Lino Favaro

TANTO PER FAR SERA

STORIE e RACCONTI

Tempo fa (tanto tempo fa purtroppo) quando era ancora in vita il mio inseparabile amico di infanzia "Gioanin" sono passato a casa sua per salutarlo e l'ho trovato nel cortile intento a "impagliare" una sedia, cioè a costruire il sedile come si usava una volta usando la “esca”, una lunga e robusta erba tipica delle paludi che si trovava qua e là anche nei fossati di campagna. Chi sapeva fare quel lavoro andava a raccogliere quell'erba e la metteva ad essiccare al sole per un lungo tempo finché era pronta all'uso. Nelle case di campagna si vedeva di frequente dei grossi mazzi di quell'erba appesi ad essiccare all'aria e sole attorno ai tipici barchi che servivano per ricoverare gli attrezzi.

Ma tornando a quella volta quando sono arrivato vicino al mio amico, dopo il particolare saluto che ci scambiavamo, gli ho chiesto se per caso avesse intenzione di aprire una nuova attività al che egli rispose: mah, è solo per tirar sera, per me è un passatempo. In effetti egli ne aveva tanti di quei passatempi perché aveva una manualità incredibile per fare tante cose. Ricordo quanti oggetti utili faceva con il legno. Ricordo le scale a treppiede da usare in giardino oppure dei rastrelli anch'essi da giardino eppure dei seggiolini per bambini o ancora reti da pesca.

Io non ho la manualità del mio caro amico ma ho anch'io dei passatempi tanto per far sera così ogni tanto mi metto a scrivere racconti, storielle, vecchie fiabe e i risultati di tante ricerche che amo fare sul passato della mia famiglia

Lino Favaro

Indice

1° AGOSTO 1925 3

A ORFEO 9

LA MIA ATLETICA 12

IL RITRATTO DEL NONNO 32

LE FIABE DI UNA VOLTA 38

LA VOLPE E L’OO 38

IO, PIRATA DELLA STRADA 40

1° AGOSTO 1925

Quel giorno, quel 1° Agosto del 1925 capitò di sabato. La giornata si era subito presentata come una tipica giornata di quel periodo della stagione, calda e afosa, senza traccia di un filo di brezza. Le cicale, nascoste tra le foglie degli alberi, non smettevano un momento di diffondere la loro cantilena. Al mattino i passeri avevano cominciato presto il loro caratteristico cinguettio che prelude a una giornata particolarmente calda. Nella casa della patriarcale famiglia Favaro del ramo Scarpazza, situata alla fine della via Bianchi, in direzione Zerman, la vita procedeva normalmente. La nonna Luigia, soprannominata “Tempesta” per la sua esuberanza, aveva svolto con la solita solerzia i compiti di moglie del capofamiglia che lei interpretava come fosse un generale di una armata composta dagli oltre quaranta componenti la famiglia. Aveva provveduto a distribuire la merenda e i vari compiti a tutti i presenti. Poi la truppa si era dispersa: i più grandi verso le varie occupazioni, il gruppo di bambini alla ricerca di passatempi. Questi ultimi passarono a far visita all’imponente albero da frutto posto ai margini del cortile, un pero della specie detta “di San Pietro” che garantiva frutti dalla fine di Giugno fino a oltre metà Agosto. Esso era considerato una vera manna per i numerosi bambini, che dopo quella sosta andarono a rinfrescarsi nel canaletto che scorre proprio dietro casa. Quel corso d’acqua era ed è tuttora chiamato dalla gente del posto Pianton, ma in realtà il nome corretto è Zermanson derivato dal fatto che il percorso dell’acqua lambisce il territorio di Zerman, anzi ne delimita i confini. I bambini andavano ad immergere i piedi nel corso d’acqua per rinfrescarsi ed intanto cacciavano rane ed avevano modo di distrarsi osservando la natura: il volo delle numerose e sgargianti libellule, le picchiate delle rondini a caccia di insetti, l’improvviso apparire del veloce Martin pescatore che passava come un siluro a bassa quota, le scorribande delle varie bisce che procedevano zigzaganti sul pelo d’acqua. Tutto questo teneva occupati i bambini fino alla nuova sosta attorno al pero, poco prima del pranzo. Le mamme dei bambini, ma soprattutto la nonna che sovrintendeva il tutto, non avevano motivo di preoccuparsi se i piccoli andavano con i piedi in acqua perché il livello di questa era sempre modesto, salvo i periodi delle piogge: ma non era questo il momento, ora c’era solo un po’ d’acqua corrente proveniente dalle lontane risorgive. Nel frattempo la nonna Luigia aveva ultimato le incombenze del primo mattino e incominciava a pensare al pranzo per mezzogiorno, ma anche per il giorno successivo visto che si trattava di una domenica. Fece qualche ipotesi, valutò le risorse disponibili e arrivò alla conclusione che, essendo finita la scorta di pane e anche quella della “farina de fior”,

3 sarebbe stato opportuno andare al molino con un sacco di “formento” da macinare. Non si poteva chiedere ai componenti della famiglia di tirare avanti con la solita polenta, anche nei giorni di festa, e magari si poteva pensare di fare anche un dolce, una bella “fugassa” per quei poveri “tosati” che avevano bisogno di crescere. E così la nonna si presentò dal nonno Lorenzo per formulare la sua richiesta motivandola con quanto detto in precedenza. Forse il nonno aveva qualcos’altro da fare, quella mattina, ma sapeva bene che se non avesse esaudito quanto proposto dalla “Tempesta”, questa avrebbe continuato a ripetere la sua richiesta a intervalli ben calcolati in modo da fiaccare la resistenza del marito. Inoltre il nonno non era insensibile quando c’erano di mezzo i bambini, i suoi cari nipotini. Cosicché lascio subito il lavoro che stava compiendo e si preparò per procurare quanto mancava in casa. Andò nel granaio e portò giù un sacco di frumento che caricò nel calesse, prese la sua cavallina, le sistemò per bene i finimenti di cuoio e la approntò per il traino. Poi calzò il cappello e gli zoccoli buoni e si apprestò a partire non prima di aver cercato il nipotino Orfeo che usualmente si portava appresso nel calessino ogni volta che affrontava quei viaggi. A quel tempo Orfeo aveva quattro anni e mezzo e in quel momento si trovava con gli altri bambini nel bel mezzo del canaletto, intento ai giochi descritti in precedenza. Per accontentare il marito la nonna era andata a recuperarlo ma lo trovò tutto bagnato e quindi bisognoso di essere cambiato di vestitino. A quel punto il nonno decise di partire da solo per non rischiare di far tardi per il pranzo di mezzogiorno. Eh già, a mezzogiorno in punto, un capofamiglia che si rispetti deve sedersi a tavola per dare il via al pranzo di tutta la famiglia, non può mancare, ne andrebbe di mezzo il suo prestigio. La cavallina partì decisa verso quel tragitto che l’avrebbe portata al molino di Sanbughè, un percorso che aveva fatto tante volte, quando c’era da macinare un po’ di grano per la famiglia. Il tragitto aveva inizio prendendo la via Bianchi in direzione di Zerman, poi si attraversava il ponte del canale e si sbucava in via Croce. Qui si procedeva a sinistra in direzione Sanbughè percorrendo tutta la tortuosa via che attraversa la campagna fino all’imbocco sul Terraglio, la grande strada statale napoleonica che congiunge Treviso a Mestre. Durante quel percorso il nonno non era insensibile al richiamo dei ricordi che lo portavano ai tempi passati, ai tempi dei suoi antenati. Nella via Croce avevano vissuto suo padre Pietro, suo nonno Giobatta e forse anche il bisnonno Giampietro. Ad un certo punto del percorso sarebbe passato proprio dietro la grande casa che fu tra le proprietà di Domenico Calvi, padre della nonna Maria Anna. Immerso in questi pensieri Lorenzo si trovò ad attraversare il Terraglio e a dirigersi senza indugi al molino. Qui, durante le operazioni di macina, scambiò alcune parole con il mugnaio, ma non si soffermò più di tanto nei

4 convenevoli. Forse si saranno chiesti se le rispettive mogli si erano ricordate di mettere da parte un fiasco di vino bianco per offrire il giorno dopo, di primo mattino, al marito, il bicchiere di vino bianco come è rigorosa consuetudine per il due di Agosto. Eh già, dicono che questo rito preservi l’uomo dal mal di schiena e porti bene in generale. Per questo, In tutte le famiglie è usanza conservare un fiasco di vino bianco per questa evenienza. Completata la macina e i brevi convenevoli Lorenzo ripartì con sollecitudine per il viaggio di ritorno. Non voleva trovarsi costretto a dover chiedere alla sua cara cavallina di andare ad una andatura troppo sostenuta, ma aveva la necessità di essere a casa in orario per il pranzo e soprattutto doveva trovarsi, a sua insaputa, in un determinato istante all’incrocio sul Terraglio. Nel momento della sua partenza dal molino una moto carrozzella partiva da Treviso in direzione di Mestre, transitando per il Terraglio. Era guidata da un giovane ventitreenne di Verona, titolare di una rimessa di autoservizi, che trasportava un professore da Mistretta, provincia di Messina e un maestro elementare abitante a Mestre. Il conducente aveva un po’ di fretta perché i tre dovevano essere a casa del maestro per il pranzo, e non è conveniente arrivare a tavola proprio all’ultimo momento. Inoltre anche per il giovane conducente, a sua insaputa, c’era un appuntamento per un preciso istante, all’incrocio di Sambughè. Già, non si poteva sbagliare nemmeno di un secondo perché in un secondo la moto carrozzella avrebbe percorso una ventina di metri in più o in meno e nello stesso lasso di tempo la cavallina che trainava il calesse del nonno avrebbe percorso cinque o sei metri in più o in meno e questo voleva dire che tutto quello che da sempre era scritto nel grande libro del destino non si sarebbe verificato. Ma questo non è possibile, non è mai stato possibile. E così, poco dopo le undici e trenta di quel sabato 1° Agosto, tre stradini provinciali che stavano lavorando a una cinquantina di metri da quell’incrocio, con le spalle rivolte allo stesso, udirono un tremendo botto e, girando lo sguardo, videro una nuvola di polvere bianca alzarsi verso il cielo. Era la “farina de fior” che serviva alla nonna Luigia. Accorsi sul posto, i tre uomini, si trovarono di fronte a un vero macello: quatto corpi accartocciati a terra, la cavallina distesa e stordita, il calesse rovesciato e distrutto con le ruote rivolte in aria, la moto carrozzella, volata oltre il calesse, fortemente danneggiata. Il nonno Lorenzo aveva perso conoscenza. Aveva preso varie botte, ma soprattutto un colpo alla zona parietale sinistra (tempia), nel punto che la gente definisce “del sono”. “El ga ciapà ‘na bota sol sono” dice la gente, in questi casi, e poi, in genere allarga le braccia per indicare che non c’è più niente da fare. Forse il modo di definire quel punto del

5 capo deriva da sonno in quanto una forte botta in quel punto provoca il sonno, ovvero il coma. Il nonno Lorenzo fu portato nell’ospedale di Treviso dove cessò di vivere a mezzogiorno di lunedì 3 Agosto, nella sala numero 9, senza aver ripreso conoscenza. Le altre persone coinvolte nell’incidente se la cavarono meglio. Furono portate all’ospedale di Mestre dove il professore rimase per un po’ in leggero stato comatoso ma se la cavò con la frattura di quattro costole, gli altri due se la cavarono con contusioni e abrasioni guaribili in una decina di giorni. Il maresciallo dei carabinieri di Mogliano, chiamato sul posto, condusse le indagini per appurare le circostanze del fatto. Interrogò i tre ricoverati in ospedale a Mestre. Il conducente affermò, senza essere smentito dai compagni, che stava procedendo a velocità normale e che aveva regolarmente frenato. Ma qual’era la velocità “normale” in un incrocio come quello di Sanbughè? Si può, procedendo a una velocità definita “normale”, provocare un simile sfracello? Il nonno non poté più parlare e come si sa, una volta come adesso, i morti hanno sempre torto. Non so come andò a finire per la cavallina, l’amata cavallina bianca chiazzata di macchioline grigio chiaro, non so se si riprese dalle botte ricevute. Se riuscì a cavarsela, in seguito avrà comunque atteso invano le cure e le premure che il nonno Lorenzo le riservava. Quel mezzogiorno nella patriarcale famiglia Scarpazza c’era un’aria cupa, insolita. La nonna Luigia scrutava di tanto in tanto verso la strada per vedere se finalmente arrivava il calesse con il nonno Lorenzo. I bambini erano attorno all’albero delle pere a gustare ancora qualche frutto prima del pranzo. Mio fratello Orfeo, troppo piccolo per poter salire sull’albero restava sotto i rami limitandosi a chiedere ai più grandi di lanciare a terra qualche frutto – Ettore, Pieretto, buttate giù un peretto - implorava. Ad un certo punto invece del calesse arrivarono dalla strada due uomini in sella a due biciclette nere con in testa dei berretti con frontino, identici: erano i berretti degli stradini provinciali. Quegli uomini erano due dei tre che si trovavano vicino al luogo dell’incidente. Riferirono alla famiglia il fatto accaduto e dissero che il nonno era stato trasportato all’ospedale di Treviso. La nonna rimase un po’ stordita, ma poi ringraziò e offrì un bicchiere di vino ai due messaggeri. Probabilmente i due non se la sentirono di raccontare la gravità dei fatti. La nonna, seppure col cuore in gola, chiamò tutti a tavola e servì il pranzo assieme alle altre donne presenti e disse al figlio Luigi e al cugino Annibale di mangiare un boccone in fretta e di prepararsi per andare dal nonno Lorenzo all’ospedale. Il seguito è già stato detto. Non so, forse senza quell’incidente avrei potuto conoscere, magari per poco, il nonno

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Lorenzo. Per tutta la vita mi è rimasta una certa nostalgia per non aver conosciuto ben tre dei miei nonni. Sono nato dodici anni dopo la morte del nonno Lorenzo e di lui non mi è stato riferito granché, qualcosa in più mi è stato riferito della nonna “Tempesta” che ha fatto in tempo a vivere più a lungo con i miei fratelli e i miei genitori. Un giorno a scuola ho scoperto l’esistenza di una toccante poesia di Giovanni Pascoli intitolata “10 Agosto” in cui il poeta descrive i tragici fatti relativi alla morte di suo padre, avvenuta il 10 Agosto (giorno di S. Lorenzo) mentre tornava a casa sul suo calesse trainato da una cavallina, che viene chiamata “cavallina storna”. Il poeta paragona il padre a una rondine uccisa mentre ritorna al proprio nido con un insetto in bocca da offrire ai suoi rondinini. La poesia mi aveva toccato molto, non sapevo perché, non conoscevo niente delle circostanze della morte del nonno, ma ora penso che qualcosa nel mio inconscio era entrato. Ora scopro tante analogie: la cavallina, il calesse, il fatto che il nonno stesse portando a casa il cibo per la sua famiglia e in particolare per i suoi nipotini, il periodo (prima decade di Agosto), il nome: Lorenzo! Ogni tanto, durante la mia via mi tornavano in mente quei pochi particolari che avevo sentito sull’esistenza e sulla tragica morte del nonno. Da qualche tempo mi frullava per la mente l’idea che un fatto come quello capitato quella volta non poteva succedere tutti i giorni e che quindi doveva per forza essere stato riportato su qualche giornale, almeno su qualche giornale locale. Ho cercato di rintracciare qualche copia del Gazzettino di Treviso dell’epoca, finché ho avuto il suggerimento giusto di dove indirizzare le ricerche. Sono quindi andato alla biblioteca della Curia Vescovile di Treviso e sono arrivato all’obiettivo. Non so descrivere l’emozione che ho provato quando, sfogliando il giornale, ho trovato ciò che da tempo cercavo. Mezza pagina del giornale riportava tutto l’accaduto. Il giornalista del momento ha descritto ogni minimo particolare, dalla targa del veicolo a tutti i dati delle persone coinvolte: nome, cognome, professione, età, residenza, ecc. Ha elencato ogni piccolo particolare, evidentemente è andato a parlare coi superstiti. Ha commesso qualche errore su mio nonno: ha sbagliato il luogo di residenza che ha indicato come Zerman mentre era Mogliano, anche se al confine, infine ha chiamato carrettino il mezzo di trasporto trainato dalla cavallina. Come si fa, a definire in quel modo il prestigioso calesse, simbolo del ruolo di capofamiglia? Una bestemmia, …vero nonno? Ora, quando mi capita di transitare per l’incrocio di Sambughè il mio pensiero non può non andare a quel lontano 1° Agosto, al mio nonno Lorenzo, che ora sento più vicino. E penso a quel secondo, a quella piccola frazione di tempo che poteva cambiare le cose. Ma il libro del destino era già scritto da tempo, e chi l’ha scritto non transige.

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1 Agosto 2010 Lino Favaro

Fine anni ’20: mia madre con i miei fratelli Orfeo ed Elvira

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A ORFEO

Lettera inviata al direttore del giornale l’Eco di Mogliano nel dicembre 2006

Gentile direttore, varie volte, nelle pagine del suo giornale ho trovato degli interessanti racconti relativi alla vita di nostri concittadini. Ora le voglio raccontare questa storia, che mi sembra degna di essere pubblicata, relativa a mio fratello Orfeo, più anziano di me di 16 anni. E’ da tanto tempo che ho in mente di fare questa cosa perciò ancora una volta mi reco da mio fratello per farmi ripetere le rocambolesche vicende che hanno segnato la sua esistenza. Orfeo è piuttosto restio a parlare di sé, ma questa volta mi accontenta e tira fuori la copia del settimanale “Il Tempo” del lontano 26 giugno 1941. In quel giornale un corrispondente descrive le condizioni di vita quotidiana su una nave da guerra. Alcune foto corredano l’articolo. In una di queste, in primo piano è ripreso un giovane marinaio intento ad eseguire manovre su un macchinario. Quel giovane marinaio altri non è che mio fratello. Orfeo Favaro è nato a Mogliano nel Febbraio del 1921. Trascorse l’infanzia e la gioventù in un periodo di difficili condizioni economiche. Terminate le scuole d’obbligo trovò lavoro come garzone d’officina nell’Azienda Bianchi – de Kunkler. Imparava un mestiere ma si sentiva sacrificato: sognava di poter frequentare una scuola. A sedici anni trovò uno sbocco iscrivendosi alla scuola Allievi Sottufficiali di Marina a Venezia. Qui poté dedicarsi allo studio della meccanica, la sua passione. Ma in Europa le cose precipitarono e scoppiò la guerra, cosicché Orfeo si trovò imbarcato, in qualità di aiuto fuochista, su una nave da guerra, il cacciatorpediniere A. Pancaldo. Partecipò alla famosa battaglia di Punta Stilo, conclusa la quale la sua nave rientrò nelle vicinanze del porto di Augusta in Sicilia. A quel punto entrò in scena il destino: un suo caro amico siciliano, più anziano e con compiti di maggior responsabilità, chiese una licenza per poter far visita alla madre ammalata. Il Comandante subordinò la concessione del permesso al reperimento di un sostituto e chiamò a rapporto Orfeo che, pensando alla vecchia madre dell’amico, non esitò un istante e passò a fare il capo caldaia nella sala accanto alla sua. Questo gesto di generosità gli salverà la vita. Il giorno dopo, verso sera, si stava per brindare al ritorno di un compagno quando un

9 improvviso botto scosse tutta la nave. Iniziò il finimondo: sirene d’allarme, scoppi da tutte le parti, sibili di vapore che fuoriusciva ovunque e la nave che incominciava ad affondare! Era accaduto che un isolato aerosilurante inglese, avvicinatosi controsole e a bassa quota aveva sganciato indisturbato il suo siluro a colpo sicuro. I marinai di coperta, accecati dal sole avevano scambiato l’aereo per un velivolo amico e l’avevano salutato sbracciandosi. Il siluro perforò la fiancata della nave senza esplodere al primo impatto, attraversò la sala caldaia solitamente occupata da Orfeo, esplodendo all’uscita. In mezzo al parapiglia del momento arrivò l’ordine di abbandonare la nave, ma i superstiti delle sale macchine e caldaie, saliti per la scaletta che conduce in coperta, trovarono il boccaporto di uscita bloccato dall’esterno. Allora si misero disperatamente a picchiare con delle mazze, ma tutto sembrava inutile: ed intanto la nave continuava ad affondare. Destino volle che un anziano maresciallo, prima di gettarsi in mare, si guardasse intorno e non vedendo alcuno dei ragazzi di sottocoperta corse indietro e riuscì ad aprire lo sportello. I superstiti fecero appena in tempo ad uscire e a gettarsi in mare, ma purtroppo tra i componenti della sala in cui solitamente operava mio fratello non vi fu alcun sopravvissuto. I superstiti passarono tutta la notte in mare con il solo salvagente. Dopo quella triste avventura Orfeo fu imbarcato sulla corazzata Andrea Doria. Poi, l’evolversi degli eventi portò alla resa della Marina agli inglesi, seguì la lunga prigionia a Malta, la fine della guerra, il rientro a casa, la difficile ripresa al lavoro, il matrimonio con Laura Marcon, l’arrivo dei due figli ed infine il pensionamento. Appena andato in pensione mio fratello volle recarsi in Sicilia ad abbracciare il vecchio amico per ricordare assieme, di fronte al mare di Augusta i compagni rimasti sotto il mare, giovani vite stroncate da eventi più grandi di loro. Mentre ricorda questo una lacrima gli scende dagli occhi che fissano lontano, nel tempo passato. Ma a questo punto suona il campanello di casa, arriva di corsa la nipotina Gaia che avvisa il nonno di avergli portato i due fratellini, i gemelli Zeno e Viola di poco più di un anno. Allora l’atmosfera cambia, le lacrime hanno un sapore diverso, sono di gioia. Adesso Orfeo mi racconta, con commozione, che i due gemelli sono nati il 10 Luglio, lo stesso giorno dell’affondamento della sua nave, il giorno della sua seconda nascita, come lo definisce lui. La vita continua Orfeo, goditi in serenità i tuoi nipotini! Lino Favaro

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La lettera con allegata la foto ricavata dal settimanale “Il Tempo” del 26 Giugno 1941 è stata pubblicata nel giornale l’Eco di Mogliano di Gennaio 2007 nella rubrica “I lettori raccontano” con il titolo “UNA VITA ROCAMBOLESCA”.

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LA MIA ATLETICA

Parlare oggi di atletica è parlare di un antico amore che il tempo non ha cancellato. Ricordo bene come è iniziata la passione per questo sport che ha un discreto numero di appassionati ma non come altre discipline, prima fra tutte il calcio, seguita dal ciclismo. Anch’io ho seguito il calcio fin da bambino, anch’io ho giocato nei vari campetti, in qualsiasi spazio che ti permetteva di dare qualche calcio al pallone. Anch’io da ragazzo ho fatto la raccolta delle figurine dei calciatori, ho fatto lo scambio di figurine con altri ragazzi, ho scelto la squadra preferita. Ho incominciato a tifare per una squadra, la Juventus, dalla comparsa di Giampiero Boniperti nelle file di quel club per continuare con l’arrivo di John Charles e di Omar Sivori. Ho continuato a parteggiare per i colori bianconeri per tutta la vita. Ma non è mai stato un tifo sfrenato, non sono mai andato a vedere sul campo la mia squadra. Insomma sono sempre stato un tifoso moderato. Per il ciclismo si può dire la stessa cosa. Da bambino come i miei coetanei ho imparato a correre in bicicletta con quella della mamma perché era più accessibile. Poi ho incominciato a correre con quella di mio padre passando una gamba sotto il tubo orizzontale che collega la parte anteriore a quella posteriore della bici. Il passo successivo era quello di pedalare stando seduti sul tubo sopra descritto. Infine l’ultima conquista, quando finalmente la lunghezza raggiunta dalle gambe te lo consentiva, era quella di “conquistare” la sella. Raggiunta questa agognata meta all’inizio si procedeva “grattando” vistosamente, ma poi, pian piano le gambe si allungavano e si riusciva a pedalare correttamente senza dover arrossare le natiche. Più tardi grazie ai bei voti riportati alla fine della terza media mio padre mi ha regalato una bici sportiva e con quella ho incominciato a compiere percorsi sempre più lunghi e impegnativi. Nel frattempo anch’io seguivo con attenzione le gare di questo sport facendo il tifo per Gino Bartali. Ma non ho mai fatto a scazzottate con rivali tifosi di Fausto Coppi, come succedeva allora fra i tifosi più accesi. Anche per questo sport sono stato un tifoso e seguace moderato. Per l’atletica è stata ed è un’altra cosa. Ho incominciato a sentirmi attratto per questa disciplina dai tempi del mitico che vinse le Olimpiadi di Londra del 1948 nel lancio del disco. In quella prestigiosa manifestazione si classificò secondo un altro italiano, Giuseppe (Beppone) Tosi, un atleta con un fisico poco atletico, con una vistosa pancetta e quasi senza capelli, tanto da sembrare più vecchio di quanto in realtà fosse. In compenso era dotato di una eccellente tecnica. Dai risultati ottenuti dal buon “Beppone“ ho incominciato a capire quanto può influire la tecnica. Dopo la memorabile impresa Adolfo

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Consolini impersonò la figura dell’eroe nazionale stimolando la fantasia e il desiderio di emulazione dei ragazzini. Ed io naturalmente ero fra quelli e così incominciai a seguire le imprese e le gesta dell’eroe e dei praticanti il suo sport. A quel tempo non c’era la televisione, le uniche immagini degli avvenimenti sportivi si potevano vedere quando si andava al cinema attraverso i resoconti della “settimana Incom” una rubrica che veniva proiettata prima del film. Non c’erano impianti sportivi in tutte le città, le gare importanti venivano effettuate all’Arena di Milano o in qualche altra grossa città. Non c’era la materiale possibilità di assistere di persona alle gare per cui le vicende sportive erano seguite sulle pagine dei giornali sportivi in particolare sulla Gazzetta dello sport che dava minuziosi resoconti anche delle gare di atletica leggera. Io leggevo con avidità ogni minimo particolare della cronaca sulle pagine del giornale di color rosa che puntualmente mio fratello Orfeo portava a casa. E così avevo imparato a conoscere i nomi dei vari campioni di quei tempi, conoscevo a memoria i record delle varie specialità. Mi sembrava di conoscerli di persona quei campioni, quei miei eroi, dal citato discobolo Adolfo Consolini con il suo inseparabile amico e rivale “Beppone” Tosi, al martellista , al lanciatore del peso “Angiolone” Profeti agli ostacolisti dei 400 metri ed , al marciatore “Pino” Dordoni per non parlare della velocista “Giusy” Leone, delle discobole e o della pesista . E come fanno tutti i bambini di questo mondo anch’io con la mia fantasia mi immedesimavo nelle gesta dei miei eroi e sognavo di imitarli raggiungendo mete senza limiti. Cosi, particolarmente attratto dalle gesta di Adolfo Consolini sognavo di poterlo imitare una volta raggiunta l’età adulta. Nei miei sogni non mi permettevo di raggiungere il traguardo del mitico Adolfo, cioè di vincere una Olimpiade, mi “accontentavo” di rappresentare l’Italia ad una Olimpiade, cioè mi bastava diventare il più bravo d’Italia e non di tutto il mondo! In fondo nei miei sogni avevo un po’ di modestia, mi ponevo dei limiti! In realtà ai miei tempi per quanto riguarda l’atletica leggera non c’era assolutamente la possibilità di far pratica se non quando si arrivava verso la fine delle scuole medie. Nei vari paesi non c’era assolutamente niente che ti potesse permettere di fare questa attività. Per il calcio era diverso, o bene o male potevi sempre dare qualche calcio al pallone; in ogni paese, piccolo o grande che fosse, c’era un campo dedicato a questo sport ed avevi la possibilità di entrare in quel mondo andando a giocare nelle varie squadrette di “pulcini” di qualche società. Anche alle scuole medie lo sport più praticato era il calcio e si effettuavano dei tornei fra

13 classi. Ricordo che io ero titolare della squadra della mia classe e giocavo come difensore di destra. Non ero un asso, ma me la cavavo e siccome nella mia squadra c’erano un paio di eccellenti giocatori tra cui un difensore centrale che poi da grande giocò nel Verona, alla fine la nostra squadra era quella da battere. In quel periodo a scuola, per quanto riguarda l’atletica, il tutto si risolveva in qualche esercizio di salto in alto, salto in lungo e qualche corsa veloce. Il resto era tutta ginnastica da palestra. Le cose incominciarono a cambiare quando passai al biennio successivo alle medie. Il nostro insegnante di ginnastica prof. Manzotti era stato per due anni campione italiano universitario di salto in alto nonché valido atleta nei centodieci ad ostacoli. Era un vero appassionato di questo sport e tecnico di valore nazionale ricevendo in seguito degli incarichi dal CONI. Cercava di trasmettere ai suoi allievi i valori dello spirito sportivo enunciati dal barone De Coubertin che fu l’artefice della rinascita delle Olimpiadi. Io ero tutto preso dai suoi discorsi e intanto cresceva dentro di me l’amore per questo sport. Durante il primo anno con il prof. Manzotti le ore di ginnastica erano quasi interamente dedicate alle prove di atletica. Ci si cimentava e si apprendevano tutte le tecniche delle varie discipline che si potevano svolgere con le attrezzature disponibili a scuola. Si facevano le corse veloci, le corse di resistenza, i salti in alto, lungo e triplo e il lancio del peso. Io mi applicavo con passione per imparare bene le varie tecniche. Non ottenevo risultati di rilievo, un po’ emergevo nel lancio del peso, ma non con grossi risultati. Rimpiangevo il fatto che non ci fosse il disco, per praticare la mia disciplina preferita. In classe con me c’erano diversi compagni con uno o due anni di età in più e questo significa molto per ottenere dei risultati nelle discipline sportive. A fine anno scolastico qualcuno di questi miei compagni partecipò ai campionati d’istituto, io ero ancora troppo giovane. Ai successivi campionati provinciali un ragazzo del nostro istituto riuscì a classificarsi primo nel mezzofondo. Era davvero un grosso risultato in quanto la nostra scuola si fermava a un biennio dopo le medie mentre il Liceo, la scuola per geometri, per ragionieri o per periti durava cinque anni. Quel ragazzo lo conoscevo bene, non era in classe con me perché un anno più avanti, ma eravamo amici perché facevamo ogni giorno la strada assieme. Lui saliva sul mio stesso mezzo alla fermata dopo Preganziol, quella di villa Tivan dove suo padre faceva il custode. A quel tempo erano in vigore le filovie e ricordo ancora quanta gente vi saliva sopra. Alla fermata della Frescada dove scendevamo ci si trovava in una decina di studenti. Appena scesi dal mezzo via di corsa per un tratto lungo il Terraglio, poi si girava a destra verso le ex caserme di Dosson dove era sistemata la scuola, in via provvisoria dal dopoguerra. Il percorso era di quasi millecinquecento metri e alla fine il primo ad arrivare alla scuola era sempre quel mio amico

14 che poi diventò un forte mezzofondista. Io arrivavo immancabilmente secondo e ricordo che mi mordevo le labbra per non farmi staccare, ma lui era proprio troppo forte. Ed aveva un fisico da vero mezzofondista tanto che finite le scuole continuò a gareggiare ottenendo buoni risultati a livello regionale. Io ero cinque centimetri più basso di lui e di corporatura più robusta, ma me la cavavo bene. In seguito quando il meticoloso prof. Manzotti fece i suoi test sulle attitudini e caratteristiche atletiche mi disse che io ero un brachicardico, cioè con basso numero di pulsazioni cardiache, adatto alle corse di resistenza, ma con struttura fisica piuttosto robusta, quindi adatto alle prove multiple. Verso la fine di quell’anno scolastico avevo incominciato a mettere su qualche chilo di troppo e una volta, mentre si facevano prove di lancio del peso il professore, che mi stava osservando, mi apostrofò con un nomignolo che non mi piacque affatto: mi chiamò Ciccio. Io divenni tutto rosso dal risentimento. Il professore mi disse che potevo fare di più, che facevo bene il movimento, ma che il lancio del peso si compone di due fasi: la prima è il caricamento dei muscoli, che si comprimono come una molla, la seconda è la distensione che deve avvenire come una esplosione di tutta l’energia accumulata. E mi ripeté lentamente: compressione e… Badabang! esplosione! Accusai il colpo e la lezione e dentro di me incominciò a nascere una voglia di rivalsa, di dimostrare chi ero. Vedrai, te la farò vedere io, Professore! E intanto fini l’anno scolastico e incominciarono le vacanze. Non passò tanto tempo che mi misi all’opera per prepararmi a casa un vero e proprio campo di atletica. Tracciai un percorso di millecinquecento metri in mezzo alla campagna per effettuare la corsa campestre. Negli ampi spazi verdi che avevo dietro a casa preparai una pedana per fare il lancio del peso e del disco. Poco lontano trovai lo spazio per il lancio del giavellotto. Nel prato che si trovava dietro casa c’era una grande buca rettangolare piena di sabbia che serviva di scorta per quando ci fosse qualche lavoro edile. La preparai per bene livellandola a dovere. Era l’ideale per fare il salto in alto, il lungo e il triplo. Poi cercai di procurare gli attrezzi. Per il peso a forza di cercare fra le robe vecchie dell’azienda di mio padre trovai una palla di ferro di quasi cinque chili. Era un po’ sbilenca ma con la forgia, l’incudine e il martello riuscii a sistemarla a sufficienza. Poi costruii i ritti per il salto in alto, trovai una lunga canna di bambù per fare il lancio del giavellotto. Infine mi costruii un bilanciere per il sollevamento pesi. Questo mi sarebbe servito per rassodare la muscolatura. In seguito trovai anche una canna di bambù gigante che mi servì per esercitarmi nel salto con l’asta. Mi mancava il disco la cui tecnica di lancio non era ancora stata provata a scuola. Ricordo che avevo visto in un negozio di articoli sportivi di Treviso un disco esposto in vetrina senza

15 prezzo. Sono passato più volte ad ammirarlo senza osare di entrare per chiedere quanto costava, ma in tutti i casi non avrei potuto acquistarlo. Ero come un bambino che guarda un giocattolo che gli piace ma che non può comperare. E così passai tutte le vacanze a svolgere con assiduità la pratica sportiva. Non saltavo giorno senza svolgere i compiti che mi ero prefisso. Già, i compiti, perché non avevo compiti scolastici da compiere, non avevo materie da recuperare, come di consueto ero stato promosso a Giugno a pieni voti. I compiti che mi ero prefisso erano la corsa campestre che mi piaceva molto e mi aiutava a smaltire il grasso eccessivo che avevo accumulato, il sollevamento pesi che mi rinforzava la muscolatura e le prove di atletica, in particolare il lancio del peso, per farla vedere al professore che mi aveva chiamato “Ciccio” e mi aveva detto che dovevo fare meglio. Di recente ho trovato una piccola agendina di quei tempi dove ogni giorno segnavo i risultati ottenuti e si vede come col passare del tempo le misure dei lanci e salti progredivano mentre i tempi di percorrenza del tracciato di corsa campestre diminuivano. E così all’inizio dell’anno scolastico 1953-54 mi sono presentato in piena forma fisica. Volevo vedere se il professore si permetteva di chiamarmi ancora a quel modo. Non ho confidato a nessuno del mio campo di atletica personale e delle ore e ore passate ad allenarmi con ostinazione. Il primo giorno di lezione di ginnastica abbiamo fatto la prima mezzora in palestra per il riscaldamento poi siamo usciti all’aperto dividendoci in due gruppi. Il primo faceva salto in alto il secondo, dove c’ero io, faceva lancio del peso. Si aveva l’abitudine di lanciare mentre il resto dei compagni si metteva davanti al punto di caduta dell’attrezzo, con un po’ di margine di sicurezza. Quando fu il mio turno il gruppo di compagni si mise come al solito oltre i dieci metri perché quello era il normale limite dei lanci. Ma io chiesi ai compagni di arretrare almeno di due o tre metri. Quelli si misero a ridere chiedendo di cosa avessi paura ma poi, vedendo che insistevo si spostarono indietro. Adesso è il mio momento pensai e iniziai il lancio. C’era dentro di me ancora la rabbia accumulata mesi prima. Caricai per bene la “molla”, cioè i muscoli interessati, e poi … “Badabang“, come aveva detto il professore. La palla cadde oltre i dodici metri tra il mormorio di sorpresa dei compagni. Uno di questi chiamò a gran voce l’insegnante che stava seguendo il gruppo del salto in alto. Dal richiamo del mio compagno sembrava che fosse successo un incidente e il professore arrivò di corsa. I compagni gli raccontarono l’accaduto e mostrarono il punto di caduta del peso. Il professore mi chiese subito di fargli vedere un lancio ed io pronto: caricamento e … “Badabang”. L’attrezzo volò nel punto del precedente lancio. A quel punto l’insegnante mi chiese come avevo fatto a migliorare così

16 tanto in così poco tempo. Io gli risposi che durante le vacanze avevo fatto esercizio di “Badabang”. Egli non capì, forse perché non si ricordava della lezione di fine anno. Allora gli ripetei che mi ero semplicemente allenato. Il professore allora s’incamminò verso la pedana del salto in alto non prima di avermi detto: - bene, vedrai che per fine anno scolastico arriverai ai tredici metri. In quel momento gli sarà già balenata l’idea della coppia di lanciatori che avrebbe potuto presentare ai campionati provinciali di primavera. Già perché nel nostro istituto, non nella mia sezione ma in quella degli elettricisti c’era un forte lanciatore di peso che negli ultimi due anni non aveva avuto rivali. Aveva due anni e mezzo più di me in quanto era stato ripetente per due volte, era alto un metro e ottantacinque, cioè dieci centimetri più di me. Al contrario di me a scuola non andava affatto bene, si comportava da bullo, da smargiasso e si vantava della sua strapotenza fisica. Dentro di me incominciava a farsi largo un’idea un po’ assurda: quella di poterlo battere ed umiliare nel suo stesso regno. Ma era una lotta impari, una sfida tra Davide e Golia, per quello non confidai a nessuno cosa mi frullava per la testa. Intanto gliel’avevo fatta vedere al professore, come mi ero prefisso quella volta che mi aveva chiamato “Ciccio”. Ma al professore feci vedere qualcos’altro. La lezione successiva di Educazione Fisica andammo a fare corsa campestre. Nella mia classe c’erano due fortissimi mezzofondisti, uno era arrivato sesto ai campionati provinciali dell’anno appena passato pur essendo mio coetaneo, l’altro gli era di poco inferiore. L’anno precedente io ero quinto – sesto nella graduatoria della corsa campestre della mia classe, questa volta arrivai terzo e mantenni la posizione per tutto l’anno senza problemi. Anche qui un bel progresso! E quando facemmo alcune campestri con le altre classi dell’istituto un solo ragazzo delle altre sezioni riuscì ad inserirsi tra me e i due miei fortissimi compagni. Un bel risultato per uno specialista dei lanci, com’ero io. Per questo motivo ero inserito nel gruppo di ragazzi che una volta la settimana anziché fare ginnastica in palestra andava ad allenarsi nei campi nel percorso di mezzofondo. A fine inverno si svolsero i campionati provinciali di corsa campestre sulla distanza di millecinquecento metri. Il campo prescelto era l’ippodromo di S. Artemio famoso per le corse dei cavalli. Ogni istituto poteva partecipare con quattro atleti. Io venni convocato come prima riserva e per poco non mi trovai a gareggiare. Infatti il nostro secondo miglior atleta tardò a presentarsi al raduno tanto che il professore mi fece cambiare ed effettuare il riscaldamento con la squadra. Alla fine il compagno mancante arrivò trafelato dopo aver fatto la strada in bicicletta. Ci fu un po’ di parapiglia, non si capiva se dovevo correre io o quello inizialmente designato. Alla fine il prof. Manzotti riuscì a ripristinare il nominativo nella lista dei partenti, ma il compagno arrivato all’ultimo momento non riuscì ad entrare

17 nei primi cinque della batteria per poter disputare la finale dei primi. Questa delusione venne compensata dalla facile vittoria in batteria del nostro miglior atleta, mio carissimo amico e compagno di classe. Il giorno successivo fu una apoteosi: il nostro campione vinse la finale correndo in testa dall’inizio alla fine. Ricordo che piansi lacrime di gioia assistendo alla gara dalle tribune! L’altro nostro campioncino dovette accontentarsi di vincere la finale dei secondi piazzandosi solo sedicesimo nella classifica finale. Quella volta fu una grande giornata per la nostra scuola che aveva bissato il successo dell’anno precedente. Io fui particolarmente felice per la vittoria del mio compagno di classe perché era un ragazzo d’oro, modesto, che si era costruito il successo spinto dalla passione per la corsa. Sapevo che a casa si allenava con assiduità nelle campagne attorno a casa sua. Conoscevo bene quella molla che ti spinge a fare sacrifici ed allenamenti continui. Egli aveva certamente delle doti che madre natura gli aveva regalato ma il resto l’aveva messo lui con il suo costante impegno, con le sue continue corse nei campi. Del resto si sa che il mezzofondo è una disciplina di fatica, di sacrificio. Chi ha seguito l’atletica negli anni cinquanta ricorderà la smorfia di sofferenza che accompagnava la corsa di quel grande campione che era Emile Zatopeck, soprannominato uomo cavallo per le sue leggendarie imprese. E finalmente quell’anno venne inserito l’insegnamento e la pratica del lancio del disco. E’ quello che segretamente aspettavo. Durante le vacanze avevo fatto anche questa pratica, ma non avevo un attrezzo adatto, facevo solo pratica dei movimenti lanciando un grosso masso piatto e rotondo. Mi era servito solo per imparare ad assumere la posizione di lancio e ad effettuare la rotazione richiesta. Troppo poco. Ma ora incominciava il bello, potevo prendere in mano, anzi accarezzare, l’oggetto dei miei sogni di ragazzo. All’inizio si facevano a turno lanci da fermo, poi si passò ai lanci con la rotazione. La maggioranza dei ragazzi non riusciva a restare in pedana quando si trattava di eseguire la rotazione. Io avevo già un po’ di dimestichezza ed effettuavo l’esercizio abbastanza bene. Un po’ alla volta aumentavano anche le misure ottenute, ma sentivo che l’esercizio non era ancora fluido e sicuro, il potenziale fisico non espresso per intero. Comunque il progresso era continuo. In quel periodo Adolfo Consolini continuava a lanciare, seppure anziano, ma aveva perso il record mondiale per mano di un americano, un certo Fortune Gordien che era diventato popolare per aver modificato la tecnica di lancio, soprattutto come filosofia. Infatti anch’egli iniziava il lancio partendo con le spalle rivolte al campo di gara ed effettuava la classica rotazione di un giro e mezzo, ma aveva come obiettivo principale la rotazione velocissima per accumulare più forza centrifuga possibile. Prima di lui la rotazione si poneva l’obiettivo di arrivare alla posizione di lancio anziché da fermo come una volta, in movimento, ma si

18 badava prevalentemente a raggiungere la massima compressione della gamba di lancio. Ora si badava soprattutto a raggiungere la massima velocità di rotazione possibile. La Gazzetta dello sport aveva dato rilievo all’avvento della nuova tecnica ed aveva illustrato il lancio tipo Gordien con una esauriente sequenza di foto dell’atleta. Da quel momento una nuova idea incominciò a frullarmi per la testa. Incominciai a provare e riprovare nella pedana che avevo a casa, ma non avevo l’attrezzo vero. Ho capito subito che ci sarebbe voluto molto tempo prima di arrivare a dominare l’energia che si sprigionava. Ma ero intestardito a seguire ciò che mi frullava per la testa. Alla prima occasione che si presentò a scuola non mancai di provare. Stavamo facendo l’ora di Educazione Fisica provando il lancio del disco. Presi l’attrezzo e sotto gli occhi del professore mi misi a roteare a velocità pazzesca come richiedeva la tecnica innovativa. Naturalmente uscii di pedana e il disco partì sfarfallando verso destra. Sentii subito la voce dell’insegnante che mi urlava chiedendomi se fossi impazzito. A pensarci bene non aveva tutti i torti, a una trentina di metri, un po’ a sinistra rispetto la direzione di lancio c’erano i finestroni dell’officina meccanica e un lancio impazzito avrebbe potuto fare sfracelli. Dissi al professore dello stile Gordien e lui incazzato mi disse che qui siamo in Italia e non in America e che se volevo ancora lanciare dovevo fare come diceva lui. Naturalmente non potei far altro che chiedere scusa ed adeguarmi. Ma a casa continuavo a provare e riprovare la rotazione veloce ed a cercare qualcosa che assomigliasse a un vero disco. Dopo un po’ di tempo mi azzardai a chiedere di poter portare a casa in prestito un disco di quelli in dotazione alla scuola in quanto un peso ce l’avevo già, ma l’altro attrezzo no. Il professore mi rispose che un disco di riserva l’aveva già prestato ad un altro ragazzo della sezione elettricisti per cui non era possibile. Infine disse – pensa al peso, non pensare al tuo Gordien. Io non pensavo all’americano ma al mio Consolini che si stava convertendo alla nuova tecnica e incominciava ad ottenere risultati convincenti, nonostante l’età avanzata. Ma nelle scuole normali neanche a pensarci di provare le tecniche innovative, gli insegnanti andavano avanti con le tecniche imparate a loro volta a scuola. Per le novità bisognava aspettare anni: è sempre stato così. E’ stato così per il lancio del peso cosiddetto “dorsale” di O’Brien, per il salto in alto “ventrale” e poi per il successivo dorsale di Fosbury. Intanto il tempo passava e dovevo trovare qualche soluzione per poter acquisire la nuova tecnica di lancio quindi cercai di trovare un qualcosa che si avvicinasse per forma e peso all’attrezzo di gara. Ma la soluzione trovata non era un granché e mi dovevo accontentare a far esercizio alla meno peggio. Nel frattempo continuavo a fare sollevamento pesi con il bilanciere. Ad integrazione di questi assidui esercizi durante il periodo invernale spaccavo legna a più non posso, anche questo aiutava

19 ad irrobustire le spalle. Intanto alla sezione elettricisti era arrivata la voce che anche dai meccanici stava emergendo un buon lanciatore di peso e un giorno mentre si faceva Educazione Fisica il bullo lanciatore di quella sezione venne di sottecchi a curiosare. Lo notai anche se era in disparte e noncurante effettuai un paio di lanci curando bene l’esecuzione tecnica ma senza innestare il “Badabang”. Da quella volta il bullo andava in giro dicendo che in gara mi avrebbe dato oltre un metro, lanciando sottogamba. Intanto a primavera si sono svolte le prove per il conseguimento del “certificato di valutazione atletica”. Si trattava di effettuare individualmente delle prove in determinate discipline di atletica. Il professore misurava tempi e risultati ottenuti e compilava delle schede che poi davano un risultato complessivo per la valutazione. La valutazione era espressa in: ottimo, buono, sufficiente e insufficiente. Le prove previste erano: la corsa di velocità degli ottanta piani, il salto in alto e lungo e il lancio del peso effettuato con entrambe le braccia. Questa ultima prova era proprio indigesta per tutti gli alunni. Infatti ognuno di noi è o destro o mancino e quindi abituato ad usare uno o l’altro braccio. Io sono destro ma a quel tempo era da quasi un anno che durante gli assidui allenamenti che praticavo a casa usavo lanciare alternativamente con entrambe le braccia. Questo perché avevo letto che praticare il lancio del peso procurava uno scompenso nello sviluppo fisico, dovuto all’uso di una solo braccio, una sola spalla e una sola gamba. Così, per ovviare all’inconveniente ho incominciato ad usare alternativamente le due braccia. All’inizio era una cosa pietosa, quasi mi tiravo tra i piedi l’attrezzo ma poi pian piano ho preso dimestichezza e lanciavo correttamente anche con il braccio sinistro seppure con misure nettamente inferiori del destro. Per il brevetto di valutazione atletica nell’esercizio del lancio del peso, per ottenere ottimo nella mia fascia di età bisognava ottenere almeno dieci metri con il primo braccio e almeno nove con il secondo. Io ho ottenuto oltre dodici metri con il primo braccio e largamente oltre nove con il secondo. Nessun’altro è riuscito a superare i limiti con le due braccia. Nel giudizio complessivo per ottenere ottimo bisognava averlo raggiunto in tutte le specialità. Alla fine solo in due ragazzi di tutta la classe siamo riusciti ad ottenere la valutazione di ottimo anche se l’altro ragazzo, aveva mancato la prova del secondo braccio nel lancio del peso. Bisogna però ammettere che nelle altre prove aveva largamente superato il minimo richiesto. Questo ragazzo era da qualche anno il mio compagno di banco col quale avevo un rapporto di amicizia speciale e sempre in strenua competizione per ottenere il riconoscimento di primo della classe. Questo strenua e amichevole voglia di superarsi aveva portato ad ottenere dei risultati considerevoli nel profitto, ma alla fine la mia predisposizione

20 per fare dei buoni compiti d’italiano mi portava sempre a vincere la competizione. Infatti mentre in tutte le altre materie ottenevamo entrambi ll massimo, nella prova d’ italiano scritto io ero il primo della classe mentre lui superava appena la sufficienza. Nelle gare di atletica era la stessa cosa, la stessa strenua competizione per superarsi. Egli aveva un fisico possente, sfidava e vinceva con tutti a braccio di ferro e nelle corse veloci era una saetta. Avrebbe voluto vincere tutto, avrebbe pagato non so che per stracciare tutti nei lanci, la prova di forza per eccellenza. Ma proprio lì non c’era gara contro di me. Non aveva capito che non bastava la forza. E così sbuffava ma doveva subire l’onta di vedere i miei lanci ben oltre i suoi. Nel mezzofondo le aveva provate tutte pur di battermi ma non c’era niente da fare, arrivava al traguardo stremato ma un bel po’ dopo di me. Così si convinse a dedicarsi alla corsa veloce dove non aveva rivali. Correva con i gomiti larghi, contro ogni regola stilistica, ma andava forte. Nel salto in lungo era pure forte, ma non mi batteva di molto, non tanto quanto la differenza di velocità di base che aveva nei miei confronti. Nel salto in alto eravamo allo stesso livello, buono ma non eccelso. Ed arrivarono finalmente i campionati d’istituto. Il programma delle gare mi procurò una delusione in quanto oltre ai lanci avrei voluto partecipare ai millecinque dove avevo la possibilità di arrivare nei primi quattro - cinque. Ma la gara si effettuava in contemporanea al lancio del disco. Stessa cosa per il salto in lungo dove volevo iscrivermi ma la gara si svolgeva in contemporanea al lancio del peso. Nel periodo precedente le gare ero tutto preso per riuscire a prendere confidenza con il nuovo modo di lanciare il disco, ma a scuola non lo potevo fare e a casa non avevo il disco regolamentare. Avevo un po’ messo in secondo piano il peso ma nondimeno mi stavo avvicinando ai tredici metri come aveva pronosticato il professore. Quando parlo di queste misure forse qualcuno sorride, ma oggigiorno hanno ben altro significato di allora. A quel tempo il record italiano di questa specialità era sotto i quindici metri e non ventidue come ora! La prima gara a cui ho preso parte è quella del lancio del peso. Il campo di gara fu predisposto fuori della scuola, nel campo sportivo delle vecchie caserme con una pedana tracciata al momento. La scelta era dovuta al fatto che in contemporanea al peso si svolgeva la gara del salto in lungo e, all’interno della scuola le due pedane erano troppo vicine. Il giudice di gara per il lancio del peso non era il mio professore di ginnastica ma un professore della sezione elettricisti, con la quale eravamo sempre in lotta per la supremazia. Il pubblico era composto da tutti i fans del lanciatore della stessa sezione. Della mia sezione c’era solo un insegnante di laboratorio che a fine gara fece un casino infernale affermando che la gara non era stata regolare. All’inizio della gara ero tranquillo e caricato, non sentivo e non

21 vedevo niente. Era giunta l’ora tanto attesa. Quando è arrivato il momento del primo turno di lancio sono andato in pedana e senza tanti preamboli ho eseguito il caricamento e … Badabang, ho scaricato tutto quello che avevo dentro. Il peso è volato ben oltre le misure di chi mi aveva preceduto, tra il profondo silenzio degli amici del bullo. Unico grido di gioia è stato quello del professore della mia sezione che ha incominciato a contestare il modo in cui è stata rilevata la misura, dicendo che mi avevano fregato almeno un paio di centimetri. Comunque il risultato, 12.76 ha fatto subito capire al mio avversario sbruffone che il pronosticato metro di distacco, lanciando sottogamba, era da considerarsi una chimera. Alla fine del primo turno di lanci ero in testa con mezzo metro di margine rispetto al favorito della gara. Il resto dei concorrenti era ben lontano, nessuno aveva raggiunto gli undici metri. La cosa rimase così fino al penultimo lancio. Io intanto avevo fatto una serie di lanci molto regolari sopra i dodici metri e mezzo, dominando la gara, ma non mi ero montato la testa, sapevo che il bullo poteva trovare il lancio vicino ai tredici metri, anche se fino a quel momento era stato costantemente sotto le mie misure. Al quinto turno il bullo lanciò con la forza della disperazione una bordata anomala, più bassa del solito che andò a cadere su una chiazza di materiale duro, forse caranto, e schizzò via in avanti senza lasciare una impronta certa. Subito il professore della mia sezione che faceva il tifo per me si mise a urlare che il lancio era nullo in quanto il concorrente aveva sormontato con un piede la riga della pedana. Io non guardavo i lanci degli altri concorrenti, me ne stavo in disparte concentrato, quindi non ho visto nulla. A quel tempo non c’erano riprese televisive, tantomeno in gare di quel livello, e quindi nessuna possibilità di verifica. Il casino fatto dall’insegnante della mia sezione aveva distolto l’attenzione sulla misurazione e sul punto di impatto. Alla fine il lancio venne registrato come 12.78, due centimetri sopra la mia misura. Nacque un parapiglia con il mio sostenitore che pretendeva una verifica dei due lanci, ma tutto fini lì, con il giudice di gara che se la rideva sotto i baffi per lo scampato pericolo. Infatti ormai aveva temuto per una sconfitta del portacolori della sua sezione. Io non ero per nulla toccato dal fatto: infine avevo raggiunto lo scopo di far sgonfiare il bullo. Non ho trovato la rabbia che sarebbe servita per avvicinare i tredici metri, ciononostante nel lancio che restava ci ho provato e sono arrivato a 12.74 solo due centimetri sotto la miglior misura precedente. A quel punto il professore della mia sezione tornò infuriato a chiedere la verifica delle misure sostenendo che in caso di parità dei due migliori lanci la vittoria spettava a chi aveva la migliore seconda prestazione. A norma di regolamento aveva ragione lui. In quel caso avrei vinto io perché avevo la migliore seconda misura, ma anche la terza e la quarta. Il giudice di gara, palesemente di parte, chiuse la partita senza alcuna

22 verifica e la cosa fini lì. Io ero contento lo stesso, avevo gareggiato con un avversario più anziano di oltre due anni, che era abituato da due anni a fare gara senza avversari. Questa volta a dispetto delle sue sbruffonate aveva trovato un avversario che aveva fatto una serie di lanci migliore della sua e che forse lo aveva anche battuto. E questo lui lo sapeva bene, tanto che alla fine della gara non ha per niente esultato, era mogio, mogio. Io non ho fatto alcuna protesta nonostante l’insistenza del professore della mia sezione che in seguito, ogni volta mi incontrava mi chiedeva il perché di questa mia rinuncia. Quel professore l’ho incontrato anni dopo fuori dell’ambiente scolastico e continuava a ripetermi che quella volta avevo vinto io, che il lancio del mio avversario era nettamente da annullare e che avevano barato anche nella misurazione. Io ho preso la cosa con filosofia, mi ero preso lo stesso una bella soddisfazione. Quello che invece non ho digerito, e che anche oggi mi dà fastidio, è il successivo svolgimento della gara del lancio del disco. Stesso giudice di gara, stessa situazione con tutti i miei compagni di classe, compreso l’insegnante mio sostenitore, a seguire la gara dei millecinquecento metri per godersi lo spettacolo dei miei due compagni di classe veramente forti, uno addirittura vincitore dei campionati provinciali di fine inverno. Se avessi immaginato lo svolgimento della gara del lancio del disco sarei andato anch’io a godermi la gara di mezzofondo, anzi vi avrei partecipato, con buone probabilità di piazzarmi quarto o quinto. La gara del disco si svolse, contrariamente ad ogni logica, all’interno della scuola, utilizzando la pedana del peso e lanciando verso il cortile su un terreno ghiaioso. Per motivi di spazio disponibile la tracciatura del settore di lancio venne effettuata più stretta di quella regolamentare. Per giunta la riga di calce del limite destro era rettilinea fino ai trenta metri, poi era palesemente curva verso l’interno riducendo ulteriormente l’ampiezza del settore. Tutto questo, oltre alla composizione dei giudici di gara mi preoccupava non poco. Un settore più stretto del normale danneggiava certamente chi avesse eventualmente lanciato con la rotazione veloce. Ed io ero l’unico che si cimentava con questa innovativa tecnica. Il favorito della gara era quel ragazzo della sezione elettricisti che aveva avuto in prestito un disco dalla scuola, ma nessuno sapeva dei miei allenamenti a casa per acquisire la nuova tecnica di lancio, nessuno mi aveva visto lanciare “alla Gordien“. Il favorito aveva un anno più di me ed aveva acquisito sicurezza nei lanci, non faceva nulli e lanciava con regolarità intorno ai trenta metri. E così fece anche quel giorno fin dal primo lancio. Io lanciavo subito dopo di lui. Ero concentratissimo. Aspettavo quel momento. Presi in mano il disco, il mio agognato disco e lo accarezzai. Poi feci un paio di oscillazioni prima di iniziare la rotazione ad una velocità pazzesca. Sentii subito che l’energia sprigionata era stata tutta scaricata sul

23 disco che prese a volare lontano, lontano, mentre io ero riuscito a rimanere in pedana. Il disco planò otre i trentatre metri vicino alla riga destra del settore, nel punto dove la riga era storta verso l’interno. Tra i ragazzi che seguivano la gara si sentì un oh! di stupore. Il giudice di gara si avvicinò al punto di impatto e dichiarò il lancio nullo. Andai a verificare e a me sembrava dentro, proprio al limite. Un giudice non di parte avrebbe tenuto conto della tracciatura storta della riga e avrebbe agito diversamente in quanto non era stata toccata la riga, il lancio era proprio al limite interno, quindi regolare. Dovetti rassegnarmi ed andare avanti deluso come non mai. Al secondo lancio non ero concentrato, ero arrabbiato e volevo strafare con il risultato di commettere lancio nullo andando fuori pedana e mandando il disco a farfalle. A quel punto avevo un solo lancio di qualificazione a disposizione e rischiavo l’eliminazione. Allora decisi di effettuare un lancio di sicurezza, da fermo, senza rotazione ed ottenni la qualificazione al quarto posto. Nei tre lanci finali avevo riacquistato fiducia. Al primo lancio ebbi la stessa sensazione del lancio iniziale ed infatti il disco andò a planare molto lontano pressappoco nel punto di impatto del primo, ma sicuramente più lontano dalla riga quindi non contestabile. A quel punto vidi chiaramente il professore che faceva da giudice andare con il tacco di una scarpa nel punto di impatto e strisciare per terra verso la riga di settore per poi alzare la bandierina rossa per indicare lancio nullo. Andai di corsa dal professore a chiedere cosa aveva fatto con il tacco della scarpa. Egli mi rispose che aveva marcato il punto di impatto per renderlo più visibile. - Ma perché ha tracciato una riga così lunga - obiettai io aggiungendo: - lei ha trascinato il segno fino alla riga. Il mio lancio era ad almeno dieci centimetri lontano dalla riga che per giunta è storta verso l’interno. Il professore mi cacciò via dicendo che non mi avrebbe lasciato continuare la gara. Poi cambiò idea perché aveva visto che ormai avevo perso la concentrazione ed ero furioso. Infatti al secondo lancio avrei voluto spaccare il mondo con il risultato di commettere lancio nullo. A quel punto non sapevo più cosa fare, nel frattempo con un solo lancio valido, quello effettuato da fermo, ero scalato al quinto posto. Se avessi tentato l’ultimo lancio con la rotazione veloce avrei potuto vincere largamente la gara, ma in caso di lancio nullo non avrei nemmeno visto il podio, ed io speravo di arrivare almeno secondo per ottenere la qualificazione ai campionati provinciali. Allora decisi di effettuare l’ultimo lancio in sicurezza, non da fermo ma con la rotazione lenta. Sapevo di poter arrivare attorno ai trenta metri. Al momento era in testa il favorito con 30.25 m. Lanciai quindi con questa tecnica ed arrivai a 29.98 raggiungendo il secondo posto che mi dava diritto a rappresentare la scuola ai campionati provinciali. Conclusi la gara con le lacrime agli occhi sapendo di aver fatto due lanci regolari di otre 33 metri. Ma a questo porta il campanilismo esasperato tra le varie

24 sezioni della scuola e la disonestà di un professore chiamato a fare il giudice di gara. La parola disonestà posso pronunciarla serenamente perché ho visto con i miei occhi. Nella gara del peso ho solo la testimonianza di un insegnante della mia sezione, anche se ho la sensazione netta che anche in quel caso lo stesso giudice di parte l’abbia combinata grossa. Alla fine delle gare ho riferito al prof. Manzotti il fatto avvenuto e gli ho mostrato il punto di impatto del disco, ben tre metri oltre il vincitore. Ho riferito anche del gesto con il tacco della scarpa fatto dal giudice. Per tutta risposta l’insegnante di ginnastica mi ha detto che lo sport insegna ad accettare i giudizi di chi è preposto ad emetterli. Già – ho risposto – ma i giudici dovrebbero essere imparziali. La cerimonia di premiazione delle gare si svolse nel cortile della scuola alla presenza di tutti gli alunni e insegnanti dell’istituto. Il preside chiamava gli atleti sul podio consegnando le medaglie. Quando fu il momento della premiazione del lancio del peso lesse il nome dei premiati ed anche il risultato ottenuto sottolineando il fatto dell’esiguo distacco fra il primo e il secondo. Due centimetri - disse – sono niente. E quando si accinse a mettere la medaglia al collo al vincitore una voce tra la folla gridò: hai vinto con un lancio nullo! Vergogna! Tutti si guardarono intorno: era il professore della mia sezione che aveva assistito alla gara e non si dava pace. Poi durante la mia premiazione i miei compagni di classe e la gran parte degli alunni presenti applaudirono fragorosamente per un bel po’ e questo mi gratificò molto. Seguì la premiazione del lancio del disco e quando arrivò il mio turno il preside, che mi conosceva bene per i risultati del profitto, mi disse scherzosamente: ah, allora arrivi secondo anche tu, qualche volta. Sembrava una inopportuna presa per i fondelli, ma il preside non sapeva nulla dei fatti avvenuti ed era un uomo tutto d’un pezzo. Dopo i campionati il prof. Manzotti mi iscrisse assieme ad altri ragazzi che avevano ottenuto buoni risultati alla società sportiva “Gruppo Atletica Treviso” con sede alla palestra Verdi di Treviso. Così avevamo modo di allenarci in quel centro sportivo due - tre volte alla settimana in vista dei campionati provinciali. Non era ancora fatta l’iscrizione a questi campionati ma il professore aveva detto che avrebbero partecipato il primo e il secondo classificato di ogni gara. Io ero l’unico ad avere ottenuto il diritto in due discipline, nemmeno il mio forte compagno di banco era riuscito a tanto in quanto aveva “ciccato” la gara del salto in lungo, ma il professore disse che nessuno avrebbe fatto due gare. Questo per dare la possibilità a più atleti di partecipare all’ambita manifestazione. Pensai che almeno mi sarebbe stata concessa la possibilità di scegliere quale gara effettuare. In questo caso avrei scelto il lancio del disco, la mia gara preferita. Ma non fu così, il professore disse che è

25 importante partecipare con una squadra che si distingua per disciplina e preparazione tecnica. Io controbattevo affermando che potenzialmente mi sentivo di poter vincere il lancio del disco, non il peso. E lui a controbattere che nel disco non avevo ancora raggiunto la sicurezza dell’esecuzione dello stile che mi ero intestardito ad adottare e che potevo incappare in una serie di lanci nulli, facendo fare una brutta figura alla scuola. Inoltre, aggiunse, nel lancio del peso abbiamo la possibilità di vincere la coppa di specialità assegnata alla migliore coppia. Insomma per ragione di immagine d’Istituto ero costretto a sacrificare il mio sogno. Si perché andare allo stadio Tenni di Treviso a rappresentare la mia scuola nel lancio del disco sarebbe stata la mia Olimpiade. Ma era un sogno che svaniva, mi dovevo adeguare. Durante le sedute di allenamento nel campo sportivo della palestra Verdi mi allenavo per il peso ma appena potevo effettuavo anche lanci del disco e ogni giorno che passava trovavo sempre più confidenza con la nuova tecnica e i lanci nulli erano sempre più rari mentre si consolidavano le buone misure. Ma ormai neanche a sognarsi di far cambiare idea al professore. Intanto man mano che si avvicinavano i campionati provinciali sentivo l’attrezzo del lancio del peso sempre più pesante; quando mi preparavo a lanciare mi prendeva quasi un senso di nausea ed avevo perso l’entusiasmo. Il traguardo dei tredici metri che avevo già superato qualche volta in allenamento si stava allontanando. Erano chiari sintomi di sovrallenamento, di affaticamento. E venne il giorno dei campionati. Lo stadio Omobono Tenni di Treviso era stracolmo di spettatori: erano presenti tutti gli studenti della provincia con il seguito di genitori e amici. Io non avevo nessuno al seguito, i miei famigliari erano impegnati con il lavoro. Se avessi gareggiato nel lancio del disco gli avrei pregati di venire allo stadio a vedere la mia Olimpiade, ma così no. Avevo l’amaro in bocca, un po’ frastornato e intimorito da tutta quella gente. Sono stato chiamato alla pedana del peso assieme al mio compagno d’istituto, il ragazzo bullo che partecipava per la terza volta a questa competizione. Tra noi non c’era colloquio, c’era antagonismo. Io guardavo lontano verso la pedana del lancio del disco, la mia mente era là. Il prof. Manzotti ci aveva fatto le ultime raccomandazioni. Incominciò la gara e quando fu il mio turno e presi in mano l’attrezzo mi sembrava di avere in mano un macigno, ciononostante cercai di fare del mio meglio. Vedevo intorno a me dei ragazzoni alti e grossi e sicuramente più anziani di me, già con la barba come il mio compagno bullo. Per fortuna notai che molti lanciavano male, non avevano una sufficiente tecnica. Nei tre lanci di qualificazione nonostante l’impegno non sono riuscito ad ottenere le mie misure e mi qualificai per la finale per un pelo, una decina di centimetri di margine. Il mio compagno

26 bullo si piazzò al terzo posto ed era visibilmente gongolante. Nel primo lancio di finale andò un po’ meglio, guadagnai una posizione in classifica mentre il mio compagno bullo ne perse una. Ripresi un po’ di coraggio e al quinto lancio trovai un po’ di concentrazione cercando di uguagliare il mio compagno bullo. Trovai un buon …Badabang e raggiunsi quasi le mie misure. Alla fine della gara mi piazzai al quinto posto tra tanti ragazzoni. Il mio compagno bullo si piazzò quarto con 12 centimetri di vantaggio su di me. Eravamo l’unico istituto con due concorrenti arrivati in finale. Per un pelo riuscimmo a conquistare la coppa di specialità, ma la cosa non mi entusiasmò più di tanto, non come il prof. Manzotti che aveva avuto ragione. Io non so come ho fatto in quelle condizioni di fisico e morale a trovare la forza per quel lancio che ci ha dato la vittoria di squadra. Di tutte le gare quella era l’unica vittoria per il nostro istituto: del resto ci si confrontava con ragazzi più anziani di noi, buona parte di noi era del 1937 con qualche atleta del 1936 e qualche altro del 1935, come il mio compagno pesista. Secondo la classificazione federale noi del ’37 eravamo della categoria Allievi, quelli più anziani erano Juniores. Nel lancio del peso addirittura nelle gare ufficiali gli Juniores usano il peso da sei kg mentre gli allievi usano quello da cinque. Se ci fosse stata una classifica per categoria sarei risultato primo della categoria allievi. Il nostro professore era felicissimo dei risultati, della dimostrazione di compattezza della nostra scuola, della preparazione tecnica dimostrata. Si ma se penso che il lancio del disco è stato vinto con 33 metri, la mia misura, e che i nostri due lanciatori non sono nemmeno entrati in finale, mi mordo le unghie ancor oggi. Viva la disciplina e l’obbedienza dunque! Dopo i campionati provinciali ho continuato a frequentare il centro sportivo della palestra Verdi fino alla fine dell’anno scolastico. Non ho più fatto allenamenti con il peso ma spesso con il disco, con il giavellotto, il salto in lungo, il triplo, ho provato il salto con l’asta e naturalmente inanellato parecchi giri di pista. Ricordo che una sera, mentre facevo esercizi a terra, sul prato accanto alle piste ho sentito il prof. Manzotti parlare di me ad un collega insegnate come lui e che aveva incarichi federali. Disse testualmente: questo qui se avesse dieci centimetri di altezza e venti chili di peso in più diventerebbe un discobolo di valore, ma è comunque valido per le prove multiple in quanto è forte anche nei millecinque. Ho continuato a frequentare regolarmente la palestra Verdi fino alla fine dell’anno scolastico poi ho immediatamente incominciato a lavorare con orari molto impegnativi che mi impedivano di frequentare la palestra dal lunedì al sabato. Ci andavo soltanto alla domenica mattina. Dopo quindici giorni dalla fine dell’anno scolastico la FIDAL, Federazione Italiana di Atletica Leggera aveva organizzato un raduno della durata di una settimana in un centro sportivo

27 federale dedicato a una selezione di studenti che nell’ultimo anno scolastico si erano distinti nelle varie gare. Il raduno era previsto con la guida tecnica del prof. Manzotti ed altri tecnici. Il professore mi contattò per invitarmi a quel ambito appuntamento, ma non potei aderire per i problemi di lavoro. Comunque l’invito fu per me una grande soddisfazione e mi fece pensare che fosse un segno di gratitudine nei miei riguardi da parte del professore. In seguito l’aumento dell’impegno richiesto nel lavoro mi costrinse a rinunciare definitivamente alla frequenza della palestra Verdi e a fine anno non rinnovai l’iscrizione alla società sportiva G.A.Treviso. Non mi restava che allenarmi nei pochi spazi di tempo libero nel mio personale impianto sportivo, attorno a casa mia. Poi arrivò il servizio militare con i sei mesi presso la scuola di Artiglieria Contraerea di Sabaudia. Nei momenti di libertà avevo modo di allenarmi con le poche attrezzature disponibili: una pista ellittica di trecento metri, una pedana per i salti e una pedana per il lancio del peso. Non ho idea di quanti giri di pista ho fatto in quel periodo. Tra gli allievi della scuola c’era un ragazzo della società sportiva Pro Patria di Busto Arsizio specialista del mezzofondo in particolare dei 3000 e 5000 metri. Mi aggregavo spesso a lui quando inanellava giri su giri di pista. Naturalmente lui era uno specialista ed andava più forte di me, ma assieme sono arrivato a tempi sui tremila e cinquemila di tutto rispetto grazie ai mio polso con 45 battiti al minuto. Quando poi volevo rifarmi della sua superiorità lo invitavo a fare qualche lancio del peso e qui mi rifacevo con gli interessi. In quel periodo ho anche fatto il mio record personale nel salto in alto e ho perfezionato l’esecuzione del salto triplo. Terminato il periodo di Sabaudia sono capitato a Mestre per i restanti dodici mesi con il grado di sergente. Alla caserma di Mestre ho incontrato un tenente di carriera, un atleta alto oltre 1,90 e con due spalle che lo faceva assomigliare ad un armadio, appassionato di atletica leggera e campione italiano militare in carica del lancio del peso. Per me era come andare a nozze. Sotto la guida del tenente e con il mio aiuto si è formato un buon gruppo di militari praticanti l’atletica. Con il mio entusiasmo e passione sono riuscito a scuotere l’ambiente. Ai campionati della caserma che servivano anche come selezione per partecipare ai campionati militari del nord Italia partecipò un numero di concorrenti mai visto prima. Del resto la caserma contava millecinquecento soldati. Bastava scuotere l’ambiente. Il tenente da solo non ce la faceva, ora era arrivata la giusta spalla. In quelle selezioni ho partecipato al salto in lungo arrivando sesto e al lancio del peso dove sono arrivato terzo con due soli lanci in quanto al terzo mi sono infortunato. Prima di iniziare l’attività sportiva alla caserma Matter non avevo mai lanciato con il peso da oltre sette chili, avevo sempre usato l’attrezzo per allievi da 5 Kg. Per la mia mano piccola e per il mio polso era un carico

28 estremo. Fin che si trattava di fare allenamenti la cosa aveva funzionato ma in gara quando ho innestato il … Badabang il peso mi è uscito lateralmente provocando un crack poco rassicurante. Ho dovuto interrompere la gara e rinunciare al diritto che avevo acquisito arrivando terzo, di partecipare ai campionati del nord Italia che si sono svolti in seguito a Mantova. Nelle gare della nostra caserma non ho partecipato al mezzofondo in quanto era in programma solo la gara degli 800 metri, troppo breve per le mie caratteristiche. Nella gara del lancio del peso sono stato battuto (di quasi due metri) dal Tenente campione italiano e da un atleta della società Assi Giglio Rosso di Firenze. Per tutta la durata del servizio militare ho continuato a praticare il mio sport preferito, ma non ho più lanciato con il peso, l’infortunio era più serio del previsto ed ho preferito non rischiare. Alla fine del servizio militare sono stato inghiottito dal lavoro, dal matrimonio e dalla famiglia. L’atletica leggera era diventata un sogno nel cassetto. Alla fine del periodo lavorativo, quando mi stavo avvicinando ai sessant’anni, un mio ex compagno di attività sportiva dei tempi della palestra Verdi mi aveva contattato per convincermi a ritornare assieme a far attività a livello di master. Non me la sono sentita anche perché avevo dei problemi di artrosi e mi era stato fortemente consigliato la pratica del nuoto. Così ho frequentato le piscine per una decina d’anni risolvendo i miei problemi fisici. Ma un giorno non ho resistito e sono andato allo stadio per parlare con qualche dirigente della società Atletica Mogliano che svolge attività nel meraviglioso stadio poco lontano da casa mia. Ho chiesto informazioni sulla possibilità di usufruire degli impianti sportivi. Avevo in mente di incominciare a far corsa in un ambiente lontano da strade e traffico. Mi sono iscritto nella categoria Master è ho incominciato a frequentare l’impianto negli orari dedicati a quella categoria. Ma poi, entrato nell’ambiente e respirata l’aria del mio antico amore ho incominciato ad andare a vedere gli allenamenti dei giovani e mi sono entusiasmato. Vedere quelle schiere di ragazzi dai più piccini come gli esordienti ai più grandicelli della categoria ragazzi, dei cadetti e degli allievi, mi ha provocato una emozione indescrivibile. Dopo un po’ mi è stato chiesto se avevo disponibilità a collaborare per le varie attività della società. Così da atleta master sono diventato assiduo collaboratore della società. Poi mi è stato chiesto di entrare nel direttivo, ma ho rifiutato preferendo dare la mia disponibilità a collaborare nelle attività di campo, all’aperto. Così mi sono dedicato alla cura delle piste e degli attrezzi. In occasione di gare preparo piste, pedane e attrezzi per l’evento. Durante le gare sono in campo assieme ad atleti e giudici di gara. Preparo e consegno gli attrezzi per le singole competizioni. Mi piace osservare soprattutto i più piccoli, vedere il loro entusiasmo, la luce dei loro occhi

29 felici. E dentro di me rivolgo a loro un pensiero: non sapete ragazzi quanto siete fortunati! Avessi avuto io le vostre possibilità! Ma non è invidia la mia, anzi. Quando guardo questi piccoli gareggiare, osservo gli atteggiamenti che assumono durante la preparazione, nella ricerca di concentrazione e vedo che spesso ripetono gesti e pose simile a quelle dei grandi campioni che seguono in TV. Dentro di me sorrido compiaciuto. E’ lo spirito di emulazione tipico dell’età. Mi sembra di rivedermi ragazzo quando inconsciamente cercavo di emulare il mitico Consolini in ogni atteggiamento, in ogni gesto. Quando poi passo per il magazzino per controllare e sistemare qualche attrezzo mi sembra di essere in mezzo a qualcosa di vivo, non sembrano oggetti inerti quegli attrezzi. Ed allora li prendo in mano ad uno ad uno, con delicatezza per controllarli, e quando arrivo al disco lo accarezzo come un amico, poi chiudo un attimo gli occhi e rivedo il mio Consolini e … la mia atletica.

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IL RITRATTO DEL NONNO

Quante volte, durante la mia vita, ho pensato e ripensato, con nostalgia, al ritratto del nonno Lorenzo appeso ad una parete della cucina nella nostra vecchia casa. Era un ingrandimento di una foto inserito in una “soasa” (cornice) di quelle che si usavano una volta, fatte a mano. Era l’unica immagine rimasta del nonno. Probabilmente era rimasta nella nostra famiglia perché la nonna Luigia, dopo la morte del marito era andata a vivere con la famiglia del figlio più giovane, mio padre Angelo, per l’appunto. Quel ritratto è rimasto in quel posto fino a quando sono arrivato all’età di dodici o tredici anni, poi è sparito nel nulla, nessuno ha saputo dirmi come e perché. Con esso è sparita l’unica sembianza del nonno Lorenzo. Sulle cause della sparizione ho fatto delle ipotesi: la prima chiama in causa l’incolpevole nipotina Mariarosa, vivacissima bambina a cui i miei famigliari consegnavano qualsiasi oggetto pur di farla star buona. Dicono che qualche volta abbia ridotto a brandelli anche qualche foto, ritagliando le immagini come fossero delle figurine. La seconda ipotesi chiama in causa mia sorella Elvira che a quel tempo lavorava a Venezia in un ambiente cittadino più evoluto del nostro di campagna. Dicono che ogni tanto tornasse a casa con l’idea di ammodernare un pochino l’ambiente domestico. Anche al tempo d’oggi c’è l’usanza di far sparire qualche vecchio ritratto perché deprime l’ambiente e i bambini che ci vivono. Magari viene sostituito con una stampa riproducente il dipinto “L’urlo” di Munch oppure con una riproduzione di un qualche quadro di Schifano, perché “fa tendenza”. Poi magari, quando i bambini piangono, a nessuno viene in mente che forse è solo perché hanno guardato quelle cose appese al muro. Qualunque sia stata la causa della scomparsa di quel ritratto il fatto, col passare degli anni, ha causato in me un grosso dispiacere. In vita mia ho potuto conoscere un solo nonno su quattro, il nonno materno Alessandro. Mi avrebbe un po’ consolato poter disporre di una immagine del nonno Lorenzo. Ogni tanto chiedevo ai miei parenti se per caso ci fosse in giro una copia di quella foto che avevo visto da piccolo, ma niente, nessuno sapeva dirmi niente. Ciononostante mi sono proposto di non demordere e di continuare la ricerca, come ho fatto con la ricerca di notizie riguardanti l’incidente stradale che aveva causato la morte del nonno nel lontano 1925. Di quell’episodio sono riuscito a centrare l’obiettivo di scovare un giornale dell’epoca che riportava ogni dettaglio di quanto cercato. Per il ritratto ho passato al setaccio ogni possibile via che ritenevo mi potesse portare all’obiettivo. Per primo ho contattato gli eredi dei fratelli di mio padre, scegliendo per primi quelli che non avevano

32 avuto grossi spostamenti di residenza pensando che chi aveva subito diversi traslochi o magari era stato costretto a rientri frettolosi dall’Istria come lo zio Luigi o la zia Giulia potevano aver perso svariati effetti personali. Per questo motivo avevo pensato per primo agli eredi della zia Maria, madre di Lauretta Masiero, perché non si era mai mossa da Venezia. Ma non ho trovato niente, e via via stessi risultati anche con le successive ricerche. Alla fine mancava solo interpellare gli eredi della zia Amalia, primogenita del nonno Lorenzo, e gli eredi della zia Giulia. Della famiglia della zia Amalia ho perso qualsiasi contatto e riferimento, ma sono sicuro che prima o poi troverò traccia anche di loro, non fosse altro per vedere di recuperare una eventuale foto della zia, l’unica che mi manca di tutti i fratelli di mio padre. Per quanto riguarda la famiglia della zia Giulia ho già detto che era quasi impossibile pensare che con tutte le sfortunate traversie che ha dovuto subire possa aver custodito una eventuale antica fotografia di famiglia. La zia Giulia ha subito il più atroce dolore che può capitare a una mamma. Quand’era in Istria verso la fine della guerra ha dovuto assistere al supplizio del figlio Giuseppe, ferito e catturato dalle truppe naziste che senza alcuna pietà per lo stato in cui era ridotto hanno proceduto alla sua impiccagione. Sono fatti di una barbarie inaudita che solo le guerre possono determinare. Sono cose che non si dovrebbero mai leggere ma chi ha l’occasione di farlo tragga lo stimolo per contrastare con tutte le forze di cui dispone l’insorgere di nuovi conflitti. La zia Giulia è poi rientrata in Italia subendo tutti i trambusti dell’epoca e si è poi trasferita in Liguria dalle parti di Savona. Ha portato in Italia la salma dello sfortunato Giuseppe che ora riposa nel cimitero di Mogliano accanto ad altri martiri di guerra. Di recente ho contattato la figlia minore della zia per chiederle una foto della mamma dicendole anche della mia vana ricerca del ritratto del nonno. Mi ha detto che a casa sua non aveva nulla ma che avrebbe cercato nella casa di suo fratello, ormai scomparso, dove aveva passato gli ultimi anni di vita la zia. Qui sono state trovate tre vecchie foto. Una della zia Giulia ormai anziana, un’altra della stessa zia in età giovanile e una, molto vecchia, senza data o indicazioni di sorta rappresentante un uomo vecchio. Forse del nonno Lorenzo? Ho chiesto subito se questo vecchio aveva il cappello in testa, se aveva una camicia senza colletto e se portava i baffi, non quei grossi “mustacchi” arricciati all’insù che si usavano a fine ‘800, ma un paio di baffi normali, sagomati in giù. Erano le tre cose del ritratto che mi erano rimaste impresse dall’infanzia. Si – ha risposto mia cugina – è proprio così. Noi non sapevamo chi fosse la persona della foto, vuoi vedere che è la foto del nonno Lorenzo che cerchi da tanto tempo? E così, rapidamente ci siamo accordati per l’invio delle tre vecchie foto a casa mia. Una nipote della mia cugina si è offerta di trasmettere via E-Mail il tutto.

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Ma io non sono collegato a Internet per cui ho dato l’indirizzo di mia figlia Paola che ha provveduto a recapitarmi al più presto la chiavetta elettronica con il prezioso contenuto. Quando ho preso in mano il piccolo oggetto elettronico ho provato la stessa emozione di quando ho preso in mano il giornale del 1925 alla ricerca del resoconto dell’incidente mortale accaduto al nonno Lorenzo. In quel caso prima di aprire il giornale non avevo la certezza di trovare quanto cercavo, in questo caso sapevo che dentro c’era una foto che probabilmente era quella che cercavo, ma non c’era la certezza che fosse proprio quella. Ho immediatamente inserito il piccolo oggetto nel mio computer e subito sono comparse le tre foto. Per paura di rimanere deluso ho esaminato per prima la foto della zia in età avanzata. Era come me la ricordavo con quello sguardo intenso. Poi ho esaminato la foto della zia da giovane, stesso sguardo e vestita con quelle belle vesti che si usavano a quel tempo. Infine, non senza emozione ho incominciato a esaminare quella dell’uomo con il cappello. Con la mente sono andato indietro nel tempo e mi è parso di riconoscere i tre elementi che ricordavo: il cappello, la camicia senza colletto e i baffi. Ma per la fisionomia non avevo ricordi. Anzi, a un certo punto della mia vita, molti anni dopo la scomparsa della foto del nonno, vedendo uno fra i tanti autoritratti del pittore Van Gogh, uno con il cappello in testa, mi era parso di rivedere le sembianze della vecchia foto del nonno. Da quel momento ho continuato a confondere la fisionomia cancellando quella reale con quella del pittore che aveva zigomi pronunciati. Allora nel guardare la foto ritrovata ho perso le certezze del primo momento e ho cominciato a pensare che i tre elementi che ricordavo con sicurezza erano comuni a tante persone dell’epoca del nonno. Per avere conferma sull’identità della foto sono passato da mia sorella Rina, che pur non avendo conosciuto personalmente il nonno ha potuto osservare per un tempo superiore al mio, di circa nove anni e in età più matura della mia, il ritratto appeso a casa nostra. Ho fatto vedere la foto chiedendo solo se riconosceva la persona ritratta e lei immediatamente ha detto trattarsi senza ombra di dubbio del nonno Lorenzo e chiedendo dove mai l’avessi trovata. A quel punto ho fatto un grosso sospiro di sollievo. Finalmente l’interminabile ricerca era conclusa con successo nel modo meno prevedibile. La cara zia Giulia pur nelle sue traversie aveva sempre conservato con sé la foto di suo padre ed ha così consentito la positiva conclusione delle mie ostinate ricerche. Grazie zia Giulia! Dopo aver sentito mia sorella Rina sono passato da mia sorella Elvira anche se non avevo bisogno di conferme, ormai ero sicuro. Con lei ho fatto la stessa cosa, ho mostrato la foto senza dire niente ed anche in questo caso, senza ombra di dubbio, mia sorella ha riconosciuto subito il nonno Lorenzo. Lei ha anche conosciuto personalmente il nonno in

34 quanto è nata ed è vissuta, seppur da piccola, nella vecchia casa della patriarcale famiglia di Lorenzo. Anche mia sorella Elvira è rimasta sorpresa della ricomparsa di quella vecchia immagine e mi ha chiesto dove mai l’avessi ritrovata. Non restava che mostrare la ritrovata foto a mio fratello Orfeo che era il nipotino preferito dal nonno che non mancava di portarlo con sé ogni volta che faceva qualche breve viaggio col suo calessino. Orfeo si stava avviando a compiere i novant’anni ma da circa un anno era costretto a letto perché non era più in grado di camminare. Col passare del tempo era progressivamente dimagrito tanto che le persone che lo frequentavano poco stentavano a riconoscerlo. E’ sempre rimasto lucido e cosciente della situazione e non si lamentava mai. Mi consolava il fatto che quando gli chiedevo se avesse dolori mi rispondeva sempre di no. Quando sono passato per mostrarli la foto era un po’ stanco, aveva voglia di riposare perché la notte precedente non era riuscito a dormire. In quelle situazioni gli dicevo che avendo trascorso la vita facendo il lavoro da turnista aveva preso l’abitudine di star sveglio di notte e di dormire di giorno. Comunque è rimasto un po’ sveglio e gli ho fatto vedere la foto. Ha voluto che la spostassi in qua e in là perché non ci vedeva bene. Alla fine ha esclamato con un filo di voce: è proprio il nonno “Cencio”, come lo chiamava lui ricordandosi dell’infanzia. Poi anche lui, come avevano fatto le mie sorelle in precedenza ha chiesto dove l’avevo trovata e quando gli ho spiegato della zia Giulia ha detto: ah, la zia piccoletta! Ma poi si vedeva che era stanco e aveva voglia di dormire e l’ho lasciato tranquillo. La settimana dopo, di venerdì, sono stato a trovarlo e fargli compagnia per un paio d’ore. La situazione non era cambiata, alternava brevi sonnellini a momenti in cui scambiavamo qualche parola. Gli ho parlato dei suoi cari nipotini, gli ho chiesto indicazioni di cosa fare nell’orto, tutti argomenti che di solito lo animavano, ma questa volta sembrava indifferente, con la mente altrove. Mi ha comunque risposto con un filo di voce dandomi indicazioni sul periodo giusto per piantare i semi di pomodoro. Gli ho detto che mia moglie Franca aveva conservato i semi di pomodoro che lui aveva gelosamente tramandato di stagione in stagione. Stai tranquillo – gli ho detto – quando sarà il momento porterò le nuove piantine anche per il tuo orto, come l’anno precedente. Coltivare l’orto era una sua grande passione che aveva ereditato da nostro padre. Fin che è stato bene, fin oltre gli ottant’otto anni, quando lo andavo a trovare la prima cosa che faceva era di farmi vedere il suo orto, il suo orgoglio, poi si poteva entrare a casa a far quattro chiacchiere e sorseggiare mezzo bicchiere di bianco. Già, mezzo bicchiere di bianco perché sapeva che io non sono un gran bevitore di vino, solo quel tanto per stare in compagnia. Alle volte, versandomi quel goccetto di vino

35 mi canzonava dicendo: basta così perché lo so che tu sei da latte! Si ricordava di quando, da ragazzo e fino all’età adulta, non bevevo vino ma solo grandi quantità di latte. Caro fratello mio! Quel venerdì sera quando l’ho salutato per lasciarlo come di consueto mi ha ringraziato della visita che gli avevo fatto e si è raccomandato di salutare tutti i famigliari e in particolare le sorelle. Due giorni dopo, domenica 30 Gennaio, mentre mi accingevo a sedermi a tavola per il pranzo mi ha chiamato al telefono mio nipote Carlo. Appena ho udito la voce ho sentito un brivido e subito ho pensato a Orfeo. Avranno dovuto portarlo in ospedale, ho pensato. Invece no, mi ha comunicato che Orfeo si era appena spento. Mio nipote Carlo mi ha spiegato che era stato chiamato al capezzale del padre perché dava segni di respirare a fatica. Ha chiamato la guardia medica, ma piano piano Orfeo si è come addormentato e ha cessato di vivere. Mancavano venti giorni circa al compimento del novantesimo anno. La fiammella della sua vita si è spenta lentamente come quella di una candela che ha consumato tutta la cera. Ha compiuto il viaggio estremo, verso il cielo, ottantacinque anni dopo del nonno Lorenzo, alla stessa ora del giorno. Avevano rischiato di farlo assieme quel viaggio estremo quando quel primo Agosto del 1925 il nonno voleva portare con sé l’amato nipotino, nel calessino come di consueto, nel fatale incontro con la morte. Ma la nonna Luigia s’era opposta perché Orfeo aveva i pantaloncini fradici d’acqua. Basta poco per cambiare la storia! Anche un semplice paio di pantaloncini fradici! Un’altra volta Orfeo, nella sua vita, ha visto passargli vicino la morte. Era il 10 Luglio 1940, tempo di guerra, mio fratello era imbarcato nel cacciatorpediniere Pancaldo quando un siluro lanciato da un aereo inglese trapassò la nave devastando il locale caldaie dove usualmente operava Orfeo. Ma quel giorno egli si trovava in un altro locale perché aveva sostituito un compagno accorso al capezzale della madre. Riuscì a uscire da sotto coperta appena in tempo mentre la nave affondava. Quante volte gli ho sentito raccontare quell’angoscioso fatto che aveva causato la morte di alcuni suoi cari compagni. Quella volta Orfeo aveva diciannove anni. Ora il tempo ha fatto il suo corso. Ho ritrovato la foto del suo amato nonno e ho perso mio fratello. Era nell’aria che prima o poi dovesse accadere ma speravo di poter passare ancora del tempo con mio fratello, con la foto del nonno in mano e sentire i suoi ricordi di bambino. Me ne ha trasmesso tanti! Ora il ritratto del nonno rappresenta uno dei tasselli, uno dei più cari, di quel mosaico che è la storia della nostra famiglia che io sto cercando di ricomporre per lasciarlo a chi porterà avanti il testimone dopo di me.

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La ritrovata foto del nonno Lorenzo

Lino Favaro Febbraio 2011

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LE FIABE DI UNA VOLTA

Una volta le mamme e le nonne avevano il loro da fare per raccontare ai piccini le varie favole imparate a loro volta dai rispettivi genitori o nonni. A quel tempo non esisteva la televisione o tutti gli altri marchingegni che, introdotti con l’elettronica, egemonizzano il tempo libero dei piccoli. Le favole o i vari racconti comprendevano le classiche storie di Cappuccetto Rosso, di Pinocchio, di Cenerentola, ecc.; oppure le storielle dei vari personaggi della fantasia popolare come il “Massarioeo”, una specie di folletto che appariva e scompariva tra le siepi all’imbrunire. C’era poi, immancabilmente la figura dell’Orco, una specie di uomo-animale che incuteva terrore tra i piccini e che veniva evocato quando c’era bisogno di ridurre all’obbedienza bambini troppo irrequieti. Era credenza tra la gente che l’Orco esistesse realmente e che calpestare per sbaglio una sua impronta portasse grande iella. Una favola che ho sentito tante volte è quella de “La Volpe e l’Oo” che mi è rimasta impressa perché da piccino non riuscivo a dare una sembianza a quello strano animale chiamato Oo, anche perché, ogni volta che chiedevo lumi su questo compagno della Volpe mi veniva ripetuto che l’Oo era l’Oo e basta. Nessuno pensava che alcune parole arcaiche oramai in disuso potevano essere incomprensibili ai bambini. E così sono rimasto tutta la vita senza risposta. Sennonché, di recente, mentre me ne andavo a zonzo tra calli e campielli di Venezia, mi sono imbattuto in un piccolo sottoportico intitolato “sotoportego de l’Ovo”. Ho chiesto a una simpatica vecchietta del posto se sapeva dirmi il significato di quella parola, se si intendeva semplicemente uovo, e lei, serafica, mi ha subito risposto che significa lupo nel dialetto antico. Ha poi aggiunto che in terraferma la stessa parola veniva pronunciata togliendo la “v” tra le due vocali, quindi semplicemente Oo. Ecco cos’era lo strano compagno della Volpe, un Lupo! Ora non mi resta che raccontarla, così come la ricordo, quella vecchia storiella:

LA VOLPE E L’OO

C’era una volta una coppia formata da una Volpe e da un Oo che si erano messi in società per andare di notte a caccia di prede nei vari pollai sparsi nelle campagne. Non c’erano rapporti di vera amicizia tra i due, ma di sola convenienza in quanto cacciare in coppia è certamente più facile che farlo singolarmente. Durante una notte di luna piena i due avevano razziato diversi pollai e verso mattina erano stanchi e assetati avendo percorso

38 tanta strada senza trovare nemmeno un ruscello per dissetarsi. Finalmente arrivarono nel cortile di una casupola dove c’era un vecchio pozzo. Guardarono dentro quel buco e videro una limpida e invitante acqua. Subito si resero conto che il pelo d’acqua era troppo profondo per poterci bere. Ma la Volpe che in quanto a furbizia non è seconda a nessuno trovò subito la soluzione. – Dobbiamo calarci uno per volta mentre l’altro lo trattiene per la coda- disse. Il compagno si convinse subito che quella era l’unica soluzione ma avanzò la pretesa di essere il primo ad essere calato giù. Fra sé e sé aveva pensato che in quel modo poteva sentirsi sicuro di essere riportato su poiché per la Volpe era il solo modo per poter bere a sua volta. Ma la Volpe, costretta a volte a subire la volontà del compare per via della notevole differenza di corporatura, questa volta trovò un argomento valido per convincere il compagno a rinunciare alla priorità. –Sai – gli disse – io peso troppo poco rispetto a te e rischiamo di finire entrambi in fondo al pozzo, ma se prima di calarti giù mi riempio per bene la pancia di acqua certamente ce la faremo. Detto questo aspettò la risposta del compare che poteva essere solo affermativa. A questo punto i due si misero d’accordo sulle operazioni e la Volpe propose: - quando avrò riempito la pancia a dovere pronuncerò la parola Ampro! A quel punto tu mi tirerai su, poi faremo viceversa come pattuito. Infatti la prima operazione si concluse come previsto; la Volpe, appena riempitasi la pancia disse: - Ampro! - E il compare rispose: - Ampro, per la coda ti tiro su! - Poi fu il turno dell’Oo a essere calato giù. Per la sete che aveva e per l’innata ingordigia bevve a più non posso per poi girare la testa in su per pronunciare la parola convenuta, ma in quel momento gli venne un drammatico dubbio: ora che ho bevuto anch’io, la differenza di peso è ritornata come all’inizio delle operazioni. Vuoi vedere che quella dannata Volpe mi ha gabbato ancora una volta? E cosi pensando pronunciò con una certa ansia la fatidica parola: - Ampro! - Al che la Volpe rispose: - Ampro, per la coda…… ti lascio! - E s’ incamminò verso l’ultima tappa che era in programma: la visita ad un pollaio dove in precedenza aveva visto delle tenere pollastrelle. Al mattino, quando la gente che abitava la casupola dove c’era il pozzo si recò per attingere l’acqua trovò il grosso animale annegato. Quando lo tirarono su notarono che aveva una brutta faccia, con una pessima espressione: come di uno a cui un presunto amico aveva fatto un brutto scherzo!

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IO, PIRATA DELLA STRADA

Gentile Direttore, ho 68 anni, sono nato e ho sempre vissuto a Mogliano, cosa di cui sono sempre stato orgoglioso. Da qualche tempo, però, questo mio sentimento sta perdendo vigore e temo che se va avanti così arriverò a vergognarmi di esserlo. Le racconto l’ultimo fatto che mi ha colpito assieme a diversi (o molti?) altri concittadini. Venerdì 15 Aprile scorso mi è stato recapitato tramite raccomandata inviata da Rimini (?!) un avviso di grave violazione del Codice Stradale. Il documento, redatto da una zelante vigilessa di Mogliano, mi contesta di aver violato il Codice con la mia autovettura, il giorno 6 Gennaio alle ore 11.18, varcando la linea di arresto all’incrocio del Terraglio con via Barbiero in presenza di semaforo rosso. Il tutto dedotto da due foto scattate, in assenza di agenti di Polizia stradale (o urbana), con apparecchio regolarmente omologato. Pertanto devo pagare 154 Euro di multa e subire una decurtazione di 6 punti dalla patente di guida. Cado letteralmente dalle nuvole e resto sconvolto! Dopo quarant’anni di guida senza infrazioni di sorta, ora sono accusato di essere un pirata della strada, che attraversa gli incroci con il semaforo rosso! Non riesco a descriverle lo stato d’animo di quel fine settimana. Forse uno psicologo può spiegare cosa avviene, in questi casi, nella testa di una persona tranquilla e corretta della mia età. Martedì 19 Aprile mi sono recato in fila all’ufficio della Polizia municipale per vedere se si trattava di un equivoco. La signorina allo sportello mi dice che la mia vettura è passata con il rosso e mi fa vedere al computer le due immagini incriminate. Non riesco a vedere un gran ché, ma quando mi consegna la stampa si vede un po’ meglio. La prima foto è scattata al momento del cambio da semaforo giallo a rosso, la seconda poco dopo e si vede bene la targa della vettura. La macchina è la mia ma dopo tanto tempo non ricordo nulla. L’incaricata allo sportello mi dice che ho trenta giorni di tempo per fornire i dati di chi era alla giuda altrimenti pagherò altri 300 e più Euro di multa nel qual caso i punti sulla patente non verranno tolti. Vuoi vedere penso, che chi ha i soldini esce sempre pulito? Ma io che vivo con il solo reddito della pensione prendo le due foto e torno a casa a meditare. A forza di rimuginare a mia moglie viene in mente che in quell’ormai lontano giorno della Befana siamo andati ad assistere suo padre ammalato, ma non ricorda che io sia passato con il semaforo rosso.

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Allora parto da casa e vado a vedere il semaforo incriminato. Noto che la luce gialla dura poco, mi sembra proprio poco. Ho al polso un cronometro e provo a rilevare la durata del giallo. Faccio tre prove e il tempo risulta sempre di 3 secondi! Sarà legale penso, perché a Mogliano ci sono sempre “i meglio” in tutto, quindi sicuramente anche a livello di Vigili Urbani. Tuttavia controllo tutti gli altri semafori del paese e non ne trovo uno con un tempo del giallo inferiore ai quattro secondi. Complimenti! La macchinetta “omologata” che ruba soldi e punti è piazzata al punto giusto! Ritorno a casa e riguardo le due foto: l’incrocio è deserto, al momento dello scatto del rosso la macchina non ha completamente passato la linea bianca di arresto all’incrocio. La foto riporta data ora e velocità del veicolo: 20 Km/ora! Proprio una velocità da spericolato! Chi ha frequentato le elementari dei miei tempi è in grado di calcolare a quanti metri al secondo equivale quella velocità: 5,5 metri/sec. Questo significa che il giallo mi è apparso quando mi trovavo a 16,5 metri dal semaforo. La mia coscienza si tranquillizza, ancora una volta non ho agito da killer. Ci voleva la “moviola” e un semaforo regolato a 3 secondi di giallo per pizzicarmi con il “culo” della macchina in fallo. E una poliziotta “arbitro alla Collina” per esaminare con tanta inflessibilità il “replay” senza tener conto di alcuna attenuante: incrocio assolutamente deserto, velocità 20 Km/ora e macchina in buona parte già passata sulla riga di arresto. Non mi si venga a dire che il tutto è educativo. Io mi sento come un bambino che ha preso una sculacciata ingiusta dal padre. E che sculacciata! Io credo di aver valutato la situazione con coscienza, non volevo fregare nessuno, non ho creato nessuna situazione di pericolo. Ho parlato del fatto con gente del palazzo (leggi Comune); mi dicono che in fondo tutti, dal Sindaco all’ultimo Vigile hanno applicato la Legge. Già, ma anche Ponzio Pilato, quella volta, ha applicato la legge. Ogni tanto faccio delle amare considerazioni: noi benpensanti abbiamo spesso liquidato certi movimenti con l’epiteto di “sovversivi”, non abbiamo bruciato in piazza (come Savonarola) i loro aderenti solo perché non è più di moda. E se qualche volta avessero ragione? Cordiali saluti. Lino Favaro

P.S. Sono ripassato dalla Polizia urbana. Una marea di gente era in coda per lo stesso mio motivo: tutti “pirati della strada”. Non ho visto tra loro facce di delinquenti, ma povera gente comune con le facce sbigottite. Qualcuno “a Palazzo” ha dato i numeri?

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Il giornale L’Eco di Mogliano con il numero 5 del Maggio 2005, in una pagina dedicata a “la nuova età – Senio” ha prontamente pubblicato questa lettera con in calce la seguente nota del direttore Luciana Ermini: Questa lettera è la storia di ognuno di noi quando si sente punito ingiustamente da un’Amministrazione che intende far cassa con i soldi delle multe… per il breve tempo tra il giallo e il rosso … Una considerazione: il cittadino ligio alla legge non può amare chi lo governa con metodi vessatori. Nel successivo numero di Giugno dello stesso giornale l’editoriale del direttore Luciana Ermini portava il seguente titolo: Dalla parte del Pirata.

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