Per la critica

LUCIANO BIANCIARDI, LA VITA AGRA di Marco Onofrio

Il romanzo che impose Luciano Bianciardi ma che, con il successo, mise in crisi la natura anarchica e indipendente del suo intelletto, va anzitutto contestualizzato nello spirito dei tempi in cui fu scritto e pubblicato. La vita agra (1962) si colloca infatti nel filone della cosiddetta “letteratura dell’industria”, improntata alla denuncia delle nuove gravi realtà determinate dallo sviluppo capitalistico a partire dalla seconda metà degli anni ’50. Si parlava in quegli anni di “fagocitosi industriale”, ovvero di esodo dalle campagne, di emigrazione interna, di nuovo urbanesimo. Ecco dunque farsi man mano visibili le ombre del “boom” o “miracolo economico” (1959-1963), determinato a monte dal convergere di alcuni fattori come il vertiginoso aumento degli scambi commerciali, la crescita di produzione industriale e il basso costo del lavoro. L’alta domanda di assunzioni consentiva ai padroni l’offerta di salari mediocri e a cattive condizioni di salute e sicurezza, da cui malattie e morti bianche. I sindacati erano ancora deboli, e allora sorsero spontaneamente ondate di scioperi e fenomeni di contestazione: come ad esempio contro il governo Tambroni (1960), coagulatosi con l’appoggio decisivo del MSI. Gli intellettuali si impegnano a descrivere la nuova questione sociale, attraverso l’analisi delle problematiche ingenerate dalla civiltà dei consumi. La catena di montaggio in fabbrica produce alienazione, e quindi insoddisfazione che andrà sanata rispondendo ai bisogni indotti artificialmente dai pubblicitari per alimentare il consumo delle merci, in un circolo vizioso per cui più l’operaio lavora, anzi più lavora male, più si trasforma in consumatore delle merci da lui stesso prodotte, inseguendo sogni e bisogni effimeri che aggravano ulteriormente la sua alienazione, nonché la necessità di lavorare per potersi permettere le merci o estinguere i debiti contratti per acquistarle, e così via… Si denuncia inoltre la tossicità delle sostanze a cui gli operai sono esposti lavorando in fabbrica senza adeguate precauzioni; nonché l’impatto ambientale delle scorie industriali, che producono i primi rilevanti fenomeni di inquinamento. Sono pagine che brillano spesso per lucidità cognitiva e capacità di predizione, anche se – occorre ricordarlo – muovono alla lettura di un mondo ancora descrivibile (ad esempio in termini di bipolarismo USA-URSS) e infinitamente meno complesso di quello odierno. È in quegli anni decisivi che, nell’ottica non ancora globalizzata ma già internazionale dei flussi di scambio e di profitto, vengono posti i fondamenti della società tecnocratica di fine ‘900, dove il cittadino è un numero o meglio un codice, cioè vale nella misura in cui consumatore, e dove si guarda alle cose senza lungimiranza, ignorando le conseguenze future delle scelte, come se appunto non ci fosse un domani per il pianeta e l’intera umanità. Oggi viviamo gli avvitamenti estremi di quel processo che anche in Italia venne innescato alla fine degli anni ’50 e che i narratori tanto lucidamente seppero analizzare.

Ricordiamo fra gli altri OttieroOttieri con Tempi stretti (1957) e Donnarumma all’assalto (1959); Italo Calvino con La nuvola di smog (1958); Giovanni Arpino con Una nuvola d’ira (1962); Paolo Volponi con Memoriale (1962) e La macchina mondiale (1965); Goffredo Parise con Il padrone (1965); Vittorio Sereni con i versi di “Una visita in fabbrica” (da Gli strumenti umani, 1965) – fino almeno a Vogliamo tutto (1971) di Nanni Balestrini.

La vita agra è il romanzo di un anarchico che mette in scena la sua crisi ideologica, la sua “compromissione” (per citare il bellissimo romanzo di Mario Pomilio) e quindi la sua resa alle vischiose attrazioni del sistema che inizialmente si prefigge di combattere. È la storia di un “apocalittico” che alla fine si integra, con tutte le sue contraddizioni – tra la voglia di far esplodere il sistema e il desiderio di esserne riconosciuto. Insomma, la storia stessa di Bianciardi dopo che si trasferisce a Milano dalla natia e si integra nei meccanismi dell’industria culturale (la stessa che, per i tipi di Feltrinelli, Rizzoli e Bompiani, pubblica i suoi libri). La natura tendenzialmente “indigestibile” di Bianciardi si riflette nel suo impasto linguistico, che mescola piani alti e bassi per coniare una scrittura originale, irrequieta, ispida, arruffata, ricca di stratificazioni e pieghe interne. Una scrittura devota al culto della verità, animata e illuminata dalla volontà di capire e da uno spirito filologico (da bibliotecario ed etimologo) ben rappresentato nelle prime pagine del romanzo: «amo documentarmi e non parlare mai a casaccio». Questo imprinting logico-razionale non esclude però le chiavi di una deformazione parodistica che nasce dalla rabbia, a un tempo causa e conseguenza della comprensione profonda. I critici cinematografici hanno rimproverato al film omonimo, che dal libro trassenel 1964 Carlo Lizzani (con Tognazzi e protagonisti, e Bianciardi ripreso in un cameo), certi “scadimenti” nel grottesco, dimenticando forse che – se lo hanno letto – è una delle dimensioni del romanzo: ad esempio quando si descrive la natura corpulenta e un po’ primitiva del fotografo Carlone («coricandosi mostrava, proprio sull’osso sacro, un ciuffetto di peli, come un residuo di coda»); o lo scaldabagno tarato a mo’ di bomba ad orologeria («pareva che fosse d’un tipo speciale, che dopo quattro ore di accensione scoppia»), utile fra l’altro a metaforizzare il meccanismo perverso del “boom”. C’è in atto la trasformazione storica che segna il passaggio – inevitabilmente traumatico – tra la continuità del mondo di prima e lo sviluppo imprevedibile del mondo di oggi e di domani; una trasformazione ben rappresentata da un lacerto del “mondo di prima”, la chiesa sconsacrata di San Fruttuoso che, seppure in malora, non viene abbattuta solo «perché faccia da quinta, giù in fondo, fra i due parallelepipedi di vetro e cemento lustrato d’un palazzo nuovo, pieno di gente che da mattina a sera fattura la produzione metalmeccanica». Ai tempi biologici, calmi e solidi delle campagne si contrappone la nevrosi frenetica della città con la sua «collera grigia» e la sua «fumigazione rabbiosa»:

Così ora con Carlone la sigaretta scambiata è un pegno di amicizia a difesa contro quest’altra collera grigia della città che si stringe attorno a noi…

La chiamano nebbia, se la coccolano, te la mostrano, se ne gloriano come di un prodotto locale. E prodotto locale è. Solo, non è nebbia. (…) È semmai una fumigazione, una flatulenza di uomini, di motori, di camini, è sudore, è puzzo di piedi, polverone sollevato dal taccheggiare delle segretarie, delle puttane, dei rappresentanti, dei grafici, dei PRM, delle stenodattilo, è fiato di denti guasti, di stomachi ulcerati, di budella intasate, di sfinteri stitici, è fetore di ascelle deodorate, di sorche sfitte, di bischeri disoccupati…

Che cos’è dunque La vita agra? Bianciardi stesso definisce il romanzo, all’inizio del Capitolo X, come la «storia di una nevrosi, la cartella clinica di un’ostrica malata che però non riesce nemmeno a fabbricare la perla», ma soprattutto una storia «intessuta di sentimenti e di fatti già inquadrati dagli studiosi, dagli storici sociologi economisti, entro un fenomeno individuato, preciso ed etichettato. Cioè il miracolo italiano», di cui appunto si vogliono sviscerare e denunciare «i sintomi, visti al negativo». L’antefatto da cui si dipana la vicenda è la tragedia di Ribolla in cui morirono a 260 metri di profondità, per uno scoppio di grisù, ben 43 minatori la mattina del 4 maggio 1954. La Montecatini, che gestiva la miniera, ebbe evidenti responsabilità nell’accaduto (il grisù si era accumulato per la scarsa ventilazione sotterranea e per la sottovalutazione del pericolo, benché segnalato dagli stessi minatori) ma riuscì a cavarsela offrendo risarcimenti economici ai familiari delle vittime. Successivamente la miniera venne chiusa. Bianciardi aveva già raccontato quel disastro neI minatori della Maremma, scritto a quattro mani con l’amico e pubblicato nel 1956 da Laterza. Ora rievoca il tutto ne La vita agra («Poiché l’impresa non era abbastanza redditizia, pur di chiuderla hanno ammazzato quarantatré amici tuoi, e chi li ha ammazzati oggi aumenta i dividendi e apre a sinistra»), facendone il movente narrativo del romanzo. Il protagonista si trasferisce dalla Maremma, dove restano la moglie e il figlioletto, alla volta di Milano – dove ha sede la società – proprio per vendicare i poveri minatori e colpire i responsabili impuniti. È un intellettuale, un bibliotecario, un umanista, che riceve e accoglie questa “missione” (abbattere la nemesi ultrice sui capitalisti spudorati) anche per conto dei compaesani e dei sopravvissuti alla tragedia, come “Tacconi Otello” che confida molto in lui. Si è pensato a un fatto clamoroso, un attentato pubblico, e per questo il protagonista – immaginando e soppesando il gesto – passa e ripassa davanti al «torracchione» della società:

Ora appunto io venivo ogni giorno a guardare il torracchione di vetro e di cemento, chiedendomi a quale finestra, in quale stanza, in quale cassetto, potevano aver messo la pratica degli assegni assistenziali, dove la cartella personale di Femia, di Calabrò, di tutti e quarantatré i morti del quattro maggio. Chiedendomi dove, in che cantone, in che angolo, inserire un tubo flessibile ma resistente per farci poi affluire il metano, tanto metano da saturare tutto il torracchione; metano miscelato con aria in proporzioni fra il sei e il sedici per cento. Tanto ce ne vuole perché diventi grisù, un miscuglio gassoso esplosivo se lo inneschi a contatto con qualsiasi sorgente di calore superiore ai seicento gradi centigradi. La missione mia, di cui dicevo pocanzi, era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e, in ipotesi secondaria, occuparli, sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano, chine sul fatturato, sui disegni tecnici e sui testi delle umane relazioni, e poi tenerli a disposizione di altra gente. Veramente nessuno venne a dirmi che questa era la mia missione, che dovevo fare così e così, ma era pacifico, toccava a me. Del resto bastava come mi guardarono, gli altri, salutandomi prima della partenza. “Fai la persona seria, mi raccomando. Ora sei in prima linea, lo sai?”

Lì a Milano conosce Anna, una agit-pop romana esperta di tecnica insurrezionale: diventano amanti e grazie a lei comincia a frequentare, ma per poco, le sezioni del PCI. Lui le confida il progetto dell’attentato, però Anna lo sconsiglia; secondo lei è molto meglio «condurre insieme la lotta comune, giorno per giorno». E gli dice: «Eh, se tutto si risolvesse con uno scoppio, sarebbe comodo. L’epoca degli anarchici è finita, tu lo sai meglio di me, storicamente superata. Del resto i colpi di mano isolati non hanno mai dato nessun frutto. Oggi la lotta è delle masse. In parlamento, sui luoghi di lavoro, ciascuno al suo posto». Lo capisce pian piano anche lui:

Di qui sarebbe nata la solidarietà, di qui il modo della riscossa, un milione e mezzo di formiche umane da stringere e scatenare contro i torracchioni del centro, contro i padroni mori e timbergecchi, contro i loro critici tirapiedi, e fare piazza pulita d’ogni ingiustizia, d’ogni sporcizia, d’ogni nequizia. Adesso capivo che sarebbe stato inutile e sciocco far esplodere io da solo – o con l’aiuto di Anna e di pochi altri specialisti – la cittadella del sopruso, della piccolezza e dell’alambicco. No, bisognava allearsi con la folla del mattino, starci dentro, comprenderla, amarla, e poi un giorno sotto, tutti insieme.

Bisogna dominare l’emotività: la vendetta è un piatto che va servito freddo. Niente gesti plateali, lasciano il tempo che trovano e si ripercuotono contro come boomerang. Serve qualcosa di più razionale, metodico e capillare, che parta dai comportamenti quotidiani di ogni individuo.

No, Tacconi, ora so che non basta sganasciare la dirigenza politico-economico-social- divertentistica italiana. La rivoluzione deve cominciare da ben più lontano, deve cominciare in interiore homine. Occorre che la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.

In tal senso il romanzo è anche un itinerario di evoluzione spirituale della coscienza – non solo politica – nel suo rapporto di apertura verso il “mondo”, che si giova di analisi profonde, puntali e raffinate dei sistemi su cui la società neocapitalistica organizza le basi egemoniche del suo consenso. Ad esempio l’uso strumentale del sesso come induzione all’acquisto («per vendere un’aranciata la si accoppia a un simbolo sessuale, e così un’auto, un libro, un trattore persino») e stimolo di attivismo ateleologico (muoversi all’infinito senza concludere nulla), ma soprattutto la riduzione di fine a mezzo (il valore di ogni cosa è il prezzo, o la sua efficacia per «arrivare al denaro»), ovvero il fenomeno che «qui e altrove, aliena, integra, disintegra, spersonalizza e automatizza, e così viene fuori l’uomo-massa» e «la noia, l’incapacità, come dicono, di possedere gli oggetti, di entrare in rapporto con i bicchieri, i tram e le donne». Bianciardi è spietato e incalzante nello scoprire gli “altarini” del sistema: vuole svelarne il volto disumano, e aggredisce la materia opaca del suo corpo visibile con affondi circostanziati e progressivi. Ecco quindi la razionalizzazione del tempo che ha trasformato i ritmi del lavoro:

Il contadino si muove lento, perché tanto il suo lavoro va con le stagioni, lui non può seminare a luglio e vendemmiare a febbraio. L’operaio si muove svelto, ma se è alla catena, perché lì gli hanno contato i tempi di produzione, e se non cammina a quel ritmo sono guai.

Ritmi convulsi non solo in fabbrica, ma anche per le strade, nei luoghi pubblici, negli spazi privati. Tutti corrono corronocorrono: verso dove e per che cosa, non si sa. La monetizzazione del tempo porta di conseguenza a quella dell’uomo, cioè delle cose che non dovrebbero mai avere un prezzo. Una patina grigia di egoismo e indifferenza cala sui gesti delle persone, sui discorsi con cui fingono di intendersi, sulla luce stessa dei loro sguardi.

Non trovi le persone, ma soltanto la loro immagine, il loro spettro, trovi i baccelloni, gli ultracorpi, gli ectoplasmi. Nei primi mesi dal loro arrivo in città forse no, forse resistono e hanno ancora una consistenza fisica, ma basta un mezzo anno perché si vuotino dentro, perdano linfa e sangue, diventino gusci.

È una società che produce alienazione. Il traffico, l’invasione degli spazi, il senso di oppressione e soffocamento: «una macchina dietro l’altra ma ciascuna per i fatti suoi». La folla è un insieme coatto di solitudini. Tutti pensano a sé stessi. Una sera il protagonista vede un ubriaco steso per terra, accanto a un distributore di benzina. Gli tende la mano e lo aiuta a rialzarsi, senonché l’ubriaco – fatti pochi passi malfermi – cade all’indietro, batte la testa e sviene.

Al bar lì accanto avevo già visto quattro uomini senza cravatta che giocavano a carte, e così andai là, a dire che c’era un ubriaco ferito, e che da solo non ce la facevo a rimetterlo in piedi, e che anzi provandoci m’era caduto battendo la testa. I quattro alzarono appena gli occhi, senza dire niente. «Bè» fece poi uno, visto che io non me ne andavo. «C’è un ubriaco là per terra». «E allora?» «Datemi una mano a rialzarlo». «Si rialzerà da sé». «Non ce la fa. L’ho aiutato io, ma m’è ricaduto e perde sangue». «E noi cosa ci entriamo? È successo a lei, no? Se la veda lei». E riattaccarono a giocare a carte.

E noi cosa ci entriamo? In questa agghiacciante espressione c’è la spia sintomatica del cambiamento che ha frantumato il caldo senso della “comunità” (dove ci si aiuta l’un l’altro perché i problemi degli altri sono percepiti anche come propri) in un coacervo di monadi isolate e tra loro indifferenti. Si è spenta l’eco della guerra, che aveva livellato le persone nella comune sofferenza: il nuovo benessere indurisce i cuori e allontana le persone, motivandole all’egoismo. La liquidazione dell’eredità psicologica della seconda guerra mondiale ha portato a uno scadimento generale dell’etica. I ritmi serrati di produzione generano ambienti ad alta competitività: «L’importante è fare le scarpe al capufficio, al collega, a chi ti lavora accanto. Il metodo del successo consiste in larga misura nel sollevamento della polvere». La politica stessa «ha cessato da molto tempo di essere scienza del buon governo, ed è diventata invece arte della conquista e della conservazione del potere. Così la bontà di un uomo politico non si misura sul bene che egli riesce a fare agli altri, ma sulla rapidità con cui arriva al vertice e sul tempo che vi si mantiene». Il quadro si completa con la burocrazia pervasiva, la macchina erariale sempre più complicata e non priva di storture e contraddizioni, le strategie di marketing attuate dai «tafanatori quotidiani» porta a porta (oggi sostituiti dagli anonimi call-center), e infine i “persuasori occulti”, sempre allo studio di tecniche per indurre all’ipnosi dell’acquisto e guadagnare nuove fette di mercato. Questa insomma è la società partorita dalle “magnifiche sorti e progressive” del miracolo economico. E il protagonista de La vita agra? Che ne è dell’anarchico dinamitardo? Ebbene, si lascia ammaliare e avviluppare dal sistema che intendeva prima far esplodere e poi scardinare dall’interno. Si integra, mettendosi a servizio dell’industria culturale milanese come traduttore. Dalla missione alla compromissione. Nel film di Lizzani il riflusso del personaggio è ancora più evidente: non solo getta alle ortiche ogni ipotesi di impegno e riscatto comunitario, ma diventa un apprezzatissimo copywriter della famigerata società responsabile della tragedia in miniera. E l’esplosione dell’odiosamato «torracchione» viene sublimata e con ciò stesso negata, alla fine del film, dall’accensione natalizia delle luci della grande facciata: ennesima trovata pubblicitaria con cui Luciano Bianchi (evidente alter ego di Bianciardi) vuole sorprendere e gratificare il direttore della società.