Clemente Papi “REAL Fonditore”: Vita E Opere Di Un Virtuosistico Maestro Del Bronzo Nella Firenze Dell’Ottocento

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Clemente Papi “REAL Fonditore”: Vita E Opere Di Un Virtuosistico Maestro Del Bronzo Nella Firenze Dell’Ottocento CLEMENTE PAPI “REAL FONDITORE”: VITA E OPERE DI UN VIRTUOSISTICO MAESTRO DEL BRONZO NELLA FIRENZE DELL’OTTOCENTO di Giuseppe Rizzo Celebrato durante l’ultimo granducato di Toscana come “Real Fonditore di Statue in Bronzo”, Clemente Papi (1803–1875) fu ricordato, al tempo del Regno unitario, come “il primo Fonditore d’Italia […] per la bravura di riprodurre in bronzo le opere più grandiose”1 della statuaria antica e moderna. L’intera carriera dell’artista, romano di nascita ma fiorentino per adozione, si svolse all’interno della fonderia regia. Nata come officina fusoria al servizio della corte granducale negli anni che videro la politica liberale di Leopoldo II promuovere le arti, le manifatture artigianali e l’industria, presto divenne centro di diffusione dell’arte fiorentina nel mondo: ruolo che mantenne anche dopo l’avvento del Regno d’Italia. Tra le opere eseguite da Clemente Papi le più note sono senz’altro le copie del David di Mi- chelangelo, del quale esistono due calchi in gesso, uno alla Gipsoteca dell’Istituto Statale d’Arte di Firenze e l’altro al Victoria and Albert Museum di Londra; vi si aggiunge il famoso bronzo che dal 1874 corona il centro del piazzale Michelangelo a Firenze (fig. 14). Ben documentati sono inoltre la riproduzione in bronzo della base della Fontana del Porcellino della bottega di Pietro Tacca (già presso il Mercato Nuovo, ora al Museo Stefano Bardini, Firenze; fig. 12) e i getti del Caino e dell’Abele di Giovanni Duprè (Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti, Firenze; figg. 7, 8). Meno noti, tra i lavori usciti dalla fonderia di Papi, sono invece i tanti bronzi monumentali celebrativi commissionati da Vittorio Emanuele II al tempo dell’Unità d’Italia e destinati alle piazze di alcu- ne città italiane: si pensi al monumento a Cavour a Milano (fig. 17), opera di collaborazione tra Odoardo Tabacchi e Antonio Tantardini, alla statua equestre del duca di Genova Ferdinando di Savoia di Alfonso Balzico (fig. 16) e alla statua di Alessandro La Marmora di Giuseppe Cassano, entrambe collocate a Torino; al monumento al generale Manfredo Fanti di Pio Fedi in piazza San Marco a Firenze (fig. 18). Infine è del tutto sconosciuta la produzione dei tanti modelli plastici tradotti per conto di diversi scultori del suo tempo e soprattutto sono completamente ignorate le molte repliche in bronzo che Papi trasse direttamente dai capolavori della scultura del Quattro e Cinquecento, commissionate da viaggiatori stranieri, principi e aristocratici, direttori di musei d’Europa in visita o residenti a Firenze. In un periodo storico dominato dall’ideologia romantica del ritorno al passato, che a Firenze si identificò con il recupero delle tecniche di lavorazione tradizionali e con il rinnovo delle forme del Rinascimento, la capacità di Papi nel riprodurre in bronzo le statue dei più importanti artisti del Cinquecento fu un elemento di grande novità nel panorama delle arti fiorentine che ebbe un’eco internazionale. In questo senso, la copia del Mercurio volante (fig. 3) eseguita per il duca di Devonshire e quella della Venere anadiomene della Petraia voluta dalla duchessa di Sutherland, opere entrambe tratte dagli originali del Giambologna, nonché la prima replica in assoluto del Perseo con la testa di Medusa del Cellini (fig. 2), comissionata dal duca di Su- therland, furono certamente tra le più interessanti esecuzioni del fonditore e contribuirono a restituire a Firenze, nell’Ottocento, il ruolo di ‘Novella Atene’ che l’aveva già resa celebre nel Rinascimento. Purtroppo, lo scarso interesse che la critica ha dimostrato verso Clemente Papi per tutto il corso del Novecento ha inoltre messo in ombra la produzione più interessante e corposa dei suoi lavori autonomi — curiose invenzioni che Papi chiamava ‘scherzi’2 — nei quali meglio si espresse la sua personale creatività artistica e soprattutto la sua abilità nel padroneggiare l’antico 296 G. Rizzo / Clemente Papi fonditore nella Firenze dell’Ottocento procedimento della fusione a cera persa, tecnica che lo scultore reintrodusse nelle arti plastiche fiorentine dopo un secolare abbandono. Nell’ambito della revisione critica e storiografica dell’arte dell’Ottocento toscano sollecitata da una generazione di studiosi di varia formazione disciplinare, il nome di Clemente Papi è spesso citato, ma la sua opera è di fatto ancora poco conosciuta. Una parte della storia dell’arte è stata attratta dal valore formale delle sue invenzioni e le ha interpretate come il segno di un cambia- mento del gusto che interessò Firenze negli anni quaranta del XIX secolo.3 Altri hanno osservato la singolare capacità tecnica del fonditore in rapporto ai diversi procedimenti utilizzati nelle fon- derie dell’Ottocento presenti in Italia, in Europa e in America.4 Alcuni, infine, hanno circoscritto il ruolo svolto dalla sua officina nel rinnovamento della produzione artistica e dell’economia locale.5 Tuttavia, a distanza di molti anni dal 1995, quando Mauro Cozzi lamentava la mancanza di uno studio approfondito su Clemente Papi6, poco o niente è ancora emerso sulla complessa figura dell’artista, per la quale, anche nel più recente dei contributi7, sono state considerate le sole testimonianze letterarie ed è rimasta invece misconosciuta la vasta documentazione manoscritta esistente negli archivi fiorentini. Il presente testo, nei limiti che ogni ricerca impone, intende tracciare la linea della carriera di Clemente Papi fonditore e ripercorrere le fasi salienti della sua vita attraverso una selezione dei documenti conservati presso l’Archivio dell’Accademia delle Belle Arti (filze dal 1818 al 1850) e l’Archivio Storico delle Gallerie fiorentine (filze dal 1827 al 1875). Questi documenti, incrociati con le notizie riportate nella cronaca dei perodici, quotidiani e cataloghi di esposizioni dell’epoca, permettono non solo di colmare un vuoto storiografico, ma di mettere in luce alcuni aspetti ancora inediti dell’opera e della vita dell’artista. Grazie alla documentazione esaminata siamo finalmente in grado non solo di restituirgli la paternità di alcune opere ancora nell’ombra dell’anonimato (nel caso specifico il Mercurio della collezione Devonshire a Chatsworth), ma anche di rivedere alcune discordanti e confuse notizie riportate fin dalla letteratura del tempo. La stessa biografia di Clemente Papi, ad esempio, scritta dall’amico avvocato Antonio Faleni e stampata pochi mesi dopo la morte del fonditore8, sebbene sia ancora oggi da considerarsi l’unico importante contributo sull’artista, contiene refusi e improprie datazioni e viene finalmente fatta oggetto di un attento riesame. La formazione (1818–1837) Sesto e ultimo figlio di Scolastica Jhofer (in realtà probabilmente Hofer) e Luigi Papi, Cle- mente nacque a Roma nel 18039 e qui visse fino all’età di dieci anni quando il padre, “onesto negoziante ed abilissimo pirotecnico”, decise di trasferirsi a Firenze insieme alla famiglia con la “speranza di incontrare migliore fortuna”.10 Sotto la guida paterna, Clemente imparò a raffinare lo zucchero, a tinteggiare il lino grezzo con prodotti chimici, a preparare la colla, il verderame e il sapone, ovvero tutte quelle arti che gli avrebbero consentito di diventare un buon mercante. Tuttavia, la predisposizione del giovane verso lo studio del disegno e delle arti plastiche era tale che il padre decise di iscriverlo, nel 1818, all’Imperiale Accademia delle Belle Arti che al tempo vantava la prestigiosa direzione del pittore aretino Pietro Benvenuti e un corpo di docenti di riconosciuto prestigio. Tra questi il professore Pietro Ermini, “celeberrimo disegnatore”11, e gli scultori Francesco Carradori prima e Stefano Ricci poi furono gli insegnanti di Clemente Papi, i quali riconobbero nel giovane allievo “talento assai”12 nel disegno e “molta disposizione”13 nella modellazione plastica. La bravura di Papi fu presto nota per alcuni lavori modellati in gesso che, presentati nei con- corsi annuali e triennali indetti dall’Accademia, furono lodati e premiati. Nel 1823 un suo saggio in creta gli valse il Premio minore di Scultura14; nel 1826 partecipò alla mostra annuale con due busti-ritratto in gesso rappresentanti una Giovine e un Giovane15; infine, al concorso triennale del 1828 gli fu assegnato il Premio di incoraggiamento per un bassorilievo d’invenzione, il cui tema G. Rizzo / Clemente Papi fonditore nella Firenze dell’Ottocento 297 era così indicato: “Tizio che tentando fare oltraggio a Latona, che attraversava le campagne di Panope per andare a Pito, rimane ucciso dagli strali d’Apollo e Diana”.16 Sebbene di questi primi saggi non si abbiano più notizie, dobbiamo immaginarli modellati secondo uno stile legato al ‘vero’ della rappresentazione, come già osservato dalla critica del tempo, che considerò il “pregio” dei lavori di Papi risiedere proprio nel loro accostamento “al vero”17, forse mediato in quegli stessi anni dalle lezioni di anatomia pittorica che l’allievo seguiva presso il Regio Arcispedale di Santa Maria Nuova.18 Il 1833 è l’ultimo anno in cui il nome di Clemente Papi compare nei registri degli allievi dell’Ac- cademia19, ma sappiamo dalle notizie del Faleni che lo scultore già da molti anni era attivo nello studio di Stefano Ricci, ubicato presso i locali del Chiostro dello Scalzo nell’odierna via Cavour. Nello studio del maestro, Papi strinse amicizia con Aristodemo Costoli e con Niccolò Bazzanti, entrambi già allievi e ora stipendiati del Ricci, e perfezionò le sue capacità nel modellare la creta, gettare in gesso e acquisire padronanza nelle tecniche del restauro, il che gli consentì
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