Matteo Bandello
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NOVELLE Matteo Bandello VOL. II LA SECONDA PARTE DE LE NOVELLE DEL BANDELLO IL BANDELLO AI LETTORI Eccovi, lettori miei umanissimi, la seconda parte de le mie novelle, ridotta a la meglio che ho potuto insieme, essendomi stato necessario da diversi luoghi molte d'esse novelle raccogliere, secondo che erano state disperse. Seguirá in breve la terza parte che quasi per il piú è insieme adunata. Pigliatevi piacere, se tali le mie ciancie sono che possino piacerv., Io vi confesso bene che a cotal fine furono da me scritte. Accettate dunque il mio buon volere e la sinceritá de l'animo mio. E se l'opera od il suo effetto non corrisponde al desiderio ch'io aveva, incolpatene il mio poco sapere e la debole capacitá del mio ingegno. E state sani. IL BANDELLO AL MOLTO REVERENDO SIGNORE MONSIGNOR FILIPPO SAULO VESCOVO BRUGNATENSE SALUTE L'avarizia è cosí pestifero e vituperoso morbo che ancor che l'uomo si ritrovi carco di figliuoli e figliole ed abbia pochi beni de la fortuna, secondo che viene lodato spendendo discretamente ed astenendosi da molte cose che forse paiono necessarie, sempre che si conoscerá che egli sia avaro sará senza dubbio da tutti i buoni biasimato e morso, perciò che l'avarizia mai non sta bene in qual si voglia grado né etá d'uomini o donne. E perché crediamo noi che gli usurai, i rattori, i ladroni e quei mercanti che con inganno fanno la mercanzia siano chiamati avari, se non perché per la lor volontá di pigliare e ritener le cose altrui e non proveder ai bisogni necessarii s'oppongono a la giustizia? Opera giudicata di grandissimo peccato, ché questi beni che Iddio ci dona deveno da noi esser con quella misura presi e dispensati che il grado nostro richiede. Altrimenti avendovi inordinato appetito, facciamo un'opera contraria a la liberalitá che è vertú moralissima, tanto da tutti gli scrittori cosí infedeli come cristiani celebrata. Ora se l'avarizia che mai non può esser buona, a tutti sta male, ché certamente sta malissimo rendendo ciascuno in cui regna infame ed al publico odioso, penso io che non possa star peggio in nessuno di quello che ella sta nei preti. E chi dubita, se ogni cristiano che voglia esser degno di questo nome, deve esser pieno di caritá la quale rende l'uomo amorevole, cortese, liberale, benigno, paziente e compassionevole ai bisogni del prossimo, che molto piú non debbia esser ogni persona religiosa? Quei religiosi che vivono in commune deveno piú degli altri esser pieni di caritá e compassione, avendo questo obligo da le loro instituzioni. I preti poi che hanno benificii e particolarmente attendono a le cose loro temporali, deveriano tutti ardere di caritá ed esser i piú liberali e cortesi che si trovassero, perciò che sono quelli che meno hanno a considerare a la roba che nessun'altra sorte d'uomini, sapendo che dopo la morte loro i benefici che tengono e godeno non vanno per ereditá, non gli potendo lasciar a lor volontá. E nondimeno, – ahi vituperio del guasto mondo! – pare che oggidí come si vuol dire un avaro si dica un prete. E certo chi lo dice ha gran torto, perciò che la mala vita di tre o quattro non deveria macchiar l'onesto vivere degli altri, essendoci molti in questa nostra etá preti da bene che santissimamente vivono e liberalmente dispensano i beni loro. Io direi che tra gli altri voi sète uno di quelli, che sino da la vostra fanciullezza sempre sète stato nemicissimo degli avari e che dopo che sète beneficiato vivete splendidamente e largamente a' poveri e vertuosi donate. Ma io non vo' su la faccia vostra lodarvi, tanto piú essendo la liberalitá vostra chiarissima. Ora tornando a questi preti avari i quali vorrebbero per loro soli trangugiare quanto hanno al mondo, e non darebbero un pane per amor di Dio, dico che se talora vien loro fatta qualche beffa e se sono biasimati, che a me pare che lo meritano e che poca compassione si deve lor avere. Onde avendo questi dí il vostro e mio, anzi pur nostro Lucio Scipione Attellano, fatto un solenne e sontuoso banchetto a la signora Bianca da Este e Sanseverina, ove intervennero molti gentiluomini e gentildonne, ragionandosi dopo il desinare di varie cose, il nostro dottor di leggi, che era uno degli invitati, messer Girolamo Archinto, e che conoscete come è piacevole, narrò una bella beffa fatta a un avarissimo parrocchiano; la quale parendomi molto festevole io scrissi, e quella ho voluto mandarvi a ciò che dopo gli studi vostri de le civili e canoniche leggi, ne le quali sète eminentissimo come l'opere vostre stampate fanno ferma fede, possiate quella leggendo, gli spirti vostri ricreare, se quella degna stimerete deversi da voi leggere; il che, la vostra mercé, mi persuado che per l'amor che mi portate voi farete. State sano. NOVELLA I Un prete avaro è gentilmente beffato da alcuni buon compagni che gl'involarono un grasso castrone. Io vorrei, signore mie umanissime e voi cortesi signori, che il nostro messer Andrea da Melzi non fosse stato astretto dopo il desinare a partirsi, a fine ch'egli quello che io ora intendo di narrarvi avesse narrato, come colui che è sí bel dicitore e tanto, quanto nessun altro gentiluomo di Milano, pieno di bei motti e di questa istoria che io dirò meglio di me consapevole. Ma poi ch'egli non ci è e volete che io parli de le beffe che talora si fanno a questi preti avari, io ubidirò con speme di sodisfarvi. Dico adunque che ne la villa di Mazzenta, non è guari di tempo, fu un don Pietro prete, parrocchiano de la villa, uomo assai attempato e tanto avaro che non si potria dir piú, il quale avendo buona prebenda ed oltra questo ogni dí guadagnando quasi il vivere de le elemosine ed offerte che per i morti si facevano, aveva sempre paura di morir di fame e non averebbe invitato né prete né secolare a casa sua a bere un bicchier di vino, ed egli mai non recusando invito che fatto gli fosse, francava al mangiar il suo carlino. In casa sua egli per la bocca sua faceva tutti quei delicati mangiari che avere si potessero, e teneva una donna di buona etá che era perfettissima cucinara. Aveva egli di continovo i suoi capponi ad ingrassar, i migliori che ne la villa si trovassero. Al tempo de le quaglie egli conserva ne faceva per tutto l'anno, il medesimo facendo de le tortorelle. Cosí, secondo le stagioni, in casa sua sempre aveva degli augelli ed animali selvaggi, e dove andava il fatto de la gola, per comprare un buono e ghiotto boccone non risparmiava mai danari, e quando argento stato non ci fosse, egli averebbe impegnato la cotta, la croce, la pietra sacrata e credo anco il calice. Ma se egli si fosse trovato il giovedí da sera le vivande sopra il capo, non pensate che egli mai avesse invitato persona; onde il suo chierico, la massara e dui altri famigli che teneva facevano vita chiara e si davano il meglior tempo del mondo. Avvenne del mese di novembre che, essendo fuor di Milano un giovine nostro gentiluomo con un altro gentiluomo suo amico, ed alloggiando vicini al prete due picciole miglia, e quivi diportandosi con la caccia, intesero de l'avarizia del prete e de le grasse provigioni che di continovo in casa teneva, e come tra l'altre cose egli aveva allevato un castrone che era divenuto grassissimo e lo serbava ad ammazzarlo a le feste di natale, a ciò che meglio per i freddi conservar lo potesse. Questo intendendo, il nostro giovine deliberò far rubar il castrone al prete e farlo mangiare in un pasto ai buoni compagni. Fatta questa deliberazione, chiamò dui dei suoi famigli che averebbero fatta la salsa al gran diavolo e diede loro l'ordine di quanto egli voleva che facessero. I dui servidori dissero che farebbero il tutto; dei quali l'uno si chiamava Mangiavillano e l'altro Malvicino e su le guerre erano stati perfetti saccomanni. Poi che i dui famigli ebbero la commissione, cominciarono a divisar tra loro del modo che devevano tenere ad involar il castrone, a ciò che la cosa riuscisse senza strepito. Alora disse Malvicino: – Compagno, se noi sappiamo fare, siamo i piú avventurosi uomini del mondo. Io mi ricordo che ieri quando pigliammo la lepre che tante volte ci ha fatto correre, che me n'andai a la cascina di Giacominaccio Oca e vidi sovra una tezza de le noci assai, che ancora non le hanno ridutte in casa. Al corpo del pissasangue, io voglio che l'andiamo a beccar su, e faremo una brava agliata, ché il castrone senza agliata non val un pattacco. – Tu dici il vero, al corpo del vermocan! – rispose Mangiavillano. Facciamo adunque cosí come io ti diviserò. Io su le quattro, o tra le quattro e cinque ore di notte, me n'anderò a la casa del messere ed entrerò senza difficultá dove egli tiene il castrone, e a la prima gli metterò una musaruola che saperò fare a proposito a ciò che non gridi, e poi me lo metterò in spalla. Tu in quel tempo medesimo anderai a pigliar le noci, ed oltra le noci guarda, se la ti venisse destra, che tu potessi pigliare due o tre oche, ché sai che barba Giacomaccio le ha sempre belle e grasse. – Potta de la moría! – disse Malvicino, – questo sarebbe un bel tratto se io lo potessi fare. Ma tu sai bene che l'oche hanno il diavolo a dosso, ché sentono ogni picciolo strepito che l'uomo faccia.