Lanza, Cento Anni Fa La Prima Auto Italiana
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LANZA, CENTO ANNI FA LA PRIMA AUTO ITALIANA Baffi ripiegati all’insù, naso volitivo, sguardo determinato:Michele Lanza giovane imprenditore torinese, titolare di una fabbrica di sapone (da cui deriverà Mira Lanza), si appassiona all’invenzione dell’automobile. Ne acquista una nel 1894, importandola dalla Francia. Poi decide di costruirne un’altra per conto proprio e, con l’aiuto di un carrozziere e di un tecnico disegnatore, progetta e realizza una “wagonnette”a quattro ruote e sei posti, mossa da un piccolo motore a due cilindri. E’ l’anno 1895… L’avvenire non è della bicicletta, bensì dell’automobile, quantunque non ci sia dato ancora di precisare, neppur vagamente, il tipo di macchina che trionferà sulle altre. Così scrive, il 5 ottobre 1895, sulla Gazzetta di Venezia, Mario Morasso, il futuro direttore di “Motori Aero Cicli & Sports”. “Neppur vagamente”: ma forse soltanto in Italia. Fuori, a Parigi come a Londra, si moltiplicavano gli studi e i tentativi, nascevano le prime riviste (la parigina “Vie Automobile” è del 1894), si discuteva, si costruiva, venivano organizzate persino le prime esposizioni. Il 1895, d’altronde, fu un anno cruciale, denso di avvenimenti che avrebbero avuto grandi conseguenze. E’ l’anno della scoperta dei raggi X da parte del professor Wilhelm Konrad Rontgen; dei primi esperimenti, riusciti, di radiotelegrafia del giovane Guglielmo Marconi; della prima esposizione inglese di autoveicoli, a Turnbridge Wells (in tutto furono presentati quattro veicoli, fra cui un trattore); è l’anno in cui compare, per la prima volta, nella corsa Parigi-Bordeaux e ritorno, il “pneumatico smontabile per automobili Michelin”, adottato dalla Peugeot che si classifica nona, dopo 22 scoppi di camere d’aria; è l’anno, infine, in cui si svolge, sul tragitto Torino-Asti-Torino, la prima corsa internazionale italiana per automobili, con cinque concorrenti in tutto. Non c’è da stupirsi che un giovane imprenditore torinese, Michele Lanza, portato dal suo lavoro a frequenti viaggi all’estero, soprattutto a Parigi, si lasciasse ammaliare da questa atmosfera febbrile che percorreva l’Europa. Erede di una affermata “Manifattura di candele steariche e Fabbrica di sapone”, Michele Lanza ci appare, nel fisico e nel morale, come il tipico personaggio piemontese di fine secolo. Baffi ripiegati all’insù, naso volitivo, sguardo determinato rivolto al futuro, colletto duro impeccabile e grandissimo lavoratore, schivo, riservato. I suoi bisnonni venivano da Fobello, nell’Alta Val Sesia (“vecchio Piemonte”): origine di curiosa importanza, perché la stessa di Vincenzo Lancia, fondatore nel 1906 dell’azienda omonima; e a sottolineare questa comune provenienza, e magari anche una parentela, sta di fatto che il nome, all’origine, era lo stesso, Lancia. Quando, trasferiti a Torino, i bisnonni di Lanza pronunciarono il proprio nome (“Lancia”) all’impiegato dell’anagrafe, si espressero in dialetto(“Lansa”), e questi, per italianizzarlo, lo trascrissero come “Lanza”. Lanza rimasero, e con questo nome fondarono nel 1832 una fabbrica per la produzione di candele ed affini. Michele era un uomo da non deludere certo le aspettative della sua famiglia, di cui curò infaticabilmente gli interessi, ingrandendo e irrobustendo l’azienda familiare. Senza però rinunciare ad una vena di originalità che segnalò, dapprima, con una vivace curiosità per il mondo esterno (e con l’acquisto nel 1894, di una Peugeot), per poi tradursi in un esplosione di creatività e quindi ritornare, muta e fedele, ai soli doveri aziendali. Michele Lanza, infatti, progettò e costruì, nel 1895, la prima vera automobile a quattro ruote realizzata in Italia; fondò, nel 1898, una Fabbrica di automobili; continuò ad ideare e a studiare prototipi sempre diversi; brevettò (1899) un nuovo tipo di carburatore; fondò, il 1° dicembre 1898, insieme a Roberto Biscaretti e Goria Gatti, l’Automobile Club; diede vita, quattordici giorni dopo, alla rivista “L’Automobile” primo periodico del genere in Italia. Si dimostrò, insomma, assolutamente, appassionatamente, cocciutamente convinto che anche in Italia si potesse e dovesse tentare l’avventura dell’automobile abbracciata con entusiasmo e intelligenza in altre parti d’Europa. Nel 1903 però la Lanza automobili chiudeva. Di vetture costruite, sembra ce ne siano state sei o sette. Di vetture effettivamente consegnate ai clienti forse nessuna. Di riconoscimenti, tributi, onori, neanche a parlarne. Un nome dimenticato come tanti altri, se non fosse per quell’assonanza con una “Mira Lanza” (di cui tutti coloro che hanno più di trent’anni hanno ricercato i miracolosi “punti” negli anni Sessanta) e per quelle scatole di detersivo in polvere ora prodotte dalla multinazionale tedesca Benckiser, che ancora fanno mostra di sé sugli scaffali degli odierni supermercati. Difficile spiegare il perché di tale “oblio”. O forse, più presumibilmente, non esiste un motivo chiaro. Lanza, uomo quadrato, responsabile, dai mille doveri ed impegni, si occupò di automobili finché questo ha costituito una sfida, una follia, un divertimento. Smise di pensarci quando terminò la fase più romantica ed eroica dell’automobilismo, ed iniziò l’epopea della moderna produzione industriale. Tornò ad occuparsene fuggevolmente, con un’intuizione straordinaria, alla metà degli anni Venti, quando la “scoperta” dell’aerodinamica aprì nuovi campi di avventura. Rimane il grande merito di essere stato per l’Italia, nel suo slancio iniziale, sul piano di ciò che sono stati Panhard, Levassor, Daimler e Benz per Francia e Germania: l’inventore di un veicolo con motore a scoppio, in grado di muoversi da solo su quattro ruote (il Bernardi, nel 1894, aveva costruito un triciclo, e dunque risulta prioritario ma ancora lontano da una più moderna concezione di automobile). Preciso il suo obiettivo: “Costruire una automobile in grado di coprire almeno cento chilometri senza pannes” e impegnare i propri guadagni, la propria credibilità, le proprie relazioni, nel tentativo di arrivare, utilizzando tutte le capacità e risorse della sua città, ad un risultato concreto. Se fu Lanza a ideare e progettare la sua prima “wagonnette” (tipo di carrozzeria simile al break) a sei posti, furono i fratelli Martina, di largo Vanchiglia a Torino, titolari di un’officina di macchinari, a realizzarla, basandosi sul progetto generale di Lanza e sui disegni tecnici elaborati da Giuseppe Stefanini, a sua volta destinato a lasciare grande ricordo di sé all’Isotta Fraschini in anni successivi. Il motore era un due cilindri orizzontali e paralleli, di 8 CV, con l’accensione a tubetti di platino. La potenza veniva trasmessa a un semplice cambio a due velocità, senza retromarcia, tramite una frizione a cono, con comando a pedale; da un contralbero si effettuava il passaggio finale, a mezzo di catene, alle corone dentate e applicate alle ruote posteriori. Queste erano ruote da carretto; la “sterza” si otteneva ruotando tutto l’avantreno con un volantino a manopola, installato su un piantone verticale dove erano situati i comandi delle marce e dell’acceleratore a mano. I pedali erano soltanto due, frizione e freno; curiosamente, il freno d’emergenza era a leva collocata all’esterno, sulla destra della vettura e perciò poteva essere azionata soltanto dal passeggero seduto vicino al conducente, essendo il posto guida a sinistra. Evidentemente il Lanza non temeva la solitudine; d’altra parte, una delle poche foto arrivate fino a noi (conservata negli archivi del Museo dell’Automobile di Torino) ci mostra una wagonnette carica al pieno delle sue possibilità, che ospita in un colpo solo, il Lanza al volante e al suo fianco Luigi Damevino, uno dei futuri fondatori della Fiat; dietro, i due fratelli Martina, Giovanni Ceirano (che insieme a Giovanni Agnelli, ai fratelli Ceirano e a Vincenzo Lancia seguiva con passione l’opera del Lanza, ansioso di imitarlo) e lo Stefanini. La carrozzeria fu realizzata presumibilmente da Ciocca, noto carrozziere torinese. Di questi si tramanda l’ostinata ritrosia a voler modificare le misure ormai codificate da secoli di tradizione (la vettura di Lanza doveva infatti superare di 15 centimetri la lunghezza del tradizionale modello di wagonnette, per poter ospitare il motore). La necessità di infrangere canoni codificati e abitudini mentali radicate, rappresentò la costante nell’attività di Lanza. Di lì a poco, infatti, i fratelli Martina, forse spaventati dalla loro stessa audacia, o dalla fredda accoglienza riservata al loro prototipo, o semplicemente presi da più pressanti impegni di lavoro (dalla loro “boita”, termine che in piemontese significa officina, uscirono i primi motori della neonata Fiat nel 1889), si dissociavano dal Lanza dopo aver costruito nel 1896, il secondo modello. Questo era molto più piccolo e leggero del primo, con carrozzeria vis-à-vis, un motore posteriore a due cilindri orizzontali, freni sulle ruote posteriori, ruote equipaggiate con pneumatici (e questo grazie all’amico Ceirano, aggiornatissimo in tal campo essendo fabbricante di biciclette). Fu l’abbandono dei Martina, probabilmente, a spingere il Lanza verso la costruzione della sua “Fabbrica di Automobili” (1898). Nello stesso anno, come riporta l’Automobile, partecipa alla Esposizione Internazionale di Torino con un Phaeton 4 posti, sul quale gareggia anche alla Torino-Alessandria-Torino con cui si concludeva l’Esposizione. “La vettura, a quattro ruote metalliche, munite di pneumatiche, è mossa da un motore a quattro tempi, due cilindri, della forza di 5 CV, con accensione per mezzo di un tubetto incandescente. Il carburatore