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DENTRO LA STORIA

Leonardo Campus Non solo canzonette L’Italia della Ricostruzione e del Miracolo attraverso il Festival di Sanremo

Con nota introduttiva di Stefano Bollani

Le Monnier

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anni Cinquanta portare a Sanremo una canzone come Ventiquattro- mila baci sarebbe stato semplicemente impensabile (e probabilmente neanche lontano dal Festival sarebbe mai venuta fuori). Impensabile: ma nel 1961 questo successe. Viceversa oggi le canzoni di un Sanre- mo non sono poi così diverse rispetto a quelle di un decennio o di un ventennio fa, soprattutto dal punto di vista dei testi. Ciò che si canta- va nel 1995 o nel 2005 potrebbe tranquillamente rivincere nel 2015. Segno che quello, a differenza di questo, era un momento in cui la storia stava accelerando, e le canzoni non facevano che rispecchiarlo. La medesima tendenza si era verificata del resto in altri analoghi momenti storici, come le guerre combattute dagli italiani tra Otto- cento e Novecento, che lo storico Mario Isnenghi in un suo recen- te saggio ha analizzato anche attraverso le canzoni: perché «canti e musiche – ha detto nel presentare il libro – sgorgano più abbondan- ti e facili nelle fasi di accelerazione storica» 88.

L’amore, la donna, la famiglia ai tempi del boom

Tutti pensate che vincerà Modugno o Paul Anka, e invece vincerà . (Sanremo 1964: prima della finale, Mina dà il suo pronostico ai giornalisti) 89.

Non ho l’età, non ho l’età per amarti Non ho l’età per uscire sola con te. E non avrei, non avrei nulla da dirti perché tu sai molte più cose di me Lascia ch’io viva un amore romantico nell’attesa che venga quel giorno ma ora no […] Se tu vorrai, se tu vorrai aspettarmi quel giorno avrai tutto il mio amore per te […]

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Non ho l’età (per amarti): ovvero, probabilmente il brano più pu- dico della storia della musica italiana. Un inno alla continenza, al rispetto della verginità. Il pezzo stravincerà, e come abbiamo visto è proprio Mina, a quel tempo ragazza-madre colpita dall’ostracismo RAI, una delle prime a intuirne le potenzialità di vittoria. Il brano verrà poi difeso anche dall’insigne musicologo Massimo Mila, con- vinto che canzoni come quella affermavano «verità modeste, che però permettono di vivere, di tirare avanti tutti i giorni» 90. Intan- to Gigliola diventa una star a 16 anni: infatti più che la canzone in sé, a trionfare è proprio il suo personaggio, che conquista le giurie col suo candore (l’avesse cantata una qualsiasi altra interprete, per esempio una o una , non avrebbe mai vin- to). Nelle settimane seguenti, il successo nei negozi – ben 1.200.000 copie vendute – confermerà che il pubblico italiano non la conside- ra una proposta troppo retrograda. E anche all’estero il pezzo di- verrà subito popolarissimo: tra tutte le versioni tradotte del brano, si arriverebbe secondo alcune stime all’astronomica cifra di 20 mi- lioni di dischi venduti, tanto che proprio Gino Paoli, inizialmente incredulo riguardo la scelta compiuta dai giovani giurati sanreme- si (vedi Capitolo 1), poi dirà che Non ho l’età «è la canzone che ho sentito di più in ogni angolo del pianeta, forse anche più di Vola- re» 91. Va detto che il progetto era anche un’operazione discografica, accuratamente preparata e astutamente pensata. Ed è quasi sconta- to sottolineare che al giorno d’oggi, al contrario, nessun discografi- co potrebbe proporre un’idea del genere con una qualche speranza di ripetere quell’exploit. Ma nel 1964 l’operazione riesce in pieno, e Gigliola – differen- ziandosi dalle «ragazze terribili» della canzone italiana, Mina e Rita Pavone – va a coprire una precisa fetta di mercato, quella del mer- cato giovanile non trasgressivo 92. Non a caso anche il lato B del 45 giri di Non ho l’età non faceva che ribadire il suo personaggio: «Sei un bravo ragazzo / e per questo ti amo / per quegli occhi sinceri / per le frasi gentili» (Sei un bravo ragazzo). Intanto, la colomba di Verona (come qualche giornale comin- cia subito a soprannominarla, tanto per proseguire il puerile be- stiario canoro già avviato con Mina, Milva e Iva Zanicchi 93) ségui- ta a fare la vita di una normale ragazzina di buona famiglia: «Io ho continuato ad andare a letto alle nove di sera, non guardavo mai la TV, uscivo con mia sorella: insomma la vita di una sedicenne

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di allora» 94. I nonni dopo l’esibizione sanremese le mandano un telegramma: «Composta educata brava e bella. Bacioni». Suo pa- dre, o, come lo descrive dell’epoca, «il fortunato padre di tanta grazia, è perito edile presso l’amministrazione provinciale di Verona. Abita in un modesto appartamento – ancora odoroso di buone minestre all’antica – […] con la moglie Sara e le due fi- gliole Rosabianca […] e Gigliola. Bastano i nomi delle due ragaz- ze per determinare l’ambiente in cui sono vissute: […] in una pa- rola pulizia» 95. Ecco il ritratto che di Gigliola fa il «Corriere della sera» all’indomani della vittoria:

il suo personaggio semplice, primaverile è capitato al momento giu- sto sulla scena. Pochi le avevano badato da principio: se ne stava sem- pre schiva, modestissima, vestita da ragazzina com’è giusto quando non si hanno ancora 16 anni, un visetto bianco che ricorda un po’, per intenderci, quello di Valeria Ciangottini nelle ultimissime scene de La dolce vita di Fellini, quell’alba stupita sul mare. […] Farà pre- sa sui giovanissimi […] perché appartiene al loro mondo, racconta le cose vissute da loro; ma dovrebbe piacere anche agli adulti, ai ‘ve- tusti’ come dicono i minori di vent’anni parlando di chi è semplice- mente maggiorenne, e commuovere le vecchie signore, perché si por- ta dietro questo filo di melodia 96.

Il fatto che, come dicevamo, il pubblico abbia accolto favorevol- mente una proposta che sarebbe anche potuta apparire retrograda, può essere visto anzitutto come conferma del fatto che i mutamen- ti di mentalità procedono con un processo più lento del mutamento economico, dunque non lo seguono automaticamente da un anno all’altro (già Gramsci parlava di mutamento ineguale tra economi- co e politico). Ma forse va visto anche come conseguenza del fatto che a conquistare, più che il valore del pudore in sé, fosse stato il personaggio (la candida Gigliola): tra i tantissimi che comprarono quel disco infatti c’era probabilmente anche chi aveva già altre con- vinzioni e abitudini morali, ma era comunque attratto dal candore di quella canzone, di quel personaggio. Un aspetto che vale la pena sottolineare infatti è come un mes- saggio tradizionalissimo sia stato proposto, in modo credibile, pro- prio da una giovanissima 97. In Gigliola gli italiani dell’epoca scor- gono così una possibilità di convivenza tra i sani valori di ieri e la freschezza giovanile di oggi. Nel suo personaggio, tradizione e

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gioventù si danno la mano, creando un nuovo (e grazioso) model- lo di femminilità canora. Il suo inno alla continenza stavolta non è la solita predica inflitta alle giovani da un «matusa», a casa o in parrocchia, bensì una convinta autoaffermazione di una giovane al suo spasimante. In un certo senso, la Cinquetti di Non ho l’età (per amarti) è la risposta ita­liana alla Lolita di Nabokov (1955) e Kubrick (1962). Per di più il suo è un personaggio vin­cente: Gigliola sbanca a sorpresa il Festival delle superstar internazionali, poi vince anche l’ a Copenhagen, vende molti dischi, è una ragazza di successo, ammirata e sinceramente benvoluta: non cer- to una emarginata dal gruppo. E piace a giovani e adulti. In questo senso, incarnando credibilmente un modello in cui convivevano in modo positivo e non traumatico una vecchia e una nuova concezio-

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ne di femminilità, si può dire che il personaggio di Gigliola aiutò a «traghettare» 98 gli italiani verso la incalzante modernità, presen- tando loro un modo al contempo rassicurante e ammirato di essere giovane negli anni Sessanta. Il tutto, si capisce, in modo del tutto inconsapevole, sia da parte della sedicenne Gigliola che da parte del pubblico italiano, il qua- le – ben giustamente – fruiva della musica leggera di tutti i cantan- ti senza troppi ragionamenti, e non faceva della sociologia prima di andarsi a comprare un 45 giri. Ad ogni modo il personaggio apparso a Sanremo nel 1964 ri- sulta così credibile e raggiunge gli italiani in modo così forte che in seguito diverrà per la stessa Cinquetti una sorta di gabbia. Difatti, a riprova della forza di quello stereotipo, ancora oggi che ha inter- pretato canzoni di Modugno, Brel, Brassens, si tende a pensare a lei come se non avesse fatto mai altro che Non ho l’età, come se aves- se eternamente sedici anni e il vestitino fiocchettato, non rendendo giustizia alla sua voce, anche duttile e calda, e alla sua personalità. Quel personaggio che inizialmente poteva essere autentico, aderen- te a lei, a lungo andare non poteva che cominciare ad andarle sem- pre più stretto. Lei stessa confesserà poi: «Detestavo quella Giglio- la Cinquetti. […] Se fosse dipeso dai miei impresari e discografici avrei continuato a non avere l’età fino a cinquant’anni» 99. Perfino sul finire degli anni Ottanta «ci fu una campagna denigratoria con- tro di me quando si seppe che avrei votato radicale, il partito del di- vorzio e dell’aborto» 100. Quando, nel 1997, la invitarono in televi- sione a cantare nuovamente quel pezzo, rifiutò con classe e ironia: «Grazie, ora l’età ce l’ho…». In questo contesto vale la pena soffermarsi qui su un blocco di documenti recentemente emerso, particolarmente significativo per la nostra analisi. Si tratta delle lettere spedite a Gigliola Cinquet- ti dai suoi molti ammiratori e ammiratrici, lungo un arco di tempo che va dai primi anni Sessanta alla seconda metà degli anni Settan- ta. Quando la cantante ha acconsentito a depositare presso il Mu- seo Storico di Trento tale archivio personale, esso è risultato esse- re composto di ben 140.000 lettere. Di queste, cinquemila giunsero nei soli due mesi successivi al suo primo Festival 101. L’analisi di que- sto enorme corpus documentale – recentemente effettuata da un gruppo di studiosi ed esposta dagli stessi in un’apposita, volumi- nosa raccolta di saggi 102 – ne dimostra appieno il carattere di fonti

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storiche di notevole interesse. Esse appaiono infatti rilevanti sia per quel che possono rivelarci sui mittenti, sia per quel che possono dir- ci sulla destinataria, o meglio sull’immagine che della destinataria s’erano formati i mittenti. Le lettere arrivano da tutte le regioni d’Italia e non di rado an- che dall’estero; a scriverle sono principalmente giovani e giovanissi- mi ma non solo; per lo più di sesso femminile (circa 3 su 4); spesso lettrici di rotocalchi tipo «Grand Hotel», su cui, tra l’altro, reperiva- no l’indirizzo della cantante; di estrazione socio-culturale bassa e di alfabetizzazione imperfetta. Le loro parole, le loro richieste, le loro storie personali, ci raccontano vividamente dell’Italia di quegli anni. Quanto alla figura della cantante veronese che emerge dalle let- tere, essa è quella non tanto di una cantante, quanto di un archeti- po morale ed esistenziale: un vero e proprio modello di vita. Una fi- gura in cui ci si immedesima, che si idealizza, e a cui ci si affeziona profondamente, in varie vesti. Ora come una sorella maggiore, ora come l’amica fidata; ora come la figlia-modello sempre sognata, ora come la potenziale «promessa sposa» da portare all’altare; ora co- me esempio morale e strumento di apostolato giovanile, ora perfino come una specie di santa moderna, dispensatrice di «grazie» e aiuti materiali. La si venera quasi come un idolo: solo più affettuosamen- te. Ma – appunto per il suo carattere di modello idealizzato – se ne paventano (prima) e non se ne perdonano (poi) cambiamenti di al- cun tipo, rispetto all’immagine archetipica intoccabile: quella forni- ta alla prima apparizione sul palco del Sanremo 1964. Tutti questi aspetti emergeranno più chiaramente dalla lettura diretta delle lettere, di cui qui possiamo riportare appena qualche esempio. In esse, accanto a testimonianze più ‘neutre’ per ciò che concerne il nostro campo d’analisi (richieste di foto autografate, offerte di proprie canzoni, ecc.), troviamo spesso passi di grande interesse. Dal seguente stralcio di lettera, per esempio, possiamo vedere la partecipazione emotiva con cui al­l’epoca veniva vissuto e seguito l’evento Festival. Le scrive la sedicenne A. O., da Cuneo (17 febbraio 1964):

[…] da quando sei apparsa la sera del festival, con quel tuo grazioso ma semplice vestitino, con quel tuo visetto pulito da ragazza ‘acqua e sapone’, quando ho visto con quale timidezza, cantavi quella canzone adatta alla tua e alla mia età, ho sentito che avresti vinto, ho capito che

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avresti avuto molto, moltissimo successo. E non mi sono affatto sba- gliata. Quando l’ultima serata del festival, dopo un’ora e mezza d’in- tervallo, è apparso sul video Mike Bongiorno, ad annunciare che tu avevi vinto, mi sono sentita un nodo di commozione chiudermi la go- la, quasi che a vincere fossi stata io. Quando ho visto te, così commos- sa e felice, in quel momento esserti vicina ed abbracciarti, tanta era la gioia che provavo per il tuo successo 103.

Di fronte a quel successo sanremese – spiega Quinto Antonelli, il ricercatore responsabile dell’archivio in questione – le lettere ri- velano due diversi tipi di reazione del pubblico italiano, entrambe di segno positivo: identificazione entusiastica con Gigliola da parte delle giovani, e mitizzazione di Gigliola, come argine di fronte alla decadenza dei costumi, da parte del mondo degli adulti. Ne abbia- mo selezionato qualche esempio, da entrambe le categorie. Tra i giovani 104:

Sono una bambinetta di 13 anni ed una tua grande ammiratrice. Por- to la tua pettinatura, ho i capelli e gli occhi del tuo stesso colore. Vor- rei proprio essere una seconda Gigliola, anche se molti mi consolano, dicendo che ti somiglio molto. Mi considero e vorrei essere tua ami- ca, anche se, purtroppo, non lo sono. […] Le tue canzoni mi piaccio- no tanto, anche perché sono cantate da te. [Quest’affermazione è meno banale di quanto sembri, in considerazione di quanto spiegato in pre- cedenza, NdA]. Durante il giorno vorrei sempre imitarti […]. Giglio- la, quella sera che venni [= venisti, NdA] a cantare a Prato pregai tanto mio padre di portarmi a vederti e piansi, ma lui non mi volle portare dicendo che la sala da ballo, non era un luogo per me 105.

Un’altra le scrive: «Scusami Gigliola se mi sono fatta fare dei modellini di vestiti che ti o vista nei giornali e per televisione, ma vorrei somigliarti almeno un poco» 106. Emblematico questo stralcio di lettera da Novara: «Cara Giglio- la mi sei molto simpatica e vorrei conoscerti perché credo di esse- re un tipo come te. Un tipo magari un po’ all’antica, ma che non in- dosserebbe mai una minigonna e non si innamorerebbe mai di un capellone» 107. E ancora, dalla Sicilia (Comiso, in provincia di Ragusa) le scrive Teresa, 16 anni: «[…] so che ti chiedo troppo ma spero che mi ac-

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contenterai in un modo o nell’altro, questa tua ammiratrice, che ti vuole bene credo che se fossi un uomo ti sposerei tanto mi piaci». Il medesimo commento era stato espresso, a una sua apparizio- ne in TV, anche da un’altra giovane ammiratrice lucana: «Se fossi un uomo non ti lascerei scappare… Peccato che non lo sia! Eh, ma io sono povera! Che te ne fai?» 108. In realtà tra i giovani c’è anche chi non la sopporta. A molti la sua immagine perfettina da «prima della classe» risulta spocchio- sa. Come le confessa candidamente una sua critica pentita, una di- ciottenne di Vercelli:

Non ti offendere né? Tu sei simpatica a ben poche persone; e i giovani non ti possono vedere. Anche io prima ero di questo parere, poi leg- gendo parecchi giornali e specialmente ‘Ciao amici’ mi è sorto un dub- bio: forse, ho pensato, Gigliola è una ragazza semplice come me […] mi stai diventando simpatica e mi sento così stupida per non averlo ca- pito prima […] 109.

Gigliola insomma è un personaggio che non lascia indifferenti i giovanissimi: li divide. Nelle comitive di adolescenti di tutta Italia si verificano piccole discussioni tra chi la ama e chi la detesta. «Bisticcio sempre con le mie compagne di scuola perché loro preferiscono Rita Pavone», le scrive una 13enne della provincia di Nuoro 110. O ancora:

Cara amica Gigliola scrivo questa lettera per farti sapere che sei una brava ragaza [sic]. Quando sento che in cominciano a parlarla [sic] male mi viene rabia [sic] che non voglio sentire. Cara Gigliola a me mi dispiace per che sei una brava ragazza. […] Cara Gigliola, dai ret- ta al tuo […] non fare come Rita Paone [sic] e Mina. Tu sei una bra- va ragazza. […] 111.

Una diciottenne da Bergamo, così educata da dare del «lei» per- fino a una coetanea, le scrive addirittura: «Lei rappresenta l’ideale della nostra generazione» 112. Venendo agli adulti, ecco cosa le scrive un anziano signore da Roma:

Con te, non è solo la melodica canzone italiana che ha stravinto sulle degenerazioni dell’arte musicale e canora e sull’esoteromania [= este-

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romania, NdA], imperanti in questo avvilente dopoguerra: soprattut- to, hanno vinto la tua pettinatura semplice, i tuoi occhi limpidi e puri, il tuo visetto ‘pulito’ ed innocente, il tuo vestire sobrio e onesto, il tuo gestire timido e corretto di giovinetta bene educata, contro le scon- certanti, molteplici aberrazioni dell’odierna squinternata gioventù 113.

Un ammiratore le spedisce una poesia in rima presso la sua par- rocchia veronese: «[…] Forse, Gigliola, schiudi tu il cammino / a un mondo più pulito e più sereno; / la tua vittoria è il segno di un desti- no / che al malcostume forse porrà un freno. / […]» 114. Un preside di una scuola superiore in provincia di Reggio Emi- lia scrive a Gigliola per chiederle di partecipare alla festa dell’istitu- to: «Ho ammirato soprattutto in lei la studentessa modesta e sem- plice, novella Lucia manzoniana, entro un mondo apparso, finora, intriso spesso di eccentrismo ambizioso e vuoto» 115. Anche le mamme, naturalmente, gongolano:

Non ho l’età (per amarti) mi è piaciuta molto, sei stata apprezzata da tutte le mamme, perché hai messo sulla retta strada le loro figlie [Lina, da Monteforte].

Mentre la guardo e ascolto la sua bella armoniosa voce penso che vor- rei la mia figliola le assomigliasse, tanto mi piace il suo volto e le sue maniere così delicate e gentili […] la sua buona educazione, cose mol- to rare in questi tempi di dinamismo [Lena, da Boves] 116.

Non pochi ammiratori, ravvisando in Gigliola queste qualità, scorgono in lei la perfetta ragazza da portare all’altare, in quanto an- cora dotata dei sani valori d’una volta. E così le scrivono appassiona- te lettere d’amore: «Cosa aspettate di mettere in pratica il mio gran- de anore [= amore] per fondare una buona famiglia esemplare» 117. O ancora (Cesare, da Genova): «allorché la vidi per la prima vol- ta al Festival di S. Remo subito pensai che una così bella e dolce ra- gazzina sarebbe stata proprio quella mandata dal cielo per me» 118. E mandata dal cielo Gigliola appare anche in parecchi ambien- ti del mondo cattolico, presso il quale, non sorprendentemente, in- contra subito grande favore. Gruppi di ragazze cattoliche, giovani seminaristi, suore, sacerdoti, gesuiti, le scrivono per incoraggiarla, per ringraziarla dell’esempio dato ai giovani, per chiederle anch’es-

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si una foto autografata, per ammonirla a non farsi traviare, per farle sapere che pregano quotidianamente per lei. Così le scrive ad esempio, dall’hinterland torinese, il docente di seminario Padre F., all’indomani della sua apparizione al Festival:

non si offenderà se le dico che [la sua canzone] mi è parsa ‘una ma- gnifica predica’, quella che da anni io faccio a tutti i giovani smanio- si di iniziare una relazione affettiva prematura. E Lei glielo ha detto e cantato in modo graziosissimo: «Non ho l’età per amarti, per uscire sola con te». Grazie, signorina dell’aiuto che ci dà con il suo canto e i suoi dischi che adesso, per un anno almeno, si diffonderanno per tutta l’Italia. […] Chissà che qualcuno adegui la sua vita a tale saggia diret- tiva, affinchè l’amore sia più grande, più totale, più duraturo.

Pochi anni dopo il gesuita torna a scriverle: «Personalmente so- no convinto che i suoi consigli saranno seguiti assai più di quelli dei genitori e sacerdoti, dei quali lei diventa la migliore collaboratrice […] Lasci che le rinnovi il mio rallegramento e il mio augurio di un fecondo apostolato giovanile. La Madonna la benedica» 119. Analogamente, così le scrive una «vecchia maestra di bimbi» ve- ronese:

Grazie infinite per l’esempio, tutto olezzante di quella sublime purez- za che dovrebbe essere l’ornamento più ambito dal cuore di una gio- vane cristiana. Il tuo modo di cantare, il tuo sorriso angelico ha vinto una grande battaglia sulla insulsaggine moderna che approva ogni ur- lo di foresta offerto con l’accompagnamento del ballo dinoccolato di San Vito 120.

Non casualmente allora, questa eroina morale adolescente che «ha vinto una grande battaglia» la ritroviamo definita, in un’altra lettera, «l’incantevole Giovanna d’Arco della canzone italiana» 121. Intanto anche «Radio Vaticana elogia la Cinquetti: finalmen- te battuti gli urlatori!» 122. Un’ondata d’entusiasmo sta insomma at- traversando le varie componenti del mondo cattolico italiano 123, di fronte a una sorprendente quanto efficace riaffermazione canora di valori morali che apparivano ogni giorno più in pericolo. Ma di pari passo con questo entusiasmo va pure il timore per il possibile sopraggiungere di cambiamenti nell’eroina in questio-

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ne. Lo paventa fin dal primo momento la stessa Radio Vaticana 124, e glielo esplicitano poi anche i suoi ammiratori nelle lettere, già pri- ma che ciò avvenga. Come in questa missiva giunta da Torino, tra il paternalistico e l’affettuoso:

Gentile signorina. Tante felicitazioni et auguri. Tutto il mio entusia- smo. Però attenta a non finire come la numerosa schiera di giovani can- tanti, ubriacate dal denaro, dai viaggi, dalla società, dalle lodi e dal re- clame di Case industriali interessate. Le cito un esempio, Mina!! […] Stia attenta, non oltrepassi il limite, non si lasci incantare dai partner, dai filibustieri in caccia di leste fortune, dall’ambiente corrosivo e fal- so della T.V., dai roventi palcoscenici di tutte le latitudini umane […] Tanta e tanta fortuna. Cordiali saluti 125.

O ancor più nelle insistenti, invasive missive di un sacerdote si- racusano che le chiede di inviargli una foto con la seguente dichia- razione autografata: «Io, Gigliola, voglio essere sempre me stessa». Frase che assumerebbe tra i due una sorta di forza contrattuale: «Sa- rà questo per te un impegno di vita pratica e per me una spinta a pregare per te il Signore che ti conservi buona e ti renda felice». Ma poiché la foto non arriva, don V. torna a scriverle: «Come facciamo con cotesta foto, buona signorina Gigliola? Perché non me la mandi ancora?». Il timore viene chiaramente esplicitato: «Un cambiamen- to nel tuo modo di essere e nel tuo genere di vita ci deluderebbe» 126. L’archetipo idealizzato deve insomma rimanere tale, immobile nel tempo. A Gigliola non si perdoneranno cambiamenti di sorta. E difatti, al primo apparire televisivo di un qualche minimo segnale di maggior disinvoltura nei suoi gesti e nell’abbigliamen- to (nell’apparizione del 1967 alla trasmissione Senza Rete, in cui la cantante indossa un vestito comunque castigatissimo, ma che non arriva a coprire le ginocchia), ecco che i registi RAI cercano di evi- tare troppe inquadrature a figura intera e che a Gigliola cominciano a giungere lettere di delusa protesta. Come questa, proveniente da una contessa padovana, già dirigente dell’Unione Femminile Catto- lica negli anni Venti, che nel vederla «fare quegli stupidi gesti a pas- so di danza […] vederla vestita in minigonna accentuata, coi capelli sciolti», sbotta spazientita: «ma possibile, cara figliola, che nessuna, neanche se dotata come lei, sappia resistere a non farsi ridicola co- me tante farfalline scriteriate del giorno d’oggi» 127. O quest’altra let- tera che arriva da Bologna, particolarmente significativa:

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Cara Gigliola, sono una mamma che ti scrive mi scuserai il tu; liber- ta presami in quanto […] ti voglio bene come se fosti una mia figliola, tanto chè in casa mia e nel mio palazzo a forza di rammentare il tuo no- me, la tua gentilezza, sobrietà, purezza che ai […] ti amiamo tutti vec- chi e giovani, giuro ti vogliamo veramente bene. […] Perciò quando difronte a noi sei apparsa l’altra sera a presentarci la tua nuova canzo- ne ‘La rosa nera’ in minigonna, non ci sei veramente piaciuta e io sono rimasta veramente mortificata; ricordati, Gigliola, io sarò una Matusa, però noi ti vogliamo veramente tutti bene ed io per prima dico che a mia figlia permetterei andare al mare in costume alludo ai due pezzi ma in minigonna mai perché è uno sconcio ‘SCONCIO’. Tu sei troppo intelligente, un momento di smarrimento si può avere tutti, ma ti pre- go non farlo più. […] Che Iddio ti benedica sempre; e la Madonnina ti guidi nel migliore modo possibile 128.

In realtà Gigliola stava semplicemente cercando di non restare imprigionata in un personaggio – quello di Non ho l’età – che non poteva incarnare in eterno, né come persona né come cantante. Cer- ca allora di liberarsene, pur senza rinnegarlo. Nel 1965 torna al Festi- val con Ho bisogno di vederti, brano in cui il rifiuto di «uscire sola con te» già lascia il posto al bisogno «di restare insieme a te / di abbrac- ciarti / e di sentire / le tue mani fra le mie mani». Nel 1966 va oltre, con Dio, come ti amo!, un pezzo composto per lei da Modugno (che lo interpreta nell’altra versione in gara), che è un chiaro inno alla fe- licità piena dell’amore («Dio, come ti amo! / Non è possibile / avere tra le braccia tanta felicità / Baciare le tue labbra che odorano di ven- to…»). E con questo pezzo rivince il Festival. Alla stampa, che a quel punto comincia a chiederle ragione di questa sua evoluzione e inizia a ricamare su una presunta «Gigliola sexy», lei spiega che si è trattato di «una maturazione graduale, spontanea, senza cioè bruciare le tap- pe in modo repentino e innaturale. […] Ora, a 18 anni, questa svolta era legittima» 129. «Quando cantai ‘Non ho l’età’ io assomigliavo real- mente al personaggio di quella canzone. Anzi credo di aver ottenuto un grande successo proprio perché mi sentivo a mio agio in quel per- sonaggio. Sono stati poi i giornalisti a esagerare […]» 130. «Sono una brava ragazza per bene, ci tengo ad esserlo. Ma non sono quel mostro di perfezione che si vuol far credere» 131. «Io non ho voluto mai pren- dere atteggiamenti, sono solo me stessa, oggi come ieri» 132. Come già osservato, tale evoluzione artistica-personale della Cin- quetti qui rileva per la popolarità (intergenerazionale) che ella ave-

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va in quegli anni tra gli italiani, e per il ruolo che retrospettivamente si può ravvisare che essa abbia rivestito, in quel momento di veloce cambiamento delle mentalità, presentando agli italiani un modello di ragazza di successo in grado di coniugare vecchio e nuovo, in mo- do naturale e non traumatico. Un equilibrio che lei stessa cerca e ri- vendica per sè, come emerge da alcune delle sue risposte ai rotocal- chi dell’epoca. «Mi considero una ragazza moderna, di idee tutt’altro che arretrate, di educazione libera, priva di stupidi tabù» 133. «Sono una ragazza senza ipocrisie, che fa sempre quello che si sente di fa- re, non quello che pensa dovrebbe fare per piacere agli altri» 134. Pro- prio su questa base rivendica il diritto a non baciare un attore in un film che sta girando (un «musicarello» tratto proprio dalla sanreme- se Dio, come ti amo!), perché «per me il bacio è una cosa importante. Nella mia vita lo darò soltanto alla persona alla quale avrò deciso di dare il mio cuore. […] Baci finti non ne so e non ne voglio dare. Tut- to qui. E, per carità, non ne facciamo un romanzo». Analogamente, reclama il diritto a non avere ancora il fidanzato:

Non capisco perché mi vogliono attribuire a tutti i costi un fidanzato che non ho. Non capisco perché a 19 anni una ragazza debba essere per forza fidanzata. Il giornalista dall’aria furbetta a questo punto tira in ballo i complessi freudiani, la patologia […] In realtà la cosa è molto più semplice. […] Non sono innamorata di nessuno. Punto e basta 135.

Queste rivendicazioni, cortesi ma ferme, a ben vedere possono essere lette come specularmente complementari a quelle – di segno apparentemente opposto – avanzate pochi anni prima con esube- ranza da Mina (vedi sopra). La diciottenne Gigliola cioè si rifiuta di esibire un fidanzato o un bacio che non ha ancora vissuto per il me- desimo spirito d’autonomia in base a cui la ventitreenne Mina si era rifiutata di nascondere ai giornali la sua gravidanza fuori dal matri- monio. Sembrano due opposti, due Italie inconciliabili, due secoli diversi, ma in realtà sono due modelli di femminilità emergenti in- sieme e in un certo senso paralleli. «Sono una ragazza normale, moderna, con una mia personalità», continua a ripetere ai giornali Gigliola 136. Sempre nel 1966 dichiara:

Una volta pensavo che l’unico scopo [della vita] fosse per me di cre- scere educata, istruita, di sposarmi e di avere dei bambini. Oggi, per

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quanto sia ancora convinta che quello è l’obiettivo principale di ogni donna, ho capito che, invece, può esservi anche dell’altro. Il lavoro, la carriera, l’affermazione personale, ad esempio. Una donna può vive- re anche per queste cose. Per conto mio sento la grossa responsabilità di vivere questa vita, il dovere di non sciuparla, di fare qualcosa di co- struttivo per me e per gli altri 137 .

Un decennio prima di venir urlato nei cortei delle femministe, questo concetto era già stato maturato ed espresso, con consapevo- lezza e garbo, dalla diciottenne diva della più rassicurante canzo- netta sanremese. C’è poi un ulteriore aspetto che è importante sottolineare. Gi- gliola fu in quegli anni un’eroina interclassista: sia borghese che po- polare. Le lettere le arrivano infatti non solo da composte ragazzi- ne di buona famiglia, ma anche da contesti molto diversi: a Gigliola scrivono perfino prostitute, omosessuali, soldati, giovani carcera- ti, che le raccontano apertamente la loro storia e i loro problemi 138. Evidentemente anche presso queste categorie «la candida Gigliola» aveva fatto breccia, ispirato fiducia. Molto frequenti sono poi i racconti fatti alla giovane diva della propria condizione di indigenza, chiare testimonianze di un’Italia in cui la povertà contadina è ancora diffusa. Emblematico, tra i tan- ti, l’incipit di questa lettera giunta dal casertano: «Sono una povera contadinella di tredici anni […]» 139. Spesso poi a tali racconti si accompagnano richieste di aiuto eco- nomico, espresse in un italiano ancora dialettale e fortemente collo- quiale (si ricordi che nel 1960 il 9-10% degli italiani è ancora analfa- beta, e tale percentuale sale in alcune regioni sino al 25-30%). Come in quest’esempio: «Io sono una ragazza di famiglia contadina, è mi trovo ammalata da due mesi fa, siamo cinque figli, […] è siamo in miseria, mi fa la cortesia se non li dispiace di spedirmi qualche suo vestito, ho qual[ch]e golfo che non li serve, che la mamma non ha per comperarle. Mi raccomando di tutto questo non dirlo ha 140 nessuno che io ti ho scritto di nascosto dei miei genitori» . A Gigliola si chiedono soldi per pagare le cure mediche a po- veri genitori infermi; si chiede qualche vestito smesso da poter in- dossare al posto suo, così da poter finalmente uscire di casa senza doversi vergognare a causa della propria povertà; si chiede il dena- ro necessario a poter finalmente installare l’agognato termosifone

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nella fredda cascina di campagna; si chiede come si fa a diventare una cantante famosa; una giovane le chiede persino d’essere am- messa a lavorare gratis come cameriera in casa sua, nella speranza di essere notata prima o poi da uno dei discografici di passaggio in quella casa e ottenere da loro una breve audizione canora, riuscen- do così forse a sottrarsi a un futuro di povertà contadina nel Me- ridione. In qualche caso invece le si chiede, più prosaicamente, un giradischi o un suo disco in omaggio (magari con la promessa di ripagarglielo a rate!) 141, o un aiuto per comprarsi una pelliccia, lo status-symbol femminile per eccellenza degli anni del boom. Ma assai più spesso la richiesta d’aiuto serve per riuscire a pagare l’af- fitto, per comprare cappotti ai figli o legna alla casa, e fronteggiare così l’inverno incombente: insomma per riuscire a «tirare a cam- pare» in mille e più situazioni-limite di quell’Italia. Le richieste non di rado diventano delle vere suppliche: «In te resta la mia speranza, non farmela perdere, te ne supplico e ti sarò grata per tutta la vita. Mi esaudirai o farai finta di niente?» 142. Ed ecco come una povera ragazza romana le chiede un aiuto per poter comprare una macchina da scrivere: «Lei è di cuore molto buono, come quando la vedo in televisione, e così conto molto su di lei, la prego come una Madonna e spero che questa mia preghiera a tutto il suo buon cuore sia accolta» 143. Come si vede, la sovrapposizione istintiva tra la figura della gio- vane cantante ammirata e l’entità religiosa a cui i devoti chiedono degli aiuti è talmente presente da divenire talvolta perfino esplicita. «La candida Gigliola» è vista da molti quasi come una nuova san- ta dispensatrice di grazie. Pare avere «il potere di avverare i sogni proibiti di una classe popolare che vede il boom economico a pochi passi e non riesce ancora a goderne» 144.

Questo dunque il grado di identificazione metasociale che un personaggio apparso dal nulla sul palco del Festival di Sanremo riuscì a raggiungere in tutte le zone e i contesti sociali d’Italia. Ep- pure un brano e un personaggio che nel 1964 ebbero un così va- sto e spontaneo successo, oggi invece (qualora mai venissero pro- posti) apparirebbero con ogni probabilità strani, fuori contesto, anacronistici. Il che porta a soffermarci sul modo in cui i costu- mi – in relazione alla sfera sessuale e ai rapporti con l’altro sesso – siano cambiati e stessero cambiando proprio in quegli anni, e sul

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modo in cui quei cambiamenti si rispecchiassero anche nelle altre canzoni del tempo 145. Ci sembra però doveroso premettere come metodologicamente non si tratti qui di dare valutazioni di merito sulle varie consuetudi- ni storiche del costume sessuale, sostenendo l’arretratezza o il valo- re morale di questo o quel comportamento (spesso i libri riguardanti questo periodo storico cadono in tale errore di prospettiva). Piutto- sto ci sembra necessario, nel ricostruire le tracce di tali mutamen- ti intercorsi, mettere in luce come allora certi costumi fossero spes- so frutto di conformismo più che di sincere convinzioni individuali. La pressione sociale e il bigottismo (molto presenti in tutta Italia ma fortissimi soprattutto nelle zone più arretrate, come il Meridione) li rendevano infatti doveri sociali imprescindibili, cui le donne non potevano sottrarsi senza essere additate al pubblico ludibrio come delle «poco di buono». Difatti una ragazza nubile che avesse la sven- tura di non essere più illibata veniva definita «disonorata»: si perce- piva come segnata in maniera indelebile e avrebbe faticato non poco a trovare marito (e per questo spesso finiva per sposare proprio chi l’aveva disonorata, in quelle che si chiamavano «nozze riparatrici»). Inoltre, soprattutto nelle zone arretrate e nelle famiglie patriarcali, non sempre la ragazza aveva diritto di decidere chi avrebbe sposato: spesso il marito era designato dalla famiglia, senza tenere conto dei sentimenti dell’interessata. C’era insomma una pressione fortissima, oggi quasi del tutto allentatasi. Ciò non toglie che molti matrimo- ni fossero invece frutto di autentiche e nobili scelte di dono recipro- co, e che molti seguissero certe norme anche per sincere convinzio- ni personali: dati che apparirebbe errato liquidare con un sorriso di sufficienza. Quella però era pure un’Italia in cui, per esempio, non era ancora scomparsa, in certe zone, l’usanza di stendere al balcone le lenzuola della prima notte di nozze, al fine di ottenere la necessa- ria approvazione morale del vicinato, fornendo la prova dell’illiba- tezza della sposa. Oggi paradossalmente la situazione sembrerebbe quasi ribaltata, nel senso che la pressione sociale la avvertirebbe pe- santemente piuttosto chi a certi modelli di comportamento volesse continuare a tener fede. Che sia anche questa una fase di transizio- ne? Il problema andrebbe analizzato su scala quantomeno europea (non essendo specificamente proprio dell’Italia ma di tutte le moder- ne società secolarizzate). Necessiterebbe insomma di analisi ben più ampie, non affrontabili in questa sede. Torniamo allora alle canzoni

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italiane dell’epoca, per scoprire le tracce che più o meno consapevol- mente esse contenevano di quei cambiamenti in corso. Volendo sintetizzare al massimo il nocciolo della questione, si potrebbe dire che tra questo testo:

Fin da quand’ero bimbo, sfogliando tante fotografie, una che accendeva più di tutte la mia fantasia era una giovinetta dell’Ottocento, con l’ampia gonna Era la mia nonna che con il nonno si sposò. (Rit.) Era bella sotto il mandorlo con la veste rosa, quella bimba un poco timida, già promessa sposa. Al suo fianco un bruno giovane l’adorava già, guardandola… Un amor così romantico, tenero, candido, come i fiori di quel mandorlo, oggi non si trova più… Come mi piacerebbe poter tornare nell’Ottocento […] e sposarla in fretta per non abbandonarla più. (Rit.) (Sotto il mandorlo, finalista nell’edizione 1951, cantata dal Duo Fasano)

… e questo:

Metti che ti presenti a una ragazza e dici: «Suono bene il clarinetto». Metti che lei capisce tutta un’altra cosa e ti fa subito l’occhietto. […] La cerco come la Titina questa bella chitarrina per far qualche swing, mentre il clarinetto sping… così nasce un bel blues A-hum! A-hum! A-hum!… A-hum! A-hum! A-hum! (Il clarinetto, seconda nell’edizione 1986, cantata da Renzo Arbore)

… semplicemente c’è di mezzo il boom.

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E forse in fondo potrebbe bastare per dare l’idea. Difatti un pez- zo come Il Clarinetto negli anni Cinquanta avrebbe suscitato un pu- tiferio gigantesco – o più semplicemente non sarebbe stato neppure proposto al Festival; mentre nel 1986 partecipa e viene serenamen- te preso per quello che è, cioè una innocua e simpatica goliardata. Ma tra i due estremi passano anche molte sfumature interes- santi che vale la pena di analizzare almeno brevemente. Cominciamo dalle canzoni del Festival «prima maniera». Esse presentano un quadro molto chiaro: la famiglia vi emerge chiarissi- mamente come colonna portante della vita individuale e come nu- cleo fondante della società. All’epoca infatti la situazione era pro- prio questa, e quelle canzoni non facevano che celebrarla, a partire naturalmente dal suo fondamento: il matrimonio. Per limitarsi a po- chi esempi in merito:

Quale emozione e qual fremito, nei nostri cuor, inginocchiati là, davanti all’altar! Ti ho detto «si», mi hai detto «si». teneramente! questa breve parola da oggi ci unisce eternamente! (Il nostro sì, 1957)

L’incanto di una rosa profumata deliziosa sei per me, mogliettina E col passar degli anni il cuore invecchierà ma il nostro amor, non morirà (Mogliettina, 1954)

[…] Il villaggio è tutto in festa ad aspettar una cara coppia che l’amore unì per la felicità… […] Passò presto primavera din don dan E l’estate passò tutta ad aspettar E l’autunno cuore a cuore presso il vecchio focolar […] Finchè un giorno nacque un caro bambolin che i trilli suoi lanciò e tutta di grazia quella casa allor di festa profumò […] Da quel giorno son trascorsi tanti dì per i cuori che il Signore benedì una schiera di bambini è fiorita in quel giardin…

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oggi i cari vecchi sono nonni […] come quel giorno lontano si tengono stretti per mano […] è una cara storia nata in un april di cinquant’anni fa (Nozze d’oro, 1958).

Il valore della famiglia del resto era fortissimo non solo nelle fa- miglie cattoliche o nella mentalità democristiana, ma anche in quella comunista. Come mostra dettagliatamente lo storico Silvio Lanaro, la disciplina e l’intransigenza sui costumi erano valori molto senti- ti anche negli ambienti di sinistra 146. I comunisti italiani non era- no meno attaccati alla mamma di quanto lo fossero i democristiani. Per la famiglia (e il matrimonio) era insomma un vero trionfo. Viceversa, oggi che queste istituzioni appaiono attraversare una gra- ve crisi, va da sé che testi di questo tipo siano completamente scom- parsi. Del resto già a distanza di soli sette anni da Nozze d’oro, tra le finaliste del Sanremo 1965 compare Abbracciami forte, un brano interpretato da Ornella Vanoni (che pure lo considerava «una vera schifezza»! 147), in cui raccontava di un soprag- giunto per una donna già sposata, la quale sceglie però, pur a malin- cuore, di non lasciare chi «ha vissuto / per tanto tempo / accanto a me». La risoluzione è quindi quella che ci si aspetterebbe di ascolta- re a Sanremo, ma il legame matrimoniale, a boom arrivato, comin- cia a venir cantato con maggiore problematicità. E la donna? Qui sarà utile fare un breve passo indietro. Nei de- cenni precedenti, e specie negli anni Trenta, essa era stata canta- ta spesso secondo un’immagine bucolica. Lo stereotipo era quel- lo della ragazza campagnola, tutta trecce, semplicità e genuinità (si pensi alla celeberrima Reginetta campagnola 148), implicitamente contrapposto alla moderna donna di città (ritratta in altre canzo- ni dell’epoca come Signorina grandi firme 149, La piccinina, o La ge- losia non è più di moda), dalla bellezza sofisticata, più emancipata, pericolosa seduttrice («con gli occhi da assassina», come la canta Carlo Buti in La romanina). L’immagine femminile era cioè stret- tamente associata a quella del suo ambiente di vita, considerando l’uno pericoloso e corruttore, l’altro sano e virtuoso (anche perché dipinto con toni d’acquerello, in una idilliaca serenità e benesse- re ben distanti dalle reali condizioni della vita contadina) 150. Ta- le esaltazione delle virtù del mondo campagnolo da un lato era espressione autentica della natura ancora prevalentemente agri-

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cola del paese 151; dall’altro era conforme alle politiche ruralistico- autarchico-demografiche fortemente promosse dal regime fasci- sta (si pensi alla «battaglia del grano», alle bonifiche agrarie, alla spinta verso l’incremento della natalità, o all’avversione per la co- siddetta «donna-crisi» magra e sterile, a differenza della prospe- rosa «matrona» italica) 152. Questo clima da strapaese, con relativa immagine femminile, aleggiava anche in altre canzoni celebri di quegli anni, come Fiorin Fiorello, Campane del villaggio, e ancor più esplicitamente in Se vuoi goder la vita 153. Crollato il fascismo, ecco che nelle canzoni del Sanremo «prima maniera» la donna viene cantata ancora con vari accenti, ma la sua immagine smette di essere bucolica e diventa accostata soprattutto al- la sfera religiosa. Si pensi, per fare un solo esempio, a Una donna pre- ga, terza classificata nel Sanremo edizione 1952 (con tanto di coret- to che, dietro la voce di Nilla Pizzi, ariegga l’Ave Maria di Schubert). Quando poi la donna ricopre il ruolo di sposa o di mamma, as- sume sembianze addirittura angeliche:

[…] la mia sposa sembra una rosa tra i fiori d’un altar… (Campana di Santa Lucia, 1958);

È tanto bello quel volto di donna Che veglia un bimbo e riposo non ha Sembra l’immagine d’una madonna Sembra l’immagine della bontà … (Tutte le mamme, vincitrice nel 1954)

Madonna delle rose, riportami il sorriso di quella che cantava in questa casa: […] le rose, come Te, le amava tanto la madonna mia… (Madonna delle rose, 1952)

Una descrizione delle donne «sanremesi» la offre Montanelli, commentando divertito i testi dell’edizione 1959. Egli le trova total- mente «aeree e disincarnate», a causa della già citata «cautela esem- plare» dei parolieri. Quel che invece è ben visibile è che sono

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delle gran brave figliole, affamate non di gioielli e di visoni, ma d’un cantuccio di luna e d’un grappolino di stelle. Sorridono sempre, pove- rine, sognano, sospirano, e chiedono solo d’essere amate, o almeno di essere illuse che le si ami. Chi lo fa, si prepara una vita in rosa e può dormire tra due guanciali.

Montanelli concludeva il suo articolo chiedendo «ai censori del- la televisione» di dare a quelle figure femminili un minimo di im- prevedibilità e un po’ meno ostentata fedeltà: «di tornare senza in- dugi se non proprio alle vipere, almeno alle bisce» 154. Egualmente, la nascita dei figli – altrotopos ricorrente delle pri- me edizioni di Sanremo – viene cantata non solo come dono divino, ma quasi come una sorta di apparizione celeste, improvvisa e in un certo senso inspiegata:

Poi gli angeli han fatto con l’ali dal cielo una scala e lungo la scala qualcuno cammina da te… […] tuo figlio… Ma come? Di già?! (Qualcuno cammina, 1953)

Poi come fu – chi si ricorda più! dopo il maschietto – la femminuccia (Sotto l’ombrello, 1954)

Lei s’avvicina alla fonte più divina è già mattina ed io son già papà (Campana di Santa Lucia, 1958)

Quanto all’amore uomo-donna, da sempre tema per eccellenza delle canzonette, esso viene presentato nel «primo» Sanremo in qua- si tutti i modi possibili (diciamo in tutti i modi presentabili): infelice o appagante, appena nato o lungo una vita, etereo o fatto di baci appas- sionati, problematico o destinato a non finire mai. Con una accentua- zione, naturalmente, per quest’ultimo caso, vista anche l’irrinuncia- bile consegna di commuovere il pubblico 155; ma non senza qualche sorprendente eccezione. È il caso della «cinica» (che nel 1956 arriva addirittura seconda cantata da ):

Mi piace tanto accarezzarti, sugli occhi timidi baciarti

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Ma non mi sento di giurarti, se tu mi chiedi eterno amor Abbandoniamoci al destino, soltanto lui non sa ingannar […]

Senza contare che già nell’edizione precedente aveva gareggia- to – classificandosi al sesto posto – un brano comeL’ombra , raffina- to blues il cui testo raccontava velatamente la solitudine notturna di una prostituta (!); furono però in pochi a cogliere il preciso signifi- cato del pezzo, anche perché quasi subito dopo il Festival si proce- dette a bandirlo dalla programmazione radiofonica 156. Queste eccezioni cominciano a farsi più vistose e frequenti ver- so la fine degli anni Cinquanta. Per esempio proprio con Jula de Palma che, come abbiamo mostrato nel Capitolo 1, nel 1959 su- scita una bufera con l’interpretazione audace di Tua. A proposi- to di questo brano, è interessante sottolineare come le tre interpre- tazioni che esso registrò in quel 1959 (De Palma, Torrielli, Mina), musicalmente tutte molto riuscite, incarnassero di fatto «tre epo- che, tre culture» 157. Come si può verificare vedendo in rete i filma- ti dell’epoca, infatti, le medesime parole raccontavano un diverso modello di femminilità a seconda dell’interprete che le cantava. Nella voce morbida e sognante della caramellaia Torrielli, ben ve- stita ma senza eccessi, si poteva intravedere una collegiale o una signorina di buona famiglia intenta tutt’al più a sognare amori impossibili sui fotoromanzi; la voce vellutata e suadente della «so- phisticated lady» Jula De Palma rimandava invece a una donna consapevolmente innamorata, che sta dichiarando la propria pas- sione a un uomo reale; mentre la voce swingante della giovanissima Mina («Tu-à! Tra le braccia tu-è!…») faceva pensare subito a una ragazza sbarazzina che grida ai quattro venti un suo ‘sfizio’ mo- mentaneo per il bello della compagnia. Si tratta di un trittico di in- terpretazioni storicamente rivelatore, perché mostra la compresen- za di modelli femminili diversi in pieno transito nell’Italia di fine anni Cinquanta. Tanto che il duetto televisivo a Canzonissima sulle note di Tua verrà giocato coreograficamente, da Garinei e Giovan- nini, proprio su questa contrapposizione fra tradizione e moderni- tà, per poi risolverla nel finale del brano 158. L’anno seguente Jula de Palma continua imperterrita a cantare versi come:

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[…] Sento il tuo respiro E sento già le mani tue leggere Che prendono il mio cuore per farlo morir Amore amore abisso dolce Fra le tue braccia silenziose […] (Amore abisso dolce, 1960).

Nel 1961, ecco Lady Luna, che racconta l’amore con accenti par- ticolari, quasi prepsichedelici («azzurra visione drogata / cercando- ti amandoti odiando / precipito in te»); oppure Carolina dai, dello stesso anno («Dai dai dai, carolina, dai! / Dammi un bacio e ti di- vertirai!»). Senza contare i Ventiquattromila baci di Celentano, di cui si è già detto. Non a caso l’«Osservatore Romano» denuncia «il cattivo gusto, la frivolezza e la balordaggine» di quell’edizione: «un festival che vorremmo dimenticare al più presto. Una compe- tizione canora non certo poetica a giudicare dai titoli e dalle parole delle canzoni» 159. Ma sono preoccupazioni eccessive, anche perché queste innovazioni non scalfiscono più di tanto sua maestà la tradi- zione: nel 1960 e 1961 infatti stravincono Romantica e Al di là, che presentano l’amore in modo assolutamente etereo, rassicurante e ir- reale. Nel 1962 ricompaiono (in quinta posizione) i tormenti di una prostituta, nella suggestiva Stanotte al luna park interpretata da Mil- va, anche se a stravincere naturalmente è la solita trita e ritrita sce- na d’addio da romanzo rosa (Addio…addio), qui gentilmente offer- ta dalla premiata ditta Modugno-Villa.

Ma se un modo nuovo e più realistico di rappresentare l’amore si comincia a intravedere a Sanremo, è segno che fuori da esso c’è molto di più. Difatti i cantautori e i teen-idol sono alle porte. Col ter- mine «teen idol» ci si riferisce a personaggi come , Rita Pavone, Little Tony e compagnia cantante. Anche le loro can- zoni, seppure non sanremesi, aggiungono un contributo significati- vo al quadro che stiamo tracciando. Morandi per esempio quando canta «Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte / devo dirti qualche cosa che riguarda noi due / […] / scendi amore…», ci sta raccontando che all’epoca una ragazza per poter uscire di casa do- veva fornire in famiglia una motivazione ben precisa. E che maga- ri la motivazione «c’è giù il mio ragazzo» poteva non essere gradi- ta, per cui era meglio trovare una scusa (che poi verosimilmente le

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mamme facessero solo finta di non capire, ma sapessero benissimo come mai la figlia volesse improvvisamente provvedere alle necessi- tà alimentari della famiglia, è un altro discorso…). Similmente Liana, un pezzo poco noto di Little Tony, del 1962, è tutto giocato sul tema della difficoltà di incontrarsi con la propria ragazza, causa perentorio divieto parentale: «Liana, Liana, Liana / devi dire al tuo caro papà / che almeno una volta a settimana / ti la- sci uscire con me!». Due anni dopo il medesimo problema arriva anche a Sanremo, cantato dal giovanissimo Bruno Filippini, nel brano Sabato sera:

Lunedì, com’è triste il lunedì, senza te Martedì, com’è vuoto il martedì, senza te […] Mercoledì, un bacetto ti darò, solamente per telefono Come pure giovedì, e venerdì Maaa… sabato sera ti porto a ballare, ti potrò baciare, ti potrò baciare Ma sabato sera ti porto a ballare, e potrò restare con te!

Del resto già nel 1956 Modugno aveva scritto Io, mammeta e tu (poi portata al successo da Carosone), esilarante satira su una mam- ma scocciatrice (una mamma così diversa da quelle sanremesi!), che non lasciava mai sola la povera coppietta, controllandola a vista in ogni occasione. Oggi i giovani non hanno di questi problemi, e i cantanti per giovani non cantano più queste cose. Significativo anche un pezzo come Renato, del 1962, dove ad- dirittura era la ragazza che, sbarazzina, insisteva per avere dal suo moroso qualche segno d’amore un po’ meno platonico. E chi me- glio di Mina poteva interpretare questo pezzo, strillando la sua in- traprendenza?

[…] Renato Renato Renato a casa tua tu mi hai invitato Renato Renato Renato e ci ho trovato papà e mammà! Renato Renato Renato così carino così educato Renato Renato Renato

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mi porti al cinema e guardi il film! Scommetto che nessuno bacia come te però chissà perché non lo dimostri a me se tu ti decidessi a dirmi almeno un sì io non sarei ridotta così!

Dove oltretutto quell’«io non sarei ridotta così» sembra indica- re un disagio della ragazza, esposta a passare per scostumata, visto che deve recitare la parte di chi chiede, invece che quella di chi con- tiene e respinge (ruolo che era più appropriato per una ragazza de- gli anni Sessanta). Intanto anche i teen-idol più famosi del mondo, i Beatles, nel- le loro canzoni danno piccoli segnali di un nuovo modo di vedere l’amore: «I’ll buy a diamond ring, my friend / if it makes you feel al- right», cantano nel 1964 in Can’t buy me love. E quel «my friend» è un modo inedito di chiamare la propria fidanzata, in luogo dei più tradizionali e impegnativi «my love», o «darling». Ed il nuovo ap- pellativo finisce immediatamente sulle bocche deiteen-ager di mez- zo mondo. È un modo meno aulico, più colloquiale e vicino, di chiamare (e quindi di pensare, di vivere) l’amore: amica mia, non necessariamente mia anima gemella 160. E veniamo ai nostri cantautori: nei loro testi, l’amore assume un volto più problematico, meno spensierato. E la donna inizia a scen- dere sulla terra. La Teresa cantata nel 1965 da ne è un esempio lampante 161:

Teresa, quando ti ho dato quella rosa, rosa rossa mi hai detto «prima di te io non ho amato mai» Teresa quando ti ho dato il primo bacio sulla bocca Mi hai detto «adesso cosa penserai di me» Teresa, non sono mica nato ieri Per te non sono stato il primo, Nemmeno l’ultimo, lo sai, lo so Ma Teresa, di te non penso proprio niente, proprio niente, mi basta restare un poco accanto a te, a te Amare come sai tu, non sa nessuna Non devo perdonarti niente Mi basta quello che mi dai

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È interessante notare, tra l’altro, che questa canzone (in cui l’idea tradizionale di amore definitivo, primo ed ultimo della vita, specie per la donna, lasciava palesemente spazio a un orizzonte più limitato all’hic et nunc, scrollando la ragazza da una serie di sensi di colpa sociali) incorse in problemi di censura non già per il mes- saggio che conteneva, come ci si sarebbe potuti aspettare, bensì per via di un motivo meramente linguistico. La RAI infatti non passa- va il pezzo in radio in quanto il verso «Teresa, non sono mica nato ieri» era stato giudicato dal maestro Razzi (lo stesso che aveva orga- nizzato il primo Sanremo) linguisticamente non idoneo, per via di quel «mica», troppo colloquiale. E fu così che Endrigo ne dovette registrare una versione appositamente per la RAI in cui quel verso diventava «Teresa, la vita è solo un’avventura» 162. La commissione d’ascolto RAI insomma si ergeva a bastione non solo della mora- le comune 163, non solo dello stile musicale tradizionale, ma perfino della proprietà lessicale. Qualche anno prima (1957), per via di un concetto del tutto ana- logo a quello espresso in Teresa, era incorsa nella censura la cele- bre Resta cu’ mme di . I famosi versi «nun me ’mporta d’o passato / nun me ’mporta ’e chi t’ha avuto / resta cu’ mme, cu’ mme» potevano infatti alludere a una situazione di per- duta illibatezza della ragazza, per di più sorvolata dal suo lui: e co- sì la RAI gliene impose zelantemente la sostituzione, con «nun me ’mporta si ’o passato / sulo lacrime m’ha dato». Tre anni dopo, Modugno ci ricasca: compone Nuda, brano in cui già il titolo rappresenta un evidente problema (anche se i ver- si, pur sviluppando il tema, non sfociano nella volgarità: «Langui- da, morbida, purissima / Nuda! Mia! / Ti sento ancora tra le mie braccia / bevo il tuo respiro, dolce morire! / […] / Nuda, Nuda…»). Egli, come accennato nel Capitolo 1, a quanto pare pensa perfino di portarla a Sanremo, prima di sostituirla con Libero onde evitare guai fin troppo prevedibili. Guai che comunque arrivano, puntua- lissimi, non appena egli sceglie Nuda come lato B del 45 giri sanre- mese. La Fonit-Cetra deve correre ai ripari, ristampando in fretta e furia il 45 giri di Libero con un lato B più presentabile (Più sola), e sugli esemplari già distribuiti in commercio fa coprire il titolo incri- minato con una strisciolina di carta 164. Il brano Nuda sparisce così dalla circolazione. «L’amore non può essere sempre una cosa vaga – aveva confidato Modugno a proposito di quel pezzo – da angeli e

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cherubini, da monogami privi di crisi, debolezze, dubbi. Ho voluto fare una canzone su un amore vero, fra un uomo e una donna. Con tutta la misura che l’argomento richiede, naturalmente» 165. Misura e delicatezza che ritroviamo anche nella dolcissima Non arrossire, di Giorgio Gaber (1960, su testo di Mogol):

Non arrossire Quando ti guardo, ma ferma il tuo cuore che trema per me. Non aver paura Di darmi un bacio, ma stammi vicino e scaccia i timor. Il nostro amor Non potrá mai finire. […] No, non temere, non indugiare, non si fa del male se puro è l’amor.

Gino Paoli invece in una canzone del 1964, A Milano non cresco- no i fiori, prende posizione contro la cosiddetta «operazione antiba- cio», cioè quel servizio di sorveglianza che in diverse città italiane era stato istituito per salvaguardare la moralità pubblica nelle scuole e nei cinema. Nell’ambito di questa zelante quanto intrusiva operazione, due giovani a La Spezia erano stati arrestati per «atteggiamento non consentito». Migliacci prende nota e Paoli mette in musica l’episodio: «L’altra sera volevo baciarti / non ho potuto farlo, perché / perché ci presero nome e cognome / in un prato che prato non è». E mentre a Sanremo può capitare ancora che una stessa canzone abbia un testo diverso a seconda che la canti un uomo o una don- na, in modo che il ruolo della «stupida» sia sempre ad appannaggio femminile 166, intanto scrive canzoni molto chiare sul tema. Uno dei suoi brani più famosi comincia così:

Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare

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In questi due soli versi, del 1962, c’è mirabilmente racchiusa tutta la solitudine e lo smarrimento della nuova società industriale; e c’è la demolizione completa dell’idea d’amore sanremese, celeste e totale. In Io sì, e in Uno di questi giorni ti sposerò 167, poi, la critica di Tenco si rivolge direttamente ed esplicitamente contro il precetto morale di matrice cattolica, anche se presente pure in molte altre re- ligioni, che non ammette rapporti sessuali prima del matrimonio.

Un giorno di questi ti sposerò, stai tranquilla Così la smetterai di darmi il tuo amore col contagocce Un giorno di questi ti sposerò, stai sicura Così la smetterai di rinfacciarmi quel che dice il mondo

dove l’accenno a «quel che dice il mondo» conferma quanto di- cevamo prima a proposito della necessità di conformarsi a certe prassi non tanto per convinzioni personali, quanto per la pressione di una società bacchettona e ciarliera 168. Non stupisce dunque che in un’intervista a Radio Montecarlo, Tenco si sia scagliato apertamente contro Gigliola Cinquetti:

È la retorica personificata. Cioè la ragazzina che non ha contatti ses- suali, che assolutamente non può fare…invece è tutto sbagliato […] E questa ragazzina salta fuori così, in un periodo di libertà, come reazio- ne, come una reazione direi… di destra, se si può usare un termine po- litico anche per la musica leggera. […] Ma purtroppo forse è il simbolo dell’Italia di sempre, specialmente se si vede dietro questa sua inno- cenza una piccola malizia negli occhi: nascondere cioè dietro l’acqua e sapone tutto un retroscena 169.

Del resto non solo la canzone, ma anche la cronaca quotidiana del tempo è piena di avvenimenti che manifestano chiaramente co- me una delicata transizione fosse in corso: dalle inchieste sul sesso effettuate dal giornale liceale «La Zanzara» nel 1966, che finiran- no in tribunale, alle nozze tra Sophia Loren e Carlo Ponti, i quali in quello stesso anno devono andarsi a sposare in Francia perché in Italia il divorzio non è previsto dall’ordinamento giuridico; dalla prima traduzione in italiano (1963) del saggio del 1936 dello psica- nalista Wilhelm Reich La rivoluzione sessuale, all’arrivo della bam- bola americana Barbie, che a partire dal 1964 mette in mano alle

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bimbe italiane un modello di donna nuovo, più emancipato e mo- derno; fino alla vicenda di Franca Viola, che nel 1965 fa scalpore e giurisprudenza (lei, ragazza siciliana, rapita e violentata da un «cor- teggiatore» che voleva sposarla ma che lei respingeva, sceglie corag- giosamente di non accettare la normale prassi delle nozze riparatri- ci, e denuncia il «corteggiatore», il quale finisce in carcere). Certamente il tema potrebbe essere ulteriormente approfondito, sotto molteplici aspetti. Ma qui, concludendo, ci sembra importante rimarcare ancora come tutti questi accadimenti e contrasti vadano a nostro avviso valutati storicizzandoli, senza amplificarne troppo la portata: come detto, queste resistenze al cambiamento, presenti in larga misura anche all’estero, erano inevitabili, in quanto natura- li «scosse di assestamento» dovute ad un passaggio storico che sta- va avvenendo in modo così netto e veloce. Infine, nel concludere questo excursus sul tema, non possiamo non menzionare un’edizione di Sanremo successiva alla fase del bo- om qui analizzata, ovvero quella del 1976, che vide un gran fiori- re di tematiche erotiche: spogliarelli di adolescenti minuziosamente descritti (Non lo faccio più, persino vincitrice!) 170, seduzioni plurime di figlia e madre (Gli occhi di tua madre), allusioni a ripetuti amples- si (Più forte), bizzarre scene d’eros campagnolo consumato tra un preadolescente e un’attempata signora di fronte a stupefatti scoiat- toli (Signora tu), prime ipotesi di gravidanze (Due anelli), melodram- matiche partenze per aborti in terra straniera (Volo AZ 504) e infine femministe arrabbiate col maschio ma non insensibili al suo corpo (La femminista). Proprio quest’ultimo brano, cui tra l’altro viene im- posta la modifica di un verso 171, procura finanche un’aggressione al suo interprete (Antonio Buonomo), da parte di un gruppo di una quindicina di femministe offese, che lo attendono fuori da un alber- go e «gliele suonano» di santa ragione, fino all’intervento della for- za pubblica (o almeno così si dice… 172). In pieni anni Settanta, un’edizione simile – con riferimenti ero- tici presenti, forse non del tutto casualmente, in ben 17 brani su 30 in gara – appare interpretabile da un lato come l’ammiccare, insie- me furbo e patetico, di un Festival in crisi ai pruriti di pubblico e media; dall’altro, in ottica storica, come il segno che la transizione su certe tematiche sia ormai largamente compiuta, tanto da potersi esplicitare perfino su quel palco, luogo sornione dell’identificazio- ne nazional-popolare in forma bonariamente canora. L’importan-

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za storica di quei testi e di quella graduatoria resta tuttavia relativa: non va esagerata, perché quelli sono anni in cui Sanremo è in tale crisi che non fa neanche più tendenza tra la gente. L’epoca d’oro del Festival è ormai alle spalle. Anche se, come s’è mostrato, esso con- serva tuttora, e probabilmente conserverà sempre, a tratti, una certa sua capacità innata di cogliere e rappresentare frammenti della real- tà italiana e della sua evoluzione.

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