Nives Maria Salvo

I Prefetti della provincia di Torino

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Pubblicazione della Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno

La revisione dei testi è stata curata dall’Ufficio Studi della SSAI

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Indice

Prefazione del Direttore della Scuola Superiore dell’Amministrazione dell’Interno 7

Nota del Prof. Nicola Tranfaglia 9

Introduzione 11

Ringraziamenti 13

Nota metodologica 15

Quattro passi sulla Storia 17

Le Biografie 27

Bibliografia 138

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Prefazione

Questa raccolta di biografie ripercorre la vicenda dei Prefetti di Torino in un arco temporale particolarmente interessante che va dall’Unità d’Italia al termine della seconda guerra mondiale ed è frutto di un’attenta ed accurata indagine. Il lavoro si colloca in un contesto denso di avvenimenti di grande valore storico da cui emerge la centralità di Torino, città protagonista del dibattito preunitario e prima capitale del Regno d’Italia. La raccolta, grazie all’approfondita e rigorosa ricerca delle fonti, restituisce, seppure con un “approccio periferico”, un quadro ricco di toni e di particolari che evidenzia come i Prefetti, interpreti attenti delle complesse realtà locali e promotori dello sviluppo sociale ed economico del territorio, abbiano svolto le delicate funzioni assegnate anche in circostanze impreviste, frangenti a volte drammatici, epoche storiche contraddistinte da profondi mutamenti di cui, in qualsivoglia modo, sono stati protagonisti, restando sempre saldamente ancorati al ruolo di fedeli “servitori dello Stato”. L’Autrice utilizza, come chiave di lettura, l’intreccio tra le biografie e gli eventi del tempo. Le storie di vita, la provenienza politica, l’evoluzione delle carriere, i particolari incarichi conferiti, le destinazioni di servizio mettono in luce uno spaccato storico con profili inediti e stimolanti spunti di riflessione da cui trarre elementi preziosi per una interpretazione dei passaggi cruciali dell’evoluzione dell’Amministrazione dell’Interno. 7

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E’ per questo che la Scuola, sempre attenta alla valorizzazione di lavori di ricerca su tematiche di interesse per l’Amministrazione, ha scelto di pubblicare questo volume di indubbia rilevanza storiografica, che potrà costituire uno strumento in più per cogliere appieno il ruolo dei Prefetti nella storia del nostro Paese.

Emilia Mazzuca

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Ho letto con attenzione il volume sui Prefetti della Provincia di Torino e voglio dire che si tratta di un libro nuovo e interessante su uomini che hanno difeso le Leggi del nostro Paese.

Spero che il libro possa essere letto dai nostri giovani.

Torino, aprile 2013

Prof. Nicola Tranfaglia

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Introduzione

La pubblicazione da me curata e rivista dall’Università di Torino, ha l’obiettivo di far conoscere alle nuove generazioni le personalità di coloro che hanno ricoperto il ruolo di Prefetto di Torino - nell’arco temporale che va dal 1861 fino all’8 settembre 1943 - alcune delle quali divenute anche protagoniste della Storia d’Italia.

Usando un topos della comunicazione si può dire che un libro di biografie sui Prefetti è un libro di biografie sui Prefetti, serve a mettere chi lo legge sull’avviso ad attendersi di leggervi anche la Storia. La storia dei Prefetti di Torino attraversa come il filo di un’impuntura la vicenda della Storia torinese e si snoda attraverso le tappe fondamentali della costruzione di un'Italia unita e più moderna e quelle della sua crescita.

Sin dalle prime pagine si respira un clima suggestivo, c’è un fervore di cose nuove. E’ lo sfondo dove si susseguono eventi divenuti poi storici ed episodi minimi che nessun manuale ha mai registrato, ed è anche in questa mescolanza di cifra che sta l’attrattiva del volume.

Il testo contiene anche alcuni materiali raccolti o redatti per l’occasione: note, cronache di quotidiani dell’epoca, curiosità culturali, che permettono di immergersi nella realtà della Storia d’Italia in cui volta per volta si trova a vivere il Prefetto. Certamente un’Italia vista da Torino e con “occhi torinesi”. 11

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Il Regno d’Italia fu uno Stato nuovo per il carattere nazionale, ma fu anche la continuazione del Regno di Sardegna, da cui ricevette la dinastia, lo Statuto e parti cruciali dell’ordinamento legislativo, amministrativo, militare, finanziario, burocratico, scolastico.

Da Torino, con una politica estera misurata su uno scacchiere internazionale, si sono rese possibili le condizioni politiche e materiali per l’avvio delle guerre per l’indipendenza nazionale.

Ancora Torino è la sede del dibattito politico preunitario, la prima sede di accoglienza dei molti italiani esuli, che si sono affiancati alle personalità locali di prima grandezza nell’intento di fare l’Italia.

Per tutte queste ragioni Torino è un punto di partenza molto speciale.

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Ringraziamenti

Questo volume è il frutto del contributo di più persone.

Ringrazio: • Il Prefetto di Torino, Alberto Di Pace; • Il Prefetto Giuseppe Forlani, per le informazioni e la documentazione sui Prefetti raccolta durante la sua permanenza in servizio a Torino. Sono sue in particolare le notizie sul Prefetto Vincenzo Ciotola confluite nell'articolo "Il Prefetto di Torino durante i drammatici giorni del settembre 1943", pubblicato sulla rivista Instrumenta; • Il Prefetto Claudio Gelati per l’incoraggiamento all’iniziativa; • L’Archivio Storico della Città di Torino,per le immagini del Prefetto Vincenzo Ciotola e del proclama del Prefetto ; • La Stampa per le notizie sui Prefetti; • Il Prof. Umberto Levra, ordinario di Storia del Risorgimento presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Torino, e Presidente del Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, per l’aiuto a inquadrare le personalità di alcuni Prefetti del Risorgimento e a selezionare la bibliografia; • Il Prof. Nicola Tranfaglia, storico e professore emerito di Storia dell'Europa e del Giornalismo all'Università di Torino, che ha rivisto il testo con cura e attenzione.

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• Un ringraziamento particolare, insieme ad un ricordo, va anche al Prefetto Giuseppe Amelio, prematuramente scomparso un anno fa che era stato sia Capo di Gabinetto sia Vicario di questa Prefettura, per aver riletto le prime bozze, fornito i primi consigli e la prima bibliografia.

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Nota Metodologica

La primavera scorsa il Prefetto Alberto Di Pace mi chiese di avviare una ricerca sui Prefetti di Torino, per allestire la sezione dedicata alle loro biografie creata ad hoc sul sito della Prefettura.

Quanto recuperato risultò ricco ed interessante, anche per l’equilibrio tra le quantità di informazioni associate a ciascun Prefetto, ma andava analizzato. Mi dedicai, quindi, ad un lavoro di scelta e organizzazione di tale materiale reperito dall’Istituzione, dall’Archivio di Stato, del Comune, del Senato, della Stampa, da vecchie cronache, da scritti degli stessi Prefetti.

A quel punto il lavoro richiedeva un esperto che fornisse qualche consiglio su fonti e strumenti metodologici. Umberto Levra e Nicola Tranfaglia, storici di indubbia capacità divulgativa furono scelte naturali.

Quindi l’ipotesi di trarre un volume per raccogliere e conservare quanto recuperato, trovò il sostegno del Prefetto Di Pace. Incoraggiamento all’idea di un volume con quelle peculiarità venne anche da alcuni ex Prefetti di Torino.

Fatto quanto era necessario la pubblicazione acquistò l’assetto attuale.

Scritto in linguaggio semplice e immediato e corredato di note e di fotografie, il libro si sgrana in 35 biografie,

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raccontate in stile narrativo, a scopo conoscitivo e divulgativo.

Si divide in due parti: Prefetti dell’Italia liberale e dell’Italia fascista. Ciascuna scheda biografica riporta informazioni sulla nascita, sugli studi, sulla carriera e sui principali avvenimenti della loro vita. Sullo sfondo vi si può scorgere il mutare dei tempi, della politica e anche dell’Istituzione prefettizia.

Un libro è un libro, ma se sollecita uno sguardo partecipe del cittadino verso la storia e la cultura di un’Istituzione dello Stato, fa una buona azione.

A tutti un pensiero riconoscente per l’aiuto prestato alla riuscita della sua pubblicazione.

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Quattro passi sulla Storia

Quando nel 1848, Cavour affermava: “Mi interessa fare l’Italia! Per mia fortuna o per mia disgrazia io non riesco mai a pensare a cose impossibili!”, forse non ha ancora in mente l’Italia unita, di certo però pensa almeno all’estensione territoriale del regno piemontese. Progetto che dopo la sconfitta della prima guerra d’indipendenza sembra solo un sogno, ma qualche anno dopo le cose cominciano a cambiare, fino a quando, all’inizio del 1861, il tempo per l’Unificazione volge al bello. Il 17 marzo a Torino re Vittorio Emanuele II nel suo discorso inaugurale del Parlamento assume per sé e suoi successori il titolo di Re d’Italia e conferma Cavour alla guida del governo. Per giungere a Palazzo Carignano, sede del Parlamento, il Sovrano percorre lentamente piazza Castello ed un tratto di via Accademia delle Scienze, mentre una folla di sudditi grida “Viva il Re!”, Viva “l’Italia!”. Il clima è suggestivo. Accanto ai fedeli sudditi piemontesi ci sono sudditi napoletani e lombardi, veneti e romani e toscani. Alla cerimonia partecipa anche il Marchese e Senatore Carlo D’Adda, patriota ed anello di congiunzione di Cavour con i lombardi, e Prefetto della provincia di Torino, il primo del Regno d’Italia. Accanto a lui ci sono Cavour, Garibaldi, Verdi e Manzoni, De Sanctis e Settembrini, Guerrazzi e Bixio, d’Azeglio e La Marmora, Cajroli, Ricasoli, Poerio, Fanti, Cialdini, Cadorna. Certo, tutti Senatori di nomina regia, ma il nuovo Stato non può avere rappresentanza migliore. Il 4 maggio 1861, pochi giorni dopo lo storico scontro in aula a Palazzo Carignano tra il Generale Garibaldi e Cavour, sul futuro di migliaia di soldati garibaldini protagonisti della liberazione del Regno delle Due Sicilie, in Prefettura a Torino

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nasce ufficialmente il primo esercito italiano, un esercito professionale che non accoglie garibaldini, ma ufficiali formati nelle accademie. Nel frattempo proseguono i lavori per la costruzione del nuovo Parlamento, perché quello Subalpino, troppo piccolo, non ce la fa ad ospitare tutti i parlamentari del nuovo Regno. Ma mentre a Torino si opera con i muri, a Parigi si opera con le intese segrete. Napoleone III, per ritirare il suo presidio da Roma, vuole la garanzia che lo Stato italiano non vada a occupare la città del Papa, e la migliore garanzia è quella di una capitale al centro della Penisola che tolga a chiunque l’idea di insediarsi sui Sette Colli. La Convenzione del 15 settembre 1864 negoziata alla chetichella, all’insaputa del Re e del Parlamento, tra l’imperatore dei Francesi, il bolognese presidente del Consiglio, il fiorentino ministro dell’Interno e vero deus ex machina, il napoletano d’adozione Silvio Spaventa segretario generale del ministero dell’Interno (che il futuro presidente del Consiglio La Marmora qualche mese prima, nella sua veste di Prefetto di Napoli definisce “una canaglia”, ricambiato con l’appellativo di uomo della “camorra militare”), contiene anche il codicillo segreto, che toglie a Torino il ruolo di capitale. Svelato dalla Gazzetta Ufficiale di Bottero il 18 settembre alimenta nei torinesi un’effervescenza crescente che nei giorni seguenti sfocia in tragedia. Il Prefetto di Torino, Giuseppe Pasolini, è fuori città, il Sovrano è a caccia a Sommariva Perno e rientra nella notte del 22 settembre a “luttuosi avvenimenti avvenuti”. Il 23 settembre, sotto la spinta della pressione piemontese, ma anche perché sin dall’inizio lo sopportava malvolentieri, il Re dimissiona il governo Minghetti e incarica il generale Alfonso La Marmora di formare un nuovo ministero. Cade il Prefetto Pasolini, uomo del Minghetti; prende il suo posto il Prefetto , già Deputato del 18

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Parlamento Subalpino, e con lui il Re lancia un messaggio alla Sinistra liberale. Con Cadorna e La Marmora il Re intende rassicurare i piemontesi con un governo di piemontesi e di prestigio militare. Dall’estate del 1865 si avvertono con chiarezza i passi indietro fatti dalla città: dopo la partenza definitiva della corte, del Parlamento, del governo, dell’apparato ministeriale, di numerosi uffici pubblici, della zecca, di società e banche, e con la parziale smobilitazione delle officine statali addette alla produzione di armi e di materiale ferroviario (le stesse il cui ampliamento il governo aveva deciso nell’estate 1861), con la più generale riduzione dell’attività nell’edilizia, nell’artigianato, nel commercio. La camaleontica comunità piemontese orfana della capitale si butta nei lavori al traforo del Frejus, cercando là il proprio futuro. L'aveva pensato Giuseppe Medail, l'aveva voluto Cavour, con Napoleone III, l'avevano attuato gli operai dei due versanti con tredici anni di scavo. E’ inaugurato il 18 settembre 1871 a Bardonecchia alla presenza del Prefetto Radicati Talice di Passerano. Quattro settimane più tardi parte il primo treno per Parigi, alle 7,35 del mattino, compiendo il percorso in meno di 24 ore. Torino aveva trovato l'Europa! E se Travet aveva perso la via di Roma, stavano per arrivare le tute blu e dietro di loro i Prefetti, come , capaci di reinterpretare il loro ruolo entrando nelle questioni di mediazione e di pacificazione sociale e di prevenzione di conflitti legati a problematiche connesse a un mondo del lavoro e della produzione che in maniera sempre più consapevole sostiene le proprie legittime rivendicazioni. Prima, però, i loro predecessori avevano affrontato il nemico numero uno della società moderna: Pio IX, che tra sé e il Risorgimento aveva frammesso l’Allocuzione. Dopo le prime tendenze riformatrici, attribuite anche all’amicizia con Giuseppe Pasolini, il Papa del 19

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“Sillabo” e del “non expedit”, che dalle speranze neoguelfe del Primato era trapassato alla visione più rigorosa e ascetica dell’isolamento papale e della contrapposizione cattolica al mondo moderno e alla civiltà laica e razionale, capitola a Porta Pia, dopo la sconfitta di Napoleone III. Alla storica breccia, il 20 settembre 1870 partecipa anche il marchese Alessandro Guiccioli, che entra trionfante in Roma, consapevole che era stato conseguito il più importante obiettivo del processo di unificazione: sottrarre Roma allo Stato Pontificio per farne la capitale del nuovo Regno. Ma il Papa Mastai Ferretti, avversario di tanti Prefetti del Regno, ha anche molte qualità. Inoltre in pochi uomini la capacità di sorridere di se stessi è così forte come nel vecchio Pontefice: alle cannonate di Porta Pia sorridendo ai prelati pallidi e angosciati, mostra la sua tabacchiera e celia: “Qui non entreranno!” Probabilmente nessuno era più persuaso di lui già prima del 1870 della fatale caduta del potere temporale. Ma laicizzare lo Stato per renderlo più moderno e politicamente più stabile erano gli obiettivi della politica audace e liberale di Cavour. Alle ire di Pio IX si era già esposto Carlo Cadorna con un insieme di norme per ridimensionare il potere temporale dello Stato pontificio, ottenere uno Stato libero dal clericalismo, proclamare Libera Chiesa in Libero Stato, non riservare privilegi alle strutture ecclesiastiche e distinguerle dalle strutture dello Stato. Il Prefetto Giovanni Minghelli Vaini si scontra con le scuole salesiane, che nascono a Torino negli anni del suo mandato, i cui insegnanti erano, però, privi dei titoli richiesti dallo Stato. Dell’istruzione degli italiani si occupa invece Angelo Bargoni, nella sua veste di ministro della Pubblica Istruzione. Tra le alternative che mette a punto per modificare il quadro istituzionale vanno menzionate le scuole superiori femminili, fondate da alcuni comuni, tra i quali Torino, e sussidiate dal 20

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governo secondo le disposizioni della sua circolare ministeriale del 9 luglio 1869, frutto della collaborazione con Pasquale Villari. Egli inoltre da Torino appoggia la Legge Coppino (11 luglio 1877). Anni prima, tra il 1861 e il 1863 nel suo giornale “Il Diritto” voce del movimento garibaldino, aveva affrontato anche i problemi del modello amministrativo da adottare per il nuovo Stato. Mentre sta nascendo infatti la politica è già divisa tra centralismo e federalismo, tra chi teme la disgregazione dello Stato appena unificato e chi invece vuole valorizzare le autonomie locali e rendere più agile e liberale la macchina dello Stato. Interviene sul tema come ministro dell'Interno Carlo Cadorna. Ad imporsi sarà il modello di impostazione centralistico affidato a Prefetti di nomina regia che ricalca quello già in vigore in Piemonte, una scelta funzionale allo sviluppo del nuovo Stato, ma anche condizionata dalla paura di compromettere l’unità territoriale appena raggiunta. “La logica non trionfa sempre nel mondo, e nemmeno nelle camere legislative”, rumoreggia Minghetti, ma intanto la coesione del nuovo Stato è ancora a rischio. Ed è soprattutto dal sud che arrivano i segnali più preoccupanti. A Torino il 17 marzo 1861 il giorno della proclamazione del Regno d’Italia Cavour riceve da Napoli notizie drammatiche: dilagare di incendi, saccheggi e rivolte. E’ l’esplosione del brigantaggio. Protestano i contadini ma anche masse di ufficiali e sottufficiali sbandati dell’esercito borbonico non integrati nell’esercito italiano, che tornando a casa non trovano più la patria, perlomeno non quella per cui avevano combattuto. Il mezzogiorno diviene un vero teatro di guerra contadina. La risposta di Torino è una repressione violenta e sistematica, contro i briganti, nostalgici dei borboni e del potere temporale del Papa. Per reprimere definitivamente il movimento, che assomiglia sempre di più ad una guerra civile, ci vorranno dieci anni. La combatteranno, tra gli altri, i Prefetti 21

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Carlo Torre e Bartolomeo Casalis. Cavour non amava le soluzioni rivoluzionarie (e quella di Garibaldi nel Sud era stata una soluzione rivoluzionaria), ma da vero giocatore durante la spedizione dei Mille, non vuole lasciare il tavolo e da Torino segue gli eventi con apprensione. Cavour non vuole fermare Garibaldi e per controllarlo dal Piemonte manda suoi emissari, tra i quali anche Bartolomeo Casalis, Angelo Bargoni e Camillo Caracciolo. Successivamente viene esteso a tutto il Regno d’Italia il sistema carcerario precedentemente in vigore nel Regno di Sardegna, che prevede la pena di morte. Giovanni Minghelli Vaini si distingue per alcuni scritti in materia e viene nominato Ispettore penitenziario e membro della commissione ministeriale d’inchiesta sulle carceri giudiziarie napoletane. Prosegue anche il processo di unificazione legislativa e giudiziaria, con l’estensione degli ordinamenti e dei codici legislativi precedentemente in vigore nel Regno di Sardegna. Nel 1878 muore Vittorio Emanuele II, stroncato da una polmonite nella sua nuova residenza romana al Quirinale. Torino si batte strenuamente perché il re venga sepolto a Superga, insieme ai suoi avi, ma il nuovo re in pectore decide di seppellire le spoglie nel Pantheon. Torino scossa e lacerata è anche rimasta acefala, il Prefetto Angelo Bargoni siede al Governo e anche il Sindaco è assente. Qualcuno cerca di tagliare il nodo con la proposta di una “salma pendolare”, in continua trasferta tra la vecchia capitale del regno sabaudo e la nuova capitale del regno d’Italia. Come dice Carducci cinque anni dopo, “dietro il popolo nuovo, risorto dal lungo sonno della storia, vi era sempre un “vecchio” popolo di frati, di briganti, di ciceroni, di cicisbei”. Ma il Sovrano è l’unico vero simbolo dell’Unità d’Italia, continuamente minacciata, e per difenderla si ricorre alla costruzione del mito del Re Galantuomo. Il Prefetto Guiccioli si fa prontamente relatore del 22

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progetto di legge per l'erezione del monumento a Vittorio Emanuele II, a Roma. Ne viene costruito uno anche a Torino, se ne interessa il Prefetto Bargoni. Ci vollero 20 anni per inaugurarlo, fra ritardi polemiche e interventi giudiziari. In tutta la seconda metà dell’800 una terribile epidemia di colera prende il posto nell’immaginario popolare che aveva avuto due secoli prima la peste e scatena inevitabili riflessi sull’ordine pubblico. Ad affrontarli c’è il Prefetto e Capo della Polizia Ottavio Lovera di Maria, alle prese anche con il movimento contadino di La boje. Successivamente la protesta sociale di fine ‘800 è fronteggiata con durezza dal Prefetto Ferdinando Ramognini, anche lui Capo della Polizia e seguace di Crispi. All’epoca dei fasci siciliani Giolitti, che non ne condivide i modi, lo sostituisce e lo manda Prefetto a Torino, poi con il nuovo governo Pelloux i tentativi autoritari proseguono per tutto il 1899. Ai disordini lo Stato risponde con lo stato d’assedio: nel 1898 a Milano, durante la cosiddetta “protesta dello stomaco”, il Prefetto Antonio Winspeare viene messo da parte, a disposizione, mentre il Generale Bava Beccaris, nominato Regio Commissario Straordinario, ordina di sparare cannonate sulla folla, provocando una strage. A conclusione di questo drammatico periodo il re Umberto I (che aveva decorato Beccaris con la gran croce dell'Ordine militare di Savoia) sarà assassinato a Monza il 29 luglio 1900. Quando invece il 28 ottobre 1922, dopo la Marcia su Roma, il Prefetto e ministro dell’Interno Paolino Taddei chiederà al Re di firmare lo stato d’assedio, il Re si rifiuterà di firmarlo. Finisce lo Stato liberale. Nell’agosto 1917 il Prefetto Taddei aveva sostituito Antonio Winspeare alla guida della Prefettura di Torino, teatro di gravi moti popolari contro la guerra. Prima di entrarvi, nel 1915 ad analizzare lo “spirito pubblico della popolazione torinese” era stato il neutralista Jacopo Vittorelli, che Salandra 23

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aveva sostituito con Verdinois. Anche Giannetto Cavasola si era schierato tra i neutralisti. Tra il 1922 e il 1926, quando il partito fascista comincia a imperversare con tutte le sue pulsioni illiberali, in quegli anni cruciali della storia d’Italia, tra il delitto Matteotti e le leggi eccezionali, a Torino il Prefetto Enrico Palmieri subentrato agli inizi del 1923 a un uomo come Carlo Olivieri, che a nei giorni dello sciopero legalitario del luglio 1922 aveva aperto la città alle squadre di Caradonna e che a Torino assiste al teppismo delle squadre di Brandimarte, cerca piuttosto di rimuovere le preoccupazioni dei fiancheggiatori e di reclutare consensi fra le frange più incerte del partito liberale e di quello popolare. Si lancia verso la fasticizzazione dell’Amministrazione comunale e su ordine di Mussolini si scaglia contro Gobetti, fondatore del giornale “Rivoluzione Liberale” e contro Gramsci, fondatore del giornale “Ordine Nuovo”. Nel 1926 tutto diventa fascista. Si imbavaglia la stampa, si disfano le forze democratiche, i partiti, si distruggono le organizzazioni socialiste. Ma il Prefetto Agostino D’Adamo non ci sta, almeno non del tutto, e dopo l’attentato a Mussolini a Bologna ostacola da Torino la nuova ondata squadristica, bloccando in Prefettura il telegramma del segretario fascista, Augusto Turati, che incita le federazioni fasciste alla punizione sommaria dei responsabili, e predispone un adeguato servizio di polizia a presidio delle sedi dei partiti, dei giornali e delle abitazioni private di singoli antifascisti. Tuttavia, nei giorni successivi, esegue disciplinatamente le direttive del Capo della Polizia Arturo Bocchini che anticipano le disposizioni di legge sull'abolizione dei partiti e della libertà di stampa. Solo apparentemente contraddittorio il suo comportamento porta all'evidenza il termine estremo dell'incompatibilità tra una concezione tradizionale delle funzioni del Prefetto e il nuovo sistema di potere della dittatura 24

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fascista. Il 9 maggio 1936 ancora al potere dichiara dal balcone di Piazza Venezia, in un discorso radiotrasmesso in tutte le piazze del Paese, che conquistata l’Etiopia “l’Italia ha finalmente il suo Impero”; il Prefetto Cesare Giovara (anche Podestà di Torino) si occupa della partecipazione dei funzionari torinesi all’adunata e della trasmissione dei dati della manifestazione. Successivamente, invece, il “vecchio arnese giolittiano” Prefetto Pietro Baratono, così lo definiva il federale di Torino Gazzotti, defenestra il Podestà Sartirana, vecchia camicia nera, e la sua amministrazione. Ma le cose peggiorano. Se Mussolini qualche tempo prima diceva a Montanelli:“Il razzismo è una cosa da biondi”, ora cambia idea e il 15 luglio 1938 i giornali rendono pubblico il “Manifesto della razza”, che attraverso un puro falso storico, assimila gli italiani mediterranei alla pura razza nordica, affermando che la popolazione italiana è nella sua totalità di origine ariana e al punto 9, che “gli ebrei non sono di razza italiana”. A Torino il 4 gennaio 1939 la circolare (n. Gab. 185) di applicazione del R.D.L. 17 novembre 1938 n. 1728, recante provvedimenti per la difesa della razza italiana, che vieta i matrimoni misti e stabilisce i criteri per la classificazioni dei nati da unioni interrazziali, porta la firma del Prefetto Carlo Tiengo. Il cerchio si stringe sugli ebrei, e sul diritto alla cittadinanza. Tuttavia, qualche anno dopo, nell’aria si respira qualcosa di nuovo: gli italiani cominciano ad alzare il tiro. Il 5 marzo 1943 le maestranze della Fiat Mirafiori di Torino sfidano la polizia del Prefetto Francesco Palici di Suni mettendosi in sciopero, subito imitati da altre fabbriche di Torino, poi dagli operai della Pirelli e della Falck di Milano, fino a che in breve centotrentamila operai incrociano le braccia. Mussolini colpito al cuore ricorre al Prefetto Carlo Tiengo e lo nomina Ministro delle Corporazioni, tentando un recupero. Se 25

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il dissenso contro il regime e la guerra diviene palpabile, nell’ottobre 1942 è il generale Montgomery, in Africa, a dare scacco matto alla razza ariana. Poi lo sbarco degli anglo- americani nel luglio 1943 segna la fine del fascismo. In quei quarantacinque giorni badogliani a Torino è il Prefetto Vincenzo Ciotola a prendersi cura della città e quando al momento dell’8 settembre nel Paese non vi è più un’autorità che comanda, non vi è più Stato, il Re è fuggito, manca un Governo e chi possa dar ordini, è ancora il Prefetto Ciotola a dare prova di coraggio. Il suo ultimo rapporto (n. Gab. 18909 del 16 settembre 1943) all’“Illustre Ministro dell’Interno”, prima di essere messo agli arresti dai tedeschi che avevano occupano la città, (pubblicato nelle pagine dedicate alla sua biografia), è diventato oggi una pagina di Storia da non dimenticare. Non potremmo capire la ripresa successiva se non ci rifacessimo a questi antecedenti, a figure, tra cui anche quella del Prefetto Ciotola che, quasi come numi tutelari, hanno difeso la democrazia italiana in quel periodo di profonda crisi morale e intellettuale.

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LE B AFIE

Carlo D'Adda Giuseppe Pasolini Carlo Cadorna Carlo Torre Costantino Radicati Talice di Passerano Vittorio Zoppi Angelo Bargoni Camillo Caracciolo Di Bella Giovanni Minghelli Vaini Bartolomeo Casalis Ottavio Lovera Di Maria Antonio Winspeare Carlo Municchi Ferdinando Ramognini Giannetto Cavasola Alessandro Guiccioli Giovanni Gasperini Jacopo Vittorelli Edoardo Verdinois Paolino Taddei Carlo Olivieri Enrico Palmieri Secondo Dezza Agostino D'Adamo Raffaele De Vita Luigi Maggioni Umberto Ricci Agostino Iraci Cesare Giovara Giovanni Oriolo Pietro Baratono Carlo Tiengo Francesco Palici di Suni Dino Borri Vincenzo Ciotola

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Carlo D’Adda

Marchese di Pandino e di Cassano e Conte di Casatisma, Senatore, Governatore e Prefetto di Torino. Illustre esponente del mondo politico e culturale milanese è protagonista delle guerre di indipendenza. Nasce a Milano il 24 novembre 1816, figlio cadetto del marchese Febo e di Leopolda Khevenhüller, Contessa di Casatisma. Il padre, già consigliere di Stato e Cavaliere della Corona di ferro, alla Restaurazione austriaca conserva gli uffici e diviene fino a vice presidente del Governo di Lombardia. Fu allievo del Parini, che gli dedicò l’ode alla Musa e cugino del Conte Federico Confalonieri, per il quale dopo la condanna firmò la supplica per grazia. Al contrario, Carlo è di tendenze liberali, repubblicano, almeno inizialmente, e democratico. Presto emancipato, dopo la morte del padre, alla soglia della laurea in giurisprudenza rinuncia a laurearsi per non prestare con la formula d'uso una sorta di giuramento di fedeltà all'imperatore. Una ribellione generazionale e culturale, frutto del clima romantico in cui è cresciuto. Moderato, non ha velleità cospirative o rivoluzionarie. Aspira al rinnovamento e alla crescita della società civile e partecipa alla lotta politica alla sua maniera di intellettuale. Diviene interlocutore e punto di riferimento di politici e aristocratici, riconosce l’importanza di una fiorente agricoltura, come dell'industria diffusa e rispettata, della morigeratezza come dell'istruzione sparsa ovunque, soprattutto mediante scuole minori per la classe più numerosa. Guadagna l'attenzione di eminenti personalità del tempo tra le

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quali Camillo Cavour, che conosce nel 1843 presso Cristina di Belgioioso in Francia, e del quale si fa successivamente interprete presso i lombardi, , Massimo d'Azeglio, che conosce nel 1845, Giuseppe Mazzini. Partecipa dell’esigenza propriamente correntiana di inserirsi nel movimento pubblicistico milanese, con posizioni filantropiche che incrociano le istanze sociali di cui è permeata la cultura lombarda. Nella fase prerivoluzionaria ormai innestatasi a Milano, nell’autunno 1847 aderisce alla soluzione albertista. Imparentato con i Borromeo, i Turati, i Visconti, i Calvi, gli Orcesi, si congiunge all’aristocrazia alla quale, per unanime consenso, si riconosce una funzione dirigente e s’impegna nell'organizzare manifestazioni e pronunciamenti dell'opinione pubblica, anche attraverso il Club dell'unione e il noto caffè della Cecchina. Solo dopo gli eccidi del 3 gennaio prende ferma posizione contro gli Austriaci e respingendo l'esortazione al compromesso del Cattaneo si convince dell'utilità di predisporre la difesa armata del popolo, divenendo allora largo di sovvenzioni e aiuti al Correnti. Di lì a poco, nella prima quindicina di febbraio, per sfuggire all’arresto ripara a Torino. L’esigenza di intessere contatti diretti con Carlo Alberto è ormai giudicata improrogabile e di ciò si fa interprete nella capitale sarda. Prima e dopo lo scoppio delle “Cinque giornate di Milano” avvia trattative con personalità del seguito di Carlo Alberto e poi con il sovrano stesso, già destinatario di periodiche relazioni da Milano. Dopo una rapida corsa a Milano, il 26 marzo è nuovamente a Torino dove era stato nominato capitano del reggimento di cavalleria Novara. L’indomani gli giunge, però, la designazione del governo provvisorio nella capitale sarda, poi con l’approvazione della legge sul regime transitorio della 30

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Lombardia cessa la sua missione ufficiale. Dopo l’armistizio Salasco sceglie la strada dell'esilio e a partire dal novembre 1848 dimora a lungo in Francia dove si limita ad un ruolo di osservatore critico. Non ha, però, ripensamenti sulla funzione della monarchia e del Piemonte, anzi ne approva pienamente orientamenti e scelte. Con l’amnistia nel 1850 rientra definitivamente nella sua casa milanese che trasforma in un polo di aggregazione per la corrente filopiemontese degli “albertisti”, coagulando intorno al suo salotto soprattutto esponenti dell'aristocrazia, coadiuvato in questo dalla moglie, la nipote Maria Falcò Valcarcel Pio di Savoia (1826-1893), che sposa alla fine del 1846. Il suo sforzo maggiore, mentre va crescendo il seguito di Cavour, è quello di garantire la tenuta e la compattezza delle classi alte, messe un po' in forse dal viaggio di Francesco Giuseppe prima e ancor più poi dalla venuta dell'arciduca Massimiliano, che sembrano schiudere nuovi spiragli d'intesa con l'Austria. All'atto della liberazione della città si dedica alla costituzione del partito liberalconservatore. Dalla fine del 1859, dopo la cacciata degli austriaci dalla Lombardia, è Governatore e poi Prefetto di Torino, governatorato reso prestigioso dalla vicinanza ai vertici dello Stato, ma povero d'ascendenza sulla città. Fra le sue incombenze anche quella, ufficiosa, di far da tramite nella fase delicata della transizione al nuovo regime fra la Lombardia e il ministero o la corte. Si dimette il 13 marzo 1862, alla formazione del Governo Rattazzi, per manifesta incompatibilità con il nuovo Gabinetto. Dal febbraio 1860 era divenuto anche Senatore del Regno, così come di schietta ispirazione governativa era stata nel 1861 anche la sua chiamata al consiglio d'amministrazione delle Ferrovie lombarde e dell'Italia centrale (più tardi Alta Italia).

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Rientrato a Milano ricopre importanti cariche pubbliche. Muore a Milano il 25 giugno 1900. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a Gran cordone dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e Grande Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia.

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Giuseppe Pasolini

Conte e politico di prima grandezza nel Risorgimento romagnolo, uomo di fiducia del ministro Minghetti, Presidente del Senato e Prefetto di Torino, nel difficile momento in cui si rende pubblica la notizia che il “testimone” di capitale del Regno d'Italia passa a Firenze. Nasce a Ravenna l'8 febbraio 1815, registrato con il nome di Giuseppe Francesco Leonardo Apollinare, figlio del Conte Pier Desiderio, storico e uomo politico, e di Amalia dei Conti di Santacroce. Sposa Antonia Bassi. Studia agricoltura e scienze naturali e sociali, viaggia in Europa ed è con l’amico Minghetti tra i principali esponenti del partito liberale moderato nazionale nello Stato Pontificio. Nel 1845 entra in amicizia con il cardinale Mastai e proprio all’azione di questa amicizia si attribuisce la tendenza riformatrice che Pio IX mostra durante i primi tempi del suo pontificato. Istituita la Consulta di Stato nel 1847 è nominato Consultore per Ravenna. Efficace promotore del progresso agricolo è tra i primi laici chiamati dal Papa a far parte del governo nel 1848, in qualità di ministro del Commercio, Agricoltura, Industrie e Belle Arti. Dopo l'allocuzione del 29 aprile, con cui Pio IX si dissocia dalla guerra contro l'Austria, si dimette dall'ufficio insieme agli altri ministri laici, ed entra a far parte dell’Alto Consiglio Romano, in qualità di vicepresidente, su posizioni liberaleggianti. Avvenuta la restaurazione dell'assolutismo pontificio, vive per lo più a

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Firenze e fa della sua casa un centro di eminenti patrioti toscani e di altre parti d’Italia e di alcuni illustri politici stranieri quali lord Minto, Lord John Russell e sir Henry Elliot, della cui amicizia i liberali italiani cercano di giovarsi a favore delle sorti dell’Italia.In occasione del viaggio di Pio IX nelle Romagne, nel 1857, tenta invano di indurlo a ritornare sulla via delle riforme. Confaloniere di Ravenna (1857-59), ha gran parte nel preparare l'annessione della Romagna al regno di Vittorio Emanuele II, Senatore dal 1860, ricopre anche la carica di Vicepresidente e dal 1876, per pochi giorni,di Presidente, sino alla morte. E’ Governatore e poi Prefetto di Milano e dal 31 marzo 1862 Prefetto di Torino. Dopo le dimissioni del ministro Rattazzi è nominato ministro degli Esteri nel gabinetto Farini, dall'8 dicembre 1862 al 24 marzo 1863. Per il periodo in cui è ministro degli Esteri, la Prefettura è retta dal consigliere delegato Radicati Talice. Poco dopo è inviato in missione politica in Inghilterra e in Francia (luglio-settembre 1863 e dicembre 1863-febbraio 1864). Dal 31 marzo 1864 torna all’Ufficio di Prefetto di Torino, quindi il governo gli affida una missione politica a Firenze. Rientra a Torino per gestire i difficilissimi giorni del settembre 1864, quando diviene pubblica la notizia dello spostamento della capitale a Firenze(1). Dopo che Vittorio Emanuele per trarsi d'impiccio, sulla spinta della pressione piemontese ma anche perché sin dall'inizio lo sopportava malvolentieri, intima al primo ministro Minghetti di andarsene, si dimette e il 1° febbraio 1865 lascia la Prefettura, proprio quando la forte ostilità

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popolare si esprime ancora in piazza in occasione del gran ballo a corte del Carnevale del 30 gennaio(2). Il 13 ottobre 1866 è Commissario del Re a Venezia liberata per l’instaurazione del governo nazionale e dal 9 dicembre 1866assume in quella città la titolarità di Prefetto, fino al 4 aprile 1867. Negli anni che seguono si astiene dalla vita pubblica. Muore a Ravenna il 4 dicembre 1876. Nel corso della sua carriera raccoglie diversi riconoscimenti: riceve il Gran cordone dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e l’onorificenza di Grande Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia.

(1) Il 22 settembre del 1864 in Piazza San Carlo e la precedente in Piazza Castello erano rimasti sul selciato in tutto 28 morti, altri 24 erano deceduti dopo i ricovero negli ospedali; i feriti furono 159, più o meno gravi, civili e appartenenti agli allievi carabinieri e al Diciassettesimo e Sessantaseiesimo reggimento di fanteria. Alcuni dimostranti, appresa la notizia del trasferimento della capitale, erano scesi in piazza ad esprimere la rabbia per la perdita del lavoro e per gli interessi economici minacciati e avevano lanciato dei sassi contro la porta della Questura, allora sita sul fondo della Piazza San Carlo. Ne era uscito un funzionario di polizia, seguito dagli allievi carabinieri (un battaglione risiedeva a fianco della Questura). Questi ultimi senza i rituali 3 squilli di tromba spararono colpi di fucile contro i manifestanti. Tutt'intorno ai lati della piazza stavano seduti ufficiali della fanteria che sentendo gli spari e ignari della situazione pensarono che gli spari arrivassero dai manifestanti e così anche la Polizia. Gli allievi carabinieri spararono per primi seguiti dagli ufficiali di fanteria che si spararono tra di loro e sulla popolazione inerme: tant'è che tra i morti i militari furono 4 e i feriti 29, tutti colpiti da armi da fuoco in dotazione al Regio esercito.(Storia di Torino, G. Einaudi Editore, 2001- Vol. VII “da Capitale politica a capitale industriale”). (2) La goccia che fa traboccare il vaso, dopo un susseguirsi di manifestazioni di disoccupati per vari giorni del gennaio 1865, è l’infelice decisione del re di confermare il tradizionale ballo di carnevale a Corte il 30 gennaio, al quale invita tutta la buona società torinese. Il Consiglio comunale, offeso per la mancanza di sensibilità dopo il recente lutto cittadino, rifiuta al completo di prendervi parte e anche i vuoti tra gli altri invitati sono vistosissimi, e dalla piazza antistante numerosi sono i torinesi che fischiano Vittorio Emanuele II. Questi, ritenendosi a

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sua volta offeso, lascia seccatissimo la sera del 3 febbraio la città “ormai decapitalizzata” (come allora si diceva a Torino) per Firenze, dove inizialmente aveva fatto conto, di recarsi solo in primavera, in concomitanza con il trasferimento degli apparati dello Stato. L’8 febbraio acconsente a ricevere a San Rossore il sindaco e alcuni consiglieri municipali, che fanno ammenda del rifiuto a partecipare al ballo a Corte, invitando il sovrano, con un appello firmato da migliaia di piemontesi, a tornare ancora un po‘ di tempo a Torino, esprimendo con dignità e fermezza la frustrazione che pervadeva il capoluogo piemontese. Essa è rinnovata pubblicamente nella imponente e mesta commemorazione dei caduti di Torino, un anno dopo, il 22 settembre 1865, con modesti disordini.

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Su concessione dell’Archivio Storico della Città di Torino”, Fondi Vari E’ fatto divieto di riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo

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Carlo Cadorna

Nobile, Avvocato, ex Deputato del Parlamento Subalpino, Presidente della Camera dei Deputati, Vice- Presidente del Senato, Prefetto, Magistrato, Ministro dell’Interno e della Pubblica Istruzione, Diplomatico, Presidente del Consiglio di Stato. Esempio di fungibilità politico-amministrativa della classe dirigente d'origine piemontese. Nasce a Pallanza, oggi Verbania, sulle rive del Lago Maggiore l’8 dicembre 1809, da una famiglia di nobili e militari. Il padre Luigi, era colonnello dell'esercito sardo, ma dimissionario dopo l'occupazione francese del Piemonte; la madre la marchesa Virginia Bossi, sorella del patriota Benigno Bossi, condannato a morte in contumacia, dopo i moti del 1821. Fratello maggiore del generale Raffaele Cadorna e zio di Luigi, destituito a Caporetto, laureato in legge nel 1830 a Torino, buon avvocato, magistrato a Novara e Casale, si unisce a , , ed entra in contatto con gli ambienti liberali torinesi. Interviene su diverse testate con articoli di argomento sociale ed economico e fonda a Torino il periodico "Album letterario e scientifico", particolarmente attento ai temi dell'educazione popolare e degli asili infantili, che nella vicina Lombardia proprio in quegli anni vengono promossi da Ferrante Aporti. Contribuisce all’istituzione

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della Società agraria piemontese. Anela al nuovo e nel 1848 fonda anche "Il Carroccio" insieme a Lanza e Mellana dove scrive articoli patriottici. E' convinto fautore dell'unità nazionale che subisce lo scacco cocente della sconfitta di Novara. E’ nelle sue mani che quella sera, a Palazzo Bellini, Carlo Alberto consegna l'atto di abdicazione, prima di partire per l'esilio di Oporto. Collaboratore di Cavour, Presidente e relatore di varie commissioni parlamentari, fra cui quella del Bilancio (in tale veste fa adottare dal Parlamento la regola della votazione dei bilanci preventivi dello Stato), Presidente della Camera dei deputati dal 1857 al 1858, Ministro della Pubblica Istruzione nei Governi Gioberti e Chiodo, è Senatore (29 agosto 1858), e di nuovo ministro della Pubblica Istruzione con Cavour (1858), anche al fine di allargare al centro sinistra le basi della maggioranza, Consigliere di Stato (1859), Vice Presidente del Senato (27 marzo1865), Ministro dell'Interno dopo Mentana (gennaio 1868). Favorevole alla soppressione di alcune congregazioni religiose, nemico del potere temporale del Papa, malvisto dai gesuiti, malgrado le pressioni familiari affinché si dimostri meno aspro con Pio IX non mitiga la sua intransigenza. Tuttavia si riconosce nelle teorie dell'Opus Dei e nella sostanza dell'enciclica «Rerum Novarum» di Leone XIII. Nel 1855 è nominato relatore della Commissione incaricata dell’esame del disegno di legge sulla soppressione di conventi e comunità religiose e in tale veste esprime una compiuta visione liberale dei rapporti fra Stato e Chiesa ispirata alla libertà di coscienza e alla separazione fra sfera civile e religiosa (secondo la formula “Libera Chiesa in Libero Stato”). Si pronuncia apertamente in favore del

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matrimonio civile e nel 1879 sostiene in una relazione preliminare in Senato il progetto di legge - poi caduto - sulla precedenza obbligatoria del matrimonio civile sul rito religioso. In politica economica si orienta in favore della politica d’intervento statale per la creazione delle infrastrutture; interviene nel dibattito sul problema allora assai vivo delle ferrovie per sostenere la necessità di un collegamento fra Genova e l'Europa centrale e scrive anche un grosso saggio “Della strada ferrata da Genova alla Svizzera ed in specie del tronco d'essa da Novara al Lago Maggiore”, Torino 1853. E’ membro della commissione di studi legislativi proposta da Farini il 16 maggio 1860 per l'esame dei progetti sull'ordinamento amministrativo dello Stato preparati dallo stesso Farini e poi da Minghetti. Avversario dell'ordinamento regionale, come Presidente della commissione governativa per la riforma dell'amministrazione centrale e periferica e successivamente come ministro dell'Interno presenta diversi progetti di legge e di regolamenti per il potenziamento del decentramento burocratico in favore dei Prefetti e per la definizione dei poteri politici, amministrativi e finanziari delle Prefetture. Poiché alle sue proposte sono apportate modifiche che egli non vuole accettare, il 10 settembre 1868 si dimette dal ministero, pubblicando uno scritto, “Le seicento delegazioni governative” (Firenze 1868), in cui riassume i motivi di validità del suo progetto di legge. Questo è discusso - con le modifiche apportate - fra il dicembre del 1868 e il marzo del 1869 insieme con quello presentato dal Cambrai-Digny sulle intendenze di finanza provinciali. Il 1° giugno 1865, giorno in cui Firenze diventa Capitale del Regno d’Italia, il Re

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lanciando un messaggio alla Sinistra liberale lo nomina Prefetto di Torino. Si adopera per il trasloco a Firenze delle Camere e della maggior parte degli uffici ministeriali, mentre si conclude così anche il terzo aspetto della lacerazione rispetto all’identità tradizionale della città: dopo la funzione di Capitale e il rapporto con la dinastia, ora viene meno quello con l’apparato centrale dello Stato. Svolge il suo ufficio con equilibrio e con moderazione e senza ricorrere a spiegamenti di forza pubblica, tanto che anche le manifestazioni promosse il 20 e 21 settembre in ricordo dei morti dell'anno precedente si svolgono nella massima compostezza. Esaurito il suo compito, presenta le dimissioni, accettate il 1° settembre 1865, e nel novembre di quello stesso anno riprende il suo posto al Consiglio di Stato. Conclusa l’esperienza politica, nell’aprile 1869 sostenuto da Menabrea diventa plenipotenziario per la negoziazione e sottoscrizione di trattati e convenzioni con potenze estere: tra questi le trattative sulla negoziazione della neutralità italiana nella guerra franco-prussiana, che consentirà poi la liberazione di Roma. Tornato in patria nel febbraio 1875, diventa Presidente del Consiglio di Stato. Muore a Roma il 2 dicembre 1891. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a Gran cordone dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e Gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia.

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Carlo Torre

Conte di Caprera, Avvocato, Senatore, Governatore poi Prefetto. Moderato, per lui il progresso è essenzialmente un fatto di libertà, poiché libera nuove energie e forze inespresse. Nasce a Benevento, territorio pontificio in mezzo al reame di Napoli, il 19 agosto 1812, figlio di Giovanni e Maria Giuseppa Fallace. Sposa Caterina Tessa. E’ il primo Prefetto di Torino nato nel sud del Paese ed anche il primo a non essere nobile al momento della nascita, lo sarà solo dal 3 maggio 1874 per volontà regia. Conseguita la laurea in legge all’Università di Napoli, torna a Benevento, dove contribuisce ad apparecchiare i nuovi tempi esponendo alcune coraggiose riforme atte a mitigare i bisogni della popolazione. Convinto della ricchezza naturale del Mezzogiorno,nel 1846 pubblica l'opuscolo “Su i bisogni della Provincia Beneventana” - Roma Bertinelli -, una dettagliata denuncia dei limiti delle condizioni sociali ed economiche che affliggevano quel territorio, abbrutito da secoli di malgoverno e troppo lontano dal Papato. Pubblica tra altri scritti anche un corso di scienza politica e di diritto costituzionale, che dà alla luce nel 1860. Negli anni precedenti l’Unificazione in seguito alle riforme di Pio IX è nominato capitano di una delle tre compagnie della Guardia Civica di Benevento. A causa del suo spirito democratico si attira ben presto i sospetti della polizia borbonica. Divenuto membro dell’amministrazione civica, si

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scontra con il Delegato Apostolico rivendicando l’autonomia delle deliberazioni comunali dal suo oppressivo controllo, inimicandosi, così, anche quella papale. Costretto a dimettersi negli anni che seguono si dedica a una cauta ma efficace propaganda liberale, orientata verso il “partito dell'Ordine di unità nazionale monarchica”. Il 25 settembre 1860 Garibaldi, entrato a Napoli, lo nomina Governatore di Benevento, che durante il suo mandato diventerà provincia. Fronteggia l’ostilità del clero, quella dei ceti alti, contrari alla nuova forma istituzionale, nonché quella dei rappresentanti delle province limitrofe, mentre vede profilarsi i primi episodi di brigantaggio. Nel 1861 è Prefetto di Lecce e poi di Cagliari, dove si rende benemerito per utili innovazioni igieniche e sociali, e uguale attività presta ad Ancona, nel 1863, colpita da una grave epidemia di colera. Per i suoi meriti nel 1865 è nominato Senatore del Regno. Dal 18 settembre di quell’anno al 3 ottobre 1867 è anche Prefetto di Torino, non del tutto placata dai noti avvenimenti. Alla caduta del Governo Rattazzi, domanda “di essere posto in aspettativa per motivi di salute”(1) dopo aver ricevuto(2) una “lettera ghiacciata” da Cirillo Monzani, Segretario generale del Ministero dell'Interno e fedelissimo di Rattazzi, che gli annunzia “che il ministro aveva bisogno di disporre della Prefettura di Torino, mettendo a sua disposizione le altre”. Dal 25 febbraio 1868 è Prefetto di Milano, dove l’8 aprile 1876 conclude la carriera. Muore a Benevento il 29 marzo 1889. Tra i suoi numerosi riconoscimenti ricordiamo: il Gran cordone dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, l’onorificenza di Grande Ufficiale dell'Ordine della Corona

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d'Italia, quella di Commendatore dell'Ordine della Legione d'onore (Francia) e il Gran Cordone dell'Ordine di S. Anna (Russia).

(1) Carteggio politico, di Michelangelo Castelli, Roux e C., Torino 1891, vol. 2°, p. 261 (2) Secondo quando Giacomo Dina scrive a Michelangelo Castelli

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Costantino Radicati Talice di Passerano

Conte di Passerano, discendente dal colonellato di Casalborgone, Avvocato, Consigliere Delegato, Prefetto. Nasce a Torino il 19 marzo 1822. Eredita il nome Talice dallo zio Vincenzo, (che aveva sposato Maria Teresa dell'avv. Carlo Domenico Talice) e il titolo comitale dalla madre, la nobile Giustina di Ignazio Felice Alpini di Veveri, con Regio Assenso. Sposa la figlia di Emilio Faà di Bruno, Luigia. A Torino è Intendente generale, Viceprefetto e Prefetto dal 13 febbraio 1868 al 28 giugno 1871, data in cui è sostituito da Vittorio Zoppi. Nove anni prima, quando il Conte Pasolini è ministro degli Affari esteri, (8 dicembre 1862-24 marzo 1863) regge la Prefettura di Torino come consigliere delegato. Nell'ottobre 1867, quando è “silurato” il prefetto Torre, si trova ad affrontare un'emergenza di ordine pubblico, come reggente, in attesa del nuovo titolare(1). In quei frangenti Zoppi, appena trasferito da Brescia a Novara, è inviato in missione a Torino. Dopo un mese Zoppi rientra a Novara ed egli ottiene il formale incarico di reggenza l’8 dicembre 1867 e dal 13 febbraio 1868 la nomina a Prefetto e la titolarità della sede. A Torino nel settembre 1870 cerca di dissuadere il Sindaco Cesare Valperga di Masino dalle sue intenzioni di ritirarsi con effetto immediato dalla carica(2), ma a dicembre, all’insegna dell’entusiasmo per Roma Capitale e dell’ottimismo per i segnali di ripresa soprattutto in campo economico della vita cittadina, iniziatisi a manifestare già da un anno e ai quali l’auspicio di nuove e positive conferme viene dall’inaugurazione del traforo del Frejus, diviene Sindaco

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Felice Rignon. Il 28 giugno 1871 è collocato a riposo a 49 anni su sua stessa domanda e per motivi di salute. Il perché è spiegato nella lettera scritta a Lanza da Alessandro Buglione di Monale il 22 giugno 1871, in cui emerge anche la (3) tensione di quegli anni tra Palazzo Civico e Prefettura .

(1) Castelli riferendosi alle agitazioni di piazza dei garibaldini nei giorni di Mentana, scrive a Dina: “Il Conte Radicati se la cava benissimo, ma bisogna ricordarsi sempre che, dopo le giornate di settembre in Torino, la polizia non è libera come in altre città e la memoria di quei tristi giorni vuole sempre essere portata in calcolo ed è troppo funesta …. alla parola di azione tutte le buone intenzioni sono soffocate dalla paura di mali maggiori e si dice: meglio le grida che il sangue”. (Carteggio politico cit, vol. 2° pp. 298 e 307). (2) (C. Radicati Talice di Passerano Ac. Valperga di Masino, 16 settembre 1870, n. 176, n AM, mazzo 497. fsc. 12). (3) “E' cosa altamente deplorabile che l'Autorità di Sicurezza Pubblica non dia importanza al fatto di essersi rotti i selciati il che a memoria d'uomo succede in Torino per la prima volta. La violenza usata col lanciar sassi per me è sempre cosa gravissima quand'anche insignificanti fossero i guasti materiali, ma qui non sono punto leggeri e basti dire che più di dieci case furono prese a sassate e che per riparare la facciata del Palazzo del marchese Pallavicini-Crespi si lavorò durante due giorni. Ma d'altra cosa ancora maggiormente mi duole ed è che il sig. Prefetto non abbia capita la necessità assoluta di far sì che nessun inconveniente si verificasse onde non dare al partito clericale buono in mano per dire che non avvi libertà per coloro che professano principii religiosi; a me nulla importa che si siano fatti arresti dopo che i disordini furono commessi, avrei voluto che si disponessero le cose in modo che non potesse nascere l'occasione di arresto e la cosa era agevolissima. Confermo quanto ho detto a Vostra Eccellenza circa la mancanza assoluta di provvedimenti di precauzione. Alle 10 di sera il Questore non era nemmeno in ufficio e non si trovavano in Santa Cristina che otto uomini di bassa forza per un caso qualsiasi. Nessuna, assolutamente nessuna pattuglia per le vie: il conte Radicati pretende che si erano mandate là dove si presumeva esservi pericolo: ebbene in niun luogo si potevano temere disordini quanto in via Bogino dove abita il teologo Margotti (casa Fossati già Sommarica) e non solo non vi era sorveglianza ma è in tal luogo precisamente che si cominciarono le sassate. Che dire poi del Sig. Prefetto che alle 10 e un quarto era al Caffè Fiorio al solito, e si può dire permanentemente suo convegno e nulla sapeva di quanto avveniva a Torino! Quindi l'Eccellenza Vostra farà opera santa nel dare a questa città altro capo di Governo e di Amministrazione. (…) Torino è stanca di non essere governata e di trovarsi così

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male amministrata: si credeva che almeno per quest'ultimo rispetto il conte Radicati avrebbe potuto soddisfare, dal mio canto ebbi sempre altra opinione, ma la pubblicazione testè fatta dal Ministero dell'Interno circa i lavori delle Prefetture riguardanti le Amministrazioni comunali hanno fatto cadere ogni illusione: questa provincia è tra quelle dove avvi maggiore arretrato, maggiore disordine. La Eccellenza Vostra non ignora certo quanto abbia scapitato l'autorità del prefetto rispetto al Municipio di Torino al quale egli si studia di fare una gretta opposizione, per lo più di forma anziché di sostanza, senza che poi egli sia in grado di sorreggerlo con assennati consigli quando ve ne potrebbe essere il bisogno. Impertanto credo sia opportuno assai secondare le istanze che diconsi fatte dal sig. Conte Radicati pel suo collocamento a riposo”. (Le carte di Giovanni Lanza, vol. 7, Torino 1938, pp. 131-133).

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Vittorio Zoppi

Conte di Valle delle Grazie, Senatore, Governatore, Prefetto. Nasce a Cassine nel 1819 da una delle più antiche famiglie del contado di . Il nonno Ottavio era stato Maire di Alessandria sotto l'Impero e aveva sposato Isabella de' Porzelli dei Conti della Valle delle Grazie. Il padre Giovanni Antonio aveva servito nell'esercito con il grado di maggiore, la madre Matilde Calcamuggi de' Ferrufini era figlia dell'ultimo Conte di Cascinagrossa. La sorella Clementina sposa Raffaele Cadorna, allora maggiore del Genio Lombardo destinato a divenire famoso per la “presa di Roma”. A 42 anni sposa la sedicenne Maria Roissard de Bellet di famiglia nizzarda (suo padre era Comandante generale dei Carabinieri). Dopo la laurea a Torino in Diritto civile ed ecclesiastico nel 1841 intraprende la carriera amministrativa come volontario non retribuito - secondo l'uso del tempo - nell'Amministrazione provinciale dell'Interno. Dopo tre anni è nominato Applicato di carriera superiore a Mortara, nel 1845 va ad Annecy come Sottointendente generale, quindi, dopo un periodo trascorso al ministero, regge l'Intendenza dell'Ossola, per essere poi addetto quale Consigliere a Novara e Alessandria. Promosso, non ancora trentenne, Intendente di 2° classe, presta servizio ad Alghero, Benneville, Mondovì. Nel 1858 è Capo divisione a Torino, l'anno dopo Intendente generale a appena liberata dagli austriaci.

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E’ Vice-governatore a Pavia e, nel 1860, a Milano con Massimo d'Azeglio e Giuseppe Pasolini. Nel dicembre 1860 regge la Prefettura di Brescia, l'anno dopo è Governatore a Salerno (provincia di Principato Citeriore). Prefetto, a seguito della riforma Ricasoli, riveste l'incarico, dopo Salerno, a Messina, Brescia, Novara e infine per due volte a Torino. La prima dal 7 novembre all'8 dicembre 1867, in qualità di reggente, (Dina scrive a Castelli: “Non domando come sarà accolto chè Torino non bada ai prefetti”), mantenendo le funzioni di Prefetto di Novara, la seconda dal 28 giugno 1871. Nel novembre è anche nominato Senatore contemporaneamente al cognato Raffaele Cadorna.Tiene corrispondenza con Lanza, Minghetti, Cantelli, Peruzzi, Sella, Bonghi, Spaventa, Vigliani, Spantigati e altri. Laico ma non “irriducibile”, pur senza mancare ai doveri verso lo Stato, tiene ottimi rapporti personali con Don Bosco e in punto di morte riceve dalla Curia Romana l’apostolica benedizione. Nell’ottobre 1872 Giovanni Lanza, allo scopo di contenere la prevalenza della stampa della Sinistra,lo incarica del progetto di fondazione di un nuovo giornale governativo a Torino, idea che gli rilancerà anche Minghetti, ma fallisce la missione(1). Nel dicembre 1872 sostiene, senza successo l’elezione del candidato governativo Pio Rolle, nel collegio di Torino I, che era stato di Cavour, contro Casimiro Favale, suscitando l’irritazione di Lanza e nell’aprile 1873 quella del candidato Giuseppe Allasia Consigliere di Stato e già prefetto e segretario generale con il ministro Chiaves, contro il candidato Roberto Morra di Lariano, questa volta con esiti positivi. Alcuni gravi episodi di malversazione avvenuti in

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Questura, a quel tempo incardinata nella Prefettura, gli provocano polemiche e critiche per una colpa in vigilando. In combutta con alcuni appaltatori il Questore Vincenzo Bignami ed altri funzionari truffano lo Stato, gonfiando le forniture alimentari e di corredo, provocando un danno erariale di alcune decine di migliaia di lire. Il processo dinanzi alla Corte d’Assise si conclude con dure condanne. L’ex Questore Bignami è condannato ad otto anni di reclusione(2). Nessun provvedimento invece è preso contro di lui(3). Alla caduta del Governo Minghetti (18 marzo 1876), data della catastrofe parlamentare della Destra, secondo , chiede le dimissioni e le ottiene dal 19 aprile. Ricopre ancora importanti cariche amministrative in Alessandria e il 18 febbraio 1892 il Re gli rinnova il titolo di Conte. Si spegne in Alessandria in tarda età il 23 novembre 1907.

(1) A quel tempo tre erano i quotidiani torinesi con una certa diffusione: la Gazzetta del Popolo, la Gazzetta di Torino e la Gazzetta Piemontese, che diviene poi La Stampa. (2) In una lettera Giovanni Codronchi Argeli, Segretario generale presso il Ministero dell’Interno, riferendosi a Zoppi scrive: “Si discuterà della questione colla calma maggiore, e coi più grandi riguardi all’uomo egregio, che rese segnalati servizi al paese, e la onorabilità del quale è superiore a qualunque sospetto”. (3) Tuttavia Minghetti scrive a Cantelli: “Senza punto mettere in dubbio la sua onestà bisogna pur dire che egli era di quelli che “oculos habent est non videbant” (M. Minghetti, Copialettere 1873-1876, Roma, ISRI, 1978, vol. 2°, pag. 784).

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Angelo Bargoni

Avvocato, ex Deputato, Senatore, giornalista, Prefetto, Ministro della Pubblica Istruzione. Nasce a Cremona il 26 maggio 1829, figlio di Antonio e Maria Ceretti. Nonostante le modeste origini può iniziare gli studi universitari a Pavia, grazie ad un sussidio raccolto dalla nobildonna Antonietta Scotti Robolotti. Nel 1851 si laurea in giurisprudenza all’Università di Cremona, con una dissertazione, poi pubblicata, Dell'educazione del popolo, nella quale sostiene l'obbligatorietà della scuola primaria, l'istituzione di asili gratuiti e un’adeguata istruzione della donna, diretta a preparare quest'ultima ai suoi compiti di educatrice nella famiglia e nella società. In occasione della concessione dello statuto di Carlo Alberto scrive un modesto inno popolare, musicato dal maestro Ruggero Manna. Volontario nella prima guerra d’indipendenza, combatte in difesa della Repubblica romana e alla sua caduta rientra a Cremona. Nel 1853, sospettato per i suoi contatti con i promotori del tentativo insurrezionale mazziniano a Milano, è costretto a fuggire e ripara a Genova dove entra in relazione con Mordini, Pilo, Calvino e dirige il settimanale “La Donna”, voce del gruppo mazziniano genovese degli emigrati. Le sue tendenze radicali e le sue convinzioni repubblicane non gli impediscono, dopo il Congresso di Parigi, di approvare la politica cavouriana e di assumere un atteggiamento

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possibilista, se non proprio di collaborazione, verso il governo sardo. Si adopera per agevolare l’arruolamento dei volontari per la seconda guerra d’indipendenza, alla quale tuttavia non partecipa per motivi di salute, e dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia raccoglie fondi per le spedizioni successive. E’segretario prima di Depretis, poi di , che si succedono nella carica di prodittatori dell’isola, impegnandosi nella preparazione delle leggi e nella semplificazione e applicazione di quelle vigenti. Con la fine del Governo di Mordini termina anche la sua permanenza a Palermo. Rientrato a Torino, fornisce al partito garibaldino una prudente linea di indirizzo attraverso il giornale “Il Diritto”, che dirige dal 1861 al 1863. Essa prevede: unità, ma decentramento (se non le regioni del Minghetti, qualche cosa di simile con garanzie per la saldezza del nuovo Stato), unificazione legislativa ma varietà negli ordinamenti locali e libertà d'insegnamento, all’interno. Difesa dei principi d’indipendenza e libertà delle nazioni, amicizia con la Francia, alleanza con l'Inghilterra e vagheggiamento futuri Stati Uniti d'Europa, in campo internazionale. Dal 1863 al 1871 torna nuovamente all’impegno politico come Deputato per i Collegi di Corleone, Casalmaggiore e Chioggia e quando, nel 1864, si parla dell'opportunità di trasferire la capitale da Torino a Firenze ribadisce “l’inviolabilità del diritto italiano a Roma”. Spostatosi su posizioni di centro moderato (è, con Mordini, fra gli animatori del cosiddetto «terzo partito»), è ministro della Pubblica Istruzione durante il terzo ministero Menabrea (13 maggio-14 dicembre 1869). In tale veste riesce a far rientrare in Italia, dall'Inghilterra, le ceneri del

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poeta Ugo Foscolo, ora in Santa Croce a Firenze e si adopera, seguendo una linea già iniziata nel settore pubblicistico, per attuare quelle riforme che ritiene utili al miglioramento degli studi e al progresso della cultura. Tra le alternative che mette a punto per modificare il quadro istituzionale vanno menzionate le scuole superiori femminili, fondate da alcuni comuni, tra i quali Torino, e sussidiate dal governo secondo le disposizioni della sua circolare ministeriale del 9 luglio 1869, frutto della collaborazione con Pasquale Villari. Nel 1874 è Prefetto di Pavia poi salita al potere la Sinistra, Depretis lo destina alla Prefettura di Torino, dal 19 aprile 1876 al 26 dicembre 1877. Nel frattempo riceve anche la nomina a Senatore. Nel 1877 con l’inizio del nuovo anno scolastico appoggia la «legge Coppino», suscitando il brontolio della reazione clericale. La Legge approvata l’11/7/1877 rendeva facoltativo l’insegnamento della religione nelle scuole elementari, nonché la gratuità dell'istruzione elementare e le sanzioni per chi ne disattendeva l’obbligo. Dalla fine del 1877 è ministro del Tesoro. Siede a Roma quando il nuovo Re in pectore decide che le spoglie di Vittorio Emanuele II siano seppellite nel Pantheon, e non a Superga, infliggendo un durissimo colpo all’orgoglio torinese e riaprendo ferite e divisioni che faticosamente andavano rimarginandosi. Con il varo del gabinetto Cairoli è nuovamente Prefetto di Torino, dal 24 marzo 1878 al 20 aprile 1878, e subito dopo è inviato a Napoli. Sul finire dell'anno, in occasione di una visita dei reali, l'attentato del Passanante lo amareggia tanto che non esita a dare le dimissioni. Divenuto segretario dirigente delle Assicurazioni Generali di Venezia continua il suo impegno

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politico. Pronuncia apprezzati discorsi, come la commemorazione a Venezia nel 1882 di Garibaldi e quello, a Bologna, di Vittorio Emanuele II. Nel 1892 è nominato Consigliere di Stato e nel 1894 vice Presidente del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione. Muore a Roma il 25 giugno 1901. E’ Commendatore dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e Grande Ufficiale dell'Ordine della Corona d'Italia.

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Camillo Caracciolo

Marchese di Bella, Nobile dei principi di Torella, ex Deputato, Senatore, Prefetto, Diplomatico. E’ nominato Prefetto di Torino, ma presenta subito le dimissioni e non raggiunge la sede. Nasce il 30 aprile 1821 a Napoli, secondogenito di Giuseppe principe di Torella e di Caterina Saliceti, figlia del ministro di Giuseppe Bonaparte e di Gioacchino Murat. Il 23 novembre 1848 sposa Anna Laguinoff di Ivan e di Alessandra d'Illine. Attivo nei gruppi liberali napoletani, è arrestato due volte tra il 1847 e il 1848, ma dopo i ripetuti interventi dell’influente padre riesce ad emigrare in Svizzera. Tornato a Napoli nel 1853 riprende l’attività politica e si unisce nuovamente ai circoli liberali. All’inizio del 1857 è tra i fondatori del Comitato dell’ordine, che raccoglie tutti i gruppi dell’opposizione. Costretto nuovamente all’esilio, si trasferisce in Piemonte, partecipando all’azione dei «cospiratori» cavouriani, favorevoli all’annessione incondizionata del Regno delle Due Sicilie al Piemonte. Nel 1860, tornato a Napoli, fa parte del governo provvisorio, sciolto da Garibaldi al suo ingresso in città. Eletto nel 1861 Deputato nei collegi di Conversano e di Cerignola, nelle file di centro, si dedica, però, soprattutto alla diplomazia, dove esordisce nell’agosto 1861 con un incarico speciale che lo abilita a trattare il matrimonio fra la principessa Maria Pia, figlia di Vittorio Emanuele II, e il re Pedro del Portogallo.

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Dietro la trattativa si svolge un violento scontro tra il partito clericale - che vuole impedire l'avvicinamento del Portogallo al nuovo Regno d'Italia - e il partito liberale che - guidato dal primo ministro marchese di Loulè, zio di don Pedro, e dal ministro della guerra Sà da Bandeira - aveva già rifiutato di associare il Portogallo alle manifestazioni spagnole di solidarietà con il potere temporale dei papi, come lo stesso Caracciolo scrive da Lisbona al primo ministro Ricasoli il 18 agosto 1861. Agli inizi del 1862 rappresenta l'Italia nella convenzione stipulata a Berna per la ferrovia del Gottardo, dal 26 giugno 1862 è nominato inviato straordinario e ministro plenipotenziario presso l'Impero ottomano ed un mese dopo è ricevuto in udienza dal sultano. In osservanza alle direttive del governo italiano per la questione d'Oriente inviategli dal ministro degli Esteri Durando - affermazione del diritto italiano, riconosciuto dal trattato di Parigi del 1856, di partecipare a pieno titolo a tutte le questioni riguardanti l'indipendenza e l'integrità territoriale dell'Impero ottomano, e pressioni sui governi austriaco e britannico, che tendevano a non riconoscere questo diritto dell'Italia come potenza garante - egli respinge nel novembre 1862 l'invito di alcuni rappresentanti delle potenze minori perché promuovesse “delle riunioni, in fuori di quelle degli inviati che rappresentano le potenze garanti, a fermare in comune le risoluzioni più convenienti sugl'interessi che occorre di regolare d'accordo tra le varie Legazioni e il Governo ottomano. Non accettai perché l'Italia, come potenza intervenuta al Trattato di Parigi, deve aver mano in tutto quello di che la Conferenza delle altre cinque è investita” (I documenti diplomatici, s. 1, III, p. 184). Un mese dopo,

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nel dicembre 1862, l'Italia è ammessa finalmente al tavolo delle grandi potenze per discutere della questione serba ed è la prima volta dopo l’esclusione del Piemonte dalla deliberazione sul Montenegro del 1858 e dell'Italia dalle conferenze sulla Siria del 1861. Il 19 luglio 1863 diviene inviato straordinario e ministro plenipotenziario in Portogallo, ove resta quattro anni; il 6 giugno 1867 è nominato ambasciatore in Russia, dove rimane fino al 1876. Si preoccupa di far accettare la soluzione della questione romana, il cui aspetto più preoccupante per l'ortodossa corte di Pietroburgo era costituito dai tentativi rivoluzionari di Garibaldi, come gli aveva detto l'imperatore Alessandro II in una conversazione dell'agosto 1870. Con cura particolare riferisce al governo i modi e le forme della neutralità filoprussiana adottata dalla corte zarista durante e dopo la guerra franco-prussiana, come attento alla visita del Thiers, venuto a chiedere per la nuova Repubblica francese il riconoscimento del governo russo, che offrì la sua mediazione impegnandosi a tutelare l'integrità del territorio francese. Su precisa indicazione del ministro degli Esteri Visconti Venosta invita a Firenze il Thiers, che - agli inizi dell'ottobre 1870 - accetta con questa significativa dichiarazione: “la mia opposizione all'ordinamento nazionale dell'Unità italiana era senza più ingenerata nel mio animo dalla tema che questa servisse d'incitamento e di apparecchio alla formazione dell'Unità Alemanna, da cui la mia patria dovea ricevere un sì gran danno... Credete pure che la mia riconciliazione con l'Unità italiana è assoluta e sincera” (ibid., s. 2, I, p. 149). Con l’avvento della Sinistra al potere conclude l’attività diplomatica. Dal maggio 1876 è

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Prefetto di Roma. Il 20 aprile 1878, gli giunge la nomina di Prefetto di Torino, ma il 5 maggio presenta le dimissioni. Senatore del Regno dal 1876, e in seguito anche vicepresidente della Camera alta, si accredita presto a Palazzo Madama prendendo spesso la parola su problemi di politica internazionale, specie sulla questione d'Oriente; il 20 gennaio 1879 si alza a difendere la Destra dalle accuse di Depretis. Muore il 6 aprile 1888 a Roma. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a Grande Ufficiale dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e Gran cordone dell'Ordine della Corona d'Italia.

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Giovanni Minghelli Vaini

Avvocato, ex Deputato, Prefetto. Nasce a Modena l’8 maggio 1817. Si dedica all'esercizio della pratica forense, prende parte al Governo provvisorio di Modena ed è caldo promotore dell'annessione dell'Emilia. E’ autore di due relazioni sul prestito nazionale e sulla reggenza del Principe di Carignano di quell’epoca. Nel primo Parlamento italiano, durante le due legislature, siede alla destra, ammiratore di Cavour. In seguito si accosta al centro sinistra e agli uomini del terzo partito. Attivo in Parlamento vota contro la Convenzione del 15 settembre 1864, contro il trasferimento della Capitale d’Italia da Torino a Firenze e presenta alcuni progetti di legge di riforma dei rapporti tra la Chiesa e il nuovo Stato Italiano. Dopo l'Unificazione entra nell'Amministrazione dell’Interno. Una certa competenza in materia penitenziaria, rivelatasi anche attraverso alcuni scritti, lo segnalano al Governo che nel 1869 lo nomina Ispettore Penitenziario e membro della commissione ministeriale d’inchiesta sulle carceri giudiziarie napoletane, presieduta da Antonio Di Rudinì, Prefetto di Napoli, che nell’ottobre dello stesso anno sarebbe diventato ministro dell’interno e, anni dopo, Primo Ministro. Prefetto a Cagliari dal 1876, dal 29 luglio 1878 è Prefetto di Torino e Presidente del Consiglio Scolastico Provinciale, nel periodo in cui stava prendendo forma l’esperienza educativa di Don Bosco. A favore della supremazia delle prerogative

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statali in materia scolastica sottopone le scuole salesiane a forti controlli e, in linea con la volontà ministeriale, si pronuncia verso la loro chiusura, a causa dell’inosservanza della legge relativa ai titoli di cui dovevano essere forniti gli insegnanti di qualsiasi Istituto pubblico o privato. Si apre, così, una diatriba che si risolve a favore dei salesiani. Le cronache annotano:“non ebbero fortuna gli uomini che la sollevarono. L'onorevole Coppino uscì quasi subito dal Ministero. Il [nostro ..], Prefetto di prima classe a Torino, fu traslocato Prefetto di terza classe a Catania, poi a Lecce e quindi messo a riposo”. Il 15 febbraio 1880 infatti, in seguito ad un avvenimento che mette in qualche pericolo l'ordine pubblico, Depretis lo trasferisce alla Prefettura di Catania, destinando quella di Torino a Bartolomeo Casalis(1). Successivamente è nominato Prefetto di Lecce, Padova, Vicenza. Non sarà Senatore. Muore a Parma il 7 novembre 1891.

(1) Il 1° dicembre 1879 viene fondata, dalla Lega democratica, la sezione piemontese della Società dei carabinieri italiani, forte di ben “25 iscritti” e avente “per scopo” il seguente programma (articolo 2 del “Regolamento”) a) il complemento dell’Unità della Patria ed il conseguimento della sua libertà; b) la difesa della Patria dai nemici esterni ed interni. Agli occhi delle autorità centrali, prontamente informate dal Prefetto Minghelli, l’aspetto veramente preoccupante della faccenda è costituito dall’articolo 3: “ad attuare il suo programma la Società si prefigge i seguenti mezzi: a) esercitazioni militari b) passeggiate militari c) esercizi ginnici d) tiro al bersaglio e) studi tattici e strategici”. (Prefetto di Torino a ministro dell’Interno, 5 e 13 dicembre 1879, in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, 1879-1903, busta 4, fasc. 17/74.) Tanto basta ad allarmare il ministro dell’Interno Depretis, il quale, passate le feste, provvede ad informarne il collega di Grazia e Giustizia, Tommaso Villa, ex ministro dell’Interno. Questi a sua volta attiva i propri canali in loco. Per fortuna di tutti, prima che la cosa volga verso esiti drammatici o che il governo e le autorità locali si coprano di ridicolo, a Torino arriva quale nuovo Prefetto il neosenatore Bartolomeo Casalis, “depretisino” di ferro e buon conoscitore degli ambienti della sua città d’adozione, anche di quelli politici, essendo stato, a suo tempo, Deputato al Parlamento subalpino. Questi, nel giro di 60

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dieci giorni, è in grado di tranquillizzare il governo, riportando così l’accaduto alle sue giuste proporzioni: “Si può dire che è stato e che rimane tuttora un tentativo, perché i pochi che vi sono ascritti, senza influenza e senza credito alcuno, non hanno né danaro, né armi, né bandiere, né giornali, né locali ove radunarsi, e si può dire che l’associazione sia morta già prima di nascere”. (Prefetto di Torino a ministro dell’Interno, 25 febbraio 1880, in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza,1879-1903, busta 4, fasc. 17/74.) Il giudizio è più volte ribadito con sicurezza e cognizione di causa, dal momento che Casalis è riuscito a infiltrare tra i Carabinieri italiani di Torino “un confidente” di assoluta fiducia che lo tiene “ben informato su tutto ciò che si riferisce alla associazione”. (Prefetto di Torino a ministro dell’Interno, 1° marzo 1880, ibid). Finita l’estate della sezione piemontese della Società dei carabinieri italiani e della sua pericolosa attività sovversiva non si parlò più.

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Bartolomeo Casalis

Avvocato, ex Deputato del Parlamento Subalpino, Senatore, Prefetto, Capo della Polizia. Nasce a Carmagnola (Torino) il 9 novembre 1825, da Francesco e da Giacomina Pola. Sposa Caterina Orsi. Allievo del Collegio delle Province di Torino, ha per compagni , Giovan Battista Bottero, Costantino Nigra, Domenico Carbone e Michele Lessona. Ancora studente partecipa alle manifestazioni del 1847-48 che chiedono riforme politiche e sociali nel Piemonte. Si guadagna fama di agitatore anche per una caratteristica somatica: “Era il più lungo degli studenti di tutta l’università. In qualunque folla, al di sopra del livello comune s’ergeva la sua testa rotonda, bruna, riccioluta, vivace, illuminata da due occhi neri come carbone, ornato il mento d’una barbetta crespa, piena di risoluzione e di forza”(1). Allo scoppio della prima guerra d'indipendenza si arruola nella Compagnia dei volontari bersaglieri studenti. Conclusosi il conflitto, si laurea in giurisprudenza per poi dedicarsi all'esercizio della pratica forense, non trascurando mai però l'attività di pubblicista sulla “Gazzetta del Popolo” di Torino. Nelle elezioni suppletive del 18 febbraio 1858 viene eletto Deputato al Parlamento subalpino nel collegio di Caselle. Tuttavia i suoi sforzi si rivolgono principalmente alla carriera statale nell’amministrazione attiva, iniziata nel 1860 con l’incarico di consigliere di prima classe presso

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l’Intendenza generale di Parma. In quella stessa estate è inviato in Sicilia presso il prodittatore con il compito di affrettare l’annessione dell’isola al Regno di Sardegna. A Palermo entra presto in dissapori con Angelo Bargoni, chiamato anch’egli a coadiuvare Depretis. Nell’ottobre dello stesso anno è incaricato della delicata missione di precedere il re Vittorio Emanuele II nel viaggio al Sud appena liberato, allo scopo di accertare i sentimenti della popolazione e la situazione politico-militare nelle province napoletane. A Napoli diventa segretario prima di , poi di Nigra e infine del principe Eugenio di Carignano. Rientrato nell’amministrazione ordinaria, dal 1862 al 1867 è sottoprefetto ad Asti, poi è sbalzato a Catania e quando sembra ormai matura la sua promozione a Prefetto, viene rimosso dal suo incarico, rimanendo per quasi due anni senza destinazione, a causa di alcuni contrasti con il ministro dell'Interno Carlo Cadorna. Nel frattempo pubblica sulla “Gazzetta del Popolo” numerosi articoli sul funzionamento delle Prefetture e sottoprefetture nonché sui consigli provinciali. Il 28 febbraio 1870 Giovanni Lanza lo nomina reggente della Prefettura di Catanzaro e qualche mese dopo arriva l'attesa nomina a Prefetto. Nel capoluogo calabrese si adopera subito contro il brigantaggio, la corruzione degli organi locali e i supposti complotti repubblicani del Partito d'Azione. Questi ultimi nell’estate del 1870 sono la causa di uno spiacevole contrasto con il generale Sacchi, comandante della divisione territoriale, nel corso del quale ottiene da Lanza sia il necessario sostegno politico sia il conferimento della prestigiosa decorazione di ufficiale della Corona. Trasferito ad Avellino all’inizio del

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1872, pur tra nuovi contrasti, ottiene importanti successi nella repressione del brigantaggio. Tuttavia viene nuovamente trasferito, nel marzo 1874 a Macerata, poi quando nel marzo 1876 cade la Destra storica, benché Correnti lo ritenga non idoneo a reggere una Prefettura “ove ci fosse importanza di amministrazione e necessità di prudenza”, Depretis lo destina a Genova. A capo di questa provincia, “ricca ogni giorno di accidenti più o meno (2) gravi” , resta quattro anni, prodigandosi soprattutto per contenere l’influenza dei clericali e dei repubblicani. Il 15 febbraio 1880 è infine destinato alla Prefettura di Torino, dove si propone di «fare della Prefettura il centro di tutte le forze vive del Governo attuale»; lo stesso giorno, forse in compenso alla rinuncia alla Prefettura di Roma,è nominato Senatore del Regno. Dall'autunno del 1880 inizia ad occuparsi di un affare che lo trascinerà in una spiacevole polemica con il Prefetto di Firenze Clemente Corte, e che lo coinvolgerà anche nel famoso processo a carico di Eugenio Strigelli, confidente di polizia non del tutto onesto, e di alcuni falsificatori di titoli di rendita pubblica e di biglietti di banca di vari Stati. I due Prefetti litiganti sono collocati a disposizione (4 marzo 1884), ma una commissione d’inchiesta dà - tra le righe - piuttosto ragione a Casalis, che il 29 giugno 1884 è reintegrato nell’incarico(3). La riconferma è per lui “come una riparazione e nulla più”, ma la sospensione serve a renderlo più prudente e meno impetuoso, tanto che in occasione dei disordini universitari del 10- 12 aprile 1885, dimostra perfino “longanimità e pazienza”. Fattosi però “gran chiasso presso tutte le università”, Depretis ritiene opportuna un’inchiesta.

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Quella giudiziaria trova “corretta l’azione della forza, e faziosa la condotta degli studenti e Professori”; quella amministrativa, sottovalutata da Depretis e gestita dal ministro della Pubblica Istruzione , porta a uno scontro tra chi vuole la sua testa e chi lo difende “con uguale furore”. La conseguenza è il desiderato esonero dalla Prefettura torinese, dal 1° novembre 1885, il collocamento a disposizione del ministero e la contemporanea chiamata in missione a Roma per dirigere i servizi di Pubblica Sicurezza. Morto Depretis il 22 luglio 1887, rimane privo del suo maggior sostegno politico. Collocato a disposizione il 16 aprile 1887 dal neo nominato ministro dell’Interno , e poi in aspettativa “per ragioni di servizio” lascia definitivamente l’Amministrazione nel maggio 1891 a 66 anni. Muore a Torino il 13 maggio 1903. Tra i suoi riconoscimenti si ricordano quelli a Grande Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e Gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia.

(1) Bersezio V., I miei tempi, Torino 1931, p. 150-151. (2) Lett. al ministero degli Interni, 10 dic. 1876 (3) A contatto con Casalis, Strigelli nel dicembre 1880 propizia l'arresto a Milano di due falsari e mette sulle tracce di altri (cioè dei coniugi Wilkes e Colbert), sfuggiti a Torino all'arresto partendo per Firenze. All'arresto e al sequestro dei bagagli è quindi interessato il Prefetto Corte il quale, per ottenere rivelazioni essenziali per identificare i capi dell'associazione delittuosa, promette sul suo onore impunità e libertà ai coniugi Wilkes che trattiene a Firenze. Casalis ha però sin dal 29 dicembre denunciato gli arresti di Milano e di Firenze, sicché l'autorità giudiziaria chiede la traduzione per il processo anche dei coniugi Wilkes. Con la mediazione del ministero degli Interni si cerca una via d'uscita, quando la pubblicazione sui giornali torinesi delle rivelazioni del Wilkes, trasmesse in via riservata a Casalis dal Corte, irrita questo a tal punto da fargli decidere l'immediata scarcerazione dei coniugi Wilkes. Il deterioramento dei rapporti tra i due Prefetti raggiunge il culmine quando, nel corso del processo celebrato a carico dei falsari e dello Strigelli, i giornali 65

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pubblicano alcune lettere scambiate tra Corte e Casalis e soprattutto quando, cominciate le arringhe, un avvocato della difesa rende pubblico uno scritto di un imputato morto in carcere nel quale si accenna alla cauzione che sarebbe stata versata per la liberazione della compagna del Wilkes dal di lei presunto ricchissimo padre. Atrocemente ferito dall'insinuazione, di cui attribuisce la paternità a Casalis, e contrariato dalle deposizioni di questo al processo (di cui i giornali avevano dato resoconti non molto precisi), Corte esprime su La Nazione di Firenze (12 e 15 febbraio 1881) il proprio sdegno per le insinuazioni e la volontà di essere sottoposto a procedimento penale. Il ministro degli Interni Depretis, che si affanna a soffocare la polemica pubblica dei due Prefetti, deplora l'iniziativa di Corte (che rassegna le dimissioni) ed anche la risposta pubblicata da Casalis. I due Prefetti, messi a disposizione, invocano una commissione d’inchiesta, che conclude i lavori il 16 maggio 1884, riconoscendo la sostanziale correttezza del comportamento di Casalis, mentre, pur prendendo atto della buona fede di Corte, ne deplora "l'infrazione della disciplina" e "lo scandalo che ne venne al pubblico" per la polemica sui giornali. Il 6 marzo del 1884 la Gazzetta piemontese aveva dichiarato di considerare Casalis (collocato a disposizione due giorni prima) "interamente rientrato nel diritto privato" e aveva elencato una serie di motivi che reclamavano "il cambiamento del capo della Provincia". Risultatagli favorevole l'inchiesta, il 29 giugno 1884 Casalis è invece confermato Prefetto di Torino, mentre Corte, dopo aver respinto i risultati dell'inchiesta, rassegna le dimissioni anche da Senatore.

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Ottavio Lovera Di Maria

Conte, Avvocato, Senatore, Prefetto, Capo della Polizia. Nasce a Torino il 2 luglio 1833. Il padre Federico Costanzo, discendente da un’antichis- sima famiglia di Cuneo, era stato Comandante dei Carabinieri Reali dal 1849 al 1867 e Senatore del Regno d’Italia. La madre, Ottavia Renaud de Falicon, appartiene all’aristocrazia nizzarda. Ottavio studia presso i Gesuiti nel collegio del Carmine e, dopo la laurea in legge, il 1° agosto 1853 entra nella carriera superiore amministrativa. Nel 1859 presta servizio con Farini presso i governi provvisori dell’Emilia. Nel 1860, nominato Consigliere di governo a Cuneo, parte per un’importante missione al seguito del Re e dell’esercito entrati negli Stati Pontifici. Dopo la riforma ricasoliana dell'ottobre 1861, è nominato Sottoprefetto del circondario di Novi. Successivamente è Caposezione al ministero e, nel 1864 Capo di Gabinetto del Prefetto di Napoli Paolo Onorato Vigliani. Nel 1866 è nuovamente assegnato all'Amministrazione provinciale come Sottoprefetto di Salò. Il 29 dicembre 1866 sposa Clementina Cusani dei marchesi di Sagliano e San Giuliano. Dopo essere stato per sei anni Sottoprefetto a Lodi, nell’ottobre 1873 è nominato Prefetto e destinato a Belluno, dove rimane sino al dicembre 1875 quando si trasferisce a Catania. Nell’ottobre 1877 nuovo trasferimento, questa volta a Verona, ma già nel luglio successivo il governo lo sposta ad Ancona e nel 1882 è

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inviato a Livorno, all’epoca città “calda” e pericolosa per la carriera prefettizia a causa della forte ed agitata presenza di garibaldini e repubblicani specie tra i ceti popolari. La sua opera a Livorno ottiene buoni risultati e la situazione temporaneamente migliora. Dal dicembre 1883, in seguito alle dimissioni del Segretario generale Lovito (dopo lo scandaloso episodio del duello con Nicotera) e quelle del Direttore dei servizi di Pubblica Sicurezza Bolis (per motivi di salute), sostituisce entrambi i dimissionari, mantenendo, però, l’incarico di Prefetto di Livorno. Tra gli avvenimenti rilevanti occorsi durante il suo mandato sono da ricordare il movimento contadino de La boje, i gravi riflessi sull'ordine pubblico portati dall’epidemia di colera e le grandi agitazioni agrarie verificatesi tra il 1884 e il 1885 nel Polesine e poi nel Mantovano. Tra i fatti minori: a Torino, nel dicembre 1884, i tumulti di piazza, dopo il divieto di un comizio operaio, con il danneggiamento di vetture tranviarie e l’accoltellamento di un carabiniere e gli eclatanti disordini studenteschi del marzo 1885, quando la polizia impedisce una commemorazione di Mazzini, arrestando alcuni dimostranti; il mattino dopo è disselciato il cortile dell’Ateneo e si accendono scontri durissimi tra gli universitari e la forza pubblica; alla Camera Depretis difende l’operato del Prefetto Casalis e, nonostante le proteste generali, fa approvare un regolamento che vieta agli studenti di associarsi, anche fuori dell’università. Nel campo ordinamentale il suo biennio di direzione è caratterizzato dall’approvazione del nuovo ordinamento del personale di P.S. (novembre 1884) e del nuovo ruolo organico (marzo 1885). L’incarico ministeriale favorisce la sua nomina a Senatore che arriva nel novembre

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1884. Il 1° novembre 1885, cessando dalle funzioni di Direttore dei servizi di Pubblica Sicurezza, è trasferito dalla Prefettura di Livorno a quella di Torino, scambiando sede e funzioni con Bartolomeo Casalis. Mantiene per quasi sei anni l’incarico di Prefetto nell’ex capitale, sino al 16 marzo 1891, quando si dimette per motivi di salute, a 58 anni, essendo sorte forti divergenze di idee tra lui ed il ministero. Pubblica studi su questioni amministrative nella “Rivista dei Comuni Italiani”. Muore a Torino il 5 febbraio 1900. Nel corso della sua carriera raccoglie diversi riconoscimenti: ottiene il Gran cordone dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e con regio decreto del 22 dicembre 1895 e con regie patenti del 1° marzo 1896 gli è rinnovato il titolo di Conte.

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Antonio Winspeare

Nobile, grosso personaggio politico legato alla Destra agraria, uomo di Rudinì. Appartiene a quella leva di primi funzionari postunitari che interpreta al meglio, anche dimostrando un elevato grado di autonomia e di consapevolezza del ruolo, il progetto di costruzione del nuovo Stato italiano. Nasce a Potenza il 23 maggio 1840. Figlio di Eduardo (discendente da una famiglia di origine inglese trapiantata a Napoli nel Settecento, che diede alla monarchia borbonica funzionari, diplomatici, militari e un ministro) e di Giuseppina Leonetti, appartenente a una ricca famiglia del notabilato casertano, è parente dell'ultimo Ministro della Guerra del Regno delle Due Sicilie e nipote del giurista David Winspeare. Laureatosi in giurisprudenza all’Università di Napoli ed entrato appena ventenne nell’Amministrazione ricopre per un decennio una serie di incarichi minori nell'Italia meridionale, dove combatte il brigantismo, acquisendo in quel campo una competenza notevole. Sin da allora l'intervento della sua potente famiglia risulta spesso decisivo nei passaggi di carriera. Sottoprefetto nel 1870, nell'aprile del 1881 è nominato Prefetto di Forlì, quindi passa a Caserta, a Modena, dove sposa la Contessa Albina Guicciardi di Cervarolo e Alessandria. Nel 1890 Crispi lo nomina Prefetto di Palermo. Divenuto Presidente del Consiglio di Rudinì dal 1° aprile 1891 è nominato Prefetto di

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Torino, dove per le sue qualità politiche e di pubblico amministratore si guadagna le simpatie di tutti. Quindi dopo il 16 febbraio 1893 diviene Prefetto di Milano, ricoprendo il posto che era stato di Giovanni Codronchi Argeli. In quest'ultima città, alle violente manifestazioni popolari contro il carovita createsi nelle giornate del maggio 1898, conosciute come “la protesta dello stomaco”, il governo risponde con lo Stato d'assedio e nomina il generale Fiorenzo Bava Beccaris Regio Commissario Straordinario con pieni poteri, il quale ordina di sparare cannonate sulla folla provocando una strage. Winspeare per un breve periodo viene collocato a disposizione con l'accusa di non aver previsto i disordini e di non averne informato il governo(1). Trascorre gli ultimi cinque anni di servizio a Venezia e poi a Firenze. Il 1° febbraio 1904 è dimesso per anzianità di servizio. Muore a Firenze il 25 agosto 1913.

(1) Simbolo del cambiamento sarà la scelta di Zanardelli e di Giolitti effettuata dal nuovo Re Vittorio Emanuele III subito dopo aver assunto le funzioni di monarca.

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Carlo Municchi

Nobile di S. Miniato, Conte, Avvocato, Magistrato, Senatore, Prefetto. Nasce il 27 luglio 1831 a Firenze, figlio di Pietro e Virginia Ulivieri. Coniugato con Teresa Lombardi. Politico legato ai moderati toscani e vicino alla Sinistra costituzionale. Laureatosi nel 1853 in giurisprudenza a Firenze, nel 1861 presta servizio nel Ministero di Grazia e Giustizia, in veste di segretario. Capo sezione nel 1864, nel 1865 è ammesso in Magistratura come sostituto procuratore generale presso la Corte d'Appello di Firenze. Alla fine del 1870 passa al medesimo ufficio presso quella di Roma. Nel 1876 è promosso pubblico ministero nelle sezioni romane di Cassazione e poi Procuratore generale presso le Corti d'appello nel 1879 a Catanzaro, quindi a Genova e dal 1883 al 1887 a Milano. In tale veste si distingue nello studio delle questioni sociali a proposito dei famosi scioperi agrari dell’Alto Agro lombardo. In particolare contribuisce allo scioglimento di parecchi circoli operai e alla soppressione del periodico “Il Fascio Operaio”. La sua operosità suscita l’attenzione di Francesco Crispi che nel 1887 lo nomina Prefetto della non facile Prefettura di Genova e dal 21 novembre 1892 diventa anche Senatore del Regno. In tale veste s’impegna per migliorare le condizioni dei reclusi nei manicomi, eccependo sulla costituzionalità della legge italiana,che, constando di un articolato ben povero, delegava

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ad un successivo regolamento d’attuazione la definizione puntuale dei criteri direttivi sulla materia. La sua carriera spicca il salto di qualità con il Presidente del Consiglio Giolitti che lo promuove Prefetto di Torino, carica che ricopre dal 16 febbraio 1893 al 18 settembre 1893. In seguito dirige la Prefettura di Napoli fino a quando salito al potere di Rudinì, viene nuovamente nominato Prefetto di Torino, dal 15 maggio 1896 al 1° aprile 1898. Caduto il governo nel settembre 1898, in concomitanza della fine dello stato d'assedio, è per pochi mesi Prefetto di Palermo e successivamente di Milano, in sostituzione di Winspeare, ma essendo sorte forti divergenze con il Presidente del Consiglio Pelloux, chiede ed ottiene di essere messo a riposo, a partire dal 1° gennaio 1900. Ritornato a Firenze si dedica alla vita politica cittadina operando in veste di consigliere comunale, provinciale e di Presidente della Deputazione provinciale. Muore a Firenze il 24 dicembre 1911. E’ insignito delle più alte onorificenze del Regno e di Stati esteri: il 22 aprile 1897 il Re gli concede il titolo di Conte, è inoltre Gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia e dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, Commendatore dell’Ordine di Cristo (Portogallo), dell’Ordine di Nostra Signora della Concezione (Portogallo), dell’Ordine del Salvatore (Grecia), della Legion d’Onore (Francia).

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Ferdinando Ramognini

Prefetto, Capo della Polizia, Senatore. Nasce a Sassello (Genova), oggi Savona, il 20 luglio 1829, figlio di Giovanni Battista e Teodora Badano. Coniugato con Anna Traverso. Uomo di repressione, seguace di Crispi, fronteggia con durezza la protesta sociale di fine ‘800. Entra in Polizia a 19 anni e partecipa alla seconda guerra di indipendenza con il grado di ufficiale. Divenuto Prefetto nel 1876 dirige negli anni le province di: Chieti, Pavia, Porto San Maurizio, Genova, Ancona, Livorno e Torino e per tre volte la divisione dei servizi di Pubblica Sicurezza. E’ capo divisione nel 1876, Prefetto incaricato di coordinare i servizi di polizia nel 1879, dopo il tentato e fallito regicidio ai danni di Umberto I, e Direttore generale dalla fine del 1890 alla fine del 1893. Durante il primo mandato fonda la prima struttura di formazione della Pubblica sicurezza, la Scuola Allievi Guardie. Nei mandati successivi si dedica principalmente all'ordine pubblico con alterne fortune. Inasprisce le norme repressive per contrastare gli attivisti italiani del movimento anarchico internazionale, che aveva lanciato una campagna rivoluzionaria “contro tutti i re, gli imperatori, i presidenti di repubbliche e i preti di qualsiasi religione”. La sua politica del “pugno di ferro”, però, è vista da molti come concausa dell'esasperazione sociale, che sfocerà in violentissimi scontri di piazza, come nel caso della protesta

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operaia e contadina. In quegli anni, dopo l'omicidio del marchese Notarbartolo, che aveva combattuto le infiltrazioni mafiose nelle banche e nell'amministrazione comunale di Palermo, nasce il primo movimento antimafia. Caduto il ministero Cairoli termina il secondo mandato. Richiamato per un terzo incarico, con il ministero Crispi, nel 1890 istituisce la prima anagrafe degli anarchici che anticipa di fatto il casellario politico, voluto in seguito da Crispi stesso. Ma con l'arrivo al ministero dell'Interno di , d’idee più liberali, cambiano radicalmente le strategie dell'Ordine Pubblico e dopo i gravi disordini in Sicilia ai tempi dei fasci siciliani è rimosso dal suo incarico. Dal 1° ottobre 1893(1) è inviato alla Prefettura di Torino, mantenendo le funzioni di Senatore ricevute nel novembre 1892. Dal dicembre 1893, tornato al potere Crispi, intenzionato a restaurare l’autorità dello Stato nei confronti dei moti sociali e politici emersi con i fasci siciliani e con i tentativi rivoluzionari anarchici della Lunigiana 1893-1894, riprende la lotta ai socialisti, sempre su impulso di Crispi, scioglie le loro associazioni. Cerca di scongiurare una loro possibile salita al potere cittadino, sostenendo con successo l’elezione a sindaco del Senatore Conte Rignon, che pendeva verso i clericali. Un’abile mossa che mette d’accordo anche i liberali, che legavano indissolubilmente il nome di Rignon all’immagine del sindaco della presa di Roma. Lascia l’incarico il 1° aprile 1896 e muore a Genova due anni dopo, il 18 marzo 1898. Tra le onorificenze ricevute ricordiamo quelle a: Gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia e Grande Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro.

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(1) E’ sostituito al tempo delle agitazioni dei Fasci siciliani per i motivi ricordati da Giolitti: “La Pubblica Sicurezza, abituata alle idee antiche e agli antichi metodi, si mostrava preoccupata e mi chiedeva di provvedere con un decreto di scioglimento dei fasci che mi fu proposto in effetti dall’allora direttore comm. Ramognini, al quale io lo rifiutai, mandandolo poi prefetto”.

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Giannetto Cavasola

Avvocato, Prefetto, Senatore, Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio. Nominato Prefetto di Torino non raggiunge la sede dopo la nomina. Nasce l’11 dicembre 1840 a Pecetto Torinese da Pier Leone ed Eletta Castellario. Nel 1872 sposa Pia Muratori. Laureatosi nel 1861 in giurisprudenza all’Università di Torino supera poco dopo il concorso nel Ministero della Marina e dal gennaio 1867 passa al Ministero dell’Interno, dove rimane sino alla nomina, firmata da Camillo Cavour, a caposezione. Segretario della Commissione d'inchiesta per i fatti del macinato nelle province dell’Emilia (1869), il 26 ottobre 1875 è nominato consigliere di prefettura e destinato a Palermo; nel 1876 passa a Catanzaro e nel 1877 a Porto Maurizio. Successivamente è Sottoprefetto di Nuoro e di Viterbo e Consigliere Delegato a Massa nel febbraio 1881, dove riceve la medaglia d'argento per l'abilità con cui dirige le operazioni del censimento generale della popolazione e dal febbraio 1882 a Napoli, dove merita la medaglia d’argento al valor civile in occasione del terremoto di Casamicciola del 1883 e del colera dell’anno successivo. E’ Prefetto di Potenza, Foggia, Catania, Alessandria, Roma, Palermo, successiva- mente, non avendo voluto seguire le direttive troppo personali di Crispi, dal febbraio 1895 è trasferito a Modena, dal 1° aprile 1896 al 15 maggio 1896 a Torino, poi fino al

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gennaio 1900 a Napoli, negli anni travagliati dell'amministrazione Campolattaro-Summonte, che si conclude infelicemente con lo scandalo contro la camorra amministrativa suscitato dal giornale socialista “La Propaganda” e con l'inchiesta Saredo. Coinvolto nelle critiche lanciate dal Saredo si difende energicamente in Senato, illustrando i criteri che hanno ispirato la sua azione circa i servizi pubblici e respingendo decisamente l'accusa che Napoli sia stata per il governo “la terra incognita”. Collocato a disposizione dal 1º febbraio, Pelloux, che apprezza l'energia con cui aveva affrontato a Napoli la crisi del 1898, lo chiama a Roma a reggere la Direzione Generale dell'Amministrazione civile, carica che conserva con Saracco. Andato agli Interni Giolitti con il governo Zanardelli, preferisce andare a riposo dal 1º marzo 1901, aprendo a Roma uno studio legale specializzato in questioni amministrative. Senatore durante la Presidenza Saracco, gode anche della benevolenza del Re. Esperto di amministrazione, studioso dei problemi economico-sociali (anche autore di un opuscolo, “L'emigrazione e l'ingerenza dello Stato”, Modena 1878), nella sua attività, di Prefetto prima e di Senatore poi, lavora intensamente per lo sviluppo industriale delle regioni meridionali. Da ricordare, per l’attualità, il suo discorso del 3 luglio 1902 in Senato: “Bisogna promuovere, favorire e tutelare ogni legittimo interesse. Quando la massa degli interessi legittimi sarà divenuta prevalente e cosciente, essa non tollererà più la propria rappresentanza in mano a coalizioni d’interessi illegittimi e allora la resurrezione morale si imporrà per necessità di cose… il mio timore è che ancora oggi si

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persista nell’errore fondamentale di credere che il miglioramento economico possa venire da sole opere di Stato”. Si impegna sui lavori pubblici, sulle bonifiche, sull'assistenza: nel marzo 1904 è relatore sulla legge per la Basilicata; il 20 maggio 1904 pronuncia un ampio ed approfondito discorso sullo sviluppo dell'agricoltura nel Mezzogiorno; è relatore nel giugno 1906 su modifiche alla legge per la Basilicata e nel luglio seguente su provvedimenti per le province meridionali e le isole. Legato alle correnti antigiolittiane (è collaboratore del Corriere della Sera), Salandra lo nomina ministro di Agricoltura, Industria e Commercio. Conserva l'incarico nel secondo ministero Salandra, dal novembre 1914 al giugno 1916. Presenta progetti di legge con provvedimenti straordinari a favore della Sardegna, con modificazioni alla legge forestale e provvedimenti per la pastorizia e l'agricoltura montana, e di riforma del contratto di lavoro agricolo. Stimato da Salandra, scoppiata la Prima guerra mondiale, nell'estate 1914 fa pressioni su di lui, in favore della neutralità e del rinvio di un eventuale intervento alla successiva primavera, dopo i necessari preparativi. Nel marzo 1916 si trova al centro degli attacchi sferrati alla Camera contro il governo, accusato di aver seguito una politica economica fiacca, priva di criteri direttivi. Replicando a nome del governo illustra in un poderoso discorso l'opera svolta, soprattutto in riferimento alla questione granaria, mettendo in evidenza le difficoltà incontrate, la bontà dei provvedimenti presi, la necessità di alcune misure impopolari adottate, la tempestività delle iniziative, intralciate da eventi di carattere internazionale, che sfuggivano al controllo delle autorità italiane; difende

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anche la politica del governo nei riguardi dell'agricoltura e dell’industria. Non confermato da Boselli (giugno 1916), avanzato negli anni, dirada la sua partecipazione alla vita pubblica: dopo Caporetto è tra i firmatari dell'o.d.g. illustrato da Tittoni, con cui nel novembre 1917 il Senato riafferma la fiducia nella vittoria. Muore a Roma il 27 marzo 1922, dopo lunga malattia. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle di Grande ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e Gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia.

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Alessandro Guiccioli

Marchese di Ca' del Bosco dei Conti di Monteleone, Patrizio di Ravenna, Ferrara, Cesena e San Marino, Avvocato, ex Deputato, Senatore, Prefetto, Diplomatico, Sindaco di Roma. Nasce il 5 marzo del 1843 a Venezia, dove il padre il marchese Ignazio, di Ravenna, ministro delle Finanze durante la Repubblica romana, si era rifugiato per sottrarsi alle persecuzioni politiche. La madre è la nobildonna romana Faustina Capranica. Sposa la Contessa Olga Benckendorff. Laureato in giurisprudenza a Bologna nel 1864, studia contempora- neamente anche lingue straniere e quando, il 3 febbraio1866, inizia il suo curriculum in diplomazia parla e scrive correttamente il francese, l'inglese e il tedesco. E’ addetto di legazione a Londra e poi segretario di ambasciata a Vienna. Rientrato presso il ministero degli Esteri (è, tra l'altro, segretario particolare dell’allora ministro ), è addetto nel 1870 al quartier generale del generale Raffaele Cadorna. E’tra i primi ad entrare a Roma la mattina del 20 settembre e la partecipazione alla storica breccia di Porta Pia sarà per lui sempre motivo di orgoglio. Richiamato il 10 luglio 1871 al ministero degli Esteri fa parte dell'ambasciata straordinaria in Svezia per l'incoronazione di Re Oscar III. Nel 1875 è Deputato per il Collegio S. Giovanni in Persiceto (Bologna) per tre legislature, fino al 1882(dal 1880 è anche Segretario della

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Camera), fra gli ultimi epigoni della Destra storica. Appartenente al partito moderato e vicino alla famiglia reale è lui il relatore del progetto di legge per l’erezione del monumento a Vittorio Emanuele. Nel 1876 in una lettera indirizzata ai suoi elettori analizza le ragioni che hanno portato la Destra alla sconfitta e la Sinistra al potere. Non risparmia critiche al Depretis, del quale avversa la politica trasformistica e ne sottolinea ripetutamente la “insincerità” e le “ambiguità”, oltre che la “debolezza” nei confronti di anarchici e socialisti, specie in Romagna. Non è tenero nemmeno con esponenti della Destra quali Bonghi e Minghetti. A suo giudizio gli uomini di governo sono rimasti troppo distanti dai problemi reali della società, non riconoscendo il dissesto in cui si trovavano alcune province e non discutendo in Parlamento temi importanti come le tasse (soprattutto quella sul macinato) e il sistema ferroviario (che ritiene dovrebbe essere posto interamente a carico dello Stato). Matura nel tempo sentimenti nettamente antidemocratici che in alcune occasioni lo portano a rimpiangere i regimi assolutistici del passato. Giudica “stoltezza” il permettere l'esistenza di associazioni “che, per il nome stesso che portano, sono la negazione delle basi dell'ordinamento politico attuale dello Stato” e i pubblici comizi “una forma di manifestazione barbara, pericolosa, antiquata, ingannevole”. Manifesta invece “stima illimitata e affetto immenso” per Quintino Sella e di lui scrive un'apprezzata biografia. Dal 1887 al 1889 è Sindaco di Roma negli anni segnati dalla crisi operaia, sfociata nei tumulti dell’8-9 febbraio 1889 e dall’inaugurazione del monumento a Giordano Bruno (9 giugno di quello stesso

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anno). Nell’una e nell’altra circostanza la sua condotta non è esente da critiche, che lo amareggiano e accentuano in lui il desiderio di abbandonare la vita politico-amministrativa e ritornare in diplomazia. Per volere del Re e della Regina, oltre che di Francesco Crispi, diventato ormai il suo primario punto di riferimento, è destinato invece alla Prefettura di Firenze, il 12 giugno 1890. Collocato a disposizione il 16 marzo 1893 «per gravissime ragioni di indole politica» da Giovanni Giolitti, che non si fidava di un uomo notoriamente di Destra e per di più strettamente legato a Crispi, il 1° settembre 1894 una volta tornato al potere Crispi è nominato Prefetto della Capitale. Segue con interesse le trattative di riavvicinamento tra papato e Regno d'Italia, rimanendo poi deluso alle elezioni del 1895 per la proclamazione del “non expedit” da parte del Pontefice. Si impegna nel soffocare le iniziative degli anarchici e dei socialisti e nel novembre 1894, in seguito alle leggi anti- anarchiche promulgate dal Governo, scioglie tutte le associazioni considerate sovversive. Caduto Crispi (10 marzo 1896), da un secco telegramma di Rudinì apprende di essere stato collocato a disposizione. Reintegrato il 1° aprile 1898 diviene Prefetto di Torino,fino al 1° luglio 1904, un periodo eccezionalmente lungo per quei tempi,e dal 14 giugno del 1900 è contemporaneamente anche Senatore del Regno. A Torino s’impegna nuovamente nel reprimere i disordini e gli scioperi organizzati dai socialisti. Non ha problemi con Pelloux e con Saracco, immediati successori di Rudinì. Comincia ad averne con Giolitti, al potere dal febbraio 1901, prima come ministro dell'Interno nel gabinetto Zanardelli, poi come Presidente del Consiglio.

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Nonostante il rapporto complessivamente teso e difficile, rimane al suo posto per ben quattro anni, forse soprattutto per le aderenze e per la protezione di cui godeva a corte. Durante la grave crisi operaia dei primissimi anni del Novecento, nel corso della quale si distingue per una efficace opera di mediazione tra lavoratori e datori di lavoro, e in particolare in occasione dello sciopero dei gasisti (febbraio-marzo 1902), ha con Giolitti momenti di acuta tensione, che però non impediscono a quest'ultimo di lodarlo in Parlamento e di definirlo “una delle menti più equilibrate e più serene, un ottimo funzionario […] assolutamente (1) imparziale nel giudicare gli avvenimenti” . Il 9 giugno 1904 il nuovo ministro degli Affari esteri lo nomina inviato straordinario e ministro plenipotenziario di seconda classe. Destinato un mese dopo a Belgrado, il 28 giugno 1908 si trasferisce invece a Tokyo con funzioni di ambasciatore e il 18 giugno del 1911 è infine promosso inviato straordinario e ministro plenipotenziario di prima classe. Il 4 dicembre 1915 è messo a disposizione del Ministero e il 7 gennaio 1917 è infine costretto a lasciare il suo incarico per limiti d'età. Lascia il “Diario di un conservatore” (pubblicato postumo nel 1973), nel quale sono contenuti acuti e polemici giudizi sulla politica e l'amministrazione del suo tempo(2) . Muore a Roma il 3 ottobre 1922. E’ Gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia, Grande Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e Commendatore dell’Ordine della Legion d’onore.

(1) Atti parlamentari, Camera, Discussioni, 14 marzo 1902

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(2) Divertente una sua notazione del 19 giugno 1902, mentre tornava da Stupinigi in automobile, relativa ai mezzi moderni di locomozione(che così grande parte avrebbero poi avuto nel processo di inclusione degli italiani incrociando produzione, occupazione, lavoro e consumi), ma per i quali com'è evidente il Prefetto non era entusiasta : “ E' la prima volta che inforco questo brutto animale. Corriamo con una velocità che in alcuni tratti raggiunge i 45 chilometri. L'impressione nelle vie respiratorie e negli occhi mi è punto piacevole e non mi riconcilia con questo cavallo del secolo XX, che già odiavo quando lo conoscevo soltanto di vista”.

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Giovanni Gasperini

Commendatore. Nasce a Venezia il 5 gennaio 1852. Laureato in legge, il 21 aprile 1879 sposa la Contessa Gisella Zacco, dalla quale ha tre figli. Il 21 agosto 1878 entra alunno nell’Amministrazione dell’Interno, svolgendo i primi incarichi nelle sedi di Rovigo, Arezzo e Castellammare di Stabia. Successivamente opera al ministero. Nominato Regio commissario per l’amministrazione circondariale di Forlì il 7 giugno 1894, dal 16 febbraio 1900 è incaricato di reggere la Prefettura di Massae dal 1° agosto 1901 ne diventa il titolare. Dal 5 settembre di quell’anno è Prefetto di Pisa, dal 1 luglio 1904 al 1° ottobre 1907 è Prefetto di Torino(1) e successiva- mente di Napoli. Dal 15 agosto 1914 è Prefetto di Livorno, dove il 31 agosto 1921 conclude la carriera.

(1) Prima di partire da Torino alla volta dell’ex capitale borbonica indirizza alle Autorità la seguente lettera di commiato: “Nominato da S.M. il Re prefetto della provincia di Napoli, compio il dovere, prima di separarmi dalle SS.LL. Ill.me, di ringraziare vivamente della costante, intelligente, spontanea cooperazione prestatami. Dall’appoggio di tutti coloro che sono a capo delle pubbliche Amministrazioni la modesta opera mia trasse la maggiore sua forma, come dalla benevolenza e squisita cortesia dei cittadini, il mio buon volere ebbe continuo incoraggiamento e l’animo mio indimenticabili soddisfazioni. Porto meco, pertanto un senso di infinita gratitudine per questa città illustre che, fidente nei suoi destini, cammina serena ed altera incontro ad ogni progresso, come fiera ed impavida affrontò un tempo eserciti giganti e temuti imperi; porto meco un senso di infinita gratitudine per la nobile provincia che negli ubertosi campi o nei centri industriali accoglie popolazioni forti, generose e leali. A tutti vada il mio saluto augurale per un avvenire sempre più lieto. Alle SS.LL. Ilme il più cordiale e deferente addio”.

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Jacopo Vittorelli

Nobile di Bassano, Conte, Prefetto, Senatore e Consigliere di Stato. Seguace di Giolitti, si distingue per il suo neutralismo politico. Nasce il 18 ottobre 1851 a Bassano del Grappa, in provincia di Vicenza, figlio di Vittore e Alessandrina Massaria. Coniugato con Antonietta Casalini. Laureato in giurisprudenza all’Università di Padova, il 20 settembre 1874 entra nella carriera dell’Amministrazione dell’Interno e dal 3 marzo 1901è Prefetto. Dirige successivamente le Prefetture di Rovigo, Mantova, Alessandria, Venezia, e dal 1° ottobre 1907 quella di Torino, nel frattempo, nel 1911 interviene la nomina a Senatore. Successivamente dirige la sede di Firenze. Nel periodo ormai bellico a Torino si schiera con i neutralisti ed il 23 aprile 1915, analizzato “lo spirito pubblico della popolazione”, invia il suo rapporto al Ministero dell’Interno(1). Due giorni dopo, cioè qualche giorno prima dell’entrata in guerra dell’Italia,viene trasferito alla Prefettura di Firenze. Nel 1917 lascia l’Amministrazione dell’Interno per entrare nell’organico del Consiglio di Stato. Muore a Roma il 10 marzo 1918. Tra i suoi tanti riconoscimenti si ricordano: il titolo di Conte, concesso il 22 gennaio 1914 dal Re d’Italia Vittorio Emanuele III, e quelli di Gran cordone dell’Ordine della Corona d’Italia, Grande Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, Gran Croce dell’Ordine dell’Aquila

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Rossa (Germania), Grande Ufficiale dell’Ordine di Danilo I (Montenegro), Grande ufficiale dell’Ordine della Legion d’Onore (Francia).

(1) Nel documento prevede l’uniformarsi alle decisioni del governo in caso di intervento da parte del “ceto dei contadini […] pur non essendo in generale favorevole alla guerra”, ma osserva anche come “eguale previsione non può farsi per la classe operaia, specialmente in questa Città, dove è così densa e ligia al partito socialista ufficiale; e dove in più occasioni ha già dimostrato la sua avversione alla guerra e la sua intenzione di opporvisi anche con violente manifestazioni.” Sempre nello stesso rapporto prevede che tra i torinesi “propende la maggioranza per la neutralità, finché sia possibile”, e come sia “scarso il contingente degli interventisti”. Ma la sua analisi che si sposta dai pur consistenti settori operai ai ceti medi e alle “classi dirigenti” - il termine è sempre del Prefetto - solo in parte collima con l’impressione che si ricava dagli atteggiamenti torinesi verso la guerra, prestandosi a significative correzioni nel confronto con la natura e l’evoluzione del neutralismo tra la fine del 1914 e la primavera del 1915. Il ruolo istituzionale e una carriera legata alla lunga attività di governo del neutralista Giolitti, possono averlo indotto a una sopravalutazione del neutralismo diffuso tra i torinesi. Tuttavia ne offre egli stesso alcuni indizi, mentre osserva come “in generale, e specialmente nelle classi dirigenti, riconoscendosi il terribile mistero [sic] dell’ora presente, si ripone la maggiore fiducia nel Governo, certi tutti che le sue decisioni, qualunque esse siano, saranno ispirate ai supremi interessi del Paese”, a dire che il tradizionale atteggiarsi filogovernativo delle componenti borghesi e moderate non si è modificato e quindi si può dare per certa la loro accettazione di fatto e senza resistenza di un intervento in guerra, alla cui eventualità si sono adattate con il passare del tempo e il montare della campagna interventista. Il rapporto del prefetto Vittorelli è pubblicato in B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, Vallecchi, Firenze 1969, p. 343.

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Edoardo Verdinois

E’ Prefetto di Torino negli anni dell’entrata in guerra dell’Italia e della sanguinosa rivolta dell’agosto 1917. Nasce a Napoli il 2 ottobre 1862 da una delle migliori famiglie napoletane, che ha dato alle lettere italiane Federico Verdinois (cugino), lo scrittore e giornalista che ha fatto conoscere in Italia “Quo Vadis” di Sienkiewicz, il generale Verdinois e il commendatore Verdinois, uno dei più alti funzionari del Ministero dei Lavori Pubblici (fratelli). Laureatosi in giurisprudenza, il 5 giugno 1884 entra per concorso nella carriera prefettizia. Nel 1896 lavora accanto all’allora ministro dell’Interno, di Rudinì, e quando questi decade torna al suo posto di primo segretario al Ministero; nel 1898 passa a segretario di sezione al Consiglio di Stato, fino al 1901 quando torna agli Interni. Comincia a muovere i passi decisivi per la sua carriera, prima come consigliere di Prefettura a Roma, poi nel 1904 come Ispettore Generale di nuovo al Ministero dell’Interno. E’ Regio commissario per i comuni di Ancona, Firenze, Messina. Dal 1° agosto 1905 è Prefetto di Trapani e dopo due anni di permanenza in Sicilia è inviato Prefetto a Verona, quindi Salandra, che lo conosceva nei tempi in cui era uno degli elementi più in vista dell’entourage rudiniano, lo promuove Prefetto di Torino dal 25 aprile 1915. Nell’agosto 1917 a Torino per cinque giorni scoppia una sommossa armata, che comincia come protesta per la mancanza di pane e si trasforma in rivolta politica(1), riportata sotto il nome di “fatti di Torino”, espressione usata per la prima volta in occasione dello sciopero generale dei gasisti torinesi nel 1902. Sebbene sin

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dal maggio 1917, di fronte al moltiplicarsi di assemblee operaie contrassegnate da professionisti di fede rivoluzionaria, si fosse attivato a richiamare l’attenzione del governo sull’opportunità di proclamare la Provincia di Torino “zona di guerra”, il ministro dell’Interno Orlando non aveva dato il suo assenso. Non per ciò si era allentata la guardia, perché il governo aveva provveduto a rafforzare i presidi militari intorno agli opifici e questa precauzione era apparsa sufficiente non soltanto per rinviare l’adozione di più efficaci misure per il rifornimento della città, ma per imprimere anche un ulteriore giro di vite ai regolamenti interni di fabbrica e per accrescere così il carico delle lavorazioni. Finché il 22 agosto, improvvisamente, scoppia la scintilla che provoca il moto insurrezionale. Subisce la rimozione dall’incarico e dal 1° settembre 1917 deve lasciare la Prefettura a Paolino Taddei. Dal marzo 1918 dirige la Prefettura di Padova, fino al settembre 1920, quindi è Regio Commissario a Napoli e poi ancora con le funzioni di Prefetto dirige le province di Livorno e Verona, fino al gennaio 1923, quando viene collocato a riposo per anzianità di servizio. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a: Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia e dell’Ordine Mauriziano, Ufficiale della Legion d’Onore, Gran Croce dell’Ordine della Corona di Romania.

(1) Se all'inizio dei moti qualcuno mantenne lo spirito dell'osservatore distaccato, ebbe forse l'impressione che prendesse vita sotto i suoi occhi un capitolo dei Promessi sposi: la rivolta dì Milano provocata dalla carestia, quando l'innocente Renzo è coinvolto in tanti guai. Ormai da settimane a Torino scarseggiava il pane; ma la mattina del 22 agosto venne a mancare praticamente in tutta la città, perché i grossi rifornimenti di farina giunti nella notte su disperate sollecitazioni del prefetto

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Verdinois non pervennero in tempo al fornai. Il digiuno di quel giorno fu l'occasione, non la causa, dì una protesta maturata attraverso un lungo malcontento. Dove la sussistenza militare fece arrivare del pane, la folla se ne impadronì ma non ritornò in fabbrica. Fu invece saccheggiata la più grossa pasticceria di via Milano e la sommossa arrivò in rione Vanchiglia, via Garibaldi, via Cernaia, Barriera di Nizza e di Milano, Borgo San Paolo. La protesta per il pane diventò rivolta e rivolta di carattere politico contro la guerra. Fu una sommossa non organizzata, caotica ma violenta. Rotaie, alberi abbattuti, tram rovesciati, due chiese incendiate. L'autorità militare assunse tutti i poteri. Gli scontri delle Forze dell'Ordine e di truppe militari di stanza a Torino, con le masse operaie furono numerosi. Gli insorti avevano innalzato a difesa molte barricate, scavato molte trincee e posti anche reticolati di fil di ferro, percorsi da corrente elettrica. Per cinque giorni si combattè nelle strade e nelle piazze con il tragico bilancio di 50 morti e più di 200 feriti, ufficialmente accertati. Né allora né dopo è stato mai possibile, per varie ragioni, fare un accertamento preciso e definitivo.

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Paolino Taddei

Senatore, Prefetto, Ministro dell’Interno, l’ultimo prima della marcia su Roma, Consigliere di Stato. Protagonista di eventi decisivi negli anni della crisi e della caduta dello stato liberale (1914-1922) e abile mediatore nelle lotte sociali che vedono contrapposti imprenditori e sindacati, longa manus di Giolitti. Nasce a Poggio a Caiano, frazione di Carmignano (Firenze), oggi Poggio a Caiano (Prato)il 22 gennaio 1860, figlio di Ferdinando e Paolina Bindi. Celibe. A ventitrè anni si laurea in giurisprudenza all'Università di Pisa, entra nell'amministrazione provinciale dell'Interno e nel 1907 raggiunge il grado di ispettore generale. Commissario del Comune di Torino, nel 1911 è Prefetto e inizia a lavorare alla sede di Ferrara. Qui dimostra le sue capacità risolvendo una spinosa questione sorta tra agrari e braccianti. Il lodo Taddei, con cui risolve la vertenza rappresenterà un fondamentale documento in materia e un precedente importante per diversi anni. Prefetto di Perugia (1913-1914) e di Ancona (1914-1917), dopo il doloroso agosto 1917 è Prefetto di Torino dal 1° settembre 1917, dove, anche dopo Caporetto, tra la classe operaia perdura lo “stato di permanente irrequietezza e il consueto atteggiamento di avversione alla guerra”(1). Due mesi dopo a dargli manforte viene inviato a Torino il nuovo Questore: Cesare Mori. Rimane a Torino fino al 1°

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agosto 1922 dove per oltre cinque anni riesce a padroneggiare una situazione difficilissima, contribuendo con la sua tenacia e col suo tatto alla soluzione di numerosi dissidi fra maestranze e industriali. Nel settembre 1920 organizza tra Giovanni Giolitti e il presidente della FIAT Giovanni Agnelli un incontro che si rivela determinante per far cessare l'occupazione delle fabbriche torinesi e dal quale scaturisce un accordo che garantisce migliori condizioni di lavoro per gli operai, nonché sgravi fiscali e protezioni doganali agli imprenditori. Il 3 ottobre 1920 è nominato Senatore. Di idee liberali, fedele e rigoroso garante delle istituzioni, nel difficile e turbolento dopoguerra s'impegna costantemente a difesa delle regole dello Stato di diritto. Se quindi, da un lato, combatte il movimento rivoluzionario in tutte le sue espressioni, dall'altro, si adopera con vigore contro lo squadrismo fascista. Forse anche per questo nell'agosto 1922 viene scelto come ministro dell'Interno del secondo governo Facta (agosto-ottobre 1922). In accordo con il ministro guardasigilli Giulio Alessio tenta di bloccare l'illegalità fascista, proponendo il sistema dei controlli incrociati tra i due Ministeri ma senza conseguire i risultati auspicati. S’inimica così Benito Mussolini, che non manca di manifestargli pubblicamente la sua avversione. Nell'ottobre 1922 presenta le sue dimissioni in seguito al mancato accoglimento da parte del Governo della sua richiesta di scioglimento della milizia fascista. Viene però convinto a restare al suo posto dallo stesso , che teme una crisi di governo proprio nel momento in cui sembrano concludersi le trattative Giolitti-Mussolini per un eventuale ritorno al potere del primo. Gli avvenimenti

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prendono però un corso diverso. Nel Consiglio dei ministri convocato d'urgenza alle 6 del mattino del 28 ottobre, dopo la marcia su Roma, sostiene la proclamazione dello stato d'assedio e provvede a stilare il documento da sottoporre alla firma del sovrano. Contemporaneamente invia a tutti i Prefetti una circolare in cui preannuncia l'imminente firma del documento. In accordo poi con il ministro delle Poste Luigi Fulci dispone l'introduzione della censura telefonica e telegrafica, ordina di tagliare i binari per interrompere le comunicazioni con Roma, dà precise disposizioni perché il decreto di proclamazione dello stato d'assedio (inviato a tutti i Prefetti e pubblicato sui quotidiani) venga affisso sui muri della capitale, deserta e presidiata dalle mitragliatrici. Un suo ordine scritto, firmato anche da Facta, incarica il generale Emanuele Pugliese di provvedere alla difesa di Roma con tutti i mezzi disponibili, impedendo a ogni costo l'ingresso delle squadre fasciste nella città. Ma qualche ora dopo, profondamente disorientato nell'apprendere da Facta che il Re non ha firmato il decreto di proclamazione dello stato di assedio, deve suo malgrado revocare gli ordini impartiti. Estromesso dal successivo governo Mussolini, quasi come una sorta di buonuscita, il 29 ottobre 1922 viene nominato consigliere di Stato. Gli eventi drammatici di cui è stato protagonista e soprattutto il sentimento d’impotenza per la fine dello Stato liberale in cui ha sempre creduto sono forse la causa dell'improvviso peggioramento delle sue condizioni di salute. Colpito da un grave attacco cardiaco, vive gli ultimi anni costantemente sorvegliato e non di rado minacciato. Muore a Firenze il 15 ottobre 1925.

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Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a: Grande ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e Grande Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia.

(1) Il telegramma del prefetto di Torino al ministero dell’Interno del 27 dicembre 1917, in Spriano, Storia di Torino operaia e socialista cit., p. 464.

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Carlo Olivieri

Nasce a Vercelli il 27 dicembre 1863. E’ Prefetto di Torino nel periodo dell’avvento del fascismo e del teppismo squadrista. Si laurea in giurisprudenza a Torino, il 3 agosto 1887 ed entra per concorso nell’Amministrazione dell'Interno,fino a raggiungere il grado di Presidente della Divisione Amministrazione dei Comuni e delle Province e Archivi di Stato. Prefetto dal 1° agosto 1912, dirige negli anni le Prefetture di Ascoli Piceno, Sondrio, Como, Novara, Perugia, Firenze e Bari. In quest’ultima città nei giorni dello “sciopero legalitario” del luglio 1922, si rende meritevole agli occhi del fascismo per aver consegnato la città alle bande del ras pugliese Giuseppe Caradonna, impiegando l’esercito per chiudere la Camera del Lavoro. Dal 26 agosto 1922 è Prefetto di Torino, nel periodo noto come quello della “Strage di Torino”, che segna simbolicamente la conquista del potere del movimento fascista in città, che in quattro anni di lotte di strada era risultata impossibile a differenza di ogni altra città. Subito dopo la marcia su Roma e l’incarico di governo dato dal Re a Mussolini, tra il 18 e il 20 dicembre le squadre di De Vecchi e Brandimarte, sicure dell’impunità, instaurano il terrore in tutta la provincia e seminano la città di una ventina di morti, barbaramente uccisi, in gran parte esponenti o militanti comunisti, procedono alla distruzione di numerosi locali “sovversivi”, al ferimento e alla bastonatura di

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parecchi operai e persino a una fucilazione simulata dei redattori e responsabili amministrativi dell'Ordine nuovo. In seguito Mussolini, interessato ad accreditare il suo governo quale massimo garante del ritorno all’ordine e alla legalità(1), si sbarazzerà di De Vecchi inviandolo governatore in Somalia mentre Olivieri viene dimesso per raggiunti limiti d’età il 1° gennaio 1923. Muore il 24 maggio 1925. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a Grande Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia e Grande Ufficiale dell’Ordine Mauriziano.

(1) Il manifestarsi ormai chiaro della crisi economica che investe l'Italia favorisce a Torino il radicalizzarsi dello scontro sociale, lasciando spazio alle iniziative fasciste di divisione del proletariato e di ricompattamento del fronte conservatore. La Fiat licenzia millecinquecento operai, la Michelin ottocento senza che il sindacato riesca ad impedirlo o a far nascere una reazione di base adeguata Il 18 dicembre 1922 aggredito a sangue da squadristi fascisti un operaio, Prato, ferisce a morte due assalitori. In risposta, la sera stessa, le squadre invadono la Camera del lavoro, già saccheggiata nell'aprile 1921 e incendiata il 29 ottobre 1922. Pestati selvaggiamente gli unici tre presenti, la notte del 18 dicembre 1922 le squadracce danno alle fiamme la sede del movimento operaio torinese. Le rappresaglie contro “sovversivi” insanguinano la città e si succedono nei giorni che seguono a livello nazionale la conquista del potere da parte di Mussolini e dei fascisti. Di qui gli scontri alla Barriera di Nizza e nel quartiere operaio di Borgo San Paolo. Dal 18 al 20 dicembre le squadre di De Vecchi e di Brandimarte si scatenano in una vera e propria caccia ai socialisti e a tutti i nemici veri e supposti del fascismo, di fronte ad una polizia passiva e largamente assente. Delinquenza politica e delinquenza comune si mescolano in quei tre giorni di violenze che lasciano sul terreno diversi morti. L’episodio segna simbolicamente la conquista del potere del movimento fascista a Torino, sia perché l’inchiesta voluta da Mussolini non tenta neppure di punire i responsabili e di far giustizia, sia perché non c’è una reazione adeguata da parte dell’opposizione comunista e socialista o di altre forze politiche. Fra le rappresaglie squadristiche posteriori all’andata al governo, quelle di Torino, anche se apparentemente innescate da un episodio di violenza privata, ebbero un carattere spiccatamente di massa e politico-terroristico, consentendo ai fascisti quella affermazione di forza, “manu militari”, che in quattro anni di lotte di strada era risultata impossibile a differenza di ogni altra città. Qualche mese dopo il si libererà di De Vecchi, divenuto un personaggio scomodo e impresentabile,

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inviandolo come governatore in Somalia. Ma, nel fascismo torinese continua a dominare la linea imposta dal capo squadrista e ancora fino al 1925-26 le azioni di violenza continueranno.

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Enrico Palmieri

Nasce a Napoli il 26 aprile 1876. Il suo mandato torinese si inquadra nella Torino degli anni di Gramsci e di Gobetti. Laureatosi in giurisprudenza, il 22 gennaio 1902 entra per concorso nell’Amministrazione Civile dell’Interno. Dopo alcune esperienze in varie sedi d’Italia, ricopre la carica di Ispettore Generale presso il Comando Supremo del Regio Esercito. La nomina a Prefetto arriva il 5 ottobre 1919, contemporaneamente all’incarico di dirigere la Prefettura di Massa Carrara. Uguali funzioni svolge successivamente a Chieti, a Messina e nel settembre 1921 a Parma. Nel frattempo si muove per ottenere un posto di rilievo nei gabinetti governativi. L'occasione giusta gli arriva nel marzo 1922, quando il Sotto-Segretario di Stato agli Interni del Ministero Poeta, On. Casertano, lo sceglie come suo Capo di Gabinetto. La sua brillante carriera prosegue a grandi falcate e nell’agosto dello stesso anno è messo a capo della città della X Legio, in sostituzione del Prefetto Mori, trasferito dal ministero da Bologna a Bari, quindi dal 1° gennaio 1923 è nominato Prefetto di Torino, subito dopo l’adozione delle leggi speciali fasciste. Funzionario di sicura fede governativa deciso ad applicare le direttive che da Roma gli fa pervenire Benito Mussolini,gioca un ruolo importante nel processo di fascistizzazione dell’amministrazione comunale. Appena insediato comunica immediatamente a Mussolini le sue impressioni sulla situazione torinese, ponendo l’accento sul rapporto reciproco tra vicende interne al fascismo locale ed equilibri amministrativi e chiarendo inequivocabilmente il ruolo – di mediatore istituzionale in un delicato gioco

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diplomatico e soprattutto di unico interprete della volontà espressa dal centro – che si sarebbe riservato(1). E quando a fine maggio informa Mussolini come un rinnovamento parziale dell’ambiente politico-amministrativo torinese fosse ormai “largamente condiviso” dalla “parte sana” della cittadinanza, è proprio Mussolini a investirlo della responsabilità della scelta dei tempi e dei modi per adeguare l’ultima delle amministrazioni delle grandi città italiane (in carica c’era la coalizione liberal-popolare guidata da Riccardo Cattaneo, dai programmi e metodi di lavoro non scalfiti dai rivolgimenti politici dell’ottobre precedente) ai principi espressi dal governo nazionale(2) . Un articolo del “Maglio”, con cui il direttorio della sezione locale del partito chiede lo scioglimento dell’amministrazione con una lettera aperta al sindaco, fa esplodere il 17 giugno lo sdegno de “La Stampa”, che si rifiuta di riconoscere a privati cittadini il diritto di provocare la crisi di un’amministra- zione “che tutto fa credere sostenuta ancora dalla gran- dissima maggioranza” e che spetta soltanto al governo, “assumendo apertamente in faccia alla cittadinanza torinese la relativa responsabilità”. Chiarisce la situazione ai liberali ancora increduli e in primo luogo al sindaco e dopo pochi giorni scioglie d’imperio l’amministrazione comunale, nominando quale commissario straordinario il suo vice, il barone Lorenzo La Via(3). Il 6 febbraio 1923 riceve un telegramma di Mussolini contenente l’ordine di arrestare Piero Gobetti, controllato anche per la precedente collaborazione all'Ordine nuovo e per “sospette” e non precisate attività antinazionali. Il 1° giugno 1924 un altro telegramma di Mussolini, intercettato

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prima della sua trascrizione in codice e dato da Nitti alla stampa dopo la morte di Gobetti, gli ordina di rendere nuovamente difficile la vita a quell’oppositore del fascismo(4). Sottopone i giornali a censura feroce, in particolare infittisce le perquisizioni e i sequestri di numeri di “Rivoluzione liberale” (di Gobetti). Durante una perquisizione tra le lettere sequestrate ne trova una di Ansaldo, che accompagna le bozze di un suo beffardo articolo su “Il re democratico”. Fa sequestrare l’intera tiratura del giornale prima della sua pubblicazione, evitando che il reato di offesa al Re venga consumato. Termina la sua esperienza torinese poco dopo, il 1° luglio 1924, dopo una violenta irruzione di fascisti e vandalismi, nell'abitazione del Senatore Frassati, proprietario de “La Stampa”, assente da Torino. La notizia non passa sotto silenzio. Subisce la rimozione dall’incarico e il trasferimento a Catania. Dall’ottobre 1925è destinato a Firenze, dove termina la carriera. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a: Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia e Commendatore dell’Ordine Mauriziano.

(1) “Situazione torinese alquanto delicata e tesa potrà migliorare e certamente migliorerà se trattata senza prevenzioni e con freddo accorgimento. Occorre poi operare fortemente per vincere resistenze non indifferenti dell’ambiente apertamente o larvatamente ostile e rendere così possibile partecipazione nuove energie vita politica amministrativa e sociale questa città ancora infeudata antiche… e eccessivamente abituata concetti tradizionalistici.” (ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto Finzi, 1922-1923, b. 9, fasc. 89; telegramma del prefetto di Torino Palmieri, del 5 gennaio 1923). (2) “Non ho particolari tenerezze per amministrazione comunale Torino stop V. S. deve decidere come e quando debba essere demolita”. ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto Finzi, 1922-1923, b. 9, fasc. 89; telegramma di Mussolini al prefetto di Torino del 30 maggio 1923.

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(3) “Escluderei senz’altro il nome del Sindaco Cattaneo […] per l’indubbio significato che avrebbe di continuazione dell’indirizzo condannato. In vista anche dell’eventualità di elezioni politiche, conviene che al posto di Commissario vi sia persona non solo intelligente e capace, ma disciplinata ed ubbidiente alle direttive del Governo. Non è il caso di nominare un uomo di partito, meno adatto a stringere accordi ed intese con uomini e partiti affini, con i quali necessariamente bisognerà intendersi per la formazione del nuovo Consiglio. Tutto considerato, ritengo che la cosa migliore sia di affidare l’incarico ad un funzionario. E poiché qui, in prefettura, non ho alcuno a cui affidare un mandato di tanta fiducia, mi permetto pregare l’E. V. di voler impartire ordini perché il Vice-Prefetto comm. dott. Lorenzo La Via, attualmente a Cosenza – funzionario di molto valore e di piena mia fiducia- sia messo a mia disposizione e subito fatto partire a questa volta”. (ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto Finzi, 1922-1923, b. 9, fasc. 89; lettera autografa del prefetto Palmieri a Mussolini del 23 giugno 1923). (4) “Mi si riferisce che noto Gobetti sia stato recentemente a Parigi e che oggi sia in Sicilia stop. Prego informarmi e vigilare per rendere nuovamente difficile vita a questo insulso oppositore governo e fascismo” (C. Pianciola, “Piero Gobetti. Biografia per immagini”).

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Secondo Dezza

Nasce a Firenze il 3 marzo 1869. Dopo la laurea in giurisprudenza, il 25 febbraio 1893 entra per concorso nella carriera prefettizia. Ispettore Generale a Pavia e al Ministero, dal dicembre 1916 procede nella carriera e diventa Prefetto di molte province del nord e sud d’Italia:Reggio Calabria, Potenza, Como, Padova, Siracusa e dal 1° luglio 1924 in piena crisi Matteotti diviene Prefetto di Torino. Qui tiene d’occhio i Gruppi della Rivoluzione Liberale formatisi dopo l’appello lanciato da Gobetti dalle colonne della sua rivista, che richiamano l’astiosa attenzione di Mussolini e - dietro esplicita indicazione del capo del governo e del fascismo - la persecuzione delle autorità locali di polizia. I rapporti della polizia, rivelano, però, che i Gruppi non saranno mai veramente considerati come un pericolo per il “Governo nazionale”. Con un’informativa egli dà esatta notizia della loro natura e dei loro proponimenti a cominciare dalla “irreducibile repugnanza al fascismo e al mussolinismo”, sottolinea che “il movimento si restringe a manifestazioni di propaganda culturale”(1) (2). Il 25 maggio 1925 deve lasciare Torino perché trasferito a Catania. Successivamente è Prefetto di Bari, dove termina la carriera. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a: Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia e Commendatore dell’Ordine Mauriziano.

(1) Riservata del prefetto Dezza alla Direzione di Pubblica Sicurezza (1924) in ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, 1924, b. 71, f. Gruppi di R. L. (2) Cionondimeno, proprio in questa azione, costituita null’altro che da parole, risiede forse la principale fucina della cultura dell’antifascismo italiano. 103

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Agostino D'Adamo

Nasce a Serracapriola (Foggia) il 23 agosto 1876 da Alberto e da Mariannina Tondi. Funzionario che nel corso del ventennio fascista dà prova di autonomia. Laureato in giurisprudenza all’Università di Roma nel novembre 1898, nell’aprile 1899 entra per concorso nella carriera prefettizia. Inizia a lavorare alla sottoprefettura di San Severo, poi a quella dell'Aquila, quindi nel settembre 1901 è chiamato al Viminale da dove inizia la scalata alla carriera. Nel dicembre 1912, durante il quarto ministero Giolitti, è Capo di Gabinetto di Alfredo Falcioni, Sottosegretario per l'Interno. Durante il successivo Governo Salandra nel marzo 1914 è Commissario a Livorno ed immediatamente dopo è promosso capodivisione e di nuovo nominato, il 27 agosto, Regio Commissario per Firenze. Appena deciso l'intervento italiano nella Prima guerra mondiale, Salandra lo invia a Udine con il mandato di costituire e dirigere gli uffici del Segretariato Generale per gli Affari Civili presso il Comando Supremo. Nell’agosto 1919è Prefetto di Ancona e nel successivo dicembre Nitti lo destina a Bologna, dove, però, appare impreparato a padroneggiare una situazione politica segnata da profonde tensioni sociali e sindacali. Quando il 5 aprile 1920, a Decima di Persiceto, la Forza Pubblica spara sui braccianti in sciopero, uccidendo otto dimostranti e ferendone quarantacinque, lo stesso Presidente Nitti non può che procedere al suo trasferimento. Pur non avendo una diretta responsabilità decisionale nell'eccidio di Decima, il grave episodio, mentre rappresenta il primo momento di crisi nella sua carriera, segnala anche, su un

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piano più generale, l'usura delle capacità e delle tecniche di governo di un intero ceto dirigente nei confronti di una realtà politica non più controllabile con le mediazioni riformistiche e le moderate aperture sociali del primo decennio del secolo, né più disponibile alla forzata solidarietà patriottica dei provvedimenti eccezionali giustificati dal regime di guerra. Nel periodo che va dall’aprile 1920 al dicembre 1926 in cui è Prefetto a Venezia, Napoli e Torino (in quest’ultima città dal 25 maggio 1925 al 16 dicembre 1926, durante il ministero Federzoni) avviene la sua maturazione politica: se, da una parte,mette in pratica con sostanziale coerenza la linea politica che tende a riassorbire il movimento dei fasci all'interno delle istituzioni (il 26 ottobre 1925, ai sensi del R.D. 15 luglio 1923 n. 3288 e R.D. 10 luglio 1924 n. 1081, diffida il professor Piero Gobetti, direttore del periodico “La Rivoluzione liberale”), dall’altra, in occasione dell'attentato messo in opera contro Mussolini in visita a Bologna, il 31 ottobre 1926, ostacola da Torino la nuova ondata squadristica invocata da Farinacci su “Il regime fascista” e giustificata da Arnaldo Mussolini sul “Popolo d'Italia”, bloccando in Prefettura il telegramma del segretario fascista, Augusto Turati, che incita le federazioni fasciste alla punizione sommaria dei responsabili, predisponendo un adeguato servizio di polizia a presidio delle sedi dei partiti, dei giornali e delle abitazioni private di singoli antifascisti. Si guadagna così l'anatema di Farinacci che con un attacco giornalistico del 3 e del 28 novembre 1926, chiede la sua destituzione, bollandolo come antifascista. Tuttavia, nei giorni successivi, esegue disciplinatamente le direttive del Capo della Polizia Arturo Bocchini, che anticipano le

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disposizioni di legge sull'abolizione dei partiti e della libertà di stampa, e dispone lo scioglimento della sezione torinese del Partito popolare italiano,nonché la chiusura del giornale cattolico “Il Corriere”. Solo apparentemente contradditorio il suo comportamento porta all'evidenza il termine estremo dell'incompatibilità tra una concezione tradizionale delle funzioni del Prefetto e il nuovo sistema di potere della dittatura fascista. Già in passato nel tentativo di rispettare il limite ancora instabile di questa linea di demarcazione aveva avuto contraccolpi negativi per i possibili sviluppi della carriera: era fallita la proposta di una sua nomina a vicegovernatore della Tripolitania, avanzata nella primavera del 1923 dallo stesso governatore Giuseppe Volpi, e soprattutto era sfumata l'ipotesi di una sua nomina a Capo della Polizia, data per sicura nel giugno 1924, quando a reggere il dicastero dell’Interno era andato, subito dopo il delitto Matteotti, il nazionalista . Allontanato da Torino da Mussolini nel novembre 1926, da quel momento non gli vengono più affidati che saltuari incarichi di carattere amministrativo. Collocato a riposo per ragioni di servizio nell’agosto 1932, nel maggio 1945 è riammesso in servizio e fa parte, prima del definitivo pensionamento del febbraio 1946, della commissione per l’epurazione del personale del Ministero dell’Interno. E’ Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia, Grand’Ufficiale dell’Ordine Mauriziano, Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoia, Honorary Knight Commander dell’Ordine del British Empire, Gran Croce del Merito Militare di Spagna, Commendatore della Legion d’Onore, Onorificenza serba dell’Ordine di S. Sava, Grand’Ufficiale

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dell’Ordine della Stella di Romania, Grand’Ufficiale dell’Ordine di Giorgio V di Grecia, Croce di Guerra Cecoslovacca.

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Raffaele De Vita

Nasce a Napoli il 9 novembre 1867. Diplomato alla Scuola Militare di Modena inizia la carriera come Generale di Brigata in posizione ausiliaria speciale. Dopo essere stato reggente della Prefettura di Bari dal 5 agosto 1925 ne diviene il titolare, quindi opera a Bologna e dal 16 dicembre 1926 al 1° luglio 1928, in piena dittatura fascista, diviene Prefetto di Torino e “un fedele camerata” per il Conte di Robilant, che guidava il fascismo torinese. Analizza l’attività frondista del partito che tanto preoccupa Benito Mussolini, concludendo che si tratta solo di un fenomeno circoscritto. Affronta problemi di carovita, affitti e salari. In seguito alle mobilitazioni per l’aumento continuo delle pigioni dopo un decreto governativo in favore della loro libera contrat- tazione, nonostante l’invito di Mussolini, (non recepito), ai proprietari di case a contenere gli sfratti e ribassare gli affitti, contenendoli “entro il quintuplo di quelli praticati nell’ante- guerra”, istituisce commissioni paritetiche rionali per le definizioni amichevoli delle vertenze in materia di locazione, con l’obbligo di riferire alla Prefettura(1). Pochi mesi più tardi adotta anche un provvedimento che obbliga i proprietari di case a denunciare il numero dei locali senza inquilini e il prezzo dell’affitto, creando un’impressione ottima nella cittadinanza, anche perché in tal modo si poneva fine al “mistero” della consistenza effettiva degli appartamenti liberi e delle richieste locative avanzate dai proprietari. Nel corso del 1927, dopo che Agnelli restio alle punture di spillo di Mussolini circa gli aumenti salariali “chiamando in causa le conseguenze della rivalutazione della lira”, aveva

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respinto le sue richieste e minacciato e attuato moltissimi licenziamenti, ottomila solo nella prima meta del 1927(2), De Vita non manca di segnalare più volte al ministero dell’Interno il crescente “malcontento” degli operai dei maggiori stabilimenti e anche il “risveglio di propaganda sovversiva” al loro interno. In applicazione alle leggi fasciste nel 1926 stabilisce che l’Associazione della stampa subalpina assuma la denominazione di Sindacato fascista della stampa subalpina, mentre nel 1927 chiude i battenti alla Lega magistrale Reyneri, di orientamento cattolico, perché contrastava “in tutti i modi lo svolgimento del programma dell’Associazione nazionale insegnanti fascisti,creando un dualismo e uno stato di irrequietezza assai pericoloso e nocivo”. Tiene invece in vita Famija Turineisa e l’Associazione monarchica integralista, tra i cui fondatori figurava Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, mentre il Rotary club di Torino, fondato nel 1924 da Agnelli e Ponti, può continuare le sue attività, ma solo sotto stretto controllo del ministero. Nel giugno1928, alcuni dirigenti degli studenti fascisti tentano di far ritirare dalla commissione degli esami della facoltà di giurisprudenza, i professori antifascisti Einaudi e Ruffini, ma vengono contrastati dagli stessi studenti fascisti, che non desiderano la “sostituzione rapida” di professori con i quali da tempo esiste un rapporto didattico che avrebbe offerto loro maggiori garanzie all’atto della valutazione finale(3). La questione si risolve con la mediazione di Robilant presso il rettore Pochettino, il quale fa in modo di garantire il regolare svolgimento degli esami in quella sessione; tuttavia l’esito positivo della vicenda lasciatogli l’amaro in bocca,

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relazionando al ministero afferma la necessità di eliminare al più presto “da questo ambiente universitario” i professori “noti oppositori”(4). Lasciato l’incarico torinese, diviene Commissario per la provvisoria gestione dell’Istituto Romano di S. Michele in Roma e, nel luglio 1929, è collocato a riposo per ragioni di servizio. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a: Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, Ufficiale dell’Ordine Mauriziano, Commendatore dell’Ordine Coloniale della Stella d’Italia.

(1) “La cittadinanza di Torino ha così la sensazione chiara che non invano il Duce abbia fatto appello, nella sua recente circolare, alla collaborazione dei suoi diretti rappresentanti perché i bisogni e le necessità del popolo venissero riconosciuti e i problemi più assillanti affrontati”. (Gazzetta del Popolo, 15 gennaio 1927). (2) Il 5 luglio 1927 Mussolini, che vuole tranquillizzare i metalmeccanici con aumenti salariali, gli scrive: “ad evitare il grave ed assurdo pericolo che la Fiat finisca per considerarsi un’istituzione intangibile e sacra dello Stato, al pari della Dinastia, della Chiesa, del Regime e avanzi continue pretese, bisogna considerare la Fiat come una intrapresa privata simile a migliaia di altre, del destino delle quali lo Stato può anche disinteressarsi”. Egli risponde qualche giorno dopo accennando anche alla delusione espressa dalla Fiat direttamente a Balbo per le mancate “ordinazioni” dell’aviazione, che si sarebbe potuta trasformare in ulteriori e “notevolissimi licenziamenti” e conclude amareggiato:“Ritengo giunto momento che azione di governo facciasi sentire su Fiat cui programma e procedere non mi sembrano privi tendenziosità nei riguardi quota novanta che Fiat avrebbe preferito a 110 e più”. (3) De Vita scrive: “anche il figlio del senatore De Vecchi […] nel cortile dell’Università disse che era disposto a fare a pugni se si fosse insistito per l’esclusione dei predetti professori”. (4) Cfr. ACS, Segreteria Particolare del Duce, Carte Riservate (1922-1943), b. 74.

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Luigi Maggioni

Nasce a Venezia il 6 dicembre 1877. Si distingue per il suo interventismo politico. Laureato in giurisprudenza entra nella carriera prefettizia per pubblico concorso il 2 gennaio 1901. Presta servizio dapprima nelle sedi di Treviso e Venezia poi passa all’Amministrazione Centrale con funzioni di Capo del Personale. Nel giugno 1921 riceve la nomina di Prefetto ed è assegnato a Rovigo, quindi dall'ottobre di quell’anno fino all’anno successivo opera come Vice Commissario Generale Civile per le province di Gorizia e Gradisca, con sede in Gorizia. Tornato all’Amministrazione prefettizia dal novembre 1922 al dicembre 1934 dirige successivamente le Prefetture di Zara, Sassari, Imperia, Como, Torino (quest’ultima dal 1° luglio 1928 al 10 agosto 1930) e Firenze. Giunge a Torino in un momento di importanti rivolgimento politici (mentre nel resto d’Italia il processo di normalizzazione del fascismo è in gran parte concluso). Nel settembre 1928, dopo le dimissioni del colonnello Robilant, travolto insieme al cognato e podestà Sambuy dallo scandalo sull’esattoria comunale, appoggia esplicitamente la nomina a commissario straordinario della Federazione fascista del barone di origine siciliana Carlo Emanuele Basile, figlio di un Prefetto del Regno e fervente monarchico(1). Nel frattempo favorisce la trasformazione a Torino del Partito fascista in una “milizia civile”, accentuando “militarismo” e “verticismo” del Pnf e puntando a trasformarlo in una struttura soprattutto “assistenziale” in grado di lenire le conseguenze sociali della crisi economica

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profilatasi con il 1929(2). Interprete della volontà di Mussolini, che preoccupato per la preparazione del Plebiscito in una città difficile come Torino puntava a conquistare soprattutto la classe operaia, si fa mediatore tra l’azione politica e sindacale fascista e la “muraglia cinese” della Fiat. Dopo le decurtazioni salariali imposte dal governo nel maggio e poi nell’ottobre 1927 interviene sul nuovo contratto dei metallurgici firmato a Torino nel marzo 1928 (che peraltro lasciava indefinite molte clausole “locali”), riuscendo a mantenere l’ulteriore riduzione delle paghe operaie nella misura del 5 per cento. Prende misure contro carovita e “urbanesimo”, cioè i rimpatri forzati di immigrati dalle campagne più lontane, ma anche più vicine, senza ottenere risultati efficaci, mentre cresce con grande rapidità il disagio degli operai(3). Nel marzo 1929 inaugura pubblicamente la campagna politica per le elezioni Plebiscitarie (la prima inaugurata dal Prefetto), accompa- gnandola con l’esaltazione insieme di Mussolini e di valori e tradizioni rassicuranti. Dopo aver esaltato “Lui”, cioè Mussolini, come la sola “bandiera” in grado di vincere “l’apatia” e di far uscire “dall’urna con votazione plebisci- taria la lista dei nuovi deputati”, lo paragona ad Emanuele Filiberto, il Re sabaudo che nel XVI secolo scelse la via italiana e che, come il duce per lo stato italiano, ebbe il ruolo di “ricostruttore della Casa Sabauda”, dovendo pertanto ritenersi un “precursore dell’idea fascista dello Stato”. Ritiene che “i piemontesi”, siano la “popolazione” che meglio può comprendere il regime fascista “poiché la politica civile, assistenziale, economica di Emanuele

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Filiberto, la sua politica rurale” avevano “impressionanti punti di contatto con la politica fascista”(4). I risultati del Plebiscito sono favorevoli al fascismo. Nell’estate del 1929 il suicidio di un operaio, causato come scrive la polizia politica il 10 agosto 1929 “dall’inumano trattamento”, genera dei “moti nelle maestranze” che, repressi “con mezzi violenti” portano come conseguenza al “licenziamento” degli 800 operai ribellatisi(5). Riceve poi una commissione di operai della Fiat per un riesame da parte del governo sull’interpretazione di alcune delle clausole più discusse dal contratto dei metallurgici, ma alla fine dell’anno le polemiche si riacutizzano. Lasciata l’Amministrazione dell’Interno nell’agosto 1930 diviene Direttore Generale del Reale Automobile Club d’Italia (F.R.), dall’aprile 1935 all’aprile 1936, quindi nell’agosto di quell’anno è collocato a riposo per ragioni di servizio. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a: Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia, Grand’Uffi- ciale dell’Ordine Mauriziano, Commendatore con placca dell’Ordine Austriaco per meriti.

(1) Cfr. AST, Fondo Prefettura-Gabinetto, bb. 28-34. (2) Nel novembre 1928 Maggioni informa in un telegramma il ministero dell’Interno che il reggente della Federazione “senza insistere su errori [sic] passati gerarchi ne fece rilevare deficienze [sic] esponendo programma futuro e fermandosi specialmente su opere assistenziali” Cfr. AST, Fondo Prefettura-Gabinetto, bb. 28-34. (3) Cfr. ACS,Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, 1929, b. 163. (4) Parole che sembrano confortare l’osservazione di Nolte a proposito del rapporto tra Stato e Partito fascista dopo il 1927: infatti, ha scritto tanti anni fa lo storico tedesco, bisogna tener presente che una parte notevole e sempre crescente dei prefetti era costituita a sua volta da uomini di partito, i quali dunque non rappresentavano certo lo «stato» nel senso tradizionale. Non fu l’“autorità dello 113

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Stato” a essere rafforzata, ma in definitiva la posizione del capo supremo del partito e dello Stato: solo da lui dipendeva che nel futuro prevalesse l’uno piuttosto che l’altro aspetto della sua duplice natura. (5) Informa la polizia: “Nei pubblici ritrovi e nelle osterie, questo fatto viene largamente commentato ed i nemici del regime ne approfittano senza alcun ritegno per dimostrare che il fascismo è contro l’elemento operaio e che si è alleato ai capitalisti per sfruttarli nella maniera più inumana”. (Cfr. ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, 1929, b. 163).

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Umberto Ricci

Avvocato, Prefetto, Senatore, Podestà di Torino, Ministro dell’Interno. Nasce a Capurso (Bari) il 13 novembre 1878, figlio di Francesco e di Maria Santoro.Coniugato con Flora Difnico. Si laurea in giurispru- denza all'Università di Bologna e il 22 febbraio 1900 entra nella carriera amministrativa dell’Interno e inizia a lavorare a Bari, quindi ad Ancona. Dopo una parentesi al Viminale nel 1918è nominato Segretario generale degli Affari civili presso il Comando Supremo e successivamente assume la carica di Capo dell'Ufficio civile a Zara. Lascia la zona dalmata nel luglio del 1921, per far ritorno al Ministero degli Interni, e nell'agosto 1922 con funzioni di ispettore Generale, compie l'inchiesta al Comune di Milano, dopo l'occupazione fascista di Palazzo Marino, quindi torna al Viminale prima in veste di Capo della Divisione della polizia Giudiziaria e poi presso la Direzione della Pubblica Sicurezza. Nel 1924 regge per qualche mese la Prefettura di Pavia e nel marzo ne diviene il titolare. Nel 1925 è Prefetto di Udine. Assunta la tessera del Pnf nel giugno 1926 nel dicembre è nominato Prefetto di Bolzano, dopo la vittoria. E’ Commissario prefettizio del Comune di Torino dall’8 settembre 1928 all’11 febbraio 1929, fronteggiando la difficile situazione venutasi a creare in città dopo le frettolose dimissioni dell’ammiraglio Luigi Balbo Bertone Di Sambuy, quindi dal marzo 1929 è Commissario

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Straordinario per la Provincia di Roma. Dopo un’esperienza trentennale agli Interni diviene Prefetto di Torino, dal 10 agosto 1930 al 10 settembre 1933, in un periodo contrasse- gnato da una massiccia immigrazione dal resto del Piemonte ma anche dal Veneto, dalla Romagna e dalle regioni meridionali. Nel novembre 1930 affronta uno degli episodi di maggior rilievo di quegli anni: una manifestazione di “carattere politico”, di un migliaio di disoccupati, venuti in gran parte da fuori Torino, che si scontra con la polizia dopo un corteo che percorrendo le strade del centro giunge in piazza Castello, chiedendo al governo e al Comune pane e lavoro. E due giorni dopo, il 26 novembre 1930, un’altra di circa 800 operai. Decide insieme alle forze dell’ordine di non esasperare la popolazione, limitando al minimo gli arre- sti e puntando soprattutto sui fogli di via della Questura per costringere alla partenza i disoccupati accorsi in quei giorni dal Piemonte e da tutto il Nord. “Numero disoccupati, – scrive quasi a giustificarsi alla Direzione di Pubblica sicurezza in quello stesso giorno – est notevolmente aumentato in seguito licenziamento questi giorni Società Ansaldo, Lancia et Fabbrica italiana Pianoforti”. La stampa torinese non dà notizia dei tre giorni tumultuosi vissuti dalla città, ma la stampa francese, soprattutto quella marsigliese, nei primi giorni di dicembre ne dà conto insieme alle manifestazioni contemporaneamente avvenute a Milano. Dal 1931 si scontra con il nuovo segretario della Federazione torinese Andrea Gastaldi. Successivamente ricopre le cariche di Direttore Generale dell’Amministrazione Civile, Senatore del Regno dal 1939, Membro della Commissione degli affari interni e della giustizia e della Commissione di finanze e

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quella di Ministro dell’Interno nel primo governo Badoglio, dal 9 agosto 1943 all’11 febbraio 1944, dopo la destituzione di Mussolini. Nei giorni precedenti l’8 settembre del 1943 destituisce una serie di Prefetti troppo legati al vecchio regime. Al termine del suo dicastero, è deferito all’Alta Corte di Giustizia per le Sanzioni contro il Fascismo. Ha ricoperto anche cariche ai vertici di alcune enti legati ai Lavori Pubblici (consigliere di amministrazione nel Consorzio per le opere pubbliche, presidente della Società per il risanamento di Napoli). E’ Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia, Commendatore dell’Ordine Mauriziano, del Reale Ordine di Carlo III di Spagna e ottiene la Medaglia di benemerenza dell’Opera Nazionale Balilla.

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Agostino Iraci

Professore. Nasce a Magliano Sabino (Rieti) il 25 febbraio 1893. Si laurea in giurisprudenza. Partecipa alla Prima guerra mondiale come ufficiale di fanteria. Dopo la guerra entra nel Partito fascista (1920), supera il concorso nell’Amministra- zione dell’Interno, ed è assegnato alla sede di Foligno. Dopo qualche mese rinuncia a quella carriera per assumere prima come vincitore di concorso l’incarico di Vice Segretario della Camera di Commercio di Foligno e poi quello di Rappresentante della Regione Umbria al Comitato Centrale del P.N.F. (1922). Tornato al ministero nel 1926 e promosso riprende il suo lavoro con le funzioni di Prefetto di Campobasso e poi di Udine. L’occasione giusta per la carriera gli giunge nell’aprile 1928, quando il Duce lo chiama a collaborare con il Governo nel ruolo di Capo di Gabinetto del Ministro dell’Interno, dopo Renato Malinverno. Dal 10 settembre 1933 è messo a capo della Prefettura di Torino, dove, come scrive nel maggio 1934, i due “gruppi” di potere, l’uno facente capo a De Vecchi e l’altro ad Agnelli, fanno il bello e il cattivo tempo. E’ dimesso il 14 settembre 1934 per ragioni di servizio. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a: Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, Commendatore dell’Or- dine Mauriziano.

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Cesare Giovara

Prefetto, Senatore, Podestà di Torino. Nasce a Torino il 23 novembre 1878, figlio di Achille e Barberina Ghè. Coniugato con Adelina Rosso. Laureatosi in giurisprudenza, all’Università di Torino, il 2 gennaio 1901 entra per concorso nella carriera politico- amministrativa del Ministero dell’Interno, destinato prima alla Prefettura di Varese, poi a quella di Genova. Durante l'impresa libica si schiera a favore della politica di espansione coloniale di Giovanni Giolitti e nel 1912 inviato in missione a Tripoli ha modo di farsi apprezzare, istituendo il primo Municipio italiano. Divenuto Direttore dei servizi civili e politici è destinato a Derna, fino a quando nel periodo che va dalla pace di Ouchy all’entrata in guerra dell’Italia contro la Turchia nel conflitto mondiale, l’ambasciatore Garroni lo presceglie come suo Segretario a Costantinopoli. Richiamato in Italia tra il giugno 1922 e il settembre 1933 svolge le funzioni di Prefetto a Ferrara, Catanzaro, Piacenza, La Spezia, Livorno, quindi dall'ottobre 1933 al settembre 1934 passa all’Amministrazione centrale, con l’incarico di reggere temporaneamente l’Ufficio Legislativo e di Direttore Generale degli Affari di Culto al Ministero dell’Interno, direzione passata al ministero dopo la conciliazione tra Italia e Santa Sede. Dal 14 settembre 1934 è Prefetto di Torino. Quando il 9 maggio 1936 Benito Mussolini dichiara dal balcone di Piazza Venezia, nello storico discorso radiotrasmesso in tutte le piazze del Paese,

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che conquistata l’Etiopia “l’Italia ha finalmente il suo Impero”, si occupa della partecipazione dei funzionari torinesi all’adunata e della trasmissione dei dati della manifestazione. Resta a capo della Prefettura torinese fino al 1° agosto 1936, successivamente dal 26 giugno 1938 al 24 agosto 1939 è podestà di Torino,dopo il conte Sartirana e prima del conte Ferretti di Castelferretto. Ricopre inoltre numerosi incarichi in enti, istituti e associazioni. E’Vicepresidente della Cassa di Risparmio e Presidente della Camera di Commercio,Senatore dal 1939 e membro della Commissione incaricata dell’educazione nazionale e della cultura popolare e successivamente della Commissione degli affari interni e della giustizia. Nel 1944 è deferito all’Alta Corte di Giustizia per le Sanzioni contro il Fascismo. Muore il 2 settembre 1957. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia e dell’Ordine Mauriziano e la Medaglia d’Oro di Benemerenza dell’Opera Nazionale Balilla e la Medaglia commemorativa della guerra italo- turca.

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Giovanni Oriolo

Prefetto, Senatore. Nasce a Pisciotta (Salerno) il 5 gennaio 1878, figlio di Francesco e Rosa D’Occaso. Coniugato con Maria Manzoni. Laureato in giurisprudenza, entra nella carriera dell’Amministrazione Civile dell’Interno per pubblico concorso il 22 gennaio 1902. Presta servizio presso le sedi di Lagonegro, Castroreale, Taranto, Brindisi, La Spezia e più volte a Firenze, l’ultima in qualità di Viceprefetto con l’incarico di reggere temporaneamente l’Amministrazione Ospitaliera della città “Innocenti”. Dal febbraio 1920 è Commissario Civile a Polla, dal giugno 1922 al marzo 1923 Regio Commissario a Prato e dal gennaio 1926 Presidente della Commissione Reale per la Provincia di Udine. Il 1° dicembre 1927, a 49 anni, è nominato Prefetto e destinato alla sede di Macerata e successivamente dal luglio all’ottobre 1929 a quella di Padova. Messo a disposizione dall’ottobre 1929 al maggio 1930, dall’aprile 1930 è a disposizione del Prefetto di Trento per la gestione provvisoria del Comune di Rovereto. Successivamente opera come Prefetto a Potenza dal maggio 1930 al luglio 1932, ad Ascoli Piceno fino al gennaio 1934, a Verona fino al luglio 1936 e infine a Torino dal 1° agosto 1936 al 1° luglio 1937, dimesso per ragioni di servizio. Nominato Senatore nell’aprile 1939, opera nella Commissione dell’educazione nazionale e della cultura popolare e successivamente in

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quella delle finanze. Muore a Firenze il 22 febbraio 1954. Tra i suoi riconoscimenti ricordiamo quelli a: Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia, Commen- datore dell’Ordine Mauriziano, Diploma di Benemerenza dell’Opera Nazionale Balilla, Seniore della M.V.S.N. dal maggio 1937.

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Pietro Baratono

Prefetto, Sottosegretario, Consigliere di Stato. Democratico e attivo antifascista. Nasce a Frosinone il 25 settembre 1884, figlio di un ufficiale dei carabinieri. Si laurea in giurisprudenza nel 1907 e l’anno seguente entra nell’amministrazione provinciale del Ministero dell’Interno per poi passare nel 1910 a quella centrale. E’ Prefetto a Novara, Firenze e Alto Commissario per la Provincia di Napoli. Dal 1° luglio1937 è Prefetto di Torino. Si scontra con il gerarca fascista Piero Gazzotti, legatissimo al segretario del Partito Nazionale Fascista Achille Starace. Di quest’ultimo denuncia i comportamenti scorretti,difendendo l'autorità prefettizia in un memoriale indirizzato a Benito Mussolini. A sua volta a proposito di Baratono Gazzotti non esita a parlare più volte di autentica “gelosia” del partito nutrita dalla Prefettura e rivelatasi in un crescendo di “atti di ostilità”, iniziati banalmente con inviti mancati e pareri disattesi. Accusato da Gazzotti di essere un “vecchio arnese giolittiano” massone e antifascista, dà subito la “sensazione a tutti gli organismi amministrativi”, come affermava un informatore nel gennaio 1938 qualche mese dopo il suo insediamento, che al Palazzo del Governo si desiderasse che i rapporti già esistenti con il partito venissero se non troncati almeno allentati considerevolmente, in modo che tutti avvertissero il nuovo indirizzo. Gode di un certo appoggio

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da parte del potente sottosegretario all’Interno Buffarini e per prima cosa elimina“forme d’aiuto,anche modeste, deliberate dai podestà a favore dei Fasci”, come somme di denaro oppure concessioni di terreni a Casa littoria, cercando d’improntare al più rigido rigore normativo i rapporti tra partito e Stato. Successivamente vuole imporre amministra- tori a lui graditi tanto al Comune quanto alla Provincia e nel giugno 1938 defenestra il podestà Sartirana, vecchia camicia nera e la sua amministrazione. A conclusione di un breve braccio di ferro, Gazzotti riesce a imporre il suo richiamo a Roma e la sua sostituzione con Carlo Tiengo, Prefetto di provata fede fascista. Espulso dal Partito nel 1938, lascia la Prefettura di Torino il 16 agosto di quell’anno e viene tuttavia di lì a poco nominato Consigliere di Stato: vi rimane fino al settembre 1943, operando nelle sezioni IV e V. Ricopre anche gli incarichi, in seno al Ministero delle Finanze, di membro della Commissione di vigilanza sul debito pubblico (gennaio 1943) e del Collegio arbitrale per la regolazione e la revisione delle commesse belliche. Caduto il regime fascista, dal 26 luglio 1943 al 1° febbraio 1944 è Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri nel primo Governo Badoglio. In tale veste dimostra un chiaro atteggiamento antifascista, aperto alla collabo- razione con i neonati partiti. Sfuggito alla repressione nazifascista in quanto ricercato su sentenza del Tribunale speciale dello Stato, a liberazione avvenuta torna al suo posto nel Consiglio di Stato. Nel 1946 ricopre il ruolo di giudice presso il Tribunale supremo militare e viene incaricato di presiedere la Commissione di epurazione di primo grado presso il Ministero dell'Interno, non senza

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lamentarsi con l’Alto commissario per l’epurazione per i criteri di giudizio troppo morbidi che è chiamata ad adottare. Poliglotta e appassionato di studi umanistici e letterari, scrive anche delle novelle firmandosi con il nome di Pierangelo Baratono. Muore a Roma il 4 dicembre 1947. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a: Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia. Grand’Uffi- ciale dell’Ordine Mauriziano e dell’Ordine Coloniale della Stella d’Italia.

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Carlo Tiengo

Avvocato, Prefetto, Ministro delle Corporazioni. Nasce ad Adria il 1° aprile 1892. E’ Prefetto di Torino durante il periodo delle leggi razziali. Mentre Frequenta l'Università di Padova si lega ad un gruppo di studenti irredentisti con i quali esordisce nella vita politica con il “Battaglione San Giusto”. Combatte nella Prima guerra mondiale. Nel 1921 aderisce ai Fasci di combattimento e dopo la Marcia su Roma diviene Console della milizia. Prefetto dal 1926 opera prima a Sondrio, poi a Piacenza, Gorizia, Trieste,Bologna e dal 16 agosto 1938 al 1° febbraio 1941 a Torino. La nuova e pervasiva invadenza del partito fascista,che aveva provocato il singolare conflitto in materia di prerogative e competenze politico-istituzionali tra il federale Gazzotti e la Prefettura, così complesso e profondo nel caso del Prefetto Baratono, non lo è altrettanto nel suo. All'indomani dell'emanazione delle leggi razziali accetta gli ordini governativi e predispone le operazioni per il compimento del censimento degli ebrei, risospingendoli, schedati e privati di quasi tutti i diritti civili, ai margini della società dai quali erano usciti grazie alla piena emancipazione civile e politica garantita dallo Statuto Albertino nel 1848, poi esteso a tutto il Regno d’Italia. Il 4 gennaio 1939 firma la circolare (n. Gab. 185, oggi conservata presso l’Archivio di Stato di Torino) di applicazione del R.D.L. 17 novembre 1938 n. 1728, recante provvedimenti per la difesa della razza

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italiana, che vieta i matrimoni misti e stabilisce i criteri per la classificazione dei nati da unioni interrazziali(1), per la quale restano tuttavia numerosissime anche nel 1939 le richieste di chiarimenti da parte degli uffici. Il 25 febbraio 1939 firma un’altra circolare, (n. Gab. 365) sempre indirizzata ai Sindaci e Podestà della provincia, relativa al censimento degli Ufficiali di razza ebraica in congedo(2). Nel 1940 riceve una medaglia di bronzo al Valor civile perché: «Durante le Incursioni di aerei nemici sulla città di Torino, che con lancio di bombe causavano danni e vittime, noncurante del pericolo, era presente dovunque: il suo esempio e la sua parola potevano essere di utile incitamento, recando aiuto e conforto ai feriti e alle famiglie dei Caduti; e curando personalmente l'immediata attuazione delle necessarie provvidenze, contribuiva a tenere alto lo spirito della popolazione». Dal febbraio 1941 al febbraio 1943 è Prefetto di Milano. In seguito all’ondata di scioperi che comincia ad estendersi da Torino a Milano e in molte città dell’Italia settentrionale e centrale, Mussolini che è costretto a prendere decisioni gravi lo nomina Ministro delle Corporazioni in sostituzione di Tullio Cianetti e di diritto diviene anche componente del Gran Consiglio. Si dimette per motivi di salute, nell’agosto 1944, dopo un periodo a disposizione del Ministero delle Finanze. Presente, tra gli altri, con il futuro Presidente e il Maresciallo Graziani in Arcivescovado a Milano il mattino del 25 aprile 1945, durante il tentativo finale, favorito dal cardinale Ildefonso Schuster, di condurre alla resa il Duce, è ritrovato morto a Paullo di lì a pochi giorni(3).

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E’ Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia, Grand’Ufficiale dell’Ordine Mauriziano, Croce al merito al P.N.F. dall’aprile 1921, Antemarcia, Squadrista, Brevetto Marcia su Roma, Sciarpa Littorio, Console Generale della M.V.S.N.

(1) Archivio di Stato di Torino, Fondi Prefettura. (2) Archivio di Stato di Torino, Fondi Prefettura. (3) Da uno scritto di Sandro Pertini sulla Resistenza, pubblicato sul sito Fondazione Sandro Pertini):«Il mio colloquio con il Cardinale Schuster fu seguito con attenzione dai miei amici presenti. Peraltro, piccola era la saletta, in cui la riunione si svolgeva. Ma che la mia ferma risposta al cardinale sia stata chiaramente intesa dai presenti è confermato dall'intervista, mai rettificata o smentita, data dall'amico carissimo Achille Marazza nell'aprile del 1962 al giornalista Silvio Bertoldi». Dice Marazza: «Pertini cominciò a parlare vibratamente, sostenendo la tesi che anche se Mussolini si fosse arreso, lo si sarebbe dovuto custodire per due o tre giorni e poi, anziché consegnarlo agli alleati, lo si sarebbe dovuto portare in giudizio. Mentre io e Lombardi combattevamo questa tesi, rivendicando l'impegno preso, Tiengo, che aveva udito ogni cosa, si alzò e scivolò fuori dalla stanza». E che Tiengo, in modo determinante, abbia influito sulla decisione di Mussolini di non arrendersi più lo ha confermato, sempre nel 1962, al giornalista Bertoldi il generale Montagna, che sino all'ultimo restò vicino al capo del fascismo. «L'ex prefetto Tiengo – afferma Montagna, – aveva distintamente udito il socialista Pertini... Tiengo, naturalmente, aveva subito avvertito Mussolini che la sua vita era in pericolo e “ciò spiega tutto il resto”.»

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Francesco Palici di Suni

Marchese. Nasce a Sorrento (Napoli) il 31 luglio 1883. Con decreto del 30 aprile 1941 assume il nome di Palici di Suni al posto di Paliacio di Suni. Dopo essersi laureato in giurisprudenza nel 1908,entra per concorso nella carriera dell'Amministrazione Civile dell'Inter- no, prestando servizio in diverse sedi. Combatte nella Prima guerra mondiale, dove si distingue meritando una Croce al merito. Tornato alla vita civile ricopre, fra gli altri, anche l’incarico di Capo della Divisione Affari Generali e Riservati dell’Amministra- zione Civile a Torino. La nomina a Prefetto giunge il 14 settembre 1934 contemporaneamente all’incarico di dirigere la Prefettura di Grosseto. Due anni dopo è trasferito a Lucca, e successivamente a Ferrara. Dal 1° febbraio 1941 è Prefetto di Torino, che dopo molto tempo è nuovamente guidata da un membro dell’aristocrazia. In applicazione delle leggi anti ebrei che predispone le operazioni per la revisione del censimento degli ebrei. Il 2 novembre 1941, dalla Prefettura parte la Riservata, n. Gab. 20172 (p. Il Prefetto: f.to Marconcini)(1), indirizzata ai podestà e ai commissari prefet- tizi della provincia per la compilazione di un elenco alfabe- tico aggiornato al 10 giugno precedente di tutti gli ebrei residenti in ciascun comune. Gira la ruota della storia e nell’aria comincia a respirarsi qualcosa di nuovo. Il 5 marzo 1943 deve affrontare la protesta degli operai dell’officina 19 dello stabilimento Fiat di Mirafiori che, fermate le macchine,

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danno inizio ad un grande sciopero antifascista. Ma nonostante le repressioni della polizia la protesta non si placa. Il 15 giugno 1943 termina il mandato torinese e riveste per qualche mese le funzioni di Direttore Generale della Sanità Pubblica. Torna, anche se per poco, a capo di una Prefettura, quella di Roma, dal settembre all’ottobre 1943e poi dal giugno all’agosto 1944, dopo essere stato messo a riposo per ragioni di servizio dal governo fascista. Lascia la carriera nel febbraio 1949, a 65 anni di età. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a: Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia e di Commendatore dell’Ordine Mauriziano, e dal maggio 1937 quella di Primo Seniore della M.V.S.N.

(1) Archivio di Stato di Torino, Fondi Prefettura

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Dino Borri

Avvocato. Nasce a Casciana Terme (Pisa) il 21 giugno 1885. E’ l’ultimo Prefetto di Torino nel Governo Mussolini. Convinto interventista, parte volontario nella guerra mondiale. Tornato alla vita civile come Sindaco di Lari, nel 1921 si iscrive al partito fascista. Attivo in politica è prima Commissario straordinario della Federazione Fascista di Cuneo e poi Segretario Federale. Nel luglio 1929 viene chiamato a collaborare con il Governo nel ruolo di Prefetto del Regno e viene destinato a Terni. Regge per un anno quella provincia, poi, per oltre 5 anni, quella di Forlì. Trasferito alla Prefettura di Bari nel luglio 1935, torna successivamente in Nord Italia destinato a Trieste. Il 2 giugno 1941 è messo a capo della Prefettura di Genova e dal 15 giugno 1943 di quella di Torino, in quel periodo di aspre rivendicazioni operaie. Destituito da Badoglio il 1° agosto 1943, da quel momento non riceve più incarichi e nel dicembre 1944 è collocato definitivamente a riposo per ragioni d’ufficio. Tra i riconoscimenti ricevuti: Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine della Corona d’Italia, Grand’Uf- ficiale dell’Ordine Mauriziano, dell’Ordine di San Marino e di S. Carlo (Principato di Monaco), Gran Croce dell’Ordine di Skanderberg, Medaglia d’oro di Benemerenza dell’Opera Nazionale Balilla, Console Generale della M.V.S.N. dal maggio 1937, Squadrista, Sciarpa Littorio, Medaglia della Marcia su Roma.

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Vincenzo Ciotola

Prefetto, Consigliere di Stato. Nasce a Napoli il 30 marzo 1885. Eccellente antifascista, anche dopo l’8 settembre 1943, è l’ultimo Prefetto di Torino del Regno d’Italia e anche il primo di Torino libera. Buon amministratore, è dotato di non comuni capacità, nonché di un sano senso di equilibrio politico. Si laurea in giurisprudenza e nel luglio 1910 entra nella carriera prefettizia, dove si distingue subito per l’ampiezza delle sue vedute. E’ Prefetto a Varese (1934- 1936), Foggia (1936-1937), Latina (1937-1940), Brescia (1940-1943), dove segue i problemi degli operai, dà impulso al sorgere di asili, scuole, case popolari, opere benefiche, nonché all’industria turistica sulle rive del lago di Garda. Nei difficili quarantacinque giorni badogliani, dal 1° agosto al 16 settembre 1943, dirige con mano sicura e imparziale la Prefettura di Torino, acquistandosi la simpatia di tutti. In quei drammatici giorni in cui la città cade in mano nazista, mentre altri abbandonano si batte coraggiosamente, con grave pericolo personale e fino all'ultimo, per organizzare la difesa contro il nemico, fino a quando il 16 settembre 1943, all’ingresso di una colonna di militari tedeschi a Torino, scrive all’Eccellenza, il Ministro dell’Interno - Roma,il rapporto n. Gab. 18909, l’ultimo prima di essere arrestato. Il documento conservato presso l’Archivio di Stato di Torino e divenuto un pezzo della Storia d’Italia, recita(1) “Il 10 corrente alle ore 16,30 una colonna tedesca composta di

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centododici autocarri blindati con mitragliatrici e di cinque carri armati oltre a piccole autovetture è entrata in Torino. Il Comando della difesa italiano aveva ordinato il disarmo. Gli Ufficiali hanno però tutti abbandonato uffici e caserme lasciando abbandonati i materiali che la popolazione ha in minima parte asportato. Nelle condizioni di resa era stato stabilito che dovevano rimanere armati oltre ai Carabinieri, agli agenti di P.S., ai metropolitani e ai vigili urbani anche due squadroni di cavalleria. Questi ultimi, invece, seguendo le sorti delle altre truppe abbandonavano le caserme nonché i cavalli che si persero per la città. La popolazione rimase indignata dello spettacolo di disordine e di paura offerto dalle truppe. Nella sera stessa presi contatto col Comando germanico che mi chiese un proclama che fu subito compilato e firmato dal Podestà. Nei giorni seguenti i rapporti furono regolarmente mantenuti e le richieste furono soddisfatte. Esse finora non sono esorbitanti. Finora la situazione non è grave. Le reazioni della popolazione sono state contenute e non hanno dato luogo che ad esecuzioni isolate. Sono in contatto continuo con il Consolato e con un componente della S/S - Sig. Platre - inviato dal Comando germanico per collegamento. Le requisizioni maggiori sono state eseguite presso la FIAT. In seguito al proclama di Mussolini si nota un senso di panico e di ondeggiamento generale specialmente nei pubblici ufficiali e nell'Arma. Sarebbe necessario che il Governo desse qualche indizio di essere ancora in funzione perchè manchiamo da una settimana di qualsiasi comunicazione e la popolazione è allarmatissima. Rimango al mio posto fino a che i Comandi germanici non mi allontaneranno con la forza”(2).

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Destituito quello stesso giorno dalle Autorità, rimane a Torino pur sapendo di essere stato inserito, unitamente ai suoi familiari, “nella lista degli ostaggi che la Prefettura aveva predisposto”. Con il ritorno delle libertà democratiche riprende il suo posto di responsabilità al servizio della nazione e dopo la decisione di De Gasperi di sostituire gradatamente ai prefetti politici prefetti di carriera, dal 1° marzo 1946 è nuovamente Prefetto di Torino, succedendo a Piero Passoni, il Prefetto della Liberazione. Prefetto di carriera e autorevole funzionario del governo, proprio perché estraneo alle competizioni dei partiti, riesce ad apportare un sensibile contributo alla normalizzazione della provincia, resasi tanto più necessaria con l’approssimarsi del periodo delle lotte elettorali. Alla profonda esperienza professionale accoppia una sensibilità politica, un’aderenza alle mutate situazioni e una comprensione delle nuove esigenze maturatesi in Italia con la caduta del fascismo e con la guerra di liberazione. Esigenze che la rinnovata libertà e il progresso della democrazia rende complesse e da risolversi via via con arditezza e moderazione. A Torino il referendum monarchia-repubblica del due giugno, fissato nella data dell’anniversario della morte di , si svolge senza violenze. Con fermezza realistica e serena affronta i problemi del dopoguerra, fra i quali anche quello della mancanza di farina. Evita allarmismi catastrofici, cercando di ridare un po’ di serenità anche alle madri di famiglia, che da diversi anni ormai vivevano in continua tensione. Dal 27 novembre 1947, per volontà del ministro Scelba, è Prefetto di Milano, in sostituzione dell’avv. Ettore Troilo, ultimo dei Prefetti della Liberazione ancora in carica.

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Difficili gli ultimi giorni di permanenza a Torino, a causa degli scioperi e delle agitazioni in città, così come i suoi primi giorni a Milano. In seguito allo sciopero generale scoppiato in quella città, viene mandato in licenza prima di raggiungere il nuovo posto. L’allontanamento di Troilo provocò infatti accese reazioni con l'occupazione della Prefettura e le dimissioni dei 157 sindaci compreso quello di Milano. La nomina cadeva nel pieno di un fortissimo scontro nel Paese ed in Parlamento tra il governo e l’opposizione socialista e comunista che l’additava come segnale del definitivo superamento dell’esperienza unitaria resistenziale. Il 5 dicembre comunque s’insedia in Prefettura. Dal novembre 1948 riceve le funzioni di Consigliere di Stato e nel gennaio 1949 lascia l’Amministrazione dell’Interno. Tra le sue onorificenze ricordiamo quelle a: Grand’Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia, Commendatore dell’Ordi- ne Mauriziano, Diploma Magistrale dell’Ordine dell’Aquila Germanica, Console della M.V.S.N. .

(1) (Prefettura di Torino, gabinetto di Prefettura, mazzo 34)

(2) Riferisce Piero Pieri che quello stesso giorno due membri del Comitato di Liberazione Nazionale, Piero e Duccio Galimberti, si recano in Prefettura ma trovano l'anticamera del Prefetto già piena di tedeschi. Deviano allora per l'appartamento privato, dove incontrano il Prefetto che dice loro: “Sono di là piantonato. Andate via subito. Portatevi al confine della provincia; non c'e più collegamento tra le varie province e non potranno per il momento esservi addosso”. Con una nobile ripresa di fierezza nell’abbracciare Passoni gli dice: “Sarai il primo Prefetto della Liberazione; quanto a me, per ora mi confineranno”. Così si lasciarono.

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Il Prefetto Ciotola alle elezioni del 2 giugno 1946

“Le foto del Prefetto Ciotola sono pubblicate su concessione dell’Archivio Storico della Città di Torino”, Gazzetta del Popolo Sez. III Ciotola

E’ fatto divieto di riproduzione o duplicazione con qualsiasi mezzo.

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Bibliografia

I Prefetti della Provincia di Torino dell’Italia liberale: ƒ Mario Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia - Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Pubblicazione degli Archivi di Stato, 1989 - tutti i prefetti del Regno, per provincia, 17 marzo 1861 - 2 giugno 1946. Fonti: A.C.S., Ministero dell’Interno, Fascicolo del personale fuori servizio; - tutti i Governi da Cavour a De Gasperi; ƒ Dizionario biografico degli italiani, Roma Istituto per l’Enciclopedia italiana, (Treccani) il pubblicato giunge sino alla lettera Na; ƒ Storia di Torino, Giulio Einaudi Editore, 2001 - Vol. VII “da Capitale politica a capitale industriale”; ƒ Ottavio Lovera di Maria e l'organizzazione della Pubblica sicurezza,“Rassegna storica Risorgimento”, 2002; ƒ Archivio Storico del Senato; ƒ Archivio Storico de La Stampa; ƒ Archivio Storico del Comune di Torino; ƒ Le biografie dei 150 migliori servitori dello Stato sul sito del Ministero per la Pubblica Amministrazione e l'Innovazione; ƒ Alessandro Guiccioli, ”Diario di un conservatore”, Edizioni del Borghese, 1973;

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ƒ Donato D’Urso, “Vittorio Zoppi Prefetto a Torino (1871-1876)”Torino: Centro Studi Piemontesi, 2002; ƒ Le biografie dei Capi della Polizia, sito della Polizia di Stato. I Prefetti della Provincia di Torino dell’Italia fascista: ƒ Mario Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del Regno d’Italia - Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali. Pubblicazione degli Archivi di Stato, 1989 - tutti i prefetti del Regno, per provincia, 17 marzo 1861 - 2 giugno 1946. - Ministero dell’Interno, Fascicolo del personale fuori servizio;tutti i Governi da Cavour a De Gasperi. Fonti: A.C.S.; ƒ A. Cifelli, “I Prefetti del Regno nel ventennio fascista”, Roma, Scuola superiore dell’Amministrazione dell’Interno, 1999; ƒ Dizionario biografico degli italiani, Roma Istituto per l’Enciclopedia italiana (Treccani),il pubblicato giunge sino alla lettera Na; ƒ Archivio di Stato di Torino, Fondi Prefettura; ƒ Storia di Torino, Giulio Einaudi Editore, 1998 - Vol. VIII - “Dalla Grande Guerra alla liberazione”; ƒ Opera omnia: di Benito Mussolini, a cura di Edoardo e Duilio Susmel, Volume 39;

ƒ C, Pianciola, “Piero Gobetti, Biografia per immagini”;

ƒ “Torino” di Valerio Castronovo, Edizioni Laterza 1987.

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Note sull’Autrice

Nives Maria Salvo. – Giornalista, è funzionario all’Ufficio di Gabinetto della Prefettura di Torino, dove si occupa dell’attività di informazione e di supporto al capo dell’Ufficio Stampa. Inoltre, cura e gestisce il sito web istituzionale della Prefettura ed è autrice di una newsletter dedicata alla diffusione interna delle novità normative e giurisprudenziali. Appassionata di libri, pittura, musica, filosofia, teatro e cinema, dal 2009 è anche impegnata nella divulgazione dell’Arte in genere. La sua prima opera editoriale, “I Sogni dell’informatica. Intelligenza Artificiale” (Carta e Penna editore, 2008), è un avvincente saggio di meccanica onirica. Questo suo secondo lavoro, “I Prefetti della provincia di Torino”, ha un’impronta più storica che, sviluppandosi dal 1861, nascita dell’Unità d’Italia, fino al 1943, termine della seconda guerra mondiale, vuole essere un “viaggio biografico” nella vita dei Prefetti di Torino e in quella dell’Istituzione prefettizia. Il libro nasce, infatti, dall’intento di coinvolgere il lettore nel “vissuto” appassionante dell’epoca per guidarlo alla scoperta di un pezzo di Storia del nostro Paese.

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Stampato al Centro Stampa della S.S.A.I. nel mese di ottobre 2013

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