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Dedicato a tutti coloro che non danno né troppa, né troppo poca importanza al Festival di Sanremo

Introduzione

Si dice che è meglio scrivere per se stessi e non avere pubblico, piuttosto che scrivere per il pubblico e non avere se stessi. Ecco perché non ho mai ambito (non fosse altro che per i miei limiti) ad avere successo editoriale: mi diverte di più raccontare in piena libertà e sfruttare la pazienza di amici e parenti che abbiano voglia di leggermi.

Questo racconto ha nel suo centro le vicende relative al Festival di Sanremo, divise in tre capitoli. Nel primo (1951 - 1972) nonostante non manchino riferimenti a realtà esteriori alla Rassegna, le notizie e le informazioni relative al Festival sono assolutamente prevalenti; e ciò perché quel periodo è stato, in assoluto, il migliore di tutta la storia della manifestazione. Nel secondo capitolo invece, dedicato alla crisi della Rassegna (1973-1980) il Festival arretra sullo sfondo, per lasciare posto alle altre vicende del periodo. Infine nel terzo ed ultimo (1981-2010) i due aspetti del racconto trovano un punto di equilibrio, in virtù della capacità della Rassegna sanremese di recuperare un suo posto di riguardo, ma in un contesto ormai del tutto diverso da quello in cui era nata e cresciuta.

Nel libro vi sono (oltre ad inevitabili errori ed inesattezze di cui mi scuso) dati statistici, ma non molti; citate parecchie canzoni, ma non tutte; esistono a riguardo altre pubblicazioni migliori delle mie, dove potrete trovare tutto ciò. Il mio intento è raccontare uno spettacolo ed un’atmosfera che dura da sessant’anni e soprattutto esprimere, se non un atto di amore, indubbiamente una simpatia nei confronti di questa assurda, ma fantastica e talvolta incomprensibile manifestazione.

L. M.

Dalle origini, alla crisi degli anni settanta (1951- 1972)

Gigliola Cinquetti in "Non ho l'età (per amarti)", 1964

Il 29 gennaio 1951, alle ore 22,00 nel Salone delle Feste del Casino Municipale di Sanremo nasce il Festival della Canzone Italiana. Come spesso accade non fu attribuita una grande importanza all’evento. Intanto perché la televisione non esisteva ancora e poi perché nessuno poteva immaginare il successo che la manifestazione avrebbe avuto nel corso dei decenni successivi. Ma è stato l’inventore del Festival? Nonostante si dica spesso che il merito vada ad Amilcare Rambaldi – che poi inventerà la Rassegna Tenco - la manifestazione fu realizzata da Pier Busseti,

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presidente dell’ATA, società concessionaria del Casinò e Giulio Razzi, direttore dei programmi RAI. Amilcare Rambaldi, in effetti, aveva nel 1945 lanciato l’idea di una Rassegna canora; ma essa fu lasciata cadere nel vuoto, fino appunto al 1951; è anche probabile che le caratteristiche “fisiche” che il Festival assumerà, fossero assai diverse da quelle che Rambaldi immaginava. Dobbiamo notare subito due cose: il Festival nasce sulla base di un binomio fondamentale costituito dalla RAI e dal Casino di Sanremo; fondamentale perché RAI significava radio (e poi televisione) e quindi la possibilità di divulgare a livello nazionale le canzoni del Festival e Casino significava prestigio, perché Sanremo era allora considerato un centro turistico di fama mondiale, particolarmente charmant; insomma l’uso di una tecnologia, per i tempi, d’avanguardia, sposata ad una fascinosa tradizione. Alcuni dati: il presentatore è Nunzio Filogamo, che era quello che salutava il pubblico dicendo: “Miei cari amici vicini e lontani, buonasera dovunque voi siate”; un saluto che sembrava giustificato anche dal fatto che gli spettatori dei primi Festival erano dei signori seduti a cenare nel Salone delle Feste del Casino ad ascoltare, con quella distrazione tipica da -bar, le canzoni proposte. Le case editrici contattate furono 240; Le serate: 3; dal 29 gennaio al 31. Le canzoni selezionate 20, di cui 10 andarono in finale. I cantanti 3: Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano. L’orchestra era quella del Maestro Cinico Angelini. Le giurie: gli spettatori

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presenti in sala. Vince Grazie dei fiori cantata da Nilla Pizzi. E’ importante insistere sul numero davvero ridotto dei cantanti, perché da questo punto di vista il Festival in quegli anni rappresentava la negazione del culto della star. Gli interpreti cioè avevano un’importanza secondaria (infatti erano soltanto 3) rispetto al prodotto musicale. Il Festival del 1951 si rivela un’esperienza riuscita quel tanto che basta da ritentare una seconda edizione. La sensazione degli organizzatori fu di ritrovarsi tra le mani un prodotto funzionante oltre le più rosee aspettative. Un successo garantito anche dal suo carattere, si sarebbe detto una volta, interclassista: da un lato una manifestazione riservata alle fasce sociali economicamente più elevate che potevano permettersi di spendere 500 lire del tempo per entrare al Casino, dall’altro una manifestazione fruibile, grazie alla radio, dal nascente popolo sanremese; un po’ come nei teatri e nei circhi, anche se qui il popolo seguiva il tutto “a distanza”.

L’edizione del 1952 nasce sull’impressione che ci si trovasse di fronte ad un successo da sfruttare. Erano stati infatti venduti 80.000 dischi delle canzoni dell’anno precedente e le medesime erano entrate nel repertorio di orchestre ed orchestrine di tutta Italia. Non dimenticatevi di quest’ultimo aspetto, perché esso costituirà una delle ragioni principali della longevità della manifestazione, anche in periodi di crisi profonda. Il prezzo del biglietto passa da 500 a 4.000 lire. Stessa 3

formula delle tre serate. Ancora Nunzio Filogamo a presentare. Gli stessi cantanti della prima edizione ai quali si aggiungono Oscar Carboni e . La radio ripete, come l’anno precedente, i due collegamenti nella serata finale: il primo per far ascoltare le 10 canzoni finaliste, il secondo per la comunicazione dei vincitori. Il Festival, in quegli anni iniziava il lunedì e terminava il mercoledì. Vince Vola colomba e, a seguire, Papaveri e papere. Terza: Una donna prega. Tutte e tre le canzoni sono cantate dalla stessa interprete: Nilla Pizzi che, in virtù di questi successi iniziali, diventerà la signora, o meglio, la Regina della Canzone. Se la prima edizione del Festival era venuta alla luce in piena “Guerra Fredda”, la seconda ha luogo nello stesso anno in cui gli USA assegnano all’Italia un aiuto di 119.000.000 di dollari. Vi comunico queste informazioni perché vi è un dato da rilevare, connesso alla manifestazione: non è vero che la storia e/o la politica sia entrata nel Festival nella seconda metà degli anni sessanta. Tutt’altro. Nonostante l’argomento “amore” la faccia ovviamente da padrone (perché oggi no?) non mancano in alcune canzoni riferimenti espliciti, in qualche caso imbarazzanti, ad eventi anche dolorosi della storia d’Italia. La canzone vincitrice, per esempio, è una specie di grido di dolore che, attraverso la mediazione sentimentale, denuncia la mancata restituzione di Trieste all’Italia, tanto è vero che: “Lei è rimasta a Trieste e lui vorrebbe essere una colomba per raggiungerla”. I comunisti, in nome

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dell’Internazionalismo, odiano esplicitamente questa canzone, mentre, altrettanto esplicitamente, in Italia i giovani di destra manifestano perché la città sia restituita. Come vedremo il tema storico-politico ritornerà, in modo ancora più evidente, fin dall’edizione successiva. La seconda classificata nel 1952 è invece Papaveri e Papere; un motivetto decisamente di tutta distrazione in quanto narra l’improbabile amore tra una papera e un papavero. Un amore improbabile che però farà vendere 70.000 copie, mentre Vola Colomba si ferma a 45.000. Ricordo che, nel 1959, quando avevo tre anni, canticchiavo, da infante ma abitualmente, la canzone dei papaveri che, evidentemente, rimase in repertorio davvero per tanto tempo. La manifestazione cresce. E’ iniziata la caccia al biglietto (per alcuni non ancora terminata ai giorni nostri); e si organizza un treno speciale da Milano per consentire ai lumbard di venire al Festival. Ciò è annunciato sul ; ma la carta stampata arriva tardi al Festival. Sui giornali infatti si parla poco e niente della Rassegna canora sanremese.

Nella terza edizione del Festival, 1953, le novità sono parecchie. Finalmente la manifestazione viene spostata definitivamente al fine settimana. Avrà luogo da giovedì 29 gennaio a sabato 31, sempre con inizio alle ore 22. L’orario cioè è ancora calibrato sulle esigenze degli spettatori in sala. Altra grande novità: s'incomincia (sarà così fino al 1971) con la 5

presentazione della canzoni in doppia versione, una più tradizionale, l’altra più briosa, affidata ad una seconda orchestra diretta da . Ai tradizionali cantanti già citati nelle precedenti edizioni si aggiungono quattro debuttanti: Katina Ranieri, Flo Sandon’s, e Teddy Reno, il futuro marito di Rita Pavone. Cambia anche il criterio per selezionare le canzoni: non più soltanto il voto dei presenti in sala, ma anche quello degli abbonati alla radio, sorteggiati per l’occasione. Il capitolo delle giurie del Festival di Sanremo meriterebbe una pubblicazione a parte. Nel corso degli anni si sono tentate tutte le formule possibili, senza che mai siano venute a mancare critiche, proteste ed accuse di ingiustizie. Qui possiamo dire che la questione è connessa alla duplice natura del Festival, che vuole essere vetrina altolocata della canzone italiana ed anche, per ovvi motivi commerciali, specchio dei gusti popolari. Questa contraddizione – più apparente che reale – sarà motivo di dibattiti infiniti. Sono del 1953 la prima lamentela ed il primo plagio. La lamentela: la RAI auspica la necessità di correggere la tendenza alla facile commerciabilità delle canzoni. Il plagio: il maestro Mario Ruccione afferma che la canzone Tamburino del Reggimento di Deani è una scopiazzatura della sua Sagra di Giarabub. Scoppia anche qualche tumulto in sala, ovviamente subito sedato. Insomma fa capolino il Festival che poi saremo abituati a conoscere. Vince Viale d’autunno; ma seconda arriva Campanaro e terza, ex aequo con Lasciami cantare una

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canzone, un motivetto dal titolo Vecchio scarpone, cantata da Gino Latilla, che diventerà negli anni, canzone tipicamente “da gita”. Campanaro e Vecchio Scarpone sono entrambe due canzoni “politiche”. La prima mette in musica il ricordo di cinque alpini morti durante la Prima guerra mondiale, restituiti dai ghiacciai dell’Adamello nel 1952; la seconda vede il protagonista riflettere sull’esperienza della Guerra d’Africa. Questo si canta al Festival mentre, tra le proteste, a Londra un diciannovenne viene impiccato per complicità nell’omicidio di un poliziotto: sono gli ultimi sussulti della pena di morte, in Europa.

Nel 1954 Sanremo si arricchisce di un elemento assai significativo: la Televisione; che tutto cambierà, inesorabilmente e per sempre. La TV però non si concede immediatamente. Il Festival, pur continuando ad essere trasmesso via radio (tutte e tre le serate) passa in televisione ma non in diretta, anche se l’attenzione è comunque molto elevata perché finalmente si poteva vedere come erano vestiti i cantanti, come si muovevano, come era fatto il Salone delle Feste, tanto volte citato ma che solo pochissimi conoscevano. A parte l’avvento della televisione (i cui effetti non sono ancora conosciuti) il 1954 non si caratterizza per episodi particolarmente rilevanti se non la presenza in sala, in qualità di autore, del Principe De Curtis, ovvero Totò che vede, molto emozionato, una sua canzone andare in finale, ma non vincere. Arriva prima invece 7

Tutte le mamme cantata in coppia da Giorgio Consolini e Gino Latilla; altra canzone avversa negli anni settanta perché: “Son tutte belle le mamme del mondo, ma sopra tutte più bella tu sei. Tu, che mi hai dato il tuo bene profondo e sei la mamma dei bimbi miei” proprio non andrà giù alle future femministe che la ricorderanno come esempio negativo della figura femminile. Conviene allora ricordare Aveva un bavero che poi diventerà La bella Gigogin. E’ questo un altro caso di canzone che non vince, ma che vende; una di quelle canzoni che non sono “capite” (per modo di dire) dalla giuria del tempo, ma che spopola. Nel 1954 la contraddizione tra canzone vincente e di successo è ancora un fatto relativamente isolato; non sarà così negli anni a venire. Nilla Pizzi quest’anno è assente, ma i cantanti continuano ad aumentare: Natalino Otto, il Quartetto Cetra (che parteciperà solo a questa edizione) e Gianni Ravera che ricordiamo non come cantante, ma come futuro organizzatore di numerosissimi Festival (dal 1962 al 1968, 1970 e 1971 e dal 1980 al 1986) e di molti altri eventi quali il Disco per l’Estate e il Concorso per voci nuove di Castrocaro, antenato di Amici e X Factor.

Se il 1954 è stato un Festival non particolarmente caratterizzato da eventi significativi, tutto il contrario invece l’edizione del 1955. La Rassegna si apre infatti con l’annuncio della Commissione selezionatrice di avere ammesso soltanto 16 canzoni su 20, in quanto la maggior parte delle proposte pervenute erano carenti 8

sia dal punto di vista letterario che musicale. E’ l’inizio ufficiale della disputa tra cultura e canzone. Il fatto è che molti dei commissari che avevano valutato le proposte, provenendo da ambienti artistici raffinati, nutrivano nei confronti della canzone una sorta di malcelato disprezzo, perché considerata genere minore. Ovviamente non mancarono vibrate proteste che però non modificarono l’atteggiamento della Commissione. Ma non è l’unica novità: Nunzio Filogamo lascia, sostituito dal “televisivo” Armando Pizzo (gli effetti del video incominciano a farsi sentire) affiancato da Maria Teresa Ruta, zia dell’omonima presentatrice. Stessa sorte per il maestro Cinico Angelini, sostituito da Francesco Ferrari. Novità anche nel campo delle giurie: gli spettatori in sala perdono progressivamente influenza a favore dei radioabbonati, scelti in ognuna delle 14 sedi RAI; e poi un grande arrivo che condizionerà non poco la storia della canzone italiana: . Questo artista, simbolo di una vocalità tradizionale, ha inciso nella sua carriera 3.200 brani e venduto 42.000.000 di dischi. Dotato di una voce tenorile (della quale si compiaceva non poco) fu un sincero (e polemico) amante del Festival e di tutto ciò che ruotasse intorno al mondo della canzone. Il destino ha voluto che il giorno della sua morte coincidesse con la serata finale del Festival 1987. Il presentatore di quella edizione, , sospese per qualche minuto la Rassegna per dare il triste annuncio. Davvero una coincidenza che ha dell’incredibile. Questo artista -

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che a causa di una malattia utilizzava per cantare soltanto uno dei due polmoni - riuscì nell’intento di vincere il Festival del 1955, senza…esibirsi. Per una lieve indisposizione non poté infatti salire sul palcoscenico e, proprio nella serata finale, si dovette far sostituire da un disco che suonò su un palco vuoto. La canzone è Buongiorno Tristezza; tristi, troppo, sono la maggior parte delle canzoni presentate in quell’anno; almeno lo sono tutte e tre le prime classificate (e abbiamo visto che non certo divertenti lo erano alcune delle canzoni delle edizioni precedenti) che narrano di innamorati abbandonati e di coppie che si perdono in sentimenti languidi e speranzosi. Se ne accorgono anche nella vicina Francia, dalla quale l’attore Yves Montand dichiara: “Gli autori di Sanremo sono tristi anche nelle canzoni allegre. Si portano dietro le ombre del passato”. Un giudizio non privo di verità. E’ vero: ad ogni nuova edizione si aggiungevano cantanti altrettanto nuovi; e poi siamo ancora lontani dalle trasformazioni musicali degli anni sessanta che sarebbe stato eccessivo chiedere al Festival di anticipare; ma il rischio che esso diventasse uno scrigno di vocalità troppo impeccabili e di testi rigidamente codificati, esisteva.

Forse questo pericolo fu percepito dai responsabili dell’epoca e così si decise, nel 1956, di dare una sterzata alla manifestazione. La RAI bandì un concorso per voci nuove che richiamò ben 6446 aspiranti, dai quali 10

uscirono 6 vincitori – scelti dai radioascoltatori mediante l’invio di una cartolina postale - ai quali furono affidate le 20 canzoni della Rassegna. Si trattò di una scelta talmente spregiudicata che la RAI fu costretta ad inserire una quarta serata di gala, in cui furono riproposte le canzoni premiate negli anni precedenti. E’ da notare che la RAI esercita fin dall’inizio un potere notevole nei confronti del Festival che abbandonerà e riprenderà, secondo le proprie convenienze. Il periodo fu spostato all’8 marzo; ed anche il conduttore cambiò: Fausto Tommei, personaggio assai spigliato per i tempi, con ancora Maria Teresa Ruta. Scompare (ma tornerà l’anno successivo) la doppia interpretazione, mentre il sistema di votazione vede una costante espansione dell’importanza del voto da parte dei radioabbonati, rispetto ai presenti in sala. Questo è un altro aspetto interessante: si dice spesso che il Festival sia ormai diventato un evento esclusivamente televisivo; ed è vero; ma l’origine di ciò risiede nella sua storia più antica. Esso cioè è sempre meno dedicato agli spettatori in sala a vantaggio di quelli dell’etere; anche se chi poteva assistere allo spettacolo dal , continuerà a godere di uno status particolare. Il 1956 è l’anno della rivolta in Ungheria; l’anno della destalinizzazione e…l’anno di Lascia o raddoppia? che non cede il proprio trono, nemmeno di fronte al Festival. Il collegamento avviene alle 22.45 soltanto cioè a conclusione del quiz, condotto da , che svuotava le strade

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come sa fare una finale dei Mondiali di calcio (in cui gioca l’Italia). Però l’ultima serata del Festival va in Eurovisione. E’ la prima volta che succede. Vince un titolo emblematico: , cantata da ; ed in effetti le finestre del Festival erano state aperte. La canzone vincitrice è fresca, primaverile, rappresentativa di un'Italia piena di sogni che adesso, anche se ancora con grande cautela, si poteva sperare di realizzare. Gli effetti della guerra stavano lentamente svanendo per lasciare il posto ad uno spirito nuovo, in parte inconscio ai contemporanei del 1956, ma rintracciabile da chi, a posteriori, abbia voglia di studiare quel periodo della nostra storia. Non manca nemmeno quest’anno la polemica di turno causata dal fatto che in alcune città (ovvero sedi RAI) alcune canzoni non avevano ricevuto nessun voto ed altre invece erano state votate in massa. Che le giurie fossero pilotate? Nemmeno nell’edizione del 2010 (con la quale si concluderà questo mio scritto) si saprà rispondere a questa domanda. Per quanto mi riguarda io mi trovavo nella pancia della mamma e quindi, ovviamente, non ricordo nulla dell’edizione del 1956; ma mi piace pensare che i miei genitori, che sicuramente hanno seguito il Festival, mi abbiano fatto sentire in diretta le canzoni e che in questa condizione prenatale abbia cominciato ad affezionarmi alla manifestazione .

Ma le finestre appena aperte, furono subito richiuse. Torna a presentare, nel 1957, Nunzio 12

Filogamo, anche se si affaccia sul video il volto nuovo di Nicoletta Orsomando. Tornano le orchestre di Cinico Angelini e di Armando Trovajoli. Le canzoni sono 19 perché la ventesima era stata beccata in un juke-box: quindi non più inedita, come vuole il regolamento. L’idea della quarta serata sembra prendere piede; anzi, si trasforma in una vera e propria competizione a parte, con 10 canzoni scritte da “liberi compositori” affidate ai partecipanti del Festival, con tanto di classifica finale. In gara la fa da padrone Claudio Villa che deve difendersi dalle accuse di troppo divismo (allora era un difetto) e così il Reuccio della canzone pensa bene di difendersi affermando che “essendo lui su un piedistallo, al fine di evitare le critiche, ha deciso di scendere da quel piedistallo”…Vince: che dice: “E' tornata! L'hanno accolta le stesse cose, l'hanno attesa le stesse rose. Dolce sogno dagli occhi verdi; è tornata ma è troppo tardi. Troppo tardi per chi aspettò”. Se il 1956 era stato l’anno della rivoluzioncina, il 1957 è l’anno della restaurazioncina, anche se ancora una volta non sono le canzoni vincitrici a conquistare, bensì la strafamosa Casetta in Canada, il cui punto di forza stava nel titolo fonicamente perfetto e nel motivetto allegro che la caratterizzava. Per quanto riguarda il testo delle canzoni siamo ancora alle formule tradizionali. Così recita la Casetta: “Aveva una casetta piccolina in Canada, con vasche, pesciolini e tanti fiori di lillà”. Il Festival cioè esibisce, nelle canzoni serie, testi sempre molto

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castigati; nelle divertenti, si rifà ad un umorismo da seminarista che, nel tempo, apparirà sempre più assurdo e ridicolo.

Finalmente arriva impetuosa la prima vera rivoluzione sanremese e, come spesso accade anche nelle rivoluzioni serie, nessuno se lo aspetta. Sarebbe sufficiente per illustrare il Festival del 1958, citare la canzone vincitrice: Nel blu dipinto di blu, cantata da ; ma procediamo con ordine. La RAI lascia in quell’anno la conduzione del Festival (le tre serate saranno comunque trasmesse in radio e in TV) decidendo di affidare l’organizzazione all’ATA, la società che, come abbiamo detto, gestiva il Casino di Sanremo. Ovviamente quest’ultima ha tutto l’interesse a fare bella figura: sono chiamati non soltanto i cantanti affermati, ma anche degli ottimi debuttanti come e lo stesso Modugno. Ci sono pasticci con le giurie, i cui criteri sono modificati in corso d’opera, mentre la Rassegna, che doveva essere presentata da , è invece condotta da Gianni Agus e Fulvia Colombo, ovvero colei che fece il primo annuncio televisivo nel 1954. L’effetto musicale di Nel blu dipinto di blu, soprannominata Volare è semplicemente esplosivo. La canzone manda in soffitta in un sol colpo le melensaggini e le nenie lamentose degli anni precedenti. Volare porta il nome dell’Italia in tutto il mondo al punto tale che, nelle riunioni all’estero, spesso era utilizzata al posto dell’Inno 14

nazionale per salutare gli ospiti italiani. Entra nelle hits statunitensi, conquistando il Grammy; vende milioni di copie, determinando un effetto travolgente fin dalle serate del Festival durante le quali, in particolare nella seconda, i tecnici RAI dovettero pregare gli spettatori di non battere i piedi al ritmo della canzone, per non disturbare le trasmissioni in diretta. Un evento così insolito che fu addirittura segnalato da due giornalisti russi, uno della Pravda e l’altro dell’Izvestia. Soltanto L’Unità non se ne avvede, giudicando la canzone dell’artista siciliano inferiore alle precedenti. Modugno in verità era pugliese e con quel Festival dette inizio ad una carriera terminata solo nel 1994. Questa edizione rappresentò la prima vera svolta sanremese: l’epoca primigenia della Rassegna era terminata; e ciò non solo per il motivo che abbiamo appena detto, ma perché quel successo aveva dimostrato, anche se ancora in modo periferico, che la manifestazione era in grado, se organizzata con occhi attenti, di recepire i cambiamenti che si stavano verificando all’estero e anche in Italia. Edith Piaf, e soprattutto Elvis Presley sono gli artisti dell’avanguardia di allora. In Italia la modernità è affidata, tra le altre, ad una canzone dal titolo Come prima di Tony Dallara (che non è una canzone del Festival, anzi bocciata dalla commissione selezionatrice). Questa canzone rimase in repertorio per anni e fu un mio cavallo di battaglia casalingo. Cantarla è molto divertente perché Come prima è caratterizzata da un andamento ascendente, dichiaratamente ottimista. I

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segni che il mondo stava cambiando non mancano. Il lancio, in quell’anno, del primo satellite americano, oltre a testimoniare un concreto progresso tecnologico, induce gli uomini dell’epoca ad essere possibilisti riguardo ai loro destini. Volare ha successo anche per questo: perché ha un titolo che sgombra la mente; perché il sorriso di Modugno con le braccia aperte sembra invitare gli italiani a liberarsi dai fantasmi di una guerra, ancora troppo vicina.

La reazione non si fa attendere; e così nel 1959 a Sanremo si formano due partiti: quello dei “tradizionalisti” che avevano come loro idoli Nilla Pizzi, Gino Latilla e Achille Togliani e quello dei “modernisti”, rappresentato da Domenico Modugno e Johnny Dorelli, alfieri della “nuova musica”. Enzo Tortora e Adriana Serra sono i presentatori. Ricordiamo Tortora non solo perché diventerà uno dei personaggi più popolari della Prima Repubblica, ma anche per il massacro a cui fu sottoposto quando, nel 1983, la sua carriera sarà improvvisamente stroncata da un’ottusa inchiesta giudiziaria, supportata da una parte della pubblica opinione che, giudicando antipatico il presentatore, si era convinta che Tortora in qualche modo fosse colpevole di spacciare droga in combutta con la mafia (questa era l’accusa); ma qui siamo ancora molto lontani da quegli eventi. Il clima del 1959 si avvale ancora della freschezza dell’edizione precedente, tanto è vero che Modugno e Dorelli rivincono entrambi 16

per il secondo anno consecutivo con una canzone, Piove, che ebbe notevole successo, anche se inferiore a quello ottenuto con Volare. Anche Piove fu soprannominata; e con il titolo: Ciao, ciao bambina. Impossibile senza annoiarvi, darvi il resoconto delle continue modifiche al sistema di votazione. Mi limito ad un fatto: vengono distribuiti in sala biglietti con colori diversi al fine di evitare l’acquisto in massa di biglietti (oggi diremmo sms) da parte di editori e discografici che hanno sempre tentato di monopolizzare il voto. Oltre a Piove, bisogna segnalare Tua cantata da Jula de Palma che fu sonoramente rimproverata perché, nella sua esibizione, la cantante pronunciava troppo sensualmente il possessivo del titolo; questo non andava bene nella RAI del tempo; ma proprio il tempo s’incaricherà di dimostrare che la bagarre intorno a Tua fu una manovra pubblicitaria; la prima di una lunga serie. Nell’anno di Piove esce anche Il tuo bacio è come un rock di che segna, appunto, l’inizio della stagione del rock italiano. Indimenticabili tra gli stranieri: I Platters (Only you); Paul Anka (Put your head on my shoulder) e Neil Sedaka (Oh Carol). Una precisazione necessaria, valida per tutto il racconto: quando indico dei titoli extrafestivalieri vi comunico i successi dell’anno, che non necessariamente, se non specificato, coincidono con quello di effettiva pubblicazione del disco.

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Nel 1960 il Festival passa nelle mani di Ezio Radaelli. Questo è il Festival del duello tra che canta Romantica con Tony Dallara e Domenico Modugno, diventato il “Mimmo nazionale”, che con Teddy Reno canta Libero. Vincono Dallara e Rascel, anche perché Modugno non poteva pretendere di spuntarla per la terza volta consecutiva, non fosse altro perché la sua canzone (che comunque arrivò seconda) era nettamente inferiore alle precedenti. Da notare però che ormai il confronto avviene all’interno dei cantanti modernisti. I cantanti tradizionalisti infatti cominciano a comparire solo al quarto posto. Nei primi tre ci sono solo giovani: Renato Rascel (che è meno giovane di Nilla Pizzi, ma esegue una canzone modernista), Tony Dallara, Domenico Modugno, Teddy Reno, Joe Sentieri e Wilma De Angelis. I presentatori sono Paolo Ferrari ed Enza Sampò: due giovani anche loro. Ormai presentare il Festival è diventato molto prestigioso e la figura del conduttore, in genere accompagnato da quella che allora si poteva ancora chiamare la valletta, è parte integrante del discorso festivaliero; potremmo dire che si è formata, nel corso degli anni, una gara parallela tra tutti coloro che hanno presentato la manifestazione a cui fa capo una vera e propria classifica di qualità e di quantità in termini di presenze. Tornando alla musica segnaliamo che il numero dei cantanti aumenta costantemente. Si tratta di un processo che porterà, in via definitiva, all’avvento del principio: un cantante, una canzone.

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Principio che risponde bene ad una visione moderna ed evoluta del modo di concepire la musica. Se è vero cioè che la televisione non poteva non rafforzare il fenomeno del divismo e, conseguentemente, l’esaltazione del personaggio è ovvio che ad esso si richiedesse non solo di saper parlare ed interagire con , ma anche di presentarsi con caratteristiche proprie e coerenti alla proposta musicale avanzata. In questa ottica non potevano più trovare posto cantanti che in modo seriale proponessero tre o quattro canzoni, con la stessa disinvoltura con cui ci si cambia d’abito. Ognuno doveva poter essere identificato con una storia sua. Questo lo vedremo molto bene negli anni a venire; si pensi a che sarà inesorabilmente (anche se benevolmente) marchiata dalla sua canzone Non ho l’età, come ragazza mai in grado di amare.

Ben ventiquattromila! Anzi, 24.000 sono i baci che, nel 1961 Adriano Celentano vuole dare alla sua amata. L’undicesima edizione, pur non essendo di per sé “di svolta”, è la prova - se leggiamo i nomi dei cantanti - che ormai siamo dentro gli anni sessanta: , , Adriano Celentano, Little Tony, Sergio Bruni, , Tony Dallara, Miranda Martino, Giorgio Gaber, Edoardo Vianello, , Joe Sentieri, Gianni Meccia (quello del “pullover che tu hai dato a me”) sono tutti cantanti della seconda generazione festivaliera che domineranno le classifiche italiane negli 19

anni a venire, alcuni dei quali, come il cosiddetto “molleggiato”, ovvero Adriano Celentano, ancora in auge oggi. E’ vero: vince Al di là di Betty Curtis, canzone tradizionale; ma i debuttanti sono ben 25 su 41. E’ la presenza dei primi rockers italiani a segnare la novità; ed è già da questa edizione che i tradizionalisti incominceranno a distinguere tra il vero Sanremo (quello di matrice “pizziana”) e il Sanremo a loro dire corrotto, quale è quello che si sta affermando. Ovviamente è sempre esistito un solo Sanremo: uno ci piace, due sarebbero davvero troppi. Il Festival insomma rispecchia l’andamento musicale del tempo; ecco perché è un errore sottovalutarlo; non vi è nessuna manifestazione canora che abbia saputo, con medesima costanza, reggere questo tipo di testimonianza; anche al contrario; anche quando le canzoni sanremesi, come succederà negli anni settanta, saranno il simbolo di ciò che non si doveva ascoltare. Tornando al 1961, entra in scena l’Enalotto, tramite il quale è possibile tentare di indovinare la classifica finale. Due canzoni in particolare devono essere citate: la raffinata Come sinfonia di , canzone non capita, come mai capito ed accettato sarà il suo interprete; e poi Le Mille bolle blu di Mina che arriva quinta, ma vola alta - come volano alti i baci di Celentano - nella Hit Parade. Mina, durante l’esecuzione di questa canzone, pronunciava le “bolle blu” accompagnandole con un verso (per alcuni un versaccio) ed un gesto onomatopeico; forse nemmeno lei era consapevole che

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stava sbeffeggiando il Festival, dal quale si allontanò definitivamente, per farne ritorno, se non come voce priva di corpo, soltanto nell’edizione del 2009. S’instaura un confronto, più che altro giornalistico, tra Mina e Milva. Impossibile non citare il lungimirante giudizio di Mario Rinaldi che scrive su : “La vittoria di Milva su Mina [era arrivata terza con Il mare nel cassetto] non è altro che la vittoria della nota cantata sullo strillo, senza dimenticare che quando si canta come Mina, vuol dire essere certi che la voce sparirà al più presto”…

Continua nel 1962 un dibattito, che assumerà caratteri estenuanti, su dove sia e quale sia la “vera canzone”; dibattito che si sovrapporrà all’imminente e più generale confronto genitori-figli. I primi hanno da esultare perché – è sempre Il Messaggero a parlare: “Si è finalmente compreso che con i salti e gli schiamazzi non si fa musica. Finalmente si è tornati alla tradizione, al folklore e all’armonia”. Nulla di vero in tutto ciò: certamente non lo era nel panorama musicale italiano. Il fatto è che ha successo una canzone che, seppur apprezzata dalle fasce giovanili, ha un carattere garbato e quindi digeribile anche dai tradizionalisti meno estremisti. Si tratta di Quando…quando…quando di Tony Renis; interprete che con la faccia da bravo ragazzo, anche se assai sornione nei suoi sorrisini ammiccanti, conquista mamme e figlie. Il brano arriva quarto ed è l’unico rimarchevole di questa edizione. La canzone 21

vincitrice Addio…Addio…! non è rimasta, nonostante l’operazione ruffiana di mettere insieme, come si suol dire, il diavolo e l’acqua santa: Domenico Modugno e Claudio Villa. La realtà è che Modugno non è più il diavolo: già lontani i tempi di Volare. Basta sentire i titoli che circolano fuori dal Festival: Stai lontana da me di Adriano Celentano; La ballata del Cerutti di Giorgio Gaber e l’immortale Senza fine di Gino Paoli ed . Tutta gente “più avanti”. Il Festival arranca; recupererà, ma adesso arranca. Nel paleolitico del benessere italiano non poteva poi mancare lo scandalino affidato quest’anno ad e Raimondo Vianello; una coppia (lo ricordo ai più giovani) di attori comici che dovevano intervenire come ospiti nella serata finale; ma sono censurati per la loro nota irriverenza nei confronti dei politici. I due senza TV non vogliono esibirsi, ma poi son costretti a farlo “a furor di popolo”. A proposito di TV, quest’ultima snobba alla grande l’edizione (affidata per la prima volta al già citato e ormai ex cantante Gianni Ravera); non c’è diretta radiofonica, né televisiva; vengono mandate in onda le prime 6 canzoni del gala (la quarta serata, distinta dalla competizione propriamente detta) e qualche altro intervento in differita per radio. Presentano Renato Tagliani con Vicky Ludovisi e Laura Efrikian, che acquisterà una popolarità immensa come fidanzatina di .

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L’edizione del 1963 è davvero poco interessante; ma ciò non a causa del destino cinico e baro, ma perché la Rassegna scontava una contraddizione non più accettabile. E’ indubbio che dall’avvento di Modugno in poi le cose erano cambiate, in quanto i cantanti “modernisti” – che, è bene precisarlo, non devono essere confusi con la musica “di rottura” della seconda metà degli anni sessanta - avevano portato aria fresca in quel di Sanremo; però le performances dei Modugno piuttosto che dei Dallara continuavano ad essere percepite – almeno da una parte del pubblico - come un elemento deviato rispetto all’idea di canzone che, secondo quel pubblico, per essere tale non poteva prescindere dalla grande tradizione letteraria italiana. Errore marchiano: la canzone è un genere nobile per se stesso, non ha bisogno, per assumere un’identità propria, di imitare nei testi la poesia dei libri ed attenersi, nella musica, alla melodia. Insomma, la guerra interna – che i tradizionalisti erano destinati a perdere – precludeva alla manifestazione la possibilità di assumere un’identità definita e al passo con i tempi. Bene se ne era accorta la televisione che, come abbiamo visto, prende le distanze dalla manifestazione. Se nell’anno precedente aveva vinto una canzone presto dimenticata come Addio…Addio…! nel 1963, vince una canzone carina quale è cantata da quel Tony Renis del Quando…quando…quando… (una specie di risarcimento a posteriori per la mancata vittoria del 1962) ma nessuna delle produzioni festivaliere di

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quest’anno entra in repertorio, se non la Giovane giovane interpretata da - un twist che conquistò il pubblico giovanile - che sembra nel titolo un grido di dolore (si fa per dire) affinché si cambiasse registro. Ebbene: questo cambiamento ci sarà dal 1964, nell’anno in cui il Festival raggiunge vette inusitate che rimarranno tali negli anni successivi, per poi essere lentamente discese verso la fine degli anni sessanta e rapidamente discese a partire dall’edizione del 1973, quando il Festival entrerà in una zona encefalicamente piatta, dalla quale farà non poca fatica ad uscire. Tornando al 1963, qualche notizia curiosa: per regolamento, nella giuria ci dovevano essere, tra gli altri, un artigiano, un barbiere, un barista, un commerciante, un impiegato, un libero professionista, un operaio, uno studente universitario ed uno di scuola media…9 uomini; ma, ovviamente…soltanto 6 donne: una casalinga, una commessa, una dattilografa, un’insegnante, una studentessa universitaria ed una di scuola media. Presiedeva questa commissione, affetta da positivismo vagamente ottuso, . Questo è anche il primo di una lunga serie di Festival affidati a Mike Bongiorno, qui accompagnato da ben quattro presentatrici (il termine valletta comincia ad entrare, timidamente, in crisi): Edy Campagnoli, Rossana Armani, Giuliana Copremi e Maria Giovannini. La RAI fa qualche sforzo in più per trasmettere l’evento, ma svogliatamente: diretta solo per la finale. Questo è l’anno della morte del Presidente

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Kennedy e di Papa Giovanni, ma qui siamo nei primi giorni di febbraio e questi eventi sono ancora lontani. L’estate del 1963 sembra essere indifferente ai motivi sanremesi; a parte la canzone vincitrice e la già citata Giovane giovane ciò che si ascolta è: Come te non c’è nessuno e Datemi un martello, due successi clamorosi della nascente Rita Pavone; Abbronzatissima di Edoardo Vianello. La mitica Pregherò di Adriano Celentano; Fatti mandare dalla mamma dell’amatissimo Gianni Morandi; Se mi vuoi lasciare del baritonale Michele e la grande Sapore di sale di Gino Paoli. Occorreva prendere provvedimenti; e subito.

Il 1964 è stato il primo Festival di cui abbia memoria. Ricordo, anche se con immagini impressionistiche, il salone di casa dove si erano riuniti per l’occasione gli amici più cari dei miei genitori. Mio padre, antesignano della folla passione per l’elettronica che mio fratello ed io abbiamo da lui ereditato e che ancor non ci abbandona, aveva collocato un televisore nel centro della sala, sulla cui parte superiore - non per necessità, ma per puro gusto dell’evento – era appoggiato uno dei primi televisorini che aveva il compito di raddoppiare inutilmente, ma piacevolmente, l’immagine. Accanto a questo laico altarino una radiona sintonizzata sul Festival, ai cui piedi me ne stavo accucciato, in modo da poter con le orecchie sentire dalla radio medesima e con gli occhi vedere i due televisori. Non ho molti ricordi dei cantanti, se non di 25

una in particolare: Gigliola Cinquetti (nella foto, all’inizio del capitolo). Quando la vidi la prima volta, a dire il vero, la snobbai, giudicandola non degna di attenzione; ma dal giorno dopo nacque in me un amore smisurato verso quella fanciulla di cui ovviamente sapevo tutto e della quale mi piaceva cantare, nella tromba delle scale, le sue canzoni più celebri. Mio fratello, più adulto di 5 anni (13 lui, 8 io) veleggiava su cose assai più ricercate: Please Please me (1963) dei Beatles celebrata, come la Santa Messa, ogni domenica mattina sul giradischi di casa; però nessuno (compreso mio figlio Andrea, che è nato 28 anni dopo Non ho l’età) non conosce almeno una frase o un accordo della canzone della sedicenne “acqua e sapone”. Gigliola vince solinga il Festival 1964 (la classifica era stata abolita). Era perfetta nell’interpretazione della parte. Nessuno studioso di marketing avrebbe potuto fare di meglio. La canzone era ben costruita, ma fu l’aderenza con il personaggio che la fece diventare celeberrima. Partecipano cantanti quali Paul Anka, e Ben E. King. La finale è trasmessa in Eurovisione. Ogni canzone è interpretata da un italiano e da uno straniero: progredisce, a grandi passi, il processo per cui ad ogni cantante è affidato un solo brano. Delle vecchie melodie di matrice “pizziana” ormai non c’è più traccia. Partecipano tra gli altri Gino Paoli, Giorgio Gaber, Pino Donaggio, Milva e il diciottenne . L’orchestra è una, ma diretta da ben 22 maestri tra cui Gorni Kramer, , Luis Enriquez, Enrico Simonetti e

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Gianfranco Intra: insomma, il meglio dell’epoca. Presenta Mike con Giuliana Lojodice. La RAI dalla seconda serata trasmette la diretta. Per le vendite è un successo senza precedenti. Questo Festival ci ha lasciato canzoni indimenticabili: Non ho l’età (per amarti), Una lacrima sul viso di Bobby Solo (è quella che vende di più). Ogni volta cantata da Paul Anka. Quando vedrai la mia ragazza di Little Tony ed E se domani… eliminata dalla giuria, ma non dal pubblico dei dischi e codificata in una sublime interpretazione dalla grande Mina. Il Festival era davvero ripartito alla grande, anche se fu in questa edizione che fu generato il mostriciattolo del playback, a causa di una (falsa) raucedine di Bobby Solo. Una lacrima sul viso è collegata ad un mio trauma infantile. Vi era l’abitudine, all’indomani della finale, di recarsi a Sanremo per comprare qualche disco del Festival nei negozi rimasti aperti per l’occasione. Io frignavo perché volevo Non ho l’età; mio fratello Alberto: Una lacrima sul viso. Lascio a voi indovinare che cosa comprammo quel giorno…

Il 1965 è la terza edizione condotta da Mike che presenta con Grazia Maria Spina. Il Festival era sui binari giusti. Il sistema dell’accoppiamento con gli stranieri aveva funzionato, anche perché alcuni, in qualche caso, contribuivano poi a diffondere in patria la loro canzone. Gli stranieri eseguivano il motivo in italiano (intercalando qualche strofa nella loro lingua) e ciò dava al tutto un tono molto cosmopolita. Erano 27

cioè gli stranieri che si sforzavano di cantare nel nostro idioma e non il contrario. Se leggiamo i nomi dei cantanti di questa edizione, vediamo moltissimi artisti del momento; prima di tutto: Bobby Solo, che vince con Se piangi, se ridi, canzone bella, ma meno di Una lacrima sul viso. E’ l’ennesimo caso di vittoria riparatrice. Si potrebbe dire che non vincere a Sanremo, ma aggiudicarsi l’ Hit Parade significava ipotecare la vittoria dell’anno successivo; continuando nell’elenco; gli italiani: Ornella Vanoni, , Fred Bongusto, Gigliola Cinquetti, Betty Curtis, Pino Donaggio, Bruno Filippini, Wilma Goich, Milva, , , e Peppino Gagliardi. Non giudicate i nomi sulla base dei vostri gusti: cogliete la capacità di questi artisti di “coprire” stratificazioni sociali diverse. Poi gli stranieri: The Minstrels che cantano con Wilma Goich, la paradigmatica canzone festivaliera: Le colline sono in fiore; Gene Pitney, , Timi Yuro e . Che cosa vogliono dire questi nomi? Che gli anni sessanta avevano aperto un mercato musicale di dimensioni vastissime. Questo mercato era in buona parte occupato dalla musica straniera – è inutile soffermarsi sul significato di nomi come Beatles e Rolling Stones (per citare le due principali icone) gruppi che hanno nella storia della musica rock lo stesso significato che nel genere classico hanno Mozart piuttosto che Verdi - ma nonostante il respiro nostrano meno ampio, la musica italiana occupa un terreno consistente e proprio; ed è amata anche all’estero. Le

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proposte di casa nostra non s’identificano in toto con il Festival – Rita Pavone e Gianni Morandi, popolarissimi, sostanzialmente ne prescindono - ma la Rassegna sanremese ha ormai un’autorità riconosciuta. In quegli anni passare per il Festival significava ricevere la benedizione necessaria per ottenere il successo. Insomma, siamo presenti con le nostre cose, con il nostro modo di usare note e testi che per contrasto alla tradizione festivaliera o per imitazione ad essa si salda all’istinto musicale dei giovani che vivono la musica come punto di riferimento necessario, tramite la quale i figli di ieri assumeranno (direbbe un marxista) una “coscienza di classe” che consentirà loro di riconoscersi come “altri” rispetto ai genitori. La musica degli anni sessanta e settanta sarà la colonna sonora di esigenze insopprimibili, speranze da coltivare, sogni da trasformare in realtà oppure da vivere come tali, ambizioni a portata di mano; tutto ciò in termini che non ha precedenti nella storia, almeno in dimensioni così massive. La musica contribuirà alla rivoluzione dei costumi nella quale tutti si riconosceranno, indipendentemente dalle diverse appartenenze politiche ed estrazioni sociali.

A mio modesto parere l’edizione del 1966 rappresenta il punto più alto di tutta la storia del Festival. La finale va in Eurovisione con 28 TV di tutto il mondo che la trasmettono in diretta. Gran Bretagna, URSS, Giappone, Brasile ed Uruguay, in differita. Il 29

sistema degli accoppiamenti è mantenuto, ma cade l’obbligo del cantante straniero; la coppia vincitrice è infatti tutta italiana: Modugno-Cinquetti con Dio, come ti amo! I cantanti sono 47. Arrivano i primi complessi. C’è in sostanza il gotha degli artisti del tempo. I Ribelli, Giorgio Gaber, Milva, Caterina Caselli (che ha un successo travolgente) l’italianizzata Françoise Hardy, Adriano Celentano, Gino Paoli, , Bobby Solo, Equipe 84. Non meno interessanti le canzoni: A la buena de Dios de I Ribelli, Io ti darò di più di Ornella Vanoni, ancora oggi in repertorio; Nessuno mi può giudicare di Caterina Caselli; Paff…bum di Lucio Dalla, canzone che tenderà a perdersi, ma che allora conobbe un buon successo; e poi…e poi…Il ragazzo della Via Gluck di Adriano Celentano, la canzone ecologista che aprì un vero e proprio dibattito politico. Così nel libro Adriano Celentano: “Siccome la canzone di Celentano, presentata a Sanremo era stata considerata canzone di sinistra, la sinistra si sentiva in dovere di rispondere per evidenziare il contenuto populista, pre-industriale, paternalistico, cattolico e conservatore della canzone stessa”. La canzone è stata poi riabilitata dalla sinistra medesima, in epoche più filo ecologiste. A Sanremo il clima di quei giorni era da grande evento. Persone, piazze, alberghi ed esercizi pubblici erano tutti concentrati, ciascuno nel proprio ruolo, sul Festival. I moltissimi affezionati andavano per le strade a caccia di autografi. Il Casino era circondato da gruppi che, con

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appostamenti estenuanti, si accalcavano con il taccuino in mano intorno al primo artista che si affacciava dalla porta girevole. Se arrivava la notizia – sempre incontrollata e quasi mai confermata – di qualche presenza significativa in qualche albergo, iniziava una corsa irrefrenabile per essere i primi a vedere e soprattutto assicurarsi l’agognata firma. Il sabato pomeriggio della finale, mio fratello Alberto tornò a casa con il taccuino strapieno di autografi; me li sfogliava davanti… facendomi morire d’invidia. Non ressi, quando vidi che c’era anche quello di Gigliola Cinquetti. Questo è l’anno in cui Mike Bongiorno presenta con Carla Puccini e Paola Penni. Mentre Mike sta parlando, Carla Puccini, colta da malore, sviene sul palcoscenico del Casino. A dieci anni ci s’impressiona facilmente. Io m’impressionai nel vedere, rigorosamente in bianco e nero, questa donna cadere “come un sacco vuoto” (espressione molto in uso in ambito familiare). Mi alzai in piedi, così come fecero alcuni degli spettatori presenti in sala. Mike, da smisurato professionista, non batté ciglio. Intervennero gli uomini dei 4+4 di Nora Orlandi che stavano alle spalle della svenuta. Carla fu sollevata e portata fuori in orizzontale, mentre il suo vestito di organza (che per me significa vestito fatto con tessuto che sembra garza) pendeva inanimato verso il pavimento del palco. Uno shock visivo dal quale feci molta fatica a riprendermi. Ma accidenti: Babbo Natale non esiste; e non esiste nemmeno il topolino che mette i soldini al posto del

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dentino; e nemmeno è esistito quello svenimento. Tutta scena. Tutto spettacolo. Solo Mike se ne era accorto subito.

1967. Mettiamoci subito d’accordo. Il suicidio di fu causa diretta della nascita di una specifica ed omonima Rassegna creata da quell’Amilcare Rambaldi che ho citato nel primo capitolo di questo mio racconto; Rassegna che ancora oggi continua onorevolmente il suo cammino. Il suicidio di Luigi Tenco segna l’avvento di un’epoca musicale nuova, caratterizzata da una legione di cantautori che modificò profondamente forma e contenuti della canzone (fatti i dovuti rapporti: come l’elezione di Papa Woitila si accompagnò al crollo del comunismo). Il suicidio di Luigi Tenco contribuì ad una riflessione collettiva sul mondo festivaliero, svelandone le miserie e oscurandone gli sfolgorii; ma è altrettanto vero che tutto ciò non fu percepito nei giorni del Festival. L’emozione fu grandissima; i giornali non parlavano d’altro; ma in virtù degli enormi interessi commerciali a cui ormai la Rassegna sanremese era indissolubilmente legata, si fece ogni cosa ed in tutti i modi per rimuovere l’evento; per evitare che esso potesse in qualche modo “disturbare” la cerimonia canora; e ciò sulla base del celeberrimo e salvifico principio (dalle spalle fin troppo larghe): “Lo spettacolo comunque deve andare avanti”. Questa cinica reazione sanremese sarà, negli anni, uno dei capi d’accusa dal 32

quale il Festival dovrà difendersi. Il Festival cioè sarà da molti pensato come un indegno carrozzone dove la vera musica è bandita, incapace di capire i poeti e le poesie, le melodie inusuali ed innovative: il tempio dell’esteriorità e della superficialità. Il suicidio di Tenco fu declassato a stupida azione, inconcepibile perché provocata da un’esclusione da una finale di canzonette, anche se è giusto ricordare che il cantautore, nella sua lettera d’addio, giustificava l’atto adducendo proprio tale motivazione. Tutto è stato detto su quella tragedia, vorrei soltanto aggiungere una piccola considerazione: ammesso e non concesso che il suicidio dell’artista fosse in qualche modo connesso ai deludenti esiti festivalieri, se Tenco avesse aspettato, da lì a poco sarebbe rimasto anch’egli coinvolto nei fasti cantautorali prossimi venturi; forse la sua unica colpa è stata la fretta eccessiva. La morte di Tenco fu una coincidenza o un segno che qualcosa stava cambiando? Possiamo solo dire che molto cambierà; e indipendentemente dalla decisione di Tenco; ma nel 1967 il Festival è ancora in piena salute. Sono i nomi degli artisti e i titoli delle canzoni che lo fanno capire: I Giganti, Lucio Dalla, Little Tony, Giorgio Gaber, , Pino Donaggio, , Don Backy, Ornella Vanoni, Orietta Berti, Wilma Goich, Antoine, Bobby Solo, Connie Francis, , lo stesso Luigi Tenco, , Dionne Warwick, Fred Bongusto, Gene Pitney, Caterina Caselli, Edoardo Vianello, Mino Reitano, Nico Fidenco, Domenico

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Modugno, Milva. E le canzoni? Quando dico che ti amo di Annarita Spinaci che ebbe un successo breve, ma intensissimo; Proposta de I Giganti, Bisogna saper perdere dei Rokes; Cuore matto di Little Tony; Io tu e le rose di Orietta Berti (e inutile che storcete il naso); La musica è finita, una delle più belle canzoni italiane; L’immensità di Don Backy; la divertente Pietre di Antoine e Gian Pieretti e poi ovviamente Ciao amore ciao di Tenco, in coppia con Dalida, che divenne l’inno dell’antifestival. Vince Non pensare a me con Claudio Villa e Iva Zanicchi. Un Sanremo in ottima salute dunque, così come lo era la musica in genere. Questo è l’anno di E’ la pioggia che va (Rokes); C’era un ragazzo… e Un mondo d’amore (Gianni Morandi); 29 settembre (Equipe 84); Stasera mi butto (Rocky Roberts); La coppia più bella del mondo (Adriano Celentano); A chi di ; Nel sole di Al Bano; A whiter shade of pale dei Procol Harum; San Francisco di Scott McKenzie; Lady Jane dei Rolling Stones; All you need is love dei Beatles.

Tutte le volte che il Festival dimostra di stare al passo con i tempi, puntualmente, arriva la controrivoluzione dei nostalgici del “vero Sanremo”. Il 1968 costituisce un ulteriore progresso sia per le presenze davvero notevoli degli artisti che per il numero di buone canzoni che vengono sfornate; ma ciò avviene in un clima di rivincita della canzone tradizionale rispetto a quelle dei “cappelloni”. I temi impegnati sono abbandonati. Su 24 canzoni ben 18 34

parlano d’amore. Vince Sergio Endrigo con in coppia con Roberto Carlos. Endrigo è incensato da una parte della stampa come il cantante “per bene”; in giacca e cravatta, con i capelli corti, dall’aria vagamente anzianotta. Intendiamoci: Endrigo è stato un artista di tutto rispetto; ha scritto belle canzoni; ha collaborato con poeti come Ungaretti e Pasolini, però, nel 1968, incarna inesorabilmente il passato. Adriano Celentano con Canzone in coppia con Milva, arriva terzo. Il molleggiato s’indigna: ”Avrei accettato di arrivare decimo, se prima di me fossero stati premiati , Armstrong e Tony Renis, ma non posso ammettere che al primo posto ci sia Endrigo. Siamo nel 2000 ragazzi! Che ci fa Endrigo nel 2000?”. Questo è l’anno del grande Louis Armstrong che si esibisce, come tutti gli altri, per la durata del motivo che gli era stato affidato, alla fine del quale vorrebbe continuare la sua performance, ma Pippo Baudo lo costringe ad uscire dal palcoscenico. Armstrong non riesce a capacitarsi del fatto di avere ricevuto così tanti per cantare solo qualche minuto. Pippo Baudo è un capitolo lunghissimo nella storia del Festival; probabilmente non ancora concluso. Negli anni a venire sarà non solo uno dei presentatori del Festival con il maggior numero di presenze, ma l’incarnazione vivente della Rassegna sanremese, riuscendo ad imprimere alla stessa caratteri propri e, per certi aspetti, innovativi. Qui è ancora alle sue prime armi, ma reduce da un successo travolgente ottenuto con la trasmissione . La querelle su

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Endrigo e sui caratteri controrivoluzionari del Festival si spiega con ciò che accade lontano da Sanremo: questo è infatti l’anno in cui in Italia studenti di destra e di sinistra cominciano ad occupare le facoltà universitarie: l’alba della contestazione giovanile, che dilagherà anche all’interno della Rassegna, riducendola a qualcosa di minuscolo, risibile, inutile; di offensivo rispetto ai valori musicali che si affermeranno. Occorreva quindi difendersi in qualche modo; e il Festival si difende molto bene: le canzoni che entrano in repertorio sono tante; anche se (il primo segno di iniziale indebolimento) nessuna canzone sfonda. Non possiamo non ricordare Casa bianca di Ornella Vanoni e Marisa Sannia; Deborah di Fausto Leali e Wilson Pickett, La Tramontana di Antoine, Quando m’innamoro di Anna Identici; Stanotte sentirai una canzone di Annarita Spinaci; Mi va di cantare di Louis Armstrong e ; La voce del silenzio di Dionne Warwick; ed ancora: Il re d’Inghilterra di Nino Ferrer; La farfalla impazzita di Johnny Dorelli e Paul Anka e La vita cantata da Shirley Bassey. Così come continua, fuori dal Festival, una produzione musicale, davvero rimarchevole: La bambola di ; Azzurro di Celentano, Ho scritto t’amo sulla sabbia (Franco IV e Franco I); Applausi dei Camaleonti; Vengo anch’io? Non tu no di ; Piccola Katy dei Pooh; Rain and tears degli Aphrodite’s Child e Hey Jude dei Beatles. Diciamo la verità: questo florilegio musicale fa davvero impressione per quantità e qualità. Appare come il segno di un’epoca d’oro.

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Un’epoca che chiarisce le ragioni per cui oggi i nostri figli ascoltano molte delle nostre canzoni; ma mentre alcune di esse e per alcuni di noi quelle canzoni (non fosse altro che per le loro caratteristiche tecnico- musicali) rappresentavano la critica ad un mondo che la schiera dei cantautori s’incaricherà di precisare, per i nostri figli esse rappresentano invece l’annullamento di una distanza, l’impossibilità o forse l’ormai inutile necessità di marcare una differenza. Forse perché la rivoluzione dei costumi si è compiuta? O forse perché la cosiddetta società dei consumi ci ha tutti parificati ed omologati? A voi la voglia di rispondere.

Nessuna edizione del Festival è caratterizzata come quella del 1969 da proteste, recriminazioni, dissidi e contestazioni. Già a dicembre i “protestatari” erano scesi in piazza in occasione della prima della Scala e poi al Capodanno de “La Bussola”. A Sanremo si ha così paura delle manifestazioni politiche che la RAI, per sicurezza, registra il Festival la mattina, anche se poi sarà trasmesso in diretta. Il pubblico rinuncia agli abiti eleganti. Nasce il Controfestival. A Villa Ormond, sede del Comune, parlano i rappresentati del PCI, del PSIUP, del PSI; poi Dario Fo tiene il suo spettacolo tra le proteste dei maoisti che volevano celebrare esclusivamente il dibattito. Al termine del raduno di Villa Ormond tre studenti liceali cominciano uno sciopero della fame per protestare contro il degrado del Borgo Pigna di Sanremo. L’“Unione Inquilini” sfila con 37

cartelloni pieni di foto di appartamenti malsani. Protesta il Sindaco per l’immagine falsa e distorta che i Telegiornali hanno dato della città. Protestano i discografici contro plagi e contraffazioni. Protestano i cantanti esclusi dall’Eurovisione. Sanremo diventa una formidabile vetrina per tutti quelli che desiderano esprimere un malessere, vero o presunto che sia. Le ragioni della musica lasciano il posto a quelle della politica, ormai prevalente negli ambienti e nelle teste delle persone. Musica, almeno per ciò che riguarda il Festival, aspramente ed apertamente disprezzata per la vacuità dei temi proposti. La Rassegna sanremese infatti continua anche quest’anno a percorrere la tranquillizzante strada delle canzoni d’amore; così come facevano quelli che, incuranti dell’assedio dei Turchi, disquisivano sul sesso degli angeli. Precisiamo: i brani di Sanremo hanno sempre un pubblico nutrito, che deve però costantemente difendersi o meglio giustificarsi dalla colpa di amare queste canzoni, prive, così si diceva, della capacità di rispecchiare i problemi e le attese degli italiani. E’ in questa epoca, direi in questi mesi, che si forma una specie di totalitarismo culturale che partorisce le vacanze che, per essere davvero tali, dovevano essere “intelligenti”; l’obbligo morale, se non si voleva essere chiamati fascisti, di vestirsi in un certo modo; l’atteggiamento costrittivo per cui bisognava seguire “la linea”: intellettualmente, negli stili di vita, esteticamente; una linea che non risparmiava il colore di una sciarpa o la marca di una sigaretta; semplici oggetti

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ridefiniti politicamente e classificati, secondo i casi, di destra o di sinistra; e sarà così fino agli anni ottanta. Sanremo comunque nel 1968 produce canzoni non ancora dimenticate; innanzitutto quella che vince: Zingara cantata da Bobby Solo ed Iva Zanicchi; e poi Un’ora fa di Fausto Leali; Ma che freddo fa di Nada; La pioggia di Gigliola Cinquetti, che è quella che vende di più in assoluto, anche se le hits sanremesi si assottigliano quantitativamente e s’indeboliscono qualitativamente. Fuori dai circuiti festivalieri si ascolta infatti: Acqua azzurra, acqua chiara di ; Tutta mia la città (Equipe 84); Viso d’angelo (Camaleonti) e soprattutto Ob-la-di Ob-la-da dei Beatles. Ma il Festival del 1969 è quello che traccia il segno di una presenza indimenticabile: Lucio Battisti con Un’ avventura. Questo artista, con il paroliere Mogol, è uno dei grandi simboli della canzone nazionale. Ha modernizzato la musica nostrana, grazie ad una felice sintesi tra melodia e rock. Generazioni di italiani (anche quelli di sinistra che ufficialmente lo detestavano) sono cresciute con Mi ritorni in mente, 29 settembre, Emozioni, Acqua azzurra acqua chiara, Il mio canto libero e Una donna per amico. Chi vi scrive ha maturato gusti ed emozioni sulle canzoni di questo artista. Mi sarebbe impossibile trattenere alcuni dei miei ricordi adolescenziali più significativi senza intingerli nelle canzoni di Lucio. Tra l’altro Battisti vanta una longevità post mortem davvero unica. Non vi è nessun ragazzo di oggi che non conosca almeno una delle sue canzoni ed in particolare La Canzone del Sole,

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frutto geniale nato dalla sublime semplicità – che è dei Grandi - di quattro accordi ricorrenti. Il Festival del 1969 è presentato da Nuccio Costa e Gabriella Farinon. Presentatore allora molto noto, ma di fascia inferiore rispetto a Mike e al sempre più televisivamente espansivo Baudo. Gli stranieri cominciano a diminuire. Il Festival tiene, ma ha il fiatone. Stava diventando davvero difficile, troppo difficile continuare a cantare “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, mentre a Praga, Jan Palach si dava fuoco per protestare contro l’imperialismo sovietico.

Nel 1970 il Festival compie vent’anni. Sarà organizzata, per l’occasione, una serata rievocativa al Teatro Ariston, che ebbi l’occasione di seguire dal vivo, anche se mezza azzoppata perché non tutti furono disposti a parteciparvi, timorosi di essere mummificati (Nilla Pizzi lo disse esplicitamente) e quindi definitivamente giubilati. Il Festival è presentato ancora da Nuccio Costa con Enrico Maria Salerno, anche se il personaggio, tra i presentatori, che più fece parlare di sé fu Ira Fürstenberg, la bella principessa in onore della quale fu chiamato “Ira” un garofano giallo impero, screziato di porpora. Alcune presenze rilevanti in gara quell’anno: I Camaleonti ed Ornella Vanoni con Eternità; Rosalino (che poi diventerà Ron) con Pa' diglielo a ma'; Antoine con la sua Taxi; ma il Festival di quest’anno si chiama Adriano Celentano con Chi non lavora non fa l’amore. Questa canzone divise l’Italia in due. 40

Il periodo era quello degli autunni caldi (in qualche caso bollenti) delle lotte politiche e degli scioperi. Celentano interviene a gamba tesa sull’argomento affermando che: “L’operaio se non lavora, perde il diritto di fare l’amore: questo gli ha detto sua moglie; però se non sciopera lo picchiano”. La canzone, cantata in coppia con la moglie , vince e apre il dibattito: “La canzone dei crumiri” dice Fabrizio Zampa su Il Messaggero. “Il testo di Celentano – chiosa Lietta Tornabuoni dalle colonne del Corriere della Sera - è odioso, perché esprime le ostilità della piccola borghesia italiana contro le agitazioni operaie”. Lasciamo cadere il dibattito sul tema, non fosse altro perché, a causa del tempo trascorso, esso è ampiamente passato in giudicato. Due parole invece su Adriano Celentano. Questo artista ha un ruolo centrale nella storia della musica e dello spettacolo italiano. Salito alla ribalta del grande pubblico nel 1961 con 24.000 baci, è riuscito ad attraversare indenne decenni di rivolgimenti musicali e non; ed ancora oggi è un artista dalle notevoli risorse, anche se ovviamente in un contesto assai più complesso di quello che lo ha visto tra i primissimi negli anni sessanta. Adriano è poi dotato di una personalità così spiccata da essere un animale da palcoscenico, capace di “bucare” il video come nessuno. Potremmo dire che, sotto questo aspetto, forse soltanto Fiorello può stargli alla pari; purtroppo il suo limite è di pretendere di filosofeggiare su tutto e su tutti, sfoggiando concetti stracotti, anche se in linea di

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principio condivisibili, spacciandoli per idee intellettualmente interessanti e sempre furbescamente autocommentate dall’interessato come pensieri di un uomo semplice ed ignorante; il che ovviamente gli assicura una vasta simpatia popolare. Ciò che stupisce non è tanto la figura del filosofo-cantante che comunque Celentano è stato davvero bravo a costruirsi, quanto lo spazio eccessivo che i media gli offrono ogni qual volta Adriano apre bocca; anche se ciò accade perché, ovviamente, il mezzo televisivo ha tutta la convenienza di servirsi dei suoi proclami per sfruttare il ritorno economico e pubblicitario che il personaggio assicura. Tornando al Festival possiamo dire che ormai il processo di smarcamento della musica italiana dalle direttive sanremesi era in fase oltre modo avanzata: Fiori rosa, fiori di pesco di Lucio Battisti e tutto l’ Emozioni, nonché il Volume III e Tutti morimmo a stento di Fabrizio De André sono le cose che si sentono, nell’anno in cui i Beatles si sciolgono. Come poter competere di fronte a queste produzioni? Il Festival non ci riesce e si avvia verso una strada laterale. Nel 1971 ci sarà un sussulto d’orgoglio; nel 1972 il sussulto diventa sussultino per poi diventare, dal 1973, crisi profonda e di lunga durata.

Nel 1971 l’Italia è un campo di battaglia. Il tradizionale antagonismo guelfi-ghibellini di antica memoria si riproduce, in questi anni, a livello nazionale sotto il nome di comunisti contro fascisti, anche se non 42

è solo il nostro paese ad essere luogo di scontri; in realtà è il confronto planetario USA-URSS – connesso alle vicende belliche in Indocina ed in Vietnam - a riprodursi verso il basso, in modo altrettanto planetario. Vi sono sul tappeto due concezioni diametralmente opposte dell’esistenza: la società capitalista e quella comunista. Non vi è persona che non si senta obbligata a schierarsi dall’una o dall’altra parte: tertium non datur. Sono gli anni della demolizione scientifica del concetto di “privato”. Tutto è “pubblico”: nel modo di fare l’amore, di concepire i rapporti interpersonali, nelle amicizie che si scelgono. I movimenti giovanili si rappresentano utilizzando segni esteriori inequivocabili, che testimoniano una capacità di solidarizzare (anche se rigorosamente all’interno dei movimenti medesimi) allo scopo di sconfiggere, si diceva, la borghese solitudine dell’individuo. Quest’ultimo non esiste più come tale, ma come parte di un’identità di gruppo, scelta sulla base delle proprie convinzioni politiche; tutto ciò però è pagato al prezzo di una dominante faziosità, che nessuno osava contestare perché concepita come valore positivo. Ciò provoca inevitabilmente una radicalizzazione verso i cosiddetti “estremismi” che si concretizza, spesso in modo violento, nelle piazze che la classe dirigente del tempo, egemonizzata dalla Democrazia Cristiana, gestisce a fatica cercando di difendersi dall’accusa di essere il simbolo di un potere vecchio e da scalzare al più presto. La rivoluzione politica, temuta da una parte ed agognata dall’altra,

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sembra essere alle porte; ma sarà, rispettivamente, un pericolo inesistente ed una mera illusione. A Sanremo le polemiche e le contestazioni continuano. Si arriva addirittura ad una specie di attentato, per fortuna sventato. La notte precedente alla serata finale la polizia arresta un contestatore di origine somala che si aggirava con cerini e benzina intorno al camion del gruppo elettrogeno che fornisce la corrente a tutte le attrezzature RAI. Ormai è chiaro che il Festival ha perduto per strada una delle sue caratteristiche fondamentali: l’occasione di far cantare per tre giorni l’Italia, spensieratamente; un’occasione per “staccare”; per devertere dai problemi di tutti i giorni. Non è un caso che nella seconda metà degli anni settanta, contestualmente alla caduta di significato della manifestazione sanremese, aumenti la popolarità della Rassegna Tenco di Amilcare Rambaldi (nascerà nel 1974) che da spettacolo di nicchia, diventerà il luogo in cui si celebrano i veri valori musicali; anche se il costante rifiuto della Rassegna medesima – connesso alla sua stessa natura – di farsi conquistare dal business televisivo, le impedirà di penetrare nell’intimo musicale degli italiani. Fatto è che il pubblico del Teatro Ariston (dove il “Tenco” ha ancora tuttora luogo) diventa numerosissimo, battagliero, implacabile nei giudizi e molto caratterizzato politicamente e quindi dotato di una vitalità che fa a pugni con l’immagine consegnata dagli spettatori – disprezzati perché capitalisti – in giacca e cravatta e mentalmente inamidati, del Salone

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delle Feste del Casino di Sanremo, dove, nel 1971 presenta l’attore Carlo Giuffré e l’attrice Elsa Martinelli che, come l’Ira dell’anno precedente, è incensata con il nome di una rosa a lei dedicata; ma attribuire i nomi delle donne alle rose è ormai, nella migliore delle ipotesi, una cosa d’altri tempi. Nonostante tutto però il Festival del 1971 produce un esito positivo: i primi tre posti infatti sono occupati da canzoni che possono essere considerate come tra le più belle delle nostre. Vince Nada, personaggio di un certo spessore artistico, con Il cuore è uno zingaro, cantata in coppia con Nicola di Bari; a seguire la grande Che sarà nell’indimenticabile interpretazione di José Feliciano; e terza; 4 marzo ‘43; una canzone che piacerà tantissimo e che lancia definitivamente Lucio Dalla. Questa canzone doveva recitare così: “…che bestemmio e bevo vino, per i ladri e le puttane”; ancora impossibile dire queste cose al Festival ed in televisione; e allora la strofa diventa: ”…che gioco a carte e bevo vino, per la gente del porto”. Questi tre motivi entrano nell’immaginario collettivo degli italiani, anche se devono vedersela con: Tanta voglia di lei dei Pooh; Amore caro, amore bello di Bruno Lauzi: La Canzone del sole di Lucio Battisti; con le colonne sonore (che vanno tantissimo) di Anonimo Veneziano e Love story; e poi con tutti gli stranieri che dominano le classifiche: Led Zeppelin, Jethro Tull, Deep Purple, Emerson Lake e Palmer e i Santana.

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Il 1972, con il quale concludo la prima parte di questo racconto, segna la fine dell’epoca gloriosa del Festival di Sanremo. Scompare la doppia interpretazione. Nella commissione selezionatrice, per stare al passo con i tempi, fanno parte quattro rappresentanti sindacali della CGIL, CISL, UIL e CISAS. Per la prima volta si presenta Gianni Morandi, ormai entrato nella sua fase discendente (ma risalirà alla grande). Morandi canta Vado a lavorare; e per questo è deriso ed invitato a farlo veramente. I criteri di selezione dei cantanti, chiamati direttamente prescindendo dalle case discografiche, generano polemiche a non finire, così come altre ne nascono per i motivi più disparati. Torna Mike Bongiorno che presenta con Sylva Koscina e s’inaugura la formula della presenza del comico (già sperimentata con Tognazzi e Vianello nel 1962) che quest’anno sarà , molto apprezzato all’epoca. L’edizione 1972 riesce ancora a piazzare qualche titolo interessante. E’ l’anno di Jesahel dei mitici Delirium, di cui faceva parte , votato anche dalla mia compagna Brunella che, trovandosi nel Collegio della Santissima Annunziata di Firenze, nella sua qualità di “Poggiolina” era stata, con le sue amiche, coinvolta nelle votazioni. In seguito al plebiscito di voti ottenuto dalle Poggioline, i Delirium fecero visita alle ragazze del collegio fiorentino, rilasciando autografi a più non posso (foto di copertina). Poi Montagne verdi di Marcella, gettonatissima nell’estate successiva; ed infine Piazza

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Grande di Lucio Dalla, anche se tutto ciò serve a ben poco ai destini del Festival. Sanremo aveva esaurito “la sua spinta propulsiva”. Si potrebbe imputare agli organizzatori dell’epoca l’incapacità di ripensare a dovere la manifestazione, ma forse era un’impresa troppo ardua; e ciò per più di una ragione. Innanzitutto la questione della gara del tutto incompatibile con lo spirito del tempo; gli artisti, si diceva, hanno un loro percorso musicale: è offensivo metterli in competizione come si fa con i cavalli; tuttavia, se il Festival avesse rinunciato alla gara sarebbe diventato la brutta copia della Rassegna Tenco che del rifiuto della competizione farà sempre un suo punto d’onore; e poi il Festival non possedeva quella libertà di azione che consentirà al Club Tenco di proporre artisti internazionali prestigiosi, anche se sconosciuti al grande pubblico italiano; e ciò a causa del suo intimo collegamento ad interessi economici e televisivi che lo obbligava ad una programmazione costantemente attenta all’audience. Poi c’è da dire che il Festival non riesce a reggere il confronto con le produzioni musicali del tempo, che se ne stavano ben lontane (e felici di esserlo) da Sanremo. Qualche nome e qualche titolo: Questo piccolo di Claudio Baglioni; la produzione in blocco di Lucio Battisti, di Mina, di Fabrizio De Andrè; la Premiata Forneria Marconi; e poi, oltre frontiera: Imagine di John Lennon, My world dei Bee Gees; George Harrison; per non dire delle colonne sonore de Il Padrino e di Arancia Meccanica; realtà discografiche che, tra l’altro, stavano

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pensionando il vecchio 45 giri – supporto ideale alla logica festivaliera – a favore del cosiddetto LP, oggetto simbolo della maturità raggiunta dal pubblico; e ciò perché nel 33 giri non si trovava soltanto la canzone carina o fortunata, ma la possibilità di esprimere un discorso assai più ampio e complesso: un’ opera artisticamente compiuta. Sanremo perde la partita. Si avvita su se stesso. La televisione lo percepisce e, con il cinismo che la contraddistingue, lo abbandona. La manifestazione entra in una lunga notte che durerà quasi un decennio, privata anche della dignità del disprezzo: semplicemente ignorata; anzi: il criterio si rovescia; partecipare o aver partecipato al Festival diventa motivo di vergogna. I cantanti italiani invitati alla Rassegna Tenco se beccati ad avere nel loro curriculum anche un solo passaggio festivaliero, dovevano giustificarsi di fronte al pubblico per quello che era considerato se non un peccato mortale, certamente più che veniale. Sarà così fino al 1981, anno che coincide con l’elezione al soglio presidenziale statunitense di quel Ronald Reagan che comunicherà al mondo che l’epoca del “tutto è pubblico, il privato non esiste” era terminata. Con l'inizio degli anni ottanta il Festival, sull’onda dell’“edonismo reaganiano”, riprenderà, ristrutturato, il suo cammino ascendente, senza rinnegare le sue caratteristiche fondamentali, ma in circostanze che poco avranno a che fare con i fasti irripetibili degli anni sessanta.

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Gli anni difficili del Festival (1973 – 1980)

Negli anni settanta dominano i cantautori

Al Festival di Sanremo, nel 1980, si esibisce Giorgio Zito, fratello di Edoardo ed Eugenio Bennato, il quale usa il cognome materno perché i fratelli si vergognavano nel vedere un membro della famiglia partecipare alla manifestazione. Basterebbe questo aneddoto per riassumere ciò che il Festival è stato dal 1973 fino al 1981, anno in cui, anche se molto 49

timidamente, si incomincia ad invertire la tendenza negativa.

Nel 1973 il processo di destrutturazione della Rassegna sanremese procede a grandi passi: Celentano si serve di un’improvvisa gastrite per giustificare il suo disinteresse; e infatti non viene; la televisione trasmette solo la serata finale (nonostante le proteste del Sindaco); non vi è nessun ospite comico; di Big, manco l’ombra; al primo posto in Hit Parade non compare nessun motivo sanremese (ed è la prima volta che accade); non vi sono canzoni ragguardevoli, neppure con il beneficio del tempo, ad eccezione di Drupi che con la sua Vado via, bellamente esclusa dalla finale, è l’unico che può vantare un ottimo successo. Fuori dal Festival invece le cose, musicalmente parlando, continuano a funzionare: Battisti, che nel 1972 aveva sparato I giardini di marzo ed Umanamente uomo: Il sogno nonché Il mio canto libero, non contento, ci regala nel 1973: Il nostro caro angelo; poi Patty Pravo con il singolo Pazza idea; Amore bello di Claudio Baglioni; Erba di casa mia, successone di ; Le Orme con Uomo di pezza e per ultimo - che qui significa primo – l’opera classica The dark side of the moon dei . Il 1973 ha un significato particolare per chi vi scrive, in quanto ebbi modo di assistere all’uscita di Zarathustra del , gruppo del quale fa parte mio fratello Alberto. La formazione di allora era composta da (il futuro batterista dei ), 50

Pit Corradi (tastiere), Enzo Merogno (chitarra), Alberto Moreno (basso) e Stefano Galifi (voce). L’esperienza del “Museo” è tra i ricordi più belli della mia famiglia. La cantina di Bordighera in cui avevano luogo le prove, la casa, le pareti ed il giardino di Via Vittorio (nonché la via medesima) erano costantemente invasi da note musicali e da un “via vai” di presenze giovanili, il cui traffico era del tutto incurante dell’ordinaria alternanza giorno-notte. Il primo risultato di tutto ciò fu la possibilità, per una corte assai nutrita di persone, di respirare un’atmosfera di condivisione musicale (e non solo!) irripetibile e, per grado di attenzione, unica nel genere; atmosfera alla quale, seppur lateralmente (a causa della mia giovane età) ho avuto anch’io la fortuna di partecipare. Il secondo risultato fu appunto l’uscita di Zarathustra, un’opera che allora non sfondò perché i connotati della stessa furono parzialmente rigettati; del resto non poteva essere diversamente nell’epoca del trionfo verbale dell’Internazionalismo proletario. La copertina, i temi, i riferimenti filosofici nietzschiani (interpretati in modo distorto) offrivano effettivamente, rispetto alle produzioni del tempo, spunti di riflessione singolari; ma proprio per questo l’opera avrebbe meritato una valutazione più attenta, invece di essere sbrigativamente collocata in una “zona di destra” che, in quegli anni, significava “confino”. Oggi questo LP, diventato oggetto di un cult che non risparmia la stessa copia in vinile, è molto apprezzato anche dalle generazioni più giovani, alle quali non sfugge la

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struttura suite del disco, assai adeguata ad irrobustire il senso musicale e testuale dei singoli brani. Il “Museo” comunque non fu sempre una realtà alternativa al Festival. Nel 1973 i due mondi entrarono in contatto. Sentiamo il racconto dello stesso Alberto Moreno:

In occasione della kermesse sanremese le case discografiche esercitavano le consuete pratiche cannibaliche per ottenere posti nel vero Festival, ma amavano anche disseminare nei locali di Sanremo le loro proposte d'avanguardia, alternative alle "canzonette"; e quindi accadde che il Museo suonasse nel periodo del Festival al Number One di Gianni Romano. Si trattava di quello che oggi si chiama show case. Con orgogliosa vergogna devo ricordare che a fare da spalla al Museo in quella settimana si alternarono il Maestro Vince Tempera che eseguiva Keith Jarrett; Antonello Venditti che cantava Roma Capoccia e che presentava dei brani dalla sua Opera buffa. Questi illustri apripista facevano 2 o 3 pezzi e poi, paradossalmente ... arrivava il Museo con Zarathustra (così era!). Un pomeriggio, durante una prova, entrò nel locale un dirigente della Ricordi... trafelato, come sono i discografici durante il Festival. Stava cercando urgentemente dei coristi da affiancare a Drupi che aveva in gara Vado via. Si rivolse a noi chiedendo se c'era qualcuno disposto a provare... Nei nostri spiriti forgiati da Easy Rider e galvanizzati da Woodstock la richiesta non sembrò un'eretica e inaccettabile contaminazione, ma assunse subito questo allettante significato: "Si va in televisione! Si appare al Festival di Sanremo!...Che occasione per una breve ma significativa notorietà!". Con malcelato distacco tutti si proposero, ma purtroppo ne servivano solo due. Si decise per un provino; l'appuntamento era per la stessa sera al 52

Grande Hotel del Mare dove risiedeva il direttore artistico della Ricordi (anche Drupi era di quella scuderia). I 5 del Museo arrivarono puntuali e decisi ad emulare i 4+4 di Nora Orlandi. Trovarono un debuttante al pianoforte che stava cantando delle songs di Sinatra. In breve fu allestito un provino e ciascuno di noi imparò la parte di corista. La voce del nostro cantante, Stefano Lupo Galifi, risultò troppo simile a quella di Drupi e in effetti le loro sfumature e le raucedini erano quasi identiche. Pit Corradi, il tastierista, il più integralista tra noi, non cantava per definizione; quando risultò inadatto non provò sofferenza. Io, che invece aspiravo, fui scartato perché sostanzialmente calante. Sul palco del Salone delle Feste sarebbero andati Enzo [Merogno] e Giancarlo [Golzi]! Il Museo Rosenbach subì una forte scossa tellurica che minò le sue fondamenta. In televisione ... al Festival ... ma solo una parte di esso. In un lampo apparvero nitide le due anime del gruppo: quella ruvida che palpitava per il rock d'avanguardia, e quella edonista, che occhieggiava al mercato. Capii che io ero posseduto da quest'ultima perché passai i giorni seguenti a rodermi d'invidia per i miei due amici coristi di Drupi. In televisione però, quell'anno, non ci andò nessuno del Museo perché la Rai allora trasmetteva sola la finale e Drupi fu subito eliminato. Il confuso ascolto radiofonico del brano non gratificò le aspettative di fama dei due coristi aggiunti e rese meno acre l'invidia di chi era stato escluso. Questa sembra una parabola di Zarathustra; e come le parabole ha dei messaggi reconditi. II primo è che spesso il Festival invera l'essere degli artisti e impone loro la scelta tra la coerenza e il successo; il secondo è che per Giancarlo Golzi questo episodio fu un segno premonitore perché lui calcherà la ribalta festivalieri numerose volte, mai più come corista ma 53

sempre come protagonista. Il terzo messaggio che si potrebbe cogliere è che a volte, gli ultimi diventano i primi. Vado via di Drupi infatti arrivò ultima (come succederà anche a Zucchero e forse a Vasco) ma sarà una delle prime canzoni italiane a diventare popolare in un mondo non ancora globalizzato.

A Sanremo le uniche novità sono tecnologiche: Il Festival entra in videocassetta ed è registrato (ma non trasmesso) a colori. Punto. Occorre dire comunque che il demerito della scarsa performance festivaliera non risiede esclusivamente nella Rassegna medesima; è un discorso di canali che si erano moltiplicati a dismisura, togliendo definitivamente a Sanremo lo scettro di luogo musicale prevalente.

Le cose peggiorano ancora nel 1974. La RAI conferma la scelta di trasmettere soltanto la finale; diminuiscono i giornalisti accreditati e con loro gli articoli sui giornali; s’inaugura la sciagurata regola di mandare i Big, divisi dalla categoria Giovani, direttamente in finale. E’ un modo come un altro per abolire la gara - di cui abbiamo già detto - che non fa altro che indebolire ulteriormente il Festival che della competizione, per sua costituzione fisica, non può fare a meno. Il pubblico segue ormai del tutto lateralmente il Festival. Lo osserva da lontano, stupito; ci butta un occhio, se per caso inciampa in un televisore acceso.

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Sono altre le cose che intercettano l’attenzione della gente; per esempio, la lotta referendaria sul divorzio che avrà luogo nel maggio del 1974. Un evento politico di importanza immane per il nostro paese, il cui significato va oltre. La sconfitta degli antidivorzisti sancita dal voto popolare, nel primo Referendum della storia della Repubblica, segna infatti l’inizio di una stagione - troppo breve e troppo avara - in cui gli italiani riescono ad affermare alcuni diritti, quale quello di sciogliere un matrimonio e, successivamente, di interrompere una gravidanza in condizioni di assistenza garantita ed uguale per tutti. Le conquiste civili di quegli anni sono un merito del Partito Radicale che trascina con sé la parte più avanzata del Paese; anche se purtroppo tutto finirà lì e l’Italia incomincerà ad accumulare un ritardo, rispetto agli altri Paesi europei, che ancora oggi non sembra terminare. Il 1974 è l’anno dell’austerity, delle targhe alterne; insomma, un clima davvero poco propenso a sopportare le ormai inutili canzoni sanremesi, al punto che Luca Goldoni dal Corriere della Sera propone l’abolizione del Festival. Registriamo ancora una volta l’assenza di hits sanremesi, ma anche un certo disorientamento nella musica italiana in genere. Da menzionare però l’album superbo di Lucio Battisti: Anima latina (che, a detta dei rivenditori - sopravvissuti all’era di e-mule - è ancora il più richiesto di Lucio); Anima mia dei Cugini di Campagna; Bella senz’anima - le anime vanno alla grande - di Riccardo Cocciante; va poi molto forte (ma non è merito nostro)

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film e colonna sonora di Jesus Christ Superstar, uscito l’anno precedente.

Se il 1966 ha rappresentato l’edizione migliore della storia del Festival, il 1975 è la testimonianza della peggiore. La presenza degli esordienti al Festival era stato in passato un segno della vitalità della Rassegna; adesso invece il criterio è rovesciato: su 30 cantanti, 26 sono “nuovi”; ma perché nessuno dei famosi ci vuole andare. Una schiera di sconosciuti che rimarranno tali. Sentite i nomi: Angela Luce, Valentina Greco, Laura, Franco e le Piccole Donne: tutti in finale, nella quale i Big sarebbero Gilda e Rosanna Fratello; e poi: Eugenio Alberti, Piero Cotto, Stefania, Le Nuove Erbe; nomi che sembrano tratti dall’elenco dei vincitori del concorso Telefortuna, riservato agli abbonati RAI che pagano in tempo l’abbonamento. Nel 1975 la canzone è ormai emigrata verso altri lidi: le musiche di tradizione popolare, l’avvento del genere etnico e soprattutto le liriche di Francesco Guccini, e Fabrizio De Andrè. Canzoni indimenticabili, quelle di queste ultimi; alcune delle quali di una bellezza adamantina, rimasta tale anche ai giorni nostri, impeccabilmente funzionali alle “crisi di senso”, a cui i giovani del tempo erano affezionati; canzoni cantate con la chitarra, in abbandono su una spiaggia, attendendo l’alba, immersi in un clima perennemente resistenziale, dove alla lettera “effe” del proprio vocabolario la parola “Festival” non c’era proprio. Per 56

quanto mi riguarda devo dire che se Lucio Battisti ha colmato le mie istanze melodiche e romantiche, viceversa il mondo poetico di Guccini, De Andrè e De Gregori (ed in misura minore Antonello Venditti e Claudio Lolli) mi ha consentito di scoprire contorni e contenuti di una realtà alternativa a quella che mi era stata trasmessa dalla mia famiglia. Con Battisti, ho amato. Con i cantautori, ho capito; ovviamente senza rinunciare a divertirmi. Vino e composti fumerecci facevano da colonna portante ad una visione della vita che la copertina del celeberrimo disco di Guccini Due anni dopo ha saputo assai bene condensare in un’immagine (nella foto, all’inizio del capitolo); ma vi era molto “estetismo” in tutto ciò. La “disperazione esistenziale” era cioè un fatto prevalentemente romantico; nella migliore delle ipotesi, letterario; capace di generare legami di amicizia percepiti come indistruttibili e di provocare un senso piacevolissimo di appartenenza ad un ambiente che, per gusti e usi, sembrava il migliore, il più giusto e soprattutto dalla durata infinita, perché costruito su principi del tutto purificati dall’ipocrisia borghese, ormai smascherata; anche se tale dimensione, nella realtà, non era parente, nemmeno alla lontana, della disperazione di chi per davvero è privo di un luogo dove sopravvivere, di cibo e di prospettive. Riuniti nelle case - e non raramente nelle ville - stravaccando sui divani, con giornate infinite a disposizione, in uno stato catatonico voluttuosamente cercato, si disquisiva sulle minimali

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distinzioni ideologiche dei movimenti extraparlamentari, piuttosto che sull’imborghesimento del PCI accusato, nel 1976, di “compromesso storico”; vale a dire di rinunciare alle presunte istanze rivoluzionarie. Altre volte la discussione verteva sull’imbecillità di coloro che ostinatamente votavano democristiano, negando ovviamente a priori il diritto di pensare “a destra”, termine allora identico a “fascista”. Alla domanda “Come stai?” era obbligatorio rispondere (se si voleva far bella figura): ”Male…Sono in crisi”; e intanto, in sottofondo, i guru cantautorali del tempo sciorinavano i loro versi in musica… Vietato accondiscendere all’odiata, a parole, società dei consumi, che di fatto era assai corteggiata, anche se tramite percorsi “alternativi”, nei quali vi era scritto quali erano gli oggetti di cui era legittimo servirsi e quali i divertimenti coerenti. Inno nazionale dei giovani di sinistra era “La Locomotiva”, la conosciutissima ballata di Francesco Guccini, capace di generare un’eccitazione intellettualmente sessuale, il cui orgasmo sfogava nella fatidica frase: “Trionfi la giustizia proletaria!”, immancabilmente accompagnata nei concerti, da pugni chiusi al vento e da oceanici applausi. Insomma, il “do di petto” dell’era moderna. Sull’altro fronte i ragazzi di destra. Se noi eravamo comunisti, loro erano del Movimento Sociale Italiano. Se noi eravamo riconoscibili per i maglioni a punto largo e larghi, per la barba o per la barba fatta saltuariamente, loro lo erano per i Ray Ban, i capelli corti, i vestitini eleganti. Le

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ragazze sfoggiavano cinture di Gucci e foulards di Hermes. Le loro frequentazioni erano esclusive; in quest’ultimo aspetto identici a noi; anche se sembrava il contrario. I ragazzi di destra chiamavano quelli di sinistra “cinesi”; noi usavamo il più tradizionale “fascistoni” o lo sprezzante “fascistelli”. I ragazzi di destra davano minori preoccupazioni ai genitori perché, nello stile di vita, a loro più consecutivi; e perché, con l’aspetto ordinato che li contraddistingueva, non costringevano i papà e le mamme a sopportare, a pranzo e a cena, una critica costante. Anche in quel campo vi erano gli estremisti, gli esagitati e le persone di principio che, negli scioperi scolastici, sfidavano la stragrande maggioranza degli studenti di sinistra, dominatori del campo, pretendendo di sfondare i picchetti. Il rapporto di forze cioè era rovesciato rispetto ad oggi, anche se ai giovani dell’attuale generazione (di entrambe le parti) è del tutto sconosciuta la visione panpolitica che ha caratterizzato i loro padri; cioè noi. Il mondo di sinistra e quello di destra non comunicavano granché; ma nei centri piccoli, dove tutto finisce, per fortuna, a tarallucci e vino, si sopportavano reciprocamente. Molto di buono di quegli anni è stato comunque trattenuto ed è diventato patrimonio comune: jeans e pensionamento di giacche e cravatte, dissoluzione della figura del padre autoritario, accettazione sociale delle coppie di fatto e delle diversità, matrimoni sottratti sempre più al controllo della Chiesa, emancipazione della donna,

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coscienza dei problemi del Terzo Mondo, istanze ecologiste, riduzione del formalismo nei rapporti interpersonali, rifiuto della guerra per principio, introduzione della democrazia nella scuola sono i prodotti migliori di una rivoluzione che fallì politicamente perché affidata ad ideologie rigide e passatiste, ma che trionfò sul piano del costume a cui tutti, di destra e di sinistra, si sono poi uniformati.

Per tornare al nostro Sanremo, ricordiamo che nel 1976 la Rassegna è presentata da Giancarlo Guardabassi. Per la prima volta nella storia del Festival il conduttore non sale mai sul palcoscenico, ma rimane sempre seduto ad un tavolo, ai piedi del palco stesso, munito di monitor, telefoni, testi e microfoni, con una postazione molto simile ad uno studio radiofonico. Guardabassi conduceva la trasmissione come se fosse alla radio, non guardava la telecamera ed era affiancato da due assistenti, che non parlavano. Da Sanremo, zero canzoni. Sentite di cosa è capace la mente umana; questo il sistema di votazione: 10 Big accedono direttamente alla finale, mentre gli altri 20 partecipanti si contendono i restanti 8 posti. I cantanti sono divisi in cinque squadre di 6 elementi, di cui 2 sono automaticamente finalisti, mentre il terzo sarà il più votato fra gli altri 4. Vi è poi una sesta squadra formata da una gara-ripescaggio fra i 5 secondi. Un vero e proprio rompicapo che avrebbe dovuto richiamare l’attenzione degli italiani dopo il fiasco dell’anno 60

precedente; ma ovviamente non si ottiene il risultato sperato.

Nel 1977 ci sono invece elementi di novità sui quali si appoggerà l’elefantiaco Festival degli anni a venire; cambia la sede: si va al Teatro Ariston e, per la prima volta, Sanremo viene trasmesso a colori, anche dalla TV italiana (vi erano stati dei passaggi televisivi precedenti su Telebiella). Debuttano in quell’anno i Matia Bazar, di cui avremo modo di parlare. Gli ormai pseudo Big ovvero Domenico Modugno, Iva Zanicchi e Marcella sono presenti al Festival, nella cuccia calda del “fuori gara”. Lo scandalo maggiore di questa edizione è lo sperpero di ben 50.000.000 dell’epoca per far esibire Barry White, che allora andava più o meno per la maggiore.

Il 1978 è l’annus horribilis non per Sanremo, ma per l’Italia intera che, un paio di mesi dopo la celebrazione del Festival, dovette assistere alla barbara uccisione della scorta di Aldo Moro e del politico democristiano. Ciò che sembrava l’atto supremo del terrorismo italiano - l’essere cioè riusciti a tenere in scacco un’alta personalità della classe dirigente del Paese - si rivelò invece l’inizio della crisi del terrorismo che da anni costringeva gli italiani, che si alzavano al mattino per andare a lavorare, ad assistere a costanti “gambizzamenti” di giornalisti, politici e magistrati, quando non era la vita stessa delle persone ad essere 61

sacrificata. Le Brigate Rosse in quegli anni sembravano invincibili. I fatti dimostreranno che si trattava di individui che avevano scambiato tragicamente le loro analisi socio-politiche con la realtà; in modo analogo ai loro colleghi della parte avversa che, altrettanto inutilmente ed in combutta con zone deviate dello Stato, hanno insanguinato il nostro paese con stragi terrificanti che hanno avuto come unico esito quello di cancellare vite innocenti. Nel 1978 Sanremo, come dicevamo prima, è vinto dai Matia Bazar con E dirsi ciao! Già abbiamo ricordato l’amico Giancarlo Golzi come batterista del Museo Rosenbach; qui lo ritroviamo insieme a , e che nel 1973 si erano presentati al Festival, sotto il nome di J.E.T. (o Jet). Sarebbe davvero ingiusto limitarsi a collegare i Matia Bazar alla vittoria di un Festival che appartiene ad una delle fasi più difficili della Rassegna. In realtà il gruppo, tuttora in attività, era in quell’anno già lanciatissimo ed ha conosciuto, nel tempo, momenti di straordinario successo, riuscendo ad infilare una canzone più bella dell’altra: Che male fa, Per un'ora d'amore, Stasera che sera, Per un minuto e poi, Cavallo bianco, Gente d'ogni età, per non parlare di Solo tu e Vacanze romane, grande brano del Festival 1983. Caratteristica principale del gruppo è l’aver sempre affidato il ruolo del cantante titolare ad una dinastia di voci femminili la cui capostipite è la stessa Antonella Ruggiero (Matia) dotata di una voce cristallina, nonché di un’estensione e di un’agilità vocale davvero

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stupefacente. I Matia parteciperanno al Festival ben undici volte, rivincendolo nel 2002 con Messaggio d’amore. Il 1978 di Sanremo occorre ricordarlo poi per il fatto che per la prima volta la RAI dovette vedersela con la concorrenza interna di RAI2 la rete che, in seguito alla riforma, era sotto il controllo del Partito Socialista (così come RAI1 lo era della DC e RAI3 del PCI). Una troupe de L’altra domenica – trasmissione dell’intelligente Renzo Arbore - pretendeva di leggere il Festival in un modo troppo irriverente. Vennero allontanati; a dimostrazione del rapporto morboso che legava il Festival a RAI1. Al di là infatti della crisi sanremese, la rete ammiraglia della RAI considerava la Rassegna come una cosa personale; non si potevano quindi accettare intrusioni, né di TV e radio private, né tantomeno dei rivali di RAI2.

Arriviamo così all’edizione del 1979 che sconfina addirittura nel patetico. Basti pensare che il maggior successo sanremese di quell’anno è Mi scappa la pipì (papà) di (presente come ospite) che, insieme a Nocciolino di Antoine, trasformano il Festival in una specie di succursale dello Zecchino d’Oro. I fiori sono presenti sul palco in forma di diapositiva (a causa degli alti costi). Mike Bongiorno insiste nel presentare, stavolta insieme ad Anna Maria Rizzoli. Il successo ovviamente va agli ospiti italiani, rigorosamente fuori gara, anche se quest’anno viene ripristinata la formula delle eliminazioni. Non occorre curarsi né dei cantanti e 63

tanto meno delle canzoni; sono semmai da segnalare gli effetti spettacolari portati in scena - resi possibili dalle dimensioni del Teatro Ariston - perché essi sono il segno che si stanno costruendo le fondamenta del futuro Festival, in cui tutto dovrà essere rigorosamente grandioso.

Con il 1980, anche se dal punto di vista musicale la calma rimane sostanzialmente piatta, si può dire che il peggio ormai è passato. E’ il Festival di che con Olimpia Carlisi si esibisce in un bacio particolarmente appassionato e soprattutto nel celeberrimo “Woitilaccio”, che fece così tanto arrabbiare le rigide menti del cattolicesimo oltranzista. L’Ariston si trasforma in una discoteca; l’orchestra è abolita ed i cantanti si esibiscono dal vivo su basi registrate per garantire a tutti un suono uguale a quello del disco. Una stupidaggine che ne prepara una più grave: l’avvento, nel 1983, del playback. Intendiamoci: il Festival ha ancora quest’anno i colori del blu notte, però Benigni seppe fare una cosa importante: con le sue gioiose stranezze era riuscito a richiamare il pubblico televisivo che si collegherà non per seguire la Rassegna (di cui continuava a disinteressarsi) ma per vedere cosa avrebbe fatto e cosa avrebbe detto il grande Roberto. Questo fece aguzzare l’ingegno ai responsabili della manifestazione, perché era la dimostrazione che se si era capaci di mescolare gli ingredienti giusti, Sanremo sarebbe potuta tornare in auge. L’ubriacatura del “tutto 64

è politica” si stava esaurendo. La gente aveva voglia di ricominciare a divertirsi, senza doversi sentire in colpa, per il fatto di apprezzare cose poco culturali. Ormai si era capito che la Rivoluzione non avrebbe avuto luogo ed inoltre il fallimento del Compromesso Storico si portava dietro una sfiducia generalizzata sulle possibilità salvifiche della politica di rispondere “a tutto tondo” alle esigenze delle persone. Insomma, non erano riusciti né il metodo violento né il metodo riformista. Il Festival intuisce il “riflusso” e ci s’infila dentro molto volentieri. Quest’anno è presente anche Claudio Cecchetto, grande talent scout che da ottima prova di sé come presentatore al punto che a lui, l’anno successivo, sarà affidato il compito di rimettere in piedi la Rassegna. Certo, il pubblico dei dischi in quei mesi è concentrato su ben altro: Police e Supertramp; Francesco De Gregori con Viva l’Italia; ed il reggae di Bob Marley che è la novità esplosiva del periodo; però, a partire dal 1982, il Festival può dire di avercela fatta; di essere uscito dal tunnel. Nonostante tutti i tentativi di karakiri, Sanremo è sopravissuto a se stesso. Erano passati trent’anni. Nessuno, nel 1980, avrebbe scommesso un centesimo che nel 2010 la Rassegna potesse ancora esistere e godere di un “posto televisivo” di tutto rispetto. Invece ciò succederà: qualcosa vorrà pur dire…

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1. La prima sede del Festival di Sanremo (1951)

2. La celeberrima Papaveri e Papere del 1952 66

3. Gino Latilla canta, nel 1953, Vecchio scarpone

4. La Televisione arriva a Sanremo nel 1954 67

5. Claudio Villa, protagonista del Sanremo 1955

6. Mike Bongiorno in Lascia o raddoppia? (1956) 68

7. Nunzio Filogamo torna al Festival nel 1957

8. L'anno di Volare: Domenico Modugno nel 1958

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9. Nel 1959 il falso scandalo di Tua

10. I "modernisti" Tony Dallara e Renato Rascel, vincono il Festival del 1960 70

11. I 24.000 baci di Adriano Celentano sono del 1961

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12. La Domenica del Corriere celebra il Festival del 1962

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13. Il 1963 è l'anno dell'assassinio di J. F. Kennedy

14. 1964, il mio primo Festival. Con Roberto Borri, la Tata e due cagnetti

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15. Rita Pavone, nel 1965, è molto popolare

16. La felicità di Domenico Modugno e Gigliola Cinquetti per la vittoria del Festival (1966) 74

17. Luigi Tenco a Sanremo nel 1967

18. Louis Armstrong con Pippo Baudo nella celeberrima esibizione al Festival del 1968 75

19. Iva Zanicchi e Bobby Solo, nell'anno di Zingara (1969)

20. Celentano, nel 1970, presenta una canzone "politica" 76

21. Il 1971 è l'anno di 4 marzo '43

22. Jesahel è il successo del Festival 1972

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23. Nel 1973 esce Zarathustra del Museo Rosenbach

24. Il 1974 è l’anno della vittoria al Referendum sul divorzio 78

25. La copertina di Rimmel, uscito nel 1975

26. Il cantante Giancarlo Guardabassi presenta il Festival del 1976 79

27. Il Teatro Ariston, nel 1977, diventa la nuova sede del Festival

28. Aldo Moro, assassinato dalle B.R., nel 1978 80

29. Una discinta Anna Maria Rizzoli che, nel 1979, presenta il Festival con Mike Bongiorno

30. Una caricatura di Roberto Benigni che presenta il Festival di Sanremo del 1980 81

31. Un’immagine di Claudio Cecchetto, che contribuì alla rinascita del Festival (1981)

32. Giovanni Spadolini, il primo presidente “laico” della storia della Repubblica italiana (1982) 82

33. canta nel 1983 Margherita non lo sa, classificandosi terza.

34. ai tempi di Terra promessa (1984)

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35. I Matia Bazar vincono, con Souvenir (1985) il Premio della Critica

36. Loretti Goggi è stata la prima donna ad essere presentatrice titolare del Festival (1986)

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37. Il trio Morandi-Tozzi-Ruggieri vince l’edizione del 1987

38. Luciano Pavarotti canta Nel blu, dipinto di blu (1988)

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39. Un’immagine singolare del manager Adriano Aragozzini

40. Il Palafiori, sede del Festival nel 1990

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41. Il 1991 è l’anno della Prima Guerra del Golfo

42. Brigitte Nielsen, la giunonica presentatrice dell’edizione 1992 87

43. Nel 1993, Tangentopoli arriva a Sanremo

44. Mara Venier, conduce il Dopofestival (1994) 88

45. Mario Capanna, membro de La Riserva indiana (1995); qui negli anni settanta

46. I mattatori del Festival 1996: e le Storie Tese

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47. Una vignetta che lamenta ironicamente la scomparsa dei (1997)

48. Lucio Battisti muore nel 1998 90

49. Nel 1999 presenta con Laetitia Casta

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50. Lorenzo Cherubini, alias Jovanotti, è al Festival del 2000

51. La Carrà e Japino “toppano” il Festival 2001 92

52. Benigni tormenta Pippo Baudo sul palco dell’Ariston (2002)

53. partecipa al Festival del 2003 93

54. Tony Renis organizza il Festival del 2004

55. Vasco Rossi è (fuori gara) al Festival del 2005

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56. L’edizione del 2006 segna la vittoria di Povia

57. Momo è la vera rivelazione del (Dopo)Festival 2007 95

58. I Melody Fall partecipano, come Nuove Proposte al Festival 2008 e si esibiranno, l’anno successivo, nell’Inverno Musicale di Bordighera

59. Luca Laurenti e Paolo Bonolis, presentano l’edizione 2009

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60. Gli orchestrali si divertono a contestare l’esito delle giurie (2010)

61. Valerio Scanu, vincitore dell’ultima edizione del Festival di Sanremo (2010)

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Dall’ ”Edonismo reaganiano” ai giorni nostri (1981 – 2010)

Pippo Baudo, per alcuni anni, dominatore del Festival

Ed eccoci arrivati alla terza fase della storia del Festival di Sanremo che si concluderà con l’edizione del 2010 vinta da Valerio Scanu. Nel primo capitolo di questo racconto abbiamo visto il Festival nascere ed espandersi; poi la crisi, alla quale ho dedicato un capitolo specifico. Il periodo che adesso vado a raccontare ha invece dei connotati che lo diversificano 98

dai precedenti, in quanto se è vero che il Festival non degraderà più come negli anni settanta, esso, pur aumentando in grandezza (anzi in grandeur), non riuscirà mai a ricollocarsi sui livelli di qualità del primo periodo. Negli anni sessanta il Festival era il canale che un artista doveva percorrere se voleva ricevere l’imprimatur del successo; negli anni ottanta è invece il Festival che deve lottare per cercarsi uno spazio in cui far passare le proprie musiche: le trasformazioni musicali e di costume dei decenni precedenti non erano passate invano. Ciò non significa che la Rassegna non sia più in grado di produrre nomi importanti: Vasco Rossi, Zucchero, Eros Ramazzotti, , per esempio, muovono i loro primi passi proprio dal palcoscenico dell’Ariston; ma talvolta è proprio quello stesso palcoscenico a non comprendere il loro valore. Il caso più tipico è quello di Vasco Rossi. Questo artista debutta a Sanremo nel 1982; ed è ignorato; torna nel 1983 ed è bocciato; poi inizierà una carriera che lo vede tuttora sulla cresta dell’onda, capace tra l’altro di interpretare le istanze musicali dei più giovani; ma Sanremo, vuoi per miopia, vuoi per il perverso meccanismo delle votazioni, non capisce niente di Vasco Rossi; e non è l’unico caso. Tuttavia esiste anche il fenomeno opposto, di cui l’esempio migliore è Eros Ramazzotti che a Sanremo è subito premiato, amato ed incensato, ma che a Sanremo, una volta incassati i crediti maturati con il Festival, volterà le spalle. E’ il famoso peccato di ingratitudine, argomento che torna

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ad ogni edizione. Insomma, si ha l’impressione che la Rassegna sanremese sia capace di incredibili ottusità e nello stesso tempo di generare ottime carriere; ma, in entrambi i casi, un luogo che gli artisti vogliono dimenticare, per non dire rinnegare, al più presto. Per quanto riguarda invece gli spettatori, il rapporto di amore-odio che essi hanno nei confronti del Festival (per cui anche chi lo avversa ne parla e ne discute e, magari di nascosto, lo segue) è un fenomeno che invoglia ad indagare più a fondo i meccanismi capaci di intercettare l’interesse di un pubblico obiettivamente vasto e trasversale; probabilmente il carattere costantemente cangiante, non dico della Rassegna in quanto tale, ma del modo in cui scorrono le serate per cui alle 23.05 sale sul palco l’artista del quale anche l’intellettuale raffinato ha piacere di sentire la canzone e alle 23.10 si cade nella notte più nera della canzone italiana, crea un effetto arcobaleno dove dentro ci sta tutto e il contrario di tutto; e così diventa difficile trovare un’interpretazione che racchiuda gli aspetti contradditori di questo oggetto assurdo, che “piace” proprio perché assurdo e che si serve della sua natura irrazionale per autoalimentarsi all’infinito.

Il 1981 è un anno rinfrancante per il Festival. Torna la televisione che trasmette in diretta tutte e tre le serate. I nomi dei partecipanti non sono esaltanti, ma dignitosi: Bobby Solo, , , Marcella e Alice, la novità della Rassegna, che 100

vincerà il Festival con Per Elisa. Claudio Cecchetto è straconfermato come presentatore e il Festival può vantare, in qualità di ospiti, i Dire Straits, che sono in crescita costante. Pupilla di , Alice si distingue per una grinta fuori dal comune. Dotata di personalità spiccata, priva di complessi, vince senza commuoversi; la sua è una carriera dai percorsi cauti e condotta sempre su un buon livello qualitativo. Maledetta primavera, cantata da è l’altra canzone (arriva seconda) che si fa notare; ma è tutta un’altra storia; il motivo sarà molto eseguito nell’estate successiva. Non possiamo poi tacere della presenza di che con la sua Caffè nero bollente (non una delle sue migliori) sale alla ribalta della scena musicale italiana e tuttora la occupa, vezzeggiata, non a torto, dal circolo dei cantautori nostrani; così come non possiamo dimenticare Eduardo De Crescenzo, con la fascinosa Ancora, tuttora in repertorio. Nel 1981, i luccichii ci sono già; tanto è vero che la serata finale, grazie alla presenza di numerosi attori ed attrici, viene ribattezzata “La Notte delle Stelle”, alla quale avrebbe dovuto partecipare Massimo Troisi che invece rinuncia perché la RAI, scottata dal Benigni dell’anno precedente, gli aveva imposto un testo preconfezionato.

L’edizione 1982 conferma l’andamento positivo del Festival, ormai fuori dalle secche settantottine, anche se è in questa edizione che cominciano a dilagare gli artisti nazional-popolari di cui Albano e Romina 101

Power sono i più illustri antesignani. Non mancano nomi interessanti come e lo stesso Vasco Rossi (qui ancora cantante di nicchia); anche se si è costretti a sopportare Fra’ Cionfoli - che però ha il grande merito di interpretare la parte della meteora - e la vittoria annunciatissima dello stucchevole , ex membro dei Pooh. Cecchetto continua a tenere in mano le sorti di questo Festival che s’inserisce in un clima politico rinnovato, perché è la prima volta nella storia della Repubblica Italiana che un non democristiano diventa Presidente del Consiglio; nella fattispecie: Giovanni Spadolini, il quale riesce nell’impresa di porre un argine allo sperpero del pubblico denaro di cui i governi dell’epoca erano maestri insuperabili, riportando il tasso di inflazione da percentuali sudamericane (15%) a valori europei. Il primo governo Spadolini incassa poi la liberazione del generale americano James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate Rosse; evento significativo poiché con esso si chiude la stagione del terrorismo di sinistra. Per tornare al Festival, nel 1982, debutta a Sanremo Domenica Berté, in arte . Le sorti di questa artista sono note; sia la sua fine prematura che le persecuzioni a cui è stata sottoposta dall’ignoranza di chi crede che possano esistere delle persone che portano sfortuna. Mia Martini è stata una delle interpreti più interessanti della canzone italiana; scegliamo tra le sue: Almeno tu nell’universo (Sanremo 1989) e, nel 1992, sempre a Sanremo, Gli uomini non

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cambiano; severo atto di accusa nei confronti degli uomini mascalzoni che, al di là del testo un po’ troppo sopra le righe, dimostra la capacità dell’artista di seguire tragitti mai banali. Notate, vi prego, che Zucchero e Vasco Rossi, ammessi in finale, arrivano rispettivamente penultimo ed ultimo; da qui la celebre espressione: “Arrivare agli ultimi posti al Festival è una garanzia di successo per il futuro”. Dichiarazione sprezzante ma che ha il merito, nei casi citati, di essere vera. Oltre alla compilation sanremese, tra i nomi extrafestival vi è da ricordare Renato Zero, dalla debordante personalità; poi, film e colonna sonora de Il tempo delle mele, che inaugura il filone cinematografico giovanilistico; la singolare e comica Der Kommisar (la prima volta di una canzone in tedesco, cantata dall’austriaco Falco); Franco Battiato con La voce del padrone; Pino Daniele (Bella ‘mbriana) e Francesco De Gregori con Titanic.

Il 1983 è il Festival del playback facoltativo; vale a dire: così come era stato concesso agli orchestrali, grazie alle basi registrate, di non suonare; adesso si consente ai cantanti di non cantare. Questa scelta oltre modo sciagurata costituisce un imbarazzante e per nulla secondario aspetto della Rassegna sanremese la quale invece di plastificarsi avrebbe potuto sforzarsi di offrire qualcosa di più alle milionate di telespettatori che la seguono. I nomi dei cantanti partecipanti assicurano quell’eclettismo necessario alla Rassegna; ce n’è per tutti 103

i gusti; ma nonostante ciò, le canzoni di Sanremo occupano solo uno spicchio del mercato delle vendite discografiche; se quindi il Festival ha sempre la sua bella considerazione da parte degli addetti ai lavori è perché per un artista posizionarsi nelle zone alte della classifica festivaliera significa aumentare il proprio cachet; in questo senso Sanremo lavora per l’indotto musicale dei vari locali e localini estivi della nostra penisola; e poi per l’audience televisiva che, in quegli anni, si trasforma da ragguardevole ritorno commerciale a preoccupazione parossistica e maniacale, del tutto dipendente da contratti pubblicitari che generano spot a non più finire, volti ad infarcire ed interrompere di continuo le trasmissioni televisive. In questo la RAI, rispetto alla TV commerciale, arriverà dopo; ma imparerà assai in fretta, diventando brava, tanto quanto la sua insegnante Fininvest. Sulla vincitrice Tiziana Rivale non mi soffermerei. Più divertente invece il giudizio contro corrente di Fabrizio de Andrè: “I veri eroi della canzone italiana non sono i Dalla, i De Gregori che se ne stanno al sicuro nelle loro torri d’avorio, bensì questi artisti che hanno il coraggio di venire qui e di rischiare”. C’è da dire che in questo Festival gareggiava la moglie Dori Ghezzi, fatto che ci consente di fare la tara all’affermazione così perentoria del grande Fabrizio, anche se essa, un po’ di verità la contiene. L’altra novità rilevante si chiama Vita spericolata. Ricordo che al primo ascolto di questa canzone, in casa con gli amici, si rimase assai perplessi.

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Vita spericolata sembrava un prodotto informe, malamente recitato da uno “fuori di melone”; anche se probabilmente in quell’occasione Vasco non era in forma smagliante. Essa poi è diventata un vero mito; come lo è diventato Vasco. Vita spericolata è un motivo capace di emozionare chiunque lo ascolti; ha una potenza evocativa, analoga per intensità a Redemption Song di Bob Marley. Il testo rovescia la morale corrente per cui l’artista si augura “una vita piena di guai”; proposta esistenziale che fa da contraltare al politicamente correttissimo , il diavolo dei critici, che con L’italiano si aggiudica, tramite il Totip, un notevole consenso popolare, ottenuto anche in virtù del lecchinaggio nei confronti di Sandro Pertini: il Presidente della Repubblica “più amato da tutti (o quasi) gli italiani”.

Il 1984 è il Festival del playback obbligatorio e della divisione, da cui non si tornerà più indietro, delle due categorie: Big e Nuove Proposte. Questa edizione segna la crescita costante della popolarità di Pippo Baudo (nella foto, all’inizio del capitolo) che si esibisce in una conduzione, come è nel suo stile, professionalmente disinvolta; riuscendo anche a trasformarsi in dirigente sindacale. Nella prima serata della Rassegna fa salire sul palcoscenico una delegazione di metalmeccanici che protestavano davanti al Teatro Ariston, per questioni connesse alla loro attività lavorativa. Non è l’unico caso di commistione di 105

“canzonette” e questioni serie. Indubbiamente i metalmeccanici fecero una mossa intelligente perché capirono l’importanza di avere a disposizione una platea smisurata, rispetto a quelle normalmente riservate alle vertenze sindacali; in realtà però l’operazione si rivelò molto fruttifera per la popolarità di Baudo e molto frustrante per le ragioni degli operai, perché alla disponibilità del pubblico ad ascoltare le ragioni di questi ultimi, fece riscontro la voglia del pubblico medesimo di girare rapidamente pagina, per potersi ributtare a capofitto nel regno dell’effimero e dello “svanire di tutto ciò che è” di cui Sanremo, per storia e per natura, è simbolo supremo. Avanza anche quest’anno a grandi passi il nazional-popolare, portato in trionfo da Albano e che vincono con l’irritante melodia Ci sarà. Questo però è l’anno di Eros Ramazzotti che si aggiudica, con Terra promessa, la categoria delle Nuove Proposte. Eros, in un periodo in cui si faticava a vendere dischi (soprattutto quelli di Sanremo) è manna dal cielo, caduta nelle mani dei discografici. Il ragazzo infatti era perfetto sotto ogni punto di vista: bello, ma non troppo da risultare fasullo; deciso nelle sue esibizioni, ma capace di suscitare tenerezza, per quel suo impappinarsi ed arrossire nelle interviste; e poi di origini umili e quindi l’incarnazione del principio: “che se si ha talento, ce la si fa’”. Eros, pur non avendo l’inventiva del grande Lucio, diventa il novello Battisti, capace di dotarsi di un ricco repertorio di canzoni, assai ben interpretate e di buon livello, con

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le quali scorazza in lungo e in largo sui palcoscenici mondiali. Il Festival si ingrandisce sempre di più, nel senso che si gonfia sempre di più. Pippo Baudo, vate incontrastato della Rassegna, sfrutta la sua piena libertà d’azione, portandosi dietro le sue protette; ben sei: Tiziana Pini, Edy Angelillo, Elisabetta Gardini, Iris Peynado e, non contento, le due bambine Viola Simoncini ed Isabella Rocchetta. In buona sostanza: Al Bano e Romina, Cutugno e Christian (di cui vanno pazze le signore attempate) - rispettivamente, primi, secondo e terzo - nonché le bambinelle sul palco del Teatro Ariston, dimostrano che vanno alla grande, dopo le sparatorie degli anni passati, i buoni sentimenti, la pacificazione ritrovata, su cui scende la benedizione ecumenica di Bettino Craxi, il primo presidente socialista della storia repubblicana che, l’anno successivo, al grido: “E la nave va!” informerà gli italiani che tutto funziona e che non occorre più preoccuparsi di nulla.

Ed eccoci a metà del decennio con l’edizione 1985 che vede una certa presenza cantautorale, anche se priva delle grandi firme del genere: Ivan Graziani, Eugenio Finardi, Mimmo Locasciulli, Cristiano De Andrè; un piccolo prestito dalla Rassegna Tenco, che, irremovibile, persevera nel disconoscere tutto ciò che odora di Festival di Sanremo. Si esibisce fuori concorso Claudio Baglioni che suona al pianoforte la bellissima Questo piccolo grande amore che - al Festival tutto ormai 107

deve essere super - viene proclamata tout court: “La canzone del secolo”. Il cast è particolarmente affollato: I Ricchi e i Poveri, l’improbabile ritorno di Gigliola Cinquetti (ormai fuori dal giro), Riccardo Fogli, Christian ed Eros Ramazzotti, deciso a raschiare fino in fondo il barile del Festival, che si presenta con l’ottima Una storia importante. Non vince, ma si avvale della regola del risarcimento postumo, conquistando il primo posto nell’edizione successiva. Poi Anna Oxa, cantante di classe; Fiordaliso, cantante per le classi proletarie; Peppino di Capri, che garantisce l’ascolto degli anziani; i Matia Bazar che escono in quell’anno con Melanchòlia, LP che contiene la bella ; Marco Armani, di cui tutte le ragazzine sono innamorate; Drupi, Eduardo De Crescenzo, i celeberrimi New Trolls, Zucchero e Garbo, cantante di…garbo, con una sua originalità; ed infatti viene relegato in ultima posizione. Zucchero invece arriva penultimo con la canzone Donne; se ne fa un baffo, perché con questo brano avrà un successo enorme. In Italia, nel 1985, c’è battaglia sulla questione della “scala mobile”, strumento legislativo che garantiva ai lavoratori dipendenti - ad ogni crescita del costo della vita, rilevato ufficialmente dall’ISTAT - aumenti automatici in busta paga. Questa norma però aveva effetti inflattivi disastrosi che divoravano il “potere d’acquisto” dei lavoratori. Craxi, Presidente del Consiglio ed ormai nemico pubblico n.1 della sinistra comunista (ma scalerà, con l’avvento di Berlusconi, in seconda posizione) recepisce giuridicamente questa

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impostazione. Ciò è o viene interpretato come un attacco frontale alla classe operaia. Il PCI, Democrazia Proletaria e La Lista Verde promuovono il Referendum per abolire la modifica che comportava il taglio dei “punti”, ma Craxi vince: la scala mobile, di fatto, scompare. E’ lo spirito dei tempi…E’ soltanto l’inizio di una serie infinita di sconfitte, a cui il PCI, il più grande Partito Comunista d’Europa, andrà progressivamente incontro e che, dopo il colpo di grazia della “caduta del muro” (1989) condurranno il partito medesimo alla sua trasformazione in qualcosa che ancora oggi molti, con ansia, attendono di capire cosa sia. Con la strada così ben spianata perché abbandonare – in quel di Sanremo - il nazional- popolare che dà così buona prova di sé? Vincono i con Se m’innamoro, gruppo speculare al duo Alby e Romy. Il Premio della critica va invece ai Matia Bazar con Souvenir. Ma i percorsi televisivi sono molteplici e non si riassumono in Sanremo; nasce infatti, grazie a Renzo Arbore, la trasmissione che, nonostante andasse in onda in ore tarde, ha un successo travolgente e meritatissimo. Arbore, con sapienza davvero unica, riesce a convogliare all’interno della sua trasmissione una serie di sconosciuti al grande pubblico che sapranno sfruttare al meglio l’occasione loro offerta, diventando tutti personaggi di successo: Nino Frassica, Maurizio Ferrini, Giorgio Bracardi, Andy Luotto, Riccardo Pazzaglia, Marisa Laurito, Simona Marchini, Roberto D'Agostino, Massimo

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Catalano. Arbore è l’unico capace di mettere d’accordo intellettuali e popolo. Ad entrambi infatti piacevano moltissimo le sigle di apertura e di chiusura della trasmissione; rispettivamente: Ma la notte no ed Il materasso che diventano sub inni nazionali; ma soprattutto piacevano i nonsense, le genialate, le battute, alcune delle quali ancora oggi in uso nel linguaggio comune e all’epoca dispensate da uno studio televisivo, la cui atmosfera faceva sentire lo spettatore partecipe, senza costringerlo a muoversi dal divano di casa. Non erano infrequenti rapidi ritorni a casa, pur di non perdere la sigla d’apertura della trasmissione. Filosofia di riferimento di tutto ciò, l’ormai dominante “edonismo reaganiano”; brodo di coltura nel quale gli italiani s’immergono per portare a compimento il processo di liberazione mentale dalle costrizioni ideologiche del decennio precedente.

Diversa l’edizione del 1986, tra le migliori del terzo periodo. Innanzitutto perché si torna a cantare dal vivo; quella cioè che doveva essere una condizione lapalissiana diventa una conquista, che però dimostra un’apprezzabile volontà di reagire ad una falsificazione francamente inaccettabile. Il centro positivo di quest’anno è costituito dagli interpreti e dalle canzoni: Adesso tu di Eros (che vince); Il clarinetto che non ricordiamo per il suo valore musicale, ma perché Arbore, presentandola con la giusta dose di ironia, la rende assai gradevole; la sofisticata E’ tutto un attimo di 110

Anna Oxa, canzone, per i tempi, innovativa, che l’interprete sa valorizzare molto bene; l’onirica Lei verrà di Mango, che entra nella storia della canzone italiana; Rien ne va plus, tra le più garbate di ; Canzone triste di Zucchero; ed anche la più modesta Senza un briciolo di testa di Marcella, assai ascoltata nella calura estiva. Che le cose non vadano male è confermato anche dal grande che, in una sua dichiarazione, giudica positivamente le canzoni dei Big. Nino d’Angelo, Loredana Berté, che si presenta con un finto pancione; Rettore, Rossana Casale, , gli Stadio, Paola Turci e, per la categoria Casa di riposo, Orietta Berti, Fred Bongusto e Sergio Endrigo completano il cast di questa edizione. L’altra novità è che per la prima volta il Festival è presentato da una donna, Loretta Goggi – che svolge i suoi compiti con grande bravura - accompagnata dal trio della trasmissione Disco Ring: Anna Pettinelli, Sergio Mancinelli e Mauro Micheloni; il Festival ha ormai preso l’abitudine di utilizzare i programmi in voga nel momento, dai quali prende in prestito personaggi che contribuiscono all’innalzamento dell’audience, che quest’anno raggiunge un risultato lusinghiero. I dati Auditel sono disponibili ufficialmente a partire dal 1987, però possiamo dire che il Festival viaggia mediamente intorno ai 15.000.000 di spettatori. Quindi questo povero Festival di Sanremo, perennemente bistrattato e dileggiato, sembra capace di correggersi, se non da tutte le sue caratteristiche deteriori, almeno negli

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aspetti palesemente negativi, quali il playback e le basi musicali da cui il Festival si libererà nel 1990, per merito di Adriano Aragozzini che riporterà sul palcoscenico una vera e propria orchestra. Le edizioni disastrate, lo abbiamo visto, ci sono state ed altre ve ne saranno, causate da un insieme di fattori tra cui le politiche scandalose di non poche case discografiche che non si sono mai granché preoccupate di mandare allo sbaraglio artisti con brani scelti sulla base di motivazioni economicamente legittime, ma di corto respiro, rispetto alle ragioni della musica. Ciò non toglie che esista un problema più generale che attiene sia al significato di “canzone”, che al modo in cui essa deve essere fruita. Riguardo alla prima questione credo che si possa essere d’accordo sul fatto che la canzone sia un genere del tutto autonomo, la cui dignità non dipende, se non per scelta esplicita (come nel caso di S'io fossi foco di Fabrizio De Andrè) da altre forme artistiche, storicamente codificate, quali la poesia per i testi e il genere classico per la musica. Dico questo perché agli inizi del Festival non era così: ed infatti Volare ha rappresentato il primo atto di emancipazione da impostazioni ancora tributarie ad arti esterne. Che la canzone sia un genere di tutto rispetto è provato poi dal fatto che saperla costruire è un compito assai delicato: agli autori è arcinoto che, per esempio, un’indovinata melodia ed un testo concettualmente interessante possono essere gravemente compromessi da una scansione ritmica non adatta. Si consideri poi che una

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buona canzone può non garantire un ritorno (economico e non) se viene proposta in un periodo sbagliato per climi e tendenze, che solo chi ha “buon naso” è capace di intuire: la canzone è frutto di ispirazione, ma se la si vuole far “girare” non si può prescindere da un minimo di politica editoriale. E’ quindi un complesso di fattori, una particolare alchimia, che determina la buona riuscita di un progetto musicale; senza dimenticare che se è vero che la musica è un mistero, figuriamoci cosa devono essere le zone nascoste dell’animo umano che una canzone - anche all’insaputa dello stesso autore – può essere in grado di muovere. Tutto ciò ci aiuta a capire quanto sia difficile tirar fuori dal cilindro una trentina di brani da destinare ad un Festival e pretendere che essi siano tutti di buona fattura. Legittimo invece valutare il rapporto qualità/quantità, edizione per edizione, utilizzando tale parametro come criterio di riferimento per capire se quella che stiamo analizzando sia tra le meglio riuscite o meno. Condivido il punto di vista di mio fratello musicista quando dice che “se proviamo a far di conto su questo tipo di saldo, esso non sembra risultare favorevole al Festival di Sanremo, in quanto a fronte di un numero sterminato di canzoni, esigue sono quelle rimaste”; penso però che tale giudizio possa essere mitigato, ricordando che le rimaste sono imperiture e che comunque il Festival è uno spettacolo che va oltre gli aspetti squisitamente legati alla canzone. Vi è poi la seconda questione relativa al modo in cui ci dobbiamo

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porre per valutare correttamente un brano musicale. E’ ovvio che ciascuno di noi giudica un prodotto musicale sulla base dei propri strumenti culturali; quindi, se una persona è competente, la sua valutazione ci potrà essere molto utile perché presumibilmente sostenuta da valide argomentazioni. Tuttavia si dimentica che una buona canzone ha valore non solo perché è innovativa, ben arrangiata, strutturalmente equilibrata, opportunamente interpretata, intelligente nei testi cioè in quanto soddisfa tutti quei parametri che il critico, sia esso dilettante o professionista, è capace di indagare con disinvoltura, ma anche quando essa sa trasmettere emozioni. Se negassimo ciò, sconfesseremmo la ragione principale per cui esiste l’Arte; ed allora quando una canzone come, per citare a caso, L’Italiano di Toto Cutugno – rifiutata perché becera, ruffiana e sostanzialmente nulla sul piano dell’innovazione musicale - è in grado di scatenare dei sentimenti intensi in decine di migliaia di persone, perché in essa quelle stesse persone rivivono, per proseguire nell’esempio, l’affetto per la Patria che hanno dovuto lasciare, di essa non ci si può sbarazzare in quattro e quattro otto – come spesso fanno gli intellettuali nostrani – soltanto perché il brano non soddisfa nessuno dei requisiti tecnico-culturali richiesti. Non si può perché una canzone che emoziona è una canzone che, per quanto culturalmente piccola, assolve ad una delle ragioni principali per cui è stata scritta. Esiste cioè il dovere di recuperare le espressioni della sensibilità altrui, anche quando esse sono elementari, ai

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fini di una completa formazione del giudizio critico, sostituendo alla snobistica indignazione per la pochezza dei gusti del popolo, il più equilibrato e distaccato concetto di “non congenialità”. Ciò ha il vantaggio di non intaccare le nostre convinzioni e di riconoscere dignità a quelle degli altri; ed il discorso si potrebbe estendere anche ad altri “manufatti”, quali trasmissioni televisive e forme varie di divertimento. Questo ritengo un modo corretto di interpretare il senso della parola “cultura”: in una chiave ragionevolmente oggettiva, problematica e di costante ricerca. Per quanto mi riguarda, il 1986 è stato l’anno in cui ho avuto modo di iniziare un’esperienza musicale – durata ben 18 anni – entrando a far parte del Coro Troubar Clair di Bordighera, diretto da Mario Molinari. Questa formazione, tuttora in attività, mi ha consentito di conoscere musiche originali, nascoste, certamente insolite, ma tra le più preziose della nostra tradizione barocca e rinascimentale. Un’esperienza assai utile, in virtù degli effetti positivi del “cantare in coro” e particolarmente istruttiva ai fini della comprensione dei complessi meccanismi psicologici che regolano il rapporto tra interprete e pubblico. Devo poi dire che, nonostante la profonda diversità del genere musicale dei “troubariani” da ciò che veniva proposto sul palco dell’Ariston, parecchie furono le serate passate in compagnia del Coro, non dico ad ascoltare e a criticare le canzoni del Festival, ma addirittura a votarle, con tanto di schede elettorali improvvisate sul momento . 115

Nel 1987 per la prima volta, le serate salgono a quattro; le prime due dedicate ai Big, la terza per le Nuove Proposte e poi la finale. Torna Pippo Baudo, mentre esce di scena Gianni Ravera che, scomparso l’anno precedente, è sostituito dal troppo prudente figlio Marco, che infatti sarà a sua volta surrogato da Adriano Aragozzini. Ciò che si nota subito è la riscossa della truppa nazional-popolare che nel 1986 si era tentato di arginare con figure di maggior spessore: Toto Cutugno, Al Bano e Romina, Ricchi e Poveri, Christian, Peppino Di Capri, imperversano; mentre Baudo gestisce in totale solitudine le quattro serate; e nell’ultima annuncerà la morte in diretta di Claudio Villa. Dal punto di vista qualitativo il Festival fa un passo indietro sia per presenze che per canzoni. Ne segnalerei soltanto due: L’odore del mare di Eduardo De Crescenzo e Quello che le donne non dicono di Fiorella Mannoia, ormai cantante di rilievo; la sua canzone è premiata anche dalla critica. Buoni invece gli ospiti: , Europe e Spandau Ballet, i gruppi del momento. Scandalino di Patsy Kensit (ospite ed in quell’epoca cantante degli Eight Wonder) che, grazie ad una spallina ribelle, mostra in televisione uno dei due seni (mi pare il sinistro). Fuori dall’Ariston turbe di ragazzine rincorrono i Duran Duran, idoli dell’epoca. Vince il famoso trio Morandi-Ruggeri-Tozzi che sintetizza, grazie alle schedine del Totip, diventato ormai sistema istituzionalizzato del Festival, i fans dei tre. Ciò crea polemiche, perché si ritiene ingiusta la

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sommatoria, per di più di cantanti celebri (che fa capire quanto il pubblico voti gli artisti più che le canzoni) al punto che qualcuno propone di vietare in futuro, se non gli accoppiamenti, almeno le triadi. Non se ne fa nulla. La canzone Si può dare di più non è grandiosa; però si avvale dell’esperienza dei tre artisti che la portano alla vittoria.

Ulteriore indebolimento nell’edizione 1988, di nuovo senza Baudo, perché passato alla Fininvest (ma se ne pentirà subito e tornerà rapidamente a casa RAI). La conduzione è nelle mani di un emozionatissimo ed anche un po’ inesperto Miguel Bosè (che però ispira simpatia) affiancato da Gabriella Carlucci. Celebre la battuta della Carlucci che, in apertura di seconda serata, alla notizia che la prima prova festivaliera aveva conquistato un picco di ben 22.000.000 di spettatori si dichiara gioiosa al pensiero che ben 44.000.000 di occhi la stessero guardando: insomma era già pronta per fare l’onorevole. Miguel Bosè nel corso delle serate diventa sempre più disinvolto, al punto di arrogarsi il diritto di annunciare la vittoria di Alberto Tomba nello Slalom gigante alle Olimpiadi di Calgary; ciò fa infuriare Liliano Frattini, conduttore del TG1 di mezza sera, che lo rimprovera di occuparsi di cose che non lo riguardano. La vittoria stavolta è di Massimo Ranieri con Perdere l’amore. La canzone è ancora tuttora in giro, nel senso che Ranieri la canta abbastanza spesso; ma si tratta di una specie di Oscar alla carriera per questo artista che 117

ha saputo dare buone prove non soltanto come cantante, ma anche come attore di cinema e di teatro. Il drappello femminile è composto da Fiorella Mannoia, Anna Oxa, Loredana Berté, Marcella, Fiordaliso e Flavia Fortunato. Tornano i Matia Bazar con La prima stella della sera che però non conquista le zone alte della classifica. Qualche canzone sanremese va nelle hits, ma siamo nell’ordinaria amministrazione. Oltre a Cutugno, eterno secondo, si fa notare Mino Reitano con Italia; canzone che viene aggredita a più non posso (un po’ come succederà nel 2010 con la canzone del Principe); anzi, sbeffeggiata dalle colonne de dove Gino Castaldi scrive che: “Risate fragorose arrivano con il pezzo di Mino Reitano, inno nazionalista di quelli che non si ascoltavano da qualche decennio”. Il giudizio negativo è più che giustificato dalla assai dubbia qualità del brano incriminato (non mi è congeniale ); c’è da dire però che Mino Reitano - artista molto amato dalle fasce popolari - è stato un cantautore onesto che ha dedicato la sua carriera a scrivere melodie sull’amore e su temi meridionalistici; ha composto canzoni per bambini e ha scritto quasi tutte le sue; ed è l’autore di Una ragione di più, grande successo di Ornella Vanoni. Il fatto è che Reitano è sempre stato messo alla berlina per l’imperdonabile colpa, in un ambiente in cui non penso manchino gli squali, di essere un buono ed un ingenuo. Questo Festival è anche il 30° anniversario di Nel blu dipinto di

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blu. A Luciano Pavarotti viene affidata, in apertura di Rassegna, l’esecuzione della canzone.

Nel 1989 il Festival conosce una svolta importante perché è affidato ad Adriano Aragozzini, manager dal carattere intemperante, ma persona assai consapevole di quali dovessero essere gli ingredienti giusti per far funzionare al massimo delle sue possibilità la Rassegna sanremese. Introduce fin da subito importanti novità: s’inventa Sanremo in the world che consente alla manifestazione di approdare a Tokio, New York, Toronto, San Paolo e Francoforte. Espande il Festival su 5 serate, struttura che sarà poi mantenuta, anche se saltuariamente, nelle edizioni successive. Le canzoni aumentano e i 24 Campioni e le 16 Nuove Proposte sono affiancate da 8 Emergenti, votati in un’apposita trasmissione chiamata Aspettando Sanremo. Porta sul palco dell’Ariston nomi significativi: il deputato Gino Paoli; Ornella Vanoni, Mia Martini, Enzo Jannacci e Renato Carosone. La pattuglia dei comici si espande alla grande perché a , già presente l’anno precedente, si aggiunge il trio Lopez- Marchesini-Solenghi, la cui comicità non passa inosservata; ed infatti causa numerose polemiche (ossigeno puro per il Festival). Anche Grillo le spara grosse, non risparmiando né De Mita né i socialisti. Musicalmente parlando però il Festival non lascia una grande scia all’indomani delle 5 serate. Esatto, la canzone di Francesco Salvi, è l’unica che vende: un po’ 119

pochino. Comunque sia, l’intervento di Aragozzini si configura come l’unica ristrutturazione seria della Rassegna di quegli anni. Dove invece Aragozzini toppa alla grande è nella decisione di far presentare il Festival da quattro figli d’arte: Rosita Celentano, Gianmarco Tognazzi, Daniel Quinn e Paola Dominguin che quindi succede al fratello Miguel, occupatosi dell’edizione precedente. L’esito di tale scelta è disastroso. I quattro, perennemente in odore di “figli di papà”, sembrano stare sul palco dell’Ariston per tutte le ragioni del mondo, eccetto che per qualche loro merito; infilano una papera dietro l’altra, tempi morti a non più finire, sguardi sul “che fare”, latitando così per cinque sere. Vincono Fausto Leali ed Anna Oxa con Ti lascerò; canzone risibile. Se proseguiamo nella classifica, ci si sconsola. Cutugno è, ormai ovviamente, secondo; terzi: Al Bano e Romina; quarto Riccardo Fogli. Bisogna arrivare al quinto posto per incontrare il simpatico Lorenzo Cherubini, in arte Jovanotti.

Se l’edizione del 1989 è stata la prova generale per l’organizzatore Aragozzini, nel 1990, il quarantesimo compleanno della Rassegna, il medesimo dà il meglio di sé riportando l’orchestra sul palco dell’Ariston, che mancava da decenni, con ben 53 elementi scelti tra i migliori professionisti italiani. Aragozzini decide poi di abbinare, così come si faceva negli ormai lontanissimi anni sessanta, i 20 campioni ad altrettanti cantanti stranieri; sposta il Festival (ma 120

temporaneamente) nella fredda atmosfera del periferico Palafiori, mentre parte la Rassegna Sanremo libertà con cantanti dell’Est europeo, ancora increduli di aver attraversato l’anno precedente le rovine del Muro di Berlino. Censura postuma sui comici che sono normalizzati e sostituiti da un unico tranquillizzante Renato Pozzetto che ha il vantaggio di non dileggiare gli uomini della politica e lo svantaggio di divertire assai meno il pubblico. Presenta Johnny Dorelli con Gabriella Carlucci. Per la quarta volta consecutiva Cutugno arriva secondo. Le canzoni sono scarse; non ne rimane nessuna. Gino Castaldo, lo stesso della reprimenda su Reitano elogia, sempre da La Repubblica, Adriano Aragozzini: “Ha voluto l’orchestra e ci è riuscito; ha voluto gli stranieri e ci è riuscito, portando in gara Ray Charles, Miriam Makeba, Dee Dee Bridgewater. Peccato - conclude Castaldo - che non sia riuscito a portare delle belle canzoni”. Affermazione a suo modo perfida, perché è un po’ come dire: “L’albergo era splendido, però mancavano i letti”. Insomma senza nulla togliere ai meriti aragozziniani il Festival riesce come spettacolo, ma non come spettacolo musicale. La vittoria è dei Pooh, non per la canzone bensì per premiarli di ciò che un tempo erano stati capaci di rappresentare. Gli artisti italiani che si ascoltano nel 1990 sono tutte esterni alla Rassegna sanremese: Eros Ramazzotti, che ha ormai preso il largo; Vasco Rossi; un po’ di Lucio Dalla; Claudio Baglioni e Francesco Guccini. Non manca però la

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notizia storica: Festival batte Juventus- con 13.000.000 a 10.000.000 (di spettatori).

Nel 1991, l’evento Guerra del Golfo pervade l’ambiente sanremese. Non solo per l’atto simbolico delle colombe liberate dai due bambini, in apertura di Rassegna; non solo perché la guerra si ferma proprio durante i giorni di Sanremo, ma perché tutto il clima si fa serio; poche le canzoni d’amore; ci sono poi risparmiate - ad eccezione di Albano e Romina, per l’ultima volta insieme - le produzioni nazional-popolari. La Prima Guerra del Golfo provocò uno shock notevole nell’opinione pubblica mondiale. Originata dall’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq a cui, agli ordini degli Stati Uniti d’America, reagì la comunità internazionale, questo conflitto bellico è ricordato per la parossistica esposizione mediatica: la prima guerra i cui bombardamenti si potevano seguire in televisione. Ad essa partecipò anche un contingente italiano e ciò diede luogo ad accese discussioni, riguardo al rispetto dell’articolo 11 della nostra Costituzione, che recita: “L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Alcuni deputati chiedono di sospendere la Rassegna, ma Sanremo non si ferma di fronte a nulla, anche se vi furono frequenti interruzioni per consentire ai TG di dare gli aggiornamenti sul conflitto. L’edizione 1991 è obiettivamente interessante, non certo perché per la prima volta la Rassegna fu abbinata ad una 122

Lotteria e nemmeno perché le Poste italiane coniarono, per l’occasione, un francobollo, ma perché Sanremo, tornato sul palco dell’Ariston, riuscì a proporre (è sempre Aragozzini che organizza) nomi di riguardo: Renato Zero, Pierangelo Bertoli insieme ai Tazenda, Enzo Jannacci, Riccardo Cocciante, , Mariella Nava, Loredana Berté, Rossana Casale, Eduardo De Crescenzo e Marco Masini. Questo il commento di Mario Luzzatto Fegiz, grande conoscitore del Festival di Sanremo: “Sarebbe giusto parlare di una vittoria ex aequo di tre canzoni assolutamente splendide [il critico si riferisce alle prime tre classificate: Se stiamo insieme di Riccardo Cocciante; Spalle al muro di Renato Zero; Perché lo fai di Marco Masini]; Cocciante ha una canzone raffinata, ma Zero e Masini cantano in maniera esemplare due problemi come la vecchiaia e la droga”. Francesco De Gregori contrattacca: “Lo scarso spessore della manifestazione, sia dal punto di vista artistico che commerciale è abbastanza scontato. Nessuna persona di buon senso potrebbe sostenere che le belle canzoni, oggi in Italia, siano quelle di Sanremo. Il Festival – continua De Gregori – chiamandosi “della canzone italiana”, si arroga il diritto di rappresentare in esclusiva la produzione musicale leggera corrente”. Parole di una certa durezza, alle quali Adriano Aragozzini risponde in termini ancora più forti: “Io stimo Francesco De Gregori; ma De Gregori con questo articolo ha dimostrato due cose: primo di essere razzista a livello culturale; non è possibile che faccia

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parte della cultura popolare esclusivamente la canzone di De Gregori e di qualche altro cantautore e che non sia cultura popolare quella di Jannacci, Paoli, Cocciante, Zero, Bertoli e di Mariella Nava, vincitrice di un Premio Tenco e di tanti altri che hanno partecipato negli ultimi tre anni al Festival che ho organizzato”. De Gregori ha ragione quando fa notare l’incapacità della Rassegna sanremese di rappresentare a 360 gradi i molteplici aspetti della produzione nostrana: non che sia mai mancato al Festival un certo eclettismo; ma esso è sempre stato un eclettismo zoppo. Aragozzini dal canto suo ha buon gioco a rivendicare le migliorie da lui introdotte, tra le quali spicca una maggior presenza di cantautori; però le sue argomentazioni s’indeboliscono assai quando leggiamo i titoli delle canzoni partecipanti a questa edizione, che è comunque complessivamente tra le meglio riuscite; su 36 canzoni soltanto due vanno di là dal Festival: Perché lo fai (molto odiata dai detrattori di Masini) e Spunta la luna dal monte, relegata nelle ultime posizioni della classifica sanremese. Un risultato che ricorda un tipico problema festivaliero: la montagna produce pochi topolini; e troppo raramente dei topoloni.

Nel 1992 in casa siamo tutti felici perché mio fratello Alberto è in odore di matrimonio con la cara Manuela e Brunella sta disegnando nella sua bella panciona il nostro amato figlio Andrea, che nascerà il 25 giugno. In Italia però le cose vanno davvero male; se 124

negli anni settanta era il terrorismo a spargere sangue, adesso è la Mafia che uccide i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, simboli della lotta alle cosche. Parlando di cose futili, il Festival quest’anno ridiscende la china. Si abbandona definitivamente una delle idee di Aragozzini, in sé buona, ma non funzionante, dell’abbinamento con gli stranieri. Si rafforza la pattuglia nazional-popolare con un tris d’assi davvero ragguardevole: Ricchi e Poveri, Mino Reitano e, a compimento, Pupo. Torna Pippo Baudo con la debordante Alba Parietti e la giunonica Brigitte Nielsen, compensate entrambe dalla tranquillizzante Milly Carlucci. In apertura di Rassegna balza sul palcoscenico per fare un po’ di casino Mario Appignani, ora scomparso, detto “Cavallo pazzo”; ma ecco che Superpippo interviene subito e riesce in un battibaleno a consegnare nelle mani della security il personaggio per nulla scomodo perché a Sanremo tutto fa brodo, pur di fare audience. Siamo solo all’inizio delle prodezze baudesche; la posizione baricentrica che Pippo Baudo si era già conquistato in edizioni precedenti della Rassegna è poca cosa rispetto a quello che Pippo sarà capace di farci vedere, in questa nuova tornata di conduzione festivaliera. Il 1992 è l’anno della già citata Gli uomini non cambiano di Mia Martini, della vittoria di Aleandro Baldi, che con Non amarmi inaugura il filone, che si rivelerà fortunato, dei cantanti non vedenti; ma su tutto ciò cala la vittoria di Luca Barbarossa con Portami a ballare, una specie di melassa insopportabile in

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stile cantautorale simile, nell’idea di fondo, a Tutte le mamme, in ritardo però di quarant’anni. Si noti l’andamento altalenante dei Sanremo descritti in questo terzo capitolo: non le disastrose edizioni settantottine; non le fortunate rassegne degli anni sessanta, ma Festival costretti, di anno in anno, a reinventare se stessi per stare con la testa fuori dall’acqua. Nel 1992 i giovani sentono Luca Carboni e gli 883; soprattutto la celebre Hanno ucciso l’uomo ragno. Apprezzato il CD Canzoni d’amore di Francesco De Gregori.

Ed arriviamo così al Festival del 1993, quello di Tangentopoli, l’inchiesta detta anche Mani Pulite, iniziata l’anno precedente. Non spetta a me fare l’esegesi dell’unica rivoluzione che l’Italia abbia conosciuto; vorrei però ripassare con voi lo stato d’animo di allora, anche perché l’indagine riguarderà, come adesso vedremo, direttamente il Festival. Indipendentemente dal suo significato giudiziario, Tangentopoli produsse alcuni effetti immediati quali la dissoluzione della Democrazia Cristiana che dal 1945, in una logica di estenuante cooptazione del proprio personale politico, reggeva le sorti del Paese e dei socialisti che, nonostante avessero con Bettino Craxi portato nei governi dell’epoca una ventata di rinnovamento, gestivano assai allegramente ed a proprio profitto le finanze dello Stato. Tangentopoli ebbe il merito di distruggere (ma solo temporaneamente) un sistema di corruttela, diventato insopportabile al cittadino, perennemente costretto a 126

patteggiare con il politico di turno diritti elementari quali il rilascio di una licenza edilizia, piuttosto che un posto-letto in ospedale. La sera, rientrando a casa, si accendeva il televisore per sentire dal telegiornale chi fosse stato spedito in galera: arresti, perquisizioni, carcerazioni preventive, tintinnar di manette erano all’ordine del giorno; ma non furono infrequenti casi di suicidi di chi, non sopportando il carcere da innocente o per il peso delle proprie colpe, decideva di risolvere radicalmente il problema. La gente godeva letteralmente nel vedere i potenti di ieri uscire ammanettati dalle loro abitazioni, con due carabinieri a fianco; dimenticando che fino al giorno prima quelli stessi politici avevano beneficiato di un vasto consenso popolare, espresso democraticamente con il voto. Eroe nazionale, osannato dal popolo italiano, era Antonio Di Pietro, il magistrato del pool di Milano, ora leader dell’Italia dei Valori, invitato sui muri delle nostre città ad andare fino in fondo e a mettere dietro le sbarre la classe dirigente italiana. Indubbiamente l’inchiesta giudiziaria ebbe il grande merito di fare pulizia e di pensionare una schiera di politici che, al di là delle ruberie, avevano fatto il loro tempo; ma fu proprio questo il lato debole di Tangentopoli, perché essa evidenziò la sostanziale sconfitta della politica che, incapace di rinnovare se stessa tramite gli ordinari processi democratici, si fece ancella dell’iniziativa dei magistrati, diventati gli unici capaci di imprimere una svolta al Paese. Il solo partito della Prima Repubblica che uscì indenne da questo

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cataclisma giudiziario fu quello comunista; e ciò perché il PCI, sia per sensibilità propria, sia in virtù della sua organizzazione interna, riusciva ad esercitare su se stesso un controllo di legalità assai efficace; e poi i comunisti erano sempre stati esclusi dalla gestione ufficiale del potere centrale (incarichi ministeriali) e quindi ebbero minori occasioni di crearsi una clientela, alla quale dispensare favori in cambio di denaro. Tuttavia l’inchiesta non riguardava esclusivamente le cosiddette bustarelle, ma anche la questione del finanziamento ai partiti, rigidamente regolato da un’apposita legge, che i magistrati di Milano furono implacabili nell’applicare nei confronti di tutte le forze politiche ad eccezione del PCI, a cui non furono mai contestate le sovvenzioni illegali che il partito riceveva regolarmente da Mosca. Ciò contribuì a diffondere in settori assai estesi dell’opinione pubblica l’idea che Mani Pulite non fosse un’inchiesta giudiziaria ma politica, volta a spazzar via i vecchi partiti di centro e della sinistra moderata per aprire al PCI, rimasto l’unico partito “onesto” (per non dire l’unico partito) la strada per il governo. attribuirà a tale argomentazione la ragione principale della sua “discesa in campo”. Prescindendo comunque dalle interpretazioni sul fenomeno è un fatto che da Tangentopoli in poi, la Magistratura, sull’onda dell’enorme consenso popolare, ha aumentato a dismisura la propria influenza sulla vita politica italiana oltrepassando, in più di un’occasione, il principio di

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autonomia ed indipendenza che giustamente la nostra Costituzione le garantisce. Non possiamo poi dimenticare che Tangentopoli, prese ad assumere i caratteri di una vera e propria furia giustizialista che trovava il proprio alimento in se stessa, di cui fecero le spese quelle persone che nella celebrazione dei processi seguiti alle istruttorie risultarono innocenti, ma a cui fu distrutta per sempre vita e carriera. Sanremo è letteralmente investita da Tangentopoli ai suoi livelli più alti e per questioni connesse allo stesso Festival. Il 21 maggio 1993 Aragozzini è condannato dal Tribunale di Sanremo a quattro anni di reclusione per aver pagato tangenti per 833 milioni, allo scopo di assicurarsi l’organizzazione del Festival 1989. Pochi giorni dopo la sentenza, scatta l’inchiesta sull’edizione del Festival del 1990 che ha effetti assai più pesanti su Aragozzini, arrestato l’8 luglio per corruzione. E’ la prima volta che l’organizzatore di un Festival di Sanremo finisce in carcere per il suo lavoro. La notizia fece molto scalpore. Dopo quattro anni, nel 1997 il procedimento concernente l’inchiesta del 1990 fu archiviato dal GIP di Sanremo. Questo il racconto di Aragozzini: “L’8 luglio [1993] fui arrestato nel cuore della notte, nella mia casa di campagna, con mia moglie morente per un male incurabile. Oggi, dopo oltre quattro anni, lo stesso giudice che mi ha fatto arrestare, ha emesso il decreto di archiviazione del procedimento legale nei miei confronti, sancendo la mia innocenza. Ho pagato un prezzo indicibile: ho perso, da un giorno all’altro, tutto

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quello che avevo”. Lasciamo le aule dei tribunali e torniamo al più accogliente Teatro Ariston che nel 1993 ospita il partecipante (e debuttante) più anziano della storia del Festival: Roberto Murolo. Buono il cast dei cantanti in gara: Enrico Ruggeri che vince con Mistero; Cristiano De Andrè, Grazia Di Michele, Rossana Casale, i Matia Bazar che con Dedicato a te si piazzano quarti; poi Renato Zero, Paola Turci, , Tullio De Piscopo, Loredana Berté, Mia Martini e Milva; non così buone però le canzoni di cui poco rimane. Qualche protesta per Nek che propone una canzone giudicata antiabortista. Guida il tutto Pippo Baudo in collaborazione con .

1994, l’anno del primo Governo Berlusconi che coincide con l’avvio della Seconda Repubblica, definita tale sulla base di una nuova legge elettorale maggioritaria; ma soprattutto perché appaiono nuovi soggetti politici, tra cui che dominerà la vita politica negli anni a venire. Questo Festival passerà alla storia come quello dei “non vedenti”. Tali sono Aleandro Baldi che vince la sezione dei Big con Passerà e che con Il mare calmo della sera si aggiudica la Sezione Giovani. Questo artista è ricordato però per un'altra canzone Con te partirò che sarà presentata nel Festival 1995. Simpatico Bocelli, anche se sopravalutato come tenore nelle opere liriche. Pippo Baudo è all’apice: SanrePippo, Superpippo, BauDio sono gli appellativi che gli sono affibbiati per il suo 130

modo di condurre a tutto campo le serate del Festival, dove le sue collaboratrici hanno ben poco spazio per farsi notare. Baudo svolge le funzioni di Direttore Artistico della Rassegna presiedendo, senza diritto di voto, i lavori della commissione selezionatrice e non esita ad infilarsi dappertutto, anche nel Dopofestival - quell’anno affidato a Mara Venier - che iniziava subito dopo la chiusura dello spettacolo all’Ariston. Il Dopofestival, creato per discutere con i giornalisti delle canzoni ascoltate durante le varie serate, ebbe nella storia della Rassegna esiti assai alterni, determinati dalla capacità del conduttore di mantener svegli gli spettatori; cosa non facile visto che non raramente la trasmissione si concludeva intorno alle 2 del mattino. Sul piano musicale non c’è da ricordare granché. I Festival del terzo periodo, da questo punto di vista, sono assai avari. Meglio comunque le Nuove Proposte che i Big; e molto meglio gli ospiti dei cantanti in gara: Take That, Phil Collins, Elton John. Fuori dalla Rassegna è il momento di Laura Pausini, creatura festivaliera e di Jovanotti con i suoi due bei CD: Penso positivo e Lorenzo 1994.

Nel 1995, altro motivo di gioia in casa perché nasce il nostro caro Giacomo, figlio di mio fratello Alberto e di Manuela. La progenie dei Moreni sembra essere garantita per un bel po’  e intanto il Festival torna a cinque serate. Pippo Baudo dopo aver fatto - nel 1984, in occasione della protesta dei 131

metalmeccanici- il dirigente sindacale, adesso s’improvvisa equilibrista-psicologo riuscendo a convincere, seduto cavalcioni della balaustra della galleria dell’Ariston, un aspirante suicida (non si è mai capito se si è trattato di una “bufala” o meno) a non lanciarsi dalla galleria medesima. Applausi a destra e a manca, con Baudo portato in palmo di mano. Non si può capire il Festival del 1995 se non si dà testimonianza della situazione politica del momento. Dopo il ritiro da parte della Lega, della fiducia parlamentare al primo governo Berlusconi, quest’ultimo si dimette ed il Paese si divide in due. Il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nega al Cavaliere le elezioni politiche anticipate ed incarica Lamberto Dini di formare un governo tecnico, che ottiene l’appoggio dei leghisti e del centro sinistra. Tutto ciò mentre l’economia barcolla, la Lira crolla, aumentano benzina, bollette, treni e aerei. Le menzogne e le toppate politiche si sprecano: Dini giura che non si candiderà mai con il Polo (cui passerà nel 2008); Gianfranco Fini, leader di Alleanza Nazionale profetizza al “traditore” Bossi il funerale prossimo venturo della Lega (che invece va tuttora a gonfie vele); Antonio Di Pietro esclude di entrare in politica (ed invece fonderà un partito). Il Festival ripete al suo interno questo clima politico arroventato: ci sono i cantanti di sinistra rappresentati da Gianni Morandi (di famiglia comunista); Sabina Guzzanti, pasionaria televisiva dell’epoca e Daniele Silvestri cantautore progressista. A

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destra invece ci stanno: Fiorello, Toto Cutugno e Mia Martini, simpatizzante di Fini che per questo motivo perde il saluto della sorella Loredana Berté; e poi il Coro di beneficienza che esegue una canzoncina al Dopofestival, formato da parlamentari di tutti gli schieramenti. Non mancano i berlusconiani dichiarati: 883 e Lorella Cuccarini, presente quest’anno come cantante. Vince Giorgia con Come saprei e i Neri per caso arrivano primi con Le ragazze nel settore Nuove Proposte. Ma tralasciando gli aspetti strettamente musicali che, come è noto, sono del tutto secondari in un Festival della canzone…ciò che fa più parlare è la celeberrima esibizione della “Riserva Indiana” con il brano Troppo sole. Questo gruppo fu chiamato da David Riondino perché accompagnasse Sabina Guzzanti nella sua esibizione sanremese. La “Riserva”, capitanata dallo stesso Riondino era formata da Sandro Curzi giornalista, Nichi Vendola, politico di professione, Mario Capanna, ex leader delle lotte studentesche degli anni di fuoco ed altri personaggi più o meno conosciuti tra i quali Remo Remotti, Bruno Voglino, Daria Bignardi, Antonio Ricci e Milo Manara, ma comunque tutti provenienti dalla sinistra del tempo. Apriti cielo. Quale occasione migliore per dividersi sull’appassionante tema se fosse giusto o no presentarsi al Festival? “Numeretto nemmeno degno di essere chiamato cabaret” proclama L’Unità; “Performance con retrogusto da musical alternativo che ha imbarazzato più

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di uno”, aggiunge Il Manifesto. Fatto sta che il Festival del 1995 transita rapidamente senza lasciar segno.

Nel 1996 il Festival si estende su 6 serate, la prima delle quali dedicata ad un talk-show con tutti i cantanti partecipanti. I segnali non sono positivi: gli ascolti crollano; si perdono per strada quasi 5.000.000 di telespettatori; Ornella Vanoni è esclusa perché il suo brano Bello amore non è inedito e nei mesi successivi ci sarà anche un intervento dei Carabinieri, che coinvolgerà lo stesso Baudo, volto ad indagare sulle modalità di valutazione delle schede scrutinate che non darebbero la vittoria a Ron bensì ad . Sul palco dell’Ariston con Pippo si presentano due bellezze che si completano: e Valeria Mazza. Le 14 Nuove Proposte sono tutte salvate all’origine ed entrano quindi direttamente in finale. I veri vincitori di questa Rassegna sono due: Ambra Angiolini che è costantemente vezzeggiata per la sua bravura nel gestire il Dopofestival (il che significava mettere in ombra Baudo) ed Elio e le Storie Tese che con la loro canzone La terra dei cachi dominano di fatto la Rassegna proponendo un motivetto che diventerà addirittura proverbiale per la sua capacità di descrivere le caratteristiche italiche. Il brano si becca pure il Premio della critica, anche perché non si trova null’altro di interessante; ricordiamo però Michele Zarrillo che con la sua L’elefante e la farfalla dimostra una certa sensibilità artistica. Baudo terminerà la Rassegna praticamente 134

afono e pronto a farsi operare alle corde vocali. Fuori dall’Ariston non possiamo non segnalare il dominatore Eros Ramazzotti e soprattutto Fabrizio de Andrè con il suo super capolavoro . Per quanto riguarda i fatti italiani, per la prima volta nella storia Repubblicana l’ex PCI va al governo, capitanato da Romano Prodi. Non sarà un’esperienza positiva: Prodi sarà sostituito, dopo appena due anni, da Massimo D’Alema (e quest’ultimo da Giuliano Amato) e la legislatura si concluderà nel disorientamento generale delle forze del centro sinistra, preludio al ritorno del centro destra.

Il 1997 è l’anno di che scende in veste di angioletto dai soffitti del palcoscenico dell’Ariston. Chiambretti si circonda di due personaggi sicuri: Valeria Marini, che piace molto agli italiani e Mike Bongiorno, che ha il merito di aver presentato la Rassegna ben 10 volte (11 con questa). Chiambretti però delude perché ci si aspettava da lui fuoco e fiamme ed invece si comporta da comico politicamente corretto. Se escludiamo Laura non c’è di Nek e la bella canzone di Patty Pravo (scritta da Vasco Rossi) E dimmi che non vuoi morire questo Festival, se non fosse per i lustrini dell’apparato televisivo, ricorda quelli degli anni settanta. Un fiume di canzoni scomparse nel nulla e nessun personaggio di rilievo. Però questa edizione una caratteristica ce l’ha: quella di aver immortalato nella storia negativa della canzone italiana i celeberrimi Jalisse, i quali vincono la Rassegna, ma poi 135

travolti dalle polemiche e dalle accuse di essere dei “copioni” e dei raccomandati saranno perseguitati dalla vittoria medesima al punto che non riusciranno più a riprendersi. Scompariranno nel nulla.

Nel 1998 la RAI si affida a Raimondo Vianello che ha il grande merito, grazie alla sua ironia, di sdrammatizzare il tutto e quindi di rendere più gradevole la kermesse festivaliera. Grande favorita è Antonella Ruggiero, l’ex voce dei Matia Bazar che però deve accontentarsi di un secondo posto. Effetto “altalena” per un Festival di terzo periodo, perché Sanremo quest’anno effettivamente migliora, essendo capace di riportare sulla scena Enzo Jannacci, Sergio Caputo, La Nuova Compagnia di Canto Popolare, Mango ed Andrea Mingardi, mentre nel Dopofestival, guidato da Piero Chiambretti, domina il trash garantito dallo stesso conduttore, che evidentemente si ritrova più a suo agio negli ambienti più casalinghi del Casino di quanto lo fosse sul palco dell’Ariston. Il divertimento è assicurato soprattutto per la presenza, sempre al Dopofestival, di due personaggi volutamente messi lì per litigare: Nino d’Angelo e Aldo Busi, con il contorno di Toto Cutugno. Vince Minetti, altra cantante non vedente, con Senza te o con te. Non si tratta di un’edizione clamorosa, ma almeno dignitosa dal punto di vista dello spettacolo, perché musicalmente siamo ancora di fronte alla solita orgia di canzoni di cui non

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rimane che qualche traccia. Questo è l’anno della morte di Lucio Battisti, così descritto su Psicolinea:

Lucio Battisti rappresenta per la canzone italiana quello che i Beatles hanno rappresentato nel mondo per il pop ed il rock’n’roll. La musica italiana moderna si è evoluta moltissimo grazie a questo grande cantautore, compositore e produttore discografico. Il suo lavoro infatti ha il senso di una rivoluzione, dato che è riuscito definitivamente a cambiare i gusti musicali degli italiani. Battisti era un outsider, uno che non aveva fiducia nel mondo ed andava sempre contro-corrente. Non a caso, negli anni sessanta e settanta, in piena contestazione giovanile, lui incideva delle canzoni d’amore. Non era un cantante ‘bravo’, secondo la tradizione della canzone italiana, non aveva, per intenderci, una voce limpida e squillante come quella di Claudio Villa, di Morandi o di Massimo Ranieri; e dunque il fatto che Battisti sia riuscito ad imporre al pubblico anche i suoi limiti vocali (timbro di voce quasi rauco e scarsa estensione), dimostra una grande forza di carattere ed una personalità solida e ben strutturata, al di là delle apparenze di fragilità.

Ed arriviamo così alle soglie del terzo millennio, con il Festival del 1999 che, come l’Araba Fenice, risorge in questa e nell’edizione successiva, ricordate come tra le più riuscite. Ciò grazie alla presenza di un personaggio, ancora assai in auge oggi, che imprimerà un carattere specifico alla Rassegna

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trasformandola in uno spettacolo più che interessante. Sto parlando di Fabio Fazio che nel 1997 si era inventato, in compagnia di Claudio Baglioni una trasmissione fortunatissima, revival anni settanta, dal titolo Anima mia. Anzi, in virtù di tale successo Fazio e Baglioni avrebbero dovuto presentare l’edizione del 1998, ma per vari motivi non se ne fece nulla. Fazio riesce a portare all’Ariston ben due Premi Nobel: il Prof Renato Dulbecco che diventa l’alfiere della scienza divulgata e Mikhail Gorbaciov che, con Raissa seduta nelle prime file dell’Ariston, fa un discorso sulla pace e sul ruolo dei partiti, provocando controversie a non finire. Critiche per Dulbecco anche da altri Premi Nobel quali Dario Fo, Margherita Hack, Rita Levi Montalcini che giudicano - sbagliando - uno scandalo che lo studioso si sporchi le mani con Sanremo. Insomma nell’anno dei governi di centro sinistra non poteva mancare un Festival, anch’esso di sinistra. Fazio qualche toppata la fa; come quella di ricordare, Fabrizio De Andrè e di tacere su Lucio Battisti; in ciò allievo impeccabile dei promotori della Rassegna Tenco che non hanno mai ritenuto di attribuire un riconoscimento al grande Lucio. Il difetto principale della Rassegna di Fazio è di relegare sullo sfondo la ragione dell’esistenza della stessa: le canzoni; che diventano un intermezzo fastidioso, che quasi disturba uno spettacolo costruito con i fiocchi. Altra caratteristica: privilegiare le persone comuni (che salgono sul palco a presentare i brani) e farle oggetto di riprese “rubate”, mentre se ne stanno

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scomposte sulle poltrone dell’Ariston, magari dormicchianti. Con Fazio a presentare c’è la soave Laetitia Casta. Sul piano musicale segnaliamo uno stuoletto di cantanti femminili non male: Nada, Anna Oxa (che vince con Senza pietà), Mariella Nava, Marina Rei e Antonella Ruggiero; ma non mancano altri bei nomi come quelli di Enzo Gragnaniello, gli Stadio, Daniele Silvestri, Eugenio Finardi, Alex Britti e Max Gazzé. Il Festival democratico per eccellenza si realizza in pieno nel sistema di votazione: 50% per cento alla giuria popolare ed altrettanto alla giuria di qualità, formata dal compositore Ennio Morricone, dall’attore Carlo Verdone, dal dj Amadeus, dal tenore Josè Carreras, dal cantautore Umberto Bindi, dal chitarrista Toquinho, dal musicista-compositore - di provenienza “clubtenchiana” - Maurizio de Angelis e dagli scrittori Fernanda Pivano ed Enrico Brizzi. Insomma in quello che sarà definito il Festival dell’Unità nasce il Fazismo che va a sostituirsi al Baudismo, tanto è vero che Fazio si aggiudica, sull’onda del successo ottenuto, anche l’edizione successiva.

Questa seconda prova del presentatore ligure, targata 2000, la si può vedere come un completamento della precedente, in quanto essa conferma il tentativo di riportare la canzone di qualità al Teatro Ariston: , Geraldina Trovato, Carmen Consoli, Alice, Matia Bazar ed altri nomi con una loro storia musicale ben definita come Amedeo Minghi, Marco Masini ed 139

Umberto Tozzi. Scompare (dal Festival) Al Bano, presente invece nel 1999. E’ l’anno in cui Sanremo compie (chi lo avrebbe mai detto) mezzo secolo; e quindi arrivano la prima vincitrice: Nilla Pizzi; l’artista che ha esportato la canzone italiana nel mondo: Tony Renis; il presentatore arrivato ad 11 conduzioni: Mike Bongiorno. Questo Festival ha poi nel suo centro la campagna per la remissione del debito dei Paesi più poveri: il Jubilee 2000. Jovanotti, primo super ospite italiano (gli altri sono Lucio Dalla, Antonello Venditti e Fiorella Mannoia) prende di punta la questione e si rivolge direttamente al Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, affinché intervenga presto e subito. Solite proteste, per porre fine alle quali Bono degli U2 si rivolge, in una serata successiva, anche a Silvio Berlusconi. La par condicio è salva. Altra questione che esplode nella serata finale è quella dell’esito della giuria di qualità che rivoluziona il giudizio popolare, al punto che vince Sentimento degli Avion Travel i quali, in nome della vittoria inaspettata, esaltano il Festival di Fazio capace di “far respirare una gran bella ventata di novità”. Sanremo quindi viene consegnato all’edizione successiva, potremmo dire in buone condizioni. Fabio Fazio è un uomo di spettacolo dalle notevolissime capacità; sa capire e trovare gli ingredienti utili al momento ed anticipare tendenze con proposte originali ed innovative. E’ bene però non farsi ingannare dalla sua apparente ingenuità, dai suoi falsi balbettamenti e dalle sue simulate incertezze. Nulla di tutto questo:

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Fazio è un uomo scaltro e – secondo alcuni – implacabile; ed anche assai determinato nell’ottenere tutto ciò che desidera; un uomo intelligente perché Fazio, dopo aver presentato due edizioni, se ne scappa a gambe levate dal Festival (a Sanremo repetere troppo non juvant) lasciando quest’ultimo in braghe di tela, vale a dire nelle mani di una Raffaella Carrà, bravissima con i fagioli, ma, come adesso vedremo, del tutto inadeguata a gestire una Rassegna complessa come è quella sanremese.

L’edizione del 2001 è stata infatti caratterizzata dalla toppata della coppia Carrà-Japino; la prima presentatrice della Rassegna; il secondo marito e regista. Ad essere precisi è lo spettacolo a patirne di più, perché la musica presenta degli aspetti interessanti. Innanzitutto per la partecipazione di Elisa, celebrata anche dal Club Tenco, che vince con Luce; seconda Giorgia (Di sole e d’azzurro) che entra stabilmente nella schiera delle nostre cantanti e i Matia Bazar che con Questa nostra grande storia d’amore si piazzano terzi. Poi c’è Fabio Concato, i Quintorigo, i , Francesco Renga ed Alex Britti. Dicevamo: naufragio dello spettacolo. Raffaella Carrà prende sotto gamba il Festival; non riesce a renderlo “trasversale”, condizione necessaria per essere visto anche da chi lo detesta; non riesce cioè a creare quel cima per cui la seconda serata, deve crescere rispetto alla prima e così via. Non tutte le colpe sono sue; manca un progetto; gli ospiti stranieri 141

sono scarsi. La Carrà, a conclusione della Rassegna, si scusa con il pubblico e, a dimostrazione della sua inadeguatezza, ringrazia Sergio (che sarebbe appunto suo marito regista) del quale, secondo lei, tutti dovrebbero conoscerne il nome di battesimo. Questa edizione gode comunque della protezione ecclesiale: il vescovo della Diocesi di Sanremo, Monsignor Giacomo Barabino si reca infatti in visita pastorale, accolto ossequiosamente dalle maestranze. Sua Eccellenza rivolgerà anche un saluto dal palco dell’Ariston; siamo davvero un popolo magnifico…Prima di chiudere quest’annata non proprio fortunata, qualche notizia riguardo agli eventi nazionali perché, come vedrete nel proseguo del racconto, il clima politico che sto per descrivervi sarà precisamente rappresentato all’interno della Rassegna medesima. Il 2001 è infatti l’anno del secondo Governo di Silvio Berlusconi (il primo – 1994 - fu poco più di un esperimento mal riuscito) la cui discesa in campo rappresenta, nella storia della Repubblica Italiana, un caso unico (da alcuni chiamato “anomalia”) perché non si era mai verificato che un imprenditore di tale livello si candidasse alla carica di Presidente del Consiglio. Il conflitto tra gli enormi interessi privati ed il ruolo pubblico assunto da Berlusconi fu subito denunciato dall’opposizione di centro sinistra che però, negli anni in cui guidò il Paese (1996-2001; 2006-2008) non ha mai approvato una legge che regolasse la questione. Inoltre i cittadini italiani, votando in tre occasioni ed in modo massiccio

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la maggioranza di centro destra, hanno dimostrato di non riconoscere l’argomento del conflitto di interessi quale ragione sufficiente per negare a Berlusconi il diritto di governare l’Italia. Questa situazione ha determinato tra i sostenitori dei due Poli un clima di contrapposizione - che perdura tuttora - caratterizzato da costanti aggressioni verbali, segno dell’incapacità delle due coalizioni di accettarsi reciprocamente. Indubbiamente Berlusconi ha un modo a dir poco dirompente di gestire la cosa pubblica: il suo linguaggio populista, privo di qualsiasi mediazione ed antitetico al cosiddetto “politichese”, a cui eravamo abituati ai tempi dei governi democristiani; i comportamenti informali, per non dire balzani, nei consessi internazionali; i giudizi feroci, talvolta insultanti, nei confronti degli altri organismi dello Stato (in particolar modo verso la Magistratura) sono atteggiamenti destabilizzanti ed esplicitamente “odiati” da chi non si riconosce nell’impianto ideologico del centro destra e considera Berlusconi una specie di “usurpatore” da togliere di mezzo. Questi connotati della sua personalità corrispondono al vero però descrivono soltanto un lato della medaglia, perché il Cavaliere dimostra di avere anche notevoli attitudini organizzative e gestionali, fiuto nel capire dove e come muovere le sue truppe e soprattutto un’enorme capacità di intercettare voti e consensi. Tutto di lui si può dire, ma non che non sia un leader. A ciò si aggiunga che Berlusconi è costantemente sottoposto ad inchieste giudiziarie che i

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suoi simpatizzanti interpretano come atti politici della Magistratura “di sinistra”, volti a scardinare il suo diritto a governare ed i suoi avversari come dimostrazione della sostanziale immoralità del personaggio che, per difendersi, si servirebbe del Parlamento per far approvare le cosiddette leggi ad personam, al fine di bloccare le sentenze dei Tribunali che potrebbero costringerlo a lasciare. Il fatto è che egli, essendosi formato non in una scuola di partito bensì nella “palestra” dell’imprenditoria privata, non accetta i tempi e i riti di una democrazia come la nostra, sostanzialmente solida ma strutturalmente antiquata, a causa dell’endemica incapacità della classe politica italiana di attuare riforme costituzionali da tutti invocate, ma da nessuno realizzate. Il fenomeno è dunque molto complesso, anche perché il tutto si lega alla questione della libertà di informazione, assai condizionata dal fatto che Berlusconi possiede (o comunque controlla) porzioni assai elevate del mercato televisivo (sia come imprenditore sia come Presidente del Consiglio) della pubblicità, della finanza e non pochi quotidiani e settimanali; anche se tale condizionamento sembra essere meno grave di quel che sembra, visto che non ha comunque impedito al centro sinistra, in due occasioni, di vincere le elezioni. Non possiamo poi dimenticare che lo “strapotere” di Berlusconi è speculare all’incapacità delle forze di opposizione di trovare una strategia comune che non sia il collante dell’antiberlusconismo, di costruire programmi credibili

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ed alternativi, di proporre uomini nuovi, di suscitare ideali e passioni; insomma di riuscire non solo a vincere, ma soprattutto a governare per tutta la durata di una legislatura. Fino a quando l’opposizione non capirà che l’antiberlusconismo di maniera – che nulla ha a che vedere con la critica, anche serrata e severa dell’operato del governo – è funzionale al berlusconismo stesso, il centro destra continuerà a governare indisturbato e a lungo; ciò indipendentemente dai fenomeni di implosioni interne di questi giorni (la nascita della cosiddetta “ala finiana”) di cui non si conoscono ancora gli esiti, ma che comunque non possono certo risolvere la drammatica crisi identitaria in cui versa il Partito Democratico, principale forza politica antagonista. Riguardo poi alle accuse - assai ricorrenti - secondo cui il centro destra ha di fatto instaurato nel nostro Paese un regime illiberale, credo si possa dire che pur riconoscendo validità scientifica all’argomento secondo il quale esistono forme di “dittatura democratica” per cui grandi masse di cittadini possono essere portate ad esprimere un consenso passivo ed acritico - generato dal mito del “Capo” - in grado di vanificare la democrazia sostanziale, non vi è, allo stato, una sola norma giuridica approvata dalla maggioranza di centro destra che consenta di affermare che in Italia non esista più la libertà di espressione o che non vi sia il costante rispetto delle norme costituzionali, la cui osservanza è peraltro garantita da un Presidente della Repubblica

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super partes quale è Giorgio Napolitano. Il vero nodo è semmai una gestione del Potere che accomuna i due Poli; una logica da cui deriva la caduta costante e progressiva della moralità di tutta la classe politica italiana (non a caso sempre in sintonia con se stessa, nel difendere i propri privilegi); una crisi di cui sono responsabili anche quei cittadini che, a 150 anni dall’Unità d’Italia, stentano a riconoscere nel “bene pubblico” un valore paragonabile a quello da loro attribuito al “bene individuale” o al “bene familiare”, per non dire al bene del proprio clan di appartenenza. Nonostante Tangentopoli, le forme di corruzione sono infatti diffuse più che mai ed a livelli diversi: quando il denaro canta, la musica tace e le distinzioni ideologiche si fanno introvabili; il corrotto si riverbera nel corruttore e la scena è dominata dal puro tornaconto personale. Una filosofia che, per nostra disgrazia, ha origini assai più antiche dell’avvento di Berlusconi e della nascita della stessa Repubblica Italiana.

Tornando a Sanremo; diverso dai precedenti il Festival del 2002. Riappare Pippo Baudo (e questo è un elemento di indubbia continuità) però si assiste ad un fenomeno davvero inusuale che potremmo chiamare “la spremitura delle olive” oppure “il tocco dei gioielli” o se preferite: “le guerre pubiche”. A dimostrazione di quanti anni siano passati dai tempi in cui Jula De Palma fu “sgridata” per avere cantato troppo sensualmente Tua, per tutta la durata del Festival gli attributi di Baudo 146

vengono, appunto, spremuti; e a turno: Fiorello, poi Benigni, poi addirittura Sabrina Ferilli. Scandalo! I coglioni si possono toccare; e adesso anche in televisione, in diretta ed in Eurovisione; ma non li può toccare una donna! Katia Ricciarelli, simbolo del perbenismo bottegaio, protesta pubblicamente. Il secondo motivo di diversità di questa edizione è dato dall’intervento, previsto nella serata finale, di Roberto Benigni - in quel momento al massimo della sua carriera, soprattutto come interprete e divulgatore de La Divina Commedia - che diventa l’argomento principale e di maggior attrazione di tutta la Rassegna. I fatti: Roberto Benigni si era macchiato di lesa maestà violando la par condicio alla vigilia delle elezioni dell’anno precedente. Intervistato da , il comico toscano aveva sbeffeggiato Berlusconi; c’era da aspettarsi quindi che il prorompente Roberto non si sarebbe fatto scappare l’occasione per infliggere altre bordate al Cavaliere, in quei mesi nelle fasi iniziali del suo governo, nato dalla vittoria del 2001. Al grido di “Nessuno tocchi Benigni”, i libertari erano sul piede di guerra, pronti a scatenare un putiferio se il Potere avesse osato, non dico annullare la performance, ma anche solo censurare l’intervento di Benigni. Gli antagonisti del comico toscano erano invece capeggiati dal campione delle cause perse Giuliano Ferrara che ritiene opportuno, per l’occasione, di dar vita ad una campagna dal titolo “BoBe”, ovvero: “Boicottare Benigni”. La polemica, tipicamente italiota, tiene banco

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da mercoledì a sabato ed è troppo presa sul serio un po’ da tutti. Ferrara promette a Benigni un lancio di uova senza precedenti, qualora osi fare un intervento partigiano (ma si scoprirà che il lancio era previsto in casa, davanti al suo televisore). Insomma, una cosa patetica. Arriva il sabato sera. Benigni compare sul palcoscenico, ma si percepisce subito che, nonostante la sua sconfinata esperienza, soggiace ad una certa emozione, causata dall’attesa eccessiva dell’evento che, vale la pena ricordarlo, fu una manna per il Festival perché tutti, ma proprio tutti, erano incollati al televisore per vedere cosa sarebbe accaduto. Il comico però, in virtù del successo ecumenico ottenuto come attore, aveva da tempo rivisto il suo pungentissimo umorismo, di cui si ha un indimenticabile ricordo nell’intervento, in pieni anni settanta, che il medesimo fece al Club Tenco, quando iniziò proprio dal palcoscenico dell’Ariston la sua luminosa carriera. Parte lo sketch: Benigni attacca Berlusconi, ma poi attacca Piero Fassino; attacca Emilio Fede, ma poi attacca Antonio Di Pietro; ed infine sbeffeggia (ma affettuosamente) Ferrara e palpa Baudo, concludendo con un augurio a Silvio Berlusconi di agire “in modo di farci sentire orgogliosi di essere italiani. Buon lavoro presidente!”. L’Ariston viene giù; standing ovation e lancio sì, ma…di fiori. Per quanto riguarda la musica: vincono i Matia Bazar con Messaggio d’amore e tra i Giovani compare . La miglior canzone, secondo la giuria di qualità, è quella di Gino Paoli: Un altro amore.

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Il Premio alla carriera va a Roberto Murolo, novantenne in collegamento tv, da casa sua a Napoli. Però le vendite sono scarse. Secondo la FIMI, Associazione di categoria dei discografici, in Italia solo un CD su 400 arriva al pareggio tra costi e ricavi. Un dato davvero drammatico che testimonia lo stato di crisi della musica italiana, almeno dal punto di vista commerciale.

Se nel 2002 il Festival, per motivi non proprio inerenti alla musica, era riuscito ad acchiappare zone di audience non proprie, destino diverso invece per l’edizione 2003, da collocare tra le sfortunate. Pippo Baudo continua il suo percorso caratterizzato da crolli e risurrezioni; e questo non è certamente uno dei suoi Festival più riusciti. Gli ascolti calano ulteriormente, sotto il peso della contro programmazione e a causa delle eccessive interruzioni pubblicitarie; ma soprattutto per la lunghezza esagerata delle serate, nonché per le poco convincenti proposte musicali. Il buon risultato ottenuto da Benigni induce a proseguire sulla strada dei comici. Stavolta è il turno di Luciana Littizzetto, Enrico Montesano e Giorgio Panariello; ma dei tre, soltanto la prima lascia qualche segno. Incursioni estemporanee di Nino Frassica. Visto che è un po’ di annate che non vi parlo delle giurie, vi ricordo che esse sono due: una demoscopica ed una vip. Cambiano ogni sera; il loro peso è, rispettivamente, per il 75 e il 25%. Il vincitore formale è Alexia; ma il 149

successo maggiore lo conquista la squadra della Juventus che, accompagnata da 25 bambini dell’Ospedale Pediatrico G. Gaslini di Genova, presenta il video della canzone Il mio canto libero di Lucio Battisti, interpretata da Del Piero e soci per un’iniziativa benefica; album che arriva al primo posto in Hit Parade, superando la compilation di Sanremo… L’atmosfera generale è condizionata dall’imminente intervento in Iraq delle truppe angloamericane (la Seconda Guerra del Golfo inizierà il 20 marzo 2003) e così la Città dei Fiori si riempie di bandiere arcobaleno e di pacifisti che, guidati da Vittorio Agnoletto, tentano di ottenere uno spazio sul palco dell’Ariston per fare un appello, ma la richiesta è respinta. Un Festival appannato, di passaggio, di declino. Baudo, come è sua abitudine, scarica le colpe dell’insuccesso su tutti gli altri, eccetto che su se stesso, evitando così di fare anche la più piccola autocritica. Giuni Russo, una delle artiste che più ha pagato il principio secondo cui per cantare non basta avere una bella voce ma bisogna anche essere sexy, conclude proprio in quei giorni la sua breve parabola. L’esibizione sanremese è infatti una delle ultime importanti. Scoperta da Franco Battiato, ha sempre mancato gli appuntamenti giusti più per condizioni a lei non favorevoli che per responsabilità proprie. Morirà l’anno successivo.

Ed ecco, come promesso, la narrazione dell’edizione che più di ogni altra ha rappresentato lo 150

scontro tra i berluscones e le truppe uliviste; scontro – anche se con altri nomi – ancora all’ordine del giorno. Vittima sacrificale di tutto ciò è Tony Renis al quale, in seguito al forfait di Lucio Dalla, era stata affidata l’organizzazione del Sanremo 2004. Questo personaggio, che abbiamo già incontrato come cantante di successo negli anni sessanta, decide di accettare la sfida di organizzare un Festival boicottato dai discografici. La FIMI infatti rinuncia a far partecipare i propri artisti, sia come cantanti in gara sia come ospiti. Lo scopo era chiaro: convincere tutti dell’insostituibilità della lobby suddetta e potersi così presentare l’anno successivo, come salvatori della patria sanremese. Ma questo non è solo l’unico problema di Tony Renis (anche se è il più grave). La sinistra infatti tenta di crocefiggerlo in tutti i modi perché dichiaratamente amico di Silvio; perché molto probabilmente un mafioso o comunque amico di mafiosi; perché se Renis ha ricevuto questo incarico è sempre grazie a Silvio; perché pare che voglia portare in gara Mariano Apicella, cantore personale di Silvio; perché pare che ci sia in programma un collegamento da Nassirya, dove Silvio si è recato per visitare il contingente italiano, durante il quale - ancora Silvio - parlerebbe al popolo sanremese. Lucia Annunziata, presidentessa della RAI, si dichiara pronta ad irrompere in diretta per impedire che Berlusconi parli in TV; si redige un appello colmo d’indignazione verso il Festival a firma Dario Fo, Franca Rame, Cristina Comencini, Paolo Flores

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D’Arcais ed altri, che si definiscono “persone che per formazione e professione sono sensibili alla diffusione della cultura” e che dichiarano quanto “l’immagine che si esprime nella direzione artistica del cantante Tony Renis sia in palese ed assoluto contrasto con i valori del servizio pubblico”. A ciò segue il boicottaggio di Porta a Porta, perché troppo celebrativo nei confronti del Festival; e tutta una serie di iniziative di analogo tenore. Questo il clima. Bisogna dire che Renis ci mette anche del suo. Vantando amicizie altolocate nel campo dello spettacolo promette ospiti da urlo, ma poi ci si deve accontentare di uno stucchevole Dustin Hoffmann, che fa il verso a se stesso per un po’ di serate, di Nathalie Cole e di Lionel Riche. , conduttrice della Rassegna, accorgendosi in corso d’opera che ci sono dei buchi pazzeschi nello spettacolo, cerca di correre ai ripari (almeno così dice lei in diretta) ed in collaborazione con lo stesso Renis convince Adriano Celentano - la cui sola presenza garantisce audience - a venire al Festival. Questo succede nella serata finale, durante la quale l’Ariston diventa una specie di luogo di autocoscienza in cui Renis, Celentano e la Ventura, con le gambe sotto un tavolo piazzato sul palcoscenico, disquisiscono su ciò che si poteva fare ed invece non è stato fatto. Per ciò che riguarda la musica non è che le cose siano tragiche; diciamo che sono soltanto drammatiche, con buona pace dei critici che giudicano il cast “buono”, perché spazierebbe a 360 gradi. Ma questa non è un’edizione in cui si può dar credito ai

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giudizi, positivi o negativi che siano: troppo dominante, quell’anno, il condizionamento delle due ideologie in lotta; ogni dichiarazione la si fa “parlando a nuora, perché intenda suocera”; fuor di metafora: per far capire chiaramente da quale parte si sta. L’assenza dei cantanti celebri non può essere, lo abbiamo visto, una responsabilità ascrivibile a Renis; ma ciò non toglie che Mario Rosini, Linda, Bungaro, Massimo Modugno, Stefano Picchi, Morris Albert, Simone, Veruska piuttosto che Danny Losito, Pacifico e Piotta davano l’idea di una squadra, ad essere clementi, periferica, alla quale non si poteva certo chiedere una mission impossible. Unica personalità di rilievo, il redivivo Marco Masini che, dopo un periodo difficile, torna alla ribalta e vince con L’uomo volante. Segnaliamo poi Paolo Meneguzzi, ragazzo già con una certa esperienza all’estero, che si candida con il suo bel faccino ad idolo delle teen-ager. Le polemiche sono nettare per il Festival, a patto però che esse non siano sovrabbondanti e che soprattutto non contestino alla radice la legittimità di chi si occupa di organizzarlo, come invece è accaduto a Renis. Il risultato fu un’edizione pasticciata e quindi non spendibile nell’anno successivo come occasione di rilancio. Tony termina infatti, nello stesso anno del suo esordio, la carriera di organizzatore festivaliero.

Con l’edizione del 2005, arriva però una ventata d’aria fresca. Questo è infatti il Festival di Paolo Bonolis che tenta di raddrizzare la Rassegna, in crisi a 153

causa delle scelte sbagliate degli anni precedenti. Innanzitutto il recupero del rapporto con i discografici, condizione essenziale per quella pax festivaliera, senza la quale nulla poteva essere costruito. La formula è nuova; ci sono 20 campioni divisi in 4 categorie, a dir la verità, un po’ balzane: Uomini, Donne, Gruppi, Classic, più 12 Giovani. Abolizione del Dopofestival (che fu invenzione baudesca). L’orchestra è spostata sul palcoscenico, dove la vedremo anche nelle edizioni successive. L’orgoglio nazionale è assicurato dall’Inno di Mameli, eseguito in apertura ed in versione rock dal chitarrista Paolo Carta. E’ un Festival “istituzionale”, in cui l’ultima sera ci sta anche un collegamento con l’Aeroporto di Ciampino, in occasione dell’arrivo della salma di Nicola Calipari, ucciso a Baghdad nel tentativo riuscito di liberare la giornalista Giuliana Sgrena. La suddivisione in 4 categorie (5 con i Giovani) accontenta parecchi perché ovviamente i vincitori sono altrettanti: Francesco Renga con Angelo (Uomini); Antonella Ruggiero con Echi d’infinito (Donne); Nicky Nicolai & Di Battista Jazz Quartet con Che mistero è l’amore (Gruppi); Toto Cutugno e Annalisa Minetti con Come noi nessuno al mondo (Classic) e Laura Bono con Non credo ai miracoli (Giovani). Insomma non è che ci si possa gloriare di grandi nomi e di grandi canzoni, anche perché mancano i brani che rimangono al primo ascolto; però il Festival riesce comunque nella risalita, anche grazie a Bonolis che si becca gli accostamenti complimentosi di Francesco Alberoni che sul Corriere della Sera lo paragona

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addirittura ad Eduardo, Sordi e Totò. Un tantino esagerato l’Alberoni, anche se è vero che Bonolis è un uomo colto, ha talento, ha un suo stile che riesce a sintetizzare spontaneismo e professionalità; e poi è simpatico. Torna Vasco Rossi, ormai stella del firmamento, ma soltanto per aprire la serata finale. Vasco viene a Canossa, riconoscendo pubblicamente il suo debito verso Sanremo.

Ma ecco che ancora ci ritroviamo a volare basso. L’edizione del 2006 vince il premio della più noiosa della storia del Festival. Gianmarco Mazzi, che già era stato il direttore artistico dell’anno precedente, non riesce a ripetere il miracolo, complice l’inadeguatezza di Giorgio Panariello, conduttore sperduto più che mai sul palco dell’Ariston. Panariello quasi denuncia esplicitamente il suo complesso di inferiorità verso Bonolis e spaventato dal compito che gli è stato affidato, fa il comico compìto (si scuserà anche lui come la Carrà) disperdendo quel poco di brio che il toscano qualche volta sa mettere nei suoi film e/o interventi televisivi. La noia, dicevo, è assicurata dal fatto che non ci sono polemiche. Ilary Blasi e riescono ad essere perfettamente anonime. I giovani sono relegati in orari notturni. I Big complessivamente mediocri; le canzoni leggermente meglio, ma niente da segnalare. L’organizzazione spara John Travolta ed Orlando Bloom, l’adorato Legolas de “Il Signore degli Anelli”, che ovviamente costano un 155

sacco di soldi, ma che non raggiungono il successo degli ospiti nostrani: Francesco Totti, marito di una delle presentatrici; e Carlo Verdone. Tanto valeva lasciare a casa gli americani…Piccola, ma proprio piccola (ed irritante) novità tecnologica, perché adesso i motivi festivalieri si possono scaricare tramite sms e tramutarli in suonerie. Non poteva mancare la ciliegina sulla torta, che infatti arriva ed è rappresentata dal vincitore: Povia; che si aggiudica la Rassegna con Vorrei avere il becco. Continua la passerella degli artisti che vengono, di mala voglia, a ringraziare Sanremo per averli lanciati: Eros Ramazzotti, Laura Pausini ed Andrea Bocelli. Dopo il fallimento di Panariello, che fare? Ma è ovvio: rigettarsi nelle braccia di Pippo Baudo.

…Il quale prende in mano la situazione e, nel 2007, realizza un Festival di tutto riguardo, in compagnia di due personaggi centratissimi quali Michelle Hunziker e Pietro (detto Piero) Chiambretti, al quale è affidato un redivivo Dopofestival che il comico sa rendere gustoso e divertente (alcuni dicono, assai più delle serate all’Ariston). Ritorni illustri anche in campo musicale: Milva - che raggiunge il record di 15 partecipazioni - e Nada. Le serate sono 5, caratterizzate da una scaletta assai articolata “per non annoiare il pubblico”. Ogni sera vi è infatti un comico diverso. Dal punto di vista musicale le scelte della critica e del pubblico sembrano coincidere perché nella sezione Big 156

vince Simone Cristicchi che con la sua Ti regalerò una rosa descrive in modo convincente e lieve il tragico destino di un malato di mente (per quanto possibile in una canzone di 3 minuti). Speculare la vittoria di nella Sezione Giovani con Pensa; motivo che ha una capacità formidabile di conquistare al primo ascolto. Moro tocca garbatamente il tema del sacrifico dei Magistrati e delle Forze dell’Ordine, in lotta contro la Mafia; ma molti sono i brani impegnati di questa edizione: Antonella Ruggiero che narra con Canzone fra le guerre il dramma dei bambini-soldato; Fabio Concato che con Oltre il giardino si occupa del destino di un cinquantenne licenziato che si mette a fare il giardiniere e, ultima non per importanza, Milva che con The show must go on, scritta da Giorgio Faletti, disegna lo stato d’animo degli artisti falliti. Il boom di Youtube consente di “vedere” a posteriori i motivi del Festival; anche se quello più gettonato è il “fuori gara” della Hunziker che esegue Adesso tu dell’ex marito Eros Ramazzotti. Baudo prigioniero dell’assunto: “Sanremo sono io” dichiara che il suo è il Festival migliore degli ultimi tempi e reagisce male quando lo contestano per i suoi compensi; ma passa dalla parte della ragione quando Fabrizio Del Noce, Direttore di RAI1, con una delicatezza elefantiaca (e soprattutto scarso senso dello spettacolo) annuncia che Baudo, l’anno che verrà, sarà sostituito da Paolo Bonolis. Una vera e propria sconfessione in corso d’opera. Questo è anche l’anno del mio primo Festival seduto nelle poltrone del Teatro

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Ariston, in compagnia di mio figlio Andrea. Dopo averlo seguito da sempre in TV, finalmente ebbi, grazie ai buoni uffici di Giancarlo Golzi, l’occasione di essere lì; ovviamente tutto ciò venne vissuto in modo elettrizzante. Dicevamo del Dopofestival: Chiambretti è molto bravo e, nonostante le ore tarde, lo si attende con una certa ansia. Durante la trasmissione Piero scopre Simona Cipollone, in arte Momo, personaggio lunare che propone un motivo dal titolo Fondanela che definire demenziale è grave eufemismo. La canzonetta diventa cliccatissima sul web e così Chiambretti si porta Momo sul palco dell’Ariston nella serata finale, generando piacevole stupore tra il pubblico in sala.

Baudo, a dispetto delle profezie di Del Noce lo ritroviamo anche nell’edizione del 2008, in compagnia di Bianca Guaccero, Andrea Osvart e Piero Chiambretti. Le sempre fantasmagoriche scenografie sono di Gaetano Castelli che, per diverse edizioni, si è occupato di questo aspetto diventato molto importante perché il Festival da tempo è soprattutto uno spettacolo costruito per la televisione. Ciò ha danneggiato non poco la stessa città di Sanremo che, nei giorni della Rassegna, vive in modo riflesso quanto accade all’interno dell’Ariston. Non si riesce cioè a fare in modo che la città si trasformi, in quella specialissima settimana, nella Capitale della Musica (sento sibilare i nemici del Festival che dicono: ”Non succede perché manca la…musica”). Scarseggiano iniziative originali 158

usufruibili anche da chi non accede al Teatro Ariston e che siano complementari (o anche in contrasto) all’evento che si consuma in TV. Passeggiare per Sanremo nelle giornate del Festival significa imbattersi nei gabbiotti posticci delle varie emittenti radiofoniche; incontrare casualmente qualche eccentrico che sfrutta l’occasione per farsi notare; sostare davanti alla passerella che conduce all’Ariston, sulla quale transitano (se e quando transitano) gli artisti in gara e magari ascoltare in Piazza Colombo “della gente che suona” in un contesto un po’ strapaesano e di gran confusione, che sarebbe anche accettabile se essa fosse lo scotto da pagare per assistere a proposte di sostanza; ma non è così. E’ sufficiente poi allontanarsi dalla cosiddetta “vasca” perché del Festival non si abbia più traccia, a riprova che non c’è un vero coinvolgimento nell’evento che Sanremo promuove da ben sessant’anni. Se quindi la Rassegna che si svolge dentro l’Ariston va senz’altro ripensata, occorrerebbe avere analogo atteggiamento, visto il fiume di denaro che “gira”, sul modo di animare strade e piazze. Nella prima serata di questa edizione Gianni Morandi rende omaggio a Nel blu, dipinto di blu, per il 50° anniversario della famosissima vittoria di Modugno. Vincono la Rassegna Giò di Tonno e Lola Ponce i quali sfruttano con Colpo di fulmine non certo i meriti intrinseci della canzone (che sono sostanzialmente nulli) bensì la moda del momento, che premia il mondo del musical al quale i due appartengono. Che dire delle canzoni e degli interpreti?

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Non sono peggiori o migliori degli anni precedenti. Si è ormai formata una classe dirigente di cantanti sanremesi che ogni anno si ricompone, con qualche modifica, senza però che si affronti “di petto” la sostanza del problema: il grande salto di qualità delle proposte musicali, se si vuole che Sanremo abbia un futuro. Per tornare più diretti alla Rassegna, quest’anno Elio e le Storie Tese si occupano del Dopofestival; ma, nonostante il loro mestiere, faticano ad arrivare al venerdì sera e si mostrano ripetitivi. Segnalo nella sezione dedicata alle Nuove Proposte la presenza dei Melody Fall, gruppo giovanile molto dotato che Bordighera ha successivamente ospitato nell’ambito del 24° Inverno Musicale. Questo forse è stato l’ultimo Festival di Pippo Baudo: grandissimo professionista, ottimo conoscitore della musica italiana, ma incapace di gestirsi “in economia”; troppo forte è il suo desiderio di comparire, di debordare, di essere sempre presente e di essere sempre presente nel centro della situazione; qualunque sia la situazione.

Nel 2009 la palla passa nuovamente nelle mani di Paolo Bonolis. L’edizione precedente aveva garantito un certo spettacolo; però gli ascolti erano andati male; c’è però da ricordare che il Festival comincia ad essere seguito anche sulla Rete; basarsi esclusivamente sugli ascolti televisivi per cogliere il gradimento di una trasmissione è ormai un criterio, almeno in parte, superato. Fabrizio Del Noce è comunque lapidario. Pur 160

dichiarandosi fiducioso nel progetto di Bonolis, già fin dal dicembre 2008, dichiara: “Dopo la crisi d’ascolto dell’anno scorso, se quest’anno non ci si risolleverà, dovremo fare una riflessione sul futuro di questo evento, perché tutte le cose hanno un ciclo di vita e possono anche morire”. Non è la prima volta che si suonano le campane "a morto" per il Festival di Sanremo, ma fino ad oggi si è sempre trattato di “morte apparente”. Quest’anno c’è una novità: il concetto di brano inedito non è più un tabù; i brani si possono far sentire anche prima dell’inizio della Rassegna. Si spera in questo modo di far sì che le canzoni giungano alle serate festivaliere già dentro l’orecchio delle persone in modo che esse possano prendere la “volata” più facilmente. L’idea è, in linea di principio, corretta, ma non è certo sufficiente a lanciare una canzone scadente. Bonolis vince la sfida sia dello spettacolo (anche grazie al simpatico Luca Laurenti) che degli ascolti. La Rassegna si apre però con un intervento poco convincente. Mina, in audio registrato, esegue Nessun dorma dalla Turandot di Giacomo Puccini. Operazione assai discutibile perché quell’aria (tra l’altro inflazionata quanto mai) è, nella storia dell’Opera lirica italiana, il simbolo supremo della forza virile; farla eseguire da una donna (oltre all’imbarazzo che inevitabilmente si determina sul piano della tessitura vocale) è un’operazione gratuita e priva di senso. Inoltre Mina, vista la sua decisione di inaugurare il Festival, avrebbe fatto più bella figura ad essere presente “dal vivo”: la

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famosa eccezione che conferma la regola; in questo modo avrebbe dato un imprimatur davvero unico al Festival e la sua coerenza non sarebbe stata certo scalfita. Non meglio, a mio parere, l’intervento di Roberto Benigni, ormai noto filosofo italiano, il quale, sempre in prima serata, tiene un’interminabile lezione sul tema: i gay non vanno maltrattati e hanno diritto come gli altri di amare. Il discorso, ovviamente in sé condivisibile, è colpevole di voler ricercare a tutti i costi una standing ovation, che infatti arriva puntuale; anche perché gli spettatori dell’Ariston, con quel che pagano (o felici di entrare gratis) sono sempre ben disposti a gridare all’evento; ma il tutto appare obiettivamente esagerato. L’intervento di Benigni è in qualche modo connesso alle polemiche che la canzone Luca era gay di Povia provoca in quanto si ritiene inaccettabile che un cantante di Sanremo racconti la storia di un gay che torna etero. Povia non è certo un personaggio particolarmente interessante dal punto di vista artistico; però gli attacchi sono strumentali e, sotto l’apparente cifra del progressismo, denotano un conformismo alla rovescia: ci manca ancora che uno non sia libero di cantare e di pensarla come vuole sull’argomento che più gli aggrada. Vince Marco Carta con Dentro ad ogni brivido (canzone brutta ed inutile) vincitore di Amici di Maria De Filippi, programma televisivo di Mediaset, creato per scovare nuovi talenti.

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Ed eccoci arrivati all’edizione 2010, la cui conduzione è affidata – evento raro - ad una sola persona, nella fattispecie Antonella Clerici; la quale, spiazzando un po’ tutti, si dimostra brava, guidando la baracca con ironia e semplicità e soprattutto senza tradire il suo personaggio che, piaccia o no, è assai amato dagli italiani. Certo, alcuni comportamenti sciatti della Clerici non aiutano a capire se si stia assistendo alla “Festa da Ciampornia” (manifestazione popolare estiva che ha luogo a Sasso, frazione di Bordighera) o al Festival della Canzone Italiana; però lo spettacolo (anche per i motivi che adesso diremo) viene fuori; ed inoltre le canzoni, nel loro complesso, si dimostrano più che dignitose. Ciò che ha caratterizzato questa edizione è stato il clima inusuale di suspense causato non dalla speranza nella vittoria della canzone amata (come avviene nei Paesi normali) bensì dalla speranza nella sconfitta di quella odiata. Mi riferisco al brano Italia amore mio di Pupo, Luca Canonici ed Emanuele Filiberto, Umberto, Reza Ciro, René, Maria di Savoia, Principe di Venezia ed erede all’ex trono d’Italia. Le modalità con cui questo brano è stato accolto sono uno splendido campionario dei vizi, dei giudizi, nonché dei pregiudizi che caratterizzano il nostro meraviglioso popolo. Partiamo dall’assunto che la canzone ha la bruttezza di quelle nulle sul piano strettamente tecnico- musicale, ma ha la bellezza delle melodie che conquistano il popolo che, vorrei ricordare, non è una parolaccia ma semplicemente un termine con il quale si

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indicano le persone che hanno il diritto di farsi piacere ciò che vogliono e, se ritengono, di dare a ciò che piace tanti bei voti. Le proteste (come al solito, esagerate) hanno assicurato alla canzone un notevole successo, sia sul piano delle vendite che della notorietà, addirittura internazionale. Pupo ha ragione quando dice che la canzone è stata fischiata ancor prima di essere ascoltata, a causa del pregiudizio verso Emanuele Filiberto; ma non vi è dubbio che la superficialità con cui, nel testo, è trattato il tema dell’esilio dei Savoia sia davvero insopportabile. Tuttavia ciò che conta è che tutto questo ha divertito il pubblico ed anche l’Orchestra del Festival i cui componenti, all’annuncio del pieno dei voti ottenuti dal brano, si sono ammutinati secondo il più puro stile della Commedia dell’Arte, con lanci di spartiti e grida, accompagnati da risate e scherzi. Scenetta davvero conforme al carattere più autentico del Festival di Sanremo nato, non dimentichiamolo mai, per distrarre il popolo italiano. Il Festival è capace di tutto; anche di trascinare sul palcoscenico una Nilla Pizzi poco cosciente riguardo al luogo in cui era stata trasportata. Meritano una citazione almeno due ospiti: Rania di Giordania, Regina tuttora in carica, che riconferma il suo charme e Lorella Cuccarini che si esibisce in una performance hard (per quanto lo possa essere un’esibizione sanremese) molto interessante sul piano della tecnica video. Successone per Amici e X Factor. Le due trasmissioni piazzano i loro beniamini nelle classifiche più alte: Valerio Scanu di Amici, il più

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giovane cantante di questa edizione, vince con Per tutte le volte che e di X Factor si aggiudica il terzo posto (secondo: il trio incriminato). Attestato di stima alla brava Noemi che canta Per tutta la vita, anch’essa di X Factor. Il Premio della critica va invece a con Ricomincio da qui.

Ed anch’io, se siete d’accordo, ricomincerei da qui dandovi appuntamento al 2050, quando scriverò (se ancor vivo e non troppo sordo, cieco ed arteriosclerotico) il secondo volume della storia del Festival di Sanremo, in occasione della 100esima edizione.

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Bibliografia e ringraziamenti

Per le informazioni relative al Festival di Sanremo mi sono servito delle seguenti fonti:

 Federico Gennaccari e Massimo Maffei Sanremo è Sanremo – I retroscena del Festival dal 1951 al 2007, Curcio Musica, 2008.  Eddy Anselmi Festival di Sanremo, Almanacco illustrato della Canzone Italiana, Panini 2009.  Gianni Borgna Le canzoni di Sanremo, Laterza 1986.

Inoltre ho consultato numerosi siti internet per ottenere dati ulteriori ed effettuare controlli incrociati sulla veridicità di quanto da me scritto. Tutto ciò che invece riguarda commenti, valutazioni, giudizi sulle canzoni e sui personaggi, nonché le parti storiche sono “farina del mio sacco” e quindi me ne assumo in toto la responsabilità. Un ringraziamento a Giancarlo Golzi per avermi fornito l’Almanacco illustrato della canzone

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italiana; ad Alberto Moreno per la parte dedicata al Museo Rosenbach e a Bruna De Paoli per la fotografia autografata dei Delirium, che si trova sulla copertina di questo libro.

INDICE

Il libro è strutturato in modo che, sfogliandolo, si possono facilmente reperire le annate (segnate in grassetto). Ecco quindi l’indice fondamentale:

Dalle origini, alla crisi degli anni settanta (1951- 1972) pag. 1

Gli anni difficili del Festival (1973 – 1980) pag. 31

Fotografie ed illustrazioni pag. 42

Dall’ ”Edonismo reaganiano” ai giorni nostri (1981 – 2010) pag. 74

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Bibliografia e ringraziamenti pag. 115

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