Direttore: Francesco Gui (dir. resp.).

Comitato scientifico: Antonello Biagini, Luigi Cajani, Francesco Dante, Fabio Grassi, Piero S. Graglia, Francesco Gui, Giovanna Motta, Francesca Russo, Pèter Sarkozy , Pietro Themelly . Comitato di redazione: Andrea Carteny, Stefano Lariccia, Daniel Pommier Vincelli, Luca Topi, Giulia Vassallo.

Proprietà: “Sapienza” - Università di Roma.

Sede e luogo di trasmissione: Dipartimento di Storia moderna e contemporanea, P. le Aldo Moro, 5 - 00185 Roma tel. 0649913407 – e - mail: [email protected]

Decreto di approvazione e numero di iscrizione: Tribunale di Roma 388/2006 del 17 ottobre 2006 Codice rivista: E195977 Codice IS SN 1973 - 9443

Indice della rivista gennaio - marzo 2018, n. 46

MONOGRAFIE La genesi del progetto di unione europea di Giorgio Poděbrad e Antoine Marini: il Memorandum ad procedendum magnanime contra Turcum (1462). Renzo Repetti p. 3

The forgotten war in the Transdanubia in 1566. The successful defense of Palota and the recapture of Veszprém and Tata Zoltán Péter Bagi p. 15

La Napoli tardo cinquecentesca agli occhi del residente veneziano Scaramelli Maurizio Strano p. 36

Breve Encomion Olomovcii Metropolis Andrea Trenta p. 65

Autorità paterna e libertà filiale nel teatro di Francesco Albergati Capacelli (1769-1801). Con una scelta di documenti inediti Simone Vitale p. 91

Governo e Parlamento nazionale nella formazione del diritto europeo: un profilo di storia istituzionale Bruno Brienza p. 145

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RECENSIONI AA. VV., Leone X. Finanza, mecenatismo, cultura. Atti del Convegno Internazionale Roma, 1-4 novembre 2015, I-II, Roma nel Rinascimento, Roma 2016 Giovanni Contel p. 172

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La genesi del progetto di unione europea di Giorgio di Poděbrad e Antoine Marini: il Memorandum ad procedendum magnanime contra Turcum (1462). di Renzo Repetti

Nel giugno 1464 giungevano alla corte francese di Luigi XI Albrecht Kotska di Postupice e Antoine Marini, ambasciatori inviati dal re boemo Giorgio Poděbrad con un duplice scopo: rafforzare i gi à buoni legami tra le due corone e convincere il Valois a conv ocare un’assemblea dei principi cristiani che, sottraendosi all’influenza di Papato e Impero, desse vita a un’alleanza antiturca. Il famoso e ambizioso progetto, conosciuto anche come Tractatus pacis toti C hristianitati fiendae , dall’intestazione che al do cumento diede la cancelleria polacca cui era stato inviato da Praga l’anno precedente, era stato predisposto da re Giorgio in collaborazione con Marini e con il giurista umanista tedesco Martin Mair, e già presentato in diverse corti europee, in particolar e Polonia, Ungheria e Venezia 1 . Al di là dell’esito finale della proposta, che fu, com’è noto,

1 Il testo del Tractatus in The Universal Peace Organization of King George of Bohemia. A Fifteenth Century Plan for World Peace. 1462/1464 by Jiři z Poděbrad, translated from the original Latin by Members of the Czechoslovak Academy with a new introduction for the Garland Edition by F.G. Heymann, Garland Publishing Inc., New York - London 1972 (I ed. Publishing House of the Czechoslovak Academy of Sciences, Praga 1964). Il volume contiene il testo nell’originale latino, ricavato dalla collazione di cinque man oscritti conservati in Varsavia, Danzica, Parigi e Klagenfurt e traduzioni moderne in inglese, russo, francese e spagnolo. La trad. francese presente nel volume è stata ripubblicata in J. - P. Faye, L’Europe une, Les philosophes et l’Europe , Gallimard, Paris 1992, pp. 51 - 70. La prima edizione del progetto (in latino) si trova nell’ed. Lenglet du Fresnoy dei Mémoires di Commynes del 1747 ( Mémoires de Messire Philippe de Comines, seigneur d’Argenton [...] Nouvelle édition [...] par Messieurs Godefroy, augmentée par M. l’Abbé Lenglet du Fresnoy , Rollin, Londres - Paris 1747, 4 t., II, pp. 424 - 434: «Traité d’alliance et confédération entre le Roy Louis XI, George Roy de Bohème et la Seigneurie de Venise, pour résister au Turc »). Sulla missione e sul Tractatus ved., tra gli altri, N. Jorga, Un auteur de projets de

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fallimentare per il concorso di molteplici fattori , tra i quali soprattutto le resistenze degli ambienti ecclesiastici d’oltralpe particolarmente restii, al pari d’altronde del Doge e di Mattia Corvino, all’estromissione del Pontefice dall’iniziativa, tuttavia la sua importanza consiste nell’essere il primo progetto di costruzione di una unio europea pensata quale organismo sovrano dotato di carattere internaziona le. Si trattava, almeno in parte, di una più sistematica e ampia elaborazione condotta sulla scorta di un precedente scritto di Antoine Marini, titolato Memorandum/Propositum ad procedendum magnanime contra Turcum risalente al 1462 di cui si dirà. Il Tract atus e il primitivo Memorandum affondano le loro radici nella vivace politica diplomatica attuata da re Giorgio nel periodo immediatamente precedente e nella intensa attività intellettuale e relazionale del francese Antoine Marini , che nella prima fu coinv olto in maniera importante. Giorgio Poděbrad, in ceco e per esteso Jiří z Kunštátu a Poděbrad, era stato incoronato re di Boemia nel maggio 1458, in seguito alla prematura morte di Ladislao d’Asburgo. Nominato governatore della Boemia dieci anni prima, co n l’incarico di preparare l’ascesa al trono del giovane Ladislao (che avvenne nel 1453), il Poděbrad si era gi à distinto per la brillante politica tesa al

croisades, Antoine Marini , in Études d’histoire du Moyen Âge dédiées à Gabriel Monod , Cerf, Paris 1896, pp. 445 - 457; J. Kejř, Manuscrits, éditions et traductions du projet , in Cultus pacis , cit . , pp. 75 - 82; L. Girardi, Recensione a: Giorgio di Poděbrady, Tractatus pacis toti C hristianitati fiendae, 1462 - 1464 , « Phenomenology and mind » , 8, 2015, pp. 278 - 283 anche in versione digitale in www.fupress.net/index.php/pam/ article/download /17754/16564; F. Gui, Intro duzione a F. Gui - D. De Angelis, Boemia e Moravia nel cuore dell’Europa. Storia del popolo ceco fra Medioevo e età moderna , Bulzoni, Roma 2009, pp. 9 - 96, praec . pp. 36 - 38; M. Schusterová, Der Friedensvertrag Georgs von Podiebrad von 1464 vor dem Hintergrund der s pätmittelalterlichen Vertragspraxis , V&R unipress - Universitätsverlag Osnabrück, Göttingen 2016; R. Repetti, L’ambasciata di Antoine Marini presso Luigi XI e il progetto di unione europea (1464) , « Europea » (Aracne ed.), 2018, 1, in corso di stampa (in Appendice la trad. it. del Tractatus ). Della missione è noto anche il diario tenuto dal paggio Jaroslaw: ved. H. Wratislaw (a cura di), Diary of an Embassy from King George of Bohe mia to King Louis XI. of Fran ce, in the year [...] 1464. From a contemporary manuscript, literally translated from the original Slavonic , London 1871 , e la più recente traduzione in francese in Le journal de l’ambassade tchèque en France en 1464 par l’écuyer Jaroslaw , presenté par Mar tin Nejedlý et traduit par Eloïse Adde et Martin Nejedlý, «Annuaire - Bulletin de la Société de l’histoire de France» (2009), pp. 53 - 117 (trad. dall’ed. R. Urbánek (a cura di), Ve službách Jiřika krále. Deníky panoše Jaroslava a Václava Saška z Biřkova , Evro pský literární klub, Praga 1940); M. Nejedlý, Promouvoir une alliance anti - turque, éviter une croisade anti - hussite: un noble tchèque en mission diplomatique. Le témoignage de l’écuyer Jaroslav sur l’ambassade à Louis XI en 1564 , in La noblesse et la crois ade à la fin du Moyen Âge (France, Bourgogne et Bohême), Actes du colloque international tenu à Prague les 26 et 27 octobre 2007 a cura di M. Nejedlý e J. Svátek, FRAMESPA, Université de Toulouse (Coll. “Meridiennes”), Toulouse 2009, pp. 163 - 183. Per una t rad. it. del Diario rimando a una mia prossima pubblicazione.

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rafforzamento del potere centrale e alla lotta contro i particolarismi feudali 2 . Divenuto re, egli seguitò su tali direttrici, anche mediante una faticosa ma indefessa difesa delle peculiarità confessionali della Boemia, dove, com’è noto, fin dal primo decennio del Quattrocento si erano diffuse le idee di Jan Hus (bruciato sul rogo ne l 1415), artefice, sulla scia di Wycliff, di una riforma religiosa e politica insieme, antesignana per molti aspetti, di quella luterana. I C ompactata di Praga, mediante i quali fu raggiunto l’accordo tra gli ussiti moderati e il Concilio di Basilea ma che invero non furono mai pienamente accettati dal pontefice romano, misero fine alle “guerre ussite” e inaugurarono un importante periodo di pacificata convivenza tra cattolici e “utraquisti”, così definiti per la fondamentale rivendicazione ussita dell’euca restia “sub utraque specie”. Giorgio Poděbrad, re del popolo definito “doppio” per tale compresenza delle diversità confessionali, era fiero di quella peculiarità, allorché affermava “il calice è il privilegio del nostro coraggio e della nostra fede” 3 , do ve nel binomio fede - coraggio si rivelava tutto il portato politico e ideale di quell’esperienza. Un’esperienza che rese la Boemia – è bene ricordarlo – la prima regione europea dove si sperimentò una vera e propria prassi di tolleranza religiosa e “si inst aurò un regime di libertà eccezionale, anche rispetto a quello del cuius regio eius et religio , destinato ad affermarsi con la Riforma protestante” 4 . L’ampio progetto politico di re Giorgio si fondava anche sull’insistente pervicacia con la quale il re int endeva mantenersi rigorosamente all’interno della chiesa di Roma conservando la propria specificità, volontà sulla quale tuttavia il Papato non avrebbe potuto a lungo consentire, soprattutto per l’implicita minaccia all’universalismo che essa comportava 5 . I desideri di autonomia si rivolgevano anche ai rapporti interni al Sacro Romano Impero, dove Poděbrad da un lato mirava a una posizione sempre pi ù

2 Cfr. F. Gui - D. De Angelis, op. cit. , pp. 190 - 191. 3 J. Macek, Jiří z Poděbrad , Praga 1967, p. 228, cit. , in Le journal de l’ambassade cit . , p. 56. 4 F. Gui - D. De Angelis, op. cit ., p. 184. 5 Sull’ampio progetto politico e religioso di Poděbrady, v. anche l’importante simposio internazionale organizzato per le celebrazioni del cinquecentenario dall’Accademia cecoslovacca delle Scienze (Praga, 28 - 30 settembre 1964) i cui atti sono pubblicati in Cultus pacis . Études et documents du «symposium pragense cultus pacis 1464 - 1964, Commemoratio pacis generalis ante quingentos annos a Georgio Bohemiae rege propositae », publiés par les soins de V. Vaňěcek, Academia, Éditions de l’Académie tchécoslovaque d es Sciences, Prague 1966; ivi, in particolare: F. Kavka, La Bohème hussite et les projets de paix de Georges de Podiébrad , pp. 13 - 20 ; F. Seibt, Die hussitische Revolution und die europäische Gesellschaft , pp. 21 - 33 ; V. Vaněček, Le projet du roi Georges sous l’aspect de l’histoire du droit , pp. 47 - 56 ; R. Bierzanek, Les nouveaux éléments politiques et sociaux dans le projet du roi Georges de Podiébrad , pp. 57 - 74 ; F. Šmahel, Problèmes rattachés aux recherches sur le projet pacifique du roi Georges , pp. 155 - 165.

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indipendente della Boemia e dall’altro ambiva addirittura alla corona cesarea , oppure a quella dell’impero d’Oriente, qualora gli fosse riuscito giocare un ruolo determinante nella riconquista di Costantinopoli persa dalla Cristianità nel 1453 6 . L’abilità con la quale Pod ěbrad riusc ì a stare a galla per un periodo abbastanza considerevole navigando contro le c orrenti dei tradizionali istituti universalistici e sovranazionali, ancora influenti in quello scorcio di tardo medioevo, gli assegna – come è stato notato – il prestigioso primato di “assertore di una concezione laica dei rapporti fra le potenze” mirante alla “costruzione dello stato nazionale ceco con l’emancipazione dai condizionamenti sovrastanti, tanto nel contesto del Reich tedesco che in quello della repubblica teocentrica regolata dal vicario di Cristo” 7 . Strumento essenziale di siffatta politica no n poteva che essere quello diplomatico e della costruzione di una fitta rete di relazioni, anche parentali, intrattenute con realtà più o meno vicine. Inoltre re Giorgio, intento a evitare il più possibile (o per il tempo più lungo possibile) accuse di ere sia, si circondò di parecchi consiglieri cattolici e stranieri. Va collocato in quest’ultimo contesto il favore con cui Poděbrad accolse nella sua cerchia il francese Antoine Marini, originario di Grenoble in Delfinato. Interessante personalità tipica del l’eclettismo umanistico - rinascimentale, Marini fu insieme ingegnere, inventore, economista, diplomatico, versato nelle arti meccaniche ma altresì in quelle liberali. Dalle scarse notizie biografiche 8 , che meriterebbero probabilmente ulteriori ricerche d’ar chivio, sappiamo che Antoine, figlio di Barthélemy, probabilmente proveniente da famiglia d’origini italiane trasferitasi nel sud della Francia nel XIII secolo, giunse a Venezia nel 1444 , dove almeno fino al 1456 si distinse per alcune originali invenzioni tra cui un nuovo mulino funzionante senza acqua ("molendina sine aqua"), cioè a vento, un sistema migliorato di pulizia dei canali, un nuovo meccanismo di varo di grandi navi, un marchingegno in legno che permetteva alle imbarcazioni il superamento di ost acoli sul Brenta. Fu quindi a Graz, in Stiria, dove ottenne da Federico III alcune concessioni per la costruzione di impianti di

6 Cfr. F. Gui, Introduzione , cit., p. 35. 7 Ivi, p. 36. 8 Il primo tentativo di ricostruzione biografica su Antoine Marini è la tesi di E. Denis, De Antonio Marini et de Bohemiae ratione politica eo oratore thesim proponebat Facultati litterarum Pari siensi [...] , Lugeol, Paris - Angoulême 1878 cui seguì l’informatissimo N. Jorga, op. cit. ; quindi nel monumentale lavoro di R. Urbánek, Věk poděbradský III ; IV , Čechy za kralováni Jiříka z Pod ĕbrad, léta 1460 - 1464 (České d ĕjiny III/3 - 4), Praga 1930 e 1962 . V. anche F. Šmahel, Antoine Marini de Grenoble et son Mémorandum sur la nécessité d’une alliance anti - turque , in La noblesse et la croisade à la fin du Moyen Âge , cit., pp. 205 - 215.

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idraulica, di calcinazione, di fornaci e di produzione di birra , che reiterò pure a Salisburgo e a Vienna. Giunto a Praga verso la fine del 1459 9 , divenne ben presto consigliere di Poděbrad , il quale, apprezzandolo anche per le conoscenze in ambito economico e commerciale, gli affidò incarichi di consulenza e progettazione in tema di corsi monetari, sfruttamento minerario, esazion e fiscale e catasto. Sono ormai perduti i suoi Livres sur le monnayage 10 , che lo stesso Marini però cita in uno scritto redatto nella primavera del 1462 11 . Le proposte che Marini espose nel Conseil au roi sur l’amélioration du commerce en Bohême relativament e alla circolazione della moneta minuta, ispirarono quasi certamente il divieto di circolazione delle monete svalutate che Poděbrad eman ò nel 1459 12 . L’interazione e l’accordo tra il re boemo, che fu a ragione definito “an energetic Renaissance ruler” 13 , e q uesto dotto tecnico “globe - trotter” 14 di Grenoble è dunque paradigmatico del particolare clima favorevole allo scambio e alla circolazione delle nuove idee umanistiche che getta una luce ancor più particolare su quella regione nel cuore dell’Europa. Ben pre sto, per le sue capacità e per l’ottima padronanza delle lingue (francese e latino soprattutto), il re iniziò a impiegarlo in delicate missioni diplomatiche. Nell’estate 1461 Marini venne inviato in missione presso la Curia romana. Scopo ufficiale dell’amb asciata erano le scuse che Poděbrad doveva a Pio II per il ritardo nell’invio dei messi incaricati di giurare l’obbedienza al Pontefice. Un ritardo d’altronde assai calcolato, che si inseriva nella ricercata ambiguità del re boemo nei confronti della Santa Sede; già agli esordi del regno, re Giorgio aveva ottenuto l’appoggio papale alla propria incoronazione con la promessa di ristabilire in Boemia l’ortodossia cattolica 15 , promessa che poteva essere ritenuta rispettata o meno, a seconda dei differenti punti di vista e/o aspettative. In realtà gli scopi non dichiarati della missione erano assai più ampi, complessi e

9 Cfr. F. Šmahel, op. ult. cit ., p. 206. 10 Cfr. P. Vorel, Od pražského groše ke koruně české , Praga 2004, pp. 79 - 82, cit. , in Le journal de l’ambassade tchèque en France cit., p. 58). 11 N. Jorga, op. cit ., p. 448. 12 Ved. F. Šmahel, op. ult . cit ., p. 207. 13 V. Vaněček, The Historical Significance of the Peace Project of King George of Bo h emia and the Research Problems Involved, in The Universal Peace Organization of King George of Bohemia , cit., pp. 11 - 66 (la cit. p. 15). 14 F. Šmahel, op. ult . cit ., p. 205. 15 Sulla vicenda dei rapporti tra Giorgio Poděbrad e la Curia romana v ., tra gli altri, E. O’Brien, The Commentaries of Pope Pius II (1458 - 1464) and the Crisis of the Fifteenth - Century Papacy , University of Toronto Press, Toronto 2015; L. Hertling - A. Bulla, Storia della Chiesa , Città Nuova, Roma 2001 (VI ed. riv. e ampl.) (e d. orig. Berlin 1967), p. 284.

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ambiziosi. In quell’anno il clima all’interno della Dieta imperiale s’era fatto teso: l’arcivescovo di Magonza e gli elettori di Baviera e del Pa latinato erano inclini a eleggere un nuovo re dei Romani, considerata l’apatia che l’imperatore Federico III mostrava nei confronti del problema ottomano , che da tradizionale “problema crociato” s’era ormai trasformato nella grande “paura dei turchi” , dopo il vittorioso assedio di Costantinopoli e il preoccupante dilagare degli “infedeli”, che faceva temere scenari apocalittici di un’invasione dell’Albania e dei Balcani, di una pace separata dell’Ungheria, financo dell’arrivo del Sultano a Roma 16 . Si tratta va di un clima propizio nel quale il re “ussita” poteva presentarsi, anche in qualità del ruolo preminente che la Bolla d’oro del 1356 aveva assegnato all’elettore boemo, come degna alternativa e come guida della nuova crociata. Fatte salve le opposizioni dei sostenitori di Federico (soprattutto l’elettore di Sassonia e quello di Brandeburgo) re Giorgio poteva contare su altrettanto importanti alleati , tra i quali occorre ricordare in primo luogo il re di Polonia Casimiro IV Jagellone, il quale sempre ebbe un atteggiamento di vicinanza al trono boemo , sul quale d’altronde era salito prima di Poděbrad il figlio Ladislao, e il più ambiguo re d’Ungheria, Mattia Corvino , che nel 1463 avrebbe sposato la giovane figlia di Poděbrad, Caterina, morta l’anno dopo. Tut tavia da Roma provenivano segnali sempre più forti di rinnovate offensive papali contro l’utraquismo, tese alla riaffermazione di un’ortodossia che era premessa necessaria al ristabilimento delle prerogative universalistiche; ciò soprattutto dopo che all’i nizio del 1460 (18 gennaio) Pio II aveva promulgato la bolla Execrabilis di condanna degli appelli al concilio e quindi delle dottrine conciliariste, delle quali invece, da cardinale, Enea Silvio Piccolomini era stato sostenitore . L ’atteggiamento papale preludeva con tutta evidenza alla negazione dei Compactata (che erano per l’appunto scaturiti dal Concilio di Basilea) e, al tempo stesso, anticipava quelle più moderne posizioni di affermazione assoluta dell’autorità del Pontefice ch e saranno pienamente realizzate un secolo dopo nella chiesa postridentina. Della cattiva disposizione di papa Piccolomini Marini si rese conto appena giunto a Roma, con la notizia della recentissima scomunica che aveva colpito nuovamente i seguaci di Wycli ff senza distinzione di rango 17 . L’8 agosto 1461 , da Viterbo, dove s’era recato per accompagnare Pio II ai bagni termali, Marini inviò una lettera a Pod ěbrad nella quale spiccano in particolare un paio di consigli: in primo luogo procedere speditamente all ’invio della solenne ambasciata di obbedienza per cercare di mitigare l’avversità

16 Cfr., per es., N. Jorga, op. cit ., p. 448 - 449. 17 Ivi, p. 450.

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papale e indurlo ad affermare la validità dei Compactata , quindi suggeriva a re Giorgio di prendere l’iniziativa di organizzare una crociata, che stava parecchio a cuore pure a Pio II, mediante una triplice alleanza (che doveva rimanere al momento segreta) tra Boemia, Polonia e Ungheria 18 . Stava maturando, nel difficile e perfino ostile contesto romano, l’idea principale del Memorandum/Propositum che sarà la base del Tractatus del 1464. In merito alla prima sollecitazione, già peraltro suggerita a Pod ěbrad dal suo procuratore presso la Santa Sede , Fantino Della Valle , in aprile 19 , re Giorgio predispose l’ambasciata solenne che partì da Praga a metà gennaio 1462. Ne facevano part e i ministri Prokop z Rabštein e Zdeněk Kotska z Postupic , direttore della Zecca reale , con cui Marini era in stretto contatto. Con molta probabilità Marini, rimasto in Italia, si unì all’ambasciata quando essa giunse a Roma (inizio marzo) 20 . Il 16 marzo pr esenziò all’udienza degli ambasciatori francesi , che in nome di Luigi XI promisero di mettere a disposizione del Papa settantamila uomini per la crociata 21 . Rientrato a Praga, non ebbe modo di assistere all’udienza solenne degli ambasciatori boemi nella sec onda metà di marzo, né alla proclamazione, il 31 marzo, della nullità dei Compactata di Basilea, segno tangibile del fallimento completo del tentativo boemo. Rimaneva a re Giorgio la carta diplomatica , nel cui gioco – come si è detto – si era già dimostra to abile , come tra l’altro stanno a testimoniare i diversi arbitrati e intermediazioni cui fu chiamato in quel torno di anni 22 . Nella primavera 1462 gli incontri di Glogów (Glogau o Hlohov) in Slesia tra il re boemo e quello polacco sfociarono nel trattato di alleanza firmato il 27 maggio. Alcune analogie tra il preambolo del Trattato e le tematiche esposte nel Memorandum inducono a ritenere che gli incontri cui partecipò anche Marini possano essere stati al tempo stesso ispirati dalle suggestioni di Marini e fonte per la redazione del documento nella versione più completa.

18 La lettera è pubblicata in Psaní králi Jiřimu z města Viterbie léta 1461 8. srpna od nejmenovaného (Ze starého rukopisu) , “Časopis Společnosti vlasteneckého Museum v Čechách”, 2, 1828, pp. 21 - 24. Ved. F. Šmahel, op. ult. cit ., p. 207 e N. Jorga, op. cit ., p. 456. 19 N. Jorga, op. cit ., p. 450. 20 F. Šmahel, op. ult. cit ., p. 208. 21 Ibid . Dal Memorandum sappiamo trattarsi di quarantamila fanti e trentamila cavalieri (ved. infra ). Sui propositi di crociata enunciati da Luigi XI, spesso come strumento di politica interna ed estera, cfr. R. Repetti, L’ambasciata di Antoine Marini, cit. 22 Si possono citare, solo a titolo esemplificativo per non appesantire troppo, alcuni di questi tra il ’61 e il ‘63: mediazione e arbitrato nel Trattato di accomodamento tra Federico III e Luigi di Baviera e Alberto di Brandeburgo (7 dic. 1461); interposizione nel Trattato tra Federico III e il fratello Alberto d’Austria (2 dic. 1462); mediazione nel Trattato tra Federico III e Luigi di Baviera (22 ago 1463), ecc. (in J. Du Mont, Corps Universel Diplomatique du Droit des Gens contenant un recueil des Trait és d’alliance, de paix, de trève [...] , Amsterdam, Brunel et Wetstein - La Haye, Husson et Levier, 1726, t. III, 1).

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La prima notizia ufficiale dell’esistenza del Memorandum risale alla missione (la cui idea probabilmente nacque a Glogów) che vide Marini a Venezia, plenipotenziario di Poděbrad , dal qual e fu inviato nell’estate del ’62 per sollecitare il favore del Doge al progetto di crociata che avrebbe dovuto scaturire da una lega sottratta all’egemonia del Pontefice. Marini presentò al Senato della Serenissima una “ optimam dispositionem fervensque pro positum domini sui regis ac regis Pollonie ad procedendum magnanime contra Turcum ” che suscitò apprezzamento ma anche l’obiezione che dal papa non si poteva prescindere 23 . Il testo del documento originale è conservato nella Biblioteca di S tato di Monaco e r eca il titolo completo: Memorandum/Propositum Antonii Marini Gracianopolitani ad procedendum magnanime contra Turcum 24 . L’analisi del Memorandum reca con molta probabilità traccia di due distinti momenti della sua redazione: un momento iniziale, che appare fin dall’intestazione, che fa pensare all’origine del progetto (volendo, vero e proprio memorandum ) che Marini inviò a Pod ěbra d , e uno successivo che mostra un disegno (ancora volendo, un propositum ) scaturito dopo le prime fasi di avvio dello stesso. Infatti il Memorandum , nella sua forma più definitiva conosciuta , è indirizzato in primo luogo ai “serenissimi et invictissimi” re di Boemia e di Polonia e, più in generale, a “omnes ceteri principes et barones” a quali Antoine Marini, ancora nel preambolo , propone “istam parvam scripturam” composta “secundum meum sensum parvitatis” 25 .

23 La proposta presentata da Marini ottenne in Senato 128 voti su 129. Il verbale del 9 agosto 1462 riporta: «[Spectabilis miles dominus Anton ius Gallicus, orator] serenissimi domini regis Bohemie, qui ad presentiam nostram venit et sub litteris credentialibus regis eiusdem longo ordine verborum declaravit nobis optimam dispositionem fervensque propositum domini sui regis ac regis Pollonie ad pr ocedendum magnanime contra Turcum, nepharium hostem nomin i s Christiani, commemoravitque ligam et intelligentiam faciendam esse inter hos principes Christianos, viz. regem Franchorum, reges ipsos Bohemie et Pollonie, regem Hungarie, ducem Burgundie, ducem S axonie, et nos dominiumque nostrum, quibus potentatibus unitis procedendum erat ad ruinam et exterminium istius com m unis hostis, sicut facile fieri poterat [...] Commemoramus quoque et laudamus non obstantibus his que idem spectabilis orator dixit nobis qu ia summu s pontifex in hanc intelligentiam intervenire deberet, nam cum sit caput et princeps Christianorum dubitari non debet quod eius auctoritas multum conferet huic rei et erit magni momenti his que agenda erunt» (Venezia, Archivio di Stato, Sen. Secret a , Reg. 21, ff. 101 v - 102 r , cit. in K.M. Setton, The papacy and Levant, 1204 - 1571 , The American Philosophical Society, Philadelphia 1978 [rist. 1997], II, The Fifteenth Century , p. 294 ). 24 Munchen, Bayerische Staatsbibliothek, n° 15606, f. 1 r - 8 v . La prima ed. critica dell’originale latino, qui citata , in F. Šmahel, op. ult. cit ., Annexe, pp. 216 - 231 [= Memorandum ]; già studiato da N. Jorga, op. cit ., pp. 451 - 453 e R. Urbánek, Věk poděbradský III - IV, cit, pp. 584 - 590. 25 Memorandum , p. 216.

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D’altronde Marini cita espressamente il pubblico concistoro del 7 aprile 1462, dove gli ambasciatori di Luigi XI reiterarono la promessa di forze militari per la crociata 26 , e inoltre consiglia a Giorgio e Casimiro di voler rendere pubblico il trattato d’alleanza firmato a Glogów, come si è visto, il 27 maggio 27 . È dunque facile desumere che tale versione del Memorandum sia stata stilata tra giugno e luglio 1462, dopo Glogów e p rima della missione a Venezia , quando fu presentato. L’estensione dell’alleanza all’Ungheria di Mattia Corvino, alla Borgogna di Filippo il Buono e alla Francia di Luigi XI, pure ritenuta necessaria, è ovviamente ancora presentata in forma ipotetica. Il c ontenuto complessivo del Memorandum , soprattutto se considerato in paragone al successivo Tractatus , appare tutto sommato povero. Le parti iniziali sono ampiamente dedicate alle diverse constatazioni del pessimo stato in cui versa una cristianità sofferent e per la minaccia turca, pure fondamentali nel Tractatus ma là descritte in modo molto più snello e dunque incisivo, fatta eccezione per alcuni richiami identici, molto utili comunque per dimostrare il ruolo protagonista avuto da Marini nella redazione di quest’ultimo. Altre ampie porzioni sono dedicate a tematiche che potrebbero essere definite più “morali”, soprattutto per quello che concerne da un lato le critiche (invero già assai tradizionali) mosse alla corruzione e al lusso di principi laici, ecclesi astici e prelati e, dall’altro, i doveri del papa, declinati in ben ventiquattro considerazioni , che costituiscono più della metà dello scritto (il papa deve possedere giustizia, pietà, liberalità, conoscenze enciclopediche e nelle arti liberali, prudenza, ecc.). Proposizioni dalle quali comunque scaturisce con tutta evidenza come al Pontefice venga riservato un ruolo sì assai importante, ma soprattutto per ciò che concerne la vigilanza morale, in ossequio a quelle che erano le forti esigenze di un ritorno allo spirito che già si erano manifestate in molti ambiti del cristianesimo. Un potere spirituale, quello del capo della chiesa di Roma, che doveva mantenersi tale anche quando si trattava di esercitare un controllo morale su sfere apparentemente più mater iali, come ad esempio il controllo sulla pratica militare (“debet dominus noster sanctus considerare, quod armigeri mundi suam artem militariam observare debeant, presertim illas quatuor partes, quas omnes armigeri debent conservare secundum veram artem mi litantem”) 28 oppure il controllo su mercanti e artigiani. Viene ampiamente

26 “Serenis simus Rex Franciae iam promisit ad Dominum nostrum sanctum papam anno D omini M°CCCC° sexagesimo secundo septima die Aprilis in Roma in publico consistorio quomodo Sua Maiestas erat contenta pro defensione fidei quadraginta mille pedestres et triginta mille equestres” ( Memorandum , p. 220). 27 Ibidem . 28 Ivi, p. 223.

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ridimensionato il ruolo dei tradizionali attori sovranazionali: anche all’imperatore, come al papa, spetta un compito, in verità assai generico più che generale, di vegliare sullo sc ambio equilibrato dei beni, mantenendo tramite visite settennali una perfetta conoscenza delle province della cristianità, emendando gli eventuali errori dei principi 29 . Insieme essi devono essere concordi nelle decisioni e ispirati a mede si mi principi e va lori, “ut non ambul e nt tamquam cecus, qui ducit alium et ambo in foveam cadunt” 30 . Sono ancor più interessanti invece altri richiami che dimostrano ancor più la filiazione diretta del Tractatus da questo primo Memorandum . In particolare sono già qui present i alcuni aspetti “tecnici” che saranno alcuni cardini dei ventitré articoli con cui nel Tractatus si disegnerà quello che è stato definito un vero e proprio “progetto di confederazione europea” 31 . Nel Memorandum è già delineata, almeno in nuce , la divisione nelle quattro nationes (Italia, Francia, Germania e Spagna) che costituiscono l’elemento basilare dell’organizzazione della lega tra le potenze cristiane: qui esse (con l’aggiunta di una quinta, la Grecia , che scomparirà successivamente) sono chiamate a e sprimere ciascuna un “capitano d’armi” e un “legato spirituale” 32 e nel Tractatus disporranno ciascuna di un unico voto nella costituenda Assemblea. Così come sono disegnati i meccanismi di finanziamento comune della costituenda crociata, calcolati in giorn ate lavorative, precisi tanto quanto consentiva l’indiscussa esperienza di Marini in campo finanziario e pressoché identici a quelli minuziosi che vennero indicati nel Tractatus . Già si prevede la città dove si terrà l’assemblea preliminare alla costituzio ne della lega: Venezia, che poi diverrà nel Tractatus la più neutrale Basilea. Da ultimo, il ruolo fondamentale, di guida suprema, già assegnato al re di Francia: “ad quod Serenissimus Francorum rex debet dare magnum auxilium et principes christianorum agg regare et consilia nova facere et leges reformare” 33 , nella consapevolezza che egli non si tirerà indietro, conosciute le buone disposizioni del boemo e del polacco: “sciant Maiestates Vestre pro certo, quod quando Serenissimus et christianissimus rex Franc ie intelligere poterit Vestras bonas voluntates, immediate et sine mora conveniet cum maiestatibus Vestris” 34 . Una fiducia, quella riposta in Luigi XI, che nasceva da almeno un paio di ragioni concorrenti: da un lato, ovviamente, la nazionalità di Marini e,

29 Ivi, p. 228. 30 Ivi, p. 229. 31 M. Ricceri, Il cammino dell’idea d’Europa. Appunti e letture , Rubbettino, Soveria Mannelli 2004, p. 29. 32 Memorandum , p. 221. 33 Ivi, p. 222. 34 Ivi, p. 220.

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probabilmente, soprattutto per ciò che si vedrà un paio d’anni dopo in occasione della missione in Francia del 1464, anche una sorta di particolare vicinanza alla corte francese , della quale in qualche periodo il Marini fu agente 35 . D ’altro lato la probabilità dell’ipotesi poggiava su un’analisi abbastanza realistica della situazione internazionale, nella quale era chiaro come Luigi XI perseguisse una politica decisamente tendente al superamento dei particolarismi feudali, all’accentramento politico e alla modernizzazione dello stato, anche mediante un atteggiamento ondivago ma talora molto critico verso Roma. Questa propensione aveva, com’è noto, radici lontane che affondavano fin nella cattività avignonese (1309 - 1377) ed era ben conosciuta anche in Boemia: non a caso Jan Hus nel 1399 aveva consegnato il proprio discorso pronunciato solennemente davanti alla regia corte di Praga all’ambasciatore francese Honoré Bovet 36 . In tal senso le esigenze di Luigi XI potevano apparire – e probabilmente apparirono anche a Marini – in gran parte coincidenti con quelle di Poděbrad. Una forte, decisiva differenza consisteva però nella diversa posizione dei due sovrani: ciò che re Pod ěbrad faceva, anche mosso da un’autentica speranza di una riforma che fosse religiosa e politica, spirituale e civile insieme, precorrendo di qualche decennio le più mature espressioni dell’umanesimo cristiano, era per Luigi XI assai più frutto di una convenienza politica necessitata da scenari che già si muovevano su logiche di ampliamento territoriale e di politica di potenza tra monarchie dell’ O ccidente europeo. Di tutto ciò doveva accorgersi lo stesso Marini, allorché nel vicino 1464 tali logiche prevalsero non solo in Francia: lo stesso Mattia Corvino, slegato ormai dalla parentela mat rimoniale da Poděbrad, trov ò nuove ragioni per riportarsi nell’alveo di difensore dell’ortodossia cattolica e per essere usato nel 1466 contro l’ex suocero; nello stesso anno la scomunica inflitta al re boemo da Paolo II gettò le basi per la controffensiva asburgico - papale non solo contro l’utraquismo ma anche contro le possibilità di costruzione di una più moderna realtà nel cuore d’Europa, iniziando un lento ma inesorabile “processo di soggiogamento dell’indipendenza ceca in chiave romano - imperiale” 37 . Non è dato sapere, allo stato attuale della ricerca, se Marini assistette agli ultimi atti di una sconfitta: dopo il fallimento della missione dell’estate ’64 non tornò in Boemia e di lui si persero le tracce. Ma come spesso accade per le idee ricche della fo rza dell’utopia, quei progetti – di unione, di tolleranza, di fratellanza, di

35 Sono diverse le occasioni nelle quali, almeno dal 1463, Marini è citato come consigliere (membro del Consiglio) o orator del re di Francia. V., per es., Le journal de l’ambassade tchèque en France en 1464 , cit., p. 62. 36 Cfr. Le journal de l’ambassade tch èque en France, cit., p. 76. 37 F. Gui - D. De Angelis, op. c it . , p. 187.

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necessità della pace – poterono trovare secoli dopo una loro almeno parziale realizzazione.

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The forgotten war in the Transdanubia in 1566 The successful defense of Palota and the recapture of Veszprém and Tata2 by Zoltán Péter Bagi

Due to the 450th anniversary, the main events of 1566, the fall of Szigetvár and Gyula are much discussed nowadays. Countless conferences, lectures, books and studies involved the subject country-wide. During this celebrant process, events that are not closely related with the history of Szigetvár and Gyula gain less attention, or are even ignored. Such neglected developments are the events in the northern Transdanubia (north from the Balaton lake), the successfuly defense of Palota and the recapture of Veszprém and Tata. Tevelÿ Arató György has recently written a shorter popular academic paper on the successful Christian campaign, which was published in the Múlt-Kor historical magazine.3 All this prompted me to collect and reassess the available sources on the events, and to create a summary that complements and details our present knowledge.4 On May 1, 1566, the 72-year-old Suleiman launched his seventh and last campaign in the Kingdom of Hungary. Similarly to 1552, the war was fought for Translyvania, though outside Translyvania. The Habsburg court was still intent on claiming the Szapolyai lands under János Zsigmond’s control. To achieve this, the emperor called to the nobility for support at the Augsburg imperial diet in December 1565; according to Miklós Istvánffy, they voted to set up a major force of 40.000 footmen and 8.000 riders, an aid of double Römermonat’s worth. Parallel to the talks in Augsburg, archduke Charles, son of

2 I would like to thank Gábor Szatlóczky for his help and for the transcribed Ákos Csányi letters 3 TEVELŸ ARATÓ 2016. 58-61. 4 For the 450-year anniversary, some articles and a new monograph about Miklós Zrínyi were published in 2016. For example: VARGA 2016.; FODOR-VARGA 2016. 181-202.

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Ferdinand I, was ordered to summon the Hungarian nobles in Pozsony5. Needless to say, the Porte was also aware of the emperor’s intentions. The sultan was unwilling to lose control over Transylvania for any reason, thus at the turn of 1565-1566 he commanded the organization of a new campaign. In addition, quite important position changes took place in Suleiman’s inner circle in 1565. In June, grand vizier Seniz Ali died and the sultan decided that the second-in-command vizier, Sokollu Mehmet would be the successor in the position. The personal changes greatly affected Ottoman Empire’s foreign politics, becoming more rigid and more aggressive than previously. Skirmishes resumed on Croatian borderlands of the Hungarian theatre of war6. It can be stated that the power ambitions of the new grand vizier and the Transylvanian policy led by emperor and Hungarian king Maximillian II converged into a newer Ottoman campaign (which also proved to be the last for Suleiman). As early as January 1, 1566, Albert de Wyss, the Habsburg emperor’s diplomat in Istanbul reported that the Transylvanian emissary was sent back to Gyulafehérvár with the message that János Zsigmond was to prepare for the campaign at early spring. He also gathered that the sultan planned to observe his armies at a military parade at the time of the spring equinox in Drinápoly, practice fasting and then commence with the campaign7. During the following months, Wyss kept sending his reports on the Porte’s preparations, as inferred by archduke Ferdinand’s letter dated February 21, 1566. On the 9th of the same month, the archduke was in Prague when he was informed by Maximillian II about the news sent from Istanbul, according to which the Porte was preparing war on both land and water. The emperor asked his brother for advice on how to act in the situation, as peace negotiations were underway between the Ottoman Empire and the Habsburg Monarchy, with the latter party intending to exclude János Zsigmond from the process8. An active correspondence began between the brothers, as the emperor sent a Latin letter on 23 February and a German one two days later, repeatedly inquiring about advice on preparing for the war. Archduke Ferdinand replied on February 29, informing Wyss that the Court Military Council and the emperor were concerned about attack on three castles: Sziget, Eger and Gyula. They planned to fortify these and to deploy additional troops. In his response the archduke also suggested that in case

5 Abschiedt der Römischen Keyserlichen Maiestatt und gemeiner Stendt auf dem Reichßtage zu Augspurg Anno Domini MDLXVI auffgericht. Mainz 1566.; FORGÁCH 1982. 244-256.; ISTVÁNFFY 2003. 388-389. 6 FORGÁCH 1982. 255-256.; VARGA 2016. 192-199. 7 VARGA 2016. 199-200. 8 Österreichisches Staatsarchiv (ÖStA) Kriegarchiv (KA) Alte Feldakten (AFA) 1566-2-1.; FORGÁCH 1982. 256.; ISTVÁNFFY 2003. 389.; VARGA 2016. 200.

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Miklós Zrínyi or László Kerecsényi resigned from their offices, the emperor should appoint a new, competent person to lead the local troops9. On March 22, Wyss reported that the long council hours at the Porte decided the goal of the campaign. Accordingly, Selim (the future sultan) was to stay in Ankara and keep the Persian shah in check. The beglerbey of Anatolia would march against Sziget with 30 thousand men, while the beglerbey of Temesvár, the bey of Szolnok, the Transylvanian prince and Moldovan voivod were accompanied by two more thousand janissaries from the Porte to march against Gyula. The sultan would remain either in Sofia or in Belgrade, along with the rest of the army10. Not only Vienna received news on the sultan’s campaign. Ákos Csányi, high prefect of the Nádasdy-Kanizsai estates11 had no contact with the diplomat in Istanbul, but based on the news learned from captives, he wrote as early as January 6, 1566 that the sultan was making preparations for a campaign against the Kingdom of Hungary. Via a Turkish prisoner, he was informed about the developments at the Porte and in the Ottoman Empire in advance. His information was confirmed by Ambrus Pálffy, who had been the prisoner of agha Piri. According to this account, “the emperor is indeed arriving in time, but even before that the beglerbey is moving to Sziget, then to send up many troops to king János’s son and to hold the Danube with the main army, but, my lady, if our good Lord wills it so, none of this may turn to aught”12. Just like the court, Csányi was aware of the sultan’s campaign already in early January and kept collecting information during the months that followed. Based on the intelligence from captured Turkish soldiers, lieutenant Ferenc Horvát wrote on April 24 that Suleiman’s ultimate goal was to conquer Vienna, but first he would capture Sziget, Gyula and Eger as well13. However, the Habsburg court and local leaders not only monitored the news, they also began preparations for the war to come. It is a less known fact that the Court Military Council had a complete campaign plan as early as April 1566. István Földvári, one of Zrínyi’s servitors wrote to Ákos Csányi on April 28, 1566 from Alsólendva: “his majesty the emperor wrote to prince Charles from Augusta (today Augsburg, Germany) and ordered to provide rations for two hundred thousand people. According to his majesty’s intentions, the prince

9 ÖStA KA AFA 1566-2-ad1. 10 VARGA 2016. 201. 11 SZATLÓCZKI 2016. 133-138. 12 Magyar Nemzeti Levéltár (MNL) Országos Levéltár (OL) Magyar Kamara Archívuma (MKA) E 185 Nádasdy család levéltára (lt.) Missiles 9. doboz (d.) Numerus (Nr.) 66.; BAGI – SZATLÓCZKI 2016. 13 ÖStA Haus-, Hof- und Staatsarchiv Hungarica Allgemeine Akten Fasc. 92. Konv. A fol. 111r- v.; VARGA 2016. 201.

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shall have a significant army and he himself shall wage war, hurrying from Augusta. His majesty will be at Vienna with his camp, and ordered Ferdinand to move to Nagyszombat (today Trnava, Slovakia) or Sempte (today Šintava, Slovakia), along with his Czech and Moravian troops. He gave orders to duke Charles to be at Potoly (today Ptuj, Slovenia) with his armies from Styria, Korontál (today Carintia) and Kranjola (today Slovenia). The good troops with whom his majesty the emperor shall travel in person shall be led by the duke of Saxona (Saxon prince-elector Ágost) as Obrist Feldhauptmann and count Kinter Schwarzenberg as Feldmarschall”14. It must also be noted that beyond the Court Military Council’s preparations for war, there were ongoing planning and readying on local levels15. While the Christian party was busy making plans, the Ottoman troops on the occupied lands made their move. Having learnt that the commander at Ajnácskő (Hajnáčka, Slovakia today) had left to travel to Eger with a good part of his men, the local Turkish forces equipped ladders and assaulted the castle in the early morning of April 24. The garrison that had been left to guard the stronghold were slain16. After the Ajnácskő raid, pasha Arslan, beglerbey of Buda also decided to act before the sultan’s army arrived; his apparently poor moral standing is described by Istvánffy as follows: “He himself (Arslan) was early to act and (...) as his mind was unhinged and he was intoxicated from having wine spirit and opium every day, his foolhardy counsel was to make his move before Suleiman’s arrival and started the encounters, trusting that this would please his emperor”17.

“The wrath of God is upon Us”18

This was Ferenc Batthyány’s exclamation in his letter dated June 12, 1566 to Orsolya Kanizsai, when the beglerbey of Buda laid siege to Palota. Istvánffy relates pasha Arslan’s preparations as follows: “Thus artillery tools were pulled from the armories in Buda, drawing many wagons and beasts of burden to the towns and villages, carrying iron cannonballs and gunpowder, the Turks

14 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles. 12 d. nr. 1.; BAGI – SZATLÓCZKI 2016. 15 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles. 8 d. nr. 489. 16 ORTELIUS 1665. 104. 17 ISTVÁNFFY 2003. 391. 18 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 4. d. No. 27.

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rationed these not in tons or batches, but hidden in many woolen sacks, all this converging to Székesfehérvár”19. By late May, the preparations on the beglerbey’s side was noted by Csányi as well, reporting about the matter on 29th of the month to Orsolya Kanizsai: “There are not much unheard news to be related to my lady [Orsolya Kanizsai], both the people in Sziget and Babócsa know that the Turks from Pécs and elsewhere march to meet bey Arslan and the Buda pasha is coming here, but I cannot believe there is not something else still behind the movements.20. As the quotation confirms, Csányi was not aware of the precise movement directions of the Ottoman armies, but he did not expect them to come against the southern Transdanubia area. The high prefect had to resort on his intuition and past exeprience to judge the situations, as the news he received did not convey what Istvánffy relates, claiming that Arslan made no secret of Palota (Várpalota) being the campaign’s goal21. Trusting “the Hungarian Livy”, we can assume that the pasha’s intentions were known to the castle’s captain before the siege, as they had called for reinforcements to fortify the defenses22. Palota was surrounded by the beglerbey’s troops by the evening of June 5. Albeit through differing methods, contemporary historiographers provide essentially the same reasons for Arslan’s choice. According to Ferenc Forgách, Palota was attacked because György Thury and his men had defeated a Turkish unit a couple of days before at Székesfehérvár23. Istvánffy wrote about the same incident that the pasha moved against the castle “to take vengeance on Thury and his thugs at Palota”24. All these considered, we can also assume that Palota and its garrison were regarded (though on a much smaller scale) similarly to Sziget and Gyula. All three castles could and did severely disrupt the army movements and supply lines in the occupied land, as they were fortifications from where dangerous raids could lash out. Thus the pasha led his forces against the stronghold commanded by György Thury. To calculate the numbers and power of this army, Hungarian historiographers have relied on Antal Verancsics’s and Istvánffy’s work. The Eger bishop of the time noted down the following: “Pasha Ozlam of Buda took Palotavár by force, with five thousand Turks and countless commoners carrying wood to build siege works, storming with ten cannons”25. The

19 ISTVÁNFFY 2003. 391. 20 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 9. d. No. 74. 21 ISTVÁNFFY 2003. 391. 22 ISTVÁNFFY 2003. 391. 23 FORGÁCH 1982. 257. 24 ISTVÁNFFY 2003. 391. 25 VERANCSICS 1981. 119.; VERESS D. 1983. 94.

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“Hungarian Livy” also discusses the strength of the attacking army. According to him, pasha Arslan’s army had eight or nine thousand Turkish soldiers, beginning the siege with “four old tarack cannons and as many smaller ones, too”26. Though at first glance it could seem that the accounts of the two historians contradict each other, my opinion is that they rather support each other’s validity. The Ottoman army (and the Christian armies of the period, too) was accompanied by a major number of non-combatant people, doubling or tripling the numbers of the whole army camp. As quoted from Verancsics, the various siege works, like the engineering of ditches here, were carried out by the subjugated peasants of the area. This was far from being a unique development, the siege of Sziget also involved herding the peasants not only from the surrounding areas, but from around Eszék as well; these were taken to dig entrenchment ditches or to help building the ramp designed by Ali Portug27. Considering this, it can be assumed that the eight or nine thousand Turks related by Istvánffy could in fact be part actual soldiers and a major part consisting of every kind of non-combatant groups. As to the numbers and artillery capacity of the Ottoman army, there are three contemporary German sources to complement the Hungarian historians’ work. One is the official report from the conclusion of the campaign, in the archives of the Court Military Council. Unlike Verancsics and Istvánffy, its anonymous author cites no numbers of the Buda beglerbey’s troops, only notes down that the pasha led quite few troops into the campaign. Their artillery firepower is handled in a similarly offhand manner, only stating that it consisted of big and small cannons28. Another source is the July 5 report by Leonhard Tielesch, notary in Körmöcbánya (Kremnica in Slovakia), writing that the pasha of Buda came to storm Palota with 8.000 soldiers, seven heavy siege cannons and many other big artillery29. A third and previously never used source is a German-language newsletter combining news on several developments. This relates that Arslan had no more than then thousand men but was expecting further reinforcements30. Two letters from Csányi to Orsolya Kanizsai and dated June 14 also inform about which armies of Arslan’s vilayet he ordered to join them in the campaign. The first document states that the bey of Koppány also joined the beglerbey’s forces31. Still the same day the high prefect wrote to his lady that he had received László Kerecsényi’s man sent

26 ISTVÁNFFY 2003. 392. 27 ISTVÁNFFY 2003. 417. 28 ÖStA KA AFA 1566-13-3. 29 MATUNÁK 1897. 271. 30 Wahrhaffte newe Zeitung…1566. 31 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 9. d. No. 76.

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from Gyula, and this informed them as follows: “the bey of Szekszárd and Mohács went to Palota, first the bey of Fülek was camped at Szolnok then moved this day with all their folks, saying that they took half of the peasants with them, with earthworking tools, four hundred riflemen going to Palota after a “csauz”, that the bey of Mohács and Sekszárd marched through some village Tormás, and the bey of Simontornya left for Pécs to join bey Hamza at his camp in Pécs”32. If Kerecsényi’s man was correct, then pasha Arslan combined all the mobilizable forces in the Buda vilayet to attack Palota, the strength of this army not exceeding ten thousand, however. The question arises: how many men did Thury, lieutenant (or Hauptmann, in German sources) and prefect of Palota command to defend the walls?33 An inventory list made between July 20 and 29 informs about how many soldiers and equipement were in Palota at that time. Organized in different units, 100 Hungarian cavalry, 93 infantry divided into squads, and two artillery operators. The defenses of the stronghold included one large bomb-launching cannon, nine big and small “falconette” cannons, along with 153 small firearms34. However, Thury had more than this small number when the siege came, as he had requested reinforcements from Győr and Pápa. From the first, perimeter captain Eck Graf zu Salm35 sent 100 infantrymen led by lieutenant István Izdenczy. In addition, Enyingi Török Ferenc from Pápa also contributed to the defenders of Palota. This means that altogether 250 cavalry and the same number of footmen were available, according to Istvánffy36. The imperial vice-chancellor Johann Ulrik Zasius von Rabenstein37 wrote in his June 18 letter to Saxon prince Ágost that Palota is defended by 500 men38. Before discussing the siege as described by Istvánffy, Zasius, Forgách and Ortelius, a detour is to be made. When we examine our sources, an interesting contradiction can emerge. Istvánffy, the excerpt military report and Zasius also mention that the captain in Palota sent men to spread word about the garrison’s situation and to request aid and help39. The Hungarian historian also relates that Thury sent his brother Farkas Thury and Ferenc Pálffy40 to take the news to Győr and from then to Vienna41. It could be assumed that the call for aid

32 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 9. d. No. 77. 33 SZATLÓCZKI 2016. 105-132. 34 ÖStA KA AFA 1566-7-5.; VERESS D. 1983. 93. 35 PÁLFFY 1997. 276. 36 ISTVÁNFFY 2003. 391. 37 Allgemeine Deutsche Biographie 1898. 706-708. 38 MARCZALI 1882. IX-X., 72. 39 ÖStA KA AFA 1566-13-3.; ISTVÁNFFY 2003. 391. 40 ISTVÁNFFY 2003. 391. 41 ISTVÁNFFY 2003. 391.

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happened immediately after the start of the siege, but the imperal vice- chancellor’s letter from June 18 disrupts the clear picture. Zasius writes that a brother of György Thury made his way from the castle and related the events between June 6 and 10 in Vienna42. In his work, Csaba D. Veress interpreted Istvánffy’s and the vice-chancellor’s text in such manner that on June 10 the captain sent another brother to call for aid43. This is not entirely impossible, as other member of the Thury family were serving in the castle, for example Márton Thury, who is assumed to be “György’s uncle’s kin”, his cousin44. However, I tend to agree with Rezső Szíj and interpret the texts otherwise, the argument being that only one event happened, not two. Unfortunately, Szíj does not explain in his 1960 book why he judged so, tasking me with the reasoning45. This hypothesis is supportable by indirect and direct means as well. Beginning with the first, Istvánffy only mentions Farkas Thury’s mission; fond of soldiers’ stories and anecdotes, the author would most probably include if another brother of György Thury’s were sent to Győr or Vienna. This indirect evidence alone would not sufficiently support my hypothesis, though. The doubt is dismissed, however, by a protocollum entry among the received documents. Dated June 11, Thury’s report from the siege is registered46. This implies that the Thury brother (Farkas)47 mentioned in Zasius’s letter must have arrived the same day to the imperial city. Independently from the lieutentant-prefect’s call for help, the emperor mobilized the available troops. Maximillian II and the Court Military Council must have been informed about Palota’s siege from Salm, rather than from Thury. The Military Council’s protocollum entry about the Győr captain’s first report of the events was recorded on June 7.48 The same day, the Court Military Council ordered Salm to rescue Palota from the siege.49 Two days later, Thury was sent orders to stand ground50, but any significant mobilization to lift the siege began only on June 10 when Salm received another order to stand ready to march for Palota.51 Also on June 10, Lazarus von Schwendi was ordered to immediately send the cavalries of Georg von Praun and Christoph von

42 MARCZALI 1882. 72., 78. 43 VERESS D. 1983. 94-95. 44 ÖStA KA AFA 1566-7-5.; SZÍJ 1960. 94.; ISTVÁNFFY 2003. 393. 45 SZÍJ 1960. 91-92. 46 ÖStA KA Hofkriegsrat (HKR) Wien Protokoll (Pr.) Expedit (Exp.) Band (B) 145 Fol.: 110r. 47 MARCZALI 1882. 72. 48 ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 109v. 49 ÖStA KA HKR Wien Pr. Registratur (Reg.) Band (B) 146 Fol.: 149v. No. 35. 50 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 150r. No. 43. 51 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 150v. No. 51.

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Schellendorf to help Thury’s men52. Both Istvánffy and the year-closing military report relate that when Maximillian II learned about the predicament from Farkas Thury, he called the county troops and the armies of the borderlands, along with the recently recruited infantries in the Holy , to gather to arms in Győr53. Protocollum entries also verify that the court took these measures. On June 11 and 12, military councellors gave orders to the armies and noblemen of the region to march to lift Palota’s siege54. On June 13, Salm was probably yet unaware of these decisions as he asked the Court Military Council to send the order to county armies and the Hungarian lords alike, to join the operation55. On June 12, the Court Military Council sent orders to Georg von Helffenstein and to Salm to come to aid the besieged castle56. Tielesch’s report from July 5 informs that the expected unit arrived on June 11. The notary from Körmöcbánya also related that following this Helffenstein and Salm were ordered to come to break the siege of Palota57. All this means that immediately after the start of the siege, the relief army to break siege began to be organized in Vienna and Győr. While the emperor, the Court Military Council and Salm were organizing their relief army, the siege continued. The Turks brought up ridges for protection and fiercely barraged the castle walls. Zasius writes in his report that between June 6 and 10, many thousands of cannonballs were shot at Palota, destroying one turret58. Ortelius’s work from 1665 says that the pasha had the walls barraged continously for eight days. With around 1500 missiles launched, the walls were completely leveled59. Forgách also mentions the severe artillery fire60, but Istvánffy gives the most details, relating that the pasha first targeted the so-called Móré-bastion right to the gate, but the formidable defenses stood against the artillery fire. The pasha then relocated the artillery on the hill facing the eastern walls, successfully blasting an opening on them. Incidentally, the falling debris filled the moat as well61. However, Arslan could not launch the attack, as local prisoners (Péter Pap, and a student also called Péter) claimed

52 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 150v. No. 53. 53 ÖStA KA AFA 1566-13-3.; MARCZALI 1882. 72.; ISTVÁNFFY 2003. 391. 54 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 151r. No. 61.; ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 151r. No. 63. 55 ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 111r.; FORGÁCH 1982. 257. 56 ÖStA KA HKR Wien Reg. B 146 Fol.: 151r. No. 65.; MARCZALI 1882. 77-78. 57 MATUNÁK 1897. 271-272. 58 MARCZALI 1882. 72. 59 ORTELIUS 1665. 104. 60 FORGÁCH 1982. 257. 61 ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 115v.

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that the troops would also need to traverse a ten or twelve-foot deep vaulted cellar under the chapel. Thus the pasha continued to have the walls barraged, but the defenders also kept shooting at enemy strongpoints as commanded by Thury. They managed to kill two grenadiers brought from Buda62. The case of Thury’s alleged wound is also worth discussing. Forgách mentions in his work that the captain at Palota “got a frontal (...) wound”63. Ortelius relates even more. He claims that Thury was severely wounded and was also called to surrender by the besiegers, which he declined64. However, Istvánffy does not mention Thury as wounded at all. Apart from the captain’s valorous stand, he merely noted down that Thury himself rode to meet Salm’s troops on June 17. Somewhat later it is mentioned that Thury was unwilling to continue to serve at Palota, where “little fame and fortune” is won, so he resigned from his position and was succeeded by his cousin Márton Thury. Meanwhile György Thury “managed the troops at Győr”, in other words, he became the Feldmarschall over the armies of the Győr perimeter captain65. Lacking more sources to clear the case, it is hard to tell which historian is closer to the truth. Thury himself sent a report about the siege on June 20, probably not randomly omitting if he had to give his blood to defend the castle in his charge, but this document is not extant and was probably lost during the major cleanups of the military archives66. It seems certain that even if he was wounded, it could not possibly be as serious as Ortelius claims, otherwise he would not be able to participate in later battles in the course of June and July. Sources also differ on the discontinuation of the siege. Ortelius relates that on June 14 Helffenstein sent 90 wagons to collect fodder, protected by 900 infantrymen and some cavalry; this was spotted by pasha Arslan’s scouts and resulted in abandoning the siege67. Istvánffy and Verancsics gives other, more reliable information about the affair. They claim that the scout Lufti Deli mistakenly identified the wagons that Salm sent out to improve fortifications (with wood collected from the nearby Bakony forests)68 as the rescue army. In truth, the purpose of these was just to transport wood from Bakony. The 1566 military report and Tielesch’s account inform similarly, therefore Istvánffy probably wrote his version in the knowledge of the above sources and with providing additional stories69. A protocollum entry also shows that Salm wrote

62 ISTVÁNFFY 2003. 392. 63 FORGÁCH 1982. 257. 64 ORTELIUS 1665. 104. 65 SZÍJ 1960. 92., ISTVÁNFFY 2003. 393. 66 ÖStA KA HKR Wien Exp. B 145 Fol.: 113v. 67 ORTELIUS 1665. 104. 68 ISTVÁNFFY 2003. 392-393. 69 ÖStA KA AFA 1566-13-3.; MATUNÁK 1897. 272.

24 Z.P. Bagi, The forgotten war Eurostudium3w gennaio-marzo 2018

on June 14 to the Court Military Council that he gave orders to wagons in order to fortify Győr70. Arslan’s scouts must have mistaken these wagons and the protecting troops to be the relief force, thus the Ottoman army failed and left most of their siege equipment behind71. Thus Salm could write to the Court Military Council on June 17 that Palota was saved from the siege72.

“We have trust and faith in His Deity”73

Arslan could not afford encountering the Christian army led by Salm and Helffenstein, thus retreated to Székesfehérvár74. Tielesch’s July 5 report suggests that this happened in two stages. Seeing the lit signal bonfires, the beglerbey of Buda retreated from Palota, but planned to return and resume the siege the next day. Meanwhile, however, he was informed that the Győr camp had got reinforcements, as Klaus von Hatstatt’s regiment and Schelldorf’s cavalry arrived, so he abandoned the plan. At the same time, Salm intended to acquire the entire artillery of the pasha, so they sent Schellendorf’s cavalry forward, but the attempt failed75. According to Istvánffy and Ortelius, they only managed to obtain two small wheeled cannons and the food and gunpowder that was left behind, which they transported to the castle. Salm arrived with the reinforcements and ordered more men to the garrison and had the collapsed walls restored76. The latter seemed necessary, as Zasius reported on June 25 that “the Turkish might resume Palota’s siege once again. There are frequent skirmishes with the guards”77. However, leaders of the gathered German and Hungarian armies were also planning an attack. According to Istvánffy, there was a debate in the Palota camp about whether the army should march against Veszprém or Tata. The former was only twenty kilometres away, and the stronghold “would not withstand cannonballs with its old and feeble stockades”78. Some among the military council, though, argued for attacking the strategically important crossing point, Tata. It was closer to Komárom and Győr79 and its garrison often

70 ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 111v. 71 VERANCSICS 1981. 119.; FORGÁCH 1982. 258.; ISTVÁNFFY 2003. 393. 72 ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 113v. 73 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 4. d. No. 28. 74 ÖStA KA AFA 1566-13-3.; MATUNÁK 1897. 273.; ISTVÁNFFY 2003. 393. 75 MATUNÁK 1897. 273. 76 ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 115v.; ORTELIUS 1665. 104.; ISTVÁNFFY 2003. 393. 77 MARCZALI 1882. 72. 78 ISTVÁNFFY 2003. 393. 79 KELENIK 1998, 47–48.

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raided the Christian lands80. The German-language newsletter relates that Salm and Helffenstein arrived at Palota and decided in agreement with György Thury that they would march against Veszprém81. Verancsics also mentions the same82. Unfortunately, the year-concluding military report does not mention this event, but the protocollum entries of the Court Military Council and Zasius’s report give additional details. It seems that Salm and Helffenstein had sent their expert opinion as early as June 20, with the subject of how further operations were planned83. It is also possible that that decision was made at the camp in Palota, but it is certain that the operation did not start from Palota and not only Veszprém was its original course. There are three sources that can support this claim. Zasius’s letter from June 25 relates the following: “The Győr camp wants to capture Tata (...) They marched towards Tata”84. It is certain that the imperial vice-chancellor was among the first to know about the planned campaign, which eventually started at the end of June. On the other hand, Tielesch’s report dated July 2 from Vienna implies that the council decided: the Christian army would attack Tata first, then Veszprém and Székesfehérvár85. On June 26, the Court Military Council ordered supply officer Christoph Teuffel86 to supervise the provisions of the army under Tata87. Before examining why the army diverted from its original course, a brief detour is worth, to mention the numbers and characteristics of Salm’s and Helffenstein’s troops. That means the available soldiers of the Győr perimeter forces, Helffenstein’s infantry recruited in the , and Hatstatt infantry and Schellendorf’s 4 or 500 cavalry88, who had joined the army before breaking the siege around Palota. A significant force of Hungarian soldiers also joined the Christian army. The emperor had called the local Hungarian nobles and neighboring provinces to arms89. Forgách lists the armies gathered near Pápa in detail90. The extant correspondence also gives evidence that who could have participated in the

80 FORGÁCH 1982. 258-259.; VERESS D. 1983. 96.; ISTVÁNFFY 2003. 393-394. 81 Wahrhaffte newe Zeitung…1566. 82 VERANCSICS 1981. 120. 83 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 154r. No. 121.; ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 154r. No. 123. 84 MARCZALI 1882. 73. 85 MATUNÁK 1897. 267. 86 KENYERES 2002. 163-202.; KENYERES 2004. 337. 87 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 157r. No. 175. 88 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 153v. No. 110.; ORTELIUS 1665. 104.; MARCZALI 1882. 73.; MATUNÁK 1897. 272-273.; ISTVÁNFFY 2003. 392. 89 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 151r. No. 61.; ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 151r. No. 63. 90 FORGÁCH 1982. 257.

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campaign during late June. Ferenc Török91, János Pethő92, László Gyulaffy93, György Thury94, Kristóf Nádasdy95, János Choron and Bálint Magyar and their men96. The numerical strength of the army at Győr can also be assessed. Istvánffy writes that the army to save Palota counted a total of 14.000 soldiers in mid- June97. In his July 5 letter, Tielesch mentions a somewhat greater army of 15.000 strong, going against pasha Arslan98. A June 28 report mentions “15.000 men marching toward Győr”99. As we have seen, the same army that went to the later campaign had gathered to save Palota, thus arguably its size was similar, around 15.000 men. The attack against Tata did not take place then, as events took a different turn already at the beginning of the campaign. Zasius wrote the following on June 25 to the Saxon prince-elector: “They started towards Tata, but detoured to Fehérvár at once. Their intention is to ambush the Turkish camp”100. It was reported by the vice-chancellor on July 2 and by Tielesch on July 5 that pasha Arslan successfully avoided the battle and retreated his forces to Buda101. Thus no fighting took place again, but the Turkish soldiers captured by Bálint Magyar told that the Veszprém bey rode out for a raid with 300 riders. All narrative sources and the 1566 yearly military report also discusses the event in more or less detail102. The most significant differences are between the most detailed accounts. According to the German newsletter and Tielesch’s report, Bálint Magyar and his light cavalry scouted toward Tata103 when they contacted seven Turkish soldiers. They attacked them, killing two and capturing two

91 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 30. d. No. 2.; MARCZALI 1882. 72.; ISTVÁNFFY 2003. 394. 92 MARCZALI 1882. 72. 93 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 30. d. No. 2.; FORGÁCH 1982. 258.; ISTVÁNFFY 2003. 394. 94 MARCZALI 1882. 73.; ISTVÁNFFY 2003. 394. 95 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 22. d. No. 14.; MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 22. d. No. 15.; MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 22. d. No. 16. 96 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 30. d. No. 2.; Wahrhaffte newe Zeitung…1566.; MATUNÁK 1897. 274. 97 ISTVÁNFFY 2003. 393. 98 MATUNÁK 1897. 273. 99 MARCZALI 1882. 78. 100 MARCZALI 1882. 72. 101 MARCZALI 1882. 73.; MATUNÁK 1897. 273-274. 102 ÖStA KA AFA 1566-13-3.; Wahrhaffte newe Zeitung…1566., ORTELIUS 1665. 104.; VERANCSICS 1981. 120.; FORGÁCH 1982. 258.; ISTVÁNFFY 2003. 394. 103 Wahrhaffte newe Zeitung…1566.

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more, with the rest probably escaping. They headed back to the Christian camp with the two captives, and these related the situation in Veszprém during their interrogation104. However, Istvánffy claims that Ferenc Török sent a raid led by his man Demeter Csokonai, and these brought back a Turkish captive105. After the interrogation, the Hungarians tried to persuade Salm to use the opportunity and attack Veszprém. Zasius related in his July 2 report106 that Thury was especially active and succeeded in persuading the perimeter captain, while Istvánnfy lists Török and Gyulaffy, apart from the ex-lieutenant at Palota, to propose the attack on Veszprém107. Thus the march took a new direction and went to Veszprém through Palota108. Our sources relate basically the same chain of events, with Salm and Helffenstein beginning the siere on June 29 with their Hungarian and German soldiers and capturing it by assualt the next day. Based on Istvánffy’s description, we could assume that the Christian army took Veszprém by raid109. But the greatest difference is in the details on the collapse of the wall section at the siege of Veszprém. The “Hungarian Livy” mentions two times when this happened. The captive and Demeter Csokonai also said that “the walls of the site were so feeble that when he (Demeter Csokonai) and his comrades were targeted upon seeing them under the walls and the smaller cannon was fired, the wall collapsed and crumbled down”110. Then, after the arrival of the besiegers, “other parts of the stockades were weak for their age and was destroyed, together with their grenadiers (…)”111. Istvánffy connects the destruction of the wall section from friendly artillery fire with Csokonai’s raid. The rest of the sources relate that this occurred after the arrival of the Christian armies, though the descriptions differ in the details. Forgách and Verancsics only briefly mention the wall’s collapse. The first was informed that this happened by chance and the same time when the Christian army arrived112. The German-language newsletter provides more details. According to this, Salm and Helffenstein ordered the earthworks and the barraging of the walls on June 29. The defenders reacted by fierce artillery fire which resulted in the walls collapse113. However, Tielesch’s report from July

104 Wahrhaffte newe Zeitung…1566.; MATUNÁK 1897. 274. 105 ISTVÁNFFY 2003. 394. 106 MARCZALI 1882. 73. 107 ISTVÁNFFY 2003. 394. 108 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 22. d. No. 14. 109 ISTVÁNFFY 2003. 394. 110 ISTVÁNFFY 2003. 394. 111 ISTVÁNFFY 2003. 394. 112 VERANCSICS 1981. 120.; FORGÁCH 1982. 258. 113 Wahrhaffte newe Zeitung…1566.

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5 and the Selmecbánya diplomats’ July 14 letter to Körmöcbánya tell a different story. The latter mentions that the count (Salm) rode around the castle to investigate weak points. They shot at him and this caused the wall collapse114. Tielesch gives the following details on the events. Salm was joined by Hans von Rueber and one German cavalry battalion to scout the castle’s weak spots. The defenders attempted to shoot them, but their efforts backfired and a great wall section collapsed. Salm was reported to call out: “Hear! This is God’s will! A sign that the Lord intends to grant us Veszprém!”115. Tielesch and the Selmecbánya letter agree that the Győr perimeter captain had the cannons target the broken wall section, to prevent the defenders from rebuilding it116. In other words, the Christian artillery began shooting only after the collapse of the wall section. We also considered the year-concluding military report as well to ascertain the timeline, but the excerpt only informs that the movement of the great cannon in Veszprém caused the disaster that sealed the defenders’ fate117. The defenders also attempted to disable the besiegers’ cannons by approaching and spiking them. A letter informs that 60 Turks lashed out from the castle at night, but the troops in the siege fortifications repelled them118. The next day was Sunday, June 30, when the Hungarian and German soldiers attended sermon, at 9 o’clock they cried Jesus three times and fired three cannons. Salm and Helffenstein chose five thousand men from the two nations to charge the castle from three directions. The first German unit (four infantry battalions) attacked at the fallen wall section, while the second unit (two battalions) went against the far side of the castle. The Hungarian charged the castle gate. In his work, Forgách gave details on the latter: “The Hungarians brought down the gate with axes, others climbing on ladders; first László Gyulaffy and his men broke in and threw torches on the roofs; soon the Germans also rushed in; incidentally, the stored gunpowder also detonated”119. A day-long combat ensued where every member of the garrison, except for three Hungarians, were slain. The women and childred survived, though, as they were hiding under the vaults of a church120. Istvánnfy also mentions that Hatstatt was given a “tall maiden of much grace” as a gift121. The attackers took heavy casualties as well, having lost two hundred men122. On July 18, Teuffel

114 MATUNÁK 1897. 270. 115 MATUNÁK 1897. 274. 116 MATUNÁK 1897. 270., 274-275. 117 ÖStA KA AFA 1566-13-3. 118 MATUNÁK 1897. 270. 119 FORGÁCH 1982. 258. 120 Wahrhaffte newe Zeitung…1566.; MATUNÁK 1897. 270., 275. 121 ISTVÁNFFY 2003. 394. 122 Wahrhaffte newe Zeitung…1566.

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was ordered by the Court Military Council to organize the provisions for soldiers wounded during Veszprém’s siege123. The Christian troops acquired a great amount of loot (horses, gold, silver and clothes)124. However, both Istvánffy and Forgách relate that the Germans and Hungarias had disputes over the spoils of war. This resulted in serious fights as well125. Salm was responsible for Veszprém’s defense. He ordered Mihány Széchényi there and provided him with his own cavalry and two hundred infantrymen126. However, they found no food and Salm wrote to Orsolya Kanizsai on July 2, asking for flour, wine and cattle127. On July 7, the Court Military Council ordered Teuffel to provide Palota and Veszprém with food128. It seems this was a persistent problem, as Salm and Helffenstein were requesting an organization of supplies as late as July129. The castle and its vicinity had endured so much constant fighting that they were in very poor condition, and the Győr captain had to return to Győr again130. The first entry in the Court Military Council’s protocollum about the recapture of Veszprém in dated July 4131. Three days later, Salm and Helffenstein received a letter of gratitude for lifting the siege of Palota and the recapture of Veszprém132. The armies returned to Győr and commenced to Tata after some rest. The exact start date of the campaign is unknown, but it is certain that it did not conclude by mid-July, as Forgách claims133. On July 18, Rueber was ordered by the Court Military Council to stay with the troops going against Tata134. Gábor Szentgyörgyi, secretary to Orsolya Kanizsai wrote on July 22 from Pozsony that he had no news about the castle yet135. This means the siege must have been ongoing then. The protocollum entries also give evidence that the Christian army was still under the walls on July 23136. On July 26, the Court Military

123 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 167r. No. 129. 124 Wahrhaffte newe Zeitung…1566.; MATUNÁK 1897. 270., 275. 125 FORGÁCH 1982. 258.; ISTVÁNFFY 2003. 394. 126 ISTVÁNFFY 2003. 395. 127 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 30. d. No. 2. 128 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 162v. No. 37. 129 ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 124v.¸ ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 127r.; ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 129r.; ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 131v. 130 ORTELIUS 1665. 104.; MATUNÁK 1897. 270. 131 ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 121v. 132 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 162v. No. 43.; ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 163r. No. 48. 133 FORGÁCH 1982. 259. 134 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 166v. No. 126. 135 MNL MOL MKA E 185 Nádasdy család lt. Missiles 39. d. No. 19. 136 ÖStA KA HKR Wien Pr. Exp. B 145 Fol.: 131v.

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Council replied to Salm’s and Helffenstein’s report about the successful siege137. One day later, Hans Tazgern was sent to fortify Tata’s defenses138. Also on July 27, Salm and Helffenstein were ordered to send the two Turkish captives to Vienna139. The siege must have commenced in the second half of July. We are not only unable to date the recapture of Tata, but our sources give us very little on the detailed events as well. Only Ortelius and Istvánnfy include some brief descriptions in their works. According to these, Salm and Helffenstein demanded the garrison to give up the castle. The answer was no, so the Christian artillery began to break the fortifications, soon blasting an opening that enabled assault. Similarly to the siege of Veszprém, Salm divided the attacking troops into three units. He secretly moved a thousand musketeers in the right-side moat. He sent a force of the same strenght in front of the already collapsed walls. Two thousand men had to charge the castle gate. When Salm gave the signal and they commenced, the whole garrison rushed to defend the collapsed walls. Then the Győr captain also charged the main gate with his men, he broke in and took the central castle. However, the guards did not surrender and in the ensuing fierce battle the besiegeres killed everyone but fifty persons. These had locked themselves up in the inner castle, led by a jannisary agha named Kurt. They had to give themselves up before long, though. Several beys were captured, including pasha Arslan’s cousin, who was sent to Vienna. Salm put “a choice 50 Germans from the army of Gáspár of Thüringia” to defend the castle140. Following the capture of Tata, the Turkish garrisons in the strongholds of the Vértes hills, Vitány (administrative district of Vértessomló) and Gesztes (Várgesztes) abandoned their duties and fled their castles141. Istvánffy writes that Salm ordered men into these structures as well, before returning to Győr142. Ortelius relates the same in his work. He also informs that beside Vitány and Gesztes, Csókakő and Zsámbék were also abandoned. The strongholds themselves were simply burned up. Salm was able to take the vacated castles easily and ordered guards into each143. However, the detailed war report at the end of the year suggests that only Vitány and Gesztes were currently held by the Christians144. The catalogs of the Buda vilayet castles show that the

137 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 171v. No. 202. 138 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 171v. No. 203. 139 ÖStA KA HKR Wien Pr. Reg. B 146 Fol.: 171v. No. 204. 140 ÖStA KA AFA 1566-13-3.; ORTELIUS 1665. 105.; ISTVÁNFFY 2003. 395. 141 ORTELIUS 1665. 105.;ISTVÁNFFY 2003. 395. 142 ISTVÁNFFY 2003. 395. 143 ORTELIUS 1665. 105. 144 ÖStA KA AFA 1566-13-3.

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mentioned castles already had Turkish guards in 1569. Klára Hegyi assumed that Vitány was under Ottoman control only until 1566145. In contrast, the war report relates that Gesztes and Villány was recaptured by the Ottoman armies who were sent to Székesfehérvár still in 1566. In fact, both stronghold hosted only a small garrison. The Turks brought three cannons to attack Gesztes and started the siege. After some days, the defenders had to surrender. The garrison in Vitány did not even meet the attackers and fled, leaving the stronghold behind146. My opinion is that control over the two castles was swapped two times in 1566, while Zsámbék and Csókakő was merely abandoned by the Turkish guards, but Salm did not occupy them. This is how they can be present in the 1569 Turkish catalogs.

Summary

To sum up my paper, I would like to draw attention to two important aspects. 1566 is a tragic year of the Hungarian history, due to Miklós Zrínyi and the heroic defenders of Szigetvár. However, beside the fall of Gyula and Szigetvár, beside the collapse of the perimeter in Somogy, the Hungarian and German armies carried out a significant and quite successful campaign in the Northern Transdanubia before the sultan’s campaign. The successful defense of Palota, pasha Arslan’s defeat and the recapture of Veszprém and Tata are strategically significant achievements. Both castles were wedged into the Hungarian chain of castles, as constant threats to the provinces in the Transdanubia. Losing Szigetvár and Gyula can be regarded as great strategic disadvantage for the Hungarians, but the same can be said about Palota, Veszprém and Tata on the Turkish side. On the other hand, I also employed and revisited old and new sources to present, detail and comment on the events in the northen Transdanubia during June and July of 1566.

145 HEGYI 2007. 585-587., 651., 653-654., 1016-1017. 146 ÖStA KA AFA 1566-13-3.

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La Napoli tardo cinquecentesca agli occhi del residente veneziano Scaramelli di Maurizio Strano

La corrispondenza di Giovan Carlo Scaramelli, residente veneziano a Napoli alla fine del Cinquecento, rappresenta un punto di vista privilegiato sui rapporti tra il dominio spagnolo e la repubblica lagunare. Napoli viveva allora un periodo travagliato sia sul piano interno che su quello diplomatico e tutto ciò non sfuggiva allo Scarammelli, i cui dispacci coprivano estesamente la varietà dei problemi interni al viceregno e le complesse questioni internazionali dibattute a corte. Egli prestava così un prezioso servizio alla Serenissima, che alle soglie del Seicento, persa oramai molta della sua forza economica e militare, veniva ampliando la propria già famosa rete di relazioni internazionali, per mantenere un margine di manovra sulla scena europea e mediterranea. Le missive di Scaramelli si prestano in maniera particolare a una lettura macroregionale, nella scia di Egidio Ivetic, superando la visione campanilistica di una storiografia che volge la propria attenzione “al singolo albero, perdendo di vista la foresta”1. In questa ricerca tengo conto, quindi, oltre a Venezia e Napoli, anche di altri attori come l’Impero Ottomano e la dinastia asburgica, visti non separatamente, ma alla luce della fitta rete di rapporti pluridirezionali che li legavano. A tal fine, inizio fornendo uno sguardo d’insieme che permetta di contestualizzare il momento storico e delineare l’approccio metodologico scelto2.

1 Egidio Ivetic, Adriatico orientale. Atlante storico di un litorale mediterraneo, Centro Ricerche Storiche, Rovigno 2014, p. 13. 2 La ricerca è nata nell'ambito del corso di storia moderna tenuto presso il Dipartimento di Storia, Culture, Religioni della Sapienza Università di Roma dalla professoressa Paola Volpini, che ringrazio sentitamente.

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Venezia e Napoli sulle soglie del Seicento

La corrispondenza letta va dal 16 aprile 1597 al 13 ottobre 1598 ed illumina i rapporti tra il viceregno di Napoli e la repubblica di Venezia, due realtà che non possono e non devono essere affrontate con un approccio campanilistico, regionalistico o anche solo nell'ottica delle vicende della penisola italiana, ma con un respiro deci samente più ampio. La Serenissima, sebbene da pochi anni privata di Cipro, persa nel 1570, possedeva un discreto impero coloniale ed anzi proprio il periodo di relativa tranquillità compreso tra la pace del 1573 e l'inizio della guerra di Candia nel 1644 corrispose ad un settantennio di proficue collaborazioni con gli ottomani. Certamente non mancarono i motivi di tensione, causati dagli attriti lungo gli incerti confini in Dalmazia, dalla pirateria o dagli uscocchi, solo per citare alcuni dei problemi più comuni, ma il tutto era inquadrato in un tacito perimetro di sinergie economiche che vedevano cooperare le due entità che avevano avuto o per secoli, vedi Venezia, o per decenni, come gli ottomani, il monopolio delle vie commerciali con l'estremo oriente, ora sempre più insidiato ed infine sostituito dalle nuove rotte battute dapprima timidamente dalle potenze iberiche, poi sempre più frequentemente dai mercanti olandesi, francesi e inglesi 3 . Questa intesa venne meno a partire dalla guerra di Candia che, secondo lo storico Paci, segnò l'avvio di una incontrovertibile decadenza di entrambe le potenze 4 : sia della Serenissima che dopo un esoso conflitto ventennale perse Creta e non riuscì più a ricollocare i propri mercanti sulle piazze orientali, oramai sost ituiti stabilmente da quelli di Francia e Inghilterra; sia della Sublime Porta in quanto Londra e Parigi, consce della propria ascesa, iniziarono ad attuare politiche economiche molto aggressive che estorsero al sultano, tramite il sistema delle capitolazi oni, una serie di privilegi sempre più ampi, finché il settore commerciale all'intero dell'Impero Ottomano fu in larga misura esercitato da mercanti stranieri 5 . Il viceregno di Napoli, se possibile, si ritrovava in un contesto ancora più interessante, in q uanto sin dal '400 era stato legato più o meno direttamente alla corona di Aragona e quando quest'ultima si era associata a quella di Castiglia, il dominio di Napoli l'aveva seguita, divenendo uno dei molti possedimenti sotto la casata degli Asburgo e prop rio in questa veste lo ritroviamo nel 1597. Le sue sorti erano legate alle fortune del re Cattolico che in quegli anni non furono

3 Paolo Preto, Venezia e i Turchi , Viell a, Roma 2013, p. 40. 4 Ibidem . 5 Paolo Giovanni Donini, Il mondo islamico. Breve storia dal Cinquecento a oggi, Laterza, Bari 2007, pp. 107 - 111.

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propriamente rosee a causa sia della malattia che affliggeva il sovrano quanto delle spossanti guerre con la Francia, la ribelle Olanda e l'Inghilterra. Queste tre nazioni avevano sottoscritto il trattato di Greenwich, infine disatteso, in cui si impegnavano a non accettare una pace separata, dimostrando che accordi ancorché fragili tra uno stato cattolico, seppur con forti minoranze ugonotte e un re convertito dall'eresia, e potenze protestanti, addirittura calviniste nel caso olandese, potevano essere elaborati6 ben prima degli eventi della guerra dei trent'anni, senza considerare le intese più effimere realizzate ancor prima da Francesco I7 e Enrico II8 di Francia con alcuni principati tedeschi. Dai dispacci emerge molto di quanto detto. Lo Scaramelli si informa costantemente della salute del sovrano in quanto è ben conscio che la malattia e la morte del re sono eventi traumatici per il potere sovrano che si percepisce come eterno e vede nella morte del corpo fisico del re sì una parentesi, in attesa del successore in cui incarnarsi9, ma anche un momento di stallo e di debolezza specialmente in politica estera. D'altronde in passato Francesco I si era nuovamente avventurato con successo in Italia nel 1516, approfittando di una congiuntura internazionale positiva che vedeva tra i suoi elementi principali la paralisi dei regni iberici a causa della malattia e poi del decesso di Ferdinando il Cattolico10. Il residente ne parla in nove dispacci; il primo ad affrontare la questione è del 10 giugno 1597 e riporta notizie da lettere provenienti da Madrid e attestanti lo stato di buona salute del re per smentire voci di una sua malattia11, ma nel corso dello scambio epistolario, lo scenario muta e lo Scaramelli avvisa Venezia scrivendo il 25 novembre 1597: «Passando infine alla vita del re […] essa dura per miracolo»12, per comunicare poi alla Serenissima, quasi un anno dopo, il suo decesso, il 13 ottobre 159813. La significativa attenzione per questo tema è strettamente legata a quella per la guerra, al punto che si riporta la notizia di non pochi ministri spagnoli delusi della pace decisa da Filippo II e pronti a sostenere che «l'inferma decrepità del re» ne abbia condizionato le scelte, come si evince dal dispaccio del 16 giugno 159814.

6 Alain Tallon, L'Europa del Cinquecento Stati e relazioni internazionali, Carocci editore, Roma 2013, p. 114. 7. 7 Ivi, p. 61. 8 Ivi, pp. 77-78. 9 Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del Re, Einaudi, Torino 2012, p. 9. 10 A. Tallon, L'Europa..., cit., p. 44. 11 Antonella Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli, dispacci Volume III 27 maggio 1597-2 novembre 1604, Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Roma 1991, p. 44. 12 Ivi, p. 89. 13 Ivi, p. 168. 14 Ivi, p. 136.

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Proprio il conflitto con le potenze antagoniste alla casa degli Asburgo si riflette sui dispacci veneziani anche con un interessante sguardo economico su tale vicenda. Ciò si comprende meglio se si ricorda che Filippo II dovette dichiarare la bancarotta ben quattro volte, nel 1557, 1560, 1575 e nel 1596 15 , un anno prima del carteggio da me analizzato e, proprio per tale motivo, il residente è particolarmente atte nto a quella che è la condizione debitoria delle finanze di tutti i possedimenti del re Cattolico e non solamente di Napoli, come illustra un allegato al dispaccio del 17 giugno del 1597 in cui sono riportati sinteticamente i debiti dell'intera corona 16 , ch e di conseguenza cercò svariati mezzi per sostentarsi. Il residente indica, tra il novembre e il dicembre del 1597, in quattro diversi dispacci a Venezia, altrettante differenti tipologie usate per ottenere denaro da Napoli. La prima consiste nel donativo di 1.300.000 ducati (in realtà erano centomila in meno, come lo Scaramelli scriverà correttamente in un secondo dispaccio 17 ) che la città deve versare ogni due anni alla corona 18 . Si tratta di un impegno molto oneroso che nel lungo periodo soffocò l'economi a del viceregno, divenendo una delle principali cause del suo indebitamento. Se ancora nel 1574 a Napoli il 51% delle spese era di natura strettamente militare e solo il 31% serviva a ripagare il debito pubblico, nel 1627 oltre il 57% delle spese era legat o al rimborso del debito e solo il 27% utile al mantenimento delle forze militari 19 . La seconda modalità era la vendita di cariche pubbliche, che contestualizzata in quel periodo storico era ancora relativamente recente, ma costituiva un significativo passo in avanti, in quanto teoricamente le cariche prima accessibili solo per legami di sangue divenivano disponibili per chiunque fosse in grado di acquisirle economicamente a prescindere dalla famiglia di appartenenza. Lo Scaramelli comunica la vendita da un nobile ad un altro della carica di gran ammiraglio, che il re approverà solo in cambio di un prestito senza interessi per un anno di 200.000 ducati, e la messa all'incanto della carica della Scrivania di razione per 40.000 ducati 20 . Quest'ultimo incarico er a stato modificato e reso più efficiente nel 1571, in un procedere di tentativi e riforme voluti da Filippo II per creare quella che oggi si definirebbe una macchina burocratica 21 . Un altro modo era l'aumento dei dazi, come riportato nel

15 A. Tallon, L'Europa..., cit., pp. 85, 92, 104, 114. 16 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 50. 17 Ivi, p. 166. 18 Ivi , p. 90. 19 Wolfang Reinhard, Storia del potere politico in Europa , il Mulino, Bologna 2001, pp. 368 - 369. 20 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 92. 21 Aurelio Musi, L'impero dei viceré , il Mulino, Bologna 201 3, p. 69.

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dispaccio del 9 dic embre 1597 22 , ed infine si poteva ricorrere ai prestiti. Sorprendente è l'ente che tra il 1597 e il 1598 si propone per concedere un credito alla Corona: l'ospedale dell'Annunziata, il quale è disposto a offrire 40.000 scudi, ma in cambio chiede, oltre la p romessa di rimborso del debito, che Madrid imponga alla Serenissima di versare all'Annunziata 30.000 scudi i quali, secondo l'ospedale, erano dovuti all'ente assistenziale dalla Repubblica 23 . Il residente, dovendo tutelare gli interessi di Venezia, rigettò le pretese dell'Annunziata, ma la discussione durò per molti mesi, al punto che essa affiora in otto dispacci dal dicembre del 1597 a metà agosto 1598, in cui sembra si giunga ad un compromesso in quanto poiché già in passato la Corona e il viceré non avev ano sostenuto le pretese dell'ente, quest'ultimo chiedeva a Venezia solo un documento attestante il valore del grano che l'Annunziata reclamava come sottratto dalla Serenissima per ottenerne il rimborso direttamente dal sovrano spagnolo 24 . Gli esiti della v icenda, a mio avviso tutt'altro che risolti, si collocano al di fuori dell'arco cronologico da me indagato. Ovviamente il viceregno pagò un'altra forma di tributo a Madrid, ossia la leva militare, in quanto nel periodo da me letto furono arruolati almeno 1 0.000 uomini sui 12.000 previsti 25 , una cifra ingente per l'epoca se si pensa che è riferita ad un solo anno di guerra, non considera chi era già arruolato ed indica solo la leva di uno dei molti stati sottoposti al dominio di Filippo II. Ciò è comprensibil e tenendo in considerazione anche il relativo isolamento del sovrano spagnolo che non poteva contare su grandi alleati, ma solo su piccoli stati, la cui utilità era minima e della cui lealtà spesso si dubitava. Ancora una volta ciò è comprovato chiaramente dai dispacci, nei quali lo Scaramelli annota quali fossero le opinioni circolanti a Napoli e, indirettamente, a Madrid sulla casa di Savoia e sul granduca di Toscana. Se i primi, ancora nell'orbita asburgica almeno fino al netto cambio di alleanze sancito dall'alleanza di Rivoli del 1635 tra Luigi XIII e Vittorio Amedeo I di Savoia 26 , chiedevano costantemente aiuti economici che il viceré era restio a concedere 27 , l'opinione su Firenze era decisamente avversa. Dopo una posizione per decenni filoasburgica, il nuovo granduca Ferdinando I aveva cercato di avvicinarsi alla Francia per poter condurre una politica più autonoma, irritando notevolmente il re spagnolo, al punto da

22 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 94. 23 Ivi , pp. 95 - 96. 24 Ivi , p. 147. 25 Ivi , pp. 41 e 88. 26 Daniela Frigo, Politica estera e diplomazia: figure, problemi e apparati in M. Rosa, G. Greco Storia degli antichi stati italiani , Laterza, Roma 1997, p. 148. 27 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., pp. 84 e 87.

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provare un riavvicinamento con Madrid. Tutto ciò si era legato alle vicende, descritte in cinque dispacci, del castello di If arroccato su un’isoletta davanti alle coste della Provenza, il quale era stato amministrato dal granduca, ma con la presenza di una guarnigione francese. Poco prima della metà del 1597 questa venne cacciata da Ferdinando I causando le ire del re cristianissimo, nonostante il rappresentante toscano alla corte di Napoli sostenesse che i rapporti tra Parigi e Firenze fossero rimasti ottimi28. Ovviamente la presenza di un agente toscano a Napoli non deve sorprendere, in quanto fin dal 1539, anno delle nozze tra Cosimo I di Toscana e Eleonora Alvarez de Toledo, figlia del viceré di Napoli, un ambasciatore residente mediceo era sempre presente29. Dai dispacci emerge che, nonostante la flotta del granduca si fosse scontrata con quella del governatore di Provenza, Carlo di Guisa, a Napoli si continuava a diffidare dei Medici e delle loro dichiarazioni di amicizia verso Filippo II30. È interessante osservare la sporadica citazione della famiglia dei Guisa, presentati come un costante e laborioso nemico del granduca in questa fase storica. Carlo, erede di una famiglia molto illustre, ascesa con il suo bisnonno, Claudio, al titolo ducale313 nipote diretto di Francesco e, dunque, figlio di Enrico di Guisa32, entrambe figure celebri ed uccise nelle guerre di religione francesi33, si adopera per ostacolare il potere mediceo. Ciò potrebbe essere dovuto sia al suo ruolo di governatore della Provenza ma anche a un'influenza indiretta di tipo familiare, in quanto suo nonno Francesco aveva sposato Anna d'Este34, appartenente ad una corte, quella di Ferrara, storicamente ostile, o almeno in forte competizione con quella di Firenze per tutto il Cinquecento. In conclusione, spicca l'assenza dell'imperatore, che non sostenne né economicamente né militarmente le imprese del nipote, impegnato in una politica di riconciliazione tra cattolici e protestanti. Ciò non deve far pensare ad un allontanamento dei due rami principali della casa degli Asburgo, che dal 1610 e per tutta la prima metà del '600 ritrovarono una piena armonia nell'affrontare le questioni continentali, in quanto i legami furono costantemente mantenuti da una saggia politica matrimoniale, come dimostrato dagli studi di Paula Sutter Fichter, nei quali si osserva che dei 57 matrimoni

28 Ivi, pp. 43 e 48. 29 Alessandra Contini, Dinastia, patriziato, e politica estera: ambasciatori e segretari medicei nel Cinquecento, in «Cheiron», 1998, n. 30, vol. XV, p. 80. 30 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 61. 31 A. Tallon, L'Europa..., cit., p. 227. 32 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 44. 33 A. Tallon, L'Europa..., cit., pp. 95 e 112. 34 Ivi, p. 227.

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dinastici della casa d'Austria conclusi da metà Quattrocento alla fine del Seicento, il 73% fu con le case di Polonia, Baviera e soprattutto Spagna 35 . Questa breve panoramica storica su Venezia e soprattutto su Napoli, arricchita in quest'ultimo caso anche da una se rie di temi estratti dalla ventina di dispacci già citati, serve a far intendere quanto nessuno di questi due attori sia comprensibile senza quelli che costituiscono il loro naturale palcoscenico: l'Europa e il Mediterraneo. Prima di procedere oltre è impo rtante riflettere su altri due argomenti, talaltro in un rapporto dialettico tra di essi, uno di ordine metodologico e uno biografico.

La formazione dello Scaramelli e l'approccio critico alle fonti

Relazioni e dispacci, specialmente quelli veneziani, hanno goduto di una grande fama e sono certamente utili, a volte indispensabili, ma il modo di interrogare queste fonti è cambiato. Nell'Ottocento un grandissimo storico come il Ranke ha esaltato queste tipologie di documento, spingendo stuoli di epigoni a fare altrettanto 36 , e considerandole di per sé oggettive. Oggi, invece, lungi dal reputare le fonti diplomatiche come un “contenitore” asettico da cui attingere notizie dal passato, si usa sottoporle ad un vaglio critico 37 , che mira a considerare la politic a estera e la diplomazia non come questioni astratte, con la diplomazia intesa solo come uno dei possibili modi di interazione di un potere con altri, ma in relazione alle vicende, alla formazione e ai caratteri di coloro che concretamente scrissero queste fonti 38 , soffermandosi dunque sulla fonte stessa, non solamente per il suo contenuto ma anche come mezzo di comunicazione. In questo pensiero riprendo il professore Aurelio Cernigliaro, secondo cui ogni atto di comunicazione va inteso non solo come “percep ito” nella sua mera valenza informativa, ma anche compreso nel suo significato “notificatorio” 39 che richiede uno sforzo da parte dello storico, impegnato a dover intuire gli intenti di chi scriveva e in che modo fossero interpretati dai destinatari, un cam diametralmente opposto alla oggettività attribuita a relazioni e dispacci dal Ranke.

35 Maria Antonietta Visceglia, Riti di corte e simboli della regalità. I regni d'Europa e del Mediterraneo dal Medioevo all'età moderna , Salerno editrice, Roma 2009, p. 163. 36 Stefano Andretta, L'arte della prudenza. Teor ie e prassi della diplomazia nell'Italia del XVI e XVII secolo , Biblink, Roma 2006, p. 28. 37 Paola Volpini, Ambasciatori, cerimoniali e informazione politica: il sistema diplomatico e le sue fonti , in Maria Pia Paoli (a cura di) Nel laboratorio della stori a , Carocci editore, Roma 2013, p. 241. 38 Daniela Frigo, Introduzione , in « Cheiron » , 1998, n. 30, vol. XV, p. 8. 39 Aurelio Cernigliaro, Significar lo stato, in L. Bartella, G. Galasso (a cura di), Lo stato moderno e le sue rappresentazioni , Aiep, San Marino 2011, p. 28.

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L'analisi della fonte impone anche una breve riflessione sulla sua tipologia. I dispacci, se chiaramente sono diversi da un trattato, lo sono pure da una relazione, che non può essere assolutamente considerata come un dispaccio corposo, né questo come una relazione sintetica. Se infatti quest'ultima ha una maggiore organicità, frutto sia di un pensiero ben ponderato che di una struttura espositiva consolidatasi nel corso dei secoli e presentata a conclusione della missione, il dispaccio veniva inviato regolarmente, in genere almeno uno a settimana, e rifletteva i problemi della quotidianità nonché tutte le informazioni, spesso anche quelle di cui non si era sicuri40, che si era riusciti a raccogliere41, cosicché un tema o un problema che poteva prolungarsi anche per mesi, non poteva essere affrontato in un solo dispaccio, ma ricompariva periodicamente nelle altre missive inviate dall'ambasciatore permanente o dal residente, insieme a varie notizie riguardanti differenti tematiche. Dunque la sfida di questi scritti consiste nel destrutturare e ricostruire le vicende che in essi sono parallelamente affrontate, non senza che certe volte si possano intrecciare, come successo in alcune circostanze che successivamente saranno esposte. Questa premessa è fondamentale per comprendere l'importanza della personalità e della formazione del residente Scaramelli, ma anche delle peculiarità delle Serenissima che nel corso dei secoli approntò una legislazione volta alla produzione e alla conservazione di tale documentazione. Sin dal 1268 la legge aveva obbligato gli ambasciatori di ritorno a riferire al doge e al suo consiglio quanto visto o sentito e nel 1425 impose che ogni diplomatico all'estero dovesse presentare un resoconto sia scritto che orale del suo operato. Nel 1524 si chiese a ogni pubblico ufficiale, anche quelli inviati all'interno dei domini di San Marco, di fare lo stesso, secondo quanto riportato da Maria Pia Pedani42, la quale erroneamente, per inciso, non riporta la tesi oramai conclamata dai più, secondo cui fu Milano ad introdurre l'uso di ambasciate permanenti nel 1458 con Francesco Sforza e il suo inviato Nicodemo Tranchedini da Pontremoli alla corte di Firenze43, bensì Venezia con l'invio di un ambasciatore permanente presso la corte del papa veneziano Eugenio IV nel 143144. Tale opinione è sostenuta anche da Kantorowicz che tuttavia sminuisce la presunta originalità veneziana, sostenendo che i re iniziarono a inviare

40 P. Volpini, Ambasciatori..., cit., p. 247. 41 S. Andretta, L'arte della prudenza..., cit., p. 31. 42 Maria Pia Pedani, Venezia porta d'Oriente, il Mulino, Bologna 2010 p. 78. 43 D. Frigo, Politica estera..., cit., p. 122. 44 M.P. Pedani, Venezia..., cit., p. 77.

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uomini giuridicamente preparati e quasi permanenti alla corte papale sin dai tempi di Gregorio IX (1227-1241)45. Quanto detto riguardo le tre leggi citate valeva per le relazioni, ma poiché queste disposizioni non furono sempre attuate in maniera omogenea il ruolo dei dispacci, che avevano una grande importanza specialmente nei regimi repubblicani, quale Venezia, in cui l'inviato doveva informare costantemente il proprio governo e solo con il passare dei decenni ottenne una libertà di azione più ampia, fu sempre centrale. Effettivamente già Ermolao Barbaro, nipote del celebre Zaccaria Barbaro, ambasciatore a Napoli nel '400, sottolineava, in uno dei primi trattati sulla diplomazia, la tendenza delle repubbliche a considerare il proprio inviato nel senso letterario del termine nuncius, ossia “lettera parlante”46. Da qui la grande differenza tra un ambasciatore al servizio di un principe, legato con ampî margini di azione e a prescindere dalle sue competenze da un rapporto personale di fiducia con il sovrano, dal quale poteva trarre ampi benefici, non ultimo il suo favore, e un diplomatico di una repubblica, nominato da un più impersonale collegio, spesso in base anche al proprio merito, ma dal quale era più difficile aspettarsi gratifiche, tal ché questo lavoro era percepito più come un onere che un onore47, un gradino obbligatorio, frequentemente fastidioso, da dover percorrere per arrivare ad incarichi più prestigiosi: basti pensare che un numero elevato di Procuratori di San Marco e più di metà dei dogi veneti del XVI e XVII secolo avevano svolto in precedenza attività legate alla diplomazia48. Entrando più nello specifico, mi accingo a delineare i punti fondamentali della figura del residente a Napoli e la biografia dello Scaramelli. La Serenissima, infatti, nelle corti minori e non più autonome, quali Napoli e Milano, non inviava un ambasciatore, di rango patrizio, ma un residente, che era solamente un cittadino originario; ciò non di meno il ruolo dei cittadini come residenti e segretari crebbe enormemente nel primo sessantennio del Seicento49. Riprendo la definizione citata dallo storico Andretta: sulle spalle dell'ambasciatore «sono appoggiate una serie pressoché infinita di incombenze di diversa natura, da quelle relative all'informazione e raccolta di notizie, a quelle di natura economica e commerciale, dalla soluzione di vertenze giurisdizionali alla stipulazione di trattati e accordi, dai negoziati alla protezione dei concittadini»50. Similmente, nel 1539 Marino Cavalli, di ritorno

45 E.H. Kantorowicz, I due corpi..., cit., p. 284. 46 D. Frigo, Politica estera..., cit., p. 126. 47 Ibidem. 48 S. Andretta, L'arte della prudenza..., cit., p. 27. 49 Ivi, p. 24. 50 Ivi, p. 17.

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da una missione complessa, dich iarava di essere stato insieme «ambasciatore, camerlengo, secretario, ragionato, mercante di cosa fastidiosissima, corriere[...] sollevatore» 51 . Eppure tutto ciò era la norma ed il medesimo fardello grava anche sui residenti, la cui unica differenza, in der oga alle leggi prima citate, era che non erano obbligati a redigere una relazione scritta a fine mandato. Se a Milano nella prassi essa viene ugualmente redatta, a Napoli è rarissima 52 , cosicché il ruolo dei dispacci cresce enormemente. Possediamo infatti s olo nove relazioni veneziane da Napoli, di cui due redatte da ambasciatori straordinari, Giovanni Lippomano nel 1560 e Alvise Mocenigo nel 1760, e una è stata scritta da una figura terza, Giambattista Leoni, su commissione del residente Alvise Lando 53 , cosi cché solo sei dei residenti a Napoli si sono cimentati direttamente nella stesura di un rapporto di fine mandato. Tra costoro non vi è il nostro Scaramelli, che tuttavia ha supplito con una produzione di dispacci veramente significativa. La prova è ancora una volta nella premessa alle corrispondenze scritta dal professore Marino Berengo, curatore dell'opera, nella quale egli sosteneva che ogni volume custodisse i dispacci di tre o quattro residenti 54 , non così il terzo che, ugualmente corposo come gli altri, contiene i dispacci di due soli residenti, lo Scaramelli e il Vincenti, con il primo autore/coautore o destinatario di ben 493 lettere sulle 751 totali, pari al 66% della corrispondenza lì contenuta. Infine l'ultima peculiarità dell'incarico napoletano co nsisteva nel ricevere una paga inferiore a quella dei colleghi lavoranti a Firenze o anche a Milano, pari a 100 ducati mensili contro i 120 delle altre due sedi 55 . Per quanto concerne Giovan Carlo Scaramelli, egli proveniva da una famiglia benestante, origi naria del veronese, ma coinvolta in una congiura contro gli Scaligeri e costretta nella seconda metà del XIV secolo a fuggire a Venezia. Non divennero mai patrizi, ma vissero sempre in condizioni agiate. Il padre dello Scaramelli, Lunardo, era titolare di una bottega di stoffe pregiate ed era riuscito a far sposare la figlia con un patrizio; la madre, Modesta Scaramanzo, aveva portato in dote la rendita di due appartamenti e di alcune botteghe presso Castello. Il loro unico figlio maschio, nato nel 1550, do po aver frequentato l'Università di Padova, centro di grande cultura in cui si formava parte delle élite dirigenti (non solo veneziane: si pensi a Francesco da Collo) nel 1566 entrò, con il ruolo di notaio straordinario, nella cancelleria, unico tra gli or gani principali ad essere in mano al ceto dei cittadini originari, esclusi dalle

51 D. Frigo, Politica estera..., cit., p. 143 . 52 Marino Berengo, Premessa , in A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 1. 53 Ibidem. 54 Marino Berengo, Premessa , in A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 2. 55 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 8.

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altre cariche più alte della Serenissima, e che conferiva loro un ruolo di primo piano nella macchina amministrativa e diplomatica della Repubblica 56 . Nel 1570 ottenne la deroga per accompagnare il Lippomano nella sua ambasciata straordinaria in Savoia 57 . Da questo momento iniziò per lo Scaramelli un costante alternarsi di incarichi all'estero e in patria, sempre al servizio della Repubblica. Fin dalla prima missione emerse il suo acuto spirito di osservazione, misto alla non indifferente cultura umanistica e ad una certa ambizione letteraria, come si legge dal libello da lui composto, Ricordi , alla vigilia della partenza, in cui, riprendendo il Sansovino, argomentava le diff erenze del mestiere di diplomatico in un principato piuttosto che in una repubblica. Questo dato è molto stimolante in quanto, se combinato ad altre notizie da cui si sa per certo che lo Scaramelli lesse la Politica e la Retorica di Aristotele, Plutarco, C icerone, Boccaccio, Bembo, il Cortigiano di Castiglione e, fatto singolare, Erasmo 58 , ci permette di comprendere che quest'uomo aveva tanto una formazione umanistica, quanto anche le competenze tecniche derivate dal far parte della cancelleria e successivam ente dall'esperienza. Nel 1573 e nel 1575 lo Scaramelli partiva per altre due missioni, sempre come segretario al seguito dell'ambasciatore Lippomano, la prima volta in Polonia, la seconda per un'ambasciata straordinaria a Napoli. Tra il 1577 e il 1580 seg uì il generale a Candia Luca Michiel e nel 1585 divenne notaio ordinario. Nel frattempo, negli anni '80, si sposò con Isabetta Bellisanti ed ebbe numerosi figli. Nel 1590 partì con il Lippomano per Costantinopoli, ma quest'ultimo fu accusato di essere stato corrotto mentre esercitava la sua carica di bailo e, richiamato in patria, si gettò dalla nave, gesto che lo condusse alla morte pochi giorni dopo 59 . La carriera dello Scaramelli non ne risentì e dopo aver ricevuto la custodia delle lettere del Collegio nel 1595, due anni dopo venne scelto come residente per la corte del viceregno di Napoli dove rimase ben oltre i tre anni previsti, fino al 1601, in quanto i due uomini chiamati a succedergli, Pietro Pellegrini e Pietro Darduin, si sottrassero all'incarico, e il terzo, il Vincenti, temporeggiò per quasi due anni 60 . Infatti, nonostante le leggi proibissero e sanzionassero questi rifiuti 61 , non è raro rinvenire casi nella storia veneziana di persone disposte anche a pagare multe salate, pur di evit are un incarico che era percepito da molti, nella migliore delle ipotesi, come un

56 D. Frigo, Politica estera..., cit., p. 138. 57 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 23. 58 Ivi , pp. 23 - 24. 59 Ibidem. 60 Ivi , p. 30. 61 S. Andretta, L'arte della prudenza..., cit., p. 26.

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impedimento a proseguire i propri affari privati 62 , non solamente in luoghi relativamente più tranquilli come le sedi italiane, ma anche e soprattutto in quelle orientali: nel 1516 quattro senatori rifiutarono di recarsi come ambasciatori straordinari per un periodo di tempo limitato alla corte itinerante del bellicoso Selim I, e tra il 1705 e il 1706 servirono quindici elezioni rifiutate perché il sedicesimo si recasse come ba ilo a Costantinopoli 63 . Lo Scaramelli, prima di giungere a Napoli, cercò di implementare le proprie conoscenze su questo regno e lo fece tanto leggendo i dispacci del suo pre d e c essore, Girolamo Ramusio, uno dei pochi ad aver talaltro redatto a fine mandato una relazione, quanto consultando le Descrizioni del Regno e della città di Di Falco e Mazzella 64 . Inoltre, una volta giunto a destinazione, invitò costantemente letterati e intellettuali nel palazzo dove risiedeva, un'antica costruzione, donata da re Ladis lao di Durazzo nel 1412 a Venezia per ospitare i suoi ambasciatori straordinari, che dagli anni '70 del Cinquecento era la dimora fissa dei residenti. Strinse un legame di forte amicizia con Tommaso Costo, uno di lettere, che gli dedicò anche un'opera, Seg retario 65 , ma, andando oltre questo aspetto più frivolo, tale rapporto probabilmente fu utile allo Scaramelli, in quanto il Costo era stato uno dei primi ad aver scritto e ragionato sulle cause dei sommovimenti popolari a Napoli del 1585 dovuti alla carenza di grano nella città 66 (un accenno su tale evento si trova anche nel terzo libro della Ragion di Stato di Giovanni Botero 67 ). Dieci anni dopo era ancora percepibile la paura, tanto nel popolo quanto in chi governava, che questo evento potesse ripetersi: non a caso il problema del rifornimento dei grandi della capitale del viceregno è una delle tematiche più complesse presente nei dispacci. Un altro illustre frequentatore del palazzo veneziano era il rappresentante della Toscana, Alessandro Turamini, il quale era solito sostenere che lo Scaramelli fosse particolarmente apprezzato per i suoi modi, nonostante le ovvie divergenze, alla corte di Napoli 68 . Su questo aspetto si inserisce la trattatistica che aveva elaborato due posizioni diametralmente opposte: da un lato il Guicciardini che ammoniva gli ambasciatori dall'essere troppo apprezzati nella corte ospitante perché si rischiava di iniziare a servire gli interess i della nuova corte piuttosto che del proprio stato, dall'altro Bernardo Dovizi da Bibbiena, che s osteneva che

62 D. Frigo, Corte, onore e ragion di stato: il ruolo dell'ambasciatore in età moderna , in « Cheiron» , 1998, n. 30, vol. XV, p. 26. 63 M.P. Pedani, Venezia..., cit., p. 81. 64 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 16. 65 Ivi , p. 26. 66 Ivi , p. 19. 67 Giovanni Botero, La Ragion di Stato, a cura di Chiara Continisio, Donzelli editore, Roma, 2009, p. 67. 68 Ibidem .

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l'essere amati o apprezzati non poteva che essere utile per poter meglio raggiungere i propri fini. Dopo questo incarico, venne scelto per un'ambasciata straordinaria a Londra nel 1603, che poi si trasformò in permanente con l'invio di un patr izio, in quanto Giovan Carlo era solo un cittadino, ma fino a quando il patrizio non giunse, lo Scaramelli ne fece le veci, lasciandoci degli splenditi ritratti della regina Elisabetta I. Infine, nel 1608 fu nominato residente a Milano e qui morì mentre si adoperava per il bene della Serenissima, nonostante la stanchezza della vecchiaia e i continui appelli al Senato per essere sostituito. I suoi figli maschi Moderante e Francesco seguirono la carriera diplomatica paterna, il primo come segretario nei canto ni svizzeri, il secondo come dragomanno (interprete) presso il bailo di Costantinopoli. Solo Moderante ebbe figli, due fanciulle, che tuttavia scelsero la vita monastica, segnando l'estinzione della famiglia 69 .

Con quali istituzioni veneziane dialogava lo Scaramelli e con quanta frequenza?

I dispacci da me letti e presentati a lezione sono stati 61, a questi aggiungerò gli altri 91 letti in seconda fase, per un totale di 152. Come già esposto a lezione ritengo che non ci si possa accontentare della definiz ione di un carteggio tra lo Scaramelli e genericamente la Serenissima, ma bisogna comprendere con quali magistrature e organi si rapportasse concretamente il residente. La maggioranza dei dispacci sono inviati dallo Scaramelli al Senato (113), 14 sono invi ati come risposta dal Senato, 12 dal Collegio dei Savi, 4 sono inviati da Scaramelli al Consiglio dei Dieci, 2 provengono dal Consiglio dei Dieci, 4 costituiscono il carteggio con i Provveditori alla Biave (tre inviati e uno ricevuto), 2 sono inviati ai Pr ovveditori alla Sanità e 1 a quelli dei Sali. Aggiungo alcuni chiarimenti, per dare un quadro minimo delle loro competenze e comprendere perché lo Scaramelli scrivesse ad un organo piuttosto che ad un altro. Teoricamente l'istituzione suprema della Serenis sima era il Maggior Consiglio ma, pur mantenendo una piena sovranità, delegava al Senato, più esiguo e dunque più snello ed efficiente, la maggior parte delle sue attività. Il Senato, o Consiglio dei Pregadi, era composto di base da 120 membri, sessanta sc elti dal Maggior Consiglio e sessanta cooptati da questi, i senatori da Zonta (cioè aggiunta), più metà della Quarantia. Avevano diritto a partecipare al Senato il Collegio dei Savi e il Consiglio dei Dieci, oltre ai Provveditori, facendo lievitare il nume ro fin quasi a 300 partecipanti. Il Senato poteva avere competenze pressoché su tutti gli argomenti, specialmente sulla politica estera e

69 Ivi , pp. 26 - 27.

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le questioni correnti, mentre il Consiglio dei Dieci, composto da dieci membri a cui di diritto si aggiungeva il doge con i suoi sei consiglieri, vide i suoi poteri dapprima dilatarsi, per poi essere ridotti alla tutela della costituzione e della sicurezza dello stato. Il Collegio dei Savi, composto da sedici membri, era articolato in sottogruppi, uno di essi, i Savi Grandi, aveva la funzione principale di elaborare le proposte da presentare al Senato, gli altri di gestire l'amministrazione dei domini di terraferma e dell'esercito70. Di conseguenza i destinatari delle missive erano soggetti diversi, con ognuno dei quali lo Scaramelli, come ogni altro ambasciatore o residente, creava dei carteggi di documentazione separati, al punto che a livello archivistico potremmo parlare di più serie di documenti in cui ripartire l'archivio del nostro soggetto produttore. Quanto detto non deve però far pensare che per ogni argomento o problematica che si presentava, il residente avesse sempre un chiaro ed unico interlocutore, ad esempio, lo Scaramelli informava sia il Senato che i Provveditori alle Biave delle offerte napoletane di grano, creando di fatto due serie parallele in cui alcuni argomenti erano coincidenti71. Un'altra suddivisione da me adoperata è stata quella di tipo mensile, per provare a comprendere anche la periodicità della corrispondenza. Considerando che il nostro residente si insedia da fine maggio del 1597, mentre la commissione è del 16 aprile 1597, i dispacci hanno questa cadenza: maggio 1597 - 2 giugno 1597 - 9 luglio 1597; 7 agosto 1597 - 10 (2 con orario) settembre 1597 - 10 (1 con orario) ottobre 1597; 5 novembre 1597 - 6 dicembre 1597; 11 gennaio 1598 - 12 febbraio 1598 - 10 marzo 1598; 9 aprile 1598 - 10 maggio 1598 - 5 giugno 1598 9 luglio 1598 - 7 agosto 1598; 8 settembre 1598 - 15 ottobre 1598; 6 (fino al periodo da me letto, 13 in tutto); (1 con orario). Se si eccettuano tre mesi in cui la corrispondenza si limita a poco più di un dispaccio a settimana, in tutti gli altri è di almeno due a settimana. Tra dicembre 1597 e gennaio 1598, nonostante il clima particolarmente avverso (Scaramelli scrive di «nevi e ghiacci» a Napoli72), le missive inviate e ricevute sono quasi tre a settimana, poiché questi sono mesi delicati a causa della questione di Ferrara e del possibile conflitto tra Cesare d'Este e il pontefice. Dunque l'attività con cui lo Scaramelli si impegna nella ricerca di notizie è quasi febbrile. Copiosa è anche la produzione nel mese di settembre 1598, in cui tutta

70 W. Reinhard, Storia del potere..., cit., pp. 297-298. 71 P. Volpini, Ambasciatori..., cit., p. 251. 72 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 104.

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una serie di tensioni, tra la nobiltà e il viceré e tra la Serenissima e Napoli per la questione dei privilegi e dei dazi, alza la media della c orrispondenza a quasi quattro dispacci a settimana.

Due punti fondamentali: la percezione delle problematiche internazionali e il rapporto del residente con le molte realtà della società napoletana nei dispacci

La questione di Ferrara si presenta in tredi ci dispacci dalle prime schermaglie di novembre al pieno dispiegarsi della questione nei due mesi successivi. Non ho la certezza tuttavia di aver potuto leggere tutta la documentazione prodotta dallo Scaramelli su questo tema, poiché un dispaccio del 15 no vembre 1597 intimava al residente che «avvisi di ogni particolare relativo alla questione di Ferrara in lettera separata» 73 . In ogni caso è interessante l'operato del residente, che si muove tra due piani non semplici. Il primo è quello della raccolta delle notizie che spesso sono molto riservate, al punto che lo Scaramelli scopre che il pontefice ha scomunicato Cesare d'Este solo sei giorni dopo l'arrivo del nunzio a Napoli e si appresta a darne notizia al Senato il 30 dicembre 74 . Inoltre, deve anche difende re la Serenissima dalle accuse di favorire gli Este, in quanto si sostiene che Venezia impedisca il ritorno di Gianfranco Aldobrandini, mandato dal papa nelle terre tedesche per reclutare truppe. A ciò il residente obietta che il messo di Clemente VIII era traghettato da Trieste ad Ancora attraversando il Golfo della Repubblica e quindi, se era stato consentito il passaggio, Venezia non si stava opponendo al pontefice 75 . Proprio mentre la posizione del viceré diveniva manifestatamene filopontificia, come com unicava lo Scaramelli 76 , si giunse ad un accordo tra i contendenti, che i più attribuirono alle sollecitazioni di Venezia. Ciò, secondo il residente, irritava gli spagnoli, che si consideravano gli arbitri in ultima istanza degli equilibri italiani mentre, se confermata, la pace avrebbe aiutato la Serenissima, in quanto il papa le poteva essere riconoscente per aver preso Ferrara e invece gli Este conservavano il resto dei loro possedimenti. Altre voci parlavano di un accordo voluto fortemente dalla Toscana timorosa che le armi del pontefice e soprattutto di Madrid potessero rivolgersi contro di essa 77 . Prima di procedere con il commento della commissione e degli altri numerosi temi affrontati nei dispacci, è fondamentale sottolineare che il residente non si r apportava solamente con il viceré ma, al contrario, aveva

73 Ivi, p. 87. 74 Ivi , p. 100. 75 Ivi , p. 98. 76 Ivi , p. 104. 77 Ivi , p. 108.

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intessuto una rete di relazioni con una trama molto fitta. Come avrebbe scritto pochi anni dopo Hobbes, «un ambasciatore[...] può essere paragonato ad un occhio nel corpo naturale» 78 e quest'occhio n on poteva limitarsi a vedere solo tramite i canali ufficiali, ma doveva muoversi con sicurezza anche in quelli meno alla luce del sole, più sotterranei e ufficiosi. Dalla lettura dei dispacci ciò emerge chiaramente. Oltre ai rapporti con il viceré che comp aiono frequentemente, il residente dialoga anche con i reggenti, suoi collaboratori, specialmente con il Castelletti e il Fornaro, che si oppongono alle richieste veneziane di applicazione di dazi e privilegi. Prima di procedere reputo importante chiarire chi rappresentasse il re Cattolico e quali poteri e limiti avesse nell'esercitare le sue funzioni. La carica di viceré era affidata in quel momento storico a Enrique de Guzman, conte di Olivares, il quale aveva alle spalle una interessante carriera essendo stato ambasciatore spagnolo a Roma e avendo già governato un altro viceregno, quello di , dal 1592 al 1595 79 . La carica del viceré verso la fine del lungo regno di Filippo II non esprimeva più un alter ego del sovrano temporaneamente assente, né era affidata a qualcuno direttamente imparentato con il sovrano, bensì designava il più alto magistrato permanente che dirigeva la macchina amministrativa del viceregno 80 . Se il suo potere era limitato dall'alto dal re, egli doveva governare con il supporto de l Consiglio del Collaterale e nel rispetto della legge, in quanto non poteva infrangere il diritto comune del regno, né poteva esimersi dal far eseguire le sentenze del Sacro Regio Consiglio, una delle corti supreme del regno 81 , né procedere contro i membri di queste istituzioni senza l'autorizzazione regia 82 . Per Giovan Francesco Capobianco, giurista attivo nei primi decenni del Seicento, il potere del viceré non poteva essere assoluto in quanto limitato dai reggenti del Collaterale, ognuno dei quali aveva i suoi settori di competenza ed essi facevano «corpo con il viceré» 83 . L'attenzione del residente verso i membri di questi organi istituzionali è costante ed emerge nella vicenda del consigliere Felice di Gennaro, articolata in cinque dispacci da giorno 8 l uglio al 23 dicembre 1597. La ricostruzione della vicenda tramite le missive dello Scaramelli è fruttuosa per provare a comprendere il modo in cui si dirimevano gli scontri di potere su due differenti

78 Thomas Hobbes, Leviatano , BUR Rizzoli, Milano 2016, p. 259. 79 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 37. 80 A. Musi, L'impero..., cit., p. 52. 81 Mario Caravale, Storia del diritto dell'Europa moderna e contemporanea , Laterza, Roma 2012, p. 65. 82 A. Musi, L'impero..., cit., p. 60. 83 Ivi , p. 59.

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piani: tra cariche diverse (una civile e l'altra milita re) e tra differenti etnie (spagnoli e napoletani). Gennaro, membro del Sacro Regio Consiglio, venne arrestato dal viceré su ordine di Filippo II, dopo aver umiliato e offeso un ufficiale spagnolo reo di aver imprigionato suo nipote 84 . Nonostante i costanti appelli, non venne liberato dall'Olivares, il quale rifiutò di fare alcunché andasse contro la volontà del sovrano, unico a poter giudicare i membri delle supreme magistrature, finché, inaspettatamente, annota lo Scaramelli, da Madrid giunse quasi alla vi gilia di Natale, l'ordine di liberare dal carcere e reintegrare nelle sue funzioni il consigliere Gennaro 85 . Come interpretare ciò? Un atto di pietà o più probabilmente una dimostrazione della predominanza nella scala dei poteri del binomio spagnolomilitare , che il napoletano Gennaro aveva infranto, venendo punito con alcuni mesi di reclusione, per poi essere pienamente reintegrato. Il residente fu, per di più, coinvolto in questa vicenda, in quanto dal carcere Gennaro aveva sostenuto che la Serenissima ausp icasse la sua liberazione, notizia prontamente smentita dallo Scaramelli, secondo cui la Repubblica di Venezia non si sarebbe mai intromessa nei rapporti tra un suddito di un altro stato e il suo legittimo sovrano 86 . In tutto ciò lo Scaramelli si teneva in contatto con un'ulteriore figura, l'ambasciatore veneziano a Madrid, Agostino Nani, sia per avere informazioni su cosa si decidesse presso la nuova capitale spagnola riguardo le vicende di Gennaro 87 , sia per avvisarlo dell'invio dei due nuovi rappresentanti del Consiglio di Italia a Madrid, di modo che il Nani potesse avere il tempo per prepararsi ed attuare tutte le misure che avesse ritenuto più opportune a tutelare gli interessi della Serenissima. Questo Consiglio era nato per sottrarre i domini italiani, eccetto la Sardegna, dalla Corona di Aragona e porli sotto l'influenza della Castiglia, in quanto nel Consiglio dovevano risiedere sei reggenti, teoricamente una coppia per ogni dominio, ossia una per la Sicilia, una per Napoli e una per Milano, ma in ogn i coppia uno solo dei membri era nativo del luogo che rappresentava, l'altro era quasi sempre un castigliano 88 . Nel dispaccio del 3 giugno, il quarto da lui inviato da quando era residente, ma primo ad essere redatto interamente da lui (i precedenti erano stati scritti in collaborazione con il Ramusio) egli comunica al Senato i nomi dei due nuovi rappresentanti di Napoli presso Filippo II, Fulvio di Costanzo e Alvaro Riviera, dandone una breve descrizione e avvisa di aver informato

84 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 56. 85 Ivi , p. 97. 86 Ivi , p. 72. 87 Ivi , p. 66. 88 A. Musi, L'impero..., cit., pp. 64 - 65.

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l'ambasciatore Nani a Mad rid 89 . Costui ritornerà nei dispacci un'ultima volta, a fine dicembre del 1597, quando Francesco Da Ponte, divenuto reggente dopo essere ritornato dalla Spagna, dove era stato appena sostituito da Fulvio di Costanzo come membro del Consiglio d'Italia, disse allo Scaramelli che si rammaricava per quanto avvenuto al Nani che godeva ancora della piena fiducia del re 90 . Si stava alludendo al tragico episodio di cui il Nani era stato vittima a Madrid: dei soldati, con la scusa di arrestare un delinquente, avevano assaltato la sede veneziana, conducendo violentemente fuori di essa l'ambasciatore e la sua famiglia, razziando e devastando il palazzo. Dopo le proteste della Repubblica ma anche di molti altri ambasciatori, soprattutto quello imperiale, Hans Khevenhüller , che denunciò questo evento come parte di un complesso intimidatorio messo in atto dai ministri spagnoli per ridurre i privilegi e le libertà degli ambasciatori nel tentativo di assoggettarli alla giustizia spagnola, il re si dichiarò estraneo all'accadut o e solidale con Venezia 91 . Oltre che con il viceré, i reggenti e il Nani, dalla documentazione si evince che lo Scaramelli venne in contatto anche con esponenti della nobiltà, quali il marchese di Grottola 92 , il marchese di Briatico 93 il duca di Monteleone e il principe di Castelvetrano 94 , con il “cameriero” del viceré 95 , utile per comprendere quali voci circolassero negli ambienti più riservati della corte di Napoli, con il rappresentante dell'Annunziata per la questione già citata e co n ecclesiastici dai quali ottenne informazioni durante la questione di Ferrara 96 . Inoltre, Giovan Carlo si incontrò con uomini che erano stati banditi dalla Serenissima per ammonirli dal non fare complotti contro la Repubblica 97 ed ottenne informazioni anche da un cavaliere napoletano sui tumulti di Malta 98 . A questi si devono aggiungere contatti con informatori che restano anonimi 99 e anche con un uomo definito spia 100 , che portava notizie sull'Arsenale di

89 Ivi , p. 42. 90 Ivi , p. 99. 91 Sara Veronelli, Al servizio del signore e dell'onore: l'ambasciatore imperiale Hans Khevenhüller alla corte di Filippo II , in « Cheiron » , 1998, n. 30, vol. XV, p. 158. 92 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 48. 93 Ivi , p. 89. 94 Ivi , p. 44. 95 Ivi , p. 62. 96 Ivi , p. 91. 97 Ivi , pp. 62 - 63. 98 Ivi , p. 99. 99 Ivi , pp. 47, 68 e 74. 100 Ivi , p. 40.

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Costantinopoli, oltre ai contatti con i viceconsoli spar si per il regno, con il rappresentante toscano Turamini e con i mercanti di grano 101 . Ritornando un attimo su Costantinopoli e più in generale sui territori del Mediterraneo orientale, l'attenzione dello Scaramelli si concentra su Cipro, da cui giungono noti zie di una rivolta di schiavi cristiani e lui riporta in tre dispacci che anche il viceré si è dimostrato interessato ad esserne informato in quanto ogni evento che potesse indebolire l'Impero Ottomano trovava uditori attenti tra le fila di coloro che serv ivano gli Asburgo. Proprio sulle notizie giungenti dall'Oriente vi erano state delle tensioni tra Venezia e Napoli. Senza citare un celebre sociologo quale Crozier, l'accesso alle informazioni equivale ad avere potere 102 e di ciò erano ben consci sia i venez iani che i napoletani. Poter leggere la corrispondenza altrui o anche trattenerla per giorni o ore era uno straordinario strumento di controllo, cosicché i veneziani tendevano a bloccare le carte napoletane che giungevano dall'Oriente nelle Bocche di Catta ro 103 , mentre i napoletani facevano lo stesso con le lettere veneziane che dall'Oriente giungevano a Otranto 104 . Solo dopo alcuni mesi entrambe le parti si impegnarono a non trattenere l'altrui corrispondenza.

Temi principali contenuti nella commissione ricevu ta dallo Scaramelli

Dopo aver affrontato molte delle tematiche presenti nei dispacci, vorrei soffermarmi su quelle che più direttamente sono collegate alla commissione ricevuta dallo Scaramelli: i privilegi, la questione del grano e la raccolta di notizie sulla pirateria e il soccorso delle sue vittime. Riguardo la commissione del 16 aprile 1597 essa era chiaramente pubblica o ostativa, nel senso che non era rivolta solo all'ambasciatore, visti i toni melliflui e i complimenti ridondanti al re di Spagna e anche al viceré a differenza delle istruzioni segrete o orali, nelle quali si raccomandavano gli incarichi più riservati e delicati 105 . Premettendo l'importanza della questione terminologica per cui ogni termine ha un preciso destinatario e dunque Sua Maest à, Sua Eccellenza o Sua Altezza, non sono interscambiabili, riferendosi sempre a soggetti diversi, ossia rispettivamente al re di Spagna, al viceré e al granduca di Toscana, mi preme sottolineare le qualità per cui Scaramelli è stato scelto dal Senato e ch e gli sono ricordate nella commissione, quasi con un intento performativo: egli è (e deve

101 Ivi , p. 105. 102 Neil J. Smelser, Manuale di sociologia , il Mulino, Bologna 2007, p. 108. 103 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 44. 104 Ivi , p. 59. 105 P. Volpini, Ambasciatori..., cit., p. 244.

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essere) uomo «circospetto e fidelissimo» caratteristiche che ogni buon diplomatico deve possedere in sommo grado. La commissione risente del modello repubblicano, già da me spiegato prima, ma al tempo stesso prende atto che il residente dovendo vivere per anni a Napoli si troverà di fronte situazioni difficili, in cui pur dovendo chiedere lumi al Senato, dovrà anche muoversi di propria iniziativa. Se da un lato gli si comanda una volta giunto nella capitale di accreditarsi presso il viceré e subito dopo con l'arcivescovo, dopo gli si consente di stringere rapporti in qualunque modo e con qualunque persona egli ritenga utile per gli interessi della Serenissima: «Userai d el continuo diligenzia per ben intender tutti li avisi di quelle parti che capiteranno di tempo in tempo a quella Corte e che ti pareranno degni della nostra notizia e di essi ci tenerai particolarmente avisati» 106 . Anche i compiti specifici, sono essenzialm ente pochi: difendere i privilegi economici della Serenissima e il diritto di imporre dazi, ricordare ai viceré che dal tempo di Carlo V la Repubblica ha il diritto di dirottare alcune navi cariche di grano, risarcendo i proprietari, per mantenere i suoi p ossedimenti in Levante, anche se le autorità locali, i nobili e il popolo, memori delle cicliche carenze di frumento (l'ultima tra le più tragiche era stata nel 1585, ossia relativamente recente), provavano ad opporsi in ogni modo ed infine, in caso di per dita di vascelli veneziani (si pensi a naufragi o attacchi di pirateria ai convogli) o che trasportavano merce i cui proprietari erano sudditi di San Marco, di intervenire per cercare di contenere quanto più possibile il danno, magari in sinergia con i con soli sparsi sopratutto lungo le città costiere del regno 107 . Lo Scaramelli in più riceveva 400 ducati da spendere secondo quanto gli era prescritto nella commissione, e 100 mensili 108 . Una quota non molto elevata, giustificata dall'idea per cui l'ambasciatore o il residente dovesse in parte o quasi del tutto contribuire con i propri mezzi economici 109 , ulteriore motivo per cui chi si accingeva a questo incarico doveva possedere un patrimonio adeguato. In genere, maggiore era la corte in cui si veniva destinati pi ù alte erano le spese, quasi mai coperte dallo Stato. Un esempio limite avvenne nel 1725, quando l'ambasciatore spagnolo alla corte imperiale, Luis Duque de Rippeda, per migliorare la posizione della Spagna elargì ai vari funzionari della corte 1.320.255 f iorini 110 (ovviamente non desidero fare qui un paragone con le

106 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 37. 107 Ivi , pp. 37 - 38. 108 Ivi , p. 38. 109 W. Reinhard, Storia del potere..., cit., p. 223. 110 Jeroen Duindam, Vienna e Versailles. Le corti di due dinastie rivali (1550 - 1780) , Donzelli editore, Roma 2004, p. 165.

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cifre certamente più modeste a disposizione del residente veneziano, in quanto si usano monete diverse, il fiorino e il ducato, e Giovan Carlo operò due secoli prima, in un contesto inflazionisti co differente). Una cifra ingente, ma in ogni corte avveniva questa pratica. Quasi sicuramente anche lo Scaramelli, per tessere quella rete di informatori dovette ricorre a donativi, seppur molto più modesti, ma ugualmente onerosi, forse inclusi nella list a di spese straordinarie che il residente comunicava più volte, ogni tre o quattro mesi, al Senato 111 . Inoltre, le leggi veneziane proibivano tassativamente agli ambasciatori/residenti e ai consoli di gestire attività commerciali, accettare omaggi o doni, no nché di accettare onorificenze o benefici 112 , ad eccezione del bailo e di specifiche vicende (ad esempio, Vitale Landi e Vittore Soranzi nel 1474 riuscirono a conservare i doni ricevuti a fine del loro mandato 113 ) anche se con il tempo, specialmente nelle sedi più disagevoli, si derogò de facto a questo principio per i consoli 114 . Dopo aver argomentato sulla maggior parte delle problematiche e dei temi di cui lo Scaramelli diede nota, mi accingo a soffermarmi su quelli che la commissione comunicava espressamente. Inizierò parlando della questione dei grani e di quella dei privilegi commerciali che nei diciassette mesi da me analizzati finirono per intrecciarsi e dunque non possono essere affrontare con una netta cesura l'una dall'altra. Riguardo il tema del grano , reputo che esso possa essere articolato essenzialmente in quattro momenti: innanzitutto un'analisi della disponibilità di frumento e del suo prezzo 115 , nonché dei contrasti tra nobili e viceré su questo tema, in secondo luogo i tentativi del viceré e di al cuni reggenti nel convincere lo Scaramelli a patrocinare l'acquisto di questo prodotto presso Venezia, in terzo luogo una questione ben specifica riguardante il dirottamento di una nave napoletana carica di grani verso i possedimenti orientali ed infine il sequestro di un vascello veneziano carico di grano da parte di Napoli. In totale, dunque, ho individuato trenta dispacci in cui viene affrontato questo tema, che ripartirò secondo le divisioni illustrate al capoverso precedente, tenendo conto che alcuni d i essi rientrano in più categorie. Il primo sotto settore è molto interessante, in quanto lo Scaramelli prende nota delle divergenze di opinione tra Filippo II e il popolo di Napoli, con il

111 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., pp. 64, 69, 93, 114 e 141. 112 Nadia Covini, Milano, Venezia e il «canone italico» dell'ambasciatore nel Quattrocento , in S. Andretta, S. Pequignot, J. - C. Waquet (a cura di), De l’ambassadeur. Le s écrits relatifs à l’ambassadeur et à l’art de négocier du Moyen Âge au début du XIXe siècle, École française de Rome, Roma 2015, p. 144. 113 Ivi , p. 148. 114 M.P. Pedani, Venezia ..., cit., p. 86. 115 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p 62.

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viceré sostanzialmente forzato ad accontentare il volere delle cla ssi più umili, calmierando il prezzo del grano, per evitare la nascita di tumulti che, come già detto, avevano avuto luogo in anni precedenti 116 e a respingere le lamentele della nobiltà ostile sia alla vendita del prodotto all'estero 117 , pratica diffusa anche nel viceregno di Sicilia, che proprio in quei mesi esportava 20.000 salme di grano alla repubblica di Lucca 118 , quanto al forte controllo esercitato dai genovesi in questo settore 119 . Quando i nobili decisero di appellarsi al re, per denunciare quella che a l oro avviso era una situazione insostenibile, inviarono segretamente a Madrid un proprio rappresentante, dopo che il Guzman aveva loro proibito di farlo. Tra le principali lagnanze espresse vi fu, oltre alle denunce di commercio illecito di vino e salumi da parte del viceré, la connivenza di costui con i genovesi nel traffico dei grani, nella decisione del loro prezzo e nella loro vendita all'estero, causa di possibili carestie 120 . È importante aprire una breve riflessione sul ruolo dei mercanti, e soprattutto banchieri, della Superba. Costoro, in virtù dei prestiti sempre più onerosi concessi al re Cattolico, ben consapevoli che era molto difficile che il debito fosse ripagato, si accontentavano di ricevere gli interessi, non sempre corrisposti puntualmente, e molti privilegi e onori che Filippo II concedeva loro. Il caso più emblematico è espresso dalla famiglia degli Spinola, che in cambio del loro denaro, divennero, nel corso del Seicento, generali dell'esercito e ottennero l'appalto delle saline nel regno d i Granada 121 , ma non era raro che, specie nel Regno di Napoli, numerosi feudi venissero acquisiti dai genovesi e alcuni di essi, tra cui uno di nome Zatara, ottennero significativi agevolazioni da parte del viceré nei traffici commerciali dei grani 122 . Inoltre , numerosi banchi commerciali erano posseduti da costoro e non pochi finirono per fare fallimento proprio nei mesi da me analizzati. Lo Scaramelli ricorda, a fine aprile del 1598, il fallimento del banco genovese dei Mari, dapprima stimato in 250.000 ducat i, i quali si riteneva potessero essere saldati dai suoi padroni, visti i crediti e le loro altre proprietà e commerci 123 , poi in ben 500.000, con sgomento dei più e immediato arresto dei banchieri 124 , nonché il fallimento della banca dell'Olgiati, costui nato però a Como 125 , per oltre 700.000 ducati 126 , che lasciava la città in una

116 Ivi , p. 52. 117 Ivi , p. 60. 118 Ivi , p. 80. 119 Ivi , pp. 68 - 69. 120 Ivi , pp. 158 - 159. 121 A. Tallon, L'Europa..., cit., p. 163. 122 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 68. 123 Ivi , pp. 127 - 128. 124 Ivi , p. 129. 125 Massimo Carlo Giannini, Dizionario biografico degli italiani , 2013, vol. 13.

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situazione critica, in assenza di strutture creditizie sufficienti per quella che era fin da allora una città di grandi dimensioni. Riguardo il secondo tema, il viceré provò senza esito a convincere lo Scaramelli ad acquistare grano da Napoli; i tre dispacci che trattano questa vicenda sono molto utili in quanto il residente scoprì che l'Olivares desiderava dividere i proventi di questa eventuale vendita in modo che andassero per ⅔ alla città bisognosa di denaro dopo le continue esazioni da Madrid e per ⅓ direttamente nelle casse di Filippo II 127 . Successivamente, anche il reggente alla Sommaria, Ferrante Fornaro, fece un'offerta simile e il residente, seppur scettico, avvisò il Senato e ricevette ordini su tale argomento dai Provveditori alle Biave 128 . Ben più complicata fu la vicenda che vide il dirottamento di una nave carica di grani verso Corfù. Molti mercanti napoletani ne restarono danneggiati e chiesero di ottenere il rimborso; tra q uesti il più attivo fu Giovan Tommaso Brancaleone. La Repubblica riconobbe che questi commercianti avessero diritto ad un rimborso e delegò a Scaramelli l'incarico. Il Brancaleone sostenne che se la Serenissima avesse acquistato il grano a un prezzo più el evato di quello corrente a Corfù avrebbe accettato 129 , tuttavia il residente propose inizialmente di pagare 12 lire lo staro, ottenendo un netto rifiuto dal mercante napoletano 130 . Egli, insieme ad altri commercianti, si appellò al viceré, ma lo Scaramelli sos tenne con forza che la nave dirotta era già stata colpita da un violento fortunale e oltre metà del carico era stato bagnato, al punto che non lo si sarebbe potuto trasportare per un lungo tratto e che portarlo direttamente a Corfù e qui concordare il prez zo con le autorità veneziane era stato un bene per tutti 131 . Se in un primo momento entrambe le parti accordatesi sull'entità del carico sembravano trovare un punto di incontro, con i napoletani disposti a detrarre la quantità di cereale dato alla ciurma, ma non ad inviare un loro agente a Corfù 132 , rapidamente la situazione mutò e costoro minacciarono di chiedere al viceré il sequestro dei beni dei sudditi veneziani presenti nel Regno, a meno che il grano non fosse pagato al prezzo corrente di Corfù (maggiore di quello segnalato dai rettori veneziani dell'isola 133 ). Lo Scaramelli insisté per l'invio di un agente in loco, in quanto se la Repubblica avesse versato del

126 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 130. 127 Ivi , p. 105. 128 Ivi , pp. 160 e 163. 129 Ivi , p. 105. 130 Ivi , pp. 109 - 110. 131 Ivi , p. 112. 132 Ivi , p. 115. 133 Ivi , p. 117.

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denaro nelle banche della città per provare a pagare i mercanti, questo sarebbe stato immediatamen te sequestrato per le vicende dell'ospedale Annunziata, già citate in precedenza 134 . Ciò ci permette di capire che sovente temi e problemi diversi, articolati nel corso dei dispacci, potessero anche intrecciarsi. Alla fine i mercanti decisero di inviare due propri rappresentanti nell'isoletta veneziana, anche se la vicenda, al momento del periodo da me affrontato, sembra tutt'altro che risolta 135 . Un evento simile, che aveva visto il dirottamento di una nave carica di olio verso Lesina, apparentemente non creò particolari tensioni e si procedé regolarmente al rimborso 136 . L'ultima problematica legata alla vendita di grano è, se possibile, ancor più complessa perché si intreccia con la difesa veneziana dei privilegi e soprattutto dell'imposizione dei dazi che la Se renissima vantava su qualsiasi nave commerciasse nel suo Golfo. La questione era riemersa per un carico di ferro trasportato da Trieste verso il regno di Napoli. Entrambe le parti sostanzialmente si appellavano alla concessione effettuata da Carlo V che d opo la pace di Bologna aveva riconosciuto a Venezia questo diritto di imposizione fiscale, ma che, sostenevano i napoletani, non era stato riconfermato da Filippo II 137 . Se inizialmente il problema sembrava avere dei toni bassi e un compromesso vantaggioso p er i veneziani era possibile, la situazione degenerò quando a Napoli giunse notizia di un altro vascello trattenuto con la forza e costretto dalla Serenissima a pagare il dazio 138 ; ciò causò le ire del viceré e soprattutto del Collaterale che si vendicarono sancendo il sequestro del carico di grano della nave veneziana Misocca e Fiandra 139 , la quale era precedentemente naufragata e il cui contenuto era stato inizialmente bloccato su richiesta dell'Annunziata che se ne voleva impadronire 140 . Le proteste del reside nte facevano notare la sproporzione dell'atto, in quanto a un dazio di 60 ducati era corrisposto il sequestro di merci per un valore di 4.000/5.000 ducati 141 , anche se i napoletani svalutarono costantemente la mercanzia del carico fino a ridurla a soli 300 d ucati 142 . Avviandomi alla conclusione vorrei affrontare l'ultimo tema presente nella commissione: il cercare la piena collaborazione con il viceré nel soccorso delle navi vittime di naufragi o di atti di pirateria o guerra di corsa. Nei dispacci

134 Ivi , p. 124. 135 Ivi , p. 165. 136 Ivi , p. 162. 137 Ivi , p. 62. 138 Ivi , p. 131. 139 Ivi , p. 136. 140 Ivi , p. 125. 141 Ivi , p. 141. 142 Ivi , p. 146.

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compare cos tantemente il riferimento a navi, anche veneziane o con merci veneziane, naufragate o sequestrate 143 . Tra queste emerge la sfortunata vicenda del Provveditore generale di Candia, che nel viaggio di ritorno verso Venezia per ben due volte fece naufragio vicin o le coste napoletane e tramite i buon i uffici del residente ottenne un ottimo trattamento dall'Olivares, decidendo di proseguire il resto del viaggio via terra. Inoltre, si riportano con attenzione i movimenti della flotta ottomana 144 e le preoccupazioni ch e questa suscita, spingendo i nobili delle zone costiere ad armarsi e far ritirare le genti in luoghi interni più sicuri 145 .

Il caso di Sabbioneta e i rapporti tra potere statale e potere religioso nella Napoli del tardo Cinquecento

Le ultime tematiche che d esidero affrontare sono quella della località di Sabbioneta e quella religiosa. Ve ne potrebbero essere altre, come l'incontro con il nuovo viceré di Sicilia, il duca di Maqueda, particolarmente altezzoso verso l'Olivares 146 , la scoperta di una miniera di fe rro e rame nei pressi di Salerno 147 o il presentarsi di un misterioso individuo, Raffaele Paleologo, che professandosi come un uomo reso schiavo per non aver abiurato la propria fede, stava fuggendo dall'Impero Ottomano verso la Spagna e portava con sé con u n documento, ispezionato dal residente che lo inviò a Venezia e redatto, secondo la testimonianza del Paleologo, dal bailo di Costantinopoli, il quale attestava i meriti suoi e del padre 148 . Tuttavia queste vicende per quanto affascinanti non vengono riprese e hanno più un sapore aneddotico. Riguardo Sabbioneta, la vicenda si articola in soli otto dispacci, ma è affascinante in quanto il principe di Stigliano essendosi sposato con Isabella Gonzaga, aveva ricevuto in dote la località di Sabbioneta vicino Manto va. Dopo alcune insistenze, Filippo II impose al principe di ospitare lì un presidio spagnolo, ma colui che amministrava quella terra per conto dello Stigliano, Rinaldo Carafa, si ribellò a questa decisione 149 . Nonostante siamo sulle soglie del Seicento, che a lungo è stato presentato come il secolo dell'assolutismo, il principe di Stigliano, lungi dal chiedere soccorso contro questa usurpazione all'autorità pubblica, armò un proprio esercito, ricorse a reti di conoscenze e

143 Ivi , pp. 59, 66, 79, 91, 97, 115, 119, 121, 124, 130, 132, 148, 157, 160 e 168. 144 Ivi , p. 70. 145 Ivi , pp. 162 - 164. 146 Ivi , pp. 120 - 121. 147 Ivi , p. 167. 148 Ivi , p. 123. 149 Ivi , p. 51.

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favori personali con altri nobili, cercò di ottenere il favore del pontefice e mosse contro il suo governatore150. Ciò a conferma che l'idea di un dominio assoluto che dal tardo Cinquecento alla rivoluzione francese domina incontrastato è oramai superata dalla storiografia, ben conscia della pluralità di centri di potere tipica dell'ancien régime. Ultimo aspetto che compare in una decina di dispacci è la libertà di azione concessa al clero. Molto spesso si pensa a una piena comunione di intenti tra il re Cattolico e la Santa Sede, ma ciò è un mito storiografico151. Filippo II, al pari del re di Francia, non solo impone il rispetto dell'exequatur, anche per la promulgazione di giubilei e indulgenze152, ribadendolo anche per il regno di Napoli153, ma interviene pure in questioni prettamente religiose. É lui a decidere che le monache zoccolanti vengano amministrate nei fatti temporali e spirituali dai cappuccini, non il papa, che si limita a prendere atto di ciò154. Inoltre, non pochi vescovi, quali quello di Benevento che voleva imporre balzelli illegalmente155, o quello di Nicastro, reo di aver pubblicato un testo senza exequatur156, furono bloccati, minacciati e interdetti dei loro beni, per essersi mossi senza l'autorizzazione del reggente Martos, preposto alle questioni religiose, avviando lunghe polemiche con la Santa Sede non risolte entro il periodo da me letto.

Conclusioni

Dai diplomatici ci si aspettava all’epoca che spaziassero, nelle proprie descrizioni, dalla vita di corte157 alle problematiche economiche e politiche. Talvolta alcuni si spingevano oltre. Machiavelli, ad esempio, e il suo è un caso assai noto, prediligeva l’elaborazione dei giudizi al racconto dei fatti e per questo fu spesso ammonito.158 Senza giungere agli eccessi del segretario fiorentino, anche lo Scaramelli non sempre si limitava a riportare gli eventi e, quando lo reputava utile, dava anche un parere personale, dimostrando in molteplici occasioni, come si è visto, un notevole acume. A ulteriore riprova di ciò, cito un ultimo dispaccio, quello del 21 ottobre 1597. In esso il residente avvisava il Senato sul tentativo papale di ottenere una disponibilità spagnola a

150 Ivi, p. 66. 151 A. Tallon, L'Europa..., cit., p. 246. 152 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 95. 153 Ivi, p. 78. 154 Ivi, p. 146. 155 Ivi, p. 117. 156 Ivi, p. 126. 157 Jeroen Duindam, Vienna..., cit., p. 34. 158 Niccolò Machiavelli, Il Principe a cura di Giorgio Inglese, Einaudi, Torino 2013, p. 197.

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favorire le pretese al trono d’Inghilterra di Giacomo VI di Scozia nel caso in cui quest’ultimo f osse tornato alla fede cattolica, tentativo, quello, finalizzato a portare l'intero arcipelago britannico sotto l'orbita romana. Scaramelli non solo comunicò ciò, ma vi aggiunse un’intuizione, poi rivelatasi puntualmente corretta: non solo non sarebbe giun to alcun aiuto da Madrid al re di Scozia, ma, in nome di quella che oggi definiremmo ragion di stato, la Spagna avrebbe avvisato delle macchinazioni del papa la protestante Elisabetta I, segretamente tramite i ministri del re, di modo che ella potesse sven tarle 159 . Ciò perché, nonostante Elisabetta avesse, neanche dieci anni prima, umiliato la Spagna con la sconfitta dell’Invincibile Armata, a Madrid si continuava a preferirla alla dinastia di Scozia, che imparentata con alcune importanti famiglie francesi, i Guisa 160 , se avesse ottenuto anche l'Inghilterra, avrebbe così costituito un pericolo per i possedimenti di Filippo II. Scaramelli colse quindi come gli stati, pur professandosi realtà confessionali, iniziavano a muoversi nella politica internazionale seguendo anche altre finalità, in questo caso la tutela degli interessi dinastici. Tutto ciò era ben chiaro ai suoi occhi. Pur operando da una corte secondaria, in fondo da un semplice viceregno, posto però al centro del Mediterraneo ed inserito nei domini degli Asburgo di Spagna in Europa occidentale, egli riuscì infatti a raccogliere, tramite una variegata rete di informatori, notizie non solo su Napoli e sugli stati italiani, ma anche su altre realtà europee, e le interpretò finemente per i suoi interloc utori a Venezia. Di qui l’importanza di una figura come la sua per una città economicamente e politicamente avviata ad un graduale ridimensionamento del proprio peso internazionale, e conscia dell'importanza di un buon sistema diplomatico, non tanto per se guire una politica di potenza, ormai irrealistica, quanto per continuare ad esistere 161 .

159 A. Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche..., cit., p. 82. 160 A. Tallon, L'Europa..., cit., p. 177. 161 S. Andretta, L'arte della prudenza..., cit., p. 25.

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Bibliografia

- Fonti t ratte d a: •Antonella Barzazi (a cura di), Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli, dispacci Volume III 27 maggio 1 597 - 2 novembre 1604 , Istituto poligrafico e zecca dello Stato, Roma 1991.

- Monografie: •Paolo Preto, Venezia e i Turchi , Viella, Roma 2013. •Paolo Giovanni Donini, Il mondo islamico. Breve storia dal Cinquecento a oggi , Laterza, Bari 2007. •Alain Tallon, L'Europa del Cinquecento Stati e relazioni internazionali , Carocci editore, Roma 2013. •Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del Re , Einaudi, Torino 2012. •Wolfang Reinhard, Storia del potere politico in Europa , il Mulino, Bologna 2001. •Maria Antonietta Visc eglia, Riti di corte e simboli della regalità. I regni d'Europa e del Mediterraneo dal Medioevo all'età moderna , Salerno editrice, Roma 2009. •Stefano Andretta, L'arte della prudenza. Teorie e prassi della diplomazia nell'Italia del XVI e XVII secolo , Bibl ink, Roma 2006. •Maria Pia Pedani, Venezia porta d'Oriente , il Mulino, Bologna 2010. •Mario Caravale, Storia del diritto dell'Europa moderna e contemporanea , Laterza, Roma 2012. •Jeroen Duindam, Vienna e Versailles. Le corti di due dinastie rivali (1550 - 17 80) , Donzelli editore, Roma 2004.

- Saggi: •Daniela Frigo, Politica estera e diplomazia: figure, problemi e apparati in M. Rosa , G. Greco Storia degli antichi stati italiani , Laterza, Roma1997. •Paola Volpini, Ambasciatori, cerimoniali e informazione polit ica: il sistema diplomatico e le sue fonti , in Maria Pia Paoli (a cura di) Nel laboratorio della storia , Carocci editore, Roma 2013. •Aurelio Cernigliaro, Significar lo stato, in L. Bartella, G. Galasso (a cura di), Lo stato moderno e le sue rappresentazio ni , Aiep, San Marino 2011. •Nadia Covini, Milano, Venezia e il «canone italico» dell'ambasciatore nel Quattrocento , i n S. Andretta, S. Pequignot, J. - C. Waquet (a cura di), De l’ambassadeur. Les écrits relatifs à l’ambassadeur et à l’art de négocier du Moyen Âge au début du XIXe siècle, École française de Rome, Roma 2015.

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- Articoli s u r iviste s cientifiche •Alessandra Contini, Dinastia, patriziato, e politica estera: ambasciatori e segretari medicei nel Cinquecento, in « Cheiron » , 1998, n. 30, vol. XV. •Daniela Frigo, Introduzione , in « Cheiron » , 1998, n. 30, vol. XV. •D. Frigo, Corte, onore e ragion di stato: il ruolo dell'ambasciatore in età moderna , in « Cheiron » , 1998, n. 30, vol. XV. •Sara Veronelli, Al servizio del signore e dell'onore: l'ambasciator e imperiale Hans Khevenhüller alla corte di Filippo II , in « Cheiron » , 1998, n. 30, vol. XV.

- Atti d i Convegni: •Egidio Ivetic, Adriatico orientale. Atlante storico di un litorale mediterraneo , Centro Ricerche Storiche, Rovigno 2014.

- Classici: •Thomas Ho bbes, Leviatano , BUR Rizzoli, Milano 2016. •Niccolò Machiavelli, Il Principe a cura di Giorgio Inglese, Einaudi, Torino 2013. •Giovanni Botero, La Ragion di Stato a cura di Chiara Continisio, Donzelli editore, Roma 2009.

- Manuali •Neil J. Smelser, Manuale di sociologia , il Mulino, Bologna 2007.

- Fonte e nciclopedica •Massimo Carlo Giannini, Dizionario biografico degli italiani , 2013.

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Breve Encomion Olomovcii Metropolis di Andrea Trenta

Introduzione

Il poemetto elegiaco in lingua latina qui tradotto ed edito, intitolato Breve Encomion Olomoucii Metropolis, fu scritto dall’umanista ceco Šimon Ennius di Klatovy (lat. Glatovinus) e pubblicato nel 1549. Nato nel 15201 circa a Klatovy, nella regione di Plzeň, da una agiata famiglia borghese, Ennius - il cui vero cognore era Konvos - in giovane età si recò a Praga, dove intorno al 1544 completò i suoi studi presso l’università Karolina, ottennendo il baccellierato. Tra i suoi maestri vi era probabilmente l’umanista ceco Matouš Collinus z Chotěřiny, nella cui scuola Klatovský insegnò subito dopo essersi laureato. Collinus, figura di spicco dell’ambiente accademico praghese ed allievo di Melantone a Wittemberg, introdusse Klatovský nella cerchia di poeti e letterati del nobile e mecenate Jan Hodějovský z Hodějova, dandogli modo di conoscere umanisti come Tadeus Hájek z Hájek e Pavel Aquilinas Vorličný. Il clima politico in cui la Boemia si trovò dopo la battaglia di Mühlberg spinse Ennius a spostarsi nella più tollerante Moravia, che grazie all’appoggio dato all’Imperatore Carlo V e al Re di Boemia Ferdinando I nelle operazioni militari contro la Lega di Smalcalda non era incorsa nella repressione politico- religiosa regia. Klatovský, sebbene si mostrasse sempre zelante con i suoi committenti e li accontentasse indifferentemente dalle loro idee o convinzioni, era infatti un pensatore vicino alla Riforma e un antipapista, come appare evidente nelle sue lettere personali. Giunto quindi nel 1547 in Moravia2, a Prostějov, in “esilio volontario”, Klatovský continuava ad insegnare, divenendo rettore della locale scuola

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cittadina. A Prostějov ritrovò anche l’amico Vorličný, anche lui insegnante, ed iniziò a collaborare con il tipografo Gunther, presso il quale diede alle stampe il suo Encomion. In Moravia Klatovský entrò inoltre rapidamente in contatto con i membri di spicco del patriziato urbano di Olomouc - città distante solo una ventina di chilometri da Prostějov - tra cui il più volte consigliere e borgomastro Hieronymus Krcz. Grazie alla sua erudizione, al suo talento e alla sua ambizione egli ottenne presto dal senato olomucense e dal “console” Krcz l’incarico di scrivere un’opera celebrativa su Olomouc. Olomouc era nel XVI secolo il più ricco e popoloso centro della Moravia, regione storica delle terre ceche ed importantissimo crocevia dell’Europa centrale, con molti contatti con le corti e le università di Vienna e Cracovia. Prima di Klatovský le lodi della città erano state cantate da altri umanisti attivi ad Olomouc, quali il Taurinus e il Sibutus, ma si trattava in verità di parentesi inserite in poemi dedicati ad altri personaggi- nel caso dei due autori menzionati, si tratta dei Re di Boemia ed Ungheria Luigi II Jagellone e Ferdinando I d’Asburgo3. Nessuno aveva mai dedicato un’opera intera ad Olomouc, con l’unica eccezione di Collinus, il cui panegirico non è purtroppo giunto sino ai nostri giorni. I modelli dell’Encomion vanno dunque ricercati, oltre che nel mentore Collinus – luce della luce lo definisce Klatovský nel poema - nelle opere di una serie di umanisti centroeuropei, come lo stesso Aquilinas Vorličný (“Elegia de Prostanna in Marchionatu Moravie”), Helius Eobanus Hessus (“Norimberga Illustrata”), Johannes Heun - chiamato nel poema Gigas - (“Encomion Lipsia”) e soprattutto Conrad Celtis4 (“De origine, situ, moribus et institutis Norimbergae”). Scrivendo un’opera che celebrasse il passato ed il presente di Olomouc, Klatovský intendeva da un lato esaudire le richieste dei suoi committenti, dall’altro collegare direttamente Olomouc al network dei centri letterari più prestigiosi dell’Umanesimo centroeuropeo, equiparando essa e sé stesso ad altre grandi metropoli e poeti: l’Encomion dunque rispondeva alle ambizioni tanto del patriziato olomucense quanto dell’autore stesso, il quale mirava attraverso il poema ad ottenere fama, benessere materiale e nuove committenze. Sia pur con evidenti esagerazioni di natura poetica, l’Encomion può pertanto essere considerato il capolavoro di Klatovský, il quale centra entrambi gli obiettivi sopra menzionati, costituendo un’opera dallo stile letterario pregevole che restituisce appieno la dimensione e le ambizioni di Olomouc nel corso di quello che fu il suo secolo d’oro. Leggendo attentamente il testo si può osservare come nulla venga omesso circa Olomouc ed il suo status di prestigiosa capitale della Moravia, nonostante lo spazio a disposizione dell’autore sia abbastanza limitato.

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Facendo sfoggio di una conoscenza notevole dei classici, Klatovský introduce il suo poema richiamandosi alle πόλεις greche e alla respublica romana, paragondando il committente dell’opera (il Krcz) a Pericle stesso ed i membri del consiglio comunale ai Patres di ciceroniana memoria: glorificando i suoi leader, Klatovský esalta anche la libera città reale di Olomouc, che quasi rassomiglia ad una moderna Atene o Roma. Egli chiarisce poi i motivi fondamentali dello splendore di Olomouc: elogia la sua estensione territoriale - che non ha pari nell’intera Moravia -, la sua preparazione militare - lascito delle guerre hussite e dell’età di Mattia Corvino - e le sue giuste leggi, le quali permettono al popolo olomucense di vivere in armonia, facendo affari invece di azzuffarsi. Rende poi omaggio, assieme ad alcuni umanisti tedeschi e boemi del suo tempo già menzionati (Collinus, Eobanus, etc.) al mito che la cultura umanista aveva fabbricato per la città, secondo cui Olomouc era stata fondata da Giulio Cesare in persona, che su una delle colline della città avrebbe collocato il suo castrum. Dopo una rapida ma essenziale descrizione fisica di Olomouc e dei suoi confini geografici, l’autore passa ad elencare le memorabilia che rendono Olomouc unica rispetto al resto delle città morave. Lo fa con grazia ed eleganza, fondendo spesso il mito e la realtà, con esiti poeticamente e linguisticamente brillanti, come quando spiega l’importazione in città del vino dall’Ungheria o quando immagina Diana che danza nuda nei boschi attorno ad Olomouc. Klatovský ricorda inoltre al lettore un evento epico ma quasi dimenticato della storia di Olomouc, il presunto assedio dei Tartari del 1252, dipingendo a tinte fosche gli invasori – hostis atrox li definisce - ed esaltando l’eroe che allo spuntare dell’aurora sbaraglia i suoi nemici. Ad alcuni edifici della città Klatovský dedica poi sezioni apposite, forse le più interessanti dal punto di vista storiografico dell’intero poema, sebbene anche questi possano in realtà confluire nelle amoenitas già menzionate. Si tratta del Municipio, del Palazzo Vescovile, della Scuola cittadina di San Maurizio e dei mercati che annualmente inondavano Olomouc di merci e visitatori. In questa ultima parte, prima di congedarsi dal lettore, Klatovský dimostra come all’inizio del poema la chiara committenza municipale dell’opera. Sebbene infatti ossequi raffinatamente i Vescovi di Olomouc Thurzo e Dubravius - in qualità di patroni delle arti e non di Principi della chiesa - traspare evidente l’intenzione dell’autore di celebrare la grandezza di Olomouc in quanto libera città reale più che residenza del capo della diocesi morava. Poetici quanto estremamente realistici appaiono i riferimenti alle contrattazioni durante i mercati annuali, alla difficoltà dei consiglieri comunali di amministrare la giustizia, all’opulenza della Chiesa di San Maurizio, chiesa parrocchiale e quindi

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sotto il controllo del consiglio e non del Vescovo - tutti elementi distintivi di una città reale e della sua identità culturale borghese. Klatovský conclude l’Encomion ribadendo come il suo sia un piccolo sforzo, che certamente verrà superato da altri talenti e che però, in quanto genuino, deve essere accolto da Olomouc: permettendo a Klatovský e a chi lo seguirà di cantarne le lodi, Olomouc potrà infatti godere di eterna fama. In definitiva, l’Encomion rappresenta un importante documento storico ed opera d’arte del XVI secolo: esso conferma quanto è possibile estrapolare leggendo molti testi specialistici su Olomouc e sull’Europa centrale in quel periodo. Lo fa con eleganza e semplicità, con erudizione e realismo; e per questa sua capacità di immergere in poche righe il lettore nel vivido paesaggio urbano olomucense cinquecentesco esso dovrebbe accompagnare ogni lettore interessato alle tematiche della Storia moderna ceca e centroeuropea.

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BREVE ENCOMION OLOMOVCII METROPOLIS

In Moraviae Marchionatu, scriptum in gratiam amplissimi Senatus Urbis eiusdem, carmine Elegiaco, a SIMONE ENNIO GLATOVINO

Prostannae excudebat Ioannes Juntherus Anno M D L

NOBILI JUXTA AC ERUDITIONE viro claro D. Hieronymo Krcz, civi et Consuli primario Olomucensi etc. suo amico et patrono integerrimo: Simon Ennius Glatovinus: sub hoc tempus Prostannensis Scholae Rector; S. P. D-

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Jam facunde diu nostris Hieronyme5 Geronimo, con l’eloquenza delle nostre votis preghiere già da lungo tempo Optabam Musa cognitus esse tibi: desideravo esserti grato con la poesia: Inter ut innumeros mihi pars affinché anche io facessi parte di quei aliquanta clients numerosi clienti che riscaldi nel cuore Esset quos gremio, patris amore, foves. con amore paterno. Hactenus haud illud licuit praestare: Fino ad oggi non mi è stato lecito canebat dedicarmi a ciò, poiché la mia Musa non Consule te dignum quod mea Musa ti cantava degno del consolato. nihil. At modo spectatae scripsit de Ma ora mi ha aiutato a scrivere delle lodi laudibus Urbis dell’apprezzata città dove hai trascorso In qua sunt vitae tempora grata tuae gli anni felici della tua vita, nella quale, In qua jure tenes primas Hieronyme Geronimo, detieni giustamente gli partes, incarichi principali e questo lo hai Hoc meruit virtus eloquiumque tuum. meritato per la tua virtù ed eloquenza. Praeditus hoc dono viduas defendis Dotato di questi doni difendi le oneste honestas vedove e porgi il tuo aiuto agli orfani. Pupillisque tuum porrigis auxilium. Cui magis ergo meas nugas6 offerre A chi dunque era lecito offrire le mie decebat Quam tibi? qui summus fautor nugae più che a te? Tu che sei sommo es Aonidum7. sostenitore delle Muse.

Omnibus ilia licet patribus sint È lecito che gli scritti siano dedicati a Scripta dicata tutti i Padri, i quali assieme a te Qui tecum celebri dant sacra jura foro. concedono sacri diritti all’affollato foro. Nullius at poterint nostras ornare Ma gli scritti di nessuno potranno Camoenas ornare le nostre Camene come le tue Culta Pericleis ut tua verba sonis. parole esaltano sonoramente il culto di Pericle.

Accipias igitur scriptas hoc carmine Accetta dunque le lodi scritte con questo laudes. carme. Accetta quelle lodi che ha scritto Ingenio scripsit quas mea vena rudi la mia ispirazione poetica con rozzo Accipe, commendaque tuis encomia ingegno e presenta con le tue parole verbis questo encomio ai Senatori, ai devoti Ante Senatores, ante piosque patres Padri.

Data e Schola nostra Prostannensi, 29. Decembris, quae fuit Vigilia Andreae Anno 1549.

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Ad urbem praefatio Prefazione alla città Vos date principium, calamoque favete Voi date l’inizio e favorite la scrittura, Camoenae8 Camene, nomi nati dalla mente del De cerebro summi nomina nata Jovis Sommo Giove, e venite qui con celere Huc celeri properate gradu, passo, lasciate le acque del Parnaso, il Parnasidos undas protettore Apollo non ve lo impedisce. Linquite, vos minime praeses Apollo Entrate qui nei territori della Moravia a vetat. voi ignota, oh, benché lunga sia la via Huc et ad ignotae fines intrate Moravae, dall’Elicona. Longa sit huc quamvis ex Helicone via. Desidero scrivere un carme nuovo con la Ignotum cupio vestro modulamine vostra armonia, un carme che non potrà carmen mai scomparire con la morte. Scribere, quod nunquam morte perire potest.

Propositio Proposizione Scilicet, Olmicii laudes, cui nun habet Naturalmente sono necessarie le lodi di urbem Olomouc, a cui la terra Morava non ha Aequalem lato terra Morava solo, una città uguale per estensione del Est opulenta satis, forti instructissima suolo, è abbastanza prospera, Marte, particolarmente preparata nell’arte Et servat leges, Justiniane, tuas. militare, e rispetta, Giustiniano, le tue In qua perpetuo felix concordia floret, leggi. Namque in ea cives foedera pacis amant. In questa città splende sempre fiorente Inclyta felici cujus respublica cultu la concordia, infatti in essa i cittadini Crescit, divitiis estque beata suis. amano sempre i patti di pace. Questa Moribus egregiis populum, illustre repubblica progredisce grazie virtuteque sancta uno stile di vita propizio ed è felice delle Excultum gremio nutrit, habetque suo. sue ricchezze. Aucta Senatorum fulget probitate Essa educa il suo popolo con abitudini fideque, raffinate e lo ingentilisce di sacra virtù, e Hinc pia pupillis tradere jura solet. lo mantiene vicino a sè. Fiorente, la città risplende dell’onestà e della fiducia dei Si mihi Nasonis9 detur facundia vatis, Senatori, e di conseguenza è solita Detur et Andini vena diserta senis10, consegnare ai fanciulli pie leggi. Non possem dignas urbis describere Se non mi fosse data l’eloquenza del vate laudes, Nasone, se non mi fosse data anche Excedit vires nam labor iste meas. l’ispirazione brillante del vecchio Andino, non potrei scrivere lodi degne della città, infatti questo lavoro supera le mie forze.

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Sed velut in pictis vernali tempore pratis Ma come sui prati fioriti in primavera (Deplorat veteres cum Philomela11 (quando Filomela piange le antiche dolos) perfidie) l’ape succhia la cima dei fiori Flores carpit apis summos mel dulce producendo il dolce miele e lo porta recondens, nelle stanze meravigliosamente In mire structas fertque subinde domos: costruite, così allo stesso modo con le Sic ego ceu digitis tangam suprema, dita io toccherò le parti supreme e canamque, canterò, chi cerca tutto è impedito da Omnia conanti vena pusilla negat. una piccola ispirazione. Ornarunt patrias urbes plerique poetae La maggior parte dei poeti ornò con lodi Laudibus, hic quorum nomina pauca le proprie città, qui canterò pochi nomi canam. di costoro. Norica berga tuas, pleno doctissimus ore O Norimberga, Eobano, re dei vati, Cantavit vatum rex Eobanus opes. dottissimo di maestosa voce poetica, Aeternos nomen cujus durabit in annos, cantò le tue ricchezze. Nesciet illius sanctaque Musa mori, Il nome di questi durerà eternamente e Inclytus Aonidumque Gigas te carmine la sua sacra Musa non potrà morire. cultor O celebre Lipsia, Gigas, illustre cultore Ornavit digno, Lypsia clara, tuus: degli Aonidi, ti adornò con un carme Boiemas aliquot laudavit versibus urbes degno. Collinus patriae gloria, luxque Luce. Collino, gloria della patria, luce della Quid loquar Olmicium, quod luce, lodò in versi alcune città boeme. commendare voluntas Che cosa dovrei dire di Olomouc, questa Me rapit, urbs laudes haec cupit eximias. città merita eccelse lodi, cosa che la Nobile nam reliquas inter caput extulit volontà mi trascina a fare. urbes, Infatti essa maestosamente sollevò il Vincit Sydereas ut vaga luna faces12. capo sopra le altre città, come la pallida Vel Jovis ut reliquas longe super eminet luna oscura le fiaccole sideree. O come ales, l’uccello di Giove si eleva al di sopra Dum volat er radios tangit, Apollo, tuos. degli altri, mentre vola e tocca i tuoi Sed mea sufficiet promptissima, spero, raggi, o Apollo. voluntas Ma, spero, che la mia volontà sia ben Quando quod optarim non licet usque pronta al successo, anche se a me non è mihi. lecito come vorrei.

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Dedicatorium carmen Carme Dedicatorio Tu mihi ferre pedem digneris, Sancte Degnati di venire da me, rispettoso Senatus, Senato, tu che governi tutte le bellezze Qui regis aequatis legibus urbis opes: della città con giuste leggi: il refrigerante Marchia Coeruleo quas tramite frigidus Morava decora le parti con un percorso ornat, azzurro, e bagna con le acque irrigue le Urbis et irriguis moenia scindit aquis. mura della città. Huc ades, atque tuas nostris da cantibus Vieni qui e adatta le tue orecchie al mio aures, canto, e ti prego di non disprezzare Nec quaeso tenuis sperne laboris opus. l’opera del mio semplice lavoro. Infatti Nam sine te versus aliquod vix pondus senza di te i miei versi avrebbero scarsa haberent, importanza, e forse sarebbero privati del Privatique suo forsan honore forent. loro onore. Ergo benignus ades praeconia suscipe: Dunque vieni in fretta e accetta vatis l’encomio: e di chi mi ispira dirigi le Et rege propositi vela, ratesque tui. vele, e del tema da trattare manovra la tua barca.

Positio et situs Urbis Posizione della città Est mons non altus priscisque vocatus Vi è un monte non alto e chiamato Julmons13, anticamente Iuliomons, nome che fu un Monte sub hoc donis campi tempo utilizzato anche per la città. cerealibus apti Alle pendici del monte si estendono da Quo fuit Urbs etiam nomine dicta prius. ogni parte campi coltivati a cereali, e si Undique se tendunt, prataque picta vedono prati in fiore. vident. Questi luoghi estremamente fertili di Quae loca ferre solent flavas uberrima solito recano bionde messi e rendono ai fruges, loro coltivatori giuste ricompense. Agricolis reddunt praemia justa suis. Questo luogo vede fiumi e molti stagni, Flumina piscinasque videt locus iste che offrono pesci saporiti, ottime frequentes, pietanze. Quae praebent pisces, fercula lauta, Nei pressi ci sono anche delle foreste e bonos. verdeggianti boschi, nei quali Diana, Sunt etiam circum Sylvae, Saltusque nuda, esercita danze: e caccia anche virentes, lepri, e scelte le frecce insegue per luoghi In quibus exercet nuda Diana Choros: impervi cinghiali feroci. Et modo venatur lepores, sumptisque E i veloci cervi che hanno corna ricurve sagittis giocano in armonia sulla riva dell’acqua Invia frendentes per loca figit apros. gelida. Curvaque veloces qui gestant cornua cervi Ad gelidae ludunt ordine littus aquae.

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Erecto pavidas ibi currere corpore Vedrai lì correre timidi daini, con il damas corpo eretto, inseguiti da una turba di Conspicies, sequitur quas vaga turba cani. canum. In quel luogo la caccia reca sollievo ai Recreat egressos illic venatio cives, cittadini usciti dalla città, mentre la Dum cadit in teretes praeda petita preda inseguita cade nelle reti dalle plagas. maglie ritorte. Flumen ad irriguum vernant florentibus I giardini rinverdiscono con alberi in horti fiore grazie al fiume irriguo, e nella Foetibus, atque suo tempore poma giusta stagione portano frutti. ferunt. Si dice che Semele, la bellissima madre Dicitur hic Semeles Bacchi di Bacco, infelice sia morta qui a causa pulcherrima mater del fuoco fulmineo di Giove. Fulmineo infelix igne perisse Jovis. Il figlio non volle passare qui la sua vita, Filius unde suam non vult ibi ducere e per questo motivo negò il dolce vino ai vitam cittadini di Olomouc. Tuttavia non Civibus hac causa dulcia vina negat. mancano i doni del Bacco ungherese, Non tamen Ungarici desunt che i cittadini trasportano in munuscula Bacchi, abbondanza da quella regione. Troverai Quae longa cives de regione vehunt. lì anche vini dai territori di Creta, Invenies etiam Cretae de finibus illic oppure molte botti di vino austriaco. Vina, vel Austriaci dolia multa meri. La città prosperosissima si trova in His jacet in mediis urbs florentissima mezzo a questi campi, prossima ai tuoi campis argini, o placido Morava. E alle parti Proxima marginibus, Marchia lente, della Borea sembra essere più elevata, tuis. infatti sorgono sopra quella parte case Ad Boreae14 partes sublimior esse costruite su rocce. videtur Dalla parte occidentale vede i coraggiosi In petris structas nam videt illa domos. boemi, dall’asse nord-orientale vede la Respicit occidua fortes a parte Boemos, regione della Slesia. Silesias rigido cernit ab axe piagas. Ma dalla parte in cui viene l’austro con At qua parte venit pluviis cum flatibus soffi pluviali, una numerosa Auster15, popolazione abita il suolo austriaco. Incolit Austriacum gens populosa Ad est l’Ungaro ricchissimo di campi solum. sceglie i suoi luoghi, nato per la guerra. Solis ad exortum ditissimus Ungarus agri Delegit sedes, natus ad arma, suas.

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Urbis amoenitas Le attrazioni della città Urbs est Olmicium gemino circumdata La città di Olomouc è circondata da una muro, doppia cinta muraria, e le alte mura Inter et alta frequens moenia turris sono adest. frequentemente intervallate da torri. Hic ubi sulfureos jaciens stat machina Sulle torri sono collocate delle macchine glandes, che lanciano palle di zolfo, sfere Machina fulmineos mittere docta fulminee. globos. In questa città gli abitanti praticano Exercent varias artes hac urbe coloni, varie arti, ciascuno con il suo mestiere Arte sua victum quisque parare studet. desidera procurarsi da vivere. Marchia queis gelidas largitur frigidus Il refrigerante Morava elargisce loro undas. acqua fresca, e con acqua corrente Et celeri sordes abluit urbis aqua. spazza via le immondizie della città.

Structura domorum Struttura delle abitazioni Quando mundiciem lustro, seriemque Quando vedo l’eleganza e la successione domorum delle case e osservo abitazioni decorate Arte laboratas aspicioque domos, artisticamente, o Dei celesti, quante Proh Superi16, quantas video cum roccaforti vedo con le mura sorgere con moenibus arces i loro tetti sotto la volta di stelle, in Surgere culminibus celsa sub astra suis, successione ci sono palazzi costruiti di Ordine stant aedes duro de marmore solidi solido marmo, infatti vicino alla structae, città una cava le procura la pietra. Urbi marmor enim petra propinqua Da questa pietra provengono torri di parit. vette vertiginose, che decorano la città e Excelsae crescunt de quo cum vertice ne proteggono le ricchezze. Mentre le turres altre città sono prive di rocce e di cave, Ornant urbanas, atque tuentur opes. edificano umili case di legno! Urbes cum reliquae careant, saxisque La felice Olomouc vede ovunque solide petrisque, pietre, e gli artigiani sanno scolpire le De lignis humiles aedificentque domos! pietre in casa. Felix Olmicium solidas videt Da questa pietra sono edificati palazzo, undique petras, piazze, templi e alti monasteri che Artificesque domi sculpere saxa sciunt. giungono quasi alla cupola eterea. De lapide hoc aedes, fora, templa Difficilmente potresti crederci! parantur, et alta I palazzi possono rivaleggiare con quelli Coenobia aethereo facta propinqua in cui vivono i re, e i principi polo. magnanimi. Credere vix possis! aequare palatia possunt, Quae Reges habitant, magnanimique Duces.

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Multi concives non parcunt Molti concittadini non risparmiano sumptibus amplis, ampie spese, per avere case Ut possint pulchras ordine habere armoniosamente belle. domos.

Pulchritudo portarum La bellezza dei portali Quid nova commemorem duro Perché ricordare nuovi muri di pietra surgentia saxo dura in costruzione, fossati e porte dei Moenia, vallatas aggeribusque fores? bastioni? Per quas ingreditur populus: Il popolo entra in città attraverso esse: custodia fortis un forte corpo di guardia si trova qua, e Hic stat, et appositi nocte dieque viri. uomini addetti si trovano lì notte e Tecta coloratasque tegunt sublimia giorno. portas, Alti tetti proteggono le porte verniciate, Frontibus inque suis regia signa e sui loro portali ci sono insegne regali. ferunt. O Gesù salvatore hanno anche i segni Signa crucisque tuae portant servator della tua croce, che sei stato una vittima Jesu, cara per tuo Padre. Olomouc lascia alle Qui fueras patri victima grata tuo. sue spalle di gran lunga tutte le città, che Omnes Olmicium longe post terga si trovano nella ricca terra morava. relinquit La città abbonda di eccelse torri tra le Urbes, quas dives terra Morava videt. mura stupende, da dove lancia sfere di Turribus excelsis inter formosa superbit zolfo. Moenia, sulphureos inde jacitque Le alte porte conservano le lucide armi, globos17. che vengono utilizzate, quando le Armaque sublimes servant guerre di ferro lo richiedono. radiantia18 portae, In tutti i punti è fortificata, affinché in Utitur his, quando ferrea bella jubent. nessun punto possa accedervi il crudele Omnibus est munita locis, accessus ut nemico. hosti È circondata da un fossato, rinforzata da Crudeli nulla parte patere queat. trincee, pronta a respingere Vallo circumspecta suo, firmataque coraggiosamente le schiere nemiche. fossis, Un tempo ciò si segnalò per il suo Fortiter hostiles prompta fugare manus. grande valore, quando mandò in fuga i Praestitit hoc olim celeri virtute, fugavit suoi nemici per vivere in modo sicuro. Quando suos hostes ut bene tuta foret. Tutta la regione fu appunto in un Jam fuit in magno Regio discrimine tota, terribile disastro, quando provò i rischi Tartareae sensit quando pericla della schiera dei Tartari. manus19.

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Excursio Excursio Commemorare libet paucis haec fortia A pochi piace ricordare queste gloriose gesta, gesta, delle quali la storia canta con De quibus historiae, non sine laude grandi lodi. canunt. A quell tempo il Re d’Ungheria Bela Qui tunc Ungariae rex Bela regebat teneva le redini e volle nuocere alla habenas, regione boema con la guerra. Dal fiume Boiemae voluit Marte nocere plagae: dell’Erebo condusse una stirpe Ex Erebi genitam conduxit flumine originaria, la quale trasse dal fiume Stige gentem. nomi terribili. Quae trahit a Stygio nomina dira lacu. Premislao bandì Bela con forti armi, e la Primislaus20 Belam sed fortibus gente tartara fu volta in veloce fuga. expulit armis, Versa est in celerem Tartara gensque fugam.

Olomucium Tartaros fugavit Anno Christi Olomouc mise in fuga i Tartari nell’anno del 1252 Signore 1252 Turpiter et rediens urbes populata Ritirandosi caoticamente essa devastò le Moravae est, città della Moravia, e incenerì le sue Ejus et eximias igne cremabat opes. grandi ricchezze. Cinse anche Olomouc Cinxit et Olmicium cupiens evertere desiderando assediarla. Questa città era muros, ormai in grande timore, se così non Haec urbs in magno jamque pavore fuit. avesse recato aiuto alla città oppressa il Ni sic oppressae fortis succurreret Urbi coraggioso Jaroslav e non le avesse dato Jaroslaus, prudens consiliumque daret. consiglio. Heros a Sternberck hic nobile Questo eroe, che traeva nobile origine da Stemma trahebat, Sternberk, aveva parlato ai cittadini Civibus hac pressis voce locutus erat: assediati così: “Per noi è molto più facile Hosteis est multo facilius inde fugare mettere in fuga i nemici da qui che Nobis, quam tremula vincula ferre portare le catene con le mani tremanti: manu: raccogliete dunque nuovo coraggio e Colligite ergo novas vires, estoteque siate forti, scacciamo subito i nemici fortes, crudeli dalla città”. Hosteis pellemus mox et ab urbe truces. Obbedirono al suggerimento e, prese le Parent consilio, sumptisque viriliter armi, con forza attaccarono i loro nemici, armis in silenzio nella notte. Jaroslav condusse Invadunt hosteis, nocte silente, suos. la schiera con un ordine chiaro, lui che Jaroslaus certo turmas ex ordine duxit ebbe la mente generosa del comandante Cui fuit Aeacidae21 mens generosa Eaco. ducis,

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Maneque cum fulgens aurora22 cubile E di mattina, appena la fulgente aurora reliquit, Praedixitque suo Lucifer igne lasciò il suo letto e Lucifero proclamò il diem: giorno con il suo scintillio, attraverso le Per portas acies hostilia castra sequentes porte le schiere raggiunsero il campo Altos cum somnos duceret hostis atrox: tartaro dove l’atroce nemico dormiva Invasere feros armis feliciter hosteis profondamente. Velocemque dedit Tartara turba Con successo d’ armi attaccarono le orde fugam. feroci, e la massa dei Tartari si diede ad Quantas Olmicium laudes, una veloce fuga. preconiaque quanta Quante lodi e che grandioso encomio Victrici meruit bella gerendo manu! meritò Olomouc facendo la guerra con Namque metu magno reliquas un esercito vittorioso! absolverat urbes, E infatti aveva liberato le altre città da Dum fugat ad gelidas tartara Castra quella grande paura, mentre metteva in plagas. fuga il nemico verso le regioni gelide.

Aula Episcopi Olomucensis Palazzo del Vescovo di Olomouc Diximus ad Boreae partes quod celsior Abbiamo detto che la città si erge più in urbs est, alto verso le parti della Borea, e dal suo Et de colle videt prata propinqua suo. colle vede i prati vicini. Hoc in colle suas praesul fundaverat Su questa collina il vescovo Stanislao aedes Thurzo, uomo di somma devozione, Stanislaus Turzo, vir pietatis amans. aveva iniziato a costruire la sua dimora. Quas quia non potuit fragilis per Poiché, per la precarietà della vita tempora vitae umana, non poté terminarla, questa Perficere, infectum manserat istud opus. opera era rimasta incompiuta. Dunque il Hoc modo Dubravius23 magnis cum vescovo Giovanni Dubravius la decora sumtibus ornat con grandi spese, e accelera l’opera di Praesul Joannes, molis et urget opus. costruzione. Cujus cum video muros turritaque tecta, Quando vedo le sue pareti e i suoi tetti Lustro vel ex humili culmina celsa loco: torriti, fisso con lo sguardo dal basso Non domus est dicenda magis sed verso la parte superiore: non deve essere nobilis aula, più chiamata casa, ma nobile palazzo Arbitrio soleo dicere saepe meo. (sono solito dirlo a mio giudizio). Infatti Nam tot habet cameras clausas sub ha tante stanze coperte da soffitti a volta. fornicis arcu. E tante stufe, quante stanze della reggia Totque Stubas, quot nec regia solis non sono riscaldato dal sole. habet. Il panorama da lì è degno delle Muse Prospectus Musis illic aptissimus almis, vitali, ed infatti si estendono boschi, Namque patent Sylvae, flumina, fiumi, prati e laghi. prata, lacus. Di qua le candide mucche con i loro Dentibus hac niveae tondunt sua denti ruminano l’erba, e quasi danzando gramina vaccae, in questa zona vagano le greggi: quando

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Ballantes errant, hac quoque parte l’ardente sete le opprime vanno ai rivoli greges: che scorrono, trascinati da gelide Quos ubi sicca premit sitis ad correnti. Questo palazzo vescovile currentia tendunt decora anche la celebre Olomouc, dove Flumina, quae gelidis inde feruntur dimorano le Grazie e le dee Pieridi. aquis. Haec ornat celebrem quoque regia praesulis urbem, Qua Charites habitant, Pieridesque Deae24.

Marchia fluvius Il fiume Morava De circumfuso quid dicam flumine? Che dirò riguardo al fiume che circonda Cuius Olomouc? Di questo ammiro le acque Cum video vitreas currere, miror aquas. trasparenti quando le vedo scorrere. A Vix ita Pannoniae decorat formosa stento in questo modo abbellisce le mura Viennae di Vienna in Pannonia, il freddo Ister Moenia, caeruleis frigidus Ister25 aquis. dalle azzurre acque. Ornat ut Olmicii muros uberrimus Il ricchissimo Morava invece orna le amnis mura di Olomouc al punto che le bagna Marchia, qui geminis moenia findit con acque gemelle. Esso scende da alte aquis. montagne e da scuri antri, e cambia poi Montibus excelsis, atris et scandit ab direzioni attraverso le pianure fangose. antris, E si divide dopo in due parti per Hincque per ambiguos cornua giungere in città e lambisce le mura torquet agros. dipinte insieme alle porte. Scinditur inque duas partes lapsurus Per scopi diversi gli uomini possono in Urbem, prendere le acque, come lavare i loro Pictaque cum portis moenia pulsat aqua. corpi nei punti dove l’acqua è più bassa. In varios usus homines depromere Dalle acque del fiume fanno una lymphas bevanda saporita, quando le mescolano Possunt, et liquidis membra lavare con il luppolo, e con i tuoi doni, o Cerere. vadis. Vi sono anche dei bagni presso le alte Cujus conficiunt sapidum de flumine rive del fiume, dove le donne e gli potum, uomini lavano il sudore. Dum lupulum miscent, et tua dona, Sull’argine alto del fiume ci sono i Ceres26. mulini, argine limitato da pietre nelle Balnea sunt etiam ripas ad fluminis quali c’è lo spirito di Cerere. altas, Una casa che si affaccia sulla parte Hic ubi sudores foemina, virque lavant. inferiore forma papiri assorbenti Amnis in excelsoque molae stant d’acqua, e da sola sta tra le onde fredde margine structae, del fiume. Conteritur saxis in quibus alma Ceres.

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Inferiusque domus bibulam facit una Quando tuttavia il Morava lascia la città papyrum, con flusso precipitoso, non scivola poi Fluminis algentes sola stat inter aquas. via con doppio guado. Ma ritornando in Ast ubi praecipiti cursu descendit ab sé divide le acque in piscine, e da lì si urbe dirige verso le acque austriache. Marchia, non duplici labitur inde vado. In se sed rediens piscinis dividit undas, Hinc et in Austriacas cornua flectit aquas.

Laus Urbis a clementia coeli Elogio della città per il clima temperato Urbe hac praecipue coeli clementia In questa città regna perlopiù un clima regnat, mite, una deliziosa atmosfera che è Civibus et cunctis aura benigna favet. favorevole ai cittadini e a tutto. Aedificata loco quoniam sua tecta La città infatti ha tutte le sue case salubri costruite in un luogo salubre ed essa è Urbs habet, in duris estque locata petris. collocata su dure pietre. Non riceve Tabe venenata viciatos non capit venti contaminati da vapori velenosi e Austros, nella città non c’è nessun luogo Pestifero est morbo nullus in Urbe locus. appestato. Spiritus hanc afflat ventisque La brezza soffia su questa città con venti salubribus Urbem, salubri, raramente quindi nuoce ad essa Rarius hinc illi pestis acerba nocet. un contagio dannoso. Invenies illic canos incedere cives, Vedrai lì camminare cittadini canuti, i Nestora27 longaevum qui superare quali possono superare il longevo queant. Nestore. Quod si quando nocens saevit per Quando una malattia infuria dannosa corpora morbus, sui corpi, e dentro la città coinvolge E media validos urbe rapitque viros. uomini forti, il sacro collegio del Senato Arte Machaonia28 claros sacer ordo sostiene coloro che sono celebri nell’arte Senatus di Macaone, e li sottrae a queste spese, Nutrit, in hos sumptus et facit eximios, loro che curano con veloce consiglio i Languida consilio celeri qui corpora corpi deboli, e con arte sapiente curant, bandiscono l’infezione. Ci sono infatti Et facili pellunt arte venena procul. determinate case che vendono farmaci. Sunt ibi namque domus certae, quae La folla cittadina le può ammirare nella pharmaca vendunt, piazza principale. Has videt in lato turba profana foro. Di queste desidererei scrivere magnifici Quarum magnificas cuperem elogi, una delle quali spesso mi dà describere laudes, ospitalità! Ex quibus hospicium saepe dat unae mihi:

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Ni mea mens jubeat coeptos urgere Se non fosse che la mia mente mi ordina labores, di terminare i lavori cominciati, poiché il Extra me quoniam currere Septa vetat. limite mi vieta di andare oltre ciò che ho deciso.

Curia Municipio At nihil inter opes Urbis tam nobile Ma nessuno tra gli edifici della città splendet splende così maestoso come il In medio, sicut curia structa foro. municipio, costruito al centro della Quam, quo commemorem, dubito piazza principale. nunc carmine, quave Esito ora, come dovrei commemorarlo, Laude feram? laus est haec operosa con quale carme o con quale lode nimis. presentarlo? Curarum domus est, sanctoque Questa lode sarebbe troppo elaborata. venusta Senatu, È il tempio degli affari pubblici, Mauritiique videt proxima templa sacri. impreziosito dal sacro Senato, ed ha Cujus et aërius gemino cum culmine vicino la chiesa di San Maurizio, il cui vertex Surgit, et excelsum tendit ad astra aereo vertice si eleva con due torri e caput. giunge con la cima in alto fino alle stelle. Tecta colorati lateres sublimia claudunt, Tegole colorate ne ricoprono gli alti tetti Effigiesque sua curia fronte gerit. e la facciata della curia ha delle effigi. Qua patet ingressus duplex gradus Dove si apre l’ingresso principale una altus habetur, duplice scala conduce in alto, offre ad Partibus ambabus praebet apertus iter. entrambe le parti un passaggio libero. Una parte solet sapiens intrare Senatus, Da una parte è solito entrare il saggio Judicium debet cum celebrare Senato, che deve pronunciare un sacrum. giudizio ponderato. Posteriore gradu transit non nobile Dalla scalinata posteriore passa la gente vulgus, umile, poiché in questa parte vende i Distribuit merces hac quia parte suas. suoi prodotti. Lata pavimentum circum se curia Il grande municipio ha intorno a sé una spectat, pavimentazione, e al centro del cortile si In medioque patens area strata loco est. estende una superficie di ciottoli. Libra ubi ferratis pendet suspensa Lì pende la libbra sospesa a catene di catenis, ferro, e con il suo peso calcola le merci Venalesque suo pondere pensat opes. vendibili. Intus convexa surgunt testudine structa All’interno ci sono sale costruite con Atria picta suis sunt et imaginibus. volta convessa, e sono decorate di Ast ubi justorum subsellia splendida dipinti. partum Dove poi ci sono gli splendidi sedili dei Auratis trabibus condecorata nitent: padri della giustizia, brillano ornati di Illic justitiae sedes sanctumque legni dorati: lì vi è la sede della giustizia Tribunal, e il sacro tribunale, che spesso suole aiutare gli uomini innocenti.

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Quod solet insontes saepe juvare viros. Esso sembra invece cosa orrenda per i Sontibus horrendum propter patrata colpevoli, a causa dei crimini commessi, videtur ed infatti non può giustamente Crimina, namque malis parcere jure risparmiare il male. Da entrambe le parti nequit. siede il venerabile Senato, quando suole Parte verecundus sedet ex utraque sollevare le giuste voci in ordine Senatus corretto. cum justas voces ordine ferre solet. Esso porta sulle spalle le difficoltà Impositosque suis humeris fertille imposte, quali nemmeno il potente labores, Atlante potrebbe sopportare. Quales non fortis ferer valeret Atlas29.

Turris ad Curiam La torre del Municipio At super auratas aedes altissima turris Sopra il Palazzo dorato si erge una torre Eminet, et pinnis nubila celsa ferit. altissima, e ferisce le alte nubi con i suoi In qua custodes vigilant sub qualibet merli. hora, In essa le guardie sorvegliano in Ne noceat rapido Mulciber30 igne ferox. qualunque ora, il feroce Vulcano non Aut sua furtivo tentoria milite figat danneggi con rapido fuoco. Hostis, ut eximias tolleret urbis opes. O il nemico non ponga l’assedio con Est quoque tibicen sociis cum soldati nascosti, per togliere le ricchezze quattuor illic, della città. Argutis, cives exhilaretque sonis. C’è lì anche un trombettiere con quattro aiutanti, per divertire con suoni squillanti.

Horologium Orologio Inferius monstrat certas properantibus Più in basso un orologio mostra i precisi horas, orari a coloro che si accostano. Quae stat in ambigua lubrica Sphaera Questa sfera ruota in un doppio cerchio. rota. Intorno ci sono delle statuette, e con Effigies adstant circum, temoneque giusto ordine mostrano a ciascuno con la recto lancetta i giorni dell’anno. Anni demonstrant ordine cuique dies. Municipio, che bisogno c’è di molte Curia, quid multis opus est? parole? Capitolia vincit, Esso ha superato i campidogli, che sono obscuro quae sunt inveterata situ. invecchiati per l’oscurità del sito.

A frequentia Mercatorum Della folla dei mercanti Haud decet ut taceum, celebris quam Non è lecito tacere come la città sia mercibus urbs sit, celebre per le merci, e quanto Quamque frequens illic advena frequentemente vendano lì i prodotti i vendat opes. forestieri. Quo mercatores variis de partibus orbis

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Adveniunt, merces aere locantque suas. Qui i mercanti giungono da varie parti del mondo, e vendono le loro merci con denaro.

Olomucii nundinae ter in anno Tre mercati annuali a Olomouc Ter31 tamen ingressus liber fit quolibet Tuttavia tre volte ogni anno l’ingresso anno diventa libero, quando di solito danno il concessae pacis cum dare signa solent. segnale della licenza concessa. Ingens Urbis honos est, et spes Grande è l’onore della città, e massima maxima lucri, la speranza di guadagno, una massa di Confluit e varia cum regione cohors, gente confluisce da diversi luoghi, Hoc quia conveniunt veteres sub poiché qui convengono in questa tempus amici, occasione amici di lunga data, e Antiquae renovant pignus amicitiae. rinnovano il sentimento dell’antica Illuc Ungarica veniunt tellure coloni, amicizia. Divitias portant curribus inque suis, Lì giungono coloni dall’Ungheria, Et de Sarmatica pingues regione Poloni, portando merci dentro i loro carri, e Pellentes multos longa per arva boves. dalla regione sarmatica i ricchi polacchi, Vicina apparent etiam de gente Boemi, portando le loro mandrie attraverso i Pragenses illic inveniuntur opes. lontani campi. Institor Austriacis merces de finibus Provengono dalla popolazione vicina amplas anche i Boemi, lì vengono trovati Advehit, e Veneta quas prius urbe tulit. prodotti praghesi. Invenies illic, quas dat Germania Il venditore importa merci abbondanti merces, dalle terre austriache, che in precedenza Gallica quas tellus, Anglica quasque aveva preso al mercato veneziano. plaga. Troverai lì i beni che dà la Germania, Et quis dinumeret populos, quelli che dà la Gallia e quelli che gentesque remota Quae veniunt illuc, produce la terra anglica. difficilique via, E chi potrebbe calcolare i popoli e le Namque celebre forum magnas videt tribù lontani che qui si riuniscono undique turbas, attraverso difficile percorso? Quas hominum nemo dinumerare E poiché la piazza affollata vede da ogni potest. parte grandi folle, nessuno potrebbe Millia tot capitum, quot lucida sidera enumerare queste turbe di uomini. coeli, Tante migliaia di testa quante le stelle Quae vendunt et emunt, pactaque brillanti del cielo, le quali vedono e conficiunt. comprano e fanno affari. Quae vendunt et emunt, pactaque Qui si può sentire lo strepito e i conficiunt. mormorii della gente, della lingua Hic audire potest strepitus, et madre e con suono teutonico. murmura vulgi, Maternis verbis, Teutonicoque sono.

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Sicut Vere novo, cum grex Come in primavera quando esce uno densissimus exit sciame densissimo e accorpato di api, e Conglomeratus apum32, prataque cerca i prati colorati: si ferma sui rami picta petit: degli alberi e con lieve ronzio persuade Frondibus arboreisque sedet, lenique le persone stanche a entrare in sonni susurro leggeri. Defessis somnos suadet inire leves: In tal modo riecheggia il chiasso degli Sic hominum strepitus resonat, sic uomini, così il vociare nella città, murmur in urbe, quando la folla ciarliera stipula contratti. Contractus quando garrula turba facit. La mente mi comanda a sollecitare con il Carmine templorum modicas carme le modeste lodi dei templi, a depromere laudes chiudere i versi in breve. Mens jubet, et versus claudere fine brevi. Sono moltissimi i templi che toccano le Plurima sunt, altas quae templa alte nuvole con la loro cima, e danno cacumine nubes prestigio alla loro Olomouc. Tangunt, Olmicium condecorantque suum.

Templum D. Mauritii Tempio di San Maurizio Ut jam de reliquis taceam: memorabile Come già degli altri io debba tacere: un templum tempio degno di memoria si innalza e Non procul a celebri statque nitetque risplende non lontano dalla celebre foro. piazza. Mauritio sacrum, saxo structumque Dedicato a San Maurizio, costruito con refecto, pietre lavorate, ai lati del quale si Ad cujus turres cornua stantque duae: innalzano due torri. Una gerit moles, sonituque sonantia Una porta una grande mole, e campane magno di bronzo che risuonano in lontananza, Aera, sed alterius frons ad aperta manet. ma la parete frontale dell’altra si affaccia Innumerae effigies in templi partibus all’aperto. haerent, Innumerevoli effigi sono fissate in parti Sanctorum facies angulus omnis habet. del tempio, e ogni angolo ha immagini Stant et ad insigneis altaria crebra di santi. columnas, Ci sono anche numerose cappelle presso Et sunt ornatu singula tecta suo. i pilastri, e ogni soffitto ha un affresco Cingitur expansis paries a fronte tapetis, diverso. Quae gens assueta Belgica texit acu. La parete anteriore è ricoperta di arazzi Cornibus in templi mediis altare appesi che la gente del Belgio è esperta a supremum tessere. Stat, gerit immanes arcaque summa Tra le due estremità è costruito un viros. bellissimo altare, e la sua sommità reca In medio genitrix vultu stat diva sereno, grandi personaggi.

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In manibus puerum nutrit, habetque Al centro sta la divina genitrice con suis. sereno volto e sulle sue mani tiene e Mauritiusque suos tollens ad Sydera nutre il fanciullo. vultus, Maurizio si trova a destra, levando il suo Proximus ad dextram, stat niger, sguardo alle stelle, nero e armato. arma ferens. Il duce Venceslao si trova a sinistra e con Vencesilaus item stat dux a parte entrambi le mani tiene aquile sugli Sinistra, scudi. In clipeis aquilas gestat utraque manu. O eloquente Simone, banditore della At facunde Simon, verbi praecoque parola, il pulpito costruito per te non sta diserte, lontano da lì: con questo fai spesso al Stat procul haud illinc structa popolo piacevoli discorsi e istruisci una cathedra tibi: folla di uomini inesperti nella Qua facis ad populum sacros devozione. persaepe lepores, Sotto la volta di un’arcata rivestita Instituisque rudeis in pietate viros. pendono organi, e risuonano con voci e Organa crustatae pendent sub cinguettii di uccelli. fornicis arcu, Vocibus et variis concomitantur aveis.

Schola ad templum D. Mauritii Scuola di San Maurizio Non procul a templo domus aedificata Non lontano dal tempio è stata costruita Minervae33 la celebre domus di Minerva, che aiuta Stat celebris, multos discipulosque molti allievi. fovet. Dove la gioventù istruita impara le arti Discit Apollineas artes ubi docta apollinee, apprendono anche buone juventus, maniere nobili. Essa a spese dei Senatori Imbibit et mores cum pietate sacros. mantiene gli alunni, dai quali il sacro Illa Senatorum sumtu sustentat gregge degli Eonidi attinge ricchezze. alumnos, Un’altra scuola è collocata dietro le Ex quibus Aonidum grex34 sacer prime mura della città, ed è frequentata haurit opes. nondimeno di un coro famoso. Ludus35 et alter adest urbis post Se valorizzassi tutti i templi con le giuste moenia prima, Camene, con le quali queste opere a Estque frequens clario non minus illi Olomouc avrebbero prestigio, il mio choro. inno crescerebbe in un grande libro, e il Omnia si justis commendem templa lettore potrebbe anche dirla opera Camoenis, storica: tralascio moltissime cose, ed Haec quibus Olmicii condecorantur affinché siano lodate le rimetto ad altri opes, talenti, che la sacra Musa potrebbe Cresceret in magnum mea favorire di più. commendatio librum, Lector et Historicum dicere posset opus:

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Plurima praetereo, reliquis laudanda relinquo Ingeniis, quorum plus sacra Musa favet.

Conclusio Conclusione Accipe nunc breviter scriptas, urbs Accetta ora le lodi scritte brevemente, inclyta, laudes, Parva voluntatis illustre città, conosci i piccoli sforzi della signaque nosce meae. mia volontà. Anche gli dei celesti Exiguis etiam coelestia numina36 gioiscono di piccoli doni, se sono stati gaudent dati da una mente pia. Muneribus, si sunt tradita mente pia. Qualunque cosa io porti tu accettala con Sic quaecunque fero tu suscipe fronte animo sereno, e la tua fama durerà in serena, eterno. Et tua perpetua fama superstes erit.

FINIS Fine

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Riferimenti Bibliografici

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Wratislav, Albert H. “Life and Writings of Dubravius, Bishop of Olmutz (1542-1553).” Transactions of the Royal Historical Society vol. IX (1881):137-151. Print.

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1 Per le informazioni biografiche sull’autore dell’Encomion si rimanda a: Biografický Slovník Českých Zemí. “Ennius z Fenixfeldu Simon”. http://biography.hiu.cas.cz/Personal/index.php/ENNIUS_z_Fenixfeldu_Simon_%3F1520-20.2.1561 (estratto il 12/10/2017). 2 Ivo Hlobil e Eduard Petrů, Humanism and Early Renaissance in Moravia, Olomouc, Votobia, 1999, 96-100. 3 Antonín Kalous ed., The Transformation of Confessional Cultures in a Central European City: Olomouc, 1400-1750, Olomouc, Viella, 2015, 60-63. 4 Ivo Hlobil e Eduard Petrů, Humanism and Early Renaissance in Moravia, Olomouc, Votobia, 1999. 176. 5 Hieronymus Krcz fu svariate volte membro del consiglio e borgomastro della città di Olomouc. Dal suo personale Registrum Domini risulta che nel 1549 ricoprì la carica di borgomastro. SOkA, AMO, inv. č 577, sign.13, Počty purkmistrovské (Registrum Domini Hieronimus Kcrz). 6 Il termine è preso in prestito da Catullo. Il poeta romano chiamò “sciocchezze” le poesie che compongono la prima sezione del suo Liber. Treccani. “Catullo, Gaio Valerio”. http://www.treccani.it/enciclopedia/gaio-valerio-catullo/. (Estratto il 14 settembre 2017). 7 Le Muse, figlie di Giove, ricevevano anche l’epiteto Aonidi (Aonie); l’Aonia era l’antico nome della Beozia, in cui si ergeva la montagna sacra dell’Elicona, dimora delle Muse. Secondo altre versioni l’Aonia era una fonte sacra alla Muse, che proveniva dalla sorgente Aganippe. Il nesso tra epiteto e figura mitologica è anche in questo caso evidentissimo. Anna Ferrari, Dizionario della mitologia greca e latina, Torino, UTET, 2002, pag.59. 8 Antiche ninfe profetiche della tradizione religiosa italica pre-greca. A Roma erano a loro dedicati un boschetto ed una sorgente fuori dalla Porta Capena, dove le Vestali si recavano per attingere acqua e offrire libagioni. Fonti più tarde le identificano con le Muse. 9 Ovidio, poeta romano vissuto in piena età augustea (43 a.C- 17 d.C), faceva parte del circolo di Mecenate. Celebri le sue Metamorfosi. Ibid., pag.137. 10 Publio Virglio Marone era nativo del villaggio di Andes, presso Mantova. Morto a 51 anni, mentre ancora rivedeva l’Eneide, per l’epoca in cui visse poteva ben dirsi vecchio. Treccani. “Virgilio Marone, Publio.” http://www.treccani.it/enciclopedia/publio-virgilio-marone. (Estratto il 14 settembre 2017). 11 Filomela era figlia del re di Atene Pandione e sorella di Procne. Zeus trasformò le due sorelle ed il marito di Procne, Tereo re dei Traci, in uccelli, in seguito ad un orrenda vicenda fatta di menzogne, prigionia ed infaticidio scatenata dalla brama di Tereo per Filomela. Tereo fu mutato in falco (o upupa), Procne e Filomela in rondine e usignolo (l’esatta metamorfosi è incerta, ma forse qui l’autore dell’Encomion ha fuso diverse tradizioni, collegando a Filomela sia l’uccello primaverile per eccellenza, la rondine, che quello il cui verso ricorda il pianto ed il lamento, ovvero l’usignolo). Anna Ferrari, Dizionario della mitologia greca e latina, Torino, UTET, 2002, 684. 12 L’immagine poetica della luna che splende nel firmamento risale Omero (Iliade VIII, vv. 555-556). È tuttavia Saffo il precedente più antico di questo verso: nella poesia Plenilunio, la poetessa mostra una luna che con il suo fulgore oscura le altre stelle. Bacchilide paragonerà un giovane atleta vittorioso alla luna che si “distingue dalla luce delle stelle”. Anche Orazio (Ep. 15, vv.1-2) riprenderà il modello saffico. Bruno Gentili e Carmine Catenacci, Polinnia, Poesia Greca Arcaica, Firenze, G. D’Anna Casa Editrice, 2007, pag. 133.

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13. La leggenda secondo cui Olomouc fosse stata fondata da Giulio Cesare, e che pertanto l’originario insediamento collinare avesse il nome Iuliomons, nacque in età umanistica. Enea Silvio Piccolomini menziona il mito nella sua Historia Austrialis. Ivo Hlobil e Eduard Petrů, Humanism and Early Renaissance in Moravia, Votobia, Olomouc 1999, p. 131. 14. In latino Aquilone, Borea era il vento che giungeva da Nord, figlio di Astreo ed Eos (l’Aurora), fratello di Zefiro, Espero e Noto. Anna Ferrari, Dizionario della mitologia greca e latina, UTET, Torino 2002, p. 117. 15 Chiamato Noto dai Greci, l’Austro dei Latini era il vento del Sud, o meglio Sud-Ovest, che portava pioggia e nebbie. Ivi, p. 502. 16 Nella mitologia romana gli dei superi erano contrapposti a quelli inferi. I riti e sacrifici dedicati agli dei celesti erano nettamente distinti da quelli degli dei infernali. Ivi, p. 663. 17 Si tratta di palle di cannone. Olomouc dagli anni 30 del 1500 produceva tutta una serie di armi da fuoco, unica città nelle terre della corona ceca per molti anni. Dějiny Olomouce, vol. 1, ed.by Jindřich Schulz and Jana Burešová, Univerzita Palackého, Olomouc 2009, pp. 302-303. 18 Moschetti. 19 Tartaro, in origine, era una divinità figlia di Etere e Gea, poi divenuto sinonimo di Ade. Era anche un luogo dell’Oltretomba, in cui erano rinchiusi coloro che avevano compiuti i crimini più gravi. Anna Ferrari, Dizionario della mitologia greca e latina, cit., p. 670. 20 Si tratta di Ottocaro II (1230-1278, dal 1253 re di Boemia). L’autore, in questa parte dell’Encomion, forse confonde la calata dei Mongoli degli anni 30 del 1200 con le guerre per la supremazia centroeuropea combattutesi a partire dal decennio successivo. Mikuláš Teich ed., Bohemia in History, Cambridge University Press, Cambridge 1998, pp.50-51. 21 Re dei Mirmidoni, figlio di Zeus ed Egina, era il padre di Peleo ed il nonno di Achille. Dopo la morte, per la sua saggezza divenne uno dei tre giudici dell’Ade. Anna Ferrari, Dizionario della mitologia greca e latina, cit., p. 250. 22 Aurora, la Eos greca, era figlia di Iperione e Tia. Allo spuntar del giorno essa si svegliava e, salita su un carro trainato da cavalli alati, partendo dal fiume Oceano sino ad ascendere al cielo annunciava l’arrivo della luce del Sole. Ivi, p. 273. 23 Nel 1549, quando fu scritto il poema, Dubravius era ancora vivo ed il palazzo verosimilmente non ancora terminato. Questo spiega l’utilizzo del tempo presente. Albert H. Wratislav, Life and Writings of Dubravius, Bishop of Olmutz (1542-1553), «Transactions of the Royal Historical Society», vol. IX (1881), pp.137-151. 24 Le Cariti, o Grazie romane, erano delle dee personificatrici della bellezza e protettrici in particolare della poesia. Il loro numero e i loro nomi sono più incerti di quelli delle Muse, di cui le Cariti erano amiche. Le Pieridi, invece, erano le nove figlie del re Pierio di Emazia, in Macedonia. Esse sfidarono le Muse, furono sconfitte e, per la loro superbia, furono tramutate in uccelli. In età tarda le Muse Pieridi erano quelle che risidevano nella regione macedone della Pieria. Anna Ferrari, Dizionario della mitologia greca e latina, cit., pp. 145, 563. 25 Forma latinizzata dell’antico nome greco del fiume Danubio. Lorenzo Locci, Vocabolario greco-italiano, Dante Alighieri, Milano 1974, p. 933. 26 Cerere, identificata ben presto con Demetra, era un’antica dea italica della vegetazione. Dal mito greco Cerere riprese la sua funzione di protettrice dell’agricoltura e di tutti i frutti della terra. Anna Ferrari, Dizionario della mitologia greca e latina, cit., p. 163. 27 Re di Pilo, unico figlio di Neleo e Cloride a non essere uccide da Eracle, Nestore visse molto a lungo, governando saggiamente su tre generazioni di uomini. Quando scoppiò la guerra di Troia, nonostante l’età già avanzata, prese parte alla spedizione di Agamennone. Ivi, p. 496. 28 Figlio di Asclepio, fu generale e medico dell’esercito greco sotto le porte di Troia. Qui morì ucciso da Euripilo, figlio di Telefo e nipote di Eracle. Ivi, p. 435. 29 Atlante - “l’infaticabile” - era uno dei Titani, figlio di Giapeto e Climene, fratello di Prometeo ed Epimeteo. Uscito sconfitto dalla guerra tra Titani e Dei, fu condannato da Zeus a sorreggere la volta celeste sul proprio capo e con le proprie mani. Fu padre delle Pleiadi, delle Iadi e delle Esperidi, nonché di Maia, madre di Ermes. Ivi, p. 93.

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30 Epiteto di Vulcano, l’Efesto greco, che significa “colui che ammollisce”, facendo riferimento alla sua capacità di fondere i metalli. Questo attributo del dio del fuoco faceva riferimento al suo ruolo di protettore contro gli incendi, particolarmente devastanti negli ambienti urbani (Olomouc ne subì uno molto grave nel 1469, poi un altro nel 1492). Ivi, p. 742; Dějiny Olomouce, vol. 1, ed.by Jindřich Schulz and Jana Burešová, Olomouc, Univerzita Palackého, 2009, p. 300; Antonín Kalous ed., The Transformation of Confessional Cultures in a Central European City: Olomouc, 1400-1750, Viella, Olomouc 2015, p. 48. 31 Elemento centrale dell’economia cittadina, il mercato annuale richiamava tante persone perché annullava temporaneamente il monopolio delle gilde olomucensi, le quali normalmente erano le uniche a poter vendere prodotti e offrire servizi dentro la città e fino ad un miglio di distanza da essa. Poter ospitare un mercato annuale era un privilegio regale; il primo fu concesso da Ottocaro II nel 1261, il secondo nel 1314 da Giovanni di Lussemburgo ed il terzo nel 1421 da Sigismondo di Lussemburgo. Miloslav Čermák, Olomoucka Remesla a Obchod v Minulosti, Memoria, Olomouc, 2002, p. 25-26. 32 Le api erano simbolo di operosità, purezza e immortalità. Particolarmente care agli dei, che servivano sovente come messaggere, le api erano inoltre strettamente correlate alle Muse e al dono della poesia: questo era trasmesso per mezzo del miele o del semplice sfiorare le labbra ai poeti e ai grandi oratori durante la loro infanzia. Lo stesso Zeus fu svezzato con del miele durante il suo soggiorno forzato sul monte Ida a Creta. Anna Ferrari, Dizionario della mitologia greca e latina, cit., p. 60. 33 Minerva, prima dell’identificazione con la greca Atena, era per i Romani la protettrice dei mestieri artigianali. In seguito furono associati alla dea anche le arti (anche della guerra), i commerci ed in generale tutto ciò che richiedeva un saggio uso del pensiero. Ivi, p. 468. 34 I poeti erano cari alle Muse. Ivi, p. 480. 35 L’autore qui si riferisce forse alla scuola della Cattedrale di San Venceslao, gestista dal Capitolo di Olomouc. Antonín Kalous ed., The Transformation of Confessional…, cit., pag. 49. 36 In origine questo termine era usato nella religione romana per indicare la volontà divina (dal verbo nuere, “fare un cenno col capo”). In età successiva, specialmente grazie ai poeti imperiali, divenne un sinonimo di divinità. Anna Ferrari, Dizionario della mitologia greca e latina, cit., p. 503.

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Autorità paterna e libertà filiale nel teatro di Francesco Albergati Capacelli (1769-1801). Con una scelta di documenti inediti di Simone Vitale

Le lettere manoscritte che qui si presentano, redatte dal marchese Francesco Albergati Capacelli tra 1757 e 1796, costituiscono solo un frammento marginale nella vasta e variegata raccolta dei suoi scritti inediti. Tale corpus documentario, da tempo noto e solo recentemente rivalutato, riunisce disordinatamente, in una sovrabbondanza di carte, abbozzi e stesure d’opera, canovacci, riflessioni estemporanee, traduzioni, sonetti, corrispondenza pubblica e privata1. Albergati, un commediografo bolognese oggi ai più semisconosciuto, ma ai suoi tempi celebre, tanto da divenire un punto di riferimento per quasi tutti i giovani scrittori drammatici della nostra penisola, mantenne costanti relazioni epistolari con Alfieri, Goldoni, Monti e Voltaire, pur nella inevitabile dissonanza d’idee e di opinioni. Stroncato dalla critica ottocentesca, “sepolto sotto il peso” di due autori come Alfieri e Goldoni, Albergati è parso solo di recente un interprete del rinnovamento teatrale italiano, negli anni difficili della crisi e della transizione2.

1 Per le indicazioni a riguardo vedi infra Appendice. Le carte sono conservate in tre fondi distinti. Oltre a quello giacente all’Archivio di Stato di Bologna (d’ora in poi A.S.B.), dal quale provengono le lettere qui riprodotte, vanno ricordate le raccolte custodite presso la Biblioteca comunale dell’Archiginnasio di Bologna e presso la Biblioteca Palatina di Parma. Sui carteggi vedi E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”. Francesco Albergati Capacelli commediografo, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 151-157. 2 Francesco Albergati Capacelli, figlio del marchese Luigi e di Eleonora Bentivoglio d’Aragona, nacque a Bologna il 19 aprile del 1728. Ben presto, seguendo le orme paterne, intraprese la carriera politica ricoprendo la carica senatoria e poi, più volte, quella di Gonfaloniere di giustizia, sempre nella città natale. Unico erede di una delle più illustri casate bolognesi,

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Di là dagli interessi artistici il letterato si impegnava sin dalla giovinezza, come ricordano gli studi, anche nella militanza pubblica e civile, partecipando attivamente alla vita politica e amministrativa della sua città. Ormai settantenne finiva per aderire all’ordine napoleonico. Si concludeva, così, di lì a poco, anche l’opera letteraria del nostro. Nell’arco di circa trent’anni il commediografo

frequentò i letterati più insigni dell’ateneo emiliano, partecipando attivamente alla vita culturale di diverse accademie locali. Si inserì quindi nel dibattito europeo sulla moderna letteratura, in polemica con le tesi classiciste. Introdusse in Italia un numero considerevole di opere straniere privilegiando, in particolare, la tragedia francese. Per diletto, sin da giovane, divenne attore e fece costruire un teatro in ogni sua residenza. Celebre è quello eretto nella villa di Zola presso Bologna. Strinse amicizia con Goldoni sin dal 1752, mantenendo per decenni un costante rapporto epistolare. Da Goldoni il nostro mutuava l’idea della riforma teatrale. Sottopose al giudizio del maestro la sua prima commedia L’amor finto e l’amor vero (1768). Già nel 1766 Albergati aveva abbandonato Bologna, per liberarsi dalle pressioni materne e dalle costrizioni mondane, trasferendosi a e poi a Venezia dal 1767, città nella quale ha inizio la sua attività di commediografo. Fiero sostenitore del dispotismo illuminato, a metà degli anni Settanta si distaccava dalla politica ritirandosi nella vita privata. In seguito rifiutò, sin dagli esordi, la Rivoluzione francese temendone gli eccessi. Rientrato a Bologna, per l’insorgere di problemi economici, si avvicinava, nell’età napoleonica, in un contesto politico più moderato, al governo rivoluzionario della città. Ricoprì importanti cariche pubbliche, tra cui quelle di revisore delle stampe e dei libri, di ispettore degli spettacoli e di direttore delle scuole elementari della città. Si spense nella sua casa di Bologna, il 16 marzo 1804, poco prima di compiere settantasei anni. Su F. Albergati vedi: E. Masi, Parrucche e sanculotti nel secolo XVIII, Treves, Milano 1886, pp. 119-40; Id., La vita, i tempi, gli amici di Francesco Albergati commediografo del secolo XVIII, Zanichelli, Bologna 1888; A. Paglicci Brozzi, Sul teatro giacobino e antigiacobino in Italia, Pirola, Milano 1887, pp. 170-9; F. Zampieri, Francesco Albergati Capacelli, in C. Goldoni, Opere con appendice del teatro settecentesco, Ricciardi, Milano-Napoli 1954, pp. 1085-118; A. Asor Rosa, Albergati Capacelli, in «Dizionario biografico degli italiani», Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, v. I, 1960, pp. 624-27; W. Binni, Il Settecento letterario, in Storia della letteratura italiana: il Settecento, a cura di E. Cecchi, N. Sapegno, Garzanti, Milano, 1968, p. 576; M. Calore, Introduzione in F. Albergati Capacelli, Della drammatica, A.M.I.S., Bologna 1971; Id., Due aspetti della personalità di Francesco Albergati Capacelli. L’attore e l’anfitrione, in «Strenna storica bolognese», v. XXIX, Patron, Bologna 1979, pp. 97-111; Id., Alcuni aspetti della personalità di Francesco Albergati Capacelli, in Le théâtre italien et l'Europe (XVIIe- XVIIIe siècles), a cura di C. Bec, I. Mamczarz, Olschki, Firenze 1985, pp. 241-53; Id., Un uomo di teatro del Settecento e la Polonia di Stanislao Augusto Poniatowski, in Offerta musicale: contributi e studi per Arnaldo Forni, Editcomp, Bologna 1992; R. Trovato, Cultura italiana e francese nella corrispondenza inedita Albergati-Caminer, in Critica testuale ed esegesi del testo. Studi in onore di Marco Boni, Patron, Bologna 1983, pp. 251-64; Id., Lettere di Francesco Albergati Capacelli alla Bettina (nov. 1768- nov. 1771) in «Studi e problemi di critica testuale», v. XXVIII, 1985, pp. 99-173; R. Turchi, Amici per il teatro: Francesco Albergati Capacelli e Agostino Paradisi, in Civiltà teatrale e Settecento emiliano, a cura di S. Davoli, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 97-114; Id., La commedia del Settecento, in Il teatro italiano, Einaudi, Torino 1988, v. I, pp. 553-57; Id., La commedia del Settecento, in Il teatro italiano, cit., v. II, pp. 105-13; M. Cerruti, Appunti per un riesame dell’esperienza teatrale di Francesco Albergati Capacelli, in Istituzioni culturali e sceniche nell’età delle Riforme, a cura di G. Nicastro, Franco Angeli, Milano 1986, pp. 121-35; E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”. Francesco Albergati Capacelli commediografo, cit.

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aveva portato sulla scena nelle sue numerose pièces, con una certa coerenza, alcuni tra i temi più sentiti del tempo. La polemica contro i duelli e la disputa sul meccanismo degli onori, la critica della vita di corte e del cicisbeismo, si intrecciavano, sempre nelle sue commedie, con la questione dell’educazione femminile e con gli interrogativi sui rapporti interpersonali nell’ambito di un modello familiare in sensibile evoluzione. Pertanto in questo contributo si è preferito rivolgere l’attenzione, tra i temi molteplici del teatro di Albergati, a quelle pièces che affrontavano esplicitamente i problemi relativi alle dinamiche relazionali e affettive. Si intende pertanto privilegiare quelle opere che esplicitano dunque consapevolmente l’inedita idea di famiglia che s’affermava, non senza difficoltà, nell’Europa di fine secolo. Le commedie esaminate e i documenti raccolti in appendice sembrano poter indicare un processo in fieri, una linea di tendenza. In altri termini lo scrittore bolognese celebrava ancora, alle soglie degli anni Settanta, con Il saggio amico, il modello della famiglia patriarcale, un aggregato umano considerato già da taluni intellettuali illuministi come il nucleo costitutivo della società d’Antico regime. A distanza di vent’anni, invece, quello stesso modello veniva meno nell’opera del nostro autore. Pertanto anche la produzione di Albergati testimonia, a suo modo, il grande processo di trasformazione della sensibilità collettiva che coinvolge come è ormai noto soprattutto le élites europee nella seconda metà del secolo. Un fenomeno indagato negli studi ormai classici di P. Hazard, D. Mornet, R. Mauzi, J. Deprun, L. Stone, M. Barbagli, C. Taylor e naturalmente molti altri. Pertanto tramite i testi letterari d’allora si percepisce un diverso modo di pensare, di sentire e di vivere, avanzano nuovi sentimenti, trionfano nuovi valori individuali e affettivi. Si definisce un’idea nuova di famiglia costruita su rapporti intimi tra marito e moglie, padri e figli. 3

Anche nelle pièces di Albergati dunque iniziano a delinearsi le forme della famiglia “coniugale intima”. Sempre nelle commedie che qui presentiamo mutava, tra l’altro, la figura tradizionale del pater familias. I figli scoprivano un genitore non più tiranno ma amorevole, mosso da sensibilità ed empatia nei loro confronti. Tuttavia con altrettanta forza si modificava anche la fisionomia comportamentale e psicologica del figlio. In particolare ne Il prigioniero, un componimento redatto nei primi anni Settanta, Roberto, il protagonista, per legittimare la sua scelta d’amore, ostacolata dal padre tiranno, si appellava, ispirato da Rousseau, al diritto naturale e al “libero voler”. In altri termini, il giovane patrizio pensava che le proprie risoluzioni trovassero giustificazione più in se stesse che

3 P. Themelly, “Amor supera tutto”. Il valore politico dei sentimenti nel teatro di Antonio Simone Sografi, in «Eurostudium3w», 37, ottobre-dicembre 2015, p. 4.

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nell’obbedienza alla norma sociale, alle leggi dei padri. Avrebbe sposato l’amata Doralice nonostante i divieti e le differenze di rango. Roberto trovava così, tramite “l’autoesplorazione” e il “rapporto dialogico con l’altro” le regole “su cui fondare la propria vita”4. In tal modo Albergati poneva in discussione i principi costitutivi dell’Antico regime sociale. Infatti il giovane eroe, con le sue scelte, definiva l’identità personale come un valore verificabile e in continuo divenire e non più modellato, secondo i criteri della mentalità aristocratica, su uno status predeterminato. Pertanto la commedia, redatta due decenni prima della Rivoluzione, sembra auspicare l’ipotesi di una grande trasformazione: ogni singolo individuo negoziando le proprie esigenze e aspettative scorgeva la possibilità di riformulare le norme sociali ed etiche. Ciò nonostante non si può tuttavia chiedere agli uomini d’essere quel che non potevano essere, di scavalcare i propri tempi. Di fatto il letterato emiliano non intendeva svolgere queste premesse, orientarle in una prospettiva eversiva dell’ordine esistente5. Con un espediente, come si vedrà meglio in seguito, depotenziava il significato della protesta di Roberto sino a farla apparire come una mera tentazione ideale. Nondimeno le stesse incertezze caratterizzano anche l’ultima opera qui esaminata, I ciarlatani per mestiere, una pièce redatta all’alba del nuovo secolo, nell’Italia di Napoleone. In essa Enrico, figlio del negoziante Alfonso, invaghito di Albina, una attrice teatrale, supera ben presto la sua rarefatta pena d’amore. Ha imparato da sé, e in parte da suo padre, quanto sia opportuno dominare i moti del cuore, razionalizzare gli affetti, tentando di indirizzare ogni impulso emotivo verso fini concretamente utili. Anche in questo caso, con un accorgimento di maniera la mésalliance viene evitata per celebrare sulla scena, con il pragmatismo e il calcolo razionale, il nuovo volto trionfante dell’homo oeconomicus. Pertanto, il teatro di Albergati, limitatamente ai pochi testi qui presentati, si rivela un insieme composito e variegato, nel quale si intrecciano e coesistono istanze diverse, a volte tra loro discordanti. La fiducia accordata al programma riformatore a partire dagli anni Settanta, e poi il rifiuto del progetto rivoluzionario, spiegano almeno in parte l’insofferenza del nostro verso ogni disegno radicalmente novatore. I suoi eroi infatti si battono, in famiglia e nella comunità, per perfezionare l’ordine esistente, non certo per contribuire a mutarlo. Tuttavia la loro condotta continua ad essere ispirata dagli ideali dei Lumi. L’opera di Albergati, testimonianza inquieta in un’età di transizione, rappresenta dunque con forza le aspirazioni e i bisogni di almeno una parte della società italiana nella crisi di fine secolo. Infatti, nelle pièces, i quesiti sull’identità si ravvivano e s’innalzano negli interrogativi sulla dignità umana.

4 C. Taylor, Il disagio della modernità, Laterza, Roma-Bari 2011. 5 Ivi, in particolare, pp. 31-6; 51-64.

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Non diversamente il grande tema settecentesco dell’amor di sé trova il suo traguardo nella soluzione affettiva, relazionale, familiare. Trionfa, sulla scena, nonostante tutto, un illuminismo solidaristico e ottimistico. Entro questo quadro le commedie “familiari” e private qui esaminate consentono di comprendere con la fisionomia dell’autore l’ambito del dibattito letterario europeo dei suoi anni.

“Barbaro tiranno, e forsennato”: la figura paterna nella famiglia patriarcale

Fin dall’esordio come autore, Albergati ne Il saggio amico, una commedia in tre atti pubblicata nel 1769, all’età di quarantuno anni, affronta il problema del rapporto fra genitori e figli nella famiglia aristocratica d’Antico Regime6. Un tema che sarà poi ricorrente in molte altre opere, alcune delle quali peraltro fra le più significative della sua produzione. Per comprendere il senso della pièce è opportuno ripensarne rapidamente la trama. Valerio, figlio del conte Ottavio Ripoli, si invaghisce di una “cantrice”, Chiaretta, che finge di ricambiarne i sentimenti solo per mettere le mani sul suo patrimonio. Il padre, preoccupato per la scelleratezza del giovane, ma incerto se prendere la drastica decisione di costringerlo a una reclusione forzata, come invece auspicava sua moglie Eleonora, chiede aiuto a Filandro Onesti, un marchese dalla recente patente nobiliare. Con un astuto stratagemma e con l’aiuto del proprio cameriere Fabrizio, questi riesce a smascherare le reali intenzioni di Chiaretta e a favorire il matrimonio di Valerio con Lucinda, la virtuosa e innamorata fanciulla che gli era stata promessa sposa fin dall’inizio. Pertanto è la provvidenziale presenza di Filandro che sottrae Valerio all’ira di suo padre: “senza il soccorso del nobile recente, il saggio amico, tutta codesta famiglia andrebbe a rotoli. Egli è il Deus ex machina - ricorda E. Masi - di questa bilogia comica”7. Ciò nonostante Ottavio sembra rimanere dubbioso ed esitante, ribadendo la volontà di punire la condotta del figlio:

OTTAVIO: Ah! Figlio, figlio […] Adoprerò il più severo rigore… Ma, gioverà? avrò core d’adoprarlo contro d’un figlio, che mi è stato obbediente e sommesso infino ad ora? ... Questo è il suo primo errore… ma però tale, che può trar seco funestissime conseguenze. Una indegna femmina può macchiare per sempre il sangue di mia famiglia.8

6 Il saggio amico. Commedia di tre atti in prosa, in Opere di Francesco Albergati Capacelli, Venezia 1784. Nella Stamperia di C. Palese, a spese dell’autore con pubblica approvazione, t. IV, pp. 3- 123. 7 E Masi, La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati, cit., p. 361. Si veda anche E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., p. 53. 8 F. Albergati, Il saggio amico, cit., Atto I, 3.

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Le parole di Ottavio rivelano così le preoccupazioni e i sentimenti di un padre che sa di essere soprattutto capofamiglia. È opportuno, a riguardo, formulare una considerazione che sarà poi valida anche per molti altri personaggi di Albergati. Infatti, ciò che spinge Ottavio a disapprovare il comportamento di Valerio, a combinare il suo matrimonio e persino a ipotizzare la soppressione temporanea della sua libertà, non è perfidia. Il padre tiranno non è mosso da malvagità, ma da affetto sincero. Infatti per la mentalità d’Antico regime, ancor più tra gli ordini privilegiati, ogni padre pensava che i figli, per potersi realizzare integralmente nella condizione individuale e sociale, dovessero adoperarsi a legittimare il prestigio familiare e a garantire l’onorabilità e l’integrità del casato. Pertanto ne Il vero amico di Albergati la condotta autoritaria di Ottavio diviene paradossalmente il mezzo per dimostrare l’affetto di un padre verso il figlio, il suo desiderio di vederlo realizzato. Infatti, almeno nell’Italia della seconda metà del Settecento, il matrimonio di inclinazione fondato sul sentimento reciproco fra i coniugi era osteggiato dai genitori. Peraltro non era infrequente che i genitori stessi, da giovani, si fossero trovati di fronte ad analoghe proibizioni. A riguardo è celebre il caso di Cesare Beccaria, la cui denuncia della patria potestà, nel capitolo XXVI di Dei delitti e delle pene, potrebbe in parte trarre giustificazione nelle sue ancora brucianti vicende personali, intercorse fra il 1760 e il 1762 e culminate nel diniego del padre al suo matrimonio con Teresa Blasco, sino al provvedimento di arresto del figlio riottoso. 9

Per il grande illuminista il periodo di reclusione forzata durò, com’è noto, circa tre mesi. Un periodo nel corso del quale l’intellettuale lombardo subì pressioni affinché rinunciasse alla donna amata. Tuttavia, una volta tornato in libertà, Cesare rimase coerente con la sua scelta affettiva, sposando Teresa contro il volere della famiglia. Nondimeno, molti anni più tardi, lo stesso Beccaria, lasciatosi ormai alle spalle le passioni giovanili, impose a sua figlia Giulia il matrimonio con Pietro Manzoni10. Poste queste premesse, per tornare al teatro di Albergati, anche i suoi protagonisti restano radicati nel costume d’Antico Regime. Ottavio Ripoli ne Il saggio amico, così come Eugenio Andolfi, un protagonista de Il prigioniero, un’opera sulla quale torneremo, assurgono a modello del padre tiranno. Infatti, secondo il costume del tempo, i bambini erano educati alla sottomissione e alla reverenza ai genitori. Costoro passavano pochissimo tempo con i figli, e

9 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, a cura di F. Venturi, Einaudi, Torino 2007, pp. 56-59; M. Cavina, Il padre spodestato. L’autorità paterna dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2007, p. 179. 10 Ivi, pp. 180-181. Vedi anche M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto. Mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 310-13.

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dovevano assumere un comportamento distaccato, limitando fortemente le esternazioni di tenerezza e affetto11. Ciò non significa che non li amassero teneramente, infatti

è straordinariamente difficile – scrive Barbagli – distinguere i «sentimenti» dal «modo di espressione dei sentimenti». E questo comporta il rischio, soprattutto nello studio della vita familiare di un tempo, di scambiare per mancanza di affetto un rapporto di autorità-deferenza. 12

Il motivo di una nuova sensibilità affettiva caratterizza con forza la stesura de Il vero amico. Il protagonista, Valerio, sostenuto da Filandro, la coscienza critica della commedia incline ai valori dei Lumi, intende sposare Chiaretta nonostante i divieti paterni e la diversa condizione sociale. Probabilmente è proprio Filandro il personaggio che più di tutti si avvicina al pensiero di Albergati quando afferma che

Ogni uomo è libero; e in nessuna delle sue azioni dev’egli essere tanto geloso della libertà, quanto nella scelta del proprio stato. […] Convien per altro riflettere, che i vecchi, diversi assai nel pensare dai giovani, non approvano tali massime di libertà. Vogliono che i giovani sieno a loro soggetti; li vogliono maritare a senno loro; e sono rigidi assai, particolarmente sulla disparità della nascita… 13

La percezione di un tema chiave del pensiero settecentesco mostra quanto Albergati, a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta, fosse partecipe della nuova cultura, esprimendo inequivocabilmente tramite i suoi personaggi il problema della libera scelta individuale. Nondimeno tale consapevolezza si manifesterà, pochi anni dopo, con forza anche maggiore, ne Il prigioniero con le parole di Roberto come a breve si vedrà. Nel 1770, un anno dopo la pubblicazione de Il saggio amico, andava in stampa Il sofà14, una fiaba in cinque atti che rappresenta un unicum nella produzione di Albergati. Con quest’opera il letterato emiliano ritornava sulla

11 Ciò non riguardava soltanto i rapporti fra padri e figli ma anche quelli fra coniugi. Vedi M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., pp. 304-13; J.L. Flandrin, La famiglia. Parentela, casa, sessualità nella società preindustriale, Edizioni di Comunità, Milano 1979, pp. 191-221; L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, Einaudi, Torino 1983, pp. 109-12, 213-21. Riguardo le norme di comportamento dei genitori nei confronti dei figli, G.M. Tojetti scrive: “i Genitori coll’“amor” loro troppo tenero, e sensibile cooperano a corrompere nel costume i Figli, a dar’ loro spiritualmente la morte”. Id., Pratica istruzione alli Genitori per educare cristianamente, e con facilità i proprj Figliuoli, Nella Stamperia di Generoso Salomoni, Roma 1778, p. 235. La citazione è in M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., p. 250. 12 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., p. 249. 13 Il saggio amico, cit., Atto I, 5. 14 Il sofà. Commedia di cinque atti composta dal Marchese Francesco Albergati Capacelli Cavalier Bolognese, Appresso Luigi Pavini. Con licenza de’ Superiori, Venezia 1770.

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questione del padre tiranno. La commedia descriveva la vicenda di Selim, il principe di Hira, che recluse in una torre la figlia Azema costringendo all’esilio Ormed, il suo presunto amante. I due giovani erano stati sorpresi insieme, una sera, mentre si trovavano su un sofà. Selim, travolto dalla collera, senza ascoltare alcuna spiegazione, decreta la sua sentenza. Tuttavia la sua iniziativa era stata in parte condizionata dalle false accuse di un consigliere, Tartaglia, e dalle brame di sua sorella Zulima e di suo nipote Ramir che ambiva a divenire l’unico erede al trono. Questa volta Albergati, senza la mediazione di un saggio amico, rappresenta la collera paterna che culmina nell’ingiusta carcerazione. Nell’avvicendarsi della trama però, Selim si rivela pensieroso, esitante, mentre si interroga sul significato della scelta. Per queste ragioni si confronta con Zanetto, il fedele maggiordomo, e con Mangul, l’interprete dell’oracolo di Plutone15 dal quale si era recato per scacciare i suoi pensieri maligni16.

SELIM: Assai t’è nota la cagion che spinse/ Me giudice del pari, e Genitore/ A punir d’una Figlia, e d’un Amante/ le impure fiamme, ed i notturni errori./ Dimmi; troppo rigor forse adoprai/ Nel gastigar que’temerarj? È questa/ La colpa forse, onde riposo e calma/ Perdei da quell’istante? I neri spettri […] Son dell’Inferno minacciosi avvisi./ Che ingiusta fu la mia sentenza? MANGUL: Ingiusta/ Fu la sentenza tua. Pluto il decide/ Coi sovrumani eventi, e col terrore/ Da cui scioglier non puoi la mente oppressa. SELIM: Ma, come potev’io scoprire allora/ Fino a qual grado nella infame tresca/ Giunti fosser gli amanti? MANGUL: E in tal dubbiezza,/ Piuttosto che a pietà, pendi a rigore?/ Né Giudice, né Padre in ciò tu fosti;/ Ma barbaro tiranno, e forsennato. Allorché Selim, ancora dubbioso, chiede come fare per avere la certezza che Azema e Ormed quella notte avessero mantenuto un comportamento virtuoso e degno del loro rango, Mangul risponde: MANGUL: Quell’agitar d’aspre catene è voce,/ Da cui commossa è in te natura. Pluto/ Con tai modi palesa i suoi decreti:/ Né desterebbe in te tanta pietade,/ Se colei, ch’or compiagni, indegna fosse/ Della pietà di Pluto e della tua. 17

Da quanto si evince è solo grazie all’intervento “esterno” di Plutone che la vicenda può avviarsi verso il lieto scioglimento18. Il padre e la figlia possono finalmente riabbracciarsi chiedendosi reciprocamente perdono e prefigurando così l’auspicato matrimonio. Anche i tre antagonisti avranno la possibilità di

15 L’elemento magico della fiaba risiede nella figura di Plutone grazie ai suoi poteri soprannaturali. 16 Selim, reclusa la figlia, sente le voci dei due amanti provenire dal sofà. Decide così, consigliato da Tartaglia di farlo distruggere. 17 Il sofà, cit., Atto IV, 4. 18 Sulla funzione mediatrice di Plutone e successivamente del principe illuminato nel teatro di Albergati, vedi E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 79-81.

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redimersi davanti ad Azema che, con magnanimità, concede loro la libertà dimostrando ancora una volta la purezza del suo animo19. A parere di Albergati, dunque, la punizione inflitta era sproporzionata rispetto alle colpe della principessa. Costei era responsabile di aver dato appuntamento ad Ormed in privato e senza permesso; tuttavia era innocente rispetto alle accuse imputatele. Diversamente non avrebbe ricevuto la pietà di Plutone né quella di Selim (e, di conseguenza, probabilmente nemmeno quella di Albergati). In definitiva Azema viene punita dal padre, perché non avrebbe dovuto trasgredire e incontrarsi senza permesso con il suo amato. Sono queste le ragioni sulle quali tutti i personaggi concordano, persino Zanetto, che nella fiaba incarna il pensiero dei Lumi. E in questo modo Mangul placa Ormed, deciso a vendicarsi contro Selim:

Ma dimmi; (se capace è la tua mente/ D’un retto giudicar) sei tu l’offeso,/ O l’offensor? Selim ti trova al fianco/ Della figlia in notturne ore secrete./ Fingiti Padre e non amante, allora/ Che fatto avresti? Il tuo bollor, la tua/ Ira cieca, che facile s’accende,/ Quai luttuosi effetti avria prodotto?

E più avanti: ORMED: Ed era il nostro error forse sì grave,/ Che meritasse poi… MANGUL: Selim trascorse/ In soverchio rigor, come trascorsi/ Voi eravate in amoroso fallo./ Pluto che vide delle colpe il peso,/ Pria vi volle puniti; or tutti assolve. 20

Ricevuto l’assenso paterno, i due giovani, tra loro socialmente eguali, possono così finalmente convolare a giuste nozze. Pertanto, anche per Albergati, l’eguaglianza delle condizioni è il requisito necessario per celebrare il matrimonio d’interesse, un legame che si configura quale elemento strutturante della società tradizionale. Valgano a titolo di esempio le parole di Zanetto che così si rivolge a Selim: e vizin a ella un moroso de condizion, non inferior alla soa; e per questo la condanna la prima a una perpetua preson, e l’altro a un perpetuo esilio, e alla confiscazion de’ tutti i sò beni? 21

Nel 1771, a un anno di distanza dalla stesura de Il sofà, Albergati pubblicava Il pomo22. Si trattava di una breve operetta composta in un solo atto nella quale l’autore riproponeva ancora il motivo dello scontro tra padri e figli.

19 Soltanto Tartaglia, il protagonista negativo della fiaba, verrà punito da Plutone. Sarà condannato ad avere la testa al posto dei piedi. Per il richiamo di Albergati alla tradizione del “mondo alla rovescia”, vedi P. Burke, Cultura popolare nell’Europa moderna, Mondadori, Milano 1980, pp. 181-87. 20 Il sofà, cit., Atto II, 4. 21 Ivi, Atto III, 5. 22 F. Albergati, Il pomo. Commedia d’un atto solo, in Collezione completa delle commedie di Francesco Albergati Capacelli accresciute e corrette da lui medesimo. Edizione seconda. In Bologna nella tipografia Marsigli ai Celestini, 1801-1806, t., III, pp. 95-148.

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Beatrice, tale è il nome della protagonista, si trova anche lei segregata per essersi opposta alle decisioni di suo padre, Don Astolfo Anselmi, che intendeva prometterla in sposa al marchese Tiberio Cruscati23. Il titolo della commedia si ispira alla mela marcia che, lanciata dalla finestra da Alessio, un servitore di casa Anselmi, colpisce il conte Fulgenzio Ventori, scatenando la sua collera. Questi irrompe nel palazzo cercando il colpevole. In questa occasione Fulgenzio incontra Beatrice e se ne innamora, pur avendone udito soltanto la voce. Tuttavia, per le ferree leggi sociali non è possibile trasgredire alle norme dell’onore: il vecchio conte infatti si era già impegnato con Tiberio e l’ipotesi di un nuovo matrimonio, in questo caso gradito a Beatrice, si rivelava impraticabile. È solo grazie a un fortunato malinteso, ancora una volta causato dall’ignaro Alessio, che il primo spasimante si sottraeva all’impegno consentendo così il prevedibile lieto fine della vicenda. In tal modo Fulgenzio potrà ringraziare il pomo caduto dal cielo e ricompensare Alessio, donandogli cinquanta zecchini. Nell’ambito di una trama puramente convenzionale Albergati affida il suo messaggio alla voce di Alessio, l’unico personaggio veramente comico della pièce, impacciato e bizzarro. Costui, in un raro momento di lucidità, riflettendo sulla condotta di don Astolfo, il suo padrone, afferma:

Egli crede di far un gran bene alla figlia dandole un marito, che è nobile e ricco molto: ma, e se non le piace? A che servono la nobiltà, e la ricchezza? È anche giovane, di buon aspetto, che veste con pulizia… benissimo: ma quando a lei non piaccia, sono tutte cose inutili e vane. 24

Un rapporto asimmetrico: la dialettica padre-figlio ne Il prigioniero

Le tre pièces sin qui esaminate possono essere considerate, in una certa misura, come delle esercitazioni propedeutiche alla stesura de Il prigioniero, un’opera ricordata dagli studiosi come la prima commedia lacrimosa italiana. La pièce riscosse sin dalle prime rappresentazioni il consenso unanime della critica ed è oggi reputata tra i contributi più significativi di Albergati. In essa il problema del conflitto fra genitori e figli raggiunge il suo punto più alto e drammatico. Si trattava senza dubbio di una questione allora molto sentita che investiva inevitabilmente anche i problemi della libera scelta matrimoniale. Di fatto la commedia ribadiva il nuovo primato dei sentimenti e degli affetti. Questi apparivano ormai prioritari, rispetto alle ragioni dell’interesse e del ceto, nell’unione fra

23 Il personaggio di Tiberio Cruscati, è una rappresentazione parodistica degli intellettuali vicini all’Accademia della Crusca. Il linguaggio dei cruscanti è uno dei bersagli polemici della farsa. Sulla questione, E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 58-61. 24 Il pomo, cit., Atto I, 4.

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due giovani amanti. In questo modo Albergati poneva in discussione, forse inconsapevolmente, col suo teatro, la struttura gerarchica della società dei suoi tempi25. Tuttavia è stato notato che il tema del matrimonio d’inclinazione fosse sentito in modo particolare dal commediografo, anche per ragioni personali. Sembra che Caterina Boccabadati, la sua seconda moglie, oltre ad essere di umili origini, fosse in qualche modo legata al mondo dello spettacolo. La madre del nostro si oppose con ogni mezzo, sino alla sua scomparsa avvenuta nel 1771, alla mésalliance del figlio, il quale dovette sempre tenerle nascosto quel matrimonio26. E. Masi ha evidenziato le motivazioni biografiche nella stesura de Il prigioniero:

Ciò che più importa notare è l’allusione manifesta ai casi della propria vita, poiché tutta la commedia si raggira intorno al pregiudizio che contrasta il matrimonio fra Nobili e non Nobili. L’Albergati aggruppa evidentemente intorno a questo argomento le memorie del suo primo matrimonio ed i contrasti, forse vivaci ancora, per quello, che avea contratto testè colla Boccabadati. 27

Del resto, il rapporto difficile con la madre Eleonora segnò profondamente la vita di Albergati, come testimoniano alcuni documenti custoditi presso l’Archivio di Stato di Bologna. In un biglietto indirizzato al segretario di casa, Giuseppe Concelmani, Albergati richiamandosi ai classici così si esprime: “Se con maligno dente alcun mi morda, dovrò come un fanciul piangere in vano?”28. Il riferimento a Orazio esplicita il senso dell’oppressione materna. Una pena confermata nelle lettere successive a Concelmani:

25 Sul problema si indicano soltanto alcune opere di riferimento: L. Stone, Famiglia, sesso e matrimonio in Inghilterra tra Cinque e Ottocento, cit.; M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit.; F. Lebrun, La vie conjugal sous l’Ancien Régime, Colin, Paris 1975; E. Shorter, Famiglia e civiltà. L’evoluzione del matrimonio e il destino della famiglia nella società occidentale, Rizzoli, Milano, 1978; M. Anderson, Interpretazioni storiche della famiglia. L’Europa occidentale tra 1550-1914, Rosemberg-Sellier, Torino 1982; R. Trumbach, La nascita della famiglia egualitaria: lignaggio e famiglia nella aristocrazia del Settecento inglese, Il Mulino, Bologna 1982; M. Daumas, Le mariage amoureux, histoire du lien conjugal sous l’Ancien Régime, Colin, Paris 2004; D. Lombardi, Storia del matrimonio dal Medioevo a oggi, Il Mulino, Bologna 2008; A. Giddens, La trasformazione dell’intimità. Sessualità, amore ed erotismo nelle società moderne, Il Mulino, Bologna 2008. 26 E. Masi, La vita, i tempi, gli amici di Francesco Albergati, cit., pp. 250-51. 27 Ivi, p. 263. 28 Il verso è tratto dagli Epodi di Orazio: “An, si quis atro dente me petiverit, inultus ut flebo puer?” Orazio, Odi Epodi, a cura di Luca Canali, Mondadori, Milano 2004, pp. 388-89. Il testo latino, compare nella Dichiarazione di Francesco Albergati Capacelli intorno alli propri affari domestici e al regolamento di sua economia, in A.S.B., Albergati, “Carteggi privati”, VIII, 265. In quegli stessi anni nelle lettere di albergati alla madre, non c’è traccia del suo disagio. Il tono formale e rispettoso del letterato consente di comprendere, in una certa misura, i codici comportamentali della famiglia patrizia italiana dell’ultimo Settecento.

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Tutto infin esibisco fuorche la libertà, e la pace di mia persona, due beni per me inestimabili, sopra i quali solo Dio ha assoluto dominio, e che io a nessuno per cedere volontariamente giammai so che i tentativi, che far si possono o direttamente, o indirettamente contra la libertà mia dalla Madre, non vagliono certamente a privarmene, mà vagliano però a tenermi in una perpetua inquietudine. 29

Fermate queste considerazioni biografiche, utili in una certa misura per comprendere la genesi de Il prigioniero, è opportuno ricordare nuovamente il notevole successo riscosso dalla commedia. Infatti la pièce, redatta nel 177230, vinse nel 1774 il concorso indetto dalla deputazione accademica di Parma, risultando la miglior commedia dell’anno31. Di là dalla stroncatura di Masi, per il quale Il prigioniero concorse “con opere molto infelici, se riportò […] la prima corona”32, il plauso dei contemporanei fu generale:

L’evento ch’ebbe il Prigioniero sulle scene d’Italia fu assai felice. I giornalisti d’Italia i più rinomati ed alcuni ancora degli Oltramontani ne parlarono con molta lode. Noi pure facciamo eco ai medesimi, tanto in riguardo all’oggetto morale del dramma, quanto in riguardo al nodo, alla condotta, allo scioglimento ed alla qualità dei caratteri, non che al delicato sale comico che per entro si trova. 33

L’opera si apriva su un intreccio già avviato. Roberto, innamorato e riamato da Doralice, era recluso per volontà del padre, il marchese Eugenio Andolfi. Questi non era disposto a consentire al matrimonio del figlio con una ragazza di condizione inferiore, proveniente da una famiglia benestante ma borghese. L’incontro in carcere fra Eugenio e Roberto costituisce probabilmente il punto più alto e significativo della pièce. In questa occasione, di fronte alle ingiuste accuse del padre la risposta del giovane è emblematica. Il protagonista contrappone all’autorità paterna la voce della natura, il “libero voler” Solo questo dono “naturale” guiderà, d’ora in poi, la sua condotta e ratificherà le sue

29 Ibidem. In quegli stessi anni nelle lettere di Albergati alla madre, non c’è traccia del suo disagio. Il tono formale e rispettoso del letterato consente di comprendere, in una certa misura, i codici comportamentali della famiglia patrizia italiana dell’ultimo Settecento. La documentazione è in A.S.B., Albergati, “Carteggi privati”, VII, 264. 30 E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., p. 80. Su Il prigioniero vedi la Prefazione dell’autore all’edizione francese della commedia in appendice a questo contributo. 31 Per la diversa datazione dell’opera vedi: E. Masi, La vita i tempi gli amici di Francesco Albergati, cit., p. 262; E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., p. 74; Notizie storico-critiche sopra il prigioniero curate da Anton Fortunato Stella, in «Il teatro moderno applaudito ossia raccolta di tragedie, commedie, drammi e farse», Venezia, 1797, v. XIV, p. 87; A. Asor Rosa, Albergati Capacelli, in «Dizionario biografico degli italiani», cit., p. 624. Sul concorso parmense istituito nel 1770, E. Masi, La vita, i tempi, gli amici di Francesco Albergati, cit., pp. 259-261. 32 E. Masi, La vita, i tempi, gli amici di Francesco Albergati, cit., p. 262. 33 Notizie storico-critiche sopra il prigioniero curate da Anton Fortunato Stella, cit., p. 87.

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scelte34. Nondimeno Roberto appare combattuto, esitante. Proprio nel colloquio con il padre, lo si vedrà meglio a breve, il protagonista percepiva anche il peso intrinseco alla sua iniziativa emancipatrice. La risoluzione di Roberto spingeva il marchese, ormai fuori di sé, a rapire Doralice. Tuttavia la fanciulla, in seguito a uno straziante incontro con l’amato, si ergeva anch’essa a protagonista. Pur ribadendo la sua scelta d’amore la giovane decideva di ritirarsi in convento. Non intendeva infatti arrecare un torto al vecchio padre, stringendo un’unione non benedetta dal cielo. La commedia sembrava scivolare, così, verso una soluzione tragica. Pertanto era necessario trovare, al di fuori delle vicende della trama, un nuovo protagonista capace di svolgere una funzione mediatrice tra i contendenti, per assicurare la conclusione edificante auspicata in fase di progettazione. Anche ne Il prigioniero, quindi, Albergati ricorreva al tradizionale colpo di scena del vecchio teatro. Il commediografo introduceva così, nello sviluppo degli atti, la figura eminente del “principe”. Questi, illuminato ed equanime, in virtù della sua forza e saggezza, commosso dalla virtù di Doralice, riequilibrava e dava sbocco positivo a tutta la vicenda. In tal modo Eugenio, il persecutore, veniva arrestato, mentre l’eroina otteneva il titolo di contessa. I due giovani innamorati, finalmente pari nel rango, potevano sposarsi e offrire il loro perdono a Eugenio, che ritornato libero era vinto dai sensi di colpa. Anche in questa occasione dunque, come ne Il sofà, il lieto fine era garantito dall’iniziativa illuminata del principe. Sarebbe stata l’ultima volta, almeno nel teatro di Albergati. Infatti il nuovo clima culturale e politico internazionale conduceva il nostro, insieme ad almeno una parte degli intellettuali italiani, ad allontanarsi dai progetti del movimento riformatore e a distaccarsi progressivamente dall’impegno pubblico e civile35.

34 Il prigioniero, cit., Atto II, 3. 35 Gli studiosi hanno colto ragioni del progressivo distacco degli intellettuali europei dalla Realpolitik del anche per “tragiche” vicende polacche del 1763-72. Vedi, F. Diaz, Dal movimento dei Lumi al movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna 1986, pp. 403-4; F. Venturi, La prima crisi dell’Antico Regime (1768-1776), in Id., Settecento riformatore, Einaudi, Torino 1979, v. III, p. 173. A tale proposito è interessante ricordare lo stretto rapporto tra il commediografo emiliano e la corte polacca. “nel 1767 ricevette la patente di nobiltà di Ciambellano d’onore del Re di Polonia; due anni più tardi giunse la nomina a Generale aiutante di Campo di S. M., quindi, nel 1772, fu insignito dell’ordine di S. Stanislao. Per trent’anni indossò abitualmente l’azzurra uniforme gallonata, confezionata secondo il modello che gli era stato inviato da Varsavia, mantenne costanti contatti con la corte polacca e all’autorità di Stanislao Augusto Poniatowski ricorse in varie occasioni”. Vedi M. Calore, Un uomo di teatro del Settecento e la Polonia di Stanislao Augusto Poniatowski, cit., pp. 149-50.

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A ragione è stato sottolineato che “il contenuto eversivo del dramma” venisse di fatto stemperato dall’epilogo36. Una soluzione quest’ultima che tuttavia delinea a suo modo, con la fisionomia di Albergati, un processo storico in fieri e in via di definizione:

Se l’autore del Prigioniero invece di premiare la crudeltà e la perfidia di Eugenio, che rimane pienamente soddisfatto del titolo di conte che il sovrano insanamente dona a Raimondo, avesse immaginato un castigo per quel padre inumano e uomo scellerato, la lezione drammatica sarebbe stata più proficua ed insieme più dilettevole. Ma potevasi ciò eseguir sulla scena nel 1773, epoca in cui il cittadino Albergati scrisse questa rappresentazione? 37

Nondimeno Albergati si dimostra perfettamente al passo coi tempi quando al carattere di Eugenio, il padre tiranno, contrappone quello di Raimondo, il padre amorevole di Doralice. Nello sviluppo della commedia quest’ultimo diviene il simbolo di un modo diverso, più “moderno” e affettuoso, di essere genitore. Le differenti iniziative dei due capifamiglia fanno emergere dunque delle concezioni del mondo tra loro irriducibili. L’una, quella di Eugenio, razionale, ispirata dalle sole ragioni dell’economia e della necessità. Una condotta che subordina ogni decisione individuale a un interesse generale predeterminato al quale è necessario uniformarsi. L’altra, individualistica e soggettiva, che trova nella propria voce interiore, nella sensibilità e negli affetti, le nuove leggi di un sentire comune. In Albergati dunque la figura di Eugenio, diviene la maschera deformata del padre tiranno, un modello comportamentale e sociale che si stava erodendo. Tale sembra essere anche il giudizio dei contemporanei:

Per quanto tranquillamente l’amico degli uomini si ponga a considerare lo scopo vero di questa commedia, che noi avremmo più volentieri intitolata dramma pel suo tenero e commovente argomento, non potrà egli non inorridire, vedendo in tutta la sua estensione uno dei più fieri delitti della nobiltà barbaramente protetto dalle leggi della ingiusta disuguaglianza. 38

Gli studiosi hanno messo in evidenza come “la dissoluzione del potere paterno”, la decadenza del rapporto asimmetrico tra padri e figli e la stessa trasformazione dell’idea di famiglia sia il risultato di “un processo storico europeo” di lungo periodo. Un fenomeno che inizia a delinearsi con la Rivoluzione francese alla fine del Settecento e giunge al suo culmine con l’emancipazione giovanile negli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Si tratta pertanto di due momenti storici di fortissima accelerazione sociale e culturale,

36 E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., p. 74. 37 Notizie storico-critiche sopra il prigioniero curate da Anton Fortunato Stella, cit., p. 87. 38 Ibidem.

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di due fasi rottura e di trasformazione rispetto a un passato secolare, che caratterizzano in modo inedito la storia dell’Occidente39. Posta questa considerazione è tuttavia necessario riannodare le fila del nostro discorso e tornare alle vicende de Il prigioniero. Albergati in questa commedia, per esplicitare con forza un processo in atto, contrappone polemicamente alla figura in declino di Eugenio quella in ascesa di Roberto che assurge a simbolo dello spirito del secolo, come si è in parte già accennato. Il giovane protagonista è dilaniato dal senso di colpa per aver disobbedito alle norme sociali, alla legge del padre. Teme di averne disonorato il nome ma, allo stesso tempo, la sua coscienza gli impone di non rinunciare a Doralice né al suo desiderio di felicità e di autonomia:

EUGENIO: Ascolti, e segui Ragione no, ma passione insana./ Filosofo malvagio, ora a te piace (con ironia)/ Far di filosofia pomposa mostra/ Per ricoprir con mendicato velo/ Gli errori tuoi. Ma non sperar ch’io ceda/ A tue follìe. Sarò sostenitore/ Del decoro, del sangue, e dei paterni/ Autorevoli diritti. ROBERTO: (con sommessione, e fermezza) Ed io mai sempre/ Umile adorator sarò del sacro/ Carattere di padre, ma costante/ Sosterrò di natura anche i diritti. EUGENIO: Quai diritti? La vita a me tu devi. ROBERTO: È ver: ma il cielo m’accordò con essa/ Più pregevole don, che non soggiace/ A forza umana. EUGENIO: E qual è questo dono? ROBERTO: Il libero voler. 40

Il riferimento a Rousseau - che Albergati conosceva - è evidente. Nel secondo capitolo del primo libro del Contratto sociale, il ginevrino definisce la famiglia come l’espressione naturale e originaria dell’aggregazione umana, del legame sociale. Un modello nel quale le relazioni interne tra genitori e figli si esauriscono con il raggiungimento da parte di questi ultimi dell’autonomia. Nel momento in cui ciò si verifica, il vincolo naturale si scioglie e ogni membro diviene indipendente dall’altro. Qualora l’unione dovesse persistere è dettata solo da una decisione volontaria e libera, per cui la famiglia manterrà la sua unità non più per natura ma per convenzione41.

39 M. Cavina, Il padre spodestato, cit., p. VII. 40 Il prigioniero, cit., Atto II, 3 41 “Questa libertà comune è una conseguenza della natura dell’uomo. La sua prima legge [di ogni figlio nella famiglia] è di vegliare alla propria conservazione, le sue prime cure sono quelle che deve a se stesso; e, appena raggiunta l’età della ragione, essendo lui solo giudice dei mezzi adatti alla sua conservazione, diviene perciò padrone di se stesso. La famiglia è dunque, se si vuole, il primo modello delle società politiche; il capo è l’immagine del padre, il popolo è l’immagine dei figli, e tutti, essendo nati uguali e liberi, non rinunciano alla libertà che per loro utilità”. J.J. Rousseau, Del contratto sociale o principi del diritto politico, in Discorsi e contratto sociale, a cura di R. Mandolfo, Cappelli, Bologna 1971, p. 163.

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È verosimile pensare che Albergati si sia ispirato alle considerazioni di Rousseau per delineare la figura e le aspirazioni di Roberto che, spinto dall’amore, prende coscienza per la prima volta dei suoi diritti di uomo libero42.

Il richiamo alla legge di natura all’interno della famiglia – scrive E. Mattioda – toglie ogni pretesa all’autorità paterna […] Roberto a questo punto si sente libero di compiere autonomamente le proprie scelte, di rifiutare i pregiudizi del sangue per concretizzare la propria felicità. Egli compie una scelta che i successivi personaggi di Albergati non sapranno più compiere […] ben altrimenti da lui agirà – ventotto anni più tardi – Enrico, il protagonista dei Ciarlatani per mestiere, figlio che ha assunto senza rigurgiti la razionalizzazione borghese.43

1. I caratteri del mutamento

Tu, amabile fanciulletto innocente, ispira nell’animo di tuo padre, e di tuo zio que’ dolci sensi d’umanità, di dolcezza, di pace che si leggiadramente ti ridono in volto. (lo pone in braccio a Riccardo, e subito prendendo per mano Virginia ne dà la mano parimente a Riccardo) . Cavaliere fortunatissimo, se in voi s’estinguono i pregiudizj del falso onore, eccovi i sacri pegni, ai quali non v’è concesso di rinunziare, e dai quali per frivole cagioni, no, non v’è concesso d’allontanarvi giammai. I genitori, la moglie i figli, la propria vita, la domestica pace, gli amici son que’ preziosi beni che difendere, e sostenere dobbiamo a fronte d’ogni periglio. 44

Queste parole concludono idealmente I pregiudizi del falso onore, una commedia in tre atti redatta da Albergati nel 1778. In essa il commediografo abbandonava il motivo dello scontro tra padri e figli nell’ambito della famiglia aristocratica d’Antico Regime per descrivere il nuovo modello di famiglia coniugale intima che allora si andava costituendo anche nell’Italia

42 Significativo a riguardo anche il giudizio di C. Beccaria. Il grande illuminista nel 1764 osservava che, mentre la legge di famiglia “inspira soggezione e timore”, la legge della repubblica porta a “coraggio e libertà”. “Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. […] Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di educazione e di difesa, diventano liberi membri della città […] Nel primo caso i figli, cioè la più gran parte e la più utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non esiste altro legame comandato che quel sacro e inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti”. C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., pp. 57-8. 43 E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 78-9. 44 I pregiudizj del falso onore. Commedia di tre atti in prosa, in Opere di Francesco Albergati Capacelli, cit., t. I, pp. 1-132. Vedi in particolare Atto III, 10.

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centrosettentrionale45. Una forma definita tipicamente borghese e fondata su nuovi equilibri tra i suoi membri46. Infatti

La commedia porta in scena una famiglia aristocratica che conduce una vita ‘borghese’: Virginia e suo marito Riccardo […] non conducono, insomma, una vita pubblica come pur converrebbe al loro stato. Preferiscono, invece, le dolcezze della vita coniugale, la pace della famiglia che si regge sul dialogo dei due coniugi e sull’amore per il piccolo Giulietto. 47

Albergati celebrava così, sulla scena, la scoperta settecentesca dell’infanzia e insieme evocava l’idea della centralità del bimbo nella nozione a sua volta rinnovata di famiglia. Si trattava, come si è accennato, di una inedita sensibilità che iniziava a diffondersi nella vita privata anche nell’Italia di fine secolo tra i ceti più elevati, pur non senza resistenze e difficoltà. Infatti, alcuni trattati pedagogici del tempo biasimavano i nuovi costumi e ironizzavano su ciò che pareva un inopportuno trionfo degli affetti, consumato in “mille moine e tenerezze svenevoli”, in “baci, carezze, sciocche adulazioni, sconci ornati”. Era dunque inopportuno e probabilmente dannoso “viziare” i figli e “sbaciucchiarli cento volte al giorno”48. Il commediografo bolognese, invece, ne I pregiudizi del falso onore, consapevole della trasformazione in atto, fondava proprio su questi comportamenti il nucleo costitutivo della relazione tra Giulietto e i suoi genitori. Così si esprime la protagonista della commedia, che incarna il ruolo della giovane madre italiana dell’ultimo Settecento:

Poco dopo è venuto mio marito stesso alle mie camere, e mi ha trovata in atto che baciava e accarezzava Giulietto. È entrato senza parlare, ha stretto il figlio fra le sue braccia, e alzandolo da terra se lo ha riportato seco. Io li ho voluto seguitar tutti due; ma mio marito a me rivolto dolcemente m’ha detto: Virginia mia, lasciaci insieme per un momento; forse, chissà… Or ora te lo riconduco. 49

Per tornare allo sviluppo della trama, la tranquillità familiare veniva meno quando Riccardo, per non sottrarsi alle ferree regole dell’onore e peraltro senza parlarne alla moglie, si trova costretto ad accettare una sfida a duello con un anonimo cavaliere. Il segreto provocava una crisi nella coppia la cui intesa tanto lontana dalle consuetudini d’Antico regime, rischiava di essere minata proprio

45 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., pp. 26-27. 46 Per la definizione di famiglia “patriarcale” e “coniugale intima”, M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., p. 19. 47 E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 82-3. 48 G. M. Tojetti, Pratica istruzione alli Genitori per educare cristianamente, cit.; A. Bresciani, De’ mezzi per conservare il frutto della buona educazione ricevuta in collegio, cit., p. 48; G. C. Gattoni, L’instruzione cristiana, cit., p. 9. 49 I pregiudizj del falso onore, cit., Atto II, 6.

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a causa di un vecchio retaggio aristocratico. Sopraggiungeva, anche in questo caso, un “saggio amico”, Alfonso. Era grazie al suo intervento che la famiglia poteva ricostituirsi, trovando la sua identità non più sui “pregiudizj del falso onore”50, ma sull’“l’onor vero”51 che si fonda sull’amore dei propri cari e sulla capacità di percepire le reali gioie della vita. Il motivo del “falso onore” e il tema del “padre amorevole” venivano ripresi da Albergati in Rodolfo, un dramma in cinque atti redatto dal commediografo emiliano nel 178452. L’opera, come ricorda esplicitamente l’autore nella prefazione, intendeva ispirarsi a La fuerza de la sangre, una delle Novelas ejemplares, composte da M. de Cervantes a Madrid nel 161353. La vicenda, come nel testo spagnolo, era ambientata a Toledo. Rodolfo e Flerida, due giovani aristocratici, stanno per sposarsi, ma certo non si amano e neppure si conoscono. Subiscono una scelta, accettano il matrimonio d’interesse per non deludere i genitori e per rispettare le norme sociali fondate sul rango. Flerida è innamorata di un lontano parente, il conte Flavio, con il quale già intrattiene una relazione. Rodolfo è reduce da un lungo soggiorno militare nelle Fiandre. Si era imposto un lungo esilio per emendare un crimine indegno commesso anni prima, la violenza ai danni di una povera fanciulla. Per puro caso, per gli imprevedibili disegni della sorte, Matilda, la vittima dell’abuso, insieme al suo Carluccio, il bimbo nato in seguito alla tragica vicenda, si ritrova nella casa di Rodolfo, il luogo della violenza. Don Fernando, il padre del reo, propone alla giovane il matrimonio riparatore con Rodolfo: una unione reputata necessaria per ristabilire l’onore personale e familiare e per far ritrovare a Carluccio entrambi i genitori. Il rifiuto sdegnato di Matilda era vinto tuttavia dall’amore per il figlio, desideroso di riabbracciare un padre mai conosciuto. Così il carnefice si trasformava in un padre e marito tenero. Trionfava sulla scena, con la riunificazione della famiglia, la sua inedita dimensione intima, affettuosa e solidale. Anche don Alfonso, il padre di Flerida, mostrava un carattere segnato da quella nuova sensibilità che ravvivava i comportamenti delle élites europee nella seconda metà del secolo. Scopertosi non più tiranno ma amorevole il padre si orientava egli stesso verso il matrimonio d’inclinazione, concedendo al conte Flavio la mano di Flerida. L’opera si risolveva dunque in una conclusione

50Ivi, Atto III, scena ultima. 51 Ivi, Atto III, 10. 52 Rodolfo. Dramma di cinque atti in prosa, in Opere di Francesco Albergati Capacelli, cit., t. VIII, pp. 3- 113. Sulla datazione vedi E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., p. 104. 53 La Prefazione è in Opere, cit., t., VIII, pp. 5-7. Per la traduzione italiana vedi M. Cervantes, Novella della forza del sangue, in Tutte le opere, Mursia, Milano 1985.

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positiva, soddisfacente per tutti i personaggi, anche grazie all’intervento dei due padri di famiglia. La trama di Rodolfo, come sappiamo, traeva spunto da La fuerza de la sangre di Cervantes. In entrambe le opere rimaneva comune l’antefatto, cioè l’abuso di Rodolfo ai danni di Matilda (Leocadia nel testo spagnolo) e il “punto di svolta” della vicenda, l’incontro dei due giovani nel luogo della violenza. Nondimeno i testi presentano molte discontinuità e si differenziano, come si vedrà, soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi54. Nella versione spagnola donna Estefania, la madre di Rodolfo, assume una funzione di rilievo, mediatrice tra le parti. Un compito che Albergati invece riserverà a Don Fernando. Estefania, infatti, progetta l’incontro di suo figlio con Leocadia nella speranza che questi se ne innamori. Anche Leocadia, dal canto suo, rivela un animo pragmatico. Dopo aver dimostrato la colpevolezza di Rodolfo reclama un matrimonio riparatore per recuperare la perduta onorabilità sociale. Pertanto nel testo di Cervantes le donne svolgono ruoli attivi e sono contraddistinte da razionalità e intraprendenza, qualità considerate, a quei tempi, convenzionalmente maschili. In Albergati Matilda, invece, rivela un carattere istintivo, emotivo e passionale capace tuttavia di superare la dimensione individualistica dell’amor di sé, il traguardo della mera realizzazione personale. Nello sviluppo della trama la protagonista riesce ad andar oltre il desiderio di vendetta nei confronti di Rodolfo, oltre le richieste di risarcimento per la colpa subita. Trova infine, faticosamente, la sua realizzazione umana nel bisogno di reciprocità, nella scelta condivisa dell’affetto familiare, in un riscoperto compito di moglie e di madre. Matilda non rappresenta, così, l’immagine standardizzata e tipicamente settecentesca della figura femminile e il suo spirito di angelo del focolare non ne intacca il ruolo di protagonista virtuosa della pièce. Albergati, infatti, per accentuare il valore dell’esperienza morale compiuta dalla sua eroina, inizialmente aveva ipotizzato di intitolare la commedia Matilda come può desumersi dal manoscritto della pièce, conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna. Un titolo che dunque solo successivamente sarebbe stato modificato dall’autore in Rodolfo55. È tuttavia Rodolfo il personaggio che “subisce la modificazione più profonda rispetto al modello spagnolo”56. Rodolfo è colui che paga per la

54 E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 104-106 e P. Themelly, “Amor supera tutto”. Il valore politico dei sentimenti nel teatro di Antonio Simone Sografi, cit., pp. 70-2. 55 A.S.B., Albergati, “Manoscritti originali di Francesco Albergati il commediografo”, III. 56 E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., p. 106. Il letterato spagnolo descrive Rodolfo come “un cavaliere […] che la ricchezza, la stirpe illustre, l’animo corrotto, la troppa libertà e le

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scelleratezza “d’un solo momento”57. Per sette anni si era tormentato su ciò che era accaduto, fin quando non si presenta l’occasione di confidarsi con il padre:

Oh me perfido! Oh me barbaro e sciagurato! Oh rimembranza che mi lacera le viscere, che m’arde il cuore d’un foco distruggitore e crudele! Piacesse al cielo che allora di questo foco medesimo mi fossi sentito acceso, e non già di quel forsennato foco ed impuro che m’invase, m’inebbriò, mi sospinse all’atto villano e sacrilego. Misera giovinetta oltraggiata, tradita! 58

Don Fernando crede che il pentimento possa emanciparlo: “Al cielo, a te medesimo, a me è noto il tuo pentimento. Or poi ti ripeto che minore è il tuo fallo di quello che apparir possa al primo esame”59. Pertanto Rodolfo con sofferenza, tramite l’introspezione e il senso di colpa si era riscattato, conquistando la dignità umana. In altri termini l’espiazione aveva cancellato il suo peccato sino a rigenerarlo. […] L’opera si concludeva pertanto con l’integrazione del reo penitente in un progetto condiviso e utile. 60

Con Rodolfo il teatro di Albergati giunge a registrare le trasformazioni più significative che coinvolgono l’universo familiare dei suoi tempi. L’evoluzione a riguardo, segnalata a partire da I pregiudizi del falso onore, sembra ormai giunta a conclusione. Alla figura convenzionale del padre tiranno ormai succede quella di un padre affettuoso, tenero e indulgente. Pertanto il commediografo riusciva a cogliere e a rappresentare un significativo cambiamento dei costumi. Infatti, come sappiamo

Dopo aver dominato per secoli, il modello patriarcale entrò in crisi negli ultimi decenni del Settecento e nei primi dell’Ottocento. In questo periodo, almeno in alcuni ceti sociali, le relazioni fra marito e moglie, genitori e figli, cambiarono profondamente ed emerse a poco a poco un nuovo tipo di famiglia: quella coniugale intima. Anche se il maschio, padre e marito, continuava ad essere la figura preminente, la distanza sociale fra lui e la moglie e fra genitori e figli si ridusse considerevolmente. 61

scostumate compagnie spingevano a far cose e a commettere impertinenze tali, che erano disdicevoli alla sua nobiltà e gli meritavano la fama di temerario.” Vedi, M. Cervantes, Novella della forza del sangue, ed. cit., p. 491. 57 Rodolfo, cit., Atto II, 7. 58 Ibidem. 59 Rodolfo, cit., Atto IV, 1. 60 P. Themelly, “Amor supera tutto”, cit., pp. 72-73. Si noti come Albergati in Rodolfo riprenda la polemica, inaugurata con I pregiudizi del falso onore, contro l’onore aristocratico e la pratica dei duelli auspicando, sulla scia di Beccaria, un nuovo diritto razionale “che rifiutava l’idea della vendetta e si mostrava attento alla difesa dei vantaggi sociali e al recupero dei colpevoli.” P. Themelly, “Amor supera tutto”, cit., p. 73. Vedi anche C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, cit., cap. XII, p. 31. Sul diritto di punire, F. Venturi, Utopia e riforma nell’illuminismo, Einaudi, Torino 1970, pp. 119-43. 61 M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto, cit., p. 26.

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In Rodolfo don Alfonso e don Fernando con le loro nuove preoccupazioni per i figli esprimono, in una sensibilità rinnovata, un processo di trasformazione ormai irreversibile:

ALFONSO: […] essi non si amano; che forse si sentono gli animi alieni l’uno dall’altro, che il solo rispetto verso de’ genitori gli induce al passo, il quale poi decider deve di tutta la vita loro. FERNANDO: Giusta è purtroppo questa fatal conseguenza; e ne tremo, e ne provo agitazione e rammarico, e veggo necessaria su ciò profonda ponderazione. […] Ma in questo giorno deve venire il notaro […] Siamo impegnati a segno… ALFONSO: Eh! che l’impegno maggiore per noi è di non rendere disperati e infelici i figli nostri. Ogni altro riguardo dee cedere a questo solo. Se i genitori non abusassero mai della loro autorità ne’ maritaggi de’ figlj, si vedrebbe allor questo laccio rimanere illibato egualmente che sacro; e indissolubile egualmente che felice.62 Anche don Fernando, come si è accennato, tenta di convincere Rodolfo a confidarsi: FERNANDO: (dopo guardato il figlio fissamente) Rodolfo, né vorrai pur una volta rompere quel tuo ostinato silenzio? E vorrai che in giorno ch’esser per noi potrebbe giorno di tanta gioja io soffra la tua più affannosa agitazione? […] Ebbene, palesa tu intanto l’interno tuo. […] RODOLFO: E non vi basta la mia obbedienza… FERNANDO: Nò; quest’anzi offende la mia tenerezza; questa fa torto a tuo padre; questa obbedienza tua così cieca mi lascierebbe con perpetuo rimorso nell’animo d’esserti stato non padre già, ma tiranno.

E subito dopo arriva al punto da porsi sullo stesso piano del figlio, giungendo a considerarsi non più padre ma amico:

Ma forse a te manca fra gli uomini e l’opportuno confronto, e il fervido consolatore? Non credi forse di trovar l’uno e l’altro nelle braccia del padre tuo? E se questo nome di padre nell’importi l’ossequio che se gli debbe ti scemasse quell’aperta fiducia che io da te esigo, riguardami soltanto come tuo amico; ed io ti giuro che non sosterrò teco altro carattere, altri doveri che quelli della più fervida, e della più sviscerata amicizia. 63

La nuova figura paterna conduce a uno scioglimento atipico rispetto al passato. Per la prima volta il padre, in virtù della riscoperta empatia, risolve esso stesso la vicenda, trasformando un antico dramma in nuovo genere di commedia. In questo senso Rodolfo rappresenta, lo si è peraltro accennato, il punto d’arrivo di un percorso che aveva accompagnato Albergati lungo tutto l’arco della sua produzione. La figura del padre amorevole, resa in forma più debole nelle opere precedenti, non sarebbe stata rievocata con altrettanta forza neppure nelle pièces future. Una significativa evoluzione del tema sin qui presentato può cogliersi ne I ciarlatani per mestiere, un nuovo componimento dedicato alla questione

62 Rodolfo, cit., Atto I, 4. 63 Rodolfo, cit., Atto II, 7.

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dell’attore teatrale64. Un testo in una certa misura sentito e autobiografico, steso in tre atti nel 1801, solo pochi anni prima della scomparsa del nostro autore. Albergati infatti si era spesso dilettato a recitare oltre che a dedicare gran parte della sua vita alla produzione letteraria65. In questa occasione -ed era certo una novità nel teatro di Albergati- i protagonisti della commedia non sono più i tradizionali esponenti del ceto patrizio, ma nuovi eroi che premono “dal basso”. Sono coloro che hanno “denari”, “superbia e pretensioni”. Con una rivoluzione alle spalle, disgregata l’antica struttura sociale, frantumati gli ordini, la pièce ricostruisce dunque le vicende di una famiglia ricca ma non aristocratica66: questa appartenenza alla borghesia commerciale permette di mettere in scena la nuova famiglia coniugale intima, espressione a livello familiare di rapporti autoritari più ‘simmetrici’ […] Padre e figlio hanno un rapporto affettivo che in apparenza sembra far a meno dell’autorità. 67

Anche in questo caso l’opera ripropone il tema, a tutta prima stucchevole, dell’amore tra due giovani innamorati socialmente diseguali. Enrico, figlio del negoziante Alfonso, si invaghisce di Albina, una attrice teatrale, una ciarlatana. Tuttavia l’aspetto e i modi della giovane, peraltro orfana di genitori sconosciuti, commuovevano e sembravano poter tradire una origine sociale diversa. Nondimeno il turbato Enrico si rivelava ben presto risoluto. Sapeva che era opportuno dominare i moti del cuore, razionalizzare gli affetti, tentando di indirizzare ogni impulso emotivo verso fini pragmaticamente utili. Lontanissimo dallo spirito dell’89, il protagonista non attribuiva ai sentimenti alcun valore normativo. La scelta d’amore non poteva trovare la propria giustificazione in sé ma doveva uniformarsi ai modelli sociali vigenti. In tal

64 I ciarlatani per mestiere. Commedia inedita di tre atti in prosa, in Collezione completa delle commedie, cit., t. VI, pp. 289-368. 65 “Cominciò a recitare di dodici anni commedie così dette a soggetto. Riuscì subito mediocremente. Poi in seguito riuscì molto applaudito, ma non sognavasi mai d’essere autore. Giunto agli anni 40 tentò d’esserlo e non fu vano del tutto il suo tentativo. […] Nell’età di 72 anni continua a coltivare la sua passione di autor comico e di comico attore, alternando a se stesso il piacere di comporre e di recitar commedie”. Ritratto di Francesco Albergati Capacelli delineato da lui, ora in E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., pp. 205-7. Vedi anche M. Calore, Due aspetti della personalità di Francesco Albergati Capacelli. L’attore e l’anfitrione, in Strenna storica bolognese, Pàtron, Bologna 1979, v XXIX, pp. 97-111. 66 Così i due servitori, Brunetta e Marcuccio, presentano i loro padroni: “BRUNETTA: […] Non sono mica una gran cosa questi signori padre e figlio. MARCUCCIO: È verissimo; anzi vengono assai dal basso. Ma adesso hanno denari, e per conseguenza fumo, superbia e pretensioni.” I ciarlatani per mestiere, cit., Atto. I, 3. È opportuno notare che I ciarlatani non furono l’unica pièce di ambientazione borghese redatta da Albergati. L’opera fu preceduta, nel 1785, da Il gazzettiere, cfr., Opere, cit., t. XII, pp. 179-218. 67 E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., p. 136.

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modo il matrimonio d’inclinazione si prefigurava come un atto sovvertitore dell’ordine esistente. Pertanto Enrico avrebbe sposato la sua amata Albina solo in ossequio alle norme paterne, solo se la ciarlatana si fosse rivelata di famiglia nobile o “civile”. Per queste ragioni Enrico, sostenuto e incoraggiato dal premuroso e affettuoso Alfonso, che rappresenta, per l’occasione, un inedito modello di padre amorevole, intende adoperarsi per scoprire la vera identità dell’amata. È quanto accade in conclusione del terzo atto risolto da Albergati con il ricorso alla tecnica remota dell’agnizione. Si trattava in altri termini del tradizionale elemento del teatro classico, un espediente funzionale in età moderna a chiudere le opere che si richiamavano al tema letterario dell’amore contrastato. Infatti, in questo corpus apparentemente uniforme, in ogni rappresentazione, uno dei due giovani amanti con stupore e per puro caso riscopriva, per lo più nell’ultima scena, la sua vera identità: una identità sociale non più dissimile da quella del partner. In tal modo gli innamorati si ritrovavano equiparati nel rango e potevano finalmente sposarsi. Il pericolo della mésalliance era così scongiurato e insieme si potevano commemorare i valori gerarchici e collettivistici d’Antico regime. Il teatro della Rivoluzione, anche in Italia, sia pur nelle testimonianze più avvertite e consapevoli, richiamandosi alla Dichiarazione dell’89, aveva celebrato sul palcoscenico, con la mésalliance, il valore politico dei sentimenti e sepolto in un passato senza futuro la tecnica dell’agnizione. In tal modo un genere letterario plurisecolare si era trasformato e arricchito per la forza di quel grandioso evento68. Albergati, ne I ciarlatani per mestiere, all’alba del nuovo secolo, poco sensibile ai nuovi sviluppi, sembrava ancora compiaciuto nel richiamarsi ai suoi antichi e celebri corrispondenti, fino a rievocare nell’opera le magistrali agnizioni proposte da Voltaire in Nanine (1749) e da Goldoni in Pamela (1750). Pertanto la commedia del nostro si concludeva in una piazza gremita nella quale Alfonso, per puro caso, incontrava Raimondo, un vecchio negoziante, ancora sulle tracce della figlia scomparsa molti anni addietro. Di lì a poco anche Albina e Raimondo si rivedevano e si riconoscevano emozionati. Finalmente potevano riabbracciarsi come padre e figlia. Solo ora, con la solenne investitura dei due capifamiglia, il matrimonio poteva essere celebrato. Tuttavia non si può non osservare che entro tale contesto statico affiorano, nella trama, fermenti e istanze che preludono, a loro modo, ad una nuova e diversa concezione del mondo.

68 P. Themelly, “Amor supera tutto”, cit.

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Infatti anche ne I ciarlatani per mestiere Albergati prosegue e sviluppa l’itinerario già tracciato ne I pregiudizi del falso onore e in Rodolfo per ricostruire, in modo sempre più compiuto, il carattere della famiglia “coniugale intima”. Un modello nel quale Alfonso si staglia come un “tenero padre”69, sempre pronto a relazionarsi con il figlio e lontano da ogni forma di imposizione: “figlio mio, non è la mia autorità sì indiscreta, né io l’adoprerei mai da tiranno”70. Alfonso si rivela così aperto al dialogo. Anzi è egli stesso, come don Fernando in Rodolfo, a spingere il giovane a parlare, ad esternare i suoi più segreti sentimenti:

[…] perché non t’apri con tuo padre? Dove trovar potrai un miglior amico che ti consigli e t’aiuti? […] Che tumulto, che affanno era il tuo? Non vergognarti, non arrossire dinanzi al padre e all’amico.

E poco oltre, sempre nella stessa scena:

Tieni un bacio. Altri ancora te ne darò prima che tu parta. 71

Il bacio, una dimostrazione d’affetto certamente poco diffusa nei costumi familiari italiani dell’ultimo Settecento, sembra ormai divenire una consuetudine per Alfonso, che più volte bacia e abbraccia Enrico nel corso della commedia72. Sembra così potersi instaurare una relazione simmetrica tra i due protagonisti, un legame che spinge Alfonso a definirsi il “miglior amico” del figlio sino a poter, in tal modo, fornire preziosi consigli:

Avvezzati finché sei giovane a vincere o a frenare almeno le passioni, sono esse tutte compagne, e chi si lascia accecare da una, può facilmente divenir preda e vittima di tutte le altre. […] è un inganno nei padri lo sperare, che i loro figli col farsi maturi, vinceranno le passioni seduttrici della gioventù. No, figlio, ti so dir io che esse non sloggiano sì facilmente dal cuore umano, e assai di rado veggiano vecchio savio colui che fu pria giovane pazzo. 73

Verosimilmente, tramite il rapporto di empatia, il giovane assume in modo diretto la concezione del mondo paterna. Infatti le esitazioni e i dubbi di Enrico, le sue rarefatte pene d’amore precedono, per lo più, i colloqui con il padre. Tuttavia Albergati definisce sin dalle prime scene con chiarezza il suo carattere:

69 I ciarlatani per mestiere, cit., Atto I, 2. 70 Ivi, Atto II, 9. 71 Ivi, Atto I, 5. 72 Ivi, Atto II, 15. 73 Ivi, Atto II, 9.

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Sono uno sventurato, un infelice, un meschino, se i beni di fortuna mi debbono togliere il bene maggiore che possa nella vita godersi, una bella, un’amabile, una leggiadra compagna… […] Bisogna fare uno sforzo, e vincersi, e sacrificar tutto alla convenienza e alla quiete. 74

Le parole di Alfonso sono inequivocabili:

[…] trascurar non posso i riguardi che debbonsi al nostro decoro e al nostro buon nome. […] Tieni un abbraccio e un bacio. […] Spera; farò di tutto per consolarti. ENRICO: Io non voglio, se non quello che voi vorrete, o che almeno mi sarà permesso da voi. 75

Nondimeno la “felicità” del giovane protagonista “dipende -ha osservato E. Mattioda - dal denaro del padre, e a questo è pronto a subordinare le proprie passioni”76. In altri termini Enrico avrebbe assunto quella che sempre Mattioda definisce “una mentalità capitalistica”, uno spirito che lo induce ad accettare il proprio ruolo all’interno della società sacrificando le passioni, compreso l’amore, in funzione di una esclusiva realizzazione economica e sociale. Pertanto I ciarlatani per mestiere, tramite la scelta di Enrico, sembrerebbero così dimenticare e rendere vana, a quasi trent’anni di distanza, l’invocazione di Roberto al diritto naturale e alla libertà individuale ne Il prigioniero:

[Roberto] compie una scelta che i successivi personaggi di Albergati non sapranno più compiere […] Il principio di realtà porterebbe ad un calcolo razionale, al seguire gli ordini paterni per ottenere un vantaggio economico, ad obbedire alle norme imposte dalla società: Roberto invece sceglie la strada opposta […] La sua ‘Bildung’ è la realizzazione della felicità privata attraverso la cultura dei Lumi: ben altrimenti da lui agirà – ventotto anni più tardi – Enrico, il protagonista dei Ciarlatani per mestiere, figlio che ha assunto senza rigurgiti la razionalizzazione borghese. 77

Comunque sia anche il grido di Roberto era rimasto, a suo tempo, soffocato nello sviluppo scenico de Il prigioniero, come si è già evidenziato. La volontà del protagonista di divenire adulto e autonomo restava, nonostante tutto, una tentazione ideale, una sorta di esercitazione letteraria. Il disegno dell’opera, risolto con la tradizionale agnizione che scongiurava la mésalliance tra Doralice e Roberto, smorzava di fatto il significato stesso della prova. Peraltro la rendeva possibile solo in una situazione protetta e priva di rischi. Nondimeno la celebrazione del principe illuminato, virtuoso e saggio, che chiudeva, come si è ricordato, idealmente la pièce, rivelava la reale distanza che correva tra Albergati e Rousseau, perlomeno agli inizi degli anni Settanta. La nozione rousseauiana di cambiamento e di trasformazione si spegneva nell’idea di un equilibrato sviluppo che di fatto ispirava la trama de Il prigioniero.

74 I ciarlatani per mestiere, cit., Atto I, 4. 75 Ivi, Atto II, 15. 76 E. Mattioda, Il dilettante “per mestiere”, cit., p. 138. 77 Ivi, pp. 78-9.

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Anche ne I ciarlatani per mestiere trionfa ancora, grazie a una agnizione, la forza del sangue. Alla caduta del sipario prendeva la parola Pandolfo, il poeta della compagnia teatrale. Questi rivelava al pubblico che la conclusione, per quanto inverosimile, doveva intendersi come un dato di fatto e “al fatto non si può contraddire”78. Tuttavia suggeriva: se fosse stata una commedia, direi che il povero poeta imbrogliato non sapeva come sciogliersene se non ricorrendo alla solita frottola della forza del sangue. 79

In realtà quella “frottola” aveva segnato il teatro di Albergati per oltre trent’anni, in ragione di una scelta culturale e politica che, lontana dai valori dell’89, si richiamava alle posizioni più equilibrate del movimento riformatore settecentesco. Nondimeno, di là delle incertezze che ancora richiamiamo, il disegno d’insieme sotteso alla produzione del nostro autore teneva, come si è tentato di mettere in evidenza nel corso di questo contributo. Era infatti proprio lo spirito dei Lumi a rendere viva l’opera dello scrittore emiliano, a motivarne l’impegno civile e le battaglie ideali. Il teatro di Albergati, lo si è peraltro già osservato, auspicava il rispetto per la dignità umana, il bisogno solidale di scelte condivise, comportamenti e istituzioni a misura d’uomo. Il Gran secolo pertanto non si era concluso invano.

78 I ciarlatani per mestiere, cit., Atto III, 3. 79 Ibidem.

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Appendice

I documenti che seguono provengono, lo si è ricordato, dal fondo conservato presso l’Archivio di Stato di Bologna, un corpus rimasto in possesso della famiglia Albergati sino al 1904. Si tratta, come notavamo, di materiali eterogenei, divisi in due serie, per lo più non catalogati. Per quanto riguarda i criteri di trascrizione si è rispettato in modo rigoroso il testo. Si sono mantenute non solo le accezioni arcaiche ma anche le irregolarità ortografiche. Non si è voluto intervenire peraltro nel caso di oscillazioni grafiche concernenti lo stesso termine.

Lettere alla madre80

I. Carissima Signora Madre Amatissima Marzabotto 22 Ottobre 1757 Da Don Giuseppe quà venuto per miei affari intendo tali notizie della salute di lei, che mi sento messo a congratularmene con questa mia. Il mio ritorno in Bologna è fissato alli 3 del venturo mese, nel qual tempo s’ella continuerà in cotesto soggiorno, avrò il piacere di farle in esso con qualche frequenza una cattiva compagnia di mia persona. Intanto le bacio le mani e domandandole la materna benedizione ossequiosamente mi rassegno Di Lei Carissima Sig. Madre Amatissima Devotissimo Obbligatissimo Servitore e figlio Francesco Albergati

II. Carissima Signora Madre Amatissima Marzabotto 14 Ottobre 1757 Giorni sono dalla Signora Isabella Pepoli; indi dal Signor Cavalieri Poggiolini, e poscia dalla Signora Spada quà giunta ieri sera ho ricevuti i cortesi di lei saluti; pe’ quali vivamente la ringrazio, ed ottime nuove della salute sua, del che col

80 A.S.B., Albergati, “Carteggi privati”, 7, 264. La busta contiene quattro fascicoli che raccolgono le lettere inviate a Elisabetta Caminer, ai genitori, al figlio a cui si aggiunge un testo a stampa redatto da Luigi Albergati Capacelli. Si propone qui una scelta tra le ventisei lettere alla madre Eleonora redatte tra il 1749 e il 1760. L’incartamento conserva anche la corrispondenza con il padre (quarantadue lettere) relativa agli anni 1738-’39, quando il piccolo Francesco aveva dieci anni.

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più sincero sentimento mi rallegro. La stagione pare cambiata in buono; mà in ogni modo quì l’allegria non manca, ove la numerosa e bella compagnia basta a far passare lietamente il tempo anche dentro i muri della casa. Costì poi sento, che non le manchi abbondante conversazione e le auguro, che così ancora non le mancasse l’amabile Pentolino. Mà questo manca per tutto, e chi sà, quando torneremo a goderne. La supplico de’ miei complimenti a’ Signori Zanotti; e Tavutti, e vorrei sapere, se questi ha ricevuta la mia risposta. Le bacio umilmente le mani e domandandole la materna benedizione pieno d’ossequio mi rassegno Di Lei Carissima Signora Madre Amatissima Devotissimo e Obbligatissimo Servitore e figlio Francesco Albergati

III. Carissima Signora Madre Amatissima Zola 6 Luglio 1759 Desidero di sentir nuove di sua salute, le avanzo queste due rispettose righe, colle quali, sapendo d’amorosa premura, ch’ella ha per la salute mia, gliene dò ottime nuove. Spero, ch’ella sia servita con ogni esattezza e puntualità, mà la prego ove alcuna cosa mancasse al buon serviggio di lei, assicurarsi, che ciò non è per difetto de’ necessarj ordini da me dati, e la prego altresì rendermene sollecitamente avvisato. Intanto le domando la materna benedizione, e baciandole le mani ossequiosamente mi rassegno Di Lei Carissima Signora Madre Amatissima Devotissimo e Obbligatissimo Servitore e figlio Francesco Albergati

IV. Carissima Signora Madre Amatissima Cadantone 25 Agosto 1759 Oltre al compiere al mio breve, augurandole felice il viaggio per Ferrara, che sento fissato per domenica, mi permetta ch’io le avanzi una rispettosa esibizione, ed è, di soccombere io alla leggerissima spesa, che occorre può in tale suo viaggio. Don Giuseppe n’ebbe già da me l’ordine. A lui tocca l’eseguirlo, e a lei, non ricusare questo piccolo attestato del mio ossequio. Mi raccomando alla cortese di lei premura acciocche io trovi per la strada buoni Cavalli e buoni Postiglioni, contando io di partire da Bologna Martedì mattina,

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e partire il Sabbato mattina da Ferrara. Intanto baciandole umilmente le mani, e domandandole la materna benedizione ossequiosamente mi rassegno Di Lei Carissima Madre Amatissima Devotissimo Obbligatissimo Servitore e figlio Francesco Albergati

V. Carissima Signora Madre Amatissima Marzabotto 13 Ottobre 1759 Oltre le lettere di don Giuseppe, che mi recano sempre ottime nuove della salute di lei, ne ricevo continuamente la conferma da molti, che qua arrivano di tempo in tempo. Onde sù questo non mi resta, che di congratularmene seco lei col più vivo dell’animo. Oggi pare, che la stagione cominci a imbrogliarsi, ma v’è anche speranza che il buono vinca. So, che costì radunarsi bellissime conversazioni, delle quali mi lusingo goderne qualcheduna ancor’io nel mese venturo. Le bacio intanto umilmente le mani, e domandandole la materna benedizione mi rassegno Di Lei Signora Madre Amatissima Devotissimo Obbligatissimo Servitore e figlio Francesco Albergati

VI. Carissima Signora Madre Amatissima Verona 25 Aprile 1760 Mi consolo moltissimo in sentire ch’ella abbia goduta l’amabile Compagnia di cotesti Nobili veronesi, che sommamente amo e apprezzo. Ha fatto bene a prevenire le mie intenzioni, le quali non possono mai essere opposte al suo modo savissimo di pensare; e sà ch’ella può autorevolmente disporre, come Madre e come Padrona. Disidero ch’abbia esito felice la Purga da lei intrapresa, e lo spero ancora. Qui sono ormai terminati li magnifici e sorprendenti tumulti pel passaggio seguito. Io ne ho goduto, e con piacere. Le bacio le mani; e domandandole la materna benedizione umilmente mi rassegno Di Lei Carissima Signora Madre Amatissima Devotissimo Obbligatissimo Servitore e figlio Francesco Albergati

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Lettere a Giuseppe Concelmani, segretario di casa: sfoghi contro la Madre81 I. Don Giuseppe Carissimo Marzabotto 6 Ottobre 1757 Egli è ormai tempo di parlar chiaro. Mi protesto, che in quanto sono per dirvi, non pretendo di offendere né la vostra fedeltà né la vostra amorevolezza per me, mà solamente di esporre apertamente i miei immutabili sentimenti. In casa mia comando io solo, e vi comando assolutamente. Io non hò rimorsi all’animo d’esser mancatore in conto alcuno verso mia madre; potrei piuttosto provarne d’averne impiegato, oltre all’obbligo mio, danaro e attenzione per lei, dalla quale non ho riscosso tratti disobbliganti, ingrati, e che non si avrebbero né con un fanciullo, né con un servo. Sono annoiato, e ridotto a non voler più sofferire da chi hò sofferto tanto, e dico in poche parole o che mia madre muti sistema, o lo cambierò io, e forse ancora cambierò paese; non già perche in Bologna mi manchino amici, che mi vanto di averne, e de’ migliori assai, che non sono tanti adulatori che circondano lei, e lodano ed approvano, conoscendo che in simil guisa sono graditi; mà lo farò per essere più sicuro di vivere lontano da chi non piace a me, e da chi conosco di non essere gradito. Sarebbe cosa lunga se volessi ora ripetere tutto ciò, che dicesi dietro alle mie spalle, e tutte le graziose dicerie risvegliarsi o direttamente, o indirettamente dalla pia e devota mia madre. Darei troppo onore a certe bocche poco accreditate, se mostrassi di curarne le voci; mà farei altresì figura di uomo insensibile se me ne mostrassi non avveduto. I diritti, che sostengo, e sostener voglio a qualunque costo sono l’indipendenza da chiunque, a cui la religione o la legge civile non mi obbligano di obbedire, una tranquillità non interrotta, o interrotta almeno da quelle sole cause, che non posso impedire, e un assoluto dominio in casa mia, senza pregiudizio però di que’ pesi, à quali pel testamento di mio padre, sono sottoposto. Al mio ritorno in Bologna avro la tolleranza di forse quindici giorni; passati i quali se le cose non vanno a senno mio; separazione di tavola, e se ciò non bastevole, separazione di casa, e di città. Per tutto sono io felice, ora non hò chi mi disturbi. L’andare a piedi o in carrozza, la tavola lauta o scarsa, il vestire magnifico o liscio, l’avere quattro servitori, uno, o nessuno sono tutte cose per me indifferentissime, e chiamo Dio in testimonio della verità di miei detti. Un uomo, che ha in se simili sentimenti, non si lascia spaventare da alcuno, né da alcuna circostanza, e a tutto è preparato. Hà in fondo all’animo tutti i beni, che vuole portar seco, e pochi soldi gli bastano per trasferirsi da un luogo nell’altro. Senza fare ostentazioni di massime serie, di alienamento dal piacere, di brama del ritiro, saprò occorrendo fare in me qualunque più improvviso cambiamento,

81 A.S.B., Albergati, “Carteggi privati”, 8, 265.

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e deridendo l’altrui filosofia di chiarle, adoperarla io con incontrastabili fatti. Perche direte voi, tutta questa diceria? Per poco, rispondo io, se si considera l’occasione: per molto, se considerar si volesse la cagione; e siccome questa è infinita, né avrei carta abbastanza per dichiararla, così mi astengo a quella, a quella vi spiegherò. Quando i miei due servitori si partirono da me, comandai loro di obbedir voi in ciò, che forte per comandare, avvertendoli per altro, che era mia intenzione, che fossero in città pronti ad ogni mio cenno. Nel tempo medesimo scrissi a voi, che era mia intenzione, che non servissero mia madre, se non in qualche caso ben raro. Fra le molte ragioni, che addussi allora, riponete anche questa ed è, che l’affaticar, ch’essi fanno tutto l’anno per servirmi e servirmi bene, o a genio mio, può meritare, che si conceda loro da me una quarantena di giorni di riposo, quando aver possano essi un tale incarto senza danno del serviggio mio. Viene adesso ordinato loro di portarsi un settimana per ciascheduno al Casino degli Alemanni. Questo parmi contrario affatto à miei ordini; e avviso che impedire, che ciò succeda. Io conosco voi, e conosco mia madre; onde hò fondamento quasi sicuro di credere, che vi sarete mosso a questo trovandosi imbarazzato per l’altrui indiscretezza. Io non me ne imbarazzo punto, e in ogni caso per vostro disimpegno mostrate questa mia lettera. La veda pure chi vuole; la veda tutto il ridicolo Areopago, e ne sarò contentissimo. Nel dir questo non hò intenzione di far torto alla vostra prudenza, che non vi permetterà di mostrar questo foglio; ma solo di palesarvi quale sia la mia risolutezza. Che è questo mai che tutto dee porsi sossopra per fare omaggio a mia madre? Chi è ella e chi sono io? Ella degnissima di rispetto: manco io forse a questo dovere? Io degno per lo meno di riguardi: e quali sono quelli, che mi si usano da lei? Se voglio il cuoco, per quieto vivere mi convien prendere il sottocuoco: se voglio meco in Villa il Segretario, mi conviene andare ai piedi di lei per ricavarne uno stentato sì, proferito con sostenutezza e gravità: e molto più ciò si dica di altre cose, che legalmente le appartengono. Laddove di tutto ciò, che è mio fa ella uso senza domandarlo o domandandolo in aria di comandare. Fra tutte le persone, che mi servono non ve ne hà, che io più ami e stimi di voi. Se sieno sincere queste mie espressioni lo sa Dio, e lo sapreste voi ancora, se né contrassegni di mia gratitudine le forze corrispondessero all’ardente desiderio, che hò di premiarmi, come meritate. Mà è altresi mia intenzione che nelle cose, come nelle persone il mio si distingua e si conosca. Io dunque bramo, che Don Giuseppe Concelmani sia mio Segretario, non segretario di mia madre. Serva pure egli questa ove ella abbisogni dell’opera sua, e fin dove si estende la dichiarazione del testamento; il quale testamento se hà tanto vigore nelle cose a me contrarie, debbe averlo egualmente nelle cose a me favorevoli, e vantaggiose. Mi persuado, che non sarete per disapprovare queste mie massime, che io certamente manterrò sempre con tutta fermezza. La

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lettera è lunga, ma il significato è brevissimo. Tocca a voi il farmi conoscere a quale partito volete appigliarvi, assicurandovi, che io vi riguarderò sempre, come hò fatto per lo passato più da amico, che da padrone. Non crediate, che questa mia sia dettata da una focosa rabbia; no; è concepita a sangue freddo, è scritta con animo pacato; onde non temo di avermene a pentire giammai, né mai sarò per disdirmi, di quanto hò scritto all 6 d’Ottobre dell’anno 57. Vogliatemi bene, come credo di meritare. Addio. Hò rinnovato l’ordine a’ miei servitori, che vi obbediscano. Quanto al vostro stare nel Casino con mia madre ne sono contentissimo, premendomi il vostro attaccamento per me non nelle minute cose, mà nelle massiccie e rilevanti. Le robe componenti il regalo quà spedito sono belle e perfette, e in questo ancora sono molto tenuto alla vostra attenzione. Addio. L’accluso memoriale è di persona che molto mi preme. Fatelo avere ad Uccelli, e ciò, che si può fare per consolarlo si faccia.

II. Mio carissimo, Zola 4 Agosto 1759 Non credo che il tempo, da che soffro amarezze, dispetti e fatti disobbliganti da mia madre, sia tanto breve, che meritar io possa la faccia di intollerante, se voglio una volta impor fine ad una tanto ingiusta vessazione. Ciò, che vede il mio core, e che in testimonio io chiamo di quanto sono ora per dirvi, giudichi egli pure, se nella soluzione, che immutabilmente sono per prendere, v’ha parte alcuna odio, o contraggenio, mancanza d’affetto, o di venerazione, verso la insospettabile, e rispettata persona di mi madre, e alla quale colle parole, e co’ fatti pronto sono a dare tutti i possibili contrassegni d’ossequio, come è il dover mio, et anche di figliale tenerezza, purche io abbia onde persuadermi, che sia questa da lei gradita. Tutto infin esibisco fuorche la libertà, e la pace di mia persona, due beni per me inestimabili, sopra i quali solo Dio ha assoluto dominio, e che io a nessuno per cedere volontariamente giammai so che i tentativi, che far si possono o direttamente, o indirettamente contra la libertà mia dalla Madre, non vagliono certamente a privarmene, mà vagliano però a tenermi in una perpetua inquietudine. Sò altresì che conoscendomi io fuori d’ogni obbligo di dipendenza dalla medesima, potrei o con parole, o con alzate di testa, o con altro mostrar disprezzo per quella indiscreta severità, che meco da lei si da alla tavola, e in molti altri incontri; ma il timore di passare oltre que’ limiti, che dall’essere cristiano, cavaliere, e galantuomo mi vengono prescritti ha sempre in me raffrenato quegli impeti, che non di rado hò sentito vicini a scoppiare; e hà fatto ch’io mi condanni al silenzio, quando appunto più pronte e

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più a proposito venivami alla bocca le risposte, o ad una malinconica serietà in quelle ore medesime, che gli artiggiani stessi più miseri destinano ad una concorde allegria. Può adunque la mia libertà, e la mia pace prese di mira, e quasi continuamente perseguitate. Egli è ben di dovere, che io le metta al sicuro, e dopo avere per molti anni in vane guise, come vi è noto, spiegata la mia intenzione, e con preghiere, e con offerte di obbliganti compensi procurato, che gli animi si cangiassero, e che meco si deponessero que’ modi aspri e severi, che stanco sono di riferire, non è fuor di ragione ch’io venga al rimedio estremo e sicuro. Separazione adunque da mia madre, non d’animo, ma di persona, poiché quello sarà sempre lo stesso per lei, purché l’altra sia interamente da lei separata. E siccome trascurare non debbo, quando ancora fossi sì pazzo di volerlo, l’economico regolamento di miei affari per quello tenuto sono ai molti creditori, che mi circondano, così ben lunghi o di sagrificare me stesso, o di defraudare le giuste pretensioni degli altri, tale sarà il progetto, che colla viva voce vi farò, che non solo non alterata mà vantaggiata di non poco spero vedrete l’economia di mia casa. Bastisi per ora il sapere che ottenutosi da me, (come si otterrà certamente) l’intento della bramata separazione, il ristringere molti de’ miei agi mi sembrerà un’allargarli, e il privarmi d’alcuni piaceri d’alcuni piaceri mi sembrerà un goderne a mille doppi de’ muovi. Può la morte sorprendermi pria di terminar questa riga egualmente, che fra cent’anni, pure se da Dio avrà la mia vita quel corso, che l’esperienza fa’ giudicare ordinario, io giunto sono al mezzo di essa. Quale ella sia stata finora, se alla spirituale riguardo, non è questo il luogo, ove parlarne; se alla civile, posso purtroppo affermare, che più disturbi, che quiete l’ànno occupata. E benché a’ molti di essi abbia data occasione io medesimo, nulladimeno di molti altri riconosco l’origine in chi avria dovuto per obbligo risparmiarmeli. Io mi confesso senza difesa pei primi; e gia’ sò che per gli altri il zelo d’amici imprudenti; gl’indiscreti trasporti di affetto, i puntigli ridicoli di mal’ intesa convenienze ne formano uno soltanto una difesa, ma forse ancora una lode. Comunque siasi sui perdoni Dio gli errori miei, che io certamente agli altri perdono i loro. E venendo all’altra metà di mia vita, che forse mi resta, sono risolutissimo di volere ad ogni costo provvedere alla mia onesta tranquillità, e sagrificando per alcuni anni alcuni comodi, risorgere a situazione migliore, e far che il mondo conosca, che lo bilancio de’ miei affari economici non è poi tutta colpa di mia condotta, ma piuttosto di certa comunanza di vivere, la quale m’obbliga a spese gravose e non piacevoli, e me ne impedisce altre men gravi e di tutta mia soddisfazione. In somma se rimetto in bon piede gl’interessi miei, m’acquisterò il nome di savio; se li precipito miseramente, meriterò senza scusa il rimprovero di pazzo e di scialacquatore. Sò bene, don Giuseppe Carissimo, che un’ uomo d’onore, quale voi siete, non vorrà servire ad un padrone, che con tanta franchezza propone

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una sì fatta alternativa: mà a levarvi dall’animo ogni ombra di sospetto, che allontanar vi potesse dal fianco mio, vi dirò, che se mi sentissi portato ad operare nella regola di miei cose senza consiglio, senza prudenza, senza economia, sarei io il primo, che v’intimerei il congedo, conoscendo assai bene che la vostra naturale onestà, e l’amorevolezza vostra per me non vi permetterebbero giammai di secondare la mia biasimevole condotta. Da voi non chiedo, se non che propostovi da me il sistema, che ho stabilito di scegliere, mi prestiate la diligenza et abilità vostra, fino al momento, che voi me ne vediate recedere, e allora soltanto siate libero dal più servirmi. Or posto, che io seriamente mi dia a porre in buon ordine gli affari miei, e mi mantenga costante in contribuire a sì lodevole intrapresa, non crederò mai che siate per tralasciare di servirmi tutto che io mi separi da mia Madre. Se ciò faceste, io nel perdervi, perderei molto, egli è vero, mà voi operereste con poca gratitudine e con minore ragionevolezza, poiché non vedo qual dovere m’astringa a convivere con mia Madre, o quale riflesso impedire mi possa dal separarmene. Ciò, che potrebbe un semplice capriccio, nol potranno tante ragioni? E non saranno ragioni sufficienti il disobbligante di lei contegno quasi continuo, la noiosa malinconia della favola, le proposizioni piccanti e mordaci, benché indiscrete, le insolenze, che co’ fatti, e colle parole, mi provengono dai superiori, il fuggirmi di molti miei amici per non disgustarla, tanti atti gentili, che ricevo di meno, e non pochi sguardi che ricevo di più per cagion sua, oltre lo scredito, che ora con tronche parole, ora con equivoci, ora con sospiri, ed ora con aperti sfoghi ella mi fà o tenta almeno di farmi presso molte persone? Ne’ conto io già altri danni recatimi dall’indiscreto suo zelo, (giacche il solo rispetto mi mette in bocca tal termine) negli anni miei più giovanili; Voi li sapete ed io ora li taccio per non maggiormente inasprirmi. Per fine non saranno sufficienti ragioni, quel non gradire mai cosa alcuna, o’ almeno non darmene segno, quel perder tutto, come dovuto, quel alterarsi molto per poco, o per nulla, quell’inimicarsi in certo modo con chiunque ardisce di dimostrarsi mio amico? Quali sono le accuse, che mi si appongono? Sù quai fondamenti appoggiate? Ove sono i miei accusatori? Parlino pure i severi Aristarchi; mi fulmini con rigorosa sentenza lo sciocco Areopago, che in Casa mia si raduna; mentre io abbassandomi ancora a fare a costoro l’onor di rispondere m’impegno di farli rimanere convinti, benche non mai persuasi, troppo in lor prevalendo l’ostinazione. Che se tanti diavoli mi si scatenano contro, senza ch’io abbia, senza ch’io abbia delitto alcuno, quale rovina non mi cadrebbe sul capo, se ridotta agli estremi la mia sofferenza mi sfuggisse o un motto, o un gesto meno che rispettoso verso mia madre. Allora sì, che tutto andrebbe sossopra, mi moverebbero i Potentati, mi si scaglierebber contro i Parenti, e i Consiglieri vestiti della maggiore austerità suggerirebbero i più atroci gastighi, eppure allora, appunto allora null’altra pena io temerei, che

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que’ rimorsi, i quali tormenterebbero la mia coscienza. Or io a tal passo non vo’ vedermi ridotto, e già poco mancandovi hò ritenuto con inesorabile fermezza di dare indietro, e ritirarmi così dal pericolo, che mi sovrasta. Se tale separazione sarà da mia Madre interpretata, come un necessario mezzo alla quiete sua e alla mia, cosicche non venga a dichiararmi col solito furore aperta guerra, e non mancherò ancora di persona di esercitar seco lei con una discreta frequenza atti di venerazione, e d’affetto: quando nò, può ella esser certa che ambidue noi, dimoranti nella Città stessa, e nella stessa Casa, ci vedremo, come se il Mondo intero ci dividesse. Cotali mie risoluzioni altre volte sono state poco durevoli, perche mosse dallo sdegno di vedermi levato qualche trattenimento a me caro, e questo poi messo in sicuro, svanita è la mia collera: questa volta per lo contrario non penso e non hò in mira che motivi ragionevoli e sodi, e circa alle ingiuste opposizioni de’ Superiori à miei onesti piaceri, porrò in opera altri ripieghi, che forse faranno che pentirsi eglino, e che io rida. Voi intanto amatemi, continuate ad essermi [amico], quale sempre mi foste. E vivete felice.

III.

Dichiarazione di Francesco Albergati Capacelli intorno alli propri affari domestici e al regolamento di sua economia82

Dacche mia madre non ha cessato giammai, né mai cessar vuole di farmi soffrire varie moltissime vessazioni, maltrattandomi con parole, con fatti, con aspre altere e disprezzanti maniere, e con aperti insulti a chiunque s’arrischia di manifestarsi mio amico; e perfino col tentare di mettermi in discredito e mala opinione presso de’ superiori (alcuno de’ quali debole troppo di mente, per l’addietro ha secondato talvolta gli impeti di Lei) e dacche forse stanca ella stessa di adoperar meco somiglianti strapazzi, ora tutta rivolta a tenere strada diversa, mà che al fine stesso conduca, sparge continuamente voci mormoratrici contro di me, spacciandomi per dissipatore e pessimo regolatore della economi di mia casa; egli è assai giusto che apparisca agli occhi del Pubblico fin dove arrivi in questo genere la mia colpa, fin dove la disgrazia, e quanto più in là di tutto si estenda l’altrui maligna impostura. A tal effetto con quella ingenuità, e con quella franca schiettezza che sempre hò voluto opporre alla simulazione, ai

82 Il documento, privo di data e d’altre indicazioni, è riposto nel carteggio con Giuseppe Concelmani già ricordato. Si conclude con il motto oraziano menzionato, tradotto altrove da Albergati “Se con maligno dente alcun mi morda, dovrò come un fanciul piangere in vano?”

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rigiri e alla ipocrisia, esporrò le mie accuse, le mie difese, e la poco felice mia situazione. Ciò non può ottenergli da me se non coll’imporre a que’ pochi ministri che pieni di zelo, di accuratezza e di fedeltà mi servano e maneggiano gli affari miei, coll’imporre, dico, ad essi, che tosto affidino alle rispettabili mani del N.N. (Persona ch’io venero e riconduco sotto due aspetti di superiore e d’Amico) alcuni istruttivi documenti necessari a dilucidare la verità, e a smentire la fallità d’alcune dicerie, anziche aspettar que’ tumulti che si vorrebbero suscitare contro di me, contro la quiete mia, e contro la mia convenienza. Voglio dunque prima di tutto si mostri a quanto veramente ascendano le vendite mie. Voglio si mostri in quale stato fosse la casa, allorche mio padre morì: cioè qual somma di denaro si trovasse presso di lui; quale presso il mastro di casa; quanti fossero gli aggravj, i debiti secchi, i debiti fruttiferi, gli arretrati; quale l'impegno di spendere per l'importante lite, pendenti in que' giorni fra' la Casa Orsi e me; la necessità di restituire una Dose di 15000 scudi, se la lite otteneva quel fine a cui già erano dirette le nostre mire; il vestire a letto non poche persone; ed il Gonfalonierato non molto lontano. Voglio dopo ciò che si consegni al già nominato Personaggio copia del Testamento fatto da mio padre; e senza ch'io pretenda in modo alcuno d'interessare per me la compassione di chi leggerà, volendo con quanta tirannia e inavvertenza venga io con esso Testamento vincolato e angustiato, né comodi, nel contante, e quasi nella servitù della persona mia stessa, basta soltanto che per me s'interessino la giustizia e l'equità. Dico la giustizia e l'equità, perché la prima forse non m'assiste, ma' l'altra non può abbandonarmi. Un Testamento da me letto, approvato e sottoscritto sarà che sostengasi: ma' equo non sarà mai, che se la cieca stolidezza d'una età giovane ed inesperta porti a commettere un'atto pregiudizievole e ruinoso, non debba porvisi l'opportuno rimedio, e scemare, quanto si può, il danno innocentemente addossatosi. Fu sempre la stolidezza un difetto, ma' non fu mai un delitto; né so' perché in me solo questa si dovesse sì rigorosamente punire. Né dico io già che il Testamento sia tale che meriti correzioni e riforma; io non fò che supporlo; e lascio interamente il giudicarne a chi spetta a chi è illuminato; e a chi è incapace d'essere prevenuto o sedotto. E perché questo fine si conseguisca, voglio si esamini maturatamente, se nelle circostanze angustissime in che trovasi la casa e che io già l'hò accennate, e nella vista de' dispendiosi sconcerti, a quali si andava incontro per la lite pure accennata, e per altro s'era accettabile il Testamento, anzi se non era egli per molta parte insufficiente, e affatto indiscreto e irragionevole. Voglio che si consideri in proposito della mentovata schiavitù, se avendo io voluto separarmi dalla Madre, anche subito dopo la morte di mio Padre, non

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avrei dovuto vivere in misure assai scarse e ristrette, perché ella visse con tutto quel lustro che può permettere la casa mia. Voglio che si tocchi con mano, che sciolto il primo mio matrimonio, se avessi voluto anche subito contrarne un secondo, non mi saria stato possibile senza precipitare l'interesse della casa, non tanto per gli disordini economici ch'io trovai, quanto pel trascendente assegno destinato dal Testatore a mia Madre; e senza precipitare qualche innocente Signora assoggettandola a una suocera di sì stravagante temperamento. E la destinazione ancora degli appartamenti per mia madre sì in Città, che in Villa è sì vasta, che potrebbero avvenire alcuni casi ne' quali non si sapesse ove abitare per me in compagnia della moglie. Voglio che si sappia che dopo la morte di mio Padre due invincibili errori m’entrarono in capo: l’uno, d’essere io solo il vero Padrone di casa, e che la Marchesa Eleonora Albergati null’altro fosse, se non una madre e una Dama meritevole d’ogni rispetto: l’altro (conseguenza del primo) che dovesse il trattamento mio essere più splendido del suo. Voglio, fatto un tale supposto, che si pongano in paragone, lo stabile trattamento che spetta a lei, quello che a me appartiene, e quello che può dirsi per ora in comune; e si decida quale sia l’inferiore e il più ristretto. Voglio che si metta in chiaro con quanta esattezza io abbia ognora soddisfatto a tutti que’ più gravosi pesi, de’ quali sono caricato verso mia madre: quale esattezza parmi avrebbe dovuto impedirne tanti schiamazzi, tante doglianze, e si acerbe maldicenze, con che mi ha in ogni occasione prodigamente contraccambiato. Voglio in seguito che fino ad una spilla si manifesti quanto mai io abbia oltrepassati que’ limiti, impostimi da un Testatore già soverchiamente generoso; e qui voglio si metta in palese le più minute spese giornaliere, fatte e che si fanno per lei: una tavola, nella quale di tanto meno sarei contento, ma che conviene prenda regola dalla incontenibile di lei delicatezza: il casino degli Allemanni, a cui, per fabbrica e mobili, grossissima somma di denaro ho dovuto sborsare, fuori dall’obbligo stabilito: una frequentissima, non breve, e non scarsa adunanza di Forestieri Parenti suoi, alloggiati in mia casa. E qui mi si conceda pure piccola digressione acciocché non si creda ch’io manchi per questi d’un immutabile cordialità, e d’un fervido desiderio di spesso abbracciarli e vederli. Troppo diversamente da mia Madre m’ànno eglino sempre mai corrisposto, perch’io non professi loro una indelebile riconoscenza. Ma siccome si muovono eglino per accostarsi a mia Madre più assai, che a me, così non erro, se l’alloggio loro da me in conto si pone dalle spese fatte per essa. Che se il soddisfare in tutto verso lei al mio dovere, avrebbe a renderla quieta: il far’io

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tanto più dell’obbligo, e il sorpassare le grandiose intenzioni di mio Padre, dovrebbe renderla grata e riconoscente. Voglio che a ognuno sia noto che lo stesso prendere in Villa meco il mio Segretario non può seguire senza ch’io in certo modo non chiegga a mia madre l’assenso, mentre il recargliene semplice avviso non basta alle sue pretensioni: ed io porgendo tal supplica, ne hò non rare volte avute riposte pungenti ed amare. Voglio che cominciando dalla morte di mio padre un esatto bilancio si faccia di tutto lo speso per me: se ne estragga quella porzione che può dirsi con verità male spesa o inutilmente; e si decida se lo scialacquo da me fatto in 13 anni arrivi alle esorbitanti e scandalose somme che si decantano. E ben mi lusingo che il vestirmi decentemente; il mantenermi provveduto di quattro o cinque Cavalli, e di carrozze non certo magnifiche, mà almeno decenti; un qualche modo di Villeggiare; ed una qualche non frequente scorsa a Luoghi e Città circonvicine, non avranno nome né di prodigalità, né di capricci strani, né di vistose dissipazioni. Bensì con qualche rossore confesso d’aver ecceduto talvolta in altri generi, e di aver aggiunti di vecchi debiti alcuni altri moderni, che dovevano e potevano risparmiarsi. Della qual cosa informato esser dee il Veneratis. N.N. sovraccennato: e lo sarà, mediante lo scrupoloso bilancio ch’io stesso ho proposto. Voglio ancora sia manifesto, a solo titolo di storica erudizione, che le Villeggiature fattesi in casa mia, sotto la direzione di mia madre amministratrice, niente meno costavano di quello costino le più allegre fatte e che si fanno sotto di me accompagnate ancora da onorevolissime circostanze. Eppure scendeva sopra di quelle la benedizione del Signore, ed ottenevano l’approvazione d’una pia e saggia Genitrice, mentre queste la risvegliano a biasimarle e ad invocarvi sopra religiosamente mille maledizioni. Chi sa che il goder ella delle prime, e l’essere esclusa dalle seconde non sia la cagione del ridicolo cambiamento! Riflessione assai giusta, e niente acuta. Fin qui è mia intenzione che si estenda il processo sopra di me, e ascolterò rassegnato qal condanna che si pronunzi. Ne già spero di poter esserne esente, che anzi son certo di pur meritarne qualcuna. Mà quello che mi consola, si è, che il biasimo, il rimprovero, e la condanna che usciranno da un Giudice, molto differenti saranno dalle parole e dai discorsi de’ mormoratori, de’ maligni, e di chi con finta pietà mi avrebbe confuso e avvilito. Dopo il processo e la condanna, mi fo ardito a porgere brevemente la supplica. Sarà al N.N. presentato il Catalogo de’ miei creditori sia opera della Clemenza a cui ricorro, lo stabilire un Piano che renda questi tranquilli e sicuri; e metta a me in istato da non avere rimorsi, da vivere con quegli agi discreti da’ quali godo presentemente, da non rinunziare a quegli onesti piaceri che più mi

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sollevano, e da vedere sottratto a qualunque pericolo il mio decoro e la mia estimazione. Sò che avrò taccia di poco moderato nelle espressioni scritte su questi fogli, e di risentito negli epiteti e nelle frasi; ma Dio buono! An si quis atro dente me petiverit,

Inultus ut flebo puer?

Horat

Lettera d’un anonimo scritta ad un suo amico83

Venezia, 28 Novembre 1772

E che mai t’ho fatto di male, Amico Carissimo, perché tu mi danni a due così barbare pene? Leggere scritture del Conte Carlo Gozzi; e darne sovr’esse un ragionato parere! E non t’avvedi che questi sono gastighi, tormenti, strazi, carnificine, da imporsi appena ad un Monetario falso, ad un Assassino da strada, ad un Traditor della Patria? La lettura dell’Opere di questo Pseudo- Autore fa quasi morir chi la imprende; e muore poi certamente di noia, e di nausea chi imprenda di farla con esame ben ponderato e riflettuto. E come dirti il mio parere ragionato, se non leggo, e non esamino? Dunque tu mi vuoi morto. Il cielo ti perdoni il mal volere, e mi salvi dalla minacciata sciagura. Ma via, non dirò più, ch’ei mi salvi, se già m’ha salvato. Ho letto, e non son morto. Ho esaminato, e vivo ancora. Bensi la lettura e l’esame di tante enormi corbellerie m’hanno procacciato un lungo profondo sonno, dal quale ho potuto scuotermi a gran fatica; e sai quanto alla morte il sonno si rassomigli. Pure, dacché son fuor di pericolo, più non vi penso; e cedo alle sue indiscrete domande. Indiscrete, sì, benché tu le moderi, col dire, che non richiedi già una spicciolata opinione sovra ciascuna delle mostruose ridicole Opere di questo Autor Dittatore; ma solamente sulle sue Prose, che precorrono la traduzione del Fajel84; sul Manifesto che precede, qual lampo, il Fulmine de’ suoi Tomi; e sul Discorso, che appare in fronte delle stupende Drammatiche sue Composizioni. E ti par poco? Non mi sarà forse possibile il far parola di sì madornali scioccherie, senza rimenar colla penna di tempo in tempo le Durandoti, le Zobeidi, le trè

83A.S.B., Albergati, “Manoscritti originali di Francesco II Albergati il commediografo”, 1. Per ragioni d’interesse si sono trascritte solo alcune parti del testo. 84 C. Gozzi, Fajel. Tragedia del Signor D’Arnaud tradotta dal Conte Carlo Gozzi, Venezia, presso Antonio Rosa con regia premissione, 1809, in Terza Raccolta di scenici componimenti applauditi in continuazione all’Anno Teatrale, corredata di notizie storico-critiche, Venezia, presso Antonio Rosa con privilegio, 1809, vol. 15, pp. 3-92.

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Marancie, i Re Corvi, i Re Cervi, e l’Autor tutto bestia, che le ha scritte giù. E se sfuggito sono da morte; se sciolto mi sono dal letargico sonno; pare a te di farmi un picciol danno, forzandomi a tanta dissipazione di tempo, e a tanto scialacquo d’inchiostro? Non ho già come tu stesso ben sai, dedicata la mia intera vita ad essere cortiggiato, o corteggiatore di Commedianti; agirmene pian piano cercando sulla Piazza vari Crocchj di queste Canaglie, a ritornarmene solo, torbido e rabbuffato alla desolata Casa; e a sputar colla voce, e cogli scritti un atro, ma sfibrato impotente veleno sulle azioni degli uomini, che non mi molestano. No, per mi fè, che non è questo il sistema del viver mio. Il Gozzi è di tale sistema esemplar vivo e maestro; ed egli può con ragione vantare l’abbondanza d’inchiostro onde il suo calamagio è ricolmo; e con impudente franchizza sfidare a chi più vorrà prodigalizzarne, e a chi più presto arriverà ad imbrattarne le carte. Io vivo tranquillo, senza recar fastidj, e senza incontrarne; occupato ora a serie, ed ora a liete faccende; frequente poi a que’ Teatri, ove le migliori Commedie o Tragedie vengono rappresentate. Il mio genio, rivolto a questo delizioso trattenimento, quello è che t’invoglia di stuzzicarmi a parlare; ed io ti giuro, che questo genio, siccome assai moderato, non mi spingerebbe mai da se solo a scrivere né a parlare sopra il dibattuto argomento, se il desiderio di farti piacere, (giacché in sì tenue cosa hai il tuo piacer collocato) ed anche l’amor del vero non mi stimolassero gagliardamente. Tu poi sei contro il Gozzi tanto infuriato; sei pieno di così forte disprezzo pe’ suoi insipidi componimenti; sì costante estimatore di tutti coloro ch’egli censura e dileggia, che non potrai sicuramente resistere alla sconsigliata tentazione di render pubblica questa mia lettera. A tal fine, tengo celato il tuo nome ed il mio, non volendo che questi nomi appunto scemino o accrescano il peso delle ragioni, colle quali sosterrò la mia opinione; che già sò essere egualmente la tua. Non deve dirdi da alcuno: ciò è buono, ciò è bello, ciò è vero, perché così scrive Filoclete a Palemone; ma perché il buono, il bello, ed il vero trovansi intrinsecamente nell’anonimo Scritto. E per lo contrario, deve spandersi il biasimo, senza bisogno alcuno di rispettare i nomi, qualch’eglino fossero o venerabili, o illustri. Io in fatti senza considerar punto il nome del Gozzi, procederò a scartabellare alcuni suoi scritti; e non mi faranno punto timore né la sua nobiltà; né l’usurpato locale concetto; né l’Aristarchica faccia, ch’egli presenta; e colla quale passeggia questa, per tutt’altro, splendida, amena, famosa, e riverita contrada. E senza più, m’accingo ad esporti il mio sincero ragionamento.

Osserva, Amico mio dilettissimo, che bell’animo, che cuor dolce, che tenere melate viscera racchiude in petto il nostro Illustrissimo Signor Conte! Leggine le più chiare prove nelle poche, ma energiche righe, che appaiono in carattere corsivo, dirette dal semplicissimo Carlo Gozzi al Signor Paolo

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Colombani Libraio. Egli dona, non vende (nota bene) all’avventurato libraio la sua esimia Traduzione del Fajel. Vuol, che il Libraio senta il valore tutto del benefizio; vuole che il Pubblico ne sia modestamente informato; e vuole che sia sempre ad ogni genere di Persona manifesto ch’egli non iscrive per guadagno; non fa traffico vile del suo talento; non vende i suoi poetici voli; ma dona, semina, e piove a larga mano le prose e i versi sull’uman genere, colla sola lodevole mira d’esser benefico e liberale. Contino mio, non t’infinger meco, che ti conosco. Si può operare per interesse, benché non sia di denaro. Anzi può l’interesse del denaro esser meno vile […] e direi finalmente ch’egli dona quello, che forse non avria spaccio, se dovesse essere comperato. […] Egli [Gozzi] vuole che una Prefazione sia foriera della Tragedia; mentre in essa pretende giustificarsi col suo Pubblico d’averla data alle Scene. Ma io non so, come mai un ottimo, o buono Componimento abbisogni di Prefazione apologetica; né come una apologetica Prefazione valer possa a far tollerare un Componimento pessimo, o cattivo. Ebbene quello che non so io, lo sa il Signor Conte, e basta così.

Nel donare al Signor Paolo Colombani Libraio la Traduzione del Fajel, si protesta lo zelantissimo Conte Carlo Gozzi, ch’egli la giudica una cattiva Tragedia. S’egli così giudica sinceramente, lodevole fatica è l’averla tradotta; cospicuo è il vantaggio ch’egli procura ai suoi Commedianti di San Salvatore; splendido è il dono ch’egli ne fa al Signor Colombani; sommamente raro è lo strabocchevole affetto, ch’egli professa al suo carissimo, ed io dirò, pazientissimo Pubblico. Egli contribuisce a render comune ai Leggitori, ed agli spettatori egualmente un’Opera, secondo lui, informe, inverisimile, stomachevole, e ributtante. […] E ove mai si trattasse non d’una originale, ma d’una tradotta tragedia, chi non vede che i versi d’un traduttore malvaggio ponno sfregiarla, sfigurarla, rovinarla? Il Gozzi co’ versi suoi ha potuto nella infelice tragedia oprar tutto ciò; né credo sia possibile il leggerne altrove de peggiori. Io mi rimetto al giudizio di chiunque svenar voglia due ore in sagrifizio alla crucciosa lettura; e resista, se può, contro l’impeto naturale di gettare sul fuoco lo sciagurato libretto. Indi con pronta mano s’appigli all’Originale del Signore d’Arnaud; e con ingenuo giudizio decida, se l’opera sia meritevole d’applauso o di dispregio. […] E in verità, Amico mio, io credo che li due soli Autori lodati dal Gozzi dovranno arrossire delle sue lodi; poiché non è possibile il ritrar onore da un lodator quale egli è, che dopo aver dilaniati e beffeggiati gli Ottimi, ed i famosi, si volge a lodarne due soli, ed il perché non si sa. La Virginia del Conte Durante: L’Amor finto e vero: e Il Saggio Amico del Marchese Albergati sono tre Capi d’opera, al dire del Gozzi, e degni d’imitazione. Si può aver coraggio di uscire in una sì sfacciata adulazione, e innalzare alle stelle questi due Cavalieri, dopo aver calpestati li Goldoni, li

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d’Arnaud, li Balloj, li Mercier, li Falbaire, li Beaumarchais, e un numeroso stuolo d’altri nomi non meno meritevoli d’altissima lode? Ma vuoi scommettere, ch’io ne indovino l’occulta ragione? Il Durante è certamente uno dei più immaginosi e gagliardi Poeti che viva nel Secol nostro in Italia. Non può dirsi ch’egli primeggi nel compor Drammi; e questo è il genere di Poesia a cui s’è meno applicato. Il Gozzi sempre malizioso, e qualche rarissima volta anche accorto, ha perfettamente compreso che il Durante non vorrà battere la via del Teatro; e che soltanto per semplice passeggiero trastullo ha composte una o due tragedie. Non vede in lui un Rivale, che voglia balzarlo di posto, e perciò lo riverisce, lo accarezza, lo loda. E pensando poi alle smaccate lodi che dà all’Albergati, ravviso tosto l’origine loro nella lettera di venerazione, e d’omaggio, colla quale è l’Albergati disceso a dedicare al Mecenate Gozzi quella tanto sciapita Commedia il Sofà; la qual dedica, senza punto illustrare l’oscurissimo e frivolo componimento, ha fatto acquistare all’Autore nel Conte Carlo Gozzi un forte impavido Achille che lo difende. Per altro, è assai facile il conoscere, che le due Commedie dell’accennato Albergati non mancano di massiccj errori, e di sconvenevoli situazioni. Nell’Amor finto e vero, nobile è l’impresa del Conte Roberto d’amoreggiar per sei mesi una onesta zitella e la cameriera nel tempo stesso; di promettere ad ambedue la mano di sposo; di tenerle a bada ambedue; e d’ingannarne una con animo pienamente deliberato! E perché non consigliarsi con l’Amico Lucindo, se non dopo sei mesi? E perché quest’amico, si raro di core e di temperamento, loda se stesso con tanta fermezza e serietà; e ride poi, quando altri gli parla d’una affannosa passione, e d’una combinazione intralciata e pericolosa? E quella declamazione contro il modo d’educar le Fanciulle può essere più stiracchiatamente collocata? E quel vecchio contraddittore? E quel matrimonio subitano, fatto per rabbia? E le massime incongruenze che appariscono? A qualunque occhio, che non sia del cieco Gozzi? E il cangiar scena trè volte nel corso d’una Favola, che sta racchiusa in un atto solo, e che finge consumarsi nello spazio di due ore, o poco più? Sono questi i pregi, ai quali l’Aristarco dalla Testa di Legno batte le mani, e applaude? Male per lui; e peggio per l’Autore lodato, se morde l’esca di sì perniciosa adulazione! La quale, comecché estendersi al Saggio Amico ancora, è sempre più insana, sconsigliata, sciocchissima. L’imprudente carattere dell’insultante Parrucchiere; il continuo vilipendio del grado di nobile; un amico che tace all’addolorato Padre il modo, col quale spera di rimettere sul buon cammino il Figliuolo; e non per altra ragione gliel tace, se non perché troppo presto arriverebbe la Commedia al suo fine; discorsi lunghi sovverchiamente; tratti morali, ne’ quali apparisce l’Autore, il Personaggio non già; doti sono ancor queste che costituiscono la perfetta Commedia, e che ottengono di portare sul dorso la fulgida Impronta dell’Approvazione

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Gozziana. Hanno, egli è vero, questi comici aborti conseguito qualche favore sulle Scene, mentre commedie più maschili e sensate hanno incontrato esito poco felice. E che per ciò? Cornélio disse ben egli a ragione:

“Et commé avec bon droit on perd bien un procès souvent un bon ouvrage a de faibles succès.

E spesso egualmente si guadagna una lite, benché assistito da debolissime ragioni. Nel che trovo che il Conte Gozzi può consolarsi, se perderà la lite che esposta vuole al Tribunale del Pubblico, a cui si svisceratamente protestasi Umilissimo, Devotissimo, Obbligatissimo, Affezionatissimo, ed Amantissimo Servitore, Figlio, ed Amico, poiché malvaggia è la causa, ch’egli sostiene, e pessime le ragioni, con le quali egli combatte; onde per lui almeno non andrà perduto nulla di buono. […] Ma il tuo vanto è d’aver cangiato il gusto della tua Nazione. Illustre vanto, non v’ha dubbio! E come l’hai tu cangiato? Con vantaggio? Con gloria? Ovvero con vituperio? Se dalle tue Fiabesche scioccagini giudicar dovessero le Genti straniere dello Spirito de Veneziani, prendendone la lor misura dalli Teatri che tu hai tentato d’educare; quale concetto ne formerebbero? E se i tuoi concittadini dovessero prender regola a ben pensare da tuoi insegnamenti, quali Pensatori profondi sorgerebbero in quest’inclita Metropoli? E ritornando al primo proposito nostro, hai tu veduto con l’autorità d’un Voltaire, che ti ho citato, se sia il Teatro oggetto, o no di rilevanza per le Nazioni? Ma tu impastato d’ignorante ostinazione, nulla vedi, nulla credi, e nulla intendi. Sei atto soltanto a vilipendere, a strapazzare; e sei meritevole che ti sia reso pan per focaccia, e non che si perda il tempo ad argomentarti contro buon raziocinio. […] Inginocchiati, caparbio Gozzi; detesta il tuo errore, le tue bestemmie; confessa, che il Teatro non è, non fu, né sarà mai la tua strada sulla quale altro non fai, battendola, che andarti a dimostrare pessimo Autore e Ascoltatore malvagio. […] Caro Amico, io sono annoiato di scrivere, come tu lo sarai in leggendomi. Tuttavolta, in vece di chiederti scusa, spero piuttosto che tu a me la chiegga. Ho scritto, perché tu l’hai voluto; sono stato prolisso per colpa dell’argomento, e conosco d’essere stato noioso, perch’ hai voluto ch’io scriva sovra d’un Gozzi, che fu dal Ciel destinato a sparger la noja per tutto. Ho anche il rammarico d’esser certissimo che l’ammonir Carlo Gozzi è lo stesso di lavare la faccia ad un Etiope. […] Amami, e vivi felice. Addio.

Una Prefazione al Prigioniero85

Prefazione

85A.S.B., Albergati, “Manoscritti originali di Francesco II Albergati il commediografo”, 1.

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Vorrei che dette mie commedie scritte in versi si trovassero sofferenti persone che ne facessero la traduzione in prosa. Sono certissimo ch’esse allora comparirebbero assai men deboli.

Un Cavaliere francese, il cui nome mi è noto, ma che non mi è data facoltà di palesare, s’indusse a tradurre in prosa francese il mio Prigioniero.

L’ho veduto recitare da commedianti francesi. Protesto che non cominciai a prendere buon concetto di questa commedia, se non in quella sera. È incredibile il bello ch’essa ricevea dalla semplice prosa e dalla diligente recitazione.

Il cavaliere traduttore ha fatti alcuni cangiamenti ch’io non posso disapprovare, ma che pure mi muovono a qualche piccola riflessione.

Egli ha abbreviate le parti dei due servitori. Su ciò potrebbe discutersi se il lasciare qualche maggiore ridicolo in una azione piuttosto seria, affine di non renderla troppo grave, sia meglio, o peggio.

Egli fa che l’Uffiziale sia già affezionato al Prigioniero per gratitudine di fatto anteriore. A me parea più nobil cosa che l’Uffiziale si affezionasse al giovane prigioniero per impulso di simpatia, per compassion de’suoi casi, e per ira che in lui si desta di veder calunniata una onorata fanciulla.

Egli fa nascere una tenerissima scena sul teatro, ch’io esposta avea per racconto. Preferisco al mio racconto la sua bellissima scena. Ma ho dovuto servire alla legge che è barbara, quando è portata a troppo rigore, di non cangiar mai la scena. Quindi non poteva io fare che il padre e la figlia si trovassero se non nell’atrio della prigione. Se avessi potuto fare un cangiamento solo di scena, avrei esposto e non narrato l’incontro della figlia col padre, ma ciò non mi era permesso. Ne ho creduto di dover far venir Doralice nell’atrio della prigione, se non una volta e nella massima necessità di venirci e con tutte quella cautele che precedono tale venuta. Quando ella ci torna sul fine della commedia, non è la sua venuta soggetta a più nessuno riguardo. Per altro, senza assettar punto il carattere né d’umile, né di superbo, riconosco questa commedia mia bene corretta e migliorata di molto dall’elegante traduzione francese.

Mi pareva di essere debitore al Pubblico e di questa novità e di questa traduzione, la quale è in una lingua che non può essere straniera mai agli uomini colti, bensì soltanto il sarà a quegli uomini che parlano pazzamente della Francia e degli Autori francesi, senza che punto ne conoscano né li costumi, né le opere.

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Lettera a un ignoto86

Venezia 7 Settembre 1778

Rispondo prontamente al suo cortese foglio delli 2 corrente recatomi dal suo Signor Padre sabbato scorso; ed allo stesso suo Signor Padre consegno la mia risposta nella quale i sentimenti medesimi che riguardano lei, riguardano ancora il Signor Giacomo Fratello suo.

Ella non si scusi punto meco d’alcuna mancanza. Ogni mancanza verso me è nulla, quand’ ha avuto coraggio di mancare sì gravemente verso de’ Genitori. A questi primariamente ella deve ossequio e l’amor tutto; né credo abbia ella motivo giusto di dolersi di loro, massima a segno di partire dalla Casa paterna in guisa sì sconvenevoli. Qualora ella siasi riconciliata perfettamente coi Genitori suoi, sarà di nuovo per mille prove assicurata della mia stima ed amicizia. Son padre anch’io, e però né voglio né posso dare il buon esempio d’esser fautore di figli irragionevolmente fuggiaschi. S’io mancassi verso del figlio mio, Dio me ne gastigherebbe. Se il figlio mancasse verso di me, Dio ed anch’io stesso gastigheremmo lui egualmente. Le frasi di cangiar cielo, di andar ramingo in cerca di fortuna, di gittarsi disperatamente frall’armi a procacciarsi morte e onori, sono frasi ridicole persino nei romanzi: molto più poi lo sono quando si mettono in pratica. Le belle frasi e le azioni veramente belle e gloriose sono l’amore a Dio, ai Genitori, agli amici veri. L’applicarsi a ciò che meglio è conforme al proprio stato, al talento alle circostanze proprie, ed il tenere una condotta che acquisti la lode e l’applauso di tutti conoscenti. I padri non sono impeccabili, e ponno talvolta cadere anch’eglino nell’enorme colpa di maltrattare i figliuoli; ma quando i figliuoli si sieno sempre ludevolmente condotti, allora questi trovano validi appoggi contro de’ Padri medesimi. Ella purtroppo è lontana assai da questo caso, e solo le resta l’atto del pentirsi per cancellare tutto quel passato, che non le fa onore. Scusi la mia franchezza. Io rispondo a tutti quelli che mi scrivono, e dico sempre la verità a tutti quelli che me la domandano. Per altro non è mio costume l’entrare ne’ fatti altrui. Torni sotto il Cielo che la vide nascere, e invece di mutar Cielo, muti interamente i modi suoi di pensare. Allora io pienamente sarò, come ora lo sono con qualche riserva

Suo Obbligato Servitore e Amico

Francesco Albergati Capacelli

86A.S.B., Albergati, “Carteggi privati”, 8, 265.

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Albergati contro Giovanni Battista Pasquali stampatore87

Fatto

Saranno dieci anni in circa che l’Albergati, procurandoselo con istanze il Pasquali, s’indusse cortesemente a concedergli alcune sue commedie e traduzioni da stampare. Ciò risulta dal Manifesto Pasquali.

L’Albergati non contrasse nessun impegno col Pasquali. In fatti ogni tomo finisce senza che mai si dica né fine del Primo Tomo, né fine del Quarto, né fine del Quinto.

Così i cinque Tomi stampati dal Pasquali col titolo di Nuovo Teatro Comico formano essi soli un’Opera non imperfetta, e non obbligata a continuazione.

Pasquali che stampava a proprie spese, cominciò subito a corrispondere scortesemente. Un Ritratto dell’Autore ben disegnato e dato al Pasquali dall’Autore medesimo fu fatto incidere dallo Stampatore Pasquali nella più indegna maniera come facilmente può vedersi.

Pasquali faceva calde istanze all’Albergati di Tomo in Tomo per averne; lo che dovrebbe essere prova che trovava in essi il suo utile.

E poi è stato sempre il Pasquali impuntuale nelle sue promesse, tardo, scorretto, adoperando cattiva carta, cattivi caratteri, e facendo insomma una edizione vilissima.

L’ultimo dei cinque Tomi è uscito nel fine del 1778.

Colla medesima fervida istanza ha ottenuto il Pasquali dal Zacchiroli e dall’Albargati di stampare due Tomi di loro Lettere Capricciose. Ha precisamente affrettato i due autori con premura incredibile.

Ha stampato queste lettere peggio assai del Teatro con indiscretissima lentezza e con tali e tanti errori che fanno nausea a chi gli esamina anche senza rigore.

Due anni sono il Pasquali che ha sempre assicurato l’Albergati che i suoi Tomi hanno un esito ed uno spaccio felicissimo, gli disse che pensava poi di voler fara di tutto una nuova edizione, ornata ancora con rami.

87A.S.B., Albergati, “Carteggi privati”, 8, 265. La lettera è riposta nel fascicolo Albergati contro Giovanni Battista Pasquali stampatore. Su G. Pasquali, vedi la voce di S. Minuzzi, in «Dizionario biografico degli italiani», cit., v. LXXXI, 2014.

136 S. Vitale, Autorità paterna Eurostudium3w gennaio-marzo 2018

L’Albergati rispose obbligantemente ma senza impegnarsi, nulla fidandosi delle parole del Pasquali la cui lentezza si rende manifesta e persino ridicola, anche nelle Opere del Signor Goldoni, delle quali si dovrebbero avere 36 Tomi in circa, e il Pasquali ce ne ha favoriti 17 appena in 22 anni in circa.

Dicesi che il Pasquali si lagni in oggi che gli restino invenduti 400 corpi del Teatro dell’Albergati.

Dicesi che ne abbia tirate 1000 copie. Si esamini ciò che può costare la prima edizione, e quale per conseguenza il guadagno fatto nelle 600 vendute.

Perché voleva egli il Pasquali venire ad una nuova edizione di tali Opere, se si lentamente vendeva le copie esistenti?

Perché quasi sempre ha negato a vari Librai di are quel nuovo Teatro per traffico, ma voleva contanti? O il Pasquali ha sempre ingannato l’Albergati, e massimamente due anni sono, o tenta d’ingannare adesso e l’Alberati e chi merita più assai rispetto dell’Albergati.

Or l’Albergati pensa di fare a proprie spese e coi torchi dell’egregio Signor Carlo Palese una edizione bella, nitida, corretta, che avrà per titolo “Opere di Francesco Albergati Capacelli”.

I Tomi saranno dodici in circa. Ogni Tomo avrà cose o nuove, o non comprese nell’edizione del Pasquali, oltre alcuni compresevi le quali saranno alquanto accomodate e corrette.

Di tutto si da qui un Elenco, il quale per altro non è immutabile, ma di pochissimo potrà mutarsi.

(Segue una lista con i nomi delle opere pubblicate da Pasquali e una con tutte le altre che saranno aggiunte nella nuova raccolta, N.d.A.)

L’Albergati aggiunge che il Manifesto del Pasquali 10 Maggio 1774 non accenna nessuna sorta di Privilegio. È ben vero che nei Tomi si trova stampato con Privilegio. Ma si rifletta che l’Albergati è forestiero; che poteva ben credere che tale privilegio fosse operativo per cautelar l’interesse fra stampatore e stampatore, ma che mai avesse tolta la libertà all’autore di produrre con nuova ed assai migliore edizione le proprie Opere; e che se di ciò fosse stato informato, non è né ragionevole, né presumibile che lo stesso Albergati privato si fosse delle sue produzioni senza alcun interesse, e assoggettandosi a questo legame.

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Lettera al conte Luigi Pagani Cesa88

Eccellenza

Le produzioni teatrali di V.C. tanto applaudite dai primi geni d’Italia, e della Francia, un brillante teatro nel suo palagio di campagna dov’ella medesima si compiace di rappresentarle con ammirazione di tutti quelli ch’hanno la fortuna d’ascoltarla assai palesemente la dichiarano fautore di un’Arte troppo screditata in Italia ma che va sempre tenuta in sommo pregio da tutte le più colte nazioni, e che ha la maggiore influenza sul buon costume dei popoli che la coltivano. Persuasi pertanto di ritrovare presso l’C.V. un animo propenso a favorire chiunque volesse esercitarsi con lode in quest’arte alcuni giovani di nobile nascita, e civilmente educati, desiderosi di entrare in questa carriera, si fanno arditi di ricorrere a V.C. ed impetrarne la validissima sua protezione. Eglino avrebbero in animo di formare una compagnia onesta e civile montata affatto diversamente dalle comuni italiane, col doppio scopo di non macchiare il proprio carattere, e d’esser giovevoli alla loro Nazione. Il primo capo sarà di sbandire affatto le rappresentazioni dell’arte che non presentano che indegna scurrilità, e che servono a guastare piuttosto che a ingentilire il costume, e da cui più che da ogn’altra causa si deve ripetere l’estremo avvilimento del Teatro Italiano. Il Signor Goldoni fu assai benemerito su questo proposito, ma la sua andata in Francia fu fatale. Niuno ebbe il coraggio di seguire il suo lodevole esempio, ed Arlecchino tornò ad essere la delizia delle nostre scene. I giovani che hanno l’onore di presentarsi umilmente a V. C. sono persone, che hanno fin’ora coltivate le lettere, che hanno assaggiato l’applauso del Pubblico in qualche teatro ove hanno avuto il piacere di esercitarsi in figura di Dilettanti, e si lusingano di poter essere capaci non solo di rappresentare le altrui composizioni, non di fare essi medesimi delle traduzioni, e comporre ancora qualche commedia, o tragedia quando l’occasione lo richiedesse. Mediante questi lumi, che hanno cercato di procacciarsi sperano di poter essere meno incapaci di soddisfare al loro assunto di molt’altre persone cavate dalla più abbietta plebaglia, spoglie d’ogni educazione, che passano oscuramente la loro gioventù, ed arrivano finalmente dopo molti anni di stento a cinguettare goffamente delle buffonerie ed attirarsi in questa guisa gli applausi d’un Popolo stordito misti alle derisioni delle persone più colte. Non s’aspetti da me un panegirico sopra l’abilità di queste persone, che sarebbe vano perché sospetto. Quando l’C.V. si degni di aderire alle loro suppliche vi saranno soggetti da lei conosciuti, che coltivano l’Arti e le Scienze con gloria dell’Italia, e sono segnatamente intendentissimi di Teatro, i quali potranno far fede della loro

88A.S.B., Albergati, “Carteggi privati”, 8, 265.

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capacità. Oltre di questo si faranno un piacere di assoggettare a’ suoi venerati riflessi qualche saggio del loro ingegno, onde V.C. possa giudicarne anche indipendentemente da ogni altro giudizio. Il disturbo che essi avranno d’ardire di recante al caso, che V.C. non lo ricusi, sarà di fornir loro alcuni pochi soggetti, che occorreranno per formare un compagnia compiuta, e di procurar loro qualche Teatro ove esporsi le prime volte che avranno il piacere di presentarsi al Pubblico. Questa, io lo conosco, è una briga troppo grande per V.C. ma la combinazione di esser essi presentemente stabiliti in un Paese fuori dal commercio umano li rende incapaci di giovare a se medesimi per altra strada, e si anima a voler tentarsi la gloria della sua degnazione a vantaggio delle loro premure. Questi giovani credono presentemente opportuno di tacere il loro nome ma al bisogno lo scopriranno. Le basti intanto sapere, che sono pieni di venerazione per V.C. e desiderano l’occasione umiliarle le loro servitù.

18 Gennaio 1778

P.S. È pregata V.C. di dirigere la risposta senza soprascritta al Nob. Sig. Antonio Lamberti sulla Fondamenta Nova a Venezia, che il medesimo me la farà tenere.

Lettera a Ferdinando Marescalchi89

Al Senator Ferdinando Marescalchi

Il suo foglio e le amorose espressioni che leggo in esso sono una nuova prova della costante amicizia sua per me e per mio figlio. La ringrazio; vorrei ringraziarla in persona, e vorrei pur godere, per quelle po’ d’ore, ch’ella potesse donarmi, l’amabile sua compagnia.

Se già non si conoscesse nel caso seguito il colpo di archibugio con palla di circa un’oncia e di sigillo, si potrebbe adottare l’ingegnosa riflessione ch’ella suggerisse sull’elettrica materia. Il colpo quanto al fragore non udito da mio figlio fu udito bene da altri, e mi viene affermato dai periti, che il fragore del colpo non è quasi mai udito da chi lo riceve, sia che realmente non lo oda, sia che lo sbalordimento gliene faccia perdere la reminiscenza. Para da molti indizi che il già carcerato sia egli il feritore, imprudente ed incauto poi o malvagio; ciò resterà da provarsi, giacché nella persona di lui concorrono alcune circostanze, che avrebbero potuto indurlo al delitto.

No, pregiatissimo signor senatore amico, l’atmosfera non ha in ciò colpa alcuna, se intendiamo della atmosfera fisica; ma bensì dico francamente, che

89A.S.B., Albergati, “Carteggi privati”, 8, 265. Su F. Marescalchi vedi la voce di E. Pigni, in «Dizionario biografico degli italiani», cit., v. LXX, 2008.

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tutto debbe attribuirsi piuttosto all’atmosfera politica. In mezzo e sotto questa noi infelicemente viviamo, e conduciamo una vita incerta, precaria, e sempre avvolta fra mortali pericoli. Il fatto accaduto a mio figlio scuoterà gli animi di lui, di mia moglie e di me che teneramente lo amiamo, e di alcuni pochissimi amici nostri; ma fuori di sì angusto circolo di persone, che comparsa può mai fare nell’atmosfera bolognese uno straccio di cappello traforato da una palla d’oncia ben sigillata, che trae poco sangue dalla fronte d’una creatura innocente, nella quale apparisce che la vita rimastale è un puro dono, e un miracolo vero della Provvidenza Divina? Nell’atmosfera del Governo Felsineo non è tutto questo, che una meteora insignificante, un fuoco fatuo, un nulla. Nello scorso mese di Giugno diecisette omicidi sono accaduti. Se questi avvenimenti si grandi restano quasi interamente sommersi nella dimenticanza, che sarà mi dell’avvenimento accaduto al mio amatissimo figlio? Dio, che è fuori da ogni atmosfera, deciderà egli; e come ha difeso così ancora seguiterà a difendere questo oggetto di tutta la mia tenerezza, e a Dio solo seguiterò a raccomandarlo. Credo anzi, che da Dio dobbiamo sperare non grazia soltanto, ma miracolo assoluto e deciso, onde salvare le nostre vite, le robe nostre, e nella città e nella campagna e di notte e di mezzo giorno, e nelle pubbliche strade, e nelle nostre mal sicure private case. Nisi Domines custodient civitatem basta così

Ella mi voglia bene. Venga a dirmelo. Io costantemente e le scriverò e le dirò, che con piena stima e affetto sarò finché vivo

Lettere al figlio Luigi90

I.

Carissimo Luigini Mio Amatissimo

Venezia 10 Marzo 1790

Vi giuro che la vostra partenza e il vostro allontanarvi da me è stata una delle maggiori afflizioni ch’io abbia mai provata; ed egualmente vi giuro che la massima delle mie consolazioni sarà quella di rivedervi e di riabbracciarvi. Per amor di Dio venite più presto che potete. Voi lontano, io vivo in una quasi continua inquietudine. Spero che avrete fervorosa premura di consolarmi. Per ora altro non dico. Vi acchiudo due fogli da me sottoscritti, coi quali, e ve la

90A.S.B., Albergati, “Carteggi privati”, 7, 264. La busta conserva la corrispondenza con il figlio Luigi tra 1786 e 1803.

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intenderete con Ludovisi, avviserete gli agenti di Roma e di Palermo che abbiamo cangiato Ministro. Ciò è necessario.

Leggete ancora la lettera obbligantissima del Caldani. Veramente mi dispiace che non l’abbiate veduto.

Godo bensì che sia stato felice il vostro viaggio a Padova, come la carissima vostra me ne da avviso e che felicemente abbia viaggiato con voi sana e salva la scatola ancora.

La Signora Teresina che veracemente vi stima e vi ama, e ch’io all’amor vostro raccomanderò sempre caldamente vi fa mille tenerissimi saluti, e tutti due ci rattristiamo per la vostra lontananza, e vi desideriamo vicino.

Non mancate di abbracciare bene stretto l’amorosissimo Bortoluzzi come pure il Carissimo Don Mazzoni.

V’assicuro che non è leggiera la malinconia nella quale mi trovo, per tre quarti almeno della giornata. Se il mio camerinetto sapesse parlare, ve la spiegherebb’egli al vostro ritorno.

Vi do un consiglio, e fate per carità a modo mio. Abbandonate il pensiero del Clarinet, ed appigliatevi all’Arpa. Vi riuscirà facilissima, e vi sarà molto più utile, e in campagna vi riuscirà deliziosa. Quando avete acquistato un istrumento, e imparatene ben bene le voci, voi siete in sicuro.

Sono ansioso di un’altra vostra, da Rovigo. Voi questa mia la riceverete in Bologna. La mia benedizione e la Grazia di Dio vi accompagnino sempre dapertutto. Non tralasciate di far subito le vostre devozioni.

Non cessate mai d’essere amoroso verso mia moglie e per genio, e per gratitudine, e per compiacere un padre che non vi ama solamente ma vi adora. Sì, lo meritate. Scopro in voi continuamente nuove amabilissime qualità. Sappiate conservarle. Amatemi. Addio addio

Vostro Amorosissimo Padre Francesco Albergati Capacelli

II.

Carissimo Figlio, Luigino Amatissimo

Venezia, 4 Aprile 1790

Nel tempo che precede una carissima lettera vostra la quale spero di ricevere o stasera o domattina mi metto a scrivervi e ad esprimervi con la maggior

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chiarezza possibile alcuni miei immutabili sentimenti. Nemico, come naturalmente io sono, del comandare, non vi comando ma voi medesimo prego a leggere con distinta attenzione l’espressione ingenua di questi sentimenti miei ragionati e fermissimi.

Un uomo il quale si pregi sempre di voler sempre fare tutto a suo modo, sarà facilmente una ostinata bestia molesta a se stessa ed agli altri.

Un uomo che si induca a fare sempre ed in tutto a modo altrui, sarà sicuramente un infelice balordo. Io non voglio essere né la bestia ostinata né il balordo infelice. Di questo mio pensamento, che parmi giustissimo, credo d’averne date prove, ancora recenti, e mi dispongo a darne in avvenire altre ancora. […]

III.

Carissimo Figlio, Amatissimo Luigino Mio

Bologna 25 maggio 1790

Ieri vi ho scritto da Ferrara. Oggi vi scrivo da Bologna, ma è l’una e l’altra lettera vi giungeranno, credo io, nel tempo stesso.

Sono pieno di stanchezza e di sonno. Però mi trovo nella necessità d’essere brevissimo. Per li saluti cordiali che dovete distribuire mi rimetto a quanto ieri v’ho scritto. Non mancate di protestare il mio ossequio ed affetto all’eccellentissimo e amabilissimo Gentiluomo Brerra, che desidero ardentemente.

Lui ho trovato tutto egregiamente disposto, e spero che tutto potrà egregiamente incamminarsi e proseguire. La stalla non istà né bene né male, come ora stà, ma tutto è accomodabile. I polledri sono bellissimi, ed è bellissimo il cavallo da sella, ma parmi pericoloso. Data in esso la sicurezza, è una gioja. Venite più presto che potete col nostro caro Bortoluzzi che intanto col cuore abbraccio tenerissimamente. Scrivetemi se avete ricevute tutte e due le mie lettere.

Vi spedisco la cassa vuota. Vorrei pur una volta che ci trovassimo insieme, e stabilmente e tranquillamente. Raccomandatevi a Dio, e tenetevi in grazia sua costantemente. Non è un bigotto che ve lo consiglia, ma un amoroso padre impastato d’allegria, la quale ottimamente può combinarsi colla devozione e religione più perfetta.

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Mia moglie vi fa mille distinti e cordiali saluti. Ella ed io salutiamo l’Abate Bon e il Mazzoni ed anche le corbellerie che dirà il Mazzoni in casa, fuori di casa e in ogni luogo.

Vogliatemi bene quanto io ne voglio a voi. Siate savio, cristiano, docile, ed amoroso.

Giuseppino Mazzoni che arriva in questo momento abbraccia voi, e saluta glia altri. Addio addio

Il Suo Amorosissimo Padre Francesco Albergati Capacelli

Nella nota degli argenti non avete messi li quattro candelieri d’argento. Ve li ho messi io.

IV.

Carissimo Luigino Amatissimo

Casa 12 8 1793

Sempre desideroso di avervi vicino mando ad incontrarvi i miei baci, e la mia benedizione. Oltre l’amarvi teneramente come mio figlio, riguardo in Voi il vero sostegno della mia vecchiezza che mi aiuta, e soccorre in tutto quello in cui precisamente io non son buono da nulla. Dio vi ricompensi di quanto fate per me e per noi. Io non posso ricompensarvene che col amarvi teneramente. A rivederci fra poche ore. Amatemi. Addio

Vostro amorosissimo Padre

Francesco Albergati Capacelli

V.

Carissimo Figlio Luigino Amatissimo

Ferrara 24 Maggio 1796

Siam giunti felicemente in Ferrara. Stasera partiremo dopo la commedia che sarà la favola del corvo. Mi trattiene la sola curiosità di sentire la compagnia.

Da Bologna farò di tutto per mandarvi le due casse vuote.

Intanto, Luigino carissimo, vi raccomando il timor di Dio. Pensate che un tale raccomandazione ve la fa un padre amoroso e che è allegro, disinvolto, e

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conoscitore del mondo, vale a dire un uomo, non severo né ridicolosamente scrupoloso, ma che va e che conosce esser tutto vano e tutto male senza la grazia di Dio.

Purtroppo staremo un pezzetto senza vederci, so che mi torna nell’animo quell’amaro rammarico che ho dovuto in quest’anno provare quattro volte. Dio mi conceda anche in questa dolorosa combinazione. Ma per carità spicciatevi e venite. A me tutto riesce imperfetto senza di voi. Per ora non aggiungo altro perché scrivo in fretta.

Mia moglie vi da mille abbracci. Io vi do mille baci, e mille volte la paterna benedizione.

Voi dovete subito abbracciare per me strettamente e baciar le mane all’impareggiabile nostro Protettore e Amico eccellentissimo Signor Conte Martinengo, le cui grazie e favori mi restano e mi resteranno impressi nel cuore persin che vivrò. Il distaccarmi da lui m’è stato un dolorosissimo passo.

Teneri saluti, a nome di mia moglie e di me, alla Famiglia Maneati e Roberti, che per la cordialità loro e per l’affetto mio, considero come famiglie mie proprie. Agli amatissimi coniugi Foppa protestate la nostra costante amicizia. Alla famiglia Manfredini farete lo stesso aggiungendo alla Signora Annina mille altri saluti di mia moglie.

All’Abate Don e al nostro Checco raccomando voi, ed a voi raccomando coteste due oneste ed amorose persone.

Si fa un gran parlare nella nostra famiglia. Voi ora state in riposo mentre mia moglie ha incominciate le sue fatiche. Desidero che ciò sia con sollecito fine.

Ricordatevi di cio che mi piace, e fatelo. Ricordatevi di cio che mi spiace, e astenetevene.

Di nuovo, addio

Vostro amorosissimo Padre

Francesco Albergati Capacelli

Amami e ti do mille volte la paterna benedizione. Addio

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Governo e Parlamento nazionale nella formazione del diritto europeo: un profilo di storia istituzionale di Bruno Brienza

Introduzione

L’adozione della Legge 24 dicembre 2012, n. 234, in materia di ″Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea″, ha sostanzialmente modificato il rapporto tra l’ordinamento giuridico italiano e quello dell’Unione europea. La legge si inquadra in un contesto più ampio, affermato nel Trattato di Lisbona del 2007, volto a favorire il processo di democratizzazione dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea, mediante la valorizzazione del ruolo dei Parlamenti nazionali e degli enti territoriali degli Stati membri1. A tali organi il Trattato e

1 Dopo la bocciatura subita dalla Costituzione europea con i referendum francese e olandese, rispettivamente il 29 maggio e il 1° giugno 2005, che hanno posto fine al processo costituente, congiuntamente alle esitazioni del Regno Unito, che il 6 giugno dello stesso anno decideva a sua volta di sospendere il processo di ratifica a tempo indefinito, il Consiglio europeo di Bruxelles, nel giugno 2007, preso atto che il progetto Trattato-Costituzione era venuto meno, affidò ad una Conferenza intergovernativa il compito di elaborare un nuovo Trattato, che avrebbe dovuto integrare nei Trattati già esistenti il portato innovativo della accantonata Costituzione europea. I lavori della Conferenza intergovernativa ebbero tempi serrati e il 13 dicembre 2007 fu approvato e sottoscritto a Lisbona il nuovo Trattato, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. La decisione adottata di rafforzare il ruolo dei Parlamenti nazionali nel processo di costruzione dell’Europa costituì indubbiamente un’opzione volta a fugare i molti dubbi e i diffusi scetticismi suscitati dall’esito del referendum francese e olandese. La decisione era motivata da alcune esigenze di fondo: in primo luogo, accreditare i Parlamenti nazionali come depositari di un ruolo di supervisione nei confronti dell’operato dell’Unione europea, scardinandone il carattere di una sostanziale marginalizzazione partecipativa nella formazione del diritto comunitario; in secondo luogo, puntare a rafforzare i meccanismi operativi del processo di costruzione europea, in terzo luogo conferire a tale processo una piena legittimazione e alzare uno scudo di protezione di

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alcuni suoi Protocolli assegnano infatti rilevanti poteri in materia di informazione, di partecipazione e controllo connessi alle dinamiche di formazione del diritto dell’Unione europea. Il coinvolgimento più marcato dei Parlamenti nazionali e degli enti territoriali all’interno delle opzioni di scelta compiute dagli Stati membri nella fase ascendente della formazione del diritto europeo costituisce un momento fondamentale anche e soprattutto per rendere più agevole la successiva fase discendente, quando questi organi sono chiamati, tra gli altri, a dare piena e compiuta attuazione al diritto formato in ambito europeo. Il presente contributo intende ricostruire ed esaminare, sotto il profilo storico-giuridico, il progressivo adattamento dell’esperienza italiana al diritto dell’Unione europea, a partire dalla prima fase del rapporto tra ordinamento dello Stato italiano e diritto comunitario, e poi dell’Unione europea, sino alla legge n. 234/2012, entrata in vigore il 19 gennaio 2013.

2.- La partecipazione del Parlamento italiano al processo di formazione del diritto europeo: considerazioni preliminari

Nei primi anni dell’esperienza giuridica europea, il legislatore italiano non comprese pienamente il portato innovativo del diritto dell’Unione. Non poche furono le difficoltà connesse alla ratifica dei trattati istitutivi nel nostro ordinamento e problemi analoghi incontrarono le procedure di recepimento degli atti normativi europei, i quali sembravano costituire nella prima fase dell’attuazione del diritto comunitario un elemento spurio e sostanzialmente anomalo nel sistema delle fonti delineato dalla dottrina costituzionalistica nazionale. L’idea che un atto approvato da istituzioni e organi diversi dal Parlamento nazionale potesse rendere inapplicabile una normativa interna rappresentava un fronte a movimenti destabilizzanti provocati da altre eventuali consultazioni referendarie. Per tali ragioni, le novità introdotte dalla Costituzione europea sul ruolo dei Parlamenti nazionali nella formazione del diritto dell’Unione europea non solo non furono messe in discussione, ma, al contrario, in sede di Conferenza intergovernativa e su istanza dello stesso governo olandese, venne introdotto, nel quadro dell’early warning sistem, il cosiddetto cartellino arancione, teso a rafforzare le prerogative dei Parlamenti nazionali nell’ambito del processo politico-decisionale europeo. Si trattava, in sintesi, di conferire ai Parlamenti nazionali una maggiore visibilità e un maggior peso politico nel quadro della democrazia europea, tale da garantire l’esistenza e il pieno riconoscimento di un sistema parlamentare europeo. Per la ricostruzione del lungo processo storico che ha determinato l’accelerazione del sistema di integrazione europea verso il Trattato-Costituzione, v. ex multis B. Olivi, R. Santaniello, Storia dell’integrazione europea. Dalla guerra fredda alla Costituzione dell’Unione, II ed., Il Mulino, Bologna 2010. Per il concorso dei Parlamenti nazionali e il rapporto di interdipendenza con il Parlamento europeo circa la responsabilità di governo in cui si svolge l’attività dell’UE, si rimanda ad A. Manzella, Parlamento europeo e Parlamenti nazionali come sistema, in «Rivista AIC», n. 1/2005.

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elemento di rottura e in qualche modo rivoluzionario per il nostro ordinamento. Proprio per tale ragione, invalse l’uso di riprodurre in leggi nazionali disposizioni presenti in regolamenti comunitari, prassi che fu giudicata illegittima anche dalla Corte Costituzionale2. Fu solo dopo circa un trentennio di esperienza comunitaria che il legislatore italiano si risolse ad adottare norme, al fine di creare un raccordo tra il Governo e il Parlamento nella fase ascendente3. I contenuti del primo provvedimento erano tuttavia blandi: l’articolo 9 della legge n. 183/1987, la c.d. “legge Fabbriˮ4, obbligava infatti il Governo a comunicare rispettivamente alle Camere e alle Regioni i progetti di regolamenti, le raccomandazioni emanate dalle istituzioni della CECA e le direttive, senza però precisare i termini per questo adempimento e senza definire il ruolo che l’Assemblea statale e le Commissioni parlamentari potessero svolgere nei confronti del Governo5. La successiva legge n. 400/1988 impose poi al Presidente del Consiglio di fornire alle Camere tempestiva comunicazione sui provvedimenti normativi in discussione nella Comunità europea e sulle iniziative poste in essere dal Governo nelle specifiche materie. Si trattava di una sorta di resoconto generale e non della ricerca di una organica intesa con il Parlamento circa le posizioni da

2 Emblematica, in tal senso, la sentenza 22 ottobre 1975, n. 232 (ICIC c. Ministero del Commercio con l’estero): “risponde […] alla logica del sistema comunitario che i regolamenti delle Comunità, […] come fonte immediata di diritti ed obblighi sia per gli Stati sia per i loro cittadini in quanto soggetti delle Comunità, non debbano essere oggetto di provvedimenti statali a carattere riproduttivo, integrativo o esecutivo, che possono comunque differirne o condizionarne l’entrata in vigore, e tanto meno sostituirsi ad essi, derogarvi o abrogarli, anche parzialmente. Ciò, beninteso, salva la necessità per gli Stati membri di emanare norme esecutive o di organizzazione e concernenti modalità di applicazione, richieste dagli stessi regolamenti comunitari o comunque indispensabili, ovvero di provvedere alla copertura finanziaria di nuove o maggiori spese mediante variazioni di bilancio; fermo restando peraltro che l’eventuale adempimento di simili obblighi da parte dello Stato non potrebbe costituire condizione o motivo di sospensione dell’applicabilità della normativa comunitariaˮ, reperibile sul sito http://www.cortecostituzionale.it 3 La distinzione tra fase ascendente, come momento di formazione della decisione comunitaria per confluenza delle singole posizioni nazionali, e fase discendente, cioè di esecuzione ovvero attuazione del diritto europeo dal punto di vista ordinamentale interno, è affatto italiana e poco utilizzata dalla dottrina straniera. Ciò dipende dal fatto che negli altri Stati membri si considerano da sempre connessi il momento dell’assunzione della decisione e quello della sua attuazione, dove il primo è strumentale alla buona riuscita del secondo. Sul punto, si veda C. FASONE, Gli effetti del Trattato di Lisbona sulla funzione di controllo parlamentare, in «Rivista italiana di diritto pubblico comunitario», Giuffrè Editore, Milano 2011, pp. 353–391. 4 La disposizione sarà poi abrogata dalla legge n. 128/1998, c.d. “Legge comunitaria 1995 – 1997 ˮ. 5 Sulla genericità delle disposizioni dell’atto legislativo si veda, in particolare, A. Tizzano, Sull’attuazione della normativa comunitaria in Italia: la legge 183/87, in «FI», 1988, I, p. 219 ss.

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assumere nel contesto europeo6. In seguito, la legge n. 86/1989, la c.d. “legge La Pergolaˮ, tentò di affrontare il problema con maggiore sistematicità, sebbene il testo denotasse una certa debolezza in relazione all’efficacia degli strumenti di raccordo previsti tra Governo e Parlamento. In particolare, in materia di rapporti con il Parlamento, il testo prevedeva che il Governo dovesse presentare alle Camere una relazione semestrale sulla partecipazione italiana al processo di formazione del diritto comunitario, nella quale fossero esposti i principi e le linee guida che caratterizzavano la politica italiana in tale ambito, nonché gli indirizzi del Governo su ciascuna politica comunitaria in trattazione. La relazione, tuttavia, è stata sistematicamente presentata con ritardo rispetto alla tempistica prevista dalla normativa e non ha mai costituito la base per un efficace dibattito finalizzato all’orientamento dell’attività del Governo. L’ultimo passaggio legislativo che precede la legge n. 11/2005 è costituito dalla riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione. Si tratta della legge costituzionale n. 3/20017, che ha introdotto nel testo della carta costituzionale espliciti riferimenti all’Unione europea e al diritto comunitario e ha altresì favorito la modifica delle procedure e degli strumenti di partecipazione dell’Italia al processo di formazione del diritto dell’Unione europea, attuata rispettivamente con le leggi n. 131/2003, la cosiddetta “legge La Loggiaˮ8, e n. 11/20059. Delineato il quadro di riferimento normativo entro il quale opera il presente paper, nelle sezioni che seguono saranno esaminate più nel dettaglio le singole fasi del progressivo adattamento dell’ordinamento italiano al processo di formazione del diritto dell’Unione europea, a partire dalla centralità del ruolo del Governo nella prima fase del rapporto tra ordinamento dello Stato italiano e

6 Cfr. art. 5, co. 3 lett. a), legge 23 agosto 1988, n. 400, recante Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in «GU» 12 settembre 1988, n. 214. 7 Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione, pubblicata in «GU» 24 ottobre 2001, n. 48. Sulla necessità di una riforma costituzionale che consideri in modo più organico la partecipazione italiana al processo di formazione del diritto in ambito comunitario, si veda S. Marchisio, “Le norme in materia internazionale nella Costituzione italiana”, in Riforme costituzionali. Prospettiva europea e prospettiva internazionale, IV Convegno SIDI, Salerno, 29–30 aprile 1999, Editoriale Scientifiche, Napoli 2000, p. 129 ss. 8 Pubblicata in «GU» 10 giugno 2003, n. 132. La promulgazione della legge di attuazione fu preceduta da una indagine conoscitiva condotta dalla Commissione affari costituzionali del Senato della Repubblica, avviata in data 17 ottobre 2001 e conclusa in data 26 giugno 2002. Testo dei lavori della Commissione reperibile sul sito: http://www.senato.it. 9 Pubblicata in «GU» 15 febbraio 2005, n. 37, è la c.d. “legge Buttiglioneˮ, che ha conservato lo strumento della legge comunitaria, per essere poi abrogata e sostituita, in seguito al Trattato di Lisbona del 2009, dalla legge 24 dicembre 2012, n. 234, recante Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, entrata in vigore il 19 gennaio 2013.

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ordinamento comunitario, sino all’esame puntuale delle novità introdotte dalle legge 24 dicembre 2012, n. 234.

3.- La centralità del ruolo del Governo nella prima fase del rapporto tra Stato italiano e ordinamento comunitario

Nel processo di partecipazione alla formazione del diritto comunitario, il Governo ha progressivamente conquistato un ruolo dominante e, in virtù dello stretto collegamento con le istituzioni decisionali dell’ordinamento comunitario, ha sempre più rafforzato la sua posizione all’interno dell’ordinamento nazionale. Questo ruolo di supremazia è stato alimentato sia dal rapporto diretto che intercorre tra il Presidente del Consiglio dei ministri e il Consiglio europeo, sia dalla partecipazione dei suoi ministri nel consesso del Consiglio dell’Unione europea. Il Governo è, dunque, riuscito nel tempo a valorizzare il suo ruolo in ambito europeo, in linea con una tendenza osservabile in tutti i Paesi europei che hanno aderito alla Comunità, ed è riuscito ad avere buon gioco nella gestione delle informazioni ricevute direttamente dalla Rappresentanza permanente dell’Italia presso l’Unione europea, una articolazione cioè del Ministero degli affari esteri. Si è insomma andato affermando il cosiddetto metodo di tipo “intergovernativo”10, che si è sostanzialmente mantenuto sino all’entrata in vigore dell’Atto unico europeo nel 1986, grazie al quale la Comunità riprese slancio e vigore, che ha modificato in modo significativo i meccanismi dei processi decisionali nell’ambito dell’ordinamento comunitario. La novità introdotta dalla riforma del trattato dell’Atto unico europeo, infatti, fu il voto a maggioranza, che si affermò in via ordinaria per il ravvicinamento delle disposizioni legislative e amministrative degli Stati membri concernenti l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno, considerata la previsione di cui all’articolo 100A dell’Atto unico europeo11. La

10 Il metodo intergovernativo di funzionamento è utilizzato soprattutto per quanto attiene alla politica estera e di sicurezza comune, nonché per gli aspetti connessi alla cooperazione giudiziaria e di polizia. Il metodo è caratterizzato da alcuni elementi fondamentali: il diritto di iniziativa della Commissione, che viene condiviso con i paesi dell’UE o è limitato a specifiche aree di attività; il ruolo fondamentale, esplicitamente menzionato nel Trattato di Lisbona, del Consiglio europeo, che generalmente delibera all’unanimità; il ruolo, infine, puramente consultivo rivestito dal Parlamento europeo. Sulla nozione di metodo intergovernativo, si veda, in particolare, J.H.H. Weiler, La Costituzione dell’Europa, Bologna, Il Mulino 2003, pp. 124–125. 11 L’art. 100A dell’Atto unico europeo corrisponde all’attuale art. 114 TFUE 8ex art. 95 TCE: “[…] Il Parlamento europeo e il Consiglio deliberano secondo la procedura legislativa ordinaria e previa

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novella accelerò la rapidità del processo decisionale in ambito comunitario, sì che gli Stati membri furono costretti ad applicare norme a carattere vincolante sulle quali si erano espressi, che erano state approvate sulla base del principio della maggioranza e che dispiegavano un effetto diretto nei rispettivi ordinamenti. Ciò ebbe conseguenze anche sulla organizzazione della struttura di governo italiana. Fu infatti nella seconda metà degli anni Ottanta che in Italia si cercò di dare risposta a livello istituzionale alle corpose novità che si erano prodotte in chiave europea. A questo periodo, infatti, risalgono la legge n. 183/1987 (cosiddetta legge Fabbri) e la legge n. 86/1989 (cosiddetta legge La Pergola), prodromiche di un più vasto processo di riforma dell’azione dell’Esecutivo sostanziatosi, in seguito, nella legge n. 400/1988. L’adozione dell’Atto unico europeo costituisce dunque una svolta nei meccanismi di integrazione europea da parte dello Stato italiano. Giova sottolineare, infatti, che sino a quel momento l’indirizzo politico in materia comunitaria seguiva l’alveo della politica estera e, come tale, era promosso dal Ministero competente. Il Dicastero degli affari esteri godeva infatti di ampia discrezionalità ed era responsabile della conduzione dei rapporti con gli altri Stati e con gli Enti e le Organizzazioni internazionali12, compresa appunto la Comunità europea per il tramite della Rappresentanza permanente a Bruxelles. Il ruolo di supremazia del Ministero degli affari esteri trovava la sua ragione d’essere sia nella presenza di un Presidente del Consiglio del tutto privo di poteri di coordinamento e concentrato soprattutto più nella politica interna che su quella estera13, sia sulla partecipazione sporadica del Parlamento nelle questioni europee, poco interessato alle decisioni sul recepimento della normativa comunitaria14. L’instaurazione del mercato unico europeo cambiò pertanto di fatto il sistema istituzionale, perché presupponeva la necessità di reperire una notevole mole di direttive tecniche molto dettagliate, che non trovavano le necessarie corrispondenze di competenze interpretative ed efficacia applicativa in una struttura di governo tale da garantire in tempi certi la conclusione dei procedimenti. I funzionari del Ministero degli affari esteri erano d’altra parte attrezzati per affrontare questioni di natura politica, non certamente pronti per la partecipazione a discussioni di taglio meramente tecnico. Essi necessitavano consultazione del Comitato economico e sociale, adottano le misure relative al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato internoˮ. 12 Cfr. D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18, recante Ordinamento dell’amministrazione degli affari esteri, pubblicato in «GU» 18 febbraio 1967, n. 44, e successive modificazioni e integrazioni. 13 Cfr. V.S. Merlini, Appunti sulle forme di governo, Giappichelli, Torino 1999, p. 103 ss. 14 Sulla emarginazione delle Camere nella formazione del diritto europeo, si veda P. Caretti, I riflessi dell’ordinamento comunitario nella forma di governo italiana, in «Quaderni costituzionali», 1981, pp. 319–321.

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dunque dell’ausilio di personale con una robusta preparazione nei vari settori delle competenze comunitarie. Di conseguenza, il Ministero degli Affari Esteri si concentrava prevalentemente sulla fase ascendente del processo di formazione del diritto in ambito comunitario, palesando grande imbarazzo e difficoltà dinanzi alla ricezione ed esecuzione dei singoli provvedimenti. Per arginare questa situazione occorreva pertanto conferire un ruolo centrale al Presidente del Consiglio, attraverso una presenza costante nel Consiglio europeo dove partecipava insieme ai capi di Stato e di Governo degli altri Stati membri, attesa la scarsa influenza sul processo decisionale europeo che l’Italia aveva sino a quel momento esercitato in ambito comunitario15.

4.- La seconda fase del rapporto tra Stato italiano e ordinamento comunitario: la “legge Fabbriˮ e l’istituzione del Dipartimento per le politiche comunitarie

La mancanza di coordinamento tra i vari ministri in sede comunitaria favorì dunque la crescente influenza del Governo nella partecipazione al processo di decisione in ambito comunitario. Si pensò di istituire un Ministero per gli Affari Europei, con la precipua finalità di coordinare l’azione delle amministrazioni statali che partecipavano alla formulazione e alla formalizzazione della posizione italiana a Bruxelles. Una sorta di cabina di regia, insomma, tale da conferire un carattere di marcata univocità alla posizione nazionale nel consesso europeo. Sottesa all’ipotesi del costituendo ministero, affiorava anche la flebile speranza di un maggior coinvolgimento nei lavori del Parlamento, che finalmente avrebbe potuto beneficiare di un unico interlocutore e accreditare il suo ruolo di controllo sull’operato dell’Esecutivo in ambito comunitario. Si decise di incardinare questo costituendo organismo nella Presidenza del Consiglio dei ministri, connotato dunque dal sostegno di una struttura tecnica di alto livello di specializzazione e statuizione ad hoc.

15 Si veda, in tal senso, l’intervento dell’on. Spinelli nel corso della riunione del Comitato permanente Affari Comunitari di mercoledì 4 maggio 1977, ore 17,15 – Presidenza del Presidente del Comitato, Malagodi -, in 158 – «Bollettino delle Commissioni», 4 maggio 1977, III Commissione Permanente (Affari esteri), pp. 7–8: “[…] Per quanto riguarda la strumentazione, non si può non rilevare lo scollamento della nostra azione ministeriale in sede comunitaria, per cui spesso un ministro ignora l’atteggiamento assunto da un altro collega di Governo su analoghi problemi. Anche i nostri funzionari a Bruxelles lasciano a desiderare ed è per tutte queste ragioni che la nostra capacità di influire sulla formazione delle decisioni comunitarie è assai ridotta. […] Bisognerebbe forse arrivare alla creazione di una struttura centrale con sufficiente autorità politica in grado di coordinare i problemi posti dalla nostra presenza in campo comunitarioˮ. Il testo completo della relazione è reperibile sul sito istituzionale della Camera dei deputati al seguente indirizzo: http://legislature.camera.it/dati/leg07/lavori/Bollet/19770504.00.

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La soluzione di carattere ministeriale si inseriva nel solco della tradizionale modalità di razionalizzazione dell’attività del Governo, ma non determinava il coinvolgimento dell’Assemblea parlamentare al quale, timidamente, si ambiva. Il Parlamento restava ancora una volta escluso dal processo decisionale di formazione del diritto europeo e incapace di esercitare un controllo sull’azione di Governo in materia comunitaria, in forza del rapporto di fiducia che lo legava al medesimo. L’istituzione di questo nuovo organismo non produsse i risultati sperati. Il nuovo soggetto istituzionale, attesa la posizione di subordinazione al Presidente del Consiglio e privo di uffici e di strutture amministrative alle sue dirette dipendenze, fu incapace di esercitare una concreta azione di coordinamento, funzione per la quale l’organismo era stato appositamente istituito. Poiché si trattava di un ministro senza portafoglio, la funzione di questa carica si esaurì nella sfera essenzialmente politica, minando di fatto alla base ogni possibilità di esercizio attivo della funzione correlata a quella forte specializzazione tecnica che presiedeva alla istituzione della stessa16. Per ovviare a questa situazione, la legge Fabbri17 istituì il Dipartimento per le politiche comunitarie, posto direttamente al servizio del ministro, il quale assunse il titolo di Ministro per le politiche comunitarie. Il dipartimento fu istituito con fonte primaria in seguito al tentativo fallito di costituire un organismo similare con un ordine di servizio del Presidente del Consiglio18 e, inoltre, giocava un ruolo fondamentale la necessità di evitare i rilievi di incostituzionalità che potevano derivare dalla violazione

16 Sulla istituzione e sul ruolo del Ministro per gli affari europei, si veda S. Guiglia, La figura dei Ministri senza portafoglio dopo la legge n. 400 del 1988, in «Giurisprudenza costituzionale», n. 9, 1988, p. 1422. 17 Legge 16 aprile 1987, n. 183, pubblicata in «GU» n. 109 del 13 maggio 1987, S.O. Il Dipartimento per le politiche comunitarie ha oggi assunto la denominazione di Dipartimento per le politiche europee. Istituito con decreto del Ministro per gli affari europei del 7 dicembre 2012, il dipartimento è la struttura di cui si avvale il Presidente del Consiglio nell’ambito dei rapporti tra il Governo italiano e le istituzioni europee. In particolare, il dipartimento svolge attività di coordinamento nelle fasi di formazione della normativa europea e nelle fasi di recepimento nell’ordinamento italiano. Tra i compiti assegnati, il dipartimento esercita un ruolo di coordinamento nel quadro dell’attuazione delle strategie di Lisbona, previene il contenzioso comunitario e segue le questioni concernenti la libera circolazione delle persone, dei servizi e delle merci. 18 Nel 1981, con ordine di servizio del 12 settembre, si tentò di dare vita presso la Presidenza del Consiglio a un apparato servente il ministro, il Dipartimento per gli affari comunitari, come struttura di raccordo tra le amministrazioni nazionali. Sul tema, cfr. L. Fiorentino, Le amministrazioni pubbliche tra conservazione e riforme. Omaggio degli allievi a Sabino Cassese, Giuffrè Editore, Milano 2008, p. 128. L’affermarsi, nello stesso periodo, di nuove strutture dipartimentali forti come il Dipartimento per il Mezzogiorno, istituito con la Legge 1 marzo 1986, n. 64, recante Disciplina organica dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, in «GU» n. 61 del 14 marzo 1986, S.O., concorse alla decisione di istituire definitivamente con legge ordinaria questo dipartimento.

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delle riserve di legge ex articolo 95, ultimo comma, ed ex articolo 97 della Costituzione. In tal senso, l’articolo 1 della legge n. 183/1987 istituiva questo dipartimento con funzioni a rilevanza comunitarie quali “il coordinamento delle politiche derivanti dall’appartenenza dell’Italia alla Comunità europeaˮ, e “l’adeguamento della normativa nazionale alle direttive comunitarieˮ. La puntuale disciplina delle competenze e dell’organizzazione del dipartimento veniva demandata a un successivo decreto del Presidente della Repubblica, da emanarsi a seguito di delibera del Consiglio dei ministri, sentite le competenti Commissioni della Camera e del Senato19. Al dipartimento la legge n. 183/1987 affiancò anche la riforma del CIPE20, divenuto il comitato interministeriale di riferimento per tutta la problematica delle interconnessioni tra le politiche comunitarie e la politica economica nazionale. Al rafforzamento di natura organizzativa cui si diede luogo con l’istituzione del dipartimento, la legge Fabbri aggiunse anche poteri propulsivi e di coordinamento per le politiche comunitarie conferiti al ministro. Scopo del legislatore era introdurre il neoministro nel circuito decisionale del Governo, in

19 Il Dipartimento per le politiche comunitarie divenne in realtà operativo solo nel 1990. Il decreto del Presidente della Repubblica che avrebbe dovuto disciplinarne l’organizzazione e il funzionamento fu trasformato da d.p.r. in un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, il d.p.c.m. 30 aprile 1990, n. 150, recante Regolamento concernente l’organizzazione del Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei Ministri, pubblicato in «GU» 16 giugno 1990, n. 139. Mentre la legge Fabbri aveva concepito il dipartimento come un organismo centrale a rilevanza esterna, dotato di poteri di coordinamento verso tutte le amministrazioni e con a capo un ministro titolare di poteri forti, direttamente previsti dalla legge, il decreto n. 150 ridisegnò il dipartimento come un semplice ufficio a rilevanza interna, con funzioni strumentali rispetto a quelle del Presidente del Consiglio e del Segretario generale della Presidenza del Consiglio. Il neocostituito organismo non ebbe, peraltro, vita facile. La trasformazione del d.p.r. in d.p.c.m. aprì anche un contenzioso sollevato dinanzi alla Corte Costituzionale. La Regione Toscana, con ricorso notificato in data 2 agosto 1990 e depositato l’8 agosto successivo, sollevò conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione al d.p.c.m. 30 aprile 1990, n. 150, in quanto emanato in violazione di legge ed invasivo della sfera di competenze regionali. Con la forma utilizzata, dunque, meno garantista di quella imposta dalla legge n. 183/1987, il decreto secondo la Regione Toscana aveva introdotto nuove competenze dipartimentali in violazione delle attribuzioni regionali. La Corte Costituzionale giudicò il ricorso inammissibile e ritenne che il regolamento impugnato non attribuiva al Dipartimento delle politiche comunitarie istituito nell’ambito della Presidenza del Consiglio dei ministri nuove e diverse funzioni da quelle già spettanti a tale organo, ma si limitava ad organizzare il dipartimento nel quadro della Presidenza stessa, attribuendo ad esso solo quelle funzioni già esercitate dalla Presidenza del Consiglio dei ministri. Secondo la Corte si trattava, in sostanza, di un atto di autorganizzazione del Governo, che in nessun modo limitava le competenze delle regioni (cfr. sent. 8–18 aprile 1991, n. 157, Regione Toscana c. Presidenza del Consiglio dei ministri, in http://www.cortecostituzionale.it). 20 Il CIPE è stato istituito con la Legge 27 febbraio 1967, n. 48, pubblicata in «GU» 2 marzo 1967, n. 55.

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modo che potesse partecipare alla proposizione di istanze delle quali era riconosciuto legittimamente il portatore. Lungi, dunque, dal risultare un esempio sterile di ministro senza portafoglio, al quale venivano delegate di volta in volta competenze da parte del Presidente del Consiglio, nello spirito della legge la nuova carica risultava direttamente attributaria di importanti competenze e diventava la principale protagonista, anche in ragione della riforma del CIPE che accresceva la sua capacità strategica nell’ambito della politica comunitaria, nel concorso nazionale alla formazione del diritto in ambito europeo. La legge n. 183/1987 completava, inoltre, la ricostruzione dell’assetto organizzativo con la instaurazione di un comitato all’interno della Presidenza del Consiglio dei ministri, presieduto dal Presidente del Consiglio o dal Ministro delegato per le politiche comunitarie, e composto da funzionari delle amministrazioni dello Stato con la qualifica verticistica di dirigente generale. Questa modalità di interconnessione tra esponenti della funzione politica ed esponenti della funzione amministrativa verrà ricalcata nella configurazione del CIACE, il Comitato interministeriale per gli affari comunitari ed europei21. La centralità del ruolo del Governo nella gestione degli affari connessi alle politiche comunitarie indusse il legislatore a contemplare nella legge Fabbri alcune procedure che obbligavano il Governo a comunicare all’Assemblea parlamentare le informazioni più importanti sulle questioni discusse a livello europeo. Solo in tal caso, infatti, il Parlamento avrebbe potuto esercitare la sua influenza sul processo decisionale comunitario. La previsione normativa si trova, segnatamente, in due articoli della legge n. 183/1987, rispettivamente l’articolo 9, relativo alla “comunicazione dei progetti di atti comunitari al Parlamento, alle regioni ed alle province autonomeˮ, in forza del quale il Presidente del Consiglio, ovvero il Ministro delegato per il coordinamento delle politiche comunitarie aveva l’obbligo di comunicare agli organi citati i progetti dei regolamenti, delle raccomandazioni e delle direttive delle Comunità europee, e il successivo articolo 10, concernente la “comunicazione degli atti normativi comunitari al Parlamento, alle regioni ed alle province autonomeˮ, per mezzo del quale il Presidente del Consiglio dei ministri o il Ministro delegato per il coordinamento delle politiche comunitarie, entro trenta giorni dalla notifica della raccomandazione o della direttiva comunitaria, era obbligato a darne comunicazione alle Camere e, per le materie di loro competenza, anche alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome. Entro, poi, il termine di novanta giorni, il Governo avrebbe riferito per iscritto alle Camere sullo stato di

21 Istituito con la legge n. 11/2005, l’articolo 2 attribuisce all’organo il compito di “coordinare le linee programmatiche del Governo nel processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti comunitari e dell’Unione europeaˮ.

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conformità o meno delle norme vigenti nell’ordinamento interno alle prescrizioni delle raccomandazioni o direttive comunitarie. Con la legge n. 183/1987 si tentò, altresì, di smaltire l’arretrato nelle attività connesse al recepimento delle direttive comunitarie. In realtà, all’inizio del 1989, l’Italia continuava ad avere un arretrato di oltre 250 direttive, che dovevano essere ancora recepite nell’ordinamento interno22. Si rendeva dunque necessario l’avvio di una terza fase nel processo di adattamento della partecipazione italiana alla formazione del diritto comunitario.

5.- La terza fase del rapporto tra Stato italiano e ordinamento comunitario: dalla legge n. 86/1989 alla legge n. 11/2005

L’idea di introdurre e disciplinare un procedimento ad hoc, tale da garantire la trasposizione nell’ordinamento nazionale delle direttive comunitarie e l’adempimento degli obblighi che derivano dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, sottende al varo della cosiddetta legge La Pergola23. La legge avrebbe dovuto assicurare al Parlamento e al Governo di operare in base a un programma periodico e organico e, soprattutto, di tenere in debita considerazione il quadro degli impegni europei per i quali adempimenti si sarebbe dovuto ricorrere a un nuovo processo di produzione normativa, che identificasse nel Parlamento nazionale il luogo e la sede privilegiata dei meccanismi di sviluppo ed evoluzione dell’ordinamento giuridico del Paese. Fu formulata una disposizione in forza della quale il Governo aveva l’obbligo di presentare al Parlamento un disegno di legge intitolato legge comunitaria. In esso l’Esecutivo doveva condensare a cadenza annuale tutto il risultato dell’azione comunitaria che si era prodotta nell’arco temporale che intercorreva tra una legge comunitaria e l’altra e che aveva riflessi sull’ordinamento interno. In tal modo, il Parlamento aveva davvero occasione di conoscere e approfondire i temi trattati in sede europea e poteva decidere in modo razionale e con carattere di coordinamento sugli strumenti più opportuni per adeguare la legislazione nazionale agli obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione europea.

22 Sulle questioni connesse ai ritardi degli adempimenti parlamentari in materia di recepimento degli atti comunitari nell’ordinamento nazionale, si veda F. Bona Galvano, Commento alla legge 4 febbraio 2005, n. 11. Parlamento, Regioni, autonomie locali e società civile: una svolta della partecipazione italiana all’Unione europea, Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie, Presidenza del Consiglio dei ministri, Roma 2005, p. 13. 23 Legge 9 marzo 1989, n. 86 recante Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo comunitario e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, in «GU» 18 marzo 1989, n. 58.

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L’articolo 2 della legge stabiliva che il disegno di legge comunitaria rientrava nelle competenze dirette del Ministro delle politiche comunitarie, di concerto con il Ministro degli affari esteri, della giustizia, dell’economia e finanze e con gli altri Ministri interessati, da presentarsi al Parlamento entro il 31 gennaio di ogni anno24. Il successivo articolo 3 delineava, poi, tassativamente il contenuto del disegno di legge, allo scopo di evitare che la legge comunitaria stessa si trasformasse in una sorta di provvedimento-contenitore25. Con l’obbligo di presentazione annuale e di organicità del contenuto della nuova legge comunitaria, si intendeva eliminare il difetto della normativa previgente, che conteneva deleghe al Governo che prevedevano termini temporali estremamente lunghi, oggetti della materia poco definiti, mancanza di principi precisi e criteri direttivi ai quali l’Esecutivo si sarebbe dovuto attenere. Un maggior controllo parlamentare venne garantito dalla previsione della possibilità per l’Assemblea parlamentare di prevedere l’obbligatorietà da parte del Governo di acquisire sullo schema del disegno di legge il preventivo parere delle competenti commissioni permanenti di Camera e Senato26. La ratio della legge La Pergola risiedeva nella volontà di superare le critiche mosse al Governo, cioè quelle di voler estromettere dal circuito della discussione il Parlamento, atteso, come richiamato in precedenza, che l’Esecutivo aveva amministrato sino a quel momento tutta la politica comunitaria, dalla fase di formazione della norma in ambito europeo a quella della sua attuazione, sottraendosi sistematicamente al confronto dialettico in sede parlamentare. Tuttavia, la legge La Pergola garantiva un corretto procedimento nella fase discendente del diritto comunitario, poiché contemplava l’adeguamento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee assicurato dallo strumento della legge comunitaria, ma, nel contempo, non garantiva il Parlamento nazionale nella fase ascendente, rispetto alla quale assicurava soltanto l’informazione sullo svolgimento dei processi normativi comunitari in corso27.

24 Il termine è stato riconfermato anche dall’articolo 8, comma 4, della legge n. 11/2005. 25 In particolare, dopo aver individuato il contenuto nel “periodico adeguamento dell’ordinamento nazionale a quello comunitarioˮ, la disposizione dell’articolo 3 precisava che “[l’ordinamento comunitario] è assicurato, di norma […] mediante: a) disposizioni modificative o abrogative di norme vigenti in contrasto con gli obblighi indicati dall’art. 1, comma 1; b) disposizioni occorrenti per dare attuazione, o assicurare l’applicazione, agli atti del Consiglio o della Commissione delle Comunità europee di cui alla lettera a) del comma 1 dell’art. 1, anche mediante conferimento al Governo di delega legislativa; c) autorizzazione al Governo ad attuare in via regolamentare le direttive o le raccomandazioni […] a norma dell’articolo 4ˮ. 26 V. art. 4, legge n. 86/1989, cit. 27 V. art. 1, co. 2, legge n. 86/1989, cit. “Con le modalità stabilite dalla presente legge, il Governo assicura l’informazione del Parlamento sullo svolgimento dei processi normativi comunitariˮ.

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La normativa sulla partecipazione italiana al processo di formazione del diritto in sede europea conobbe un’ulteriore fase di sviluppo con la cosiddetta legge Buttiglione28. La riforma voluta dal legislatore nazionale nasceva sulla base della considerazione di provvedere alle lacune della normativa previgente. In primo luogo, si avvertì il bisogno di una maggiore funzionalizzazione della partecipazione italiana alla formazione del diritto comunitario; in tal senso, furono adottati strumenti volti a garantire la partecipazione a tale processo da parte del Parlamento, delle Regioni e degli enti locali. In secondo luogo, si impose al legislatore la necessità di adeguare le disposizioni della legge La Pergola alle modifiche introdotte al Titolo V della Parte II della Costituzione. Ciò al fine di regolamentare diversamente la disciplina dei rapporti intercorrenti tra i diversi soggetti istituzionali deputati alla partecipazione, definizione e attuazione del diritto formatosi in sede comunitaria. La legge Buttiglione, nel solco dei principi che ispirarono lo schema e gli strumenti di attuazione della legge n. 86/1989, ha profondamente rinnovato l’approccio nazionale alla formazione del diritto comunitario tanto nella fase ascendente, quanto nella fase discendente, ovvero il suo recepimento. Tra le previsioni della legge n. 11/2005, assume particolare rilievo la disposizione intesa a formalizzare un meccanismo di trasmissione degli atti comunitari al Parlamento, tale da consentire il suo pieno e attivo coinvolgimento sia nella fase ascendente che discendente del procedimento di formazione. Gli obblighi venivano posti in capo all’Esecutivo, cioè al Presidente del Consiglio, ovvero al Ministro per le politiche comunitarie, i quali dovevano trasmettere gli atti comunitari nel momento stesso in cui li ricevevano29. Questo perché solo una efficace opera di informazione verso il Parlamento poteva consentire all’Assemblea stessa di emanare atti di indirizzo e formulare osservazioni alla compagine di governo in materia di politiche europee e di avviare un dialogo con l’esecutivo stesso e le istituzioni comunitarie di Bruxelles. Analoghi diritti di informazione sui progetti comunitari e gli atti preparatori potevano vantare anche le Regioni, per permettere loro di esprimere una riserva di esame in sede di Consiglio dell’Unione europea, e finanche le parti sociali e le categorie produttive di settore interessate, tramite il Consiglio nazionale dell’economia e

28 Legge 4 febbraio 2005, n. 11 recante Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, pubblicata in «GU» del 15 febbraio 2005, n. 37. Il provvedimento, v. infra nel testo, è stato poi abrogato dalla legge 24 dicembre 2012, n. 234. Sulla procedura di adozione della legge n. 11/2005, si veda G. Tiberi, La riforma della legge “La Pergolaˮ, in «Quaderni costituzionali», 2005, n. 3, p. 672 e, in particolare, D.A. Capuano, S. Biancolatte (a cura di), La partecipazione dell’Italia all’Unione europea: le legge n. 11 del 2005 e il ruolo del Senato, in «Quaderni europei e internazionali» (collana), Servizio Affari Internazionali, Senato della Repubblica, Roma 2009, p. 14. 29 V. art. 3, co. 1, legge n. 11/2005.

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del lavoro, cui era riconosciuta la possibilità di far pervenire alle Camere osservazioni e valutazioni di merito nell’ambito delle materie in discussione nel consesso europeo30. Per quanto attiene alla partecipazione del Parlamento al processo di formazione del diritto comunitario, la legge Buttiglione corroborava gli obblighi di informazione del Governo al Parlamento. La legge, infatti, prevedeva che l’Esecutivo trasmettesse all’Assemblea parlamentare i progetti di atti comunitari e tutti gli atti preordinati o propedeutici alla formulazione degli stessi, indicando la data presumibile della loro discussione o adozione. In merito a questi atti comunitari il Governo doveva assicurare alle Camere una informazione qualificata e tempestiva31, curando il costante aggiornamento degli atti stessi. Il Governo era inoltre tenuto a informare il Parlamento sulle materie e sulle proposte incardinate all’ordine del giorno delle riunioni del Consiglio dei ministri dell’Unione europea e sulla posizione che l’Esecutivo avrebbe inteso assumere nelle riunioni del Consiglio europeo32. Il Governo aveva altresì l’obbligo di riferire al Parlamento circa le risultanze delle riunioni entro quindici giorni dallo svolgimento delle medesime presso il Consiglio dei ministri dell’Unione europea e del Consiglio europeo33. Sempre in tema di informazione e rafforzamento dei poteri di controllo da parte del Parlamento sul Governo, la legge n. 11/2005 stabiliva all’articolo 2 che le linee politiche del Governo nel processo di formazione della posizione italiana sulle proposte legislative europee dovevano essere coordinate con i pareri espressi dalle Camere sulle materie in discussione. Il Governo, pertanto, aveva il preciso obbligo di tener conto dell’indirizzo impartito dall’Assemblea parlamentare nell’ambito dei rapporti con le istituzioni e gli organismi europei e di riferire con puntuale regolarità in Parlamento sul seguito dato all’indirizzo fornito dalle Camere, motivando eventuali scostamenti o deviazioni dallo stesso, mediante la presentazione alle Camere di una relazione semestrale in merito. I poteri esercitati dal Parlamento sul Governo per quanto attiene agli affari di natura comunitaria erano variamente articolati nel testo di legge Buttiglione. Innanzitutto, le Camere ovvero le commissioni parlamentari competenti avevano facoltà di richiedere informazioni e relazioni tecniche al Governo e potevano chiedere che l’Esecutivo riferisse in materia di rapporti con l’Unione europea34. Le stesse commissioni parlamentari, in secondo luogo, potevano

30 V. art. 7 legge n. 11/2005. 31 V. art. 3, co. 3, legge n. 11/2005. 32 V. art. 3, co. 4; art. 3, co. 5, legge n. 11/2005. 33 V. art. 3, co. 6, legge n. 11/2005. 34 V. art. 3, co. 5; art. 3, co. 7, legge n. 11/2005. Sull’attività parlamentare circa l’indirizzo politico dell’operato dell’esecutivo in ambito comunitario, si vedano V. Lippolis, Il Parlamento nazional

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formulare pareri e osservazioni, nonché adottare ogni opportuno atto di indirizzo al Governo35. In tal modo la legge consentiva al Parlamento di ottenere più informazioni dal Governo su questioni specifiche e, grazie al recepimento di tali informazioni, il Parlamento era in grado di valutare nel momento stessa della concreta fase di produzione del diritto in ambito comunitario, cioè la fase ascendente, le problematiche connesse alla successiva attuazione dei provvedimenti in progress in sede europea nella fase discendente. Le Camere e le commissioni parlamentari potevano così esercitare le funzioni di indirizzo e di controllo sul Governo, in conformità dei rispettivi regolamenti parlamentari. La novità, tuttavia, più significativa e rilevante della legge n. 11/2005 atteneva alla fase ascendente del processo normativo in sede comunitaria ed era l’istituto della riserva di esame parlamentare36. L’istituto introdotto dalla legge era essenzialmente fondato sull’esame degli atti comunitari da parte delle commissioni parlamentari competenti, senza che al termine di tale esame venisse conferito al Governo un mandato vincolante sulla posizione da tenere in ambito europeo. Le procedure previste dall’articolo 4 della legge prevedevano che il Governo potesse rinviare la propria decisione su una questione in discussione presso il Consiglio dei ministri dell’Unione europea in attesa che l’Assemblea parlamentare si pronunciasse in merito. La legge prevedeva due ipotesi di riserva parlamentare: l’una obbligatoria, l’altra facoltativa. Nel caso di riserva di esame parlamentare obbligatoria, ove le Camere avessero dato luogo all’esame di progetti e atti comunitari, il Governo aveva il preciso obbligo di apporre la riserva di esame parlamentare presso il Consiglio dei ministri dell’Unione europea e poteva procedere alle attività di sua competenza solo dopo la conclusione dell’esame parlamentare37. In questo caso il Governo era obbligato al rispetto dell’istituto previsto dalla legge e non poteva impegnare la posizione italiana sugli atti comunitari in itinere prima che il Parlamento si fosse espresso, a meno che non fossero decorsi venti giorni dalla comunicazione alle Camere dell’apposizione della riserva. L’obbligo, tuttavia, scattava nei confronti dell’esecutivo solo quando le Camere avessero già iniziato i lavori di esame degli atti comunitari. Ciò responsabilizzava non poco il Parlamento, il quale doveva effettuare una selezione dei progetti e degli atti comunitari più importanti e sottoporli alla propria cognizione.

comunitario, in «Quaderni costituzionali», 1991, n. 2, p. 35; D. Girotto, Parlamenti e diritto comunitario: gli atti parlamentari di indirizzo politico in Italia e in Francia, in «Quaderni costituzionali», 2002, n. 3, pp. 577–602; N. Lupo, L’esame parlamentare blocca l’esecutivo, in «Guida al diritto», 2005, n. 9, pp. 44–45. 35 V. art. 3, co. 7; art. 15, co. 1, lett. d), legge n. 11/2005. 36 V. art. 5, co. 5, legge n. 11/2005. 37 V. art. 4, co. 1, legge n. 11/2005.

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Al riguardo, la dottrina ha rilevato questa singolarità che emerge dal disposto della legge n. 11/2005, specialmente in relazione al fatto che essa non prevedeva “la possibilità che [fossero] le Camere a poter autonomamente attivare la riserva d’esame parlamentare per tutti quei provvedimenti sui quali esse non [avessero] ancora iniziato l’esameˮ38. Nel secondo caso, invece, per questioni di particolare rilevanza politica, economica e sociale dei progetti e degli atti comunitari in discussione a Bruxelles, “il Governo [poteva] apporre, in sede di Consiglio dei ministri dell’Unione europea, una riserva di esame parlamentare sul testo o su una o più parti di esso. In tale caso, il Governo [inviava] alle Camere il testo sottoposto alla decisione, affinché su di esso si [esprimessero] i competenti organi parlamentariˮ39. La norma attribuiva in questo caso al Governo un margine di manovra più ampio, poiché gli consentiva di decidere sia se fosse il caso di apporre l’istituto della riserva parlamentare, sia l’ampiezza con il quale tale istituto poteva essere esercitato. Laddove infatti il Governo avesse deciso di apporre la riserva, esso avrebbe potuto anche decidere su quali parti del testo ovvero su quali profili dell’atto comunitario apporre la medesima40. Su ambedue le ipotesi previste dall’articolo 4 della legge n. 11/2005, al fine di evitare che l’azione del Governo fosse arrestata dall’inerzia dei lavori parlamentari, il Governo era autorizzato a procedere anche in mancanza della pronuncia da parte del Parlamento, ove fossero trascorsi venti giorni dalla comunicazione fornita alle Camere dell’apposizione della riserva di esame parlamentare da parte del Presidente del Consiglio o il Ministro per le politiche comunitarie41. Nel merito, la dottrina ha evidenziato che il Parlamento avrebbe potuto riscontrare delle difficoltà nel completare il proprio iter dei lavori nel breve termine di venti giorni dalla comunicazione. Il termine, infatti, appariva “particolarmente esiguo, anche in considerazione della durata media dei lunghi e complessi procedimenti decisionali dell’Unioneˮ42. La riserva di esame parlamentare prevista dalla legge n. 11/2005 consentiva, dunque, al Parlamento di esercitare i suoi poteri di controllo e indirizzo politico del Governo in ambito comunitario e sembrava efficace anche sul piano delle decisioni assunte in sede europea. Infatti, ancorché l’istituto non dispiegasse efficacia giuridica vincolante nell’ordinamento dell’Unione europea, l’utilizzazione dello stesso sembrava in grado di agevolare gli accordi nei tavoli negoziali tra l’Esecutivo nazionale e gli

38 Cfr. G. Tiberi, La riforma della legge “La Pergolaˮ, cit., p. 671 ss. 39 V. art. 4, co. 2, legge n. 11/2005. 40 Sul punto, si veda G. Tiberi, La riforma della legge “La Pergolaˮ, cit., p. 672. 41 V. art. 4, co. 3, legge n. 11/2005. 42 Così E. Cannizzaro, La riforma della “legge La Pergolaˮ e le competenze di Stato e Regioni nei processi di formazione e di attuazione di norme dell’Unione europea, in «Rivista di diritto internazionale», 2005, p. 154.

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altri attori operanti nell’ambito del processo di formazione degli atti comunitari in seno al Consiglio dei ministri dell’Unione europea43. Si è dapprima rilevato che l’istituto della riserva parlamentare introdotto dalla legge Buttiglione non prevedeva l’emanazione da parte del Parlamento di direttive vincolanti per il Governo. Giova tuttavia segnalare, per completare la ricostruzione della cornice entro la quale si inquadra la norma, che l’ordinamento nazionale prevede anche una serie di disposizioni nelle quali le decisioni del Parlamento sono vincolanti per l’Esecutivo in ambito comunitario. Si tratta, in particolare, della c.d. riserva parlamentare di natura speciale, disciplinata dalla legge 22 aprile 2005, n. 69, recante “Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato di arresto europeo ed alle procedure di consegna tra Stati membriˮ, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 29 aprile 2005, n. 98. La legge intende semplificare le procedure di estradizione tra gli Stati membri dell’Unione europea per fattispecie di reato riconosciute tali tanto dallo Stato richiedente, quanto da quello cui la richiesta è indirizzata, purché nello Stato promotore della richiesta per la fattispecie di reato in questione sia previsto il massimo della pena di almeno tre anni44. In tale caso, la legge prevede che il Governo è tenuto ad uniformarsi alle determinazioni assunte in sede parlamentare. Il nodo irrisolto della legge, in questo caso, consiste nella mancata indicazione dei termini entro i quali l’Esecutivo ha facoltà di agire, senza attendere la decisione delle Camere. La dottrina ritiene in proposito che non sussiste una lacuna normativa cui rimediare tramite il rinvio alla disciplina dettata dall’articolo 4, terzo comma, della legge n. 11/2005, ma che si tratti invece di una consapevole scelta del legislatore interno, per impedire l’assunzione di determinazioni in capo ai diritti fondamentali dei cittadini senza il coinvolgimento dell’Assemblea parlamentare45.

6.- I progetti di modifica della legge n. 11/2005 e le ragioni della esigenza riorganizzativa

Dopo sette anni dall’entrata in vigore della legge n. 11/2005, si è avvertita l’esigenza di una riforma organica della legislazione nazionale concernente il

43 Cfr. L. Gianniti, N. Lupo, Corso di diritto parlamentare, Il Mulino, Bologna 2008, p. 239, nota n. 1. 44 Sulla riserva di esame parlamentare di natura speciale, si veda D. Girotto, Sulla “riserva parlamentareˮ nella legge di attuazione del mandato di arresto europeo, in «Quaderni costituzionali», 2006, n. 1, p. 119. 45 Sul profilo del coinvolgimento delle Camere circa le decisioni che incidono sulla sfera dei diritti del cittadino, si veda P. Gambale, Le “garanzie parlamentariˮ nella fase ascendente del diritto comunitario: cenni di diritto comparato e novità dell’ordinamento italiano, in «Rassegna parlamentare», 2006, p. 850.

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ruolo dei diversi soggetti istituzionali coinvolti nel processo di partecipazione alla formazione del diritto europeo. Le esigenze specifiche sottese alla riorganizzazione della disciplina in materia di adattamento al diritto comunitario hanno preso le mosse da due considerazioni di fondo basilari. In primo luogo, la necessità di un generale riadeguamento delle singole procedure nazionali riguardo all’adattamento dei rispettivi ordinamenti degli Stati membri circa la formazione del diritto in sede europea, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona nel 2009. In secondo luogo, l’obbligo di estendere i poteri conferiti ai Parlamenti nazionali, anch’esso nel quadro degli impegni assunti con il Trattato di Lisbona, inteso ad elevare il processo di partecipazione e democratizzazione in seno alle istituzioni dell’Unione europea. Deve poi aggiungersi la necessità, da parte degli Stati membri, di inaugurare una nuova fase nell’ambito delle dinamiche e delle relazioni politico-istituzionali del sistema europeo, alla luce della crisi economico-finanziaria determinatasi dal 2007 e la sempre più marcata esigenza di dare tempestiva attuazione agli adempimenti connessi agli obblighi derivanti dal partenariato europeo. Sulla scorta delle esigenze generali e specifiche richiamate, a partire dal 2009 sono stati numerosi i disegni di legge intesi a modificare la legislazione vigente46. Le finalità che questi interventi legislativi intendevano perseguire riguardano sostanzialmente tre aspetti. In primo luogo, le modifiche recepivano le novità introdotte dal Trattato di Lisbona, come l’attribuzione all’Unione europea della personalità giuridica, la migliore definizione degli atti giuridici,

46 Si segnalano, in particolare, i seguenti ddl: A.C. n. 2854, presentato il 23 ottobre 2009 dal deputato Rocco Buttiglione (UdC) e altri, con il titolo “Modifiche alla legge 4 febbraio 2005, n. 11, recante norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari, nonché modifica dell’articolo 32 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, in materia di destinazione temporanea di dipendenti delle amministrazioni pubbliche presso istituzioni europee e internazionali e amministrazioni di Stati esteri”; A.C. n. 2862, presentato il 27 ottobre 2009 dal deputato Giacomo Stucchi (LNP) e altri, con il titolo “Modifiche alla legge 4 febbraio 2005, n. 11, recante norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitariˮ; A.C. n. 2888, presentato il 5 novembre 2009 dal deputato Sandro Gozi (PD) e altri, con il titolo “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europeaˮ; A.C. n. 3055, presentato il 16 novembre 2009 dal deputato Mario Pescante (PdL) e altri, con il titolo “Modifiche alla legge 4 febbraio 2005, n. 11, recante norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitariˮ; A.C. n. 3866, presentato il 16 novembre 2010 dal Governo Berlusconi IV, con il titolo “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia al processo normativo dell’Unione europea e sulle procedure per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europeaˮ.

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l’inclusione del terzo pilastro – giustizia e affari interni – nelle materie propriamente comunitarie, nonché la sostituzione della dizione Comunità europea con quella di Unione europea. Quest’ultimo elemento nominalistico avrebbe poi comportato, sul piano del drafting formale, la sostituzione di termini come “Comunitàˮ o “Comunità europeaˮ, presenti nei trattati precedenti a quello di Lisbona, con i termini “Unioneˮ e “Unione europeaˮ, ad essi corrispondenti nei trattati stipulati dopo gli accordi di Lisbona. I termini poi “delle Comunità europeeˮ o “della CEEˮ sarebbero stati ambedue oggetto di sostituzione con il termine “dell’Unione europeaˮ. Sostituzioni analoghe si sono poi prodotte anche nella legislazione nazionale, sì che oggi non si può più parlare di “legge comunitariaˮ ma di “legge europeaˮ, in aderenza all’articolo 27, primo comma, e articolo 28 del testo unificato. In secondo luogo, le modifiche introdotte dai disegni di legge avevano lo scopo di rivedere la partecipazione delle Camere al procedimento legislativo in sede europea, alla luce delle novità che per esse ha comportato l’accordo di Lisbona. In essi, si segnala un rafforzamento dei flussi di informazione tra Esecutivo e Parlamento in tutte le fasi del processo di formazione del diritto in ambito europeo e il riconoscimento in capo all’Assemblea parlamentare di un vero e proprio potere di blocco, attraverso il meccanismo del cosiddetto freno d’emergenza47. Viene inoltre stabilito nelle proposte di modifiche che spetta alle Camere deliberare il ricorso per la violazione del principio di sussidiarietà da parte di un atto legislativo dell’Unione europea, con l’obbligo in capo al Governo di trasmetterlo tempestivamente alla Corte di giustizia48. In terzo luogo, infine, le modifiche proposte dai disegni di legge intendevano porre rimedio agli elementi di criticità evidenziatisi nella prassi applicativa della normativa previgente, specie in ordine alla lunghezza dell’esame parlamentare della legge comunitaria. Il testo unificato A.S. 2646 ha infatti previsto uno sdoppiamento della legge comunitaria annuale in una legge di delegazione annuale, per l’attuazione della normativa europea in via amministrativa o regolamentare, ovvero attraverso il conferimento di una delega legislativa, e in una legge europea annuale, per la modifica o l’abrogazione delle norme statali in contrasto con il diritto europeo49. Tenendo conto di questi profili, le modifiche intendevano dunque intervenire per una rivisitazione organica e complessiva della normativa

47 V. art. 9 A.S. n. 2646. L’atto in questione costituisce la sintesi dei quattro disegni di legge di iniziativa parlamentare e dell’unico disegno di legge di iniziativa governativa di cui alla nota 67. Nel corso della XVI legislatura, il testo unificato ha infatti dato luogo ai disegni di legge AA.SS. nn. 2646 e 2254 con il titolo “Partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europeaˮ. 48 V. art. 39 A.S. n. 2646 49 V. artt. 27, 28, 29 e 30 A.S. n. 2646.

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concernente la partecipazione dell’Italia all’Unione europea, tale da disporre l’abrogazione dell’intera legge n. 11/2005 e il varo della legge 24 dicembre 2012, n. 234, recante “Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europeaˮ, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 4 gennaio 2013, Serie generale – n. 3. Nella sezione successiva, si cercherà di dare conto delle principali innovazioni introdotte dall’atto legislativo in questione.

7.- La partecipazione del Parlamento italiano alla definizione della politica europea e al processo di formazione degli atti: le novità della legge 234/2012

Nonostante i propositi alla base degli interventi normativi richiamati nella sezione precedente, l’impianto antecedente il varo della legge n. 234/2012, risultato di progressivi aggiustamenti e adeguamenti più che di una riforma organica ad ampio respiro, risultava affetto da diverse contraddizioni interne e da alcune inadeguatezze rispetto al quadro delle prerogative potenzialmente assegnate alle Assemblee nazionali dal Trattato di Lisbona. Nell’ottica di un progressivo superamento del cosiddetto deficit democratico nelle istituzioni dell’Unione europea, la valorizzazione del ruolo e la partecipazione dei parlamenti nazionali nel processo decisionale europeo ha dunque assunto una importanza centrale. La legge n. 234/2012 disciplina infatti nel dettaglio la partecipazione delle Camere sia nella fase di elaborazione delle norme dell’Unione europea, sia nella fase della loro attuazione nell’ordinamento nazionale. Interamente sostitutivo della legge n. 11/2005, il nuovo impianto legislativo ha ulteriormente proseguito il percorso verso il deciso rafforzamento del ruolo del Parlamento nel processo di partecipazione dell’Italia alla formazione della normativa e, più in generale, delle politiche dell’Unione europea, ed ha operato pertanto una profonda riforma delle modalità mediante le quali le istituzioni nazionali partecipano alla fase ascendente e discendente della formazione e applicazione del diritto europeo50. Nel quadro del Capo II della legge, dedicato appunto alla “Partecipazione del Parlamento alla definizione della politica europea dell’Italia e al processo di formazione degli atti dell’Unione europeaˮ, si possono individuare, in sintesi, alcune fondamentali linee di intervento. In primo luogo,

50 La dottrina ha sottolineato con favore l’origine parlamentare della legge. Si veda, al riguardo, A. Esposito, La legge 24 dicembre 2012, n. 234, sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea. Parte I – Prime riflessioni sul ruolo delle Camere, in www.federalismi.it, 23 gennaio 2013, p. 2 ss., secondo il quale la legge “costituisce una delle più rilevanti riforme di sistema approvata nella XVI legislatura ed è in grandissima parte il frutto dell’iniziativa legislativa parlamentare e di una riflessione approfondita svolta dalle Commissioni per le politiche dell’Unione europea di Camera e Senatoˮ.

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per quanto attiene alla fase ascendente, vengono irrigiditi gli obblighi del Governo di trasmettere tempestivamente alle Camere le informazioni relative ai progetti normativi in discussione51, riferendo preventivamente le posizioni che i rappresentanti dell’Esecutivo intendono assumere nelle riunioni del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione e relazionando successivamente sugli esiti delle riunioni stesse52. In particolare, l’obbligo di trasmissione viene esteso alle relazioni e alle note informative predisposte dalla Rappresentanza permanente d’Italia presso l’Unione, con riferimento agli incontri inter-istituzionali, le quali rappresentano “lo strumento più efficace ai fini della precoce valutazione delle iniziative politiche e legislative dell’Unione, della formazione della posizione italiana al riguardo e della verifica della coerenza dell’azione europea del Governo con gli indirizzi parlamentariˮ53. Altra novità consiste nell’obbligo per il Governo, nei casi di particolare rilevanza o di richiesta espressa da parte delle Camere, di corredare la documentazione con una relazione illustrativa della valutazione dell’Esecutivo sulla proposta, con l’individuazione della data presumibile di discussione o approvazione54. In secondo luogo, vengono rafforzati i poteri di indirizzo del Parlamento nei confronti della posizione assunta dal Governo nell’ambito dei negoziati, poteri rispetto ai quali i citati obblighi informativi risultano funzionali. Il Governo “assicura che la posizione rappresentata dall’Italia in sede di Consiglio dell’Unione europea ovvero di altre istituzioni od organi dell’Unione sia coerente con gli indirizzi definiti dalle Camere in relazione all’oggetto di tale posizioneˮ55. Anche se non si tratta di un mandato con effetto vincolante, al punto che si stabilisce in capo al Governo l’obbligo di fornire “le adeguate motivazioni della posizione assuntaˮ nel caso in cui “non abbia potuto attenersi agli indirizzi delle Camereˮ56, non va dimenticato che il rapporto fiduciario proprio del sistema costituzionale italiano rende l’Esecutivo politicamente responsabile del rispetto delle direttive impartite dal Parlamento anche negli affari e nelle politiche europee, con la teorica possibilità di una crisi motivata da eventuali gravi inottemperanze dell’Esecutivo nelle materie in questione. Anche l’istituto della riserva di esame parlamentare è stato assoggettato al regime di alcune innovazioni, la più incisiva delle quali riguarda l’estensione a trenta giorni dal termine durante il quale, a seguito dell’apposizione della riserva stessa, il voto

51 V. art. 6, legge n. 234/2012 52 V. art. 4, legge n. 234/2012 53 Cfr. A. Esposito, La legge 24 dicembre 2012, n. 234, cit., p. 23 ss. 54 V. art. 6, co. 1-3, legge n. 234/2012. 55 V. art. 7, co. 1, legge n. 234/2012. 56 V. art. 7, co. 2, legge n. 234/2012.

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del Governo in sede istituzionale resta sospeso57, sì da consentire agli organi parlamentari di esaminare i progetti dell’Unione anche sulla base della relazione illustrativa58 che l’Esecutivo deve inviare entro venti giorni dalla trasmissione dei progetti stessi59. In terzo luogo, la legge n. 234/2012 disciplina le modalità di intervento del Parlamento in relazione all’ipotesi di procedura semplificata dei Trattati60, cioè attuata senza la convocazione di una convenzione composta da rappresentanti dei Paesi membri e delle istituzioni dell’Unione europea, e all’ipotesi in cui una decisione del Consiglio europeo consenta di approvare un atto mediante una procedura diversa da quella prevista dai trattati stessi61. Con riferimento ad ambedue le ipotesi, in aderenza alle disposizioni dell’articolo 48 TUE, volte ad assicurare un adeguato coinvolgimento delle istituzioni nazionali62, la legge in esame stabilisce che il Governo debba informare immediatamente il Parlamento, l’assenso del quale si considera prestato solo in caso di deliberazione positiva di entrambe le Camere63. Infine, si segnalano i poteri conferiti al Parlamento in relazione al citato freno d’emergenza64, meccanismo di particolare rilievo penalistico poiché attribuisce a ogni Stato membro la facoltà di sospendere la procedura legislativa ogni volta che ritenga che un progetto di direttiva di armonizzazione penale incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento giuridico penale65. L’articolo 12 della legge n. 234/2012, quantunque in assenza di una disposizione dei trattati che imponga di consultare i parlamenti nazionali, stabilisce che il rappresentante italiano in seno al Consiglio dell’Unione sia tenuto ad attivare il freno

57 V. art. 10, co. 3, legge n. 234/2012. 58 V. art. 6, co. 4, legge n. 234/2012. 59 Si pone in tal modo rimedio all’incongruenza per la quale il termine previsto per l’invio delle informazioni di cui all’art. 4 quater legge n. 11/2005 (tre settimane dall’inizio dell’esame della proposta), si conciliava male con l’immutato termine per la riserva di esame parlamentare (venti giorni ai sensi dell’art. 4), decorso il quale il Governo avrebbe potuto comunque esprimersi in sede europea. L’utilità delle informazioni fornite, infatti, risulta scarsa e poco incisiva se il Parlamento non è posto in grado di utilizzarle per formulare atti di indirizzo, conoscendo l’orientamento del Governo prima che esso assuma una posizione definitiva in ambito europeo. Sul punto, si veda, amplius, C. Fasone, Gli effetti del Trattato di Lisbona sulla funzione di controllo parlamentare, cit., p. 384 ss. 60 V. art. 48, par. 6, TUE. 61 V. art. 48, par. 7, TUE. 62 L’art. 48 TUE stabilisce che il dissenso manifestato anche da un solo Stato membro impedisce il perfezionamento delle procedure. 63 V. art. 11, legge n. 234/2012. 64 V. art. 12, co. 1-3, legge n. 234/2012. 65 In questa ipotesi, la questione viene rimessa al Consiglio europeo e solo in caso di raggiungimento di un accordo entro quattro mesi il progetto è di nuovo trasmesso al Consiglio dell’Unione. In caso di disaccordo persistente, un gruppo di almeno nove Stati membri può avviare la procedura di cooperazione rafforzata. Cfr. art. 83, par. 3, TFUE.

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d’emergenza “ove entrambe le Camere adottino un atto di indirizzo in tal sensoˮ, entro trenta giorni dalla ricezione del progetto di direttiva in questione. Per quanto attiene invece alla fase discendente, la novità più significativa apportata dalla legge in analisi al meccanismo di adeguamento dell’ordinamento interno al diritto dell’Unione europea è rappresentata dalla legge di delegazione europea, il cui oggetto è limitato al recepimento dei regolamenti, delle direttive e delle decisioni quadro, nonché all’adeguamento del diritto nazionale ai pareri adottati dalla Commissione dell’Unione e alle sentenze di condanna pronunciate dalla Corte di giustizia nell’ambito delle procedure d’infrazione66. Il secondo provvedimento di rilievo consiste nella legge europea, intesa a prevedere tutte le altre disposizioni necessarie a garantire, più in generale, l’adeguamento dell’ordinamento nazionale a quello dell’Unione67. La ragione di tale sdoppiamento risiede nella necessità di prevedere una corsia preferenziale ed esclusiva per l’adozione delle misure più urgenti in vista della scadenza degli obblighi derivanti dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, riservando a questo fine un provvedimento apposito, cioè la menzionata legge di delegazione europea. Se il fine più evidente della legge n. 234/2012 è quello di garantire un tempestivo adeguamento dell’ordinamento interno agli obblighi sopra richiamati in vista del contenimento del numero di procedure d’infrazione a carico dell’Italia, giova tuttavia segnalare che la legge in questione ha confermato l’istituto della delega legislativa al centro del meccanismo di recepimento degli atti comunitari. Nell’elencare infatti i contenuti della legge di delegazione europea, il legislatore opera un continuo riferimento a tale istituto68, il cui protagonismo è reso manifesto già all’interno del comma citato in nota, dalla lett. d), che contempla “la delega legislativa al Governo per la disciplina sanzionatoria di violazioni di atti normativi dell’Unione europeaˮ diversi dalle direttive. Merita particolare attenzione infine anche l’articolo 32 della legge, il quale fatti salvi “gli specifici principi e criteri direttivi stabiliti dalla legge di delegazione europeaˮ e “in aggiunta a quelli contenuti nelle direttive da attuareˮ, detta tutta una serie di principi e criteri direttivi generali, validi per tutti i decreti legislativi adottati di volta in volta in esercizio delle deleghe conferite dalle singole leggi annuali di delegazione69.

66 V. art. 29, legge n. 234/2012. 67 V. art. 30, legge n. 234/2012. 68 V. art. 30, co. 2, legge n. 234/2012. 69 V. art. 32, legge n. 234/2012.

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8.- Conclusioni

Le innovazioni attuate dalla legge n. 234/2012 nella prospettiva del rafforzamento del ruolo del Parlamento nazionale nel processo decisionale europeo e, dunque, nel quadro della legittimazione democratica di quest’ultimo, si ritiene che offrano un bilancio in chiaroscuro. Per quanto attiene alla fase ascendente infatti, la legge esaminata ha inciso in maniera positiva su diversi elementi critici che emergevano dalla disciplina previgente. Gli obblighi di informare le Camere, sia in relazione ai contenuti delle fonti dell’Unione europea in fase di trattazione e di elaborazione, sia alla posizione che il Governo intende assumere nel corso dei negoziati, ne escono sicuramente rafforzati. Di conseguenza, ne beneficiano anche i poteri di controllo e di indirizzo assegnati al Parlamento, i cui meccanismi di funzionamento sono stati ancor più messi a punto. Il ruolo assegnato al Parlamento dai trattati e dai relativi protocolli risulta valorizzato anche al di là di quanto le norme europee di diritto primario non richiedano espressamente. Tra i nodi irrisolti tuttavia, si segnala la duplicazione delle attività di controllo svolte dai due rami del Parlamento sulle stesse questioni, quale conseguenza dell’attuale regime di bicameralismo paritario. Si tratta, a nostro avviso, di una scelta poco funzionale riguardo a due obiettivi fondamentali: in primo luogo, velocizzare l’esercizio dei poteri attribuiti all’Assemblea parlamentare, per evitare impasse e ingorghi istituzionali, ovvero la scadenza dei termini perentori assegnati al Parlamento per deliberare atti di indirizzo nei confronti dell’Esecutivo; in secondo luogo, scongiurare i rischi della mancanza di un allineamento tra le valutazioni delle due Camere. Al riguardo, si ritiene che una possibile soluzione poteva essere individuata nell’istituzione di un’unica Commissione bicamerale per gli affari europei chiamata ad esercitare le funzioni di controllo. Meno favorevole sembra essere invece il giudizio sulla nuova disciplina circa la fase discendente. Essa si risolve in sostanza in uno schema piuttosto semplice: all’attuazione delle direttive europee si provvede infatti conferendo una delega legislativa al Governo per mezzo della legge di delegazione europea, laddove la legge europea ha il compito di sanare le procedure di infrazione già avviate o prossime all’avvio nei confronti dell’Italia. In tal senso, la legge n. 234/2012 sembra non aver affatto influito sullo squilibrio marcato tra Parlamento e Governo, a favore di quest’ultimo, nell’attuazione del diritto europeo. Nelle due leggi, quella di delega legislativa e quella europea, è possibile rinvenire tutti i tradizionali elementi della normativa previgente: ampie deleghe al Governo ricche di principi e criteri direttivi di ordine molto generale e una forte marginalità del recepimento del diritto formatosi in ambito comunitario mediante l’attuazione diretta. Con riferimento ancora alla fase discendente, va

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peraltro osservato che il riequilibrio tra Parlamento e Governo non rientrava tra le principali finalità della legge n. 234/201270. La legge ha dunque certamente rafforzato il ruolo del Parlamento nella fase ascendente, soprattutto per conformarsi alle novità introdotte dal Trattato di Lisbona, ma nella fase discendente l’obiettivo perseguito non è stato quello di conferire centralità all’Assemblea rappresentativa, quanto piuttosto quello di superare il cronico ritardo del Paese nell’attuazione del diritto dell’Unione europea. È, infatti, la stessa idea che sottende allo sdoppiamento della legge comunitaria che tradisce una visione amministrativistica e riduttiva dei principi e dei criteri direttivi contenuti nella legge di delegazione europea. Il legislatore ritiene infatti che la legge possa approdare con rapidità all’approvazione proprio sul presupposto che i principi e i criteri direttivi siano così generali, da non porre questioni di particolare natura e rilevanza politica tali da rallentarne l’iter parlamentare71. La legge n. 234/2012 incide, inoltre, su equilibri di natura costituzionale. Parte della dottrina, infatti, ritiene che il carattere non costituzionale della legge costituisca un elemento intrinseco della sua debolezza72. Si tratta, invero, di una legge ordinaria che tradisce ancora una volta un sentimento di inveterata diffidenza nei confronti del diritto di matrice europea, la quale potrebbe essere di fatto oggetto di deroghe da parte di leggi successive, sebbene l’impianto legislativo contempli una disposizione per la quale “le disposizioni della presente legge possono essere modificate, derogate, sospese o abrogate da successive leggi solo attraverso l’esplicita indicazione delle disposizioni da modificare, derogare, sospendere o abrogareˮ73. L’ingegneria legislativa del provvedimento si muove dunque nel solco del progressivo adattamento dell’esperienza italiana al processo di formazione del diritto europeo, peraltro in atto nei singoli ordinamenti di tutti gli Stati membri, in seguito alle novità apportate dal Trattato di Lisbona del 2007 e in vigore dal 1° dicembre del 2009. È proprio in quella sede, tuttavia, che permane un forte elemento di complessità del procedimento legislativo. È noto,

70 Sul punto, connesso con le ragioni dello sdoppiamento, si veda amplius P. Caretti, La legge n. 234/2012 che disciplina la partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea: un traguardo o ancora una tappa intermedia ?, in «Le Regioni», 2012, p. 839, per il quale la scelta del legislatore nazionale circa lo sdoppiamento “certamente dettata dall’esigenza di risolvere il cronico ritardo dell’Italia in ordine alla tempestiva attuazione della normativa dell’Unione, rappresenta in qualche misura un ritorno al passato e attenua di molto il ruolo del Parlamento su questo versante”. 71 Sull’approvazione delle due nuove leggi e le persistenti criticità nei rapporti tra Parlamento e Governo, si veda D. Paris, Le leggi europea e di delegazione europea 2013. Osservazioni sulla prima attuazione dello “sdoppiamentoˮ della legge comunitaria, in http://www.osservatoriosullefonti.it, fasc. 1/2004, pp. 15–17. 72 Sul punto, si veda L.S. Rossi, Equilibri costituzionali e strumenti. Una nuova legge per l’Italia nell’UE, in www.affariinternazionali.it, 18/02/2013. 73 V. art. 58, legge n. 234/2012.

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infatti, che proprio sulla base del Trattato la procedura più frequentemente utilizzata è stata quella di codecisione, ai sensi dell’articolo 251CE, la quale comporta un più elevato tasso di democraticità, poiché attribuisce un ruolo di rilievo al Parlamento europeo, quantunque imponga tempi di discussione più lunghi, a causa del coinvolgimento anche di altre istituzioni in seno all’Unione europea, e la rituale doppia lettura del testo da parte del Parlamento europeo. Nella prospettiva di un processo di semplificazione e di snellimento delle procedure dell’Unione, il Trattato di Lisbona avrebbe dovuto ridurre l’intervento del Parlamento europeo a una sola lettura, con l’immediata convocazione del comitato di conciliazione ove si fossero riscontrate divergenze tra le posizioni del Parlamento e del Consiglio rispetto alla proposta legislativa della Commissione. Sia il Trattato costituzionale, sia il Trattato di Lisbona invece, hanno riproposto l’attuale architettura della procedura di codecisione elevandola a “procedura legislativa ordinariaˮ74 per l’adozione di atti legislativi. Sussiste ancora, altresì, la prerogativa della Commissione circa la modifica di ogni sua proposta in ogni fase della procedura, fino a quando non vi sia stata la deliberazione del Consiglio e permane, inoltre, il vincolo per il Consiglio stesso di pronunciarsi in modo unanime ove la Commissione abbia espresso un parere negativo sugli emendamenti adottati dal Parlamento europeo in seconda lettura. Si tratta, dunque, di un farraginoso procedimento di adozione degli atti legislativi il cui impianto è stato sostanzialmente confermato dal testo di Lisbona75, volto a una valorizzazione del ruolo delle Assemblee parlamentari nazionali come forma di legittimazione democratica esterna del sistema europeo. In tale ottica, la soluzione di Lisbona alla quale la legge nazionale n. 234/2012 si adatta, risulta piuttosto deludente. Il Parlamento europeo ancora privo del potere di iniziativa legislativa è molto lontano dalle attribuzioni delle prerogative tipiche delle Assemblee rappresentative nazionali. Il potere di iniziativa legislativa è ancora di fatto riservato a una sola istituzione, la Commissione europea, che diversamente da quanto accade negli ordinamenti dei rispettivi Stati membri, non condivide necessariamente lo stesso indirizzo politico dell’Assemblea legislativa. Non aver

74 V. art. 294 TFUE. 75 Sul tema della perdurante complessità del procedimento legislativo europeo, si veda R. Mastroianni, La procedura legislativa e i parlamenti nazionali: osservazioni critiche, cit.; Id., La procedura legislativa, il parlamento europeo e i parlamenti nazionali: osservazioni critiche, in www.astrid-online.it/Riforma...Astrid NuoveistUE Mastroianni 2ed.pdf, p. 2 ss., secondo il quale “la soluzione adottata è stata infatti quella di incidere sul tasso di democraticità del sistema istituzionale europeo non già intervenendo positivamente sui ridotti poteri del Parlamento, istituzione che nell’architettura comunitaria riflette, o dovrebbe riflettere, gli interessi dei poli europei, bensì inserendo un originale sistema di controllo ex ante ed ex post del rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità […] affidato sostanzialmente all’intervento dei parlamenti nazionaliˮ.

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voluto attribuire il potere di iniziativa legislativa al Parlamento europeo dimostra a nostro avviso che la scarsa credibilità di cui gode l’assetto istituzionale del Vecchio Continente dipende in larga parte dalla convenienza reciproca degli Stati membri a mantenerlo in uno stato politicamente destrutturato. Solo se l’Europa decide davvero di diventare uno spazio giuridico comune dove si organizza la politica e la discussione democratica, essa si realizzerà come soggetto geopolitico integrato e recupererà quei concetti e quei valori che erano alla radice del più solidale e amichevole nome di Comunità europea, che con il Trattato di Lisbona ha deliberatamente scelto di abbandonare a favore della più fredda, impersonale e utilitaristica denominazione di Unione europea, un’istituzione ancora molto lontana da una sovranità e da una soggettività sovranazionale da costruire e democratizzare compiutamente, per affrontare con successo in Europa i processi di internazionalizzazione e globalizzazione del terzo millennio.

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AA. VV., Leone X. Finanza, mecenatismo, cultura. Atti del Convegno Internazionale Roma, 1-4 novembre 2015, I-II, Roma nel Rinascimento, Roma 2016 di Giovanni Contel

Il convegno internazionale dedicato a papa Leone X tenutosi ai primi del novembre 2015 a Roma, organizzato da Roma nel Rinascimento che ne ha pubblicato gli atti in due volumi, è sicuramente uno dei migliori frutti dell’impostazione interdisciplinare che da sempre caratterizza il prezioso lavoro di questa istituzione culturale romana. Un progetto nato in tandem con il precedente convegno del 2013 che aveva avuto al centro il tema della congiura. Vale a dire: Congiure e conflitti: l'affermazione della signoria pontificia su Roma nel Rinascimento: politica, economia e cultura: atti del convegno internazionale, Roma, 3-5 dicembre 2013 (Roma nel Rinascimento, Roma 2014). Da molto tempo dunque l’attenzione di Roma nel Rinascimento si è soffermata sull’andamento complessivo della storia urbana, sociale, economica, artistica e culturale della Città Eterna, spesso rimasta nell’ombra della grande storia istituzionale del papato, che per vari motivi l’ha offuscata al di sotto di essa. Pur riconoscendo l’importanza dell’integrazione profonda di un sovrano particolare come il papa con la città, che rimaneva il centro nevralgico di un dominio molto più articolato, l’intento è stato quello di arricchire la situazione da lungo affermatasi nella storia degli studi. Infatti, accanto all’organizzazione di molti incontri internazionali, che sin dal principio furano concepiti e concentrati su uno specifico pontificato, considerato, intervallo spazio-temporale ideale entro cui intraprendere una ricerca interdisciplinare sulla città – in proposito si veda il primo della serie dedicato a Sisto IV della Rovere (1984), dal titolo esemplare: Un pontificato ed una città – nel corso degli anni si sono aggiunti altrettanti nuovi profili di ricerca, non meno adatti a tutte le discipline umanistiche. Ne è pertanto risultato, come nel caso del convegno su Leone X, un felice incontro interdisciplinare della ricerca italiana con quella internazionale. Il primo pontificato mediceo fu un momento davvero eccezionale in tutti i sensi nella storia di Roma e dell’Italia del Rinascimento, tra l’altro molto studiato in epoche diverse e in differenti stagioni storiografiche, anche in considerazione delle grandi personalità di umanisti e artisti che hanno incarnato il mito del Rinascimento maturo, gravitante sull’asse Roma-Firenze. Sicuramente i due

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pontificati medicei (insieme a quello di Giulio II) hanno contribuito non poco un’intima identificazione tra committenza politica di un pontefice e genio dell’artista. Pertanto, benché una notevole messe di lavori già esistesse e rendesse assai complicato ritagliarsi uno spazio di indagine originale, questi atti testimoniano come la tradizione di studi cara a Roma nel Rinascimento abbia provato a cimentarsi con originalità e successo in argomento. Lungi dal tentare il compito mastodontico di riassumere in toto la complessità politica che contraddistinse gli anni difficili di Leone X, sono stati scelti tre ambiti verso cui indirizzare l’attenzione degli studiosi partecipanti e dei lettori dei loro risultati. Recita chiaramente il sottotitolo del convegno e del volume stampato: Finanza, mecenatismo, cultura. Solo apparentemente questa selezione potrebbe far pensare quanto l’assenza di concetti chiave quali la politica, la guerra e la diplomazia possa costituire un limite di questo lavoro collettivo, intento a indagare un pontificato non breve e dai risvolti importantissimi in materia di politica e religione: basti pensare al 1517 e ai prodromi della Riforma di cui proprio quest’anno si celebra il cinquecentenario. Tuttavia, procedendo nella lettura dei numerosi saggi dei due volumi, questa impressione si rivelerà del tutto erronea. Essa viene infatti corretta dal costante riferimento agli eventi e ai personaggi maggiori e minori che si trovarono a vivere le delicate sorti delle guerre d’Italia nella penisola e in Europa. In quella lunga e complicata temperie erano comunque ricomprese le loro “piccole” esistenze, le carriere nella Curia dei funzionari e degli artisti, dei diplomatici, dei soldati, dei religiosi, ecc. che trovarono il loro posto nella Roma medicea. Tanto più che – con buona pace di “mecenatismo” e “cultura”, che rimandano al campo della storia delle varie arti figurative e della letteratura in senso lato – è proprio la “finanza” a risaltare all’occhio del lettore come cifra peculiare del convegno. Infatti i vari contributi relativi a questo grande tema apportano decisamente molte novità, sia nella prima parte, dal taglio introduttivo e generale, che nella sezione appositamente dedicata ad esso nel secondo tomo. Si va dalla vexata quaestio della vendita degli uffici e delle indulgenze, con relative modalità ed effettiva incidenza sul bilancio finanziario complessivo del pontificato di Leone X – con noti risvolti ideologici politici e religiosi gravanti sin da allora sul medesimo – agli oneri e impegni per i grandi cantieri architettonici e pittorici aperti a Roma da Raffaello, dai suoi allievi e da molti altri, ma non solo. La distribuzione di cariche, prebende, favori, onori ai molti fiorentini e toscani pervenuti a Roma al seguito dei Medici è sicuramente una buona chiave di lettura per comprendere dall’interno i sommovimenti di una variegata società presente allora nella città. I rapidi mutamenti rispetto al decennio di Giulio II

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sono ben presenti nei contributi, così come il rapporto fra i due personaggi costituisce un sottotema presente in molti saggi che analizzano da più punti di vista e su diverse testimonianze l’ascesa al soglio del cardinale Giovanni de Medici. Inoltre, nei casi in cui le fonti lo hanno consentito, si è andati a guardare in profondità non solo il mecenatismo papale, che sovrapponeva la dinastia fiorentina alla Chiesa universale, ma anche quello operato dai molti personaggi che fecero fortuna all’ombra dei Medici fra Firenze, Roma e i luoghi del loro lungo esilio negli anni delle prime guerre d’Italia. Molti nessi emergono pertanto fra finanza e mecenatismo, mecenatismo e cultura, infine fra cultura e politica. Le necessità finanziarie furono molto pesanti in campo artistico, considerando soprattutto l’ambizione di una cultura cortigiana esercitata da Leone X alla massima potenza e in tutte le direzioni. Tuttavia riequilibrare interpretazioni ormai datate, affermatesi durante i secoli, con giudizi ponderati in base alla documentazione superstite non sempre si rivela una facile impresa. Alcuni spunti di questa relazione ambigua fra politica, mecenatismo, memoria e storiografia sono trattati anche per le epoche successive, come ad esempio nel caso della difficile sorte riservata alle statue dei papi del complesso del Campidoglio, fra cui quella di Leone X, all’indomani della Breccia di Porta Pia. Rimane in ogni caso di primario interesse il nodo della strategia e la possibilità stessa di un ponderato giudizio politico della storiografia politica e sociale su papa Leone X in quanto sovrano e “politico” tout court. In questo senso l’analisi della questione finanziaria comporta di valutare fonti complesse che non sono certo alla portata di tutti gli storici. Al riguardo alcuni dibattiti di metodo e di contenuto durante le sedute del convegno hanno lasciato qualche traccia polemica fra le note degli atti. Si è trattato in ogni caso di momenti alquanto fertili di un dibattito generale che riunisce vari interessi e approcci alla ricerca storica. Una caratteristica dell’atteggiamento di ampliamento del campo di interesse sulla finanza, l’oro e il denaro nella Roma leonina è rappresentata tanto dai casi di studio degli orefici a Roma, quanto dall’analisi del regime bancario e fiscale delle tesorerie provinciali degli stati ecclesiastici, a partire dal gruppo dei prestatori ebrei a famiglie e personaggi dal ruolo già più noto come i Sauli o Agostino Chigi. Molte altre considerazioni meriterebbero di essere almeno accennate per effetto della lettura dei due volumi, ma non è questa la sede più opportuna per farlo. L’interdisciplinarietà è infatti un metodo per studiare in modo efficace questioni complesse che richiedono alti tassi di specializzazione, decisamente troppi per una sola persona al giorno d’oggi. L’incontro che così si determina tra le discipline non può non essere foriero di utilità per tutti e di un buon confronto umano e civile in ambito culturale.

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In conclusione si sottolinea che di questo lavoro sono un frutto prezioso gli stimoli a portare avanti la ricerca su Roma e sugli anni del Rinascimento, pari alla qualità dei risultati – alcuni già più maturi, altri in via di definizione ulteriore nel prossimo futuro – che questa ricerca collettiva sulla Roma di Leone X ha avuto il merito di elaborare.

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