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LO STUDIO DELLA RACCOLTA IN PROSA Riflessioni sulla forma letteraria e sull’attività di commento alla raccolta attraverso le Ventidue prose elvetiche di Eugenio Montale

Masterproef voorgelegd aan de Faculteit Letteren en Wijsbegeerte voor het behalen van de graad van Master in de Vergelijkende Moderne Letterkunde

Guylian Nemegeer Stamnummer: 01208046

Promotor Prof. Dr. Mara Santi

Academiejaar 2017 - 2018

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Tell me where's your hiding place I'm worried I'll forget your face And I've asked everyone I'm beginning to think I imagined you all along

In ricordo di G. – con amore. 02/05/1989-18/07/2014

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Indice ABSTRACT ...... 7 RINGRAZIAMENTI ...... 8 INTRODUZIONE ...... 9 1. OSSERVAZIONI PRELIMINARI: ELEMENTI DELLA COMUNICAZIONE LETTERARIA ...... 11 1.1 LO SCHEMA DELLA COMUNICAZIONE DI JAKOBSON ...... 11

1.2 PECULIARITÀ DELLA COMUNICAZIONE LETTERARIA ...... 12 1.2.1 Le due diadi della comunicazione letteraria ...... 12 1.2.1.1 Barthes e la diade mittente – messaggio: rapporto autore – testo ...... 13 1.2.1.2 Iser e la diade messaggio – destinatario: rapporto testo - lettore ...... 14 1.3 CONCLUSIONE ...... 16

2 INTRODUZIONE CONCETTUALE ALLA FORMA RACCOLTA ...... 17 2.1 TEORIA DELLE FORME POLITESTUALI CON STATO DELL’ARTE ...... 17 2.1.1 La linea anglosassone: Short story cycle theory ...... 17 2.1.2 La linea francofona: Théorie du recueil ...... 19 2.1.3 La linea italiana: Teoria del macrotesto ...... 20

2.2 ROMANZO E RACCOLTA A CONFRONTO ...... 21

2.3 CONCLUSIONE ...... 22

3 INTRODUZIONE CONCETTUALE AL COMMENTO ...... 24 3.1 TEORIA DEL COMMENTO CON STATO DELL’ARTE ...... 24 3.1.1 Decifrazione e interpretatio ...... 26

3.2 IL COMMENTO OGGI: RUOLO DEL COMMENTATORE NELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA ...... 27 3.2.1 Perché commentare un testo? Funzione della critica nel campo letterario ...... 27 3.2.1.1 Bourdieu: I concetti di capitale e di campo ...... 27 3.2.1.2 Il campo letterario ...... 29 3.2.1.3 La critica e la legittimità letteraria...... 30 3.2.2 Posizione del commentatore rispetto al lettore ...... 31

3.3 CONCLUSIONE ...... 33

4 INTRODUZIONE AL COMMENTO MONTALIANO ...... 34 4.1 MONTALE PROSATORE: TIPOLOGIA ...... 34 4.1.1 Montale giornalista ...... 34 4.1.1.1 Critico musicale ...... 35 4.1.1.2 Critico letterario ...... 36 4.1.1.3 Cronista ...... 36 4.2 COMMENTARE MONTALE: STATO DELL’ARTE ...... 36

4.3 VENTIDUE PROSE ELVETICHE ...... 38 4.3.1 Genesi della raccolta ...... 38 4.3.2 Perché commentare le Ventidue prose elvetiche? ...... 39

4.4 IL COMMENTO ALLE VENTIDUE PROSE ELVETICHE: MODELLO OPERATIVO ...... 41

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IL COMMENTO ALLE VENTIDUE PROSE ELVETICHE DI EUGENIO MONTALE ...... 42 ELENCO DELLE ABBREVIAZIONI ...... 42 5 INTRODUZIONE GENERALE: SINTESI INTERPRETATIVA ...... 44 6 VENTIDUE PROSE ELVETICHE DI EUGENIO MONTALE ...... 49 I. BATTAGLIE COL SILENZIATORE ...... 49 II. ZURIGO CROCICCHIO D’EUROPA ...... 53 III. GINEVRA SENZA S.D.N. È SEMPRE UNA GRANDE CITTÀ ...... 56 IV. DUE PRETI NEGRI SEDUTI AL CAFFÈ ...... 60 V. NON C È ANGOSCIA ESISTENZIALE NELLA SANA ANIMA DI ZURIGO ...... 63 VI. SPIRAGLIO ...... 67 VII. CENTO MEDICI AL CAPEZZALE DELL’ARTE CONTEMPORANEA ...... 70 VIII. DUE PICCOLI IMMORTALI ...... 75 IX. LA CONTESSA DI SARRE...... 78 X. DA SAINT MORITZ ...... 83 XI. NELLA TERRA DI CALVINO ...... 87 XII. A LOSANNA LA SCIENZA E L’ARTE SI SONO RIBELLATE ALLA POLITICA ...... 97 XIII. RISVEGLIATO DA DIECI ANGELI ...... 102 XIV. LA STATUA DI NEVE ...... 106 XV. L’ANGOSCIA ...... 108 XVI. POETA DI FRONTIERA ...... 111 XVII. SPORTIVO INGLESE ...... 116 XVIII. CINQUE SECOLI DI PITTURA VENEZIANA A SCIAFFUSA ...... 119 XIX. PREZIOSE STOFFE ITALIANE AL PALAIS DE RUMINE DI LOSANNA ...... 122 XX. TUTT’ALTRO CHE TRAMONTATA LA CARRIERA DEGLI EXLIBRIS ...... 125 XXI. TRENT’ANNI PER SMASCHERARE I 2500 PEZZI FALSI DI HAYDN ...... 128 XXII. MAX FRISCH ...... 132

CONCLUSIONI TEORICO-ANALITICHE ...... 136 BIBLIOGRAFIA ...... 139 A. Bibliografia primaria ...... 139 B. Bibliografia secondaria ...... 139 C. Sitografia ...... 143

ALLEGATI ...... 145

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Abstract Eugenio Montale (1896-1981) è soprattutto ricordato come il poeta del male di vivere. Tuttavia si dimentica spesso l’altra parte della sua produzione, vale a dire la prosa giornalistica di cui la raccolta Ventidue prose elvetiche (1994) è un risultato postumo. Il presente lavoro intende indagare il significato della raccolta di Montale, di cui sarà offerta un’analisi attraverso un commento testuale. Le teorie politestuali e le teorie del commento saranno utilizzate come strumento metodologico per concettualizzare un approccio al commento che tiene conto delle caratteristiche semantiche peculiari di una raccolta di narrativa breve.

Parole chiave: Eugenio Montale, Raccolta di narrativa breve, commento testuale, Novecento Italiano, critica letteraria

Eugenio Montale (1896-1981) wordt voornamelijk herinnerd als de poëet die de pijn van het leven weergegeven heeft. Vaak wordt echter het andere stuk van zijn literaire productie vergeten, namelijk het journalistisch proza zoals onder andere de postuum verschenen bundel Ventidue prose elvetiche (1994). Het doel van dit onderzoek is de betekenis van de prozabundel van Montale te bestuderen aan de hand van een tekstcommentaar. De polytekstuele theorieën en de theoriëen van het tekstcommentaar zullen gebruikt worden als methodologisch kader om een aanpak van het commentaar te conceptualiseren die rekening houdt met de specifieke semantische eigenschappen van een verhalenbundel.

Trefwoorden: Eugenio Montale, Kortverhalenbundel, tekstcommentaar, Italiaans Novecento, literaire kritiek

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Ringraziamenti «Devi molto a chiunque ti abbia dato fiducia» - Truman Capote -

Alla fine del percorso universitario uno studente guarda tradizionalmente con nostalgia a questa epoca cruciale nella sua formazione intellettuale ed emozionale. Per me questo periodo va dalla lezione di letteratura francese della prima giornata sino a questo momento in cui sto, qui seduto alla mia scrivania, scrivendo le ultime parole di una tesina in letteratura italiana. Sono i punti estremi di una vita studentesca che rispecchiano il percorso che mi ha trasformato da francofilo in italofilo. Sono i punti estremi che segnano un arco di tempo in cui la mia vita è cambiata totalmente, ma che circoscrivono soprattutto un periodo in cui la passione per la letteratura ha sopravvissuto a ogni singola svolta personale.

La mia gratitudine va innanzitutto alla mia relatrice prof.ssa dott.ssa Mara Santi per le molte ore che ha speso ad aiutarmi con la trascrizione del testo di Montale, ma anche per la disponibilità e la cortesia dimostratemi. Desidero ringraziare inoltre tutti i professori del dipartimento di letteratura per la passione con cui insegnano e con cui mi hanno spinto per arrivare dove sono adesso.

Ringrazio infine la mia famiglia per la comprensione dimostrata in tutti i momenti in cui mi sono rinchiuso nella mia stanza, dedicandomi allo studio e alla lettura. Ringrazio in particolare mio fratello, che sarebbe sicuratamente stato molto orgoglioso di me così come io lo rimarrò sempre di lui.

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Introduzione Con il presente lavoro ambisco a studiare la raccolta Ventidue prose elvetiche di Eugenio Montale (1896-1981) attraverso un commento testuale. Nel corso del lavoro assegnerò un ruolo fondamentale alla forma letteraria politestuale, composta da vari testi che dispongono di una loro autonomia ma che creano al contempo un valore aggiunto determinato dalla disposizione in sequenza dei testi.

Ho scelto di studiare la raccolta attraverso un commento testuale poiché esso consente la descrizione esaustiva dei processi di semantizzazione attivi nel volume. Siccome sono tuttavia convinto che la forma tradizionale del commento, ovvero un cappello introduttivo seguito da un apparato di note a piè di pagina, non riesce a soddisfare interamente le esigenze della forma letteraria politestuale, occorre andare alla ricerca di un’impostazione del commento che tiene conto delle sue caratteristiche semantiche peculiari.

Per raggiungere questo scopo, i primi quattro capitoli tracceranno un quadro teorico complessivo in cui abborderò alcune questioni relative alla raccolta e al commento e in cui chiarirò la posizione della raccolta in prosa all’interno della produzione montaliana attraverso una riflessione sociologico-letteraria.

Per cogliere ogni sfumatura dei problemi teorici legati al commentare una raccolta di narrativa breve, adotterò una struttura che si articola nelle tappe seguenti: il primo capitolo mi serve come premessa per collocare i problemi teorici specifici trattati nel corso di questa tesi all’interno della teoria della comunicazione in generale e della comunicazione letteraria in particolare. A partire dallo schema della comunicazione di Roman Jakobson e dalle due diadi della comunicazione, distinte da Cesare Segre, introdurrò gli elementi della comunicazione per poi approfondirli grazie alle teorie letterarie di Roland Barthes e di Wolfgang Iser.

Nel secondo capitolo sintetizzerò la teoria della raccolta attraverso la discussione delle tre linee concettuali principali, ossia lo ‘short story cycle theory’, la ‘théorie du recueil’ e la ‘teoria del macrotesto’, sviluppatesi rispettivamente in ambito anglosassone, francofono e italiano. Dopo questo quadro teorico generale metterò la raccolta a confronto con il romanzo per riflettere in modo approfondito sulla specificità della forma letteraria politestuale.

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Nel terzo capitolo tenterò di integrare i problemi teorici rilevati dalla teoria della raccolta per riflettere, in primo luogo, sul processo che il commentatore deve attraversare nell’affrontare una raccolta in prosa. In secondo luogo, svolgo anche una riflessione sociologico-letteraria sulla funzione e sulla posizione della critica letteraria nella società per chiarire le ragioni per le quali un commento testuale è ancora rilevante nel ventunesimo secolo.

Nel quarto capitolo miro a offrire concetti preliminari necessari per poter iniziare il commento alle Ventidue prose elvetiche. Collocherò la raccolta in questione all’interno della bibliografia montaliana e sintetizzerò lo stato dell’arte dei commenti montaliani svolti fino a oggi. Concludo infine la parte teorica con la discussione della motivazione e dell’impostazione del commento alle prose.

Dopo questa parte teorica, inizierò il commento alla raccolta con lo scopo di testare l’impostazione proposta. Voglio infatti verificare se essa consente di tenere conto delle esigenze peculiari della forma letteraria politestuale e di proporre pertanto un’analisi approfondita delle Ventidue prose elvetiche.

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1. Osservazioni preliminari: elementi della comunicazione letteraria Per raggiungere una comprensione approfondita dei problemi teorici trattati in questa tesi occorre situarli all’interno della teoria della comunicazione in generale nella misura in cui il testo letterario si presenta come una forma specifica di comunicazione. Segre (1985), per esempio, sottolinea la natura comunicativa del testo letterario nel modo seguente:

La finalità comunicativa [della letteratura] è già implicita nell’atto stesso di destinare una propria composizione scritta od orale a un pubblico dai limiti imprevedibili: il destinatore è convinto di poter essere compreso e desidera esserlo (Segre: 5).

Come emergerà dalle osservazioni fatte nei prossimi capitoli, diversi problemi teorici legati alla forma raccolta e al commento provengono già dalla natura comunicativa stessa del testo letterario. Essi possono quindi essere introdotti a partire dalla teoria letteraria che discute i diversi elementi coinvolti nel processo comunicativo.

1.1 Lo schema della comunicazione di Jakobson Prima di affrontare le caratteristiche specifiche della comunicazione letteraria bisogna rammentare lo schema della comunicazione, proposto da Jakobson nel 1963. Il semiologo russo descrive la comunicazione verbale come segue:

Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto [...] che possa essere afferrato dal destinatario, e che sia verbale, o suscettibile di verbalizzazione; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario (o, in altri termini, al codificatore e al decodificatore del messaggio); infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consenta loro di stabilire e di mantenere la comunicazione (Jakobson: 185).

La comunicazione verbale si presenta quindi come un processo di trasmissione di informazione in cui il mittente comunica un messaggio al destinatario. Il messaggio, inoltre, deve riferirsi a un contesto, richiede un codice comune tra mittente e destinatario e richiede un punto di contatto tra i due attori. A ciascuno di questi sei elementi corrisponde una funzione linguistica, che privilegia uno dei sei elementi dell’atto comunicativo. Occorre osservare che un atto linguistico non implica mai una sola funzione linguistica. La diversità dei messaggi, infatti, non nasce dal monopolio di una certa funzione, ma piuttosto dalle differenze gerarchiche tra le diverse funzioni. La struttura verbale di un messaggio dipende quindi principalmente della funzione dominante.

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Nonostante il suo grande valore nello studio della comunicazione, il modello di Jakobson si presenta troppo povero per applicarlo al testo letterario in quanto la comunicazione letteraria si raffigura come un processo più complicato della comunicazione dialogica o quotidiana.

1.2 Peculiarità della comunicazione letteraria Lo schema di Jakobson si rivela insufficiente dove occorre tener conto delle caratteristiche peculiari della comunicazione letteraria poiché la letteratura è un tipo di comunicazione diverso da quella quotidiana e orale. La comunicazione orale, infatti, è soprattutto diretta ed è caratterizzata dalla dialogicità. Essa avviene inoltre in compresenza del mittente e del destinatario e in un determinato momento temporale.

La comunicazione letteraria, invece, non può essere classificata come una comunicazione diretta e dialogica nel senso che essa è principalmente indiretta. Questo carattere indiretto proviene già dal fatto che l’autore e il lettore non sono compresenti. L’autore, ossia il mittente di un testo letterario, non comunica il messaggio in modo diretto, perché il testo stesso funziona sempre come intermediario. Il testo letterario, quindi, non è un messaggio enunciato e trasmesso direttamente dall’autore a un lettore predeterminato e preciso nel senso che questo ultimo è normalmente sconosciuto e assente.

Questa non compresenza si traduce spesso in un differimento temporale nel senso che l’autore e il lettore appartengono a tempi diversi. Il tempo della stesura del testo e il tempo in cui avviene la sua fruizione non coincidono infatti quasi mai. Esiste quindi un vuoto temporale non solo fra l’autore e il lettore, ma anche fra il testo e il lettore. Tale situazione pone delle difficoltà per due elementi dello schema di Jakobson. In primo luogo, il destinatario può avere una conoscenza assai limitata del contesto a cui il mittente si riferisce. In secondo luogo, il codice linguistico – così come ogni altro codice culturale – è problematico dal momento che una lingua non è una struttura stabile, ma cambia continuamente.

1.2.1 Le due diadi della comunicazione letteraria In seguito alle riflessioni qui sopra esposte, Segre (1985) rifiuta di caratterizzare la comunicazione letteraria secondo la triade tradizionale mittente – messaggio – destinatario. Egli propone invece di suddividere questa triade in due diadi, vale a dire mittente – messaggio e messaggio – destinatario. Secondo questa rappresentazione, il contatto, elemento costitutivo dello schema di Jakobson, è problematizzato perché non esiste un punto di contatto diretto tra autore e lettore. Benché il testo possa funzionare come spazio di incontro, il mittente ha in

12 / 157 questo caso la mera possibilità di concentrare nel messaggio incentivi alla fruizione, che il lettore può riconoscere oppure negare completamente.

Per capire pertanto i problemi legati al buon esito della funzione comunicativa della letteratura, ossia della costruzione del significato trasmesso dal testo, occorre riferirsi a studiosi che teorizzano il funzionamento delle due diadi della comunicazione letteraria.

1.2.1.1 Barthes e la diade mittente – messaggio: rapporto autore – testo «L’autore è [...] elemento imprescindibile della comunicazione letteraria, in quanto mittente del messaggio. Egli è l’artefice e il garante della funzione comunicativa dell’opera» (Segre: 8). Con questa affermazione Segre (1985) introduce il concetto di autore nell’Avviamento all’analisi del testo letterario. Benché nessun critico possa negare il ruolo dell’autore nella creazione del testo – «the words of a poem [...] come out of a head, not out of a hat» (Wimsatt & Beardsley: 469) –, la sua funzione in quanto garante del significato del testo è stata ampiamente problematizzata a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso.

Secondo Biriotti e Miller (1993), gli anni Sessanta segnano un fondamentale momento di svolta nella storia del principio di auctoritas poiché «the traditional, humanist concept of a single, human source of all meaning was discarded amid the clamour of disturbances and manifestations against authority all over Europe» (I). Di conseguenza, non è casuale che l’inizio del dibattito sull’autorità dell’autore si situa all’interno della scena intellettuale di Parigi, epicentro delle rivolte del maggio 1968, dove all’epoca sono attivi studiosi come Barthes e Foucault.

Quando Barthes (1963) dichiara la morte dell’autore nell’omonimo saggio La mort de l’Auteur, si deve infatti tener conto di questo contesto anti-umanistico. Gli strutturalisti, infatti, vedono l’uomo come il prodotto di una rete di strutture sociali, tra cui il linguaggio stesso, e affermano che non è l’essere umano che produce il linguaggio, ma piuttosto il linguaggio che produce l’essere umano (Pieters: 21). Il linguaggio viene dunque inteso come un sistema collettivo di significati che non può essere controllato dall’individuo. Di conseguenza, Barthes afferma che l’autore entra nella propria morte quando la scrittura inizia:

L’écriture est destruction de toute voix, de toute origine. L’écriture, c’est ce neutre, ce composite, cet oblique où fuit notre sujet, le noir-et-blanc où vient se perdre toute identité, à commencer par celle-là même du corps qui écrit. […] La voix perd son origine, l’auteur entre dans sa propre mort, l’écriture commence (Barthes : 61).

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La riflessione di Barthes si rivolge soprattutto all’istituto dell’autore che viene chiamato in soccorso ogni volta che i critici non riescono a risolvere un problema interpretativo:

Donner un Auteur à un texte, c’est imposer à ce texte un cran d’arrêt, c’est le pourvoir d’un signifié dernier, c’est fermer l’écriture. […] L’Auteur trouvé, le texte est expliqué, le critique a vaincu (Ibid. 65).

Nell’ottica di Barthes si tratta di una concezione erronea poiché il linguaggio non funziona a partire da questa logica. Infatti se non ha controllo sul linguaggio utilizzato e se il linguaggio lo precede, l’autore non può essere l’unica origine di quello che ha scritto. Barthes vede il testo invece come «un tissu de citations, issues des mille foyers de la culture» (Ivi). Di conseguenza, lo scrittore moderno è in primo luogo un copista, il cui unico potere è di mescolare le scritture precedenti e che non può dare espressione a sentimenti e passioni:

Succédant à l’Auteur, le scripteur n’a plus en lui passions, humeurs, sentiments, impressions, mais cet immense dictionnaire où il puise une écriture qui ne peut connaître aucun arrêt: la vie ne fait jamais qu’imiter le livre, et ce livre lui-même n’est qu’un tissu de signes, imitation perdue, infiniment reculée (Ivi).

Il ritorno continuo all’autorità dell’autore impedisce inoltre la libertà e la creatività del lettore. Barthes infatti aspira a invertire la gerarchia tradizionale dello studio letterario. La scienza del testo deve focalizzarsi soprattutto sul lettore e non più sull’autore nella misura in cui è il lettore che dota il testo di un’unità. È dunque in questo modo che la frase finale «la naissance du lecteur doit se payer de la mort de l’Auteur» (Ivi) va interpretata. Sulla scia di Barthes, numerosi studiosi si sono dedicati alla teorizzazione del rapporto tra testo e lettore. L’approccio principale di questa tradizione è quello dell’estetica della ricezione, il cui esponente più noto è stato Iser (1926-2007).

1.2.1.2 Iser e la diade messaggio – destinatario: rapporto testo - lettore Per quanto riguarda gli elementi della seconda diade di Segre, vale a dire il testo letterario e il lettore, Iser (1980) punta l’attenzione sul fatto che «central to the reading of every literary work is the interaction between its structure and its recipient» (106). L’implicazione dell’affermazione è che, secondo Iser, lo studio dell’opera letteraria non deve esclusivamente focalizzarsi sul testo, ma deve dare risalto anche alle azioni coinvolte nella fruizione del testo. Iser, infatti, sostiene che l’opera letteraria si caratterizza per una polarità. Da un lato c’è il polo artistico, che è il polo del testo come struttura linguistica creata dall’autore, dall’altro il polo estetico, che consiste nell’attualizzazione del testo compiuta dal lettore (Iser 1980: 106).

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Alla luce di tale polarità l’opera stessa non corrisponde interamente né al testo, né all’attualizzazione del lettore, ma si trova a metà strada tra i due poli. Di conseguenza, l’opera letteraria ha carattere virtuale nel senso che diventa reale solo nell’atto concreto di un’interpretazione. Occorre tuttavia sottolineare che essa non coincide interamente con questa interpretazione poiché è sempre possibile un’ulteriore interpretazione. La sua attualizzazione è insomma sempre il risultato dell’interazione tra il polo artistico e il polo estetico:

In literary works, however, the message is transmitted in two ways, in that the reader “receives” it by composing it. There is no common code – at best one could say that a common code may arise in the course of the process (Ibid. 107).

Per la descrizione di tale interazione fra il testo e il lettore, Iser si rivolge prima alla teoria dei rapporti interpersonali, proposta da Laing nel The Politics of Experience. Laing (1967) afferma infatti che «all men are invisible to one another» (16) e che «experience is man’s invisibility to man» (Ivi). L’invisibilità viene intesa come la base dei rapporti interpersonali, che si costruiscono a partire da un «no-thing» (Ibid. 34). Infatti noi come esseri umani basiamo le nostre reazioni «as if we knew how our partners experienced us; we continually form views of their views, and then act as if our views of their views were realities» (Iser: 108). Di conseguenza, il contatto umano dipende «upon our continually filling in a central gap in our experience» (Ivi).

Analogamente la comunicazione letteraria si avvia a partire dagli spazi bianchi nel testo:

Similarly, it is the gaps, the fundamental asymmetry between text and reader, that give rise to the communication in the reading process; the lack of a common situation and a common frame of reference corresponds to the “no-thing”, which brings about the interaction between persons. Asymmetry and the “no-thing” are all different forms of indeterminate, constitutive blank, which underlies all processes of interaction (Ibid. 109).

Come afferma Iser, lo squilibrio tra testo e lettore deve essere in qualche modo controllato dal testo affinché si possa garantire la comunicazione tra di loro. Benché questo controllo non si trovi nel testo, esso viene esercitato dal testo:

What is said only appears to take on significance as a reference to what is not said; it is the implications and not the statements that give shape and weight to the meaning (Ibid. 111).

Di conseguenza, la comunicazione prende avvio grazie a ed è regolata dall’interazione tra l’esplicito e l’implicito: «What is concealed spurs the reader into action, but this action is also controlled by what is revealed» (Ivi). Ogni volta che il lettore tenta di colmare i vuoti nel testo, la comunicazione comincia. I vuoti funzionano «as a kind of pivot on which the whole text- reader relationship revolves» (Ivi). Sono insomma gli spazi bianchi o i vuoti che indicano che

15 / 157 certi segmenti del testo devono essere connessi dalla partecipazione attiva del lettore benché il testo stesso non lo dica esplicitamente.

1.3 Conclusione La presentazione degli attori coinvolti nella comunicazione letteraria, vale a dire l’autore, il testo e il lettore, serve come premessa per la descrizione dei problemi legati sia alla teoria della raccolta che alla teoria del commento.

Per quanto riguarda il commento bisogna riflettere sul modo in cui il commentatore deve tener conto delle peculiarità della comunicazione letteraria. Come vedremo nel terzo capitolo, il commentatore aspira a facilitare l’esito comunicativo del testo letterario. Questo scopo susciterà una riflessione in merito alla posizione del commentatore rispetto agli elementi della comunicazione. Inoltre ci si può chiedere in che modo il commentatore deve occuparsi della necessità «di far ‘reagire’ una forma autoritaria ed arcaica come il commento con testi che, oltre ad appartenere alla contemporaneità, suonano come negazione dello stesso principio di auctoritas» (Carrega: 435).

In merito alla teoria della raccolta, il prossimo capitolo mostrerà in che misura lo studio della raccolta sembri focalizzarsi sul ruolo del lettore nella fruizione del volume. Il ruolo dell’indeterminazione come motore della comunicazione letteraria si rivelerà pertinentissimo nella costruzione del significato della raccolta. In questo modo, anche la raccolta si presenterà come negazione del principio di auctoritas, evidenziato da Barthes, e come forma letteraria in cui l’interazione tra il testo e il lettore, sottolineata da Iser, gioca un ruolo centrale.

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2 Introduzione concettuale alla forma raccolta

2.1 Teoria delle forme politestuali con stato dell’arte Dato che le Ventidue prose elvetiche di Montale è una raccolta di scritti giornalistici occorre allacciare questo quadro introduttivo al lavoro teorico che concettualizza il funzionamento e i problemi teorici legati a tale forma letteraria. Lo studio delle forme politestuali, che si è avviato negli anni Settanta del Novecento, è caratterizzato da una certa confusione terminologica, come sostengono D’Hoker e Van den Bossche (2014):

Short story cycle, recueil de récits, composite novel, macrotesto, short story sequence, cuentos enlazados, short story composite, novella cuentada: these are only some of the terms which have been suggested for the collection of linked stories within different scholarly traditions (7).

Tale confusione terminologica rispecchia le diverse concettualizzazioni e la grande varietà di approcci teorici a questa forma letteraria. La collezione di racconti è infatti stata studiata a partire da definizioni e da punti di vista tra di loro svariati.

Nonostante questa proliferazione di termini si distinguono tre grandi linee concettuali: la short story cycle theory della linea anglosassone, la théorie du recueil di quella francofona e la teoria del macrotesto italiana.

2.1.1 La linea anglosassone: Short story cycle theory Lo studioso americano Forest Ingram, negli anni Settanta del secolo scorso, è stato il primo a teorizzare la collezione di racconti come genere, nello studio Representative Short Story Cycles of the Twentieth Centuries: Studies in a Literary Genre (1971), proponendo il termine short story cycle che viene definito come «a book of short stories so linked to each other by their author that the reader’s successive experience on various levels of the pattern of the whole significantly modifies his experience of each of its component parts» (Ingram: 11).

La definizione di Ingram mette in luce sia il ruolo dell’autore che la prospettiva del lettore, motivo per cui il tentativo di Ingram ha dato luogo a due correnti nello sviluppo della teoria anglosassone: una che evidenzia le caratteristiche formali inserite dall’autore e un’altra che punta l’attenzione piuttosto sull’attività del lettore nella costruzione dei legami tra i testi.

Nella teoria di Ingram, l’autore gioca ancora un ruolo importante nel senso che egli si riferisce a dichiarazioni autoriali in merito al processo di composizione per distinguere tra composed («one which the author had conceived as a whole form the time he wrote its first story» Ibid. 17), arranged («stories which an author or editor-author has brought together to illuminate or

17 / 157 comment upon one another by juxtaposition or association» Ibid. 18) e completed cycles («sets of linked stories which are neither strictly composed nor merely arranged» Ivi). Gli studiosi successivi perdono progressivamente una tale attenzione per l’autore, focalizzandosi sulle caratteristiche formali dello short story cycle. The Short Story Cycle. A Genre Companion and Reference Guide (1989) di Mann e The Contemporary American Short-Story Cycle (2001) di Nagel, per esempio, menzionano che la caratteristica principale dello short story cycle è l’autosufficienza e l’interdipendenza delle narrazioni. Infatti «each component must stand alone (with a beginning, middle and end) yet be enriched in the context of the interrelated stories» (Nagel: 15).

Il testo programmatico della seconda corrente, che si focalizza piuttosto sul processo di lettura, è The Short Story Sequence : An Open Book (1989) di Luscher. Con il termine short story sequence Luscher mette l’enfasi sul ruolo del lettore nello scoprire e nel costruire dei legami tra i singoli testi. Secondo Luscher, ogni storia è soltanto parzialmente chiusa e perciò prepara il lettore per il racconto successivo. Di conseguenza, il volume stesso si presenta come «an open book, inviting the reader to construct a network of associations that binds stories together and lends them cumulative impact» (Luscher: 149).

Tornando alla definizione di Ingram, si osserva anche l’attenzione per la tensione tra l’unità del volume e la molteplicità dei singoli testi, ossia «the balance between the individualities of each story and the necessities of the larger unit» (Ingram: 19). Nel campo anglosassone, studiosi come Lynch e Lundén hanno sottolineato questa tensione. Lundén (2014), per esempio, propone il termine short story composite che è «structured around the tension between the, in most cases, rather well-unified short stories and the disunified, ‘open’ form of the book they are assembled in» (49). Focalizzandosi sulla tensione fra forze centripete e forze centrifughe e su quella fra apertura e chiusura, egli tenta di sottolineare «those strategies that try to unify, homogenize the composite and those that try to disintegrate it» (Ibid. 50). Secondo Lundén lo short story composite è principalmente una forma letteraria caratterizzata da «multivocality, discontinuity, fragmentariness, anti-teleology and lack of closure» (Ibid. 58).

L’ultimo elemento della definizione di Ingram è l’attribuzione di uno statuto di genere narrativo autonomo allo short story cycle. Questo statuto viene ampiamente problematizzato dalla linea francofona.

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2.1.2 La linea francofona: Théorie du recueil Nel campo francofono la riflessione intorno al funzionamento della raccolta di narrativa breve si è sviluppata principalmente attorno agli studi di René Audet. In Des textes à l’oeuvre: la lecture du recueil de nouvelles egli propone una poétique du recueil, secondo cui «the recueil is seen as a literary form which can accommodate various genres and which can be realised differently in different historical periods» (D’hoker & Van Den Bossche: 11). Infatti Audet non vede la raccolta come un genere autonomo, ma piuttosto come una forma letteraria che può accogliere diversi generi come la narrativa, la lirica e la saggistica. Focalizzandosi sugli effetti prodotti dalla pratica della raccolta, Audet (2014) si oppone all’approccio americano che «tends to consider the collection as a literary artefact and examines it as a static editorial product» (35). Secondo Audet un approccio basato sull’esperienza del lettore può tenere conto in modo più efficace delle dinamiche interpretative visto che la percezione della costruzione della raccolta è variabile a secondo del lettore.

Audet distingue due processi fondamentali, provenienti dell’atto di lettura, nel funzionamento della raccolta. Egli sottolinea che i fenomeni in questione non sono caratteristiche inerenti del volume, ma piuttosto «symptoms of the performance of works taking the form of collections» (Ibid. 37) e che questa performance si basa su elementi nel testo che spingono il lettore a adottare una determinata strategia interpretativa.

In primo luogo, Audet menziona l’effetto di totalizzazione, che definisce come «the tendency to read the collection as a whole and not as a random conglomerate» (Ivi). Questo effetto è principalmente il prodotto dell’atteggiamento del lettore, ma viene anche causato da diversi meccanismi intorno alla raccolta. Di conseguenza, sono la percezione del singolo lettore e la sua attenzione per i motivi ricorrenti che spiegano la possibilità di interpretazioni diverse generate dai meccanismi dell’effetto di totalizzazione.

In secondo luogo, l’effetto di reticolazione fa riferimento al «sense that the texts are part of a network, an organisation that exceeds them» (Ibid. 38). Questa strategia interpretativa si traduce nella ricerca di legami transtestuali come motivi intertestuali e frasi ripetute nei diversi racconti. Audet sottolinea esplicitamente che «the idea of a web spun between texts remains the result of the reader’s decision to pay attention to recurring elements [...] and to attribute meaning to them, a meaning that the collection does not fail to produce through its very form» (Ivi). L’approccio di Audet è dunque, contrariamente alla teoria anglosassone, aperto nel senso che si focalizza su un’esperienza di lettura iperpersonale. Il significato, conseguentemente, non è

19 / 157 prestabilito dall’autore, bensì il lettore ha il potere di avanzare la propria ipotesi sul significato della raccolta.

Secondo Audet occorre favorire un doppio processo di lettura nel senso che la raccolta contiene due strati testuali, vale a dire i singoli testi e il tutto reticolato. L’interferenza continua fra questi strati «leads to the production of an entretexte, a semantic surplus value associated with the whole formed by the collection» (Ibid. 39). Di conseguenza, è impossibile considerare la raccolta come un prodotto editoriale e statico nel senso che all’interno della raccolta sono attive dinamiche interpretative legate all’atto di lettura.

2.1.3 La linea italiana: Teoria del macrotesto Nell’ambito italiano lo studio della collezione di racconti e dei problemi teorici a essa legati prende forma nel 1975 quando Maria Corti propone il termine “macrotesto”:

Al concetto di testo come ipersegno [...] è proficuo affiancare quello di unità semiotica superiore al testo che chiamiamo macrotesto. Tale concetto è applicabile, in determinate condizioni soltanto, a una raccolta di testi poetici o prosastici di un medesimo autore; in altre parole una raccolta di rime o di racconti può essere un semplice insieme di testi riuniti per motivazioni diverse, o configurarsi essa stessa come un grande testo unitario, macrotesto per l’appunto (185).

Secondo Corti la collezione di racconti come forma letteraria può fare parte, a determinate condizioni, della categoria di macrotesti, definita come un’unità semiotica generata dalla compilazione di testi autonomi e che è superiore rispetto a ogni singolo testo. Corti considera il macrotesto come un segno a sé stante, generato da testi indipendenti, di cui il significato globale non corrisponde alla mera somma dei significati dei singoli testi.

Per poter caratterizzare la collezione di racconti come macrotesto, due condizioni devono realizzarsi:

1) se esiste una combinatoria di elementi tematici e/o formali che si attua nella organizzazione di tutti i testi e produce l’unità della raccolta; 2) se vi è addirittura una progressione di discorso per cui ogni testo non può stare che al posto in cui si trova (Ibid. 186).

Viti (2014), nel saggio Macrotesto: original conceptualization and possible extensions, afferma che la teoria macrotestuale di Corti non è sempre stata interpretata in modo corretto. Infatti egli sottolinea che ogni racconto presente nella collezione deve ripetere la stessa struttura narrativa, vale a dire che la macrostruttura si ripete in ogni microstruttura. Di conseguenza, e contrariamente alle altre teorie politestuali, la stessa caratteristica, vale a dire la stessa struttura narrativa, deve essere presente in ogni racconto. La grande divergenza rispetto agli altri approcci è che il macrotesto viene inteso come «a framework containing a series of small,

20 / 157 perfectly independent mechanisms, each side by side and identical to each other, each of them replicating the overall structure, like a perfect literary synecdoche» (Viti: 109). Questa definizione del macrotesto si rivela essere molto restrittiva, ragione per cui il concetto di macrotesto in senso rigido sembra superato, benché il termine si sia diffuso nel lessico critico soprattutto nell’ambito dell’italianistica.

2.2 Romanzo e raccolta a confronto Per tener conto della specificità della forma raccolta occorre paragonare il suo funzionamento a quello del romanzo. Benché entrambe le forme letterarie vengano diffuse nel formato del libro, esse presentano delle differenze fondamentali per quanto riguarda le modalità di fruizione da parte del lettore.

Santi (2014), per esempio, dimostra che «the single short stories within a collection are asked to do something different than the chapters of a novel» (151). I capitoli di un romanzo, infatti, fanno parte di e costruiscono una sola narrazione, e il lettore viene guidato alla fine del libro «as through a continuum» (Ivi). Nella collezione di racconti, invece, è attiva un’altra dinamica:

In a short story collection, to the contrary, the pathway the reader follows is based on independent fragments whose interconnections, while linked to textual elements, are activated within the context of the collection but outside of the individual texts (Ivi).

La collezione di racconti inoltre si caratterizza per la sua frammentarietà e per la sua focalizzazione sui particolari, mentre il romanzo aspira piuttosto a una rappresentazione totale. Di conseguenza, la narrativa breve si differisce dal romanzo «in what it does not say» (Ivi). Il compito del lettore è quindi di riempire i vuoti dell’informazione offerta dal testo.

Questa informazione ellittica e questi elementi di indeterminazione non vanno considerati difetti, ma piuttosto come «the switch that activates the reader in using his own ideas in order to fulfill the intention of the text» (Iser 1981: 43). Infatti i vuoti si raffigurano come componenti narrativi dinamici nel senso che «it is only through inevitable omissions that a story will gain its dynamism» (Ibid. 285). Iser osserva inoltre un notevole aumento dell’indeterminazione nella letteratura a partire dall’Ottocento. Mentre il lettore dei romanzi ottocenteschi aveva ancora a sua disposizione una grande varietà di dispositivi narrativi per guidarlo nella fruizione del testo, «today’s reader is expected to strive for himself to unravel the mysteries of a sometimes striking enigmatic composition» (Ibid. 17). Lundén (2014) fa un’osservazione simile, dichiarando che la collezione di narrativa breve è per propria natura anti-teleologica e che tale apertura rispecchia la condizione esistenziale dell’uomo moderno:

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The composite is anti-teleological: with its virtual lack of foreshadowing and its depreciation of closure it expresses the indeterminacy of our live, more so than both the short story and the novel (Lundén: 59).

Come sostiene Lundén il romanzo ottocentesco è, dal punto di vista strutturale, idealistico piuttosto che realistico nel rappresentare la vita in modo coerente, caratterizzata da un’evidente logica causa-effetto, e nel fornire un finale che dà risposte a quasi tutte le domande. Sulla scia di Kenshur (1986), che afferma che il carattere anti-teleologico rispecchia «the incompleteness of our knowledge, and even the necessity of such incompleteness» (16), Lundén sottolinea che le collezioni di narrativa breve, in quanto testi episodici, «are structurally better able to express the correspondence between life and art in portraying life as fragmentary, at times chaotic, illogical, and open-ended» (Lundén: 53). Benché il romanzo rappresenti situazioni ordinarie di gente ordinaria, la sua forma e la sua struttura contraddicono questo aspetto realistico e propongono un’immagine illusoria della vita umana. «The openness, lacunae, and lack of end- orientation» (Ivi) della collezione di narrativa breve, invece, «is much closer to the daily existence most people experience» (Ivi).

Alle riflessioni fatte qui sopra si deve aggiungere l’osservazione di Santi (2014) che «the short story collection does not explicitly put forward its message, but it discloses a pathway […] [that] unfolds through the interaction between the short stories, thus bringing to the surface what remains untold in the individual stories» (152). Il lettore è quindi chiamato a eseguire la performance della collezione e a scoprire nel macrotesto questo «non-narrative pathway» (Ibid. 153). Di conseguenza, si può affermare che nella fruizione della collezione di narrativa breve il lettore deve partecipare in maniera più attiva che nella lettura di un romanzo nel senso che «the creation of the artistic object requires not only a completion of the stories but also a construction of the meaning of the collection» (Ibid. 154). Il lettore deve prima attraversare la rappresentazione narrativa dei singoli testi per poi collegarli in una presentazione non-narrativa del messaggio della raccolta. Di conseguenza, «it requests an additional effort from the reader, not required by other narrative forms, which implies a greater conceptual involvement» (Ivi).

2.3 Conclusione Come è emerso dalle osservazioni fatte in questo capitolo, gli approcci teorici al politesto cercano di individuare processi specifici di interlinking, cioè delle relazioni tra le parti del tutto e le dinamiche che tali processi suscitano. In questo contesto, viene attribuito un ruolo essenziale alla ricezione della collezione da parte del lettore. Come afferma Santi (2014) «it becomes impossible to talk about ‘merely’ miscellaneous collections or about collections with

22 / 157 no meaning, because it is inevitably construed in the process of reception» (154). Infatti sembra che sia il lettore che gioca un ruolo fondamentale nella costruzione del significato della raccolta. L’autore, invece, viene spesso negato negli approcci attuali poiché la natura aperta e l’alto grado di indeterminazione della raccolta richiedono una partecipazione molto attiva del lettore.

In chiusura di questo capitolo sembra opportuno ritornare per un’ultima volta a Iser laddove anticipa uno dei problemi centrali del capitolo successivo. In relazione al ruolo attivo del lettore nella costruzione del significato della raccolta e alla corrispondente possibilità di effettuare una lettura iperpersonale, Iser solleva la domanda seguente:

Shouldn’t the interpreter in fact renounce his sanctified role of conveying meanings, if he wants to open up the possibilities of a text? His description of the text is, after all, nothing more than the experience of a cultured reader – in other words, it is only one of the possible realizations of a text (Iser: 4).

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3 Introduzione concettuale al commento Chiarito il carattere peculiare della forma raccolta bisogna andare alla ricerca di un approccio commentatorio che tiene conto delle esigenze specifiche di questa forma letteraria. Siccome la raccolta si configura come una forma letteraria che mette il lettore al centro della costruzione del significato e che sembra negare la padronanza dell’autore sulla rete concettuale si solleva inevitabilmente la domanda – già anticipata alla fine del primo capitolo – in che modo si deve svolgere il commento a opere letterarie che suonano «come negazione del […] principio di auctoritas» (Carrega: 435). Il problema dell'auctoritas non si limita all’autorità dell’autore, perché anche l’autorità del commentatore è soggetta a forti pressioni alla luce degli approcci letturali adottati nello studio della raccolta. Il presente capitolo ha insomma come scopo di affrontare e di tentare di risolvere tali problemi teorici.

3.1 Teoria del commento con stato dell’arte Prima di entrare nel vivo dell’argomento occorre interrogarsi brevemente sullo status del commento letterario. Nella riflessione intorno al commento si rileva infatti uno spartiacque tra due poli concettuali. Il primo polo, i cui esponenti più noti sono Antoine Compagnon e Michel Charles, mette in risalto l’autonomia testuale del commento. Noferi (1997) infatti sintetizza le loro visioni nel modo seguente:

A partire da una concezione citazionale di ogni testo, vedono […] nel commento del testo un testo in cui un altro testo è integralmente citato; e si ribalta la configurazione gerarchica del rapporto testo-commento: in primo piano appare il commento come testo, ed escluso-incluso in esse, il testo di riferimento (241).

Il secondo polo, invece, caratterizza il commento piuttosto come «una critica di servizio» (Arvigo: 189) nel senso che è privo di autonomia. Luperini (1995), per esempio, afferma che il commento «è servile, perché non ha autonomia rispetto al testo [ed] è pragmatico, perché costituisce una mediazione comunicativa fra scrittura e lettura» (84). Secondo tale prospettiva il commento si colloca in «una posizione di assoluta subordinazione e di servilità rispetto al testo-oggetto» (Noferi: 241). Nell’ambito italiano, Segre (1992) propone la definizione del commento più nota di questa tradizione:

Il commento è un apparato di illustrazioni verbali destinato a rendere più comprensibile un testo. Questo apparato ha senso esclusivamente in rapporto col testo: preso in sé, non ha valore di testo perché privo di autonomia comunicativa. Si può dire che il commento s’inserisce tra emittente e ricevente come decrittatore del messaggio (3).

Benché il secondo polo si presenti più valido nella misura in cui lo studio letterario deve focalizzarsi principalmente sul testo di riferimento e nella misura in cui il commento esiste

24 / 157 soltanto in relazione a esso, questa prospettiva è insufficiente se applicata alla raccolta poiché dà ancora troppo peso alla prospettiva dell’autore, ovvero all’intentio auctoris.

La definizione di Segre rispecchia tale prospettiva, presentando il commentatore come il «decrittatore del messaggio» (Ivi) e focalizzandosi su «l’enciclopedia dello scrittore» (Ibid. 5). Di conseguenza, Segre dà l’impressione di considerare il testo letterario come un contenitore riempito dall’autore con un messaggio fisso.

Poste le osservazioni svolte nei primi due capitoli, tale visione si rivela discutibile nel senso che il significato della raccolta sembra situarsi a metà strada tra l’intentio operis e l’intentio lectoris piuttosto che nell’intentio auctoris (Eco, 1990). La rappresentazione del testo in quanto contenitore implica inoltre una concezione del testo monointerpretativa, ossia analizza il testo come se questo avesse un’unica interpretazione. Data la natura aperta della raccolta sembra invece più opportuno concepire la raccolta come «espace de l’écriture [qui] est à parcourir, [qui] n’est pas à percer» (Barthes: 66) per il fatto che il testo «pose sans cesse du sens» (Ivi). Di conseguenza, il commentatore non può essere il decrittatore visto che nel testo nulla è da decifrare, ma piuttosto da districare:

Tout est à démêler, mais rien n’est à déchiffrer; la structure peut être suivie, filée […] en toutes ses reprises et à tous ses étages, mais il n’y a pas de fond (Ivi).

L’attenzione per l’intenzionalità dell’autore non si limita al lavoro di Segre. Numerosi commentatori condividono infatti una prospettiva che si basa sulla «sacralità della scrittura» (Carrega: 427), ovvero su una concezione teologica della letteratura secondo cui il messaggio viene costruito e fissato da «l’Auteur-Dieu» (Barthes: 65). Il commentatore deve invece liberare il commento da tale «vocazione sacralizzante» (Carrega: 430). L’autore infatti «scrive in una lingua e in una logica di cui, per definizione, il suo discorso non può dominare in modo assoluto il sistema, le leggi e la vita propria» (Ibid. 443). Gli approcci commentatorii che tendono a focalizzarsi esclusivamente sulla prospettiva autoriale ignorano quindi che a partire dalla lettura inizia un’interazione fra il testo scritto e il lettore che instaura relazioni incontrollabili dal progetto autoriale.

Al commentatore spetta conseguentemente il compito di guidare il lettore nella «scoperta [del] rapporto fra ciò che viene prodotto intenzionalmente e ciò che non lo è, nella convinzione che il definirsi di tale rapporto è sottratto a priori al dominio cosciente dello scrittore» (Ivi).

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Sulla base delle riflessioni proposte qui sopra pare necessario separare la pratica del commento come avvicinamento al testo, o per esempio come dice Arvigo, «come pura decifrazione della materia verbale» (Arvigo: 191) da un commento che sia invece anche interpretatio complessiva» (Ivi).

3.1.1 Decifrazione e interpretatio Per arrivare a un’idea chiara delle due forme del commento, vale a dire da un lato quello che chiamerò il commento puro, ossia un commento che si limita a spiegare i concetti che possono rendere la comprensione del testo ostica al lettore senza però proporre passaggi interpretativi ulteriori, e dall'altro lato il commento interpretativo, è possibile trarre ispirazione da una metafora benjaminiana che descrive il rapporto tra il commentatore e il critico nei termini del rapporto fra il chimico e l’alchimista. Carrega riassume questa metafora nel modo seguente:

Sotto gli occhi indagatori del primo giacciono materiali inerti come il legno e la cenere, mentre lo sguardo del secondo è catturato dalla visione della fiamma che perpetua il segreto della vita. La chimica del testo, operante sugli elementi che di fatto e materialmente lo costituiscono, va ascritta, con un paradosso concettuale più ancora che cronologico, ad un momento che precede la fascinazione alchemica (429).

La metafora di Benjamin è infatti applicabile alla raccolta per quanto essa rispecchia l’atteggiamento adottato dal lettore per tenere conto dei due strati testuali identificati da Audet, vale a dire i singoli testi e il tutto reticolato. In riferimento a questi strati testuali, Santi (2014) distingue due tappe nel processo di lettura della raccolta, ovvero «the narrative representation of several subjects […] [that must then be connected] in a non-narrative presentation of a concept» (152). In altre parole si devono distinguere i singoli racconti, generalmente chiusi, dal livello della raccolta, che è per propria natura aperta e che viene costruito a partire dalle relazioni reticolari tra i singoli testi.

In seguito a tali distinzioni, anche il processo del commentatore deve svolgersi in due tappe. La prima tappa è quella del chimico/commentatore benjaminiano che si focalizza sui singoli racconti e che tenta di analizzare i testi «negli elementi che materialmente lo fondano e lo costituiscono» (Carrega: 431). La seconda tappa, invece, è quella dell’alchimista/critico benjaminiano che si occupa dell’interpretazione a livello della raccolta e che tiene pertanto conto del effetto di reticolazione. A lui spetta il compito di chiarire e di interrogare il testo su

quel complesso di elementi […] fra i quali si possono far apparire dei rapporti assolutamente nuovi, in quanto non sono stati controllati dal progetto dello scrittore e sono resi possibili solo dall’opera stessa (Ibid. 430).

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Il commento puro, svolgendosi al livello dei singoli racconti, apre la strada per il lavoro interpretativo del critico. Mentre in una prima fase il commentatore mira a chiarire i problemi al livello microtestuale, il critico compie un’ulteriore svolta interpretando il significato al livello macrotestuale della raccolta. Commento puro e critica interpretativa si raffigurano insomma come due attività complementari. Il lavoro del commentatore e quello del critico sono infatti in ultima istanza centrati sullo stesso obiettivo: dare in mano al lettore tutte le carte necessarie per effettuare una lettura completa.

Limitandosi alla mera descrizione dei singoli racconti, l’approccio commentatorio puro consisterebbe soltanto «nell’accogliere e [nel] coltivare in categorie illusorie come la consapevolezza, la volontarietà e l’intenzionalità dello scrittore, il suo pieno potere di controllo nei confronti del [suo] operare linguistico» (Ibid. 431). Il lavoro critico infatti non può essere escluso dal commento in un’epoca in cui si è osservato «il dissolversi della fede nella centralità di un soggetto in grado di esercitare un pieno ed intenzionale controllo sull’opera, di determinare e custodirne il contenuto latente, di padroneggiare il segreto» (Ivi). Il commento non può non includere l’atto interpretativo, perciò si osserva «la sussidarietà del commento, la sua funzione preliminare e preparatoria rispetto alla critica» (Ibid. 433). Insomma il commentatore della raccolta deve in una seconda fase inevitabilmente assumere il ruolo del critico. Un'affermazione analoga ritorna anche in Foucault che osserva «a partire dal XIX secolo, […] un’oscillazione e […] una compresenza dei due modelli epistemologici nella produzione dei discorsi di secondo grado» (Ibid. 438).

3.2 Il commento oggi: ruolo del commentatore nella società contemporanea Come afferma Foucault, commento e critica coesistono e diventano quasi sinonimi a partire dal XIX secolo. Di conseguenza, in questa parte del presente lavoro metto in luce ruolo e funzione della critica nel suo complesso. Per spiegare la funzione e la posizione della critica letteraria nella società contemporanea occorre prima introdurre i concetti di ‘capitale’ e di ‘campo’, teorizzati da Pierre Bourdieu.

3.2.1 Perché commentare un testo? Funzione della critica nel campo letterario

3.2.1.1 Bourdieu: I concetti di capitale e di campo It is in fact impossible to account for the structure and functioning of the social world unless one reintroduces capital in all its forms and not solely in the one form recognized by economic theory (Bourdieu 1986: 46).

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Come emerge dalle parole di Bourdieu, egli ritiene necessario distinguere tra diverse forme di capitale per poter delineare la struttura e il funzionamento del mondo sociale. Nell’ottica del sociologo francese occorre infatti estendere la logica economica a ogni pratica sociale e individuare quattro forme di capitale.

In primo luogo, Bourdieu distingue evidentemente il capitale economico «which is immediately and directly convertible into money» (Ibid. 47). Nel capitale culturale, in secondo luogo, si individuano tre forme diverse nel senso che il capitale può essere incorporato, oggettivizzato e istituzionalizzato:

in the embodied state, i.e., in the form of long-lasting dispositions of the mind and body; in the objectified state, in the form of cultural goods (pictures, books, dictionaries, instruments, machines, etc.), which are the trace or realization of theories or critiques of these theories, problematics, etc.; and in the institutionalized state, a form of objectification which must be set apart because, as will be seen in the case of educational qualifications, it confers entirely original properties on the cultural capital which it is presumed to guarantee (Ivi).

In terzo luogo, il capitale sociale è l’insieme delle risorse che si rendono disponibili all’individuo attraverso la rete di conoscenze personali:

Social capital is the aggregate of the actual or potential resources which are linked to possession of a durable network of more or less institutionalized relationships of mutual acquaintance and recognition (Ibid. 51).

Il capitale simbolico, infine, riguarda il grado di riconoscimento nello spazio pubblico:

Capital -in whatever form- insofar as it is represented, i.e., apprehended symbolically, in a relationship of knowledge or, more precisely, of misrecognition and recognition (Ibid. 56).

Un altro concetto di Bourdieu è quello di campo. Esso fa parte di una lunga tradizione nella riflessione sociologica intorno alla differenziazione sociale, vale a dire il processo di modernizzazione che si avvia tra il XVII e il XVIII secolo. Infatti una delle caratteristiche principali delle strutture sociali moderne è, come afferma Keunen (2016), la suddivisione della società in aree funzionali. La riflessione in merito a queste aree prende forma, tra l’altro, nei lavori di Talcott Parsons (‘sottosistemi’), di Max Weber (‘sfere’) e di Pierre Bourdieu (‘campi’).

Nella società moderna e contemporanea sono infatti presenti una pluralità di settori, chiamati sottosistemi funzionali, che «riescono con un certo successo a imporre, ognuno entro un proprio settore […] specifici criteri contro le resistenze esercitate dalla segmentazione e dalle differenziazioni centro/periferia» (Tosini: 8). Questa differenziazione sociale è stata profondamente esaminata dal sociologo Niklas Luhmann. Egli distingue una decina di zone

28 / 157 funzionali: il diritto, l’economia, la scienza, l’arte, la politica, etc. (Keunen: 26). All’interno di ognuno di questi sistemi vige una logica specifica.

Nonostante la proliferazione dei termini proposti per descrivere i sottosistemi, la nozione di ‘campo’ di Bourdieu è la più ampiamente diffusa nell’ambito degli studi culturali e letterari. Wagner (2016) sintetizza questo concetto nel modo seguente:

La notion de champ est centrale dans la théorie de Pierre Bourdieu. Le champ est un microcosme social relativement autonome à l’intérieur du macrocosme social. Chaque champ (politique, religieux, médical, journalistique, universitaire, juridique, footballistique…) est régi par des règles qui lui sont propres et se caractérise par la poursuite d’une fin spécifique. Ainsi, la loi qui régit le champ artistique (l’art pour l’art) est inverse à celle du champ économique (les affaires sont les affaires) (50).

A ogni campo corrisponde un habitus («systèmes de dispositions durables et transposables, structures structurées prédisposées à fonctionner comme structures structurantes») (Bourdieu 1979: 88) che è specifico per il campo. Soltanto coloro che hanno incorporato l’habitus specifico del campo in questione «are able to play the game and to believe in (the importance of) the game» (Lahire, 2015: 67).

3.2.1.2 Il campo letterario In Les règles de l’art. Genèse et structure du champ littéraire (1992), Bourdieu descrive la genesi e la struttura del campo letterario. Esso nasce, secondo Bourdieu, nel secondo Ottocento in Francia grazie alla rivoluzione culturale compiuta dei bohémien che fonda «non solo un’arte nuova ma anche uno stile di vita alternativo» (Avella: 248). Mentre prima esisteva ancora uno stretto intreccio tra potere politico e produzione letteraria, prende avvio a partire da questo momento un processo di autonomizzazione rispetto all’universo sociale, politico ed economico.

Procedendo verso l’autonomia, il campo letterario assume le particolarità che lo caratterizzano fino a oggi. Si afferma infatti l’idea dell’arte per l’arte, secondo cui l’arte non «deve cedere alle lusinghe del denaro, ma rivendicare la propria indipendenza» (Ivi). Sulla base di questo atteggiamento l’artista deve essere indifferente al denaro e mirare a un alto apprezzamento simbolico, ossia al capitale simbolico.

Bourdieu prende l’opposizione tra capitale economico e capitale simbolico come base della struttura a chiasmo del campo letterario. Al teatro, per esempio, si associa un profitto commerciale maggiore e un prestigio culturale minore, mentre la poesia, invece, gode di un alto prestigio simbolico ma di scarso profitto economico. L’opposizione arte-denaro determina, inoltre, in grande misura la classificazione delle opere letterarie da parte del pubblico:

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Al bestseller corrisponde una posizione di inferiorità letteraria, mentre al contrario la produzione di un autore che ostenta indifferenza verso il successo commerciale si posiziona automaticamente nel polo della produzione di qualità (Ibid. 250).

3.2.1.3 La critica e la legittimità letteraria. Nell’ambito della letteratura la lotta «per la legittimità letteraria e per il riconoscimento sociale del valore si configura entro […] un sistema […] di prese di posizioni differenti» (Ibid. 251). Benché la logica economica entri progressivamente nel campo letterario, la posizione di un autore o di un’opera letteraria sull’asse del capitale simbolico continua a rispecchiare il grado di legittimità letteraria di cui dispone in un determinato momento storico. L’idea di base della produzione simbolica, vale a dire il processo in cui a un’opera letteraria vengono assegnati valori e significati, è che i testi non hanno indicatori di qualità intrinseci. Sono invece i diversi attori del campo letterario che attribuiscono un valore a opere e a autori attraverso un processo sociale (Van Rees e Dorleijn, 2006). In questo processo di produzione simbolica o di consacrazione («the specific effect achieved by a critical argument, viz. that of legitimizing a work as a piece of literature») (Van Rees: 282), ogni attore del campo letterario contribuisce in una certa misura, ma i critici letterari si raffigurano come «agents of consecration» (Ivi) per eccellenza.

L’istituzione della critica letteraria gioca infatti un ruolo essenziale nella produzione simbolica all’interno del campo letterario. Janssen (1997), per esempio, sottolinea l’importanza della critica affermando che «the attention members of this institution pay to certain fiction texts is taken to be constitutive of their social recognition as literary works of a certain standard» (275). Van Rees propone una formulazione più estrema della responsabilità della critica, affermando che il critico ha il potere di decidere sulla vita di un libro:

The first thing a reviewer or critic has to undertake is to select a work for discussion or, if he is invited by a review editor, to decide whether or not to pay attention to a work. A newly published work that fails to attract attention risks to fall into oblivion (280).

Infatti ogni libro che riesce ad attirare l’attenzione di recensori, di critici o di studiosi, gode già di un’attribuzione di qualità. Di conseguenza, i critici sono autorizzati a decidere se un libro è destinato alla morte nel senso che hanno il potere di stabilire se «a book […] is good or interesting and thus to legitimize it as a work that deserves attention» (Ivi). Se una determinata opera viene ignorata, l’implicazione è una valutazione negativa della qualità del libro in questione.

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Benché «the career of a debutant is of course most likely to suffer from a lack of attention» (Ivi), è degno di nota che anche autori, che godono della consacrazione letteraria non riescono sempre a catturare l’attenzione delle istituzioni consacranti. Infatti nel repertorio di un autore possono trovarsi opere che soffrono di una carenza di attenzione critica. Prendiamo, per esempio, Montale che potrebbe essere considerato un caso emblematico di tale situazione. Quando Montale viene consacrato dal Premio Nobel (1975) per la sua produzione poetica, egli si trova in cima all'asse del capitale simbolico. Questa posizione si rispecchia nei numerosi articoli (cf. 4.2) dedicati agli Ossi di Seppia, Le occasioni, La bufera e altro, ecc. Tuttavia, esaminando l’intero repertorio montaliano, si osserva che un testo, vale a dire le Ventidue prose elvetiche, soffre di una scarsa attenzione critica. Le ragioni di questa carenza possono essere diverse: la genesi della raccolta (cf. 4.3.1) o il minore interesse in generale per la raccolta in prosa, ecc. Tuttavia la vera ragione non importa se ciò determina la percezione che Ventidue prose elvetiche sia un’opera di qualità inferiore, quindi non degna di attenzione.

Tale situazione è tuttavia ancora suscettibile di cambiamenti visto che «neither the repertory of works which count as literary important, nor their ranking according to quality are decided once and for all» (Ibid. 279). Come emergerà nel corso di questo lavoro (cf. 4.3.2), Ventidue prose elvetiche si presenta comunque come un’opera degna di attenzione e degna di consacrazione letteraria nonostante il suo statuto attuale. La negligenza della critica è inoltre sintomatica e rivelatrice di un problema fondamentale del processo di produzione simbolica. Benché la critica letteraria si raffiguri come l’istituzione consacrante per eccellenza, «critics are unable to adduce good ground in support of their assessment of literary works» (Ibid. 275). Di conseguenza, esisteranno sempre opere che vengono ingiustamente ignorate. In questo caso, i ricercatori universitari devono caricarsi della responsabilità di colmare i vuoti del sistema.

3.2.2 Posizione del commentatore rispetto al lettore Dopo aver spiegato la funzione della critica nel campo letterario e la sua funzione come tastemaker nel senso che sono i critici che sensibilizzano il grande pubblico sul valore di certe opere letterarie, occorre tornare dalla dimensione extraletteraria a quella strettamente letteraria e dalla critica in generale al lavoro del commentatore in particolare. La domanda infatti rimane in che modo il commentatore deve rapportarsi con il lettore.

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Data la natura aperta della raccolta, la costruzione della rete dei significati dipende in gran parte dal singolo lettore, ma questa condizione non implica che il commentatore deve stare a guardare impotente mentre tra i singoli lettori proliferano interpretazioni incontrollate. Infatti quanti dubitano della validità delle teorie reader-oriented le accusano spesso di essere garanti del relativismo interpretativo. Tuttavia, mettere il lettore al centro dell’atto interpretativo non implica di necessità che il critico assuma una posizione relativista. Nella misura in cui la costruzione dei legami tra i testi è determinata dalle conoscenze del lettore, vale a dire del capitale culturale bourdieuano, il commentatore può aiutare il lettore ad effettuare una lettura più completa e a costruire una rete più ricca. Infatti colmando i vuoti nel capitale culturale del lettore medio, il commentatore può dargli tutte le carte utili per costruire una rete più ampia a partire dalle informazioni fornite dalle note a piè di pagina.

Nella storia letteraria recente si possono citare numerosi esempi in cui i vuoti nel capitale culturale impediscono una lettura efficace. Prendiamo per esempio Piccoli equivoci senza importanza di Antonio Tabucchi e Il bar sotto il mare di Stefano Benni in cui la tradizione letteraria gioca un ruolo fondamentale nell’interpretazione delle opere. In Il bar sotto il mare, in primo luogo, l’uso della cornice attiva la memoria narrativa del lettore poiché per un lettore di buona cultura, la cornice evoca immediatamente il Decameron di Boccaccio. Questo meccanismo crea un orizzonte di attesa che influisce fortemente sull’interpretazione della raccolta. In Piccoli equivoci senza importanza, in secondo luogo, diversi personaggi portano il nome di un personaggio della tradizione letteraria e cinematografica. In questo modo viene tematizzata l’importanza della finzione per orientarsi nel mondo, come alla fine del racconto Rebus:

Ma a lei perché interessano le storie altrui? Anche lei deve essere incapace a riempire i vuoti fra le cose. Non le sono sufficienti i propri sogni (Tabucchi 46)?

Il lettore medio che non riconosce questi riferimenti effettuerà senza dubbio una lettura limitata. Tali letture non si limitano soltanto al postmodernismo, ma avvengono in ogni epoca quando il testo contiene «elementi ignoti a un lettore medio» (Segre 1992: 5). Segre propone qualche esempio di tali vuoti nell’enciclopedia del lettore:

Per esempio riferimenti storici o geografici, allusioni a costumi e legislazioni non familiari, termini specialistici, parole o frasi in lingue esotiche o antiche. In realtà, nessuno condivide esattamente l’enciclopedia di un altro. […] Uno dei casi più importanti di approfondimento dell’enciclopedia […] è l’intertestualità (Ivi).

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Insomma il commentatore deve mettersi al servizio del lettore affinché quest'ultimo possa aumentare il proprio capitale culturale per poi poter effettuare una lettura più completa del testo. Benché il commentatore non sia autorizzato a proporre la propria visione come l’unica giusta, egli può, in quanto lettore specialistico, guidare il lettore medio attraverso lo spazio del testo.

3.3 Conclusione A partire dalla presentazione e dalla discussione della teoria del commento è stato proposto di suddividere il processo svolto dal commentatore in due tappe diverse. In prima battuta, il commento puro deve focalizzarsi sui singoli racconti, mentre il commento interpretativo può, in seconda battuta, spiegare il significato al livello macrotestuale. Il commento puro diventa in questo modo una fase preparatoria per il lavoro interpretativo.

Dopo questo quadro teorico, la seconda parte del capitolo ha presentato il ruolo essenziale della critica nella produzione simbolica di opere letterarie. Come è stato menzionato le Ventidue prose elvetiche non sono ancora riuscite ad attirare l’attenzione della critica, perciò il grande pubblico ha l’impressione che si tratti di un opera insignificante. Tale opinione verrà auspicabilmente ribaltata nel capitolo successivo.

L’ultima parte del capitolo è stata dedicata al rapporto tra il commentatore e il lettore. Si è affermato che il commentatore deve riempire i vuoti nel capitale culturale del lettore affinché quest'ultimo disponga di tutte le conoscenze necessarie per costruire una rete di significati più ricca.

I capitoli successivi tenteranno di elaborare le conoscenze acquisite grazie ai tre capitoli precedenti per chiarire la rilevanza di un commento alle Ventidue prose elvetiche e per stabilire un modello operativo che ne determini l’approccio pratico e l’impostazione.

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4 Introduzione al commento montaliano Questo capitolo mira a offrire concetti generali e preliminari necessari per poter iniziare il commento alle Ventidue prose elvetiche. In una prima parte tenterò di collocare la raccolta all’interno della bibliografia montaliana. Nella seconda parte sintetizzerò lo stato dell’arte dei commenti montaliani per concludere infine con la discussione della motivazione e dell’impostazione del commento alla raccolta in questione.

4.1 Montale prosatore: tipologia Presso il grande pubblico Eugenio Montale è famoso per le sue raccolte poetiche, come Ossi di Seppia (1925), Le Occasioni (1939) e La bufera e altro (1956), che gli sono valse il premio Nobel per la letteratura nel 1975. Mentre la sua poesia continua a stimolare il lavoro critico, la parte prosastica della sua produzione è finora stata caratterizzata da scarsa attenzione. Data la natura vasta e diversa della sua prosa, occorre fare qualche considerazione preliminare per poter capire la posizione delle Ventidue prose elvetiche all’interno dell’opera e della vita montaliane. Siccome questo lavoro non è il luogo opportuno per offrire un panorama complessivo della prosa montaliana, mi limiterò a introdurre Montale in quanto giornalista. La prosa di tipo più strettamente creativo, come Farfalla di Dinard (1956), non sarà pertanto trattato, perché meno pertinente essendo l’oggetto di questo studio una raccolta giornalistica.

4.1.1 Montale giornalista Il poeta non può vivere di poesia, non guadagna abbastanza, anzi ordinariamente non guadagna nulla […] Così cerca un mestiere, che senta affine. Il giornalismo può essere uno. (Montale 1996a: 1704).

Le parole di Montale toccano un problema che gli artisti devono spesso affrontare. Numerosi poeti hanno infatti bisogno di un “secondo mestiere” per disporre di uno stipendio stabile. Secondo Pierre Bourdieu, questa circostanza è intrinseca alla professione dello scrittore o dell’artista:

La “profession” d’écrivain ou d’artiste est en effet une des moins codifiées qui soit; une des moins capables aussi de définir (et de nourrir) complètement ceux qui s’en réclament, et qui, bien souvent, ne peuvent assumer la fonction qu’ils tiennent pour principale qu’à condition d’avoir une profession secondaire d’où ils tirent leur revenu principal (Bourdieu 1992: 314-315).

Bernard Lahire (2010) riprende la visione di Bourdieu, affermando che quella dello scrittore con un secondo mestiere è una figura tipica del campo letterario:

The writer with a second job is the most typical figure in the […] literary universe. […] Writing is often an intermittent and discontinuous practice, and […] publishing can be interrupted (for

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multiple reasons that are internal to the literary universe [rejection by publishers] or external to it [economic necessity]) frequently and for indeterminate periods (453).

Anche se una professione secondaria impedisce a prima vista la produttività letteraria, il doppio statuto offre comunque dei vantaggi sotto forma di «profits subjectifs» (Bourdieu 1992: 315). Infatti il secondo mestiere, all’interno di istituzioni letterarie come lettore o correttore in una casa editrice o all’interno di campi affini come il giornalismo o la televisione, conferisce potenzialmente un profitto supplementare allo scrittore in termini di capitale culturale, capitale sociale e capitale simbolico (Bourdieu 1992).

Per questa ragione tra le opere di un autore «distinguiamo a colpo d’occhio le poche che appartengono alla sua arte dalle molte che sono di pertinenza del suo secondo mestiere» (Montale 1996a: 128). Lo stesso accade nel caso di Montale. Infatti quando il poeta viene assunto al ‘Corriere della Sera’ nel 1948 come redattore ordinario, Montale dispone per la prima volta nella sua vita di uno stipendio stabile. Come giornalista Montale assume ruoli diversi. Vedremo ora sinteticamente come si è sviluppato il lavoro del Montale critico musicale, critico letterario e cronista.

4.1.1.1 Critico musicale Benché la carriera giornalistica di Montale inizi ufficialmente solo nel 1948, le prime collaborazioni a giornali risalgono a molti anni prima. Considerata l’affermazione di Mengaldo (1984) che la musica è «l’interesse extraletterario più profondo del [...] poeta» (197), non sorprende che il primo articolo pubblicato da Montale, seppure scritto come ghostwriter, è una cronaca musicale per il ‘Piccolo’ di Genova. Si tratta infatti di una recensione, a firma di Vittorio Guerriero, pubblicata il 28 aprile 1916, della prima del Mameli di Ruggero Leoncavallo.

Dopo questo esordio come critico musicale, Montale scrive ancora numerosi articoli che sono raccolti nel 1981 nel volume Prime alla Scala. Anche se la raccolta è uscita postuma sotto la direzione della curatrice Gianfranca Lavezzi, «nella scelta degli articoli, nella loro organizzazione e distribuzione e negli eventuali tagli è intervenuto il poeta» (Assante 2016: 163). In riferimento ai 156 articoli, scritti tra il 1954 e il 1967, Mengaldo ha osservato che gli scritti sulla musica teatrale sono dominanti, visto che il teatro d’opera anima la passione musicale di Montale (Mengaldo 1984).

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4.1.1.2 Critico letterario All’esordio come critico musicale segue quello come critico letterario il 10 novembre 1920, quando Montale scrive su ‘l’Azione’ una recensione a Trucioli di Camillo Sbarbaro. Questa recensione è solo la prima dei numerosi interventi dedicati alla poesia, alla narrativa e agli scritti critici della letteratura contemporanea. Nella vasta gamma del lavoro critico montaliano di questi anni, gli interventi più importanti sono quelli dedicati a Italo Svevo. Montale, infatti, è stato il primo a consacrare lo scrittore triestino come autore canonico, pubblicando l’articolo Omaggio a Italo Svevo sulle pagine di ‘L’Esame’, in cui definisce Svevo come «una delle figure d’artista più concrete e significative del [...] tempo» (Montale in Savio & Maier: 158).

I suoi interventi vengono raccolti nel 1976 nel volume Sulla poesia. Come afferma Ferroni (1992), negli interventi critici di Montale «si affacciano [...] molte indicazioni sulla sua posizione e sulle sue scelte: in tutta chiarezza e senza ambiguità vi si compongono le tracce della sua poetica personale» (996).

4.1.1.3 Cronista Pur svolgendo l’attività di critico, Montale vive con difficoltà la mancanza di un lavoro stabile, che arriva solo con la sopra menzionata assunzione al ‘Corriere della Sera’ che si protrae sino al 1973.

Dalla sua attività di cronista sono tratte diverse raccolte, tra cui le più importanti sono Auto da fè (1966), Fuori di casa (1969) e postume le Ventidue prose elvetiche (cf. 4.3). Il titolo Auto da fè, in primo luogo, fa, secondo Assante (2018), riferimento al fatto che la raccolta è intesa

come un atto di fede nei confronti della poesia: il mestiere di giornalista permette al poeta di preservarla dal diventare merce di scambio; atto di fede nei confronti dell’arte ma soprattutto nei confronti dell’esistenza di uomini ancora capaci di intendere il suo messaggio (16).

Fuori di casa, invece, raccoglie gli scritti di viaggio di Montale. I luoghi visitati vanno dalla Francia a altri paesi europei, come l’Inghilterra e la Grecia, fino al Medio Oriente. Come afferma Falistocco (2013), la raccolta permette a Montale di confrontarsi «con altri paesi e culture [...] di delineare la concezione della realtà in cui si trova».

4.2 Commentare Montale: stato dell’arte Prendiamo come punto di partenza una citazione di Cesare Segre (1992): Il commento è il termometro delle difficoltà della comunicazione. [...] Si potrebbe parlare, meglio, di distanza epistemica: si terrebbe così conto, oltre che della distanza cronogeografica, anche di quella culturale. Di qui l’utilità di commentare anche testi contemporanei, quanto più essi mettano in atto un tipo di comunicazione arduo (Joyce, Gadda, molti poeti moderni) (4).

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L’affermazione di Segre, in particolare l’ultimo brano che sollecita i critici al commento del contemporaneo, è attinente in generale al panorama letterario del Novecento e ha pertinenza anche per Eugenio Montale. Infatti, come afferma Romolini (2012), «fino a poco fa Montale ha condiviso la sorte che accomuna molti scrittori del Novecento, ossia quella di essere un classico senza commento» (XXXVI).

Negli studi montaliani si è infatti per lungo tempo rilevato un vero e proprio spartiacque tra la ricca attenzione critica-letteraria e le rare «prove di commento sistematico a una raccolta considerata nella sua interezza» (Romolini 2007: 1). Esiste da un lato una vasta gamma di saggi che indagano le opere dal punto di vista formale e intertestuale. Gli atti di convegno dedicati a Montale, inoltre, vanno «dal duplice La poesia di Eugenio Montale [12-15 settembre 1982 a Milano e 25-28 novembre 1982 a Genova] a Per la lingua di Montale [Firenze 1987] fino ai più recenti Il secolo di Montale [Genova 1996] e Montale e il canone poetico del Novecento» (Ivi). Dall’altro lato, questa attenzione critico-letteraria non ha direttamente portato a una ricca tradizione di commento. Fino al 1996, ossia il centenario della nascita di Montale, il solo commento sistematico a Montale è stato quello di Dante Isella ai Mottetti, pubblicato presso Il Saggiatore nel 1980. La scarsa produzione commentatoria è stata il soggetto del convegno organizzato dall’Università di Siena e da quella di Pavia nel 1996, i cui interventi sono poi stati riuniti in Montale e il canone poetico del Novecento (1998), nella sezione intitolato Il problema del commento.

Tale situazione è ora radicalmente cambiata da quando dal 1996 in poi, diversi studiosi si sono dedicati a commenti montaliani. In quell’anno Dante Isella ha, in primo luogo, esteso il suo commento all’intero ciclo delle Occasioni, che è anche stato commentato nel 2011 da Tiziana de Rogatis. Sugli Ossi di Seppia, in secondo luogo, sono apparsi commenti di Tiziano Arvigo (2001) e di Pietro Cataldi e Floriana d’Amely (2003). Francesca Ricci (2005) e Massimo Gezzi (2010), in terzo luogo, hanno pubblicato un commento sul Diario del ’71 e del ’72’. Infine, Riccardo Castellano (2009) si è dedicato al commento di Satura, mentre Marica Romolini (2012) ha fornito un commento a La Bufera. Ciò nonostante la prevalenza della produzione critica intorno al corpus poetico perdura fino a oggi.

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4.3 Ventidue prose elvetiche

4.3.1 Genesi della raccolta Da viaggiatore per piacere Montale si trasforma in viaggiatore per lavoro appunto quando diventa redattore ordinario del ‘Corriere’. Fra i suoi compiti si conta infatti anche quello di inviato speciale. Indossando questi panni egli lascia più volte l’Italia per fare dei reportage all’estero. Il poeta-giornalista viaggia quindi per l’Inghilterra, per la Francia e per la Spagna, ma va anche a New York e in Medio Oriente. Il paese su cui il cronista scrive di più è tuttavia la Svizzera, produzione di cui la raccolta Ventidue prose elvetiche è il risultato postumo.

Fino al momento che il filologo svizzero Fabio Soldini raccoglie le prose sulla Svizzera, redatte fra il 14 febbraio 1947 e il 27 gennaio 1960, in un unico volume nel 1994, la maggior parte di questi testi era per anni rimasta nascosta tra le pagine del ‘Corriere della Sera’ e del ‘Corriere d’Informazione’. Quindici testi infatti non erano mai stati compilati in un volume, mentre sette altri sono stati raccolti su iniziativa di Montale in tre sedi diverse, ossia in Farfalla di Dinard (1956), Fuori di Casa (1969) e Sulla Poesia (1976). Nel 1996 gli altri testi sono anche stati raccolti nei volumi Il secondo mestiere: prose 1920-1979 e Il secondo mestiere: arte, musica, società a cura di Giorgio Zampa e in Prose e racconti a cura di Marco Forti. Per un approfondimento di quali testi sono stati ripubblicati in quali sedi rinvio il mio lettore agli allegati dove se ne trova un sommario dettagliato (cf. tabelle 1 e 2).

Al momento della pubblicazione delle Ventidue prose elvetiche nel 1994, si osserva quindi una dicotomia iniziale. Da un lato, quasi un terzo delle singole prose era già stato riedito da Montale stesso prima di essere inserito nel volume da Soldini e dall’altro lato la maggior parte era fino al 1994 inedita. Tutti gli articoli sono riprodotti integralmente e con il titolo originale, eccezione fatta per quelli che sono stati ripubblicati dall’autore stesso e che pertanto sono riprodotti con il titolo e il testo della ristampa. Di conseguenza quattro articoli hanno un altro titolo di quello sui quotidiani: Una striscia di luce diventa La contessa di Sarre, si sostituisce Da Saint Moritz a Non i pazzi ma i ricchi scarseggiano a St. Moritz e Uno spiraglio e Risvegliato da dieci angeli che intonano “Santa Lucia” sono abbreviati in Spiraglio e Risvegliato da dieci angeli. La prosa Nella terra di Calvino è un caso a parte trattandosi di un titolo complessivo che riunisce tre articoli diversi su un unico evento, ossia gli Incontri Internazionali di Ginevra: Ginevra è diventata la più tollerante delle città, «Sono orgoglioso di essere un mammifero» e Ripartì per l’estero per non pagare due franchi.

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Ritengo ancora necessario sottolineare che nella riproduzione delle prose si sono omessi occhielli, sommari e indicazioni e che l’accenno alla data della prima pubblicazione si limita alla presenza dell’anno tra parentesi. Le versioni originali degli articoli sono tuttavia accessibili tramite l’archivio storico del ‘Corriere della Sera’ e negli allegati ho quindi messo uno schema che contiene il titolo originale di ogni singola prosa, la data della prima pubblicazione e il nome e la pagina del quotidiano (cf. tabella 3) e un’ulteriore schema che riproduce le informazioni tralasciate (cf. tabella 4). Infine ho anche incluso un sommario delle varianti tra la versione originale e il testo riprodotto delle prose già riedite (cf. tabella 5).

4.3.2 Perché commentare le Ventidue prose elvetiche? In quanto intermediario verso il grande pubblico il critico letterario deve portare l’attenzione del lettore su opere che valgono la pena di essere lette e studiate. A volte certe opere, degne di essere studiate, sfuggono tuttavia alle maglie della produzione simbolica, di cui ho detto nel capitolo terzo, come nel caso delle Ventidue prose elvetiche. Ci possono essere diverse ragioni per le quali questi scritti non sono riusciti ad attirare l’attenzione critica. La raccolta di narrativa breve si presenta innanzitutto come una forma letteraria che è generalmente meno studiata. A tale subordinazione della forma letteraria si aggiunge il fatto che il titolo della raccolta suggerisce che gli scritti trattano esclusivamente della Svizzera. Benché tale osservazione non sia del tutto corretta, c’è infatti una forte presenza italiana di sottofondo, la critica nazionale non si è fatta carico dello studio di questa raccolta. Quindi non è casuale che è proprio lo studioso svizzero Fabio Soldini che si è assunto l’iniziativa di raccoglierli in un solo volume. Da ultimo il fatto che Montale non ha mai pensato ai ventidue scritti come un’unica raccolta fa sì che la raccolta venga percepita come raccolta editoriale, ossia che ricade sotto la responsabilità intellettuale del curatore, e pertanto non da ascriversi a pieno titolo nel corpus autoriale.

Tuttavia questa raccolta, proprio per tali caratteristiche, fa convergere le linee teoriche di questo lavoro volto, appunto, allo studio del significato della raccolta prodotto dai processi di semantizzazione che a loro volta vengono attivati dalla disposizione in sequenza dei testi. Se questo significato è da ascrivere alla responsabilità intellettuale dell’autore oppure no è meno pertinente visto che la raccolta genera in ogni caso un significato unitario nella mente del lettore, che inoltre non ha quasi mai la possibilità «d’avoir accès aux données qui viendraient justifier le projet d’un auteur» (Audet, 2000: 52). Il punto che è pertinente per questo studio è piuttosto

39 / 157 il fatto che l’effetto di reticolazione è in ogni modo attivo, ragione per la quale il lettore è sempre chiamato ad andare alla ricerca di un significato complessivo.

In questo modo mi inserisco nella linea di René Audet (2014) e Gerald Kennedy (1995) che affermano rispettivamente che «the tendency to read the collection as a whole [...] is purely a product of the reader’s attitude» (Audet 37) e che «textual unity [...] lies mainly in the eye of the beholding reader» (Kennedy IX). Condivido inoltre la posizione di Duyck (2014) secondo cui «ogni raccolta di narrative breve […] suscita nel lettore l’idea di una coesione minima, in base a cui si ipotizza un funzionamento macrotestuale minimo e conseguentemente, un minimo significato proprio della raccolta» (13). Duyck distingue infatti tre fattori che spingono il lettore a pensare la raccolta come un’unità concettuale. In primis, la materialità del volume, intesa «non solo come la fisicità del supporto editoriale, ma come la totalità dei fattori extratestuali» (Ivi), attribuisce alla raccolta «lo statuto di ‘opera letteraria’ con un significato proprio» (Ivi). Inoltre, l’interpretazione della raccolta come insieme proviene anche di una sorta di «memoria di genere, [...] [che si] costruisce in base a modelli ricevuti, per cui lettore è portato a considerare sia il significato delle singole componenti, sia il significato dell’insieme» (Ibid. 10). Per altro, «la consapevolezza che ogni raccolta è motivata, per il semplice fatto di essere raccolta» (Ibid. 13). Infatti ci deve sempre essere una ragione per la quale certi racconti vengono riuniti sotto un solo titolo.

Tre ragioni mi spingono infine a studiare le Ventidue prose elvetiche. I testi non si limitano alla pura descrizione giornalistica di luoghi ed eventi, ma hanno un intrinseco valore estetico. Inoltre le prose offrono un interessante spaccato della riflessione su questioni culturali e sociali dell’immediato secondo dopoguerra, ossia un periodo in cui la Repubblica Italiana è appena nata e in cui i suoi abitanti sono in cerca di una nuova identità dopo il periodo fascista. Queste riflessioni si rispecchiano nella prosa dedicata alla Svizzera. A ciò si aggiunge il fatto che le prose non sono mai state oggetto di uno studio monografico né di un commento testuale complessivo il che richiama di necessità l’interesse critico. A margine rilevo, infine, che il commento alla raccolta di Montale offre la possibilità di applicare la teoria della raccolta alla collezione giornalistica e di sondarne il metodo laddove questo è principalmente pensato per la narrativa finzionale o per la raccolta poetica.

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4.4 Il commento alle Ventidue prose elvetiche: modello operativo Chiarite le motivazioni del commento ci vuole ancora un modello operativo con cui affrontare il politesto. Siccome un commento deve aiutare il lettore a raggiungere una migliore comprensione sia del livello microtestuale che del livello macrotestuale, si deve adottare un’impostazione che favorisce l’analisi di questi due livelli testuali e che tiene conto del livello intertestuale che fa da ponte tra i due livelli.

Pertanto adatto la struttura tradizionale del commento, ossia introduzione e note a piè di pagina, alle esigenze della raccolta affinché il lettore possa muoversi più consapevolmente attraverso la raccolta. Dividerò infatti il commento in tre parti concettualmente e graficamente separate.

L’introduzione generale assumerà la funzione di quello che ho chiamato il commento interpretativo ed è quindi dedicata all’interpretazione del significato a livello macrotestuale. Il livello intertestuale, vale a dire la reticolazione, sarà approfondito nei cappelli introduttivi in corsivo all’inizio delle singole prose, dove faccio accenno alle relazioni che i singoli testi intessono reciprocamente. Il commento al livello microtestuale, ossia dei singoli testi autonomi, verrà presentato per mezzo di un apparato di note a piè di pagina. Le annotazioni mirano a colmare i vuoti nel capitale culturale del lettore, che impediscono una comprensione dei singoli testi e quindi della raccolta stessa. Qualunque elemento che non sia presente nell’enciclopedia del lettore medio può richiedere un chiarimento a piè di pagina, tuttavia ho deciso di concentrarmi soprattutto sui riferimenti intertestuali, storici e culturali.

Con riguardo a quest’ultimo aspetto è necessario precisare che, in questa sede per ragioni di spazio e di opportunità, essendo questa (solo) una tesina di master, ho intenzionalmente limitato il mio campo di analisi in ciascuna delle tre sezioni descritte e mi sono proposto, come commentatore, di rivolgermi a un pubblico limitato e al tempo stesso realistico, ossia quello identificabile nello studente medio che approccia con competenze letterarie generali la raccolta montaliana.

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IL COMMENTO ALLE VENTIDUE PROSE ELVETICHE DI EUGENIO MONTALE

Elenco delle abbreviazioni ADC – Accademia della Crusca (http://www.accademiadellacrusca.it/) AF – Académie française (http://www.academie-francaise.fr) BO – Brill online reference works (http://referenceworks.brillonline.com) CB – Stichting Internationaal Constantin Brunner Instituut (Den Haag) & Constantin Brunner-Stiftung (Hamburg) (https://www.constantinbrunner.net/) CE – Commissione Europea (https://europa.eu/european-union/) CdI – Corriere d’Informazione CdS – Corriere della Sera CFHS – Center For Hellenic Studies, Harvard University (https://chs.harvard.edu/CHS/) CVCE – Centre Virtuel de la Connaissance sur l'Europe, Université du Luxembourg (https://www.cvce.eu) DSIE – Dizionario storico dell’Integrazione Europea DSS – Dizionario storico della Svizzera (http://www.hls-dhs-dss.ch) EB – Encyclopaedia Britannica (https://www.britannica.com) EU – Encyclopédie Universalis (https://www.universalis.fr) ERTFVG – Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia (http://www.ertfvg.it) FISAE - Fédération Internationale des Sociétés d’Amateurs d’Ex-Libris (http://www.fisae.org) Larousse – Encyclopédie Larousse (http://www.larousse.fr/encyclopedie) MBAC – Ministero per i beni e le attività culturali (http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/index.html#&panel1-1) MCF – Musei Civici Fiorentini (http://museicivicifiorentini.comune.fi.it) MAECI – Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (https://www.esteri.it) MV – Monte Verita (https://www.monteverita.org/) OAEL – The Oxford Anthology of English Literature PE – Parlamento Europeo (http://www.europarl.europa.eu/portal/it) PEPP – Princeton Encyclopaedia of Poetry and Poetics RKD – Nederlands Instituut voor Kunstgeschiedenis (https://rkd.nl/nl/) RSI – Radiotelevisione svizzera (https://www.rsi.ch/rete-tre/) SDA – Società Dante Alighieri (http://ladante.arte.it) SdR – Senato della Repubblica (http://senato.archivioluce.it) TAIAM – Catalogo della mostra ‘Le tissu d’art italien ancien e moderne’ Treccani – Enciclopedia Treccani Online (http://www.treccani.it/enciclopedia/) UDG – Università di Ginevra (http://www.unige.ch) USI – Università della Svizzera Italiana (https://www.usi.ch)

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5 Introduzione generale: sintesi interpretativa Parlare di una raccolta di prose giornalistiche implica generalmente che l’autore è nascosto dietro le vicende rapportate, ciò vuol dire che esso si caratterizza per la sua impassibilità flaubertiana e che assume lo spirito neutro dello Zola. Leggendo le prose elvetiche tuttavia si capisce subito che il Montale giornalista non si limita alla cronaca imparziale e neutra poiché gli scritti manifestano a più riprese la presa di posizione montaliana riguardante i fatti descritti e poiché gli conferisce un carattere marcatamente narrativo. L’anonima cronaca primeggia solo in qualche prosa (Due preti negri seduti al caffè, Max Frisch), mentre l’atteggiamento personale finisce per essere dominante nella quasi totalità dei casi, ragione per la quale sette di queste prose giornalistiche sono state ripubblicate in quanto prose creative (cf. tabella 1).

Quali sono allora i procedimenti che ammettono la reinterpretazione del loro statuto generico? Innanzitutto i testi si sviluppano spesso intorno alla tensione fra storia e finzione, tra realtà e immaginazione e tra vero e verosimile. Inoltre gli scritti non portano in primo piano il mero resoconto di una situazione, bensì ne selezionano un personaggio o un particolare intorno a cui si sviluppa una narrazione. In questo modo la prosa sulla seconda tornata degli Incontri Internazionali di Ginevra (Spiraglio) si presenta come il ritratto dell’oratore «piccolo e carnacciuto [...] che portava all’occhiello con visibile compiacenza la rosetta della Legion d’onore» (Montale 1994: 48) e che parla con il «classico arrotío delle erre» (Ivi). Il ritratto di Zurigo della seconda prosa inizia con un focus sul paesaggio di Zurigo e del suo lago, ma diventa subito la prosa che si focalizza sui personaggi dei centralini telefonici. Infine il giornalista non è mai totalmente impassibile nel senso che l’io narrante – un sommario completo della diegesi si trova negli allegati (cf. tabella 6) – si mostra esplicitamente per quasi l’intera raccolta. È quindi assai emblematico che già la prima parola – e in estensione l’intera sequenza di apertura – della collezione rivela appunto il carattere soggettivo delle prose attraverso il verbo alla prima persona dell’imperfetto, tempo e persona verbali che vengono ripresi anche per le due prose successive:

Ero sempre entrato in Svizzera – tra le due guerre – dal nord o dalla bassa Engadina, e sempre nei caldi mesi dell’estate (Ibid. 25).

Il paesaggio di Zurigo e del suo lago, così come io lo ricordavo e come mi è stato più volte descritto dai suoi ammiratori, presenta due toni assai diversi (Ibid. 30).

La Ginevra estiva che conoscevo io m’era sempre apparsa (certo per effetto della stagione) come una città festosa e quasi balneare (Ibid. 35).

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L’atteggiamento personale dell’io narrante si manifesta spesso attraverso l’ironia che gli permette di scrivere – riprendendo la formula con cui descrive la contessa di Sarra – «con una passione non scevra di qualche distacco» (Ibid. 66). Questo atteggiamento ha delle conseguenze sul piano tematico poiché autorizza a indagare la realtà, a distanziarsi dal pensare comune e a ricercare il senso nascosto delle cose. L’ironia funziona come strumento per rivelare la natura complicata, anzi contraddittoria della società e dell’esistenza.

In quanto chiave di lettura della raccolta, la distanza critica aiuta a cogliere i nessi tematici della raccolta stessa. Per la rappresentazione della Svizzera si prende come punto di partenza uno stereotipo che verrà indagato attraverso tutta la raccolta, ossia quello della Svizzera in quanto «paese non solo fisicamente ma anche metafisicamente noiseless» (Ibid. 25) e in quanto luogo «geografico, e geometrico del comfort turistico» (Ibid. 26). Distinguendo fra «pays réel e paese de etichetta, da esportazione» (Ibid. 66), la raccolta priva man mano la Svizzera del suo carattere idillico. All’inizio l’enfasi è ancora sull’immagine della Svizzera come unione di culture e come compresenza degli opposti. Tale visione conferma che si tratta di un paese «fatto di tolleranza e di buona volontà e nutrito di solido umanesimo» (Ibid. 42). Gli esempi sono molteplici. Nel Ticino della prosa di apertura la convivenza pacifica coesiste con la lotta politica e il progressivo “tedeschizzarsi” dei cantoni romandi non sbarra il passo al rispetto per la «Svizzera alemannica alla quale guardano con ammirazione» (Ibid. 30). Ginevra inoltre si raffigura come città che è al contempo «vasta e raccolta, periferica e internazionale, moderna e insieme fedele a suo vecchio e illustre ceppo» (Ibid. 52). A Friburgo infine la tolleranza e lo spirito libero consentono che «un matematico protestante insegna accanto a uomini come i domenicani Pierre de Menasce [...] e François Bochenski, professore di logistica e già maggiore dell’armata Anders in Italia» (Ibid. 42). Il punto di svolta in tale rappresentazione della Svizzera idillica e pacifica è Da Saint- Moritz, la decima prosa, in cui St. Moritz viene ritratto come luogo, abitato da «uomini e donne di una bruttezza rara [e] costruzioni di pessimo gusto» (Ibid. 75), che «è destinato a sparire» (Ivi). La città finisce così per indicare una circostanza determinante dell’intero paese, ossia quella di essere «un regno che sta tramontando».

Molti Svizzeri «si volgono [quindi] nostalgicamente verso un passato irripetibile» (Ibid. 33) e si coglie addirittura una «sottile inquietudine» (Ibid. 45) a Zurigo, la quale suscita l’osservazione seguente:

Oggi è difficile dire fino a che punto la Confederazione potrà continuare a vivere al di sopra o al di sotto della mischia, fino a che punto le libertà del suo perfetto e idillico « contratto sociale » potranno resistere ai venti che spirano da ogni parte (Ibid. 33).

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Il mondo prebellico o la fin de siècle non rimangono che periodi a cui rivolgersi con nostalgia perché sono «tempi tramontati forse per sempre» (Ibid. 72). Gli Svizzeri non accettano tale situazione e tentano di proteggere il carattere idillico e tradizionale del loro paese. Sciaffusa, per esempio, «ha proibito [...] l’illuminazione al neon per non sciupare il suo aspetto antico» (Ibid. 134). Ciò nonostante le prose continuano a rivelare «la visione di un’altra e men poetica» (Ibid. 30) Svizzera.

Benché si riveli poco a poco l’aspetto meno pacifico e idillico del paese, la raccolta indica la Svizzera, dato il suo carattere composito, come «modellino sperimentale [...] dei futuri e ipotetici Stati Uniti d’Europa» (Ibid. 25). Tanto è vero che il paese si raffigura come esempio da seguire affinché l’Europa possa opporsi ai «due grandi colossi extra-europei, la Russia e l’America» (Ibid. 94). Tale circostanza era già osservata dai più volte nominati Robert de Traz e André Siegfried che affermano rispettivamente che la diversità della Svizzera è l’esempio per eccellenza dello spirito europeo e che la Svizzera, nonostante la sua molteplicità linguistica, religiosa e culturale è la nazione più unita.

Il tema dell’integrazione europea e dell’Europa come fatto culturale è poi esplicitamente elaborato attraverso i testi dedicati agli Incontri Internazionali di Ginevra e alla Conferenza Europea della Cultura a Losanna. La domanda che si solleva è la seguente: quale strada deve seguire l’Europa in un’epoca in cui il mondo è diviso tra gli Stati Uniti, la grande forza occidentale, e l’URSS, la forza orientale? Per diventare di nuovo una forza a livello mondiale, la raccolta suggerisce che occorre una «piena rinascenza dello spirito» (Ibid. 48), visto che «la cultura non può giungere a una reale indipendenza se non attraverso la formazione di uno spirito nuovo» (Ibid. 103). Questo nuovo spirito può originare dalle arti, di cui in Due piccoli immortali lo spirito cosmopolita e illuminista di Liotard serve come esempio e dal progresso tecnico, tema del secondo turno degli Incontri Internazionale, e morale, elemento messo in evidenza dalla prosa Risvegliato da dieci angeli.

Dalla raccolta e dalle discussioni ivi incluse emergono anche altri fili tematici di sottofondo. In primo luogo, lo statuto dell’intellettuale nella società. Nella prima parte della raccolta gli intellettuali partecipano ancora ai grandi convegni e vi discutono i problemi che dominano «la vita spirituale europea» (Ibid. 52) e che «offrono allo studioso [...] un perfetto spaccato del paesaggio psicologico» (Ivi) del tempo. Gli intellettuali vengono inoltre sollecitati a difendere la cultura europea «non solo nei Congressi [...] ma anche nella vita dei vari Paesi, facendosi ascoltare, imponendo la loro voce e la loro presenza» (Ibid. 103). Questa centralità e la piena

46 / 157 integrazione dell’intellettuale nella società vengono desacralizzate soprattutto nella seconda parte della raccolta, ma la sua marginalizzazione è già anticipata nelle prose che respirano ancora la fiducia nell’intellettuale. Le prose dedicate agli Incontri, per esempio, fanno più volte accenno al fatto che «le discussioni che vi si svolgono non sempre approdano a tangibili risultati» (Ibid. 52) e che «i conti non tornano» (Ibid. 89) visto che danno «un risultato così modesto» (Ivi). L’intellettuale, da protagonista dei grandi convegni, si trasforma man mano in un essere piuttosto isolato e di nicchia, che si trova alla periferia della società. A tal proposito due prose sembrano emblematiche, ossia La statua di neve e Tutt’altro che tramontata la carriera degli exlibris.

Nel primo testo il protagonista è «il grosso fantoccio di neve che il signor S. fabbrica davanti al suo albergo» (Ibid. 113) che diventa il simbolo della disintegrazione dell’intellettuale nella società. Anche se il fantoccio è l’unico capace di cogliere veramente la sostanza problematica dell’esistenza, è solo l’io narrante che può «intravedere le ragioni del [suo] pianto» (Ibid. 114). L’atteggiamento del resto della società rispetto alla sua figura è chiarito attraverso le parole della cameriera e la risposta ironica dell’io narrante che ne svela appunto la tragicità:

« Ha visto? » fa vedendomi assorto alla finestra. « Anche quest’anno hanno messo lo spauracchio dei piselli ». « Già » dico con indifferenza. « Quel grosso fantoccio. O come mai? » (Ivi).

Figura isolata ne La statua di neve, l’intellettuale viene ritratto come figura periferica e di nicchia nella diciannovesima prosa della raccolta. L’intellettuale non partecipa più ai grandi convegni che godono di grande attenzione giornalistica, ma svolge discussioni, in una sala nascosta di una biblioteca, che non hanno implicazioni e importanza per l’intera società, ma che piuttosto «poteva[no] interessare soltanto un ristretto gruppo di specialisti» (Ibid. 142).

In secondo luogo emerge una linea italiana che si divide in due sottovie diverse, ossia l’Italia e l’Europa in generale e l’Italia e la Svizzera in particolare. Per quanto riguarda il primo livello le prose fanno acceno innanzitutto al ruolo determinante della cultura e dello spirito italiani nell’ambito europeo:

Nessuna delegazione, più di quella italiana, ha dimostrato di essere già in possesso di una chiara coscienza europea. [...] Dove parla la cultura l’Italia [...] finisce sempre per figurare naturalmente e senza sforzo in prima linea (Ibid. 104) .

Il secondo elemento di questo livello è poi l’allusione alla visione diffusa che ha il popolo europeo dell’Italia, ossia l’accenno agli stereotipi del paese da esportazione:

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Dante, la poesia, le canzonette, il bel canto, il dolce far niente... sono questi i capitali maggiori dell’Italiano che viaggia (Ibid. 106).

Oltre a questa eredità letteraria e culturale, esiste una visione tradizionale e rusticana dell’Italia che è determinante per il successo dell’artista italiano nel continente europeo:

L’attenzione si porta ancora su un’Italia di mondolinisti cenciosi, di pittoreschi mendicanti, di prestigiosi ma un po´ furfanteschi cerretani. [...] In ogni modo l’artista italiano che voglia esser preso sul serio all’estero deve sempre partire da questo cliché, dal mito di un’Italia rusticana (Ibid. 66).

Per quanto riguarda la seconda linea, vale a dire quella dell’Italia e la Svizzera, occorre osservare che anch’essa si articoli in due elementi diversi. Prima di tutto il tema dell’importanza della cultura italiana nella Svizzera emerge già dalla struttura stessa della raccolta. Essa, infatti, inizia e finisce con una prosa dedicata al Ticino, ovvero l’unico cantone interamente italofono della Svizzera. In Ticino i testi osservano il bisogno di «questa fedeltà [alla cultura italiana] perché [...] la pacifica infiltrazione degli Svizzeri tedeschi rischia di ridurli [ovvero i ticinesi] a una semplice minoranza linguistica» (Ibid. 29) e di «una Università ticinese» (Ibid. 123) che conservi e che diffonda il patrimonio italiano all’interno della Svizzera. Infine l’Italia viene anche definita nel controluce della Svizzera. Contrariamente alla tolleranza e alla buona volontà che costituiscono lo spirito degli Svizzera, l’Italia è ritratta come

Paese dove le biciclette non si possono lasciare incustodite e dove i ferrovieri vi danno ancora del voi, memori, ahimè, del recente passato piuttosto che protesi verso la palingenesi dell’uomo- scimmia (Ibid. 51).

A ciò ci aggiunge che il paragone non si ferma agli atteggiamenti morali, ma si estende anche all’organizzazione della società che in Italia «dà l’impressione di essere organizzata verticalmente: vi si scorre dal basso in alto e viceversa» (Ibid. 92), mentre nella Svizzera «l’impressione è orizzontale: un mondo ben lubrificato, dove tutto è previsto e prevedibile» (Ivi).

In fin dei conti il giornalista deve tuttavia ammettere che in tutta la sua contraddittorietà e in tutto il suo carattere composito, la Svizzera rimarrà sempre in qualche modo enigmatica per gli Italiani:

Come ciò possa avvenire non so. Si tratta dei frutti, per noi quasi incomprensibili, del federalismo svizzero (Ibid. 41)

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6 Ventidue prose elvetiche di Eugenio Montale

I. BATTAGLIE COL SILENZIATORE

La prima prosa della raccolta, pubblicata per la prima volta sul CdS del 14 febbraio 1947 (Barile, n. 208), e i quattro successivi sono il risultato di un soggiorno in Svizzera da parte di Montale negli ultimi dieci giorni del 1947, periodo in cui partecipa a un ciclo di conferenze: il 21 gennaio a Lugano, nei giorni successivi a Locarno e Bellinzona (prosa I), poi a Zurigo (prose II e V) al Politecnico, a Ginevra (prosa III) e infine a Friburgo (prosa IV), il 30 gennaio. ‘Battaglie col silenziatore’, oltre a stabilire direttamente la prospettiva soggettiva (autodiegetica), introduce tre temi significativi che dominano la raccolta. Innanzitutto il testo stabilisce lo stereotipo della Svizzera, «paese non solo fisicamente ma anche metafisicamente noiseless [...] [e] luogo geografico, e geometrico del comfort turistico», che seguiremo nelle ventuno prose successive. Per farlo occorre distinguere tra paese da etichetta o da esportazione – termini introdotti dalla prosa IX –, ossia la Svizzera nota a coloro che la «guardano [...] attraverso le idilliche tinte dei paesaggi», e paese reale, ossia la Svizzera in quanto paese dove ci sono conflitti politici e inquietudini. Nonostante i primi accenni alla rottura dello stereotipo, qui il focus rimane tuttavia ancora sull’aspetto idillico e pacifico del paese, dove «la battaglia politica non ingombra visibilmente le strade» e dove «la gente ha un aspetto assai pacifico e confortante». Poi, ma in modo più implicito, l’accenno ai «futuri e ipotetici Stati Uniti d’Europa» allude già al tema dell’Europeismo, ossia alla riflessione intorno all’Europa come fatto culturale e come forza mondiale, che sarà sviluppato nel resto della raccolta. Si tratta di un tema che, grazie ai processi di semantizzazione causati dalla disposizione in sequenza dei testi, presenterà la Svizzera come modello da seguire per l’Europa. Infine, il testo si conclude con l’introduzione del tema dell’italianità in Svizzera attraverso l’allusione ai ticinesi che «in fatto di cultura, sono, in maggioranza, fedeli alla loro matrice etnica, l’Italia», fedeltà che serve come meccanismo difensivo contro il progresso dei cantoni tedeschi.

Ero sempre entrato in Svizzera - tra le due guerre - dal nord o dalla bassa Engadina, e sempre nei caldi mesi dell’estate. Tornandoci ora nel pieno di un eccezionale inverno, e dal sud, cioè via Chiasso, ho sentito rinnovarsi in me quel senso di un Paese non solo fisicamente ma anche metafisicamente noiseless (si pensi pure a una macchina, ma non a una semplice macchina da

49 / 157 scrivere) che la Confederazione lascia sempre ai suoi visitatori. E s’intende che sia così, s’intende che riesca accentuato il contrasto all’indomani di un conflitto che ha stremato l’Europa belligerante senza quasi distinzione fra vincitori e vinti e che ha visto per un momento minacciata l’indipendenza e la neutralità della Svizzera stessa1. « Passata è la tempesta »2 anche per questo modellino sperimentale, in sedicesimo, dei futuri e ipotetici Stati Uniti d’Europa3; passata, ma non tanto da non lasciare gli Svizzeri pensosi di sé e del singolare loro destino. È difficile dire da quali segni esteriori questa consapevolezza si avverta: forse l’impressione sorge in noi per l’esistenza di condizioni di vita che altrove sono normali e che qui riescono insolite: il tesseramento dei generi di prima necessità ancora in atto è piuttosto rigoroso anche se così largo da ridurre a modeste proporzioni il fenomeno della borsa nera; la crisi degli alloggi e le polemiche dei giornali e dei partiti; le note preoccupazioni per il progressivo « tedeschizzarsi » dei cantoni romandi e italiani che non possono, economicamente e neppur demograficamente, competere con la vitalità di Zurigo e degli altri cantoni di lingua svizzero- tedesca; e infine la battaglia elettorale4, in questi giorni molto viva qui nel Ticino. La lotta politica nella Svizzera! Chi ne sa nulla da noi? Pare un sogno a coloro che vedono in questo Paese solo il luogo geografico, e geometrico, del comfort turistico, dell’organizzazione alberghiera; a coloro che guardano la Svizzera attraverso le idilliche tinte dei paesaggi che si trovano nelle tavolette di cioccolata e le vetrine di questi prodigiosi tabaccai. Eppure è una lotta che esiste e che ha fasi appassionanti, a giudizio degli interessati, nessuno dei quali dichiara di sentirsi estraneo alle vicende e alle contingenze della vita pubblica. Per chi voglia conoscere l’entità delle forze, ecco i risultati delle elezioni di domenica nel Ticino: liberali radicali, 16.712 voti; conservatori, 15.625; socialisti, 5.794; operai e contadini, 1.040. Non è una lotta – intendiamoci - che presenti manifestazioni esterne eccessive e che dia luogo, come da noi, a un prodigioso affichage; la si può seguire nei quotidiani locali, che sono numerosi anche se di tiratura limitata (il Ticino ha giornali che vivono benissimo anche se stampano appena tre o quattromila copie) e può sorprenderne i segreti chi fermandosi a pranzare in qualche crotto, o osteria di campagna, trovi colà un simposio di « radicali » e ascolti i loro propositi più accesi. Ma tutto si ferma qui, senza che un grano di polvere inceppi il delicato ingranaggio dell’esistenza quotidiana. E quanto ai radicali debbo avvertire ch’essi non sono affatto sovversivi, secondo il senso che questa parola ha preso in America, e neppure socialisti- riformisti di tipo francese: essi sono nient’altro che liberali, oggi riuniti nel Ticino in un partito unico dopo la scissione del 1932 che dette origine ai liberali puri del consigliere di Stato Bolla

1 Il trattato di Versailles (1919) riconosce la neutralità della Svizzera. Durante la Seconda Guerra, tuttavia, il paese viola più volte gli accordi, tollerando per esempio la presenza della centrale spionistica americana a Berna (DSS: voce Neutralità). 2 Passata è la tempesta è il verso di apertura di La quiete dopo la tempesta di Giacomo Leopardi (1798-1838), che fa parte della raccolta Canti (1831). La poesia descrive un villaggio rurale che riprende la vita normale dopo un violento temporale. 3 Winston Churchill (1874-1965), esponente dell’europeismo, movimento che mira alla costruzione di un’Europa unita (Treccani: voce Europeismo), tiene il 19 settembre 1946 un discorso a Zurigo in cui afferma che solo la formazione degli Stati Uniti d’Europa può garantire la pace dopo la Seconda Guerra (CE: ad vocem). 4 Nel febbraio 1947 si svolgono le elezioni ticinesi per il rinnovo del Consiglio di Stato e del Gran Consiglio (Soldini: 190).

50 / 157 e ai liberali-democratici guidati dall’aw. Rusca, l’attuale sindaco di Locarno5. Questo battagliero partito vanta nel 1890 una « marcia su Bellinzona » rimasta memorabile, che culminò con l’occupazione dell’arsenale e con la morte del giovanissimo consigliere di Stato Luigi Rossi, ucciso da un reduce della Comune francese. In quell’occasione i liberali puntarono i cannoni sul palazzo del Governo e vi entrarono abbattendone i cancelli a colpi di mazze ferrate. Dovette intervenire il Governo federale, da Berna, inviando tre battaglioni di urani, mentre i membri del Governo cantonale erano sequestrati in un albergo; e l’anno successivo un plebiscito sanzionò il successo dei « rivoluzionari »6. Naturalmente, i liberali non sono le sole forze rilevanti. Vitale è ancora il partito cattolico conservatore che ha il suo leader in Giuseppe Lepori e che fa sentire il suo influsso sulle organizzazioni sindacali cristiano-sociali, e sempre agguerrito è il vecchio partito socialista, che ha a Lugano il suo giornale, Libera Stampa. Una novità del Ticino è invece il partito comunista, che qui si chiama, come in tutta la Svizzera, partito degli operai e dei contadini. Ho detto che la battaglia politica non ingombra visibilmente le strade. Tanto nel più sereno Sottoceneri quanto a Bellinzona imbacuccata di neve, nei caffè all’italiana o nei Gasthäuser alla tedesca, la gente ha un aspetto assai pacifico e confortante. La città che chiamo capitale perché in essa ha la sua unica sede il Governo del Ticino non è popolosa anche se è in crescita: vecchie costruzioni come i tre tipici castelli (il castel Vecchio, oggi castello d’Uri, contiene un’apprezzata collezione archeologica) e antichi monumenti come la collegiata di San Pietro e la chiesa romanica di San Biagio stanno a testimoniare le sue vicende di terra italiana che conobbe la dominazione dei Visconti e degli Sforza; ma altre case più moderne, talune di stile neoclassico, svelano aspetti più recenti di una vita che lentamente si rinnova. Ho passato una serata in una di queste case ricche di tradizioni borghesi e adorna di quadri del ticinese- fiorentino Antonio Ciseri, e il mio pensiero è corso irresistibilmente a certi nostri vecchi romanzi dell’ultimo Ottocento7. Non mancano industrie, in città, fuori porta, ma l’impressione ch’essa lascia è quella di una piccola centrale amministrativa. Anche qui come in tutto il Ticino (e credo fino a Biasca e ad Airolo) svolge la sua attività un circolo di cultura italiana che a Bellinzona è diretto dal prof. Tarabori, uno studioso al quale si deve un bel libro sul Lucini8. I ticinesi sentono il nesso che li unisce alla Confederazione ma, in fatto di cultura, sono, in maggioranza, fedeli alla loro matrice etnica, l’Italia. E c’è gran bisogno di questa fedeltà perché nel Ticino (centocinquantamila abitanti in tutto) la pacifica infiltrazione degli Svizzeri tedeschi rischia di ridurli a una semplice minoranza linguistica. Particolare significativo e poco noto: tempo addietro, la sezione ticinese della società degli scrittori svizzeri ha dovuto limitarsi ad ammettere solo scrittori di lingua italiana, senza di che gli Italiani sarebbero stati in minoranza nella sezione stessa! Certo, a Lugano e a Locarno si sente parlare tedesco assai più di una volta. Ma bisogna tener conto del

5 La scissione del partito liberale radicale nel 1932 oppone la parte moderata di Fulvio Bolla (1892-1946) e la parte riformista di Giovan Battista Rusca (1729-1805) (DSS: voce Bolla Fulvio). 6 Con il putsch dell’11 settembre 1890 i liberali destituiscono il governo conservatore. Luigi Rossi (1864-1890), conservatore ucciso durante il colpo di Stato, è ormai considerato un martire conservatore (DSS: voce Rossi, Luigi). 7 Montale trascorre la sera del 22 gennaio nella casa della vedova del consigliere Arnaldo Bolla. Nella stanza ammira un ritratto di Vincenzo Materno, dipinto da Antonio Ciseri (1821-1891) (Soldini: 189). 8 Il libro in questione è Gian Pietro Lucini. Con introduzione di Carlo Linati e vari inediti del Lucini (1922) (Soldini: 190)

51 / 157 fatto che sinora il turismo svizzero è alimentato soprattutto dagli Svizzeri tedeschi, e più che altro dagli zurighesi. In questo mezzogiorno svizzero, oggi nevoso e freddo ma in primavera pieno di sole quand’ancora oltre Gottardo non è cominciato lo sgelo, sarà sempre necessario che la nostra cultura si faccia sentire come una viva forza d’attrazione e che l’appello del sud non sia costituito esclusivamente dall’enclave di Campione, ricco di promesse e di delusioni9.

(1947)

9 Montale allude alle lusinghe dei giochi del Casinò di Campione d’Italia, unica exclave italiana in territorio svizzero, situata sulle coste del lago di Lugano.

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II. ZURIGO CROCICCHIO D’EUROPA

‘Zurigo crocicchio d’Europa’ – primo testo ambientato a Zurigo, cui ne seguono due altri (prosa V e XV) – è pubblicato originalmente sul CdS del 19 febbraio 1947 (Barile, n. 209). Il testo, che impiega di nuovo un io narrante, traccia i primi veri indicatori di «un’altra e men poetica» Svizzera. Riprendendo prima il filo della rappresentazione stereotipica del paese, si inizia a capire che si tratta di una visione tradizionale del paese in cui «fiaschi di Chianti e piramidi di frutta si mostrano in vetrine» e in cui l’unione di culture diverse – «la callida junctura che lega insieme i Cantoni confederati» – è esemplificata dall’ammirazione con cui guardano i confederati alla Svizzera alemannica. Questa callida junctura o questo contratto sociale – si pensa anche alla coesistenza della lotta e della pace nella prima prosa – e il carattere idillico del paese sono poi però messi in pericolo a causa della globalizzazione, dell’urbanesimo e del progresso tecnico che compromettono la bellezza del lago attraverso «i riflessi policromi di migliai di iscrizioni pubblicitarie al neon» e che sollevano le domande seguenti: «Fino a che punto la Confederazione potrà continuare a vivere al di sopra o al di sotto della mischia, fino a che punto le libertà del suo perfetto e idillico contratto sociale potranno resistere ai venti che spirano da ogni parte»? Sembra che l’epoca d’oro del paese stia per finire – visione che viene rafforzata dalla prosa III e (soprattutto) dalla prosa X –, ragione per la quale gli anziani «si volgono nostalgicamente a un passato irrepetibile».

Il paesaggio di Zurigo e del suo lago, così come io lo ricordavo e come mi è stato più volte descritto dai suoi ammiratori, presenta due toni assai diversi: uno caldo e uno freddo, ma di un caldo e di un freddo esclusivamente visivi, pittorici, da tavolozza, indipendentemente da ogni sensazione termica. Il primo è un aspetto nebbioso, dolcemente soffuso da un vapore leggero e dorato che ha la screziatura delle ali cangianti del gabbiano; e quanto all’altro, solo qui, mi diceva un letterato, in quest’aria limpida e cristallina dove anche il freddo ha una sua intima animazione, un suo palpito segreto, solo qui prende un senso perfetto « le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui » di mallarmeana memoria10. Nell’uno e nell’altro caso, dunque, si rimarrebbe sempre fermi al monito « pas de couleur, rien que la nuance »11, caro ai simbolisti,

10 Il verso citato proviene dall’omonima poesia della raccolta Poésies (1887) di Stéphane Mallarmé (1842-1898). La poesia descrive un cigno imprigionato dal ghiaccio che si è formato nel lago in cui stava veleggiando, che secondo i commentatori allude allo stato esistenziale del poeta preda delle frustrazioni della vita (CFHS: voce A sonnet, a poetics). 11 Il verso proviene dalla poesia Art Poétique (1874) della raccolta Jadis et Naguère di (1844-1896). Sulla scia dell’Ars Poetica di Orazio, assunta a sintesi della poetica classicista, Verlain definisce le regole della poesia simbolista in cui il termine chiave è la sfumatura (nuance). La poesia deve infatti essere una sfumatura nella quale si sovrappongono riflessioni e idee.

53 / 157 e in un’atmosfera squisitamente intellettuale. Ma il rigore di quest’inverno, la vasta e avvolgente calotta di ghiaccio illuminata a sera dai riflessi policromi di migliaia di iscrizioni pubblicitarie al neon e percorsa da un’infinità di macchine di lusso, le rive del lago stesso ormai fittissime di case e scarse di sfondi agresti compongono la visione di un’altra e men poetica Zurigo, di una piccola-grande città in piena crescenza, del polso di quella Svizzera alemannica alla quale guardano con ammirazione o con animo sospeso tutti i confederati. Grandissima città, no, non si direbbe; quattrocentomila anime, all’ingrosso, non fanno una metropoli, anche se in Svizzera bastano dieci o ventimila abitanti a creare in noi la suggestione fisica e spirituale di una civitas; e non sono scomparse d’altronde, specie nella Kleine Stadt, sulla riva sinistra della Limmat, le intime e vecchie strade della vecchia Zurigo di un tempo, dove fiaschi di Chianti e piramidi di frutta si mostrano in vetrine di tipici negozi italiani (molte fortune di qui sono cominciate da bancarelle di mercato). E si noti che persino l’idea della grande città ripugna al sentimento degli autentici Svizzeri, i quali sanno di vivere in una costellazione di liberi comuni dove sarebbe fatale qualsiasi accentramento, qualsiasi ipertrofia di singoli organi a danno dell’intero corpo vivente. Eppure un’impressione di troppo forte, di troppo accelerato, se non di kolossal, rimane nel visitatore della città. Zurigo fa quadro a sé, fa uno spicco forse eccessivo, tale da rompere la callida junctura12 che lega insieme i Cantoni confederati. Ho parlato di un polso, di un groppo di vene in cui batta un sangue caldo e generoso. Chi segga, a sera, nell’atrio di un grande albergo zurighese ne ha un’impressione quasi fisica osservando le piccole torri di Babele di questi centralini telefonici ai quali sovraintende uno stato maggiore di portieri poliglotti che infilando le spine nei varî castelletti ne fanno spicciare a fiotti le più lontane favelle. « Allò, allò, Bucarest, Varsavia, Bratislava, Atene, Manchester, allò allò »... è un affar di pochi minuti o di pochi secondi, le voci giungono con incredibile rapidità, i mariti rumeni rassicurano le loro consorti, i commercianti inglesi discutono prezzi e listini, le valigie si ammonticchiano sulle valigie, gli sci si affastellano sugli sci e i silenziosi ascensori che sembra non conoscano interruzioni di corrente trasportano in su e in giù centinaia di clienti. E tuttavia il grande turismo è lontano dall’avere ripreso e alla stazione i quais della linea che porta a Basilea e alla Francia non son tornati ad essere, come un tempo, il più pittoresco e più internazionale dei porti di mare... Che cosa diventerà dunque Zurigo quando lo stato di Hochkonjunktur, di alta emergenza economica che ancora la regge, dovrà cedere a più contrastati rapporti con l’estero? Siamo nel cuore stesso della grande industria svizzera, in una città ch’è una delle casseforti dell’Europa. E mentre l’Europa si dilaniava in una guerra smisurata e distruggeva le fonti stesse d’ogni sua ricchezza qui, a Winterthur, a Olten, a Oerlikon e in tutto l’Hinterland zurighesi la produzione industriale toccava cime altissime e faceva di questa regione il paradiso della speculazione finanziaria. Oltre alle industrie ben note dello Zurighese (filatura, tessitura di cotone e di seta, carta, sapone, candele e tabacco) si è naturalmente ingigantita l’industria pesante, la metallurgica, che assorbe numerosi Italiani (nel Cantone ne vivono circa ottantamila) e che è tanta parte del benessere della Svizzera alemannica. Ciò che si può fin d’ora prevedere è che in parte, in molta parte, dovrà rompersi quell’equilibrio che alla Svizzera, minacciata e assediata fino al termine della guerra, fu imposto

12 Il termine è tratto dal verso 47 dell’Ars Poetica (13 a.C) di Orazio (65 a.C-8 a.C). Esso indica qui la convivenza di popoli diversi dal punto di vista linguistico e culturale.

54 / 157 dall’eccezionale emergenza da essa vissuta. C’è stata una Svizzera mobilitata in tutti i sensi, molti lo ignorano o vedono solo gli aspetti vantaggiosi di quella sua neutralità; una Svizzera che ha minato i suoi ponti, a Basilea e a Zurigo, e che ha vissuto ore e settimane d’angoscia13; una Svizzera dalla quale, mentre i Tedeschi giungevano a Le Cure e ad Annemasse e il gen. Guisan meditava di ritirarsi con le sue truppe nel « ridotto »14 del Gottardo, Emil Ludwig15 prendeva il volo col nobile intento « di non crear noie alla Confederazione »; una Nazione in armi che scavò trincee e che vide il suo più promettente poeta, Albin Zollinger, morire a quarantadue anni come guardia di frontiera; esiste o è esistita fino a ieri una Svizzera tesserata e angustiata, divisa tra opposte necessità, un Paese che ha dovuto stringere i freni e imporre ai suoi figli limitazioni e ordini dall’alto che sarebbero stati inconcepibili in altri tempi. Oggi è difficile dire fino a che punto la Confederazione potrà continuare a vivere al di sopra o al di sotto della mischia, fino a che punto le libertà del suo perfetto e idillico « contratto sociale »16 potranno resistere ai venti che spirano da ogni parte. Certo, i vecchi Elvetici sentono il peso dell’accentramento a cui guerra e Hochkonjunktur hanno condotto il loro Paese; lo sentono e si volgono nostalgicamente a un passato irripetibile. I più giovani, anche quelli che non sono attratti dalla stella rossa del cosiddetto partito del lavoro, cercano di aprire i vetri e di guardare altrove. Ed è naturale che dalla Svizzera alemannica, che pur ostenta come mai prima della guerra il suo schwizerdutsch, molto si guardi ai paesi di cultura tedesca, alla nuova Austria e a una Germania non nazista (se ne esiste una) nella speranza, finora delusa, che i Tedeschi si battano il petto, pentiti dei loro crimini. Perché non si deve credere che qui a Zurigo, nella città dove anche le scimmie dello Zoo sono più pasciute che altrove, la ricchezza faccia velo all’intelligenza e alla curiosità intellettuale. Ma è argomento che meriterà un discorso a parte.

(1947)

13 Durante la Seconda Guerra, minacciata dal piano di invasione tedesca (l’Operazione Tannenbaum), e per impedire in caso di attacco la conquista dell’intero territorio federale, la Svizzera mina numerosi ponti e tunnel di accesso ai passi alpini, così da distruggere le vie di comunicazione al cosiddetto “Ridotto nazionale” (cf. nota 14) ossia l’area alpina dove l’esercito e il governo avrebbero dovuto asserragliarsi abbandonando il resto del territorio. (DSS: voce Guerra mondiale, seconda). 14 Con il termine ‘ridotto’ si allude alla strategia di difesa (cf. nota 13) del generale Henri Guisan (1874-1960), che fa costruire un sistema di fortificazioni e rifugi nascosti nel San Gottardo (Soldini: 191). 15 Emil Ludwig (1881-1948), scrittore tedesco ed ebreo che acquisisce la cittadinanza svizzera nel 1932, fugge in America nel 1940 poiché il governo svizzero gli aveva ordinato di annacquare la propria critica alla Germania nazista e poiché era diventato oggetto di una campagna antisemita nella stampa svizzera (DSS: ad vocem; Berger et al: 15-16). 16 Il contrattualismo è una concezione filosofica secondo la quale lo Stato è il prodotto di un contratto sociale tra individui. Tra i teorici più famosi Thomas Hobbes e Jean-Jacques Rousseau (Treccani: ad vocem).

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III. GINEVRA SENZA S.D.N. È SEMPRE UNA GRANDE CITTÀ17

Uscita per la prima volta il 9 marzo 1947 sulle pagine del CdS (Barile, n. 210), la prosa è la prima – ne seguono quattro altre – dedicata a Ginevra. Il testo si contraddistingue per il carattere marcatamente narrativo dell’incipit, tecnica ripresa a più volte nella raccolta e soprattutto nelle prose VI e XIII. Incominciando di nuovo, sulla scia del «ricordavo» della seconda prosa, con un verbo all’imperfetto esprimente una vecchia memoria («conoscevo»), la prosa ricorda l’accenno al passato nostalgico evocato in ‘Zurigo Crocicchio d’Europa’. Il testo anticipa le discussioni che si svolgeranno nelle prose dedicate agli Incontri Internazionali a Ginevra, ossia le prose VI, VII e XI, e quella dedicata alla Conferenza culturale del Movimento Europeo, ovvero la prosa XII. Infatti la caratterizzazione di Ginevra che «si distingue per il suo aspetto tipicamente intellettuale, mentale» chiarisce perché le Rencontres si possono svolgere a Ginevra e l’accenno al crollo della S.d.N segnala già in qualche misura la necessità di una riflessione attorno al futuro dell’Europa. La città contribuisce inoltre all’immagine della Svizzera come paese che unisce culture diverse nel senso che «a Ginevra regna [...] una pace religiosa perfetta» e nel senso che «non c’è bisogno [...] di aggiudicare le cariche e gli impieghi secondo un criterio paritetico di distribuzione della confessioni: tanti posti ai protestanti e tanti ai cattolici». Nonostante queste descrizioni positive, anche qui si nota che il paese sta cambiando: «Era diversa la città che vedevo; diversa, ancora intima ma quasi villereccia». L’accenno ai diversi eventi storici aggiunge infine un sentimento di inquietudine al testo.

La Ginevra estiva che conoscevo io m’era sempre apparsa (certo per effetto della stagione) come una città festosa e quasi balneare. Una Ginevra intima, vista dal di dentro, una Ginevra da Svizzeri non la sospettavo nemmeno. Eppure stavolta svegliandomi in una stanza lontana dal lago, una stanza piena di libri di Gide e affacciata su un deserto bastione di case giallastre, spruzzate di neve, la prospettiva è mutata profondamente. Rimuginavo vecchi ricordi di qui, le agitazioni di piazza promosse dal Nicole, la sparatoria alla stazione di Cornavin, il clamoroso fallimento della Banque de Genève (« sono cose che avvengono solo a Ginevra », dicevano scuotendo il capo gli Svizzeri d’oltre Sarine)18; ma anche quelle vecchie memorie erano piene

17 Ginevra ospitava la sede centrale della Società delle Nazioni che, non essendo riuscita a fronteggiare la Seconda Guerra, viene sostituita dalle Nazioni Unite nell’aprile 1946 (Treccani: voce Società delle Nazioni). 18 Le vicende ricordate sono la sparatoria del 9 novembre 1932, quando l’esercito apre il fuoco contro una manifestazione socialista guidata dal capo del partito socialista Léon Nicole (DSS: voce Ginevra, sparatoria di),

56 / 157 di sole e si inquadravano in un gaio scenario di cartone. Era diversa la città che vedevo; diversa, ancora intima ma quasi villereccia, quella che andavo scoprendo all’accendersi dei primi lumi in certe vecchie piazze che ricordano Annecy. Incastrata nella Francia, alla quale ha appartenuto per quindici anni prima di unirsi volontariamente al gruppo degli Stati elvetici, Ginevra può sembrare bensì terra francese, ma chiude in sé una distinzione, una riserva che son tutte svizzere, frutto di una lunga tradizione d’autonomia e di una vita culturale ininterrotta19. La città non manca di industrie e di mezzi di vita propri, ma a differenza di altri centri svizzeri che « comprano cultura » a piene mani perché sono più ricchi, essa si distingue per il suo aspetto tipicamente intellettuale, mentale, che la rende unica fra tutte le città svizzere. La sua è infatti una monumentalità del tutto interiore, segreta. Altre città elvetiche riescono, con poche diecine di migliaia di abitanti, a sembrar piene se non grandi città, mondi autosufficienti e chiusi in se stessi. E fuor di Svizzera piccoli centri italiani o francesi lasciano in noi un’impressione di popolo, di massa, che qui cerchereste invano. Ginevra no, non è vitale né ingombrante in nessun senso che indichi peso, volume, massa di architetture o di uomini; ma lo è poi in quello dell’apertura spaziale e dello stile intimo. Percorrendo le sue vie, i suoi ponti, i suoi giardini non vi chiedete se essa sia grande o piccola, la sentite come una forza ancora viva, come l’indicazione morale di qualcosa di estremamente serio. Indicazione di che cosa, oggi che, crollata la S.d.N., l’importanza della città in quanto sede di istituti internazionali e meta di alto turismo è tanto diminuita? Non chiedetelo ai libri del tempo « societario », come L’esprit de Genève del De Traz o alla Pèche miraculeuse del Pourtalès, e domandatelo piuttosto all’École des esclaves dell’illustre italianista Henri de Ziégler se volete entrare nel segreto di una Ginevra romanda che si sente ferita dallo strapotere dei cantoni alemannici e dalla decadenza delle sue fiere libertà repubblicane20. Ma evidentemente l’indicazione che tentiamo di definire non si ferma qui. Se una parola simbolica e non solo nazionale emana oggi da Ginevra essa non può riassumersi che in quella abusata e pur tanto urgente di « democrazia ». Lo so: Rousseau odiava i nobili, non i ricchi, e la storia ginevrina è in gran parte quella dell’oligarchia intransigente e guerriera che ha saputo respingere l’escalade savoiarda21; e anche oggi, se è vero ciò che si dice, sono gli ottimati, i patrizi quelli che veramente contano in città; fra i quali s’incontrano anche nomi italiani - i Turrettini, i Diodati, altrove i von Orelli, i von Muralt - di famiglie protestanti emigrate da Locarno o dall’Italia in seguito a persecuzioni

la manifestazione e la sparatoria dell’8 agosto 1943 alla stazione di Cornavin (Fontana: 3) e il fallimento della Banque de Genève nel 1931 (Ivi: voce Ginevra (comune)). 19 Dal 1798 al 1814 Ginevra è integrata nella Repubblica Francese. Nel 1814, dopo la sconfitta dell’armata napoleonica entra nella Confederazione svizzera. (Binz: 50). 20 Robert de Traz (1884-1951), romanziere e saggista svizzero, pubblica, nel 1929, L’esprit de Genève in cui celebra il carattere internazionale della città attraverso l’accenno alle origini dello spirito ginevrino. A partire da un ritratto dei ginevrini Giovanni Calvino, Jean-Jacques Roussea e Henri Dunant, de Traz documenta quanto Ginevra è simbolo della pace e della democrazia (DSS: ad vocem). Ne La pêche miraculeuse (1937) Guy de Pourtalès, scrittore svizzero, fa il bilancio della sua vita in cui la Prima Guerra si presenta come punto di svolta (Ivi: ad vocem). Henri de Ziégler (1885-1970), professore di letteratura italiana a Ginevra, afferma ne L’École des esclaves che i cantoni romandi stanno per essere dominati dalle infiltrazioni sempre più forti dei cittadini alemannici e che a Ginevra questa evoluzione è già molto avanzata (Ivi: ad vocem; Secretan: 127). 21 Carlo Emanuele I, Duca di Savoia, tenta di conquistare Ginevra nella notte del 12 dicembre 1602, ma il tentativo fallisce. Il fallimento dell’Escalade porta alla pace di Saint-Julien (1603) che riconosce l’indipendenza di Ginevra (DSS: voce Escalade).

57 / 157 religiose22. Evidentemente già al tempo della « bibliocrazia » calvinista invano contrastata dai progressisti « libertini » Ginevra seguiva in ciò una sua intima tendenza e costituiva il terreno ideale per lo « Stato di Dio » di Calvino23. Eppure, se non sempre la democrazia politica distrugge il prestigio delle caste, il suggello di città calvinista che contrassegna Ginevra non deve ingannare se qui protestanti e cattolici sono in numero pressoché uguale e se a Ginevra regna oggi una pace religiosa perfetta. Qui non c’è bisogno, come pare avvenga altrove, di aggiudicare le cariche e gli impieghi secondo un criterio paritetico di distribuzione delle confessioni: tanti posti ai protestanti e tanti ai cattolici. E di qui, dove il Rodano forma un naturale corridoio di accesso a quella ch’era la Francia non occupata dai Tedeschi, è balzato, nel 1940, il più vibrante appello alla resistenza che la Francia abbia avuto dopo quelli di De Gaulle. L'hanno diffuso le onde della stazione di Ginevra e l’ha lanciato René Payot, lo svizzero più popolare in Francia, l’azione del quale è addirittura ricordata a radio Ginevra da una targa commemorativa. Ancora a guerra finita una comitiva di scrittori svizzeri visitava la Francia e il grido « Où est René Payot? » echeggiava dovunque, a testimonianza della riconoscenza d’una folla che dalle sue parole aveva attinto fede e conforto24. Oggi René Payot continua a dirigere l’autorevole Journal de Genève e se i princes du lac (Rolland, Jaloux, Pourtalès, Paderewskij ed altri) non si radunano più come una volta sulle rive del Lemano (sulle quali è più facile veder sbarcare i contrabbandieri dello squisito reblochon francese) non manca nella città dove hanno insegnato Ferrero e Thibaudet un gruppo di scrittori di forte ingegno fra i quali brilla Marcel Raymond25. E come le grandi industrie di profumi sintetici di Ginevra mandano i loro prodotti a Parigi « per prendere il bouquet », così si spingono a Lutezia alcuni di questi intellettuali, per ritornare poi più Svizzeri di prima. Alcuni nomi - Ramuz soprattutto e il pittore Barraud - hanno una reputazione sicura anche oltre frontiera. (Ma con Ramuz, l’interprete del Vaud, sconfiniamo dal quadro di Ginevra)26. Città di rifugio anche per il libro durante la guerra, Ginevra conosce oggi una crisi editoriale assai grave perché non può fronteggiare i prezzi dell’editoria francese, mentre altre industrie, come l’Hispano Suiza e molte fabbriche di macchine di precisione, mantengono un buon ritmo. Politicamente, è scomparsa col suo fondatore l’Union Nationale (filofascista) di Giorgio Oltramare, che vive ancora nella sua ala

22 Tutte le famiglie citate erano costrette a trasferirsi a Ginevra, culla del Calvinismo, a causa della loro adesione alla Riforma protestante. 23 Il termine ‘bibliocrazia’ indica l’idea di Calvino che sia lo stato clericale che lo stato laico devono lasciarsi guidare dalla volontà di Dio, per come espressa è dalla Bibbia (Plomp: 130). Dopo la sconfitta delle opposizioni dei “libertini”, nome utilizzato da Calvino per indicare gli anabattisti, Calvino instaura la bibliocrazia a Ginevra nel 1541 e così facendo istituisce il nuovo stato ginevrino: lo stato di Dio (Treccani: voce Calvino, Giovanni). 24 Dal febbraio 1940 René Payot (1984-1970), giornalista del ‘Journal de Genève’, tiene un programma di cronaca radiofonica alla Radio della Svizzera romanda. Le sue cronache, che oltrepassano subito la frontiera svizzera, diffondono delle osservazioni oggettive della guerra, da cui gli ascoltatori prendono speranza che la guerra stia per finire (DSS: ad vocem). 25 Al dipartimento di letteratura di Ginevra Albert Thibaudet (1874-1936) è stato professore di Marcel Raymond (1897-1981), suo successore, intorno al quale si è formato un gruppo di critici letterari sotto il nome di Scuola di Ginevra (UDG: voce L’École de Genève). 26 (1878-1947), scrittore losannese, soggiorna dal 1904 al 1914 a Parigi, dove il suo romanzo Les circonstances de la vie (1907) figura sulla lista ristretta del premio Goncourt. Al suo rientro definitivo in Svizzera nel 1941, si afferma come uno degli scrittori svizzeri piú importanti della sua generazione (DSS: ad vocem). Il pittore svizzero Maurice Barraud (1889-1954), residente a Parigi negli anni 20, è famoso per i suoi ritratti femminili, i suoi paesaggi e i suoi nudi (Treccani: ad vocem).

58 / 157 più moderata, più o meno liberale. Un altro Oltramare è invece uno dei leaders dei socialisti. Ma in questo momento la maggioranza delle simpatie ginevrine va ai partiti di centro e alla destra. Ginevra è uno dei cantoni svizzeri che hanno rifiutato il voto alle donne. (Ne aveva - dicono i maligni - le sue buone ragioni).

(1947)

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IV. DUE PRETI NEGRI SEDUTI AL CAFFÈ

La genesi dell’articolo, pubblicato per la prima volta sul CdS del 20 aprile 1947 (Barile, n. 212), è documentata in una lettera del 10 febbraio 1947 di Montale a Gianfranco Contini, in cui il giornalista chiede aiuto al filologo per scrivere un articolo su Friburgo. In seguito alla lettera Contini chiede a Romano Broggini, studente di Contini che viene nominato esplicitamente nella prosa XXI, di raccogliere materiale informativo sulla città e di consegnarlo a Montale. Il testo stesso – probabilmente a causa della vicenda genetica – è il primo e uno dei pochi in cui l’io narrante rimane nascosto dietro la cronaca. Il filo del tema della Svizzera come unione di culture o come unione degli opposti è ripreso attraverso la caratterizzazione di Friburgo in quanto città dove le contraddizioni coesistono in armonia. Friburgo, «fatto di tolleranza e di buona volontà», si raffigura come città prototipica della Svizzera idillica e pacifica grazie al ritratto della città in cui «il bilinguismo [è] uno dei caratteri più rilevanti» e in cui può insegnare «un matematico protestante [...] accanto a uomini come i domenicani Pierre de Menasce [..] e François Bochenski». In modo nascosto è anche presente il tema dell’Italia in controluce della Svizzera. Il narratore, tentando di scorgere la situazione di occhi svizzeri, si rende conto dell’impossibilità degli italiani di capire, per non parlare di applicare la realtà svizzera nella vita italiana: «Come ciò possa avvenire non so. Si tratta dei frutti, per noi quasi incomprensibili, del federalismo svizzero».

Si racconta che nei giorni di mercato, il sabato, Friburgo sia affollatissima e che le sue bancarelle offrano il più pittoresco bric-à-brac di tutta la Svizzera; e c’è chi pretende di avervi visto in vendita persino camosci impagliati e cuccioli bastardi di cani da pastore al modico prezzo di franchi due e cinquanta l’uno. Ma a chi giunga in questa città in un giorno ordinario il primo aspetto di Friburgo è piuttosto nudo, desertico. Si lascia il treno, si girovaga un poco nelle ampie strade semicircolari che salgono e scendono in prossimità della stazione e si crede dapprima di trovarsi in un borgo senza interesse e senza alcun carattere monumentale. Finché non vi accada di affacciarvi per caso all’esplanade des Grand’ Places o di guardarvi attorno, giunti che siate a certi boschetti sulla via del sobborgo di Pérolles: e allora la città si spiegherà ai vostri occhi con una vastità e magnificenza inaspettate. Alta sui ciglioni di molasse, a picco sui zig-zag della Sarine, raccolta intorno alle sue piazze e alle sue fontane, questa città insigne e microscopica che ha mandato coloni persino sul Rio Bengala (dove esiste un’altra Friburgo) ha in realtà una vita propria che senza essere vertiginosa finisce per soggiogare il visitatore: le industrie, ricche e numerose, e la celebre Università

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Cattolica e Internazionale che ospita più di mille studenti, ne sono i polmoni, il suo bilinguismo uno dei caratteri più rilevanti27. Qui muore definitivamente la Svizzera romanda, benché anche a Berna il patriziato parli abitualmente il francese. A Friburgo il confine linguistico si direbbe che passi esattamente a mezza costa, fra la città alta e quella bassa, perché in giù, nel vecchio quartiere dell’Auge, il tedesco è prevalente. Ma in quale strada e a qual numero di strada avviene il trapasso? Un bello spirito si è divertito a compiere indagini in proposito, non so quanto sul serio, senza giungere a risultati apprezzabili. Non è questo, d’altronde, il solo segreto di un centro che sa celare tanta vita intellettuale e industriale senza « far macchia », senza offrir mai l’aspetto carcerario delle moderne città operaie e senza neppure assumere la fisionomia conventuale di una Oxford e di altri alveari universitari. Come ciò possa avvenire non so. Si tratta dei frutti, per noi quasi incomprensibili, del federalismo svizzero. Città cattolica per definizione è, in Svizzera, Friburgo, ma di un cattolicismo che non è sfarzoso come quello romano e non è cariato e bituminoso e controriformistico come quello iberico. E la cosa non fa meraviglia a chi sappia che questa Università Cattolica è un’università di Stato (cantonale) e non una scuola confessionale e soprastatale28. Esiste in essa una facoltà di teologia affidata all’Ordine Domenicano29, che ha, per così dire, l’esclusiva dell’insegnamento filosofico, oltreché teologico, ma in tutto il resto la separazione fra Chiesa e Stato vigente nel Cantone è perfettamente salvaguardata anche all’Università30. Su questo punto il consigliere di Stato Georges Python, un genius loci di qui, al quale Friburgo ha dedicato una grande piazza, ebbe partita vinta nel 1889, contro il parere del vescovo Mermillod, poi trasferito in Curia e insignito della porpora cardinalizia, a titolo... di risarcimento31. E oggi a Friburgo un matematico protestante insegna accanto a uomini come i domenicani Pierre de Menasce, orientalista e traduttore di Eliot in francese, e François Bochenski, professore di logistica e già maggiore dell’armata Anders in Italia32. È dunque un cattolicismo di spiriti liberi, quello di Friburgo, fatto di tolleranza e di buona volontà, e nutrito di solido umanesimo. Non è un caso che si stampi qui Nova et Vetera, la rivista tra maritainiana e neo-tomistica dell’abate Charles Journet33 che nei giorni dell’irruzione

27 A partire dal 1847 il francese e il tedesco sono le lingue ufficiali del cantone Friburgo. Le aree francesi si situano all’ovest del cantone, mentre quelle tedesche sono all’est (DSS: voce Friburgo (cantone)). 28 Il Gran Consiglio di Friburgo approva, il 4 ottobre 1889, la fondazione della prima università di un cantone cattolico. Georges Python (1856-1927), Consigliere di Stato, raccoglie il necessario sostegno politico e i finanziamenti ed è perciò considerato il padre dell’Università friburghese (Vergauwen: 2). 29 La facoltà rimane l’unica di teologia in un’università statale. L’ordine domenicano conta a oggi un terzo dei professori (Vergauwen: 7). 30 La Costituzione cantonale del 1858 riconosce la libertà di culto, anche se il cattolicesimo rimane la religione della maggioranza dei friburghesi (DSS: voce Friburgo (cantone)). 31 Contrariamente alla proposta di Gaspard Mermillod (1824-1892) di porre l’università sotto l’autorità dell’episcopato, essa viene fondata come istituzione statale. La facoltà di teologia è l’unica che ha uno statuto confessionale (DSS: voce Università di Friburgo). 32 Walter Nef (1919-2013): matematico, protestante, professore di matematica a Friburgo dal 1946 al 1948 (Bieri: 2-4). Pierre de Menasce (1902-1973): professore di storia delle religioni e di missiologia dal 1936 al 1948 (Hastings: 168). François Bochenski (1902-1995): cappellano dell’esercito polacco al comando del generale Wladislaw Anders nella Seconda Guerra. Dal 1945 al 1972 insegna filosofia moderna e contemporanea e dal 1946 al 1966 è rettore dell’Università di Friburgo (DSS: ad vocem). 33 Charlet Journet (1891-1975), fondatore della rivista di studi teologici ‘Nova et vetera’, si oppone durante la guerra alle ideologie razziste poiché convinto dello stretto legame tra cristianesimo e giudaismo (DSS: ad vocem).

61 / 157 tedesca in Francia si ripropose il problema agostiniano della giustificazione delle invasioni barbariche e che fu per tutta la durata della guerra la voce più franca che si levasse dalla Svizzera religiosa. E forse non a caso è partita di qui, per opera del canonico e poeta catalano Carles Cardò, esule a Friburgo, la più fiera protesta che il mondo cattolico abbia espresso contro il regime franchista34. Porto di mare dell’intelligenza cattolica contemporanea, Friburgo ha altresì un suo patriziato i segreti del quale sono stati esplorati dai romanzi del ministro plenipotenziario svizzero a Roma, René de Weck35, friburghese. Si dice che in città, nelle famiglie della haute, si faccia ancora vedere l’arma con cui fu ucciso (o ferito) Enrico o Giovanni Cairoli36. E pare che a un conte del Papa, molto noto per le sue pretese... benemerenze in materia, il sullodato Python, reduce da Roma dicesse: - J’ai été à Rome et j’ai vu ton monument. - Stupore del conte e spiegazione di quel bel tipo del Python: - Non c’è forse nel monumento ai Cairoli uno svizzero che spara à bout portanti? Città conservatrice (i radicali conservatori sono al governo dal 1855), Friburgo procede per vie sue, imperscrutabili. Uno scrittore francese, mezzo surrealista, l’adora dal giorno in cui potè vedervi, seduti a un tavolo di caffè, due ecclesiastici negri, due autentici africani, divorarsi tranquillamente una bianchissima fonduta di gruyère...37

(1947)

34 Carles Cardò (1884-1959), canonico della cattedrale di Barcellona, è in esilio a Friburgo dal 1938. La “protesta” in questione è l’Histoire spirituelle des Espagnes, pubblicata nel 1946 nonostante l’opposizione del regime franchista (Raguer: 8). 35 René de Weck (1887-1950), diplomatico svizzero, ha scritto diversi saggi sulla cultura e sulla società svizzere (DSS: ad vocem) 36 I fratelli Cairoli muoiono durante i combattimenti per la conquista di Roma nel 1867 (Treccani: voce Cairoli, Enrico). 37 Lo scrittore è Charles-Albert Cingria (1883-1954) che nei suoi testi racconta degli incontri e delle gite tra la Francia e la Svizzera. Il brano allude a un passo di Musiques de Fribourg (1945) (DSS: ad vocem).

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V. NON C È ANGOSCIA ESISTENZIALE NELLA SANA ANIMA DI ZURIGO

Nella seconda prosa dedicata a Zurigo, la prima della collezione apparsa sulle pagine del CdI e in particolare su quelle del 19 maggio 1947 (Barile, n. 215), l’autodiegesi è di ritorno. Il testo contribuisce alla descrizione della coesistenza degli opposti. All’immagine di Zurigo, instaurata nella prosa II come «paradiso della speculazione finanziaria», città in cui «la ricchezza [non] faccia velo all’intelligenza» e in cui gli anziani si rivolgono con nostalgia al passato, si aggiunge qui l’immagine di una città caratterizzata dalla tensione fra «conservatismo e spirito religioso [...] fra una fisiologia millenovecentoquattordici e un cervello millenovecentoquarantasette». La prosa contiene inoltre delle anticipazioni sul tema dello statuto dell’intellettuale e sulle discussioni intorno all’Europa attraverso l’accenno alla presenza di oratori come Siegfried, Duhamel e Kassner, ma soprattutto attraverso il riferimento alla conferenza di Paul Valéry. L’Europeismo incrina inoltre l’aspetto totalmente pacifico del paese poiché provoca «sottile inquietudine, animata dal proposito di contribuire alla ricostruzione spirituale dell’Europa». Diverse delle figure nominate in questa prosa si presenteranno come protagonisti nelle prose successive. Il testo fa tra l’altro riferimento a Karl Jaspers e Karl Barth, protagonisti delle prose dedicate agli Incontri Internazionali e in particolare la prosa XI, e a Max Frisch, a cui sarà dedicata la prosa XXII.

Città aux écoutes, che ha sempre attratto molti visitatori, Zurigo ama corteggiare i luminari della cultura e delle arti e le piace che la ricambino. Valéry vi tenne subito dopo l’altra guerra38, la sua più celebre conferenza; ed oggi ancora vi sono accolti in veste di oratori, o sorpresi e intervistati al loro passaggio, Mauriac e Wiechert, André Siegfried e Duhamel, e Georg Lukàcs39, e tanti altri. Neppure l’insolito rigore dello scorso inverno spaventò gli

38 Paul Valéry (1871-1945) parla il 15 novembre 1922 all’Università di Zurigo di La crise de l’esprit di cui la Prima Guerra è l’espressione e che può essere superata recuperando la grandezza dell’Europa che consiste appunto nella forza del suo spirito (Cristin: 13). 39 François Mauriac (1885-1970), romanziere e saggista francese, ha fatto dell’Europa uno dei temi più importanti della sua produzione. Egli è infatti convinto che l’Europa deve unirsi dal punto di vista politico poiché questa unità esiste già dal punto di vista culturale (Treccani: ad vocem). Ernst Wiechert (1887-1950), scrittore tedesco emigrato in Svizzera alla fine della Seconda Guerra, sviluppa nelle sue opere, come Die Flucht (1916) il tema dell’amore per la natura che serve come antidoto per il progresso tecnico e la meccanizzazione (Ivi: ad vocem; Daelemans: 126). André Siegfried (1875-1959), politologo francese, è l’autore dell’opera La Suisse, démocratie-témoin in cui afferma che la Svizzera, ossia il paese in cui ci sono «trois races, trois et même quatre langues, deux religions, associées en un groupement qui ne préconise ni unité linguistique, ni unité de religion, ni unité de culture et cependant la nation la plus unie» (131), è l’esempio per eccelenza di un’Europa unita (Treccani: ad vocem;

63 / 157 innumerevoli ammiratori di cotesti ospiti di riguardo; e notate che in certe sere non c’era che l’imbarazzo della scelta! L’Università, che senza essere delle più antiche è tra le più importanti, e la E.T.H., cioè la Eidgenössische Technische Hochschule dove insegnò il De Sanctis in un’epoca in cui la passeggiata lungo il lago gli ricordava « la strada da Castellammare a Vico o la riviera di Posillipo »40 (1856), sono naturalmente al centro di tale iniziativa culturale e insieme civilmente mondana. Dico naturalmente, guardando le cose di qui con occhi svizzeri; da noi le università (forse per ragioni di bilancio) non hanno un forte peso fisico nella vita delle città. Sono salito all’E.T.H., al Politecnico, in una sera di luna... e di conferenze, guidato dal poeta ticinese Giuseppe Zoppi41 che vi insegna da quindici anni letteratura italiana e che trova molti ascoltatori fra studenti memori del precetto desanctisiano ch’essi « prima che ingegneri devono diventare uomini »; ho visitato l’Università in compagnia di un altro professore di letteratura italiana, il grigionese Bezzola che in famiglia parla sempre il suo nativo romancio; e ho sorpreso in quegl’immensi alveari, dove svolgono l’opera loro varie autentiche « illustrazioni » non solo svizzere come il filologo neolatinista Jakob Jud e il dantista Th. Spoerri, alcuni dei custodi della favilla intellettuale zurighese42. Mista di self-content e di sottile inquietudine, animata dal proposito di contribuire alla ricostruzione spirituale dell’Europa, sorretta da un quasi religioso sforzo di comprensione, da una vera sete di conoscenza, la Zurigo d’oggi mantiene sotto la sua curiosità intellettuale una segreta riserva per certi caratteri intimidatori o addirittura revulsivi della modernità. Accoglie, per esempio, con inaudito favore il teatro di Bert Brecht ma fa il viso dell’armi a quello di Sartre43. E la città mostra in questi caratteri quel suo fondo di zwinglismo temperato di calvinismo che da quattro secoli, dal tempo del « Consenso di Zurigo »44, attuato da Bullinger e Calvino, la distingue ancora. L’angoscia kierkegardiana, così come l’ha ripresa Jaspers, non è il fatto suo, ma ben più lontana è l’anima zurighese dalla lucidità problematica

Bourquin: 624-629). George Duhamel (1884-1966), scrittore e medico francese, va nella Géographie cordiale de l’Europe (1931) alla ricerca di una conoscenza immediata e personale dell’Europa, intesa come un paese composto di provincie (Treccani: ad vocem; Knebusch: 60). Con i suoi studi fisiognomici Rudolf Kassner (1873-1959), scrittore tedesco, va alla ricerca dello spirito dei popoli. La sua opera più nota è Der Indische Gedanke, uno studio sulla razza indiana (Treccani: ad vocem; Barnes: 138). Georg Lukács (1885-1975) è una figura chiave del marxismo novecentesco (EB: ad vocem). 40 Francesco De Sanctis è dal 1856 al 1860 il primo titolare della cattedra di letteratura italiana al Politecnico di Zurigo (E.T.H.). La citazione si trova in una lettera a Diomede Marvasi del 2 aprile 1856 (Soldini: 195). 41 Giuseppe Zoppi (1896-1952), che ha la cattedra di letteratura italiana dal 1931 al 1951, invita Montale a tenere una conferenza, dal titolo Poeta suo malgrado, al Politecnico alla fine del gennaio 1947 (DSS: ad vocem; Scarpati: 89). 42 Reto Raduolf Bezzola (1898-1983): professore di letteratura italiana, francese e romancia dal 1945 al 1968 (DSS: ad vocem). Jakob Jud (1882-1952): professore di filologia romanza, linguistica e letteratura francese medievale dal 1922 al 1950 (Ibid: ad vocem). Theophil Spoerri (1890-1974): rettore dal 1948 al 1950 (Ibid: ad vocem). 43 Bertolt Brecht (1898-1956), uomo di teatro tedesco, emigra nel 1947 a Zurigo, dove le prime di Mutter Courage und ihre Kinder (1941) e Der Gute Mensch von Sezuan (1943) vengono presentate allo Schauspielhaus (DSS: ad vocem). Jean-Paul Sartre (1905-1980), drammaturgo e filosofo francese, è uno degli esponenti dell’esistenzialismo, movimento filosofico che si occupa della ricerca del significato e delle possibilità dell’esistenza (Treccani: ad vocem). 44 Il Consenso di Zurigo o Consensus tigurinus, firmato nel maggio 1549 da Giovanni Calvino a nome dei pastori di Ginevra e da Heinrich Bullinger a nome di quelli di Zurigo, stabilisce che la dottrina di Calvino sull’Eucarestia, in cui il pane e vino sono intesi come strumenti della grazia divina, diventa la dottrina ufficiale della Chiesa riformata (DSS: ad vocem).

64 / 157 di un Heidegger. Non c’è senso vero di colpa, angoscia esistenziale nell’anima di Zurigo45, anche se qui abbiano lasciato profonde tracce il tormentoso insegnamento di Karl Barth e quello del pastore zwinglista Konstantin Brunner46. E in tale contrasto fra conservatorismo e spirito religioso, fra l’appello al nuovo e l’orrore di quel nulla ch’è in fondo alle nuove filosofie, in cotesta antinomia fra una fisiologia millenovecento quattordici e un cervello millenovecento quarantasette si esprime forse lo spirito più intimo di una città sfuggita (ma non tanto) alla tempesta che l’ha minacciata e la minaccia da ogni lato. Zurigo è troppo solida per darsi a Gide, troppo sana per raffoler di Gide47; ed è di qui che è partita la « correzione » di Jung a Freud48. Ma essa è altresì troppo protestante per non protendersi ansiosamente al nuovo. Solo i paesi cattolici (è il loro bene e il loro male) diffidano radicalmente delle « novità ». In un ambiente così fatto si comprende come il teatro sia stato durante la guerra il più libero e vivo d’Europa. L’esule Bert Brecht vi ha fatto furore coi suoi drammi più umani, Mutter Courage..., replicato per 36 sere, e II buonuomo di Sezuan, lavori insieme epici e didattici in cui lo scheletro di cemento armato (dice la critica di qui) è addolcito da uno spirito di autentico primitivismo. Di Georg Kaiser49, rifugiato in Svizzera e morto poi ad Ascona, si è dato uno degli ultimi drammi, Il soldato Tanaka, che anche il pubblico italiano conosce; di Max Frisch, la speranza svizzera, si è rappresentato tempo fa con successo Il muro cinese, rivista fantasmagorica e ballo mascherato in cui fa la sua prima comparsa sulle scene la bomba atomica; e ai Festspiele non è mancato Claudel col Père humilié. Altro successo di due anni fa è II generale del diavolo dello Zuckmayer. Audace è la realizzazione scenica: in certi lavori del Brecht tutto si limita a scrivere su uno schermo: bosco, casa ecc., con notevole risparmio di spese per la scenografia. Anche in musica gli Svizzeri

45 L’angoscia è oggetto di un intenso dibattito filosofico dal momento in cui il pensatore danese Søren Kierkegaard (1813-1855) pubblica Begrebet Angest (Il concetto dell’angoscia) (1844). Secondo Kierkegaard, l’angoscia è lo smarrimento che travolge l’uomo quando si rende conto dell’indeterminazione della sua esistenza, ossia la consapevolezza che egli può dirigersi sia verso il bene che verso il male. Rifacendosi direttamente a Kierkegaard gli esponenti dell’esistenzialismo (cf. nota 43) riprendono il concetto. Karl Jaspers (1883-1969), filosofo tedesco, situa l’angoscia tra le ‘situazioni-limite’ dell’esistenza, ossia situazioni in cui l’uomo è consapevole della finitezza della sua esistenza. L’inaggirabiltà di questa situazione spinge l’uomo a rendersi conto che esiste qualcosa che lo trascende. Così l’angoscia esiste in due forme: l’angoscia di non-essere, ossia la paura del fatto che dopo la morte nulla rimane del nostro essere fisico, e l’angoscia di non esistenza, ossia la disperazione in mancanza della fede nella trascendenza. Martin Heidegger (1889-1976), filosofo tedesco, considera l’angoscia un’emozione di primaria importanza, perché in essa si può vedere la struttura fondamentale dell’esserci (dasein). Inoltre, in quanto turbamento di fronte all’indeterminazione e in quanto tremore di fronte alla morte, essa è fondamentale per la decisione anticipatrice della morte. (Treccani: voce angoscia). 46 Karl Barth (1886-1968), il più importante teologo svizzero novecentesco, insegna dal 1935 al 1962 teologia sistematica all’Università di Basilea, dove difende la causa della Chiesa confessante, movimento spirituale di opposizione al regime nazista, degli ebrei e delle minoranze oppresse in generale (CFBS: ad vocem). Konstantin Brunner (1862-1937), filosofo tedesco, pubblica nel 1908 Die Lehre von den Geistigen und vom Volk in cui identifica tre modalità del pensiero: il pensiero pratico, spirituali e analogico (CB: voce Biography). 47 Le opere di André Gide (1869-1951), scrittore francese, si caratterizzano per l’escapismo offerto dai piaceri e dall’affermazione dell’individualità sulla moralità collettiva. 48 Carl Jung (1875-1961) incomincia le sue attività all’inizio del Novecento nell’ospedale psichiatrico Burghölzi dell’Università di Zurigo, dove è un allievo di Eugen Bleuer (1857-1939). Nei primi anni della sua carriera condivide in larga parte il pensiero di Sigmund Freud (1856-1939), ma la pubblicazione di Wandlungen und Symbole der Libido (1912) ne segna il distacco (Treccani: ad vocem). 49 Georg Kaiser (1878-1945), esponente dell’espressionismo tedesco nel teatro, si rifugia nel 1938 in Svizzera poiché il regime nazista aveva proibito le sue opere a causa del loro forte senso antibellico (EB: ad vocem). In Der Soldat Tanaka (1940) condanna infatti il potere dittatoriale e il militarismo (Gassnet e Quinn: 350).

65 / 157 hanno qualche loro favorito come Heinrich Sutermeister che ha fatto rappresentare all'Opernhaus una Niobe e un Romeo e Giulietta con notevole successo, e con scarso esito una Tempesta, da Shakespeare. Musica, a quanto si dice, sinfonico-descrittiva senza grandi audacie. E s’intende che Peter Grimes di Britten e Mathias der Maler di Hindemith sono opere ormai arcinote qui. Si dà anche Tristano e Isotta, beninteso; ma al lato « teutonico » di Wagner molti guardano con preoccupazione. Per contrappeso ha avuto grande favore, al festival dell’anno scorso, il Pipistrello del vecchio Strauss (da non confondersi col popolarissimo Riccardo) e un pubblico enorme ha speso quaranta franchi per ascoltare in Tosca un tenore italiano di cartello.

(1947)

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VI. SPIRAGLIO

Il secondo testo su Ginevra, il primo della serie dedicata agli Incontri Internazionali, è pubblicato per la prima volta sul CdS del 26 settembre 1947 (Barile, n. 223). Si tratta del primo testo in cui, dopo le anticipazioni nelle prose precedenti, l’intellettuale e la riflessione sulla società vengono messi in primo piano. La necessità di «una piena rinascenza dello spirito», evocata attraverso il discorso di Marcel Prenant, e in contrapposizione alla crisi dello spirito evocata da Valéry nella prosa V, anticipa qui la prosa XII in cui essa verrà indicata come la strada da seguire per l’Europa affinché possa ridiventare una forza mondiale. La seconda parte della prosa assume un carattere marcatemente narrativo e soggettivo. In questa parte il testo riprende il filo del tema dell’Italia nel controluce della Svizzera o dell’Italia che si rispecchia nella Svizzera, tema già presente nella prosa IV e che tornerà tra l’altro nella prosa XI, attraverso l’opposizione ironicissima tra la Svizzera in quanto paese dove «non esistevano ladri (di biciclette)» e l’Italia dove «le biciclette non si possono lasciare incustodite» e dove la crisi dello spirito si lascia ancora sentire attraverso «i ferrovieri [che] [...] danno ancora del voi».

Mi trovavo in una incantevole e ordinatissima città straniera e assistevo alla seconda tornata di una serie di conferenze sui problemi più angosciosi del nostro tempo. Quella sera l’oratore ch’era salito sulla tribuna e cominciava il suo discorso era piccolo e carnacciuto e portava all’occhiello con visibile compiacenza la rosetta della Legion d’onore50. Un pubblico imponente non perdeva una sillaba della sua torrenziale facondia di francese del sud, origine rivelata in lui da una assoluta negligenza del classico arrotìo della erre51. Parlava dell’avvenire, di un avvenire forse prossimo in cui la scienza (la sua era la biologia) posta a servizio dell’uomo avrebbe ridotto ai minimi termini l’umana maledizione: il lavoro manuale, anzi il lavoro tout court. L’uomo futuro, assicurava il biologo, avrebbe lavorato tutt’al più un’ora al giorno, dedicando agli ozi spirituali, alle arti, ai loisirs, le altre ventitré ore quotidiane a lui riservate. Il problema più importante che si sarebbe aperto in questa nuova fase dell’umanità era quello dell’organizzazione razionale dell’otium, per impedire a questo di riuscir nocivo alla collettività e all’individuo stesso. Una élite di scienziati, di psicologi e di artisti avrebbe provveduto proficuamente alla bisogna, sottraendo ogni ozio particolare ai pericoli di una scelta antisociale, individualistica. Un’ora di lavoro al giorno, e poi una piena rinascenza dello spirito, sans bornes, senza ostacoli... Non nella società attuale, beninteso, dove il lavoro è sfruttato e dove

50 Il testo è dedicato al secondo turno delle Rencontres Internationales di Ginevra, svoltesi dal 1 al 13 settembre 1947. L’oratore è Marcel Prenant (1893-1983), scienziato e ufficiale della Legion d’Onore, che parla il 2 settembre del Progrès humain vu par un biologiste (Baconnière 1947: 22-53; Charle e Telkes: 235). Gli atti degli Incontri del 1947 sono consultabili via http://classiques.uqac.ca/contemporains/RIG/textes/RIG_02_1947.pdf. 51 L’accenno all’accento di francese del sud è curioso visto che Prenant è originario di Champigneulles nel Nord- Est della Francia (Charle e Telkes: 235).

67 / 157 le fonti della produzione sono raccolte in poche mani (applausi, commenti) ma in una società senza classi, dove ogni cittadino sarà primo (e ultimo) inter pares. Incoraggiato, l’oratore prospettò i pericoli che i recenti progressi della genetica facevano temere in una collettività distinta in classi: il pericolo, soprattutto, che il mondo dei possidenti « costruisca » artificialmente un tipo di uomini inferiori, a un livello suppergiù dei boscimani, per legarli alla gleba e tenerli in istato di perenne schiavitù; e illustrò, per converso, la possibilità - in un mondo redento - che l’eugenetica ottenga, sperimentalmente e da ultimo forse in vitro, un tipo di uomo superiore, selezionando cellule riproduttrici di individui particolarmente dotati di energie fisiche e spirituali. (Applausi e mormorii.) Da una pépinière52, vulgo semenzaio, ben preparata qualche nuovo Eufurione sarebbe sorto, a conforto di tutti53. Si sarebbe, naturalmente, cominciato con una produzione piuttosto scarsa; il primo passo è sempre il più difficile. Ultimo anello dell’evoluzione della scimmia, scimmia – diventata - uomo e perciò uomo e non più scimmia, l’uomo futuro sarebbe stato l’oggetto massimo e il prodotto fondamentale della scienza dell’avvenire. Mentre un torrente di cortesi applausi sommergeva l’oratore, uscii lentamente dalla sala e discesi fino alla riva del lago attraversando la città vecchia, un delizioso scenario di cartone, di falsi lumi da ribalta. Passeggiai fino a tardi, poi salii verso i bastioni, mi addentrai nei giardini dell’Università e pochi minuti dopo ero a letto, coperto dal soffice piumino messo a mia disposizione da una solerte affittacamere bernese. Ero ancora tranquillo, ma il guaio cominciò la mattina successiva, al sorger del sole. Mi svegliò un tinnulo concentrato di fischietti, di pifferi arguti e di altri strumentini, un’armonia ineffabile che riempiva l’aria ancor fredda; alle prime battute altre ne successero, di clavicembalo, non meno astratte e suggestive. Una musica spoglia e rarefatta, di paradiso. Prima Bach, poi, forse, Vivaldi. Mi alzai e vidi in una camera della casa opposta un uomo in pigiama (probabilmente il suscitatore di quella musica in scatola) esercitarsi a movimenti di ginnastica ritmica col noto sistema Jacques Dalcroze54. Sul tetto si spollinavano pigramente alcuni gabbiani del lago spintisi fin lassù. In basso, sul marciapiedi, erano allineate le biciclette degli inquilini. Ero solo in un Paese dove non esistevano ladri (di biciclette) e forse l’êra degli ozi fecondi cominciava anche per me. Per me e per tutti. Quanta musica, quanta poesia, quanta e quale poesia e ginnastica si aprivano dinnanzi all’umanità redenta! Non ne sarebbe derivata una svalutazione delle arti, una sconsacrazione di tutte le libere e disinteressate facoltà dello spirito? Alla maledizione del lavoro non avrebbero fatto seguito i lavori forzati dell’ozio pianificato e regolato manu militari? E gli uomini e le donne esclusi da ogni apporto personale alla manifattura dei nuovi Eufurioni - esclusi per indegnità fisica o morale - come avrebbero riparato a quella diminuzione del loro prestigio, in quale sottospecie dell’attività umana avrebbero trovato pace e conforto? « Ultimo anello ecc., scimmia diventata uomo e non più scimmia... » Ammazzalo!

52 Pèpinière è la parola francese per vivaio. L’eugenetica, sviluppatasi nella Germania nazista, mirava infatti all’applicazione degli incroci selettivi nell’allevamento dell’essere umano per sviluppare le qualità innate di una razza (Treccani: voce eugenetica). 53 Eufurione, semidio della mitologia classica, figlio di Achille e Elena (BO: ad vocem) 54 Emile Jaques-Dalcroze (1865-1950), professore di teoria musicale, sviluppa una ginnastica ritmica basata sulla percezione corporea della musica. Il metodo Dalcroze ha influenzato in modo decisivo l’educazione musicale (DSS: ad vocem).

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L’incubo durò tutta la giornata; ma il giorno successivo varcai il Sempione e mi ritrovai in un Paese dove le biciclette non si possono lasciare incustodite e dove i ferrovieri vi danno ancora del voi, memori, ahimè, del recente passato piuttosto che protesi verso la palingenesi dell’uomo- scimmia55. Il primo amico che incontrai, un industriale molto progressista, al quale espressi i miei dubbi sulla possibilità di ridurre il lavoro a un’ora al giorno, si rabbuiò e scosse il capo, « Sciocchezze - disse. - Due ore saranno sempre necessarie ». Più tardi ne parlai a un grande banchiere, il quale fu anche più pessimista. « Utopie - dichiarò. - Non si potrà scendere al disotto di tre ore ». Alludeva però ai lavori pesanti; nel suo mestiere, aggiunse, tutto poteva essere questione di minuti.

(1947)

55 Il fascismo impone l’uso del voi come forma di cortesia poiché l’uso del lei è un forestierismo spagnolo (ADC: voce Gli allocutivi di cortesia).

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VII. CENTO MEDICI AL CAPEZZALE DELL’ARTE CONTEMPORANEA

Il settimo testo della collezione, pubblicato per la prima volta sul CdS del 14 settembre 1948 (Barile, n. 255), è il primo dei tre testi che risalgono al 1948. La prosa, la terza ambientata a Ginevra, riprende e sviluppa diversi fili tematici. Innanzitutto Ginevra viene ritratta come città-fantasma che è al contempo «vasta e raccolta, periferica e internazionale, moderna e insieme fedele a suo vecchio e illustre ceppo», così ritornando sull’immagine della Svizzera come unione degli opposti. Poi la centralità e l’importanza dell’intellettuale sono messe in evidenza attraverso la descrizione degli «otto conferenzieri ufficiali [...] [che tengono i loro discorsi] alla presenza di un pubblico eccezionale». Gli intellettuali inoltre svolgono alla Maison des Arts discussioni che riassumono «la vita spirituale europea [...] [e] il paesaggio psicologico [del] tempo» e che indicano l’arte e la scienza come possibilità per raggiungere la rinascenza dello spirito. Anche se si notano già le prime critiche allo statuto dell’intellettuale («le discussioni che vi si svolgono non sempre approdano a tangibili risultati»), il vero punto di svolta viene raggiunto solo nella prosa XI. Per ora il giornalista conclude che «le rencontres hanno, come suol dirsi, attaccato e daranno frutti».

La terza sessione degli « Incontri Internazionali » di Ginevra è terminata da poche ore. Per dieci giorni si è discusso sull’arte contemporanea, sui suoi problemi, sui suoi indirizzi56. Otto conferenzieri ufficiali, un centinaio fra critici, commentatori e obiettori di coscienza si sono succeduti sul piccolo palcoscenico della « Maison des Arts », alla presenza di un pubblico eccezionale. Gli Incontri di Ginevra sono ormai una istituzione stabile che non ha precedenti, qualcosa che sta fra il Festival di Salisburgo e le riunioni prebelliche di Pontigny57. La loro singolarità è che essi non si risolvono in una mera esibizione di snobismo intellettuale. Il loro clima è autentico, anche se le discussioni che vi si svolgono non sempre approdano a tangibili risultati. Se fra qualche secolo fosse difficile comprendere qual era la vita spirituale europea negli anni di grazia 1946-47-48, i volumi della Baconnière nei quali tutte le conferenze e tutti gli interventi sono o saranno inclusi basterebbero da soli a offrire allo studioso futuro un perfetto « spaccato » del paesaggio psicologico dei nostri tempi. Forse solo in una città come Ginevra, vasta e raccolta, periferica e internazionale, moderna e insieme fedele a un suo vecchio e illustre ceppo, forse solo in una piccola capitale di provincia dove prospera una trentina di psicanalisti

56 La terza edizione delle Rencontres Internationales di Ginevra si svolge dal 1 all’11 settembre 1948. Per gli atti degli Incontri di 1948 si veda: http://classiques.uqac.ca/contemporains/RIG/textes/RIG_03_1948.pdf. 57 A partire dal 1920 il Festival di Salisburgo si è affermato come uno dei festival più importanti di opera e musica. Les décades de Pontigny sono una serie di incontri tra intellettuali europei, tenutisi dal 1910 al 1939 e organizzati dal filosofo Paul Desjardins (1859-1940) (Chaubet: 36-44 ).

70 / 157 e dove hanno vita misteriosi (per noi profani) istituti come l’O.N.U., l’I.R.O., l’O.M.S.58 ed altri ancora che bastano a occupare coi loro funzionari tutti gli alberghi qui esistenti, forse solo in una deliziosa città-fantasma come questa è possibile concepire il successo di una iniziativa tanto rischiosa. La prima tornata, quella del ’46, aveva visto svolgersi intorno al tema « Lo spirito europeo » un duello fra l’esistenzialista Jaspers e il marxista Lukàcs che a Ginevra rimarrà memorabile. Nella serie del ‘47 erano scesi in lizza sull’argomento proposto (progresso tecnico e progresso morale) liberali cattolici razionalisti idealisti e spiritualisti vari (Siegfried, Berdiaeff, De Ruggiero, Mounier)59 contro una piccola ma tumultuosa « équipe » di teorici del progresso come lo intendono i marxisti puri (Prenant, Hervé)60 o i paracomunisti (Friedmann)61. Quest’anno, portata la discussione sull’arte contemporanea, la lotta è stata meno aspra, ma l’interesse non è mancato mai. Il dibattito non era naturalmente affidato al caso, ma seguiva una traccia prestabilita. Ha aperto il fuoco un indipendente di sinistra, Jean Cassou, il quale ha insistito sul tragico divorzio che si è creato fra gli artisti e la società borghese di oggi, ch’egli giudica in piena decomposizione e indegna di sopravvivere62. Da questa scissione nasce il ripiegamento dell’artista su se stesso, l’esasperata ricerca di uno stile torturato, bizzarro, troppo voluto, che non somiglia per nulla allo stile calmo, acquisito e apparentemente quasi impersonale della grande arte. Un Rubens modello - perfetto del pieno accordo fra l’artista e la società - sarebbe oggi impensabile. L'artista moderno sogna un ritorno alla tecnica quasi artigianesca delle grandi epoche. Gli « ismi » dell'ultimo cinquantennio indicano un punto di crisi ormai insostenibile. Solo una società più giusta, una società ordinata secondo i principi del socialismo, potrà restituire all’artista il suo posto di uomo tra gli uomini. Ma l'esempio scelto era dei meno probanti, come rilevò subito Lionello Venturi, perché è difficile stabilire un legame fra la torbida età di Rubens e l’arte rigogliosamente felice del grande fiammingo. Ernest Ansermet63, secondo referendario sullo « status » dell’arte d’oggi, è venuto di rincalzo con una interpretazione piuttosto pessimistica dei recenti fenomeni dell’arte musicale. Cacciato dalla musica il « pathos » romantico, ne è stato espulso anche l’« ethos »; la musica si è fatta

58 Le sigle sono rispettivamente quelle dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, dell’International Refugee Organization e dell’Organizzazione mondiale della sanità. 59 André Siegfried (1875-1959), politologo francese, tiene il primo settembre 1947 una conferenza intitolata Historique de la notion de progrès (Treccani: ad vocem; Baconnière 1947: 5-21). Nicola Berdjaev (1874-1948), filosofo della religione, parla il 4 settembre de L’homme dans la civilisation technique (Ibid: ad vocem; Baconnière 1947: 77-129). Il discorso di Guido De Ruggiero (1888-1948), professore di storia della filosofia, dell’8 settembre, è intitolato La fin et les moyens (Treccani: ad vocem; Baconnière 1947: 130-152). Emmanuel Mounier (1905- 1950), filosofo e pubblicista francese, parla il 13 settembre de Le christianisme et l’idée de progrès (Baconnière 1947: 213-265). 60 Del discorso di Prenant si legge un resoconto complessivo nella prosa precedente. Pierre Hervé (1911-1996) è un romanziere francese che si concentra nei suoi romanzi satirici sui problemi familiari (EB: ad vocem). 61 Georges Friedmann (1902-1907), sociologo francese, si occupa nei suoi studi, come Problèmes humaines du machinisme industriel (1946) e Où va le travail humain (1951), dei problemi della tecnica e del macchinismo e delle loro conseguenze umani e sociali (Treccani: ad vocem). 62 Jean Cassou (1987-1986), conservatore capo del Museo nazionale d’arte moderna di Parigi tra il 1946 e il 1965, tiene il 1 settembre 1948 una conferenza intitolata La situation de l’art contemporain (Baconnière 1948: 6-26; Treccani: voce ad vocem). 63 Il discorso di Ernest Ansermet (1883-1969), direttore dell’Orchestre de la Suisse Romande, si tiene il 2 settembre ed è intitolato L’expérience musicale et le monde d’aujourd’hui (Baconnière 1948: 27-71; Treccani: ad vocem).

71 / 157 puramente visiva o matematica. Ricco di spunti metafisici, prolisso ma capace di tener testa a una platea anche come oratore, Ansermet ha vivisezionato crudamente Stravinskij e Schönberg, puntando sui valori umani di pochi altri musicisti, da Hindemith ad Alban Berg che fu artista superiore alle strettoie del sistema dodecafonico da lui praticato. Thierry Maulnier64 si è fermato sulla situazione pratica degli artisti d’oggi, ch’egli giudica invidiabile. Chi parla di divorzio? La società moderna paga lautamente gli artisti che la vilipendono e la sputacchiano (da Picasso a Sartre) e si riconosce in essi. Viviamo in un’età d’oro per gli artisti rivoluzionari. Il nostro tempo è contrassegnato dal culto della velocità e della tecnica. L'arte s’è fatta stenografica, gli artisti non si illudono più di creare opere durevoli. La malattia è universale e Maulnier, uomo di destra, ha concluso con un « rappel à l'ordre » piuttosto generico dato che anche per lui non è possibile, in arte e in politica, fare un passo indietro. In difesa dell’arte moderna (che per lui vuol dire soltanto cubismo e surrealismo) ha parlato Max-Pol Fouchet65. Nella sua esagitata concione il direttore di Fontaine ha voluto presentarci i surrealisti come gli aruspici e gli sperimentatori di un nuovo senso del sacro. Morto Dio (ciò che per il signor Fouchet è una verità lapalissiana) gli si sostituisce l’uomo ribelle, l’evaso, il candidato al suicidio. Nella discussione si è parlato di paranoia collettiva, di ateismo prometeico, di consacrazioni e dissacrazioni, di magia nera e magia bianca. E un intervento di Charles Morgan ha ridotto a più modeste proporzioni il vantato ateismo di William Blake. A questo punto si è fatta viva la scienza. Con eleganza e misura Adolphe Portmann66, l’illustre biologo di Basilea, ci ha detto che la funzione estetica è primaria nell’uomo, non dedotta, nasce con l'uomo stesso, e che l’arte di oggi conosce giustificazioni ma non trionfi collettivi. Nell’uomo moderno tale facoltà dissociata dalle altre per effetto del travolgente meccanicismo (fatto nuovo nella storia) rischia di essere attutita o di perdersi affatto. Qui la scienza conferma certe intuizioni leopardiane. È possibile in questo senso, e non nel senso di Hegel, pensare a una futura scomparsa dell’arte. Solo con una rieducazione collettiva che durerà secoli l’« homo faber » e l’« homo divinans » potranno riunire armonicamente le loro facoltà; solo allora l’uomo futuro potrà essere « aussi grand dans sa pensée que dans son rêve ». Parole che hanno segnato uno dei più alti punti di commozione degli Incontri. Alla domanda se l’artista debba o non debba impegnarsi politicamente (s'engager) dovevano rispondere due oratori. Il rappresentante italiano, Elio Vittorini67, simpaticamente presentato da Henri de Ziégler, ha impostato il problema in un senso che chiamerei liberal-comunista, affermando che l’artista, in quanto tale, è soprattutto impegnato nell’arte sua. Fra un « pompier » che abbia in tasca una tessera « progressista » e un vero creatore che resti estraneo alla politica la scelta non è dubbia. L’arte è una forma particolare di conoscenza e non è ammissibile che le sue chiavi siano affidate ai politici che « conoscono » il mondo in ben altra maniera. Un sussulto

64 Thierry Maulnier (1909-1988), scrittore e critico letterario francese, parla il 3 settembre della Situation de l’art contemporain (Baconnière 1948: 72-99; Treccani: ad vocem). 65 Max-Pol Fouchet (1930-1980), poeta e critico d’arte, tiene il 4 settembre un discorso intitolato Signification de l’art contemporain (Baconnière 1948: 100-125). 66 Adolf Portmann (1897-1982), biologo e antropologo svizzero, tiene il 6 settembre il discorso L’art dans la vie de l’homme (Baconnière 1948: 126-152; Treccani: ad vocem) 67 Il discorso di Elio Vittorini (1908-1966) del 7 settembre è intitolato L’artiste doit-il s’engager? (Baconnière 1948: 153-179).

72 / 157 della storia, una rivoluzione potranno interrompere temporaneamente l’attività di un artista, magari sviarla verso forme di propaganda, ma una rivoluzione deve essere di breve durata, non ci si può installare in permanenza nella rivolta, non si può trasformare il terremoto in una « routine ». Tesi che ha raccolto molti applausi ma non è piaciuta alla Voix ouvrière e allo zelante staliniano Sokoline che l’ha combattuta con frementi parole. Pallido, emunto, agitato, fra le approvazioni delle sue ammiratrici, Charles Morgan68 ha difeso contro la tirannia delle « sinistre » la libertà assoluta e incondizionata dell’artista, del creatore che comunica direttamente con Dio e con poche anime gemelle. Purtroppo i suoi argomenti (anche se in parte ammissibili) erano ammantati di tanta retorica che ha avuto buon gioco il suo compatriota Herbert Read nel dissodalizzarsi da lui (la bella parola è tornata più volte negli Incontri) e nel ricordare la parola di Paul Klee: « Ci vuole un popolo per l’artista ». Ultimo degli otto oratori designati, Gabriel Marcel69, corrucciato, insinuante e un po’ mefistofelico, con la « moustache » spiovente e la mosca brizzolata, rileva la mancanza di totalità che contrassegna gran parte dell’arte contemporanea. Il processùs non giunge al consensùs (pronunciate alla francese). Cattolico ed esistenzialista, ma ribelle alle etichette, egli vede il fatto artistico come qualcosa che trascende se stesso. La cosmicità crociana raggiunge qui significati religiosi, ma apre la finestra ai pericoli dell’intellettualismo. Marcel lo sa e diffida delle ricerche astratte, l’arte che egli sogna è semplice e concreta, umana e pienamente legata alla società degli uomini. Oggi mancano le condizioni obiettive per una tale arte, il teatro drammatico è in piena crisi e solo il pubblico presuppone in modo assoluto il contatto col pubblico. Forse dal cinema risaliremo alle altre arti, forse non risaliremo a nulla. Una società socialista di per sé sola non contiene le condizioni sufficienti ad un rinnovamento artistico. Quali altre condizioni occorrono? Marcel si sforza di dirlo, ma la sua fede lascia supporre una più chiara indicazione. D’altronde, egli conclude, i filosofi non sono dei profeti. Tutte qui, le « Rencontres »? Ho dato un pallido riassunto di uno spettacolo che è stato vivo. Se n’esce carichi di dubbi e di fermenti, segno che lo scopo non è andato fallito. Quest’anno il mito dell’« art parisien » è uscito un po’ spennacchiato, per merito soprattutto degli interventi italiani, fra i quali notevoli quelli di Ungaretti e di Ferrata. Di più non si poteva fare in terra quasi francese. Pieni di umanità gli interventi di Marcel Raymond, Boris de Schloezer, Jean Wahl, Jean Lescure e di tanti altri70. Ho lasciato nella penna la cornice degli Incontri, il Cinna di Cornéille messo in scena da Dullin, l’Arianna di Bartok diretta da Ansermet, un magnifico concerto diretto da Hindemith e una visita al Château de Coppet che ha pacificato e riunito tutti gli invitati. Le « Rencontres » hanno, come suol dirsi, attaccato e daranno frutti. Costano qualche soldo ai contribuenti

68 Il discorso dello scrittore inglese Charles Morgan (1894-1958) dell’8 settembre, è intitolato L’indépendance des écrivains (Baconnière 1948: 180-199; Treccani: voce ad vocem). 69 Gabriel Marcel (1889-1973), filosofo e scrittore francese, tiene il 9 settembre una conferenza intitolata Les conditions d’une rénovation de l’art (Baconnière 1948: 200-244; Treccani: ad vocem). 70 Marcel Raymond (1897-1981), professore di letteratura francese a Ginevra dal 1936 e fondatore della scuola di Ginevra (cf. nota 25), fa dell’esperienza soggettiva il centro del proprio lavoro critico (Treccani: ad vocem). Boris de Schloezer (1881-1969) è un critico musicale che si è dedicato soprattutto allo studio di Skrjabin e di Strawinsky (Treccani: ad vocem). Jean Wahl (1888-1974), storico della filosofia, è noto principalmente per studi sull’esistenzialismo (cf. nota 43) come Études kierkegaardiennes (1938) e La pensée de l’existence (1951) (Treccani: ad vocem). Jean Lescure (1912-2005), scrittore francese, è uno degli esponenti principali dell’Oulipo, ovvero Ouvroir de littérature potentielle, che mira all’esplorazione delle potenzialità formali e strutturali della letteratura (Treccani: voce Oulipo).

73 / 157 ginevrini, ma tengono alto il nome di una città che, dopo essere stata la culla dell’intolleranza, è ora una palestra di liberalismo. Per esse si creano amicizie durevoli, in un clima che resiste ad ogni sospetto di ridicolo. Per esse molti uomini imparano a stimarsi, magari a disistimarsi, ma con conoscenza di causa e senza fiele; e imparano soprattutto a diffidare delle frasi fatte e delle idee ricevute. Per esse la città degli orologi e delle essenze sintetiche, che pur fu una delle capitali del Romanticismo e resta l’anima del soccorso e dell’assistenza internazionale, si ricongiunge al suo grande passato e tiene fede a quel genio universalistico, profondamente civile, che ha saputo conquistare a prezzo di tanti sussulti e di tante prove.

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VIII. DUE PICCOLI IMMORTALI

Direttamente dopo la prosa dedicata alla riflessione intorno all’arte contemporanea, la raccolta ne contiene una nuova dedicata allo stesso tema e ambientata ancora a Ginevra. Il testo, pubblicato sul CdI del 21 settembre 1948 (Barile, n. 258), incomincia con una frase che al contempo illustra l’importanza dell’intellettuale – ce ne sono riuniti «una buona centuria» – e ironizza sulla sua figura: «mi scuso della parola ma non ne trovo un’altra». Il discorso sull’arte e, in quanto effetto della disposizione in sequenza dei testi, sulla rinascenza dello spirito si spinge qui indietro nel tempo. La descrizione dell’arte di Liotard e Füssli serve come pars pro toto per una riflessione a un livello superiore. In quanto «due tipici settencentisti, due cosmopoliti curiosi e irrequieti, due caratteristici esponenti di un secolo illuminista», i due pittori evocano gli ideali dell’età dell’Illuminismo, tempo del cosmopolitismo che combatte contro il nazionalismo e simbolo della convivenza e comprensione fra popoli, culture e religioni diversi. Si tratta insomma del tempo in cui si riconoscono i fattori che possono rivitalizzare l’Europa. L’Illuminismo si aggiunge pertanto alla Svizzera come esempio da seguire per l’Europa dell’immediato secondo dopoguerra.

L’altro giorno, aux Eaux Vives, in un banchetto che riuniva una buona centuria di intellettuali (mi scuso della parola ma non ne trovo un’altra) il consigliere di Stato Albert Picot ricordò che la città di Liotard che li accoglieva non è affatto una Beozia dal punto di vista delle arti. Era dunque per me una buona occasione per fare la conoscenza di un pittore del quale conoscevo solo, in tricromia, la Petite chocolatière che appartenne all’Algarotti71. Qui al Museo d’Arte e Storia a Liotard s’accompagna anche un altro maestro del Settecento svizzero, il Füssli, e l’invito era perciò anche più tentatore. Si tratta di una mostra che un comitato cittadino ha trasportato, riorganizzandola e arricchendola di molti pezzi, dall'Orangerie di Parigi, dov’era stata allestita sotto gli auspici del dr. Burckhardt, ministro della Svizzera in Francia, un diplomatico letterato che ha un’eccezionale formazione artistica, degna del nome che porta. (E infatti un discendente di colui che la Svizzera chiama « il grande Burckhardt»)72. E basta questo nome a indicare il pregio di una manifestazione che forse non si ripeterà mai più. Liotard, Füssli, due nomi poco noti da noi. Niente di grave, intendiamoci, nella nostra ignoranza. La patria di Keller, di Gotthelf e del più recente Spitteler (ometto il nome di Gian

71 Francesco Algarotti (1712-1764), tra i maggiori letterati italiani del Settecento, compra a Venezia La Belle Chocolatière di Liotard per conto di Maria Teresia d’Asburgo (Rijksmuseum: voce Graaf Francesco Algarotti, Jean-Etienne Liotard, 1745). 72 L’esposizione Jean-Etienne Liotard 1702-1789 / Johan-Heinrich Füssli, si tiene prima al museo dell’Orangerie a Parigi dall’aprile al giugno 1949 ed è curata dal ministro Carl Jacob Burckhardt (1891-1974). La mostra è poi riproposta su iniziativa di Pro Helvetia dal 10 luglio al 12 settembre 1948 nel Museo d’Arte e di Storia a Ginevra (DSS: voce Burckhardt, Carl Jacob).

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Giacomo, troppo universale) ha prodotto nell’evo moderno insigni opere poetiche ma non ragguardevoli opere di pittura, a meno che non si voglia sopravvalutare un Hodler o negare la formazione internazionale di un Paul Klee73. In Liotard e Füssli non cercheremo dunque altezze d’arte ma significati di documento. Sono due tipici settecentisti, due cosmopoliti curiosi e irrequieti, due caratteristici esponenti di un secolo illuminista e spesso illuminato. Fate che passi un soffio di genio in quel tempo e nascerà il Flauto Magico o più modestamente La bottega del caffè74. Fate che invece prevalgano le ricette di cucina, le piccole tradizioni locali o il peso di una tradizione mal compresa e già schiacciante, e avrete le evasioni di Liotard e Füssli, in due opposte direzioni. Giovanni Stefano Liotard (1702-1789) era francese e figlio di Ugonotti. Si formò a Ginevra in un ambiente poco favorevole, dove i soli artisti notevoli erano miniaturisti e pittori di smalti. E miniaturista e pastellista della scuola di Rosalba Carriera egli rimase tutta la vita, anche quando dipinse a olio75. Visse a Parigi, poi in Italia, india Costantinopoli e a Vienna dove ritrattò Maria Teresa (Voltaire, Fontenelle e persino Clemente XII avevano già posato per lui). Passò poi a Londra e ad Amsterdam dove si sposò a 34 anni sacrificando la sua lunga barba e continuò a viaggiare e a dipingere in mezzo mondo. Nel 1778 riceve la visita dell’Imperatore Giuseppe II, torna a Vienna, ma non trova il successo di un tempo76. Rieccolo allora a Ginevra dove muore nel 1789, alla vigilia della Rivoluzione. La sua pittura squisita e secca fa pensare al suono di una spinetta, manca di corpo e di volume e ignora i toni vellutati di un Gaston Latouche77. Solo in qualche natura morta di frutta il vecchio ceramista riesce a far vibrare le fibre della materia. Ma come fotografo del suo tempo Liotard - pur senza il dono dell’ironia o forse col solo dono di una sottile malvagità verso i suoi illustri modelli - può stare accanto al Parini del Giorno e ha diritto a quella immortalità di secondo ordine, da « storia della cultura », che spesso è la più durevole. Vanitoso come tutti i barbuti, credette di essere un genio, ridusse l’arte a mestiere ma la storia è indulgente verso gli uomini che le servono. Nell’eternità provvisoria delle schede e dei musei si può entrare anche per la porta di servizio. Il caso di Hans Heinrich Füssli è più interessante. Zurighese, discendente da una dinastia di pittori, conobbe fin da ragazzo Winckelmann in un periodo in cui Zurigo era detta « l’Atene della Limmat »78. Poliglotta, ecclesiastico mancato, amico di Lavater e di Pestalozzi, si recò a

73 Gottfried Keller (1819-1890): pittore e poeta zurighese (DSS: ad vocem). Jeremias Gotthelf (1797-1854): romanziere bernese (Ibid: ad vocem). Carl Spitteler (1845-1924): premio Nobel per la Letteratura nel 1919 (Ibid: ad vocem). Ferdinand Hodler (1853-1918): pittore ginevrino (Ibid: ad vocem). Paul Klee (1879-1940): pittore ed esponente dell’astrattismo (Ibid: ad vocem). 74 Sono i titoli di capolavori settecenteschi: Die Zauberflöte (1791) di Mozart e La bottega del caffè (1750) di Goldoni. 75 Rosalba Carriera (1675-1757) è una ritrattista famosa per la sua predilezione per la tecnica del pastello (Treccani: ad vocem). 76 Giuseppe II d’Asburgo (1741-1790) è figlio di Maria Teresa e imperatore del Sacro romano impero dal 1765 al 1790 (Treccani: ad vocem). 77 Gaston Latouche (1854-1913), impressionista francese, utilizza principalmente toni caldi per i suoi quadri che rappresentano paesaggi poetici, come les Cygnes (1898), e scene galanti e fantastiche, come l’Accouché (Larousse: ad vocem). 78 Giuseppe Francesco Baruffi (1801-1875) definisce Zurigo in Pellegrinazioni autunnali ed opuscoli (1840) come «l’Atene dell’Elvezia, pei suoi numerosi ed eccellenti istituti e per le tante variate società scientifiche e di pubblica utilità» (Baruffi: 97).

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Londra nel 1764, all’età di ventitré anni. Dapprima letterato e traduttore, frequentatore e poi discepolo di Sir Josua Reynolds, si dedicò sempre più al disegno e alla pittura79. Dopo un soggiorno di otto anni a Roma tornò a Londra dove lavorò per più di quarantanni e dov’è seppellito nella cattedrale di San Paolo, accanto a Sir Josua. Morì celebre, nel 1825. Füssli è il precursore della pittura maledetta, o se volete angelica, di William Blake, l’iniziatore di un titanismo da vignetta che ha fatto fortuna. Onorato in vita, membro della Royal Academy (Liotard non era giunto a tanto) egli cadde dopo la morte nel più nero discredito, tanto che Charles Blanc nella sua Histoire des Peintres poteva scriver di lui: « Ce Suisse de l’Académie anglaise, ce rivai de Buonarroti a les qualités d’un journaliste français. Il fait plus de bons mots que de bons tableaux ». All’estetica di Winckelmann egli non deve nulla: il corpo umano che egli glorifica è spesso un groviglio di membra mostruose illuminate da una luce teatrale e da una fantasia libresca, di seconda mano. In ogni modo, anche il michelangiolesco fallito Füssli non sarà cacciato facilmente dai manuali di storia dell’arte e dalle cronache del preromanticismo. Si deve a lui, a Blake e ai preraffaelliti, si deve alla riduzione all’assurdo della tradizione praticata da simili neoclassici sviati se i loro successori apriranno le finestre alla luce e alla verità. Per coloro che studiano, o studieranno, il mito della morte, della carne e del diavolo all’alba del romanticismo, Füssli sarà sempre un documento, una testimonianza di valore inapprezzabile80. Tuttavia, aveva ragione Albert Picot a non parlarci di lui e a limitarsi al nome dell’onesto quasi ginevrino Liotard. L’anima svizzera (e direi nemmeno l’anima inglese) non può riconoscersi profondamente nel satanismo a buon mercato dell’illustratore Füssli, padre già corrotto di corrottissimi figli.

(1948)

79 Johann Kaspar Lavater (1741-1801): filosofo celebre per gli studi sulla fisiognomica (DSS: voce ad vocem). Johann Pestalozzi (1746-1827): pedagogista che sviluppa un proprio metodo educativo (Ibid: ad vocem) Sir Joshua Reynolds (1723-1792): pittore inglese i cui ritratti si sviluppano gradualmente dalla rappresentazione oggettiva a uno stile più fantastico (Treccani: ad vocem). 80 La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica (1930) è un libro in cui il critico letterario Mario Praz (1896-1982) traccia un percorso fra i temi fondamentali della letteratura ottocentesca.

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IX. LA CONTESSA DI SARRE

La prosa è pubblicata per la prima volta con il titolo ‘Una striscia di luce’ sul CdS del 28 settembre 1948 (Barile, n. 259) ed è poi riedita in ‘Fuori di casa’ con il titolo ‘La contessa di Sarre’, adottato anche da Fabio Soldini quando raccoglie gli scritti in un unico volume. La nona prosa della raccolta è la prima di quattro interviste – ne seguono altre con Francesco Chiesa (prosa XVI), Anthony Van Hoboken (prosa XXI) e Montale stesso (prosa XV). Il resoconto dell’intervista, preceduto da un cappello introduttivo in cui domina l’ironia, serve per svolgere un discorso sulla cultura e sull’arte italiana. Dopo la focalizzazione sulla tensione tra paese reale e paese da etichetta delle prose precedenti, il focus si sposta qui su quella italiana, così come nella prosa XIII, e fornisce la chiave di lettura della raccolta che deve essere letta «con una passione non scevra di qualche distacco». Maria-José di Savoia si raffigura come simbolo dell’attrazione dell’Italia per gli stranieri, un’attrazione che si forma a partire dallo stereotipo dell’Italia in quanto paese di «mandolinisti cenciosi, di pittoreschi mendicanti, di prestigiosi ma un po’ furfanteschi cerretani», ovvero l’Italia rusticana, rappresentata dalle opere di Silone, Rossellini e Levi. La prosa partecipa anche al tema dell’importanza dell’intellettuale nella società. La conversazione tra Maria-José e il giornalista tratta infatti delle discussioni svolte agli Incontri, il che è indicatore del fatto che se ne parla e del fatto che il pubblico si interessa a tali discussioni.

Non sono un collezionista di sovrani, com’era il mio compianto amico Placci che li conosceva tutti e di tutti poteva dirsi l’amico o il confidente o l’ospite di turno, devoto e disinteressato. Il messicano-fiorentino-oxoniano Carlo Placci non avrebbe potuto vivere senza sentirsi parte della haute internazionale e chi lo chiamò il ministro italiano degli affari inutili fece gran torto a una vocazione sincera e tutt’altro che infruttuosa81. Anche la potestà delle chiavi ha la sua importanza, in questo mondo, ed è bene che le chiavi siano in buone mani. È un fatto però che in quella maratona interminabile ch’è la vita d’alto bordo, la vita socialmente d’eccezione, molti sono i partenti e pochi gli arrivati. Conscio di possedere scarse riserve di fiato non mi sono mai messo per quella via, e solo una volta, a Ginevra, ebbi l’onore di essere presentato a un futuro sovrano: il principe ereditario del Marocco, che aveva allora sei anni e si divertiva a giocare a punch-ball coi cappelli a melone degli ufficiali in borghese del suo seguito. Ufficiali francesi,

81 Carlo Placci (1861-1941) è un nobile italiano che ha viaggiato per tutta l’Europa, immergendosi nella vita mondana dell’epoca (OR: ad vocem).

78 / 157 pochissimo lusingati dello sport preferito da quel moccioso color cacao che li minacciava con un ditino sporco, sul quale brillava un diamante grosso come una noce. Ginevra deve portarmi fortuna perché stavolta ho fatto un bis. Non un futuro sultano ho avvicinato ma un’ex-sovrana. Il mio è come un tiro a forcella, procede per approssimazioni. Prima colpivo troppo in qua, ora troppo in là; quando farò centro sarò presentato al re dei re: forse a Giorgio VI, forse a Stalin. In attesa la sorte non poteva essermi più benigna. Sono nella villa di Merlinge, presso Meunier, ospite per un paio d’ore della contessa di Sarre82. Per due stagioni successive, nella serie di manifestazioni promosse dalle Riunioni Internazionali di Ginevra, l’avevo notata con sorpresa, presente ai concerti di Ansermet, immancabile alle conferenze degli Italiani: una signora alta, ancora giovane, straordinariamente composta e raccolta nell’atteggiamento, maestra nell’arte di entrare o di evadere dalla grande aula dell’Università senza farsi notare. Era lei, non era lei? - La penserosa - mi disse miltonianamente uno scrittore inglese rivolgendole uno sguardo discreto. E confermò il mio dubbio con una semplice parola:- Her Majesty. Di colpo mi feci anch’io « penseroso »83. Come appariva mutata! Quando portava titoli più grossi di quello che oggi preferisce, di contessa di Sarre, mi ero sempre contentato di guardarla da lontano, per lo più a spettacoli del Maggio fiorentino, a Boboli o alla Sala Bianca di Pitti84. Sapevo che amava Firenze, dove aveva passato un anno e mezzo al collegio di Poggio Imperiale, e mi dicevano che l’arte e la musica l’attraessero molto; e tuttavia avevo la vaga sensazione che il suo contatto col mondo fosse impedito da un sottile involucro di cellofan, ossia dall’ambiente cortigiano e magari cortigianesco che forzatamente doveva essere il suo. Vistosa, bionda, un po’ troppo bionda e scarruffata. malgrado un evidente sforzo di auto- controllo, si poteva indovinare in lei qualcosa d’impacciato che destava piuttosto curiosità e rispetto che istintiva simpatia. Dimenticavo forse le reazioni a cui è sempre soggetta una natura timida. Si diceva che Maria José portasse in sé un vivo desiderio di conoscere la sua patria d’elezione85; ma la conoscevano meglio di lei i gentiluomini in cilindro che le facevano coda? Si può dubitarne: l’Italia è un paese difficile anche per chi ha dovuto conquistarne frusto a frusto, col lavoro delle mani e del cervello, il senso e l’intelligenza. Ed è infinitamente probabile che lei, straniera fra quasi stranieri, lottasse contro difficoltà pressoché insormontabili. Oggi il sottile dissidio è finito, o almeno è diventato un fatto privato, degno di tutto il rispetto. La contessa di Sarre può studiare l’Italia come la studiano gli Italiani migliori: con una passione non scevra di qualche distacco. Sanno, questi Italiani, che la loro penisola esiste e che ha contato molto e conterà ancora per qualcosa nell’Occidente civile; ma sanno altresì che in Italia (e ben più che in Francia) è possibile, anzi doverosa, una distinzione fra pays réel e paese da etichetta, da esportazione. Nell’interesse che universalmente si desta oggi per noi, l’attenzione si porta

82 Si tratta di Maria José di Savoia (1906-2001), l’ultima regina d’Italia. In seguito al referendum istituzionale del giugno 1946 segue in esilio il marito Umberto II di Savoia, ma i due vivono separati: Umberto in Portogallo e Maria José a Merlinge in Svizzera (Treccani: ad vocem) 83 Il penseroso è una poesia di John Milton (1608-1674) che fa parte della raccolta Poems (1645). La poesia invoca la melancolia e descrive le soddisfazioni della solitudine, della poesia e della vita meditativa (EB: ad vocem). 84 Il Maggio fiorentino è un insieme di manifestazioni musicali e teatrali che si svolge ogni anno a Firenze (Treccani: voce Maggio). Palazzo Pitti è un complesso museale cittadino. Comprende, tra l’altro, la cosiddetta Sala Bianca e il giardino di Boboli (Ibid: voce Palazzo Pitti). 85 Maria José di Savoia era figlia del re del Belgio Alberto I. Anche se è nata a Ostenda, considera l’Italia come la propria vera patria, e partecipa attivamente alla vita culturale e artistica della nazione (Treccani: ad vocem).

79 / 157 ancora su un’Italia di mandolinisti cenciosi, di pittoreschi mendicanti, di prestigiosi ma un po’ furfanteschi cerretani. Di nuovo c’è però un fatto: che i nostri veri o presunti difetti nazionali sono oggi guardati con maggiore simpatia. Visto che la civiltà dei frigoriferi e degli altiforni ha dato frutti che tutti conosciamo, trapela qua e là il sospetto che la civiltà dei Cafoni contenga in sé qualche segreto niente affatto disprezzabile, qualche pagliuzza d’oro. In ogni modo l’artista italiano che voglia esser preso sul serio all’estero deve sempre partire da questo cliché, dal mito di un’Italia rusticana86, irriducibile alle buone maniere. - Silone, Rossellini - dice la contessa di Sarre annuendo. E aggiunge poi il nome di Carlo Levi, un autore di cui ha sentito parlare molto bene87. La nuova feudataria di Merlinge lascia discorrere volentieri i suoi invitati, se essi provengono dall’Italia. S’informa, continua a informarsi di noi come prima, meglio di prima. E la sua curiosità è così spontanea e aperta che noi la sentiamo come cosa nostra, parte della nostra stessa perplessità e inquietudine. A Merlinge, in questa villa che nasconde sotto un rifacimento settecentesco la solida struttura di una vecchia casa colonica savoiarda, in questo parco ricco di ippocastani e largo di praterie, a due passi dal confine francese, a pochi minuti dal centro della città, la vita scorre tranquilla ma non monotona. La casa fu abitata un tempo da quattro vecchie « libertine » che intendevano sottrarsi al rigore di Calvino, poi mutò più volte padrone; oggi, coi suoi quarantotto ettari di terreno, è stabile dimora e proprietà della contessa di Sarre. - Quarantotto ettari non sono poi un latifondo inesauribile mi dice la « penserosa ». - Pare che anche in Polonia, fin che dura, si possa arrivare fino ai cinquanta. E sorride. Non ha gli occhi di miope che mi attendevo di vedere, e legge senza occhiali o senza loupe. Ha occhi azzurri che vedono benissimo ma purtroppo vedono solo in una striscia di spazio orizzontale, assai ristretta, non più su non più giù di qualche centimetro. Vede soltanto gli occhi dell’interlocutore che le siede di fronte; il resto è immerso nel buio. Una striscia di luce la circonda, la guida; entro questa striscia può far entrare a spiccioli, a spicchi, a bocconi, tutto il mondo che la circonda. Vive in una prigione con una piccola feritoia luminosa. Ma la prigione può muoverla, può portarla con sé. Nell’interno del salotto, sobriamente arredato, si scorgono molti libri e alcune fotografie, fra le quali una del principe di Montenevoso88, in uniforme da ufficiale, con una dedica che occupa molto spazio. - Se ne parla ancora? - chiede la contessa. Non nasconde una prudente incertezza di fronte a quella corona fatta di pietre vere e pietre false. Ma ai poeti in formato grande, in quarto, lei è abituata fin da bimba e non osa giudicare. Anche il Belgio ha avuto un poeta che ha fatto baccano, ma non volava e là si sono limitati a

86 Novelle rusticane (1882) è la seconda raccolta di narrativa breve di Giovanni Verga (1840-1922), in cui lo scrittore tratta le problematiche socio-economiche della Sicilia (Treccani: voce Verga, Giovanni). 87 I romanzi di (1900-1978) di situazioni e ambienti dell’Italia rurale meridionale nel suo lento processo di redenzione sociale. I ‘cafoni’ sono i protagonisti del suo romanzo più noto Fontamara (edizione tedesca 1933; edizione italiana 1947) (Treccani: ad vocem). I film di Roberto Rossellini (1906-1977) sono capolavori del cinema neorealista, che dipinge in generale vicende e personaggi dei ceti umili (Treccani: ad vocem; Ibid: neorealismo). L’opera più importante di Carlo Levi (1902-1975), pittore e scrittore italiano, è Cristo si è fermato a Eboli (1945) in cui Levi denuncia le condizioni di vita disumane della popolazione contadina del meridione (Treccani: ad vocem). 88 Principe di Montenevoso è il titolo nobiliare con cui Vittorio Emanuele III insignisce Gabriele d’Annunzio nel 1924 (Treccani: voce d’Annunzio, Gabriele).

80 / 157 dargli un titolo comitale. È Maurice Maeterlinck che oggi assiste, sulla Costa Azzurra, ottantenne e iracondo, al crepuscolo della sua fama89. Dal Belgio il discorso svia sulla Spagna: una terra che lei trova bella ma triste, troppo aperta al mare e all’Africa, troppo flamboyante nelle architetture. Sorvoliamo ad alta quota il Portogallo. Poi, tornati al punto di partenza, ai colloqui, alle discussioni svoltesi qui, salta fuori il nome di Apollinaire, il nome che in un’amichevole zuffa delle Rencontres fu il pomo della discordia90 fra il quasi esistenzialista cattolico Gabriel Marcel e il semi-esistenzialista ateo Jean Lescure. Guillaume Apollinaire, Carneade, chi era costui?91 Ha provato ad assaggiare i Calligrammi ma quelle filze, quei zig-zag, quelle ciambelle di parole in libertà mettono a dura prova la sua pazienza prima che i suoi occhi92. Meglio cominciare dagli Alcools, le spiego, e anche in questi cercare dapprima le poesie più ortodosse, le « Renane »93, per esempio, dove Heine sembra confluire in Verlaine. Apollinaire era polacco, come Conrad. La Francia e l’Inghilterra riescono spesso ad assimilare i temperamenti più lontani. Parliamo ancora a lungo. Sembra che questo campo quello dell’arte e della cultura sia il solo in cui lei respiri veramente, affrancata da un incubo. Non sa tutto, ignora molte cose ma si sente che la sua finestra sul mondo, il dominio, il regno a cui ella aspira è ormai questo, inesauribile da una sola vita, infinito. Nel parco dei marronniers (è il suo modo di chiamarli; ma raramente esita nel trovare la giusta parola italiana) il giorno si affievolisce. Un picchio verde (il più rumoroso dei picchi, se non il più raro) lacera con una frustata sonora le prime ombre del crepuscolo. Poco lontano alcuni bambini giocano con un grosso chow-chow fulvo e ringhioso. Sono i suoi figli, dice, che si divertono coi ragazzi dei vicini. Non si annoiano affatto, hanno amici anche in città. Il parco e Merlinge sono l’ultima punta del territorio che fu dei duchi di Savoia, e oggi fanno parte della repubblica di Ginevra; fino al capoluogo gli antenati del ragazzo biondo che fa abbaiare il chow-chow non riuscirono a spingersi stabilmente. Non che non lo volessero, s intende... - Erano un po’ aggressivi - aggiungo io pensando alla escalade del 160294; ma non trovo risposta. Quando rientriamo, la sala d’ingresso è buia e triste. Ma la contessa di Sarre dice che l’inverno di Merlinge è intimo e raccolto e passa presto. Nei mesi freddi lei si ritira in due o tre stanze della dépendance, con la sua radio, coi suoi dischi, coi libri prediletti. Là, in poco spazio, anche

89 Maurice Maeterlinck (1862-1949), poeta simbolista belga che vive a Nizza a partire dal 1930, è nominato conte da Alberto I del Belgio nel 1932 (Treccani: ad vocem). 90 Il pomo della discordia è un’allusione al giudizio di Paride, mito secondo cui Eris, dea della discordia, lancia sul tavolo una mela con l’incisione ‘alla più bella’ durante il matrimonio di Peleo e Teti, causando un conflitto tra Era, Afrodite e Atena. A Paride tocca il compito di scegliere la vincitrice della mela, che sarà Afrodite. 91 Carneade! Chi era costui? è una citazione dell’ottavo capitolo de I promessi sposi di Alessandro Manzoni. L’espressione è diventata idiomatica e viene utilizzata per indicare, in tono ironico, una persona poco nota (Treccani: voce Carneade). 92 I Calligrammes di Guillaume Apollinaire (1880-1918) raccoglie poesie le cui impostazione grafica prende la forma di un disegno. L’opera si ispira alla poetica delle parole in libertà, teorizzata da Marinetti, secondo la quale le parole del testo non sono organizzate in frasi e non hanno legame sintattico-grammaticale. 93 Les Rhénanes è una sezione, costituitasi da nove poesie, della raccolta Alcools (1913) di Apollinaire. La sezione si ispira a un soggiorno del poeta nella Renania, in Germania, di cui descrive i gruppi emarginati e i paesaggi malinconici. 94 L’escalade del 1602: cf. nota 21.

81 / 157 una striscia di luce le basta a concentrare in un solo fuoco, in un solo punto, il mondo per cui vive, il mondo al quale ha approdato con un sospiro di liberazione.

(1948)

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X. DA SAINT MORITZ

‘Da Saint Moritz’, prima di essere riedito in ‘Fuori di casa’, è pubblicato sul CdS del 1 luglio 1949 con il titolo ‘Non i pazzi ma i ricchi scarseggiano a St. Moritz’ (Barile, n. 297). La prosa XVII della raccolta fa direttamente riferimento alle vicende qui descritte. Il testo è il punto di svolta nella rappresentazione della Svizzera all’interno della raccolta. Il centro dell’attenzione ruota fin qui soprattutto sulla compresenza pacifica degli opposti e sull’aspetto idillico del paese, mentre da questo momento vengono rivelati aspetti più negativi. La prosa esplicita infatti una tematica che, nel sottofondo, stava attraversando anche i testi precedenti, ossia il fatto che la Svizzera in quanto «paradiso asettico» è solo un fantasma di «tempi tramontati forse per sempre». La fin de siècle o il mondo prebellico non rimane pertanto che un periodo a cui rivolgersi con nostalgia.

È difficile far comprendere a un giovane dell’ultima generazione che cosa sia stata St. Moritz, e in genere Engadina, per gli uomini di cultura che li hanno preceduti di venti, di trent’anni. Siamo qui in una delle capitali di un regno che sta tramontando: un regno che ha avuto i suoi dignitari in alto e in basso, in Nietzsche e in Segantini95 non meno che nei personaggi cari alla Serao e a Luciano Zuccoli. Una cultura completa, e quasi si direbbe una Kultur se non si riflettesse a quanto hanno fatto gli anglosassoni per mettere all’onore del mondo e della moda paesi come St. Moritz e Zermatt96. St. Moritz era in origine un piccolo borgo ladino e ancora oggi il romancio è la lingua che s’impara per prima nelle scuole elementari engadinesi. Ora è una cittadina di circa duemilacinquecento abitanti, nell’ultimo decennio piuttosto diminuiti che aumentati. Una splendida cittadina che può contenere venti, trentamila persone e che offre ogni svago, ogni sport, nella doppia stagione estiva e invernale. Il guaio è che dietro il mondo che frequentava St. Moritz c’era appunto una concezione della vita, una Weltanschauung (riflesso senza dubbio d’una situazione economica), che oggi sta scomparendo; e ormai questo impareggiabile borgo engadinese, se non manca di clienti occasionali, viene a mancare dei suoi clienti più tipici e più naturali: coloro per i quali l’Engadina era soprattutto un fatto spirituale. Erano clienti ricchi, naturalmente ma ricchi non soltanto di quattrini. Gli uomini, tanto per intenderci, e le donne che incontriamo nel diario di Maria Baškirceva e nei romanzi di Henry James e del suo seguace Maurice Baring97. Mondo prebellico che ha fatto un ultimo tentativo

95 Friedrich Nietzsche (1844-1900) passa dal 1883 al 1888 le estati a St. Moritz. Durante il primo soggiorno concepisce il concetto dell’eterno ritorno, che è alla base di Also sprach Zarathustra (1891) (Nietzschehaus.ch). Giovanni Segantini (1858-1899), pittore simbolista, dipinge le ultime opere nell’isolamento dell’Engadina dove si ritira nel 1894. Il Museo Segantini a St. Moritz raccoglie alcuni tra i suoi dipinti più importanti (Treccani: ad vocem). 96 Johannes Badrutt, albergatore del Kulm Hotel, invita nel 1864 i suoi ospiti anglosassoni a soggiornare anche in inverno. Il successo del soggiorno porta alla nascita del turismo invernale nella zona (DSS: ad vocem). 97 Il diario di Maria Baškirceva (1860-1884), pittrice e scrittrice russa, dipinge la borghesia europea del secondo Ottocento e la sua ricerca di fama (Treccani: ad vocem). Henry James (1843-1916) rivoluziona la struttura del romanzo trasferendo il centro di interesse della narrazione nell’attività psicologica (Ibid: ad vocem). Le opere di Maurice Baring (1874-1945), romanziere e giornalista inglese, sono rappresentative della cultura sociale inglese a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento (Ibid: ad vocem; EB: ad vocem).

83 / 157 di ricomparsa negli anni che vanno dal ’27 al ’30 e che poi si è dissolto dopo i cracks di Wall Street e dopo l’avvento dei vari totalitarismi. Nietzsche e, a modo suo, Segantini rappresentano due punte estreme di quel mondo e si può prevedere che per uomini di cultura prevalentemente nordica, tedesca, l’Engadina continuerà a essere ancora a lungo un miracolo di natura difficilmente sostituibile; ma al di qua di tali punte estreme Engadina era anche l’asilo naturale di quanti, ben provvisti di censo, volevano difendersi dalla vita conoscendosi, incontrandosi, formando un vasto clan internazionale che sarebbe ingiusto definire semplicemente mondano. Chi faccia in una di queste mattine il giro del lago di St. Moritz incontra un po’ dovunque camerieri e maîtres d’hôtel in marsina che passeggiano malinconicamente evocando i tempi eroici dei grandi clienti (Morgan junior, i Rothschild)98 e dei grandi cuochi (Escoffier, Mazzetti)99; i tempi in cui il semplice « coperto » in uno dei grandi alberghi (i big five di qui) costava varie decine di franchi e si sturavano in quantità bottiglie di sciampagna a settanta franchi l’una100. Tempi tramontati forse per sempre. Chi sono, oggi, gli ospiti di St. Moritz? Il cinquanta per cento della clientela è svizzera, ma è una clientela di passaggio che non porta grande lustro e molti quattrini agli alberghi più costosi. In Svizzera le scuole cominciano presto e finiscono tardi e le famiglie, anche le famiglie ricche, non hanno molto tempo per i loro ozi. Inoltre gli Svizzeri villeggiano volentieri in Austria e sulla Costa Azzurra, dove la vita costa meno. Resta fedele una parte della clientela inglese, nei limiti valutari assai ristretti imposti oggi dal Governo laborista a chi vuol viaggiare per semplice scopo di piacere. Ma è dubbio che si formi una clientela nuova. Chi viene in Engadina ci è venuto col padre, ha contratto in famiglia la malattia della Svizzera come molti altri contraevano, una volta, la malattia dell’Italia; chi viene qui appartiene ancora in qualche modo al vecchio mondo. Ci sono, in inverno, imbattibili campioni di skeleton che si buttano a tuffo, ventre a terra, alla velocità di oltre cento chilometri all’ora; ma finita la prova si rivelano per quel che sono: uomini di cinquanta, di sessanta anni, che passano il resto della giornata tra un cocktail e un altro, stringendo mani, ripetendo meccanicamente how do you do, uomini incartapecoriti che manderanno qui i loro figli se ne hanno (ma è molto dubbio) e che tuttavia non bastano da soli a salvare dal progressivo isolamento, dalla rarefazione gli splendidi palaces che vanno dal Maloia a Pontresina. Ci sono qui alberghi che abbisognano, per mantenersi al livello della loro fama, di cento e persino centocinquanta persone di servizio. Qualcuno è ancora chiuso, altri aprono i battenti con due o tre clienti appena. Non manca e non mancherà in piena estate la gente di passaggio, ma a quanto si può prevedere solo una distensione nelle condizioni della vita internazionale, solo un ritorno abbastanza lungo e durevole al mito e alla realtà della

98 John Pierpont Morgan Junior (1867-1943) è un banchiere americano che dopo la Prima Guerra lancia un prestito di più di 10 miliardi di dollari per la ricostruzione dell’Europa (EB: ad vocem). I Rothschild sono una famiglia di banchieri di Francoforte. Noémie de Rothschild (1888-1968), ispirata dallo splendore di St. Moritz, apre negli anni ‘20 a Megève il ‘Domaine du Mont d’Arbois’ come simbolo dell’arte di vivere alla francese. Il suo progetto va inteso come antagonista francese della città dell’Engadina (Treccani: ad vocem). 99 Auguste Escoffier (1846-1935) è uno dei più importanti cuochi della storia. Egli sostiene che la cucina deve rimanere semplice, valorizzando il sapore e il nutrimento del cibo. Da lui proviene anche il concetto dalla ‘brigata di cucina’ che si basa su una divisione minuziosa dei compiti (EB: ad vocem). Luigi Mazzetti (1849-1887), cuoco italiano introduce piatti tipici milanesi negli Stati Uniti, dove prepara banchetti come chef della Casa Bianca (Shields: 407). 100 I big five sono i cinque alberghi a cinque stelle di St. Moritz: Kulm Hotel, Kempinski, Badrutts Palace Hotel, Carlton Hotel e Suvretta House.

84 / 157 prosperity potrebbero permettere la formazione di una società in cui « l’aria dell’Engadina » entri come una componente necessaria. L’aria dell’Engadina: quest’aria secca, elettrica, eccitante, sottile, che favorisce la pazzia (molti sono i suicidi e i casi di pazzia fra gli abitanti dell’alta Engadina); quest’aria che è la vera e grande realtà engadinese e che nessuna crisi del turismo, nessuna contingenza economica e sociale potrà per un pezzo distruggere. Se il mondo dei grandi snob è destinato a una progressiva liquidazione, quello dei pazzi, meno controllabile, meno riducibile a una classe sociale, resterà pur sempre un mondo di fedeli all’Engadina. Non è un mondo di ricchi o non sempre è tale: è piuttosto uno stato, una condizione provvisoria che chiunque può attraversare. Anche senza essere tubercolotici come Giovanni Castorp o come altri eroi della Montagna incantata si può ben sentire, una volta nella propria vita, il desiderio di bruciare non a Davos ma qui, in questo lacustre altopiano a duemila metri dal livello del mare, in questo Eden protetto da ogni lato, accessibile a pochi, sorvegliato da grandi picchi, favorevole alle grandi arrampicate e insieme propizio alle lunghe stasi indolenti101. Non potrete andare in un altro luogo dimenticandovi della sua storia, del suo folclore, della sua vita fisica e naturale; ma al Maloia, a Sils, a St. Moritz, l’evasione dai limiti più fastidiosi della fisicità umana, terrena, può essere completa; qui si può veramente respirare la vita lasciando cadere ogni altro legame e dimenticando persino la propria maschera storica, concreta, determinata. Resta solo una condizione di sensualità rarefatta, esaurita la quale si può piombare in uno stato di abulia e d’inconsistenza molto prossimo alla stupidaggine integrale. Chi non ha sentito dire e chi non ha detto che questi sono paesi stupidi? Finita la carica dell’eccitazione, è fin troppo facile ripeterlo. Ci si guarda d’attorno e si vedono pizzicherie che espongono prosciutti e mortadelle di legno, strade troppo pulite, un lago senza gabbiani, dove è proibita la pesca e dove nessuno fa il bagno, prati lussureggianti ma troppo grassi, uomini e donne di una bruttezza rara, costruzioni di pessimo gusto, ville chiuse che oggi si vendono a metà prezzo in confronto a due anni fa e che tuttavia non trovano compratori perché nessuno potrebbe pagare i servi necessari a mantenerle in buono stato; ci si guarda d’attorno e si conclude troppo facilmente che questo paradiso asettico ha in sé la sua condanna ed è destinato a sparire. Ha in sé molte vipere pericolose e silenziose, come i prati ventosi del Maloia; e la più grave, quella che riassume tutto, è che qui pesa veramente la maledizione del denaro. Ma dov’è il paese in cui questa maledizione non incomba sempre più? In quale punto dell’orizzonte vediamo profilarsi ragioni di vita che siano veramente sottratte a questa condanna? Passeranno certo molti anni prima che la Svizzera sia svuotata delle ragioni che ne fanno un paese inimitabile ma prezioso; passeranno molti anni prima che certe forme della cultura di qui, pur lontane da noi, finiscano di insegnarci qualcosa. Oggi basterebbe la mostra segantiniana di St. Moritz Bad a farci riflettere lungamente102. Vi sono raccolti tutti o quasi tutti i quadri segantiniani di proprietà svizzera; una parte sola, dunque, dell’opera del Maestro. Fra le lacune più vistose quel monumentale Alla stanga che si trova a Roma e che pur non appartenendo al periodo divisionista del Segantini è una delle opere che

101 Giovanni Castorp, protagonista di Der Zauberberg di Thomas Mann (1875-1955), soggiorna al sanatorio Berghof, oggi il Berghotel Sanatorium Schatzalp, a Davos. 102 Per il cinquantenario della morte di Segantini si è organizzata dal 19 giugno al 2 ottobre 1949 una mostra allo Stahlbad di St. Moritz (Giuliani 1949: 53). Della mostra è stato edito il catalogo Giovanni Segantini. Gedächtnis- Ausstelung (1949) (Soldini: 198).

85 / 157 meglio raccomandano il suo nome. Segantini è il genius loci di queste montagne. Si può non amare la sua pittura letteraria e filamentosa, troppo tesa verso il sublime e troppo carica di significati estranei alla pura rappresentazione pittorica. Segantini è stato un divisionista, non un impressionista, e il divisionismo fu sempre, fin dalle origini, ossessionato da problemi spirituali che il mondo latino per lo più ignora103. Il divisionismo è stato wagneriano e spiritualista piuttosto che musicale e spirituale; ha aggiunto lo spirito alla pittura come si aggiunge una frangia a un vestito; ha creduto che la pittura potesse o dovesse emulare altre arti la musica, la poesia sconfinando dai suoi limiti naturali. Solo Seurat è stato, in qualche grande opera, un eccezione. Ma Seurat partecipava ancora dello spirito di gioiosa scoperta del mondo ch’è proprio del grande periodo impressionista. In Segantini non c’è gioia ma gravità: dipinge le sue vacche come Burne-Jones o Watts o Rossetti dipingevano i loro angeli, le loro Beatrici, le loro Meduse104. Tenta di renderle metafisiche, trascendentali. Spesso le sue mucche restano mucche, e la pesante macchina dei suoi quadri appare inerte. Tuttavia sarebbe ingiusto ridurlo ai suoi quadri predivisionisti. Quando il suo colore vibra, i suoi ghiacci si disciolgono e le sue pietre aprono i loro pori, quando le sue vaste composizioni reggono, tengono insieme, Segantini resta uno dei pochi pittori italiani moderni degni della fama universale da lui raggiunta: uno spirito alto che lavorando controcorrente ha finito per esprimere tutto un lato fin de siècle dell’anima europea che senza di lui non avrebbe trovato, in pittura, la sua voce. Pensate alla miseria di Hodler; pensate quale modesto significato avrebbe una mostra di Fattori a Pietramala o a Piancastagnaio (ammettendo che questi borghi avessero importanza turistica) e che cosa può essere invece una mostra segantiniana a St. Moritz. Un’arte che lega a tal segno con la cultura di un tempo mostra già più di un indizio della sua vitalità, anche se nessuna considerazione ambientale e culturale possa giustificare appieno una pittura sbagliata.

(1949)

103 Il divisionismo è un movimento pittorico della fine dell’Ottocento che consiste nell’accostamento di colori puri per ottenere la massima luminosità delle tinte. Georges Seurat (1859-1891) ne è uno degli esponenti più importanti. 104 Edward Burne-Jones (1833-1898), pittore inglese, è una figura chiave del preraffaellismo, movimento artistico che riconduce l’arte all’espressività religiosa (EB: ad vocem; Treccani: voce preraffaelismo). George Watts (1817- 1904), pittore e scultore inglese, è noto per i suoi quadri allegorici e i suoi ritratti (Treccani: ad vocem). Secondo Gabriele Rossetti (1828-1882), pittore preraffaelista, l’arte deve aspirare a recuperare l’autenticità e la spiritualità del passato. Il suo quadro più famoso è Beata Beatrix (1864) (Treccani: ad vocem).

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XI. NELLA TERRA DI CALVINO

‘Nella terra di Calvino’ riunisce sotto un titolo complessivo tre articoli apparsi sul CdS in merito alla quarta sessione degli Incontri Internazionali di Ginevra. Il primo si intitola ‘Ginevra è diventata la più tollerante delle città’ ed è pubblicato per la prima volta il 13 settembre 1949 (Barile, n. 303), il secondo ‘« Sono orgoglioso di essere un mammifero »’ è del 16 settembre 1949 (Barile, n. 304) e il terzo ‘Ripartì per l’estero per non pagare due franchi’ risale al 21 settembre 1949 (Barile, n. 305). La prosa rappresenta un momento evolutivo fondamentale per il tema dello statuto dell’intellettuale nella società. Anche se gli Incontri rimangono «un grosso avvenimento» a cui partecipa «un folto battaglione di invitati», la loro funzione e i loro risultati vengono problematizzati. In primo luogo, gli Incontri non confermano il loro carattere universale nel senso che «i partecipanti sono in maggioranza Francesi e Svizzeri». In secondo luogo, non ci sono vere discussioni poiché «i partecipanti [hanno] piuttosto monologato che dialogiato». In terzo luogo, le discussioni – quando ci sono – non danno un risultato diretto, ragione per la quale «i conti non tornano» sul piano sociale, ma funzionano soltanto come espressione dello spirito Svizzero.

GINEVRA È DIVENTATA LA PIÙ TOLLERANTE DELLE CITTÀ

A Ginevra le R.I.G. (è la sigla delle Rencontres Internationales, l’ultima di una serie inverosimile di istituzioni a carattere universalistico), e cioè gli incontri che si svolgono ogni anno nella prima decade di settembre hanno messo ormai salde radici. Sono un grosso avvenimento e forse uno scandalo per quei cittadini contribuenti che ne sopportano, in definitiva, le spese. Si sa che Ginevra è una città diversa dalle altre, in Svizzera, e che qui certi scandali sono sempre possibili. « Sono cose che accadono a Ginevra » dicono scrollando il capo gli altri Svizzeri, magari a due passi di distanza, a Losanna o addirittura nel sobborgo di Carouge. Di alcuni episodi ho già fatto parola l’anno scorso; l’ultimo, e fresco è il boccaccesco episodio delle femmes galantes introdotte nelle carceri cantonali a prezzi d’abbonamento (duemila franchi all’anno). Ma c’è naturalmente la contropartita, e in essa vanno inserite le quattro sessioni delle R.I.G. che formano la maggior meraviglia di questi anni, perché Ginevra, già fucina d’intolleranza e di parsimonia, vi si mostra generosa, conciliante e liberale oltre ogni previsione. Chi avrà il coraggio di dire che il mondo sta fermo, non muta?

Stavolta il tema degli Incontri era arduo: « Per un nuovo umanesimo »105. Otto oratori di cartello, otto pubbliche discussioni alle quali ha preso parte un folto battaglione di invitati; il tutto ordinato in un quadro di spettacoli teatrali, concerti, banchetti e ricevimenti ufficiali. I

105 La quarta edizione delle Rencontres Internationales si svolge dal 31 agosto al 10 settembre 1949. Gli atti di questa edizione sono consultabili via http://classiques.uqac.ca/contemporains/RIG/textes/RIG_04_1949.pdf.

87 / 157 partecipanti sono in maggioranza Francesi e Svizzeri, ciò che attenua senza dubbio quel carattere di universalità che gli Incontri hanno per meta. So che il comitato organizzatore è piuttosto avido di critiche che di elogi, e perciò non nascondo nella penna questo rilievo; ma dato che il francese è pressoché l’unica lingua ammessa alle R.I.G. il fatto è quasi inevitabile. Oratori italiani, stavolta, non ce n’erano. A Ginevra, dove è esistito per anni un Istituto di cultura italiana, non c’è molta curiosità per le faccende di casa nostra. Neppure quando l’argomento ci riguarda da vicino: l’umanesimo, nientedimeno. Un umanesimo nuovo, però, che non sia quello definito da Montaigne: la filosofia « dell’uomo solo, senza soccorso esterno, armato solo delle sue armi e privo della grazia e della conoscenza divina », un umanesimo che risponda piuttosto alla definizione del Michelet: « la scoperta dell’uomo e del mondo »106. Qui il contributo italiano non poteva essere maggiore di quello dato da altri Paesi; e perciò non si può dire che la nostra mancanza abbia notevolmente diminuito l’interesse di questi dibattiti. Esclusi dalla discussione - non si sa perché - l’umanesimo storico e i problemi di una moderna educazione umanistica, il duello restava aperto fra preti cristiani, sacerdoti marxisti e partitanti di quel facile sincretismo che si risolve spesso in un embrassons-nous culturale. Con quali risultati? Ha aperto il fuoco René Grousset, accademico di Francia, storico dell Asia e delle Crociate e conservatore di due musei107. Un uomo facondo e cordiale che ci ha ricordato le analogie e le differenze che passano fra il pensiero bramanico o buddista e il nostro pensiero di occidentali. In definitiva, molte parole per nulla. Si attendevano soccorsi da un altro cattedratico, M. Paul Masson-Oursel108, della scuola di Alti studi; ma remittente orientalista rivelò fin dalle prime parole un’assoluta insufficienza vocale. Dopo pochi istanti una delegazione degli ascoltatori chiese al conferenziere due minuti di tregua affinché il pubblico potesse evadere in massa e in buon ordine; poi il discorso, ricco di fini osservazioni linguistiche, proseguì davanti a quindici persone. Il giorno dopo M. Masson-Oursel scomparve e nessun estratto o riassunto dei suoi pensamenti fu offerto agli invitati. Insomma, da parte dell’Oriente, o almeno dell’Oriente dei professori europei, un doppio insuccesso. Pienamente riuscite, invece, le due conferenze, e i successivi dialoghi, di Karl Barth109 e del Padre Maydieu, domenicano: il clou di questa stagione di spettacoli culturali. Robusto, di mezza statura, arruffato, azzurri gli occhi dietro gli occhiali a stanghetta, la pipa semispenta eternamente in bocca, Karl Barth è un oratore travolgente, per nulla impacciato dal suo francese

106 La citazione del filosofo francese Michel de Montaigne si trova negli Essais (1580). Il brano proviene dal saggio l’Apologie de Raymond Sebond (lib. II, cap. XII) in cui Montaigne afferma che l’uomo è presuntuoso quando si ritiene la creatura centrale dell’universo nella misura in cui la ragione pratica degli animali e la nostra si equivalgono, mentre la nostra ragione teorica è inaffidabile (Burke: 30). Lo storico francese Jules Michelet (1798- 1874) sottolinea che la scoperta dell’uomo e del mondo è alla base del Rinascimento, periodo in cui l’interesse per la vita terrena porta allo studio dei rapporti tra gli uomini (Martignon: 3). 107 René Grousset (1885-1952), esperto nel campo dell’arte asiatica, tiene una conferenza intitolata L'humanisme classique et le monde moderne (Baconnière 1949: 5-39; AF: ad vocem). 108 Paul-Masson Oursel (1882-1956), dal 1927 al 1954 professore all’École pratique des hautes études di Parigi, tiene a Ginevra un discorso su L’homme des civilisations orientales (Baconnière 1949: 76-106; Treccani: ad vocem). 109 Karl Barth (1886-1968), elabora in Kirchliche Dogmatik la ‘teologia della crisi’ secondo cui una distanza invalicabile separa l’uomo da Dio. A Ginevra parla di L’actualité du message chrétien (Baconnière 1949: 40-52; DSS: ad vocem). La conferenza di Maydieu ha lo stesso titolo (Baconnière 1949: 53-75).

88 / 157 federale: « Je ne suis rien, Dieu est tout et vous êtes un imbécile » disse un giorno a qualcuno; e in queste parole c’è tutto Barth, aggressivo e umano, cordiale e nuvoloso, umile solo dinanzi a Dio e all’altro suo semidio: Volfango Mozart. Il grande teologo dell’Università di Basilea è da molti anni la coscienza del mondo protestante, nelle terre di lingua tedesca: di fronte a lui il padre Maydieu, chevalier de la Légion d'honneur, teologo cattolico e uomo della « Resistenza » nonché uomo di mondo, non poteva assumere che un’onesta posizione difensiva, tenuta, del resto, con grande dignità e semplicità. A conti fatti, nelle due conferenze sull’« attualità del Messaggio cristiano », è sembrato a molti che Barth abbia sfiorato soluzioni cattoliche e che il padre Maydieu si sia tenuto lontano da ogni posizione d’intransigenza confessionale. Le differenze sono tuttavia affiorate: nella doppia ascensione dell’uomo - verticale verso Dio e orizzontale verso l’uomo, verso il prossimo - Barth, che sottolinea soprattutto il peccato originale, il rifiuto della Grazia, è più à son aise nella prima direzione, mentre il domenicano si mostra piuttosto preoccupato dei rapporti fra gli uomini, degli avvenimenti che accadono, del corso della storia. Tutti e due rifiutano di definire attuale il Cristianesimo, che trascende il tempo; ma in Barth, che definisce come « umanesimo di Dio » la vita stessa dell’uomo, le considerazioni d’ordine temporale, storiche o politiche appaiono sensibilmente minori; come appaiono minori le indulgenze verso l’umanesimo classico. « Convertiamoci e avremo trovato il nuovo umanesimo ». Dopo gli uomini di religione cristiana sono saliti sulla cattedra gli uomini della religione socialista o marxista. Il tema « L'uomo nella rivoluzione tecnica e industriale » era affidato a Maxime Leroy110, professore onorario della Scuola di scienze politiche, un vecchio socialista umanitario che crede nel lavoro, nel progresso e nella democrazia. Ha conosciuto Georges Sorel111 e ne ha diffidato, ha studiato per tutta la vita il sindacalismo e il passaggio dalle « caste » alle « masse ». Cita Platone, Campanella e Saint-Simon112, si sofferma sulle differenze che corrono tra il povero di Bossuet e l’« uomo mal nutrito », l’uomo economico di Sismondi113; e conclude con un atto di fede nel socialismo liberale di domani. Più stringenti i due marxisti ortodossi che seguivano e il grande papa della filosofia dell’esistenza: Karl Jaspers114. Ma prima di dirne qualcosa, e prima di riassumere l’andamento della discussione pubblica e le conclusioni tirate da Marcel Raymond, non posso tacere del

110 Il discorso di Maxime Leroy (1873-1957), sociologo francese, del 3 settembre è intitolato L’homme des révolutions techniques et industrielles (Treccani: ad vocem; Baconnière 1949: 107-131). 111 Georges Sorel (1847-1922), pensatore e scrittore politico francese, è il padre del sindacalismo rivoluzionario, dottrina che concettualizza l’indipenza sindacale nei confronti della politica e dello stato (Treccani: voce sindacalismo rivoluzionario). 112 Tommaso Campanella (1568-1639), filosofo e scrittore italiano, è noto per l’opera di stampo protosocialista e utopistico La città di sole (1602) in cui espone l’idea di una comunità ideale, governata dalla ragione, in cui non esistono proprietà privata, ricchezza eccessiva e povertà (EB: ad vocem). Henri de Saint-Simon (1760-1825), socialista utopistico, concepisce in Nouveau Christianisme (1825) la futura società come ritorno al Cristianesimo. In essa la scienza costituisce la strada verso l’avvento della fratellanza universale (Ibid: ad vocem). 113 Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704), ecclesiastico e oratore, predica nel 1659 un sermone con il titolo De l’éminente dignité des pauvres in cui dimostra che i poveri sono più vantaggiosi per la società che i ricchi, poiché a loro appartengono le forze del lavoro e della volontà (Treccani: ad vocem). Il pensiero di Simonde de Sismondi (1773-1842), storico ed economista svizzero, si inserisce nella teoria dell’uomo economico, termine coniato da John Stuart Mill (1806-1973), che tenta di cogliere le motivazioni economiche dei comportamenti sociali degli uomini (Treccani: ad vocem; Ibid: voce homo oeconomicus). 114 Karl Jaspers (1883-1969) tiene una conferenza intitolata Conditions et possibilités d'un nouvel humanisme (Baconnière 1949: 211-246; Treccani: ad vocem).

89 / 157 piacevole intermezzo costituito, alle Rencontres, dalle rappresentazioni del Pain dur di Claudel, nell’interpretazione di Pierre Renoir. Non è l’unico intermezzo perché non sono mancati né il banchetto ufficiale aux Eaux Vives né una rappresentazione dell'Egmont in forma di oratorio (un successo di stima dovuto soprattutto alla musica di Beethoven) e nemmeno una mostra allestita per l’occasione, « Tre secoli di pittura francese », che vale la pena di visitare. Ma il Pain dur è stato il pezzo forte della stagione. Da noi un dramma simile sarebbe difficilmente rappresentabile, anche per le difficoltà che offrirebbe la traduzione. Eppoi il dramma, che è la seconda parte di una nuova Orestiade,115 ha un lungo antefatto che non risulta chiaro e che pur bisogna conoscere. In scena si vede un Presidente del Consiglio, sotto la monarchia di Luigi Filippo, che è di origine contadina ed è riuscito a sposare un rejeton della nobile schiatta dei suoi padroni: Sygne de Coûfontaine. Sygne non ha mai amato il marito ed è morta; il marito, Toussaint Turelure, ha un figlio, Louis, che lo odia e che milita nella legione straniera, in Algeria. Toussaint vive con un’amante ebrea, Sichel. Una contessa polacca, Lumir, mezzo fidanzata a Louis, esige la restituzione di ventimila franchi; Louis torna dall’Algeria e insiste anche lui affinché il denaro sia restituito. Turelure rifiuta e chiede invece di sposare la contessa; Louis lo minaccia con due pistole a lui fornite da Lumir, poi esasperato spara, i colpi fanno cilecca ma Turelure muore lo stesso, di spavento. Nel terzo atto si scopre che Sichel è l’ereditiera dei beni di Turelure. Lumir, che ha riavuto il suo denaro, ha poca voglia di unirsi a Louis e a questi non resta che sposare l’ex amante del padre. Sotto questa ficeIle dovrebbero esserci molte cose: antidemocrazia, odio delle monarchie borghesi e riformiste, la constatazione del fallimento di un mondo in cui la vecchia e la nuova Francia non hanno potuto salvarsi perché le ideologie progressive, a fondo anticristiano, lo hanno impedito. A noi Italiani un lavoro come questo fa pensare a qualcosa d’intermedio fra D’Annunzio, O’Neill e T.S. Eliot; ma la data del dramma (1914) impone rispetto; e l’eloquenza claudeliana è così forte, che il dramma semigiallo ha frequenti bagliori di poesia. Naturalmente, i Francesi di vecchia souche torcono il naso dinnanzi a uno spettacolo simile. È la Francia questa? - C'est absurde - dicevano vicino a me il prof. Leroy e lo storico dell’arte Louis Hautecoeur116. Ma l’intelligenza ginevrina, spasmodicamente tesa verso la Francia, non era di questo parere, e il dramma, magistralmente eseguito, è finito tra applausi trionfali. Il più che ottantenne Claudel, che assisteva da una poltrona di seconda fila, si è alzato più volte per ringraziare con la mano il pubblico: è un vecchietto calvo, piccolo e incartocciato, con la rosetta all’occhiello. Viaggia circondato dalla venerazione universale e ama (dicono) paragonarsi a Shakespeare. Ha insomma i difetti (e molti dei meriti) del genio e la sua presenza a Ginevra ha fatto sensazione. In parte nutrito, e in parte rattristato, da questo Pane duro, ho fatto ritorno all’aula dell’Università e al Palais des Arts per seguire gli ultimi scontri culturali. Ne valeva la pena, come vedremo prossimamente.

115 L’Orestea è una trilogia di Eschilo in cui si narra l’assassinio di Agamemnone, la vendetta del figlio che uccide la madre Clitennestra e la persecuzione del matricida Oreste. 116 Louis Hautecoeur (1884-1973), storico d’arte, la cui passione per l’architettura lo spinge alla pubblicazione della monumentale Histoire de l’architecture française (EU: ad vocem).

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« SONO ORGOGLIOSO DI ESSERE UN MAMMIFERO »

Fra gli oratori invitati agli « Incontri » settembrini due su otto (il venticinque per cento) sono scelti fra i marxisti stranieri più rappresentativi. È probabile che la percentuale corrisponda all’effettivo « sinistrismo » dell’intelligenza ginevrina, che si tiene a stretto contatto con le correnti della vita intellettuale francese. Qui i comunisti veri e propri (quelli del partito del lavoro) non sono moltissimi fra la gente di cultura; ma abbondano i gauchistes, gli uomini più di là che di qua della via di mezzo. Gli organizzatori avevano pensato, per equilibrare la bilancia, di invitare anche Köstler117, ma questi rifiutò, con una lettera sdegnosa, di iniziare un « dialogo » (coi marxisti) ch’egli reputa impossibile. Tout de même il dialogo anche quest’anno è avvenuto, seppure i partecipanti abbiano piuttosto monologato che dialogato. Henri Lefebvre118, sociologo, autore di alcuni saggi su Marx e membro del P.C. francese, è un uomo di quarantacinque anni, di mezza statura, dotato di una voce stentorea, da comizio. Ma can che abbaia non sempre morde e i ginevrini sono ravis quando possono accostarsi a un comunista che non morde e possono dire: « Tiens! Dopo tutto è un uomo come noi ». Lefebvre viene da una famiglia borghese ed è passato dal cattolicismo all’esistenzialismo, per trovar poi un porto sicuro nell’ortodossia marxista. Com’è avvenuto il passaggio dall’una all’altra di queste posizioni? Senza dubbio per mezzo di un atto di fede o di un raptus, non già per via razionale. Ma Lefebvre non ne conviene e nella sua tonante conferenza egli ha tenuto a sottolineare la razionalità della sua evoluzione. L’uomo appartiene a se stesso, è fabbro e maestro del suo destino. Se la ragione gli indica come possibile una società migliore in cui l’alienazione dell’uomo non sia più possibile, nulla vieta che tale via sia percorsa. L’uomo totale è per lui l’uomo sociale, la nuova ecclesia è la comunità dei lavoratori. All’insidiosa domanda di Karl Barth: « Chi dirigerà? » (una pipata e un breve sogghigno) l’oratore precisa che dirigeranno... i dirigenti, gli interpreti autorizzati del materialismo dialettico119. La risposta lascia perplessi ma il pubblico non lesina applausi all’abilità oratoria del francese. A Lefebvre ha fatto seguito un biologo di fama universale, il prof. G.B.S. Haldane120, marxista e comunista anche lui e collaboratore assiduo del Daily Worker. Doveva parlare dell’uomo nell’ universo « au regard d’un savant ». È un uomo di cinquantasette anni che ne dimostra ottanta; fulvo, calvo, curvo, sprizzante impertinenze e persiflages da tutti i pori, grande giocatore di golf. La sua conferenza, tenuta in un bizzarro francese, è costellata da citazioni di Virgilio, di Lucrezio, di Dante; un repertorio da grande umanista. Haldane si dichiara ateo ed evoluzionista, ossia materialista nel senso darwiniano. Si dice fiero di essere un mammifero e si manifesta nemico di ogni antropomorfismo. La vita evolve lentamente, per millenni e centinaia di millenni. Essa non ha principio né fine né scopi. La ragione chiede che l’uomo organizzi la sua

117 Arthur Köstler (1905-1983), scrittore ungherese, è noto per il romanzo Darkness at noon (1940) in cui analizza le contraddizioni del processo rivoluzionario nell’URSS di Stalin (Treccani: ad vocem). 118 Il discorso di Henri Lefebvre (1901-1991), filosofo e sociologo francese, è intitolato L'homme des revolutions politiques et sociales (Baconnière 1949: 132-157; Treccani: ad vocem). 119 Il materialismo dialettico è una dottrina, sviluppata da Engels, che integra la dialettica nella concreta materialità, che si sviluppa quindi attraverso il meccanismo tesi-antitesi-sintesi (Treccani: voce materialismo storico e dialettico). 120 La conferenza di Haldane (1892-1964), professore di genetica a Londra, è intitolata L'homme dans l'univers au regard d'un savant (Baconnière 1949: 158-184; Treccani: ad vocem).

91 / 157 vita in senso sociale. A Haldane l’ipotesi di una società-formicaio non fa punto orrore; tutto sta che il formicaio sia in perfetto ordine. La sua è la religione di un panteista; il più gran peccato è quello di uccidere una rara specie di animali o di piante. Anche per lui la società futura è frutto di un atto di fede; essa sarà possibile, con l’ausilio della scienza, se noi la vorremo. Oscillante fra il razionalismo e l’utopia, goffo e leggero, strano impasto di Ariele e di Calibano121, Haldane riesce ad avvincere il pubblico per il pathos e l’arguzia dei suoi discorsi. È un uomo religiosamente innamorato della materia: un materialista, dunque, non propriamente dialettico, diverso da Lefebvre. Il pubblico, però, specie il pubblico femminile, si attende una pronta riscossa dei valori liberali da parte di John Middleton Murry122, il marito di Catherine Mansfield, che deve parlare dell’« uomo dell’universo agli occhi di uno scrittore ». È un sessantenne timido, magro, stempiato, che vive in campagna ed è noto soprattutto come critico e direttore della rivista The Adelphi123 (da poco defunta). Middleton Murry, che parla a fatica, ci dice che l’umanesimo è libertà e ch’esso nasce dalla confluenza di tre principî: quello romano dell’universalità, quello ellenico della libera ricerca intellettuale e quello cristiano dell’infinito valore della personalità umana. Le attuali società democratiche sono il frutto di tale fusione: esse sono ancora gracili pianticelle che devono irrobustirsi e trovare la giustizia economica, sociale e politica senza che il principio della libertà venga menomato. Tutto bene; ma che c’entrano gli occhi « dello scrittore » in questa visione della vita? A Ginevra il duo Lefebvre-Haldane avrebbe avuto partita vinta se non fosse salito alla ribalta il gran sacerdote dell'esistenzialismo, Karl Jaspers. A lui e Barth si deve se lo scontro tra spiritualisti e marxisti non è finito con un verdetto di parità. Karl Jaspers è un uomo altissimo, dai capelli bianchi, un po’ a zazzera, e dagli occhi chiari metallici e severi. Parla in tedesco, un tedesco così scandito e aristocratico che tutti (anch’io) hanno l’illusione di capirlo. Lo accompagna la sua interprete, Jeanne Hersch, che registra ogni sua parola: una donna piccola, bruna, scuretta di pelle, coi capelli accercinati intorno alla testa, che passa per essere la più fedele depositaria del suo pensiero. Quando però la Hersch traduce il verbo del maestro, non dirò che le cose s’intorbidino, ma certo si fanno chiare fino all’evanescenza. In definitiva, Jaspers pensa che l’uomo è un essere incompleto che non conosce né la sua origine né il suo fine: esso è più di quello che sa di se stesso. Non si può considerarlo come un essere naturale senza cadere dall’umanismo nell’« ominismo ». Ciò che importa non è l’uomo, ma l’uomo unito all’Essere, e l’Essere è Dio: non il Dio di questa o quella religione, ma il Dio di tutte le religioni. La sola cosa che ci resta è di vivere nella presenza del presente. Un umanismo realizzato nella storia è impossibile: esso è invece lo spazio entro il quale l’indipendenza dell’uomo deve essere mantenuta; in ciò l’uomo può trovare soccorso nella fede religiosa e nella fede filosofica. Il progresso tecnico non è rifiutato, purché sia asservito a un fine equo e dominato; e la tradizione del vecchio umanesimo dev’essere conservata.

121 Ariele, spirito dell’aria, e Calibano, schiavo selvaggio, sono personaggi di The Tempest (1611) di William Shakespeare. 122 John Middleton Murry (1889-1597), critico e giornalista inglese, tiene una conferenza intitolata L'homme dans l'univers au regard d'un écrivain (Baconnière 1949: 185-210; Treccani: ad vocem). 123 ‘The Adelphi’ (1923-1955) è una rivista letteraria, fondata da John Middleton Murry, che ha pubblicato testi di George Orwell, D.H. Lawrence e Katherine Mansfield.

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Questa posizione, che potrebbe chiamarsi di un immanentismo trascendente, è stata (buona o cattiva che vi paia) la sola barriera che qui si sia posta ai « finalisti » del marxismo, fautori di una società diretta, « pianificata ». E le discussioni, le tentate conciliazioni, lo studio delle convergenze e delle divergenze ha occupato, al Palais des Arts, per dieci giorni, più di cento degne persone d’ogni età, razza e sesso. In fondo, le posizioni erano due: quella di chi crede che l’uomo sia nella natura e basti a se stesso, e quella di chi rifiuta questa premessa. Affiorarono anche i partitanti della terza forza (o troisième farce, secondo gli avversari), che cercarono di gettar ponti fra i due opposti punti di vista; ma senza troppo successo. E infine il bilancio fu fatto da Marcel Raymond, il successore di Thibaudet all’Università di Ginevra, il quale ha detto che il fine di questi « Incontri » sarebbe pienamente raggiunto se essi potessero « seminare dubbi e incoraggiare al silenzio ». Per un risultato così modesto, il Cantone, e Repubblica, di Ginevra spende ogni anno cinquantamila franchi? Apparentemente i conti non tornano; ma chi guardi bene addentro vede ch’essi tornano benissimo. La Svizzera non avrebbe più senso, se non incoraggiasse questi seminari di cultura o di ricerca morale (Caux); la Svizzera, la Nazione in cui l’uomo economico sente più angosciosamente che altrove che tutti i nodi vengono al pettine, ha bisogno di queste pubbliche confessioni, di questi dibattiti, di questi esami di coscienza. E se fra gli ascoltatori che oggi sono giovani ce ne fosse qualcuno, domani, fra venti o trentanni, che ricordasse ancora con emozione di aver assistito, al Palazzo delle Arti, ai dialoghi di Barth e di Jaspers, allo scontro degli spiriti più acuti del nostro tempo, non sembrerebbero spesi bene i cinquantamila franchi d’oggi? Questo è umanesimo vero, signori, al di là delle divergenze, delle convergenze, dei messaggi e delle altre trappole verbali qui escogitate. Pas d'argent, pas de Suisse124, dicono i maligni; ma bisogna riconoscere che quando la Svizzera spende così il suo argent, essa si mostra di esser veramente degna del suo passato di Nazione in ogni senso « anticipatrice ».

RIPARTÌ PER L’ESTERO PER NON PAGARE DUE FRANCHI

In questa città oggi liberale e un tempo fanatica (e in qualche misura anche « libertina ») non ci sono soltanto uomini e donne libere; c’è pure chi dice di essere in prigione. Chi arriva e non trova posto all’albergo (al Hôtel des Bergues mi dissero una volta: « Vuole una camera? Ripassi fra sei mesi »), chi arriva e deve allogarsi in una delle tante pensioni dove una dispotica megera bernese e due serve italiane riescono a ospitare in sei stanze dieci o quindici persone, stipandole nei bagni, nei corridoi, nei sottoscala, le conosce subito queste prigioniere; sono le femmes de chambre di Pinerolo o di Tortona, capitate qui per far soldi, e oggi tagliate fuori dal loro mondo abituale. Vi assediano nei corridoi guardandosi attorno come persone sorvegliate: « Può telefonare per me al numero...? Ma fuor di qui mi raccomando. Ho letto un’inserzione, cercano una cameriera. Stia attento, guai se la padrona se ne accorge... ». Oppure: « Ecco i soldi, può mettermi un avviso sulla Tribune? Borine à tout faire cherche situation ecc. ». Poco dopo sentite che le « prigioniere », in combutta con altre servette della casa - austriache diciassettenni affusolate

124 La citazione è tratta da Les Plaideurs (1668, atto I – scena I) di Jean Racine (1639-1699), che è una commedia satirica che ironizza su coloro che sono costantemente propensi al litigio.

93 / 157 come una Venere di Cranach - cantano a squarciagola sulle scale e scambiano lazzi scurrili (attraverso le finestrelle di una mansarda) con gli operai che lavorano sul tetto. La strada di sotto è deserta; dalla casa dirimpetto giungono i suoni di un concertino di Bach; è un discomane che da anni è il terzo che capito in questa pensione alle dieci del mattino fa girare i suoi dischi prediletti mentre si fa la barba col rasoio elettrico. Siamo presso l’Ateneo, poco lontani dall’università. Se non ci fossero queste poche, pochissime, serve italiane e austriache gli abitanti dei quartieri agiati (dai Bastioni verso Florissant e Champel) vi creerebbero intorno il più kafkiano degl’incubi. Sono uomini piccolini col colletto alto e il cappello alto, spesso molto baffuti e occhialuti; donne obese, che entrano appena negli ascensori, brontolando qualche danke o qualche bitte a chi cede loro il posto; infermiere in divisa; conduttori di pariglie di cani; dame anziane avvolte di gramaglie. Come vivono? Che cosa fanno? A Ginevra, più che altrove ci si rivolge questa domanda; perché qui, se consultate l’annuario telefonico, vedete che c’è gente d’ogni origine e d’ogni paese; e che ci sono perfino degli svizzeri. Le targhe sulle porte vi dicono che in questa città le professioni liberali sono in auge: medici, psicanalisti, avvocati, professori di canto, di ginnastica e di varie arti. La nostra società, italiana, dà l’impressione di esser organizzata verticalmente: vi si scorre dal basso in alto e viceversa. Qui l’impressione è orizzontale; un mondo ben lubrificato, dove tutto è previsto e prevedibile, ma dove uno non sa nulla dell’altro, se quest’altro non è un nemico o un « concorrente ». Una patina non più di austerità ma di onorabilità leviga tutto. Qui i cittadini hanno molti doveri e molti diritti, e li portano scritti in faccia. Conosco un professore che tornando a casa dopo un viaggio all’estero trovò sbarrato l’accesso alla sua strada, ch’era stata inclusa nel percorso di un circuito automobilistico. Per rincasare doveva pagare due franchi o esibire a un gendarme un documento (« la carta d’abitante ») che gli servisse da lasciapassare. Ma per procurarsi la carta d’abitante era necessario perdere un paio d’ore in municipio. Il professore respinse con orrore le due ipotesi, egualmente lesive della sua libertà di cittadino della libera repubblica di Ginevra, ripartì per l’estero e proclamò che avrebbe intentato causa al Comune. Non so come la faccenda sia finita, ma essa è abbastanza significativa sull’argomento. Da noi il professore sarebbe passato senza carta o avrebbe pagato bestemmiando; in Svizzera anche i più piccoli arbitrî di chi comanda possono appassionare l’opinione pubblica. A Ginevra - città ricchissima di stili architettonici - manca il colore e manca apparentemente la charitas (strano nella città della Crocce Rossa!). Il colore trova uno splendido sostituto nella luce, e si può comprendere che Ruskin125 pretendesse di essersi formato soprattutto a Pisa e a Ginevra; la carità trova invece un meno facile sostituto nella beneficenza, nella religione, o diciamo meglio nella ufficialità della religione. Bisogna esser qualcosa qui: o protestanti o cattolici o magari teosofi o Christian Science126. L’uomo senza un’etichetta religiosa sarebbe considerato incivile. Si permette a qualche pezzo grosso della scienza di dichiararsi ateo o agnostico, ma in genere chi non può presentarsi come un eccentrico d’alto bordo tiene molto a

125 John Ruskin (1819-1900), un critico d’arte e riformatore sociale, è uno degli esponenti principali del movimento Arts and Crafts, movimento artistico del secondo Ottocento che mira alla rivalutazione dell’artigianato in opposizione con i modi di produzione industriale (Treccani: ad vocem; Ibid: voce Arts and crafts). 126 Seconda la dottrina del Christian Science, fondata da Mary Baker Eddy nel 1878, nell’uomo può rivivere la capacità curativa del male sia fisico che spirituale, già esercitata da Gesù, attraverso la preghiera (Treccani: ad vocem).

94 / 157 dichiarare la sua fede religiosa. In una famiglia dove sono stato invitato a pranzo il padre affermò di essere protestante « liberale » (una religione più che altro filosofica), la madre si disse cattolica; dei tre figli, uno ha conservato la fede della madre e gli altri due figli si dicono non più praticanti. I non praticanti sono considerati catholicisants e sono altra cosa dai protestanti: gente in sospeso, molto onorevole. Fra i cattolici (che sono ormai il cinquanta per cento e contano figure di primo piano come l’abate Journet, non so se ginevrino ma certo romando) figurano anche gli italiani: escludendone quelle famiglie passate a Ginevra ai tempi della riforma. Ogni anno il consigliere di Stato Albert Picot, nel suo discorso di apertura degli Incontri, non omette mai il nome venerato del Burlamaquì, Gian Giacomo Burlamacchi127, uno dei fondatori del diritto naturale. Ma chi dimenticherà i Turrettini (che hanno un bel palazzo di stile fiorentino), i Diodati e tutti gli altri? Gli Italiani di fede cattolica sono naturalmente di importazione più recente, alcuni naturalizzati, altri no. Ce n’è qualche migliaio, soprattutto a Carouge, che è quel pezzo di Ginevra che si stende al di là dell’Arve. Carouge ha una popolazione soprattutto operaia e artigiana, ha un’amministrazione propria e persino un proprio giornale. È una piccola città di tipo savoiardo, e nel suo principale albergo, l’Auberge communale, si ammira (o quasi) un affresco che raffigura Vittorio Amedeo III128, fondatore di Carouge. Non c è male a due passi dal cuore di Ginevra, dove l’Escalade, il fallito tentativo savoiardo d’impadronirsi della città, dà il suo nome a una delle maggiori solennità festive dell’anno. A Carouge abbondano gli artigiani, gli operai e i piccoli mestieri. Il più dotto conoscitore della città è un orologiaio. Fra gli Italiani ce n’è uno, Armando M., chimico in una fabbrica di profumi, pescarese di origine, nato in Svizzera e rimasto cittadino italiano, che ha conosciuto la nostra cultura partendo dai suoi ultimi prodotti: il decadentismo ed altri deprecati ismi. Parla la sua lingua d’origine con molte tournures francesi: un italiano « tutt’affatto rimarchevole », per darne un’idea. Abita in Francia a due passi dalla frontiera e ha sposato una cara Beatrix savoiarda. Alla sera mette i suoi bambini in un cestino, sulla bicicletta, e li porta a spasso. Fiutando odori di garofano e di scatolo, con una piuma sotto il naso, se lo trovate in ufficio vi parla di Dino Campana, di Giorgio Morandi129 e della nostra arte recente. Quando viene in Italia, tutto lo scandalizza e tutto gli piace; sembra, insomma, il cittadino di un mondo futuro che non esiste ancora. Senza saperlo, è il nostro miglior rappresentante diplomatico in quest’angolo della Svizzera. È un Italiano povero e colto, dignitoso e umanissimo, senz’alcuno dei difetti nazionali italiani, francesi e svizzeri. Addio, homo novus! Debbo lasciarti sulla bella piazza, quasi provenzale, arborata di platani bianchi, per raggiungere il Bourg de Four (il forum romano), dove in una trattoria senz’alcool si organizzano i colloqui a due, a tre, a quattro voci, che si trasmetteranno poi da Sottens e anche da Parigi. A Ginevra, se si è appena un po’ noti, non si sfugge all’incisione, alla « registrazione ».

127 Jean-Jacques Burlamaqui (1694-1748) è nominato nel 1723 professore di diritto naturale e civile (DSS: ad vocem). Con diritto naturale si intende il diritto, comune a tutti gli esseri umani, che deriva della natura piuttosto delle regole della società, ossia il diritto civile (EB: voce Natural law). 128 Vittorio Amedeo III di Savoia (1726-1796), duca di Savoia dal 1773 al 1796, fa rimodernare Carouge per farne un centro di commerci in grado di rivaleggiare con Ginevra (Treccani: ad vocem; Williams et al.: 98). 129 Dino Campana (1885-1932), poeta italiano, è famoso per la sua raccolta Canti orfici (1914). Giorgio Morandi (1890-1964), pittore italiano, è un esponente della pittura metafisica, tendenza artistica, sviluppatasi in Italia in opposizione al futurismo, in cui il silenzio e il vuoto sono termini centrali (Treccani: ad vocem).

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Stavolta era il franco-algerino Jean Amrouche130 che convogliava quanti più ospiti poteva verso la stazione locale, oltre la pianura di Plainpalais. Dialoghi a botta e risposta, preparati e insieme quasi spontanei. Ma com’è difficile rispondere a certe domande! « Che dice Lei dello spirito comunitario del recente teatro italiano, in raffronto al teatro francese? Come son giudicati in Italia Apollinaire, Saint-John Perse, Claudel, ecc.? Quali risultati ha dato in Italia l’organizzazione dei loisirs, degli ozii? Perché il signor Gasparì è riuscito meglio di M. Schuman? ». Ho risposto del mio meglio, ma quando ho detto che Claudel era stato mal giudicato dal nostro sommo critico Benedetto Croce, la stupefazione si diffuse su tutti i volti. Per riparare alla gaffe ho aggiunto che si trattava di un opinione personale e che Croce non era uno specialista del teatro. Avrei dovuto aggiungere: « Signori, vengo da un Paese che sta sempre un po’ al disopra (e al disotto) dei vostri 'problemi’; da un Paese dove nulla è sociale al difuori della vita vissuta nelle strade; da un Paese meno umano e più umano del vostro; da un Paese, infine, dove voi, civilissimi, potreste persino imparare qualcosa, se lo voleste ». Ma chi mi avrebbe compreso? Nell’ospitale Ginevra mi avrebbero preso per pazzo, e a Ginevra io vorrei tornare ancora, se sarà possibile. Il suo fascino è troppo grande. Gran merito dell’esprit de Genève, già illustrato da Robert de Traz131 in termini un po’ umanitaristici e societari (alludo alla defunta S.d.N.); uno spirito che resiste ai tempi e fa di questa città cordiale ed ermetica, militaresca e insieme primaverile fin dai nomi delle strade, una roccaforte di quanto, dello spirito liberale, ancora sopravvive nell’Europa del 1949.

(1949)

130 Jean Amrouche (1906-1962), critico letterario algerino francofono, è famoso per la sua ricca attività radiofonica. Nelle sue ‘Entretiens’ conversa tra l’altro con André Gide e François Mauriac (EB: ad vocem). 131 Per L’Esprit de Genève si veda la nota 20

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XII. A LOSANNA LA SCIENZA E L’ARTE SI SONO RIBELLATE ALLA POLITICA

Nella dodicesima prosa della collezione, pubblicata per la prima volta sul CdS del 14 dicembre 1949 (Barile, n. 320), arriva in primo piano un tema di sfondo delle prose precedenti, ossia quello della discussione intorno all’Europa come fatto culturale. Di nuovo viene espresso il concetto che la cultura europea «non può giungere a una reale indipendenza se non attraverso la formazione di uno spirito nuovo». Dopo l’inizio della desacralizzazione dell’intellettuale della prosa precedente, qui si assiste all’ultima forte convulsione – prima del suo isolamento totale nella prosa XIV – del carattere mitico della figura che guida l’Europa nell’immediato dopoguerra: «Scegliete per guidarci un grand uomo, un filosofo, un musicista, un poeta; o un fanciullo. Alors tout rentrerà dans l’ordre» Presente è anche il tema della cultura italiana nell’ambito europeo. Anche se i dibattiti si svolgono in Svizzera, è proprio l’Italia che «ha dimostrato di essere già in possesso di una chiara coscienza europea» e che deve assumersi il ruolo di guida della cultura europea: «Dove parla la cultura l’Italia [...] finisce sempre per figurare naturalmente e senza sforzo in prima linea».

I grandi congressi internazionali, per quanto accurata possa essere la loro preparazione, vedono spesso sorgere imprevisti e colpi di scena. A Beirut, nel dicembre del ’49, il giorno stesso dell’inaugurazione della Conferenza dell’Unesco, i delegati furono accolti da una solenne fischiata che portò all’arresto di colui che l’aveva organizzata: il cripto (ma non tanto) comunista egiziano Mustafà-el-Azis, osservatore inviato dall’Unione Mondiale dei Sindacati e protetto dall’immunità diplomatica. Qui a Losanna, nella Conferenza Europea della Cultura promossa dalla sezione culturale del Movimento Europeo e svoltasi ordinatamente dall’8 al 12 di questo mese, nulla è accaduto di così sensazionale; ma non è mancato il sasso in piccionaia, costituito da un articolo che alla vigilia dell’inaugurazione la Gazette de Lausanne ha pubblicato, a firma di Virgil Gheorgiu, un giovane romeno che, invitato alla Conferenza dal suo deus ex machina, Denis de Rougemont132, rispondeva con un secco rifiuto. « È troppo tardi per organizzare e difendere la cultura europea - diceva in sostanza il Gheorgiu, autore di un sensazionale libro: « La venticinquesima ora », pubblicato da poco in Francia133. - I bovi sono già scappati dalla stalla. L’Europa non esiste più e due grandi colossi extra-europei, la Russia e l’America, se ne contendono le spoglie. Inoltre - continuava il Gheorgiu - i politici non dànno più alcun affidamento; nessun uomo politico può essere grande. Scegliete per

132 Denis de Rougemont (1906-1985), saggista svizzero, si impegna attivamente nella costruzione dell’Europa, organizzando la prima Conferenza europea della cultura a Losanna (1949) e fondando a Ginevra il Centro europeo della cultura nel 1950 (DSS: ad vocem). 133 Ora 25 (1949) di Virgil Gheorghiu (1916-1992) critica i meccanismi e la crudeltà della società occidentale in cui gli individui sono considerati come parte di categorie prestabilite e fisse.

97 / 157 guidarci un grand uomo, un filosofo, un musicista, un poeta; o un fanciullo. Alors tout rentrerà dans l’ordre ». Gli ha risposto, nel discorso d’inaugurazione tenuto al teatro municipale di Losanna, il signor Spaak134, presidente dell’Assemblea Europea; e all’allocuzione del ex-Prémier belga hanno fatto seguito altri discorsi: di Duncan Sandys, presidente dell’esecutivo del Movimento Europeo e genero di Churchill, di Salvador de Madariaga135 che ha sfoggiato qui il primo dei suoi policromi gilets e del senatore Alessandro Casati presidente della Delegazione Italiana, il quale ha tracciato un quadro della vita spirituale di Losanna, dalla Riforma sino all’insegnamento di Amedeo Melegari e di Vilfredo Pareto, che ha molto lusingato i nostri ospiti136. Ospitale è stata davvero Losanna in questi quattro giorni di lavori affrettati e quasi convulsi. E sebbene i delegati (trecento circa) fossero alloggiati a Ouchy assai lontano dal Tribunale Federale dove si svolgevano le riunioni, e i mezzi di trasporto, pur numerosi, siano riusciti un po’ insufficienti al bisogno, tuttavia il ritmo della conferenza non ha subìto battute d’arresto, dall’inaugurazione sino al convulso « serrate » finale dove, attraverso una certa confusione dovuta a scarsezza di tempo e all’insufficienza di traduttori, furono approvate le mozioni e le raccomandazioni delle varie commissioni di studio. A questo punto mi fermo per ricordare ai miei lettori l’antefatto di questa Conferenza. All’origine c’è il Movimento Europeo costituitosi all’Aja nel 1948 (presidenti Blum, Churchill, De Gasperi e Spaak), movimento comprensivo di sei altri Consigli, Leghe, Équipes per l’unità dell’Europa; di qui si passa alla fondazione di una Sezione Culturale del Movimento stesso (autunno 1948) incaricata di studiare la costituzione e gli attributi di un Centro Europeo di Cultura. Il 5 febbraio 1949 tale Sezione propone e fa approvare dall’esecutivo del Movimento la creazione di un Bureau d’Études pour le Centre Européen de la Culture avente sede a Ginevra sotto la direzione di Denis de Rougemont, ufficio destinato a studiare la formazione del Centro suddetto. Ed è da questo Bureau che è sorta la Conferenza d’oggi che raccomanda la trasformazione del Bureau in Centro, secondo i voti emessi all’Aja e a Strasburgo (settembre 1949)137. Conferenza, dunque, nettamente culturale questa di Losanna, alla quale i delegati dovevano presentarsi in veste non nazionale ma europea. Scelti dalle varie commissioni nazionali del Movimento in base a criteri di specifica competenza e non politici, i delegati pur facendo parte di delegazioni nazionali erano perciò invitati a titolo personale e non erano affatto tenuti a una disciplina, a una parola d’ordine di gruppo. In effetti si è visto che nella trattazione dei singoli

134 Paul-Henri Spaak (1899-1972) afferma che una condizione fondamentale per la rinascita europea è il sentimento di appartenere a una civiltà unica (Beers e Raflik: 101). 135 Salvador de Madariaga (1886-1978), diplomatico e scrittore spagnolo, sottolinea che l’Europa deve unirsi intorno ai valori di libertà e di rispetto per l’individuo per raggiungere consapevolezza della propria cultura (CVCE: ad vocem). 136 Amedeo Melegari (1807-1881), diplomatico italiano, è stato professore ordinario di economia politica all’Università di Losanna (DSS: ad vocem). Vilfredo Pareto (1848-1923) è stato professore di economia politica dal 1893 al 1917 e decano della facoltà di diritto tra il 1896 e il 1898. Nel 1897 tiene il primo corso di sociologia a Losanna (Ibid: ad vocem). 137 Il testo riassume l’antefatto della conferenza di Losanna. Nella Seconda Guerra il richiamo all’unificazione dell’Europa prende forza. L’obiettivo del Congresso dell’Aia, tenutosi dal 7 al 10 maggio 1948, era quindi di dimostrare l’esistenza di un vasto appoggio all’unità europea. Il congresso è alla base della nascita del Collegio d’Europa di Bruges, del Centro europeo della cultura di Ginevra e del Consiglio d’Europa, creato a Strasburgo il 5 maggio 1949 (DSIE: voce Centri di studio e di ricerca europei).

98 / 157 problemi i gruppi si sono scissi e sovente i delegati di una Nazione hanno votato mozioni opposte, non preoccupandosi affatto di mettersi d’accordo. A Losanna la cultura europea, finora mai consultata direttamente dai politici ma solo utilizzata a fini non precisamente di cultura (come ha fatto rilevare lo storico della filosofia medievale Étienne Gilson138), ha tentato di rialzare la testa e di far sentire la sua voce. È inutile parlare di Europa sinché la cultura non potrà circolare liberamente, impedita com’è nei suoi uomini, nei suoi istituti, nei suoi strumenti da leggi protettive, tariffe doganali, e da provvedimenti che rendono la sua attuale diffusione assai più difficile che nel 1939139. Al protezionismo delle culture nazionali deve succedere la libera diffusione di una cultura europea. Devono circolare senza ostacoli non solo gli uomini della cultura, professori studenti e intellettuali, ma anche i libri, i film e le opere teatrali. (Per i film s’è fatta sentire, attraverso la risoluzione della Commissione degli Scambi140, una certa… protezionistica angoscia per la grave situazione del film britannico). In tutte le scuole dovrà essere obbligatoria una seconda lingua, oltre quella materna, e la Commissione ha raccomandato a maggioranza di voti che la preferenza sia data al francese o all’inglese. (Infinite discussioni su questo punto: se la raccomandazione non ha un contenuto politico non può bastare il francese lingua diplomatica e non più « imperiale »?). In fatto di teatro la Commissione ha chiesto che siano soppressi i contingentamenti che favoriscono le varie produzioni nazionali; ma ha bocciato un prematuro progetto di supercensura o controcensura europea che sarebbe probabilmente respinto dai singoli Governi, tuttora decisi a guardare coi propri occhi alle faccende di casa propria. Finché l’unità europea non sarà un fatto compiuto nessuna commissione super-nazionale potrà perciò imporci la commedia di X, o proibirci quella di Y. Provvedimento, oggi come oggi, ragionevole, che farà tirare un respiro di sollievo agli autori (per lo più mediocri) che fanno assegnamento sui vari protezionismi nazionali. Si è parlato anche di radio, di televisione e di libera circolazione di musica e di musicisti; ma tutto è rimasto naturalmente allo stato fluido. La Commissione delle Istituzioni che ha trasformato il Bureau in Centro ha altresì caldeggiato la creazione di un Collegio d’Europa che sorgerà a Bruges nel 1930, destinato a formare una generazione di amministratori ayant une expérience personnelle (sic). Comincerà forse con 50 studenti che abbiano un titolo corrispondente alla licence d’enseignement francese. Il Collegio avrà professori stabili e professori visiteurs, sono previsti suoi viaggi e spostamenti; e in rapporto a una futura Università Europea corrisponderà a ciò ch’è oggi in Francia la Normale Superiore e il Politecnico di fronte alla Sorbona. Sono augurati altri Collegi consimili, fra i quali uno a Bologna (per problemi d’architettura e urbanismo!). Taccio d’altre bazzecole affrontate dalla medesima Commissione, che ha proposto anche una mise à l étude de l’unification du

138 Étienne Gilson (1884-1978), filosofo e storico francese, afferma che la nozione di cultura europea è ingannevole, poiché, in un’Europa politicamente ed economicamente unita, tutto sarebbe europeo tranne la cultura (Shook: 347). 139 I partecipanti al Congresso dell’Aia devono passare attraverso i regolari controlli doganali. Di conseguenza perdono molto tempo che avrebbero potuto impiegare per le discussioni. Questa circostanza rammenta ai congressisti l’assurdità delle regolamentazioni di viaggio in Europa, rafforzando il desiderio di un’Europa unita (Shook: 346). 140 Con la fondazione della Commissione per gli Scambi Culturali (1948) si mira a favorire lo scambio di idee tra gli Stati Uniti e il resto del mondo attraverso l’assegnazione di borse di studio Fulbright a laureati dell’Accademia d’Arte o di Musica (MAECI: voce Programma Fulbright).

99 / 157 droit européen. E neppure posso affrontare le sette fitte pagine votate dalla Commissione Culturale che tocca infiniti punti dell’insegnamento primario e secondario e superiore. (Qui è stata bocciata, come inattuale, la raccomandazione di un unico testo di storia a fini « europei »). Nell assemblea plenaria è anche raccomandata la creazione di un Istituto di Scienza nucleare che potrebbe dare alla Francia un certo privilegio nelle ricerche atomiche europee; se ne è anche sottolineata l’urgenza malgrado le proteste di vari delegati. Era opportuno farlo in questa sede, dopo che Spaak aveva contrapposto l’atmosfera ideale di Strasburgo e di Losanna a quella del Congresso degli scrittori e artisti proletari tenutosi a Karkov nel 1930141, improntata a spirito materialista e aggressivo? Fa piacere che a tali proteste si siano associati alcuni delegati italiani, anche se la raccomandazione e l’urgenza siano state approvate a maggioranza. L’Italia ha mandato a Losanna una delegazione che comprendeva, oltre il suo presidente senatore Alessandro Casati, che è anche il Presidente della Commissione culturale dell’Assemblea europea, i senatori Jacini e Tosatti e un gruppo di professori, letterati e uomini di scienza, fra i quali spiccava la fluente barba mosaica, color giallo paglierino, dell’on. Gustavo Colonnetti142. Fra gli interventi di scrittori e di artisti sono da notarsi quelli di Stephen Spender, di David Rousset e di Alberto Moravia143 che dovendo succedere al tonante e focoso Rousset ha dovuto chiedere il massimo sforzo alla propria energia vocale e ideologica per non lasciarsi travolgere. Che cosa è dunque scaturito da queste quattro giornate di accese discussioni? L’ha detto nel suo bel discorso di chiusura (dopo aver letto il messaggio di De Gasperi) il senatore Casati. Una serie di raccomandazioni, che l’Assemblea europea dovrà filtrare e che poi i singoli Governi dovranno considerare alla luce dei loro interessi attuali. La cultura ha fatto sentire la sua voce (ed era tempo) attraverso i suoi rappresentanti più qualificati; ma la cultura non può giungere a una reale indipendenza se non attraverso la formazione di uno spirito nuovo ed è inutile illudersi ch’essa possa spoliticizzarsi prima che altre condizioni di vita europea siano maturate. Non solo nei Congressi devono difenderla gli intellettuali ma nella vita dei vari Paesi, facendosi ascoltare, imponendo la loro voce e la loro presenza. Sarebbe già un risultato se i delegati che hanno vissuto queste ore a Losanna attardandosi troppo poco sulla bella riviera di Ouchy spruzzata di neve e risonante di strida di gabbiani per finir poi in un sotterraneo del castello di Chillon (immortalato da un poemetto di Byron144) dove

141 La conferenza di Karkov (1930) è soprattutto ricordata per l’idea di creare la MORP o il Litintern, ossia l’equivalente letterario del Comintern, che deve unire scrittori proletari in tutto il mondo (Coeuré: 719). 142 Alessandro Casati (1881-1955), letterato e uomo politico italiano, presidente del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, è stato presidente della delegazione italiana (Treccani: ad vocem). Stefano Jacini (1886-1952), politico democristiano, si rifugia in Ticino nel 1943. Rientrato in Italia diventa ministro del governo Parri nel 1945 e senatore dal 1948 (DSS: ad vocem). Quinto Tosatti (1890-1960), è stato senatore della Democrazia Cristiana (SdR: ad vocem). Gustavo Colonnetti (1886-1968), esponente antifascista che fugge in Svizzera nel 1943, è stato rettore del Politecnico di Torino dal 1943 (DSS: ad vocem). 143 Stephen Spender (1909-1995), poeta inglese, afferma a Losanna che il protezionismo ha messo la cultura in una posizione di schiavitù, poiché essa è diventata troppo dipendente dalla politica (Muret: 2). La conferenza di David Rousset (1912-1997), saggista francese, è critica nei confronti dell’Unione Sovietica che impone la tirannia in nome della libertà (Richard: 4). Alberto Moravia (1907-1990), scrittore italiano, è stato un grande sostenitore dell’Europa unita, impegno che culmina con la sua elezione al Parlamento Europeo nel 1984 (PE: ad vocem). 144 The prisoner of Chillon (1816) è un poema narrativo di Lord Byron (1788-1824) che racconta dell’incarcerazione del monaco François Bonivard, dal 1532 al 1536, nel castello di Chillon (Per approfondimenti RSI, voce Lord Byron torna nel castello di Chillon).

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è stato offerto loro un concerto di cori vallesani alla luce di torce e in un clima siderale; sarebbe già un grande risultato se nel lasciare le impervie strade a schiena d’asino della capitale del Vaud, i trecento delegati della cultura europea tornassero alle loro case senza sentirsi nascere in petto una soprammisura, un surcroît, di orgoglio nazionale ferito. Non si farà un’unione europea senza gravi sacrifici d’ogni genere, anche, e forse soprattutto, nell’ordine della cultura. In quest’ordine è difficile che l’Italia possa salvare tutto il suo patrimonio. Ma salvar tutto vorrebbe dire rinchiudersi, non salvar nulla, esser tagliati fuori dalle strade dell’avvenire; e in questa consapevolezza nessuna delegazione, più di quella italiana, ha dimostrato di essere già in possesso di una chiara coscienza europea. Tale è il senso delle molte congratulazioni che i delegati italiani hanno raccolto per il buon lavoro da essi svolto a Losanna; e questo dolce può compensarci di qualche amarezza. Dove parla la cultura l’Italia, anche se trascurata nelle previsioni e nei lavori preparatori dei vari Congressi, finisce sempre per figurare naturalmente e senza sforzo in prima linea. Così ieri a Beirut, oggi a Losanna, domani altrove. Naturalmente, ripeto: e cioè senz’ombra di gretto spirito nazionalistico.

(1949)

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XIII. RISVEGLIATO DA DIECI ANGELI

Pubblicata per la prima volta con il titolo ‘Risvegliato da dieci angeli che intonano Santa Lucia’ sul CdS del 17 dicembre 1949, la prosa XIII suggerisce che la crisi dello spirito è anche una crisi morale. Di nuovo viene messo in evidenza che «nessuna riforma economica e strutturale potrebbe reggersi senza una trasformazione che cominci dall’interno, dallo spirito». La prosa riprende il filo dell’Italia stereotipica, emerso nella prosa IX, e all’immagine dell’Italia rusticana si aggiunge quella dell’Italia come paese di alta cultura e della dolce vita: «Dante, la poesia, le canzonette, il bel canto, il dolce far niente... sono questi i capitali maggiori dell’Italiano che viaggio. Il resto conta molto meno».

Alle sette e mezzo del mattino (era ancora buio fitto ma la riviera di Montreux appariva punteggiata di luci) mi ha destato un battere leggero di nocche alla porta. - Entrez - ho detto ancora addormentato; e subito mi son meravigliato di pensare in francese nell’attimo stesso del risveglio. Ho toccato il commutatore della lampada e dieci angeli sono entrati nella mia stanza; nove angeli biondi e uno bruno. Erano ragazze vestite di lunghi pepli bianchi, tutte reggevano in mano un candelotto acceso, color rosa, e la più giovane aveva in testa, fra i riccioli, altri quattro o cinque candelotti anch’essi accesi, a raggera. I suoi occhi, azzurri, ardevano più delle candele. In lunga fila i dieci angeli sfilarono e si disposero in cerchio attorno al mio letto. Cantavano in coro Santa Lucia, in italiano e sulla nota musica Sul mare luccica... ma pronunciavano Lüsìa con l’u alla francese145. - Siamo svedesi mi disse la ragazza che stava nel centro. - Santa Lucia è per noi la festa della luce, la nostra festa nazionale146. Vede questa ragazza: - e additò la più giovane, quella dai candelotti sui riccioli, mezzo Medusa mezzo arcangelo Gabriele è la migliore di noi, elle a le Christ dans son coeur. In Italia ha salvato la vita a un uomo. Festeggiamo anche lei. - Parlava in un italiano stentato, misto di francese. Poi la caposquadra depose sul mio comodino una tazza di caffè nero e alcuni biscotti; salutò con un cenno del capo e la teoria degli angeli uscì dalla mia camera sempre intonando: Santa Lucia, Santa Lucia. Mezz’ora dopo bussò alla porta P.V. che portava su un vassoio un breakfast di tipo quasi inglese. Dico quasi perché il bacon and eggs (raro ormai anche in Inghilterra) era sostituito da una scodellina di corn flakes nuotanti nel latte.

145 Santa Lucia è una canzone napoletana, scritta da Teodoro Cottrau (1827-1879) nel 1849. I versi del brano celebrano il pittoresco aspetto del rione di Santa Lucia sul golfo di Napoli. 146 Nei paesi scandinavi Santa Lucia viene intonata durante la processione di Santa Lucia all’alba del 13 dicembre.

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P.V. è il nuovo amico che mi ha portato al falansterio147 di Caux, al « Riarmo Morale »148. A Caux dà lezioni di italiano a un folto gruppo di giovani. E lui che ha insegnato la nostra lingua alle dieci Svedesi che mi hanno svegliato. Ed è per colpa sua che ieri, appena giunto, ho dovuto leggere il canto del conte Ugolino dinanzi a una piccola folla che non capiva nulla ma sembrava dilettarsi straordinariamente al suono delle parole149. Dante, la poesia, le canzonette, il bel canto, il dolce far niente... sono questi i capitali maggiori dell’Italiano che viaggia. Il resto conta molto meno; a Caux, poi, il resto non conta quasi nulla. I quattrini ci vogliono e sono offerti da ricchi ospiti di passaggio. Ci sono qui industriali americani che dopo aver lavorato alcuni giorni a pulire i W.C. o a sbucciare patate in cucina150, partono lasciando al « Riarmo » qualche migliaio di dollari. Del resto, il « Riarmo » non paga tasse, essendo considerato come un ente morale. I socialisti del Vaud (laboristi di facciata, ma in realtà comunisti) non la intendono però così e stanno portando la cosa in discussione, credo al Consiglio di Stato. Per essi il « Riarmo » è una centrale di spionaggio americano e le casse del Cantone non sono così ricche da permettere comode evasioni fiscali. - P.V.? - mi avevano detto due giorni prima a Losanna. - È un funzionario del « Riarmo ». Vede De Gasperi, viaggia, ha la macchina. Avrà certo uno stipendio in dollari. Dapprima l’ho creduto anch’io ma ventiquattr’ore sono bastate a farmi ricredere. P.V. non è pagato né in lire né in dollari. Vive a Caux, lavora nella sua équipe quando la sede di Caux è chiusa; ed essendo cattolico è convinto che i pochi cattolici che arrivano fin quassù abbiano, nel Centro stesso, un buon lavoro da compiere. Dà lui stesso l’esempio; incoraggiato da monsignor Charrière, il vescovo di Losanna e Friburgo che non ha affatto paura di questo nido di vipere - il « Riarmo » - sorto nella sua diocesi151. La stanza in cui ho dormito ha mobili di palissandro ed è considerata una camera eccezionale. I miei immediati predecessori qui dentro sono stati un maragià orientale e il famoso capo nazionalista nigerino Azikiwe detto comunemente Zik152. È la più recente gloria di Caux questo Zik: un negro che ha studiato all’Università di Filadelfia, conseguendo non so quanti gradi accademici. In America vide per la prima volta la neve, ne stupì, ne mise una manciatella in una busta che spedì, bene affrancata, in Nigeria. E può darsi che la busta, non certo il contenuto, sia giunta a destinazione. Zik capitò qui reduce da Londra dove aveva pronunciato parole di fuoco al Colonial Office denunciando il malgoverno inglese in Nigeria e nel Camerun. Doveva

147 Secondo Charles Fourier (1772-1837) il disordine sociale si genera perché gli uomini cercano di comprimere le passioni che Dio anima in loro. Basta seguire le passioni per poter essere in armonia. Per raggiungere tale stato, Fourier teorizza il falansterio, ossia un edificio che può ospitare una colletività di 1620 persone, ordinata secondo principi socialisti (Treccani: ad vocem). 148 Fondato negli anni ’20 dal luterano Frank Buchman, il Riarmo morale mira a cambiare il mondo grazie al riavvicinamento ai valori morali. I membri svizzeri del Riarmo acquistano il Mountain House di Caux, presso Montreux, che è il falansterio qui descritto (DSS: voce Riarmo morale). 149 Tra i più celebri canti dell’Inferno dantesco, il XXXIII, dedica i versi 1-78 al conte pisano Ugolino della Gherardesca. 150 Nel falansterio la divisione del lavoro è libera. Ogni individuo si dedica all’occupazione piú adatta al suo temperamento e ai suoi desideri. (Treccani: voce Fourier, Charles). 151 François Charrière (1893-1976), cofondatore della rivista ‘Nova et vetera’ (cf. nota 33), è stato vescovo di Losanna, Ginevra e Friburgo dal 1945 al 1970 (DSS: ad vocem). 152 Nnamdi Azikiwe (1904-1996) si trasferisce nel 1924 negli USA dove compie gli studi universitari. Tornato in Nigeria diventa un importante leader del movimento per l'indipendenza nigeriana per poi diventare nel 1960 il primo governatore della Nigeria indipendente (Treccani: ad vocem).

103 / 157 recarsi in visita a Praga e a Mosca. Venne, vide... e vinse; vinse se stesso perché lo spirito di Caux entrò in lui. Rinunciò alla Russia e tornò a Londra dove trovò un telegramma che lo invitava a rientrare in Nigeria per combattere gli inglesi. Ma Zik si affrettò a informare i suoi compagni nigerini che era pronto a combattere e a morire, senza però ricorrere alla violenza. Dopo qualche giorno il comunista « Daily Worker » sotto il titolo Zik changes his mind (Zik ha cambiato parere) scriveva che Zik era stato corrotto dalla « luxurious rest home » (dalla lussuosa casa di riposo) del dott. Buchman, il fondatore e capo dei gruppi di Oxford e da qualche anno del M.R.A. (« Moral Re-Armament »). Pastore luterano, il Buchman non ha dato un carattere confessionale al suo movimento. Chiunque riconosca nel « Discorso della Montagna »153 i princìpi di ogni possibile vita morale può essere ammesso a parità di condizioni nei quattro grandi edifici di quest’altra montagna (Mountain House, a Caux sopra Montreux)154. A parte gli ospiti occasionali, che in estate sono più di mille, i riarmisti « residenti » (che hanno offerto la loro fortuna personale, quand’essa cè, al falansterio) sono divisi in squadre e compiono tutti i servizi dai più umili ai più alti. A Mountain House bisogna servirsi da sé. All’ora del pasto ognuno si mette in coda, prende un vassoio di stagno e sfila dinanzi alle marmitte dei banchi della cucina. Il menu non è ricco: una polpetta, a mezzogiorno, qualche patata al forno, carote e cavoli, una meluccia del Valais, di seconda scelta. Alla sera la polpetta è sostituita da un uovo affrittellato. Si beve acqua e non è proibito il fumo benché io solo abbia acceso una sigaretta. Annacquato è anche il caffè, distribuito senza risparmio. Nel pomeriggio P.V. mi ha accompagnato al teatro dei riarmisti; una vasta sala dall’acustica perfetta. Vi si rappresentava The good Road (La buona strada), una rivista data centinaia di volte qui e in America: scritta, eseguita e cantata da riarmisti giovani e vecchi. Sono scene della vita di Anyman (l’uomo qualunque), si svolgono su una strada (la buona strada) e portano Anyman, attraverso evocazioni fantomatiche, alla scoperta della verità che « il mondo intero è il mio vicino ». Sullo schermo appaiono Washington, Jefferson, Mosè (!), Giovanna d’Arco, Bach, Giovanni Senzaterra che concede la Magna Charta, san Francesco e Lincoln. In una scena si vedono sei ministri del Materialismo (Odio, Invidia, Paura, Orgoglio, Lussuria e Confusione) sbarrare la via, ma senza successo, ad Anyman155. La rivista è recitata e cantata in inglese ma pochi degli attori sono britannici. A cose fatte ho chiesto di essere presentato alla Lussuria: una donnetta di circa quarant’anni, dall’aria assai pudica, che gira col suo vassoio di mele economiche e di carote lesse. Sembra felice, come tutti a Caux. Spionaggio? A mille e duecento metri d’altezza, lontani da ogni segreto politico e militare? L’ipotesi fa semplicemente ridere. Una setta protestante come tante altre? Non direi; perché non impone alcun dogma, alcuna pratica rituale. Anche la pubblica confessione, di cui si è tanto parlato, pare che non esista. I gruppi si radunano, prendono ispirazione e consiglio in comune ma scene di autoaccusa e morbose rivelazioni non avvengono. D’altronde, per le confessioni e i riti di carattere religioso non mancano qui cappelle, preti cattolici e pastori.

153 Il discorso della Montagna (Vangelo secondo Matteo 5:1-7:29) afferma il concetto che i figli di Dio devono tendere alla perfezione Dio: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Matteo 5:43-48). 154 Oltre al Mountain House, l’associazione ha acquistato tre altri edifici: il Palace Hôtel, Villa Maria e l’Albergo Alpin (Soldini: 200). 155 I brani possono essere visualizzati via https://player.vimeo.com/video/170625686.

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Mountain House è anche uno dei centri permanenti del College of thè good Road, che intende essere il Sandhurst, il Saint-Cyr e il West Point della nuova guerra ideologica156. Una scuola di guerra ma di una guerra combattuta senz’armi materiali. Qui a Caux i corsi sono estivi e durano sei settimane. I professori non sono pagati, gli studenti sono mantenuti da borse di studio che vanno dalle cinquanta alle seicento sterline offerte da privati e da istituti. L’insegnamento è fondato sul principio che la natura umana può (e deve) essere cambiata. Spionaggio? Forse no, ammettono i più prudenti fra i socialisti del Vaud; ma una delle tante trappole create dalla borghesia per ritardare l’inarrestabile marcia del proletariato. Un buon riscaldamento, due polpette, un po’ di musica, qualche conferenza: ed ecco che anche i leoni tipo Zik si lasciano tagliare le unghie, si ammansiscono e tornano a casa a predicare la non resistenza al male. Che pacchia per la classe dominante! È un’interpretazione più ragionevole, ma non molto consistente. In verità, se la borghesia occidentale dovesse attendere la sua salvezza dalle conferenze culturali e dai centri di riarmo (che armano poi di sole parole poche centinaia di persone inermi per natura) il suo fato sarebbe deciso da un pezzo. Movimenti come questo del M.R.A. che potrà avere seguito e propaggini anche da noi, come ne ha già in Francia e in Germania sono molto più spontanei e sinceri di quanto si creda; e indicano che fra le due opposte correnti ideologiche che tengono il campo (l’uomo economico libero, ma schiavo del denaro, e l’uomo economico sedicente libero ma schiavo dello Stato e dell’oligarchia che si identifica con lo Stato) l’Europa - ciò che resta dell’Europa - lotta per una terza verità che intravvede e non conosce ancora. Non basterà un nuovo francescanesimo a condurre l’uomo europeo sulla buona strada; ma è certo che nessuna riforma economica e strutturale potrebbe reggersi senza una trasformazione che cominci dall’interno, dallo spirito. Se così dicono a se stessi - e par certo che sia così - le migliaia di uomini e di donne d’ogni razza e colore che ogni anno lasciano Caux sulla ferrovia a cremagliera per scendere a Montreux in una cornice di paradiso, è certo che il M.R.A. compie una funzione che nessun altro gruppo o falansterio organizzato su basi più ristrette e semplicemente nazionali potrebbe mai assolvere. Ed è per questo che da oggi io mi sento – indegnamente molto alla larga - già membro vitalizio del Collegio della buona Strada; pronto a recitare ancora mille volte il canto di Ugolino davanti a una policroma assemblea di gente stupefatta e incapace d’intenderne una parola.

(1949)

156 Sono i nomi di tre accademie militari, istituite nel 1802: Sandhurst è il centro di addestramento iniziale degli ufficiali dell’esercito britannico. La scuola speciale militare di Saint-Cyr, istituita da Napoleone Bonaparte, è la principale accademia militare francese. La United Stated Military Academy, situata a West Point e fondata dal presidente Thomas Jefferson, è un’accademia militare federale dell’esercito degli Stati Uniti.

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XIV. LA STATUA DI NEVE

Il quattordicesimo testo della raccolta è pubblicato per la volta sul CdI del 16 gennaio 1952 (Barile, n. 482). La prosa, caratterizzata da una forte autodiegesi, è la seconda e la penultima – ne segue ancora una: la prosa XVII – ambientata a St. Moritz. Qui il tema dello statuto dell’intellettuale, che tornerà ancora nelle prose XV e XX, è ripreso e arriva al fondo, dopo i primi segni del declino della sua sacralità disseminati nelle prose precedenti. La figura viene qui simbolizzata dal fantoccio di neve ed è pertanto rappresentata in totale isolamento. Il fantoccio è l’unico capace di cogliere veramente i problemi del tempo, ma è solo il narratore che capisce «le ragioni del [suo] pianto». Il resto della società condivide l’atteggiamento esemplificato della cameriera secondo cui il fantoccio, o l’intellettuale, non è nient’altro che uno «spauracchio dei piselli».

Fa freddo, Saint Moritz è seppellita dalla neve, il termosifone tira a meraviglia ed io passeggio (nella mia stanza) in pigiama. Non sono sciatore, pattinatore o escursionista; non vado in slitta, la montagna mi sembra noiosa in estate e insopportabile d’inverno. Vengo qui a fine d’anno per veder il balletto che organizza il mio amico Kind157, per avere in dono un asinelio di cartone, una trombetta, un berrettino, una sciocchezza qualsiasi; e per godere lo spettacolo delle famiglie che si abbracciano mentre sparano bottiglie di champagne. E vengo soprattutto per vedere la statua o il grosso fantoccio di neve che il signor S. fabbrica davanti al suo albergo, proprio di fronte al mio158. Dalla finestra godo lo spettacolo del fantoccio. È alto tre metri, ha un cappello piumato, il sigaro in bocca con la cenere che sta per crollare, due carote per orecchi, due cipolle per occhi, tre rape per bottoni della giacca. È qualcosa di mezzo fra Churchill e Grock159. Ma sono gli occhi-cipolla che mi attraggono. Fin dal primo giorno hanno creato in me, per associazione d’idee, il più lagrimoso dei sentimenti. L’enorme babau piange, questo è certo. È l’unico personaggio che qui, in questi giorni festosi, sia capace di piangere per davvero. Piange lagrime rosse, pungenti, piange goccioloni grossi come palle da biliardo. Ma nessuno all’infuori di me vede sgorgare quelle lagrime. Non è il fantoccio degli anni scorsi, ogni anno è rinnovato, eppure per me è sempre lo stesso. Non piange solo perché ha le cipolle nel buco degli occhi, piange anche per altre ragioni che non posso spiegare ma che mi sembra inutile scrutare. E quando una nuova spruzzaglia di neve lo infagotta e gli occhi si fanno più cisposi, farinosi, non somiglia più a Churchill, somiglia solo a Grock. È là che dice: « Vi divertite? Buon divertimento. Io piango per tutti voi, in attesa di sciogliermi e di lasciar cadere queste cipolle nel fango sudicio della strada ».

157 Silvia Kind (1907-2002) ha avuto una carriera internazionale di successo come coreografa e come solista, promuovendo le opere di compositori contemparenei (DSS: ad vocem). 158 L’albergo davanti al quale continua a essere consuetudine innalzare un pupazzo di neve è lo Schweizerhof (Soldini: 200). 159 Grock è il nome d’arte del clown svizzero Adrien Wettach (1880-1959) (DSS: ad vocem).

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Non ho mai incontrato Moby Dick, la balena bianca, ma ho visto più volte Grock, e stando accanto ai vetri che appanno col fiato cerco di parlare col meraviglioso fantoccio. « Permetta Maestro » gli dico « che mi unisca anch’io al vostro pianto irrefrenabile, totalitario, universale. Sono venuto apposta per vedervi; indegnamente, sono forse l’unico, qui, che possa intravedere le ragioni del vostro pianto. Mi scioglierò anch’io nel vostro fango; ho anch’io due cipolline nel buco degli occhi, una rapa al posto del naso... Permetta, Maestro, che io... » Un lieve toc toc all’uscio ed entra la cameriera che mi porta il tè. È una toscana, utilitaria e poco incline al misticismo. « Ha visto? » fa vedendomi assorto alla finestra. « Anche quest’anno hanno messo lo spauracchio dei piselli ». « Già » dico con indifferenza. « Quel grosso fantoccio. O come mai? »

(1952)

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XV. L’ANGOSCIA

‘L’angoscia’ è pubblicato per la prima volta sul CdI del 31 marzo 1952 prima di essere riedito in ‘Farfalla di Dinard’. Il testo è, dopo le prose II e V, l’ultimo ambientato a Zurigo ed è, così come la prosa successiva, un’intervista. Qui si tratta di un’intervista immaginaria con Eugenio Montale stesso in cui è di nuovo presente il tema dell’intellettuale, la cui figura viene ironicamente definita come «i grandi uomini en pantoufles». Il testo impiega la forma dell’intervista non solo per ironizzare sul genere stesso, ma anche per ironizzare sull’importanza accordata alle opinioni dell’intellettuale. A partire dall’affermazione «non ho molte domande da farvi» e dalla lunghissima lista di domande che vi fa seguito, l’intervista mette in evidenza l’incapacità dell’intellettuale di rispondere a domande di grande importanza sociale, perciò risponde solo alle domande più personali.

Sono molto sensibile alla Stimmung delle città nordiche e lo spettacolo di una Zurigo incappucciata di neve sui pinnacoli del revival gotico, catafratta da lastroni di ghiaccio sui quali scivolavano grandi macchine silenziose, trascolorante di luminose insegne al neon, spettrale, vuota e insieme brulicante di vita (fino alle cinque del pomeriggio) mi tratteneva incantato accanto ai doppi vetri della finestra. Erano circa le quattro, ancora un’ora di vita restava alla città. Il mio fiato appannava debolmente il vetro interno. La camera era surriscaldata ma fuori il termometro segnava i ventidue gradi sotto zero. Squillò il telefono. Era il portiere dell’albergo. « C’è qui Frau Brentano Löwy » mi disse « che dice di avere un appuntamento con lei. Posso farla salire? » « Salga pure. » Doveva essere una di quelle intellettuali in turbante che si erano gratulate con me, la sera prima, alla fine della mia conferenza. Aveva chiesto un colloquio a quattr’occhi, un’intervista per un magazine illustrato a forte tiratura. La sua specialità era quella dei grandi uomini en pantoufles. In mancanza di uomini grandissimi si contentava anche di persone di mezza taglia, purché interessanti. Poche notizie indiscrete, una nota di colore, una fotografia e il pezzo era fatto. Intervistatrice professionale, dotata di fiuto e sensibilità, pagatissima a quanto mi avevano detto. Bussò alla porta ed entrò. Portava un turbante azzurro sovrastato da una piuma rossa, un tailleur molto attillato, una pelliccia costosa che tolse subito. Capelli scuri probabilmente tinti, età indefinibile, sui ’tacinque. « Un tè? » proposi. Accettò. Telefonai che convogliassero in camera due tè. « Non ho molte domande da farvi, signor Montana » disse. « Eccovi un piccolo questionario. Siete favorevole all’unione degli Stati europei? Unione federale con parziale rinunzia alle singole sovranità oppure semplice covenant difensivo, alleanza che metta in comune un potente

108 / 157 esercito? Credete che l’azione periferica dell’Unesco sia utile? Siete favorevole o contrario all’impiccagione del negro Mac Gee che si dice abbia violentato una donna americana160? Quale persona indichereste se doveste attribuire un premio della Pace? Credete che i diritti della donna siano sufficientemente tutelati in Italia? Preferite l’esistenzialismo ateo o quello cristiano? Pensate che la figuratività abbia ancora un senso nel campo delle arti visive? Siete favorevole o contrario alla eutanasia? Ritenete che una lingua basica europea sia di impellente necessità? In tale nuovo linguaggio vi pare che un contributo del tre per cento da parte della lingua italiana sarebbe sufficiente? » Si arrestò, sorbì un sorso di tè, poi riprese: « Cose semplici, come vedete. Aggiungo qualche domanda personale. Vi piacciono le bestie? Quali preferite? Siete sicuro di averle difese abbastanza? Preferite i gatti ai cani o viceversa? Avete svolto opera fattiva contro la vivisezione degli animali? » Tacque e mi scrutò attraverso l’occhialino. Seguì un attimo di silenzio interrotto dal tocco di una pendola. « Ho sempre creduto di preferire i gatti ai cani » dissi poi, scusandomi se cominciavo dalle risposte più semplici. « Più tardi la passione isterica di alcune signore per le tribù di gatti che le circondano mi fece volgere con interesse ai cani. Ma la mia conversione è recente, è dovuta al fatto che i cani (più che i gatti) restano nel ricordo, chiedono di sopravvivere in noi. Teoricamente sono contrario alla sopravvivenza e credo che sarebbe sommamente dignitoso se l’uomo o la bestia accettassero di sombrer nell’eterno Nulla. Ma in pratica - per eredità - sono cristiano e non so sottrarmi alla idea che qualcosa di noi può o addirittura deve durare. Il cane Galiffa di cui posso esibirvi la fotografia, egregia collega, è morto più di quarant’anni fa. In questa foto, che è l’unica di lui esistente, figura accanto a un amico mio, morto anche lui. Io sono dunque la sola persona che ancora conservi il ricordo di quel festoso bastardo di pelo rossiccio. Mi amava e quando fu troppo tardi l’ho amato anch’io. » « Passepoil » proseguii « fu il mio secondo cane, uno scottish terrier di purezza molto dubbia. Non ci amammo molto e lo cedetti ad alcuni amici. Non ne ho il ritratto, ma lui forse nei Campi Elisi dei cani, ricorda che lo salvai in uno scontro automobilistico. Il terzo cane fu Buck, un lupo. Era buono, molto affezionato a una mia tartaruga con la quale divideva i pasti. Quando fu incimurrito riuscii a mandarlo presso certi contadini, in Val di Pesa, presso Firenze. Ma la notte successiva egli fuggì e tornò a casa, dopo un viaggio di trenta chilometri. Il cimurro cresceva e una puntura avvelenata lo tolse di mezzo. Non lo vidi morto. Eutanasia o quasi, Frau Brentano, come vede siamo quasi in argomento. Il quarto cane era Pippo, uno Schnautzer di razza. È nato nella villa di Olga Löser, una casa tra gli ulivi con dentro otto quadri di Cézanne161. La vecchia padrona è morta, io sopravvivo. Pippo vive pure in una città delle Marche. Era molto permaloso e non mi perdonò mai di averlo regalato. Ma a un certo punto la vita mi impedì di tener cani. »

160 Il processo di Willie McGee è un caso penale che ha interessato l’opinione pubblica mondiale. McGee è stato accusato di stupro ed è stato giudicato colpevole da una giuria composta esclusivamente da bianchi. 161 La villa in questione è la Villa Torri di Gattaia, dove il collezionista d’arte Charles Loeser e la moglie Olga, nata Lebert Kaufmann, tengono la loro collezione che include otto quadri di Cézanne. Dopo la morte di Charles, gran parte della collezione è stata donata al Palazzo Vecchio, mentre i quadri di Cézanne sono stati donati alla Casa Bianca (MCF: voce La donazione Loeser in Palazzo Vecchio).

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« Oh la vita! » disse Frau B.L. sospirando « la vita in Italia! Ho ricordi meravigliosi dell’Italia, dove sono stata a lungo. Terra adorabile, ma gli uomini... se sapeste come ho dovuto lottare... Sempre pronti all’agguato! Siete come gli altri voi? o siete diverso? » Una lacrima le rigava una guancia, inoltrandosi con difficoltà fra la cipria, due occhi di fuoco mi scrutavano. Con voce mozza dissi alcune parole. « Sì, Frau B.L. sono diverso, molto diverso (e vedendo in lei un moto, forse di delusione)... ma in fondo, no, non troppo diverso (e temendo un gesto aggressivo)... ma in definitiva credo di sì, diverso, diverso da tutti. » Sudavo, ogni parola mi pareva una terribile gaffe. Squillò il telefono. « È giunta la macchina di Frau Brentano » disse il portiere. « Vi ringrazio delle interessanti dichiarazioni, signor Fontale » disse la signora estraendo il bastoncino del rossetto. « Farò notare... la vostra diversità. » Uscì con un cenno del capo. Più tardi mi mandò un ritaglio della rivista. Non vi si parlava né di cani né di agguati maschili ma di Herr Puntale e del moderno problema dell’Angoscia.

(1952)

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XVI. POETA DI FRONTIERA

‘Poeta di frontiera’, articolo pubblicato per la prima volta sul CdS del 23 dicembre 1952 (Barile, n. 582), è la penultima intervista della raccolta, ne segue ancora una con Anthony Van Hoboken (prosa XXI). Ambientata a Lugano, ossia il principale centro urbano della Svizzera italiana, la conversazione con Francesco Chiesa riprende il tema dell’italianità in Svizzera. Si fa accenno all’importanza dell’arte italiana nell’ambito svizzero e al progressivo germanizzarsi del cantone, già menzionato tra l’altro nella prosa I. L’espansione della Svizzera alemannica minaccia la cultura e l’importanza dell’italiano in Svizzera, ragione per la quale il testo menziona l’idea di fondare un’Università della Svizzera italiana, che difenderà il patrimonio italiano. Francesco Chiesa si raffigura inoltre come il portavoce della cultura italiana in Ticino e lui esprime lo speranzoso messaggio che non «si giungerà a mutare i connotati italiani del Ticino», opinione contraria a quella espressa da Henri de Ziégler nella prosa III a proposito dei cantoni romandi.

Cassarate, la frazione di Lugano nella quale abita Francesco Chiesa, è nel mio recente ricordo uno scenario di neve e di silenzio. Vi scorrono macchine e filobus con un passo così felpato che l’aria quasi non ne vibra; e non vi giunge suono o bagliore dal lago che è a due passi ma resta invisibile. Dunque il più che ottuagenario Francesco Chiesa (nato a Sagno, sulla montagna di Chiasso, il 5 luglio 1871), non contento di aver trascorso la sua lunga vita in una piccola città avvolta nel cellophane qual è Lugano, si è poi scelto a Lugano stessa uno dei luoghi più umbratili. Il poeta Chiesa l’avevo visto una volta e mezzo prima di questo nostro più lungo incontro: dapprima a Firenze, nel palazzo dell’Arte della Lana, dove Ojetti aveva la redazione di « Pègaso »162; e un’altra volta (la mezza volta) a Lugano dove tenni una conferenza nel ’47, alla quale egli volle assistere sebbene gli mancasse l’animo di congratularsi col conferenziere (il quale, altrettanto intimidito, gli fu sempre grato, e dell’intervento e della fuga tempestiva). Più lunghi erano stati sino a ieri, com’è naturale, gli incontri scritti, sulla pagina, e cioè non per diretta corrispondenza perché Chiesa non deve essere uno scrittore di lettere, ma sulle pagine di Chiesa poeta e narratore. Sono gli incontri più proficui ma anche i più misteriosi per uno scrittore che viva fisicamente lontano dal suo pubblico. E tale è la sorte di quegli scrittori svizzeri, italiani e francesi soprattutto, che non può dirsi scrivano nella lingua del loro Paese perché la loro patria non ha una lingua sola e debbono cercare oltre frontiera quello spazio, quella eco, quello sfondo che la piccola Elvezia ad essi non potrebbe consentire. Anch’essi hanno sicuramente il loro pubblico; ma ne hanno uno che è meno tangibile di chi scrive in un centro e parla da un centro. Scrittori periferici compiono un processo diverso, e inverso, degli

162 Ugo Ojetti (1871-1946), scrittore e giornalista italiano, è il fondatore di ‘Pègaso’ (1929-1933), rivista mensile di letteratura (Treccani: ad vocem).

111 / 157 altri autori, e il loro discorso ha spesso i caratteri di un soliloquio o di un dialogo con chi non risponde. « Da ciò consegue » dico a Francesco Chiesa, tanto per dargli esca « quella sorta di ‘complesso d’inferiorità’ che si avverte in certi scrittori della Svizzera romanda. A Ginevra, la fanatica città che divenne poi una culla di universalismo, le settembrine Rencontres Internationales che là si tengono da alcuni anni, si risolvono in una serie di dibattiti franco-suisses dove di internazionale si vede veramente poco. Lo scrittore svizzero (francese) guarda a Parigi con attonita ammirazione e da Lutetia163 è sempre pronto a ricevere l’imbeccata. Morto Robert de Traz che vent’anni fa aveva creato con la ‘Revue de Genève’ una rivista veramente aperta, nulla di simile è stato più tentato164. Per fortuna, o per disgrazia, l’Italia non ha una Parigi e forse per questo voi scrittori ticinesi non vi sentite, nei riguardi degli altri scrittori italiani, dei parenti poveri. » « E vero » mi dice Chiesa « parenti poveri non ci sentiamo. Ma nemmeno ricchi. » Guardo il volto aureolato di canizie dell’autore di Tempo di marzo. Magro, di statura non alta, baffi cortissimi e candidi, una fettuccia di taffetà sulla guancia destra, occhi chiari e quasi puerili, una cravatta color lampone, è il tipo dell’intellettuale mitteleuropeo. Potrebbe essere un direttore d’orchestra o uno psicanalista famoso. È stato invece un professore di lingua e letteratura italiana in quel Liceo cantonale di Lugano di cui fu anche « rettore » e di cui è incerto se si chiamerà domani Liceo Carlo Cattaneo o Liceo Francesco Chiesa165. Il salottino in cui ci troviamo potrebbe essere quello di uno qualunque dei mille presidi di liceo che vivono in Italia. Alle pareti è qualche pastello di Pietro Chiesa, suo minor fratello, minore perché più giovane di sei anni. Una silenziosa signora di età indefinibile posa su un tavolino una bottiglia di vermut e qualche biscottino, e poi sparisce. È la figlia del poeta; un altro figlio architetto vive in quel villino, sulla porta del quale più di un campanello porta listerelle col nome di Chiesa. Una tribù di artisti? Più o meno perché anche gli avi di Chiesa, a Sagno, hanno affrescato e dipinto la casa dei loro progenitori. Francesco Chiesa, da ragazzo, non pensava alle arti. Studiò legge a Pavia e, a laurea conseguita, nel '94, ottenne un posto di segretario presso il Tribunale distrettuale di Lugano. In quel tempo fondò anche una rivistina « radicale », « L’Idea Moderna »166 che ebbe breve vita. Professore diventò perché il titolare della cattedra d’italiano dovette essere improvvisamente sostituito da un supplente; e dalla larva di quel supplente in cravatta rossa (Chiesa era allora socialisteggiante) doveva uscir fuori poi Francesco Chiesa, cioè il solo scrittore ticinese di fama non soltanto locale che abbia espresso sinora il Canton Ticino. « Niente scapigliatura167, nessuna frequentazione di ambienti letterari » risponde a una mia precisa domanda.

163 Nome celtico dell’insediamento da cui si sviluppò la città di Parigi. Qui si legga come sinonimo di Parigi stessa. 164 Robert de Traz (1884-1951) crea nel 1920 la ‘Revue de Genève’ in cui pubblicano i più grandi scrittori europei del periodo interbellico (DSS: ad vocem). 165 Carlo Cattaneo (1801-1869), figura chiave del Risorgimento, in Ticino sostiene l’azione del gruppo dirigente liberale radicale (DSS: ad vocem). 166 ‘L’idea moderna’ è un quotidiano ticinese fondato nel 1895 da Emilio Bossi (1870-1920), politico svizzero che si impegna a favore dell’italianità del Ticino e che fonda nel 1897 l’Unione Radicale Sociale Ticinese (DSS: voce Bossi, Emilio). 167 La scapigliatura milanese è un movimento letterario, sviluppatosi tra il 1860 e il 1870, che riunisce scrittori accomunati dall’avversione verso la tradizione e animati dalla volontà di difendere l’autonomia dell’arte (Treccani: ad vocem).

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« Certo nella Milano del primo Novecento avrei potuto fare incontri importanti. Ma ho conosciuto solo Giacosa e Fogazzaro168, in Valsolda, a due passi di qui: Fogazzaro era un conversatore arguto, piacevole, sempre circondato di belle signore. Anche di Panzini fui amico. Scambiai qualche lettera col Gozzano169. No, non ho carteggi, non ho corrispondenze inedite, non ho nemmeno molti libri, o meglio ne ho molti in casse che non riuscirò più ad aprire. Là dentro c’è mezza letteratura italiana, con dediche autografe: ma niente di eccezionale. » Continua a parlare con voce arguta, senza inflessioni lombarde. Non è così forse, nei fatti, ma si direbbe che Chiesa abbia lungamente risciacquato i suoi panni in Arno170. Pochi lombardi parlano come lui. Anni fa gli avevano offerto la cattedra che al Politecnico di Zurigo fu occupata dal lettore Francesco De Sanctis, ma Chiesa preferì restarsene nel Ticino; un Cantone che non ha una sua Università. « L’idea di una Università ticinese » mi dice « sorse più volte ma non si tradusse mai in realtà. Se ne parlò quando il Lombardo-Veneto era austriaco, per ovvie ragioni: allora non era la stessa cosa mandare i propri figli a Pavia o a Milano171. Se n’è poi riparlato al principio del nostro secolo, quando si temette che il Ticino dovesse difendersi da un’invasione alemannica, cioè svizzero-tedesca. Invasione pacifica o meglio espansione, ma non meno preoccupante. Si tornò poi a discorrerne quando il fascismo andò al potere. I democratici ticinesi non gradivano che i loro rampolli soffrissero un contagio totalitario. Se non se ne fece nulla allora è da credersi che non ci si penserà più. D’altronde il Ticino è così piccolo che uscirne - magari solo per gli studi - è una necessità per un Ticinese. Un istituto universitario ticinese diventerebbe una fabbrica di avvocati e di medici a uso esclusivamente cantonale. » « E l’invasione di cui mi parlava è sempre pericolosa? » « Certo i nostri connazionali di lingua tedesca non hanno smesso di marciare verso il sud. Gli alberghi, i migliori terreni, le più belle ville sono acquistati da loro. Non credo però che si giungerà a mutare i connotati italiani del Ticino. Del resto, quando si andava in carrozza a cavalli e non esistevano ancora le automobili, a Lugano c’era già qualche Kursaal di architettura babilonese. E le tipiche osterie ticinesi, i crotti, Samuel Butler veniva a cercarsele sulle nostre montagne, non a Lugano. »172

168 Giuseppe Giacosa (1847-1906), drammaturgo italiano, esordisce con commedie per poi dedicarsi al trattamento di problemi sociali. Le sue opere teatrali più famose come I diritti dell’anima (1894) e Come le foglie (1900) dipingono la vita di personaggi in crisi (EB: ad vocem). Antonio Fogazzaro (1842-1911) è un romanziere italiano che nelle sue opere indaga il conflitto tra fede e scienza, e tra cattolicesimo e società moderna (Treccani: ad vocem). 169 Guido Gozzano (1883-1916) è l’esponente principale del crepuscolarismo, movimento letterario dell’inizio del Novecento che si oppone con la sua poesia caratterizzata da nostalgia, da malinconica e dall’attenzione delle piccole cose allo stile retorico di Gabriele d’Annunzio (Treccani: ad vocem; Ibid: voce crepuscolarismo). 170 Con la frase ‘riasciaquatura in Arno’, Alessandro Manzoni (1785-1873) indica la revisione linguistica dei Promessi Sposi che si avvicina al fiorentino colto dell’Ottocento (SDA: voce Alessandro Manzoni e la riasciacquatura in Arno). 171 L’Università della Svizzera italiana nasce nell’ottobre del 1996, quando il Gran Consiglio approva la costituzione delle facoltà di scienze economiche e communicazione a Lugano e dell'Accademia di architettura a Mendrisio (USI: voce Storia). 172 Samuel Butler (1835-1902) trascorse frequentemente le vacanze in Svizzera alla ricerca di luoghi pittoreschi poco frequentati dai turisti che poi descrive in Alps and Sanctuaries of Piedmont and the Canton Ticino (1881) (DSS: ad vocem).

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Il discorso svia su recenti scrittori ticinesi. Ce n’è molti e ne hanno composto anche antologie. Chiesa ha una parola di simpatia per tutti a cominciare da Piero Bianconi173 ch’è il suo preferito. Uno di questi, Arminio Janner, morto due anni fa, aveva compiuto il tour de force di nascere nel solo villaggio ticinese di lingua tedesca: Bosco Vallemaggia174. Professore a Basilea, fu un critico italianissimo, fedele, fin troppo!, agli insegnamenti del suo De Sanctis. Il nome che ricorre più spesso è quello di Zoppi, al quale tanti scrittori italiani debbono il loro primo incontro con la Svizzera. L’unico scrittore ticinese di cui non si faccia parola è Francesco Chiesa, premio Schiller, dottore honoris causa di quasi tutte le università svizzere, membro di non so quante commissioni per la tutela del paesaggio e dei monumenti, il più grande difensore del nostro linguaggio in una Confederazione in cui gli Italiani di lingua sono una esigua minoranza. Poi, costretto dalla mia insistenza, « l’artefice malcontento » (così Chiesa ha intitolato la raccolta delle sue poesie pubblicate nello « Specchio » di Mondadori) deve dirmi qualcosa di sé. Poiché gli faccio notare che in quel volume mancano i sonetti di Calliope (1903-1907)175 egli si alza, esce, e torna con una copia di quel vecchio libro. Un esemplare molto sciupato coi segni in margine di infinite correzioni. È un vero poema diviso in tre parti e nulla, nemmeno il numero dei sonetti, vi è casuale. Ad apertura di libro ritrovo una strofa che mi era piaciuta tanti anni fa: Grande nel buio un candelabro, solo - s’aderge: spande le possenti rame - ove par ch’un miracoloso sciame - d’ignee farfalle, ecco, trattenga il volo176. Perfetto, se non fosse per quell’eco che al nostro orecchio d’oggi sa di zeppa177. Tornano alla mente i « ferri battuti » di Giovanni Camerana178. Ben peggiori difetti vi riconosce oggi il Chiesa, che non ama più l’intelaiatura e la forma di quella poesia parnassianamente179 martellata e bulinata, tipica di un paio di generazioni che scopersero Baudelaire senza dimenticarsi del Carducci. Cadute le ambizioni poematiche Chiesa cercò poi forme più libere, talvolta barbare180, senza sciogliersi mai da una certa durezza dove non sai se l’intimo impaccio sia una grazia di più o una fatica non dissimulata. In questo ingiallito esemplare di Calliope Chiesa ha inserito un foglietto che contiene, scritto di suo pugno, un inedito recentissimo. Ecco due strofe, le sole che mi par di decifrare con sicurezza:

173 Piero Bianconi (1899-1984), lettore di italiano all’Università di Berna tra il 1935 e il 1936, ha tradotto in italiano opere tra altri di Goethe, Butler, Voltaire (DSS: ad vocem). 174 Il villaggio dell’Alta Vallemaggia dove nasce Arminio Janner (1886-1949), dal 1931 fino alla morte titolare della cattedra di letteratura italiana all’Università di Basilea, si chiama Bosco Gurin (DSS: ad vocem). 175 Calliope è una trilogia epica che si divide in tre parti: La cattedrale, simbolo del Medioevo, epoca in cui dominano i sentimenti religiosi, La Reggia, il palazzo dei principi del Rinascimento e simbolo dello spirito universale e La città, rappresentativa del periodo moderno (PEPP: voce Chiesa, Francesco). 176 Prima quartina del sonetto LI di La cattedrale (cf. nota 175). 177 Con “zeppa” si intende l’artificiosa introduzione di una parola in un verso affinché la metrica ne venga rispettata. 178 Giovanni Camerana (1845-1905) è un poeta appartenente alla scapigliatura (cf. nota 167). Con “ferri battuti” si intende ferro modificato a martello per la produzione di ornamenti. Qui si legga come riferimento allo stile di Camerana che, secondo la tradizione del poeta faber, modifica come un artigiano i suoi versi per rispettare la metrica. 179 Il parnassianismo è una scuola letteraria francese della seconda metà dell’Ottocento che teorizza una poesia di estrema purezza formale. 180 La metrica barbara, termine coniato da Giosué Carducci (Odi Barbare, 1877) è una forma metrica che riproduce la misura dei versi latini nella metrica accentuativa italiana e che suonerebbe barbara all’orecchio dei Greci e dei Latini (Treccani: ad vocem).

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Ben vedo sui margini della mia strada erbe alberi pallidi farsi, men verde la terra, velarsi di cenere monti e campagne. … Lunga ombra d’alcuno che vien preceduto dall’ombra sua, d’uno che viene con dietro le spalle una luce, e sul lastrico l’ombra precede...181

Tutto è diverso; eppure dopo più di quarant’anni da Calliope, ritroviamo lo stesso respiro faticoso e grave; sono mutati gli schemi non l’animo di questo poeta di frontiera che non sa scherzare con le parole e che (prosatore talora arguto e leggerissimo) con una ostinazione che ha spesso avuto il suo premio ha sempre voluto tenere la poesia un tono più su della prosa. La neve picchietta sui vetri e si è fatto buio. Mi congedo dal poeta e prendo posto in una macchina che mi accompagna all’albergo. Guida l’architetto Chiesa, col quale tento di parlare d’architettura. Ma il viaggio è breve, e il silenzio di Lugano impellicciata di neve è di breve durata. Il ristorante è occupato da un banchetto di bandisti locali, i ghirigori dei flauti e dei clarinetti straziano gli orecchi. Il baccano è veramente italico. Trovo alcuni amici che parlano animatamente di Wally Koretzky e del processo che ha messo in moto tutta la magistratura luganese182. A fatica nascondo in tasca il volume giallo di Calliope e il foglietto del prezioso inedito. Era destino che il più silenzioso colloquio della mia vita dovesse terminare con un lungo a solo di trombone.

(1952)

181 Rispettivamente seconda e ultima delle sei quartine di La grande ombra della raccolta Alla gioia fuggitiva e altre poesie, curata da Elsa Nerini Baragiola (Soldini: 201). 182 Il 17 dicembre 1952 si conclude a Lugano il processo di Wally Kuretzky, una gioielliera tedesca che aveva ingannato Mario Ruspoli di Sforma, alterando di tre zeri una ricevuta di 100.000 lire in modo da risultare sua creditrice per 100 milioni (Soldini: 201-202).

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XVII. SPORTIVO INGLESE

Il testo è pubblicato originalmente sul CdI del 24 gennaio 1953 (Barile, n. 592) ed è l’ultimo, dopo le prose X e XIV, che è ambientato a St. Moritz. La prosa si mette inoltre in stretta relazione con la prosa X poiché il «criminoso articolo» a cui si fa riferimento è proprio la prosa intitolata Da Saint Moritz di questa collezione. La prosa X si è presentata come punto di svolta nella rappresentazione della Svizzera, poiché il carattere idillico è da qui relegato in secondo piano. ‘Sportivo inglese’ riprende direttamente questo filo e dimostra di nuovo come il grande spirito, ossia «l’aria dell’Engadina» evocata nella prosa X, è veramento sparito. I tempi gloriosi di St. Moritz in particolare e per entensione della Svizzera sono veramente tramontati e oggi la città non è più visitata da grandi spiriti, come Nietzsche e Segantini, ma è piena di «scomodi turisti polari, armati di bastoni, di thermos, di cestini di viaggio [e] di noiosi annoiati che sbadigliano pretendendo di divertirsi e [che] attendono con ansia l’ora della canasta serale». Il falso inglese diventa figura emblematica di tale superficialità e ignoranza.

Si può venire in Svizzera per molte ragioni. Nell’alta stagione invernale c’è chi ama imbacuccarsi di pelo, porre sotto gli scarponi lunghe spatole di legno, farsi condurre ai piedi di uno ski-lift, adagiare le proprie natiche su un bastone arcuato che rimorchia in alto, e poi, giunti lassù, lasciarsi scivolare lungo un pendio o buttarsi col ventre su una slitta che sfreccia su impervi canaloni per condurvi dritta dritta in perfetti ospedali ortopedici di dove si esce immancabilmente avvolti da camici di gesso, pronti a recitare la parte di statua del Commendatore nel Don Giovanni183. Personalmente non appartengo a questa categoria di scomodi turisti polari, armati di bastoni, di thermos e di cestini da viaggio; a questa rispettabile ed elegante classe di noiosi annoiati che sbadigliano pretendendo di divertirsi e attendono con ansia l’ora della canasta serale. Un pingue e ricco signore che incontro spesso in trattoria, qui a Milano, passa invece gran parte dell’anno in Svizzera per ragioni che non ho ben potuto appurare: ragioni di efficienza sociale, di disciplina, di igiene mentale. Egli non mi conosce personalmente ed io ignoro il suo nome. Ciò non gli ha impedito di identificare in me l’autore di un criminoso articolo184: nel quale io affermavo che la stagione estiva a Saint-Moritz non è più così lunga e così redditizia come in altri tempi; e che non tutti i quadri di Segantini esposti a Saint-Moritz Bad due o tre anni or sono erano tali da destare entusiasmo. Da allora, quando mi vede entrare al ristorante, il pingue

183 Don Giovanni (1787) è un’opera lirica di Mozart su libretto di Lorenzo Da Ponte. Nel I atto il Commendatore è ucciso da Don Giovanni, ma torna, nel II atto, sotto forma di statua per punirlo. 184 L’articolo in questione è la prosa X di questa raccolta: Da Saint-Moritz.

116 / 157 signore si rivolge ai suoi compagni di tavola e ad alta voce, guardandomi di sottecchi, porta il discorso sull’argomento che gli duole: - Eh se i giornali mandassero in giro gente meglio qualificata... Abbiamo molto da imparare dalla Svizzera anche se certi scriteriati... Questo panciuto individuo che della libera Elvezia ignora probabilmente tutto (da Rousseau a Jung, da Calvino a Karl Barth) è convinto che io abbia voluto assassinare la nobile nazione ch’egli considera (con inconsapevole ingiuria) come una sua seconda patria. Conosco invece un altro signore - pure italiano - che passa spesso le sue ferie in Svizzera per praticare uno sport da lui inventato: quello del « falso inglese ». Ho indovinato le ragioni che lo spingono a recitare questa parte fuori dell’Inghilterra. Infatti nelle isole britanniche gli Inglesi sono merce comune, non amano né se stessi né gli stranieri di passaggio e non riescono a « far gli inglesi » decentemente in casa propria. Per far l’inglese occorre un altro ambiente, un mondo educato, neutro, sostanzialmente scomodo ma in apparenza confortevolissimo. La ferina (nel suo ultimo fondo), indaffaratissima e troppo travagliata Albione185 è proprio l’ultimo paese del mondo in cui si possa far l’inglese con qualche vantaggio. Probabilmente il falso inglese che conosco io, e che da anni cerco invano di emulare, non ha potuto nascondere la sua vera identità alla direzione dell’albergo che lo ospita e al suo occhiuto concierge; ma non importa: esaurita la consegna dei « documenti » il gioco è cominciato dopo. E il gioco consiste nel rinunziare a qualsiasi manifestazione sportiva, nel restarsene tutto il giorno nella hall consumando alle ore debite tea and cakes e nell’accettare senza batter ciglio il menu dell’albergo, anche se questo offra quelle deprecabili pietanze che i clienti italiani, dopo aver lanciato pittoresche imprecazioni in romanesco, sostituiscono con sanguigni filetti ai ferri o con zebrate paillards di vitello. Se la lista porta, per esempio, Irish stew, dolciastra miscela di montone bollito e di carote e di piselli in scatola, il falso inglese infilerà con la forchetta ogni lacerto di caprone, ogni pezzetto di carota, ogni pisello, e li inghiottirà con religiosa cura come fingerà di aver ingerito, a casa sua, ad ogni far del giorno, una serie infinita di aringhe affumicate e di zuppe d’avena. Il falso inglese fuma sigari olandesi e beve il caffè che gli portano, senza chiedere il caffè filtro; sprofondato in una poltrona egli passa il pomeriggio leggendo articoli sull’oligarchia bernese del Settecento e sulle opinioni che ne riportò il grande Gibbon186 scruta diligentemente le notizie della « Gazette de Lausanne » senza dimenticare gli annunzi funebri, e finisce magari la sua giornata scorrendo un libro della biblioteca dell’albergo, scelto tra i più inoffensivi, da Wilkie Collins a Ouida187. Il falso inglese è gentile con tutti e non parla con nessuno; dalle labbra non gli esce che qualche « chiù » di ringraziamento se qualche attenzione gli viene rivolta da altri stranieri o da tavoleggianti. Il falso inglese indossa, la sera, quell’abito nero che gli Italiani - non gli Inglesi - chiamano smoking e lo porta con disinvoltura come se avesse anni di

185 Antico nome (forse celtico) della Gran Bretagna che a partire dal quarto secolo è sostituito da Britannia (Treccani: voce Albione). 186 Lo storico inglese Edward Gibbon (1737-1794), autore della Lettre sur le gouvernement de Berne (1763) soggiorna tre volte a Losanna tra il 1753 e il 1793. Nella Lettre Gibbon critica l’oligarchia di Berna ed esprime invece preferenza per una monarchia temperata (Treccani: ad vocem). 187 Il romanziere inglese Wilkie Collins (1824-1889) scrive soprattutto romanzi polizieschi, come The woman in white (1860), che appaiono spesso a puntate (Treccani: ad vocem). Ouida, pseudonimo della scrittrice inglese Marie Louise de la Ramée (1839-1908), è famosa per i suoi melodrammi romantici (Ibid: ad vocem).

117 / 157 allenamento. La notte di San Silvestro il falso inglese assiste al réveillon danzato ma non balla perché non sa ballare o perché non conosce nessuno. Si fa portare un secchio con una bottiglia di champagne brut, si lascia mettere in testa un berrettino di carta colorata, imbocca una trombetta e suona con gli altri, avvolto di stelle filanti, beato e istupidito. Quando la mezzanotte suona e l’orchestra tace e la sala piomba per un attimo nel buio e tutti i presenti si alzano e levano i calici e i turaccioli sparano e cominciano gli abbracci e i brindisi e gli auguri, il falso inglese si alza anche lui, leva lo stelo del bicchiere e beve alla salute di se stesso o di qualche persona lontana. Poi, se i balli riprendono, egli si alza dignitosamente, mormora un « chiù » di ringraziamento a chi gli cede il passo, soffia un secondo « chiù » al ragazzo del lift che gli apre la porta e si lascia dignitosamente risucchiare verso la sua camera. Il giorno dopo, correttamente vestito di grigio, egli è fra i primi a scendere per il breakfast. Ha l’aria di essersi rassegnato al piccolo pasto « continentale » senza porridge e senza salsicce di Stato e si accontenta di tè e di fettine di pane imburrato. L’albergo è deserto: gli altri dormono ancora o sono partiti, truccati da orsi, verso le loro funicolari. Il falso inglese si allunga su una poltrona e toglie il segnalibro da un vecchio romanzo illeggibile. Guarda i fiocchi di neve che sfarfallano sui vetri, tenta invano d’accendere il suo sigaro con un lighter inevitabilmente guasto, strofina uno svedese sulla scatola, dà fuoco al sigaro, una spirale di fumo dolcissimo si svolge. Il falso inglese reclina la testa, legge, nuota nel fumo, dorme, sogna. Domani partirà. Per dove? Io solo lo so. Non conosco il nome di questo signore, che incontro talvolta per le vie di Milano, trasformato in un loquace e infastidito cittadino ambrosiano. Non so s’egli abbia notato me come io ho notato lui. Non so s’egli sappia che da anni cerco invano, ostinatamente, di imitarlo. Non so s’egli sia stato mai in Inghilterra e se vi abbia provato la stessa ammirante noia che ho provato io. So solamente che in una immaginaria associazione di Amici della Svizzera la presidenza dovrebbe toccare a lui e a me la vicepresidenza; restando confinato al posto di bidello il pingue signore che quando mi vede entrare in trattoria si rivolge agli amici e ripete ad alta voce: - Eh questi giornalisti viaggianti... Un po’ di prudenza, un po’ di tatto non guasterebbe...

(1953)

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XVIII. CINQUE SECOLI DI PITTURA VENEZIANA A SCIAFFUSA

Il testo, pubblicato per la prima volta sul CdS del 3 giugno 1953 (Barile, n. 615), parla, dopo l’accenno al processo di conversione in senso germanico dei cantoni romandi nelle prose precedenti (tra l’altro le prose I, III e XVI), della presenza italiana nella Svizzera tedesca. La mostra descritta dimostra che il prestigio dell’arte italiana «in queste terre è assai più alto che in passato», fatto di cui la trasformazione della Legazione italiana a Berna in Ambasciata è una prova diretta. La forza dell’arte italiana si presenta pertanto come meccanismo difensivo contro l’espansione della Svizzera alemannica. Tuttavia questo prestigio non deve essere sovrastimato visto che i curatori della mostra non ritengono necessario elaborare con cura la parte italiana del catalogo e visto che gli abitanti di Sciaffusa non sono veramente bendisposti verso i «diabolici [...] turisti italiani che si spingono fin qui». Il testo riprende anche il filo degli Svizzeri che tentano invano di conservare il carattere idillico e tradizionale del loro paese come modo per rivivere il passato nostalgico, evocato nei testi precedenti. A Sciaffusa infatto hanno «proibito [...] l’illuminazione al neon per non sciupare il suo aspetto antico».

Uno striscione che porta la scritta « 500 Jahre Venezianische Malerei »188, una testa di capro, una bandiera italiana sventolante al vento: ecco come si presenta, nella semideserta città di Sciaffusa, l’ingresso al museo di Tutti i Santi (Museum zu Allerheiligen) dove sono raccolti 113 quadri di maestri veneziani. Cinque secoli di grande pittura qui in mostra dal 2 maggio al 19 luglio; centotredici opere provenienti in parte dall’Italia, in parte dalla Francia, dalla Germania, dall’Austria, dall’Olanda, dalla stessa Svizzera e dagli Stati Uniti. Un’antologia, s’intende, nella quale manca ciò che per varie ragioni sarebbe pazzesco esportare; ma tale da lasciare a bocca aperta i mille visitatori che giornalmente vi affluiscono. Se si pensa che lo Stadtpräsident dottor Bringolf ha dovuto lottare non solo contro Basilea, che aveva chiesto l’onore di ospitare questa mostra, ma anche contro il parere negativo del Consiglio superiore (italiano) delle Belle Arti, si deve concludere che Sciaffusa ha ragione di affidare la più alta carica cittadina a un uomo tanto attivo e insostituibile da far dimenticare le sue origini politiche accesamente « rosse »189. Superando ogni ostacolo il Bringolf ha vinto la sua partita ed oggi uno dei più tenaci oppositori della opportunità di far viaggiare opere tanto preziose, il prof. Lionello Venturi, figura cavallerescamente fra i membri del Comitato d’onore,

188 La mostra 500 Jahre venezianische Malerei - Gemälde der venezianischen Malerei von Bellini bis Tiepolo si tiene dal 2 maggio al 19 luglio 1953 al museo di Tutti i Santi a Sciaffusa. 189 Walther Bringolf (1895-1981): capo del Partito socialista svizzero dal 1952-1962, ha fatto dell’accesso degli operai all’alta cultura il punto principale del proprio programma politico (DSS: ad vocem).

119 / 157 accanto ai Presidenti Einaudi ed Etter, al ministro Segni e al nostro ambasciatore a Berna, Egidio Reale, che ha scritto due belle pagine di presentazione al catalogo190. Mille visitatori al giorno sono molti in una piccola città che ha tutta l’aria di essere una città morta, in una città che ha proibito persino l’illuminazione al neon per non sciupare il suo aspetto antico. Ma il mistero è comprensibile da chi sa che Sciaffusa, grande centro industriale, è solo un'apparente città morta e che la sua posizione geografica di enclave ne fa un luogo adattissimo ad ogni sorta di manifestazioni e festival191. In ogni modo, anche tenendo presente questo fatto, il pubblico che affluisce alla mostra portandosi dietro sgabelli, lenti d’ingrandimento e cestini da viaggio, la folla che ritroviamo più tardi nelle sale del Rathaus o del Casinò o nella chiesa di San Giovanni per il quarto festival internazionale bachiano ha veramente qualche cosa di misterioso192. Solitudine, altiforni, opifici, molto Bach, molta Kunst, l'estenuazione del Foehn193, del caldo vento che soffia da Glarona, qualche faticoso volo di cigno, due o tre pescatori sfiduciati sulle spallette del Reno, ecco quel che può essere il riassunto di una giornata sciaffusana di questa stagione: un vuoto, un deserto che improvvisamente si riempie di una folla silenziosa che talvolta è fitta, ma non è mai rumorosa o ingombrante. Solo qualche robusta ragazza italiana, esprimendosi nel suo dialetto, fa sentire la sua voce. Qualcuna ha tra le braccia un bambino che vi saluta dicendovi « ciao », « addio ». Certo sono passati i tempi in cui chi parlava italiano in Svizzera era guardato di traverso; e se anche il grigionese dott. Guyan194, direttore del museo, non dispone di un buon revisore di bozze per la parte italiana del catalogo (strano però nella quadrilingue Svizzera!) si può affermare che il nostro prestigio in queste terre è assai più alto che in passato. Non per nulla è accaduto che la Legazione italiana a Berna sia stata trasformata in Ambasciata per espresso desiderio del Governo svizzero, fatto straordinario che da noi non è stato rilevato abbastanza. A Egidio Reale, ch’era già il nostro più degno rappresentante, fin dai tempi in cui egli non era né ministro né ambasciatore, ma semplicemente un esule195, è stato offerto un riconoscimento che onora, con lui, tutto il lavoro italiano in Svizzera. Ora, in punta di piedi, dovremmo percorrere l'itinerario del museo, dire quali sono i migliori pezzi esposti e che effetto facciano ai visitatori armati di sgabelli e di lenti. Chi ama la pittura moderna (e la Svizzera conta accaniti collezionisti d’arte nuova), chi voglia, magari a torto, ricercare in questi cinque secoli i germi dei frutti maturati più tardi al sole degli ismi contemporanei non ha che da sbizzarrirsi, quasi in ogni sala. Nel nostro ricordo restano soprattutto gli angeli del trecentesco Guariento, la « Junge Frau bei der Toilette » di Giovanni Bellini, proveniente da Vienna, i due Giorgione di Braunschweig

190 Lionello Venturi (1885-1961): storico dell’arte italiano (Treccani: ad vocem). Antonio Segni (1891-1972): ministro della Pubblica Istruzione dal 1951 al 1954 (Ibid: ad vocem). Egidio Reale (1888-1958): ambasciatore della Repubblica italiana in Svizzera dal 1953 al 1955, scrive la prefazione del catalogo della mostra, pubblicato presso l’Unionsdruckerei nel 1953 (DSS: ad vocem). 191 Büssingen, comune nei pressi di Sciaffusa, è una enclave tedesca nel cantone Sciaffusa. 192 La città di Sciaffusa organizza biannualmente fin dal 1946 la Internationale Bachfeste. 193 Tipico vento caldo della regione alpina, proveniente dal Sud, è prodotto dall’alta pressione che spesso domina sulle Alpi (Treccani: voce föhn). 194 Walter Guyan (1911-1999), dottore in geografia, tra il 1942 e il 1972 è presidente del museo Tutti i Santi a Sciaffusa (DSS: ad vocem). 195 Egidio Reale si rifugia nel 1926 in Svizzera perché condannato al confino di polizia per la sua opposizione al fascismo (Ibid: ad vocem).

120 / 157 e di Vienna, la tizianesca « Crocifissione » di Ancona, il « Ritratto di donna » del Veronese (Museo di Douai), « Cristo e l'adultera » di Tintoretto coi suoi sfondi quasi dechirichiani (Museo di Amsterdam), L’« Andromeda e Perseo » del Feti (Vienna) e il formidabile Piazzetta del Museo Wallraf-Richartz di Colonia, una grande marina che sembra dipinta in collaborazione da Rembrandt, da Courbet e da Turner. Il Tiepolo, assai ben scelto, è avvincente e il Guardi e il Canaletto chiudono la mostra assai degnamente, riportandoci dal cielo in terra. Uscendo troviamo il vuoto nelle strade che conducono all’ex-convento benedettino che ospita il Museo. Per quali cunicoli sotterranei riemergono gli spettatori che un’ora dopo applaudiranno Silvia Kind nel « Concerto italiano » di Bach? E con quali mezzi a noi ignoti potranno poi volatilizzarsi? Non lo sapremo mai. Sciaffusa, che come ogni altra città svizzera si rifiuta di parlare il tedesco classico, resta in questo uno degli scenari in cui meglio immaginiamo nascosto, in ogni can barbone, il diavolo del « Faust ». Ma i suoi laboriosi abitanti non lo sanno e trovano assai più diabolici i pochi turisti italiani che si spingono fin qui. Parlo di turisti, naturalmente; gli altri, i lavoratori italiani che vi abitano stabilmente, si fondono assai bene nella neutralità dell’ambiente e hanno imparato a non dar nell’occhio.

(1953)

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XIX. PREZIOSE STOFFE ITALIANE AL PALAIS DE RUMINE DI LOSANNA

Il testo è pubblicato per la prima volta sul CdS del 12 giugno 1954 (Barile, n. 674) ed è il secondo ambientato a Losanna. Mentre il primo ha sviluppato il tema dell’Europa come fatto culturale e del ruolo della cultura italiana nell’ambito europeo, qui torna il tema dell’italianità in Svizzera e in Europa. Grazie alla sua posizione nella raccolta, ovvero direttamente dopo un’altra prosa che parla di una mostra di arte italiana, viene sottolineata l’importanza appunto di tale arte, che non è soltanto influente all’interno del confine, bensì anche nell’ambito europeo. È infatti agli artigianati italiani che «si deve il primo impulso [all’]arte [del tessuto] a Bruges e nelle Fiandre» In questo modo l’Italia da esportazione non si limita a quella rusticana (prosa IX) e alla dolce vita (prosa XIII), ma si aggiunge anche il paese produttore di arte: non solo quella di alto profilo (prosa XIII), ma anche di quella artigianale.

Losanna, una delle città europee che più si sono distinte nel far buon viso all’attuale pittura d’avanguardia e che conta tuttora qualche importante collezionista dei più audaci ismi, è anche forse la città svizzera che più frettolosamente ha cancellato i suoi vetusti aspetti architettonici per rinnovarsi, per farsi moderna. C’è riuscita dal punto di vista urbanistico, a giudicare dai suoi bei viali, anche se certe sue superstiti strade a saliscendi ci facciano rimpiangere il tipico borgo ch’essa dovette essere un tempo. Ed oggi che la vediamo ospitare la mostra di un’arte che non potrebbe esser più vecchia, tanto che va scomparendo, quasi ne avremmo sorpresa se non riflettessimo che l’arte moderna tende all’arcaico e che la mostra in parola, la Mostra del Tessuto italiano d’arte, organizzata a cura del Centro internazionale delle arti e del costume di Venezia (palazzo Grassi), appunto perché raduna cimeli rari di un artigianato che nacque da noi sotto l’influsso dell’Oriente, ha autentici caratteri di novità196. Questa mostra, la prima che il Centro veneziano ha tentato all’estero, col concorso dell'associazione per gli interessi di Losanna, del Museo cantonale e del Centro di studi italiani in Svizzera, ha avuto ieri nella capitale del Vaud il suo lusinghiero battesimo in un avant- première che ha visto raccolte numerose autorità federali e cantonali e un folto pubblico d’invitati. L’ha tenuta a battesimo nelle belle sale del Palais de Rumine il nostro ambasciatore a Berna, Egidio Reale, con un discorso limpido e concettoso, e a lui ha fatto seguito il presidente del Centro di palazzo Grassi, principe Vitaliano Borromeo197; e non sono mancate altre allocuzioni da parte dei gentili invitati svizzeri; l’ultima, a tarda ora, è stata pronunciata a villa

196 Il catalogo dell’esposizione Le Tissu d’Art Italien Ancien et Moderne, allestita al Palais de Rumine dal 10 giugno al 29 agosto 1954, è apparso nelle edizioni del museo (Soldini: 203). 197 Vitaliano Borromeo Arese (1892-1982), principe di Angera, era il presidente del Centro Internazionale delle Arti e del Costume di Palazzo Grassi. In questo ruolo fa parte del comitato d’onore italiano della mostra accanto a Egidio Reale (cf. nota 190) (TAIAM: 9).

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Mon Repos, dove abitò Voltaire, dal signor Jaccotet che presiede all’istruzione pubblica del Cantone, durante un ricevimento che la municipalità di Losanna ha offerto ai convenuti198. « Parler chiffons - ha detto quest’oratore - voleva dire sinora, in francese, parlare di cose dappoco, di sciocchezzuole; ma ora che abbiamo ammirato questa mostra di tessuti d’arte italiani, parler tissus potrà avere ben altro significato; e obbligherà chi parla allo studio delle parole più ricamate ». Così è stato, infatti, e non solo da parte sua. Le tissu d’art italien ancien et moderne era la materia prima della mostra. Centoquarantatrè « pezzi » di valore inestimabile, in parte prestati da musei italiani, in parte dal Centro, sono stati incorniciati e presentati come quadri, con un effetto di suggestione che certo gli anonimi artefici di quelle stoffe, destinate ad altri usi, non potevano prevedere. Inutile dire che le sete, i velluti, i broccati e i broccatelli qui esposti sono lavori fatti a mano da un artigianato che a partire dal XII secolo ha trovato a Lucca e poi a Venezia, a Genova e a Firenze i suoi migliori maestri. (Da Lucca, dal XII secolo, i nostri artigiani sciamarono, in seguito alle vicende della città, un po’ dovunque e ad essi si deve il primo impulso di quell’arte a Bruges e nelle Fiandre). Solo da poco, negli ultimi anni, si sono avuti tentativi di tessuti stampati, vere e proprie stoffe illustrate « a rotocalco », nelle quali interviene l’opera di pittori veri e propri; e anche di questi lavori il Centro ha esposto settantun pezzi con motivi vari, tra i quali primeggiano quelli di Fede Cheti, di Mario Vellani Marchi e di Irene Kovaliska-Wegner (Positano)199. In un certo senso si potrebbe dire che questa di Losanna sia la prima mostra d’arte astratta che possa conoscere un totale consenso da parte del pubblico. Infatti l’arte figurativa del tisserand (per le accennate sue origini) è sempre stata un’arte stilizzata, emblematica: la zoologia e la botanica vi figurano a buon diritto prima dell’antropologia e della Storia sacra. Una flora e una fauna straordinarie (cervi con criniere di fuoco, elefanti con piume di pavone, più tardi il ricorrente simbolo del melograno che in Italia sostituisce il fior di loto cinese), una selva attraversata qualche volta da una divisa nobiliare come nella pianeta che porta il motto dei Soderini « Justus ut florebit »200, decorano queste inverosimili stoffe che prelati e gentildonne delle nostre Signorie e del nostro Rinascimento indossarono nelle grandi occasioni. Ed è convincente il tentativo di illustrare questi rari chiffons con quadri che rappresentano persone che indossarono simili bardature. Sette dipinti prestati da gallerie di Firenze e di Torino completano la mostra in questo senso201; e inoltre da alcune miniature del Virgilio della Laurenziana di Firenze sono state ricavate diapositive a colori, naturalmente ingrandite202.

198 Georges Jaccotet (1909-2001), avvocato svizzero, è dal 1950-1959 consigliere municipale di Losanna presso il dicastero delle scuole (DSS: ad vocem). 199 Fede Cheti (1905-1978) è il fondatore dell’eponima ditta tessile (Treccani: ad vocem). A Losanna sono esposti tra l’altro i suoi tessuti Carnaval de Chiavari, Vieux Milan e Caravage (TAIAM: 34-35). Mario Vellani Marchi (1895-1979), pittore e disegnatore italiano, espone a Losanna i suoi disegni Congo, Jardin e Poissons et coquillages (TAIAM: 36-37). Di Irene Kovaliska-Wegner (1905-1991) sono esposti tra l’altro i disegni Fioriture e Petit village (Ivi). 200 ‘Justus ut palma florebit’, ossia ‘fiorirà il giusto come la palma’, è il motto araldico della famiglia Sodorini di Roma. Il motto proviene dal Salmo 92:13. 201 Cinque quadri provengono da Firenze: dal Museo Horne, dal Museo Nazionale, dal Museo Bardini e dalla Galleria Palatini. Il quadro Trinfo dell’Amore (sec. XV) di Niccolò Fiorentino (1418-1506) proviene dalla Galleria Sabauda a Torini, mentre La légende de Griselda del Maestro dei Cassoni Campana (sec. XV) è della Galleria Estense a Modena (TAIAM: 33). 202 Il codice manoscritto in questione è conservato alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze (Laurenziano, Med. Pal, 69). Si tratta di un manoscritto latino, contenente le Bucoliche e l’Eneide di Virgilio, che è miniato

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Al Palais de Rumine il visitatore potrà ora, secondo il suo gusto, passare un’ora o intere giornate: la mostra è aperta al pubblico da oggi e resterà aperta fino al 29 agosto. Chi ama la pittura di Paul Klee rimarrà a lungo dinanzi ai bestiari che i contemporanei di Marco Polo hanno saputo imbalsamare in pallide sete che hanno ormai il colore del vecchio ulivo; chi vuol comprendere comme c'est fait, rivolterà il quadro e vedrà l’intreccio dei fili, il rovescio della medaglia, la laboriosa contropartita di un effetto che pareva elementare. Gli altri, gli spiriti forti, convinti che « indietro non si torna » andranno dritti al moderno per tentar di convincersi che la macchina può sostituire anche in questo campo il paziente lavoro dell’uomo, e ammireranno l’inventiva di artisti che stampano sul tessuto come si stamperebbe su un foglio di carta o su un vetro, per ricavarne « monotipi multipli » (è una recente trovata di un artista francese che non stampa su stoffe). Sia come si voglia, motivi di diletto e d’ammirazione credo non mancheranno a chi visiterà questa mostra, alla quale il dott. Feliciani del Centro di Venezia e il collega Gaetano De Luca hanno prestato tanto entusiasmo e tanta intelligente fatica.

(1954)

all’inizio del Cinquecento dal cosiddetto Maître de Virgile per conto di Jacques Courau, tesoriere di Jean de Valois (TAIAM: 33; Treccani: voce Virgilio Marone, Publio).

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XX. TUTT’ALTRO CHE TRAMONTATA LA CARRIERA DEGLI EXLIBRIS

La prosa XX della collezione, pubblicata per la prima volta sul CdS del 14 luglio 1954 (Barile, n. 679), riprende i fili dei temi dell’italianità in Svizzera e dello statuto dell’intellettuale. Innanzitutto il testo, ambientato a Lugano, fa riferimento alla pressione della Svizzera tedesca sul canton Ticino attraverso la descrizione della «clientela domenicale [che] era tutta alemannica», ragione per la quale «ci si ricordava ben poco che il Ticino è, o era sino a ieri, una regione italiana, s’intende nella lingua e nel costume». Si tratta di una situazione che richiama il bisogno della presenza italiana in Ticino, espresso esplicitamente alla fine della prosa I. Inoltre lo statuto dell’intellettuale, il cui fallimento era descritto dalla prosa XIV, è di nuovo messo in evidenza. Contrariamente alle prose dedicate agli Incontri Internazionali, dove gli intellettuali hanno un ruolo centrale nella società e dove discutono dei grandi problemi sociali, gli intellettuali si trovano qui in una piccola sala di una biblioteca dove discutono di questioni di cui l’ironico narratore afferma: «Pensavo che l’exlibris fosse un genere ormai in via di consunzione. Nessuno possiede più libri – pensavo -, nessuna ha tanto spazio da permettersi il lusso di una biblioteca».

Due grandi attrazioni ha Lugano: la cattedrale e il lago. Non salite però sino a Besso perché il mosaico che dovrebbe raffigurare San Nicolao della Flüe203 vi indurrebbe a riprender subito il treno. Memore di quel doloroso insulto al buon gusto dei ticinesi mi son tenuto in giù, ma la giornata era nuvolosa, sul lago volavano poiane e non gabbiani, la clientela domenicale era tutta alemannica e insomma ci si ricordava ben poco che il Ticino è, o era sino a ieri, una regione italiana, s’intende nella lingua e nel costume. Finii perciò per avviarmi verso il parco ove sorge la nuova biblioteca cantonale, una delle più moderne e razionali d’Europa (il che non sempre vuol dire architettonicamente brutta)204. Visto che la biblioteca era aperta vi entrai e con mia sorpresa trovai che in una sala un gruppo di persone di età più che media era assorto ad ascoltare un signore il quale, in buon tedesco e non in patois, trattava questo strano tema: « Esiste una effettiva cooperazione exlibristica internazionale? ». Fui presto informato che quella era la seduta conclusiva del secondo Congresso europeo dell’exlibris205, promosso dal centro italiano exlibris avente sede a Lenno (Como); e che il primo si era avuto l’anno scorso a Kufstein (Austria) nel mese di agosto. I partecipanti erano

203 Nicolao della Flüe (1417-1487), protettore della Svizzera, costruisce nell’autunno 1467 una capanna nella gola di Ranft dove si ritira in eremitaggio e vive per venti anni in meditazione e penitenza (DSS: ad vocem). 204 La biblioteca cantonale di Lugano è opera dell’architetto Rino Tami (1908-1994), che vince il concorso di progettazione nel 1937 e la costruisce tra il 1939 e il 1941 (DSS, voce Tami, Rino). 205 Il secondo Congresso Europeo dell'Exlibris si tiene a Lugano dal 10 al 11 luglio 1954. Il congresso è organizzato da Carlo Chiesa ed è presieduto dall’incisore Aldo Patocchi (1907-1986) (Fisae: voce II. European Ex-libris congress).

125 / 157 circa una cinquantina, fra collezionisti ed artisti, e le relazioni presentate hanno culminato, oltre a quella già segnalata, in argomenti quali: « Da Icaro ai moderni aeroplani nell’exlibris contemporaneo » a cura di uno specialista tedesco. Risultato concreto del Congresso: la creazione di una commissione che studi le modalità di una futura federazione internazionale delle associazioni dell’exlibris. Ne fa parte il fondatore del centro di Lenno, Luigi Filippo Bolaffio206. Più che il Congresso in sé, che poteva interessare soltanto un ristretto gruppo di specialisti, meritano l’attenzione le opere esposte qui alla biblioteca e a Villa Ciani, sempre nel parco comunale. Il congresso era infatti doublé di una doppia mostra che resterà aperta tutto il mese. A Villa Ciani sono esposti saggi su argomento unico: il nudo nell’exlibris, e sono rappresentati incisori di varie nazionalità, compresi gli italiani; le due salette della biblioteca espongono invece solo artisti italiani e gli argomenti sono liberi. Coloro che si astengono da questo profano argomento, il nudo (come se n’è sempre astenuto il più fecondo, anzi torrenziale exlibrista italiano, Bruno da Osimo207), hanno trovato qui la loro sistemazione. Naturalmente rapporto internazionale, e sia pure con le strettoie del tema d’obbligo, ha favorito la mostra di Villa Ciani, assai più ricca; ma poiché gli espositori non sono solo artisti ma anche collezionisti le due mostre hanno un interessante carattere retrospettivo. Forse è errato parlare di incisione perché le tecniche sono ormai molteplici, non escluse quelle fotomeccaniche; in ogni modo l’impressione prevalente è che l’exlibris resti un capitolo particolare del così detto bianco e nero; e infatti non stonano a Villa Ciani le stampe premiate nelle ordinarie Biennali, che Lugano promuove con molto successo. Io credevo, nella mia beata ignoranza, che l’exlibris fosse un francobollo o cartiglio raffigurante uno stemma (com’è nel caso dell’araldica) o un liocorno, o altra bestia, o un paesaggio o una qualsiasi figura emblematica, tale da richiamare il lustro di una casata; e intorno un bravo motto latino, più o meno lungo, più o meno vistoso a seconda dei meriti gentilizi della famiglia stessa; e supponevo che il proprietario di tale francobollo (in qualche caso più un papiro che un francobollo) provvedesse ad appiccicare questo memento illustrativo sul foglio di guardia di ogni libro di sua proprietà. E, sempre seguendo tale mia erratissima opinione, pensavo che l’exlibris fosse un genere ormai in via di consunzione. Nessuno possiede più libri - pensavo -, nessuno ha tanto spazio da permettersi il lusso di una biblioteca. Inoltre sarebbe bestiale fregiare di insegne tanto pretenziose i soli libri che si vendano: i libri gialli, i libri di genere leggero, le opere che magari si leggono ma non si conservano. D’altra parte (così continuava la mia riflessione) l’exlibris ha carattere aulico, illustre, il che vuol dire inevitabilmente ritardatario. Nessuno disegnava o dipingeva più come Aubrey Beardsley208 quando in Italia, e anche all’estero, i suoi sottoprodotti monopolizzavano lo « stile exlibris ». Nessuno dipingeva più nudi alla Gustave Moreau209 quando ancora meduse degne del peggiore Salon d’Automne adornavano i fogli dei nostri maggiori poeti. E così di seguito, di deduzione

206 Luigi Filippo Bolaffio è stato uno dei più importanti collezionisti di ex libris del Novecento. 207 Bruno Da Osimo (1888-1962): nome d’artista di Bruno Marsili, il principale exlibrista italiano. 208 Aubrey Beardsley (1872-1898): illustratrice celebre per l’innovativo stile che unisce motivi dell’arte classica a motivi tipici delle stampe giapponesi (Treccani: ad vocem). 209 I quadri di Gustave Moreau (1826-1898), pittore francese, sono pieni di sottile sensualità. Le sue opere, come Orphée (1886) e Prométhée (1869), sono state apprezzate dai surrealisti per il loro carattere fantastico (Treccani: ad vocem)

126 / 157 in deduzione, pensavo che l’exlibris avesse piuttosto un curioso passato che un presente o un avvenire. Ebbene, debbo dichiararmi battuto perché il genere continua come merce da collezione e anziché finire sui libri finisce su pagine d’album, tal quale come il francobollo raro o la pianta disseccata. Espongono a Lugano amateurs che dispongono di molte migliaia di pezzi e se li scambiano, maniaci o semplicemente affezionati il cui ingente patrimonio artistico può essere agevolmente contenuto in un paio di cassetti. Per lo più siffatti collezionisti non sono giovani e non amano l’arte avanzata. L’archetipo del loro gusto può essere indicato in un nudo di Walter Steinecke (Repubblica federale tedesca)210 in cui si torce una Venere che ha sparse attorno le sue vesti ed ha accanto al letto un grande specchio in cui ammirarsi. Migliori certe stampe sfumate di Richard Walter Rehn, addirittura eccellenti le punte secche dello svizzero Hans Erni (Lucerna), notevoli le incisioni in rame di Wim Zwiers (Olanda) e i disegni lineari di Ruvan Rossen, un artista che viene dall’Inghilterra211. Fra i collezionisti fedeli allo spirito tedesco indichiamo Hans Heeren e Joseph Lenze. Si tingono di piacevoli colori le stampe cecoslovacche possedute dal signor Otakar Hradecny. Un posto a parte hanno i grandi exlibris d’argomento religioso provenienti dall’abbazia di Einsiedeln. Gli italiani sono molti, collezionisti e autori. La punta più moderna è segnata da Aldo Galli (Como) che temo avrà pochi clienti. Bruno da Osimo e Giulio Cisari, l’arch. Angelini di Bergamo sono più fedeli alla tradizione. Aldo Patocchi è ticinese ma non si offenderà se lo citiamo fra gli italiani, con Tranquillo Marangoni, uno specialista ormai bene avviato, con l’interessante Parmexano, col Tramontin e con altri, troppi per essere ricordati tutti. Lodiamo infine, oltre al deus ex machina del Congresso, il Bolaffio, la bibliotecaria cantonale Adriana Ramelli che ha sorvegliato persino le iscrizioni italiane, nella parte che cade sotto la sua giurisdizione. Temo che, purtroppo, ce ne fosse gran bisogno.

(1954)

210 Oltre alla sua attività in quanto pittore e exlibrista, Walter Steinecke (1888-1975) si impegna politicamente: dal 1933 fa parte del Reichstag, ovvero il parlamento del Terzo Reich (Neureiter: 562). 211 La puntasecca è una tecnica incisoria di stampo in cavo eseguita con punte coniche di acciaio (Treccani: ad vocem). Hans Erni (1909-2015) impiega questa tecnica per creare le sue opere, che sono segnate da un forte impegno marxista (DSS: ad vocem). Wim Zwiers (°1922) è un disegnatore e incisore olandese famoso per i ritratti, i nudi e i paesaggi. Per gli exlibris utilizza le tecniche della calcografia e della xylografia e più recentemente anche tecniche digitali (RKD: ad vocem).

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XXI. TRENT’ANNI PER SMASCHERARE I 2500 PEZZI FALSI DI HAYDN

La penultima prosa della raccolta, pubblicata per la prima volta sul CdS del 26 marzo 1957 (Barile, n. 976), è l’ultimo vero reportage dalla Svizzera, dato che la prosa XXII è piuttosto una recensione letteraria. La prosa XXI chiude dunque il percorso dei reportage giornalistici proprio nel cantone dov’era iniziato: il Ticino. Il testo riprende il filo della rappresentazione della Svizzera, tema in cui Ascona assume una posizione particolare. Contrariamente al resto del paese che ha subito gli «affronti della moderna edilizia» e che quindi ha perduto in gran parte il suo carattere idillico, Ascona conserva questo carattere grazie al suo «"naturismo” morale e ideologico». Inoltre ad Ascona l’intellettuale, anche se «si occupa di cose tanto inutili», rimane una figura sublime grazie alla «stilizzazione [della] vita intellettuale», mentre generalmente è una figura desacralizzata (prosa XIV e XX). Si tratta di una situazione che è possibile poiché qui «l’appello del Sud [è] stato sempre dominato da una lodevole prudenza» [cf. prosa I].

L’esistenza, e il nome stesso di Ascona, mi furono rivelati intorno al ’20 da un amico che sentiva in modo quasi rabdomantico il sorgere della più screziata e bizzarra cultura del nostro tempo; e da allora, per me, Ascona volle sempre significare un certo sapore, una certa stilizzazione di vita intellettuale. Se leggerete la biografia di molti scrittori o artisti o eccentrici di gusto mitteleuropeo degli ultimi cinquant’anni sarà ben difficile che non vi troviate la traccia di un lungo o breve soggiorno in Ascona. Ancora trent’anni fa questo borgo doveva presentare un aspetto assai primitivo, e anche se oggi debba subire i primi affronti della moderna edilizia, nell’insieme mantiene i suoi caratteri forse meglio di Capri, per citare un altro universale centro di « naturismo » morale e ideologico212. Ascona non colpisce come Capri o Mont Saint Michel e Les Baux, ma in certo senso ha un carattere più intimo, che invita alla meditazione e al riposo. Strade strette, chiuse in quadrilatero intorno alla « piazza » (il lungolago), vecchie case, botteghe d’arte, qualche pensione che conserva un certo stile di preraffaellismo tedesco (« nazareno »), tutto suggerisce l’impressione che qui l’appello del Sud sia stato sempre dominato da una lodevole prudenza. È questa l’impressione che ci fa l’Ascona dei suoi residenti d’elezione, non dei suoi indigeni. L’Ascona degli stranieri, insomma: quella che s’impone fin dal primo istante. Che poi sia esistita a Locarno e ad Ascona una scapigliatura locale, anche letteraria, che ha trovato espressione nei libri oggi quasi dimenticati di Lino Nessi, questo è un fatto che il turista d’oggi non è tenuto a sapere. Per lui, per me, Ascona è il porto (« inveni portum »213 dice qualche

212 Il naturismo è un movimento che si è formato all’inizio del Novecento come reazione all’avvento della civiltà industriale e dell’urbanesimo. Esso si caratterizza per un ritorno a forme semplici di vita e per il contatto diretto con la natura (Treccani: ad vocem). 213 Inveni portum è l’inizio di una locuzione latina, che è la traduzione di un anonimo epitaffio greco conservato nell’Antologia palatina, la raccolta di epigrammi greci scoperta nel 1607 da Claude Saumaise in un codice della Biblioteca Palatina di Heidelberg (Treccani: voce Antologia greca). Oggi il manoscritto è diviso in due parti: una

128 / 157 scritta locale) di grandi spiriti che qui hanno trovato pace e ristoro. Oggi il numero di questi grandi spiriti è forse alquanto ridotto; ma appena giunto sento che uomini come Remarque e il mitologo Kerényi hanno stabile stanza fra le camelie e i rododendri di Ascona214. Io però non cercavo letterati ma un musicologo: l’olandese Anthony van Hoboken di cui si festeggiavano, insieme, i settant’anni e l’apparizione di un anticipo di quel che sarà il suo catalogo tematico e critico delle opere di Haydn215. Il Signor Van Hoboken abita villa Peschiera, una casa bianca sospesa quasi a picco sul lago, a una estremità della « piazza ». Il mio incontro col Maestro è stato dei più cordiali ed è diventato addirittura amichevole quando l’eminente musicologo si accorse che io mi interessavo più allo spettacolo del lago sotto la pioggia che all’esame dei rari cimeli della sua biblioteca (tredicimila fra prime edizioni e musiche olografe) di un valore inestimabile. Ma questo dovevo capirlo poche ore dopo quando, tornato all’albergo, sentii trillare il telefono. - Sono la signora Van Hoboken - disse una voce in ottimo italiano. - Lei si deve annoiare molto all’albergo con questo tempo. Mio marito è rimasto enchanté della sua visita, ed è strano perché di solito non ama le seccature dei giornalisti. Venga a prendere una tazza di tè alle quattro e mezzo; dopo verranno quelli della radio a disporre i « tubi ». Nata a Fiesole, ma tedesca, la signora Van Hoboken, bionda, elegantissima, ha quel misto di autorità e di dolcezza che deve aver provvidenzialmente circondato la vita di un uomo come Van Hoboken, sprofondato in un lavoro senza fine, che nessuno potrebbe compiere senza la protezione di Dio, o di una donna. Anthony van Hoboken, nato a Rotterdam, settant’anni fa, è un uomo adusto, di statura più che media, alquanto calvo, di portamento giovanile. I suoi occhi sono chiari e per un attimo s’accendono sulle pagine di un introvabile Frescobaldi216. Il Maestro (da poco dottore honoris causa dell’Università di Kiel, e in attesa di parecchi altri dottorati217) è passato alla musica da studî d’ingegneria. Ha compiuto a Francoforte la sua educazione musicale e più tardi a Vienna, con Heinrich Schenker di cui condivide le teorie musicali218. La sua collezione di edizioni originali fu iniziata nel ’19 e comprende le più antiche edizioni dei Maestri che stanno fra J.S.

si trova ad Heidelberg ed è consultabile via http://digi.ub.uni-heidelberg.de/diglit/cpgraec23; l’altra è nella Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi e si può consultare via https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b110048278?rk=42918;4. L’espressione citata (Anth. Pal., IX.49) significa ‘ho trovato il porto’ ed è metafora di un approdo esistenziale. 214 Erich Maria Remarque (1898-1970), scrittore tedesco, dopo l’avvento del Nazismo si rifugia in Svizzera dove vive a Ronco sopra Ascona fino alla morte. La sua opera più famosa Im Westen nichts Neues (1929) è intesa come una feroce condanna della violenza bellica (Treccani: ad vocem; EB: ad vocem). Károly Kerényi (1897-1973), fondatore degli studi moderni della mitologia greca, vive, poiché ebreo, in esilio ad Ascona dal 1943. Si dedica allo studio della mitologia greca in Die antike Religion (1940) e Die Mythologie der Griechen (EB: ad vocem). 215 Anthony Van Hoboken (1887-1983) vive a Ascona dal 1938. Il catalogo Joseph Haydn. Thematisch- bibliografisches Werkverzeichnis è del 1957 (Soldini: 204) Il catalogo è accessibile online via https://archive.org/details/JosephHaydnThematisch-bibliographischesWerkverzeichnis. 216 Girolamo Frescobaldi (1583-1643), organista, è uno dei primi compositori che adotta il principio della scrittura monotematica, ossia lo sviluppo di un singolo tema musicale centrale piuttosto che la successione di temi diversi (EB: ad vocem). 217 Van Hoboken è proclamato dottore honoris causa dell’Università di Kiel (1957), di Utrecht (1958) e di Magonza (1979). 218 Heinrich Schenker (1868-1935), teorico musicale austriaco, afferma in Das Meisterwerk in der Musik (1925) che le grandi opere musicali si formano a partire da un’unica idea e che i temi svariati tra di loro ne rappresentano ciascuno un aspetto diverso (EB: ad vocem).

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Bach e Brahms219. In pari tempo il Van Hoboken dette mano, a Vienna, a quella creazione dell’Archivio di fotogrammi di manoscritti musicali che fa parte di un reparto ad hoc della Biblioteca nazionale di Vienna e resta un impareggiabile centro di documentazione. (Un centro, si noti, finanziariamente autonomo e a quanto pare autosufficiente)220.

Testi originali, fotogrammi di prime edizioni o di olografi: ecco spianata la via a quella ricerca dell’Urtext (del testo originario) che per il filologo Van Hoboken dovrebbe essere il punto di partenza di ogni seria esecuzione musicale. Per un vasto settore della musica classica, quando la raccolta Van Hoboken sarà diventata un ornamento dell’Università di Princeton221, ogni studioso che integri le sue ricerche coi fotogrammi provenienti da Vienna troverà la via delle sue ricerche spianata da ogni difficoltà. - E Haydn? - chiedo al dottor Van Hoboken. - Qual è stata la prima scintilla che l’ha avviata verso questo musicista? Non fu una predilezione esclusiva. A partire dal ‘36 procedendo nella catalogazione della sua raccolta, Van Hoboken si accorse che un catalogo tematico haydniano non esisteva. Cominciò lui stesso a buttar giù le prime schede e organizzò ricerche che si estesero dall’Austria alla Germania, all’Ungheria, alla Cecoslovacchia, fino agli Stati Uniti. Dopo il ‘38 il lavoro fu proseguito in Svizzera, a Losanna, e da alcuni anni ad Ascona. Se si pensa che l’opera di Haydn è sterminata (125 editori, 2500 opere a lui falsamente attribuite) si avrà un’idea della mole di lavoro, dell’amore, dell’abnegazione che è costato il Catalogo tematico delle opere di Haydn di cui l’editore Schott di Magonza pubblica ora la prima parte del primo volume. (L’insieme formerà due volumi di complessive duemila pagine). - In trent’anni di lavoro - dice il dottor Van Hoboken - su Haydn credo di aver fatto il possibile e l’impossibile -. E dà uno sguardo preoccupato agli uomini di Radio Monteceneri che giungono coi « tubi ». La casa è tutta piena di camelie, di azalee, di rododendri, i vasi di cristallo sono rigurgitanti di telegrammi. Fuori, il lago è nebbiosissimo, ma qualche gabbiano sfiora i vetri. Un’ultima domanda: - Ha mai scritto musica, dottor Van Hoboken? - Sì, ho musicato, nel 1913, una pièce di Federico van Eeden: Lioba. Ma come compositore, e come pianista, je n’étais pas fameux. Più tardi, sempre sotto la pioggia, mi sono arrampicato sulle prime balze del celeberrimo Monte Verità222 per assistere ai festeggiamenti che Ascona tributava al grande musicologo. Nella sala di un grande albergo gli invitati, in abito foncé (come di prescrizione) potevano essere una settantina. Il quartetto di Radio Monteceneri eseguì due brani di Haydn perfettamente

219 La raccolta di Van Hoboken, iniziata nel 1919 sotto la direzione di Otto Vrieslander, conta più di 5000 pezzi. Lo stato austriaco ha comprato la collezione nel 1971 e si trova oggi alla Biblioteca nazionale austriaca a Vienna. 220 Schenker (cf. 218) e Van Hoboken intraprendono, per conto della Biblioteca nazionale austriaca, un progetto (Archiv für Photogramme musikalischer Meisterhandschriften) mirante alla creazione di un archivio di copie fotografiche dei manoscritti musicali dei grandi compositori. 221 Van Hoboken è dal 1950 al 1954 membro del Advisory Council of the Department of Music dell’Università di Princeton. 222 Monte Verità, zona collinare di Ascona, è divenuta sede di alcune eccezionali esperienze di convivenza alternativa, ispirate a principi anarchico-libertari e al culto delle arti (Soldini: 205). In questo modo il Ticino si è presentato come l’antitesi della Svizzera urbanizzata e industrializzata. A partire dal 1900 Ascona si dimostra inoltre aperta ai riformatori alla ricerca di una terza via tra il capitalismo e il comunismo (MV: voce Storia).

130 / 157 inediti. Seguirono discorsi bilingui e anche trilingui, secondo la buona tradizione dei raduni accademici. L’Italia non aveva inviato musicologi ma il Ticino era rappresentato da alcuni dei suoi giovani più valenti: come il Broggini e il Bonalumi, italianisti tutti e due, di solida formazione223. Da lontano, a un’altra estremità di una tavola a ferro di cavallo, intravvedevo la chioma argentea del dottor Kerényi, uno studioso ungherese di fama internazionale, che ha portato il terremoto negli studi della mitologia. La mitologia e i 2500 pezzi falsi di Haydn, che strane faccende, io pensavo curvo su un « frappé » che aveva un vago sapor di caviale. Bisogna proprio venire qui ad Ascona per accorgersi che al mondo c’è ancora qualcuno che si occupa di cose tanto inutili da essere sublimi. Non ci sarebbe proprio nulla di grave se musiche spurie si intrudessero nei nostri concerti o se la mitologia da noi appresa a scuola restasse inalterata nei suoi significati. Eppure c’è chi pensa che questo sarebbe gravissimo. E al di fuori della sua « Hochsaison », purtroppo rumorosa e banale come tutte le stagioni alte, Ascona potrà sempre essere un rifugio per uomini come questi, per i quali il Nord è (moralmente) troppo freddo e il Sud troppo caldo.

(1957)

223 Romano Broggini (1925-2014), studioso e giornalista ticinese, allievo di Gianfranco Contini a Friburgo dove ha studiato filologia romanza. Broggini è noto soprattutto per i suoi studi dei comuni alpini nel Ticino medievale (Andenna: 19-22). Giovanni Bonalumi (1920-2002), scrittore e saggista ticinese, è stato ordinario di letteratura italiana all’Università di Basilea dal 1973 al 1990. Montale ha inoltre recensito Gli ostaggi (1954), il suo romanzo d’esordio (Martinoni: 205-206).

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XXII. MAX FRISCH

L’ultima prosa della raccolta risale al CdS del 27 gennaio 1960 (Barile, n. 1265) ed è dopo la prosa dedicata a Francesco Chiesa, ovvero la prosa XVI, il secondo testo di critica letteraria della raccolta. Il testo riprende il filo della rappresentazione della Svizzera e in particolare quello del paese minacciato dal progresso – tema già presente nelle prose precedenti, per esempio, nella prosa II – attraverso la recensione del romanzo di Frisch che porta un’accusa «al materialismo e al meccanicismo della società moderna». Il protagonista del romanzo che non è «solo faber di nome, [ma] lo è anche nel suo modo di vivere e di pensare», si raffigura infatti come l’esatto opposto dello Svizzero medio per cui «ogni idea nuova è [...] come un animale misterioso e terribile che si evita fin che si può...». Con questa citazione di Jung la raccolta rivela finalmente la ragione per la quale gli anziani si rivolgono con nostalgia al passato (prosa V) e per la quale la Svizzera è un regno ideale tramontato per sempre (prosa X). L’ultimo testo esprime quindi attraverso la finzione la ragione per la quale il paese sta perdendo il suo carattere idillico e utopico, ovvero il fatto che il suo spirito non si è adattato ai cambiamenti della società.

La Svizzera dei nostri giorni, che noi credevamo, forse a torto, piuttosto specola che crogiolo della più viva letteratura ha ora mandato alla ribalta internazionale due autori di cui si parla molto: Max Frisch e Federico Dürrenmatt224. Scrittori estremamente à la page, drammaturghi e romanzieri tutti e due - più noto il primo per i suoi romanzi, più rappresentato sulle scene il secondo - essi sembrano giunti apposta per farci rinunziare al proposito di nasconderci un giorno in un cantone elvetico ancora abitato da vieux catholiques e di immergerci, beninteso con l’aiuto di qualche traduttore, nella lettura di Geremia Gotthelf o di qualche altro classico di quell’incontaminato Strapaese alemannico225. Lasciando da parte il Dürrenmatt, del quale non abbiamo ascoltato alcun lavoro, due romanzi del Frisch: Stiller, tradotto da Amina Lezuo Pandolfi (Mondadori) e Homo faber, tradotto da Aloisio Rendi (Feltrinelli) hanno fermato la nostra attenzione. Purtroppo i due editori italiani hanno speso ben poche parole per presentarci l’interessante autore. Né molto di più abbiamo ricavato dalla consultazione di una recente Storia delle quattro letterature della Svizzera di Guido Calgari (ed. Nuova Accademia)226.

224 Federico Dürrenmatt (1921-1990) è famoso per i romanzi polizieschi pubblicati sullo Schweizerische Beobachter e per la commedia tragico-farseca Der Besuch der alten Dame (1956) con cui ottiene notorietà internazionale (DSS: ad vocem). 225 Nel ventennio fascista Strapaese e Stracittà, rappresentati rispettivamente dalle riviste ‘Il Selvaggio’ (1924- 1943) e ‘900’ (1926-1929) sono due movimenti letterari ideologicamente opposti. Lo strapaesanismo rifiuta infatti la letteratura cosmopolita ed esterofila della Stracittà per difendere invece un’arte ispirata alle tradizioni dell’Italia rurale. Nell’ambito tedesco ‘heimatstil’ è il termine che indica tale letteratura. 226 Stiller è pubblicato nel 1954 e la traduzione mondadoriana nel 1959, mentre Homo Faber è del 1957 e la traduzione feltrinelliana del 1960. Il libro di Calgari è del 1958.

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Il Frisch, architetto che si è ormai dedicato alla letteratura, dev’essere sulla cinquantina. Ha evidentemente viaggiato molto, in Europa e in America, ha letto molti libri e forse non avrebbe scritto Homo faber così come l’ha scritto se non fossero esistiti Hemingway e i suoi successori. È autore di almeno cinque lavori drammatici, di un Diario 1945-1946 e di un più recente romanzo: Das Versprechen (« La promessa »), ma sembra che Stiller e Homo faber siano a tutt’oggi i suoi maggiori successi. All’esito del primo non dev’essere estraneo il fatto che il libro « costituisce un’amara requisitoria contro il benessere e il conformismo degli Svizzeri, la loro ipocrisia e la loro paura » (Calgari). E qui lo stesso Calgari, avvertendoci che Frisch non scopre nulla di nuovo, ci rimanda nientemeno che a C.G. Jung: « Ogni idea nuova è per lo Svizzero come un animale misterioso e terribile che si evita fin che si può... »227. Sembra, infatti, innegabile che se molti lettori dei due libri daranno la preferenza alla storia dell’ingegnere Walter Faber - libro più meccanico dell’altro, ma di più facile lettura - ciò si possa mettere in relazione con l’esplicita accusa che il Frisch porta al materialismo e al meccanicismo della società moderna. Il personaggio centrale di questo « resoconto », non romanzo, è un tecnocrate che si è fatto un idolo della scienza e del progresso: non è solo « faber » di nome, lo è anche nel suo modo di vivere e di pensare. Si è laureato a Zurigo, poi ha lasciato la Svizzera abbandonando un’amante mezzo ebrea, Hanna, della quale ha perduto le tracce. È impiegato in una grande azienda, fa la spola tra Parigi e l’America, ma non riesce del tutto a dimenticare quella donna. Per averne notizia compie un disastroso viaggio nel cuore del Venezuela, dove risiede Joachim, un uomo che ha sposato Hanna e l’ha, a sua volta, lasciata. Ma Joachim è morto e Faber torna a Parigi. In viaggio si innamora di una fanciulla, Elisabeth, la porta in Italia e poi in Grecia, in un paradiso terrestre dove la ragazza muore avvelenata da un serpente. Ad Atene, dove Elisabeth era diretta, Faber ritrova Hanna, vedova di un secondo marito, e scopre purtroppo di essere il padre della povera morta. E ormai, con la tecnica del « flash-back », di cui abusano romanzieri e registi, sapremo tutto della vita di Hanna, una donna piena di saggezza che sarebbe anche disposta a rifarsi una terza o quarta vita col quasi incolpevole peccatore. Ma qui, dopo il serpente, interviene un secondo deus ex machina: un operazione chirurgica che Faber affronta dopo ulteriori voli a Cuba e in Germania. L’esito, s’indovina, sarà letale; ma Faber, che per la prima volta si è aperto ai problemi del peccato e della morte, è già un uomo in qualche modo redento. Nell’uomo fabbro è nato l’uomo umano. Sfrondata la poco credibile narrazione delle sue pretese simboliche resta ammirevole in Homo faber il senso del paesaggio, l’energia di uno stile che, quando non vuol farsi troppo muscoloso, scolpisce e incide. Ed anche si deve riconoscere nella tardi sopraggiunta Hanna una figura di cui troveremo in Stiller due degne consorelle. Ma tutto questo non basta a togliere al libro il suo carattere di facile estemporaneità. Dire che Homo faber è un’opera che si fa leggere con estremo interesse è un atto di semplice giustizia; ma è altrettanto giusto rilevare che il personaggio di Faber porta sin dall’inizio una facile etichetta, troppo indovinabile. La tragedia del moderno uomo tecnico non può essere esemplata da un caso tanto abnorme, né da un individuo così palesemente costruito per la soluzione finale. Messa in moto la sua macchina, il

227 La citazione proviene da Civilization in transition (1964), il decimo volume di The collected works of C. G. Jung, pubblicato postumo nel 1964 presso Princeton University Press. La prima versione italiana (Civiltà in transizione. Il periodo fra le due guerra) è pubblicata presso Bollati Boringhieri nel 1985.

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Frisch ci si è evidentemente divertito ed è persino riuscito a illuderci; ma alla resa del conto la memoria del lettore distrugge fatti e figure e non rammenta che la macchina. Ben diverso il caso di Stiller, scultore zurighese sospettato di spionaggio, scomparso poi in circostanze misteriose e infine, dopo sei anni, acciuffato dalla polizia federale. Ma è proprio Stiller il turista che afferma di essere il cittadino americano White? Egli lo nega: eppure amici, nemici, creditori, la stessa moglie dello scomparso, Julinka Stiller, fatta venire apposta da Parigi, lo riconoscono senza esitazioni. Incarcerato, sia pure con molti riguardi, egli riempie sette quaderni di appunti: ricostruisce minutamente la vita del suo sosia quale essa gli appare dalle molte testimonianze. Mediocre artista, Stiller è stato un uomo di debole tempra, perpetuamente umiliato e offeso228. Ha militato in Spagna con i « rossi » dando scarsa prova di coraggio. Tornato a Zurigo, assiste al balletto « Schiaccianoci »229 e si innamora della ballerina Julinka, affascinante ragazza minata dal mal sottile. E i due si sposano. Vivono alla meglio: Julinka non ha che il suo lavoro e la sua dolcezza, ma non può far nulla per dare un carattere al marito. Sa che il suo Stiller la tradisce e sopporta, non chiede nulla e lavora per lui. Dovrà, tuttavia, entrare in un sanatorio a Davos. Qui il marito la trova aggravata, la tratta duramente e le annuncia il suo ripudio definitivo. Nella malattia di Julinka egli non ha veduto che l’ultimo ricatto di una donna incapace di comprenderlo. In quello stesso giorno Stiller raggiunge l’amante, Sibilla, la quale, a sua volta, ha deciso di abbandonarlo. Questa Sibilla, moglie di un perfetto gentiluomo, gli si era concessa per un capriccio dei nervi, non senza rimorsi e preoccupazioni. Ha sperato che il marito reagisse, che magari la bastonasse, eppure nulla è avvenuto. Uomo di idee (in amore) « liberiste » il marito, Rolf, le concede piena libertà. « Fa’ quello che credi giusto ». Ciò che Sibilla non ha compreso, è che il marito ha sofferto pene d’inferno, incapace di esprimersi, paralizzato da un falso sentimento di dignità ferita. E Sibilla fugge: accetta un impiego in America, « rompe » anche col marito. La scomparsa di Stiller è di poco posteriore: è andato in America lui pure, ha fatto molti mestieri e infine ha tentato di uccidersi senza riuscirci. È davvero possibile che il sedicente Mr. White possa riempire sei quaderni di una storia così vera, così suggestiva in ogni particolare? Come il lettore avrà compreso, il signor White è davvero Stiller: è la nuova reincarnazione di quel folle autolatra che dopo il suicidio fallito ha rinnegato il suo passato e si rifiuta di riconoscersi in esso. Colui che meglio intuisce il suo caso è il magistrato, che, nell’imminente giudizio penale, dovrebbe rappresentare l’accusa; e questi - nuovo caso miracoloso - non è altri che il procuratore Rolf, da tempo riconciliato con la reduce Sibilla, ormai sposa felice e madre esemplare. Stiamo per giungere alle ultime note del romanzo. Identificato ufficialmente con lo scomparso Stiller, condannato a una multa per innumerevoli infrazioni e arretrati verso l’erario, il prigioniero è scarcerato. Julinka è felice di riprenderlo con sé: sempre più ammalata lo conduce

228 Umiliati e offesi (1861) è un romanzo di Dostojevski, esponente del realismo russo, che descrive la decadenza della nobiltà russa ottocentesca. Siccome Dostojevski non fa parte della nobiltà, egli si concentra sull’analisi psicologica della vita degli umiliati e gli offesi. La prima traduzione italiana è pubblicata presso Edizioni Alpes nel 1928. 229 Lo Schiaccianoci (1892) è un balletto su libretto di Marius Petipa (1815-1898) e con musica di Petr Tchaikovsky (1840-1893). Per la stesura del libretto Petipa si ispira al racconto Nussknacker und Mausekönig (1816) di E.T.A Hoffmann (1776-1822) e alla versione di Alexandre Dumas (1802-1870) intitolata Histoire d'un casse-noisette (1844) (ERTFVG: ad vocem).

134 / 157 nel Vlilese, dove i due vivono in dignitosa miseria. A Glion il procuratore Rolf e Sibilla - ad essi ormai legati da viva amicizia - li visitano più volte. Ed è lo stesso Rolf, che scrive le ultime pagine della vicenda. Julinka muore senza smarrire mai la sua misteriosa dolcezza e Stiller, apparentemente non troppo scosso, continuerà a vivere, fabbricando ceramiche, sulle rive del Lemano. Tutto qui? Sì, tutto qui; ma non è poco se Frisch è riuscito a darci un romanzo d’amore di una penetrazione psicologica squisita: e, si badi, di una psicologia incarnata nelle azioni dei personaggi, non mai esplicita e ragionata da interventi dell’autore. Un libro così problematico non presenta problemi nella sua parte più viva. Julinka, Sibilla e Rolf sono tre creature che si fanno comprendere e amare: sono veramente tre anime del nostro tempo, tre persone che lottano, soffrono evincono in qualche modo la loro difficile battaglia. E veramente ammirevole è la resa del grande quadro tipicamente svizzero in cui la trama si svolge: il paesaggio, Davos, il sanatorio, la periferia di Zurigo, « interni » di tribunale o di carcere, tetre confetterie ben poco rallegrate dal ritratto dell’immancabile generale Guisan, lo squallido châlet sulle prime rampe di Glion: tutto vivo, fatta eccezione per gli innumerevoli « flashback », che ci riportano alla vita americana del prigioniero; e fatta, beninteso, una larga tara su quella che dovrebbe essere la dissociazione psichica del protagonista: quello Stiller che di pagina in pagina ci persuade sempre meno perché la malattia - quando è caso clinico e non un morbo dell’anima che risieda potenzialmente in tutti noi - è difficilmente materia di poesia. Senza contare l’artifizio che fa di Stiller - troppo intelligente quando scrive, cieco e irredimibile quando vive - l’autore stesso del racconto. Tuttavia molte delle sorprese del libro sono dovute proprio a simile trucco: si direbbe che la scelta di un meccanismo sia inevitabile nel Frisch. Ciò che è ben vivo in Stiller -almeno trecento pagine su oltre quattrocento- ci fa volentieri dimenticare il lato fittizio, arbitrario dell’intelaiatura. Abbiamo visto che nel successivo Homo faber l’apparecchio mostra già la corda. Non resta che da attendere l’ancor giovane narratore ad altre prove. Dopo la riuscita di Stiller non possiamo credere ch’egli voglia perdersi su strade che portano a un facile successo di pubblico, e purtroppo a niente altro.

(1960)

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Conclusioni teorico-analitiche Lo scopo principale di questa ricerca era di offrire un’analisi sistematica della raccolta Ventidue prose elvetiche attraverso un commento testuale. Servendomi delle teorie politestuali finora sviluppate e delle teorie del commento ho tentato di concepire un approccio al commento che tenesse conto delle esigenze particolari di una raccolta in prosa. Con questo lavoro ho voluto contribuire agli studi intorno alla raccolta di narrativa breve e concentrarmi sulla prosa giornalistica di Montale che fino a oggi è generalmente meno studiata.

Per cominciare ho tentato di collocare i problemi teorici legati alla raccolta e al commento all’interno della comunicazione in senso lato e all’interno della comunicazione letteraria in particolare visto che essi sono connessi alla natura comunicativa stessa del testo letterario. A partire dallo schema della comunicazione di Roman Jakobson e dalle due diadi della comunicazione letteraria di Cesare Segre, ho introdotto le teorie letterarie di Wolfgang Iser e Roland Barthes, che si sono rivelate molto pertinenti per lo studio della raccolta poiché sottolineano rispettivamente che l’indeterminazione è il motore della comunicazione letteraria e che l’autore non può controllare la rete di significati del testo. Si tratta di circostanze che sono particolarmente applicabili alla raccolta, come ho dimostrato nel secondo capitolo.

L’obiettivo centrale del secondo capitolo era infatti di sintetizzare e di elaborare il lavoro teorico che concettualizza il funzionamento e i problemi teorici legati alla raccolta attraverso la presentazione delle tre grandi linee concettuali, ovvero lo short story cycle theory, la théorie du recueil e la teoria del macrotesto, e attraverso un confronto tra il ruolo del lettore nella fruizione del romanzo e in quella della raccolta. Dalla presentazione è emerso che gli approcci teorici al politesto cercano di individuare processi specifici di interlinking, ossia delle relazioni tra le parti del tutto e le dinamiche che tali processi suscitano e che permettono di andare dal livello dai singoli testi autonomi al livello macrotestuale. In questo modo i teorici attribuiscono un ruolo essenziale alla ricezione della collezione da parte del lettore poiché la natura aperta e l’alto grado di indeterminazione, che caratterizzano la raccolta, sollecitano una partecipazione molto attiva del lettore nella costruzione del messaggio della raccolta.

Nel terzo capitolo ho integrato le conoscenze acquisite nel capitolo secondo per riflettere sul modo in cui il commentatore deve affrontare il commento a una forma letteraria come quella della raccolta, tanto più nel caso della raccolta editoriale, che pone il lettore al centro dell’interpretazione e così facendo mette in secondo piano l’auctoritas dello scrittore. In primo luogo, ho discusso la teoria del commento e ho proposto di distinguere due tappe nel processo

136 / 157 svolto del commentatore che coincidono con i due strati testuali di Audet, ovvero i singoli testi e il tutto reticolato. Il commentatore deve innanzitutto focalizzarsi sul commento puro del livello microtestuale per poi poter svolgere l’interpretazione a livello macrotestuale. In secondo luogo, ho incluso un excursus sociologico-letterario per sottolineare il ruolo decisivo della critica letteraria nella produzione simbolica all’interno del campo letterario e per dimostrare che il commentatore deve mettersi al servizio del lettore poiché è suo compito sensibilizzare il grande pubblico al valore di certe opere letterarie e dargli tutte le carte utili per aumentare il suo capitale culturale, il che spinge poi il lettore a costruire una propria rete di significati più ricca.

Nel quarto capitolo ho sintetizzato lo stato dell’arte dei commenti montaliani in cui ho rilevato una prevalenza critica intorno al corpus poetico. Poi ho collocato le Ventidue prose elvetiche all’interno della produzione montaliana e rispetto alla necessità dello scrittore di cercare un “secondo mestiere”. Ho inoltre discusso la genesi della raccolta che contiene ventidue scritti di cui un terzo era rimasto consegnato solo tra le pagine del ‘Corriere della Sera’ e del ‘Corriere d’Informazione’ fino al momento che Fabio Soldini li ha tutti raccolti in un unico volume nel 1994. Poi ho sottolineato le ragioni che mi hanno spinto a studiare questa raccolta, ovvero il suo intrinseco valore estetico, l’interessante spaccato della riflessione su questioni culturali e sociali dell’immediato dopoguerra e la possibilità di applicare la teoria della raccolta alla collezione giornalistica. Per finire questo capitolo ho concepito il modello operativo del commento, diviso in tre parti, che tiene conto delle esigenze peculiari della raccolta: l’introduzione generale è stata dedicata all’interpretazione del livello macrotestuale; i cappelli introduttivi in corsivo all’inizio delle singole prose sono stati dedicati al livello intertestuale e il livello microtestuale è stato commentato attraverso un apparato di note a piè di pagina.

Questa impostazione mi ha permesso di cogliere le dinamiche semantiche della raccolta studiata e di rispondere alla domanda: ‘Di che cosa parla esattamente la raccolta Ventidue prose elvetiche?’. La raccolta parla delle discussioni intorno alla cultura europea nell’immediato dopoguerra. Da queste discussioni emergono altre linee tematiche grazie all’effetto di reticolazione. In primo luogo, la rappresentazione della Svizzera che, all’inizio ancora paese idillico e modello per l’Europa, perde man mano il suo carattere utopico. In secondo luogo, il tema dell’Italianità in Svizzera che deve farsi carico della battaglia contro il progressivo aumento della componente tedesca nella Svizzera italiana. Infine il tema che mette in evidenza il declino dell’importanza dell’intellettuale nella società.

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Ribadisco che, per ragioni di spazio e nel contesto di una tesi di master, ho deciso di limitare fortemente a livello concettuale la parte introduttiva, le note e le analisi dei testi. Nel caso delle note mi sono limitato a indicazioni strettamente informative e che offrissero rinvii esterni per ulteriori approfondimenti. Nel caso dei cappelli introduttivi generali e specifici ai testi ho cercato di focalizzare l’attenzione su un solo tema nelle sue articolazioni principali, dando spazio soprattutto alla sua realizzazione testuale (con le citazioni poste nei singoli cappelli) in modo da far emergere la reticolazione. Tutto questo avendo in mente come lettore destinatario del mio commento lo studente medio. Per questa ragione, diverse questioni rilevanti sono state tralasciate o sono state toccate solo marginalmente, come, ad esempio, il diverso carattere delle prose destinate al CdS o al CdI oppure il diverso significato che assumono i testi editi in più raccolte e numerose altre che spero possano essere opportunamente approfondite in altra sede.

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Bibliografia

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— Encyclopédie Universalis (https://www.universalis.fr) — Ente Regionale Teatrale del Friuli Venezia Giulia (http://www.ertfvg.it) — Fédération Internationale des Sociétés d’Amateurs d’Ex-Libris (http://www.fisae.org) — Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (https://www.esteri.it) — Ministero per i beni e le attività culturali (http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/index.html#&panel1-1) — Monte Verita (https://www.monteverita.org/) — Musei Civici Fiorentini (http://museicivicifiorentini.comune.fi.it) — Nederlands Instituut voor Kunstgeschiedenis (https://rkd.nl/nl/) — Nietzschehaus (http://nietzschehaus.ch/de/) — Parlamento Europeo (http://www.europarl.europa.eu/portal/it) — Radiotelevisione svizzera (https://www.rsi.ch/rete-tre/) — Senato della Repubblica (http://senato.archivioluce.it) — Società Dante Alighieri (http://ladante.arte.it) — Stichting Internationaal Constantin Brunner Instituut (Den Haag) & Constantin Brunner-Stiftung (Hamburg) (https://www.constantinbrunner.net/) — Università di Ginevra (http://www.unige.ch) — Università della Svizzera Italiana (https://www.usi.ch)

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Allegati Tabella 1: Elenco delle ripubblicazioni su iniziativa di Montale

Farfalla di Sulla poesia Titolo della prosa Dinard Fuori di casa (1969) (1976) (1956) I. Battaglie col silenziatore

Zurigo crocicchio II. d’Europa

Ginevra senza S.d.N è III. sempre una grande città

Due preti negri seduti al IV. caffè

Non c’è angoscia V. esistenziale nella sana anima di Zurigo

VI. Spiraglio

Cento medici al capezzale VII. dell’arte contemporanea

VIII. Due piccoli immortali

IX. La contessa di Sarre X

X. Da Saint Moritz X

XI. Nella terra di Calvino A Losanna la scienza e XII. l’arte si sono ribellate alla politica

XIII. Risvegliato da dieci angeli X

XIV. La statua di neve X

XV. L’angoscia X

XVI. Poeta di frontiera X X – Signore XVII. Sportivo inglese X inglese

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Cinque secoli di pittura XVIII. veneziana a Sciaffusa Preziose stoffe italiane al XIX. Palais de Rumine di Losanna Tutt’altro che tramontata XX. la carriera degli exlibris Trent’anni per XXI. smascherare i 2500 pezzi falsi di Haydn XXII. Max Frisch

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Tabella 2: Ripubblicazioni su iniziativa di un curatore

Il secondo Il secondo Prose e racconti mestiere: prose mestiere: Arte, (1996): Titolo della prosa 1920-1979 musica, società A cura di (1996): A cura di (1996): A cura di Marco Forti. Giorgio Zampa. Giorgio Zampa. I. Battaglie col silenziatore X

II. Zurigo crocicchio d’Europa X X – Ginevra senza Società Ginevra senza S.d.N è sempre III. delle Nazioni è una grande città sempre una grande città

IV. Due preti negri seduti al caffè X Non c’è angoscia esistenziale V. X nella sana anima di Zurigo

VI. Spiraglio X

Cento medici al capezzale VII. X dell’arte contemporanea

VIII. Due piccoli immortali X

IX. La contessa di Sarre

X. Da Saint Moritz X – Ginevra è diventata la più X – Ripartì per tollerante delle l’estero per non XI. Nella terra di Calvino città. & “Sono pagare due orgoglioso di franchi essere un mammifero”.

A Losanna la scienza e l’arte si XII. X sono ribellate alla politica

XIII. Risvegliato da dieci angeli

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XIV. La statua di neve

XV. L’angoscia

XVI. Poeta di frontiera X

XVII. Sportivo inglese

Cinque secoli di pittura XVIII. X veneziana a Sciaffusa Preziose stoffe italiane al Palais XIX. X de Rumine di Losanna

Tutt’altro che tramontata la XX. X carriera degli exlibris

Trent’anni per smascherare i XXI. X 2500 pezzi falsi di Haydn XXII. Max Frisch X

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Tabella 3: Elenco delle date e delle sedi delle prime pubblicazioni

Ventidue prose Titolo originale Prima uscita Quotidiano elvetiche (1994)

Venerdì 14 febbraio Corriere della Battaglie col I. Battaglie col silenziatore 1947 Sera, p. 1 silenziatore

Martedì 19 febbraio Corriere della Zurigo crocicchio II. Zurigo crocicchio d’Europa 1947 Sera, p. 1 d’Europa

Ginevra senza Ginevra senza S.d.N è Domenica 9 marzo Corriere della III. S.d.N è sempre una sempre una grande città 1947 Sera, p. 3 grande città

Due preti negri seduti al Domenica 20 aprile Corriere della Due preti negri IV. caffè 1947 Sera, p. 1 seduti al caffè Non c’è angoscia Non c’è angoscia Lunedì 19 maggio Corriere della esistenziale nella V. esistenziale nella sana 1947 Sera, p. 3 sana anima di anima di Zurigo Zurigo

Venerdì 26 settembre Corriere della VI. Uno spiraglio Spiraglio 1947 Sera, p. 1

Cento medici al Cento medici al capezzale Martedì 14 settembre Corriere della VII. capezzale dell’arte dell’arte contemporanea 1948 Sera, p. 1 contemporanea Corriere Martedì 21 settembre Due piccoli VIII.. Due piccoli immortali d’Informazione, 1948 immortali p.3

Martedì 28 settembre Corriere della La contessa di IX. Una striscia di luna 1948 Sera, p. 3 Sarre

Non i pazzi ma i ricchi Venerdì 1° luglio Corriere della X. Da Saint Moritz scarseggiano a St. Moritz 1949 Sera, p. 3

a. Ginevra è diventata la più a. Martedì 13 tollerante delle città settembre 1949 b. “Sono orgoglioso di Corriere della Nella terra di XI. b. Venerdì 16 essere un mammifero” Sera, p. 3 Calvino settembre 1949 c. Ripartì per l’estero per c. Mercoledì 21 non pagare due franchi settembre 1949

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A Losanna la A Losanna la scienza e Mercoledì 14 Corriere della scienza e l’arte si XII. l’arte si sono ribellate alla dicembre 1949 Sera, p. 3 sono ribellate alla politica politica

Risvegliato da dieci angeli Sabato 17 dicembre Corriere della Risvegliato da XIII. che intonano “Santa Lucia” 1949 Sera, p. 3 dieci angeli Corriere Mercoledì 16 gennaio XIV. La statua di neve d’Informazione, La statua di neve 1952 p. 3 Corriere XV. L’angoscia Lunedì 31 marzo 1952 d’Informazione, L’angoscia p. 3 Martedì 23 dicembre Corriere della XVI. Poeta di frontiera Poeta di frontiera 1952 Sera, p. 3 Corriere Sabato 24 gennaio XVII. Sportivo inglese d’Informazione, Sportivo inglese 1953 p. 3 Cinque secoli di Cinque secoli di pittura Mercoledì 3 giugno Corriere della XVIII. pittura veneziana a veneziana a Sciaffusa 1953 Sera, p. 3 Sciaffusa Preziose stoffe Preziose stoffe italiane al Sabato 12 giugno Corriere della italiane al Palais XIX. Palais de Rumine di 1954 Sera, p. 3 de Rumine di Losanna Losanna Tutt’altro che Tutt’altro che tramontata la Mercoledì 14 luglio Corriere della tramontata la XX. carriera degli exlibris 1954 Sera, p. 3 carriera degli exlibris Trent’anni per Trent’anni per smascherare Martedì 26 marzo Corriere della XXI. smascherare i 2500 i 2500 pezzi falsi di Haydn 1957 Sera, p. 3 pezzi falsi di Haydn

Mercoledì 27 gennaio Corriere della XXII. Max Frisch Max Frisch 1960 Sera, p. 3

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Tabella 4: Elenco delle informazioni omesse: occhielli, sommari e indicazioni

Titolo originale Occhiello Sommario Indicazione Dal nostro Con scarse manifestazioni esterne, in inviato I. Battaglie col silenziatore sana democrazia, si sono svolte le speciale / elezioni nel Canton Ticino. Bellinzona 13 febbraio Qui si incontrano genti e linguaggi di Dal nostro tutte le provenienze, ma che avverrà inviato II. Zurigo crocicchio quando cesserà lo stato d’alta speciale / d’Europa emergenza economica che ancora frena Zurigo 18 ogni impulso? febbraio Dal nostro Da qui René Payot lanciò il più inviato III. Ginevra senza S.d.N è vibrante appello alla resistenza che la speciale / sempre una grande città Francia abbia avuto dopo quelli di De Ginevra Gaulle marzo Dal nostro inviato IV. Due preti negri seduti al Sosta a Friburgo speciale / caffè Friburgo aprile V. Non c’è angoscia Zurigo esistenziale nella sana maggio anima di Zurigo

VI. Uno spiraglio

Dal nostro VII. Cento medici al inviato Gli ‘Incontri’ di capezzale dell’arte speciale / Ginevra contemporanea Ginevra 13 sett., notte

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Entrarono nell’eternità dei manuali per la porta di servizio – Liotard: Ginevra, VIII. Due piccoli immortali miniaturista anche nella pittura a olio; settembre Füssli: precursore del satanismo romantico. Nella sua villa silenziosa di Merlinge, Ginevra, IX. Una striscia di luce Maria José di Sarre riscopre il mondo settembre guardando da una feritoia Tramontati i tempi leggendari dei X. Non i pazzi ma i ricchi Morgan e dei Rothschild quando nei St. Moritz / scarseggiano a St. Moritz. grandi alberghi dell’Engadina scorreva giugno lo sciampagna Dal nostro Gli ‘Incontri Per dieci giorni teologi cattolici, inviato XIa. Ginevra è diventata la internazionali’ protestanti ed esistenzialisti hanno speciale / più tollerante delle città nella terra di discusso la possibilità di un umanesimo Ginevra, Calvino. nuovo. settembre. Dal nostro Professione di Dopo gli accesi dibattiti sul nuovo inviato XIb. “Sono orgoglioso di fede d’un umanesimo gli ‘Incontri’ di Ginevra si speciale / essere un mammifero” marxista- sono chiusi con un ‘invito al dubbio’. Ginevra, darwiniano settembre Dal nostro XIc. Ripartì per l’estero per Ma sotto l’intransigenza si celava una inviato non pagare due franchi sottile questione giuridica che speciale / appassionò l’opinione pubblica Ginevra, svizzera. settembre. Dal nostro La conferenza inviato XII. A Losanna la scienza e culturale del speciale / l’arte si sono ribellate alla Movimento Losanna- politica Europeo Ouchy, 13 dic.

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Dal nostro Sono cose che capitano a Caux dove XIII. Risvegliato da dieci Nella Casa della inviato perfino i leoni della Nigeria, angeli che intonano “Santa Montagna si speciale / mansuefatti, si lasciano tagliare le Lucia” festeggia la luce. Caux, unghie. dicembre XIV. La statua di neve Novellino XV. L’angoscia

XVI. Poeta di frontiera Saint XVII. Sportivo inglese Moritz, gennaio Dal nostro Il turista, dopo aver percorso tante XVIII. Cinque secoli di inviato strade vuote, non riesce a capire da che pittura veneziana a speciale / parte siano sbucati tutti i visitatori della Sciaffusa Sciaffusa, bellissima mostra italiana. giugno Centoquarantatrè pezzi antichi di Dal nostro valore inestimabile sono esposti in XIX. Preziose stoffe italiane inviato questa mostra organizzata dal Centro al Palais de Rumine di speciale / veneziano del costume; ma ci sono Losanna Losanna, 11 anche molte creazioni degli artisti e giugno. della tecnica d’oggi XX. Tutt’altro che Oggi questi cartigli costituiscono un tramontata la carriera degli Una singolare ramo a sé del collezionismo d’arte; e Lugano, exlibris mostra a Lugano ogni anno l’internazionale degli luglio ‘specialisti’ si riunisce a congresso. Festeggiamenti all’insigne musicologo Dal nostro Ascona, centro XXI. Trent’anni per olandese Anthony Van Hoboken che ha inviato mondiale di smascherare i 2500 pezzi portato a termine, dopo pazientissime speciale / ‘naturismo’ falsi di Haydn indagini, il catalogo tematico del Ascona 25 ideologico grande compositore austriaco. marzo XXII. Max Frisch

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Tabella 5: Varianti tra i testi originali e la versione nelle Ventidue prose elvetiche

Non c’è angoscia esistenziale nella sana Non c’è angoscia esistenziale nella anima di Zurigo - 19 maggio 1947, Corriere sana anima di Zurigo della Sera

1. Szeguan Sezuan

Una striscia di luce - 28 settembre 1948 , La contessa di Sarre Corriere della Sera 1. Giorgio V Giorgio VI 2. cellophane cellofan 3. 48 ettari di terreno Quarantotto ettari di terreno 4. Una striscia di luce la circonda, la guida; entro Una striscia di luce la circonda, la questa striscia ella può far entrare a spiccioli guida; entro questa striscia può far entrare a spiccioli 5. Nei mesi freddi ella si ritira in due o tre stanze Nei mesi freddi lei si ritira in due o tre stanza

Non i pazzi ma i ricchi scarseggiano a St. Da Saint-Moritz Moritz - 19 maggio 1947, Corriere della Sera 1. Baskirtseff Baškirceva 2. Oggi basterebbe la mostra segantiniana di St. Oggi basterebbe la mostra segantiniana Moritz Bad (che sta per essere visitata dal di St. Moritz Bad a farci riflettere ministro Gonella, dal ministro Reale e dalle lungamente. maggiori personalità elvetiche in occasione di una giornata d’amicizia italo-svizzera) a farci riflettere lungamente. 3. Solo Seurat fa, in qualche grande opera, Solo Seurat è stato, in qualche grande un’eccezione. opera, un’eccezione.

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L’angoscia - 31 marzo 1952, Corriere L’angoscia d’Informazione 1. Età indefinibile, sui ’tacinque (forse Età indefinibile, sui ’tacinque. trentacinque, forse cinquantacinque). 2. « Non ho molte domande da farvi, signor « Non ho molte domande da farvi, Montana » disse sbagliando subito il mio signor Montana ». nome. 3. Più tardi mi mandò il ritaglio della rivista. Più tardi mi mandò un ritaglio della rivista.

Sportivo inglese – 24 gennaio 1953, Corriere Sportivo inglese d’Informazione 1. L’autore di un criminoso articolo uscito anni fa L’autore di un criminoso articolo. su queste colonne.

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Tabella 6: Diegesi

Ventidue prose elvetiche (1994) Autodiegesi Eterodiegesi

I. Battaglie col silenziatore X

II. Zurigo crocicchio d’Europa X

III. Ginevra senza S.d.N è sempre una grande città X

IV. Due preti negri seduti al caffè X

Non c’è angoscia esistenziale nella sana anima di V. X Zurigo

VI. Spiraglio X

Cento medici al capezzale dell’arte VII. X contemporanea VIII. Due piccoli immortali X IX. La contessa di Sarre X X. Da Saint Moritz X

X Nella terra di Calvino

a. Ginevra è diventata la più tollerante delle città XI. b. “Sono orgoglioso di essere un mammifero” X c. Ripartì per l’estero per non pagare due franchi X

A Losanna la scienza e l’arte si sono ribellate XII. X alla politica XIII. Risvegliato da dieci angeli X

XIV. La statua di neve X

XV. L’angoscia X

XVI. Poeta di frontiera X

XVII. Sportivo inglese X

XVIII. Cinque secoli di pittura veneziana a Sciaffusa X

Preziose stoffe italiane al Palais de Rumine di XIX. X Losanna Tutt’altro che tramontata la carriera degli XX. X exlibris

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Trent’anni per smascherare i 2500 pezzi falsi di XXI. X Haydn

XXII. Max Frisch X

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