1
OSSERVATORIO PER LA LEGALITA’ E LA SICUREZZA CENTRO STUDI E DOCUMENTAZIONE Via Vincenzo Ricchioni, 1 - 70123 Bari
LE ORIGINI DELLA CAMORRA
a cura di Nisio Palmieri 2
LE ORIGINI DELLA CAMORRA
Introduzione Nel settembre 1982 la proposta del defunto onorevole La Torre, diventerà legge con la firma anche del ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Nel codice penale sarà introdotto l’articolo 416bis, per una nuova fattispecie di reato: l’associazione a delinquere di stampo mafioso e camorristico. E’ la prima volta che la camorra è riconosciuta ufficialmente quale organizzazione criminale pericolosa come la mafia e la ‘ndrangheta. E per la prima volta la Commissione parlamentare antimafia, vent’anni dopo la sua istituzione, dedicherà una indagine specifica alla criminalità organizzata in Campania. Eppure alla spalle di questa organizzazione criminale vi è una lunga storia che, a volte, si intreccia con quella tormentata che portò all’unità d’Italia. Noi ripercorreremo il suo cammino facendoci aiutare sia da Vittorio Paliotti che dal prof. Francesco Barbagallo che con la loro “Storia della Camorra”, edite la prima nel 2006, la seconda nel 2010, hanno svolto un’opera meritoria, mettendo in grado il lettore di conoscere, fin nelle sue pieghe più intime, questa associazione criminale che nulla può invidiare, sul piano degli obiettivi e dell’efferatezza posta nel raggiungerli, a quelle insediate in Sicilia e Calabria. Sul piano storico abbiamo ritenuto necessario nel capitolo “Dal tempo dei Borbone all’Italia”, di richiamare con più insistenza i fatti politici dell’epoca in quanto, ci è sembrato, più direttamente partecipi alla vita e alle gesta di quei criminali. D’altra parte la trasformazione dei comportamenti delittuosi, inizialmente rivolti soprattutto a danno della plebe, si potevano spiegare soltanto con un’analisi attenta (come quella che fanno Paliotti e Barbagallo) degli avvenimenti che videro loschi personaggi utilizzati nella lotta politica che pure si poneva traguardi ambiziosi ed esaltanti. Nel prosieguo del lavoro abbiamo reso più scorrevole (almeno così ci è sembrato) la narrazione, preferendo mettere l’accento sullo spessore criminale dell’organizzazione camorrista. Non trascurando, naturalmente, di riferire gli intrecci con la politica che pure, ahinoi, sono violentemente presenti.
Dai Borbone all’unità d’Italia Intorno al 1860 lo scrittore italo-svizzero Marc Monnier (figlio di un albergatore residente nella capitale borbonica) definiva la Napoli ottocentesca descrivendo una specie di catena di montaggio che colpiva il visitatore ignaro sin da quando toccava terra, nel vedere l’esattore meglio vestito di altri plebei <
L’inchiesta di Monnier, condotta durante il processo unitario, è un documento prezioso perché si giovò delle testimonianze dirette dei maggiori esperti, ministri e dirigenti delle forze di polizia, sia del regime borbonico, che del nuovo governo italiano. Quindi una fonte storica attendibile ben più dei fantasiosi racconti e leggende che si tramandano, in gran numero, sulle origini, le forme organizzative, i riti, i miti della peculiare forma di organizzazione criminale che si sviluppa nel tessuto urbano della Napoli ottocentesca, dentro gli strati sociali plebei. Riti e miti ad ogni modo fortemente intrecciati. Da più parti, ad esempio, si riferisce di un rito iniziatico che vedeva riuniti i camorristi intorno ad un tavolo su cui erano posti un pugnale, una pistola carica e un bicchiere d’acqua o vino avvelenati. L’aspirante bagnava la mano nel sangue che gli veniva estratto e giurava fedeltà alla setta, mostrando di essere pronto a spararsi e a bere il veleno. Il capo della riunione prendeva atto del giuramento di sangue; scaricava l’arma, gettava a terra il bicchiere e consegnava il pugnale al nuovo camorrista. Questo cerimoniale pareva essere di rigore, ma non era indispensabile seguirlo in ogni circostanza. Altre testimonianze indicavano procedure molto semplificate, specie nelle carceri. In ogni caso l’ingresso nell’associazione camorristica veniva festeggiato con grandi banchetti. Le stesse spiegazioni etimologiche del termine ‘camorra’ sono numerosissime e molto divergenti. Del resto la parola ‘camorra’ è entrata nella lingua italiana dal gergo, non scritto, usato tra Settecento e Ottocento dai malviventi napoletani. Tra questi due secoli il termine ‘camorristi’ viene usato ripetutamente – accanto a ‘oziosi’, ‘vagabondi’, ‘rissosi’, ‘giocatori di professione’ – nei documenti della polizia borbonica e del ministero della Guerra. Tra le interpretazioni più recenti ce ne sono un paio di carattere storico, notevolmente differenti. L’uno associa ‘gamorra’ alla città biblica di Gomorra, come traslato di vizio e di malaffare. L’altra afferma una sorta di solidarietà lessicale tra i nomi delle tre organizzazioni criminali dell’Italia meridionale – camorra, mafia, ‘ndrangheta – e li fa risalire alla terminologia pastorale della cultura preromana. Secondo questa spiegazione si sottolinea l’originario fine protettivo e non criminale di queste ‘fratellanze’ segrete, ‘morra’ significherebbe ‘madre di tutte le greggi’. C’è da aggiungere che ci sono poi le possibili derivazioni dalla lingua castigliana: i termini ‘camorra’, ‘camora’, ‘gamurra’ rinviano sia a una corta giacca di tela, sia alla rissa, alla lite. La connessione tra camorra e gioco d’azzardo si è fatta risalire al termine arabo ‘kumar’; e si ritrova di frequente nei vocabolari dialettali napoletani dell’Ottocento. Proprio al gioco d’azzardo si connette l’interpretazione più diffusa nel corso dell’Ottocento, per questo camorra diventa sinonimo di estorsione, di riscossione di una tangente, una mazzetta, un pizzo su qualsiasi tipo di attività. Poi, anche per l’influenza delle sette segrete – la massoneria, la carboneria, l’”unità italiana”, i calderari del reazionario principe di Canosa – la camorra diverrà sempre più organizzazione, strutturandosi specie dopo l’unificazione nazionale, in associazione di delinquenti specializzati anzitutto nelle estorsioni su ampia scala, ma diffuse soprattutto nelle carceri e negli eserciti, dove spesso venivano arruolati i criminali già detenuti. La camorra, come attività e organizzazione distinta dalla criminalità comune, si diffuse nella città di Napoli presumibilmente nel secondo quarto dell’Ottocento. Diciamo non a caso presumibilmente, perché non si è finora ritrovata alcuna traccia archivistica degli atti della polizia borbonica, né si sono rinvenuti altri documenti di rilievo storico: Le prime notizie ufficiali si ritrovano nella documentazione approntata dalla neonata amministrazione italiana. Ci sono, è vero, testimonianze storiche e letterarie di notevole spessore, come quella citata all’inizio: l’inchiesta di Monnier. Altra cosa sono i tentativi di cercare antecedenti di questo specifico fenomeno criminale nella storia moderna di Napoli, tra Cinquecento e Settecento, tra viceregno spagnolo e primo periodo borbonico. La ricerca, però, si sfilaccia lungo improbabili fili criminali che si immaginano dipanarsi nei secoli tra la Spagna, Napoli e la Sicilia. Questa si addensò in centinaia di miglia di persone nella città-capitale, tra Cinquecento e primo Ottocento, richiamata dalle elargizioni sovrane e 4 aristocratiche, dall’esenzione fiscale e dal clima mite, che consentiva di sopravvivere in grotte e caverne a queste masse di diseredati. Già i primi decenni dell’Ottocento è quasi impossibile tracciare un profilo di questa realtà criminale. Ricorrendo alle fonti storiche attualmente disponibili, si può dire che la camorra, come associazione di delinquenti, si sviluppa tra Napoli, Caserta e altre aree della regione Campania lungo tutto l’Ottocento, fino ai primi decenni del Novecento. Poi si determinerà una rottura nella continuità del fenomeno criminale, che assumerà caratteri innovativi ed espansivi, e manterrà il vecchio nome solo in ordine alla collocazione territoriale. Negli anni della restaurazione borbonica, dopo il congresso di Vienna, la camorra si dà un’organizzazione, che prevede tre livelli da percorrere: picciotto d’onore, picciotto di sgarro, camorrista. Prima di iniziare questa specie di carriera, il giovane aspirante è chiamato tamurro. Viene eletto un capo per ognuno dei dodici quartieri di Napoli, che sono a loro volta suddivisi in paranze. Lo stesso avviene per alcuni capoluoghi provinciali, oltre che nei luoghi di detenzione e nei corpi militari. Questi caposocietà eleggono un capintesta generale della camorra napoletana, che per un lungo periodo corrisponde al caposocietà della Vicaria: per molto tempo il comando dell’organizzazione resta nelle mani della famiglia Cappuccio. I capi della camorra avevano il titolo di Masto, che significa maestro, ma anche padrone. Oltre che nella capitale, la camorra si era affermata già in epoca borbonica nella Terra di Lavoro, in particolare nell’area ristretta fra Caserta, Marcianise e Santa Maria Capua Vetere, dove pare ci fossero circa 2000 affiliati. La struttura eminentemente napoletana della camorra prevedeva che ci fosse un solo capintesta e che fosse di Napoli. I comuni, anche capoluoghi di provincia, erano equiparati ai quartieri di Napoli e potevano avere solo un caposocietà. Negli anni dell’unificazione nazionale, capintesta della camorra era Salvatore De Crescenzo, Tore ‘e Criscienzo. Capo dell’organizzazione criminale della Terra di Lavoro era Francesco Zampella, cui De Crescenzo, per antica amicizia, riconosceva solo formalmente il titolo di capintesta del Casertano, senza però alcun riconoscimento di autonomia. Poi il comando passò nelle mani della camorra di Aversa e aumentarono le istanze di autonomia rispetto ai capintesta napoletani. Bisognerà attendere la fine dell’Ottocento perché l’organizzazione criminale della Terra di Lavoro proclami la sua autonomia eleggendo capintesta l’aversano Vincenzo Serra, senza più reazioni della casa madre dell’ex capitale. A Napoli, intanto, le estorsioni si estendevano dappertutto. Terreno privilegiato erano le carceri. Il dominio degli affiliati alla Consorteria dei camorristi era qui totale, e ciascun detenuto era tartassato dall’ingresso alla eventuale uscita. La prima richiesta riguardava una quota di denaro necessaria – si affermava – ad assicurare l’olio per la lampada della Madonna del Carmine. Poi erano estorsioni e vessazioni continue, che toccavano qualsiasi attività svolta dal detenuto, e si riassumevano nella trattenuta di una decima sul denaro e su tutto quanto veniva nella sua disponibilità. Lo sfruttamento dei detenuti da parte degli onnipresenti camorristi toccava l’apice nelle colonie penitenziarie che il governo borbonico aveva organizzato nelle isole, a partire dalle Tremiti, di fronte al Gargano. Ogni detenuto riceveva dieci soldi al giorno. Il camorrista ne prendeva anzitutto uno, il decimo, per suo conto; due soldi per la cassa comune, religiosamente conservata. Restavano sette soldi che il detenuto spendeva nell’unica distrazione possibile, il gioco. Giocava i sette soldi che gli restavano, ma sotto la vigilanza del compagno. Il quale sorvegliava tutte le ricreazioni, e prendeva un decimo delle scommesse, per ricompensa alle proprie fatiche. Alla fine della giornata, decimo per decimo, i sette soldi erano passati nelle tasche del camorrista. Fino al punto che il depredato, paradossalmente, finiva per essere anche grato alla previdenza dell’organizzazione camorristica, 5 perché se riusciva ancora, in qualche modo, a mangiare e a vestirsi lo doveva solo all’uso dei due soldi accantonati per la cassa comune. L’associazione delinquenziale plebea iniziava così la sua costitutiva attività estorsiva, esercitando una forma di totale sfruttamento delle categorie sociali più diseredate. Altro importantissimo fronte delle attività camorristiche era costituito dai mercati, dalle farine e cereali alla frutta, al pesce, alla carne. C’erano inoltre le tangenti sulle case da gioco e sulla prostituzione, sul “gioco piccolo” diffuso nelle bettole e per le strade. I camorristi, poi, esercitavano in proprio il lotto clandestino, che procedeva parallelamente a quello legale. E ancora estorsioni sul nolo delle carrozze e dei carri da trasporto, sullo scarico delle barche, sull’attività di facchinaggio. La camorra esercitava anche il contrabbando alle barriere daziarie. Percepiva cioè l’esazione fiscale dei dazi per le merci che giungevano nella capitale sia dalla terra che dal mare. L’attività dell’imposizione fiscale era svolta dai camorristi in aggiunta ai funzionari, ma anche, spesso, in loro sostituzione, con notevole danno per l’erario pubblico. Addetto agli affari economici e finanziari era il contarulo, nominato da ciascun caposocietà per la gestione del barattolo, dove erano versati gli introiti delle estorsioni compiute dall’organizzazione camorristica, che si dava il nome di onorata società, o anche di Bella Società Riformata. L’associazione criminale svolgeva altre funzioni di grosso rilievo: affrontava e risolveva le più diverse questioni pendenti, componeva le liti e le risse: amministrava cioè – a modo suo – la giustizia nei diversi quartieri della capitale. Era una violenta organizzazione composta di plebei, che però guardavano in alto. Da una parte si ponevano in diretta concorrenza con lo Stato, sottraendogli in notevole parte l’esercizio di una funzione basilare, qual’era l’esazione fiscale. Per altro verso cercavano di imitare i modelli e codici di comportamento dell’aristocrazia, facendo ricorso a rituali che davano valore al giuramento e all’onore. Un ruolo centrale aveva il duello, che si chiamava zumpata, e si svolgeva però con il coltello, non con la spada. Guardava anche, con interesse imitativo, alle associazioni settarie diffuse tra le èlites liberali: la massoneria e la carboneria, anzitutto. La Consorteria dei camorristi si vedeva come una èlite criminale, si autorappresentava come una sorta di “aristocrazia della plebe”, coi propri vincoli e riti iniziatici. Ogni quartiere aveva il suo tribunale, che si chiamava Mamma. L’intera città aveva il suo organo giudiziario supremo. Era la Gran Mamma, presieduta dal capintesta, che in tale funzione assumeva il titolo di Mammasantissima. Le regole della camorra si volevano raccolte in una sorta di statuto della setta. Di questo frieno comparivano ogni tanto versioni scritte, sulla cui veridicità e utilità sorgono diversi dubbi, visto il totale analfabetismo dei camorristi. Tuttavia nel 1842 il contarulo o contaiuolo Francesco Scorticelli, che evidentemente sapeva leggere e scrivere, raccolse queste regole in un frieno composto di ventisei articoli. Il testo dell’articolo I recitava: <
Prima del 1848 la camorra non si era mai occupata di politica e quindi non aveva avuto problemi col governo borbonico. Nel decennio seguito alla fallita insurrezione liberale del 15 maggio 1848, il regime poliziesco di Ferdinando II provvide ad incarcerare i principali esponenti dell’opposizione che non erano espatriati (centri dell’emigrazione politica napoletana erano soprattutto Torino e Firenze). I camorristi trattarono per lo più con rispetto questi aristocratici e intellettuali di valore, autorizzandoli anche a portare armi di difesa da loro offerte in segno di particolare considerazione. Da parte sua la polizia borbonica, nella tutela dell’ordine pubblico, non mancò di servirsi dell’organizzazione camorristica, che esercitava una intensa e diffusa autorità nella “città plebea”. E spesso fece ricorso ai camorristi incarcerati per avere informazioni sui comportamenti dei detenuti politici. In vero, non ci sono prove documentarie a sostegno di una precisa strategia di collaborazione tra il regime poliziesco borbonico e la camorra, che comunque riusciva a fare carriera nella “bassa polizia” e a confermare, anche per questa via, il suo ruolo di dominio sulle masse plebee della capitale. Esistono invece documenti e rapporti di ministri borbonici che attestano la profonda corruzione degli organi di polizia ai diversi livelli. Si pagavano stabilmente cospicue tangenti ai commissari di molti quartieri per l’esercizio di ogni attività commerciale. Le singole guardie provvedevano in proprio a raccogliere denaro da ogni negozio. Si vendevano permessi di vario genere, come per l’apertura domenicale di caffetterie e cantine. Ed era notevole l’attività della polizia nei tradizionali settori della prostituzione e del gioco d’azzardo. In tal modo la pessima amministrazione di questo settore del regime forniva un preciso esempio operativo per la già esperta e attiva organizzazione camorristica; che si occupava di sovrintendere all’ordine nelle prigioni, nei mercati, nei bordelli, nelle bische. A loro volta, i liberali cercarono accordi politici con alcuni camorristi. Cercarono un contatto, anzi fu dato l’incarico a Gennaro Sambiase Sanseverino duca di San Donato di contattare alcuni camorristi e incontrò alcuni capiparanza vicino all’Albergo dei Poveri. Alle richieste di sostegno i capicamorra risposero con una proposta di ingaggio, che doveva assicurare a ciascuno di loro 10.000 ducati. La trattativa fallì subito. Ma i liberali, che avevano rilasciato imprudentemente ai camorristi alcuni documenti con la denominazione del loro comitato segreto, subirono a lungo, coi loro amici, pesanti ricatti economici. La tesi delle parti sociali sempre contrapposte e delle due città sempre inconciliabili tra loro non corrisponde a una realtà ben più complessa e variegata, fatta di relazioni cangianti nel tempo ma solide, tra la parte aristocratica-borghese della città e quella plebea-popolare. Altre occasioni di scambio, a metà Ottocento, avrebbero visto gentiluomini liberali fornire denaro a gruppi camorristici per l’organizzazione di tumulti antiborbonici. Si andavano invece accentuando le differenze di orientamento tra i ceti popolari di diverse zone della capitale. Per antica tradizione il quartiere marinaro di Santa Lucia era sempre schierato dalla parte del re e del regime borbonico (i luciani d’‘o rre). I ceti popolari di Montecalvario, invece, dove c’erano molti artigiani ed era attivo il famoso capintesta Tore ‘e Criscienzo, parevano più orientati verso l’opposizione liberale, specie verso la fine del regno delle Due Sicilie. L’estate 1860 vide scomparire il più grande Stato della penisola italiana. Il 25 giugno 1860 il giovane re Francesco II di Borbone, tentò di frenare la caduta del suo regno nominando, tra l’altro, un governo di moderati e liberali, tra cui il prefetto di polizia Liborio Romano. Concesse, ai primi di luglio, una larga amnistia che liberò detenuti politici, criminali e camorristi. A fine giugno esplosero tre giorni di tumulti e violenze provocati da delinquenti e da popolani schierati su fronti opposti e da quanti si vendicavano delle prepotenze e dei soprusi subiti. Assalti ai commissariati, tentativi di linciaggio di poliziotti e gendarmi, distruzioni di archivi videro come protagonisti i capicamorra e i loro adepti. In prima fila si schierarono il capintesta Salvatore De Crescenzio e sua cugina Marianna, detta la “Sangiovannara”, che gestiva una taverna alla Pignasecca, dentro Montecalvario. Alla testa della polizia e poi del ministero dell’Interno era stato posto Liborio Romano, avvocato e professore di diritto commerciale originario della Terra d’Otranto, liberale e 7 massone già carbonaro e partecipe dei moti del 1820-21 e del 1848. Venne confinato, imprigionato e andò in esilio in Francia. Richiesta la grazia al re, tornò a Napoli nel ’54. Nel novembre 1860 giunge a Napoli, dall’Emilia, Luigi Carlo Farini, primo luogotenente generale delle province meridionali, appena cedute da Garibaldi a Vittorio Emanuele. Alla testa del governo nominato da Farini viene posto Liborio Romano, che conserva il ministero dell’Interno. Ma direttore della polizia viene nominato Silvio Spaventa, cui nel marzo 61 il nuovo luogotenente, principe Eugenio di Savoia-Carignano, affiderà anche la guida del ministero. Pochi giorni dopo l’insediamento del governo della prima luogotenenza, Spaventa e il prefetto di polizia De Blasio dirigono il primo grande blitz contro l’organizzazione camorristica, che, intanto, grazie alla sua parziale legittimazione da parte dello Stato, aveva superato ogni limite nel contrabbando e nell’esazione in proprio dei dazi. Tra i più solerti funzionari si illustreranno proprio gli ex camorristi Capuano e Jossa. La parentesi legalitaria si chiuderà invece per il capintesta Salvatore De Crescenzo, che aveva siglato l’accordo con Liborio Romano: tornerà a svolgere le sue attività criminali e trascorrerà alcuni annui nelle carceri napoletane, all’isola di Ponza, alle Murate di Firenze, per poi tornare libero alle tradizionali funzioni di capocamorra della Vicaria. Poco dopo la proclamazione del regno d’Italia (ai primi di aprile 1861), il giovane diplomatico Costantino Nigra, segretario generale della Luogotenenza Carignano, invia a Spaventa una richiesta riservata per ottenere Notizie sul camorrismo. Il direttore della polizia napoletana ha appena inviato al ministro dell’Interno Marco Minghetti un articolato rapporto sul brigantaggio, la questione demaniale, la difficile organizzazione della Guardia nazionale, senza accenni però all’attività camorristica. Spaventa si applica a preparare personalmente un Rapporto sulla camorra, affidando a un esperto funzionario di sua fiducia. Vincenzo Cuciniello, la preparazione di Memoria sulla Consorteria dei Camorristi esistente nelle Provincie Napolitane. Queste relazioni saranno inviate al Luogotenente e al ministero di Torino a fine maggio. Minghetti farà pubblicare il rapporto sul giornale torinese <
L’arrivo dell’ultimo Luogotenente, il generale Enrico Cialdini, nell’estate 1861, pose fine alla permanenza dell’austero dirigente politico alla guida della polizia napoletana. Cialdini avvierà una politica più aperta nei confronti dei democratici e dei garibaldini, reclutandoli in maggior misura tra le guardie nazionali mobili. I fidati carabinieri, però, informavano il segretario di polizia che i noti commissari Jossa e Capuano avevano pensato di rafforzare la loro posizione, accordandosi con il partito garibaldino, introducendo un forte numero di camorristi. Meno fortuna ebbe il terzo commissario di polizia venuto dalla camorra, Ferdinando Mele, che fu ucciso dal delinquente Salvatore De Mata, accusato di aver ricattato un barone borbonico. Ma i fratelli De Mata avevano anche svolto il ruolo di guardie del corpo di Silvio Spaventa, quando mezza Napoli voleva ammazzarlo. Nell’estate 1861 esplode con grande violenza il brigantaggio nelle province meridionali. Il governo Ricasoli conferirà al generale Cialdini il comando del VI corpo d’armata e tutti i poteri per reprimere le insorgenze contadine. Lo stato d’assedio sarà subito utilizzato a Napoli dal prefetto, in accordo col questore Carlo Aveta, per procedere al rapido arresto di 300 camorristi. Il prefetto generale La Marmora era fiero di comunicare al ministero dell’Interno, il 23 settembre 1862, di aver potuto assumere questo energico provvedimento <
Nel settembre 1869 in un documento preparato dalla Prefettura di Napoli venivano confermate le relazioni che legavano gli ambienti criminali ai ceti sociali più elevati. Autorevoli membri delle classi dominanti intervenivano per salvare dal carcere i loro omologhi nel sottomondo criminale. “Le raccomandazioni, diceva la relazione prefettizia, cadano d’ordinario a favore dei camorristi più influenti, quando si pensa che i più famosi camorristi non furono a quel rigore, che altri sottopostivi ne furono presto liberati, si sarebbe del domicilio coatto tentati di dire: che non colpì i pessimi, che colpì per breve tempo i cattivi e che nella rete ora rimangono solo i pesci piccoli>>. Sempre nel 1869 si svolgeva, nella città di Castellammare di Stabia, un processo a carico di 67 imputati, di cui 18 pregiudicati accusati di aver costituito un’associazione criminale con lo scopo di depredare nel Porto Mercantile, con minacce a mano armata, continuare contrabbandi, esercitare camorra in danno dei commercianti, dell’Erario dello Stato e dei privati. Gli altri 49, imputati di complicità e ricettazione, erano impiegati doganali, pesatori, facchini. Nello stesso rapporto del pretore al procuratore del re si dava conto anche di un contrabbando compiuto dal comandante siciliano di un bastimento proveniente da Trapani con 100 quintali di sale, in accordo con alcuni camorristi di Castellammare. Lo sbarco avvenne rapidamente sulla spiaggia cittadina e, la sera dopo, alla marina di Cassano per la distribuzione nei paesi della penisola sorrentina, col favore di parecchie guardie doganali corrotte. Il sindaco di Castellammare, ch’era proprietario di alcuni bastimenti, non aveva alcuna difficoltà a rilasciare certificati di buona condotta ai notori camorristi e aveva introdotto negli uffici doganali due imputati già ammoniti dal pretore. Tra i suoi scaricatori al porto c’era il camorrista più temuto, Gennaro Ferrara, che, non per caso, citerà come testi a suo discarico il sindaco e gli assessori municipali. Le indagini e gli atti istruttori compiuti dalla polizia e dal pretore non appaiono però sufficienti a configurare per gli imputati il reato di “associazione di malfattori”: né al pubblico ministero, né poi al tribunale, che procedono rapidamente alla scarcerazione di tutti i detenuti. Questa linea liberale, fortemente garantista, corrispondeva agli orientamenti governativi. C’è da notare che, se il reato associativo era raramente applicato ai camorristi, più facilmente colpiva internazionalisti, anarchici e socialisti. Intanto, anche a Napoli e al Sud era in atto una trasformazione delle relazioni sociali, che produceva interazioni tra i diversi strati della società, in uno con il progressivo ampliamento della partecipazione politica e delle funzioni di amministrazione e di governo. Anche in presenza di un suffragio particolarmente ristretto, intorno al 3-4%, si segnalavano brogli e compravendita di voti. Era il caso di un deputato moderato del quartiere napoletano San Giuseppe, De Rosa, che affidava l’acquisto dei voti a un comitato formato da un commesso municipale, due guardie nazionali, un cantiniere e un camorrista appena tornato dal domicilio coatto. L’inchiesta diretta dal senatore Saredo sulle amministrazioni napoletane dopo l’unificazione, mostrava che già nei primi decenni unitari illegalità e criminalità si diffondevano attraverso relazioni più complesse che andavano ben oltre il sottomondo plebeo e camorristico. Si andavano formando reti di interessi che avvicinavano sempre più i ceti bassi e quelli alti. Si affacciavano atteggiamenti, valori che allargavano i confini della camorra plebea verso più moderne forme di illegalità. Al posto della bassa camorra, esercitata sulla povera plebe, sorgeva un’alta camorra, composta dai più audaci borghesi. Costoro traevano alimento nei commerci e negli appalti, nelle pubbliche amministrazioni, nei circoli e nella stampa. Come rilevava l’inchiesta Saredo, veniva fuori una figura sociale della realtà politico- amministrativa di Napoli di fine Ottocento, l’interposta persona. Questa figura, sempre attiva nella Napoli borbonica, trovava più ampi spazi nella nuova organizzazione politica ed elettorale, con la diffusione del voto, l’affermazione delle clientele e dello scambio tra voti e servizi. Con le forme della corruzione diventava centrale la figura dell’intermediario. 11
Scrive, in proposito, lo storico Barbagallo: <
Una città più moderna Nel 1874 il prefetto, Antonio Mordini, aveva segnalato al ministro dell’Interno Minghetti un preoccupante aumento delle attività criminali della camorra, nonché l’incremento dei suoi rapporti di affari illeciti con esponenti dei più elevati strati sociali. Si praticavano estorsioni alla luce del sole. Camorristi controllavano appalti e aste pubbliche. Si recavano in tribunale per intimidire i giudici e i giurati. Ormai, però, i camorristi, come abbiamo già accennato nel capitolo precedente, non erano più delinquenti marginali, facili da perseguire. Nel primo quindicennio unitario avevano allargato e consolidato le loro relazioni, aumentato gli affari, affermato la loro posizione sociale. Avevano amici autorevoli, compagni di affari e quindi ricattabili, che, per forza di cose, garantivano per loro. Su questo aspetto, sempre Barbagallo, ci racconta una storia esemplare. Pasquale Cafiero, era capo dei facchini alla Gran Dogana, <>. Alla fine dell’Ottocento l’espansione dell’illegalità criminale si misurava con gli sviluppi della politica. Non essendo ancora nati i partiti di massa, questi si muovevano come aggregati di notabili, guidati da personalità eminenti come Nicotera, Crispi, Rudinì, Giolitti, Zanardelli, Sonnino. Non era più una stretta oligarchia di ricchi e aristocratici. Sulla scena politica irrompevano ceti meno altolocati, più disponibili a più larghe relazioni. Si tenga presente che le riforme elettorali degli anni ’80 allargavano il voto ai maschi ventunenni in grado di leggere e scrivere. D’altra parte l’illegalità e la criminalità applicata alle amministrazioni pubbliche non erano una novità. L’amministrazione del potere politico era nata, nell’età moderna, a cominciare dalla Francia, con la vendita delle cariche e la venalità degli uffici. A Napoli, poi, i Borbone avevano affidato gestione di appalti e tangenti, forniture e concessioni a nobili e principi, ma anche ai propri camerieri. La modernità quindi, senza alcun stupore, avanzava anche a Napoli, esprimendo qui pratiche corruttive e illegali. A metà agosto del 1884 arrivò il colera e fece il primo morto. A settembre l’epidemia esplose nei quartieri popolari e devastò la popolazione ammonticchiata nei fondaci e nei bassi. Il 15 gennaio 1885 fu approvato dal Parlamento la legge per il Risanamento della città di Napoli. Prevedeva un finanziamento di 100 milioni per le opere di bonifica e per la nuova rete fognaria, agevolazioni fiscali, una più incisiva procedura d’espropriazione per pubblica utilità, che colpiva gli interessi dei proprietari. Queste condizioni non convinsero le imprese edili nazionali ad assumere i lavori di ‘sventramento’ e di risanamento dei quartieri bassi, considerati costosi e incerti. Si determinò così una paralisi produttiva. Soltanto nel 1904 un nuova convenzione consentirà di portare a termine nel 1910 i lavori previsti per il 1894. E soprattutto avevano privilegiato la costruzione di nuovi quartieri signorili. 13
L’ammodernamento edilizio di Napoli, insomma, era giovato alla borghesia e aveva ignorato i bisogni dei diseredati per i quali era stato in principio pensato. Tuttavia fu realizzato un efficiente sistema di fognature che migliorava la situazione igienica della città. La ricostruzione del centro, del sistema fognario e i contratti stipulati con le società erogatrici dei servizi pubblici, sollecitavano le amministrazioni ad assumere atteggiamenti imprenditoriali che, tra scontri certamente non disinteressati, assumevano una sinistra modernità, in quanto spingeva ad intervenire con la richiesta e la percezione di ‘contrattare tangenti’. Sullo sfondo di tutto questo si sviluppava una lotta tra gli aggregati conservatori e clerico- moderati sostenuti dalla Curia arcivescovile e un sistema di potere politico-amministrativo della Sinistra massonica guidato dal ministro dell’Interno Giovanni Nicotera. Il gruppo (ma era ben più di un gruppo) nicoterino, attivo nell’organizzazione delle clientele politico-amministrativo nei quartieri popolari del centro, presidiava anche il settore delle imprese economiche. Nell’ultimo quinquennio dell’Ottocento l’amministrazione comunale di Napoli resta dei gruppi nicoterini, poi diventati crispini. Sono questi poi i giorni in cui vengono messe a punto le nuove convenzioni con la Società belga dei tramways, con la società per l’acqua del Serino e con le aziende elettriche per l’impianto di illuminazione. La pubblica opinione era generalmente convinta, non a caso, che queste società avessero erogate somme per contrattare e definire le convenzioni. Un rappresentante della Società belga confermò: <
Gli inizi del novecento – La lotta ai guappi di sciammeria La lotta alla “camorra amministrativa” segnerà la fine del gruppo che, in un primo tempo, si richiamava a Nicotera e poi a Crispi. Tuttavia ciò non provoca un cambiamento progressivo e più democratico. Al Municipio di Napoli tornano a insediarsi i clerico-moderati, i cattolici conservatori che avevano già amministrato e che rimarranno al potere per oltre dieci anni. 14
Negli anni del rilancio industriale e di una modernizzazione che aveva invaso una larga parte della Penisola, a Napoli sarà un moderato conservatorismo politico a guidare il Municipio, le associazioni commerciali e industriali, gli stessi processi di espansione, anche se relativa, di gruppi finanzieri e mercantili. Non si fermava intanto l’attacco socialista al sistema clientelare e camorristico che caratterizzava l’attività amministrativa nella metropoli e nel vastissimo territorio agricolo della Terra del Lavoro (che si combinava con la provincia di Caserta). La condanna più dura, pronunciata da un deputato socialista, fu riservata al giolittiano Peppuccio Romano, non a caso deputato di Sessa Aurunca (collocata nella Terra di Lavoro) definito <
Sarà un funzionario di polizia, Eugenio De Cosa, nel 1908, a tracciare un intrigante profilo di questi criminali aggiornati ai tempi nuovi: Il camorrista moderno conosce anticipatamente a chi verrà aggiudicato l’appalto di questa o di quella amministrazione, regola la vendita dell’asta pubblica, ne svia le maggiori offerte, concerta e mena a termine questue e feste di beneficenza da cui detrae lauta sua spettanza. Egli inizia e “protegge” case da gioco e di prostituzione prestandosi a fornire i capitali che gli vengono poi resi quintuplicati, dispone della servitù di tutto il quartiere, ed in caso di elezioni, per logica conseguenza, di 100 o 200 voti, secondo la sua importanza e secondo gli anni della sua carriera. Il camorrista moderno conosce ed è conosciuto da tutte le Autorità locali; qualche volta è nominato “notabile” municipale del quartiere, e mercé le sue raccomandazioni, gli abitanti del rione ottengono dei favori delle concessioni. A questi delinquenti che, abbandonate le vecchie frequentazioni, si appropriavano delle abitudini borghesi ed aristocratiche, fu imposto il termine di guappi di sciammeria (ch’era una specie di abito). Veniamo ora al <
Il processo Cuocolo contrappose la Questura ai carabinieri e sconquassò la magistratura napoletana. La procura di Napoli rinviò a giudizio più di trenta imputati: alcuni per omicidio, la gran parte per associazione a delinquere. Nel 1911 il processo, per legittima suspicione, approdò alla Corte d’Assise di Viterbo. Nel 1912 i giurati emisero una sentenza di colpevolezza. Alfano, Rapi, De Marinis e altri cinque furono condannati a 30 anni. La camorra elegante si inabissò e scomparve la camorra propriamente detta, nella sua forma ottocentesca. Come si è potuto leggere tra Ottocento e primo Novecento la camorra rappresenta un fenomeno urbano, espresso da un ceto sociale, la plebe, prodotto dalla storia di Napoli. Una massa di diseredati, marginali e dipendenti dalle elargizioni di re, viceré, aristocratici e borghesi. I più vocati alla delinquenza si organizzano e impegnano il loro ingegno per cercare strade diverse, ancor più quando da Napoli scomparve la corte, le elargizioni e gli uffici. Quando si procede verso il più liberale primo Novecento aumentano le occasioni d’incontro, di collaborazione tra aggregati politici, economici, amministrativi, camorristici. La relativa espansione economica provocherà l’allargamento dei circuiti economici illegali. Di conseguenza una maggiore presenza dei delinquenti arricchitisi coi nuovi traffici. I camorristi e i guappi napoletani si mostravano, si dichiaravano, si addobbavano con vesti sgargianti. Vi era poi il tentativo, per il vero maldestro, di interloquire da vicino con l’alta società. Tutto ciò produsse una reazione violenta e vincente, tale da distruggere un’associazione criminale. Basterà dire che mentre la camorra tradizionale aveva resistito alle repressioni, quella moderna non sopravviverà all’assalto dei reali Carabinieri. Il suo inabissamento, dopo il processo Cuocolo, segnala la sua marginalità sociale e la subalternità politica ai poteri dominanti.
Dall’avvento del fascismo ai ‘ magliari ’ Le terre della Campania costiera erano ricoperte da orti irrigui, giardini di frutta, seminativi erborati, le più ricche colture intensive. Un’area, quindi, fertilissima con pochi grandi proprietari e molti di media e piccola consistenza. Che, per lo più, fittavano ai coloni. I contadini, molti dei quali piccoli fittuari e coloni, vivevano in miseria, perché sfruttati sia dai proprietari che dagli intermediari nelle compere e nel credito. In questa pianura crescerà una delinquenza che eserciterà uno sfruttamento contadino ben oltre i confini della legalità. Infatti, le campagne dell’Aversano del Nolano, dell’area vesuviana, del confinante agro sarnese diventeranno una vasta area della intermediazione. Qui, a differenza della Sicilia, non operano gabellotti, vi sono, numerosi, mediatori e guappi che intervengono individualmente senza alcuna appartenenza ad associazioni. Esercitano forme di intermediazione, anche ricorrendo alla violenza, sapendo bene che rappresentano l’unica strada che permette ai contadini di relazionare con i mercati urbani e con l’industria di trasformazione. Solo attraverso la cinica imposizione della mediazione viene assicurata la commercializzazione dei prodotti agricoli, nella prima metà del Novecento. Le aree particolarmente infestate da delinquenti e camorristi, di cui si hanno notizie fin dalla metà dell’Ottocento, sono l’agro aversano e la zona dei Mazzoni, quest’ultima tra i Regi Lagni (canali di bonifica) e il basso Volturno tra Cancello Arnone, Castelvolturno, Mondragone. Occorre subito precisare che questa camorra, diversamente da quella napoletana, ha essenzialmente caratteri rurali. Fin dall’Ottocento, comunque, non aveva niente da invidiare a quella urbana, sia per 17 il numero degli adepti, sia per il rilievo dei capi, sia per la violenza. I camorristi casertani erano, per lo più, sensali, mediatori, sedicenti guardiani e, soprattutto, come dice il più volte citato Barbagallo, <<”tribù” di bufalari, selvaggi come le bestie che allevavano>>. Le sue origini sono molto antiche. Questa criminalità, nonostante tutto, tra Ottocento e Novecento, si inserì rapidamente nei processi di modernizzazione, instaurando rapporti con l’attività politica e amministrativa. La descritta delinquenza non avrà remore ad inserirsi nella nuova vita politica, determinata dall’avvento del fascismo, intrigando con podestà e segretari locali del Partito fascista, intervenendo nei conflitti massonici, non trascurando il suo impegno professionale, tanto che tra il 1922 e il 1926 si segnalano centinaia di omicidi, migliaia di furti e rapine, centinaia di incendi e danneggiamenti. A testimoniarlo, sul finire del 1926, un ispettore generale del ministero dell’Interno documentò l’espansione di una “camorra a raggiera” che dal Napoletano si espandeva nel Casertano e raggiungeva l’agro Sarnese-nocerino nel Salernitano. Uno Stato conquistato e amministrato con la violenza non poteva permettersi concorrenza alcuna. E così, mentre in Sicilia a occuparsi della mafia aveva spedito il prefetto Mori, nella Terra del Lavoro inviò il maggiore dei carabinieri Vincenzo Anceschi, nato a Giuliano, quindi pratico della zona. Non solo, nel 1927 abolì la provincia di Terra di Lavoro. La parte al di qua del Garigliano fu assegnata alla provincia di Napoli; da Gaeta fin su a Sora una vasta area fu trasferita al Lazio, nella nuova provincia di Frosinone, che in seguito dovette cederne parte alla neonata Littoria (divenuta poi Latina). Poco dopo fu assunto un altro provvedimento di tipo demografico: i comuni di Casal di Principe, Casapesenna e San Cipriano di Aversa vennero accorpati col nome di Albanova. Intanto i carabinieri assolsero il loro compito. Arrestarono migliaia di delinquenti e di fatto promossero una ventina di processi. Con il processo Cuocolo e l’attacco alla delinquenza casertana i carabinieri raggiunsero l’obiettivo di sconfiggere la camorra storica dalle aree controllate dalla delinquenza campana. Certo la guerra fu condotta non certo con mezzi garantisti, tuttavia fu vinta. Questo, naturalmente, non assicurava la scomparsa della criminalità, ma si esauriva il ciclo storico dell’associazione di delinquenti dotata di propri riti e miti. Restavano i gruppi, sparsi nei quartieri, che gestivano e controllavano la delinquenza diffusa. Ci sembra qui opportuno puntualizzare un aspetto. La mafia siciliana, pur colpita dall’azione del prefetto Mori, procede su una linea di continuità senza fratture e significativi cambiamenti. La differenza con la delinquenza campana sta nel fatto che la camorra ottocentesca resta, indubbiamente, un fenomeno marginale e subalterno rispetto ai poteri dominanti, mentre la mafia è stata sempre in contatto e in concorrenza con le classi dominanti in Sicilia ed espande il suo spazio operativo dentro il sistema di potere dell’isola. <
La guerra tra i clan dei marsigliesi e Cosa Nostra a Napoli Agli inizi degli anni ’60 la timida espansione della società meridionale, promossa dallo sviluppo economico in atto nel Paese, si accompagnò al più grande sviluppo della criminalità organizzata che in Campania avrebbe trasformata la camorra storica, facendole assumere forme più consistenti, di largo respiro molto lontane dai suoi primordiali appetiti. 19
Qualche anno dopo il 1956, con l’indipendenza del Marocco, vi fu la chiusura del porto di Tangeri. I depositi di tabacco, quindi, si spostarono nei porti jugoslavi e albanesi da dove, attraversando la Puglia, le casse di sigarette arrivavano a Napoli. I delinquenti napoletani inizialmente svolgono, per questo traffico illegale, ruoli secondari: lo sbarco delle sigarette, la collocazione nei magazzini, la vendita al dettaglio. I marinai, imbarcati su veloci scafi, sbarcano le casse in alto mare. I banchetti di vendita delle ‘stecche’ sono sparsi per tutta Napoli. Bisogna chiarire che, negli anni ’60, il contrabbando di tabacco è generalmente considerato un’attività tra lecito e illecito, tanto che le sigarette vengono portate e vendute in tutti gli uffici di Napoli, dalla Prefettura all’Intendenza di Finanza. Si può certo comprendere il tollerante atteggiamento in una città che non dà posti di lavoro sufficienti, le sigarette illegali forniscono una larga occupazione ben retribuita a larghi settori di emarginati e inquieti (oggi forse lo avremmo chiamato un ‘ammortizzatore sociale’). Sono per lo più i siciliani di Cosa Nostra e delinquenti corsi, marocchini, algerini che fanno capo a Marsiglia e, perciò, vengono chiamati “marsigliesi”. Ma insieme a questi criminali, secondo un rapporto della Guardia di Finanza italiana operano <
Tra il 1971 e il 1973 si svolgerà una vera e propria guerra tra mafiosi e marsigliesi, che sono per lo più algerini e marocchini provenienti da Tangeri o Casablanca. Da parte sua il clan dei marsigliesi, attaccato dal Narcotic Bureau, che gli distrugge le raffinerie di eroina nei pressi di Marsiglia, cala su Napoli per provare a scalzare la presenza mafiosa. Arrivano tutti i capi e si sistemano in alberghi e abitazioni del centro. Sono marocchini, francesi, inglesi, spagnoli, greci, arabi, calabresi. Dalla Svizzera dirigono il traffico e forniscono i capitali il finanziere rumeno Alexander Florescu, residente a Ginevra, e lo svizzero Serafino Meniconi, rappresentante di una delle società svizzere che gestiscono una parte rilevante del contrabbando internazionale di tabacco. Cosa Nostra reagisce con forza, con tutte le armi, anche quelle delle ‘soffiate’, che consentono alle forze dell’ordine di sequestrare ripetutamente grossi carichi di ‘bionde’. Tuttavia nell’autunno del ’72 vengono arrestati i capi del clan dei marsigliesi: può considerarsi quindi fallito il loro controllo della piazza di Napoli già dal principio del 1973. Cosa Nostra, diventata padrona del campo, toglierà dalla circolazione i contrabbandieri napoletani vicini ai maghebrini di Marsiglia, eliminati da un killer venuto apposta da Bagheria. Poi affilierà come “uomini d’onore” i maggiori e più affidabili criminali napoletani: Michele e Salvatore Zaza che controllavano i traffici nell’area che andava da Santa Lucia a San Giovanni a Teduccio; Angelo e Lorenzo Nuvoletta di Marano, già in ottimi rapporti, come abbiamo già letto, con il corleonese Leggio (Liggio); il boss di Giugliano e Villaricca Raffaele Ferrara che affilierà a Cosa Nostra il boss aversano Antonio Bardellino. Secondo una deposizione del mafioso Gaspare Mutolo nel 1973 era stata costituita in Campania una famiglia di Cosa Nostra. Il rappresentante era Salvatore Zaza, legato a Tano Badalamenti, sottocapo era Lorenzo Nuvoletta, intimo dei corleonesi. Nel 1974 si stipula un accordo strategico fra i trafficanti siciliani e napoletani uniti nel vincolo di Cosa Nostra. Si concordano dettagliate regole di funzionamento, stabilendo quattro turni di scarico nel mar Tirreno di una nave contrabbandiera per volta. Il primo turno sarà gestito da Spadaro per la famiglia palermitana di Porta Nuova, il secondo da La Mattina per la famiglia di Santa Maria del Gesù, il terzo da Michele Zaza col nipote Ciro Mazzarella per la famiglia di Napoli, il quarto da Pino Savoca per la famiglia di Brancaccio e per la Commissione di Cosa Nostra. E’ il periodo più ricco del traffico del tabacco. Dai libri contabili risulta che Michele Zaza gestisce nel 1977 un movimento annuale di 5000 tonnellate di sigarette per un fatturato di 150 miliardi di lire. Nel 1979 questa forma di società si scioglie di comune accordo per due motivi. Da qualche tempo l’interesse primario si è spostato sul narcotraffico. C’è poi l’abilità sia di Zaza che di Spadaro a privilegiare troppo i propri affari. A Napoli si era affermato, verso la metà degli anni ’70, un trafficante internazionale di cocaina: Umberto Ammaturo. Questi si era prima legato a Luigi Grieco, ‘o sciecco (l’asino), presto eliminato dai siciliani, e manteneva buoni rapporti con Spavone (‘o malommo) e anche con Zaza. Si era già arricchito col contrabbando delle sigarette, quando diede una dimensione internazionale ai suoi affari. Si trasferì in Perù, a Lima, e diventò un grosso produttore e mercante di cocaina. Acquistava dai contadini la pasta di coca, che raffinava ed esportava nelle maggiori città europee e italiane. Non aveva problemi con la polizia peruviana. Sarà arrestato più volte, ma grazie alle perizie del criminologo Aldo Semerari, verrà considerato schizofrenico e detenuto in manicomi criminali, sempre preferiti dai delinquenti alle carceri. La comune propensione verso il traffico della cocaina e l’identico carattere impetuoso favorirono rapporti stabili con Antonio Bardellino. Proprio per il carattere, invece, avrebbe contrapposto Ammaturo a Raffele Cutolo, anche lui impegnato nello smercio di cocaina. 21
Alla metà degli anni ’70 si sviluppa la dimensione internazionale dei traffici dei più intraprendenti criminali napoletani e casertani. Il continente privilegiato è l’America latina, la merce preferita la cocaina. La camorra, quindi, non opera più soltanto nei quartieri di Napoli, nelle città della costa, nella campagne ma i nuovi boss – Ammaturo, Zaza, Nuvoletta, Bardellino, Cutolo – si muovono alla conquista dei mercati mondiali più redditizi. La camorra non è soltanto locale, ma globale. Non è più la camorra ottocentesca, è un’altra camorra che tratterà da pari con le affermate consorelle di Sicilia e Calabria. Sul finire degli anni ’70 si unificano il contrabbando dei tabacchi e quello della droga. Mafia siciliana e criminalità campana procedono all’unisono. Hashish ed eroina raffinata a Palermo giungono a Napoli fina dal 1977: al clan Di Biase, nei Quartieri spagnoli, e al clan Cozzolino di Ercolano. In questo secondo caso è la famiglia Vernengo che spedisce da Palermo a quelli che considera concessionari per la distribuzione della propria eroina in tutta l’Italia. Napoli diventa rapidamente un grosso mercato di consumo di eroina e di cocaina. I criminali campani sono diventati maggiorenni, hanno frequentato un’alta scuola, girano il mondo e fanno affari sempre più diversificati e diffusi. Poi arriveranno gli anni ’80 con le grandi occasioni di poderoso sviluppo criminale.
******************************************************************************** Qui, però, noi li lasciamo perché ci eravamo assunto il solo compito di raccontare le radici della camorra, quello che è accaduto in seguito, del resto, è stato riferito diffusamente dalla cronaca quotidiana.
22
I N D I C E
Introduzione pag. 2 Dai Borbone all’unità d’Italia “ 2 Una città moderna “ 11 Gli inizi del novecento – La lotta ai guappi di sciammeria “ 13 Dall’avvento del fascismo ai “magliari” “ 16 La guerra tra i clan dei marsigliesi e Cosa Nostra a Napoli “ 18