzatesca, facendole rammentare che, sì, anche lei, magari, ai suoi tempi, si sa , da giovani si vuole stare sempre con l'anima pre-gemellare. Ma la signora era stata irremovibile, come si dice: - Sono tutti bravi ragazzi prima di diventare delinquenti. Io non voglio queste cose a casa mia, non l'ho mai permesso, e non lo permetto. Con mio marito, per esempio, ci siamo dati il primo bacio dopo due anni di matrimonio! Mio marito non sapeva nem- meno di che colore fosse la mia pelle; l'ha scoperto molto tempo dopo; anche perché io non mi sono mai mostrata come Dio ci ha fatti. Pensi lei che quel pover'uomo è stato capace di non starmi vicino quando ho avuto una forma di depressione, per evitare che io mi arrabbiassi o diventassi agitata. Un Santo, fu. Sì, un Santo! - La signora sembrava rivolgersi solo a me, nel suo eloquio; quasi che io fossi il diavolo tentatore di quelle povere quattro fan- ciulle che non erano certo cattive ragazze, ma non erano nemme- no delle suore di clausura. Di tanto intanto cercavo di confutare alcuni concetti che mi parevano un attacco al mio essere maschio; ma la signora non me ne dava il tempo, ormai si era fatta una idea di me, non scalfibi- le e non mutabile. Le avevo anche detto, nella speranza di indur-

138 la ad una diversa opinione di me, di avere un fratello Francescano, di essere anche io francescano (ovviamente solo di spirito), di fare la comunione spesso, e di confessarmi, pure (anche, se, le avevo detto, per confessarsi bisogna avere commesso dei pecca- ti. E non mi pareva di averne commessi, quanto meno negli ulti- mi giorni. Certo, non avevo commesso atti impuri!). Ma lei era andata avanti sulla strada delle sue convinzioni. - Lei, proprio lei, con questo sguardo da occhietto pericolo- so, tutto allegretto, che ci ha un sorriso birichino, non può dormi- re con la sua fidanzata. Se volete è così, altrimenti cercate un altro posto-. Davanti a quella sua imperturbabilità e rocciosità, non potem- mo che accettare; d'altro canto, non era nelle mie intenzioni dor- mire con la fidanzata o, peggio ancora, con le altre. La mia appar- tenenza al genere maschile era del tutto casuale, in quella compa- gnia; io, in verità, mi sentivo tutto spirito, avendo abbandonato le mie ceneri maschili in qualche urna, custodita forse dentro il comodino o in uno dei tanti armadi, insieme ai cappotti, che si sfoggiano d'inverno, o nelle occasioni importanti, nelle altre usando dei capi sportivi. Le donne furono, allora, sistemate in una camera vicino alla quella della signora, così sarebbero state sia lontane da me (ten- tazione massima, secondo lei), sia più vicine ai servizi igienici , evitando, quindi, di essere intercettate da quello sguardo birichi- no che la signora vedeva in me. Io, invece, dormii nella sala pranzo, vicino al televisore, che avrei potuto vedere, se non avessi avuto sonno. La porta di mezzo, di accesso al reparto femminile, fu accuratamente chiusa con la chiave, che venne trattenuta dalla sorvegliante. Eravamo davvero stanchi. Io mi addormentai subito; ma così era successo anche per le altre, come mi raccontarono al mattino, quando avemmo la fortu- na di rincontrarci, al momento della colazione, sempre presente la signora. Erano già vestite, per fortuna; pensate se avesse dovu-

139 to vederle in vestaglia o, addirittura, in pigiama! La signora mi guardava con sguardo soddisfatto, come a dire: - Vede? Le è andata male. La virtù è salva!-. Ma io, avendo intuito il significato del suo sguardo, non stet- ti zitto e le dissi: - Ha visto signora che sono sane e salve? Non so se sono.. come dire… contente. Ma sono sane e anche… salve -. - Non faccia lo spiritoso, lei. Il mondo non è così tutto rose e fiori come lei lo vuole rappresentare; il male si può nascondere anche nel fiore più bello. Comunque, importante che vi siate riposate e che abbiate dormito bene -. E noi, tutti in coro, rispondemmo di sì. E lei fu contenta di quell'unanimità di vedute. Dopo la colazione, salutammo la signora, e ci avviammo ancora verso Assisi, a visitare il luogo dove san Francesco anda- va a pregare, al romitorio, cioé. Presa la strada per Assisi, vi giungemmo con una relativa facilità. Potreste meravigliarvi di questa affermazione, ma non pensate che sia sempre facile giun- gere nei luoghi più conosciuti. In fatto di segnaletica e di aiuto direzionale, tutte le città (almeno quelle italiane) si somigliano, e tutti gli amministratori, locali e nazionali, dovrebbero essere sot- toposti a bagni freddi. Siccome non penso che, senza una spiegazione aggiuntiva, possiate comprendere subito il problema, vi faccio un esempio; seguitemi bene e capirete. Arrivando dall'Emilia, e prendendo, in Toscana, la strada per l'Umbria, leggevamo, con una certa frequenza, cartelli indicanti la città di Gubbio, città che tutti abbinano al Lupo, e pochi alle ceramiche (forse perché le ceramiche non ci sono). Orbene, dopo aver percorso, con l'auto, molti chilometri, magari snervati dalla stanchezza (fisica), intravedemmo una targa che ci indicava "Gubbio a destra", insieme ad Assisi, Foligno, e altri paesi. E noi, infatti, svoltammo a destra. Fra incertezze e suggeri-

140 menti degli amici (quando si dice degli affetti stradali), stavamo per giungere a destinazione: una targa ci avvisava che Gubbio era distante solo 5 chilometri! Fino a quel punto la segnaletica era stata persino ossessiva; pensate che Gubbio veniva segnalata in continuazione! Ecco, i cinque chilometri erano stati percorsi, ma di Gubbio, quando eravamo già a Gubbio ( senza però saperlo), nemmeno l'ombra: né vi erano segnali che ci segnalassero che ci trovavamo già a Gubbio. Il dubbio, a Gubbio, fu forte: Imboccare a destra, lungo il vialone alberato, o diritto fino in fondo?. - Bisognerebbe chiedere a quel benzinaio -, aveva detto Paola; ma, avevamo appena fatto benzina, e poi non volevamo disturbare il benzinaio che magari aveva fatto il pieno (di notizie) a chissà quante persone. Per sdrammatizzare il nervosismo che si stava infiltrando in qualcuna, dissi che avevo il sospetto che i distributori di benzina fossero stati collocati in maniera strategica, per supporto alle carenze della Pubblica Amministrazione. Forti del coraggio, chiedemmo ad un giornalaio, il quale ci rispose di tirare dritto fino al secondo semaforo, poi girare a sini- sta, attraversare tutto l'abitato, imboccare la superstrada, fino alla chiesa. Noi seguimmo attentamente le istruzioni; dopo qualche con- sultazione, e dopo vari giri, ci ritrovammo sempre allo stesso punto; finché riuscimmo a parcheggiare. Gubbio era stata raggiunta già da mezz'ora! Lo apprendem- mo da un cartello indicatore che segnalava il Divieto di parcheg- gio in quella piazza. Il cartello, cioè, era di proprietà del Comune di Gubbio. Il problema del parcheggio fu un altro problema che dovem- mo affrontare e risolvere, successivamente; ma, per l'intanto, avevamo risolto quello relativo al dubbio se fossimo arrivati a Gubbio o no. A quel punto mi domandai, e domandai alle mie

141 compagne di viaggio, se gli amministratori, comunali o statali, di qualsiasi zona d'Italia, fossero stati e fossero ancora scelti, in pra- tica, da noi, sia pure con delega ai sindaci o ai presidenti delle giunte provinciali e regionali; tutti, dissi, tutti, se ne infischiano della segnaletica, badando, forse alla grande politica. Tutti, dico tutti, sono carenti in fatto di informazione strada- le. Dobbiamo, quindi, svoltare a destra ed a sinistra, in modo sba- gliato, per avere ciò che ci spetta di diritto? Ossia, arrivare a destinazione? Le ragazze si misero a ridere, dicendomi che ero il solito scemo. Ma almeno si erano rasserenate.

142 Arrivano i Mostri

Quando, tanti anni addietro, si sentiva parlare del Cottolengo, ci si figurava esseri "mostruosi" o "partico-lari"; si raccontava di persone con due teste, o con tre piedi, che strisciavano per terra; magari con la coda o con la faccia che faceva paura. Insomma, l'immaginario collettivo (che è poi la somma delle coscienze indi- viduali, lasciate a dormire) rimuoveva l'idea di esseri, normali ma fisicamente sfortunati, preferendo affidarsi all'immaginazione, più tranquillante, di "mostri". Il Cottolengo più famoso era quello di Torino, creato da un sacerdote (che cosa abbia fatto la società civile me lo chiedo spesso), al fine di evitare un "Lapidario" sociale. Esiste, tuttavia, un altro istituto, conosciuto come Piccolo Cottolengo (in verità si chiama Casa della Piccola Provvidenza), situato a Varese. Padre Cesare andò, un'estate, a trovare mia madre, che allora viveva, appunto, a Varese, e volendosi, anche, liberare della sua curiosità umana e civile che gli trasmetteva, come a tanti altri, immagini deformate e "mostruose", si recò a dir messa in quell'istituto. Non trovò molti ospiti perché era estate; celebrò la messa e al termine si intrattenne, per qualche minuto, a chiacchierare con la Suora che lo aveva assistito. Dopo qualche vergogna iniziale, ebbe il coraggio di chiede- re alla Suora Madre Superiora se mai vi fossero stati, nella vita dell'istituto, ragazzi un po', come dire, "Speciali"…. Non gli veniva la parola.. quella che aveva sentita pronunciare nei rac- conti popolari.. fu la Suora che lo tolse dal guado di quella umana debolezza, anticipandolo: - dei mostri, vuole dire?- -beh, si, così si dice- rispose, rosso in viso, Padre Cesare. 143 La suora sorrise; e raccontò di aver "servito", per molto tempo, anche nel Cottolengo di Torino, dove venivano ospitati ragazzi rifiutati dalle famiglie (e dalla società perbenista); legger- mente ritardati, ma, soprattutto, carichi di solitudine e di malin- conia, e tutti in cerca di una carezza. - Adesso sono tutti fuori, in montagna, per tre giorni; ma le assicuro, Padre, che in tantissimi anni, solo due casi "particola- ri"; ma non mostri, tipo cavalli o lupi o animali vari; queste immagini, no, esistono solo nella fantasia collettiva. Erano casi di ragazzi con sei dita, magari, ma mai con due teste, quasi fos- sero figure di un inferno delle disgrazie fisiche -. - Mi scusi Madre, se le ho rivolto questa domanda e scusi anche questa mia fragilità; io vivo in Calabria, in un piccolo paese. Ma farò tesoro di questa sua risposta e, soprattutto del suo contenuto.- Mio fratello, quando tornò in Calabria, mi scrisse una carto- lina, che ancora conservo, nella quale diceva, a sé stesso ed a me: “I mostri sono chiusi e custoditi nel nostro egoismo e nella nostra aridità. I mostri siamo noi, sempre pronti ad emarginare, ad abban- donare, ad abbuffarci di superfluità, a rimuovere le ombre della nostra memoria storica”. Ecco, penso ai mostri quando ci adattiamo, senza contrastar- li, ai giudizi severi contro i nuovi poveri, i nuovi immigrati, gri- dando all'untore per certi loro comportamenti così poco civili perché poco occidentali; senza muoverci, tuttavia, dalla nostra comodità "Gastro-Tessile" Liberista!

144 Dei Conventi Interiori

“Ah, che pace! Beato te! Come vorrei anch'io! Chissà che cosa darei per qualche giorno di vera pace!”. Così mi dicevano, qualche anno addietro, alcuni miei amici o semplici compagni di viaggio, quando apprendevano che io trascorrevo le mie vacanze in Convento, da e con mio fratello. In particolare, erano donne, ma di tanto in tanto anche qualche espressione del genere maschile. -Andateci- rispondevo io - non vi farà male. Basta che voi sappiate come passare il tempo e siate davvero intenzionati a ritemprarvi lo spirito. Se cosi non è, è inutile andarci-. Naturalmente, per come va il mondo, e per come avevo potuto constatare in simili circostanze, nel passato, sapevo bene che quelle persone, per motivi diversi, essendo di sesso diverso, non avrebbero fatto per diversi anni, molto di diverso dagli anni andati; e avrebbero espresso, in diverse occasioni, con persone sempre diverse (giacché se lo avessero fatto con le stesse, queste si sarebbero, come dire.. stancate), quel desiderio di rimanere qualche giorno in un convento, nel silenzio e nella pace! Ah, che pace! E che desiderio di diversità! E' stato cosi, dav- vero? Sì, è stato cosi. Nessuna di quelle persona è mai entrata in un convento o in un monastero, nemmeno per visitarli, lasciando- si quegli alibi di nostalgia che servono ad alimentare i sospiri, quando le insoddisfazioni sono generiche, non qualificate. Seppi, infatti, me lo dissero proprio loro, in seguito, sì, quel- le medesime persone, che continuarono a trascorrere: le vacanze al mare, magari nei posti più promozionati dalle grandi agenzie di viaggio, dove milioni di persone andavano, e dove, specie all'estero, si incontravano amici e conoscenti che non si vedeva- no da anni (quando si dice che il mondo è piccolo!). 145 Trascorrevano le serate, d'inverno e d'estate, nei bar o ai ristoranti; alla ricerca di un modo di vivere il tempo da vivere. Ah, che pace! E che desiderio di diversità! Un giorno, era pomeriggio presto e c'era molto caldo, due donne, di pari età, forse, avendo sentito del mio prossimo "ritiro estivo in convento", mi espressero, con intensità affascinante, il loro antico, e mai potuto esaudire, desiderio di vivere qualche giorno in un convento, lontano dai rumori, nella pace e nel silen- zio. Ah, che silenzio! E che pace! Una delle due, inoltre, che aveva la bontà dipinta sul viso, e avrebbe potuto tranquillamente vestire l'abito da suora camillia- na, volle sapere come si viveva, come si passava la giornata, in convento!. -Me lo sono sempre domandato; non ho idea, davve- ro. So che mi piacerebbe provare, qualche volta, ma cosa fai quando vai lì?-. - Bisogna voler vivere in convento- risposi; - Bisogna voler respirare la spiritualità che un convento emana; bisogna voler vedere la diversa dimensione dei fatti del- l'esistenza; bisogna voler vedere il mondo con gli occhi dello spirito. - Perché, mia cara (sì, lo capirebbe chiunque, si trattava veramente di una cara, carissima e bravissima donna. Ah! Le donne carissime!) è inutile andare nei monasteri o nei conventi se dentro di noi non sappiamo creare la pace-. - Prima ancora di recarci nei conventi, dobbiamo avere, den- tro noi, l'architettura e lo spirito dei conventi: dobbiamo avere, ad esempio, un porticato lungo il quale fare camminare i nostri egoi- smi; un chiostro nel quale meditare; un pozzo, dal quale attinge- re acqua per la nostra sete di divinità; una cappella dove pregare, o dove cercare il concetto della trascendenza, della non terrestri- tà-. La ragazza (era già donna da tempo, ma aveva un che di adolescente, negli occhi e nella nudità del suo sorriso) mi ascol- tava con attenzione; si capiva che capiva quel che le stavo dicen-

146 do, ma sembrava, a momenti, assorta, quasi in atteggiamento ascetico, come se si fosse portata tra le mura di un qualsiasi con- vento. Io, allora, proseguii: - Insomma, dobbiamo avere dentro di noi gli strumenti della nostra stessa salvezza; e con questi stru- menti, coltivare i terreni che abbiamo lasciato incolti per anni: i terreni dell'altruismo, della condivisione (delle nostre gioie e degli altrui dolori, delle nostre speranze e delle altrui disgrazie); i terreni della bontà e della tenerezza, i terreni sui quali non abbiamo tracciato solchi dove scorressero le acque della verità delle cose - . - Quindi, conclusi, qualche giorno in convento ti può fare solo bene; ma se non entri in un qualsiasi luogo con il tuo con- vento interiore, nessuna pace ti verrà dentro; e sentirai egualmen- te i rumori del mondo; vedrai egualmente le inutilità della socie- tà; sarai raggiunta anche lì, tra le mura riparatrici dal caldo o dal freddo stagionale, dalla nausea del vuoto che crea il mito del con- sumismo e dell'immagine a tutti i costi -. L'amica mi ascoltava sempre con maggiore attenzione; sem- brava veramente interessata ad entrare in convento; le dissi che una giornata in convento scorre se uno s'impegna, se si dà da fare; non c'è bisogno di pregare tutto il giorno, ci mancherebbe; basta sapere che si è in convento! Basta sapere, cioè, che il convento, quello vero, è solo Interiore!-. - Cara, carissima amica mia! E la salutai - .

Due Minuti per la Separazione e la voglia di dimenticare

Qualche tempo dopo venni a conoscenza che si era sepa- rata dal marito; l'avevo incontrata nel cortile del Tribunale, dopo l'udienza di comparizione, in cui il Presidente, in due minuti esat- ti, aveva allentato i vincoli dell'unione, per i quali erano serviti anni e anni, litigi, amori e disamori, tentativi, speranze e delu- sioni. Ricordo che era stata proprio quella rapidità processuale

147 che l'aveva stordita: un legame durato anni, momenti di benesse- re e di espansione affettiva, anni di progetti e mesi di incompren- sioni, costruzioni e ricostruzioni, lacrime, a volte, solitudini, umiliazioni, spesso, per essere stata tradita nei sogni.. Tutto si dissolveva nel prendere atto, davanti ad un Giudice, in due minuti di orologio, appena il tempo di sottoscrivere il Verbale di Mancato accordo con i provvedimenti provvisori, che la comunione materiale e spirituale della coppia non avrebbe più potuto essere ricostituita. Mentre lei aveva il viso serio, appesantita da una tristezza dalla quale non sapeva come uscire, forse aveva anche pianto, il marito, anzi il suo momentaneo ex marito (fino alla Omologa della separazione da parte del Tribunale si è solo autorizzati a vivere separati… pur restando marito e moglie) appariva allegro, quasi frizzante, come se avesse voluto festeggiare un momento di liberazione dalla ex compagna di vita. Anche la frizzantinità del suo ex compagno le procurava sofferenza: non si capacitava di come ci si potesse liberare con tanta facilità e leggerezza da un legame durato anni, notti e gior- ni. Forse che i sentimenti erano stati assemblaggio di parole? Forse che gli affetti sono solo prodotti semilavorati di una pro- duzione continua e mai del tutto ultimata? Qualche mese dopo, mi aveva annunciato l'idea di andare via dall'Italia, il più lontano possibile. - E tua madre? E tuo padre?" le avevo domandato -. - Il problema è mia madre, infatti; ma devo andare, voglio rifarmi una vita, voglio tentare, voglio dimenticare.. ripulirmi la vita. Stare qui no! - La voglia di andare era stata più forte dell'amore verso la Madre, perché più forte era il dolore che le cresceva dentro; amava fortemente sua madre, una donna dolcissima, che sembra- va fatta apposta per amare le persone, comprenderle, accettarle, non impedirne i movimenti, le bizzarrie, gli errori, sempre pron- ta a riaccogliere nel suo grembo o nella sua casa i fuggitivi e i

148 distratti; ma partì egualmente. Doveva partire. La rividi dopo circa un anno, era tornata per sua madre: non aveva resistito ai suoi silenzi, sia pure fatti di rassicurazioni. Ma lei conosceva sua madre; la quale non si lamentava mai. E soprattutto sapeva della sua solitudine. Quando le domandai se avesse avuto ancora desiderio di trascorrere qualche giorno in un convento, lei mi rispose: - Sai, quando me lo dicesti mi pareva una delle tue bizzarre teorie. Sei così strano e particolare, che spesso una si chiede quali siano i confini dell'essere reale e quelli del sognatore. Poi, conoscendoti, e con il passare del tempo, con quello che ho vissuto, ho capito che sì, sei normale, forse hai avuto la fortuna di avere trovato l'equilibrio. Ecco, sì, adesso capisco meglio quel tuo discorso sui con- venti interiori. E lo condivido. Non ho ancora trovato un vero equilibrio, ma certo non sono più permeabile alle intemperie, come una volta. Il vento mi ha portata tanta sabbia, e mi ha costretta a ripararmi. Anche io mi sono costruita un riparo, per le notti di freddo. Un riparo all'interno della mia quotidianeità -.

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