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Mythos Rivista di Storia delle Religioni

12 | 2018 Varia

Edizione digitale URL: http://journals.openedition.org/mythos/277 DOI: 10.4000/mythos.277 ISSN: 2037-7746

Editore Salvatore Sciascia Editore

Edizione cartacea Data di pubblicazione: 1 dicembre 2018 ISBN: 978-88-8241-501-3 ISSN: 1972-2516

Notizia bibliografica digitale Mythos, 12 | 2018 [Online], online dal 24 septembre 2019, consultato il 23 septembre 2020. URL : http://journals.openedition.org/mythos/277 ; DOI : https://doi.org/10.4000/mythos.277

Questo documento è stato generato automaticamente il 23 settembre 2020.

Mythos 1

INDICE

Ricerche

Ladri di vestiti in Sicilia: Adrano, Efesto, i Palici e la giustizia divina Gian Franco Chiai

The Significance of Money for the Cults and Sanctuaries of and Kore: The Shaping of the Cults by Commercial Transactions Aynur-Michèle-Sara Karatas

Una nota sul testo del Testimonium Flavianum (Antiquitates, XVIII, 63-64) a confronto con le versioni siriaca e araba: resurrezione o visione? Giuseppe Petrantoni

Il pharmakos nelle fonti antiche e nella Storia delle religioni. Alcune valutazioni critiche Leonardo Sacco

Urban Religion in Mediterranean Antiquity: Relocating Religious Change Emiliano Rubens Urciuoli e Jörg Rüpke

Recensioni e schede di lettura

Imagine No Religion. How Modern Abstractions Hide Ancient Realities New York, 2016, Fordham University Press, pp. 309, ISBN 978-0-8232-7120-7, $ 125.00 (hardcover), $ 35.00 (paperback), $ 14.39 (e-book) Corinne Bonnet

Gerechte Götter? Vorstellungen von göttlicher Vergeltung im Mythos und Kult des archaischen und klassischen Griechenlands (“Universitätsbibliothek”) Heidelberg, Propylaeum, pp. 358, ISBN 972-3-946654-52-0, € 24,90 Gian Franco Chiai

Exercices d’histoire des religions : comparaison, rites, mythes et émotions Textes réunis et édités par Daniel Barbu et Philippe Matthey, (“Jerusalem Studies in Religion and Culture”, 20), Leiden-Boston, Brill, 2016, pp. XVII+362, ISBN 978-90-04-31632-4, € 155.00 Carmine Pisano

Dagli sciamani allo sciamanesimo. Discorsi, credenze, pratiche (“Quality Paperbacks”, 517), Roma, Carocci, 2018, pp. 172, ISBN 9788843090839, € 15,00 Giovanni Ingarao

Dioniso in Sicilia. Mythos, Symposion, , Theatron, Mysteria (“Mesogheia. Studi di storia e archeologia della Sicilia Antica”), Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2018, pp. 269, ISBN 978-88-8243-452-6, € 22,00 Nicola Cusumano

Dea in limine. Culto, immagine e sincretismi di Ecate nel mondo greco e microasiatico (“Tübinger Archäologische Forschungen”, 17), Rahden/Westf., VML, 2015, pp. 266, ISBN 978-3-89646-997-7, € 59,80 Paolo Daniele Scirpo

Il rito inquieto. Storia dello yajña nell’India antica Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2018, pp. 370, ISBN 978-88-6032-459-7, € 24,00 Duccio Lelli

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Dioniso in Sicilia. Mythos, Symposion, Hades, Theatron, Mysteria (“Mesogheia. Studi di storia e archeologia della Sicilia Antica”), Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2018, pp. 269, ISBN 978-88-8243-452-6, € 22,00 Nicola Cusumano

Entangled Worlds: Religious Confluences between East and West in the Roman Empire. The Cult of , Mithras, and Jupiter Dolichenus (“Orientalische Religionen in der Antike”, 22), Tübingen, Mohr Siebeck, 2017, pp. X-564, pl. LXXXV, ISBN 978-3-16-154730-0, € 159,00 Ennio Sanzi

Les dieux d’Homère. Polythéisme et poésie en Grèce ancienne (Kernos Supplément 31), Liège, Presses Universitaires de Liège, 2017, pp. 262, ISBN 978-2-87562-130-6, € 25,00 Pierre Ellinger

Fuori da Atene. Miti e tradizioni su Oreste in Grecia antica. Prefazione di Manuela Giordano Canterano: Aracne editrice, 2017. Pp. 389; ISBN 978-88-255-0071-4. €20 Stefano Acerbo

Les larmes de Rome. Le pouvoir de pleurer dans l’Antiquité , Anamosa, 2017, pp. 256, ISBN 979-10-95772-30-9, € 21,00 Alfredo Casamento

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Ricerche Studies

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Ladri di vestiti in Sicilia: Adrano, Efesto, i Palici e la giustizia divina Thieves of Clothes in Sicily: Adrano, , the Palici and Divine Justice

Gian Franco Chiai

Ringrazio Nicola Cusumano e Daniela Bonanno per i preziosi suggerimenti datimi nel corso dell’elaborazione di questo lavoro, che dedico a quella nostra amicizia che ci lega da anni. Ringrazio anche il mio amico Marco Palone (Edimburgo) per avermi aiutato a liberare il mio testo da diverse interferenze teutoniche.

1 La recente monografia di Nicola Cusumano “Adrano, Efesto e i Palici” ha tra i suoi meriti quello di aver posto in evidenza il ruolo importante che l’idea di giustizia divina aveva nell’ambito di questi culti indigeni nella Sicilia antica1. Le tradizioni raccolte ed esaminate nel volume mostrano, infatti, come persone che osavano commettere un crimine, compiere un atto di spergiuro o anche avvicinarsi al luogo di culto di queste divinità venissero punite dal potere divino, subendo una pena forse non commisurata alla gravità del loro reato. Si tratta di una situazione che, a mio avviso, ricorda i racconti delle iscrizioni confessionali della Frigia e della Lidia di epoca imperiale, così come alcuni dei crimini evocati nelle cosiddette “preghiere per la giustizia” (prayers for justice). Cusumano offre inoltre un’analisi del culto ordalico dei Palici attraverso l’uso del modello teorico cosiddetto del “middle ground”2: un’analisi che gli permette di condurre interessanti riflessioni sul modo in cui l’introduzione e l’uso della scrittura avessero contribuito a ridefinire un antico rituale locale.

2 Lo scopo di questo studio è, come in parte sopra accennato, quello di proporre in primo luogo una comparazione tra le tradizioni locali di questi santuari della Sicilia e le situazioni di vita quotidiana narrate nelle suddette iscrizioni confessionali e nelle preghiere per la giustizia, ai fini di trovare punti di contatto ed analogie che permettano di ricostruire la presenza di comuni modelli nella scelta e nell’utilizzo di determinate forme di comunicazione religiosa. In secondo luogo, intendo fare delle considerazioni sulla maniera in cui il contatto con i Greci e con la loro cultura abbia fatto in modo che nuove forme di comunicazione religiosa venissero introdotte nell’ambito dei culti locali, grazie alle quali proprio l’elemento locale non viene obliato

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o cancellato, ma grazie ad un processo di ridefinizione, che trova paralleli interessanti anche in altre regioni del mondo greco e romano, continua ad esistere in una nuova veste3.

3 Andando con ordine, in primo luogo prenderò in analisi il contesto del santuario di Adrano e le tradizioni sulla punizione dei ladri di mantelli per mezzo dei cani sacri, soffermandomi anche sul ruolo di questi animali nel santuario di Efesto ad Inessa. Successivamente, verranno considerate le tradizioni sul giuramento di tipo ordalico, che avveniva nel santuario dei Palici; per finire intendo fare delle riflessioni sulla ridefinizione della religione indigena in Sicilia a seguito del contatto con le popolazioni greche. Prima di iniziare, ritengo tuttavia opportuno illustrare brevemente i generi delle iscrizioni confessionali e delle preghiere per la giustizia insieme ai concetti di comunicazione religiosa verticale ed orizzontale.

Le iscrizioni confessionali

4 Il termine “iscrizioni confessionali” (Beichtinschriften, confessional inscriptions) si riferisce ad un gruppo di iscrizioni provenienti dai santuari rurali della Frigia e della Lidia di epoca imperiale4, nelle quali al centro della comunicazione religiosa si trova la pubblica confessione di un peccato fatta da un penitente5. A causa della sua mancanza, compiuta volontariamente o involontariamente6, il penitente è stato punito dalla divinità, in genere con una terribile malattia7. La pubblica confessione del peccato e l’erezione della stele, sulla quale è stata apposta l’iscrizione con la confessione, rappresentano la via per riconciliarsi con il dio. Una approfondita discussione del carattere di queste iscrizioni non rientra nei fini di questo lavoro. In generale gli studiosi hanno sottolineato l’importanza del modo in cui la religione, attraverso la sapiente costruzione dell’immagine della divinità come giudice onnipotente ed infallibile che siede in cielo8, si propone come un’efficace alternativa alla giustizia umana9. In altre parole, il timore verso gli dei rappresenta una forma di controllo, che garantisce il rispetto delle norme sociali ed un vivere tranquillo. Altri studiosi si sono, invece, soffermati sulla struttura e sui topoi narrativi presenti in questi testi, che presentano evidenti punti di contatto con gli iamata degli Asklepieia e con le aretalogie di Iside 10, mostrando l’assunzione di forme di comunicazione religiosa analoghe anche in questi remoti angoli dell’Impero Romano, secondo il modello centro-periferia11. Va, infine, ricordato che il rituale della confessione pubblica è attestato anche in altri culti del mondo ellenistico-romano (Iside, Dea Syria etc.)12, ma solo in Lidia ed in Frigia risulta essere stato posto per iscritto su pietra.

5 Le preghiere per la giustizia, la cui definizione si deve a Henk Versnel13, sono testi di preghiera, apposti in genere su tavolette di piombo – come supporti sono attestati anche il papiro14 e gli ostraka 15 – che, probabilmente dopo essere stati letti in un contesto rituale in un tempio, venivano deposti nel santuario o affissi sulle sue pareti16. Gli autori dei testi, la cui struttura non a caso ricorda quella delle petizioni fatte all’imperatore o ai funzionari in carica17, sono persone, per lo più appartenenti agli strati medio-bassi della popolazione, che hanno subito un’ingiustizia e, vista l’inefficacia della giustizia umana, rivolgono la supplica alla loro divinità protettrice, affinché col suo intervento ristabilisca la giustizia, punendo duramente i colpevoli. A differenza delle iscrizioni confessionali, attestate solo in Frigia ed in Lidia, le preghiere

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per la giustizia sono documentate in molte delle provincie dell’Impero Romano (Egitto, Grecia, Britannia etc.).

6 le iscrizioni confessionali che le preghiere per la giustizia rappresentano documenti di eccezionale importanza che ci permettono di cogliere importanti aspetti della vita quotidiana nel mondo greco e romano, nonché le speranze che la gente comune riponeva nel potere degli dei.

7 Veniamo ora al modello di comunicazione religiosa verticale ed orizzontale, quale elaborato in particolare da Ingo Mörth18. Ogni testo religioso (sia esso scritto od orale) assolve una funzione comunicativa, ai cui poli stanno un mittente ed un destinatario. La comunicazione religiosa è verticale, dal basso verso l’alto, se il mittente è un mortale ed il destinatario è un dio: inni e preghiere rappresentano testi sacri afferenti a questa categoria. La comunicazione può, tuttavia, avvenire anche dall’alto verso il basso, nel caso che sia la divinità a voler comunicare qualcosa ad un mortale, attraverso ad esempio un’apparizione, un oracolo etc. Per quanto riguarda la comunicazione orizzontale abbiamo a che fare con testi sacri, redatti da mortali, che, in quanto esposti in un luogo accessibile, possono essere letti dagli altri fedeli del dio. A questa categoria appartengono ad esempio le dediche votive, che, proprio in quanto esposte in bella vista in un santuario, attestano da un lato la riconoscenza di un fedele, la cui preghiera è stata esaudita, e dall’altro l’effettiva potenza e presenza della divinità sul posto. Da questo punto di vista le dediche votive possono essere considerate come esempi tanto di comunicazione verticale che orizzontale. Verticale, in quanto viene comunicato al dio l’adempimento del voto, in seguito alla grazia ricevuta. Orizzontale, dal momento che gli altri visitatori del tempio possono leggere la dedica. In questo contesto possiamo aggiungere che un alto numero di dediche votive, esposte in un santuario, può essere valutato anche in relazione alla concorrenza religiosa tra centri templari19. Infatti, dal momento che le divinità delle religioni politeistiche non sono onnipresenti, questi testi attestano che il dio ha caro il luogo del tempio e che una supplica qua rivolta al dio ha più possibilità di venire ascoltata ed esaudita. Da questo punto di vista non è un caso che il numero di dediche votive in pietra (anche la scelta di questo supporto imperituro non è casuale) aumenti in maniera esponenziale soprattutto a partire dall’età ellenistica, quando la concorrenza religiosa diventa più forte, anche in seguito all’arrivo di nuove divinità dall’Oriente ellenistico.

8 Anche le iscrizioni confessionali assolvono una funzione comunicativa tanto verticale che orizzontale: la divinità stessa pretende l’erezione della stele da un lato quale riconoscimento della sua potenza e dall’altro quale monito agli altri mortali, affinché non commettano lo stesso peccato, sfidando la sua potenza20.

Adrano e la sua famiglia

9 Del dio Adrano abbiamo non molte notizie, che troviamo sparse in autori greci a partire essenzialmente dal V sec. a.C.21. Questa divinità veniva percepita come locale (Eliano userà, come vedremo, l’espressione epichorios daimon), connessa alla montagna ed al fuoco dell’Etna, elemento questo che permetterà una sua identificazione con Efesto nella neo-fondazione di Etna. Il cane è il suo animale sacro ed è anche il tramite con cui il dio manifesta la sua volontà agli umani22; tramite questo animale Adrano esplica anche la sua funzione di “giudice divino”, che punisce i malfattori ed allontana i non puri di animo dal suo tempio. Questa sua funzione quale “giudice divino” e la sua

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connessione con l’aristocrazia sicula guerriera ha probabilmente fatto in modo che la statua cultuale del dio nella città di Adrano mutuasse elementi dell’iconografia greca di , quale ad esempio la lancia e forse anche l’elmo, se prendiamo in considerazione la raffigurazione del dio sulle coniazioni dei mercenari Mamertini23. In queste monete troviamo, infatti, sul dritto la testa barbuta della divinità con un elmo, mentre sul rovescio vediamo un cane, animale, come detto, a lui sacro. Il fatto che dei mercenari scelgano di raffigurare proprio questo dio locale può essere considerato da un lato connesso al suo carattere guerriero e dall’altro, forse, alla loro volontà di interloquire con l’elemento indigeno. Inoltre, anche la sua identificazione con Efesto, fabbricatore di armi per dei ed eroi, collima col suo aspetto guerriero. Tanto l’evidenza archeologica che le fonti letterarie sembrano tacere riguardo ad un pendant femminile del dio. Secondo una tradizione tramandata da Esichio, Adrano sarebbe stato il padre dei Palici, la cui madre sarebbe stata la ninfa delle acque, Talia24. Secondo un’altra genealogia, di stampo più greco, i genitori di queste divinità sarebbero stati e Talia, considerata figlia di Efesto25. Un’identificazione che potrebbe far presumere che in una certa data da parte dei Greci avvenne, forse, un tentativo di assimilare Adrano con Zeus. Va, infine, ricordata una terza tradizione, secondo la quale i Palici sarebbero stati generati da Efesto e da Etna, figlia di Oceano26. Come Adrano, anche i Palici sono connessi al fuoco ed alla montagna; e come Adrano, anche i Palici sono responsabili per l’ordine sociale e morale. Nel loro santuario, infatti, si recano quanti hanno in corso delle contese di varia natura giuridica; in questo luogo si presta un giuramento ordalico, nell’ambito del quale chi ha dichiarato il falso viene punito con la morte o con una terribile malattia.

10 Le tradizioni note, nel complesso, seppure trasmesse per tramite greco, permettono di intravvedere la presenza di una sorta di sacra famiglia con a capo una divinità maschile, Adrano, connessa con la guerra e con il fuoco dell’Etna, che si unisce ad una divinità femminile, Talia, legata ad una fonte ed all’acqua, dalla cui unione nascono due gemelli divini. Anche in questo caso incontriamo elementi compatibili con i topoi delle tradizioni mitiche greche e per questo facilmente integrabili in queste.

Adrano e Timoleonte

11 Come noto, la città di Adrano venne fondata nel 400 a.C. dal tiranno siracusano Dionisio il Vecchio alle pendici dell’Etna, per consolidare il controllo sul territorio27. Il centro rappresentava, infatti, un vitale punto strategico, che garantiva il controllo del Simeto e della città di Centuripe. La fondazione avvenne, probabilmente, nei pressi di un preesistente complesso templare dedicato al dio, come il nome del fiume Adranon lascerebbe ipotizzare28. Secondo una tradizione locale tramandata da Plutarco (Tim. XII, 2-3; XVI, 5-6), nel 344 a.C. Timoleonte di Corinto29, marciando con le sue truppe alla volta di Siracusa, dopo aver sbaragliato nel territorio di Adrano l’esercito di Iceta, tiranno di Leontini, sarebbe entrato ad Adrano. Durante lo scontro le porte del santuario di Adrano si sarebbero aperte da sole, mentre il volto della statua del dio avrebbe sudato e la sua lancia si sarebbe mossa: questi prodigiosi avvenimenti vennero interpretati come un messaggio del dio, che in questo modo avrebbe manifestato la sua volontà di aprire le porte della città a Timoleonte. Certamente non è casuale che, proprio a partire dall’epoca timoleontea, questo centro assume da un punto di vista archeologico una propria fisionomia, mentre del periodo precedente, denominato

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dionisiano, restino solo poche tracce30. Procediamo ora ad analizzare i paragrafi 2 e 6 del testo di Plutarco. [2] οἳ πόλιν µικρὰν µέν, ἱερὰν δ᾽ οὖσαν Ἀδρανοῦ, θεοῦ τινος τιµωµένου διαφερόντως ἐν ὅλῃ Σικελίᾳ, κατοικοῦντες ἐστασίασαν πρὸς ἀλλήλους, οἱ µὲν Ἱκέτην προσαγόµενοι καί Καρχηδονίους, οἱ δὲ πρὸς Τιµολέοντα διαπεµπόµενοι. καί πως ἀπ᾽ αὐτοµάτου συνέτυχε σπευδόντων ἀµφοτέρων εἰς ἕνα καιρὸν ἀµφοτέροις γενέσθαι τὴν παρουσίαν. [6] οἱ δ᾽ Ἀδρανῖται τὰς πύλας ἀνοίξαντες προσέθεντο τῷ Τιµολέοντι, µετὰ φρίκης καὶ θαύµατος ἀπαγγέλλοντες ὡς ἐνισταµένης τῆς µάχης οἱ µὲν ἱεροὶ τοῦ νεὼ πυλῶνες αὐτόµατοι διανοιχθεῖεν, ὀφθείη δὲ τοῦ θεοῦ τὸ µὲν δόρυ σειόµενον ἐκ τῆς αἰχµῆς ἄκρας, τὸ δὲ πρόσωπον ἱδρῶτι πολλῷ ῥεόµενον. [2] (Gli Adraniti), che abitano una piccola città, che è sacra ad Adrano, un dio particolarmente onorato in tutta quanta la Sicilia, erano in discordia tra loro. Alcuni, infatti, parteggiavano per Iceta ed i Cartaginesi, mentre altri erano per Timoleonte. Come per coincidenza avvenne che entrambi i contendenti, affrettandosi, finissero per giungere nello stesso momento in quel luogo. [6] (Dopo la sconfitta di Iceta) gli Adraniti, aprendo le porte, andarono incontro a Timoleonte, narrando con timore e meraviglia che, mentre aveva luogo la battaglia, le sacre porte del tempio di fossero aperte da sole e che fosse stata vista la lancia del dio scuotersi dall’estremità della punta, mentre il suo viso grondava di molto sudore.

12 Plutarco definisce Adrano come una piccola città, la cui importanza era dovuta al fatto di essere sacra ad una divinità, particolarmente adorata presso le popolazioni indigene della Sicilia. La particella δέ che precede il participio οὖσαν sembra enfatizzare lo stato particolare di questo centro quale città sacra. L’espressione θεοῦ τινος τιµωµένου διαφερόντως ἐν ὅλῃ Σικελίᾳ si riferisce, verosimilmente, a tutta quanta quella parte delle Sicilia non greca, in cui vivono i Siculi. La clausola θεοῦ τινος, che può di primo acchito apparire riduttiva, si capisce meglio se si riflette sul fatto che i lettori di Plutarco, probabilmente, non conoscevano questa antica divinità sicula. Gli Adraniti, anche con una certa spregiudicatezza politica, dopo aver appreso della sconfitta di Iceta, in maniera plateale aprono le porte della città e vanno incontro a Timoleonte, annunciandogli µετὰ φρίκης καὶ θαύµατος (due termini che ricorrono spesso a descrivere le reazioni dei mortali di fronte alle apparizioni divine31) il prodigio avvenuto. Plutarco tramanda, inoltre, un particolare iconografico molto interessante: la statua cultuale del dio sarebbe stata una statua armata di lancia. Si tratta di un elemento iconografico che sembrerebbe rimandare al carattere guerresco di questa divinità, ben consono al carattere militare dell’aristocrazia locale32; probabilmente quello della lancia, come sopra accennato, è un elemento mutuato dall’iconografia di Ares33. Va detto che questo carattere guerresco ben si adatta anche a quelle forme di intervento divino atte a ristabilire la giustizia, che le tradizioni locali, come vedremo, attribuiscono al dio.

13 In secondo luogo, di rilievo è anche la collocazione intra-urbana del santuario, intorno al quale, come si evince dalle fonti letterarie, Dionigi fece costruire la città. Si tratta di una collocazione che contrasta con quella degli altri Adraneia conosciuti, quali quelli del Mendolito, di Halaesa34, situati in posizione sub-urbana. Questo può essere spiegato col fatto che il santuario dava il nome alla città, di cui il dio era il protettore e, senza dubbio, la divinità più importante.

14 La tradizione plutarchea presenta, come visto, elementi topici, quali quello della statua che e si muove e delle porte del tempio che si aprono e chiudono da sole35. Segno

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che questa tradizione locale venne creata usando i topoi classici dei racconti delle apparizioni divine; e segno anche che la classe sacerdotale locale doveva probabilmente conoscere bene questi racconti, per recepirne i topoi36 e creare tradizioni locali proprie. Questo potrebbe fornire un utile indizio anche del fatto che la cultura greca aveva permeato per lo meno gli strati alti della società adranea.

15 Restando sempre in epoca timoleontea, possiamo brevemente ricordare un episodio della vita del celebre condottiero corinzio, il quale, in procinto di sacrificare ad Adrano all’interno del tempio nell’omonima città, venne incredibilmente salvato da un attentato per opera di due sicari ingaggiati da Iceta, grazie all’intervento provvidenziale di Adrano. Plutarco (Tim. XVI, 5-6) racconta, infatti, che una persona riconobbe nell’attentatore l’uomo responsabile della morte del padre, provocandone il provvidenziale intervento. In questo caso, nel vero senso della parola, la provvidenza divina sembra proteggere Timoleonte, al quale comunque le tradizioni locali di Adrano attribuiscono un rapporto particolare con il dio protettore del centro.

16 Anche questa tradizione, di chiara matrice adranea, sembra essere stata creata appositamente da un lato per sottolineare il benvolere di Adrano nei confronti del condottiero corinzio, dall’altro per mostrare il senso di giustizia del dio, che non poteva tollerare un assassinio nel suo santuario e nella sua città: un tale atto sanguinoso avrebbe macchiato, infatti, questo luogo sacro.

Adrano come “Schutzgottheit”

17 In questo contesto vorrei soffermarmi anche sul carattere di Adrano quale divinità protettrice della città, che trae il proprio nome da quello del dio. Le divinità protettrici delle città rappresentano ancora oggi una categoria tra le meno studiate. Prescindendo dal libro di Barbara Brackertz pubblicato nel 197637, alla quale si deve un’utile raccolta delle fonti letterarie ed epigrafiche, ed alle osservazioni condotte da Angelo Brelich in relazione all’anonima divinità protettrice di Roma38, manca al giorno d’oggi un lavoro monografico che analizzi in maniera sistematica questa categoria di divinità. La divinità protettrice di una città, proprio in quanto la più importante di un centro cittadino, mostra spesso di possedere ambiti di competenza che travalicano quelli classici e canonici degli dei di Esiodo. Queste divinità, sotto la cui protezione si trovano i cittadini, la città ed il suo territorio, assumono spesso i tratti di divinità onnipotenti, che possono venir invocate in ogni occasione39. Da questo punto di vista la caratteristica di Adrano, quale dio giudice che punisce i malfattori, non dovrebbe stupire. Essa anzi si lascia ben confrontare con la rappresentazione della divinità quale un monarca, che regna sul villaggio e sui suoi abitanti, quale presente in diverse formule di acclamazione, che si leggono all’inizio delle iscrizioni confessionali40. Nella suddetta monografia Barbara Brackertz identifica cinque caratteristiche principali che una divinità protettiva deve possedere per essere considerata tale41: 1) al culto della divinità partecipano tutti i cittadini, costituendo questo un elemento centrale dell’identità culturale del centro cittadino; 2) questo culto garantisce prosperità e sicurezza a tutta quanta la comunità; 3) la città ed il suo territorio vengono considerati come possesso della divinità42; 4) i successi politici, militari ed economici di una città vengono attribuiti alla divinità protettrice, 5) la quale è la rappresentante della comunità cittadina.

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18 La studiosa elenca poi tutta una serie di altri criteri, che differenziano le “Schutzgottheiten” dagli altri dei adorati in una città43, come ad esempio la loro centralità nelle tradizioni mitiche locali, la frequenza nell’onomastica cittadina di nomi teofori da essa derivati, la presenza della sua effigie nelle emissioni locali, e non da ultimo la collocazione del suo santuario nella rocca44 o nel centro urbano45, anche se abbiamo molti casi di santuari extraurbani46. Va poi ricordato che, soprattutto a partire dall’età ellenistica, a queste divinità vengono riferiti epiteti quali πολιοῦχος, (προ)καθηγενὼν τῆς πόλεως, (προ)καθηγέτις τῆς πόλεως, προεστὼς τῆς πόλεως etc., finalizzati a sottolineare il loro rapporto privilegiato (e quasi esclusivo) con la città47.

19 Le poche testimonianze di cui disponiamo ci lasciano intravvedere la centralità del culto di Adrano nella città a lui omonima così come la sua morfologia di “Schutzgottheit” della comunità cittadina. Proprio questa caratteristica aiuta meglio a comprendere la sua connessione con la giustizia. In questa nuova definizione della morfologia di Adrano, che nulla toglie alla sua origine autoctona, si può forse scorgere un influsso della religione della polis greca.

I cani sacri di Adrano ed i ladri di mantelli

20 Prendiamo ora in analisi il testo della tradizione sui cani sacri di Adrano, quale tramandato presso Eliano (n.a. XI, 20)48: Ἐν Σικελίᾳ Ἀδρανός ἐστι πόλις, ὡς λέγει Νυµφόδωρος, καὶ ἐν τῇ πόλει ταύτῃ Ἀδρανοῦ νεώς, ἐπιχωρίου δαίµονος: πάνυ δὲ ἐναργῆ φησιν εἶναι τοῦτον. καὶ τἄλλα µὲν ὅσα ὑπὲρ αὐτοῦ λέγει, καὶ ὅπως ἐµφανής ἐστι καὶ ἐς τοὺς δεοµένους εὐµενής τε ἅµα καὶ ἵλεως, ἄλλοτε εἰσόµεθα: νῦν δὲ ἐκεῖνα εἰρήσεται. κύνες εἰσὶν ἱεροί, καὶ οἵδε θεραπευτῆρες αὐτοῦ καὶ λατρεύοντές οἱ, ὑπεραίροντες τὸ κάλλος τοὺς Μολοττοὺς κύνας καὶ σὺν τούτῳ καὶ τὸ µέγεθος, χιλίων οὐ µείους τὸν ἀριθµόν. οὐκοῦν οὗτοι µεθ᾽ ἡµέραν µὲν αἰκάλλουσί τε καὶ σαίνουσι τοὺς ἐς τὸν νεὼν καὶ τὸ ἄλσος παριόντας, εἴτε εἶεν ξένοι εἴτε ἐπιχώριοι: νύκτωρ δὲ τοὺς µεθύοντας ἤδη καὶ σφαλλοµένους κατὰ τὴν ὁδὸν οἳ δὲ ποµπῶν δίκην καὶ ἡγεµόνων µάλα εὐµενῶς ἄγουσι, προηγούµενοι ἐς τὰ οἰκεῖα ἑκάστῳ, καὶ τῶν µὲν παροινούντων τιµωρίαν ἀρκοῦσαν ἐσπράττονται: ἐµπηδῶσι γὰρ καὶ τὴν ἐσθῆτα αὐτοῖς καταρρηγνύουσι, καὶ σωφρονίζουσιν ἐς τοσοῦτον αὐτούς: τούς γε µὴν πειρωµένους λωποδυτεῖν διασπῶσι πικρότατα. In Sicilia esiste la città di Adrano, come racconta Ninfodoro, ed in questa città si trova il santuario di Adrano, una divinità locale. Si dice che la presenza del dio sia molto tangibile. Quanto altro (Ninfodoro) ci racconta su di lui, in qual modo si renda manifesto e sia benigno e insieme propizio verso coloro che gli si rivolgono nel bisogno, lo conosceremo in un’altra occasione, mentre ora saranno narrati i seguenti fenomeni. Si trovano lì dei cani sacri, suoi servitori e ministri, che superano in bellezza e grandezza i cani molossi, e sono di numero non inferiore al migliaio. Ebbene, questi animali durante il giorno accolgono festosamente dimenando la coda i visitatori che si recano al santuario o al circostante boschetto sacro, e questo senza fare alcuna distinzione tra stranieri e persone del luogo. Diverso è invece il loro comportamento durante la notte, quando essi accompagnano con grande benevolenza, a guisa di scorta, quelli già ubriachi e coloro che non si reggono in piedi lungo il cammino, riconducendoli ciascuno alla propria casa. Fanno però espiare il giusto castigo a coloro che nell’ubriachezza commettono empietà: difatti li assalgono e lacerano la loro veste, e a tal punto li fanno rinsavire. Ma sbranano in maniera crudelissima coloro che provano a λωποδυτεῖν. (Traduzione di Nicola Cusumano)

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21 L’autore narra che questo dio, definito epichorios daimon, rappresenta la divinità più importante nella città che da lui prende il nome, la quale, in virtù di questo fatto, doveva essere considerata come una sorta di hiera polis49. Le sue azioni, che – come vedremo – si esplicano in parte tramite l’intervento di questi cani, fanno in modo che la sua presenza fosse avvertita come tangibile. Nel testo di Eliodoro troviamo il termine enarge. Quello dell’enargeia è un concetto molto importante nella retorica antica: esso indica la capacità di rendere vive, visibile e tangibili le fattezze di un oggetto descritto in un’ekphrasis50. Tramite il suo utilizzo Eliodoro vuole probabilmente sottolineare il modo in cui la presenza del dio fosse avvertita come reale e tangibile dagli abitanti del luogo, proprio in virtù delle sue azioni. In questo santuario vivono circa un migliaio di cani, che per bellezza e grandezza superano i cani molossi. Questi animali vengono considerati come i servitori ed i ministri di Adrano. I termini qui utilizzati, therapeuontes e latreuontes, meritano una particolare attenzione. Si tratta di due termini tipici del vocabolario sacro greco, soprattutto a partire dall’età ellenistica51, che si riferiscono nel caso di therapeuontes a una persona di fiducia che serve il padrone di casa. In senso traslato questo termine venne applicato a quanti servono la divinità, vista come kyrios/dominus. Il verbo latreuo appartiene invece alla sfera del sacro e designa un servizio reso da una persona nei confronti della divinità. Entrambi i termini, come accennato, sono tipici del vocabolario religioso greco di età ellenistica e potrebbero essere un indizio per una rielaborazione (scritta) delle tradizioni di Adrano in questo periodo. La therapeia e la latreia dei cani si esplica in un servizio di accompagnamento e protezione dei fedeli che visitano il santuario e di difesa di questo nei confronti degli impuri. Durante il giorno, essi accolgono benevolmente i visitatori, mentre nella notte accompagnano a casa quanti ubriachi non possono reggersi in piedi e non sono in grado di ritrovare il camino. Essi mordono quanti, perché ubriachi, tengono un comportamento empio, offendendo il dio e non rispettando la santità del luogo. Questi cani si comportano ancor peggio con coloro che abbiano provato a rubare mantelli, arrivando addirittura a sbranarli in maniera crudele. Il verbo qui usato è λωποδυτεῖν, che propriamente significa „indossare indumenti d’altri“52. Anche in questo caso Eliano (o la sua fonte, Ninfodoro) utilizza un termine tecnico molto particolare. A Nicola Cusumano va il merito di aver raccolto tutta una serie di testimonianze letterarie, per la maggior parte di autori attivi nell’Atene del V e del IV sec. a.C., nelle quali troviamo menzione del λωποδύτης e del reato di λωποδυτία, per il quale era addirittura prevista la pena di morte tramite bastonamento pubblico (apotympanismos)53. Dalle testimonianze letterarie si evince la pessima fama che aveva un individuo che si macchiava di un tale reato: un reietto, che non meritava di vivere in mezzo alla società e veniva considerato alla pari dei ladri sacrilegi che spogliavano i templi, dei venditori di schiavi, degli adulteri e degli assassini54. Significativo è a riguardo un passo del retore Antifonte, nel quale si menziona una legge relativa a ladri ed a λωποδύται55, nella quale colpisce l’uso di questo specifico termine per distinguere questi personaggi dai ladri comuni. La cattiva fama di questi personaggi era tale che Platone nelle “Leggi” (874 b-d), trattando del diritto alla difesa, affermava che chi avesse ucciso nel difendersi un λωποδύτης, questi poteva ritenersi immune da colpa ( καὶ ἐὰν λωποδύτην ἀµυνόµενος ἀποκτείνῃ, καθαρὸς ἔστω)56. La durezza della pena prevista può a prima vista apparire spropositata rispetto al reato perpetrato. Va tuttavia posto in rilievo che i mantelli così come in generale gli indumenti che si portano addosso abitualmente e che appartengono alla sfera personale possono possedere per una persona un valore affettivo e simbolico. Proprio in virtù di questo

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valore possiamo meglio comprendere lo sgomento e la rabbia di una persona che veniva derubata di un proprio indumento personale. A ciò va anche aggiunto il fatto che nell’antichità una persona del medio non doveva possedere un alto numero di indumenti.

22 La tradizione che leggiamo nel testo di Eliano attribuisce al dio per il tramite dei suoi cani una funzione protettiva e di giudice, che condanna e fa punire in maniera terribile quanti si siano macchiati nel suo santuario di questo indegno reato. Prescindendo dall’assunzione di un codice comportamentale greco in ambito indigeno57, quale questa tradizione ci lascia intravvedere, vorrei ora concentrarmi sul significato della punizione dei ladri di mantello tramite l’intervento divino e proporre un parallelo con i testi delle iscrizioni confessionali e delle cosiddette preghiere per la giustizia. Tra i numerosi e coloriti racconti delle iscrizioni confessionali, uno in particolare si presta ad essere considerato in questo contesto. ΤΑΜ V, 1, 159=PETZL 1994, nr. 2: Μέγας Μεὶς Ἀξιοττηνὸς Ταρσι βα/σιλεύων. ἐπεὶ ἐπεστάθη σκῆ/πτρον εἴ τις ἐκ τοῦ βαλανείου τι / κλέψι· κλαπέντος οὖν εἱµατίου / ὁ θεὸς ἐνεµέσησε τὸν κλέπτην / καὶ ἐπόησε µετὰ χρόνον τὸ εἱµά/τιον ἐνενκῖν ἐπὶ τὸν θεὸν καὶ ἐ/ξωµολογήσατο. ὁ θεὸς οὖν ἐκέλευ/σε δι’ ἀνγέλου πραθῆναι τὸ εἱµά/τιν καὶ στηλλογραφῆσαι τὰς δυ/νάµεις. ἔτους σµ̣θʹ. Grande è Men di Axiotta, che regna su Tarsi. Dal momento che uno scettro fu innalzato, nel caso che qualcuno avesse rubato qualcosa dai bagni pubblici, e poiché venne rubato un mantello, il dio punì il ladro e fece in modo che dopo un po’ di tempo questi riportasse il mantello nel tempio del dio e confessasse (il suo misfatto). Il dio allora ordinò tramite un angelo di vendere il mantello e col ricavato di far incidere su pietra la manifestazione della sua potenza. Nell’anno 249.

23 L’iscrizione racconta l’intervento del dio a seguito dell’infrazione del divieto di rubare capi di vestiario da un bagno pubblico. In questo caso il ladro di mantelli venne punito molto probabilmente, come la maggior parte delle iscrizioni confessionali attestano, con una malattia, che lo costrinse a riportare la refurtiva nel tempio del dio e a rendere qui una pubblica confessione del suo misfatto. Il rito dell’innalzamento dello scettro, del quale troviamo menzione in diverse iscrizioni sacre delle Lidia e della Frigia di epoca romana, si riferisce ad un rituale locale, di cui purtroppo i testi epigrafici non forniscono tanti particolari58. Probabilmente, lo scettro qui rappresenta un simbolo della potenza del dio, spesso denominato “re del villaggio” nelle acclamazioni che si trovano all’inizio di queste iscrizioni, alle quali si è accennato precedentemente. Questo rituale, accompagnato da preghiere e da altri atti cultuali e forse condotto da un sacerdote, sembra servisse per prendere contatto con la divinità, presentandogli la propria richiesta. Non possiamo neppure escludere, come potrebbe suggerire un confronto con le preghiere per la giustizia, che nell’ambito di questa azione rituale avvenisse anche la consacrazione dell’oggetto rubato al dio, di modo che questi si sentisse responsabile per il suo recupero. Il nostro testo non lascia capire se la vendita del mantello in questione dovesse essere fatta dal ladro, dal legittimo proprietario o dai sacerdoti del tempio. Caratteristico è ad ogni caso il desiderio della divinità a che le sue gesta tramite l’iscrizione venissero lodate e fatte conoscere agli altri fedeli, di modo che questi non sfidassero l’autorità ed il potere del dio (comunicazione religiosa orizzontale). L’iscrizione fa in modo che il potere (dynamis) o meglio l’attiva presenza del dio nel territorio dove sorge il santuario sia a tutti enarges ed epiphanestate.

24 Dalla Lidia di epoca imperiale facciamo ora cronologicamente un passo indietro a Cnido, dove nel santuario locale dedicato a Demetra ed a Kore sono state rinvenute

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diverse lamine plumbee di età tardo-ellenistica, contenenti una serie di preghiere per la giustizia. I fori apportati suggeriscono che queste lamine, nell’ambito di un rituale condotto dai sacerdoti del tempio, fossero state affisse sulle pareti del santuario, dove potevano essere lette (e commentate) dai visitatori di questo luogo sacro. Anche in questo caso la comunicazione religiosa orizzontale si rivela un fattore importante per la comprensione di queste iscrizioni; a riguardo si dovrebbe anche riflettere sull’effetto che questi testi potevano avere in persone appartenenti ad una piccola comunità cittadina, quale appunto Cnido, nella quale tutti si conoscevamo ed in cui, probabilmente, c’erano persone al corrente dei furti denunciati. Un’iscrizione che narra del furto di un mantello merita in questo contesto la nostra attenzione. I. 148 A 1: ἀνιεροῖ Ἄρτε/µεις Δάµατρι, / Κούρα[ι, θεο]ῖς πα/ρὰ Δάµατρι πᾶ/ σι· ὅστις τὰ ὑπ’ ἐµοῦ / καταλιφθέντα ἱ/µάτια καὶ ἔνδυ/µα καὶ ἀνάκω[λ]/ον, ἐµοῦ ἀπαιτ[η]/<σά>σας, οὐκ ἀπέδ[ωκέ] / µοι, ἀνενέγκα[ι] / αὐτὸς παρὰ Δ[ά]/[µ]ατρα, καὶ εἴ τι[ς] / [ἄλλος] τἀµὰ ἔ<χ>[ει], / [πεπρη]µένος ἐξ[α]/[γορεύ]ων· ἐµο[ὶ] / [δὲ ὅσια κ]αὶ ἐλεύ/[θερα B.1 καὶ συµπιεῖν καὶ / συµφαγεῖν καὶ / ἐπ[ὶ τὸ α]ὐτὸ στέ/γος ἐ[λθ]εῖν· ἀδί/κηµαι γάρ̣, δέσπο[ι]/να Δάµατερ. consacra (questa tavoletta) a Demetra, a Kore ed a tutti quanti gli dei presso Demetra. Colui che non mi ha restituito i mantelli, gli indumenti e l’abito che dimenticai, pur avendone fatto richiesta, (prego affinché) costui riporti (questi indumenti) nel tempio di Demetra. Se qualcun altro ha in possesso un mio oggetto, questi faccia una confessione, bruciando. Per la mia persona sia invece tutto santo e libero, perché possa con tutti bere, mangiare e convenire nello stesso tetto. Infatti, o signora Demetra, a me è stata arrecata un’ingiustizia.

25 Nonostante la distanza cronologica, questa epigrafe di Cnido si lascia confrontare con l’iscrizione confessionale prima analizzata59. Una donna di nome Artemis, alla quale non sono stati restituiti diversi capi di vestiario (tra cui dei mantelli), che essa aveva dimenticato o più probabilmente lasciati incustoditi (forse in un bagno pubblico), si rivolge alla dea più importante della città, affinché questa costringa il ladro (di cui non viene fatto il nome) a riportare la refurtiva nel tempio e a fare una confessione pubblica del suo reato. Il genitivo assoluto ἐµοῦ ἀπαιτ[η]/<σά>σας è atto a sottolineare che Artemis ha tentato di riavere indietro le sue cose e non essendovi riuscita, quale ultima istanza, si rivolge al potere della dea. L’espressione [πεπρη]µένος ἐξ[α]/[γορεύ]ων, probabilmente va intesa in riferimento alla febbre che in seguito alla punizione divina dovrebbe colpire il ladro60. Artemis può vivere tranquilla e continuare a bere e a mangiare con i suoi concittadini: lei è la persona che ha subito l’ingiustizia. Il testo di Cnido si lascia ben confrontare con quello lidio non solo da un punto di vista tematico, ma anche linguistico-lessicale, come le due seguenti espressioni mostrano: τὰ εἱµάτιον ἐνενκῖν ἐπὶ τὸν θεόν (Lidia) e ἀνενέγκα[ι] / αὐτὸς παρὰ Δαµάτρα (Cnido).

26 Le preghiere per la giustizia trovate in Inghilterra nei santuari di Uley61 e della dea Sulis62 a Bath offrono, in maniera analoga, un ricco materiale di paragone. In questi santuari è stato rinvenuto un gran numero di testi, apposti su lamine plumbee, contenenti questo genere di preghiera. Persone alle quali è stato sottratto un indumento (un abito o anche dei sandali) si rivolgono alla divinità del luogo, chiedendo non solo la restituzione del mal tolto, ma anche che il ladro venga tremendamente punito e faccia una confessione del reato nel santuario. Mi limito ad analizzare due testi provenienti dai due suddetti santuari, in cui si fa menzione di ladri di vestiti.

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AE 1979, 384=KROPP 2008, 03.22.0363: Commonitorium deo / Mercurio a Satur/nina muliere de linta/mine quod amisit ut il/le qui hoc circumvenit non / ante laxetur nis{s}i quando / res {s}s(upra) dictas ad fanum {s}s(upra) dic/tum attulerit si vir si mu/lier si servus si liber // Deo {s}s(upra) dicto tertiam / partem donat ita ut / ex{s}igat istas res quae s(upra) s(crip)ta(e) sunt / ac {a} qua per(didi)t deo Silvano / tertia pars donatur ita ut / hoc ex{s}igat si vir si femina si serv/us si liber [3]E[3]tat Un memorandum al dio Mercurio da parte della donna Saturnina in relazione al vestito di lino che essa perse. (Saturnina si augura) che colui che le ha sottratto l’abito non trovi pace, sino a quando questi non riporti le cose sopraddette al sopraddetto tempio, sia che si tratti di un uomo, di una donna, di uno schiavo o di una persona libera. Al dio sopraddetto sia donata la terza parte (degli indumenti), affinché il dio esiga le cose sopra scritte, che Saturnina perse. Al dio Silvano sia donata la terza parte, affinché questi ne esiga (la restituzione), sia che si tratti di un uomo, di una donna, di uno schiavo o di una persona libera. TOMLIN 1988, 122-123, Nr. 10=AE 1982, 660=KROPP 2008, 03.02.10: Docilianus / Bruceri / deae Sanctissim(a)e / Suli / devoveo eum [q]ui / caracllam meam / involaverit si / vir si femina si / servus si liber / ut[i e]um dea Sulis / maximo let / [a]digat nec ei so/ mnum permit//tat nec natos nec / nascentes do/[ne]c caracallam / meam ad tem/plum sui(!) numi/nis per[t]ulerit. Io, Dociliano, figlio di Brucero, dedico alla santissima dea Sulis colui che ha rubato il mio mantello, sia che si tratti di un uomo, di una donna, di uno schiavo o di una persona libera. Questo perché la dea Sulis possa punirlo con la morte più dura, non gli permetta alcun sonno e di avere figlio ora ed in futuro, sino a quando questi non abbia riportato il mio mantello al tempio della sua divinità.

27 Entrambi i testi, scritti da uno specialista religioso, da identificarsi probabilmente con uno dei sacerdoti del tempio, si riferiscono a fatti di vita quotidiana. Una donna, Saturnina, ed un uomo di nome Dociliano, si rivolgono al loro dio chiedendo non solo il recupero del mantello rubato (che in un certo senso sembra passare in secondo piano), ma soprattutto la punizione del ladro. Come nei casi analizzati in precedenza, la punizione richiesta può sembrare esagerata, rispetto al crimine perpetrato, ma questi testi consentono di percepire le emozioni delle vittime. Essi ricordano i sentimenti di una persona alla quale è stato sottratto qualcosa di personale e che di primo impatto augura il peggio possibile al ladro, a prescindere dal valore dell’oggetto rubato. L’aspetto fortemente emozionale e soggettivo di questo testi è stato in anni recenti ben indagato da Chaniotis e Martin Dreher, i quali hanno sottolineato l’importanza di questo “elemento patetico” nelle pratiche di comunicazione religiosa nell’ambito di queste comunità di villaggio64. Proprio questo elemento, come in breve vedremo, può forse aiutarci a comprendere meglio la tradizione dei cani di Adrano.

Adrano e le emozioni

28 Torniamo ora al dio Adrano. Usando l’emotività come chiave di lettura, che può applicarsi anche alla sfera divina, poiché spesso nell’ambito della regione greca e romana le azioni degli dei sono guidate da emozioni come rabbia e pietà, il fatto che i ladri di mantelli venissero quasi sbranati dai cani indica il forte risentimento del dio nei confronti di persone che si sono comportate in maniera indegna nel suo santuario, macchiandosi di un crimine abbietto65. Un confronto con i documenti epigrafici sopra presi in considerazione permette di fare un ulteriore passo in avanti. Il dio, che dall’alto vede, sa e conosce chi ha peccato, non viene in questo caso invocato dal fedele derubato, ma nella sua funzione normativa agisce subito ed in maniera efficace, ristabilendo il giusto66. Da questo punto di vista, Adrano può, a mio avviso, essere ancor

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più accostato alle divinità adorate nei santuari rurali della Frigia e della Lidia, che venivano viste, come recita il testo di un’iscrizione dalla Lidia, alla stregua di un κριτής ἀλάθητος ἐν οὐρανῷ “giudice celeste infallibile” 67. Questi racconti, o meglio queste tradizioni locali del santuario, che sicuramente circolavano in forma orale e che forse erano esposte in forma scritta nel santuario stesso, avevano probabilmente l’effetto di provocare timore nei confronti del potere del dio. Le persone che frequentavano questo luogo dovevano pensarci due volte prima di calcare il suolo sacro del santuario, essendosi macchiate di un crimine, ben sapendo quanto terribile poteva essere la punizione del dio. Come in Frigia, in Lidia ed in molti altri luoghi nell’Impero Romano, anche in questo caso la religione sembra assumere il ruolo di regolazione sociale, facendo in modo che le persone rispettassero le norme stabilite, astenendosi dal commettere reati. La giustizia divina, diretta, infallibile ed efficace, sembra porsi come valida alternativa a quella umana. Va inoltre posto in rilievo che le divinità menzionate nelle iscrizioni confessionali ed in diversi casi anche quelle invocate nelle preghiere per la giustizia da diversi punti di vista possono essere considerate come appartenenti alla suddetta categoria delle “Schutzgottheiten”. Nel caso delle iscrizioni della Lidia e della Frigia, questi “dei del villaggio” venivano equiparati a dei re, che regnavano sulla comunità, proteggendola ed assicurandosi che leggi e norme morali del ben vivere non venissero violate. Da questo punto di vista la figura di Adrano è ben accostabile alle divinità menzionate in questi testi, e la sua attività quale “giudice punitore” risulta più comprensibile.

Il santuario di Efesto ad Etna

29 L’elemento che più colpisce nel culto di Efesto, nel santuario di Aitna-Inessa, è l’esercizio di una forma di giustizia divina, che prende nuovamente forma attraverso l’azione punitiva dei cani. Va, inoltre, sottolineato che tutte le notizie tramandate a riguardo si riferiscono al periodo a partire dal IV sec. a.C., epoca in cui la cultura delle società indigene presenta in maniera consolidata forti tratti greci. Eliano (n.a. XI, 20) narra che nel santuario di Efesto nella città di Etna i cani aggrediscono e mordono quanti osino porre piede nell’area sacra del santuario dopo essersi macchiati le mani di azioni esecrabili. Questi animali allontanano pure quanti tentano di avvicinarsi al tempio, dopo aver commesso atti sessuali.

30 Una caratteristica dei luoghi sacri, come noto, è quella della loro inviolabilità da parte di persone colpevoli di crimini, che con la loro impurità possono macchiare la sacralità del luogo68. Le cosiddette leggi sacre greche sono ricche di norme in tal senso69, imponendo ad esempio un certo numero di giorni di astinenza sessuale70, prima di varcare la soglia di un tempio, o vietando l’ingresso a persone che sono state in contatto con un morto o a donne che hanno partorito da poco. In una famosa iscrizione di Filadelfia (Lidia) troviamo addirittura l’esplicito divieto per persone i cui pensieri non sono puri ed innocenti71. I cani, gli animali sacri del dio ed i suoi ministri, si assicurano non solo che il volere della divinità sia rispettato, ma difendono la purezza sacrale del santuario. Le cronache templari antiche dovevano essere ricche di racconti, spesso anche molto coloriti, relativi a persone allontanate dal santuario e punite in quanto, in uno stato di impurità, avevano calcato il suolo sacro del luogo. Prendiamo ora in analisi il testo relativo al santuario di Efesto ad Etna, quale tramandato da Eliano72.

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ἐν Αἴτνῃ δὲ ἄρα τῇ Σικελικῇ Ἡφαίστου τιµᾶται νεώς, καὶ ἔστι περίβολος καὶ δένδρα ἱερὰ καὶ πῦρ ἄσβεστόν τε καὶ ἀκοίµητον. εἰσὶ δὲ κύνες περί τε τὸν νεὼν καὶ τὸ ἄλσος ἱεροί, καὶ τοὺς µὲν σωφρόνως καὶ ὡς πρέπει τε ἅµα καὶ χρὴ παριόντας ἐς τὸν νεὼν καὶ τὸ ἄλσος οἳ δὲ σαίνουσι καὶ αἰκάλλουσιν, οἷα φιλοφρονούµενοί τε καὶ γνωρίζοντες δήπου: ἐὰν δέ τις ᾖ τὰς χεῖρας ἐναγής, τοῦτον µὲν καὶ δάκνουσι καὶ ἀµύσσουσι, τοὺς δὲ ἄλλως ἔκ τινος ὁµιλίας ἥκοντας ἀκολάστου µόνον διώκουσιν. Nella città di Etna in Sicilia è oggetto di particolare culto il tempio dedicato a Efesto, in cui si trovano un recinto, degli alberi sacri e un fuoco inestinguibile e sempre acceso. Intorno al tempio e al bosco ci sono dei cani sacri. Se entrano nel tempio e nel bosco persone per bene, con un aspetto dignitoso e come si deve, i cani le accolgono in modo festoso e dimenando la coda, proprio come se le conoscessero e fossero ben disposti nei loro confronti; se invece entra qualcuno che ha le mani macchiate da un’azione esecrabile, lo mordono e lo aggrediscono violentemente. Si contentano invece di cacciare via quelli che hanno l’impudenza di venire, reduci da intemperanze sessuali. (Traduzione di Nicola Cusumano)

31 Dal testo apprendiamo che il santuario di Efesto, probabilmente, come detto, l’ interpretatio greca di Adrano, che si trovava ad Etna, comprendeva un ampio recinto ed un bosco sacro, mentre all’interno del tempio ardeva perennemente un fuoco. Secondo questa tradizione, intorno al tempio ed al bosco vivevano i cani sacri del dio, i quali si curavano di difendere la purezza del luogo. La loro azione è volta al controllo di quanti entravano nello spazio sacro, i quali, se con pensieri puri e come si deve (la formula σωφρόνως καὶ ὡς πρέπει si riferisce, nell’ordine, alla purezza di pensieri ed all’adeguatezza dell’aspetto, probabilmente relazionata al portamento ed al modo di vestire) vengono accolti amichevolmente. Quanti invece si recano nel tempio con mani sacrileghe (l’espressione τὰς χεῖρας ἐναγής si riferisce a chi si è macchiato di un’azione illecita), questi vengono presi a morsi in modo violento73. Va anche aggiunto che l’immagine delle mani macchiate, quale metafora per impurità, ricorre anche in diverse leggi sacre greche74: questo fatto, non casuale, mostra l’adozione di un topos diffuso nell’ambito della letteratura templare antica nell’elaborazione di questa tradizione. I cani, probabilmente solo ringhiandovi contro, si limitano ad allontanare le persone che entrano nell’area templare dopo aver avuto dei rapporti sessuali. In questo contesto colpisce come i cani, tramiti del potere del dio in terra, riescano non solo a distinguere i puri dagli impuri, ma perseguano gli impuri in modo differente, a seconda della gravità della loro colpa. Quanti sono ἐναγής rischiano, infatti, di venir sbranati, mentre coloro che probabilmente non hanno rispettato un certo lasso di tempo di astinenza sessuale, prima di entrare nel tempio, vengono semplicemente allontanati, senza danni fisici.

32 Eliano dichiara di aver attinto le notizie relative al ruolo dei cani nel culto di Adrano e dei Palici dall’opera di Ninfodoro, autore siracusano vissuto nella seconda metà del III sec. a.C., che compose un’opera di carattere periegetico dal titolo Περὶ τῶν ἐν Σικελίᾳ θαυµαζοµένων ( FGrHist 572). Come Nicola Cusumano, a ragione, ha sottolineato, l’attività di questo intellettuale va considerata nel più ampio contesto della politica culturale di Ierone II, volta non solo al recupero ed alla valorizzazione del passato, ma anche finalizzata a ricostruire una linea di continuità con l’epoca dei Dinomenidi e dei Dionisii, come ad esempio mostra in maniera inequivocabile l’onomastica della nuova casa regnante. Va in ogni caso messo in rilievo che Ninfodoro nelle sue ricerche dovette molto probabilmente avvalersi di materiale d’archivio dei suddetti santuari, forse interrogando anche il clero locale. Il modo in cui in queste tradizioni si intravvede l’uso

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di elementi topici della mitologia greca lascia presumere che il processo di canonizzazione di queste tradizioni fosse da tempo avvenuto.

Il santuario dei Palici

33 Diodoro Siculo ed un autore tardoantico, Macrobio, rappresentano per noi le fonti più importante sul culto dei Palici nella città omonima ed in generale in Sicilia75. Il culto di queste divinità autoctone si colloca in un paesaggio religioso molto particolare76, caratterizzato da una grotta, da un lago e da due crateri emananti vapori sulfurei77. Questo era il luogo in cui vivevano ed operavano i Palici, insieme ai loro fratelli, i Delli, considerati la personificazione dei due crateri lacustri, sopra menzionati. Questo santuario era a detta di Diodoro il più antico della Sicilia78 ed il culto di queste divinità era di carattere ordalico. Secondo le fonti79, quanti erano stati accusati di furto o di un altro crimine si recavano nel santuario, dove presso i crateri prestavano un giuramento, tenendo un ramo fiorito in mano, indossando una veste senza cintura ed avendo sul capo una corona. Le regole rituali prescrivevano inoltre un certo periodo di digiuno e di astinenza sessuale per chi voleva sottoporsi a questa pratica. Dopo aver invocato il genio tutelare del luogo, si doveva porre per iscritto il giuramento su una tavoletta80, la quale veniva poi gettata nel cratere. Se la tavoletta restava a galla, era segno che la persona aveva giurato il vero, se affondava in questo caso si era commesso spergiuro81. La punizione per tale atto era la morte82 o la cecità 83, che colpiva immediatamente il reo colpevole di spergiuro84. I Palici erano inoltre divinità oracolari85 e, forse per contaminazione con i Cabiri, vennero poi considerati come protettori dei naviganti86. Va aggiunto che il carattere oracolare di queste divinità, che come anche il diritto all’asylia di cui gode il santuario non verranno trattati approfonditamente in questo studio87, ben si connette alla loro onniscienza, che, come anche per il loro genitore Adrano, permetteva loro di sapere se una persona stava mentendo o no nell’atto del giuramento. Quanto all’asylia, il fatto che in questo luogo potessero trovare rifugio schiavi maltrattati ingiustamente dai loro padroni ben si addice a delle divinità che, similmente al loro genitore, hanno un alto senso della giustizia, punendo lo spergiuro di ladri e malfattori.

34 Il processo di ellenizzazione del culto dei Palici si compie in primo luogo sul piano della memoria cultuale, creando, come detto prima, per questi dei una genealogia greca, secondo la quale essi sarebbero stati i figli di Zeus e della ninfa Talia88, che secondo un topos riscontrabile anche in altre tradizioni sarebbe stata costretta a nascondersi sottoterra per sfuggire all’ira di Era, gelosa89. Secondo un’altra versione del mito, essi sarebbero stati i figli di Efesto e della ninfa Etna; mentre secondo un’ulteriore variante più tarda essi sarebbero stati i figli di Efesto90. Va qui sottolineato come il processo di ellenizzazione del culto non abbia portato ad alcuna identificazione con una divinità greca (l’aspetto gemellare avrebbe potuto farli identificare con i Dioscuri, o anche con i Cabiri); la loro grecizzazione avviene tramite una manipolazione del mito, nonché tramite la creazione di un’etimologia greca del loro teonimo: essi sarebbero infatti stati coloro che “dalle tenebre ritornano di nuovo a questa luce” (πάλιν γὰρ ἵκουσ’ἐκ σκότους τόδ’ εἰς φάος). Lo stesso paesaggio religioso del santuario91, caratterizzato dalla presenza di una grotta, di un laghetto (con vapori sulfurei) e di un bosco sacro, si sarebbe prestato alla traslazione di qualche mito antico92. Pensiamo, a mo’ di esempio, alla facilità con la quale sulla base della presenza di una grotta in un monte e di un

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corso d’acqua molte città rivendicassero per il proprio territorio la nascita di Zeus93. Questo non avviene ed i Palici restano delle divinità indigene locali, assurgendo tuttavia al rango di figli di Zeus o di Efesto. In questa prospettiva di commistione del vecchio col nuovo concordo con l’interpretazione di Nicola Cusumano che vede nell’introduzione dell’uso della scrittura per il giuramento ordalico – sicuramente una pratica locale di sostrato – un elemento finalizzato «non a registrare o memorizzare passivamente l’oralità precedente, ma a stabilire un nuovo orizzonte di senso, e dunque a produrre una nuova forma di oralità»94. In altre parole, la scrittura rappresenta quel quid che conferisce ad un rituale antico un carattere nuovo e vincolante.

35 Il rituale del giuramento ordalico nel santuario dei Palici ha molto in comune con le pratiche attestate nei santuari rurali dell’ Minore romana. Un nutrito numero di iscrizioni confessionali riguarda persone che hanno commesso spergiuro e che per questo sono state punite dal dio95. A titolo di esempio vorrei ricordare un’iscrizione nella quale il dio Men fece morire una donna, che sotto giuramento nel suo tempio aveva mentito, negando di aver ricevuto una data somma di denaro96. Va anche ricordato che nel mondo antico quello di prestare giuramento in un tempio in relazione a questioni giuridiche era un costume ben diffuso, che mostra come la giustizia divina fosse in molti casi avvertita come un’alternativa migliore a quella umana. Nelle petitiones dell’Egitto ellenistico-romano i giuramenti nei templi vengono addirittura menzionati quali argomento per indicare la mala fede di una persona97. Con una certa verosimiglianza, anche in virtù del confronto con le iscrizioni confessionali, possiamo presumere che tali contese avvenissero pubblicamente nel santuario e che gli esiti dei giudizi divini venissero scritti, conservati negli archivi del santuario e forse anche pubblicati su pietra o su tavolette di bronzo: tutte pratiche in cui viene usata la scrittura. L’introduzione della scrittura conferisce ad una pratica rituale antica un nuovo significato e valore. In questo contesto vorrei inoltre ricordare che le divinità tutelari (Schutzgottheiten), come Barbara Bratzeck ha sottolineato, sono solite essere invocate nei giuramenti. Il fatto che Palike, sotto Ducezio, divenga una polis sacra a queste divinità, può aver ulteriormente contribuito ad accentuare il legame tra giustizia e divino in questo luogo sacro.

Contesto siculo, contesto frigio e contesto celtico: l’ellenizzazione ed i suoi effetti

36 In questo contesto non intendo trattare il problema della ricostruibilità della religione indigena, tema sul quale, vale la pena ricordarlo, si espresse Angelo Brelich nel suo memorabile intervento del 1964, esprimendo, nella sostanza, il suo scetticismo circa la possibilità di usare come fonti le testimonianze di autori greci, che tramanderebbero comunque una visione greca dei fenomeni religiosi locali98. Un’interpretazione che si differenziava in maniera netta dai trends allora correnti, che vedevano nelle particolarità dei culti greci in Sicilia la testimonianza della continuità del sostrato locale, che i Greci, a seguito del contatto e della convivenza con le popolazioni indigene, avrebbero adottato ed adattato alla propria forma mentis99. Al problema di valutare come fonti per la religione indigena le testimonianze greche, si aggiunge la mancanza di testi scritti indigeni – fanno eccezione le brevi iscrizioni anelleniche, di non facile decifrazione100, – ed il difficile uso degli artefatti archeologici ai fini di una ricostruzione delle pratiche cultuali101. D’altronde va anche posto in rilievo, come ad

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esempio le aree sacre di Polizello102 e di Sabucina 103 testimoniano, che proprio gli artefatti archeologici (modellini fittili di sacelli da Sabucina; statuette bronzee di offerenti, da Polizzello etc.) mostrano una forte influenza ellenica per quello che riguarda i media della comunicazione religiosa. Persino la stessa rappresentazione iconica della divinità in ambiente indigeno appare essere dovuta al contatto con i Greci, come testimonia la statua fittile di divinità femminile da Grammichele, di chiara ispirazione greca104. A riguardo va segnalata la recente monografia di Birgit Öhlinger, che usa materiali archeologici per ricostruire da un punto di vista emico le pratiche rituali delle popolazioni indigene dell’entroterra nel periodo arcaico (VIII-V sec. a.C.)105, sottolineando l’importanza dell’impatto con i Greci per una nuova definizione delle pratiche religiose locali106. È, infatti, un dato di fatto che solo a partire dalla Seconda Età del Ferro (VII sec. a.C.) in Sicilia si possiedono chiare testimonianze in relazione alla strutturazione delle aree sacre e che tale “riassetto del sacro” sia dovuto al contatto con i “nuovi arrivati”107. Fenomeni di convivenza, di mistione etnica e di ibridismo culturale nei territori coloniali – e la Sicilia da questo punto di vista non rappresenta certo un’eccezione108 – sono da tempo noti ed ampiamente studiati. Proprio per tal motivo, seppure con dovuta prudenza e prestando attenzione ai differenti contesti, possiamo evincere dalle testimonianze greche – siano esse di carattere archeologico, epigrafico o letterario – importanti elementi per la ricostruzione ed una migliore comprensione del mondo religioso indigeno. Circoscrivere il campo d’indagine alle sole evidenze archeologiche, oltreché essere riduttivo, può permettere (nel migliore dei casi) di conoscere una pratica cultuale solo nel suo aspetto materiale (e questo anche solo parzialmente), mentre gli aspetti legati alla sfera del mito, delle credenze etc. sfuggono109.

37 Tornando al tema centrale di questo studio, occorre ricordare che le tradizioni analizzate sui cani di Adrano e sui ladri di mantello si riferiscono ad un contesto non greco, ma siculo. Il centro di Adrano venne, come detto in precedenza, fondato su iniziativa del tiranno di Siracusa, Dionisio il Vecchio, alle pendici dell’Etna, e destinato ad essere abitato dai Siculi. Prima ancora, nel 453 a.C., come Diodoro racconta (XI, 88, 6), Ducezio, dopo aver raccolto tutte le poleis sicule ad eccezione di Iblea in una confederazione, fondò presso il santuario dei Palici la città omonima, Palice110. Il confronto con i documenti dall’Asia Minore e dall’Inghilterra si fa in questo senso più interessante. La romanizzazione e, nel caso della Lidia e della Frigia, l’ellenizzazione non hanno comportato una cancellazione ed un oblio del sostrato religioso locale. L’ interpretatio delle divinità indigene, come è stato sottolineato, ad una analisi più attenta si rivela spesso superficiale e riguarda in primo luogo il teonimo111. Come in particolare Jörg Rüpke in diversi contributi ha evidenziato112, la romanizzazione come anche l’ellenizzazione113 hanno comportato in primo luogo l’introduzione di nuovi media di comunicazione religiosa, primo fra tutti quello della scrittura, insieme alla diffusione di nuove pratiche religiose, che vanno a mischiarsi a quelle locali. Il rituale della confessione pubblica, nel caso della Frigia e della Lidia, risale sicuramente al sostrato locale, essendo ad esempio attestato già nei documenti ittiti114. Come detto in precedenza, questo rituale è inoltre documentato anche in altri culti quali quello di Iside, della Dea Siria, nonché nelle pratiche religiose di diversi santuari di area celtica. Chiedersi se l’origine di questa pratica risalga ad un comune sostrato è forse chimerico e richiederebbe uno studio comparato ad esempio della religione ittita con quella celtica. Il punto più importante è che noi siamo a conoscenza di questa pratica grazie al fatto che la scrittura venne usata nei santuari rurali della Frigia e della Lidia per

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mettere su pietra le confessioni delle persone che con le loro mancanze avevano sfidato la potenza del dio. Il porre questi racconti su pietra, quale forma di comunicazione religiosa orizzontale, può essere senza dubbio considerato un elemento di ellenizzazione (o di romanizzazione). Lo stesso discorso vale per le preghiere per la giustizia. Sicuramente questo rituale era praticato in forma orale prima della conquista romana in Britannia, dove i santuari delle divinità celtiche dovevano sicuramente fungere da importanti poli di riferimento per gli insediamenti sparsi nel territorio: pregare il dio, invocandone l’intervento per ottenere giustizia, è una pratica comune in tutte le religioni. La romanizzazione ha fatto in modo che la scrittura fosse introdotta nell’ambito di questa pratica rituale e che queste preghiere venissero inoltrate per iscritto alla divinità, un po’ come succedeva per le suppliche inoltrate per iscritto al governatore locale. Il fatto che questi testi venissero redatti per iscritto ed in latino non inficia affatto l’origine locale di questa pratica rituale.

38 Anche nel caso del contesto siculo, uno degli effetti più visibili dell’ellenizzazione fu sicuramente quello dell’introduzione dell’alfabeto greco, che ci ha permesso di conoscere (seppure in maniera superficiale ed incompleta) la lingua sicula, le cui testimonianze epigrafiche cessano intorno alla metà del V sec. a.C.115. Greco è anche il modo in cui Ducezio riunisce in una confederazione le città sicule116, per le quali Diodoro forse non a caso usa il termine poleis. Questa confederazione fa poi capo al santuario dei Palici, che, forse su modello greco, diviene un santuario federale, nel quale vengono redatti, deposti e conservati gli atti di questa federazione117. Questo tipo di confederazione si connette certamente con l’emergere di una consapevolezza etnica in funzione antiellenica, ma anche e soprattutto con un nuovo ordine mentale. Sicuramente nel santuario i rappresentanti delle città confederate, oltre a riunirsi, dovettero prestare anche un giuramento della cui validità dovevano farsi garanti le divinità del santuario. Questo aspetto di garanzia giuridica ben si confà col carattere di giudice che punisce i malfattori, quale testimoniato nelle tradizioni: un aspetto che viene alla luce e che conosciamo grazie all’uso della scrittura che venne fatto in questo contesto.

Conclusioni

39 Lo scopo di questo studio è stato quello di indagare le modalità in cui, a seguito del contatto dei Greci con le popolazioni indigene in Sicilia, nella sfera religiosa si introducano nuove forme di comunicazione: di queste l’uso della scrittura come medio di comunicazione religiosa (orizzontale e verticale) rappresenta forse l’innovazione più importante. A questi nuovi media siamo, inoltre, debitori della conoscenza della morfologia divina di Adrano e dei Palici. Le (poche) tradizioni conosciute concordano nel sottolineare l’antichità (ἀρχαιότης) dei culti di queste divinità, dai cui interventi (diretti o tramite i cani) si evince il modo in cui questi dei fossero considerati alla stregua di giudici divini, ai quali stava a cuore la purezza dei loro luoghi di culto, non tollerando che in questi entrassero malfattori o persone malvagie. Proprio questo loro carattere, estraneo alla mentalità greca, che, seppur con la dovuta cautela dovuta alla distanza cronologica e geografica, rende possibile fare un paragone con le iscrizioni confessionali e con le preghiere per la giustizia, permette anche di intravedere la vitalità con cui le credenze locali, seppure in una nuova veste (ed in primis in una nuova lingua) continuino a vivere. Come nelle comunità di villaggio della Frigia e della Lidia

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romana e come le presso le comunità celtiche romanizzate della Britannia, anche in questo caso la religione ed il potere divino sembrano porsi come un’alternativa efficace nei confronti della giustizia umana, o forse anche nei confronti della giustizia portata dai conquistatori greci e romani, quale forma di resistenza culturale. Si tratta di una situazione che per molti versi, a buon diritto, si potrebbe definire di prédroit118, la quale per sua natura ha poco di greco, ma che, paradossalmente, conosciamo grazie all’ellenizzazione di questi culti. Questo può forse anche in parte spiegare il motivo per cui l’identificazione di Adrano e dei Palici con una divinità greca sembra non essere riuscita del tutto. Anche nel caso del santuario di Efesto ad Etna, il carattere anellenico del culto doveva risultare (soprattutto ad un Greco) abbastanza evidente. Si tratta di una forma di resistenza che riguarda non solo le forme cultuali, ma, in questo caso, in primo luogo i teonimi. Concludendo, sarebbe interessante indagare il modo e le forme in cui, in seguito all’ellenizzazione ed alla romanizzazione della Sicilia, il “locale” continui non solo a vivere, ma in maniera consapevole ad essere utilizzato per far emergere la propria identità e diversità rispetto a chi è arrivato più tardi. Greg Wolf ha, ad esempio, mostrato che nella Gallia, dopo la conquista romana, sulla base soprattutto delle fonti documentarie si possono ricostruire due fasi di romanizzazione119. Durante la prima, che abbraccia il periodo augusteo e tutto quanto il I sec. d.C., abbiamo la formazione di una cultura mista, denominata gallo-romana, mentre nella seconda ha luogo una differenziazione locale di questa cultura gallo-romana, che mostra il “Weiterleben” delle particolarità regionali delle preesistenti culture celtiche. Proprio il persistere di questi particolarismi, che hanno, per altro, fatto in modo che nello studio della romanizzazione venissero introdotti termini e concetti moderni come “creolizzazione”, “globalizzazione” etc.120, ci mostra l’importanza del “locale” per la determinazione della propria identità nel contesto dell’Impero Romano121.

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NOTE

1. CUSUMANO 2015. 2. Il concetto di “middle ground” venne introdotto da Richard White (WHITE 2011) nello studio delle interazioni culturali tra popolazioni indiane e coloni inglesi nella regione dei Grandi Laghi, al confine tra gli Stati Uniti ed il Canada, nel periodo compreso tra il 1650 ed il 1815. Il merito dello studioso sta nella fine ricostruzione in cui le culture indigene a seguito del contatto, anche violento, con i coloni inglesi attraverso l’adozione di elementi dall’esterno ridefinirono la propria cultura ed identità, integrando il nuovo nella loro tradizione. Questo concetto è stato messo a frutto da Corinne Bonnet nella ricostruzione dei paesaggi religiosi della Fenicia ellenistica (BONNET 2014, 29-34, con considerazioni su questo modello). Lo storico Irad Malkin ha ugualmente fatto uso di questo concetto nell’analisi delle interazioni tra Greci ed indigeni nei contesti coloniali in Occidente (MALKIN 1998; ID. 2002; ID. 2004; ID. 2011), così come l’archeologo Luca Cerchiai in relazione ai rapporti tra coloni greci e popolazioni locali nell’antica Pitecussa ed in Campania (CERCHIAI 2017). Per una buona sintesi delle moderne teorie coloniali e post-coloniali applicate allo studio della storia antica rimando a GRECO-LOMBARDO 2012 e SOMMER 2012. 3. In questo contesto, senza voler approfondire un dibattuto problema di carattere terminologico, mi avvarrò spesso del termine “ellenizzazione”. Uso questo termine nella sua accezione generale per designare l’insieme dei processi di contatto e di acculturazione, in cui le popolazioni locali adottano elementi di cultura greca, che possono essere relativi alla sfera della cultura materiale, del sacro, delle istituzioni politiche etc., ridefinendo spesso la propria identità. 4. Va detto che la definizione stessa di iscrizione confessionale è giudicata da alcuni studiosi non soddisfacente, preferendo in alcuni casi quella di iscrizione di riconciliazione, proprio in quanto con l’atto di erezione della stele iscritta il penitente si riconcilia con il proprio dio. 5. La bibliografia sulle iscrizioni confessionali è consistente; in generale rimando a KLAUCK 1996 (che analizza da un punto di vista linguistico e tematico le corrispondenze con il Nuovo Testamento); CHANIOTIS 1997, ID. 2004, ID. 2009, ID. 2012a (che si è soffermato in particolar modo sulla rappresentazione della giustizia divina e sull’emozionalità che trasuda dai racconti di queste iscrizioni); PETZL 1998; BELAYCHE 2006a-b; EAD. 2007; EAD. 2012 (che ha messo in rilievo i punti

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di contatto con gli iamata del culto di Asclepio e con le aretalogie di Iside, studiando anche l’idea di regalità divina presente in questi testi). Sui culti rurali della Frigia e della Lidia romana cfr. PETZL 1995; GNOLI-THORNTON 1997; DE HOZ 1999 (che ha raccolto le iscrizioni di carattere sacro della Lidia); PETZL 2002; HÜBNER 2003; DIGNAS 2003; CHIAI 2010. Un’edizione dei testi delle iscrizioni confessionali è stata approntata da Georg Petzl (PETZL 1994). Nei successivi venti anni sono stati rinvenuti nuovi testi confessionali: SEG XLVII, 1651, 1654, 1751; LIII, 1158, 1159, 1172-1174, 1182, 1185-1187, 1210, 1211, 1222, 1223; HERRMANN – MALAY 2007, nr. 46, 47, 51, 52, 54-55, 66, 70, 72, 83-85; MALAY 1999, nr. 111, 112, 217; MALAY – PETZL 2017, nr. 77, 81, 82, 83, 116, 119, 120, 121, 123, 131-134, 159, 160, 169, 177, 178, 187, 188 (l’unica iscrizione confessionale in forma poetica). Su un’iscrizione confessionale rinvenuta a Gerusalemme cfr. SEG LIII, 1852, SEG LVII, 1833. 6. Quello del peccato involontario, espresso con le formule ἐξ εἰδότων καὶ µὴ εἰδότων ( PETZL 1994, nr. 38), διὰ τὸ ἀγνοεῖν ( PETZL 1994, nr. 10) e κατὰ ἄγνοιαν ( PETZL 1994, nr. 11), è un topos che suona come una giustificazione di fronte alla divinità e che si incontra in diverse iscrizioni confessionali. Su questo topos, che ricorre anche nella Bibbia e nei testi babilonesi ed ittiti, rimando alle osservazioni di PETTAZZONI 1936, 257-277. 7. Le malattie più menzionate sono cecità e disturbi psichici, per un elenco cfr. CHANIOTIS 1995. Spesso queste malattie, che potevano anche colpire i parenti più stretti del peccatore, potevano portare alla morte. In questo caso l’espiazione del peccato doveva essere condotta dai familiari delle vittime. 8. L’immagine della divinità quale giudice infallibile che siede in cielo ricorre ad esempio in un’iscrizione dalla Lidia (SEG LVII, 1159= HERRMANN – MALAY 2007, 75-76, nr. 51), in cui si trova l’espressione κριτὴς ἀλάθητος ἐν οὐρανῷ. In altri due documenti epigrafici dalla Lidia (SEG XXXVIII, 1237=PETZL 1994, nr. 5; SEG LVII, 1186=HERRMANN – MALAY 2007, 113-116, nr. 85) si legge di una synatos e di una synkletos theon, ovvero di un’assemblea divina che giudica le mancanze umane, punendole. Su queste testimonianze epigrafiche rimando alle osservazioni di CHANIOTIS 2012a, 215-223. 9. In questo senso si segnalano in particolare i lavori di Angelos Chaniotis ( CHANIOTIS 1997; ID. 2004); cfr. anche GORDON 2006a. 10. A riguardo rimando a ROSTAD 2010 (sulle strutture ed i topoi narrativi) e BELAYCHE 2006b; EAD. 2007 (per un confronto con le aretalogie e gli iamata). 11. Sul modello centro-periferia rimando in generale a SCHÖRNER 2005. 12. Cfr. a riguardo con una raccolta ed analisi delle fonti PETTAZZONI 1937; come ad esempio Sozomeno (VII, 16, 2-10) testimonia, il rituale della confessione pubblica è attestato anche presso i cristiani, a riguardo cfr. GRAF 2004. 13. VERSNEL 1987a; ID. 1991; ID. 2002; ID 2009; ID. 2012. Su questi testi si segnalano i recenti interventi di Martin Dreher (DREHER 2010; ID. 2012), il quale sottolinea il carattere emotivo e fortemente soggettivo di queste richieste, proponendo inoltre di sostituire il concetto di “prayers for justice” col termine “Verbrechensflüchen”; da ultimo BERTI 2017, 23-24. 14. Cfr. ad esempio il papiro di Artemisia (PMG LX), il papiro di Neilammon (PMG LI) ed il testo noto come “Fluch des Christen Sabinus” (BJÖRK 1938=Suppl. Mag. 2, 59). 15. Si tratta di un ostrakon pubblicato per la prima volta da Claudio Gallazzi (GALLAZZI 1985=SB XVIII, 13931). Sui diversi supporti scrittori usati per questi testi rimando alle osservazioni di KROPP 2008, 80-82. 16. Le preghiere per la giustizia non sono spesso perfettamente distinguibili da un’altra categoria di testi chiamati “prayers of revenge” (preghiere per la vendetta), che si leggono di solito nelle iscrizioni funerarie di persone assassinate o la cui morte è avvenuta in circostanze sospette. L’esempio più noto è sicuramente quello dell’iscrizione giudaica dell’isola di Reneia (CIJ 70), vicino Delo, in cui il dio giudaico è invocato affinché punisca gli uccisori di una giovane fanciulla.

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Sulle preghiere per la vendetta rimando agli studi di GRAF 2001, ID. 2009 (che raccoglie e commenta i testi conosciuti); da ultimo anche SALVO 2012. 17. Questo aspetto fu messo in rilievo per la prima volta da Henk Versnel (VERSNEL 1991, 71-73); sulle strategie comunicative e sulla struttura testuale delle petitiones cfr. WHITE 1972 (che raccoglie e commenta diversi testi) ed i recenti studi di STRAVRIANOPOULOU 2012 e KOTZIFOU 2012. Un’ampia raccolta di testi delle petizioni ellenistiche di epoca tolemaica in traduzione francese si trova in GUÉRAUD 1931; sulle petizioni all’imperatore cfr. HAUKEN 1998; sul tema anche le osservazioni di HERRMANN 1990. 18. MÖRTH 1993. 19. Su questo importante fenomeno cfr. GARDAN 1992, 1-22; GLADIGOW 2005, 125-160; CHANIOTIS 2008; CHIAI 2008; CHANIOTIS 2010 ed i contributi in ENGEL – VAN NUFFELEN 2014. 20. Offro qui una selezione di testi: (PETZL 1994, nr. 9, 10-13): Παρανγέλει / πᾶσιν ἀνθρώποις, ὅτι οὐ / δεῖ καταφρονεῖν το[ῦ θε]/οῦ. Ἀνέστησε δὲ τὸ µαρτ[ύ]/ριον; ( PETZL 1994, nr. 10, 10-12): Παρανγέλ/λω δέ, αὐτοῦ τὰς δυνάµις µή /τίς ποτε κατευλήσι καὶ κόψει δρῦν; ( PETZL 1994, nr. 104, 14-17): παρανγέλλω µηδένα καταφρο/[νεῖν τῷ θ]εῷ Ἡλίῳ / Ἀπ/[όλλωνος, ἐπεὶ ἕξει] τὴν στήλ/ [λην ἐξεµπλάριον]; (PETZL 1994, nr. 111, 5-8): διὰ τοῦτο οὖν πα/ρανγέλω πᾶσιν µ<η>δέ/να κα[τα]φ[ρονῖν] τῷ θεῷ, ἐπὶ ἕξει τὴ[ν σ]τήλην ἐξον/πλάριον. L’uso dei termini µαρτύριον ed ἐξονπλάριον (prestito dal latino exemplarium) enfatizza il carattere didattico e morale di questi testi. 21. Su Adrano cfr. CIACERI 1911, 8-15 (al quale si deve un’importante disamina delle fonti letterarie); tra i lavori più recenti si segnalano soprattutto gli studi di Nicola Cusumano (CUSUMANO 1990; ID. 1992; ID. 2006; ID. 2015), ai quali si rimanda per la bibliografia precedente e per la storia degli studi. Sull’argomento cfr. anche MORAWIECKI 1995 e GAGLIANO 2012. 22. Sul ruolo dei cani nei culti in Sicilia cfr. CIACERI 1911, 122-133; ed il più recente studio di CUSUMANO 2004. 23. Su queste emissioni, datate intorno al 288 a.C. (cfr. B.V. HEAD, Historia nummorum, Oxford 1887, 137), cfr. osservazioni in MORAWIECKI 1995, 32-39; in generale sugli aspetti iconografici cfr. CANCIANI 1981. 24. Esichio, s.v. Παλικοίˑ Ἀδράνῳ δύο γεννῶνται υἱοὶ Παλικοί, οἳ νῦν τῆς Συρακουσίας εἰσὶ κρατῆρες, οἱ καλούµενοι Παλικοί, οἱ καὶ κατοικήσαντες αὐτήν. In generale su questa testimonianza e sulle varie interpretazioni proposte per questa divinità con una bibliografia sull’argomento cfr. CUSUMANO 2015, 39-42; un’approfondita discussione sulle fonti in CUSUMANO 1990; ID. 1992, 164-172, 181-185 (che con prudenza propone di vedere in Filisto la fonte del lemma esichiano). 25. Questa tradizione viene tramandata da Stefano di Bisanzio (s.v. Palike). 26. Si tratta di un frammento dello storico Sileno (FGrHist 175, F 3), citato da Stefano di Bisanzio. Secondo Servio (ad Aen. IX, 581), Giove si sarebbe unito alla ninfa Etna e dalla loro unione sarebbero nati i Palici. 27. La fonte principale è, come già accennato, Diodoro Siculo (XIV, 37, 5): Τούτων δὲ πραττοµένων Διονύσιος µὲν ἐν τῇ Σικελίᾳ πόλιν ἔκτισεν ὑπ’ αὐτὸν τὸν τῆς Αἴτνης λόφον, καὶ ἀπὸ τινος ἐπιφανοῦς ἱεροῦ προσηγόρευσεν Ἄδρανον. Per una raccolta delle fonti cfr. MANNI 2004, 137. In generale sugli aspetti archeologici rimando ai documentati studi di Gioconda Lamagna (LAMAGNA 2009a; EAD. 2011; ed i diversi contributi in LAMAGNA 2009b); sulle iscrizioni anelleniche rinvenute nel territorio della città cfr. MANGANARO 1961 (che attribuisce al santuario di Adrano un carattere federale, similmente a quello dei Palici) e la recente messa a punto di AGOSTINIANI 2009. 28. Conosciamo il nome di questo fiume (al neutro) grazie al lemma di Stefano di Bisanzio (Ἄδρανον, πόλις Σικελίας ἐν τῇ Αἴτνῃ, ποταµὸν ὀµώνυµον ἔχουσα); cfr. MANNI 2004, 95-96; su

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Adrano quale divinità fluviale, con argomenti non sempre convincenti cfr. MORAWIECKI 1995, 39-42 con bibliografia precedente. 29. Sugli avvenimenti legati all’arrivo di Timoleonte in Sicilia rimando, in generale, alla chiara ricostruzione storica di SORDI 1980 e di DE VIDO 2013, 69-79. Tra gli studi più recenti sulla figura di questo condottiero cfr. DE VIDO 2011. 30. La situazione viene così riassunta da LAMAGNA 2011, 57: «Infatti, le fasi di vita anteriori a questo periodo, quelle, per intenderci, relative ai periodi successivi alla fondazione dionigiana, sono purtroppo ancora oggi estremamente evanescenti, essendo legate a pochi frustuli di strutture murarie rinvenute una trentina di anni fa nell’area dell’abitato e ad alcuni settori della cinta muraria.». 31. Cfr. VERSNEL 1987b. 32. ALBANESE PROCELLI 1999, 339; ALBANESE PROCELLI 2009, che analizza i bronzi del ripostiglio di Adrano, databili tra il IX-VII sec. a.C., nei quali si rinvengono figure stilizzate di oranti ed i frammenti di una statuetta raffigurante un guerriero. I resti di cinturoni in bronzo decorati, studiati da VASSALLO 1999, 90-109, sembrano attestare la presenza di una ricca aristocrazia guerriera locale. 33. Interpretazione, ad esempio, data da PACE 1945, 520, che propendeva per una identificazione col dio della guerra. Più che di un’identificazione si tratterebbe tuttavia dell’adozione di un elemento iconografico di un’altra divinità, ai fini della creazione di una statua cultuale, i cui attributi iconografici erano consoni ai valori guerreschi dell’aristocrazia locale; in questo senso cfr. le osservazioni di GAGLIANO 2012, 308. 34. Cfr. IG XIV 352 I (latus sinistrum) 54, 62-63, con la menzione di un’area sacra extraurbana o suburbana chiamata τὸ Ἀδρανιεῖον. A riguardo rimando alle osservazioni di CUSUMANO 1992, 174-177; ID. 2015, 45-47 con ulteriori riferimenti bibliografici. 35. Cfr. a riguardo osservazioni in MORAWIECKI 1995, 34-35, che raccoglie esempi analoghi. 36. In generale sulle apparizioni divine rimando a STRAMAGLIA 1999, 7-117 (con una selezione di testi letterari relativi alle apparizioni paranormali); DICKIE 2002; GRAF 2004b; sul ruolo delle epiphaniai in guerra CHANIOTIS 2005, 157-160; PLATT 2011 (sulle rappresentazioni nell’arte antica); PETRIDOU 2015 (che analizza i testi letterari). Tra gli studi più specifici segnalo CHANIOTIS 1998, che studia il famoso “miracolo di Panamara”. 37. BRACKERTZ 1976. 38. BRELICH 1949; le tesi dello studioso sono state riprese e sviluppate in anni recenti da Giorgio Ferri (FERRI 2010). 39. In questo contesto riprendo alcune mie osservazioni fatte in relazione al concetto di “Ortsgebundenheit des Göttlichen” (CHIAI 2009, in relazione ai santuari rurali della Frigia di epoca romana, poi ripreso in CHIAI 2013, a proposito dell’interpretazione che Macrobio fa degli epiteti divini derivati da toponimi), per cui il legame speciale che lega una divinità ad un determinato luogo (sia questo un centro urbano, un villaggio o un territorio) fa in modo che in quell’ambito il potere divino travalichi spesso quello delle canoniche competenze degli dei olimpici di Esiodo. Considerazioni analoghe in relazione al culto della Dea Siria anche presso FELDTKELLER 1994, 64: «Wenn eine Gottheit Schutzgottheit der Polis ist, hat das zur Folge, dass ihre funktionale Geltung in der Polis wesentlich umfangreicher ist als die überregionale Geltung der gleichen Gottheit innerhalb eines polytheistischen Religionssystems.». Osservazioni anche in KAISER 2006, 35-39. 40. Offro qui una selezione di questi testi: (PETZL 1994, nr. 3, 1-2): Μέγας Μεὶς Ἀξιοττηνὸς Ταρσι βα/σιλευων; (PETZL 1994, nr. 6): Διεὶ Ὀρείτῃ κὲ Μηνὶ Περκον βασιλεύοντα; ( PETZL 1994, nr. 40, 1-2): Μὶς Λαβανας κ[αὶ] Μὶς Ἀρτεµιδώρου Δόρου κώµην βασιλεύον|τες; (PETZL 1994, nr. 47, 1): Μεγάλοι θεοὶ Νέαν Κώµην κατέχοντες; (PETZL 1994, nr. 55, 1-2): Μεὶς Ἀρτεµιδώ|ρου Ἀξιοττα κατέχων; (PETZL 1994, nr. 56, 1): Μηνὶ Ἀρτεµιδώρου Ἀξιοττα κατέχοντι. Sulle acclamazioni come

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forma di comunicazione religiosa (verticale dal basso verso l’alto) cfr. CHANIOTIS 2009. Sul concetto di basileia divina in relazione alle divinità dei santuari rurali della Frigia e della Lidia cfr. BELAYCHE 2006b e CHIAI 2009. 41. BRACKERTZ 1976, 155. 42. Significativo è in questo senso l’uso del participio κατέχων in un’iscrizione di Delo in relazione ad e ad Artemide, le divinità protettrici dell’isola, che secondo una tradizione locale sarebbero nate a Delo: (Syll3 662, 10) [...] τούς τε θεοὺς τὴν νῆσον κατέχοντας. In un decreto onorario da Delfi si trova in relazione ad Atene la seguente formula: (Syll3. 704, E 29-30) [...] ὁµ[οίως δὲ κ]αὶ τῶν ἄλλων θεῶν τῶν κατεχόντων τὴν πόλιν τὴν Ἀθηναίων. 43. BRACKERTZ 1976, 156-160. 44. Nella rocca cittadina era ubicato il santuario della divinità protettrice ad Atene, Tegea, Tebe, Corinto, Trezene, Megara, Lindo e Pergamo. 45. Come nel caso di , sul Meandro, Mileto (Delphinion), Afrodisia, Megalopoli e Sicione. 46. , Samo, Epidauro, , Mantinea, Eretria, Elis, Mileto (Didymaion), Colofone, Efeso, Perge e Tegea. 47. Offro qui una selezione di esempi epigrafici: (LSAM, nr. 15, 46) τὸν καθηγεμόνα Διόνυσον; (LSAM, nr. 28, 7-9) ὕμνους [ᾅδεσθαι] ǀ [καθ’ ἑκά]στην ἡμέραν τοῦ προκαθηγεμ[όνος τῆς] ǀ [πόλεω]ς θεοῦ Διονύσου; Ephesos (LSAM, nr. 31, 8) ἡ προεστῶσα τῆς πόλεως ἡμῶν θεὸς Ἄρτεμις; Magnesia on Maeander (LSAM nr. 33, 18) τῇ ἀρχηγέτιδι τῆς πόλεως Ἀρτέμιδι Λευκοφρυηνῇ; Kalymnos (I. Kalymnos nr. 145, 3) τοῦ προκαθηγεμόνος θεοῦ Ἀπόλλωνος; Samo ( IG XII, 582) Ἥρι Σαμίων ἀρχηγέτιδι; Mileto (LSAM nr. 53, 6-8) εὐσέβειαν εἴς τε τὸν προκαθαγεμόνα τῆς πόλεως ἡμῶν Ἀπόλλωνα Διδυμέα. A riguardo mi limito a rimandare alle osservazioni di CHANIOTIS 2007, 147-149. 48. Tra gli studi più recenti su questa tradizione cfr. GAGLIANO 2012, 301-306; CUSUMANO 2015, 54-63, ai quali si rimanda per la bibliografia precedente. 49. Un parallelo adducibile è quello della frigia Hierapolis, che in virtù del culto di Apollo e della presenza del Ploutonion, con le relative tradizioni mitiche legate a questo luogo, aveva assunto questo nome, atto a sottolineare la santità del luogo, nel quale la città fu fondata (cfr. D’ANDRIA 2012; KERSCHBAUM 2014). Un altro esempio anatolico è quello di Aizanoi, che come le ricerche archeologiche hanno mostrato, fu fondata nel luogo in cui sorgeva il santuario di una divinità anatolica, identificata con Zeus. Nel caso di Aizanoi il materiale numismatico mostra come nell’ambito delle tradizioni locali si affermasse che la nascita e la prima infanzia di Zeus avessero avuto luogo nel territorio cittadino (cfr. JES 2007); questo accadeva in concorrenza con la vicina Laodicea sul Lico e con Tralleis (CHIAI 2012, 59-64). 50. Su questo tema esiste una bibliografia immensa, in generale rimando all’esauriente volume MARINO-STAVRU 2015, contenente diversi contributi che studiano questi problemi terminologici. 51. Rimando a riguardo alle osservazioni di PLEKET 1981, 159-161, 163-166. 52. Il significato di questa forma verbale composta si comprende meglio prendendo in considerazione la seguente glossa, contenuta nelle Partitiones di Elio Erodiano: Λώπη, τὸ ἱµάτιον, ὅθεν καὶ λωποδύτης, ὁ κλέπτης. Nell’ Etymologicum di Orione si legge: <Λωποδύτης>. ὁ ἀποδύων τὸ λῶπος, ὅ ἐστι τὸ ἱµάτιον. A riguardo rimando all’esaustiva trattazione di CUSUMANO 2015, 55-58. 53. Lys. 10, 14; Lys. 13, 68 (in riferimento alle malefatte della famiglia di Agorato, dei cui tre fratelli uno venne condannato a morte per apotympanismos in quanto reo di aver fatto segnali al nemico in Sicilia, un altro morì in carcere, in quanto condannato per aver svolto commercio illecito di persone libere, un terzo in quanto λωποδύτης, dovette subire la pena dell’ apotympanismos). Su questo supplizio ci illumina il seguente passo di Fozio: <Ἀποτυμπανίσαι>ˑ οὐχ ἀπλῶς τὸ ἀποκτεῖναι, ἀλλὰ τυμπάνοις ἀποκτεῖναι. Τύμπανον δέ ἐστι ξύλον <ὥσπερ> σκύταλον. Su questa pena capitale rimando a CANTARELLA 1991, 41-53.

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54. Xen., Mem. 1,2,62, 4: «Secondo le leggi, infatti, per chi è sorpreso in flagrante a rubare, a rubare il mantello, a tagliare borse, a commettere effrazione, a rendere schiave persone libere, o a rubare nei templi, per tutti costoro è prevista la pena di morte.» (Trad. Santoni 2004); Plat., Resp. 575b: «Per esempio rubano, sfondano i muri, tagliano le borse, rubano i mantelli, spogliano i templi, vendono come schiavi altri cittadini.» (Trad. Lozza 1990). Athen. 6, 12. 55. Antiph. De caede Herodis 4,9,5: Περὶ γὰρ τῶν κλεπτῶν καὶ λωποδυτῶν ὁ νόµος κεῖται. 56. Per una discussione delle altre testimonianze rimando al già citato studio di CUSUMANO 2015, 55-63. 57. Rimando sempre alle osservazioni di CUSUMANO 2015, 63-66. 58. Raccolgo qui alcuni esempi epigrafici tratti dalle formule di maledizione delle iscrizioni funerarie dalla Lidia e dalla Frigia: (STRUBBE 1997, nr. 55) ὅς ἂν τοῦτο ἢ κατεάξῃ, τῶν / θεῶν κεχολωμένων τύχοιτοˑ / περὶ τούτο σκῆπτρον ἐπηράσ<α>το; ( STRUBBE 1997, nr. 61) ἴνα μή τις προσαμάρτῃ τῇ στήλῃ ἢ τῷ μνημείῳ, σκῆπτρα ἐπέστησαν τοῦ Ἀξ[ι]/οττηνοῦ καὶ Ἀναείτιδος; (STRUBBE 1997, nr. 62) καὶ ἐπηράσαν/το μή τις αὐτοῦ τῷ μνημείῳ προσαμάρτῃ διὰ τὸ / ἐπεστάσθαι σκῆπτρα; (STRUBBE 1997, nr. 67) ε<ἰ> δὲ τεὶς προσαμάρ/τῃ τε τῇ στηλῇ, ἔξει κεχο/ λωμένα τὰ ἄλυτα σκῆπτρα τὰ ἐν Ταβάλοις. Su questo rituale rimando a GORDON 2004b. 59. Un confronto tra le iscrizioni di Cnido e le iscrizioni confessionale era già stato fatto da VERSNEL 1991, 81-85; su questi testi da ultimo con bibliografia BERTI 2017, 81-86. 60. Cfr. VERSNEL 1994. 61. Su questo santuario cfr. WOOWARD-LEACH 1993. 62. Su questo complesso sacro cfr. CUNLIFE-DAVENPORT 1985; i testi epigrafici sono stati pubblicati in TOMLIN 1988. In generale sui testi rinvenuti in Inghilterra KIERNAN 2004. 63. Su questo testo cfr. TOMLIN 2010, 246-247 con annotazioni al testo. 64. CHANIOTIS 2012; DREHER 2010; ID. 2012. 65. Sull’argomento segnalo i diversi contributi pubblicati nel dossier “Les dieux en (ou sans) émotion. Perspective comparatiste”, apparso nel nr. 4 (2010) della rivista “Mythos”. 66. Sul tema dell’onniscienza divina rimando al classico studio di PETTAZZONI 1955, 208-239 (sulla Grecia), 240-258 (su Roma). Tra le tante testimonianze raccolte dallo studioso possiamo ricordare l’inizio del trattato plutarcheo su Iside ed Osiride, in cui si dice che l’ἐπιστήµη e la φρόνησις, ovvero la conoscenza e la capacità di riflettere, rappresentano gli elementi costitutivi del divino (τὸ θεῖον). 67. HERRMANN – MALAY 2007, 75–76, nr. 51=SEG LVII, 1159. 68. Su questo aspetto rimando al documentato studio di CHANIOTIS 1997, con un’impressionante raccolta di testimonianze letterarie ed epigrafiche sul tema. 69. Sul carattere di questi testi cfr. GUARDUCCI 1978, 3-45; i testi di queste iscrizioni sono stati raccolti ed editi con note di commento nei tre volumi curati da SOKOLOWSKI (1955, 1962, 1969); un’edizione recente con traduzione e commento in LUPU 2009. Per una critica e revisione del concetto di “legge sacra” rimando a PARKER 2004 e CARBON – PIRENNE-DELFORGE 2017. 70. SOKOLOWSKI 1969, nr. 55 (da Atene - l’ingresso al santuario di Men è permesso solo a quanti, dopo aver avuto rapporti sessuali con una donna, abbiano fatto un bagno; una donna, che abbia avuto mestruazioni può entrare solo dopo sette giorni e dopo essersi fatta un bagno); SOKOLOWSKI, 1962, nr. 91,3 (da – un uomo può accedere al santuario dopo un periodo di astinenza sessuale di 41 giorni). Per altre testimonianze cfr. FEHRLE 1910, 25-29; PARKER 1983, 74-100; anche nelle iscrizioni confessionali abbiamo casi di punizione a causa di intemperanze sessuali (PETZL 1994, nr. 5, 36). 71. Si tratta di una lunga iscrizione datata tra il II ed il I sec. a.C., proveniente dal territorio di Filadelfia (Lidia), che contiene il regolamento cultuale di un culto privato di carattere misterico. Il testo, che per molti versi ricorda i precetti morali cristiani, sottolinea più volte l’importanza di

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avere pensieri puri ed intenzioni non malvagie quale requisito per essere ammessi al culto. Per un’edizione con commento e traduzione di questo testo cfr. PETZL 2007, nr. 1539; si vedano anche le osservazioni di CHANIOTIS 1997, 159-162 (che ne fornisce una traduzione in lingua tedesca) e da ultimo DE HOZ 2017. Un pensiero analogo sembra venisse espresso sull’inscrizione posta all’ingresso dei santuari di Asclepio, secondo la quale solo una persona con pensieri puri (φρονεῖν ὅσια) può entrare nel tempio del dio; il testo di questa massima è stato tramandato da Porfirio (de abstinentia II, 19, 5) e da Clemente Alessandrino (Stromata V 1, 13, 3). In una aretalogia di Iside (TOTTI 1985, nr. 11, 33-34) si legge che la dea aiuta volentieri quei mortali che sono di pensieri puri. In una lex sacra (SOKOLOWSKI 1969, nr. 82) da Rodi si trova la seguente ammonizione: «tu devi entrare puro e con puri pensieri dentro questo santuario». Per altri esempi rimando a CHANIOTIS 1997, 152-158, che è tornato recentemente sull’argomento in CHANIOTIS 2012b, il quale giustamente osserva (p. 133): «the development of the idea of the purity of the mind and its priority over the purity of the body was part of a more general process of fundamental changes in the perception of rituals in Classical and Hellenistic Greece. This process leads from the traditional view that ritual actions are effective when correctly performed to the idea that a ritual’s efficacy depends (also) on the moral and other justifications of the individual who performs it.». Sull’argomento cfr. ora la documentata monografia di PETROVIC – PETROVIC 2016, con una ricca introduzione (pp. 1-37) contenente una storia degli studi. 72. Tra gli studi più recenti su questa tradizione cfr. GAGLIANO 2012, 306-308; CUSUMANO 2015, 73-93 con bibliografia precedente. 73. PARKER 1983, 104-143; CHANIOTIS 1997, 148-151, che giustamente mette in rilievo che, seppure nel diritto greco fosse presa in considerazione la non intenzionalità di un delitto, quale attenuante, il colpevole era visto come impuro e macchiato dal miasma. 74. Al santuario di Zeus Kynthios e di Kynthia a Delos possono aver accesso solo persone con un animo puro e con le mani pure (SOKOLOWSKI, 1962, nr. 59); stessa prescrizione si legge in una legge sacra da Lindos (SOKOLOWSKI 1969, nr. 139). 75. La città viene detta dalle fonti essere una fondazione di Ducezio; in realtà gli scavi condotti negli anni 60 sulla Rocchicella presso Mineo hanno portato alla luce i resti di strutture cittadine preesistenti con acropoli ed edifici di culto; pertanto quella di Ducezio sarebbe una rifondazione. cfr. MANISCALCO – MC-CONNELL 1997-1998, 173; sul sito cfr. anche le osservazioni di ADAMESTEANU 1962, 175-180; per una rassegna delle fonti e della bibliografia DI STEFANO 1994, 280-282, s.v. Palike; MANISCALCO – MCCONNELL 2003; CORDANO 2008; sugli aspetti storico-religiosi CUSUMANO 1990, 118-123; ID. 2006, 123-131; ID. 2015, 13-37. COPANI 2008, identifica Palike con Trinakrie, centro quest’ultimo che secondo Antonio Franco (FRANCO 1999; ID. 2008, 165-170) sarebbe da identificarsi con Mendolito, i cui strati di distruzione, in effetti, sembrano coincidere col periodo in questione. Per gli scavi sul santuario rimando alla documentata monografia di MANISCALCO 2008. 76. Il carattere autoctono di queste divinità veniva, ad esempio, evidenziato da Polemone (FHG III, 140 fr. 83=Macrobio, Sat. V, 19, 26): οἱ δὲ Παλικοὶ προσαγορευόµενοι παρὰ τοῖς ἐγχωρίοις αὐτόχθονες θεοὶ νοµίζονται. 77. Si tratta, come giustamente messo in rilievo da Nicola Cusumano (CUSUMANO 2015, 19-22) di un locus inferus; osservazioni in proposito anche in CHIRASSI COLOMBO 2006, 224-227. 78. Diod. (XI, 89, 1): µυθολογοῦσι γὰρ τὸ τέµενος τοῦτο διαφέρειν τῶν ἄλλων ἀρχαιότητι καὶ σεβασµῷ, πολλῶν ἐν αὐτῷ παραδόξων παραδεδοµένων. 79. Le fonti principali sul giuramento ordalico nel santuario dei Palici sono il lemma Palike di Stefano di Bisanzio ed un passo dei mirabilia dello Pseudo-Aristotele (mir. ausc. 58). In considerazione dell’incredibile somiglianza dei due testi, è lecito supporre che si tratti di un estratto dall’opera di una fonte comune. 80. Non è da escludere che queste tavolette potessero essere scritte anche in lingua sicula, come afferma Nicola Cusumano (CUSUMANO 2006, 140-141).

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81. Stefano Bizantino (s.v. Palike): … Ἔστι δὲ καὶ ὅρκος, ὅς ἅγιος αὐτόθι δοκεῖˑ ὅσα γὰρ ὄμνυσί τις, γράψας εἰς πινακίδιον ἐμβάλλει εἰς τὸ ὕδωρ. Ἐὰν μὲν οὖν εὐορκῇ, ἐπιπολάζει τὸ πινακίδιονˑ ἐὰν δὲ μὴ εὐορκῇ, τὸ μὲν πινακίδιον βαρὺ γενόμενον ἀφανίζεσθαί φασι, τὸν δ’ ἄνθρωπον πίμπρασθαιˑ διὸ μὴ λαμβάνειν τὸν ἱερέα παρ’ αὐτοῦ ἐγγύας ὑπὲρ τοῦ καθαίρειν τινὰ τὸ ἱερόν. 82. Nella tradizione tramandata dallo Pseudo-Aristotele e da Stefano di Bisanzio la morte avviene per combustione. Va rilevato che il verbo usato πίµπρασθαι si ritrova anche nelle preghiere per la giustizia e nelle defixiones, quale pena augurata al colpevole o alla persona sulla quale viene gettato il maleficio. Sull’uso di questo verbo in questi testi epigrafici rimando a VERSNEL 1994, il quale rileva che nei testi medici questo termine viene utilizzato in relazione agli effetti che la febbre alta ha sul corpo umano. 83. Cfr. Diodoro (XI, 89). 84. Il particolare della pena che arriva immediatamente accomuna tutti i testi che tramandano questa tradizione, come giustamente Nicola Cusumano (CUSUMANO 2006, 126, n. 19) sottolinea. Va rilevato che lo stesso motivo ricorre anche nelle preghiere per la giustizia, nelle preghiere per la vendetta e nei papiri magici, in cui il dio, dopo la lettura (ad alta voce) del testo rituale è invitato ad intervenire subito ed in maniera veloce. 85. Delle loro competenze oracolari ci informa un frammento dello storico Senagora (FGrHist 240 F 21=Macrobio, Sat. V, 19, 30). 86. Questa tradizione risale a Varrone (Serv. Dan. Ad Aen. IX 581: Palicos nauticos deos appellat); su questa tradizione cfr. osservazioni in CUSUMANO 1990, 136 e MORAWIECKI 1995, 36-39, il quale sostiene che Varrone sarebbe stato a conoscenza della tradizione greca che faceva di Efesto il padre dei Palici, poi identificati con i Cabiri, in quanto Efesto era considerato il loro genitore. Non mi sento, tuttavia, di concordare con la proposta dello studioso, secondo cui l’identificazione di Adrano con Marte sarebbe avvenuta in epoca romana, dal momento che nessuna delle tradizioni che conosciamo identifica esplicitamente Adrano col dio della guerra; lo studioso afferma inoltre che la creazione del “singolo Palico”, che troviamo menzionato in Virgilio (Aen. IX, 584-588) e nella relativa annotazione serviana, andrebbe datata in epoca romana. 87. Sul diritto all’asylia ci informa Diodoro (XI, 89, 6-8), a riguardo mi limito a rimandare a CUSUMANO 2006, 127-128; osservazioni anche in CARDETE DEL OLMO 2007, 76-77. 88. Questa tradizione è attestata in un frammento di Eschilo (Fr. 27a Mette), trasmesso da Macrobio (Sat. V, 19, 17): τὶ δῆτ’ ἐπ’ αὐτοῖς ὄνομα θήσονται βροτοί; σεμνοὺς Παλικοὺς Ζεὺς ἐφίεται καλεῖν. ἦ καὶ Παλικῶν εὐλόγως μένει φάτιςˑ πάλιν γὰρ ἵκουσ’ ἐκ σκότους τόδ’εἰς φάος. Stefano di Bisanzio ci tramanda un frammento di Teofilo, autore di un’opera di carattere periegetico, in cui veniva citato un secondo frammento eschileo delle Etnee (Fr. 28 Mette): Θεόφιλος δ’ἐν ἑνδεκάτῳ περιηγέσεως Σικελίας Παλικίνην κρήνην φησὶν εἶναι. Πλησίον δὲ αὐτὴς ἱερὸν Παλικῶν, οἳ εἰσι δαίμονές τινες οὓς Αἰσκύλος ἐν Αἴτναις γενεαλογεῖ Διὸς καὶ Θαλείας τῆς Ἡφαίστου. Sul contesto storico delle “Etnee” di Eschilo cfr. BONANNO 2010, 142-153; TOTARO 2011 con bibliografia precedente. A riguardo osservazioni in CUSUMANO 2006, 129-131 e COPANI 2007, 94-95, che vedono in questa grecizzazione genealogica dei Palici e nella creazione di questa paraetimologia un tentativo da parte dei Greci di appropriarsi di un culto indigeno. LURAGHI 1994, 342-343 arriva a parlare di “assorbimento” dei Palici nel pantheon greco. 89. Il particolare che i gemelli fossero stati nascosti sottoterra è tramandato da Servio (Ad Aen. IX, 584: talis est fabula: Aetnam nympham (vel, ut quidam volunt, Thaliam) Juppiter cum vitasset, et fecisset gravidam, timens Junonem, secundum alios, ipsam puellam, Terrae commendavit, et illic enixa est. Secundum alios, partum eius, postea cum de Terra erupissent duo pueri, Palici dicti sunt, quasi iterum venientes. Nam πάλιν ἵκειν est iterum venire.); a riguardo cfr. osservazioni in MORAWIECKI 1995, 43-44. 90. In generale per una rassegna delle fonti rimando a RIZZO 2012, 187-188. 91. Per una definizione di paesaggio religioso riporto le parole di Hubert Cancik (CANCIK 1985/86, 255): «sacred landscape is a constellation of natural phenomena constituted as a meaningful

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system by means of artificial and religious signs, by telling names or etiological stories fixed to certain places, and by rituals which actualize the space.». Tra i più recenti contributi sull’argomento segnalo SCHEID – DE POLIGNAC 2010, i quali, sottolineando l’assenza di un termine designante il paesaggio sacro in Greco ed in Latino, notano che (p. 431): «La de paysage religieux naît de la constatation que le culte et les rites n’existent qu’en tant qu’ils sont ancrés dans l’espace, que ce soit de manière stable ou pro visoire. Les temples, les sanctuaires, forment l’armature religieuse d’un territoire (de la même manière que les géographes parlent d’armature urbaine). Le paysage religieux procède ainsi d’une lecture symbolique de l’espace qui s’appuie elle- même sur les acquis de trente années de recherches en anthropologie religieuse.». 92. Sulle “sacred landscapes” in Sicilia rimando al documentato contributo di CARDETE 2010. 93. Si tratta di un tipo di paesaggio, che io ho proposto di definire “idaico” (cfr. CHIAI 2017, 213-214). A riguardo va anche ricordato un famoso passo di Pausania (IV, 33, 1) nel quale il Periegeta in maniera alquanto ironica afferma che alla sua epoca è impossibile fare un elenco di tutti quelle località, che reclamavano per sé lo stato di luogo di nascita di Zeus. Lo stesso può dirsi per Apollo ed Artemide, i cui natali venivano contesi, ad esempio, da Efeso, Delo, Tebe e molte altre località del mondo greco. Sulle monete di Hierapolis in Frigia abbiamo la raffigurazione del ratto di Persefone ad opera di Ade: sulla base della presenza del famoso Plutonio, considerato come l’ingresso dell’Ade, questa città localizzava questo mito nel suo territorio. Un frammento dello storico Semos di Delo (FGrHist 396, F 20) informa che la Licia, Delo, l’Attica e la Beozia si contendevano il privilegio ai aver dato i natali ad Apollo. Sull’argomento cfr. anche il dettagliato studio di NOLLÈ 2003, che analizza il materiale numismatico dell’ romana per ricostruire le numerose leggende locali sulla nascita di Zeus, localizzata ad esempio a Laodicea sul Lico, ad Aizanoi, ad etc. 94. CUSUMANO 2015, 25; in questo contesto possono essere citate anche le incisive parole di Simona Marchesini (MARCHESINI 1999, 175), in relazione alla valenza sacra della scrittura presso gli Italici: «suggellare il senso di sé con uno strumento che, nella sua funzione primaria, serve a fissare un messaggio altrimenti destinato a perdersi.....Ciò che sta scritto esige un vincolo estremo, sancisce quindi norme e codici.». 95. Ecco alcuni esempi: PETZL 1994, nr. 27, 34, 54, 58, 107. Sullo spergiuro nelle iscrizioni confessionali cfr. EGER 1939. 96. HERRMANN – MALAY 2007, 75-76. nr. 51=SEG LVII, 1159: Ἔτους ρπζ, μη(νὸς) Δαισίου βι’ / Μέγας Μεὶς Οὐράνιος / Ἀρτεμιδώρου Ἀξιοττα / κατέχων καὶ ἡ δύναμις αὐτοῦ, κρ[ι]/τὴς ἀλάθητος ἐν οὐρανῷ, εἰς ὃν / κατέ<φ>υγεν Ἀλέξανδρος Σωκράτο[υ] / ὑπὲρ κλοπῆς τῆς προδηλουμένηςˑ / Ἄμμιον Διογᾶ γυνὴ ἔχουσα θυγα/τέρα Μελτίνην ἦραν ἰδίου δ/αέρος * δ’, ὁρκιζόμεναι ὤμοσανˑ / [ἀ]πέκτεινεν ὁ θεὸς μέγας ὁ θ/[εός....Un altro interessante esempio è fornito dalla seguente iscrizione confessionale dalla Lidia, recentemente pubblicata: MALAY – PETZL 2017, Nr. 116: Ἐπὶ Ἀπάλαυστος / ὀμόσας Μῆνα Ἀξιοτ/τηνὸν καὶ παρορκή/σαντος αὐτοῦ, ἀπέ/κτεινε αὐτοῦ τὸν υ/ ἱὸν καὶ τὴν νύνφην, καὶ / εἱλάσατον τοὺς θεοὺς / καὶ ἀπέδωκε τὸ λύτρον. / Ἔτους σνη’, μ(ηνὸς) Δείου. 97. Ecco alcuni esempi GUÉRAUD 1931, nr. 26, 5-6 (giuramento prestato presso l’Arsinoeion); GUÉRAUD 1931, nr. 47, 5-6 (giuramento prestato presso il tempio di Atena). 98. BRELICH 1964-1965, su cui cfr. le importanti osservazioni di CUSUMANO 2005a; ID. 2005b. 99. Questa impostazione di fondo caratterizzava, ad esempio, l’approccio di Biagio Pace alla cultura materiale dei popoli indigeni così come la ricostruzione fatta da Emanuele Ciaceri (CIACERI 1911) dei culti e delle credenze (sull’opera di questo studioso cfr. GIAMMELLARO 2008). 100. A riguardo mi limito a rimandare al sempre valido contributo di AGOSTINIANI 1988-1989; cfr. anche il più recente AGOSTINIANI 2012 con bibliografia. 101. Va anche ricordato che solo a partire dalla Seconda Età del Ferro si hanno dati certi sulla strutturazione delle aree sacre, mentre per il periodo protostorico non si esclude che in alcuni

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edifici pubblici la funzione politica si affiancasse a quella sacrale. Per una sintesi cfr. ALBANESE PROCELLI 2003, 211-218; EAD. 2006, 45-56. 102. ÖHLINGER 2015, 62-75, con bibliografia precedente. 103. ÖHLINGER 2015, 76-85, con bibliografia precedente. 104. ALBANESE PROCELLI 2003, 271: «La rozza fattura, certamente indigena, tradisce l’ispirazione a modelli greci del periodo, reinterpretati con il gusto e le possibilità di tecniche locali.»; EAD. 2006, 56, dove viene sottolineato che le prime rappresentazioni iconografiche di divinità femminili in ambito indigeno non si datano prima del VI sec. a.C. e sono contemporanee alla diffusione del modello planimetrico greco dell’oikos bipartito. 105. ÖHLINGER 2015. La studiosa analizza 16 “Fallbeispiele”. 106. Sulle culture e sui popoli anellenici della Sicilia, comunemente chiamati seguendo la tradizione letteraria (soprattutto quella tucididea) Sicani, Siculi ed Elimi, cfr. gli imprescindibili studi di Rosa Maria Albanese Procelli (ALBANESE PROCELLI 1999; EAD. 2003; EAD. 2006; EAD. 2010); un’ottima sintesi in LA ROSA 1989 (ripreso poi in LA ROSA 1996) ed in SPATAFORA 2014; da ultimo cfr. la sopra citata monografia di ÖHLINGER 2015. Seppure invecchiati, per la ricchezza dei dati offerti, vanno citati PACE 1935-1949 e BERNABÒ BREA 1958. Per una sintesi storica cfr. FRANCO 2008, 71-105; MICCICHÈ 2011. Sulle tradizioni mitiche rimando alle documentate monografie di CUSUMANO 1994 e SAMMARTANO 1998. 107. Uno sguardo d’insieme in ALBANESE PROCELLI 2006, 56-66. La studiosa non esclude che i Greci avessero utilizzato le aree sacre quale luoghi di incontro e di scambio con le popolazioni locali. 108. Qui mi limito a rimandare alle recenti osservazioni di Carmine Ampolo (AMPOLO 2012), che fornisce un’utile sintesi sul materiale epigrafico ed archeologico. Un paradigmatico caso di presenza di una comunità greca in un insediamento indigeno è quello di Monte Iato (cfr. la sintesi di ISLER 2012); i contesti funerari attestano ugualmente fenomeni di commistione e convivenza, per cui non sempre risulta possibile separare l’elemento indigeno da quello ellenico o fenicio (cfr. le sintesi di ALBANESE PROCELLI 2010; SPATAFORA 2010; EAD. 2012; EAD. 2014). 109. A riguardo riporto le parole di Rosa Maria Albanese Procelli ( ALBANESE PROCELLI 2006, 44): «assumendo come fonti documentarie esclusivamente dati relativi alla cultura materiale, potremo avere un’idea delle pratiche di culto, cioè dei comportamenti esteriori e fattuali, e non certo delle credenze, la cui sfera involge fenomeni di natura emotiva e aspetti orali, coreografici e mitopoietici (nonché gestuali o relativi alla decorazione del corpo), difficilmente percepibili solo attraverso indicatori archeologici.». 110. Sulla synteleia di Ducezio mi limito a rimandare a FRANCO 2008, 147-158 con ampi riferimenti bibliografici; sull’uso di questo termine politico nell’opera diodorea cfr. CUSUMANO 1996. 111. A riguardo rimando alle osservazioni di CHIAI – KUNST – HÄUSSLER 2012 ed ai contributi in BRICAULT-BONNET 2013; BONNET – PIRENNE-DELFORGE – PIRONTI 2016. 112. RÜPKE 2010, ID. 2011; sull’argomento cfr. HAEUSSLER 2013, 27-73 con un’esaustiva bibliografia. La complessità del processo di romanizzazione viene riassunta da Ralph Häussler nel modo seguente (HAEUSSLER 2013, 18): «People were incorporated into the Imperium Romanum in such a way that their material culture, languages, cults, rituals and identities seemingly lost particularities, becoming almost indistinguishable from what could be found in Rome. But Rome did not create cultural homogenisation; instead, we must assume that local particularities persisted and continued to evolve gradually, comparable to the Roman East.». 113. BOWERSOCK 1990, 1-28 fu ad esempio uno dei primi a sostenere che l’ellenizzazione, soprattutto grazie all’introduzione della scrittura, ebbe il merito di preservare il “locale” nelle diverse culture non-greche del mondo ellenistico (p. 7: «Hellenism was a language and culture in which peoples of the most diverse kind could participate. That is exactly what makes it remarkable. (…) It was a medium not necessarily antithetical to local or indigenous traditions. On the contrary, it provided a new and more eloquent way of giving voice to them»). Questa sua

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interpretazione ha trovato ampio consenso presso molti studiosi (cfr. ad esempio KAISER 2006, il quale nota (p. 29): «However, it has been convincingly argued that ‘Hellenism’ should not be viewed automatically as opposed to indigenous traditions: once transmitted to the Near East, Graeco-Roman cultural facets could come to serve as a medium by which a local culture could find renewed expression»). Sul ruolo del “particolare” e del “locale” nella vita religiosa del Vicino Oriente in epoca ellenistico-romana rimando ai diversi contributi in KAISER 2008. Del parere opposto è invece MILLAR 1987, 162-164, per quale l’ellenizzazione prima ed il dominio romano poi avrebbero condotto alla cancellazione ed all’oblio del “locale” (p. 162: «Everywhere except Mesopotamia, and of course Judaea, the combined effects of Hellenisation and Roman rule served in the medium term to suppress local identities»). Una discussione approfondita del concetto di ellenizzazione con un’ampia bibliografia si trova in STAVRIANOPOULOU 2013 e BONNET 2014, 19-23; per chiarezza espositiva cfr. anche lo stimolante articolo di John Ma (MA 2008), che applica le categorie di “paradigma” e di “paradosso” allo studio dei processi di ellenizzazione. 114. PETTAZZONI 1936, 39-53; sull’argomento anche FURLANI 1935. Possiamo ricordare che questo rituale è attestato anche nelle iscrizioni sud-arabiche (cfr. SIMA 1999). 115. In generale sulla lingua sicula e sulle interferenze linguistiche col greco rimando a WILLI 2008, 341-347 con bibliografia. 116. Questo discusso personaggio viene in maniera pregnante definito come «espressione di un’élite indigena culturalmente e militarmente evoluta, desiderosa di affermare i propri diritti e di sottrarsi all’egemonia delle colonie greche» (cfr. SIMONETTI AGOSTINETTI 2012, 322). Su Ducezio e la sua importanza storica esiste una vasta bibliografia, in generale cfr. ADAMESTEANU 1962 (al quale si deve la pregnante frase “il momento di Ducezio”; lo studioso fu uno dei primo ad aver studiato il testo di Diodoro in relazione alle evidenze archeologiche); GALVAGNO 1991 (sull’uso retorico della figura del condottiero siculo nell’ambito dell’opera diodorea); CARDETE DEL OLMO 2007 (con un’analisi del rapporto di Ducezio col santuario dei Palici) ; SIMONETTI AGOSTINETTI 2012 (con una buona sintesi storica degli avvenimenti); BELLINO 2014 (che analizza gli aspetti militari). COPANI 2007; ID. 2008 sulle fondazioni di Trinakie e Palike; FRANCO 2008, 139-170. Da ultimo CUSUMANO 2015, 14-19 con bibliografia. 117. A riguardo rimando alle osservazioni di CUSUMANO 2015, 19-37; sul tema dei santuari federali greci rimando ai recenti contributi in FUNKE – HAAKE 2013. 118. Su questo concetto, introdotto da Louis Gernet (GERNET 1948/49) cfr. TADDEI 2009 e CUSUMANO 2015, 67-68 con bibliografia. 119. WOLF 1998; lo stesso modello è stato applicato da Ralph Häussler (HAEUSSLER 2013) allo studio della romanizzazione del nord-ovest Italia. 120. Sui pericoli dell’uso di tali categorie moderne nello studio del mondo antico rinvio a TRAINA 2006. 121. La valorizzazione del “locale” nello studio dell’evoluzione della cultura nelle diverse provincie dell’Impero Romano acquista sempre più importanza nella ricerca; su questo fenomeno segnalo un importante progetto di ricerca condotto da Hans Beck (http://www.hansbeck.org/ local/). Un’ottima rassegna delle fonti letterarie, che mettono in luce l’importanza del “particolare” nella percezione della Sicilia nell’immaginario romano si trova in CHIRASSI COLOMBO 2006.

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RIASSUNTI

Lo scopo di questo studio è quello di proporre in primo luogo una comparazione tra le tradizioni locali dei santuari di Adrano, di Efesto ad Enna e dei Palici e le situazioni di vita quotidiana narrate nelle iscrizioni confessionali e nelle preghiere per la giustizia, ai fini di trovare punti di contatto ed analogie che permettano di ricostruire la presenza di comuni modelli nella scelta e nell’utilizzo di determinate forme di comunicazione religiosa. In secondo luogo, intendo fare delle considerazioni sulla maniera in cui il contatto con i Greci e con la loro cultura abbia fatto in modo che nuove forme di comunicazione religiosa venissero introdotte nell’ambito dei culti locali, grazie alle quali proprio l’elemento locale non viene obliato o cancellato, ma grazie ad un processo di ridefinizione, che trova paralleli interessanti anche in altre regioni del mondo greco e romano, continui ad esistere in una nuova veste.

This study aims at making a comparison between the local traditions of the sanctuaries of Adrano, of Efesto in Enna and the Palici and the situations of daily life narrated in the confessional inscriptions and in the prayers for justice. My purpose is to find points of contact and analogies that allow us to reconstruct the presence of common models in the choice and use of certain forms of religious communication. Secondly, I intend to make some considerations on the way in which the contact with the Greeks and their culture has made sure that new forms and media of religious communication were introduced within the local cults. The new media of religious communication made possible that the local religious elements were not obliterated, but thanks to a process of redefinition, which finds interesting parallels also in other regions of the Greek and Roman world, these continued to exist in a new (Greek) habit.

INDICE

Keywords : Divine Justice, Hellenisation, Sicily, Greeks, local people Parole chiave : Giustizia divina, ellenizzazione, Sicilia, Greci, popoli locali

AUTORE

GIAN FRANCO CHIAI Institut für Alte Geschichte Freie Universität Berlin Koser Str. 20 14195 Berlin gian.franco.chiai[at]fu-berlin.de Ha studiato lettere classiche presso l’Università di Roma la Sapienza, laureandosi in Storia Greca e conseguendo poi il titolo di Dottore di Ricerca in Storia Antica. Ha svolto attività di ricerca e di didattica presso le Università di Tubinga, Heidelberg, Francoforte e Berlino (Freie Universität). Si occupa di culti e religioni nel mondo classico, di fisiognomica antica e di storiografia greca e romana. Tra le sue pubblicazioni si segnala la monografia Troia, la Troade ed il Nord Egeo nelle tradizioni mitiche greche. Contributo alla ricostruzione della geografia mitica di una regione nella memoria culturale greca, Mittelmeerstudien 16, Padeborn 2017” ed il volume degli atti di congresso Pollution and the Environment in Ancient Life and Thought, Geographica Historica 36, Stuttgart 2017”, curato insieme ad O. Cordovana.

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The Significance of Money for the Cults and Sanctuaries of Demeter and Kore: The Shaping of the Cults by Commercial Transactions

Aynur-Michèle-Sara Karatas

…and the initiated bring their tribute of a to the goddess, as lovers do to a mistress. Clement of Alexandria, Exhortation of the Greeks 2

Introduction

1 Pausanias (3.12.3) tells us that one paid with oxen, slaves, and ingots of silver and gold before were used as currency.1 In pre-monetary society, the exchange of items was commonplace. Food, animals, goods, services, and ingots were used as a medium of exchange. Worshippers consecrated animals, goods, and ingots as a means of payment of fees for individual and collective cultic rituals performed in sanctuaries. The monetarization of the market has certainly accelerated the use of coins in cultic context. The monetarization of cultic services was especially useful for the temple economy and cultic officials. The temple and cultic officials had higher benefit from money than from goods or animals. Money can be accumulated and used for different purposes. Goods and animals do not offer these advantages. There is a process of interweaving between the polis and the cults. The polis determined the features of the cults, organized festivals, and fixed temple taxes and fees for different cultic services. The polis has also accelerated the monetarization of the cults.

2 Clement of Alexandria (2nd century CE) describes in Exhortation of the Greeks 2 the mysteries of Demeter performed at Alexandria and mentions that the initiates gave a coin to the goddess. Commercialized salvation was not only offered at Alexandria but also in other cities, especially at Eleusis, where the most significant mysteries in

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ancient Greece were performed in honour of Demeter and . The mysteries of Demeter and Persephone offered a better afterlife for those who were initiated into the . Epigraphic sources from Eleusis and Athens mention fees imposed on all citizens and on the member cities of the Delian League. Fees are also attested by epigraphic evidence for various sanctuaries of Demeter and Persephone in other Greek cities. The income from the temple taxes and fees for different cultic services covered up one part of the funding of the sanctuaries and the income of cultic officials.

Fig. 1. Coins, bronze ingots, and thesaurus attested by archaeological and epigraphic evidence for the sanctuaries of Demeter

Map edited by author

3 This paper explores a number of epigraphic2 and archaeological sources that illustrate the shaping of the cult of Demeter and Persephone by commercial transactions, the income from the Eleusinian Mysteries, aparche, and coins deposited at various sanctuaries of Demeter. The first part of the paper deals with ingots and coins in gold, silver, bronze, and copper unearthed at the sanctuaries of Demeter (Fig. 1). The second part deals with thesauroi and their use attested by archaeological and epigraphic sources for the sanctuaries of Demeter. The third part analyses epigraphic material on the income from the Eleusinian Mysteries and aparche paid by the members of the Delian League. As it would go beyond the scope of this paper, only a few inscriptions on the finances of the sanctuary of Demeter and Persephone at Eleusis will be analysed.

Ingots and coins unearthed at the sanctuaries of Demeter

4 Metal ingots, metal objects, and jewellery made of metal were used as pre-monetary currency during the Archaic and earlier periods. Ingots and metal objects were consecrated by single worshippers and by the poleis at sanctuaries. Ingots were not only consecrated as votives but also used as means of payment for cultic services. The consecration of ingots is not restricted to the Archaic and earlier periods. A decree

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dating to the late 3rd century BCE concerns the dedication of silver ingots and coins by the polis at the sanctuary of Amphiaraos in Oropos (IG VII 303; Epigr. tou Oropou 324). This inscription illustrates that metal was also dedicated in later periods. Ingots and metal objects dedicated at sanctuaries were sold or used for manufacturing of metal objects.

5 Bronze ingots were found at various sanctuaries, such as in Eloro, Monte San Mauri di Caltagirone, Gela, Himera, Selinunt, and Agrigento.3 Most sanctuaries, where bronze ingots were found, were dedicated to deities linked to agricultural fertility and to chthonian elements.4 Bronze ingots were unearthed at the sanctuaries of Demeter in Eloro, Gela, Selinunt, and Agrigento.5 The deposition of metal objects and ingots is more commonplace for the sanctuaries of Demeter in Western Greece than for her sanctuaries in other regions. Single metal objects are attested for some sanctuaries of Demeter in mainland Greece, Western Asia Minor, and on the Greek islands. The number of metal votives is, therefore, significantly high at the Western Greek sanctuaries of Demeter.

Table 1. Coins and bronze ingots found at the sanctuaries of Demeter.

The table illustrates the approximate period of dedication.6

6 The monetarization of the markets has its beginning in the 6th century BCE. However, it is in the 5th and following centuries that coins played an important role in the economy and cultic life. The deposition of coins in sanctuaries has also its beginning in the 5th century BCE. More than 118 sanctuaries of Demeter are attested by archaeological evidence,7 but coins were only unearthed at few sanctuaries of the goddess (Fig. 1; Table 1): Myrmekion, Stageira, Samos, , Knossos, Via Fiume at Gela, Morgantina, Eloro, Entella, and the santuario ctonio at Agrigento.8 The coins are made of gold, silver, bronze, and copper. In some sanctuaries, the low value bronze coins were deliberately deposited together with clay votives, jewellery, pins, and other objects made of bronze and iron. Coins found at various sanctuaries and sites were also low value coins used in day-to-day low value transactions.9 The find circumstances of coins at some sanctuaries of Demeter suggest that the coins were dedicated as votives and were not intended to be used for the expenses of the sanctuary. As illustrated in Table 1, the deposition of coins as votives ends in the late 2nd and in the early 1st centuries BCE. The dedication of clay votives also ends at most sanctuaries of Demeter in the 2nd

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century BCE, indicating that the end of the deposition of coins as votives is linked to the end of dedication of clay votives. Some coins were intentionally deposited in hoards at some sanctuaries. In antiquity, many sanctuaries functioned as banks, where money and precious ingots were deposited. Gold and silver coins were deposited as treasury for later recovery in sanctuaries. Sometimes, the coins were for some reasons not retrieved. Picard states that bronze coins were seldom deposited as treasury due to their low material value and to the demonetization of bronze coins after a period.10

7 As the relationship of the worshipper to the deities was regulated by ‘do ut des’, the main aim was that the worshippers gave money to the deity for his help. For this reason, it was not important for the worshippers whether the coins, which they consecrated as payment for services, were deposited in the sanctuary or used for the running cost of the shrine. Cultic officials could deposit one part of the coins as votives and integrate the deposition into a ritual. Nowadays, coins are thrown into some public wells. Regularly, one part of the coins is collected by officials. Pausanias (1.34.4) records that worshippers, who were cured of a disease, throw silver and coined gold into the spring of Amphiaraos that was located close to the sanctuary of Amphiaraos in Oropos. The silver and gold coins were consecrated as fees. Worshippers consecrated money in a designated place within the temenos. The coins dedicated at this place were retrieved by cultic officials. Only at some sanctuaries, one part of the coins was deposited as votives. This is the reason why several thousand coins dedicated over a long period were not found scattered over the temene.

8 The sanctuary of Demeter at Gela Bitalemi was established in the 7th century BCE and abandoned in the late 5th century BCE. The end of the cult at Bitalemi was not the end of the cult of Demeter at Gela, as the goddess was worshipped at her other sanctuaries in the same city. The strata of the site at Bitalemi is divided into 5 layers (Fig. 2).11 The stratum 5 is the oldest layer and votives found in this layer date to the second half of the 7th and to the first half of the 6th century BCE.12 70% of the votives, metal objects, and ingots were found in the stratum 5.13 Votive dedication at this site ceased in the 5th century BCE. Orlandini unearthed 31 deposits in the stratum 5 containing each between 0.350 – 11.70 kg metal objects and ingots.14 The bronze ingots were not all collected and deposited together in the same pit but in 29 different deposits.15 The high number of deposits, where bronze ingots were deposited, and the long period of dedication indicate that bronze ingots were collected over a period and deposited together with other votives dedicated during the same period. Not only a high number of metal ingots were unearthed in the stratum 5, but also many bronze and iron objects, e.g. jewellery, agricultural tools, and knives. Metal objects such as agricultural tools were dedicated to Demeter, as she was a goddess of agricultural fertility. But these objects and other metal objects had a material value and were dedicated as valuable votives.16

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Fig. 2. Strata of the sanctuary of Demeter at Gela Bitalemi

Orlandini 1966, pl. 2, fig. 2; drawing edited by author

Fig. 3. Bronze aes rude and aes signatum dating to the 6th century BCE found in the layer 5 of the sanctuary of Demeter at Gela Bitalemi

Museo Archeologico Regionale di Gela; photo by author

9 The ingots found at Gela Bitalemi include 709 single bronze ingots dating to the 6th century BCE.17 According to Verger, approximately 610 bronze ingots (84 kg) were found at this site.18 The total weight of bronze found at Bitalemi is 102 kg. 19 Tarditi states that the bronze ingots have a weight of 110 kg.20 709 single bronze ingots found at this site are composed by 704 bronze ingots and bars (Fig. 3).21 The bronze ingots and bars are called aes rude, aes formatum, and aes signatum.22 The bronze aera formata from Bitalemi has rounded or oblique sides.23 The letters Σ Η are engraved on one of the aera formata.24 The aes signatum from Bitalemi is considered to be one of the earliest examples dating to the second half of the 6th century BCE. 25 The aes signatum from

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Bitalemi weighs 670 gr and has an ornament on each that depicts leaves (Fig. 3). If we calculate 2–3 drachmas per kilo, 100 kg bronze had a value of 200–300 drachmas.26 Approximately 84 kg of ingots consists of bronze ingots between 5 gr and 3,3 kg.27 72,5 % of the ingots are less than 100 gr.28 Depending on the weight, each ingot had at least a value of ca one obol. The single bronze ingots were probably consecrated as votives or as fees for cultic rituals by single worshippers.

10 Another sanctuary of Demeter at Gela is situated in Via Fiume. The shrine is located outside the city walls and has two oikoi. The archaeological material from this sanctuary dates to the 6th–4th centuries BCE.29 900 silver coins dating to 500 BCE were found deposited into a vase.30 Depending on the weight of each coin, 900 silver coins were worth several hundred drachmas. Coins dating to later periods were apparently not found at this site. The silver coins were presumably deposited as a treasury. As mentioned, precious metals and money were deposited as treasuries in some sanctuaries. Especially major sanctuaries were used for the deposition of treasuries. Such sanctuaries offered security for the stored treasuries, as they were generally located within the settlements and had guardians. The small sanctuary in Via Fiume is located outside the city walls and did not offer enough security for the deposition of a high quantity of coins. 5th century BCE is marked by several territorial disputes between Gela and other cities. The silver coins were probably deposited during the political turbulence and it was aimed to recover it later. As the shrine existed for more than 100 years, it is not obvious why the silver coin hoard was not retrieved.

Fig. 4. Plan of the sanctuary of Demeter at S. Anna in Agrigento

Hinz 1998, 72, fig. 8; plan edited by author

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Fig. 5. Bronze ingots found in a pithos at the sanctuary of Demeter of S. Anna in Agrigento

Archaeological Museum of Agrigento; photo by author

11 One of the sanctuaries of Demeter in Agrigento is located at S. Anna. The cult of Demeter at S. Anna began in the 6th century BCE and existed until the 3rd century BCE.31 The sanctuary has a temple and an open-air enclosure (Fig. 4).32 Several pits containing clay votives, lamps, and metal objects dating to the 6th and 5 th centuries BCE were unearthed in the open-air enclosure,33 which was apparently used for the deposition of votives. This is a practice attested for several sanctuaries of Demeter located in Doric cities, e.g. town, Cnidus, and . A pithos – 48 cm in height and 59 cm of diameter – from local production and dating to the 6th century BCE was unearthed in one of the pits located in the open-air enclosure (Fig. 5).34 Two third of the pithos was placed into the pit.35 It recalls the thesaurus found at the central sanctuary of Demeter in Morgantina. The pithos was used as a kind of collection vessel for the consecration of bronze ingots from the beginning of the cult of Demeter at this site. The pithos contains 150 kg bronze ingots and several coins.36 A cup, two iron knives, and a key were placed on the pithos.37 The size and the shape of the bronze ingots suggest that they were used as aera rudia (Fig. 5). If the price for 1 kg of bronze was ca. 2–3 drachmas (see Table 2), 150 kg had a value of ca. 300–425 drachmas. The bronze ingots were probably dedicated by single worshippers and collected in this pithos. We can assume that a higher number of ingots were dedicated at this site in the 6th and 5th centuries BCE. A significant part of ingots consecrated at this site was probably melted down or sold. The ingots found in the pithos were presumably deposited by cultic officials in the 5th century BCE when the offering of ingots and as a means of payment for services came to an end. The deposition of a cup, two knives, and a key on the pithos also indicates that the ingots were deposited solemnly as votives by cultic officials. From the 5th century BCE onwards, the payment in ingots was replaced by coins at the sanctuary in S. Anna that continued to exist for ca. 200 years. Coins consecrated between the 5th to 3rd centuries BCE were not deposited in the precinct.

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Fig. 6. Plan of the sanctuary of the chthonian deities at Agrigento

Hinz 1998, 80, fig. 12; plan edited by author

12 The sanctuary of the chthonian deities at Agrigento is situated on the acropolis called the Valle dei Templi, where numerous monumental sanctuaries are located. The sanctuary of the chthonian deities, which has its beginning in the 6th century BCE, has three temples, two open-air enclosures, circular altars with recesses, and rectangular altars (Fig. 6). The open-air enclosure A has a structure like a temple and has three rooms.38 The initial height of the walls of the open-air enclosure A is not known, as only two rows of the walls are preserved (Fig. 7). The significant size of the stone blocks used for the walls of the open-air enclosure A suggests that the walls were presumably high. It cannot be determined whether the entrance of the open-air enclosure A was in the south-east or in the north-west, as the thresholds giving access to the rooms are not preserved.

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Fig. 7. The open-air enclosure at the sanctuary of the chthonian deities in Agrigento. Coins were deposited into the recess of the altar A

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Fig. 8. Coins found in the cavity of the altar A located in the open-air enclosure A at the sanctuary of chthonian deities in Agrigento

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13 A small rectangular stone altar (altar A) with a recess is situated in the western room of the open-air enclosure A (Fig. 8). A circular stone altar with a large recess is also situated in the same room (altar B). The recesses of both altars were used for libation. A few coins dating to the 4th century BCE were found together with bronze objects and burnt piglet bones in the cavity of the altar A.39 The small size of the cavity indicates that it was the intention of the dedicator to put selected offerings into it (Fig. 8). Coins were also deposited together with piglet bones at the sanctuary of Demeter in Kaunos.40 If a large number of votives were deposited into the earth, single coins can be deposited accidentally. This may be the case with a few coins found at the sanctuary of Demeter at Eloro.41 Especially low-value small coins made of bronze or copper were deposited accidentally or intentionally with votives. Carthaginians destroyed Agrigento in 406 BCE. In the following centuries, Agrigento and its sanctuaries lost their significance. The coins, bones, and bronze objects were probably deposited into the recess of the

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altar A as offering or as part of a ritual performed by cultic officials or worshippers before the open-air enclosure A was abandoned in the 4th or 3rd century BCE.42

14 Four sanctuaries of Demeter are located on the acropolis of Morgantina that was used for sacral and public buildings from the 6th century BCE onwards. In 459 BCE, Morgantina came under the rule of Syracuse. It is in the 5th century BCE that the sanctuaries of Demeter were built at Morgantina. Coins dating to the 5th–3rd centuries BCE are attested for the central, south, north, and north annex sanctuaries of Demeter in Morgantina. Even if Morgantina began to mint its own coins in the 5th century BCE, coins found at the sanctuaries of Demeter in Morgantina are from different Sicilian cities, especially from Syracuse. Epigraphic and literary sources are silent concerning the significance of the cult of Demeter at Morgantina for other Sicilian cities. Sanctuaries of Demeter are attested by archaeological evidence for 25 Sicilian cities.43 Like nowadays, people did not only visit the sanctuaries in their cities, but also those in other cities. It can, therefore, not be excluded that worshippers from Morgantina dedicated all or almost all coins from other Sicilian cities. Grandjean states that one is tended to think that foreign coins, which were not made of valuable metal and had less value, were discarded.44 Like at Argos, where Grandjean excavated, many coins found at various sanctuaries were bronze coins from other cities. The coins from other cities had a material value but were not always accepted as legal tender. The coins from Morgantina consecrated at the sanctuaries of Demeter were used for the running cost, whereas one part or all bronze coins from other cities were deposited as votives. Bronze coins from other cities, which were not used as legal tender, were melted down and manufactured. Depending on the weight, it provided a small income for the sanctuary.

15 Nine silver coins (3rd century BCE) deposited in a jar were found in a room of the south sanctuary of Demeter and Persephone at Morgantina.45 Sjöqvist considers this type of jars as medicine bottles, as such bottles from Morgantina bear the inscription ΛΥΚΙΟΝ (lykion) and depict the head of .46 Lykion is a plant used in medicine (Diosk. Mat.Med. 1.132). Sjöqvist has suggested that a worshipper dedicated the bottle with silver coins as an expression of his gratitude towards the goddess,47 suggesting that Demeter or Kore48 was worshipped as a healing deity at Morgantina. The bottle may also have been dedicated to Asclepius. Healing cults flourished during the Classical and later periods and ensured a high income for sanctuaries offering incubation and therapies. Healing aspect of the cult of Demeter, Kore, and Plouton was also emphasized during these periods. I. 496 (2nd or 3rd century CE) provides evidence for incubation performed at the sanctuary of Demeter in . Incubation is also attested for the sanctuary of Plouton and Kore at located in Nysa (Strab. 14.1.44). Money was paid as fees for incubation and various therapies offered at sanctuaries. The silver coins were paid for services offered at this shrine or dedicated as thanksgiving. The silver coins paid as fees for various services may have been collected by cultic officials in this bottle. The silver and gold coins from the sanctuaries of Demeter at Gela (Via Fiume) and Myrmekion were also put into a vase. Due to the high number of silver and gold coins found in vases at Gela and Myrmekion, the two coin hoards had a high material value, whereas 9 silver coins were only worth several drachmas. The 9 silver coins were deposited as votives, but not as treasury.

16 19 Greek coins (3rd century BCE) from Sicilian cities (Syracuse and Agrigento), 9 Roman coins (3rd–2nd centuries BCE), and several clay busts of Persephone were found in the

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same room, where the medicine bottle was deposited.49 Apart from the coins in the medicine bottle, 56 coins were also found in the south sanctuary.50 The coins date to the 4th–3rd centuries BCE and are from Agrigento, Alaesa, Mamertine, Syracuse, Rome, and Carthage.51 These coins were also consecrated as payment for cultic services and deposited by cultic officials or by worshippers.

17 A single coin is attested for the north sanctuary,52 and 18 coins for the north sanctuary annex of Demeter at Morgantina, which were found in three different rooms.53 These coins also date to the 4th–3rd centuries BCE and are from Agrigento, Syracuse, Tauromenium, Leontini, Alaesa, and .54 The significantly small number of coins found at these shrines suggests that they were left accidentally in the temene.

18 The sanctuary of Demeter at Stagira was established in the 6th century BCE. The shrine has two simple oikoi and a circular building (11 m diameter) dating to the Archaic period (Fig. 9). Altogether 79 coins dating to the Classical period were found in the western part of the sanctuary of Demeter at Stageira deposited into a pit together with bronze arrowheads and bullets.55 A few bronze coins dating to 394–250 BCE and arrowheads are also attested for the sanctuary of Demeter at old Samos.56 Arrowheads are linked to the army, but they also had a material value. Arrowheads, which are also attested for the sanctuaries of Demeter at Knossos and Cyrene,57 may have been dedicated by any worshippers as votives. Apart from three coins in silver, the other coins found at Stagira are in copper.58 Coins were also found in the circular building. Sismanidis has suggested that the circular building was a Thesmophorion, as it has similarities with the sanctuary of Demeter at .59 The sanctuary of Demeter at Pella is a circular open-air shrine surrounded by a wall. Several sacrificial pits are situated in this circular structure at Pella. The walls of the sanctuary of Demeter at Pella and that of the circular building at Stagira are low. The circular building at Stagira was presumably an open-air enclosure that offered space for a few people. Such a small building does not offer enough space for the celebration of the Thesmophoria. Clay figurines, vessels, lamps, metal object, and coins were deposited into three pits cut into the rocky ground of the circular building at Stagira.60 One of the pits of the circular building contains 30 coins, bronze arrowheads, and bullets, which were deposited as votives. The coins date to the late Classical and to the early Hellenistic periods. The bronze and copper coins found at this site did not have a high material and monetary value. The coins bear the names of Philip (7 coins), (11 coins), Antigonus Gonatas (3 coins); seven coins are from Amphipolis and two from Chalcidice. 61 Not only most of the coins found at this site bear the names of Philip and Alexander the Great but also 33 % of the excavated coins from Stageira.62 Stageira minted its own coins from the 6th century to 480 BCE.63 From the second half of the 4th century BCE onwards, coins issued in Macedonian kingdom were in use as legal tender in Chalcidice. 64 This explains why most coins found at this site bear the names of the Macedonian rulers. The inscriptions ΦΙΛΙΠΠΟΥ (Philippou) and ΚΛΕΟΒΟΥΛΟΥ (Kleoboulou) engraved on bullets indicate that these bullets were in use during the reign of Philip of Macedonia or during the destruction of Stageira in 348 BCE.65 Philip II reigned between 359–336 BCE, Alexander the Great between 336–323 BCE, and Antigonus Gonatas between 277–239 BCE, suggesting that the coins were consecrated over a period of ca. 100 years. Most of the coins found in the circular building were dedicated after the destruction of Stageira.

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Fig. 9. Plan of the sanctuary of Demeter at Stageira

Sismanidis 2003, 79, fig. 81; plan edited by author

Fig. 10. Plan of the sanctuary of Demeter at Kaunos

Drawing by author

19 The open-air sanctuary of Demeter at Kaunos was founded in the 6th century BCE (Fig. 10).66 Votives deposited into the cavities of the rocky outcrops date from the 6th to 1st centuries BCE.67 Excavations carried out at this shrine in 2009 and 2010 brought to light 29168 silver and a few bronze coins. 69 The coins were deposited together with clay figurines, lamps, and piglet bones.70 110 silver coins were found deposited together with piglet bones into a cavity.71 The coins are from different cities: 18 coins are from Kaunos, 204 from Kasolaba (), 37 from (Caria), 8 from Rhodes, 6 from

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Euromus (Caria), and 5 from ().72 Coins found in different sites at Kaunos are made from bronze.73 As far as I am aware, another silver coin hoard is not attested for other sites in Kaunos. The silver coins from Kaunos, Kasolaba,74 , and Hydai date to the 5th and 4th centuries BCE. Çizmeli-Öğün and Marcellesi point out that the bronze coins were in use from the 4th century BCE onwards.75 It explains partially why a high number of silver coins was consecrated at this shrine.

20 As most coins are from other cities, the question arises whether the cult of Demeter at Kaunos was also worshipped by people from other Carian cities. Coins from different cities circulated in other cities, since cities had political and economic relations with each other. Coins from some cities were also used as currency or changed in an office of the polis. Inscriptions from Kaunos and other cities do not mention the cult of Demeter at Kaunos, which had presumably local significance and the coins were dedicated by local people. Bresson states that “the system of coinage precious metals is to be sought in the universal character of coins as a means of payment”.76 Silver coins from other cities were probably accepted as means of payment made by weight between merchants, but not as legal tender in everyday life, as Kaunos had its own currency. Silver coins from other cities had a certain material value and were dedicated by local worshippers as valuable objects at the sanctuary of Demeter in Kaunos. As Demeter was mainly worshipped by women, it seems unlikely that merchants dedicated the silver coins. Therefore, the numerous clay male figurines found at the sanctuary of Demeter in Kaunos may indicate that the cult of Demeter was not restricted to women.

21 As the coins from the sanctuary of Demeter at Kaunos have not yet been published, the average weight of the coins is not known. If the coins from this site have an average weight of ca. 4 gr, each coin had a value of ca. 1 drachma and 291 coins were worth ca. 291 drachmas (for the price of silver, see Table 2). As the daily wage of a skilled worker was ca. 1 drachma, a silver coin was a valuable votive. If we assume that a silver coin, depending on its weight, was equivalent to the daily wage of a skilled worker, not all worshippers were able to consecrate a silver coin as fees for rituals. We can assume that these silver coins were not the only coins consecrated over 500 years at this shrine. Coins in bronze or copper were certainly also consecrated as fees for cultic rituals. It was intended to deposit coins made from precious metal. One part of silver coins consecrated by worshippers in the 5th and 4th centuries BCE was deliberately selected for its deposition, and the other coins were used for the expenses of the shrine. The silver coins were deposited as votives, as they were deposited with bones and clay votives. A singularity of this coin hoard is that the coins were deposited together with piglet bones. Piglets were important for the cult of Demeter and were sacrificed at various festivals and by single worshippers. The coins may have been dedicated independently from piglet sacrifices or as a preliminary offering made to the goddess before sacrifices.

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Fig. 11. Plan of the sanctuary of Demeter at Myrmekion

Butyagin, Chistov 2006, 102, fig. 21

22 Myrmekion founded in the mid-6th century BCE was established by Panticapaeum, a city founded in the late 7th or in the early 6 th century BCE by Greek colonists from Miletus. The excavations carried out in 2003 at the sanctuary of Demeter in Myrmekion by the Hermitage Museum (St. Petersburg) under the direction of Chistov brought to light a bronze olpe (21.5 cm in height) filled with 99 electrum staters from . 77 A similar coin hoard is attested for the sanctuary of Artemis at Epidaurus, where 92 gold coins dating to the 3rd century BCE were found in a clay aryter. Other coins were not found in the sanctuary of Demeter at Myrmekion. Coins are also attested for the sanctuary of Demeter in Nymphaion. The coins were found together with clay votives deposited into a pit in a building dating to the 5th century BCE.78

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Fig. 12. Bronze olpe incorporated into the wall (left) of a naiskos at the sanctuary of Demeter in Myrmekion

Butyagin, Chistov 2006, 80, fig. 4, and after its restauration (right), Butyagin, Treister 2006, 134, fig. 1

23 The coin hoard found at Myrmekion was embodied into the wall 360 that was built in 370 BCE as part of a new building with an eschara that was probably used as a temple of Demeter (Fig. 11–12).79 This building was built on an ash-hill. Ashes, animal bones, and fragments of pottery found at this ash-hill indicate that it was used for burnt offering referred to as ‘holokautoma’ (ὁλοκαύτωµα). Burnt offerings are well attested by archaeological evidence for various sanctuaries of Demeter.80 The eschara underlines the cultic significance and continuity of burning sacrifices at the sanctuary of Demeter in Myrmekion. The coins date to 500–400 BCE and the bronze olpe to the first half of the 5th century BCE.81 As the bronze olpe with the coins was embodied into the wall of the new building, the coins and the olpe were initially dedicated to the same deity who was worshipped at the same place, where the new building was built. The olpe was dedicated more than 80 years before the construction of the wall 360. All coins were probably collected in the olpe or deposited into the olpe before the wall was built. The olpe with the coins may have served as a foundation votive for the new temple of Demeter or deposited as a treasury.

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24 A singularity is that only electrums staters were deposited. An electrum stater was equivalent to 28 drachmas and to 7 Athenian tetradrachmas.82 An inscription from dating to the 4th century BCE and found at the Kalchedonion orders the purchase of Olbian coins at the ecclesia without fees (SEG 26:848, lines 9–22). 83 A stater from Cyzicus was sold for 11,5 Olbian silver staters (SEG 26:848, lines 23–24). As illustrated in Table 2, an electrum stater from the sanctuary of Demeter in Myrmekion had probably a value of ca. 33 drachmas, and 99 electrum staters were worth 3,267 drachmas. Low value coins were also consecrated or paid as fees at this site, as not all worshippers were able to consecrate electrum staters. Apparently, only staters were deliberately collected over 100 years. The sanctuaries had reserves of precious objects and metals, which were used to finance the expenses of the cult. One part of the reserves was not used as circulating capital. The staters embodied into the wall of the oikos were presumably the reserves of the sanctuary. The deposition of the treasury into the wall offered security and gave the possibility to retrieve it any time. The sanctuary at this site existed at least for 100 years. Whatever the reason, the treasury was not retrieved later by cultic officials. During the long period, the sanctuary had different cultic officials. It may be that the treasury was not communicated to the next generation of cultic officials who served at this site.

25 196 bronze coins were unearthed in six votive deposit pits (deposits D, E, F, G, H, and J) at the sanctuary of Demeter in Knossos.84 Most of the coins are from Knossos and were minted between 320 and 220 BCE. Single coins are from Gortyna, Itanos, Cydonia, Itanos, Argos, Athens, Cyrenaica, Paros, Rhodes, , and .85 The coins were deposited with statues, clay figurines, vessels, jewellery, and small finds made of silver, bronze, and iron.86 The votives date mainly to the Hellenistic period. Most of the 196 coins were minted and consecrated over a period of ca. 100 years. On average, maximum two coins were consecrated per year, which is not significantly high. The bronze coins are small (8–29 mm) and were not high in value, suggesting that worshippers from different social classes were able to afford to consecrate bronze coins as fees for cultic services or dedicated as votives. Most of the coins were found in the deposit pits H and J. More than 300 gold, silver, bronze jewellery, and small finds were also found in the deposit pit H.87 The content of the deposit pit H indicates that metal objects and coins were not deposited in all pits, but only in selected votive deposit pits.

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As the jewellery and metal small finds from this site have not yet been dated, it is not obvious to what extant coins have replaced metal objects or dedicated as votives alongside metal objects. Pausanias (7.22.3) mentions that the worshipper put a local coin, called a ‘copper’, and asked the deity a particular question he wished to put to him. Coins found at this site and at other sanctuaries were presumably consecrated as payment before a prayer addressed to the deity or at rituals. The coins were collected by cultic officials and used for the running of the shrine. Cultic officials deposited one part of the coins as votives alongside other metal and clay objects into the pits.

26 In contrast to Knosssos, only 17 coins were unearthed in different layers of the sanctuary of Demeter in Contrada Petraro at Entella.88 The coins date from 420 to 20 BCE and are from different cities.89 Frey-Kupper states that it is difficult to reconstruct a link between the coins, layers, and the votive deposits.90 11 bronze coins weight between 1.18–7.67 g, and two bronze coins 28.23 g and 26.58 g.91 Three silver coins have a weight of 0.84 g, 2.90 g, and 7.67 g.92 The small number of coins indicates that they were accidentally deposited at this site, and for this reason, there is no link between the coins and the layers of the sanctuary. This may be especially the case with bronze coins, but not with the silver coins (for the value of silver, see Table 2). Most of the coins unearthed during the excavations carried out at Argos and Thasos were made of bronze and only a small part was made of silver.93 People were more careful with silver coins than with bronze coins. Silver and gold coins were more worth of care than bronze coins. This means that valuable coins were seldom lost or deposited accidentally with votives. The two silver coins deposited at Entella had a value of ca. 1–2 drachmas and may have been deposited intentionally, as their material value was not significantly high.

Fig. 13. Plan of the central sanctuary of Demeter at Morgantina

Hinz 1998, 132, fig. 28; plan edited by author

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Thesaurus and its use at the sanctuaries of Demeter

27 Fees paid by worshippers were conveyed to cultic officials or dropped into stone box called thesaurus (θησαυρός sg., θησαυροί pl.). 94 The term thesaurus is also used for buildings, which served as storerooms for valuable votives in sanctuaries. We may compare the thesauroi with boxes in churches nowadays, which are used for the donation of money on a voluntary basis. The thesauroi in antiquity were not only used for the donation of money on a voluntary basis, but also for fees. A thesaurus was unearthed at the central sanctuary of Demeter in Morgantina and three inscriptions dating to the 4th and 1st centuries BCE mention thesauroi situated in the sanctuaries of Demeter at Eleusis (IG II2 1672), Andania (IG V,1 1390), and Cos (HGK 17). Apart from the central sanctuary of Demeter at Morgantina, epigraphic and archaeological evidence for thesauroi is not attested for the sanctuaries of Demeter, where coin hoards were unearthed.

28 Numerous coins were deposited in two places at the central sanctuary of Demeter in Morgantina: in a rectangular thesaurus95 unearthed in situ in the north court and in a stone block in situ in the south court (Fig. 13). The central sanctuary of Demeter in Morgantina is located at the . The shrine was founded in the 5th century BCE, and coins were dedicated from the 5th century BCE onwards.96 Hinz has suggested that the shrine was initially an open-air sanctuary that consisted of the altars A2 and A3.97 In the late 4th or in the early 3 rd century BCE, the sanctuary received an architectural elaboration.98

29 Sposito uses the term bothros for the stone block situated in the south court, where coins were deposited.99 A bothros is a pit dug into the earth and used for sacrifices performed in sanctuaries. The bothros mentioned by Sposito is a bowl-shaped depression cut into a stone block (Fig. 14). I will use the term ‘stone block’ instead of bothros. The stone block is situated on the threshold of the oikos 3 and has the same width as the wall of the oikos 3. The stone block was probably part of the oikos 3 that was built in the late 4th or in the early 3rd century BCE.100 24 coins found in this stone block date to the 5th and 4th centuries BCE.101 The coins were found together with clay votives dating to the 5th–3rd centuries BCE.102 Single coins were also found in different parts of the south court.103 The coins consecrated in the 5th century BCE were probably not collected in the stone block, as it dates presumably to the same period as the oikos 3.

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Fig. 14. The stone box located in the south court of the central sanctuary of Demeter at Morgantina

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30 The south court has several altars and an entrance in the south-west. The numerous altars in the south court provide evidence for libation, offerings, and rituals performed at this site. As fees were asks for various offerings and rituals, the coins were deposited into the stone block or collected by cultic officials. At its current state, a circular stone is placed on the stone block (Fig. 14). Coins deposited as fees for rituals into the stone block were retrieved by cultic officials on a daily basis, as the stone block cannot be closed by a locker. Hinz has suggested that the stone block was used for libation.104 The recess of the altar at the sanctuary of chthonian deities in Agrigento was also used for libation, and coins with votives were deposited into it at the end of the cult at this site. The stone block at the central sanctuary of Demeter in Morgantina may have been used in the same way. In the 3rd century BCE, coins from two centuries, which were not used as income for the running cost of the shrine, were deposited into the stone block when the thesaurus in the north court came into use. The same practice was also applied to the coins consecrated in the 3rd and 2nd centuries BCE, which were deposited into the thesaurus (Fig. 15).

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Fig. 15. The thesaurus at its current state situated at the central sanctuary of Demeter in Morgantina

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31 The thesaurus in the north court is situated in an open-air enclosure next to the altar A6 and in proximity to the entrance. It is interesting to note that the stone block and the thesaurus are situated not far from the entrances. Such a location is not unusual for thesauroi found at various sanctuaries. Kaminski has suggested that a wall was built in the 2nd century BCE that surrounded the thesarurus and formed an open-air enclosure. 105 There is no clear evidence that the open-air enclosure was built in the 2 nd century BCE, and not in the 3rd century BCE. The thesaurus dates presumably to the 3rd century BCE. The open-air enclosure has the same orientation as the thesaurus and aimed to create a separate space for the thesaurus. The open-air enclosure has an entrance in the east and offers a space for up to 2–3 people. At its current state, the wall of the open-air enclosure is low (Fig. 15). The wall was probably high and secured the privacy. The open-air enclosure offered a space that ritualised the consecration of coins into the thesaurus.

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Fig. 16. Drawing of the thesaurus from the central sanctuary of Demeter at Morgantina

Kaminski 1991, 158, fig. 25; drawing edited by author

32 The thesaurus has two stone blocks. Each block measures 60 x 40 cm and is 60 cm high. 106 The upper stone block has a hole (10 cm) in the middle (Fig. 15). A rectangular bowl (20 x 20 cm) is cut into the lower stone block.107 Coins dropped into the hole of the upper block were collected in the bowl of the lower block (Fig. 16). The lower block was placed into a pit that had the same depth as the lower block. The upper block was pushed to one side in order to open the thesaurus. To protect the money deposited into the thesauroi, the stone boxes had sophisticated lockers. The thesaurus and the stone block situated at the central sanctuary of Demeter in Morgantina can be opened easily by everyone, as they do not have lockers. The money deposited into the thesaurus was presumably retrieved on a regular basis or guardians protected the sacral and public buildings at the agora.

33 154 bronze coins found in the thesaurus date to the 3rd–2nd centuries BCE.108 Single coins were also found on the altar A6. The single coins found at the south and north courts were dropped accidentally. The coin hoard deposited into the thesaurus includes 3 rd century BCE coins from Syracuse, Aetna, Mamertines, Agrigento, and 2nd century coins from Catana109 and Roman asses.110 According to Buttrey, Erim, Groves, and Holloway, the coins were not collected over a period in the thesaurus, but “scattered down all through the earth filling and formed no chronological pattern”.111 The soil at this shrine is hard and does not have earth fillings. Buttrey, Erim, Groves, and Holloway assume that the coins might have been deposited into the thesaurus during the period of wars in 139–131 BCE or in 104–101 BCE, and were not retrieved after the end of wars. 112 If coins deposited into the earth filling were collected and deposited into the thesaurus during the First or Second Servile Wars (135–132 and 104–101 BCE), a distinction between the coins was not made in a period of danger. It is easier for thieves

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or invaders to find the coins in the thesaurus and in the stone block than in earth fillings. The coins from the stone block date to the 5th–4th centuries BCE, whereas those from the thesaurus date to the 3rd–2nd centuries BCE. Another point is that the bronze coins found at this site did not have a high material and monetary value. The material value of all bronze coins found at this site had probably a value of less than 3 drachmas. As coins were demonetized after a period, the bronze coins consecrated in the 5th–3rd centuries BCE were not used as legal tender in the 2nd century BCE. A small part of coins consecrated by worshippers from the 5th to 2nd centuries BCE were deposited as votives by cultic officials. Low value coins were also selected for this purpose at many other sanctuaries. Coins were not deposited as votives after the 2nd century BCE. The end of the custom of depositing coins was not the end of payment of coins as fees at rituals performed in the sanctuary of Demeter at Morgantina. Stillwell states that the altar and the open-air enclosure with the thesaurus were filled with earth, lamps, bowls, and coins.113 The open-air enclosure was probably filled with earth when the sanctuary was abandoned in the 1st century BCE.

34 The inscription HGK 17 (4 th century BCE) regulated the sale of the priesthood (διαγραφαί) of Demeter at Cos. From HGK 17 (line 13),114 we learn that the thesauroi were used for the collection of fees paid for cultic services at the sanctuary of Demeter in Cos.115 The inscriptions, which concern the thesauroi of various cults on Cos, were dedicated ca. 200 years after HGK 17. The inscriptions on thesauroi mentioned in this paper date from the 4th to 1st centuries BCE, indicating that the thesauroi were in use at some sanctuaries on Cos from the 4th century BCE onwards. The thesauroi at the sanctuary of Demeter in Cos were probably still in use in the 2nd and 1st centuries BCE. The excavations carried out at the sanctuary of Demeter in Cos did not unearth thesauroi and coins. HGK 17 mentions thesaurus in plural. The amount of money dropped into the thesauroi was apparently significantly high, as several stone boxes were needed. Several inscriptions from Cos dedicated to various deities order the opening of the thesauroi once or twice a year. 116 The thesauroi at the sanctuary of Demeter were presumably opened once or twice a year.

[κ]α◌̣τὰ τάδε ταὶ ἱέρειαι ἱερώσθω τᾶι Δάµατρι· ἐξῆ◌̣-

µ̣εν δὲ τοῖς κυρίοις καὶ τᾶµ µὴ παρευσᾶν γυναικῶ[ν]

τῶι χρήζοντι ἐµβάλλεσθαι, αἴ κα ἐν τᾶι χώραι

ἔωντι· τὰς δὲ λαχούσας ὀµοσάσας ἱερῶσθαι· ταῖς

5 δὲ τελευµέναις καὶ ταῖς ἐπινυµφευοµέναις ἦµεν

τᾶι δηλοµέναι, καθάπερ καὶ πρὶν πωλητὰν γενέσθαι◌̣

τὰν ἱερωσύναν συνετάχθη, πέντ’ ὀβολὸς διδούσαις

ἀπολελύσθαι τῶν ἄλλων ἀναλωµάτων πάντων·

παρασκευάξαι δὲ ταῖς τελευµέναις τὰς ἱερῆς τὰ νοµι-

10 ζόµενα· ἦµεν δὲ καὶ τῶν γερῶν τῶν θυοµένων ταῖς χρηζού̣-

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σαις ἀποδόµεν τοῦ µὲν ἐτέλου ἡµιωβέλιον, τοῦ δὲ τελείο◌̣υ◌̣

[ὀβολόν]· τ◌̣[ο]ῦ◌̣ δ◌̣ὲ ἀ◌̣γερµοῦ καὶ [τῶν θ]η◌̣σ◌̣α◌̣υ◌̣ρ◌̣[ῶ]ν καὶ γερῶν πάντων

[τὸ µὲν ἓν µέρος ἦµεν τᾶν ἱερειᾶν, τὰ δὲ δύο ἦ]µ̣εν◌̣ ἱερά· ταῖς δ[ὲ]

[ἱερείαις ἐξῆµεν ὑφιερείας ἀποδεῖξαι πολίτιδας — — — — ]

HGK 17

According to the following, the priestesses shall hold the priestly office for Demeter. The legal representatives of the women not present too can take part in the ballot, if they are in the country, anybody who wants. Those who have been chosen by lot shall swear an oath before being consecrated as priestesses. Women initiated and about to get married (?) may, if they want, as was prescribed before the priesthood became open for purchase, give five obols in order to be freed from all expenses. The priestesses shall provide the initiates with what is the custom. The women who want to may give by way of gera for the sacrifices half an obol for a young victim, for a full-grown victim an obol. Out of the collection and the theasure-boxes and all the shares [a third belongs to the priestess, two thirds] are sacred. The (priestesses have the right to appoint female citizens as substitute- priestesses HGK 17; translation by Dignas 2004, 262–263.

35 HGK 17 (lines 10–12) mentions that the worshippers must give a half obol for a young and one obol for an adult sacrificial animal as gera (γέρας) that was the honorific share of the priest. The priest was usually allowed to receive one part of the sacrificed animals as his priestly share. The priestess of Demeter at Cos received money or one part of the sacrificed animals. The money paid as gera was dropped into the thesauroi. The monetarization of the gera is attested by epigraphic sources for several cults on Cos: Asclepius: SEG 51:1066, lines 5–15 (1st century BCE); Iscr. di Cos ED 58, lines 4–10 (2nd century BCE); Iscr. di Cos ED 92,117 line 7 (3rd century BCE). : Iscr. di Cos ED 89, lines 18–24 (1st century BCE). : SEG 50:766, lines 9–10 (2nd century BCE). The cults of other deities on Cos mentioned in this paper asked three and six times more fees for sacrificial animals than the cult of Demeter. SEG 50:766 mentions that the soldiers of big warships should sacrifice an animal at a cost of 15 drachmas or give 15 drachmas to the priestess and drop one drachma into the thesaurus (lines 6–9). The worshippers who wanted to sacrifice should pay 2 drachmas as fee for a cow, 1 drachma for an adult animal, 3 obols for a young animal, and 1 obol for a bird (SEG 50:766, lines 10–13). Iscr. di Cos ED 89118 (lines 18–24) orders the payment of one drachma for a cow and 3 obols for other sacrificial animals. SEG 51:1066119 (lines 5–25) orders that the priest shall receive the skin and the shank of the sacrificed animals, and the worshippers should drop into the thesaurus 2 drachmas for a sacrificed cow, 3 obols for an adult sacrificial animal, and a half obol for a bird. Iscr. di Cos ED 58120 (lines 4–10) has a similar regulation. The sacred laws of the cults of Nike, Aphrodite, and Asclepius order the consecration of money at animal sacrifices that should be dropped into the thesauroi. An inscribed thesaurus (73 cm high, 51 cm in diameter) dating to the 2nd century BCE and dedicated to the local hero Theagenes was found at the agora of Thasos town.121 LSS 72 (lines 1–3) engraved on the thesaurus mentions that the worshippers who wanted to sacrifice to Theagenes should drop not less than one obol into the thesaurus.122 LSS 72 (lines 2–3) uses the verb ἀπάρχεσθαι (aparchestai) for the payment of the fee at sacrifice. 123 An inscription (230

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BCE) from Olbia also orders the payment of a sacrifice tax into the thesaurus: τοὺς θύοντας ἀπάρχεσθαι [ε]ἰς τὸν θησαυρόν – those performing sacrifice should make a first fruit offering (ἀπάρχεσθαι) into the thesaurus (IGDOlbia 88, lines 11–12). The same expression is also used in LSS 72 (lines 1–3). Initially, the term aparche refers to First- fruit offering made in kind. The two inscriptions refer to coins inserted into the thesauroi as fees at every sacrifice. Apart from SEG 50:766 (lines 10–11), the inscriptions from Cos mentioned in this paper do not use the term aparchestai for the payment of sacrifice tax. Therefore, the fees ordered in these inscriptions were also fees paid at every sacrifice. The fee asked as a preliminary ritual at every sacrifice was between a half obol and several drachmas. As Sokolowski illustrates, cultic services offered at sanctuaries preceded or followed by sacrifices,124 suggesting that sacrifices were frequently performed. Depending on the size of the sacrificial animal, a half, one, two, or three obols were imposed as a fee for animal sacrifice.125 Pafford has suggested that the dedication of coins at every sacrifice was a preliminary sacrifice – proteleia – that was “ritually performed through the payment of a specific denomination of coin”.126 The proteleia was a preliminary offering made to a deity before marriage. 127 Before a sacrifice was performed at a sanctuary, the ordered sum was dropped into the thesaurus as preliminary ritual.

36 HGK 17 mentions that one-third of the money from the thesauroi belongs to the priestess and two-third to the sanctuary. Sacred laws of different sanctuaries on Cos had similar regulations concerning the income from the thesauroi. 128 IGDOlbia 88 (lines 6–9) mentions that the thesaurus was opened once a year and the money was entrusted to the hieromnemon who took it in custody until 1000 drachmas came together.129 Priests and officials of the city oversaw the administration of the money from the thesauroi. The income from the fees asked at animal sacrifices were considerable for the sanctuary of Asclepius at Cos that had -Hellenic significance. Demeter had a small sanctuary at Cos and she did not have the same significance as Asclepius for Cos. If we assume that a half obol was consecrated for a young and one obol for an adult sacrificial animal (HGK 17, lines 10–12), the income from the thesauroi was probably less than 1000 drachmas. It seems unlikely that 6,000 and more animals were sacrificed each year to Demeter at Cos.130

37 Iscr. di Cos ED 14 (3rd/2nd century BCE) from Cos is partially preserved. The inscription is a subscription list that lists the names of women who are announced to the sanctuary of Demeter. For the funding of public and sacral buildings or festivals,131 the polis called for subscriptions, which were called ἐπιδόσεις (epidoseis) that means ‘free giving’.132 In some cases, the names of the benefactors were listed on a stele. The subscriptions offered wealthy families to display their social status, piety, and wealth. Iscr. di Cos ED 14 honours the benefactors who contributed a high sum to the sanctuary of Demeter at Cos. The preserved 23 lines of Iscr. di Cos ED 14 list partially the names of 42 women. The name of the father is mentioned after the name of the female benefactors. Migeotte has suggested that the whole stele listed the names of 88–100 women who donated money for the construction of a building, restoration, or for the maintenance of the sanctuary of Demeter at Cos.133 SEG 43:212A (3rd–2nd century BCE) reveals that women were invited to donate money for the new sanctuary of Demeter at Tanagra (see also LSCG 72). At Cos too, only women were invited to donate money for the sanctuary of Demeter. The sanctuary of Demeter at Cos had an oikos (24 x 6 m) with a water basin.134 It may be that this oikos was financed with the money donated by women listed in Iscr. di Cos ED 14. An

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amount between 100 and 500 drachmas is mentioned behind the names of 31 women listed in this inscription. A law (2nd century BCE) from Teos regulating the education of children determines 600–500 drachmas as annual wage of teachers (CIG 3059, lines 11– 13). The salary of teachers mentioned in CIG 3059 demonstrates that the sum of 100–500 drachmas was very high. Only people with a high income were able to donate 100–500 drachmas. The total amount of money mentioned after the names of 31 women makes up 9,300 drachmas. If we assume that the 11 women, whose names or the sum are not visible, donated at least 100 drachmas, the total amount listed behind the names of 42 women was more than 10,400 drachmas. If the women, who were listed on the missing part of the stele, also donated at least 10,400 drachmas, the total amount of money donated by ca. 84 women was at least 20,800 drachmas. The money was not collected in thesauroi, but by the priestess of Demeter or by civic officials of the polis. It seems more likely that the thesauroi in the sanctuary of Demeter at Cos were only used for sacrifice fees, as indicated in HGK 17, and for other fees asked at rituals performed by single worshippers. ταίδε ἐπαγγείλαντω ἐς τὸ ἱερὸν τᾶς Δάματρος· Φιλαινὶς Νικη[ρ]ά̣[του] (δρ.) φʹ Ἁβρότιο[ν Φ]α̣ν̣ί̣ο̣υ̣ (δρ.) ρʹ Κλειτὼ [Ἀ]ριστο̣[κλ]εῦς (δρ.) φʹ Ἀρίστιον Δαλίου (δρ.) ρʹ 5 Ζωπυρὶς Ἀπ̣[ολλοδ]ώ̣[ρο]υ (δρ.) τ̣ʹ Φιλιὰς Νικά̣ν̣ο̣ρ̣ος (δρ.) ρʹ Ἡραῒ[ς — — — — — — — — — — — — —]ίλλη Τιμοκλεῦς (δρ.) σʹ Αἰσχ[ρ— — — — — — — — — — — — Με]νεστρ[ά]τα [Φι]λ̣τ̣ί̣δ̣α̣ τʹ Λυκο[— — — — — —] (δρ.) τʹ Ν̣ι̣καρ̣[έτα] Ναυκλ[άρ]ου (δρ.) ρʹ Ἄριστ[ις Νικαγό]ρα (δρ.) φʹ Χορηγὶς Ἀρκεσίλα (δρ.) [․ʹ] 10 Τείσιον Νικοστράτου [(δρ.)] ρʹ Αἰσχ[ρ․․․․․․․]που (δρ.) ρʹ Γνάθα̣ [Τελευ]τία (δρ.) σʹ Λευκίπ[πη — — — — — — —] (δρ.) ρʹ Πυθιὰς Νικοκλεῦς (δρ.) φʹ Μη[— — — — — — — — — — — —] Βιτιὰς Λυκαίθου (δρ.) φ̣ʹ Μενε[— — — — — — — — — — — —] Πυθιὰς Ἀρίστου (δρ.) σʹ [— — — — — — — —]Λ[— — — (δρ.)] ρ̣ʹ 15 Δίη Ἀχελώιου (δρ.) φʹ Ἡδεῖα [․․․․․․․]ου (δρ.) ρʹ Λάμπιον Μενετίδα (δρ.) φʹ Νικασ[ὼ] Δ[ιον]υ̣σ̣ο̣κλεῦς (δρ.) ρʹ Καλλιστράτη Ἀριστέως (δρ.) τʹ Γ̣λ̣[α]υ̣[κὶ]ς Καλλικράτου (δρ.) [․ʹ] Ζωπυρὶς Ζωπυρίωνος (δρ.) ρʹ Κλυμέ̣ν̣η Χαιρέα (δρ.) σʹ Ζωπυρὶς Δαμονόμου (δρ.) φʹ Τιμ̣[αγο]ρ̣ὶς Κράτητος (δρ.) σʹ 20 Κλευφύλη Ἀντιγόνου (δρ.) [․ʹ] Κλευμ[άχ]α Νίκωνος (δρ.) ρʹ Ἀρισταγόρη <Ἡ>ρακλείτου (δρ.) φʹ Εὐτελιστράτη Γ̣λ̣[αυ]κ[ί]α (δρ.) [․ʹ] Παρμενὶς Πυθοκλεῦς (δρ.) φʹ Φιλιτὶς Ἑκατοδώ[ρου (δρ.)] φʹ Παρμενὶς Παρμενίσκου (δρ.) φʹ Εὐδημί[α ․․․]Λ[․․ο]υ (δρ.) φʹ Λάμπιον Ἑρμών̣α̣κ[τος (δρ.) ․ʹ] ΑΡΙ[— — — — — — — — — —] 25 [— — — — — — — — — — — — — — — — — — — — — —] Iscr. di Cos ED 14

Announce them to the sanctuary of Demeter.

Philainis, the daughter of Nikeratos (500 dr.), Habrotion, the daughter of Phanios (100 dr.)

Kleito, the daughter of Aristokleos (500 dr.), Aristion, the daughter of Dalios (100 dr.)

5 Zopyris, the daughter of Apollodoros (300 dr.), Philias, Nikanoros (100 dr.),

Herais------ille, the daughter of Timokleos (200 dr.),

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Aischr------Menestrata Philtida (300 dr.),

Lyko------(300 dr.), Nikareta, the daughter of Nauklaros (100 dr.),

Aristis Nikagora (500 dr.), Choregis Arkesila (dr.),

10 Teision, the daughterNikostratos (100 dr.), Aischr---, the daughter of -----pos (100 dr.),

Gnatha Teleutia (500 dr.), Leukippe------(100 dr.),

Pythias, the daughter of Nikokleos (500 dr.), Me------

Bitias, the daughter of Lykaithos (500 dr.), Mene------

Pythias, the daughter of Aristos (200 dr.), ------

15 Die, the daughter of Acheloios (500 dr.), Hedeia, the daughter of ------os (100 dr.),

Lampion Menetida (500 dr.), Nikaso, the daughter of Dionysokleos (100 dr.),

Kallistrate, the daughter of Aristos, (300 dr.), Glaukis, the daughter of Kallikratos (dr.),

Zopyris, the daughter of Damonomos (500 dr.), Timagoris, the daughter of Kratetos (200 dr.),

Kleuphyle, the daughter of Antigonos (dr.), Kleumacha, the daughter of Nikonos (100 dr.),

20 Aristagore, the daughter of Herakleitos (500 dr.), Eutelistrate Glaukia (dr.),

Parmenis, the daughter of Pythokleos (500 dr.), Philitis, the daughter of Hekatodoros (500 dr.),

Parmenis, the daughter of Parmeniskos (500 dr.), Eudemila, the daugther of ---- (500 dr.),

Lampion, the daughter of Hermonaktos (dr.), Ari

38 Another inscription providing evidence for thesauroi is from Andania that dates to 92 BCE and concerns the mysteries of Demeter and Persephone (IG V,1 1390). The sacred law orders two thesauroi (IG V,1 1390, lines 90–95): one thesaurus should be placed in the temple and the second at the fountain. The thesauroi were locked by keys. Mnasistratos, a priest of Demeter and Persephone, and sacred men were in charge of the keys of the thesaurus near the fountain. The thesauroi were opened once a year to the mysteries, and the money from each box was counted separately. Mnasistratos received one-third of the money collected in the thesauros at the fountain. The inscription does not tell us whether the fees for the mysteries were collected in the thesauroi and the money from thesauroi was used for the performance of the mysteries. As the sacred law IG V,1 1390 concerns the regulation of the mysteries and the thesauroi were only opened at the mysteries, the money from the thesauroi was presumably used for the mysteries. Such festivals were well organised, the cost was calculated in advance, sacrificial animals were bought before the beginning of the festival, and wages for different services and organisation were paid. If the money collected in thesauroi covered one part of the cost of the mysteries, a regular average income from the thesauroi was necessary for the planning.

Mythos, 12 | 2018 70

90 [ᾶ]ς. οἱ ἱεροὶ οἱ κατεσταμένοι ἐν τῶι πέμπτωι καὶ πεντηκοστῶι ἔτει ἐπιμέλειαν

ἐχόντω μετὰ τοῦ ἀρχιτέκτονος, ὅπως κατασκευασ-

[θ]ῆντι θησαυροὶ λίθινοι δύο κλαικτοί, καὶ χωραξάντω τὸν μὲν ἕνα εἰς τὸν

ναὸν τῶν Μεγάλων Θεῶν, τὸν δ’ ἄλλον ποτὶ τᾶι κράναι, ἐν ὧι ἂν τόπ-

ωι δοκεῖ αὐτοῖς ἀσφαλῶς ἕξειν· καὶ ἐπιθέντω κλᾶϊκας, καὶ τοῦ μὲν παρὰ

τᾶι κράναι ἐχέτω τὰν ἁτέραν κλᾶϊκα Μνασίστρατος, τὰν δὲ ἄλ̣-

λ̣αν οἱ ἱεροί, τοῦ δὲ ἐν τῶι ναῶι ἐχόντω τὰν κλᾶϊκα οἱ ἱεροί, καὶ ἀνοιγόντω

κατ’ ἐνιαυτὸν τοῖς μυστηρίοις καὶ τὸ ἐξαριθμηθὲν διάφορον ἐ[ξ]

ἑκατέρου τοῦ θησαυροῦ χωρὶς γράψαντες ἀνενεγκάντω· ἀποδόντω δὲ καὶ

Μνασιστράτωι τὸ γινόμενον αὐ[τῶι] διάφορον, καθὼς ἐν τ[ῶι]

95 διαγράμματι γέγραπται

IG V,1 1390

The sacred men appointed in the fifty-fifth year, along with the director of building, are to be 90 careful that

two stone treasuroi, that can be closed, are prepared; they are to place one in the temple of the

Great Gods and the other near the fountain at whatever place seems

to them to be safe. They are to provide keys: for the treasuros by the fountain, Mnasistratos is to

have one key and

the sacred men the other; for the treasury in the temple the sacred men are to have the key;

and they are to open them every year for the mysteries. They are to bring forth

and record the money, which is to be counted out from each treasury separately; they also are

to give Mnasistratos the money coming to him,

95 as it is written in the rule. “

IG V,1 1390; translation by MEYER 1987, 57.

Commercialized salvation and the First-fruit offerings

39 Hymns were sung at festivals and symposiums and were very popular during the 7th and 6th centuries BCE.135 In the late 6th century BCE under the Athenian rule, the Homeric Hymn to Demeter composed around the 7th and 6th centuries BCE was transcribed from the oral tradition. The reason why Athens took an interest in cultic activities at Eleusis,

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beginning with Solon, is linked to the conflicts with the Doric city Megara that was in dispute with Athens over Eleusis, an Ionian city like Athens. Athens pretended that the Doric city Megara occupied the Ionian city Eleusis and claimed priority over the Eleusinian cult.

40 It is during this period that the image of the netherworld began to change from being simply a dark and unhappy place, as recorded in ’s (10.491–494, 509, 564; 11.47, 226, 385). Homeric idea of the soul after death gave way to a new view of the soul as an immortal being worthy of a better afterlife. The soteriological aspect of the cult of Demeter and Persephone was enforced in the hope for a better afterlife. The Homeric Hymn to Demeter (480–483) mentions that Demeter gave the order and instruction for the performance of her mysteries that promised a better afterlife for those who were initiated into her mysteries. However, whoever was not initiated into the sacred rites of Demeter had to dwell in the gloomy realm of the underworld. The Homeric Hymn to Demeter offers salvation and the option for mortals to escape the dark realm described by Homer (Il. 8.13–16; Od. 10.542, 590) and (Theog. 841) without explaining what else exists in the afterlife apart from the gloomy darkness.

41 In the 6th century BCE, Athens’ main aim was to justify its territorial claims concerning Eleusis towards Megara. For this reason, Athens was integrated into the Eleusinian Mysteries in order to emphasize the significance of Athens for the Eleusinian Mysteries. The Eleusinian Mysteries had local significance in the 6th century BCE. The political changes after the Persian Wars brought new objectives. The objective of Athens as leader of the new Delian League was to promote the Eleusinian Mysteries to Pan- Hellenic mysteries under the religious leadership of Athens. Awareness of the significance of the Eleusinian Mysteries was also increased through heralds dispatched through the Greek world to invite people to the mysteries. Sokolowski makes a good point in saying that “we should note in conclusion that the rules regulating the celebration of the Eleusinian Mysteries were drawn up and issued not at one time but grew slowly as the current customs and popular need dictated” by Athens.136

42 The chance to prepare for a better afterlife had its price. Athenaeus (2.12) says that telete means to spend, as the organisation and the performance of the mysteries entail costs. The term τελεῖν (telein) means ‘to accomplish’ and ‘to perform’, and τελετή (telete) means ‘rite’. Both terms are closely linked to the mystery rites.137 The organisation and performance of the Eleusinian Mysteries were a costly matter for the sanctuary and for initiates who paid high fees for the initiation into the Eleusinian Mysteries. And we call those festivals which are of greater of greater magnitude and which are celebrated with certain mysterious tradition, τελεταὶ, on account of the expense which is lavished on them. For the word τελεῖν means to spend. Athenaeus 2.12; translation by Yonge 1854.138

43 The Eleusinian Mysteries are referred to as Lesser and Great Mysteries performed at the sanctuary of Demeter in Eleusis. The Lesser Mysteries were the first state of the initiation and took place in the month of Anthesterion139 (IG I3 6b, lines 36–43; Plutarch, Demetrius 26.1). The Greater Mysteries, the most significant mysteries in ancient Greece, were performed in the month of Boedromion (Plutarch, Demetrius 26.1–2). The Eleusinian Mysteries lasted ten days and began with a procession from Athens to Eleusis. We can assume that the fees were also paid in the 6th century BCE for the initiation into the Eleusinian Mysteries and the payment was probably made in kind or

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ingots used as pre-monetary currency. With the acceleration of the monetarization of the markets in the 5th century BCE, the payment was replaced by coins. IG I 3 6 is a decree from Athens dating to 460 BCE that was inscribed on four sides of a stele.140 The decree disposed on side C regulates the Eleusinian Mysteries and the fees paid to cultic officials. The exact fees for the Eleusinian Mysteries are unknown. IG II2 1672 (line 207) dating to 329 BCE mentions that the fees for the initiation of two slaves into the Eleusinian Mystereies were 30 drachmas, suggesting that each slave paid 15 drachmas. Free people had to pay at least the same fees. We do not have epigraphic evidence for the number of people who were initiated each year. The Telesterion, where the mysteries were performed, offered the place for up to 3,000 people. Approximately 2,000–3,000 people may have been initiated each year into the Eleusinian Mysteries.141 By paying 15 drachmas each in fees, the 3,000 initiates brought in 45,000 drachmas a year (7,5 talent). It is, therefore, not recorded whether the 15 drachmas also covered the fees for sacrifices and the fees paid to cultic officials, as ordered in IG I3 6c (lines 5– 38).

44 The fees of 15 drachmas for the initiation into the Eleusinian Mysteries were significantly high (IG II 2 1672, line 207). If we consider that the wages were approximately one drachma a day, 15 drachmas were the wages of two weeks. We should also add to these fees the costs for accommodation, food, and the trip to Eleusis. Not only people from Attica attended the Eleusinian Mysteries, but also people from different regions in the Greek world. The income from the Eleusinian Mysteries was considerable for the sanctuary of Demeter at Eleusis and for the two cities – Athens and Eleusis – involved in the performance of the mysteries. Not only the sanctuary and the cultic officials at Eleusis were the beneficiaries of the Eleusinian Mysteries but also the local people who sold food and offered accommodation. It is not recorded whether the participants had to pay the fees for the Eleusinian Mysteries at Athens or at Eleusis. As the procession began in Athens, the fees were probably paid in Athens.

[․․․․․․․․․․] ὀ̣βολ[․․․] . . . an obol from

[․․․․․․․․]ο ∶ ℎιερ̣[οποιὸς] each [initiate]; and the (two) -

[δὲ λαμβάνεν ℎε]μιοβέ̣[λιον κα]- shall take half an obol

[θ ἑμ]έραν [παρὰ τ]ο͂ μύστο [ℎε]κ̣ά[σ]- each from each initiate;

[το]· τ̣ὲν ℎιέρ[εα]ν τὲν Δέμε̣τ̣ρος and the priestess of Demeter

10 [λ]αμ[β]ά̣ν̣εν μυ̣[στ]ερίοις τ[ο]ῖς ὀ- shall take at the Lesser

[λ]έζοσ̣ιν παρὰ̣ [το͂ μ]ύστο ℎ[εκ]άσ- Mysteries from each initiate

[τ]ο ὀβολόν καὶ [τοῖς μ]είζ[οσιν] an obol, and at the Greater

[μ]υ̣στερίοις ὀ[βολὸν παρὰ το͂ μ]- Mysteries an obol

[ύσ]το ℎεκάστο̣· σ̣[ύμπαντας ὀβο]- from each initiate; all the obols

15 λὸς τοῖν θεο[ῖ]ν̣ [εἶναι πλὲν] ℎε- shall belong to the two Goddesses

Mythos, 12 | 2018 73

χσακοσίον κα̣[ὶ χιλίον δρ]αχμ̣- except for 1,600 drachmas;

ο͂ν· ἀπὸ δὲ το͂ν ℎε̣[χσακοσίο]ν κα- and from the 1,600

ὶ χιλίον δραχμ[ο͂ν τὲν ℎι]έρεα- drachmas the priestess

ν τἀναλόματα [δο͂ναι καθ]άπερ shall pay the expenses just

20 τέος ἀνέλοτο ⋮ Ε̣ [ὐ]μ̣[ολπίδ]ας κα- as they have been paid until now

ὶ Κέρ[υ]κ̣α̣ς λαμβ̣άν[εν παρὰ] το͂ μ- and the Eumolpidai and

ύστ[ο ℎ]εκ̣άστο π̣έ̣ν̣[τε ὀβολὸς τ]- the Kerykes are to take from each initiate

ο̣͂ν̣ [ἀρρ]ένον, θελειο[͂ ν δὲ τρεῖς]· 5 obols from the men, 3 obols from the women;

[ἀτελε͂ μ]ύστεμ μὲ ἐν[εῖναι μυε͂]- an initiate who has not paid shall not enter

25 [ν μεδέ]να̣ π̣λὲν το͂ ἀφ [ἑστίας μυ]- any initiation except for the hearth-initiate;

[ομέν]ο ∶ Κερύκας δὲ μυ[ε͂ν ․․․․] and the Kerykes shall initiate

[․․] μύστας ℎέκαστον [καὶ Εὐμο]- the initiates -, each one, and the Eumolpidai

[λπίδ]ας [κ]ατὰ τα[ὐ]τά· ἐ[․․․․․․] in the same way; but if . .

[․] πλείος εὐθύνεσθα[ι χιλιάσ]- more, they shall be fined

[a thousand] drachmas at their scrutiny; and 30 [ι] δρα[χ]με͂σι· μυε͂ν δὲ ℎ̣ [οὶ ἂν ℎεβ]- those

ο͂σι Κερύκον καὶ Εὐ[μολπιδον͂ ]· of the Kerykes and Eumolpidai

το͂ δὲ ℎιερο͂ ἀργυρί[ο ․․․․․․] who have reached adulthood may initiate;

[․]ΕΣ[․․․․]ιναι Ἀθεν[αίοισι ․․] and the Athenians may use the sacred money

[․]σθαι ℎ̣έος ἂν βόλο[νται καθά]- as they wish, just like

35 περ το͂ τε͂ς Ἀθεναία[ς ἀργυρίο the money of Athena

το͂ ἐμ πόλει· τὸ δὲ ἀρ[γυρίον τὸ]- on the Acropolis;

[μ]ύ̣στας ℎεκαστομ #⁷ [․․․․․․․] initiates each . . .

[τ]ὸς μύστας τὸς Ἐλε[υσῖνι ․․․] the initiates who are

[․]ε̣νος ἐν τε͂ι αὐλε͂ι [ἐντὸς το͂ ℎ]- at Eleusis in the courtyard within the

45 [ι]ερõ τὸς δὲ ἐν ἄστει [․․․․․․] sanctuary, and those who are in the city

[․] ἐν το͂ι Ἐλευσινίοι. [vac.] in the Eleusinion.

Mythos, 12 | 2018 74

[τ]ὸν ἐπὶ το͂ι βομο͂ι ἱερέα καὶ τ[ὸν The altar-priest and the [herald] φαιδυντὲν]

το<ῖ>ν θεοῖν καὶ τὸν ἱερέα τὸ[ν ․․․․․․․․] of the two Goddesses and the priest who…

[λ]ανβάνεν ἕκαστον τότο[ν ․․․․․․ παρὰ] are to take, each of these [an obol?] from

50 [το͂] μύστ[ο ἑ]κάστο Ι — — — — — each initiate

IG I3 6c; translation by Stephen Lambert.

45 The hierophoioi received a half-obol each day from each initiate (IG I3 6c, lines 5–8). The hieropoioi were appointed by the city and were in charge of finances, administration, sacrifices, and festivals.142 The decree does not precise whether each hieropoios received a half-obol or all hieropoioi together. The hieropoioi appointed by the city received their salary from the city and not from the initiates.143 A half-obol from each initiate makes by 3,000 initiates 250 drachmas a day. If the initiates had to pay for ten days, the hieropoioi received 2,500 drachmas together at the end of the Eleusinian Mysteries. The priestess of Demeter shall receive at the Lesser and Greater Mysteries one obol from each initiate (IG I3 6c, lines 9–14). By maximum 3,000 initiates at the Lesser and Greater Mysteries, the priestess of Demeter received approximately 1,000 drachmas. The Eumolpidai and the Kerykes shall receive from each male initiate 5 obols and from each female initiate 3 obols (IG I 3 6c, lines 21–23). The Eumolpidai and Kerykes were two families based at Eleusis who were in charge of the organisation of the Eleusinian Mysteries and provided cultic officials, such as the hierophants, torchbearers, and sacred heralds. It is unknown whether most of the initiates were men or women. Supposing 50% of the initiates were men. The two families received 2,000 drachmas from 3,000 initiates (see Table 3).

46 A male initiate paid 11 obols as fees during the Eleusinian Mysteries (Table 3): 5 obols to the hieropoioi, 1 obol to the priestess of Demeter, and 5 obols to the Eumolpidai and the Kerykes. 11 obols paid as fees to different cultic officials comprise only 12% of the total fee of 15 drachmas (IG II 2 1672, line 207) paid for the initiation into the Eleusinian Mysteries. The fees paid to the cultic officials listed in IG I3 6c (lines 5–14, 21–23, 47–50) brought by 3,000 initiates 6,000 drachmas (see Table 3). Supposing that the sum of 6,000 drachmas was paid from the fees for the initiation, 39,000 drachmas remained (45,000 - 6,000 = 39,000). It is not recorded which expenses were covered with this money. IG I 3 386 (lines 145–146) dating to 407 BCE mentions that the fees for 2,200 initiates at the sanctuary of Demeter in Eleusis brought 4,400 drachmas. 2,200 initiates paid more than 2 drachmas as fees for the initiation into the mysteries. This amount probably remained after payment of expenditure.

47 The sacred money – income from the fees – had to be deposited on the acropolis of Athens and the city had the right to use it as it wanted (IG I 3 6c, lines 32–35). Such a high income from the fees was considerable for a sanctuary and cultic officials, but not for a city like Athens. It was, therefore, crucial for a city to have a sanctuary that had a Pan-Hellenic significance.

Mythos, 12 | 2018 75

48 Clinton assumes that the treasury of Demeter at Eleusis received all the money listed in IG I 3 6c as fees paid to cultic officials, “except for 1,600 obols 144 to be spent by the priestess on expenses as she had done in the past”.145 As cultic officials were in charge of different cultic rituals, the fees ordered in IG I 3 6c were probably used for such expenses. However, the amount of ca 45,000 drachmas (15 x 3000) is significantly high for a festival. IG I3 6c (lines 32–35) emphasizes the supremacy of Athens over Eleusis and its cult, but also the high income from the fees paid at the Eleusinian Mysteries. If the Eleusinian cultic officials received all the fees paid at the Eleusinian Mysteries and a small sum was left after expenses, it was not necessary to deposit the money on the acropolis.

49 Athens enacted several decrees in the 5th and 4th centuries BCE for the regulation of the aparche (ἀπαρχή),146 the so-called First-fruit payment, to Eleusis. The offering of aparche had to ensure the agricultural fertility. The Athenians and the member cities of the Delian League were ordered to pay the aparche to Demeter, who was considered to be the giver of the agricultural gift. The member cities of the Delian League had to send the aparche to Eleusis short after the wheat and barley harvest. Traditionally, the First- fruits were offered to different deities and consisted of a small amount of grain or other perishable food, which were burnt or put on the altar or onto the earth.

50 IG I3 78,147 the first Athenian decree regulating the aparche to Eleusis, was enacted in 425–422 BCE.148 This is the period between the Battle of Phylos in 425 BCE and the Peace of Nicias in 421 BCE. According to IG I 3 78 (lines 4–5), the Athenians had to pay the aparche to the two goddesses according to the ancestral traditions and Delphic oracle. The allies – member cities of the Delian League – had to pay the aparche in the same way as Athens (IG I 3 78, lines 16–17). Another Athenian decree that mentions the payment of aparche is IG II2 140 (353 BCE). The First-fruit offerings have a long tradition going back to earlier periods and were made to local sanctuaries. There is no evidence that the aparche was also paid to Eleusis in earlier periods and the sanctuary of Demeter

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at Eleusis had a Pan-Hellenistic significance during the Archaic period. Athens did not have the political power in the 6th century BCE to impose the payment of the aparche on Greek cities. The Delian League was established after the Persian Wars in 478 BCE under the leadership of Athens. The Athenian decree justifies the payment of aparche to Eleusis with ‘ancestral traditions and Delphic oracle’. IG I3 78 was not the first Athenian decree that imposed the payment of aparche on allies of the Delian League. The Athenian decree IG I3 259 dating to 454 BCE also ordered the payment of aparche – one- sixtieth of the tribute named phoros (φόρος) paid by allies – to Athena. This decree was enacted at the time when the treasury of the Delian League was transferred from Delos to Athens. Such payments to the sanctuary of Athens had to emphasize the political and religious leadership of Athens. With such financial support, the sanctuaries of Demeter and Athena were also able to organize festivals, which exacted high costs. The allies were required by Athenian decrees to pay for its major cults and to send representatives to the major festivals of Athens, such as the Eleusinian Mysteries and the Panathenaia.149

51 IG II2 78 (422 BCE) found on the acropolis of Athens also orders the payment of aparche to Eleusis and gives insight into the finances of the sanctuary of Demeter and Persephone at Eleusis.150

[γρ]αφσαν· ἀπάρχεσθαι τοῖν θεοῖν το͂ καρπο͂ κατὰ τὰ πάτρια καὶ τὲ-

5 ν μαντείαν τὲν ἐγ Δελφον͂ Ἀθεναίος ἀπὸ το͂ν ℎεκατὸν μεδίμνον [κ]-

ριθον͂ μὲ ἔλαττον ἒ ℎεκτέα, πυρον͂ δὲ ἀπὸ το͂ν ℎεκατὸν μεδίμνον μ-

ὲ ἔλαττον ℎεμιέκτεον· ἐὰν δέ τις πλείο καρπὸν ποιε͂ι ἒ τ[οσοῦτο]-

ν ἒ ὀλείζο, κατὰ τὸν αὐτὸν λόγον ἀπάρχεσθαι. ἐγλέγεν δὲ [τὸς δ]εμ-

άρχος κατὰ τὸς δέμος καὶ παραδιδόναι τοῖς ℎιεροποιοῖς τοῖς

10 Ἐλευσινόθεν Ἐλευσῖνάδε. οἰκοδομε͂σαι δὲ σιρὸς τρε͂ς Ἐλευσῖν-

ι κατὰ τὰ πάτρια ℎόπο ἂν δοκε͂ι τοῖς ℎιεροποιοῖς καὶ το͂ι ἀρ[χ]ιτ-

έκτονι ἐπιτέδειον ε͂̓ναι ἀπὸ το͂ ἀργυρίο το͂ τοῖν θεοῖν. τὸ[ν δὲ κα]-

ρπὸν ἐνθαυθοῖ ἐμβάλλεν ℎὸν ἂν παραλάβοσι παρὰ το͂ν δεμάρ[χον],

ἀπάρχεσθαι δὲ καὶ τὸς χσυμμάχος κατὰ ταὐτά. τὰς δὲ πόλες [ἐγ]λ[ο]-

15 γέας ℎελέσθαι το͂ καρπο͂, καθότι ἂν δοκε͂ι αὐτε͂σι ἄριστα ὁ καρπὸ

[ς] ἐγλεγέσεσθαι· ἐπειδὰν δὲ ἐγλεχθε͂ι, ἀποπεμφσάντον Ἀθέναζε·

τὸς δὲ ἀγαγόντας παραδιδόναι τοῖς ℎιεροποιοῖς τοῖς Ἐλευσι-

νόθεν Ἐλευσῖνάδε· ἐ[ὰ]ν δὲ μὲ παραδέχσονται πέντε ἑμερο͂ν vvvv

ἐπειδὰν ἐπαγγελε͂ι, παραδιδόντον το͂ν ἐκ τε͂ς πόλεος ℎόθεν ἂν [ε͂̓]-

Mythos, 12 | 2018 77

20 [ι] ὁ κα[ρπ]ός, εὐθυνόσθον ℎοι ℎιεροποιοὶ χιλίαισιν v δραχμε͂σι [ℎ]-

[έκασ]τος·

IG I3 78

First-fruits shall be offered to the two goddesses, in accordance with ancestral custom

and the oracular response from , by the Athenians (as follows): from each one hundred 5 medimnoi of

barley not less than one-sixth (of one medimnos); of wheat, from each hundred medimnoi,

not less than one-twelfth. If anyone produces more grain than [this amount] or

less, he shall offer First-fruits in the same proportion. Collection shall be made by [the]

Demarches deme by deme and they shall deliver it to the Hieropoio

10 from Eleusis at Eleusis. (The Athenians) shall construct three (storage) pits at Eleusis

in accordance with the ancestral custom, at whatever place seems to the Hieropoioi and the

architect to be suitable, out of the funds of the two goddesses. The grain

shall be put in there which they receive from the Demarches.

The allies as well shall offer first fruits according to the same procedure. The cities shall

15 have collectors chosen for the grain by whatever means seems best to them for grain

collection. When it has been collected, they shall send it to Athens,

and those who have brought it shall deliver it to the Hieropoioi from Eleusis

at Eleusis. If (the latter) do not take delivery of it within five days after it has

been reported to them, although it was offered by (the envoys) of whatever city [was the

source]

20 of the grain, the Hieropoioi at their euthynai shall be fined one thousand drachmas [each].

IG I3 78; translation by FORNARA 1983, 161, no 140.

52 IG I3 78 orders the delivery of 1/600th of the annual production of barley and 1/1,200th of the annual production of wheat to Eleusis. Moreno has suggested that the grain production at Attica was on average 580,000 medimnoi of barley (κριθή) and 120,000 medimnoi of wheat (πυρός) a year.151 If we take 580,000 medimnoi of barley and 120,000 medimnoi as basis for the calculation of aparche, Athens had to deliver 966 medimnoi of barley and 100 medimnoi of wheat to Eleusis. The price for one medimnos of barley was ca 3 drachmas (IG II3 360, line 9; IG II3 1 367, line 10) and ca 6 drachmas for one medimnos

Mythos, 12 | 2018 78

of wheat (IG II2 1356, lines 2, 21) in the 4th century BCE Athens. The aparche from Athens had a value of 3,398 drachmas (Table 4). The Delian League had at least 330 member city states.152 As not all cities were able to produce the same amount of barley and wheat as Athens, the member cities of the Delian League delivered different amount of barley and wheat as aparche to Eleusis. If we assume that 50 member city states were able to deliver as much as Athens, the aparche brought 48,300 medimnoi of barley and 5,000 medimnoi of wheat. Athens had to import wheat from other cities, as it was not able to produce enough wheat for its own population. According to Moreno, Athens imported approximately 1,300,000 medimnoi of wheat.153 The aparche ordered in IG I3 78 brought probably less than 1,300,000 medimnoi of wheat. The aparche had to be sold and used for sacrifices performed in honour of Demeter and Persephone, dedications, and stelai (IG I3 78, lines 36–44). The income from aparche ordered in IG I3 78 was considerable for the sanctuary of Demeter at Eleusis. If 50 cities delivered the same amount of aparche as Athens, Eleusis received approximately 179,000 drachmas as income from aparche (see Table 4).

* one medimnos of wheat ca 40 kg; one medimnos of barley ca 31 kg **medimnoi of barley multiplied by 3, and medimnoi of wheat multiplied by 6154 155

53 The decree IG I3 32 (lines 7–12) dating to 432/1 BCE regulates the selection of epistatai who were in charge of the administration of the finances of the sanctuary of Demeter and Persephone at Eleusis.156 The decree orders the selection of six Athenian men as epistatai (lines 7–8). This decree was released a few years before IG I3 78 and after IG I3 6. The high number of epistatai suggests that the income of the sanctuary of Demeter and Persephone at Eleusis was considerable. The income from aparche ordered a few years after this decree also required several officials in charge of the administration of the finances. Commercialized aparche and salvation (mysteries) were especially beneficial for the sanctuaries and cultic officials. The maintenance of the sanctuary, the

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construction of new buildings, and well-organised costly festivals also increased the significance of the sanctuary and the status of cultic officials.

54 Isocrates says that most Greek cities paid the aparche according to the ancestral customs (Paneg. 31). 157 If we believe Isocrates, the Pythian priestess ordered the payment and admonished the cities, which neglected the payment. Many Greek cities agreed to pay, but not all cities (Paneg. 31). Clinton states that the sanctuary was embarking on a new era of prosperity at the time when Panegyricus was published, and a few cities were contributing the aparche.158 Isocrates as an Athenian rhetorician wrote from the perspective of Athens and emphasizes the leadership of Athens. It was important to highlight that many cities contributed the aparche and to encourage other cities to pay as well. For most of the Hellenistic cities, in memory of our ancient services, send us each year the First-fruits of the harvest, and those who neglected to do so have often been admonished by the Pythian priestess to pay us our due portion of their crops and to observe in relation to our city the customs of their fathers. And about what, I should like to know, can we more surely exercise our faith than about matters as to which the oracle of Apollo speaks with authority, many of the Hellenes are agreed, and the words spoken long ago confirm the practice of today… Isocrates, Panagyricus 31; translation by Norlin 1980.

55 IG II2 1672 mentions that different demes of Attica (lines 262–273),159 Skyros (lines 274– 275), Lemnos (lines 276–279),160 and Imbros (lines 298–302) paid the aparche to Eleusis. IG II2 1672 lists a few demes of Attica and islands depending on Athens, which paid the aparche to Eleusis in 329 BCE. Presumably, the allies of the Delian League paid the aparche to Eleusis as long as Athens had the political power to impose these payments.

56 IG II2 1672 refers to the financial account of the sanctuary of Demeter at Eleusis for the year 329/8 BCE and lists wages paid for various types of work. The cost listed for the annual maintenance of the sanctuary of Demeter and Persephone at Eleusis was approximately 40,000 drachmas. This sum includes wages, cost for buildings, food, etc. We learn from this inscription that the heralds who announced the Eleusinian Mysteries on islands received 240 drachmas (IG II 2 1672, line 4). The cost for the construction of a wall was 2,631 drachmas and 3 obols (IG II 2 1672, lines 25–26). The lines 300–301 mention that the money was retrieved from the thesauroi of the ‘older’ (πρεσβυτέρας) and ‘young’ (νεωτέρας) goddesses who are referred to as Demeter and Persephone. Both goddesses had apparently two separate thesauroi. Depending on the ritual performed in honour of Demeter or Persephone, the fees were conveyed to the thesaurus of the respective goddess. It is, however, not sure whether the term ‘thesaurus’ refers to a treasury house or to a stone box. In the next lines, it is indicated that a man named Lykes was paid 4 drachmas to open the thesauroi (IG II2 1672, lines 303–304). Iscr. di Cos ED 89 (line 23–24) also mentions that somebody was paid to open the thesaurus. The thesauroi mentioned in IG II2 1672 refer presumably to stone boxes. The sum of 4 drachmas paid for the opening of the thesauroi was the wages of skilled workers. Apparently, the thesauroi were locked with sophisticated lockers and were opened by skilled workers. Sophisticated lockers were important in order to protect the money deposited into the thesauroi. IG II2 1672 (lines 300–301) mentions an amount of money retrieved from two thesauroi. The sum was not significantly high: 500 drachmas, 5 obols, and 4 gold from the thesaurus of Demeter; 1,092 drachmas, 4 obols, and 1 gold from the thesaurus of Persephone. The two thesauroi mentioned in IG II 2 1672 had probably the

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same size as the thesaurus dedicated to Theagenes that offers a space for approximately the same amount of coins retrieved from each of the thesauroi at Eleusis.

εἰς ἀνάθημα τοῖν θεοῖν. <ἐ>κ τῶν θησαυρῶν ἐξειρέθη τῶν Ἐλευσῖνι τοῖν θεοῖν· ἐκ τοῦ {ς} 300 τῆς πρεσβυτέρας Φιλίππειοι δύο, τριώβολον χρυσοῦν, ὀβολοὶ δύο χρυσοῖ, δραχμὴ Χαλκιδική, τριώβολον, ὀβολὸς Δελφικ[ός]·

νομίσματος ΙΙΙΙΙC· ἐκ τοῦ νεωτέρας ὀβολοὶ δύο χρυσοῖ, νομίσματος ΔΔΔΔΙΙΙΙΙΧ· σύμπαν 301 κεφάλαιον σὺν τῆι τιμῆι τοῦ χρυσίου καὶ τοῦ ξενικοῦ ΧΔΔΔΔΙΙΙΙΧ· ἀπὸ τούτου τάδε ἀνήλωται· Λύκητι

302 Περιθοί τῶι τοὺς θησαυροὺς ἀνοίξαντι μισθὸς ·

IG II2 1672

From the treasures of the Goddesses in Eleusis have been retrieved: the treasure of the older 300 (goddess), 2 coins of Philip, 1 triobolon in gold, 2 obols in gold, 1 drachma from Chalcidice, 1 triobolon, 1 obol from Delphi,

a sum of money of 500 drachmas, 5 obols, 4 gold. From the treasure of the younger (goddess), 301 2 obols in gold, a sum of money of 540 drachmas, 5 obols, 5 gold. Total, with gold and foreign currencies = 1092 drachmas, 4 obols, 1 gold. Spent from this sum: for Lykes

302 from Perithos, who opened the thesauroi, 4 drachmas

57 Each of the 2,000 or 3,000 initiates had to sacrifice a piglet at the Eleusinian Mysteries; this means 2,000–3,000 piglets. We do not know whether the initiates had to give one part of the meat as priestly share or money. Independently from the priestly share, the sanctuary had to organize the slaughtering en masse and cooking facilities, as the meat had to be cooked the same day and consumed within two days. As mentioned, animal sacrifice and priestly share were partially replaced by coins. Such regulation may also have been applied at Eleusis; however, there is no epigraphic evidence for it. It was useful for the sanctuary to have money than a surplus of meat. The fee asked for small animals on Cos was a half obol (HGK 17, lines 10–12) or 3 obols (SEG 50:766, lines 10-13; Iscr. di Cos ED 89, lines 18–24). Supposing that 3 obols were also asked as a preliminary offering at piglet sacrifices performed by initiates at the Eleusinian Mysteries. By paying 3 obols for each piglet sacrifice, 2,000–3,000 piglet sacrifices brought 1,000–1,500 drachmas. The sum retrieved from the two thesauroi mentioned in IG II2 1672 (lines 300– 301) corresponds to this amount. Therefore, we do not know whether these two thesauroi were exclusively used for fees asked at the Eleusinian Mysteries. The fees of 15 drachmas paid for the initiation into the Eleusinian Mysteries were collected by cultic officials and deposited into a building at Eleusis or Athens, as the thesauroi did not offer enough space for such a high sum (see Table 3).

58 Socrates says in a discussion recorded in Plato’s Euthyphro 14c that sacrificing is making gifts to gods. Aristophanes’ Plutos 1111–1115 also mentions that animal sacrifice, the offering of cakes, laurels, and incenses were gifts to deities. These gifts were crucial for the link between the worshippers and the deities. The offering of First-fruits was also a

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gift to the gods but was partially replaced by money. Animal sacrifice was an expensive matter, especially if cattle were sacrificed. IG II 2 1635 (lines 35–37) dating to 374 BCE mentions that 109 oxen were purchased for 8,419 drachmas. IG I3 258 (lines 4–10) dating to 420 BCE lists festival expenditures: 7,000 drachmas for the sanctuary of , 1,200 drachmas from Aphrodisia, 1,200 drachmas from Anakia, and 1,100 drachmas from . These two inscriptions illustrate that a high amount of money was needed for festivals and animal sacrifices. However, such a high number of animals were not sacrificed at each festival and not for all deities. We should also distinguish between sacrifices performed at festivals celebrated by the whole community and sacrifices performed by single worshippers. Animal sacrifices performed by priests at festivals organised by the polis were crucial, as such rituals evoked in people a sense of commonality and enforced the bond between the community, sanctuary, and the polis. In everyday life, single offerings and animal sacrifices could be replaced by money, as the psychological impact is different. The value of an offering made by single worshippers is also determined by its monetary value. The worshipper could buy a sacrificial animal or give its monetary equivalent to the priest.

Conclusion

59 In the 7th and 6th centuries BCE, ingots were used as pre-monetary means of payment of fees and consecrated as votives. Only one part of ingots consecrated over a period was deposited as votives at a few sanctuaries of Demeter on Sicily. Coins replaced ingots in the 5th century BCE. Ingots and coins are mainly attested for Doric cities, and especially for Western Greece. Coins as means of payment were beneficial for the sanctuaries and cultic officials, as money can be accumulated. The mercantile thinking and the monetarization of the markets have also influenced the offering practice and fees asked for various cultic services at the sanctuaries of Demeter. Coins consecrated at sanctuaries were conveyed to thesauroi and collected by cultic officials. One part of the coins consecrated between the 5th and 2 nd centuries BCE was deposited in some sanctuaries of Demeter as votives or as treasuries.

60 Coins found at the sanctuaries of Demeter were made from gold, silver, bronze, and copper. Most coins found at different sanctuaries of Demeter were bronze coins, which were low-value coins. A small part of bronze coins consecrated by worshippers was deposited as votives. This is not only typical for the sanctuaries of Demeter but also for other sites. It is also interesting that most bronze coins found at the sanctuaries of Demeter were from different cities. Low- value bronze coins from other cities, which were not used as legal tender, seem more likely to be deposited as votives in sanctuaries.

61 A high number of coins in silver and gold were deposited as treasuries in the sanctuaries of Demeter at Gela, Morgantina, Kaunos, and Myrmekion. Some sanctuaries served as banks, where money and precious metal were deposited. Precious metals and coins were not only deposited as circulating capital but also as reserves of the sanctuaries. Such reserves were accumulated over centuries and deposited into pits or embodied into a wall, like at the sanctuary of Demeter in Myrmekion. For different reasons, some of these treasuries were not retrieved.

62 Thesauroi used as collection boxes for fees paid at various rituals are only attested by epigraphic and archaeological sources for a few sanctuaries of Demeter. The absence of

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thesauroi at most sanctuaries of Demeter does not necessarily provide evidence to indicate that thesauroi were not in use. Thesauroi were probably removed or destroyed when they were not in use anymore. Collecting fees in thesauroi was apparently a practice that existed during the Classical and Hellenistic periods. In later periods, the fees paid for various rituals were collected by cultic officials. In earlier periods too, money was not only conveyed to thesauroi, but also collected by cultic officials. The thesauroi were opened once or twice a year and the income was used for the running cost of the sanctuary and as priestly share.

63 The epigraphic material from the Classical period offers testimony of the increased popularity of the Eleusinian Mysteries and the cult of Demeter promoted under the Athenian leadership to a Pan-Hellenic cult. The 5th century BCE is also marked by the increased use of money as a means of payment. IG I3 78 ordered the sale of the grain delivered as aparche to Eleusis. This is interesting in many respects as the aparche was offered as thanksgiving to a deity. Selling the aparche means that an important offering was not made to the goddess. A certain amount of grain and sacrificial animals have a certain monetary value. The monetary value determined the value of offerings, animal sacrifices, and priestly share. The gods did not only enjoy the smell of burnt animals or offering of aparche, but also their monetary equivalent. Therefore, not all offerings were replaced by money. Animal sacrifices and First-fruit offering were important for several festivals and rituals, especially for those performed by the whole community. At collective rituals, the performance of each ritual was significant for the cult.

BIBLIOGRAPHY

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NOTES

1. For further discussion on pre-monetary means of payment at Greek sanctuaries, LAU, 1924, 43 sqq. 2. The translations are mine, if not indicated otherwise. 3. DE ANGELIS 2016, 251. 4. DE ANGELIS 2016, 251. 5. Eloro (DE MIRO 2008, 66), Gela (VERGER 2011, 26), and Agrigento (FIORENTINI 1969, 72). 6. Stageira (SISMANIDIS 1999, 472–474), Kaunos (BULBA 2010, 654), Myrmekion (BUTYAGIN, CHISTOV 2006, 77–80), Morgantina (STILLWELL 1959, 168; SJÖQVIST 1960, 78), Gela (HINZ 1998, 67; ORLANDINI 1965–67, 1–20; Id. 1966, 8–35; Id. 2008, 173; VERGER 2011, 26; TARDITI 2016, 59), and Agrigento (HINZ 1998, 82). 7. KARATAS 2015, appendix table 3. 8. Myrmekion ( BUTYAGIN, CHISTOV 2006, 77), Stageira ( SISMANIDIS 1999, 472–474), old Samos (Archaeological Museum of Pythagorion), Kaunos (BULBA 2010, 654), Knossos (JACKSON 1973, 99– 113), Via Fiume at Gela (ORLANDINI 1966, 34sqq; KRON 1992, 634sq; HINZ 1998, 67), Eloro (UHLENBROCK 1988, 135), Entella (FREY-KUPPER 2016, 285–294), and the santuario ctonio at Agrigento (KRON 1992, 635; HINZ 1998, 82). 9. For further discussion on coins found at different places in the Greek world, see also ÇIZMELI- ÖGÜN, MARCELLESI 2011, 197sqq; BUTCHER 2016, 225sqq. 10. PICARD 2016, 82. 11. ORLANDINI 1965, 1–3; Id. 1966, 8sqq, pl. 2, fig. 2. 12. ORLANDINI 1965, 2. 13. HINZ 1998, 58.

Mythos, 12 | 2018 87

14. ORLANDINI 1965: 4–17. 15. Bronze ingots were found in deposits 2, 4–21, 22, 24–31 (ORLANDINI 1965, 4–16). 16. See also SEAFORD 2004, 139, fn. 87. 17. HINZ 1998, 58; ORLANDINI 2008, 173sq; VERGER 2011, 19; TARDITI 2016, 59. 18. VERGER 2011, 25. 19. VERGER 2011, 25. 20. TARDITI 2016, 50. 21. TARDITI 2016, 59, fig. 30. 22. Aes rude (aera rudia, plural): an irregular rough piece of bronze. Aes formatum (aera formata, plural): a bronze bar of a certain shape. Aes signatum (aera signata, plural): a stamped bronze bar. 23. TARDITI 2016, 59. 24. ORLANDINI 1965, 20; VERGER 2011, 26; TARDITI 2016, 59. 25. TARDITI 2016, 60. 26. 2–3 drachmas per kilo of bronze (PRICE 1968, 103). Based on IG II2 1675, Murray calculated a price of 60 drachmas and 1.5 obols for one talent of bronze (1985, 144). 27. VERGER 2011, 25. 28. VERGER 2011, 25. 29. HINZ 1998, 66sq. 30. HINZ 1998, 67; ORLANDINI 2008, 173. Coins are also attested for the sanctuary of Demeter in Carrubazza at Gela (HINZ 1998, 66). 31. FIORENTINI 1969, 63; HINZ 1998, 71, 74. 32. Hinz believes that the building was an open-air enclosure (1998, 72). 33. FIORENTINI 1969, 70–72. 34. HINZ 1998, 71sq. 35. HINZ 1998, 73. 36. FIORENTINI 1969, 72; HINZ 1998, 73. According to Fiorentini, the pithos contained 149.80 kg bronze ingots (1969, 72). 37. FIORENTINI 1969, 72; HINZ 1998, 73. 38. For this enclosure, see also HINZ 1998, 81–82. 39. HINZ 1998, 82. 40. BULBA 2010, 654. 41. DE MIRO 2008, 60. 42. HINZ 1998, 84–88. 43. For the sanctuaries of Demeter in Sicily, see HINZ 1998. 44. GRANDJEAN 2016, 59. 45. SJÖQVIST 1960, 78; BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 164, no. 29. 46. SJÖQVIST 1960, 78, pl. 19. 47. SJÖQVIST 1960, 78. 48. From the Hellenistic period onwards, the name Kore was associated with positive aspects, whereas Persephone was more linked to the underworld. 49. SJÖQVIST 1960, 78sq. 50. BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 165sq, no. 30. 51. BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 165sq, no. 30. 52. BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 159sq, no. 19. 53. BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 158sq, nos. 15–18. 54. BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 158sq, nos. 15–18. 55. SISMANIDIS 1999, 473–474.

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56. Most of the coins found at the sanctuary of Demeter at old Samos town are Samian coins and a single coin is from (Archaeological Museum of Pythagorion). As the votives found at this site have not yet been published, it is not recorded how the coins were deposited. All bronze coins from this site are very small. Due to the small size and number of the bronze coins, they were probably deposited accidentally in the temenos of Demeter. 57. Knossos (COLDSTREAM 1973, 157, no 219) and Cyrene (WHITE 1984, 51). 58. SISMANIDIS 1999, 473. 59. SISMANIDIS 2003, 81. 60. BCH 119, 1995, 967. 61. SISMANIDIS 1999, 473sq. 62. GATZOLIS, PSOMA 2016, 92. 63. GATZOLIS, PSOMA 2016, 94. 64. GATZOULIS 2011, 192sqq. 65. SISMANIDIS 1999, 472sq. 66. BULBA 2010, 649. For the sanctuary of Demeter at Kaunos, see also IŞIK (2000, 229–240; Id. 2010, 88–96) and BULBA (2008, 109–114). 67. BULBA 2010, 650–655. 68. See the following footnote. 69. See also BULBA 2010, 654. 70. BULBA 2010, 654. 71. BULBA 2010, 654. 72. I would like to thank Zeynep Çizmeli-Öğün, who kindly informed me about the coins found at the sanctuary of Demeter in Kaunos. An accurate analysis of coins from this site will be published by Z. Çizmeli-Öğün. For coins from the sanctuary of Demeter at Kaunos, see also Kaunos Çalışma Raporu 2010, 10sq. 73. ÇIZMELI-ÖĞÜN, MARCELLESI 2011, 321. 74. The Carian city Kasolaba has not yet been located; however, the city is also known from the Athenian Tribute list (DESCAT 1997, 61, 66sq). For coins from Kasolaba dating to the 5 th century BCE, see KONUK (2007, 476sqq). It is suggested that these coins were issued by a Carian city, but it cannot be determined with certainty whether it was the Carian city Kasolaba that minted these coins. 75. ÇIZMELI-ÖĞÜN, MARCELLESI 2011, 298. 76. BRESSON 2016, 269. 77. BUTYAGIN, CHISTOV 2006, 77–131; BUTYAGIN, TREISTER 2006, 133–146; STANCOMB 2006, 373–374; OHLERICH 2009, 118. 78. OHLERICH 2009, 118. 79. BUTYAGIN, CHISTOV 2006, 77, 80. 80. Escherai were used for burning sacrifices. Sacrificed animals or food, such as cereals or cakes, were completely burnt. Escharai are attested for a number of sanctuaries of Demeter: Abdera (BHC 112, 1988, 662–664; BHC 113, 1989, 656; BHC 114, 1990, 800; BHC 116, 1992, 917), Dion (PINGIATOGLOU 2010, 183), Eleusis (CLINTON 1988, 73, fig. 1), Xobourgo on Tenos (KOUBOU 2005, 28–29), (CRONKITE 1997, 43), (BOHTZ 1981, 16), (LEVI 1969, 119; BONIFACIO 2002, 14–15), Locri Epizephiri (SABBIONE 2008, 204–205; MILANESIO MACRI 2010, 334). Burnt offerings were also performed into a pit or on the earth as it is attested for the sanctuaries of Demeter at Neandria (FILGES, MATERN 1996, 70sqq), and Himera (HINZ 1998, 167). Burnt offerings performed over a long period on earth formed a hill. 81. BUTYAGIN, CHISTOV 2006, 77, 133. 82. FIGUEIRA 1998, 524sqq.

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83. Related lammata: IosPE I2 24; IGDOlbia 14. 84. JACKSON published 164 coins (1973, 108). 85. JACKSON 1973, 111–113. 86. JACKSON 1973, 188. 87. COLDSTREAM 1973, 130–171. 88. FREY-KUPPER 2016, 285, table 1. 89. FREY-KUPPER 2016, 285, table 1. 90. FREY-KUPPER 2016, 285, table 1. 91. FREY-KUPPER 2016, 290–292. 92. FREY-KUPPER 2016, 290. 93. For Argos, see GRANDJEAN 2016, 56sqq, and for Thasos, see PICARD 2016, 65. 94. PAFFORD analysed in her unpublished PhD thesis submitted in 2006 at the University of California, Berkeley, the types and the function of stone boxes and their use in Greek sanctuaries. G. Kaminski carried out the most accurate research on different types of thesauroi, their function for different Greek cults, and epigraphic material (1991, 63–181). 95. Thesaurus: STILLWELL 1959, 168; KAMINSKI 1991, 104, 158; SPOSITO 2008, 226. Stone block: SPOSITO 2008, 226. 96. STILLWELL 1959, 169; SJÖQVIST, 1964, 141–144; HINZ 1998, 132–134; SPOSITO 2008, 226, fig. 14–15. 97. HINZ 1998, 132. 98. HINZ 1998, 132. 99. SPOSITO 2008, 231, fig. 26. 100. HINZ 1998, 132. 101. BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 156–157, 186, nos. 4, 8, 53. 102. SPOSITO 2008, 226. 103. BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 186, nos. 51, 54. 104. HINZ 1998, 133. 105. KAMINSKI 1991, 158. 106. STILLWELL 1959, 168; KAMINSKI 1991, 158. 107. STILLWELL 1959, 168. 108. STILLWELL 1959, 168; BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 172–173, no 43; KAMINSKI 1991, 104, 158. 109. According to BUTTREY, ERIM, GROVES, and HOLLOWAY, the coins from Catana date to the 2nd century BCE (1989, 38). 110. STILLWELL 1959, 168. 111. BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 174. 112. BUTTREY, ERIM, GROVES, HOLLOWAY 1989, 174. 113. STILLWELL 1959, 168. 114. Related lemmata: LSCG 175 and IG XII,4 1:356. 115. The archaeological and epigraphic sources on Demeter from Cos provide evidence for the cult of Demeter from the 6th century BCE to the 1st century CE (HERZOG 1901, 134–135; KABUS- PREISSHOFEN 1975, 31–32, 35; KANTZIA 1988, 179–181). 116. SEG 50:766 (2nd century BCE) concerns the cult of Aphrodite Pontia on Cos and mentions that the prostates who were in charge of the keys of the thesauroi should open once a year the thesauroi in the presence of the priestess (lines 16–17). Iscr. di Cos ED 58 (2nd century BCE) orders the opening of the thesaurus twice a year (lines 7–8). SEG 51:1066 (1st century BCE) indicates that the thesaurus should be opened once a year (line 22). Iscr. di Cos ED 58 and SEG 51:1066 concern the cult of Asclepius on Cos. Iscr. di Cos ED 89 (1st century BCE) concerns the cult of Nike on Cos and orders the opening of the thesaurus twice a year (lines 21–23).

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117. Related lemmata: IG XII 4,1, 336. 118. Related lemmata: LSCG 163; IG XII 4,1, 330. 119. Related lemmata: IG XII 4,1, 294. 120. Related lemmata: LSCG 164; IG XII 4,1, 342. 121. According to Pausanias 6.11.9, Theagenes was worshipped as a hero with healing powers. 122. LSS 72 is discussed in detail by MARTIN 1940, 175–183. 123. See also SOKOLOWSKI 1962, 133 124. SOKOLOWSKI 1954, 153sqq. 125. MARTIN 1940, 181–181. 126. PAFFORD 2013, 50. 127. An inscription on a thesaurus dedicated to Aphrodite Ourania orders one drachma as proteleia at marriage (SEG 41:182, early 4th century BCE). 128. The priestess should receive the half of the income from the thesauroi and Aphrodite the other half (SEG 50:766; lines 17–20). The money Aphrodite received from the thesauroi should be used for the maintenance of the sanctuary (SEG 50:766, lines 21–22). Iscr. di Cos ED 89 also orders that the priest should receive the half of the income from the thesaurus and Nike the other half (lines 20–21). 129. See also MARTIN 1940, 186; PICARD 1990, 315, 321; PAFFORD 2013, 50sq. 130. 1,000 drachmas as sacrifice fees make up 6,000 animals if one obol was paid at every animal sacrifice. 131. For the cost of festivals, see also IG II2 1635 (lines 35–37) and IG I3 258 (lines 4–10). 132. For subscription, see MIGEOTTE 1992; ELLIS-EVANS 2013, 107–108; GYGAX 2016, 19-26. MIGEOTTE collected epigraphic sources on subscription and made an accurate analysis (1992). 133. MIGEOTTE 1998, 571. 134. KANTZIA 1988, 179. 135. LATACZ 1990, 240sqq; NOEGEL 2007, 25. 136. SOKOLOWSKI 1959, 5–6. 137. SCHUDDEBOOM analysed the terms linked to mysteries, and the meaning of the terms telein and telete (2009, 7sqq). 138. YONGE, C.D. 1854. The Deipnosophists or Banquet of the Learned of Athenaeus (London: Henry G. Bohn) 139. Anthesterion fells in February/March. 140. For IG I3 6, see also DAVIES 2001, 120. 141. DOWDEN 1980, 425. 142. SMITH 1973, 38; CLINTON 1974, 11, fn. 8; DEVELIN 1989, 17. 143. CLINTON 1974, 11. 144. CLINTON may have written by mistake ‘obols’ instead of ‘drachmas’. Clinton refers to IG I3 6c, lines 14–20. 145. CLINTON 1974, 13. 146. Jim analysed in her published PhD thesis the different aspects of aparche in ancient Greece (2014). 147. The stele with the inscription IG I3 78 was found at Eleusis. 148. For further discussion on IG I3 78, IG II2 1672 and aparche, see also CAVANAUGH 1996, 29sqq; PAZDERA 2006, 84–91; BRUIT ZAIDMAN 2007, 66sqq. 149. The most significant festival of Athena at Athens was the Panathenaia. 150. PAZDERA 2006, 84sqq. 151. MORENO 2007, 10, table 1. 152. HANSEN 2004, 111. 153. MORENO 2007, 10, table 1.

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154. IG II3 1 339 (lines 12–13); 9 drachmas for one medimnos of Sicilian wheat. 155. IG II3 1 339 (lines 13–14): one medimnos of barley for 5 drachmas. 156. For the epistatai of the sanctuary of Demeter and Kore at Eleusis, see also IG I3 386. 157. Isocrates’ Panegyricus was published around 380 BCE. 158. CLINTON 2010, 1–2. 159. The following deme of Attica are listed in IG II2 1672: Erechtheis, Aigeis, Pandionis, Leontis, Acamantis, Oineis, Kekropis, Hippothontis, Aiantis, Antiochis, Drymos, Amphiaraos, and Salamin. 160. IG II2 1672, lines 276–279, mentions and Hephaistia which were cities of Lemnos.

ABSTRACTS

The monetarization of the markets accelerated in the 5th century BCE led to the monetarization of the cults. The mercantile logic and money-oriented society shaped the transaction between the worshippers and the cults of Demeter. The relationship to deities was regulated by ‘do ut des’, i.e. one gives something so that the deity may give something in return. The epigraphic sources from the 5th and 4th centuries BCE give insight into the finances of the Eleusinian cult and illustrate the extent of monetarization of the cult of Demeter. Animal sacrifices, aparche, and priestly share were also partially replaced by money. Coins found at various sanctuaries of Demeter were deposited as votives and treasuries.

La monetizzazione dei mercati subì nel V sec. un’accelerazione, portando, a sua volta, a una monetizzazione dei culti. La logica commerciale e una società orientata alla monetizzazione modificarono le relazioni tra i devoti e i culti di Demetra. Il rapporto con le divinità era regolato da un “do ut des”, e quindi dall’inclinazione a offrire qualcosa alla divinità per ottenere altro in cambio. Le fonti epigrafiche del V e del IV secolo offrono indicazioni relative alle finanze del culto eleusino e alla monetizzazione del culto di Demetra. I sacrifici animali, aparche e porzioni sacerdotali furono parzialmente sostituiti da compensi in denaro. Monete reperite in vari santuari di Demetra erano depositate come ex-voto e tesori.

INDEX

Keywords: Coin hoard, fees, aparche, priestly share, Eleusinian Mysteries, Demeter Parole chiave: Moneta, imposta, aparche, porzioni sacerdotali, Misteri eleusini, Demetra

AUTHOR

AYNUR-MICHÈLE-SARA KARATAS University of Bristol 17 Lansdown Road, Saltford, BS31 3BB Bristol (UK) aramsk[at]my.bristol.ac.uk Ha studiato archeologia classica e ha lavorato a una tesi di dottorato sui santuari di Demetra in

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Asia Minore e nelle isole dell’Egeo presso l’Università di Bristol. Ha pubblicato saggi sui santuari di Demetra e i regolamenti normative. Il suo progetto di ricerca si occupa di esaminare il materiale archeologico dei santuari di Demetra. I risultati di questa ricerca compariranno in una collana dell’University of British Columbia.

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Una nota sul testo del Testimonium Flavianum (Antiquitates, XVIII, 63-64) a confronto con le versioni siriaca e araba: resurrezione o visione? A Remark on the Testimonium Flavianum Text (Antiquitates, XVIII, 63-64) in comparison with the Syriac and Arabic versions: Resurrection or Vision?

Giuseppe Petrantoni

1 Il caso del cosiddetto Testimonium Flavianum può dirsi ancora oggi non chiuso. Il breve passaggio su Gesù di Nazaret, che appare in tutti i manoscritti esistenti nel diciottesimo libro dello storico giudeo romanizzato Flavio Giuseppe, Antiquitates iudaicae (XVIII, 63-64) scritto in greco nel 93-94 d.C. circa, è stato soggetto a dispute teologiche circa la sua autenticità, sin dal sedicesimo secolo. Le interpretazioni della critica divergono sensibilmente e possono essere raggruppate, in ultima analisi, in due filoni opposti: coloro che sostengono l’autenticità del passo e coloro che la negano in parte o in tutto, parlando esplicitamente di interpolazione/interpolazioni1. Il dibattito sull’autenticità del Testimonium nasce dalla presenza di alcuni passi difficili da conciliare con quanto si conosce della religiosità di Flavio Giuseppe. Generalmente, la maggioranza degli studiosi accetta parzialmente il Testimonium attribuendo ad interpolatori cristiani alcune affermazioni in esso contenute2. La querelle è stata poi ulteriormente alimentata dal confronto fra il textus receptus e alcune versioni più tarde in siriaco e in arabo, le quali tuttavia , nonostante i lodevoli sforzi dei commentatori, non sembrano al momento far progredire più di tanto la ricerca.

2 Il dibattito si basa principalmente da una parte sull’analisi testuale e sul confronto del passo in questione con altre opere di Flavio Giuseppe, mentre dall’altra parte tiene conto del contesto storico e culturale nonché della totale assenza di qualche riferimento al Testimonium nelle fonti antiche3, infatti sebbene non meno di undici

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autori cristiani facciano riferimento a Flavio Giuseppe prima di Eusebio di Cesarea nel 324 d.C., nessuno menziona il Testimonium4. Andando per ordine, prima di Eusebio, Origene, nella metà del III secolo, scrive che Flavio Giuseppe non ‘accetta’ Gesù come Messia5, di conseguenza tale dato farebbe propendere per la totale autenticità del passo, ma come sostiene Paul L. Maier, questa ipotesi è da ritenersi ‘senza speranza’6. Il Testimonium è stato riportato verbatim da Eusebio di Cesarea per scopi apologetici anti- pagani7. San Girolamo riporta una traduzione letterale del passaggio, ma al posto della frase “questi era il Cristo” - ὁ χριστὸς οὗτος ἦν - propone “questi era creduto essere il Cristo” – credebatur esse Christus 8- tale variante è indipendentemente supportata dalla versione in siriaco di Michele il Siro la quale contiene la medesima variante:

07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 10 18 17 10 2A 12 2C 23 21 10 19 1A 19 2B 21 15 1D 17 18 2C 25 10 “si pensava che egli fosse il Cristo”9; l’esistenza di questi due testi paralleli implicherebbe il fatto che ci doveva essere stata una versione greca del Testimonium da cui hanno attinto sia Girolamo sia Michele il Siro poiché gli scrittori cristiani latini e siriaci non leggevano tra loro le loro opere ma solo la letteratura cristiana redatta in greco10.

3 A partire dal XVI secolo il dibattito sull’autenticità del Testimonium si fa più intenso tra gli studiosi ebrei, come Isaac Abravanel (1437-1508) e Menassah ben Israel (1604-1657), i quali rigettano la veridicità del testo in quanto manca nella versione del Sefer Yosippon11; mentre per i cristiani la supposizione che il testo sia stato falsificato comincia a diventare esplicita alla fine del secolo, durante il quale emergono figure come il luterano Lucas Osiander (1534-1604) anche se la sua teoria si poggia solo su presupposizioni a priori12.

4 Già a metà del XVII secolo circolavano opinioni divergenti sul Testimonium, ma solo tra la seconda metà del XVII secolo e l’inizio del XVIII secolo la questione troverà un chiaro assestamento; ciò non avvenne per caso in quanto Protestanti come C. Arnold, D. Blondel, T. Faber, T. Ittig e S. Snell studiarono a fondo il testo e i loro argomenti a supporto dell’inautenticità risultarono talmente convincenti che gli studiosi, di qualunque religione o no, erano obbligati ad accettare le loro congetture. Solo nella metà del XIX secolo emerse un forte consenso riguardo al fatto che il Testimonium risulta essere parzialmente o totalmente interpolato13. La frase ‘incriminata’, “questi era il Cristo”, ha condotto, ad esempio, uno studioso riformato come Tanaquilius Faber (1615-1672) a pensare all’inautenticità del Testimonium per il fatto che Origene riporta che Flavio Giuseppe non crede in Gesù come Cristo. Dopo Faber, in epoca moderna, molti studiosi cominciano a credere a una possibile falsificazione del testo, prova ne sarebbe, di tale pensiero, il fatto che Niese, nella sua edizione critica delle Antiquitates, pone tra parentesi l’intero passo (di sotto esposto) pensando che sia totalmente interpolato; possibilmente la frase “questi era il Cristo” è stata, secondo alcuni, corrotta da un precedente “questi era ritenuto essere il Cristo”14.

5 Nel 1971 S. Pines pubblica una monografia sulla cronaca medievale araba del X secolo, redatta da Agapio15, ponendola a confronto con la cronaca siriaca di Michele il Siro (vd. supra) poiché tutte e due le opere conservano una versione del Testimonium16. Il Testimonium di Agapio, a ben vedere, differisce dal textus receptus in greco, in particolar modo per la menzione: هلعلف وه حيسملا “e forse lui è il Cristo”, presentando, secondo Pines, pochi ‘tratti cristiani’ che, al contrario, contraddistinguono il testo greco17. La versione del Testimonium di Michele

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sembrerebbe invece molto più vicina a quella greca, ma anche in essa, come esplicitato prima, vi si legge “si pensava che egli fosse il Cristo”, linguisticamente più vicino al credebatur esse Christus di Girolamo, che la accosterebbe notevolmente al pensiero di Flavio Giuseppe, riguardo a Gesù e al suo status, rispetto al Testimonium di Agapius18.

6 Per quanto attiene alle fonti adoperate dai due autori, Agapio sostiene che la propria Cronaca si basi su quella siriaca di Teofilo di , mentre Michele il Siro ammette di aver attinto direttamente dall’opera storica del patriarca di Antiochia Dionigi Tel Maḥrē per il periodo tra 582-843; lo stesso Dionigi riconosce di aver utilizzato Teofilo per la sua opera, quindi Teofilo sarebbe stato la fonte maggiore da cui hanno attinto Agapio e Michele per il periodo storico 582-780 circa, tanto che viene citato espressamente dai due autori riguardo le loro fonti per il periodo omayyade19.

7 Secondo Pines il Testimonium di Michele sarebbe stato composto utilizzando parti della Historia Ecclesiastica di Eusebio e parti della versione Testimonium preso dalla fonte siriaca di Agapio20; invece è plausibile che i Testimonia di Agapio e Michele derivino da una stessa fonte comune siriaca che è stata riportata verbatim da Michele, mentre Agapio ha ritenuto opportuno ricorrere ad una parafrasi abbreviata, ma entrambi gli autori hanno estratto parti dalla Historia Ecclesiastica per coprire il periodo che va dalla Creazione al 780 d.C.21

8 Per quanto concerne gli elementi in comune che i due testi condividono si segnalano il riconoscimento di Gesù come messia e la sua morte in croce.

9 Come già annotato la versione siriaca riporta l’espressione “si pensava che egli fosse il Cristo”, mentre quella araba “e forse lui è il Cristo”. Occorre sottolineare che a quel tempo una consistente parte di autori medievali leggeva solo letteratura scritta in greco e probabilmente la fonte originaria dei due Testimonia sarebbe stata redatta in greco riportando nel punto in questione una frase simile a “si pensava che egli fosse il 07 07 07 07 07 07 Cristo”; inoltre il participio singolare maschile siriaco di forma ethpe‘al 10 2A 12 2C 23 21 “si pensa”22 identificherebbe una connotazione scettica e non usuale da parte di un vescovo cristiano medievale, come Michele, nei confronti dello status di Messia di Gesù. Se la fonte originaria greca riportava realmente una frase similare, con il verbo ἐνοµίζετο “si pensava” (come in Lc. 3, 23), allora ciò rafforzerebbe l’affermazione di Origene secondo la quale Flavio Giuseppe non credeva in Gesù come messia23.

10 Per quanto concerne la menzione della crocifissione e della morte di Gesù, si nota che i due testi fanno un riferimento più esplicito24, infatti Agapio riporta: و ناك طﻼيف س ىضق هيلع بلصلاب و توملا “Pilato lo ebbe condannato alla croce e alla morte”,

11 Michele invece scrive:

07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 21 17 21 20 10 2B 2A 12 10 12 1D 20 28 15 2C 25 21 18 1D 17 12 17 23 18 1C 20 1D 26 “Pilato lo ebbe condannato alla croce ed egli morì”25.

12 Non esiste un parallelo di tale aggiunzione in altre precedenti traduzioni greche o latine del Testimonium così come risulta inverosimile che ‘la condanna di Pilato’ facesse parte di un precedente Testimonium originario; inoltre non vi è ragione del perché un autore siriaco, tra il IV-V secolo e l’epoca di Michele, abbia inserito tale avvenimento dato che esso è già incluso nel textus receptus 26.

13 L’intenzione è allora quella di rileggere il testo greco e condurre un’analisi filologica, confrontando il lessico ivi impiegato con quello dei testi in arabo e in siriaco. Astraendo da considerazioni più propriamente dottrinali o più semplicemente correlate con

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visioni religiose, potremmo forse aggiungere qualche dato ulteriore per comprendere la reale natura di questa controversa testimonianza.

14 Il Testimonium di Flavio Giuseppe si presenta nel modo seguente27: Γίνεται δὲ κατὰ τοῦτον τὸν χρόνον Ἰησοῦς σοφὸς ἀνήρ, εἴγε ἄνδρα αὐτὸν λέγειν χρή: ἦν γὰρ παραδόξων ἔργων ποιητής, διδάσκαλος ἀνθρώπων τῶν ἡδονῇ τἀληθῆ δεχοµένων, καὶ πολλοὺς µὲν Ἰουδαίους, πολλοὺς δὲ καὶ τοῦ Ἑλληνικοῦ ἐπηγάγετο: ὁ χριστὸς οὗτος ἦν. καὶ αὐτὸν ἐνδείξει τῶν πρώτων ἀνδρῶν παρ᾽ ἡµῖν σταυρῷ ἐπιτετιµηκότος Πιλάτου οὐκ ἐπαύσαντο οἱ τὸ πρῶτον ἀγαπήσαντες: ἐφάνη γὰρ αὐτοῖς τρίτην ἔχων ἡµέραν πάλιν ζῶν τῶν θείων προφητῶν ταῦτά τε καὶ ἄλλα µυρία περὶ αὐτοῦ θαυµάσια εἰρηκότων. εἰς ἔτι τε νῦν τῶν Χριστιανῶν ἀπὸ τοῦδε ὠνοµασµένον οὐκ ἐπέλιπε τὸ φῦλον. Allo stesso tempo, circa, visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare uomo; poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accoglievano con piacere la verità. Egli conquistò molti Giudei e molti Greci. Egli era il Cristo. Quando Pilato udì che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce. Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno, apparve loro nuovamente vivo: perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innumeri altre cose meravigliose su di lui. E fino ad oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da lui sono detti Cristiani28.

15 Testo arabo di Agapio29: و كلاذك وفيسوي س ريعلا ينا هنلف لاق هرمايميف يتلا اهبتك لع ريبدت دوهيلا : هنا ناك اذه زلا نام لخر ميكح لاقي هل وسيا ع و تناك هل ةريس ةنسح و ملح هنا لضاف و هنا ذملتت هل ريثك نم سانلا نم دوهيلا و رتاس بوعشلا و ناك طﻼيف س ضق ى هيلع بلصلاب و توملا و نيذلا وذملتت ا هل مل وكرتي ا هتذملت و وركذ ا هنا رهظ مهل دعن ةثلث مايا نم هبلط و هنا شاع هلعلف وه حيسنملا يذلا تلاق هنع ءايبنﻻا ببيجاعﻻا Così Giuseppe l’ebreo disse, nei suoi trattati, di aver scritto sull’amministrazione dei Giudei: a quel tempo c’era un uomo saggio chiamato Gesù. E la sua condotta era buona ed era conosciuto come un uomo virtuoso. Molte persone tra gli ebrei e tra le altre nazioni divennero suoi discepoli. Pilato lo ebbe condannato alla croce e alla morte. E coloro i quali divennero i suoi discepoli non abbandonarono il suo discepolato. Loro ricordarono30 che Egli apparve a loro tre giorni dopo dalla sua crocifissione ed era vivente; e forse Egli è il Cristo di cui i profeti riportarono i prodigi.

16 Testo siriaco di Michele il Siro31:

07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 22 1D 20 17 12 15 10 19 12 19 2C 1D 10 10 18 17 10 2A 12 13 15 1A 10 21 1D 1F 1A 17 21 2B 15 25 18 2B 1D . 22 10 10 20 18 22 20 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 10 2A 12 13 15 1D 17 18 1D 2A 29 22 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 1D 17 18 2C 1D 10 10 18 17 2A 1D 13 10 2A 18 25 23 35 10 15 12 25 15 10 1A 35 1D 12 2B 10 22 26 20 21 18 10 2A 2A 2B 15 . 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 10 10 35 1D 13 23 20 18 22 21 10 35 1D 15 18 1D 22 21 18 10 35 21 21 25 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 18 15 21 20 2C . 10 2A 12 2C 23 21 10 1A 1D 2B 21 15 1D 17 18 2C 1D 10 10 18 17 . 18 20 18 1F 1D 10 10 2C 18 15 17 23 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 1D 17 18 22 2B 1D 2A 15 10 21 25 15 10 15 17 20 1B 21 . 17 12 17 1D 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 23 18 1B 20 1D 26 10 2B 2A 12 23 21 20 10 12 1D 20 28 15 2C 1D 21 18 22 17 18 22 18 22 1D 15 15 1D 17 18 12 1A 10 10 20 18 1D 20 2B 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 22 21 17 12 18 1A . 1D 19 1A 2C 10 22 18 17 20 22 21 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 2A 2C 12 13 22 1D 35 21 18 1D 15 1F 1D 1A . 10 35 1D 12 22 2A 1D 13 10 17 20 10 15 1F 1D 10 15 18 22 1D 20 17 18 2A 21 10 1D 17 18 20 25 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 10 2C 35 17 1D 21 2C . 10 21 15 25 18 10 22 21 18 1D 20 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 10 20 10 15 2A 13 21 10 21 25 10 22 1D 1B 23 2A 1F 15 17 22 21 15 10 21 15 25 18 17 21 2C 2B 10 . In quei tempi c’era un uomo saggio chiamato Gesù. Se è corretto per noi chiamarlo uomo. Poiché egli era colui il quale compieva32 opere gloriose ed era il maestro della verità. Molti tra i Giudei e tra le nazioni divennero suoi discepoli. Si pensava che egli fosse il Messia. Ma non secondo la testimonianza del capo della (nostra) nazione. Pilato lo ebbe condannato alla croce ed egli morì. E coloro i quali lo hanno

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amato non hanno smesso di amarlo. Apparve a loro dopo tre giorni vivente. Di certo i profeti di Dio parlarono di lui di cose meravigliose. E fino a (quel) giorno non fu assente il popolo dei Cristiani che fu nominato dopo di lui.

17 Linguisticamente parlando il senso del passo greco è abbastanza chiaro e riflette lo stile di Flavio Giuseppe33. Dopo una breve introduzione nella quale si parla della straordinaria importanza della figura di Gesù, si passa direttamente al fatto principale riguardante la vita di costui: la crocifissione, la morte e la resurrezione.

18 Proprio il dato storico riferibile alla resurrezione è in questa sede il punto sul quale sarà focalizzata maggiore attenzione. La pericope in questione è la seguente: ἐφάνη γὰρ αὐτοῖς τρίτην ἔχων ἡµέραν πάλιν ζῶν “nel terzo giorno, apparve loro nuovamente vivo”.

19 Si tratta di una sintetica espressione che per la sua struttura ha suscitato non poche perplessità34. L’impiego del verbo ἔχω “io ho” sembra alquanto curioso. Per quale motivo impiegare questa espressione per indicare la resurrezione nel terzo giorno? Si è voluto vedere in questa costruzione una eco del testo evangelico di Luca (24: 18-27)35 nel quale, in riferimento alla resurrezione, si dice esplicitamente: τρίτην ταύτην ἡµέραν ἄγει “sono passati tre giorni”. Alcuni studiosi hanno sottolineato come l’uso del verbo ἔχω nel Testimonium Flavianum sia ambiguo, ovvero non renda un significato appropriato per quanto si voleva dire. In effetti, si tratta di un usus scribendi particolare, ma non incomprensibile; è ovvio che il verbo ha qui il valore intransitivo, con il significato di “trovarsi, esserci”36, e che quindi il senso della frase sia semplicemente quello di indicare che il Cristo “era davvero vivente nel terzo giorno” e non rappresentava una semplice visione. Da un confronto con i testi arabo e siriaco si nota ed egli“ و هنا شاع :che Gesù fosse già risorto dopo tre giorni, infatti in Agapio leggiamo rappresenta il participio attivo del verbo “vivere”, quindi شاع è vivente” in cui 07 07 07 07 “vivente”; mentre in Michele: 1D 1A 15 1F “mentre è vivente”, anche qui con il participio 07 07 attivo del verbo “vivere”, ma rafforzato dalla particella 15 1F “mentre”.

20 Astraendo dunque da questa presunta difficoltà lessicale, parrebbe più opportuno soffermare l’attenzione sull’uso del verbo φαίνω, qui nella forma dell’aoristo II intransitivo.

21 Il significato è chiaro: Gesù apparve di nuovo vivente nel terzo giorno.

22 Un primo confronto può essere condotto con le versioni siriache ed araba del Testimonium. Nella versione siriaca della Historia Ecclesiastica di Eusebio (1.11.8) leggiamo:

07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 2A 1D 13 22 21 2A 2C 12 10 2C 20 2C 22 1D 35 21 18 1D 12 18 2C 15 1F 19 1A 1D 19 1A 2C 10 22 17 20 “…infatti apparve a loro dopo tre giorni di nuovo vivente”; parallelamente nella cronaca di Michele il Siro (4.91) troviamo un’espressione quasi identica alla precedente: 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 07 1D 19 1A 2C 10 22 17 20 22 21 2A 2C 12 13 22 1D 35 21 18 1D 15 1F 1D 1A

“ … apparve a loro dopo tre giorni vivente”.

23 Notiamo subito che, a fronte di una sostanziale convergenza con il testo greco, è proprio la forma verbale che indica la presenza improvvisa del Cristo in mezzo ai viventi che assume un valore affatto differente. Se in greco possiamo leggere ἐφάνη, in siriaco troviamo la forma ’ethpa‘el del verbo ḥzy “vedere”37. Però, la presenza in siriaco 07 della particella 20 “a, verso, per” dopo il verbo in questione tende a mutare il significato originario di “fu visto” con “apparve a”38, dunque “apparve a loro” sottintendendo che

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“fu visto da loro” come una visione39. L’apparizione improvvisa invece viene indicata in siriaco dalla radice blq40. Da un confronto con altre lingue semitiche come l’ebraico, in quest’ultima ḥazah significa proprio “vedere, osservare, percepire”, verbo talvolta adoperato anche per identificare la reale esperienza di una presenza divina come in Es 24, 11 e Gb 19, 26, da cui ḥazōn “visione”41; la radice *ḥzy trova un riscontro, con lo stesso significato originario e primario di “vedere”, anche nelle altre varietà di aramaico42.

24 Sulla base di ciò, tale differenza potrebbe sembrare insignificante, ma, ad uno sguardo più attento, non sfuggirà che una cosa è affermare che il Cristo “apparve”, altra è dire che lo stesso “fu visto” dai suoi discepoli, poiché l’esperienza sensoriale è assolutamente differente. Nel primo caso l’agente, il Cristo, sembra incarnare una visione, è il medesimo che si presenta al cospetto altrui; nel secondo, invece, tutto il significato verbale è spostato sui discepoli che hanno l’esperienza materiale di vedere, verificare, la presenza del Cristo tra loro poiché si è manifestato come apparizione, visione. Non è escluso dunque che la traduzione siriaca abbia cercato di sanare, in itinere, quella che poteva apparire ad un cristiano un’aporia, ovvero ridefinire l’esperienza che i discepoli avevano fatto di fronte al Cristo risorto: era vivente, lo videro, lo sperimentarono!

25 Tutt’altro se si trattava di un’apparizione: in ultima analisi, colui che era apparso, allo stesso modo poteva scomparire. La sensazione dell’ ‘apparire’ è molto più sfumata e ha un significato meno concreto di quella del ‘vedere’.

26 Arriviamo dunque all’ultima versione del Testimonium che fornisce Agapio in lingua e ricordarono che Egli …“ اوركذو هنا رهظ مهل دعب ةثلث مايا نم هبلص هناو شاع :araba apparve a loro dopo tre giorni dalla sua crocifissione ed era vivente”

27 In questo caso, trattandosi di una versione riassunta, l’autore tende a mantenere il verbo originale, impiega, infatti, il verbo arabo ẓahara “apparire, mostrare/mostrarsi” 43. Qui troviamo in arabo un verbo che originariamente aveva il significato di “brillare, portare alla luce”, quindi “mostrare”44 esattamente come indica φαίνω “recare alla luce, portare alla luce, mostrare, splendere, brillare, apparire, comparire”45

28 È presumibile che l’uso del verbo φαίνω debba dunque mantenersi nell’accezione usuale per l’aoristo intransitivo. Si tratta allora di un dato forse da non sottovalutare, specialmente se confrontato con gli analoghi racconti presenti nella letteratura coeva o di poco anteriore all’età di Flavio Giuseppe.

29 Da una ricognizione su tutte le fonti evangeliche, canoniche e apocrife, e sul corpus paolino46 non esiste un’espressione simile riferita all’esperienza che i discepoli e gli altri fecero del Cristo risorto. I verbi usati sono altri, infatti, Gesù ‘si rende noto’, ‘giunge’ o ‘viene visto’47, forse proprio per il fatto che si voleva assolutamente evitare ogni confusione tra il Cristo vivente e risorto e le immagini di visioni presenti nell’Antico Testamento o nella letteratura pagana. Del resto l’uso di φαίνω con il significato di apparire in visioni è ben testimoniato nei Vangeli (Mt 1: 20; 2: 13) e quindi, se gli autori avessero voluto impiegarlo in relazione al Cristo avrebbero potuto; ma non l’hanno fatto, proprio perché tale verbo racchiude un significato improprio per quanto rappresentato dal loro maestro che, vivente, dimostrava la veridicità della loro fede.

30 Probabilmente qui l’introduzione, nella fede cristiana, dell’epifania ha giocato un ruolo nella costruzione letteraria del passo. Il termine epifania, dal greco ἐπιφαίνω “mi rendo

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manifesto”, indicava nel mondo greco antico la ‘manifestazione’, l’ ‘apparizione’ delle divinità per poi assumere nel cristianesimo il significato della manifestazione di Gesù ai popoli di tutto il mondo. Il concetto cristiano di epifania era già insito nella missione divulgativa dell’apostolo Paolo; la nozione ha subito un’evoluzione trasformandosi nella ‘manifestazione’ divina evangelica, ossia Paolo, da inviato, proclamava che Gesù era εἰκὼν τοῦ θεοῦ “immagine di Dio”, mettendo in moto forme di mediazione della presenza divina che nei primi Cristiani si fondavano sui viaggi apostolici e sui testi e in queste due forme si annunciava il luogo dove poter ‘incontrare’ la presenza divina48. La prima celebrazione, il 6 gennaio49, è avvenuta nel tardo II secolo allorché le prime comunità cristiane di Alessandria di Egitto celebrarono la Natività di Gesù Cristo, e con essa anche l’Epifania come la ‘manifestazione del Signore al mondo’. Fino all’introduzione nei primi anni del IV secolo, da parte della Chiesa di Roma, del 25 dicembre come festa della Nascita di Gesù, la stessa veniva celebrata insieme al Battesimo50. Inoltre, la parola epifania non compare mai nei Vangeli (tranne che sotto forma di verbo in Lc 1, 79), ma in altri documenti del Nuovo Testamento51. Non si esclude che l’uso di φαίνω nel Testimonium abbia risentito dell’influenza del concetto di epifania ormai radicato nell’interpolatore cristiano che avrebbe messo mano al Testimonium poiché un ebreo come Flavio Giuseppe non avrebbe mai potuto concepire la ‘manifestazione’ di Gesù come ‘apparizione’ divina.

31 Tornando al testo, si è detto che una tale forma verbale non è mai impiegata in racconti sulla resurrezione; ma in realtà un esempio ci sarebbe, ma fa parte dei versetti dell’ultimo capitolo del Vangelo di Marco, oggi unanimamente ritenuti un’aggiunta posteriore non originale. Nello specifico a 16: 9 leggiamo: [[Ἀναστὰς δὲ πρωῒ πρώτῃ σαββάτου ἐφάνη (corsivo e grassetto mio) πρῶτον Μαρίᾳ τῇ Μαγδαληνῇ, παρ’ ἧς ἐκβεβλήκει ἑπτὰ δαιµόνια. “Risuscitato al mattino nel primo giorno dopo il sabato, apparve prima a Maria di Magdala, dalla quale aveva cacciato sette demoni”. 32 L’uso verbale è identico: il Cristo risorto apparve per primo a Maria di Magdala. Una simile espressione non solo somiglia molto a quella del Testimonium, ma sembra realmente un’aggiunta fatta in un secondo momento per completare un testo che si riteneva mancante del dettaglio principale, quello caratterizzante la fede dei Cristiani52. Tale aggiunta, tuttavia, pare anche più superficiale, meno ragionata rispetto alla comprensione profonda dell’evento storico che riguardava la resurrezione del Cristo.

33 Poiché ovviamente è da ritenere che una simile appendice sia stata inserita in ambito cristiano, pur se in maniera cursoria e probabilmente ricollegabile alla tradizione orale, potremmo avanzare un’ipotesi di lavoro riguardo al passaggio del Testimonium che abbiamo analizzato.

34 La critica data i versetti 9-11 del capitolo 16 di Marco ad un periodo che può essere collocato tra il primo quarto e la metà del II secolo53, ovvero dopo la pubblicazione delle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe.

35 Il Vangelo di Marco era tra i più letti e utilizzati in ambito siro-palestinese almeno fino al VI secolo; potremmo allora ipotizzare che, traendo spunto dal versetto 9 del capitolo 16, un interpolatore cristiano abbia inserito nell’opera di Flavio Giuseppe il passo in questione?

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Conclusioni

36 Tornando alla problematica suscitata sulla totale o meno falsificazione del Testimonium di Flavio Giuseppe, il passaggio è stato inizialmente citato verbatim da Eusebio che lo ha utilizzato per i suoi propositi apologetici anti-pagani. Il testo è tutt’ora oggetto di critica ed è stato etichettato come ‘interpolato’ sin dal XVI secolo, focalizzando l’attenzione principalmente sul fatto che l’espressione “questi era il Cristo” non poteva essere originale nel textus receptus e comunque non poteva essere stata concepita da un non cristiano come Flavio Giuseppe; inoltre il ritrovamento di una traduzione siriaca contenente l’espressione utilizzata da Girolamo “si pensava che egli fosse il Messia” (“ credebatur esse Christus”) nonché di un altro testo semitico, quello arabo di Agapio, in cui si trova la frase “forse egli è il Messia”, ha alimentato l’ipotesi secondo la quale ci doveva essere stato un precedente e originale testo greco che contenesse un’espressione similare sullo status di Messia di Gesù e di conseguenza che il Testimonium di Flavio Giuseppe è stato interpolato, anche se parzialmente, da un cristiano che è ‘intervenuto’ in quelle parti fondamentali del credo cristiano, ossia morte e resurrezione di Gesù. Un altro dato a supporto della falsificazione del testo emerge se si analizza l’uso e il significato di φαίνω, anche in comparazione con le successive versioni siriache e araba, nel Testimonium. Sembrerebbe evidente che la nozione di epifania abbia realmente creato le condizioni per utilizzare φαίνω in relazione alla manifestazione di Gesù come divinità e si sa che l’epifania non poteva di certo essere una concezione veritiera per un giudeo come Flavio Giuseppe54. I versetti 9-11 del capitolo 16 di Marco sarebbero ancora una volta la prova che un interpolatore cristiano abbia voluto inserire nel textus receptus una concezione della manifestazione di Gesù, utilizzando proprio Marco, e rendere ancora di più ‘cristiano’ il Testimonium. La questione secondo la quale nelle versioni siriache e araba si utilizzano verbi che hanno il significato principale di ‘vedere’, ‘rendersi visibile’, ‘mostrarsi’ per tradurre φαίνω potrebbe essere spiegata col fatto che nei Vangeli Gesù non viene descritto come colui che ‘appare’, nel senso specifico di φαίνω, ma sostanzialmente egli ‘giunge’, ‘viene visto’, ‘si mostra’. Pertanto si tratta di resurrezione o di visione del Cristo? L’interpolatore cristiano ha voluto quindi inserire un dato significativo: Gesù è già risorto ed è stato visto, si è mostrato ai suoi discepoli; così facendo l’interpolatore avrebbe narrato l’evento in parallelo a quanto descritto nei Vangeli, ma avrebbe preso spunto dagli ultimi versetti di Marco per inserire il verbo ‘necessario’ alla ‘visione’ di Cristo, ossia φαίνω che sottolinea la definitiva e necessaria ‘apparizione’ di Cristo.

37 Stando a tali riflessioni, ci si chiede pertanto quando sia avvenuta questa interpolazione. Secondo K. Olson il Testimonium sarebbe stato falsificato interamente da Eusebio55, mentre per Z. Baras il Testimonium sarebbe stato manomesso prima di Eusebio; secondo questi Origene vide il Testimonium originale, che non riportava quotazioni negative su Gesù, e l’interpolazione sarebbe quindi avvenuta in un arco di tempo che va da Origene a Eusebio56 (II-III secolo ?). Della stessa opinione è E. Van Voorst57.

38 Forse l’uso di una forma verbale è troppo poco per ipotizzare la reale genesi di un passo così tormentato e discusso come il Testimonium, ma è comunque non improprio tenere conto anche di questa difficoltà ermeneutica che, trovando sostegno in altri elementi, storici o filologici, potrebbe in ultima analisi porre un altro piccolo tassello sulla via dell’interpretazione e della comprensione di quanto troviamo nelle Antichità Giudaiche.

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MDGes: Meyer R.-Donner H. (éds), Wilhelm Gesenius: Hebräisches und Aramäisches Handwörterbuch über das Alte Testament. (18. Auflage Gesamtausgabe), Berlin 2013.

MEIER 1990: J. P. Meier, «Jesus in Josephus: A Modest Proposal», The Catholic Biblical Quarterly, 52/1 (1990), 76-103.

METZGER 1971: B. Metzger, A Textual Commentary on the Greek New Testament, Stuttgart 1971.

METZGER 1987: B. Metzger, The Canon of the New Testament: its Origin, Development, and Significance, Oxford 1987.

MITCHELL 2004: M.M. Mitchell, «Epiphanic Evolution in Earliest Christianity», in N. Marinatos (ed.), Divine Epiphanies in the Ancient World, Illinois Classical Studies 29, Stipes 2004, 183-204.

MORALDI 2006: L. Moraldi (ed.), Antichità giudaiche, vol. 2, Torino 2006.

OLSON 1999: K. A. Olson, «Eusebius and the “Testimonium Flavianum”», The Catholic Biblical Quarterly, 61/2 (1999), 305-322.

PINES 1971: S. Pines, An Arabic Version of the Testimonium Flavianum and Its Implications, Jerusalem 1971.

RUSCONI 2013: C. Rusconi, Vocabolario del Greco del Nuovo Testamento, Bologna 2013.

SCHRÖTER 2010: J. Schröter, «The Gospel of Mark», in D. E. Aune (ed.), The Historical Jesus: A Comprehensive Guide, Hoboken 2010, 272-295.

SIMONETTI 2002: M. Simonetti (ed.), Flavio Giuseppe, Storia dei Giudei da Alessandro Magno a Nerone: “Antichità Giudaiche”, libri XII-XX, introduzione, traduzione e note a cura di M. Simonetti, Milano 2002.

SOKOLOFF 2009: M. Sokoloff, A Syriac Lexicon, Winona Lake 2009.

THAYER 1889: J.H. Thayer, A Greek-English Lexicon of the New Testament, New York-Cincinnati- Chicago 1889.

TRAINI 1999: R. Traini, Vocabolario Arabo-Italiano, Istituto per l’Oriente, Roma 1999.

VAN VOORST 2000: R. E. Van Voorst, Jesus Outside the New Testament: An Introductionto the Ancient Evidence, Grand Rapids 2000.

WHEALEY 2003: A. Whealey, Josephus on Jesus: the Testimonium Flavianum Controversy from Late Antiquity to Modern Times, Studies in Biblical Literature 36, New York 2003.

WHEALEY 2008: A. Whealey, «The Testimonium Flavianum in Syriac and Arabic», New Testament Studies 54 (2008), 573-590.

WHEALEY 2016: A. Whealey, «The Testimonium Flavianum», in H.H. Chapman-Z. Rodgers (éds), A Companion to Josephus, Hoboken 2016, 345-355.

NOTE

1. Per una bibliografia riguardante le questioni sollevate dalle numerose interpretazioni del passo cfr. BELL 1976, 16-22; MEIER 1990, 76-103; OLSON 1999, 305-322; BARDET 2002; WHEALEY 2003 e WHEALEY 2016 con ricca bibliografia; BERMEJO-RUBIO 2014; DETTWILER 2017.

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2. Ad esempio, L. Feldman ha pubblicato tra il 1937 e il 1980 almeno 87 articoli nella maggioranza dei quali mette in dubbio la totale o parziale autenticità del Testimonium (vd. FELDMAN-HATA 1989, 430 e FELDMAN 2011, 11-30). 3. VAN VOORST 2000, 91-92. 4. FELDMAN-HATA 1987, 57. Alcuni padri della chiesa contemporanei o successivi a Eusebio, come San Basilio Magno, Cirillo di Alessandria, Sant’Ambrogio o Tommaso d’Aquino, non citano il Testimonium preferendo utilizzare altre opere di Flavio Giuseppe. 5. Comment. in Matt. X, 17: “…ὅτι, τὸν Ἰησοῦν οὐ καταδεξάµενος εἶναι Χριστὸν” “che Gesù non è accettato come Cristo”; cfr. anche XIII, 55, nonchè Contra Celsum 1, 47 e 2, 13. 6. MAIER 2007, 336-337. Il fatto che nel Testimonium sia presente l’espressione “Questi era il Cristo” andrebbe contro l’ideologia di Flavio Giuseppe e probabilmente tale menzione è dovuta ad un’interpolazione cristiana, perché nessun ebreo avrebbe mai sostenuto che Gesù fosse il Messia. 7. In Ecc. Hist. I, 11. 7. L’opera, scritta in greco, a partire dal V secolo viene tradotta in latino e in siriaco e adoperata da autori tardo-antichi e medievali che citano il Testimonium traendolo direttamente dalla Storia ecclesiastica di Eusebio. 8. Il Testimonium di Girolamo è in De viris illustribus, 13, opera redatta circa nel 392. 9. Michele il Siro (1126-1199) fu il patriarca monofisita di Antiochia e la sua traduzione letterale del Testimonium si trova nella sua Cronaca IV, 91. La sua opera è stata editata da Jean-Baptiste Chabot (ed.), Chronique de Michel le Syrien, Patriarche Jacobite d’Antiche (1166-1199). Éditée pour la première fois et traduite en français I-IV. Paris,1899; 1901; 1905; 1910 con ristampe del 1963 e del 2010. 10. WHEALEY 2016, 347. 11. Si tratta di una versione ebraica, del X secolo, dei primi sedici libri delle Antiquitates tradotte in latino e del De excidio Hierosolymitanae urbis dello Pseudo-Egesippo. 12. WHEALEY 2016, 348. 13. Per una rassegna cronologica sulle controversie cfr. WHEALEY 2003, 73-119 e 121-168, nonché WHEALEY 2016. Tra le varie teorie vi è anche quella relativa all’ipotetica neutralità, del testo originario, nei confronti del Cristo. Della Vorlage del Testimonium intesa come un ‘Neutral Text’ se ne è occupato Bermejo-Rubio il quale ha indagato le differenti ipotesi relative alla natura del testo (BERMEJO-RUBIO 2014, 331-336) ritenendo che la supposizione di un testo originario neutrale non è convincente e che: «the original text must have been at least implicity negative» (vd. conclusioni a pp. 363-356). 14. WHEALEY 2016, 349. Flavio Giuseppe, in Antiquitates XX, 200, menziona Giacomo come il “fratello di Gesù, che era soprannominato Cristo”. Nella narrazione, l’episodio di Gesù è inserito in una serie di mali che condussero poi la nazione alla perniciosa ribellione contro Roma. Successivamente al passo relativo al Testimonium, Flavio Giuseppe cita un altro episodio negativo definendolo “un altro orribile evento” (Antiquitates XVIII, 65); ci si chiede se per lui originariamente la storia di Gesù era un deinon. Secondo alcuni studiosi la seconda menzione di Gesù rappresenterebbe un dato a favore del ‘Neutral Text’ del Testimonium anche se per Bermejo- Rubio tale ipotesi è poco convincente poiché il secondo riferimento a Gesù è considerato en passant in quanto il ‘focus’ del discorso è Giacomo (BERMEJO-RUBIO 2014, 336-337). 15. Vescovo melchita di Ierapoli Bambice (in arabo Bambiğ) in Siria. La sua opera si intitola Kitāb al-‘Unwān di cui le due edizioni principali sono quelle di Alexander Vasiliev (ed.), Kitab al-’Unvan/ Histoire Universelle, écrite par Agapius (Maḥboub) de Membidj, Patrologia Orientalis, N. 5 (1910), 7 (1911), 8 (1912), 11 (1915) e di Louis Cheikho (ed.), Agapius Episcopus Mabbugensis. Historia Universalis, CSCO 65, 1912. 16. Per la versione araba PINES 1971, mentre per il confronto tra i due testi WHEALEY 2008. 17. PINES 1971, 33. 18. WHEALEY 2008, 587-588.

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19. Un’altra cronaca siriaca, Cronaca del 1234, avrebbe utilizzato l’opera di Dionigi, ma non segue fedelmente Agapio e Michele per quanto concerne il I secolo e non include il Testimonium; ciò indicherebbe che Agapio e Michele avrebbero attinto da una precedente cronaca, per il I secolo, la quale è stata aggiunta alla versione di Agapio della cronaca di Teofilo di Edessa e alla versione di Michele della cronaca di Dionigi, ma non alla versione della Cronaca del 1234 della cronaca di Dionigi. Cfr. WHEALEY 2008, 576-577, nonché CONTERNO 2014, 22-23. 20. Cfr. PINES 1971, 27. 21. WHEALEY 2008, 578 e 2016, 351. 22. La radice sbr nelle diverse varietà di aramaico, nella forma base, assume il significato di “dedurre, riflettere”, “to expect; to reason”, quindi “pensare, capire”, mentre in forma ethpe‘al, in siriaco, “essere considerato, ritenuto essere”, “to be considered” (cfr. DNWSI, 775; SOKOLOFF 2009, 964-965). 23. WHEALEY 2008, 581 e 2016, 352. 24. PINES 1971, 31-32. 25. Letteralmente il passo siriaco riporta “Pilato ha posto sulla testa la croce”. 26. PINES 1971, 30. 27. B. Niese (ed.), Flavii Iosephi opera. Berlin, 1890. 28. Traduzione italiana di MORALDI 2006, 1116-1117. Un’altra traduzione, da prendere in considerazione, è fornita da SIMONETTI 2002, 412-413: “Visse in questo tempo Gesù, uomo sapiente, se pure lo si deve definire uomo. Operò infatti azioni straordinarie e fu maestro di uomini che accolgono con diletto la verità, e così ha tratto a sé molti Giudei e anche molti Greci. Egli era il Cristo. Anche quando per denuncia di quelli he tra noi sono i capi Pilato lo fece crocifiggere, quanti da prima lo avevano amato non smisero di amarlo. Egli apparve loro il terzo giorno di nuovo in vita, secondo che i profeti avevano predetto di lui tutto ciò e mille altre meraviglie. Ancora oggi sussiste il genere di quelli che da lui hanno assunto il nome di Cristiani”. 29. PINES 1971, 14. significa principalmente “ricordare”, “tenere a mente, ricordarsi”, quindi ركذ Il verbo .30 “riportare” un avvenimento. 31. WHEALEY 2008, 589.

07 07 07 07 07 32. Il termine 10 2A 18 25 23 significa “colui che fa, che opera” dalla radice s‘r “to perform an action, to act”, anche se in generale nelle varietà di aramaico assume come primo significato quello di “visitare”, “agire”. Cfr. DNWSI, 796. 33. Sul greco di Flavio Giuseppe cfr. in particolar modo FELDMAN 1984, 830-831 (26.10: Josephus’ Grammar), 819-820 (26.4: Josephus’ Language and Style) e 817 (26.3: Josephus’ Statements about this Knowledge of Greek). Per un aggiornamento successive vd. ancora FELDMAN 1986. 34. Sulle anomalie narrative del Testimonium vd. HOPPER 2014, 151 e sgg. 35. In particolar modo, nel Vangelo di Luca, l’episodio di Emmaus manifesta particolari coincidenze col Testimonium di Flavio Giuseppe e tali occorrenze proverebbero che si possa essere trattato di un caso di coincidenza, ovvero che il Testimonium possa aver subito un’interpolazione cristiana sulla base di Luca o, come ultima ipotesi, che sia Flavio Giuseppe che Luca abbiano basato le loro descrizioni su affermazioni giudeo-cristiane che circolavano tra l’80-90 d.C. Per un’analisi sulla questione vd. GOLDBERG 1995. 36. LSJ, 749-750. 37. SOKOLOFF 2009, 438. La forma ’ethpa‘el rende il passivo, dunque il verbo andrebbe tradotto come primo significato “fu visto”. 38. Cfr. exempli gratia Es 3, 2 e 1Re 18, 1 in Peshiṭtā. 39. Dalla stessa radice ḥzy in siriaco si ricava il sostantivo ḥzayā “vista, visione” che traduce il greco εἶδος in 2Cor 5, 7. 40. SOKOLOFF 2009, 160-161. La radice significa “apparire, alzarsi oltre, alzarsi al di sopra di”.

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41. MDGes, 333-334 e KAHAL, 157-158 42. Cfr. DNWSI, 357-361. 43. La radice araba in forma base può significare: “essere o diventare visibile, percepibile, manifesto”, “apparire, manifestarsi, mostrarsi” (TRAINI 1999, 874 e LANE 1863, 1926 e sgg.). 44. Se si pone in confronto con l’ebraico ṣohar “essere brillante, luminoso, chiaro”, la radice originaria *ṣhr significherebbe “far luce, illuminare” vd. KLEIN 1987, 542. 45. Sui vari significati ed accezioni del verbo φαίνω cfr. LSJ, 1912-1913. 46. Sull’uso di φαίνω nelle fonti vd. RUSCONI 2013, 405 nonché THAYER 1889, 647-648. 47. In Mt 28, 17 apparizione agli undici discepoli in Galilea: καὶ ἰδόντες αὐτὸν “e lo videro”; in Mc 16, 12 nell’apparizione a due discepoli: ἐφανερώθη ἐν ἑτέρᾳ µορφῇ “e si rese manifesto sotto altra forma” (dal verbo φανερόω “render noto, chiaro, visibile, manifesto”); Lc 24, 15 Gesù si avvicina e non appare ai discepoli di Emmaus: καὶ αὐτὸς Ἰησοῦς ἐγγίσας συνεπορεύετο αὐτοῖς “ e lo stesso Gesù si avvicinò e si mise a camminare con loro”; Lc 24, 31: ἐπέγνωσαν αὐτόν “lo riconobbero”; Lc 24, 36 apparizione agli apostoli: αὐτὸς ἔστη ἐν µέσῳ αὐτῶν “Egli stette in mezzo a loro”; in Gv 20, 14 Maria Maddalena vede Gesù: καὶ θεωρεῖ τὸν Ἰησοῦν ἑστῶτα “e vede Gesù che stava lì”; in Gv 20, 19 Gesù non apparve ai discepoli, ma giunse in mezzo a loro: ἦλθεν ὁ Ἰησοῦς καὶ ἔστη εἰς τὸ µέσον “venne Gesù, stette in mezzo a loro”; in Gv 21, 1 nella terza apparizione ai discepoli: ἐφανέρωσεν ἑαυτὸν πάλιν ὁ Ἰησοῦς “Gesù si manifestò di nuovo”; in At 1, 3: οἷς καὶ παρέστησεν ἑαυτὸν ζῶντα “è a questi stessi apostoli che si era mostrato vivo”; ὀπτανόµενος αὐτοῖς “era apparso loro”(< παρίστηµι “mi colloco, mi presento, sono presente” e ὀπτάνοµαι “appaio, mi mostro”); 26, 16: ὤφθην σοι “ti sono apparso”, ma cfr. l’uso dell’aoristo passivo in THAYER 1889, p. 452, 5 “I was seen, showed myself, appeared”; in 1Cor 15, 5, 6, 7, 8: ὤφθη “fu visto” (aoristo di ὁράω “vedere, percepire, conoscere”). 48. Per una disamina approfondita dell’evoluzione epifanica vd. MITCHELL 2004, in particolare pp. 186-191. 49. il 15º giorno del mese di Tybi dell’antico calendario alessandrino, che corrisponderebbe al nostro 6 gennaio. 50. Sul significato e la storia dell’Epifania vd. KYRTATAS 2004. 51. In 2Ts 2, 8 indica la manifestazione legata alla parusia di Gesù; 1Tm 6, 14; in 2Tm 1, 10 e Tt 2, 13 indica la manifestazione di Cristo nella carne. In At 2, 20 compare l’aggettivo ἐπιφανὴς “splendido, glorioso”. 52. Sull’aggiunta al vangelo di Marco cfr. METZGER 1971, 122-126; METZGER 1987, 269-270; EDWARDS 2002, 497-508; SCHRÖTER 2010, 272-295. 53. ALAND-ALAND 1987, 69, 227. 54. È anche pur vero che Flavio Giuseppe, nei primi 11 libri delle Antiquitates, cita più volte l’Epifania, parafrasando celebri episodi del Vecchio Testamento. 55. OLSON 1999. 56. BARAS 1987, 340. 57. VAN VOORST 2000, 97.

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RIASSUNTI

La lunga querelle riguardante il testo del Testimonium Flavianum non può dirsi ancora conclusa. La critica si divide sul problema dell’autenticità o meno di questa importante testimonianza sulle origini del Cristianesimo. In questo breve lavoro, dopo un’analisi storico-filologica condotta sul testo, si ipotizza che il medesimo possa aver risentito dell’opera di un interpolatore cristiano di II secolo. In particolar modo, l’uso di φαίνω, in comparazione con i verbi usati nelle versioni siriaca e araba, e i versi di Mc 16, 9-11, che sarebbero stati inseriti nel testo, sarebbero un’ulteriore prova che il Testimonium abbia risentito di una interpolazione cristiana in relazione alla ‘manifestazione’ di Gesù.

The long discussion about the text of the Testimonium Flavianum has not entered the home stretch by a long shot. Critics are divided on the authenticity or not of this important proof regarding the origin of Christianity. In this brief work, after an historical and philological analysis, we suggest that a Christian interpolation contributed to the current text in the 2nd century. Particularly, the employment of φαίνω, in comparison with the verbs used in the Syriac and Arabic versions, and the verses of Mk 16: 9-11, that would have been inserted into the text, they would be a further evidence that the Testimonium was affected by a Christian interpolation in relation to the ‘manifestation’ of Jesus.

INDICE

Keywords : Testimonium Flavianum, Flavius Josephus, Origins of Christianity, Gospels, Resurrection, Vision Parole chiave : Testimonium Flavianum, Flavio Giuseppe, origini del Cristianesimo, Vangeli, resurrezione, visione

AUTORE

GIUSEPPE PETRANTONI Facoltà di Studi Classici, Linguistici e della Formazione Università degli Studi di Enna “Kore” Cittadella Universitaria 94100 Enna giuseppe.petrantoni[at]unikore.it È Dottore di ricerca in Filologia e Storia del Mondo Antico, curriculum in Filologie del Vicino e Medio Oriente (XIX ciclo). Attualmente Professore a contratto di Lingua araba presso l’Università di Enna ‘Kore’, ha pubblicato una monografia dal titolo I Turcarabi. Due popoli sotto l’Impero ottomano, Kimerik 2009.

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Il pharmakos nelle fonti antiche e nella Storia delle religioni. Alcune valutazioni critiche The pharmakos in the Earliest Sources and in History of Religions. Some Critical Evaluations

Leonardo Sacco

1 Cosa s’intende con il termine greco pharmakos? Si trattava di un rito di purificazione o di un sacrificio? Quali sono le sue origini? Esiste lo spazio per una problematizzazione storico-religiosa?

2 Dall’analisi integrata dei passi dello scrittore ellenistico Istro (III secolo a.C.) e del grammatico di Antinoupoli sul Nilo Ellàdio (IV secolo d.C.) apprendiamo che ad Atene erano soliti espellere una coppia di persone affinché la città fosse purificata durante le feste di Thargelia1. Secondo il racconto, i due individui, detti pharmakoi (secondo Istro) o Sybakchoi (secondo Ellàdio), uno in rappresentanza degli uomini, adornato con fichi neri intorno al collo, e uno in rappresentanza delle donne, adornato con fichi bianchi, venivano scacciati dai confini della polis. La purificazione serviva a scongiurare le conseguenze malevole di una disgrazia che, per la prima volta, ebbe luogo con la morte prematura e ingiusta di Androgeo il cretese (figlio del re Minosse) e che, da quel momento, continuò ad essere in vigore2.

3 Tale fattispecie originava dall’idea che si potesse trasferire il male (fisico e/o morale) da un oggetto (e/o da un essere animato) sopra un altro oggetto (e/o un altro essere animato) che, poi, veniva allontanato (e/o ucciso)3. Paradigmatico era, in Israele, il caso del “capro espiatorio”, sul quale il sommo sacerdote, vestito di lino, e dopo le opportune lustrazioni, accumulava tutte le colpe e i peccati del popolo, imponendogli ambo le mani sul capo; l’animale veniva poi condotto fuori dalla comunità da un uomo che avrebbe dovuto lasciarlo in un luogo deserto4.

4 In alcuni frammenti dei giambi del poeta Ipponatte, raccolti dallo studioso bizantino Tzetzès, emerge che la cerimonia – nelle città ioniche – si svolgeva durante le celebrazioni di Thargelia5. Al rito propiziatorio per un buon raccolto, Tzetzès associa

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pure circostanze straordinarie: se la disgrazia o la carestia, o la peste, o un’altra malattia si abbattevano sulla città per la collera divina, l’uomo più abietto di tutti era condotto al sacrificio per mondare e curare la comunità sofferente6. A Massalia, fondata dai Focesi nel VI secolo a.C., il rito è ancora noto nel I secolo d.C., essendo menzionato in un frammento del Satyricon di Petronio, fonte comune, secondo Hughes, di Servio e di Stazio: i pharmakoi, in questo caso, dopo essere stati nutriti a spese della popolazione, venivano espulsi in un dato giorno e uccisi7. Nella località di Abdera (in Tracia), un uomo, dopo essere stato tenuto in isolamento, veniva fatto uscire dai confini e lapidato, per espiare le perversioni dei suoi concittadini8. Il pharmakos, dunque, non sarebbe stato solamente un rito propiziatorio o di espiazione/purificazione, ma anche un sacrificio, sebbene per l’età classica paia sicuro come la pratica rituale non fosse più cruenta9. Il “sacrificio” costituirebbe un “caso limite”, poiché l’uccisione rituale della vittima (che seguiva la sua cacciata) si verificava senza alcun riferimento a un destinatario: un fatto che, teoricamente, non aveva carattere di sacrificio10 ma, essendo incluso in un determinato culto divino, poteva essere concepito come tale11.

5 Le prime attestazioni di un rito di espulsione/purificazione del tipo di quello greco del pharmakos si trovano in alcune tavolette cuneiformi dalle quali sembrerebbe emergere che la cerimonia fosse già eseguita a Ebla oltre cinquemila anni fa12. Nei testi hittiti, poi, si possono reperire circostanze paragonabili: qui si fa affidamento sull’espulsione coatta – ad opera del re e dei suoi ufficiali più alti in grado – di due montoni decorati e una donna finemente vestita per allontanare la peste dalla città, guarendo simultaneamente il popolo e l’esercito13.

6 In una prospettiva metodologica d’impronta storico-religiosa, e sulla scorta di talune asserzioni suffragate da studi eminenti, si tenterà di fornire una serie di valutazioni critiche a proposito del pharmakos e di altre tipologie rituali e votive, quali “ostracismo”, “capro espiatorio”, “devotio”, che presentano, tra loro, affinità e differenze, con l’obiettivo di pervenire a un quadro più articolato della questione14, provando a “riaprire” – forse – le sorti di un dibattito formalmente chiuso giacché nella storiografia moderna – come è noto – prevale la tesi secondo la quale il pharmakos non debba essere annoverato fra i “sacrifici”15.

7 Walter Burkert (1931-2015) – basandosi su Tzet. Chil. V 728-739 – ha mostrato come il pharmakos fosse espulso e sacrificato (per olocausto), dopo essere stato ben curato e sfamato dalla città, e come le sue ceneri fossero sparse nel mare16: si trattava di un sacrificio cruento, ma pure di una forma di catarsi sociale17. La funzione del pharmakos era quella di sanare apotropaicamente la polis, incarnandone le negatività e portandole fuori da essa, assumendo le vesti simboliche di un bouc émissaire18. Occorre, però, domandarsi se questi venisse espulso in quanto personificazione della sventura collettiva, o come inviato presso gli dèi. La differenza sembrerebbe marginale, nondimeno proprio in tale ottica la comparazione aiuta a definire meglio i contorni della fattispecie poiché Erodoto, nel tracciare le specificità del sacrificio umano officiato dai Geti, illustra una particolarità consona al pharmakos, inteso come espulsione di un individuo. Presso questa popolazione, infatti, la vittima oggetto del rito era considerata latrice di un messaggio per le divinità19, un aspetto questo che – benché scientificamente debole e isolato20 – potrebbe indurre a ritenere come anche il pharmakos non rivelasse un rituale esclusivamente purificatorio.

8 Jean-Pierre Vernant (1914-2007) ha notato un’analogia funzionale tra capro espiatorio e ostracismo. Nella persona dell’ostracizzato la città rimuoveva ciò che era in essa troppo

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elevato e incarnava il male che poteva venirle dall’alto. Nella persona del pharmakos, viceversa, la città ripudiava ciò che essa riteneva di più abietto e impersonava il male che la minacciava dal basso. Con tale rigetto, doppio e complementare, la polis si delimitava in relazione a un aldilà e a un aldiquà: prendeva la misura propria dell’umano in contrapposizione, da un lato al sacro e all’eroico, dall’altro al bestiale e al mostruoso21. L’ostracismo era ritenuto uno strumento con cui si sarebbe dovuta evitare la formazione di una tirannide22: tesi basata su un passo della Politica di Aristotele23, e sulla circostanza che il primo ateniese ostracizzato, Ipparco, appartenesse alla famiglia dei Pisistratidi; ipotesi confermata dal fatto che anche successivamente sarebbero state ostracizzate persone provenienti dall’ambiente dei primi tiranni. Tali argomenti, però, non sembrano del tutto convincenti e le antiche testimonianze sulla funzione dell’ostracismo appaiono contraddittorie24. Inoltre, un’interpretazione fondata unicamente su Aristotele non pare scientificamente ammissibile, perché non si avvale delle fonti del V secolo25.

9 Hendrik Versnel (1936-), dal canto suo, ha trovato qualche affinità tra devotio e pharmakos, arrivando a definire Decio Mure a prototypical pharmakos26. Nella devotio un magistratus provvisto di imperium militiae (consul, dux, praetor) – o un “privato cittadino” (civis designatus) scelto tra i legionari dell’exercitus sul campo di battaglia – dopo essersi votato alle divinità infere e alla Terra, osservando un rito codificato dalla “teologia pontificale”27, si lanciava tra le schiere nemiche, con lo scopo di trovarvi la morte, per garantire la vittoria alla propria parte e salvare l’integrità della res publica28. In questa chiave, il Burkert ha discusso la devotio alla luce della pharmakos ideology29: l’individuo espulso dalla comunità raffigurava, insieme, “delitto” e “salvatore”, che mediante il proprio sacrificio permetteva alla società di ritrovare sicurezza, assicurandole prosperità.

10 In virtù di quanto esposto paiono essenziali alcune considerazioni.

11 L’etnologo Arnold van Gennep (1873-1957) ha osservato che: «per sopravvivere ogni società deve soddisfare due requisiti fondamentali: la coesione interna e la continuità temporale»30. Perciò, quel che ha consentito alle istituzioni arcaiche di superare le crisi è stata la risoluzione violenta, ma purificatrice, del “tutti contro uno”31. Dopo l’espulsione (sacrificio) unanime di colui che veniva identificato come il “colpevole della crisi” (in senso figurato “il capro espiatorio”), la comunità ritrovava “magicamente” l’armonia32. L’identificazione nel pharmakos dell’essere mostruoso, lasciato ai margini, costituisce la preparazione necessaria alla sua immolazione. Nelle culture antiche, d’altronde, l’“ultimo” (che aveva sempre un aspetto ripugnante) era accolto e curato, ma nell’immaginario collettivo restava sempre la “vittima predestinata”, proprio come accadeva al pharmakos33.

12 Secondo una fonte, il pharmakos, a Massalia, si sarebbe offerto spontaneamente alla morte34, una prerogativa che paleserebbe una possibile volontarietà dell’atto35, ma secondo altre fonti l’“autosacrificio” sarebbe stato mosso dall’eventualità di ottenere una ricompensa, come peraltro sembrerebbe essersi verificato in Abdera36. Fino al 1933 si è ritenuto che il pharmakos di Abdera fosse stato lapidato a morte, ma l’anno successivo fu rinvenuto un papiro (Diegeseis II 29-40) recante un frammento che stabiliva inequivocabilmente come la vittima fosse stata allontanata, ma non uccisa37; a Massalia, invece, sappiamo che il pharmakos veniva certamente sacrificato38. Il Nilsson – per superare tali ostacoli ermeneutici – adottò un escamotage, considerando indifferente la sorte della vittima, essendo comunque raggiunto il fine del rito, ossia l’espulsione,

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anticipando – ci sembra – la riflessione di McLean, a proposito del valore semantico del termine scapeman in luogo di scapegoat39.

13 In merito all’ostracismo, va detto come questo non potesse rappresentare uno strumento adeguato contro la tirannide: se si considera, infatti, che esso veniva compiuto, al massimo, una volta all’anno e che la nascita di una tirannide costituiva un evento cronologicamente e storicamente non prevedibile, non si spiega come si sarebbe potuto impedire il suo avvento ricorrendo all’istituto40. Peraltro, la tesi formulata da Sara Forsdyke (1967-), secondo la quale l’ostracismo rappresenterebbe un rituale collettivo simbolico conforme a quello del capro espiatorio41, non è del tutto plausibile, in quanto tale interpretazione, ispirata forse dalla “Scuola strutturalista francese”42, trascura una differenza rilevante: il fatto, cioè, che l’ostracismo non fosse un’espulsione simbolica e che, nelle fonti, la purificazione della polis da eventuali “macchie” non appare fondata su alcuna testimonianza43; elementi, questi, che distinguono nettamente l’ostracismo tanto dal rituale eponimo del capro espiatorio, quanto dall’espulsione del pharmakos.

14 Per quanto riguarda le riflessioni del Versnel, una giustapposizione fra devotus e pharmakos non appare condivisibile per almeno tre ragioni: a. l’elemento dirimente tra le due pratiche riguarda, innanzitutto, il contesto di esecuzione: un momento disperato della battaglia per la devotio, una carestia o pestilenza collettiva per il pharmakos; b. il devotus era un magistratus dotato di imperium militiae (o un civis designatus sul campo di battaglia) e, quindi, un “militare”, laddove, invece, il pharmakos era un semplice cittadino – un “civile”, come diremmo oggi; c. mentre il condottiero romano indossava un abito rituale e, prima di gettarsi fra i nemici, recitava una precisa formula, dettata dal pontifex maximus, il pharmakos, vestito in modo ridicolo e grottesco era scacciato dalla città, venendo a mancare – tra l’altro – il carattere della volontarietà dell’atto per motivi civici (la salvezza dello Stato), che costituisce l’elemento essenziale della devotio44. Il rito militare romano aveva un duplice obiettivo: assicurava la vittoria all’exercitus e conseguiva un obiettivo più elevato, la tutela e l’integrità della res publica45. Le perplessità riguardano, invece, la configurazione semantica del rito. Si trattava di un sacrificium o di un votum, o di qualcosa paragonabile ad entrambi? Tecnicamente, infatti, la devotio, più che al votum, somiglia alla preghiera seguita dal sacrificium e pare fondarsi sul pactum fra l’uomo e la divinità, volto a mantenere la pax deorum. Perciò, Decio Mure si configura come il paradigma dell’unus pro omnibus46 e di valori quali: pietas, ius, religio e virtus, manifestati fino all’autosacrificio – dando la percezione di trovarsi innanzi a un “sacrificio umano”, o meglio a un “suicidio ritualizzato”47.

15 Sovente l’esplorazione specialistica tende a frazionare le analisi per singoli distretti e specifici indirizzi epistemologici. In tale sede, invero, l’ampliamento dei settori d’indagine, nonché l’utilizzazione di un criterio di ricerca esteso rispetto a quello tradizionale degli studi di storia antica, ha – forse – contribuito ad acquisire elementi e confronti la cui utilità, ai fini dello studio sul problema, non era stata finora ravvisata48. Più esattamente, il metodo comparativo ha consentito di elaborare una visione organizzata del tema. Partendo da talune antiche testimonianze, a proposito del rito oggetto d’indagine, si è preso atto che sovente l’analogia strutturale dell’impianto rituale non è sinonimo di analogia semasiologica, così – ad esempio – l’allontanamento di un animale poteva implicare la rimozione della peste (Ittiti), come pure dei peccati (Israeliti) da una comunità. Il rito, nelle sue diverse sfaccettature, ha palesato elementi di genere e di classe: gli Ittiti scacciavano una donna finemente vestita, ma non un

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uomo, laddove per i Greci il pharmakos era di solito un criminale o uno schiavo, oppure apparteneva ai ceti meno abbienti della società. E ancora: tra gli Ittiti era il re ad officiare il rito, mentre fra gli Israeliti il ruolo guida spettava al sommo sacerdote e tra i Greci alla polis nel suo complesso. Infine, tanto il pharmakos quanto il devotus (per i Romani), come pure la figura del “capro espiatorio” (sia tra gli Ittiti sia tra gli Israeliti) riflettono nel rapporto “noi/loro” una separazione e, al contempo, una discriminazione. “Loro”, infatti, non sono unicamente gli “altri”, ossia i “diversi da noi”, ma costituiscono i “nemici”: ovvero una categoria necessaria sia nell’intento di individuare (e separare) i tratti identitari degli operatori rituali, sia per procurare (e discriminare) un ostacolo rispetto al quale misurare la tenuta dei valori sociali, politici e religiosi di un sodalizio umano.

16 Non disponendosi di fonti letterarie concordi sulla morte del pharmakos, possiamo assumere tanto un atteggiamento possibilista quanto uno fortemente critico49. La nostra analisi, in ogni caso, oltre ad aver contribuito a chiarire ulteriormente le dinamiche culturali relative all’istituto del pharmakos, ha permesso di ammettere la possibilità che il rito avesse pure altri significati (Geti), oltre a quello, ormai noto, dell’espulsione di una vittima designata, al fine di purificare la comunità investita da una drammatica crisi esistenziale.

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NOTE

1. Durante le feste Thargelia, solennità celebrate ad Atene e in altri centri ionici, in onore di Apollo, il 6 e il 7 del mese Thargelion (maggio), avevano luogo una purificazione, un sacrificio a Demetra e una processione. Il rito purificatorio consisteva nella cacciata dalla polis di due uomini (o di un uomo e una donna), in qualità di emissari, scelti fra le persone più ripugnanti (talvolta

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fra i criminali), e aveva la funzione di stornare tutte le impurità dalla polis. Per una descrizione esaustiva, cfr. GEBHARD 1926, 68-88; PESTALOZZA 1930-31; NILSSON 1950, I, 97-100. 2. Istr. Apud Harp. s.v. pharmakos ( DINDORF, vol. 1, 298-299): Λυσίας ἐν τῷ κατ’ Ἀνδοκίδου ἀσεβείας, εἰ γνήσιος· δύο ἄνδρας ἐξῆγον καθάρσια ἐσοµένους τῆς πόλεως ἐν τοῖς Θαργηλίοις, ἕνα µὲν ὑπὲρ τῶν ἀνδρῶν, ἕνα δὲ ὑπὲρ τῶν γυναικῶν. ὅτι δὲ ὄνοµα κύριόν ἐστιν ὁ Φαρµακὸς, ἱερὰς δὲ φιάλας τοῦ Ἀπόλλωνος κλέψας ἁλοὺς ὑπὸ τῶν περὶ τὸν Ἀχιλλέα κατελεύσθη, καὶ τὰ τοῖς Θαργηλίοις ἀγόµενα τούτων ἀποµιµήµατά ἐστιν, Ἴστρος ἐν α’ τῶν Απόλλωνος ἐπιφανειῶν εἴρηκεν. Δηµοσθένους δ’ ἐν τῷ κατ’ Ἀριστογείτονος λέγοντος “οὗτος οὖν αὐτὸν ἐξαιρήσεται ὁ φαρµακός”. Δίδυµος προπερισπᾶν ἀξιοῖ τοὔνοµα, ἀλλ’ ἡµεῖς οὐχ εὕροµεν οὕτω που τὴν χρῆσιν; Hellad. Apud Phot. Bibl. VIII 279, 534 a (HENRY, vol. 8, 182): ὅτι ἔθος ἦν ἐν Ἀθήναις φαρµάκους ἄγειν δύο, τὸν µὲν ὑπὲρ ἀνδρῶν, τὸν δὲ ὑπὲρ γυναικῶν, πρὸς τὸν καθαρµὸν ἀγοµένους. καὶ ὁ µὲν τῶν ἀνδρῶν µελαίνας ἰσχάδας περὶ τὸν τράχηλον εἶχε, λευκὰς δ’ ἅτερος. συβάκχοι δέ φησιν ὠνοµάζοντο. τὸ δὲ καθάρσιον τοῦτο λοιµικῶν νόσων ἀποτροπιασµὸς ἦν, λαβὸν τὴν ἀρχὴν ἀπὸ Ἀνδρόγεω τοῦ Κρητός, οὗ τεθνηκότος ἐν ταῖς Ἀθήναις παρανόµως τὴν λοιµικὴν ενόσησαν οἱ Ἀθηναῖοι νόσον, καὶ ἐκράτει τὸ ἔθος ἀεὶ καθαίρειν τὴν πόλιν τοῖς φαρµακοῖς. In letteratura, cfr. DEUBNER 1932, 179-198, praes. 179-181; BODNÁR 2000, 750. 3. In quest’ottica, MCLEAN 1990 ha proposto di non rendere il greco pharmakos con il tradizionale termine scapegoat, bensì con scapeman, la cui rimozione (espulsione) permetteva di raggiungere il fine prefissato della purificazione. 4. Levit. XVI 21-22: Aronne poserà le mani sul capo del capro vivo, confesserà sopra di esso tutte le iniquità degli Israeliti, tutte le loro trasgressioni, tutti i loro peccati e li riverserà sulla testa del capro; poi, per mano di un uomo incaricato di ciò, lo manderà via nel deserto. Quel capro, portandosi addosso tutte le loro iniquità in una regione solitaria, sarà lasciato andare nel deserto. Nel merito, cfr. FEINBERG 1958; DAVIES 1977; ZATELLI 1998; WESTBROOK, LEWIS 2008. 5. MASSON 1962, fr. 104. Supra, n. 1. 6. Tzet. Chil. V 728-730: Ὁ φαρµακὸς τὸ κάθαρµα τοιοῦτον ἦν τὸ πάλαι. Ἂν συµφορὰ κατέλαβε πόλιν θεοµηνίᾳ, εἴτ’ οὖν λιµὸς, εἴτε λοιµὸς, εἴτε καὶ βλάβος ἄλλο, τῶν πάντων ἀµορφότερον ἦγον ὡς πρὸς θυσίαν, εἰς καθαρµὸν καὶ φάρµακον πόλεως τῆς νοσούσης. Cfr. LEONE 1968, 196. 7. Petr. fr. 1 = Serv. Ad Aen. III 57: Nam Massilienses quotiens pestilentia laborabant, unus se ex pauperibus offerebat alendus anno integro publicis et purioribus cibis. Hic postea ornatus verbenis et vestibus sacris circumducebatur per totam civitatem cum execrationibus, ut in ipsum reciderent mala totius civitatis, et sic proiciebatur. Cfr. HUGHES 1991, 146. 8. Schol. Ov. Ibis 467-468 (ELLIS 1881, 81): Mos erat in Abdera civitate singulis annis hominem inmolari pro peccatis ciuium, sed prius vii diebus excommunicari ut sic omnium peccata solus haberet. Callimachus dicit quod Abdera est civitas in qua talis est mos, quod uno quoque anno totam ciuitatem publice lustrabant, et aliquem ciuium quem in illa die habebant deuotum pro capitibus omnium lapidibus occidebant. Cfr. DEUBNER 1934; GRAS 1984, 78-82; BRUNAUX 1988, 131-132; HUGHES 1991, 157. 9. Lis. Andoc. VI 53: ποῖον φίλον, ποῖον συγγενῆ, ποῖον δηµότην χρὴ τούτῳ χαρισάµενον κρύβδην φανερῶς τοῖς θεοῖς ἀπεχθέσθαι; νῦν οὖν χρὴ νοµίζειν τιµωρουµένους καὶ ἀπαλλαττοµένους Ἀνδοκίδου τὴν πόλιν καθαίρειν καὶ ἀποδιοποµπεῖσθαι καὶ φαρµακὸν ἀποπέµπειν καὶ ἀλιτηρίου ἀπαλλάττεσθαι, ὡς ἓν τούτων οὗτός ἐστι. Cfr. HUGHES 1991, 151-152. 10. HARRISON 1903, 95-114; FARNELL 1907, IV, 268-284; 253-258; FRAZER 19133, 252-274. Il sacrificio – com’è noto – è un atto di culto rituale contemplato in quasi tutte le tradizioni religiose, che implica una peculiare sottomissione al sacro e la volontà di stabilire una relazione con esso. Cfr. YERKES 1952, 3-6. L’espressione origina dal latino sacrificium ( sacrum + facere) che, etimologicamente, fa riferimento all’azione di “rendere sacro”. Tutti i generi di sacrificio hanno un denominatore comune, ovvero il presupposto che vi siano: un sacrificante (persona o gruppo), un oggetto (offerta) o un essere (vittima animale o umana) da sacrificare, un rito di trasferimento dell’oggetto/essere – mediante distruzione, consumazione, abbandono – e, pertanto, un

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passaggio dalla sfera profana alla sfera sacra. Cfr. BRELICH 1966, 44-50; VAN BAAL 1976, 161-178. Sulle principali teorie relative al sacrificio, cfr. TYLOR 1871; HUBERT, MAUSS 1899; DURKHEIM 1912; LOISY 1920; GIRARD 1972; BURKERT 1972; DETIENNE 1979; GROTTANELLI-PARISE 1988; CARTER 2003; HEDLEY 2011; LAWTOO 2017, 119-126. 11. BIANCHI 1989, 165, n. 1, in merito, notò che «…gli altri sacrifici umani regolari erano per i Greci quelli collegati con Zeus Laphystios, quelli del pharmakos e, forse, i Kronia di Rodi (Porph. Abst. II 54)». 12. XELLA 1996; ZATELLI 1998. 13. GURNEY 1977, 49: «When evening comes, whoever the army commanders are, each of them prepares a ram – whether it is a white ram or a black ram does not matter at all. Then I twine a chord of white wool, red wool, and green wool, and the officer twists it together, and I bring a necklace, a ring, and a chalcedony stone and I hang them on the ram’s neck and horns, and at night they tie them in front of the tents and say: “Whatever deity is prowling about (?), whatever deity has caused this pestilence, now I have tied up these rams for you, be appeased!” And in the morning I drive them out the plain, and with each ram they take I jug of beer, I loaf, and I cup of milk (?). Then in front of the king’s tent he makes a finely dressed woman sit and puts with her a jar of beer and three loaves. Then the officers lay their hands on the rams and say: “Whatever deity has caused this pestilence, now see! These rams are standing here and they are very fat in liver, heart, and loins. Let human flesh be hateful to him, let him be appeased by the rams”. And the officers point at the rams and the king points at the decorated woman, and the rams and the woman carry the loaves and the beer through the army and they chase them out of the plain. And they go running on the enemy’s frontier without coming to any place of ours, and the people say: “Look! Whatever illness there was among men, oxen, sheep, horses, mules, and donkeys in this camp, these rams and this woman have carried it away from the camp”. And the country that finds them shall take over this evil pestilence». 14. Il richiamo al “comparativismo storico” implicherebbe – per la rilevanza del tema – uno studio più approfondito che, però, in questa sede, non appare possibile. Tuttavia, non si possono tralasciare alcune note sintetiche quanto indispensabili per la sua comprensione e per la redazione del presente studio. La Storia delle religioni, permettendo di accostare ciò che è noto a ciò che non lo è, costituisce la mediazione tra la somiglianza dei concetti e la difformità dei dati: tale metodo, pertanto, confrontando elementi d’ambito differente, e sottoponendo le argomentazioni derivanti dalla contrapposizione ad un’analisi imparziale, mira a scoprire analogie oggettive, ma soprattutto diversità sul piano culturale. Per una bibliografia di riferimento, cfr. PETTAZZONI 1924; DE MARTINO 1953-54; BRELICH 1956; PETTAZZONI 1959; BIANCHI 1970; BRELICH 1970-72; BRELICH 1977; SABBATUCCI 1978; GASBARRO 1990; PISI 1990; FILORAMO 1997; MONTANARI 2001; CASADIO 2011; SACCO 2016. 15. HUGHES 1991, 140-143. 16. BURKERT 1985, 82; in letteratura: BREMMER 1983, 300; PAOLETTI 2004, 33-35. Contrari alla tesi del “sacrificio cruento”, per esempio: NAGY 1979, 222-242; HUGHES 1991, 139-165, secondo il quale, nella maggior parte dei casi esaminati (ma non nella totalità di essi – eccezione nostra), la morte del pharmakòs non appare evidente; di più ampio respiro GREEN 1998. 17. BONNECHERE 1994. 18. GIRARD 1982. 19. Come ci tramanda Hdt. Hist. IV 94, 1-3: ἀθανατίζουσι δὲ τόνδε τὸν τρόπον: οὔτε ἀποθνήσκειν ἑωυτοὺς νοµίζουσι ἰέναι τε τὸν ἀπολλύµενον παρὰ Σάλµοξιν δαίµονα: οἳ δὲ αὐτῶν τὸν αὐτὸν τοῦτον ὀνοµάζουσι Γεβελέιζιν: διὰ πεντετηρίδος τε τὸν πάλῳ λαχόντα αἰεὶ σφέων αὐτῶν ἀποπέµπουσι ἄγγελον παρὰ τὸν Σάλµοξιν, ἐντελλόµενοι τῶν ἂν ἑκάστοτε δέωνται, πέµπουσι δὲ ὧδε: οἳ µὲν αὐτῶν ταχθέντες ἀκόντια τρία ἔχουσι, ἄλλοι δὲ διαλαβόντες τοῦ ἀποπεµποµένου παρὰ τὸν Σάλµοξιν τὰς χεῖρας καὶ τοὺς πόδας, ἀνακινήσαντες αὐτὸν µετέωρον ῥίπτουσι ἐς τὰς

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λόγχας. ἢν µὲν δὴ ἀποθάνῃ ἀναπαρείς, τοῖσι δὲ ἵλεος ὁ θεὸς δοκέει εἶναι: ἢν δὲ µὴ ἀποθάνῃ, αἰτιῶνται αὐτὸν τὸν ἄγγελον, φάµενοί µιν ἄνδρα κακὸν εἶναι, αἰτιησάµενοι δὲ τοῦτον ἄλλον ἀποπέµπουσι: ἐντέλλονται δὲ ἔτι ζῶντι. Questa narrazione mostra analogie morfologiche tanto con la devotio quanto con il pharmakos e ricorda, per certi versi, l’ordalia (Lat. iudicium dei), per la quale v. GLOTZ 1904. Per un approccio complessivo, cfr. STERN 1991. 20. LAWSON 1910, 356. 21. VERNANT, VIDAL-NAQUET 1977, 97. Sull’interpretazione del concetto di “mostruoso” nell’antica Grecia e, più in generale, nell’Antichità classica, cfr. BAGLIONI 2013, 15-32. 22. CARCOPINO 1935, 96-97. 23. Arist. Pol. III 1284 a. Cfr. REEVE 1998, LXIX-LXXII; 89-91. 24. KAGAN 1961; BUCKLEY 20102, 132-136. 25. Cfr. BURNS 1981; MISSIOU 2011, 36-149; STONEMAN 2013. 26. VERSNEL 1981, 139 (per la citazione); v. anche: VERSNEL 1977, 37-46. 27. Liv. VIII 9, 6-8: Iane, Iuppiter, Mars pater, Quirine, Bellona, Lares, Diui Nouensiles, Di Indigetes, Diui, quorum est potestas nostrorum hostiumque, Dique Manes, uos precor ueneror, ueniam peto feroque, uti populo Romano Quiritium uim uictoriam prosperetis hostesque populi Romani Quiritium terrore formidine morteque adficiatis. sicut uerbis nuncupaui, ita pro re publica [pouli Romani] Quiritium, exercitu, legionibus, auxiliis populi Romani Quiritium, legiones auxiliaque hostium mecum Deis Manibus Tellurique deuoueo. 28. La tradizione attribuisce questo gesto a tre componenti della gens Decia: Publius Decius Mus al Veseris (340 a.C.), suo figlio a Sentinum (295 a.C.), e suo nipote ad Ausculum (279 a.C.), sebbene, in letteratura, la storicità delle tre vicende non sia pacifica e solo della seconda si disponga di un’apprezzabile documentazione. Cfr. SACCO 2011, 83-93. 29. BURKERT 1979, 59-77. 30. VAN GENNEP 1981, 15. 31. PALAVER 2013, chap. 4. 32. GIRARD 1980, 22. 33. BREMMER 2001, 174-210; KEARNEY 2003. 34. Petr. fr. 1 (MCLEAN 1996, 97). 35. ROUSSEL 1922; MEULI 1975, 993-996. Infra – nel testo e in nota (44) – con riferimento alla devotio. 36. Stat. Theb. X 793-794: lustrare ciuitatem humana hostia Gallicus mos est. nam aliquis de egentissimis proliciebatur praemiis ut se ad hoc uenderet. qui anno toto publicis sumptibus alebatur purioribus cibis, denique certo et sollemni die per totam ciuitatem ductus ex urbe extra pomeria saxis occidebatur a populo. Cfr. HUGHES 1991, 158. 37. Callim. Aet. fr. 90 Pf: Ἔνθ’, Ἄβδηρ’, οὗ νῦν. […] λεω φαρµακὸν ἀγινεῖ. Dieg. II 29-40: Ἔνθ’, Ἄβδηρ’, οὗ νῦν. […] λεω φαρµακὸν ἀγινεῖ Ἀβδήροις ὠνητὸς ἄνθρωπος καθάρσιον τῆς πόλεως, ἐπὶ πλίνθου ἑστὼς φαιᾶς, θοίνης ἀπολαύων δαψιλοῦς, ἐπειδὰν διάπλεως γένηται, προάγεται ἐπὶ τὰς Προυρίδας καλουµένας πύλας· εἶτ’ ἔξω τοῦ τείχους περίεισι κύκλῳ περικαθαίρων (?) αὐτῷ τὴν πόλιν, καὶ τότε ὑπὸ τοῦ βασιλέως καὶ τῶν άλλων λιθοβολεῖται, ἕως ἐξελασθῇ τῶν ὁρίων. Cfr. PFEIFFER 1934. 38. GRANITE 2016, 216: «At Massalia (modern Marseille, France), the pharmakòs […] was cast into the sea, purifying the city and its inhabitants». 39. NILSSON 1950, I, 97-100; MCLEAN 1990; supra, n. 3. 40. FORSDYKE 2005, 144-177. 41. FORSDYKE 2005, 145: «I argue that consideration of the procedure of ostracism as a form of collective ritual helps to explain the myriad associations and explanations for ostracism in the ancient sources»; 157: «Related to this interpretation of ostracism is the idea that the procedure

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may be associated with scapegoating and other types of rituals for expelling pollution». Cfr anche: OGDEN 1997, 15-28. 42. CHAMPAGNE 1992, 63-65; sul rapporto, a volte conflittuale, fra cultura, simbologia e strutturalismo, cfr. LEACH 1976; BOTTURI 1983. 43. Secondo KOSMIN 2015, si tratterebbe, invece, di un rituale politico atto a ristabilire la coesione interna della città. 44. Supra, n. 35. 45. PETTAZZONI 1952, 18. 46. L’espressione è usata in Cic. Sest. XX 46. 47. Cfr. BRELICH 1967; DURKHEIM 1897. Le percezioni, tuttavia, a volte sono fonte di perplessità. De facto, il devotus apparteneva agli dèi inferi e alla Terra e attirava il nemico nella propria consecratio; inoltre, qualora non fosse deceduto era previsto un rito di inumazione di un signum in sua vece, come attesta Liv. VIII 10, 12: Si is homo qui devotus est moritur, probe factum videri; ni moritur, tum signum septem pedes altum aut maius in terram defodi et piaculum caedi. Un’immagine – questa – che, in ambito storico-archeologico, ha suscitato un vasto dibattito, come testimoniano: ADAMS HOLLAND 1956; BOËTHIUS 1956; BERGGREN 1990; GHENGHEA 2012. 48. Supra, n. 15. 49. MASSON 1962, 112 (atteggiamento possibilista); HUGHES 1991, 143 (atteggiamento critico).

RIASSUNTI

Cosa s’intende con il termine greco pharmakos? Si trattava di un rito di purificazione oppure di un sacrificio? Quali sono le origini di questa cerimonia? Uno o due individui – in caso di crisi sociale, religiosa, politica, o a fronte di una calamità naturale – erano espulsi dalla comunità (e, talvolta, uccisi ritualmente) poiché si riteneva che tale pratica avrebbe purificato la società. Alcune fonti sembrano asserire che il pharmakos fosse sacrificato, ma la dottrina prevalente rigetta questa tesi adducendo che la vittima era percossa, ma non uccisa. Una spiegazione più plausibile vorrebbe che in talune occasioni fosse giustiziato, mentre in altre no. In questa prospettiva, esiste lo spazio per una problematizzazione storico-religiosa?

What is meant by the Greek word pharmakos? Was it a purification ritual or a sacrifice? What are the origins of this ceremony? One or two individuals – in case of social, religious, political crisis, or a natural disaster – were expelled from the community (and sometimes ritually killed) because it was believed that this would bring about the purification of the human group. Some sources state that the pharmakos was sacrificed, but several scholars oppose such a thesis, arguing that the earliest sources for the ritual prove that the victim was beaten up, but not killed. A more plausible explanation would be that on certain occasions he was executed, while on others he was not. In this light, is there a space for a historical-religious problematization?

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INDICE

Keywords : Pharmakos, ritual, sacrifice, scapegoat, ostracism, devotion, History of Religions (Comparativism) Parole chiave : Pharmakos, rito, sacrificio, capro espiatorio, ostracismo, devotion, Storia delle religioni (metodo comparativo)

AUTORE

LEONARDO SACCO Dipartimento di Scienze giuridiche Sapienza Università Piazzale Aldo Moro 5 00185 Roma (Italia) leonardo.sacco[at]uniroma1.it Laureato in Scienze storico-religiose e in Giurisprudenza, è uno studioso caratterizzato dalla formazione metodologica storicista, ricevuta dalla Scuola romana di Storia delle religioni. È autore di monografie e numerosi saggi, apparsi sulle maggiori riviste di area, nazionali e internazionali. Tra le ultime pubblicazioni: «La presunta tolleranza religiosa romana in epoca repubblicana», Quaderni di SMSR, 2017; «Ver sacrum», e Kosmos, 2017.

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Urban Religion in Mediterranean Antiquity: Relocating Religious Change

Emiliano Rubens Urciuoli and Jörg Rüpke

AUTHOR'S NOTE

In collaboration with Asuman Lätzer-Lasar, Harry O. Maier and Maik Patzelt

1. Introduction

1 To date, religion has been seen as cause for dramatic developments in the history of cities: foundations, waves of immigration, transformations, ghettoisation, and destruction; it has been a decisive factor in forming the concept of citizenship as well as in justifying the expulsion of large groups, and has contributed to the monumentalisation of centres and or has given importance to ex-centric places. Very recently, sociologists and anthropologists have been discovering religion in the contemporary and supposedly ‘secular’ global city.1 But still awaiting historical investigation is the specific urban character of religious ideas, practices, and institutions and the role of urban space shaping this very ‘religion’. As the time-span from the Hellenistic age to Late Antiquity has proven to be crucial in the establishment of concepts and institutions of ‘religion’, on the one hand,2 and is a period of re-newed and more extended waves of urbanization, on the other,3 the Mediterranean basin and the Roman Empire offer a rich and comparatively well-documented space for pursuing such an investigation. Taking seriously the proposition that space is condition, medium, and outcome of social relations,4 the development of ‘religion’ in lived urban space as ‘urban religion’ acknowledges processes of religious change that have been neglected by both the history of religion and the study of ancient urbanism. Our key thesis is that city-space engineered the major changes that revolutionised

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Mediterranean religions, where this space is understood as the array of urban spatial and structural forms, forces, processes, and agents. Evidently, such a claim is beyond proof in the form of an article. Thus we limit ourselves to plausibilizing this claim as a basis for future investigation against the background of actual research and to developing the conceptual tools for such an enterprise. Thus, we can only indicate lines of research, some of which we will pursue in the near future within the larger comparative framework of a newly established Centre of Advanced Studies in the Humanities on ‘Religion and Urbanity’, based at the Max-Weber-Kolleg of the University of Erfurt.5

2. Writing City and Religion Spatially in the Ancient Mediterranean

2 The history of ancient Mediterranean religion is undergoing a major re-evaluation. All in all, the range of sources regarded as important for reconstructing ancient religion and the developments leading to the formation of those ‘late ancient religions’ that still are major factors in today’s world, such as Judaism, Christianity, and Islam,6 all in their many varieties, has been enormously enlarged. For understanding the complexity of religious interaction, the concept of ‘lived religion’7 as developed for contemporary religion has been adapted and enlarged by the ERC-Advanced Grant project ‘Lived Ancient Religion’ for the study of pre-modern and specifically ancient Mediterranean religious practices and ideas.8 It has showed that funerary ritual and domestic religion, the social and ritual practices of voluntary associations, and the unanticipated, non- civic political use of religion by administrators and political elites are neither independent strands of religious practice nor replications of, or counter-models to, ‘civic religion’. Religion is best conceptualised as a single field of action and forces with many loci of religious authority in permanent fluctuation.

3 The relationships of religion and space, in general, and between religion and urban space, in particular, are still under-theorized and under-researched. Although practices and discourses previously framed in terms of ‘polis religion’ have been successfully integrated into the description of ‘lived ancient religion’,9 the city itself as a living habitat crucial to the religious practices of antiquity and as the driving force of religious change has never been a major concern of research. In almost all research on cities in the deep past (i.e., prior to the late medieval and early modern period), it is mainly assumed that the task is to illustrate how the viability of the city is grounded in a religious identity that is by the same token also a political one.10 As scholars’ focus has been on political and civic identities, in the history of ancient religion space has been addressed rather reluctantly and above all as imaginary realm. Only very recently has attention been paid to the Roman Empire as a conceptual space of identities and a lived space that informed actual behaviour.11 Yet the dominant models remain synchronic and functional with regard to religion or diachronic and hermeneutic in relation to urban space.

4 It is our contention that the empirical settings of ancient cities are to be viewed and studied specifically as city-spaces,12 that is, not only as a built environment as a physical condition, but as a space apprehended as challenging and inspiring, enabling and constraining, featured by particular configurations of social relations, built forms, and human activities which distinguish it from other spatial formations. A paradigmatic

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site for examining processes of social change at the time of the founding fathers of sociology and urban studies (Weber, Simmel, and the Chicago School), the early 21st- century re-emergence of the city as a distinct scientific object of social research13 has largely benefited from critical spatial theory (aka spatial turn) and its emphasis on the ‘spatial specificity of urbanism’.14 Different disciplinary insights now concur in saying the cities are peculiar spatial constellations. Since Michel de Certeau’s seminal ‘Walking in the City’,15 urban sociologists, who rarely take anything into account prior to the modern period, have emphasised ‘lived’ urban space as a praxeological and thus ultimately dialectical relation between the urban space and the human agent, who perceives and appropriates urban space on an individual basis. Scholars of urban planning, social ecology, geography and (political) sociology preferably define cities as phenomena of density with regard to the concentration of people and buildings at certain spots in broader landscapes and to the social consequences of an extreme increase of contact zones.16

5 Drawing critically upon these theoretical insights, our project surveys ancient city- spaces by concentrating on both real and imagined loci of religious experiences and agency. Imagination beyond concrete, measurable space, of course, is no privilege of the subalterns and agency is no prerogative of the dominants: against the counter- cultural and utopian accent of the typical use of ‘Thirdspace’ and ‘Heterotopy’, we prefer the less normatively charged notion of ‘lived space’,17 without denying that the very nature of religious practices implies the imaginative construction of alternative space beyond any given physical location.

3. From Civic Religion to Urban Religion

6 The very recent rise of the study of religion in contemporary cities focuses on the development of new forms of religious practices, i.e. religious change, and the appropriation of urban space by non-elites.18 Our research combines these insights with recent developments in the study of ancient lived religion that acknowledge the plurality of religious agencies and the complexity of religious interaction and appropriations. It aims to demonstrate that many religious phenomena, and especially major religious changes, can be better understood by viewing them in spatial terms, that is, as a result of a spatially informed dialectic of ‘co-production’19 of urban life and religious communication in the ancient Mediterranean world from the Hellenistic period to the late imperial period. Focusing on the impact of cities on religion and how the interaction with city-space changed religion, we call this side of the dialectic ‘urban religion’.

7 If our central hypothesis can be sustained, then many features of ancient religion would be more plausibly viewed as the outcome of specific effects and uses of space and their social and cognitive bases rather than as inherent characteristics of a specific ‘religion’. Such features are, for instance, the development of certain mass-rituals connected to theatre and circus structures, the widespread staging of theatrical processions, the declining role of animal sacrifice, the ‘intellectualisation’ of religion and the establishment of specifically religious networks and (initially small) group religions, but also forms of fixating gods to specific places and the very structure of a polytheism informed by a plurality of local temples. By addressing a sufficiently broad range of religious practices, imaginaries, groupings, and professions hitherto examined

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separately and/or addressed without an eye to urbanism, such a research will elucidate changes in ancient religion as important as the late ancient development of ‘religions’ (e.g. Christianity, Judaism) as the result of an ongoing interaction of different agents with specifically urban space.

8 Connected to this historiographical achievement is our ambition to develop and sharpen heuristic concepts and analytical tools that (a) may function as comparative instruments for further research into ancient religion in its many regional varieties, trans-local trajectories, and long-term trends and transformation, and b) help connect past changes with present developments by deepening understanding of both.

9 Planetary urbanisation is one of the key developments of the present world that cause immense changes in people’s daily lives as well as to the landscape of global networks. Praised as the solution to, or cursed at the embodiment of, the major problems of humankind, the ‘urban question’ is one of the grand challenges of today. Research on Mediterranean Antiquity cannot escape but rather contribute to this discussion by setting ancient religion into a wider framework and by showing that developments in antiquity are relevant even for contemporary concerns. By changing the approach, the outcome of such an agenda will affect claims about the evolutionary role of religion, which is too often viewed in terms of key provider of social cohesion20 or examined in ways largely neglectful of individual agency.21 Instead of focusing on political integration and social stratification as functional foci of a ‘polis’/‘civic religion’,22 we aim to stress urban aspirations, the appropriation of urban space, and the creation of urban diversity. Aside of hierarchy, we attempt to emphasize ‘heterarchy’.23 Instead of urban trapping and central administration, we highlight network activities. As research on ‘Lived ancient religion’ has demonstrated, such results are highly relevant to contemporary societal challenges.

10 The critical use and the establishment of the concept of ‘urban religion’ are paramount for this task. Defining a ‘continual process in which the urban and the religious reciprocally interact, mutually interlace, producing, defining, and transforming each other’,24 urban religion is the flagship notion of an cross-disciplinary approach to the study of religion in contemporary and preferably global cities that has eventually proven the role of religion in shaping allegedly secularized urban city-spaces and vice versa. Moreover, by significantly enlarging the range of the agents and the motivations involved in the creative co-constitution of religion and urbanity, this body of researches has increasingly made aware of the thoroughness of this interaction.25

11 As demonstrated by the previous research project on ‘lived ancient religion’, religion is always ‘religion in the making’26 and thus ‘urban religion’, too, is a dynamic concept focusing on change. It is inclusive and, when tested on antiquity, it permits analysis of the development of specific religious agency and practices (neighbourhood shrines, theatrical processions; text production and supply of religious services), specific forms of religious knowledge and imaginaries (imaginative places, imagined communities, heavenly cities) and societal phenomena such as civic ritual or religious communities in the appropriation, modification, and formation of urban space. Religious change is always investigated in the ongoing interaction between space and different agents: temporary inhabitants and voluntary or involuntary immigrants, residents and administrators, people living off religion or employing religion for realising their urban hopes.

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12 Yet, in its dominant use on contemporary capitalist urbanism, the object of urban religion is not religion but globalization – with religion rather serving as a lens onto globalization. Therefore, the enquired interlacing of globalization, cities, and religion has hardly opened up a real space for historical research, even though historians of religion have been willing to employ this concept for pre-modern phenomena of translocality, universalization, regionalization, localisation and their interactions.27 By critically applying the notion of urban religion to ancient Mediterranean cities and religions, our ambition is precisely to thoroughly historicize the analysis of the range of phenomena illuminated by this conceptual tool. For instance, delving into a typical subject matter of the urban-religious research such as ‘migrant faiths’ and ‘diasporic identities’,28 we aim at understanding the role of religion for migrants and immigrants into cities29 by asking whether participation in specific religious activities or networks was a means of stabilising former identities within a new urban space, or rather a strategy for pursuing urban aspirations and developing new identities. This is only possible by strengthening the diachronic scope and reach of urban religion.

4. Risks and Gains of an Urban Religion Approach

13 Evidently, there are some challenges to the viability of the project: a) the distinction between the urban and the non-urban; b) the potential diversity of local trajectories; and c) the sheer scale of such research’s scope.

14 a) Human Geography in general and studies in ancient urbanism in particular30 have demonstrated that there is no easy dividing-line between ‘city’ and ‘the rural’ – the latter can even be seen as a response to the need for an antithesis to the urban as a result of urbanisation processes. Many religious practices have been conclusively shown to antedate urbanisation, from the basic forms of communicating with divine others in dance, voice, images or gifts to complex rituals like animal sacrifice and moving in groups (processions). Our approach addresses this problem by a basic research strategy that does not attempt to develop criteria for infallibly distinguishing between urban versus non-urban practices but asks whether changes over time in a set of religious phenomena well attested in cities can fruitfully be interpreted as consequences of their contextualisation in and interaction with city-space (what we propose to call ‘citification’ rather than ‘urbanization’ of religion). Moreover, instead of drawing an unfoundedly clear-cut religious border, we are interested in monitoring and interpreting the ongoing traffic of religious signs, carriers, practices, and institutions across a more or less externally demarcated and discernible city border, thus testing their endurance and changes under different environmental conditions. Inspired by Jane Jacobs’ unrivalled urban imagination, we are looking for cases where rural forms of religion can be explained ‘as urban [religion] transplanted’.31

15 Additionally, some well documented rural areas like the ‘dead villages’ in Syria, rural Britain32 or the region of the Ubii 33 will be used as control cases. Lastly, since the formation of Christianity has been long central to debates about the supposedly ‘rural’ or ‘urban’ character of a religious tradition, these still most recent discussions34 offer an important touchstone to sharpen our methodology.

16 b) A second major risk is the potential diversity of local trajectories. Metropoleis such as Rome, Alexandria and Antioch on the Orontes cannot be ignored due to the wealth of material and textual sources they offer, but they are as exceptional as Baghdad, Cairo

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or Kaifeng in later periods. Were the crucial religious changes that are often associated with these centres, when seen through the lens of spatiality, singular local events? Were they rather connected to the metropolitan size of the city-spaces? Or were they building on more widespread patterns of ‘urban religion’ as defined above?35 Moreover, drawing on Bourdieu’s pivotal categories of practical sense (habitus, doxa),36 recent sociological research has developed the concept of ‘intrinsic logic of cities’37 to explain why reaction modes and times to analogous societal challenges and impulses can differ considerably from city to city, even under identical conditions in terms of financial possibilities and institutional frameworks. The possibility to transfer such contemporary explanatory repertoire to ancient city-spaces, and thus eventually to look for ‘elective affinities’ between certain religious innovations and some specific cities – was a successful religious implementation and religious-branding also the result of a good entrepreneurial sense of the right urban atmosphere? – is fairly limited by the general quality and the uneven quantity of the documentation at hand.

17 In order to circumvent or limit this risk, our intention is to bring together local case studies selected for historical analyses of a broad range of religious practices, imaginaries, institutions, which pay close attention to the push and pull effects of urban contexts, spatial as well as social and cultural. Granted that many ancient cities have been only partially excavated and even these results only partially published,38 we consider that sufficient reliable information has been accumulated to render the project feasible. Research needs to investigate religious change in cross-regional comparisons of cities of different size and character. For instance, in accordance with the concept of ‘lived city-space’, a line of investigation should focus on the agency of very different types of urban space, namely, on the one hand, dense living quarters,39 and, on the other, venues that were built in order to accommodate and communicate with large crowds within a framework of religious rituals, namely circuses, theatres and amphitheatres. This is to be combined with analyses of how human agents adopted antagonistic strategies of appropriating urban space for purposes of attracting (and keeping) religious clients or followers, namely by firmly localising religious practices or developing movable forms of religious practices and imaginaries adaptable to a multifarious urban space. In addition, the interplay between ancient imagination of cities (‘cityscaping’)40 and spatial conceptualisation of religion as a trans-local literary discourse needs to be investigated. A number of cities in the Western and Eastern parts of the Roman Empire offer sufficiently well published material (topographical data, architecture, coins, images), epigraphic, and occasionally even literary evidence to allow for comparison with regard to specific questions.

18 c) If the geographical extent of exchange relevant for religious signs, practices, ideas and even people, and likewise the impact of urbanisation triggered by the Mediterranean centres, militate against any narrow territorial limitation, the chronological range likewise matters. On the one hand, the bold claims of our research project require that we transcend narrow periods and periodisations. On the other hand, urbanisation (and religion) in the Mediterranean basin and the ‘hilly flanks’ dates as back as the late, if not the mid-Neolithic period; the empires of the Ancient Near East gave religion a central role in their cities; monumentalised temples and religious festivals (and other religious phenomena) figure prominently in the archaic and classical Greek and Italic poleis. We cannot endeavour to cover this entire range of potential topics in the detail that would be required. In effect, we decided to limit ourselves to the time-span from the Hellenistic age to Late Antiquity, which has proved

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to be crucial in the establishment of more developed concepts and more institutionalised forms of ‘religion’. At the same time this is a period of renewed and more extended waves of urbanisation.41 The residual risk of overstretch will be reduced by addressing only phenomena essential from the point of view of spatial theory as well as history of religion as outlined above and substantiated below. The focus is on religious rather than urbanistic change.

19 High risks are associated with high gains. The range of the topic and the breadth of the approach will lead to new narratives of this period of history of religion and will impact on the study of religion and urbanism more generally. A new explanation for the appearance of ‘religions’ in this period may be found in the proposition that it was the continuing close proximity to anonymous strangers and religious others that created a need to intensify group boundaries, magnify small differences, foster rhetoric to delegitimize the beliefs and practices of others, and encourage religious entrepreneurship. Religious change could be pinpointed more precisely in the social and cultural fabric by focusing on topics and processes such as theatrical rituals, intellectualisation, historicization, canonisation and scriptural interpretation, religious legislation (ecclesiastical and Rabbinic), and images of ideal or heavenly cities (Platonopolis, Jerusalem or civitas dei). In short, if successful, the large-scale analysis undertaken will fundamentally change our understanding of major changes in that period of Mediterranean religion not only with regard to ‘ancient religion’ but also to the formative periods of Judaism and Christianity. Moreover, the establishment of ‘urban religion’ as a new paradigm of analysis and description should have an impact on the historical study of religion and the study of religion in cities more generally. Far beyond the discourse on ancient religion, the topics of urbanisation, migration and mobility, and diversity, which are the major issues covered by our research plan, will enable Classical Studies to relate to most relevant contemporary debates in the field of Humanities and Social Sciences, thereby helping to critically connect contemporary observations to long-term historical change observable in what is now known as the ‘laboratory’ of the past.

5. Definitional issues and key analytical tools

20 How can we make plausible the bold claim that city-space and interacting with city- space engineered the major changes that revolutionised Mediterranean religions? How can we determine how and to what extent religious practices, imaginaries and institutions changed or developed in lived urban space? And how far can we speak of a co-constitution of practices of religious communication and urban spatiality? Responses to all these questions call for the use of well considered concepts defining our object of research, starting with ‘city’ and ‘religion’, as well as for the selection of key analytical tools to navigate the amount of potential evidence and research tracks.

City

21 For the purposes of the project and against the background of the state-of-the-art,42 we prefer to avoid clear-cut and highly technical definitions of city valid only for specific cultures. Very large conceptualizations are no heuristically serviceable either. Nor is our intention to draw on existing typologies or construct new ideal types to be added to

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an already thriving taxonomic panorama. Rather, we opt for a polythetic approach that deliberately selects out characteristics which are of prime importance for our research questions and thus understands cities as places with the following features : • City is a spatial form that organises and regulates phenomena of density on a larger scale (high density) • City is a place offering specific opportunities and evoking distinctive hopes (urban aspirations) • City is a place engendering diversity and endemic conflict (diversity) • City is a place subject to administrative attempts at comprehensive organisation (governmental power) • At the same time, city is a place functioning as a heterarchical system, where power can be ranked in a number of ways, shared, or checked (heterarchy) • City is a place inhabited by a substantial population of non-food-producing individuals pursuing different trades (including intellectual occupations) on the basis of an agricultural surplus (division of labour) • City is a place that is recognised as city and defined contrastively against (culturally variable forms of) non-city (urbanity)

Religion

22 For the purposes of the project, we theorise religion as communication with special agents (sometimes including objects) with properties different from everyday human, that is, dead (ancestors) or unborn (angels), just (demon) or fully superhuman (gods) agents to whom agency is accorded in a not unquestionably plausible way. Communication with or concerning such divine agents might reinforce or reduce human agency, create or modify social relationships, and change power relationships.43 This is of particular interest with regard to the frequent encounters and dense networks but also fluid and exchangeable relationships (‘weak ties’) typical of cities. Furthermore, like any other cultural practice, religious communication is a spatio- temporal practice induced and shaped by the spatial organization and, in turn, re- creating space.44 At the same time, our conceptualization of religion suggests that there is a specific spatial character of religious communication, a conceptual relationship not likewise valid for other cultural practices. If place-making can be equated with ‘dwelling’ and is frequently achieved with religious practices, religious communication is inherently also a practice of ‘crossing’.45 ‘Religion’ as used here is defined as an action transcending (in a very simple sense) the immediate and unquestionably given situation, that is, temporarily and situationally enlarging the environment judged as relevant by one or several actors.46 In the ancient Mediterranean world, just as today, the spatial character of religious communication was reinforced by sacralising objects or places and was thus manifest in material form even in other uses of space.47 Creating religious space was part of an ongoing process of claiming and appropriating urban space which implies specific competitive dynamics of place making involving both physical and rhetorical strategies.48

Key concepts

23 The manifold ways in which religion is used by different agents to deal with city- spaces, as well as the extent to which urban spatiality affects forms of religious

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practices, are elucidated with the help of three key concepts, which are deployed and interlaced throughout the project: a) agency and aspiration, b) spatial imagination, and c) appropriation.

24 a) Agency and aspiration. Agency can be afforded to objects. By their form or very presence they make humans re-act, ‘afford’ certain behaviour.49 We use the concept of ‘agency of objects’ and places but likewise focus on human agency and creativity within social contexts and situations. We conceive agency as the constant interaction between people that creates the structures and traditions that constrain and limit the subsequent exercise of agency, which in turn may alter or even challenge those same structures and traditions.50 As outlined above, religion enlarges the field of agency. By invoking in specific situations agents or authorities held to be divine, religious agents acquire extended possibilities for imagining and acting. Yet the converse is also possible: the same mechanism can also trigger an abjuration of personal agency, resulting in impotence and passivity, with agency being reserved for the divine agents.

25 A specific aspect of agency related to city-space is captured by a further term. Recent urban studies have taken up the term ‘aspirations’ from studies of social mobility51 to designate specific driving motifs and attitudes of immigrants as well as homegrown inhabitants: namely, ‘forward-looking hopes of achievement’ instantiated in ideas and behaviours connected with urban life and mobilized in ways that ‘engage and overcome’ urban issues. The situations in which religiously infused motivations stir urban creativity or create alternative urban worlds, or urban concerns are conducive to religious innovations, are described by the dialectical notion of ‘urban religious aspirations’.52 One of the aims of this project is to build on and develop this rather vague concept on the basis of historical research, at the same time exploring the possibility of a mutually exclusive relationship between religious and urban concerns. The socially uneven, though universal, cross-cultural, and –temporal capacity to engage agentically with the urban environment and to aspire in relation with it is to be used to nuance the analysis and description of individual and collective agents in structured situations.

26 b) Spatial imagination. Lefebvre’s notion of ‘lived’ space has taught us that agents do not merely ‘perceive’ or ‘conceive’ urban space.53 Whereas perceived space describes spatial practices that reproduce a spatial order (in the case of the urban, by mapping daily routines onto the established blueprints of everyday urban reality), and conceived space refers to the intellectually worked out dominant conceptions of space (e.g., that of the urban planners, social engineers, and administrative authorities), lived space highlights the human aspirational capacity to imagine space differently, to overlay it with unanticipated systems of symbols and signs, in a word: to change its use and appropriate it.54 Accordingly, urban-based human agents develop alternative ‘representational spaces’, new ways of using the city-space and, moreover, new forms of memorising, symbolising, imagining, and transcending urban spaces beyond their commonsensically perceived and professionally designed spatial layouts – including fictional spaces, theoretical spaces, or dreamed/utopian spaces as modelled by philosophers, poets and religious specialists. The city, thus, reveals itself as ‘an imaginative object’, an ever-changing assemblage of views that in turn conditions particular spatial practices.55 Already highlighted by Lefebvre, 56 the role played by religion in producing lived space is foregrounded by considering religious imagination and practice as spatial imagination and practice that do not just reproduce or

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legitimize existing knowledge already attached to a location but actually creates new interpretations, meanings, and uses by drawing upon extraneous religious knowledge. At the same time, the users’ practice and the knowledge of the city produces and affects lived religion. Hence the concept of spatial imagination helps to elucidate key dynamics of the dialectic between urban space and religious practice and knowledge in our evidence.

27 c) Appropriation. Over the last decades, postcolonial and subaltern studies have rehabilitated the hitherto negatively charged notion of appropriation (i.e., to make one’s own) by explaining it as ‘a potentially two-way process’ where ‘exchange and creative response may take place’.57 In its far less controversial sociological use, which we mainly refer to, the term describes a specific transformation process of the relations between human agents and human-made products (language, things, space) whereby the former agentically adopt and adapt the latter by gaining power and/or stressing identity via and over them. Appropriation can thus designate the ‘innumerable and infinitesimal transformations’58 of a language by the speakers, the creative transition of a thing from being an anonymous commodity to a highly personal good,59 the tactical interpretation of the city-space by the footsteps of its walkers. In de Certeau’s seminal praxeological analyses, the frequent use of the term always implies a focus on the acts and practices of the consumer rather than on the producer, or better: on the proactive and productive character of consumption.60 This logic shuffles (and, for its critics, blurs) the hierarchical directionality of cultural processes (designer/public; active/ passive; etc.) in a manner that resonates with the nowadays’ fashionable business term of ‘prosumer’. Successful appropriations emphasise the multidimensionality and polysemous nature of signs, things or spaces, but they are conditional upon the decisions and requirements of the agents themselves in concrete situations, as well as upon their social roles and the related expectations.61

28 Like any other cultural practice, religious communication engages with space, in general, and urban space, in particular, in ways that can be described as ‘appropriation’. Preceded by a selection, this use recognises and accepts the character of spaces as defined by previous, common or prescribed usages, but it also modifies the space through performance and thus changes the future memory of the place. Religious traditions themselves, of course, are not simply given, but need permanent reproduction and are transformed by the (also) spatiotemporally contingent modifications of the users (most frequently micro-changes but sometimes revolutionary). Appropriations of city-space and inner-city areas and locales by religious agents can be both ephemeral and long-lasting, rhythmical or permanent. Massive investments in media as tool for the communication with not unquestionably given addressees impinge significantly on the durability of the processes of appropriation.

6. Conclusion

29 As stressed in the beginning, this article does not historically substantiate any far- ranging claims but develops a coherent research programme. Against the background of research on religion in ancient Mediterranean cities, above all for the Hellenistic and Roman period, we argued for a change of perspective: from of religion that trace religious practices and ideas as an expression of political change in cities to the

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assumption that city-space engineered the major changes that revolutionised Mediterranean religions, where this space is understood as the array of urban spatial and structural forms, forces, processes, and agents. Of course, city-space in itself is not an independent variable, but again a result of complex, cultural, economic, and political interactions with and as space. Yet it is the spatial dimension that is foregrounded. We briefly discussed the possible risks and gains of such an approach in the wider horizon of geographical, urban, and religious studies. The main emphasis of the article, however, was on developing conceptual tools that allow for an adequate heuristic and description of the processes that we assume to be of paramount importance. It is on this basis that we intend to pursue and invite further research and criticism.

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NOTES

1. STHRAN 2015, 35-42; LANZ 2014. 2. RÜPKE 2016. 3. ZUIDERHOEK 2017, 20-36. 4. LEFEBVRE 1991 (1974), 2003 (1970), 15; SOJA 1989. 5. The project is directed by Susanne Rau and Jörg Rüpke and funded as FOR 2779 by the German Science Foundation. 6. See BOWERSOCK 1990; MARKUS 1990; SCHWARTZ 2010. A new journal, edited at the Max Weber Centre, is programmatically encompassing both sides of the assumed antithesis between mono- and polytheism (“Religion in the Roman Empire”). 7. MCDANNELL 1995; ORSI 1999, 2005; MCGUIRE 2008. 8. RÜPKE 2011c, 2016; ALBRECHT et al. 2018.

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9. E.g. DEGELMANN 2018; PATZELT 2018; RÜPKE 2018. 10. See the studies in YOFFEE 2015a – except Sinopoli focusing on religion in cities dominated by competing merchants. 11. ORLIN 2010; WOOLF 2011; MATTINGLY 2011; ESHLEMAN 2012; ANDO 2013; BRICAULT, BONNET 2013; COLLAR 2014; RÜPKE 2014; ANDO 2015; MORGAN 2015. 12. SOJA 2000, 8; 2006. 13. SASSEN 2010; BERKING, LÖW 2005. 14. SOJA 2000, 7-10. On this link see BERKING 2008, 15. 15. DE CERTEAU 1984 (1980). 91 ff. 16. LÖW 2011, 19-21. Also ROSKAMM 2011; BERKING 2008; NASSEHI 2002. 17. See SOJA 1996, FOUCAULT 1986 (1967), and LEFEBVRE 1991 (1974), respectively. 18. See KNOTT 2005; VAN DER VEER 2015; KNOTT, KRECH, MEYER 2016. More literature will be provided below. 19. DAY 2017, 3. 20. See most recently NORENZAYAN 2013. 21. See most recently YOFFEE 2015b. 22. E.g. SOURVINOU-INWOOD, C. 1990; COLE 1995; HÄGG 1996; SARTRE 2006; KINDT 2009; BRUUN 2009; EVANS 2010; HORSTER 2012; SCHEID 2016. 23. CRUMLEY 1995. 24. LANZ 2014, 26. For a similar definition, see ORSI 1999, 43. For a contextualization, see GARBIN, STRHAN 2017, 6-11 25. See ORSI 1999; ALSAYYAS, MASSOUMI 2011; GARBIN 2012 and 2013; BECCI, BURCHARDT, CASANOVA 2013; STRAHN 2015; VAN DE VEER 2015; GOH, VAN DER VEER 2016; GARBIN, STHRAN 2017; BERKING, STEETS, SCHWENK 2018; etc. 26. ALBRECHT et al. 2018. 27. CANCIK, RÜPKE 2009; RÜPKE 2011a, 2011b, 2014. On translocality see FREITAG, VON OPPEN 2010. 28. GARBIN 2012, 2013. 29. HOLLERAN 2011; WOOLF 2015; TACOMA 2016; TACOMA, LO CASCIO 2017; LO CASCIO 2017. 30. On the contemporary explosion of urban/rural divide the literature is legion, but see, e.g., SOJA, KANAI 2006. On antiquity see WALLACE-HADRILL 1991; NORTH 1995, 144-145, and several other references in ROBINSON 2017, 65-70. 31. See JACOBS 1969, 18. 32. ALLEN et al. 2016. 33. SPICKERMANN 2008. 34. See ROBINSON 2017 against the so-called ‘Urban Thesis’ (especially, 14-23). 35. These questions can be mapped onto a more general ambiguity of ‘urbanity’/’urbanism’: see WÜST 64-67. Metropoleis, historically often identical with capitals of empires, tend to display certain trends more clearly but need to be analysed within the broader urban patterns, at work in smaller cities also. 36. See, e.g., LEE 1997; LINDNER 2003 (habitus); BERKING 2008 (doxa). 37. See BERKING, LÖW 2008; LÖW 2012. 38. See critically RAJA, LICHTENBERGER 2015. 39. This was the topic of one of the preparatory conferences of the research project entitled ‘Religion of Quarters: Practicing Religion on a Neighbourhood Scale in the Hellenistic and Imperial Periods’ (4th–6th July 2018, Haus Hainstein, Eisenach, Germany). The conference proceedings are forthcoming. 40. FUHRER, MUNDT, STENGER 2015; also partly KEMEZIS 2015. 41. Including incipient phenomena of de-urbanisation in Late Antiquity. See RIZOS 2017.

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42. Already in 1950, the Australian Marxist archaeologist Vere Gordon Childe opened one of the most heavily cited pieces in the history of archaeology (‘The Urban Revolution’) by saying that ‘the concept of city is notoriously hard to define’ (Childe 1950, 3). Over time, this statement has become proverbial among specialists of different disciplines, as well as particularly convenient to advertise ‘a somewhat fuzzy core concept rather than to try to establish criteria that will clearly demarcate all cities from all noncites’ (Cowgill 2004). It is still true, however, that ‘neither anthropologists nor geographers have been able to agree on a generally acceptable cross-cultural [and cross-temporal] definition of urbanism’ (Trigger 1972, 576). Non-definitional approach to the issue relying on human capacities on mental mapping are also possible: thus FINLEY 1977, 305. For an overview of five conceptually different approach to the classification of urban forms, see TRIGGER 1972; most recently SMITH et al. 2016. 43. RÜPKE 2015. 44. KNOTT 2005. 45. For this tension, see TWEED 2006. 46. In this sense, the trans-local references inherent to religious communication by way of agency claims need not wait for radicalised axial-age transcendence and posterior debates on icons, re-presentation and presence, anthropomorphic or non-anthropomorphic forms, images or no image, etc. (cf. BELLAH 2011; BELLAH, JOAS 2012). 47. INSOLL 2009; DROOGAN 2013; RAJA, RÜPKE 2015. 48. On this see most recently LANDER 2017. 49. GOSDEN 2005, HODDER 2012. 50. JOAS 1996, EMIRBAYER, MISCHE 1998. 51. APPADURAI 2004. 52. VAN DER VEER 2015; GOH, VAN DER VEER 2016. 53. See already LYNCH 196. 54. LEFEBVRE 1991, 38-39. 55. BLUM 2003, 13-20. 56. LEFEBVRE 1991, passim. 57. ASHLEY, PLESCH 2002, 6. 58. DE CERTEAU 1984 (1980), XIV. 59. CARRIER 1995, 107-126. 60. DE CERTEAU 1984 (1980). 61. CARRIER 1995, 117-120 (on the gendered quality of appropriations).

ABSTRACTS

The claim formulated in this article is that city-space and interaction with city-space engineered the major changes that revolutionised ancient Mediterranean religions. Whereas previous research on ancient religion has stressed the role of religion for cities and urban topography, we are suggesting a new focus on the impact of cities on religion and on how the interaction with city-space changed religion. This side of the dialectic is what we call urban religion. This concept is paramount, since it encompasses the development of specific religious agencies and practices (e.g. neighbourhood shrines, theatrical processions; text production and supply of religious

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services), specific forms of religious knowledge and imaginaries (imaginative places; imagined communities, heavenly cities) and societal phenomena such as civic rituals or religious communities in the appropriation (and hence modification and formation) of urban space in cities of different size and character. The major questions that we propose are: how and to what extent is religion shaped by density, urban aspirations, diversity and conflict, city governance, heterarchical distribution of power and division of labour, and urban identity, that is urbanity? The basic assumption is that religious change needs to be investigated in terms of the ongoing interaction between the city-space and a variety of different agents, including residents, immigrants, and people who live off religion.

La tesi formulata in questo articolo è che lo spazio cittadino e l’interazione con esso innescarono i più grandi mutamenti che rivoluzionarono le religioni mediterranee nell’antichità. Mentre le ricerche precedenti hanno sottolineato il ruolo della religione per la città e per la topografia urbana, la nostra prospettiva suggerisce di concentrare l’attenzione sull’impatto delle città stesse sulla religione, indagando come l’interazione con lo spazio cittadino abbia modificato la religione. È questa la prospettiva che definiamo religione urbana. Questo concetto è di importanza fondamentale nella misura in cui include l’emergere di specifiche strutture, agency e pratiche religiose (per esempio, i santuari di quartiere, le processioni teatrali, la produzione di testi e l’offerta di servizi religiosi), specifiche forme di sapere e immaginazione religiosi (luoghi immaginari, comunità immaginarie, città celesti) e fenomeni sociali come rituali civici o comunità religiose esaminate nel loro processo di appropriazione (e quindi di trasformazione) dello spazio urbano in città di differenti dimensioni e tipologia. Le questioni principali che poniamo sono le seguenti: come e in che misura la religione è plasmata dalla densità e dalle aspirazioni urbane, dalla diversità e dal conflitto, dall’amministrazione cittadina, dall’organizzazione ‘eterarchica’ del potere, dalla divisione del lavoro e dallo stile di vita urbano? L’assunto di base è che il cambiamento religioso necessita di essere indagato in termini di reciproche relazioni tra lo spazio urbano e una varietà di attori sociali, inclusi i residenti, gli immigrati e coloro che vivono della religione.

INDEX

Keywords: City, Urban religion, Ancient Mediterranean, religious change Parole chiave: Città, religione urbana, Mediterraneo antico, cambiamento religioso

AUTHORS

EMILIANO RUBENS URCIUOLI Universität Erfurt Max-Weber-Kolleg für kultur- und sozialwissenschaftliche Studien Nordhäuser Str. 63 99089 Erfurt emiliano.urciuoli[at]uni-erfurt.de È borsista press il Max-Weber-Kolleg a Erfurt e membro dell’ “International Centre for Advanced Studies on ‘Religion and Urbanity: Reciprocal Formations”. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla storia del primo cristianesimo e sulla metodologie adottate nello studio dei gruppi e delle tradizioni religiose del Mediterraneo antico. Ha recentemente pubblicato una monografia dal titolo: Servire due padroni: una genealogia dell’uomo politico cristiano (50-313 e.v.), Brescia: Scholé, 2018. Lavora attualmente a un progetto di ricerca dal titolo: Citifying Jesus: Early

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Christians’ Making of an Urban Religion (1st – 5th century CE), che si propone di sviluppare un’analisi sociologica e spaziale della comunicazione religiosa del primo cristianesimo all’interno dello spazio urbano.

JÖRG RÜPKE Universität Erfurt Max-Weber-Kolleg für kultur- und sozialwissenschaftliche Studien Nordhäuser Str. 63 99089 Erfurt joerg.ruepke[at]uni-erfurt.de È professore di religioni comparate presso l’Università di Erfurt, co-direttore del gruppo di ricerca “Religious Individualization in Historical Perspective” e Vice-Direttore del Max Weber Kolleg (sezione: Religious Studies). Tra le sue pubblicazioni: La religione dei Romani (Torino 2004) (ed. or. The Religions of the Romans, Cambridge, Ma 2007); A Companion to Roman Religion (Malden, Ma 2007); Fasti sacerdotum (Oxford/New York 2008); The Roman Calendar from Numa to Constantine: Time, History, and the Fasti (Malden Ma 2011); Religion in Republican Rome: Rationalization and Ritual Change (Philadephia 2012); Tra Giove e Cristo (Bresci 2012); Superstitio. Devianza religiosa nel mondo romano (Roma 2011); Pantheon. Geschichte der antiken Religionen (München 2016).

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Recensioni e schede di lettura Reviews

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Imagine No Religion. How Modern Abstractions Hide Ancient Realities New York, 2016, Fordham University Press, pp. 309, ISBN 978-0-8232-7120-7, $ 125.00 (hardcover), $ 35.00 (paperback), $ 14.39 (e-book)

Corinne Bonnet

RÉFÉRENCE

Carlin A. Barton, Daniel Boyarin, Imagine No Religion. How Modern Abstractions Hide Ancient Realities, New York, 2016, Fordham University Press, pp. 309, ISBN 978-0-8232-7120-7, $ 125.00 (hardcover), $ 35.00 (paperback), $ 14.39 (e-book)

1 Le livre attire d’emblée par son titre ; cet Imagine No Religion, qui nous a tous fait rêver et chanter, dans le sillage du grand John Lennon, en 1971. Le sous-titre explicite parfaitement la perspective adoptée : que verrait-on si, pour décrire les pratiques et les conceptions des Grecs et des Romains en rapport avec les dieux, on renonçait au concept moderne de « religion(s) » ? Le défi est considérable et stimulant à la fois. Il implique – et c’est précisément l’objet de ce livre important – de revenir sur les notions anciennes, religio en latin, thrēskeia en grec, pour en saisir la complexité diachronique et synchronique. Le volume, écrit à quatre mains, mais parfaitement « amalgamé », comme le revendiquent justement les auteurs dès la note initiale (p. IX), est donc structuré autour de ces deux grandes enquêtes ; l’une et l’autre adoptent le même plan : tout d’abord une section intitulée « Mapping the word » où il s’agit de cartographier les usages du terme dans une multitude de contextes, en prêtant attention à ses évolutions ou mutations, à ses multiples facettes, aux champs sémantiques impliqués, aux questions de traduction, etc. ; ensuite une section consacrée à un case study, Tertullien pour religio, Flavius Josèphe pour thrēskeia. On voit comment ces deux approches combinent astucieusement un repérage horizontal, si l’on peut dire, et une analyse verticale, dans toute l’épaisseur d’un témoin, dont l’œuvre abondante et versatile jette une lumière significative sur les « mots et les choses ». À bien des égards, en effet, la

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démarche des auteurs s’apparente à une archéologie du savoir, dans la lignée de Michel Foucault (pourtant absent de la bibliographie, quoique C. Barton se compare à une « archaeologist » au début de son investigation – p. 15). L’Introduction, intitulée What You Can See When You Stop Looking for What Isn’t there (p. 1-9), précise néanmoins de manière très solide et efficace les fondements d’une démarche de déconstruction, salutaire sans être iconoclaste. Il ne s’agit pas simplement de constater l’inadéquation de « religion » pour rendre religio et thrēskeia, mais d’enquêter sur le réseau de significations qu’une étude approfondie de leurs usages permet de voir. « Religion » est dénoncé ici comme une facilité, un raccourci, mais surtout un écran qui masque la complexité des témoignages anciens sur ce que l’on pensait, ce que l’on disait des dieux, comment on communiquait, comment on interagissait avec eux. Il ne s’agit donc pas de démolir l’édifice et de transmettre un paysage en ruines, mais de montrer la variété des phénomènes sociaux que l’on range sous ce « label » moderne et que l’on saisit bien mieux si l’on recourt à la terminologie emic. En particulier, l’idée de force du volume est de montrer que, contrairement à ce que le terme « religion » suggère, héritage de la pensée chrétienne qui s’en est emparé et en a modifié le sens, nous n’avons pas affaire à des faits sociaux séparés, isolés, autonomes, spécifiques, mais à l’inverse à un tissu de pratiques et de représentations profondément imbriquées dans les comportements politiques, économiques, sociaux et culturels.

2 Retour aux sources : tel est le mot d’ordre. Pour ce qui concerne religio, C. Barton trace fermement une ligne d’évolution qu’elle argumente ensuite, de manière remarquable et passionnante, en cartographiant les usages (p. 15-52) : « I will argue that it is exactly the flexible, undefined, and less formalized powers and play of emotions exercised in Latin religio that will be suppressed in an increasingly defined, disciplined, regimented system of government legitimated by reference to a notion of an ultimate authorizing power » (p. 16). Il est impossible de rendre brièvement compte de toute la palette de nuances, sens, usages que son enquête révèle. Elle montre, de manière très convaincante, le rôle de Cicéron comme pivot dans une certaine orientation du sens de religio en rapport avec un contexte politique turbulent, celui des Guerres civiles, qui demandait une reprise en main des comportements éthiques et politiques, sous l’autorité d’un pouvoir supérieur, porteur d’ordre et source d’un conditionnement psychologique alors jugé indispensable pour le salut de l’État. Avant Cicéron, la notion de religio véhicule, en effet, un ensemble plus complexe de notions, sentiments, comportements et relations avec les dieux. C. Barton examine le lien entre religio et scrupule, hésitation, obligation, tabou, interdiction, retenue, pudeur, anxiété, culpabilité, énergie, etc. Elle montre bien les limites de l’opposition, souvent mise en avant, mais « paralyzing » selon ses termes, entre religio et superstitio. Elle s’arrête ensuite sur le Ciceronian Turn, caractérisé par la nécessité de nouvelles formes de régulation des comportements sociaux, non plus intériorisée, comme c’était le cas jusque-là, mais extérieure, par le biais des institutions, davantage que par un code moral plus ou moins partagé. On trouve ainsi dans le De Legibus cicéronien, des formulations très éclairantes ; par exemple en II, 7, 15-16 (cité p. 49), lorsqu’il s’agit de convaincre les citoyens que les dieux sont les domini omnium rerum ac moderatores, qui scrutent tout un chacun et qui, en tant que membres de la communauté, sont les témoins et les juges de tout ce qui s’y passe. Désormais, ce n’est plus la famille, la maisonnée, les biens qui sont la finalité du comportement religiosus, mais l’État. Cette évolution sémantique, qui associée la religio à une autorité suprême, est amplifiée par les auteurs chrétiens, notamment par Tertullien, étudié de manière

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très scrupuleuse dans la seconde partie (p. 55-118). Le gigantesque recensement entrepris montre effectivement que la sphère couverte par la notion de religio tend à se distinguer – en restant une nébuleuse – tout en se plaçant sous l’autorité du gouvernement impérial, intermédiaire entre les hommes et le dieu désormais unique et transcendant. C. Barton met en évidence la montée en puissance de connotations déjà présentes, mais qui trouvent dans la pensée chrétienne un point d’aboutissement, en particulier celle de « peur », a perfect fear, et celle de « discipline » (issue du vocabulaire des courants philosophiques), puisque le chrétien est, de sa propre volonté, un esclave de Dieu. Religio oriente donc vers une soumission totale, en relation avec l’émergence de la notion de conscientia, au sein d’un système rigidement hiérarchisé, une véritable forteresse mentale et politique. L’analyse de C. Barton montre bien ce que les conceptions de Tertullien doivent à un contexte de christianismes bourgeonnant et concurrents, ainsi qu’à la confrontation avec le judaïsme.

3 Le concept de thrēskeia – un terme dont l’étymologie demeure obscure – subit, si l’on peut dire, le même traitement de la part de D. Boyarin (p. 123-209) ; le dossier est tout aussi riche d’enseignements, même si le recouvrement entre thrēskeia et religio, d’une part, thrēskeia et religion, de l’autre n’est que partiel, comme le concède Boyarin (p. 123). Il souligne aussi le fait que thrēskeia n’est que très rare à l’époque classique, où ce terme s’applique surtout, chez Hérodote notamment, aux pratiques et croyances des « autres, et émerge avec plus de clarté à la fin de l’époque hellénistique, puis à l’époque romaine. Sa valeur heuristique est donc indéniable, même si les spécialistes de l’époque classique pourront éprouver une certaine frustration face à ce choix. Les intersections avec d’autres notions, comme , asebeia, deisidaimonia, nomos, latreia, etc. sont dûment prises en compte. Flavius Josèphe, auteur complexe, dont le positionnement est chargé d’ambiguïté, sert de fil conducteur à une enquête passionnante sur la thrēskeia des Juifs, au regard du discours développé parallèlement dans le Nouveau Testament, chez Philon d’Alexandrie et dans 4 Maccabées. Il faut partir du constat qu’aucun auteur n’utilise ce terme plus que Flavius Josèphe. Il renvoie au service de la divinité, à l’ordo sacrificiel, mais aussi au nomos, pris au sens le plus large, impliquant à la fois un état d’esprit et un comportement en lien avec la justice et la fidélité aux engagements. Comme dans le cas de Tertullien, mais pour d’autres raisons, l’ambivalence des usages textuels remonte savamment des analyses et fait obstacle à toute traduction simpliste. C’est que les usages sont aussi déterminés par les publics visés, qui sont toujours multiples, à fortiori chez un auteur à l’esprit divisé comme Flavius Josèphe qui a recours à des stratégies narratives et lexicographiques relevant d’un doublespeak. D. Boyarin prolonge son étude jusqu’à la littérature apologétique du Ier au IIIe siècle de notre ère, un milieu qui donna, notamment avec Justin le Martyr, la première impulsion à l’émergence d’un vocabulaire marquant la séparation entre le « religieux » et le « politique ».

4 La conclusion du livre (p. 211-214) revient sur le parti philologique adopté pour l’enquête : quels mots dans quelles strates textuelles ? dans quels contextes ? pour exprimer quels contenus ?

5 Le moment est-il venu d’admettre que la catégorie analytique de « religion » appliquée aux cultures de l’Antiquité est fourvoyante, qu’elle brouille plus qu’elle ne clarifie ? C’est le pari des auteurs. Le retour aux sources a révélé un réseau relationnel de termes et de notions d’une grande complexité et flexibilité. Les champs qu’ils couvrent impliquent à la fois le registre des représentations, des discours, des pratiques et des

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émotions. La comparaison entre Tertullien et Flavius Josèphe confirme en tout cas la prégnance du registre du politique sur l’orientation des mots et des choses. En l’occurrence, ce qui se joue, avec religio comme avec thrēskeia, c’est le rapport à l’État, à l’Empire et à l’Empereur, à l’autorité et à la loi, un rapport de collaboration, soumission ou accommodement réciproque.

6 Ce volume mérite vraiment d’être lu. Il est très bien écrit, clair, sans cesse relié aux textes, finement analysés ; il est sensible à la chronologie et aux contextes, intelligemment comparatiste : un vrai travail d’historien. Ce livre est aussi érudit, sans lourdeur, brillant d’un bout à l’autre. La bibliographie finale aurait pu prêter un peu plus attention aux travaux récents en langue française ; l’index est très utile. On sort de cette lecture enrichi et convaincu d’avoir vraiment découvert de nouveaux horizons de réflexion par delà la notion de « religion ».

AUTEURS

CORINNE BONNET Université de Toulouse (UT2J) – cbonnet[at]univ-tlse2.fr

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Gerechte Götter? Vorstellungen von göttlicher Vergeltung im Mythos und Kult des archaischen und klassischen Griechenlands (“Universitätsbibliothek”) Heidelberg, Propylaeum, pp. 358, ISBN 972-3-946654-52-0, € 24,90

Gian Franco Chiai

NOTIZIA

Irene Berti, Gerechte Götter? Vorstellungen von göttlicher Vergeltung im Mythos und Kult des archaischen und klassischen Griechenlands, (“Universitätsbibliothek”) Heidelberg, Propylaeum, pp. 358, ISBN 972-3-946654-52-0, € 24,90.

1 Il libro qui recensito rappresenta la versione rivista e bibliograficamente aggiornata di una tesi di dottorato discussa ad Heidelberg nel 2007 e scritta sotto la direzione del prof. A. Chaniotis. La monografia, pubblicata on-line come e-book nella serie Propylaeum della “Universitätsbibliothek” di Heidelberg, costituisce a parere del recensore un lavoro, stimolante e ricco di spunti che possono essere approfonditi. Per tal motivo vi è da augurarsi che i risultati di questo lavoro vengano recepiti e proficuamente messi a frutto nel mondo accademico. Lo spazio ristretto di una recensione non permette di discutere in maniera approfondita tutti i temi trattati dall’autrice. Per tal motivo, dopo aver esposto e riassunto la struttura ed il contenuto dei singoli capitoli, mi soffermerò con alcune note critiche su alcuni aspetti che hanno maggiormente attirato la mia attenzione.

2 La monografia si articola in 12 capitoli, suddivisi in tre parti: parte A (cap. I-III), parte B (cap. IV-X) e parte C (cap. XI-XII). Il libro si apre con un’ampia introduzione (pp. 13-28), nella quale si discute il significato del termine moderno Gerechtigkeit, una parola

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tedesca il cui campo semantico non trova una corrispondenza esatta nei termini greci dike, , dikaiosyne etc. La stessa difficoltà si riscontra per altro anche in italiano, in cui per rendere appieno il significato di questo concetto si è costretti a ricorrere a perifrasi come “senso di giustizia”, “quello che è giusto” etc. Questa introduzione mostra acutamente la difficoltà nel trovare un equivalente esatto per idee e concetti moderni nelle lingue e nelle culture antiche. Le stesse considerazioni, come giustamente l’autrice sottolinea, possono essere fatte viceversa anche in relazione al greco antico, in cui il concetto di dike può coprire il campo semantico di Rache (vendetta), Vergeltung (ritorsione) e Gerechtigkeit (senso di giustizia).

3 Il primo capitolo (pp. 29-51) si sofferma a studiare i meccanismi dell’intervento divino, finalizzato a ristabilire la giustizia e a punire quanti con le loro azioni hanno trasgredito norme etiche e sociali, facendo un torto a qualcuno. In questo senso la Gerechtigkeit antica si lascia interpretare come espressione di un processo di reciprocità. Il secondo capitolo (pp. 53-71) è dedicato all’analisi della colpa, che produce impurità. A riguardo va segnalata l’utile analisi della terminologia antica (agos, enages, miasma etc.), ben illustrata attraverso lo studio di esempi concreti tratti da opere letterarie. Il terzo capitolo (pp. 73-87) rappresenta a mio avviso uno dei più originali e meglio riusciti della monografia. Qui vengono studiati i media della comunicazione religiosa usati per prendere contatto con una divinità e spesso con toni patetici convincerla ad intervenire, ai fini non solo di ristabilire la giustizia, ma anche di punire il malfattore, dando soddisfazione al senso di vendetta e di rivalsa di chi aveva (o meglio avrebbe) subito il torto. A riguardo l’autrice, mostrando una profonda conoscenza dei testi epigrafici, prende in considerazione la categoria delle c.d. “preghiere per la giustizia” (prayers for justice – si tratta di un termine coniato dallo studioso olandese H. Versnel). A tal fine vengono studiate le iscrizioni del santuario di Demetra e Kore a Cnido, apposte su tavolette plumbee e affisse poi sulle pareti del tempio. Queste testimonianze epigrafiche vengono analizzate e comparate con altri famosi testi, come ad esempio la Sakrileg-Inschrift del tempio di Alea a Mantinea. La comparazione tra testimonianze letterarie ed epigrafiche conduce a nuove ed interessanti conclusioni, come ad esempio quella del constatare che la connessione tra malattia e mancanza – ciò che J. Assmann nei suoi scritti riferendosi al mondo egizio ed ebraico ha definito come konnektive Gerechtigkeit – è attestata non solo in epoca romana, ma trova interessanti testimonianze presso i Greci già in epoca arcaica nei poemi omerici.

4 La seconda parte, che inizia con una sintetica introduzione al tema (cap. IV, pp. 89-95) analizza singolarmente le diverse figure divine legate alla sfera della giustizia (Gerechtigkeit). Il cap. V (pp. 97-137) tratta delle Semnai Theai, delle Eumenidi e delle Erinni – denominazioni diverse indicanti la medesima divinità che assolve funzioni differenti – analizzando le caratteristiche rituali del loro culto nei contesti locali ad Atene ed in Attica. Il cap. VI (pp. 139-176) si incentra sulle Eumenidi e sui rispettivi luoghi di culto nel Peloponneso (Argo, Sicione, Megalopoli etc.) e nelle colonie doriche d’oltremare (Cirene, Selinunte). Interessante ed originale è lo studio comparato della lex sacra di Selinunte e delle iscrizioni cirenaiche. Il cap. VII (pp. 177-227) è dedicato alle Erinni ed alla diffusione del loro culto nel mondo greco (Arcadia, Beozia etc.); di particolare rilievo sono a tal proposito le connessioni osservate tra le Erinni e la fertilità, evidenti nel culto di Demetra Erinni a Telpusa (pp. 200-201); di utilità è pure la raccolta e la puntuale analisi delle fonti letterarie e documentarie (papiro di Derveni, defixiones etc.) in cui queste divinità vengono menzionate. Il cap. VIII (pp. 229-262) offre una dettagliata analisi di Zeus, quale istanza più alta della giustizia divina; l’autrice

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studia gli epiteti cultuali e le connessioni del re dell’Olimpo con le altre divinità connesse alla Gerechtigkeit. Successivamente vengono prese in esame le figure dei Daimones Alastores con un’utile raccolta ed analisi della documentazione attinente. Il cap. IX (pp. 263-280) è dedicato allo studio del culto delle Praxidikai e di Dike, mentre il cap. X (pp. 281-309) tratta di Nemesi e dei suoi luoghi di culto (Ramnunte, Smirne etc.).

5 Il chiaro pregio di questa parte consiste nell’ampia raccolta e discussione di un impressionante numero di testimonianze letterarie, epigrafiche ed archeologiche relative al culto di tutte queste divinità, che, prescindendo da singoli studi, non erano ancora state trattate in maniera sistematica e in modo comparativo in una monografia. Proprio in questa parte si evince uno dei punti di forza di questo lavoro: l’interdisciplinarietà, che permette all’autrice di utilizzare dati archeologici, epigrafici e testimonianze letterarie per ricostruire le caratteristiche di queste divinità della giustizia, partendo dai contesti materiali dei loro luoghi di culto.

6 La terza parte, comprendente i cap. XI-XII (pp. 311-317, 318-324), tematizza il ruolo della Gerechtigkeit nelle pratiche cultuali e in generale nel discorso culturale della Grecia arcaica e classica, definendo la morfologia di questi esseri divini, spesso adorati in gruppi dal numero non ben definito, quali onniscienti e connessi alla fertilità, e ricostruendo il loro sviluppo nel corso dei secoli. Paradigmatico è ad esempio il caso del culto delle Erinni, il cui culto sopravviveva in Arcadia ancora all’epoca di Pausania, le cui caratteristiche negative sembrano rafforzarsi in epoca imperiale, come mostrano le loro numerose menzioni nelle defixiones. Basandosi sulle fonti letterarie e documentarie, l’autrice sottolinea nel complesso il forte carattere locale e spesso legato alla sfera privata del culto di queste divinità.

7 La lettura di quest’opera offre, come accennato, anche diversi spunti critici e di approfondimento. Eccone qui due, relativi rispettivamente al concetto di teodicea ed alla concorrenza tra giustizia divina e giustizia secolare. La teodicea (dal greco theos, “dio”, e dike, “giustizia”) è quella branca della teologia e della storia delle religioni che indaga il problema di come si concili l’esistenza di un dio onnipotente, buono e giusto con la presenza del male nell’esistenza umana. Questo termine, benché derivato dal greco antico, non risulta essere attestato presso gli autori classici, i quali erano per altro consci di questa problematica (l’autrice rimanda a riguardo all’informativo lavoro di S. Lanzi, THEOS ANAITIOS. Storia della teodicea da Omero ad Agostino, Roma 2000). Il termine teodicea è attestato per la prima volta nell’opera di G.W. Leibniz (Essais de théodicée, I), pubblicata ad Amsterdam nel 1710. Il filosofo utilizzava questo termine in relazione alla giustificazione dell’esistenza e del ruolo di Dio (qui in riferimento al Dio cristiano) per il male presente nel mondo: egli attribuiva l’esistenza del male e delle sofferenze alla libertà umana del libero arbitrio, concessa all’uomo da Dio.

8 Compresa l’autrice, molti studiosi moderni (Versnel, Chaniotis etc.) usano tuttavia questo termine in un’accezione più ampia, riferendosi al modo in cui una divinità interviene nelle faccende umane in difesa dei suoi fedeli, ristabilendo a loro vantaggio la giustizia e facendo in modo che le norme etiche e sociali vengano ristabilite e rispettate. Si tratta di un’importante precisazione che sarebbe stato opportuno, a mio avviso, fare nel libro.

9 Un altro aspetto che, a mio parere, si sarebbe potuto approfondire attiene al rapporto tra pratiche cultuali legate alla giustizia ed il loro rapporto con la giustizia secolare. Le testimonianze prese in esame permettono infatti di ricostruire uno scenario di velata concorrenza tra istituzioni religiose ed autorità giudiziarie. Come l’autrice giustamente

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fa notare, non è un caso che la maggior parte dei testi provenienti dal santuario di Demetra e di Kore di Cnido e di Corinto siano da ricondurre a delle donne, probabilmente di ceto medio basso. Si tratta di una categoria sociale particolarmente debole, che non solo in epoca classica, ma anche nella più tarda epoca romana – non a caso, seguendo l’esempio di H. Versnel e di A. Chaniotis, l’autrice considera le iscrizioni confessionali della Lidia e della Frigia – non era particolarmente tutelata. Testimonianze di epoca tardo ellenistica e romana – si potrebbero considerare un ostrakon dall’Egitto romano, contente la supplica di due fratelli contro le angherie di un signorotto locale (SB, XVIII, 13931), o le numerose preghiere per la giustizia rinvenute nel santuario di Bath, in Inghilterra, anche questo dedicato ad una divinità femminile identificata con Minerva – mostrano in maniera evidente come per molte persone, appartenenti ai ceti più bassi, la giustizia divina, amministrata da divinità infallibili ed onniscienti, rappresentasse una valida alternativa a quella umana, controllata da autorità spesso corruttibili, che non avevano a cuore il bene di un povero contadino e che stavano spesso dalla parte dei potenti. In questo senso possiamo rintracciare un filo rosso di continuità tra l’epoca arcaica e classica, trattata da I. Berti, e quella dei periodi ellenistico e romano. Si potrebbe anche aggiungere che la paura nei confronti di una punizione divina, che prima o poi si sarebbe abbattuta su di un colpevole e sulla sua famiglia – chi poteva infatti augurarsi di venire perseguitato giorno e notte dalle Erinni, come Oreste? – doveva giocare anche in quest’epoca un ruolo importante: questa paura, proprio come nel caso delle iscrizioni confessionali, doveva favorire il rispetto delle norme etiche sociali ed il quieto vivere.

10 Prescindendo da queste mie due note critiche, il libro di I. Berti rappresenta una lettura stimolante che indubbiamente arricchisce il lettore, fornendo, come detto, stimoli per ulteriori ricerche ed approfondimenti.

AUTORI

GIAN FRANCO CHIAI Freie Universität Berlin - gian.franco.chiai[at]fu-berlin.de Ha studiato lettere classiche presso l’Università di Roma la Sapienza, laureandosi in Storia Greca e conseguendo poi il titolo di Dottore di Ricerca in Storia Antica. Ha svolto attività di ricerca e di didattica presso le Università di Tubinga, Heidelberg, Francoforte e Berlino (Freie Universität). Si occupa di culti e religioni nel mondo classico, di fisiognomica antica e di storiografia greca e romana. Tra le sue pubblicazioni si segnala la monografia Troia, la Troade ed il Nord Egeo nelle tradizioni mitiche greche. Contributo alla ricostruzione della geografia mitica di una regione nella memoria culturale greca, Mittelmeerstudien 16, Padeborn 2017” ed il volume degli atti di congresso Pollution and the Environment in Ancient Life and Thought, Geographica Historica 36, Stuttgart 2017”, curato insieme ad O. Cordovana.

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Exercices d’histoire des religions : comparaison, rites, mythes et émotions Textes réunis et édités par Daniel Barbu et Philippe Matthey, (“Jerusalem Studies in Religion and Culture”, 20), Leiden-Boston, Brill, 2016, pp. XVII+362, ISBN 978-90-04-31632-4, € 155.00

Carmine Pisano

NOTIZIA

Philippe Borgeaud, Exercices d’histoire des religions : comparaison, rites, mythes et émotions, Textes réunis et édités par Daniel Barbu et Philippe Matthey, (“Jerusalem Studies in Religion and Culture”, 20), Leiden-Boston, Brill, 2016, pp. XVII+362, ISBN 978-90-04-31632-4, € 155.00.

1 Exercices d’histoire des religions è la raccolta di 19 saggi di Philippe Borgeaud riuniti e pubblicati dai suoi allievi Daniel Barbu e Philippe Matthey. I saggi, editi da Borgeaud tra il 1986 e il 2011 (l’unico testo inedito è Jean-Pierre Vernant et l’histoire des religions), ovvero nel corso della sua docenza presso l’Università di Ginevra in quanto professore ordinario di Storia delle religioni antiche, consentono di ripercorrere i principali momenti e temi di riflessione dello studioso, fornendo un quadro coerente e articolato del contributo da lui dato alla definizione dell’oggetto e del metodo della disciplina storico-religiosa. In tal senso, la raccolta dei saggi costituisce l’omaggio migliore che i suoi allievi potessero fare al maestro che, tra i suoi tanti meriti, ha anche quello di aver costruito a Ginevra un’unità di storia delle religioni che si presenta come un laboratorio comparativo comprendente esperti di diverse religioni antiche e moderne.

2 Il volume si articola in due sezioni: Comparaison et histoire des religions (saggi 1-11) e Rite, mythe et émotion (saggi 12-19).

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3 La prima sezione affronta per lo più questioni di carattere teorico e metodologico. Sulla scia di Jonathan Z. Smith, Borgeaud intende la storia delle religioni come disciplina che riflette su stessa, sul proprio campo di studi e sulle proprie categorie di analisi, ridefinendole e affinandole in rapporto a concrete situazioni storiche. Il problema di partenza della disciplina riguarda naturalmente la definizione stessa di “religione”, concetto occidentale che si forma dall’incontro degli Europei con le culture “altre” all’alba della modernità. Quali possono essere il valore euristico e il potenziale applicativo di una nozione di marca così fortemente etnocentrica e cristianeggiante, soprattutto in relazione alle culture, come quelle antiche, che non separano il campo del “religioso” da quello del “politico” e che ignorano le moderne categorie di “dogma”, “fede”, “eresia”? La strada scelta da Borgeaud per risolvere lo spinoso problema è quella della comparazione: si tratta cioè di far interagire la nozione moderna di “religione” con quella romana di religio nel senso di «pratique rituelle scrupuleuse, éventuellement mais non nécessairement liée à une croyance» (p. 186). Dalla comparazione contrastiva tra le due categorie emerge che la “religione” che studia la storia delle religioni non è un sistema dogmatico a marca identitaria, fondato sulla fede dei credenti, ma «une attitude éminemment partagée, pas seulement en Occident, […] qui consiste à respecter les règles coutumières» (p. 186), ossia «la multiplicité des stratégies rituelles et mythologiques destinées à “donner du sens”, à conférer de la valeur surnaturelle à certains domaines du réel » (p. 184). In tale prospettiva, «la religion qui intéresse les historiens des religions, à travers l’étude comparée des rites et des mythes, apparait alors comme une forme de réflexion, la réflexion que chaque communauté humaine, différente des autres communautés, élabore sur sa propre ontologie» (p. 187).

4 La ricerca di una definizione di religione estendibile a culture diverse da quella cristiano-occidentale mostra come, nel caso della storia delle religioni, la questione dell’oggetto di indagine sia essa stessa subordinata a quella del metodo della disciplina: il metodo comparativo. Dagli albori della storia delle religioni alla cosiddetta “scuola di Parigi” passando per la corrente fenomenologica, la comparazione si è gradualmente trasformata, concepita dapprima come ricerca di analogie, quindi come strumento a vocazione enciclopedica per definire tipologie più o meno generaliste, infine come affare di specialisti che operano all’interno di laboratori collettivi e pluridisciplinari condividendo una certa tematica, ma declinandola all’interno di un particolare terreno d’indagine per far emergere differenze e specificità culturali. L’idea vernantiana della comparazione come lavoro d’équipe è fatta propria da Borgeaud che a Ginevra prosegue l’approccio laboratoriale parigino, precisandone metodo e ambiti di applicazione. Se le indagini collettive promosse da Vernant e Detienne studiano funzione e significato di determinati “oggetti” culturali nell’ambito di civiltà spesso molto lontane tra loro (sia dal punto di visto geografico che cronologico), Borgeaud restringe la comparazione alle culture storicamente in contatto, facendo dello stesso bacino del Mediterraneo un grande laboratorio comparativo, i cui limiti si estendono fino all’Egitto e al Vicino Oriente antico. In questo esercizio collettivo, inoltre, la comparazione è sempre concepita come “duplice”: da un lato, il confronto tra micro-configurazioni appartenenti a culture differenti consente allo specialista di un terreno di indagine di mettere a distanza il proprio oggetto, facendone emergere gli aspetti più inattesi e inconsueti; dall’altro, l’interazione tra le moderne categorie scientifiche e le rappresentazioni indigene di un certo fenomeno mostra come concetti ritenuti universali (religione, sacro, mito) si declinino in una forma specifica in funzione dei

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contesti storici. In tal senso, il metodo storico-religioso si può riassumere nella formula «osservare, descrivere, comparare» (p. 159), in cui osservare significa guardare dall’esterno, a distanza; descrivere equivale ad analizzare sulla base degli strumenti euristici a nostra disposizione; comparare comporta il “doppio” confronto contrastivo, in cui la classificazione e l’interpretazione di un fenomeno sono il risultato dell’interazione tra il livello “etico” e il livello “emico” dell’analisi. L’applicazione di tale metodo (si prendano ad esempio i saggi sulla «coppia sacro/profano», «spettri e demoni del mezzogiorno», «l’Oriente delle religioni») dimostra che la storia delle religioni, quale la intende Borgeaud, è sia «une archéologie de la pensée sur la religion» (Avant-propos, p. VIII) sia una disciplina multifocale, in cui «les concepts et les outils de recherche restent en permanence des objets à construire, de manière négociée, entre points de vue multiples et divers» (p. 162).

5 La seconda sezione del volume si presenta come un’applicazione pratica delle riflessioni teorico-metodologiche esposte nella prima parte. Essa raccoglie otto saggi scritti da Borgeaud tra il 2005 e il 2011 nell’ambito di un progetto di ricerca ginevrino sul mito e il rito in quanto espressione culturale delle emozioni. Lo studioso affronta in prospettiva comparatista temi quali i divieti alimentari, il profumo degli dèi, i misteri, l’origine del linguaggio, la paura degli dèi, la religione degli altri. Il punto di partenza dell’analisi è costantemente rappresentato dalla documentazione greca, che è esaminata alla luce del confronto con altri dossier antichi e dell’ausilio di strumenti di indagine forniti da altre discipline, come l’antropologia delle emozioni. Borgeaud sottolinea il valore e il ruolo delle emozioni nel rito, notando come i misteri prevedessero «une expérience théâtralisée de la peur et de l’angoisse» (p. 321), ma nello stesso tempo rileva la necessità di non attribuire alle emozioni un valore universale, come quando osserva che la paura degli dèi, ritenuta dai teorici moderni base essenziale di una comune esperienza del sacro, può assumere in realtà significati culturali molto diversi nella documentazione antica passando dalla poesia alla filosofia, dalla religione alla teologia politica (p. 330). Da segnalare è anche l’ultimo saggio compreso in questa sezione, Une rhétorique antique du blâme et de l’éloge. La religion des autres, forse uno dei testi più noti e citati di Borgeaud, in cui lo studioso dimostra che la pratica antica di “tradurre” gli dèi stranieri con i propri (la cosiddetta interpretatio) non opera una reale assimilazione tra le figure divine interessate in base a una tavola predefinita di corrispondenze, ma si rivela un esercizio contestuale, legato a specifici attori e bisogni, che lascia emergere in filigrana la consapevolezza della differenza.

6 In conclusione, Exercices d’histoire des religions è un volume destinato a diventare un punto di riferimento nella letteratura storico-religiosa in quanto densa ed efficace sintesi del pensiero di uno dei suoi massimi rappresentanti. Il valore del libro va tuttavia ben oltre la definizione di una vera e propria “grammatica” della disciplina, opportunamente divisa in una parte teorica e una applicativa. I saggi raccolti da Daniel Barbu e Philippe Matthey contengono un’appassionata e profonda riflessione sul ruolo pubblico di una materia che insegna prima di tutto il significato culturale e il valore civile della conoscenza dell’altro in materia religiosa: «Pratiquer l’exclusion de cet ailleurs radical, en privilégiant les monothéismes de la révélation abrahamique et les soi-disant “grandes religions”, au détriment de la diversité et de la richesse infinie des terrains multiculturels et transhistoriques, équivaudrait à échafauder une pseudo- science à l’usage des diplomates ou des “représentants” des traditions religieuses dominantes desireux d’établir un dialogue entre eux ou, au contraire, de procéder à des hiérarchisations au sein de ce qui “compte”, économiquement, stratégiquement et

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statistiquement parlant» (p. 52). È di contro a tali pericoli che si definisce il compito primo della storia delle religioni: «Pour l’historien des religions, la vérité ne tombe pas du ciel. Ni du ciel des archétypes, ni d’une révélation sur la montagne, ni même de ce ciel purement naturel que représenterait, dans notre tête, au sommet du corps, le cerveau des neurosciences. La vérité, ou plutôt les “vérités” (entre guillemets) auxquelles renvoient les mythes et les rites, sont autant de résultats locaux et conjoncturels, issus d’un immense chantier aux multiples ramifications. Oser poursuivre l’étude, lucide et comparatiste, de ce chantier ou chaque communauté construit ses propres religions me parait aujourd’hui encore une tâche urgente et salutaire» (p. 189).

AUTORI

CARMINE PISANO Università di Napoli Federico II - pisano.carmine[at]virgilio.it

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Dagli sciamani allo sciamanesimo. Discorsi, credenze, pratiche (“Quality Paperbacks”, 517), Roma, Carocci, 2018, pp. 172, ISBN 9788843090839, € 15,00

Giovanni Ingarao

NOTIZIA

Sergio Botta, Dagli sciamani allo sciamanesimo. Discorsi, credenze, pratiche, (“Quality Paperbacks”, 517), Roma, Carocci, 2018, pp. 172, ISBN 9788843090839, € 15,00.

1 L’ultimo libro di S. Botta è un’ottima guida per chiunque volesse confrontarsi con un argomento complesso che ha interessato il panorama accademico ottocentesco e novecentesco e che tutt’oggi tocca diverse realtà della società contemporanea. Come illustra bene l’autore, con uno stile chiaro ed efficace che accompagna il lettore per centocinquanta pagine, lo sciamanesimo è stato progressivamente discostato dal suo luogo d’origine per divenire un fenomeno estremamente fluido, declinabile in modi, luoghi e tempi estremamente differenti da loro. Quest’operazione costringe a porsi alcune fondamentali questioni metodologiche che dovrebbero concernere tutti gli studiosi umanistici. Fino a che punto è lecito adottare una categoria analitica, che nasce in un preciso contesto storico-culturale, per descrivere fenomeni diversi fra loro? Quale legame è possibile identificare tra manifestazioni piuttosto lontane fra loro nel tempo e nello spazio? Da chi, con quale sguardo e con quali intenzioni vengono tracciati i confini denotativi tra un contesto e l’altro? Domande che inevitabilmente toccano altri temi scottanti, primo tra tutti il neocolonialismo degli occidentali che spesso cercano di “introiettare, comprendere, depotenziare e, infine, addomesticare” ciò che è estraneo (149).

2 Botta ci dà al contempo la possibilità di compiere un percorso diacronico ricco e lungo che va ben oltre i confini della Siberia. È interessante scoprire che questo fenomeno religioso ha coinvolto, fra gli altri, importanti intellettuali illuministi e romantici, come D. Diderot e J. G. Herder, e ha riguardato discipline piuttosto diverse fra loro:

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l’antropologia, l’etnografia e la storia delle religioni, ovviamente, ma anche la filosofia, la psicologia, la sociologia, l’arte, la poesia e persino la storia degli antichi Greci. I celebri studi di K. Meuli, Scythica (Hermes 70, 1938, 121-176) e di E. R. Dodds, The Greek Shamans and the Origin of Puritanism (The Greeks and the Irrational, Berkeley-Los Angeles 1951, 135-178), hanno suscitato infatti un vivo dibattito anche tra gli antichisti, a proposito dell’opportunità di adottare termini e concetti simili per interpretare il mondo greco antico. Lo sciamanesimo è stato connesso alle origini stesse dell’espressione poetica, intesa come nucleo dell’epica indoeuropea e ugrofinnica e, andando ancora più indietro nel tempo, è stata persino proposta un’interpretazione sciamanica dell’arte parietale preistorica (Sciamani dell’antichità e sciamani della preistoria, 115-118).

3 Alcune tra le menti più brillanti del Novecento si sono appassionate allo sciamanesimo. Non mi riferisco solo a ‘specialisti’ come Mircea Eliade che, con la sua famosa e controversa monografia Le chamanisme et les techniques archaïques de l’extase (Paris 1951), ha costituito un fondamentale punto di riferimento nella storia degli studi sul tema. Grandissimi pensatori, quali C. Lévi-Strauss e C. G. Jung, si sono interessati vivamente alla materia, contribuendo attivamente al dibattito che ha coinvolto, sebbene in parte, anche la realtà italiana. Ernesto De Martino e Carlo Ginzburg vanno annoverati, di certo, tra le figure di spicco del panorama culturale nostrano che hanno affrontato questo argomento così discusso. Il viaggio che S. Botta propone è anche un itinerario che tocca inevitabilmente realtà geografiche e sociali molto differenti tra loro. Dopo alcune (necessarie) riflessioni più teoriche (cap. 1 Definire lo sciamanesimo), lo studioso ci porta alla scoperta degli sciamani siberiani e cerca di indagare anche le manifestazioni antecedenti alla costruzione di uno sguardo occidentale (cap. 2 La scoperta degli sciamani). Passando attraverso il contrastato rapporto degli zar russi con lo sciamanesimo (cap. 3 L’invenzione dello sciamanesimo), si arriva al decisivo ‘sbarco’ di questo fenomeno religioso nelle Americhe grazie al fondamentale contributo di Franz Boas (cap. 4 La diffusione nelle Americhe). L’etnografo tedesco, molto attivo negli Stati Uniti, fu l’artefice di un’importante spedizione esplorativa, la Jesup North Pacific Expedition (1897-1902), composta da specialisti americani e russi, che avevano l’obiettivo di comprendere se ci fossero dei legami tra le culture della Siberia nord- orientale e quelle della costa nord-occidentale del continente americano. Boas voleva dimostrare l’esistenza di un “complesso sciamanico” condiviso dalle culture indigene di entrambi i paesi (73). In tal modo fu avviata un’operazione di generalizzazione che allargò la prospettiva a realtà altre rispetto alla Siberia.

4 Le interpretazioni psicopatologiche (cap. 5 Psicopatologia, medicalizzazione, de- medicalizzazione, cura) non hanno di certo fermato il successo dello sciamanesimo che, come accennavo, ha interessato fra le altre discipline anche la psicanalisi (cap. 6 Arcaicizzazione e idealizzazione). La sua grande diffusione nella controcultura statunitense (cap. 7 Il neosciamanesimo come individualizzazione e istituzionalizzazione) è divenuta infine il trampolino di lancio di un “eroe culturale eclettico che parla, ancora oggi, a quegli individui solitari alla ricerca delle tecniche per intraprendere un’avventura psichica che consenta loro di diffondere la propria sensibilità nell’ambiente” (120). Il successo mondiale dei libri di Carlos Castaneda, che furono duramente contestati da gran parte del mondo accademico, trasformò lo sciamanesimo in “merce globale”, grazie anche alla diffusione di un metodo pratico a scopo di lucro (130). Anche la cultura psichedelica ne fu attratta, in connessione all’uso di sostanze psicotrope che ha portato addirittura a una sorta di turismo “mistico sciamanico” nei territori indigeni (125). In

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tal modo si è lentamente arrivati a una mercificazione della dimensione religiosa, in risposta alla quale i gruppi indigeni stanno oggi riappropriandosi delle loro credenze e della loro identità (cap. 8 Il ritorno nei contesti indigeni), grazie proprio allo sciamanesimo che “è divenuto uno strumento - globalmente riconosciuto - attraverso il quale rivendicare gli interessi condivisi di una moltitudine di popolazioni autoctone” (149).

5 Come spiega l’autore, nelle conclusioni, lo sciamanesimo è diventato una categoria capace di attrarre desideri e bisogni, individuali e collettivi, molto diversi tra loro (149). Dagli sciamani allo sciamanesimo ci fornisce un ottimo sguardo d’insieme su un argomento ostico, senza mai dimenticare che le operazioni interpretative trattate nel volume sono frutto della proiezione dello sguardo occidentale su fenomeni locali che hanno poi assunto una dimensione molto più vasta. Botta ci mette così a disposizione un utilissimo strumento di lavoro che risponde pienamente agli obiettivi della collana Quality Paperbacks in cui il testo è stato pubblicato: un libro tascabile di qualità, non solo per gli specialisti, ma per chiunque volesse allargare il proprio orizzonte conoscitivo.

AUTORI

GIOVANNI INGARAO Università degli Studi di Palermo – gioinga[at]hotmail.it

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Dioniso in Sicilia. Mythos, Symposion, Hades, Theatron, Mysteria (“Mesogheia. Studi di storia e archeologia della Sicilia Antica”), Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2018, pp. 269, ISBN 978-88-8243-452-6, € 22,00

Nicola Cusumano

NOTIZIA

Simona Modeo, Dioniso in Sicilia. Mythos, Symposion, Hades, Theatron, Mysteria, (“Mesogheia. Studi di storia e archeologia della Sicilia Antica”), Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2018, pp. 269, ISBN 978-88-8243-452-6, € 22,00

1 Prendendo opportunamente avvio dall’innovativo e per molti versi ancora “fresco” volume di Emanuele Ciaceri (Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, 1911), Simona Modeo sottolinea che il gap documentario lamentato un tempo da Ciaceri a proposito del culto di Dioniso può essere considerato oggi almeno in parte superato grazie all’intensa attività di ricerca dell’ultimo secolo, che apre nuovi orizzonti interpretativi, soprattutto per quanto riguarda l’area anellenica, tanto indigena che fenicio-punica. Partendo da questo assunto S. Modeo esplora le motivazioni di questo culto identificandole in primo luogo nel profilo soterico di Dioniso, in grado di giustificare un ruolo di connettore anche interculturale. L’indagine è distribuita in cinque sezioni che prendono in esame aspetti diversi della divinità e del suo culto. La prima sezione (Mythos. La rappresentazione del mondo dionisiaco, 17-55), a sua volta articolata in tre capitoli, prende in esame la natura polimorfica della divinità, così come è testimoniata ad esempio nell’iconografia vascolare attica, importata in Sicilia dal VI secolo: le formule iconiche sono legate alla c.d. “faccialità” del dio, secondo la formula proposta da J.-P. Vernant. Tanto la committenza greca quanto quelle indigena nell’isola prediligono in questo periodo l’immagine tradizionale della divinità, “paterna e

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regale”, con alcune eccezioni come il Dioniso fanciullo su un cratere proveniente da Sabucina (22). Sembra assente in ambito siceliota la dimensione poliade del dio. Risultano invece presenti nella ceramica attica importata in Sicilia le figure del thiasos: le danze menadiche decorano le ceramiche a figure rosse dal V secolo; in particolare, la presenza di phialai piene di uova testimoniano il rapporto tra dionisismo e orfismo, attestato sia in Sicilia che in Magna Grecia (30). Ugualmente ricco di attestazioni è il tema figurativo delle piante e degli animali legati al dio.

2 La seconda sezione (Symposion. Dioniso, il vino e il komos, 57-79) si lega all’importante sfera economica della produzione di vino e del suo consumo in Sicilia, con i connessi aspetti rituali e sociali. In una rapida sintesi sulla questione, l’Autrice mette a frutto con perizia gli ampi risultati che sono stati ottenuti dalle ricerche recenti estese a tutto il territorio siciliano, pur concludendo con la dovuta prudenza che non si è ancora giunti ad una situazione documentaria chiaramente traducibile in discorso storico. Gli aspetti simposiali sono tuttavia ben documenti dall’iconografia vascolare: essi gettano luce, grazie soprattutto ai corredi tombali, tanto sugli ambienti sicelioti che su quelli “indigeni”. Resta da valutare attraverso quali codici di senso la pratica del simposio, così centrale nella madrepatria, si sia diffusa nelle colonie e poi sia stata ‘ritradotta’ anche in ambienti anellenici. La terza sezione (Hades. Dioniso e l’al di là, 81-105) affronta la diffusione dell’aspetto funerario di Dioniso nell’isola, a partire dalla relazione vino/ morte attestata a più livelli e sorretta da valori escatologici. I dati provenienti dalle necropoli ad incinerazione secondaria in cratere e dall’iconografia vascolare evidenziano una connessione tra Hades e Dioniso che, diversamente da quel che si riscontra nell’ambiente greco peninsulare, qui in Sicilia e in Magna Grecia mostra un valore positivo dando luogo ad una interscambiabilità tra le due divinità. Particolarmente interessante è la prassi dell’incinerazione in cratere che S. Modeo inquadra nel mito del trattamento delle ossa di Achille e nell’omologia vino/fuoco, acutamente studiata da F. Lissarrague: la pratica rituale dell’incinerazione nel cratere risulta così collegata ad un processo di trasformazione del corpo omologo alla fermentazione del vino, e in certa misura ad un processo di immersione nel vino che blocca il miasma prodotto dalla morte. Il collegamento Dioniso/Hades, sia su ceramica attica che siceliota, emerge anche sul piano iconografico tra la fine del VI e il V secolo. Altro aspetto di questo legame è suggerito dalla ricca coroplastica liparese a tema “teatrale” che, come ha ben visto nei suoi studi Bernabò Brea, risulta “strettamente connessa al mondo dell’oltretomba” (97). Si aggiunga che la presenza di maschere nelle tombe di Lipari fa pensare ad una possibile offerta a Dioniso in vista dello status post mortem.

3 Appartenga o no al mito il viaggio di Arione in Italia e in Sicilia, è ormai opinione accolta che forme di spettacolo si siano sviluppate in Italia meridionale fin dall’età arcaica, una tradizione che si collega alle rappresentazioni teatrali siciliane nel V secolo. Oltre alle fonti letterarie, le testimonianze archeologiche forniscono una gran massa di dati a conferma di questo precoce interesse per le performances drammatiche, e ne consolidano il rapporto con il rituale dionisiaco. Questo tema è al centro della quarta parte (Theatron. ex machina, 107-131), nella quale l’Autrice mostra l’evoluzione dal VI al I secolo a.C. dei materiali pertinenti, rilevando la loro profonda connessione con il rituale dionisiaco e la capillare diffusione di quest’ultimo nell’area magnogreca e siceliota. Di particolare rilievo è il periodo tra IV e III secolo quando

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vengono edificati, sempre all’interno dei contesti urbani, teatri in pietra che hanno la caratteristica di essere polifunzionali con una destinazione sia religiosa che politica.

4 Al tema della diffusione del culto in ambiente siceliota e negli altri contesti isolani, S. Modeo dedica l’ultima ampia sezione del volume (Mysteria. La diffusione del culto dionisiaco in Sicilia tra l’età arcaica e l’età ellenistica, 133-228). Una scrupolosa rassegna delle evidenze archeologiche nelle colonie greche sottolinea la ricchezza di segni materiali riferibili con maggiore o minore sicurezza a presenze cultuali dionisiache. L’analisi è condotta in profondità e propone nuove chiavi di lettura, come nel caso di Monte San Mauro di Caltagirone, alla cui area appartengono tre arule fittili che riportano la scena di un personaggio maschile che toglie i piccoli ad una scrofa di cinghiale: attribuita per lo più alla sfera demetriaca, l’A. propone di cogliere un carattere dionisiaco nella vis ferina dell’uomo, che rinvia al profilo satiresco e alla religiosità dionisiaca. Dal sito di Grammichele proviene il materiale votivo rinvenuto in località Poggio dell’Aquila, che sembra pertinente ad un santuario demetriaco ma con rilevanti elementi dionisiaci. Ugualmente altre testimonianze di presenze riferibili al dio si segnalano in molte altre località, anche se non sempre è possibile inferire l’esistenza di aree cultuali organizzate, quanto piuttosto presenze collegate a santuari di altre divinità, in primis Demetra. Molto più ricca di testimonianze dionisiache si rivela il contesto siracusano, a cominciare dall’altare dedicato alla divinità in uno dei capi di Ortigia, probabilmente nella zona dell’istmo. In ogni caso è verosimile pensare che la complessiva disposizione cultuale dionisiaca in area siracusana doveva essere molto più ricca e articolata di quanto non si ricavi oggi dalle tracce materiali disponibili. Certa appare la celebrazione delle Anthesterie anche a Siracusa: lo attesta tra l’altro un frammento dello storico Timeo a proposito della celebrazione dei choes in età dionigiana (non a caso choes era il nome del secondo giorno della festa ad Atene). Per quanto concerne l’area di penetrazione siracusana, a Camarina sembra sicura la presenza del dio in associazione con Atena. In area megarese alcune indicazioni rendono verosimile il culto dionisiaco tanto a Megara che a Selinunte; e testimonianze archeologiche di pertinenza dionisiaca provengono da Monte Adranone, Rocca Nadore fino a Monte Iato e Maranfusa verso il territorio imerese, a testimonianza della capacità di penetrazione selinuntina. Testimonianze di culto dionisiaco sono presenti anche a Eraclea Minoa, per la quale S. Modeo sottolinea l’importanza degli scavi iniziati da Salinas, che avrebbero portato alla luce un edificio teatrale (187): il santuario sulla collina sovrastante, anche se attribuito a divinità femminili, potrebbe avere una connessione con il dio del teatro. Quello che, nell’ultima parte del suo volume, l’Autrice opportunamente valorizza è la ricchezza di tracce dionisiache nei centri indigeni sottoposti all’influenza delle colonie siceliote. Un caso interessante è quello del sito di Vassallaggi, “forse l’antica Motyon distrutta da Ducezio” (206): si tratta di un centro fortemente ellenizzato nel quale il culto dionisiaco sembra ipotizzabile sulla base dei ritrovamenti archeologici provenienti dal santuario delle divinità ctonie e dai corredi tombali. Anche il sito sicano di Monte Polizzello si rivela, nell’analisi dell’A., un’area privilegiata per valutare la presenza e lo scambio con il Mediterraneo orienta in età precoloniale; risaltano in particolare i rapporti con la cultura cretese, anche in termini cultuali: le numerose protomi taurine e di ariete, insieme ad altre classi di materiali farebbero ritenere che una delle divinità minori del sito possa identificarsi con lo Zagreus di Creta, in Grecia assimilato a Dioniso. Ultimo aspetto preso in considerazione è l’altra area anellenica dell’isola, sebbene non “indigena”: si tratta di quella fenicio- punica per la quale l’Autrice tiene conto opportunamente di quelle dinamiche di

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scambio e di interazioni culturali che, sviluppatesi tra XIII e XI sec. a.C. nel Mediterraneo orientale, costituiscono un serbatoio di stimoli e di eredità che occorre prendere in considerazione nell’analisi di questo territorio. La tradizione mitica su Cadmo e la sua stirpe sembra avere mediato il rapporto con Dioniso e culti dionisiaci appaiono attestati in diversi luoghi dell’Occidente punico, da Cartagine alla Sardegna, in connessione con le pratiche rituali nelle necropoli. Il dionisismo fenicio-punico troverebbe la sua migliore espressione nelle “iconografie riprodotte sulle stele portate alla luce nel santuario tophet” (213): in questo quadro Mozia si conferma un laboratorio di studio di eccezionale qualità, che conserva molte significative tracce degli scambi culturali con il mondo siceliota, in particolare selinuntino.

5 Chiude il lavoro la ricca bibliografia che sorregge le pagine di questo volume e l’indice dei nomi e delle località, che facilita la consultazione delle sue pagine. Ogni sezione è corredata in modo funzionale da 40 figure a colori, che confermano la buona cura editoriale.

6 Il volume può essere considerato una ricerca ad ampio raggio che mostra la capacità della documentazione siciliana di fornire stimoli alla ricerca in una prospettiva mediterranea: una ricerca attenta e meticolosa che Simona Modeo ha condotto con grande pazienza e con una apprezzabile sensibilità rivolta alla valorizzazione dei più piccoli documenti. L’andamento carsico con cui la documentazione dionisiaca si presenta nell’isola non impedisce perciò di chiarire la molteplice presenza dei rituali e dei culti dionisiaci e in generali la diffusione capillare del dio a tutti i livelli, da quelli sociopolitici (il teatro) fino alla sfera personale e quotidiana, nella sua valenza soterica. L’importanza di Dioniso in Sicilia era stata del resto sostenuta correttamente da Emanuele Ciaceri nel 1911: merito dell’A. è avere dato sostanza a quella giusta intuizione, forte oggi dell’enorme progresso compiuto dalla ricerca archeologica e di una rinnovata messa a punto dei dati letterari ed epigrafici.

AUTORI

NICOLA CUSUMANO Università di Palermo - nicola.cusumano25[at]unipa.it

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Dea in limine. Culto, immagine e sincretismi di Ecate nel mondo greco e microasiatico (“Tübinger Archäologische Forschungen”, 17), Rahden/Westf., VML, 2015, pp. 266, ISBN 978-3-89646-997-7, € 59,80

Paolo Daniele Scirpo

NOTIZIA

Romina Carboni, Dea in limine. Culto, immagine e sincretismi di Ecate nel mondo greco e microasiatico, (“Tübinger Archäologische Forschungen”, 17), Rahden/Westf., VML, 2015, pp. 266, ISBN 978-3-89646-997-7, € 59,80

1 Rielaborando la sua tesi di dottorato discussa a Tübingen nel 2014, Romina Carboni dà alle stampe per le edizioni Marie Leidorf, una monografia dedicata al culto di Ecate, l’oscura dea alla quale Esiodo riserva quasi un inno all’interno della sua Teogonia (vv. 404-452). L’introduzione al volume è affidata a Simonetta Angiolillo, docente di Archeologia classica presso l’Università degli studi di Cagliari, che traccia brevemente una storia degli studi sull’argomento1 e mette in evidenza l’apporto scientifico del lavoro in esame (pp. 13-14).

2 Nella sua premessa (pp. 15-18), l’A. espone la genesi della ricerca2, la metodologia applicata e conclude con i ringraziamenti di rito. La monografia è suddivisa in due parti non omogenee: la prima è dedicata all’esame della personalità della dea ed all’analisi diacronica del suo culto (pp. 19-58). La seconda parte è costituita invece, dal catalogo delle attestazioni cultuali nell’area orientale del bacino mediterraneo (dai Balcani all’Egitto), con la citazione delle fonti archeologiche, epigrafiche e letterarie (pp. 59-206).

3 Grazie all’enorme lavoro di raccolta dei dati, l’A. ha potuto mettere in evidenza alcune particolarità che altrimenti sarebbero rimaste nell’ombra, nelle sue conclusioni (pp.

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207-211): a dispetto della citazione esiodea e della documentazione archeologica che non risale oltre l’età arcaica, patria d’origine della dea dovrebbe essere la Caria, il cui influsso da subito sentito dai coloni greci delle poleis micrasiatiche portò all’adozione della divinità anatolica (Kt-) adorata dai locali, attraverso un lungo processo di ellenizzazione (Ekate) e/o di sincretismo (Artemide Ephesia). Il passaggio nella Grecia metropolitana del culto della dea, testimoniato proprio dalla citazione esiodea, trova la sua più antica attestazione in una statuetta fittile di divinità femminile in trono, con dedica incisa alla dea sul lato posteriore, rivenuta ad Atene e oggi esposta all’ Antiquarium di Berlino. Atene sarebbe, inoltre, il centro dove il culto venne rielaborato, attraverso l’introduzione di un nuovo tipo iconografico, il cosiddetto hekataion, dal quale trasse spunto Alcamene per la sua Ecate Epipyrgidia collocata nei Propilei dell’Acropoli tra il 430 e il 420 a.C.

4 Il culto della dea, il cui ampio arco cronologico va dalla fine del VI-inizi V secolo a.C. alla fine del IV secolo d.C., si diffuse in un’ampia area geografica, presentandosi però sotto diverse varianti: come figura autonoma, in associazione con altre divinità con le quali condivide aree sacre o legata a forme di sincretismo con divinità indigene. Il periodo di massimo sviluppo del culto risulta l’età ellenistico-romana quando il santuario di viene ristrutturato ed ampliato.

5 I legami intrattenuti con le altre divinità hanno influenzato la tipologia delle manifestazioni cultuali dedicate ad Ecate. Se la sua “marginalità” è dovuta al fatto di essere compresente in aree sacre di altre divinità (Apollo, Artemide, Demetra e Persefone), Ecate non va considerata comunque uno sdoppiamento di esse. Il sincretismo infatti, con Artemide non è un carattere intrinseco alla sua natura, ma è prodotto di un lento processo di identificazione, con l’adozione da parte della dea di iconografie ed epiteti di Artemide. Questo fenomeno meno evidente in Grecia e nella Ionia, porta a concludere che Ecate sia rimasta ben distinta nell’immaginario collettivo ellenico, che le riservò epiteti legati alle sue maggiori funzioni (Kourotrophos, Phophoros, Melaina). Le stesse associazioni con divinità maschili (Apollo, Ermes e Zeus) e femminili (Cibele e Demeteres) non nascondono il ruolo di rilievo giocato da Ecate nel mito, soprattutto in quello dei misteri eleusini.

6 Detto ciò, il solo rammarico per il lettore sembra quello di non esser stato incluso nell’indagine anche il bacino occidentale del Mediterraneo, eccezion fatta per il caso importantissimo (e perciò ineludibile) del santuario della Malophoros di Selinunte 3 che l’A. esamina a testimonianza della presenza della dea anche in Sicilia e Magna Grecia, da tempo nota sia a livello filologico che archeologico. Un esempio per tutti: la dea compare chiaramente nel corteo al seguito di Cibele nei rilievi rupestri del santuario metroaco (i c.d. Santoni) di Akrai in Sicilia. Al di là della datazione cronologica dei rilievi in cui appare, resta ancora da chiarire il ruolo secondario ma non superfluo che Ecate ebbe nel culto della Dea Madre4. Anche altre zone del mondo greco però, in primis l’isola di Creta, sembrano orfane della dea.

7 In una veste tipografica più che accettabile, con l’ausilio di due estratti in tedesco ed inglese ed una ricca ed estesa bibliografia (pp. 235-257), la monografia apre nuovi orizzonti sull’interpretazione di questo culto, ancora oscuro, per la maggior parte degli studiosi.

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NOTE

1. A. Laumonier, Les cultes indigènes en Carie, Paris 1958; T. Kraus, Hekate. Studien zu Wesen und Bild der Göttin in Kleinasien und Griechenland, Heidelberg 1960; S.I. Johnston, Hekate Soteira. A Study of Hekate’s Roles in the Chaldean Oracles and related Literature, Atlanta 1990; H. Sarian, s.v. Hekate in LIMC 6, 1 Turici, 1992, 985-1019; N. Werth, Hekate. Untersuchengen zur dreigestaltigen Göttin, Hamburg 2006; P. Baumester, Der Frier des Hekateions von Lagina. Neue Untersuchungen zu Monument und Kontext, 2007; A. Zografou, Chemins d’Hécate. Portes, routes, carrefours et autres figures de l’entre-deux, Liège 2010. 2. R. Carboni, «Ecate Epipyrgida, al custode dei Propilei. Questioni iconografiche e problematiche topografiche», in S. Angiolillo - M. Giuman (a.c.d.), Il vasaio e le sue storie: Giornata di studi sulla ceramica attica in onore di Mario Torelli per i suoi settanta anni, Cagliari 2007, 47-60; Ead., «Ecate e il mondo infero. Analisi di una divinità liminare», in I. Baglioni (a.c.d.), Sulle Rive dell’Acheronte. Costruzione e Percezione della Sfera del Post Mortem nel Mediterraneo Antico, 2, L’Antichità Classica e Cristiana, (Velletri, 12-16 giugno 2012), Roma 2014, 39-51. 3. Sull’etimologia quanto mai discussa del teonimo Malophoros, cfr. M. Perale, («Μαλοφόρος. Etimologia di un teonimo», in C. Antonetti – S. De Vido [a.c.d.], Temi selinuntini, Pisa 2009, 229-244) dove si protende per la tesi secondo cui Malophoros = Pomifera, a preferenza della tesi che interpreta il teonimo come Portatrice di armenti. 4. Sul santuario di Akrai, cfr. L. Bernabò Brea, Akrai, Catania 1956, 89-113; G. Sfameni Gasparro, I culti orientali in Sicilia, Leiden 1973; Ead., «Per la storia del culto di Cibele in Occidente: il santuario rupestre di Akrai», in E.N. Lane (ed.), , Attis and a related Cults, Leiden-New York-Köln 1996, 51-86; G. Pedrucci, Cibele fra la Frigia e la Sicilia, Roma 2009; Ead., L’isola delle madri. Una rilettura della documentazione archeologica di donne con bambini in Sicilia, Roma 2013; P.D. Scirpo, Το εκτός τοιχών ιερόν της Κυβέλης στις Άκρες (Σικελίας), in Δ. Μουρελάτου (επιµ.), «Πόλη και Ύπαιθρος στη Μεσόγειο». Πρακτικά της Α’ Επιστηµονικής Συνάντησης Νέων Ερευνητών του περιοδικού ΔΙΑΧΡΟΝΙΑ (Αθήναι, 29-31/5/2007), Αθήναι 2012, 63-78; Id., Η θρησκευτική πολιτική του Ιέρωνος του Β’ στις Άκρες (Σικελίας), in Α.-Σ. Τσοκανή (επιµ.), «Θρησκεία και Πολιτική». Πρακτικά της Β’ Επιστηµονικής Συνάντησης Νέων Ερευνητών του περιοδικού ΔΙΑΧΡΟΝΙΑ (Αθήνα, 22-24/4/2010), Αθήναι 2016, 101-118. P.D. Scirpo - S.A. Cugno, «I cd. «Santoni» di Akrai. Alcune note sul santuario rupestre di Cibele», in S.A. Cugno, Patrimonio culturale, paesaggi e personaggi della Sicilia sud-orientale. Scritti di archeologia e museologia iblea, Oxford 2017, 47-59.

AUTORI

PAOLO DANIELE SCIRPO National & Kapodistrian University of Athens – pascirpo[at]arch.uoa.gr

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Il rito inquieto. Storia dello yajña nell’India antica Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2018, pp. 370, ISBN 978-88-6032-459-7, € 24,00

Duccio Lelli

NOTIZIA

Marianna Ferrara, Il rito inquieto. Storia dello yajña nell’India antica, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2018, pp. 370, ISBN 978-88-6032-459-7, € 24,00

1 Il bel libro di Marianna Ferrara è il risultato maturo e completo di un’indagine in prospettiva storica sulla codifica della pratica rituale nell’India antica, avviata dall’Autrice durante un Dottorato di Ricerca presso l’Università Sapienza di Roma. Gli esiti di questa ricerca, già parzialmente divulgati in una monografia e in una serie di articoli apparsi fra il 2013 e il 2016, appaiono adesso rivalutati e sistemati in una cornice interpretativa coerente.

2 I motivi che hanno ispirato la ricerca sono insiti in un paradosso ben noto agli Indologi: sebbene lo yajña, il rito per eccellenza in ambito brahmanico, sia centrale nella sistemica del pensiero religioso indiano, in nessun testo ne viene mai data una definizione chiara e univoca, svincolata da metafore o tautologie. Fin dai testi più antichi è fiorita intorno allo yajña un’esegesi spasmodicamente minuziosa – al punto che, di molti rituali, noi conosciamo non solo contesto, modi e tempi, ma anche dettagli sulle figure professionali preposte, sull’ordine delle azioni e delle formule impiegate, sugli utensili, sulle materie oblative ecc. –, ma questa presenza ingombrante della pratica e la mole straordinaria dei particolari che l’accompagnano ne hanno sempre oscurato l’autentica natura storica. Si deve dunque accogliere con entusiasmo il coraggioso tentativo dell’Autrice che, a partire dai testi, ha cercato proprio questa natura così sfuggevole e trovatala, infine, nascosta fra le pieghe delle parole, ne ha tracciato la storia tormentata, portando alla luce una vicenda del tutto inedita.

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3 Uno dei meriti maggiori del libro risiede appunto nel privilegiare i testi come fonti prioritarie delle ipotesi ermeneutiche e nell’indagarli a più livelli, oltre il dato meramente descrittivo; l’Autrice non si limita a riflettere su “cosa” i testi dicono, ma li interroga anche sul “quando” e sul “perché” lo dicono, cercando di cogliere le complesse dinamiche degli atti comunicativi di cui essi sono i veicoli. Impresa non facile, dal momento che i testi presi in esame coprono un arco cronologico di quasi due millenni e sono diversissimi per lingua (vedico, sanscrito classico, pāli, ardhamaghadi) tipologia (inni, trattati teologici e dottrinali, poemi epici, codici normativi, epigrafi) e stile (poesia, prosimetro, prosa narrativa, descrittiva, prescrittiva). La sfida linguistica è complicata dalla notevole difficoltà di stabilire la cronologia relativa dei testi e la loro dimensione autoriale; due problemi che l’Autrice affronta in modo originale, da una parte discutendo criticamente i dati di una ricchissima bibliografia, dall’altra eleggendo la storia della codifica dello yajña a elemento di prova capace di contribuire al dibattito. Lo studio etimologico e semantico, valido strumento dell’analisi filologica, permette inoltre di ridefinire il significato autentico di alcuni concetti chiave connessi alla pratica rituale.

4 Privilegiare un serio approccio testuale è già di per sé una scelta indicativa; si dovrà inoltre apprezzare anche l’attenzione costante riservata alle questioni teoriche e metodologiche, mai accettate aprioristicamente ma vagliate e selezionate con cura. Grazie a tale prospettiva storico-critica metodologicamente fondata e all’impegno filologico, l’Autrice è in grado di elaborare una nuova interpretazione dello yajña, che consiste nel considerarlo non un istituto codificato sempre uguale a sé stesso, espressione di una classe sacerdotale organizzata e solidale (come talvolta in passato si è pur sostenuto), bensì una pratica instabile, scossa da incertezze, tensioni e antagonismi fra le parti in causa, continuamente ripensata e riqualificata anche su sollecitazione del mutato contesto storico: un rito, dunque, “inquieto”.

5 Il volume si articola in quattro capitoli, che “illustrano altrettanti snodi narratologici del discorso sulla nozione di yajña e mettono in primo piano gli interessi che percorrono le variazioni del discorso” (p. 17). Il primo capitolo (L’assenza di quiete intorno allo yajña) affronta il problema dell’instabilità della pratica nel Rigveda, il più antico testo vedico. La difficoltà di stabilire una cronologia interna sicura non impedisce di cogliere ovunque, in questa raccolta di inni, la precarietà della procedura rituale, ancora tecnicamente incerta e piuttosto astratta, immersa in una dimensione di conflittualità endemica. Cominciando a pronunciarsi sulla pratica e sui modi di ottenerne l’efficacia, le élites di bhrāhmaṇa tradiscono uno stato di necessità urgente, riflesso nella preoccupazione di stabilire l’identità fra pratica e praticante, chiarire i ruoli dei diversi officianti del rituale e guadagnarsi il favore di ricchi e influenti patrocinatori. A questo proposito, per dimostrare che anche l’aspetto sintattico- terminologico illustra il “farsi” della pratica e chiarisce il linguaggio agonistico con cui i praticanti hanno tentato di renderla modalità esclusiva per onorare gli dei, l’Autrice espone i risultati di una ricerca statistica sulla distribuzione delle occorrenze del tema nominale yajña- e della coniugazione della radice verbale yaj nel Rigveda. Uno studio sintattico-morfologico della radice e dei suoi derivati completa l’analisi linguistica. La maggior frequenza dei termini notevoli negli inni recenti della raccolta, l’articolazione sempre più variegata degli impieghi sintattici della radice e l’incremento di neoformazioni derivate e composti nominali e verbali svelano una strategia mirata all’istituzione del regolamento della pratica. In chiusura del capitolo, l’Autrice propone

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la lettura e il commento dell’inno quindicesimo dell’ottavo libro dell’Atharvaveda Paippalāda. Al plauso per aver incluso nella trattazione un testo così importante, che sebbene abbia finalmente guadagnato la meritata attenzione resta comunque abbastanza negletto oltre i confini della filologia vedica, si unisce la soddisfazione di veder confermato quanto la recensione Paippalāda dell’Atharvaveda sia un vero e proprio scrigno di tesori: in questo inno originalissimo, un bhrāhmaṇa che ha subito un’offesa chiama a raccolta bhrāhmaṇa di altri lignaggi, invitandoli a schierarsi uniti contro chi lo ha danneggiato, presumibilmente uno kṣatriya laico. L’offesa, un danno contingente, diventa il pretesto per suggerire nuove sfumature relazionali fra officiante e patrocinatore: la cerchia di bhrāhmaṇa ci appare ancora insidiata da conflitti interni, ma allo stesso tempo confortata dalla possibilità di provvisorie coalizioni, strette in nome di una solidarietà fondata sull’orgogliosa consapevolezza della propria identità.

6 Il secondo capitolo (La quiete apparente: come la pratica acquieta gli antagonismi) espone i tratti salienti di una fase avanzata della codifica dello yajña, quale emerge dalle raccolte dello Yajurveda e da alcune sezioni di Bhrāhmaṇa e Śrautasūtra: la codifica della pratica ha ricevuto una decisa accelerazione dal consolidamento del vincolo (anche economico) fra officianti e committenti e dal ricco corredo di istruzioni e direttive in merito alle azioni rituali. Il linguaggio normativo ha stabilizzato e legittimato le prescrizioni in uno stato di arbitrarietà totale, con l’effetto di creare una quiete apparente intorno alla pratica. Apparente perché la formazione di entità politiche complesse ad opera di gruppi familiari ha accentuato le differenze procedurali fra lignaggi, inasprendo conflitti latenti o già manifesti, e all’interno dell’ambiente brahmanico emergono discrepanze nella forma di dilemmi sulle modalità rituali, sulla replicabilità dei riti e sul loro significato teologico. D’altro canto, mentre cresce l’apertura al confronto dialettico, si fa strada l’idea diffusa di dover preservare la pratica dall’ascolto non autorizzato. Di questa preoccupazione sono espressione eloquente gli Āraṇyaka, testi che circoscrivono la divulgazione del sapere rituale e costruiscono “una fortezza semiotica intorno alla trasmissione dei modi di compiere lo yajña” (p. 201), promuovendo un sapere a tratti esoterico, in cui l’attività rituale diventa quasi accessoria e decisamente secondaria rispetto alla conoscenza del significato nascosto e simbolico delle parole.

7 Con il terzo capitolo (La quiete tradita) la codifica dello yajña giunge a una svolta, che coincide con un periodo di cesura nella storia del pensiero indiano. I grandi cambiamenti socioeconomici avvenuti nelle regioni settentrionali dell’India a partire dal VI sec. a.C. sollecitano una radicale rivisitazione dell’istituto dello yajña: nuovi modi di pensare la pratica vengono elaborati sia da bhrāhmaṇa tradizionalisti sia da bhrāhmaṇa sensibili a nuove forme di spiritualità. Testi come gli Śrautasūtra, opere aforistiche dedicate esclusivamente alle forme di yajña delle occasioni pubbliche solenni, sono la voce di chi, aggrappandosi all’autorità della vecchia codifica, propone una riqualificazione nel solco della tradizione, attraverso l’attenzione all’atto rituale, la descrizione abbreviata di procedure semplificate e l’applicazione di facili tecniche mnemoniche. Le Upaniṣad, invece, pur ponendosi, almeno parzialmente, in continuità con la vecchia codifica, testimoniano il meraviglioso tentativo di riqualificare la pratica rendendola permeabile a nuove istanze. In polemica contro la falsa sapienza degli antichi, i bhrāhmaṇa che sono venuti a contatto con il fenomeno ascetico promuovono il vegetarianismo, invitano ad astenersi dall’uccisione di esseri viventi e riqualificano lo yajña come esercizio interiore, proponendo modalità esecutive indipendenti dall’uso di strumenti rituali ed estranee a complesse manipolazioni verbali e materiali. Il concetto

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di azione rituale (karman) viene risemantizzato e acquista il significato di azione retributiva; lo yajña, definitivamente scisso dalla dimensione tecnica, si configura come pratica che inizia e finisce nel sé (ātman) e si realizza come conoscenza superiore (jñāna ). Questa faticosa conquista personale si ottiene comunque ancora attraverso l’incontro-scontro in una dimensione pubblica che le Upaniṣad salvaguardano attentamente, nei dibattiti teologici e filosofici che emergono dai brahmodya e sono la spia di un agonismo sempre operante a livello della codifica della pratica.

8 Il quarto capitolo (Di nuovo senza quiete) si occupa di un periodo lungo e complesso, che si estende dal IV sec. a.C. fino a tutto il primo millennio dell’èra volgare. Le maggiori criticità che si riscontrano nella trasmissione della codifica dello yajña sono innescate dalle polemiche di buddhisti e jaina. Senza disprezzo, ma con toni di fermo e compassionevole ammonimento, le prime comunità buddhiste descrivono lo yajña come un sistema di relazioni economiche e politiche grazie alle quali avidi e ciechi bhrāhmaṇa si sono conquistati posizioni di prestigio, e come mezzo di accumulazione e violazione del dharma per eccellenza: i bhrāhmaṇa ottengono senza dare, uccidono esseri viventi e diffondono falsità, rivelando tutto il proprio decadimento morale nell’attaccamento ai beni materiali e nella debolezza di fronte alle passioni umane. Perentorie, pur nella diversità di premesse e toni, anche le critiche dei jaina, che non sfidano dialetticamente i bhrāhmaṇa, ma si limitano a rilevarne limiti ed errori: uccisori di animali, incapaci di controllare le facoltà sensoriali, privi di virtù, orgogliosi e sciocchi, non si accorgono che lo yajña è una delle cause di accumulo di karman, e come tale impedisce di intraprendere la via della liberazione.

9 In questo contesto problematico, emerge luminosa la figura del grande imperatore Aśoka. La sua vicenda, riletta con uno spirito critico che sappia rinunciare definitivamente al buonismo della tradizione agiografica, colpisce per il geniale pragmatismo con il quale il sovrano seppe ricoprire il ruolo di super partes fra i membri delle comunità sparse nel regno e di coagulante politico fra i vari gruppi sociali, la cui conflittualità fu contenuta grazie a principi di diffusa tolleranza. I suoi celebri editti su roccia, fatti sistemare strategicamente nei territori del regno, sono importanti anche per la storia dello yajña: diffondendo il precetto di non uccidere, essi hanno il significato di una presa di posizione decisa nei confronti dei gruppi brahmanici, non esplicitamente attaccati, ma di fatto penalizzati nel ruolo di officianti in cerimonie pubbliche.

10 Ormai vacillante sotto i colpi di critiche così autorevoli, la pratica dello yajña fu nuovamente riqualificata, con strategie differenti, entro le cerchie brahmaniche. Gli autori dei Dharmasūtra e Dharmaśāstra tentano di recuperare la codifica tradizionale, valorizzandone in pieno la dimensione tecnica e iscrivendola nel registro delle norme etico-comportamentali di una comunità linguisticamente compatta, religiosamente connotata e geograficamente circoscritta. Un nome su tutti, Manu: nella sua opera egli, “conservatore fra i conservatori” (p. 319), impone lo yajña quale norma comportamentale inseparabile dai canoni tradizionali dell’audizione autorizzata, mantenendo uno strategico silenzio sulla conflittualità insita nella pratica. La Bhagavadgīta è invece espressione di un disegno che orienta il ripristino della vecchia codifica verso nuovi orizzonti culturali e filosofici. La supremazia dello yajña viene stabilita ricorrendo a un’etica analoga a quella dei movimenti ascetici (divieto di uccidere, vegetarianesimo) e sviluppando gli insegnamenti upaniṣadici sull’azione retributiva e disinteressata.

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11 A testimonianza di un’instabilità davvero connaturata alla pratica, il volume si chiude con un breve cenno alla riflessione del movimento mimāṃsāka, che durante tutto il primo millennio dell’èra volgare, ripartendo dal punto precedente alla rottura dell’assetto interno, si propone il ripristino delle coordinate del dharma brahmanico, caratterizzato da azioni e prescrizioni rituali. Tracciando la parabola dello yajña, l’Autrice ne ha così recuperato la natura storica: concetto multiforme e camaleontico, valvola di sfogo delle ansie di epoche diverse, arena di scontro fra sacerdoti e moneta di scambio fra officianti e committenti, oggetto di dibattiti e critiche più o meno feroci, fucina d’idee e catalizzatore di nuove esperienze spirituali, lo yajña è davvero un rito la cui congenita inquietudine si conferma paradigma interpretativo valido e originale. Senza dubbio, un libro così pregevole meriterebbe una ristampa che eliminasse le rare imprecisioni di traduzione e i numerosi refusi.

AUTORI

DUCCIO LELLI Ducciolelli[at]hotmail.it

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Dioniso in Sicilia. Mythos, Symposion, Hades, Theatron, Mysteria (“Mesogheia. Studi di storia e archeologia della Sicilia Antica”), Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2018, pp. 269, ISBN 978-88-8243-452-6, € 22,00

Nicola Cusumano

NOTIZIA

Simona Modeo, Dioniso in Sicilia. Mythos, Symposion, Hades, Theatron, Mysteria, (“Mesogheia. Studi di storia e archeologia della Sicilia Antica”), Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2018, pp. 269, ISBN 978-88-8243-452-6, € 22,00

1 Prendendo opportunamente avvio dall’innovativo e per molti versi ancora “fresco” volume di Emanuele Ciaceri (Culti e miti nella storia dell’antica Sicilia, 1911), Simona Modeo sottolinea che il gap documentario lamentato un tempo da Ciaceri a proposito del culto di Dioniso può essere considerato oggi almeno in parte superato grazie all’intensa attività di ricerca dell’ultimo secolo, che apre nuovi orizzonti interpretativi, soprattutto per quanto riguarda l’area anellenica, tanto indigena che fenicio-punica. Partendo da questo assunto S. Modeo esplora le motivazioni di questo culto identificandole in primo luogo nel profilo soterico di Dioniso, in grado di giustificare un ruolo di connettore anche interculturale. L’indagine è distribuita in cinque sezioni che prendono in esame aspetti diversi della divinità e del suo culto. La prima sezione (Mythos. La rappresentazione del mondo dionisiaco, 17-55), a sua volta articolata in tre capitoli, prende in esame la natura polimorfica della divinità, così come è testimoniata ad esempio nell’iconografia vascolare attica, importata in Sicilia dal VI secolo: le formule iconiche sono legate alla c.d. “faccialità” del dio, secondo la formula proposta da J.-P. Vernant. Tanto la committenza greca quanto quelle indigena nell’isola prediligono in questo periodo l’immagine tradizionale della divinità, “paterna e

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regale”, con alcune eccezioni come il Dioniso fanciullo su un cratere proveniente da Sabucina (22). Sembra assente in ambito siceliota la dimensione poliade del dio. Risultano invece presenti nella ceramica attica importata in Sicilia le figure del thiasos: le danze menadiche decorano le ceramiche a figure rosse dal V secolo; in particolare, la presenza di phialai piene di uova testimoniano il rapporto tra dionisismo e orfismo, attestato sia in Sicilia che in Magna Grecia (30). Ugualmente ricco di attestazioni è il tema figurativo delle piante e degli animali legati al dio.

2 La seconda sezione (Symposion. Dioniso, il vino e il komos, 57-79) si lega all’importante sfera economica della produzione di vino e del suo consumo in Sicilia, con i connessi aspetti rituali e sociali. In una rapida sintesi sulla questione, l’Autrice mette a frutto con perizia gli ampi risultati che sono stati ottenuti dalle ricerche recenti estese a tutto il territorio siciliano, pur concludendo con la dovuta prudenza che non si è ancora giunti ad una situazione documentaria chiaramente traducibile in discorso storico. Gli aspetti simposiali sono tuttavia ben documenti dall’iconografia vascolare: essi gettano luce, grazie soprattutto ai corredi tombali, tanto sugli ambienti sicelioti che su quelli “indigeni”. Resta da valutare attraverso quali codici di senso la pratica del simposio, così centrale nella madrepatria, si sia diffusa nelle colonie e poi sia stata ‘ritradotta’ anche in ambienti anellenici. La terza sezione (Hades. Dioniso e l’al di là, 81-105) affronta la diffusione dell’aspetto funerario di Dioniso nell’isola, a partire dalla relazione vino/ morte attestata a più livelli e sorretta da valori escatologici. I dati provenienti dalle necropoli ad incinerazione secondaria in cratere e dall’iconografia vascolare evidenziano una connessione tra Hades e Dioniso che, diversamente da quel che si riscontra nell’ambiente greco peninsulare, qui in Sicilia e in Magna Grecia mostra un valore positivo dando luogo ad una interscambiabilità tra le due divinità. Particolarmente interessante è la prassi dell’incinerazione in cratere che S. Modeo inquadra nel mito del trattamento delle ossa di Achille e nell’omologia vino/fuoco, acutamente studiata da F. Lissarrague: la pratica rituale dell’incinerazione nel cratere risulta così collegata ad un processo di trasformazione del corpo omologo alla fermentazione del vino, e in certa misura ad un processo di immersione nel vino che blocca il miasma prodotto dalla morte. Il collegamento Dioniso/Hades, sia su ceramica attica che siceliota, emerge anche sul piano iconografico tra la fine del VI e il V secolo. Altro aspetto di questo legame è suggerito dalla ricca coroplastica liparese a tema “teatrale” che, come ha ben visto nei suoi studi Bernabò Brea, risulta “strettamente connessa al mondo dell’oltretomba” (97). Si aggiunga che la presenza di maschere nelle tombe di Lipari fa pensare ad una possibile offerta a Dioniso in vista dello status post mortem.

3 Appartenga o no al mito il viaggio di Arione in Italia e in Sicilia, è ormai opinione accolta che forme di spettacolo si siano sviluppate in Italia meridionale fin dall’età arcaica, una tradizione che si collega alle rappresentazioni teatrali siciliane nel V secolo. Oltre alle fonti letterarie, le testimonianze archeologiche forniscono una gran massa di dati a conferma di questo precoce interesse per le performances drammatiche, e ne consolidano il rapporto con il rituale dionisiaco. Questo tema è al centro della quarta parte (Theatron. Dionysus ex machina, 107-131), nella quale l’Autrice mostra l’evoluzione dal VI al I secolo a.C. dei materiali pertinenti, rilevando la loro profonda connessione con il rituale dionisiaco e la capillare diffusione di quest’ultimo nell’area magnogreca e siceliota. Di particolare rilievo è il periodo tra IV e III secolo quando

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vengono edificati, sempre all’interno dei contesti urbani, teatri in pietra che hanno la caratteristica di essere polifunzionali con una destinazione sia religiosa che politica.

4 Al tema della diffusione del culto in ambiente siceliota e negli altri contesti isolani, S. Modeo dedica l’ultima ampia sezione del volume (Mysteria. La diffusione del culto dionisiaco in Sicilia tra l’età arcaica e l’età ellenistica, 133-228). Una scrupolosa rassegna delle evidenze archeologiche nelle colonie greche sottolinea la ricchezza di segni materiali riferibili con maggiore o minore sicurezza a presenze cultuali dionisiache. L’analisi è condotta in profondità e propone nuove chiavi di lettura, come nel caso di Monte San Mauro di Caltagirone, alla cui area appartengono tre arule fittili che riportano la scena di un personaggio maschile che toglie i piccoli ad una scrofa di cinghiale: attribuita per lo più alla sfera demetriaca, l’A. propone di cogliere un carattere dionisiaco nella vis ferina dell’uomo, che rinvia al profilo satiresco e alla religiosità dionisiaca. Dal sito di Grammichele proviene il materiale votivo rinvenuto in località Poggio dell’Aquila, che sembra pertinente ad un santuario demetriaco ma con rilevanti elementi dionisiaci. Ugualmente altre testimonianze di presenze riferibili al dio si segnalano in molte altre località, anche se non sempre è possibile inferire l’esistenza di aree cultuali organizzate, quanto piuttosto presenze collegate a santuari di altre divinità, in primis Demetra. Molto più ricca di testimonianze dionisiache si rivela il contesto siracusano, a cominciare dall’altare dedicato alla divinità in uno dei capi di Ortigia, probabilmente nella zona dell’istmo. In ogni caso è verosimile pensare che la complessiva disposizione cultuale dionisiaca in area siracusana doveva essere molto più ricca e articolata di quanto non si ricavi oggi dalle tracce materiali disponibili. Certa appare la celebrazione delle Anthesterie anche a Siracusa: lo attesta tra l’altro un frammento dello storico Timeo a proposito della celebrazione dei choes in età dionigiana (non a caso choes era il nome del secondo giorno della festa ad Atene). Per quanto concerne l’area di penetrazione siracusana, a Camarina sembra sicura la presenza del dio in associazione con Atena. In area megarese alcune indicazioni rendono verosimile il culto dionisiaco tanto a Megara che a Selinunte; e testimonianze archeologiche di pertinenza dionisiaca provengono da Monte Adranone, Rocca Nadore fino a Monte Iato e Maranfusa verso il territorio imerese, a testimonianza della capacità di penetrazione selinuntina. Testimonianze di culto dionisiaco sono presenti anche a Eraclea Minoa, per la quale S. Modeo sottolinea l’importanza degli scavi iniziati da Salinas, che avrebbero portato alla luce un edificio teatrale (187): il santuario sulla collina sovrastante, anche se attribuito a divinità femminili, potrebbe avere una connessione con il dio del teatro. Quello che, nell’ultima parte del suo volume, l’Autrice opportunamente valorizza è la ricchezza di tracce dionisiache nei centri indigeni sottoposti all’influenza delle colonie siceliote. Un caso interessante è quello del sito di Vassallaggi, “forse l’antica Motyon distrutta da Ducezio” (206): si tratta di un centro fortemente ellenizzato nel quale il culto dionisiaco sembra ipotizzabile sulla base dei ritrovamenti archeologici provenienti dal santuario delle divinità ctonie e dai corredi tombali. Anche il sito sicano di Monte Polizzello si rivela, nell’analisi dell’A., un’area privilegiata per valutare la presenza e lo scambio con il Mediterraneo orienta in età precoloniale; risaltano in particolare i rapporti con la cultura cretese, anche in termini cultuali: le numerose protomi taurine e di ariete, insieme ad altre classi di materiali farebbero ritenere che una delle divinità minori del sito possa identificarsi con lo Zagreus di Creta, in Grecia assimilato a Dioniso. Ultimo aspetto preso in considerazione è l’altra area anellenica dell’isola, sebbene non “indigena”: si tratta di quella fenicio- punica per la quale l’Autrice tiene conto opportunamente di quelle dinamiche di

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scambio e di interazioni culturali che, sviluppatesi tra XIII e XI sec. a.C. nel Mediterraneo orientale, costituiscono un serbatoio di stimoli e di eredità che occorre prendere in considerazione nell’analisi di questo territorio. La tradizione mitica su Cadmo e la sua stirpe sembra avere mediato il rapporto con Dioniso e culti dionisiaci appaiono attestati in diversi luoghi dell’Occidente punico, da Cartagine alla Sardegna, in connessione con le pratiche rituali nelle necropoli. Il dionisismo fenicio-punico troverebbe la sua migliore espressione nelle “iconografie riprodotte sulle stele portate alla luce nel santuario tophet” (213): in questo quadro Mozia si conferma un laboratorio di studio di eccezionale qualità, che conserva molte significative tracce degli scambi culturali con il mondo siceliota, in particolare selinuntino.

5 Chiude il lavoro la ricca bibliografia che sorregge le pagine di questo volume e l’indice dei nomi e delle località, che facilita la consultazione delle sue pagine. Ogni sezione è corredata in modo funzionale da 40 figure a colori, che confermano la buona cura editoriale.

6 Il volume può essere considerato una ricerca ad ampio raggio che mostra la capacità della documentazione siciliana di fornire stimoli alla ricerca in una prospettiva mediterranea: una ricerca attenta e meticolosa che Simona Modeo ha condotto con grande pazienza e con una apprezzabile sensibilità rivolta alla valorizzazione dei più piccoli documenti. L’andamento carsico con cui la documentazione dionisiaca si presenta nell’isola non impedisce perciò di chiarire la molteplice presenza dei rituali e dei culti dionisiaci e in generali la diffusione capillare del dio a tutti i livelli, da quelli sociopolitici (il teatro) fino alla sfera personale e quotidiana, nella sua valenza soterica. L’importanza di Dioniso in Sicilia era stata del resto sostenuta correttamente da Emanuele Ciaceri nel 1911: merito dell’A. è avere dato sostanza a quella giusta intuizione, forte oggi dell’enorme progresso compiuto dalla ricerca archeologica e di una rinnovata messa a punto dei dati letterari ed epigrafici.

AUTORI

NICOLA CUSUMANO Università di Palermo - nicola.cusumano25[at]unipa.it

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Entangled Worlds: Religious Confluences between East and West in the Roman Empire. The Cult of Isis, Mithras, and Jupiter Dolichenus (“Orientalische Religionen in der Antike”, 22), Tübingen, Mohr Siebeck, 2017, pp. X-564, pl. LXXXV, ISBN 978-3-16-154730-0, € 159,00

Ennio Sanzi

NOTIZIA

Svenja Nagel, Joachim Friedrich Quack, Christian Witschel (ed.), Entangled Worlds: Religious Confluences between East and West in the Roman Empire. The Cult of Isis, Mithras, and Jupiter Dolichenus, (“Orientalische Religionen in der Antike”, 22), Tübingen, Mohr Siebeck, 2017, pp. X-564, pl. LXXXV, ISBN 978-3-16-154730-0, € 159,00

1 Il volume, a cura di S. Nagel, J.Fr. Quack, Ch. Witschel, noti specialisti dell’antichità, trae origine da un incontro di studio a carattere internazionale che ha avuto luogo presso l’Internationales Wissenschaftsforum di Heidelberg nel mese di novembre del 2009 e al quale ha preso parte un rilevante e qualificato numero di studiosi (purtroppo nessun italiano, ma questo la dice lunga sul momento di difficoltà che l’Accademia patria sta soffrendo) afferenti alle diverse discipline dell’Altertumswissenchaft. I saggi, nel loro insieme, costituiscono un efficace esempio di approccio interdisciplinare intorno ai cosiddetti “culti orientali”, un autentico Leitmotiv della Storia delle Religioni.

2 I curatori hanno raccolto i contributi in cinque sezioni precedute da un’introduzione (pp. 1-22) da loro stessi redatta per spiegare quali siano state le ragioni che li hanno spinti a pubblicare un nuovo volume sui “Culti orientali”: da una parte, la volontà di considerare tre case studies, rispettivamente, i culti dedicati a Iuppiter Dolichenus, a Iside e a Mithra còlti non solo isolatamente, ma anche in chiave di reciprocità;

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dall’altra, il bisogno di contribuire alla riflessione scientifica su categorie quali “Culti Orientali” ed Erlesungsreligionen, anche alla luce degli efficaci tentativi di analisi e sintesi offerti dai più recenti lavori su tali tematiche. Insomma, i noti assunti di Franz Cumont possono essere ancora validi? E se lo fossero, in che modo potrebbero esserlo?

3 La prima sezione The Concept of ‘Oriental Cults’ in Recent Debates comprende i contributi di J. Alvar, The ‘Romanization’ of ‘Oriental Cults’ (pp. 23-46) e di J. Steinhauer, Osiris Mystes und Isis Orgia – Gab es ‚Mysterien‘ der ägyptischen Gottheiten? (pp. 47-78). Il primo dei due autori dichiara di riconoscere la validità degli assunti cumontiani, compreso il concetto di “religioni di salvezza”, sottolineando come questa prospettiva sia stata tanto più avvertita quanto più tali culti si siano tenuti lontano da qualsiasi forma di assimilazione nei confronti della religione di stato; a mano a mano che il rango degli adepti saliva la scala sociale, con l’inevitabile assimilazione al modus vivendi romano anche i culti da loro introdotti subivano la medesima sorte. Il secondo contributo, invece, attraverso l’analisi minuziosa di fonti epigrafiche, archeologiche e letterarie cerca di dimostrare come il culto di Iside e dei sunnaoi theoi non fosse avvertito, almeno dai romani, quale culto di mistero, e finisce per prendere così le distanze da uno dei paradigmi delle asserzioni del savant belga secondo le quali, in buona sostanza, ogni culto orientale è un culto di mistero.

4 La seconda sezione Origins and Diffusion of ‘Oriental Cults’ within the Imperium Romanum: The Case of Jupiter Dolichenus conta tre rilevanti contributi la cui lettura complessiva si rivela un’importante “messa a punto” in merito al ruolo riconosciuto al dio da Doliche tanto in patria che nel suo affermarsi in gran parte dell’impero romano, specialmente durante l’età dei Severi (192-235). E. Winter, The Cult of Jupiter Dolichenus and its Origins. The Sanctuary at Dülük Baba Tepesi near Doliche (pp. 79-95) traccia la storia millenaria del santuario patrio del Dolichenus e lascia intendere come il fatto di poter conoscere meglio il retroterra di questo dio metta gli storici delle religioni in condizioni più favorevoli per la comprensione del successo da lui ottenuto nel mondo imperiale romano. M. Blömer, The Cult of Jupiter Dolichenus in the East (pp. 96-112), anche alla luce della campagne di scavo ad opera della missione tedesca della Westfälische Wilhelms- Universität di Münster che dal 2001 cura indagini archeologiche sistematiche nella zona di Dülük Baba Tepesi (una zona corrispondente all’antica Doliche), sottolinea la distinzione che intercorre fra la venerazione patria di questo dio limitata alla città di Doliche e ai suoi dintorni – e dove rimase nell’alveo della tradizione –, e quella riservatagli in un culto oramai divenuto una vera e propria Reichsreligion, una realtà nuova nella quale il milieu militare avrebbe costituito un vero e proprio terreno di elezione ai fini dell’ “evoluzione” del dio e del culto ad esso riservato. M.L. Dészpa, Jupiter Optimus Maximus Dolichenus and the Re-Imagination of the Empire: Religious Dynamics, Social Integration, and Imperial Narratives (pp. 113-181) mette bene in luce come nella “ricostruzione” di questa divinità si debba tener conto sia dell’aspetto legato alla dimensione epicorica quanto a quelle funzioni di dio conservator alle quali rinvia naturalmente l’assimilazione con Iuppiter Optimus Maximus, il dio così strettamente legato ai destini di Roma fin dal 509 a.C. che non avrebbe mai più smesso di garantirne la prorogatio in aevum e il compito fatale di far coincidere i confini dell’Vrbs con quelli dell’Orbis. Il risultato finale, allora, sarebbe un dio nuovo, delocalizzato dal Campidoglio quo talis, funzionale a una nuova dimensione spaziale quale quella dell’impero da parte dei conquistati, militari e civili, che proprio nell’impero (e grazie all’impero) vivevano.

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5 La terza sezione Expanding from Egypt into Globality: The Case of Isis and Osiris si apre con il contributo di I.S. Moyer, The Hymns of Isidorus at Medinet Madi: Global Current in a Local Context (pp. 182-206) dove si mette bene in evidenza come la posizione dell’innografo nei confronti di Iside deve essere analizzata tenendo in conto più che le direttrici dimensione locale-dimensione globale, quelle relative alla dimensione sincretico- autoctona; da un punto di vista storico-religioso, infatti, Isidoro si rivela essere tanto radicato nella realtà specifica di Narmouthis (l’attuale Medinet Madi) quanto sensibile nei confronti di una Iside che ha oramai navigato lungo le sponde dell’intero Mediterraneo. S. Nagel, One for All and All for One? Isis as una quae es(t) omnia in the Egyptian Temples of the Greco-Roman Period (pp. 207-231), prendendo spunto dalla notissima iscrizione di Capua (parte della quale, seppur con un adattamento, è riportata nel titolo stesso del contributo), analizza una serie di testi egiziani rivolti a diverse divinità delle quali si sottolinea l’enoteismo in nuce e il sommo potere per arrivare a concludere che queste caratteristiche dell’antica tradizione avrebbero finito col convergere nei testi religiosi egiziani di età ellenistico-romana per dare ad Iside quel riconoscimento di divinità che, in quanto unica, è anche tutte le cose, come recita appunto l’epigrafe di Capua. La stessa influenza sarebbe confluita anche nei testi redatti in greco e in latino del medesimo periodo. M.A. Stadler, New Light on the Universality of Isis (Vienna D. 6297+6329+10101) (pp. 232-243), analizza un papiro in demotico non ancora pubblicato conservato nell’Österreichische Nationalbibliothek che riporta parte di un’estesa litania indirizzata ad una dea il cui nome, però, non è conservato. Il paragone di questo testo con quello del Papiro di Ossirinco XI 1380 permette all’autore non solo di ipotizzare che possa trattarsi di una litania isiaca ma lo mette in condizione di sostenere l’importanza dell’utilizzazione dei testi in demotico per una migliore conoscenza storico-religiosa di Iside nell’epoca ellenistico-romana. J.F. Quack, Resting in Pieces and Integrating the Oikoumene. On the Mental Expansion of the Religious Landscape by Means of the Body Parts of Osiris (pp. 244-273), facendo leva su testi in geroglifico, ieratico e demotico, mette bene in luce il significato unificatore che per la mentalità egiziana ha avuto il mito dello smembramento di Osiride, le cui parti finiscono per essere ricondotte ai vari nomoi del paese; laddove fonti non egiziane riconducono le disiecta membra del dio in luoghi che sono al di fuori dall’Egitto, c’è da notare come si tratti sempre di realtà geografico-politiche che con l’Egitto hanno intessuto strette relazioni. Ancora una volta si ribadisce l’importanza di non considerare esclusivamente le fonti in greco e in latino per una ricostruzione storico-religiosa dei culti egizi còlti non solo nella dimensione diacronica e locale ma anche in quella sincronica e “universale”.

6 La quarta sezione The Visual Conceptualization of ‘Oriental Gods’, si apre con il contributo di M.J. Versluys, Egypt as part of the Roman koine: Mnemohistory and the Iseum Campense in Rome (pp. 274-293), nel quale si opera la distinzione tra realia egiziani e relativa collocazione culturale a Roma; infatti, più che parlare semplicemente di una reale sensibilità religiosa o di un generico esotismo, per l’autore sarebbe meglio considerare il rapporto speciale che hanno avuto i Flavi con le divinità alessandrine e come il loro atteggiamento favorevole abbia corroborato la diffusione non solo del culto isiaco ma anche dei generici realia evocanti l’Egitto. Insomma, a Roma l’Egitto sarebbe stato un vero e proprio scenario culturale utilizzato e interpretato in contesti e periodi diversi da contestualizzare di volta in volta. D. Frackowiak, Mithräische Bilderwelten. Eine Untersuchung zu ausgewählten ikonographischen Elementen im römischen Mithraskult (pp. 294-328) esamina un gran numero di rilievi mitraici, tanto legati all’episodio assiale della tauroctonia quanto ad altri eventi e a personaggi secondari della vicenda mitica

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del dio tauroctono. L’autore mette in evidenza che, nonostante la difficoltà nell’individuare le tracce della rotta che avrebbe seguito il mitraismo per approdare prima a Roma e poi nel resto dell’impero, la forza di questo “culto orientale” sarebbe da riconoscersi in una costitutiva flessibilità capace di determinarne l’adattamento alle diverse categorie di devoti. R. Krumeich, Zwischen Orient und Okzident. Bilder des Jupiter Dolichenus und der Juno Regina aus dem Osten und Westen des Römischen Reiches (pp. 329-352), analizzando il canone iconografico di Iuppiter Dolichenus e della sua paredra sia dal punto di vista degli elementi costanti che da quello delle varianti, riconosce a questo Iuppiter di Commagene una significativa adattabilità mostrata di fronte alle diverse situazione cultuali.

7 La quinta e ultima sezione Changing Forms of Sacred Space, Sanctuaries and Rituals, si apre con il contributo di K. Kleibl, An Audience in Search of a Theatre – The Staging of the Divine in the Sanctuaries of Graeco-Egyptian Gods (pp. 353-371) che mette in relazione i santuari dedicati agli dèi egizi con la dimensione antropologica del teatro romano: se i culti ivi officiati, infatti, si caratterizzavano per una rituale teatralità, la distribuzione gerarchica dei fedeli poteva ricordare quella che regolava la presenza degli spettatori nei teatri. Gli stessi antichi culti greco-egiziani, ben inseriti in un clima generale nel quale gli aspetti “spirituali” guadagnavano terreno (I e II sec. d.C.), si sarebbero dimostrati del tutto capaci di riadattarsi alle nuove esigenze sociali senza perdere l’intrinseca vitalità religiosa. F. Saragoza, Exploring Walls: On Sacred Space in the Pompeian Iseum (pp. 372-383), passa in rassegna, da una parte, il complesso dell’iseo pompeiano dove la dimensione spettacolare del culto era ben evidenziata dalle rappresentazioni pittoriche ospitate in loco e, dall’altra, l’importanza del ruolo dell’acqua nelle pratiche religiose ivi celebrate, finendo così col reinterpretare il cosiddetto purgatorium con un hydreion. A. Hensen, Templa et spelaea Mithrae. Unity and Diversity in the Topography, Architecture and Design of Sanctuaries in the Cult of Mithras (pp. 384-412), dopo aver elencato le caratteristiche architettoniche che permettono di riconoscere un mitreo, procede con l’analisi degli elementi in comune tra i mitrei fino ad oggi conosciuti per arrivare a sostenere: l’importanza dello studio sistematico dei realia afferenti alla cosiddetta cultura materiale per una migliore conoscenza delle modalità rituali sia in senso specifico che generale, la necessità di utilizzare ogni tipo di fonti a disposizione per collocare cronologicamente il culto del dio tauroctono, la verifica dell’attendibilità della distruzione sistematica dei santuari mitriaci ad opera di zelanti cristiani, la necessità di un confronto sistematico tra i mitraismi locali e/o regionali. R. Gordon, From East to West: Staging Religious Experience in the Mithraic Temple (pp. 413- 442), dopo avere efficacemente presentato lo status quaestionis in merito alle interpretazioni del culto di Mithra (soprattutto in quanto culto misterico), si concentra sullo spazio simbolico rappresentato dal mitreo vero e proprio distinguendo il livello spaziale- temporale da quello rituale e dinamico, chiamati rispettivamente condensation e narrativity. Se la condensation ci verrebbe in aiuto per comprendere meglio affermazioni ed obiettivi mitraici in contrasto con quelli ufficiali della città e/o del culto civico, la narrativity permetterebbe di interpretare con maggiore efficacia le dinamiche proprie ed interne singoli ai gruppi di fedeli che frequentavano i singoli mitrei.

8 L’elenco degli autori (pp. 443-446), l’indice delle fonti (distinte in: 1. Corpora per culti specifici [pp. 447-451], 2. Iscrizioni latine e greche [pp. 451-454], 3. Papiri greci ed egiziani [454-455], 4. Altre fonti egiziane [pp. 456], 5. Autori classici [pp. 456-459], 6. Bibbia [p. 459], Fonti miscellanee [p. 459]), l’indice dei nomi (distinti in: 1. Governatori (p. 460], 2. Nomi persona [pp. 460-462], 3. Divinità [pp. 462-465], 4. Luoghi geografici

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[pp. 465-470], ottantacinque tavole in bianco e nero e sette a colori completano un volume che merita di essere considerato e meditato da ogni specialista dell’ Altertumswissenchaft proprio per il fatto che oltre a presentare dialetticamente la categoria dei “culti orientali” sia a livello teorico che circostanziata al culto di Iuppiter Dolichenus, Iside e i sunnaoi tehoi e Mithra, solleva questioni di metodologia investigativa senza mai tralasciare sia la storia degli studi che la bibliografia, in particolare quella recenziore. Quid melius? Una bibliografia generale invece che a chiusura di ogni contributo avrebbe evitato delle ripetizioni e nobilitato nel senso della completezza un volume comunque eccellente. E le categorie cumontiane alla base del dibattito? Se buona parte degli autori prendono le distanze da esse, ci sembra comunque che la distinzione in sezioni basate più su singoli “culti orientali” che sulle loro possibili convivenze e/o interferenze collochi il volume, mutatis mutandis, nell’ampio e variegato alveo della tradizione degli studi del secolo scorso. Intrecciamo voti affinché i validissimi organizzatori e gli specialisti coinvolti possano dar vita a un secondo incontro di studio, naturale prosecuzione di questo, incentrato sulla potenziale Vermischung fra i numerosi dei “orientali” venerati tanto in patria che nel mondo ellenistico-romano.

AUTORI

ENNIO SANZI enniosanzi[at]libero.it

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Les dieux d’Homère. Polythéisme et poésie en Grèce ancienne (Kernos Supplément 31), Liège, Presses Universitaires de Liège, 2017, pp. 262, ISBN 978-2-87562-130-6, € 25,00

Pierre Ellinger

RÉFÉRENCE

Gabriella Pironti, Corinne Bonnet (éd.), Les dieux d’Homère. Polythéisme et poésie en Grèce ancienne, (Kernos Supplément 31), Liège, Presses Universitaires de Liège, 2017, pp. 262, ISBN 978-2-87562-130-6, € 25,00

1 Ce nouveau supplément de la revue Kernos est issu d’une rencontre internationale tenue à Rome en 2015. Le livre avait déjà fait l’objet d’une publication en italien aux éditions Carocci en 2016. Le voici en version française, qui aura probablement une plus large diffusion. Les textes en français sont redonnés cette fois dans l’original, les textes italiens traduits à leur tour. Comme l’indiquent les éditrices, Gabriella Pironti et Corinne Bonnet, dans leur introduction commune, le projet est de reprendre à nouveaux frais l’étude des dieux d’Homère, et cela au regard des avancées des recherches anthropologiques sur le polythéisme grec, loin des préjugés moralistes ou d’une visée purement littéraire où ils ne seraient qu’un banal ornement du récit que l’on pourrait éventuellement supprimer. Les poèmes et le monde que le poète essaie de penser à travers eux ne sauraient se comprendre sans les dieux, sans le jeu complexe de leurs interrelations avec les hommes en même temps qu’entre eux, et sans essayer de démêler l’imbrication étroite des actions des uns et des autres dans la narration. Pour ce faire, les neuf contributions réunies ici, regroupées en trois parties, abordent successivement les questions de la représentation des dieux chez Homère, de la communication des dieux entre eux et avec les hommes, et enfin des interactions des dieux et des hommes dans la guerre, particulièrement dans l’Iliade.

2 Maurizio Bettini ouvre la première partie, « Raconter les puissances divines », en rappelant le privilège extraordinaire que le poète confère à son public de voir les dieux

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« en direct », comme ils sont censés « être vraiment », sous leur forme anthropomorphique. Les héros, au contraire, n’ont pas ordinairement un tel privilège. D’où le choix original, en un temps où les épiphanies sont devenues un sujet de recherche à la mode, de souligner plutôt les paradoxes de « l’apparaître » divin, sous forme le plus souvent d’invisibilité, « air », brouillard, « nuage », nuit, obscurité. Cela ne veut pas dire, comme le remarque M. Bettini de manière plaisante, que de petits nuages se promènent parmi les combattants dans la plaine de Troie, mais que le champ de la vision humaine est affecté d’infirmité, de points aveugles, que les dieux ne consentent qu’exceptionnellement à réduire pour quelques protégés.

3 Après ce premier chapitre très neuf, le propos d’Adeline Grand-Clément, dans la suite de ses travaux sur les couleurs des Grecs, paraîtra plus classique. Elle rappelle que les dieux peuvent se distinguer les uns des autres aussi par leurs couleurs, mais elle attire surtout l’attention sur le côté polysensoriel de la perception des dieux par les humains, pas seulement leur éclat lumineux, mais tout à la fois le toucher, l’odeur, le son et même l’effet de souffle.

4 Finalement Gabriella Pironti revient au privilège homérique, et même à son summum dans l’Iliade, lorsqu’Homère nous fait pénétrer jusque sous la couverture de nuage doré censée cacher aux autres dieux eux-mêmes les amours du souverain des dieux et de sa rusée épouse sur le mont Ida. Commentant l’épisode de la Dios apatè du chant XIV, où Héra parvient à endormir et tromper momentanément la vigilance de Zeus pour relancer la guerre, elle montre comment, à l’intérieur même du système relationnel du panthéon, la déesse réussit – du moins semble-t-il – à manipuler les pouvoirs fonctionnels de sa collègue et adversaire Aphrodite pour parvenir à ses fins.

5 Sur la communication entre les hommes et les dieux, la deuxième partie, « Entre l’Olympe et la terre », réunit à nouveau trois études. Corinne Bonnet compare de manière détaillée les assemblées humaines et divines chez Homère dans leurs ressemblances et différences. Ce chapitre, qui commence en évoquant la parodie d’assemblée divine chez Lucien (où Homère est originaire de Babylone !), se termine sur une autre comparaison très intéressante, qu’on aurait aimé voir plus développée, entre les assemblées divines homériques et celles proche-orientales en Mésopotamie, en Syrie à Ougarit, et même autour de Yaveh dans l’Ancien Testament.

6 Carmine Pisano traite, pour sa part, des envoyés occasionnels et messagers fonctionnels des dieux auprès des hommes. Il compare principalement le mode d’action d’ et celui d’Hermès, lequel est beaucoup plus riche, non seulement dans son extension, pouvant se porter jusqu’aux extrémités du monde, mais surtout dans son autonomie et sa puissance de persuasion. Episodiquement, Iris peut se montrer aussi convaincante qu’Hermès, sans se contenter de répéter comme à son habitude mot pour mot la parole de Zeus : la « plasticité » du panthéon, concept un peu vague souvent employé dans ce livre, se réduit dans ce cas à une assez mince bande de recouvrement.

7 Les dieux d’Homère sont aussi des dieux du culte. Vinciane Pirenne-Delforge reprend donc l’analyse des scènes cultuelles de l’Iliade, pour étudier la représentation qu’elles donnent de la communication rituelle des hommes en direction des dieux : la prière comme un pont jeté vers ceux-ci, et les scènes de sacrifice. Ces scènes homériques restent un témoignage essentiel pour appréhender le noyau central de la pratique rituelle grecque, pour autant qu’on ne néglige pas les impératifs de la narration et le contexte pour les comprendre, en particulier les variations par rapport au schéma liturgique de base énoncé dans les poèmes. Pour finir, V. Pirenne-Delforge commente

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l’offrande des Troyennes à Athéna dans son temple sur l’acropole de Troie. L’offrande du péplos posé sur les genoux de la statue de la déesse, la prière qui l’accompagne, correspondent, dit-elle, à la pratique de « n’importe quelle cité grecque historique ». Mais la réponse de la déesse à la requête, son refus (que les suppliantes n’entendent pas) répondraient à la seule logique narrative du poème qui veut la destruction de Troie. L’expérience des Troyennes a-t-elle été si unique, et non pas celle aussi de nombreuses cités grecques dans l’histoire, confrontées à la défaite et à l’éventualité de leur destruction ? Dans la tension qui traverse la représentation du divin en contexte polythéiste entre perspective « olympienne » et particularismes des panthéons des cités, la vision panhellénique ne serait-elle pas plus réaliste que celle bornée des micro- panthéons locaux ? Cléomène, le roi de Sparte – pour reprendre le dernier exemple invoqué dans ce chapitre –, qui a aussi son Athéna poliade, monte, en tant que descendant d’, à l’Acropole d’Athènes pour tester le soutien que pourrait lui apporter la déesse, et se voit répondre qu’il n’est pas du pays. Mais, un siècle plus tard, dans la nouvelle guerre panhellénique, au soir de la victoire de Lysandre à Aigos- Potamos, où se trouvait donc Athéna ? A attendre déjà le retour de Thrasybule et la chute des Trente Tyrans ?

8 On est donc introduit aux questions de la dernière partie, « De la guerre au salut », qui portent, pour l’essentiel, comme on pouvait s’y attendre, sur les dieux d’Homère et la guerre. Pascal Payen souligne la complexité de la pensée de la guerre dans l’épopée, où l’éthique de la gloire fait simultanément l’objet d’une profonde et constante remise en cause. La figure d’Achille est ici centrale, qui, dans l’absolu de son renoncement au combat comme de ses excès guerriers, courbe autour d’elle, tout au long du poème, les lignes de l’action divine, dont on aurait pu supposer la maîtrise sans failles du conflit. La guerre était-elle si naturelle pour les Grecs ? C’est le débat lancé naguère par Arnaldo Momigliano que rouvre aussi David Bouvier, qui constate que si les monothéismes ont conduit aux guerres de religion, le polythéisme grec a pour sa part divinisé la guerre, ainsi que d’autres entités comme la vengeance, la querelle, les tueries (assurément, pour les Modernes, il serait moins « inquiétant » de diviniser seulement l’ordre ou la justice, Dikè ou Thémis). Mais si le polythéisme peut faire d’un nom commun une divinité, le moyen de comprendre un objet en devient-il aussi la cause ? Revenant de ces considérations un peu abstraites, D. Bouvier analyse le chant III de l’Iliade, la tentative par le duel de Pâris et Ménélas pour arrêter la guerre. Le véritable vainqueur du duel est ici Aphrodite qui, en sauvant le Troyen vaincu et en forçant Hélène à s’unir à nouveau avec lui, rejoue et réitère sa victoire du jugement de Pâris, cause de la guerre qu’elle relance ainsi. La déesse de la philotès – le concept souligne à la fois la fragilité des relations humaines et les risques de la séduction – est pour les manipulations du roi des dieux, un agent fauteur de guerre beaucoup plus efficace qu’Athéna, ou l’irascible Héra et son digne fils Arès, le dieu de la folie meurtrière.

9 L’ouvrage s’achève par un dernier chapitre où Miguel Herrero de Jáuregui s’est proposé d’approfondir la question, à son avis trop négligée, de la puissance salvatrice des divinités homériques. Il procède, pour ce faire, à partir des deux poèmes, à un commentaire très précis de la sentence prononcée par Athéna-Mentor à l’intention de Télémaque dans l’Odyssée : « Il est facile à un dieu, quand il le veut, de sauver un homme, et même de loin ». Le pouvoir salvateur des dieux d’Homère s’exerce dans le respect de la distinction mortalité/immortalité. Seuls les dieux, à la différence des hommes, peuvent « sauver », mais ils ne peuvent abolir la mort. Ils permettent à

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l’occasion, à leurs protégés, d’échapper à un danger ponctuel, en reconnaissance des services cultuels rendus, ou en fonction de la politique de l’Olympe, mais cela n’est jamais automatique, et trop de protection nuirait à la gloire des héros. Du point de vue des humains tout cela apparaît comme hasardeux – mais leur laisse sans doute à eux aussi leur marge d’action. Homère apparaît ainsi, encore une fois, comme un penseur plus réaliste, comparé, sinon à d’hypothétiques conceptions opposées du salut contemporaines, en tout cas à l’inflation ultérieure des titres sotériologiques des dieux.

10 Au total, même s’il n’est peut-être pas aussi inaugural que l’affirme l’introduction, on a ici un ensemble de travaux tout à fait intéressants, particulièrement quand ils se portent à la limite de nos questionnements sur le polythéisme antique, et nous laissent entendre ce qui reste à explorer pour mieux comprendre le rôle qu’a pu jouer « Homère » pour les Grecs : leur offrir, comme le dit Pierre Judet de la Combe, dans son beau livre (Homère, Paris 2017, 235), paru la même année, la possibilité « d’expérimenter ce qu’ils ne connaîtront jamais, une expérience du tout de l’histoire humaine ».

AUTEURS

PIERRE ELLINGER Université Paris Diderot-USPC – pierre.ellinger[at]univ-paris-diderot.fr

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Fuori da Atene. Miti e tradizioni su Oreste in Grecia antica. Prefazione di Manuela Giordano Canterano: Aracne editrice, 2017. Pp. 389; ISBN 978-88-255-0071-4. €20

Stefano Acerbo

NOTIZIA

Luca Pucci, Fuori da Atene. Miti e tradizioni su Oreste in Grecia antica. Prefazione di Manuela Giordano, Canterano: Aracne editrice, 2017. Pp. 389; ISBN 978-88-255-0071-4. €20

1 Il volume di Pucci offre una raccolta ed un’analisi delle notizie tramandate dalle fonti antiche relative alle tradizioni mitiche su Oreste che si situano al di fuori dell’Attica. La scelta dell’argomento non si spiega a partire da considerazioni di natura meramente geografica, ma implica una presa di posizione originale rispetto ai precedenti studi dedicati all’eroe. Essi hanno attribuito una posizione di rilievo alla versione delfico- ateniese del mito, che troverebbe la sua più pura espressione nell’Orestea di Eschilo, finendo per trascurare le altre tradizioni. L’autore ha, invece, il merito di porre in questione il carattere secondario delle notizie che situano la vicenda di Oreste all’interno di un piano geografico e ideologico diverso da quello eschileo. In tal modo, giunge a ricostruire percorsi diacronici che rivelano significati e rappresentazioni diverse da quelle note dalla scena drammatica ateniese, ma, non per questo, deteriori.

2 Per giungere a simili risultati, si serve di una analisi storico-filologica delle fonti antiche estremamente rigorosa e, al contempo, degli strumenti offerti dall’antropologia. Alla esplicitazione di tali strumenti è dedicato il primo capitolo del volume, che si avvale di una bibliografia aggiornata. Il mito è definito a partire da un approccio socio-costruttivista. L’attenzione prestata al contesto sociale e culturale cui riferiscono i racconti mitici permette di offrire una chiara disamina della spinosa questione del rapporto tra essi e il rito. La seconda parte del capitolo si sofferma sui

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temi che caratterizzano il complesso mitico relativo a Oreste, vale a dire vendetta, contaminazione e purificazione.

3 Proprio il tema della vendetta offre il filo conduttore all’interno di un volume organizzato secondo un principio geografico. Sono analizzate le tradizioni relative alle vicende di Oreste in Argolide, in Laconia, Arcadia e, infine, nelle altre regioni. La ricerca non ha l’illusione di ritrovare un nucleo epicorico originario da cui si sarebbero generate le altre tradizioni: la pluralità spaziale è, piuttosto, un elemento che caratterizza l’eroe perché, come osservato nelle conclusioni, questi non ha una chiara identità regionale e, allo stesso tempo, non è una figura panellenica come il padre. La pluralità di soluzioni mostrate dalle diverse fonti è, piuttosto, interpretata a partire dalla categoria della polivalenza delle immagini, che riconosce come una stessa immagine mitica possa veicolare valori differenti in diversi contesti.

4 Le notizie collocate in Argolide risalgono già a Omero, cui è dedicata la prima sezione del secondo capitolo. L’autore rileva la traccia di diverse tradizioni, che si spiega in ragione della pluralità spaziale e temporale dei contesti di esecuzione dei poemi. Il poeta avrebbe privilegiato una tradizione che, dirigendo l’azione di Oreste solo contro Egisto, permetteva di tacere l’uccisione di Clitemnestra, privando, così, di problematicità il tema della vendetta. A un ambito argolico sono ricondotte anche le due versioni ricordate da Euripide nell’Elettra e nell’Oreste. L’analisi in questo caso si sposta su aspetti inerenti al diritto e ai problemi morali e filosofici posti dal dibattito sulla vendetta.

5 Il terzo capitolo è dedicato alla Laconia, in cui sono attestati molti racconti relativi alle vicende di Oreste. L’autore organizza l’analisi secondo un’ulteriore suddivisione geografica, riconducendo le notizie ai diversi centri della regione. La scelta è dettata dalla volontà di contrastare la tendenza a trascurare le differenze tra la localizzazione ad Amiclea, presente in Pindaro, e quella spartana, ricordata da altri autori. Nel primo caso, le tradizioni su Oreste sono interpretate a partire dal contesto pragmatico degli epinici e dai rapporti che le tradizioni mitiche instaurano tra questo centro e Tebe. A un ambito spartano sono, invece, ricondotte le notizie sulla funzione di ecista di Oreste, le quali sembrano appartenere a una tradizione alternativa a quelle del suo esilio o del suo ritorno in patria. La fondazione di Tenedo testimonia i rapporti tra Laconia e Eolide d’Asia. Nell’interpretazione di Pucci, tale viaggio mantiene, comunque, una funzione espiatrice ed è accostato alla pratica, che si ritrova in vari contesti coloniali, di sacrificare ad Apollo la decima. Il capitolo si conclude con uno studio del racconto erodoteo sulla traslazione a Sparta delle ossa dell’eroe.

6 Il quarto capitolo si concentra sulla presenza dell’eroe in Arcadia. Tra l’opzione di un Oreste originariamente arcadico, e quella di un’appropriazione epicorica della saga degli Atridi, Pucci sceglie di tentare una nuova via di ricerca, evidenziando come questa regione fosse nell’immaginario greco una terra privilegiata per la supplica e la purificazione. Tali tradizioni risalirebbero, comunque, a un’epoca più antica rispetto alla tragedia attica, come mostrerebbe il racconto dell’autofagia del dito nella piana di Megalopoli. In esso è riconosciuto un nucleo databile al VII e al VI secolo, che sarebbe stato aggiornato e rivisto nel V, per renderlo compatibile con la tradizione delfico- ateniese. A rappresentazioni precedenti a quelle di Eschilo rinvierebbe anche la notizia di Ferecide, secondo cui l’eroe sarebbe giunto presso un santuario di Artemide in Arcadia e avrebbe dato il suo nome alla città di Orasterion. L’autore mostra una notevole attenzione filologica alla difficile ricostruzione del discorso attribuibile a

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Ferecide a partire dalla testimonianza degli scoli. Sempre in Arcadia sarebbe avvenuta la morte, come già implicito nella notizia erodotea della traslazione delle sue ossa da Tegea, che trova conferma in uno scolio che cita Asclepiade di Tragilo e nella Biblioteca dello ps. Apollodoro, che, però, indica in Oresteion il luogo in cui l’eroe sarebbe stato morso mortalmente da un serpente.

7 Il libro è chiuso da un capitolo in cui sono esaminate notizie collocate in altri luoghi e, in particolare, il soggiorno dell’eroe in Elide presso Strofio e il sacrificio rituale a Cerinea. Questi nuclei mitici possono conservare tracce di tradizioni autonome rispetto alla versione delfico-ateniese.

8 Tutto il volume è caratterizzato da una costante attenzione al rapporto con le forme giuridiche e i riti religiosi e purificatori. In tal modo, l’autore illumina le forme di pensiero e le realtà sociali che hanno contribuito a plasmare i racconti su Oreste, tracciando una possibile via per studiare il rapporto tra mito e storia. Molti paragrafi costituiscono, inoltre, uno scrupoloso tentativo di ricostruzione delle tradizioni mitiche e dei loro contesti di esecuzione: l’autore raccoglie una impressionante mole di dati, proponendo interpretazioni originali e puntuali che rendono quest’opera un vero e proprio “reference work” sull’argomento.

AUTORI

STEFANO ACERBO Università di Pisa – acerboste[at]gmail.com

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Les larmes de Rome. Le pouvoir de pleurer dans l’Antiquité Paris, Anamosa, 2017, pp. 256, ISBN 979-10-95772-30-9, € 21,00

Alfredo Casamento

NOTIZIA

Sarah Rey, Les larmes de Rome. Le pouvoir de pleurer dans l’Antiquité, Paris, Anamosa, 2017, pp. 256, ISBN 979-10-95772-30-9, € 21,00

1 Barack Obama che piange dopo aver presentato una proposta di legge volta a limitare il ricorso alle armi e di nuovo, pochi mesi dopo, lasciando la Casa Bianca a conclusione del secondo mandato presidenziale è la stimolante immagine che apre il volume di Sarah Rey. Il tono provocatorio di questa rappresentazione inquadra molto bene, e fin dalle prime battute, questo piccolo ma prezioso volume che ha l’ambizione di mettere insieme un tema di ricerca assai importante per il mondo antico con una pregevole operazione di divulgazione presso un pubblico ampio, non necessariamente di specialisti.

2 Diciamo subito che la riflessione sulle lacrime nella cultura antica ha ricevuto nell’ultimo ventennio un’attenzione solo all’apparenza sorprendente, in quanto essa si iscrive in un più generale aggiornamento delle ricerche sulle emozioni nella tradizione greca e latina. In quest’ottica, gli studi sulle lacrime si sono distinti perché su di esse si sono ritrovate in maniera convergente prospettive di tipo linguistico, semiotico, antropologico, storico-culturale. Ultimo in ordine di tempo tra gli studi di carattere collettaneo che affronta in maniera monotematica e da molti punti di vista l’argomento è il volume del 2009 di T. Fögen (Tears in the Graeco-Roman World, Berlin-New York 2009). Di questo sforzo di rendere conto delle molteplici, variegate declinazioni del motivo l’A. dà conto nella premessa, nella quale con brillantezza d’immagini riunisce alcuni dei temi che avranno debita trattazione nel corso del volume. Dopo aver delimitato il campo d’indagine allo specifico del mondo latino («à chaque culture ses émotions»), la studiosa giustifica la scelta, ricordando la ricchezza che contraddistingue

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il campo semantico, o forse sarebbe meglio dire i campi semantici, del pianto nella lingua latina, secondo l’idea che a questo articolato ventaglio di termini corrisponde una ricchezza di impieghi talmente ampia da risultare arduo seguirne tutti gli sviluppi.

3 Sei brevi ed intensi capitoli scandiscono lo sguardo accurato sul pianto nel mondo romano, secondo una prospettiva che appare opportuno documentare con maggiore precisione al fine di rendere la dovuta attenzione a questo pregevole lavoro.

4 Nel corso del primo capitolo, Pleurer les morts (pp. 21-52), si affronta il tema tradizionale del piangere i morti cogliendo immediatamente i nessi che legano aspetti squisitamente religiosi e devozionali con quelli che rimandano all’antropologia, alla storia delle idee, al diritto. Così, dopo un brillante inizio in cui ricorda che «dans l’expression de la douleur, le droit et la politique trouvent leur mot à dire» (p. 21), l’A. menziona l’interdizione stabilita dalle Leggi delle Dodici Tavole, che vietavano alle donne un particolare tipo di lamento, il lessus, considerato eccessivo. Attenzione specifica è poi dedicata alle iscrizioni funebri, nelle quali le lacrime sono riservate alla cerchia ristretta dei familiari; interessante lo scambio tra sposi testimoniato da CIL V, 2411, in cui il defunto sollecita chi è rimasto in vita a interrompere i lamenti in considerazione dell’ordinarietà del percorso cui tutti sono destinati (quid quereris fatis mortis carissime coniunx /cum sit communis omnibus una via /desine sollicitum pectus lacerare dolore; / temporis hospitium non solet esse diu). D’altra parte, il pianto per un defunto imponeva precise ‘regole d’ingaggio’, come il divieto di versar lacrime per un neonato morto entro un certo tempo dalla nascita, regola che le fonti trasmettono in modo contraddittorio e che evidentemente si collega con lo statuto attribuito al bambino ancora in fasce. Altri casi celebri di interdizione del pianto sono quelli connessi a gravi momenti di crisi dello stato repubblicano, come viene testimoniato a proposito della battaglia di Canne (Val. Max. 1, 1, 15), allorquando alle donne fu vietato di piangere e portare il lutto per i soldati caduti per più di un mese. Il lutto

5 In qualche modo connessa al primo capitolo è poi la materia sviluppata nel secondo, Et dans les temples, l’ivoire pleure (pp. 53-76), nel corso del quale l’A. mette insieme alcuni esempi relativi ai rapporti tra pianto e religione. Esemplare della considerazione ‘politica’ attribuibile al pianto è poi la supplicatio, la pratica rituale connessa a situazioni di crisi della res publica che meritano uno sforzo collettivo al fine di stornare minacce e pericoli incombenti sulla comunità come testimonia Livio (26, 9, 6-8) a proposito della seconda guerra punica: «la supplicatio, cette déploration généralisée, entre dans un arsenal de mesures religieuses destinées à sauver Rome du péril cathaginois» (p. 58). Rientra a pieno titolo nella sfera religiosa l’accoglienza destinata all’introduzione della Magna Mater nel 204 a.C., i cui sacerdoti, tra gli altri elementi del rito annuale con cui ne celebrano la diffusione in città, piangono in ricordo di Attis. La trattazione si chiude poi con i casi di celebri di pianti di statue, vero topos della narrazione storiografica, a proposito del quale il saggio ribadisce, con ricca testimonianza, il carattere predittivo e ominoso.

6 Terzo e quarto capitolo costituiscono poi la parte più ambiziosa del volume, centrando l’analisi sulle implicazioni socio-culturali del pianto. Ad aprire la trattazione sono, nel terzo capitolo, le lacrime di Cesare: quelle versate davanti a una statua di Alessandro Magno, del quale il futuro dittatore invidiava i molteplici successi ottenuti pur giovanissimo ed il pianto esibito in Egitto dinnanzi alla testa mozzata di Pompeo. All’analisi si sarebbe forse potuta aggiungere la citazione del medesimo episodio offerta da Lucano nel nono libro della Pharsalia (vv. 1035-1108), perché in questa circostanza il

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poeta lavora sulla serietà delle lacrime di Cesare, dimostrando con pungente ironia che si trattò di un pianto a comando, certamente insincero, esibito con astuzia politica. Il valore suasivo del pianto è poi letto in prospettiva storica, documentando alcuni casi celebri in cui esso viene adoperato come mezzo per implorare i potenti: così le lacrime delle Sabine, quelle di Volumnia e Veturia, rispettivamente moglie e madre di Coriolano, o ancora quelle di Lucrezia, vittima degli appetiti di Sesto Tarquinio, costituiscono esempi significativi di una sacralizzazione del pianto, come dimostra ad esempio la fondazione del culto della Fortuna muliebre, celebrato con la fondazione di un tempio a poca distanza da Roma voluto dalle donne che con le loro suppliche avevano dissuaso Coriolano dal marciare in armi contro la città. Che il pianto coincida nei fatti con una raffinata strategia politica è poi documentato attraverso alcuni esempi. Su tutti emergono le lacrime di Augusto nell’atto di ricevere, per bocca di Valerio Messala Corvino, il titolo di pater patriae nel 2 a.C. Sincere o meno che possano essere state, contribuiscono a umanizzare volto e strategie politiche del nuovo padrone di Roma che con sguardo benevolo, proprio perché piangente, auspica il mantenimento della pace (Suet. Aug. 58, 1-3).

7 Altro topos storiografico che prevede il pianto è quello relativo alle lacrime del comandante dinnanzi alle rovine di una città annientata dalla potenza romana: è il caso di Camillo, davanti ai resti di Veio (Plut. Cam. 5, 7-8) o ancora di Marcello, che piange non appena espugnata Siracusa (Liv. 25, 24, 11). Il valore della lacrime oscilla pericolosamente come un metronomo in accordo alla persona che piange o alla contingenza che favorisce il pianto. Così, ad esempio, dei singhiozzi di Gneo Papirio Carbone, nemico di Silla e vittima delle proscrizioni, si potrà affermare che ricordano i pianti di una donna (Val. Max. 9, 13).

8 Completa poi questo dittico, volto ad indagare più propriamente gli aspetti socio- relazionali del pianto, il quarto capitolo (pp. 123-156) che ha come centro focale l’eloquenza e il modo con cui la retorica latina teorizza ed impiega un ricorso costante alle lacrime come elemento di persuasione. L’esempio calzante è quello di Servio Sulpicio Galba, vittima, probabilmente non incolpevole, di un processo ‘mediatico’ del tempo, relativo a una condotta di guerra. Siamo nel 149 a.C., Galba è chiamato a difendersi del massacro di Lusitani di cui si era responsabile in Spagna. La difesa doveva essere abbastanza periclitante, ma fu proprio l’abilità di Galba di muovere a compassione giudici e pubblico con un ampio ricorso al pianto a valergli l’assoluzione. In particolare, le fonti antiche concordano unanimemente nel sottolineare che a destare il picco della commozione fu un bambino, di cui egli era tutore poiché privo del padre, un altro Sulpicio assai rimpianto in città, e che a detta dell’oratore sarebbe rimasto solo al mondo se egli fosse stato condannato. Notevoli in questa prospettiva le osservazioni dell’A. relative al rapporto che intercorre tra eloquenza pronunciata e eloquenza scritta. Proprio il passaggio alla forma scritta testimonia, infatti, della volontà dell’oratore di dar forma concreta alle manifestazioni del pianto che dunque si elevano da una dimensione squisitamente performativa fino a raggiungere un elemento cardine delle strategie retoriche. Quando poi il discorso si sposta sul versante dell’oratoria politica (p. 144 ss.), l’A. ricorda alcuni episodi della storia di Roma – il discorso di Tarquinio agli abitanti di Tarquinia perché lo aiutino a fare rientro a Roma o quello di Cesare che sta per oltrepassare in armi il Rubicone – che la ricostruzione offerta dalle fonti presentano come casi celebri di ricorso al pianto come elemento di persuasione.

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9 Il quinto capitolo (pp. 157-185) riposiziona poi lo sguardo sulle lacrime «comme objet philosophique». L’A. riflette, infatti, sulla necessità imposta dalla maggior parte delle correnti filosofiche di trattenere il pianto, considerato attitudine femminile e dunque non adatto all’uomo che deve dar prova di saldezza e coerenza morale nei travagli della vita. Le lacrime sono percepite come una manifestazione di irragionevolezza e mancanza di riflessione, il frutto di un calcolo disperato o la sottomissione dell’uomo a pulsioni basse. È questo il caso dell’aneddoto che Cicerone mette in bocca a Catone nel De senectute (par. 27), citando il celebre atleta Milone di Crotone, che guarda, ormai vecchio, dei giovani atleti all’inizio della loro carriera. Milone piange alla vista dei giovani e dei propri muscoli che gli sembrano come morti. Ma Catone non mostra esitazione alcuna: nessun detto gli sembra più spregevole di questo (quae enim vox potest esse contemptior quam Milonis Crotoniatae). La rigorosa rivendicazione della coerenza morale del saggio fa sì che di lì a poco anche Seneca puntualizzi la necessità che l’uomo si tenga lontano dal pianto: anche ad ammettere che spesso le lacrime piombano inaspettatamente nella vita, esse però non recano alcuna utilità e come tali vanno respinte (lacrimae nihil profuturae cadunt, in Ep. ad Luc. 22, 16). Su queste premesse il capitolo si chiude, infine, con una riflessione sul valore della consolazione e sui topoi compositivi della letteratura specifica che su questo tema si realizza tra Grecia e Roma.

10 Nel corso del sesto capitolo (pp. 187-215), lo studio si sposta infine all’età cristiana, mettendo a fuoco il modo con cui la riflessione teologica è intervenuta a modificare il senso antico del pianto («comment l’essor de la foi chrétienne a-t-il modifié l’ordre romain des larmes?»). L’aspetto maggiormente messo a fuoco del capitolo è quello relativo alla valorizzazione del dolore e del pianto («les larmes font partie d’une gymnastique de l’ascèse»). Il pianto è il modo convenzionale per valorizzare la risposta emotiva e simpatetica ai mali del mondo, anche se un ricorso eccessivo alle lacrime come quello dell’eresia montanista sarà oggetto di vibrante contestazione.

11 Conclude il volume un ultimo capitolo (pp. 217-225) che trae avvio dal pianto del grande oratore Ortensio, di cui ancora più di un secolo dopo Quintiliano ricorderà le straordinarie qualità psicagogiche. Qualità che, più in generale, hanno molto a che fare con le lacrime. Il pianto, infatti, si situa entro un preciso sistema di riferimento; esso è il frutto di una strategia e, come dimostra l’interesse della retorica sul punto, offre un’arma formidabile all’oratore che di esso dovrà servirsi mettendone a frutto le molteplici potenzialità: «les sanglots viennent au point d’achèvement d’un raisonnement, sans couper court à l’argumentation».

12 Corredano il volume utili indici e un pregevole apparato di immagini, l’ultima delle quali – un fotogramma tratto dal film Quo vadis in cui Nerone raccoglie in un’ampolla le sue lacrime versate in memoria dell’amico Petronio, del quale aveva pur richiesto la morte – suggella questo intenso e appassionato percorso nel pianto dei Romani.

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AUTORI

ALFREDO CASAMENTO Università degli Studi di Palermo – alfredo.casamento[at]unipa.it

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