AZIONE CATTOLICA DI CARPI TRACCIA CAMPI ESTIVI G & GG 2012 QUESTO PICCOLO I. LOVE’S STORMINGS ...... 2 I.a Tempeste d’amore pasticciate e sublimi nel tempo freddo di internet...... 2

I.a.1. All you need is love… ...... 5 I.a.2. Non ho l’età? ...... 11

I.a.3. L’amore pensato ...... 15 I.b L’eros insensato di Dio ...... 19

I.b. 1. Dio: l’amante che cerca l’amata nel giardino ...... 19

I.b. 3. Dio: l’amante che educa l’amata donando il Figlio ...... 35 II. l’amore del padre sposo conduce all’invio del figlio che dona la vita per celebrare le nozze 40

II.a. Gesù e il giardino dell’amore ...... 40 II.a.1. A Cana Gesù benedice l’amore nuziale col suo vino nuovo ...... 40

II.a.2. Gesù smaschera l’amore ferito ed apre ad un amore nuovo e definitivo con Dio...... 44 II.a.3. L’incontro con Maria di Magdala nel nuovo giardino della mattina di pasqua ...... 51

II.b Gesù realizza ed insegna l’amore ...... 56

II.b. 1. Desiderio e sguardo messi alla prova ...... 56 II.b.2. Fedeltà ripudio divorzio ...... 59

II.b.3. Eunuchi per il Regno ...... 61 Deserto: Inno all’amore ...... 63

III. dimorare NELL’AMORE: L’ESERCIZIO DELL’AMORE ...... 70 III.a. Un inno personalissimo all’amore...... 70

III.a.1. Un amore discutibile poiché espansivo: Marianna Saltini ...... 70

III.a.2. Un amore trafficato non senza lacerazioni: Odoardo Focherini ...... 80 III.b. Innestati in Cristo per portare frutti grandi di amore...... 95

II.b.1. Solo l’amore edifica...... 95 III.a.2. Il necessario inserimento dei tralci nella vite, che è Gesù...... 102

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I. LOVE’S STORMINGS

I.a Tempeste d’amore pasticciate e sublimi nel tempo freddo di internet.

Cosa succede quando ci si innamora? Qual è l’esperienza che ne abbiamo fatta? In base a cosa diciamo che una determinata esperienza che abbiamo vissuto sia amore? éroviamo insieme, in questo primo giorno a capire che idea abbiamo di amore, quali idee dell'amore dobbiamo sfatare perchè non sono amore, capire come la ns cultura ci influenza... L'amore è mistero così grande non può essere contenuto.

L'amore è fuori di te o dentro di te? sei tu che decidi di innamorarti, di amare? è un bisogno? L'amore può essere una delle cose più inutile che ci sia! L'amore è qualcosa di più strano...il sesso, è l'unico bisogno che ti fa uscire da te stesso, verso l'altro per essere soddisfatto, ma è solo la base...non è l'amore! Forse è desiderio di condivisione? Ma tu puoi amare una persona e non starci insieme, perchè magari sai che è dannoso starci insieme, quindi scegli di non condividere la vita con lui. L'amore non è un sentimento...perchè il sentimento va e viene, invece l'amore prevede stabilità L'amore non serve per stare insieme= bastano anche i !! l'amore ti realizza e ti rende felice= ma anche no!

L'amore è una tempesta... Come una tempesta! ma quindi fa solo dei danni? Pechè diciamo che è una tempesta? Forse perchè l'amore quando arriva ci sconvolge, sconvolge un po' i piani e la prevedibilità della nostra quotidianità Forse perchè diamo per scontato che l'amore arriva e non si stacca più, mentre l'amore è instabile, va curato, attraversato da mille correnti alcune che ci caricano e altre invvece che ci scaricano una casino Diciamo che è una tempesta perchè è imprevedibile...mentre noi desideriamo stabilità, desideriamo che l'altro non scompaia...la gente ha paura che l'altro se ne vada...

...pasticciate... Dove sono tutti questi miglioramenti nelle persone quando si innamorano? L'amore può degenerare in desiderio di possesso. Come si fa a lavorare sull'amore? ..e io son fatto così ...mi ha preso così, in nome del fatto che siamo innamorati trascuriamo le altre persone, possiamo dimenticarcene.

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Inoltre anche con l'amato, non sappiamo mai come comportarci, lo lasciamo troppo libero...o lo leghiamo troppo...facciamo spesso dei pasticci per paura! quando ami è una tempesta, perchè anche se vuoi voler solo bene all'altro, vengono fuori tante cose di te che devi gestire, anche la gelosia, la cattiveria, l'egoismo, leghi e non lasci libero.. è una cosa molto bella, ma viene fuori con tutte le forze positive e negative è un problema di filtraggio, dopo, in quello che dai all'altro

L'amore bisogna anche andarselo a cercare...c'è gente che disperatamente non si innamora! Magari ha un'idea di uomo/ donna troppo alta...oppure che non ha voglia d'innamorarsi perchè è un investimento troppo alto... C'è chi ha avuto un'esperienza molto forte e non ha più storie per anni...... Io vorrei innamorarmi, ma non ci riesco...esistono persone che dicono così...oppure sai che qualcuno è innamorato di te, ma non ti innamori. Non senti cosa? le campane? le farfalle nella pancia?

Noi sappiamo amare? amore è mettere al primo posto l'altro e la sua vita?quindi l'altro ti domina e tu non c'entri niente? Come si lavora sull'amore? ...e sublimi... L'altro riesce a vedere qualcosa in più rispetto a quello che c'è...ti fa sentire legata ma estremamente libera di poter scegliere È amore non per quello che fai o "solo" sei...ma l'altro va al di là di questo... Ti senti accolto nella vita di qualcun altro, c'è posto da abitare, esserci, camminarci... Quando l'altro mi fa vedere me stesso coi suoi occhi.. Ti apre anche a cose che magari volevi lasciare da parte...ti metti in gioco nella totalità, perchè l'altro vede e vuole tutto...cose belle e cose che tu pensi brutte...

Nel tempo freddo di internet. Internet ha cambiato tantissimo l'amore... Pensiamo anche solo delle cose che sappiamo dell'altro! Sei più esposto, più a nudo...l'altro può vedere tutte le tue foto, sapere chi sono i tuoi amici, cosa fai e cosa pensi... Diventiamo più freddi...perchè quando ti incontri realmente, poi, la comunicazione non è così adeguata a tutte le informazioni che sapete uno dell'altra Tempo freddo...siamo in un'era glaciale... Nel tempo freddo di internet… non hai il polso di com'è una persona, di com'è un cuore di una persona...queste sono cose che capisci stando al fianco di una persona per anni!

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La cultura nella quale siamo immersi, volenti o no, cambia la nostra vita e modo di amare perchè l'unica cosa che in realtà capiamo è quanto internet o fb siano pericolosi...perchè una frase che l'altro scrive, una foto che non ci va a genio, ci feriscono! lo "stato" dell'altro su fb, ci fa male! se l'altro non mette "impegnato" su fb, vuol dire che non ci tiene a me? A parte queste ferite, l'altro non lo capisci! Perchè se ti ha detto una balla non lo capisci più dagli occhi, dal tono della voce...ma perchè vai a vedere su internet le foto di cos'ha fatto l'altra sera!un conto è cosa ti racconta l'altro...un conto è vedere delle foto[es. un conto se la tua morosa ti dice "ieri sono uscita con le amiche!"....un conto è vedere le sue foto della serata mentre lei balla sui tavoli ubriaca!...è molto diverso!]Quale etica c'è dietro? Perchè non posso andare a vedere? Perchè non posso sapere? Sai tutto e ami sempre meno nel tempo freddo di internet! Internet ti fa conoscere, frequenti quella persona...internet è una deriva di prossimità che ormai non ci emoziona più!

L'amore è fatto di tempeste pasticciate: perchè mischiamo sentimento, emozione, idee, fantastie ...e sublimi: perchè coinvolgono tutto il nostro corpo, esistenza, progettualità.

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I.a.1. All you need is love…

È proprio vero che tutto ciò di cui abbiamo bisogno è l’amore? Ma, allora, l’amore è un bisogno? E se si questo cosa comporta per noi? Il tema dei bisogni rimanda alla nostra struttura antropologica. La struttura dell’umanità è duale siamo maschio e femmina.

Esiste solo amore sessuato? Di genere? Che rilevanza ha il genere maschile femminile nel vivere e comprendere l’amore?

Se l’amore è un bisogno, allora significa che deve essere soddisfatto. Ma allora l’amore deve essere simmetrico per poter esistere? È possibile un amore unilaterale? Cosa te ne fai di esso?

Amare ed essere amati è un bisogno, forse non è proprio l’unica cosa di cui abbiamo bisogno, forse non è nemmeno che se c’è l’amore allora c’è tutto, però è un bisogno che nelle diverse età della vita emerge in modi differenti.

Forse l’esperienza che accomuna tutti è la relazione con i genitori. Anche lì la questione fondamentale è l’amore. Quando si è bambini si vuole essere amati dai genitori…cioè ?

Il problema è che tutti chiamano amore tutto. Io ho bisogno d’amore, mia madre non mi ama e allora cosa faccio? I bambini ubbidiscono ai genitori per essere amati da loro. (Film Il cigno nero).Di cosa, dunque, ho bisogno esattamente? A 15 anni si scopre che quello che pensavi fosse amore, quello dei genitori, in realtà non lo era. Quando si cresce si diventa esigenti, anche nei confronti dei genitori, sei più complicato nell’entusiasmarti nei confronti dei tuoi genitori. Vedi tutti i lori difetti. E il rapporto con i genitori adesso? E’ un bisogno? Si è modificato? E in che modo? Come abbiamo stabilito che i nostri genitori ci hanno amato? Come facciamo a dire che ci hanno amato? Ed è proprio su questo che la questione diventa scottante: IN BASE A COSA DICIAMO DI AMARE ED ESSERE AMATI? COSA CI RENDE SODDISFATTI DELL’AMORE CHE ABBIAMO VISSUTO? È QUELLO CHE CI RACCONTIAMO? MA ALORA NON CORRE IL RISCHIO DI ESSERE UN PO ILLUSORIO? Il bisogno di essere amati cioè…ho bisogno di sentirmi bello, desiderato, cercato..è questo l’amore? Il bisogno d’amore è legato alla mia identità? Ho bisogno di amore per sapere che io valgo? Quindi ho bisogno di questo? 5

Noi in realtà abbiamo bisogno d’amore perché è l‘altro che mi fa sentire bene? Confermati? Calma la nostra angoscia, la nostra insicurezza? Entriamo in crisi ogni due minuti, quindi l’altro è il nostro salvagente che ci dice che siamo bravi…è questo l’amore?Un salvagente?

Tutte queste domande e provocazioni ci portano a vedere come, forse, l’amore sia percepito più nell’assenza che nella sua presenza con i genitori, ma poi anche con gli amici, i moroosi e le morose…. Ma l’idea dell’amore da dove viene?

Tutti abbiamo sperimentato che da soli non ci stiamo bene. La solitudine sembra essere una condizione che ci rende insicuri di noi e della realtà. Da soli non si sa se si sta crescendo, se si stanno capendo le cose veramente, se le si stanno cambiando in meglio…

Inoltre la solitudine sembra essere come una specie di circolo vizioso che ci porta a rabbuiarci sempre più in noi stessi ed a chiuderci in una sorta di autismo.

L’esperienza della nostra adolescenza ci ricorda di come sia triste e destabilizzante anche solo la percezione o lo spettro della solitudine, e quali inutili sofferenze porti.

Abbiamo bisogno dell’amore proprio per non restare soli, proprio per poter entrare in una relazione di vera vicinanza con altre persone, con chi è diverso da noi.

Se l’amore è un bisogno, allora è di fondamentale importanza soddisfarlo. Ogni bisogno non soddisfatto, infatti, fa ammalare, rende ottusi e disumanizza.

Cosa succede, se non si soddisfa il bisogno di amare e di essere amati? Quali sono le malattie che possono venire da questa “frustrazione”?

Ci si chiude in se stessi… Ci si deprime… Si diventa cattivi… si diventa acidi… si diventa cinici… si diventa pessimisti… si diventa insicuri…

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si diventa violenti… Si perde un po’ il senso e la misura della realtà…. Ci sono persone che vengono lasciate dopo storie lunghissime e non le si riconosce più, parlandoci mi rendo conto che non si riconoscono più nemmeno loro, hanno lasciato perdere alcune cose che fino a quel momento erano importanti (impegni, amicizie, studio...), stanno vivendo un po’ alla giornata prendendo su il più brutto che riescono a trovare, non hanno più voglia di essere coinvolte in nessun modo. Quando non si soddisfa un bisogno ci si ritrova sempre feriti, anche inconsapevolmente, ce lo si può nascondere ma queste ferite rimangono e alla fine condizionano una persona, ecco il perché magari ci sono persone che sembrano totalmente asociali che sembrano non desiderare nemmeno la socialità, insomma depresse. D’altra parte vi è l’esatto opposto ci sono persone che sembrano innamorarsi con estrema facilità, che cambiano amante come fossero caramelle o amicizie soffocanti. Cioè la malattia del non saper vivere la solitudine, e la paura di essa, che non ci abbandona. Anche qui bisogna fare attenzione, non voglio dire che bisogna imparare a bastarsi, l’inquietudine che deriva dall’esperienza della solitudine è forse un buon campanello d’allarme. Una delle malattie che possono venire quando non viene corrisposto il bisogno di amore è quella di diventar dei vampiri, persone che vanno alla ricerca degli altri per succhiare le loro energie e le loro sicurezze. Tramando relazioni poco trasparenti, nella penombra dell’ambiguità, spesso mascherata di compiacenza, si comincia a credere che l’altro sia qualcuno fatto per sfamarci, piuttosto che per aprirci. Ancora ci si può licantropizzare. Cioè ci si animalizza lasciando che ogni nostra pulsione o istinto venga espresso senza filtri né freni. Si diventa lupi mannari che quello che pensano devono dirlo a tutti i costi e che quello che sentono devono esprimerlo, anche se è a spese totali degli altri, dei più fragili. Un’altra malattia che può venirci è quella che la letteratura ha raffigurato nella forma degli orchi. Quando ti avvicini sembrano carucci , ma poi si rivelano voraci della vita altrui. Si tratta, fuor di metafora, di ammalarsi di una sorta di schizofrenia per cui provi attrazione per l’altro, ma poi è un’attrazione solo distruttiva dell’altro. Un’ulteriore immagine che ci dice di cosa ci si può ammalare se non si soddisfa il bisogno di amore è quella della strega. Si diventa, cioè persone che fanno mille intrighi e pasticci per poter sembrare a se stessi migliori o imbattibili, capaci di tutto ciò che ci si dice di essere capaci, ma questo a spese di altri. (con ciò viene da pensare che Walt Disney qualche problemino ce l’avesse…) In questo senso tutta la pletora di teorie sulla necessità di stare da soli, del chi fa per sé.., dell’aiutati…, esprimono una deriva patologica del bisogno di amare ed essere amati. È bello poter riconoscere che la nostra umanità ha nell’amare, nel lasciarsi coinvolgere pienamente da qualcun altro, nel legarsi personalmente, la sua unica e vera chance di riuscita.

Se in via negativa abbiamo detto che l’amore è un bisogno, in quanto ci rendiamo conto di non voler stare da soli, d’altra parte si potrebbe anche dire che è nell’esperienza dell’innamorarsi, del lasciarsi coinvolgere e affascinare da un'altra persona che ci si rende conto della realtà come qualcosa di positivo e “sfruttabile” per migliorare e per migliorarla.

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In tal senso l’amore si mostra come necessario per poter vivere la nostra esistenza in un’ottica di speranza e di impegno. Senza la scoperta che il mondo può essere lo spazio di un concreto guadagno, difficilmente investiremmo quelle che pensiamo essere le nostre risorse. Quando ti innamori tocchi con mano il fatto sconvolgente che non tutte le storie sono già scritte, che la realtà e la vita non sono dei puzzle che semplicemente devono mettere insieme i pezzi; quando ti innamori scopri che hai la possibilità di creare storie nuove, storie che ti appartengono. In un certo senso ti accorgi di poter avere una funzione “creativa” nei confronti della vita e non solo di usufruire di quello che essa ha da offrire. Forse abbiamo bisogno d’amore proprio perché è l’unica cosa che ci permette di costruire una storia nostra, una storia esclusiva con qualcuno che nessun altro può vivere. L’amore è un bisogno perché ti permette di essere ambizioso nei confronti della tua vita, ti permette di iniziare a fare fatica, spendere energie, impegnarti per dare una forma alla tua esistenza. Una forma che ti piace, che ti affascina, che ti fa gioire, che ti porta ad essere coraggioso! Il momento dell’innamoramento ti fa scoprire la realtà nella sua bellezza e nelle sue possibilità; ti innamori di una persona è scopri che vale la pena fare fatica per qualcuno, vale la pena costruire qualcosa, anche solo sperare di poterlo fare. In questo senso l’amore è un bisogno, senza di esso la realtà rimarrebbe sempre il luogo della fatica, delle delusioni e delle ferite. Possiamo allora dire che l’amore, l’eros, ci è necessario, in quanto ci tira fuori da noi stessi e ci rende reali, in rapporto con la realtà personale dell’altro e con quella del mondo per ciò che sono.

L’eros è il paradigma che ti fa diventare sempre più te stesso, in quanto in maniera massima ci apre alla realtà.

Tuttavia cos’è questo eros? È una semplice pulsione?

Tutte le pulsioni ci portano a vedere nel mondo il luogo a cui attingere per trovare soddisfazione. Funziona così anche per l’eros?

Senza dubbio eros si radica nella nostra corporeità sessuata. È perché siamo corpo maschile e femminile che ci innamoriamo. Senza sesso (non nel senso di andare a letto con l’altra persona!!!!) non può esserci amore.

D’altro canto a dimensione sessuale della nostra identità si rivela in tutta la sua fecondità nell’eros. Infatti, pur appartenendo tutti alla comune famiglia umana, è a partire dalla nostra connotazione di genere maschile o femminile che scopriamo l’altro come desiderabile e fondamentale per noi, per aprirci a quel mondo che non è il nostro.

Nella tradizione greca c’è una distinzione fondamentale fra Eros e Anteros: il primo è l’amore; il secondo è l’amore non corrisposto e razionalizzato. 8

Secondo al mitologia greca Anteros era la personificazione dell'amore non corrisposto e quindi "vendicativo". Fratello di Eros, i due erano inseparabili.

Forse il punto interessante è che l’eros non lo si può “risolvere” da soli, non è come le altre pulsioni in quanto non basta a se stesso. Invoca la risposta di un tu. Solo che questa è sempre un incognita.

L’attrazione ci spinge verso i primi amori… ma spesso capita che ci si trovi di fronte ad un rifiuto. E ci si rimane molto male. Nell’eros non basta dire io amo qualcuno, esso chiede anche la risposta positiva dell’essere amati, e forse non solo, serve di arrivare a dire io e l’altra persona ci amiamo.

L’eros non è solo pulsione sessuale, ha bisogno d’intimità, è quella cosa che ti fa venire voglia di appartenere a qualcuno, non solo a livello giuridico firmando una carta o cambiando la situazione sentimentale su Facebook. Hai voglia giorno dopo giorno di sapere che appartieni a qualcuno, che c’è qualcuno che appartiene a te ed è una cosa che giorno dopo giorno cresce, diventa più profonda. L’eros ti spinge verso l’altro per conoscerlo, per scoprirlo in tutto il suo essere altro da te.

Eros, dunque, non è il bisogno di relazione sessuale, seppur la pulsione connessa al nostro essere sessuati sia importante.

Possiamo dire che l’amore sia un bisogno che non si esaurisce nella misura in cui lo si “consuma”.

Come, dunque soddisfare il bisogno di amore?

Forse oggi abbiamo la tentazione che per amare sia sufficiente affidarsi ad Anteros: vale a dire facciamo dell’more una questione di tecnica. Basta pensare come viviamo la sessualità con la sua carica propulsiva…

Abbiamo ridotto le cose ad una questione di carattere scientifico, ma così facendo non riusciamo più ne a capire l’eros né a saltarci fuori nell’amore. Tutto ciò che di eccesivo e strabordante nell’eros lo vogliamo consumare in cinque secondi, in una sera, e così andiamo sempre alla ricerca di nuovi stimoli, divenendo anaffettivi e pasticcioni. Eros non ti dice solo di soddisfare le tue pulsioni sessuali, ma ti coinvolge a vivere un legame che distrugge la solitudine, l’abbandono e la non curanza agli occhi degli altri. Abbiamo bisogno d’amore perché è l’unica cosa che ci dice che l’isolamento non è la dimensione più profonda e quindi non eliminabile della nostra vita. Ecco perché quando l’amore non viene soddisfatto è un casino: si insinua il sospetto che quella dimensione di solitudine sia inestirpabile, sia connaturata alla nostra vita.

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Come mai facciamo così fatica ad accogliere la sfida della creatività e della pazienza che sono proprie dell’eros? Come mai preferiamo Anteros ad eros?

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I.a.2. Non ho l’età?

Mentre si cresce , nel cammino verso la maturità, aumenta il bisogno di amicizia, di amare, di appartenere a qualcuno e di donarsi. Da qui nascono tutte le ambiguità e le bellezze dell’amore. Nel tempo della vita umana come funziona l’amore?

È possibile appartenere a qualcuno? E che cos significa?

Nel tempo ci si accorge di non essere così splendidi come pensavamo (questo vale sia per noi che per la persona amata). La quotidianità svela in modo impietoso le inconsistenze e le fragilità. Allo stesso tempo è nella quotidianità che le nostre supposte abilità si corroborano e diventano reali, capaci, cioè, di fare i conti con la normalità. Eros a differenza di Anteros necessita di tempo, di maturità. Sempre partendo dal rapporto con i genitori ci rendiamo ben conto che non basta essere partoriti, per essere amati: anaffettività è questo. L’anaffettività nasce dall’insicurezza che gli affetti non durino! Succede tra fidanzati, con i genitori, hai una incertezza, una insicurezza nel vedere che inizia e che chissà quando deraglia. Hai paura che finisca. Non mi fido, questa vita prima o poi mi frega. Ecco cosa significa essere anaffettivi. Benedetto XVI parla della fiducia nella vita che è la certezza dell’amore, in contrapposizione all’anaffettività.

Nel tempo le persone cambiano stringendo nuove relazioni, rompendone altre, incontrando difficoltà e ostacoli sempre nuovi. Così è anche per una coppia. È possibile che le amicizie e le “prove” che incontriamo nella vita ci portino poi a cambiare idea su certe cose e che alcune ferite ancora aperte ti chiudano rispetto a certe situazioni, a certe relazioni. Coppia compresa. Il rischio è che l’amore non sia più di quella maturità necessaria per portare i carichi dell’altro, le debolezze che fino a quel momento non erano un problema sopportare e supportare. L’amore con il tempo pretende sempre di più. Forse è per questo che la maggior parte degli italiani si lascia dopo 15 anni di matrimonio. L’amore, se non maturato e coltivato all’interno della coppia, non basta più com’era un tempo. È come se continuassimo a metterci le magliette di quando eravamo bambini. Si fa sempre più stretto man mano che il tempo passa. Aumentano le difficoltà, i figli, i problemi, i difetti, la vecchiaia...anche l’amore deve stare al passo perché la relazione rimanga salda.

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Partiamo da alcuni dati di cronaca di questi giorni:

I matrimoni? Durano 15 anni Secondo l'Istat ci sia lascia quando lui ha 45 anni e lei 42. Più separazioni tra i sessantenni. Ci si sposa sempre più tardi e la scelta di lasciarsi, per l'85% è consensuale. Tra le categorie più a rischio i laureati. Sarebbero «a termine» le coppie italiane: il 30% delle unioni naufraga in media dopo 15 anni. Lo annuncia il rapporto dell'Istat «Separazioni e divorzi in Italia» secondo cui nel 2010, ogni 1000 matrimoni ci sono state 307 separazioni (+2,6% rispetto all'anno precedente) e 182 divorzi (-0,5%). Un trend in crescita se si pensa che nel 1995 erano solo 158 coppie su mille quelle a decidere di troncare il matrimonio. E se fino a 10 anni fa ci si separava intorno ai 35-39 anni, ora accade quando lei ne ha 42 e lui 45, questo anche l'innalzarsi dell'età media in cui si contrae il matrimonio: solo una coppia si quattro si sposa prima dei 30 anni. A sciogliersi sono anche le unioni di lunga data, tanto che nell'ultima decade gli ultrasessantenni che si separano sono passati dal 5,9% al 9,9%. Le categorie più a rischio? I coniugi laureati, contrariamente a quanto succede nel resto d'Europa. Fortunatamente si sceglie di separarsi senza farsi la guerra: nell'85% dei casi la decisione è consensuale. Ma c'è anche chi ci riprova: il 14% dei matrimoni nel 2011 sono stati seconde nozze. (da Vanity Fair on line del 13 luglio 2012) I 60enni che divorziano, non sono cresciuti ai tempi freddi di internet, quindi non è solo un problema della nostra cultura. Non puoi dire: quando mi innamoro, poi ci penso… La gente spesso deve fare tanti sacrifici, ma non è disposta a fare sacrifici su questo. Non solo passando il tempo, si cresce. Spesso le coppie sono impegnate per 20 anni, in problemi di logistica (tu fai la spesa, io vado a prendere i figli)…non hanno tempo di pensare. Non siamo disposti a capire il corpo dell’altro: l’altro nel corpo esprime tutto se stesso, tutte le sue fragilità e bellezza. Rischio: è che non è scontato il risultato. Il rischio è sempre calcolato. C’è un investimento della tua vita in amore..migliorato, affinato, costruito… l’età è ininfluente? Sesso e amore è così distinguibile? E’ molto legato perché nel sesso amoroso cosa cerchi? La fusione, l’unione…che è tipico di eros…quando trova ciò che cerca, desidera distruggerlo, così non deve più desiderarlo. Il fine del desiderio è distruggere l’oggetto del desiderio.Il desiderio deve arrivare al suo fine. Eros è questo. Nel momento in cui ho I pad, desidero altro e quello viene annullato, non ci penso più. Eros spinge al desiderio, quando hai trovato la tipa e siete insieme, eros rischia di fare dei danni. Ecco da dove deriva il famoso..”Calo del desiderio”, “matrimonio tomba dell’amore”: perché quando ottieni quello che cerchi non lo desideri più. Non è più oggetto del tuo desiderio. Eros è questo. Voi desiderate un amore vero, ma se lo trovare smettete di desiderarlo. Se c’è l’amore perfetto verso dove vado poi? Per questo cercate sempre l’amore perfetto. Molte volte è deludente poi la quotidianità. E’ molto meno affascinante di come pensavi che fosse. E quindi? Cosa desideri?

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Come mai ciò che era amore diventa violenza? La maturità è richiesta solo alle persone o anche alla relazione? Questo cosa significa? Cos’è che fa maturare l’amore: le esperienze negative o quelle positive? Cos’è che matura nell’amore? Cosa fa venire meno l’amore? Cosa rompe una relazione amorosa?

Questo punto ci aiuta a capire che non dobbiamo considerare solo l’altro, ma anche la relazione. La questione dell’età. Eros ha bisogno di tempo,che si perduri in una relazione e in un legame. Spesso pensiamo che le persone devono crescere dentro le relazioni. Però dobbiamo crescere noi e anche la relazione. Se tu cresci e la tua relazione non ha l’età adatta, è un bel casino. Il problema dell’età non è solo di chi è coinvolto, ma anche l’età dell’amore, del legame. L’amore ha bisogno di tempo,ma anche invecchia. Deve quindi invecchiare bene per poter sopportare le immaturità, gli errori dell’altro. La relazione non è solo la somma dei due individui. Se fosse solo questo ci accontenteremmo di essere persone sposate, ma solo come single in coppia. Le relazioni non funzionano con la logica del relativismo e dell’egoismo, funzionano perché c’è comunione. È la comunione di pensiero, di creatività, di speranze, di progetti, che rende una relazione dinamica, matura, capace di reggere nonostante le difficoltà. L’amore fa da catena di contenimento alle prove della vita solo se è maturo, solo se è cresciuto con la coppia, solo se è stato modellato a sua misura. Cosa significa avere cura che questa relazione maturi? E come farla maturare? Per rispondere a questa domanda vengono in mente cose molto pratiche...quasi come “ingredienti” non assoluti ma fondamentali per continuare a prendersi cura dell’altro e della relazione con lui. Per prima cosa mantenere il dialogo: unico modo perché l’altro ti possa far cambiare idea. Unico modo per cui l’altro non diventi pian un estraneo. La pazienza, la comprensione perché i difetti aumentano, soprattutto con la vecchiaia ed è sempre facilissimo cadere nell’insofferenza in un rapporto, sia amicale che affettivo. La disponibilità, o meglio la gratuità, affinché non ci si possa fare i conti in tasca, affinché non si possa neanche iniziare a pensare solo a se stessi. Accoglienza, perché l’altro non si senta mai messo da parte, mai tagliato fuori, affinché ci si comprenda nei momenti di difficoltà, nelle prove.

Può capitare a tutti di ri-innamorarsi. Spesso le persone cadono senza andare nemmeno troppo a cercarsela, il problema è che di fronte a queste immaturità, la relazione non è in grado di fare da contenitore, da catena di contenimento. Le nostre relazioni sono spazi che sono capaci di darci libertà, ma nello stesso tempo anche spazi per contenere i nostri errori? Qual’è l’eta di maturazione di una relazione? Forse non bisogna mai pensare di essere arrivati, mai pensare di amare l’altro abbastanza, mai pensare di essere meravigliosi così come siamo. Forse c’è bisogno di qualcosa che nutra il nostro amore. Cosa e chi lo può nutrire? Si acquisisce sempre più maturità se si cammina in quest’ottica di comunione. Il “chi fa da sé fa per tre” in una coppia non funziona. Anzi. Ti ritrovi sempre più immerso nelle tue pare, nei tuoi

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problemi, nei tuoi sogni che pian piano non comprendono più l’altro, che lo riducono ad essere una comparsa nella tua vita. Ma si è più felici così? Si è più liberi così? Il pensare solo a sé, porta a farsi solo i conti in tasca, e di sicuro non ti rende libero di pensare all’altro e agli altri. Forse si matura ogni volta che la coppia sceglie di risolvere i problemi e di camminare insieme. Quando non smetti di “dipendere” dall’altro, quando non smetti di essere una cosa sola. E’ possibile appartenere a qualcuno? E’ sano?E’ violento? Dov’è la libertà? Cosa vuol dire donarsi completamente? Quando le relazioni diventano violenti? Quando l’appartenersi diventa eccessivo. L’amore diventa possessione dell’altro. Desiderare che l’altro ci appartenga non deve però chiudere l’altro. La relazione si ammala se il desiderio di appartenersi sfocia nel chiudersi, nel guardarsi solo occhi negli occhi, se la realtà non esiste più. Come nell’innamoramento l’altro ci affascina e tutto prende un nuovo volto, anche la realtà, poi il rischio è che l’altro ti prenda così tanto che poi ti interessa solo l’altro. E’ qui che l’appartenersi diventa malattia. Quando ti basta l’altro, ti basta l’amore per l’altro. Nel tempo saltano fuori tanti nuovi nodi da risolvere, che nell’innamoramento non avevi scoperto. E qui è richiesto di saper essere creativi, di imparare un senso di giustizia per sé, per l’altro e per la relazione sempre nuovo e accresciuto. Spesso la gente si lascia o si fa del male perché pensa sia giusto far pagare all’altro quello che l’altro mi sta facendo subire. Quando nel tempo la logica della corrispondenza prende questa piega le situazioni si fanno molto problematiche e dolorose, tanto che non si vedono più le ragioni per andare avanti, visto che non sembra esserci nessun avvenire.

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I.a.3. L’amore pensato

L’amore non è solo una forza della natura… ne tantomeno solo esperienza individuale. Fin dall’antichità le culture umane hanno affinato e raffinato questa forza attraverso una molteplicità di linguaggi comunicativi. L’amore in che rapporto sta con la cultura? In che senso l’amore che viviamo noi è affinato e raffinato?

Cosa significa affinare… qui il problema sembra esser quello di rimuovere impurità e incrostazioni. Cosa significa raffinare… qui è in ballo il lavoro di cesello che rende il gioiello prezioso. I primi tabù della cultura umana sono costituiti intorno a questioni sessuali…

La cultura degli uomini, nella storia, ha preso l’amore e ne ha fatto canto, poesia, arte, norma giuridica, istituto… Non è Anteros, qui, che razionalizza l’amore per paura di non essere corrisposto, ma la cultura umana, la creatività degli uomini, che rende l’amore qualcosa di condivisibile, dicibile, maneggiabile. Forse quello che ci fa problema è ciò che non sappiamo maneggiare, le situazioni che non vediamo da che parte prendere, i pensieri che non riusciamo a mordere… Anche l’amore, con la sua forte carica sessuale, corre il rischio di diventare qualcosa del genere: e proprio per questo sin dall’antichità le civiltà umane hanno lavorato su di esso per poterne godere fino in fondo. L’amore pensato è l’eros che nel tempo diventa un progetto che si può condividere e far crescere, correggere e rendere più bello. La dimensione della progettualità è anche quella che fa venire voglia di affermare che l’amore per l’altro non sia solo un finchè dura, ma un per sempre. Eros ha bisogno della cultura e di questo facciamo esperienza anche noi, perché se essa manca viene meno la possibilità reale di fare di noi stessi e di ciò che proviamo qualcosa di maneggiabile e ricevibile dall’altro e dagli altri. Se Anteros, come abbiamo visto, è l’amore razionalizzato e scientificizzato, l’amore pensato è eros messo nella condizione del dialogo, cioè aperto e preoccupato non solo di soddisfare i suoi bisogni, ma anche di servire alla storia degli uomini, al bene di tutti, alla crescita dell’umanità. Quando l’uomo si mette con la sua intelligenza prende la natura, la fa rimanere natura ma diventano cose bellissime…vedi l’uva…che diventa vino. Il campo sull’amore è questo…se no abbiamo il campo su sesso, viagra… Cosa succederebbe se la nostra fidanzata/o ci chiedesse di dire cosa intendiamo quando le/gli diciamo “ti amo”? Qui nascono i pasticci...provare per chiedere. Non è piacevole in linea di massima.

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Hai parlato di amore in astratto, senza andare al punto del problema, tirando fuori cose carine che concretamente non ti toccano nemmeno di striscio...un po’ perché effettivamente non ci avevi mai pensato e un po’ perché forse (e dico forse) pensi, in fondo in fondo, che quello che provi riguardi solo te, cacchio centrano gli altri? Quando però pensi concretamente, ad esempio, alla tua relazione d’amore, a quella vera, al tuo fidanzato o alla tua fidanzata casca l’asino…quando dici all’altro che lo ami (e lo diciamo non facciamo i finti tonti), quando dici di essere innamorato di lei/lui (eh se lo diciamo!) cosa stai dicendo di preciso? Boh...ecco appunto! Prendiamo alcune dinamiche abbastanza concrete che viviamo quotidianamente. I gesti non sono auto-evidenti. Spesso noi ci facciamo una scienza incredibile sui gesti che abbiamo per l’altro. Sono i tanto famosi gesti d’amore, quelle cure, quelle attenzioni con cui ci riempiamo la bocca quando dobbiamo spiegare cosa significa amare! Amare significa stare in un certo modo con l’altro, significa essere affettuosi, significa stargli accanto...vero ma c’è un problema. E se l’altro non capisce? Se quello che per te era un gesto che esternava il tuo immenso amore per l’altro è qualcosa di patetico o poco significativo? Oltre a questo c’è anche il fattore fraintendimento: capita sovente che qualcosa che per noi è indice di vicinanza, di affetto, di cura venga letto dall’altra persona come qualcosa di violento, qualcosa di nocivo, a volte offensivo. I gesti da soli non bastano, non sono sufficienti a comunicare quello che proviamo per l’altro. Perché noi pensiamo di essere innamorati ma magari l’altro sente tutt’altro che amore...questo non perché noi siamo cattivi (forse un po’ si), noi siamo veramente innamorati, ci diciamo seriamente di provare amore per quella persona! I gesti necessitano delle parole, degli spazi, dei luoghi nei quali possano essere spiegati, discussi, abbelliti. I gesti hanno bisogno di spazi di risonanza nei quali possano diventare comprensibili; questo non significa far andar bene qualsiasi gesto: renderli comprensibili comporta anche portare alla luce le loro ambiguità e le ferite che sono in grado di generare. Magari siamo veramente innamorati di una persona, ci raccontiamo in continuazione di quanto l’amiamo e di quanto abbia cambiato la nostra vita...poi però scopriamo che quello che per noi era amore per l’altro era qualcosa di diverso, e allora che si fa? Hai ragione tu? Ha ragione l’altro? Avete ragione entrambi? Il fatto è che se l’amore non lo comunichi, non lo dici prima di tutto all’altro non è amore ma è una elucubrazione mentale! Quando ti accorgi che quello che pensavi fosse amore era una questione mentale ci stai da cani. Se uno ci pensa la frase —eh pensavo di essere innamorato e invece…— non vuol dire niente ma genera delle ferite molto profonde! L’amore o è pensato o non è. Questo non tanto perché i sentimenti di uno non sono veritieri o non esprimono i suoi reali desideri quanto piuttosto perché l’amore necessità di due persone e queste persone non vivono in una cella di isolamento. Perché l’amore sopravviva c’è bisogno di un Io che si rivolge a un Tu ma se i due non si capiscono la cosa non funziona: rimangono due con le loro pulsioni, con i loro coinvolgimenti emotivi che non riescono ad intercettarsi, ad intrecciare i loro progetti e i loro desideri. L’amore deve essere abitabile dalle persone, un terreno condiviso sul quale possano lavorare e che possano coltivare. L’amore non è solo qualcosa di personale, un vortice intimo di pensieri, sensazioni ed impulsi è che dà la possibilità all’altro di rispondere. Come fai a rispondere all’amore di qualcuno se non sai di cosa si tratta? Se l’altro non riesce a spiegarti i suoi gesti ed il suo amore tu come fai a rispondergli? Non ci riesci oppure vai a tentoni facendo dei gran danni. Questa dimensione non vale solo tra i due amanti. Se l’amore può essere comunicato può suscitare la risposta anche di qualcun altro. In fondo anche noi desideriamo amare qualcuno in un determinato modo perché abbiamo qualcuno ci ha comunicato una certa forma d’amore, un progetto d’amore che 1 6

ci ha affascinato, che ci dato coraggio. A questo punto non solo scopri che rendere l’amore leggibile e comunicabile è l’unica cosa che permette all’altro di rispondere con qualcosa di altrettanto bello e sostanzioso ma apre ad una dimensione di creatività per gli altri. Per i greci la sessualità nasce come vendetta degli dei…è punizione divina e se eros funziona è una minaccia per gli dei. Questa è la visione greca. L’uomo è in cerca da allora dell’altra metà per fondersi e consumare l’altra persona. In genesi invece per l’umanità, Dio pensa alla divisione sessuale. L’amore è dove l’uomo ha più lavorato, è stata la cosa su cui ha lavorato di più in assoluto. La cultura dice l’amore, ma anche dice l’indicibile sull’amore: la tragedia greca mette in scena ciò che in altro modo non si riuscirebbe a dire. L’amore incestuoso (Edipo), l’amore materno che uccide i suoi figli (Medea), l’amore paterno che per un voto agli dei uccide la figlia amata (Agamennone e Ifigenia), l’amore fraterno e quello per la propria città (Antigone). Gli uomini attraverso la tragedia hanno cercato di mostrare ciò che l’amore non è, le tensioni che porta con sé, le scelte etiche che comporta. La cultura ha permesso e permette di dare forma all’indicibile sull’amore, che trova poi tristemente forma nella cronaca. La cultura affina l’amore anche così perché il suo linguaggio permette di esprimere ciò che sarebbe difficilmente immaginabile. Se prendiamo il dialogo di Platone il Simposio, poi, vediamo diverse rappresentazioni dell’amore. Sicuramente vediamo rappresentata l’idea secondo cui per i greci la sessualità nasce come vendetta degli dei…è punizione divina e se eros funziona è una minaccia per gli dei. Questa è la visione greca. L’uomo è in cerca da allora dell’altra metà per fondersi e consumare l’altra persona. Ma vediamo anche espressa un’altra concezione tipica greca: l’amore come una forza cosmica, che pervade tutto, che ritma la vita del cosmo. Ancora c’è chi sostiene l’esistenza di due forme di amore: l’amore pandemio (verso le donne) e l’amore celeste (verso i ragazzi). L’amore come forza che spinge l’uomo alla virtù e suscita il ribrezzo per le cose viziose. Infine nel discorso di Socrate l’amore è presentato come un intermediario tra gli dei e gli uomini, è sempre desiderio di qualcosa che non si ha e si vorrebbe avere, è desiderio insaziabile, è tensione ad avere per sempre ciò che si desidera, è tensione a durare per sempre, nella generazione di figli e di vita. È interessante anche scorrere alcune pagine della Storia della sessualità di Michel Foucault. Il filosofo francese sottolinea come nella cultura romana fossero già presenti almeno tre principi della morale cristiana: monogamia, sessualità con la funzione di procreazione, svalutazione del piacere sessuale. Dunque non è il cristianesimo ad aver delimitato, affinato nella cultura la sessualità. Secondo Foucault il compito storico del cristianesimo è di aver introdotto nuove tecniche per imporre questa morale. È interessante questo punto perché l’amore pensato non è costituito semplicemente da idee affinate e raffinate sull’amore, ma anche sulle forme che l’esperienza dell’amore si dà. Sulle tecniche. Nell’antichità queste tecniche erano sviluppate nelle scuole filosofiche, nelle sette religiose, e costituivano quelle che Foucault chiama “arti” per la costruzione di sé. Sono tecniche non repressive, ma piuttosto volte ad aiutare il soggetto a venire fuori al meglio (da qui la pratica degli esercizi spirituali). Il Cristianesimo, secondo Foucault, ha costruito un sistema di potere che ha imposto alcune tecniche. L’amore non è solo un che cosa, ma anche un come. L’amore: una questione sociale? L’amore è una questione sociale perché, in quando espressione culturale, deve poter fornire un linguaggio con cui intenderci. Certo, l’amore si fonda su una base biologica, poi, però – come abbiamo già osservato – abbiamo imparato a costruire su questa base qualcosa che non era già offerto dalla natura. La dimensione culturale dell’amore è importante perché ci dà un linguaggio. In questo senso

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l’amore è un affare sociale: c’è un bisogno di comprensione alla base che è bisogno di imparare a vivere insieme. Una società per essere tale deve poter decidere cosa è amore e cosa non lo è. È importante che tutti ci troviamo d’accordo, per funzionare insieme, anche su ciò che è amore, o almeno è importante che eliminiamo i dubbi più grandi – che è anche una fatica di questo campo! Non è vero che sappiamo già cos’è l’amore... Se lo sapessimo non ne discuteremmo affatto! Però è vero che ne facciamo esperienza... È vero perché proveniamo da una cultura che ci permette di riconoscerlo, almeno di parlarne... Facciamo esperienza dell’aspetto culturale dell’amore fin da piccoli... Lo abbiamo appreso dai nostri genitori, in ciò che sono riusciti o non sono riusciti a fare, ma sempre in base ad una idea che precede noi, loro, e chiunque altro; un’idea che chiede di essere condivisa, discussa, criticata, ma che comunque c’è e possiede un peso nelle nostre vite... Quante volte i nostri genitori (di giovani adulti) ci vorrebbero già sposati, già qui, già là! Anche chi andava propagando, nella cosiddetta «rivoluzione sessuale», «l’amore libero» tra gli anni ’60-’70, libero da ogni vincolo culturale, sociale, perché espressioni di qualche forma di potere fra gli uomini, e questo in nome di una società meno repressiva, o non repressiva affatto, sosteneva un’idea culturale dell’amore... Insomma, sull’amore si litiga! E questo significa che l’amore non è mai una questione chiusa per la collettività... Nella voce «amore» si gioca tanto di noi... È uno dei livelli più importanti di un persona, forse il più importante... Perché? Perché proveniamo da una storia... e se anche l’amore non è necessario da un punto di vista biologico, perché basta il sesso, noi non siamo solo natura siamo anche cultura... Le persone si reggono, vivono, soprattutto su ciò che la storia da cui vengono ha prodotto: la loro cultura... È importante che le persone abbiano qualcosa su cui reggersi... Per questo si litiga molto su ciò che pensiamo essere amore (coniugale, quello che deve esserci fra gli amici, etc)... È per questo che diciamo che un film ci è piaciuto oppure no, che un romanzo, una storia (d’amore) sono belli oppure no... Anche per questo diciamo che qualcosa è un capolavoro oppure no... Per questo l’amore è qualcosa che ha una sua rilevanza sociale... perché ci riguarda tutti, come un livello del nostro essere nel mondo di cui abbiamo provato “una” esperienza fin da subito...

Il corpo nel mondo freddo di internet... in che modo ci fa capire e determinare l’amore? Oggi il corpo viene "fantasticato"...fantasticando sul corpo, quando ti incontri veramente, è sempre deludente...internet ci porta a fantasticare sul corpo...i sensi con internet vengono dimenticati... Parliamo di un tempo freddo e anche poco erotico, guarda caso ci sono anche tanti problemi riguardo al sesso, quando il corpo c'è pieno di imperfezioni e non ritoccato da photoshop.. Il corpo risulta essere paradigma della crisi delle relazioni, della fatica di capire cosa sia l’amore.

Cosa, nella nostra cultura può essere in grado di affinare e raffinare i nostri amori? Quali sono gli elementi che oggi ci spingono a desiderare un amore pensato? In che modo internet ci fa pensare l’amore?

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I.b L’eros insensato di Dio Dio, l’amante che cerca l’amata nel giardino… ma come? Dio non è l’onnipotente? Si mette a cercare lui l’amata? Come mai non cadono tutti ai suoi piedi? Cosa cerca Dio? Come ama? Perché diciamo che l’eros di Dio sia insensato?

I.b. 1. Dio: l’amante che cerca l’amata nel giardino Il cantico dei cantici è quel libro che nella Bibbia canta un amore talmente forte da essere quello di Dio per gli uomini.

Ctc 4

1Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo. Le tue chiome sono come un gregge di capre, che scendono dal monte Gàlaad. 2I tuoi denti come un gregge di pecore tosate, che risalgono dal bagno; tutte hanno gemelli, nessuna di loro è senza figli. 3Come nastro di porpora le tue labbra, la tua bocca è piena di fascino; come spicchio di melagrana è la tua tempia dietro il tuo velo. 4Il tuo collo è come la torre di Davide, costruita a strati. Mille scudi vi sono appesi, tutte armature di eroi. 5I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella, che pascolano tra i gigli. 6Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, me ne andrò sul monte della mirra e sul colle dell’incenso. 7Tutta bella sei tu, amata mia, e in te non vi è difetto. 8Vieni dal Libano, o sposa, vieni dal Libano, vieni! Scendi dalla vetta dell’Amana, dalla cima del Senir e dell’Ermon, dalle spelonche dei leoni, dai monti dei leopardi.

9Tu mi hai rapito il cuore, sorella mia, mia sposa,

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tu mi hai rapito il cuore con un solo tuo sguardo, con una perla sola della tua collana! 10Quanto è soave il tuo amore, sorella mia, mia sposa, quanto più inebriante del vino è il tuo amore, e il profumo dei tuoi unguenti, più di ogni balsamo. 11Le tue labbra stillano nettare, o sposa, c’è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come quello del Libano. 12Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata. 13I tuoi germogli sono un paradiso di melagrane, con i frutti più squisiti, alberi di cipro e nardo, 14nardo e zafferano, cannella e cinnamòmo, con ogni specie di alberi d’incenso, mirra e àloe, con tutti gli aromi migliori. 15Fontana che irrora i giardini, pozzo d’acque vive che sgorgano dal Libano. 16Àlzati, vento del settentrione, vieni, vieni vento del meridione, soffia nel mio giardino, si effondano i suoi aromi. Venga l’amato mio nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti.

In che senso quello che Dio esprime attraverso il cantico può essere definito eros insensato? Cos’è l’amore per Dio alla luce del Cantico?

Dio canta in un linguaggio poetico il suo amore, il suo eros per la sua amata, e così da anche a no la possibilità di ragionare su cosa egli consideri essere l’amore. Il primo elemento che incontriamo nel testo è il fatto che l’amore viene espresso come una sorta di fascinazione che l’amato vive nei confronti dell’amata. Ne vede tutta la bellezza, si lascia trasportare da essa, permette che lo coinvolga completamente senza nessuna esclusione ne resistenza. Tutto ciò poi si apre ad una ricerca dell’amata che lo fa muovere, girare, sognare il futuro con lei… Tutti questi elementi ci fanno ritornare in mente quanto abbiamo detto circa eros. Va notato in tal senso che il Cantico dei cantici è umano all’inverosimile. E’ interessante pensare che Dio ci brami, anche se non c’è mistero per lui, può averci quando vuole, ma è incredibile che ci cerchi e ci brami, questo è davvero inedito. Per lui non c’è mistero, però si innamora, vede qualcosa di più di quello che siamo, ci vede più di quello che siamo, più in 2 0

profondità. Canto la tua bellezza globale..canto del corpo e dell’anima insieme. Canta la bellezza che non si esaurisce con la descrizione fotografica:Dire “i tuoi denti sono come pecore che escono dal laghetto”…è cantare la bellezza, l’ armonia

Dio ha un desiderio di unione, che ti cerca, che lui ha tutto, ma non può averti senza eros. Dio crea qualcuno che è altro da sé e con questo sogna una comunione impensata e impensabile…è EROS. Dio non butta via niente dell’amata. Dio ama con un amore traboccante. L’amore gli permette di vedere la realtà nella sua dimensione di eccesso. Dio cerca l’amata e si rivolge a lei sperando che risponda, riuscendo a vedere una realtà nuova, eccessiva. Dio incomincia a vedere dei particolari che fanno crescere la realtà stessa. Eros non ci fa vedere la realtà per quello che è, ma ci fa vedere una realtà nella sua crescita. E’ un amore che vede non solo l’altro per come è, ma anche cosa l’altro può diventare. L’eros insensato di Dio è un amore esagerato. Il linguaggio della poesia è molto bello ed esprime l’esagerazione, l’eccesso di questo amore, che tuttavia è comprensibile, affabile per l’amata. La poesia non solo dice quello che c’è, ma è un linguaggio esagerato che coinvolge coloro ai quali è rivolta suscitando sentimenti forti di passione, commozione, gioia, coinvolgimento. L’eros insensato del Signore non è qualcosa di funzionale: Dio non vuole solo conquistarla. L’idea qui è che Dio cerca l’amata, ma cerca anche dei modi che dicano quel di più, quella novità che con lei ha intravisto sulla realtà. Dio, mentre è nel giardino a cercare, chiamare, cantare, lui stesso si apre a dei sogni che non aveva previsto. L’eccesso dell’amore rispetto alla piccineria di Anteros il Cantico lo esprime attraverso il riferimento alla bellezza, vista senza ambiguità ma come origine di un attrazione che porta a desiderare l’incontro, la comunione con il tu, con l’amata. Più volte il Cantico affronta il tema della bellezza: quella del corpo dell'amato (1,13-14.16; 2,3.9; 5,10-16), ma in particolare la bellezza del corpo della donna. Così l'esclamazione di lui, «quanto sei bella!», ripetuta due volte, ai vv. 1 e 7, serve a delimitare questo primo canto del corpo dell'amata. Tra queste due esclamazioni sono racchiusi sette paragoni relativi appunto al corpo di lei, visto dall'alto verso il basso, accostati tranne in un caso (v. 4) a elementi della natura. Il poeta fa così risaltare la bellezza del corpo femminile, una bellezza non artificiale, ma che nasce dall'amore che lui ha per lei. Quando si ama si è in grado di vedere con occhio limpido la bellezza dell’amata. Senza amore il rischio è quello di avere uno sguardo troppo strumentale e cosificante nei riguardi dell’altro. In senso allegorico, il modo diretto e straordinario con cui l'amante si rivolge alla donna deve essere il modo di Dio. Perciò, il Targum attribuisce le parole di apertura dell'amante al bai qol, la voce di Dio dal paradiso (Targum).

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Il Signore dice a Israele che è semplicemente bella. La composizione poetica suggerisce che perciò lui la desidera? Sembra di sì e, se le cose stanno davvero così, ciò pone un problema che ha afflitto l'intera storia della teologia cristiana e trova analogie nella teologia ebraica. Dio, dopo tutto, ci ama per qualche bellezza che possediamo? Anche se si tratta di una bellezza che lui stesso in precedenza ci ha donato? Il poeta fa risaltare la bellezza del corpo femminile, una bellezza non artificiale, ma che nasce dall'amore che lui ha per lei. Ci troviamo qui di fronte a un genere letterario che, per analogia con la letteratura araba, chiamiamo wasf, ovvero la descrizione del corpo della donna (ma anche dell'uomo) cantata all'interno di una celebrazione nuziale, un genere a noi noto anche dalla letteratura egiziana (cfr. l'Introduzione, p. 15). La descrizione del corpo di lei si apre ripetendo alla lettera 1,15; c'è però una novità: gli occhi appaiono adesso «dietro il velo» e, paragonati a colombe, sono visti come nobili e seducenti, veri e propri messaggeri d'amore. Nel mondo orientale il velo serve da un lato a proteggere la donna da sguardi estranei, dall'altro a esaltarne la bellezza, velando e svelando insieme. Il v. 1 si chiude contemplando i capelli di lei, che qui appaiono sciolti e disordinati, selvaggi e indomabili, come le onde del mare, o meglio come un gregge di capre (spesso di colore nero) che balza giù, senz'ordine, dai monti. L'accostamento dei capelli alle capre, ai monti, a una regione selvaggia rafforza l'idea che l'amore è qualcosa di vitale, di misterioso, come le forze della natura. Il v. 2 passa alla contemplazione dei denti; al nero delle capre che scendono giù disordinatamente da luoghi selvaggi, si contrappone il bianco delle pecore che salgono invece ben ordinate dal loro bagno. Il riferimento all'ambiente più familiare della tosatura e al lavaggio ben si adatta allo splendore di denti bianchi e puliti. Ma la metafora si sviluppa in 2b nel senso della vita e della fecondità che la bocca dell'amata richiama al poeta. Dopo il bianco e il nero, ecco il rosso/rosa delle labbra e delle guance (v. 3); le labbra, con le quali si bacia, sono però associate anche al parlare di lei, che è affascinante; la donna non è soltanto un bel corpo! 11 frutto di melagrana al quale le guance sono accostate è altamente evocativo per un israelita e rimanda ancora, come più avanti in 6,7, al tema della fecondità. La nuova menzione del velo divide in due parti la descrizione del corpo di lei. Il collo della donna (v. 4) è paragonato a una, per noi sconosciuta, «torre di David»; cfr. per il collo anche Ct 7,5. Per quanto riguarda il collo slanciato, ricordiamo come in Is 3,16 il profeta si scagli contro le donne che procedono a collo teso; ciò che per Isaia è segno di superbia, per il Cantico è invece un aspetto positivo: il collo della donna richiama sicurezza e forza, come le basse e robuste torri medio-orientali; la donna sa dunque ben proteggere l'amore. La menzione del re David ci riporta comunque nell'alveo della terra e della storia d'Israele. Gli scudi appesi alla torre - metaforicamente la collana della donna - rafforzano l'idea di potenza e protezione; i cinquecento scudi d'oro di proprietà di Salomone (cfr. IRe 10,16- 17) diventano qui il doppio. Il ritornello della bellezza (v. 7) descrive la donna allo stesso modo in cui Dio descrive, in Gen 1, la bellezza della sua creazione; la bellezza dell'amata è perciò come un riflesso della bellezza stessa del creato. Ma qui il testo si carica di un ulteriore elemento, rispetto alla proclamazione del v. 1 : nell'amata è assente qualunque difetto. La seconda parte del canto è segnata dalla ripetizione delle espressioni «sposa» (vv. 8.11) e «sorella mia, sposa» (vv. 9.10.12); la menzione del Libano (vv. 8 e 11) incornicia una prima strofa (vv. 8-11) a sua volta divisa in due parti, la prima dedicata allo sguardo dell'amata (vv. 8-9) e la seconda al bacio (vv. 10-11). La menzione del giardino (vv. 12 e 15, ripresa in 4,16 e 5,1) identifica una seconda strofa (vv. 12-15), nella quale il «giardino» con i suoi dieci frutti (4,13-14) è metafora del sesso femminile: dal desiderio e dal bacio si passa così all'unione dei due amanti.

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Al v 9 gli occhi lo fanno impazzire l’innamorato; il verbo ebraico utilizzato contiene in sé la stessa radice del termine «cuore» che per la Bibbia è prima di tutto la sede della ragione, della coscienza e della volontà. Gli occhi della donna, ovvero uno solo dei suoi sguardi, rapiscono il cuore dell'uomo, gli fanno cioè perdere la ragione. 4,12-15 Giardino chiuso tu sei! Questa nuova strofa introduce la metafora del giardino e, come già nei versetti precedenti, gioca sull'alternanza di gusto e di olfatto. L'amata è un giardino, ma è anche l'acqua che lo irriga, la fontana che in esso si trova (v. 12). Giardino, fontana e sorgente sono tutte metafore piuttosto esplicite della sessualità femminile, presentata come una realtà meravigliosa e dissetante. Questi luoghi sono descritti come realtà chiuse; l'allusione è in questo caso alla castità della donna, considerata fondamentale nella cultura ebraica dei tempo (cfr. Dt 22,13-21); ma la chiave di tali luoghi si trova all'interno, dalla parte della donna dunque. L'unione è perciò possibile solo se la donna stessa si apre: nell'amore non ci può essere alcuna forzatura o violenza. Così la poesia dice del desiderio di Dio di non voler fare violenza alla coscienza, piuttosto di stare con pazienza alla porta e bussare, fintanto che non vogliamo aprirgli. Una parola, in particolare, va detta in relazione a quell'aspetto peculiare del linguaggio del corpo nel Cantico dei Cantici che è la nudità, un tema che ci ricorda da vicino ancora la situazione descritta in Gen 2,18-25: «erano nudi, ma non ne provavano vergogna» (2,25). La nudità, così presente nel Cantico e mai ostentata, acquista nel poema un valore utopico; la coppia del Cantico vive il proprio rapporto come in una dimensione paradisiaca: «La nudità ha, nel Cantico, la stessa funzione che in Gen2,25: esprime l'utopia di un incontro senza veli e senza maschere nell'immediatezza e nella vulnerabilità di un rapporto autenticamente umano». Non dobbiamo dimenticare come la nudità degli amanti del Cantico sia anche una nudità assolutamente reale - specialmente la nudità del corpo di lei - che doveva a molti apparire persino scandalosa già nel tempo in cui il Cantico è stato scritto; essa è certamente una delle espressioni privilegiate dell'amore dei due amanti, che possono guardarsi l'un l'altro «senza vergogna», come la coppia originaria nell'Eden, perché dal loro amore è assente la cupa ombra dell'egoismo e del possesso. Nell'allegoria di questa lirica, la bellezza del corpo, il suo legame con il desiderio, e la natura sconcertante del legame sono tutte analogie della dichiarazione trinitaria del Signore della bellezza di Israele e del suo desiderio per lei. Che cosa ci dice questo su di loro? Immanuel Kant ha definito la bellezza come la spontanea corrispondenza (unlaborious coincidence) del reale e dell'ideale, ovvero il modo in cui alcune cose mostrano alla vista ciò che dovrebbero essere per mezzo di ciò che già «serendipitamente» (serendipitously) sono, e in questa misura non necessitano di essere migliorate dai nostri sforzi morali. Questo, in termini cristiani, significa che la bellezza è escatologia realizzata, il bagliore presente del buono, puro e semplice che ci sarà alla fine. La bellezza è come altre anticipazioni della fine: sono doni da qualsiasi parte compaiano e tuttavia possono essere allo stesso tempo un incarico per il nostro lavoro quotidiano. La contemplazione estetica dell'amato, il semplice inventario amoroso del suo corpo, è perciò a un tempo una tregua dall'attrazione sessuale e l'occasione del suo rinnovamento. Ma tutta questa bellezza non corre il rischio di non essere reale? Di essere solo frutto di una cotta? Ma allora che cosa dal punto di vista di Dio è amore? Il Cantico non è un'allegoria che si serve di temi umani solo come pretesto per parlare dell'amore di Dio. Avviene esattamente il contrario: è cantando la bellezza dell'amore umano visto nella sua

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dimensione squisitamente sessuale, persino erotica, che il Cantico apre a chi lo ascolta gli orizzonti infiniti dell'amore divino. L'amore umano, inserito sullo sfondo della terra promessa, che non è un quadro artificiale né un puro e semplice ricorso poetico, diviene il segno del compimento delle promesse divine per Israele. Il senso del Cantico dei Cantici è profondamente teologico proprio perché profondamente umano; e questo perché la dimensione simbolica del Cantico ne fa un poema il cui messaggio non può essere letto come qualcosa di esclusivamente erotico. Lo sposo è traboccante nel cantare la bellezza dell’amata, ne bastava meno. Invece descrive e racconta tutto il suo corpo, per ogni sua parte ha una immagine, un paragone. È interessante perché vediamo qui il modo in cui lo sposo parla della sposa, vediamo il discorso d’amore. Come noi parliamo di chi amiamo? L’eros insensato non è un eros privo di parole, anzi. Ha bisogno delle parole per toccare l’amata, per far sentire i suo desiderio. È concreto. Trovare parole è un rischio, e se i paragoni non funzionano, non piacciono all’amata? Invece, nella conclusione di questo capitolo la sentiamo rispondere e invitare lo sposo nel giardino. Con i paragoni, con queste parole che si sciolgono e avvolgono, quasi come un profumo lo sposo mostra di vedere qualcosa di più di quello che siamo, o meglio ci vede più in profondità. A partire da quello che siamo, che anche gli altri hanno sotto gli occhi, l’amante mostra di vedere più in profondità. Canto la tua bellezza globale…canto del corpo e dell’anima insieme. Canta la bellezza che non si esaurisce con la descrizione fotografica. E usando parole permette a tutti di vedere di più. È un amore insensato perché è traboccante, straripante, eccedente. Dio ha un desiderio di unione, che ti cerca, che lui ha tutto, ma non può averti senza eros.

II linguaggio poetico del Cantico Comunque si interpreti il Cantico (cfr. pp. 16-32), è la ricchezza del suo splendido linguaggio poetico la prima realtà che si impone a chiunque lo ascolti. Il ritmo, l'uso attento degli strumenti stilistici a disposizione del poeta ebreo, prima di tutto quello del parallelismo, rendono il Cantico un «bel testo» e, insieme, una sfida impossibile per qualunque traduttore. Il poeta si serve di giochi di parole, di allitterazioni e di assonanze che per lo più possono essere colte soltanto nel testo ebraico. Il tema centrale e realmente unificante del poema, l'amore, si espande in una miriade di simboli, relativi al corpo e alla sua bellezza, al creato e al suo fascino: universo, piante, animali, colori, odori e sapori. Entrare nella bellezza della poesia del Cantico è senza alcun dubbio l'unico modo per comprenderlo appieno. Il poeta non intende narrare dei fatti, ma comunicare stati d'animo, emozioni; attraverso l'uso dei simboli il poeta può cantare l'amore umano senza mai scadere nella volgarità e nella pornografia. Si può parlare, a buon diritto, del Cantico come di una «lirica».

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Il contesto biblico e sapienziale del Cantico L'interpretazione allegorica, per quanto antica e venerabile, non rende ragione del senso del Cantico; tale senso va cercato, come già s'è detto, nella direzione più ovvia: quella che fa del Cantico un poema d'amore. Se inseriamo il Cantico nel suo contesto biblico (e dunque anche canonico) esso appare come uno sviluppo del testo di Gen 2,18-25, una sorta di midrash sapienziale sul testo genesiaco; potremmo vederlo, in modo particolare, come la voce della donna che si aggiunge a quella dell'uomo, già udita in Gen 2,23: «Non è possibile rileggerlo [il Cantico] se non nella linea di ciò che e scritto nei primi capitoli della Genesi [...] ciò che nel capitolo 2 della Genesi è stato espresso in poche parole semplici ed essenziali, qui si sviluppa in un ampio dialogo, o piuttosto un duetto, in cui le parole dello sposo si intrecciano con quelle della sposa e si completano a vicenda». Potremmo affermare che il Cantico descrive l'amore della coppia in una situazione di ritrovato paradiso, un vero e proprio eros redento, ovvero l'amore umano vissuto secondo il progetto di Dio. Da questo punto di vista, il Cantico riprende anche la metafora sponsale più volte utilizzata dai profeti; nel caso del Cantico, tuttavia, al centro dell'attenzione del poeta c'è la realtà dell'amore umano, prima ancora di quello divino: «Alcuni lettori del Cantico dei Cantici si sono lanciati a leggere immediatamente nelle sue parole un amore disincarnato. Hanno dimenticato gli amanti o li hanno pietrificati in finzioni, in chiave intellettuale, [...] hanno moltiplicato le minute corrispondenze allegoriche in ogni frase, parola o immagine [...] Non è questa la strada giusta. Chi non crede nell'amore umano degli sposi, chi deve chiedere perdono del corpo, non ha il diritto di elevarsi [...]. Con l'affermazione dell'amore umano, invece, è possibile scoprire in esso la rivelazione di Dio». È altresì significativo il fatto che il Cantico sia stato inserito all'interno dei libri sapienziali, proprio attraverso l'attribuzione salomonica; il suo tema, l'amore di coppia, è infatti legato all'esperienza concreta della vita umana. Considerato come un testo a sfondo sapienziale, il Cantico può essere visto anche come un'espansione dell'intuizione sull'amore umano contenuta in Pr 30,18-19 e dunque come un messaggio diretto allo stesso pubblico al quale erano diretti i Proverbi, ovvero i giovani israeliti: «Probabilmente, dunque, l'autore (o gli autori) del Cantico fu uno scriba, un colto e raffinato sapiente israelita. Egli avrebbe curato questa squisita antologia di poesie di amore per uso scolastico, come una specie di componimento poetico per insegnare la sublimità e la bellezza dell'amore. Ài suoi giovani discepoli, ragazzi e ragazze, il maestro di sapienza porge una profonda, ma simpatica e attraente riflessione sull'amore tra uomo e donna». Esiste inoltre senza dubbio un certo rapporto tra il Cantico e il testo di Pr 1-9; ma, a parie Pr 5,15- 19, è noto come l'atteggiamento degli autori di Pr 1-9 nei confronti dell'amore di coppia sia molto più guardingo e non di rado persino critico rispetto alla libertà e alla gioia che si respira nel Cantico; si veda come buon esempio l'intero testo di Pr 7 con i suoi ripetuti ammonimenti relativi alla donna straniera. Si potrebbe piuttosto affermare che il libro dei Proverbi traspone nei confronti della sapienza, personificata in Pr 1-9 come una donna, ciò che nel Cantico si dice dell'amata. La dimensione sapienziale del Cantico va vista piuttosto, lo ripetiamo ancora, nel saper ricondurre l'amore di coppia alla sua dimensione autenticamente umana, profana, secolare: proprio per questa ragione il Cantico non parla mai direttamente di Dio, se non soltanto in 8,6, ormai alla fine del poema, e in modo molto discreto (cfr. il commento a 8,5-7). Così facendo, il Cantico reagisce anche contro una mentalità paganeggiante ove l'amore è considerato una realtà da idolatrare, come avviene nei culti cananaici, oppure come avviene nel mondo greco dove l'amore è una divinità {Eros) che prende possesso dell'uomo. L'apparente profanità del Cantico è dunque il frutto del suo carattere sapienziale. L'amore umano è così sottratto alla sfera sacrale e pienamente restituito all'essere umano: «L'amore profano non è necessariamente un amore profanato». (L. Mazzinghi, Cantico dei cantici. Introduzione, traduzione , commento. San Paolo 2011)

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Detto tutto ciò per rispondere alla domanda iniziale dobbiamo chiederci perché nel titolo sia presente anche l’aggettivo insensato per descrivere l’eros di Dio… Il problema sembra essere che Dio non ha e non è corpo…come dunque può vivere l’eros? In questo ci troviamo di fronte ad una sorta di corto circuito che non si pone tanto e solo sul piano intellettuale per noi, quanto piuttosto sul piano dell’amare di Dio. Cosa se ne fa l’amata di tutto l’amore cantato da Dio, se poi lui non lo puoi incontrare, se lui è distante, talmente trascendente da essere inavvicinabile? E, d’altra parte, a Dio può bastare quanto affermato nel cantico, se poi a questo non si può dare nessuna corrispondenza? Entriamo così nel dramma di Dio… Noi pensavamo che i problemi dell’amore fossero solo questioni nostre, in realtà anche Dio sembra dovere e volere fare i conti con una realtà complessa, molto complessa!

Nel Cantico Dio ci spiega di che amore vuole amare ma come fa ad amare senza un corpo? La Povera amata non ha possibilità di stare con qualcuno che gli dia la sicurezza di esserci per potersi aggrappare a lui. Per questo va con tutti coloro che sono in grado di vivere un 'amore concreto , e non parliamo dal punto di vista puramente carnale ma che possano darle quel corpo , quella presenza che Dio senza corpo, non ha..!

Dio la ama per tutto quello che é , per come è , per i suoi bisogni e per il suo corpo che è allo stesso tempo storia , bisogno, tempo e relazione. Questo Dio si accorge dei bisogno dell'amata che cerca un corpo al quale potersi affidare e sorreggere , ha bisogno di concretezza. Tutte le parole che DIo ha speso per l'amata sono importanti se riesci a costruirci sopra la vita. Per questo motivo Dio le da delle promesse concrete, non compra l'amata ma semplicemente le da ciò di cui lei ha bisogno per far in modo che lei non lo ricerchi in qualcun'altro! Dio attraverso il suo Eros Dichiara, Promette , Sogna il suo futuro. Pensa che basti.. Poi pero si accorge che non va tutto bene come si aspettava, lei lo tradisce! Lui desidera delle corrispondenze rispetto ai suoi sogni speranze e desideri.

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I.b. 2. Un amante capace di perdonare l’amata che tradisce Dio e l’amore che fa i conti con l’infedeltà dell’amata Osea ci mostra la dimensione dell'agape nell'amore di Dio per l'uomo, che supera di gran lunga l'aspetto della gratuità. Israele ha commesso « adulterio », ha rotto l'Alleanza; Dio dovrebbe giudicarlo e ripudiarlo. L'amore appassionato di Dio per il suo popolo — per l'uomo — è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. ( Deus Charitas est)

Os 2

16 Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. 17 Le renderò le sue vigne e trasformerò la valle di Acor in porta di speranza. Là mi risponderà come nei giorni della sua giovinezza, come quando uscì dal paese d’Egitto. 18 E avverrà, in quel giorno – oracolo del Signore – mi chiamerai: “Marito mio”, e non mi chiamerai più: “Baal, mio padrone”. 19 Le toglierò dalla bocca i nomi dei Baal e non saranno più chiamati per nome. 20 In quel tempo farò per loro un’alleanza con gli animali selvatici e gli uccelli del cielo e i rettili del suolo; arco e spada e guerra eliminerò dal paese, e li farò riposare tranquilli. 21 Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, 22 ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore. 23 E avverrà, in quel giorno – oracolo del Signore – io risponderò al cielo ed esso risponderà alla terra; 24 la terra risponderà al grano, al vino nuovo e all’olio e questi risponderanno a Izreèl. 25 Io li seminerò di nuovo per me nel paese

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e amerò Non-amata, e a Non-popolo-mio dirò: “Popolo mio”, ed egli mi dirà: “Dio mio”».

È nel tempo che la sposa diventa infedele… e Dio cosa fa? Nel tempo della relazione amorosa l’amante cosa scopre dell’amata? Emerge un elemento inatteso e sconcertante, nonchè doloroso: lei lo tradisce. Questo tradimento non possiamo trattarlo alla leggera, come fosse qualcosa che lascia indifferente chi lo subisce e chi lo commette. Esso, infatti decostruisce fin dalle loro radici, le sicurezze sulle quali si è costruita la relazione. Di fronte all’altro che tradisce, insieme alla rabbia, forse viene da chiedersi anche che cosa sia stato ciò che insieme si è vissuto sino a quel punto. Inltre il tradimento mette in seria discussione l’immagine di sé, il proprio desiderio che l’altro continui ad esserci… Noi percepiamo l’infedeltà come la peggiore delle ferite che possiamo ricevere; e per Dio le cose sembrano non cambiare molto. L’allontanamento dell’amata sembra realmente destabilizzarlo e sbriciolare quell’alleanza nella quale lui stesso si era coinvolto, non senza un reale e concreto vincolo di sé.

Ma cos’è che fa dunque Dio? È giusto il suo atteggiamento? Cosa racconta di quello che ha capito dell’amore?

Il libro di Osea ci richiede una lettura particolarmente attenta, specie alla luce di quanto detto nel punto precente… Dio ama, desidera incontrare l’amata, la guarda con occhio capace di speranza al futuro, vede tutta la sua bellezza, la cerca… ma poi c’è il problema del corpo. Questo ci aiuta a leggere in maniera più adeguata anche l’esperienza del popolo di Israele che da sempre dichiara di volersi lasciare amare da Dio e di volergli rispondere, ma poi finisce sempre per tradire. Una lettura che vedesse semplicemente nella cattiva fede e nella falsità di Israele la causa di ogni tradimento, oltre che un po eccessivamente antisemita, correrebbe il rischio di non rendere giustizia alla complessità della storia narrata dalla pagine della Bibbia. Israele, infatti, sembra seriamente intenzionato ad amare Dio e di lasciarsi amare da lui, ma poi le cose non vanno mai bene… e si finisce sempre in racconti di idolatria o alleanze perverse. E se il problema fosse anche che se Dio non ha e non è corpo non è per noi possibile amarlo adeguatamente? E se fosse che la sola trascendenza di Dio non fosse sufficiente, nemmeno per i suoi amici, per potere rispondere pienamente al suo amore?

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Con queste domande come sottofondo ci proponiamo di rileggere il testo di Osea… Il capitolo 2 si apre con un vero e proprio processo pubblico intentato da Dio nei confronti della sua amata, scoperta come infedele. Il linguaggio giuridico utilizzato nei vv. 2-3 allude al processo legale che nell'antico Israele si svolgeva all'aperto, presso la porta della città. In questo particolare procedimento, l'imputata è la moglie, o Israele; l'accusatore è il marito, che rappresenta il Signore. Qui, il denunciante non si rivolge direttamente alla denunciata, ma parla di lei alla corte, esortando i «figli», ossia la parte della popolazione fedele a Dio, ad avanzare una rimostranza nei confronti della loro «madre», cioè Israele nel suo complesso. L'accusa, enunciata nel v. 2b: «lei non è più mia moglie, e io non sono più suo marito», richiama l'affermazione di 1,9. Il castigo è annunciato nel v. 3. Che tipo di procedimento giudiziario è questo? Anche se viene subito da pensare a una pratica di divorzio analoga a quella illustrata in Deuteronomio 21,1-4, è chiaro che in questo caso l'intento del querelante è diverso. Infatti, egli vuole che la moglie cessi di prostituirsi e di commettere adulterio, in modo da rendere possibile una riconciliazione. Il marito spera ancora di poter salvare il matrimonio e non vede Torà che il rapporto con la sua sposa torni a essere quello dei giorni del corteggiamento (2,14-15). Nei vv. 4b e 5 il denunciante chiarisce ulteriormente il motivo delle sue accuse contro la moglie. Israele si è comportato come una madre irresponsabile e una sposa infedele. Peggio ancora di una comune meretrice, che i clienti li attende (Gen. 38,14-19; Ger. 3,2), ha rincorso i suoi amanti. Al v. 8, l'accusa contro la moglie/Israele è: «Lei non si è resa conto!». Ancora una volta, Israele pensava di dover ringraziare Baal per il grano, il vino e l'olio che la sua terra produceva. «Ma ero io», dice il Signore, «a prodigarle tutti questi doni». Il tema dell'inconsapevolezza di Israele risuona nuovamente nel «dimenticava» del v. 13, e richiama alla mente l'imputazione di fallimento completo nell'istruzione religiosa che sarà sviluppata in 4,6. Tuttavia la punizione non sarà la fine di tutto (2,13). Il discorso di Dio muove verso una riconciliazione, implorando Israele di smetterla con i suoi adulteri (2,2) e di ritornare dal suo vero amante (2,7). Da tali parole si intuisce che l'amore divino non abbandonerà Israele nemme- no a fronte della sua manifesta infedeltà. Il «matrimonio» tra Dio e il suo popolo non si concluderà con un divorzio. L'unione si salverà. Un giorno, promette il Signore, ci sarà una seconda luna di miele, in qualche modo simile alla prima (vv. 14-15). Dio si dimostrerà misericordioso nei riguardi del popolo denominato «che non ottiene compassione», gli si rivolgerà di nuovo chiamandolo «mio popolo», e ancora una volta esso risponderà: «Mio Dio!» (2,16-23). Ma che senso ha perdonare se l’altro potrebbe sempre cadere nell’infedeltà? A cosa e a chi serve? Costruisce qualcosa? E cosa? Dio perdona e progetta il suo perdono. Pensa a gesti e parole che possano muovere il cuore della moglie. Parlerà al suo cuore: parlerà nell’intimità della relazione, del rapporto, nella vicinanza, nella presenza; parlerà al cuore, cioè là dove l’amata può mettere in moto la sua intelligenza e la sua capacità di scegliere, la sua libertà. Dio scommette sull’intelligenza e sulla libertà. La sedurra, la porterà a sé, per poter mettere in gioco la sua libertà, il suo cuore. Progetta, pianifica, immagina.

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Lo scorso anno al campo ci dicevamo che il perdono è l’amor quando le cose si fanno difficili, quando ci sentiamo feriti, è fare in modo che il male non sia l’ultima parola: è fare in modo che la prostituzione della moglie non sia l’ultima parola su di lei e sul rapporto. Se anche la moglie ha rotto il rapporto, l’amore con il marito; il marito non ha rotto il rapporto con la moglie. Dunque l’amore non è interrotto, c’è ancora. È possibile continuare la storia. Lo scorso anno al campo ci dicevamo che anche chi perdona mentre perdona cambia il proprio cuore, è la compassione. L’infedeltà è una componente dell’amore: non “nonostante” l’infedeltà Dio continua ad amare, ma “attraverso” l’infedeltà. L’amore cambia. Il testo di Osea ci mostra Dio alle prese con una amore da Affinare e raffinare… ma in che modo avviene questo? Dio cosa affina e cosa raffina del suo amore per la sposa infedele? E a quale scopo? Di fronte alla scoperta che l’amata è infedele Dio diventa capace di produrre una reazione di perdono e di rinnovamento. Non si tratta di un perdono come di una sorta di sopportazione passiva, quanto piuttosto di un dinamismo creativo in grado di rinnovare in profondità l’identità dell’amata infedele. Dio, nel suo eros insensato dice di voler amare “Non-amata”, di voler chiamare “Mio-Popolo” quello il cui nome era “Non-mio popolo”. In queste scelte ritroviamo non solo dei fatti ma degli appelli rivolti all’amata, affinchè possa anche lei lasciarsi coinvolgere da questo amore che vuole non solo il bene di chi ama, ma anche la crescita, il rinnovamento, un futuro bello per chi è amato. Dio, attraverso l’esperienza di Osea si mostra come uno che non si rassegna dicendo “va beh, è fata così, cosa vuoi farci, meglio mollare tutto…”, ma piuttosto come uno che non si da tregua nel cercare strumenti e parole capaci di rinnovare la relazione con l’amata e l’amata stessa. D’altra parte il perdono che Dio comunica all’amata infedele non tira in ballo solo loro sue, ma tutta la realtà, genera una situazione che prima non c’era non solo fra loro amanti, ma tutto il cosmo ne risente. Il perdono assume le forme di una nuova alleanza in cui tutte le realtà create sono coinvolte. Dio da corpo al suo perdono così che l’amata non debba più andare a soddisfare i suoi bisogni presso i santuari di divinità solo di terra, solo materiali, e dunque incapaci di donare futuro e crescita. Il perdono che Dio dona fa cultura, nel senso che diviene chiave di lettura per interpretare la giustizia e la correttezza delle relazioni che intercorrono fra ogni essere fra ogni creatura. Nel testo di Osea l’amore sponsale di Dio per l’umanità cambia non solo la situazione degli uomini rispetto al Signore, ma anche nei confronti del mondo e delle cose, rendendolo più libero dall’angoscia dell’avere ciò che gli serve per sopravvivere, e dunque dal doversi prostituire con tutte le potenze che in ciò avessero potuto aiutarlo. Il perdono di Dio, dunque, affina e raffina l’amore e il senso di bisogno dell’altro…

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Un po di esegesi del per capire meglio cosa e come Dio affina e raffina nel tempo a fronte della inattesa infedeltà dell’amata… Lo sviluppo e la composizione si realizzano in due tavole antitetiche, con l'articolazione nel laken del v. 16. Sorprende la densità dei verbi in prima persona, pronunciati dal Signore; mentre della sposa si citano pensieri, riflessioni, ignoranza e confusioni (7b.9b,10a.l4a). La prima tavola del dittico si presenta espressamente come una disputa, o giudizio contraddittorio, tra lo sposo fedele e la sposa infedele. Solo che, invece di presentarsi personalmente, egli incarica del compito i suoi figli. Ed essi scopriranno di trovarsi implicati nel processo, poiché la sposa è Israele, la comunità degli israeliti. Il giudizio cerca dapprima una composizione, o riconciliazione, mediante il riconoscimento di colpevolezza e l'emendamento della sposa; se ciò fallisce, io sposo prenderà altre misure. In primo luogo esporrà la colpa, con le sue aggravanti, senza lasciar adito a scappatoie dialettiche o mentali; poi annuncerà le sue rappresaglie giustificate. Lo schema della disputa per procura, di accusa e sentenza, verrà imitata da Isaia nel canto della vigna (Is 5, 1-7). 4. La disputa è un'azione giuridica. Il marito pronuncia una formula di divorzio o ripudio, che sanziona e proclama la rottura formale: « Lei non è mia moglie e io non sono suo marito ». Tutto è finito e tocca ai figli intervenire. Ma, se tutto è finito, perché incarica i figli, e perché continua a parlare e a dibattere? E perché cerca di evitare la vergogna e il castigo? «Osserva la clemenza del marito; è già ripudiata, già scacciata, e tuttavia incarica i figli di parlare alla madre, per muoverla a penitenza » (Gerolamo). Sarà che i figli hanno ancora potere di vincolare i genitori? C'è qualcosa di informulato che disturba la coerenza logica di questo inizio. Il parallelismo rigoroso assomma fornicazione e adulterio. Forse allude a dei segni visibili che la donna porta sul volto e sulla scollatura (si ricordi Tamar in Gen 38); può anche dominare il senso metaforico del ripudio (si veda Is 3, 9). 5. Accenna al castigo del pubblico ludibrio, sviluppato più avanti (11- 12); Ez 16, 37s lo chiama «pena delle adultere». Si veda anche Ez 23, 29. La donna cosi resta infamata e il marito sciolto da ogni impegno. Alcuni riferiscono la « nascita » al tempo dell'Egitto. Ezechiele sviluppa questo momento (Ez 16, 4s). Osea sottolinea per ora la nudità totale, espressa in termini umani. In termini presi dal mondo vegetale, la donna == terra resta trasformata in una sterile steppaglia, senza irrigazione né semente. Il « morire di sete» fa da ponte tra la terra e la donna; se la terra può metaforicamente sopportare la sete (Ez 19, 13; Sai 63, 2), la donna invece può morirne. Poiché ci moviamo su un terreno immaginifico, « morire di sete » potrebbe anche alludere all'appetito sessuale insoddisfatto (l'immagine del pozzo in Ct 4, 12). 6 Riprende il tema di 1, 2.8. 7-9. La prima misura dello sposo è quella di impedirle di incontrarsi con i suoi amanti; così, disperata e sola, tornerà a suo marito. Il quale continua a cercare una riconciliazione tramite un cambiamento prodotto dal fallimento. Si tratta di una tattica dettata dall'amore. Una ripetizione calcolata segna questo cambiamento desiderato: >elka)ahrèj )elka n^ìàsùba. Il commento della sposa cela un amore interessato: dai suoi amanti riceve doni più che amore. In concreto, si tratta dei doni del vitto e del vestiario, che il marito ha l'obbligo di provvedere, secondo la legislazione di Es 21, 10. I sei possessivi in prima persona martellano la convinzione e sembrano esprimere un egoismo ben profondo. La religione dei baal è di puro interesse: do ut des.

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La tattica del marito cerca di approfittare di questo atteggiamento: portarla fino al fallimento, fino a farle rimpiangere la situazione precedente migliore. Anche in termini interessati: «stavo meglio» (come nel figliol prodigo, Le 15, 17). La triplice negazione puntualizza il fallimento. 7. Si veda quanto dicono le donne in Egitto (Ger 44, 17). Secondo alcuni commentatori, amanti sono gli idoli e anche le potenze straniere (Ribera, Sànchez). 8-9. Condensano un processo dialettico, che a circolo chiuso porta alla scoperta interiore: azione efficace dello sposo, azione fallita della sposa, ritrovamento in cui i due si riavvicinano. Suona qui uno dei verbi più importanti di tutto il libro: «tornerò». Questo ritorno della sposa è annunciato come un fatto futuro? o si tratta solo di un ultimo risvolto della riflessione dello sposo? Nella prima ipotesi, il testo qui riposa, per poi ricominciare, secondo il noto schema della duplice ondata. Nella seconda ipotesi, il procedimento mentale si discosta come inefficace, e viene affrontata una nuova tattica. Più coerente con tutto il poema ci sembra questa seconda ipotesi: si tratterà di un ritorno autentico? Le basterà uno sposo innamorato? Anche l'inizio della stessa situazione nel versetto seguente e la ripetizione dello schema sintattico con laken appoggiano questo modo di intendere il brano. Inoltre, come può tornare senz'altro al marito la moglie ripudiata? Dt 24, 1-4 legifera un caso parallelo e Ger 3, 1 lo applica alle relazioni matrimoniali del Signore col suo popolo. Questo versetto fa da contropartita ovvia al v. 7c. Tale simmetria fa risaltare l'allargamento di l0b, con l'aggiunta di argento e oro ai doni del vitto (ai gioielli si riferisce 15b). Ora, il v. l0b è sospetto: non si giustifica il passaggio alla terza persona «facevano»; e il contesto parla del venerare gli idoli, non del fabbricarli. Con quattro possessivi rimati, lo sposo ristaura il vero possesso, deformato dall'egoismo venale della sposa: cibo e vestito sono proprietà del Signore, che li regala generosamente. Ricordando « alla sua stagione », torna il contesto dei cicli rurali, che non sono i baal a controllare» ma il Signore. Inoltre, la stagione è il momento più grave, che più farà sentire il castigo. I raccolti andati a male rispondono alla siccità minacciata in 5b. 12-15. E come una variazione di quanto precede, con qualche elemento nuovo e un finale espressivo. Il versetto 15a identifica i personaggi e le azioni dei versetti precedenti. La disputa di riconciliazione intentata nel v. 4 si conclude con un giudizio di condanna. Dopo di esso non resta più niente da fare né da sperare, dal momento che la moglie non è cambiata. Ma è realmente così? Sulla nudità pubblica si possono vedere Is 47, 2; Na 3, 3. Sull'infamia si vedano Dt 22, 21 Gli amanti contempleranno senza sofferenza l'umiliazione della fornicatrice; non cercheranno di liberarla dal castigo a cui la sottomette lo sposo, né lo potrebbero. Le solennità religiose sono giorni di incontro con il Signore e di riunione cittadina. Il popolo li vorrebbe congiunti con i culti della fertilità, mentre sono con essi incompatibili. Risuona così con forza il gioco di parole tra cessare e sabato. Variante della siccità e dell'aridità: si vedano Is 7, 23-25; Mic 3, 12. Vigna e ficaia: 1 Re 4, 25; Mie 4, 4. Le fiere sono un elemento nuovo che può suggerire l'intervento di potenze ostili (si veda Sal 80,14). Per la via del sincretismo, dell'amore diviso, arriva all'abbandono del marito. Questi giorni o 3 2

momenti di citazione e di incontro, di passione straziata, dimostrano che si è dimenticata, e l'oblio è prova che l'amore è finito. Quale speranza resta ancora? Se lei si è dimenticata e lui ha rotto, una storia di amore si è conclusa: «È così breve l'amore e tanto lungo l'oblio» (Neruda).

Ma lo sposo non riesce a dimenticare. Se lei non cambia con le tattiche progettate, dovrà cambiare lui. Dovrà continuare a non cambiare, restare costante nel proprio amore invincibile; dovrà confessare ciò che nasconde, passare da un amore scacciato a un amore comprensivo e generoso. Dovrà cambiare tattica, tornando agli inizi dell'amore; non rifiutare un amore dimenticato, non vendicarsi di un amore infedele, ma riconquistarsi il primo amore. Se ne incaricherà lui stesso, senza più intermediari. Alle minacce seguiranno le lusinghe. Al litigio, il corteggiamento pieno di attenzioni. Per amore si umilia, per amore aspetta il miracolo e a forza di amore arriverà a realizzarlo: «nulla unda tam profunda, quam vis amoris furibunda ». Così si svolge un processo che inizia con corteggiamenti e finisce nelle nozze e in nuovi rapporti matrimoniali; che passa dalla terza persona (piani dello sposo) alla seconda (promessa di matrimonio). Il dialogo implicito degli sposi domina le due prime sezioni; nelle altre due predomina l'iniziativa del marito. Nel contesto matrimoniale, varie espressioni si colorano di risonanze sessuali. 16-17. L'asse è costituito dal fatto che egli parla e lei risponde. Comincia con un inganno amoroso, con una seduzione alla rovescia; se in altri testi la seduzione sta nel fingere di amare, per abusare di lei (Es 22, 15; Ger 20, 2), qui l'amante la distrae e inganna per riannodare i rapporti. L'inizio è enfatico marcando l'iniziativa che segue. Se la porta all'aperto, nel deserto: dove resteranno soli, senza distrazioni, dimentichi di tutto per una pura presenza mutua, che riempirà lo spazio con la loro solitudine; « amato mio, vieni, andiamo alla campagna » (Ct 7, 12). Il deserto è il luogo dell'antico noviziato, « all'uscire dall'Egitto » (si veda Ger 2, 2). Tornare ai luoghi del primo amore, significa risvegliare ricordi e ravvivare nostalgie. In altra chiave, Ez 20, 35 : « Vi condurrò al deserto delle nazioni, per ivi discutere con voi, faccia a faccia». Parlare al cuore, o corteggiare: come Camor con Dina (Gen 34, 3), come il levita con la sua sposa che l'ha abbandonato (Gdc 19, 2s), come Boaz con Rut (2, 13), come il Signore con Gerusalemme (Is 40, 1). Se vogliamo trovare un'amplificazione biblica di questo linguaggio, non abbiamo che da leggere le pagine del Cantico. Sul Sinai Dio parlava al popolo in tono categorico e il popolo provava paura nell'ascol- tarlo; qui Dio parla in tono convincente, da tenero innamorato. 17. Un dono sancito corrobora il linguaggio dell'amore. Già nel deserto, come da questo momento, egli fa dono di vigne e giardini, come di una specie di dote. La Valle della Disgrazia, Acor, ricorda il sacrilegio di Acàn (Gs 7, 24) ; di simile sacrilegio si è fatta responsabile la sposa (v. 15), usando dei doni del Signore per il culto degli idoli. Ma questa « disgrazia » ha ora fine e si apre una nuova tappa, ricca di speranze: la valle si rifà porto o passaggio. Vigna è frequente nel Cantico; Si ha un sistema di contrapposizioni e allusioni valle/porta, sciagura/speranza, (sterile/cisterna), deserto/vigne. 18. Ai quattro verbi di lui corrisponde un verbo di lei: «risponde»; come un tempo, le relazioni si riannodano, rinasce la giovinezza. 3 3

20 ss . Prima delle nozze, lo sposo instaura la pace « in loro favore », cioè in favore degli israeliti che la sposa rappresenta. La pace viene ristabilita su due fronti: quello degli animali selvaggi o potenzialmente nocivi, e quello delle battaglie umane. Mentre gli animali selvaggi possono venir addomesticati o pacificati, le armi da guerra devono essere distrutte. Solo così gli abitanti potranno accostarsi gli uni agli altri con tranquillità: «Metterò pace nel paese e dormirete senza allarmi. Allontanerò le fiere e la spada non attraverserà il vostro paese ». Il Signore paga un prezzo nuovo, non di beni materiali, ma di atteggiamenti e di relazioni personali. I due primi, diritti e giustizia, esprimono l'aspetto legale del diritto, o della legittimità; altri due esprimono l'aspetto affettivo profondo dell'amore e della tenerezza; il quinto ribadisce la stabilità. Così il matrimonio sarà «per sempre ». Giova chiedersi: sono atteggiamenti che lo sposo mette da parte sua? O egli fa sì che la sposa ne partecipi ? In altri termini : basta che lo sposo si unisca a lei con queste attitudini? o anche la sposa deve accedervi con la stessa disposizione? È evidente che solo se la sposa si riempirà del senso di giustizia, tenerezza e fedeltà, il nuovo matrimonio potrà essere duraturo. Ma certamente, queste qualità lei le ha ricevute dallo sposo. Non le attinge certo da se stessa, come ha già ben dimostrato. Se, trasformata dall'amore dello sposo, giungerà a « rispondere » (v. 17) con lo stesso atteggiamento del marito, il matrimonio sarà perpetuo. San Girolamo commenta quanto compie dio in questo modo: Quando l'uomo si prende moglie, la trasforma da vergine in moglie, cioè in non vergine. Dio, unendosi perfino con meretrici, le trasforma in vergini... Per questo l'Apostolo, parlando ai Corinti, che hanno creduto dopo la fornicazione e l'idolatria, dice loro : « Volle sposarvi con un solo marito, presentandovi al Messia come una vergine intatta» (2Cor 11, 2).

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I.b. 3. Dio: l’amante che educa l’amata donando il Figlio Al culmine della storia di amore e di passione di Dio per gli uomini il c’è il dono del Figlio. Dio manda il Figlio che è il Verbo fatto carne, è il corpo in relazione con la storia e con gli uomini al quale si può rispondere. Chi crede in lui ha la vita, chi non crede è già stato condannato… ovviamente questo va tenuto in una logica aperta e non in una logica giudiziale.

Gv 3

1Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodèmo, uno dei capi dei Giudei. 2Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui». 3Gli rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». 4 Gli disse Nicodèmo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». 5Rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. 6Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. 7Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. 8Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito». 9 Gli replicò Nicodèmo: «Come può accadere questo?». 10Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose? 11In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. 12Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? 13Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. 14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. 16 Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.

Perché Dio, l’amante, educa l’amata? In che modo l’invio del figlio educa all’amore di Dio? Il Dio di cui ci parla la storia biblica non è uno che si accontenta di un amore solo unidirezionale: esso domanda una risposta positiva da parte dell’amata, l’umanità; risposta, che però nella vicenda storica di Israele non è venuta così facilmente. In questo terzo passaggio, allora, tentiamo di capire in che modo Dio cerca di fare uscire la sua amata, che, evidentemente, corre il rischio di chiudersi a lui. 3 5

Il dialogo fra Nicodemo e Gesù riproduce, in qualche modo. iI cammino educativo del Dio amante nei confronti del suo popolo. Dio educa l’amata rendendola capace di rispondere, di capire il suo amore, di gioire. Ma come? Mandando il Figlio. La questione di Nicodemo è la fatica di tutti noi di gioire di fronte a Gesù, che è venuto nella carne a manifestarci l’amore eterno di Dio. Gesù nella carne finalmente ce lo fa comprendere. Che la carne di Gesù ci permetta di comprendere l’amore di Dio. Il fatto strano, poi, che si realizza nell’incarnazione del Figlio è che pur essendo l’umanità oggetto del desiderio di Dio, del suo eros, Lui dona la vita per l’oggetto del desiderio, quindi non lo distrugge ma lo salva. Con Gesù l’eros di cui abbiamo parlato sin ora cambia e in qualche modo viene superato. Nicodemo, che va da Gesù di notte con tutta la sua dotazione di certezze e agganci religiosi, pensa di avere tutte le strumentazioni per capire l’amore di Dio. Quello che dice è: ma si, in fondo noi abbiamo già tutto quello che ci serve per capire l’amore di Dio. E forse è l’illusione dell’amata del Cantico. La storia del popolo di Israele è la storia di un popolo che ha sempre desiderato amare Dio ma non ci è mai riuscito. A volte il desiderio si accompagna con l’illusione di avere gli strumenti che ti permettano di fare ciò che desideri. In realtà il popolo stando a un lettura a posteriori pensa di avere gli strumenti di poter decretare di aver capito i segni. Il desiderio non basta. È quello che Dio ha sperimentato nel tempo. Certo che c’è il desiderio della moglie di essere legata a suo marito, ma senza il corpo non ci riesce. La novità radicale dell’amore di Dio presentata da Gv è segnata dall'esigenza indicata a Nicodemo di una nuova nascita dall'alto per poterlo vedere o per entrare in esso. Dopo l'esigenza di novità che si è espressa nel segno dell'acqua delle purificazioni dei Giudei trasformata in vino (2,1-11), nell'intervento di Gesù sul tempio (2,14-17) e nella sostituzione del tempio con il suo stesso corpo (2,18-22), il dialogo con Nicodemo mostra che il rinnovamento richiesto all’amata, il cammino educativo proposto, è in realtà descrivibile addirittura come una nuova nascita. Essa non è frutto dell'impegno dell'uomo, ma viene dalla sua fede ed ha il suo fondamento nell'azione di innalzamento del Figlio dell'uomo, l'Unigenito che il Padre ha mandato dal cielo. Ma chi è il Figlio dell’uomo, il cui dono, esprime l’amore educante di Dio? Nel quarto vangelo il Figlio dell'uomo è Colui che sale al cielo perché dal cielo prima è disceso. Il Figlio dell'uomo giovanneo appare allora (cf. 1,1-18) come: il Figlio preesistente, l'Unigenito del Padre, il Logos in dialogo eterno col Padre. Lo specifico della visione giovannea a riguardo del Figlio dell'uomo è (ancora una volta!) la 'combinazione' di un aspetto cristologico particolare (qui il 'titolo' di Figlio dell'uomo) con la categoria dell'incarnazione (1,14). Il motivo della discesa dal cielo (3,13b) serve a esprimere la preesistenza di questo Figlio dell'uomo, Gesù corpo carneo ( come dice un vecchio inno della novena del Natale).

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Nelle parole a Nicodemo Gesù chiarisce in che senso l’amore di Dio opera l’educazione dell’amata: il riferimento necessario sembra essere quello alla pagina biblica di Nm 21. Il popolo di Dio, che non accetta il cammino di amore nel deserto, è punito con i morsi mortali di serpenti velenosi. Mosè allora si rivolge a Dio, che gli risponde. Dal racconto si nota un’attenzione particolare alla dinamica della fede, sottesa allo sguardo attraverso il quale viene la salvezza per chi è morso dai serpenti velenosi. Il serpente di bronzo non è un talismano: la tradizione si sforza di rendere esplicita la dimensione di fede che deve sorreggere un tale guardare. L'immagine del serpente, innalzato da Mosè nel deserto, viene proiettata in una specie di sovrapposizione su quella del Figlio dell'uomo ricordata al versetto precedente. L'elemento che catalizza questo avvicinamento è il tema dell'innalzamento e dello sguardo di fiducia che porta a sbilanciarsi decisamente verso l’innalzato, piuttosto che concentrarsi su di sé. Dal v. 15 apparirà inoltre che il Figlio dell'uomo non è soltanto Colui che deve essere innalzato (come il serpente di bronzo), ma è anche Colui in cui si deve credere per poter vivere nella relazione amorosa con Dio. Gesù dice a Nicodemo che è lui che rende, finalmente, capaci di rispondere al desiderio di amare Dio e di lasciarsi amare da Lui, di vivere in pienezza quanto era stato cantato nel Cantico. Nicodemo pensa di poter rispondere all’amore di Dio senza bisogno di Gesù. Anche a noi la logica del dono del corpo di Gesù sulla croce non ci sembra necessaria. L’amore di Dio è prima di tutto corpo. È farsi corpo che dona la vita. E' suggestivo paragonare l'esigenza di radicalità per entrare nel regno, che si esprime nel Discorso della Montagna all'inizio del Vangelo secondo Matteo (Mt 5-7), con la necessità della nascita dall'alto, contenuta nel primo grande discorso di autorivelazione di Gesù secondo Gv. In entrambi i casi si tratta dell’esigenza di una venuta alla luce per poter accogliere l’amore di Dio, per potervi corrispondere, come Dio spera. Gv ricorda che è possibile nascere dall'acqua e dallo Spirito perché Dio ha amato il mondo al punto da mandare il Figlio Unigenito, al punto di divenire carne in relazione con la nostra carne. Si può osservare anche che i vv. 16-18 presentano una certa loro circolarità: essi chiudono là dove erano partiti: "A tal punto Dio ha amato il mondo che ha dato il suo Figlio Unigenito affinché chi crede in lui" (v. 16) -> "(non) ha creduto nel nome dell'Unigenito Figlio di Dio" (v. 18). La piccola unità 3,16-18, come mostra il poichè dell'inizio (v. 16), serve a commentare le precedenti affermazioni di Gesù sul Figlio dell'uomo (ai vv. 13- 15). Esse vengono iscritte sotto il segno dell'amore di Dio, che dona il Figlio Unigenito per amore del mondo, affinché chi crede in Lui non vada in rovina ma abbia la vita eterna. A partire dal v. 16 il ruolo del Padre diventa preminente. La frase è formulata con una forza decisa: si parte con una specie di esclamazione "a tal punto ... che" Alla luce del testo di 1,1-18 e di 3,13-15, non è difficile vedere dietro alla categoria del "dare il Figlio Unigenito" contemporaneamente: il mistero dell'incarnazione del Verbo "pieno di grazia e verità” il mistero della Pasqua del Figlio dell'uomo. Nelle parole di Gesù sull’invio del Figlio dell’uomo si deve anche intravedere un probabile 3 7

riferimento alla figura di Abramo che dà il suo «unico figlio» (cf. Gen 22). L'amore di Dio Padre è comunicato in relazione all'indiscusso amore di Abramo per Isacco e insieme all'eroismo di quest'amore paterno nel sacrificio del Moria. Il gesto pasquale di Dio - il Padre che dona il Figlio Unigenito - può venire compreso, o almeno annunciato, attraverso l'esperienza di Abramo "nostro padre nella fede". Le parole conclusive "affinché chiunque crede in lui non vada in rovina, ma abbia la vita eterna" (v. 16) riprendono la formulazione finale dell'unità precedente (3,15) con il semplice raddoppiamento di contrasto affinché non vada in rovina (BC: "non muoia")ma abbia la vita eterna. La finalità dell'innalzamento del Figlio dell'uomo è condurre alla vita attraverso la fede. Le parole «perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna» (v. 15) esprimono lo scopo stesso per cui è stato scritto il Vangelo (cf. 20,31). Questa presa di posizione di Gesù segna finalmente la risposta alla domanda implicita nel primo intervento di Nicodemo (v.2). Essa potrebbe suonare: «qual è il centro del tuo insegnamento per l'uomo, tu che sei un maestro venuto da Dio? Cosa consigli perché noi si possa raggiungere lo scopo della nostra vita?». La risposta suona: l'uomo può "vedere il regno" (v. 3), "entrare nel regno" (v. 5), "avere la vita eterna" (v. 15) credendo nel Figlio dell'uomo. Allo stesso tempo, in quanto parla del Figlio dell'uomo come Colui che è innalzato al cielo dopo esserne disceso, Gesù - con questa risposta - risolve anche l'interrogativo dell'ultima domanda di Nicodemo: «come può avvenire questo?» (v. 9), cioè: «come può avvenire che l'uomo nasca dall'alto e quindi entri in una vita nuova?». La risposta suona- l'uomo può «nascere dall'alto» (v. 3) in forza dell'evento pasquale, concepito come «l'essere innalzato» del Figlio dell'uomo, che si era abbassato discendendo dal cielo (v. 14). Nascere dall'alto ha a che fare con l'essere stato collocato di nuovo in alto del Figlio dell'uomo che dall'alto è disceso. In questo modo la piccola unità 3,16-18 riparte con un movimento rotatorio (cioè di ripresa) rispetto alla precedente. La presenza di Gesù nel mondo è un giudizio, nel senso che provoca gli uomini a schierarsi e quindi a "giudicarsi" decidendo per Gesù o contro di Lui. In tal senso Dio è amante che educa. Più precisamente il v. 17 introduce il tema del giudizio del mondo per negarlo. Lo scopo di Dio, nel mandare il suo Figlio nel mondo, non è il giudicare il mondo. Lo scopo primario dell'invio del Figlio di Dio nel mondo è la salvezza del mondo per mezzo di Lui. Il mistero di Gesù venuto tra gli uomini è letto esclusivamente sotto il segno dell'amore e della salvezza. L'intenzione di Dio non è di portare una divisione tra buoni e cattivi anche se, come spiegherà la breve unità seguente (3,19-21), la venuta di Gesù produrrà concretamente una tale distinzione. Il v. 18 ripropone la questione del giudizio del mondo osservandolo prima dal punto di vista del credere nella venuta del Figlio e nelle sue motivazioni, poi dal punto di vista dell'incredulità. E' interessante osservare la distinzione dei tempi dei verbi. La forma passiva può in tutte e due i casi essere interpretata come passivo teologico, sottintendendo «da Dio» (come complemento d'agente). Mentre però il presente individua un'azione che avviene ora (il credente non subisce adesso un giudizio ), il perfetto fa riferimento al permanere degli effetti in un tempo seguente l'avvenire dell'azione stessa che, di conseguenza, va immaginata come avvenuta in precedenza (l'incredulo non viene giudicato adesso, ma è già stato giudicato). Le parole sul giudizio di Gesù ci portano, in ultima battuta, a chiederci in che senso questo 3 8

atteggiamento di Dio possa rientrare nel discorso sull’amore che stiamo facendo? In che senso questo giudizio è espressione di amore serio e maturo? L’invio del Figlio in che senso è amore? A quale progettualità apre per noi?

La risposta sta proprio nella dimensione del Figlio Eterno che si fa carne, per celebrare nella carne le nozze con l’umanità.

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II. L’AMORE DEL PADRE SPOSO CONDUCE ALL’INVIO DEL FIGLIO CHE DONA LA VITA PER CELEBRARE LE NOZZE

II.a. Gesù e il giardino dell’amore L’immagine del giardino rimanda alla relazione amorosa e di comunione fra Dio e l’umanità. Gesù non solo rende visibile l’eros di Dio ma lo realizza compiendo così le nozze escatologiche promesse nella storia della salvezza. Anche Gesù ha dovuto capire i suoi affetti e le sue relazioni, il suo corpo. Gesù è infatti vero Dio e vero uomo, quindi come noi ha vissuto le fatiche e le gioie dell’amore e dell’innamoramento. Gesù è il Dio fatto carne che nel giardino dell’alleanza celebra le nozze escatologiche di Dio con gli uomini. Come?

II.a.1. A Cana Gesù benedice l’amore nuziale col suo vino nuovo

Gv 2

1Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». 6 Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9 Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». 11 Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

Dio con l’invio del Figlio fatto carne realizza le nozze con l’umanità. Risulta, pertanto necessario chiedersi in che modo Gesù abbia preso coscienza di questo sogno eterno del Padre e in che modo lo abbia condiviso dandogli forma concreta. Il testo di Gv 2ci mostra il percorso personale che ha condotto Gesù a pensare l’amore ed a condividerlo con gli uomini, i suoi contemporanei, anzitutto, ma poi anche noi.

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Partendo dalla fine del brano vediamo come l’episodio avvenuto a Cana sia definito come il “principio” dei segni compiuti da Gesù per manifestare la sua gloria. Nel piccolo villaggio di Cana, in occasione di una cerimonia nuziale, «Gesù diede inizio ai suoi segni... manifestò la sua gloria» {Gv 2, 11). La trasformazione dell' acqua in vino è il primo «segno» che lo rivela come Salvatore. E ad una festa di nozze, quando la coppia appena sposata partecipa la felicità del suo amore ai parenti e agli amici, che Gesù vuole condividere la sua gloria con i suoi «amici» (cf. Gv 13, 13). Il testo, nel suo complesso mette in campo, dal punto di vista narrativo delle coppie distanti, cioè personaggi e cose che sembrano vicine, ma allo stesso tempo diversissime. Gv sembra quasi voler mettere in campo un doppio ordine di realtà entro il quale si muove lo svolgimento della scena. Così da un lato si trova la madre che constata la fine del vino e dall’altra Gesù che prende quasi le distanze da lei. Poi ci sono i discepoli che stanno sullo sfondo ed alla fine saranno coloro che credono, e d’altra parte i servi che agiscono ma non si rendono conto di quanto avvenuto. Poi c’è lo sposo che non fa nulla e il maestro di tavola che constata l’inusuale scelta dell’ospite di dare un vino squisito alla fine… Cosa significa tale struttura? Forse Gv intende aiutare noi lettori a comprendere il mistero ed il ministero della vita di Gesù in relazione a quanto di più significativo muove la vita delle persone per uscire da sé e realizzare la loro umanità –l’amore, per l’appunto-. A Cana si realizza la sua presenza come educazione dell’uomo all’amore da parte di Dio. Ma partiamo dal principio… Il quadro narrativo è introdotto dalla descrizione di un matrimonio al quale è stata invitata la madre di Gesù e di seguito che era presente là anche Gesù coi suoi discepoli. È però un inconveniente a segnare l’inizio delle azioni: l’essere venuto a mancare il vino. Nello specifico è la madre che informa noi di questo, mentre ne da notifica anche al figlio. Spesso si è pensato che Maria fin da subito chieda a Gesù un miracolo, tuttavia, nulla ci legittima a pensare che tale ipotesi sia fondata. Semplicemente, è legittimo pensare che la madre pensa che il figlio possa procurarsi da qualche parte del vino per quegli sposi, che rimarranno anonimi per tutta la narrazione. In una lettura simbolica carina la madre rappresenterebbe l’umanità che scopre di non avere vino…di non sapere dove attingere per celebrare le nozze, l’amore. Senza dare troppo spazio a questa interpretazione pare interessante che, in effetti, la storia di Israele e non solo narrano qualcosa di molto vicino a quanto stigmatizzato da Maria. Ed è a questo punto che emerge la risposta fra il brusco e lo stupito di Gesù. Cosa significa, infatti, la sua ripresa delle parole della madre? Forse si potrebbe intendere come l’affermazione che la madre sta muovendo la sua lettura della realtà su un piano troppo diverso da quello sul quale Gesù si sta ponendo… e di quale piano si tratta? Il racconto ce lo fa capire: Gesù si muove nell’orizzonte dell’ora, cioè del dono della sua vita per 4 1

dare agli uomini il vino che permetta loro di celebrare le vere nozze, quelle dell’amore di Dio con loro, quelle del nuovo giardino dell’amore. Sappiamo che nel vangelo di Giovanni il termine ora identifica quella suprema della vita e della missione di Gesù, l'ora della morte in croce, quando porta a compimento il suo amore all’umanità. A Cana sembra che Gesù cominci lui in prima persona a mettere in moto il count down dell’ora che lo porterà a compiere e manifestare nella sua carne l’amore del Padre. Le azione che Gesù comanda ai servi, e che Gv riporta minuziosamente, sembrano essere il modo con cui Gesù pensa e comunica l’amore che Dio vuole donare agli uomini, quasi una variazione sul tema del Cantico. Gesù si rivela come lo sposo dei nuovi tempi, sostituendosi allo sposo terrestre e agendo al suo posto. Era infatti dovere dello sposo assicurarsi che ci fosse abbastanza vino per le nozze: questo compito viene assunto ed eseguito da Gesù che poi offre il vino. Lo offre con abbondanza inaspettata: i servi, al suo comando, riempiono fino all'orlo sei giare di pietra, contenenti ciascuna due o tre barili. Lo offre di una qualità che suscita la meraviglia e lo stupore del maestro di tavola. Il vino appartiene alla simbologia della rivelazione biblica. Parla di quella felicità, di quella festa e di quella gioia che segneranno i tempi messianici, i tempi di una nuova creazione, quando il Signore preparerà sul monte di Sion «una festa di vini scelti, cibo ricco e gustoso, e vini puri e scelti» (Is 25, 6). A Cana il vino diventa simbolo di Cristo, simbolo della pace e della gioia messianica personalizzata in Gesù.

Possiamo dire che Cana è un segno paradigmatico poiché ci racconta tutta la fatica e il coinvolgimento di Gesù nel leggere la realtà con lo stesso sguardo di suo Padre, quello sguardo di amore coinvolto ed allo stesso tempo educante, capace di eccesso e di estrema delicatezza e coinvolgimento verso l’amata. Giovanni ci mostra un Gesù che lavora sul suo sguardo e sulle sue priorità. Ma in cosa consiste il segno di Cana? Cos’è che ha fatto Gesù intervenendo? L’episodio di Cana ci mostra il compiersi dell’alleanza tra Dio ed Israele, e poi tutta l’umanità, mediante la presenta storica di Gesù. Gesù, il Messia riconosciuto gia dal cap 1 vv 19-51, raccoglie la comunità dei suoi discepoli e la costituisce intorno ad un banchetto di nozze, figura della presenza dei tempi ultimi. Il gesto di Gesù non fa altro che proclamare che l’attesa secolare di Israele che desiderava di potere vivere dell’amore di Dio, finalmente si compie. In questo sta anche la dichiarazione di Gv in merito al prototipo dei segni: l’antica allenza grazie alla presenza di Gesù, al suo essere corpo di carne fra la carne che siamo noi, diviene nuova alleanza, alleanza eterna. …… Egli ha messo il suo vino nuovo a disposizione della relazione di amore dei due sposi anonimi, e

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così facendo ha messo in circolo domande, interrogativi, apprezzamenti verso gli sposi. Sono i suoi desideri di gioia, di pienezza, di felicità che si esprimono nel segno del vino e che si riverberano, paradossalmente, non tanto su di lui ma sugli sposi dai quali egli si è lasciato coinvolgere. Gesù sembra viere e superare la fatica che viene dal fatto di essere noi a inventare la realtà e le cose, i bisogni e le esigenze nostre ed altrui. A Cana, si comincia a capir cosa significhi che l’amore tutto sopporta, tutto, scusa, tutto spera: è l’atteggiamento stesso di Gesù a raccontarlo, la sua uscita dai quelli che aveva pensato come tempi e modi suoi per addirittura anticipare il dono di sé che realizzerà pienamente nella croce. In questo senso il segno delle nozze di Cana ci riporta a quanto Gesù ha compiuto inventando l’Eucarestia. Cosa ha significato per Gesù questo cambio di programma? Cosa dice del suo modo di lavorare sui suoi desideri e sul suo sguardo nei confronti delle persone? A ben vedere Gesù non risponde a tono ala domanda della madre... e tantomeno agisce in modo consequenziale alla sottolineatura-richiesta di lei… ma allora cosa fa?

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II.a.2. Gesù smaschera l’amore ferito ed apre ad un amore nuovo e definitivo con Dio.

Gv 4, 1Gesù venne a sapere che i farisei avevano sentito dire: «Gesù fa più discepoli e battezza più di Giovanni» – 2sebbene non fosse Gesù in persona a battezzare, ma i suoi discepoli –, 3lasciò allora la Giudea e si diresse di nuovo verso la Galilea. 4 Doveva perciò attraversare la Samaria. 5 Giunse così a una città della Samaria chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6qui c’era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. 7 Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». 8I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. 9Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani. 10Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: “Dammi da bere!”, tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». 11 Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva? 12Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?». 13 Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; 14ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna». 15 «Signore – gli dice la donna –, dammi quest’acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». 16Le dice: «Va’ a chiamare tuo marito e ritorna qui». 17Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: “Io non ho marito”. 18Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero». 19Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! 20I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». 21 Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. 22Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. 24Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». 25Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». 26Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».

Il problema della Samaritana sembra esser un problema di fedeltà…si innamora, ma poi non riesce nel tempo a vivere la perseveranza e la crescita nelle e delle relazioni affettive. E Gesù come risponde a questa situazione? Quali atteggiamenti, quale coinvolgimento, mette in campo con lei? Qual è la novità dell’amore alla quale Gesù tenta di condurre la Samaritana?

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La Samaritana dal procedere del dialogo con Gesù viene alla luce con un amore che con il tempo si è riempito di ferite. Amore che nel tempo si è pasticciato. Le sue parole “Non ho marito” sembrano dire: non sto amando nessuno. Eppure legame ne aveva avuti e continuava ad averne, anzi forse addirittura a cercarne. Viene da chiedersi questa samaritana cos’avesse capito dell’amore… sembra una donna affamata, che a stare da sola proprio non ci riesce, ma che non riesce nemmeno ad essere fedele. È indubbio che per lei l’amore, l’essere amata e forse anche amare, sia un bisogno fondamentale, ma di che genere. Il suo cos’è: un amore malato…e di cosa? In che modo la risposta di Gesù di parlare di culto in spirito e verità la rende capace di guarire? È pertinente? In che senso l’aiuta? Gesù l’ha portata a parlare di cose religiose per rendere le cose più facili? Gesù l’ha portata altrove perché non sa parlare d’amore? Visto che non ama nessuno? È scapolo?

Il dialogo tra la samaritana e Gesù, si compone di sette battute, cioè di sette domande e di sette risposte. La caratteristica del dialogo consiste nel fatto che Gesù continua ad elevare il livello del discorso. Il dialogo si è alzato sempre più e la donna, a questo punto, vorrebbe sottrarsi, rimandando ad un auspicato Messia la spiegazione della verità, quasi a suggerire: lasciamo stare il discorso e se un giorno verrà il Messia, vedremo. Tuttavia la risposta di Gesù è secca e sorprendente: «Sono io, che ti parlo». Non devi fuggire, non devi rimandare a chissà quando le decisioni, perché il Messia «sono io, che ti parlo». Ecco che cosa significa nel racconto di Giovanni «andare al di là»: trovare, scoprire che colui che ci parla, qui e adesso è colui a cui non possiamo sfuggire perché ci conosce dentro e ci obbliga ad andare oltre le reticenze e le resistenze. La donna introduce all'improvviso la questione religiosa delle due adorazioni, quella dei Samaritani e quella dei Giudei sullo sfondo della storia d'Israele. Gesù comincia con l'annuncio di un cambiamento ormai imminente che renderà obsoleti entrambi i culti, di cui ha parlato la donna.

La proclamazione dell'adorazione in Spirito e verità non contrappone adorazione esterna ed adorazione interiore. «Un ideale di adorazione puramente interiore mal si adatta al contesto del ΝΤ con le sue riunioni eucaristiche, il canto degli inni, il battesimo nell'acqua, ecc. (a meno che non si supponga che la teologia di Gv sia sensibilmente diversa da quella della chiesa in genere)» (R. E. Βrown). Il dialogo si costituisce su un costante cambio di livello: si passa a nuove realtà. Adorare il Padre in Sρiritο (4,21-24). l' affermazione che il Padre cerca gente che lo adorino in Spirito e verità (4,231,), può essere letta correttamente in riferimento all'annuncio della nascita «dall'alto» (3,3), «dall'acqua e dallo Spirito» (3,5). 4 5

Il Padre può essere adorato soltanto da coloro che sono stati generati dall'alto… solo costoro possono rispondere all’amore appassionato di Dio in piena libertà, apprendendo da lui cosa sia l’amore. Solo lo Spirito Santo può sollevare gli uomini al di sopra della sfera puramente della carne – nel senso indicato in 1,14 e 3,6-8 – e portarli veramente nella sfera di Dio e dello Spirito. Adorare il Padre nello Spirito Santo non è solo un rimando alla persona trinitaria divina, ma anche all'esigenza di adorare il Padre a un livello che per l'uomo sia il suo livello spirituale. Per così dire si deve adorare Dio «in spirito» anche inteso con la minuscola. L'adorazione del Padre non tocca solo qualche aspetto dell'uomo, ma riguarda tutto l'uomo. Meglio ancora: l' adorazione del Padre interessa l'uomo in quanto è capace d'accogliere lo Spirito di Dio nel proprio spirito. In conseguenza di questo dono ricevuto e accolto, l'uomo può essere spiritualmente trasformato nel suo spirito umano. Non si tratta ovviamente di una dimensione solo interiore, invisibile. Il riferimento allo spirito dell'uomo, anzi, è un rimando a una totalità che comprende sia ciò che è visibile sia ciò che è l'invisibile nell'uomo stesso. Il Padre quindi «cerca» come adoratore l'uomo vivente che accoglie l'autorivelazione di Gesù come Figlio e il dono pasquale del secondo Paraclito. Gesù smaschera l’amore ferito della samaritana aprendola alla speranza di potere amare in spirito e verità, con quel livello inedito e profondo di umanità, con quella bellezza che è quella escatologica della sposa che ama lo sposo, come abbiamo visto nel Cantico.

LETTURA ESEGETICA I vv. 1-4, che si concentrano sugli spostamenti geografici di Gesù. Essi toccano successivamente tre regioni: dalla Giudea alla Galilea, attraverso la Samaria. Il motivo di questo spostamento è una reazione di Gesù al sapere che i Farisei sono in movimento avendo sentito dire che Gesù fa più discepoli di Giovanni e battezza più di lui . Questa notizia è collegata con Gv 3,22. 26. Appare allora che il tema del battezzare ha ancora rilievo nel nuovo contesto, anche se la glossa del v. 2 tradisce un certo disagio davanti al fatto che Gesù battezzasse. Naturalmente questo spostamento del gesto materiale del battezzare da Gesù ai discepoli non rappresenta un gran miglioramento per la sostanza dell'affermazione del testo! Anche il v. 4 si presenta come una specie di glossa, questa volta non teologica ma puramente geografica, che aiuta il lettore a ricordare le tappe necessarie al viaggio che Gesù sta iniziando in Samaria. Dopo la menzione della città della Samaria chiamata Sicàr, il narratore indica due elementi importanti che inquadrano il discorso e che proiettano contemporaneamente sullo sfondo biblico: il podere di Giacobbe dato al figlio Giuseppe il pozzo di Giacobbe (di cui si parlerà ancora al v. 12)

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Il terzo rapido elemento ci presenta la stanchezza di Gesù a causa del viaggio, la sosta presso il pozzo, l'orario (l'ora sesta). Su quest'ultimo dettaglio c'è chi si domanda se qui non ci sia un contrasto netto con l'ora della venuta di Nicodemo: Nicodemo va da Gesù di notte. Gesù incontra la Samaritana a mezzodì. Cosa si nasconde in questo incontro? «Grandi misteri vi sono contenuti, e figurazioni di grandi cose, che saziano l'anima che ha fame, e la ristorano se spossata» (S. Agostino). «In questa scena Giovanni ci ha dato il dramma di un'anima che si sforza di sollevarsi dalle cose di questo mondo alla fede in Gesù» (R. E. Brown).

Gesù chiede dell'acqua alla Samaritana violando i costumi dell'ambiente e provocando lo stupore della donna: Giudei e Samaritani infatti non erano in buoni rapporti. La presa di posizione di Gesù, che dà l'avvio al dialogo, è il nucleo a partire dal quale è possibile capire l'articolarsi del dialogo .

Esso si sviluppa su due archi: PRIMO ARCO: IL DONO DELL'ACQUA VIVA l'arco culmina nella richiesta «Dammi quest'acqua» Totale fraintendimento della donna (vv. 11-12) L'acqua, che sarà data da Gesù (vv. 13-14) Richiesta della donna, mossa da una comprensione parziale (v. 15) SECONDO ARCO: LA PERSONA DI GESÙ E L'ADORAZIONE AL PADRE l'arco culmina nell'autorivelazione "Sono io che parlo con te" Gesù smaschera la donna nella sua vita ambigua (vv. 16-18) la donna interroga Gesù, riconosciuto come Profeta, sul vero culto (vv. 19- 20) Gesù spiega il culto in Spirito e Verità e lo collega con l'ora (vv. 21-24) Gesù è il Messia (vv. 25-26)

Le due questioni più interessanti per l'interpretazione teologica di questa parte del dialogo tra Gesù e la Samaritana riguardano: (a) l'identificazione concreta del dono dell'acqua viva di cui parla Gesù; (b) l'eventuale dimensione sacramentale comportata dal fatto che il dono sia presentato con il simbolo dell'acqua (viva). Per sottolineare il legame cristologico tra dono e donatore e per evidenziare la continuazione dell'impostazione cristologica già apparsa nella prima sequenza di Gv, è opportuno osservare che una domanda della Samaritana (4,11) riprende il dono del vino di Cana (2,9). 4 7

IN CHE COSA CONSISTE IL DONO DELL' ACQUA VIVA? Di che cosa è segno? A cosa va rapportato? Rispondiamo utilizzando soprattutto le riflessioni di E. R. Brown. Anzitutto, al negativo, va detto che l'acqua viva non è Gesù stesso, ma qualcosa che può essere dato da Gesù e che è offerto al credente che riconosce il dono di Dio. Certamente invece l'acqua viva è qualcosa che ha a che fare con la vita. Sensi possibili sono: ACQUA VIVA, cioè acqua che scorre contrapposta all'acqua ferma di una cisterna; ma anche nel senso di 'ACQUA VIVENTE', cioè acqua dotata di vita e perciò capace, a sua volta, di dare la vita. Ancora al negativo si può aggiungere: l'acqua viva non è la vita etema stessa, perché il linguaggio impiegato indica 'un qualcosa' che produce la vita eterna come suo effetto staccato in qualche modo dalla sua causa. Le interpretazioni proposte sono molte. Una delle più suggestive è identificare l'acqua viva con la grazia santificante. Questa lettura del simbolo è indubbiamente suggestiva, ma non è esegeticamente probabile perché identifica un simbolo giovanneo con una categoria teologica che come tale non appartiene all'universo giovanneo. Essa risente piuttosto di una teologia che ha già sistematizzatola riflessione sulla grazia e i suoi effetti sul cristiano. Dal punto di vista strettamente esegetico ci sono realmente due possibilità: l'acqua viva significa la RIVELAZIONE che Gesù dà agli uomini; l'acqua viva significa il dono dello SPIRITO SANTO stesso. A sostegno dell'identificazione dell'acqua viva con la RIVELAZIONE si può citare il testo di Sir 24,20: "Chi si nutre di me avrà ancora fame e chi beve di me avrà ancora sete". Il testo di Gv e quello del Sir non sono in contraddizione, bensì affermano lo stesso concetto in due modi solo apparentemente antitetici. In Sir chi beve della Sapienza continuerà sempre a bere di essa, cioè non si stancherà di essa. Gesù in Gv 4,13-14 afferma la stessa cosa: "chi beve di quest'acqua non avrà più sete" significa che questa acqua (della rivelazione) lo disseterà positivamente, per così dire: non avrà bisogno di andare a cercare altre bevande. La Sapienza e la rivelazione sono acqua che disseta ed appaga. A sostegno dell'identificazione dell'acqua viva con lo SPIRITO SANTO si può citare un testo dello stesso Gv che identificalo Spirito con l'immagine dell'acqua: "Nell'ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: 'Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno'. Questo egli disse riferendosi allo Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non c'era ancora lo Spirito, perché Gesù non era stato ancora glorificato" (7,37-39). In questo testo giovanneo i fiumi di acqua viva di cui parla Gesù vengono identificati con il dono dello Spirito. Non c'è ragione di scegliere tra queste due interpretazioni: è evidente che spesso il simbolismo giovanneo è polivalente, perché dunque non potrebbe esserlo qui?

Il dialogo con la Samaritana è correlato a quello con Nicodemo che è un testo chiaramente a valenza anche battesimale. Gli elementi corrispondenti, contrapposti a collegare l'incontro con uno 4 8

dei capi Giudei e la donna samaritana sono: un uomo e una donna, un capo dei giudei già impegnato e una samaritana dalla vita discutibile, una venuta intenzionale «di notte» e un incontro casuale «all'ora sesta» (a mezzogiorno). Se il collegamento narrativo ipotizzato è esatto, allora si può fare un'osservazione teologica, complementare e di grande rilievo per il significato di questa sezione evangelica. Dopo aver parlato di "nascita dall'acqua e dallo Spirito "(3,5) Gesù, nel dialogo con Nicodemo, si concentra univocamente sul dono dello Spirito (cf. 3,6-8). Nella narrazione della Samaritana, dopo aver sviluppato il tema dello Spirito nelle parole a Nicodemo, Gesù riprenderebbe l'elemento dell'acqua.

Abbiamo già osservato che il pozzo di Giacobbe contrassegna lo scenario di questa comparsa di Gesù in questa zona della Samaria. L'insistenza narrativa su questo luogo è evidente. Si ricordi: la menzione della sorgente (4,6), del pozzo stesso (4,12), della sua profondità (4,11). Non potremmo forse vedere l'insistenza sul pozzo di Giacobbe, come un'allusione al fatto che Gesù offre" il pozzo" da cui scaturiscono tutti i "fonti battesimali" a cui Gesù - Israele (cf. nel contesto ampio e meditativo 1,51!) fa dissetare i credenti in lui?

La seconda parte del dialogo sulla identità di chi è colui che parla con la Samaritana (v. 10) culmina nel "Sono io (il Cristo) che parlo con te" (v. 26) e contiene al suo centrò la questione dell'adorazione del Padre in spirito e verità (vv. 20-24), presentata entro due elementi di interasse cristologico che ne costituiscono come la cornice (vv. 16-19 e vv. 25-26). L'incorniciatura cristologica di questa seconda parte del dialogo comprende lo schema: ... vedo che sei un profeta ... deve venire il messia ... sono io che ti parlo "La donna gli dice: vedo che un profeta sei tu". L'identificazione di Gesù come profeta deriva dalla speciale conoscenza che egli ha dimostrata, ma si può anche riferirsi al suo evidente desiderio di riformare la vita della donna. Gesù annuncia forse un'adorazione tutta interiore? La proclamazione dell'adorazione in Spirito e verità non contrappone adorazione esterna ed adorazione interiore. «Un ideale di adorazione puramente interiore mal si adatta al contesto del NT con le sue riunioni eucaristiche, il canto degli inni, il battesimo nell'acqua, ecc. (a meno che non si supponga che la teologia di Gv sia sensibilmente diversa da quella della chiesa in genere)» (R. E. Brown). Due adorazioni sullo sfondo della storia di Israele (4,20 e 4,22)

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Il testo distingue due adorazioni, quella dei Samaritani e quella dei Giudei. Gesù valuta in maniera differenziata questi due culti e, da Giudeo di fronte alla Samaritana (cf. v. 9), si schiera dalla parte dei Giudei: "voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei" (v. 22). Al momento presente, le due adorazioni, però, sono comunque entrambe superate. L'annuncio di una realtà nuova è presentata da Gesù con gradualità sullo sfondo della storia di rivelazione e di salvezza, che Dio ha già intrecciato con il suo popolo. Tale storia precedente non è banalizzata né svilita, ma giudicata (cf. il giudizio netto "la salvezza viene dai Giudei") ed è portata a compimento con un superamento da Gesù stesso. Un cambio di livello: si passa a nuove realtà (soprattutto 4,21) Il contrasto tra l'adorazione a Gerusalemme - e, anche se meno, su questo monte samaritano del Garizim - e l'adorazione del Padre in spirito e verità, va letta soprattutto alla luce della correlazione presentata in 1,17 tra la legge data per mezzo di Mosè e la grazia e la verità avvenute per mezzo di Gesù Cristo. Come in altri testi di questi primi capitoli di Gv, Gesù parla e opera a proposito del superamento delle vecchie istituzioni cultuali con nuove realtà escatologiche: l'acqua delle purificazioni dei Giudei diventa il vino nuovo della festa finale (Cana), il tempio rivendicato come "casa del Padre mio" viene superato dal tempio che è il corpo di Gesù stesso (dopo la risurrezione). Viene l’ora, ed è adesso (4,23) Il cambiamento viene collegato fin dal primo annuncio al tema dell'ora: "Credimi, donna: viene l'ora in cui né su questo monte né in Gerusalemme adorerete il Padre"" (4,21). Il futuro rimanda a qualcosa che si trova ancora di fronte. Si tratta evidentemente di un rimando al tempo della glorificazione. Il nuovo tempio è compreso dai discepoli soltanto dopo la risurrezione (Gv 2), come la nuova nascita è possibile solo sullo sfondo dell'innalzamento del Figlio dell'uomo (Gv 3), così l'adorazione in spirito e verità sarà possibile soltanto quando verrà "l'ora" della gloria. Nella ripresa del v. 23 però questa ora futura viene collegata al presente e al dialogo tra Gesù e la Samaritana. Si continua nella logica del segno di Cana: l'ora non è ancora giunta (come dice Gesù: 2,4 e 4,21), ma al tempo stesso è possibile l'inizio dei segni connessi alla gloria (e quindi all'ora, cf. 2,11) e il collegamento tra l'ora, che sta venendo, e il presente (4,23). «Adorare in Spirito e verità» significa che lo Spirito Santo sorregge tale adorazione fatta secondo la rivelazione in Gesù. Ogni uomo che si lascia ,muovere dallo Spirito di Dio, progressivamente cresce in tale rivelazione e si trasforma nel suo spirito e secondo la realtà di Dio a lui manifestata in Cristo.

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II.a.3. L’incontro con Maria di Magdala nel nuovo giardino della mattina di pasqua

Gv 20, 11 Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo e l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13Ed essi le dissero: «Donna, perché piangi?». Rispose loro: «Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto». 14Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesù. 15Le disse Gesù: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?». Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: «Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo». 16Gesù le disse: «Maria!». Ella si voltò e gli disse in ebraico: «Rabbunì!» – che significa: «Maestro!». 17Gesù le disse: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: “Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro”». 18Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: «Ho visto il Signore!» e ciò che le aveva detto.

Qual è la novità espressa nell’incontro fra il risorto e Maria di Magdala? In che senso la Pasqua di Gesù realizza un nuovo giardino dell’amore? Quali sono le fatiche di Maria nell’aprirsi a questa novità? Quali quelle di Gesù nel condividerla con Maria e con noi?

Il vangelo di Giovanni, volentieri è impegnato a elaborare il contorno specifico dei propri personaggi. Maria Maddalena è tratteggiata con atteggiamenti e gesti precisi, evidenziando senza falsi pudori tanto i suoi potenti e passionali slanci quanto i palesi equivoci e i malintesi del suo cammino pasquale. Avventuratasi solitaria in un pellegrinaggio tenebroso al sepolcro di Gesù, immagina come segno di un trafugamento (una violazione del genere non era infrequente) l'inattesa scoperta della tomba di Gesù inopinatamente spalancata. Così inverte il cammino, e corre da Pietro e dal discepolo amato con il frutto non di una sconcertante ma obiettiva constatazione, ma della propria personale sconvolta immaginazione. La prima elementare traccia conseguente all'avvenuta risurrezione, è lo spazio desolato aperto e cavo di un sepolcro. Di per sé inquietante, questo segnale ferisce il cuore di Maria Maddalena, giungendo come ulteriore insulto ai più genuini sentimenti discepolari di chi - insieme alla vita del Maestro - si vede sottratto anche l'elementare diritto di doveroso e affettuoso lutto proprio là dove era stato deposto: Hanno portato via il mio Signore, e non so dove l'hanno messo (Gv 20,2.13). Alla prima vista del sepolcro aperto di Gesù, Maria Maddalena subisce l'impatto mentale di questo supplementare fardello di lutto. Con il colpo d'occhio iniziale su quella pietra rotolata via dal sepolcro, che le spalanca la bocca, si sente invadere dal pensiero di un trafugamento con cui le avrebbe sottratto il corpo dell'amato maestro, e con quello anche il luogo dove lui riposava e la meta dove accedere in futuro per onorarne la memoria. Che si tratti in realtà di un equivoco e di un malinteso prodotti dall'eccessiva e precipitosa sua immaginazione, è subito evidente al lettore.

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Ma anche così non vien tolto nulla al sincero spessore del suo dolore - un po' come il pianto del neonato, perfettamente irriducibile finché non ritroverà quel seno e quel volto rassicuranti, dileguatosi con inspiegabile crudeltà. Se la fede in Gesù risorto si produce come una autentica rinascita dall'alto (Gv 3,3), ed essa stessa va configurandosi come una risurrezione, non è meno vero che essa avviene per il tramite di una spoliazione, di una «decostruzione» - come direbbe la cultura dei nostri giorni - che tocca il nucleo più vivo e identificante del nostro affetto - il nostro «io» e il nostro «sé» - per rinnovarlo trapian- tandolo nel più fecondo terreno della vita in Cristo e inabitata da Cristo (Gal 2,20). Depauperata dalla vista del sepolcro spalancato, che rincara la prova già affrontata sotto la croce, Maria Maddalena non riesce a leggere immediatamente - nemmeno potrebbe farlo - i segni cavi e gli spazi aperti come scenari di novità e ricominciamento. E in effetti ci vuole altro perché il generoso attaccamento degli affetti più tenaci, spogliato dalla precipitosa immaginazione, ritrovi un più adeguato contatto di attenzione. Ci vuole una presenza che si disvela, una voce che interpella. La crisi di Maria Maddalena al sepolcro in fondo è un semplice deficit di attenzione dovuto a un eccesso di passione. Troppa emozione, troppa precipitazione: il suo veloce sguardo si figura uno scenario quale non è, sicché la sua «immaginazione febbrile» degenera in «illusione fantastica», che perdura anche quando - dopo esser corsa da Pietro e dall'altro discepolo - ritorna sui propri passi per piangere e per meglio osservare lo scenario di quel sepolcro spalancato. È come accecata dalle proprie stesse lacrime (nello stesso versetto si ripete che piangeva e che continuava a piangere: 20,11). Non ce la fa a scrollarsi di dosso l'eccesso di desolazione, e a cogliere indizi di risurrezione, quando chinata all'interno del sepolcro, può notare «due angeli in bianche vesti, seduti l'uno dalla parte del capo e l'altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù» (20,12). E quando le chiedono: «Donna, perché piangi?», invece di riscuotersi risponde con il suo ormai ossessivo ritornello («hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto!»), accanitamente attaccata al proprio affetto per Gesù, da lei presunto trafugato. Anche qui l'empito della troppa passione inibisce quel minimo di percezione e ricognizione obiettiva, che le suggerirebbe qualche più positivo presentimento.

Maria osserva con ogni attenzione e passione possibile, ma fatica a cogliere le proporzioni anche approssimative di quello che vede. Possiamo dire che Maria sia accecata dall’amore per Gesù, e che questo la immobilizzi e la apra a progetti tutti suoi, come quello del recupero del cadavere. Del resto avrebbe potuto fare diversamente? E come? Il problema è che Maria ci tocca tutti perché ci dice che si ama veramente come si è capaci, e non come “si dovrebbe”…e con ciò non possiamo non fare i conti. Ecco perché era così importante il primo giorno che qui riemerge con tutta la sua ampiezza. Lo stile di Maria Maddalena è volto alla ricerca, ma piuttosto improntato alla figura dell'Amata del Cantico dei Cantici, un modello tutto al femminile, e ancor più eroticamente connotato, tenace quanto gli inferi e la morte (Ct 8,6). Uomo e donna non amano - e quindi nemmeno credono - alla stessa maniera.

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Ma in ogni modo - femminile o maschile che sia -, la fede che cerca deve pur sempre saper rispondere alla voce del Risorto. «Perché piangi, chi cerchi?» (Gv 20,15). Deve passare attraverso il riconoscimento del Risorto, che si fa personalmente presente a tutti i nostri tempi e luoghi (Mt 28,20), così vicino ed eloquente, eppure tanto ignoto, fino a che, come alla Maddalena, dopo indispensabili equivoci, possa finalmente risuonare la sua voce, che, pronunciando un solo nome, identifica Gesù e il suo discepolo. Ascoltare la sua voce che chiama pronunciando il proprio nome, come capitato a Maria Maddalena, e ancor più potentemente a Lazzaro, sepolto già da quattro giorni (Gv 11,43), non è esperienza riservata a loro, contemporanei di Gesù come mai nessuno di noi potrà più essere. Lo scambio reciproco di nomi segna il mutuo riconoscimento in cui si compie quello intrinseco alla fede, l'intreccio sponsale di parola rivelatrice e risposta credente, che segna altresì il compimento della gioia promesso da Gesù. È così che il credente è al tempo stesso rigenerato e pure anche rigenerante, accogliente il nuovo seme della parola. La ritrovata attenzione è grazia della voce del Risorto, e non frutto di chissà quale volontaristica contrazione muscolare o cerebrale. Quella voce fa rinascere, segna un nuovo inizio, inaugura nuove facoltà, mettendo in pieno esercizio quei sensi spirituali, affidati in dotazione ai credenti come dono del Risorto e del suo Spirito. Il cammino di Maria Maddalena non finisce ascoltando Gesù che pronuncia il suo nome. Qui si produce solo la svolta - illustrata dallo stesso ripetuto volgersi di lei verso di lui, in un gesto simbolicamente evocatore di nuovo inizio (cf Gv 20,14.18). Tutta la dolorosa spoliazione precedente fu in fondo solo una necessaria premessa, una laboriosa gestazione, un arretramento per prendere la rincorsa e balzare poi con ulteriore slancio verso una vita dotata di una nuova sensibilità credente. Appena entra nel sepolcro Maria vede che il corpo di Gesù non c’è più e subito pensa ad un furto, qualcuno secondo lei deve averglielo portato via. Questo forse è anche quello che avremmo pensato noi, ma potremmo e poteva Maria pensare diversamente? Come? Forse non abbiamo ancora gli strumenti per farlo... Maria fa fatica ad uscire dalle sue convinzioni infatti quando le chiedono “Donna perchè piangi?” continua a rispondere che qualcuno ha portato via il corpo di Gesù. Anche quando è Gesù stesso a farle la domanda lei non riesce a riconoscerlo. Questo non vuol dire che Maria non ami Gesù: lei ama Gesù ma non riesce ad amarlo nel modo giusto, è accecata dal suo amore per lui. La situazione si sblocca solo quando Gesù la chiama per nome, questo non è un punto di arrivo ma un punto di partenza infatti poco dopo verrà mandata dai “suoi fratelli” a riportare le parole di Gesù risorto.

In vista di ciò, qualcosa deve tuttavia ulteriormente trasformarsi: ancora eccessivamente legata al passato, Maria Maddalena tenta di afferrare Gesù in un abbraccio al tempo stesso troppo esclusivo e regressivo, per riallacciare con lui le stesse relazioni di prima. Ma questa volta l'aspetta una inattesa «distrazione», che la sospingerà in un movimento non più polarizzato direttamente e captativamente su Gesù, bensì piuttosto su quelli che il Risorto per la

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prima e unica volta nel Vangelo chiama «i miei fratelli» (un segnale di effettiva riconciliazione). La voce del Risorto innesta Maria in un duplice movimento: quello di Gesù, che, ormai in atto di tornare al Padre, sospinge così i suoi nella missione intra-mondana di una irrinunciabile testimonianza. Certo, l'idea di Gesù che sale al Padre ci lascia perplessi e con qualche amaro in bocca, inducendo infatti a pensare a un allontanamento, a un distacco. Insinua un senso di tristezza, nel sospetto che la nostra fede dovrà affidarsi a un assente, a una figura che, non essendo a contatto mondano diretto con noi, ci appare terribilmente astratta, evanescente, poco reale. Tuttavia con la sua «partenza», quello di Gesù è un distacco da noi solo in apparenza, trattandosi piuttosto di un vero e proprio compimento di amore (Gv 13,1 ss), l'ultimo atto di un grande movimento di amore con cui egli rimane per sempre in noi (Mt 28,16-20). A saperlo ascoltare correttamente, il linguaggio a prima vista piuttosto mitologico dell'ascensione di Gesù al cielo contiene una potenza simbolica perfettamente demitizzante, che ci parla di una presenza alla storia e all'universo di Gesù Signore non appiccicosa, univoca e soffocante, ma piutto- sto pervasiva, articolata, plurale, animata dal suo Spirito Paraclito (Gv 15,26 ss; 16,7 ss), e variegata nella molteplice testimonianza discepolare, nonché incarnata negli ultimi e nei più piccoli (Mt 25,31-46). È con questo evento che entriamo definitivamente nella vita del Padre: con la sua ascensione, infatti, il nostro mondo è trascinato dentro il mondo di Dio, un dinamismo coerente che fa tutt uno con la sua incarnazione, fornendone il suo lato perfettamente speculare. Gesù scende dal cielo mandato dal Padre, entra nel mondo con la missione di Figlio, e si fa servo suo e nostro, condivide come propria la nostra carne, e si lega a noi per sempre, per farci entrare nella libertà di figli. Tornando al Padre, infatti, non gli si presenta più semplicemente identico a come era venuto, ma con un corpo segnato per l'eternità dalle piaghe della passione, trasfigurate ma non cancellate dalla risurrezione (Gv 20,20.25-29; Ap 5,6). Con il suo ritorno la nostra umanità viene ricondotta a quel Dio da cui proveniamo ma da cui tutti, per il peccato, sfuggiamo, spegnendo in noi la sua vita. Ecco a cosa serve la sua «ascensione»: a ridarci accesso a quella vita per la quale siamo fatti e scelti, in modo personale e irripetibile dall'eternità; a prepararci nella casa del Padre quel posto dove un giorno saremo raccolti tutti attorno alla mensa di Dio che sarà «tutto in tutti» (ICor 15,28). «Io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo», era stato più volte promesso da Dio nell'Antico Testamento: ecco il momento della piena e compiuta realizzazione, proprio quando Gesù dichiara: «Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». È quanto Maria Maddalena deve dire ai fratelli di Gesù - ed è quanto ella effettivamente mette in atto, con piena obbedienza, annunciando ai discepoli: «"Ho visto il Signore!". Sì, proprio queste cose le aveva detto» (Gv 20,11-18). Così Gesù realizza le nozze di Dio con l’umanità sua sposa. Il corpo del risorto è il corpo glorioso che si attua nel cammino discepolare e missionario della chiesa. Ed è questo corpo, che è corpo di Cristo che, continua a celebrare le nozze d’amore di Dio con l’umanità celebrate da Gesù una volta per sempre nella sua Pasqua. 5 4

Gesù realizza il nuovo giardino, le nozze di Dio con l’umanità, con la sua resurrezione: vuole amare Maria da risorto, in modo diverso da prima, ma lei non è nella sua stessa condizione, lui vuole renderla partecipe di questo amore e vuole far sì che anche lei riesca ad amare come ama lui. Per fare questo però il chiamarla per nome non è ancora sufficiente, infatti appena lo riconosce vuole subito abbracciarlo ma questo non è possibile, è ancora legata al Gesù prima della resurrezione. Il nuovo modo di amare di Gesù apre ad una relazione con lui e all’evangelizzazione infatti per Maria è possibile capire e amare come ama Gesù solo andando ad annunciare che aveva visto il Signore e a riferire le sue parole ai discepoli, è proprio per questo che Gesù la manda dai “suoi fratelli” ad annunciare.

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II.b Gesù realizza ed insegna l’amore Gesù non solo realizza l’amore sponsale di Dio per l’umanità ma da anche inedite istruzioni per poterlo abitare. Ci sono tre aspetti della relazione uomo donna sui quali Gesù si è espresso con una chiarezza cristallina ed inequivocabile. Questo insegnamento va inserito nel quadro dell’esistenza personale di Gesù e nel suo desiderio di celebrare le nozze di Dio con l’umanità, in modo tale che quest’ultima fosse così libera da poter rispondere lei pure amando.

Perché Gesù non si accontenta di realizzare nella sua vita le nozze escatologiche di Dio con l’umanità? Perché ci tira in ballo insegnando l’amore? L’insegnamento di Gesù in che modo ci inserisce nella realizzazione dell’amore di Dio per l’umanità?

II.b. 1. Desiderio e sguardo messi alla prova

Mt 5, 27 Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio. 28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29 Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna.

Qual è la prova che educa lo sguardo ed i desideri? In che senso le parole di Gesù insegnano un amore che realizza l’amore sponsale di Dio?

Gesù vuole andare alla radice: sa che nei rapporti fra un uomo e una donna è possibile uno stile di stare con l’altro che mira alla conquista, fatto di ambiguità e soddisfacimento egoistico delle proprie pulsioni. I problemi che ci siamo fatti nel primo giorno sono quelli che anche Gesù ha tirato fuori nella relazione con i suoi discepoli e i suoi contemporanei…portandoli ad una radicalità inedita e serissima. Come viviamo la nostra sessualità per Gesù è di fondamentale importanza. Per poter amare bisogna prendere assai seriamente la nostra sessualità, senza morbosità o stranezze,

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ma nella sua concretezza. Sessualità e desideri: ecco ciò su cui anzitutto sembra essere importante lavorare per poter amare, per poter realizzare le nozze d’amore di Dio con l’umanità. Gesù ci dice che pur di vivere i nostri desideri in maniera limpida, bisogna essere disposti anche a sacrificare qualcosa di estremamente importante e positivo come l’occhio o la mano. A Gesù non interessa solo come ci comportiamo, ma anche quello che succede dentro di noi. Le nostre azioni, i nostri comportamenti e le nostre parole se alla base non hanno un cuore casto, vengono viziate e diventano piene di ambiguità. La qualità del cuore dell’uomo è dettata proprio dai desideri: per questo motivo è importante imparare a controllare quali desideri devono abitare il nostro cuore e quali invece ci distolgono dall’amore. Non è possibile desiderare un’altra persona come se fosse un oggetto: per Gesù, la seduzione è una cosa gravissima, perché toglie la libertà alla persona di poter scegliere, di poter continuare a camminare lungo il proprio percorso. E la seduzione è il frutto della cupidigia, del desiderio di “cosificare” l’altro. Qui Gesù ci richiama alla radicalità, e con questa parola intende la capacità di ritornare sempre al suo sguardo,di saper ritornare alla radice dell’amore che lo ha portato a uscire dal Padre per divenire nostro fratello. Per quanto riguarda la sessualità e l’amore per Gesù , non basta più «non prendere la donna di un altro». Per molti testi dell'AT l'adulterio ha proprio la sua negatività nella ferita che si infligge alle relazioni tra altri; questo è un aspetto ancora oggi ben percepito anche dalla "sensibilità comune". Gesù, però, allarga la prospettiva: non parla della donna dell'altro, ma semplicemente della donna. Infatti per Gesù la questione non sta all'esterno (gli altri e i loro rapporti), ma tocca il cuore dell'uomo, il suo centro dinamico personale. Sappiamo bene che biblicamente il cuore non indica soltanto il sentimento, ma il pensare, lo sperimentare, il decidere. La sessualità ha bisogno di essere purificata dal di dentro e non solo dalla correttezza dei rapporti fisici e dal rispetto degli altri. Gesù non era un ingenuo: ha parlato in questo modo proprio perché non era ingenuo. Sarebbe invece una estrema ingenuità nostra pensare che lui era ingenuo e che non sapeva del tutto quanto difficili per noi sarebbero risultate le cose indicate. È proprio perché sa come sono difficili che avanza questa richiesta di limpidezza. Il rapporto tra l'uomo e la donna è un rapporto difficile, è un rapporto che ha bisogno di limpidezza: questo dice Gesù. La sessualità non è, per Lui, solo l'ambito della spontaneità, della libertà e della bellezza, ma anche un luogo di impegno e maturazione. Forse si potrebbe tradurre oggi nei termini: pericolosità della sessualità lasciata a briglie sciolte. I detti sullo scandalo sono duri e potrebbero forse essere parafrasati così: occorre agire decisamente con quanto matura in noi stessi per non cadere vittime del peccato, per non fare pasticci e trasformare la spinta verso l’altro origine di violenza e possesso, ed in sostanza schiacciamento dell’altro. Cosa esige Gesù? Che noi siamo radicali anche in questo; che noi siamo interiori; che noi diamo il primato all'amore, anche nell'ambito della sessualità e della relazionalità. 5 7

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II.b.2. Fedeltà ripudio divorzio

Mt 5, 31-32 + 19, 1-7

Fu pure detto: “Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio”. Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio.

1 Terminati questi discorsi, Gesù lasciò la Galilea e andò nella regione della Giudea, al di là del Giordano. 2Molta gente lo seguì e là egli li guarì. 3 Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». 4Egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li fece maschio e femmina 5e disse: Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne? 6Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 7Gli domandarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l’atto di ripudio e di ripudiarla?». 8Rispose loro: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli; all’inizio però non fu così. 9Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di unione illegittima, e ne sposa un’altra, commette adulterio».

Cosa ha significato per Gesù la fedeltà nell’amore? Ma non è un po’ troppo eliminare due cose come il ripudio ed il divorzio che servivano per limitare violenze e paciughi fra gli sposi quando le cose si rompevano? Siamo proprio sicuri che si possa vivere senza queste due “porte anti panico”? come? Ma la richiesta di Gesù è veramente umana?

Non si può essere uomo, non si può essere "esseri umani", essere «immagine e somiglianza di Dio», senza esserlo come "uomo" o come "donna", quindi in relazione con l'altro, non da soli. La conseguenza di ciò è piuttosto seria: non rispondiamo al disegno di Dio sul nostro essere persone vivendo male questa relazione costitutiva della nostra natura. Essa rimane una relazione costitutiva della nostra natura umana, sia che viviamo nel matrimonio, sia che abbiamo scelto il celibato, sia che ci troviamo nella vedovanza o nel fidanzamento, sia che di fatto siamo rimasti soli senza motivi particolari. Questo è un messaggio bello, importante, liberante, che viene a noi dall'insieme delle Sacre Scritture.

Nel messaggio della Scrittura la relazione uomo-donna è al tempo stesso stupenda (Genesi 1-2), ma anche ferita, come mostra Genesi 3 e come evidenzia anche tutta la storia delle vicende umane. La Bibbia è piena di storie tristi di rapporti uomo-donna; ce ne sono alcune stupende, ma già la Bibbia stessa è colma di brutte storie. Dobbiamo tenere insieme queste cose, altrimenti si capisce molto poco, troppo poco, e incombono le ingenuità, le tragedie. "Stupenda" e "ferita" sono parole 5 9

essenziali, ma non bastano. Per la Bibbia la relazione uomo e donna è una cosa stupenda (Genesi 1-2), ferita (Genesi 3 più la storia dell'umanità), ma è pure una relazione redenta. Gesù ha preso posizione fortemente: ha ricostituito il disegno di Dio e lo ha ripresentato in una modalità concretamente mai conosciuta prima. A livello di relazione uomo-donna, i cristiani, quali eredi di Gesù, debbono far risplendere il disegno di Dio. A loro è affidato questo progetto, inserito nella bellezza della loro vita. Nonostante gli insuccessi possibili e, forse, le tragedie che una vita su questo settore potrebbe anche contenere, i cristiani sono chiamati a fare splendere tale disegno, affinché la cultura dell'uomo di oggi, secolarizzato e postmoderno, sia davvero una cultura illuminata dal Vangelo là dove la donna e l'uomo si cercano e si amano.

Nella storia dell'amore di Dio per il popolo la fedeltà è un punto fondamentale, imprescindibile. Il Padre invia il figlio appunto per realizzare il suo amore e per farlo capire agli uomini. Ieri abbiamo visto le difficoltà che fa Gesù per capire l'amore del Padre, per farlo suo. Ma abbiamo anche visto l'originalità che ci mette nel “realizzare l'amore del Padre”. Anche per Gesù la fedeltà era un punto imprescindibile nell'amore e ce lo ha dimostrato arrivando fino in fondo alla sua “missione” di realizzazione dell'amore del Padre, fino a donare la sua vita. Forse per il tempo di Gesù – in cui una donna adultera veniva lapidata, oppure si doveva arrangiare per sopravvivere senza il supporto economico dell' (ex)marito – eliminare il ripudio e il divorzio è un passaggio difficile da capire; perché effettivamente queste due modalità servivano per limitare le violenze fisiche tra gli sposi. Ma per noi questo cosa vuol dire? Forse, adesso, sapere che puoi divorziare da tuo marito o da tua moglie in modo abbastanza semplice ti dà una scusa per evitare di risolvere i problemi che si creano all'interno della coppia. Sapere che se se ti sposi e poi le cose vanno male hai la possibilità di divorziare forse ti fa prendere più sottogamba le decisione di sposarti. Noi siamo sicuri di poter vivere senza queste due vie di fuga? Forse eliminarle in un certo senso ci costringe a vivere in modo diverso le nostre relazioni, a prenderle più seriamente. E togliendo il divorzio e il ripudio si porta l'attenzione nuovamente sulla fedeltà, che forse con le vie di fuga aveva perso un po' della sua importanza. Senza divorzio e ripudio quindi la fedeltà riacquista importanza.

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II.b.3. Eunuchi per il Regno

Mt 19, 8- 12

Gli dissero i suoi discepoli: «Se questa è la situazione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi». 11Egli rispose loro: «Non tutti capiscono questa parola, ma solo coloro ai quali è stato concesso. 12Infatti vi sono eunuchi che sono nati così dal grembo della madre, e ve ne sono altri che sono stati resi tali dagli uomini, e ve ne sono altri ancora che si sono resi tali per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca».

Cosa c’entrano gli eunuchi con l’amore, se sono degli impotenti, delle persone menomate? In che modo la scelta di alcun di farsi eunuchi per il Regno illumina quanto insegnato da Gesù sull’amore, sullo sguardo sui desideri, sulla fedeltà? In che rapporto stanno queste cose fra loro? Nella tradizione dell'Antico Testamento, a quanto risulta, non c'è posto per questo significato del corpo, che ora Cristo, parlando della continenza per il regno di Dio, vuole prospettare e rivelare ai propri discepoli. Tra i personaggi a noi noti, quali condottieri spirituali del popolo dell'antica alleanza, non vi è alcuno che avrebbe proclamato tale continenza a parole o nella condotta. Il matrimonio, allora, non era soltanto uno stato comune, ma, in più, in quella tradizione aveva acquisito un significato consacrato dalla promessa fatta ad Abramo dal Signore: «Eccomi: la mia alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli... E ti renderò molto, molto fecondo; ti far ò diventare nazioni e da te nasceranno dei re. Stabilirò la mia alleanza con te e con la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione, come alleanza perenne, per essere il Dio tuo e della tua discendenza dopo di te » (Gen 17,4.6-7). Perciò nella tradizione dell'Antico Testamento il matrimonio, come fonte di fecondità e di procreazione in rapporto alla discendenza, era uno stato religiosamente privilegiato: e privilegiato dalla stessa rivelazione. Sullo sfondo di questa tradizione, secondo cui il Messia doveva essere «figlio di Davide » (Mt 20,30), era difficile intendere l'ideale della continenza. Tutto perorava a favore del matrimonio: non soltanto le ragioni di natura umana, ma anche quelle del regno di Dio. Le parole di Cristo determinano in tale ambito una svolta decisiva. Quando egli parla ai suoi discepoli, per la prima volta, sulla continenza per il regno dei cieli, si rende chiaramente conto che essi, come figli della tradizione dell'antica Legge, debbono associare il celibato e la verginità alla situazione degli individui, specie di sesso maschile, che a causa dei difetti di natura fisica non possono sposarsi ( «gli eunuchi »), e perciò si riferisce direttamente a loro. Questo riferimento ha uno sfondo molteplice: sia storico che psicologico, sia etico che religioso. Con tale riferimento Gesù tocca - in certo senso - tutti questi sfondi, come se volesse dire: So che quanto ora vi dirò dovrà suscitare grande difficoltà nella vostra coscienza, nel vostro modo di intendere il significato del corpo; vi parlerò, difatti, della continenza, e ci si assocerà indubbiamente in voi allo stato di deficienza fisica, sia innata sia acquisita per causa umana. Io invece voglio dirvi che la continenza può anche essere volontaria e scelta dall'uomo «per il regno dei cieli ».

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Matteo, al cap. 19, non annota alcuna immediata reazione dei discepoli a queste parole. La troviamo più tardi solamente negli scritti degli apostoli, soprattutto in Paolo (cf. 1Cor 7,25-40; vedi anche Ap 14,4). Dunque, dal punto di vista della teologia – cioè della rivelazione del significato del corpo, del tutto nuovo rispetto alla tradizione dell'Antico Testamento -, queste sono parole di svolta. La loro analisi dimostra quanto siano precise e sostanziali, nonostante la loro concisione. Cristo parla della continenza «per » il regno dei cieli. In tal modo egli vuole sottolineare che questo stato, scelto coscientemente dall'uomo nella vita, in cui di solito gli uomini «prendono moglie e prendono marito », ha una singolare finalità soprannaturale. La continenza, anche se scelta coscientemente e anche se decisa personalmente, ma senza quella finalità, non entra nel contenuto del suddetto enunciato di Cristo. Parlando di coloro che hanno scelto coscientemente il celibato o la verginità per il regno dei cieli (cioè «si sono fatti eunuchi »), Cristo rileva - almeno in modo indiretto - che tale scelta, nella vita terrena, è unita alla rinuncia e anche ad un determinato sforzo spirituale. Quale? E tale sforzo cosa costruisce? Se la continenza «per il regno dei cieli » significa indubbiamente una rinuncia, tale rinuncia è ad un tempo una affermazione: quella che deriva dalla scoperta del «dono», cioè ad un tempo dalla scoperta di una nuova prospettiva della realizzazione personale di se stessi «attraverso un dono sincero di sè» ( «Gaudium et spes », 24). Questa scoperta sta in una profonda armonia interiore con il senso del significato sponsale del corpo, collegato «dal principio » alla mascolinità o femminilità dell'uomo quale soggetto personale. Sebbene la continenza «per il regno dei cieli » si identifichi con la rinuncia al matrimonio, non si può in alcun modo vedere in essa una negazione del valore essenziale del matrimonio; anzi, al contrario, la continenza serve indirettamente a porre in rilievo ciò che nella vocazione coniugale è perenne e più profondamente personale, ciò che nelle dimensioni della temporalità (ed insieme nella prospettiva dell' «altro mondo») corrisponde alla dignità del dono personale, collegato al significato sponsale del corpo nella sua mascolinità o femminilità . Tuttavia tale correlazione come si realizza?

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Deserto: Inno all’amore 1 Cor 13

1 Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. 2 E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. 3 E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. 4 La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, 5non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. 7Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. 9Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. 10Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. 12 Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. 13Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!

Dopo che abbiamo cercato di capre cosa sia l’amore alla luce della nostra personale esperienza, talvolta pasticciata e per altri versi sublime; dopo aver ascoltato e contemplato quale amore Dio intenda vivere e donarci, nel deserto dovremmo lasciarci guidare da Paolo per sperare e aprirci all’amore che egli celebra nel testo di 1 Cor 13.

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Non dobbiamo dimenticare che anche per l’apostolo il riferimento fondamentale per descrivere l’amore è la persona di Gesù Cristo che con la sua vita, morte e risurrezione a dato all’amore un volto e dei tratti assolutamente riconoscibili.

DOMANDE DI RIFERIMENTO È proprio vero che senza l’amore non siamo niente? In che senso? I gesti grandi non contano di fronte all’amore… solo se lo si possiede la nostra vita ha consistenza… ma noi non siamo corpo? E dunque co’è sta faccenda? “La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”... e noi nelle relazioni che diciamo essere d’amore funzioniamo così? Oppure come? Nel tempo delle relazioni cosa significa quanto Paolo afferma sull’amore? Cosa produce? L’amore non avrà mai fine… ma ne siamo proprio convinti? E come fa a non finire se il nostro corpo viene a mancare? “Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino”. E noi? In che modo abbiamo fatto crescere la nostra idea di amore? In che modo abbiamo affinato e raffinato l’amore? Perché non serve attaccarsi alla propria idea di amore infantile? In cosa dobbiamo ancora crescere? Fede, speranza amore… cosa c’entrano l’una con l’altra? Come s sostengono? Come ci sostengono? Dove ci portano quando sono insieme?

LETTURA ESEGETICA Una delle sorprese del brano paolino, e non tra le minori, è che l'amore non viene specificato da nessuna qualificazione, né soggettiva né oggettiva. Il sostantivo manca di un atteso genitivo con cui avrebbe potuto formare le seguenti possibili espressioni compiute: «amore di Dio / di Cristo / dell'uomo»; «amore per Dio, per Cristo, per gli altri», come di regola altrove Paolo del resto ha fatto. L'assolutezza del tema dell'amore ha un parallelo paolino solo in 1Cor 8,1: a differenza della gnòsis che gonfia d'orgoglio, agape è costruttiva. Dopo tutto, anche nel cap. 13 essa viene contrapposta alla «gnosi» (vv. 2.8) e al «conoscere» (gignóskó). Senza dire che in 8,1, come in 13,4-7, è eretta a soggetto del fare. L'analogia si estende, in parte, all'oggetto, perché se in 8,1 appare come forza costruttiva del fratello debole, anche in 13,4-7 è all'origine di comportamenti e atteggiamenti positivi nei confronti del prossimo. In realtà, essendo qui personificato, l'amore non ammette restrizioni: è esaltato nella sua stessa ragion d'essere, una grandezza che s'incarna variamente in tutti i soggetti capaci di amare. Soprattutto l'amore di Dio che ha donato il suo unico figlio e l'amore di Gesù che ha dato la sua vita per noi, sono rivelativi dell'agape paolina: è un dinamismo di donazione gratuita che fa uscire il 6 4

soggetto dalla chiusura egocentrica per una comunicazione profonda con l'altro. Del resto il nostro testo ci offre un'eloquente conferma: «L'amore è longanime, è clemente l'amore, non è invidioso, l'amore non è borioso, non si gonfia d'orgoglio..., non ricerca il proprio interesse» (vv. 4-5). L'apostolo ha connesso strettamente agape e edificazione (cf. 8,1), ma quando nel cap. 14 esprime la sua preferenza per la profezia a motivo della sua efficacia costruttiva, non si riferisce mai all'amore. Un silenzio eloquente che fa giustizia della diffusa ipotesi di una stretta connessione tra i ce. 13 e 14, come se Paolo avesse introdotto il tema dell'amore per preparare e fondare il motivo successivo della costruzione. Paolo non continua il motivo dell'importanza dei carismi; alla sua mente s'impone un nuovo proposito che soverchia l'interesse precedente, perché riguarda una questione decisiva: che cosa vale veramente nell'esistenza umana? dove sta la realizzazione piena della persona? Senza inframettere altre riflessioni intende subito insegnare agli interlocutori non una via tra le altre, sia pure superiore, ma la via per eccellenza, al di fuori della quale il traguardo viene mancato. La metafora della via ha alle spalle una lunga storia in ambito greco e nella tradizione ebraico- giudaica. In questa molto attestato appare il senso di condotta e di vita morale scandita dall'obbedienza ai comandamenti di Dio, mentre poche sono le attestazioni a favore del significato di cammino che porta a un determinato traguardo. Il mondo greco invece non poche volte attesta il motivo della via che conduce alla luce e alla salvezza. Per comprendere il termine nel nostro passo bisogna riferirci al c. 13 che tratta appunto di ciò che è denominato «via», cioè dell'amore, e lo fa di preferenza in prima persona singolare (cf. vv. 1-3 e 9- 12). Protagonista è l'io che si definisce in rapporto all'avere o non-avere l'amore (cf. v. 2). Questo dunque è inteso come realtà che fa essere la persona umana, forza capace di portarla alla piena realizzazione. Via dunque vuol dire qui mezzo e modo per giungere a quel traguardo di perfezione cristiana che i corinzi volevano raggiungere mediante i carismi estatici. Con tutto ma senza amore sono nulla (13,1-3) v. 1 II primo confronto è stabilito tra l'amore e la glossolalia: «Se parlo le lingue degli uomini e degli angeli». Questa formula è nuova rispetto a quelle usate nei cc. 12 e 14, ma non c'è dubbio sull'identità del fenomeno. Si discute però se, attraverso il binomio «uomini e angeli» come cifra espressiva di totalità, vi si intenda ogni genere di linguaggio, oppure il riferimento sia distintamente alle lingue umane e a quelle celesti, due forme della stessa manifestazione spirituale. «sono ridotto a bronzo echeggiante o a cembalo risonante». Qui si tratterebbe del riferimento a strumenti musicali di percussione, sempre di bronzo, bene attestati nell'AT e in uso nel culto gerosolimitano. Così il glossolalo privo di amore sarebbe simile a un oggetto inanimato capace solo di fare rumore. v. 2 II secondo confronto è tra l'amore e quattro carismi di grande richiamo: «E se ho profezia e conosco tutti i misteri e tutta la conoscenza, e se ho tutta la fede così da trasportare monti». Della profezia e della fede taumaturgica, carismi già menzionati nel e. 12, si è detto sopra; invece almeno parzialmente nuovi sono i due centrali nell'elenco. ç'amore non teme confronto alcuno, neppure con una gnósis oggettivamente illimitata. L'apodosi appare qui radicale nella valutazione del profeta, dell'apocalittico, del sapiente e del

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taumaturgo privi di amore: «un nulla sono». La svalorizzazione del soggetto è tale da annullarlo: esiste ma come nullità, privo di ogni valore e di ogni importanza. v. 3 II terzo termine di confronto si estende oltre la cerchia dei carismi per abbracciare quanto di più alto è capace di fare «l'homo religiosus Christianus» «E se impegnassi tutti i miei averi per nutrire i bisognosi e se consegnassi il mio corpo perché io sia bruciato». La privazione dell'amore porta all'annullamento di ogni vantaggio atteso dalle prestazioni straordinarie del soggetto. Che cosa fa l'amore e che cosa non fa (13,4-7) Come si è detto sopra, il brano presenta un ventaglio esemplificativo delle espressioni operative dell'agape con brevi proposizioni, in maggioranza negative. Oltre a qualificare l'amore nel suo fare, queste ultime permettono a Paolo di criticare la condotta della comunità di Corinto, come emerge dai paralleli incontestabili della 1Cor. L'elogio dell'amore, lungi dall'essere una composizione astratta, morde la realtà più concreta dei destinatari dello scritto e, implicitamente, li sollecita a sintonizzare la loro vita su questa lunghezza d'onda, non sull'orgogliosa ostentazione dei più spettacolari carismi. v. 4 «L'amore è longanime (makrothymei), è clemente (chrèsteuetai) l'amore, non è invidioso (ou zèloi), l'amore non è borioso (ou perpereuetai), non si gonfia d'orgoglio (ou physioutai)». La prima qualifica dinamica dell'amore trova un significativo parallelo in lTs 5,14 in cui Paolo ha esortato i credenti di Tessalonica a comportarsi con animo grande verso tutti. Egli stesso ha dimostrato grandezza d'animo nel suo ministero apostolico (2Cor 6,6). Gal 5,22 poi la enumera come frutto dello Spirito. Ma in due passi di Rm (2,4 e 9,22) l'apostolo parla della magnanimità di Dio verso gli uomini peccatori e meritevoli di condanna eterna. Dio ha mostrato in Cristo Gesù la sua benevolenza verso i credenti (Ef 2,7); in Tt 3,4 si canta l'epifania della benevolenza e della filantropia del salvatore nostro Dio; in Ef 4,32 si esortano i credenti a essere benevoli gli uni verso gli altri e in Col 3,12 a indossare la benevolenza (e la longanimità). Con la terza determinazione comincia la serie delle proposizioni negative che escludono ambiti negativi dal campo operativo dell'agape.. «Non è borioso»: il riferimento è ad atteggiamenti di superiorità nei confronti degli altri ritenuti inferiori, atteggiamenti presenti nella comunità corinzia e criticati da Paolo. Vedi per es. la sezione dei cc. 8-10 in cui sullo sfondo appaiono i forti e i deboli. «non compie azioni vergognose, non ricerca il proprio interesse , non si lascia andare all'ira , non tiene conto del male». Vergognosi sono dichiarati quei comportamenti che suscitano non solo netta riprovazione ma anche una naturale ripulsa e hanno a che fare, di regola, con la sfera sessuale. Il verbo ritorna di nuovo nel NT una sola altra volta, sempre sotto la penna di Paolo, che in 1 Cor 7,36 presenta il caso di un fidanzato che teme di comportarsi in modo sessualmente vergognoso verso la sua «vergine». In termini positivi, le azioni che l'agape ispira rientrano rigorosamente nel campo dell'onestà. «Non ricerca il proprio interesse». In altri passi paolini l'espressione negativa è doppiata dalla 6 6

formula antitetica positiva. In 10,24 Paolo esorta che «nessuno cerchi l'utile proprio, ma quello dell'altro» e poco dopo afferma che egli, nella sua missione evangelizzatrice, non cerca il suo vantaggio, bensì quello di molti, perché si salvino (10,33). Ora agape è un dinamismo operativo che fa uscire la persona dal cerchio del suo privato interesse, per aprirla a un agire costruttivo del bene altrui, dunque in senso altruistico. «Non si lascia andare all'ira». Qui il significato negativo di irritazione s'impone, dato il contesto. La negativa «non tiene conto del male» si riferisce al male commesso dal prossimo a proprio danno ed esprime un atteggiamento di comprensione e perdono, capace di togliere di mezzo ciò che ostacola positivi rapporti interpersonali. In forma negativa il verbo ricorre ancora sotto la penna di Paolo in Rm 4,8 e 2Cor 5,19 per esprimere l'iniziativa di grazia di Dio, che non mette in conto al peccatore il suo peccato e agli uomini i loro peccati. v. 6 Nella lunga serie delle proposizioni della sezione è l'unico caso in cui alla negativa viene contrapposta la positiva: «non gode dell'iniquità, ma si compiace della rettitudine». Come reagire all'iniquità e alla rettitudine dell'agire degli altri? L'agape bandisce sentimenti di gioia nel primo caso, mentre suscita compiacenza gioiosa nel secondo. È segno rispettivamente non solo di disapprovazione e approvazione ma anche di esclusione e partecipazione affettiva. v. 7 «Tutto sostiene, in tutto ha fiducia, tutto spera, tutto sopporta». È la conclusione solenne delle espressioni del campo operativo dell'agape, Le quattro brevi proposizioni ripetono il motivo comune della totalità . La prima esalta la forza dell'amore capace di sostenere ogni avversità e difficoltà. La stessa cosa Paolo ha affermato di se stesso impegnato nella missione evangelizzatrice: «tutto sopportiamo » (1 Cor 9,12). Il verbo «credere» della seconda proposizione non indica la fede teologica, che ha sempre un riferimento personale: credere in Cristo, credere in Dio. La formula del nostro testo è unica ed esprime un atteggiamento di totale fiducia nella vita, per cui nulla ha la forza di gettare nella disperazione. Allo stesso modo il verbo «sperare» della terza proposizione non sembra avere significato teologico proprio riferito in maniera specifica alla salvezza della persona e al compimento ultimo del disegno di Dio. La formula «tutto spera» esprime un atteggiamento di base della persona che nelle situazioni più critiche è aperta a futuri sviluppi positivi. Qui lo sperare prodotto dall'agape è inteso nella sua valenza soggettiva più universale, a prescindere dalla, determinazione del suo oggetto, e come tale è presente anche nello sperare teologico. Ne parla Paolo stesso in Rm 8,24-25, in cui definisce così l'essenza dello sperare: non si può sperare ciò che è sotto gli occhi, e sperare ciò che non possediamo vuol dire attenderlo con costanza. Il verbo hypomenein vuol dire esattamente star sotto il peso gravoso di avversità e difficoltà senza piegare le ginocchia, soprattutto senza arrendersi o alzare bandiera bianca. Insieme con il sostantivo corrispondente hypomoné è usato in stretta relazione ora con la tribolazione ora con le sofferenze. È un'esigenza per i credenti l'essere «costanti nella tribolazione» (Rm 12,12); la tribolazione produce la costanza che, a sua volta, ha come effetto l'essere approvati da Dio (Rm 5,3,4); apostolo e comunità cristiana di Corinto sono accomunati nel sopportare le stesse sofferenze(2Cor 1,6). L'amore è eterno (13,8-12) v. 8 «L'amore non viene mai meno. Invece sia le profezie saranno abolite , sia le lingue cesseranno, sia la conoscenza sarà eliminata». È la «propositio», che afferma una netta antitesi tra amore e carismi sull'asse del tempo e 6 7

dell'eternità, espressa con verbi che significano cessazione, coniugati rispettivamente in forma negativa e positiva. In concreto, dell'agape si nega la fine, che invece inerisce come destino ineluttabile ai carismi, rappresentati qui da profezia, glossolalia e gnosi. In altre parole, la contrapposizione è tra la durata illimitata dell'amore e la caducità dei carismi. vv. 9-10 La dimostrazione della tesi si limita a provare la seconda parte, cioè la caducità delle esperienze carismatiche, facendo leva sulla loro «parzialità», contrapposta a ciò che è perfetto. A questa sfera della perfezione si suppone che appartenga l'agape, la quale per questo non verrà mai meno. «Parzialmente infatti conosciamo e parzialmente profetizziamo» (v. 9): dei tre carismi elencati sopra restano in campo solo la conoscenza e la profezia, valutate come grandezze qualitativamente parziali , cioè affette da intrinseca imperfezione. v. 11 «Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; quando diventai uomo, smisi le consuetudini puerili». Con tale esempio Paolo vuole evidenziare che le esperienze carismatiche sono soltanto una stagione dell'esperienza di grazia dei credenti, appunto quella storica, destinata a essere superata nel tempo escatologico. Come nell'esistenza di un uomo c'è la svolta decisiva tra età infantile e età adulta, così la fine della storia segna il passaggio al mondo futuro in cui il lato imperfetto dell'esperienza cristiana, rappresentato dai carismi, cesserà. È sottinteso che, al contrario, continuerà a sussistere il versante perfetto, cioè l'agape. v. 12 «Vediamo infatti adesso mediante uno specchio in enigma, ma allora a faccia a faccia. Adesso conosco parzialmente, ma allora conoscerò come anche sono stato conosciuto». Il versetto è composto da due periodi paralleli caratterizzati dall'antitesi temporale «adesso-allora», il primo riguardante il vedere, il secondo il conoscere. I due avverbi di tempo servono a evidenziare la contrapposizione tra un vedere e conoscere imperfetto e un vedere e conoscere perfetto, il primo proprio del tempo attuale e il secondo del tempo futuro. La conoscenza futura dei credenti avrà lo stesso timbro della conoscenza divina. «Lo scarto tra il nostro conoscere e il nostro essere conosciuto sarà superato. A metro della nostra conoscenza Paolo assume lo stesso conoscere di Dio: un modo semplice e insieme efficace per evidenziarne il grado di perfezione» . Non si tratta di un conoscere teorico; il verbo ha lo spessore espressivo del corrispondente ebraico jd', come ha annotato R. Bultmann; l'essere conosciuto, precisa sempre il grande esegeta, vuol dire essere chiamato alla salvezza. Il passo parallelo più vicino è 1Cor 8,3: la gnòsis offre un conoscere imperfetto; solo chi ama conosce a fondo, come «un riflesso dell'iniziativa divina di "conoscere" l'uomo, ossia di chiamarlo alla salvezza». In questo versetto: «Ora poi resta fede, speranza, amore, queste tre grandezze, ma più grande di queste è l'amore» le opinioni degli studiosi si dividono a proposito sia del senso della particella «ora» sia del significato del verbo menei. Paolo richiama qui la triade, che la formula «queste tre grandezze» introduce come unità riconosciuta di indubitabile valore. Ecco il corso del suo pensiero: or dunque, dopo il confronto tra amore e carismi, resta in campo un altro complesso di «valori» riconosciuti (menei), fede, speranza e amore; ma anche qui il confronto fa risaltare il valore eminente dell'agape, superiore per importanza alla fede e alla speranza. È una tesi enunciata come assioma, data per evidente. Di fatto l'apostolo non adduce alcuna prova.

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Esortazione conclusiva (14,la) In chiusura Paolo esorta a perseguire l'amore. Non per questo però si può dire che il suo intento nel c. 13 sia stato di carattere parenetico. In realtà, tale imperativo gli permette di chiudere la «digressione» circa agape e di poter continuare il motivo parenetico, introdotto in 12,31a (però ai doni di grazia più grandi»), ripetendone in sostanza i termini in 14,lb: «agognate pure ai fenomeni spirituali, ma di più a che profetiate». Comunque l'esortazione rivolta ai destinatari nasce anche da ragioni pratiche: i corinzi, protesi tutti ai carismi più spettacolari piuttosto che al valore supremo della vita cristiana, ne avevano senz'altro bisogno. D'altra parte, dopo l'elogio dell'amore è naturale che egli pastoralmente voglia sollecitare i suoi interlocutori a perseguire tale «via» per eccellenza che porta alla perfezione.

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III. DIMORARE NELL’AMORE: L’ESERCIZIO DELL’AMORE

L’amore di Dio e atto escatologico come si fa a rimanere in esso?

Come si fa a dimorare nell’amore della resurrezione? L’amore del Padre non si realizza solo attraverso Gesù. Il dono della vita di Gesù suscita un discepolato! C’è dunque qualcun altro che realizza e continua a realizzare. Gesù per realizzare l’amore del padre coinvolge!! Il corpo glorioso di Cristo è la chiesa, la comunità dei discepoli che cammina nelle vicende de mondo e ama fra esse le persone nelle loro concrete situazioni vitali.

III.a. Un inno personalissimo all’amore L’inno all’amore non può che essere personalissimo, cioè espresso con tutta la nostra esistenza. È essa, infatti, che Dio ama e che vuole coinvolgere a se nel nuovo giardino dell’amore. La scoperta di questo amore coinvolgente e definitivo è all’origine della vocazione alla santità, a quell’amore all’eccesso, a quell’eros insensato che ci fa essere una sola cosa in Dio e testimoni di Lui.

Il percorso si snoda intorno a due persone che, non senza tensioni e fraintendimenti, hanno cercato di dimorare nell’amore esercitandosi in un amore espansivo e trafficato fuori da ogni possibile calcolo e preventivo.

III.a.1. Un amore discutibile poiché espansivo: Marianna Saltini Molti di fronte a Mamma Nina si sono chiesti che amore fosse quello di una madre che ad un certo momento abbandona i figli per dedicarsi alle figlie di altri. È da questo elemento problematico che partiamo per cogliere la vita di Mamma Nina come inno all’Amore, alla Carità. La Relatio del Congressus della Congregazione dei Santi chiude con una bellissima sintesi, che recita così: «Il presunto abbandono dei figli al fine di dedicarsi al prossimo, anziché costituire una obiezione alla eroicità delle virtù, contribuisce a confermarla». Il presunto abbandono dei figli per dedicarsi ad altri bambini non è stato per Mamma Nina un gesto di leggerezza, un'imprudenza nata dall'ambizione. È, invece, la prova che l'amore di Mamma Nina per queste bambine ha raggiunto veramente un grado eroico. L'abbandono dei figli non è un disamore, bensì è la logica vista prima nel Vangelo, la logica di qualcosa di più grande da fare per il Signore. Uno dei relatori della Congregazione dei Santi scrive: «Il dedicarsi alle figlie di prostitute allarga il 70

senso della sua maternità verso figli più fragili dei propri, in totale spirito di sacrificio». Le bambine avevano tante provenienze ed erano, in ogni caso, in grave pericolo. Mamma Nina mostra che il suo cuore si è allargato a una maternità verso figlie più fragili dei propri bambini. La santità di Mamma Nina mostra qui la grandezza e l'eroicità della sua scelta. Mamma Nina non era a disagio tra i figli del suo matrimonio. Il combattimento era dentro il suo cuore. Cosa deve avere provato questa donna nel fare queste scelte? Dove ha trovato una tale fortezza? Immaginiamo il cuore di Mamma Nina come un cuore in tempesta. Non la immaginiamo tutta devota e un poco sperduta nella vita concreta, poco sensibile al destino umano dei suoi figli. Non è pensabile che lei, così sensibile e realistica quanto al destino concreto delle bambine abbandonate, non abbia applicato gli stessi criteri nel guardare ai suoi primi figli. Nel suo cuore si sono scontrati questi due grandi bisogni: quello dei figli del suo matrimonio e quello delle bambine abbandonate. E qui che noi dobbiamo aprirci all'ammirazione e scoprire che questa donna non ha abbandonato la famiglia, ma ha allargato il suo cuore a una nuova famiglia di figlie. A questa nuova famiglia Mamma Nina ha dato il nome «Casa della Divina Provvidenza». È un nome che potrebbe, per alcuni versi, essere giudicato convenzionale: nell'ottocento e nel novecento, infatti, ci sono tante congregazioni religiose che si appellano alla divina provvidenza. Qui c'è un punto che merita di essere pensato con cura. Mamma Nina ha vissuto nell'abbandono alla provvidenza non generico, ma sostanziale. Ci sono tanti modi di abbandonarsi alla provvidenza. Mamma Nina non è soltanto una donna che ha fatto grandi spese sperando di avere aiuti. Il suo modo è proprio questo: la famiglia, che lei ha costituito intorno a sé, non è una famiglia che mendica. Questa è una caratteristica importante. Era Figlia di s. Francesco, ma diversamente da lui non ha creato una realtà affidata a una mendicità che, con umiltà e letizia, chiede aiuto. Ha raccolto attorno a sé le bambine, ha cominciato a vivere concretamente con loro e ha aspettato. Di conseguenza, la Casa della Divina Provvidenza ha vissuto momenti di benessere relativo - ossia senza difficoltà materiali gravi - ma è stata sempre anche una casa in cui si sono vissuti anche digiuni, scarsità, e ristrettezze semplicemente aspettando... La Casa della Divina Provvidenza non era casa Saltini e non era la casa della signora Testi: era qualcos'altro, appunto la Casa della Divina Provvidenza. In vita e post mortem, Mamma Nina ha avuto la fama popolare di avere compiuto prodigi di moltiplicazione. Con una fantasia tanto devota quanto geniale, Mamma Nina ha voluto s. Giuseppe Cottolengo come economo della casa da lei iniziata. Marianna Saltini ha creato una cosa molto bella, molto grande: ha creato una Casa che è stata in piedi sostenuta dalla divina provvidenza. Non ha semplicemente creato un orfanotrofio a misura d'uomo, con suore affettuose e realistiche. E riuscita, portata dal Signore, a creare qualcosa di assolutamente nuovo. C'era una vera genialità materna in Mamma Nina. Una delle caratteristiche di questa casa è l'orizzonte fortissimo del matrimonio. In questo la Casa della Divina Provvidenza si distingue radicalmente dall'orfanotrofio e anche non poco dalle case delle religiose. Forse oggi questo fatto sorprende meno: la nostra mentalità è diventata più pluralista, a volte si dice liberal, più complessa, e quindi la combinazione di attenzione alla vita religiosa e di orientamento principale al matrimonio desta meno meraviglia. Una «maternità più grande». Mamma Nina non è una mamma che, in certe circostanze della vita, si è messa a fare la suora. Forse si deve dire che Marianna Saltini è stata una mamma che ha cercato la santità all'interno di una maternità più grande. Quando si osservano le foto dei matrimoni delle figlie di Mamma Nina meraviglia sempre la figura di questa suora un po' vecchia che posa accanto a queste spose vestite di bianco. Sono fotografie particolarmente interessanti, perché rivelano che cosa questa donna, aiutata dal Signore, è riuscita a costruire.

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Nella Casa della Divina Provvidenza l'orizzonte forte è quello del matrimonio, quello della costituzione di famiglie solide, di coppie solide. Dentro a essa, però, c'è l'istituto delle Figlie di s. Francesco, che non sono in contraddizione con tutto questo, ma propongono la completezza del vangelo. Le suore che si chiamano «di s. Francesco», ma che popolarmente chiamiamo «suore di Mamma Nina», sono delle sorelle, delle mamme di queste bambine, in una fraternità totale. Sono vestite come suore, ma è facile vedere che sono delle mamme. Come si combinano queste due cose? Direi: proprio per la genialità di Marianna Saltini e per il riflesso della sua singolare esperienza umana e religiosa. Così lo stesso orecchio cristiano formato all'ascolto della letteratura spirituale - di cui si diceva in apertura - quello pizzicato dall'insolita «mobilità» del cammino vocazionale di Mamma Nina, si sente ora appagato dalla contemplazione del mosaico evangelico. L'allegoria delle tessere vuole significare, com'è chiaro, la poliedricità del messaggio evangelico che, sempre fedele a se stesso e al «Dio che si rivela», è pure condiscendente alla varietà e alla variabilità della storia umana. Mistero della discrezione divina, che non «rabbercia» la tela strappata, ma ne muta le sdruciture in intagli mirabili. «L'albero si riconosce dai frutti» e non dalle lesioni che può aver subito. Allo stesso modo è l'eroico alone delle virtù di Mamma Nina, insieme con la scia di redenzione e di libertà che il suo passaggio ha lasciato permanentemente in altri, che ci svela l'autenticità spirituale del suo cammino. A ben vedere simili cammini, per altro non rarissimi nella storia della Chiesa, non contraddicono in nulla - per un'intelligenza credente e una fede matura - le indicazioni che la sapienza cristiana ha raccolto nei testi della sua tradizione spirituale migliore. Radice dell'essere cristiani e segno genuino di ecclesialità è la passività stupita davanti all'iniziativa incessante di Dio: ciò che la Scrittura e la Tradizione concordemente testimoniano è che l'imperativo morale della rettitudine dell'uomo davanti alla fedeltà di Dio non può mai perdere il suo carattere responsoriale. Possiamo così riconoscere la continuità sostanziale della vocazione materna di Mamma Nina pur nella discontinuità drammatica dei modi in cui il Dio absconditus et revelatus ha permesso e disposto che essa si realizzasse. Il genio di Mamma Nina non è irrequietezza fortuitamente ben riuscita, ma riverbero storico del genio di Dio in un'anima che ha saputo ascoltarlo.

«Solo con la sua morte ho capito quanto abbia sofferto nell'averci lasciato» Maria Testi racconta...

Il testo che segue è la trascrizione dal registratore di una testimonianza su Mamma Nina resa dalla figlia Maria Testi. Il luogo e la data della registrazione non ci sono noti. Il riferimento al figlio Roberto consente di collocare la testimonianza in un'epoca successiva al 31 ottobre 1958. Maria Testi, l'unica figlia femmina di Mamma Nina, è nata a Carpi il 31 maggio 1919 ed è morta a Mirandola il 23 agosto 1977, nel corso di un incidente stradale.

Dei primi anni della fondazione dell'opera io ricordo ben poco perché in quegli anni ero spiritualmente molto lontana dalla mia mamma. Per me è stato un dolore troppo grande quando mi

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ha lasciato perché, essendo figlia unica, ero troppo, eravamo troppo attaccate, ero abituata che mi veniva a prendere a scuola, ero abituata alla sera che mi veniva vicino prima di addormentarmi e poi, non lo so, ci siamo volute troppo bene con la mia mamma. Quando mi sono accorta che mi doveva lasciare - lo confesso - ho odiato le prime bambine, le ho veramente odiate; se le vedevo fuori, a Carpi, sentivo per loro qualcosa che, quasi quasi, mi portava a odiare anche la mia mamma. Prima di iniziare quest'opera io per lei ero, naturalmente, d'intralcio. Non sapeva dove mettermi; allora pensò di mettermi ad Alba dove c'erano i miei fratelli. In quei due o tre anni che io sono stata ad Alba, naturalmente lei ha potuto lavorare e preparare la sua strada. Mi ricordo che un'estate che venni a casa in vacanza la trovai a S. Giacomo Roncole, e io non avevo più la casa; naturalmente, perché ormai la nostra casa si era sfasciata, io non sapevo dove andare. A S. Giacomo la vidi in casa da una signora con le prime bambine (perché la casa è stata fondata a S. Giacomo) e - lo confesso - mi son trovata male, e si è trovata male anche lei, perché doveva voler bene a quelle bimbe, vedevo che mi strappava il suo affetto, vedevo che io per lei ero di più e, quantunque per me Alba fosse sempre un punto nero e là mi trovassi malissimo, ho preferito ritornare ad Alba.

Capivo però che quella non era la mia strada. Ad Alba mi ricordo che son tornata una sera, quella sera, quando hanno chiuso il portone - lo ricordo proprio come se fosse adesso - c'era allora a ricevermi suor Maria Natalina che mi ha voluto molto bene - ma molto bene! - ed è tra le persone che hanno aperto un po' il mio cuore in quel periodo così brutto. Mi ha abbracciato - forse lei che sapeva della mia mamma, ha capito il mio stato d'animo - e solo fra le sue braccia ho trovato un po' quella serenità che io avevo perso. Allora avevo dodici anni, quindi, voi capite, ero una bambina. Io mi metto nei panni delle' mie figlie: se dovessi lasciarle a dodici anni non so cosa direbbero; direbbero quello che abbiamo detto noi della nostra mamma: che aveva perso la testa! Un anno dopo ho dovuto venire via da Alba perché quel- la non era la mia strada e non mi trovavo. Ritornai a Carpi, naturalmente sbandata, perché ero ora da un parente ora dall'altro. Io non avevo più la casa, con la mamma non parlavo, anzi devo dire che sono stata quattro o cinque anni senza parlare; per lei sarà stato un grande dolore, però confesso che è stato grosso anche per me; e quando a ( 'arpi la vedevo passare sotto il portico e la vedevo passare con una fila di bambine, vi confesso che stavo molto - ma molto! - male. In quel momento, non lo so, non so cosa avrei fatto; forse in quel momento ritenevo più fortunate quelle bambine di me, quantunque, come dico, in quegli anni le abbia odiate molto - ma molto! - e mi rincresce dirlo, questo, per le bambine; ma, adesso, le bambine sanno quanto bene io voglio loro. Mi ricordo quando mi mise in collegio dalle dame Orso- line.3 Naturalmente io ci andai forzatamente perché dovevo terminare di studiare e poi, cosa volete, ormai, per me, da un posto all'altro, tutto era indifferente: era diventato ormai tutto, tutto, una cosa, potevano farmi fare qualsiasi cosa in quel momento lì: l'avrei fatta perché tutto per me era una cosa, tolleravo tutto e, forse, se in collegio non avessi trovato madre Maria Paola, che ha saputo guidarmi così bene, che mi ha voluto così bene, mi ha fatto da mamma, non so se adesso sarei quella che sono. Del collegio ricordo molti episodi della mia mamma e penso anche di averla fatta molto soffrire. I primi anni veniva a trovarmi e nell'atrio delle suore aspettava forse dei venti minuti, ma io non scendevo e l'avevo realmente giurato che non avrei più parlato con la mia mamma, e proprio poco tempo fa la portinaia delle Orsoline mi disse quante lacrime ha fatto la mia mamma in quell'atrio, e se ne usciva dicendo: «Speriamo che qualche volta Maria voglia vedermi». E dalla gran voglia che aveva di vedermi si metteva a un finestrino di un corridoio e si accontentava di guardarmi giocare in 73

giardino ed era felice quando poteva vedermi. Ma io, di questo, l'ho saputo solo l'anno scorso, appunto da questa portinaia, non l'ho mai saputo. Un altro episodio di quando mi trovavo in collegio è stato per le feste di Natale. Ero in vacanza, ed ero dalla mia nonna, dalla mamma, appunto, della mia mamma. Mi ricordo che, il pomeriggio che io dovevo rientrare in collegio, venne su a trovarmi. Come l'ho vista entrare dalla porta io mi sono girata verso il muro e non l'ho neanche voluta vedere. Fuori pioveva molto, e io aspettavo mio zio Giovanni che mi accompagnasse alla stazione; dalla fretta di allontanarmi, per non averla tra i piedi, io sono scesa senza ombrello, lei mi ha seguita fino alla stazione, mi ha tenuta coperta con l'ombrello, non ci siamo dette una parola, anzi, io - lo confesso - sono stata molto cattiva, correvo avanti perché mi dava persino fastidio il suo camminare vicino a me; e però, insomma, voi potete immaginarvi, lottavo esternamente, ma internamente, immaginate anche voi come potevo stare io. E quando sono salita in treno ho proprio chiuso in fretta lo sportello, però l'ho guardata e ho visto che lei si è fermata, è partita quando partiva il treno, e stata lì fin tanto che io sono stata ferma in stazione. Sono tutti episodi però che mi hanno fatto soffrire abbastanza quando ritornavo in collegio, in quel caso perché ho fatto la dura in treno. Tra l'altro ero anche un po' superba e non volevo che gli altri notassero questa mia sofferenza. Poi, arrivata in collegio, c'era il tracollo: mi incontravo di nuovo con la madre e mi buttavo fra le sue braccia e lei capiva. Questa è stata per me la fortuna più grande. Mi ricordo che quella sera rimase vicino al mio letto fino a mezzanotte e credo di essermi addormentata proprio con la madre Maria Paola seduta vicino a me. Parlo di madre Maria Paola perché in quel periodo ha sostituito molto la mia mamma e credo che anche per la mamma madre Maria Paola sia stata un mezzo di avvicinamento, appunto, tra noi due. Dell'inizio della mia mamma e della Casa ne so poco perché, come dico, ero molto lontana da lei. Mi ricordo la sua prima Casa perché dalle finestre della nonna vedevo le finestre di queste due stanzette che lei aveva preso in affitto in Corso Fanti nel Palazzo Molinari e precisamente nell'appartamento proprio della signora Tina Molinari, e mi ricordo anche un episodio. Un giorno la mamma, sempre per avvicinarmi, mi invitò in queste due stanze e io ci andai. Sempre molto dura con lei, ci andai proprio anche per curiosità, perché in una bimba la curiosità è molta. Erano messe molto male, mancava un po' di tutto e mi invitò a pranzo. Mi ricordo che, per farmi una preferenza, mi mise sotto il piatto - perché non aveva tovaglie - un foglio di carta gialla, che adoperano in negozio e in drogheria. Però non ci siamo dette niente e credo che questa mia visita l'abbia lasciata più male che bene.

Devo dire, però, che ci ha sempre seguito, in particolare ha seguito me come donna, ed era anche severa. Lei, anche se io le ero lontana, se doveva rimproverarmi lo faceva, non stava a guardare se questo suo rimprovero poteva allontanarmi di più da lei. Come ho detto poco fa, le prime bambine non mi hanno voluto bene e forse anche questo è stato un po' il nostro allontanamento, tra me e la mamma. Loro trovavano sempre un punto per me di rimprovero e questo forse era un dolore per la mia mamma. Mi ricordo che una domenica pomeriggio - lo ricordo come se fosse adesso - io ero seduta al Bar Roma con le mie amiche (d'altra parte io non ero con lei e, secondo me potevo fare quello che volevo, naturalmente non del male). Lei tornava dalla benedizione con un gruppo di bambine. Io l'ho vista passare. Siccome era talmente indifferente per me, non me ne sono neanche curata. Le bimbe, invece, mi hanno vista e avranno detto alla mamma: «Guardi sua figlia, noi abbiamo dovuto andare alla benedizione, sua figlia al caffè». Lei allora si è girata, mi è venuta vicino e mi ha dato due schiaffi. Ci sono rimasta molto male, e vedete che tutto questo mi portava sempre a odiare di più queste bambine e mi rincresce molto questo, proprio mi rincresce; purtroppo era così. Un'altra volta mi incontrò senza calze. Allora, andare senza calze era una cosa un po' strana: anche lì ho preso due schiaffi. 74

Mi sono avvicinata alla mamma, cioè «munir, imi min primo incontro con la mamma è stato anche unii

Ricordo il giorno della vestizione della mamma. Per me quel giorno è stato il più doloroso della mia vita. La morte della mamma è stata grossa però non ho sofferto quello che ho sofferto quando ho visto la mamma vestirsi da suora. Quel momento che le hanno messo l'abito, proprio ho sentito di perderla in pieno. Perché finché la vedevo vestita da secolare, finché la vedevo passare per il portico, sentivo di odiarla, sentivo di non volerle più bene, sentivo tante cose, però, insomma, era una cosa diversa, tanto è vero che, i primi tempi - lei questo lo sapeva - quando mi vedeva era talmente brava che si toglieva il mantello e, davanti a me, si faceva vedere solo con il vestito. Il giorno della sua vestizione è stata molto serena: mi ricordo che io sono entrata in chiesa per ultima; non volevo entrare; ho girato davanti al duomo e non sapevo neanche che cosa fare; poi incontrai una persona che non so neanche dire chi fosse; siccome a Carpi ormai tutti mi conoscevano, mi ha detto: «Ma come, non va, lei, a vedere la vestizione della sua mamma?». Piano piano sono entrata in chiesa e, naturalmente, tutti mi hanno fatto posto. Sono andata a finire davanti. Quando sono stata in chiesa io sono scoppiata in pianto e ho fatto piangere un po' tutti. Lei, vestita da suora - mi sembra di vederla adesso - è scesa dai gradini dell'altare maggiore e noi cinque - perché uno era all'altare, Samuele che all'altare celebrava la sua prima messa e aveva messo l'abito alla mamma, c'era anche Francesco, piccolo abbastanza - eravamo... potete immaginare come eravamo in quel momento. Lei sembrava una visione, l'ho davanti agli occhi come se fosse adesso. Scese quei gradini, ci abbracciò a uno a uno. Infatti, in chiesa non si sentiva altro che un singhiozzo, serena e sorridente come era sempre lei. Mi ricordo proprio che si attaccò a me, mi abbracciò e mi disse: «Io sono tanto felice9 non dovete piangere». Però in quel momento io sentivo di perderla, ma l'ho persa però solo umanamente, perché spiritualmente mi è stata sempre molto vicina e forse l'ho capito troppo tardi. Mi ha sempre seguito in tutto.

Mi ricordo quando ho dato l'esame da maestra. Siccome io ero privatista, allora potevamo andare a darlo dove volevamo. Io sono andata a darlo a Roma. Allora c'era mio fratello Sergio e io sono andata a Roma. La vigilia, anzi all'antivigilia dell'esame ho mandato un telegramma alla mamma. In quel momento sentivo proprio che avevo bisogno di lei vicina, e lei questo l'ha capito. È partita ed è stata con me, mi è stata vicino per tutto il periodo degli esami e, dopo che mi aveva lasciato, per me questo è un periodo che ricordo tanto volentieri perché eravamo ritornate la mamma e la figlia. Mi 75

accompagnava agli esami, lei aveva la sua borsa e mi portava i libri e poi, ansiosa, stava fuori ad aspettarmi e, mentre davo gli orali, lei pregava e mi è sempre stata vicino vicino. C'è poi qui un episodio molto carino: siccome in quel periodo c'erano anche delle suore che davano l'esame con me, venne fuori un professore di latino e, vedendo la mamma con tutti questi libri - perche ha sempre voluto portarli lei - le disse: «Sorella, deve dare latino lei?». Ma la mamma si mise a ridere e disse: «Ma: professore, cosa dice? Ho mia figlia che dà l'esame!». Questa è stata un po' una sorpresa. Il professore disse: «Ma come? Sua figlia?». E allora lei ha cominciato a raccontare un po' di storia. La mamma, quando parlava, era talmente presa, soprannaturale, che ha cominciato a venire fuori un professore, poi un altro e si erano tutti incantati ad ascoltare la mamma. E lei diceva: «Ma io sono talmente ignorante - questa parola l'aveva sempre sulla bocca - che cosa volete che io dia l'esame». Naturalmente disse cose talmente molto belle che loro rimasero stupiti. Quel periodo lo ricordo con piacere. Ricordo quando ritornavamo a casa e andavamo a pranzo. Eravamo proprio soltanto noi due; in quel periodo non aveva preso nessuno con sé, perché di solito la mamma girava sempre con una delle sue bambine e, forse, trovandoci solo noi due mi sentivo proprio ritornata sua figlia; naturalmente lei non dimenticava le sue bambine perché le aveva troppo nel cuore. Mi è stata molto vicina anche nella mia malattia. Nella mia malattia non mi ha mai abbandonato, come non mi ha abbandonato la Casa della Divina Provvidenza. Se non poteva lei mi mandava le bambine; se non potevano le bambine mi mandava una suora, ma mi è sempre stata vicino, e io penso che un po' la sua morte, la causa della sua morte, sia stata anche un po' il grande dispiacere che ha provato per me. La sera che mi hanno dato l'olio santo io ero incosciente. Il mattino dopo però un'infermiera, quando io ero ritornata in me, mi disse: «Quanto è stata male la sua mamma stanotte! Lei era diventata fredda; la sua mamma era andata a prendere dalle ammalate tutte le mantelline e le copriva le mani e i piedi perché ormai erano gelati e si inginocchiava. Poiché in camera dava forse fastidio quel muovere della corona lei si era inginocchiata nel bagno a pregare». Il giorno dopo dell'olio santo, verso sera, tornai a star male e avevano già pensato di portarmi a casa con l'autolettiga, morta. Ma siccome lei era molto stanca, allora Ermes aveva detto: «Mamma Nina non vada a riposare, se passiamo con l'autolettiga la veniamo a prendere». Durante la notte - fatalità - suona il telefono e, subito dopo, sente la sirena dell'autolettiga. Mi ha confessato che, in quel momento, è stata talmente male, talmente male, che disse - lo ricorderò sempre - questa frase: «Non dite mai ad una madre che c'è l'autolettiga che l'aspetta». Anche durante l'ultimo mese della sua malattia mi ha voluto vicino e ho dormito quasi per un mese in camera sua; quante volte me lo ha ripetuto che mi ha voluto bene anche se mi ha lasciato; me lo ha ripetuto in continuazione e, lo confesso, solo allora - e adesso che ormai non la ho più - ho capito, e capisco, che realmente deve avere sofferto per causa mia; molto, perché i miei fratelli non sono stati così crudeli direi. È stata proprio crudeltà la mia verso di lei; però penso anche di essere scusata, perché ero l'unica donna, ed ero, come ho detto poco fa, eravamo molto, molto vicine. Hanno sofferto però anche i miei fratelli, specialmente Francesco. Mi ricordo che ritornavamo un Natale dal collegio, assieme, e, in corriera si parlava. Tutti i ragazzi erano contenti di andare a casa, e lui mi disse: «Per me se stavo anche in collegio, era lo stesso, tanto quando siamo a Carpi dove andiamo? Tu puoi anche andare dalla mamma ma noi non ci vuole». Perché non ha mai voluto i maschi, non ha mai voluto i miei fratelli con sé. Negli ultimi mesi della sua malattia ormai lei aveva capito che noi e la sua grande famiglia eravamo divenuti una cosa sola e io confesso che partecipo e mi sento adesso della Casa della Divina Provvidenza non solo figlia di Mamma Nina, ma figlia proprio della Casa della Divina Provvidenza e tutte le spose, per me, sono sorelle e forse, se fossimo sorelle, non ci vorremmo così bene e non ci comprenderemmo così e gli sposi, per me, sono dei veri cognati. 76

La mamma, negli ultimi mesi della sua malattia, aveva capito questo è ne gioiva ed era diventata anche un pochino più larga con noi perché in tutto il tempo che è stata alla Casa della Divina Provvidenza, con noi è sempre stata di una severità... Noi, dalla mamma, non abbiamo mai, mai avuto niente e lei è morta proprio dicendolo che, ai suoi figli, non ha mai dato niente della Casa della Divina Provvidenza: non ha mai tolto niente alle bimbe per darlo a noi. Mi ricordo che le suore, che ci hanno sempre voluto molto bene - questo bisogna che io lo dica -, avevano messo da parte un giorno delle caramelle e delle cioccolate e si erano private loro per Francesco, che era allora un po' il nostro cocco, ed era anche un po' il cocco della Casa della Divina Provvidenza. Sua mamma se n'è accorta e - non vi so dire come è successo - ha sgridato - non so dire chi, mi sembra sorella Maria ma non sono sicura - poi ha sgridato le bambine e a Francesco non ha dato niente, anche se si accorgeva che davano qualcosa a me. Anzi mi ricordo che aspettavo Roberto e la sorella Maria aveva preparato - no, mi sbaglio, aspettavo Augusto - dei carnicini, aveva preparato tante belle cosine, e credendo che la mamma fosse contenta gliele aveva fatte vedere e ha detto: «Mamma Nina guardi che belle cosine abbiamo preparato per la Maria». E lei l'ha sgridata e le ha detto: «La Maria è uguale a tutte le altre». E le ha preso i camicini e tutto quello che aveva preparato e li ha dati ad un'altra che, secondo lei, ne aveva più bisogno o forse l'ha fatto perché non voleva attaccarsi a me, non lo so, fatto sta che non me li ha dati. Però negli ultimi momenti della sua vita, siamo sempre stati nel cuore della mamma e nell'ultimo mese, siamo stati, si può dire, sempre vicini a lei. Mi ricordo che una sera ci trovammo soli con lei in camera: eravamo tutti e sei - lo ricordo come se fosse adesso - aveva una mano appoggiata a me e una mano appoggiata a mio fratello Sergio. Maggiorino era ai piedi del letto che leggeva il breviario e mio fratello Gioacchino, anche lui preparava qualcosa;insomma: c'eravamo tutti. In quel momento era proprio la nostra famiglia. Devo però riconoscere che le suore e le bambine, in quei momenti che ci vedevano soli, ci lasciavano perché capivano che avevamo bisogno della mamma, quantunque in quei momenti avessero più bisogno loro di noi, perché quella era la sua grande famiglia che lei lasciava e mi ricordo che in quel momento - ormai si può dire che non parlava più, credo sia morta dopo una settimana, quindi era proprio alla fine - ha alzato gli occhi, ci ha visti tutti, ci ha guardato con una espressione che non ho mai visto nella mamma e ha detto - ha detto proprio queste parole, le ricordo come se le dicesse adesso -: «Cari miei figli, quanto bene vi ho voluto». Di lì ho capito quanto abbia sofferto nell'averci lasciato e, forse, io questo l'ho capito solo con la sua morte perché, finché era in vita, mi sembrava quasi una cosa impossibile che potesse voler bene a noi e a tutti, come diceva lei. Quando io mi trovavo a Milano, e lei mi era vicino, c'era un professore che la faceva arrabbiare e diceva: «Mamma Nina mi dica la verità, non può lei voler bene a sua figlia come vuol bene alle altre bambine. Mi dica proprio la verità: a sua figlia bisogna che gliene voglia poco, ma poco». E lei lo guardava con quella espressione che era solita in Mamma Nina - perché chi ha conosciuto Mamma Nina sa qual è la sua solita espressione - e diceva: «Professore, ma lei allora non ha ancora capito niente; io voglio tanto, tanto bene a quelle bambine che quando a mia figlia ne ho voluto come a loro non posso volergliene di più perché, per me, me le ha date Lui, perciò son tutte mie figlie». Di que- sto ne sono convinta. Infatti mi ricordo che a Milano un giorno mi assisteva e stavo realmente male. Avvisarono che dovevano operare la Teresa Marchi. In quel momento, per lei, valeva forse più la Teresa di me; e mi ha lasciato perché il suo dovere, e con ragione, era quello di essere vicino alla Teresa. Ricordo ancora di Milano. Il primo Natale che ho passato con la mamma da quando lei mi aveva lasciato. Il primo Natale l'ho passato proprio in clinica con lei e, pensandoci adesso, penso quale sia stato il suo grande sacrificio: lasciare la sua grande famiglia per stare con me. In quel momento - lo ricordo proprio - non so, mi sembrava di aver toccato il cielo avere la mamma con me in quel 77

giorno. Alla notte, quando tutti sono andati - lo ricordo proprio come se fosse adesso - quando tutti sono andati alla messa di mezzanotte, lei ci sarebbe andata volentieri. Lei però si è fermata da me, abbiamo detto il rosario assieme. E andata poi a messa il giorno di Natale ma la notte di Natale non mi ha lasciato ed è stato, forse, il primo e ultimo Natale che abbiamo passato insieme. L'ultima volta che la mamma è venuta a Milano si è sentita poco bene. La suora le ha fatto un'iniezione poi è ripartita per Carpi e, da allora, è iniziato il suo calvario. Si è messa a letto ed è rimasta a letto per due anni circa, tra alternanze di bene e di male. In questo periodo siamo state divise per parecchi mesi perché io sono tornata ancora per parecchio a Milano. Poi sono ritornata a casa e mi hanno ricoverata a Mantova. Lei mi ha sempre seguito mandandomi o le sue bambine o le suore e potete immaginarvi come siamo state perché lei stava male da una parte e io dall'altra. Eravamo così divise. La prima volta che l'ho vista dopo il mio ritorno a casa l'ho trovata a Modena, in clinica a Modena. Era però sempre molto serena, non faceva che parlare del Paradiso e della sua speranza di andarci presto, e quando parlava di questo si entusiasmava a tal punto che sembrava quasi in estasi. Forse sono un po' sconfusionata, passo da una frase all'altra ma è un po' difficile trovare, parlando, insomma, ricordare tutto. Ricordo quando mi sono incontrata con Ermes. Lei è sempre stata contenta di questo e ha sempre voluto molto bene a mio marito. Mi ricordo la prima volta quando mio marito venne a Carpi e lei lo accompagnò a Soliera dallo zio. Era - proprio si vedeva - contenta. Poi sono stata, per un periodo, disgustata con Ermes, però lei mi ha sempre detto, mi ha sempre fatto capire che mi sarei di nuovo riavvicinata. Infatti, quando ci siamo incontrati per la seconda volta, lei mi disse: «Vedi che io te lo avevo detto». Alla vigilia delle mie nozze, mi prese un giorno e mi disse che desiderava sposarmi con una delle sue ragazze. Qui c'è stato un battibecco perché, in realtà, non volevo: non che non volessi sposarmi con la Maria Bassi, ma perché volevo che la mia cerimonia fosse una cerimonia più intima, sola, e poi pensavo che la famiglia di mio marito non fosse contenta e lei mi disse queste parole: «Fa pure quello che vuoi, però guarda che il Signore non ti tiri le orecchie». Poi andai a casa dallo zio un po' arrabbiata e dissi questo. Lo zio, anche lui infuriato perché gli sarebbe piaciuto fare i I matrimonio in casa sua, corse dalla mamma e disse quel che avevo detto io. E lei, pacifica, ripetè: «Guardate che Signore...». Io poi andai a casa dei Canossa e dissi: guardate che la mamma vuole fare questo però non sono contenta. Mio suocero allora disse: «Perché non vuoi dare questa soddisfazione a tua mamma?». E così si è combinato e abbiamo fatto realmente un bel matrimonio. Credo che quella mattina lì sia stata per lei una delle mattine più belle. Lei ci ha portato in chiesa tutte e due e con questo si avverava il sogno cui forse da tanti anni aspirava: portare all'altare la figlia vera e la figlia che le aveva dato il Signore. A pranzo poi parlò e disse tante cose belle e ricordo che ci fece piangere tutti. Ci sarebbero tante, tante altre cose da dire della mamma. Il giorno del matrimonio, quando ormai la macchina era pronta per partire per il viaggio di nozze, lei venne vicino alla macchina e penso che avrebbe voluto almeno accompagnarci a Modena; però è stato più svelto mio suocero ed è salito sulla macchina e lei prese la mano di mio suocero e lo ringraziò con un'espressione proprio commovente. Poi venne parecchie volte a casa mia e gioiva nel vedermi contenta, nel vedermi sistemata così bene. Quando aspettavo i due gemelli era molto in ansia e il giorno che sono entrata in clinica a Modena - era di mattino – mi ricordo che telefonammo subito. Lei era a Carpi, nella casa di Carpi e stava stendendo la biancheria. Lei - si vede chr il Signore... - era sempre ispirata. Continuò pacifica e una suora continuava a ripeterle: «Mamma Nina, ma la Marni è in clinica». «Lo so» rispose Mamma Nina. «Guardi... ma. Mamma Nina non va a Modena?». E lei ha continuato il suo lavoro. Poi è stata in cucina ed è arrivata proprio al momento buono. Quando è arrivata ormai stavano porta n domi in sala parto. Tutti sapevano che dovevano essere due gemelli. Siccome è una 78

cosa un po' complicata si è messa pregare. Fatto sta che, come è arrivata la mamma, tutto si è appianato e tutto è andato bene.

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III.a.2. Un amore trafficato non senza lacerazioni: Odoardo Focherini La vita di Odoardo è quella di un uomo che ha tentato di amare attraverso la sua vocazione laicale e matrimoniale, che tuttavia ha assunto forme inattese, anche per lui, oltre che per Maria, la moglie e per i figli. Che inno all’amore è la vita di Odoardo? Le lettere autorizzate dal carcere di San Giovanni in Monte a Bologna alla moglie sottolineano spesso la situazione di disagio provocato dal suo arresto alla famiglia numerosa, ma permettono di vedere anche i motivi religiosi con cui O. F. interpreta la situazione e cerca di sostenere Maria. L’elemento teologico centrale per incoraggiarla è la convinzione che: «il sacrificio della lontananza non potrà che ottenere dal Signore il premio a favore nostro e di tutti i nostri figlioli» . Odoardo era consapevole della situazione di difficoltà estrema della moglie: «Se vedi mia moglie rassicurala in tutto e per tutto. Dal tono delle sue lettere intuisco che la pena sta raggiungendo limiti massimi» . In un passo affronta direttamente con l’interessata lo stato d’angoscia di Maria: «Non può che avermi profondamente addolorato la conferma del tuo stato d’angoscia che paventavo. E non poterti dire altro che una parola di fede sempre più viva in Colui che tutto muove” ma per ora non ancora avallate (sic) da nessuna speranza umana che non sia ]a certezza della mia innocenza piena, assoluta, indiscussa e indiscutibile, e quella che le indagini che suppongo siano sempre in corso, mi diano nei ]oro risultati immancabili la attesa gioia di tornare a te e ai bambini » . In questa lettera viene ripetuta compiutamente la teologia che O. E dà della prova che stanno vivendo: «La prova alla quale è sottoposta la nostra famiglia non è delle più modeste, ma appunto per questa sua gravità inattesa ed eccezionale non potrà che fruttare a favore dei nostri sette bambini e di noi se sapremo accettarla e offrirla per il nostro bene» . Ritorna frequente il tema del ringraziamento a Maria per quanto fa per i bambini: «Ti assista e accompagni ogni mio più affettuoso e riconoscente pensiero per tutta l’abnegazione clic a favore dei bimbi con immutato zelo dispieghi, per l’intensa affettuosità con la quale segui questa dura prova per la nostra famiglia». Mentre all’inizio ci sono raccomandazioni pressanti per lo slattamento di Paola nel seguito appare predominante il motivo dell’ammirazione incondizionata per l’azione educativa della moglie. Lentamente, attraverso le missive fatte uscire dal campo di Fossoli, prepara la moglie al futuro e a tutte le possibilità. Il culmine è dato dalla lettera del 13 luglio. Odoardo ricorda a Maria come le avesse avanzato la richiesta decisiva di fidanzamento con una finta frase ipotetica: «Un giorno a una richiesta decisiva ti chiesi: se le dicessi che ...». Immediatamente dopo le fa intravedere una nuova possibilità ipotetica: «Un dubbio sul nostro domani che potrebbe voler dire anche uno spostamento per non si sa dove”. Finalmente propone a Maria una nuova comunione su un’ipotesi adesso terribile: «Se così fosse, se così sarà accettiamo anche questo con la stessa cristiana rassegnazione con la quale abbiamo accettato il passato, a te il gran carico dei bimbi in un’ora difficile e dura, a me quello del pensiero di tutti voi e dell’impossibilità a fare qualcosa oltre a pregare e ad offrire la sofferenza dell’ansia e dell’angoscia per te e per tutti voi ecc.» . Si tratta di una specie di richiesta di secondo fidanzamento, fondata su una ipotesi in certo senso parallela al primo. Ancora una volta domanda a Maria di essere con lui verso qualcosa di ignoto, anche se questa volta a un livello doloroso e ancor più impegnativo. Sul finale dello scritto, quando questo secondo fidanzamento sembra allo scrivente avvenuto, il discorso si fa più netto. Dopo aver spiegato meglio la propria fede e la propria sofferenza prosegue: «E sarà ancor poco? Se il Signore vorrà o 80

permetterà un prolungamento o un aggravamento? Fiat voluntas Dei Mariolina e con immutata certezza che tutto dobbiamo donare con generosità, accettiamo con animo il più sereno possibile la croce, se verrà, più pesante e avanti» . Odoardo cerca di sostenere e maturare in Maria il dono dell’obbedienza a Dio. Egli tenta questo passo fin da principio. Il testamento olografo porta al culmine quest’opera di preparazione al peggio . Non a caso il testamento è inserito dopo due lunghissime lettere di libera effusione. L’impressione è che Odoardo abbia approfittato di un momento eccezionalmente positivo per fare lui stesso questo passo e per farlo fare a Maria. Attraverso il testamento, «che è misura di cristiana prudenza» , egli fa intravedere a Maria che un giorno tutto potrebbe precipitare e cadere sulle sue spalle. Il mistero dell’amore coniugale è trattato con efficace delicatezza, mentre le sofferenze presenti sono interpretate come purificazione e saldatura ulteriore dell’indissolubilità: «Quanto abbiamo imparato in questi tempi duri specialmente per te, quanta esperienza, quanti pensieri di rimpianto e di rammarico per non aver sempre saputo vivere in piena intensità affettiva tutti, tutti i momenti della nostra vita, per non aver saputo sempre disperdere subito con un colpo affettuoso di zeffiro i piccoli cirri vaganti nell’azzurro del nostro cielo! (,..) Avevamo forse bisogna che il dolore con i suoi aculei cerchiasse i nostri cuori per riunirli di più, per compenetrarli ancora di più, per saldarne la indissolubilità, senz’altro la Provvidenza ci à chiesto questa prova che potrà anche prolungarsi nel tempo e maggiorare in intensità per ricambiare la generosità e la bontà dell’accettazione in tante rose senza spine, in tanti petali di protezione per i figli di questo nostro grande amore, per i fiori sbocciati da questa nostra unità di pensieri, di ideali, di vita, di speranze, nate e cresciute al soie di una fede nella quale abbiamo cercato sempre di vivere e di operare. Questa mia potrebbe anche essere l’ultima ché potrebbe darsi che il mezzo per fartele pervenire venisse a mancare”. Spesso Focherini dice alla moglie di essere addolorato soprattutto per quello che lui causa a lei e ai figli. Questa confessione rivela la consapevolezza che quanto sta accadendo è legato a sue scelte personali precedenti, fatte intuendo il possibile coinvolgimento di Maria e della famiglia. Le parole alla moglie con cui ripete di considerarsi causa della difficoltà attuale, se non sono prese per semplici convenevoli, mostrano la sua precedente consapevolezza del rischio affrontato. Quello che lui, la moglie, i figli, i genitori, parenti e amici soffrono sono effetti che erano stati preventivati. E per questo che sente di avere lui arrecato qualcosa di doloroso ai suoi. Caratteristica della fase di prigionia presso il campo di Gries- Bolzano sono vari scritti diretti ai figli. Alcuni sembrano essere sostanzialmente tentativi di comunicare notizie e il messaggio diretto ai bimbi è minimo. Invece il foglio a quadretti, in cui la sua permanenza a Bolzano viene presentata all’interno di un indovinello per i bambini, è uno scritto tenerissimo che esprime il desiderio dopo i tanti baci trasmessi attraverso Maria di vivere e far vivere ai figli un momento di rapporto diretto e senza mediazioni. Anche in questo periodo il rapporto con la moglie è assolutamente centrale. Negli ultimi scritti delle ultime ore prima della partenza l’affetto alla moglie e la preghiera a Dio si fondono in maniera semplice e tersa: «Baciami ancora tutti i piccoli ed accetta col cuore più intensamente affettuoso tutte le più belle espressioni della gratitudine per tutto il bene che mi hai voluto e mi vuoi per tutto quello che di bene mi hai fatto per tutte io gioie che mi hai donato per la lieta corona di figli che mi hai offerto. Di tutto il Signore terrà conto. Dio sia con te, ti guidi, ti accompagni, ti preservi, ti benedica. E la preghiera di ogni momento col cuore più rassegnato alla sua volontà. Fede e coraggio non mi mancano e ne chiedo ogni giorno al Signore per te che della vicenda porti il carico più doloroso e pesante. E per te prego tanto tanto, più che per me che non abbisogno altro che di sapervi sicuri e tranquilli» . 81

Odoardo sente che possono essere le ultime parole e torna a scrivere «Iniziando felicemente e fiduciosamente viaggio trasferimento invioti pensiero augurale, infinita gratitudine e immensa riconoscenza tessono in cuore un inno al nostro amore e a te che benedico con tutti i piccoli. Il Signore è con noi. Prego e spero tanto e pieno di serenità e fiducia attendo l’ora di rivederti. Per quell’ora spero e sempre prego. Dio vi salvi». Le parole conclusive dell’ultimo scritto in italiano di Odoardo sigillano emblematicamente anche la collezione delle lettere e ricapitolano il cammino di Focherini nei primi sei mesi di prigionia: “con fede immutata” . Pare una fede più pura, immutata nel senso che Odoardo non si è mai tirato indietro nell’accettazione della volontà di Dio e nell’offerta attiva e generosa di sé.

DELEZIONE DI TEST DI ODOARDO SCRITTI DAI VARI LUOGHI DI PRIGIONIA ALLA MOGLIE MARIA

Bologna 17/18 aprile 1944 Carissima Maria amo sperare che questa mia ti giunga, si dice che dopo l'interrogatorio la corrispondenza abbia corso regolare, e se così è mi è prossima la gioia di un tuo scritto, per dirti che sto bene, sempre in attesa fiduciosa che cessate le ragioni del fermo, l'interrogatorio di sabato è stato come prevedevo di nessuna importanza per me che non avevo né ò motivo alcuno per pensare che qualcosa del mio agire possa essere stato contrario alla mia dedizione, alla famiglia, al lavoro ed alla Patria, mi sia dato di riabbracciarti con tutti i piccoli, mamma e babbo che ò qui nel cuore ogni momento e nella preghiera. Vi penso tutti in buona salute, e a tutti porgo un bacio affettuoso con grande amore Odoardo Dà incarico al corriere di ritirare alla portineria delle carceri, dando una tua lettera come mia moglie, le 9 tessere dei grassi che avevo in tasca e che dietro una domanda sono state consegnate in portineria a disposizione. Allo stesso corriere potrai consegnare la biancheria ma per questo occorre il preventivo permesso del comando S.S. di Via S. Chiara. Se il corriere non à tempo provveda solo alle tessere consegnando il pacco ai fattorini. nella lettera tua dì che non puoi muoverti perché hai 7 bimbi e l'ultima è lattante.

Bologna 26-4-44 Maria carissima 82

ti giungerà questa mia? spero tanto, come spero che tu e tutta la nidiata dei bimbi stiano in salute come li desidera il mio cuore che in ogni momento è a tutti voi più che vicino. O finito poco fa di indirizzare al comando dal quale dipendo una istanza affinché sulla base delle risultanze delle indagini e dell'interrogatorio mi rimettano in libertà, pregando che si solleciti la pratica per ragioni familiari e di lavoro. non so neppure io che cosa pensare, poiché se nulla avevo da rimproverarmi nell'attesa dell'interrogatorio, perché tutto ciò che ò fatto pubblicamente e privatamente non poteva che essere approvato da tutti e da chiunque, dopo l'interrogatorio che mi à dato la certezza che le accuse, se così si possono chiamare, erano dovute a informazioni errate o calunniose, non posso che ritenere imminente o prossima l'ora di riabbracciarti con tutti i piccoli. Sono sempre senza tue notizie e il silenzio mi pesa tanto tanto anche se il proverbio dice «niente nuove buone nuove ». neppure la tua raccomandata da me vista mi è ancora stata data. O piena fiducia che il Signore vi sia vicino e vi protegga come è vicino a me. E nella preghiera' fidando speriamo. Con grande affetto, baci ed abbracci. tuo Odoardo

Bologna 15-5-44 Maria carissima anche se con tre giorni di ritardo sul previsto, questa mia doveva esserci consegnata per la scritturazione il 12, e il ritardo non te la farà pervenire perii 18 come avrei desiderato, le mie righe portano a Rodolfo il mio più affettuoso pensiero nel giorno da lui e da tutti tanto atteso e desiderato ed al quale non pensavo certo di mancare. Gli dirai che gli sono più che vicino, e che ò pregato e prego tanto per lui e che offro il sacrificio della rinunzia di essergli vicino perché il Signore accettandolo ricambi in tante benedizioni per lui per il suo avvenire. Tu che lo hai preparato al gran giorno assapora anche per me la gioia di quelle ore indimenticabili e nel conforto della felicità sua non sentire il peso della mia lontananza. Fate festa grande, come l'avvenimento vuole, come se ci fossi anch'io, sì che Rodolfo non si accorga che manca il babbo. Olga, Lena e Attilio si uniranno a Rodolfo ed a te, e se possibile porta anche Gianna. Io vi sarò più vicino del solito, se fosse possibile, e pregherò per voi e con voi nella certezza che saremo ascoltati. nulla di nuovo so di me, e se da una parte non so spiegarmi questa attesa vilente se non pensando a possibili indagini che non potranno che essere favorevoli alla mia innocenza, dall'altra di giorno in giorno attendo di essere liberato certo come sono che nulla di nulla mi si può addebitare da nessuno. Ti ripeto che le condizioni generali sconsigliano una tua venuta per un colloquio, aggravata dal doverti portare dietro la piccolissima e lasciargli altri sei in attesa... Attendiamo di rivederci, spero, presto a casa.

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tanti baci ed abbracci a tutti. Odoardo

Bologna, 27-V-44 Carissima Maria ò ricevuto qualche giorno fa la tua del 14, ultime gradite tue nuove e non può che avermi profondamente addolorato la conferma del tuo stato d'angoscia che paventavo. E non poterti dire altro che una parola di fede sempre più viva in «Colui che tutto muove» ma per ora non ancora avallate da nessuna speranza umana che non sia la certezza della mia innocenza piena, assoluta, indiscussa e indiscutibile, e quella che le indagini che suppongo siano sempre in corso, mi diano nei loro risultati immancabili la attesa gioia di tornare a te ed ai bambini il cui sorriso ho sempre davanti agli occhi, le cui preghiere sento tanto, tanto vicine alle mie di ogni ora, di ogni giorno. La prova alla quale è sottoposta la nostra famiglia non è delle più modeste, ma appunto per questa sua gravità inattesa ed eccezionale non potrà che fruttare a favore dei nostri sette bambini e di noi se sapremo accettarla ed offrirla per il nostro bene. Il richiamo di tuo fratelloI, non gli impedirà, almeno spero, di dover tutto abbandonare sì che tu possa avere il vantaggio della sua vicinanza per qualche ora. Ti sia di conforto la fede che sempre ti à sorretto, ti accompagni la speranza di presto rivederci come fermamente credo, ci siano di grande aiuto le preghiere comuni per il bene comune. Sto sempre bene di salute come godo che così sia di voi. Ricordami a Mamma e babbo, a tutti i bimbi che vorrai baciare ancora una volta con tutto l'affetto. Pazienta, spera, ed al piacere del gran giorno in cui riconosciuta l'innocenza mi sarà dato di riabbracciarti, abbiti tanti baci affettuosi. tuo Odoardo

Bologna 7-6-44 Carissima Maria l'atteso desiderato colloquio di stamane con te, dopo ormai 90 giorni di lontananza è e rimarrà nel cuore e nella mente come la pagina meno grigia di questa parentesi alla mia dinamica vita di famiglia e di lavoro. Parentesi della quale come ti ò scritto più volte non ò alcuna colpa che soltanto a causa o elementi a me completamente ed assolutamente estranei penso si debba questa mia detenzione che tanto carico di preoccupazioni e pensieri dà a te, ai sette nostri bimbi, ai genitori,

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senza contare l'aggravio delle responsabilità e del lavoro nonché quello che l'assenza mia avrà inevitabilmente prodotto dove si svolgeva l'attività professionale. Pazientiamo con la certezza che al più presto sia riconosciuta la piena mia innocenza e ci sia data l'attesa e meritata gioia del ritorno in famiglia, che auspico con la fede più intensa, fidente nella piena coscienza di non aver mai commesso nulla non di male, ma neppure che possa essere interpretato come tale. Bacia ancora una volta tutti i bimbi e te li nomino per averli più vicini se possibile in questo momento di ricordo, di nostalgia, di speranza di certezza: Olga, Lena, Attilio, Rodolfo, Gianna, Carla e Paola. Tutti gli altri baci sono per te compresi i due per Mamma e Babbo tuo Odoardo

Bologna 11-6-44 Maria carissima, sono ormai alla metà del 91° giorno del mio fermo e nulla so ancora dell'attesa liberazione della quale non so spiegare il doloroso ritardo che tanto grava su te, tutti i bimbisui genitori e su me che con immutata fede nella giustizia attendo con ansia sempre crescente che il sospirato giorno spunti. Il pensiero che accompagna tutti voi è spesso preoccupato dal timore che la guerra possa farvi sentire di più il suo peso e con ogni augurale preghiera accompagno la tua materna opera generosa a favore dei sette piccoli per i quali trepido ad ogni allarme. Che la Provvidenza assista tutti, e ci aiuti a portare il peso di questa forzata quanto immeritata lontananza che ci divide, e della quale ti ripeto ciò che tu ben sai non ò alcuna colpa ne diretta ne indiretta. Le tue lettere giungono saltuariamente e penso che anche le mie siano irregolari nell'arrivo. Sto bene di salute, anche se questo prolungarsi inspiegabile pesa troppo. O fede viva nell'obbiettività di chi deve decidere mentre spero che l'ora della decisione, che non potrà essere che favorevole all'atteso riabbraccio, sia prossima. Ti bacio tanto per tutti Odoardo

Bologna--- Maria carissima da Bologna ci spostano credo a Fossoli dove si starà meglio per tanti aspetti, ma forse verrà a mancare il carattere di temporaneità che avevamo qui. Era una temporaneità relativa poiché 115 giorni sono tanti per un periodo temporaneo. La comune azione di amici, Bruno ti avrà aggiornato, potrà far cessare finalmente, anche colà, 85

questo periodo cruciale e doloroso giunto inatteso e direi immeritato. Se invece il Signore vorrà ancora mantenerci nella prova o aggravarla benediciamo insieme la Sua volontà in nome di quel credo che abbiamo sempre cercato di professare e in nome del quale tanti anni or sono attendevamo sognando l'ora dell'unione attesa e desiderata. Quanti ricordi, quante rimembranze suscitano i pensieri di quei giorni preludenti il 9 Luglio! E da allora quante cose, avvenimenti, ovunque, ma fermo, fiorente, giganteggiante, il nostro amore, ricca la messe di virgulti attesi, sperati, sognati nelle ore di attesa, ricordi? rinfocolato 1 ardore, rinverdite le speranze, belle le realizzazioni. E dopo qualche cirro nell'azzurro del cielo nostro, come più bello il sole, edora... un po' di ombra, un pochino troppa invero (a dirlo noi) che purtroppo si estende anche sui piccoli che proprio non c'entrano per nulla, ma quel Signore che tutto consente non abbandonerà e di questa certezza siamo più che sicuri, e la preghiera di ogni giorno e di ogni ora varrà ad attirare le benedizioni più elette su tutti, su noi, varrà a far sentire meno il peso dell'ombra, a preparare la schiarita e ad accelerarla come è nei nostri desideri e nelle nostre aspettazioni. Quante cose vorrei poterti e saperti dire in questo anniversario, così inatteso sotto certi aspetti, ma non è né tempo né luogo. Con l'affetto di ormai quindici anni, cementato da un'unione la cui intensità affettiva è nota solo a noi, benedetto dai sette figli che ti fan corona, ti invio l'augurio della vigilia, /a rinnovata ammirazione, /a più grande gratitudine. Dio è con noi. Tutti i baci ed abbracci per te e bimbi tutti.

Fossoli 18/7/44 Maria carissima ricevute attesissime le tue del 7 -9 -12 e stasera o domani ne attendo un altra. Attenderò almeno tre volte la settimana in cambio delle mie che da 2 saranno portate a 3 mensili. Lettere tue potranno essere inviate anche tramite corriere Valenti più rapido(I). Lieto delle notizie buone su salute tutti bimbi e tue preoccupato per condizione tuo stato d'animo depresso. Superato ormai l'inizio del V mese di detenzione, sento come te l'aggravarsi del peso che la lontananza e le condizioni particolari di essa fanno duro ed in certe ore insopportabile se non vi fosse il conforto e l'aiuto della Fede. Abbine tanta tanta e offri come faccio io il duro sacrificio per la tua missione di Mamma, per la salvezza tua e dei piccoli nostri. E ciò che chiedo in ogni ora da quel lontano 11 marzo certo che non sarà chiesto invano anche se la prova dovrà prolungarsi o peggio aggravarsi. Chiedo in umiltà piena assistenza per te, per te forza e rassegnazione e coraggio, per me spirito di sopportazione non tanto per l'ambiente e la cattività alla quale ormai sono più che addestrato quanto al tormento del pensiero di tutti i miei cari ai quali vorrei esser vicino, sui quali ingiustamente pesa l'assenza in queste ore cruciali. Che dirti Mariolina?

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Ti ò vista, ti ò sentita vicina chissà per quale sensazione strana e quando seppi che c'eri una folla di pensieri si affacciò... poi la visione fugace, bella e dolorosa ad un tempo ma sufficiente per un tuo sorriso anche se amareggiato dalle mie stesse lacrime di impotenza e di dolore, e più tardi il colloquio con chi ti aveva parlato(2). Coraggio e avanti, abbimi vicino come vorrei, come lo sono col cuore, col desiderio, con la speranza, con la preghiera e se anche la prova è dura e se dovrà divenirlo ancor più sappiamo esserne degni fidenti in Colui che tutto può. Sto bene, mi trovo fra ottimi amici e compagni, vorrei sempre avere tue notizie e con quelle le novità di Mamma e Babbo, specialmente dopo le visite deprecate degli aerei, pur sentendo di più il dolore di non poterti scrivere più spesso come vorrei. Ricordami a tutti. Baciami tutti i nostri piccoli ed in particolare Paola ormai prossima al compleanno e l 'altro che non molti anni or sono ci fece ritardare la permanenza a Marcena(3). Attendo la foto di tutti e di Dodino(4) che unirò a quella che ho qui con me viva come le immagini che ò nel cuore e nella mente incentrate dalla tua sorridente e fidente in un domani migliore. Bacio la mamma ed il babbo. Abbimi tuo Odoardo. Ricevuti tuoi doni e foto Dodo - Grazie

Biglietto scritto su uno strappo di carta igienica. Carissima Maria, ò avuto la tua attesissima foto, ed ò così finalmente riviste le dilette immagini che sono l'obiettivo fisso fermamente diurno e notturno. Quanti ricordi, quante impressioni, quante nostalgie e agli occhi velati di pianto di desiderio di speranza di pena, /e immagini deformate prendevano contorni nitidi per ingigantirli fino alla realtà. Paola poi è stata una rivelazione! O due Paole in me, quella che lasciai in culla e quella ben più graziosa che ti è sulle ginocchia. Grazie del magnifico dono (ne attendo però almeno un'altra copia) che attendevo in ansia nel timore di non poterlo ricevere in tempo, e invece, è giunto, io sono ancor qui e per altri due o tre giorni pare che non vi siano novità. Speriamo. Una visita notturna aerea, contro tutte le disposizioni internazionali e la protesta per un precedente non ha dato che il fastidio di qualche ora di perdita di sonno. Siamo e sono tranquillissimo, pieno di fiducia anche se in certi momenti il pensiero tuo e dei bimbi in rapporto all'ora cruciale che può avvicinarsi e toccarvi mi fa tanto soffrire. La tua sicurezza mi fa tanto bene e la trovo così felicemente espressa nella tua del 17 giuntami graditissima oggi e prego sempre il Signore che ti accompagni in ogni ora nel non facile compito di guidare e proteggere i nostri piccoli. Il tuo sorriso che pur velato di malinconia è quello delle ore più serene è qui nel cuore e negli

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occhi a confortarmi sempre, a darmi quella certezza per te ed i piccoli che vorrei avere per essere meno preoccupato ed in certi momenti, meno angosciato. Consigliati con Bruno per l'utilizzazione di un sotterraneo a rifugio, completandolo con rinforzi e coprendone il pavimento superiore con balle di carta che sono utilissime come ammortizzatori. Sii prudentissima e non uscire che per assoluta necessità e così dicasi di tutti i piccoli che ad ogni ronzio farai rientrare in casa. L'angelo custode li proteggerà come proteggerà te, ma tutte le prudenze umane devono essere usate. Bruno ti sarà come spero utilissimo in pareri e consigli. Mamma mi prodiga tutto con una prontezza ed una diligenza che concorrenza fanno alla tua: Meglio di così non mi potrei trovare se... non vi fosse il pensiero vostro. Il Signore sarà con noi. Avanti e coraggio mia Mariolina, non ti avvilire per carità. Soffro con te ma voglio che la mia pena sia dal Signore accettata per il bene tuo e dei piccoli. E' il minimo che devo chiedere. Baci.

Maria, anche oggi posso scriverti e puoi pensare che lo faccia con tutto il piacere. Sono ancora qui e pur persistendo le voci di prossima se non immediata partenza nulla si sa per quanto l ordine può capitare da un'ora all'altra. Ti farò avvertire subito - Se quel tal automezzo va ancora nella città di Grazioli(1) puoi avvertire il Cav. Zanasi(2) della mia nuova situazione e contemporaneamente De Ferrari(3) dicendo a quest'ultimo: del mio stato attuale e della probabilità di essere trasferito a Gries; che tu l'avverti per pregarlo che eventualmente potendo voglia essermi utile mandando a chiedere notizie per trasmetterle a te; che lo fai in tempo temendo che le difficoltà di trasporto rendano più difficile le comunicazioni. Ugual comunicazione farai al Rag. Mario Larcher- Torrione 1 - Trento (n/corrispondente) annunciandogli la cosa e dicendogli di provvedere per mio conto a mettersi in contatto con qualcuno di Bolzano affinché di tempo in tempo si informi del mio eventuale arrivo colà per farmi avere pacchi di commestibili e notizie di casa e dei quali eventualmente e possibilmente servirmi per farti avere notizie. Spero che siano tutte precauzioni inutili, ma tutto il possibile per facilitare il notiziario mi interessano in modo particolare. Puoi scrivere anche tutti i giorni. Ti penso sempre serena e mi auguro che Bruno possa esserti vicino spesso. Ti ripeto la raccomandazione di curare l'allestimento di un locale di rifugio. Spero e prego dal Signore ogni assistenza e protezione su te ed i bimbi che mi siete sempre più vicini e per i quali unica è la pena e la sofferenza. Di me non mi preoccupo, ché a tutto son pronto e tutto mi pare ed è leggero nel confronto del pensiero di tutti voi. La prova per voi è dura, ma il Signore non potrà abbandonarci, ne sono certo e questa certezza che pur vacillando nei momenti di maggiore sconforto vive e deve vivere mi è viva nel cuore nelle tante preghiere che per voi faccio avallandole ed offrendole con l'offerta della mia pena che è più vostra.

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Quanto è il bene che ti voglio Mariolina? Forse la distanza, le circostanze, il dolore hanno svelato lati nuovi del prisma del nostro grande affetto e queste facce più lucenti del nostro diamante d'affetto e d'amore svelatesi nel grogiuolo di questi mesi duri lo completano e lo completeranno anche se per la loro lucentezza sono state necessarie le lacrime più cocenti. Con grande affetto tutti i baci più ardenti per tutti e per te in particolare. Tuo Da Bologna che notizie hai? Ricevute tue 18-19-20-21 ora. Per Verona ti avevo già scritto il no sapendo l'inutilità. Sacchetti (...) ma temo che sarà tardi. Grazie tua generosità che dovrei(rimproverare. 25 matt - Scriverò stasera. Baci

Maria carissima, posso finalmente scriverti a lungo come vorrei poter fare ogni giorno almeno per farti sentire attraverso anche questa manifestazione come in ogni ora della giornata ti sia vicino con la mente, col cuore, col desiderio, con tutto l'essere, in unità di preghiere di speranze di certezze. Tutto però non si ottiene ed accontentiamoci di quel che ci è concesso oche ci possiamo concedere e che è tanto nei confronti di quel nulla di tanti, e sono i più, che condividono le ore mie. Cerco di rispondere alle tue ultime 18-19-20-21, le altre le attendo d ora in ora, nel migliore dei modi, lasciando a te di intuire e sentire quello che la penna non sa tradurre. Anzitutto un grazie, un po' imbronciato, per il viaggio in disubbidienza ad una intuibile (e intuita) ed a una esplicita espressione contraria imposta da troppe ragioni di prudenza e di inutilità pratica. Ma un grazie imbronciato è un po' poco per la bellezza del gesto rischioso per il quale ò la più profonda ammirazione e che meritava ben diverso risultato! Povera Mariolina, anche quell'umiliazione hai dovuto aggiungere alle altre, ed io ne sono la causa! Credi alle volte sento tutto il peso della mia condizione umiliante di fronte soltanto a te ed ai piccoli che sopportate il peso maggiore, ben più grave di quello mio, e contro la quale non posso far nulla all'infuori dell'offerta ripetuta a Dio della continua preghiera, credi che il pensiero di casa nei confronti dell'incerto domani che tutto pare voglia sommergere e travolgere è talmente ossessionante che mi fa sragionare. Capisco e ragionando cerco di convincermi che se la Provvidenza à così disposto nulla vi è da fare se non tutto accettare con cristiana rassegnazione; che è presunzione pensare necessaria o peggio indispensabile la presenza propria quando tutto è stato ed è previsto; che a tutto è stato ed è provvisto e provveduto... ma non è sempre possibile e talvolta ho la impressione di dovermi rimproverare qualcosa, di sentire l'accorato interrogativo tuo e dei piccoli che pesano come tremendo rimprovero. Lo so, non dovrei scriverti così, ma almeno una volta lascia che lo faccia come ti parlassi vicino vicino per dividere sempre l'ansia di un dubbio, per assaporare una gioia e farla divenire comune, per assieme come sempre tutto condividere. Ma seguo le tue lettere e il ricordo della tua settima felice maternità desta un rinnovato senso

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d'ammirazione che si estrinseca con un augurio fervido per Paola, (e chi l à riconosciuta nella bella foto che ò qui sul tavolo di lavoro oltre che in tasca, se non per le linee comuni somatiche che à con gli altri) e in un grazie commosso che si rinnova per te che sempre con ammirevole serenità hai affrontato sette volte il traguardo periglioso e doloroso della maternità, sempre superandolo con signorile e superiore fermezza lieta di essa come di una gloria. E ne avevi ed hai più che motivo di essere fieramente e santamente altera di essere stata prescelta tante volte ad essere la perpetuatrice della creazione, anche se le creature sono quelle che oggi ci fanno sentire di più il peso della croce che ci è addossata e non tanto per l'oggi e per noiquanto per l'incerto domani su di loro riflesso e proiettato. «Siimi vicino...» già, come se fosse possibile esserlo più di così! ecco il modo ci sarebbe, ma non è nelle nostre possibilità utilizzarlo e quindi bisogna attendere tempi migliori, ma perciò che è possibile oggi credo che più di così sia impossibile e direi che in tanti momenti di altra vicinanza non siamo stati intimamente uniti come lo siamo ora che la distanza è superatissima dal dolore, dalla pena fino ad annullarsi e farti sentire presente qui con me in ogni istante come una cosa più che viva in me stesso, più che un altro me stesso che più a te e ai piccoli penso che a me. Sono, per ciò che mi riguarda, più che tranquillo qualunque sia il domani; unico pensiero il tuo e quello dei bambini, ma non in sé ma in rapporto alle eventuali conseguenze della guerra e quello di babbo e mamma, e di me non mi preoccupo né punto né poco. Se potessi avere un poco solo di tranquillità per voi, sarei l'uomo più lieto e sereno, e invece! Salute ottima, vita solita, molto lavoro, sempre in attesa di trasferirmi (dicesi a Gries) da un giorno all'altro... e intanto vari giorni son passati e sono ancora qui, ma ormai è questione di poco e si dice che a fine settimana qui sarà tutto vuoto. (Scrivi a KM. che D. Paolo è già a Gries)(P.S. Pare vi sia una delazione ma non se ne conosce l'entità). Ti avvertirò o meglio cercherò di avvertirti al più presto a titolo informativo avendo già per esperienza rinunciato ad ogni speranza di vederti, (l'ultimo tentativo non è riuscito ieri) avendo già aggiunto per mio conto anche questo ai fioretti che dovranno beneficiare te e bimbi, perché da allora del tempo ne dovrà passare parecchio prima di poterti dare notizie per l'impossibilità di comunicazioni. La seconda foto era più che attesa ed è qui, oggetto dei miei sguardi che nel tuo sorriso si rincuorano, in quelli innocenti e deliziosi dei bambini dei quali vorrebbero la tranquillità cercano di ispirarsi e rassicurarsi, fatta segno delle esclamazioni ammirative dei tanti che l'osservano qui su questo tavolo che è il più invidiato che su lui si posano le speranze di tutte le attese inutili e fortunate, e che ormai sa anche i miei pensieri, le mie ansie, i miei desideri, le mie speranze. In data 22 Sacchetti mi ha scritto che il giorno precedente si era incontrato con i bambini(3) a Carpi o da te? Penso a Carpi e per la data del biglietto e perii contenuto nel quale mi dice di aver visto i bambini il giorno precedente (quando tu eri a Verona) e si mostra ottimista sulla probabile fine accelerata della vicenda che ci riguarda. Dopo le molte delusioni... sono molto scettico e dubbioso pur non disperando, anche perché so che da qui sono stati mandati per l'esecuzione ordini consimili alle nuove sedi degli interessati. Penso che se Sacchetti il 21 era a Mirandola avrebbe lasciato detto qualcosa e tu in serata rincasando l'avresti saputo e ne avresti accennato nella tua del 21 sera.

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Speriamo che anche in altra sede l'atteso e faticato frutto di tanto lavoro e di tanta fatica di amici e conoscenti possa giungere a ridonarmi in famiglia, se non verrà vorrà dire che la Provvidenza così vorrà e allora avanti in attesa della fine che non potrà tardare poi tanto tanto anche se a quella meta ci si dovrà arrivare attraverso chissà quali altre prove e un reciproco silenzio che sarà tanto penoso anche perché in questi giorni mi abituo troppo bene con almeno una lettera al giorno o tua o di mamma e tre o quattro ogni tanto. E sono diventato esigente al punto che quando non c'è mi arrabbio coi ritardi e quando la vedo sorrido la metto da parte, sbrigo gli altri poi da solo al più presto me la godo in fretta in fretta ma spesso non arrivo in fondo che la vista gioca brutti scherzi per effetto di certi lacrimoni che spesso affiorano violenti e prepotenti! Poi sono con me, vicine per raggiungere più tardi le sorelle in valigia tra le cose più care e preziose che rileggerò quando non ne potrò più ricevere ed allora ne gusterò ancora la bellezza saporosa, la freschezza in attesa di rileggerle con te, di rivederle nella gioia e nell'intimità che finalmente un giorno ci sarà ridata non im merita tam en te. Riprenderò domani baci tanti. O Ore 21 - riprendo dopo una sospensione che ritenevo definitiva poiché era stato annunciato l'arrivo del corriere, il molto lavoro mi aveva impedito di finire, poi il mezzo non è stato abbordabile ed eccomi a riprendere l'interrotta conversazione dopo una pausa durante la quale al termine di una giornata di fatica ingrata, non fisica, ma logorante, abbiamo saputo di altre varie partenze per domattina e dopodomani. La lista di quest'ultimo giorno però non è completa, ma credo che non vi sarò incluso e quindi avrò ancora modo di scriverti e spero a lungo come oggi. Attendevo tue nuove stasera confermanti che le incursioni di cui ebbi notizia non hanno impressionato molto te e i bimbi per i quali ho spesso tanti timori. La scelta di Carpi o Mirandola e come faccio a consigliarti? Vi sono elementi a favore dell'una o dell'altra e si riassumono così: a Mirandola puoi contare sulla piena dedizione di Dina e sulla sua collaborazione. Riprenderò oggi Baci tuo Odo «Ore 24 del 27 riprendo in baracca, dopo la recita del rosario... » Maria, riprendo l'interrotta pressapoco al punto in cui l'ò dovuta lasciare ieri sera e stamane circa lo spostamento. La tua casa attuale può diventare pericolosa per la vicinanza della stazione, dello zuccherifico, dei viali e della piazza facilmente riempibili di automezzi bersaglio molto preferito anche notturno, e se le informazioni sono esatte già 2 visite avete avuto. La sede campestre à vantaggi e svantaggi, fra iprimi di essere un po' più fuori mano, di unirti agli altri nella eventualità di un temporaneo spostamento in campagna nelle stanze da te viste a suo tempo che pur nella loro calorosa scomodità possono rappresentare, completate da un ricovero interrato antiaereo in piena campagna, un temporaneo asilo; il vantaggio di dare ai genitori il conforto della tua presenza. A svantaggio della tua sede attuale vi è il fatto di essere sulla arteria principale verso il nord che facilmente si ingolferà. 91

Anche la sede carpense diverrà sede di grande transito ma più ridotto. In tutte e due la comunanza esiste nell'eventualità deprecata di un imposto esodo. Ed è qui che l'acutezza della sofferenza si appunta e la mente si perde per l'impotenza. Comunque non posso accettare di dar consigli e lascio a te tutta la libertà di azione possibile ed immaginabile non nascondendoti che per quello che so e posso sapere ritengo che carpi sia da preferirsi alla sede attuale. Un eventuale spostamento graduale fallo con una macchina anche in due tempi nelle ore più calde ma più indicate seguendo il più possibile strade secondarie. Ore 24 del 27 riprendo in baracca, dopo la recita del rosario, come vedi sostituisco i sacerdoti partenti nella recita che qui ha un calore unico. Vorrei mandarti la «Canzone » che ho composta pensando a te e vedrò di farlo. Sono più tranquillo stasera, merito delle tue righe e della situazione odierna. Ero destinato a partire domattina per una sede molto lontana con diversa qualifica(2), e la Provvidenza che già avevo avuto modo di veder giocare anche qui fin dal primo giorno, e te ne feci allora un accenno ha continuato a rendersi visibile evitandomi la lontanissima assegnazione improvvisa per tutti quanto inattesa (anche in ordine alla qualità), trattenendomi qui per altri giorni forse tre o quattro se non di più, e fissandomi Gries meta sempre da preferirsi a quelle nuove sorte improvvisamente, non solo ma creando una sia pur lontanissima e auspicabilissima possibilità di diversa sistemazione o meglio definizione. Ma a quest'ultima non posso pensare, per non fantasticare troppo e quindi mi accontento di quanto oggi è avvenuto, lieto e fiducioso di questa nuova prova della Provvidenza. Le tue righe poi che stasera sono state ammirate anche da una persona della quale avrò occasione diparlarti. Quanta verità nelle tue espressioni sempre così belle ed affettuose e quale piena rispondenza esse trovano nel mio cuore che vorrebbe ripeterle aumentandone fino all'impossibile il calore e l'intensità perché tu ne sentissi la vivezza, l'ardore di cui sono materiate e che il dolore e 1 attesa rendono più belli e luminosi. Quante cose ci dovremo dire, quanto abbiamo imparato in questi tempi duri specialmente per te, quanta esperienza, quanti pensieri di rimpianto e di rammarico per non aver sempre saputo vivere in piena intensità affettiva tutti, tutti i momenti della nostra vita, per non aver saputo sempre disperdere subito con un colpo affettuoso di zeffiro i piccoli cirri vaganti nell'azzurro del nostro cielo! Ma il nostro cielo tornerà sereno, e, ne sono certo, in esso di cirri, non se ne formeranno più, sei convinta? La risposta la conosco e ti dispenso dal dirmelo ché la sento già in me come in me è la tua anima, il tuo cuore, il tuo ardore, il dolce tuo sorriso ultimo che a stento soffocava le lacrime che sentivo più che vedevo nell'ultima visione del tuo viso tra i quadrangoli spinati. Quale strana cornice al tuo viso, quale contrasto col desiderio che da noi si sprigiona impotente e prorompente da troppi giorni, quale viva immagine della nostra situazione: le spine che ci dividono mentre tutto vorremmo e sapremmo superare, anche quelle per riunirci finalmente in un abbraccio senza fine. Forse o senza forse, doveva esserci per i nostri cuori questa prova doppiamente spinosa per farci reciprocamente conoscere ed avvicinare di più, e dire che credevamo il contrario, avevamo forse bisogno che il dolore con i suoi aculei cerchiasse i nostri cuori per riunirli di più per compenetrarli ancor più, per saldarne la indissolubilità, senz'altro la Provvidenza ci à chiesto questa prova che potrà anche prolungarsi nel tempo e maggiorare in intensità per ricambiare la generosità e la bontà dell'accettazione in tante rose senza spine, in tanti petali di protezione per i figli di questo nostro grande amore, per i fiori sbocciati da questa nostra unità di pensieri, di ideali, di vita, di speranze, nate e cresciute al sole di una fede nella quale abbiamo cercato sempre di vivere e di operare. 92

Questa mia potrebbe essere anche l'ultima che potrebbe darsi che il mezzo di fartele pervenire venisse a mancare. Mi accontento di aver avuto la fortuna di poterti scrivere così a lungo per ricambiare il pensiero che tu hai avuto di rinnovarmi il saluto, per poterti esser vicino più a lungo del solito per lasciarti queste righe come caparra dei lunghi discorsi che faremo, perché esse ti dicano in ogni ora anche la più grigia e la più sgradita come in ogni momento del giorno e della notte io sia più vicino a te che a me stesso. Se un computo fosse possibile del tempo che penso atee C.i. e di quello che penso a me, credo che anche in una giornata laboriosissima e ricca di emozioni come quella d'oggi, il risultato sarebbe a tuo favore con un vantaggio del 99,99 per cento. E se le cifre nella lettera d'amore e di affettuosità intessute sono una stonatura qui non lo sono. Ormai tutto tace nella «casa» dopo la giornata. Fra poche ore altri compagni ci lascieranno per nuove sedi, e nel silenzio della notte che si intravvede con la sua stellata, rotto soltanto da un abbondante frinir di grilli e gracidar festoso di rane ti ho più vicina, direi che ti sento, direi che ti vedo qui a scrivermi. Ed eccoti quando a te pensando ò scritto e gli amici hanno cantato sulla nostalgica aria della «Chiesetta alpina». E' per te, è tua, doppiamente tua perché per te creata, a te dedicata col cuore più affettuoso e speranzoso con la certezza del domani finalmente nostro: «C'è a Carpi in mezzo a valle / un recinto triplo spinatovi son dentro gli internati - che già speran nel dì beato - che il duro e freddo ostello - si schiuda alla libertà. C'è il fischietto che fa sveglia - e la sirena fa l'adunata - e nel piazzale sull'attenti - agli «oberrini> è presentata - si inizia la giornata - che tetra e lunga è da passar - Capoblocco è il gran gerarca - di baracca e di salmeria - aiutato dal furiere, dai piantoni dal Consigliere - vi son poi gli scopini, gli ober e gli oberrini - Kadiocampo(7) è in trasmissione - in ogni ora della giornata - le panzane più impensate si diffondon in un istante - e se ne sballan tante che non sai più a qual pensar - Allegrette piccoline golosette - son numerose saltellanti od in picchiata ad ogni istante son in agguato - pulci, zanzare e cimici che notte e dì fan disperar. E la sera vien silente piano piano - fra le baracche «l'Oberrino » è già passato e la portaccia à luchettata vi è chi prega, vi è chi canta - ma pensan tutti al casolar - Di color che fur compagni - di baracca o di ventura che lontani o involati da ria sorte un dì disparver fulgente è la memoria che obliar giammai li potrà. Internato speranzoso - che il dimane non sia foriero - di tempesta che minacci il dolce sogno d'ogni sera - sorridi e guarda in alto - la meta che t'arride già». Ecco, è finita. E quello che è, e più che le parole accetta lo spirito e il cuore che l'hanno dettata e a te dedicata nell'intensità del tuo ricordo, nel desiderio di te, nell'ammirata gratitudine per tutto quello che mi hai donato e mi doni, augurio ed auspicio e più ancora certezza di tempi migliori e non molto lontani. Sono sempre in attesa di tue lettere, ne riceverò quante? Quattro o cinque perlomeno e spero di averle in tempo per portarle con le altre vicino al cuore e rileggendole sentirò meno il peso del forzato silenzio che purtroppo non sarà breve e non sarà il solo per le sempre crescenti difficoltà di comunicazione. Se dovrà tacere la penna nessuno e niente imporrà alla preghiera ed ai cuori di tenerci sempre in più che affettuosa comunicazione e oltre tutto e oltre tutti saremo sempre più uniti. E di questa 93

certezza sono lieto tanto anche se poca cosa nel confronto di ciò che vorremmo e con immutata fede attendiamo. Ripeto a Dio l'offerta di tutto in favore tuo e dei piccoli nella speranza di tutti potervi riabbracciare al più presto fidente nella corona di angeli custodi che proteggerà tutti certo che l'offerta non sarà fatta invano. Baciami tutti come io faccio sulla foto mattina e sera. La fede ti conforti, guidi e sorregga, il ricordo delle ore più belle ti sia vicino, il calore immenso del mio affetto ti riscaldi, ti accompagni e ti sorregga il mio amore, la mia gratitudine immensa, il pensiero del sereno non t 'abbandoni mai, e ci accompagni in ogni momento. Il Signore è con noi e noi fidiamo in lui. Un abbraccio nel quale pongo tutta l'intensità di un grande amore ingigantito e purificato dalle lacrime e da tanti giorni di distanza forzata è qui con tanti tanti baci a suggellare per ora questo periodo. Eccolo è tutto tuo mentre i bacetti li dividerai tenendo per te quelli che tu sai non posson esser che tuoi. Arrivederci Mariolina. Il Signore ti accompagni sempre e sta certa che la preghiera se vale di più quando è avvallata da una offerta la mia lo è da non poco e lo sarà ancora di più, ogni giorno, ogni ora. E' il meno che possa fare, e il meglio che di più non mi è possibile. Arrivederci Mariolina, e voglia il Signore presto. Arrivederci che è speranza, certezza,, fede come il tuo cuore ha dettato. Tuo.

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III.b. Innestati in Cristo per portare frutti grandi di amore

II.b.1. Solo l’amore edifica.

1Cor 8

1 Riguardo alle carni sacrificate agli idoli, so che tutti ne abbiamo conoscenza. Ma la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica. 2Se qualcuno crede di conoscere qualcosa, non ha ancora imparato come bisogna conoscere. 3Chi invece ama Dio, è da lui conosciuto. 4Riguardo dunque al mangiare le carni sacrificate agli idoli, noi sappiamo che non esiste al mondo alcun idolo e che non c’è alcun dio, se non uno solo. 5In realtà, anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo che sulla terra – e difatti ci sono molti dèi e molti signori –, 6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore, Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo grazie a lui. 7 Ma non tutti hanno la conoscenza; alcuni, fino ad ora abituati agli idoli, mangiano le carni come se fossero sacrificate agli idoli, e così la loro coscienza, debole com’è, resta contaminata. 8Non sarà certo un alimento ad avvicinarci a Dio: se non ne mangiamo, non veniamo a mancare di qualcosa; se ne mangiamo, non ne abbiamo un vantaggio. 9Badate però che questa vostra libertà non divenga occasione di caduta per i deboli. 10Se uno infatti vede te, che hai la conoscenza, stare a tavola in un tempio di idoli, la coscienza di quest’uomo debole non sarà forse spinta a mangiare le carni sacrificate agli idoli? 11Ed ecco, per la tua conoscenza, va in rovina il debole, un fratello per il quale Cristo è morto! 12 Peccando così contro i fratelli e ferendo la loro coscienza debole, voi peccate contro Cristo. 13Per questo, se un cibo scandalizza il mio fratello, non mangerò mai più carne, per non dare scandalo al mio fratello.

La scienza non serve ne tantomeno il solo eros…questo cosa significa?

Con Corinzi scopriamo che l’amore si gioca soprattutto sotto il segno della coscienza. Non serve a niente essere splendidi, educare i nostri desideri, essere fedeli, sapere tante cose, essere ferrati nella fede... se non riteniamo necessario il sapersi prendere cura di tutti i fratelli più deboli di noi. Ci sono infatti uomini che di fronte alla libertà degli altri non si sentono spronati, ma al contrario cadono, perdono la rotta, si disorientano. Guardando per esempio a mamma Nina e a Odoardo possiamo vedere che non hanno fatto solo gesti eroici. Nei loro gesti di amore sovrabbondante, che hanno anche comportato scelte difficili e dolorose, si sono però preoccupati di prendersi cura dei più deboli di loro. Odoardo per quanto riguarda la moglie, mamma Nina per quanto riguarda i suoi figli.

È necessario avere cura per la coscienza della debolezza dell’altro per restare nell’Amore e costruire relazioni veramente umane. Questo che sfumature prende all’interno di un fidanzamento, di una 95

relazione di amicizia, di una vocazione alla consacrazione?

L’amore non è solo alle prese coi i gesti che gli altri fanno e non è una questione dei gesti che facciamo noi ma si gioca sotto il segno della coscienza. Parola chiave del testo è : coscienza.

Nella comunità di Cor alcuni hanno una coscienza forte e altri una coscienza debole.

Quesitone fondamentale nell’amare e nell’amore è la coscienza è l’avere cura della coscienza dell’altro. Non serve a niente amare senza se e senza ma… Gesù ha amato con tutti i se e tutti i ma che avere a che fare con persone fragili e deboli ha comportato. Non è semplicemente che l’atro deve capire che io lo amo (amore pensato) ma l’altro deve crescere nella coscienza dell’amore, dell’amore escatologico… come si può pensare di amare senza fare i conti, scontrarti con la questione della coscienza dell’altro? Solo con la consapevolezza che l’altro ha di amare? Non sono mica la stessa cosa coscienza e consapevolezza…. Se non tieni in conto questo il tuo amore è soltanto una scienza, diventa anteros scientizzato oppure un eros che divora l’altro, lo amo talmente tanto che lo schiaccio.

Emerge, pertanto il problema di cosa significa fare i conti con la coscienza fragile.

Anzitutto bisogna capire cos’è la coscienza.

“La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità” (GS 16). In ogni essere umano, dunque, esiste una presenza interiore, «un significato della propria esistenza, che domanda spazio e in qualche modo influisce quando si deve scegliere. Questa presenza recondita è la coscienza di ognuno di noi, che spesso assume un’autorevole rilevanza nelle nostre decisioni. La conscientia(cum-scientia) rimanda a un sapere che scaturisce dal confronto che il soggetto compie prima di prendere una decisione. Il Beato card. John Henry Newman nella sua Lettera al Duca di Norfolk pubblicata nel 1875 stabilì il primato della coscienza sull’obbedienza al papato con la nota espressione: «Certamente se io dovessi portare la religione in un brindisi dopo un pranzo — cosa che non è molto indicato fare — allora io brinderei per il Papa. Ma prima per la coscienza e poi per il Papa». Su questo punto Paolo in questa lettera è molto chiaro: non basta solo amare. I corinzi erano in gamba, avevano evangelizzato tantissimo, in molto si erano convertiti, la comunità era in un continuo fermento, erano carichi, generosi...ma l’essere bravi, il darsi da fare (pur con tanto amore) non basta. Ecco perché non basta l’eros. L’eros è una tempesta, è pasticciato, è tormentato..è qualcosa capace, 96

da solo, di ferire l’altro, di farlo cadere. È un amore che ti trasporta senza darti il tempo di pensare. Non basta l’amore per dire che ci stiamo prendendo cura dell’altro. Non basta amare secondo eros perché un fratello comprenda e viva nelle nozze tra l’umanità e il Padre celebrate da Gesù. Questo si vede dal modo di amare di Gesù: Gesù ama ognuno secondo le sue difficoltà, le sue ferite, prendendosi cura personalmente di tutte le persone che ha incontrato, non ha amato e basta, come se fossimo tutti uguali, senza se e senza ma. E allora.. se non basta solo eros? Cosa è necessario? La conoscenza, la scienza? La scienza non è che anteros, qualcosa capace di schiacciare l’altro, che ti permette di fare il fighetto perché tu ne sai di più, e questa tua conoscenza è fine solo a te stesso (“Ma la conoscenza riempie di orgoglio, mentre l’amore edifica.” v 1b). Il problema di questa lettere è che i Corinzi, come noi, non avevano capito che ci vuole un’attenzione particolarissima nei confronti della coscienza dell’altro. E cos’è la coscienza? Giovanni Paolo II afferma che la coscienza è il luogo di incontro tra l’uomo e Dio. Un luogo però che si porta dietro quello che provi, le tue difficoltà, i tuoi dubbi. l’Amore però è esigente: non basta ancora avere attenzione per la coscienza dell’altro, è necessario preoccuparsi che questo cresca nella sua coscienza dell’amore, nella sua relazione con Gesù, nell’amore che il Figlio realizza. E chi sei tu per pensare che l’altro vada amato e basta, senza attenzioni particolari, quando Gesù è morto per quel fratello e per la sua coscienza debole? Gesù è morto perché alcuni possano amare e credere anche con una coscienza debole, perché sapeva che nella chiesa ci sarebbe stato qualcuno di più forte, che si sarebbe preso cura di loro, che li avrebbe sostenuti nel loro cammino di fede. Allo stesso tempo, in questo modo, ai forti è data la possibilità di dimorare nell’Amore insieme ai deboli, di esprimere la carità, di creare questa rete di sostegno perché nessuno cada, proprio prendendosi cura dei più deboli, non da fighetti, ma da fratelli. Ecco perché solo l’amore edifica: questo eros, ripensato e ora pieno grazie alla venuta di Gesù, diventa agàpe, un amore non più solo fisico, non più solo tempestoso, non più calcolatore. È un amore che ti permette di farti carico degli altri, di prenderti cura della loro coscienza, e quindi anche del loro rapporto con Dio, con l’Amore, senza sconti. È l’amore di quel Dio che manda il Figlio per amare l’umanità. Ecco quindi che l’Amore è in una relazione strettissima con la coscienza. Diventa una cartina tornasole del sapersi rapportare con la coscienza altrui. E come fare tutto questo? È indispensabile vedere l’altro con gli occhi di Gesù, con l’amore che Lui prova per il tuo fratello, con la logica della croce, che lo ha portato a morire anche per lui. È indispensabile lasciarsi lavorare da Gesù, lasciarsi potare attraverso il suo amore. Cristo , nel pensiero di Paolo, non sembra esser morto perché tutti abbiano la coscienza forte; piuttosto perché tutti possano amare, credere, manifestare il volto di Dio pur con la coscienza debole, in quanto ci sono altri con la coscienza forte che si prendono cura della loro coscienza e non li scandalizzano… non è il problema della perfezione, ma perché chiunque nella condizione in cui si trova possa esprimere quell’amore e quella carità e accoglierla nella propria vita, grazie anche ad altri. Certo Cristo non si è fatto carne donata perché così alcuni siano bravi e altri no… è venuto per creare questa rete d’amore in cui i forti e i deboli possono stare in piedi ed amare. Il suo corpo che è la chiesa. 97

L’amore ha la sua cartina di tornasole nel sapersi rapportare alla coscienza debole altrui. Cioè? La coscienza diventa forte nella misura in cui è disposta a custodire l’altro con la coscienza debole. Coscienza che sa aspettare attendere, sopportare… inno all’amore.

LETTURA ESEGETICA Il capitolo si presenta come un complesso ben strutturato con evidenti articolazioni e perfettamente unitario. La formula iniziale che introduce l'argomento: «Quanto poi alle carni immolate agli idoli» (v. 1) viene ripetuta all'inizio del v. 4 che ha la funzione di ripresa del tema: «Quanto dunque al cibarsi delle carni immolate agli idoli». Abbiamo così due brani paralleli: 8,1-3 e 8,4-6, in cui la legge della simmetria vige ancora per le due affermazioni iniziali formalmente ugali che rivendicano a un non meglio precisato «noi» il possesso di un sapere, una conoscenza. A quel «noi» che affermava di possedere tutti la conoscenza fanno da contraltare quelli che ne sono privi; ed è di loro che si occupa in primo piano l'unità letteraria e tematica 8,7-13. Chi scrive li presenta tratteggiandone un ritratto spirituale e affermando che meritano grande premura. Se vogliamo individuare le categorie dominanti del capitolo, balza subito in primo piano quella della conoscenza. Il sostantivo gnósis vi ricorre 5 volte (vv. 1 [bis].7.10.11) e 6 il verbo «conoscere» (vv. 1.2. 3.4), questo limitato alla prima parte, mentre quella pervade tutto il brano. E già tale rilievo statistico mostra che la questione «circa gli idolotiti» era stata impostata dai diretti interlocutori di Paolo, i forti, come una questione di conoscenza. Paolo, ancor prima di criticarne la condotta (vv. 7ss), ne discute l'«ideologia» legittimante (vv. 1-6). La pericope 7-13 invece mette a confronto, sul piano operativo, i possessori di gnósis e di exousia con quanti ne sono privi al fine di sottolineare la responsabilità di quelli verso questi. E lo fa sulla base della considerazione che si deve avere rispetto per la loro coscienza (syneidèsis), categoria centrale come documenta la semplice rilevazione statistica dei passi in cui ricorre (vv. 7.10.12), si tratti pure di coscienza debole (vv. 7.12). Riserve sulla gnòsis dei forti (8,1-3) L'espressione introduttoria circa gli idolotiti indica il nuovo argomento che lo scrivente intende affrontare e che con tutta probabilità gli è stato imposto dalla lettera dei corinzi. v. 1a «Quanto poi alle carni immolate agli idoli sappiamo che tutti (noi) abbiamo conoscenza». È opinione comune ritenere che l'espressione del v. 1 e le due del v. 4 siano slogan dei corinzi, in concreto dei forti, che rivendicano il principio «tutti (noi) abbiamo conoscenza» e la duplice affermazione «nessun idolo (c'è) al mondo e nessun dio se non uno solo». L'apostolo dunque ha davanti degli illuminati, diremmo, i quali deducevano uria prassi di libertà dal sapere oggettivo e dalla gnósis implicante lucida persuasione soggettiva - per questo non è di tutti i credenti di Corinto, che senza dubbio professavano il monoteismo e affermavano l'inesistenza delle divinità idolatriche -. Ora è su questo che egli, anzitutto, si esprime avanzando riserve, rilevando limiti, proponendo alternative. v. 1b «La conoscenza gonfia (d'orgoglio), l'amore invece è costruttivo». Il primo rilievo critico

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evidenzia un effetto negativo del possesso della gnósis, che porta ad assumere atteggiamenti altezzosi e orgogliosi. La seconda affermazione invece oppone alla gnósis VS agape, sempre in base al loro specifico effetto. Questa, a differenza di quella, non porta a inorgoglirsi (cf. 13,4), non esalta l'uno a scapito dell'altro; è invece una forza costruttiva, non di se stessi ma degli altri. Il quadro di pensiero è quello del fratello debole che non deve essere ; provocato, ma rispettato nella sua fragile adesione di fede. Non è ozioso o inutile precisare: «conoscenza» e «amore» non sono qui grandezze valutate in se stesse. Paolo ha di mira soggetti concreti che rivendicano una determinata conoscenza, appunto dell'unico Dio e dell'inesistenza degli dèi idolatrici, in maniera individualistica, a vantaggio proprio e a scapito dei deboli. In breve, è uno specifico sapere teologale imperniato sull'individuo che egli critica, non la ragione o l'esperienza del conoscere come tale. v. 2 «Se uno crede di conoscere qualcosa, non ha ancora conosciuto come bi- I sogna conoscere». Costituisce senz'altro un passo avanti dell'apostolo che ora ; valuta il conoscere in se stesso, avendo però sempre di mira la conoscenza di Dio, come appare dal v. 3 che ne è la logica continuazione. C'è una qualità del conoscere che non ogni conoscenza possiede, una modalità da cui dipende che il soggetto possa dire di conoscere veramente e al di fuori della quale il conoscere qualcosa equivale a conoscenza apparente. Non è l'oggetto entrato in qualche modo nel raggio della conoscenza umana a qualificarla essenzialmente, ma il come ci si rapporta all'oggetto conosciuto. La vera conoscenza in ambito di fede cristiana è riconoscimento, adesione personale, amore. v. 3 II versetto applica il principio gnoseologico generale al caso specifico della conoscenza teologale e chiarisce quella modalità di conoscenza che giustifica il nome che porta, modalità consistente nell'amare. Ma sorprendentemente del verbo conoscere usa la forma passiva, non quella attiva. In pratica alla protasi: «Se invece uno ama Dio», al posto dell'attesa apodosi: «costui lo conosce veramente», fa seguire questa: «costui è da lui conosciuto». In realtà è contratto il corso del suo pensiero che giunge subito al punto di arrivo saltando la fase intermedia esplicitabile nella proposizione seguente: costui conosce veramente Dio. Chi conosce veramente Dio, appunto sulla via dell'amore, è stato preceduto dall'iniziativa divina di grazia per cui, prima di essere un conoscente e amante, è un conosciuto. Paolo denuncia i limiti di una conoscenza di Dio puramente oggettiva e intellettualistica, per sottolineare che l'autentico rapporto con lui consiste non solo nell'amarlo, che è poi il modo di conoscerlo veramente, ma anche e ancor prima nell'essere da lui conosciuti e amati. Nel loro rivendicato possesso della gnosis i forti di Corinto vivono in un orizzonte arido e povero privi dello spessore profondo dell'amorosa e mutua relazione sussistente tra il credente e Dio. E ciò spiega che il loro rapporto con i deboli manchi di amore fatto di rispetto e di premurosa attenzione, come sarà rilevato nei vv. 7-13. v. 4 Parallelamente ai vv. 1-3 in questo brano Paolo prende posizione, dicendosi sostanzialmente d'accordo ma con precisazioni e non senza rilievi critici sulla rivendicata conoscenza dei forti. Un conto, rileva Paolo, è la conoscenza oggettiva dell'unico Dio e della inesistenza di altri dèi, un altro l'atteggiamento soggettivo delle persone che possono crearsi degli idoli. Non basta sapere che esiste un solo Dio, bisogna verificare che nella propria vita non ci siano altri dèi, cioè realtà finite ma vissute come valori assoluti.

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Valutazione della condotta dei forti (8,7-13) Alle riserve sulla rivendicazione della gnósis da parte dei forti - conseguente orgoglio, limiti della conoscenza intellettuale di Dio, ristrettezza del punto di vista oggettivo con cui si nega l'esistenza degli dèi idolatrici e si afferma un monoteismo assoluto - Paolo fa seguire una dura denuncia del loro comportamento,articolata nei seguenti momenti: debolezza degli uni e forza degli altri: vv. 7-8 messa in guardia dei forti per amore dei deboli: vv. 9-12 propòsito esemplare dello stesso Paolo: vv. 13. v. 7 In pratica agli occhi dei forti i deboli non esistono nella loro specifica in- dividualità e alterità né hanno diritti da accampare in quanto tali. Certo, ci sono nella comunità ma devono al più presto trasformarsi imitando i possessori di gnósis e di exousia (conoscenza / potere di azione). v. 9 II versetto introduce di fatto un evidente contrasto tra Paolo e i forti, come indica anche la particella avversativa de: «Badate però che questo vostro potere d'azione non diventi inciampo per i deboli». Essi credono che tutto si esaurisca nel rapporto del loro «io» con la cosa, la carne immolata agli idoli (v. 8); l'apostolo con una decisa messa in guardia, espressa nell'imperativo «Badate»,108 li richiama alla relazione interpersonale «voi-essi», che nel versetto seguente, con grande effetto retorico, esprime al singolare, «lui-te». Nel proprio agire devono tener conto degli altri, dell'influsso che vi esercitano. Dunque attenzione ai deboli, a non farli inciampare e cadere! Il versetto appare magistralmente costruito sul contrasto tra la preziosità dell'exousia dei forti, evidenziata con la formula «questo vostro potere di azione», in cui traspare anzitutto la loro orgogliosa rivendicazione, ma anche il riconoscimento sincero di chi scrive, e l'effetto perverso e disastroso che esso, nelle concrete circostanze in cui si traduce in atto, finisce per avere sui deboli. Si spiega così il drammatico cavete dell'apostolo. v. 10 L'eventualità da cui i forti devono guardarsi è realistica e la gravità della prospettiva segnalata non appare un'esagerazione. Lo mostra un caso esemplare tratto dall'intreccio di situazioni e circostanze proprie di una città pagana come Corinto: «Se infatti uno vedesse te che hai conoscenza seduto a tavola in luogo idolatrico, la coscienza di lui che è debole non riceverà forse edificazione in ordine a mangiare le carni immolate agli idoli?». Che non si tratti di pura eventualità futura bensì di situazioni reali appare dal v. 7 in cui si parla del cedimento rovinoso dei deboli che, contro coscienza, si cibano di idolotiti, evidentemente sotto la pressione dell'esempio dei forti. v. 11 Paolo spiega quanto ha appena detto sopra in termini ironici: «Infatti per mezzo della tua conoscenza va in rovina colui che è debole, il fratello per il quale Cristo è morto». L'effetto dell'agire dei forti suggerito dalla loro gnósis è nientemeno che la rovina del debole, cioè la sua perdizione eterna, qui indicata al presente: questi è messo sulla china della perdizione finale. Se al v. 10 l'attenzione era volta al risultato immediato, il peccato d'idolatria a cui è stato indotto il debole, ora l'apostolo evidenzia il risultato ultimo, la perdita della salvezza.112 La seconda precisazione è che si tratta di un fratello; l'accento però non cade sulla fraternità che lega i due, bensì sulla condizione salvifica del debole che da credente (= fratello) ha beneficiato dell'azione di Cristo, morto per lui. 10 0

Il riferimento alla morte di Cristo non si limita a mostrare tale antitesi, ma serve anche a evidenziare la preziosità e dignità del fratello: se per lui Cristo ha sacrificato la sua vita, merita ben altro dai forti. Gesù ha testimoniato di persona come deve essere il rapporto di questi con il debole, sostanziato di amore costruttivo (agape), non viziato dall'affermazione orgogliosa del proprio potere d'agire (exousia) e della propria conoscenza religiosa intellettuale e oggettiva (gnósis) (cf. 8,lb). Vi è implicito il motivo dell'esempio a cui i forti sono sollecitati a riferirsi. v. 12 Approfondisce e insieme estende il campo della negatività dell'agire dei forti. In realtà questi finiscono per peccare contro Cristo stesso. v. 13 In conclusione l'apostolo abbandona le vesti del giudice che condanna il comportamento dei forti e dell'avvocato che difende il buon diritto dei deboli per mettere la sua stessa persona al centro del problema. Egli impersona ora il : ruolo del soggetto che si prende a cuore il fratello, pronto a rinunciare alla propria libertà per non recargli danno, ruolo colpevolmente disatteso dai forti e per questo richiamati con il «Badate» dei vv. 9-12.

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III.a.2. Il necessario inserimento dei tralci nella vite, che è Gesù. Gv 15, 1-14

1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3 Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli. 9 Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. 10 Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. 11Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. 12 Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. 13Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. 14Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. 15Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi. 16Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri.

La Parola di Dio come nutre e irrobustisce e rende feconde le dinamiche della vita di coppia , dell’amicizia, dell’amore? Dal brano la condizione che sembra necessaria per amare è rimanere in Gesù, non allontanarsi mai dalla sua persona e dalla sua parola. Questo va fatto non perché magicamente stando con Gesù cambi anche tu e inizi ad avere attenzione verso la coscienza debole dell’altro o inizi ad amare come fa Dio. Forse a volte ci raccontiamo che in fondo basta che ci sia Gesù (non si sa bene come) perché le cose vadano bene. In realtà credo che il brano sia molto chiaro. La parola di Gesù, la sua presenza nella nostra vita non cambia nulla magicamente ma pota, taglia… perché portiamo frutto. Lo stare in Gesù ci trasforma e ci fa rimanere nell’amore del padre nella misura in cui ci lasciamo determinare, scalfire dalla sua parola e dalla sua persona. Posso avere tutte le attenzioni del mondo e posso aver a questo punto capito anche cos’è l’amore di Dio… ma il problema è: come faccio a portare frutto? Come faccio a durare in quella cosa lì? La vita e la parola di Gesù sono una fonte inesauribile, se rimaniamo inseriti lì possiamo portare frutto. Se continuiamo a pensare a cosa vuol dire amare, se continuiamo a ripensarlo e a farci mettere in discussione dall’amore di Gesù allora possiamo portare frutti, possiamo continuare a rimanere nell’amore e ad amare… altrimenti no.

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Il fatto che esista una vite e un agricoltore è funzionale proprio al fatto che possiamo portare frutto, ci è data la possibilità di farlo realmente e concretamente ma solo se stiamo piantati lì. Nel primo blocco forse abbiamo fatto anche tanta fatica perché non avevamo pensato al fattore Gesù, all’amore di Dio, per rispondere alla domanda “come fai a dire che quella cosa lì è amore” (credo per il brano) non può essere fatto se non innestati nella vita di Gesù, inseriti nell’amore di Gesù per ripensare, affinare e raffinare cosa vuol dire amore ed amare e finalmente poterlo fare e continuare a farlo. Il comandamento di Gesù non è un comandamento alla mulino bianco: siate felici e voletevi bene… “amatevi gli uni gli altri” è un invito non banale e scontato, è l’invito a fare sul serio con chi abbiamo accanto e richiama a dover stare continuamente nell’amore di cristo per farsi amare e poter ripensare all’amore La Parola di Dio come nutre e irrobustisce e rende feconde le dinamiche della vita di coppia, dell’amicizia, dell’amore? Lo fa perché siamo continuamente chiamati a ripensare a cosa vuol dire amore, e non ripensarlo da soli nella nostra stanza ma stando dentro l’amore di Dio e grazie a questo modellati. La Parola ti chiama a venire fuori su alcune questioni che magari per te non centrano con l’amore, ti chiama a dare risposte a cose che scopri essere punti scoperti. Anche questo campo ha rivelato alcune zone d’ombra, alcune fatiche che facciamo con l’amore che prima forse non vedevamo, ha messo in luce alcuni punti cardine, alcuni nodi fondamentali che nella vita di tutti i giorni un po’ rischiano - e hanno rischiato in questi anni - di perdersi. Concretamente non sono due amori diversi, l’amore che io nel primo blocco vedevo come una quesitone personale, una dinamica che vivo io con l’altra persona in realtà trova la sua sorgente, la sua fonte nell’amore di Dio e da questo è plasmato. La parola nutre perché chiama a ripensare alle dinamiche che vivo e nelle quali se fosse per me sarei anche a posto ma nelle quali forse mi sto facendo un sacco di sconti. Irrobustisce perché forse dà sostanza ad alcune dinamiche che vivo ma che se fossero da sole, lasciate andare si deteriorerebbero, perderebbero smalto… grazie alla parola invece sono irrobustite, gli viene data più ciccia, più roccia sulla quale appoggiarsi e rimanere salde. Rende feconde perché forse è solo grazie alla parola che alcune cose ci possono essere, è solo stando dentro la vite che puoi portare frutto, è solo con la parola che puoi continuamente accogliere l’amore di Dio (che altri canali comprensibili avrebbe se no?) e dentro questo amore portare frutto.

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