MODERNA/COMPARATA — 12 — MODERNA/COMPARATA

COLLANA DIRETTA DA Anna Dolfi – Università di Firenze

COMITATO SCIENTIFICO Marco Ariani – Università di Roma III Enza Biagini – Università di Firenze Giuditta Rosowsky – Université de Paris VIII Evanghelia Stead – Université de Versailles Saint-Quentin Gianni Venturi – Università di Firenze L’Ermetismo e Firenze

Atti del convegno internazionale di studi Firenze 27-31 ottobre 2014

Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni Volume II

a cura di Anna Dolfi

Firenze University Press 2016 L’Ermetismo e Firenze : atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014 : Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni : volume 2 / a cura di Anna Dolfi. – Firenze : Firenze University Press, 2016. (Moderna/Comparata ; 12)

http://digital.casalini.it/9788866559795

ISBN 978-88-6655-979-5 (online PDF)

Progetto grafico di Alberto Pizarro Fernández, Pagina Maestra snc

Volume risultato di una ricerca svolta nell’ambito delle attività del Dipartimento di Lingue, Letterature e Studi Interculturali pubblicato con un contributo dell’Università degli Studi di Firenze.

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INDIRIZZO DI SALUTO di Cristina Giachi 17

NELL’OCCASIONE DEL CENTENARIO. UNA PREMESSA di Anna Dolfi 19

VOLUME I CRITICI, TRADUTTORI, MAESTRI, MODELLI

UN’AVVENTURA GENERAZIONALE

GLI ANNI DELL’ERMETISMO. UNA LETTURA POLITICA 33 Stefano Passigli

LA VICENDA DEL TERMINE «ERMETISMO» 39 Massimo Fanfani

SOMIGLIANZA NON METAFORICA E GRAMMATICA DELL’INCLUSIONE MOLTEPLICE: SULL’ANALOGIA «CONTIGUA» DELL’ERMETISMO FIORENTINO 49 Carlo Alberto Augieri

L’ERMETISMO E LE POETICHE DELL’OSCURITÀ 73 Alberto Casadei

I SIMBOLI DI UNA GENERAZIONE 83 Roberto Deidier

ERMETISMO E SURREALISMO INFLUSSI E CONVERGENZE TEMATICHE Tommaso Tarani 1. Limiti del surrealismo 95 2. Fenomeni disseminati 101 3. Il fantasma, il vetro, lo specchio 111

ORDINE E IMMAGINE: FRA LA FIGURATIVITÀ ERMETICA E SURREALISTA 125 Giorgio Villani

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press INDICE 8

IL MITO DELLA DONNA CTONIA (PROSERPINA/EURIDICE) NELLA TRIADE FIORENTINA Francesca Nencioni 1. Inseguendo la donna ermetica: verso l’identità tra «alia» ed «eadem» 133 2. Per una semantica trasversale 136 3. Trascorrenze poetiche: «Si sparpagliano ombre, sono donne / già all’antica finestra le fanciulle» 143 4. Epifanie muliebri nella prosa: trascorrenze orizzontali e verticali 148

LA CRITICA MILITANTE E LA TRADUZIONE

RECENSIRE I CONTEMPORANEI NEGLI ANNI DELL’ERMETISMO 167 Alberto Cadioli

«FIRENZE VUOL DIRE…» CARLO BO, POESIA, ERMETISMO, CRITICA FRA LE DUE GUERRE 183 Marino Biondi

CARLO BO E IL PIACERE DELLA LETTURA TRA LUZI E LANDOLFI Giuseppe Panella 1. Le virtù della lettura e il suo mistero ancora insondato 207 2. Due «auttori» di Carlo Bo: e Tommaso Landolfi 214

IL GIOVANE BO TRA SAINTE-BEUVE E RIVIÈRE 231 Andrea Schellino

UNA LETTERA DA GRENOBLE A ENZA BIAGINI 239 Michel David

LE TRADUZIONI ALL’EPOCA DEGLI ERMETICI 241 Mario Domenichelli

ORESTE MACRÍ. DUE TRADUZIONI INEDITE/RARE DAL «SIGLO DE ORO» 253 Laura Dolfi 1. «El condenado por desconfiado» 257 2. «El licenciado Vidriera» di Cervantes 273

MAESTRI E MODELLI

PROLEGOMENI ALL’ERMETISMO TRAVERSO, BO, BIGONGIARI E LUZI LETTORI DI HÖLDERLIN 297 Alberto Comparini 1. Alle soglie dell’ermetismo: Hölderlin e il pensiero ermetico 298 2. Luzi, Hölderlin e lo spirito della poesia moderna: lettura di «Avvento notturno» (1940) 313 Indice 9

LA «FUNZIONE» D’ANNUNZIO NELLA GRAMMATICA DEGLI ERMETICI 323 Manuele Marinoni

CAMPANA E IL «SENSO DEI COLORI»: STORIA DI UNA RICEZIONE 341 Tommaso Meozzi

«RES SUNT NOMINA». QUASIMODO ATTRAVERSO IL LABORATORIO CRITICO DI MACRÍ 351 Davide Luglio

MACRÍ, LA DIMORA VITALE, L’EREDITÀ, GLI AMICI

UN ITINERARIO ENTRE CRÍTICA Y MILITANCIA 363 Laura Dolfi

L’ERMETISMO DI MACRÍ, TEORICO DELLE GENERAZIONI E ISPANISTA 377 Nives Trentini

«REGESTARE» LA CORRISPONDENZA A ORESTE MACRÍ UN’ESPERIENZA D’ARCHIVIO 387 Marta Scintu

UNA TESTIMONIANZA INEDITA DAL FONDO MACRÍ LE LETTERE A SIMEONE DALLA «ROCCAFORTE LECCESE DELL’ERMETISMO» 395 Dario Collini Appendice – Acrostici per una generazione 407

SULLA CORRISPONDENZA TRA ORESTE MACRÍ E 409 Emanuela Carlucci

MARGHERITA DALMATI, AMICA DI UNA GENERAZIONE 417 Sara Moran Appendice – Lettere inedite 1. Dalla corrispondenza con Mario Luzi 431 2. Dalla corrispondenza con Leone Traverso 438 3. Dalla corrispondenza con Oreste Macrí 444

LUZI E MACRÍ: UNA TESTIMONIANZA 451 Fabrizio Dall’Aglio

IL MAESTRO ORESTE MACRÍ 461 Martha Canfield

INDICE DEI NOMI 467 10 INDICE

VOLUME II LUZI, BIGONGIARI, PARRONCHI, BODINI, SERENI

MARIO LUZI. LA POESIA, IL TEATRO

MARIO LUZI E LA PAROLA 21 Franco Musarra 1. Quali modelli? 26 2. La parola e la memoria 32 3. Sulle strategie espressive 34 4. Parole nucleari 37 5. Ossimori 39 6. Ripetizioni 41 7. Per concludere 45

LUZI E FIRENZE, «LA CITTÀ DAGLI ARDENTI DESIDERI» 49 Alfredo Luzi

DUE “MOTTETTI” DI LUZI 61 Silvio Ramat

TEMPO E PAESAGGIO DAL «FONDO DELLE CAMPAGNE» 71 Anna Dolfi

MARIO LUZI, LA VOCE E IL FONDAMENTO 77 Mario Baudino

SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO Margherita Pieracci Harwell 1. Il saggio 83 2. Cristina Campo come tramite 86

IL TEMPO NELLA POESIA DI LUZI 105 Giuseppe Nava

LUZI E LA CRISI DEL GENERE LIRICO DA «ONORE DEL VERO» A «NEL MAGMA» 109 Romano Luperini

LA PAROLA È EPIFANIA DEL SILENZIO. LA POESIA MISTAGOGICA 119 Luigi Ferri Appendice – Nel silenzio parla il linguaggio del mondo. Intervista a Mario Luzi 124 Indice 11

IL TEATRO DI MARIO LUZI. GLI ANNI NOVANTA (DAL «PURGATORIO» ALLA «PASSIONE») 127 Giulia Tellini Appendice – Alla ricerca di «Points de repère». Intervista a Federico Tiezzi 133

LUZI LETTORE, SAGGISTA, TRADUTTORE

PRIMI APPUNTI DI LUZI SU TEILHARD DE CHARDIN NOTE IN MARGINE A UN ARTICOLO RITROVATO 143 Giuseppe Langella

«CONQUISTE ALTISSIME» ED «ABISSI SPAVENTOSI» LA MODERNITÀ SECONDO LUZI 151 Antonio Saccone

GLI SCRITTI PER GLI ARTISTI (E UNA LETTERA SULL’UMILTÀ DEL VIVERE) 167 Marcello Ciccuto Appendice – Mario Luzi, testimonianze 172

«FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE 175 Michela Landi

SGUARDI INCROCIATI: MARIO LUZI E YVES BONNEFOY 195 Laura Toppan

UN TRAGICO CRISTIANO 205 Marco Menicacci

L’INCONTRO CON LA POESIA TEDESCA. UN COLLOQUIO 219 Mattia Di Taranto

IL FRUTTO NATO DA AMORE. UN CONFRONTO CON HÖLDERLIN 225 Alberto Ricci

LUZI. QUESTIONI BIBLIOGRAFICHE: LA COLLABORAZIONE A «LA FIERA LETTERARIA» 243 Stefano Verdino

UN RICORDO DI MARIO LUZI 253 Martha Canfield

MARIO LUZI, «IL FILO DELLA VITA» 257 Una tavola rotonda a cura di Alessandro Gentili INDICE 12

PIERO BIGONGIARI IL CRITICO, IL POETA, LO STORICO D’ARTE

QUALCHE NOTA PER CAPITOLI Adelia Noferi 1. Le ragioni della scrittura 277 2. L’«itinerarium mentis in Deum» 279 3. La scacchiera della mente 282 4. Lorenzo de’ Medici e «la pura verità formosa e bianca» 284 5. Le favole e la Favola 285 6. Il «sesto senso umano» 286 7. L’impeto e la distensione 288 8. Pascoli tra simbolo ed immagine 289 avvertenza conclusiva di Anna Dolfi 290

IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 293 Paolo Leoncini

SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE 315 Paolo Orvieto Appendice – Lettura e commento di «Bassa marea» 330

BIGONGIARI TEORICO LA POESIA COME FUNZIONE SIMBOLICA DEL LINGUAGGIO 335 Federico Fastelli

BIGONGIARI E L’AMBIGUITÀ DEL SEGNO LINGUISTICO Martina Romanelli 1. Tra «forme della narratività» e nuove premesse ontologiche 1.1 Per una diversa idea del «medium»: il pretesto schopenhaueriano 347 1.2 Segno significato e segno significante: la risposta a Schopenhauer in «Se l’amore muore» 351 2. Oltre Schopenhauer, fino a Derrida: la traccia e la «caoticità preverbale» 2.1 Il segno scritto come enigma e dinamicità: la «poesia come azione» 356 2.2 Le credenziali del segno: «La poesia come funzione simbolica del linguaggio» 359

«UT POESIS PICTURA»: LA PAROLA E L’IMMAGINE 365 Teresa Spignoli

LA «GIOVENTÙ POETICA DI OPPOSIZIONE» SULLE PAGINE DI «CAMPO DI MARTE» E DI «CORRENTE» 383 Elena Guerrieri Indice 13

«QUELLA PATRIA CHE SI CONFONDE ALL’ORIZZONTE»: ERRANZA, DESIDERIO E SCRITTURA NELL’ULTIMO BIGONGIARI 393 Gilberto Isella

I VIAGGI FUORI DI CASA 411 Theodore Ell

ERBARIO E BESTIARIO IN «ANTIMATERIA» 431 Diego Salvadori

UN «ERMETICO» ADDIO: BIGONGIARI SALUTA MONTALE 441 Martha Canfield

ALESSANDRO PARRONCHI DECLINAZIONI DI UN’IMMAGINE

PARRONCHI, QUASI UN RITRATTO 451 Marco Marchi

UN CAPITOLO DI TRANSIZIONE. LASCITI CREPUSCOLARI IN «UN’ATTESA» 461 Leonardo Manigrasso

TEMI E METRI IN «PIETÀ DELL’ATMOSFERA» 477 Francesco Vasarri

INFLUENZE MICHELANGIOLESCHE IN «REPLAY» 491 Simona Mariucci

RILKE, PARRONCHI E LA POETICA DELL’IMMAGINE 503 Barbara Di Noi

DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 517 Marzio Pieri

«LA CITTÀ COME AVREBBE DOVUTO ESSERE» 547 Franzisca Marcetti

NOTA DI LETTURA SU UNA BIBLIOGRAFIA 565 Attilio Mauro Caproni

VITTORIO BODINI ICONE DEL MODERNO

LA «TERZA VIA» DI VITTORIO BODINI 571 Antonio Lucio Giannone INDICE 14

DAL SEME DELLA POESIA CRITICA E POETICA TRA BAROCCO E NOVECENTO 583 Mario Sechi

«SPETTRI SUBLIMI DELL’ESTATE»: L’ESPERIENZA DEI VERSI VERSILIESI 591 Riccardo Donati

FRAMMENTI E LACERTI DI UN “A(EM)PLAZADO” Oleksandra Rekut-Liberatore 1. Attorno a un a(em)plazado 603 2. L’avvertimento di morte nella poesia bodiniana 605 3. Bodini prosatore e il tumore di San Giuseppe 606

«ALBE A SONAGLI SCABBIE ORE MALATE» BODINI E LA CIVILTÀ INDUSTRIALE Andrea Gialloreto 1. La poesia e la civiltà industriale 611 2. Il miele del dopoguerra 617

I PROGETTI DI UN GIOVANE ISPANISTA 627 Laura Dolfi

DA «VEDETTA MEDITERRANEA» A «LIBERA VOCE» IL PROBLEMA DELLA FORMA E IL SEGNO INCOMUNICANTE 639 Francesca Bartolini

DIALOGO FUORITEMPO CON VITTORIO BODINI (ALLA PRESENZA DI ORESTE MACRÍ) 655 Antonio Prete

VITTORIO SERENI UN AMICO DI GENERAZIONE

VITTORIO SERENI ERMETISMO, DINTORNI, PROCESSI GENETICI, PROCESSI INVENTIVI 663 Clelia Martignoni

L’ERMETISMO SPERIMENTALE DI «FRONTIERA» Luigi Tassoni 1. La possibilità aperta dell’ermetismo 671 2. Il soggetto come lo spazio 675 3. La ricontestualizzazione 677 4. L’intersezione, la doppiezza 679 5. Nel cerchio dell’evento 682 6. Al di qua della frontiera 684 7. Al di là della frontiera 687 Indice 15

8. La morte come fine del tempo 689 9. Alla fine del racconto per frammenti 690

«SIAMO TUTTI SOSPESI A UN TACITO EVENTO». IL PRIMO SERENI 693 Lorenzo Peri

L’ORIZZONTE PRECOSTITUITO. SERENI DI FRONTE ALL’ERMETISMO 707 Niccolò Scaffai

SERENI E GLI AMICI ERMETICI 717 Francesca D’Alessandro

PAROLE DI SERENI 727 Marina Paino

SULLE «FURIE» DEL CARTEGGIO TRA VITTORIO SERENI E GIANCARLO VIGORELLI Matteo M. Vecchio 1. «Furie», amicizie, angoli di città 739 2. Segno d’un vortice appena nato 741 3. Qualcosa che rimaneva nel cielo. «Gianni» Manzi 744

INDICE DEI NOMI 751

VOLUME II

LUZI, BIGONGIARI, PARRONCHI, BODINI, SERENI

MARIO LUZI. LA POESIA, IL TEATRO

MARIO LUZI E LA PAROLA

Franco Musarra

Premetto che nel proporre ad Anna Dolfi la problematica del rapporto tutto particolare di Luzi con la parola, ero consapevole d’inoltrarmi in un bosco in- tricato in cui a ogni momento rischiavo di perdermi, ma il suono inconfondi- bile della voce del poeta, come risuonava le tante volte che, a Nimega prima e a Lovanio poi, aveva «letto» ai miei allievi sue poesie, mi dissuadeva (e mi dissua- de ancora) di «lasciar» la rischiosa «impresa». Frugando tra gli appunti presi durante le sue lezioni, ho trovato molte pa- gine significative in proposito, tra le quali quelle del 25 ottobre 1982, di cui ri- assumo alcune parti. Aveva dato da leggere, con un ordine non certo casuale, le liriche: Aprile-Amore, Las animas, E il lupo (da Onore del vero), Augurio (da Dal fondo delle campagne), Ma dove (da Nel magma), Il fiumee Vita fedele alla vita (da Su fondamenti invisibili) e, infine, Per una festa (da Al fuoco della controver- sia). Iniziava riflettendo sull’importanza della parola e esortava a «non maneg- giarla con compiacenza», perché «ha in sé qualcosa di sacro», essendo «un nes- so di armonia e di produttività tra l’uomo e il cosmo». Quello che Luzi, in una a tutti nota intervista, afferma a proposito dell’arte di Simone Martini, vale an- che e soprattutto per la sua concezione della poesia, per il suo desiderio di tra- scendenza: nell’artista lo colpisce il bisogno «di una conoscenza assoluta e di una luce [di una parola] soprannaturale»1. Ai miei allievi diceva che la sua vuole es- sere una poesia che «dilata il conoscibile», pur tra i tanti «disinganni», le tan- te «frustrazioni», la certezza del «fallimento filosofico», le difficoltà nel «legame tra l’uomo e il mondo» e tutto ciò con una «fuga all’interno» che mette l’io di fronte a ciò «che non potrà mai conquistare». Affermava di non volere una «po- esia del dubbio o del rifiuto del mondo», di aver «sempre creduto alla centrali- tà del mondo in una progressione verso qualcosa». Il mondo era per lui «una re- altà da vivere con le contraddizioni e gli interrogativi». La poesia andava perciò giustificata dall’interno della vita attraverso la «ricerca del significato dell’even- to». La parola allora diviene creativa, «magmatica» nel suo plasmarsi, senza par-

1 Mario Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti, 1999, p. 254.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 22 Franco Musarra tire da un giudizio preliminare sull’esperienza, ma «dalla realtà in formazione». La poesia nasce «dai fenomeni, in un dialogo continuo» con il mondo, del qua- le «registra la malattia», riparando in tal modo l’uomo dal «pericolo maggiore: quello di perdere la sua umanità». Fare poesia è uno «scendere alle radici della vita» e non deve perciò «mancare di speranza», speranza sia come tema cristia- no, sia come speranza nel destino del mondo. Considerava compito della poe- sia «salvare la speranza attraverso la sua contraddizione»2. E citava dalla Lettera di san Paolo ai Romani (5, 5-11): «[…] la speranza non delude, perché l’amo- re di Dio è stato versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Erano parole dense di significati, sulle quali ritornava poi nell’ana- lizzare le poesie scelte. Del resto della centralità e della funzione della parola nella sua poesia ave- vamo discusso sin dal primo incontro in Olanda all’inizio degli anni settanta, e poi l’ultima volta a Lucca. Avevamo le camere vicine e prima di recarci la matti- na (11 dicembre 2004) all’incontro organizzato da Lia Fava Guzzetta, durante il convegno dell’AISLLI su «Creazione poetica e tradizione letteraria»3, mi fece ve- dere un libriccino che teneva la notte sul comodino per segnarci quelle parole e quei versi che nei momenti d’insonnia gli venivano in mente, per non dimenti- carli e riconsiderarli poi alla luce del giorno. E in tale ottica va letta una delle li- riche degli ultimi anni pubblicata nella raccolta Dottrina dell’estremo principiante:

Infine crolla su se medesimo il discorso, si sbriciola tutto in un miscuglio di suoni, in un brusio. Da cui pazientemente emerge detto il non dicibile tuo nome. Poi il silenzio, quel silenzio si dice è la tua voce. (PUR, 436)

È dal silenzio che scaturisce la parola; o meglio il silenzio è il sottofondo ne- cessario alla parola. Per l’interagire dei contrari proprio del suo discorso poeti-

2 Langella parla a proposito della «sua ansia di assoluto». Giuseppe Langella, Mario Luzi e il dramma della modernità, in «L’amore aiuta a vivere, a durare». Bigongiari, Luzi, Parronchi cento anni dopo (1914-2014), a cura di Paola Baioni e Giorgio Baroni, [numero monografico di] «Ri- vista di letteratura italiana» 2014, 3-XXXII, p. 144. 3 La relazione di Luzi dal titolo Ritorno lucchese esce prima su «Lettere italiane», LVII, 1 (gen- naio marzo 2005), poi in M. Luzi, Autoritratto, a cura di Paolo Andrea Mettel e Stefano Verdino, Milano, Garzanti, 2007, p. 12. MARIO LUZI E LA PAROLA 23 co, in cui predomina un sistema di conciliazione e non di opposizione4, giunge così a concepire la parola nel suo nascere come una sottile voce del silenzio. Per Luzi «silenzio e voce […] non sono fondamentalmente contrapposti: talora si presentano come linguaggi alterni. Uno, la voce, si stacca dall’altro, il silenzio, ma aspira a ritornarvi; aspira anche a compenetrarsene, a farlo entrare nella vo- calità come componente profonda»5. Nelle sue riflessioni è centrale la problematica del rapporto di ogni singolo uomo con la parola, parola intesa non nella sua volteriana razionalità, ma in quel carico di “mistero” che porta con sé nel momento in cui vibra di quella tensio- ne poetica, che permette perfino di strappare «la sua mortalità alla morte», con- vinto che riuscirà a farlo, se «non è stretta ai suoi ceppi»6. La stessa oscurità della poesia risulta polivalente, in un’interazione costante tra suoni, significati e (so- prattutto nelle ultime raccolte) immagini rappresentate dalla collocazione delle strofe e dei versi come si può vedere, ad esempio, nella lirica Trota in acqua (se- zione Dal grande codice di Per il battesimo dei nostri frammenti)7. Luzi per Cacciari riporta la parola «al suo fondo o, meglio, alla sua in-fon- datezza, poiché […] quel fondo non è luogo o tempo determinati, ma sorgivi- tà, apertura. Se vi è parola non ‘distratta’ nella poesia italiana attuale, è questa di Luzi»8. Della sua missione il poeta era cosciente e lo esprime con entusiasmo in molte liriche, come in Per il battesimo dei nostri frammenti, in cui fa dialoga- re la cosa con la parola che la rappresenta:

Vola alta parola, cresci in profondità, tocca nadir e zenith della tua significazione, giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami

4 «La poetica di Luzi si regge di fatto su una opposizione costitutiva, individuata dalla cop- pia: frammento-fondamento. Da una parte , nonostante il grande desiderio di ricondurre a unità l’evenemenziale […], il poeta testimonia della frantumazione della realtà sotto i colpi del flusso temporale, documenta le macerie che si accumulano nel procedere della storia verso l’oscuro punto dove alfa e omega coincidono, principio e fine si toccano. Dall’altra parte questo processo poggia su di una base, uno zoccolo compatto, costituito da “fondamenti invisibili” […]. Il poeta attraversa la storia, è immerso in essa, per cercare di capire appunto l’enigma del “giusto della vita”, il senso dell’essere “nell’opera del mondo”, consapevole comunque che l’essenza è inarriva- bile». Alfredo Luzi, Dai frammenti ai fondamenti. Il viaggio verso la metafisica nella poesia di Mario Luzi, in «L’amore aiuta a vivere, a durare» cit., pp. 241-242. 5 M. Luzi, Il silenzio, la voce, Firenze, Sansoni, 1984, p. 13. Cfr. anche Paola Baioni, «Vola alta parola». «Verba et Verborum» nei poeti del Novecento, «Sacra Doctrina», Bologna, Edizioni Studio Domanicano, 3, 2012, pp. 99-116. 6 Versi finali della lirica Prigioniere ciascuna in sé le cose dalla raccolta Sotto specie umana, in Mario Luzi, Poesie ultime e ritrovate, a cura di Stefano Verdino, Milano, Garzanti, 2014, p.184. La sigla PUR rimanda a questa edizione. 7 Se non indicato le citazioni delle liriche di Luzi sono da Mario Luzi, L’opera poetica, a cura di Stefano Verdino, «I Meridiani», Milano, Mondadori, 1998. 8 Massimo Cacciari, Fondamenti invisibili, in Pensiero e poesia nell’opera di Mario Luzi, a cura di Stefano Mecatti, Firenze, Vallecchi, 1989, p. 20. 24 Franco Musarra

nel buio della mente – però non separarti da me, non arrivare, ti prego, a quel celestiale appuntamento da sola, senza il caldo di me o almeno il mio ricordo, sii luce, non disabitata trasparenza…

La cosa e la sua anima? o la mia e la sua sofferenza?

Non bisogna dimenticare che in ebraico cosa e parola si dicono con lo stesso lemma. La problematica del rapporto tra la parola e la cosa si fa via via più in- tensa e complessa, sino a divenire sostanza motrice dei vari testi nelle ultime rac- colte. Sempre in Per il battesimo dei nostri frammenti nella sezione Fuori o dentro lo strampalato albergo si chiede: «Chi parla la parola […] / E dopo dove scende / […] in che non conosciuta fenditura / fra tempo e tempo, / in che crepaccio del mondo? / O non scende, sale? Al suo primo senso…», dove i puntini di so- spensione finali indicano sia che l’interrogazione rimane (e non può che rima- nere) aperta, sia che la parola come il pensiero sono in costante movimento e mutamento, in un manifestarsi continuo del flusso coscienziale: «[…] penso / se è pensare questo / e non opera di sonno / nella pausa solare / del tumulto di adesso…» (Ridotto a me stesso da Il fuoco della controversia). L’identità dell’io po- etante, pur sempre incentrata nell’autore, si amplia e irraggia a dismisura sino a rendere «opachi» i suoi tratti personali rispecchiandosi nell’uomo, nella sua con- dizione esistenziale. Rivolgendosi direttamente al lettore dice:

Vuoi darmi un nome, chiamami l’angoscia, chiamami la pazienza ed il dolore o l’abbandono o il tedio o l’afflizione o altrimenti se esprimono parole la certezza di quel che so. (Né tregua da Primizie del deserto)

Significativa è poi la precisazione, nei versi che chiudono la strofa e la lirica, di non volersi abbandonare al dolore e alla disperazione, bensì di volerli domi- nare prendendone coscienza e immergendosi nello spirituale, senza negare co- munque il materiale:

E ne avevo cercato altrove il senso, dovunque un volto ardeva visitato dalla luce del vento, non da questa ch’è materia sensibile alla mano.

Esprime così la coscienza della separazione inevitabile tra il significato e il si- gnificante nell’azione ininterrotta del tempo e nella separazione spaziale. È del MARIO LUZI E LA PAROLA 25 resto il logico approdo di chi «critica un pensiero che pensa per dicotomie», pro- ponendosi da parte sua di «vedere […] oltre il chiarore della certezza», fino a co- gliere l’inaccessibile «che la ragione non decifra»9. Viene in tal modo chiamato in causa il rapporto tra materia e spirito, fra il materiale del segno e l’oggetto, con un movimento a spirale dalle cose ai segni e dai segni alle cose, in conso- nanza con l’ininterrotto flusso proprio della molteplicità dell’essere, nella con- tinua «fusione / tra anima e materia» (PUR, 427). Si ritorna in parte all’equa- zione dei primi romantici tedeschi in cui si cercava di superare (o andar oltre) la dicotomia tra spirito e materia: la materia era per loro lo spirito visibile, mentre lo spirito era la materia invisibile. Dicevano (e sintetizzo) che l’Io (lo spirito) in- contra il non-io (la materia), poiché il non-io viene posto da un Io superiore che poi lo supera, per giungere all’io empirico. Si tratta comunque di un moto rever- sibile, essendo possibile che sia il non-io a porre l’io con la cancellazione dell’Io superiore. Sono le basi dell’idealismo/spiritualismo e del materialismo/nichili- smo. Nel primo caso si ha un ritorno allo spirito superiore da parte dell’io empiri- co nel momento in cui si libera della materia, nel secondo un ritorno dell’io em- pirico alla materia. Luzi si muove negli spazi della prima possibilità e ne vede la concretizzazione nel farsi uomo di Dio e nel ritornare di Cristo (e dell’uomo) a Dio, nella cui «luce» si «estingue ogni divario / tra materia e idea» (Si estenua la lapide del cielo da Sotto specie umana, PUR, 199). Il flusso della vita assorbe in tale «sogno romantico», fatto però «a occhi aperti», ogni frammento, ogni con- traddizione, sino ad approdare a un’armonia assoluta. In un continuo confronto dialettico Luzi giunge attraverso la parola a bru- ciarla «nel desiderio di una conoscenza assoluta e di una luce soprannaturale» in cui si annullano i colori, ma non per buio bensì per «un eccesso di luce»10. Opportunamente Paola Baioni cita in proposito la lettera di San Paolo ai Filippesi (Fil. 2, 5-8) riassumendone le tappe in tre punti:

1. essere (‘stato iniziale di essere’); 2. non-essere (‘negazione di questo stato di es- sere iniziale’); 3. essere (‘nuova pienezza di essere’). Questo movimento kénotico è un movimento di conoscenza che si manifesta già sul piano della coscienza umana. La morte è uno svuotamento totale e offre la possibilità per un compi- mento assoluto11.

La parola è lo strumento necessario per penetrare in un «mondo disunito, sofferente e insieme irrazionale, indecifrabile», da parte di un io cosciente di non riuscire a farlo «con la mente […] sospeso fra il desiderio di essere dentro le cose e in mezzo agli uomini», un io che aspira a «un oltremondo insieme letterario

9 Anna Panicali, Saggio su Mario Luzi, Milano, Garzanti, 1987, p. 184. 10 M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio cit., p. 254. 11 P. Baioni, La parola incarnata nella poesia di Mario Luzi, in «L’amore aiuta a vivere, a durare» cit., p. 254. 26 Franco Musarra e spirituale»12. La parola, per questa sua capacità di rendere l’individuo coscien- te di sé e di unire gli uomini, ci permette di comunicare, di analizzare l’altro, la realtà, ma anche di effettuare e trasmettere la continua introspezione di se stes- so. Nella lirica D’intesa (da Nel magma) si può vedere il confronto tra posizioni assertive e dubitative, condotto sempre con toni pacati, senza voler imporre la propria visione dell’essere, il che sarebbe contrario alla scelta del dialogo come mezzo per superare i conflitti che assillano gli esseri umani. Ne nasce una poe- sia in cui costante è il dubbio, l’interrogazione13, la tolleranza, «la sospensione del giudizio»14, una poesia che si estende su tutti i campi del dicibile, dal più er- metico al quotidiano, sino alle forme dell’alterco, come nella lirica Tra quattro mura. Il proposito è arduo, ma lo sorregge sempre la certezza che solo la paro- la poetica può rendere possibile l’impossibile, può realizzare un colloquio tra i vivi e di essi con i morti (come sostiene nella lirica Il duro filamento da Dal fon- do delle campagne). Rende in tal modo significativi anche quei momenti di co- municazione in cui ognuno parla a se stesso, senza ascoltare e rispondere, come pure i lunghi silenzi (si veda ad esempio la lirica L’uno e l’altro da Nel magma, e le altre liriche della stessa raccolta in cui si realizza un colloquio tra il poeta ed esponenti di vari gruppi della società, in una «ricerca collettiva di senso»15).

1. Quali modelli?

In un’intervista rilasciata a una mia allieva nel 199816, alla domanda riguar- dante gli autori più determinanti per la sua formazione alla poesia, già nella pri- ma raccolta La barca, Mario Luzi affermava:

Si è trattato di uno sviluppo simultaneo di incontri, di esperienze umane e di letture, di accrescimento culturale. Mi accostai molto in quegli anni al mondo di mia madre, alle sue cose, alle sue preoccupazioni, alle sue letture ed alle sue amicizie con persone semplici, talvolta povera gente. Erano anni in cui, contem- poraneamente, m’avvicinavo sino in fondo alla poesia di Rimbaud, con quel suo mondo cattolico, alle volte un po’ umiliato, fatto di povera gente, così semplice

12 Giovanni Fontana, Il fuoco della creazione incessante, Lecce, Manni, 2002, p. 41. 13 «Luzi, prendendo a tema l’origine della parola, ossia il suo stare tra voce e silenzio, scopre che la forma poetica è essenzialmente interrogativa» scrive Sergio Givone, Voce e silenzio nel linguaggio poetico di Luzi, in Gli intellettuali italiani e la poesia di Mario Luzi, a cura di Roberto Cardini e Mariangela Regoliosi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 27. 14 A. Panicali, Saggio su Mario Luzi cit., p. 183. 15 G. Fontana, Il fuoco della creazione incessante cit., p. 40. 16 Isabelle Vandenborre, Nel “fuoco” della poesia. Intervista a Mario Luzi, in Poesia nonostante tutto. Conversazioni con Rodolfo Di Biasio, Mario Luzi, Leonardo Mancino, Umberto Piersanti, Roberto Sanesi e Maria Luisa Spaziani, a cura di Franco Musarra e Bart van den Bossche, Leuven- Firenze, Leuven University Press-Franco Cesati Editore, 1999, pp. 79-92. MARIO LUZI E LA PAROLA 27

ma pregnante al tempo stesso. E oltre a Rimbaud, un’altra lettura per me di notevole importanza, perlomeno in senso emotivo, è stata quella di Campana, nonostante tra i due si apra una divaricazione stilistica, di ingegno completa- mente diverso17.

Dopo aver precisato che la poesia di Montale e Ungaretti non lo «sollecita- va» più di tanto, non giungendo sino «a far vibrare le corde più intime della sua personalità», si soffermava su Pascal, Racine, Mauriac, scrittori della «tradizio- ne agostiniana», scrittori di una letteratura «interiore, analitica nel senso dell’e- same di coscienza». Per la nostra problematica è interessante inoltre che poi, ci- tando Baudelaire Mallarmé Valéry, i surrealisti, il simbolismo e postsimbolismo, insistesse sul loro «ricondurre il problema della poesia alle sue fondamenta», sul loro «ripensare il problema dell’espressione poetica e del rapporto fra l’indivi- duo e il tutto attraverso la lingua», attraverso la parola, «fondamenta» che sono riferibili a tutti i tempi e rappresentano un momento di riflessione, un momen- to in cui si rileggono «in altro modo gli stessi Petrarca, Dante e altri», un mo- mento in cui «la poesia prende coscienza di se stessa e trova quelle che sono le sue peculiarità, diciamo ciò che le è più tipico»18. Mi ero subito chiesto perché nella sua galleria non comparisse Leopardi, del quale in un lontano incontro in Olanda, mentre si passeggiava nel parco del mu- seo Kroller-Müller (noto soprattutto per i suoi splendidi Van Gogh), parlando- mi dei poeti che più avevano contribuito alla sua formazione poetica, si era sof- fermato a lungo sul Recanatese, con il quale diceva di aver condotto e di con- durre tuttora un serrato confronto dialettico per chiarire a se stesso i tratti de- terminanti delle proprie componenti ideologiche e dei propri costituenti forma- li19. Quiriconi parla a proposito di un «capitolo continuamente riaperto, con- tinuamente approfondito» e che evidenzia due direttive: una rivolta al passato che s’interroga su quello che Leopardi ha significato per la poesia del Novecento, l’altra rivolta al futuro che cerca d’individuare il suo peso determinante nel no- stro tempo e negli anni che verranno20. Il rapporto di Luzi con Leopardi, è complesso; raramente si esplicita in fram- menti intertestuali al livello di scrittura seconda, concentrandosi soprattutto su ri- flessioni metadiscorsive e ideologemi di primaria importanza per entrambi. Già nel 1937 pubblica nel «Frontespizio» il saggio su Leopardi dal titolo Vicissitudine

17 Ivi, p. 81. 18 Ibidem. Chi conosce l’olandese veda anche Isabelle Vandenborre, Mario Luzi: een herme- ticus ondergedompeld in de werkelijkheid, in «Kreatief. Literair-en kunstkritisch tijdschrift», 1995, 3-4, pp. 20-33. Numero monografico sulla letteratura italiana contemporanea. 19 Per la sua formazione è fondamentale il già citato M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio. 20 Giancarlo Quiriconi, Pensare la vita, vivere l’alterità, introduzione a Mario Luzi, Natura- lezza del poeta. Saggi critici, a cura di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995, p. 18. 28 Franco Musarra e forma21, in cui gli attribuisce il merito di aver abolito la dualità tra lingua e lin- guaggio, tra lingua e parola poetica. Nel saggio Naturalezza del poeta afferma poi che l’arte «progredisce incommensurabilmente quanto più il suo linguaggio s’i- dentifica con la lingua, quanto più il suo procedimento tecnico-espressivo s’annul- la nei movimenti e nei costrutti della lingua naturale fino ad apparire una pura e naturale incidenza, mentre l’apporto personale sembra scomparso»22. Importante è anche il suo intervento in un duetto leopardiano con Yves Bonnefois23, orga- nizzato a Bruxelles dal Centro Nazionale di Studi Leopardiani di Recanati, dal- la Commissione Cultura del Parlamento Europeo e dal Centro di Studi Italiani dell’Università di Lovanio (dicembre 1998), in cui ha affrontato la problemati- ca della centralità dell’opera di Leopardi nel Novecento, opera, quella leopardia- na, immensa «oltre che nella potenza e limpidezza del canto in pagine pazienti e minuziose»24. Dopo aver affermato che quello di Leopardi è «un altissimo canto, uno dei più puri, uno dei più complessi e profondi della lirica italiana, della lin- gua italiana»25, si soffermava soprattutto sulle Operette morali e sullo Zibaldone. Anni prima aveva già impostato criticamente il problema nel saggio Leopardi nel secolo che gli succede. Vi sosteneva che, per capire completamente il grande si- gnificato di «Leopardi per la poesia del nostro secolo» e la cosiddetta modernità, di cui è il paradigma, bisogna considerare con attenzione «l’accezione di poesia che il Novecento ha privilegiato»26. Nessun altro poeta in Europa poteva conten- dergli «la supremazia come fondamento della poesia moderna»27. Anche nell’in- contro di Bruxelles insisteva su questa linea. Luzi non ha dubbi: Leopardi «inau- gura e propone con il suo esempio la condizione agonica dell’uomo storicizzato che ha perduto certezze, illusioni ma resta in possesso della volontà di operare»28; della modernità il Recanatese rifiuta però l’euforia, facendone sentire «il dram- ma», per spingere a viverla «degnamente». Leopardi rappresenta nella cultura oc- cidentale un punto di svolta; dopo di lui «nulla nella poesia italiana […] è stato più come prima: nella ideazione e nella esecuzione si sente in chiunque, critico o poeta, […] il desiderio di verità come ragione prima del poetare»29, una pro-

21 «Il Frontespizio», 1937, IX, pp. 661-665 (oggi in Naturalezza del poeta. Saggi critici cit., pp. 42-48). 22 Ivi, p. 82. 23 Sui rapporti di Luzi con Bonnefois si veda in questo volume il saggio di Laura Toppan. 24 M. Luzi, Leopardi e l’Europa: vivere la modernità, in Leopardi in Europa, a cura di Franco Musarra, Bart van den Bossche e Serge Vanvolsem, Firenze / Lovanio, Franco Cesati Editore / Leuven University Press, 2000, p. 21. 25 Ibidem. 26 M. Luzi, Leopardi nel secolo che gli succede, in Leopardi e il Novecento, Atti del III Convegno Internazionale di Studi Leopardiani (Recanati 2-5 ottobre 1972), Firenze, Olschki, 1074, p. 4. 27 Articolo da il «Corriere della Sera» del 1987 citato da Emilio Giordano, Il labirinto leo- pardiano, Bibliografia 1984-1990 (con un’appendice 1991-1995), Napoli, Liguori, 1997, p. 14. 28 M. Luzi, Leopardi e l’Europa: vivere la modernità cit., p. 22. 29 Ibidem. MARIO LUZI E LA PAROLA 29 blematica questa sulla quale non posso purtroppo soffermarmi in questa sede. Un critico attento alle strategie testuali come Antonio Prete, al quale si deve il fortunato sintagma «pensiero poetante» riferito a Leopardi30, ma che si adat- ta bene anche alla poesia di Luzi, in un saggio sull’opera di quest’ultimo parla invece di una «poesia pensante», indicando, in toni discreti, il profondo lega- me che unisce i due poeti:

Il pensiero «religioso» di Luzi coincide con la sua «poesia pensante»: si potreb- be dire che il poeta cerca di svolgere, nel vivo del linguaggio, la contiguità di un’antica e sacra metonimia – parola, vita, luce – verso una sovrapposizione, una concordanza, o addirittura unità. Eppure, nel cuore di questo svolgimento, stanno per il poeta la catena di eventi – minimi o epocali –, il mutamento di paesaggio e di ricordi e di voci, la percezione (leopardiana?) dell’«unico comune procedimento della materia»31.

Leopardi per Luzi, oltre a essere un modello per il suo canto, è un punto di riferimento costante per il suo modo di concepire il pensiero, il rapporto tra il vero filosofico e il vero poetico, per il piano su cui colloca nell’essere la paro- la poetica, nettamente distinta dalle parole codificate e consunte, che Leopardi nello Zibaldone chiama «termini», parole sempre circoscritte semanticamente, prive di quegli spazi evocativi, magici, rivelatori propri della parola poetica, il che è comprensibile per un poeta che afferma esplicitamente di aver «dedicato la sua vita alla parola, alla scrittura che è parola»32 . E Luzi non manca d’ironiz- zare sul degrado della lingua nel mondo moderno in una delle sue ultime liri- che, S’era accesa una rissa (PUR, 170):

S’era accesa una rissa di vocaboli, a gara si appropriavano le cose e i continui avvenimenti, volevano ciascuno essere nome… se non che non si dice, non ha forza né effetto, non è fedele al verbo la parola umana, lo sa bene lui, lo sa – e non se ne tortura – la sua chiara e profonda creaturalità.

30 Antonio Prete, Il pensiero poetante, Milano, Feltrinelli, 1980. 31 A. Prete, Studio sopra la poesia di Luzi (in tre movimenti), in Pensiero e poesia nell’opera di Mario Luzi, Firenze, Vallecchi Editore, 1989, p. 69. 32 M. Luzi, Le parole agoniche della poesia, in Naturalezza del poeta cit., p. 292. 30 Franco Musarra

[…] talora presagisce lei, la lingua dell’uomo, ma l’attimo primario, il suscitante, quello le è negato, preclusa la nominazione anche.

Qui Luzi distingue la parola umana dal verbo divino33 e accenna al «tor- mento» dei profeti, i quali non «intendevano» che era restituita a «ogni creatu- ra» «la perduta divinità». L’enigma è, a mio avviso, solo apparente, dato che per lui è la parola poetica in grado di captare e trasmettere alcune faville del verbo. Se l’amore per la poesia accomuna Leopardi e Luzi, li distingue però il fatto che nella poesia di Mario, pur nella presenza del dolore, dell’angoscia, del dub- bio, soprattutto a partire dalla raccolta Dal fondo delle campagne, mai vengono meno la fiducia e la speranza. L’amore è l’elemento salvifico, amore verso l’altro e amore con l’altro verso Dio. La stessa sofferenza diviene fuoco che alimenta la speranza, nel «mesto rituale della vita», con la «vivente comunione / di tempo e eternità» (Il duro filamento), «la vita» che «segue la vita / con la fedeltà che ha l’ombra» (Colpi):

Vita fedele alla vita tutto questo che le è cresciuto in seno dove va, mi chiedo, discende o sale a sbalzi verso il suo principio (Vita fedele alla vita, da Su fondamenti invisibili)

Nell’intervista alla mia allieva Luzi precisa, a proposito dell’interiorità e del- la mente, che la «pura ricerca linguistica, l’elaborazione arditamente tecnica non ha di per sé valore se non riesce a trasfondere, a rendere e irradiare una emozio- ne, a conferire qualcosa che non valga autonomamente come puro esercizio di stile»34. La parola quindi non è da intendersi come un mezzo per esibire le pro- prie «capriole espressive», bensì come un dono di cui l’uomo deve fare un uso

33 Cfr. Giovanni 1,1 «In principio era il Verbo, / e il Verbo era presso Dio / e il Verbo era Dio». Scrive Paola Baioni: «Il versetto del vangelo di Giovanni posto in esergo alla silloge Per il battesimo dei nostri frammenti getta un fascio di luce sul significato della natività. Il logos che s’incarna, lotta, muore e risorge attraverso la parola e la «veste» di luce, la «trasfigura». Il poeta, come tutte le creature, vive la stessa metamorfosi del logos» (P. Baioni, La prola incarnata nella lirica di Mario Luzi cit., p. 251. Luzi scrive nel saggio Le parole agoniche della poesia (cit., p. 292): «Come epigrafe al mio ultimo libro (Per il battesimo dei nostri frammenti) io ho messo il versetto di san Giovanni: “In principio era il verbo e il verbo era la vita, la vita era la luce degli uomini”. Generalmente ci si ferma al primo: “in principio era il verbo”. Se noi consideriamo la connessio- ne di queste frasi abbiamo effettivamente il prodigio della vita e della parola che la illumina; anzi della vita che è come la traduzione concreta della Parola stessa». 34 I. Vandenborre, Nel “fuoco” della poesia. Intervista a Mario Luzi cit., p. 82. MARIO LUZI E LA PAROLA 31 oculato, serio, mai superficiale. Si diceva convinto, infatti, della necessità di «an- dare sino in fondo, e non arrestarsi ad un puro gioco di superficie», di «bruciare ogni scoria vitale nel linguaggio», di agire su questa tensione, sino a creare «una frizione, un attrito incandescente», per cercare di avvicinare se non sempre rag- giungere «il valore intrinseco della parola, il suo più profondo mistero»35. Parola e mistero sono nuclei generativi della sua opera e interagiscono sia come creazio- ne attraverso la parola di mistero, sia come mistero nell’uso della parola. Luzi, in- fatti, si abbandona al fascino della parola, che è grafema, immagine e suono, un suono nel quale il poeta coglie un grumo di significati e di emozioni che cerca di trasmettere al lettore:

Ho sentito fin dal principio il valore creante della parola, mi ha affascinato non la sua virtù descrittiva di ciò che esiste, ma il potere di generare il pensiero e le sue forme. E infatti credo che ogni pensiero che conti nasca nella parola che lo esprime, nasca insieme con la parola che lo esprime, nasca esprimendolo, nasca manifestandolo nella parola, così come accade nel Verbo giovanneo per ritorna- re appunto al principio di tutte le cose36.

Non ci stupisce allora la sua convinzione che nella cosiddetta modernità vi sia una profonda frattura, uno scarto «tra linguaggio e oggetto, tra parola e cosa», con «una divaricazione sempre maggiore rispetto al passato» e con il co- stante rischio del mutismo, al quale sembra destinata l’epoca contemporanea per aver «perso lungo la via l’originario valore della parola, la prima legittima- zione», perciò il pericolo maggiore al quale l’uomo moderno va incontro «sta proprio in questa incapacità di linguaggio, nel profondo silenzio della parola o, peggio ancora, nell’afasia»37. Ed è su questa frattura che deve operare il poeta, se vuole riportare la parola all’originario valore sino a farla risalire «alla sua fon- te primaria, al suo intrinseco mistero» appunto. Si tratta dunque di una parola che «non nomina soltanto, ma che conferisce spessore e pregnanza alla cosa, la fa esistere; e questo è un operare non sulla, ma attraverso la parola». La parola cerca in se stessa, il suo elemento vitale, per recuperare la sua capacità di rappre- sentare la realtà, l’esistenza, il mondo. Per Luzi «la parola interroga la vita e in essa cerca d’orientarsi; in questo modo l’evento è interno al testo, tra i due con c’è distanza: “In lei era la vita e la vita era la luce degli uomini”»38. Certo siamo lontanissimi dall’interrogativo che si pone Faust nel suo accingersi a tradurre il Nuovo Testamento: «Geschrieben steht: Im Anfang war das Wort! / Hier stock’ ich schon! / Wer hilft mir weiter fort? / Ich kan das Wort so hoch unmöglich

35 Ibidem. 36 M. Luzi, Le parole agoniche della poesia cit., p. 294. 37 I. Vandenborre, Nel «fuoco» della poesia. Intervista a Mario Luzi cit., p. 82. 38 Ibidem. Anche per le citazioni precedenti. 32 Franco Musarra schätzen»39. Faust conclude però optando per l’azione, il che è a mio avviso an- che il credo di Luzi, nonostante tutto, dato che le opposizioni interagiscono sino a costituire entità seconde in cui risultano interdipendenti e amalgamate. E in tale direzione va letto quanto scrive nel saggio Le parole agoniche della poesia: «La lingua della poesia […] è una lingua che non solo comunica uno stato esi- stente nella realtà di chi scrive ma anche suscita in altri emozioni parallele, ana- loghe o diverse. È una lingua che continua il suo processo di creazione al di là dell’individuo che l’ha usata, e l’ha piegata momentaneamente alla sua necessi- tà» e ciò nonostante che tutto «nella pratica della vita, nella storia, tende a cor- romperla la parola, a renderla mero segno, a depotenziarla, a destituirla di sen- so, a renderla convenzionale, non più spirito ma lettera»40. L’azione del poeta è rivolta ad individuare la fonte che inquina la parola per «restituirla a se stessa, alla sua dignità, alla sua interezza. […] È una lotta incessante, è un’agonia»41 il voler liberare nella poesia la parola dall’usura del mondo per «l’alienazione di una civiltà come la nostra, numeraria, indifferente alla persona, piuttosto inte- ressata a manovrare la massa»42, una società che corrompe.

2. La parola e la memoria

Strettamente correlata alla parola è la memoria e non può essere altrimenti se, come dice nella lirica A un compagno (da Un brindisi): «[…] essere è non di- menticare». La memoria però, per le sue «sue ambiguità produttive e creative, non permette una cristallizzazione del passato», dato che nulla «rimane perfet- tamente se stesso»43; su ciò che è stato, agiscono, infatti, oltre alla dimentican- za la fantasia, l’immaginazione, il desiderio, il bisogno di conoscenza ulteriore. L’individuo servendosene, sposta «il baricentro della sua valenza verso l’avveni- re, verso ciò che sarà». L’io poetante si domanda:

Memoria di che, memoria di quando? Non so il ricordo se com’era la rammenta o se com’era la svisa. Tuttavia ricorda. Ricorda lei, ricorda la luce d’anteprimavera

39 «Sta scritto “All’inizio era la parola” / e già m’impunto! / Chi mi aiuta ad andare avanti / non posso considerare tanto alta la parola». E conclude che «all’inizio era l’azione» [mia la traduzione]. 40 M. Luzi, Le parole agoniche della poesia cit., p. 295. 41 Ivi, p. 296. 42 Ivi, p. 298. 43 I. Vandenborre, Nel “fuoco” della poesia. Intervista a Mario Luzi cit., p. 83. MARIO LUZI E LA PAROLA 33

di quel ricordo. (da Bruciata la materia del ricordo)

La verità di «ciò che è passato non corrisponde mai al ricordo» che si ha di esso; «il passato è sempre più profondo e misterioso» di come lo si ricorda. Il gioco del- la memoria è senza tempo, è «un processo speculare di rifrazioni attraverso il qua- le» gli elementi del passato si proiettano sul futuro. Il mescolarsi di riesumazione e immaginazione fa sì che «non sa / questo, ignora la differenza / lei memoria – me- moria di che? / d’altra memoria soltanto?» (Possono? da Tutto perso tutto parificato?). Questo è «il meccanismo vitale delle cose stesse, le quali sarebbero morte se bloc- cate, fossilizzate ed irretite nella loro dimensione passata»; l’uomo si trova «all’in- terno di tale meccanismo, dentro questo ciclo di continua trasformazione. In que- sto processo, in questa particolare valenza metamorfica della memoria […] è la ri- prova della potenza del canto, della vita interiore dell’uomo, della poesia»44. Per Luzi è enigmatico il concetto stesso di realtà, essendo questa moltiforme, in con- tinuo mutamento, tanto da dover essere determinata di volta in volta; ma è altret- tanto «moltiforme e cangiante […] la vita interna, il flusso interiore dell’esisten- za e della conoscenza»45. Luzi giunge per tale via a versi costruiti su sequenze ossi- moriche come quando in Duro si ripresentò il paesaggio (Dottrina dell’estremo prin- cipiante) si chiede se «forse mutava / in altro da sé il mutamento…». Pertinente è quanto scrive in proposito Ernestina Pellegrini: «La poesia non è […] uno stru- mento rituale per penetrare nell’enigma, attraverso cifre e barlumi, ma esperien- za esistenziale sospesa tra presenza e assenza»46, il che costituisce il logico appro- do di un poeta che sente di sé soprattutto i limiti, la caducità, la precarietà: «Di me non c’è traccia negli anni / se non come raccontano un viaggio / le impron- te sulla sabbia d’un deserto» (Forse dice l’addio da Primizie del deserto). Non viene mai meno però in Luzi la speranza di poter raggiungere tramite la parola poetica:

[…] il punto fermo e impensabile dove nulla da nulla è più diviso, né morte da vita né innocenza da colpa, e dove anche il dolore è gioia piena. Sono cose, queste, che si dicono per noi soltanto. Altri ne riderebbero. Ma dire si devono. Le annoto per te che le sai bene e per testimonianza dell’amore terreno… (Il pensiero fluttuante della felicità, da Su fondamenti invisibili)

44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 Ernestina Pellegrini, Nel corpo oscuro della metamorfosi. Appunti sulle immagini della morte nella poesia di Mario Luzi, in «Il Portolano», XI, gennaio-giugno 2005, 41/42, p. 15. 34 Franco Musarra

Nonostante i limiti della memoria vi sono dei frammenti di luce che giusti- ficano per il poeta la speranza. Ancora nelle ultime raccolte ritorna su questo motivo evidenziandone l’essenza nella spaziatura dei versi, «che Luzi chiama- va “costellazioni”» (PUR, 3), in una delle liriche più significative in proposito:

È vero, la memoria non circoscrive il tempo, non identifica l’evento però la crocifiggono a un assoluto incanto i chiodi d’oro d’una chissà quando vissuta silvestrità, la scorre un brivido cieco e luminoso, un oltre-la-reminiscenza, un quid, una pepita di gioia antica la tortura; aghi di fuoco tra il fogliame che ci copre e oscura la trafiggono spesso a ritroso come flash? O come segni di preparazione a che?

I due interrogativi47 finali sono stilemi di una strategia espressiva luziana sul- la quale non mi è possibile soffermarmi in questa sede.

3. Sulle strategie espressive

ln questo mio breve intervento non mi soffermo che marginalmente sulle opere di saggistica in cui Luzi tratta direttamente della parola, anche se non po- trò fare a meno di rimandare a Le parole agoniche della poesia48, un testo fonda- mentale per capire la diversificazione, già segnalata da Quiriconi, «tra i due mo-

47 Ramat ha sottolineato che «di interrogativi è costellato» già Avvento notturno, tanto che si può «affermare che le domande sono indispensabili alla retorica di quel libro» (Silvio Ramat, Verso il ’40: tre giovani alla prova del sonetto, in «L’amore aiuta a vivere, a durare», cit., p. 18). E Anna Dolfi precisa che «le forme interrogative […], frequenti a partire da Avvento notturno», si rivolgono al misterioso senso dell’esistenza, di quel viaggio verso una destinazione sconosciuta che è la vita (A. Dolfi, Per una grammatica e semantica dell’immaginario, in «L’amore aiuta a vivere, a durare» cit., p. 90). 48 M. Luzi, Le parole agoniche della poesia, in Naturalezza del poeta cit., pp. 291-303. MARIO LUZI E LA PAROLA 35 menti […] della riflessione e dell’atto poetico». Il fatto che siano poi in fondo «interconnessi»49 rientra nella strategia discorsiva di Luzi, già segnalata, di far interagire gli opposti, i contrari, per raggiungere una superiore armonia chiari- ficatrice50. Spesso citata dalla critica è, tra l’altro, la sua affermazione sul «pote- re» della parola nel «generare il pensiero», poiché che vi è «una parola […] che serve il pensiero e […] una parola che genera il pensiero»51. Mi limito a segnalare alcune delle categorie grammaticali e dei procedimen- ti stilistici di cui Luzi si serve più frequentemente per staccare nella sua poesia la parola dalla quotidianità, per renderla pura e realizzare in tal modo le aper- ture semantiche di cui si diceva sopra, pur nella consapevolezza del «dramma della conoscenza, la quale nonostante i calcoli non riuscirà mai a dominare con le sue leggi il caso e il divenire», che è poi il «dramma dell’esistenza che mentre cerca la sua finalità e la sua giustificazione suprema deve rassegnarsi a una perpetuazione inconsulta e necessaria»52, deve rassegnarsi al mutamen- to continuo che è l’essenza della vita per l’agire del tempo il quale «vola / dai corpi al cielo / come un liquido autunno oltre il suo velo» (Scendono prima- vere eterne da La barca sezione Poesie diverse). Non è tanto il voler coniare un nuovo modo di dire che lo muove, quanto la speranza di evocare l’oltre attra- verso immagini via via forti, sorprendenti, sfuocate, silenziose, con un opera- re costante e personale sulla lingua secondo certe unità ritmiche che rendo- no inconfondibili i suoi versi53. Nonostante le ovvie trasformazioni nel corso degli anni, centrale rimane l’idea della vita individuale come parte di quella collettiva e del dolore esistenziale come inerente al vivere. La consapevolezza della «vanità» del tutto non lo porta a un nichilismo negativo, non soffoca la sua seppur dolorosa «ansietà / d’esistere» (Quaderno gotico, I), per la presenza (anche nei momenti più bui) dello splendore di una rosa continua, di un fio- re54 che fa sentire il suo profumo persino nel deserto. Un giovane studioso ha scritto in proposito una frase che mi piace riportare: «il desiderio di reagire di fronte alla desolazione» è in Luzi sempre «attivo e profondamente sentito»55. Sapere e non sapere non si autoescludono, ma si completano. Il servirsi della parola è di fondamentale importanza nella vita, pur non essendo a volte fa-

49 G. Quiriconi, Pensare l’alterità, introduzione a M. Luzi, Naturalezza del poeta cit., p. 19. 50 Ovviamente mi rifaccio in parte a Pier Vincenzo Mengaldo, Il linguaggio della poesia erme- tica, in La tradizione del Novecento, Terza serie, Torino, Einaudi, 1991, pp. 131-157. 51 M. Luzi, Le parole agoniche della poesia, in Naturalezza del poeta cit., p. 294. 52 M. Luzi, Mallarmé, Cosenza, Marco Editore, 2002, p. 151. 53 Interessante è leggere il suo saggio Pensieri casuali sulla lingua scritto per la sua nomina ad Accademico della Crusca il 21 marzo 2003 e consegnato nella «Tornata Accademica» del 9 giugno: L’Accademia della Crusca per Mario Luzi. Dialogo con i poeti sulla lingua italiana, Firenze, Accademia della Crusca, 2003, pp. 15-21. 54 «[…] e intanto gli falcia la memoria / il fiore azzurro / dei mattini / in stagioni cristalline» (Ed ecco, da Sotto specie umana. PUR, 78). E non si può non pensare al «fiore azzurro» di Novalis. 55 Marco Menicacci, Luzi. Il demone filosofico, Firenze, Franco Cesati Editore, 2007, p. 55. 36 Franco Musarra cile, pur temendo di cadere nell’afasia. Del resto nel “mai detto veramente” è l’essenza della poesia:

Scrive lui scriba56 il già scritto da sempre eppure il mai finito, mai detto, detto veramente. (Frasi e incisi di un canto salutare)

La lingua unisce gli uomini, permette loro di comunicare, «ma fra tutti i co- dici semiologici, […], la parola è il vertice. Gli altri segni non fanno parte del- la lingua, non ascendono alla parola – se vogliamo considerarla all’apice dell’u- mano giusta la sacrosanta correlazione con il Verbo»57. L’analisi delle componenti microstrutturali del linguaggio luziano permette di meglio circoscriverne i costituenti tematici primari. Ovviamente le segnala- zioni stilistiche che seguono non pretendono di essere esaustive, vogliono solo indicare dei tragitti di lettura. Mi limito di volta in volta ad alcuni esempi si- gnificativi presi dalle varie raccolte. Nel corso degli anni, nei quattro settori in cui si possono raggruppare tema- ticamente le sue raccolte di poesie58, costanti rimangono le soluzioni discorsive; risulta perciò sempre parziale il tentativo di dare una tipologia del suo atto di scrittura, in cui «tutto gioca con tutto» (Infrapensieri la notte da Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini). Non mi soffermo che brevemente sulle figure reto- riche come le anadiplosi, le anafore, le diafore. Mi limito alle «parole nucleari», alle unità ossimoriche e alle ripetizioni, le epanalessi, molto frequenti queste ul- time, dato che Luzi riprende regolarmente delle parole per rafforzarne il campo semantico ed agire su quello che vuole dire. A ragione Paola Baioni ha scritto che nella sua poesia, in un processo inarrestabi- le, «uccide e discioglie la parola, per farla rinascere altra, per darle significazione»59; gli esempi inoltre andrebbero analizzati all’interno dei singoli testi, tenendo conto delle componenti costitutive, dalle semantiche alle ritmiche, e ovviamente della ma- crostruttura della raccolta di cui fanno parte, il che non è possibile in questa sede.

56 Sullo «scriba» si vedano A. Luzi, L’«enigma» e lo «scriba» nella poesia dell’ultimo Luzi. Il modo ermeneutico di «Fondamenti invisibili», in «Studi novecenteschi», XV, 36, (1988), pp. 349- 366 e Guglielmina Rogante, Dallo «scriptor» allo «scriba»: il poeta verso la «modestia», in La fron- tiera della parola. Poesia e ricerca di senso: da Pascoli a Zanzotto, Roma, Studium, 2003, pp. 55-69. 57 M. Luzi, Pensieri casuali sulla lingua cit., p. 16. 58 Tenendo conto della referenzialità (in rapporto al personale soggettivo, all’oggettivo, fino allo spirituale) delle parole, si distinguono un primo periodo che va dal 1935 al 1946, un secondo dal 1947 al 1957, un terzo dal 1958 al 1984 e un ultimo dal 1985 in poi. Cfr. anche Giorgio Ca- vallini, La parola «vita» nella poesia di Mario Luzi, in «L’amore aiuta a vivere, a durare» cit., p. 209. 59 P. Baioni, La parola incarnata nella poesia di Mario Luzi cit., p. 253. MARIO LUZI E LA PAROLA 37

4. Parole nucleari

Innanzi tutto mi preme segnalare alcune parole nucleari correlate, come me- tamorfosi60/vita61, ossia quelle parole, molto frequenti nella poesia di Luzi, che interagiscono tra loro e hanno nei versi un’ampia presenza, pur nella «continua perturbazione semantica» a dirla con Bigongiari62. Tralascio di menzionare ogni volta quelle affini, come tristezza per angoscia, che vanno comunque tenute pre- senti, come pure le amplificazioni semantiche, gli aggettivi – tra i quali va indi- cata comunque l’importanza di alto – e i verbi, per non appesantire eccessiva- mente la lista. Raggruppo, per quanto possibile, le parole in categorie, proce- dendo da un più a un meno di oggettivazione63:

– Vita / morte, eterno / tempo, luce / trasparenza / barbaglio / buio / ombra / alba / giorno / notte, mondo /cielo / terra / acqua / aria / vento / fuoco64, primavera / estate / autunno, inverno [con i vari mesi, soprattutto nelle ultime raccolte. Si veda ad esempio Sotto specie umana, PUR, 66-100 e 185], mare / fiume65 / campagna / montagna / colline / città / strada, deserto;

– Materia / idea; movimento / stasi / viaggio, vicinanza / lontananza; silenzio / rumore / grido; amicizia / rancore, attesa / angoscia, felicità / speranza / dolore, salute / malattia / devastazione, pazienza / impazienza, fede / dubbio, attrazione / repulsione, assenza / presenza, memoria / ricordo / dimenticanza, pietà / sgomento, innocenza /colpa;

– amore vs indifferenza(e non odio, una parola estranea al vocabolario luziano)

Già da questo sommario delle parole più frequenti, suddivise per quanto pos- sibile per campi semantici, si evincono gli spazi in cui ama aggirarsi il poeta, in un continuo riflettere sull’essere e sulla vita dell’uomo. Poche sono le riprese dal mondo animale e vegetale. Luzi si limita per lo più a parole generali come uccelli, alberi e fiori, erba66. Le poche forme specifiche

60 «Metamorfosi è “parola chiave” e ricorrente nella poesia (e nella vita) di Mario Luzi» (ibidem). 61 Sulla presenza e la funzione della parola «vita» nella poesia di Luzi si veda G. Cavallini, La parola «vita» nella poesia di Mario Luzi cit., pp. 209-216. 62 Cfr. A. Dolfi, Terza generazione. Ermetismo e oltre, Roma, Bulzoni, 1997. 63 Il metro di giudizio è ovviamente personale e discutibile. 64 «[…] il fuoco, / il fuoco ilare, il fuoco elementare della creazione incessante» (Il pensiero flut- tuante della felicità, da Su fondamenti invisibili). 65 Cfr. la lirica Fiume da Fiume da Dal grande codice. Al fiume dedica varie liriche nella raccolta Sotto specie umana tra le quali si veda Aveva, ponte, unito in cui si trovano i versi, che riassumono la poetica luziana nel suo continuo interrogarsi sulla vita, nell’affermare «Suo [del fiume] / è il tempo, sua la storia. / Li ignora il fiume, fabbrica / e distrugge il fiume / di continuo il suo presente» (PUR, 125). 66 Sugli intrecci molteplici della parola «erba» si veda A. Dolfi, L’ermetismo: una generazione, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di Giuseppe Lo Castro, Elena Porciani, 38 Franco Musarra sono utilizzate quasi sempre metaforicamente o comunque per riferire all’io o all’uomo. Troviamo così, nel suo bestiario, animali dell’ambito domestico, come cane [v. Terrazza], agnelli, anatre e colombi [v. Muore ignominiosamente la repub- blica, seconda lirica], cavalli [v. Il pensiero fluttuante della felicità] e pochi altri, e della campagna toscana come lucciola, cicala, corvi, lucertola, talpa, cornacchia, falco, allodola [v. Il pensiero fluttuante della felicità], pernice, cucù, gabbiani, ci- gni, formiche, vipere. Uno degli animali che più ricorre nelle sue liriche è la ron- dine. Con il suo sfrecciare in stormi nel cielo rappresenta per il poeta un’imma- gine dell’uomo nel vortice dell’esistenza. Nella lirica Essere rondine (sezione Dal grande codice di Per il battesimo dei nostri frammenti) il loro planare «ad alta quo- ta» per poi rituffarsi verso il basso, sempre entro un limite, genera la doman- da dell’io poetante: «c’è felicità in quel fervore / o in quell’affannarsi?», in quel «vorticare / della vita dentro i suoi recinti?», cosa significa «la molle ricaduta / che cosa la razzante ascesa»? La risposta è, come sempre in Luzi, aperta: «è que- sto il loro essere rondini, / in quella irrequietudine è la loro pace»67. La rondine serve al poeta per rappresentare il movimento caotico dell’uomo nel suo vivere. A questa lirica segue Trota in acqua in cui il collegamento con l’uomo viene ul- teriormente elaborato intorno alla tematica del sapere per chiudere con i versi:

Sa lei e non sa. Sa il fiume e non sa. O è, tutto, dentro la sapienza sapienza esso pure, perfino il non sapere di questa domanda che interrompe il silenzio: o ne capta il canto.

Poche sono le occorrenze di animali selvaggi. Troviamo: delfini, tonni [«Passato ed avvenire s’invertono, / su sé si capovolgono, delfini / e tonni nella rete del senso». Nel corpo oscuro della metamorfosi 2], sgombro, squalo, meduse; zebra, lin- ce, leone; condor, aquila [nella seconda lirica di In corpo vile la «mente» s’imbat- te durante «un crollo di sonno» in una «forza […] ancora chiusa in sé, non in- nervata nel mondo» e sente in sé «dormire la potenza morta o futura dei leoni, / l’ampiezza di volo delle aquile»]. Per il mondo vegetale le occorrenze sono ancora più ridotte, a prescindere da termini generali come alberi68, selve, fiori erba69. Segnaliamo larice, sandalo,

Caterina Verbaro, Pisa, ETS, 2014, pp. 91-99. 67 Da notare il passaggio leopardiano da «questo» a «quella», quasi a voler distanziare il poeta dalla «pace» raggiunta nella «irrequietezza». 68 Si veda la lirica Gli alberi a cui il frutto cade da Nella gloria delle finestre. 69 Sugli intrecci molteplici della parola «erba» si veda ancora A. Dolfi,L’ermetismo: una generazione cit. MARIO LUZI E LA PAROLA 39 quercia, salice, palme, platano; giglio, rosa, papavero, muschio, mimosa [«in questa luce di mimosa o calycanthus», Il pensiero fluttuante della felicità, terza lirica]. La frequenza è invece altissima per termini che rimandano al corpo umano: al primo posto troviamo mente, seguito da viso/volto, capelli, occhi, ciglia, bocca, labbra, cuore [presente in modo dominante nelle prime due raccolte], pupille, voce e così via. Ovviamente altrettanto dominante è l’uso di verbi e aggettivi collega- ti al corpo umano come sorridere, piangere, guardare, parlare, pensare, carezzare.

5. Ossimori

L’impostazione ossimorica del pensiero e del discorso è inerente alla poesia di Luzi, soprattutto nelle ultime due fasi del suo percorso artistico. Si tratta di una spinta generativa concettuale che contrappone sistematicamente gli oppo- sti, non per evidenziarne e rimarcarne la contrapposizione o l’esclusione di uno dei due, ma per mostrarne un’interazione profonda che li giustifica nella loro esistenza proprio per la loro correlazione, per il loro «concrescere» (PUR, 425). In tal modo gli interrogativi che si pone non portano alla negazione, bensì a una possibilità ipotetica. In tale impostazione sistemica Luzi giustifica, tra l’al- tro, la fede in Dio. Già nella lista delle parole nucleari si nota la presenza di unità sintagmatiche ossimoriche. Ve ne sono di due tipi: semplici e complesse70. Tra le prime segnalo: «L’immensità dell’attimo» (da La barca), «vento vuoto» che «parla coi tetti di voi morte» (Cimitero delle fanciulle), «il cielo si riposa / della sua eternità come una foglia» (Preterizioni), «Riconosco la nostra patria desolata / della nascita nostra senza origine / e della nostra morte senza fine» (Né tempo da Primizie del deserto), «fissità del movimento» (Invocazione da Primizie del deserto), «cascata silenziosa» (Lei che pensa all’autunno dei parchi da Su fondamenti invisibili). Per quelle più complesse si considerino gli esempi seguenti: «Questo soprat- tutto lo [il poeta] umilia, questo lo glorifica» (Non la tollera oltre da Per il batte- simo dei nostri frammenti), «Pioggia dentro la pioggia […] / mutevole sostanza / genitrice moribonda» (Pioggia, ora che sente da Frasi e incisi di un canto salu- tare), «E lei era di nuovo l’imprendibile avvenimento / non registrato dalle car- te / né appuntato sulle minute / omesso dai notari dell’accaduto, omesso con- tinuamente. Lei la vita» (Graffito dell’eterna zarina, Sezione II, da Al fuoco del- la controversia). Un esempio che si può citare per esemplificare il complesso intreccio di uni- tà sintagmatiche e ossimoriche che caratterizzano gli stilemi luziani è preso da Un brindisi (dalla raccolta omonima), titolo già di per sé ossimorico in rappor-

70 Menicacci parla di una «dinamica dei contrari» (M. Menicacci, Luzi. Il demone filosofico cit., p. 63. 40 Franco Musarra to alle linee semantiche del testo in cui predomina la malinconia, l’insicurezza, un senso profondo di sconforto di fronte alla tragicità dell’esistenza:

Così il tuo cuore langue irrevocato, il tuo cuore umano gonfio e assordito, la tristezza ramifica nel vuoto del sangue, nel silenzio del cielo inanimato. Dolori informi, grida, preghiere inoggettive! Dimenticata splende nella polvere degli angoli la madre inaridita, la sua voce cattolica prodiga di speranze, il nero del suo sguardo di rondine tramortita, il sapore continuo del suo latte già livido rapito dal furore della notte, […] Silenzio, solitudine dei gesti inadempiuti, sorrisi inabitati, povertà delle mani richiuse sopra il viso quando la volta inanime d’un grido71 trattenuto sovrasta la città. Ma lasciamo che parlino di noi l’acqua, la calma eretta delle statue, delle statue dal volto stornato dal richiamo d’una voce che sale d’Acheronte. Un orecchio perenne intenderà forse il lamento.

Sempre presenti, le sequenze ossimoriche si rafforzano dopo gli anni Sessanta, tanto che Stefano Pastore ne considera la funzione non una «vera e propria con- trapposizione», ma una correlazione, e ipotizza la costante presenza in assenza di un secondo termine ossimorico che investe la macrostruttura dell’opera lu- ziana, la quale si muove tra il «detto e il non-detto», il «linguaggio e il silenzio», il «piano umano (esprimibile)» e il «sovrumano (inesprimibile)». L’ossimoro se- condo il critico «tende alla coincidenza degli opposti, alla compenetrazione più che all’opposizione» in linea con il principio che per Luzi «le differenze non

71 Il grido trattenuto, oltre ovviamente a Munch, mi fa pensare a una magistrale interpreta- zione di Mutter Courage da parte di Helene Weigel, nella rappresentazione del 10 gennaio 1951 per il Berliner Ensemble al Deutsches Theater; alla notizia dell’esecuzione di suo figlio, per la cui libertà stava tirando sul prezzo, spalanca la bocca senza emettere suoni, mentre a Zurigo in una rappresentazione precedente Irene Giehse aveva emesso un grido straziante, il che aveva infastidito l’autore. Sulle rappresentazioni del dramma si veda Brecht e Courage, Saggi e scritti di Walter Benjamin, Bernard Dort, , Jean-Claude François, Henning Rischbieter, Bruno Schacherl, Luigi Squarzina e i «Materialien zu Courage» di Brecht, Genova, Edizioni del Teatro Stabile, 1970. MARIO LUZI E LA PAROLA 41 contano»72, o direi che sono proprio le differenze ad aprire spiragli dai quali in- travedere la verità e nel contempo l’essenza più profonda del mistero.

6. Ripetizioni

Strettamente collegate alle unità ossimoriche sono, nella loro funzione di ge- neratori di significati nuovi, le ripetizioni, uno stilema presente in tutta l’ope- ra poetica di Luzi, determinante sin dall’inizio come sostegno delle cadenze rit- miche dei suoi versi, sia in macro-unità sia in micro-unità73, ossia sia all’inter- no dei singoli versi o strofe sia nell’insieme di una raccolta. Si consideri l’esem- pio seguente:

In un punto del vento, in un punto della bufera eterna per debolezza o per viltà ti tendo insidie, ti preparo inganni, mentisco: alcuno prenderà governo di te, verranno guide […] (In un punto, da Onore del vero)

Oltre alle ripetizioni d’intere parole, non va trascurato quelle degli accenti, che preferisco chiamare apici culminativi, dato che accentrano su di sé il tono delle altre unità sillabiche deboli. Si creano – oltre al file rouge sulla «t» che fa emergere accanto all’io poetante l’interlocutore che ho evidenziato sottolinean- dolo – dei percorsi semantici sorretti da una forte consonanza e da contrappun- ti, come quello sulla «e»: «del vento […] della bufera eterna […] per debolez- za ti tendo», che viene supportato da quello sulla «a» «per viltà […] ti preparo inganni» ed hanno il contrappunto sulla «u» e sulla «i»: «un punto […] alcu- no» e «insidie […] ti […] mentisco», che si uniscono alla fine in «prenderà go- verno […] verranno guide». Il dolore dell’esistenza e la speranza di un «salvato- re» («guida») che conduca alla salvezza l’io poetante e il suo interlocutore (plau- sibilmente una figura femminile, dato l’ipotesto dantesco che si evince da lem- mi come «vento» «bufera eterna», che rimandano al quinto canto dell’inferno, e «guide» in riferimento alla tre guide che accompagnano Dante nel suo «cam- mino» verso l’empireo). Tra le poesie disperse si trovano molti esempi in cui le ripetizioni (insieme alle unità ossimoriche) scandiscono le componenti ritmiche e semantiche del- le liriche. Si consideri l’esempio seguente in cui la ripetizione di «troppa» pre-

72 Stefano Pastore, Ripetizione e disgiunzione nella poesia di Mario Luzi, in «Italianistica», XXIII, maggio/dicembre 1994, 2-3, p. 510. 73 Ivi, pp. 491-512. 42 Franco Musarra para gli ultimi due versi costruiti sull’opposizione interattiva tra il dimentica- re e il ricordare:

Con grazia era tornata a sé Vittoria, lieta, però con poca pace. Troppa bellezza le stellava il sonno, troppa Italia le dormiva intorno, l’assediava troppa gloria e troppa scellerata infamia. Di nuovo si eclissò, Cristina, e nell’oblio era presente ancora. (Sotto specie umana, PUR, p. 217)

A volte la ripetizione genera catene semantiche molto complesse come si può vedere negli esempi seguenti:

Non ha importanza chi sia l’autore della vita, la vita è anche il proprio autore. La vita è. (Intermezzo, da Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini)

Muore ignominiosamente la repubblica. Ignominiosamente la spiano i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti. Arrotano ignominiosamente il becco i corvi nella stanza accanto. Ignominiosamente si azzuffano i suoi orfani, si sbranano ignominiosamente tra di loro i suoi sciacalli. Tutto accade ignominiosamente, tutto meno la morte medesima – cerco di farmi intendere dinanzi a non so che tribunale di che sognata equità. E l’udienza è tolta. (Muore ignominiosamente la repubblica, da Al fuoco della controversia)

L’epanalessi è sempre fondamentale per il ritmo della poesia di Luzi e va per- ciò analizzata sia nel ripetersi di singole parole sia in microunità come le tona- lità sillabiche o gli accenti forti e deboli. A volte la ripetizione si rafforza con rime interne e assonanze. Nell’esempio seguente – senza riportare i diagrammi degli apici culminativi e del colorito vocalico – indico graficamente le correla- zioni sonore che supportano le catene semantiche significative:

L’amore aiuta a vivere, a durare, l’amore annulla e dà principio. E quando chi soffre o langue spera, se anche spera, che un soccorso s’annunci di lontano, MARIO LUZI E LA PAROLA 43

è in lui, un soffio basta a suscitarlo. Questo ho imparato e dimenticato mille volte, ora da te mi torna fatto chiaro, ora prende vivezza e verità. (Aprile-amore, da Primizie del deserto, sezione III))

Si noti che la «o» di «amore» culmina in «ora», con il gioco sottile tra la «o» aperta e chiusa, gioco sonoro presente anche nella sequenza della «e» vs «è», che culmina in «te» e «prende». Particolarmente significativa è quella della «i», dato che collega il «vivere» a «principio», a «chi», sino a culminare su «mi», realizzan- do in tal modo una correlazione fonica significativa semanticamente tra il «tu femminile» e l’io del poeta. La rima è di per sé una forma di «ripetizione». In Luzi non è presente secon- do le modalità tradizionali ed ha perciò una funzionalità particolare nei testi in cui compare. In Sotto specie umana, la lirica Sono – suppongono (PUR, 110-111) termina con i versi:

Dicono, però, loro – gli angeli suppongo – che non c’è al non essere ritorno, non c’è revoca al nulla per quanto effato e pronunciato, ma sarà tutto perdonato, tutto santificato.

La ripetizione di suoni e di parole chiave è rafforzata dalla rima finale e interna in una poesia in cui la voce parlante è «una frase / poche sillabe, dette / o scritte, chi sa dove / e quando in una lingua / verosimilmente umana», una «frase» che dice di «volteggiare / nel vento delle ere / smemorata» di sé e del suo autore, «ignara / del significato avuto / e di quello preparato / per quale mai remota / opera avvenire, / se avvenire, luogo / e tempo ci sarà» per lei e «non esilio / sempiterno». Giunge così a desiderare di «essere cancellata / dal detto e dal dicibile» non ritenendosi «pregia- ta / per utilità o per grazia / non ritenuta», bensì «scartata / per improprietà o in- convenienza, / gettata via, orfana, superflua»; non trova in sé alcun senso e se sen- so ha le è di peso. Raggiunto l’acme del negativo, si apre uno spiraglio di salvez- za finale, salvezza presupposta anche per le cose apparentemente più insignificanti. Il procedere per ripetizioni, duplicazioni a volte semplici a volte paradossali, è uno stilema, presente sin dalla prima raccolta; nella lirica Europa, ad esempio, si trova sia in unità minime come la preposizione articolata sia nel susseguirsi di frasi con la stessa sequenza sintattica:

Ma perché delle altrui sopravvivenze hai fatto la tua vita, osa tu il bianco dell’inane graffito lungo i muri 44 Franco Musarra

delle vie disertate sopra il banco

delle campagne amare, osa il silenzio delle attese patite sotto il centro delle cupole ardenti: nelle bionde città del vento accanto alle lagune.

La lirica va letta, a mio avviso, accanto a Marina (da Primizie del deserto), in cui il movimento delle onde ha il suo corrispondente ritmico nella parola «che», supportata da altre ripetizioni, dalle corrispondenze degli apici culminativi e dal- le allitterazioni sia orizzontali sia verticali, che evidenzio:

Che acque affaticate contro la fioca riva, che flutti grigi contro i pali. Ed isole più oltre e banchi ove un affanno incerto si separa dal giorno che va via.

Che sparse piogge navighi, che luci. Quali? il pensiero se non finge ignora, se non ricorda nega: là fui vivo, qui avvisato del tempo in altra guisa.

Che memorie, che immagini abbiamo ereditate, che età non mai vissute, che esistenze fuori della letizia e del dolore lottano alla marea presso gli approdi

o al largo che fiorisce e dice addio. Rientri tu, ripari a questa proda e nel cielo che salpa un pino stride d’uccelli che rimpatriano, mio cuore.

Pur tralasciando altre corrispondenze meno marcate, come ad esempio quella vocalica tra «ignora» e «ricorda», da quelle indicate si evince il sottile e stupefacente lavorio nel costruire, intorno a dei significati, un’intelaiatura in cui la parola viene scelta anche per il suo suono e il suo armonizzare con quelle con cui è concatenata. Questi stilemi si potenziano nelle ultime raccolte, isolandosi nei frammen- ti, quando più assillante si fa l’interrogativo sull’aldilà. In Sotto specie umana si trovano le sequenze «compiuta coincidenza / di passato e di presente» (PUR, 79), «numinosa nullità» (ib., 116), «continuo cominciamento» (ib., 157), «non potrebbero / linfe, fiori, funghi, farne senza» (ib., 182), «la transustanzi / quel- la radiosa trasparenza […] cresce il creato nelle sue creature» (ib., 200-201). Nella lirica Ancora un po’ assonnata da (Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini) le allitterazioni s’intrecciano con assonanze e corrispondenze tonali sdrucciole nei termini proparossitoni che indico in neretto: MARIO LUZI E LA PAROLA 45

Ti prego, giorno nuovo, vieni, ma vieni lentamente, entra lentamente nella sostanza, accendimi come una lampada, così sarò votiva come devo e come voglio per te, per i miei simili, per l’anima del mondo che ci ospita, ci offende e non poco ci conforta, noi sua parte.

Il senso del «conflitto» costante tra significante e significato diviene poesia in Un attimo (dalla stessa raccolta):

[…] entrano le cose nel pensiero che le pensa, entrano nel nome che le nomina, sfolgora la meravigliosa coincidenza.

7. Per concludere

Avrei voluto trattare anche delle allitterazioni, delle metafore, delle sineste- sie, delle «costanti semantiche», delle «inarcature tonali»74, ma ho preferito dare ampio spazio alle ripetizioni dopo aver riletto gli appunti presi durante una del- le «letture» che Mario aveva fatto per i miei studenti nel 1996:

L’iterazione è una simbiosi morale e psicologica; è un tempo interiore che vuole significare i suoi rintocchi: «Dà l’allarme!» Il senso di gruppi fonetici, «assem- bramenti di suoni» e in un certo senso la metrica quantitativa perché sempre molto attento alla poesia latina, più che alla greca, in quanto ogni parola ha in sé una misura metrica – ogni parola è virtualmente un metro – è suscettibile di costruire un verso. Endecasillabo75 come legge interna della nostra lingua «una necessità per me», «proprio del mio apparato auricolare». La mia metrica è ten- denzialmente endecasillabica, ma vi sono elementi prosodico-sonori che posso- no coincidere con un verso tradizionale, allora sono soddisfatto, sono certo che il verso può irradiare anche sugli altri.

74 Analisi presenti in un volume su Luzi, che uscirà dall’editore Franco Cesati di Firenze tra breve. 75 Piccini individua anche in una raccolta, in cui prevale la componente prosastica come Nel magma, vari endecasillabi in successione lineare o combinati con altri versi. Cfr. Daniele Piccini, La poesia di Luzi «Nel magma», in «L’amore aiuta a vivere, a durare» cit., p. 167. 46 Franco Musarra

Per concludere ho messo una accanto all’altra due liriche. Nella prima il cor- relativo oggettivo è geografico e culturale, e serve a chiarire quanto ho detto sopra sul rapporto tutto particolare che Luzi ha con Leopardi. Mario si pone di fronte allo spazio di Giacomo, allo spazio che lo ha visto nascere e lo ha formato e «ma- turato» alla poesia. Luzi riesce a renderlo vivo con parole tese da un lato verso il consueto smaterializzarsi proprio della sua poesia e dall’altro verso il suo collo- carsi in una rete di referenti oggettuali e testuali propri del ricordo e del recupero del cerchio esistenziale ed estetico del Recanatese. Nelle unità semantiche e sil- labiche, e nel colorito vocalico si evidenziano sia gli elementi leopardiani a Luzi più cari, sia il modo di procedere e di «riallacciare» quantità semantiche e forma- li e giungere così al «condensamento» poetico finale dell’opera compiuta. Si trat- ta della lirica Uguale, non mutato, dalla raccolta Frasi e incisi di un canto salutare:

(Recanati)

Uguale, non mutato in altro da com’ era – così tutto appare. La vita che col solo suo romito manifestarsi ti toccava il cuore, la povera, l’ augusta vicenda del luogo e delle ore, il cielo. l’aria, il passero, la torre, il borgo, la casa, i suoi balconi – tutto questo è ancora, l’ inganno che ti gelava il sangue anche. C’è Silvia c’è l’assenza di Silvia, il suo ricordo e la sua dimenticanza. C’è il silenzio della voce di lei in quelle stanze, dietro quelle finestre. C’è dovunque quel nodo tra ira e struggimento, c’è la quiete successiva, c’è l’esultazione, il rapimento. Può essere e non essere stato questo, come altro essere ritirato dall’umana conoscenza, ma la sua verità no, quella è ferma, quella indietro non ritorna. MARIO LUZI E LA PAROLA 47

Le stratigrafie semantiche del testo si distribuiscono su quattro livelli:

I) quello dell’ora dell’io poetante che si trova in uno spazio particolare indi- cato tra parentesi all’inizio; II) quello dei testo leopardiano costruito sul «silenzio» della voce di Silvia – silenzio che si ripete nel rapporto che l’io poetante ha con lo spazio; III) quello del ricordo di un tempo passato e irreversibile in cui risuonava la voce di Silvia; IV) quello del rigenerarsi su due livelli: sia quello dell’esperienza poetica di Leopardi che ricorda Silvia, sia di Luzi che ricorda Leopardi che nella sua poe- sia ricorda Silvia.

La potenza della poesia è nel riuscire a rendere eterno il mortale, nel col- locarsi in un tempo che riesce a staccarsi dalla linearità del tempo umano per spingersi oltre il «confine», verso un «tempo fuori del tempo» (PUR, 98), verso un «presente eterno» superando la dimenticanza nel ricordo e custodendo nel- la parola, l’invisibile della vita. E credo che, per ben capire il peso che Leopardi ha avuto su Luzi, sia opportuno rileggere quanto diceva nel già menzionato in- contro a Bruxelles:

Da alcuni la modernità è vissuta come ubriacatura, da Leopardi invece come rassegnazione virile, con la scelta intellettuale e morale d’essere all’altezza del proprio dramma, e una forte esortazione a intendere e a operare correttamente76.

L’altra lirica, che utilizza le parole in «-ore» (evidente è il continuo riecheggia- re in sottofondo di «amore»), rientra nel cerchio dei ricordi personali e affettivi; si contraddistingue per una tessitura sintagmatica e metrica regolare, con rima ed endecasillabi, quasi a voler ritornare nel «mondo del destinatario»: la madre. Mancano completamente versi estranianti, originali e sorprendenti, come è ti- pico della raccolta di cui fa parte, ma negli enjambement e nelle sinestesie rende «moderno» dall’interno il tessuto discorsivo:

Alla madre Forse, infranto il mistero, nel chiarore del mio ricordo un’ombra apparirai, un nonnulla vestito di dolore. Tu, non diversa, tu come non mai:

solo il paesaggio muterà colore. In un nembo di cenere e di sole identica, ma prossima al candore

76 M. Luzi, Leopardi e l’Europa cit., p. 23. 48 Franco Musarra

del cielo passerai senza parole.

Io ti vedrò sussistere nel vago degli sguardi serali, nel ritardo dei fuochi che si spengono in un ago di luce rossa a cui trema lo sguardo. (Alla madre, da Avvento notturno, sezione Dell’anima)

E credo sia opportuno leggerla insieme alla lirica che il poeta ha messo ad apertura della raccolta della sua opera poetica, Parca-Villaggio, in cui trapela il profondo legame che aveva con sua madre, che per lui, come ha detto ripetuta- mente, è stata maestra di vita e di poesia, forse soprattutto per il senso del divi- no e la fede che gli aveva insegnato:

A lungo si parlò di te attorno ai fuochi dopo le devozioni della sera in queste case grige ove impassibile il tempo porta e scaccia volti d’uomini.

Dopo il discorso cadde su altri ed i suoi averi, furono matrimoni, morti, nascite, il mesto rituale della vita. Qualcuno, forestiero, passò di qui e scomparve.

Io vecchia donna in questa vecchia casa, cucio il passato col presente, intesso la tua infanzia con quella di tuo figlio che traversa la piazza con le rondini.

E mi sia concesso concludere con quanto Luzi ha scritto in un’occasione molto personale il 3 dicembre1998 nel mio «libro di famiglia» in un caffè di Bruxelles, quando per i molti impegni non era potuto venire a Lovanio:

Ci siamo aggirati oggi intorno a casa Musarra, a distanza, in un raggio di venti chilometri, come se un editto estraneo ce lo imponesse – simile agli ukase na- poleonici –, ma arrivando con il pensiero e il desiderio al centro dove siedono persone care e cari ricordi: augurandoci che l’esilio non sia definitivo.

Una delle persone a lui «care» era forse mia madre, che con il suo accen- to marchigiano gli ricordava altre persone della sua famiglia. E credo sia lecito chiudere ripetendo con Lui: «Cosí parla la parola / testimonia questo la testi- monianza» (S’aprì acqua di roccia). LUZI E FIRENZE, «LA CITTÀ DAGLI ARDENTI DESIDERI»

Alfredo Luzi

Creare e governare una città che non figuri sulle carte, che sfugga agli orrori dell’Epoca, che nasca così dalla volontà dell’uomo, in questo mondo della Genesi. A. Carpentier, Passi perduti

Seguendo le indicazioni di Greimas1,la città può essere considerata il luogo di produzione di un sistema oppositivo di categorie semiotiche, una d’impron- ta sociale e l’altra d’impronta psicologica: società/individuo e euforia/disforia. Nella prima l’individuo instaura il suo rapporto dialettico con l’alterità, con la molteplicità organizzata, con il collettivo. Nella seconda invece il soggetto defi- nisce la sua posizione nei confronti dell’oggetto, architettonico e spaziale, del- la città, dinamizzandola all’interno di una opposizione patemica permanente. Stabilendo una dialettica interna nella sua prospettiva lirica, il poeta trasfor- ma la città in uno spazio topico che proietta la visibilità della sua dimensione umana esterna nel luogo interno psichico, in un continuo gioco tra reale e im- maginario. La struttura urbana rinvia, di conseguenza, al punto di vista, alla prospettiva dello sguardo che scompone e ricompone questo spazio in funzio- ne dell’esperienza di vita e di scrittura. Ma, nello stesso tempo, la città è il luo- go di produzione dell’attività utopica che trova stimoli sullo scenario ripetitivo della visività quotidiana. Louis Marin, in Utopiques: jeux d’éspaces2 ha precisato il rapporto che si in- staura tra posizione utopica e scrittura letteraria, in altre parole, tra «concezio- ne di un mondo altro» e «configurazione stilistica» dello stesso, quando ha defi- nito la funzione dell’utopia come quella di una pratica discorsiva insieme poe- tica e proiettiva in cui si riempiono i vuoti che i concetti della teoria sociale ri- empiranno successivamente.

1 Cfr. Algirdas Julien Greimas, Pour une sémiotique topologique, in Sémiotiques et sciences sociales, Paris, Seuil, 1976, p. 138. 2 Louis Marin, Utopiques: jeux d’éspaces, Paris, PUF, 1960.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 50 Alfredo Luzi

Di queste due diverse e connesse modalità di relazione tra il soggetto dell’e- nunciazione (l’io poetante) e l’oggetto enunciato (la città) Luzi ha profonda consapevolezza. Lo dimostrano alcuni suoi scritti in prosa, che risultano com- plementari ai testi poetici, esplicativi della sua attitudine gnoseologica nei con- fronti dello spazio urbano. In La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, egli scrive:

L’idea e l’immagine della città per me non è mai stata tanto quella puramente paesistica, quanto il suo insieme e la sua comunità. È stata sempre civitas più che urbs. E può benissimo dirsi immagine agostiniana. La città è un corpo, percorso da diverse pulsioni dell’agire umano e storico, ma è anche realtà illuminata dalla natura […]. La raffigurazione, naturalmente, è reale e simbolica nello stesso tempo e vuole denunciare che la città umana senza idea vitale si sfascia3.

In filigrana possiamo, in questo lacerto riflessivo e confidenziale, rintraccia- re le linee fondanti della luziana concezione del mondo. Rivelatore è il rinvio ad Agostino ed alla sua configurazione duale della Gerusalemme terrestre e del- la Gerusalemme celeste nel De civitate Dei. Ma la suggestione agostiniana agi- sce anche sul piano della scrittura, spingendo il poeta a recuperare, nel verso «la città dagli ardenti desideri», apposizione attribuita a Firenze nella poesia Siamo qui per questo, una locuzione tratta dalle Confessioni, Libro XI, cap. XXII : «Preso da un ardente desiderio di risolvere questo enigma – Exarsit animus meus nos- se istuc implicatissimum aenigma»; anche Firenze è dunque un enigma sul qua- le Luzi riversa tutta la sua tensione ermeneutica. I riferimenti al Nuovo Testamento, in particolare alle lettere di Paolo e all’Apo- calisse, sono come attualizzati nel confronto con il pensiero antropologico e con la cultura letteraria della modernità. Luzi ha presente il contributo metodolo- gico di Mircea Eliade quando in alcuni suoi componimenti propone un’idea di città come archetipo, creazione di uno spazio ideale e reale in cui umano e divi- no possano comunicare. Peraltro la connessione tra reale e simbolico come pro- cesso della rappresentazione poetica era già stata da lui evidenziata nell’introdu- zione a L’idea simbolista, sostenendo che «il linguaggio della poesia viene consi- derato come lo strumento proprio di codesta rivelazione dell’unità del mondo che esiste nello spirito e che lo spirito ritrova nelle apparenze sensibili ed episo- diche come in simboli»4. La dimensione contrastiva euforia/disforia, suggerita dalla semiotica topo- logica della città, è confermata da Luzi nelle pagine illuminanti di Paragrafi fio- rentini, in Prose:

3 Mario Luzi, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a cura di Stefano Verdino, Casale Monferrato, Piemme, 1997, p. 108. 4 M. Luzi, L’idea simbolista, Milano, Garzanti, 1959, p. 7. LUZI E FIRENZE, «LA CITTÀ DAGLI ARDENTI DESIDERI» 51

Qualche volta mi è stato chiesto che cosa significa per me Firenze […]. Quello che Firenze trasmette ai suoi è paragonabile a una struttura fondamentale, a una grammatica della mente e del senso: ed è anche qualche cosa di più sottile, al punto che l’impronta segreta è anche più tenace di quella visibile. In casi come il mio, è una circostanza critica, un trauma inatteso o anche solo un’improvvisa intermittenza del cuore a rivelare il grado di attaccamento o a dare la coscienza del nostro amore che la venerazione intellettuale aveva più dissimulato che espresso5.

Un’altra città, invece, Siena, suggerisce al poeta un rapporto d’identificazio- ne, collocato nella categoria del tempo e dello spazio, tra emblemi del femmi- nile e archetipo della città in prospettiva utopica:

È un luogo madre Siena, è la città della Vergine, c’è questa associazione femmi- nile a Siena come luogo materno […]. La componente femminile dell’universo è stata primamente significata e verificata a Siena. La femminilità fa parte anche in senso metaforico delle grandi speranze, delle utopie, le grandi aspirazioni sono state viste in forma femminile. Mentre nel virile è più immediato, è più vicino alla storicizzazione del pensiero, dell’esigenza umana, nel femminile ri- mane anche questa custodia intemporale6.

In effetti, se tralasciamo alcuni scorci visivi utilizzati come attanti del pen- siero poetante, ad esempio negli incipit di Serenata di Piazza D’Azeglio, Le fan- ciulle di S. Niccolò, e di Giovinetta, giovinetta, Firenze, nell’opera di Luzi, si con- figura come agnizione spaziale e insieme personificata, di una disforia che po- tremmo definire, usando una parola chiave della sua poetica, «agonica», intesa come compresenza e interna lotta tra morte e vita, tra consunzione e rinascita, tra la fine e il fine, nel corpo oscuro della metamorfosi. In Memoria di Firenze (1942), testo inserito nel volumetto Un brindisi, c’è l’immagine di una città che soffre umanamente la violenza della guerra e l’oc- cupazione nazista, ma che nella sua storia e nella sua bellezza ritrova le ragioni del suo esistere, e resistere:

E quando resistevano sulla conca di bruma le tue eccelse pareti sofferenti nella luce del fiume tra i monti di Consuma, più distinto era il soffio della vita intanto che fuggiva;

5 M. Luzi, Prose, Torino, Aragno, 2014, p. 107. 6 M. Luzi, Cantami qualcosa pari alla vita, Forlì, Nuova Compagnia Editrice, 1996, pp. 18-19. 52 Alfredo Luzi

e là dove sovente s’ascoltava dai battenti socchiusi delle porte origlianti la luna la tua voce recedere in assorte stanze ma non morire, non un pianto, una musica concorde coi secoli affluiva. Senza un grido, né un sorriso per me lungo le sorde tue strade che conducono all’Eliso…7

La città che diafanicamente emerge dalla conca di bruma in un silenzio di morte diventa un punto di riferimento, un luogo della speranza con le sue vie che portano al mondo degli eletti. A distanza di ventiquattr’anni non sarà la follia degli uomini ma la furia del- le acque, con l’alluvione del 1966, ad offendere l’armonia architettonica ed ur- banistica di Firenze e recare danni irreparabili al suo patrimonio artistico e cul- turale. Nel frattempo, la poesia di Luzi è mutata, ha acquisito una più concla- mata tonalità civile, si è calata nel magma evenemenziale, nelle agostiniane vi- cissitudines temporum, ha assunto dimensioni poematiche entro le quali si svolge il processo, inteso sia come dantesco confronto della propria identità con l’alte- rità sia come incedere inesorabile della storia di cui la poesia è comunque sem- pre testimone, pur nei suoi caratteri prevalentemente simbolici e metaforici. Eppure, ancora una volta, la città è lo spazio in cui si combattono la dispe- razione e la speranza, la morte e la resurrezione, tramite la procedura dialettica del contradditorio interno ad una soggettività dimidiata, in un confronto serra- to tra ego e alter ego, appena attenuato dal ritmo invocativo:

«Prega», dice, «per la città sommersa» venendomi incontro dal passato o dal futuro un’anima nascosta dietro un lume di pila che mi cerca nel liquame della strada deserta. «Taci» imploro, dubbioso sia la mia di ritorno al suo corpo perduto nel fango.

«Tu che hai visto fino al tramonto la morte di una città, i suoi ultimi furiosi annaspamenti d’annegata, ascoltane il silenzio ora. E risvegliati» continua quell’anima randagia che non sono ben certo sia un’altra dalla mia alla cerca di me nella palude sinistra.

7 M. Luzi, L’opera poetica, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1998, p. 112. LUZI E FIRENZE, «LA CITTÀ DAGLI ARDENTI DESIDERI» 53

«Risvegliati, non è questo silenzio il silenzio mentale di una profonda metafora come tu pensi la storia. Ma bruta cessazione del suono. Morte. Morte e basta.»

«Non c’è morte che non sia anche nascita. Soltanto per questo pregherò» le dico sciaguattando ferito nella melma mentre il suo lume lampeggia e si eclissa in un vicolo. E la continuità manda un riflesso Duro, ambiguo, visibile alla talpa e alla lince8.

La struttura discorsiva è anche qui, nella seconda parte del poemetto Nel corpo oscuro della metamorfosi, quella del sistema oppositivo voce/silenzio, buio/ luce, morte/vita, già presente in Memoria di Firenze, ma Luzi vi aggiunge una clausola gnomica che dilata il dubbio epistemologico sulla diacronia della sto- ria il cui riflesso anfibolico è ugualmente percepito da chi vive in cecità (la tal- pa) e chi presume di saper interpretare gli eventi (la lince). Il 27 maggio 1993 un attentato probabilmente di stampo mafioso distrugge l’Accademia dei Georgofili ed uccide la famiglia del custode. Firenze è di nuo- vo colpita dalla violenza, ma ancora una volta, come per Memoria di Firenze, non è un evento naturale a distruggere il patrimonio di bellezza che la città rac- chiude in sé come in uno scrigno, ma la malvagità degli uomini, una violazio- ne all’ethos sociale condiviso. Nella poesia Sia detto, pubblicata per la prima volta in «La Nazione», 8 giu- gno 1993, Luzi recupera le sue riflessioni teoriche sulla capacità ermeneutica della parola poetica, caratterizzate, a partire da Al fuoco della controversia, dal fitto reticolato di domande che intessono le poesie, e la finalizza nel suo ruolo di testimonianza della vivente contraddittorietà del reale, salvando i frammenti della storia dal nulla e trasformandoli in elementi fondanti di un canto salutare:

Sia detta per te, Firenze, questa nuda implorazione. Si levi sui tuoi morti, sulle tue molte macerie, sui tuoi molti visibili e invisibili tesori lesi nella materia, offesi nell’essenza, sulle tue umili miserie ferma, questa preghiera. […]

8 Ivi, p. 379. 54 Alfredo Luzi

Sia detta a te, Firenze, questa amara devozione: città colpita al cuore, straziata, non uccisa; unanime nell’ira, siilo nella preghiera9.

Il nodo oppositivo morte/vita, buio/luce, materia/essenza, incardinato nella ternaria struttura orante del testo: implorazione – preghiera – devozione, si scio- glie e si condensa nella invocazione finale: «Pace, pace, pace». La tonalità del discorso è data dall’intreccio tra l’invettiva che nasce dallo sde- gno e dalla ribellione al predominio del male sul bene, e dalla richiesta di giusti- zia umana, e la proiezione metafisica e teleologica insita nella preghiera. I nuclei isotopici presenti nel testo rinviano ad immagini dell’Antico Testamento, dell’A- pocalisse, del Credo cattolico («visibilium omnium et invisibilium») e concorro- no tutti, nel permanere delle antinomie patemiche, a definire la funzione sacra- le, «sacrificale» è il lemma usato da Luzi = rendere sacro, dellacivitas fiorentina:

Sii, tra grazia e sofferenza, grande ancora una volta, sii splendida, dura eppure sacrificale. Ti soccorra la tua pietà antica, ti sorregga una fierezza nuova. Sii prudente, sii audace. Pace, pace, pace10.

Ma proprio nella poesia successiva, significativamente, l’amara constatazio- ne della crisi sociale e morale che affligge anche Firenze («la rode / nella sua dura carità il presente / di infamia, di sangue, di indifferenza») cede il passo ad una volontà di ricostruire il tessuto comunicazionale e relazionale della città, nel ricordo della tensione utopica sprigionata dagli atti e dalle parole del sinda- co Giorgio La Pira. In Siamo qui per questo Luzi rievoca e nello stesso tempo in- vita a mantenere vivo l’insegnamento dell’uomo politico:

Ricordate? Levò alto i pensieri, stellò forte la notte, di pace e d’amicizia la città dagli ardenti desideri che fu Firenze allora… Essere stata

9 Ivi, p. 1231. 10 Ivi, p. 1232. LUZI E FIRENZE, «LA CITTÀ DAGLI ARDENTI DESIDERI» 55

nel sogno di La Pira «la città posta sul monte»11

la cui progettualità utopica trovava fondamento nell’attesa, paolina e agosti- niana, dell’unione delle due Gerusalemme che ritroviamo in un passo del discor- so tenuto a Firenze il 2 ottobre 1955 dal titolo Per la salvezza delle città di tut- to il mondo. Parlando delle «città millenarie che, come gemme preziose, ornano di splendore e bellezza le terre dell’Europa e dell’Asia», La Pira afferma che «per ciascuna di esse è valida la definizione luminosa di Péguy: essere la città dell’uo- mo abbozzo e prefigurazione della città di Dio»12. Nelle testualità poetica luziana la città di Firenze non si configura sempre come locus dramatis. In alcuni componimenti la disforia si limita ad uno scom- penso psicologico e cronologico, ad una epoché che, come scrive Husserl, «po- nendo tra parentesi» la soggettività e il dato empirico, garantisce il processo gno- seologico. In Ha un bel dire con tutti i suoi platani Firenze Luzi avverte il disagio dell’homo historicus, sottoposto all’inesorabile legge del mutamento, rispetto alle suggestioni idilliche di una natura e di un paesaggio percepiti come immutabili, e denuncia l’impossibilità di un’identificazione analogica tra esperienza esisten- ziale e spazio urbano, che dia valore cognitivo al processo visivo:

Né so cosa m’intenerisce di lei, se davvero la spina che le è infissa della mia vita o quell’aria di congedo in lei da me, in me da lei. O il niente di questo13.

A distanza di anni, la divergenza tra psicologia del soggetto e oggetto della proiezione ottativa, si concentra ancora una volta su una percezione di distonia. La constatazione che «Non è uguale la musica, non può esserlo» che era il pun- to di abbrivo di Ha un bel dire, ritorna in un componimento Non fu pari all’at- tesa inserito nel volume Frasi e incisi pubblicato nel 1990:

Parole non mancavano, mancava se mai la loro musica. E Firenze non ne aveva di sua, non ne emanava dalle segrete camere, neppure ne perdeva da occulte fenditure o da malchiuse porte come un tempo14

11 Ivi, p. 1233. 12 Vedi il sito www.iisf.it/la_pira.htm 13 M. Luzi, L’opera poetica cit., p. 486. 14 Ivi, p. 830. 56 Alfredo Luzi con il calco montaliano «malchiuse porte» da Corno inglese a sottolineare la for- za euforica, qui sonora e non visiva, ormai perduta, del locus amoenus. In questa «epifania di mancato contatto con la città»15, come l’ha definita Stefano Verdino, l’armonia del rapporto tra soggetto e spazio si è trasformata in vocìo senza senso. La polis, antropomorfizzata nel suo corpo collettivo vivente, non è più capace di comunicare emozioni all’io poetante e soffre della distanza determinata dalla diacronia della storia umana:

Ci appariva insolita Firenze. Stava muta, impiccata allo strapiombo delle sue nere muraglie, rigata dalle lacrime di luce delle sue alte lampade. Era insolita nel volto o noi troppo mutati suoi nottambuli attraversati da lei, passati oltre.

Lo stesso Luzi ha chiosato:

È una Firenze non ritrovata, attraverso i miei compagni; vedo la città staccata, non è più quella dei nostri tempi. L’immagine della città è impervia, perché non contiene più le nostre illusioni16.

Il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini si svolge in una dinamica di vi- cinanza / lontananza, attrazione / rifiuto, che ha come riferimenti visivi le cit- tà di Siena e di Firenze. Quest’ultima è configurata in linee prospettiche diffe- renziate. Un tramonto, come avviene in Nel ricordo o nel presente?, può suggeri- re una sorta di ierofania cristica di Firenze:

Entra, sera di sole, sera estrema di solstizio nel costato di Firenze, ne infila obliquamente i tagli, le fenditure, ne infiamma le ferite, le croste, le cicatrici, ne infervora le croci, le insanguina copiosamente17.

15 Ivi, p. 1711. 16 Ivi, p. 1283. 17 Ivi, p. 1059. LUZI E FIRENZE, «LA CITTÀ DAGLI ARDENTI DESIDERI» 57

Oppure è la riflessione sul ruolo di Firenze come culla delle nuove tenden- ze artistiche ad instaurare in Simone un’attitudine ambivalente di attrazione e paura, che si condensa nel tema archetipico del labirinto:

Si approssima Firenze. Si aggrega la città. S’addensano i suoi prima rari sparpagliati borghi. S’infittiscono gli orti e i monasteri. Lo attrae nel suo gomitolo, ma è incerto se sfidarne il labirinto o tenersi alla proda, non varcare il ponte. […] È là, lei, la Gran Villa che brulica e formicola18.

Alla fine predomina l’inquietudine, quello stato disforico rivelato dall’inte- riezione con cui si chiude la poesia e che proietta il desiderio di Simone verso la meta finale del suo viaggio, la città natale, Siena:

Ah Firenze, Firenze. Sonnecchiano intontiti i viaggiatori nella sosta. Meglio rimettersi in cammino, prendere la via di Siena, immantinente19.

La simbolizzazione della città come organismo vivente, come icona del grem- bo femminile che rinnova attraverso la nascita il trionfo della vita sulla mor- te, come grumo di continuità e mutamento, si concretizza attraverso l’adozione di simboli, come la pietra, il fiume, la pioggia, complementari e funzionali alla densità semiotica del topos urbano. Su questo tema ha scritto parole illuminanti Padre Bernardo Francesco Gianni, dell’Abbazia di San Miniato al Monte, in un suo saggio reperito nel sito inter- net di Farapoesia:

Luzi non manca semmai di utilizzare, con la forza e la logica tutte precipue del simbolo, quanto dell’urbs possa esprimere la vitale consistenza e al con- tempo l’incessante tornitura della storia con la conseguente stratificazione e, anche, cancellazione della memoria proprie della civitas […]. La città, nella sua organica condensazione di vita vissuta, pare insomma inesorabilmente esposta

18 Ivi, p. 1055. 19 Ivi, p. 1056. 58 Alfredo Luzi

all’inesausta tensione tra memoria e oblio, tra sedimentazione ed erosione, tra puntuale ciclicità e ineluttabile, repentina e inaspettata metamorfosi20.

Lo stesso Luzi, in Paragrafi fiorentini, indica nella pietra, nell’acqua e nella luce le metafore ossessive delle sue «riappropriazioni di Firenze»21. Il fiume Arno, allora, diventa segno dell’inesorabile scorrere del tempo e in esso il poeta cerca «la forza che ti fa sempre discendere»22 ma, nello stesso tem- po, come in Inferma così, è portatore di vita, della continua metamorfosi che in- tacca l’immobilità dei bastioni, delle mura, delle torri di Firenze:

Ed ecco, le manca in mezzo alle sue pietre quel flusso d’acqua e luce, d’acqua e notte […] E soffre lei, città, soffre innaturalmente. Ma intanto già si scioglie dalla sua rigidità […] La vita nasce alla vita, è quello l’avvenimento, quella la sua sola verità23.

E in questa agnizione veritativa dell’evento-avvento c’è forse la lettura dei te- sti di Paul Ricoeur. Oppure è la pioggia, archetipo secondario che Jung connette all’acqua puri- ficatrice e generatrice, a donare vitalità alla città:

Piove fitto, pluvia antica primavera sulle antiche mura, dilava la città, di noia e di tempo la defluvia, le porta vita24.

20 Bernardo M. Gianni, «La città dagli ardenti desideri». Mario Luzi custode e cantore della civitas, in «Farapoesia», 3 aprile 2007. 21 M. Luzi, Prose cit., pp. 107-112. 22 M. Luzi, All’Arno, in L’opera poetica cit., p. 22. 23 Ivi, pp. 863-864. 24 Ivi, p. 1151. LUZI E FIRENZE, «LA CITTÀ DAGLI ARDENTI DESIDERI» 59

Ma trovo la sintesi del complesso rapporto tra Luzi e Firenze nella composi- zione presente in Sotto specie umana (1999 ), Città tutta battuta. Qui il poeta assume la città come luogo del molteplice e del mutamento e attraverso un climax d’immagini che transitano dal negativo al positivo la tra- sforma in una Gerusalemme celeste, in un passaggio dalla fisica alla metafisica, realizzato attraverso l’interiorizzazione memoriale del toponimo:

Città tutta battuta camminata scarpinata frugata nei suoi vicoli discesa e risalita sulla schiena marcata dei suoi ponti, sorpresa nei suoi inferi, sorvolata in sogno città datami in sorte o in uso o io a lei per il suo impossibile compimento – eccolo, non ha remore, è senza misericordia in lei il gran crogiolo delle trasformazioni in cenere, in letame, eppure un’alchimia celesta la diglabra, la polisce di me e d’ogni ombra, la squadra in geometrie; e in luce, in puro nome le divampa. Oh flos25.

25 M. Luzi, Sotto specie umana, Milano, Garzanti, 1999, p. 31. Mario Luzi a Sestri Levante nel dicembre 2004 (foto di Laura Dolfi). DUE “MOTTETTI” DI LUZI

Silvio Ramat

VERSI DAL MONTE

Dal greppo della strada grigia e torta la pastorella augura buona via, il mulo tasta il suolo con lo zoccolo ed avanza, 5 fuma la carbonaia.

Il primo vento miete nella selva. Che fai? ti spero salda al proprio ramo… Appena ieri, appena ieri, mormoro. Ora il pensiero a stento tiene uniti 10 e stretti in cerchio intorno al mite fuoco gli idoli nella sua dolce caverna.

COSE ESTIVE

La portatrice d’acqua si bilancia il carico sul cercine e s’avvia passo passo per il pendio. La macchina calata al fondo valle 5 ora muglia sulle rampe.

Il brivido temuto corre su per la palina. Che fai, che fai? resisti a questa lima? Il pensiero turbato lotta appena, 10 si stringe alla sua esile famiglia.

In queste pagine definisco “mottetti” due componimenti di Mario Luzi che per il loro taglio, insolito nel poeta fiorentino, possono ricordare lo schema, bi-

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 62 Silvio Ramat partito in due strofe brevi – dei Mottetti di Montale; è uno schema che conno- tava già varî testi della sezione eponima di Ossi di seppia ma che si radicalizza appunto nei Mottetti, al cuore del secondo libro montaliano (un libro che ac- compagna e orienta alcuni tra i poeti della generazione di cui anche Luzi fa par- te, sebbene alle Occasioni essa non attribuisca quel valore addirittura sacrale di cui gode l’ungarettiano Sentimento del Tempo1). Che le due liriche di Luzi in oggetto (Versi dal monte, 1950, in Primizie del deserto; Cose estive, 1956, in Onore del vero) non abbiano mai suscitato un’atten- zione specifica lo si spiega abbastanza facilmente col fatto che non sono, né l’u- na né l’altra, portatrici di messaggi nei quali si riassuma in una sintesi esempla- re lo “spirito” della raccolta del 1952 e di quella del ’57. Dicendo Primizie del deserto la memoria correrà principalmente a Invocazione, a Notizie a Giuseppina dopo tanti anni, ad Aprile-amore; e di Onore del vero conserverà innanzitutto al- tri titoli: Come tu vuoi, Las ánimas e Nell’imminenza dei quarant’anni. Ciò non toglie che, oltre a una essenzialità garantita dal dettato conciso, che li protegge dai rischi della dispersività, i due testi (di qui in avanti siglati A [Versi dal monte] e B [Cose estive]) siano più che notevoli per la loro strategia costruttiva. Il richiamo preliminare al modello montaliano – come accennavo, di non pochi tra gli Ossi anepigrafi e successivamente dei Mottetti – deve precisarsi: nel senso che la suddivisione in due strofe (riscontrata in ben sedici pezzi dei venti o ventuno2 complessivi) comporta spesso una prima strofa descrittiva o meglio latrice di immagini che sollecitano i sensi – la vista e l’udito in particolare – e una seconda nella quale quel tipo di immagini scompare o cede all’evolvere di un ragionamento che “deduce” sulla base dei dati forniti nella strofa d’apertura3. Anche Luzi, in A e in B, procede su questa linea, ma a colpirci immediata- mente è una peculiarità: che nella seconda strofa tanto di A quanto di B quel «pensiero» solitamente operoso (con mansioni deduttive, l’ho anticipato) senza

1 E qui forse ha il suo peso l’anagrafe: nel senso che Ungaretti assolse il ruolo di padre della generazione che venne detta «ermetica», laddove l’autorità di Montale, in quell’area, non poté avvertirsi che come quella di un fratello maggiore. 2 Ventuno se nel gruppo integriamo, come il poeta c’invita a fare, Il balcone, pur collocato sulla soglia del libro. 3 Nella serie dei Mottetti accreditano quel che ho segnalato or ora il secondo («Molti anni, e uno più duro…»), il quinto («Addii, fischi nel buio…»), il settimo («Il saliscendi bianco e nero…»), il decimo («Perché tardi?...»), l’undicesimo («L’anima che dispensa…»), il tredicesimo («La gondola che scivola…»), il quattordicesimo («Infuria sale o grandine?...»), il diciannovesimo («La canna che dispiuma…») e il ventesimo («… ma così sia…»). È ovvio che il rapporto fra la premessa scenografica, aperta ai sensi, e la conseguenza riflessiva non è mai così calcolato, così rigido. E non di rado, per contro, la seconda strofa sviluppa la prima o la “spiega” con ulteriori elementi: succede nel mottetto che inaugura la serie («Lo sai: debbo riperderti…»), nell’otta- vo («Ecco il segno…»), nel dodicesimo («Ti libero la fronte…»), nel quindicesimo («Al primo chiaro…») e nel sedicesimo («Il fiore che ripete…»). Nel quarto («Lontano, ero con te…») e nel diciottesimo («Non recidere, forbice…») è come se si invertisse l’ordine col posticipare l’evento, magari un evento rammemorato, rispetto alla relativa cogitazione. DUE “MOTTETTI” DI LUZI 63 che al poeta occorresse nominarlo, si fa personaggio. Questa la novità lampante, a cui bisogna aggiungere che esso, il «pensiero», si prende l’onere e il privilegio di concludere, e che ambedue le conclusioni lo mostrano in istato di crisi, come cercherò di chiarire. Non che nella poesia luziana del decennio Cinquanta il vo- cabolo «pensiero» non sia registrato abbastanza spesso; ma nei due luoghi che af- fiorano per primi al ricordo, gli incipit di Aprile-amore e di Nell’imminenza dei quarant’anni, il «pensiero» si specifica sùbito, rispettivamente in «pensiero del- la morte» e in «pensiero» di quella «imminenza» predicata fin dal titolo. Non c’è dunque un pensiero che funga da “attore” in quanto tale, senza che il poeta lo applichi a una materia definita. Che, trascorsi sei anni da A, Luzi ne riprenda lo schema in B può voler dire che intende risaggiarne la bontà, la funzionalità. Certo, sussiste un’intima coe- renza tanto nelle Primizie quanto in Onore del vero; e un nesso armonico stringe idealmente in una le due raccolte del 1952 e ’57, con evidenze innegabili nella fedeltà a un determinato paesaggio e a una determinata tipologia umana (sono “poveri”, ma alla loro esistenza, condotta secondo leggi naturali, non manca nul- la). Ecco però verificarsi in B una sorta di “replica” (replica d’autore) di un com- ponimento scritto sei anni addietro, e questo è un episodio anomalo perfino in un poeta come Luzi, sempre celebrato oppure criticato per una imperterrita co- stanza delle figurazioni e dei temi, del ritmo: insomma dello stile. Potremmo so- stenere che il recuperare con B uno schema compositivo come quello di A per rilanciarlo nasca primariamente dalla sollecitazione profonda che giace nella pie- nezza inesauribile, virtuosa e suggestiva, di un paesaggio: il paesaggio che Luzi ha osservato e trascritto infinite volte. Quel che impressiona in questa coppia, A-B, unitaria nella sostanza e nella soluzione e tuttavia composta in due tempi non proprio contigui l’uno all’altro, è l’immissione o la permanenza di alcune “ombre” semantiche, di screpolature sottili che andranno pur riconosciute nel corpo di una cosa mirabilmente compatta, che l’artefice ha polito fino a farne sparire la minima “macchia” di ambiguità. D’altronde, non ci hanno detto e ri- detto che dalle Primizie in avanti Luzi guadagna giorno per giorno in chiarez- za lasciandosi alla spalle il “deplorevole” retaggio dell’altrui e suo “ermetismo”? E allora, il paesaggio: alla radice di A e, in séguito, di B. Un paesaggio che non può tradire ed effettivamente, da La barca in poi, non tradisce. E fin dal- la giovinezza il poeta di Castello ha gioito ogniqualvolta il suo impulso origina- rio incrociasse un argomento d’arte o un tòpos della letteraratura: ne traeva uno stimolo non a schivarlo bensì, e al contrario, a profittarne come di un appor- to utile. «Amici ci aspetta una barca e dondola» e «Amici dalla barca si vede il mondo», stilnovisticamente recitava Alla vita, nel remoto libretto dell’esordio. Non troppo diversamente, trascorsi cinque lustri esatti, chi non vede nell’epi- fania della «pastorella», beneagurante dal balzo d’una strada di campagna in A, l’allusione a un motivo topico della lirica provenzale trasmessosi rapidamente alla nostra? Come accade quasi di regola, il tòpos appena adombrato Luzi lo ab- bandona lì, inerte. Se la «pastorella» abbia o no una sua rustica grazia, nessuno 64 Silvio Ramat ce lo dichiara. Il lettore, almeno per un po’, si ricorderebbe di una simile striz- zatina d’occhio a un sottogenere lirico –, se non irrompesse un tutt’altro sogget- to a dare alla scena un diverso movimento e a spostarne il baricentro. Dove «il mulo tasta il suolo / con lo zoccolo ed avanza» (intanto che il metro muta, alla coppia iniziale di endecasillabi subentrando una sequenza di settenario, ottona- rio e ancora settenario) la «pastorella» che augurava il buon viaggio sembra già fuori campo, una sagoma bloccata là sul «greppo» di quella «strada grigia e tor- ta», paradigmatica di un ambiente appenninico, senese o grossetano4, che evoca la narrativa di Mario Pratesi o il cattivante bozzettismo di qualche macchiaiolo. L’umiltà5 connota ogni elemento di questo paesaggio, e la naturalezza ne- cessitata del fumo che si leva dalla «carbonaia» rimanda a uno dei rituali di sta- gione (dovremmo essere in autunno, quando si bruciano i rami secchi e altro che più non serve: riti che in Luzi attingono un apice di sublimazione simboli- ca nel ’54, in Las ánimas). Due epiteti, «grigia» e «torta», che più luziani di così non sapremmo immaginarne, indicativi di una specie di «divisa» che il poeta ha intenzione di portare a lungo, quasi una seconda pelle, se da Onore del vero, che la riceve da Primizie del deserto, la si ritrova in Dal fondo delle campagne, a completamento del decennio ’50 (e sono tre titoli che, badando all’incidenza e prevalenza di questo pallido cromatismo esistenziale e morale, formano davve- ro un trittico omogeneo). La bipartizione propria del mottetto assegna di norma un valore semantico anche al vuoto tra le due strofe. Tutto quel che in A dovevamo vedere o udire, l’abbiamo veduto e udito nei primi cinque versi. I sei che costituiscono la secon- da strofa impiantano la riflessione su quel che i sensi han potuto percepire. Ma il verso che l’apre è ancipite fra percezione e deduzione. Non lo si vede e nep- pure lo si sente, quel «primo vento» che «miete nella selva». Se la strofa inizia- le nulla conteneva che non fosse pura e semplice informazione, elenco di dati certi, la successiva deborda immediatamente con l’uso di quel miete, verbo im- proprio se attribuito al vento. La lirica inaugurale delle Primizie, datata 1947, Né il tempo, aveva già introdotto, però in un quadro di «messe», «grano», «spi- ghe» (e «reste» da falciare), quest’idea di una mietitura, di una «abbondanza da mietere». Ma in A la mietitura eseguita dal «primo vento» è un’insidia, un atto

4 E chi ha dimistichezza con la geografia sentimentale di Luzi sa che è denominata “Il Mon- te” una zona del paese di Samprugnano. 5 Come per l’universo che definivo «povero» secondo natura, così per questa «umiltà» credo non sia da proporre una saldatura tra Luzi e Betocchi (pur consentaneo a Luzi, che lo ammirava fin quasi alla venerazione). L’umiltà della poesia betocchiana e dei suoi personaggi ovvero «tipi» – a partire dai «poveri» di Tegoleto, dei quali Realtà vince il sogno, 1932, cantava le «allegrez- ze» – si radica in un cristianesimo primitivo, «creaturale», che li qualifica e li protegge. Altro, e gradualmente chiarito al poeta medesimo e al suo lettore, procede lo stoicismo cristiano di Luzi. Se il percorso della poesia «religiosa» di Betocchi incontrerà – sul tardi, com’è noto – inciampi e complicazioni, non per questo accadrà mai che, sia pure per rari addentellati, quella strada coincida col cammino di Luzi. DUE “MOTTETTI” DI LUZI 65 pericoloso. Suggerisce qualcosa di molto simile al muover della falce sotto cui si agitano e s’incurvano le spighe del campo; e la falce, per convenzione sim- bolica, è anche lo strumento in dote alla Morte. Seppur non si voglia arrivare a tanto, il senso del pericolo si fa captare; lo si avverte nella «selva», termine pre- ferito al più familiare «bosco». Ma, distante com’è dal registro lessicale quoti- diano, il vocabolo selva (perfettamente a suo agio, invece, nelle spettacolari al- lucinazioni di Un brindisi, 1941: «i fiumi colorati dall’afa delle selve…») giova proprio per la sua consistenza letteraria. Passata la «selva oscura» da cui il poe- ma prende avvio, in Dante s’incontrano «la trista selva» dei suicidi (Inf. XIV) e quella del Paradiso Terrestre, dapprima «divina foresta spessa e viva» ma «selva» in Purg. XXXII, una selva in cui s’addentrano la «puttana» e il «mostro». Per ta- cer di Petrarca, dove il vocabolo per sette volte sigilla i versi della sestina XXII («A qualunque animale…»; dell’Alfieri del sonetto «Tacito orror di solitaria sel- va…»; e di Leopardi, che contempla la luna «pendere» oggi come un anno ad- dietro su «quella selva» e «tutta» rischiararla» (Alla luna), o s’incanta al «tran- quillo raggio» lunare fantasticando, sulla scorta dei suoi manuali scientifici, di lepri danzanti «nelle selve» (La vita solitaria)6. È decisivo, nel fluire del testo, che l’allarme suscitato dall’azione del vento – una «mietitura» presentita, anzi già in corso – provochi l’entrata in scena della interlocutrice, il tu; o, per dir meglio, spinga il poeta a creare alla propria paro- la un riscontro, una destinataria. E un suo modello nobile ce l’ha anche il «Che fai?» (poi ripreso e duplicato in B), ricalcando il sonetto CCLXXIII di Petrarca («Che fai? che pensi? che pur dietro guardi?»7). L’insidia esiste, il poeta nulla può per esorcizzarla, solo sperare che quel vento non la strappi al suo naturale ripa- ro. Se la locuzione augurale «ti spero» (un augurio che lega formalmente la se- conda strofa alla prima, la destinataria del messaggio testuale alla «pastorella») avrà una replica di lì a poco in Sulla riva (1952) di Onore del vero («Tu dove sei? ti spero in qualche porto…»8), più notevole è che Luzi, per designare il natura- le ancoraggio da cui non vorrebbe che l’interlocutrice si staccasse mai, adopri il sintagma «proprio ramo». Che è, ancora, un prelievo: dalla Imitazione leopar- diana, dove «dal proprio ramo» (un ramo di faggio) il vento9 ha fatto volar via

6 Ma è pur vero che anche nel «bosco» si dànno fenomeni prodigiosi: così in Gemma (1951), «quando è là di febbraio che nel bosco / ancora risecchito corre voce / di una vita che ricomincia e oscura / geme negli animali insonni, s’agita / nel mare ed oltre il mare nei paesi / ricchi e strani…». Sono i ciclici miracoli della natura. E il «bosco» in una lirica di Dal fondo delle campagne può equi- valere, per una volta, a qualcosa di simile a un drammatico labirinto: e Luzi rivendica a proprio merito l’aver avuto la certezza che, appunto, «il bosco / non è senza via d’uscita» (Il soldato). 7 Meno probabile, direi, un rimando alla canzone dantesca della Vita nuova, «Donna pie- tosa…», col sogno della morte di Beatrice e l’apparizione dell’«omo scolorito e fioco» il quale ne informa il poeta: «Che fai? Non sai novella?...». 8 E, al terzo verso, anche Sulla riva fa registrare un «Che fai?». 9 Qui potremmo forse osservare che, come Leopardi aveva preferito il generico «vento» alle specificazioni del testo francese dell’Arnault (Zefiro o Aquilone) che il suo canto «imitava», così 66 Silvio Ramat

«lungi» la «povera foglia frale» che, apostrofata dolcemente da Giacomo, quie- ta gli riferisce, in risposta, come il vento la trascini «seco perpetuamente»: è lo stesso destino che tocca alla foglia della rosa e dell’alloro. Se questa ipotesi di una citazione da Leopardi vale, regge allora anche il cenno alla “fralezza”, alla fragilità di colei che il poeta si augura in salvo, protetta contro l’azione del vento. S’inserisce in questo punto una mezza frase mormorata, quel- l’«Appena ieri, appena ieri» che esclude il lettore da una compenetrazione tota- le nel testo giacché rinvia a una vicenda di cui solo il poeta e la destinataria di A potrebbero testimoniare. A noi, ammesso che serva a qualcosa, è concesso l’e- sercizio del congetturare: ancora «ieri» i due erano insieme? Ancora «ieri» nien- te minacciava la saldezza del riparo di lei? Ancora «ieri» il poeta avrebbe avuto la facoltà di sottrarla a ogni rischio? Fatto si è che quell’«Ora», l’avverbio di tempo in attacco del terz’ultimo verso, deve interpretarsi in contrapposizione al sopra- stante «Appena ieri». «Appena ieri», probabilmente sì; «Ora» no; è impossibile o molto difficile. Oscilla tra le due eventualità la locuzione avverbiale «a stento» (in rima interna con «vento»), inclinando tuttavia in favore di una residua possibili- tà. E ormai occupa la scena un nuovo attore, «il pensiero», questo delegato dell’io mormorante, che meglio di qualsiasi altra connessione rende plausibile l’ipotesi di una serrata giuntura tra A e B, dal momento che anche in B spetterà al «pensie- ro» la gestione del finale. E il nuovo attore di A non nasconde la fatica che gli co- sta il mantenere «uniti» gli affetti più preziosi. Li chiama «idoli», un termine for- se ambiguo, volutamente vago, sistemandoli a «cerchio» (l’epilogo di B lo sosti- tuirà con «famiglia», una famiglia «esile»). Ma la «dolce caverna» («caverna», let- teralmente, non degli «idoli» bensì del «pensiero»), magari con esito depistante, non può non indirizzarci verso il mito platonico (nel primo libro de La repubbli- ca, dove, rispetto all’essenza inconoscibile delle cose, se ne svalutano le immagini quali si mostrano, riflesse e illusive – «idoli», insomma –, all’occhio dei mortali. «Dolce caverna»: poco meno di un ossimoro? Non in questo caso, stante l’a- cutezza dolorosa dell’aggettivo «dolce», che tale diventa al «pensiero» in quanto vi si rifugiano gli «idoli». «Caverna» comporta un che di “cavo”, una “profondi- tà”; e per difficile che sia («a stento»), «il pensiero» non fallisce nell’opera intesa a evitare la dispersione degli «idoli», che sono poi gli «idoli» costruiti dal pen- siero medesimo, vale a dire le idee “adorabili” a cui esso non può rinunciare. Si dispongono tutti insieme, «in cerchio» (ne deriverà, lo accennavo, l’«esile fami- glia» di B), e si scaldano «attorno al mite fuoco»10. Se ciò, da un lato, suggerisce

a Luzi basta scrivere «il vento», anzi «il primo vento». «Primo» della stagione, diremmo, più che della giornata apertasi con l’epifania della «pastorella». 10 Con la variante «fiamma», quanti fuochi si accendono in Luzi nell’arco di un decennio! Basti citare: «siedo rapito in questa fiamma fine» (Pur che…, 1948), «ascolto / lo stridere che fa la fiamma…» (Nella casa di N. compagna d’infanzia, 1950), «Siedo presso il mio fuoco triste, atten- do / finché nasca la vampa piena o il guizzo / sul sarmento bagnato della fiamma» (Versi d’ottobre, 1952) e, riutilizzando l’aggettivo di A, «Un fuoco così mite basta appena…» (Las ánimas, 1954). DUE “MOTTETTI” DI LUZI 67 un rituale vòlto a garantire sopravvivenza nell’unità di una forma (il «cerchio»), dall’altro non si scioglie del tutto da Platone, quel fuoco essendo forse, nel con- testo di A, l’equivalente della luce che nella richiamata pagina di Platone pro- ietta dall’esterno le ombre sulla parete della caverna. Da una luce siffatta, forte all’eccesso, potremmo arguire che «il pensiero» provi a difendersi; e difendere se stesso significa non permettere la dispersione dei proprii «idoli». Pertanto A si chiude figurando la travagliata difesa di un patrimonio che «il pensiero» non intende dissipare o alienare.

Quale ragione può aver indotto Luzi, sei anni più tardi, a rielaborare un tema che resterà, a conti fatti e quantitativamente, minoritario nelle Primizie come in Onore del vero? Benché sia da ribadire che trattasi di raccolte ambedue carat- terizzate da una palese omogeneità interna, non è consueto un tanto clamoroso recupero e, in così esiguo spazio (undici versi A, dieci B), il rilancio di una ter- minologia, di un vocabolario e complessivamente di una struttura testuale. In tal senso, il rapporto A-B è una eccezione o almeno un caso limite. A scorrere B centimetro per centimetro, il legame con A emerge inoltre in virtù di nume- rose relazioni fonico-metriche. Il predicato «bilancia» di B1 è in sensibile asso- nanza con l’«avanza» di A4; il «via» di A2 è incluso in rima esatta nell’«avvia» di B2 e fa quasi rima col «pendio» di B3. Da non tralasciare il rintocco del «mulo» di A3 nel «muglia» di B5, se non forse dello «zoccolo» di A4 nella «macchina» di B3. Allitterano poi il «ramo» di A6 e le «rampe» di B5. E la coppia settena- rio-ottonario di A3-A4 si ripete in B4-B5. Ma veniamo all’iconografia. Stilizzata, se non proprio quanto la «pastorella» di A, spicca la «portatrice d’acqua», depositaria della chiave che serve a mettere in moto il congegno di B. La sua figura è preceduta di un biennio dalla «don- na» che in Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo «prende acqua alla fontana» e «risale su per il proferlio» per sparire poi alla svelta dentro una casa. La stiliz- zazione di questa sagoma si integra nel “tipico” di comunità che, come si veri- fica volentieri in Luzi e per lo più situate nell’Italia centrale, non godono anco- ra degli agi di altre più progredite: donde, non diversamente che ne La quiete dopo la tempesta, il necessitato costume dell’attingere acqua alla fontana pub- blica (costume che può magari diventare un cómpito da assolvere a vantaggio dell’intera comunità). Il «pendio» lungo il quale costei s’incammina lentamen- te, calibrando a dovere il carico sul capo, segnala, in mancanza di altri indi- catori, la difficoltà del percorso. Impervio e a saliscendi, lo ribadisce il suono del motore dell’automobile che sta risalendo con fatica su per le «rampe» del «pendio». Il «muglio» che ne arriva all’orecchio ha un che di abumano e (vo- lessimo cercare tra i modelli eventuali), riporta in causa il «muglio/ di scerpa- te esistenze» di una lirica di Montale (la seconda, in Ossi di seppia, de L’agave su lo scoglio), sotto la sferza della tramontana; o, più feroce che mai, il «muglia- re» del vento – «come un mostro ebbro» – nella nottata di cui il Pascoli ci rife- risce nel poemetto La piada. 68 Silvio Ramat

Non è forse gratuito che, in assenza di vento, B faccia comunque dipende- re dal medesimo verbo aspro e sgradevole, “muglia” – che altri poeti, come si è visto, avevano legato alla furia del vento –, il passaggio da un piano descritti- vo che sotto il profilo delle emozioni può ben dirsi neutro, come una sempli- ce registrazione offerta ai sensi, al piano allarmato su cui si sviluppa la seconda strofa di B. Fatto si è che il «brivido» (vocabolo-tema di suggestione pascoliana anch’esso11) è come se a suscitarlo fosse il soprastante muglio, sonoro indice di sofferenza non umana (quella di un meccanismo che arranca). Che il «brivido» sia «temuto», ciò rientra nella pertinenza dell’inesplicabile, dell’inviolabile; del non restituibile a un episodio biografico attestato. Potrebbe perfino darsi che la memoria (termine peraltro non registrato né in A né in B) abbia ricevuto una sollecitazione avversa, amara, da uno qualsiasi degli elementi in campo. Ma ec- colo, il «brivido», agitarsi – in una corsa che non trova ostacoli – dove la vegeta- zione è più acerba, «su per la palina»12. E, con perfetta rispondenza allo schema di A (il brivido lo si vede ancor meno di quel che non si vedesse il vento), entra in scena la destinataria della lirica. Il poeta a lei si rivolge, la interroga: «Che fai? che fai?», e la reiterazione della domanda accentua l’affanno. Non le dà neppu- re il tempo di replicare poiché sgorga una domanda aggiuntiva (esplicativa spie- gazione per chi legge): «Resisti a questa lima?». Ed è sottinteso che il “resister- le” sia pressoché impossibile. «Questa lima». Luzi qui ricorre (e non è, suppongo, per creare assonanza con «palina») a una parola che nelle metafore di alcuni tra i poeti più suoi ha avu- to un certo rilievo. Su tutti citerei il Dante “petroso”: «Ahi angosciosa e dispie- tata lima» della canzone «Così nel mio parlar…», antecedente più solido che non quello di Petrarca, RVF, LXV, dove la lima è pur lima d’Amore13. Nel testo luziano il «questa» non può che riferirsi al «brivido», un sussulto o fremito che corrode14, ossessivo. A restar nel vago non è solamente la causa che ha scatena- to il «brivido», ma la sorte che toccherà a chi non resiste, a chi cede alla «lima». Sopraggiunge, come in A, «il pensiero», quello che definivo “nuovo attore”, de- signato a tirar le fila del testo. Ma Luzi lo dichiara «turbato», e il turbamento è

11 A parte le molte occorrenze in varie raccolte (tutti rammentiamo quella che conclude Digitale purpurea), si veda nei Canti di Castelvecchio il componimento che s’intitola appunto Il brivido ed è brivido, «ribrezzo» mortale. 12 Interpreto «palina» nell’accezione vigente in larghe zone della montagna toscana, cioè come l’insieme dei nuovi getti di un albero, in particolare del castagno, che spuntano su dal ceppo antico. 13 Altrove, nel canzoniere petrarchesco (XX, CCXCIII) è «lima» che giova o gioverebbe alla rifinitura del verso; come anche nello Scherzo leopardiano (mentre lo stesso Leopardi nella can- zone Sopra il monumento di Dante aveva accusato la «mordace lima» che «rode» l’italica «virtù»). 14 Si vorrebbe tornare al Montale di Clivo, in cui, se tace il vento, «senti la lima che sega / assidua la catena che ci lega», e al primo mottetto del gruppo, dove «un ronzìo lungo viene dall’aperto» e «strazia com’unghia ai vetri». Più lieve il «limio / delle cicale» che dura «nel cuore» di Ungaretti (se ne rammenta in Silenzio, 1916), salpato or ora col «bastimento / verniciato di bianco» che lo conduceva, per la prima volta, dall’Egitto in Europa. DUE “MOTTETTI” DI LUZI 69 in ragione della difficoltà che la destinataria delle parole del poeta riesca a “re- sistere”. È così intenso, il turbamento, che il pensiero ne risulta indebolito, al punto da «lottare appena» (l’avverbio rimbalza qui da A8) e, invece di fungere da sostegno com’era in A, va in cerca anch’esso di un sostegno. Parrebbe un ri- prodursi di quello che in A era il «cerchio», il cerchio degli «idoli», tenuti «uni- ti e stretti» dal «pensiero» attorno «al mite fuoco», di cui suggerivo la rituali- tà. Ma non è propriamente una ripetizione; a ripetersi è semmai e solo – tut- tavia rimodulato – il verbo che indica lo “stringere” o lo “stringersi”: difatti nel finale di B «il pensiero» si cala anch’esso tra gli «idoli»; sembra che quell’«esile famiglia» lo accolga al suo interno, fattosi «esile» il pensiero medesimo per via dell’accusato turbamento. Insomma, a un raffronto tra l’«umore» di B e quello di A, si deduce che, men- tre l’epiteto «dolce», esplicitario di A, rendeva il senso almeno di una pausa, di una sospensiva nella fase di rischio apertasi con l’avviso del «primo vento […] nella selva», la tregua che potremmo per ipotesi leggere nell’epilogo di B sembra più fragile, più esposta al crollo, sottratto com’è al «pensiero» quel ruolo di cu- stodia, di protezione quasi sacrale cui adempiva in A. Non c’è più la traccia del mito platonico, nessun fuoco e dunque nessuna proiezione d’ombre. La figura- lità, sia pur metaforica, raggiante nella conclusione di A, risulta abolita, senza che ne rimanga la minima impronta, nell’epilogo di B. Tranne forse che per «la palina», il descrittivo si cancella e gli subentra un discorso dei sentimenti; lati- tano – ed è raro, in Luzi – le immagini accessibili fisicamente. E se è vero che il titolo Cose estive ha l’aria di predisporre una sequenza di oggetti materiali e si- tuazioni tangibili, il decorso del testo non ne squaderna che un paio, all’inizio. Qui la strategia che – arbitrariamente -- ho preteso di restituire al modello-sche- ma di varî mottetti de Le occasioni, più di quanto non accadesse in Montale, nel- la parte riservata al «pensiero» toglie spazio a ogni residua figuralità che non sia del tutto metaforica. Già il «vento», il «ramo», il «fuoco» di A (originato, chissà, dal realismo della «carbonaia», e magari generatore, per contrasto, dell’«acqua» di B1) il lettore non li vede né li sente oggetti e situazioni palpabili. Tanto meno avverte concreto in B quel «brivido» che pervade «la palina» con un’azione for- se inesorabile che ci rinvia alla mietitura del «primo vento […] nella selva» di A. Anche per questo volgere all’astrazione i due “mottetti” che Luzi scrive nella seconda metà del decennio ’50 rivelano, sul piano della struttura, una densità sperimentale perfino superiore a quella dei testi che in Primizie del deserto e in Onore del vero s’impongono come i più gloriosi e memorabili. Mario Luzi, Neri Pozza, , Ginevra Vivante. TEMPO E PAESAGGIO DAL «FONDO DELLE CAMPAGNE»

Anna Dolfi

Aveva esordito, Luzi, nel 1935, con un libro nuovo e importante, La barca, che, se da un certo punto di vista era tutto fiorentino (non a caso si apriva già nella seconda edizione del ’42 su una Serenata di Piazza d’Azeglio), dall’altro, fin dalla seconda strofa di quel primo testo, spostava immagini consuete (sia pur capovolte; ad essere rovesciata per l’esattezza era la prospettiva dello sguardo) verso un immaginario nordico, un mondo mitico fatto di fiumi, foreste…, che costituivano, assieme ai «sitibondi emisferi» e le «avene /solari», la «pausa terre- stre», ovvero l’allontanamento dalla terra, indotto dal mutamento delle stagio- ni1, dall’avanzare della sera2. Anche se la vista riportava poi al fiume della dimo- ra vitale (l’Arno, sempre presente, e in modo addirittura crescente, lungo l’iter poetico luziano3), ai «boschi tremolanti» della Maremma4, alle siepi, ai campi, ai fiori di una campagna talvolta imprecisata, ma che in Samprugnano5 trovava il modo per fondere ricerca ed elegia in una prospettiva religiosamente vertica- le, unendo il presente a un mondo immobile e mosso diversamente fatto di sto- ria, ove l’oggi trova il suo senso nella necessità di riconoscersi nelle «età trascor- se», di ritrovare in «altri corpi» la persistenza di una forma originaria6.

1 Così in Alla primavera (B). I testi di Luzi saranno da intendersi sempre citati dalla raccolta, completa fino al ’98, dell’Opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1998 (d’ora in poi O), a cui si farà riferimento anche per la siglatura delle singole raccolte: B per La barca; AN per Avvento notturno; BR per Un brindisi; PD per Primizie del deserto; OV per Onore del vero; FCA per Dal fondo delle campagne; FICS per Frasi e incisi di un canto salutare. 2 Come già nella Serenata di Piazza D’Azeglio, nel Canto notturno per le ragazze fiorentine (B) gli eventi, le passioni, i corpi, si sarebbero allontanati «volando via» dalla terra. 3 Ce ne offre testimonianza anche una delle ultime antologie d’autore: Mario Luzi, Flos. Poesie per Firenze, a cura di Stefano Verdino, Genova, Edizioni San Marco dei Giustiniani, 2002, oltre alla bella intervista, non a caso intitolata A Bellariva. Colloqui con Mario, realizzata da Stefano Verdino (adesso in O, pp. 1239-1292, a precedere l’accuratissimo apparato critico del «Meridiano»). 4 Si pensi a titolo esemplificativo a All’Arno e a Lo sguardo (B). 5 Cfr. Le meste comari di Samprugnano (B). 6 Cfr. Giovinetta, giovinetta (B).

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 72 Anna Dolfi

Insomma accanto al vagheggiamento medievaleggiante della «città turrita», all’oro, al celeste, all’azzurro della pittura del primo umanesimo che in Alla vita avevano fornito la patina di cui si sarebbe nutrito lo spazio della distanza im- plicito nel rifugio nell’antico «vasello» stilnovista7 (arca della poesia), l’«avvento notturno» (appena cinque anni sarebbero bastati) avrebbe introdotto un dub- bio radicale sul senso e sulla destinazione («era questa la vita?»; «Verso dove»8) che riconduce a un universo tangibile, benché, almeno a quell’altezza, spesso mediato dalla poesia (si ricordino i «bivacchi» di Cuma che, come ha opportu- namente segnalato Verdino, riconducono ai feux du bivouac di Apollinaire9) o dalla trasfigurazione malinconica10. Al punto che si dovrà attendere il ’46 di Un brindisi per trovare alberi veri (gli olivi, la quercia, i castagni11) e strade credibi- li di campagna che si inerpicano fiancheggiate da tabernacoli, o l’Appendice al Quaderno gotico per imbattersi in notti di inquietudine e ricerca12. Che culmi- nano «Di gennaio, di notte» quando lo spazio, turbato da un vento che ha una forza e durata che trascende l’umano («vento inesauribile»), si cala dal dove nel quando, in «giorni incerti ai crocevia del tempo», nel punto di discrimine tra dolore e lenimento, memoria e dimenticanza. Avviata ormai la faticosa via cru- cis del poeta tra «i muri alti» di una «patria ventosa e montuosa» che tenderà ad assomigliare sempre di più a quella maremmana della madre e della propria infanzia e giovinezza. Visto che ormai, a partire da Primizie del deserto, sono le icone familiari a suggerire squarci di paesaggio, mentre le voci che riemergono dal passato si fanno portatrici dei profumi di stagioni antiche13. Nonostante che visitare con E (Elena) il «suo» paese marchigiano serva a por- tare in primo piano poggi, balze, pendici14, sarà con Villaggio che si entra a pie- no nel paesaggio reale e metafisico della poesia luziana degli anni 50 e 60. Che registra anche un mutamento di collocazione dell’io; non più all’esterno del- la scena a guardare (come nella lirica giovanile) il mondo, e neppure coinvolto in un momentaneo attraversamento, ma come preso all’interno del più stretto dei cerchi che circoscrivono quanto si può vedere. Mentre la stagione inverna- le (nel periodo che va dall’autunno inoltrato alla Quaresima, con la sottolinea- tura – già montaliana – del Carnevale) spinge a collocarsi all’interno, a guarda- re fuori i segni che il tempo traccia sul paesaggio visibile, modificandolo lenta-

7 Il riferimento è al celebre sonetto dantesco («Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io / fossimo presi per incantamento /e messi in un vasel, ch’ad ogni vento / per mare andasse al voler vostro e mio») di cui il poeta novecentesco dovette serbare memoria nell’incipit della poesia Alla vita. 8 Cfr. Cuma (AN). 9 Cfr. l’apparato critico a O, p. 1345. 10 Penso a un testo di grande suggestione e complessità come Già colgono i neri fiori dell’Ade. 11 Cfr. Passaggio (BR). 12 La notte viene col canto (BR). 13 Cfr. Notizie a Giuseppina dopo tanti anni (PD). 14 Visitando con E. il suo paese (PD). TEMPO E PAESAGGIO DAL «FONDO DELLE CAMPAGNE» 73 mente, facendone – con l’indotta sofferenza – una sorta di correlativo esisten- ziale. Ferito, il paesaggio, alla pari dell’io, che si collocherà con sempre maggio- re precisione al centro dello spazio e della vita (l’«età di mezzo», la «vicissitudi- ne sospesa»), ma con una sorta di difficoltà nel distinguere (alla maniera dante- sca) ombre e corpi certi. Trovando però, nella coscienza contraddittoria e para- dossalmente complementare di perdita e persistenza, il modo per volgere «in sa- lute» le lacrime, grazie alla scommessa pascaliana di essenza contro forma. L’io, alla prova del tempo che nasce nello spazio circoscritto del pagus, sospeso, men- tre intorno discende la notte, cessa la ricerca, lo sguardo orizzontale, per acco- gliere ciò che affiora lentamente «dal fondo» di un’«angoscia» che traduce orfa- nità e solitudine. Risolvendole (a partire dal ’49 di Villaggio) con l’introduzio- ne, a garanzia di persistenza, a latere dell’istanza/presenza del divino, di un fi- glio infans per cui/tramite cui si può sperare «salute». Da quel momento, in Primizie del deserto si infittiscono i quadri della cam- pagna toscana, assieme al gioco di intrecciate messe a fuoco di esterni ed inter- ni (si pensi esemplarmente a Nella casa di N. compagna d’infanzia). Non stu- pirà dunque se, nel clima di questa nuova sensibilità, e dei suoi «valori» e figu- re, Luzi sceglierà di inscrivervi retrospettivamente l’intera stagione della poesia giovanile (raccolta sotto l’onnicomprensivo titolo del Giusto della vita), ponen- do quale incipit tardivo della prima raccolta e del primo complessivo volume una lirica dal perfetto andamento endecasillabico come Parca-Villaggio (scritta nel ’51), che emblematicamente riunisce i temi e motivi a cui si accennava. E che, del testo di Primizie del deserto (Villaggio), che ne dichiarava parte del tito- lo, conserva, oltre ai suggestivi cronotopi (la fredda stagione, le povere case, la diacronia), l’immagine del figlio bambino. Per altro, a questa altezza, la natura del contesto paesaggistico è delineata, ol- tre che da netti confini interno/esterno, da tutta una serie di potenziali coppie oppositive: nativi e forestieri, infanzia e maturità, vecchi e giovani, vivi e morti (il tutto, per pertinenza di testo e contesto, in prospettiva delle future Las ani- mas), speculari alle contrapposizioni verbali (porta/scaccia; passò/scomparve; pas- sato/presente; tua infanzia/tuo figlio). Mentre il fuoco (già apparso come strumen- to tipico dell’agricoltura) diviene luogo intorno al quale si celebra il rito quo- tidiano della comunicazione e della conservazione della memoria. «Onorare il vero» (dinanzi al fuoco) vorrà allora dire dare alle cose il loro nome, a dispetto di ogni tautologia («Il vento è…»15), recuperare senza timore di ripetizioni l’i- dentità delle azioni («quel che verrà, verrà…»16) chiudendo poi i testi con una clausola definitoria che ha valore di massima o di precetto. Come avveniva nel «vecchio mondo latino» la cui legge passa dal paesaggio all’io non appena, durante un viaggio in treno nel settembre del ’43 (tempo pro-

15 Uccelli (OV). 16 Versi di ottobre (OV). 74 Anna Dolfi pizio per le agnizioni), lo scrittore si accorge della capacità disvelativa/rivelato- ria che hanno colline (leopardianamente) «celesti» e la luce liquida17. Visto che dal paesaggio passa qualcosa che oltre il singolo io tocca la coscienza antropolo- gica della «stirpe», per risalire fino alle origini, a dare l’impressione di poter co- noscere ogni frammento del creato, di essere in grado di ricondurlo alla propria genesi, esseri umani in testa, riportati ben oltre il mitico Adamo18:

Mi misi [una donna] a guardarla attentamente e subito qualcosa cominciò a risalire in me, qualcosa di mio e di antico che gradatamente, in mezzo a uno sterminato silenzio, mi avvicinava a lei e con lei alla terra e al sole visto che vedere/guardare figure sullo sfondo (lo scrittore ha bisogno di farlo «contro il vetro e contro il paesaggio») permette di ricondurle alle forme pri- migenie che si identificano con quelle eternanti/eterne dall’arte. Necessaria in- somma l’accoppiata persona + paesaggio19 per vedere come i luoghi trasforma- no gli individui, offrendoli di nuovo, almeno in certi casi, all’originaria sacrali- tà. Si ricordino ad hoc alcune pagine di una prosa di Luzi:

Infine mi spostai leggermente per poterla guardare contro il vetro e contro il pae- saggio. Allora la riconobbi. L’avevo vista in piedi, ammantata, presso la Regina di Saba, là dove questa adora genuflessa il ponticello di legno nell’affresco di Piero ad Arezzo. Era lei e non era mutata […] era stata scelta per restare immo- bile e intatta nel tempo, secoli e secoli or sono, sulle pareti di una chiesa in una vecchia città della nostra vecchia terra latina20 che dicono di illusioni platoniche, di immagini preesistenti restituite per for- za di sfondo, oltre la banalità del quotidiano, alla familiarità che conduce, oltre ogni esilio, verso la vera Heimat. Patria del sapere e della sensibilità, che si situa in terre assieme terrestri e immaginarie, «fondali della memoria» e «luoghi del sogno»21, già che sovrappone alla dimidiata coscienza novecentesca i topoi del- la grande tradizione georgica del mondo greco-latino: i campi, la beatitudine, l’otium, la malinconia. Topoi che sono capaci anche di guidare la lingua, fatta- si a un tratto comunicativa (perfino di un’apparente facilità, nella sua classica

17 Così nella prosa Toscana, in Trame (ma la citazione è ormai dalla complessiva raccolta delle prose creative: M. Luzi, Prose, a cura di Stefano Verdino, Torino, Aragno, 2014, p. 60). 18 Di cui avrebbe parlato uno scrittore come Giuseppe Dessí, dinanzi al paesaggio della sua Sardegna. 19 Ma per una nostra riflessione in proposito (a partire da Jacob) cfr. Anna Dolfi,L’idillio e l’astrazione. Le forme del paesaggio in poesia da Leopardi alla terza generazione, in La parola e l’immagine. Studi in onore di Gianni Venturi, a cura di Marco Ariani, Arnaldo Bruni, Anna Dolfi, Andrea Gareffi, Firenze, Olschki, 2011, II, pp. 655-675. 20 M. Luzi, Prose cit., pp. 60-61. 21 Così in uno degli Otto luoghi dedicato a Il Monte Amiata, ivi, p. 83. TEMPO E PAESAGGIO DAL «FONDO DELLE CAMPAGNE» 75 perfezione e bellezza), nel trasferire il pensiero in cadenze rimiche, o meglio nel tradurre in ritmo il pensiero, se è vero che la prima edizione del pezzo Il Monte Amiata dovrebbe risalire all’«Approdo» dell’aprile-giugno del 1953. Basterà per questo accostare il tardivo testo proemiale della Barca ad alcune pagine in prosa:

A lungo si parlò di te attorno ai fuochi […] in queste case grige […]. Dopo il di- scorso cadde su altri ed i suoi averi, / furono matrimoni, morti, nascite, / il mesto rituale della vita.

Solo dopo a veglia nelle grandi cucine affumicate o nella piazza o all’osteria si ac- cende la conversazione in quella lingua chiara e forte, che tuttavia consente nei suoi modi rituali […] della tribù più che del singolo. Dai loro discorsi il borgo si leva come un universo nella fitta rete delle sue parentele, nella profondità delle generazioni che si sono succedute nelle sue case grigie, nella storia degli averi, nei mutamenti della fortuna delle famiglie, nelle malattie, nelle nascite, nelle morti, nei suoi vegliardi leggendari; e tutto è considerato un rito, un tributo dovuto alla vita e al tempo22.

Ambedue restituiscono un mondo rurale comune a una società e a una ge- nerazione. Non sarà un caso infatti se si potrà trovare nella prosa dedicata da Luzi all’Amiata («la vecchia al fuso e lì accanto il somaro legato all’anello o alla stanga»23) un ausilio per leggere e decifrare il cardo e la spina ricorrenti nella poesia di Alfonso Gatto, in particolare proprio nella lirica Fummo l’erba, con- siderata24 tipicamente generazionale, e per chiarire il ruolo pacificatore assunto dal paesaggio per la capacità di dare senso ad azioni e a sentimenti25. Rendendosi così per certi versi essenziale; si pensi alle crete del senese che ritorneranno nella poesia di Luzi fino al Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, e con significa- tiva trascorrenza tra realtà, pittura, scrittura, già che niente restituisce più della fedele trasfigurazione artistica le emozioni, i miraggi. «Codice interno», quello degli spazi naturali parcamente abitati, al pari di quello delle città26: sì da for- mare una struttura, «una grammatica della mente e del senso»27. Se Firenze era per Luzi, alla luce di queste strutturali mise en abîme, pietra, acqua, luce, genialità28, potremmo tentare di inscrivere il mondo dei pagi e dei

22 Ivi, pp. 84-85. 23 Ivi, p. 85. 24 In primis da Donato Valli, che l’ha posta significativamente a chiudere la sua Storia degli ermetici, Brescia, La Scuola, 1978. 25 Cfr. ancora: «le operazioni dell’uomo hanno un senso, una causa e un termine chiari e finiti tra pochi atavici oggetti e immagini, tra poche essenziali passioni sempre vive» (Il Monte Amiata cit., p. 85). 26 Si vedano (da Trame, nella raccolta delle Prose citata) gli splendidi Paragrafi fiorentini (ivi, pp. 107-112). 27 Ivi, p. 107. 28 Ivi, pp. 108-111. 76 Anna Dolfi campi che domina Onore del vero e Dal fondo delle campagne all’insegna non solo della «sobrietà, elementarità, concretezza» tipiche della toscanità29, ma della fati- ca, della povertà, della grazia30, in definitiva del sacro, ergo, in ultima istanza, di ciò che, suscitandola (da Agostino a Mallarmé, si potrebbe dire velocemente), si mostra/rivela degno di fede. Una fede che passa non solo dalla religione natura- le (più che dalla rivelata), ma dalla cultura: la lettura di Lucrezio31, di Virgilio. Tutto deposto poi (Come tu vuoi, ON) in una finale resa, già che ai campi se- mantici del freddo e dell’aridità (tramontana, screpola, stringe, assoda, irrita, rat- trappito, serra) contrappone il silenzio (silenzio, muto), sì che anche il mutamen- to che scaturisce dall’immobilità ne viene in qualche modo contagiato (muto/ mutamento), unite le generazioni, perfino oltre l’io32.

29 Cfr. Toscanità, ivi, p. 215. 30 Quella di cui parla Luzi in Borghi, ivi, p. 219. 31 Tra i poeti latini preferiti. Cfr. in proposito M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti, 1999, p. 41. 32 Cfr. Fumo (FCA). Ma in un ideale percorso «georgico» si dovrebbe soffermarsi almeno in particolare, oltre che sulle intere raccolte OV e FCA, su Colpi, Api (FCA), Avvampò l’anno (FICS); e su Ha la sua giusta canicola (in Dottrina dell’estremo principiante); Non sta in sé, crepa (in M. Luzi, Poesie ultime e ritrovate, a cura di Stefano Verdino, Milano, Garzanti, 2014, rispet- tivamente pp. 295, 570). MARIO LUZI, LA VOCE E IL FONDAMENTO

Mario Baudino

Su fondamenti invisibili venne accolto, nel ’71, con entusiasmo non privo di qual- che perplessità, come si può forse leggere nella definizione di Sergio Pautasso, quan- do parla di un tragitto luziano «da una fisica perfetta a una metafisica imperfetta»1. A distanza di tempo, e con una maggiore ampiezza di prospettiva quantomeno sto- rica, si può affermare che è vero il contrario. Luzi tornava a una sua originaria fisi- cità. La raccolta, pubblicata in un momento di grande crisi e trasformazione della poesia italiana mentre si andava esaurendo l’urto della neoavanguardia, da un lato sembra ricuperare temi e atmosfere degli anni Trenta (c’è un suono, un passo nell’ar- gomentare poetico che pare rifarsi esplicitamente al Rilke delle Duinesi, letto giova- nissimo nella traduzione dell’amico Leone Traverso) ma dall’altro opera una vera e propria rottura rispetto alle contrapposizioni presenti in quel momento nella poe- sia italiana, assorbendole e superandole in una prospettiva che sarebbe stata di lì a poco sviluppata da una nuova generazione nei tardi anni Settanta. All’altezza di Su fondamenti invisibili, il «secondo Luzi», che in genere si ri- conosce a partire dalla svolta di Nel magma, è per così dire la vera novità nel panorama italiano, e non solo, pur in un’apparente linea di continuità col suo passato. Come tale almeno lo leggemmo allora, poeti piuttosto giovani e appas- sionati. E non solo o non tanto per quelli che Giorgio Bàrberi Squarotti aveva individuato, a partire da Onor del vero, come «i segni stilistici dell’inquietudi- ne e dell’angoscia»2 né per la musica proparossitona cui inclinava l’endecasilla- bo, o per l’uso magistrale di particelle avversative, dubitative, condizionali che si sommavano all’impiego «ormai grammaticalizzato di coordinazioni del tipo “a un a uno” o di divaricazioni quali “tra sonno e veglia”, “tra anima e chacram”, “tra Caucaso e Caspio”»3, né ancora per il ritmo della ripetizione e dell’iterazio-

1 Sergio Pautasso, La poesia di Luzi: da una fisica perfetta a una metafisica imperfetta, in «L’Approdo letterario», giugno 1974. 2 Giorgio Bàrberi Squarotti, Luzi, in Poesia e narrativa del secondo Novecento, Milano, Mur- sia, 1961, p. 55. 3 Cfr. Stefano Agosti, Situazione semantica dell’ultimo Luzi, in Il testo poetico, teoria e pratica d’analisi, Milano, Rizzoli, 1972, p. 183.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 78 Mario Baudino ne anamorfica («Aspettano. Aspettano che…», «Conosco/Conosco da sempre», «Così termina un anno. Un anno sorge dal suo enigma»). Tutto questo era im- portante, ma ci interessava soprattutto l’enigma, il modo in cui Su fondamenti invisibili lo scrittore stava misurandosi con un momento chiave della sua poeti- ca, lo individuava, lo costruiva e gli dava voce. Luzi stava compiendo una svolta, e in questa prospettiva acquistava all’im- provviso una nuova risonanza la sua interpretazione della poetica di Mallarmé, risalente a vent’anni prima:

Dipingere, dunque, non la cosa ma l’effetto che essa produce: e dipingere code- sto effetto mediante parole che siano solo apparentemente parole, e in sostanza articolazioni puramente poetiche, creatrici di sensazioni; di sensazioni destinate, intendiamo, a perdurare poeticamente quando il valore semantico delle parole che le hanno create è andato perduto4.

Il passo è certamente interpretabile, nel contesto ermetico, in un’accezio- ne principalmente spiritualista, come accade nella metafora usata da Carlo Bo nel suo Mallarmé della «pagina interiore»5, o lo «scrivere sotto la pagina» in cui Giansiro Ferrata vide il peculiare percorso della critica ermetica6. Ma proprio lo «scrivere sotto la pagina» per Luzi diventa scrivere «sotto il segno»: in prospet- tiva, e l’operazione è particolarmente evidente proprio nel poemetto Il pensie- ro fluttuante della felicità, che dopo tre brevi poesie, quasi uno sguardo alle pro- prie spalle, apre Su fondamenti invisibili e suona come il manifesto di una nuo- va poetica, saranno infatti quelle che Julia Kristeva avrebbe definito di lì a poco le «unità prefonetiche»7 a farsi sostanzialmente carico della voce; ad esse sarà de- legata in ultima istanza la possibilità di «fondamento» negata all’io del discorso poetico: e non nel recupero della sillabazione ermetica (che è ancora un atto di fiducia, una scommessa sull’io del discorso poetico) quanto proprio all’estremo limite della regressione razionale in cui l’io viene coinvolto. Tutte le strutture iterative, asseverative o disgiuntive, insieme ai fenomeni particolarmente vistosi di allitterazione che ne derivano, acquistano in questa prospettiva una diversa e profonda ragion d’essere. Il pensiero fluttuante della fe- licità è il più complesso dei tre pometti, e a quanto risulta anche quello su cui il poeta lavorò per lunghi anni, come ha ben ricostruito Stefano Verdino, che in- dividua esplicitamente «un soggetto che sempre più identifichiamo con la lin- gua piuttosto che con l’io dell’autore, anch’egli immerso (e a tratti emerso) nel

4 Mario Luzi, Studio su Mallarmé, Firenze, Sansoni, 1952, pp. 5-6. 5 Carlo Bo, Mallarmé, Milano, Rosa e Ballo, 1945, p. 56. 6 Giansiro Ferrata, Le ultime sugli ermetici, in Antologia della rivista «Prospettive» a cura di Glauco Viazzi, Napoli, Guida, 1964, pp. 33-36. 7 Julia Kristeva, La revolution du language poetique, Paris, Seuil, 1974, in particolare le pp. 220 ss. MARIO LUZI, LA VOCE E IL FONDAMENTO 79 nobile flusso della parola»8. In esso questa strategia linguistica ottiene i suoi ri- sultati più evidenti: l’affiorare in primissimo piano dei materiali fonico sintat- tici, quasi in una forma di disvelamento, ha una portata strutturante nei con- fronti del testo stesso. Nei confronti, aggiungerei, del suo stesso senso profondo. L’esordio del poema, che è un viaggio ispirato in parte a T. S. Eliot, un ri- percorrere la nuova Terra Desolata dove si specchiano un rapporto intimo e tor- mentato tra un uomo e una donna e il grande incomprensibile magma del mon- do intorno, ne enuncia il tema, basato su un’alternanza della fricativa dentale e della consonante liquida, ritmato dalla occlusiva dentale:

DaMMi tu il Mio SorSo di felicità priMa che Sia tardi iMplora, in tutto SiMile alla Mia, una voce baSSa e fervida lungo i DeDali Del riSveglio riSonando9.

E la voce misteriosa è quella:

Più uMana dell’uoMo Su per i Meandri Di fatica e di lotta per la luce da Secoli e Secoli filtrando10

Con il rafforzamento dell’iterazione apportato da un’altra consonante liquida (l). È da rilevare che in questa alternanza interviene anche l’occlusiva dentale sorda (t):

E avverTo inTanTo la noTTe nel suo ulTimo Più freneTico balzo verso l’alba, il nuovo enigMa, inghioTTirla11

O ancora:

Se Mai qualcuno le riSponderà Mi dico dibaTTendoMi SegMenTo di lucerTola Nel Terriccio bruciaTo da quella folgore SpeSSa12.

Questa struttura rimane costante, con modulazioni sempre diverse che non ne intaccano però la sostanza di tema fonico-sintattico, per tutta l’estensione del poema:

8 Stefano Verdino, nell’introduzione a Mario Luzi, L’opera poetica, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1998, p. XXXIV (cui d’ora in poi si farà riferimento per le citazioni). 9 M. Luzi, Il pensiero fluttuante della felicità, in L’opera poetica cit. p. 365. Di qui in poi, uso le lettere maiuscole per evidenziare gli aspetti essenziali della trama sonora. 10 Ivi, p. 366. 11 Ivi, p. 365. 12 Ivi, p. 365. 80 Mario Baudino

Maschere di Maschere – TuTT’alpiù coMMenTa La Lunga bambocciaTa allonTanarSi barcoLLando in un nube di foSforo Maschere di Maschere – conTeSTa Ma bonaria, coi suoi anni MorTi di fascisMo13

Qui, con effetti d’eco intensificati dalle sillabe ba-ba-bo e mo, che proseguen- do nella lettura incontra il sorriso della protagonista femminile («SeMpre quel SorriSo di donna SmeSSa indulgente col Mondo»14, fino a giungere a un passo che esemplifica di nuovo in modo evidente, fra ripetizioni, iterazioni, effetti d’eco:

non è d’aMore che Mi Stai parlando? Mi chiede la Mia aniMa non aniMa – conoSco conoSco da SeMpre – e non dà peSo a ciò che le riSpondo Sulla felicità che Sia quesTo, queSto Soltanto15.

Si potrebbe proseguire con altre esemplificazioni, ma già queste paiono suffi- cienti ad affermare che proprio la fitta architettura delle unità prefonetiche si im- pone con particolare evidenza in alcuni contesti particolari, quelli dove l’io o ciò che ne rimane fa risuonare più forte la sua interrogazione. In essi pare di veder confluire due istanze, appunto quella che si dirige sopra il segno verbale e quel- la che ne sta al di sotto. Sono le due componenti della voce, protagonista indi- scutibile del poemetto, quella a cui vanno le interrogazioni di Luzi, e quella che una volta per tutte viene come sospeso tra l’umano e una assai metaforica natura:

Eh, il punto oltre di me, eppure ancora in mio potere Dove vibrano intatte Parole come queste di salmista o, chi sa, di amante Mi dico, e penso a un’escursione di subacqueo La foresta marina, il corallo16.

Cui faranno da specchio i versi finali del poemetto, dove resta a clausola la «stanchezza dello scriba» ma anche il «non prevalebunt» pronunciato inevitabil- mente dalla «mia anima fatta animo»17. E le parole nel loro luogo di vibrazio- ne, che è la profondità della foresta marina, proprio nell’alternativa tra «salmi- sta» e «amante» ci restituiscono la trama sonora individuata come fondamen- tale: SalMiSTa/aManTe. Nel momento della considerazione riflessiva sul pro- prio discorso poetico, ciò che emerge è l’opposizione S/M, che sta appunto sot-

13 Ivi, p. 368. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 369. 16 Ivi, p. 375. 17 Ivi, p. 377. MARIO LUZI, LA VOCE E IL FONDAMENTO 81 to il livello semantico e irradia di sé l’intero poema. Ha una funzione struttu- rante nei confronti del testo. L’io del discorso è fuori gioco, o comunque periclitante: non riesce a distin- guere tra «ciò che mormora una voce/ lontana, di sotto i rimasugli» (in un si- gnificativo superamento della posizione eliotiana: non ci sono più frammenti per puntellare rovine) o «da sotto il pelo della broda» dove «gorgogliano… Le risaie del Vietnam»; e tuttavia il viaggio deve proseguire18. Non più quello che partendo da una consapevole situazione di segno ormai scisso pretenda di rico- stituirne l’unità attraverso una petizione di valori (l’assoluto o la storia) ma ap- punto una traversata di quel magma che non pretende di anticipare il senso del tragitto, che rifiuta la garanzia di un fondamento visibile.

La scrittura di Su fondamenti invisibili si confronta drammaticamente con la propria impossibilità, con lo «scriba» «vinto come all’ultimo suo ciascun ar- tista» al di fuori sia delle logiche lirico contenutistiche sia di quelle sperimenta- liste all’altezza dei primi anni Settanta. È già dopo le neovanguardie, che ha su- perato e introiettato, ed epistemologicamente dopo la semiotica e il sapere strut- turale. Ma se i ritmi fonico-sintattici rivelano, almeno nel poemetto su cui ci siamo soffermati, una funzione strutturante nei confronti del testo (e del senso stesso), ciò non permetterà ancora di affermare che è lì, in quell’intermittenza, nello scintillio binario dei suoni delle parole chiave, il segreto d’amore che ci ha consegnato Mario Luzi. Sono certo i ritmi, quei ritmi, a reggere il testo, l’intelaiatura dei versi, il cam- mino della scrittura: eppure il loro mormorio verrebbe cancellato e irrimediabil- mente perduto dalla presunzione che sia quello il punto «vero» del poema, il suo nocciolo segreto. Il dubbio sul senso e la possibilità stessa di agire dello scriba, e cioè del poeta, resta intatto, non intaccato; ma è un dubbio gravido d’amore, come si ripete quasi a eco in altre e più recenti pagine, dove le interrogazioni si moltiplicano come in un singhiozzo. Lo scriba chiede soprattutto «più amore», e il suo grido si ripete di raccolta in raccolta, di verso in verso. Ad esempio, con una sintassi asciugata e spezzata, nel decennio successivo all’altezza di Per il bat- tesimo dei nostri frammenti:

Chiusa la storia, cancellata la persona perso o vinto l’agone? Oppure è l’altro che matura e splende, l’amore pieno il pieno annientamento

18 M. Luzi, Nell’opera del Mondo, in Su Fondamenti invisibili cit., p. 386. Ma si veda anche p. 382: «Tu che vanti la conoscenza del mare e non ce l’hai / mi avvisa un grido inutilmente burbero / evocando cera nelle orecchie, corpi legati all’albero / – non ignorarne la dolcezza, non tradire nessuna memoria / ma prosegui il tuo viaggio. Fa la tua parte. E che sia giusta». 82 Mario Baudino

in che cosa? In che unica sostanza in che totale inessenza – impossibile saperlo non c’è testimone, non c’è canto?19

La risposta che viene dalla scrittura ci parla di amore e canto, di salmista e di amante, di desideri e miraggi che trascorrono dall’animato all’inanimato all’in- namorato. Perché l’amore è intanto, forse soltanto, nel suo disperato sforzo di essere. Il richiamo di Luzi all’altezza degli anni Settanta non solo è ancora vali- do, ma resta il suo grande lascito alla poesia.

19 M. Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti, Milano, Garzanti, 1985 (ma qui da M. Luzi, L’opera poetica cit., p. 577). SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO

Margherita Pieracci Harwell

1. Il saggio

Quando cominciai a leggere Luzi, nel 1952, mi interessava soprattutto il sag- gio, «il saggio come opera d’arte, come genere artistico», come lo pensa Lukács nella lettera a Leo Popper premessa a L’anima e le forme1, come lo concepisce Maritain quando scrive di Charles Du Bos, che era per lui «il più grande dei critici francesi»:

Ci sono critici di grande respiro, che non possono scrivere poesia: in loro il dono poetico è penetrato nell’opera critica. Sono sicuro che era un poeta, e meravi- gliosamente dotato; ma l’attività poetica era stata paralizzata da un prodigioso sviluppo della facoltà di riflessione2.

Non diversamente Carlo Bo scrive di Leone Traverso traduttore: «un poeta che è rimasto segreto» e ha fatto della traduzione «la sua prima forma di espressione […] “poeta in proprio” anche quando vestiva gli umili panni del traduttore»3. E Oreste Macrí a sua volta distende questo riconoscimento in più pagine. Sapevo, tuttavia, che esistono grandi scrittori «il cui dono poetico penetra nell’opera critica», o/e che «sono “poeti in proprio” anche quando vestono i pan- ni del traduttore», di cui, però, l’attività poetica propriamente detta non viene «paralizzata dal prodigioso sviluppo della facoltà critica», né dallo straordinario talento nel tradurre — tra quelli ancora vicini a noi Eliot, Hofmannsthal. Uno di loro era senza dubbio Mario Luzi, che aveva pubblicato del ’42 L’illusione pla- tonica e più recentemente (1949) L’inferno e il limbo, dove si leggono, ad aper- tura di libro, frasi come queste:

1 Ferenc Jànossy, L’anima e le forme [1910], Milano, SE, 2002, p. 15. 2 Jacques Maritain, Creative Intuition in Art and Poetry, Bollingen Series XXXV–I, Princeton University Press, 1977, pp. 324-325. 3 Nel ricordo preposto alla riedizione del 1988 di Liriche drammi di Hofmannsthal, Le Lettere, Pan, Firenze.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 84 Margherita Pieracci Harwell

[…] nel lavoro di un uomo eccezionale la qualità che più ci lusinga e ci avvince è quella di progredire in un senso preciso e fatale; niente ci riesce più conforte- vole che vedere un destino che si attua e a poco a poco si adempie […]; voglia- mo avere il soccorso di tutti gli elementi possibili per intendere con pienezza da quale inclinazione interiore l’opera è nata e dove segretamente tendeva. Il cammino percorso dallo spirito dall’una all’altra delle sue imprese offre un interesse [fondamentale…] per chi porti implicita nei propri studi un’attitudine umana che sia immune dalla scienza, o se ne sia svincolata con la libertà del proprio respiro. Se noi riusciamo a individuare il ritmo e il senso in cui uno spirito si muove saremo anche più vicino al suo segreto naturale […]. Al giudizio critico si può pervenire per diverse vie, tutte, io credo ammissibili purché siano intense e vive; ma oltre ad esso noi perseguiamo uno spiraglio di luce che attraverso un esemplare storico o privato ci renda più intellegibile la natura umana, e cioè tendiamo ad un arricchimento dei nostri stessi strumenti di vita4.

Ma anche: «Soltanto il movimento segreto delle spirito ci assicura della po- esia e nello stesso tempo determina la qualità di essa, l’intensità, l’unità, la discontinuità»5 – a render chiaro che la ricerca di un arricchimento dei nostri strumenti di vita va di pari passo con l’esigenza profonda di riconoscere la qualità della poesia. Vedremo trasparire in due interventi tardi, uno dell’87, uno del ’97, di cui parlerò e che citerò estesamente in seguito, la sostanza di questo pensiero. Allo stesso modo la «conversione» di Nel magma, che appunto non era con- versione ma naturale sviluppo, poteva già riconoscersi come aspirazione in una lettura del Manzoni degli Inni sacri:

A cominciare dalla metrica così schematica e orecchiabile, tutto tradisce la sua letizia di trovarsi confuso in una moltitudine, di essersi sottratto al dominio di un io arbitrario. In questi limiti dove ogni altro poeta si sarebbe perduto, egli sentiva di avere acquistato la propria solidità, la necessaria sicurezza per fare. E bisognerà infatti riconoscere subito la straordinaria felicità di quella stagione manzoniana, quando il primo entusiasmo trovò quelle forme chiuse e aride per esprimersi pienamente e talvolta con un eccesso di partecipazione, con un acu- minato sentimento degli uomini e della vita illuminò di scorcio una ricchezza implicita e contenuta che non aveva potuto disciogliersi se non determinata da movimenti così obbligatori e costretti6.

Rileggiamo, di Luzi, a questo proposito, Presso il Bisenzio, meditando su conte- nuto e forma. Le due cose vanno insieme per Luzi: la formazione della sua anima:

4 Mario Luzi, Del progresso spirituale, in L’inferno e il limbo, Firenze, Marzocco, 1949, pp. 7-8 (riportato in M. Luzi, Autoritratto, Milano, Garzanti, 2007, pp. 77-78). 5 Ivi, p. 37. 6 Ivi, pp. 78-79. SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO 85

[…] quante false immagini di sé un uomo si porta dietro! Un lavoro enorme lo attende per ritrovare il suo gesto, la sua voce essenziali che, essendo propri della sua natura, appartengono per questo alla natura dell’uomo. Una riduzione a se stessi, è questo l’aspetto che assume il cammino degli spiriti acuminati un cammino di tanta difficoltà e di tanta energia quanto più è vero che uno spirito acuminato è anche uno spirito inquieto, soggetto a smarrirsi nella rete delle emozioni […]. Il progresso spirituale non può consistere per noi che in questo cammino occulto verso la nostra verità singolare e, in termini più solenni ma identici, verso la verità come si è attuata nella nostra propria persona7.

Ma questa «verità singolare» non ha da essere conquistata compiendo «capi- tali e definitive rinunce. Esse riflettono in apparenza il mondo della materia e della quantità, e a prima vista, aumentano il dominio e la purezza dello spirito, il quale non riconosce più altro oggetto che la propria solitudine e il proprio si- stema circolare e chiuso»8. Era stata la scelta della nostra letteratura (e «nostra» non significa solo italiana ma moderna), che preferendo a Dante Petrarca «non poté più separarsi da un grado di estrema maturità, raggiunto di colpo, bru- ciando le tappe. Ma [questo] significa, purtroppo, l’aver dovuto procedere di là dove il mondo si era già richiuso, negato, o per lo meno allontanato in un fan- tasma dello spirito»9. C’era stato, prima, un modo opposto di percepire il reale:

Il sentimento della trascendenza era così netto e, per così dire tanto oggettivo che comportava una libertà e un’estrema vivezza d’impegno con la vicenda quo- tidiana dei corpi e della polis. Libertà relativa, certo, come nel medioevo e non critica; ma libertà libera come forse mai più nella direzione del reale, senza ide- alizzazioni particolari e senza idiosincrasie. In questo caso la realtà è il semplice terreno dei fatti che cade sotto il dominio delle leggi empiriche dell’esistenza, proteso tuttavia a finalità di ordine trascendente che non modificano per nulla la fisionomia immediata delle cose10.

Luzi non stava suggerendo la sterile nostalgia di un passato irrecuperabile, stava cercando di capire e di aiutarci a capire che il senso di alienazione non è un’assoluta condizione dell’uomo:

Le passioni medievali ci sono rappresentate straordinaramente energiche, tali che potremmo oggi supporre che l’impulso dell’uomo non trovasse nessuna resistenza dentro di lui, ma solo quella offerta dall’oggetto e dalle circostanze […]. La nostra letteratura moderna è qui a dimostrarci come il medesimo im- pulso può nascere ed esaurirsi all’interno dell’uomo, irretito in complicazioni

7 Ivi, pp. 10-11. 8 Ivi, p. 20. 9 Ivi, p. 19. 10 Ivi, p. 15. 86 Margherita Pieracci Harwell

di ogni genere, non liberato in un atto e se mai bruciato da un gesto che non gli corrisponde […]. Una passione nasce, cresce, si accumula e deve prima di tutto venire alle prese con la sfiducia, con l’inerzia metafisiche dell’uomo al quale ogni slancio verso la realtà immediata è inibito dal suo stesso stato interiore e che possiede già sulle cose, latente o distinto, un giudizio anteriore all’espe- rienza […]. Nessuna idea generale e trascendente della felicità, lo vediamo oggi meglio, ha resistito come tale sulla mente dell’uomo moderno. Respinto dalla realtà soffre e non concepisce salvezza che non sia inerente al proprio dolore, se è vero che per lui il dolore non è un castigo né uno stato dialettico, ma una proprietà dell’essere. Pure noi sappiamo che proprio là dove il sentimento della trascendenza è stato più forte, dove la nozione di realtà più relativa, ivi l’uomo è stato più reale, assorbito più vivamente dalle cose. Più il senso del nostro pas- saggio è stato netto, più al nostro destino è stata annessa l’idea di mobilità, tanta più fiducia è stata accordata alle cose, più fascino alle creature»11.

Tuttavia anche oggi «Spesso noi giudichiamo della verità reale di un’opera dall’efficacia con la quale essa sostiene il confronto con la vita ovvero con i par- ticolari viventi del mondo; e in questo ossequio alla vita, ben al di là di un pre- giudizio mimetico, io voglio vedere la parte essenziale che è riservata nella co- mune considerazione alla poesia»12. È un atto di fede che non sarà rinnegato, ma che si farà via via più articolato, attraverso le difficili aperture alla realtà dei nostri terribili giorni. Del resto, io ho citato dalla prima edizione di L’inferno e il limbo, ma questi capitoli sono ora tra i testi che Luzi ha inserito lui stesso nell’Autoritratto13, a mostrare come ancora gli appartenevano.

2. Cristina Campo come tramite

Così mi avvicinai a Luzi prima attraverso i suoi saggi. E mi rallegrava l’idea che avesse tradotto e presentato Vita e letteratura di Charles Du Bos, che avevo da poco scoperto grazie a una conferenza di Gianfranco Draghi. Ma nella let- tura di Luzi mi accompagnò essenzialmente Cristina Campo, che avevo cercato nell’autunno del ’52 per parlare con lei di Simone Weil14. (Per anni si è discus- so di chi avesse portato la Weil a Cristina – se Mario Luzi o Gianfranco Draghi – finché Luzi ha rivendicato questo merito nel suo intervento sulla Campo al Lyceum di Firenze, nel 1997, con dovizia di particolari a togliere ogni dubbio).

11 Ivi, pp. 25-27. 12 Ivi, p. 38. 13 M. Luzi, Autoritratto, a cura di Paolo Andrea Mettel e Stefano Verdino, Milano, Garzanti, 2007. 14 Di cui avevo trovato nella piccola biblioteca della FUCI di Firenze la traduzione italiana (Franco Fortini, Milano, Edizioni di Comunità, 1951) de La pesanteur et la grâce (libro uscito da a Parigi, da Plon, nel 1947). SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO 87

Come sempre faceva con i nuovi amici, Cristina condivise immediatamen- te con me le sue più preziose ricchezze: soprattutto, in quel momento, erano tre autori che aveva interamente assorbiti, e continuamente ne citava frammenti per esprimere convinzioni e sentimenti suoi propri, senza prendersi la pena di indi- carne volta a volta la fonte, come faceva del resto la Weil con Platone. Era il pri- mo segno di un modo di vivere la cultura senz’ombra di academia. Letteratura come vita (1938) è appunto il titolo del famoso saggio di Carlo Bo che consa- cra il credo degli «ermetici fiorentini», e certamente può definire lo spirito con cui la Campo leggeva e assimilava i suoi autori, anche se conviene dire subito che non aveva avuto bisogno per questo di leggere il saggio di Bo, perché cer- to lei era la prima tra quelli che «portano implicita nei propri studi un’attitu- dine umana che sia immune dalla scienza, o se ne sia svincolata con la liber- tà del proprio respiro»15. I suoi tre autori erano allora Simone Weil, Hugo von Hofmannsthal16 e Mario Luzi. In tutti e tre si riconosceva, e come poteva iden- tificarsi con loro poteva anche identificare i tre fra loro, tanto che io che li ho vissuti dapprima con lei, continuo a distinguere con difficoltà la fonte di cer- te citazioni. Per esempio, una frase in cui subito riconobbi il senso che aveva per me la lettura, e che perciò imparai a memoria, è questa: «Noi perseguiamo uno spiraglio di luce che attraverso un esemplare storico o privato ci renda più intellegibile la natura umana, e cioè tendiamo a un arricchimento dei nostri stessi strumenti di vita […]»17. Quanto simile l’urgenza vitale che questa frase esprime — riconoscersi nell’altro — ad un appunto, tratto non da Luzi ma da Hofmannsthal: «Quando un uomo se n’è andato per sempre, porta un segreto con sé: come a lui, proprio a lui, sia stato possibile, in senso spirituale, vivere»18. Il Luzi di Cristina Campo, quello che le permise di trovarsi più presto rico- noscendosi nella sua voce — come dice Leopardi, nessuno trova nei libri se non quello che ha già in se stesso, ma la lettura accelera il processo — fu essenzial- mente il poeta delle Primizie del deserto19, a cui sarebbero seguiti pochi anni dopo i versi di Onor del vero20. Intendo qui riproporre alcuni appunti della Campo sui temi che le parvero dominare nelle Primizie, appunti il cui succo confluì in parte in una colonna apparsa nel ’60 sul «Giornale del mattino». Anche su que- gli appunti si appoggia questa affermazione – che quando io la conobbi e la in- tesi parlare di Luzi, le fosse penetrata più addentro la voce delle Primizie – ma non esclusivamente su quelli. La conversazione di Cristina, come le sue lettere, era costellata di citazioni criptiche dei suoi grandi Amici (in quel momento so-

15 M. Luzi, L’inferno e il limbo, «Del progresso spirituale» cit., p. 8. 16 Che Cristina aveva conosciuto prima di conoscere Simon Weil, grazie a Leone Traverso. 17 Del progresso spirituale cit., p. 8. 18 H. von Hofmannsthal, Il libro degli amici, trad. it. Gabriella Bemporad, Milano, Adelphi, 1980, p. 40. 19 M. Luzi, Primizie del deserto, Milano, Schwarz, 1952. 20 M. Luzi, Onore del vero, Venezia, Neri Pozza, 1957. 88 Margherita Pieracci Harwell prattutto i tre che ho già nominato, la Weil, Hofmannsthal e appunto Luzi) – potrei chiamarli phares non fosse che tutto sembra un po’ enfatico quando ci si pone nell’aura, che lei sempre gelosamente privilegiò, del minus dicere. Le mol- te citazioni di Luzi che sceglieva parlando o scrivendo, per esprimere insieme con intensità e distacco quella che era per lei allora la fatica di vivere, vengono quasi tutte dalle poesie delle Primizie – come nel cerchio di quelle si contiene la scelta di esempi per gli appunti a cui ho accennato. L’articolo del ’60 allargherà un po’ i tempi, ad accogliere versi che come quelli in morte della Madre (1959) entreranno poi in Dal fondo delle campagne21. C’è una lettera di Cristina a Luzi del 6 gennaio [1960 o 1961]22 che esprime la pro- fonda commozione con cui aveva accolto Caccia e Augurio23: Carissimo, nessun altro che me può parlare di trepidazione. L’idea di far seguire le mie pa- role alle tue mi atterrisce ora più che mai24. “Caccia” è un’apertura, uno spazio così vasto e potente che ogni voce (se non la tua) dovrà morirci dentro come il passero nella tempesta. E quali parole possono mai seguire “Augurio” – che dire dopo un simile “Amen”? Ma bisogna essere semplici non è vero? Come i passeri appunto, che continuano a sussurrare sul tetto della cattedrale anche dopo le note più alte dell’organo. Ma sopratutto sono felice di aver visto queste poesie – così tue ma così nuove insieme (la prima e l’ultima, sopratutto) come se alla corrente del tuo discorso si fosse aggiunta una vena nuova, che gonfia tutta l’acqua senza scomporla e ne arricchisce infinitamente l’obbedienza alle proprie leggi. Nascita dentro la vita e acqua dentro l’acqua – non so se corso dolce dentro il salso o salso dentro il dolce ma certo acqua e vita colmi di nuova forza (nuova pazienza e fede). Potrei continuare all’infinito ma ho fretta di spedire questo biglietto. È il mio augurio di Buon Anno, che viene tardi ma è nell’aria da sempre (e del resto il Buon Anno per te non è già tutto in queste tue poesie?) La tua Vittoria25

21 M. Luzi, Dal fondo delle campagne, Torino, Einaudi, 1965. 22 Di rado la Campo metteva la data nelle lettere agli amici, e quasi mai l’anno. 23 M. Luzi, Dal fondo delle campagne, ora in M. Luzi, L’opera poetica, a cura di Stefano Ver- dino, Mondadori, Milano, «I Meridiani», 1998, pp. 276 e 279. 24 In un bigliettino da Roma del 18 gennaio [1958] Cristina aveva scritto a Luzi: «[…] Mi dovevi dare delle poesie. Ricordalo. Senti: Caproni fa un’antologia di poesia moderna e non conosceva il tuo Coleridge. Per favore faglielo mandare, e se per caso hai poesie tradotte da poeti dell’800-900 (i maggiori) scrivilo a lui o a me […]. Senza nessuna ragione, al Terzo Programma, mi hanno chiesto di occuparmi di qualche cosa che si dovrà chiamare “Poesia attuale”. Aiutami a non farne un gioco di parole. Non pensare alla trasmissione, ma scegli per me qualche tua poesia, ti dispiace? Grazie. Sarà bello». Evidentemente qui Cristina si riferisce a quell’incarico (C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia. Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino. Milano, Adelphi, 2011, p. 127). 25 C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia cit., pp. 128-129. Vittoria Guerrini è il nome anagrafico di Cristina Campo. SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO 89

Augurio conclude luminosamente la prima stagione luziana, e apre la secon- da. Il «congedo» infatti contiene i titoli con cui Luzi scandirà i primi due gran- di momenti dell’opera:

Sia grazia essere qui, nel giusto della vita, nell’opera del mondo. Sia così.

Difficile prevedere, dopo questa lettera, il rifiuto che Cristina avrebbe op- posto agli sviluppi successivi – subito a Nel magma26. Pure i versi di Caccia, che aveva amato –

Cadono uccelli sotto il piombo, prendono Vento lungo la caduta, ed a perdita d’occhio la foresta Lascia di ramo in ramo foglie, lembi Di fuoco, brani di vita ancora palpitante tra le piume. anticipavano visioni di altre lacerazioni, nell’Opera del mondo e oltre. Il rifiuto di Nel magma addolorò Luzi abbastanza perché l’amarezza trapelas- se ancora 34 anni dopo, nel 1997, dalle parole con cui commemorò la Campo, pure con grande affetto e accettazione, al Convegno del Lyceum27:

Proprio oggi […] mi veniva in mente una frase che una volta mi disse Cristina, […] – negli anni immediatamente dopo la guerra – riguardava la sorte che a lei pareva inaccettabile per disparità, tra i reduci delle operazioni militari che s’e- rano concluse […]. Mi disse che le sembrava veramente un peccato, una colpa, che nessuno pensasse con umanità a [una parte di] loro. Non con questo che volesse assolvere [le brigate nere], ma le rincresceva che non ci fosse un atteggia- mento misericordioso anche verso di loro. Questa frase mi è tornata in mente ora e mi pare che assuma un grande significato. Io l’avevo presa per un’eleganza morale soprattutto, […] ma non avevo poi sentito con la giusta intensità quello che c’era dentro: probabilmente una richiesta di equità […] non solo riferita alla cronaca del momento […]; ma era l’equità che veniva offesa, un principo d’equità che veniva vilipeso, una sostanza, forse latente, che veniva ferita, adul- terata. Questo mi ha aperto, forse, la via a una più generale considerazione del suo iter sia artistico, sia umano. Io potrei oggi, anche immaginare che tutto quello che io sapevo di lei […] fosse stato solo un preludio, un avvio, prima di diventare un flusso molto bello, molto denso e molto trasparente, verso l’ultima stazione e l’ultimo riconoscersi di lei anima e corpo nel senso della liturgia della chiesa russa. E questo è solo un decorso da una mistica, diciamo così, edenica, limitata al campo dell’esteti-

26 M. Luzi, Nel magma, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1963. 27 M. Luzi «A guisa di congedo. Una religione dell’armonia del mondo», in Due giornate di studio su Cristina Campo, a cura di Monica Farnetti e Giovanna Fozzer, Firenze, Lyceum club internazionale, 1997. 90 Margherita Pieracci Harwell

ca, limitata al campo della letteratura, selezionata dalla sua raffinatezza, dalla sua richiesta, anche, di solennità, a una mistica invece sacrificale […]. C’è stato, in ogni caso, nei nostri rapporti – proseguì allora Luzi – il disaccor- do. Uno dei disaccordi che a me fece più male, ma che capii perfettamente, lo avevo quasi messo in conto, ma avevo sperato che […] questa mistica della perfezione in cui ci eravamo in parte riconosciuti tutti quanti, non fosse [in lei] così formulare da escludere l’imperfetto che è in ogni perfezione, lo stesso farsi della perfezione e dunque uno stato di grande imperfezione assunto come tale – e questo mi sembrava anche molto caritatevole – e speravo che Cristina dovesse com- prendere. E invece lì per lì non lo comprese, e alludo al momento in cui io pub- blicai un libro che aveva, nella mia storia personale, un certo rilievo, una certa importanza e senza il quale non avrei certamente potuto proseguire, almeno nella mia attività di poeta nel modo in cui poi si è sviluppata. Quindi un momento nel quale il mondo che noi avevamo un po’ tutti, secondo la tradizione petrarchesca italiana, di cui più o meno facevamo parte, tenuto a distanza, sotto una specie di regia, invece si fece forte, mi invase, in un certo senso, invase il mio quaderno e chiese di essere espresso nel suo stesso farsi, nel suo stesso tendere verso l’espressione. E si tratta di una materia pregiudizialmente imperfetta che corre e cerca di andare verso la sua forma, la sua perfezione. E questo non fu da lei accolto. E mi pare di aver colto stamani nelle parole citate da [Mario] Bortolotto28 un’allusione a questo, un’allusione molto rammaricata, mi è sembrato, come se io avessi commesso un tradimeno. Poi le cose cambiarono, però in quel momento ci fu un disaccordo. Un disaccordo che la dice lunga su che cos’è questa perfezione, su che cos’era in quella fase la perfezione, alla cui mistica meta Cristina tendeva a prezzo anche di un’amputazione del mondo che veniva significato dai suoi simboli, ma non verifica- to sulla materia. Più tardi questo ardore di perfezione si è spostato, e si è spostato soprattutto nell’incontro con l’opera di Simone Weil29.

Prima di questo paragrafo, Luzi aveva detto, delle apparenti metamorfosi provocate dallo scorrere del tempo nella vita e nell’opera di Cristina, qualcosa che mi pare si applichi perfettamente a lui, al suo «divenire senza fine ciò che ».è Vero, in una certa misura, della maggior parte degli uomini, ma da segnalare in particolare di fronte al «mutamento» insito nella crescita di un’Opera:

Io non credo che debba rintracciarsi il filo di questa genesi, una linea di questa genesi, voglio credere invece che ogni stagione della vita di Cristina abbia avuto un suo epicentro, una sua verità, una sua identificazione con l’oggetto dei suoi studi, dei suoi amori. Tutta questa serie di stagioni, è contenuta anche nella sua varietà, nella vita di Cristina, ma non la vedo come una linea che porti a un punto di conversione: tutto era in lei, sia pure non confesso30.

28 Mario Bortolotto, Una lettera, in Per Cristina Campo cit., pp. 245-247. 29 M. Luzi, A guisa di congedo. Una religione dell’armonia del mondo, ivi, pp. 236-238. 30 Ivi, p. 237. SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO 91

Ora, che cosa amava essenzialmente, Luzi, nell’opera di Cristina Campo? Anche una reincarnazione, io penso, di quel sé giovane che aveva espresso il suo pensiero ne L’inferno e il limbo. Aveva colto l’occasione per dirlo assai chiaro pre- sentando un piccolo libro mio dell’8731, frutto anche, certo, degli anni del so- dalizio con Cristina:

Io vedo – disse – con grande emozione [in questo libro] proseguire nel tempo […] un modo di fare, di sentire, la letteratura; è un modo di vivere la letteratura come ricerca interiore, ecco, come ricerca di una verità personale anche, e questo modo è un modo che illumina simultaneamente il testo, non meno che l’anima di chi lo esplora […]. Ecco, questo modo ha degli illustri antefatti esemplari – no? – ma non un vero modello; è un modo, un modo particolare che di quando in quando vive, si risveglia e si prolunga in [certe ] persone […] voglio dire che questo modo di, ecco, cercare dentro un testo, di cercare il testo dentro se stessi, ma anche dentro la rispondenza e dentro il movimento che esso suscita in noi, non è legato a un tempo e a un modo, neanche a quei modi appunto che vengono spesso oggi sprezzantemente detti spiritualistici; no, è un modo che può attraversare qualun- que metodologia. Si può trovare una persona che ha questa vocazione, a qualun- que metodo o sistema voglia applicarsi. Del resto lo dimostra [questo libro stesso che] si apre a qualunque offerta che venga dal tempo presente, facendolo suo o integrandolo […]. La lettura interna, vorrei classificarla così, che è propria di questi studiosi, di questi lettori, è vero, scava a fondo, ecco, nel libro che legge, ma va oltre l’analisi, proprio come una vera invenzione […]. E allora, ecco, io qui ritrovo oltre a una vocazione personale che ha dato[…] prova e fede di se stessa attraverso tanti anni di fedeltà appunto a Leopardi e di fedeltà a questo tipo di lettura, è vero, disinteressato al massimo, abbandonato vorrei dire, ma non certo privo di controllo, privo di consapevolezza, ecco – da questo lavoro, certo, rica- viamo l’idea di una vocazione, dicevo, molto precisa, ma anche, io sento, la fedeltà a un ambiente, a un tempo, a una comunità di studio, di partecipazione, ecco, che mi rimanda a persone che non sono più, e soprattutto alle due che sono le destinatarie della dedica: Giuseppe De Robertis e Cristina Campo. Due persone che appunto possono, potevano, iniziare a un genere di vita morale dedita allo studio e a un tipo di interrogazione dei testi della poesia […], due persone che sembrano così lontane fra loro, ma certamente due persone che hanno contribuito a tenere acceso questo fuoco dell’attenzione, della vera attenzione, della vera lettura in profondità dei testi, in cui la veglia, diciamo così, era sempre viva, aveva sempre il suo fuoco acceso, ecco. E i nomi appunto sono incisi nella dedica […]. E certo De Robertis è un maestro della esatta, puntuale, e anche però segreta lettura, e Cristina Campo era, come dire, la signora di una profetica acribia […] che rivelava gli autori a se stessi, vorrei dire, quasi […] obbligandoli a essere fedeli al loro vero valore, al loro vero significato, e questo vale per gli amici, vale anche però per le letture fatte, ecco, su testi che non erano di amici, ma di classici. L’uno e l’altra

31 Margherita Pieracci Harwell, I due poli del mondo leopardiano – entusiasmo e tedio, Firenze, Franco Cesati editore, 1987. 92 Margherita Pieracci Harwell

erano il centro di un grande fervore che ritrovo in questo libro, e mi fa piacere di essere stato anch’io in certo modo uno di quelli che hanno partecipato […]32.

Vengo infine agli appunti di Cristina, da cui citerò estesamente come estesa- mente ho citato dalle due testimonianze luziane del 1987 e del 1997, la prima mai pubblicata, l’altra facilmente reperibile ma in un testo periferico per il co- mune lettore di Luzi (gli Atti del convegno del Lyceum sulla Campo). Lo stesso può dirsi degli appunti di Cristina e del trafiletto del ’60: gli appunti sono usciti in Appendice alle Lettere a Mita – e ho constatato che pochi dei molti entusiastici lettori di quell’epistolario vi hanno fatto caso; quanto alla colonna del «Giornale del mattino», ora stampata in un libro che raccoglie scritti inediti della Campo e saggi su di lei, è reperibile33, ma piuttosto da uno studioso che da un semplice lettore. E invece a me preme che anche il «semplice lettore» possa venire a cono- scenza delle poche tracce che ha lasciato la profondissima amicizia, stima, am- mirazione che legò i due poeti, i quali – malgrado il «disaccordo» a cui Luzi al- lude nel ’97 – per anni si specchiarono l’uno nell’altro, illuminandosi a vicenda. Non ho precise indicazioni sul tempo in cui gli appunti furono scritti, ma suppongo tra il ’53 e il ’54 quando Gianfranco Draghi pubblicò un numero della «Posta letteraria» dedicato a Mario Luzi34. Riporto qui una lettera della Campo a Draghi del 28 XII ’53:

Avevo lavorato di gran lena in questi giorni (con la bronchite ecc.) e mi pareva di riuscire almeno in parte – quando mi ha presa il dubbio dello spazio. E non avevo torto. Il mio articolo non si può ridurlo (senza rifarlo interamente, e allora in tutt’altra chiave) a meno di cinque e mezzo – sei cartelle. Con Margherita abbiamo tentato e ritentato: una riduzione è impossibile, ci vuole un altro ar- ticolo (questo era tutto un ciclo di citazioni progressive, come Riccardo II35) e,

32 Presentazione a cura di Gianfranco Draghi, Alberto Folin, Mario Luzi di M. Pieracci Harwell, I due poli del mondo leopardiano cit., presso la Libreria Condotta, via della Condotta 29 r., Firenze, 6 giugno 1987. La presentazione non è stata pubblicata, ma ne abbiamo la regi- strazione digitale. 33 La colonna è stata pubblicata nel 2006 in Appassionate distanze. Letture di Cristina Campo con una scelta di testi inediti, a cura di Monica Farnetti, Mantova, Tre lune edizioni, 2006, pp. 31- 32. Prezioso piccolo libro, noto ai lettori della Campo, ma non necessariamente ai lettori di Luzi. 34 «La posta letteraria», supplemento quindicinale a cura di Gianfranco Draghi al «Corriere dell’Adda e del Ticino», Anno II, n. 2, Lodi, 23 gennaio 1954. Conteneva un frammento di Pie- tra oscura (Atto III, scena seconda); un ritratto di Luzi di Silvio Loffredo; una poesia – Preghiera – di Pier Francesco Marcucci dedicata a Luzi; e tre saggi: Linea di Luzi (Lamberto Maccioni); Luzi critico (M. M. Pieracci) e appunti su Primizie del deserto (Gino Gerola). 35 Il 20 gennaio 1952 la Campo aveva unito a una lettera a Remo Fasani (cfr. C. Campo Un ramo già fiorito. Lettere a Remo Fasani, a cura di Maria Pertile, Venezia Marsilio, 2010) un articolo intitolato La gravità e la grazia nel «Riccardo II» che sarà pubblicato in C. Campo, Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti, Milano, Adelphi, 1998, pp. 23-30, e riproposto in appen- dice a Un ramo già fiorito. Alla fine di quell’anno Cristina scriverà a Gianfranco Draghi: «Firenze . S. Stefano ’52. / La mia vita continua a andare in bricioli, per Natale un solo attimo di gioia, SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO 93

mi perdoni, caro amico, nel momento io non posso farcela un’altra volta. Così avevo già disposto tutto in modo da farle avere per questa volta i ‘Colori’ e il cliché di Van Gogh [… per un numero su Hofmannsthal già in cantiere. Se il resto del materiale per il numero su H. è disponibile] le spedirò tutto martedì – tanto Luzi, da buon Taoista, non ha il minimo senso del tempo, e la pagina, per quello che lo riguarda, potrebbe uscire, ugualmente gradita, il mattino del suo 75º compleanno. Se invece [… non si arriva a tempo per H.] non vedo altra soluzione che saltare una settimana, come Lei già pensava di fare per Natale – e incaricare un altro (Gerola?) dell’articolo di fondo. Mi perdoni caro amico (for- mula di mera cortesia perché le giuro che ho tentato il possibile). Telefonerò io a Gerola, dicendo che quel Norsa36 della malora non manda, non risponde, non c’è, e lei mi ha incaricato di telefonare a lui (perdoni l’impossibile stile, sono le 8 di mattina e ho tossito tutta la notte). Lei sa che se posso un miracolo lo faccio – quanti ne conosce la Posta! – ma questa volta… Naturalmente non lascerò passare inavvertito un momento di grazia (che naturalmente non mi verrà per Luzi – tutta la notte ho scritto, felicissimamente, intorno a Marlowe!) ma lei sa in quale modo mi abbia sempre atterrito questo compito e come solo per lei mi ci fossi piegata. In linea di massima nella (avvenire) pagina di omaggio io scri- verei semplicemente in alto su una sola riga: ‘questa pagina è dedicata a M[ario] L[uzi].’ (non aggiungerei neanche ‘vincitore ecc.’, ma suppongo che Jannacco- ne37 non Le consentirà questa delicatezza). Poesia in alto, al solito posto, cliché in basso (id. id.) il resto tutto normale, con Luzi al centro e la bibliografia, se c’entrerà, al posto del Crivello, da un lato e in posizione trascurabile (bisogne- rebbe fare una pagina intimamente sincera). Ma il materiale, anche con Gerola in fondo, mi è sempre parso troppo… Ci starà? Affettuosamente sua V. Non faccia in nessun caso saltare Marcucci è forse la sola cosa a cui M. L. possa tenere taoismo permettendo38.

In una lettera del ’56 – chiedendomi di scrivere una nota su un libro di Secretan su Simone Weil – Cristina mi suggeriva il metodo che qui lei sembra seguire:

Prenda contatto con se stessa facendo il giro di Padre Secretan; stenda un elenco di appunti (citazioni) e il discorso che li deve legare crescerà in mezzo da solo come un rampicante fra i sassi39.

Per «stendere un elenco di citazioni» occorre prima «ascoltare il testo con at- quando Luzi mi ha detto (dopo 10 giorni di silenzio) che non voleva rendermi il “Riccardo II”, che così si doveva scrivere su Shakespeare. Anche se sbaglia, anche se non scriverò il libro, è stato bello. Me l’ha detto nella nebbia, davanti a un distributore di benzina e a Leone Traverso, alla mezzanotte del 24 dicembre». (C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia cit., p. 18). 36 L’articolo di Cristina avrebbe dovuto apparire sotto questo pseudonimo. 37 Lino Jannaccone era il direttore del «Corriere dell’Adda». 38 C. Campo, Il mio pensiero non vi lascia cit., pp. 27-28. 39 C. Campo, Lettere a Mita, Milano, Adelphi, 1999, p. 44. 94 Margherita Pieracci Harwell tenzione», che è per Cristina come per la Weil (e per Hofmannsthal, ci ricor- dava Gabriella Bemporad), l’unico modo di lettura – «L’attention consiste à su- spendre sa pensée, à la laisser disponible, vide et pénétrable à l’objet, à maintenir en soi-même à proximitée de la pensée, mais à un niveau inferieur et sans contact avec elle, les diverses connaissances acquises qu’on est forcé d’utiliser […]. Et surtout la pensée doit être vide, en attente, ne rien chercher, mais être prête à recevoir dans la vérité nue l’objet qui va y pénétrer»40.

I passi scelti dalla Campo sono evidentemente quelli che riporta, dopo averne distillato il succo, cioè i vocaboli [figure]-chiave («Temi con vocaboli costanti»):

PIANO PER UNO STUDIO SU «PRIMIZIE DEL DESERTO» DI LUZI

Temi con vocaboli costanti.

1. L’uomo e il fuoco. Base della piramide rovesciata, centro immobile della sfera rotante.

a. da Pur che b. da Nella casa di N… Si è qui come si deve in una parte Io sono qui, persona in una stanza, in un punto del tempo, in una stanza… uomo nel fondo di una casa, ascolto Altra sorte non so che non sia questa, lo stridere che fa la fiamma, il cuore siedo rapito in questa fiamma fine, che accelera i suoi moti, siedo, attendo. guardo la chiara lamina febbrile —Se guardo qui la furia e se più oltre del giorno, mentre in cielo è già inverno l’erba, la povertà grigia dei monti.

c. da Anno d. da Villaggio Io, come sia, son qui venuto, avanzo Io sono qui lo stesso che fu altrove da tempi inconoscibili, ardo, attendo e in altro tempo, non importa senza fine divengo quel che sono, quanto lontano, né quanto diverso. trovo riposo in questa luce vuota.

e. da Versi dal monte f. da Gemma41 Ora il pensiero a stento tiene uniti Rivedo le mie donne, i miei cari, …gl’idoli nella sua dolce caverna. tra l’uno e l’altro il tempo, il vento…v. 3

40 S. Weil, Attente de Dieu, Paris, Fayard, 1966, pp. 76-77. 41 Osserverà Stefano Verdino nelle sue attentissime note a M. Luzi, L’opera poetica cit., p. 1456: «L’interrogativo della prima strofa propone per la prima volta la rinascita della vita naturale nel tardo inverno, motivo poi assai frequente in Luzi, soprattutto negli ultimi anni. La sugge- stione eliotiana dell’incipit di The Waste Land sul crudele risveglio della natura in primavera, è temprato da un connotatore verbale di taglio dannunziano quale “geme” (v. 5) che ne indica il travaglio in senso fisico (come un nuovo parto) […]» – pensiero su cui dovremo tornare. SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO 95

[Accanto al numero 1., che designa la prima sezione, Cristina scrive il ‘titolo’ su cui lavorare: «L’uomo e il fuoco». «L’uomo» compendia, suppongo, l’«io sono qui» ripetuto ben quattro volte nei sei brani. Il titolo continua con una figura: «Base della piramide rovesciata, centro immobile della sfera rotante», figura che tornerà nel titolo della seconda sezione, e che possiamo sottendere alle successive].

Raccordo

2. L’età matura (asse della sfera.)

a. da Notizie a Giuseppina b. da Visitando con E. il suo paese Mi trovo qui a questa età che sai Qui sediamo irreali, tra gioventù e vecchiaia Né giovane né vecchio, attendo, guardo

Questa vicissitudine sospesa …

c. daVillaggio d. da Aprile-Amore A questo punto, a questa età indecisa Ma è ancora un’età, la mia È troppo poco attendere che alfine che s’aspetta dagli altri All’orizzonte ambiguo una figura, quello che è in noi oppure non esiste.

[In questa seconda sezione, la Campo non sceglie una parola/immagine per il ti- tolo, (com’era nella prima sezione «il fuoco»), a fissare l’essenza dell’«età matura» — età che è definita, a continuare la figura della sezione precedente, come «asse della sfera». Che l’età matura sia l’asse della sfera mi sembra pensiero più vicino a quello che Cristina esprimerà nel ’62 in In medio coeli42, che all’idea luziana di «un’età indecisa», «tra gioventù e vecchiaia» «che s’aspetta dagli altri quello che è in noi oppure non esiste»].

Raccordo

3. La mano sinistra (tempo [vento] sangue)

a. da Villaggio b. da Gemma Il vento ormai inasprisce le ferite … È il tempo Duole negli arti anche recisi, scuote… che soffia nelle ceneri, ravviva Le faville sopite, dalle antiche Ferite spiccia sangue…

42 Il saggio esce per la prima volta in «Paragone. Letteratura», XIII, 150, giugno 1962, quin- di in C. Campo, Fiaba e mistero, Firenze, Vallecchi, 1952, e in C. Campo, Il flauto e il tappeto, Milano, Rusconi, 1971; infine si trova in Gli imperdonabili, Milano, Adelphi, 1987, p. 13. È stato tradotto in varie lingue. 96 Margherita Pieracci Harwell

c. da Né tregua d. da Villaggio Del tempo lungo tratto è là … il tempo medica le piaghe Che avanza come blocco da scolpire che all’uomo, dici, è forza porre fine Quando sfiorarlo è già fatica estrema alle lacrime..—questo è più acuto strazio … quando si sia come noi siamo e la vita può darsi nella cenere l’essere morti non ci dà riposo e questa piaga atroce può volgere in salute né tregua né dolcezza di stagione. o prossima o lontana di te o di tuo figlio

[ma questa è la terra che dobbiamo…] e. da Brughiera Il medico si curva sulla piaga Ride se noi diciamo morte, insiste Che tutto deve convertirsi in vita.

f. da Né tregua g. da Né il tempo Ma è questa la terra che dobbiamo Ma qui è il dominio che dobbiamo coltivare saccheggiare

h. da Né il tempo i. da Né tregua Ecco il colore della pena sterminato… Del tempo lungo tratto è là… …Riconosco la nostra patria desolata …là dove nel campo desolato — È questa, l’avevo chiamata il caso, …Vuoi darmi un nome, chiamami l’angoscia, l’avevo chiamata l’avventura chiamami la pazienza ed il dolore o la sorte, o la notte… o l’abbandono o il tedio… …e prende nome ciò che s’è perduto E ne avevo cercato altrove il senso sofferto e non inteso che per segni… ovunque un volto ardeva… …la pietà che penetra, che vede la certezza di quel che so…

Il «titolo» della terza sezione comincia dalla nozione weiliana di radicale di- stinzione tra souffrancee malheur. «La mano sinistra» è la traduzione che la Campo darà di malheur in tutte le sue opere, costellate di citazioni della Weil (conver- rebbe qui riandare al fiorilegio di traduzioni weiliane pubblicato da Cristina nel 1959 su «Letteratura»43, ma che era pronto da anni). Ho già riportato, a proposito della prima menzione di Gemma, la nota di Verdino su «la suggestione eliotiana di The Waste Land sul «crudele» risveglio della natura in primavera». Ricordo qui l’incipit tradotto da Cristina, ora in La tigre assenza44: «Aprile è il mese più crudele; cresce / lillà da terre morte, mischia / memoria e desiderio, turba / pigre radici con acque di primavera. / L’inverno ci tenne caldi, avvolse / la terra in obliosa neve / nutriva poca vita con secchi tu- beri. L’estate ci sorprese…». Sentimento così connaturato a Cristina, il tormen-

43 «Letteratura», maggio-agosto 1959, 39-40, pp. 9-51. 44 C. Campo, La tigre assenza, Milano, Adelphi, 1991, p. 98. SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO 97 to di primavera: «La primavera quante volte turbinerà i miei grani di tristezza / dentro le piogge, fino alle tue orme / sconsolate…»45, ma soprattutto: «Cosa proibita, scura la primavera. // Per anni camminai lungo primavere / più scure del mio sangue. Ora tornano sul Tamigi / sul Tevere i bambini trafitti dai lunghi gigli / le piccole madri nei loro covi d’acacia / l’ora eterna sulle eterne metropoli / che già si staccano, tremano come navi / pronte all’addio… // Cosa proibita / scura la primavera. // Io vado sotto le nubi, tra ciliegi / così leggeri che già sono quasi assenti. / Che cosa non è quasi assente tranne me, / da così poco morta, fiamma libera? // (E al centro del roveto riavvampano i vivi / nel riso, nello splen- dore, come tu li ricordi / come tu ancora li implori)»46 — canto, questo, dedi- cato a Simone Weil, vissuta a Londra in quella strada, la quale aveva a sua vol- ta nel Prologo alla Connaissance surnaturelle, cantato la stagione acerba a Parigi: «Ce n’était point l’hiver. Ce n’était pas encore le printemps. Les branches des arbres étaient nues, sans bourgeons, dans un air froid et plein de soleil. La lumière montait, resplendissait, diminuait, puis les étoiles et la lune entraient par la fenêtre. Puis de nouveau l’aurore montait…»47. Quanti canti di primavera tradusse Cristina, ol- tre che da Eliot da Mörike, da Hölderlin, da Williams — e da Emily Dickinson un’estate che ha sapore inquieto di primavera: «Che farò io quando turba l’esta- te, / quando la rosa è matura? / Quando le uova svolino in melodia / da un car- cere d’acero: – che farò io? / Che farò io quando dai cieli in gorgheggio / cada su me una canzone? / Quando al ranuncolo dondoli tutto il meriggio / l’ape so- spesa – che mai farò io? / E quando lo scoiattolo si colmerà le tasche / e guar- deranno le bacche… / Resisterò a quelle candide facce / se tu da me sei lonta- no? / Al pettirosso non sarebbe gran pena: / volano tutti i suoi beni. / Io non ho ali: a che servono, dimmi, / i miei tesori perenni?»48 Versi, quelli tradotti da Eliot, da Hölderlin, da Emily, che già nel ’53 costellavano le sue lettere e con- versazioni, secondo quell’habitus di lasciar passare attraverso parole decantate dalla sapienza dei suoi Autori i sentimenti più intimi – per pudore ma anche per ansia di perfezione, per quella, ben dissimulata in lei di solito, umiltà, per cui dubitava si potesse dare forma più perfetta di quella che Essi avevano cesel- lata a quanto lei sentiva così intensamente – e si riparava nell’amichevole scher- mo dei poeti più cari. [Questa terza sezione – che ha la più folta scelta di citazioni, nove – è densa di la- crime e sangue, ma le due lunghe citazioni da Né tregua sono tutte un’intensa me- tafora della mano sinistra che non ha bisogno di far menzione concreta di lacrime e sangue. Nelle tre prime poesie evocate è il climax di questo canto del malheur, che le tre citazioni successive tentano di redimere – già nella quarta (Villaggio) tra-

45 Ivi, p. 31: Biglietto di Natale a M.L.S., (Ognissanti ’54). 46 Ivi, p. 40: «Elegia di Portland Road». 47 S. Weil, La connaissance surnaturelle, Paris, Gallimard, 19501, p. 9 (la traduzione italiana, di Gaeta, si trova nel volume I dei Quaderni, Milano, Adelphi, 1982, p. 104). 48 C. Campo, La tigre assenza cit., p. 86. 98 Margherita Pieracci Harwell spare una promessa di salvezza: la scintilla, prima intravista nella cenere come riac- cendersi del fuoco che strazia, è ora identificata con la vita: «e la vita può darsi nel- la cenere» come la piaga può sbocciare in salute: «e questa piaga atroce può volge- re in salute / o prossima o lontana di te o di tuo figlio». (Essenziale – come attra- verso tutta la poesia luziana per la meravigliosa sapienza degli uccelli — appellar- si alla catena delle generazioni per affermare la fede nel trasformarsi della morte in vita). (Dietro il fuoco che risana, lo Eliot dei Quartetti). Nelle ultime quattro poe- sie evocate il dovere appare ancora duro, la pena sterminata, la terra patria / campo desolato, il «nome» si rifà ambiguo – «vuoi darmi un nome, chiamami l’angoscia, / chiamami la pazienza ed il dolore / o l’abbandono o il tedio…» (Né tregua). Ma in Né il tempo, citata in parallelo, un nome, un senso si intravede: «e prende nome ciò che s’è perduto / sofferto o non inteso che per segni. […] l’avevo chiamata il caso, / l’avevo chiamata l’avventura / o la sorte o la notte o con quei nomi / inquieti che mi dettava l’angoscia, / non la pietà che penetra, che vede» (Pietà era anche quella del medico che risana ferendo – cfr. in Brughiera: «Il medico si curva sulla piaga, / ride se noi diciamo morte, insiste / che tutto deve convertirsi in vita»). Le ulti- me citazioni, dunque annunciano la ripresa che si compirà nelle prossime sezioni].

4. Tempo-amore (canto e controcanto; inizio, dopo quello discendente, del mo- vimento ascendente) come moto e durata.

a. da Villaggio b. da Aprile-amore Il tempo adduce e porta via le forme, L’amore aiuta a vivere, a durare Il tempo ci dà vita e ci distrugge L’amore annulla e dà principio Mentre immobile vigila l’essenza. E quando…

[Perfettamente paralleli, tempo e amore — solo l’ordine tra vita e nulla è ca- povolto, ma non sembra che importi, se la sfera ha come diametro la ruota, la ruota che perpetuamente si volge, il cui asse è l’essenza che vigila immobile.]

5. Soluzione della mano sinistra nel grande tema del moto immobile che si annunzia nell’intimo.

Questa quinta sezione non propone citazioni. Secondo il titolo, è dunque «l’asse» preannunciato nella seconda sezione a sciogliere il mistero della sventura (l’an- goscioso interrogativo sulla sventura). Nella sesta sezione è una risoluzione che raccoglie il suggerimento del primo Luzi mentre ne profetizza gli ultimi compimenti. Qui Cristina cita frammen- ti di poesie – ma soprattutto suggerisce la rilettura nella chiave che offre il tito- lo dell’intera poesia Invocazione, dove, scopriamo, è già contenuto tutto quello che è e che senza fine diverrà. Ancora sofferta, a quarant’anni, la rivelazione – «di SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO 99 tutte le cose reversibile è il cammino» –, ce ne vorranno altri cinquanta perché diventi trasparente in tersa lievità:

6. Sfera immobile di Parmenide nel moto di Eraclito49 – reversibiilità di stagioni e ogni altra cosa:

«Nascita e morte, verità veloce…» «…vita / e rovina…» «tutto muta, è iden- tico…» «…senza fine divengo quel che sono…»«Il tempo adduce e porta via…» «il moto nella quiete, il divenire/ in quel che è, che resta sempre uguale…» «… il movimento replicato / del mare grigio…» «…la danza / perenne delle morti e delle nascite…» «…e ripete che di tutte / le cose reversibile è il cammino…» (l’intera poesia Invocazione)50.

La Campo conclude:

Tutto il libro è un ruotare incessante su questi sei temi fondamentali, non c’è quasi separazione, neppure di atmosfere. Tutto fluisce dall’uno all’altro di questi cerchi concentrici: dall’immagine fissa, centrale, dell’attesa al paesaggio desola- to, poi l’età matura, la mano sinistra (tempo [vento] e sangue), l’invocazione alla natura rigeneratrice che si annuncia come intimo messaggio – che conduce al senso dell’opposizione-compensazione tempo-amore e alla meravigliosa vertigi- ne della morte-vita. Concatenazione a canone – leopardiana – usata nel Brindisi e altrove strofe per strofe, quasi verso per verso – qui invece poesia per poesia, quasi il libro fosse un solo poema in diversi canti.

49 Cfr. quel che Luzi dirà a Specchio nell’intervista pubblicata da Nardi nel 1993 (M. Luzi, M. Specchio, Luzi. Leggere e scrivere, Firenze, Nardi, 1993, pp. 54-55, citata anche da Verdino, in M. Luzi, L’opera poetica cit., p. 1440): «È una visione molto riduttiva quella che fa considerare Parmenide la negazione del movimento, perché Parmenide io ho creduto che includa anche il movimento eracliteo. Eraclito e Parmenide coincidono in questa continuità, in questa fedeltà del mondo e delle sue leggi. In Invocazione c’è il grido che vuole rompere quel cerchio, la sfera che voleva tenerci prigionieri» (M. Specchio, Leggere e scrivere cit., pp. 54-55). Questo pensiero espresso nel ’93, appartiene al Luzi maturo, e pone in evidenza come il cerchio, la sfera, segni di perfezione per Cristina, erano sentiti già da Luzi come prigione. 50 Cfr. «… da qui si va configurando quel tu dell’attesa religiosa che culminerà in Onore del vero e che qui si verifica anche, forse per l’ultima volta, quel trascorrere sempre possibile di divino e umano, terrestre e imprendibile, di cui Quaderno gotico, ma anche tutta la poesia luziana gio- vanile, aveva offerto molteplici segni» (A. Dolfi, «Invocazione», identità e immagine in «Primizie del deserto di Luzi», in De la félure à la fracture. Hommage à Philippe Renard, Ellug, Grenoble, 1993 – ora in A. Dolfi, Terza generazione. Ermetismo e altro, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 13-26; citato anche in M. Luzi, Tutta la poesia cit., p. 1440). Colpisce vedere come Anna Dolfi, nel suo attentissimo saggio su Invocazione che ne rintraccia i precedenti attraverso le raccolte anteriori alle Primizie, si fermi su temi e parole già isolate qui dalla Campo, come è interessante che anche la Dolfi scelga Invocazione come chiave alla sua analisi del testo: interessante come prova che ogni lettura veramente attenta raggiunge tutte le altre altrettanto attente, per quanto diversa possa essere stata l’impostazione. 100 Margherita Pieracci Harwell

Questo è il penultimo stadio – o qualcosa di molto prossimo – prima della pietà veggente ecc. (v. nota scritta per Margh. rapporto con Hofm). La speranza stessa è ancora insieme indicazione della coscienza, e della dirotta esistenza – via da seguire irresistibilmente pur nello spazio lucido. Ma forse è il libro che più merita di realizzarla, come l’unico abbastanza puro da chiudere in un cerchio tanto rigoroso una vita. Anzi, fino alla zona che giunge a toccare (procedendo appunto per cerchi sempre più vasti) la stessa vita.

v. influenza di Lao-tze, cap. XVI del Tao Te King – pericolo di deviazione per L.»

Che cosa passerà nel trafiletto del ’60?

Da forse dieci anni la poesia di Luzi procede lungo un limite tagliente, un sot- tile filo di spada, e sembra divenuta, questa poesia, il luogo stesso dei più tesi e pericolosi equilibri: tra l’uno e l’altro tempo della vita, tra l’una e l’altra età, stagione, ora, spesso tra il mondo dei viventi e quello dei morti: luogo di idee contermini e di emozioni divise, di durata precaria e miracolosa: parola sospesa – imperterrita ed affilata – «in un punto del tempo [vento]51 in un punto della bufera eterna» sopra il suo stesso continuo franare. È una poesia contro ogni cronaca, quasi senza oggetti concreti, quando gli og- getti non siano emblema e figura, quasi senza colori, quando non siano i colori dell’emozione. Una poesia di vera tensione del linguaggio […] alte immagini isolate, illuminanti, che si frangono in massime, affondano in meditazioni. Fino agli ultimi versi, in morte della madre, dove i due fili della spada di contrad- dizione investono addirittura tutto il paessaggio, terribili di chiarezza, come l’incrociarsi sul capo di luce e tenebra «nell’ora di lucidità spietata / quando non interrompe anima viva / il filo delle vie tagliate a squadra / puntate all’orizzonte contro il fuoco / del mare … / e un lampo come d’ali che saetta / mette in croce chi regge a occhi sbarrati / nel tempo…» È l’ora di Luzi: l’ora del gallo di Esculapio, l’ora di crisi, al limite tra la notte più oscura e il presentimento del sole, l’ora della nascita e della morte. Da forse dieci anni Luzi sembra crocifisso a quest’ora di metamorfosi e di rivelazione, troppo cupa e troppo chiara, di cui, nel suo «durare oscuro» tutti i misteri gli sono stati rivelati. Ma la rivelazione centrale è quella del mistero del tempo, materia prima della passione; e il tempo di Luzi è tangibile «come blocco da scolpire», come il sangue che spiccia dalla ferita già chiusa e il crudo vento che recide ed unisce. E insieme è ormai la misura di una visione, il tutto scorre e il nulla passa, il moto nella permanenza, l’immobile divenire: Eraclito e Parmenide in perfetto equili- brio: sola legge, certo, e sola certezza, ma per altro ancora una legge tragica, una dimora di pena e di purgazione.

51 Cfr. In un punto, in Onore del vero (M. Luzi L’opera poetica cit., p. 223: «in un punto del vento, / in un punto della bufera eterna»). I titolo della terza sezione del Piano per uno studio delle Primizie («La mano sinistra (tempo [vento] sangue») viene evidentemente di qui, e aiuta a capire la trasformazione di «vento» in «tempo». SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO 101

Dieci anni sono un periodo chiuso, dice il libro cinese dei Mutamenti. Attra- verso quali segni il decagramma di Luzi passerà in un altro, si muterà nel suo opposto necessario e armonioso? Il congiungere, forse, che è dono del separare , la punta di remo su cui le antitesi si conciliano o il fuoco dal cui centro si attinge limpida acqua, è una realtà trasformata nell’altra: unità misteriosa che libera l’uomo dal segno tragico della sua contraddizione. Tutta l’opera di Luzi ci conduce fino a questo limite e là si arresta, «fiamma fine, chiara anima febbrile» allo Zenit della sua attesa. Dietro c’è il labirinto attra- versato, tutto il passato bizantino, alessandrino di Luzi, un cammino iniziatico di splendori e di errori; dove il paesaggio fiorentino – questa misura assoluta di stile – fu se stesso come mai lo era stato negli ultimi cinque secoli della poesia italiana. Le «eccelse pareti sofferenti», l’astringente campagna e quella luce di diamante senz’ombre: in nessun altro luogo l’acuminata contrazione di Luzi avrebbe potuto radicarsi, fiorire, così fragile e severa lucida e implacata»52.

Nella breve colonna del ’60, più chiaramente che nella conclusione del «Piano per uno studio su Primizie del deserto», la Campo giunge a stabilire non un avvio ma un punto d’arrivo: «Tutta l’opera di Luzi ci conduce fino a questo limite e là si arresta “fiamma fine, chiara anima febbrile” allo Zenit della sua attesa». E qui è il rischio di chiudersi a sviluppi che vanno in un senso non antiveduto (il ri- fiuto di Cristina, ad esempio, di aprirsi alla «nuova» poesia di Presso il Bisenzio). Ma si aprono anche nuovi «bagliori», con la predilezione del linguaggio trafig- gente del Fondo delle campagne – si noti la lunga citazione di Siesta. Intanto la formulazione hofmannsthaliana del «separare e ricongiungere», di «una realtà trasformata nell’altra» dietro la lezione dell’Oriente, che già si annunciava nel- la sesta sezione degli appunti, rimane in primissimo piano con la congiunzio- ne Eraclito-Parmenide. Si imporrebbe un lungo studio di questo trafiletto del «Giornale», ricondotto alla matrice del «Piano», per decifrare la sostanza di pun- ti d’incontro e di disaccordo tra i due poeti e afferrare come avrebbero potuto rovesciarsi l’uno nell’altro, studio che non oso qui neppure tentare. Il mio sco- po era riproporre due brevi testi della Campo, fin qui, nel moltiplicarsi di lavo- ri su di lei, rimasti intoccati, e certo ricchi di significato. Del resto, questo intervento (il cui titolo, pure, viene dalle poesie di Luzi che la Campo ha scelto) suggeriva essenzialmente un’altra indagine: su come tutto il faticoso, anzi tormentoso andare del poeta – che ha ritrovato dopo cinque secoli la misura assoluta di stile dei padri fiorentini (si pensi a «le rughe di cristallo la- stricate» care a Cristina) –, su come quel suo contorto ondeggiare via via si redi- ma fino alle preghiere in cui sbocciano le ultime poesie del Viaggio terrestre e ce- leste di Simone Martini (1993, quattro anni prima della «testimonianza» di Luzi al Convegno del Lyceum). Ne rileggo una per finire, una che è lunge dall’aprir- si gloriosamente: «Tutto è angustia intorno, tutto / la brutta, la denigra – men-

52 C. Campo, L’ora di Luzi, ora in Appassionate distanze cit., pp. 31-32. 102 Margherita Pieracci Harwell tre s’alza /nei primi goffi balzi». Proprio da questapesanteur sboccia persuasiva la nostra consolazione: «Il moto è desiderio, / desiderio e sofferenza. / Ma que- sto non la frena, [lei, l’uccella], «disarmonica è la macchina […] C’è pena, / ahi, c’è pesantezza, / anchilosi / nel mutuo / interagire d’ali, zampe, / tendini […] si ostina lei nel suo conato / infine lancia / la sua spennata massa / nella dritta verticale, / ed ecco ritrova il suo cammino, / risale a ruote ed a volute / un fiu- me d’aria e d’etere / non sa quando disceso / non sa da chi»53. «Non sa quando disceso / non sa da chi…». Tornano a mente le parole dell’in- tervista rilasciata da Luzi a Specchio, nel ’93, a proposito di Invocazione: «In re- altà quando leggi Invocazione senti che il prodigio di riconoscersi vivi, presenti sul pianeta, sulla terra, nel tempo e nello spazio, è anche questo: pensare a tut- ti quelli che ci hanno portato fin qui, a tutte le generazioni, a tutta la memo- ria indiretta che accumuliamo, e quindi a quante esistenze sono nella nostra. È un po’ l’albero che frondeggia attraverso questo tempo metafisico, che è anche il tempo fisico»54. Riprenderà, la poesia del ’93: «E solo per questo [questa goffaggine, questo non sapere] era preghiera / preghiera vera / non la sua metafora, / per quella sua incertezza di sé e del suo fine, / per quella felicità, quel bene – / la mente che la abita, la osserva / la segue, è la medesima, / presente – orante in ogni dove»55. In questi versi, così simili alla confessione di Luzi al Lyceum (da cui pochi anni li separano) – in questi versi, è di nuovo la risposta alle nostre disperazioni, ma anche a quelle di Cristina, una Cristina troppo giovane allora per aprirsi ad ac- cogliere la gora della concia sul Bisenzio, gora che annunciava più orribili gore, più temibile magma nella poesia luziana dagli anni ’70 in poi: «“Tu che hai vi- sto fino al tramonto / la morte di una città, i suoi ultimi / furiosi annaspamen- ti d’annegata, / ascoltane il silenzio ora. E risvegliati” / […] “Non c’è morte che non sia anche nascita. / Soltanto per questo pregherò” / le dico sciaguattando ferito nella melma / […]”»56. A garantire che non c’è morte che non sia anche nascita sarà, abbiamo visto, l’uccella, nel Viaggio di Simone Martini, l’uccella che sa di portare in sé «tutti quelli che [l’] hanno portat[a] fin qui, […] tutte le ge- nerazioni, […] tutta la memoria indiretta [accumulata], e […]quante esisten- ze sono nella “sua”». L’uccella dai goffi balzi, «che tenta i suoi svolazzi / sopra la pesticciata landa» e infine scopre «nel gorgo azzurro del suo volo / [che] è quel- la la sua meta, fine e gioia / del suo moto / quel moto, lo assapora in tutte le sue

53 «Tutto è angustia intorno» (M. Luzi, Opera completa cit., p. 1124). Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Milano, Garzanti, 1994. 54 M. Luzi, M.Specchio, Luzi. Leggere e scrivere cit., p. 56 (cfr. anche M. Luzi L’opera poetica cit., pp. 1439-1440). 55 M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., o. 206. 56 M. Luzi, Su fondamenti invisibili, Milano, Garzanti, 1971; Nel corpo oscuro della metamor- fosi, Milano, Garzanti, «Gli Elefanti», p. 381. SENZA FINE DIVENGO CIÒ CHE SONO 103 piume…»57. È la medesima uccella, ancora, dell’ultima strofa di Invocazione, dove Luzi ripeteva, a sé e a noi, già nel ’48, che non si può restare in un cerchio chiuso, in una sfera: «pesta le muffe tristi, i secchi sterpi / schiantane i nodi, la- cera i grovigli, / ma ferisciti, sanguina anche tu / piangi con noi, oscurati nel folto»58. «Vieni, interpreta l’anima sconfitta/ tra questo essere e questo non esi- stere, / vieni, libera il nostro grido, spazia, / ma ferisciti, sanguina anche tu»59. Tutto questo la Campo aveva accettato, se conclude il Piano raccomandando la rilettura dell’intera poesia Invocazione. Ed anche che «oscurarsi feriti nel folto» porterà a rinascere come un nuovo pollone del grande albero della vita, gonfio di linfa. Allora che cosa rifiutava, con le conce del Bisenzio? Troppo facile dire: «il nuovo stile di Luzi». Per tutti e due i nostri poeti lo stile è l’anima stessa della poesia. Dobbiamo continuare a riflettere, cercar di capire. Che cosa li divideva se tutt’e due credevano che: «Non un grano d’oscurità si perde, / ma lungo idee contermini una luce / procede verso la chiarezza come / sul fondo delle nere vie lucenti / s’aprono cave viola e miniere / d’azzurro sotto l’alta Procellaria; / […] per segni invisibili la notte / s’è aperta verso la speranza…».

57 Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, cit., p. 206. 58 Invocazione, (in Primizie del deserto), in M. Luzi, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, «Gli elefanti», p. 180. 59 Ibidem, p. 182. Fiorella Ilario, Mario Luzi (da Reportage 2004). IL TEMPO NELLA POESIA DI LUZI

Giuseppe Nava

Voglio aprire il mio intervento parlando dei giudizi su Luzi di Franco Fortini, di cui ricorre quest’anno il ventennale della morte, che verrà ricor- dato con una serie di iniziative a Firenze, la città della nascita, a Siena, la cit- tà dell’insegnamento universitario, e a Milano, la città dove Fortini visse gran parte della sua vita e dove svolse la sua attività di intellettuale e critico mili- tante. A prima vista l’argomento può apparire singolare: che cosa può avere in comune il marxista critico, il poeta della contraddizione dialettica con il po- eta cristiano-esistenziale della creaturalità? Nel corso delle mie ricerche però mi sono imbattuto nell’introduzione di Fortini allo scritto di Luzi, Discorso naturale, dove Fortini mostra di apprezzare «la compatta e coerentissima vi- cenda morale e di intelletto di questo poeta capitale del nostro Novecento»1, e pur non nascondendo le divergenze di visione del mondo con Luzi («rima- ne escluso dalla sua visione o ridotto a mera fabrilità il momento della produ- zione umana del mondo, della violenza che l’uomo fa alla natura e a se stesso per riprodurre se stesso e che si chiama lavoro»2) , gli rende l’onore delle armi, scrivendo: «Per questo Luzi è sempre stato per me l’avversario ideale e conti- nuo; quello di cui, preziosa come un rimorso, si sarebbe voluta l’amicizia»3. Fortini riconosce «quanto egli mi abbia insegnato»4, pur avvertendo dentro di sé «una resilienza polemica», che spiega così, in termini più di autobiogra- fia personale che di ideologia:

Replicare perché si è stati feriti. Già, ogni spada ferisce anche il feritore. Leggo: «“Rivendico la mia indelebile infanzia”; e da questa lucentissima verità di Luzi ad essere ferito sono io, in nome d’una infanzia mia, cancellata invece e umi- liata dalla cronaca e dalla storia. Quando scrivo queste parole, la mia speranza

1 Mario Luzi, Discorso naturale, Siena, Tipografia Senese, «Quaderni di Messapo», 1980, p. 5. 2 Ivi, p. 7. 3 Ivi, p. 6. 4 Ivi, p. 8.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 106 Giuseppe Nava

è dunque che esse feriscano Luzi, il poeta che amo e il critico che onoro, e ne gemano parole sue»5.

Simbolismo ed esistenzialismo s’intrecciano nella concezione del tempo di Luzi. La centralità del tema del tempo nella poesia di Luzi è riconosciuta da Mario Specchio nel suo libro-intervista Colloquio, dove, tra i grandi temi del la- voro poetico e critico di Luzi, sono indicati «il tema del tempo, la riflessione sul tempo e la sua trasformazione», e «la lotta con l’effimero», la «percezione dram- matica dell’effimero» e il tentativo di «recuperarne il valore sacrale»: proprio per questo Luzi colloca all’inizio della poesia moderna Baudelaire, che «ha cono- sciuto l’orrore dell’effimero»6. Un’ulteriore prova è costituita dall’alta frequenza della parola «tempo» nei testi di Luzi. Per quel che riguarda il simbolismo, si ricordino, a livello di poeti- che consapevoli, il libro giovanile di Luzi su Mallarmé, apparso originariamen- te nella «Biblioteca del Leonardo» della Sansoni (1952) e poi riedito dall’edito- re Marco (Lungro di Cosenza) nel 20027, e la sua antologia garzantiana L’idea simbolista (Milano, Garzanti, 1960). Ma sono soprattutto le metafore analogi- che presenti nelle poesie ad attestare una affinità di procedimenti: Monologo, PS, 3: «dal sasso impenetrabile del tempo»8; La sera non è più la tua canzone, PS, 15- 16: «il tempo dietro a te / si leva come un’arida montagna»; Villaggio, PD, 10: «giù dagli alberi cade tempo». Di un vero e proprio interesse di Luzi per la filo- sofia è spia la frequenza nella sua poesia di sostantivi astratti. Quanto all’esisten- zialismo9, sulla cui conoscenza da parte del poeta abbiamo una esplicita testi-

5 Ivi, p. 9. 6 M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti, 1999, p. 24. 7 Riproponendo a distanza di tempo, nel 2002, la sua opera giovanile su Mallarmé, Luzi scrive che la sua composizione «occupò intensamente le mie giornate nei lontani anni duri e pazienti del dopoguerra […]. Proprio con la difficile ripresa in quel faticoso e fiducioso periodo Mallarmé conosceva una straordinaria attualità. Il suo testo arduo, prezioso, criptico seduceva; il suo segreto dramma speculativo catturava a fondo le menti e le coscienze afflitte dalla brutalità del lungo conflitto» (ivi, p. 3). Luzi individuava nel «coup de dés» mallarmiano l’origine della poesia moderna, fondata sul rischio del nulla, e citava in proposito un passo d’una lettera di Mallarmé al poeta Cazalis del 1866: «scavando il verso a tal segno, ho incontrato due abissi che mi fanno disperare. Uno è il nulla […]. L’altro vuoto è quello del mio petto» (ivi, p. 7). Luzi ne deduceva – e qui è l’origine della sua adesione all’ermetismo – che la forma, allora per lui sinoni- mo della poesia, «è destinata a trionfare, come unica cosa reale, sull’abolizione, sulla distruzione di ogni altra possibile realtà» (ivi, p. 9). 8 Per l’edizione di riferimento, cfr. il «Meridiano» (Mario Luzi, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, 1998), da cui si cita. Quanto alle sigle usate per indicare le raccolte, di cui fanno parte le poesie citate, eccone una tavola completa, in ordine alfabetico: B = La Barca (1935); PD = Primizie del Deserto (1952); PS = Poesie Sparse (1960); QD = Quaderno gotico (1947); UB = Un brindisi (1946). 9 Sulla fortuna dell’esistenzialismo in Italia, vd. almeno L’esistenzialismo in Italia, a cura di Bruno Maiorca, con un’appendice su «Abbagnano e Gentile» di Giovanni Fornero, Torino, Paravia, 1993, in cui viene dato ampio spazio al dibattito sull’esistenzialismo, a cui parteciparo- no alcuni dei nomi più illustri della filosofia italiana: dibattito tenutosi agli inizi del 1943 sulla IL TEMPO NELLA POESIA DI LUZI 107 monianza in Colloquio («La filosofia esistenzialista, che già avevo conosciuto al- meno per sommi capi prima della guerra per opera di Paci, ora esplode, è la sua stagione, non solo di quella francese, con la pseudo-filosofia di Sartre, ma an- che coi grandi filosofi tedeschi come Heidegger e Jaspers»10), ne sono tracce sin- tomatiche la frequenza del verbo «esistere» e del sostantivo «esistenza»; il senso angoscioso del trascorrere del tempo (Non so come, UB, 7-8: «precipita / il ven- to della mia vita in un turbine»; Memoria di Firenze, UB, 6-7: «più distinto era il soffio della vita / intanto che fuggiva»; I, 6-8, QG: «la penosa ansietà / d’e- sistere ci brucia e incenerisce / ugualmente ambedue»); l’interrogarsi continuo sul senso dell’esistere (EST, PD, 5-6: «Quali ponti lanciati e verso dove / sono le nostre esistenze»); il ricorrere del sostantivo «angoscia» ( = «angst»): Villaggio, PD, 41-44: «Tutto, se mai verrà, verrà dal fondo / di questa angoscia eterna sen- za nome/ goccia a goccia durata e fatta mia; / questo solo, non spero altro soc- corso»; il continuo uso dei deittici «questo» e «quello». Propria di Luzi invece è la concezione ossimorica del tempo, come coinci- denza degli opposti: tutto e nulla, eternità e istante, che si avvicendano e si ge- nerano l’uno dall’altro: la «vicissitudine sospesa», come la chiama Luzi stesso11.

rivista di Bottai, «Primato» (1, gennaio 1943), e affidato, su indicazione di Giovanni Gentile, alla direzione del filosofo torinese Nicola Abbagnano, che nel 1939 aveva scritto La struttura dell’esistenza, vero e proprio manifesto dell’esistenzialismo italiano, e nel 1942 una Introduzione all’esistenzialismo. L’avvicinarsi prima, e poi lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale avevano messo in crisi l’idealismo italiano, nelle due versioni dello storicismo crociano e dell’attualismo gentiliano, e prodotto un’inquietudine diffusa e una forte accentuazione dei temi della respon- sabilità individuale e del senso dell’esistenza. La penetrazione dell’esistenzialismo in Italia era cominciata nei secondi anni Trenta e sarebbe durata fino ai primi anni Cinquanta, quando prima il marxismo gramsciano, e poi, negli anni Sessanta, lo strutturalismo e le cosiddette «scienze umane» ottennero l’egemonia. 10 M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio cit., p. 50. 11 M. Luzi, Vicissitudine e forma, Milano, Rizzoli, 1974. In Colloquio Luzi dirà all’amico Mario Specchio, a proposito del suo primo libro, La barca (1935): «c’è anche un senso quasi turbinoso del dramma e forse anche della reciprocità fra vita e morte» (ivi, p. 13), e insisterà sull’«avvicendarsi delle manifestazioni del vivente, che forse include anche la morte, cioè anche la fine» e sul «mistero della vicenda, dell’avvicendarsi» (ivi, pp. 13-14). In Vicissitudine e forma, dopo aver parlato della collaborazione del linguaggio all’opera di «prosecuzione del mondo», lo dice «immerso profondamente nel vivo della sua metamorfosi» (ivi, p. 36), e assegna alla poesia, che è «immersa nel tempo», il compito di strappare «alle immagini del tempo la loro temporalità» (ivi, p. 42), così da realizzare «uno speciale tempo dilatato che è il presente di tutti i tempi», una ideale compresenza di passato e futuro, del tempo della memoria, riscattata dall’«avvilimento del ricordo», e del tempo del fine e della fine: «la tensione stessa del linguaggio poetico non sarebbe pensabile senza lo spazio del futuro. La poesia tende naturalmente al futuro come il moto creativo di cui partecipa» (ivi, p. 44). Ne risulta così che «tra passato e presente ci sia un vero intercambio, cioè che un’immagine lontana nel tempo sia posta nell’immediato rilievo del presente in atto e che una emozione colta sul vivo sia dislocata in una lontananza apparente. Questo vuol dire in definitiva che tutto il tempo è sottoposto equamente nelle sue parti a un processo simultaneo di contemplazione e di attività che ripristina il moto profondo della creazione infinita» (ibidem). Va ricordato in proposito che nei primi anni Sessanta Luzi aveva sentito profondamente il fascino dell’evoluzionismo creazionistico di Teilhard de Chardin. 108 Giuseppe Nava

Si veda Continuità, UB, 10-12: «Così invano consunta dalla vita / la misura del tempo è sempre colma / per me; ed Espero muta sì veloce in Lucifero!»; Né il tempo, PD, 29-36: «Riconosco la nostra patria desolata / della nascita nostra sen- za origine / e della nostra morte senza fine. / È questa, l’avevo chiamata il caso, / l’avevo chiamata l’avventura / o la sorte o la notte o con quei nomi / inquie- ti che mi dettava l’angoscia, / non la pietà che penetra, che vede»; Invocazione, PD, 78-80: «fummo la fissità nel movimento, / identità soggiunta a identità, / tempo nel tempo vivendo»; 97-98: «la danza / perenne delle morti e delle na- scite»; 102-104: «Ed i giorni rinascono dai giorni / l’uno dall’altro, perdita ed inizio, / cenere e seme, identità nel cielo»; 108-109: «Vieni, interpreta l’anima sconfitta / tra questo essere e questo non esistere»; Ma nella voce tua, PD, 14- 16: «mi perderei arreso a quella forza / che replica la vita, per cui tutto / brucia, si strugge e torna al suo principio». Il tema del tempo si collega in Luzi con quello delle età della vita: l’infanzia, l’adolescenza, la maturità, e infine la vecchiaia: vd. Notizie a Giuseppina dopo tanti anni, PD, 6-8: «Mi trovo qui a questa età che sai, / né giovane né vecchio, attendo, guardo / questa vicissitudine sospesa»; Visitando con E. il suo paese, PD, 12: «Qui sediamo irreali tra gioventù e vecchiaia»; 18 «e tutto muta, è identico, tu sei in mezzo e raggeli»; Villaggio, PD, 33-35: «Il tempo adduce e porta via le forme, / il tempo ci dà vita e ci distrugge / mentre immobile vigila l’essenza». Il tempo delle stagioni, in particolare l’autunno, che è anche la stagione di na- scita di Luzi, è presente fin dalla prima raccolta, La barca, del 1935. Del resto non è un caso che il tema del tempo si trovi già nella poesia che apre il «Meridiano» Mondadori, curato da Stefano Verdino: Parca-Villaggio, B, 3-4: «in queste case grige ove impassibile / il tempo porta e scaccia volti d’uomini»; 6-7: «furono matrimoni, morti, nascite, / il mesto rituale della vita». C’è infine il tempo delle varie fasi del giorno e della notte: vd. Serenata di piazza D’Azeglio, B, dove il paesaggio cittadino, familiare a Luzi, è trasfigurato attraverso le tonalità della luce: 1-2, B: «Il fantasioso viale / voga nella sua nu- vola verde», e 25-27: «Oh sul cuore delle pause / terrestri un carro di diafano argento / passa». L’attenzione agli effetti di luce, con il loro valore di trasfigu- razione quasi espressionistica o surreale, è infatti una caratteristica di Luzi, che in Ipazia (1972) arriverà a scrivere: «niente si addice alla parola più della tem- peratura del fuoco»12.

12 M. Luzi, Colloquio cit., p. 7. LUZI E LA CRISI DEL GENERE LIRICO DA «ONORE DEL VERO» A «NEL MAGMA»

Romano Luperini

Questa nota vuole essere un commento o una semplice illustrazione della seguente affermazione di Luzi riferita a Nel magma: «Avevo a lungo sognato di spingere più oltre di quanto avessi fatto nell’Onore la captazione del reale e l’i- dentità di prosa e poesia»1. Siamo nella primavera del 1963 e Luzi sta rispondendo a Sereni, che, rice- vuta per «Questo e altro» la prima serie di testi destinata a confluire in Nel mag- ma, gli aveva scritto che essi rappresentavano il «naturale sbocco» e addirittu- ra la «conclusione» di quanto lui stesso aveva avviato in quegli anni (si riferisce ovviamente all’ormai prossimo Gi strumenti umani), infine attestando: «Siamo su terreni straordinariamente simili». Per spiegare tanto consenso e tanta con- cordanza di intenti Luzi osserva che entrambi stavano compiendo la stessa ope- razione poetica: «lasciar parlare le cose», senza sovrapporvi un proprio giudizio. Il programma di lasciare che le cose parlino da sole può essere espressio- ne, come si sa, di una intenzione tanto realista o naturalista quanto simboli- sta. Ma per Nel magma Luzi sembra pensare soprattutto a una prospettiva del primo tipo dato che parla di una «captazione del reale» e di «identità di prosa e poesia». Inoltre, sempre nella frase citata all’inizio, traccia una linea interes- sante di continuità e insieme di distinzione fra Onore del vero e Nel magma: si tratterebbe di un progetto comune, ma spinto nella nuova opera «più oltre» in direzione realistica e prosastica. Se ne potrebbe arguire che Onore del vero sia un primo passo verso questo obiettivo, ma che una svolta decisiva si pro- duca solo con Nel magma. Non vi è dubbio insomma che risulti conferma- ta una nozione critica e storiografica ormai consolidata, secondo la quale la nuova opera di Luzi, insieme con Gli strumenti umani, ma anche con La ra- gazza Carla, La vita in versi e Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre pro- sopopee, tutte opere uscite nella prima metà degli anni Sessanta, si porrebbe al centro di un vero e proprio terremoto del genere lirico, già messo sottosopra,

1 Lo scambio epistolare con Sereni è in Mario Luzi, L’opera poetica, a cura di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, 1998, «I Meridiani», pp. 1529-1531.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 110 Romano Luperini d’altronde, da un lato da Laborinthus e dai novissimi, dall’altro dai poemetti pasoliniani degli anni Cinquanta. Attraverso alcune rapide rubriche, forse anche troppo trancianti, vorrei mo- strare sia la continuità sia, soprattutto, la rottura fra le due opere, pur uscite a pochi anni di distanza l’una dall’altra, nel 1957 Onore del vero, nel 1963 (poi in edizione accresciuta nel 1966) Nel magma.

Titoli. Onore del vero è un titolo contraddittorio: da un lato pone l’accen- to sul «vero» e dunque rimanda, parrebbe, a una tematica di tipo realista («alla questione del realismo», ha scritto Marchi, mentre Quiriconi vi vede la conclu- sione di una «parabola di approssimazione ai dati dell’esistenza»2), dall’altro il «vero» cui si riferisce viene subito nobilitato dall’«onore» che gli viene ricono- sciuto. Esso infatti porta in sé un’impronta trascendente che, lungi dal rivelarsi in un tempo «sospeso» mediante «un miracolo» o «un prodigio», può offrirsi in- vece in ciò «ch’è prossimo a noi umile e vero», in un paesaggio marino fatto di uomini che tirano le reti e di un pescatore che cerca i «pochi doni» che il mare gli lascia (Il pescatore). È comunque un fatto importante che ora la trascendenza venga avvertita e cercata nell’immanenza, e anzi nella immanenza più «umile». Se dal piano semantico ci volgiamo poi a quello formale e stilistico è evidente un’altra contraddizione: un titolo che celebra il vero e l’umile rivela qui quella marcata propensione per gli astratti e quella assolutizzazione del sostantivo unita all’eclissi dell’articolo determinativo che sono segni forti di una continuità con una tradizione di elezione poetica quale era quella ermetica. Nel magma è un titolo più concreto e referenziale: rimanda all’indifferenzia- to dell’esistenza, al suo carattere caotico e difficilmente decifrabile, con una eco forse della palus putredinis sanguinetiana o del «passaggio per l’informità» di cui parla Zanzotto in IX Egloghe, d’altronde uscite l’anno prima. Se si passa poi ai titoli dei singoli testi, questa impressione risulta ampiamente confermata. Sia in Onore del vero che in Nel magma essi si riferiscono soprattutto allo spazio e al tempo, ma nella prima opera si tratta di luoghi e momenti prevalentemente lirici e indefiniti, nella seconda prevalentemente concreti e definiti: da un lato Sulla riva, Lungo il fiume, Versi d’ottobre, Mezzogiorno, primavera, Cose estive, La notte lava la mente, dall’altro Presso il Bisenzio, Tra le cliniche, Nel caffè, Bureau, Terrazza, Nella hall, Tra quattro mura, Tra notte e giorno, Prima di sera. Nel se- condo caso, l’accresciuta referenzialità è confermata dalla scelta di un lessico co- mune, che accoglie anche termini desunti dal francese (bureau) o dall’inglese (hall). A questo proposito non manca un titolo, Ménage, che sembra prelude- re al linguaggio del chiacchiericcio mondano caro al Montale di Satura e delle raccolte successive. Siamo ormai in un vocabolario poetico largamente sliriciz-

2 Marco Marchi, Invito alla lettura di Mario Luzi, Milano, Mursia, 1998, p. 47 e Giancarlo Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi. La scommessa totale di Mario Luzi, Bologna, Cappelli, 1980, p. 199. LUZI E LA CRISI DEL GENERE LIRICO DA «ONORE DEL VERO» A «NEL MAGMA» 111 zato e lontanissimo da quello del primo Luzi (in cui i titoli, ha osservato recen- temente Damiano Frasca, alludevano perlopiù a «luoghi mitici, vaghi», ispira- ti a una sostanziale «elusività evocativa», come Cuma, Città lombarda, Olimpia, Eleusi3). In alcuni titoli di Onore del vero è possibile cogliere un intento già rea- listico (per esempio Osteria o Il campo dei profughi), in altri, i più, la precisione dell’indicazione geografica o temporale viene sfumata e alleggerita con la crea- zione di una atmosfera allusiva ed evocativa (come in Richiesta d’asilo d’un pel- legrino a Viterbo, dove il riferimento puntuale al luogo geografico viene corret- to dall’eco che nell’immaginario hanno la richiesta d’asilo e la figura del pel- legrino) o con la scelta dell’assolutizzazione o dell’astrazione di uno o più so- stantivi (Uccelli, Onde, Nero, Epifania, Mezzogiorno, primavera, in parte anche, Nell’imminenza dei quarant’anni).

Luoghi, persone, oggetti. I luoghi di Onore del vero sono prevalentemen- te lirici. Il riferimento realistico è subito controbilanciato in senso soggettivo ed evocativo: il mare si torce in cale «livide», i pontili sono «deserti», gli orti «risec- chiti», i borghi cupi, onnipresenti il fumo, la neve, la pioggia, il vento. Nelle vie di gatti percorse dalla tramontana, nelle viottole, fra baracche e casupole, lun- go la riva dei fiumi o sulla spiaggia battuta dal mare si aggirano figure antiche, residue di una civiltà che sta scomparendo: l’uomo del faro, un vecchio lupo di mare, il pescatore d’anguille, un flautista o lanciatore di coltelli, venditori am- bulanti, bracconieri, donne che prendono acqua alla fontana, osti di campagna, renaioli, vagabondi senza tetto. Si è detto spesso che si tratta di paesaggi allego- rici4. In realtà sono sempre percorsi da un empito evocativo che presuppone le correspondances fra soggetto e oggetto della tradizione simbolista. Qui non ab- biamo terre spoglie abbandonate dal senso, ma nella desolazione dell’ immanen- za il soggetto ritrova costantemente una possibilità di trascendenza che può ri- scattarla. Invece in Nel magma i luoghi sono cittadini e appartengono alla mo- dernità: caffè o bar, cliniche di un ospedale, l’ufficio di una banca, la hall di un albergo, lo scompartimento di un treno sulla tratta Pisa-Firenze, l’abitacolo di una auto, un cinema; le case sono borghesi e agiate, con divani e terrazze sulla campagna; la città ha casamenti alti e anonimi, negozi di artigiani che stanno chiudendo perché senza lavoro, strade e tetti con pali della luce, fili e antenne. Il corso d’acqua può essere, realisticamente, «la gora della concia». Le persone sono borghesi ricchi, altezzosi e potenti, ma moralmente squallidi, donne che

3 Damiano Frasca, Posture dell’io. Luzi, Sereni, Giudici, Caproni, Rosselli, Pisa, Felici, 2014, p. 64. 4 Per esempio, da Franco Fortini, Le poesie italiane di questi anni, in Saggi italiani, I, Mi- lano, Garzanti, 1987, p. 121 e da Giacomo Debenedetti, Luzi, in Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1974, p. 116 (ma Debenedetti, pur parlando di allegorizzazione, qui sembra non distinguere simbolo e allegoria, dato che imposta il discorso al fine di dimostrare il carattere ermetico ed essenzialmente postsimbolista del paesaggio in Luzi). 112 Romano Luperini appartengono alla società mondana, talora più aperte e colte dei maschi, oppu- re impiegati di banca, camerieri e cameriere dei bar e dei caffè dove sono am- bientati diversi testi. Anche gli oggetti cambiano: in Onore del vero incontriamo quelli campagnoli già inseriti nella lirica moderna da Pascoli: aratri, carri, tini, caminetti dove arde il fuoco, imposte sconficcate alle finestre, madie, zappe, il cercine delle donne, i cappucci e le pellegrine per proteggersi dalla pioggia, una chiatta e la pertica per spingerla; in Nel magma la radio, il transistor, il giradi- schi, la musica di un disco, un film in technicolor, la gomma da masticare, la maniglia che serve ad aprire la portiera dell’auto, la garza del forato nella gola, il volante, il cambio, il grembio della cameriera e la gabbana del suo collega, il ventilatore… Insomma dominano qui incontrastati gli oggetti della modernità, che lo stesso Pascoli e poi soprattutto Montale (assai meno d’Annunzio, che li nobilita appena li nomina) avevano cominciato a introdurre nel lessico poetico. Ma bisogna riconoscere che già Onore del vero, come d’altronde il precedente Primizie del deserto, avevano dato congedo al repertorio del simbolismo e del de- cadentismo internazionale del primo Luzi (avorio, basalti, chimere, porfidi ecc.).

Aggettivi. In Onore del vero l’aggettivo qualificativo riferito a un sostantivo immediatamente precedente ritorna con frequenza altissima. Un solo esempio: in Nell’imminenza dei miei quaranta anni questo stilema compare sette volte, e altrettante in Il piacere. Ma in quasi tutti i componimento esso è presente quat- tro, cinque, anche sei volte. Nel giro di pochissime pagine incontriamo: «grida acute», ««steli invisibili», «primavera strana», «nuvole rade», «cielo o umido o bruciato» (in Uccelli), «cale livide» (in Onde), «giorni chiari», «luce densa», «mac- chie dondolanti o ferme», «frutto splendido», «cuore gonfio» (Amanti), e poi, e di qui in avanti citerò solo alcuni fra i moltissimi casi possibili, «marmi fiochi» (in Il vivo, il morto), «volo cieco» (Come deve), «fuoco triste» (Versi d’ottobre), «veglie tristi», «lumi / fiochi» e «abissi neri e viola» (Nero), «aratri inerti» e «te- stimone muto» (Come tu vuoi), «vento terragno», «luoghi / noti e ignoti» e «bu- fera eterna» (in In un punto), «valli / nascoste», «libro aperto», «finestre vive» e «trofei lievi» (in Interno), «orridi felici», «vie / ripide», «mestiere oscuro», «pen- sieri inquieti», «guadi limacciosi», «cielo e terra indivisi» e «numi agresti» (in Il piacere), «sogni inaspettati» e «fiume rapido» (inLungo il fiume), «gente muta», «incertezza luminosa», «rena umida», «tempo sospeso», «luoghi arcani» e «occhi ansiosi» (in Il pescatore), «nome effimero» e«terre avare» (in L’osteria), «vegliardi acuti» (in Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo), «borgo / cupo», «filo / sot- tile», «ilarità improvvise, rapide», «mondo / opaco», «vie chiare», «cunicoli / fit- ti», «incontri effimeri» (in Nell’imminenza dei quarant’anni), «ore lentissime» e di nuovo «terre avare» (in A mia madre dalla sua casa) eccetera. La esemplifica- zione, per quanto ampia, è stata tutt’altro che esaustiva, ma si può comunque capire quanto la sequenza sostantivo + aggettivo qualificativo sia in Onore del vero uno stilema straordinariamente costante. Sono però quasi del tutto assenti gli accostamenti arditi dell’aggettivo al sostantivo frequenti in area ermetica (sul LUZI E LA CRISI DEL GENERE LIRICO DA «ONORE DEL VERO» A «NEL MAGMA» 113 tipo di «oscuro / e montuoso esulta il capriolo» del primo Luzi). Le eccezioni sono poche, se non mi sbaglio solo due: «orridi felici» e «incertezza luminosa». Però la sovrabbondanza stessa della aggettivazione e l’uso insistito di questo sti- lema costituiscono indubbiamente un tributo alla esperienza lirica del passato, a causa della valenza metaforica e talora sinestetica introdotta da un aggettivo che immediatamente fa trapassare il dato oggettivo in uno soggettivo, trasfigu- rando il primo in senso ora patetico, ora spiritualistico (si pensi a «marmi fio- chi», «fuoco triste», «testimone muto», «luoghi arcani», «incertezza luminosa», «tempo sospeso» ecc.)5. La realtà insomma viene nominata e immediatamente allontanata, trasformata in evocazione e mito. Il numero degli aggettivi si abbassa notevolmente in Nel magma. E muta ra- dicalmente anche la loro funzione. L’aggettivo acquista una valenza fortemen- te semantica, in senso ora referenziale, ora espressionistico, e spesso combinan- do insieme entrambi questi aspetti, con una rinuncia quasi totale a tonalità pa- tetiche. In Presso il Bisenzio, per esempio, hanno una funzione semantico-refe- renziale gli aggettivi che connotano il paesaggio («la terra fradicia dell’argine», «la pianta grassa dei fossati», «il ciglio erboso», la «traccia tortuosa», «i fili alti» sopra pali e antenne), mentre quelli che definiscono i personaggi ne deformano espressionisticamente i volti e i gesti («occhi vizzi, deboli», «tic convulso», «lab- bra tormentate»), facendo trasparire un implicito giudizio morale. È così anche in una serie di altri casi in Tra notte e giorno, Ménage, In due, testi in cui trovia- mo «sorriso colpevole», «viso servo e ghiotto», «viso / disfatto», «labbra dure / e secche», «occhi vuoti / e bianchi», «labbra tormentose», «nuca scialba». Ma la esasperazione dei tratti fisiognomici può anche indicare solo una condizione fi- sica di sofferenza o un disagio spirituale, come nel caso del forato nella gola, una sorta di doppio o alter ego del soggetto in Nel caffè, rappresentato con «occhi gri- gi», «bocca vizza», «voce rauca», «voce afona / e dura» e capace di un’«occhiata bianca» di rimprovero. In questo poemetto, l’aggettivo torna ad avere una fun- zione giudicante solo nei confronti della «moltitudine sorda» della folla anoni- ma degli avventori, ma compare, qui e altrove, anche in espressioni quotidia- ne del parlato (come «tempi duri», mentre in In due troviamo «gelosia senile») o rientra nella mimesi descrittiva tipica di una narrazione in prosa (come nel sintagma «danzano al fruscio basso di un disco»). Anzi, la cattiveria stilistica di Luzi ricorre spesso ad aggettivi usuali del parlato per connotare un personaggio sgradevole, descrivendolo, per esempio, con«occhi stralunati» e con un «respiro forte di tabacco e d’alcool» (in Bureau).

Colloquialità e dialogicità. Una colloquialità è presente già in Primizie del deserto e in Onore del vero, ma, avverte giustamente Mengaldo, è «del tutto in-

5 Sull’aggettivo in Luzi, cfr. F. Fortini, Di Luzi, in Saggi italiani cit, pp. 42-43. 114 Romano Luperini trovertita e declinata pateticamente»6. Il «tu» cui ci si rivolge è perlopiù l’io stes- so o un suo doppio (si vedano «sai» in Onde, «Che fai, che fai? Resisti a questa lima» in Cose estive, «Dici, che m’ha portato questo giorno?», in Nero, «Che fai, che fai? Ti perdi in questo arcano», in Il campo dei profughi), mentre quello di Richiesta d’asilo d’un pellegrino a Viterbo potrebbe essere il tu di un accompagna- tore, che però resta in ombra, una evocazione, non un personaggio. Anche il tu della figura femminile di Se pure osi rimane sostanzialmente indeterminato per- ché evocato solo molto vagamente attraverso «la luce di gemma ch’è dell’Um- bria/ di prima estate tra Foligno e Terni» (e lo stesso discorso si potrebbe ripe- tere per Amanti). Oppure il tu può essere quello della preghiera cristiana rivolta a Dio (in Las animas e in Nel mese di giugno). Così anche l’incontro (certificato dal titolo: L’incontro appunto) con una immagine femminile che sembra diven- tare per un attimo interlocutrice si risolve pateticamente in un turbine autun- nale di foglie travolte dal vento e nella malinconia di una luce al tramonto che si spegne. Manca, in tutta la raccolta, un vero dialogo, almeno che non si con- sideri tale quello immaginato con un morto (in Il vivo, il morto). Con Nel magma, invece, la colloquialità diventa aperta dialogicità. È stato detto giustamente che si assiste al passaggio dal poeta come voce al poeta come persona7, qui per di più chiamata apertamente per nome, Mario, quasi a cancel- lare la differenza fra l’io empirico e l’io trascendentale che parla nelle poesie. Il soggetto si confronta con i compagni che lo accusano di diserzione dalla lotta, con donne che gli suggeriscono una prospettiva trascendente o ne rimprovera- no l’egocentrismo o implorano il suo aiuto, con rivali d'amore di un tempo, con antagonisti ideologici, con giudici che lo accusano sul piano morale e religioso, con un giovane deluso d’amore, con un opportunista dall’aspetto di «pretonzo- lo». Il personaggio che dice «io» non è più un «testimone muto» come in Onore del vero, ma partecipa a una controversia, è attiva ed eloquente parte in causa8. I dialoghi sono quasi sempre a due, anche quando si svolgono in presenza di più persone dopo l’incontro con un gruppo (come in Presso il Bisenzio) o nella fol- la di un ricevimento (come in Terrazza o in Dopo la festa). Le eccezioni sono po- che: per esempio, il tema del triangolo, evocato dalla figura del rivale, si scioglie in un rapporto dialogico a tre fra il protagonista, una donna e il marito di lei in Ménage; oppure può accadere che il soggetto si rivolga a una coppia e dunque l’interlocuzione coinvolga ancora tre persone (in L’uno e l’altro), o, ancora, che il dialogo fra due interlocutori maschili avvenga in presenza di una donna che vi

6 Pier Vincenzo Mengaldo, Storia della lingua italiana. Il Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 405. 7 Aldo Rossi, «Nel Magma» di Mario Luzi, in «L’Approdo letterario», X, 1964, 26, p. 141. 8 Il dialogo – scrive giustamente Anna Panicali, Saggio su Luzi, Milano, Garzanti, 1987, pp. 172-173 e p. 180 – si presenta in Nel magma come «colloquio disputativo che argomenta il discorso per via di ragionamento» e perciò si sviluppa «nella forma del diverbio»: insomma, è «un dialogo come contesa». LUZI E LA CRISI DEL GENERE LIRICO DA «ONORE DEL VERO» A «NEL MAGMA» 115 partecipa con l’espressione eloquente degli occhi (in Terrazza). È stato osservata giustamente da Frasca l’assenza di una dialogicità plurilinguistica in senso bach- tiniano, in quanto il punto di vista dell’altro, se antagonista, è deprivato di valore e sottoposto al giudizio dominante e spesso sprezzante del soggetto e, se solidale, è immediatamente fatto proprio dall’io9. È evidente infatti che nel primo caso il punto di vista altrui è subito annientato e nel secondo è solo una proiezione del soggetto o l’espressione di un suo doppio (come in Nel caffè). Aggiungerei, a con- ferma, che una dialogicità forse più vera, e non meno fitta e conflittuale, va re- gistrata all’interno del protagonista, colto spesso nel momento di una «disputa» con se stesso (il termine è in D’intesa), mentre riflette, si interroga, si accusa o si assolve. Ma con Frasca poi non concorderei nel ritenere tale fenomeno una con- ferma del rispetto luziano della postura tradizionale dell’io poetico e della conti- nuità con la lirica postsimbolista: qui l’io trascendentale è drasticamente ridotto all’io empirico; i personaggi hanno una evidenza corposamente espressionistica; l’argomento della «disputa» riguarda il costume, la moralità e una religione vis- suta non per allusioni mistiche ma come scelta concreta di vita (si veda l’attacco all’opportunismo del «pretonzolo» in Tra quattro mura); l’ambientazione è reali- stica, e di un realismo non più confinato al mondo contadino o artigiano caro a Betocchi o al neorealismo toscano (quello del primo Cassola, per esempio), come era in Onore del vero, ma verificato sui grandi temi dell’alienazione neocapitali- stica che allora erano all’ordine del giorno nel dibattito culturale, nel cinema e nella letteratura, e declinato in modernissime forme oniriche e quasi visionarie (Presso il Bisenzio è un grande esempio di realismo onirico).

Metrica. La metrica di Onore del vero è endecasillabica, anche se l’endeca- sillabo è spesso alternato a quinari, settenari, doppi settenari, talora a ottonari e novenari, o, più raramente, a versi più lunghi (come il primo di Versi d’ottobre, forse un endecasillabo allungato da un quinario: «È qui dove vivendo si produ- ce ombra, mistero»). Interessante è l’uso frequente di un novenario con accen- ti di quarta e ottava, in modo da risultare un endecasillabo a minore ipometro e confermare così il ritmo endecasillabico dominante. Ancora più interessante è la sperimentazione di un endecasillabo anomalo con accenti di terza e di ot- tava: tra i vari esempi possibili quelli di Come tu vuoi («è il silenzio del testimo- ne muto») di Casa per casa («il distacco dalla mia pianta d’anime») e soprattut- to l’ultimo di La notte lava la mente, che mi pare significativo per una doppia ragione: chiude l’intera raccolta e sarebbe stato facilmente variabile in modo da ricondurlo alla scansione tradizionale. Si tratta di «Raramente qualche gabbiano appare», al posto del più classico o più normale endecasillabo a minore «Qualche gabbiano raramente appare». La soluzione scelta conferisce all’endecasillabo un andamento più prosastico, meno solenne e scandito. Sembra perciò anticipa-

9 D. Frasca, Le posture dell’io cit., pp. 30-31. 116 Romano Luperini re la ben più ampia sperimentazione di Nel magma, opera che non rispetta se non saltuariamente la misura dei versi conosciuti e appare inoltre caratterizza- ta da un verso lungo spesso esorbitante largamente la misura dell’endecasillabo. Anche in questo caso la misura endecasillabica si può talora rintracciare o rico- struire: si possono individuare infatti versi lunghi formati da un endecasillabo e da un verso più breve (dal quinario al novenario, quest’ultimo spesso caratte- rizzato da accenti di quarta e ottava come in Onore del vero), o viceversa, da un verso breve seguito da un endecasillabo, e si può arrivare qualche volta persino alle ventidue sillabe del doppio endecasillabo (cfr. il v. 77 di Presso il Bisenzio o i vv. 15 o il 17 di Bureau, in cui il secondo endecasillabo presenta gli accenti di terza e ottava, anche questi sperimentati in Onore del vero). È possibile inoltre riconoscere soluzioni esametriche (settenario + novenario, ottonario + novena- rio, senario + novenario), mentre il settenario può non solo raddoppiarsi come già accadeva sporadicamente in Onore del vero, ma ripetersi anche tre volte sino a formare un verso di ventuno sillabe (cfr. v. 12 di Prima di sera). Ma bisogna poi subito aggiungere che in molti casi sembra prevalere un ritmo esclusivamen- te sintattico, non facilmente riconducibile a una scansione già nota e organiz- zato intorno a quattro, cinque, a volte persino sei ictus che potremmo defini- re logici10. In conclusione, con la nuova opera, Luzi non solo abbassa drastica- mente la poesia al livello della prosa ma accetta pienamente il carattere discor- sivo e narrativo del poemetto sperimentando soluzioni metriche nuove di falsa- prosa, sviluppando ambientazioni realistiche, intrecciando dialoghi, coniugan- do teatralità e narratività (con echi evidenti del dramma eliotiano) e ponendo sulla scena personaggi visibilmente altri e dunque del tutti distinti e autonomi rispetto all’io protagonista.

Dantismo. Il dantismo luziano è stato ampiamente considerato sia dalla criti- ca, sia dai commenti testuali. Ma ci si è limitati a osservare i frequenti prestiti, le ci- tazioni quasi letterali dalla Commedia (dalla «tratta d’anime e di spoglie» e «fila d’a- nime lungo la cornice/ chi pronto al balzo, chi quasi in catene» di Onore del vero al «forato nella gola» di Nel magma, ma i riferimenti possibili sono molto nume- rosi), i campi metaforici del fuoco e dell’ardore, e soprattutto le atmosfere purga- toriali, legate alla figura del pellegrino e al paesaggio brullo e desolato, ma intriso di dolente religiosità, di Onore del vero11. Minore attenzione è stata forse prestata al particolare, specifico dantismo di Nel magma. In Onore del vero Dante è presen- te nel clima malinconico e spirituale riecheggiato dal Purgatorio, negli stati d’ani- mo, nel carattere fortemente emblematico del paesaggio; in Nel Magma in qualco-

10 Su questa problematica cfr., oltre a S. Verdino, Introduzione cit., p. XXXI, Edoardo Espo- sito, Scrivere il magma e David Puccini, La poesia di Luzi nel magma, in «Rivista di letteratura italiana», XXXII, 2014, 3, rispettivamente p. 152 e p. 167. 11 Su questo punto si veda P. V. Mengaldo, Mario Luzi, in Poeti italiani del Novecento, Mila- no, Mondadori, 1978, p. 651. LUZI E LA CRISI DEL GENERE LIRICO DA «ONORE DEL VERO» A «NEL MAGMA» 117 sa di più sostanziale e decisivo: nella struttura stessa, nella costruzione, nell’anda- mento poematico, nel procedimento per stazioni successive e infine nella figurazio- ne dell’io protagonista. Ben sette componimenti su diciotto (Presso il Bizenzio, Nel caffè, Ménage, Bureau, Nella hall, Dopo la festa, Accordo) si fondano su una compo- nente strutturale del poema dantesco, l’incontro: un personaggio si muove o si è mosso nello spazio per giungere in un posto in cui s’imbatte in un gruppo di coe- tanei, in un amico fraterno, in un rivale d‘amore in gioventù, in una donna sposa- ta con cui però mantiene una intesa particolare. L’incontro si verifica a volte senza che il soggetto lo voglia o se lo aspetti, dunque per caso, a volte invece in situazio- ni previste (un ricevimento, una festa, una visita, un viaggio in auto). Ma comun- que non è mai un incontro privo di significato. Direi anzi che la tecnica dell’in- contro, più volte ripetuta, è assunta, come nella Commedia dantesca, come strut- tura significante. Luzi la usa per rivelare un senso, ribadire una fede o una con- vinzione, cercare una verità ultraterrena o ribadire una norma di comportamento morale. L’atteggiamento ricorrente è quello dichiarato esplicitamente in Nel caffè, dove si legge: «penso a questo incontro/ se si può cavarne un senso». Come nella Commedia, il dialogo si risolve spesso in uno scontro, può diventare un «alterco» o un «diverbio», termini autorizzati dall’autore (in Tra quattro mura). La cattive- ria stilistica e figurativa di Nel magma vorrebbe esibire la stessa necessità di quella dantesca (qui desunta, più che dal Purgatorio, dall’Inferno), e oscilla perciò fra una punta di sprezzo nei confronti dell’opportunismo e della grettezza altrui e lo scatto di orgoglio quasi superbo di chi si ritiene fra gli «eletti a cose più alte» (Dopo la fe- sta) e rivendica una superiorità morale («sono io che pago tutto il debito», in Presso il Bisenzio). L’altra faccia di questa figurazione dell’io, anche questa ben dantesca, è la tendenza ad autoaccusarsi e ad autoprocessarsi, che può sfociare tanto in attesta- zioni di umiltà e in atteggiamenti penitenziali quanto, più frequentemente, in rea- zioni di sdegnosa fierezza. Storicamente è possibile e forse oggi necessario prende- re le distanze da questa affermazione, assai datata, di eccezionalità di ruolo e di ari- stocrazia dello spirito che si collega alla tradizionale figura del poeta vate e profeta, ma nello stesso tempo bisogna riconoscere che in Nel magma essa si cala con coe- renza in un disegno di ricongiunzione consapevole alla lezione dantesca che ne de- termina l’originalità nel panorama poetico degli anni Sessanta.

Conclusione. Contemporaneamente alle poesie di Nel magma Luzi lavorava a quelle poi riunite in Dal fondo delle campagne, uscito due anni dopo, nel 1965. Nell’opera definitiva che comprende tutte le poesie questa raccolta è collocata si- gnificativamente dopo Onore del vero e prima di Nel magma. In effetti Dal fondo delle campagne si colloca in posizione intermedia: è una indubbia continuazio- ne12 (linguistica, metrica, tematica) di Onore del vero, ma da un lato ne appro-

12 S. Verdino, Introduzione cit., p. XXIX («i legami di continuità [di Dal fondo delle campa- gne] con l’ultima parte del precedente ciclo [quello di Nel giusto della vita, dunque, con Onore del vero che lo chiude] risultano ancora molto tenaci»). 118 Romano Luperini fondisce l’aspetto interiore e, dall’altro, rivela le tracce della sperimentazione di Nel magma, evidenti, per esempio, nell’uso saltuario del verso lungo e in quel- lo frequente dell’endecasillabo con accenti di terza e ottava. Ma il paesaggio e lo stato d’animo dominante sono ancora quelli di Onore del vero, benché qui risul- ti rafforzata – ed è indubbiamente un elemento di novità − la tendenza al dia- rio lirico e al colloquio intimo fra sé e sé e con l’immagine della madre morta. Nella storia della poesia di Luzi, e anche in quella del secondo Novecento poe- tico, la vera partita si gioca fra Onore del vero e Nel magma, opera più uniforme- mente intensa e compatta la prima, più originale, moderna e sperimentale con punte forse più alte (spiccano Presso il Bisenzio, Nel caffè, Ménage), ma anche più discontinua, la seconda. Onore del vero cresce di testo in testo, per accumu- lo lirico, per insistenza e ripetizione di temi e di accenti; Nel magma è costruito in modo più frammentario, per stazioni successive, cosicché ogni volta bisogna ricominciare da capo. Se il primo libro avvolge il lettore col fascino – realistico e simbolico insieme – delle sue immagini, il secondo, più disgregato e diffuso, si sgrana in rappresentazioni, crudeli e pietose − e anzi spesso più crudeli che pietose −, che offrono una potente allegoria del bisogno di senso nel non-senso quotidiano. In Onore del vero il senso sta lì, nelle segreti e pur evidenti correspon- dances fra il paesaggio e l’anima religiosa di chi lo osserva; in Nel magma va «ca- vato» dagli episodi, va cercato, insomma, nelle pieghe degli incontri e dei dialo- ghi, e l’autore non si accontenta che «sia di rimorso e basta» (si ricordi: «penso a questo incontro / se si può cavarne un senso che non sia di rimorso e basta», in Nel caffè), ma vorrebbe che avesse un valore universale. Nella coincidenza fra cose e senso del primo libro e nello iato che si apre invece nel secondo fra pove- ri oggetti e povere parole della modernità da un lato e bisogno di un significato alto e nobile dall’altro si può leggere l’alterna vicenda del simbolismo e dell’al- legorismo contemporanei. Ma si tratta comunque di due capolavori della poesia secondonovecentesca, vicini per la comune esigenza di interrompere una tradi- zione, ma anche lontani per temi e forme e per la maggiore capacità del secon- do di determinare la storia della poesia successiva (dell’autore e altrui) e di dare una risposta originale alla crisi del genere lirico fra anni Cinquanta e Sessanta. LA PAROLA È EPIFANIA DEL SILENZIO. LA POESIA MISTAGOGICA

Luigi Ferri

L’approccio che guida questa incursione nella poesia luziana tiene conto del- la filosofia ermeneutica, ipotizzando un «Luzi lettore», o comunque conoscito- re, non soltanto degli autori presocratici e neoplatonici, notoriamente predilet- ti dal poeta, ma anche degli approdi a lui contemporanei. Tale linea d’indagi- ne sembra acquisire particolare rilievo in Frasi e incisi di un canto salutare, dove esiste una relazione complessa fra due elementi apparentemente contrapposti: la parola e il silenzio. Prima di addentrarsi nell’analisi di questo rapporto è però necessario tracciare una breve riflessione introduttiva. Heidegger, nel suo In cammino verso il linguaggio, esordisce in modo piut- tosto lapidario:

L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo […]. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente1.

Con queste parole, il filosofo sembra escludere nel modo più assoluto, alme- no per quanto riguarda l’uomo, la dimensione del silenzio. L’uomo sembra es- sere colui che non può conoscere silenzio. Anzi: se l’uomo parla incessantemen- te anche quando tace, è lecito pensare che non esista alcun silenzio possibile. In realtà lo scopo di Heidegger non è quello di affermare l’inesistenza del silenzio: piuttosto, le sue parole intendono stabilire il centro e il confine dell’esperien- za umana: il linguaggio. Il linguaggio infatti sembra porsi come una frontiera insuperabile, un orizzonte chiuso oltre il quale non è dato spingersi. L’oltre del linguaggio è dunque un pensiero che non può essere veramente pensato: resta fuori dalla sfera dell’umano. Anzi: resta fuori dalla sfera dell’essere. Non perché, per Heidegger, il linguaggio sia l’essere, ma perché l’essere si dà solo nel linguag- gio. Non è l’uomo a parlare, bensì il linguaggio. L’essere, che si dà nel linguag-

1 Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, trad. di Alberto Caracciolo e Maria Ca- racciolo Perotti, a cura di Alberto Caracciolo, Milano, Mursia, 1973, p. 27.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 120 Luigi Ferri gio, possiede l’esserci, possiede l’uomo. Il linguaggio umano, così come lo in- tende Heidegger, non ha il proprio fondamento nell’interiorità; non è la lingua costruita dall’esserci che si attua nell’espressione dei moti interiori. Al contra- rio, è il linguaggio che si appropria dell’esserci2. Ma se niente fuoriesce dall’orizzonte del linguaggio, in cosa consiste il silenzio, che dovrebbe essere, appunto, un tacere di tutti i linguaggi? Forse si può ipotizza- re l’esistenza di un silenzio relativo, generato per nominazione dalla parola che lo designa. Per dimostrare l’esistenza di una simile possibilità, basta che si pronunci a voce alta la parola «silenzio»: ed ecco che in ogni ascoltatore comparirà un vago si- mulacro, il cui compito sarà quello di mostrare agli occhi della mente il senso della parola pronunciata. Questo fenomeno accade proprio perché il linguaggio parla: ha cioè il potere di chiamare ciò che nomina3. Ecco allora che anche il silenzio può essere chiamato all’esistenza proprio dalla parola che lo designa: viene manifestato per nominazione. Ma è questo il vero silenzio? Il silenzio è forse costituito dallo stesso parlare del linguaggio? A dire il vero, il silenzio chiamato in causa in questo modo è più semplicemente una parola. E se è soltanto una parola, una parola che rompe il silenzio risuonando nell’aria e nella mente, come può essere il silenzio? Il vero silenzio allora non è nel parlare del linguaggio. Il silenzio, se esiste, si colloca sempre all’interno della sfera del linguaggio4, ma non nel suo parlare: si trova piuttosto sul fondo, anzi, nel fondamento del logos. Il silenzio è ciò che, nell’atto stesso del dire, tace. Questo silenzio radicale non è altro che l’essere, che si rivela nascondendosi nel linguaggio5. Il linguaggio poetico è allora il luogo dove questo silenzio può essere ri-velato, ma mai dis-velato. Il fondamento silenzioso del linguaggio, che è l’essere, appare e scompare attraverso il linguaggio poetico come attraverso un vetro. Il vetro raccoglie e contiene, lascia scorgere oltre, oppure si appanna e mostra la barriera di sé. Il linguaggio è la Voce e il Silenzio dell’ex-sistere. Spiega assai bene questa dinami- ca Massimo Cacciari, in un saggio fondamentale sulla dizione della poesia luziana:

Ciò che si ri-vela nell’incessante “festa” (o supplizio?) del de-nominare, che può ri-velarsi soltanto e mai sarà dis-velabile, è il fondo abissale, il fondo-non-fondo dell’esistere. Nell’apparire di ogni esistenza, infatti, appare anche il suo ek-: quel

2 Cfr. Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività [1982], Torino, Einaudi, 2008, pp. 68-71. 3 «Solo là dove è stata trovata la parola, la cosa è una cosa. Solo così essa è. Dobbiamo perciò sottolineare: nessuna cosa è dove la parola, cioè il nome, manca. È la parola che procura l’essere alle cose. […]. La parola del linguaggio e il suo rapporto con la cosa, con qualunque cosa che è – sotto il riguardo dell’essere e del modo di essere della cosa stessa –, resta un enigma» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio cit., p. 131). 4 Cfr. G. Agamben, Il linguaggio e la morte cit., p. 25. 5 «Il linguaggio è il manifestante-occultante avvento dell’Essere stesso» (M. Heidegger, La dottrina di Platone sulla verità. Lettera sull’umanismo, tr. it. a cura di Andrea Bixio e Gianni Vattimo, Torino, SEI, 1975, p. 90). Cfr. anche G. Agamben, Il linguaggio e la morte cit., p. 77. LA PAROLA È EPIFANIA DEL SILENZIO. LA POESIA MISTAGOGICA 121

segno inaggirabile della sua provenienza da nulla […]. La parola della dizione medita, appunto, questo indistricabile ritmo: ogni ri-velazione è anche nascondi- mento, ogni apparire è in se stesso un celarsi. Ma ciò che propriamente si cela non è oggetto di una qualche gnosi segreta, ma bensì lo stesso nascimento dell’esistere […]. Noi non sappiamo indicare quella fonte [se non] nell’ek- dell’esistere6.

L’azione dell’ek- è il fondamento silenzioso del logos, che è l’essere. Ogni de- nominare determina l’esistenza, ma nasconde ciò che compie, il nascimento. Il nascimento è il moto dal perfetto silenzio di un puro voler-dire senza detto e di un puro voler-aver-coscienza senza coscienza, verso la significazione data dal par- lare del linguaggio7. Questo voler-dire è il vuoto silenzioso e universale che con- tiene in potenza ogni possibilità di parola; vuoto che si dilegua nello stesso atto del dire. Pertanto, mai questo nascimento potrà essere detto in ciò che si dice: è ciò che, affondando, fonda il linguaggio8. Il «fondamento indicibile»9 del logos è il Silenzio abissale del voler-dire, che si dilegua nel sorgere del dire10. La poe- sia è il luogo dove questo orizzonte ultimo del linguaggio si ri-vela. Mario Luzi non è estraneo a queste riflessioni filosofiche. Lo testimonia un’in- tervista andata in onda su Rai1, pochi mesi dopo l’uscita di Frasi e incisi di un canto salutare (1990):

Il mondo non deve rispondermi, ma parlarmi in tutti i suoi aspetti […]. E que- sto forse è il senso dell’ultimo mio libro [Frasi e incisi]. […] E questo ha finito col rendere più accogliente la mia poesia. […] la mia poesia è passata ad una polifonia aperta alla molteplicità. Ho cercando di dare la voce, di dare la parola, a molti aspetti del mondo, a molti aspetti dell’umanità e, direi, del Creato. […] in questi miei ultimi libri hanno diritto di cittadinanza nella parola, nel linguag- gio, anche quelli che non parlano11.

Luzi è il poeta che ascolta il parlare del mondo, che accoglie la voce silenzio- sa di tutto ciò che esiste. Egli trasforma in linguaggio poetico la realtà rivelata

6 Massimo Cacciari, Fondamenti invisibili, in Pensiero e poesia nell’opera di Mario Luzi, a cura di Stefano Mecatti, Firenze, Vallecchi, 1989, pp. 22-23. 7 Cfr. G. Agamben, Il linguaggio e la morte cit., pp. 74-77. Il voler-dire e il voler-aver- coscienza non vanno però intesi in senso psicologico, ma come un nulla, una negatività che non esprime «alcune proposizione significante: [sono cioè] il puro aver luogo del linguaggio […], una dimensione puramente logica» (ivi, p. 107). 8 Ivi, pp. 6 e 49. 9 Ivi, pp. 114-115. 10 Il linguaggio è dunque scisso in due piani distinti: «die Sage, il dire originario e silenzioso dell’essere che, in quanto coincide con lo stesso aver-luogo del linguaggio e con l’apertura del mondo, si mostra (zeigt sich), ma rimane indicibile per la parola umana, e il discorso umano, la “parola dei mortali” che può soltanto rispondere alla Voce silenziosa dell’essere» (ivi, p. 77). 11 Mario Luzi, Nel silenzio parla il linguaggio del mondo. Intervista a Mario Luzi (riprodotta in calce al nostro testo). 122 Luigi Ferri dell’esistenza. A dire il vero, questo non è altro che una fondamentale esperien- za di linguaggio, un suo stesso dono. Heidegger infatti afferma:

Fare l’esperienza di qualcosa – si tratti di una cosa, di un uomo, di un Dio – significa che quel qualcosa per noi accade, che ci incontra, ci sopraggiunge, ci sconvolge e trasforma. Fare esperienza del linguaggio significa quindi: lasciarsi prendere dall’appello del linguaggio, assentendo ad esso, conformandosi ad esso. Se è vero che l’uomo ha l’autentica dimora della sua esistenza nel linguaggio, indipendentemente dal fatto che ne sia consapevole o no, allora un’esperienza che facciamo del linguaggio ci tocca nell’intima struttura del nostro esistere12.

Luzi vive una radicale esperienza del linguaggio: ne penetra il mistero. Per questo è in grado di recepire tutto il linguaggio possibile, anche quello più silen- zioso, proveniente dal mondo: solo colui che è stato trasformato dall’incontro col linguaggio, può scoprire il linguaggio in ciò che non parla. Il poeta assimila il silenzio del cosmo alla sua stessa voce, alla sua parola. Questa è la dimensio- ne ontica, la proprietà attraverso cui la poesia luziana è in grado di accogliere la polifonia degli essenti e dell’umano; con l’obiettivo di far rifluire questa assimi- lata ricchezza sul lettore. O per essere più esatti: il lettore è colui che viene con- dotto dalla poesia verso le realtà impercettibili e misteriose che la poesia stes- sa ha precedentemente accolto in sé. In questo modo la poesia cancella, davan- ti agli occhi di chi è in suo ascolto, la caligine che impedisce di scorgere la real- tà profonda di tutto ciò che esiste. Ecco perché la poesia è in grado di arricchi- re lo sguardo di chi la legge, ha cioè una rilevanza gnoseologica, a differenza del linguaggio quotidiano, incapace di operare rivelazioni profonde13. Attraverso il linguaggio poetico il lettore penetra nella comprensione, rivive l’epifania vissu- ta dal poeta. Questo avviene in quanto, come afferma Gadamer in Verità e me- todo, «l’essere che può venir compreso è il linguaggio»14. Allora, la strada gno- seologica verso la realtà profonda e altrimenti celata dell’esistere è una strada di incontro con il linguaggio15. Sorge però la difficoltà accennata in precedenza: la poesia di Luzi è in gra- do di accogliere l’esistente, di accogliere ogni voce del mondo; è anche in grado di accogliere in sé la stessa esperienza del linguaggio: si pensi alla ricca presenza dell’istanza meta-poetica16. Ma come può la poesia accogliere il silenzio senza

12 M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio cit., p. 127. 13 Cfr. ivi, pp. 128-129. 14 Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo [1960], trad. e cura di Gianni Vattimo, Milano, Bompiani, 1983, p. 542. 15 «Nella parola della poesia è il parlare. Questo è il parlare del linguaggio. Il linguaggio parla. Parla dicendo quel che chiama, cosa-mondo e mondo-cosa, di venire nel frammezzo della dif-ferenza» (M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 40). 16 «[…] quando si tratta di portare alla parola qualcosa di cui mai ancora si è parlato, tutto sta nel vedere se il linguaggio farà dono della parola appropriata o se, invece, la negherà. Uno di questi LA PAROLA È EPIFANIA DEL SILENZIO. LA POESIA MISTAGOGICA 123 annullarlo? Come è possibile per la parola manifestare il silenzio, essere epifania del silenzio? E più nello specifico: in che modo la poesia di Frasi e incisi mani- festa, se lo fa, il fondamento silenzioso del logos? Risponde a queste domande lo stesso Luzi, in un altro passaggio dell’intervista:

[…] c’è il Silenzio che contiene tutte le voci, in potenza; il Silenzio che è lo stato iniziale della parola; da cui la parola si stacca, forse, per ritornarci. E questo è il linguaggio dell’universo, un altro linguaggio. Che io ho cercato in genere di includere possibilmente nel mio. Infatti le pause, i silenzi, gli stacchi dentro i ritmi della mia poesia sono importanti quanto la parola17.

Dunque il voler-dire iniziale, ancora privo di ogni dire, è, in altri termini, il Silenzio-matrice di ogni voce possibile; per questo il Silenzio «è lo stato ini- ziale della parola». In tal modo, Luzi pone il Silenzio come fondamento nega- tivo del logos18. Ma la sua poesia tenta di cogliere e accogliere anche questo in- dicibile fondamento, di mostrarlo senza distruggerlo con il proprio dire: pause e stacchi tipografici, infatti, immergono i testi tra vuoti silenziosi, che non si lasciano annullare mai dal dire dei versi. Si potrebbe forse pensare che in Frasi e incisi il linguaggio sia frantumato, graficamente fatto a pezzi; ma è un rilie- vo più giusto per le poesie del Battesimo19. Qui invece, dove in sottofondo c’è il tentativo di far riemergere l’unità armonica del canto, lo spezzamento frasti- co diventa piuttosto lo «spartito dell’essere»: ogni parola è una nota che emer- ge dal silenzio, che subito vi ritorna, lasciando l’impronta del suo ricordo, il continuum armonico della musica. Il silenzio è sì interrotto dalle parole, ma non infranto dal loro dire: è solo ri-velato. Le costellazioni di questi componi- menti rivelano il vuoto della pagina: lo spazio del silenzio. C’è qualcosa di vi- sivo, di pittorico in queste poesie, che mostrano silenziosamente l’attimo pre- ciso del nascimento, quando il silenzio originario dell’abisso, die Sage, gene- ra la voce significante di ciò che viene detto. La parola, che normalmente cela l’ek- affondandolo in sé, sulla pagina poetica luziana, senza dirlo, lo rivela vi- sivamente e ritmicamente mediante il suo porsi. Per questo non è iperbolico sostenere, come fa Luzi, che le pause e gli stacchi sono importanti «quanto la

casi è quello del poeta. Un poeta può così giungere proprio a questo: a dover portare a parola, in modo autentico, che è quanto dire poetico, l’esperienza che fa del linguaggio» (ivi, p. 129). 17 M. Luzi, Nel silenzio parla il linguaggio del mondo cit. 18 Vi è in questo una marcata reminescenza mistica: «[…] il Silenzio è il mistico fondamento di ogni possibile rivelazione e di ogni linguaggio, la lingua originale di Dio in quanto Abisso (in termini cristiani, la figura della dimora del Logos in archḗ, il luogo originale del linguaggio)» (Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte cit., pp. 79-80). Cfr. anche ivi, p. 81. 19 A proposito del silenzio, del frammento e della mise en page della parola nella raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti, si veda l’acuta indagine di Elisa Tonanni, Il ritmo ascendente di un discorso frammentario, in Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste, a cura di Paola Baioni e Davide Savio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014. 124 Luigi Ferri parola»: essi mostrano infatti ciò che attraverso nessun dire può essere significa- to, ovvero il nascimento. Luzi ha sempre dimostrato un’assoluta maestria nel manifestare i più sottili mutamenti, i punti anche impercettibili di trapasso; in Frasi e incisi è forse mo- strato il trapasso più indicibile di tutti, l’ek-, il sorgere del linguaggio dall’abis- so silenzioso del fondamento. Pertanto, la poesia luziana non è esclusivamente veicolo della dimensione ontica, ma ambisce a ri-velare anche la dimensione on- tologica: l’aver-luogo del linguaggio. Queste particolari poesie luziane compiono un evento impossibile: accogliere, attraverso il silenzioso mostrarsi del linguaggio sulla pagina, ciò che non può essere accolto e mostrato nel parlare del linguag- gio. Se generalmente il linguaggio custodisce l’indicibile dicendolo20, la poesia luziana prodiga l’indicibile tacendolo21. Il nascimento è così rivelato da ciò che dovrebbe celarlo: la parola. La parola compie una silenziosa epifania del silenzio. Ecco dunque la poesia mistagogica. Mistagogia significa «condurre nel miste- ro». Ma qui è lecito intendere la definizione in senso ancora più strettamente eti- mologico: il termine mysterión deriva infatti da myéō, che significa «sto chiuso», «sto silenzioso», «serrato» con le labbra, da cui il corrispettivo italiano «muto». Questo vocabolo era usato nei riti dei culti misterici e indicava sia l’indicibile in sé, sia le rivelazioni che l’iniziato doveva tacere. La poesia di Frasi e incisi è una poesia mista- gogica, nel senso strettamente etimologico: una poesia che conduce in ciò che tace.

* * *

APPENDICE

Nel silenzio parla il linguaggio del mondo Intervista a Mario Luzi

Dalla trasmissione televisiva di RAI DSE Novecento: letteratura italiana dal ’45 ad oggi. Programma di Angelo Sferrazza e Michele Giammarioli. Consulenza letteraria di Gabriele La Porta e Renato Minore. Regia di Isabella Donnafrance- sco. Raiuno, 1990. Conduttore: Gabriele La Porta.

20 Cfr. G. Agamben, Il linguaggio e la morte cit., p. 21. 21 Per accedere a questo indicibile silenzio del nascimento è allora necessario tralasciare ciò che viene detto dall’istanza del discorso, cioè dalla significazione dei versi, dal loro «dire». Solo così l’aver-luogo del linguaggio riemerge quale fondamento di ciò che è detto, si mostra al pensiero. Il Silenzio, che genera la parola e si nasconde sprofondando in essa, è al contempo rivelato dalla pre- senza della parola iconicamente disposta sulla pagina. La parola non disvela il Silenzio indicandolo con il suo dire: niente del linguaggio parla del Silenzio ontologico; ma proprio per questo esso è mantenuto, salvaguardato, velato e rivelato insieme. Anche qui, come in ogni epifania, il mostrarsi coincide con il nascondersi. Massimo Cacciari osserva: «Si può forse comprendere, allora, la forza iconica della parola di Luzi […]. Riuscire a distinguere con la massima chiarezza le cose, senza di- sporle discorsivamente, senza “narrarle”: coglierle nella loro distinzione, eppure nel loro reciproco, simultaneo risuonare, come se nessuna distanza le separasse – ciò costituisce a mio avviso il nòccio- lo metafisico della poesia luziana» (M. Cacciari, Pensiero e poesia nell’opera di Mario Luzi cit., p. 25). LA PAROLA È EPIFANIA DEL SILENZIO. LA POESIA MISTAGOGICA 125

L’intervista fu realizzata in occasione dell’uscita della raccolta poetica Frasi e incisi di un canto salutare. La trasmissione trattava parallelamente il panorama storico e letterario del 1978. luzi [Lettura iniziale di Aruspicina, da Frasi e incisi di un canto salutare] la porta Avete sentito Mario Luzi, uno dei massimi poeti viventi. Avrete anche notato che la trasmissione, questa settimana, inizia in modo improprio: questo perché abbiamo una delle voci massime della lirica contemporanea […]. Vorrei far vedere a tutti […] Frasi e incisi di un canto salutare, edito appena da qualche mese da Garzanti. Vi invito ovviamente a leggerlo, insieme all’opera completa di Luzi. Prima di cominciare [con la rassegna storico-letteraria dell’anno 1978] vorrei fare subito un dialogo con questo rappresentante, questa voce vivente della lirica contemporanea. Luzi, la critica sostiene e afferma, prendendo spunto da varie riflessioni, che ci siano alcuni momenti importanti nella sua poesia: la non casualità del dolore, la drammaticità dell’esistenza e il tema dell’individuo che, posto di fronte alla Sto- ria, ha come la sensazione che essa gli sfugga; anzi, che la Storia stessa manchi di appuntamenti determinanti. Questi i temi rilevati. Ma per favore, Mario Luzi: parli lei di Mario Luzi. Com’è la sua lirica? luzi La domanda è molto imbarazzante. Ma quello che lei ha enucleato in tre mo- menti, in tre temi distinti, in realtà è promiscuo, vive simultaneamente in tutti i tempi, in tutte le stagioni e in tutte le forme della mia poesia. Temi che certa- mente sono molto differenti, distinti e distinguibili a seconda dell’evoluzione, del passare del tempo; e a seconda della Storia che abbiamo vissuto e attraversato tutti insieme. Inizialmente la mia poesia è stata più monodica, espressione della soggettività. Primamente il mondo mi si è posto davanti come un’offerta, ma anche come un interrogativo, come un enigma, un’incognita. Questo a vent’an- ni. Poi questa incognita ha cambiato colore, anche se non s’è mai risolta. Lei parlava della Storia. Ma la Storia chiarifica oppure complica il senso del desti- no umano? Questo è un quesito che non è mai stato risolto, né da me né da altri, e che si è sempre più aggrovigliato. Sennonché ecco quello che è cambiato, forse: il mio atteggiamento di fronte a questo enigma. Prima mi sembrava disperante, mi sembrava angoscioso. Invece via via anche questa ambiguità, o questa difficile soluzione del problema, mi è sembrata di per se stessa meravigliosa, e vivibile, e ricca di senso. Quella presunzione che da giovani si ha, che io ho avuto un po’ con tutta la mia epoca, di arrivare ad una risposta, di costringere il mondo a rispon- dere a me individuo, a me soggetto… è sembrata poi sempre meno giustificata e attendibile. Il mondo non deve rispondermi, ma parlarmi in tutti i suoi aspetti, anche nelle sue apparenti contraddizioni. E questo forse è il senso dell’ultimo mio libro. Siamo noi che instauriamo la contraddizione, siamo noi che entriamo nella logica del mondo con la nostra logica, riducendo in fondo la sua grandezza, 126 Luigi Ferri

la complessità dell’universo alle nostre minime esigenze interne. Quello che è cambiato in me in questi cinquant’anni e più di lavoro non è stato il grado di convincimento teorico e razionale del mio rapporto con la Storia, dell’«essere del mio tempo» (questo è rimasto pieno di incognite); quello che è cambiato, invece, è il mio atteggiamento nei confronti del problema. Il cambiamento non è stato tanto nel mondo, che pure è cambiato molto nei suoi aspetti esterni, ma è stato dentro di me. C’è stato un processo di maturazione, di trasformazione interiore. E questo ha finito col rendere più accogliente la mia poesia. In questo modo, da quella monodia di cui ho parlato, aspetto di un lirismo soggettivo, la mia poesia è passata ad una polifonia aperta alla molteplicità. Ho cercando di dare la voce, di dare la parola, a molti aspetti del mondo, a molti aspetti dell’umanità e, direi, del Creato. Soprattutto in questi miei ultimi libri hanno diritto di cittadinanza nella parola, nel linguaggio, anche quelli che non parlano. Il silenzio. Il silenzio è una cosa – non so se avete mai riflettuto su questo – il silenzio è una cosa…

la porta Piena di voci.

luzi Piena di voci, ecco. C’è un silenzio coatto e quello dobbiamo combatterlo. È il silenzio a cui molti sono costretti, un’impossibilità a parlare di chi non possiede linguaggio; e ci sono tante persone che non possiedono il linguaggio, che non sanno dire le loro ragioni, non sanno neanche – diciamo così – esprimersi in- telligibilmente. Poi ci sono quelli che in questo mondo non hanno diritto alla parola. Ecco, queste sono forme di silenzio che dobbiamo rifiutare. Ma poi c’è il Silenzio che contiene tutte le voci, in potenza; il Silenzio che è lo stato iniziale della parola; da cui la parola si stacca, forse, per ritornarci. E questo è il linguag- gio dell’universo, un altro linguaggio. Che io ho cercato in genere di includere possibilmente nel mio. Infatti le pause, i silenzi, gli stacchi dentro i ritmi della mia poesia sono importanti quanto la parola.

[Dopo la rassegna storico-letteraria del 1978, una studentessa, dal pubblico, chiede a Luzi come abbia vissuto, in qualità di poeta, il caso Moro]

luzi Con molta angoscia. E allo scioglimento – il tragico scioglimento del caso – con una reazione emotiva, anche per me, sorprendente. Ma il fatto è che si accu- mulava in quell’episodio un tempo convulso e drammatico per tutti noi, per l’Italia, per l’uomo stesso. Sì, io direi per l’uomo stesso. In quei giorni ho avuto l’impressione di una degenerazione dell’umano. Era la fase del terrorismo. E su questo tema ho anche scritto qualcosa.

[Trascrizione di Luigi Ferri22]

22 Il testo è stato fedelmente trascritto; la punteggiatura e i capoversi sono ovviamente discrezionali. IL TEATRO DI MARIO LUZI. GLI ANNI NOVANTA (DAL «PURGATORIO» ALLA «PASSIONE»)

Giulia Tellini

Nel diagramma della produzione letteraria di Luzi, al teatro, soprattutto da un preciso momento in avanti, spetta senza dubbio un ruolo centrale. A segna- re l’inizio di una costante frequentazione della forma drammatica da parte di Luzi è il suo incontro con Orazio Costa. Un incontro determinante, che può far ricordare quello, avvenuto alla fine degli anni Dieci, fra Pirandello e un al- tro grande uomo di teatro come Virgilio Talli. Complessivamente, nei testi scritti da Luzi per una loro drammatizzazione (testi che ammontano a una decina), possiamo individuare tre principali percor- si tematici: il gioco del potere, la tensione religiosa, il ritratto dell’artista (che può essere un poeta, un attore, un pittore). Ruotano intorno al gioco del potere testi come Ipazia e Il Messaggero, Rosales e Hystrio, messi in scena, i primi due, da Orazio Costa nel 1978 e nel 1983, il terzo da Sandro Bitonti nel 1988. La tensione re- ligiosa è al centro di opere come il Corale della città di Palermo per Santa Rosalia (del 1989) e la Via Crucis al Colosseo, letta da Sandro Lombardi la sera del vener- dì santo 1999, durante la liturgia della Via Crucis celebrata da Giovanni Paolo II. Autentici ritratti d’artista sono, infine, testi come Io, Paola, la commediante, scritto per Paola Borboni nel 1992, o Felicità turbate (messo in scena nel 1995) sulla fi- gura e sull’arte del Pontormo. Oltre ai testi scritti da Luzi per il teatro, non si può dimenticare l’opera da lui adattata per le scene, ovvero Il Purgatorio dantesco, rap- presentato al Fabbricone di Prato, con la regia di Federico Tiezzi, il 2 marzo 1990. In questa sede, comunque, mi concentrerò soprattutto su tre opere – Il Purgatorio, Felicità turbate e la Via Crucis al Colosseo – scritte tutte e tre negli anni Novanta, e legate fra loro, oltre che da un comune denominatore esterno, ovvero l’interprete (l’attore Sandro Lombardi), dal fatto di costituire una vera e propria trilogia nella quale i tre diversi tempi sono caratterizzati da un’analoga dinamica interna. Si tratta, infatti, in tutti i casi, della messinscena di un pro- cesso conoscitivo che muove dalla concretezza ambientale della storia per giun- gere a una drammaturgia dell’interiorità.

Nel 1989, a Federico Tiezzi, viene l’idea di realizzare una versione scenica della Divina Commedia, un’idea già di Orazio Costa, che però ne aveva tratto

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 128 Giulia Tellini uno spettacolo non così complesso e organico come quello di Tiezzi, che chie- de di curare la drammaturgia delle tre cantiche ad altrettanti grandi poeti. La drammaturgia dell’Inferno viene infatti affidata a Edoardo Sanguineti, quella del Paradiso (proposta prima a Raboni e poi a Zanzotto) a Giovanni Giudici; di quel- la del Purgatorio si occupa invece Luzi, suggerito a Lombardi e Tiezzi da Luigi Baldacci, nel corso fra l’altro di una cena da «Bibe», l’«ospite lieve» montaliano1. Nella prefazione al Purgatorio luziano, non a caso Baldacci scrive che la po- esia della Commedia è «la grammatica e la sintassi della stessa poesia di Luzi». Queste le parole di Baldacci:

Dantesco è soprattutto il tema del viaggio, durante il quale il nostro andare stabilisce un segmento di tangenza con altra persona, con altra anima […]. Non c’interessa – si legge più avanti – […] il contenuto pratico di questo incontro, i termini oppositivi di questo dialogo. Diciamo che il suo contenuto più vero è in questi modi tenuti dai personaggi nell’accostarsi, quasi fiutandosi, per poi lasciarsi e ubbidire al destino che incalza, alla legge che si deve compiere, alla condanna che s’identifica nel nostro stesso esistere2.

Oltretutto, in una delle liriche della raccolta Nel magma intitolata Nel caf- fè, si legge:

‘Perché non parlare un po’ tra noi?’ mi dice uno forato nella gola premendosi una garza sull’incavo o poco sopra, e si siede al mio tavolo nel posto dirimpetto rimasto vuoto3.

In questa poesia di attese da riempire e di dialoghi con un altro da sé nel qua- le vedere riflessa la propria solitudine, la propria condizione di esuli e la pro- pria finitezza esistenziale, si respira un’aria già tutta dantesca: e ciò accade quasi trent’anni prima che Luzi, in compagnia di Lombardi e Tiezzi, si cimenti nella sua esperienza drammaturgica di carattere purgatoriale. L’adesione al progetto da parte del poeta, tuttavia, dobbiamo dirlo, sareb- be stata tutt’altro che immediata. Nella postfazione al Purgatorio, infatti, Luzi lo ricorda:

In un passato neppure troppo antico ero solito guardare con sospetto alle “ri- duzioni” teatrali di opere letterarie, specialmente se grandi ed esatte nella loro

1 Cfr. Sandro Lombardi, Biografie teatrali, in Mario Luzi, Felicità turbate, Milano, Garzanti, 1995, p. 76. 2 Luigi Baldacci, Presentazione. Il Dante di Luzi, in M. Luzi, Il Purgatorio. La notte lava la mente. Drammaturgia di un’ascensione, Genova, Costa&Nolan, 1990, pp. 6-7. 3 M. Luzi, Nel caffè, in Nel Magma, in Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 2001, I, p. 324. IL TEATRO DI MARIO LUZI 129

morfologia, si trattasse di romanzi, di diari o di poemi. Questa voracità tutta moderna dello spettacolo la consideravo senza alcuna indulgenza: sostanze che erano divenute splendenti in virtù della forma che le aveva sigillate non vedevo perché manometterle e piegarle a un uso diverso4.

A sgominare i suoi pregiudizi è la forza di persuasione di Orazio Costa e i risultati da lui raggiunti realizzando scenicamente la Vita Nuova, e traendo – come dice lo stesso Luzi – «dallo scavo della drammaturgia implicita e nascosta di quel testo», un effetto «così nitido e potente» da potenziarne, appunto, «il di- segno poematico e le energie contrastanti da cui si alimentava il suo pathos»5. Luzi, allora, accetta la sfida, e, in una calda mattina della primavera del 1989, come racconta Lombardi nel libro Queste assolate tenebre, invita a casa sua, al numero 20 di via di Bellariva, il giovane attore e il giovane regista. Nel corso di questo primo incontro, Luzi descrive Il Purgatorio come «una cantica sussurra- ta e dimessa, rispetto allo stridore dell’Inferno e all’inno spiegato del Paradiso»6. Parla, inoltre, «delle ferita che tutti ci accomuna e della fragilità e debolezza uma- ne da cui solo può scaturire la grazia».

Teologicamente, – continua Lombardi – intendevi il Purgatorio come un «tem- po intermedio», quel tempo in cui ai cristiani in vita è chiesto di vigilare, il tem- po tra la prima venuta di Gesù e quello in cui egli di nuovo verrà «a giudicare i vivi e i morti». In questo intervallo, tuttavia, Gesù non è assente, tutt’altro: non si è allontanato in un altro cosmo, all’uomo inaccessibile. Al contrario, dopo la sua risurrezione, Gesù – dicevi – si è fatto portatore di una presenza nuova in mezzo agli uomini, per gli uomini. E in qualsiasi momento […], può salire sulla barca di ciascuno, ad asciugare una lacrima, a eliminare le ingiustizie, a conferire senso a ogni cosa, a vincere il male con la forza dell’amore7.

Dopo questo primo incontro, Federico Tiezzi – come risulta da un’intervista a me rilasciata il 13 ottobre 2014 – ha cominciato a salire, tre-quattro volte alla settimana, per tre mesi, di mattina, le scale del condominio numero 20 di via di Bellariva. Una delle prime curiosità di Luzi era sapere in che modo Sanguineti avesse lavorato nel drammatizzare l’Inferno:

A Sanguineti avevo spiegato – continua a raccontarmi Tiezzi nell’intervista – che bisognava rendere l’Inferno in termini teatrali, e io gli proposi di affidare dei monologhi a ognuno dei numerosi eroi che si alternano nella Cantica. E così Sanguineti aveva fatto: aveva scritto dei monologhi e li aveva uniti insieme, di

4 M. Luzi, Notizia, in Il Purgatorio cit., p. 73. 5 Ibidem. 6 Sandro Lombardi, Queste assolate tenebre. Un’amicizia con Mario Luzi, con una nota di Fabrizio Sinisi, Città di Castello, Metteliana, 2013, p. 56. 7 Ivi, p. 57. 130 Giulia Tellini

modo che si succedessero, l’una dietro l’altra, una serie di voci. Raccontato que- sto modo di procedere a Luzi, lui mi fece notare che, invece, Il Purgatorio era più dialogico. E la chiave di lettura della sua drammaturgia fu infatti la dialogicità. Nel Purgatorio c’è infatti non solo un continuo parlare ma anche una continua richiesta di aiuto da parte delle varie anime8.

Dopodiché, racconta sempre Tiezzi, salito ogni mattina a casa sua, lui mi dettava e io scrivevo, io gli segnalavo alcuni episodi che mi piacevano e lui rico- nosceva che in scena sarebbero venuti bene. Lui cercava sempre, all’interno del Purgatorio, qualche appiglio bio-bibliografico, una sua memoria personale, ed io per questo, nei suoi confronti, ho provato molta ammirazione e molto affetto. In apertura, all’inizio dell’Antipurgatorio, immaginato come un non-luogo in cui sbarca o atterra un gruppo d’anime che sembrano emigranti, una voce fuo- ri campo (incarnata, in occasione della prima, dallo stesso Luzi) recita La not- te lava la mente, una delle rarissime incursioni non dantesche della drammatur- gia. E La notte lava la mente descrive benissimo come Luzi veda Il Purgatorio: come un regno, l’unico dei tre, dopo la notte dell’Inferno e prima del mezzo- giorno del Paradiso, dove vige il tempo. Tempo che divide dal mondo e tempo che divide da Dio. «È un filo – scrive lo stesso Luzi – che unisce pena, pazien- za e attesa: e unisce anche le anime espianti con i due grandi testimoni e pelle- grini, Dante e Virgilio, in una comune esperienza ascensionale – all’interno di se stessi»9. Un regno, il più umano dei tre, dove, nella prima parte, domina il mare, in una «stasi di spaesamento, incertezza, dubbio» e, nella seconda, domi- na una montagna che è come «un’arnia insonne» – scrive Luzi nell’intervento lirico che apre la terza parte dello spettacolo – dove tutte le api «distillano un dolce assenzio di martirio e di purificazione»10. Ed è vero quanto si legge nella prefazione del Purgatorio luziano, vale a dire che «per Luzi, come per nessuno, questo lavoro è stato un compimento del suo stesso itinerario»11. Si tratta, infatti, della cantica più affine alla sua sensi- bilità, anche perché è la cantica più simile alla vita; avviata verso la conoscen- za, il sapere e la consapevolezza di sé e nello stesso tempo costantemente intrisa di malinconia, nostalgia, mancanza, rievocazione. È il solo regno dove le anime sono davvero in bilico fra la terra e il cielo, fra il dolore e l’attesa, con un corpo pesante e imprigionato nella pena e un’anima che si è fatta già leggera e pregu- sta, ogni attimo di più, la propria libertà eterna12.

8 Federico Tiezzi, Alla ricerca di ‘points de repère’. Intervista a Federico Tiezzi, a cura di Giulia Tellini, 13 ottobre 2014. Il testo integrale dell’intervista è riportato in calce a queste pagine. 9 M. Luzi, Notizia cit., p. 74. 10 M. Luzi, Il Purgatorio cit., p. 30. 11 L. Baldacci, Presentazione. Il Dante di Luzi cit., p. 8. 12 Salvatore Battaglia, Esemplarità e antagonismo nel pensiero di Dante, Napoli, Liguori, 1967, p. 44. IL TEATRO DI MARIO LUZI 131

La successiva collaborazione di Luzi con Lombardi e Tiezzi risale all’autun- no 1994, quando l’attore e il regista gli propongono di curare la drammaturgia di una commemorazione teatrale di Pontormo nella ricorrenza del quinto cen- tenario della nascita:

Chiesi a Luzi – dichiara sempre Tiezzi nell’intervista che mi ha rilasciatoil 13 ottobre 2014 – non solo perché era un amico e un poeta sublime, ma anche perché per me ha sempre avuto un sapore un po’ beckettiano; e a me Pontormo, questo pittore sfuggente che se ne sta chiuso nella sua torre, è sempre sembrato un personaggio molto beckettiano. Insomma, in questo mio connettere Pontor- mo a Luzi, non ho fatto altro che seguire un filo rosso beckettiano13.

Anche nel Pontormo di Felicità turbate così come in quel Dante «supre- mo malinconico»14 del suo Purgatorio, Luzi proietta e ritrae se stesso. Si ritrae, cioè, come un pittore che si affida al colore, che affida al colore l’interpretazio- ne, che affida «al colore la profezia segreta / – si legge – che rodeva e illumina- va la [sua] anima»15. Un pittore che orgogliosamente dichiara: «sono così se mi vogliono, non credano io mi piaccia, / non mi piaccio, non mi piaccio ma così sono e rimango»16. E che della sua arte dice: «si sono fatti sempre più chiari e soffici i miei colori, / come a contrastare quello scuro che ho dentro di me / e a sfidarlo»17. Un pittore che ha paura della morte, non vuole vederla e non vuole se ne parli: «solo il Cristo l’ho dipinto morto non una ma più volte. / Mettevo in lui tutta la morte e Lui ne sosteneva il peso – / perché fosse liberato il mondo intero e / anche io…»18. Si assiste a un processo di progressivo alleggerimento, di abbandono della forza di gravità, di conquista della leggerezza. Nato e cresciuto a Castello, Luzi s’immagina che un coro di ragazzini del posto prendano in giroil pittore, e che un coro di lavandaie, le stesse che Luzi sentiva gridare da piccolo quando andavano a lavare i panni in Arno, chiacchie- rino fra loro per poi mettersi a intonare una canzone di lavoro. Sia la tiritera dei monelli di Castello che le voci e i canti delle lavandaie assumono un tono, un ritmo e uno stile tutti palazzeschiani, e questo autentico omaggio la dice lunga sul profondo amore per la vita di Luzi, che non ha mai nascosto la sua ammirazione e il suo affetto nei riguardi di quel «buon genio» di Palazzeschi, «straordinario apologeta» – come lui stesso lo definisce – del partito della vita, «del senso e del non senso della vita»19. La quale è fatta di tante cose che, come

13 Federico Tiezzi, Alla ricerca di ‘points de repère’ cit. 14 Ibidem. 15 M. Luzi, Felicità turbate cit., p. 22. 16 Ivi, p. 43. 17 Ivi, pp. 50-51. 18 Ivi, p. 51. 19 M. Luzi, Elegia e ironia, in Palazzeschi oggi. Atti del convegno, Firenze, 6/8 novembre 1976, a cura di Lanfranco Caretti, Milano, Il Saggiatore, 1978, p. 292. 132 Giulia Tellini sostiene , si vedono molto meglio se si guarda dal basso verso l’al- to che non viceversa. È vero che Pontormo, come Luzi, ha paura della morte e dentro di sé non vede altro che buio, ma per lui ciò che importa è rispettare la vita, non cedere all’oscurità, all’assopimento, a quel «tetro / umore», a «quell’atramento», che lo prende e che non sa spiegarsi. Ed è davvero straordinaria la morte che Luzi tie- ne in serbo per Pontormo: difatti, lo fa morire, praticamente, per pienezza di vita: incantato di fronte a una ragazza che danza per lui. Dopo Dante e dopo Pontormo, la notte di venerdì santo del 1999, Sandro Lombardi si trova a dare corpo e voce a Gesù. A proporglielo è lo stesso Luzi, che per l’occasione ha composto una sorta di lungo monologo, suddiviso in sta- zioni, nel corso del quale Gesù si rivolge al Padre, pieno di dubbi e di paure, di domande e di preghiere, di rimpianti e di angosce. Eppure, leggendo il mono- logo di questa moderna sacra rappresentazione, l’effetto che si prova è di estre- ma serenità. Come se Luzi avesse finalmente raggiunto quell’obiettivo al qua- le mirava fin dal 22 dicembre 1970 quando, in un biglietto a Carlo Betocchi, aveva scritto: «Mio carissimo Carlo, con il tuo stravedere mi è arrivato l’augu- rio più bello, quello di poter essere un giorno anch’io così limpido, così certo, così fieramente arreso all’evidenza, così umilmente consacrato come sei tu, caro, che sei una meraviglia»20. E infatti le parole di Luzi, in questa Via Crucis, sal- gono in alto quasi senza peso, sempre più leggere, e le ultime parole sono un inno all’amor vitae:

L’offesa del mondo è stata immane. Infinitamente più grande è stato il tuo amore. Noi con amore ti chiediamo amore21.

Dal «malinconico» Dante purgatoriale allo «sfuggente» Pontormo, che nel luminoso cromatismo di colori sempre più «soffici» cerca di vincere la morte, fino alla monologante Via Crucis di parole tanto più chiare quanto più profon- de, la drammaturgia di Luzi procede nella direzione d’un graduale illimpidi- mento della materia terrena e terrestre, verso la pacificazione di una finalmen- te conquistata leggerezza.

20 Citato in S. Lombardi, Nota del curatore, in M. Luzi, Via Crucis al Colosseo, Brescia, L’Obliquo, 1999, p. 33. 21 M. Luzi, Via Crucis al Colosseo cit., p. 31. APPENDICE Alla ricerca di «Points de repère» Intervista a Federico Tiezzi

Firenze, 13 ottobre 2014. Dopo un pranzo in un caffè di Coverciano, Federico Tiezzi mi parla degli spettacoli, messi in scena con la sua regia e l’interpretazione di Sandro Lombardi, dei quali Mario Luzi ha curato la drammaturgia. Storia di un’amicizia e di un sodalizio artistico quindicennali.

Come è avvenuto l’incontro con Luzi?

Era il 1989 e decisi di realizzare scenicamente la Divina Commedia; cosa che nessuno aveva mai tentato prima. Nessuno, voglio dire, aveva pensato di far apparire i personaggi in una situazione drammatica che riportasse al clima delle tre cantiche, che schierasse in successione gli avvenimenti di quel lungo viaggio nell’oltremondo. In modo organico, «teatrale». Da vera «commedia». Ci aveva provato precedentemente Orazio Costa, ma la sua realizzazione mi parve poco teatrale, parecchio frammentaria, molto convenzionale. Nella Commedia dan- tesca ci sono, oltre a fantastiche situazioni drammatiche, indicazioni sonore, di «luce», di movimento: un vero laboratorio di connessione di linguaggi, un vero «teatro». Mi affidai, per la drammaturgia, a tre poeti. A Sanguineti per l’Inferno (e scrisse la Commedia dell’Inferno1), a Luzi per il Purgatorio2 e a Raboni per il Paradiso. Però, dato che era appena diventato critico del «Corriere della Sera», Raboni declinò l’invito e, dapprima, m’indirizzò verso Zanzotto. Poi, visto che con Zanzotto divergevamo su alcuni punti (desiderava ad esempio che la musica fosse realizzata da un suo amico che risultò essere, mi par di ricordare, il suo dentista), m’indirizzò verso Giovanni Giudici.

…che scrisse «Il Paradiso. Satura drammatica»3

1 Commedia dell’Inferno. Un travestimento dantesco, di Edoardo Sanguineti. Regia di Federi- co Tiezzi. Con Nicoletta Corradi, Marion D’Amburgo, Giovanni Fochi, Mario Grossi, Sandro Lombardi, Adonella Monaco, Enrico Pallini, Stefano Peruzzo, Nadia Ristori, Cristina Sanmar- chi, Federico Tiezzi. Scenografia di Manola Casale. Costumi di Pasquale Grossi. Colonna sonora di Sandro Lombardi. Luci di Juray Saleri. Compagnia i Magazzini – Consorzio Teatrale Metasta- sio. Prato, Teatro Fabbricone, 27 giugno 1989. 2 Il Purgatorio. Drammaturgia di un’ascensione, di Mario Luzi. Regia di Federico Tiezzi. Con Annarita Chierici, Pietro Conversano, Marion D’Amburgo, Michele D’Anca, Susanna Infanti- no, Sandro Lombardi, Enrico Pallini, Ivan Polidoro, Marcello Prayer, Federico Tiezzi, Thomas Trabacchi, Giulia Weber, Paolo Zuccari. Scene e costumi di Pasquale Grossi. Colonna sonora di Sandro Lombardi. Luci di Roberto Innocenti. Compagnia i Magazzini – Consorzio Teatrale Metastasio. Prato, Teatro Fabbricone, 2 marzo 1990. 3 Il Paradiso. Satura drammatica, di Giovanni Giudici. Regia di Federico Tiezzi. Con Ales- sandra Antinori, Alessandra Celi, Marion D’Amburgo, Giovanni Fochi, Sandro Lombardi, Laura Martelli, Gabriele Parrillo, Graziano Piazza, Aurelio Pierucci, Paolo Ricchi, Emanuela Villagros- si. Scene di Manola Casale. Costumi di Giovanna Buzzi. Luci di Juray Saleri. Colonna sonora di Sandro Lombardi. Compagnia i Magazzini – Consorzio Teatrale Metastasio. Bari, Teatro Pe- truzzelli, 27 marzo 1991. 134 Giulia Tellini

Infatti. Ho lavorato benissimo con tutti e tre i poeti, ma con Luzi ci fu una maggiore identità di vedute. Prima di allora, conoscevo Luzi come poeta. Non lo conoscevo personalmente. Avevo letto le sue poesie, i suoi testi, che mi erano parsi molto poco teatrali, anche se sublimi dal punto di vista del linguaggio. Il teatro risiedeva nelle parole più che in una trama, in un intreccio. Era un teatro che abitava nel verso. È come quando senti una musica, e pensi: «il teatro è dentro questa musica, dentro la partitura musicale». Succede che faccio la mia proposta a Luzi, e lui mi risponde: «che bell’idea, però lavoriamoci insieme!». E così mi sono trovato, per tre mesi, a salire, la mattina, quattro cinque volte a settimana, le scale di casa sua, a Bellariva. Si lavorava tutta la mattina: il pomeriggio controllavo sulla voce di Sandro [Lombardi] se quello che avevamo fatto «funzionava». Facevo da assistente: Luzi mi dettava e io scrivevo. Lo avevo scelto per il Purgatorio perché le sue poesie sono piene di rimandi a questa cantica, quella a lui più congeniale. Nella raccolta Nel Magma, c’è una poesia (Nel caffè, s’intitola) dove si legge:

‘Perché non parlare un po’ tra noi?’ mi dice uno forato nella gola premendosi una garza sull’incavo o poco sopra, e si siede al mio tavolo nel posto dirimpetto rimasto vuoto4.

E questo è Bonconte da Montefeltro, dal quinto del Purgatorio! Raccontai a Luzi come avevo lavorato con Sanguineti, al quale avevo chiesto una forma teatrale per l’Inferno, che è tutto pieno di didascalie e perfino di indicazioni sulle luci. Gli avevo suggerito, a Sanguineti: «facciamo in modo di restituire questi eroi dell’Inferno in forma di monologhi». Difatti, lui aveva sezionato la cantica in monologhi, uno per ogni grande personaggio (Paolo, Francesca, Farinata, Ugolino, Ulisse), e li aveva compattati insieme, col risulta- to di ottenere una serie di voci. Tutto questo percorso, che portava a un Inferno visto come una lunga successione di monologhi, di ritratti corrosi, di statue pietrificate nella vita e smangiate dal tempo, di affreschi frammentari di cui si leggono solo alcune parti, lo raccontai a Luzi. «È una bella intuizione – disse –, ma il Purgatorio è più dialogico dell’Inferno». Ed ecco la chiave di lettura della seconda cantica: la «dialogicità», il dialogo, il dialogare. Nel Purgatorio, oltre- tutto, le anime parlano di sé e chiedono a Dante e Virgilio di parlare di loro, di essere ricordate. Sono anime che domandano e che attendono una risposta da parte dei due viaggiatori. C’è una continua richiesta d’aiuto perché ognuno sia ricordato nella vita terrena: laggiù, «nella luce», direbbe Beckett. (pausa di riflessione) Ho sempre pensato che Luzi avesse un «colore» beckettiano… O Beckett un colore luziano… Sarebbe stato bello avere una traduzione di Beckett in italiano da parte di Luzi; per esempio Finale di partita o L’ultimo nastro di Krapp: pensa che incontro di giganti!

4 M. Luzi, Nel caffè cit. IL TEATRO DI MARIO LUZI 135

(pausa di riflessione) Ho sempre amato il fatto che Beckett conoscesse così bene la Divina Comme- dia e in particolar modo il Purgatorio da dare al protagonista della sua raccolta di racconti Più pene che pane il nome di Belacqua, un personaggio che Dante incontra nell’Antipurgatorio, fra i negligenti. Belacqua se ne sta seduto, abbrac- ciandosi le ginocchia, e, «tenendo ’l viso giù tra esse basso», dice a Dante: «Or va tu sù, che se’ valente!». È uno pigro, neghittoso, che sembra posseduto dalla noia di vivere, da uno spleen ante litteram… Comunque… si comincia a lavorare (a «dialogizzare» tutto), ed è una fatica. Si lavorava su alcuni episodi che parevano i più interessanti dal punto di vista drammaturgico, e Luzi si fidava di questo mio «occhio» per le situazioni mag- giormente teatrali. Poi provavamo a dare all’episodio una forma drammatica. Il mattino successivo Luzi correggeva sulla base delle sue riflessioni.Così, mentre lui redigeva il testo dantesco secondo la sua visione,tagliandolo e adattandolo, io redigevo nella mia testa lo spettacolo, che in tal modo si trasformava, assecon- dando le rivoluzioni quotidianamente in atto nel copione.

Mi piace e m’interessa molto il fatto che, all’inizio, le anime che arrivano nel Purga- torio siano come «passeggeri – si legge nella didascalia – che potrebbero scendere da una barca o anche da un aereo»5.

Fu Luzi a darmi l’idea. Mi disse: «l’Antipurgatorio è un momento nel quale le anime non sono né di là né di qua: devono ancora ascendere al Purgatorio, ma nello stesso tempo hanno già abbandonato la vita terrena, però questa vita terrena ancora brucia in loro. È un po’ come se fossero un gruppo di emigranti». Così mi nacque l’idea che le anime raccolte sulla spiaggia dell’Antipurgatorio fossero dei veri e propri «migranti» appena sbarcati, spaesati e spauriti. Allestito oggi, lo spettacolo sarebbe di un’attualità ancora più bruciante. Quando misi in scena tutta la Divina Commedia, a Cividale, nel 1991-1992, e ne venne fuori uno spettacolo delle durata di 11 ore, i venti attori scendevano da una montagna reggendo in mano delle lanterne, salivano su una barca, approdavano sul greto del fiume, e lì cominciavano a recitare: accendevano i fuochi per il cibo con cartoni e sterpi, mangiavano un po’ di pane seduti sulle valige, stanchi, stralu- nati ma pieni ancora di vita, con la voglia di parlare, di comunicare, di ricordare6.

Nelle note di regia, scrivi che l’Antipurgatorio è come una stazione ferroviaria o un aeroporto, che accoglie questo gruppo di viandanti «nella malinconia di tutte le sale d’attesa»7.

5 M. Luzi, Il Purgatorio cit., p. 13. 6 Divina Commedia di Dante Alighieri. Regia di Federico Tiezzi. Con Alessandra Antino- ri, Alessandra Celi, Pietro Conversano, Marion D’Amburgo, Francesca della Monica, Giovanni Fochi, Sandro Lombardi, Laura Martelli, Adonella Monaco, Enrico Pallini, Gabriele Parrillo, Graziano Piazza, Aurelio Pierucci, Ivan Polidoro, Marcello Prayer, Paolo Ricchi, Emanuela Villa- grossi, Paolo Zuccari. Compagnia i Magazzini. Cividale, Mittelfest, 27 luglio 1991. 7 F. Tiezzi, La fisica dell’assenza: per una regia del Purgatorio, in M. Luzi, Il Purgatorio cit., p. 80. 136 Giulia Tellini

È proprio come lo sento. Luzi divise la sua drammaturgia in tre parti: Anti- purgatorio, Purgatorio e Paradiso terrestre. Su tutto l’Antipurgatorio stese un velo di malinconia, di nostalgia della vita, del paese; fece del Purgatorio un susseguirsi di domande e di risposte; e centralizzò, in maniera ancora più forte, il Paradiso terrestre, sulla figura, sul personaggio, di Beatrice: una specie di cat- tivissima maestra che dava «una spazzolata» a Dante con rimproveri, esortazioni e consigli. Ma l’Antipurgatorio era il momento per me più denso, forte. L’arrivo del gruppo di anime, nei loro poveri abiti, con le valigie legate con le corde, i fagotti, gli zaini, aveva una grande intensità, che si esaltava quando i personaggi, nell’attesa, si rivelavano agli altri e agli spettatori esprimendosi nella lingua e nei versi di Dante. Si apriva, teatralmente, una vertigine.

Secondo Baldacci, «la grammatica e la sintassi mentale» della poesia di Luzi sono dantesche, e questo lavoro sul Purgatorio, per lui, non è stato altro che «un compi- mento del suo stesso itinerario»8.

Era bello lavorare insieme, perché, ogni volta, Luzi cercava, dentro il Purgato- rio, una sua memoria personale. Una sua eco, pareva. Mi ero rivolto a lui, per il Purgatorio, proprio per via delle presenze dantesche all’interno del suo dire poetico. E capivo, lavorandoci insieme, che Luzi intratteneva un dialogo con se stesso, rintracciando in Dante la memoria della sua poesia… dopo, abbiamo lavorato insieme per 15 anni. Luzi s’orientava perfettamente nel Purgatorio, e lo faceva alla ricerca di points de repère, attraverso i quali compiva, lo sentivo, un suo personale viaggio nella poesia. Mi piaceva anche il fatto che lui vedesse (e mi avesse fatto scoprire) Dante come un supremo malinconico. Insomma, il grande poeta fiorentino si guardava, e guardava la sua poesia, attraverso lo specchio costituito dal Purgatorio. Furono tre mesi di gran lavoro; ogni tanto si disfaceva tutto e si ricominciava da capo. Scrisse due poemi nuovi, che recitò lui stesso: gli chiesi di fare l’attore, insistetti e alla fine acconsentì di buon grado. Alla prima, al Fabbricone, i nuovi poemi scritti per l’occasione li recitò lui stesso. In prova li recitava talmente pia- no che suggerivo: «non potresti dire un poco più forte?»… non potevo gridare a Luzi: «Voce!». Alla fine, però, lo feci recitare con un microfono.

Quindi, lui ha scelto di preservare l’assolutezza del testo, e perciò di suo, nella dram- maturgia, compaiono solo un paio di interventi lirici, che, come spiega lui stesso, sono «intesi a mettere a fuoco il pathos che unisce i protagonisti con noi spettatori, divenuti però agonisti»9.

Sì, scrisse questi due poemi bellissimi per lo spettacolo, e poi, per l’Antipurgato- rio, riutilizzò una sua poesia, che s’intitola La notte lava la mente. Non sono molto d’accordo sul fatto che scelse (come riporti) «di preservare l’as- solutezza» del testo dantesco. Credo che con questa affermazione Luzi si riferisse

8 L. Baldacci, Presentazione. Il Dante di Luzi, ivi, p. 8. 9 M. Luzi, Notizia, ivi, p. 75. IL TEATRO DI MARIO LUZI 137 al lavoro di Sanguineti, che invece si era comportato, per l’Inferno, con grande libertà, trasformando molto e preservando poco (secondo una bellissima idea di reinterpretazione in chiave contemporanea). Luzi, principalmente, mantenne, e strutturò teatralmente, la densità linguistica e poetica della seconda cantica. Ma se rileggi ora il testo, ci senti gli anticipi di altri «viaggi», specialmente di uno: quello celeste e terrestre di Simone Martini…

«La notte lava la mente» è diventato il sottotitolo dello spettacolo. Perché?

Perché il Purgatorio si situa (e si svolge cronologicamente) dopo la notte dell’In- ferno. Dopo quella notte, si arriva al Purgatorio «lavati». Il Purgatorio stesso, inoltre, è un ulteriore lavaggio prima di giungere al Paradiso. Non solo per Dante e Virgilio, ma per tutti.

La notte lava la mente. Poco dopo si è qui come sai bene, file d’anime lungo la cornice, chi pronto al balzo, chi quasi in catene10.

E qui si sente bene il pathos, come dice Luzi, che unisce il destino di Dante con quello dell’intera umanità. Nell’altro poema, invece, lui rappresenta il Purgato- rio come un’arnia di api laboriose, ed è un’immagine formidabile:

Non dorme, non riposa, è un’arnia insonne, un fervoroso bugno senza pausa la ripida montagna. Vi lavorano le sue api un miele amaro, vi distillano un dolce assenzio di martirio e di purificazione […]11.

Lui, grandissimo pensatore cattolico, come poeta riusciva a trovare, nella Com- media, parametri religiosi di straordinaria densità morale. E, in qualche manie- ra, ci trovava se stesso.

Il 1994, invece, è l’anno di «Felicità turbate»12.

Le Felicità turbate nascono da una commissione del Maggio Musicale Fiorenti- no, che mi chiese di mettere in scena uno spettacolo su Pontormo, in occasione del quinto centenario della nascita; già m’immaginavo un Pontormo che ritira

10 M. Luzi, La notte lava la mente, in Onore del vero, in Tutte le poesie cit., p. 254. 11 M. Luzi, Il Purgatorio cit., p. 30. 12 Cfr. M. Luzi, Felicità turbate, Milano, Garzanti, 1995. 138 Giulia Tellini

la scala per non permettere a nessuno l’accesso alle sue stanze, che vive isolato, solitario, distillando la magia dei colori nel suo studio di via Laura. Mi rivolsi a Luzi perché era divenuto un amico, perché era un grandissimo poeta che però sapeva «maneggiare» il teatro, e sapeva creare un personaggio, e infine perché Pontormo, non tanto come artista quando come uomo, è molto simile a un personaggio di Beckett. Seguii, insomma, un mio filo rosso beckettiano, che, a un’estremità, aveva Pontormo e, all’altra, aveva un Luzi che in molte poesia lascia affiorare una disperazione ontologica simile a quella di Beckett. Così, Luzi scrisse le Felicità turbate e le dedicò, «linguisticamente», a Sandro [Lombardi], che era il protagonista del Purgatorio (e Luzi difatti l’aveva conosciuto durante le prove del Purgatorio) e sarebbe stato il protagonista di Felicità turbate.

Uno spettacolo beckettiano, dunque. Dissi a Luzi che avrei voluto dare a Pontormo una «figuratività» beckettiana; un Pontormo che se ne sta in casa, chiuso nella sua torre e da lì regola tutti i suoi contatti col mondo. In scena feci costruire la sezione cilindrica di una torre, piena di finestre, con Pontormo che se ne stava in alto, solitario.

Come d’altra parte si legge nel diario di Pontormo13.

Non so se Luzi si sia ispirato al diario. Io sì, perché l’idea di un Pontormo be- ckettiano (di un uomo che abitava in via Laura, in vetta a un soppalco, e che, per evitare di essere disturbato, toglieva la scala di collegamento col piano di sotto) mi veniva dal diario. Il tema è quello della memoria (che compare anche come personaggio nel testo), e il nocciolo di tutta la questione è l’artista che parla di se stesso e dei suoi strumenti e che non si trova in sintonia con il mondo e con la società. A metà del testo c’è un «coro delle cose dipinte», le cose cioè che appaiono nei quadri, negli affreschi. È un coro poeticamente straordinario, che risultò di grande efficacia scenica con la recitazione di Sandro [Lombardi].

Come lo hai reso scenicamente?

Lo feci recitare a Sandro [Lombardi], tutto qui: era impossibile da rendere altri- menti. È come un lungo delirio del protagonista prima della morte. Il teatro era dentro le parole, dentro il verso, nelle immagini. E quindi cercai di far risaltare questo «teatro» interno, asciugando l’immagine scenica e approfondendo prin- cipalmente la recitazione, l’interiorizzazione delle parole.

Mi piace anche la «tiritera dei ragazzi di Castello», che trovo molto palazzeschiana, e la scena delle lavandaie, che chiacchierano e cantano mentre lavano i panni in Arno.

Sì, anche a me piace molto. In una scena, arrivano delle lavandaie a parlare fra loro, a litigare, a ciarlare, e Luzi mi spiegò: «è come quando in Arno arrivavano

13 Cfr. Jacopo Da Pontormo, Diario, a cura di Emilio Cecchi, Firenze, Le Monnier, 1956. IL TEATRO DI MARIO LUZI 139

le lavandaie, e io le sentivo gridare». Tornava di continuo alle proprie memorie personali. In un certo senso, lui, che aveva una figura allampanata un po’ alla Pontormo, in questo testo si era identificato con lui, come poi, anni dopo, si sarebbe identificato con Simone Martini. S’identificava, come succede spesso anche a me, con degli artisti, attraverso i quali si può rileggere la propria relazio- ne con il mondo. Per noi toscani viene spontaneo identificarci nei pittori… in- fatti, abbiamo alle spalle un mondo fatto di pietre, che sono quelle delle città… ma sono pietre dipinte, e cantano una teoria di colori che parlano, esaltandola, della realtà.

Le musiche erano di Giacomo Manzoni, vero?

Avevamo lavorato insieme sull’Inferno di Sanguineti, invitati a Ravenna da Cri- stina e Riccardo Muti. Pensavo che sarebbe stato interessante accompagnare la dissonanza di Sanguineti con una musica altrettanto dissonante. Avevo iniziato dal Paradiso, con le musiche composte da Salvatore Sciarrino14, poi, procedendo a ritroso, eravamo arrivati al Purgatorio, con le musiche di Luigi Nono, e infine all’Inferno, con le musiche di Giacomo Manzoni15. Anche per il Pontormo di Luzi chiesi a Giacomo [Manzoni] di scrivere le musiche di scena, e lui compose un quartetto d’archi che accompagnava molte parti del testo, e introduceva le scene. Lo spettacolo, replicato tre volte all’interno del Maggio, ebbe un successo straordinario16.

Nel 2004, collaboraste insieme anche per l’adattamento scenico del «Viaggio terre- stre e celeste di Simone Martini»17…

14 Paradiso di Dante, di Giovanni Giudici. Regia di Federico Tiezzi. Musiche originali di Sal- vatore Sciarrino. Con Alessandra Antinori, Alessandra Celi, Giovanni Fochi, Gianluigi Fogacci, Sandro Lombardi, Laura Martelli, Graziano Piazza, Paolo Ricchi, Fabrizio Russotto, Emanuela Villagrossi. Orchestra Sinfonica di Torino della RAI. Direttore: Ed Spanjaard. Irvine Arditti, violino; Barbara Maurer, viola d’amore; Roberto Fabbriciani, flauto. Costumi di Giovanna Buzzi. Luci di Juray Saleri. Euritmia di Alfredo Chiappori e Francesca Gatti. Compagnia i Magazzini – Ravenna Festival. Ravenna, Basilica di San Vitale, 17 luglio 1993. 15 Inferno di Dante, di Edoardo Sanguineti. Regia di Federico Tiezzi. Musica di Giacomo Manzoni per trombone, coro da camera e processori elettronici. Con Alessandra Antinori, Ma- rion D’Amburgo, Sandro Lombardi, Gabriele Parrillo, Graziano Piazza, Federico Tiezzi. Michele Lomuto, trombone. Coro Convito Musicale diretto da Franco Sebastiani. Scene di Manola Ca- sale. Luci di Juray Saleri. Compagnia Teatrale i Magazzini – Ravenna Festival. Ravenna, Giardini di San Vitale, 14-16 luglio 1995. 16 Felicità turbate, di Mario Luzi. Regia di Federico Tiezzi. Interludi per quartetto d’archi di Giacomo Manzoni. Con Alessandra Antinori, Gianluca Barbieri, Roberta Bosetti, Alessandra Celi, Sandro Lombardi, Paolo Ricchi, Almerica Schiavo, Massimo Verdastro, Bruno Viola, Ema- nuela Villagrossi. Scene di Pier Paolo Bisleri. Costumi di Giovanna Buzzi. Luci di Juray Saleri. Quartetto d’archi di Torino: Giacomo Agazzini e Umberto Fantini, violini; Andrea Repetto, viola; Manuel Zigante, violoncello. Compagnia Teatrale i Magazzini – Regione Toscana. Firenze, 58° Maggio Musicale Fiorentino, Piccolo Teatro Comunale, 6 giugno 1995. 17 M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini [1994], in Tutte le poesie cit., II, pp. 983-1183. Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini di Mario Luzi. Uno spettacolo di Sandro 140 Giulia Tellini

Si lavorò insieme, ma dal punto di vista drammaturgico mi attenni scrupolosa- mente al poema, che seguiva il viaggio dalla Francia a Siena passando per Firen- ze. Era uno spettacolo che composi con grande passione, con una drammaturgia molto libera. Lo sforzo era tutto rivolto alla recitazione dei versi, alla loro resa drammatica.

È vero poi che nel 1998 gli chiedesti di tradurre l’«Amleto» ma lui non volle?18

Mi disse, parole sue: «mi sentirei di mettermi in gara». E gli risposi: «con Mon- tale, eh?». E lui, che era un uomo pieno d’ironia, si mise a ridere. Mi tradusse soltanto alcune parti, fra cui la follia di Ofelia e il compianto funebre di Gertru- de, e soprattutto il monologo famoso Essere o non essere?, che divenne:

Essere? O no: proprio qui è il dilemma: è più dignitoso sopportare gli oltraggi dispettosi della fortuna o prendere le armi contro quelle offese e farla finita?19

Una traduzione dalla musicalità dissonante ma dolcissima, molto vicina a quella di Stravinskij.

Lombardi e Federico Tiezzi. Con Marion D’Amburgo, Clara Galante, Sandro Lombardi, Fabio Mascagni, David Riondino, Massimiliano Speziani, Alessandro Schiavo. Scene di Paolo Cavina- to. Costumi di Marion D’Amburgo. Luci di Gianni Pollini. Compagnia Lombardi-Tiezzi, Firen- ze – Comune di Siena. Siena, Teatro dei Rozzi, 8 ottobre 2004. In occasione della messinscena, il testo del poema è stato ristampato in M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Brescia, L’Obliquo, 2004. 18 Cfr. Federico Tiezzi, Verso indesiderate, inospitali ombre. Vite parallele di Amleto, in Sandro Lombardi (a cura di), Amleto, di William Shakespeare, regia di Federico Tiezzi, Brescia, L’Obli- quo, 2002, p. 24. 19 William Shakespeare, Amleto, traduzione di Mario Luzi, in Id., Amleto. Scene di Amleto, regia di Federico Tiezzi, traduzioni di Gerardo Guerrieri, Michele Leoni, Mario Luzi, Alessandro Serpieri, Teatro Metastasio di Prato, Stagione teatrale 2001-2002, p. n.n. LUZI LETTORE, SAGGISTA, TRADUTTORE

PRIMI APPUNTI DI LUZI SU TEILHARD DE CHARDIN NOTE IN MARGINE A UN ARTICOLO RITROVATO

Giuseppe Langella

Gli Atti delle due giornate su Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste1, con le quali si sono aperte, di fatto, le celebrazioni per il centenario della nascita della «generazione del quattordici»2, offrono in appendice alcuni scritti del poeta, il primo dei quali, anepigrafo, è stato intitolato da Stefano Verdino, cui si devo- no questi recuperi, Teilhard e Maritain3. Dell’articolo, rimasto verosimilmen- te inedito, è emersa dalle carte di Luzi una stesura autografa, con vistose cor- rezioni. Il riferimento alla «recente» pubblicazione del Paysan de la Garonne di Jacques Maritain4 autorizza a congetturare che la stesura di queste pagine sia av- venuta nello stesso 1966 o, tutt’al più, nei primi mesi dell’anno seguente. Non è da escludere, anzi, che l’intervento fosse destinato, inizialmente, a inaugurare la collaborazione del poeta al «Corriere della Sera», che data giusto a partire dal 1967. Accredita questa ipotesi, peraltro tutta da verificare, l’accenno di Luzi, subito in apertura di articolo, all’inaugurazione di una «rubrica», di cui sarebbe stato il titolare, che proprio da quel confronto avrebbe dovuto prendere le mos- se: «Sarebbero probabilmente altri gli elementi sintomatici della cultura france- se di questo momento: avremo presto occasione di richiamarli nel seguito della rubrica a cui oggi diamo l’avvio»5.

1 Cfr. Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste, con un’appendice di scritti dispersi, a cura di Paola Baioni e Davide Savio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014 (Archivio della Lette- ratura Cattolica, 7). Il convegno, promosso dal Centro di ricerca «Letteratura e Cultura dell’Italia Unita» dell’Università Cattolica del Sacro Cuore insieme al Centro culturale «Alle Grazie» dei Padri Domenicani e all’«Associazione Mendrisio Mario Luzi Poesia del Mondo», si è svolto a Milano il 19 e 20 marzo 2014. 2 Cfr. Giuseppe Langella, In limine alla generazione del quattordici, in «Il Portolano», XX (2014), 76-77, pp. 1, 3-4. Ma sull’argomento bisogna sempre rifarsi agli scritti pionieristici di Macrí, raccolti in volume da Anna Dolfi: cfr. Oreste Macrí, La teoria letteraria delle generazioni, Firenze, Franco Cesati Editore, 1995. 3 Mario Luzi, [Teilhard e Maritain], in Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste cit., pp. 237-239. 4 Cfr. Jacques Maritain, Le paysan de la Garonne. Un vieux laïc s’interroge à propos du temps présent, Paris, Desclée De Brouwer, 1966. 5 M. Luzi, [Teilhard e Maritain] cit., p. 237.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 144 Giuseppe Langella

Se poi il libro di Maritain, che tante discussioni avrebbe sollevato, per quel suo parlar franco e senza «peli sulla lingua», appunto da «contadino della Garonna», intorno alle derive neomoderniste che minacciavano la Chiesa del dopo Concilio, assicurava all’articolo di Luzi l’indispensabile aggancio ai temi e alle occasioni dell’attualità culturale, non c’è dubbio che a calamitare il suo interesse più pro- fondo, di poeta non meno che di intellettuale e di uomo di fede, erano le pro- spettive davvero affascinanti aperte dalla visione teologica di Teilhard de Chardin, che scardinava l’idea tragica e pessimistica della storia e della natura umana pro- pria della tradizione cristiana. D’altronde, proprio la portata rivoluzionaria di quelle tesi così eterodosse e controcorrente era costata all’autore, paleontolo- go e gesuita, se non mai la condanna esplicita e ufficiale della Chiesa, una serie di pesanti provvedimenti restrittivi, come la rimozione dall’insegnamento, l’al- lontanamento dalla Francia e il divieto di dare alle stampe le sue opere. A fron- te di tanti moniti, attacchi e censure, non erano mancati, però, neanche giudi- zi benevoli o apologie coraggiose, come, nel 1962, il libro del confratello teolo- go Henri de Lubac sulla Pensée religieuse du père Teilhard de Chardin6. Lo stesso Paolo VI, visitando un’industria farmaceutica romana, il 24 febbraio 1966 ave- va citato un celebre motto del padre gesuita, «più studio la materia, più trovo lo spirito», additando a modello, pur con qualche riserva sui risultati, lo sfor- zo da lui compiuto per mettere d’accordo religione e scienza7. Ma perfino certi importantissimi documenti conciliari, come la costituzione pastorale Gaudium et Spes, risentono del pensiero di Teilhard de Chardin8. Per constatare, poi, con quanto interesse si guardasse alle sue teorie negli ambienti più progressisti del lai- cato cattolico, basterebbe rileggere, da un lato, gli interventi di Mario Gozzini, culminati nel vivacissimo Concilio aperto9, dall’altro la monografia di Giancarlo

6 Henri de Lubac, La pensée religieuse du père Teilhard de Chardin, Paris, Aubier, 1962 (trad. it. Il pensiero religioso di padre Teilhard de Chardin, Brescia, Morcelliana, 1965). 7 Cfr. Paolo VI, Insegnamenti, IV, Roma, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1966, pp. 992-993. Anche il futuro papa Benedetto XVI tenne in grande considerazione il pensiero di Teilhard de Chardin, parlandone con evidente simpatia ai suoi studenti di Tubinga nel 1967: cfr. Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, 1969, pp. 187-190. 8 Lo ha ricordato lo stesso card. Joseph Ratzinger in Les principes de la théologie catholique. Esquisse et matériaux, Paris, Tequi, 1982, pp. 374-375. 9 Mario Gozzini, Concilio aperto da Giovanni a Paolo, con una scelta di testi del Magistero Ecclesiastico, Firenze, Vallecchi, 1962. In questo volume Teilhard de Chardin viene citato a più riprese come punto di riferimento e segno di contraddizione all’interno della Chiesa. Bastino questi stralci, estratti dal capitolo Il rischio del Concilio: «esiste, forse, una prospettiva sintetica, centrale: sulla quale il Concilio giocherà il suo rischio supremo. È la prospettiva che potremmo chiamare, da colui che nel nostro secolo più intensamente e acutamente di tutti l’ha avvertita, teilhardiana. // Non vogliamo affatto dire, sia chiaro, che il Concilio dovrebbe riconoscere in Teilhard de Chardin il nuovo dottore della Chiesa. Le tenaci riserve nei confronti del suo pen- siero – non mai, peraltro, condannato: soltanto sottoposto a particolari cautele – hanno certo un fondamento: lo ammettono anche i suoi più appassionati difensori. // La questione è un’al- tra: il grande scienziato gesuita ha visto chiaramente come la causa fondamentale dell’ateismo contemporaneo vada ricercata nel divorzio, consumato da secoli, fra il cristianesimo e lo slancio PRIMI APPUNTI DI LUZI SU TEILHARD DE CHARDIN 145

Vigorelli, traboccante di inserti antologici e corredata da un’ampia rassegna di prese di posizione Pro e contro, che, andata in libreria all’inizio del 1963, aveva suscitato immediato e non piccolo scalpore, anche per via di un titolo vagamen- te scandalistico, di taglio militante, come Il gesuita proibito10. A buon diritto, perciò, Mario Luzi può affermare nel suo articolo, scritto a distanza di qualche anno, che «tutti ormai sanno qualcosa della straordinaria risonanza postuma delle opere e della figura spirituale di Teilhard de Chardin; una letteratura già cospicua vi è fiorita sopra in questi anni e ha avuto un certo corso anche in Italia»11. Luzi non fa nomi, ma allude, appena dopo, in manie- ra del tutto trasparente, proprio al libro di Vigorelli, compagno d’arme fin dai tempi dell’ermetismo fiorentino: «In realtà il fascino di colui che è stato chia- mato, un po’ pubblicitariamente, il “gesuita proibito” è enorme»12. È diffici- le supporre che l’opera di Vigorelli stia all’origine della scoperta di Teilhard de Chardin da parte di Luzi, in quanto la pubblicazione sistematica delle Œuvres del chierico scienziato presso le Editions du Seuil, intrapresa fin dal 1955, all’in- domani della morte, sotto il patronato di un duplice, folto e autorevole comi- tato internazionale di garanti, aveva alimentato un acceso dibattito, rimbalza- to anche in Italia, su riviste, rotocalchi e testate quotidiane, almeno dal 1960 (ma Indro Montanelli aveva già denunciato L’affare Teilhard sul «Corriere della Sera» del 28 marzo 1956), con la partecipazione, fra gli altri, di Bo, di Montale, di Quasimodo13. Del resto, se dobbiamo credere alla testimonianza resa dallo stesso Luzi a Stefano Verdino in una di quelle «conversazioni sul cristianesimo» creativo dell’uomo, fra le speranze divine e le speranze umane, fra la salvezza dell’individuo e la salvezza dell’universo naturale […]. Entra in gioco, quindi, la nostra responsabilità di aver lascia- to formarsi quello che potremmo chiamare il grande malinteso dell’età moderna. Sono le nostre omissioni, i nostri ritardi, le nostre disobbedienze e complicità – culturali, politiche, sociali – che hanno troppo lungamente avallato un’interpretazione falsa del cristianesimo, quasi vi fosse fra la rivelazione e la scienza, fra la carità e il progresso sociale, un insormontabile diaframma […]. Ora nessuno come Teilhard, vissuto per tutta la vita in ambienti scientifici impregnati di laicismo, ri- masto per tutta la vita fedelmente missionario di Cristo e della Chiesa, ha sofferto questo divorzio tragico, questo malinteso di fondo […]. Nessuno più di Teilhard ha visto, e cominciato a per- correre, la strada nuova per arrivare dall’uomo a Dio, senza doverne abbandonare, per così dire, nemmeno una cellula. Nessuno più di Teilhard ha intuito che l’ateismo contemporaneo potrà essere vinto solo mostrando che l’evoluzione della natura e della storia umana trova nel Cristo il suo coronamento, non la sua negazione» (19634, pp. 65-66, 68). Cfr. inoltre pp. 19, 21, 51, 187. 10 Giancarlo Vigorelli, Il gesuita proibito. Vita e opere di P. Teilhard de Chardin, Milano, Il Saggiatore, 1963. 11 M. Luzi, [Teilhard e Maritain] cit., p. 237. 12 Ibidem. 13 Cfr. Carlo Bo, Il mondo è la mia fede, in «L’Europeo», 29 luglio 1962; e Salvatore Quasi- modo, Pierre Teilhard de Chardin, in «Le Ore», 7 giugno 1962. Quanto ai cinque articoli pub- blicati da Montale sul «Corriere della Sera» tra il marzo 1962 e l’aprile 1963, e alla poesia A un gesuita moderno inserita in Satura, si rimanda a Uberto Motta, Ipazia, Clizia e la bufera: Luzi fra Montale e Teilhard de Chardin, nella miscellanea di Studi di letteratura italiana in onore di Fran- cesco Mattesini, a cura di Enrico Elli e di Giuseppe Langella, Milano, Vita e Pensiero, 2000, [pp. 565-619], 598-599. 146 Giuseppe Langella che compongono il volume La porta del cielo, il suo primo contatto col «pen- siero di Teilhard de Chardin» risale agli «anni ’50»14. Non c’è dubbio, tuttavia, che l’uscita del Gesuita proibito abbia agito anche su Luzi da cassa di risonan- za e da volano per un approccio più organico e diretto agli scritti di Teilhard de Chardin, al di là dei pur copiosi stralci offerti da Vigorelli, promuovendo la ri- cerca e la lettura integrale delle opere disponibili. Non per nulla, come la critica ha ormai ampiamente acclarato15, la cosmologia teilhardiana comincia a lascia- re tracce vistose nella produzione poetica di Luzi dopo Nel magma, la cui editio princeps risale, come sappiamo, appunto al 1963. Ma per tornare all’articolo su Teilhard e Maritain, l’«enorme» risonanza avu- ta dal padre gesuita veniva ricondotta da Luzi a due motivi concomitanti: «vi contribuiscono in uguale misura il vertiginoso tentativo di sintesi tra scien- za moderna e teologia cristiana e la sua tormentata, umile, fedele devozione di prete»16. Curiosamente, Luzi poneva i due motivi sullo stesso piano, mentre ci saremmo aspettati che il primo, oggettivante rilevante, anche per l’allarme che aveva suscitato, in quanto le sue implicazioni teologiche collidevano con alcu- ni punti saldi della dottrina cattolica, lasciasse l’altro fatalmente in ombra, per quanto commovente potesse essere la messa a nudo di una coscienza oltremo- do sensibile e piena di slanci mistici. Che, insomma, della poliedrica persona- lità di Teilhard de Chardin le segrete inquietudini del ministero potessero eser- citare, agli occhi di Luzi, non minore attrattiva del recupero delle teorie darwi- niane entro un orizzonte religioso, non può non apparire abbastanza sorpren- dente. Tuttavia, a questa apparente eccentricità di giudizio si può trovare, forse, una spiegazione. Per cominciare, richiamerei una circostanza bibliografica: l’e- dizione francese delle opere dello scienziato gesuita, che annoverava fra l’altro le esposizioni più sistematiche e mature del suo sistema, da Le phénomène hu- main, stampato nel 1955, a Le milieu divin, pronto due anni dopo, non aveva

14 M. Luzi, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a cura di Stefano Verdino, Ca- sale Monferrato, Piemme, 1997, p. 27. 15 I numerosi riverberi della frequentazione di Teilhard de Chardin nell’opera poetica e drammaturgica di Luzi sono stati puntualmente rilevati da più parti: si vedano almeno Giuseppe Mazzotta, Mario Luzi: poesia e pensiero della creazione, in «Otto/Novecento», XV (1991), 1, pp. 133-142; Lisa Rizzoli-Giorgio C. Morelli, Mario Luzi. La poesia, il teatro, la prosa, la saggistica, le traduzioni, Milano, Mursia, 1992, pp. 129-136; Giorgio Mazzanti, Dalla metamorfosi alla trasmutazione. Destino umano e fede cristiana nell’ultima poesia di Mario Luzi, Roma, Bulzoni, 1993; Uberto Motta, Ipazia, Clizia e la bufera: Luzi fra Montale e Teilhard de Chardin cit.; Gianni Festa, Il discepolo e lo scriba: i “fondamenti invisibili” della poesia di Mario Luzi, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2013, pp. 166-175, 237-240 e passim; Marco Menicacci, Luzi e Teilhard de Chardin, in «Il Portolano», XX (2014), 76-77, pp. 13-15; e Matteo Munaretto, La poesia dall’in- terrogazione alla celebrazione. L’ultima dottrina di Mario Luzi, in Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste cit., [pp. 169-186], 180-183. Lo stesso Luzi in più occasioni ha confermato il debito contratto col teologo scienziato: cfr., ad esempio, le interviste Mario Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti, 1999, specialmente pp. 95, 121-127, 183 e 192-193; e M. Luzi, La porta del cielo cit., specialmente pp. 27, 30, 86, 102-104. 16 M. Luzi, [Teilhard e Maritain] cit., p. 237. PRIMI APPUNTI DI LUZI SU TEILHARD DE CHARDIN 147 avuto larga circolazione in Italia, per le forti resistenze della curia vaticana, che ne aveva, se non proprio vietato, certo risolutamente disapprovato e scoraggia- to la traduzione, a motivo delle «ambiguità» e dei «gravi errori» presenti in que- gli scritti, come si leggeva testualmente nel monito diramato dal Sant’Uffizio il 30 giugno 1962. Di fatto, fino al 1968, quando Il Saggiatore avrebbe varato l’e- dizione italiana delle «Opere di Teilhard de Chardin», cominciando, nell’ordi- ne, proprio dal Fenomeno umano e dall’Ambiente divino, chi volesse leggere inte- gralmente quei libri, non aveva altra chance che di procurarsi l’edizione france- se17. Ma almeno un libro del padre gesuita riuscì a vedere la luce in Italia prima del 1968 e anzi, una volta tanto, giocando d’anticipo persino sull’editore fran- cese: permanendo, infatti, l’interdetto pronunciato dalla Congregazione per la dottrina della fede, pur nel clima assai più aperto e conciliante del Vaticano II, i Pavoniani di Brescia pensarono bene di offrire, nel 1965, una traduzione di Le prêtre, uno scritto della prima maturità, risalente agli anni della grande guer- ra. Così, alla resa dei conti Il sacerdote fu il primo libro di Teilhard de Chardin pubblicato in Italia18. Questa circostanza editoriale aiuta senza dubbio a inquadrare, almeno in par- te, l’enfasi che avvolge, nell’articolo di Luzi, il motivo della vocazione religiosa del paleontologo gesuita e della sua strenua fedeltà al ministero. Ma la sottoline- atura dell’integrità e dell’indefettibilità della fede di Teilhard de Chardin rispon- de anche, su un piano più sottile e strategico, alla preoccupazione di limitare al massimo la portata delle accuse di eterodossia, se non proprio di eresia, di cui il «gesuita proibito» era fatto bersaglio. Luzi non poteva far finta di niente, come se le tesi innovative dello scienziato cattolico non avessero sollevato molte pesanti riserve, essendo difficilmente compatibili con alcuni aspetti tutt’altro che mar- ginali del magistero perenne della Chiesa. Dava conto, perciò, in maniera som- maria, dei principali capi d’accusa pendenti sulla sua cosmologia evoluzionisti- ca: «Non mi addentro nei problemi che il metacristianesimo di Teilhard fa sor- gere in rapporto con la teologia dogmatica: basti pensare al male come respon- sabilità individuale, al peccato originale, al mistero della Grazia – e più specifi- camente alle trasformazioni a cui è sottoposta la cristologia riguardo all’Incar- nazione e alla rivelazione»19. Ma intanto sgombrava il campo dalla troppo facile accusa di modernismo, brandita da più parti contro il sistema teilhardiano, in quanto si reggeva su un’ipotesi integrata di scienza e teologia: «non bisogna leg-

17 Tra i pochissimi che avessero osato proporre in traduzione dei brani antologici del «gesuita proibito» c’era il già menzionato Vigorelli, prima ancora che in volume, in tre fascicoli della sua rivista: cfr. Pierre Teilhard de Chardin, Il gesuita proibito, in «L’Europa Letteraria», 2 (1960), pp. 9-15; L’uomo, la felicità e la marcia del mondo, ivi, 9-10 (1961), pp. 18-35; L’arte nell’arco dell’e- nergia umana, 15-16 (1962), pp. 38-40. 18 P. Teilhard de Chardin, Il sacerdote, Brescia, Edizioni Pavoniane, 1965. L’edizione francese uscì tempo dopo: P. Teilhard de Chardin, Le prêtre, Paris, Editions du Seuil, 1968. 19 M. Luzi, [Teilhard e Maritain], p. 238. 148 Giuseppe Langella gerlo come un episodio tardivo del modernismo; siamo ben lontani dalla prati- ca un po’ affannosa del rammendo tra vita, scienza e fede che ebbe quel trascor- so del resto nobilissimo della storia moderna»20. La teoria di Teilhard de Chardin non nasceva dal proposito di ricucire lo strap- po tra religione e scienza che si era consumato in età positivistica, conciliando la dottrina creazionista della Chiesa con le scoperte di Darwin, come altri, prima di lui, si erano sforzati di fare. Nel paleontologo gesuita le due culture avevano da sempre trovato un’intesa, convergendo senza alcuna forzatura verso un sape- re unitario. In lui il teologo poteva tranquillamente accettare il contributo dello scienziato senza dover rinnegare, per questo, gli articoli di fede. Le evidenze scien- tifiche confermavano, anzi, le verità rivelate, venendone a loro volta illuminate. La scienza descriveva un cosmo in progress, che era andato evolvendo e continua- va ad evolversi secondo una riconoscibile linea di sviluppo; la teologia, dal canto suo, spiegava la causa prima e il fine ultimo di questa vettorialità. Luzi rivendica al pensiero del padre gesuita la coerenza e la solidità che derivano da una sintesi a priori delle competenze scientifiche con la visione cristiana. Nessun rabbercio, nessun compromesso, nessun accordo posticcio, nel suo sistema; nessuna inten- zione apologetica, nessun bisogno di venire a patti per non perdere il treno del- la storia: «Con Teilhard» – prosegue Luzi – «ci troviamo di fronte a un’intuizio- ne primaria, autentica, originale che s’impone o si lascia discutere come tale»21. Questo ben congegnato tentativo di scagionare Teilhard de Chardin dalla tac- cia di modernismo è tanto più significativo in quanto prende nettamente le di- stanze dal Gesuita proibito di Vigorelli, dove invece un intero capitolo, intitola- to, emblematicamente, Nel solco del «secondo modernismo», tendeva per un verso a collocarne la formazione intellettuale totalmente all’interno della crisi moder- nista d’inizio secolo, e per un altro a farne addirittura uno dei protagonisti delle serrate dispute teologiche divampate negli anni venti in tema di rapporti tra fede e progresso, sfociando, nel suo caso, nella rimozione dalla cattedra di Geologia e Paleontologia all’Institut Catholique di Parigi e nel divieto di pubblicare qual- siasi scritto di carattere teologico22. Luzi si rendeva conto, evidentemente, che quel capo d’imputazione non avrebbe giovato alla causa di Teilhard, costituendo un’ipoteca pregiudiziale difficilmente aggirabile negli ambienti cattolici; per cui con abile mossa lo svincola da qualsivoglia ascendenza, negando che la sua teolo- gia evoluzionistica si potesse risolvere in un «episodio tardivo del modernismo». Nell’articolo che stiamo esaminando Luzi architetta, insomma, senza darlo troppo a vedere, una sottile difesa del suo beniamino, cercando di sventare tutti gli attacchi a suo carico. Né c’erano da parare solo i colpi dei teologi schierati a di- fesa del deposito tradizionale del credo: accanto a loro, su un altro fronte, pesava

20 Ivi, p. 237. 21 Ibidem. 22 Cfr. G. Vigorelli, Il gesuita proibito cit., pp. 69-93. PRIMI APPUNTI DI LUZI SU TEILHARD DE CHARDIN 149 come un macigno, e non solo perché più recente, la condanna, piena di carità nei modi, ma drastica e intransigente nella sostanza, espressa dal paysan de la Garonne nei confronti delle tesi di Teilhard de Chardin, e segnatamente della sua concezio- ne del Cristo cosmico23: Maritain era francese come Teilhard, e per giunta era lai- co e filosofo, non pastore, teologo o biblista come i superiori della Compagnia di Gesù o gli alti prelati della curia romana, incaricati di vigilare sull’ortodossia delle professioni di fede. Ma soprattutto era l’intellettuale cattolico in assoluto più au- torevole, tanto che Paolo VI, nella solenne cerimonia di chiusura dei lavori con- ciliari, il 7 dicembre 1965, aveva voluto simbolicamente consegnare proprio a lui il messaggio indirizzato a tutti gli uomini di scienza e di pensiero. Per la genera- zione di Luzi, si sa, Maritain era stato un maestro importante, cui si era guardato con reverenza fin dagli anni dell’ermetismo. Ciò non impedisce, però, al poeta di fornirne ora un’immagine un po’ appannata, come rappresentante di un mondo che proprio il Concilio aveva reso inattuale: Maritain diventa così il «vecchio filo- sofo tomista […], assunto dalla Chiesa per quanto preconciliare»24; né può passare inosservata l’associazione tra le pagine del suo libro, «ferme come roccia», e «certi accenti di Claudel»25, la cui «irraggiungibile» «monumentalità» aveva generato un certo disagio nella cerchia ermetica26. Con queste premesse, il dissenso di Maritain dalla visione teilhardiana diventava talmente scontato, da non fare quasi più noti- zia: «Naturalmente non ci possono essere sorprese sul contenuto: il neotomismo di Maritain è l’antipodo esatto dell’evoluzionismo di Teilhard»27. Semplicemente, Maritain era il pensatore del passato che non poteva accogliere dentro le proprie categorie la concezione dirompente, moderna, avveniristica, del teologo scienziato. Maritain viene trattato da Luzi, non c’è dubbio, con grande rispetto, come si conveniva a un mostro sacro della philosophia perennis, ma è altrettanto evi- dente che tutte le simpatie del poeta fiorentino vanno a Teilhard de Chardin. A proposito della «consacrazione totale del mondo e della storia», che è il porta- to ultimo della cosmologia teilhardiana, Luzi parla di «arditezza di sintesi» e di «suggestione tentacolare». Ma più ancora lo affascina un corollario,

la nozione di tempo che ne consegue. Non il tempo che discende, ma il tempo che sale: è un’idea che si affaccia da parecchi aspetti della scienza e Teilhard le ha dato una sanzione teleologica altissima. Ecco una incalcolabile rivoluzione.

23 Nel Paysan de la Garonne cit. le implicazioni teologiche delle tesi scientifiche del padre gesuita sono confutate da Maritain in un lungo paragrafo, Teilhard de Chardin et le teilhardisme, pp. 173-187, e in due appendici, pp. 379-390. Luzi riporta, nel suo articolo, un brano di Mari- tain tratto da quest’opera, p. 181. 24 M. Luzi, [Teilhard e Maritain] cit., p. 238. 25 Ibidem. 26 Penso, in particolare, alla Meditazione su Claudel di Carlo Bo, in «Letteratura», I (1937), 1, pp. 112-128; ora in C. Bo, Letteratura come vita, antologia critica a cura di Sergio Pautasso, Milano, Rizzoli, 1994, [pp. 829-849], p. 835. 27 M. Luzi, [Teilhard e Maritain] cit., pp. 238-239. 150 Giuseppe Langella

Ecco, possiamo dire, come sconfiggere l’elegia, l’amarezza del mondo, come intendere introdotta nell’uomo la pienezza di gioia28.

La teologia evoluzionistica e finalistica di Teilhard de Chardin ha un impatto fortissimo sul poeta, ribaltando completamente la raffigurazione abituale della storia umana «come un cono rovesciato», condannata a perdersi in un «degrado progressi- vo», dall’«apice di perfezione» goduto nel tempo «delle origini o dell’età dell’oro»29. La visione, nonostante tutto, positiva della storia, ricuperata nella prospettiva di una parabola ascetica di graduale approssimazione al traguardo escatologico30, co- stituirà, per diretta ammissione dell’interessato, il «punto centrale» del «consenso» accordato da Luzi alle idee di Teilhard de Chardin, consentendogli di vincere in breccia il «dissidio», altrimenti «insuperabile», tra «il mondo» e «la salvezza»31 e di «capovolgere l’idea del tempo come perdita»32. Il tema, teilhardiano per eccellenza, del «tempo che sale», inarrestabilmente attirato verso un punto Omega di piena, suprema, attuazione delle potenzialità insite in ciascuna creatura, innerverà visto- samente l’assiduo meditare di Luzi sulla foce congiunta della natura e della storia, al culmine del «percorso verso il divino» che investe tutto l’esistente33. Ma l’intera concezione che ispira l’escatologia di Luzi reca un’inequivocabile impronta teilhar- diana, se, come ha scritto con assoluta esattezza Giancarlo Quiriconi,

l’eden sarebbe ravvisabile solo alla fine del viaggio del mondo come frutto di una evoluzione continua, di una progressione che va verso l’alto e non discende verso il basso a ritroso. La creazione allora non è un fatto acquisito una volta per tutte, ma un processo in fieri che coinvolge senza distinzione tutti gli aspetti e le forme dell’uomo e delle cose; essa si afferma portando con sé, non più come una condanna ma come elementi attivi di tutto il processo, bene e male, innocenza e colpa, carnalità e spiritualità, tutte le antinomie possibili che si manifestano nel mondo, le quali interagiscono positivamente verso l’epifania finale del Kerigma. Il quale, per altro, vive già nel processo creativo incessante, non è il premio fina- le di una qualsiasi abdicazione, di una rinuncia alla vita, ma si configura come la manifestazione stessa della vita in tutti i suoi aspetti34.

28 Ivi, p. 238. 29 M. Luzi, Colloquio cit., p. 122. 30 Ha scritto molto bene Piccini, al riguardo, che nella prospettiva escatologica di Luzi «la storia è approssimazione che a poco a poco conquista – ascendendo in consapevolezza e pagando il prezzo della disunione – l’eterno, la piena luce» (Daniele Piccini, La stagione “paradisiaca” di Luzi. Lingua e strategie espressive, nel vol. collettaneo Mario Luzi oggi. Letture critiche a confronto, a cura di Uberto Motta, Novara, Interlinea, 2008, [pp. 107-131], p. 114). 31 M. Luzi, Colloquio cit., p. 122. 32 Guglielmina Rogante, Lo scriba. Esercizi di modestia e di ascesi, in Mario Luzi oggi cit., [pp. 81-105], p. 99. 33 M. Luzi, La porta del cielo cit., p. 86. 34 Giancarlo Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi: la scommessa totale di Mario Luzi, Bologna, Cappelli, 1980, p. 272. «CONQUISTE ALTISSIME» ED «ABISSI SPAVENTOSI» LA MODERNITÀ SECONDO LUZI

Antonio Saccone

1. La riflessione sulla modernità solca pressoché per intero l’intenso e pro- lungato tragitto percorso dalla prosa saggistica di Mario Luzi. Nella sua scrittura molto spazio hanno occupato, oltre alla poesia e al teatro, anche le pagine criti- che, la polemica culturale e politica. In quest’ambito forse il punto d’avvio per un discorso che ambisca a pervenire ad esiti di una qualche coerente produtti- vità può essere identificato in uno scritto approntato per una conferenza tenu- ta a Caen nel 1989, intitolato appunto alla modernità1, che l’autore identifica immediatamente nella cruciale questione del rapporto tra scienza e sapere uma- nistico, intendendo per quest’ultimo invenzione poetica e speculazione filosofi- ca. Affrontare l’indagine sulla modernità in tali termini equivale a porre al cen- tro del discorso quel Leopardi che, per primo in Italia, come farà poi in Francia Baudelaire, ha segnalato, annota Luzi, «il dramma della modernità ovvero la mo- dernità come dramma»2. Questo non vuol dire che il «padre della poesia moder- na», anzi «il padre del concetto stesso di modernità» abbia avversato gli acqui- sti conoscitivi della scienza: «Sarebbe assurdo che un’intelligenza come quella di Leopardi, non solo acuta, ma indomita, coraggiosissima, impavida, avesse guar- dato con orrore o dispetto la scienza»3. La sua avversione, o per dir meglio irri- sione, non è rivolta alla scienza, di cui l’autore dello Zibaldone comprende per- fettamente, ad avviso di Luzi, il valore, ma allo scientismo, ovvero al mito del- la scienza, alla presunzione di assolutezza della conoscenza scientifica predicata dagli zelanti cultori delle «magnifiche sorti e progressive», euforicamente impe- gnati ad affidare al progresso, in particolare della tecnica, la risoluzione di tutti i problemi dell’individuo e della società. Luzi segna con una forte sottolineatura il fatto che Leopardi sia ben consapevole dei portati della nuova era, della loro capacità di svelare e insieme di disintegrare i favolistici errori degli antichi, ali- mentati nel suo tempo dal conforto dell’idillismo e del classicismo accademico.

1 Il testo è rifluito, con il titolo Modernità, in Mario Luzi, Dante e Leopardi o della modernità, a cura di Stefano Verdino, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 125-139. 2 Ivi, p. 125. 3 Ivi, pp. 129-130.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 152 Antonio Saccone

Tale consapevolezza, che conferisce all’autore dell’Infinito il ruolo di inaugura- tore della modernità come epoca inedita e diversa, si stende, tuttavia, fino a co- glierne la duplicità, il risvolto ambiguo della funzione della scienza come giusti- ziera chiarificatrice: funzione che illumina, assieme alle benefiche illusioni, an- che la presenza del tutto incidentale, decentrata, dell’uomo nell’universo e la sua conseguente disperata solitudine:

La centralità dell’uomo nell’universo è stato uno dei grandi miti, una delle gran- di illusioni di tutta la cultura classica. Anche il patrimonio dei grandi scrittori e dei grandi pensatori classici venerati da Leopardi è messo in crisi: l’uomo è messo in crisi nella natura, nell’universo – questa è la conclusione cui Leopardi arriva, e la scienza ha contribuito appunto ad aprire gli occhi su questa condi- zione effettiva dell’uomo4.

In un altro saggio, anch’esso composto nel 1989, Leopardi nel secolo che gli succede, Luzi sottolinea che dal lucido disvelamento leopardiano, anticonsola- torio al punto da divenire eroico, si apprende che l’umanesimo non abita più «il grande apparato umanistico», il folto patrimonio linguistico, retorico e intel- lettuale della tradizione, ormai configurabile come «una buccia vuota da cui la polpa era colata via!»5. Di qui la messa in evidenza, esplicita nello scritto Il genio discreto della poesia, anno 1993, della «conflittualità», lucidamente avvertita, tra «mente» e «animo», la non accettazione da parte del secondo delle conclusioni della prima, destinate a consegnare la poesia «filosofica» leopardiana, in sintesi «negativa», ma «ancora agonistica»6, ad un’altezza di riflessione e di invenzione. Di qui la drammatica incompatibilità tra l’esercizio poetico e il tempo nuo- vo, irrevocabile della modernità, di cui Leopardi sorprendentemente, da un borgo tra i più appartati della provincia italiana, ha impareggiabile intelligen- za. Inserendosi a più riprese in quello che chiama «l’ininterrotto discorso su Leopardi», che sottintende la «sua attualità permanente»7, Luzi insiste nell’os- servare che nella stagione impoetica, com’è secondo Leopardi la modernità, il sogno è possibile solo interiorizzando il mondo: «Solo mediante l’interiorizza- zione del mondo, il mondo nei tempi moderni può parlare al poeta»8. Sbocchi al vicolo cieco allestito dalla novità del moderno può indicarli solo la filosofia, quella apprezzata da Leopardi, la filosofia naturale. L’intreccio poesia-sapere fi- losofico, che Luzi ritiene sia da rifondare, fa capire drammaticamente che l’uo-

4 Ivi, pp. 134-135. 5 M. Luzi, Leopardi nel secolo che gli succede [1989], in Dante e Leopardi o della modernità cit., p. 109. 6 M. Luzi, Il genio discreto della poesia, [1993], in Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratu- ra, a cura di Daniele Piccini e Davide Rondoni, Milano, Garzanti, 2002, p. 206. 7 M. Luzi, Il «vero» di Leopardi [1996], in Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura cit., p. 71. 8 Ivi,. p. 73. LA MODERNITÀ SECONDO LUZI 153 mo, le sue modalità di percepire il mondo, i suoi sensori non sono più gli stessi. Per tale via il pensiero poetante di Leopardi trasmette al «secolo che gli succe- de» (quindi anche a Luzi, al suo operare poetico e critico) l’impavido coraggio intellettuale di affrontare a viso aperto il tempo presente, le sue tragiche ambi- guità, ma anche le sue impervie speranze. Sotto l’insegna leopardiana Luzi col- loca il suo attraversamento critico dell’idea simbolista, indagata a fondo attra- verso gli autori raccolti nell’omonima antologia del 1976. In Mallarmé, in par- ticolare, «l’estremo tentativo di creazione assoluta» coincide con l’acquisizione dell’impossibilità dell’atto poetico:

Su questo sfondo negativo si sviluppa l’invenzione poetica di Mallarmé; esso affiora continuamente nel lessico che ci nomina il nulla, il vuoto, il suicidio: ed è contesto con i procedimenti fraseologici che tendono a darci il negativo delle azioni, il rarefatto delle percezioni, il dissolversi delle immagini 9.

Radicalizzando al negativo «l’avventuroso e splendido sogno di onnipoten- za poetica»10, il sogno coltivato dai loro auctores romantici, in primis Novalis e Shelling, come sfida all’azione disgregatrice attivata dalla scienza, i più rappre- sentativi esponenti dell’esperienza simbolista registrano, nel Coup de dés mal- larmeano e nella Saison en enfer di Rimbaud, di quel sogno la fine catastrofica. Anche tale esito riconduce alla speculazione e alla pratica leopardiane. A modi- ficarlo non soccorrono né «il commovente anacronismo leopardiano» né «le ma- gnifiche regressioni»11 di Pascoli e di d’Annunzio. Eppure Luzi si accosta ai sim- bolisti perché ad essi «si deve se è stato preservato nel mondo moderno il diritto integrale dello spirito poetico: e ancor di più si deve a costoro se fare poesia nel mondo moderno ha acquistato un significato insieme elementare e decisivo»12.

2. Per quanto riguarda i poeti del Novecento rilevante è il credito assegna- to a Campana per il suo divergere dal disinganno filosofico che permea un po’ tutta la poesia moderna postleopardiana. I suoi Canti orficinon sono, si legge nello scritto L’intelligenza progressiva dell’opera di Campana, del 1998, «il libro scritto contro il mondo, che è il libro del poeta moderno da Valéry a Montale, questo è il libro scritto nel mondo, nel circuito della vita planetaria»13. In que- sto consiste la specifica modernità di Campana, la sua capacità precorritrice. Non a caso Luzi segnala implicitamente la sua adesione ai versi di Campana, precisando che nella stagione ermetica si manifestò per la prima volta un’atten-

9 M. Luzi, Introduzione a L’idea simbolista, Milano, Garzanti, 1976, p. 14. 10 M. Luzi, Leopardi nel secolo che gli succede cit., p. 112. 11 Ivi, pp. 112-113. 12 M. Luzi, Introduzione a L’idea simbolista cit., p. 23. 13 M. Luzi, L’intelligenza progressiva dell’opera di Campana [1998], in Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura cit., p. 122. 154 Antonio Saccone zione verso i Canti orfici. Inoltre le glosse al suo stesso poetare e al tempo in cui esso si svolge sono in decisa sintonia con l’interpretazione espressa nei confron- ti dell’opera di Campana:

Non c’è più posto per la poesia nel mondo moderno, ma io mi vado sempre più convincendo che questo è un tempo eccitante, un tempo propizio – il che non significa facile, anzi difficile, tragico ma di una difficoltà esaltante. È la prima volta dopo secoli che la poesia può non essere concepita e scritta contro il mondo, ma dentro di esso. Può lasciar cadere l’armatura del suo antagonismo: in realtà essa non ha più controparte…14

L’«umiltà creaturale» individuata in Campana nasce dall’idea che l’uomo, pur «detronizzato della sua centralità dal pensiero moderno, dalle scienze moderne»15, da quella che Luzi definisce la «sbornia tecnologica»16, non è ridotto al niente, a negatività assoluta: «al contrario l’uomo è un elemento, è una delle presenze feconde, se vogliamo, nella terra, ma alla pari con tante altre»17. Proprio quell’i- dea è, aggiunge Luzi, «un ponte, un’offerta di soluzione all’impasse che la poe- sia moderna e il pensiero moderno hanno dovuto subire irretendosi in se stes- si. Questo, di Campana, che sembrava una specie di sogno retrospettivo invece ha, secondo me, una carica anticipatrice»18. Sulla prefigurazione campaniana il suo interprete innesta un elemento portante della sua poetica, secondo il quale il tempo del Novecento avanzato, caotico, convulso, tragico, forse ancor più tra- gico di altre epoche, parimenti tragiche, esprime anche la spinta verso una fer- vida e appassionante trasformazione di fondo: «E nella metamorfosi e nel mu- tamento ho sempre pensato e continuo a pensare che la poesia sia nel proprio elemento come un pesce della profondità o uno scafo d’alto mare»19. Il Novecento, il secolo della morte di Dio, della velocità desacralizzante, è anche il secolo del frantume, significativo di un tutto che non è più possibile tenere insieme, che non è più recuperabile. Immediato è il richiamo all’Un- garetti interprete, in Difficoltà della poesia, uno scritto redatto lungo gli anni Cinquanta, dell’ultimo Leopardi impegnato a declinare in senso moderno il frammento, identificato con una discorsività giocata tra due sospensioni, che «per essere nei suoi effetti poesia compiuta incomincia da un interrompimento e termina per interruzione»20. A partire da Leopardi la poesia può trovare for-

14 M. Luzi, Oggi, poesia [1984], in Discorso naturale, Milano, Garzanti, 20012, p. 100. 15 M. Luzi, L’intelligenza progressiva dell’opera di Campana cit., p. 121. 16 M. Luzi, Il secolo della velocità, in M. Luzi-Renzo Cassigoli, Frammenti di Novecento, Firenze, Le Lettere, 2000, p. 25. 17 M. Luzi, L’intelligenza progressiva dell’opera di Campana cit., p. 121. 18 Ibidem. 19 M. Luzi, Oggi, poesia cit., p. 100. 20 Giuseppe Ungaretti, Difficoltà della poesia [1952-1963], in Vita d’un uomo. Saggi e interven- ti, a cura di Mario Diacono e Luciano Rebay, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2009, p. 810. LA MODERNITÀ SECONDO LUZI 155 ma solo come «angoscia frenata, inciso allarme tra due catastrofi»21. Nella sta- gione delle veloci mutazioni imposte dalla civiltà delle macchine, tanto veloci da non poter essere percepite «se non per minime particole di frammenti»22, afferrabili «per rare schegge»23, il modello leopardiano è il più attuale tra quel- li trasmessi dalla tradizione del moderno a chi, come Ungaretti, si candida ad essere erede ultimo di quella tradizione e suo nuovo capofila. Comporre po- esia è possibile ormai esclusivamente attraverso «espressioni mutile», fram- menti di un «linguaggio macellato, ma il più ricco di indeterminatezza»24. L’unica modalità permessa «a noi poeti d’oggi», scrive Ungaretti, è quella del frammento che, attraverso «l’intensificazione, il dilatamento, la moltiplica- zione dei valori semantici della parola», racchiude l’intera realtà «nella par- ticola di essa»25. L’attiva assimilazione da parte di Luzi del discorso ungaret- tiano sulla frantumazione come esclusiva forma espressiva della parola poe- tica dentro l’orizzonte della tarda modernità è indubbiamente significativo e degno di essere fortemente rimarcato. D’altronde quando indica le «conqui- ste altissime» e gli «abissi spaventosi» come orizzonti dinanzi ai quali la tec- nologia pone «la nostra coscienza»26, Luzi sembra rideclinare, sagace e sensi- bile interprete del proprio tempo, l’atteggiamento entusiasta e stravolto insie- me con cui Ungaretti istituisce il confronto con la seducente e sconquassante novità del presente («Grazie secolo che ci squarti, e secolo che ci incanti: che fai di questi miracoli»)27. L’ultimo Novecento è anche per Luzi la fase dell’infinita massa di informazio- ni, in cui tutto si fa spettacolo, togliendo spazio alla fantasia e al sogno «[…] se non ci fosse la poesia forse non ci accorgeremmo neppure di come siamo diven- tati vociferanti e muti […]. Siamo invasi dalle parole, perché manca la parola»28. A questo punto, quasi automatico, scatta un richiamo al Montale di Auto da fé, alle pagine in cui si legge che «la comunicazione» dell’artista può esercitarsi «solo attraverso l’isolamento»:

In questo senso, solo gli isolati parlano, solo gli isolati comunicano; gli altri – gli uomini della comunicazione di massa – ripetono, fanno eco, volgarizzano le parole dei poeti, che oggi non sono parole di fede ma potranno forse tornare

21 Ibidem. 22 Ibidem. 23 Ivi, p. 814. 24 Ivi, pp. 810-811. 25 Ivi, p. 810. 26 M. Luzi, Il secolo della velocità cit., p. 21. 27 Così in una lettera (del 7 giugno 1949) a Giuseppe De Robertis. Cfr. G. Ungaretti – Giuseppe De Robertis, Carteggio 1931-1962, con un’Appendice di redazioni inedite di poesie di Ungaretti, introduzione, testi e note a cura di Domenico De Robertis, Milano, il Saggiatore, 1984, p. 130. 28 M. Luzi, La parola e il silenzio, in M. Luzi-R.Cassigli, Frammenti di Novecento cit., p. 64. 156 Antonio Saccone

ad esserlo un giorno. Oggi in ciascuno di noi c’è un uomo nuovo e un uomo vecchio in conflitto; di qui la disarmonia, lo squilibrio dei nostri giorni29.

Che il riferimento sia più che plausibile lo dimostrano le notazioni che Luzi dedica all’«ascolto di Montale», sostenendo che quella di Montale «poeta in chiave – non in pace – con il suo tempo», è «la voce di un poeta che sa – come si può sapere in obscuro cordis – di avere un’udienza: non gli potrebbe accade- re sennò di ironizzare sui diesis che il ruolo comporta»30. L’apparente parados- salità del «sistema montaliano» deriva dall’essere «plenario e sapientemente ri- nunciatario allo stesso tempo, ironico»: il che permette al poeta ligure, pur non esprimendo motivi esteriori di sintonia, di ritrovarsi «al centro della sua epo- ca, nella parte più segreta, ambigua e contraddittoria che proprio in lui si era espressa»31. Luzi si chiede:

Quella epoca è ancora la nostra? Quella che ancora egli poteva osservare e giu- dicare, forte, è vero, del suo anticipato giudizio ma con curiosità puntuale? Sup- pongo che quella antinomia che contrapponeva la incoerenza del mondo alla sapienza del poeta non sia più attendibile. Quella episteme è al tramonto o già precipitata sotto la linea dell’orizzonte. Ma questo non vale per la poesia, che resta abbarbicata al suo nocciolo umano perenne quando le sue motivazioni provvisorie sono cadute32.

Altrettanto plausibilmente Luzi si pone sulla scia di Montale quando si chiede: «Chi ascolterà le domande che la poesia porta in sé? Chi l’ascolterà la poesia?»33. Le risposte che ne derivano oscillano, a suo avviso, tra la protesta querula di chi registra l’assenza di uditori e l’indifferenza di chi ritiene inessenziale l’interlocuzio- ne: «gli uomini delle altre discipline, gli uomini delle altre certezze»34. Per Luzi a fare da pubblico non possono non essere coloro che hanno suscitato le domande della poesia. Questo spiega la sentenza conclusiva di Luzi: «Sì, il tempo irritato e sconvolto, questo tempo tragico consente e tragicamente propizia la poesia»35.

3. Un assunto su cui Luzi insiste frequentemente nei sui saggi è il seguente: in correlazione alla crescita del sapere su cui la scienza fa luce progressivamente,

29 Eugenio Montale, La solitudine dell’artista [1952], in Auto da fé. Cronache in due tempi [1966], rifluito in Il secondo mestiere, Arte, musica, società, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1996, pp. 54 e 56. 30 M. Luzi, L’ascolto di Montale [1996], in Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura cit., p. 130. 31 Ivi, p. 136. 32 Ibidem. 33 M. Luzi, E non vergognarsi [2001], in Discorso naturale cit., p. 162. 34 Ibidem. 35 Ivi, p. 166. LA MODERNITÀ SECONDO LUZI 157 si apre, per così dire specularmente, dilatandosi progressivamente, il non sapere, il suo margine illimitato dunque, il mistero, alimento della poesia, «habitat ordi- nario del poeta»36. Qui Luzi sembra muoversi sui passi ancora una volta dell’ul- timo Ungaretti che, vent’anni prima, nello scritto Delle parole estranee e del sogno d’un universo di Michaux, aveva tratteggiato una sorta di amaro bilancio testa- mentario, non privo, però, di spiragli di inedite progettualità. Nel tempo degli accelerati mutamenti, la parola poetica, sottratta a quella profondità sulla quale Ungaretti aveva costruito la sua tradizione della modernità, vede esaurito il suo ruolo, relegato in una condizione postuma. In tale allarmata diagnosi continua ad operare, tuttavia, il sogno di una parola capace di ricevere vita dal proprio «segreto». Ungaretti registra il silenzio imposto dallo sviluppo portentoso delle conoscenze, ma indica che è proprio quel vertiginoso sviluppo a favorire l’incre- mento del mistero: «il sapere degli uomini aumenta il segreto»37 o, per dirla con Luzi, «quel sapere non è la pietra tombale per il desiderio e per l’immaginazio- ne, che sono altre forme e contributi per la conoscenza»38. In questo orizzonte argomentativo Luzi fa rientrare anche il modo, messo in atto da Dante, di vivere il sistema del sapere scientifico e la correlata dilatazione linguistica e fantastica:

La scienza fisica, cosmologica, teologica di Dante, per quanto fieramente osten- tata come sapere, sapere sudato e privilegiato, studiato sui libri e sulla dottrina, proprio nel momento in cui lo tradisce sfrena il genio linguistico e la potenza fantastica del poeta, quando sente che in fondo quello che sa non serve a spiega- re quello che vede, per esempio nel Paradiso; allora noi sentiamo quanto fosse il suo impegno scientifico ma anche quanto fosse limitato rispetto al suo intento questo mondo accertato, o cosiddetto certo, della scienza. Si sente che tutte le premesse scientifiche al compito che si è prefisso vengono meno, si dichiarano insufficienti alla suprema conoscenza»39.

Si tenga a mente, peraltro, che Luzi dedica a Ungaretti specifiche e atten- te letture critiche. In un intervento del 2000 sull’endecasillabo, definito «il ver- so italiano per eccellenza», «il nerbo della nostra ritmica poetica, della nostra metrica»40, Luzi considera esemplare il lavoro svolto da Ungaretti in direzione di una metrica ricomposta non per trasmissione inerziale («un endecasillabo che arriva per stanca tradizione o un po’ convenzionale è diverso dall’endecasillabo

36 M. Luzi, Sulla poesia: Sais e i suoi discepoli [1994], in Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura cit., p. 194. 37 G. Ungaretti, Delle parole estranee e del sogno d’un universo di Michaux e forse anche mio [1966], in Vita d’un uomo. Saggi e interventi cit., p. 843. 38 M. Luzi, Sulla poesia: Sais e i suoi discepoli cit., pp. 192-193. 39 Ivi, p. 193. 40 M. Luzi, Lezione sull’endecasillabo [2000], in Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura cit., pp. 212-213. 158 Antonio Saccone riscoperto»)41. Nello stesso scritto non prive di interesse appaiono le pagine de- dicate all’ossessione variantistica di Ungaretti. Mentre nei versi di quest’ultimo «conta più la variazione continua del punto di arrivo», nelle poesie di Luzi, stan- do al suo autocommento, è sempre perdurata «una certa nostalgia per la prima stesura»42. Nel saggio Classicità e giubilazione in Ungaretti, anno 1979, Luzi mo- stra di comprendere bene la cifra mitografico-inventiva del rapporto vita-opera iscritto nella titolatura ungarettiana Vita d’un uomo, quando annota: «[…] noi possiamo leggere alcune famose poesie di L’Allegria nella chiave di quell’irrefu- tabile forma di fantasia che è l’autodefinizione: I fiumi, Girovago…»43. Ma si ricordi anche lo scritto Ungaretti e il suo infinito, risalente al 1958, in cui si discorre, con toni di piena sintonia, della religiosità ungarettiana, che «rap- presenta un’evasione dal finito»:

Ungaretti pone Iddio dove gli altri poeti videro l’infinito. Naturalmente ciò è in relazione col modo di sentire questo «finito» che non è un modo contemplativo, ma una partecipazione violenta e infine insostenibile che esige poi il ricorso al Padre, al Salvatore. Ecco perché gli accenti religiosi sono così drammatici e, potremmo dire, implacati come la sua esperienza44.

Con Ungaretti Luzi condivide innanzitutto il culto per Leopardi, da en- trambi riconosciuto come nume tutelare della modernità. È significativo, tut- tavia, che mentre Ungaretti scommette sul binomio Leopardi-Petrarca, per al- lestire la sua tradizione del moderno, Luzi riallacci il poeta di Recanati con Dante. Com’è noto, per Ungaretti, «dal Petrarca le esperienze occorse e teso- reggiate, in cinque secoli, non si trasmutano in poesia che con l’apparizione del Leopardi»45. Nell’elaborazione di una tradizione del nuovo un compito fonda- mentale è svolto da Petrarca e Leopardi, il primo come inventore del tempo, di- svelatore della profondità del tempo, il secondo come indagatore e artefice del- la «durata» in cui si riversa quel valore fondamentale che è il tempo. Anche su Dante Ungaretti intesse un finissimo lavoro di lettura paziente e approfondita, in particolare nelle stagioni del magistero brasiliano e romano. Ma il dato più significativo è che Dante è da lui messo in gioco per confermare ulteriormen- te la «novità» di Petrarca. Anzi si potrebbe dire che l’inclusione di Dante nell’o- rizzonte teorico e critico di Ungaretti sia funzionale alla messa a punto del suo sistema petrarchesco:

41 Ivi, p. 216. 42 Ivi, p. 223. 43 M. Luzi, Classicità e giubilazione in Ungaretti [1979], in Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura cit., p. 126. 44 M. Luzi, Ungaretti e il suo infinito [1958], ivi, p. 123. 45 G. Ungaretti, Verso un’arte nuova classica [1919], in Vita d’un uomo. Saggi e interventi cit., p. 13. LA MODERNITÀ SECONDO LUZI 159

Per renderci conto dell’importanza del Petrarca basterebbe mostrare il mondo diversissimo che egli anima in confronto a quello di Dante, a poche decine d’anni di distanza […]. Il Petrarca […] c’insegna: le nostre azioni – tutte – non possono diventare oggetto della nostra esperienza se non sono prima divenute passato. Non potrei nemmeno esprimere la parola che ora vi dico, se prima non l’ho pensata, se non ha un passato – sia pure esso, brevissimo, fulmineo – da rac- chiudere. Dunque tutta l’esperienza umana, tutto il sapere dell’uomo è passato. Umanità vuol dire conoscenza del passato. Amore di Laura vuol dire amore del passato: memoria46.

Per Ungaretti l’eterno concepito da Dante, «tempo cristallizzato», con Petrarca si decompone, «si sgela, è un cristallo che si sgela, che fluisce, che torna ad es- sere tempo[…]»47. Dunque:

[…] basteranno pochi lustri per trovarci da Dante al Petrarca davanti a tutt’un mondo diverso […]. Per un uomo aggressivo ed edificatore come Dante, un’ar- monia umana va imposta sulla terra, a immagine della soprannaturale […]. Per lui, l’universo è attuale e eterno48.

In Petrarca non è più operante il rapporto con l’attuale e l’eterno. L’uomo «può solo conoscersi per intervento della memoria, cioè del sapere umano […] da quel giorno imparerà che, se vorrà conoscersi, la rivelazione divina non po- trà più servirgli a nulla: ma dovrà ricorrere alla memoria»49. Luzi rideclina molte nozioni ungarettiane, capovolgendone, però, la prospet- tiva e il senso. La gran parte della nostra letteratura, sostiene il poeta-critico in un saggio degli ultimi anni Quaranta, L’inferno e il limbo, è stata alimentata e governata dal modello petrarchesco assai più che da quello dantesco. Questo ha comportato un’assoluta autoreferenzialità della letteratura, con conseguenti, de- leterie rinunce: l’esclusione, in primo luogo, di parte delle realtà viventi dal do- minio del discorso poetico, incaricato di non riconoscere come proprio oggetto di riferimento null’altro che la propria, conchiusa autoreferenzialità. La solita- ria circolarità del regime petrarchesco spiega per Luzi perché dopo la Commedia si siano estese solo in casi eccezionali la passione per la narrazione, la presa di possesso dell’esistenza, la frammentazione fenomenica:

46 G. Ungaretti, [Idea del tempo e valore della memoria in Petrarca] [1937], in Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni, a cura di Paola Montefoschi, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2000, pp. 550-551. 47 Ivi, p. 554. 48 G. Ungaretti, Prima invenzione della poesia moderna [Sul ‘Canzoniere’ di F. Petrarca] [1941?], in Vita d’un uomo. Viaggi e lezioni cit., p. 727. 49 G. Ungaretti, [Idea del tempo e valore della memoria in Petrarca] cit., pp. 551-552. Per una più dettagliata disamina di tali questioni mi permetto di rinviare al mio Ungaretti, Roma, Salerno Editrice, 2012, partic. pp. 184-189. 160 Antonio Saccone

Se noi pensiamo per un momento all’inesauribile ricchezza, alle infinite possi- bilità di modi poetici aperti da Dante, ci stupiremo di vederle a poca distanza rinchiuse, sigillate in un unico registro, in una musica uniforme e continua che appartiene unicamente allo spirito, distanziato in un suo ritmo imperturbabile dalla varietà dei fenomeni50.

Tali concetti saranno ripresi, in altri saggi, rimodulati su quegli «improvvisi cambi di tono, di registro», che configurano, come ha illustrato Davide Rondoni, «lo speciale ritmo» della prosa saggistica di Luzi da affrontare come un brano di musica, «a tratti avvolto su di sé, faticoso o troppo finemente lavorato», ma sempre irresistibilmente attraente verso «il suo sound»51. Il saggio a cui allu- do in particolare s’intitola Dante, scienza e innocenza. Il secondo termine non può non far pensare a quell’insegna con cui Ungaretti, in uno scritto degli anni Venti, indica la modernità, e che, associato all’altro termine «memoria», sino- nimo di tradizione, scandisce la necessità di una novità memore. L’uso luziano del termine innocenza, applicato a Dante, non è certo assimilabile a quello un- garettiano. Al pari di Ungaretti, tuttavia, Luzi ruota le sue osservazioni sull’idea di tempo, su cui anche Dante gioca la sua partita, puntando tutte le sue chan- ce sul presente, «nel breve tempo bruciante dell’esistenza»52. Per Dante, insiste Luzi, la temporalità dell’immaginazione poetica è indistinguibile da quella dell’e- sperienza concreta, attuale, del vivere e del conoscere, dell’operare nel mondo. Nella sua invenzione non c’è spazio per la metafisica del tempo, tanto fondante invece nell’ispirazione lirica di Petrarca e nella tradizione da lui derivante fino ai nostri giorni. «Nulla di simile alla silenziosa, dolce e triste clessidra virgiliana e petrarchesca»53: così Luzi, quasi replicando, a distanza di qualche anno, con un’immagine non meno intensa sul piano dell’espressività e non meno efficace sul piano della significazione, quella ungarettiana sopra citata del tempo cristal- lizzato da Dante e sgelato da Petrarca. Resta, tuttavia, elemento estremamen- te significativo, che Luzi, al pari di Ungaretti, predisponga Virgilio su una linea che conduce a Petrarca piuttosto che a Dante. Per Ungaretti la polarità Virgilio- Dante, stabilita nei corsi brasiliani e poi in quelli romani degli anni Cinquanta, ne sancisce la frattura piuttosto che il nesso. È attraverso il primo referente che l’autore di Sentimento del Tempo rilancia e problematizza ulteriormente il para- digma petrarchesco di memoria e tradizione, inteso come l’unica modalità con- cettuale e comunicativa idonea a collegare, come nel viaggio dell’Enea virgilia- no, passato e futuro, slancio in avanti e sguardo all’indietro. Luzi riprende qua-

50 M. Luzi, L’inferno e il limbo [1949], in Dante e Leopardi o della modernità cit., p. 15. 51 D. Rondoni, Prefazione. Il sound internazionale di questo libro, in Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura cit. p. 5. 52 M. Luzi, Dante, scienza e innocenza [1974], in Dante e Leopardi o della modernità cit., pp. 22-23. 53 Ivi, p. 23. LA MODERNITÀ SECONDO LUZI 161 si alla lettera le idee di Ungaretti che aveva connotato l’universo dantesco come attuale ed eterno insieme, rimodellandole in direzione di significati divergen- ti. Il presente che anima il Dante luziano non ha nulla del «nostro desolato e presuntuoso hic et nunc. È un presente che risponde direttamente nell’eternità. Un asse, una verticale che scavalca l’ordine del tempo, connettendo il frangente con l’eterno»54. Ed è proprio tale coniugazione tra temporalità dell’assoluto po- etico e contingenza inesorabile del presente a permettere a Dante di sprigionare «un’arte di un’intensità vitale senza pari e di una varietà innumerevole di accen- ti rilevati, presi dal reale vivente e di darcene nello stesso tempo la trascendente significazione»55: operazione interrotta dalla svolta petrarchesca destinata a pe- sare nel corso secolare della nostra poesia nel senso fatale, illustre ma anche de- leterio. Su quella svolta Ungaretti aveva, invece, ricomposto la linea della gran- de tradizione culturale occidentale (con gli snodi di Michelangelo, Shakespeare, Góngora, Racine), riannodandola alle voci della modernità (da Leopardi fino ai poeti del simbolismo francese), con l’intento ultimo di costituire il canone di un’inquieta e problematica tradizione del nuovo. Per Luzi la coesistenza in Dante del «servizio al tempo» e della «vittoria sul tempo»56, che si traduce anche nella coincidenza tra l’umile e il sublime, non più operante in Petrarca, conduce a cercare la verità e il canto nell’informe inesora- bile del mondo, senza sterilizzarlo e tanto meno aggirarlo: «È un insegnamento elementare ma sostanziale, che credo legittimo invocare da Dante per tutti co- loro che lavorano a continuare una storia da lui inaugurata»57. Tra costoro, ovviamente, Luzi include se stesso, la sua versificazione e il suo lavoro teorico e critico. Proprio la consentaneità a Dante, alla sua idea di poe- sia «come terra d’avventura, esposta alle luci e alle ombra dell’esperienza»58, per- mette a Luzi di respingere con nettezza la vulgata che ha letto la vicenda dell’er- metismo come quella di un movimento tendente ad isolarsi in uno spazio fuo- ri della storia. Indagando sull’esperienza di cui fu uno dei capofila più insigni, Luzi, in un bilancio compilato dal bordo estremo della sua vita, osserva che quell’esperienza fu tutt’altro che una fuga dalla storia. La stessa coltivazione di uno spazio interiore da essa predicata e praticata rispondeva al fine di non tra- sformare la realtà esterna in un orpello edulcorante e falsificante. Il richiamo al potere dell’introspezione si prefiggeva di trarre dallo spirito poetico la promo- zione del vivere dentro il mondo moderno. In questa prospettiva anche Dante, come Leopardi, è, per Luzi, la chiave di lettura per molta poesia novecentesca, inclusa la sua. Le motivazioni con cui Luzi, ad esempio, illustra la forte solleci- tazione che spinge l’invenzione di Ezra Pound a cercare Dante potrebbe plausi-

54 Ibidem. 55 Ivi, p. 31. 56 Ivi, p. 22. 57 Ivi, p. 32. 58 Ibidem. 162 Antonio Saccone bilmente applicarsi alla sintonia, da lui esibita, con il sommo poeta. Luzi por- ta in primo piano una paradossalità insita nel progetto di Pound, quella di «or- ganizzare la discontinuità incoerente del tempo moderno in un poema conti- nuo», sulla spinta di una «nostalgia di sintesi»59 orientata dall’esemplarità dan- tesca. Quella nostalgia «è il limite stesso dell’arte che ti fa desiderare la totalità e non te la dà»60. Di qui la solidarietà luziana con la fede assoluta di Pound nel valore della poesia, con la rischiosa scommessa di rilanciarne la possibilità to- talizzante, ontologica di fronte all’implausibilità di ogni valore, prodotta dalla stagione contemporanea.

4. Ma torniamo alla questione della modernità, anzi alla parola stessa moder- nità. In quest’ambito il giusto rilievo deve essere assegnato allo scritto Moderni? Contemporanei?. Il titolo ricalca quello della versione italiana di un volume di Stephen Spender (il titolo originario era The struggle of the modern), apparsa nel 1966 con una prefazione di Luzi. Attraverso la rassegna critica di alcune stel- le polari della civiltà letteraria anglosassone, Shakespeare, Blake, Joyce, , Pound ed altri, Spender definisce i caratteri peculiari del «moderno», in un confronto contrastivo con il «contemporaneo». I moderni, qualificati come «recognizers», partono dal presupposto che la natura umana è cambiata, modi- ficata dalla scienza, i cui esiti sono considerati come una catastrofe per i valori del passato. In tal senso la narrativa di Virginia Woolf si mostra come un sismo- grafo idoneo a registrare la modificazione qualitativa della sensibilità umana. I contemporanei, i «non recognizers», ritengono che sia dovere degli scrittori ac- cettare come dati i valori del momento, partecipare immediatamente alle ragio- ni del proprio tempo, in particolare a quelli segnati dal progresso delle scienze e della tecnologia, consacrare la loro arte alla causa del progresso. Nella sua pre- fazione Luzi coglie un aspetto per lui decisivo, ovvero «l’assillo con cui Spender si occupa dei rapporti tra la creazione letteraria e le scienze»61. Questo innanzi- tutto. Ma poi l’attenzione si estende anche all’elemento di fondo su cui, secon- do Spender, lavora l’artista moderno, ovvero «la tensione tra passato e presen- te, con forte nostalgia per il primo e per tutto ciò che non è più possibile»62. In un saggio degli anni Ottanta, in cui quella prefazione confluisce, rimaneggiata e ampliata, mutuando il titolo Moderni? contemporanei?, dall’edizione italiana del libro di Spender, Luzi ribadisce che l’artista moderno ha la coscienza critica e drammatica della perdita che il rinnovamento del mondo ha comportato. Il moderno, come ha mostrato il poeta-filosofo Leopardi, è colui che soffre la con-

59 M. Luzi, Sull’azione poetica di Pound [1996], in Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla lettera- tura cit., p. 140. 60 M. Luzi, Lezione sull’endecasillabo cit., p. 224. 61 M. Luzi, Prefazione, in Stephen Spender, Moderni o contemporanei?, Firenze, Vallecchi, 1966, p. XIII. 62 Ibidem. LA MODERNITÀ SECONDO LUZI 163 temporaneità, la vive drammaticamente, in quanto la mette a confronto con ciò che essa ha reso inutile, defunto per divenire contemporaneità. Gli artisti cosid- detti contemporanei sono quelli desiderosi di affermare, nella seconda metà del secolo succeduto a Leopardi, la loro volontà di essere presenti in questo mon- do. Ma sulla questione Luzi precisa e problematizza l’impianto di Spender con argomentazioni decisamente interessanti che gettano luce sulla sua poetica, sul suo modo di commentare molta parte della letteratura novecentesca, oltre che su tematiche e procedure del suo stesso poetare. Innanzitutto è posta una signi- ficativa distinzione: da un lato gli artisti che adottano contenuti contempora- nei, accontentandosi di descrivere l’oggi, divulgandone gli oggetti (e su questi il giudizio è sbrigativamente diminutivo, se non liquidatorio); dall’altro è dedi- cata, invece, estrema attenzione a quella contemporaneità ricercata, in partico- lare, dalle avanguardie, storiche e neo, con radicale e quasi nevrotica tensione, sino a inscenare una sorta di negazione sacrificale, di moto distruttivo, di de- nigrazione dell’arte e della sua funzione, agendo insomma fuori dell’arte o ad- dirittura contro l’arte. In tale autolesionistica protesta Luzi legge un dramma:

Consciamente o inconsciamente, insomma c’è una richiesta di protesta totale dell’arte e la delusione che essa non arrivi a tanto; allora, appunto, sacrifical- mente o blasfematoriamente si infierisce contro il messaggio artistico detur- pandolo e dissacrandolo. Ma mentre con questo si condanna la poesia o l’arte come un’istituzione inservibile, nello stesso tempo non si fa che riconoscere loro una realtà che, anche se difficilmente afferrabile, implica una verità: esse sono qualcosa con cui non si può venire a patti e di cui non ci si può servire per degli scopi immediati e parziali; allora si infierisce, si bestemmia contro il messaggio artistico e la sua prassi, proprio perché si sente che l’arte è irriducibile al relativo, e si ha il convincimento che la sua richiesta è integrale quasi che essa possa dare la soluzione totale della presenza umana nel mondo e dei nodi insoluti della storia umana63.

Insomma in tal caso contestare l’arte sottintende una richiesta d’arte e insieme l’orrore della contemporaneità, l’impossibilità di cogliere il reale nella sua totalità. Luzi ricorda anche i momenti in cui quella che lui chiama «l’invenzione della modernità»64, cioè della coscienza critica, drammatica del presente defi- nibile come modernità, si sia coniugata con l’impegno dentro i fatti della con- temporaneità. Il riferimento è all’arte e alla poesia della rivoluzione sovietica, a Majakovskij, a Esenin, a Blok, a Pasternak, che si videro costretti tutti a «scri- vere poesia moderna per rifiutare la vita moderna»65. Il discorso si fa, però, più intricante, ancora una volta quando Luzi porta sul proscenio la sua stessa storia

63 M. Luzi, Moderni? Contemporanei?, in Discorso naturale cit., pp. 11-12. 64 Ivi, p. 14. 65 Ivi, p. 15. 164 Antonio Saccone poetica: «Personalmente anch’io ho sentito il bisogno della rappresentazione del presente, dell’istantaneo, di quelli che sono i nostri anni»66. Luzi tiene a precisare che sin dai suoi primi versi, pur all’interno di un assetto ritmico di cui è incon- trovertibile la sapiente, sublime eloquenza, ha invitato all’esperienza, ad esperi- re il mondo, la sua eventualità, ad ascoltare il suo linguaggio, a scrivere non in opposizione al mondo, ma dentro di esso, nella consapevolezza che rappresen- tazione e verità del mondo siano un tutt’uno. Il bisogno di aggregare il ritmo e la sintassi del suo esercizio poetico all’indiscriminato impasto della realtà, alle sue indifferenziate schegge si è realizzato in particolare con il libro Nel magma, che rinvia già dal titolo, commenta Luzi stesso, ad un «mondo che non ha an- cora forma, sorpreso nella sua formazione»67. L’irruzione dell’ (e nell’) informale non impedisce il prevalere insensato del dolore: l’imperativo di Rimbaud («biso- gna essere assolutamente moderni») è da intendere «in questo senso doloroso»68, come assunzione ineludibile della pena del vivere. Ad ulteriore dimostrazione dell’estrema autoconsapevolezza critica da lui di- mostrata in veste di saggista, in particolare nello scritto che interroga le nozioni di modernità e contemporaneità, Luzi si sofferma sulla possibilità che immagi- ni e storie rimandate da millenni si incarichino di significare il presente, illumi- nando quella che definisce «la nostra oscura contemporaneità»69. Come esem- pio adduce la sua opera Ipazia del 1972, poemetto drammatico, ricavato da un episodio che si colloca nell’Alessandria d’Egitto del 400 d.C. Così glossa l’au- tore: «Era una cosa accaduta ma immessa nella eventualità continua del mon- do e per me non era finita col suo essere accaduta»70. Luzi vuole rendere extra- temporale il concetto di contemporaneità, rendere operante nel «regime poeti- co» quella che definisce «la contemporaneità di tutti i tempi»71. In un magistra- le medaglione dedicato alla poesia di Luzi Pier Vincenzo Mengaldo così con- clude la sua analisi:

[…] in quella sorta di ubiquità spaziale e temporale in cui fluttua, essa continua ad affermare, con orgoglio travestito da umiltà, la sua integrale vocazione me- tastorica, o a ciò che con parola dell’autore si può chiamare il «dopo tempo»72.

L’acuta messa a punto di Mengaldo può estendersi anche alle idee del Luzi saggista che non a caso suggella il suo scritto in questi termini:

66 Ivi, p. 16. 67 Ibidem. 68 Ibidem. 69 Ibidem. 70 Ibidem. 71 Ivi, p. 19. 72 Pier Vincenzo Mengaldo, Mario Luzi, in Poeti italiani del Novecento, a cura di Pier Vin- cenzo Mengaldo, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1978, p. 653. LA MODERNITÀ SECONDO LUZI 165

Ma forse si può fare l’ipotesi che il tempo della poesia, il tempo della lingua della poesia, è un tempo in cui si incidono senza tempo le cose che sono sempre accadute e che sono sempre eventuali e accadibili73.

Al fondo agisce l’idea secondo la quale la parola vince il caos, costituendo un suo ordine. Come si legge nello scritto Sais e i suoi discepoli: «[…] la poesia in- tensifica e moltiplica l’emozione dell’esistente e nello stesso tempo però la puri- fica, la corregge, la inserisce nel continuo, nell’intemporale»74. Inevitabile è il richiamo, distinto quel che vi è da distinguere, alla «limpida meraviglia / di un delirante fermento» con cui Ungaretti aveva definito la fun- zione poetica nella lirica che chiudeva il suo libro d’esordio75. Altrettanto ine- vitabile il richiamo al già citato Pound, del quale Luzi così riassume uno dei la- sciti per lui più emblematici:

[…] contemporaneo è tutto il tempo, compresenti sono tutte le ere che la me- moria in forma di scrittura o altrimenti, ha tramandato; e dunque infiniti sono i contrappunti di lode e di canto che risarciscono la dissociata modernità76.

73 M. Luzi, Moderni? Contemporanei? cit., p. 19. 74 M. Luzi, Sulla poesia: Sais e i suoi discepoli cit., p. 198. 75 G. Ungaretti, Commiato, in Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura e con un saggio intro- duttivo di Carlo Ossola, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2009, p. 96. 76 M. Luzi, Sull’azione poetica di Pound cit., p. 140. Anna Dolfi, Loretta Caponi, Mario Luzi (Firenze - maggio 2004. Foto di Laura Dolfi). GLI SCRITTI PER GLI ARTISTI (E UNA LETTERA SULL’UMILTÀ DEL VIVERE)

Marcello Ciccuto

Questo mio discorso è di puro servizio, un paratesto direi utile quasi esclu- sivamente a presentare, ragionandone brevemente, due testi di Mario Luzi: l’in- troduzione a una cartella d’arte – sconosciutissima ai più e in genere a tutti i re- gesti bibliografici apparsi sinora – e una lettera inviata all’artista Vittorio Grotti (lo stesso prefato nella cartella) che si trovava in una condizione di salute ter- minale, insomma in procinto di fronteggiare il grande discrimine della morte. In questi due testi si avverte già in partenza la riflessione usuale di Luzi in merito al valore della parola – nelle stesse forme consegnate a un testo focale come Creazione poetica? (raccolto in seguito fra i testi di Vicissitudine e forma):

Erigere un monumento di parole più vere del vero e sottratte alla sorte comune del linguaggio umano è un sogno abbastanza ingenuo e presuppone l’antica visione unilaterale e elegiaca del tempo come perdita, del mondo come corru- zione progressiva della sua immagine iniziale. Ma la natura non conosce degra- dazioni se non apparenti: la sua legge non è la morte ma la metamorfosi. L’arte che si prefigge di combattere gli effetti apparenti del tempo con la sua presunzione di indelebilità non è la poesia che giace al contrario con estrema confidenza sul fondo del suo elemento che è proprio il divenire, la trasformazione, la vita1.

Dunque l’assioma luziano di «quel che verrà verrà da questa pena» quale si- gla di ingresso nel magma, nel corso contraddittorio della storia, personale e collettiva, è ben presente in questi due insiemi testuali. Lo stare nella realtà ac- cidentale del mondo, lo scendere nel corpo dell’eterna mutazione e mutevolez- za, l’assunzione del negativo umano col suo carico di enigmi e delusioni e oscu- rità. Non insisto oltre, trattandosi qui di convenzionali battute d’avvio. Meglio dire invece che a questa sostanza dell’estetica luziana corrisponde pressoché da sempre la ricerca e la riflessione su di un linguaggio che si vorrebbe vicino in- nanzitutto alle risorse mimetiche della prosa, alla tanto abusata quanto con- traddittoria convergenza di realtà e verità; questo necessariamente per una via

1 Cfr. Mario Luzi, Creazione poetica?, «Il bimestre», 1972, 18-19, p. 1.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 168 Marcello Ciccuto che ho definito altra volta informale perché marcia di costante avvicinamento a una lingua naturale e originaria, intrinseca alle forme primarie (se non addirit- tura all’insieme di tutti i possibili dicibili, cioè il silenzio), dove l’essere avrebbe modo di dispiegarsi, grazie a un rapporto diretto, non mediato, nell’adamitica, edenica coincidenza delle parole con le cose2. L’obiettivo, invariabile, resta quel- lo pensato nei termini di una reintegrazione dei significati primari e puri all’e- spressione umana, così spesso «sporcata» dalla realtà materiale. Ha per noi for- te valore analogico il fatto che ad esempio Alessandro Parronchi, introducen- do un catalogo su Luzi «critico d’arte», avesse insistito particolarmente sul tra- scorrere di gusti comuni dal dramma di Rosai («un uomo come un cipresso di Rosai sono nel medesimo tempo un’affermazione e un dubbio tra i quali, dia- framma angelico e cupo, una vita stenta a consumarsi») agli assoluti imprevisti di un Mario Marcucci, alle sue verginità e naturalezze perenni che sono «pro- prie degli esseri veramente e concretamente spirituali» oltreché parte cospicua della dotazione ermetica di partenza sulla quale si configura, si plasma il percor- so del dire critico di Luzi3. Si tratta beninteso del passaggio – anche questo comunque decisivo, per nulla marginale – dal «guardare» o «contemplare» degli esordi a un’idea creati- va di immaginazione (arrivo a dire una sorta di universo fantasmatico di timbro classicamente cavalcantiano) che porta Luzi in un rapido giro d’anni a formulare l’idea di un’arte coesa, compenetrata allo sviluppo spazio-temporale dell’esisten- za, e nemmeno tanto distinta come atto di individualistica quanto forse super- ba fissazione in categoria estetica: piuttosto tranche de vie essa medesima e ricer- ca di un assoluto (o più assoluti) nel tempo – attraverso le sue immagini, come quelle deposte nel pieno della prosa Toscana (con l’immedesimazione di un’ap- parenza di donna incontrata casualmente in una figura frescata da Piero della Francesca ad Arezzo)4, oppure dentro il ragionare di uno dei Paragrafi fiorentini:

In certe situazioni atmosferiche e in certi tagli della luce ho visto Firenze come una rupe sopra la quale girano il sole e la luna […] Il fatto è anche che l’archi- tettura fiorentina è sempre rimasta vicina alla materia grezza ancora viva di taglio così come la pittura e la scultura nella loro figuralità non si sono allontanate dal vigore rustico e rozzacchiotto dell’umanità circostante. L’una e le altre hanno conosciuto il massimo di sublimazione formale operata più immediatamente sul rude e sull’elementare: dalla roccia e dalla ganga all’idea e al suo fastigio senza passare per la stilizzazione. Questa pietra che ospita nella sua cavità, nelle sue celle rigorosamente distinte l’alveare umano registra e lascia depositare su di

2 Marcello Ciccuto, Luzi informale, in L’immagine del testo. Episodi di cultura figurativa nella letteratura italiana, Roma, Bonacci, 1990, pp. 417-434. 3 Alessandro Parronchi, Mario Luzi critico d’arte, in Luzi critico d’arte, a cura di Nicola Mi- cieli, Firenze, Logisma, 2008, pp. 9-11. 4 Cfr. Marcello Ciccuto, Da Dante a Matisse. La scrittura totale di Mario Luzi lettore d’arte, in Luzi critico d’arte cit., p. 15. GLI SCRITTI PER GLI ARTISTI (E UNA LETTERA SULL’UMILTÀ DEL VIVERE) 169

sé gli eventi, le passioni e le ugge di generazioni, ma anche le espone al lavaggio e alla cancellazione: quasi per un ricominciamento continuo della natura5.

Cancellare ogni volta i segni per riscriverli è il destino dell’artista ermetico in cerca di un altior sensus per il proprio linguaggio, che si collochi aldilà del sem- plice «vedere» e che nel ricomporre con enargeia il mondo, intensificando la re- altà delle cose per via dell’esercizio costante e infrenato delle parole, finisce per trovare in Simone Martini la possibilità di una nuova incarnazione dei valori as- soluti di tutte le storie e di tutte le esistenze6. Nel suo progressivo accostamento a fatti d’arte e relativi interventi critici si può scorgere un Luzi impegnato di frequente a pensare a questo tipo di scrit- tura totale, che contenga in sé l’essenza delle cose, a specchio di un vivere colto nel ritmo degli eventi puri e sostanziali7: sarà l’esempio forte del Paradiso dante- sco illustrato da Venturino Venturi uno dei luoghi in cui si realizza «la profon- dità che supera», la convergenza formale e figurale del tutto fissata a una gram- matica interiore e onnipresente che filtra ogni evento dell’esistere8. Ma rifles-

5 M. Luzi, Trame, Milano, Rizzoli, 1982, p. 110. 6 Basterà per questo riandare alle parole del poeta in Mario Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti, 1999, p. 257: «[…] l’arte deve comprendere tutto, deve riu- nificare quello che la storia, la violenza del mondo ha diviso […] Giovanna, la moglie di Simone […] ha il potere di trasfigurare anche l’effimero in qualcosa di durevole e di significativo, di rivelazione, e quindi di dare una ragione profonda alle cose che accadono, che si incontrano […] Ma c’è accanto questa natura sconvolgente dell’altra Giovanna che in certe sue crisi fa a pezzi, mentalmente, tutta l’organizzazione di un mondo che anche Simone aveva condiviso; insomma, da lì si percepisce quanto sia abitato da forze avverse un universo, anche così composto e così equilibrato come quello di Simone. Ecco, l’arte di Simone è questa ricomposizione, però dietro c’è tutto un dramma». 7 Si veda allora come in Matisse, la gioia e oltre (in L’opera di Henri Matisse dalla rivolta fauve all’intimismo 1904-1928, Milano, Rizzoli, 1971, p. 7) Luzi scriva propriamente di «scrittura totale, di enorme geroglifico instaurato nella continuità dell’evento della vita»; e prima ancora (ivi, p. 5): «Come avrei voluto […] vivere – non vegetare – nel ritmo dei puri eventi della luce e della forma con la certezza di trovarmi là dove accade quello che importa, il continuo verificarsi e fervere di princìpi dell’universo, ben al di sopra degli oscuri fenomeni, quasi superflue metafore, del dibattimento dell’uomo e del tempo». 8 Nel saggio d’apertura del catalogo Mario Francesconi: Dipinti, testimonianze di Cesare Garboli e Mario Luzi, Firenze, Edizioni Pananti, 1992, p. 9, il poeta scrive del mondo interiore del pittore viareggino che è diventato «una specie di grammatica onnipresente [che] pervade il tutto, filtra al fondo e all’intorno di ogni movimento dell’immaginativa e delle sensibilità del pittore». Di una scrittura pittorica poi, capace di generare e riflettere forme primarie, o le strutture medesime di un quadro, è detto a proposito della pittura di Ugo Capocchini (per il catalogo alla Galleria dell’Indiano di Milano, maggio 1963) – «[…] il linguaggio intrinseco del colore decide ora tutta la sorte del quadro, decide della sua esistenza, ne crea non solo il movimento, ma anche la struttura; contiene e genera dal suo interno, mentre affluisce, la luce e la forma che prima si limitava a riflettere ed animare. Sorpreso alla sorgente, il colore ha dato al pittore l’ebrietà di riscoprire la virtù più propriamente creativa del dipingere» – per quella anche di Renato Ales- sandrini («il mondo visibile ovvero il mondo tout court resta forse per Alessandrini una generale scrittura onnicomprensiva») e pure un po’ attraverso le parole dedicate a Nino Tirinnanzi, 1955, per la presentazione alla sua personale presso la Galleria romana Arco d’Alibert. Di Dino Caponi 170 Marcello Ciccuto sione analoga, coinvolgente pensieri sulla funzione del linguaggio cognitivo co- mune a poeti e artisti, emergerà a proposito del Canzoniere petrarchesco – mito forse impareggiabile per l’intero contesto ermetico toscano – illustrato da Carlo Mattioli, specie laddove si acclara che «Mattioli ha afferrato il ritmo che circo- la nella continuità del Canzoniere. Simultaneamente ne scopre i simboli essen- ziali e la loro mutevole fissità nel lungo tempo di una speculazione che si svol- ge tornando sempre su se medesima […] acuminata appropriazione di un li- bro di poesia che è anche un modo permanente di vivere la vita e di intende- re il mondo»9. Ma anche in Atelier di Venturino è materia di «esserci, il primo e più nudo dei misteri […] pensieri che ho avvertito, vibranti nell’aria, svegli tra la pietra intatta e quella già formata», visualizzando nella circostanza la terra di mezzo che è il vivere come i fanciulli, prima e dopo la cultura10. Ma già riguar- do all’opera di James Coignard forma e materia altro non sono se non «archeti- pi, oscure anteriorità [che] affiorano da una comune infanzia mitica e la sorpre- sa è che trovino nell’artista tanta levità di sorriso o di sgomento, come accade nel gioco»11; vi si distingue una progressione verso la sintesi, la tensione a cap- tare l’essenza, che traduca il principio ritrovandolo espresso dal linguaggio della natura, scritto dunque nelle sue stesse forme. Venturino appare a Luzi nei pan- ni dell’artista che sa decifrare questa scrittura antica come il mondo, eventual- altresì Luzi avverte la capacità di tradurre i fatti pittorici in una scrittura autonoma – presenta- zione al catalogo per la personale alla Galleria Michelucci, Firenze, 1971 – come del resto per Ernesto Piccolo si riconosce «una facoltà ordinatrice e costruttiva che tende a fare di una visione – paesaggio o altro – anche una architettura» (introduzione alla mostra presso la Saletta Conti, Firenze, 1972). 9 Mi riferisco a M. Luzi, Mattioli e il Canzoniere del Petrarca, nel catalogo della mostra di Roma, Galleria Aldina, 1969 (ad es. «Mattioli insomma ha afferrato il ritmo che circola nella continuità del Canzoniere. Simultaneamente ne scopre i simboli essenziali e la loro mutevole fissità nel lungo tempo di una speculazione che si svolge tornando sempre su se medesima […] Tra le illustrazioni per cui va giustamente famoso, queste del Canzoniere si staccano proprio per questo: che non sono il frutto di un incontro sia pure fortunato ed eccitante ma della acuminata appropriazione di un libro di poesia che è anche un modo permanente di vivere la vita e di in- tendere il mondo». Ma cfr. ancora M. Luzi, Nel mare del non dormito sonno, in Carlo Mattioli. I fiori del male. Opere 1984-1987, con una poesia inedita di Mario Luzi, Milano, Galleria 1987, 32, pp. 5-6. 10 M. Luzi, Atelier di Venturino, in Venturino Venturi. Moti e ricerche verso l’infinito, Firenze, Pananti, 1991. 11 Così anche per Filippo de Pisis, in uno scritto destinato al catalogo di una mostra alla Strozzina, marzo 1952 (non realizzato), raccolto ora in Per una mostra di Filippo de Pisis, «Critica d’arte», LIII, 1988, 17, pp. 39-40. Ma per Coignard cfr. appunto la presentazione luziana alla mostra James Coignard: Forma e materia 1990-1994, Firenze, Galleria Palazzo Vecchio 2, 1995. Ripensando quindi Venturino, viene bene citare la sezione centrale delll’intervento luziano Un creatore di forme vive, «Quadrante», 1963, 20, p.16: «Mirabilmente è questo universo allo stato di nascita perenne, non ancora formale, che si esprime in forme assolute, unitarie, solari nella plasti- ca e nel segno di Venturino, quasi ne avesse carpito la misura e la regola e, quel che più conta, la grazia. Allo stesso tempo la plastica e il segno sono ricondotti all’origine della loro natura e della loro funzione. Formare ed esprimere contemporaneamente, esprimere in forme non frammenta- rie, non episodiche, ma fondamentali, intrinseche alla costituzione del tutto». GLI SCRITTI PER GLI ARTISTI (E UNA LETTERA SULL’UMILTÀ DEL VIVERE) 171 mente echeggiando il linguaggio del romanico, «totale» anch’esso perché capace di accogliere gli assoluti formali e la loro divina compiutezza, di addensare alla fine la presenza del tutto entro la singola figura, a perdita di senso potremmo dire con altra ricorrente espressione luziana12. Il concetto, forse già conquistato nel 1937 per un pezzo edito sul «Bargello»13, aggancerà poi altri elementi-chia- ve dell’anti-sistema luziano quali il «rovello» o i «coaguli di meraviglia ontolo- gica» ancora di Carlo Mattioli, dove si segnalerà la corrispondenza finalmente raggiunta della realtà rispetto all’ideale, vale a dire ciò che l’arte talora è in gra- do di conquistare14. Orbene, su questo anche ambiguo confrontarsi di assoluto e relativo, di vita perfetta delle sostanze e mutazione sempre imperfetta del vi- vere sono impostati i testi di cui parlo oggi. Le parole di Vittorio (poetiche, è opportuno precisare) sono quello che resta di una vita spesa dall’artista e poeta versiliese a beffare il mondo, a reagire alla morte e alle sue apparenze sconvolgenti; con un’innocenza di fondo che dice del- la rissa, della lotta di un’anima contro il trascorrere, in opposto intanto al «tra- smutabile per tutte guise» e a difesa quindi di un’area protetta entro la quale, con impegno, sia possibile conquistare la più profonda e semplice dignità da- vanti alla morte: parificandosi cioè alla sua potenza, facendo forza sulla capaci- tà di adeguarsi alla continua irrilevanza e trascorrenza delle cose e diventando perciò forte come la morte in virtù di fantasia creativa e generosità del vivere15.

12 Cfr. M. Luzi, Nuovamente venuto Rosai, Firenze, Pananti, 1984, pp. 8, 13, sulla linea di quanto il poeta afferma nello scritto Una testimonianza, in Ottone Rosai oggi, Atti del Convegno, Firenze 17-19 marzo 1974, Firenze, Vallecchi, 1975, p. 106 («La rappresentazione rosaiana, sia chiaro, è bloccata in immagini assolute. La estrema forza creativa del segno e del colore non possono fermarsi al di qua di una rilevanza e di una inquadratura solenni. La rappresentazione rosaiana non è, insomma, racconto, ma definizione ultima dell’immagine»). E cfr. allora Gloria Manghetti, Ottone Rosai: “nostro vecchio mago dalle infinite risorse”. Luzi legge Rosai, «Inventario», 1995, 2, pp. 107-117. 13 Cfr. M. Luzi, Su Rosai, «Il Bargello», IX, luglio 1937, p. 24: «Il suo linguaggio [di Rosai] apparentemente umile e rattenuto amplifica fino agli orli della conoscenza quel sentimento di un’umanità accidiosa insieme e orgogliosa di se stessa ove alcune leggi statiche e perenni sembra- no avere un compimento consapevole». 14 Particolarmente vistoso il raggiungimento, da parte del poeta, di una consapevole certezza cognitiva in merito a questo ordine di idee. Cfr. ad es., da un testo davvero fondamentale come Le nuvole (al pittore Enrico Ricci urbinate) – in Enrico Ricci, L’emozione della forma, a cura di Bruno Ceci, Fano, Galleria Comunale di Arte Contemporanea, 1993, pp. 23-24 – queste bat- tute introduttive: «Il cielo mentale è terso e radioso. L’idea innata o ricevuta di cielo s’identifica con l’azzurro. Immediatamente si glorificano i luoghi in cui la luce promana, appunto, da quella perfetta coincidenza, quasi venisse dall’idea stessa. La Grecia, per esempio. L’Eretteo leva le sue statue in un purissimo spazio azzurro, idea a fronte di idea, perfezione a fronte di perfezione; non potremmo pensarlo altrimenti. E la realtà, le più volte, corrisponde. Una cupola di trasparente azzurro avvolge e circonfonde l’episodio sacro nella pittura del Rinascimento, lo Sposalizio del Perugino, la Trasfigurazione di Raffaello. Talora uno sperduto cirro ornamentale fa anche più risaltare l’infinita purezza del fondo». 15 Cfr. M. Luzi, Le parole di Vittorio, in Grottlinger, poesia di Vittorio Grotti, grafica di Tony Munzlinger, prefazione di Mario Luzi, Firenze, Grafiche Senatori, 1981, pp. n. n. (qui in 172 Marcello Ciccuto

L’accostarsi di questa riflessione all’agonismo rilevato nel pieno del Libro di Giobbe risulta più che vistosa: con tutte le proprietà umane lasciate in balìa di Satana perché la prova è accogliere l’apparente ingiustizia di Dio, farsi coinvol- gere dall’apparente (cioè vivere) nel proposito di intuire che il vero dono è un’al- tra e diversa condizione rispetto alla salvezza, vale a dire consiste nell’essere sta- to immesso nella storia anche a prezzo di mortificazioni e delusioni ed errori di prospettiva16. E allora: l’offesa, l’ostacolo vero che Giobbe dirà di non tollera- re è l’indifferenza, l’astratto, l’indifferenziato e l’immoto. Così quando Dio esce finalmente dal suo mutismo il profeta è in grado di ammettere la necessità del male, della sua condizione umana e terrestre; spingendosi al punto da chiede- re ancora una volta un dio che si incarni, che soffra con lui e ascolti null’altro che il suo dire terrestre: ciò che diventerà un convocare dio (o la metafisica), i sensi superiori sul terreno dell’umano, unica risorsa di chi è stato mandato sulla terra, quasi senza fortuna come il pescatore Cola ricordato nella lettera all’ami- co ormai morente, che solo diventando pesce ha modo di riconoscere il suo de- stino di pescatore comunque sia, di cercatore di un destino e di un irrinuncia- bile confronto con se stessi dal di dentro dell’esistenza, che resta l’unico valore del percorso di ciascuno di noi, di artisti e di uomini che hanno fatto della lot- ta contro le finzioni del vivere il senso pieno del loro essere «gente nel tempo».

APPENDICE Mario Luzi, testimonianze

I. Mario Luzi, Le parole di Vittorio, in Grottlinger, poesia di Vittorio Grotti, gra- fica di Tony Munzlinger, prefazione di Mario Luzi, Firenze, Grafiche Senatori, 1981 (edizione a cura del Comune di Camaiore).

Se anche prima lo era stato, oggi è anche più difficile sceverare le componenti di quella straordinaria miscela a cui l’estro e l’invenzione di Vittorio facevano da detonatore provocando ora fiammate vivide ora scoppiettii impertinenti. Diffi- cile sceverare tra gioco, irritazione, rabbia vera e propria, dolore, sarcasmo, sor- riso e ancora di più tra aggressività, timidezza, scontrosità, paura: tutti dati che concorrono al personaggio autore di questi versi così simile eppure così diverso da quello indimenticabile che ha recitato la pittoresca e furente commedia della sua breve vita. In che cosa diverso? Diverso se non altro in questo, che il primo, lo scrittore, non perdona al secondo, all’attore, come non perdona a nessun’altra comparsa della rappresentazione – e tutti in verità sono comparse, i protagonisti

Appendice, I). 16 Tutti i riferimenti vengono dalla prefazione luziana a Il libro di Giobbe, nuovamente tra- dotto da Gianfranco Ravasi, Alpignano, Tallone, 1996. GLI SCRITTI PER GLI ARTISTI (E UNA LETTERA SULL’UMILTÀ DEL VIVERE) 173

essendo se mai fuori di scena e fuori del quadro: e cioè nella regione inespressa dove bruciano gli affetti più “sacri” e più gelosi e nella zona altrettanto muta dove continua ad ardere senza risposta e quasi pudicamente il problema dei problemi. Non perdona né sé né le altre comparse e nello stesso tempo assolve tutti perché tutti obbediscono alle necessità dello spettacolo. Se non che ci sono gli “a parte” laceranti che lo scrittore non manca di registrare e questi rendono lo spettacolo della scrittura ben più straziante di quello quotidiano che egli aveva inscenato, nel quale, per meglio dire, si era spavaldamente inserito. Lo spettaco- lo è in ogni caso una costante per Vittorio: ed è uno spettacolo che non mani- festa, ma occulta e svia. La parola “maschera” si trova anche nelle ultime poesie. Come il generoso e operoso personaggio così anche la scrittura di Vittorio sem- pre si oppone a qualcosa, ora frontalmente ora girando attorno sorniona con lo scherzo o con altri reagenti. Fin da quando lo conobbi e lessi qualcosa di lui, allora molto giovane, mi domandavo qual era e dove fosse annidato il suo vero antago- nista; a quale carnevale rispondesse – poiché la Versilia era in lui – il suo graffian- te, allusivo, talora limpido e festoso carnevale. Contro che offesa reagiva? La sua generosità e la sua fantasia umana che gli sembravano non corrisposte se non dalla mediocrità, dal calcolo o dall’imbroglio fornivano pretesti ad oltranza; ma qualco- sa di più fondamentale e oscuro lo inquietava – certi gorghi o risucchi lo testimo- niano anche prima di queste già anche troppo conscie poesie. E se, come accade in certi itinerari umani, segno e significato coagulano in un destino, oggi lasciati da lui davanti alle sue sole parole possiamo forse interpretare la sua sgargiante e pensierosa rissa come una risposta beffarda alla beffa che sentiva giocata, forse, e certo alla sfida che sentiva lanciata inesplicabilmente contro di lui dalla morte. Ma la morte è spesso nominata fin dalla sua gioventù come argomento adeguato al suo super-io, al suo protagonismo, beffarda e tuttavia dignitosa riposta, fino all’in- nocenza: amara e tuttavia mite fino alla remissione. Non senza quell’affidamento testimoniale che miticamente Vittorio le attribuiva quasi essa sola potesse essere pari all’uomo e al poeta che l’avevano portata da sempre dentro di loro.

II. Mario Luzi, lettera a Vittorio Grotti, su due facciate. Autografo (ringrazio l’ingegner Gianni Luzi per avermi gentilmente autorizzato a riprodurre questo documento).

Capodanno 81 Carissimo, all’inizio del nuovo anno in cui avremmo proprio dovuto fare un brindisi insie- me ecco che una ulteriore fase della terribile terapia a cui sei sottoposto ti tiene, con le sue violente reazioni, all’àncora di codesto porto ospitale, sì, ma solo come può esserlo un ospedale. Permettimi allora di introdurmi sotto immagina- rie spoglie in camera tua e di libare, in mancanza di meglio, questo indefinibile liquore che è il miscuglio di salute e di malattia, di forza e di deiezione che ci viene propinato ogni giorno come nostra espiazione, purga o viatico; fin dalla nascita ma solo adesso, solo in certi stati di sospensione, di perplessità o di de- sistenza ci si rivela in pieno per quel che è. È, né più né meno, la nostra stessa condizione di creature mandate qui che si manifesta. Non è certo la prima volta, 174 Marcello Ciccuto

ma durante la malattia dell’estate e, dopo di essa e i suoi avvertimenti, anche in viaggio e in fuga mi accompagna più che mai; e proprio da questo stato mi rivolgo spesso al mio impareggiabile grottesco che, tanto più giovane e tanto più vigoroso, ha dovuto prendere atto della vertiginosa ambiguità del nostro ‘esserci’, del nostro trovarsi presenti qui e oggi: un dato davvero misterioso, non valutabile, pochissimo conoscibile. E mi pare che si rinnovi una di quelle notti di luna in cui andavamo col barchino in padule ad affondare le reti per la calata delle anguille. Sì quelle reti devono ancora essere immerse, non possiamo fare altro, e tirare su qualcosa che contenga la nostra sorte e accettare ciò che è pos- sibile prendere e catturare – sebbene sappiamo già quanto possa valere alla fine. Forse sono più malinconico di quanto dovrei: ma è solo apparenza. In realtà ho voglia di fare quel brindisi e di farlo con te. Ti abbraccio insieme a Anna e Esther Mario Luzi «FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE

Michela Landi

Il rapporto di traducibilità è, al dire di Benjamin, «un rapporto di vita»1. Come la memoria storica non s’interessa al mero fatto di natura ma tende ver- so l’essenza di questa, così la «sopravvivenza»2 di un testo non si dà nella forma in sé come precipitato storico, quanto nella dialettica intrattenuta tra due for- me; e ciò affinché traspaia – oltre la somiglianza – l’affinità profonda delle lin- gue. Se compito del traduttore è «redimere nella propria quella pura lingua che è racchiusa in un’altra; o, prigioniera dell’opera, liberarla nella traduzione»3, da tale paradossale fedeltà, non al testo ma alla sua intenzione, discende un accre- scimento ermeneutico, una «realizzazione intensiva», allusiva e anticipatoria4, che conferisce al testo stesso una «maturità postuma»5. È, come vedremo, que- sto assunto benjaminiano che Luzi sembra far proprio. Benjamin osserva ancora, ne Il compito del traduttore, che la fedeltà di quest’ul- timo è tale allorché si esprime «nell’opera la grande aspirazione all’integrazio- ne linguistica»6; quell’«inteso in tutte le lingue» che è «la pura lingua». Lo stes- so principio anima la poesia luziana:

Posso, sì, averlo udito perdutamente parlare così il discorso… E intanto taceva il suo contrario in ogni lingua ma io lo ricordavo7

1 Walter Benjamin, Il compito del traduttore, in Angelus Novus, Torino, Einaudi, 1995, pp. 39-40. 2 Ivi, p. 41. 3 Ivi, p. 50. 4 Ivi, p. 42. 5 Ivi, pp. 43-44. 6 Ivi, p. 49. 7 Mario Luzi, Madre, madre mia (Per il battesimo dei nostri frammenti), in Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1988, p. 553.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 176 Michela Landi

Come il compito di poeta e traduttore che qui celebriamo nel maestro fio- rentino soverchia, con la sua suprema necessità, la funzione, dopo tutto acci- dentale, di professore di Letteratura francese ch’egli svolse presso la Facoltà di Scienze Politiche «Cesare Alfieri», così il sapere della lingua sopravanza quel fe- nomeno, posto sotto l’imperativo della comunicazione formale, noto oggi come «la conoscenza delle lingue». Ragione per la quale Nietzsche ebbe a scrivere, pro- vocatoriamente, in Aurora. Pensieri su pregiudizi morali, che «chi sa le lingue è un imbecille». L’espressione, commenta in proposito Galimberti, «è perentoria, per i profes- sori di lingue può suonare perfino offensiva, ma il senso non è recondito. Infatti si può trasporre un termine da una lingua all’altra in quanto non ci si è inabis- sati nel suo senso e la parola non ci ha fatto prigionieri della sua profondità»8. Se il rapporto di traducibilità è, secondo Benjamin, dell’ordine della «vita», un episodio tratto da questa mi sia concesso di evocare: in occasione della stesura di una plaquette autografa con traduzione francese a fronte alla quale Luzi ed io collaborammo9, spettava a noi tradurre in italiano un predicato: «L’Attentive». Senza indugio, egli propose e vergò di sua mano: «Studiosa». Spesso ho rievo- cato tale necessità rivelatasi, nel fuoco dell’istante, come un’impellenza: l’agget- tivo disvelò l’intensità della lingua inscritta nell’etimo latino studium. Portando in sé come il verbo attendere – «tendere verso» – una «realizzazione intensiva», esso univa le ragioni della vita e della forma, dell’etica e dell’amore, la dedizio- ne alla causa e l’attaccamento alla stessa. L’avverbio che dette il titolo alla prima raccolta di traduzioni dal francese uscita presso Vallecchi nel 198010, Francamente, valeva già a sottolineare, attra- verso la pregnanza etimologica dell’aggettivo «franco», tanto la «fedeltà» della parola alla controversia mondana che costituisce uno dei principi-cardine del- la poetica luziana11, quanto la centralità che riveste la cultura francese come al- terità autorevole; paternità putativa con la quale da poeta, professore e critico, Luzi si è costantemente confrontato. Buona parte delle traduzioni qui raccol- te saranno successivamente riproposte nel volume pubblicato da Einaudi con il titolo: La cordigliera delle Ande12, il quale reca significativamente, in esergo, la

8 Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, Milano, Feltrinelli, 2009, p. 81. 9 Mario Luzi, Michela Landi, Pareva fosse dato/Il paraît que permission fut donnée. Plaquette autografa, con un guazzo originale di André-Pierre Arnal, s.l., L’Attentive/Studiosa, 2001. 10 M. Luzi, Francamente (versi dal francese), Firenze, Nuove Edizioni Vallecchi, 1980. Il volume riuniva testi apparsi occasionalmente su rivista. 11 M. Luzi, Vita, fedele alla vita (Su fondamenti invisibili), in Tutte le poesie cit., p. 363. Vie fidèle à la vie è il titolo di una raccolta di traduzioni francesi di Luzi a cura di Antoine Fongaro e Pascale Charpentier, Paris, Obsidiane/Villa Médicis, 1984. È questa fedeltà tanto alla vita quanto alla cultura francese che ho inteso eleggere ad insegna della poesia luziana sin dal titolo del mio volume: Mario Luzi fidèle à la vie(Paris, L’Harmattan, 1995). 12 M. Luzi, La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983 (volume riedito nel 1992). «FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE 177 dedica: «per i miei amici, francamente». Della fedeltà alla vita, dunque, la tra- duzione non è che un epifenomeno. Il titolo della nuova raccolta, mutuato da un testo di Supervielle ivi presente in versione italiana, rivela, ancora una vol- ta, una pregnanza: i testi che, qui riuniti, appaiono come fenomeni sparsi d’e- pisodica intensità tellurica, sono attraversati da un unico filone magmatico che anima le forme. Nella «premessa o confidenza» che apre il volume, Luzi non fa mistero del- la sua «riserva […] d’incredulità»13 nei confronti della teoria della traduzione. L’apparato di cogenza oggettiva che ogni teorizzazione impone nasconde di fat- to «un oscuro patteggiamento di concessioni, di resistenze, di pretese»; in altri termini, una formazione di compromesso che, come virtualità intensiva, aleg- gia intorno all’«apparentemente scomoda immobilità dell’oggetto»: quell’origi- nale che ci si impone nella sua perentoria e «invidiabile autorità». Il duello er- meneutico esige, a suo parere, una sola osservanza: la lealtà. E si torna, dunque, alla pregnanza dell’avverbio: «francamente». Luzi identifica, nella medesima premessa, tre modalità di approccio tradutti- vo all’originale. La prima di queste è il calco: a volte, egli scrive, la forma dell’o- riginale è tanto imperiosa che «sembra esiga di essere assunta come un blocco». Essa comanda l’identificazione, la quale è «paradossalmente la forma più com- pleta di adesione e insieme di rimozione del modello»14. La seconda modalità è la «sperimentazione parallela», che presuppone una connivenza e una negoziazione tra autore e traduttore, tale che l’adesione e la distanza si pongono in una con- dizione di equilibrio dinamico. La terza ed ultima è la prevaricazione sul «ricco e indifeso tessuto» dell’originale, allo scopo di attualizzarne le latenti intenzioni. Se, confessa Luzi, «tutti questi motivi hanno agito in me a seconda dei casi»15, è tuttavia possibile individuare in essi, attraverso l’approccio tradutti- vo a tre autori – Ronsard, Louise Labé e Mallarmé – le tre successive fasi di un processo di accrescimento ermeneutico. Per le ragioni enunciate da Luzi in pre- messa, ovvero per il fatto che la traduzione di testi drammatici chiama «a una verifica e a un paragone tali che sottraggono tutto l’indistinto e tutto l’arbitra- rio» (indistinzione e arbitrarietà che invece «aleggiano forse sulla traduzione di poesia lirica»16), non terremo conto delle traduzioni di testi teatrali, come è il

13 M. Luzi, Premessa o confidenza, in La cordigliera delle Ande cit., pp. V-IX. 14 Ivi, p. VII. 15 Ibidem. 16 Ivi, p. VI. Su questi aspetti si veda anche M. Luzi, Fra poesia e teatro, a cura di Miche- la Landi, con introduzione di Anna Dolfi, inLezioni di poesia, a cura di Antonella Francini, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Michela Landi, Francesco Stella, Firenze, Le Lettere, 2000, pp. 111-112: «Quando […] si traduce un poeta ci sono […] due persone che si fronteggiano in vario modo: a volte per identificarsi, altre volte per contrapporsi, qualche volta per invadere uno il territorio dell’altro. Quando invece si traduce un testo teatrale c’è un altro agonista ed è il palcoscenico, che detta legge qualche volta […] [La traduzione] teatrale è quindi […] una traduzione assai più obbligata perché si tratta di un rapporto con situazioni riconoscibili e che si impongono». 178 Michela Landi caso di Racine. Ci soffermeremo invece sulla poesia lirica, la cui componente di aleatorietà e gratuità costituisce, nell’ottica luziana, la condizione prima della negoziabilità e della dialettica. Ma, in primo luogo, sarà necessaria una riflessione di ordine generale, ri- guardante il rapporto che Luzi intrattiene con la lingua francese. Innanzitutto gli «effetti della adiacenza»17 che sembrerebbero favorire la lealtà e la franchezza auspicate, di fatto «sconfortano i fieri intendimenti del traduttore. La familia- rità più è intrinseca più dissuade da tentazioni di mutamento di stato»; e così, «l’umbratile dialettica tra identità e differenza» che presiede alla traduzione si adagia «ed ha solo sporadici e magari per questo eccitanti risvegli»18. In definiti- va, l’affinità tra due lingue richiede al traduttore una più elevata soglia di atten- zione, un più raffinato esercizio dialettico. Ad un fenomeno di adiacenza linguistica si contrappone tuttavia una dis- simmetria culturale: negli anni dell’Ermetismo la letteratura francese permea più che mai coi suoi modelli quella italiana. Una particolare congiuntura sto- rica, dunque, fa sì che la natura umbratile del rapporto tra le due lingue si tra- muti in un eccitante risveglio. La prima fase del processo di accrescimento ermeneutico è costituita dal cal- co; certo favorito dagli «effetti di adiacenza» tra le due lingue, esso presuppone l’adesione spontanea al modello, cui ci lega un «desiderio mimetico». E non è un caso che il sonetto Sur la mort de Marie di Ronsard, tradotto nel 1940 e in- cluso, con il titolo Copia da Ronsard, sin dalla seconda edizione de La Barca19, costituisca anche il primo banco di prova di Luzi traduttore. Il Luzi più maturo riconoscerà retrospettivamente questo «puro slancio di totale aderenza»20 come un’«evasione dal presente in lontani paradisi della forma»21; regressione, insom- ma, ad un’edenica paternità, caratterizzata dalla fusionalità con il modello e, al tempo stesso, dall’osservanza pacifica della sua Legge. Certamente la lingua di Ronsard, considerata dai francesi – con certo compiacimento per le istanze su- perate – come espressione dell’«infanzia» di una cultura che, profondamente se- gnata dall’adesione mimetica all’esempio italiano, era alla ricerca di una matu- rità e di un’identità nazionale, prestava il fianco all’affacciarsi di una dialettica. Per effetto di rifrazione culturale il petrarchismo, che imprimeva dall’esterno un paradigma alla poesia francese, cominciava a rivelarsi come una «metafora for- male». Sono, appunto, gli anni di Avvento Notturno, la fase più «astrattiva» della poesia di Luzi in cui, egli ricorda, «la metrica si impone in quanto tale» e vuo- le attestarsi nella mente del lettore «come norma, come idea disciplinare del-

17 Ivi, p. VIII. 18 Ibidem. 19 M. Luzi, La Barca (1941), Firenze, Parenti, 19422. Cfr. M. Luzi, Premessa o confidenza cit., p. IX. 20 Ivi, p. IX. 21 Ivi, p. VII. «FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE 179 la parola: un’idea platonica della metrica» o, altrimenti, una «metrica che esiste idealmente prima ancora che nella fattualità»22. Normatività «al quadrato», secon- do le parole del poeta, che si dà come «impenetrabile alle evenienze, alle occor- renze casuali del tempo»23. Se Luzi operava insomma, nei confronti di Ronsard, con apparente slancio di aderenza, la sua intenzione andava già più o meno in- consciamente nel senso di una «incorporazione» polemica del testo francese. La Copia da Ronsard, di cui si propone una sorta di retrotraduzione o «calco del cal- co», non è forse già, per così dire, una «copia della copia»? Portando a coscien- za una «metrica elevata al quadrato» – «un’idea platonica della metrica» – essa si configurava come un «limbo» dove, al dire dell’autore maturo, aveva ripara- to per troppo tempo la poesia prima di consegnarsi al «fuoco della controver- sia» rappresentato dalla lezione dantesca24. Dunque, se Luzi manifesta, nei con- fronti di Ronsard, un intento mimetico, la sua realizzazione è «anticipatoria»: dentro la metafora formale, alcune scelte eterodosse attestano già una voce al- tra: il polemos insito nel suo stesso dettato. E il diniego del platonismo ronsar- diano è manifesto attraverso la rinuncia all’apparato; spogliati della maiuscola allegorizzante, gli oggetti della poesia sono riconsegnati al loro destino terreno. A seguito di questa prima esperienza, sopraggiunge infatti il «desiderio di un’avventura propiziata dalla diversità»25; e una sorta d’iniziazione ha luogo at- traverso la rivalità ermeneutica con il modello libresco. Accogliere la proposta di Cristina Campo26 di tradurre alcuni sonetti di Louise Labé, scrive Luzi laconi- camente, fu «come una risposta alla Copia da Ronsard»27. Creatura reale, secon- do alcuni, «créature de papier» secondo l’ipotesi di Mireille Huchon28, «la belle Cordière» costituisce un ulteriore esempio di «apparentemente scomoda immo- bilità dell’oggetto», che si impone al traduttore nella sua «invidiabile autorità». E non è secondario che tale avventura abbia ora luogo, come lo sarà per Mallarmé, per la via parallela della traduzione e della critica29. Questa volta, la sfida è aper- ta al petrarchismo inteso come metafora formale, di cui anche la scuola lione- se è permeata. La sfida consiste innanzitutto nel riconoscere retrospettivamen- te, in Louise, un’umanità che trascende la forma e che per questo si pone in la- tente polemica con il codice imitativo; tale polemica il traduttore, sua voce po- stuma, porterà dunque a coscienza. La «scomoda immobilità» del petrarchismo

22 M. Luzi, L’endecasillabo, a cura di Michela Landi, con prefazione di Francesco Stella, in Lezioni di Poesia cit., p. 94. 23 Ibidem. 24 M. Luzi, L’inferno e il limbo (Firenze, Marzocco, 1949), Milano, Il Saggiatore, 1964. 25 M. Luzi, Premessa o confidenzacit., p. VII. 26 La traduzione si deve, come ricorda il poeta, alla «persuasione, finissimamente imperativa» di Cristina Campo (ivi, p. IX). 27 Ibidem. 28 Mireille Huchon, Louise Labé, une créature de papier, Genève, Droz, 2006. 29 M. Luzi, La poesia di Louise Labé, in Aspetti della generazione napoleonica ed altri saggi di letteratura francese, Parma, Guanda, 1956, pp. 125-134. 180 Michela Landi di Labé è infatti, come Luzi critico tiene a rimarcare, solo apparente, in quan- to la poetessa si prefigge in prima persona un allontanamento dal modello, non tanto «di strutture e di forme quanto di vita e di atteggiamenti». Quello che il poeta definisce «il piano ideale platonico-petrarchesco», non è «né rifiutato né intenzionalmente evitato», bensì «tradotto nella sostanza di una passione rea- le». Così, essa «accoglie gli schemi ideali e formali del suo tempo per distrug- gerli poi con la tensione dei propri affetti»30. L’amore doveva agire in lei al pri- mo grado, come a restituire quel pathos petrarchesco oramai irrigiditosi nel co- dice dei poeti cinquecenteschi; talché essa si ritrova «molto lontana dall’elegan- za con la quale aveva iniziato»31. È per queste ragioni che Luzi lamenta, nella traduzione di Enzo Giudici che costituisce l’occasione del suo intervento criti- co32, di irretire nella maniera «il testo che Louise aveva riscattato con l’insinuar- vi la sua vita reale e precisa», e ne illustra la «perdita di vita e di freschezza» con quattro esempi traduttivi33. La sfida ermeneutica è lanciata. E Luzi propone una ritraduzione che vuole essere, innanzitutto, una rilettura. Le intenzioni latenti che quest’ultimo rico- nosce nei sonetti di Louise Labé, ovvero quelle di «tradurre nella sostanza una passione reale», saranno, nella sua versione, opportunamente attualizzate: con «qualche violenza alla affabilità del dettato»34 si conseguirà quella «realizzazione intensiva» atta a conferire alla poetessa una «maturità postuma». Tali scelte sono tutte intese a mobilitare le tensioni riposte all’interno dell’apparentemente so- lida e monolitica compagine della forma-sonetto – compagine che la rigorosa foggia petrarchesca, e, nella fattispecie, la struttura endecasillabica, tengono sot- to controllo35 – portandola all’estremo delle sue potenzialità. Principio vitale è la tensione tra codice metrico e necessità ritmiche interne alla lingua; e non ul- tima, nei suoi effetti, è la «memoria quantitativa» inscritta nell’endecasillabo36. Essa risponde ad un’«unità sempre identica» e ad una «fissità replicata» con im- provvise aperture «che fanno qualche volta invertire il ritmo o, comunque, lo

30 Ivi, p. 130. 31 Ivi, p. 133. 32 Louise Labé, Il Canzoniere e la Disputa d’Amore e di Follia, traduzione e cura di Enzo Giudici, Parma, Guanda, 1955. Cfr. ivi, p. 125. 33 Ivi, p. 134. Rispettivamente, il v. 6 del sonetto VII («Pour me sauuer apres viendrois trop tard | Ché tardiva a salvarmi avresti ogni arte»); il v. 5 del Sonetto VIII («Tout à un coup ie ris et ie larmoye | Or d’un tratto m’allegro ed or patisco»); il v. 8 del Sonetto IX («Que de sanglots ay souuent cuidé fendre | Che dai singhiozzi vinta mi credei»); e il v. 2 del Sonetto XIII («De celui là pour le quel vois mourant | Di colui per il qual vivo morente»). 34 M. Luzi, L’endecasillabo cit., p. 94. 35 «L’endecasillabo compare […] quale elemento di ordine, di concentrazione e in fondo anche di garanzia che il testo non sfugge di mano» (ivi, p. 93). 36 «Nell’endecasillabo io penso che la quantità sia molto fortemente penetrata: nelle sue va- rietà espressive l’endecasillabo ha una sensibilità quantitativa alle lunghe, alle brevi, per cui sono possibili tutte queste varianti» (ivi, pp. 90-91). «FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE 181 rompono»37. Calcata sul dettato ritmico interiore del traduttore, questa espe- rienza di rimemorazione linguistica fa sì che la voce della poetessa acquisisca la forza vitale trattenuta entro forme «tendenzialmente esatte». Tale «sovrappiù di pathos, di rivolta»38 condurrà, come vedremo, alla deflagrazione del sonetto mal- larmeano dove, di un’unità memoriale oramai riconosciuta come fantasma col- lettivo e metafora libresca resteranno, alla prova dell «irruzione dell’informale»39, schegge e frammenti mnestici. Dell’esiguo corpus della poetessa lionese40 Luzi restituisce tre sonetti ai cui de- casillabi41 ben si piega il duttile endecasillabo, «nerbo» della nostra prosodia42 capa- ce di sostenere, con le sue molteplici varianti ritmiche43, la tensione auspicata. Esso esige infatti di «sacrificare l’ortodossia metrica al ritmo, con il proposito di esten- derlo a una maggiore quantità di materia verbale e sintattica»44. Così Luzi accoglie a metafora formale uno dei temi portanti della poesia di Louise: sotto l’effetto del pathos amoroso si tende all’estremo, col rischio di spezzarsi, la corda del proverbia- le liuto che accompagna, a quel tempo ancora fuor di metafora, la poesia lirica – liuto evocato appunto al v. 6 del sonetto XIV (Tant que mes yeux pourront larmes espandre)45. Vibrazioni e risonanze, scrive Luzi, si avvertono laddove «la corda […] è stata intensamente tratta e lasciata con uno strappo»46. E il testo, «per l’urgere e l’espandersi della passione», «si colma e si tende, manda il suono roco e straziato di un recipiente riempito goccia a goccia che sta per traboccare o di un involucro che una sostanza troppo compressa (sic) è sul punto di schiantare»47. A dimostra- zione del fenomeno testè evocato, ci soffermeremo sul primo dei tre sonetti tra- dotti da Luzi, il succitato Tant que mes yeus pourront larmes espandre48. Esso appare a buon diritto il più celebre, sia in quanto può ritenersi «l’esempio più alto» della poesia della Labé in fatto di «densità dei vocaboli, dei ritmi, delle cadenze»49, sia perché esso presenta al sommo grado la tensione di cui si è detto:

37 Ivi, p. 92. 38 Ivi, p. 95. 39 Ibidem. 40 Il corpus poetico di Louise Labé consta di 24 sonetti (di cui il primo composto in italiano: «Non avria Ulysse o qualunqu’altro mai»), due elegie e un Débat de folie et d’amour. Cfr. L. Labé, Œuvres complètes, Paris, Garnier-Flammarion, 2004 e M. Luzi, La poesia di Louise Labé cit., p. 133. 41 Merita ricordare che i sonettisti del Cinquecento compongono alternativamente in versi alessandrini e in decasillabi. 42 M. Luzi, L’endecasillabo cit., p. 89. 43 «Quarantotto, o quante siano [tutte queste varianti], dipendono in gran parte da una commisione della metrica quantitativa con quella accentuativa» (ivi, p. 91). 44 Ivi, p. 95. 45 M. Luzi, La cordigliera delle Ande cit., pp. 8-9. 46 M. Luzi, La poesia di Louise Labé cit., p. 131. 47 Ibidem. 48 M. Luzi, La cordigliera delle Ande cit., pp. 8-9. 49 M. Luzi, La poesia di Luise Labé cit., p. 132. 182 Michela Landi

Tant que mes yeus pourront larmes espandre, A l’heur passé auec toy regretter: Et qu’aus sanglots et soupirs resister Pourra ma voix, et un peu faire entendre:

Tant que ma main pourra les cordes tendre Du mignart Lut, pour tes graces chanter: Tant que l’esprit se voudra contenter De ne vouloir rien fors que toy comprendre:

Ie ne souhaitte encore point mourir. Mais quand mes yeux ie sentiray tarir, Ma voix cassee, et ma main impuissante,

Et mon esprit en ce mortel seiour Ne pouuant plus montrer signe d’amante: Prirey la Mort noircir mon plus cler iour.

Già nel verso incipitale: «Tant que mes yeux pourront | larmes espandre», si osserva che una fase ascendente, a cadenza maggiore, resa da un endecasillabo a maiore, è bruscamente interrotta in cesura da un «contre-accent», ovvero da un accento tonico sul tempo debole (pourrónt|lármes) che ingenera una brusca inversione ritmica (−◡◡−◡−|−◡◡−◡). Questo schema – che potremmo defini- re, mutuandolo dalla metrica greco-latina, «scazonte» – trasmette un doloroso effetto di risacca; se ne ha un’eco ai vv. 4 («Pourra ma voix,| et un peu faire en- tendre» dove, per di più, si ha uno iato in cesura) e 8 («De ne vouloir rien|fors que toy comprendre»), i quali si alternano a versi piani, definiti da Luzi «movi- menti intermedi di assestamento»50. L’andamento scazonte, concentrato nella fronte del sonetto, ha un riscontro, sul piano sintattico, nella lunga prolessi cir- costanziale (subordinata temporale) che, a mo’ di premessa, occupa l’intera se- zione, mentre l’anafora della locuzione congiuntiva «tant que», figura trocaica, crea un’attesa che si risolve logicamente e scenicamente nel primo verso della sirma; tale verso, in cui si concentra, lapidaria, la conseguenza, coincide infat- ti metricamente con la risoluzione dell’attesa costituita dall’enunciato principa- le («Ie ne souhaitte encore point mourir»). Alla lunga «aspettativa» occupante, a mo’ di segmento prolettico, l’intera fronte, e caratterizzata da instabilità ritmi- ca, seguono, dopo il verso-chiave che segna la risoluzione dell’attesa, i versi di- stesi e piani della sirma. Essi denotano, dopo il tormento evocato sopra, un ri- stabilimento dell’ordine ma, contestualmente, l’«inaridimento» e la rassegnazio- ne in seguito alla perdita della speranza. Quest’ultima è eletta, infatti, a motivo di turbamento quanto di tensione vitale.

50 Ivi, p. 131. «FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE 183

La prosodia duttile e insieme cadenzata dell’italiano con la sua «memoria quantitativa» consente a Luzi non solo di restituire tali tratti metrici ma, come si anticipava, di dinamizzarli all’estremo realizzando così l’auspicio benjaminia- no: compensare e «redimere» nella sua lingua la costitutiva debolezza ritmica del francese. Vediamone dunque la resa:

Finché l’occhio potrà lacrime spandere Sul dolce tempo che passai con te E ai gemiti la mia voce potrà Resistere e un poco farsi intendere:

finché al Liuto potrà le corde tendere questa mia mano in tue grazie cantare, finché si vorrà il cuore contentare di non volere altro che te comprendere,

non desidero ancora di morire. Ma quando gli occhi senta inaridire, La voce rotta, la mano domata,

Nel cuore in questo effimero soggiorno Non dar più segni la passione usata, Morte annerisca il mio più chiaro giorno.

Già nel verso incipitale: «Finché l’occhio potrà | lacrime spandere» (◡◡−◡◡−|−◡◡−◡◡) osserviamo come la marcata cadenza maggiore del primo emistichio, caratterizzata da un andamento anapestico scandito dai due termi- ni tronchi (o ossitoni che dir si voglia) si converta bruscamente, in posizione di cesura mediana, in un ritmo dattilico. Il controtempo – che pare risentire delle sincopi caratterizzanti la musica negra, jazz o blues – si deve alla sequenza serra- ta di due termini sdruccioli (o proparossitoni). Questo beccheggio accogliamo a significare la perigliosa peregrinatio che l’amore impone al viaggio della vita: da un lato la tensione belligerante verso il futuro e la bruciante «attesa» segnata dalla cadenza anapestica; dall’altra il diniego, la ritrosia, il timore, che costrin- gono ad un’inversione di rotta, cui segue la piana rassegnazione. L’endecasillabo sdrucciolo rientra, tra l’altro, a pieno titolo nel gusto luziano per il periodare discendente, se non scosceso; basti ricordare un esempio caro al poeta e da lui stesso citato a restituire il moto discensionale del fiume Arno: «La forza che ti fa sempre discendere»51. Attraverso la soluzione sdrucciola concessa dalla prosodia

51 M. Luzi, L’endecasillabo cit., p. 93. Il verso è tratto dal componimento intitolato All’Arno e facente parte della prima raccolta, La barca (All’Arno, in Tutte le poesie cit., pp. 24 sq.). Luzi ne cita qui uno stralcio a mo’ di esempio. «Come sentite – commenta il poeta – questa poesia è più giocata sulla forza, sull’incidenza dei ritmi che sulla norma metrica». In particolare, il verso in questione «sembra scaturito dalla naturalezza del discorso» (ibidem). 184 Michela Landi italiana ha luogo – in accordo con quanto auspicato dai poeti cinquecenteschi – anche una restitutio filologica. L’italiano – discendente naturale, e non puta- tivo, della lingua latina – riscatta, come si accennava, la debolezza e instabilità ritmica del francese, oltre che la riduzione della sua massa fonica a seguito della massiccia monottongazione. La nostra lingua, custode della «memoria quanti- tativa» dei Padri, recupera inoltre la sincope della vocale postonica che interes- sa, nella fonetica storica della lingua d’oltralpe, tanto i sostantivi proparossitoni (fr. «larme» > lat. lacrima) quanto i verbi latini con flessione in -ĕre. Di quest’ul- timo caso, si ha chiaro esempio nei quattro verbi al modo infinito posti in evi- denza attraverso la clausola nel testo originale e interessati dalla rima grammati- cale: espandre|entendre|tendre|comprendre; verbi resi appunto da Luzi con gli in- finiti sdruccioli della seconda coniugazione italiana: spandere|intendere|tendere| comprendere, tale che i bisillabi francesi recuperano il trisillabismo latino e la ba- ritonesi originaria. La rima grammaticale troverà, d’altronde, ampio riscontro nella scrittura sapienziale dell’ultimo Luzi, che tende a ricomporre in unità ele- menti di una stessa categoria morfologica valorizzando, così, la flessione come segno della numinosa «rispondenza» tra i frammenti del logos divino. Si pensi, ad esempio, ai participiali intesi dal poeta come espressioni dell’«Ente»: «essen- te», «frangente», «sufficiente»52. Tornando al testo di Labé, Luzi crea ulteriori effetti drammatici a livel- lo interversale. Prendiamo, ad esempio, il secondo distico del testo francese in questione: «Et qu’aus sanglots et soupirs resister|Pourra ma voix, et un peu faire entendre». Qui, alla tensione prodottasi a seguito dell’effetto combina- to dell’asindeto e del polisindeto si aggiungono due figure metriche che inte- ressano la perifrasi verbale (verbo modale + infinito): l’anastrofe, che ne inter- rompe l’unità logico-sintattica, e l’inarcatura, che ne interrompe l’unità me- trica. Nella resa italiana, il recupero dell’ordine logico dei membri della pe- rifrasi accentua l’effetto prosastico del turbamento amoroso («e ai gemiti la mia voce potrà|resistere e un poco farsi intendere») e al contempo produce, sul piano ritmico, un duplice controtempo: il primo, in posizione di enjam- bement, tra il ritmo giambico del verbo modale «potrà» alla forma del futu- ro (indi tronco), e il ritmo dattilico dell’infinito sdrucciolo; il secondo dovu- to alla proparossitonia del sostantivo «gemiti», che configura proletticamen- te il ritmo dattilico bruscamente interrotto dal contrafforte giambico, e recu- perato alla fine del v. 4 con il verbo sdrucciolo «intendere». Al contempo l’i- narcatura, ponendo in situazione di rigetto il verbo «resistere», lo destina ad una precisa funzione: quello di far da contrafforte al ritmo sussequente, pro- vocando una sorta di controspinta (e, per così dire, di renitenza) provvisoria al turbinoso moto discensionale della passione che al v. 4 prosegue, in un ver- so scosceso, la sua corsa.

52 M. Luzi, Dottrina dell’estremo principiante, Milano, Garzanti, 2004, p. 95. «FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE 185

La stessa fluttuazione ritmica ottenuta per effetti contigui di spinta e con- trospinta si protrae nella seconda quartina della fronte, che costituisce quasi un calco sintattico della strofe precedente. Procedimenti analoghi, ancorché meno marcati, sono da osservare negli al- tri due sonetti tradotti; basti citare, a mo’ di esempio, il verso incipitale del so- netto XVI: «Apres qu’un temps la gresle et le tonnerre»53, che Luzi rende con: «Dopo ch’hanno | la grandine e la folgore». Conservando la struttura a minore dell’endecasillabo egli rovescia la figura progressiva introdotta dalla subordina- ta temporale in un andamento regressivo e recalcitrante che, reso sul piano rit- mico dalla sequenza asindetica di termini sdruccoli, ben rappresenta le avversi- tà atmosferiche quali comparanti oggettivi di avversità amorose. Ad esso fa eco il quarto verso dello stesso sonetto, ancora a minore: «Quando Febo | ha segna- to la sua orbita», in cui il contrattempo interviene con l’ultima sillaba, che di- sattende la soluzione piana per proporre in extremis quella sdrucciola allorché l’originale («Quand Phebus ha son cerne | fait en terre»), presenta un andamen- to piano e a maiore. Anche qui il recupero dell’ordine logico-sintattico produ- ce, per via paradossale, una soluzione ritmica più marcata; infatti, l’iperbato di Labé è inteso ad ovviare ad uno iato e ad una infelice adnominatio («a fait son cerne en terre»). Simili procedimenti si riscontrano al sonetto XX54, con par- ticolare riferimento ai due verbi posti in clausola e formanti rima flessionale: «croitre | naitre» («Qui n’ust pensé qu’en faueur deuoit croitre | Ce que le Ciel et destins firent naitre?»). La conservazione della vocale postonica nei corrispet- tivi «crescere | nascere» (trisillabi in italiano, monosillabi in francese: ultima sil- laba non curatur) disegna, nella resa italiana, una clausola sdrucciola. Luzi evo- ca ancora una volta, attraverso tale andamento, un destino paradossale: l’avan- zamento, secondo una logica progressiva, dell’amore, prospettato dalla metafo- ra organica in auge nel Cinquecento, è negato in modo subitaneo, e come con un contraccolpo psicologico, dall’interrogativa retorica: «Non sarebbe dovuto in bene crescere | ciò che il cielo e il destino fece nascere?». Così, egli attualiz- za l’intenzione ironica che verosimilmente coglie nel testo di Louise attraverso la sequenza invertita dei due verbi: il rovesciamento, nelle sue proprie vicende personali, del normale – naturale – ordine logico (di discendenza e progressio- ne) di cui si fa garante la metafora biologica. Una crescita impedita dell’amo- re è, infatti, a sua volta impedimento alla procreazione; vana discendenza, dun- que, che il periodare scosceso, dolorosamente, evoca. È da rimarcare che la tensione dialettica istitutita all’interno del dettato di Louise Labé risponde ad un altro stilema luziano: la modalità dubitativa. Essa agisce sia sul piano logico, tramite la cosiddetta «proposizione controfattua- le», caratterizzata dalla co-presenza di antitesi irrisolte, sia sul piano semanti-

53 M. Luzi, La cordigliera delle Ande cit., pp. 10-11. 54 Ivi, pp. 12-13. 186 Michela Landi co mediante la ricorrenza del prefissoide «contro-»55, sia, infine, sul piano me- trico, attraverso quella che potremmo definire la pulsione eccentrica e disgre- gatrice del suo dettato poetico. Pulsione che, qui presente come portato impli- cito di una forma-altra, si manifesta soprattutto nell’ultima produzione. Già si avverte infatti, nella tensione qui trattenuta dalla disposizione lineare, quel- la tendenza alla multidirezionalità ascensionale o discensionale che caratteriz- zerà la poetica recenziore. Osserviamo, infine, quanto già avvenuto con Ronsard: ossia la rinuncia, da parte del poeta-traduttore, alla maiuscola allegorizzante; e, con tale rinuncia, il diniego sistematico dell’apparato allegorico e dell’astrazione idealistica che con- traddistinguono il testo cinquecentesco, così profondamente segnato dal neo- platonismo. Ogni figura trascendente è – a rischio di una sovrainterpretazione ontologica che va a discapito della verità filologica – ricondotta al suo destino immanente e già creaturale. La «fedeltà» insieme deferente e astratta che pur si deve ad un mondo «di carta» qual è, per antonomasia, il compatto universo del Cinquecento, non ha più ragion d’essere nei confronti della modernità, in rapporto alla quale i con- temporanei si pongono oramai su un piano di similarità, simmetria e pariteti- cità. Rinnegate, con la Rivoluzione, la legge del Padre e la reverenza al model- lo, il traduttore affronta gli autori ad essa successivi ad armi pari se non, addi- rittura, coinvolgendoli in un aperto duello ermeneutico; è il caso, oramai noto, della «rivalità mimetica»56, evocato da Luzi come esperienza della «prevaricazio- ne». Se rinunciamo qui a dar conto del mirabile esempio traduttivo de La vie antérieure di Baudelaire57, è perché individuiamo in Mallarmé l’alterità eletta in quanto principale riferimento per le poetiche ermetiche. Anche in questo caso, ed a fortiori, l’esperienza della traduzione ha un suo complemento nell’esperien- za critica; si ricordi, tra gli altri saggi che Luzi dedica al poeta francese, lo Studio su Mallarmé del 195258. Mallarmé segna, dell’«illusione platonica»59 iniziata con il petrarchismo e proseguita con il Romanticismo, l’acme ed insieme la crisi: nell’esibizione au-

55 Ricordiamone alcuni esempi: «controvoglia»; «nei barbagli della sua controcorrente» (p. 48), «controcielo» (p. 53), tratti da M. Luzi, Dottrina dell’estremo principiante, Milano, Garzanti, 2004. Cfr. M. Landi, Per una stilistica essenziale: l’ultimo Luzi, in «Semicerchio», XXXII-XXXIII (2005), pp. 42-48. 56 Per il concetto di desiderio e rivalità mimetica, si veda René Girard, Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris, Grasset, 1961. 57 M. Luzi, La cordigliera delle Ande cit., pp. 24-25. Sul rapporto tra Luzi e Baudelaire, cfr. M. Landi, La metafisica imperfetta: Baudelaire e il primo Luzi, in «Semicerchio», XVI-XVII (2002), pp. 66-71. 58 M. Luzi, Studio su Mallarmé, Firenze, Sansoni, 1952. 59 M. Luzi, L’illusione platonica e altri saggi, Firenze, Rivoluzione ed., 1941 (Bologna, Mas- similiano Boni, 1972). Rinviamo, in proposito, al capitolo «Les limbes: Mallarmé, Pétrarque», in M. Landi, Mario Luzi fidèle à la vie cit., pp. 23-36. «FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE 187 toreferenziale del modello egli denuncia, al contempo, una «metrica al quadra- to» e una «metafisica imperfetta»60. Il poeta dei «mardis» si fa così il massimo interprete di quella formazione di compromesso che il simbolismo istituisce tra l’idealismo raggelato della tradizione lirica e la modernità drammatica. Dopo la cosiddetta «tentazione mallarmeana» costituita da Avvento notturno, con il Maestro Luzi si è a lungo confrontato, eleggendolo a modello di una dialetti- ca feconda e mai sopita con il platonismo. La propensione eccentrica e multi- direzionale che già abbiamo avuto modo di constatare nella traduzione dei ver- si di Louise Labé è, ora, portata a pieno compimento: essa si traduce non più in un allentamento – per così dire organico e pacifico – dei legami logico-sintatti- ci, bensì nella frammentazione del Codice per sopraggiunta deflagrazione. Luzi rinuncia, nella resa del sonetto mallarmeano, alla soggettività lirica e alla com- pattezza monologica di un super-io autoriale, già d’altronde denunciata come effetto dell’illusione antropocentrica, a vantaggio di un io polifonico e oramai assolutamente teatrale61. Nel «livre vieux qui se déplie»62 evocato dal giovane Mallarmé in Sainte Luzi legge un’anticipazione del progetto del Livre; progetto inteso a fornire, attraverso le infinite permutazioni di frammenti, «l’explication orphique de la Terre»63. Portando ancora una volta a coscienza formale un’inten- zione latente, egli considera la forma-sonetto un «quaderno da squadernare»64, una compagine da scompaginare. Soggiunge infatti, a ridar vita ad un petrar- chismo oramai obsolescente, la lezione dantesca a lui cara65. Quella che in Mallarmé si configurava, da dentro la compacità formale del sonetto, come virtualità propulsiva ed eccentrica del testo (e della cui tenuta si faceva, provvisoriamente quanto tendenziosamente, garante la sintassi)66 si tra- duce infatti in una disposizione eccentrica sul modello oramai affermatosi del- la poesia verbo-visiva e del montaggio futurista o imagista: il dettato tende alla

60 «Je suis tout de même fier d’avoir commencé à écrire ainsi, d’après ce que je percevais réel- lement, selon cette physique parfaite» (M. Luzi, premessa all’edizione 1942 de La Barca, Firenze, Parenti; citato in francese nel testo). Cfr. Sergio Pautasso, La poesia di Luzi tra fisica perfetta e metafisica imperfetta, in «L’approdo letterario», giugno 1974, 66, pp. 76-88 e M. Landi, Per una metafisica imperfetta: Baudelaire e il primo Luzi cit. 61 Si ricordi in proposito M. Luzi, Mallarmé e il teatro, in Aspetti della generazione napoleoni- ca cit., pp. 117-123. Luzi parla, a proposito di Mallarmé, di un «assoluto teatrale» (ivi, p. 117). 62 Stéphane Mallarmé, Sainte (Autres poèmes), in Œuvres complètes, Paris, Gallimard, «La Pléiade», 1945, p. 53. 63 S. Mallarmé, Lettera a Paul Verlaine del 16 novembre 1885, in Correspondance. Lettres sur la poésie, Paris, Gallimard, 2000, p. 586. 64 M. Luzi, Premessa o confidenza cit., p. VIII. 65 «Nel suo profondo vidi che s’interna | Legato con amore in un volume | Ciò che per l’uni- verso si squaderna» (Dante, Commedia, Paradiso, XXXIII, vv. 85-87). Luzi si appropria di quello che definisce a più riprese un «dantismo elementare». 66 «Il faut une garantie – la Syntaxe» (S. Mallarmé, Quant au livre (Variations sur un sujet), in Œuvres complètes cit., p. 385). 188 Michela Landi decumulazione, alla disgiunzione e dislocazione, alla paratassi eidetica67, all’en- tropia e al rigetto. Il modello che Luzi calca sul sonetto, intendendolo come sua virtualità prospettiva, è costituito dall’ultima opera pubblicata di Mallarmé, il Coup de dés68. In essa, infatti, provvisoriamente si consegna, e come in extremis, la «modularità» già implicita nella produzione anteriore, che avrebbe dovuto con- fluire nel grande progetto del Libro. Che l’ultima opera di Mallarmé debba es- sere considerata come la fase d’incubazione di una «maturità postuma», attesta- no d’altronde le parole del discepolo, Valéry. Le pagine di Valéry69, precisa Luzi, «hanno reso leggendaria la struttura del Coup de dés, annettendovi l’immagine del cielo stellato»; una, del tutto nuova, visione siderale della poesia, «una spe- cie di immaginazione un po’ esterrefatta», «surreale»70:

La disposizione tipografica delle parole e delle frasi nello spazio bianco della pagina […] traducono anche esteriormente quello splendore sidereo, quel ritmo sovrumano degli eventi dell’universo che Mallarmé ha sempre associato all’idea massima di operazione spirituale e più, per eccellenza, della poesia71.

Il Coup de dés, con la sua pulsione centrifuga, sembra costituire, al contempo, il modello dell’ultima scrittura sapienziale di Luzi, basata sul frammento testi- moniale e sulla disposizione grafica scalare o a costellazione (si veda, ad esempio, il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini)72 ad evocare, ancora secondo la le- zione mallarmeana del Livre, la permutabilità e reversibilità delle unità costrutti- ve del verbo creatore. La «disparition élocutoire du poète»73 che Mallarmé racco- mandava in nome di un anonimato poetico – «sans voix d’auteur»74 – a sancire la morte del super-io autoriale è, altresì, attuata da Luzi attraverso il rinnegamento del «piedistallo antropocentrico»75. L’io monologico è oramai frammentato nella «favella molteplice»76 del mondo creaturale; e la tautologia fondativa del Coup de dés costituisce il punto di partenza per una immanenza del predicato nell’essenza:

67 Sulla paratassi eidetica, cfr. Marcello Pagnini, Letteratura e ermeneutica, Firenze, Olschki, 2000, p. 53. 68 S. Mallarmé, Un coup de dés jamais n’abolira le hasard, in Œuvres complètes cit., pp. 455 sq. Il progetto del Livre, mai ultimato, è stato pubblicato postumo nell’edizione curata da Schérer. Cfr. Jacques Schérer, Le “Livre” de Mallarmé. Premières recherches sur les documents inédits (première parution en 1957 avec préface d’Henri Mondor; nouvelle édition revue et augmentée en 1978). 69 Si veda, in proposito, P. Valéry, “Le Coup de dés”, lettre au directeur des “Marges” (Variété), in Œuvres, Paris, Gallimard, «La Pléiade», 1955, I, p. 662 sq. 70 M. Luzi, L’endecasillabo cit., p. 94. 71 M. Luzi, Studio su Mallarmé cit., p. 120. 72 M. Luzi, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, Milano, Garzanti, 1994. Rinviamo, in merito, al nostro articolo: Per una stilistica inessenziale: l’ultimo Luzi cit. 73 S. Mallarmé, Crise de vers (Variations sur un sujet), in Œuvres complètes cit., p. 366. 74 S. Mallarmé, Lettera a Verlaine del 16 novembre 1885 cit., p. 587. 75 M. Luzi, Il sabato di Carlo Betocchi, in Discorso naturale, Milano, Garzanti, 1984, p. 65. 76 M. Luzi, Fra poesia e teatro cit., p. 105. «FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE 189

spicca questo canto pari a sé medesimo in cui muore la metafora, muore infinitamente. Chi ordina? Chi parla? Non ha importanza chi sia L’autore della vita, la vita è anche il proprio autore, La vita è77.

Venendo ai Plusieurs sonnets mallarmeani tradotti da Luzi78 trascegliamo il più noto, Le vierge, le vivace…79 per la ragione sopra evocata: ossia, la pregnan- za delle scelte traduttive, che si accompagna ad un particolare riscontro di at- tenzione critica80. Citiamone, per comodità, il testo:

Le vierge, le vivace et le bel aujourd’hui Va-t-il nous déchirer avec un coup d’aile ivre Ce lac dur oublié que hante sous le givre Le transparent glacier des vols qui n’ont pas fui!

Un cygne d’autrefois se souvient que c’est lui Magnifique mais qui sans espoir se délivre Pour n’avoir pas chanté la région où vivre Quand du stérile hiver a resplendi l’ennui.

Tout son col secouera cette blanche agonie Par l’espace infligée à l’oiseau qui le nie, Mais non l’horreur du sol où le plumage est pris.

Fantôme qu’à ce lieu son pur éclat assigne, Il s’immobilise au songe froid de mépris Que vêt parmi l’exil inutile le Cygne.

77 M. Luzi, Seme, in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini cit., p. 179. 78 S. Mallarmé, Plusieurs sonnets, in Œuvres complètes cit., pp. 67-69. Ricordiamo gli altri so- netti (tutti tradotti da Luzi): La chevelure vol d’un flamme (Un volo la capigliatura una fiammata); Victorieusement fui le suicide beau (Vittoriosamente fuggito il suicidio splendido); Ses purs ongles très haut dédiant leur onyx (Le pure unghie di lei elevando il loro onice). M. Luzi, La cordigliera delle Ande cit., pp. 28-35. 79 Ivi, pp. 28-29. Luzi traduce, di Mallarmé, anche due passi scelti dell’Après-midi d’un Fau- ne (vv. 10-22 e 63-72, ivi, pp. 36-37). 80 Al sonetto in questione Luzi dedica diverse pagine del suo saggio. Cfr. M. Luzi, Studio su Mallarmé cit., pp. 98-105. 190 Michela Landi

In quella che Luzi definisce, nello Studio su Mallarmé, «una delle composizio- ni più perfette e insieme più suggestive del poeta»81 la forma-sonetto assume, «sia pure composta e mirabilmente equilibrata, una tutta interiore drammaticità»82. Vi sarebbe infatti a suo dire, dietro alla «necessità imminente» della forma, un «in fieri adombrato», ossia la ricerca di una «forma inerente all’atto poetico assoluto»83 che si sarebbe risolta, come sopra ricordato, nella rottura del Coup de dés. Ed è proprio questo divenire ancora adombrato che è portato, appun- to, alla luce. Se la critica e la traduzione sono due operazioni ermeneutiche che procedono parallele, Luzi sembra contestualmente realizzare quanto raccoman- dava Benjamin: liberare una lingua che l’opera, come precipitato storico, trat- tiene e imprigiona, riconsegnandola al suo vitale divenire. Protagonista di que- sta liberazione è, ancora una volta, la metrica che, come Luzi scrive a proposi- to della «partitura della pagina» caratteristica dei suoi ultimi libri, «così scom- posta […] si riforma sugli elementi operanti e non viene più inerzialmente rice- vuta». Quello che appare come un rifiuto della metrica non è affatto tale; anzi, aggiunge il traduttore e critico, è «un tentativo di riconquista dall’interno delle sue cellule» e una «circolarità che dilata la pagina» affinché il senso, non più op- presso dalle forme, possa distendersi e respirare. Ogni cellula, infatti, è «germi- nale, ha un valore espansivo che può comunicarsi ad altre». Questa, conclude, è «la legge interna della lingua e del ritmo»84. Non dissimilmente si esprimeva Mallarmé in Crise de vers: «Toute la langue, ajustée à la métrique, y recouvrant ses coupes vitales, s’évade, selon une libre disjonction aux mille éléments simples»85. Quella struttura che Mallarmé «dovette sentire troppo estrinseca»86 appare, alla luce delle attuali riflessioni critiche, uno «scudo» o «un giogo»87. Essa si ri- vela, in colui che ne ha preso coscienza, come una polemica persistenza, in po- stura di scena, delle istanze denegate e superate. Del fatto che il sonetto sia già percepito come un «aboli bibelot d’inanité sonore» e il «seul objet dont le néant s’honore» attesta, d’altronde, a sufficienza il celebre componimento in -yx che, in assenza di titolo reca, a mo’ di sottotitolo rematico, la sua stessa sconfessione: «Sonnet allégorique de lui-même»88. Una falla si è introdotta nella compatta e lucida cortina dei «purs glaciers de l’esthétique»89; il poeta richiede ora, al tra- duttore, un atto giubilatorio: la riconquista dei diritti della voce contro l’iner-

81 Ivi, p. 98. 82 Ivi, p. 104. 83 Ivi, p. 122. 84 M. Luzi, L’endecasillabo cit., p. 98. 85 S. Mallarmé, Crise de vers (Variations sur un sujet), in Œuvres complètes cit., p. 361. 86 M. Luzi, Saggio su Mallarmé cit., p. 122. 87 Cfr. M. Luzi, Al giogo della metafora (Per il battesimo dei nostri frammenti), in Tutte le poesie cit., p. 509. 88 S. Mallarmé, Ses purs ongles… (Plusieurs sonnets) cit., p. 68. 89 S. Mallarmé, Lettera a Henri Cazalis del 13 luglio 1866, in Correspondance cit., p. 310. Cfr. M. Luzi, Saggio su Mallarmé cit., passim. «FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE 191 zialità dell’idea. E se il motivo conduttore del sonetto in questione è una meta- fora formale, ovvero l’impossibilità del cigno (e, per omofonia, in francese, del «segno»: cygne-signe) di levare le ali dall’algido lago ghiacciato della pagina che lo imprigiona, ecco che Luzi realizza formalmente questa potenzialità, spezzan- do – con colpo d’ala – il solido e spesso dettato. Il verso, dato come fantasma di unità, è franto in due emistichi dislocati; e ciò affinché si levi, nella sua luce, «il vivido, l’intatto|lo splendido» presente. Presente che si annuncia umile sin dall’incipit; contro la tradizione libresca, che vuole la maiuscola iniziale rubri- cata, l’attacco è contraddistinto da un «minuscolo creaturale»:

il vivido l’intatto lo splendido oggi è qui e strappa a colpi pazzi d’ala il perso l’indurito lago che sotto la brinata assediano trasparente ghiacciaio i voli che non si sono levati

Un cigno d’altri tempi si ricorda che è lui magnifico si dibatte senza speranza però perché non ha cantato la plaga dove vivere quando l’inverno sorge raggiando sterilità

Per tutta la sua lunghezza il collo scrollerà quell’agonia bianca inflitta dallo spazio a lui uccello che lo spazio nega non l’orrore del suolo dov’è con le sue piume preso

Fantasma dal suo puro fulgore condannato a questo luogo si blocca nel freddo pensiero di disprezzo e ne è fasciato per tutto il suo esilio inutile il Cigno.

Concorrono, a significare lo squadernarsi del «grande codice»90, diversi tratti stilistici. Un primo tratto, già presente nel testo originale, è la rinuncia al titolo

90 Dal grande codice è una sezione di Per il battesimo dei nostri frammenti cit., p. 637 sq. 192 Michela Landi tematico, la cui conseguenza più evidente è la ricusazione di un’autorialità sim- bolica, dominatrice delle cose attraverso la loro nominazione; talché il sonetto, in qualità di referente metaforico della tradizione rinnegata è già, per dirlo con Mallarmé – «allégorique de lui-même». Quello che è stato definito, a proposito delle poetiche simboliste, il «recedimento autoriale», si manifesta infatti già nel poeta francese attraverso una dissoluzione del «tema» nelle sue plurime vocife- razioni predicative. Ora, è proprio attraverso la disseminazione paragrammatica della vocale fricativa |i|, la vocale più prossima al consonantismo, che il segno – e, per estensione il sonetto – s’invola e si dissolve, per così dire, musicalmente. E non è un caso che anche per il testo in questione, in assenza di titolo temati- co, siano state adottate svariate titolazioni rematiche. La più nota – in accordo con la voga delle corrispondenze poetico-musicali che imperversavano all’epo- ca della sua stesura, e per analogia con la Symphonie en blanc majeur di Gautier – è, appunto, «en i majeur». Luzi, che lo ricorda nel suo Saggio su Mallarmé91, elegge questa marca fonosimbolica indicante sforzo e dolorosa frizione a moti- vo conduttore del sonetto. Sul piano sintattico, la dislocazione cui si è accennato sopra sembra corri- spondere ad un medesimo intento: quello di dichiarare la morte del sonetto come fantasma di unità. I frammenti, tuttavia, lungi dal consistere, sospesi e im- mobili, nel loro freddo siderale, sono esposti al dinamismo dell’incessante cre- azione. Ciò è possibile grazie ai contrattempi ritmici che abbiamo testè evoca- ti; i quali costantemente alterando, con il loro urto, un presunto equilibrio, de- terminano la salvifica entropia del senso. I nuclei frastici, prima coesi, sono so- spinti, dal moto centrifugo, alla deriva; così, per esplosione ed espansione, na- sce un nuovo cosmo. In particolare, osserviamo che l’alternanza serrata tra termini sdruccioli (vi- vido, splendido, magnifico, vivere, assediano) e tronchi (però, perché, sterilità) ge- nera un andamento prosaico e dolorosamente scazonte, mentre l’annominazio- ne congiunta della sibilante |s|, della vibrante |r| e della bilabiale sorda |p| accen- nano a frizioni e renitenze. Più specificamente, l’andamento dattilico del trisil- labo sdrucciolo vivido, che ha un’eco ritmica nell’aggettivo splendido e nel ver- bo assediano, s’inverte bruscamente nel ritmo anapestico dell’unità fonosintat- tica: oggi è qui, mentre l’avversativa tronca in clausola al v. 10 (però) sembra raf- forzare con la sua logica paradossale la sfasatura ritmica, anch’essa in clausola, tra il monosillabo qui e il bisillabo lui. Tale sfasatura, dovuta alla mancata auto- nomia della vocale |u| implicata nel nesso qu ha, ci sembra, un effetto decettivo sul piano dell’autocoscienza: essa mette in crisi l’illusoria tautegoria di ascenden- za hegeliana: Io = Io. Così, cade il mito eroico, e il soggetto si riafferma, contro un’innocente ontologia di cui la simmetria è specioso simulacro di verità, come entità certo imperfetta: ma alfine emancipatasi da un’ingannevole specularità.

91 M. Luzi, Saggio su Mallarmé cit., p. 98. «FRANCAMENTE»: LUZI TRADUTTORE DAL FRANCESE 193

Il dettato sconnesso – e, per usare un termine luziano, «esterrefatto»92 – che abbiamo rilevato nella fronte, si protrae nella sirma, che risulta «scompaginata» nel ritmo e nella disposizione grafica; renitente ad ogni simmetria, ordine, o al- tro infingimento estetico. Non dissimilmente Luzi si comporta nella resa di Victorieusement fui le suici- de beau93, cui dedica, nel saggio su Mallarmé, ampio spazio94. Il verso incipitale del sonetto è, come egli ricorda, «un ablativo assoluto»; e ciò significa, a suo ve- dere, che il poeta «ha isolato nella sua completa autonomia il fenomeno natura- le, creato più che descritto», liberandolo così dall’«aderenza al discorso logico»95. Con analoghi accorgimenti il suicidio – il naufragio – è scongiurato. Tra i tre so- netti tradotti e contestualmente analizzati nel saggio96 figura poi il celebre e già citato sonetto in -yx. Sonetto che, negandosi altrettanto polemicamente alla ti- tolazione tematica, decreta apertamente, attraverso il sottotitolo rematico e pa- rentetico («sonnet allégorique de lui-même») lo statuto autopresentativo – tea- trale – della forma e, con esso, la morte della metafora. La «fiamma nominale o remota»97 della tradizione – già ravvivata nel suo slancio in La chevelure vol d’une flamme…, il quarto sonetto di Mallarmé tra- dotto da Luzi – è, oramai, «un volo […] una fiammata»98. Tornando, nel detta- to luziano, come «l’alta, la cupa fiamma»99, essa conosce, nel nuovo tempo «vivo e bruciante»100, una postuma esistenza. A volte, ricorda Luzi, «cose sparse, lon- tane, registrate in tempi distanti […] a un certo punto si aggregano, trovano la materia: quella temperatura, quel fuoco che le tiene insieme»101. Il cigno – o il segno – è ora chiamato a spiccare il volo; a rinascere, come la Fenice evocata nel sonetto in -yx102, dalle sue ceneri per entrare, come creatura, nell’opera – mobile compagine – del mondo. Volo igneo della lingua, affrancata dal giogo dell’idea, secondo l’auspicio stesso di Mallarmé: «Ce sera la Langue», egli scriveva profeticamente, «dont voici l’ébat»103.

92 Luzi rivendica «una specie di immaginazione un po’ esterrefatta, […] anche surreale» (M. Luzi, L’endecasillabo cit., p. 94). 93 M. Luzi, La cordigliera delle Ande cit., pp. 32-33. 94 M. Luzi, Studio su Mallarmé cit., pp. 105-109. 95 Ivi, p. 107. 96 M. Luzi, La cordigliera delle Ande cit., pp. 34-35. Cfr. M. Luzi, Studio su Mallarmé cit., pp. 109-115. 97 M. Luzi, La poesia di Louise Labé cit., p. 132. 98 M. Luzi, La cordigliera delle Ande cit., pp. 30-31 99 M. Luzi, L’alta, la cupa fiamma ricade su di te (Quaderno gotico), in Tutte le poesie cit., p. 135. 100 M. Luzi, Dante e Leopardi o della modernità, Roma, Editori Riuniti, 1991, pp. 22-23. 101 M. Luzi, L’endecasillabo cit., p. 98. 102 Si veda il v. 3 del sonetto Ses purs ongles…: «Maint rêve vespéral brûlé par le Phénix», che Luzi traduce, spezzando il verso: «qualche vespertino incanto | arso dalla Fenice» (M. Luzi, La cordigliera delle Ande cit., pp. 34-35). 103 S. Mallarmé, Le Mystère dans les lettres (Variations sur un sujet), in Œuvres complètes cit., p. 386. Place Fustemberg a Parigi (foto di Anna Dolfi). SGUARDI INCROCIATI: MARIO LUZI E YVES BONNEFOY

Laura Toppan

Nove anni separano Mario Luzi, nato nel 1914, da Yves Bonnefoy, nato nel 1923, ma mentre Luzi esordisce poeticamente già nel ’35, con la plaquette La bar- ca1, quindi a soli ventun’anni, Bonnefoy pubblicherà la sua prima raccolta, Du mou- vement et de l’immobilité de Douve, solo nel ’532. Due date speculari – come notano Maria Silvia Da Re e Stefano Raimondi – che corrispondono a due momenti com- pletamente diversi, però legati entrambi ad un tempo storico molto forte: l’inizio di un tempo di morte, prebellico, nel caso di Luzi e l’inizio di una stagione fioren- te, gli anni Cinquanta in Francia, nel caso di Bonnefoy3. Fa da sfondo a questi due poli la considerazione alta, per i due poeti, del «sacerdozio» della «Letteratura», in- tesa come spazio privilegiato delle idee e della riflessione, in cui circola la «Vita», percepita innanzitutto come «luogo» di esistenza in cui agire. La filosofia e la cri- tica diventano infatti, nel tempo, parti essenziali del loro progetto poetico in atto. Ai loro esordi sia Luzi che Bonnefoy si inseriscono in due movimenti lette- rari: nell’Ermetismo il primo, nel Surrealismo il secondo, per poi entrambi al- lontanarsene. E in un’intervista del giugno ’64 sulle tendenze della poesia ita- liana contemporanea pubblicata nella «Gazette de Lausanne» e ritrovata recen- temente da Stefano Verdino, Luzi, parlando de La barca che segnava il suo esor- dio poetico, affermava:

1 Mario Luzi, La barca, Modena, Guanda, 1935, pp. 52; Firenze, Parenti, 1942, pp. 56 [nuova ed. rivista ed aumentata]. 2 Yves Bonnefoy, Du mouvement et de l’immobilité de Douve, Paris, Mercure de France, 1953, pp. 95. Bonnefoy era comunque già entrato nella scena letteraria parigina sin dal ’46, anno in cui fonda una piccola rivista dal nome La Révolution la Nuit che conterà solo due numeri, ma che accoglierà un frammento del suo lungo poema surrealista Le Coeur-Espace e la sua prima plaquet- te, Le traité du pianiste, una sorta di récit poétique. Nello stesso periodo Bonnefoy pubblica anche singoli componimenti nelle riviste «Les Deux Sœurs», «La Part du sable» e «Troisième Convoi», ma il suo esordio poetico «ufficiale» viene fissato al 1953 appunto con la raccolta Du mouvement et de l’immobilité de Douve. 3 Cfr. Maria Silvia Da Re-Stefano Raimondi, Yves Bonnefoy e Mario Luzi: un tracciato/me- ridiano fra Vita e Natura, in «Trasparenze» 21 [supplemento non periodico a «Quaderni di po- esia», numero monografico] a cura di Elisa Bricco, Giorgio Devoto, Ida Merello, Genova, San Marco dei Giustiniani, 2004, pp. 81-92.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 196 Laura Toppan

fu accolta bene da un pubblico difficile. La poesia italiana era allora dominata dalle grandi figure di Montale e Ungaretti; tendeva ad un certa stilizzazione del linguaggio. […] Come una sorta di reazione contro la corrente dominante avevo cercato di ritrovare il volo libero dell’immaginazione e dell’esperienza vitale. De- sideravo esprimere anche la mia nozione religiosa della vita che cercavo di fissare attraverso delle figure che mi davano l’idea della continuità, […] (per esempio le figure della madre, del povero). Sono poi passato ad una “mitizzazione” di queste figure. Questa fede nella vita e le immagini che la sostenevano sono state per me un punto d’appoggio prezioso e necessario nel contesto politico avvilente in cui ero sprofondato a causa dell’ascesa del fascismo4.

Nel ’40, con Avvento notturno5, che Luzi considera «una trasposizione sul piano mitico dei simboli de La barca»6, e poi nel ’44, con Un brindisi7, compo- sto nel presentimento della guerra, l’interrogazione inizia ad assumere tinte an- gosciose e l’ansia si esprime nel movimento agitato di certe immagini. La guer- ra è stata un’esperienza totale, esistenziale, in cui la vita era divenuta una «real- tà elementare»8, tanto che Luzi affermerà che la sofferenza e la povertà hanno insegnato nuovamente a molte persone «il prezzo delle cose più comuni, come il pane e il sonno»9. A partire da questa situazione c’è stata la necessità di rico- minciare da zero e Luzi ha cercato quindi nel dopoguerra di «de-romanticizza- re» la poesia ridando all’uomo il primo posto e valorizzando il linguaggio uma- no concreto: pensiamo per esempio alla raccolta Nel magma10, ove si ritrova il tono della conversazione. Luzi rivendica la necessità di dover «ritornare all’og- gettività naturale» e compito del poeta è «scoprire la poesia, che è già scritta nel mondo»11. Nell’intervista del ’64 Luzi afferma di essere convinto che Quasimodo, pur appartenendo ad una tendenza ermetica della poesia italiana, non è stato realmente un fondatore, un poeta che ha segnato il suo tempo, e alla doman- da se un movimento come il Surrealismo francese abbia avuto una qualche in-

4 Cfr. Henri-Charles Tauxe, Les tendances de la poésie italienne. Un entretien avec Mario Luzi, in «Gazette de Lausanne», samedi/dimanche 27/28 juin 1964. Luzi aveva appena terminato un corso sulla poesia italiana presso la Facoltà di Lettere di Losanna e risponde a qualche domanda di Henri-Charles Tauxe relativa alle nuove tendenze della poesia italiana contemporanea. La tra- duzione è nostra e il corsivo è nel testo. Ringraziamo Stefano Verdino per averci inviato il testo dell’intervista. 5 M. Luzi, Avvento notturno, Firenze, Vallecchi, 1940, p. 72. 6 Cfr. H.-C. Tauxe, Les tendances de la poésie italienne. Un entretien avec Mario Luzi cit. (traduzione nostra). 7 M. Luzi, Un brindisi, Firenze, Sansoni, 1946, p. 72. 8 Cfr. H.-C. Tauxe, Les tendances de la poésie italienne. Un entretien avec Mario Luzi cit. (traduzione nostra). 9 Ibidem (traduzione nostra). 10 M. Luzi, Nel magma, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1963, p. 40 [2a ed. 1964, p. 44; 3a ed. aumentata, Milano, Garzanti, 1966, p. 72]. 11 Cfr. H.-C. Tauxe, Les tendances de la poésie italienne. Un entretien avec Mario Luzi cit. SGUARDI INCROCIATI: MARIO LUZI E YVES BONNEFOY 197 fluenza sulla poesia italiana, Luzi risponde che una certa influenza sul linguag- gio dei giovani poeti di quel periodo è indubbio, ma che in quanto movimento ben delineato, ben definito, il Surrealismo non è esistito in Italia, poiché all’e- poca dei primi manifesti i poeti italiani avevano cercato innanzitutto di rico- struire, di strutturare il verso12. Il giovane Bonnefoy incontra la poesia stringendo amicizia con i surrealisti Brauner e Breton, pur mantenendo sempre una certa distanza, infatti non sarà tra i firmatari del Manifesto del ’47 dal titolo Rupture inaugurale13, poiché ri- fiuterà l’idealizzazione dell’oggetto e la tendenza a sostituire la realtà stessa con una chimera. Della lezione surrealista egli manterrà il senso della «trouvaille» e il gusto degli oggetti ma ricentrando l’attenzione sul reale ed allontanandosi dal procedimento di mitizzazione. Si tratta di un percorso e di una ricerca che ap- partengono anche a Luzi, con quel rifiuto di rinchiudersi nel sogno e di cerca- re invece la «réalité rugueuse» di Rimbaud, nume tutelare sia per Luzi che per Bonnefoy. E ci sembra interessante sottolineare che il poeta fiorentino voleva cercare, se non proprio di ribellarsi all’etichetta «Ermetismo», almeno di chia- rire il proprio punto di vista insieme a quello dei poeti, critici e traduttori del- la sua cerchia, come si evince da una lettera inedita inviata a Carlo Bo in data 11 giugno 1943:

[Foglio 1 recto] Carissimo Carlo, bisognerebbe che verso il 10 luglio tu avessi già scritto l’articolo per il numero di «Prospettive»14 di cui ti accennai. Mi sembra che ognuno di noi (e cioè tu, Ma- crí, Bigongiari, io) dovrebbe scrivere sulla questione dell’ermetismo con assoluta indipendenza, con pieno rispetto alla natura e alla storia individuali, senza cioè incorrere in affermazioni di principi, di posizione, di fronte, ecc. Credo che soltanto così si possa illuminare la zona che è stata oggetto di tanti equivoci ri- dicoli. Perché dagli scritti risulti un’armonia […] bisognerebbe che direttamente o indirettamente tu toccassi questi punti: _ le ragioni spirituali della tua critica e in che relazioni essa sta con ciò che si è detto “ermetismo”; se tu accetti questa

12 Ibidem. 13 Il 21 giugno 1947, a Parigi, i surrealisti, riuniti sotto il nome di Cause, pubblicano la dichiarazione collettiva lanciata da André Breton intitolata Rutpure inaugurale per «définir [leur] attitude préjudicielle à l’égard de toute politique partisane». Questa brochure di quattordici pagine è firmata da una cinquantina di personalità che si dichiarano appartenenti al Surrealismo. Breton afferma la libertà nei confronti di qualsiasi logica politica e la vocazione del Surrealismo a scoprire un «nuovo mito». Gli avversari risponderanno attaccando soprattutto l’interesse per il mito e la magia. 14 Nel 1943 Mario Luzi lavora, per conto di Curzio Malaparte, a un numero di «Prospettive» dedicato all’ermetismo (mai uscito in quanto la rivista interromperà le pubblicazioni proprio in quell’anno). Di questo progetto Luzi informa anche l’amico Oreste Macrí in una lettera dell’11 giugno 1943: «[…] ho deciso di radunare scritti soltanto di ermetici e cioè di noi quattro (Bo, tu, io, Bigongiari) ai quali sembrò ultimamente restringersi la definizione, con la conseguente richiesta (“debito”) di scrivere anche tu per il 10 luglio un saggio». (Cfr. M. Luzi, L’opera poetica, a cura di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1998, p. LXXXII). 198 Laura Toppan

definizione (assurda!); se tu vedi, se sì, in che modo un programma (assurdo!) o una condizione che [riunisca] vari scrittori tanto da giustificare l’opinione di un movimento comune, che si chiama “ermetismo” o in qualsiasi altra maniera. Naturalmente il tuo scritto dev’essere liberissimo, né questo è un formulario di quesiti. Solo che per la giusta distribuzione dei contenuti nel fascicolo, queste cose essenziali per sfatare le provinciali leggende che tu sai / dovrebbero in qual- che modo risultare. Per fortuna in questo caso si comincia a parlare dal nostro proprio15 interno e singolarmente16 e stabilendo il rapporto con ciò che agli altri è sembrato di noi, il discorso invade il territo-[Foglio 1 verso]rio generale della cultura dei nostri giorni e ha molte probabilità di assumere una fisionomia storica e non più polemica. Per questo vorrei che riuscissimo a scrivere sull’ar- gomento, incominciando, per così dire, ab ovo, senza tener conto minimamente delle partizioni, delle definizioni per gruppi di nomi e d’interessi come la critica esteriore e le vicende sembrava averle comodamente assestate. In altre parole si tratta di non riconoscere per acquisito nulla di ciò che i critici e referendari dell’ermetismo hanno detto a proposito di affinità, di cerchio ecc; di non pren- dere nulla per dato e di scrivere con la massima sincerità vedendo le cose dall’in- terno, con tutto quel distacco che l’intimità consente da quell’ordine di cose in cui il nostro lavoro è stato confuso per una falsa interpretazione. Dimmi se sei d’accordo e se sono riuscito a spiegarmi. Sono sicuro che il tuo articolo sarà il pezzo forte, il tono alto del fascicolo. Quando avrò adunato i saggi farò in modo che tu li possa vedere, tutti insieme. Addio Carlo. Saluta Marise. Il tuo Mario17

In tono dichiaratamente polemico Luzi sente la necessità di intervenire pub- blicamente sul significato da attribuire alla cosiddetta corrente «ermetica» e sul- le ragioni intime, proprie e degli amici, riguardanti l’adesione, comunque neces- saria, al movimento ermetico. Esso non aveva avuto numi esclusivi, ma Rimbaud era comunque «stato un sottinteso oppure un esplicito riferimento onnipresente»,

15 Aggiunto sopra il rigo. 16 Aggiunto sopra il rigo. 17 Lettera manoscritta di Mario Luzi su due facciate, con busta indirizzata a: «Carlo Bo / Sestri Levante / Genova»; mittente: «Mario Luzi – Viale Milton, 55 / Firenze» con timbro postale 11 – VI – 1943. La lettera è contenuta nel Fondo Carlo Bo presso l’Archivio Urbinate della Fon- dazione Carlo e Marise Bo la cui direttrice è la prof.ssa Ursula Vogt che desideriamo ringraziare per la costante disponibilità. Un sentito ringraziamento va anche a Gianni Luzi che ci ha auto- rizzati a consultare le lettere del padre a Carlo Bo. Il fondo contiene 133 pezzi – tra lettere, buste e cartoline postali – che ricoprono il periodo 1935-2001 e sono tutti inediti, tranne la lettera del dicembre del ’37, pubblicata nel n. 34 della rivista «Istmi» dal titolo Nell’opera di Mario Luzi, numero dedicato interamente al poeta fiorentino (pp. 219-220). Per quanto riguarda le lettere di Bo a Luzi, al momento siamo riusciti a consultarne tre presso il Centro Studi «La barca» di Pienza, mentre bisognerà attendere la catalogazione di altre carte luziane, che verranno depositate molto probabilmente nel corso del 2015 presso il Gabinetto Vieusseux, per verificare l’esistenza delle corrispettive di Carlo Bo al poeta fiorentino. Per il momento quindi stiamo trascrivendo le missive di Luzi a “Carlino”. SGUARDI INCROCIATI: MARIO LUZI E YVES BONNEFOY 199 come lo stesso Luzi scrive «Nel cuore dell’orfanità», un saggio che diventerà la pre- fazione all’edizione italiana delle Opere complete del poeta di Charleville curate da Mario Richter18. Forse la poetica di Mallarmé, che era più simile ad un teorema ben formulato, aveva finito con l’accentrare il dibattito generale negli anni Trenta, ma per Luzi nei fondamenti dell’Ermetismo la sostanza di Rimbaud «era colata come in un indurito amalgama»19 tanto che nella riflessione sulla situazione e la funzione della poesia e del linguaggio poetico nella modernità, egli aveva dovuto scegliere tra la via di Mallarmé e quella di Rimbaud20 e si era imposta quest’ultima:

Negli scherni, nelle imprecazioni, nelle laceranti empietà, nella cosiddetta rivol- ta di Rimbaud c’è un umile, filiale sottinteso religioso che sarebbe vano cercare nella tragedia hautaine di Mallarmé e che Verlaine, senza curarsi di capirlo nei suoi acerbi recessi, aveva però fraternamente intuito21.

Rimbaud è quindi costantemente presente nell’opera luziana ed agisce come una linfa, anche se implicitamente. Luzi tradurrà infatti solo un sonetto del po- eta di Charleville, «Tête de faune»22, rinunciando a tradurre per esempio un’ope- ra cruciale come «Une saison en Enfer». E nella Prefazione all’opera completa di Rimbaud Luzi fa riferimento ad un saggio proprio di Yves Bonnefoy – premessa in- vece all’edizione mondadoriana delle opere di Rimbaud – affermando di aver letto:

[…] delle pagine molto intelligenti sulla funzione riparatoria del verso, quasi do- vesse recuperare una perdita di sacertà e di armonia delle singole parole (ma proprio Mallarmé che aveva avvertito la fatale ritualità del verso fu anche colui che nel Coup de dés tentò audacemente l’operazione inversa di riabilitare nella sede suprema la parola come tale, non assistita né protetta da alcuna preventiva religio) […]23.

Luzi ricorda inoltre che Bonnefoy scrive che il poeta della Saison impone a ciascuno di fare i conti con la lingua. E nel volume Notre besoin de Rimbaud24,

18 M. Luzi, Nel cuore dell’orfanità. Prefazione a Arthur Rimbaud, Opera completa, a cura di Mario Richter, Torino, Einaudi-Gallimard, «Biblioteca della Pléiade», 1992, p. XXVI. 19 Ibidem. 20 Nel tempo Luzi ritornerà à più riprese sull’importanza di Rimbaud nei suoi saggi critici: A proposito di Rimbaud, negli anni 50, poi in Naturalezza del poeta (Milano, Garzanti, 1995) e successivamente Nel cuore dell’orfanità cit. 21 Ibidem. 22 Luzi traduce il sonetto Tête de faune pubblicato per la prima volta nell’Antologia di scrit- tori stranieri, Firenze, Marzocco, 1946, a cura di Bo-Landolfi-Traverso (poi in edizione rivista e aumentata Cosmopoli. Antologia di scrittori stranieri, Firenze, Marzocco, 1954) poi ripreso in La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Torino, Einaudi, 1983. 23 M. Luzi, Nel cuore dell’orfanità cit., p. XXVI. 24 Y. Bonnefoy, Notre besoin de Rimbaud, Paris, Seuil, 2009. Questo volume parte da quello che era stato il primo saggio di Bonnefoy sul poeta di Charleville, ovvero Arthur Rimbaud par lui-même, pubblicato nel 1961. 200 Laura Toppan che riunisce tutti gli scritti di Bonnefoy pubblicati tra il 1961 e il 2008, la spe- ranza è il punto all’orizzonte della quête lucida di Rimbaud che, partendo dalla rivolta contro la provincia, la religione e l’ordine borghese, rovescia l’ordine del- le parole proprio per rovesciare l’ordine delle cose. Il poeta di Charleville aveva coscienza della menzogna dei segni e l’angoscia di un reale frammentato, e pro- prio questa consapevolezza permette a Bonnefoy di capire in profondità anche la propria ossessiva interrogazione sui rapporti tra poesia e reale: una lotta, ap- punto, tra lucidità e speranza. Per Bonnefoy, la rinuncia finale di Rimbaud alla poesia è un gesto di libertà, addirittura la condizione sine qua non perché pos- sa divenire una figura tutelare, una guida. Una guida per chi si è allontanato dal Surrealismo, si è disintossicato dalle illusioni delle immagini e ha intrapreso il lavoro poetico inteso come «praxis», ovvero pratica quotidiana. Il «bisogno di Rimbaud» si situa, per Bonnefoy, nel fatto di esercitarsi ad assumere la nostra finitudine per riconoscerne l’infinito interiore. E lavorare nella lingua in modo da modificare l’ordine, significa toccare profondamente l’ordine delle cose. È la lezione che dà la lettura di Bonnefoy del sonetto Voyelles, ove il caos introdotto nella percezione permette di vedere ciò su cui lo sguardo ordinario si posa senza fermarsi. Secondo Bonnefoy l’opera di Rimbaud mantiene oggi tutta la sua for- za – da qui il titolo Notre besoin de Rimbaud – perché per il poeta di Charleville la poesia era un’esperienza diretta dell’unità, della sua presenza nel cuore di tut- ti gli atti dell’esistenza e di tutti gli impegni delle parole, nell’unico vero infini- to che è la realtà quotidiana. Già nel ’61, con Rimbaud par lui-même, Bonnefoy aveva sottolineato con forza l’importanza del poeta di Charleville e il suo volume aveva suscitato delle interrogazioni poiché si era poco abituati ad un commen- to ermeneutico che si sforzasse di pensare l’opera come una biografia spirituale. Bonnefoy, comunque, in un’intervista del 2007 rilasciata a Luigia Sorrentino dal titolo «Il poeta del sogno notturno»25, riconosceva che il Surrealismo aveva avuto il merito di aver rivalutato l’inconscio, da cui nasceva la poesia. La psica- nalisi è scienza che si interessa all’inconscio, però per Bonnefoy è troppo con- cettuale e per questo non in grado di capirne la profondità. Il poeta deve quin- di stabilire con lo psicanalista un rapporto di sorveglianza reciproca: quest’ul- timo deve fare attenzione che il poeta non sostituisca i sogni alla realtà, mentre il poeta deve ricordare allo psicanalista che la sua ricerca scaturisce da un limi- te, la «finitude» appunto, e per questo non adatta ad esprimere la verità più pro- fonda della nostra vita. Per il poeta francese la poesia restituisce alle cose e agli esseri viventi la pienezza della loro presenza a se stessi, presenza incarnata nel suo luogo e nel suo tempo. In un articolo del ’69 pubblicato nella rivista «Approdo letterario» dal tito- lo Poesia francese contemporanea: profili e tendenze è proprio a Mario Luzi che si

25 Luigia Sorrentino, Yves Bonnefoy: Il poeta del sogno notturno, Mantova, 6 settembre 2007. Intervista a Bonnefoy al Festival della Letteratura di Mantova. SGUARDI INCROCIATI: MARIO LUZI E YVES BONNEFOY 201 chiede di parlare di Yves Bonnefoy26, un Bonnefoy che emerge «come una delle figure più notevoli di poeta dal terremoto che la contestazione critica o […] il nuovo formalismo [aveva] provocato nel paesaggio letterario francese»27.

Per Luzi la poesia francese post-surrealista era stata attraente, ma allo stes- so tempo molto distante, perché aveva tagliato il cordone con l’esistente e ave- va preferito concentrarsi sul suo compito in quanto langage, inteso in un valo- re assolutistico di creazione umana e mai in quello di mediazione o interpreta- zione del reale. Il poeta fiorentino ricorda gli esordi poetici di Bonnefoy con l’Anti-Platon, del ’47, la raccolta Du mouvement et de l’immobilité de Douve28 del ’53, per proseguire con Hier régnant désert del ’58, L’improbable del ’59 e Pierre écrite del ’65. La pri- ma plaquette aveva suscitato curiosità, con quel titolo un po’ misterioso: Douve infatti è nome proprio e allo stesso tempo nome comune, poiché può designare un fossato, una doga della botte oppure un verme parassita dell’animale, la fascio- la. Douve è quindi essere multiplo perché umano e animale allo stesso tempo, ed è addirittura una «lande résineuse endormie». Il poeta canta la morte, ma anche il ri- torno della vita, attraverso un personaggio di nome Douve. Bonnefoy si ispira alle tecniche surrealiste, ma non per allontanarsi dalla realtà, al contrario, per avvicinar- si alla natura in tutte le sue forme, in una quête del vrai lieu che chiude la raccolta. La poesia di Bonnefoy diventa tentativo di abitare il mondo senza prende- re in conto l’ideale, l’Assoluto, Dio, e questo tentativo passa attraverso la presa di coscienza della morte. Anche per Luzi è fondamentale immergersi nel reale, anche se la sua sarà più una ricerca del divino nell’umano, di una parola poeti- ca incarnata. E con la raccolta Onore del vero, del ’57, la sua poesia «si farà te- stimone anche della verità, della concretezza»29, come ricorda Zanzotto nell’an- no della sua scomparsa. Luzi è critico nei confronti della poesia francese che ha come oggetto se stes- sa ed è per questa ragione che predilige l’opera di Bonnefoy, che si distingue per forza di evento interiore, per re-immersione nel flusso oscuro vivente. «L’effetto

26 Questo articolo fa parte della bibliografia ritrovata da S. Verdino tra le carte luziane e che da lui ci è stato gentilmente segnalato: Poesia francese contemporanea: profili e tendenze, a cura di Guido Neri (in onda sul Terzo Programma, rubrica «Piccolo Pianeta», il 20 giugno 1969; reda- zione Adriano Seroni), in «L’Approdo letterario», n.s., a. XV, n. 47, luglio-settembre 1969, pp. 89-91. Qui Luzi traccia un breve ritratto di Yves Bonnefoy. 27 Ivi, p. 89. 28 È una raccolta che contiene cinque parti: Théâtre, Derniers gestes, Douve parle, L’orangerie, Vrai lieu. Sono testi brevi, a volte senza titolo, alternati a componimento suddivisi in più parti. L’epigrafe di Hegel offre una chiave di lettura alla raccolta: «Mais la vie de l’esprit ne s’effraie point devant la mort et n’est pas celle qui s’en garde pure. Elle est la vie qui la supporte et se maintient en elle». 29 Andrea Zanzotto in Così lo ricordano, in «Poesia», Milano, aprile 2005, p. 11 (numero in parte dedicato alla morte di Mario Luzi con testimonianze di amici poeti, tra cui Zanzotto, Bonnefoy, Sanguineti). 202 Laura Toppan dominante dei versi di Bonnefoy» è per Luzi «una visione alternativa e dinami- ca dell’universo, decifrabile mediante l’immagine e il senso»30. La compagine in corso di trasformazione che è il mondo, spinge il poeta ad un continuo gioco di presenza ed assenza, di partecipazione ed indifferenza, di penetrabile ed im- penetrabile allo stesso tempo. Essa congiunge due piani e due virtualità impli- cite nella poesia moderna, ovvero l’esistenziale e il metafisico, temi cari anche a Luzi. E per completare il ritratto poetico di Bonnefoy, Luzi cita due quartine del- la raccolta Pierre écrite, del ’65, per esemplificare questo continuo movimento:

N’avions-nous pas l’été à franchir, comme un large Océan immobile, et moi simple, couché Sur les yeux et la bouche et l’âme de l’étrave, Aimant l’été, buvant tes yeux sans souvenirs,

N’étais-je pas le rêve aux prunelles absentes Qui prend et ne prend pas, et ne veut retenir De ta couleur d’été qu’un bleu d’une autre pierre Pour un été plus grand, où rien ne peut finir?

Nella poesia di Bonnefoy sono presenti altri motivi su cui il poeta si arrovel- la e che suscitano inquietudine nel fondo dell’esperienza creativa moderna, fin da Baudelaire, ovvero «la continua frizione tra finitudine della materia poetica e non finitudine del significato»31, afferma Luzi, e «tra elaborazione circoscritta della forma e possibilità inesauribile dell’esplorazione intuitiva»32. Ma questi op- posti che lavorano in profondità sono comunque presenti nell’opera di Bonnefoy come dei movimenti vitali interni alla scrittura lirica, ed è per questo che l’ope- ra dell’amico francese interessa molto a Luzi. Il debito con Pierre Jean Jouve è innegabile negli esordi poetici di Bonnefoy, ma secondo Luzi egli

si è investito di tutta la parte essenziale della speculazione moderna della poesia e dei processi che ne sono conseguiti sul piano dell’espressione, considerandoli come una struttura entro cui agire, facendo dibattere all’interno di essa i mo- vimenti commossi e contradditori dell’uomo di fronte alla realtà del mondo impossibile da catturare33.

Tra questi «sguardi incrociati» anche Bonnefoy si trova a parlare dell’amico fio- rentino in un testo dal titolo Souvenirs34 in cui ricorda un loro incontro orga-

30 Mario Luzi in Poesia francese contemporanea: profili e tendenze cit., p. 90. 31 Ibidem. 32 Ibidem. 33 Ivi, p. 91. 34 Y. Bonnefoy, Souvenirs, in Nell’opera di Mario Luzi, «Istmi» 34 [Tracce di vita letteraria a cura di , Enrico Capodaglio e Feliciano Paoli], 2014, p. 8 Il testo di SGUARDI INCROCIATI: MARIO LUZI E YVES BONNEFOY 203 nizzato da Bernard Simeone presso l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi nel di- cembre dell’85. I due poeti discussero di Mallarmé, altro nume tutelare per en- trambi e con cui hanno fatto i conti in diversi saggi critici, Luzi anche attraverso la traduzione. Per Bonnefoy Mallarmé: «era il pensatore di una poetica difficile [che riusciva però] a raggiungere la sua poesia, così spesso vicino alle cose della natura, così aperta al raggiare estivo del cielo, per la via di aridi sentieri sbarrati dai cespugli spinosi delle astrazioni»35. Bonnefoy nota che invece Luzi «aveva una tutt’altra misura [del poeta di Besançon], nel senso che [lo aveva] visto interessato soprattutto alla semplice e profonda qualità poetica di molti suoi testi»36. È importante sottolineare che il 1985 è l’anno della raccolta Per il battesimo dei nostri frammenti in cui la scrit- tura poetica di Luzi cambia, e proprio dopo aver tradotto Mallarmé. Bonnefoy è ammirativo dei versi di Luzi, tanto da parlare di «pensiero che si arrischia, discretamente ma in profondità, tra poesia e mistica»37. Versi che lo toc- cano nel più profondo, come quelli di Leopardi, risultato di uno sguardo amore- vole e lucido al contempo. E l’occasione per riflettere proprio su Leopardi, altro nume tutelare sia per Luzi che per Bonnefoy, si era presentata nel dicembre del 1998 in occasione di un Convegno organizzato a Lovanio dal titolo Leopardi e la cultura europea38. Luzi parla di Leopardi come di un poeta che non era rivo- luzionario, proprio perché «la rivoluzione era in lui e operava dentro di lui»39 e aggiunge che nella poesia italiana, e non solo, dopo Leopardi nulla è stato più come prima, ovvero dopo di lui «è venuto il desiderio di verità, come ragione pri- ma del poetare»40. Bonnefoy parte invece da Mallarmé e dal suo coraggio nell’a- ver osato affrontare di petto un mondo che si presentava deserto e che aveva de- ciso che le rappresentazioni di ciò che esso è non sono altro che glorieux men- songes. Quindi per Bonnefoy è proprio grazie a questa presa di coscienza radi- cale di Mallarmé che gli altri poeti, e non solo in Francia, scriveranno poi sen- za illusioni o sforzandosi di non averne. Ma poi Bonnefoy sottolinea che qua- rant’anni prima di Mallarmé, già Leopardi aveva fatto un’esperienza simile, e in più in un mondo ancora senza grandi metropoli, senza folle anonime, senza tre- ni o stazioni, senza illuminazioni a gas, ovvero senza tutto ciò che fa di Mallarmé un nostro contemporaneo o quasi41. Leopardi infatti, nota Bonnefoy, nel Canto

Bonnefoy è riportato nell’originale francese e nella traduzione italiana di F. Paoli; poi con il titolo Mario, voi somigliate a Firenze in «Poesia», XXVII, ottobre 2014, 297, p. 5. 35 Y. Bonnefoy, Mario, voi somigliate a Firenze cit. 36 Ibidem. 37 Ibidem. 38 Cfr. Leopardi in Europa, Atti del Convegno organizzato dall’IIC di Bruxelles e Parlamento Europeo, 1-2 dicembre 1998, a cura di Franco Musarra, Bart Van den Bossche e Serge Vanvol- sem, Leuven University Press, Cesati Editore, 2000. 39 M. Luzi, Leopardi e l’Europa: vivere la modernità, in Leopardi in Europa cit., p. 22. 40 Ibidem. 41 Y. Bonnefoy, Leopardi e l’avenir de la poésie, in Leopardi in Europa cit., p. 16. 204 Laura Toppan di un pastore errante dell’Asia aveva già constatato con coraggio l’assenza totale di un ordine che l’umanità aveva immaginato sino ad allora nelle cose della na- tura. La sua grandezza sta quindi nella sua lucidità ed è interessante notare che il titolo dell’intervento di Bonnefoy fu proprio Leopardi et l’avenir de la poésie. La visione europea, e non solo, di Luzi e Bonnefoy, ha portato entrambi i po- eti a ricoprire proprio la cattedra di letterature comparate: Luzi all’università di Urbino, per tutti gli anni Settanta, Bonnefoy al Collège de France, per tutti gli anni Ottanta, a testimonianza di un comparativismo in atto, di uno studio dei luoghi e dei nessi in cui interagiscono più culture. E come notano Maria Silvia Da Re e Stefano Raimondi:

sarà la relazione tra ‘arte’ e ‘vita’ a tenere saldi i dettati poetici dei due autori che, nei loro tempi e ambiti e nelle loro rispettive nazioni, hanno saputo […] svilup- pare un’idea di poesia che li portasse alla conoscenza dei loro rispettivi e imme- diati dintorni (interiori ed esteriori). [In] Luzi […] il “tempo minore” – quello della quotidianità – [è] altrettanto decisivo e sostanziale per una conoscenza di sé del e nel reale […]. In Bonnefoy, invece, l’idea stessa del reale [fa spazio] all’ipotesi di una Natura/Naturante, segno di uno spazio sul quale e dal quale agire per oscurità e successive epifanie (movimento e immobilità), rivelatrici di una tensione che porta all’azione come riflessione sulla morte e sulla vita. L’as- senza del termine natura, almeno nei primi scritti, è dunque una vera e propria sparizione, assimilabile al bianco che gli ermetici hanno adottato come luogo di svelamento del senso celato, dell’aura della parola pura: il luogo dell’attivazione/ disattivazione del mistero. Né è un caso che gran parte della poesia francese post-simbolista (da Bonnefoy a Du Bouchet, fino a Dupin e, inparte, Jaccottet) abbia appunto adottato il bianco e una grafica della rarefazione per evidenzia- re quell”ermetismo” poetico, quell’oscurità della comprensione che sostiene la rivelazione del senso nella parola trascelta, cercata e ascoltata. Sarà proprio que- sta paradossale “illuminazione oggettiva” (come recita uno scritto giovanile di Bonnefoy), a sostenere l’oscurità dei versi, capace di guidare la loro aderenza alla poesia per necessità di vita e come respiro. Una vita messa, esistenzialmente, al primo posto nella genealogia della parola, facendola divenire luogo archeologico e stratificato di una conoscenza in divenire42.

Sia Luzi che Bonnefoy sono poeti-filosofi, poeti-critici, che hanno adottato la parola per imparare a vedere «il» mondo e «nel» mondo, per riconoscerne l’im- pronta nel concreto. Le loro poetiche e i loro versi camminano parallelamente al di qua e al di là delle Alpi con un’attenzione e un’ammirazione reciproca: Luzi fedele ad un’idea di poesia come evento in atto, Bonnefoy fedele ad una conce- zione laica, ma con una «ésperance» nella parola poetica e con una visione che il poeta-critico Jean Starobinski ha definito «un’escatologia atea».

42 M. S. Da Re, S. Raimondi, Yves Bonnefoy e Mario Luzi: un tracciato / meridiano fra Vita e Natura cit., pp. 84-85. UN TRAGICO CRISTIANO

Marco Menicacci

Tradizionalmente le riflessioni sul tragico si sono rivolte alle origini del concetto, vale a dire alla ricerca dell’essenza di quel complesso e affascinante fenomeno arti- stico, letterario, mitopoietico e religioso che è stata la tragedia. A partire almeno da Hölderlin e Schelling, tuttavia, e fino alla contemporaneità si è fatto strada un pen- siero che svincola l’idea di tragico dalla tragedia e ne fa tema assoluto di riflessione. Fra gli sviluppi più originali di questo percorso è senz’altro da contare la proposta teoretica di un «pensiero tragico» avanzata in Italia intorno agli anni Ottanta da Luigi Pareyson che, pur muovendo da meditazioni sull’idealismo tedesco e sull’er- meneutica di Gadamer, punta risolutamente l’attenzione sul problema del male1. Obbligato a considerare la necessità della morte e in generale la ancor più contingente e concreta presenza del male nella vita, l’uomo è il protagonista del- la propria tragedia (e, del resto, figura della morte, del lutto, sono anche le per- dite di cui in varia misura è dolorosamente costellata la vita: perdita di salute, di gioventù, di persone amate, di beni…). In questo senso la contraddizione tra- gica si sposta dal territorio della tragedia come evento o forma letteraria a quel- lo più ampio del pensiero e dell’esistenza umana. Sul solco aperto da Pareyson, Sergio Givone e Claudio Ciancio hanno appro- fondito la prospettiva del pensiero tragico come unica risorsa speculativa prati- cabile di fronte a una situazione senza uscita: una contraddizione o un parados- so che non è possibile risolvere né aggirare, una realtà inaccettabile cui l’essere umano è costretto a far spazio nella propria vita. Solo il pensiero tragico infatti – scrive Ciancio – è in grado di pensare

1 La bibliografia sul pensiero tragico è molto ampia: oltre al fondamentale studio di Peter Szondi (Versuch über das Tragische, Frankfurt am Main, Insel, 1961; trad. it. Saggio sul tragico, a cura di Gianluca Garelli e Federico Vercellone, Torino, Einaudi, 1996), si vedano almeno Luigi Pareyson, Pensiero ermeneutico e pensiero tragico, in Dove va la filosofia italiana, a cura di Jader Jacobelli, Roma-Bari, Laterza, 1986, pp. 131-141; Sergio Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Milano, Il Saggiatore, 1988; Remo Bodei, Hölderlin: la filosofia e il tragico, in Friedrich Hölderlin, Sul tragico, a cura di Remo Bodei, trad. it. di Gigliola Pasquinelli e Remo Bodei, Mila- no, Feltrinelli, 1989; Il tragico e l’esperienza estetica, a cura di Livio Bottani e Tommaso Scappini, Vercelli, Ed. Mercurio, 2008.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 206 Marco Menicacci

[…] la lacerazione della verità e del mondo nella sua possibilità, nella sua realtà e nelle sue conseguenze, e tiene ferma questa lacerazione senza mediarla razio- nalmente o esteticamente. Ora il pensiero tragico deve non solo riconoscere la possibilità del nulla e la sua azione devastante, ma anche il suo incombere ed anzi la sua presenza in ogni manifestazione storica dell’essere e della verità. L’alternativa tra verità e falsità o fra bene e male non è semplice, ma complessa, perché il vero è attraversato dal falso e il bene è attraversato dal male2.

La Grundfrage più urgente e terribile non pare dunque quella metafisica, ma quella che riguarda la dimensione immediata e terrena della fisica, o meglio dell’esistenza materiale. La domanda fondamentale è insomma unde malum e tuttavia il problema ancora più pressante – al di là della ricerca dell’eziologia – è la semplice presenza del male, la cui inspiegabilità per il pensiero umano non ne costituisce che un’aggravante. È così che fin dai tempi arcaici la scandalosa e tetragona presenza del male ha spinto alcuni verso la speculazione, altri verso forme espressive diverse ma tra loro per vari aspetti analoghe come la poesia, il canto, la lamentazione e la preghiera. Nel suo viaggio umano, intellettuale e poetico, Luzi ha affrontato questa messe di problemi con un’assiduità e una consapevolezza speculativa che si affi- dano non solo ai versi, ma anche agli scritti di poetica e di critica. Ed è senz’al- tro probabile che l’urgenza di tali interessi fosse alla base dell’iniziale proget- to, poi accantonato, di iscriversi al corso di laurea in filosofia3. Com’è noto, in-

2 Claudio Ciancio, Il paradosso della verità, Torino, Rosenberg & Sellier, 1999, pp. 37-38; più avanti Ciancio specifica la natura paradossale del pensiero tragico: «[…] la frattura interna al pensare filosofico, che lo differenzia dal mito, quella frattura che è presenza del negativo anche nel rapporto con la verità, conferisce al pensiero tragico la forma di pensiero del paradosso. Tale forma è del tutto consona alla natura del pensiero tragico, purché lo si intenda in modo rigoroso, e cioè non semplicemente come un pensiero negativo. Il tragico infatti definisce un rapporto dei contrari (ad esempio, l’intenzione morale e la colpa, o la salvezza e la morte), il cui nesso costi- tutivo non può essere esibito o almeno resta indecifrabile. Non è dunque propriamente tragico né quel pensiero che media gli opposti in una sintesi compiuta né quello che si arresta negativa- mente all’opposizione» (ivi, p. 40). 3 Si vedano alcune esplicite dichiarazioni di Luzi: «Il mio progetto filosofico era più un sogno che un procedimento possibile; era il sogno della filosofia come tale e soprattutto della filosofia come ce l’avevano fatta vedere i presocratici, i classici fino a Platone, Socrate, e magari Plotino, più che un’adozione di sistemi della filosofia moderna, la quale mi sembrò più una specie di ingegneria mentale che un vero processo di conoscenza, un vero stato di conoscenza possibile, come era stato appunto alle origini. Il tecnicismo del filosofare moderno mi disincan- tò del tutto, e quando poi a quaranta, a cinquant’anni e anche più, mi sono letto lo Zibaldone, ho visto che quello che non mi soddisfaceva l’aveva detto benissimo Leopardi; quel fare difet- tivo e astruso della filosofia moderna era già un deterrente per Leopardi, e lui l’aveva analizzato benissimo, quando dice che la filosofia moderna corregge, aggiusta, ma non crea, non inventa qualcosa di fondamentale per l’uomo» (Mario Luzi, Una fedeltà contrastata, in «Iride», luglio- dicembre 1989, 3, pp. 111-116, p. 113); e ancora, nel libro-intervista con Mario Specchio: «Si tratta di sistemi che si contrappongono, si correggono, si edificano l’uno sull’altro, l’uno nell’ombra dell’altro, ma non c’è nulla di diretto, per cui io passai alla letteratura, agli scrittori che hanno un vero contenuto di conoscenza e di esperienza come Musil, come Thomas Mann, UN TRAGICO CRISTIANO 207 fatti, i limiti e l’artificiale rigore dei sistemi del tardo idealismo non riusciva- no a soddisfare le sue esigenze speculative, tanto che era venuta a crearsi una delusione, una forma di distacco. Così commenterà più tardi quella situazio- ne: «l’ingegneria raffinata e sofisticata che avevo trovato al posto della sapien- za o per lo meno della saggezza, e le procedure metodiche arbitrarie a parago- ne con la spontaneità degli itinerari che avevo desiderato scoprire mi procura- vano [...] disinganno»4. La mancanza più grave era nell’atteggiamento teoreti- co classificatorio, deterministico e aggrappato all’idea di una euristica mecca- nicamente progressiva, in grado di enucleare delle incognite per poi procede- re alla ricerca delle soluzioni: «Tutto quel discorso era fatto non dico in assen- za dell’uomo, che sarebbe assurdo, ma nel presupposto che il desiderio di co- noscenza dell’uomo fosse divenuto il problema conoscitivo – cioè una x da ri- solvere simile a una rigida e incombente istituzione isolata in se stessa»5. Le astrazioni e le categorizzazioni, insomma, che pure rendono agevole e pragma- tica la speculazione, producono in realtà una disumanizzazione del pensiero, riducendolo ad attività aliena rispetto alla natura e alla vita. Da parte sua, in- vece, Luzi preferisce seguire il pensiero di Leopardi, che gli appare come ful- gido esempio di un ritorno al «primario e nudo filosofare che riconduca ogni quesito a quello fondamentale, vale a dire al paragone dell’uomo con la natu- ra umana e con la natura universa»6. La diagnosi che Luzi fa del panorama filosofico italiano di quegli anni coin- cide con quanto ha retrospettivamente affermato, da filosofo di professione, Luigi Pareyson:

Nel corso della seconda guerra mondiale l’umanità ha toccato il culmine della malvagità e della sofferenza, con forme assolutamente diaboliche di perversione, con spaventosi massacri e genocidi che hanno crudelmente decimato l’umanità, con inaudite e orribili sofferenze inflitte dall’uomo all’uomo, e soprattutto con fenomeni come l’Olocausto, di fronte ai quali non è possibile che l’umanità intera non si senta colpevole, sia per non averlo saputo prevenire o impedire, sia per non aver per conto suo sofferto altrettanto. Ebbene, trovo sconvolgente il fatto che in quel momento, quando l’umanità stava appena uscendo dall’abisso del male e della sofferenza in cui era precipitata, e ancora in seguito per alcuni decenni, abbiano avuto grande successo e rilevante diffusione filosofie impegna- te in problemi tecnici di estrema astrattezza e sottigliezza, come il positivismo

come Proust, e anche come Joyce, che mi sembrarono rappresentare la filosofia moderna» (M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti, 1999, pp. 60-61); su questo tema mi permetto di rimandare a Marco Menicacci, Luzi. Il demone filosofico, Firenze, Franco Cesati Editore, 2007. 4 M. Luzi, Una fedeltà contrastata cit., p. 113. 5 Ibidem. 6 M. Luzi, Nella poesia e nel pensiero una necessaria rifondazione, in Naturalezza del poeta. Saggi critici, a cura di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995, p. 227. 208 Marco Menicacci

logico e la filosofia analitica, forme di pensiero insensibili alla problematica del male, e in generale poco interessate ai problemi dell’uomo e del suo destino7.

Proprio in una situazione come questa, avrebbe osservato Luzi, si attenuano i connotati di esclusività e diversificazione fra filosofia e poesia, che a loro volta diventano sempre più solidali o addirittura consustanziali: aspetti diversi, espres- sioni alternative del pensiero umano, originate da problemi e sensibilità comu- ni8. Per Luzi la parola letteraria non è semplicemente preziosa interprete dell’u- mano, ma aspira ad essere atto tout court speculativo, facendosi poesia-pensiero che, sola, è in grado di dar voce alle antinomie dell’esistente:

[…] ciò che ardeva in cima ai miei pensieri era un’operazione alchemica della massima elementarità: il pensiero che diviene linguaggio; o ancora meglio la pa- rola che trascina fuori dalla virtualità la fertilità attuale della mente: la parabola insomma che fa esistere il pensiero e, potremmo dire con un ricorso verbale sempre un po’ enfatico, lo crea9.

Dagli anni Trenta fino alla sua scomparsa Luzi ha scritto molto, attraversan- do fasi diverse ma percorse internamente da robuste fibre di continuità e coe- renza. Un tratto comune a gran parte della sua produzione è l’origine dell’atto poetico a partire da una condizione gnoseologica ed esistenziale di «indicibile spaesamento»10 dovuto primariamente allo scontro con la dura realtà del male. Ne dà testimonianza esplicita una delle più belle raccolte dell’ultimo periodo, Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994):

È la vita nell’uomo, lo sa bene, una ferita aperta, rare volte si addolcisce ma non si rimargina11.

7 L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino, Einaudi, 1995, p. 156; una formulazione assai simile si ritrova anche in Pensiero ermeneutico e pensiero tragico cit., pp. 137-138. 8 «Il mio divorzio dalla filosofia coincideva con la scoperta della virtualità e l’attualità co- noscitiva della grande letteratura moderna e con il rifiuto del formalismo e del tecnicismo della tradizionale filosofia divenuta accademia; nel momento che anche i filosofi votati alla rifondazio- ne facevano per loro uso la stessa considerazione» (M. Luzi, Una fedeltà contrastata cit., p. 113). 9 Ibidem. 10 La formula compare in Per il battesimo dei nostri frammenti, in M. Luzi, L’opera poetica, a cura di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1998, p. 677. 11 Se non diversamente indicato, tutte le poesie di Luzi sono tratte da M. Luzi, L’opera poetica cit.; per non sovraccaricare le note si indica solo il titolo del componimento, omettendo i rimandi al numero di pagina. UN TRAGICO CRISTIANO 209

Altrove, nello stesso libro – In acqua e in aria – si configura una prospettiva che non elude il male, ma lo contempla da un punto di vista più ampio e, tra- scendendo la vicenda del singolo essere, si rivolge piuttosto all’umanità o, me- glio ancora, all’intera fenomenologia della vita nel mondo:

ma c’era il tempo, la morte? o c’era l’ininterrotta danza dell’essere […]

Il tempo e il suo mortifero divenire sono una dimensione umana: esistono dun- que davvero o non è altro che l’incessante «danza dell’essere», la pulsazione di sisto- le e diastole dell’universo vivente? Pensieri come questi sono frequenti nell’ultimo Luzi, che approda a una dizione scopertamente improntata ad accenti di neopla- tonismo cristiano. A ben vedere, però, si tratta di un processo lungo e speculativa- mente laborioso, di cui si ritrovano i prodromi almeno a partire dalle poesie degli anni Cinquanta, come quella intitolata E il lupo, contenuta in Onore del vero (1957):

[...] vita non mia, dolore che porto dalla notte e dal caos, ti risenti improvvisa nel profondo, ti torci nelle angustie, sotto il carico.

Vivere vivo come può chi serve fedele poi che non ha scelta. Tutto, anche la cupa eternità animale che geme in noi può farsi santa. Basta poco, quel poco taglia come spada.

L’annuncio di una prospettiva di redenzione dimostra con quale intensità, già nelle ultime poesie di Onore del vero, si schiudono accenti fiduciosi che mi- rano a rivalutare la fenomenologia del male e tentano di ripensare il travaglio del negativo alla luce di nuove possibilità, magari già da tempo intraviste, ma ora esplicitamente perseguite:

Non altro. E quel che resta è opera d’uomo lasciata in tronco e proseguita. Segna, segna con mano ferma i pieni e i vuoti, i vivi i morti tu che scindi e separi. Guardo, ma non dispero, la rapina12.

12 Casa per casa, in Onore del vero. 210 Marco Menicacci

L’inevitabile alternarsi di vita e morte si manifesta certo come «rapina»: violen- to e immedicabile furto di essenza, di fronte al quale tuttavia si fa strada una nuova forma di speranza, benché ancora sospesa tra l’implicito e il potenziale. Una formu- lazione meno enigmatica si ritrova, sempre all’interno della medesima raccolta, nei versi intitolati Il vivo, il morto: un dialogo monologato fra chi ancora rimane sul- la terra e chi invece non è più, inghiottito dall’opera imperscrutabile della morte:

E io che sono ferito e ti reco soccorso con la poc’acqua delle nostre lacrime e con poche parole irragionevoli, più che parole gemiti, ma accoglile, ascolto in questa vita, in questo moto che è quiete, che non può portare altrove, da murmure a boato questa voce che ora prega e che mi tien sospeso per un attimo sopra questo male.

Siamo ancora in quella che Luzi, a inizio anni Cinquanta, aveva definito «sfe- ra angosciosa di Parmenide» (Invocazione, da Primizie del deserto, 1952), in cui ogni movimento è vano perché non esiste destinazione vera, eppure vi esplode una «voce» che era partita in sordina già nelle poesie precedenti ed è cresciuta fra i versi; ora la sua potenza è tale da interrompere questa ciclicità negativa che indurrebbe alla rinuncia13. È una salvezza senz’altro temporanea e parziale, in- tesa più che altro come aponia: una forma di assenza o almeno sospensione del dolore, e tuttavia appare illuminata da un trepidante senso di attesa. Nella successiva raccolta Dal fondo delle campagne (1965, ma composta pri- ma di Nel magma), che ruota intorno al lutto sia privato e individualmente af- frontato, sia universale, i versi della lirica Colpi tornano a lamentare l’incom- prensibilità di un dolore che sembra tradire la speranza di trasformarsi in qual- cos’altro, in «vita vera»:

Anni, ancora, che quanto viene offerto sotto la specie del dolore tarda a farsi vita vera

per anni e anni la vita segue la vita con la fedeltà che ha l’ombra

13 Per una disamina di questa fondamentale poesia si rinvia a Anna Dolfi, Invocazione: iden- tità e immagine in «Primizie del deserto» di Mario Luzi, in Studi in onore di Antonio Piromalli. Da Carducci ai contemporanei, Napoli, ESI, 1994, pp. 305-317 (poi in A. Dolfi, Terza generazione. Ermetismo e oltre, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 13-26). UN TRAGICO CRISTIANO 211

mentre scorre il fiume, mentre il filo d’erba trema tra pala e pala della falciatrice

e l’uomo appena uscito dalla prova integro o privato del suo bene solleva il capo fino al nuovo colpo.

Fra procreazioni, lotte e decessi si svolge il fenomeno biologico nella sua inumana complessità («Oh vita, oh terribilmente bios»14 si leggerà più tardi in Dottrina dell’estremo principiante, Al ritorno…); il male ne è solo una parte, ma certo mostra il proprio funesto potere e ferisce senza risparmi, come attestano i versi di Squarcia il fulmine, un componimento incluso nella raccolta del 1999 Sotto specie umana:

Si risente, si accorge di sé ferita nei suoi gangli la bellezza del pianeta, l’unità della sua vita. Il male è necessario, forse, il male non manca.

Luzi non edulcora la drammaticità del male e dell’annientamento, non ne dissimula la presenza, tuttavia ne recupera la funzione catalizzatrice – doloro- sa ma non annientante – nei confronti di un divenire che comincia a perdere la propria angosciante ciclica sterilità e a rendersi decifrabile come genesi, dun- que creazione15. Così, per tornare all’epoca di Dal fondo delle campagne, atte- stava già La valle:

ho inteso meglio il nostro debito: concedere la morte a ciò che è morto, perpetuare la creazione, volgere morte e sopravvivenza in altra, in nuova vita, segnare al mondo il suo destino.

14 M. Luzi, Dottrina dell’estremo principiante, Milano, Garzanti, 2004, p. 22. 15 Luzi ritrova l’idea di questo passaggio da divenire a genesi nel pensiero di Teilhard de Chardin, che nel suo saggio del 1955 Il fenomeno umano aveva scritto: «La nostra coscienza si dissolverebbe, annientata, nelle immense espansioni di un universo statico o eternamente mobile. Si trova invece rafforzata in se stessa entro un flusso che, per quanto inverosimilmente ampio, non è soltanto divenire ma genesi, il che è ben diverso». (Pierre Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, introduzione di Lodovico Galleni, traduzione di Fabio Mantovani, Brescia, Queriniana, 2001, p. 213). 212 Marco Menicacci

Ormai è matura la concezione che Luzi – mutuando un termine-chiave della meditazione di Unamuno sul «sentimento tragico della vita»16 – definisce agonica: «Si instaura qui quella che nella storia, nella lessicografia cristiana si chiama ago- nia, cioè quel conflitto in cui sembra di doversi riscattare giorno per giorno, ora per ora, dalla condizione in cui l’uso e l’abuso delle cose umane ci configgono»17. E più avanti, sempre rispondendo alle domande di Mario Specchio, preciserà: «io prediligo questo stato nudo, inerme, di cristianesimo agonico, conflittuale con il mondo, ma che tenta di appropriarlo»18. In questo senso Luzi affida alla parola poetica un pensiero tragico che – se- condo una pregnante definizione di Claudio Ciancio – «attraversa la “immane potenza del negativo” non per superarla e nemmeno per rassegnarvisi, ma con- frontandola e connettendola con la immane potenza del positivo e subordinan- dola ad esso. Questa connessione non può essere pensata se non come parados- so e dunque il pensiero tragico è un pensiero del paradosso»19. E proprio ai paradossi della mistica si avvicina spesso l’ultimo Luzi, pensando ad una ontologia in cui non vale il principio di non contraddizione. Ne sono un esem- pio questi versi dei primi anni Ottanta (La lite, in Frasi e incisi di un canto salutare) che si riferiscono alla figura di Cristo e alla sua presenza nel tempo degli umani:

[…] È lui, e non è. Si rifrange in minimi frantumi. Male, sì, eppure ciascuno lo somiglia, insicuro annunciatore di sé, non d’altro – è vero – profeta d’un suo portentoso non prodigio che tutti li riassume però, i grandi prodigi, tutti li consuma nella sua semplicità… dell’esserci egli, qui, nel vivo, non mancando, non disertando la lotta.

Ancora in Frasi e incisi di un canto salutare (1990), la sezione conclusiva inti- tolata Nominazione ripresenta il paradosso sotto un’altra forma. In un’atmosfera

16 Si fa riferimento a Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli, trad. di Maurizio Donati, Milano, SE, 2003. 17 M. Luzi, Mario Specchio, Luzi. Leggere e scrivere, Firenze, Nardi, 1993, p. 138. 18 M. Luzi, Colloquio cit., pp. 94-95. 19 C. Ciancio, Il paradosso della verità cit., p. 42. UN TRAGICO CRISTIANO 213 saturata da una luce zenitale («È il tuo pieno mezzogiorno»), abbacinante agli occhi così come il paradosso lo è agli organi del raziocinio, la conoscenza si rive- la evento assai più complesso di un algebrico processo d’incremento del sapere:

Cuoce, grano solare, il seme che fu oscuro dell’arte, della conoscenza. Maturano ugualmente il sapere e il non sapere. Perficiunt, perfezionano essi il cuore, il senso invece si smarrisce.

La crisi delle strutture logico-ontologiche tradizionali è ormai consumata: «sa- pere» e «non sapere» non sono più due alternative autoescludentesi, bensì forme della problematica e multiforme gnoseologia umana. Del loro perfezionamen- to viene messo in evidenza il significato etimologico, un perficere nell’accezione di «farsi compiutamente». Se dunque di fronte a tanto «il senso si smarrisce» e la comprensione razionale è in scacco, si apre il campo a un sapere tragico come sapere lacerato, contraddittorio, secondo le parole di Givone:

Univoco è il sapere filosofico, doppio il sapere tragico: perciò sono incompatibi- li. Se da una parte si tratta d’un alethes logos, d’un discorso di verità che presup- pone la perfetta trasparenza dell’ordine divino entro cui tutto si lascia disporre secondo giustizia, dall’altra invece si ha a che fare con i dissoi logoi, discorsi che legittimano quelle ambiguità contraddittorie per cui lo stesso individuo appare giusto e ingiusto, innocente e colpevole, vittima e carnefice20.

Correlativo formale di questo stato d’animo è spesso, in Luzi, l’interrogazione: domande che rimangono aperte, cui non è possibile dare risposta e che anzi ri- manendo nella loro problematicità danno vita a forme di pensiero interrogan- te21. Ne sono eloquente testimonianza i versi che aprono la sezione denominata

20 S. Givone, Disincanto del mondo e pensiero tragico cit, pp. 113 ss. 21 In questo è notevole la sintonia con il pensiero di un altro filosofo, Aldo Giorgio Gargani, di cui Luzi aveva letto e apprezzato il saggio Sguardo e destino: «Pensare è domandare e poi do- mandare ancora per pensare e non c’è una risposta definitiva perché si domanda per domandare ancora, e per avere una risposta si deve non pensare un attimo di più, pensare un attimo ulteriore serve a scoprire una possibilità imprevista che non ha fine e non serve a ottenere una risposta, bisogna cessare di pensare e nell’attimo stesso sorge allora la risposta e allora siamo di nuovo nell’esperienza normale, nella quale noi non pensiamo, e invece procediamo»; e, più avanti: «La scrittura è una permanente interrogazione, mentre si scrive, di ciò che si scrive; percorso di pen- siero e poesia, forma di conoscenza e ricerca vitale, scrittura che si chiede il senso della scrittura stessa. È questo il carattere dei libri più rari e indispensabili; ciascuno di essi, nella loro scrittura “ininterrotta”, perché ininterrotta è l’interrogazione sul senso dello scrivere, è l’opera unica di 214 Marco Menicacci

Genia all’interno di Frasi e incisi di un canto salutare, in cui bersaglio delle ripe- tute interrogazioni è di nuovo il paradosso per eccellenza della teologia cristia- na, Cristo stesso, che ancora una volta viene solo indirettamente nominato con il semplice – e minuscolo – pronome «lui»:

Di che era maceria quel silenzio? della storia dell’uomo – perfino della sua memoria – oppure del collasso estremo della materia…? E lui ergo dov’era, perché non rispondeva neppure da un barbaglio della sua passata gloria…? Mai stato? sussultava a un tratto la mente presa dal panico – o morto pietrificato nella nera roccia della fine del vocabolo e dalla nullità del canto, della parabola… Ma quella era la sua vittoria, quel brivido, quel no! detto al non essere da tutte le cellule, era il seme quello, il fermento.

Da quelle numerose morti parla quando noi parliamo.

Non a caso è stato proprio un filosofo come Sergio Givone, che a più ripre- se si è fatto interprete della poesia di Luzi, a cogliere il senso profondo di que- sto fare interrogativo:

Nulla può dirci la poesia, nulla il suo pensare interiore. Altro il suo compito, secondo Luzi. Essa interroga. E perciò si trattiene sulla soglia. Non dà risposte. una vita» (Aldo Giorgio Gargani, Sguardo e destino, Bari, Laterza, 1988, pp. 96-97). Luzi parla di Sguardo e destino in Colloquio cit., p. 110. UN TRAGICO CRISTIANO 215

Al contrario, è custode gelosa del punto di domanda. Ne impedisce la cancella- zione. Lo ribadisce. […] La poesia semmai resta fedele alla sua verità contrad- dittoria: tutto è pieno degli dei, gli dei ci hanno abbandonato22.

Al fuoco di questo inesauribile contraddittorio, il pensiero poetante di Luzi si condensa in figure dell’identità – stilisticamente e concettualmente magne- tiche come l’unisono musicale – che danno un senso di vertigine perché con- tengono, senza disattivarli, la molteplicità e lo scandalo della contraddizione. Sempre nella sezione conclusiva (Nominazione) di Frasi e incisi di un canto salu- tare, Luzi torna sulla figura di Cristo come «assoluto evento» che nella propria radiosa identità non lascia spazio all’opera dei tropi (come «simbolo» e «meta- fora»), quasi fossero ipostasi irrimediabilmente inadeguate all’evocazione di un ente infinito, incomprensibile e indicibile23:

È, lui. È ed accade, accade continuamente. È nel suo accadere, sì, lo è unicamente e rode e polverizza la metafora di sé, distrugge il proprio simbolo lui, abrupto ed assoluto evento sempre, sempre,

22 Sergio Givone, Per Luzi, in «Nuova corrente», XLVI, luglio-dicembre 1999, 124, pp. 279- 282, p. 281. In una intervista Luzi parla diffusamente dell’essenza dialettica e interrogante del proprio cammino cristiano: «il problema resta poi quello di come vivere il cristianesimo […], di come vivere questa grande promessa in una realtà come quella che abbiamo davanti agli occhi (o che abbiamo avuto)» e precisa che «l’interrogazione perpetua non è tanto mancanza di sicurezza nella soluzione che la fede ci propone, quanto nel modo di attualizzarla: essa denota, più che altro, ansia, assillo di adeguamento tra la promessa e la realtà in cui bisogna vivere. Questa discre- panza tra esistenza e essenza mi ha sempre interessato, eccitato, esasperato; mi ha messo addosso questa inquietudine che, sia pure in modo non sempre uguale, si esprime attraverso questo mio fare interrogativo» (M. Luzi, Conversazione. Interviste 19531998, a cura di Annamaria Murdocca, Firenze, Cadmo, 1999, pp. 4849). 23 Ma si veda anche, in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini: «È, l’essere. È. / Intero, / inconsumato, / pari a sé. / Come è / diviene. / Senza fine, / infinitamente è / e diviene, / diviene / se stesso / altro da sé. / Come è / appare. / Niente / di ciò che è nascosto / lo nasconde. / Nessuna / cattività di simbolo / lo tiene / o altra guaina lo presidia. / O vampa! / Tutto senza ombra ti flagra. / È essenza, avvento, apparenza. / È forse il paradiso / questo? Oppure, luminosa insidia, / un nostro oscuro / ab origine, mai vinto sorriso?». 216 Marco Menicacci

in ogni istante al suo cominciamento.

Ma riportando gli occhi sulla terra, anche la realtà e la vita si rivelano nient’al- tro che manifestazioni di questo ente che vince il nulla ogni volta che rinasce e riafferma la propria esistenza nel donare se stesso al logoramento della vita:

Non ha importanza chi sia l’autore della vita, la vita è anche il proprio autore. La vita è.

Così si legge nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini e per sottolinea- re il carico di sofferenza implicito in una visione del genere è opportuno riferirsi ancora una volta al pensiero di Luigi Pareyson e alla sua ontologia della libertà:

Della realtà che sia pura realtà non si può dire né che è perché poteva essere, né che è perché non poteva non essere; ma unicamente che è perché è. Essa è del tutto gratuita e infondata: interamente appesa alla libertà, che non è un fondamento ma un abisso, ossia un fondamento che si nega sempre come fon- damento. […] Di per sé, dunque, la realtà suscita al tempo stesso stupore e orrore, angoscia e meraviglia: la sua caratteristica essenziale è l’ambiguità. […] Che cosa si troverà nell’abisso della libertà che la filosofia è chiamata a esplorare? […] la drammatica situazione dell’uomo smarrito nell’ambiguità; la quale non si manifesta appieno se non nel pensiero tragico, di là da ogni sterile antitesi di ottimismo e pessimismo; che sono termini posti sullo stesso piano e legatissimi fra loro, sì che dall’uno non si fa che rimbalzare all’altro; categorie più psicologi- che che ontologiche, e quindi del tutto insufficienti a interpretare la condizione umana24.

Il pensiero tragico si pone di fronte alle ambiguità, alle contraddizioni e ai paradossi del reale, ma non cerca di appianarli o eluderli: al contrario, ne fa il cardine di una speculazione inesauribile. Non si tratta di una soluzione definiti- va secondo i tempi e le logiche umane, bensì di una perpetua tensione, uno sta- to di unamuniana agonia che ci mette infinitamente alla prova, come Luzi an- nuncia in Frasi e incisi di un canto salutare:

Prova, prova umana che talora eccedi ed offendi l’umanità dell’uomo dilaniato dal suo male

24 L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino, Einaudi, 2000, pp. 465-466. UN TRAGICO CRISTIANO 217

e per poco non la uccidi – e per questo appari iniqua e non ti comprendono gli umani… se qualche paradiso di sapienza è in te che accecati dal supplizio non vediamo o vediamo come orrore, non guardarci, ti prego, con lo sguardo perduto e impenetrabile della tua necessità, ma parlaci, parlaci ancora e sempre come già dalla bocca dei tuoi santi e dal gemito della crocifissa incarnazione. Così dice inglossando, così lei lingua volendo.

Certo il compito è arduo e travalica le forze dell’uomo, rischiando di ridur- lo all’ammutolimento, poiché di fronte a tanto ognuno si scopre sempre e irri- mediabilmente un «estremo principiante». E proprio nell’ultima, straordinaria raccolta di Luzi Dottrina dell’estremo principiante il congedo sembra raggiunge- re un’afasia di pensiero: non per rassegnazione, ma per saturazione di tentativi, perché si è raggiunto il massimo grado di concentrazione espressiva e il discor- so ha finito per collassare su se stesso, ammutolendosi. Rimane un silenzio che è la somma di ogni suono, in cui ogni suono si estingue:

Infine crolla su se medesimo il discorso, si sbriciola tutto in un miscuglio di suoni, in un brusio. Da cui pazientemente emerge detto il non dicibile tuo nome. Poi il silenzio, quel silenzio si dice è la tua voce. Liberto Perugi, Mario Luzi. L’INCONTRO CON LA POESIA TEDESCA. UN COLLOQUIO

Mattia Di Taranto

Quasi venti anni or sono, il 19 aprile 1995, in occasione dell’apertura del Corso di Studi Italo-Tedeschi, Mario Luzi pronunciò nell’Aula Magna dell’U- niversità di Firenze un breve intervento che fu poi pubblicato nel 1998 in edi- zione fuori commercio da Polistampa con il titolo Il mio incontro con la poesia tedesca1. L’agile volumetto bilingue, arricchito da una silloge di poesie tradotte per l’occasione in tedesco da Tobias Eisermann, ebbe fatalmente scarsa circola- zione e sembrava destinato a non sortire alcuna eco; all’indomani della morte di Luzi, tuttavia, su un numero del trimestrale letterario «Il Portolano» intera- mente dedicato alla memoria del poeta, il testo del discorso venne ripubblica- to integralmente, accompagnato da una recensione di Maria Fancelli che ne ri- marcava l’originalità e il valore2. A distanza di dieci anni, vorrei cogliere questa propizia occasione per invitare nuovamente alla lettura di quel misconosciuto testo luziano e, sulla scorta di una abbozzata esegesi, tentare di additare un sen- tiero poco frequentato e parzialmente inesplorato a dispetto della riconosciuta rilevanza del tema, quasi un hic sunt leones nella mappa degli studi luziani: l’in- fluenza del George della trilogia giovanile, ovvero del George più fedele all’or- todossia del magistero mallarmeano, sulle raccolte della cosiddetta prima fase e segnatamente di Avvento notturno. Il discorso si apre con un conciso quanto eloquente preambolo sul valore degli «studi integrati» e sulla necessità di porre questo «campo» a fondamento dell’unità europea («fondamento che avrebbe la forza di generare l’unità» e che, prosegue Luzi non senza un qualche germe di profetica intuizione riecheggian- do forse l’analogia del celebre Indovinello veronese, «è stato non abbastanza trat- tato, arato, sviluppato, come sarebbe stato necessario3»). Entra poi, senza ulte- riori indugi, in medias res, iniziando a raccontare sotto forma di gustosi aned-

1 Mario Luzi, Il mio incontro con la poesia tedesca, Firenze, Polistampa, 1998, p. 5. 2 «Il Portolano. Periodico trimestrale di letteratura», 2005, XI, 41-42. 3 M. Luzi, Il mio incontro con la poesia tedesca cit., p. 5.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 220 Mattia Di Taranto doti le tappe di ciò che egli definisce il suo «apprendimento della germanità»4. Un «apprendimento» asistematico, riluttante alla didattica linearità dei percor- si accademici, ma che appare per ciò stesso ancor più significativo, sempre det- tato dalla mera volontà di trovare una voce lirica consonante e lasciarsi conta- giare da essa. Unica eccezione in questa sequenza di letture appassionatamen- te disordinate è rappresentata da un corso universitario tenuto da uno dei padri della germanistica italiana, Guido Manacorda, sull’espressionismo tedesco («è allora che ho sentito per la prima volta i nomi di Klabund e Wedekind»5). Nel corso si affrontava anche il Faust di Goethe, che Manacorda aveva tradotto nel 1932 ingaggiando, come è noto, una vivace polemica con Croce; ma non è un caso che la rigida sistematicità della trattazione accademica non riuscisse, alme- no per quanto riguarda Luzi, a mediare opportunamente questi autori e che nel testo venga rivolta una garbata quanto pungente critica ad un siffatto «sistema di lezione formale, molto elevato come qualità, ma forse non abbastanza inci- sivo nella curiosità morale e spirituale degli allievi»6. Luzi si ritiene, anzi riven- dica, la sua qualità di «“amateur” […] nel campo degli studi di germanistica»7 e questo è un aspetto che va sempre tenuto in debita considerazione. Il primo aneddoto riferito è, in questo senso, esemplificativo del suo approccio alla gran- de tradizione letteraria tedesca (in misura preponderante poetica): la seduzione esercitata dai ritmi e dalle cadenze di certe poesie di Heinrich Heine, che la so- rella, ci confessa Luzi, «studiava e cercava di interpretare con molto rapimento e molto diletto»8; ricorda, in particolare, la nona romanza, Don Ramiro, della prima sezione del Buch der Lieder, un verso della quale «era diventato una spe- cie di refrain in casa mia»9. Il primo autentico incontro con la poesia tedesca fu, tuttavia, successivo e si realizzò, verrebbe da soggiungere nient’affatto casualmente, attraverso la lettu- ra dell’opera che incarna forse il momento più alto e l’epitome più rappresenta- tiva dello spirito romantico tedesco, ovvero le Hymnen an die Nacht di Novalis. Luzi lesse l’opera nella traduzione di Augusto Hermet, pubblicata nel 1912 pres- so l’editore Carabba di Lanciano nella collana «Cultura dell’anima» diretta da Giovanni Papini; un’edizione memorabile che raccoglieva anche i Geistliche Lieder e che giocò un ruolo determinante nella ricezione italiana del corpus poetico no- valisiano, paragonabile solo all’importanza che ebbe per il fin de siècle francofo- no la traduzione di Maurice Maeterlinck dei Lehrlinge zu Sais e dei Fragmente. Luzi, attento esegeta della cultura italiana del Novecento oltre che uno dei suoi protagonisti, non manca di sottolineare questo dato e, dopo aver colto con su-

4 Ibidem. 5 Ivi, p. 7. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 5. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 6. L’INCONTRO CON LA POESIA TEDESCA. UN COLLOQUIO 221 perba capacità di penetrazione critica sia il valore artistico sia il contenuto filo- sofico e metaletterario di «questa poesia speculativa, arditissima, e nello stesso tempo dolcissima, con delle inflessioni interiori di una intensità incredibile»10, rimarca il valore sprovincializzante della traduzione di Hermet, che ebbe l’indi- scusso merito di portare al di qua delle Alpi «quello spirito, quel vento, il vento voglio dire delle origini romantiche, che ancora informano la speculazione po- etica di tutto il nostro secolo»11. Il più importante e decisivo medium che consentì a Luzi non solo di acco- starsi alla lirica tedesca, bensì di intavolare un proficuo e biunivoco dialogo con essa, fu, tuttavia, un altro traduttore, un caro amico conosciuto negli anni uni- versitari con cui avrebbe instaurato un sodalizio decennale. Mi riferisco, natu- ralmente, a Leone Traverso che negli anni Trenta, dice Luzi, «traduceva e faceva entrare per la prima volta nel contesto del linguaggio poetico italiano dell’epo- ca prima di tutto Stefan George e poi subito dopo Rilke, e poi Hofmannsthal, e poi Trakl, e altri ancora»12. Luzi si affretta a rettificare questa affermazione appa- rentemente erronea e a chiarirne il senso: Rilke era già stato integralmente tra- dotto da Vincenzo Errante, ma «la sua traduzione di Rilke aveva falsato Rilke e non aveva inciso nel gusto e nell’attesa di rinnovamento che allora ferveva nella letteratura italiana»13. Glissando sul burlesco j’accuse che Luzi interpola nel di- scorso ai danni di un certo dannunzianesimo allora imperante e che, verrebbe da soggiungere, sta alla prosa dannunziana come certo petrarchismo di maniera ai limpidi versi del Canzoniere, ciò che interessa qui rilevare è che fu, dunque, Traverso e, in misura particolare, la sua traduzione delle Duineser Elegien, che «rimise a posto l’immagine di Rilke»14, anche forse per la fortunata coincidenza di giungere a stampa in anni in cui si era ormai formato un pubblico maturo per la sua ricezione. È, inoltre, significativo che proprio mediante Traverso, che fu altresì raffinato traduttore dal greco, sia pervenuto al punto apicale di quel «col- loquio» sì trasversale e indiretto, eppure eccezionalmente fruttifero, con la poe- sia tedesca: Friedrich Hölderlin, che per Luzi restituì alla modernità europea lo spirito autentico e incorrotto delle origini, «della grecità pindarica, della grecità sofoclea»15. Nel testo vengono peraltro citati, più o meno incidentalmente, an- che altri noti traduttori (Giaime Pintor, Cristina Campo, Giuseppe Bevilacqua) e grandi autori, poeti ma anche drammaturghi e romanzieri (Gottfried Benn, Paul Celan, Heinrich von Kleist e Thomas Mann). Già solo alla luce delle informazioni deducibili dal testo del discorso sarebbe, dunque, possibile tentare di rinvenire allusioni echi e suggestioni fono-simbo-

10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 8. 13 Ibidem. 14 Ibidem. 15 Ivi, p. 9. 222 Mattia Di Taranto liche oltre che citazioni più o meno surrettizie dalle opere degli autori sunno- minati. Sarebbe, ad esempio, di grande interesse condurre uno studio sistema- tico sulle influenze dell’arduo ed esoterico simbolismo di Stefan George, rin- tracciabili con carsica discontinuità ancorché con una certa frequenza nelle rac- colte degli anni Quaranta, da Avvento notturno a Quaderno gotico. Prendendo in esame la prima delle opere citate, si potrebbe, a titolo meramente esemplifi- cativo, tentare qui un inedito esperimento comparatistico scegliendo una po- esia ancora poco glossata come La sorella notturna, espunta dall’edizione de- finitiva del 1960, nella quale il lettore più scaltrito noterà subito come ven- ga instaurata una sotterranea corrispondenza fra tema del lutto («un epicedio / di sere appassionate di altri soli»), motivo dell’ennui(«dai capelli affranti di tedio»), atmosfera onirica («In sogno salirà un mare indulgente»), dimensio- ne religiosa e sacrale («un raggio pregherai sulle tue mani») e, da ultimo, irru- zione dell’«artificialità» nel senso che conferì al termine la tradizione letteraria dell’Ottocento europeo, dall’Heinrich von Ofterdingen novalisiano ad À Rebours di Huysmans16 («sui tuoi vetri pesi d’oblio», «sovra un suolo di perla alla tua porta»17). Questa occulta rete di corrispondenze interne è precisamente la me- desima che ritroviamo nella seconda poesia della prima sezione dell’Algabal ge- orghiano18, dedicata per l’appunto alla sala della luna, in cui il giovane impera- tore-sacerdote, artifex ipsius mundi, indugia nel tedio del potere assoluto, cir- condato da arredi lussuosamente stravaganti ricoperti da un’uniforme patina lattiginosa che, emanando dall’astro ctonio, si riflette su avori, metalli pregiati e pietre preziose. Nell’ultima quartina di La sorella notturna ritroviamo poi la stessa duplice tematizzazione del ricordo d’infanzia in correlazione con il moti- vo del pianto presente nell’excipit della lirica georghiana, né si può credere che si tratti di un richiamo accidentale. Da Luzi sembra venire qui magistralmente rielaborata e originalmente riproposta una delle figure centrali dell’opera geor- ghiana, ovvero l’infante che dà il titolo all’omonima «raffinatissima e tristissi- ma poesia narcisistica»19 della raccolta Hymnen, prima ekphrasis del primo di una lunga schiera di efebi squisitamente decadenti, dall’Agatone algabaliano al deificato Maximin, che costituiscono la «persona», ovvero la maschera, egoi- co-erotica su cui amerà indulgere maggiormente il poeta di Bingen. Una lettu- ra in sinossi dei due testi mostra chiaramente una concordanza che si estende dal piano semantico e coloristico a quello iconografico.

16 Sul tema dell’artificio e dell’artificialità in Stefan George e nella letteratura francese dell’Ottocento rimando al mio saggio monografico Mattia Di Taranto, Il maestro e l’apostolo. Pre- senze del simbolismo francese nell’opera giovanile di Stefan George, Pisa, Pacini, 2014, pp. 148-150. 17 M. Luzi, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1998, pp. 1340-1341. 18 Stefan George, Algabal, a cura di Bianca Maria Bornmann, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 26-28. 19 Ladislao Mittner, Storia della letteratura tedesca, Torino, Einaudi, 1964-1977, III, 2, p. 959. L’INCONTRO CON LA POESIA TEDESCA. UN COLLOQUIO 223

Forse un volto raffiora, ovale intento d’una lontana volontà piangente al tuo specchio; risalgono le essenze del suo sorriso giovane alla luna20.

Là stava pure la sfera di murra con cui giocava nella fanciullezza, pura era la mano dell’imperatore il giorno che piangendo la guardava21.

Tralasciando di prendere in esame la verosimile possibilità di modelli comu- ni e non potendo proporre in questa sede ulteriori esemplificazioni del meto- do di comparazione sinottica, ciò che interessa e merita lumeggiare da ultimo è piuttosto l’ampio ventaglio di spunti di riflessione metaletteraria suscitato dal catalogo mozartiano di letture germanistiche. Ancora una volta ci viene in soc- corso la viva parola di Luzi che, nella poesia poetante della stagione romantica come nella Kunstanschauung, ovvero nella teorizzazione poetologica, riconosce «le premesse fondamentali di tutto il discorso della creazione letteraria dell’ulti- mo secolo»22 e, pur senza la minima intenzione di squalificarne l’originalità o i risultati artistici, identifica lucidamente come movimenti epigonali le grandi sta- gioni letterarie dell’Otto-Novecento europeo (dal simbolismo alle avanguardie), nella misura in cui tutte «presuppongono quella crisi del rapporto fra la realtà e lo spirito che è stata primariamente e splendidamente espressa da Hölderlin e dai grandi poeti romantici»23. Vorrei concludere il mio contributo con un’ul- tima citazione dal discorso di Luzi, una frase che riassume forse meglio di altre ciò che significò per un giovane poeta e intellettuale come lui e tanti altri la sco- perta di quella poesia che sta a fondamento della cultura europea moderna: «la lettura dei poeti tedeschi, e soprattutto dei poeti essenziali, ci risucchiava den- tro la genesi intellettiva e etica della poesia moderna»24.

20 M. Luzi, L’opera poetica cit., p. 1341. 21 S. George, Algabal cit., p. 28. 22 M. Luzi, Il mio incontro con la poesia tedesca cit., p. 10. 23 Ibidem. 24 Ivi, p. 11. Primavera a Firenze (foto di Anna Dolfi). IL FRUTTO NATO DA AMORE UN CONFRONTO CON HÖLDERLIN

Alberto Ricci

La definizione «ermetica»1, introdotta da noi, come sappiamo, negli anni 30 da Francesco Flora per una poesia «pura», essenziale, affermatasi dopo D’Annunzio – in Francia da Mallarmé in poi –, quasi a sottolinearne, e non senza ironia, quel carattere di difficoltà o scarsa accessibilità, di oscurità proveniente dal suo ana- logismo estremo, non rispecchia il vero significato di ciò che è stato l’Ermeti- smo. Silvio Ramat, nel suo fondamentale saggio2, tiene subito a precisarlo, de- finendolo, al contrario, come un atteggiamento, una rinnovata attitudine d’a- pertura interiore rispetto al reale, più che un movimento letterario, propensio- ne che ha innescato dinamiche di vasta portata. Oreste Macrí, ad esempio, par- lando dell’«europeismo» della sua, la terza generazione, e pensando soprattutto alla ricezione di Hölderlin, o altri importanti autori come Trakl, Hofmannsthal, Rilke e George, usa la definizione di «patria letteraria»3. L’argomento merite- rebbe ben altro e ampio sviluppo, e per una storia approfondita della ricezione del poeta svevo in Italia rinvio al fondamentale saggio di Giovanna Cordibella, Hölderlin in Italia4; qui vorrei solo, all’interno di questa cornice, restringere il discorso ad un confronto tra Luzi e Hölderlin, e nel segno dell’amore. Si trat- ta, come vedremo, da un punto di vista prettamente poetologico, di un concet- to fondamentale e fondante, in entrambi gli autori. In particolare vorrei sotto- lineare il forte, direi preminente, e spesso sottovalutato influsso che il poeta sve- vo, più determinante forse di quello della stessa poesia francese, ha esercitato su Luzi, e sull’Ermetismo in generale5.

1 Francesco Flora, La poesia ermetica, Bari, Laterza, 1936; n. ed., ivi 1942; F. Flora, Poetica surrealista ed ermetica, in «Aretusa», marzo-aprile 1944, 1. 2 Silvio Ramat, L’Ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 1. 3 Oreste Macrí, Memoria del mio decennio parmense (1942-1952), in Officina parmigiana. La cultura letteraria a Parma nel ’900, a cura di Paolo Lagazzi, Parma, Guanda, 1994, [pp. 113- 137], p. 114 (ora in O. Macrí, Le mie dimore vitali (Maglie-Parma-Firenze), a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1998). 4 Giovanna Cordibella, Hölderlin in Italia. La ricezione letteraria, Bologna, Il Mulino, 2009. 5 Mario Luzi, Il mio incontro con la poesia tedesca, Firenze, Polistampa, 1998, p. 24.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 226 Alberto Ricci

Lo conferma oltre mezzo secolo dopo, e con l’obiettività della distanza sto- rica, lo stesso Luzi, ritornando a pronunciarsi sul suo incontro con la poesia te- desca. Durante l’intervento del 19 aprile 1995 nell’Aula Magna dell’Università di Firenze, in occasione dell’apertura del Corso di Studi Italo-Tedeschi, si espri- me su poeti come Goethe, Heine, Novalis, Rilke, Hofmannsthal e George, po- nendo un accento particolare sulla poesia di Hölderlin, nonché sull’importan- te attività di traduzione del suo amico di una vita Leone Traverso. Sfogliando l’esiguo, ma prezioso fascicolo, contenente la versione dell’intervento, rivista dallo stesso autore e pubblicata grazie al contributo dell’Università di Firenze, possiamo leggere quanto segue: «E con Traverso si entra veramente nel vivo dei contatti con la poesia tedesca […]. Quindi, parlando di Traverso posso parlare in toto del livello della germanistica italiana di allora»6. Il primo punto in co- mune, forse più implicito, mi sembra di poterlo cogliere proprio tra le righe di quest’affermazione. Importante è sottolineare nel particolare contesto di «aper- tura ermetica», il fatto che l’Ermetismo rappresentasse soprattutto, come scri- ve Oreste Macrí, un «sistema dinamico di mediatori e mediazioni»7. In questa luce – e se pensiamo alla concezione dialettica hölderliniana della poesia, non- ché al fatto che Hölderlin poneva il poeta proprio come mediatore per antono- masia tra segno e mondo, tra umano e divino che a loro volta divengono segno da interpretare e traccia da tradurre – l’atto del tradurre stesso acquisisce allora connotati genuinamente poetologici. Ciò risulta ancora più evidente, se in con- siderazione delle «novità lessicali, sintattiche e metriche d’ogni genere» che l’at- tività traduttoria «per traslitterazione temperata da tentata assimilazione al ge- nio linguistico italiano» immetteva nella nostra lingua, e menzionando proprio l’esempio dello «Hölderlin di Traverso in Mario Luzi»8, Macrí dava rilievo a un ulteriore merito di Traverso, e cioè riteneva che i traduttori fossero «in qualche modo poeti», e che dovessero incidere sulla «scrittura poetica della loro genera- zione», in «versioni metriche» da lui definite come un vero e proprio «assedio ai testi da migliorare a gara con l’originale»9. Il tradurre allora si avvicina all’atto del poetare, e l’esperienza del traduttore diviene intrinsecamente poetica, si ori- gina dall’incontro con l’Altro; nel tradurre l’ignoto, grazie a tale tipo di contrap- posizione, riscopre la propria lingua, cioè tutte le potenzialità delle sue risorse ri- maste finora inespresse. Di conseguenza anche il poetare possiamo considerarlo un tradurre dall’ignoto; ce lo ricorda già lo stesso Hölderlin nella famosa lettera del 4 dicembre 1801, indirizzata al poeta e amico Casimir Ulrich Böhlendorff: «Aber das Eigene muß so gut gelernt seyn, wie das Fremde». Anche ciò che ci è proprio, deve essere appreso esattamente come quanto è estraneo, anzi, è pro-

6 M. Luzi, Il mio incontro con la poesia tedesca cit., p. 7. 7 Oreste Macrí, Il Foscolo negli scrittori italiani del Novecento, Ravenna, Longo, 1980, p. 152. 8 O. Macrí, La teoria letteraria delle generazioni, a cura di Anna Dolfi, Firenze, Franco Cesati Editore, 1995, p. 64. 9 Ivi, p. 63. IL FRUTTO NATO DA AMORE UN CONFRONTO CON HÖLDERLIN 227 prio nell’estraneo che troviamo noi stessi, la nostra originalità, se consideriamo tutta la complessa tematica hölderliniana che ruota attorno alla definizione del greco e dell’esperico10. Anche a proposito dei testi originali da migliorare, come afferma Macrí, Hölderlin si era già espresso in una lettera all’editore Friedrich Wilmans11, dove annuncia, a proposito delle sue traduzioni di Sofocle, la volontà di migliorare l’originale, «facendo risaltare l’elemento orientale» che l’arte greca ha rinnegato, «migliorando il suo errore estetico, laddove sia presente». Da un punto di vista puramente testuale quindi, Hölderlin espresse la necessità di definire la nostra originalità mediante quella estranea, in un’intertestualità che espone il pre-te- sto senza pronunciarlo nell’autoreferenzialità del testo presente. Possiamo allo- ra, anche senza ulteriori discriminanti critiche, guardare al tradurre tout court, e in una «stagione forse propizia perché questi recuperi di cose di un secolo pri- ma avvenissero al meglio, più intensamente possibile»12, come atto poetico. Insomma, grazie a Traverso e alle sue traduzioni esemplari, «avviene l’incon- tro con Hölderlin»13. Luzi definisce tali traduzioni «impositive», poiché «diven- tano lingua italiana e si inseriscono nel quadro della produzione lirica o comun- que poetica italiana». A monte quindi della «poesia in atto» c’era questo lavo- ro febbrile di traduzione, che, come spiega molto opportunamente Anna Dolfi, contribuì ad una vera e propria rifondazione poetica, in quanto il testo nuovo finiva per «orientare, su una nuova lingua di traduzione, la grammatica e la sin- tassi della nuova lingua poetica»14. Questo punto, e soprattutto la forza impo- sitiva delle traduzioni, a mio parere risulterà nodale innanzitutto per quanto ri- guarda il modo poetologico che Luzi e l’Ermetismo ricevono in eredità dal poeta tedesco, e proprio grazie al peculiare metodo di tradurre di Traverso dalle fon- ti già a disposizione da noi in quegli anni15. Tale metodo consisteva nella fede-

10 Friedrich Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe, Bde. III, Herausgegeben v. Jochen Sch- midt, Deutscher Klassiker Verlag, Frankfurt am Main 1992. D’ora in avanti l’edizione critica delle opere di Hölderlin sarà indicata con la sigla StJ seguita dall’indicazione del volume e della pagina, qui StJ/III, p. 460; la natura dei greci sarebbe il patos, il fuoco, e proprio per contenerlo avrebbero sviluppato la razionalità, la sobrietà o plasticità che noi apprezziamo nella loro arte, ma allontanandosi dalla propria natura; noi occidentali ci muoviamo nel senso opposto, dalla nostra natura sobria verso il patos. L’equilibrio, la misura (Maas) sempre ricercata dal poeta svevo, la vediamo dipendere da quella ricettività della materia (estranea) in cui lo spirito della contemporaneità parla nel discorso greco, e questi, viceversa, ci restituisce nell’estraneità del suo la voce più nostra. 11 Ivi, p. 468; lettera del 28 settembre 1803. 12 M. Luzi, Il mio incontro con la poesia tedesca cit., p. 6. 13 Ivi, p. 9. 14 Anna Dolfi, Una comparatistica fatta prassi. Traduzione e vocazione europea nella terza ge- nerazione, in Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, Roma, Bulzoni, 2004, [pp. 113-137], p. 118. 15 Hölderlin fu riscoperto, anzi, ritradotto nel nostro paese intorno agli anni venti, sulla scia della prima grande e sistematica edizione storico-critica curata da Norbert von Hellingrath. Importante fu la ricezione da parte del «Leonardo» e dei suoi fondatori Giuseppe Prezzolini e 228 Alberto Ricci le trasposizione della difficile e ritmica sintassi hölderliniana, fatta di improvvi- se e illuminanti spezzature, cosa che ad esempio non sempre riesce all’eccellente Giorgio Vigolo16. Oreste Macrí, in La Traduzione poetica negli anni trenta, lo de- finisce «ricalco», evidenziandone «il criterio attivo del minimo possibile differen- ziale e dissimilatorio fra traduzione e originale»17. Luzi sottolinea come proprio grazie alle traduzioni sia giunto a noi «quello spirito, quel vento, il vento voglio dire delle origini romantiche, che ancora informano la speculazione poetica di tutto il nostro secolo» che «creava veramente un clima, immetteva in una cor- rente viva, […] un circuito che avrebbe veramente contato, […] fondamentale e fondante»18. Ma tale importante retaggio non consisteva solo di materia spi- rituale, cioè di qualcosa d’impalpabile e mai definibile fino in fondo, se è vero che possedeva un’«incidenza […] tanto forte che non è paragonabile con quella di altri contributi»19, che anzi «ci risucchiava dentro la genesi intellettiva e etica della poesia moderna»20. Si trattava, più concretamente, sempre secondo Luzi, per quella fase che veniva definita Ermetismo, di «una ricerca molto intensa di recupero di intensità e di sintesi nel linguaggio della poesia», ma soprattutto – e proprio questo è il nocciolo di quella nuova modalità dello spirito – «un ap- profondimento dei procedimenti tipicamente lirici»21. Nel solco di queste affer- mazioni, vorrei evidenziare alcuni punti in comune tra i due autori, indicando come proprio attraverso il particolare lavoro di traduzione dell’amico Traverso, quello della quasi fedele trasposizione, ciò che Luzi definisce come «procedi- menti tipicamente lirici», ovvero la struttura stessa del procedere poetico höl- derliniano, sia stato progressivamente assimilato da quello luziano ed ermetico22.

Giovanni Papini, che grazie ai rapporti con lo studioso Jakob Eberts e soprattutto l’editore Eugen Diedrichs riuscirono ad avvicinare Hölderlin e la letteratura tedesca alla nostra. Quest’ultimo nel proprio catalogo possedeva tre volumi delle opere hölderliniane di cui una copia circolava anche già a Firenze. Dal 1922 in poi il nome di Hölderlin iniziò a comparire, insieme a quello di Nietzsche, anche nella «Ronda», grazie al colto e poliglotta Maurizio Korach, che, grazie a diretti contatti in Germania, riuscì ad effettuare traduzioni dei testi originali in italiano. Note sono le versioni di un Lorenzo Bianchi, ad esempio, o di un Italo Maione, ma soprattutto dopo quelle di Gianfranco Contini incontrarono il favore di Ungaretti, mediatore culturale dal 1925 al 1929, per conto della rivista francese «Commerce», nonché rappresentante per l’Italia della «NRF», che a sua volta pubblicò testi di Hölderlin tradotti direttamente dall’edizione di Hellingrath. Le tra- duzioni che seguirono, a partire dagli anni 30, da parte di intellettuali di grande spessore, come Vincenzo Errante, Giorgio Vigolo, e, primo tra tutti, Leone Traverso, rappresentarono la con- sacrazione definitiva in Italia del poeta (cfr. G. Cordibella, Hölderlin in Italia cit., pp. 83-148). 16 Ivi, p. 185. 17 O. Macrí, La traduzione poetica negli anni trenta (e seguenti), in O. Macrí, La vita della parola. Da Betocchi a Tentori, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2002, p. 50. 18 M. Luzi, Il mio incontro con la poesia tedesca cit., p. 6. 19 Ivi, p. 10. 20 Ivi, p. 11. 21 Ivi, p. 9. 22 Cfr testi teorici come Über religion (Sulla Religione), Urtheil und Sein (Giudizio ed Essere), Das untergehende Vaterland (Il divenire nel trapassare), Die Verfahrungsweise des poetischen Geistes IL FRUTTO NATO DA AMORE UN CONFRONTO CON HÖLDERLIN 229

La contrapposizione armonica, o l’«armonicamente opposto», è il modello polare o la categoria centrale della speculazione poetica con cui Hölderlin pen- sava di poter riafferrare l’unità di un mondo ormai scisso è frammentato. La nostra stessa coscienza del mondo sorge per il poeta dal reciproco rapporto di due principi, quello spirituale e quello materiale, che si determinano e si com- pletano vicendevolmente in un’unità percepibile unicamente nell’interazione dialettica dei due poli. Egli, e perché ciò si produca, concepisce il linguaggio necessariamente in modo strutturale, si evince dalle stesse poesie; ma per strut- tura in questo caso non si intende tanto i rapporti che intercorrono tra le pa- role o i singoli versi che le compongono, quanto più in generale il nesso di un reciproco rapporto tra due contrapposte sfere. Nell’iperbolicità di tale nesso si crea uno spazio ulteriore, una dimensione unitaria che asseconda la metamor- fosi ed in cui la frammentarietà del mondo può di nuovo essere provvisoria- mente accolta e sentita. Il fatto che in Hölderlin convivessero il poeta ed il fi- losofo è ormai risaputo e accettato, come quindi anche quello che avesse forni- to, nei suoi cosiddetti scritti teorici, la tangibile rappresentazione di una conce- zione del linguaggio fondata sulla dialettica di cui sopra, sempre presente nella strutturazione concreta «triadica» dei suoi testi, soprattutto degli inni, gli «ul- timi inni»23, quelli appunto mirabilmente tradotti da Traverso, a partire alme- no dal paradigmatico Wie wenn am Feiertage (Come al giorno di Festa)24. Più concretamente si tratta, per rendere l’idea, soprattutto di sequenze strofiche, e nel caso dell’inno suddetto, di derivazione pindarica, cioè di strofa, antistrofa ed epodo, volendo di hegeliana tesi, antitesi e sintesi25, anche se in Hölderlin la concordanza metrica e tematica non corrisponde sempre allo schema AAB/ AAB delle singole parti che formano i blocchi triadici della suddivisione strofi- ca pindarica26. Quel che importa è la strutturazione dei testi, poiché il loro au- tentico significato risulta quindi dalla contrapposizione armonicamente oppo- sta, formale e materiale, delle singole parti o strofe. Quando Hölderlin parla di

(Il procedimento dello spirito poetico), o Wechsel der Töne (Alternanza dei toni). Cfr. StJ/II, nonché Hölderlin, Scritti di Estetica, a cura di Riccardo Ruschi, Milano, SE, 2004. 23 Friedrich Hölderlin, Inni e frammenti, a cura di Leone Traverso, Firenze, Vallecchi, 1974. 24 StJ/I, pp. 239. 25 Cfr. Ernst Cassirer, Hölderlin e l’idealismo tedesco, a cura di Andrea Mecacci, Roma, Don- zelli, 2000; Cassirer riprende il problema del rapporto di Hölderlin con l’idealismo tedesco in due conferenze tenute a Berlino nel gennaio 1918. Egli sottolinea il valore filosofico dell’amicizia con Schelling ed Hegel, e distingue tra la dialettica hegeliana e quella di Hölderlin, cioè la dialet- tica del concetto hegeliana che possiede una logica affascinante, e quella hölderliniana del senti- mento. Si può dire che la differenza principale tra la hegeliana filosofia dello spirito, e la poesia dello spirito di Hölderlin, è si la dialettica del concetto, nel primo, e quella del sentire, nel secondo, ma nel procedere armonicamente opposto dello spirito hölderliniano, vi troviamo tuttavia entrambi, ovvero la verità dello spirito comprende, rientra indissolubilmente in entrambi i modi. In questo senso concreto, e al contempo ossimorico, consiste il particolare tipo di idealismo hölderliniano. 26 Cfr. a tale riguardo il fondamentale saggio: Seifert Albrecht, Untersuchungen zu Hölderlins Pindar-Rezeption, München, Fink, 1982. 230 Alberto Ricci significato, lo intende proprio come metafora che ne rappresenta la manifesta- zione spiritual-materiale, in tale polarità rispecchiante di conseguenza la strut- tura stessa del nostro modo di cogliere e conoscere il mondo. In questo senso, nella prefazione alla raccolta Onore del vero, Traverso, con esplicito riferimento alla Tonlehre, l’alternanza dei toni hölderliniana, definisce quella di Luzi «una poesia […] organica, che, ove occorra, sa alternare nel corso di una stessa com- posizione toni e ritmi come nei “tempi” variati di una sinfonia […]. Basta un verso per passare – come avrebbe detto Hölderlin – dall’idillico all’eroico»27, come riprova della profonda conoscenza del suo specifico procedimento poe- tico da parte del traduttore, e quindi delle fonti teoretiche del poeta. Molti sa- rebbero gli esempi da citare nelle prime prove poetiche La Barca e Avvento not- turno, quelle più propriamente ermetiche, a lato delle soluzioni stilistiche ti- piche del simbolismo internazionale, dove Luzi organizza i testi in partizioni strofiche e ritmiche omogenee; a una scansione strofica più varia in questo sen- so si assiste nelle liriche delle raccolte seguenti28. Vorrei ricordare a tale riguar- do anche quanto negli anni 50 scrisse l’amico Piero Bigongiari sul calcolo del «ritmo triadico» che sottende la dialettica vitale del poema nel suo procede- re attraverso la sfera materiale e spirituale, rivelando una profonda conoscenza dei problemi poetologici che assillavano Hölderlin, nel suo importante saggio Hölderlin e noi29. Sia come poeta e sia come pensatore Hölderlin ha tracciato un cammino volto a comprendere la realtà come linguaggio, e anzi, il linguag- gio stesso degli uomini come derivante da quello onnicomprensivo della na- tura, come recitano sempre i famosi versi di Wie wenn am Feiertage30. Proprio questo fattore, credo, ed in quel frangente storico, siamo negli anni Trenta e Quaranta, rendeva il poeta svevo così congeniale al discorso ermetico. Lo stes-

27 Anna Panicali, Una «purissima e antica amicizia». Lettere di Mario Luzi a Leone Traverso 1936-1966, a cura di Anna Panicali, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2003, p. 93. Il concetto di «alternanza dei toni», come vedremo in seguito, è alla base dell’impianto poetico hölderliniano ed è posto come modalità dello stesso operare poetico. Si tratta sostanzialmente dell’articolata successione, paragonabile alla dialettica hegeliana di tesi, antitesi e sintesi, dei tre toni, ideale, eroico e naturale o ingenuo, secondo i corrispondenti generi poetici, il lirico, il tragico e l’epico o naturale. Il «rovesciamento» si produce al quarto tono e permette il ritorno al tono iniziale. I tre generi, a loro volta, sono strettamente interdipendenti, in quanto ciascuno presenta gli stessi elementi degli altri due, ma solo in una combinazione e in una misura diverse, trovando il loro compimento solo in una espressione mista. Ciò che viene definito come «significato» (tono/spiri- to) e «apparenza» (genere/forma) si combina ogni volta nel rapporto tra «tono» ed «espressione» (F. Hölderlin, Scritti di Estetica cit., p. 189). 28 Cfr. l’introduzione in Mario Luzi, L’opera poetica, a cura e con un saggio introduttivo di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, 2001. 29 Piero Bigongiari, Hölderlin e noi, in Poesia italiana del Novecento. Da Ungaretti alla terza generazione, Milano, Il Saggiatore, 1980, II, pp. 453. 30 StJ/II, p. 239: «Coloro che non un unico maestro, che meravigliosa / Onnipresente educa in lieve abbraccio / La potente, divinamente bella Natura». Vedi anche F. Hölderlin, Scritti di Estetica cit., nonché: Gaier Ulrich, Der gesetzliche Kalkül. Hölderlins Dichtungslehre, Tübingen, Niemeyer, 1962. IL FRUTTO NATO DA AMORE UN CONFRONTO CON HÖLDERLIN 231 so Luzi ammette d’altra parte il suo debito anche nei confronti della filosofia romantica della natura, cioè l’idealismo tedesco:

[…] era un momento in cui filosofia e poesia si fondevano, in un’invenzione e ricognizione del mondo in senso totale; quando parli di Novalis, non sai più dove finisce il poeta e comincia il filosofo, lo stesso con Hölderlin; e natural- mente poi c’è anche Hegel, c’è Fichte, Schelling, è un momento in cui coesi- stono e si fondono veramente queste pulsioni. Se rileggo le lettere giovanili di Hölderlin vedo che è lui che ha dato il la a Hegel, anche nel sistema31.

Fu tale particolare «sistema» dialettico, che secondo Luzi ha determinato per- sino quello hegeliano, a venire progressivamente assimilato e inteso dalla no- stra poesia. Mediante, lo ripeto, le importanti traduzioni di Traverso, unitamen- te a tutte le altre già in circolazione – pensiamo ancora principalmente a quelle di Vigolo, uscite sempre a partire dalla metà dello stesso decennio32 –, il movi- mento di fondo armonicamente opposto configurò le concrete basi di una nuova e al contempo ritrovata dialettica poetica, di cui ad esempio Silvio Ramat sot- tolinea la «forza di sintesi»33. Qual’era allora il senso di tali «procedimenti» ermetici, del rinnovato pro- cedere? Una plausibile risposta potrebbe essere: quello di ricreare la forza sin- tetica di una coscienza unitaria del mondo attraverso il linguaggio poetico. In un suo articolo, intitolato Tutto in questione, apparso negli anni 50 su «La Chimera», ripreso poi negli anni ’60 nel saggio intitolato Dubbi sul realismo poetico, Luzi vede proprio in tale «forza di sintesi» addirittura l’unica giustifica- zione e probabilità di sopravvivenza della poesia in un mondo «perduto dietro gli episodi, scisso» e bisognoso di unità, poiché «la vita psichica e la vita orga- nizzata degli uomini di oggi è estremamente frammentaria», quindi spaccata in un’oggettività e una soggettività quasi irrimediabilmente divise l’una dall’altra, e quindi la «grande avventura della poesia moderna consiste infatti nel tentati- vo di ricostruire mediante il linguaggio quell’unità che il mondo ideale, prati- co, espressivo degli uomini aveva perduto»34. Se teniamo allora presente quan- to Hölderlin già annuncia nella famosa e fondamentale lettera del 24 febbraio 1796 all’amico e filosofo Immanuel Niethammer35, ovverosia di voler ricom- porre, con una progettata serie di «Lettere filosofiche», la moderna scissione, di «sospendere il contrasto tra soggetto e oggetto», mediante un «principio» in

31 Mario Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio, Milano, Garzanti, 1999, p. 61. 32 In coda al suo esaustivo saggio introduttivo all’edizione delle Poesie, Torino, Einaudi, 1963, leggiamo che lo Hyperion (2 libri) e tratti anche dell’Empedokles, iniziò a tradurli nel 1931, proseguendo con le Odi, le Elegie e gli Inni. Alcune delle traduzioni vennero pubblicate da vari periodici, dal 1935 al 1946. Si veda anche G. Cordibella, Hölderlin in Italia cit., p. 157. 33 S. Ramat, L’Ermetismo cit., p. 384. 34 M. Luzi, Tutto in questione, in Dubbi sul realismo poetico, Firenze, Vallecchi, 1965, p. 27. 35 StJ/III, p. 225. 232 Alberto Ricci grado di annullare tale opposizione, si comprende allora l’insita e intima com- patibilità della lirica hölderliniana con quella in via di definizione degli erme- tici, e nonostante in tempi e luoghi storici distanti, ma in sostanza non trop- po dissimili, se si prende atto anche del fatto che entrambe sono figlie di uno sconvolgimento epocale, nonché di un medesimo anelito ad una nuova aper- tura coscienziale al mondo. Entrambe le poetiche iniziano quindi a parlare a partire da una precisa ur- genza, in un momento in cui si fa pressante la ricostruzione di un mondo dalle macerie di una totalità perduta. Interessante è al riguardo anche come Traverso inquadrasse l’orizzonte letterario romantico-simbolista dell’ermetismo, la sua apertura europea, in una prospettiva storiografica che ne considerasse la ciclica ricorrenza categoriale, se ermetica era per lui «tutta la poesia moderna». Hölderlin venne riconosciuto anche per questo, nella Firenze di quegli anni, «come un cen- trale archetipo», in un paese in ginocchio ed in un momento in cui la poesia ita- liana tentava di staccarsi da un retaggio che sentiva superato36. Nel segno dell’apertura europeistica, ovvero del rinnovato dialogo col mon- do da parte del soggetto poetante, Giancarlo Quiriconi37 ad esempio inquadra- va, e alla luce dell’opera di Luzi, l’esperienza ermetica a partire dalla ormai radi- cata difficoltà di un’intera tradizione poetica che aveva assimilato l’identità ne- gativa petrarchesca, vale a dire «l’impossibilità stessa di uscire dal chiuso orgo- glioso di un io disintegrato dal reale ed alienato da ogni rapporto sincero con la natura, per inserirsi completamente nel ritmo vitale». Il «petrarchismo», spiega Luzi, «si era fatto sentire in varie forme come la linea portante della lirica italia- na», e ora, l’esperienza «basilare della guerra», continua, «della messa in discus- sione delle sorti umane, ha fatto rinascere questo senso di prova […] universa- le, […] quest’attenzione all’esperienza collettiva dell’umanità»38. Quiriconi esa- mina e sviluppa quanto già Luzi, nel suo saggio L’inferno e il limbo39, aveva ben evidenziato, vedendo nella linea dantesca, rispetto a una visione della realtà in- teramente negativa del Petrarca, quella possibilità di speranza ulteriore che un polo paradisiaco, antitetico a quello infernale, offrirebbe, traducendosi quindi nell’opportunità per il poeta moderno di poter rivolgere nuovamente l’attenzio- ne alle cose di un mondo ridotto in macerie, di poter instaurare con esse, per- ché possano di nuovo parlare40, un dialogo. In tale «contrapposizione armoni-

36 G. Cordibella, Hölderlin in Italia. La ricezione letteraria cit., p. 163. 37 Col suo arduo tentativo di porsi «su quel côté ben determinato e in qualche modo unico che da Dante giungeva direttamente a Rebora e Campana», bypassando così in un sol colpo una grande arteria della nostra lirica contemporanea (Giancarlo Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi. La scommessa totale di Mario Luzi, Bologna, Cappelli, 1980, pp. 11). 38 M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio cit., p. 65. 39 M. Luzi, L’inferno e il limbo, Milano, Il saggiatore, 1964, pp. 16-25. 40 Luciano Anceschi parla a tale proposito di «ricchezza metaforica del negativo» (L. An- ceschi, Lirica del novecento, Introduzione, Firenze, Vallecchi, 1953, p. XCIX); lo stesso Luzi, in Leopardi nel secolo che gli succede, scrive: «tutta la poesia italiana è stata dopo Petrarca privata IL FRUTTO NATO DA AMORE UN CONFRONTO CON HÖLDERLIN 233 camente opposta»41 – per dirlo ancora con parole hölderliniane – o predisposi- zione, nella nostra poesia contemporanea, ad un rinnovato confronto dialettico con la realtà, insieme quindi a una mutata e più «fisica»42 percezione delle cose, si iscriveva anche la parabola dell’io hölderliniano, l’io di quel particolare fran- gente storico idealistico e rivoluzionario, impegnato a ricomporre la frattura tra uomo e mondo, spirito e materia, che l’illuminismo ed i postulati kantiani ave- vano definitivamente sancito. Conviene qui segnalare la lettera giovanile del 26 gennaio 1795, una di quelle che Luzi aveva certamente letto43, indirizzata all’a- mico Hegel, dove emerge esattamente la problematica di una visione egocentri- ca del mondo che in sostanza aveva abolito una connessione del destino indivi- duale a quello collettivo. In questo caso il poeta svevo critica la filosofia fichtia- na, che a sua volta tentò un superamento della linea tracciata da Kant tra mon- do sensibile e mondo intelligibile:

Le pagine speculative di Fichte – fondamento dell’intera dottrina della scienza – come le sue lezioni sulla missione del dotto ti interesseranno parecchio. […] il suo io assoluto […] contiene tutta la realtà; è tutto, e fuori di lui non c’è nulla; dunque per questo io assoluto non c’è alcun oggetto, perché altrimenti non sarebbe in lui tutta la realtà; ma una coscienza senza oggetto non è pensabile, e se io stesso sono questo oggetto, allora io sono in quanto tale necessariamente limitato, esso sarebbe solamente nel tempo, dunque non assoluto; quindi nell’io assoluto nessuna coscienza è pensabile, e fintantoché io non ho alcuna coscien- za, finché io sono (per me) nulla, allora l’io assoluto è (per me) nulla44.

Questo, al di là dell’approfondimento che meriterebbe la questione, mostra quanto fortemente la problematica frattura tra oggettività e soggettività occu- passe il poeta svevo; scissione che doveva essere appianata nella coscienza me- diante un nuovo linguaggio poetico in cui appunto la forza sintetica, ciò che in sostanza sia Hölderlin che Luzi definiscono comeamore , potesse, mediante pro- cedimenti lirici, concretamente manifestarsi in un effetto estetico. Il culmine di

dell’orgoglio della scoperta, dei contatti più freschi e magari più bruschi dell’anima con le circo- stanze episodiche della vita» (in «L’Approdo Letterario», marzo 1973, 61, p. 8). 41 Cfr. a tale riguardo lo scritto teorico Sul procedimento dello spirito poetico: «[…] egli [il poeta] può aspirare a riconoscere l’unità nell’armonicamente opposto solo per il fatto che nella sua sfera, da cui può astrarre tanto poco quanto l’uomo soggettivo può astrarre dalla sua sfera soggettiva, egli procede nello stesso modo in cui questi procede nella propria. È posto nella sua sfera come nell’armonicamente opposto […]». StJ/II, p. 544 (Hölderlin, Scritti di Estetica cit., p. 114); Cfr. anche StJ/III, p. 368 (Lettera del 3 luglio 1799 all’amico Neuffer). 42 Luzi, fin dalla sua prima raccolta La Barca, metteva in evidenza (i corsivi sono nostri) che era fiero d’aver «cominciato a scrivere così, da ciò che realmente sentivo, da questa fisica perfetta» (G. Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi cit., p. 64). 43 Cfr. alla n. 16. 44 StJ/III, p. 176. 234 Alberto Ricci tale movimento dialettico è rappresentato nell’inno Wie wenn am Feiertage45 – testo, come già accennato, capitale, scelto tra l’altro da Heidegger per illustrare l’essenza della poesia in vari suoi discorsi, dopo quello tenuto proprio a Roma nel ’3646 – come la nascita stessa del canto dall’anima del poeta. Ecco come la scintilla della creazione è stata tradotta da Traverso: «Sì che, a volo colpita [l’a- nima], familiare / Da lungo tempo all’infinito, trema / Del ricordo, e acceso al santo raggio / Il frutto nato d’amore, opera d’uomini e dèi, / Il canto, che te- stimonii d’entrambi, a lei matura47». L’effetto straniante ed ossimorico che pro- mana da questi versi è esso stesso il risultato del loro procedere armonico ed al contempo opposto. Il frutto nato dall’amore è dunque canto e testimonianza in- sieme dell’essere e dell’esistere, del divino e della mutevole coscienza del divino, oggettività e soggettività indivise, e al contempo reciprocamente distinte, in una sensazione che ingloba tutti gli opposti. I seguenti versi, tratti dalla poesia L’alta, la cupa fiamma ricade su di te di Quaderno Gotico, dedicato proprio all’amore, come indica lo stesso Luzi nella nota di presentazione all’edizione del ’47, mol- to bene illustrano tale cangiante e al contempo equilibrata misura degli oppo- sti, in quanto nuova tensione, e ritrovata speranza dopo la tragedia bellica, ver- so il mondo, oscillante tra emozioni sempre in contrasto: «Così spira ed aleggia nell’anima veemente / un desiderio prossimo a sgomento, / una speranza simile a paura […] / Assunto nella gelida misura delle statue, / tutto ciò che appariva ormai perfetto / si scioglie e si rianima […]»48. Mario Specchio, nel corso della sua intervista, ricorda i versi appena citati a Luzi, asserendo che a suo parere non solo sono la chiave di lettura del Quaderno, ma in generale del suo sentimento dell’amore; sentimento che Luzi a sua volta gli tratteggia come «un evento così impetuoso, grande, universale, che comunica una febbrilità, una esaltazione pro- prio, e nello stesso tempo anche il senso del nostro limite, il senso un po’ tragi- co del nostro limite», paragonandolo addirittura «all’illimitato che si rovescia» sulla nostra limitatezza, e «ti proietta proprio dove sembra che il mondo si fab- brichi continuamente, in una specie di fervore», aggiungendo che rappresenta «l’unico momento che veramente ha voce in capitolo nella mia considerazione, nella mia speculazione»49. In Luzi, non meno che in Hölderlin, l’atto linguisti- co stesso diviene gesto onto-semiologico d’amore verso il mondo, un aprirsi e mescolarsi vieppiù ad una realtà circostante mutata e mutevole, se, come spie- ga sempre a Specchio, «uno scrittore, un poeta, entra nella sua lingua, […] e la

45 „Daß schnellbetroffen sie, Unendlichem / Bekannt seit langer Zeit, von Erinnerung / Erbebt, und ihr, von heiligem Stral entzündet / Die Frucht in Liebe geboren, der Götter und Menschen Werk / Der Gesang, damit er beiden zeuge, glükt“ (StJ/I, p. 240). 46 Martin Heidegger, La poesia di Hölderlin, a cura di Friedrich-Wilhelm von Herrmann. Edizione italiana a cura di Leonardo Amoroso, Milano, Adelphi, 2007. 47 F. Hölderlin, Inni e frammenti, a cura di Leone Traverso cit., pp. 13. 48 M. Luzi, L’opera poetica cit., pp. 133. 49 M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio cit., p. 42. IL FRUTTO NATO DA AMORE UN CONFRONTO CON HÖLDERLIN 235 invade tutta, se ne fa invadere allo stesso tempo, se ne fa permeare […]»50, o al- trove, con parole ancora più suggestive: «Io ho lasciato agire proprio la dinami- ca interna del discorso, della lingua, che naturalmente seguiva la dinamica an- che della mia persona fisica e civile che era sempre più mescolata alle cose», ag- giungendo inoltre che essa «nel suo riaffiorare anche da forme o da reminiscenze imprevedibili si porta dietro un tasso di realtà, un mondo che pure è presente, è compresente con altri»51. La scrittura diviene il veicolo mediante il quale l’io può trascendersi e dialogare col mondo, anzi la scrittura in tal modo, come nel poeta svevo, pensiamo ai celebri versi di Andenken (Ricordo)52, fonda mondo, ne diviene la traccia che lo attraversa, calata nell’istante quotidiano, in ogni istante, teso tra prima e dopo, morte e rinascita quali costanti esistenziali di «quel vero che prima di brillare nella sua chiarezza irreversibile», riassume magistralmen- te Ramat, «è nella tortura immanente delle cose»53. Vengono in mente i versi di Epifania, testo che inaugura la terza sezione di Onore del vero54, «acre, il tempo finito sgrana i germi / del nuovo, dell’intatto, e a te che vai / persona semiviva tra due gorghi / tra passato e avvenire giunge al cuore / la freccia dell’anno…». Dalla difficoltà o impedimento cui è sottoposto il meccanismo dialettico nello scontro/confronto con la materia del mondo, scaturisce anche e necessariamen- te, come apprendiamo da Macrí, e dallo stesso Luzi, descrivendo la forza sin- tetica e cosmica dell’amore, un senso del limite. Macrí altrove parla dell’amo- re come «l’elemento concreto di un rapporto nel quale in concreto non è dato il termine di riferimento»55, e dal quale emerge proprio il senso «istituzionale» della forma poetica, «di fronte all’altro e al non-essere […]», Hölderlin direbbe l’informe, l’aorgico, «come assunzione simbolica dell’esistente di fronte al suo stesso enorme residuo non significato», problema che emergerebbe, sempre se- condo Macrí, soprattutto a partire dall’impostazione teoretica della raccolta Un brindisi56. Traverso, in una recensione pubblicata su «La Nazione» il 27 novem- bre 1940, nel definire la poesia di Luzi parla proprio di «una misura che sem- bra dono d’equilibrio costitutivo […] risultato di un confronto costante tra sé e il mondo, armonia di rapporti tra essenze rivelate negli aspetti perpetuamen- te mutevoli dell’attimo»57. Si tratta però di un ordine, di un equilibrio sempre da ristabilire. Anche il particolare tipo di idealismo hölderliniano, individua la difficoltà maggiore proprio nella misura da tenere ogni volta tra quanto attie-

50 Ivi, p. 261. 51 Ivi, p. 153. 52 «Ciò che rimane però, fondano i poeti» (Was bleibet aber, stiften die Dichter). StJ/I, p. 362, nonché pp. 1013. 53 S. Ramat, L’Ermetismo cit., p. 51. 54 M. Luzi, L’opera poetica cit., p. 241. 55 S. Ramat, L’Ermetismo cit., p. 98. 56 Ivi, p. 322. 57 A. Panicali, Una «purissima e antica amicizia» cit., p. 85. 236 Alberto Ricci ne allo spirituale e quanto al materiale, nel calcolo del ritmo triadico, che sot- tende il poema nel suo procedere attraverso le due sfere, le quali non si posseg- gono mai interamente, essendo complementari e dipendenti l’una dall’altra58. Fare poesia è sì un aprirsi grato al mondo, un graduale mescolarsi alle cose, un accogliere gioia, ma anche pena dell’esistere, anche immanente tortura, re- sistenza materiale e spirituale, pericolo di eccesso, di adialettico sconfinamen- to in entrambe le direzioni, e quindi ricerca di un equilibrio, una misura, ein Maas59, concetto di fondamentale importanza nella poetica hölderliniana, che sta alla base del suo stesso procedere e movimento. In una lettera del 16 giugno del ’38 di Luzi all’amico Traverso, il primo, a proposito di alcuni suggerimenti per delle traduzioni richiestigli da quest’ultimo, molto significativamente scrive che «bisognerebbe azzeccare un verbo che indicasse il tormento fosforescente di una materia suscitabile spiritualmente»60. In Luzi e negli ermetici era presente e viva questa spinta verso il mondo, questo problematico attrito con una real- tà materica da rinominare. Ne parla anche Ramat, e proprio in apertura del suo fondamentale saggio L’ermetismo61, indicando la «resistenza che la materia sorda dell’uomo frammette alla penetrabilità di quel circuito» che si stabilisce dialet- ticamente tra gli opposti. Hölderlin, nell’inno Der Einzige (L’unico), formula il problema con i versi seguenti: «Ma a uno solo è avvinto / L’amore. Questa vol- ta / Infatti troppo dal proprio cuore / Il canto è sgorgato, / Ma riparare inten- do / All’errore, col prossimo / Quando altri canterò ancora. / Mai colgo, come vorrei, / La misura. […]»62. Se dunque la chiusura narcisistica al mondo genera come contropartita un’onnipotenza che si sostituisce a qualsiasi oggetto facendosi mondo, vanifi- cando però una qualsivoglia coscienza del mondo, di contro l’apertura all’infi- nità di quest’ultimo segna un limite paradossale a partire dal quale può gene- rarsi però la coscienza di esso e della sua infinità. Per Hölderlin è questa l’estre- ma sintesi delle due opposte tendenze insite nell’uomo. L’amore è allora insie- me fondamento relazionale e principio equilibrante di queste opposte tenden- ze, i due ideali dell’essere, che il poeta, nel Fragment von Hyperion63 – la tradu- zione del romanzo epistolare era tra l’altro già in circolazione in quegli anni64 – indica con la sentenza inscritta sulla tomba di Ignazio di Loyola, il fondatore

58 Cfr. soprattutto Űber die Verfahrungsweise des poetischen Geistes (Sul procedimento dello spirito poetico). StJ/II, pp. 527. 59 Cfr. Elena Polledri, «…immer bestehet ein Maas». Der Begriff des Maßes in Hölderlins Werk, Würzburg, Königshausen & Neumann, 2002. 60 A. Panicali, Una «purissima e antica amicizia» cit., p. 33. 61 S. Ramat, L’Ermetismo cit., p. 1. 62 «Diesesmal / Ist nemlich vom eigenen Herzen / Zu sehr gegangen der Gesang, / Gut will ich aber machen / Den Fehl, mit nächstem / Wenn ich noch andere singe. / Nie treff ich, wie ich wünsche, / Das Maas» (StJ/I, p. 346). 63 StJ/II, p. 177. 64 Cfr. alla n. 15. IL FRUTTO NATO DA AMORE UN CONFRONTO CON HÖLDERLIN 237 della Compagnia di Gesù: «Non coerceri maximo, contineri tamen a minimo», e cioè che volentieri l’uomo vorrebbe essere in tutto, e al contempo al di sopra di tutto. Le direzioni essenziali dell’essere vengono individuate da Hölderlin, si legge nel Frammento, nel reciproco accordo, da un lato, tra tutto ciò che in noi risulta spontaneo e naturale, e, dall’altro, tra quanto possiamo raggiungere gra- zie al nostro intervento volontario, quindi in uno stato di completa formazio- ne. Nel poeta svevo tutto ciò non indica alcuna trascendenza, ma piuttosto un panteistico misticismo «della completa immanenza», osserva, riferendosi al ro- manticismo in toto, opportunamente Ramat, che tra l’altro contrassegna molta poesia ermetica65. L’amore così inteso rappresenta quindi il reale momento sin- tetico di unità e opposizione tra i due ideali o forze opposte in una dimensione estetica ed estatica, e sta sempre al fondo dell’ideale rappresentazione poietica. L’armonia è di conseguenza data dalla compresenza delle differenze nell’unità, poetica, aggiungerei. Il contenuto di questi due stati, posti all’estremità dell’es- sere, vengono uniti, si legge sempre nel Fragment66, dalla traiettoria eccentrica, la «exzentrische Bahn», che definirei il limite, di cui si parlava sopra, o il legame evolutivo che riflette l’entità del nostro intervento attivo (soggettivo) sulla ma- teria già data (oggettiva), determinando di volta in volta la misura o l’equilibrio tra i due estremi o sfere. Ogni autentica rappresentazione poetica del mondo nasce dalla perenne evoluzione della misura di tale limite, che è anche in Luzi, almeno nel Luzi di quegli anni, il limite reale della propria poesia. Le diverse stesure del romanzo epistolare di Hölderlin, ma anche gran parte dei testi poe- tici continuamente riveduti dal poeta svevo67, insieme a quelli teorici, possono inoltre essere a giusta ragione considerati il prodotto di tale ricerca del limite, della giusta misura tra il «mondo nel mondo» ed il «mondo di tutti i mondi»68.

65 S. Ramat, L’Ermetismo cit., p. 329. Cfr. anche Vivetta Vivarelli, Europeismo e terza genera- zione. La lirica tedesca tra retroterra orfico e tensione metafisica, in Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento cit. [pp. 323-355], p. 346. 66 Ivi, p. 177. 67 Quello di Hölderlin può essere definito unwork in progress. Peter Szondi rilevò nella produzione poetica hölderliniana una preminenza sostanziale del genere innico, e questo no- nostante le più numerose odi ed elegie che fin dagli inizi la costellano. Infatti, molte delle odi epigrammatiche scritte ad esempio durante il soggiorno a Francoforte, nota ancora Szondi, dopo il 1800 – durante il periodo quindi dei componimenti in ritmi liberi come Friedensfeier, Patmos o Der Einzige, definiti tardi inni – sono state modificate in testi più ampi, in unità superiori, che per struttura, metro e dizione si avvicinano al genere innico, si può quindi parlare piuttosto di una disposizione all’alternanza dei toni che in un certo senso avvicina, o meglio, amalgama l’in- tera produzione poetica con l’essenza espressiva di questo genere. Peter Szondi, Der andere Pfeil. Zur Entstehungsgeschichte von Hölderlins hymnischen Spätstil, Frankfurt, Insel, 1963, p. 289-290; cfr. anche Martin Vöhler – Das Hervortreten des Dichters. Zur poetischen Struktur in Hölderlins Hymnik. In: HJb 32, 2000/01, pp. 50- 68. 68 Così si esprime Hölderlin nello scritto teorico Das untergehende Vaterland (Del divenire nel trapassare). StJ/II, p. 446 (Hölderlin, Scritti di Estetica cit., p. 95). Cfr. Francesca Zugno, Hölderlin oltre Kant. Verso Hyperion (1794-1797), presentazione di Mario Ruggenini, Padova, Il Poligrafo, 2011. 238 Alberto Ricci

Allo stesso modo agisce quindi in Luzi un pensare o poetare per iperboli. Nell’intervista-fiume con Specchio, interrogato sul motivo «della perdita» e sul rischio sempre presente, nella scrittura e nella vita, «della rinuncia», che è for- se «l’unica garante di un possesso cosmico», Luzi spiega che per dare un signifi- cato alla vita, o scorgerlo in essa, «bisogna, in un certo senso, morire alla vita», inoltre, «devi anche conoscere, non puoi senza prima assentarti, assentarti dal- la vita, non puoi significarla, non puoi renderla viva attraverso l’arte se non sei morto», e questo soprattutto «vale anche nell’amore: tu puoi misurare la dispa- rità fra desiderio e felicità, solo rinunziando»69. L’apertura coscienziale ad un senso del mondo si mostra, analogamente a quello di Hölderlin, nella distan- za che rende possibile il conoscere, e grazie al limite e alla misura su cui è im- perniata la visione eccentrica o iperbolica del mondo; tale modalità di approccio viene confermata dallo stesso Luzi, se al riguardo parla di una «traiettoria del decifrabile»70, e che l’anima «si costituisce, diventa realmente anima attraverso queste dilacerate argomentazioni»71, che fanno tra l’altro pensare alla cosiddet- ta harte Fügung, il duro ritmo sincopato che struttura la tarda poesia hölderli- niana, così magistralmente riprodotta da Traverso nelle sue traduzioni, che ri- uscì a trasporne quasi fedelmente la struttura frammentaria, l’andamento para- tattico, la tramatura ellittica e le inversioni che ne caratterizzano i versi, conser- vando però il peso concentrato delle singole parole in tutta la loro pregnanza72. Anche nell’importante carteggio con Traverso – e sebbene i poeti tedeschi vengano in realtà menzionati, nonostante la loro importanza primaria, in ma- niera esplicita solo sporadicamente, come del resto anche l’intensa attività del tradurre73 – emerge in nuce tutta la problematica teoretica che segna le affini ed

69 M. Luzi, Colloquio. Un dialogo con Mario Specchio cit., p. 43. 70 Ivi, p. 34. 71 Ivi, p. 154. 72 Cfr. Giuseppe Bevilacqua, Leone Traverso traduttore di poeti tedeschi, in La traduzione dei moderni nel Veneto: Diego Valeri e Leone Traverso, Padova, Antenore, 1978, pp. 60-66. 73 La vediamo ad esempio rammentata nella lettera a Traverso da Firenze, del 22 settembre 1937: «A quando il tuo Rilke?», alludendo Luzi alla traduzione delle Elegie Duinesi; o nella se- guente, del novembre: «Aspettiamo il tuo Rilke. Carlino [Carlo Bo] mi scrive che si prepara a parlarne: e a me dispiace molto di non essere qualificato per farlo»; in quella, inviatagli sempre da Firenze, del 9 aprile 1938: «Intanto ho dato al Fronte [la rivista Il Frontespizio] il pezzo per il tuo Rilke e forse non avrai letto in vita tua una cosa così approssimativa». Si tratta della recensione di Luzi alle Elegie, come annuncerà a Traverso nella lettera successiva, del 27 maggio, uscita agli inizi dello stesso mese sulla rivista; in quella del 16 ottobre dello stesso anno Luzi si scusa per «il mio silenzio. Volevo aspettare per riferirti circa le tue belle traduzioni», le Elegie, che sarebbero uscite, insieme alla recensione, su Frontespizio, menzionando anche, alla fine della lettera, che Bonsanti, l’ex solariano, «non mi ha poi portato le tue traduzioni da Hofmannsthal che avrei visto con molto piacere»; nel dicembre, da Parma, poi leggiamo, dopo averlo incoraggiato a portare avanti il suo lavoro di traduzione, «che devo a te le mie letture forse più necessarie, qualunque sia il profitto che ne ho tratto», e che spera «di vedere presto stampato il tuo George e poi altre cose. A quando?»; nella lettera del 18 maggio del ’39 Luzi gli augura che nulla lo possa distogliere dalle sue nuove traduzioni e dagli studi, informandosi su La lettera di Lord Chandos di Hofmannsthal, IL FRUTTO NATO DA AMORE UN CONFRONTO CON HÖLDERLIN 239 iperboliche traiettorie di entrambe le poetiche, sia come dato sostanziale dell’e- pistolario tra i due, ma anche come fatto generale che andava consustanziando tutto il linguaggio ermetico, manifestandosi soprattutto, anche qui, nel modo in cui Luzi si esprime74. La sostanza specifica dell’epistolario risalta all’interno della dialettica tra materia e spirito, forma e caos, realtà e sogno, creazione e distru- zione; in quasi tutte le lettere ci sono passaggi che esprimono tale ricerca spiri- tuale sistematizzata ed iscritta nella sofferenza materica, nel circuito, aggiunge- rei, armonicamente opposto, in cui la cangiante profusione dell’esistente cer- ca di trovare un contenimento, seppur provvisorio, nella forma, nel decifrabile che ne ridefinisce ogni volta la traiettoria. Queste discordi affinità sono divenu- te vieppiù elementi costanti e fondanti la ricerca di misura, di aggiustamenti o correzioni del tiro, che sono alla base della nuova lingua in progress sempre più mescolata alle cose. Quasi subito Luzi scorge in questi tentativi, che ne esprimo- no la «forza di sintesi», come detto, l’unica sua giustificazione e probabilità di sopravvivenza in un mondo frammentato e scisso. Anzi, è proprio la coscienza della frammentazione di tale mondo che impone, perché esso possa essere rap- presentato e ripristinato in un senso unitario, seppure provvisorio, al procedere

cui lavora, e menzionando anche l’interesse dell’editore Guanda ad un’eventuale pubblicazione dell’epistolario «tra Hof e George», e «tra Schiller e Goethe»; in quella del dicembre dello stesso anno si complimenta per «le tue bellissime traduzioni di George. Bravo»; il 22 marzo del ’40 gli ricorda che attende «con ansia il tuo Hofmannsthal»; l’11 settembre dello stesso anno ha «letto una tua bellissima traduzione da Hölderlin e da Rilke»; il 19 novembre Luzi s’informa delle sue nuove versioni, vorrebbe leggere «quelle recenti da Hölderlin e da Rilke»; nel gennaio del ’43 lo ringrazia per il volume di Liriche e drammi di Hofmannsthal; in quella successiva, non datata, lo ringrazia per le Lettere da Muzot di Rilke. A. Panicali, Una «purissima e antica amicizia» cit., pp. 26-43. 74 Nel novembre del ’37 gli scrive come, nel ricordo, Padova «è rimasta in una zona affettiva che ancora non si decide ad essere memoria e neppure familiarità», di come fosse stata «una rivelazione di aspetti profondi, non pacifica eppure adesiva», e di come dalle sue «peregrinazioni apparentemente distratte» avesse tratto «forze inquietanti e indisciplinabili», forze in precario equilibrio che ricordano quelle che ad esempio Hölderlin definisce in Fondamento dell’Empedocle (Grund zum Empedokles) nel loro significato di passaggio dal caos alla legge, dall’informe alla forma, dallo stato aorgico a quello organico (StJ/II, pp. 429. F. Hölderlin, Scritti di Estetica cit., p. 86); in quella del 29 dicembre vediamo come pure l’amicizia sia concepita nel segno dell’ar- monicamente opposto se «è per raro esempio di amicizia parallela e similare, che acquistiamo una nostra continuità proprio nelle nostre qualità più discordi magari e negative»; in quella del 16 giugno 1938 leggiamo quel già citato voler «azzeccare un verbo che indicasse il tormento fosforescente di una materia suscitabile spiritualmente»; il 18 maggio del ’39 invece gli scrive: «Forse non c’è una forma che possa contenere il groviglio, la dispersione e l’oscura ricchezza di questa nostra vita; ma tutto è forma e quindi esistono innumerevoli forme appena riconquistate»; nel settembre del ’39 afferma: «Tutto potrà accadere in questa nostra “carriera” e non sarà nulla. Pure la memoria e l’immaginazione trattengono per il nostro affanno tutto quanto le mani non hanno potuto afferrare o dissolvere»; il 19 novembre del ’40 un Luzi scorato scrive all’amico che «quello che ancora si può fare, i nostri atti futuri, tutti gli atti possibili» non serviranno a esaurire «la malinconia di un solo momento», poiché si è verificata «una tale scissione tra il vivere e l’agire, una tale rottura di corrispondenze, di simboli», si tratta della lettera in cui chiede le traduzioni da Hölderlin e da Rilke (ivi, pp. 19-50). 240 Alberto Ricci lirico stesso tale assetto di perenne approssimazione, affinché, usando le sugge- stive parole di Ernst Cassirer, si dispieghi in sintonia con la «ritmica immanen- te degli eventi del mondo»75. A tale riguardo, e come ultima osservazione, noto che in Luzi, nel Luzi de La Barca fino almeno a Primizie del deserto, la stessa parola amore, nel suo va- lore sintetico e fondante, quindi teoretico o quanto meno poetologico, ricorre spesso, con una maggiore concentrazione iniziale, fino a diradarsi via via che la tendenza o la dialettica tende a coagularsi intorno ad un tu salvifico – non trascendente nel senso classico del termine, ma piuttosto di «recupero di una dimensione più aperta»76 – che in generale segna l’uscita dal dominio assoluto dell’io verso una disponibilità di colloquio col mondo. Nella Barca (1935) ri- corre per ben undici volte77, ed è posta a chiusura della sezione principale. In Avvento notturno (1940) la troviamo invece già solo cinque volte, anche nel- la nota Avorio, di attestata ascendenza hölderliniana78. Nella raccolta Un brin- disi (1946) si riduce a sole due presenze79, nel Quaderno gotico (1947) ad altre due80, e in Poesie sparse (1945-48) compare ulteriori tre volte81, per scomparire

75 Ernst Cassirer, Hölderlin e l’Idealismo tedesco, a cura di Andrea Mecacci, Roma, Donzelli, 2000, p. 84. 76 G. Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi cit., pp. 11; si ricordi il valore che per Hölderlin rivestiva la figura di Diotima, in quanto essenza stessa dell’amore: «Mi trovo in un nuovo mondo. Se finora potevo credere di sapere cosa sia bello e cosa buono, da quando lo vedo vorrei ridere di tutto il mio sapere. Al mondo esiste un’essenza presso la quale il mio spirito vorrà restare e resterà per millenni, per poi vedere ancora quanto sia scolastico tutto il nostro pensiero e il nostro comprendere al cospetto della Natura. Grazia e maestosità, e pace e vita, e spirito e anima e forma sono in quest’essere una felice unità». Lettera a Neuffer del giugno 96 in cui si riferisce a Susette Gontard, il grande amore della sua vita (StJ/III, p. 235). 77 In Serenata di Piazza D’Azeglio, v. 18 («cerca tu in quali opache / profondità l’amore»); Canto notturno per le ragazze fiorentine, v. 4 («e volate via / quaggiù non è vostro l’amore»), non- ché v. 32 (ripetizione); Lo sguardo, v. 7 («rendono la bontà, l’amore / le profonde parole senza suono»); Primavera degli orfani, v. 10 («dentro ai puerili occhi sorride / l’incolta povertà, l’amore muto»); Ragazze, v. 2 («S’inondano di dolce sofferenza / il cuore, d’un amore / nato in un tempo ignorato»); I fiumi, v. 5 («e voi in nuvole semispente / memoria, primo amore, campi lieti»); Natura, v. 16 («sì dura era la pietra, / sì acuminato l’amore»); nell’ultima sezione «Poesie diverse»: Le fanciulle di S. Niccolò, v. 7 («e soltanto l’amore ai tristi stuoli / delle donne le può trattenere»); Terrazza, v. 1 («Un giorno troppo povero d’amore / s’è spento e tace»); Copia da Ronsard, v. 5 («nei suoi petali grazia ed Amor si riposa / cospargendo i giardini e gli alberi d’odore»). 78 Nella sezione I fenomeni: in Cuma, v. 1 («Ninfe paghe di boschi, alberi, amore, / era questa la vita? Caravelle»); Avorio, v. 13 («Ma dove attingerò io la mia vita / ora che il tremebondo amore è morto?»); Bacca, v. 27 («odi Sirio portarsene via il tempo / e il fuoco dell’amore, inusitata»); nella sezione Dell’ombra: in Cimitero delle fanciulle, v. 14 («Ma l’amore? e i balconi della sera?»); Miraglio, v. 2 («Voi librate sugli indachi perversi / dei muschiosi angiporti, oasi d’amore»). 79 Nella sezione Dell’anima: in Quais, v. 12 («E di voi che sarà quando in silenzio / l’amore lascerà cadere il bianco / viso di donna inflitto al suo dolore»); Ritorno, v. 17 («i giardini d’amore vietati dal tempo»). 80 In III, v. 1 («Di nuovo gli astri d’amore traversano / lucidi sulle nostre teste opache»); XIII, v. 3 («pochi misteri infine elucidati / dall’amore, ridotti a verità»). 81 In Nulla di ciò che accade e non ha volto, v. 23 («nei luoghi ove l’amore non può giungere»); IL FRUTTO NATO DA AMORE UN CONFRONTO CON HÖLDERLIN 241 del tutto in Primizie del deserto (1952) la cui celeberrima poesia Aprile-Amore però chiude e sigilla, non a caso, l’intera raccolta. In quelle successive, ad una rapida scorsa, la frequenza appare ancora più ridotta. Cosa potrebbe significa- re questo? È come se da un’iniziale staticità definitoria, e quindi impoetica, ag- giungo, o meno poetica del termine, Luzi, nel suo tentativo di apertura e ade- renza al mondo, ne andasse progressivamente calibrando, in una continua «ap- prossimazione», il senso sintetico, reificandolo, ricostruendolo nella scrittura, o meglio, oggettivandolo nella configurazione della progressione formale e ma- teriale, fino a renderlo ritmo e «procedimento» oggettivo di una fondazione dell’essere nell’atto stesso del poetare. Rinvio a questo proposito, come esem- pio del procedere formale luziano di quel frangente, all’approfondita analisi della breve lirica, dal titolo significativo Evento, collocato nel continuum poe- tico dell’ultima sezione di Avvento notturno, dove Silvio Ramat individua, tra le due strofe di cinque versi ciascuna, una fitta rete di corrispondenze, di rela- zioni per «affinità o dissimiglianza», sapientemente ordinate, tra l’una e l’altra, in ritmi di successione differenti e opposti, triadici direi, che ne rendono per- cepibile, da un lato, la «corsa tutta spirituale», e, dall’altro, la sua stessa «appa- renza fenomenica»82. In sempre rinnovati slanci egli tenta di significare l’ine- sprimibilità dell’essere nella progressione formale diveniente della poesia, os- sia di tradurla nell’eccentricità del movimento armonicamente opposto che la sottrae a una diretta formulazione, come dire, lessicalmente inerte, come ap- punto l’abusata parola «amore», dove il significato dice semplicemente se stes- so, enuncia cioè una versione inautentica di sé, già cristallizzata in una forma morta, trapassata, non aderente alla cangiante essenza della vita, rappresentabi- le solo in tale movimento opposto di avvicendamento tra spirito e materia che media ciò che è diviso. Se Traverso rimarca nella lirica luziana proprio «quell’e- quilibrio da cui solo possono sporgere i «momenti di augusta equanimità», e durare, oltre la grazia improvvisa, a regola e conforto dei giorni più terreni»83, allora l’ultima strofa di Aprile-Amore84, posta, come detto, a chiusura della rac- colta Primizie del deserto, ne suona tanto più come un esplicito, anche se prov- visorio, riassunto dai toni programmatici:

L’amore aiuta a vivere, a durare, l’amore annulla e dà principio. E quando chi soffre o langue spera, se anche spera, che un soccorso s’annunci di lontano, è in lui, un soffio basta a suscitarlo. Questo ho imparato e dimenticato mille volte,

Lontano, più lontano della vita, v. 25 («a cercare accoglienza nell’amore»). 82 S. Ramat, L’Ermetismo cit., p. 158. 83 A. Panicali, Una «purissima e antica amicizia» cit., p. 86. 84 Luzi, L’opera poetica cit., p. 204. 242 Alberto Ricci

ora da te mi torna fatto chiaro, ora prende vivezza e verità.

La mia pena è durare oltre quest’attimo. LUZI. QUESTIONI BIBLIOGRAFICHE LA COLLABORAZIONE A «LA FIERA LETTERARIA»

Stefano Verdino

Un appuntamento mancato da questo centenario è l’avvio di una piena ricogni- zione bibliografica di un’attività così vasta, per cronologia, tipologia e sedi, come quella di Mario Luzi: settantacinque anni (1931-2005) di presenza sulla carta stam- pata più varia, con testi di vario genere, come sappiamo. Le ricostruzioni biblio- grafiche finora operate, da Marco Zulberti, da Elena Moretti, da me, sono del tut- to insufficienti; molto è ancora sommerso, né abbiamo ancora piena consapevo- lezza – solo per fare un esempio – della consistenza della collaborazione ai quo- tidiani, che è stata assai varia: «Il Nuovo Corriere» (1947-1949), «Il Popolo» (dal 1949 agli anni Sessanta), «Il Mattino dell’Italia centrale – Il giornale del Mattino» (1952-1965)1, «La Nazione» (dagli anni Cinquanta, a intermittenza), «Il Corriere della Sera» (1967-1974; poi occasionalmente e stabilmente dal 1989), «Il Giornale Nuovo» – «Il Giornale» (dal 1974 ai primi anni Novanta), «Il Messaggero» (dall’a- gosto 1987 a intermittenza), per non dire di più sporadiche collaborazioni ad «Avvenire», «L’Osservatore romano», «Il Tempo», «Il Secolo XIX», «l’Unità». Né è possibile ancora ipotizzare un regesto dei periodici, perché accanto alle note sedi (da «Frontespizio» a «Campo di Marte», da «Letteratura» all’«Approdo», da «Paragone» a «Tempo presente», dalla «Chimera» a «Officina», da «Quartiere» alla «Nuova Antologia», solo per citarne alcune), ve ne sono certe da dissoda- re (come «Il Bargello») e altre testate effimere da registrare come la fiorentina «Rivista universitaria», dove compare il suo saggio più antico, su Chateaubriand2 nell’Aprile 1933, o l’inattesa «LiberEtà», del sindacato pensionati italiani3. In questa sede mi limiterò alla ricostruzione di una voce specifica, la colla- borazione a «La Fiera Letteraria», nel dopoguerra, dal 1946, anno della sua ri-

1 Cfr. Stefano Verdino, Mario Luzi e il «Giornale del Mattino» (Con tre articoli mai raccolti), in «L’amore aiuta a vivere, a durare» – Bigongiari, Luzi, Parronchi cento anni dopo (1914-2014), a cura di Paola Baioni e Giorgio Baroni, in «Rivista di Letteratura italiana», XXXII, 2014, 3, pp. 25-35. 2 Il viaggiatore Chateaubriand, in «Rivista universitaria», I, aprile 1933-XI, 2, pp. 104-112. La rivista era diretta da Alessandro Pavolini, Renato Giampaolo, Biagio Menallo, Aurelio Pace. 3 Senza memoria non c’è futuro, in «LiberEtà», gennaio 2003, p. 5.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 244 Stefano Verdino fondazione, sotto la direzione di Angioletti, al 1968, alla fine della direzione di Manlio Cancogni (successivamente il periodico venne sospeso per due anni – 1969-1970 – ed ebbe un’ultima stagione nel 1971-1977)4. Per una ventina d’anni la collaborazione di Luzi fu occasionale5, come accadeva alla maggioranza degli scrittori del tempo, data la caratteristica da «fie- ra» della testata, con varietà di presenza, da primizie poetiche, a note critiche, a recensioni, a interventi, testimonianze e relazioni di premi (diverso il caso di Caproni, recensore stabile e anche – a un certo punto – titolare di una rubrica «Il taccuino dello svagato»). Da segnalare in questo periodo due eccezioni: una puntualizzazione a proposito di un’intervista di Corrado Torrigiani6 e l’omag- gio dedicato a Luzi nella rubrica «Galleria degli scrittori» nel 1955. L’omaggio fu curato da Leone Piccioni con i contributi di molti amici scrittori e critici7. In questo ventennio i contributi significativi e originali non sono molti e sono stati per lo più ripresi da Luzi in L’inferno e il limbo, ma merita segnalare le sintetiche risposte a Piccioni di Notizie di se stesso – che riporto integralmen- te in appendice – e un brano della relazione come Presidente del premio città di Firenze8 del 1960, in cui affiora – dopo un passaggio polemico sulla deriva spe-

4 Sul sito http://www.bibliotecaginobianco.it/?e=flip&id=13 sono consultabili 477 fascicoli dal 1946 a tutto il 1955. 5 La «Fiera» recensì puntualmente i libri di Luzi (Bo su Primizie del deserto, Caproni su Ono- re del vero, Accrocca su Il giusto della vita, ecc., vedi la bibiografia nel «Meridiano» Mondadori di L’opera poetica) e diede notizia dei suoi premi, con risalto, a partire da A Mario Luzi il premio Carducci, in «La Fiera Letteraria», VIII, 9 agosto 1953, 32, p. 1. 6 Luzi replica all’intervista di Corrado Torrigiani, Mario Luzi e i rapporti interessati uscita sulla «Fiera» il 6 dicembre 1953: «Mi vedo attribuita questa frase: “Ma non è in me il desiderio di essere ascoltato”. Frase di un romanticismo piccante, indubbiamente, ma non mia. Io devo aver detto più semplicemente questo: “Quando scrive, nell’atto di scrivere, non penso di essere ascoltato”. Ma il desiderio di essere ascoltato e anche capito, sì, c’è, anche se, come si dice nell’in- tervista, un pubblico nel senso che si dà generalmente a questa parola io non possa dire di averlo» (Una lettera di Luzi, 13 dicembre 1953). 7 interventi di: Remo Beretta, Consapevolezza di Luzi; Attilio Bertolucci, Mario a Parma; Piero Bigongiari, Mario Luzi poeta delle primizie del deserto; Carlo Bo, Un capitolo da scrivere; Giorgio Caproni, La sua musica; Giuseppe De Robertis, Un continuo parlare a sé, all’anima; Tommaso Landolfi, Biglietto per Luzi; Giorgio Orelli, Voce d’uomo solo; Alessandro Parronchi, Compagni fiorentini; Guglielmo Petroni, Poesia della realtà; Leone Piccioni, Un brindisi e il Qua- derno; Margherita M. Pieracci, Il suo atteggiamento critico; Angelo Romanò, Biografia a Ebe; Ot- tone Rosai, Un uomo, un poeta; Vittorio Sereni, Persuasiva maturità; Giacinto Spagnoletti, Mario Luzi, un’opera in armonia; Giuseppe Tedeschi, Oltre gli ermetismi; Leone Traverso, Nell’opera di Coleridge un modello congeniale; Bibliografia di Mario Luzi (a cura di Leone Piccioni). Vedi il ringraziamento di Luzi a Massimo Franciosa, allora in redazione, alla proposta dell’omaggio: «sarebbe molto bello poter avere un angolino sulla Fiera per ritrovarsi con le sette o otto persone, che portano interesse ai miei problemi; o al mio modo di sentire i problemi che sono di tutti» (cit. in Libreria Scarpignato – catalogo n. 15, secondo semestre 1998, pp. 22-23). 8 Giuria: Luzi (presidente), Armando Alessandra, Piero Bigongiari, Omero Cambi, Luigi Fallacara, Arrigo Levasti, Aldemaro Nannei, Nice Pauer, Giuseppe Zagarrio; membri d’onore: Oreste Macrí e Jorge Guillén. Sul premio vedi: Poesia e Firenze dieci anni del premio “città di Firenze”, Firenze, Quartiere, 1968 (interventi di Giuseppe Zagarrio, Gino Gerola, Giuseppe Sat- LUZI. QUESTIONI BIBLIOGRAFICHE 245 rimentale della poesia italiana9 – la parola «magma» e ben si registra, sul piano della motivazione critica ed espressiva, la svolta che stava maturando nella propria poesia, ed in particolare una stretta contiguità con le istanze di Presso il Bisenzio:

Un canzoniere, un romancero svagato e sotto sotto mordente in cui, per così dire, automaticamente si rifletta il molteplice e l’imprendibile dei nostri anni non c’è stato. Si sono soltanto moltiplicati i segni dell’ansia che spinge tanti uo- mini e tante donne a captare qualcosa di questo mondo crudelmente mutevole, ad appropriarsi qualche brano di questa vita non veramente vissuta, non vera- mente fruita che corre verso altra vita senza lasciare individuale testimonianza e senza appagare. Fenomeno malinconico, certo, ma che dobbiamo guardare senza disdegno, perché anche la strada del poeta vero e proprio oggi forse deve passare di lì, su quel magma cocente che non ha ricevuto alcun ordine prelimi- nare dalla mente, dal preconcetto. Posso infatti sbagliarmi ma a me pare che al poeta dei nostri giorni non sia possibile farsi una idea della vita se non vivendo ed esprimendo la vita. Il tempo, nel quale il poeta poteva agire al riparo di una filosofia preventiva e stabilita o protetto da un’armatura ideologica a me pare terminato. Anche mi pare terminato il tempo nel quale la personalità poteva affermarsi aprioristicamente mediante feroci esclusioni o mediante la riduzione dell’esistente ai propri modi etc. Per molte ragioni non sembra che il mondo indifferenziato di oggi nel quale il concetto più instabile e più fluido è il con- cetto di qualità, consenta al poeta di esimersi dal tuffarsi nella fonte comune delle emozioni fino a rischiare di perdervisi se non lo assiste la sua intensità, la sua profondità.

Ma una vera collaborazione si ebbe sotto la direzione di Manlio Cancogni (luglio 1967 – dicembre 1968)10, amico di vecchia data di Luzi. I suoi inter- ta, Aldemaro Nannei); Gino Gerola, Premio internazionale di poesia ‘Città di Firenze’, Bologna, Consolini, 1970. 9 «Possibile degenerazione del movimento poetico italiano, per abuso: abuso di confidenza nell’esercizio dei propri estri, abuso di obbedienza agli stimoli più transitori, abuso di esperimenti né coerenti né necessari: un po’ come quando una lunga disciplina si rompe, e si esce a caccia di avventure e di svaghi, sennonché per lo più si tratta di avventure da libera uscita, avventure da un soldo. E per quanto non ci sfuggisse il legame tra questa pratica e la crisi della personalità che è un portato del nostro tempo e dei nostri costumi, non per questo cessava di profilarsi il pericolo di una proliferazione quasi già rassegnata all’anonimato senza dell’anonimato avere inventato le forme e i temi rapsodici che potrebbero giustificarlo e anzi elevarlo a espressione reale della nostra epoca». 10 Ricorda Cancogni: «Preparavo la nuova squadra, che sostituì la precedente, licenziata in tronco: Piovene per il cinema, Lele D’Amico per la musica, Zampa per la letteratura tedesca, Ivos Margoni per quella francese, per la letteratura italiana c’erano Pampaloni e Garboli, Gallino per la sociologia, Fornari per la psicoanalisi, Giulio Preti per la filosofia (era forse il genio della filosofia, in quegli anni), Segre per la linguistica e la filologia, Gorlier per la letteratura americana, Cesare Brandi per l’arte. Chiamai il meglio. Le tariffe erano due: 70.000 e 100.000 a pezzo, ad libitum del diret- tore. C’era una diffidenza enorme intorno al giornale, io mi resi conto di cosa significasse stare con la Rizzoli in un ambiente così conformista come quello italiano. La Rizzoli era anatema. I letterati italiani erano divisi tra Einaudi, Mondadori e Feltrinelli, qualcuno Bompiani. A giugno cominciò 246 Stefano Verdino venti – in poco più di un anno – non riguardano solo la poesia in senso stretto, come attestano le recensioni a due narrazioni autobiografiche, di forte impatto storico quali La mano mozza di Cendrars, nella versione di Caproni, esaltata da Luzi, e Il libro dei dodici di Castro dello scrittore dissidente cubano Franqui, ma anche – su questo versante – le lettere di Pasternak. Per quanto riguarda la poesia va rilevata l’attenzione «eccentrica» che lo por- ta a fare i conti – pioneristicamente – con Pessoa, per la prima volta tradotto in italiano, mentre – nel solco di una tradizione francesizzante – si veda il bilancio di Baudelaire, nel suo centenario. Sul versante specificamente italiano spicca – negli anni di furore avanguardistico – un’attenzione implicitamente polemica ai vecchi, non solo nell’ampio e importante tombeau per Sbarbaro, ma anche per le recensioni di novità di autori ultra sessantenni e tutti un po’ fuori dei ran- ghi, dall’amatissimo «maestro» Betocchi a Vigolo e Solmi, al davvero eccentrico Lucio Piccolo. «Abbiamo provato – scrive a proposito di Betocchi – di nuovo, leggendo, l’inebriante emozione della poesia come irrefutabile fatto». Il vecchio Betocchi è capace di una poesia con «la spina dorsale» rispetto al dibattito cor- rente e alle sue allora fortissime implicazioni ideologiche. Anche un passaggio della già citata recensione su Cendrars – Caproni ha un significativo momen- to in cui il nitido ritratto di Caproni poeta offre il destro per una focalizzazio- ne del poeta artigiano e genio, opposto alla pratica corrente:

Dal Ballo a Fontanigorda al Congedo del viaggiatore cerimonioso anche la poesia originale di Caproni fa giustizia di ogni ambizione e montatura ideologica, ta- glia corto con qualsiasi intendimento deduttivo e porta direttamente il calore e l’umore dell’esperienza nell’officina risolvendo il suo problema nel paragone delle parole e dei ritmo, decidendo la sua modernità non preconcetta nell’eser- cizio gustoso e geniale di un artigianato molto pulito. / Il mestiere, superiore, elettivo, è infatti per Caproni il fondamento necessario alla precisione e alla concretezza dell’immagine e del discorso; ben lontano dal dissimularlo e tanto meno dallo spregiarlo, lo mette in piena evidenza nei suoi congegni, i suoi deli- cati rotismi e lo oppone con la discreta ironia dei poeti-artistes all’astrusità, alla sciatteria e alla vaghezza della fumosa e velleitaria demiurgia contemporanea.

Vi è con ogni buona possibilità una certa strategia, se mettiamo in relazio- ne queste schede di plauso ai vecchi con le note polemiche sulle nuove mode dell’incipiente età mediatica, tipo l’attacco al poeta come istrione – un testo de-

il giornale. La veste tipografica, straordinariamente elegante (forse eccessivamente elegante), la curò Gian Carozzi, un pittore mio amico» (Manlio Cancogni, Il racconto più lungo. Storia della mia vita, Conversazione con Giovanni Capecchi, Novara, Interlinea, 2014, pp. 66-67). Ma la nuova «Fiera» «andò malissimo. Infatti, a un certo momento, nell’ottobre del ‘68, Rizzoli, il Commenda, mi chiamò (perché Andrea Rizzoli e Angelino, il nipote di Angelo senior, erano per conservarla) e mi disse: “Guardi, Cancogni, mi dispiace, ma io con i soldi che spendo per la ‘Fiera’ preferisco farci una clinica”. E io gli dissi: “Sono d’accordo con lei”. Ma sì, e poi ero già stufo–» (ivi, p. 70). LUZI. QUESTIONI BIBLIOGRAFICHE 247 cisamente anti-beat – ed alcuni passaggi nella conversazione sulla poesia con Cancogni (La poesia? L’ultima parola tocca sempre a lei). Luzi critica la «timidez- za» verso la poesia: «La mancanza di fiducia, di fede nella poesia (è questa la po- etica corrente) si rivela fatale perché vengono fuori, e giocano liberamente quei fatti culturali che dovrebbero essere solo impliciti in essa»; al riguardo Luzi usa una formula significativa: «Manca la semplicità inesplicabile del poeta»; e rie- vocando la propria storia poetica11 – e l’insoddisfazione per i pur ammirati ma- estri Ungaretti e Montale – ne evidenzia il succo:

Riconoscere il fatto vitale, essenziale, allo stato puro, ancora integro, non ancora giudicato. Partire all’avventura, ma sempre dentro all’esistenza. Lì dentro era la domanda, e lì dentro dovevo trovare la risposta, nella vita stessa, non fuori. Cancogni – Per cui si può dire che tu non avessi nessuna preferenza ideologica. Assolutamente no. C’era solo una domanda sull’esistenza, senza risposta.

mario luzi su «la fiera letteraria»

a)

1946 - Maura, «La Fiera Letteraria», I, 6, 16 maggio 1946, p. 3. [poesia, poi senza titolo Nulla di ciò che accade e non ha volto, nella sezione Poesie sparse, in Il giusto della vita, Milano, Garzanti, 1960, p. 164, e successive edizioni]. - Un pensiero della noia, «La Fiera Letteraria», I, 38, 26 dicembre 1946, p. 18. [con il titolo L’uomo moderno e la noia, in L’inferno e il limbo, Firenze, Marzocco, 1949 pp. 23-27, e successive edizioni; anche in Scritti, a cura di G. Quiriconi, Venezia, Arsenale, 1989, pp. 41-44; Naturalezza del poeta. Saggi critici, a cura di G. Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995, pp. 66-69].

1947 - Invito a Mallarmè, poeta dell’angoscia, «La Fiera Letteraria», II, 13, 27 marzo 1947, p. 3. [sulla monografia di Carlo Bo, Mallarmé, Milano, Rosa e Ballo, 1945; poi come Un libro su Mallarmé, in L’inferno e il limbo 1949, pp. 96-102 e Milano, Il Sag- giatore, 1964, pp. 133-137].

1948 - Sul concetto di natura, «La Fiera Letteraria», III, 27, 11 luglio 1948, p. 1. [poi L’inferno e il limbo 1949, pp. 28-35, e successive edizioni; in Scritti, pp.

11 Alla domanda di Cancogni sul proprio poeta prediletto in gioventù: «Di Foscolo mi attra- eva la sua capacità di aggregazione linguistica, la sua densità di immagini»; sul piacere dei propri libri: «I due libri che mi hanno dato più piacere, più euforia, una specie di esaltazione, sono La Barca e nel Magma». 248 Stefano Verdino

45-50; Naturalezza del poeta, pp. 70-75]. - Né il tempo, «La Fiera Letteraria», III, 39, 19 dicembre 1948, p. 1. [poesia, poi in Primizie del deserto, Milano, Schwarz, 1952, pp. 5-6 e successive edizioni].

1949 - Rappresentazione e interpretazione, «La Fiera Letteraria», IV, 12, 20 marzo 1949, p. 1. [già con il titolo Variazione sull’arte, «Il nuovo Corriere», 15 febbraio 1949, p. 3, ripreso in S. Verdino, Quattro discussioni di Mario Luzi, «Studium», a.110 – luglio-agosto 2014, n.4, pp. 512-515]. - [Dichiarazione su Gide], in Galleria breve, in Per gli 80 anni di André Gide, «La Fiera Letteraria», IV, 50, 11 dicembre 1949, p. 4.

1951 - Troppo distaccato o troppo partecipe?, in Omaggio a Jean Paulhan, «La Fiera Letteraria», V, 14, 8 aprile 1951, p. 5.

1953 - Montale come l’ho visto, in Galleria degli scrittori italiani. Eugenio Montale, a cura di Giorgio Soavi e Vittorio Sereni, «La Fiera Letteraria», VIII, 28, 12 luglio 1953, p. 4. [ripresa di Montale, «Il Mattino dell’Italia centrale», 25 febbraio 1953, p. 3; e con il titolo Montale come l’ho visto, «Il Popolo», 5 marzo 1953, p. 5; «Quoti- diano sardo», 5 marzo 1953, p. 3; poi in Trame, Lecce, Quaderni del «Critone», 1963, pp. 69-73 e Milano, Rizzoli, 1982, pp. 120-123; in Prose, a cura di S. Verdino, Torino, Aragno, 2014, pp. 119-121]. - Religiosità come evasione, in Galleria degli scrittori italiani. Giuseppe Unga- retti, a cura di Leone Piccioni, «La Fiera Letteraria», VIII, 44, 1 novembre 1953 p. 4. [già come nota su Ungaretti, in Valerio Volpini, Antologia della poesia religiosa italiana contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1952, pp.135-136]. - Una lettera di Luzi, «La Fiera Letteraria», VIII, 50, 13 dicembre 1953, p.6. [precisazioni sull’intervista di Corrado Torrigiani, Mario Luzi e i rapporti inte- ressati, nella rubrica ‘Cosa fanno gli scrittori italiani’ del n.49, 6 dicembre 1953, p. 1].

1954 - [Testimonianza], in Testimonianze per Giuliotti, «La Fiera Letteraria», IX, 47, 21 novembre 1954, p. 5.

1955 - Metodo della storia interna, in Galleria dei critici italiani. Giuseppe De Rober- tis, a cura di Leone Piccioni, «La Fiera Letteraria», X, 14, 3 aprile 1955, p. 5. - Pochi doni, in Galleria degli scrittori italiani. Mario Luzi, a cura di Leone Piccioni, «La Fiera Letteraria», X, 33-34, 14 agosto 1955 p. 3. LUZI. QUESTIONI BIBLIOGRAFICHE 249

[poi con il titolo Il pescatore in Onore del vero, Venezia, Neri Pozza, 1957, p. 41- 42, e successive edizioni]. - Notizie di se stesso, ivi, p. 5. - Un prestigio fatto di sobrietà, in Galleria degli editori italiani. La casa Vallec- chi, «La Fiera Letteraria», X, 40, 2 ottobre 1955 p. 4.

1956 - Il sortilegio dell’artista, in Galleria degli scrittori italiani. Gianna Manzini, a cura di Ferruccio Ulivi, «La Fiera Letteraria», XI, 19, 6 maggio 1956 , p. 3. - La bellezza del suo canto, in Galleria degli scrittori italiani. Carlo Betocchi, a cura di Mario Picchi, «La Fiera Letteraria», XI, 25, 17 giugno 1956 , p. 3.

1957 - Mario Luzi presenta: poesie di Paolo Grossi, «La Fiera Letteraria», XII, 10, 10 marzo 1957, p. 5. [breve nota e quattro poesie di Paolo Grossi, il futuro giurista e giudice costi- tuzionale].

1958 - Amore ai poeti, «La Fiera Letteraria», XIII, 1, 5 gennaio 1958, pp. 1-2. [sopratitolo ‘La relazione del premio città di Firenze 1957’ – vincitore Sergio Salvi, Estuario e altri versi, Bologna, Leonardi, 1957; segnalati Giovanni Giudi- ci, Intelligenza col nemico, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1957 e Francesco Tentori, Diario, Milano, Edizioni della Meridiana, 1956]. - Lettera, in Galleria degli scrittori italiani. Vieri Nannetti, a cura di Carlo Betocchi, «La Fiera Letteraria», XIII, 25, 22 giugno 1958, p. 3. [a Carlo Betocchi – seguita da Ammenda necessario di Betocchi]. - La dichiarazione di Mario Luzi, «La Fiera Letteraria», XIII, 51, 21 dicembre 1958, p. 3. [premio città di Firenze – erroneamente “Trieste” nel sovra titolo – 4 ed., ex aequo: Brunello Rondi, Amore fedele, Padova, Rebellato, 1957 – Lamberto Pi- gnotti, Elegia, Firenze, Quartiere, 1958].

1959 - La relazione per il premio letterario Il ceppo, «La Fiera Letteraria», XIV, 7, 15 febbraio 1959, pp. 1 e 8. [premio per il racconto 4 ed., Luigi Bartolini].

1960 - Degenerazione della poesia, «La Fiera Letteraria», XV, 51, 18 dicembre 1960, pp. 1-2. [Relazione per il premio città di Firenze 5 ed., Giorgio Orelli, Nel cerchio fami- liare, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1960; segnalati Cesare Vivaldi, Dia- logo con l’ombra, Roma, Grafica, 1960 e Vittorio Pagano, I Privilegi del povero, Galatina, Il Critone, 1960; nel testo detto – con refuso – Piaceri del povero]. 250 Stefano Verdino

1962 - Dichiarazione in L’opinione degli scrittori italiani sul cinema e sulla televisione, a cura di Eraldo Miscia, «La Fiera Letteraria», XVI, 14, 8 aprile 1962, p. 1. [con Cacciatore – Comisso – Pirro – N. Risi – G. Bellonci – Ferrata – Vittorini – P. Milano].

196412 - Vita fedele alla vita, «La Fiera Letteraria», XIX,32, 27 settembre 1964, p. 3. [poi in Su fondamenti invisibili, Milano, Rizzoli, 1971, pp.11-12 e nelle succes- sive edizioni; affianca il saggio di Angelo Romanò, Mario Luzi, onore al vero]. - La lavagna di Piccioni, «La Fiera Letteraria», XIX, 36, 25 ottobre 1964, p. 3. [recensione a Leone Piccioni, Lavagna bianca: diario 1963, con agosto in URSS, Firenze, Vallecchi, 1964].

1966 - Frammento inedito – Dammi tu il mio sorso di felicità prima che sia tardi –, «La Fiera Letteraria», XXI, 5 maggio 1966, p.9. [incipit del poemetto Il pensiero fluttuante della felicità, poi in Su fondamenti invisibili, p. 15 e successive edizioni; affianca una nota redazionale].

b) Direzione di Manlio Cancogni

1967 - All’origine di tutti gli ismi, «La Fiera Letteraria», XLII, 27, 6 luglio 1967, p.21. [sul centenario di Baudelaire]. - Dom Fernando, «La Fiera Letteraria», XLII, 29, 20 luglio 1967, p.21. [recensione a Fernando Pessoa, Poesie, a cura di L. Panarese, Milano, Lerici, 1967; ripreso in appendice a S. Verdino, Luzi lettore europeo, negli Atti del con- vegno Il mondo di Mario Luzi – Mario Luzi nel mondo, promosso dal Premio Flaiano di Pescara, in corso di stampa]. - Il poeta come istrione, «La Fiera Letteraria», XLII, 33, 17 agosto 1967, pp. 19-20. [ripreso con il titolo Parentesi sul poeta come istrione in conclusione del saggio Poesia, in Mario Luzi – Carlo Cassola, Poesia e romanzo, Milano, Rizzoli, 1973,

12 Vedi anche la scelta da Nel magma (Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1963, con Due poesie (Ma dove – Tra le cliniche), in «La Fiera Letteraria», XIX, 20 dicembre 1964, 44, p. 3. Nel 1965 vedi l’anteprima Mario Luzi: da “Tutto in questione”, in «La Fiera Letteraria», XX, 28 febbraio 1965, 8, p. 5 (si tratta del testo di Il dialetto?, in Tutto in questione, Firenze, Vallecchi, 1965, pp. 37-38); «Il cannocchiale» di Mario Luzi, in «La Fiera Letteraria», XX, 23 marzo 1965, 20, p. 3 (Nella rubrica «Tachimetro» di Gino Montesanto – ripresa da tavola rotonda «Dove va la cultura umanistica?» dalla nuova rivista «Il cannocchiale» di Roma); Valerio Volpini, Luzi – quel che gli è dovuto, in «La Fiera Letteraria», XX, 39, 10 ottobre 1965, p. 3 (con anteprima da Dal fondo delle campagne, Torino, Einaudi, 1965: Colpi – Il duro filamento). LUZI. QUESTIONI BIBLIOGRAFICHE 251 pp. 44-50 e con aggiunta di nuova conclusione, pp. 50-56; poi nella ripresa di detto saggio con il titolo La creazione poetica, in Mario Luzi, Vicissitudine e forma, Milano, Rizzoli, 1974, pp.54-59, quindi in Scritti, pp. 131-135 e Natu- ralezza del poeta, pp. 157-161]. - Ti ringrazio d’avermi fatto artista, «La Fiera Letteraria», XLII, 39, 28 settem- bre 1967, p. 21. [recensione a Boris Pasternak, Lettere agli amici georgiani, raccolte da G. Margvelašvili; traduzione di Clara Coïsson, Torino, Einaudi, 1967]. - Ama davvero il mestiere, «La Fiera Letteraria», XLII, 44, 2 novembre 1967, p. 25. [recensione a Blaise Cendrars, La mano mozza, traduzione di G. Caproni, Mi- lano, Garzanti, 1967]. - Un grande deserto, «La Fiera Letteraria», XLII, 46, 16 novembre 1967, p. 27. [ritratto di Camillo Sbarbaro, nella sua scomparsa; ripreso in Mario Luzi, Desi- derio di verità e altri scritti inediti e rari, “istmi” 33, 2014, pp. 73-76].

1968 - Un altro passo verso la verità, «La Fiera Letteraria», XLIII, 6, 8 febbraio 1968, p. 22. [recensione a Carlo Betocchi, Un passo, un altro passo, Milano, Mondadori, 1967]. - Tre poeti, «La Fiera Letteraria», XLIII, 20, 16 maggio 1968, p. 23. [recensione a Giorgio Vigolo, La luce ricorda, Milano, Mondadori, 1967; Lucio Piccolo, Plumelia, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1967; , Dal balcone, Milano, Mondadori, 1968]. - I dodici di Castro, «La Fiera Letteraria», XLIII, 25, 20 giugno 1968, p. 24. [recensione a Carlos Franqui, Il libro dei dodici di Castro, traduzione di V. Riva, Milano, Feltrinelli, 1968]. - La poesia? L’ultima parola tocca sempre a lei, conversazione con Mario Luzi, a cura di Manlio Cancogni, «La Fiera Letteraria», XLIII, 41, 10 ottobre 1968, pp. 10-12. [rubrica: ‘Le interviste della Fiera’].

MARIO LUZI – NOTIZIE DI SE STESSO

Quando hai cominciato a scrivere versi?

Scrissi dei versi quando ero un ragazzo. Altri ne scrissi a diciassette e diciotto anni sebbene allora mi occupassi soprattutto di filosofia. Per parecchio tempo ho subito una sorta di pregiudizio sulla superiorità della filosofia. L’ho più messo a tacere che superato; e comunque ha lasciato una visibile impronta nel mio carattere così poco ‘artiste’.

Quali sono i poeti del Novecento a cui pensi con più simpatia e gratitudine?

Il Novecento ha avuto una grande stagione poetica. Non c’è bisogno ti indichi i nomi che sono sulla bocca di tutti, tanto più che non ho di segreti da aggiunge- 252 Stefano Verdino

re. Devo molto a Valéry, i cui problemi intellettuali mi lasciano quasi del tutto indifferente, per averne tratto l’esempio e l’incoraggiamento alla sintesi che mi pare una proprietà essenziale alla poesia. Può darsi, anzi è sicuro che ho risentito di parecchi altri autori; ma sarebbe difficile per me distinguere dove è stata po- sitiva e attiva acquisizione e dove passiva acquiescenza. Rispetto alla poesia che è in cima ai miei pensieri trovo la poesia del nostro tem- po troppo suggestiva, piena di ‘tics’ e di estri personali non riassorbiti; troppo fitta di immagini di metamorfosi o di analogia e povera di immagini che nasca- no dall’interno per il naturale metaforizzare della lingua e del discorso umano. E povera d’altra parte d’immagini irrelative che si sostituiscono per visione alla realtà irrefutabilmente. Ci sono tuttavia Machado e Campana.

In che termini definiresti, se ti fosse chiesto, la tua poesia?

Se definire è trovare i limiti, il limite nel caso mio è forse la vita stessa. Il senso della poesia che faccio tende, irreparabilmente, forse a identificarsi con la suc- cessione degli atti che compongono e significano la vita e con manifestazioni continuatrici dell’esistenza, tanto che mi pare verosimile essa possa ridursi al silenzio lasciando la parola alle cose medesime. Il suo plenum, qualunque ne sia la modestia, forse è l’enunciazione pura e semplice, come ad esempio nelle No- tizie a Gius. [eppina] o ‘temporibus illis’ su un altro tono in Avorio. M’accorgo del resto che una poesia di tal genere è raggiungibile solo a frammenti e che la sua alternativa è il silenzio e la vita tout-court. Al di qua di questo c’è tutto il periplo dell’uomo ancora individuale, ancora distinto con le sue passioni, ricer- che, aneliti. Tra l’uno e l’altro polo si svolge, a quanto m’è riuscito capire, il mio piccolo dramma d’artista.

Galleria degli scrittori italiani. Mario Luzi, a cura di Leone Piccioni, in «La Fiera Lettera- ria», X, 14 agosto 1955, 33-34, p. 5. UN RICORDO DI MARIO LUZI

Martha Canfield

Il pensiero della morte m’accompagna tra i due muri di questa via che sale e pena lungo i suoi tornanti. Il freddo di primavera irrita i colori, stranisce l’erba, il glicine, fa aspra la selce; sotto cappe ed impermeabili punge le mani secche, mette un brivido.

Tempo che soffre e fa soffrire, tempo che in un turbine chiaro porta fiori misti a crudeli apparizioni, e ognuna mentre ti chiedi che cos’è sparisce rapida nella polvere e nel vento.

Il cammino è per luoghi noti se non che fatti irreali prefigurano l’esilio e la morte. Tu che sei, io che sono divenuto che m’aggiro in così ventoso spazio, uomo dietro una traccia fine e debole!

È incredibile ch’io ti cerchi in questo o in altro luogo della terra dove è molto se possiamo riconoscerci. Ma è ancora un’età, la mia, che s’aspetta dagli altri quello che è in noi oppure non esiste.

L’amore aiuta a vivere, a durare, l’amore annulla e dà principio. E quando chi soffre o langue spera, se anche spera, che un soccorso s’annunci da lontano, è in lui, un soffio basta a suscitarlo.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 254 Martha Canfield

Questo ho imparato e dimenticato mille volte, ora da te mi torna fatto chiaro, ora prende vivezza e verità.

La mia pena è durare oltre quest’attimo.

Mario Luzi, Aprile-amore, 1951 (da Primizie del deserto)

Questa poesia di Luzi mi accompagna da quando ho cominciato a leggerlo più di trent’anni fa e come tutte le opere di valore si stacca dal suo autore e si confonde con noi stessi, per parlarci della vita e, soprattutto, della nostra vita. Del Luzi uomo, amico, della sua fine attenzione agli altri e della sua capa- cità di conversare piano, riflettendo sulle parole e illuminando ogni argomen- to con il suo «fuoco interiore» – già individuato da Vittorio Bodini quando lo conobbe nel lontano 1939 – mi piace evocare la sua casa di via di Bellariva, un piccolo attico sovraccarico di libri con una ariosa terrazzina, la luce cadente sui mobili semplici, e la sua voce, attraversata dall’impressione di un tremore non mai verificato. Man mano che conversava il tenore delle sue riflessioni diveniva sempre più sicuro e profondo, finché accanto a lui l’unica cosa veramente tan- gibile era, appunto, il suo discorrere lento, cadenzato, ricchissimo. Mi ricordo – e alcune sono state pubblicate – le nostre disquisizioni sulle sue opere teatrali, Ipazia e Rosales. A partire da quest’ultimo, incarnazione del Don Giovanni, abbiamo riflettuto sull’amore e sulla ricerca dell’assoluto attraverso l’amore. Mi diceva Luzi che lui credeva che, così come il significato di Caino era in Abele, il significato di Don Giovanni non era nella figura di Donna Elvira, ma nel dopo, nella sua solitudine, quando la donna non c’è più. E io volevo sa- pere da dove nasceva quella «divorante solitudine», forse dalla spropositata am- bizione di risiedere in tutti i cuori? Allora Don Giovanni-Rosales, per Luzi, non era quello che non sa amare, che non sa darsi, ma anzi quello che ama troppo e si dà troppo, per cui finisce col cuore a brandelli? E lui mi diceva che, in ef- fetti, in Don Giovanni c’è un’esuberanza di fondo, di desiderio, di offerta, per- ché – assicurava – non esiste un avere senza un dare… E trovava che il lato de- moniaco del famoso personaggio, il lato fatale del suo comportamento, risiede- va nel non sapersi fermare: desiderare di essere ma non saperci rimanere… C’è uno sbilanciamento continuo, mi diceva. Le donne sicuramente l’hanno ama- to, ma non come lui voleva, non tanto da colmare questa energia di desiderio e di offerta che si riversa sull’inseguimento. E aggiungeva, quasi come una confes- sione: «allora uno è solo, con questo morso interno che poi diventa rimorso». E io lo punzecchiavo ancora: ma allora tra Tristano e Don Giovanni la differenza non è totale, forse Tristano, che amava una sola donna e in essa racchiudeva l’u- niverso, in realtà è il riflesso capovolto di Don Giovanni. Voglio dire, insistevo, che tutti e due in fondo cercano l’impossibile, la donna ideale che forse non è altro che la propria anima. E lui (lo cito dai miei appunti dell’epoca): «Mi viene UN RICORDO DI MARIO LUZI 255 in mente un mio verso: o d’amore in amore o d’uno solo. Io dico o, non e, quindi sono due modi di perseguire lo stesso impossibile». Ma questo impossibile, gli chiedevo ancora, non è al di fuori di se stessi; questa donna ideale è il volto in- teriore? Sì, mi diceva Luzi, «è l’essenza di se stesso». E allora io tornavo a leggermi Aprile-amore, e ritrovavo questa voce che sof- fre e nello stesso tempo conosce, che lungo i tornanti della vita ha imparato che ciò che si spera è dentro di sé e che, essendo l’attesa più alta quella dell’amore, «un soffio basta a suscitarlo». Eppure, come tutto nella vita, nel nostro destino transeunte, l’attimo dell’amore è fuggente: «Questo ho imparato e dimentica- to mille volte», riconosce la voce del poeta. E ci confessa: «La mia pena è dura- re oltre quest’attimo». Mario Luzi a Sestri Levante (29 dicembre 2004 – Foto di Laura Dolfi). MARIO LUZI, «IL FILO DELLA VITA»

Una tavola rotonda a cura di Alessandro Gentili

Presentazione della «plaquette»: Mario Luzi, Il filo della vita / The Thread of Life / Snáithe na Beatha, tredici poesie tradotte da tredici poeti irlandesi / Thirteen Poems Translated by Thirteen Irish Poets, a cura di / edited by Alessandro Gentili, Fondazione Mario Luzi, Roma 2014. Con contributi di Fabrizio Dall’Aglio, Antonella Francini, Alessandro Gentili, Thomas McCarthy. Letture di Sandro Lombardi, Thomas McCarthy.

Luzi, «Non perderlo il filo della vita» (letto da Sandro Lombardi).

«Non perderlo il filo della vita» – sembra dirmi una pensierosa Lachesi in quel volto di gitana – «seguilo sempre anche quando si occulta nei più neri cunicoli o più tetro s’aggroviglia in mortiferi labirinti – o anche interito si atrofizza nei suoi falsi lucori privati e pubblici. Non perderlo, ti prego, non lasciarlo per nessuna illecebra di falsi paradisi, per nessuna illusione di riparo in fortilizi o in eremi o in un cretto che s’apra, talora, di eternità. Non ti lascia lui, lo sai, se non lo tradisci, al primissimo albicare

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 258 Una tavola rotonda a cura di Alessandro Gentili

ti vibra tra le mani, ad ogni nuovo giorno, a ogni nuovo cominciamento» – dice lei, è questo che mi intima o che il mio desiderio le comanda…

Nuala Ní Dhomhnaill, «Ná caill snáithe na beatha» (versione gaelica letta da Tho- mas McCarthy).

Ná caill snáithe na beatha

«Ná caill snáithe na beatha» — adeireann Lachesis smaointiúil ba dhóigh liom i gcló giofóige — «lean é, i gcónaí, fiú nuair a théann sé i bhfolach sa tollán is duibhe amuigh nó fiú in achrann gruama na gcathracha marfacha gríofáin, fiú nuair a stangtar é is go meathlaíonn faoina ghléire fhallsa phríobháideach is phoiblí. Ná caill é, ímpím ort, ná fág uait é ar son bréagadh na bpárthas fallsa, faoi mhealladh na fothaine i ndún nó i ndíseart nó i nduibheagán a osclódh, ar uairibh, ar an síoraíocht. Ní fhágfaidh an snáithe tú, tá’s agat, muna ndéanann tú feall air, ar chéad láú na maidne bíonn sé ar tinneall i do lámha ar gach lá nua, ar gach tosnú as an nua» — ar sise, agus is é seo an t-ordú a chuireann sí orm nó a chuireann mo mhian uirthi…

Fabrizio Dall’Aglio – Rosa di macchia: così s’intitolava l’antologia della poesia irlandese dopo Yeats curata da Alessandro Gentili, che ha rappresentato senza dubbio uno dei primi libri veramente impegnativi che mi sono trovato a seguire dopo aver iniziato a collaborare con la Passigli Editori di Firenze. Impegnativo non perché, come a volte capita, avessi granché da intervenire sul lavoro del MARIO LUZI, «IL FILO DELLA VITA» 259 traduttore, che invece una volta che mi fu consegnato era pressoché pronto. E neppure per particolari problemi redazionali, se non quelli sempre connessi alla pubblicazione di antologie e relativi ai diversi diritti d’autore. Impegnativo, se vogliamo, per un altro aspetto, e cioè il fatto che la passione del curatore ave- va sicuramente contagiato anche me, in particolare perché mi rendevo con- to dell’importanza di quel lavoro, dell’altissima qualità di tutti i poeti selezio- nati, del rigore con cui Alessandro Gentili lavorava. È stato dunque attraverso Mario Luzi, che lo stimava moltissimo, che ho conosciuto Alessandro, e l’occa- sione è nata proprio da quella antologia. Siamo diventati subito amici, ed è ini- ziata da allora una collaborazione che ha prodotto una serie di libri che ho tra i più cari tra quelli pubblicati dalla Passigli, dallo straordinario The Rough Field di John Montague, nella versione italiana Il campo abbandonato (e dobbiamo il suggerimento di questo titolo, dopo diversi ripensamenti che non ci soddisfa- cevano, proprio all’editore, Stefano Passigli), al racconto, fiorentino di ambien- tazione e sempre di Montague, Il quaderno smarrito, alle due antologie di po- esie di William Butler Yeats, I cigni selvatici a Coole e La rosa del mondo. Ma al di là di queste e di altre collaborazioni editoriali, ho sempre seguito Alessandro Gentili nelle sue scorribande letterarie irlandesi, in particolare nelle diverse tra- duzioni di poeti uscite sulla rivista «Poesia» di Nicola Crocetti: in qualche caso approfondendo il rapporto iniziato con Rosa di macchia ‒ da John Montague a Thomas McCarthy, da Thomas Kinsella a Derek Mahon ‒ in altri affrontando per la prima volta autori come Leanne O’Sullivan o, ancora in attesa di pubbli- cazione su «Poesia», Paula Meehan. Ma mi piace anche ricordare la scelta di te- sti di Desmond O’Grady, un altro dei poeti di Rosa di macchia, pubblicata per Città di Vita sotto il titolo Arcipelago. Da questi accenni si potrà già capire come per noi, per Alessandro Gentili, per me, per Valerio Nardoni che fin dall’inizio ha collaborato a questo proget- to, l’idea di questa antologia in ricordo di Mario Luzi era, in un certo senso, nell’ordine delle cose. C’era la nostra ammirazione e amicizia per Luzi, natu- ralmente; e c’era il ricordo delle conversazioni avute con lui intorno all’Irlanda e ai suoi poeti, che ci avevano testimoniato una vicinanza di Luzi a quel paese del tutto particolare: se non era la Francia dei suoi studi, della sua tesi di laurea, della sua professione di insegnante, era forse l’altro paese europeo cui si sentiva più legato, o comunque che forse più di altri lo attraeva e lo affascinava. È sta- to Gentili a fare la selezione e a fornire anche una prima traduzione – diciamo «di lavoro» – delle poesie da proporre ai diversi poeti irlandesi, ripercorrendo a questo scopo l’intero corpo poetico di Luzi. La scelta aveva infatti come princi- pale criterio il tentativo non semplice di selezionare i testi più idonei per ciascu- no di loro, il che naturalmente presuppone non solo la conoscenza dell’opera di Luzi, ma anche quella del poeta che doveva interpretarla. Interpretazione, pe- raltro, che noi desideravamo che fosse il meno condizionata possibile, a secon- da delle esigenze espressive dei poeti invitati. Non ci interessava, cioè, un sem- plice libro di traduzioni, pur di autore: volevamo che le poesie di Luzi, per così 260 Una tavola rotonda a cura di Alessandro Gentili dire, «parlassero» o «cantassero» in una lingua diversa attraverso testi che anche se erano strettamente legati a quelli originali, non dovevano però esserlo come attraverso un cappio linguistico, perché il nostro scopo, appunto, era differen- te. Noi volevamo, insomma, che queste poesie di Luzi fossero sentite dai poeti che le traducevano come testi in qualche modo propri, un po’ come forse senti- vano i nostri umanisti quando imitavano in lingua volgare i testi dei classici la- tini o greci. Stava poi ai poeti scegliere se restare più letteralmente fedeli al testo originale o se allontanarsene; stava a loro decidere in quale modo e con quale criterio dalla poesia di Luzi che avevano accettato di tradurre sarebbe sorto un suo sosia in lingua inglese (o, in un caso, addirittura in gaelico). Il risultato di questo sforzo, e potremmo dire di questa scommessa, è nel presente libro, e cia- scuno lo potrà giudicare; posso solo aggiungere che noi, man mano che ci arri- vavano i testi tradotti, li leggevamo con un misto di ammirato stupore, di gio- ia e di riconoscenza insieme. Curiosamente, tredici erano i poeti presenti nell’antologia Rosa di macchia e tredici sono i poeti che troviamo in questa nuova, insolita antologia, intera- mente bilingue: Il filo della vita/ The Thread of Life. Magari sarà Gentili stesso a chiarirci il significato di quel numero che si ripete in questi due lavori; ma in- tanto va detto che ben sette sono i poeti irlandesi presenti in entrambe le anto- logie, e cioè: John Montague, Seamus Heaney, Thomas Kinsella, Derek Mahon, Desmond O’Grady, Nuala Ní Dhomhnaill e Thomas McCarthy. Ad essi si sono aggiunti altri sei poeti: Leanne O’Sullivan, Leontia Flynn, Martina Evans, Theo Dorgan, John F. Deane e Dennis O’Driscoll. E non è detto che ci si fermi qui, perché l’interesse suscitato in Irlanda da questo volume – presentato a Cork e Dublino pochi giorni fa – ci sta facendo riflettere sulla possibilità di una nuova edizione allargata ad altri poeti irlandesi. Intanto, purtroppo, il destino ha voluto che ben tre dei tredici poeti pre- senti in questa antologia ci lasciassero durante la lavorazione del libro: per pri- mo Dennis O’Driscoll, scomparso del tutto prematuramente, che avevo anche potuto conoscere personalmente, e ammirare sia da un punto di vista poetico sia da quello umano, tre anni fa, entrambi ospiti del festival di poesia di Ptuj in Slovenia. Poi il più celebre di tutti, il premio Nobel Seamus Heaney; infine quello che forse potremmo definire il più italiano, il caro Desmond O’Grady, che tanto amava il nostro paese in cui ha vissuto a lungo. A loro tre, natural- mente, va il nostro commosso ricordo e un ringraziamento del tutto speciale.

Alessandro Gentili – In Irlanda Mario Luzi c’era stato più volte, a partire dal- la fine degli anni Settanta. Nell’autunno del 1985 è alla Queen’s University di Belfast, su invito di Ghan Shyam Singh, poeta e allora titolare della cattedra di Italiano presso quella università. Nel luglio del 1987 dalla Queen’s stessa riceve una laurea honoris causa. Nell’ottobre del 1990 è a Dublino, all’Istituto Italiano di Cultura, e a Cork, all’University College, nell’occasione dell’uscita di un’an- tologia di suoi testi, After Many Years (Dedalus Press), nelle traduzioni in inglese MARIO LUZI, «IL FILO DELLA VITA» 261 dell’italianista irlandese Catherine O’Brien. Nel corso di quella visita ottobrina, all’Istituto Italiano di Cultura iscrive il suo testo E il lupo su un foglio di vello per il volume The Great Book of Ireland(di esso, maggiore ideatore e curatore, Theo Dorgan, uno dei tredici poeti irlandesi nella nostra «plaquette»): volume straor- dinario che raccoglie, quasi moderno Book of Kells, testi e illustrazioni di artisti irlandesi, con l’aggiunta di alcuni stranieri, e che si trova oggi custodito nella bi- blioteca dell’University College di Cork. Nel novembre del 1991, a Dublino, ri- ceve il Premio Europeo per la Letteratura. Da queste visite hanno origine alcune poesie e alcune prose brevi, «irlandesi» nei soggetti, che compaiono sparse nell’o- pera luziana, per essere nel 1993 raccolte nel libro Mario Luzi, Irlanda, «quel ri- confermato incontro» (testi con traduzione irlandese e inglese, Istituto Italiano di Cultura di Dublino), a cura di Rosangela Barone, allora direttrice dell’Istituto, e di Pádraig Ó Snodaigh, scrittore e cultore della lingua gaelica. «Che si sa dei nostri amici irlandesi?», puntualmente mi chiedeva Luzi nel corso di ogni nostra conversazione nel suo appartamento a Bellariva. Da quella ripetuta domanda il dialogo prendeva allora le strade del Paese del cuore. Le stes- se strade ha preso questo libro. Tredici poeti irlandesi contemporanei sono stati singolarmente chiamati, ciascuno di loro a contribuire con la traduzione di un testo, tredici diverse voci poetiche a interpretare i versi originali di una sola voce. Perché nel numero di tredici i testi, e tredici i poeti irlandesi? Il numero tredici, uno più dodici, quest’ultimo tradizionalmente il numero della ciclicità e della completezza, può indicare interruzione dell’armonia, fine di un ciclo, rottura di un equilibrio, instabilità ed incertezza, ma anche nuovo inizio, trasformazione, rinascita. In alcune culture il tredici porta bene, in altre porta male. «Thirteen. Death’s number. […] Silly superstition that about thirteen» («Tredici. Il numero della morte. […] Sciocca superstizione quella del tredici»), scrive Joyce nell’U- lisse. Qui, nel nostro disegno, il tredici, numero dell’unità sommata alla roton- da molteplicità del dodici, può riuscire: nel particolare, l’uno della versione in gaelico, idioma dell’Irlanda antica, ricuperato e aggiunto al dodici della conso- nanza delle versioni in inglese, lingua dominante; nell’insieme, la decisione, di- stacco dal dodici della compiutezza degli originali, la traduzione, l’uno del nuo- vo che rinnova – e la somma è, appunto, tredici. Per la scelta dei testi luziani, per le traduzioni da parte dei poeti irlandesi, sono ritornato sulla lettura di tutte le raccolte di Luzi: una lettura, con gli oc- chi, degli originali in lingua italiana, e con la mente a pensare-ascoltare quei te- sti in una possibile letterale traduzione in lingua inglese, così a verificare, nei li- miti dell’assunto, la riuscita, appunto, di una loro resa in inglese. Le poesie di Luzi, per elevatezza di linguaggio e stile, sembrano resistere a un’agevole tradu- zione in inglese, lingua fattuale, aderente alla concretezza del reale. Sono comun- que pervenuto a una scelta, peraltro limitata, di testi a mio avviso «traducibili», che ho poi sottoposto a una lettura più attenta per ravvisarvi quelli che più di altri sembrassero avere una qualche corrispondenza con l’estetica dei poeti tra- duttori. Beninteso, ho cercato di scegliere componimenti che potessero anche 262 Una tavola rotonda a cura di Alessandro Gentili presentare una significativa essenza della fluvialità della poetica di Luzi, l’uma- nità, l’eleganza, l’altezza di pensiero, un’intensa preghiera, il senso, insomma, di quel suo Filo della vita. Individuati i testi, mi sono incoscientemente adope- rato di tradurli nel mio inglese. Ad alcuni poeti, di testi, nell’originale e nella mia traduzione inglese, ne ho inviati due ciascuno, affinché ciascuno ne tradu- cesse uno a proprio piacere o li traducesse entrambi lasciando a me la scelta di uno. Ad altri poeti è stato inviato un solo testo ciascuno, perché nella particola- rità di un dato testo luziano ero venuto a cogliere tratti della particolarità este- tica di un dato poeta irlandese. Nel caso avessero gli autori trovato il loro testo o i due testi poco interessanti o particolarmente malagevoli, avrei provveduto a inviarne altri. Nessuno degli autori ha richiesto più testi altri da quelli ricevu- ti. Queste, nella «plaquette», le poesie di Luzi e le versioni irlandesi con i nomi dei poeti traduttori: Alla primavera (To Spring, Desmond O’Grady); Alla ma- dre (For My Mother, Leanne O’Sullivan); Quante ombrose dimore hai già sfiora- to (How many shady abodes, Leontia Flynn); Il pescatore (The Fisherman, Seamus Heaney); L’osteria (The Inn, Martina Evans); Trota in acqua (Trout in the Water, Derek Mahon); «Non perderlo il filo della vita» – («Ná caill snáithe na beatha», Nuala Ní Dhomhnaill); Dove mi porti, mia arte? (Where are you bringing me, my art?, Theo Dorgan); Sia detto (A Prayer for Florence, John Montague); Dopo la curva (After the bend, John F. Deane); È inverno (It is winter, Thomas Kinsella); Bellezza, lo sentiamo (Beauty Intuited, Dennis O’Driscoll); Lasciami, non tratte- nermi (Let go, don’t detain me, Thomas McCarthy). Delle traduzioni, alcune sono rimaste più vicine agli originali, altre hanno compiuto un più evidente scatto di affrancamento. In esse, tutte, i testi luziani sono venuti a rinnovarsi, a trasmutarsi in definite altre unità poetiche d’auto- re che come tali assumono significazioni proprie e muovono a letture diverse – l’uno che si aggiunge al dodici.

Antonella Francini – Le traduzioni delle tredici poesie che in questo libretto tracciano, per testi esemplari e di decennio in decennio, il filo della vita poetica di Mario Luzi, oltre che un omaggio corale al poeta italiano amico dell’Irlanda sono anche un particolarissimo rifrangersi dell’opera luziana sulla tradizione poetica e linguistica irlandese. Quando nel 1998 la rivista «Semicerchio» pubblicò un’in- chiesta dal titolo Esiste la poesia europea?, Mario Luzi fu fra i poeti italiani (oltre a Bigongiari, Zanzotto e Carifi) che generosamente rispose con un suo scritto alla questione che veniva posta. «Di qua e di là della frontiera del nuovo millennio e di quella dei continenti», scriveva Luzi, «la poesia ha oggi il primario bisogno di legittimare la sua parola, di attraversare molto e vero silenzio per riemergere più credibile e più irrefutabile a chi la usa e a chi la riceve»1. Queste tredici traduzio-

1 Mario Luzi, La poesia europea, in «Semicerchio. Rivista di poesia comparata», XVIII, 1998, 1, pp. 7-8. MARIO LUZI, «IL FILO DELLA VITA» 263 ni sono appunto il luogo dell’attraversamento di cui parlava Luzi, oltre i confini nazionali ed oltre il silenzio della loro gestazione, luoghi di elaborazione poetica e d’incontro lontani dalla sede d’origine della poesia luziana. Perciò, se leggiamo questi testi nell’idioma dei poeti irlandesi che li hanno ricevuti e usati, ci imbat- tiamo in situazioni linguistiche e culturali che, di poesia in poesia, rinnovano il rapporto fra poeta tradotto e poeta traduttore. La voce di Luzi filtra attraverso la lingua inglese d’Irlanda in modalità diverse, entra in un rapporto dialogico con poetiche altrui aprendo la strada verso la poesia in proprio dei poeti-traduttori. Basterebbe leggere gli incipit con uno sguardo all’italiano a fianco, agli attac- chi luziani, per renderci conto della varietà delle appropriazioni. Ad esempio, se l’inizio di Alla primavera è ripreso fedelmente da Desmond O’Grady per rendere quasi un calco dell’originale nello sforzo di mimarne la musica, Seamus Heaney traduce l’avvio endecasillabico di Il pescatore variandone il ritmo e rendendo la visione marina all’alba di Luzi più reale e definita nelle immagini e nei suoni:

Viene gente per acqua. Gente muta rasenta le murate delle navi alla fonda, si riscuotono all’urto dell’attracco.

People arrive by water, unspeaking ones keeping close to the hulls of the anchored ships, startling at the bump as they heave to2.

La stessa tecnica sembra muovere la resa di John Montague, che traduce l’at- tacco di Sia detto (la poesia scritta da Luzi dopo l’attentato in Via dei Georgofili a Firenze nel 1993) mischiandone, per così dire, gli ingredienti. Le parole di Luzi cambiano ordine e si combinano con termini che approfondiscono l’in- tenzione originaria:

Sia detta per te, Firenze, questa nuda implorazione. Si levi sui tuoi morti, sulle tue molte macerie…

May this bare prayer be said for you, this naked invocation, O Florence…

Thomas Kinsella propone un altro calco dei versi luziani nella sua resa di È inverno:

2 Originali e traduzioni tratte da M. Luzi, Il filo della vita, Roma, Fondazione Mario Luzi Editore, 2014. 264 Una tavola rotonda a cura di Alessandro Gentili

È inverno, sono oscuri i covi dove tu, mia primavera, ti prepari…

It is winter: the dens are dark where you, my own Spring, are making ready…

Se questi sono aspetti che colpiscono semplicemente sfogliando il libro, nel soffermarsi sui testi tradotti scopriamo come le varianti linguistiche con cui i poeti irlandesi si sono appropriati degli originali luziani portino al cuore del- le poetiche dei traduttori. Le poesie Il pescatore nella resa di Seamus Heaney e Alla madre nella traduzione di una giovane poetessa, Leanne O’Sullivan, ben esemplificano questo processo di appropriazione che modifica la koinè origina- le. Nella sua The Fisherman, Heaney scioglie gli specifici termini dei primi ver- si in immagini più familiari e rende dinamica ed immediata l’azione, sfumata in Luzi, per cui «murate», «fonda» e «all’urto dell’attracco» diventano «hulls» / «scafi», «anchored ships» e «the bump as they heave to». Pur rimanendo aderen- te all’originale, Heaney sperimenta delle varianti, in questa prima strofa come nei versi seguenti, avvicinandosi e allontanandosi dall’italiano, mettendo a fian- co di specifici termini marinari parole dal sapore classico, come la voce verba- le «heave to». Nell’alterare la punteggiatura, poi, tende a rompere la fluidità del verso luziano per ricrearne un’altra in una lingua colloquiale e fortemente rit- mica. I «ponti» alla fine della seconda strofa diventano «the hedges», un’imma- gine frequente nelle rappresentazioni di Heaney dei paesaggi irlandesi avvolti nella nebbia. Gli «alberi nani» diventano «pioppi rachitici», sempre per rendere un’immagine naturale più familiare e precisa. Non sorprende che delle due poesie che Alessandro Gentili propose a Heaney per la traduzione, il traduttore abbia scelto proprio questa. La figura del pesca- tore è infatti presente anche in uno dei suoi più celebri testi, Casualty, un’ele- gia per un pescatore di anguille che Heaney conosceva, morto incidentalmen- te nel 1972 nell’Irlanda del Nord durante gli episodi terroristici della cosiddet- ta Bloody Sunday per non aver rispettato il coprifuoco andando al bar come era solito fare. Nella terza parte dell’elegia, il ricordo di Heaney ci porta sulla bar- ca dell’amico, alla mattina, avvolta nella nebbia, e alla felicità che gli procurava la sua compagnia. Nei versi finali il pescatore d’anguille torna ancora alla men- te del poeta, ma trasfigurato in un «Dawn-sniffing revenant», cioè in un fanta- sma, un’ombra che inala alba. L’atmosfera rarefatta del paesaggio marino alle prime ore del giorno della poesia di Luzi sembra così richiamare alcuni passi nell’elegia di Heaney. Ma se Luzi ricerca una verità nelle visione mattutina – os- servatore affascinato e ingannato dal mistero che sembra nascondersi davanti MARIO LUZI, «IL FILO DELLA VITA» 265 ai suoi occhi, nel «tempo sospeso», «tra oscuro / e manifesto» – la scena dell’al- ba in Casualty è lo sfondo su cui si inscena l’opera del pescatore e il ritmo del- le sue azioni: una solenne cerimonia in omaggio all’amico morto ora diventato un’ombra, un’ombra a cui chiede di tornare a visitarlo perché stimolo alla sua scrittura civile. La poesia si chiude infatti con il verso «Question me again», ov- vero «torna a interrogarmi». The Fisherman è inoltre anche il titolo di una poesia di W. B. Yeats, cara a Heaney, a cui Casualty è spesso associata. Non è infine da escludere che l’atmo- sfera mattutina e quasi irreale della poesia di Luzi, le ombre e il tempo sospeso con la barca che arriva dall’acqua, possa aver risvegliato nel poeta irlandese sug- gestioni dantesche. Come è noto, è al Purgatorio che Heaney guarda nella com- posizione di uno dei suoi capolavori, Station Island (1984), e il primo canto del Purgatorio gli offre immagini in un’altra delle sue più belle elegie, The Strand at Lough Beg, scritta per il cugino ucciso nell’Ulster. L’alba che «vinceva l’ora mattutina» e il «tremolar de la marina» dantesche sembrano dunque muoversi anch’esse sullo sfondo che lega originale e traduzione. Leanne O’Sullivan, nata nel 1983, segue una strada molto diversa nel ren- dere la poesia Alla madre. Alessandro Gentili mi ha procurato in questo caso la traduzione di servizio inviata alla O’Sullivan. Un confronto fra questo avante- sto e la resa finale evidenzia come qui l’appropriazione sia totale e come la boz- za di Gentili venga quasi del tutto ignorata. O’Sullivan prevarica l’originale e lo riscrive ripensando il tema della madre, che Luzi proietta nell’oltrevita e rive- de nel ricordo come un’ombra. La poesia della poetessa irlandese sembra, inve- ce, un’intensa lirica sul ricordare stesso, sulla memoria e su come viene percepi- ta. Una serie di parole e immagini composte descrivono la condizione del ricor- dare, che è un «twilight», un «crepuscolo», e «stracci svolazzanti» / «fluttering rags». E ancora: è un «dream-light» / «luce onirica», e «half-light of evening glan- ces», una «penombra» di «sguardi serali». Il «nembo di cenere e di sole» luziano diventa una «breath-cloud», una «nuvola di respiro» in cui il paesaggio canta i suoi colori. Sempre giocando sul binomio luce-ombra che suggerisce l’origina- le, Leanne O’Sullivan inserisce accanto ai «fuochi» in cui Luzi rivede la madre, il loro bruciare nell’inverno, un contrasto che non è nell’italiano mentre è, piut- tosto, un’efficace immagine per definire la memoria. Questa traduzione è una bellissima lirica di una straordinaria forza emotiva e, benché si allontani dall’o- riginale, ne riprende il senso: il ricordare e i suoi suggestivi meccanismi elabora- ti in un notevole intreccio fonico, ricercando anche la rima alternata dell’italia- no. Ecco dove porta l’attraversamento di «molto e vero silenzio»: in un’oltrevi- ta in cui la parola di un grande poeta europeo è «legittimata» in terra straniera dalla voce particolare di chi ne riconosce la grandezza e la tramanda.

Thomas McCarthy – Il primo momento che ho avuto in mano Il filo della vita di Mario Luzi, coi suoi tre titoli, ho sentito di essere partecipe di un mira- colo letterario. Eccolo, Il filo della vita/ The Thread of Life/ Snáithe na Beatha, 266 Una tavola rotonda a cura di Alessandro Gentili un Luzi nato due volte nelle due lingue dell’Irlanda; eccolo, un maestro trasfor- mato in un’orchestra di individuali voci poetiche. Qui, il poeta di Firenze ha incontrato i mondi anglofoni e gaelici della Repubblica del selvaggio Atlantico. Qui, come ha scritto Fabrizio Dall’Aglio, è avvenuto un composito «scambio» poetico, un momento nella poesia europea nel quale sensibilità e istinti si sono mostrati a un tempo fraterni e diversi. Per gli irlandesi l’Italia è prossima e re- mota, intima e distante, sempre un mistero. La vita italiana è vissuta lontana dai nostri villaggi atlantici spazzati dal vento; la sua pullulante civiltà vive in anti- tesi con la desolata torbiera della mente irlandese. La vita italiana, anche la sua architettura intellettuale, sembra essere ben posata su terreni solidi – in antite- si con quel senso di frattura dell’essere irlandese che è costantemente battuto da fatali discordie e risoluta anarchia. L’essere intellettuale irlandese è spontaneo, ambiguo e fuggevole. Come Heinrich Böll ebbe a notare, il Paese sembra essere tenuto insieme da spilli di sicurezza e pezzetti di spago. In antitesi sta l’Italia, durevole onfalo, con la sua intellighenzia urbana a un tempo politicizzata ed ermetica. Mario Luzi conosce- va bene l’Irlanda. Di essa ha scritto con calorosa partecipazione alla maniera del grande Cavour, il quale, anch’egli, conosceva così bene l’Irlanda. Ma Cavour era un grande statista, e Luzi un grande poeta. Luzi apparteneva a quello stato uni- tario che si chiama poesia e le sue risposte all’Irlanda sono state di natura deci- samente estetica e sociale, piuttosto che politica in senso stretto. Il filo della vitaè la risposta degli amici irlandesi di Luzi alla voce del grande fiorentino. Questo progetto ci offre un’immagine rara dell’intricato processo del- la traduzione, di come qualsiasi lingua poetica sia una lingua personale. Le paro- le di Luzi non sono tradotte in inglese o irlandese nel senso generale, piuttosto sono, esse, tradotte nella lingua personale di ciascun poeta. La poesia nasce come accrescimento di espressioni personali: non c’è buona poesia che non sia distin- tiva. Una frase distintiva, un modo personale di dire, cadenza locale o scelta del- la parola, convengono a creare una voce distintiva in poesia – se questo processo è assente non c’è poesia vera. Questo processo è qui così vero, un tale effetto così raggiunto, che mi tornano alla mente le parole di W. H. Auden nella sua intro- duzione del 1961 al magistrale The Complete Poems of C.P.Cavafydi Rae Dalven: «Come ogni altro, penso, che scriva poesia, ho sempre creduto che la differenza essenziale tra la prosa e la poesia sia che la prosa può essere tradotta in un’altra lin- gua, ma la poesia no. // Ma se è possibile venire poeticamente influenzati da lavo- ri che uno può leggere solo in traduzione, allora questa convinzione va attenuata». In altre parole, se una poesia tradotta può ancora recare il suo effetto poeti- co, o un effetto equivalente, nella forma tradotta, allora la traduzione di poesia compie opera di importanza culturale e accrescimento estetico. In Il filo della vita le poesie aderiscono a un’antologia rinnovata, e ciascuna di queste voci ir- landesi è di efficace distinzione. Nella versione di Heaney da Il pescatore, si tro- va un insieme di parole o frasi che sono distintamente heaneyane: parole come «wafts», «between what is hidden / and what stands open», «oracle», «hauls» e MARIO LUZI, «IL FILO DELLA VITA» 267

«what the sea allows» sono apparse in altri testi di Heaney e fanno parte del les- sico di Heaney. Il titolo stesso della poesia, The Fisherman, con la F maiusco- la, ricorderà ai lettori irlandesi e americani la poesia di Yeats dallo stesso titolo. Siffatta risonanza entrata nella mente del lettore darà alla traduzione una rile- vanza e un’autorità aggiunte. Mario Luzi, qui, non è solo tradotto nella lingua inglese generalmente, ma assume la risonanza e l’autorità di due premi Nobel irlandesi. Heaney, attraverso l’uso di una lingua personale, attraverso il suo les- sico, conduce Luzi in quella olimpica compagnia. In egual maniera, la poetessa di lingua irlandese, la più grande poetessa ir- landese della sua generazione, Nuala Ní Dhomhnaill, ha creato una vigorosa equivalenza gaelica in Ná caill snáithe na beatha. Di nuovo, quelle sue parole che sono parte del mondo delle sue raccolte poetiche – «i bhfolach», «achrann gruama», «na bpárthas fallsa» – rendono, frase per frase, una traduzione fede- le che è distintamente personale nella cadenza e nell’emozione. Potrebbe essere una delle sue poesie, ma è Mario Luzi in gaelico. Derek Mahon, poeta dell’Ul- ster, in Trout in the Water trasforma il liquido flusso poetico di Luzi in un in- sieme stretto e luccicante di versi inglesi, in una forma tesa e disciplinata per la quale Mahon è divenuto famoso in tutto il mondo di lingua inglese. «She dives / to her obscure initiatives», scrive Mahon in quell’uso formale della lingua, le parole aggruppate e raccolte, le frasi compresse e fatte sembrare urgenti con tut- ta l’urgenza di un progetto di Mahon. Qui, il rimare di «thinks» e «sinks» ser- ve a richiamarci alla mente che le parole italiane di Luzi vengono ora portate in una barca di una lingua saldamente serrata e altamente raffinata. Qui ci sono anche l’oscuro, gli avvisi, i segnali, movimenti e armonia, tutto «of accident and essence» per riportare le parole di Luzi al duro essenziale acciot- tolato del mondo di Kinsella. Il capolavoro di risposta politica di Luzi, Sia det- to, ha trovato il suo perfetto scultore in inglese nel poeta John Montague, la cui poesia di formale elegia politica resta uno dei grandi esiti della poesia irlandese del dopoguerra. Montague entra nell’animo di Luzi e si leva a un’alta formalità di lingua per essere pari alla serietà dell’intenzione di Luzi. Nessun altro poeta irlandese avrebbe potuto essere qui una scelta più perfetta di Montague stesso – nessun altro poeta avrebbe potuto comprendere l’alta serietà dell’intenzione poetica di Luzi: lodare la sua città natale nella sua ora di tenebra. «O Florence, / a stele for your dead / raised over your rubble / your many / treasures, visible, invisible…». La grandiosità della lingua di Montague è di profondo effetto, che strazia il cuore. È l’effetto che Luzi per certo avrebbe desiderato avere in qualsia- si essere della traduzione. La formalità di Montague, la sostanza di Heaney, le parole caratteristiche di Ní Dhomhnaill, tutto ci ricorda che la poesia non può essere tradotta disatten- tamente o incurantemente. I principi del fare poesia, quei principi di unicità, di voce, impegno retorico, devono essere presenti anche in ogni progetto di tra- duzione; e Il filo della vitaraccoglie, sì, voci che hanno l’accento dell’impegno e l’unicità di ciascuna voce poetica. 268 Una tavola rotonda a cura di Alessandro Gentili

Mario Luzi, Alla primavera; Alla madre; Il pescatore; Trota in acqua; Sia det- to; È inverno; Lasciami, non trattenermi (letti da Sandro Lombardi in italiano, e poi da Thomas McCarthy nella versione in lingua inglese che qui si riporta).

To Spring From the depths of the seas the vessels will grow a grass for the green swallows crossing continents, the navigators in the windless ocean mirror the hardening face, the brief years in the flux of infinite water. Warm persuasions descend on flowering earth, the dread, the humility of life. Mothers dry their sadness of the tireless truths in their churches, surprised at themselves, under the lit lamps with their girlishness. Desmond O’Grady

For My Mother Perhaps I can know you now, the mystery of your shade settled with the twilight and the fluttering rags of my memory - yourself not yourself in this dream-light

where, in a breath-cloud of ash and sun the landscape sings your colours. I think you pass between the sudden and knowable limits of the sky, hover

in the half-light of evening glances, in the fires burning through the winter, that even in their fading centres tremble towards your likeness. Leanne O’Sullivan

The Fisherman People arrive by water, unspeaking ones keeping close to the hulls of the anchored ships, startling at the bump as they heave to.

Early summer breathes soft and low, wafts the curtains, caresses grass, lightly stirs the hair. MARIO LUZI, «IL FILO DELLA VITA» 269

It’s sunrise, it is the hour when nets are lifted, the hour of tremulous light, its hesitant, uncertain brightening from house to house as it conjures voids and visions that abscond – look – over the trees and beyond the hedges.

A time suspended between what is hidden and what stands open, when it seems the real is not inside us, but in some oracle or miracle about to reveal itself, a time that dupes men – and any hope it inspires can be hope only for a sign or wonder.

My mood detaches me, makes strange shades by the water’s edge and on the wet sand: I keep watching them behind those spars and stunted poplar trees.

Forgive me, it is a mark of the human to search out, as I do, what is close to us, humble and real, in hidden places – there and nowhere else. I crane my neck to follow with anxious eyes the fisherman who comes over to the breakwater and hauls from the sea what the sea allows, a few gifts from its never-ending turmoil. Seamus Heaney

Trout in the Water It whets her senses, combs her thought, this water-flow, this air-flow; vast, it braces her for a leap and springs some wavery memory, short-term, long-term, of icy glimmerings. Crazy, disorienting, the spate cradles and thrashes her in turn, ruffling the present and the past, confusing space and time. She dives to her obscure initiatives, balancing there in muddy clouds, chasing volition fast or slow among the silent weeds below, the emerald dark reviving her; and look, she flings herself on high 270 Una tavola rotonda a cura di Alessandro Gentili

through the grey glass, into the air, dividing weight from shadow, thuds and snaps the fine resurgent line to brightness and transparency.

The river – weaving, varying – splits her vision up and multiplies, with a perpetual change of lights and their refractions, what she sees around that fluent, crystal skin. The waters dazzle here and there but clasp her tightly, take her in, open each turbulent barrier, whirling and eddying, and wrap her rippling body in a cape of power and frenzy, urging her on to her destiny – except she has no destiny, not she, but a generic energy.

The Arno, does it know or does the ever-present thought that thinks there in its place? She rises, sinks, sustained and checked, received again into that breezy, quivering reach, her own true element, true to which from room to room she comes and goes along the lengthening stream of time.

Do they exist or do we dream, in our own human pain, those spun paradises, compliant, free? Does the desire for them explain those exultations? River-daughter, be she compliant or not, she rides the force of the dim river, hides and dozes in the shallow water; rests in a pool between two rocks and dances sometimes in the rain or rapt in a fresh flowery dawn of bulging faces, splashes, foam. She knows and not-knows, like the depths themselves, her closely clinging home, since it’s their wisdom to belong MARIO LUZI, «IL FILO DELLA VITA» 271 to greater wisdom, even perhaps not-knowing the question that still breaks the silence and picks up its song. Derek Mahon

A Prayer for Florence May this bare prayer be said for you, this naked invocation, O Florence, a stele for your dead raised over your rubble your many treasures, visible, invisible, brutalised in their being, offended in their essence. Your most simple mysteries the saints in your story and the others, all that endless coronal brandish it on high billow its spirit and strength besiege the stars the very heavens their lordly abodes. «Justice, accede to the longings of men, come to the field, claim victory.»

May these bitter pleas entreat you, O Florence; city, heart wounded, savaged, not slain, assemble now in prayer as well as in anger. They sought to put out the light you proclaim, so now let the effulgence of your wrath, the flame of your pain, illumine your dark butchers, penetrate the thicket of their minds, their heart’s flint. Through grace and suffering be grand again. Be splendid, toughened 272 Una tavola rotonda a cura di Alessandro Gentili

through sacrifice. May your ancient piety succour you, a new pride sustain you, prudent in your audacity. Pace, pace, pace. John Montague

It is winter It is winter: the dens are dark where you, my own Spring, are making ready. I am sure of your presence, and I await your coming – still faint and far off, but I will know you by the witness of our two timepieces, mine measuring in single nights, yours in the thousands of years. First signs, in the earth’s depths and the depths of the ocean, of a movement inside the world: signs that reach my heart and beat at my breast. Harmony of accident and essence never fail, remain certain forever. Thomas Kinsella

Let go, don’t detain me Let go, don’t detain me In memory – So it was willed In the final testament: This is the fissure Between blessing and emptiness, Or a paradise Of light and freedom With no life crucified, All finally written In the mouldy casket. MARIO LUZI, «IL FILO DELLA VITA» 273

Nor did she take offence – Such unexpected latitudes – Neither profound joy Nor early remorse Escaped from the depth Of her feeling; Only a celestial imperative Carried her from the world Of minor tales, oh grace!

Those two alone, In the presence of anyone, Dissolved one from one, Losing themselves to find the lost self, Purged in restless purgation: Such was their human dream; Such dream, such absolute. Thomas McCarthy Liberto Perugi, Mario Luzi. Fiorella Ilario, Mario Luzi («Bene mai avuto» – da Reportage 2004). Fiorella Ilario, Mario Luzi («Fosti, quanto puoi chiedere, reale» – da Reportage 2004). Fiorella Ilario, Mario Luzi («L'immagine fedele» – da Reportage 2004). Fiorella Ilario, Mario Luzi («Dove mi porti viaggio» – da Reportage 2004). PIERO BIGONGIARI IL CRITICO, IL POETA, LO STORICO D’ARTE

QUALCHE NOTA PER CAPITOLI

Adelia Noferi

1. Le ragioni della scrittura

Ho scelto, incalzata da Anna Dolfi, di introdurre questo libro di Bigongiari critico1 per le sue particolarità: è un libro dichiaratamente incompleto e anche il solo dove si esaminano testi poetici non novecenteschi. Sono dunque Capitoli di una storia della poesia italiana: capitoli vari, distac- cati, ma in vista di una «Storia della poesia italiana» non ancora completata; e che non si completerà mai (l’infaticabile, prezioso Iacuzzi ha trovato manoscrit- to nelle carte bigongiariane l’intero indice di questa Storia che Bigongiari inten- deva scrivere). È un libro, dunque, che resta aperto, che passo per passo si avvi- cina a una meta senza mai toccarla, ma nell’arricchirsi ininterrotto di una nuo- va esperienza. Un bel libro. In apertura del primo di questi Capitoli, il molteplice Piero Bigongiari (poe- ta, critico, storico dell’arte, storico della filosofia…) inizia con lo studio su Guido Cavalcanti associandolo subito a Dante per coglierne immediatamente la diffe- renza: «Il dato fondamentale, a segnare il discrimine tra Guido e Dante, ce l’of- fre Dante stesso nella famosa terzina della Commedia […] “da me stesso non ve- gno: / colui ch’attende là, per qui mi mena / forse cui Guido vostro ebbe a di- sdegno” (Inf. x, 61-63)». Il problema, ormai risolto (anzitutto da Pagliaro) del famoso «disdegno» di Guido, nasceva dalla difficile identificazione non di «colui ch’attende là», che è certamente Virgilio, ma di chi lo ha chiamato a fare da guida a Dante pelle- grino, cioè Beatrice, una Beatrice stilnovisticamente angelicata, che Guido non poteva accettare. Proprio questo disdegno scava il divario tra il «primo amico» e un Dante che stava lavorando appunto all’elaborazione delle «rime della loda» annunciate nel cap. xvii della Vita Nuova, anche se nella Vita Nuova egli pro-

1 Queste pagine di Adelia Noferi erano state pensate per introdurre l’edizione anastatica di Capitoli di una storia della poesia italiana che avrebbe dovuto essere pubblicata dall’editore La Finestra di Trento nella collana (diretta da Anna Dolfi) «Terza generazione». Annullato quel progetto, erano rimaste fino ad oggi inedite. Ci piace riprodurle in questa sede nonostante non siano mai state riviste né rilette da Adelia, come ultima testimonianza (sia pure in minore) di un grande critico su un autore singolarmente amato [a.d.].

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 278 Adelia Noferi clama ancora l’amicizia e l’identità di vedute con l’amico rispetto al «valore me- taforico e letterario della poesia amorosa», accordo «che dovette cessare non ap- pena Dante, verosimilmente con le rime allegoriche e dottrinarie, ne fece scala all’edificazione morale» (CSPI, 3)2. Bigongiari segue passo passo questi eventi, ed aggiunge:

[…] proprio su questo crocevia Dante pronuncia parole di colore oscuro nei riguardi dell’atteggiamento mutato di Guido, mentre esalta la fratellanza e i sensi precorritori, in poesia, del suo «primo amico» […]. Dante si accorge che, per Guido, non è la vesta metaforica su cui la «loda» scivola […], si accorge che non la «bieltade», con quel che comporta di idealizzante, il cuore di Guido mirava, disposto […] a una poetica della «loda», che era invece del tutto aliena al suo animo (CSPI, 5).

Così si esplicitava chiaramente il fondamentale contrasto fra la poesia «tra- gica» di Guido e quella «comica» di Dante, che sarà il filo conduttore di tutto il saggio, talvolta mirando verso Dante, talvolta verso Guido. Nel primo caso, ad esempio, notiamo anzitutto la precoce scoperta della presenza cavalcantiana nel Dante «petroso», quello sul quale si è esercitata largamente la critica più recente:

Dove però la dialettica tra Dante e Cavalcanti […] attinge il suo culmine più drammatico e avviluppato, è proprio il periodo «pietroso» di Dante. Qui Dante pare esaminare il linguaggio cavalcantiano al lume di un plasticismo analitico che finisce per negarlo […]. Dante «punisce» quel linguaggio nell’estrofletterlo dal suo piano intellettivo, […] nel fisicizzarlo tutto per accordarlo agli atti della «bella petra» […]. Questo straordinario esperimento ha portato Dante a «im- pietrare» la stessa materia del suo canto […] nel loro stile allusivo le petrose di- sincarnano intellettivamente proprio il linguaggio cavalcantiano (CSPI, 9-11).

Nel secondo caso Bigongiari scava nel linguaggio di Guido ciò che più lo allon- tana da Dante: il rifiuto dell’allegoria. Mentre Dante spostava la questione sul piano teologico nella grande impresa allegorica della Commedia, «Cavalcanti ha subito sconfinato nella sua drammatica interiore perché si è rifiutato di scarica- re la questione in termini di allegoria» (CSPI, 14). Non solo: «È facile consta- tare quanto la visualità dantesca si risolva in termini temporali e tipici, mentre in Guido diviene subito spaziale e atipica». E il critico così verifica il confronto:

Dice Dante: «come di neve in alpe senza vento», e Guido: «e bianca neve scen- der senza venti». Forse Dante aveva nell’orecchio l’immagine del suo primo amico, eppure in lui la similitudine è come bloccata, nella sua stessa oggetti- vità, e in Guido essa tinge l’aria del suo biancore, quasi la fruga nel suo ralenti

2 Con la sigla CSPI si rinvia ai Capitoli di una storia della poesia italiana seguita dal rimando secco di pagina. QUALCHE NOTA PER CAPITOLI 279

[…] cioè rende evidente uno spazio infinito […], una trasparenza resa sensibile all’occhio dal suo stesso fondo luminoso (CSPI, 34).

Questo Cavalcanti bigongiariano accetta dunque la sua condizione medie- vale di maudit, ma sperimenta anche, nel moltiplicarsi e succedersi delle visio- ni, nascenti l’una dall’altra, «l’ineluttabilità favolosa della visione e la sua intan- gibilità». Anzi: «il vedere supera la facoltà di comprendere». Nell’analisi, inol- tre, dei singoli testi il critico evidenzia le modalità sintattiche e foniche di Guido per cui «la poesia nasce come stato di crisi, ma si risolve come rappresentazio- ne», ma soprattutto rileva e studia la «filosofia» cavalcantiana nei suoi complessi rapporti con San Tommaso, Averroè, Aristotele, Alessandro d’Afrodisia…, che portano al riconoscimento di un’impossibilità: quella di unificare passione e co- noscenza: «Cavalcanti ha interrotto il processo di una conoscenza astratta, con- seguibile solo in termini logici, arroccato al suo scoglio dove tempesta la passio- ne» (CSPI, 42). «Ed ecco che il mondo di Cavalcanti si rivela come una pura cosmografia di forze scatenate a cui l’uomo assiste a uno spettacolo di forze na- turali» (CSPI, 52-53).

2. L’«itinerarium mentis in Deum»

Si potrebbe definire la strategia critica di Bigongiari secondo queste tappe: cogliere un punto sensibile del testo esaminato, analizzarlo attentamente, rico- struire intorno ad esso le complesse direzioni nelle quali lo scrittore si muove e a sua volta costruisce il testo. L’abbiamo visto nella «visionarietà» di Cavalcanti; lo vedremo ora nella «fantasia creatrice» e nella «mente che non erra» di Dante: «O mente che scrivesti ciò ch’io vidi / qui si parrà la tua nobilitade» (Inf. ii, 8-9). Il capitolo su Dante è intitolato: L’inventio dantesca e il mito antico, e Bigongiari inizia proprio nell’indicare le direzioni nelle quali si inoltra il poeta dopo la pausa dell’xi canto: «riempita dalla vena pedagogica che ci frutta l’ordi- namento morale dell’Inferno, la musa dantesca pare inoltrarsi in una situazione che, mentre è di sfida […] al mito antico, […] anche si chiarisce nelle sue am- bagi e ambiguità inventive» (CSPI, 57). E aggiunge:

Sfida al mito, dico, per contrapporvi un’invenzione che renda in concreta carne morale […] la sua precipua qualità favolosa e, in quanto tale, di sotteso ordine razionale. Ecco dunque che il viaggio crescit eundo […] sui suoi incidenti in- ventivi […] e diventa verosimile non tanto come mero itinerarium mentis in Deum, quanto come realtà dell’itinerario […] che proprio si verifica in quanto itinerario […]. Il rationabile quiddam, insomma […] la doppia lezione del mito, s’è insinuato in Dante attraverso la porta dell’allegoria, ma vi si è stabilito in tutta la sua complessità proprio nel suo disfarsi di tale razionalismo di partenza […]. (CSPI, 59-63). 280 Adelia Noferi

E sappiamo quanto il motivo del viaggio, dell’itinerario, affiori anche in Bigongiari poeta. Nella discesa faticosa verso il fondo, di «ruina» in «ruina», Dante personag- gio fa diversi incontri che si richiamano ai personaggi umani o bestiali dei miti (il Minotauro, i centauri, le Erinni, Medusa…) e il critico osserva come tali elementi non confliggano tra loro, anzi si sostengano vicendevolmente, lascian- do spazio addirittura all’autobiografia. Ad esempio, nell’episodio dell’incontro con Brunetto Latini, l’amato maestro che aveva insegnato a Dante «come l’uom s’eterna», gli chiede: «Qual fortuna o destino / anzi l’ultimo dí qua giù ti mena? / e chi è questi che mostra ’l cammino?». Dante risponde: «La sù di so- pra, in la vita serena / […] mi smarri’ in una valle, / avanti che l’età mia fos- se piena. / Pur ier mattina le volsi le spalle: / questi m’apparve, tornand’io in quella, / e reducemi a ca per questo calle». E Bigongiari commenta: «Dante, rispondendo, comincia a storicizzare il recente accaduto; è un racconto nel racconto […] un ricordare provocato dalla stessa parte inventiva del ricor- do: che è un aggiungere realtà al reale fantastico […]. Entro questi termini Dante ricupera, proprio col suo oltremondo, a poco a poco all’uomo il mon- do della storia: l’oltremondo, come antimateria localizzata attraverso il lin- guaggio» (CSPI, 60-65). Qui mi permetto di aprire una parentesi: come è noto Antimateria sarà il tito- lo di un libro poetico bigongiariano, datato 1972, ma che contiene testi dal 1964 al 1971, particolarmente importante in quanto segna una delle svolte della sua poesia. Il saggio su Dante è del 1964. E dell’ottobre ’65 è la risposta ad un’inter- vista dove gli si chiede «qual’è la sua tecnica di lettore», «qual’è il vero rapporto tra il critico e l’autore»; ed egli scrive: «La critica è in partenza una scienza, ma è in arrivo un’arte: la critica è invenzione […], occorre preparare la storia a un testo, e allora si vedrà che ogni testo che conti ha la sua storia»3. Torniamo a Dante, del quale Bigongiari segue con la massima attenzione non solo il viaggio, ma quello che il viaggio opera sul Dante-scrittore, quello, insom- ma, che modifica passo per passo il pensiero e la scrittura di Dante. Prendiamo ad esempio l’episodio di Farinata che il critico dichiara di dover considerare «non tanto come un momento della dolorosa rissosità politica del poeta, quan- to anzi il momento in cui il poeta supera questo dolore di un vero acerbo nel- la scoperta che il vero è più maestoso degli uomini e degli avvenimenti […]. Sicché l’episodio si risolve in una sorta di sublime soliloquio dell’animo contra- stato di Dante con se stesso: è una lotta con se stesso che non per nulla lo lascia “sì smarrito”» (CSPI, 80-81). Gli svenimenti del Dante-personaggio ne saran- no la prova. E il critico aggiunge: «[…] la finzione dantesca, cioè l’intrattenersi dell’invenzione poetica ancora nel proprio stato mentale […] è appunto questo

3 Piero Bigongiari, Nel mutismo dell’universo. Interviste sulla poesia 1965-1997, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 8. Ma forse anche il titolo di quel testo (inventato da Anna Dolfi a partire da un sintagma bigongiariano) ha una sua storia. QUALCHE NOTA PER CAPITOLI 281 ricupero […] da una condizione simbolica, di una realtà scatenata nella sua fi- nale, decisiva integralità» (CSPI, 110). Ma se Dante-personaggio sperimenta interamente la drammaticità delle situazioni e degli eventi del suo viaggio, Dante-scrittore sperimenta anche la propria inventio linguistica: «questo centrifugo rapprendersi in linguaggio […] del reale messo alla prova, in cui l’uomo deve adoperare la sua facoltà d’inter- vento, di scelta, di lotta». Fino all’Empireo: «lo luogo di quella somme Deitade che sola sé compiutamente, vede… Questo è lo soprano edificio del mondo, nel quale tutto lo mondo s’inchiude» (Convivio, ii, 3, 8-11; CSPI, 111-112). Il viaggio di Dante, lo sappiamo, ha come somma meta Dio stesso; ma sap- piamo anche che quel viaggio è, in realtà, una scrittura: la scrittura del poema. Bigongiari sottolinea: «Dante, intendo, arriva a Dio, trascinando Iddio nelle pos- sibilità stesse creatrici della poesia […]. È la poesia che realizza la propria divi- na qualifica via via che si demitizza la parola […] la parola è sentita come ver- bo, cioè via via che la parola si incarna rispetto all’essenza quanto più si sveste rispetto al velo torbido dell’esistenza» (CSPI, 114-115). Ma, nella prosecuzione del viaggio «l’irreversibilità estetica della favola si corregge in Dante con la reversibilità etica, razionalmente controllata […] dal- la nuova scienza teologica» (CSPI, 1524). In questa nuova dimensione Dante può avvalersi, insieme, di Ovidio, di S. Tommaso, di Agostino e dello Pseudo Dionigi…, mentre l’allegoria andava svanendo: «E ora, al posto dell’allegoria […] è la perfetta dicibilità del reale: che si sostanzia […] nella sua esemplari- tà attraverso questa metamorfosi linguistica» (CSPI, 156-157). Fino a quando, al «culminare della peregrinatio dantesca», si affonderà anche la parola, fino alla Enosis; l’unione col «fulgore superessenziale della divina tenebra» si compie, e «la suprema metamorfosi è proprio nel supremo partirsi […] della mente uma- na verso la mente una e immutabile di Dio» (CSPI, 163).

Nel ’77 Bigongiari scrive un saggio dal titolo L’ermetismo e Dante5, in par- te quasi come un consuntivo della propria lunga dimora con Dante. All’inizio del saggio si legge:

Contrariamente a una diffusa quanto erronea ipotesi critica che l’ermetismo si sia svolto sotto il segno dominante del Petrarca […] è da dire che una delle com- ponenti segrete, ma tra le più portanti, della cultura dell’ermetismo, è rappre- sentato proprio dalla poesia dantesca, in tutta la sua ratio […] per cui il lavoro poetico si svolge su una materia resistente al puro lirismo [che è un ennesimo rifiuto della ‘poesia pura’].

4 Qui come in pochi altri luoghi la successione dei passi della citazione è alterata rispetto all’originale, pur nel giusto rinvio di pagina [a.d.]. 5 Piero Bigongiari, L’ermetismo di Dante, in Poesia italiana del Novecento [d’ora in poi PIN], Milano, Il Saggiatore, 1980, II, pp. 441-451. 282 Adelia Noferi

E, nella penultima pagina:

È il linguaggio che possiede il poeta, e non viceversa, e questo almeno l’ho im- parato da Dante, cioè dal peregrinante che restituisce a Dio, attraverso il proprio itinerarium mentis in Deum, una creazione che solo attraverso questo «viaggio» acquista questa possibilità di restituzione, che altrimenti vivrebbe, lontana da Dio, in uno stato caotico […]. Questo «aiuto a Dio» è quanto l’ermetismo ha ricavato in termini consequenziali, dall’aiuto della grazia divina a Dante perso- naggio-poeta dal fondo più fondo dell’abisso (PIN, p. 450).

3. La scacchiera della mente

Giunto al Quattrocento, Bigongiari sceglie per illustrarlo due esemplari co- spicui: Le rime di Leon Battista Alberti e La lirica laurenziana. Vediamo il primo. Proprio in questo 2005 è stata organizzata a Roma la bella mostra dal tito- lo La Roma di Leon Battista Alberti. Umanisti, architetti e artisti nella città del Quattrocento, a cura di Paolo Fiore. Ma già nel 1966 Bigongiari si rallegrava con Cecil Grajson per la sua intelligente fatica in favore dell’Alberti con la pubblica- zione delle Opere volgari e delle Rime e Trattati morali e con Eugenio Garin «per la preziosa scoperta e l’edizione delle Intercenali inedite». Le differenze tuttavia sono assai indicative: la recente mostra romana è indirizzata soprattutto verso l’Alberti nella Descriptio urbis Romae e della De re aedificatoria, insomma verso un Alberti umanista e teorico sia della pittura che dell’architettura e delle arti in genere. Lo studio bigongiariano, di molti anni prima, è volto invece esclusi- vamente all’Alberti poeta, come subito dichiara: «[…] qui vogliamo, con qual- che sparsa annotazione sul valore della lirica albertiana, estrinsecarla, avverten- do che l’Alberti si accampa di diritto […] come il più alto anche se esiguo liri- co del primo Quattrocento fiorentino» (CSPI, 176). E, dopo avere, ovviamente, rilevato l’elemento carnascialesco della poesia quattrocentesca, si sofferma sulle particolarità albertiane: anzitutto sul valore della contraddizione (una tematica assai frequentata dal critico), esemplificata nel famoso sonetto «Io vidi già seder ne l’arme irato / uomo furioso pallido tre- mare…», ancorandola al problema dell’irrazionalità della natura di contro alla ragione dell’uomo:

Nel sistema albertiano si dà contraddizione per eccesso: cioè il dominio delle forze naturali, da parte dell’uomo, arriva a un limite oltre il quale la volontà umana […] cede. Nasce allora la contrapposizione tra la potenza infinita della spinta naturale, e la condizione ablativa della risultante umana […] con un ro- vesciamento della potenza infinita appunto in un atto finito […]. È un voltarsi dal naturale infinito, per contraddizione, nella moralità istintiva e finita dell’atto […]. La sapienza albertiana è in questo crescere istintivo di razionalità nel razio- nale […]. La simmetria albertiana nasce dunque per contraddizione di elementi QUALCHE NOTA PER CAPITOLI 283

che si rivelano finalisticamente opposti proprio per l’eccesso […] di identità […]. La possibilità di ottenere una figura da questa virtualità infinita, infine la possibilità di significarla, è coscienza della finitudine, e dunque avvertenza significativa della contraddizione (CSPI, 177-180).

Ecco, è il farsi figura della «infinita virtualità», e cioè la possibilità di signifi- carla, che permette all’Alberti di costruire la propria poesia:

La poesia in parola dell’Alberti accoglie un’asciutta energia che le deriva da que- sto immediato restringersi in figura, e dunque in coscienza figurata […] che sembra allargarsi […] intorno ai magri segni che evocano il consistere della po- tenza naturale nell’atto verbale […]. Questo Alberti […] aggiunge la geometria dei contrasti, e un senso istoriato dell’immaginare […] come un fissarsi com- patto in bassorilievo di questa scienza umana che si fa figura (CSPI, 180-181).

Già con questo «bassorilievo» Bigongiari introduce un certo rigore nella ‘fi- gura’ albertiana (e difatti poco oltre dichiara: «Alberti non è volatile, né incer- to», CSPI, 181), ma propone anche la metafora di una scacchiera, che geome- trizza in certo modo la poesia albertiana:

Talché risulta tangibile il pensiero lirico nel suo più alto giuoco in questa scac- chiera della mente, che le Rime […] ci permettono di rintracciare in tutta la sua complessità. / La sestina pare forma metrica particolarmente appropriata per la geometria albertiana […]. Le parole ritornanti in rima divengono come i pezzi sulla scacchiera […] (CSPI, 183).

Ma questa geometrizzazione non inaridisce la poesia, se «le parole posano nel- la loro ultima intensità» (CSPI, 183-184). E il critico cita ad esempio il testo di «Io miro, Amor», commentando: «Questa stupenda “bagnante” quattrocen- tesca è degna d’un Mallarmé raddoppiato d’un Gustave Moreau: il lume che la investe è un ceruleo liquor stellare» (CSPI, 184). Quando invece Alberti ricupera «una realtà non ancora messa in geometria della tensione finale del linguaggio […], che si andava corrompendo nel rima- re alla burchia, cioè in una favolosa, in una incontrollabile superfetazione […] del reale prelinguistico», allora si avrà il realismo burchiellesco di una fermenta- zione […] non ancora inquadrata nell’astrazione del linguaggio, fino al prelin- guistico «Tullurullurù, suon di balocchi» (CSPI, 185). E Bigongiari aggiunge:

Insomma anche qui il fregio tematico è prima di tutto un bassorilievo linguisti- co: mero linguaggio che prosegue, come il prelinguaggio della frottola palazze- schiana, i «cloffete cloppete» della fontana malata, il suo zampillo. Sicché non v’è ombra di ritardo mentale: pare anzi il proprio della mente questa perfetta immedesimazione d’una levità ritmica […] con la propria interiore morfologia. (CSPI, 190). 284 Adelia Noferi

La «scacchiera della mente» albertiana misura così anche ritmo, nelle sue varia- zioni, del linguaggio poetico.

4. Lorenzo de’ Medici e «la pura verità formosa e bianca»

La riflessione di Bigongiari sulla lirica di Lorenzo ha radici lontane: precisa- mente nel Giornale del 10 gennaio 1944 (pp. 50-51), dove Lorenzo è visto vive- re la sua poesia in un’«atroce solitudine», «nella rappresentazione di un se stesso inconoscibile» e «nel senso prospettico mantenuto nella distanza […] della real- tà apparente». Un Lorenzo, dunque, tragico, senza alcun appiglio a qualcosa di certo. Il Lorenzo bigongiariano del nostro libro (nel saggio intitolato La lirica laurenziana e il rapporto tra le arti nel Quattrocento, di ben 38 pagine) è diverso, e soprattutto collocato in una zona assai più ampia, dove l’oscurità si alterna e si mescola con la luce. All’inizio egli appare impegnato faticosamente nello sforzo di «risalire agli archetipi», cioè «dal petrarchismo, attraverso il neoplatonismo, fino al ricupero di uno stilnovismo tentato come un archetipo lirico, come un primum delle possibilità stesse espressive del linguaggio. Allora, nell’investirsi di codesta tematica, il linguaggio risuona cupo» (CSPI, 193). Cupo, ma non tragico. Si tratta piuttosto di una situazione permanente di crisi: quella del passaggio da un’epoca all’altra: «una situazione in perpetuo in- stabile equilibrio» (CSPI, 196). È «l’esperienza condizionata del Rinascimento» rispetto al futuro sperimentalismo galileiano, che «qui si manifesta in tutta la sua preservazione dei limiti, funziona solo come possibilità di polarizzazione de- gli estremi» (CSPI, 197). E Bigongiari cita per esteso le terzine finali del iii ca- pitolo della Altercazione che si chiude con i versi famosi:

L’intelletto e il desir così si stanca: adunque mai non trova la nostr’alma la pura verità formosa e bianca, mentre l’aggrava esta terrestre salma.

Aggiungendo: «“La pura verità formosa e bianca” è il momento neoplatonico di questa oscillazione tra gli estremi aristotelici della scienza poetica e dell’umano operare». E soprattutto è l’impossibilità di raggiungerla fino a che l’uomo è in vita: lo potrà solo dopo la propria morte, se «nel Quattrocento il corpo fa velo all’anima, proprio mentre l’anima intellettiva è riconosciuta come la forma so- stanziale del corpo umano» (CSPI, 198-199). Non solo: vi era anche la «pro- spettiva» che, fermando il tempo ed imponendo uno spazio definito, finisce per imporre «un’astrazione dell’arte che viene staccata dal reale e ricondotta ad un principio eterno» (CSPI, 200). Così la prospettiva, studiata attentamente pro- prio in quegli anni dal Brunelleschi e dall’Alberti (del Trattato della Pittura), con «l’assolutezza della visione prospettica [che] si risolve nel nitore senz’aria, perché QUALCHE NOTA PER CAPITOLI 285 senza movimento, nella cristallina “pura verità formosa e bianca” delle Rime lau- renziane e delle Stanze» (CSPI, 201). Ecco come Bigongiari, in questo giro di parole e di allusioni, riattiva la «pura verità» che Lorenzo aveva decretato inattingibile, spostandola proprio sulla po- esia. Anche se: «alla meraviglia neogotica, che prosegue sotterranea nello stupo- re “naturale” di Leonardo, un po’ per volta si sostituisce la malinconia della ra- gione rinascimentale» (CSPI, 202). Qui è comparso Leonardo, ma da qui avan- ti il discorso bigongiariano tocca tutta l’arte (soprattutto pittorica) del primo Rinascimento: Michelangelo, Filippo Lippi, Donatello, Botticelli, e ancora l’Al- berti. Parallelamente, accanto a Lorenzo compare Poliziano, ma anche Petrarca; ad esempio: «rispetto al Petrarca, al “legato” petrarchesco, questo è un “fuga- to” rotto in mille luci» (CSPI, 224). In quest’ultima parte del saggio, insomma, Bigongiari, accostando la poesia alle arti figurative, dichiara ed addirittura di- mostra ciò che ha da sempre creduto: l’intrecciarsi strettissimo tra la poesia e le arti figurative: «Così Lorenzo, per mezzo di immagini sottili e profonde riece a presentarci un quadro pittorico […] fino a renderci l’idea del pensiero poetico che oscuramente lo gestiva» (CSPI, 226). Questa, appunto, è la «poesia pensie- rosa» di Lorenzo de’Medici.

5. Le favole e la Favola

Cerchiamo di immaginarci Piero Bigongiari che ha concluso da poco il volu- me Testimone in Grecia (1954), e, poco dopo, Testimone in Egitto (1958), e che si trova ancora «tutto con la mente impegnata tra gli dei-sciacalli, gli dei-tori, gli dei-Ibis dell’antico Egitto», quando gli giunge la richiesta di parlare del Clasio, il settecentesco autore di favole di gusto lafontaniano, una favolistica di discen- denza arcadica, dove «questa animalistica ronza, gironzola, si direbbe, a passo di danza, si punge ad arcadici spini». Che cosa fa? Accetta «per rinfrescar la mente fra i cristallini animali parlanti del Clasio» (CSPI, 233-235). Così, pressappoco, inizia il capitolo Introduzione al Clasio (1954). Ma chi gli ha fatto la richiesta forse non sa che ha toccato un punto assai sensibile del critico-poeta. Nel Preludio di Visibile Invisibile (la raccolta del 1985 di saggi variamente datati) si legge:

Questo libro, […] se lo sottintende un Bildungsroman […], lo muove un’o- scura odissea tra azione e riflessione, con accenti che […] mirano al favoloso […], se l’autore non s’illudesse che intorno a questi frammenti cristallizzati si riflette […] l’avventura di una continuità. Sono pertanto racconti, riflessioni, favole, moralità, che si congiungono e si disgiungono tra loro nel tentativo di una biografia, che non sia, per quanto possa sembrarlo o fingerlo, un’au- tobiografia. 286 Adelia Noferi

I «cristallini animali parlanti del Clasio» non hanno forse suggerito i «fram- menti cristallizzati» di questo Preludio, che «mirano al favoloso» e «sono per- tanto racconti, riflessioni, favole, moralità»? E perché una biografia che non sia un’autobiografia? Perché, al tempo di Visibile Invisibile, Bigongiari ha già speri- mentato lo scindersi del proprio Io per «affidare all’altro, all’altro che è nell’Io, qualcosa […] di decisivo, qualcosa che apparteneva all’Io prima di scinder- si». Aggiungendo: «L’uomo è circondato dalla favolosità del reale, ma deve pur estrarre la realtà dalla favola per vivere il suo reale». Se: «Fabula docet più che non l’historia»6. Comunque Bigongiari rilegge il Clasio e anzitutto ricorda la differenza fon- damentale tra il mito e la favola: «il mito è sempre a fondo religioso, la favola a fondo razionale» e sono proprio «le epoche razionali che sussidiano le loro scar- se facoltà mitologiche col gusto favolistico». Per cui «Il retroscena della favoli- stica clasiana è a buon diritto il secolo dei lumi […], in cui vengono a contat- to Arcadia e ragione, Metastasio e Cartesio» (CSPI, 234). Ma ricordando an- che che Leopardi ha pur iscritto nei suoi Canti la «povera foglia frale» che imi- ta Arnault (appunto nell’Imitazione), e che d’altronde qualcosa del «riassumersi didascalico della favola è rimasto nelle brevi increspature gnomiche in cui […] vengono a concludersi gli stessi idilli» (CSPI, 235). Del Clasio, inoltre, rileva la capacità di attenuare, forse nascondere, il mo- ralismo nella fantasia e musicalità dei versi: «Nella trasparenza della fantasia le cose e gli animali sono vagheggiati con un lieve, dissimulato sorriso […] sfug- gendo al tranello didascalico e moralistico […]. Donde la gran varietà di accen- ti, di ritmi, di metri della sua opera» (CSPI, 237). «Favoloso allora risulta […] l’apparire delle cose; e gli animali son di covo, gli uccelli di nido, gli alberi ver- deggiano, le nevi albeggiano […] seppure con un che di sbiadito che è tono con- ferito alla favola dalla sua distanza» (CSPI, 241). E Bigongiari critico ci offre anche le parole del Clasio dalla Lezione sopra l’Apologo, che si chiude con que- sta definizione della favola: «Mi sembra possa ragionevolmente definirsi la fa- vola “una finta azione di cose corporee, che espressa e dipinta all’anima come se fosse presente, rende sensibile e per conseguenza più chiara […] un’astrat- ta verità morale”». Quando tuttavia egli stesso aveva scritto, congedandosi dal- la Lirica Laurenziana: «L’uomo si rivela un inventore di favole, la cui morale la stessa perfezione favolosa gli sottrae».

6. Il «sesto senso umano»

Il capitolo successivo è intitolato Leopardi e il senso dell’animo. Nella Notizia bibliografica del volume che doveva essere il libro conclusivo dei suoi studi leo-

6 P. Bigongiari, Visibile Invisibile, Firenze, Sansoni, 1985, pp. 185-186, 224. QUALCHE NOTA PER CAPITOLI 287 pardiani, cioè il Leopardi del 1976 (Firenze, La Nuova Italia), Bigongiari elenca i titoli e le date dei suoi scritti sul poeta che, come è noto, è stato l’assillo di tutta la sua vita. Vediamo così che per il nostro libro utilizza proprio l’ultimo saggio leopardiano che allora aveva scritto, datato 1967, dopo il Leopardi di Vallecchi del ’62, che aveva ancora il titolo del suo primo incontro col poeta (L’elaborazione della lirica italiana, quello della sua tesi di laurea nel 1936 e delle successive ri- prese, intitolandolo appunto Leopardi e il senso dell’animo. E specifica anche i nuovi strumenti critici adoperati, cioè quella ‘critica delle varianti’, ripresa subi- to da Contini, che trionfò negli anni Sessanta e Settanta. Poco più tardi (nel ’73) in una intervista di Claudio Toscani, che gli chiede- va che cosa tentasse ancora nella poesia di Leopardi «tra penetrazione psicologi- ca ed ermeneutica formale», risponde:

Leopardi è stato la mia grande e continua tentazione critica. Lei sa che non ho mai smesso di pensare a Leopardi. Il succo del mio riflettere è che occorre togliere Leopardi alla serie delle sue leggende successive […]. È bene che il nostro tempo affronti con gli strumenti più acuti la grande struttura fluttuante dell’opera leopardiana.

Proprio questa «struttura fluttuante» costituisce il «senso dell’animo»:

[…] è un mareggiare sensibile dinanzi al vuoto creato dalla ragione […] per far sì che il «senso dell’animo» possa dimostrarvi totalmente la propria feno- menologia […] questo scambio tra materia e pensiero, questo imbeversi di materia del pensiero, fino a divenire una «materia pensante», che come una spugna è pronta a restituire quanto essa ha imbibito […]. I grandi idilli sono fatti di «materia pensante»: una «materia» che […] gronda di un pensiero concreto (CSPI, 252-254).

[…] è il sentimento che Leopardi contrappone al patetico dei moderni […] un sentimento che ha una sua consistenza sensibile, quel sentimento che s’avvia a essere il «senso dell’animo», quasi il sesto senso umano (CSPI, 257).

Ma nella citata Notizia bibliograficaera emerso un altro, inaspettato ele- mento: quello di un rapporto tra Leopardi e Manzoni. Avviandosi alla conclu- sione della Notizia, Bigongiari stringe le fila del suo lungo, intenso lavoro su Leopardi, giungendo a toccare le «profonde scaturigini» del poeta di Recanati, quelle «radici» che «affondano in un terreno meno esplorato, più distante […] dove il poeta si inventava […] l’età moderna, come nessuno mai in Italia sa- prà indicarci, se non forse con gesti opposti ma convergenti, il suo avversario dialettico: il Manzoni». In realtà, proprio nei Capitoli di una storia della poesia italiana Bigongiari ave- va già dichiarato sia il valore del «senso dell’animo» attraverso «la riflessione, la quale sta all’intelletto come la sensibilità sta al sentimento o “senso dell’animo”»; 288 Adelia Noferi sia il rapporto Leopardi-Manzoni come «il punto profondo di maggior contat- to, sul piano della poetica, di due poeti tanto diversi poi sul piano della poesia: dico Leopardi e Manzoni». Indicando come «punto di sutura» tra due conce- zioni uguali di direzione, ma di senso opposto, l’immaginazione: «in Manzoni altrettanto forte che in Leopardi, seppure nascosta nel segreto dell’eleaborazio- ne poetica, per esempio, degli Inni sacri» (CSPI, 264-265). Non per nulla il capitolo seguente si intitola: Gli «Inni sacri» del Manzoni, che il critico aveva già scritto nel 1956.

7. L’impeto e la distensione

Postosi di fronte a Manzoni, Bigongiari divide il saggio sugli Inni sacri in tre capitoli per coglierlo da diversi punti di vista: la poetica, la fantasia e la «di- namica» della poesia; in modo che venga visto nella storia, nelle ragioni, nel- le tonalità degli Inni sacri; ma allargando spesso l’orizzonte verso gli altri poeti: ovviamente, Leopardi e «l’alto modello ideale» di Racine. Ma, anzitutto, trat- ta della staordinaria qualità della poesia negli Inni sacri: «una poesia di presenza tremenda del sacro»; «questo impeto ritornante, agognato, aggressivo»; «questa evidenza immediata in questo balzare dal profondo del fantasma poetico […]. Insomma: era la poesia dei “veri” che si sostituirà alla poesia ornamentale pre- cedente» (CSPI, 297-299). È una violenza che tuttavia si distende quando all’impeto era ormai subentra- ta «la ragione attiva e dominante» e, semmai, «tendeva a compiacersi di una im- maginazione foltissima, quasi, è stato detto, surreale, a inselvarsi in questo giu- oco immaginativo» (CSPI, 297). E aggiunge: «È proprio di ogni poeta questo impeto e questa distensione, solo che nel Manzoni, nel momento della disten- sione, rientrava quella che è la sua elementare riflessività, che lo portava […] a “sliricarsi” […]. È, in altre parole, l’ingresso della “raison” in mezzo ai fantasmi dell’immaginazione» (CSPI, 298). Anche se quella razionalità viene profondamente intaccata dall’«avvenimento impensato che mette in moto il meccanismo dell’emozione» (la morte di Napoleone, la morte della moglie Enrichetta nel Natale del ’33), quando gli Inni sacri assume- ranno «la forte intonazione e le impennate date da un contenuto che si rivolgeva impetuosamente nell’intimo della fantasia scossa dal suo apparire» (CSPI, 299). Eppure, osserva Bigongiari, proprio negli Inni sacri, malgrado le moltepli- ci tentazioni, «noi vediamo verificarsi […] quella consistenza ineliminabile dei fatti in mezzo ai pericoli della loro assunzione lirica» (CSPI, 303). E ancora: «In Manzoni, nel suo operare poetico c’è un continuo atto di consegna della rifles- sione all’immaginazione, e un decantarsi successivo di questa in quella. Il pun- to in cui si incontrano è sempre in movimento, appartiene alla dinamica più se- greta del suo lavoro». È questo movimento che porterà «fuori della poesia, ver- so la prosa del romanzo […] via via che si passa dal primo Inno del ’12, attra- QUALCHE NOTA PER CAPITOLI 289 verso il diradarsi di questo impeto poetico che va di pari passo con l’accavallar- si e l’approfondirsi della vena storico-morale» (CSPI, 310-311). A questo punto possiamo anche verificare, nelle pagine bigongiariane, gli echi delle «sorde polemiche» con Leopardi (cfr. CSPI, 303), o, al contrario, le acquisi- zioni ricavate da Racine (cfr. CSPI, 312-316), con le loro precise dimostrazioni. Il critico inoltre non esita a spingersi verso la prosa (ad esempio: Fermo e Lucia) e le tragedie, sempre con analisi acute dei testi esaminati, servendosi e citando: lettere, riviste, carteggi, e Fabris e Rezzonico e Tommaseo. Ed è proprio Tommaseo che raccontava, a proposito dell’origine degli Inni sacri, che «a un tale che gli domandava come avesse fatto a trovare la poesia ne- gli Inni sacri, Manzoni rispose: “pensandoci”». Che è il famoso «pensarci su» che è rimasto l’emblema della poetica manzoniana.

8. Pascoli tra simbolo ed immagine

Bigongiari, a cui spetta di concludere un’annata pascoliana, dichiara subito le sue intenzioni: quelle di esporre alcune idee sull’Anti-Pascoli, «su quella che si potrebbe ritenere l’antimateria pascoliana, cioè la poesia dei Poemi convivia- li». Aggiungendo: «io così affermo che il Pascoli delle Myricae, dei Poemetti e dei Canti di Castelvecchio non esisterebbe, non potrebbe esistere senza il controcanto dei Conviviali […] «Arbusta iuvant humilesque Myricae» […] e dunque […] inol- triamoci tra le piante d’alto fusto della «ingens silva» pascoliana. Dove, subito, l’o- rizzonte si perde». E perché mai? Perché il poeta si accorge «che la storia non tiene, che l’uomo va sempre più a fondo in un mondo figurato […] come in un gorgo […] che la storia è come la natura: indeterminabile altrimenti che nell’interpreta- zione continua del proprio io» (CSPI, 329-330). Un io, tuttavia, che il poeta deve prestare ai suoi mitici personaggi (Odisseo, Anticlo, il Ciclope, le Sirene, Calipso, Ascreo, l’etera, Psiche…), un Io che non è più una monade, ma, nello spazio del mito, «la monade si fa simbolo e simbolo di una impossibilità finale». Non solo:

Tra il Pascoli e il suo Odisseo c’è questo poter essere, in più, del secondo sul primo, un poter essere che forza il doloroso dover essere, continuo e assillante, del Pascoli verso la libertà dell’orizzonte e del sogno (CSPI, 331).

Resta insomma inattingibile quel «reale» che il poeta cercava, «sostituito da una favola fulminea che simbolizza una realtà non altrimenti percepibile» (CSPI, 331). Ma che arriva a condensare nel suo mistero tutto l’irrazionale romantico. E Bigongiari precisa, mirando al Novecento: «Al di là di tale poetica si evolve la razionalità novecentesca, quella che in uno Sbarbaro, in un Montale […] è un fenomeno oggettivo, non una dilatazione soggettiva» (CSPI, 332). Passando poi ad analizzare in Pascoli le funzioni che più hanno sostenuto e alimentato i Conviviali: quella dell’immagine e quella della favola: 290 Adelia Noferi

Nell’immagine è una pienezza umida, ondosa […]. L’epiteto omerico […] viene a decentrarsi in questa ottica atmosferica, creando nuovi centri favolosi […]. L’aria dei Conviviali […] è intimamente policentrica: la cosa vi spare – o vi tra- spare? – in immagine, questa a sua volta generatrice di costellazioni d’immagini, intorno, in cui l’impossibile cosa è affabulata […]. Il poeta vede per immagini successive nitide e insieme attutite dai termini favolosi (CSPI, 334-335).

Per cui il processo discorsivo «ha un che di sacro, di litaniale» (CSPI, 335). Aiutato dall’intenso uso della congiunzione copulativa, che «ha la funzione di riunire in termini omogenei, ma in realtà supera una distanza stellare»; come ad esempio nell’Ultimo viaggio, quando Odisseo si inoltra nell’isola di Enea:

E nulla udì nell’isola deserta, e nulla vide; e si tuffava il sole, e la stellata oscurità discese dove «il linguaggio paratattico segna le battute della litania in un ritmo incantato». Proprio in questo Ultimo viaggio, là dove Pascoli si spinge non verso la morte, ma al di là della morte, «si entra nell’alone della “malattia mortale” del Novecento» (CSPI, 340). Perciò nelle ultime pagine troveremo richiami a nomi ormai no- vecenteschi, e non solo di letterati e poeti, ma anche (e soprattutto) di artisti e pittori che tanto interessavano, come è noto, a Bigongiari: Gauguin, Puvis de Chavannes, Seurat, Picasso, Strindberg, trovando in un’opera di quest’ultimo addirittura «un’affinità avanti-lettera stupefacente con l’atto fortuito che è alla base della pittura informale e tachiste dei nostri anni». E, avviandosi a conclu- dere: «Allora l’utilità di questo Pascoli, per noi uomini del Novecento, è indi- retta, ma autentica: chiude una stagione, ma la chiude ex imis se «è nel Pascoli “conviviale” che tale simbolo, ormai spettrale, […] si spezza, cedendo all’uomo nuovo la libertà difficile e problematica dei propri atti indirizzati alla ricerca dei propri lari perduti» (CSPI, 342-343). dicembre 2005

Avvertenza conclusiva (di Anna Dolfi)

Nel maggio del 2014 (dopo qualche anno di isolamento forzato, di dolorosa malattia, di cui cominciarono a manifestarsi i primi segni proprio nel dicembre 2005, la data su cui si chiudono queste pagine, rimaste fino ad oggi inedite) se ne è andato uno dei critici più moderni, colti, acuti, appartati, del nostro secondo Novecento. Se avesse avuto vita e salute, l’avremmo vista senza dubbio tra noi nel corso delle cinque giornate fiorentine, e l’avremmo sentita prendere la parola quanto meno negli spazi dedicati a Bo, a Macrí, a Luzi. A Bigongiari avrebbe invece – credo – riservato un intervento, quale testimonianza di un’in- tellettuale sintonia, e di una critica, amichevole, lunga fedeltà. Adesso questo QUALCHE NOTA PER CAPITOLI 291 testo, da lei non rivisto (dunque più che perfettibile per la sua intransigenza), ci dà l’occasione non solo di colmare almeno parzialmente un’assenza, ma di ri- percorrere velocemente la storia di un’avventura culturale sviluppatasi negli anni dell’ermetismo, a distanza ravvicinata con i suoi autori e valori. E di ricordare che mitici rimangono i suoi libri, dal giovanile L’«Alcyone» nella poesia dannun- ziana, pubblicato da Vallecchi nel 1945, a poco più di 22 anni, che le valse l’at- tenzione di Benedetto Croce; ai Frammenti per i Fragmenta di Petrarca (Roma, Bulzoni, 2001), che testimonia una lunga passione per un autore (Petrarca) e per un genere, quello, inesauribile, del commento. Libri che consentono di tracciare un arco che da solo, per l’ampiezza della cronologia (dal Medioevo al Novecento) ed il rilievo e la difficoltà dei soggetti indagati (Dante e Petrarca, l’Umanesimo e il Seicento, il Neoclassicismo e il Romanticismo, Foscolo, Le- opardi, i moderni, italiani e stranieri…) indica la ricchezza delle conoscenze e l’importanza delle proposte e dei rilievi, attenti ogni volta ai testi e agli autori, alla scrittura e alle poetiche. Con un metodo duttile e aperto, contrassegnato da una straordinaria ca- pacità di «leggere», Adelia Noferi (Firenze, 1922-2014) è riuscita a fondere le suggestioni che venivano da una grande scuola, da maestri-amici come Giusep- pe De Robertis, Gianfranco Contini, Piero Bigongiari, Oreste Macrí (ai quali aggiungere magari almeno, sul filo delle opere riflessivo-teoriche, anche Valéry e Ungaretti…), con i risultati più vivi della critica semiologica (Barthes, la Kriste- va), le acquisizioni della linguistica (Saussure, Jakobson), della psicanalisi (sulla linea Freud-Lacan, ma senza dimenticare l’inconscio junghiano), della filosofia (Deleuze, Derrida soprattutto), dell’ermeneutica (Gadamer, Blanchot), dell’an- tropologia (Foucault), del pensiero scientifico (Prigogine). Rivolgendo ai classici e ai moderni (nel Novecento italiano soprattutto Ungaretti, Montale, Bigon- giari, Luzi…) una serrata interrogazione mai dimentica dello stile, misurato però nelle ricorrenze, nelle ossessioni, sì da farsi ogni volta strumento per un cammino nel senso e nel significato dell’esperienza poetica e del suo mutare nel tempo (significativi in questa direzione gli stessi titoli di alcuni libri: L’esperienza poetica del Petrarca [Firenze, Le Monnier, l962]; Le poetiche critiche novecentesche [Firenze, Le Monnier, 1970]). Non è un caso che un grande critico e poeta come Piero Bigongiari (a cui avrebbe dedicato il suo ultimo, splendido libro: Piero Bigongiari. L’interrogazio- ne infinita. Una lettura di «Dove finiscono le tracce», Roma, Bulzoni, 2003), in alcune pagine scritte in occasione dei 70 anni, ne avesse sottolineato la rabdo- mantica capacità definitoria, parlando, tra Stilkritik e psicanalisi, della noferia- na «critica di cooperazione», cogliendo l’effetto deflagrante dell’accostamento (decostruttivo e ricostruttivo insieme) dei suoi prelievi e delle sue citazioni. Ma a colpirci, ancora più di questo pertinente rilievo, è la singolare e giustificata insistenza di Bigongiari sullo stilema critico utilizzato per qualificare il lavoro e la stessa persona/personaggio di Adelia: uno stilema che rimanda all’intelli- genza e all’inflessibilità. In sole tre pagine (La relatività dell’istante e la mise en abyme del testo, in «Paradigma 10», 1992) Bigongiari usava espressioni quali «intelligenza riflessiva»; «uno dei maggiori ingegni critici di oggi», «intelligen- za classificatoria», «sottile e incisiva dialessi [di…] intelligenza critica», «inter- 292 Adelia Noferi

venti di […] intelligenza critica», «generosità inflessibile della sua intelligenza», «intrepida, sottile e sinuosa intelligenza». Ci piace riprenderle, sottolineando proprio l’intelligenza riflessiva (ovvero spiccatamente teorica e epistemologica), classificatoria (come dire attenta a costituire sapienti griglie conoscitive), in- flessibile e intrepida (varrà ricordare al proposito il rigore e la sicurezza che accompagnava – in un contesto di notoria timidezza personale – la certezza di convinzioni maturate in un lungo, sapiente e complesso riflettere), generosa (perché capace di ascoltare/capire i testi). Un’intelligenza, potremmo continua- re, che combinava alla lucidità una paradossale ignoranza di se stessa; di qui ancora una sorta di ingenua e naturale generosità. E che pure era capace di giudizi severi, di auto-consapevolezza, e di divertissements tipicamente intellet- tuali (alle prese con l’intertestualità, interna ed esterna; si pensi al suo Gioco delle tracce [Firenze, La Nuova Italia, 1979]), di confronti, di riletture (ed ecco allora le sue Riletture dantesche, Roma, Bulzoni, 1998; le postille alle poetiche, nell’addenda all’anastatica delle Poetiche critiche novecentesche con una postilla alle poetiche critiche novecentesche «sub specie Petrarchae», Trento, La Finestra, 2004), di percorsi inusitati per temi contrassegnati dal loro essere suscettibili di attraversamento, configurati come luoghi retorici, spazi simbolici (il deserto/il bosco; l’infanzia…). Che consentivano ogni volta, a una scrittura critica come la sua, che univa complessità ed eleganza, finezza di dottrina e pensiero a un an- damento quasi romanzesco del discorso, di ripartire dalle origini (i suoi Platone, Aristotele, San Girolamo, Sant’Agostino, la scolastica, San Bonaventura…) per proseguire poi con Curtius, Zumthor, Bachelard…, per loci e topoi custodi di quanto è nascosto; per luoghi simbolico-allegorici condotti a rifluire nell’immagi- nario collettivo, nella selva del linguaggio, là dove la parola-rappresentazione e l’immaginario filosofico-scientifico-cosmogonico ad essa connesso (nei nomi di Dante, Petrarca, Bruno…) si uniscono, nel passaggio dal rito al mito. Su tutto questo Adelia Noferi amava riflettere (si pensi alle metafore del viaggio, del bosco, dello specchio, oggetto di saggi e dei suoi corsi universitari di Letteratura italiana e di Letteratura italiana moderna e contemporanea), sof- fermandosi su ciò che nasconde e depista e su quanto consente di trovare una traccia o un cammino (di nuovo significativo un titolo: Soggetto e oggetto nel testo poetico. Studi sulla relazione oggettuale, Roma, Bulzoni, 1997), su quanto (per testo e metatesto) confonde i registri, mimando il rapporto che unisce e separa il critico dal suo oggetto. Fino a giungere là dove il luogo simbolico si sogget- tivizza e la critica arriva a parlare attraverso le sue stesse tracce, oggettivandosi, in una ricerca che, indipendentemente dal tema prescelto, punta a una generale ermeneutica che si sugella in scrittura. In un gioco dove non ci sono più soltanto testi ed autori, boschi e/o labirinti…, ma – con l’individuo – il linguaggio: sì che non stupirà se, lungo i suoi indimenticabili percorsi immaginari e simbolici (che attraversano la cultura occidentale, sul filo della memoria, dell’oblio…), capiterà a qualcuno di cercare nelle pagine anche le grain de la voix: il tono di una voce, la screziatura di uno sguardo. IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI

Paolo Leoncini

Non ho tempo di studiare Dante e Leopardi staccati da me, nel loro mondo… Giuseppe De Robertis, Saper leggere, in «La Voce», 1915

… l’attenzione epidermica che il critico pratica al tono della scrittura coincide con l’attenzione sperimentale che vi dedicava il poeta, coincide insomma con la sostanza fan- tastica dell’«elaborazione», delle correzioni, delle varianti, e può sorprenderne addirittura l’evoluzione. Gianfranco Contini, Per una tesi sul Leopardi (1937)

L’iter dell’interpretazione leopardiana di Bigongiari , esteso per circa un qua- rantennio1, e su cui sono stati compiuti sondaggi molteplici e coinvolti2, co-

1 L’esordio di Piero Bigongiari, come interprete di Leopardi, risale al 1936 e giunge a com- piersi nel 1976. Il primo saggio, L’elaborazione della lirica leopardiana, è tratto dalla tesi di laurea, discussa con Attilio Momigliano all’Università di Firenze, pubblicato nel 1937; ristampato da Marzocco ed. nel 1948; del 1937 è anche Dal logos al Dialogos. La struttura atemporale delle «Ope- rette morali»; a questi saggi, incipitari di un’esperienza critica che può considerarisi una delle più intense, appassionate e coinvolte del Novecento critico, se ne aggiungono nel tempo diversi altri: Valore dell’«Infinito», 1951, stesso anno di Leopardi e la «Storia di un’anima»; nel 1959 esce La costituzione dell’«ottica» idillica, tre capitoli, di cui i primi due – Da «Alla luna» a «L’infinito»; Sul concetto di «finzione» – erano usciti nel ’57; Immaginazione e sogno o tra idillio e elegia era pure uscito nel ’59; vengono riuniti nel Leopardi di Vallecchi, nel 1962; e, con altri due saggi, Leopardi e il desiderio dell’io. Riflessioni preliminari sull’ordinamento dei «Canti», del ’76; e Leopardi e l’erme- tismo, del ’72, vengono raccolti in Leopardi, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 555, che costituisce la «summa» dei sondaggi critici di Bigongiari su Leopardi. Da Leopardi e l’ermetismo citiamo il seguente passaggio: «Quello che ha distinto subito il Leopardi dell’ermetismo dal Leopardi pre- cedente, soprattutto dal Leopardi rondista, e anche dal derobertisiano, che pure gli è stato il più prossimo (non era ancora in atto, o non era conosciuto, il Leopardi ungarettiano, che è davvero il più emozionante e il più vicino al Leopardi ermetico) è il valore inarrestato e inarrestabile della sua poesia, a cui nessun argine razionale di tipo illuministico poteva contrapporsi […], proprio perché l’oscura ragione del canto era più forte delle ragioni antitetiche […] per cui ogni risultato di poetica era semplicemente un dato memorizzato per un’operazione ulteriore» (ivi, p. 505). D’ora in poi, le citazioni sono qui tratte, per la maggior parte, dal Leopardi di Vallecchi. 2 Su Bigongiari critico, riferiamoci innanzi tutto a Adelia Noferi, Piero Bigongiari: la critica come segno di contraddizione 1. La «crisi» dell’oggetto poetico 2. L’«esplosione riflesiva» e il «farsi» del-

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 294 Paolo Leoncini stituisce un terreno enorme e spaesante, attraversato da «linee di forza»3 plu- rime, intersecate, ramificate. Mentre si configura, proprio per la eterodossia, come una delle acquisizioni critiche più valide del poeta di Recanati4, impli- ca, d’altronde, una sfida ermeneutica: il lettore «non specialista» di Bigongiari, che tuttavia avverta per l’interpretazione novecentesca di Leopardi più dilata- ta temporalmente e più sofferta interiormente, una consentaneità derivante da quello che Paul Ricoeur chiamerebbe «l’atto del testo», corre il rischio di una percezione fecondamente pluridimensionale, ma tendenzialmente disgregan- te: più propriamente irrisolta o irrisolvibile; e questa «irrisolvibilità» può già ri-

la poesia 3. Il discorso «relativo», in Le poetiche critiche novecentesche, Firenze, Le Monnier, 1970, pp. 149-224; ed anche per il Bigongiari poeta, cfr. A. Noferi, Piero Bigongiari: il farsi della traccia e Per presentare «Abbandonato dall’angelo» di Piero Bigongiari, in Soggetto e oggetto nel testo poetico. Studi sulla relazione oggettuale, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 213-238; dei contributi recenti citiamo almeno Enza Biagini, Prefazione a La poesia pensa: poesie e pensieri inediti. Leopardi e la lezione del testo, a cura di Enza Biagini, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Adelia Noferi, Firenze, Olschki, 1999: «La poesia pensa è il titolo di un saggio del ’96, dedicato a Leopardi, e l’idea di estenderlo a tutto il volume (per altro, dovuta a un felice suggerimento di Elena Bigongiari che pone questo libro sotto il segno di Leopardi), ci è sembrata opportuna perché sottolinea l’impronta incancellabile e l’incessante presenza del poeta recanatese» (ivi, p. XII); «Bigongiari […] chiude su Leopardi ritornando sul proprio percorso degli ultimi lavori dedicati al poeta recanatese come per fissarne una visione definitiva […]. Apparentemente ne I «Canti» come voce desiderante dell’io c’è solo uno spostamento rispetto al capitolo di quel volume [il Leopardi della Nuova Italia, del ‘76] intitolato Leopardi e il desiderio dell’io. Riflessioni preliminari sull’ordinamento dei Canti[…] ma ora l’aspetto che preme chiarire gira attorno al rapporto tra pensiero e poesia […]. Qui si incon- trerà quel concetto leopardiano della mens divinior, introdotto quale metafora della coesistenza, contraddittoria, asistematica, ma necessaria alla poesia, tra “mente riflessiva” e “emotività poetica” […]. In realtà il “sistema” leopardiano esiste, ed è colto nella misteriosa causa sui della poesia, ma, appunto, è definito in quanto “continuità segreta, romanzesca, per cui ogni effettualità testuale ha in sé il senso, insieme concorde e discorde, di una continua e continuamente rinnovantesi, casualità” (p. 3)» (ivi, pp. XVI-XVII). 3 Cfr. A. Noferi, Le poetiche critiche novecentesche cit.: «Si tratta insomma di ritrovare, dentro il corpo di una determinata sostanza poetica, le linee di forza che la traversano generandola: in questo consiste per Bigongiari l’atto critico; non già dunque un giudizio assoluto, una sistema- zione oggettiva e stabile, ma proprio il gesto opposto di riaprire un movimento solo tempora- neamente e relativamente concluso […] nelle componenti dinamiche di quell’oggetto che ha arrestato il proprio moto approdando ad una forma particolare che è la poesia, ma che prosegue il suo viaggio infinito dentro di noi» (ivi, p. 151); cfr. Anna Dolfi, Bigongiari e l’«ombre rêveuse et téméraire» del palinsesto leopardiano, in Leopardi e il Novecento. Sul leopardismo dei poeti, Firenze, Le Lettere, 2009: «La parola leopardiana […] come quella novecentesca, speculando sul nulla e ragionando col cuore (così come nella grande, moderna cultura simbolista a partire da Mal- larmé), deborda la sua carica semantica, prova tutta la sovrabbondanza del significante, verifica appieno quella ipersemanticità che sta nel sapere / non sapere della poesia (ma nell’equazione finale: verità uguale poesia e viceversa)» (ivi, p.103). 4 Un parallelismo c’è, a mio parere, con Antonio Prete, Il pensiero poetante. Saggio su Leopar- di, Milano, Feltrinelli, 1979; cfr., ad esempio, la Premessa all’ed. 2006: «Volevo che l’interpreta- zione muovesse dallo stato prolungato di ascolto, in qualche modo da una prossimità interiore, alle parole del poeta, al loro timbro. Lasciar parlare Leopardi, al di là delle recinzioni o delle formule che via via ne avevano mortificato la scrittura, era già esporre la trama – abbagliante, inattuale – di un pensiero» (ivi, p. 7). IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 295 specchiare una dimensione interna del medesimo iter interpretativo. La prima «difesa» del lettore «non specialista», che è, forse, il lettore più «funzionale» allo stesso Bigongiari, è quella di reperire punti di riferimento e di enucleare motivi di apertura e di correlazione. Il mio tentativo è quindi motivato dalla possibili- tà di inserire la critica bigongiariana nella traiettoria della «critica delle varian- ti», da De Robertis a Contini. «Critica delle varianti» a cui rinvia la nozione di elaborazione, centrale nel Bigongiari critico di Leopardi: dove coesistono den- sità, estensione, proliferazione, ripercorrimenti, linee tensive e ambiti «discor- sivi», segmentazioni e riprese, in un linguaggio la cui atipicità è connotata in senso espansivo-dilatato-ridondante; in uno spazio ermeneutico dove l’indagi- ne si svolge, si avvolge, si riprende, e deborda dai limiti del testo come ambito «separato», in quanto risolto, o risolvibile, o risolutivo. Il piano dell’arte e del- lo stile come «non soluzione» costituisce una rispondenza tra autore e critico, e un primo movente di comprensione, per il lettore. Citiamo un passo incipi- tario dove Bigongiari rileva la connotazione della «non soluzione» nella scrit- tura-esistenza di Leopardi:

E il Leopardi troppo chiaro lo lasciamo a chi non lo vede vivere nella sua poe- sia, alla ricerca del Testo nei singoli testi, a chi non vede la sua poesia staccarsi in una vita superiore, staccarsi così da noi come da lui, come da tutti i motivi rintracciabili, in una pura onda di linguaggio […] tanto più illeso quanto più tramato, nei suoi precedenti ideologici, linguistici e psicologici, da una verità mascherata a una leggenda, questa sì esatta e irripetibile, in una continua ate- matica elaborazione di significati probabili che è, ripeto, facoltà di linguaggio allo stato naturale, all’altezza naturale dell’essere, non riassuntivo o terminale o risolutivo di una realtà venuta prima, e per cui l’arte conclude. L’arte non gli risolveva, ma gli consegnava la sua vita: a questa biografia seconda io miro, a una vita riconsegnata5.

La «pura onda di linguaggio», «staccata» in una «leggenda» «in una continua atematica elaborazione di significati probabili», costituisce, a mio avviso, un’in- tuizione ermeneutica unificante. La «parola-eco», «la vibrazione atematica della fantasia leopardiana», la «parola-favola»6 si pongono all’insegna della «non so- luzione» sul piano dell’arte e dello stile; quindi si pongono sul piano di una fe- nomenologia dell’esistenza «altra», i cui esiti testuali non sono riconducibili a termini «risolti», e non sono suscettibili di « separabilità» tecnico-istituziona- le rispetto alla fenomenologia dell’esistenza. Gli stessi rinvii ai «generi» (idillio, canzone) si accampano in una «fluidità semiotica»7 non codificabile in ambito istituzionale-referenziale.

5 Cfr. Piero Bigongiari, Leopardi, Firenze, Vallecchi, 1962, p. 10. 6 Ivi, pp. 482 e 485. 7 A. Dolfi, L’«ombre rêreuse et téméraire» del palinsesto leopardiano cit., p. 103. 296 Paolo Leoncini

L’arte «non risolta» e «non risolvibile» di Leopardi, la scrittura continua, in- scindibile e permeabile tra poesia ed esistenza, che risospinge la letteratura in ambito ancillare o propedeutico, viene assunta da Bigongiari sul versante critico come necessaria rinuncia alle settorializzazioni, e, insieme, alle metodologie gene- ralizzanti: questa permeazione tra autore e critico sul nucleo della non risolvibil- tà artistica – non risolvibiltà che si appella ad una prassi variantistico-elaborativa – rappresenta uno dei motivi del non allineamento storico-critico di Bigongiari. Era il 1954 quando Claudio Gorlier compiva rilievi profetici proprio in ri- ferimento agli studi leopardiani di Bigongiari, la cui «tendenza» , scrive Gorlier, è quella di «… seguire l’itinerario interno dell’anima, com’è per Bo, ma insieme a trasferirlo nella realtà dell’opera realizzata»8; e ancora: «Se dovessimo precisa- re l’elemento saliente che si incontra nel lavoro di Bigongiari […] vorremmo porre il dito sul fatto dell’avervi portato lo stesso metodo d’indagine con cui ha “letto” i simbolisti […]. Cosicché, dopo decenni di critica aneddotica o di cir- costanza […] abbiamo qui un nuovo esempio di avvicinamento a Leopardi, il primo davvero convincente del Novecento, se si vuol guardare alla sostanza del problema»9. Senza chiederci ora se e come sia attendibile il nesso lettura dei sim- bolisti-lettura di Leopardi, e se l’«avvicinamento» di Bigongiari a Leopardi fos- se «il primo davvero convincente del Novecento», rileviamo come Gorlier col- ga una risposta, alla «sostanza del problema», in un «modo incalzante dell’intel- ligenza per ritornare al centro, lo strumento di un lavoro complessivo in cui il giudizio corrisponde alla crisi della totalità di un’anima impegnata nell’esisten- za». La «crisi della totalità di un’anima impegnata nell’esistenza» si sintonizza sul testo di Bigongiari, quando, ad esempio, afferma che «la poesia di Leopardi ammette una propria pausatissima storia: la sua immobilità progrediva, secondo una logica intrinseca, umana, secondo un romanzo totale che spostava in toto il risultato poetico»10. I nessi anima-esistenza e immobilità-romanzo totale-risul- tato poetico rinviano alla anteriorità e alla priorità della dimensione spirituale e metafisica che implica uno iato, una «inadeguatezza» sul piano testuale11. Questa

8 Claudio Gorlier, Dimensioni della critica, in «Paragone letteratura», V, giugno 1954, 54, p. 45. 9 Ibidem. 10 Cfr. P. Bigongiari, Leopardi cit., p. 11. 11 Circa le valenze sul piano testuale, riferiamoci già ai rilievi derobertisiani: «… con la po- vertà e fin monotonia di linguaggio ch’era in Leopardi, e col conseguente studio di “evitare la ri- petizione”, spesso da sé implicavasi in minute difficoltà, col risultato, spesso, di puri espedienti (le sinonimie forzose delle, come tu dici, “onniaccoglienti” Ricordanze). Ma la poesia dove toccava il segno, riscattava però anche questi espedienti, e pareva allora che inventasse. Già, nel Leopardi, l’invenzione verbale non fu mai prepotente (lo fu forse nel Petrarca?). Anche qui, è il tono che fa la musica […]. Egli arrivava alla sublimità, a volte, coi mezzi più frusti, e quasi rifiutando che la musica s’inceppasse in sensi traslati, in analogie che non fossero un poco consunte dall’uso» (Giuseppe De Robertis, Biglietto per Gianfranco Contini, in «Letteratura», IX, 1947, 3; ora in Primi studi manzoniani e altre cose, Firenze, Le Monnier, 1949, p. 171. Il testo di De Robertis co- stituisce la «risposta» a Gianfranco Contini, Implicazioni leopardiane, in «Letteratura», IX, 1947, IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 297

«irrisolvibiltà», necessaria per Leopardi, può riflettersi in una dimensione inter- namente interrogativa della «migliore critica novecentesca», come rileva Adelia Noferi a proposito dell’«essenza dell’atto poetico» che «si prolunga di là dal te- sto»; a proposito della «fisicità» della critica «compenetrata di “metafisica”»12: l’i- stanza essenziale della critica a «prolungarsi di là dal testo» richiama, di nuovo, le affermazioni di Gorlier, il quale evidenzia, in Bigongiari, l’attitudine a «valer- si di svariati mezzi critici senza lasciarsene sopraffare, e costringendoli a servire l’«unicum» che è, appunto, la critica»: per cui, la critica, se passa attraverso il te- sto, non si ferma al testo, secondo ipoteche ideologiche o metodologie genera- lizzanti. Si tratta di una «precisazione», dice Gorlier, che «va tenuta in gran con- to in relazione alle infinite ubriacature di critica stilistica o materialistico-storica e via discorrendo, tutte desolantemente rigide e prive di dialettica interna che in questi tempi abbiamo imparato a conoscere fin troppo bene»13. Bigongiari co- stituiva già allora, dunque, un’alternativa alle «ubriacature desolantemente ri- gide» che sarebbero divenute sempre più frequenti negli anni ’60 e ’70. La «ir- risolvibilità» testuale di Leopardi, la non-separabilità tecnico-istituzionale del- la poesia dall’esistenza, e lo «sfondamento» verso interrogatvi essenziali, metafi- sici, costituerebbe una sollecitazione che, accolta da Bigongiari sul versante cri- tico per Leopardi, porta all’estremo della necessità il polo noetico dell’essenza, del risalimento al nucleo originale, da parte della stessa libertà interpretativa. È del ’69 il saggio di Italo Viola sulle «varianti d’autore», valido profilo della «variantistica», da De Robertis, a Contini, a Getto, a Fubini, a Caretti, a Folena14. La tecnica variantistica «non tocca l’essenza, non è una storia di questa parola […] è un momento della storia dell’autore ma non dell’opera»15; d’altro canto, in Getto, soprattutto, la variantistica esorbita dalla tecnica e ri- guarda «la perpetua genesi ideale dell’opera»16. A parte il fattore «ideale», di derivazione crociana, la perpetua genesi dell’opera può sintonizzarsi sui proce- dimenti di Bigongiari circa la rispondenza aperta e irrisolvibile tra vita e arte, tra interiorità e testualità, in Leopardi: «… l’analisi dei procedimenti tecnici

2; ora in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 41-52; che, a sua volta, era una «risposta» a G. De Robertis, Sull’autografo del canto «A Silvia», in «Letteratura», VIII, 1946, ora in Primi studi manzoniani e altre cose cit., pp. 169-172. 12 Cfr. A. Noferi, Le poetiche critiche novecentesche cit.: «…tutta la migliore critica del Nove- cento si è posta in questa aperta posizione di intelligenza dell’opera artistica, dall’interno più che dall’esterno, che, lungo direttive volta a volta prevalentemente morali o spirituali o strettamente tecnico-linguistiche, o stilistiche, mira ad una nuova inerenza all’opera, attraverso la quale si ma- nifesti la sua realtà più segreta. Ma anche la “fisicità” della critica è compenetrata di “metafisica”, se quanto più essa esplora i testi, si tiene stretta ai testi […] tanto più essa si prolunga di là dal testo verso l’essenza dell’atto poetico» (p. 160). 13 Cfr. C. Gorlier, Dimensioni della critica cit., p. 48 (corsivo mio). 14 Cfr. Italo Viola, Lo studio delle varianti d’autore, in Critica letteraria del Novecento (Gli studi dello stile e della poetica), Milano, Mursia, 1969, pp. 113-122. 15 Ivi, p. 114. 16 Ivi, p. 116. 298 Paolo Leoncini e le valutazioni stilistiche divengono strumenti dell’interpretazione della po- esia: per tutta l’esegesi vale l’unità di anima e parola […] in una forma più strutturale e oggettiva di quella presentata nel saggio spitzeriano Wortkunt und Sprachwissenshaft»17. Alla base di un’esegesi «più strutturale e oggettiva di quella di Spitzer» c’è, dunque, l’unità di anima e parola, che può costituire, per la critica, un polo noetico, rinviante all’arte che, in Leopardi, «non risol- ve» ma «consegna» la vita. Riconduciamoci, allora, al Leopardi di De Robertis, assumibile come la ma- trice del Leopardi di Bigongiari: il quale, nel 1937, stesso anno di L’elaborazione della lirica leopardiana, si riferisce, a proposito del saggio leopardiano di De Robertis, a due nozioni, che riprenderemo, quella di «storia della poesia» e quel- la di «pedagogia poetica»:

… la storia manca malgrado l’impostazione, o appunto, per l’impostazione, che si svolge invece veramente e fortunatamente a un’alta, empirica pedagogia po- etica: non è definita la poesia, ma la sua condizione, e definirla senza un punto esterno ad essa è impossibile: De Robertis lavora, da innamorato, tutto all’inter- no di essa e quando sarebbe vicina la definizione, lo scatto dalla sommità, egli, lettore, alza ammirato il capo18.

Anche per De Robertis, in Leopardi, dice Bigongiari, «la vita è sempre al di qua dello stile»19: la «vita», come «vita superiore», «leggenda» tenta costantemen- te lo stile, lo assorbe, e lo stile non giunge a risolversi. La «vita» si costituisce come «memoria corposa»20, come «pausatissima storia» che espande nel tempo il nucleo sensibile-germinale dell’esperienza vissuta, fino a «riempirlo» tutto nel canto. A proposito di A Silvia:

La linea della poesia c’è, chiarissima; ma il poeta solo dieci anni dopo trovò la poesia. L’immaturità lo portava, nel ’19, alla letteratura, ai concetti; pensava ai modelli, doveva gravare la poesia di pensiero, perché gli sembrasse meritevole.

17 Ivi, p. 117. 18 Cfr. P. Bigongiari, Giuseppe De Robertis. Il «Saggio sul Leopardi» in Prosa per il Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1970, pp. 17-18 [lo scritto è del 1937]. 19 Ivi, p. 18. 20 Nucleo critico ricorrente in Bigongiari: cfr., ad esempio: «Dal familiare allucinato all’infi- nito, questo è sempre il grado leopardiano, che ha per fondo il senso corporeo della memoria: vita allucinata da un concrescere di vita (P. Bigongiari, Leopardi cit., p. 155, corsivo mio); «La poesia, in questo periodo [dei “grandi idilli”] si svolge secondo un arco coincidente musicalmente con l’immagine; poiché l’empito gli era dato da tutto il passato che si fa presente, da una memoria come tempo ricostruito su altre basi, allora la musica gli porta una conclusione che è armonica quanto figurativa, con un raggelarsi dell’affetto nel dolore» (ivi, p.156); «Tale è la memoria leo- pardiana, anch’essa, come l’infinito, corposa, quasi a contrastare la necessaria crisi della “finzio- ne”, l’incorporeità sostanziale e primaria del fingere nel pensiero; anzi, si direbbe essa sia il corpo stesso che permea e agglutina questo infinito» (ivi, p. 172). IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 299

E allora nascono brani composti, squarci stupendi, ma staccati […]. Il tono lieve che trasforma la materia in poesia lo trovò nel ’28 quando l’esperienza e il ricordo lo avevano calmato, ed egli poteva considerare se stesso e trovare un valore capace di riempirlo tutto21.

Quindi:

Il poeta è già, in miracoloso modo, tutto presente a se stesso: e quello che farà getta le gemme in quello che sta facendo. Il canto di Silvia è la prima cosa che lo attira; lo ricordava troppo bene, e ora è diventato una voce del tempo. Il brano poetico è intitolato Il canto di una fanciulla [il quale] è l’abbozzo molto lontano, ma preciso. Il poeta non ha ancora trovato la voce, la cadenza, e nem- meno il fiato per estenderla in un’architettura; i pensieri ci sono e gli cadono nel cuore fitti22.

Se l’«essere della poesia» «getta le sue gemme» in ciò che sta facendo», se c’è questa germinalità, d’altro canto questa germinalità non può che realizzarsi nel tempo della «memoria corposa». Questo «incarnarsi della memoria» costituisce un movimento di varianti, di elaborazione: rispetto ai primi idilli, dove le va- rianti «sono nulle o trascurabili»23, negli idilli della maturità «sono più numero- se e importanti»: la «ragione intrinseca» del fenomeno:

… è da trovarsi nel maggior empito, nella maggiore sonorità e felicità di quel mondo che la fruttuosa rimembranza gli andava porgendo, per cui egli si trova- va a incidere in un’onda sonora e sentimentale ricchissima, favorendo la quale, appunto con un certo abbandono alle varianti, riusciva a mantenere la continu- ità di quell’emozione24 .

L’«elaborazione», così come riguarda il passaggio temporale dalle «gemme» alla «memoria corposa», riguarda il presente continuo del testo. Il «mondo» che gli è offerto attraverso la «fruttuosa rimembranza» si forma tra la germinalità sensibile delle «gemme» (ne Il canto di una fanciulla «i pensieri ci sono e gli ca- dono nel cuore fitti») e la «memoria corposa». Come dice Bigongiari a propo- sito del Leopardi di De Robertis: «I Canti sono estratti in un nulla inesauribile che è proprio la vita del poeta: con quella preparazione assidua e grammaticale nei pressi d’ogni poesia, ma disuguale da poesia a poesia: dall’una all’altra varia l’animo di codesta invocazione lirica (o, se volete, tecnica)»25.

21 Ivi, p. 127. 22 Ivi, p. 128. 23 Ivi, p. 173. 24 Ibidem. 25 P. Bigongiari, Giuseppe De Robertis. Il «Saggio sul Leopardi», in Prosa per il Novecento cit., p. 19. 300 Paolo Leoncini

È attorno al formarsi di A Silvia che si creano le correlazioni tra De Robertis, Bigongiari e Contini, lungo il decennio ’37-’4726. Il riferimento alla zona ger- minale delle «gemme» (Contini direbbe «germe vital»27) non riguarda soltanto Il canto di una fanciulla, ma anche Rimembranze (1816), testo sul quale si era per primo soffermato Bigongiari, confermato poi da Contini28. Riferiamoci, prima di passare al «non risolvibile», ancorché ricco di sollecitazioni filologiche, ver- sante testuale, ad una formulazione di Bigongiari relativa alla «biografia secon- da» di Leopardi:

I recapiti del subconscio29 di Leopardi percorrono tutto il substrato poetico come una materia organica:arrivano a destinazione, con vivi e patetici sintomi, quanto più inaspettati , a distanza di anni, legano il principio alla fine, esaltano, eliotianamente, la fine – «in my end ist my beginning» – nel principio30.

I «recapiti del subconscio» costituiscono la «materia organica» della poesia le- opardiana: il percorso dalle «gemme» alla «memoria corposa» si compie nell’in- conscio, o nel subconscio, nei cui confronti «la realtà immediata non era altro che il punto di partenza necessario a dimostrare la verità ultima, inoppugnabi- le, dell’illusione»31. Vediamo come Bigongiari giunge, attraverso la «formula» del «moto confidente», al richiamo Rimembranze (1816)-A Silvia (1828):

26 Cfr. n. 11. 27 Citiamo il seguente brano di Contini che costituisce un terreno di contatto con la critica di Bigongiari, terreno di contatto (anche al di là degli studi leopardiani) su cui ritorniamo: «Sup- posez par contre [rispetto alla poesia come «aiguillage vers le passé» di Croce] que la poésie soit un futur, une valeur du devoir-être tendent à l’être; tachez de la surprendre non pas à partir de sa naissance […] mais dans son avent jusqu’à son naissance: et vous aurez tracée le rapport de la poésie à la vie qui la produit dans une considération globale des valeurs à nâitre que pourriez même appéler critique réligieuse. Nôtre fil privilegié est alors repéré, qui suivra la poésie dans son germe vital jusqu’à l’instant où elle se détachera: non poésie avant, non après la poésie» (Gian- franco Contini, Introduction à l’étude de la littérature italienne contemporaine, in «Lettres», 1944, 4; ristampato in Altri esercizi, Torino, Einaudi, 1972, pp. 335-365. 28 P. Bigongiari, Leopardi cit.: «Il suono di questa poesia [A Silvia] è come la voce istintiva del sangue: oscuramente tante volte aveva tentato di trovare le sue movenze. Per esempio, ma quanto distante, la voce con cui si rivolge a Silvia risuona già, con una simile malinconia, nelle Rimembranze, idillio del ’16, rifiutato, nell’inizio del parlare di Micone al figlioletto Dameta che gli scherza attorno. Il tuo «maggior fratello», «il tuo Filino» è come «Quel tempo della tua vita mortale». Anche là «la marina Di lontano splendea: ma la campagna era tacita ancor» (ivi, pp. 149-150); cfr. G. Contini, Implicazioni leopardiane cit., in Varianti e altra linguistica cit.: «Che nelle Rimembranze, quest’idillio rifiutato, si anticipi il tono della voce che parlerà a Silvia (e a Nerina) è stato già mostrato finemente da Piero Bigongiari, nel suo bello e ancora così positivo saggio sull’Elaborazione della lirica leopardiana» (ivi, p. 46). 29 «Formula» tratta da De Robertis: «Quelli [di Rimembranze, 1816] erano balbettii ancora, se mai, presentimenti, recapiti del subconscio; occasioni, non già ragioni di quel ricco complesso che è la “condizione alla poesia”» (G. De Robertis, Biglietto per Gianfranco Contini cit., p. 171). 30 P. Bigongiari, Leopardi,1962 cit., p. 522. 31 Ivi, p. 147. IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 301

Abbiamo visto, parlando de La sera del di’ di festa, cioè ancora alle origini di quel moto confidente che troverà nei grandi idilli la sua piena espressione sim- bolica, come il simbolo nasce nella poesia leopardiana da questa unicità della voce, cioè dall’impulso a mettere in comune un moto confidente che nasce in due figure distinte e specchiantisi l’una nell’altra, distinte solo in questa facoltà di rispecchiamento reciproco, quasi l’una fosse il soprassalto dell’altra, la ple- nitudine dell’altra. Deux voix en une, dirà oltre un secolo più tardi Éluard. Una tale unicità, o meglio univocità, fa convergere verso uno stesso polo quel moto confidente, e dunque lo ribalta fino a costituirlo, oltre i suoi termini ultimi elaboratvi, come l’opposto di se stesso: simbolo imprescrutabile da cui discen- de liberata la realtà memore che ha contribuito a stabilirlo e che dalla stessa imperscrutabilità riceve l’avallo maggiore a che tutto il reale che ha contribuito a crearlo esista32.

La «formula» del «moto confidente» trova complemento in quella della «uni- cità» (o «univocità») della voce: il nesso «moto confidente»-«voce» crea il sim- bolo imperscrutabile che libera la «realtà memore», costituitiva di esistenza. L’esistenza si polarizza attraverso un invisibile processo simbolico. Ne deriva, per Bigongiari, che «Silvia è l’alter ego del poeta, e insieme il poeta è l’alter ego di Silvia: ognuno trova nell’intrecciarsi della voce nell’aria, in una tale univoci- tà simbolica, il proprio riscatto»33. Il «moto confidente» si costituisce come «dialogo a due» che si annoda «in un tutto unico»34. Questo è il processo formante della realtà altra, dell’alterità, del- la «biografia seconda» di Leopardi: «Questa la stabile realtà leopardiana», affer- ma infatti il critico; si tratta di una «stabile realtà»: «… statuitasi al sommo del- lo stesso processo elaborativo che ha dato un corpo concreto all’illusione, sulle sabbie mobili di un temperamento poetico che di per sè mirava inconsciamen- te a distruggere ogni possibile ipotesi di realtà»35. Nell’inconscio, o nel subconscio leopardiano coesistono l’istanza elaborati- va di realtà, attraverso il «moto confidente» del «dialogo a due», con l’istanza distruttiva di realtà:

… in A Silvia la costruzione del simbolo, di questo simbolo double, è legata strettamente all’elaborazione poetica e alle sue fortune, cioè strettamente incar- nata nella facoltà che ha il lavoro poetico leopardiano di inventarsi insieme il proprio corrispettivo morale e la propria smentita, la propria imposizione e il

32 Ivi, p. 146. 33 Ivi, pp. 146-147. 34 Cfr. P. Bigongiari, Leopardi, 1962 cit. «Vi è dunque in A Silvia il simbolo trasparente e centrale costituito al sommo di quel moto confidente, di quel dialogo a due che annodandosi in un tutto unico diventa il senso ultimo del proprio dubitare e del proprio credere, e insieme il limite reale del proprio dubbio e della propria fiducia, del proprio debito e del proprio credito. Questa la stabile realtà leopardiana» (p. 147). 35 Ibidem. 302 Paolo Leoncini

proprio riscatto: dunque dando al simbolo la contraddittorietà che è insita nella vita36.

Bigongiari riflette sul formarsi della metafora leopardiana in riferimento ad alcuni nuclei sensoriali della «atematica elaborazione»: il «salire» (di Silvia); il mare (de L’infinito); le «quïete Stanze» (di Silvia); lo «splendea» (della «beltà» di Silvia). Nella metafora di Silvia che «è vista salire… il limitar Di gioventù» «per- mane il germe di un atto concreto, il salire di quei poveri gradini di una casa, un atto che il poeta avrà accompagnato con tutto il suo sguardo finché Silvia non scompariva alla vista, pudica allora ma ormai pensosa, inghiottita nella sua casa, come nel suo mitico bugno simbolico»37; dall’elaborazione dal sensibile al simbolico deriva il «mare» de L’infinito, che è «il mare effettivamente visibile sul filo dell’orizzonte dal monte Tabor»38. Come il germe sensibile del «mare» così il germe sensibile della «voce», del canto di Silvia «nasce da questo interno [del- la casa come «mitico bugno simbolico»] come dall’interno del cuore, con una tellurica efficacia, come la voce stessa, irrimediabimente più forte di ogni con- vinzione, della speranza»39: il «mitico bugno simbolico» è lo spazio che permet- te la trasformazione del germe sensibile in simbolo imperscrutabile e che con- ferisce al germe sensibile la connotazione di realtà vera: la «voce» si spande nel- le «quïete Stanze» e nelle «vie dintorno» quasi in luogo che rimandi all’infinito l’eco prossima di quella voce, di quel «cuore di una volta», «verace cuore in un luogo verace»40. Dunque, il moto confidente del dialogo a due si istituisce tra la «voce» e il «cuore di una volta»; la «profondissima quïete de L’infinito «ove per poco il cor non si spaura» è diversa «dalle «quïete Stanze», dove «il cuore di una volta» «non può più spaurirsi perché esso recupera nel calore del simbolo final- mente quella comunanza a cui aveva teso attraverso tutta l’elaborazione poeti- ca e riflessiva che l’aveva con involontaria lungimiranza lì condotto»41: il germe sensibile tende al simbolo che si costituisce attraverso una involontaria elabora- zione nel tempo. In questo senso, la «vita» «consegna» alla poesia; nella poesia l’elaborazione si sostituisce alla «soluzione», creando una permeazione tra real- tà vera e verità poetica; l’elaborazione è sottesa dalla confidenza «in una realtà suprema e unica, in una realtà esistenziale […] fonte dell’amore leopardiano»42. Il critico si riferisce, quindi, al versante variantistico-testuale: connotato dalla sostituzione, dall’aggiunta, per cui quello del poeta di Recanati , è un testo va- riante in essenza, sempre in balia della «vita», intesa come «confidenza» esisten-

36 Ibidem. 37 Ivi, p. 148. 38 Ibidem. 39 Ibidem. 40 Ibidem. 41 Ivi, p. 149. 42 Ivi, p. 146. IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 303 ziale, per cui l’elaborazione dà «corpo concreto» all’«illusione»43, alla «favola»; si pone in bilico tra «illusione» e «confidenza». La «biografia seconda» motiva, sul piano testuale, una nozione di «variante» «come movimento sincronico rispetto all’invariante che è il testo costituito, il quale, a sua volta, è una grande variante rispetto agli altri testi»; nozione di «variante» che «ha offerto […] a chi qui scri- ve, fin dal 1936, lo strumento per vedere in atto la materia stessa del significan- te come ipotesi, ogni volta attendibile ma anche ogni volta inattendibile, dello spirito del significante che, colto in crisi, mentre conclude il processo inventi- vo, anche ne mantiene inalterata la grande sincronia formale»44. Se il «testo co- stituito» è un «invariante», il testo costituito è anche, a sua volta, «una grande variante rispetto agli altri testi». Questa sincronia formale tra il fattore «varian- te» e il fattore «invariante» rinvia, in sostanza, al fatto che «Leopardi non era da confondere né col poeta del dolore né col poeta dell’idillio: qualcosa funziona- va al di là dei poveri significati bloccati»45:

Ed ecco che, nell’accordo perfetto delle due voci [che creano il «moto confi- dente» del dialogo], e nel suo modularsi, a «Quando beltà splendea», raggiunto, come s’è visto, non d’acchito, risponde «Ove il tempo mio primo e di me si spendea la miglior parte», due versi aggiunti dopo nell’autografo, e nati dopo un lungo armonizzare, un tentare e ritentare, con i risultati in fondo all’auto- grafo, nella pagina successiva, in cui si inizia con un «Ov’io di me spendea» che, mentre nella giustapposizione sonora è spia del parallelismo con «Quando beltà splendea», è indice altresì che la messa in comune delle parti costitutive del sim- bolo non è stata ancora totalmente raggiunta; ma con l’impersonale, alfine, «E di me si spendea», ecco che «il tempo mio primo E di me… la miglior parte» è donata, nel simbolo, a Silvia, è lo stesso tempo primo, la stessa «miglior parte» di Silvia; e c’è, in quello spendere, lo splendere della beltà stessa di Silvia, come nello splendere della beltà di lei «Negli occhi… ridenti e fuggitivi», un riflesso di quello spendersi generoso. Ed ecco anche dove in «fuggitivi» può ricuperarsi oltre il senso primo di «schivi» e secondo di «mobili», il senso ultimo di, quasi, fuggiaschi nel loro luminoso spendersi46.

Il fenomeno delle «varianti» porta ben oltre l’assonanza sonora; implica la sutura ricercata e raggiunta col piano elaborativo-simbolico: l’impersonale «E di me si spendea» rispetto a «Ov’io di me spendea» significa il dono, consen- te la permeazione tra «tempo primo» e la «miglior parte» di Silvia. Ciò richia- ma la «vita mortale» di Silvia, e, insieme con la morte, l’estinzione del desiderio dell’io: «L’unica apparenza che non è sottoposta alla finzione è l’apparire della morte: che è la morte del desiderio dell’io per dar luogo all’io desiderante, final-

43 Ivi, p. 147. 44 Cfr. P. Bigongiari, Leopardi, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 35. 45 Ivi, p. 36. 46 P. Bigongiari, Leopardi, 1962 cit., pp. 148-149. 304 Paolo Leoncini mente, l’altro da sè, il grande personaggio del dramma inseguito a questo fine. La mancata storia di un’anima si risolve nell’anima che ha una storia»47.

* * *

Nell’ambito del passaggio dal germe sensibile alla «memoria corposa», ecco la seguente formulazione:

…nella rimembranza pare, si direbbe, il ricordo ritrovare le sue membra viventi, farsi l’uguale della realtà che rievoca, e tale consistenza è acerba non solo perché riapre le antiche ferite, ma proprio […] pel doloroso supore della sua presenza […] eterna, ineliminabile, perché mitica, gioventù. Chi non intende questo, questa pertinace, segreta dialettica, non può intendere appieno la drammatica situazione che l’idillio postula tra presenza delle condizioni scatenanti il ricordo, col loro permanere uguali ma diverse – uguaglianza e diversità unite in un tutto unico da quell’«uso» dichiarato al verso 2 («per uso») [da Le ricordanze], da quel riammagliarsi della distanza attraverso l’assuefazione creatrice – e appunto la presenza fisica di un ricordo che è vita incarnata entro il tempo recuperato48.

Nell’ambito del passaggio dal «moto confidente» al «dialogo a due» la perme- azione poeta-Silvia («Silvia è l’alter ego del poeta, e, insieme, il poeta è l’alter ego di Silvia»)49, costituita nella visività sonoro-tattile, dove si estingue il «desiderio dell’io» per dar luogo all’«io desiderante, finalmente, l’altro da sé», dello spendea/ splendea – occhi ridenti e fuggitivi, riporta alla «voce istintiva del sangue»: e qui si pone il richiamo a Rimembranze, «idillio del ’16, rifiutato»50: la distanza tempo- rale, e testuale, non dissolve, anzi rafforza, la «voce» con cui si rivolge a Silvia51. La sequenza Rimembranze (1816)-A Silvia (1828)-Le ricordanze (1829) vie- ne confermata e «ravvicinata» sul versante degli elementi testuali da Contini52, a proposito del «compenso a distanza», alternativo al «compenso contiguo» , su

47 Cfr. P. Bigongiari, Leopardi, 1976 cit., p. 35. 48 Cfr. P. Bigongiari, Leopardi,1962 cit., p. 172. 49 Cfr. n. 33. 50 Cfr. n. 28. 51 Cfr. n. 28. 52 G. Contini, Implicazioni leopardiane cit.: «Quando si discorre di implicazioni leopardia- ne, se ne possono analiticamente distinguere di tre tipi. Anzitutto, correzioni che rinviano ad altri passi del medesimo componimento, siano questi contigui o anche distanti, largo essendo l’àmbito del compenso che si esercita entro una stessa unità. In secondo luogo, correzioni che rinviano a passi dell’autore fuori del componimento presente, o perché attestino uno schema affine di rifacimento, o perché vi risulti preparato, secondo i casi, il punto di partenza o il punto di arrivo.Infine correzioni che rinviano […] a luoghi esorbitanti dall’opera dell’autore, cioè a sue abitudini culturali, a sue letture immanenti alla coscienza» (ivi, p. 42); «E siamo alle Ricordanze, i cui rapporti stilistici con A Silvia sono, per alcuni elementi, molto stretti, come tu hai dimostrato per splendea» (ivi, p. 47). IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 305 cui si crea un confronto tra Bigongiari, Contini e De Robertis che rivela una concezione diversa dei rapporti tra moventi ed esiti testuali, e, in sostanza, una concezione diversa del testo: a Bigongiari che sostiene una temporalità dilatata dei richiami, dei rinvii, sul versante elaborativo-simbolico, fa da pendant Contini sul versante sistemico-diacronico del testo; De Robertis afferma che quelli che Bigongiari considera, a proposito di Rimembranze rispetto a A Silvia, «qualco- sa di più che un anticipo senza legami con le sue conseguenze», ovvero già «ma- teria organica»53, sono soltanto «balbetti, presentimenti», «recapiti del subcon- scio», «occasioni, non già ragioni di quel ricco complesso che è la “condizione alla poesia”»54. De Robertis difende, in accezione ancora crociana, l’individuali- tà dell’espressione55; Bigongiari sostiene la continuità senza fratture dei «recapi- ti del subconscio», in modo organico e non puntuativo, ovvero un’individuali- tà dell’espressione non disgiunta dalla continuità sotterranea delle motivazioni. La temporalità aperta e dilatata di Bigongiari sul versante elaborativo-simboli- co è affine alla diacronia sistemica di Contini sul versante variantistico-testua- le, mentre diversa è la «individualità» crociano-frammentistica di De Robertis56. Afferma Bigongiari, in termini suscettibili di ampliamenti:

…la «condizione alla poesia» non può essere – qui trovandomi senz’altro d’ac- cordo con Contini – un «hortus conclusus» rispetto alla fioritura di una stagio- ne. Se no, a bruciarsi le ali sarebbe la storia stessa della poesia. D’altronde mi pare anche plausibile l’ipotesi continiana a proposito di splendea-splendeva di A Silvia […] anzi tale ipotesi ci permette un ulteriore inoltro nel farsi segreto di quella poesia57.

La sintonia tra Bigongiari e Contini si pone sul terreno della «storia della poesia», alternativa all’«hortus conclusus» di De Robertis: «storia della poesia» che richiama lo «strenuo storicismo stilistico» di Longhi, assimilabile allo stes- so Contini, alla «critica verbale», alla «pedagogia della forma» di Contini, alter- native alla «pedagogia poetica» di De Robertis58. Quanto poi per Bigongiari ci

53 P. Bigongiari, Leopardi, 1962 cit., p. 521. 54 G. De Robertis, Biglietto per Gianfranco Contini cit., p. 171. 55 Cfr. «Ma quando tu, per l’appunto, parli di “sistema” e di “compensi contigui” e di “com- pensi a distanza”, non corri il rischio di livellare un poco, pianificare i dati espressivi: sottrarre qualcosa all’individualità dell’espressione?» (ivi, p. 170). 56 Cfr. A. Noferi, Le poetiche critiche novecentesche cit.: «La diacronia del movimento (che come tale è percepita nei due critici citati che più lo studiarono:puntualizzato per gradi successivi in De Robertis, inseguito nel suo “stato di relazione continuo” in Bigongiari) viene concepita da Contini allo stesso modo di una “struttura” (vale a dire sincronicamente): una struttura non statica ma dinamica» (ivi, p. 108). 57 P. Bigongiari, Leopardi, 1962 cit., pp. 521-522. 58 Circa lo «strenuo storicismo stilistico» di Contini, «formula» che risale a Roberto Longhi, cfr. Giovanni Nencioni, Ricordo di Gianfranco Contini, nel fascicolo di «Filologia e critica», del 1990, dedicato a Contini (Su/per Gianfranco Contini), p. 198; circa la «critica verbale» di Conti- 306 Paolo Leoncini sia una rispondenza tra elaborazione simbolica e varianti testuali può essere at- testato dai seguenti riconoscimenti circa il fieri di A Silvia, dove la dimensio- ne testuale si rivela come un approdo graduale rispetto al movente elaborativo:

… il fatto che egli abbia conservato accanto al testo più tardo, ma non ancora assestatosi definitivamente, una tal massa seppure sfoltita di varianti comprova che quell’energia da esse attestata, se non era ancora capace di generare lampi, era per lo meno capace di dimostrargli ancora una volta le certezza del testo raggiunto59.

Il «testo raggiunto» non coincide necessariamente con il compimento dell’i- stanza elaborativa, anzi, potremmo dire che non coincide mai, in quanto la ten- sione «variante»-«invariante» è una tensione costante e irrisolvibile in un «dato» testuale; e ciò riconduce al fatto che in Leopardi non c’è stile oggettivamente se- parabile dall’esistenza-scrittura. L’elaborazione è, qui, mossa dall’istanza volitiva di «stringere il discorso lirico elevandolo dalla continua minaccia di una confi- denza troppo protratta nel suo segreto colloquiale»60. A proposito della variante Quando beltà splendea / Quando beltà splendeva, Bigongiari si riferisce a un bra- no di Contini in Implicazioni leopardiane:

Contini per esempio ipotizza, per il verso 3, «Quando beltà splendea» ed è ipotesi acutissima, attraverso il reperto «splendeva», considerato entro l’usus scri- bendi leopardiano, che «si potrebbe indurre quasi con certezza (ma la probabi- lità rimane forte) che Leopardi intendesse scrivere dapprima non un settenario, bensì un endecasillabo, che sarebbe continuato con una parola cominciante per vocale61.

Il dislivello, costante e «irrisolvibile», tra moventi elaborativi ed esiti testua- li («inferiori» rispetto ai moventi elaborativi) è rivelato nei seguenti passaggi di

ni, cfr. E. Biagini, La ‘critica verbale’ degli «Esercizi» e l’interpretazione in «Ermeneutica letteraria», VI, 2010, pp. 18-35; circa la «pedagogia della forma», cfr. Daniele Giglioli, Pedagogia della forma, postfazione a G. Contini, Dove va la cultura europea?, Macerata, Quodlibet, 2012, che ripubblica finalmente il testo continiano omonimo, già pubblicato in «La Fiera letteraria», I, 1946, 30, re- lativo alle «Rencontres internationales de Génève»: Giglioli mette in rilievo la correlazione di ra- zionalità, valore e storia. L’esigenza di Contini è quella di «reinventare una pratica della pedagogia fondata da una parte sulla storia come “disciplina razionale”», dall’altra sull’«approssimazione al valore artistico come valore assoluto» (ivi, p. 54); d’altro canto, se «l’attualità di Serra è nell’essere dei tempi […] non possiamo concederla al loro dover essere se quell’impulso non si coniughi e componga con un oggetto di validità universale. In tutto questo secolo forse, nella storia esterna, diciamo, una simile probabilità d’incontro fu valida al massimo se non nel fatto della Resistenza» (la citazione da G. Contini, Serra e l’irrazionale, in Altri esercizi, Torino, Einaudi, 1972, p. 100 si trova in Giglioli cit., p. 51). 59 P. Bigongiari, Leopardi, 1962, cit., p. 131. 60 Ivi, pp. 131-132. 61 Ivi, p. 32; cfr. G. Contini, Implicazioni leopardiane cit., p. 44. IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 307

Bigongiari: «… la difficoltà [consisteva] nel raggiungere il tono della voce , me- glio la durata, la castità di quel tono colloquiale; infine come la memoria emettes- se la sua verità fantastica, ma non così immediatamente avverata nella misura»62. Qui, davvero, nel testo di Bigongiari, come scrive Contini «l’attenzione epi- dermica al tono della scrittura coincide con l’attenzione sperimentale che vi at- tribuisce il poeta»:

L’andirivieni lento, con quel veloce stringere interno, quel morso, del canto, poteva subire questi scarti tonali, più che apertamente inventvi: anche se, sì, l’invenzione era raggiungere il tono della memoria, il punto dal quale il ricordo, motivandosi, prendeva corpo: che significa toccare il presente del ricordo, ma lasciandolo unito al suo profondo nutriente passato63.

Il tempo interno dell’elaborazione di A Silvia – dove l’«invenzione» signifi- ca un fatto tonale: toccare il presente del ricordo, vivere il piano temporale del presente/ricordo o del ricordo/presente, mantenere un segreto inventivo, per cui la memoria non dà il fatto accaduto, ma l’elaborazione del fatto mantenendone intatto il «nutriente passato», ovvero non «consumandone» il significato espe- rienziale – viene colto sul modularsi degli esiti testuali. Leggiamo:

Ma ecco, attinente più decisamente all’invenzione, all’inizio della quinta strofa, quel che nasconde l’attuale verso 40: «Tu pria che l’erbe inaridisse il verno» ha nella sua preistoria: «i poggi scolorisse. autunno. dopo il trapassar, l’aggirar di poche lune». Ha cioè un tentativo di colore (come al verso 18 dove, tra le varianti , sono «la miglior parte», «gli anni primi, acerbi, verdi», «l’età più verde», «l’età fiorita», il «fior de le forze»), e un successivo tentativo minuto di precisazione temporale che il verso definitivo scarta perché la precisazione nella memoria non è precisazione nel piccolo ricordo, ma è appunto rimembranza: incarnarsi nella memoria delle sue qualità più segretamente inventive, d’una vivezza corporea tutta rapportata al suo grembo fantastico. E il colore è allora colore dell’anima64.

Qui, si potrebbe dire che il critico si pone nell’interstizio tra psiche e anima, e tra anima e poesia: il «piccolo ricordo» appartiene alla psiche; la «rimembran- za» è un fenomeno di tempo-colore / invenzione-fantasia / corpo-anima; nel- la «rimembranza» si compie una dilatazione del «piccolo ricordo», dilatazione meta-psichica, che trova da sè le parole poetiche. «Invenzione» e «tono» si per- meano: il ricordo incarna nel tempo un segreto inventivo, per cui non c’è biso- gno di «invenzione» staccata dal «tono», non c’è bisogno di supporti esterni, né psicologici, né letterari. Il nesso invenzione-tono richiama il «concetto di “fin-

62 P. Bigongiari, Leopardi, 1962 cit., p. 132. 63 Ibidem. 64 Ivi, p. 133. 308 Paolo Leoncini zione”», se «fingere è, insieme, distaccare gli oggetti dal loro stato di natura e insieme imitare la loro essenziale naturalezza»65. Come si permeano invenzione e tono, così si permeano imitazione e finzione, in quanto degli «oggetti», stac- cati dallo «stato di natura», la finzione imita la «naturalezza». Circa il rapporto poesia/vita-elaborazione simbolica/varianti testuali, vediamo le individuazioni di Bigongiari a proposito del Bruto minore,dove la «pace altissima e silenziosa» del tempio poetico è «premuta da mani inquiete», ovvero «dall’illimitata esten- sione delle varianti»:

Quell’ipnosi che esercitava su Leopardi la meditazione, la esercitava anche la poesia, nella quale tutta la caotica folla dei pensieri e la massa nebulosa, e per questo tanto più brutale, del dolore, entrava come premuta da mani inquiete; ma, entrato che era, ancora in tutto il suo disordine e la confusione, si trovava in un luogo di pace altissima e silenziosa come un tempio, dove si abbandonava alle fantasticherie. Il Bruto minore è lavorato con una sapienza stilistica superiore al necessario […]. Il poeta aggruma i colori in pigri giri di pennello […] come un Tintoretto più desolato, un Tiziano vecchio, quello di Lucrezia minacciata da Tarquinio. Le varianti accettate sono numerose […] i versi sono premuti , assediati dall’illimitata estensione delle varianti […]. I godimenti che il poeta trae dalla descrizione dei fenomeni naturali e presunti divini sono infiniti, e ci accostano alla canzone Alla primavera: quelle favole antiche alle quali ormai la ragione ci vieta di credere, egli le rinnova nella fatica dell’elaborazione, le ravvi- va come si ravviva tra la cenere (tanto sapore di cenere c’è in questo poeta) un fuoco, e vi si accumula tutta la sua nostalgia66.

Oppure, a proposito di Ultimo canto di Saffo:

Tra le varianti dei versi 93-94 c’è anche questa immagine di una favolosa sensibilità: «Onda piovesse luminosa in grembo De le gelide valli». I campi, l’oceano, gli scogli, le selve, le valli, i monti (varianti del v. 58) valgono come masse uguali ondeggianti. Adamo è (variante del v. 24) famoso, caduco, su- perbo, supremo, lodato, canuto, vetusto, lugubre, festoso, fastoso, dolen- te. La fantasia poetica di Leopardi moriva dilapidando la propria vitalità in un’ebbrezza sontuosa; e riaffiorava l’uomo che aveva studiato le parole prima delle cose67.

Questo estenuarsi della fantasia fa emergere l’ «uomo» come studioso delle «parole prima delle cose»: le varianti riflettono qui l’incertezza plurima e inter- cambiabile, delle «masse uguali ondeggianti»: «Leopardi era lontano da un nu- cleo fortemente emotivo e, dentro una grigia incertezza, solo “voleva”. Questo

65 Ivi, p. 360. 66 Ivi, p. 93. 67 Ivi, p.108. IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 309 volere, inferiore all’animo, si scopre nelle canzoni: dove all’estraneità crescente dell’ispirazione supplisce una sensibilità assidua e assillata»68. A differenza che in A Silvia, dove si permeano invenzione e tono, finzio- ne e imitazione, qui le varianti rispecchierebbero il momento-limite della po- esia, assorbita dalla «vita»: ridotta a volizione, a sensibilità «assidua e assillata». L’attenzione infinitesimale ai movimenti interni della poesia/vita leopardiana si confonde con le modulazioni della scrittura, livellando i moventi elaborativi e i moventi variantistici. Riconoscendo la propria posizione intermedia tra De Robertis e Contini, Bigongiari precisa la propria diversità sia rispetto alla «pedagogia poetica» di De Robertis, che rinvia alla «condizione della poesia»; sia alla «pedagogia» «in sen- so altissimo» di Contini, nel quale «pedagogia» e «lavoro sulla forma» si corri- spondono. Si rifà, fondamentalmente, alla «grande sincronia» dell’opera leopar- diana, che non si spiega se non organicamente, secondo la «storia della poesia», per cui i «recapiti del subconscio» sono non «balbettii», «presentimenti», come per De Robertis, ma «materia organica»: «… Il mio studio delle varianti leopar- diane, del ’36, si inscriveva a descrivere il sistema che è l’opera leopardiana come una grande sincronia; vi si inscriveva cioè non in modo additivo e pedagogico»69. La diversità rispetto a Contini consiste nel fatto che Bigongiari non pratica il variantismo come istanza pedagogica «aggiuntiva», che ipotizza un metodo critico; ma come una modalità intrinseca dell’opera leopardiana, un modo di sintonizzar- si dall’interno con i movimenti dell’opera stessa. La sincronia leopardiana mette in gioco continuamente la totalità-invariante dell’opera/la istantaneità-variante del testo, per cui si tratta, per Leopardi, di un’opera-vita, e ritorniamo alla «vita superiore», alla «leggenda», alla «atematica elaborazione di significati probabili»:

La variante leopardiana è proprio il mezzo con cui l’invariante si afferma attra- verso tutta l’esplorazione possibile del sistema mentale-fantastico a disposizione di ogni singolo momento: è insomma la messa in opera del grande contesto da cui emerge di volta in volta il testo; le vibrazioni e le oscillazioni a cui l’hinc et nunc e il verso dove dell’invariante è sottoposto. Ma il testo leopardiano […] è tale con tutte le sue leggi in quanto implica la continua sincronia del contesto:

68 Ivi, p. 86. Questo «volere» e questa «sensibilità assidua e assillata» sono regressivi rispetto al «sogno» dell’«idillio»: «La canzone Al Mai ha trovato un modo di procedere cronologico, dove l’entusiasmo può esprimersi sullo sfondo nebbioso di tedio dell’età presente: nel risalire da un passato energico a «questo secol di fango» il poeta ha trovato come collocare quella cupa dispera- zione che ormai ha conosciuto; essa è in equilibrio con l’energia di quel « primo risorgimento». Con la Sera del di’ di festa quell’equilibrio non c’è più:l’idillio cerca di nascere da quello stato di sogno dei primi idilli, ma solo frammentariamente arriva a purezza musicale. Pel De Robertis «La sera del di’ di festa si potrebbe definire:L’Infinito contraffatto da un commento inopportuno» (la cit. da De Robertis è tratta dall’Introduzione a Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1922, p. LXII; ivi, p. 61). 69 P. Bigongiari, Giuseppe de Robertis. Il «Saggio sul Leopardi» in Prosa per il Novecento cit., p. 17. 310 Paolo Leoncini

varia insomma verso l’invariante. La variante a cui porta la variante sincronica leopardiana è questa fatalità suprema dell’opera che si rivela progrediente in modo rettilineo70.

La «rettilinea» continuità assimila i punti singoli di cui consta, i visibili e gli invisibili, questi in quanto sub- o iper-testuali, e li contraddice per attestare la propria inderogabile continuità: la contraddizione che consente la continuità è il sigillo dell’opera-vita-leggenda di Leopardi. Ma la continuità sincronica del- le varianti ha a che vedere con la «storia della poesia»; gli elementi della «vibra- zione» e della «oscillazione» rinviano alla irrisolvibilità, ad una estensione «to- tale», inesauribile, che tuttavia possiede una «fatalità superiore», un «destino»:

Ecco che allora lo smarrimento dell’Infinito non è che un’occhiata ancora in- nocente su una terra ignota ma già praticamente rassodatasi nel destino della poesia leopardiana: in fondo già echeggia il flutto indurato della Ginestra; il mare in cui era dolce naufragare, se pur solo increspato di presentimenti, si è tinto ora nei negri colori e delle incandescenze dello «sterminator Vesevo», ma già li implicava71.

Confrontandosi con il «così bello studio sull’ultimo Leopardi» di Walter Binni72, Bigongiari, comprensibilmente, dissente dalla nozione di «poetica» in Binni, che permette a Binni di ipotizzare una «nuova poetica» nell’ultimo Leopardi «quasi si tratti di due Leopardi, del tutto diversi, nati su basi diverse: l’uno, il Leopardi idillico, scoperto nel suo vero valore, ma, in rapporto all’al- tro, sopravalutato dalla critica crociana, l’altro in qualche modo sottovalutato per mancanza di strumenti adatti al capire»: sollecitante il riferimento agli «stru- menti adatti al capire». Alla nozione di « poetica », Bigongiari sostituisce la for- mula unitaria di «poesia della presenza» «tanto se essa sia presenza idillica quan- to presenza eroica: è «presenza della memoria […] è l’allargarsi della memoria, il suo includere una volontà, il superare un’accezione individuale, il suo farsi, in mente diviniore, ragione, una ragione reminiscente»73. Il debordare della «poten- za artistica» dalla «poetica coscientemente accettata», rilevata dal Binni, indu- ce Bigongiari a sottolineare il fatto che in Leopardi l’inconscio prevale sulla co- scienza, in quanto i «risultati» delle «convinzioni» coscienti «sono sempre risul- tati prepoetici»: la «musica» di Leopardi è l’inconscio, è la memoria involontaria. Tolta a La ginestra l’ipoteca di un «socialismo avanti lettera», rimane il «veder- la in una luce di testamento: essa attestava una decisa volontà di morire, giunto

70 Ibidem. 71 P. Bigongiari, Leopardi, 1962 cit., p. 279. 72 Ibidem. 73 Ivi, p. 280. IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 311 il Leopardi in mezzo al fuoco sbigottito e misericorde del suo pensiero»74. Dirà più avanti il critico che la «solidarietà sociale della Ginestra» deriva dal ricono- scimento della assimilazione della società alla naturalità: «di una intoccabilità finale della natura, con la conseguente maturazione, per l’umanità, di un abito accline […] la natura nell’uomo ha provocato per difesa una sorta di naturalità, una naturalità seconda, antirousseauiana: di cui la stoica societas predicata dalla Ginestra tutta si permea»75. Affermando, il 9 aprile 1825, che «Gli enti sensibili sono per natura enti souffrants, una parte essenzialmente souffrante dell’univer- so», Leopardi coglie, nella souffrancedegli enti sensibili « un moto di solidifica- zine interna […] per una vera e propria ricreazione, all’interno di tale solidarie- tà souffrante, delle condizioni stesse della vita in quello che avrebbe dovuto es- sere il grembo materno della natura […]. Ed è questa l’ultima libertà che il po- eta ha salvato dalla necessità sensitica»76. Questa libertà dal «meccanismo natu- rale sensistico»77 è possibile per l’«energia di stile» leopardiana78, «stile» non nel senso di soluzione formale, ma capacità di portare «energicamente in luce i dati dell’essere»79, ovvero di portare il linguaggio «all’altezza naturale dell’essere»80. L’«energia di stile», che richiama l’«onda di linguaggio», la «leggenda», la «ate- matica elaborazione di significati probabili»81, è la «fatica dell’elaborazione, ov- vero la «volontà, l’inesorabilità leopardiana»82. Se la sequenza energia/elabora- zione/stile è un movente poligenetico, al confine tra scrittura ed esistenza, che fa di Leopardi «il grande poeta che è, di un universo possibile. A lui le idee si pre- sentavano già bruciate dall’esperienza dell’infinito: un po’ di quell’esaltazione gli era solo restituita dalla possibilità egualmente infinita del canto»83; d’altro can- to, la sequenza energia/essere/infinito/canto «crea spazio in interiore homine»84. Quello di Leopardi è un linguaggio non privo di spaccati «verticali», che, sot- traendosi alla orizzontalità dello stile, scavano nelle radici interne, coinvolgen- do «il profondo fantastico del lettore», e creando una comunicazione seconda, ben lontana dal terreno canonico-istituzionale dei significati: anziché fermar- si al «presente teso che è la poesia»85, lo incide verticalmente «con una violenza accresciuta dalla costrizione»86 e giunge a toccare

74 Ivi, p. 281. 75 Ivi, p. 389. 76 Ivi, p. 390. 77 Ivi, p. 391. 78 Ivi, p. 282. 79 Ibidem. 80 Ivi, p. 10. 81 Ibidem. 82 Ivi, p. 282. 83 Ivi, p. 287. 84 Ivi, p. 283. 85 Ibidem. 86 «Prima tendeva al massimo il tessuto stilistico, sì che ingenerasse novità e moto. Poi in 312 Paolo Leoncini

… la quota di verità ch’è racchiusa nel verisimile poetico, cioè la quota di sen- timento umano, dell’umana facoltà di capacitazione, la quantità psichica che è riuscito a mettere in moto. Ecco, lo stile riflessivo, la lenta capacitazione di Leopardi è un calcolo delle probabilità mantenuto aperto contro ogni smentita particolare; e mentre provoca, o rasenta, la smentita, il calcolo è già lontano, aperto su altre cifre alla sua continua probabilità. Occorre perciò, al poeta stesso prima che al suo lettore, dragare tutto il fondo poetico che un tale stile provo- catorio sommuove col suo avanzare totale, che non si lascia nulla dietro, nulla nemmeno di intentato. Ed ecco che ogni momento è comprensivo di tutti i momenti precedenti, almeno come ipotesi, un’amarezza convinta o un lieve sorriso, quasi di un’eco che ne arricchisca la possibile risonanza. Quando poi alla memoria si sostituirà, come negli ultimi canti, una ragione reminiscente, revo- lutiva, ecco che questa remora intima causata dalla ragione viene ad allentarsi: ed è qui la ragione dell’eloquenza degli ultimi canti. La ragione trova una spinta dove prima trovava un ritardo a quel credito mentale ora tutto in primo piano, ora tutto precipite: tutto lentamente precipite87.

Questo ricondursi all’elaborazione volitiva, dal «presente teso ch’è la poe- sia» alla «quota di verità ch’è racchiusa nel verisimile poetico», ovvero questo ri- tornare del poeta all’uomo, dalla poesia all’antropologia, contribuiscono al di- sinvischiamento della «storia della poesia» dalla «poesia schiava del tempo»88. questo presente teso che è la poesia, dunque l’unico momento di piacere vero che egli ammet- tesse, operava profonde incisioni sì che tutta la forza chiusa emergesse dall’imo con una violenza accresciuta dalla costrizione. E questo modo di procedere sussiste tanto nella fase vaga e indefi- nita degli idilli quanto in quella arida e volontaria fino alla petrosità della Ginestra. Una sintassi “tagliata” aiuta all’energia del testo quasi che ne radichi i sintagmi nel profondo fantastico del lettore, cioè renda, a dir così, rispondenti verticalmente i lacerti stilistici, e perché quanto il rac- courci esclude, la parte mancante sul piano orizzontale dello stile, opera e fruga e crea spazio in interiore homine. Ecco, nella Sera del di’ di festa, ai versi 20-21: “Non io, non già, ch’io speri, Al pensier ti ricorro”» (ivi, p. 283). 87 Ivi, p. 284; e, di seguito: «Un altro caso, e ne scelgo un altro in cui più tenue sintatticamen- te si presenta il raccourci fino quasi a sbiadire alla lettura: nelle Ricordanze, ai versi 160-161: “a radunanze, a feste Tu non ti acconci più, tu non movi”, in cui Nerina si acconcia a radunanze, a feste, perché ad essa move; e la frase mette in valore il verbo “Tu non ti acconci più” rimasto a stretto fra la naturale rispondenza dei sostantivi precedenti e del verbo di moto susseguente; au- mentando il pellegrino dell’espressione col latinismo “ti acconci a radunanze, a feste…” venuto a intrudersi nel senso di moto a luogo che la preposizione primitivamente aveva e che pur conserva per l’altro verbo, e che si riverbera rispetto al verbo “acconciarsi” fino a creare anche un sottinteso “per andare”. Espressione bivalente dunque, ottenuta dal raccourci: dove allora il verbo di moto, così distanziato, risulta un verbo remoto in un golfo di voce, espresso emotivamente, nel ricupero dal profondo, vero e proprio flatus, e quasi flatus vocis» (ivi, pp. 284-285). 88 Ivi, p. 534: «Ho tentato insomma un libro di storia della poesia: poiché io credo che una poesia senza storia, una poesia che non sopporta la sua storia, sia l’indice più evidente che quella è una poesia minore, una poesia schiava del tempo. Dove crede di perdere il contatto col tempo, lì l’opera leopardiana anzi ne ravviva le profonde scaturigini; e se dobbiamo vedere il poeta tra sensismo e romanticismo, dobbiamo però, e tanto più, vederne le radici affondare in un terreno meno esplorato, più distante, più compatto, dove il poeta di Recanati si inventava quell’età che era di Hölderlin come sarà di Baudelaire». IL «LEOPARDI» DI BIGONGIARI TRA DE ROBERTIS E CONTINI 313

Gli «a fondo» critici nella dimensione elaborativo-volitiva e innovativo-pro- gettuale della poesia leopardiana, non sono distanti da Contini, dalla «critica delle varianti», dalla filologia. Bigongiari riconosce che «Dietro il suggerimento di Contini, si va cercando l’invariante, la legge delle varianti leopardiane», per cui i sondaggi bigongiariani si rivelano sottesi dall’interrogativo circa i possibi- li nessi o circa le possibili frizioni tra filologia e «vero poetico»89: interrogativi a cui il critico risponde secondo un percorso che identifica filologia e «storia della poesia», quindi, in sostanza, in senso continiano, filologia e «pedagogia della for- ma». È la «storia della poesia» che salva la integrità dei significati poetici, con le interne discrasie e contraddizioni; la «storia della poesia», come la filologia con- tiniana, non separa i testi dalle correlazioni contestuali e dai retroterra motivan- ti, anche se dovessero creare perplessità , di volta in volta, sul versante delle so- luzioni espressive. Concomitante – sul piano dell’«irrisolvibilità» – all’incisione «verticale» sul «presente teso ch’è la poesia», è la «prossimità fonica» del «gioco sintattico-sonoro», in cui è «involto» «un nucleo di pensiero» «intorbidato», che non era più in grado di raggiungere il «segno della musica quale la vena idillica aveva inventato»: si tratta di una discrasia ritmico-temporale che non può essere separatamente assunta in termini stilistico-formali, ma soltanto essere commisu- rata attraverso «la pausatissima ma fatalissima storia leopardiana»90. Ancora, la «storia della poesia» disinvischia la «poesia» dalla «schiavitù del tempo»; la pro- gettualità leopardiana va oltre sensismo e romanticismo. E induce a riconfigura- re le istanze dello «strenuo storicismo stilistico» di Longhi-Contini, dove il tem- po esterno è assorbito nella storia interna della poesia, in quanto la poesia, ac- quisita secondo un’interpretazione pluricomprensiva (intesa da Contini come «variante-limite» della «critica euristicamente filologica»91) costituisce il presen- te non puntuativo, ma correlativo, dei «valeurs à nâitre», dei valori in divenire, dal «dover essere all’essere»92 in cui il «dover essere», volitivamente inesorabile, di Leopardi, discontinuo rispetto ad ogni orizzonte istituzionale del «poetico» «ci rivela la più alta lezione di moralità che un poeta abbia mai saputo impartire»93.

89 Cfr. ivi, p. 287: «… si tende a far sgorgare un’interpretazione di poesia da una legge che ha in sè, nel suo sostegno più meramente filologico, una sottile ma non perciò meno sostanziale possibilità di travisamento del “vero” poetico. Il proprio della poesia è dato dalla sua continua inidentità rispetto al modo reperibile del suo sorgere, rispetto cioè alla sua istituzione». 90 Ivi, pp. 287-288. 91 G. Contini, Sul metodo di Roberto Longhi, in Altri esercizi cit., p. 105. 92 Cfr. n. 27. 93 P. Bigongiari Leopardi,1962 cit., p. 533. Giorgio Cerboni Baiardi, Neuro Bonifazi, Anna Dolfi, Donato Valli, Mario Luzi (Urbino, ottobre 1998. Foto di Laura Dolfi). SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE

Paolo Orvieto

Dovendo mettere ordine nella mia cantina, rovistando tra le molte carte lì stipate per decenni, mi è capitata tra le mani una dispensa con relativi miei ap- punti al margine di un corso, se mi ricordo bene del 1964-1965, il primo cor- so di Bigongiari al Magistero di Firenze, che, benché studente al primo anno di Lettere, avevo seguito perché affascinato dal professore-poeta e perché grande amico da sempre di Mario Ajazzi Mancini, suo nipote, col quale ho poi scritto un libro su Freud e Jung e che mi aveva fatto conoscere di persona Bigongiari. Si tratta di un corso sul simbolismo, che svariava, come se niente fosse, da Foscolo a Manzoni, Leopardi, Carducci, con tappa di sosta prolungata su Baudelaire; poi Novalis, Eliot, Swedemborg, Michaux, Maeterlinck, e una miriade di poe- ti e saggisti allora (e in gran parte ancora) per me semisconosciuti (René Louis de Girardin, Lavater, Verhaeren, Saint Antoine, Vielé-Griffin, Huret, Pierre Simon Ballanche, Michaud, Catteuil), quindi Nerval e altra prolungata lettura di lettere e di poesie di Rimbaud (di Voyelles, L’étoile a pleuré rose e, soprattutto, di Mémoire). Per passare poi senza soluzione di continuità all’orfismo, antico e moderno e, tra i poeti orfici del Novecento, Bigongiari include naturalmen- te Campana, ma anche, per me sorprendentemente, Montale, al quale è dedi- cata tutta l’ultima parte del corso, con straordinarie letture e commenti di po- esie dagli Ossi (Marezzo, Barche sulla Marna e Per un omaggio a Rimbaud), dal- le Occasioni (Estate, Corrispondenze, Bassa marea, La casa dei doganieri, La spe- ranza di pure rivederti) e uno dei Mottetti (Il ramarro, se scocca). È bene precisa- re che le penetranti analisi di alcune poesie di Montale (in particolare di Barche sulla Marna, Estate, Corrispondenze e Bassa marea) analizzate verso per verso, potrebbero assai bene integrare gli altri saggi montaliani compresi in Poesia ita- liana del Novecento1. Alla lettura attuale, di uno stagionato professore in pensione, il corso non è più solo un accurato e dotto commento ai grandi poeti del simbolo, dall’Otto-

1 Piero Bigongiari, Poesia italiana del Novecento, Milano, Il Saggiatore, 1980, II, in cui il cap. X (L’autoriflessività del significato. Eugenio Montale dalla qualità esistenziale alla qualità essenziale), alle pp. 321-420, è interamente dedicato a Montale.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 316 Paolo Orvieto cento al Novecento, ma anche implicitamente, letto come metatesto, un auto- commento del critico Bigongiari al poeta Bigongiari, affascinato dal simbolismo ottocentesco e da quello montaliano che definisce «orfico» e tuttavia ben con- sapevole che la poesia del Novecento, e soprattutto la sua poesia, aveva il diffi- cile e gravoso compito di rinnegare quella stupenda e gloriosa stagione genito- riale, perché il simbolo nella poesia del Novecento e, soprattutto, come vedre- mo, nella sua poesia, deve, per rinnovarsi, assumere ben altro ruolo, se si vuole abortito nella parola, rinnegando quello del Romanticismo e di Baudelaire: «la poesia del Novecento nasce come demistificazione del Romanticismo; essa è sì in rapporto storico con quello, ma è un’altra cosa»2. La poesia del Novecento deve appunto «demistificare» il simbolo ottocentesco, annientare quello «slan- cio mistico» dei romantici e di Baudelaire, ancorato ad un persistente platoni- smo: un alternarsi di slanci verso l’alto (il mondo delle idee), con relative ine- vitabili ricadute verso il basso, nell’abisso dell’esistenza umana. «Inabitalità del mondo che spinge – in questo caso Baudelaire – verso lo spleen, il ma- lumore da cui è dominato». La poesia dopo Baudelaire ha generato due raz- ze di poeti: i veggenti (Rimbaud) e gli artisti; si è trovata in questa situazio- ne doppia: o di fuga dalla civiltà e nel silenzio (Rimbaud) o di proseguire un discorso sul piano del linguaggio (Mallarmé e Valéry), ch’è il vettore che por- ta a Bigongiari. Baudelaire, come egli stesso afferma, deriva da Swedemborg e Lavater l’«umanizzazione dell’universo», un cosmo stipato di più o meno oc- culte «corrispondenze», ma poi si «perderà questa proporzione divina e nasce- rà la poesia del nuovo secolo, in una scienza dell’universo che riparte da zero, cioè in un universo sproporzionato». Le Fleurs du mal costituiscono all’interno del corso e nella storia della poe- sia tracciata da Bigongiari lo snodo, il referente centripeto e insieme centrifugo al cambiamento della poesia a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Oltre tut- to queste letture baudelairiane potrebbero essere accluse all’unico saggio, che io sappia, che Bigongiari ha scritto su Baudelaire: Baudelaire e la madre, ripubbli- cato più volte3. Che è una ricognizione apparentemente biografica sui rappor- ti tra Charles e l’odiosamata madre Mme Aupick, che assume, oltre le connota- zioni del femminino in generale e genitoriali, anche un significato ben più va- sto, ontologico-esistenziale:

La madre insomma è la Natura allo stato sommo, con la quale l’uomo com- batte mentre se ne sente figlio; in questo senso è una falla nella perfezione del dandysme baudelairiano, ne è l’altro polo, un’accusa continua. […] La madre era

2 Le citazioni senza indice di nota sono tratte dal corso. 3 In «Il Corriere», 20-21-22, novembre 1952; anche in «Idea», 21 dicembre 1952, 51 e 28 novembre 1952, 52 e 5 gennaio 1953, 1 (poi in Il senso della lirica italiana, Firenze, Sansoni, 1952, pp. 150-60, e in La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Milano, Rizzoli, 1972, pp. 89-102, da cui citiamo). SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE 317

colei che la [commedia umana] metteva continuamente in pericolo, tentando di strappare la maschera del dandy del volto tragico del figlio4.

Questo saggio mi ricorda molto il Baudelaire di Jean-Paul Sartre del 1947, ma certo qui non ci possiamo occupare dei rapporti Bigongiari-Sartre.

Torniamo al corso sul simbolismo. Il primo sonetto delle Fleurs analizzato è Correspondences:

La Nature est un temple où de vivants piliers Laissent parfois sortir de confuses paroles; L’homme y passe à travers des forêts de symboles Qui l’observent avec des regards familiers.

Comme de longs échos qui de loin se confondent Dans une ténébreuse et profonde unité, Vaste comme la nuit et comme la clarté, Les parfums, les couleurs et les sons se répondent.

Il est des parfums frais comme des chairs d’enfants, Doux comme les hautbois, verts comme les prairies, – Et d’autres, corrompus, riches et triomphants,

Ayant l’expansion des choses infinies, Comme l’ambre, le musc, le benjoin et l’encens, Qui chantent les transports de l’esprit et des sens.

Con traduzione dello stesso Bigongiari:

La natura è un tempio di cui i vivi pilastri lasciano talvolta uscire confuse parole; l’uomo vi passa attraverso una foresta di simboli che lo osservano con sguardi familiari. Come lunghi echi che da lontano si confondono in una tenebrosa e profonda unità vasta come la notte e la luce, i profumi, i colori e i suoni si rispondono. Vi sono profumi freschi come carni infantili, dolci come gli oboi, verdi come le praterie ed altri corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno l’espansivi- tà delle cose infinite come l’ambra, il muschio, la resina e l’incenso che cantano i trasporti dello spirito e dei sensi.

Il commento inizia con un confronto a distanza del rapporto naturale/im- maginario tra Cavalcanti (Beltà di donna) e Baudelaire: nel primo sono presen- tati in successione due momenti separati e contrapposti, mentre Baudelaire e il Romanticismo hanno fuso assieme questi due elementi (esterno ed interno), ge-

4 Ivi, pp. 92, 102. 318 Paolo Orvieto nerando il fenomeno della sinestesia, per cui «profumi, colori e suoni si fondono l’uno con l’altro grazie ad una analogia universale, avvertibile, da parte dell’indi- viduo, per mezzo di una comunanza di tonalità che supera l’apparente illogici- tà di questi accostamenti di sensazioni diverse». Le immagini rimbalzano nello spirito, e viceversa dallo spirito all’immagine, appunto perché la realtà è conte- sta di «corrispondenze», di analogie simboliche. Poi Bigongiari cita alcuni passi significativi dai poemi in prosa di Baudelaire (alla donna: «non saresti tu inqua- drata nella tua analogia, e non potresti tu mirare te stessa per parlare come i mi- stici nella tua corrispondenza?»). Tutto in Baudelaire è un geroglifico, e il poeta ha il compito di decifrarne i simboli. Altri dati significativi nel sonetto: la «fu- sione tra il costruito (il tempio) e il naturale (che diventa foresta)»; e poi anche l’alternanza dicotomica tra la «prostituzione dell’anima» (la dispersione nelle ap- parenze della vita) e la palingenetica «comunione universale» e, quindi, la neces- sità di perforare il sensibile per scorgervi l’ultrasensibile; la possibilità di comu- nicazione tra i due emisferi è fornita appunto da simboli, metafore e analogie. È interessante il fatto che Bigongiari per Correspondences segua spesso pas- so passo, dichiarandolo esplicitamente, il commento al sonetto fatto da Marcel Raymond nell’Introduzione del suo celebre saggio De Baudelaire au surréalisme, del 1933, in cui Raymond parla tra l’altro, del fatto che Baudelaire nella natura «vede non già una realtà esistente in sé e per sé, ma un’immensa riserva di ana- logie e anzi una specie di eccitante per l’immaginazione […]. Ne consegue che la Creazione va considerata come un insieme di figure da decifrare – allo stesso modo che secondo Lavater [citato anche da Bigongiari], si legge il carattere di un uomo interpretando i tratti del suo viso – oppure, come un’allegoria misti- ca», perciò «il compito del poeta sarà dunque, secondo il senso divinatorio che è in lui, di percepire le analogie e le corrispondenze che assumono l’aspetto let- terario della metafora, del simbolo, del paragone o dell’allegoria»; e che poi si sviluppano nella simbiosi dei vari sensi, nelle sinestesie5. Ora ci sarebbe da indagare, se non è stato già fatto, questo rapporto di in- tima comunione tra Bigongiari critico e Marcel Raymond, uno dei fondatori, pur inconsapevole, della cosiddetta Scuola di Ginevra e, quindi, della critica te- matica. Attrazione forse dettata proprio dal fatto che in Raymond e compagni di strada c’è una componente psicanalitica, però, come in Bigongiari, rivissuta tramite un transfert che coinvolge il critico in prima persona: una simpatetica e penetrante introspezione (l’abbiamo vista anche nel saggio Baudelaire e la ma- dre), perché «l’atto di lettura (al quale si riduce ogni vero pensiero critico) im- plica la coincidenza di due coscienze: quella del lettore e quella di un autore», come sostiene Poulet all’incipit del suo La coscienza critica6. Documentati sono

5 Marcel Raymond, Da Baudelaire al Surrealismo, Prefazione di Giovanni Macchia, Torino, Einaudi, 1948 (le citazioni alle pp. 15, 17). 6 Georges Poulet, La coscienza critica, a cura di Giovanni Bentivoglio, Genova, Marietti, 1991, p. 9. SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE 319 poi i rapporti di amicizia e stima reciproca di Bigongiari con Poulet. Una cri- tica che, con il proprio linguaggio, partecipa alla poesia che critica: è come un prolungamento del pensiero poetico. Altrove Bigongiari confessa che è arrivato a Lacan tramite la lunga frequentazione che ha avuto da sempre con la cultura francese e, in particolare, «lungo la mia frequentazione di quella che è stata chia- mata l’École de Genève, e lungo la mia amicizia con Starobinski»7. Bigongiari stabilisce con i vari poeti analizzati un intenso rapporto di amo- re e di ribellione. In un’intervista pubblicata nell’illuminante volume Nel mu- tismo dell’universo curato da Anna Dolfi, dice che «il vero rapporto tra il critico e l’Autore è un rapporto amoroso, come l’amante vuol conoscere, così il criti- co vuol conoscere. Ma la conoscenza, nel vero amore, non finisce. Dove la co- noscenza finisce, l’amore si rivela limitato. E aggiungo: spesso sempre più nel nostro secolo, critico e Autore coincidono»8. Un rapporto, coi vari Baudelaire, Rimbaud e Montale del corso, inizialmente di conoscenza mai conclusa – che è amore e simbiosi; ma un rapporto che, freudianamente, impone anche il più o meno traumatico taglio del cordone ombelicale, perché il figlio non sia condan- nato ad un eterno ruolo subalterno, una brutta copia del padre: un tradimento che tuttavia certo non esclude la riconoscenza e la devozione. Poi Bigongiari analizza un’altra poesia di Baudelaire, l’Albatros:

Souvent, pour s’amuser, les hommes d’équipage Prennent des albatros, vastes oiseaux des mers, Qui suivent, indolents compagnons de voyage, Le navire glissant sur les gouffres amers.

A peine les ont-ils déposé sur les planches, Que ces rois de l’azur, maladroits et honteux, Laissent piteusement leurs grandes ailes blanches Comme des avirons traîner à côté d’eux.

Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule! Lui, naguère si beau, qu’il est comique et laid! L’un agace son bec avec un brûle-gueule, L’autre mime, en boitant, l’infirme qui volait!

Le Poète est semblable au prince des nuées Qui hante la tempête et se rit de l’archer; Exilé sur le sol au milieu des huées, Ses ailes de géant l’empêchent de marcher.

7 Piero Bigongiari, Nel mutismo dell’universo. Interviste sulla poesia 1965-1997, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 257. 8 Ivi, p. 9. 320 Paolo Orvieto

Con traduzione di Bigongiari:

Spesso, per divertirsi, gli uomini d’equipaggio, prendono degli albatros, grandi uccelli dei mari che seguono, indolenti compagni di viaggio, la nave che scivola sopra gli abissi amari. Appena essi li hanno deposti sulle assi della tolda, ecco che questi re dell’azzurro maldestri e vergognosi, lasciano miseramente le loro grandi ali bianche come dei remi fiottare al loro fianco. Questo viaggiatore ala- to, come è goffo e impotente! Lui poco prima così bello, com’è comico e brutto! Qualcuno gli stuzzica il becco con una pipa accesa, puzzolente, qualche altro imita, zoppicando, l’infermo che volava! Il Poeta è simile al principe dei nembi che abita la tempesta e si ride dell’arciere; esiliato sul suolo in mezzo agli schia- mazzi, le sue ali di gigante gli impediscono di camminare.

Nel sonetto è ben evidente il tema esotico dell’evasione, della fuga, con espli- cito ricordo di un viaggio effettivamente fatto da Baudelaire nel 1841-42 su una nave con rotta Calcutta, durante il quale, appunto, un albatros, cadde sul ponte della nave, rompendosi un’ala e quindi fu tormentato dai marinai, con le pipe accese. Bigongiari ricorda anche le traduzioni baudelairiane di Poe, tra le qua- li, nelle Avventure di Artur Gordon Pym, un capitolo è sull’albatros. Anche que- sto uccello, che tanto agile nei cieli ma goffo e claudicante quando in terra non può usare le sue grandi ali, assume la trasparente ambivalenza del simbolo, del resto assai prossimo a quella de La ballata del vecchio marinaio di Coleridge. Simbolo di non difficile decifrazione: proprio le grandi ali dell’albatros, cadu- to sulla nave, tra uomini grossolani e refrattari ad ogni librante «volo» poetico, sono al poeta-albatros di ostacolo e oggetto di ludibrio: è libero e onnipotente mentre si lascia trasportare della fantasia, quando invece si trova tra gli uomini volgari è prigioniero, claudicante, quindi vilipeso. Bigongiari cita anche, con sue traduzioni letterali, altri due sonetti di Baudelaire, Elévation e la Vie antérieure:

Au-dessus des étangs, au-dessus des vallées, Des montagnes, des bois, des nuages, des mers, Par delà le soleil, per delà les éthers, Par delà les confins des sphères étoilées,

Mon esprit, tu te meus avec agilité, Et, comme un bon nageur qui se pâme dans l’onde, Tu sillonnes gaiement l’immensité profonde Avec une indicible, et mâle volupté.

Envole-toi bien loin de ces miasmes morbides, Va te purifier dans l’air supérieur, Et bois, comme une pure et divine liqueur, Le feu clair qui remplit les espaces limpides: SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE 321

Derrière les ennuis et les vastes chagrins Qui chargent de leur poids l’existence brumeuse, Heureux celui qui peut d’une aile vigoureuse S’élancer vers les champs lumineux et sereins!

Celui dont les pensers, comme des alouettes, Vers les cieux le matin prennent un libre essor – Qui plane sur la vie, et comprend sans effort Le langage des fleurs et des choses muettes!

Al di sopra degli stagni, al di sopra delle vallate, delle montagne, dei boschi, delle nuvole, dei mari, oltre il sole, oltre gli eteri (solari), oltre i confini delle sfere stellate, tu, o mio spirito, ti muovi con agilità, e come nuotatore che si bei nell’onde, tu solchi gaiamente l’immensità profonda con una indicibile e ma- schia voluttà. Portati via, ben lontano, da questi miasmi malati, vatti a purifi- care nella sfera superiore dell’aria, e bevi come un liquore puro e divino il fuo- co chiaro che riempie gli spazi limpidi. Di là dalle noie e dai grandi dolori che gravano del loro peso l’esistenza umana, felice colui che può con un’ala vigoro- sa slanciarsi verso i campi luminosi e sereni! Colui di cui i pensieri come allo- dole verso i cieli di mattina acquistano un libero slancio che si libra sulla vita e comprende senza sforzo il linguaggio dei fiori e delle cose mute.

J’ai longtemps habité sous des vastes portiques Que les soleils marins teignaient de mille feux, Et que leurs grands piliers, droits et majestueux, Rendaient pareils, le soir, aux grottes basaltiques.

Les houles, en roulant les images des cieux, Mêlaient d’une façon solennelle et mystique Les tout-puissants accords de leur riche musique Aux couleurs du couchant reflété par mes yeux.

C’est là que j’ai vécu dans les voluptés calmes, Au milieu de l’azur, des vagues, des splendeurs Et des esclaves nus, tout imprégnés d’odeurs,

Qui me refraîchissaient le front avec des palmes, Et dont l’unique soin était d’approfondir Le secret douloureux qui me faisait languir.

Io ho abitato a lungo sotto vasti portici che i soli marini tingevano di mille fuochi e che i grandi pilastri dritti e maestosi rendevano simili la sera a grotte di basalto. Le onde lunghe rotolando le immagini dei cieli fondevano in un modo solenne e mistico gli onnipotenti accordi della loro ricca musica ai colori del tra- monto riflesso dai miei occhi. È là che io ho vissuto in mezzo a calda voluttà, in 322 Paolo Orvieto mezzo all’azzurro, ai flutti, agli splendori, e in mezzo a schiavi nudi tutti impre- gnati di odori che mi rinfrescavano la fronte con delle palme, di cui l’unica cura era quella di rendere più profondo il segreto doloroso che mi faceva languire. In Elévation «abbiamo evidente il senso platonico dell’ascensione dell’anima verso le sfere superiori»; quindi ancora, come in Albatros, la fuga, ora iniziati- ca, verso l’alto: un «volo di Icaro riuscito»; un albatros che raggiunge non solo il largo, ma anche l’alto, e chi non aspira a questa ascensione non potrà mai com- prendere il criptico linguaggio dei simboli. In La vie antérieure invece «tocchiamo il momento della distanza psichica, il legame cioè tra una realtà vissuta qui e ora e, come dice il titolo, una vita pre- cedente». Si tratta di un simbolismo con evidenti componenti orfico-pitagori- che, che avranno, come Bigongiari dimostrerà nello stesso corso, notevoli pro- seliti novecenteschi (tra i quali Nerval, Campana e Montale). Le teorie pitago- riche recuperate da Baudelaire e anche da Nerval sono riassunte in tre postula- ti: 1) l’idea della palingenesi universale: il mondo deve reincarnarsi dal profon- do totalmente; 2) l’idea della metempsicosi, della progressiva purificazione nel passaggio da corpo a corpo; 3) il ricordo delle vite anteriori. Le quartine di La vie antérieure rappresentano un paesaggio lorenese, le ter- zine un paesaggio esotico, che ricorda i quadri di Gauguin. Poi il poeta parte- cipa al lettore quel suo «segreto doloroso», che è, precisa Bigongiari, «il tentati- vo di mantenere il discrimine tra Grazia e Natura, è questo senso di collusione tra spirito e tempo, è insomma la necessità stessa della lotta interiore. Essa con- siste nel desiderio di penetrare verso l’interno e contemporaneamente avvertire il pericolo di sentire aprirsi il proprio io come un abisso, quello che Baudelaire chiama il “gouffre”, la vertigine dell’abisso». Un messaggio criptato tuttavia di cui il poeta ha perduto la chiave interpretativa. Dunque un attento e competente commento ai simboli baudelairiani di quat- tro sue poesie, e tuttavia, anche, come dicevamo, un autocommento, almeno relativo a quella che è stata la per molti aspetti traumatica «demitizzazione» no- vecentesca, e in particolare bigongiariana, del «simbolo mitico» di Baudelaire, e solo in parte del «simbolo visionario» di Rimbaud e del «simbolo orfico» di Montale. La frattura, lo iato incolmabile tra il simbolo bigongiariano e le «cor- rispondenze simboliche» di Baudelaire, è più volte ribadito:

L’ermetismo nacque esaurendo dall’interno, sì, le stesse categorie del simbolismo. Nel senso che la mia generazione ha sentito come «vuoto» il simbolo poetico del simbolismo, e ha tentato di sostituirvi un simbolo «pieno», storicamente pieno. Al posto del simbolo distaccato, post-allegorico, post-eliotiano (la realtà come «corre- lativo oggettivo») costruito con una méthode di tipo valéryano, un simbolo parados- salmente «contenutistico», la mia generazione ha sentito come simbolo il linguaggio stesso che il parlante sentiva nascere in opposizione al silenzio, ma dentro il silenzio9.

9 Ivi, p. 28. SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE 323

Bigongiari lo ripete a più riprese nel corso che la poesia del Novecento nasce proprio dal progressivo «svuotarsi» del simbolo romantico:

il simbolo – per il racchiudersi dentro di sé del significato, per il distaccarsi pro- gressivo di questo da una comprensività normale – un po’ per volta farà sì che questo si secchi, si svuoti o divenga incomprensibile dall’interno del simbolo stesso, vedremo allora che la lezione del Simbolismo ha compiuto questa pa- rabola. Vedremo nascere un’opposizione a questa concezione della poesia; cioè il simbolo diverrà talmente misterioso o incomprensibile che non ci sarà più rapporto tra significante e significato; il simbolo diventerà vuoto per l’uomo; e siccome esso non può essere vuoto, arbitrario, per definizione, ecco perché nascerà una reazione che sfocerà a qualcosa di diverso dal simbolo stesso. Di- remo che lo spartiacque tra l’Ottocento romantico e il nuovo secolo è proprio in questo progressivo distacco dalla lezione simbolista, dopo però che questa ha largamente nutrito la poesia del Novecento.

La successiva tappa di questa attenta cronistoria del simbolismo, nella sua incessante progressione verso il «misterioso e l’incomprensibile», è Rimbaud, sul quale il corso si sofferma a lungo. Di lui Bigongiari dapprima legge due let- tere, la prima a Georges Izambard, scritta da Charleville il 13 maggio 1871, in cui il poeta dichiara la sua aspirazione a diventare un «veggente» e che per lui «si tratta di arrivare all’ignoto attraverso il disordine di tutti i sensi». Nel caso di Rimbaud il poeta non progetta il simbolo, ma è nei suoi confronti passivo, lo subisce, per cui «da Baudelaire si è fatto un passo avanti nell’abbandono del- la soggettività del poeta», citando la famosa affermazione di Rimbaud «Je est un autre». Si tratta in Rimbaud di un caos, di uno improvviso «scatenamento dei sensi», tuttavia «ragionato». Le sue immagini, le sue «illuminazioni» appa- iono e subito scompaiono con la velocità di una meteora. Siamo ad un ulterio- re accecamento del simbolo baudelairiano, perché «c’è un passaggio dal simbo- lo all’immagine sensibile che è collegata a questa concezione simbolica dell’uni- verso, ma ne è come il momento fenomenologico, il momento dell’apparizio- ne veloce come una meteora […] il simbolo vive solo come visione, come im- magine, ma quando il poeta cerca di penetrare nell’intelligenza delle sue visio- ni, finisce per perderlo». In un saggio del 1964,Solarità di Rimbaud, Bigongiari aveva scritto che quella fulminea velocità delle immagini di Rimbaud trova nel- la sua «patience» un parziale «sistema di frenatura che mette in forse e al con- tempo esalta quella velocità»10. Poi nel corso Bigongiari cita un passo da una se- conda lettera di Rimbaud, a Paul Demeny del 15 maggio 1871: «delle perso- ne deboli si metterebbero a pensare sulla prima lettera dell’alfabeto e questi po- trebbero presto piombare nella follia». Perciò la più eclatante approssimazione di Rimbaud alla poesia del Novecento e alla sua poesia, perché in lui «la parola,

10 P. Bigongiari, Poesia francese del Novecento, Trento, La Finestra, 2005, p. 16. 324 Paolo Orvieto di per sé, è inizio di una sostanza in modo che la lingua ha uno spazio di carat- tere magico, cioè la parola crea la cosa. “Il nome crea l’esistenza”». In altri ter- mini in Rimbaud l’ignoto si rivela solo tramite la «lingua nuova», perciò si col- loca oltre il simbolismo di Baudelaire: non vuole più, come Baudelaire, simbo- leggiare «l’unità dell’universo». Il suo simbolo ha funzione e finalità assai dif- ferenti, è centrifugo e dirompente rispetto all’unità biunivoca baudelairiana, si esaurisce e si esalta nelle immagini e nelle parole, perché «soltanto partendo da questi elementi delle parole e dell’immagine, che divengono autonomi, il poe- ta può rendersi conto di quelle che egli stesso chiama le “naissances latentes”». Per cui il risultato finale sarà la «disallegorizzazione del mondo», cioè la negazio- ne al mondo del suo «doppione allegorico». In lui l’anima non è platonicamen- te (come in Baudelaire) separata e contrapposta al corpo, ma in esso compene- trata e consustanziale; simbiosi psicosomatica che ottiene tramite il linguaggio:

La parola che – in un certo senso – esplode ed arriva in questa deflagrazione a fondersi ed a confondersi con i fenomeni che essa stessa o suggerisce, o ha impliciti dentro di sé, è come lanciata alla ricerca ed alla esplorazione di questo misterioso esistente in cui penetra. La parola, cioè, non ha più la caratteristica pura e semplice del proprio “significante” (mezzo con cui significa), ma è la cosa stessa nel senso che penetra, per così dire, come un gas negli interstizi minimi di questo esistente trasformandolo e modificandolo.

Naturalmente tra le poesie di Rimbaud la scelta cade su Voyelles («A noir, E blanc, I rouge, U vert, O bleu: voyelles», ecc.). Nella quale il linguaggio acquista un’«energia» autosignificante, per cui «ottiene l’allontanamento di esso dalla sua fase naturalistica e descrittiva. Cioè il linguaggio, inteso come stato di energia, viene a fondersi con l’esistenza stessa delle cose e del mondo; non c’è più un pa- ravento che separi il linguaggio dalle cose che sono oggetto di esse». Affermazione del resto già anticipata nel citato saggio Solarità di Rimbaud:

all’“illusione” romantica il simbolismo sostituisce questa spinta dinamica insita nello stesso linguaggio poetico. Perché Rimbaud riconosce che un poeta fonda una propria lingua. Ora, proprio nella creazione di questa lingua, di cui la meta ultima è il “language universel”, ecco nascere oggettivamente questa spinta che proviene dal seno più profondo e costitutivo di questo linguaggio in perpetua formazione: là dove si disancora dalla realtà caotica11.

Il linguaggio in Rimbaud «ha il potere di trasformare la cosa cui si riferi- sce»; ma diventa anche memoria (la poesia del Romanticismo è sogno, quella del Simbolismo memoria). Una memoria che avrebbe il difficile compito di ri- costruire quell’unità negata dalle pulsioni centrifughe, e che è poi il retaggio che

11 Ivi, p. 17. SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE 325 la poesia di fine secolo ha lasciato a quella del Novecento: «il linguaggio cioè è obbligato a ricordare il mondo e ricordare significa creare, siamo alla memoria orfica del mondo». Come esempio eccellente del linguaggio-memoria Bigongiari legge una del- le poesie più famose di Rimbaud, Mémoire, che commenta splendidamente, ar- rivando a definire quella sua «mémoire», che, alla conclusione, si impantana nel fango e perciò «non permea più l’universo». Ma vediamo la finale sintesi che segue il precedente commento, verso per verso, a Mémoire di Rimbaud:

Egli rievoca un fiume, la Mosa, sul quale ha trascorso – a Charleville – l’infan- zia. La rievocazione è fatta tutta di “rime femminili”, cioè terminanti in “e”, e comincia con il tema “l’acqua chiara”, vista dal poeta come in sogno. L’acqua di questo fiume è il simbolo della memoria; ne è il suo scorrere, il suo fluire. Ma l’acqua ha carattere – si direbbe freudiano – di femminilità, cioè questa memoria che si scalda un po’ per volta nel sogno è una memoria che si scalda nel grembo stesso di questa femminilità. E ad un certo punto questa femminilità è tale che l’acqua di questo fiume diventa Lei, cioè – come dice Rimbaud – la Sposa, del Sole che dall’alto la indora. Non solo. Nel vedere questa acqua-fiume-Sposa che scorre vicino alla sua città natale il poeta – nella memoria – ricorda una “Signora, una donna reale, la quale molto più probabilmente è sua madre. (I rapporti tra Rimbaud e la madre furono in vita pessimi. Rimbaud non l’amava, ritenendola troppo “fiera”, dura, poco tenera nei suoi riguardi). Questa lavora, sulle rive del fiume, calpestando delle piante; poi vede dei bambini, probabilmente lui stesso e la sorellina. Successivamente l’ora passa, e il Lui si allontana (il Lui, forse il Sole, sposo del fiume) e l’acqua sembra rincorrerlo “fredda e nera”, mentre tramonta al di là della montagna. Ma l’acqua-fiume-Sposa è nello stesso momento la madre che metaforicamente rincorre il marito che scappò di casa. Ecco che in questa avventura di un elemento naturale e di un’ora che trascorre il poeta vede fuso insieme quest’altro ricordo. Nella IV parte ecco che, avvenuto questo episodio, ritorna la visione – sempre trasferita nell’elemento trasfigurante che è la memoria – del paesaggio col fiume scorrente sotto i bastioni della città; e il rumore che fa l’acqua scorrendo sembra quasi il pianto di questo fiume abbandonato. Finché, nell’ultima strofa, il poeta si riassume in proprio; cioè noi lo vediamo bambino mentre si trova in canotto sul fiume, ancorato alla riva, e cerca di cogliere, inutil- mente, dei fiori sulle rive. Poi vede la catena che regge la barca che cade nel fon- do, nel fango del fiume. Il movimento, dunque, è abbastanza logico e sviluppato secondo termini abbastanza riferibili; ma, in verità, la poesia è tutta fatta di que- sto stato inventivo del linguaggio per cui non c’è nessuna descrizione, ma sempre una misteriosa apparizione, una presenza, del fatto stesso che viene descritto. Da tener presente anche che la poesia comincia come memoria dentro il sogno. La prima strofa, cioè, è sentita come qualcosa di sognato e quindi si vedono le orifiamme (= le nuvole) e la città difesa dalla Pulzella, etc.; poi questo sogno fa- vorisce la memoria che si sviluppa nel suo interno. Successivamente la “memoria dentro il sogno” si trasforma in “memoria del sogno” ed ecco la rievocazione di se 326 Paolo Orvieto

stesso sul canotto, immobile. Notate che la situazione (un fiume, un canotto, il sole, le scintille delle acque, etc.) potrebbe sembrare di tipo impressionistico, ma l’impressionismo in Rimbaud è superato – si può dire – nello stesso momento in cui viene “divorato” l’oggetto naturale che dovrebbe provocare l’impressione. Quello che conta è questo: questa rievocazione del passato è rievocazione di un momento sentito come eternamente presente. Vale a dire il passato fa parte di una “durata” che non ha nessun valore di anteriorità cronologica. Esso potrebbe identificarsi col sogno, ma non lo fa. Il Simbolismo, insomma non appartiene a questo primo momento di scoperta del Romanticismo, che è riconoscimento della libertà stessa del sogno. Questo passato eternamente presente non è sogno in quanto non è concreto e è soprattutto correlativo a tutta la durata, a tutta la passibilità stessa di percezione del tempo come durata. Questo passato rimbau- diano, insomma, è un tempo che può avere influenza col presente come col fu- turo. C’è una specie di compresenza totale di tempo per cui non esiste nostalgia – cioè rimpianto, tentativo di recupero – del passato.

Quel particolare tipo di memoria rimbaudiana sta per Bigongiari ancora alla base della poesia di Montale, del quale commenta degli Ossi di seppia Marezzo. Molteplici le precise coincidenze notate da Bigongiari tra Montale e Rimbaud. Tuttavia la «mémoire» di Montale è una «memoria grigia», «che è proprio l’in- torbidirsi del nitore della memoria e quindi della sua forza risolutiva. […] Essa non sarà la chiave che apre tutte le porte e quindi il mondo si estranea rimanen- do lontano il suo segreto». Seguono le letture di Barche sulla Marna e di Per un omaggio a Rimbaud. Con Montale si arriva alla crisi definitiva del simbolismo: infatti cerca, disperatamente, soprattutto negli Ossi di seppia, di far sì che la na- tura si riappropri del suo simbolo, «e ci riesce, ma la natura che ne risulta rima- ne qualcosa di segreto, di ostile, di imprendibile». Per introdurre il tipo di simbolismo montaliano, Bigongiari fa una serie di di- gressioni, su Nerval, su Flaubert e Bachelard, per poi soffermarsi a lungo sull’or- fismo, dapprima su quello antico (con lettura di inni e di due lamelle orfici), poi su quello moderno, sfruttando anche il saggio di George Catteuil Orfismo e pro- fezia presso i poeti francesi 1850-1950. Un orfismo che, precisa, si differenzia in «tematico», della prima metà dell’Ottocento (verificato in Nerval, «cioè compo- sto da aggregati di pensiero, di riflessioni, di movimenti sincretistici») e in «ide- ologico», a iniziare da Mallarmé, che «assume l’ideologia dell’orfismo superan- do la brutalità dei contenuti orfici quali vengono a fondersi nella grande poesia di Nerval». Alla radice sta l’assunzione di una «seconda vista»:

Dunque il vedere implica di per sé lo scatenarsi dell’immagine. Ma siccome è un vedere legato alla seconda vista, ecco che l’immagine si trasforma in qualcosa di più segreto e diventa visione. Questa è legata alla reminiscenza della vita anteriore. […] Questa è l’immagine orfica. Un’immagine in cui traspare come realtà presente quella che in verità è una realtà reminiscente. La fusione che c’è nell’immagine tra reminiscenza della vita anteriore e pura visibilità dell’im- SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE 327

magine è la caratteristica di questa poesia. La quale quindi ha la precisione di una cosa che si vede e, nello stesso tempo, ha l’intelligibilità e il senso di non- presenza della cosa che si ricorda.

Lunga e dotta la digressione sull’orfismo e sul culto dionisiaco per defini- re il tipo di memoria «orfica» non solo, com’è ovvio, di Campana, ma anche di Montale. Un tipo di simbolismo «orfico», quello di Montale, verso il quale Bigongiari paga il suo sincero debito di riconoscenza e di cui, come nel caso di Baudelaire, la poesia del Novecento e la sua, riconosciute le filiazioni epigona- li, devono, per la loro stessa sopravvivenza ed attualità, rinnegare – forse la sua più grave colpa – la dimensione «astorica e mistica» (in quanto le origini «divi- ne» appartengono alla preistoria, se non alla sola trascendenza):

Quando parliamo di «memoria orfica» dobbiamo intendere questa tentazione mistica che è stata alla base della poesia occidentale e che ha avuto questo stu- pendo periodo di fioritura soprattutto nell’Ottocento. Il Simbolo è il momento culminante di questa concezione orfica che si rivela in opposizione ad una vi- sione storica della poesia. Quando noi parliamo di una novità della poesia del Novecento rispetto a quella simbolista ottocentesca e orfica, dobbiamo intende- re questo punto fondamentale di crisi tra una concezione astorica della poesia quale fu anche nei suoi culmini quella del secolo passato e una poesia che cerca di ragionare sull’uomo come mezzo ed elemento della storia umana. Cioè dob- biamo contrapporre ad una memoria orfica – fuori della storia e mistica – una memoria storica, un ricordo degli atti dell’uomo. Questo è il punto divisore che separa l’Ottocento dal Novecento.

Seguono la lettura e il puntuale commento di Estate, delle Occasioni, in cui Bigongiari individua ancor più nettamente la «memoria orfica» di Montale: «in che cosa consiste il momento orfico in Montale? L’assenza-presenza della don- na, dall’amata, in lui ha valore orfico; cioè ha valore di immedesimazione con le presenze, apparenze naturali. Quello che appare, i fenomeni, sono come ele- menti di questa presenza-assenza della creatura». In lui persistente la specula- re rifrazione «tra elementi fisici e metafisici», per cui «l’elemento fisico ipotizza quello metafisico», e viceversa. Il côté metafisico è nella poesia di Montale con- sustanziale a quello fisico, nella

immanenza misteriosa di segni che ci vengono incontro e che dobbiamo, in- sieme al poeta, interpretare. Questi segni alludono ad altro; sono quindi come tracce che il poeta deve seguire per arrivare alla loro conclusione; sono trac- ce allusive, ma segni di una presenza terrestre […]; non nega questo insieme di segni terrestri che non comprende. Egli allinea tutti questi elementi nella direzione possibile del messaggio, nella speranza che da essi si possa ricavare qualche cosa. 328 Paolo Orvieto

E proprio nel tentativo di ricavare da questa «naturalità» una più ontologica e salvifica «creaturalità» sta per Bigongiari l’alto tasso di orfismo della poesia di Montale. Infatti «questo dare valore umano agli aspetti disumani per ritrovare l’esistenza, al fondo di essi, dell’umano è, ripetiamo, tipicamente orfico». Quindi persistenti le iniziatiche epifanie propiziate dalle “corrispondenze” baudelairia- ne, anche se per lo più si tratta di «un ricordo che non ricorda»:

E cos’è il ricordo? È come un immaginario condizionato. Questo fatto indica altresì, come l’Orfismo moderno sia debitore – in quanto debitore dell’immagi- nario – dell’immaginazione romantica; insomma come il carattere orfico della poesia moderna abbia come porta d’ingresso nell’epoca attuale il Romantici- smo. Quindi la poesia moderna, nel tentativo di superare questo orfismo, verso una storicità della poesia, cerca di superare questo vicolo cieco – seppur stupen- do – del Romanticismo.

Non a caso Bigongiari legge e commenta Corrispondenze di Montale. Tuttavia la «memoria grigia» di Montale è già, rispetto alla memoria di Baudelaire e an- che in parte a quella di Rimbaud, una tappa ulteriore nella parabola della mo- derna decostruzione del simbolo, perché «è il corrompersi storico-naturalistico della memoria orfica con passaggio del «ricordo che non ricorda» di Campana alla «memoria grigia» in cui la scelta storica non può attuarsi. Montale è sul pun- to discriminante di questa situazione tragica della poesia del Novecento, per cui si potrebbe dire che il poeta è scelto, ma non sceglie». Seguono le approfondi- te analisi di Bassa marea (in cui le varie esistenze cercano di «sbocciare», come se «fossero disciolte nella vicenda stessa della esistenza e cercassero di emerge- re di nuovo», altro indice di orfismo), di Casa dei doganieri e di un Mottetto (Il ramarro, se scocca). Dunque un ampio e documentatissimo corso, con molteplici letture di gran- di poeti dell’Ottocento e del Novecento, del quale ho cercato di fornire solo un assaggio, un hors-d’œuvre, ma almeno, spero, una dettagliata cronistoria delle alterne vicende del simbolo, dalla sua apoteosi romantica e baudelairiana al suo progressivo «svuotamento» novecentesco, per approdare alla personale conce- zione bigongiariana – una sorta di accorato de profundis – del simbolo, che da astorico e mitico-platonico-orfico precipita e si esautora nella contingenza della storia, in cui sono irrimediabilmente occluse le corrispondenze biunivoche tra elementi fisici e metafisici, tra l’immanente e il trascendente mitico e archeti- pico. Il simbolo è ora intrinsecamente dissolto nel linguaggio poetico, in aper- ta antitesi con quello non più significante dei mass media (con probabili sugge- stioni oltre che da Derrida anche da Adorno):

Alla poetica dell’immagine (Campana), alla poetica rivoluzionaria della parola (Ungaretti), che poi divenne poetica conservatrice della parola nell’area della poesia pura (Quasimodo), la mia generazione subito sostituì una poetica del SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE 329

discorso in cui il simbolo linguistico attuasse quanto più possibile gli archetipi profondi, sociali e individuali, in opposizione al falso parlare di una società fitti- zia e di un individuo mascherato. La «maschera» novecentesca […] ha funziona- to da grande reagente per l’inconscio protetto in tal modo nel suo incontro con la coscienza. Ma da quando si è capito (con Lacan) che anche l’inconscio è strut- turato come un linguaggio, si è anche capito che occorreva affrontare il drago nella sua tana linguistica. L’ermetismo, tra il surrealismo e l’informale, ha agito come la spada di San Giorgio liberatrice della principessa incatenata agli scogli del subconscio. Dunque la tentazione orfica, come la tentazione dell’essenza immobile, furono il vaccino con cui la mia generazione affrontò i cosiddetti mostri della ragione: non perché non ragionasse più, e si desse all’automatismo surrealista o al limo informale pel gusto di imbrattarsi nel brago; bensì per por- tare al limite il nuovo segno poetico, sapendo che il significato nasce al limite, tutto adempiuto, del significante […] era la parola del discorso, còlta in tutta la sua dinamica inventiva, una parola macchiata dalla sua eccedenza di significato […]. La realtà veniva dopo, in un certo senso, perché non esiste realtà che non sia linguisticamente verificata, che non sia cioè una realtà parlabile […]. L’er- metismo sostituì al Nulla simbolista, esperito come polo dialettico, piuttosto il silenzio a cui opporre la parola: l’«assenza» ermetica è piuttosto assenza di lin- guaggio; e proprio nel silenzio prima della parola maturò quel concetto di caos originario che è il mondo privo di linguaggio, in cui nasce il segno come segno di opposizione e acquista un senso che ne descrive l’intenzionalità storica12.

Allora la corrispondenza tra res e signum, tra figurante e figurato non è più biunivoca:

in verità la grande logica dei simboli è terminale, non iniziale, il poeta inizia proprio da immagini o versi, cioè da un corpo che egli tenta di modellare […] il modello è induttivo ad infinitum: la sua possibilità modellatrice, in quanto induttiva, termina solo nel simbolo, che ne accoglie questa induttività infinita13.

Dato l’esautorarsi del simbolo, anche l’immagine cambia il suo statuto, da stabile – quindi preciso simbolo di qualcos’altro – a instabile, polisemantica ma senza un referente:

L’immagine poetica non è mai a una sola dimensione, per quanto sempre costi- tuzionalmente uguale a se stessa, cioè uguale a una forma che è in realtà un con- tinuo e istituzionale stato metamorfico, in quanto l’immagine è nel linguaggio, del linguaggio, cioè in quanto è un’immagine linguistica. È qui che essa acquista il suo valore simbolico, cioè diviene un polisenso14.

12 P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo cit., pp. 28-29, 40-41. 13 P. Bigongiari, La poesia come funzione simbolica del linguaggio cit., p. 15. 14 Ivi, p. 11. 330 Paolo Orvieto

Quindi con altre conseguenze: l’assoluta autonomia dell’«atto poetico» dal prima coessenziale e congiunto «atto vitale»:

Ciò che separa un atto poetico da un atto vitale è che il primo si realizza, in quanto significante, al limite dell’improbabile, significa al limite dell’insigni- ficanza stessa: cioè porta più in là ogni volta un significato: rigenera continua- mente nell’area simbolica, e dunque probabile, del proprio significante l’im- possibilità stessa del significato; il secondo si realizza solo come improbabile, distruggendo nel realizzarsi ogni altra probabilità, ogni altra genericità15.

APPENDICE Lettura e commento di «Bassa marea»

Sere di gridi, quando l’altalena oscilla nella pergola d’allora o un oscuro vapore vela appena la fissità del mare.

Non più quel tempo. Varcano ora il muro rapidi voli obliqui, la discesa di tutto non s’arresta e si confonde sulla proda scoscesa anche lo scoglio che ti portò primo sull’onde.

Viene col soffio della primavera un lugubre risucchio d’assorbite esistenze; e nella sera negro vilucchio, solo il tuo ricordo s’attorce e si difende. S’alza sulle spallette, sul tunnel più lunge dove il treno lentissimo s’imbuca. Una mandria lunare sopraggiunge poi sui colli, invisibile, e li bruca.

Commento: Bassa marea è del 1932, cioè di quattro anni precedente a Corrispondenze. È una poesia che Montale ha composto lontano dell’«occasione» che viene revocata. Si direbbe anzi, che l’«occasione» è il ritornare non tanto di una determinata coincidenza temporale, quanto il ritornare del ricordo. Cioè l’occasione è qualcosa che provoca il concrescere intorno a questo qualche cosa dell’insieme della memoria; insomma l’occasione è il granello di rena che crea la perla. In questo caso la verità mentale dell’assenza della creatura che si sor-

15 P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo cit., p. 32. SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE 331 veglia o si spia nei sintomi di una presenza puramente eventuale, varia di con- dizione, si modifica, cresce come un fatto naturale da La casa dei doganieri del 1930 a Bassa marea del ’32 e a Corrispondenze del ’36. Un’altra cosa da notare è la metrica di Montale. Questa è incentrata sul ver- so libero con frequenza di rime che ritornano qua e là, come rime al mezzo, o come assonanze. Questo perché Montale ha bisogno di un impasto fonico, di un magma ritmico, che in un certo senso favorisca la fuoriuscita del fantasma poe- tico. Non quindi una metrica esatta, ma una metrica approssimativa, di appros- simazione al fantasma. Le strofe stesse sono varie di lunghezza e di metri, perché non sono altro che «nuclei di intensità inventiva» con una continua eccedenza melodica del discorso che ha le sue fonti nella metrica barbara. Qualcuno aveva notato una strofe esattamente saffica nel mottettoPerché tardi? (Silvio Ramat). Ma una falsariga barbara è in molte poesie di Montale, ad es. nella prima stro- fe di Corrispondenze, nella prima strofe di Estate, ecc. Insomma Montale pro- segue e riprende su un altro piano quella che era la situazione metrica italiana tra i metri barbari del Carducci e la poesia prosastica dei Crepuscolari. Montale intensifica questa condizione prosastica, ma riprende questa direzione verso la prosa indicata dalla metrica barbara. Una spia di questa volontà di richiamarsi ad una iniziale metrica barbara consiste in questo: che queste spie che abbiamo citato sono soprattutto nelle partenze delle poesie montaliane, quando il poe- ta ha ancora quel tanto di «coscienza» indispensabile all’inizio di ogni compo- sizione. Allora il poeta cerca di modellare, secondo una determinata metrica – la quale successivamente si libera col progredire della poesia – l’invenzione fan- tastica. È un po’ il destino del poeta moderno, questo costringersi a un mini- mo legame per inventarsi il legame vero e autentico col processo stesso inventi- vo. È, ripetiamo, questa, una caratteristica della poesia contemporanea, la quale non è vero che non abbia dei metri o una esattezza interna. Essa ha soprattutto – come dice Foscolo – una metrica interna. Bassa marea è composta di quattro strofe che hanno sviluppo abbastanza sim- metrico: una quartina iniziale, due strofe interne di cinque versi l’una e poi an- cora una quartina a conclusione. La bellissima poesia, viene a godere di questa situazione naturale, di questo incarnarsi di una situazione psico-fisica, di questo ricordo che cerca il suo corpo nel tema, cioè nell’immaginazione e contempora- neamente nel procedere di queste condizioni verso la situazione avvenire. A pro- posito della prima strofe, Silvio Ramat ha parlato di «pulito pascoliamo», forse richiamato dall’espressione «sere di gridi» ecc. La verità è che siamo ben lontani. Intanto questi «gridi» appartengono a quello che nella terza strofe ha chiamato un «lugubre risucchio di assorbite esistenze». Insomma questi gridi sono quasi gridi di qualcuno o di qualcosa involto in questo Maelstrom che pare assorbire la vita. E questa «altalena che oscilla nella pergola d’allora» è un ricordo che si è fissato. Cioè noi vediamo oscillare questa altalena come una specie di metro- nomo dimenticato della memoria. Praticamente l’altalena oscilla nella pergola d’allora senza più la figura muliebre che essa sosteneva. Rimane come una spe- 332 Paolo Orvieto cie di macabro movimento inoggettivo. L’«oscuro vapore» non è solo quello pre- sente di allora, questa foschia di quando il poeta contemplava questo paesaggio dalla sua villa sul mare, ma è dato dall’accumularsi del tempo su quelle «fissità». La quale vuol ricordare l’immobilità del mare contemplato dall’alto, ma anche rendere questo senso atono, come una pupilla accecata. In terzo luogo la «fissi- tà del mare» è tale perché il mare non può staccarsi da quella vicenda che divie- ne sempre più remota nel tempo. Cioè è il mare fisso a quell’«allora» che il po- eta recupera in questo modo. A questo proposito in Corrispondenze si ha que- sto «miraggio di vapori»; cioè dall’«oscuro vapore» di oggi siamo passati a que- sto vapore un po’ meno oscuro, a questo miraggio che tende ad aprirsi come un velario. Questo ad indicare la progressione fra i due momenti, ricordando che entrambe le poesie furono composte mentre il poeta era lontano dalla situazio- ne geografica dell’invenzione. «Non più quel tempo»: siamo lontani ormai da quella condizione. Nasce, però, adesso l’«occasione». «Varcano ora il muro … obliqui». Il poeta ricorda, adesso, questo «svariare», questi voli che in Bassa ma- rea sono «rapidi e obliqui», mentre in Corrispondenze si parla di «voli che svaria- no sul passo», aventi quindi ancora la loro vitalità, la loro possibilità di esisten- za. Questi voli «varcano il muro», cioè qualcosa che si oppone, che chiude l’o- rizzonte al di là del quale c’è la caduta. «La discesa di tutto non s’arresta»: cioè il poeta vede come tutto decade da una determinata situazione. «E si confon- de … onde». Cioè sulla proda scoscesa (= che scende a picco sul mare) anche lo scoglio che ti portò primo adesso si confonde con la roccia a precipizio. Cioè essendo questa una situazione di «bassa marea» (naturalmente il titolo è simbo- lico: «bassa marea» allude alla marea dei ricordi e alla presenza che si ritira e la- scia all’asciutto questo paesaggio) lo scoglio che con l’alta marea (cioè con que- sto venire verso di me dell’esistenza – dice il poeta) aveva come portato questo personaggio x – come una Venere – è anch’esso asciutto, secco, non avendo più la possibilità di portare esistenza, vita. Questa «Venere approdata» viene a co- stituirsi proprio dalla oscura, eterna vicenda del mare che ora nella sua «fissità» pare non avere più questa forza motiva, genetica, cioè questa possibilità di in- ventare per il poeta l’immagine stessa di una presenza venuta da lontano. La ter- za strofa indica, appunto, questa differenza. «Viene … esistenze». Con la prima- vera che dovrebbe portare un risucchio di esistenze in boccio, si ha invece que- sto «lugubre risucchio…»: cioè un tentativo di sbocciare esiste, però è come se queste esistenze fossero disciolte nella vicenda stessa della esistenza e cercassero di emergere di nuovo. Ricordiamoci che le «assorbite esistenze» appartengono all’arco dell’orfismo, a questo orfico essere nel tutto. Cioè l’esistenza se è «assor- bita» nell’esistente è naturalmente disciolto lo stesso esistere. «E nella sera, ne- gro vilucchio…»: il vilucchio è una pianta rampicante, leggera, fragile. È negro a causa del colore della sera. «Solo il tuo ricordo…»: la poesia post-simbolistica abolisce il «come» e il paragone non è più tale. In verità il poeta vede il ricordo di Lei realizzato orficamente in questo «vilucchio» che si attorce sui muriccioli della Liguria. Il quale vilucchio è «il tuo ricordo», cioè questa forza che premen- SUL SIMBOLISMO IL PRIMO CORSO DI BIGONGIARI AL MAGISTERO DI FIRENZE 333 do è continuamente al limite della propria nascita, per nascere diventa il proprio ricordo. Vale a dire questa forza di creazione dal basso diventa in verità la linfa stessa del ricordo che «si attorce e si difende» nella mia presenza – dice il poeta. Si direbbe che il ricordo si attorce per difendersi, è un ricordo visto come pro- lungamento dell’esistenza, metafora dell’esistenza. (Il ricordo in Montale è la metafora stessa dell’esistere). «S’alza sulle spallette … s’imbuca». Il soggetto sot- tinteso è in prima istanza il «lugubre risucchio» e in seconda istanza «il tuo ricor- do». «Sul tunnel…». Il tunnel è quello dove il treno «s’imbuca», cioè è il tenta- tivo di rompere, di varcare, di essere al di là. «Lontanissimo» a causa di una sen- sazione ottica derivata dalla distanza. «Lontanissimo» dice il poeta, quasi si op- ponesse all’inghiottimento (vedi la fine di Corrispondenze dove per opposizione si parla di «febbre nascosta dei diretti»). «Una mandria lunare… ». Vuol sempli- cemente dire che con l’avvicinarsi della sera i colli si coprono di luce lunare, di luce fatiscente che sembra come una mandria invisibile che «bruchi» i colli stes- si. Abbiamo ritrovato in Corrispondenze i «folli mugoli di arieti sulle toppe arse dei colli». La mandria è «lunare» cioè dà l’impressione di una irrealtà, o meglio di una realtà spogliatasi fino alla irrealtà, cioè fino alla memoria. È comunque la mandria che precede la «pastora senza greggi» di Corrispondenze. «Senza greg- gi» perché la mandria lunare l’ha preceduta e come annunciata. C’è un distac- co tra i due momenti temporali che sono diventati due momenti della poesia. Per le strade di Firenze, en souvenir d’antan (foto di Anna Dolfi). BIGONGIARI TEORICO LA POESIA COME FUNZIONE SIMBOLICA DEL LINGUAGGIO

Federico Fastelli

Il rigore del pensiero non consiste, a differenza delle scien- ze, semplicemente nella esattezza artificiale, cioè tecnico- teorica dei concetti. Esso riposa nel fatto che il dire rimane integralmente nell’elemento dell’Essere e lascia dominare ciò che, nella molteplicità delle sue dimensioni, è semplice. Martin Heidegger

C’è un’equazione, per quanto non lineare, che si sussume dalle dichiarazioni sulla funzione dell’opera letteraria del Bigongiari teorico degli anni Sessanta, o, se si vuol credere alle sue stesse affermazioni, già a partire dalle coordinate me- todologiche poste nei tardi anni Trenta1. La pronuncerei, dunque, nella manie- ra più indicativa e sintetica possibile: la poesia, ma si deve intendere, almeno al principio2, l’opera letteraria in generale, sta al linguaggio, come la funzione simbolica sta alle facoltà mentali umane. Ne è principio intanto indispensabile in quanto co-essenziale al suo funzionamento: come la codifica di un qualsiasi dispositivo percettivo, ovvero la possibilità della rappresentazione in absentia è fondante del pensiero umano stesso, il quale, è noto, fa della sua capacità sim- bolica – di quella capacità di sostituire qualcosa con qualcosa che lo rappresen- ta – uno dei tratti determinanti della propria struttura, allo stesso modo la po- esia è indispensabile al linguaggio, il suo valore ultimo coincidendo con la fun- zione di «ripetere quanto non esiste»3, ovvero, con un gioco di parole, di «ren- dere possibile la sua stessa possibilità». Quando anche tale funzione linguistica

1 Cfr. Piero Bigongiari, La solitudine dei testi, in «Campo di Marte», 15 agosto 1938. 2 Più tardi Bigongiari affronterà in maniera più approfondita la distinzione tra prosa e poesia relativamente alle rispettive implicazioni linguistiche, e isolerà una disuguaglianza essenziale tra le due circa il rapporto tra graphé e phoné. Cfr. P. Bigongiari, L’evento immobile [1985], Milano, Jaka Book, 1987. 3 P. Bigongiari, Il non luogo della poesia [Risposte a Mario Miccinesi], in Il mutismo dell’uni- verso. Interviste sulla poesia 1965-1997, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 12.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 336 Federico Fastelli dell’opera letteraria possa apparire come non «innata», o addirittura accessoria, essa si dimostra come indispensabile al corretto funzionamento del linguaggio, almeno se si presume la completezza del processo comunicativo dell’uomo nel tempo (e subito si noterà che l’apparenza già inganna: Chomsky e Jakobson ce ne saranno testimoni con Piaget). Ecco: chiarire tale equazione è l’obiettivo di questo intervento. Preliminare, dunque, sarà la ricostruzione di cosa si debba specificamente intendere per «fun- zione simbolica», e si dovrà subito ricercarne una definizione fondamentalmen- te inedita, la critica essendosi piuttosto concentrata sulle conseguenze immedia- tamente poetiche di tale riflessione (la poesia come meccanismo generatore di simboli), che su quelle più generali di teoria del linguaggio o gnoseologiche tout court, pure indirettamente sondate da taluni, e, certo, non senza profitto4. Ma che Bigongiari volesse affrontare già a questa altezza cronologica una riflessione generale di teoria del linguaggio è autodichiarazione più volte ribadita – si pensi al tardo Dal simbolo simbolista al segno – e mi pare non vi siano che ragioni ma- liziose per dubitarne. Per far luce su tale questione, dunque, si interrogheran- no esclusivamente i primi tre saggi raccolti all’interno di La poesia come funzio- ne simbolica del linguaggio, concepiti, evidentemente, come una sorta di trilogia, a giustificazione metodologica dell’intera speculazione teoretica del periodo, che si concluderà poi, come noto, ne L’evento immobile. Momento di snodo, quindi, che ci è parso particolarmente rilevante da un punto di vista ermeneutico e teo- retico, perché aurorale rispetto ai nuovi interessi di filosofia del linguaggio e, di- rei, quasi pioneristico per l’àmbito della critica letteraria italiana. Nel primo sag- gio, Bigongiari si sofferma sulla funzione qualitativa del discorso simbolico a par- tire da alcuni scritti di Roland Barthes. I due principi basilari che egli deriva da Critica e verità sono accolti, subito, nella sostanza: 1. Il metodo non è principio che può precedere la ricerca, ma è costitutivo della ricerca stessa, anzi, come scri- ve Bigongiari esso è «lo strutturarsi in re della stessa possibilità di ricerca che le è

4 Si devono qui ricordare almeno gli studi di Maria Carla Papini sul linguaggio bigon- giariano e i rapporti tra la sua riflessione teorica e l’esistenzialismo heideggeriano (Resistenza e tensione nel linguaggio di Piero Bigongiari, in Il linguaggio del moto. Storia esemplare di una generazione, Firenze, La Nuova Italia, 1981, 103-143; Bigongiari tra ermetismo e no, in Il sorriso della Gioconda. La scrittura tra immaginario e reale, Roma, Bulzoni, 1989, pp. 171-230); quelli condotti da Enza Biagini sul complesso rapporto tra caos e caso nella speculazione teorica di Piero Bigongiari (Piero Bigongiari: i «giochi del caso» fra teoria, critica e poesia, in «Italies», 9, 2005, pp. 255-281) oltreché su L’evento immobile (Figure dall’«Evento immobile», in Per Piero Bigongiari. Atti della giornata di studio, Firenze Gabinetto Vieusseux, 25 novembre 1994, a cura di Enza Biagini, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 175-186), insieme alle illuminanti riflessioni di Adelia Noferi (specialmente Piero Bigongiari: l’interrogazione infinita. Una lettura di« Dove finiscono le tracce», Roma, Bulzoni, 2003). Sempre in chiave teorica si veda anche lo studio di Riccardo Donati, che, sebbene dedicato al Bigongiari critico d’arte, chiarisce molto opportu- namente alcune questioni di ordine generale (Riccardo Donati, L’invito e il divieto. Bigongiari e l’ermeneutica d’arte, Firenze, Sef, 2002). LA POESIA COME FUNZIONE SIMBOLICA DEL LINGUAGGIO 337 implicita»5; 2. Conseguentemente, l’atto critico, lontano, secondo il linguaggio di Barthes, dagli «alibi della scienza» e delle istituzioni che la sovrintendono, pone il critico, in quanto scrittore, come da «solo di fronte al linguaggio»6. L’atto criti- co è in sostanza un atto linguistico: una presa di posizione fatta a fronte delle in- finite possibilità offerte dalla totalità del linguaggio. Tale punto di partenza pre- senta già un dato di disaccordo con Barthes: «quello che ci lascia perplessi» scrive Bigongiari «è l’affermazione barthesiana che “l’opera è per noi senza contingen- za”; quando ci pare che l’opera sia, al contrario, una continua contingenza, una continua, se vogliamo, cotangenza, un sistema di rapporti che essa ogni volta isti- tuisce non solo con la propria situazione storica di partenza ma con ogni situa- zione storica d’arrivo, o meglio, con ogni situazione di arrivo che in quanto tale diviene storica»7. Nel dettaglio, l’opera letteraria, tanto per Barthes quanto per Bigongiari, trapassa quel che le società nel tempo «decretano» e «pensano», sono ancora i termini di Barthes8, come una forma di sensi contingenti, storici, che può essere semantizzata momento dopo momento dalla sua perenne e «differen- te» attualizzazione (dove la parola differente si può pure intendere, per Bigongiari, già con il suo intero portato filosofico poststrutturalista, in quanto, proprio, dif- ferimento9 del senso). Opera eterna dunque, non nel senso classico del proprio immutabile significato, ma piuttosto eterna poiché suggerisce diversi sensi ad un «uomo unico, che parla la stessa lingua simbolica in tempi multipli»10: «l’opera propone, l’uomo dispone»11, scrive Barthes.

5 P. Bigongiari, Barthes e La funzione qualitativa del discorso simbolico, in Poesia come funzione simbolica del linguaggio cit., p. 10. Cfr. Roland Barthes, Critique et vérité, in Ouvres complètes, II (1966-1975), Paris, Éditions du Seuil, 1994, p. 20: «la méthode est au contraire l’acte de doute par lequel on s’interroge sur le hasard ou la nature». 6 R. Barthes, Critique et vérité cit., p. 36: «si la critique nouvelle a quelque réalité, elle est là: non dans l’unité de ses méthodes, encore moins dans le snobisme qui, dit-on commodément, la soutient, mais dans la solitude de l’acte critique, affirmé désormais, loin des alibis de la science ou des institutions, comme un acte de pleine écriture». 7 P. Bigongiari, Barthes e La funzione qualitativa del discorso simbolico cit., p. 11. Cfr. R. Barthes, Critique et vérité cit., p. 39: «l’œuvre est pour nous sans contingence, et c’est même peut-être ce qui la définit le mieux : l’œuvre n’est entourée, désignée, protégée, dirigée par aucune situation, aucune vie pratique n’est là pour nous dire le sens qu’il faut lui donner ; elle a toujours quelque chose de citationnel: en elle l’ambiguïté est tout pure». 8 Cfr. R. Barthes, Critique et vérité cit., p. 38: «quoi que les sociétés pensent ou décrètent, l’œuvre est éternelle, non parce qu’elle impose un sens unique à des hommes différents, mais parce qu’elle suggère des sens différents à un homme unique, qui parle toujours la même langue symbolique à travers des temps multiples». 9 Ciò avrà importanti conseguenze teoriche ne L’evento immobile, proprio relativamente al concetto di traccia, approfondito dalla riflessione sugli scritti di Jacques Derrida, e motivo fonda- mentale di revisione del carattere statico e «centrato» dell’opera nella storia, che ancora caratteriz- za La poesia come funzione simbolica del linguaggio. Cfr. per esempio p. 14: «a questo punto può, sì, descriversi la condizione centrale di un’opera rispetto alla storia che la verifica continuamente: essa è un centro da cui il senso deriva in forma stellare». 10 Cfr. P. Bigongiari, Barthes e La funzione qualitativa del discorso simbolico cit., p. 12. 11 R. Barthes, Critique et vérité cit., p. 38. 338 Federico Fastelli

Qui, allora, si chiarisce l’aspetto fondamentale del disaccordo con il critico francese: la storia, afferma Bigongiari, è la continua metafora umana, attraver- so cui il linguaggio si pone ogni volta come significato di quel significante che è mito antropologico dell’esistenza umana sulla terra. L’esistenza umana, quin- di, rappresenta il significante, l’aspetto materiale, la cui formalizzazione (indut- tiva) e il cui significato (deduttivo) sono garantiti e sovrintesi solo dalla storia stessa, così come qualsiasi processo di significazione/interpretazione deve sup- porre. La differenza, rispetto a Barthes, sta tutta nel livello da conferire alla sto- ria in questa costante dialettica: la storia, concepita da Bigongiari come «meta- fora antinaturalistica»12, è da porsi in una dialettica continua, in una comple- mentarità irreversibile, con i segni che la significano, ovvero, «le costanti strut- turali consistono nel rapporto dialettico per cui una preistoria significante non può darsi ove non esista una storia significata»13, che vuol poi dire non solo che una langue non potrebbe darsi senza la sua declinazione in parole, ma anche che non si dà infinito senza finito, simbolo senza poesia, poesia senza linguaggio, linguaggio senza silenzio. La pietra di volta della riflessione bigongiariana è, al- lora, la funzione della storia in questo processo, ed è forse sorprendente. Dico sorprendente perché nella volgarizzazione del pensiero ermetico (e post-ermeti- co), nel tutt’uno che a volte se n’è fatto dove le sbrigative necessità tassonomiche e storiografiche da manuale hanno prevalso, la sottolineatura degli aspetti per così dire a-storici di tale riflessione non si è accompagnata che in rare eccezioni ad una messa in luce dell’«imminenza storica», come la chiama Bigongiari, cui l’opera – si pensi anche a la solitudine dei testi, proprio – è continuamente sot- toposta14. Non dunque astratto a-storicismo, non dunque un fuori dalla storia per assoluto, niente a che vedere con qualsivoglia fuga dell’opera dalla più spe- cifica condizione reale, ma posizione dialettica, per questo in solitudine, dei te- sti con il divenire. Il testo, proprio per tale motivo, non esaurisce se stesso nella sua contingenza, ma trova potenzialità semantiche solo in rapporto a essa, pa- lesandosi eterno nella misura in cui la storia è, direbbe Bigongiari, «in-esauribi- le». In tal senso l’affermazione di Barthes per cui l’opera è senza contingenza, è in contrasto con l’idea fondamentale di Bigongiari, ovverosia che il testo «è la storia dell’uomo nella possibilità che ha l’uomo di annullare la stessa condizio- ne storica»15: contrariamente a quanto si è volgarizzato, non vi è, quindi, nien- te di metafisico in questo passaggio. Anzi, se possibile, vi è qualcosa di sorpren- dentemente nuovo per il contesto critico italiano del 1966: vi è l’intuizione del

12 Conseguenza di quell’azione di storicizzazione della natura, merito fondamentale della poesia moderna, ricordata in Poesia italiana del ‘900, Milano, Il Saggiatore, 1978. 13 P. Bigongiari, Barthes e la funzione qualitativa del discorso simbolico cit., p. 12. 14 Cfr. ivi, p. 13: «già nelle riflessioni degli anni Trenta, si postulava in Italia una solitudine dei testi, che non significa una loro astoricità, bensì una loro continua imminenza storica, essen- do tale solitudine nient’altro che una posizione dialettica». 15 Ibidem. LA POESIA COME FUNZIONE SIMBOLICA DEL LINGUAGGIO 339 carattere statico dell’idea strutturalista, ovvero la percezione di una costruzione analitica inevitabilmente miope al dato diacronico. E si consideri che il celebre, rivoluzionario intervento di Derrida su La struttura, il segno e il gioco nel discor- so delle scienze umane16 è pronunciato presso la John Hopkins University nello stesso anno. In ogni caso, per giungere alla conclusione di una «solitudine del testo», e cioè della posizione «senza alibi» dello scrittore (e del critico) di fron- te al linguaggio e solo di fronte ad esso, dell’atto critico come «invenzione», lo strutturalismo aveva dovuto postulare una sorta di idea del linguaggio, idea me- tastorica – «platonica» in fondo, come rileva Bigongiari: l’atto di piena scrittu- ra, unica giustificazione del solitario atto critico della nouvelle critique barthia- na, supera, certo, «gli alibi della scienza e delle istituzioni», ma deve fondarsi, per farlo, su di un linguaggio che, diciamo, nella sua forma ancora non signi- ficata (nel suo stato pre-linguistico, per Bigongiari), sia al di là della storia, sia appunto non-contingente, ovverosia, sostanzialmente, ideale. Per Bigongiari, al contrario, «gli uomini sono animali parlanti nella storia, non fuori della storia, e la scienza dell’uomo, che è praticamente l’avverarsi di un’ipotesi, non può dar- si in altri termini che in quelli implicanti la storia dell’uomo, infine in termini storici»17. L’opera in sé, quindi, non viene prima del linguaggio, ma è linguag- gio in atto, è la sua perpetua determinazione storica. O, per dirla in altro modo, l’idea barthesiana per cui davanti a chi la scrive o a chi la legge l’opera diventi una questione posta al linguaggio, del quale quindi si possono provare i fonda- menti e toccare i limiti18, può essere accettata da Bigongiari soltanto se si consi- dera l’opera come funzione del linguaggio, la cui «operabilità», ovvero la ricerca dei suoi fondamenti e limiti, è data precisamente dalla possibilità del suo ope- rare, dall’agire nella storia in quanto linguaggio. Ciò che si sottrae, semmai, ri- spetto a questa dialettica è ciò che «viene prima» dell’opera: ma si dovrà tornare poco più sotto su questo punto. La potenzialità di senso dell’opera, invece, re- sta in funzione dell’avverarsi di quel senso, di un avverarsi storico di quel senso, non al di là di esso per sua condizione ideale, ma sempre in un serrato rapporto interattivo tra la capacità simbolica di contenere tutti i sensi, questa sì condivi- sa con il critico francese, e il suo non senso, che infine, spiega Bigongiari, coin- cide proprio questa stessa capacità. Rispetto a Barthes, per il quale si ricorderà non ci sono immagini, idee o ver- si che la Musa infonde (souffle, come scrive sempre in Critica e verità19) allo scrit-

16 Cfr. Jacques Derrida, La structure, le signe et le jeu dans le discours des sciences humaines [1966], in L’écriture et la différence, Paris, Éditions du Seuil, 1967. 17 P. Bigongiari, La funzione qualitativa del discorso simbolico cit., p. 13. 18 Cfr. R. Barthes, Critique et vérité cit., p. 40 : «Retirée de toute situation, l’œuvre se donne par là même à explorer: devant celui qui l’écrit ou la lit, elle devient une question posée au langa- ge, dont on éprouve les fondements, dont on touche les limites». 19 Cfr. ivi, p. 50: «ce ne sont pas des images, des idées ou des vers que la voix mythique de la Muse souffle à l’écrivain, c’est la grande logique des symboles, ce sont les grandes formes vides qui permettent de parler et d’opérer». 340 Federico Fastelli tore, ma «la grande logica dei simboli, forme vuote, insomma, che permettono all’artista di operare», in Bigongiari vi è un rovesciamento direi completo, che dipende proprio dall’azione dialettica tra linguaggio e storia: «il poeta inizia pro- prio da immagini o versi»20 nel tentativo di comporli secondo, appunto, un mo- dello che vede come «terminale» di tale processo di manipolazione della mate- ria linguistica. È la possibilità modellatrice, essendo il modello «induttivo ad in- finitum», come scrive Bigongiari, a terminare nel simbolo, o, per dirlo più chia- ramente, allorché dal silenzio prelinguistico si arriva al linguaggio, il simbolo di- viene interrogabile, e quindi significabile. L’attività interpretativa avverrà allora a rovescio rispetto all’atto di creazione, ovvero, inevitabilmente, per deduzione. Contrariamente a quanto sembra suggerire Barthes, per Bigongiari il momento di modellizzazione dell’opera, quando l’opera non è ancora tale, ha un preciso significato, ad inseguimento di un preciso modello: il poeta, insomma, ha una propria, definibile, volontà, la cui ragione linguistica, che tende all’improbabi- le per la natura stessa della poesia, e cioè alla dissoluzione delle forme linguisti- che correnti, dipende comunque dalla contingenza storica in cui questi si trova ad operare. Il momento di sospensione di quel primo significato, di quella inten- zione dell’autore, si raggiunge, piuttosto, al termine della sua elaborazione, quan- do dal prelinguaggio essa raggiunge lo stato linguistico, poiché quello «stato» ap- pena toccato subito diventa totalmente significabile, contenendo cioè, per il tra- mite dei suoi significanti, tutti i significati che la storia si incarica di significare, o come chiarisce Bigongiari ne L’evento immobile: «il significato, allora, una vol- ta raggiunto, cioè l’atto della costituzione del testo, non è altro che l’avvertenza che il significante ha compiuto la parabola della propria produttività»21. Questo stato è quindi, in verità, una condizione di perenne mutazione, che realizza uno o più significati ad ogni nuova lettura22, ma, in sé, conserva l’intenzione poetica dell’autore. In sintesi estrema, quindi, l’opera letteraria come funzione simboli- ca del linguaggio si raggiunge con un doppio movimento: inizialmente abbiamo una condizione pre-linguistica con un modello generativo cui, per induzione, il poeta aspira. In un secondo momento, invece, abbiamo una condizione lingui- stica in atto che, in quanto tale, subito è simbolica, poiché ogni sua fruizione rinnova, per deduzione del fruitore, il proprio sistema linguistico. Dalla «scrittu- ra» si arriverà, per questa via, all’«opera» vera e propria. Ovvero dai segni si pas- serà ai simboli. E appunto la funzione simbolica è questa sostituzione: stat ali- quid pro aliquo: l’opera sta al linguaggio come la funzione simbolica alle facoltà umane. L’opera, infatti, rinnova attraverso questa sostituzione gli istituti lingui- stici che altrimenti si logorerebbero per stasi.

20 P. Bigongiari, Barthes e la funzione qualitativa del discorso simbolico cit., p. 15. 21 P. Bigongiari, Tra phoné e graphé [1982], in L’evento immobile cit., p. 16. 22 E qui si intravede, ancora, la vicinanza della teorizzazione bigongiariana rispetto al con- cetto di différence/différance formalizzato da Derrida e assunto direttamente da Bigongiari ne L’evento immobile. LA POESIA COME FUNZIONE SIMBOLICA DEL LINGUAGGIO 341

L’aspetto «qualitativo» di tale funzionamento, che Bigongiari ricostruisce attraverso l’analisi degli scritti di Barthes, è propriamente questo passaggio, e si tratta di analizzare i meccanismi o gli atteggiamenti mentali attraverso cui il «ricevente» – poniamo un lettore – percepisce come simbolico un certo segno, per il fatto stesso che esso apparirà ambiguo al momento del suo processo er- meneutico (deduttivo), ad effettivo superamento dell’intenzionalità storica (in- duttiva) che pure ne aveva guidato la formalizzazione nel lavoro del poeta. Ora, Bigongiari sembra perfettamente consapevole che tale modello relazionale di po- esia e linguaggio funziona senza problemi rispetto alla letteratura tradizionale, mentre, con l’avvento di ciò che Umberto Eco definisce come «apertura esplici- ta» di certe poetiche a lui contemporanee, ovvero dell’organizzazione estetica «di un apparato referenziale» che già di per sé stesso risulta ambiguo, esso necessita di alcune ulteriori specificazioni23, che infatti non tarda a chiarire. La prolifera- zione incessante di simboli da simboli, di letteratura da letteratura24, che appa- rentemente sabota il meccanismo di formalizzazione induttiva del significate e della successiva apertura deduttiva del significato, per riempire linguisticamente in maniera volontariamente ambigua un percepibile e rinnovato horror vacui25, è spiegata da Bigongiari a partire dal saggio La critique et l’invention di Michel Butor, sebbene sia evidentissimo il precipitato concettuale derivato dalla lettu- ra dei romanzi La modificazione26 e L’impiego del tempo27. Dopo aver ribadito che «l’ambiguità del segno è tale in quanto, nato in termini di necessità storica, ne supera il continuo condizionamento proprio distruggendone, preservando- ne, superandone l’unità contraddittoria che in esso si simbolizza»28, Bigongiari afferma che la specificità dell’azione critica novecentesca è quella di «inventarsi le strutture della funzione a cui l’opera deve adempiere»29. In questo quadro si inseriscono le tre tesi espresse da La critique et l’invention, ovvero: «ogni inven-

23 Cfr. U. Eco, Analisi del linguaggio poetico, in Opera aperta, Milano, Bompiani, 1962, p. 78. 24 M. Butor, La critique et l’invention [1967], in Repertoire III, Paris, Les éditions du Minuit, 1968, p. 7: «toute invention littéraire aujourd’hui se produit à l’intérieur d’un milieu déjà sa- turé de littérature. Tout roman, poème, tout écrit nouveau est une intervention dans ce paysage antérieur». 25 Ciò che qui Bigongiari omette, ma che ci pare di cogliere in maniera distinta, è che sta tratteggiando pure una risposta, ovviamente indiretta, ad alcune questioni immesse nel dibattito degli anni Sessanta dall’àmbito della neoavanguardia. Si pensi anche alla stessa distinzione di funzione qualitativa e funzione quantitativa in relazione alla teoria dell’informazione descritta da Eco in Opera aperta, ovvero alla necessità di rinvigorire l’intenzionalità dell’autore e dell’io poetico in anni dominati dai tentativi – con I novissimi in testa – di riduzione dell’io e/o della celeberrima «morte dell’autore». 26 M. Butor, La modification, Paris, Les éditions du Minuit, 1957. 27 M. Butor, L’emploi du temps, Paris, Les éditions du Minuit, 1956. 28 P. Bigongiari, La scrittura di Butor o la funzione quantitativa del discorso simbolico, in La poesia come funzione simbolica del linguaggio cit., p. 21. 29 Ivi, p. 22. 342 Federico Fastelli zione è una critica»; il suo correlativo «ogni critica è un’invenzione»; e, la terza, secondo cui «il poeta o il romanziere che si riconosce come critico deve consi- derare le sua opera e le altrui come incompiute». Il primo punto è autoevidente, tanto che Bigongiari non lo approfondisce in questo ambito, sebbene ritorni sulla questione in una delle interviste raccolte ne Il mutismo dell’universo: è chiaro, comunque, che l’invenzione altro non può configurarsi che come critica della realtà, o, nel caso dell’invenzione letteraria, come critica della letteratura o critica della critica. Il secondo punto dà modo a Bigongiari di riconnettere il discorso che sta formulando su Butor con gli assunti teorici della nouvelle critique, su cui si era soffermato nel saggio su Barthes, riven- dicando quella libertà simbolica – libertà cioè d’invenzione della critica, in quan- to genere letterario e atto linguistico. Più problematico il terzo punto, poiché, in maniera non dissimile da quella utilizzata nel saggio su Barthes, Bigongiari ac- coglie la sostanza dell’affermazione butoriana, ma non il ragionamento attraver- so cui vi si arriva. Secondo Bigongiari, Butor constaterebbe che il carattere in- compiuto dell’opera letteraria elimina la differenza di genere tra critica e inven- zione rendendo i due aspetti eteronomi, momenti parziali della medesima atti- vità. Tale constatazione, però, avverrebbe in un àmbito puramente intralettera- rio – «noi scriviamo sempre dentro la letteratura»30 afferma Butor – che premia, quindi, la continua riscrivibilità dell’opera come risultato ipertestuale di un pro- cesso combinatorio citazionale intra- e inter-letterario, esaltando così il valore «parodico»31 dell’operazione letteraria, dove parodico varrà piuttosto come imi- tativo, capace di prolungare cioè in maniera impropria una funzione apparen- temente perduta dell’opera (una funzione per così dire meta-simbolica), che nel senso di «travestimento burlesco». Ciò, allora, costituisce il limite di un uso con- sapevolmente quantitativo della funzione simbolica esercitata dall’opera lettera- ria sul linguaggio: la interminabile reiterabilità del processo parodico, insomma, non si relaziona correttamente con l’aspetto qualitativo che gli è proprio, ovve- ro non spiega correttamente i vincoli che l’operazione letteraria intesse con i va- lori estetici. Cosa manca, in verità, a tale uso quantitativo? Di nuovo (e ancora sorprendentemente), è la contingenza storica ad essere sottovalutata, secondo Bigongiari. L’idea butoriana che si scriva sempre «dentro» la letteratura omet-

30 Cfr. M. Butor, La critique et l’invention cit., p. 18: «nous écrivons toujours dans la littéra- ture. Puisque nous représentons notre ouvrage (non seulement le résultat mais le travail), nous devons aussi y représenter la littérature qui est son milieu ou son élément, par des citations (ce dont la critique nous a toujours donné l’exemple), intactes ou transformées (parodies). Toute parodies affirmée dénonce celle qui est larvée dans la littérature courante ignorante de ses propres modèles, nous rend ceux-ci». 31 Ivi, p. 9: «la formule du roman habituel est donc tout simplement une sorte de parodie. La plupart des écrivains, le sachent ou non, prennent des livres célèbres d’autrefois et maquillent leurs rides. Combinant un schéma bien connu, dont notre éducation nous a donné l’habitude, et des signes extérieurs de modernité, leurs ouvrage peuvent bénéficier d’une diffusion rapide et atteignent parfois de grands tirages». LA POESIA COME FUNZIONE SIMBOLICA DEL LINGUAGGIO 343 te infatti il passaggio, fondamentale, che prevede la trasformazione del linguag- gio in letteratura: il valore estetico, che la letteratura recupera in tale passaggio, quando cioè come linguaggio entra dentro la letteratura, può avvenire solo nel- la storia, o, come scrive Bigongiari: «i valori estetici sono recuperabili solo nella storia, sono la stessa “descrizione storica” dell’opera d’arte. Prima i valori esteti- ci sono dei “non valori”; meri simboli»32. Per questa ragione compito precipuo dello strutturalismo non è quello di operare sopra un linguaggio ideale e sovra- storico, indagandone le implicazioni estetiche, ma quello di recuperare nell’o- pera, in quanto linguaggio in atto, e dunque storico, i suoi «non valori» esteti- ci, ovvero risalire alla «libertà formatrice del simbolo» precedente alla stasi delle «forme simboleggiate» che sono, essenzialmente, un portato storico, o meglio, che appaiono come forme trascendentali in senso kantiano, che solo la storia riempie. Insomma, di un’opera, occorre cogliere quella «primordialità poetica» che precede il giudizio estetico, in quanto giudizio di paragone tra essa e la con- dizione estetica nella storia, ovvero la tradizione (come scarto, essenzialmente, ma anche, se si vuole, come continuità). Su questo punto, cruciale, Bigongiari torna in più occasioni. Si pensi all’intervista rilasciata a Mario Miccinesi del di- cembre del 1971: «la poesia non nasce – e guai se nasce – dentro un’esperien- za estetica. Diviene estetico quello che, all’atto della sua nascita, appartiene solo all’ambito della necessità. Al posto dell’estetico è il necessario; s’intende, un ne- cessario che ha volontà – mi richiamo alla bona voluntas storica – e possibilità di linguaggio allo stato nascente»33. E poco più sotto precisa: «la poesia, prima di essere un valore, è un non valore, e guai se non avesse implicita la tendenza a superare continuamente questa condizione “necessaria” di partenza; non avreb- be la carica necessaria per attestarsi nei suoi valori simbolici, cioè per impegnare l’integralità linguistica, che è subordinatamente comunicativa, ma è primaria- mente inventiva, dell’uomo, al di là della sua stessa condizione genetica»34. Ma è proprio ciò a conferire alla poesia una funzione essenziale rispetto al linguag- gio tout court, come Bigongiari ribadisce approfonditamente nell’ultimo e più complesso saggio di questa trilogia, intitolato la Follia di Saussure. Partendo dalle riflessioni di Starobinski e soprattutto da quelle di Deguy su alcuni (all’epoca) inediti del grande linguista ginevrino, Bigongiari svela final- mente il meccanismo che rende indispensabile la poesia al linguaggio. In par- ticolare, rispetto alla riflessione saussuriana sul concetto di anagramma, di cui Starobinski dà una analitica ricostruzione in un saggio del 196635, Bigongiari

32 P. Bigongiari, La scrittura di Butor o la funzione quantitativa del discorso simbolico cit., p. 25. 33 P. Bigongiari, Il non luogo della poesia cit., p. 12. 34 Ibidem. 35 Cfr. J. Starobinski, Les anagrammes de Ferdinand de Saussure, in «Mercure de France», n. 1204, febbraio 1964, poi rielaborato e compreso nel volume Les mots sous les mots. Les anagram- mes de Ferdinand de Saussure, Paris, Gallimard, 1971. 344 Federico Fastelli critica l’idea di un ipolinguaggio, che Saussure indica come «base fonetica» del processo combinatorio che sovrintende ogni atto poetico e che si fonda su una parola tema. Nell’atto combinatorio della creazione poetica, infatti, occorre ri- considerare, per Bigongiari, pure l’intenzionalità poetica, sottostimata dall’ana- lisi puramente combinatoria delle parole (del loro suono) condotta da Saussure. La questione appare intimamente connessa a quel rapporto tra caos e caso, strutturale in Bigongiari, e, in particolare, agli aspetti di intenzionalità e neces- sità che esso implica: aspetti già autorevolemente affrontati da uno studio del 2005 di Enza Biagini, cui rimando. In ogni caso, l’intenzionalità poetica non si dovrà considerare nel senso classico di intentio auctoris, come interpretazione privilegiata e a posteriori che l’autore darebbe della propria opera, ma, come ab- biamo già spiegato, in quanto risultato del processo di modellizzazione che, per induzione, prevede un modello univoco. In questo senso la poesia, cioè la pre- sa di parola del poeta di fronte al mutismo dell’universo, si incarica di un com- pito simbolico, che sarà univoco in entrata, ma inevitabilmente polivalente in uscita, o, come scrive Bigongiari: «per il poeta l’opera si compie al limite della sua improbabilità: cioè dove il linguaggio ha raggiunto un solo significato, l’u- nico che il poeta non sapeva»36. La poesia è tale, quindi, soltanto in rapporto al suo momento prelinguistico, al silenzio; e se silenzio e parola poetica sono le due fasi consecutive di uno stesso atto, «la parola» dovrà considerarsi già come «la fine di qualcosa» in un meccanismo continuamente differito che fa del lin- guaggio ciò che Bigongiari chiama, con Heidegger, «un inoltro nell’essere». Lo «scatto simbolico» si pone, perciò, già come termine di un processo combina- torio che non avviene ancora dentro al linguaggio, ma sul limite del silenzio, e che si ripete per ogni parola. Al fondo del processo combinatorio del linguaggio, quindi, perfino nelle esasperazioni del Novecento, persino nel tentativo parodi- co di Butor di modificare con la scrittura «il luogo e il tempo in cui» essa stessa «si evolve», e persino nel caso limite dello Ulysses di James Joyce37, che attraver- so permute e incastri verbali oppone «al passato archetipico» «una sorta di eter- no presente», non può esserci che un inizio che non è ancora parola. La poesia come funzione simbolica del linguaggio non è dunque soltanto Iside che riunisce ogni parte smembrata di Osiride, per utilizzare la suggestiva metafora che Bigongiari trae da Starobinski38, ma, rovesciando questa visione, è

36 P. Bigongiari, La follia di Saussure, in La poesia come funzione simbolica del linguaggio cit., p. 30. Ma su questo punto Bigongiari ritorna moltissime altre volte. Si veda, per esempio, Dal simbolo simbolista al segno, dal segno al simbolo linguistico, in L’evento immobile cit., p. 34: «il si- gnificato univoco è non altro che l’indicatore che un significante ha compiuto il suo lavoro; che la voce ha finito di suggerire». 37 E anche su questo punto Bigongiari sembra rispondere soprattutto all’Umberto Eco di Dalla Summa al Finnegans Wake (Le poetiche di Joyce). 38 Cfr. J. Starobinski, «Le souci de la répétition», in Les mots sous les mots. Les anagrammes de Ferdinand de Saussure, Paris, Gallimard, 1971, p. 33. LA POESIA COME FUNZIONE SIMBOLICA DEL LINGUAGGIO 345 il corpo stesso di Osiride, «sempre riunito e sempre disiecto»39, soggetto, in veri- tà, a ciò che nel saggio è definito come «anamnesi integrale», e che poi significa, sostanzialmente, l’obbedire d’ogni parola a questo stesso procedimento, sempre e in maniera integrale: dal silenzio prelinguistico essa diventa linguaggio e dal linguaggio, per dialettica con la storia, diventa opera. Il mot-thème saussuriano, base già linguistica o meglio ipo-linguistica del processo combinatorio, risulte- rà anch’esso, finalmente, nient’altro che «lo stato primario della stessa coscienza soggettiva»40 e l’inganno di Saussure, la sua «follia», sta tutta nell’aver creduto di poter separare la parola dal suo «corpo prelinguistico» ovvero elidere a priori il significante dal suo significato, che, in entrata, è invece, lo ripetiamo, univo- co. La funzione simbolica del linguaggio ricoperta dall’opera letteraria, per con- cludere, si spiega come risultato di questo stesso calcolo, di “caso intenzionato”, come scrive Enza Biagini: i poeti con il loro «parlare al limite dell’impossibile»41 mettono continuamente in crisi i limiti dell’istituto linguistico, prevenendo così l’usura della comunicazione stessa. In questo senso, i poeti compiono un’opera- zione inversa a quella dei linguisti, distruggendo gli istituti che questi si affanna- no a ricercare. Ed è proprio in ciò che «superano» l’istituzione linguistica: nella consapevolezza della provenienza della parola dal silenzio, e dunque di una fun- zione che non è solamente quella di toccare con il «linguaggio le cose»42, ma, di più, quella di restituire le cose alle proprie funzioni, nel tempo. Così, con le pa- role di Bigongiari, «se non esistessero i poeti, arriverebbe il momento in cui gli uomini, per usura, non riuscirebbero più a intendersi tra loro»43.

39 P. Bigongiari, La follia di Saussure cit., p. 29. 40 Ivi, p. 34. 41 E. Biagini, Piero Bigongiari: i « giochi del caso » fra teoria, critica e poesia cit., p. 280. 42 Cfr. P. Bigongiari, La follia di Saussure cit., p. 34. 43 Ivi, p. 31. Piero Bigongiari con Adelia Noferi, Elena Aiazzi Mancini Bigongiari, Enza Biagini (Barberino, luglio 1997 – foto di Anna Dolfi). BIGONGIARI E L’AMBIGUITÀ DEL SEGNO LINGUISTICO

Martina Romanelli

[…] gli Egizii in tutti e’ loro templi aveano sculpite le Sfinge, se non per dichiarare doversi le cose divine, quan- do pure si scrivano, sotto enigmatici velamenti e poetica dissimulazione coprire. Giovanni Pico della Mirandola, Commento sopra una canzone d’amore1

[…] impetuosi, in chi scrive, i misteri si accalcano nei segni più turbati Piero Bigongiari, Dove finiscono le tracce2

1. Tra «forme della narratività» e nuove premesse ontologiche

1.1. Per una diversa idea del «medium»: il pretesto schopenhaueriano

Se l’amore muore, componimento della nona sezione (L’amore è…) dell’ul- timo libro poetico bigongiariano, si apre nel segno di un chiaro riferimento a Schopenhauer: cosa altrimenti potrebbe essere quel «velo di Maia» che compare ai vv. 3-4, se non ciò che secondo il pensiero del filosofo compromette e vanifica il processo epistemologico in grado di risolvere la condizione dell’umanità (o, al- meno, se si considera la vocazione aristocratica della dottrina di Schopenhauer, di una parte di essa)? Sorprendentemente però rispetto a quanto si sarebbe po- tuto arguire, la prima strofe del componimento scongiura proprio lo strappo del

1 Cfr. l’annotazione di Bigongiari del 16 dicembre nel Giornale: «La verità è un mistero che ha bisogno della finzione per rivelarsi, ma questo è sempre una rivelazione enigmatica, che cioè sposta sempre un po’ più in là i suoi significati» (Piero Bigongiari, Giornale 1996, in La poesia pensa. Poesie e pensieri inediti. Leopardi e la lezione del testo, a cura di Enza Biagini, Paolo Fabrizio Iacuzzi e Adelia Noferi, Firenze, Olschki, 1999, p. 65). 2 Si tratta dei vv. 5-6 de Il limite che separa e unisce, dalla quarta sezione di Dove finiscono le tracce, Firenze, Le Lettere, 1996, p. 76.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 348 Martina Romanelli velo («Troppo dolore ha proposto il cielo / a un amore che muore. Dove il velo / di Maia è strappato, tra il visibile / e l’invisibile è spezzato il patto»3), un invi- to che solo apparentemente sembra porsi in contraddizione rispetto allo slancio che nel lungo viaggio del poeta tendeva a riconoscere e, forse, a ricongiunger- si con, un Uno nascosto, presente nella sua piena assenza, in vestigio. È il volu- to richiamo a Schopenhauer, all’intero portato, consistente, della sua filosofia a generare la necessità di un approfondimento pur minimo, la necessità di sof- fermarsi su un punto – certo non isolato – che apre possibilità interpretative di un problema non solo gnoseologico o metalinguistico, ma che va a toccare per forza di cose fondamenti che rientrano in precise connotazioni ontologiche. Sul versante critico, la discussione del particolare e complesso senso del linguaggio proprio di Bigongiari ha costituito – e non poteva essere altrimenti – un leit- motiv di indiscutibile rilevanza; assieme ai così detti «compagni di strada» Bo e Macrí, sono indiscutibilmente da tenere presenti i numerosi e continui studi di Adelia Noferi, la cui attenzione e la cui lezione hanno costituito una pietra mi- liare per i contributi successivi, quali quelli di Silvio Ramat, Enza Biagini, Maria Carla Papini, Paolo Fabrizio Iacuzzi, fino agli apporti pubblicati più di recente e soprattutto tesi ad approfondire le tematiche e i percorsi sulla sua critica d’arte. Libro poliedrico, composto di livelli molteplici e di strade, non a caso, mul- tiformi, Dove finiscono le tracceè in fondo davvero un grande libro di viaggio; un’autobiografia-breviario, un compendio semprein fieri, inscritto anche sotto il nome di Derrida; perché il viaggio, il suo perpetuarsi come moto (non esclu- sivamente fisico), è quanto replica o realizza, nell’effimero, lo stato di quell’Uno sfuggevole ma presente nel suo non apparire; lo stato del Caos, una sorta di indif- ferenziato, naturalmente identificabile con Dio come «primalità» perfetta (strana identità, complessa, nell’essere alterità sempre di se stessa4). Fondamentale, sotto questo punto di vista, l’analisi di Adelia Noferi5, nel suo individuare, nello spe- cifico per le prime sezioni dell’opera, un vero e proprio programma di esplora- zione delle forme letterarie o, meglio, della pratica verbale in sé, soprattutto se scritta: occasioni di ricerca che sovrappongono livelli letterari diversi (parabola, fiaba, mito…), tutti convergenti in direzione della poesia, ma che sono anche occasione di veri e propri percorsi autonomi del linguaggio, oggetto di un’inda- gine interminabile e capitale. È difatti, oltre la vera e propria forma della nar- ratività (così Adelia Noferi), la specifica vocazione del linguaggio a determinare il segreto della poesia – genre prediletto in sé e per sé – e, di conseguenza, l’ato-

3 P. Bigongiari, Se l’amore muore, vv. 1-4 (Dove finiscono le tracce cit., p. 169). 4 Si veda la conclusione del libro: alterità è identità proprio perché non siamo davanti a un punctum, a un motore immobile, bensì a un principio volubile, non a caso indicato iconologica- mente col fuoco o col mare. 5 Si fa riferimento in particolare al cap. IV (La parabola del Figliuol Prodigo), in Adelia Noferi, Piero Bigongiari. L’interrogazione infinita. Una lettura di «Dove finiscono le tracce», Roma, Bulzoni, 2003. In particolare si veda p. 70. BIGONGIARI E L’AMBIGUITÀ DEL SEGNO LINGUISTICO 349 mo imprendibile, quell’infinito inarrivabile di leopardiana memoria che è meta costante delle cose del mondo e dell’uomo in primis6, teso in una progressione che, in realtà, è forse più speranza di regressione in quanto reductio ad unum. Proprio il linguaggio, tradizionalmente inteso come codificazione dell’in- sieme di idee sotto forma di compromesso fra la cosa e il nome a essa assegna- to per renderla concepibile e comunicabile, è al centro della revisione radicale, rovesciamento manifesto, del fondamento ideologico del Die Welt als Wille und Vorstellung; ne è, insomma, il motivo. Se fosse valsa anche in Bigongiari la sfi- ducia nei confronti del valore del «fenomeno» (per com’è presentata nel lapida- rio incipit dell’opera schopenhaueriana e nel terzo capitolo del libro primo), con l’esclusione di qualsiasi componente fisica rispetto all’Essere (il mondo come ri- flesso della Volontà), non avrebbero potuto che originarsi conseguenze non in- differenti. L’opposizione fatale tra l’insufficienza sostanziale del mondo (un ese- cutore subordinato e superficiale degli ordini di un padrone uniforme e nasco- sto) e un principio radicale come la Volontà (energia cosmica, è vero, però se- parata dal mondo) sarebbe stata in grado di mettere in crisi non solo un intero sistema fondato su presunti assiomi e ogni certezza escatologica fino a quel mo- mento sostenuta, bensì, su un piano traslato, avrebbe potuto alterare il proce- dimento artistico (intendendo «fenomeno» come evidenza del testo). Nel caso in cui anche in Bigongiari si fosse ripresentata la medesima impostazione onto- cosmologica, gli strumenti e le facoltà proprie dell’uomo sarebbero stati sostan- zialmente vanificati per il loro essere superficie, orpelli autoreferenziali e sterili in quanto inetti a esaurire nella forma dell’evidenza il Vero – «la verità è avanti tut- te le cose, è con tutte le cose, è dopo tutte le cose, è sopra tutto, con tutto, dopo tutto; ha raggione di principio, mezzo e fine. […] la verità è la cosa più since- ra, più divina di tutte; anzi la divinità e la sincerità, bontà e bellezza de le cose è la verità; la quale né per violenza si toglie, né per antiquità di corrompe, né per occultazione si sminuisce, né per comunicazione si disperde», per prendere in prestito forse la definizione più forte e suggestiva in assoluto del Vero dalla filo- sofia di Giordano Bruno7. Che si parli del Vero non deve chiaramente riportare alla vulgata opposizione tra filosofia e poesia8. Leggendo Bigongiari non si può

6 Cfr., per esempio, dalla sesta sezione, Il pellicano di Malibù: «C’è intorno ai pali un ribollio quieto, / un lento andirivieni d’onde intorno / a quella loro ruggine, un soggiorno / di traspa- renze in un indiscreto / occhieggiare dal fondo. […] Ma che cosa ricerca, quale stizza / andata troppo al di là di se stessa? / La marea già sale, e non cessa / di mordere la terra, di scalzarne / le giallognole friabili dune. / Nemmeno queste sue estreme cune / davanti all’infinito ora le basta- no?» (Dove finiscono le tracce cit., pp. 124-125) 7 Giordano Bruno, Spaccio de la bestia trionfante (dialogo secondo; porzioni di testo tratte sia dall’intervento di Sofia che da quello, subito successivo, di Saulino), introduzione e commento di Michele Ciliberto, Milano, Rizzoli, «BUR», 20148, pp. 154-155. È rilevante che Bruno scriva che la comunicazione della verità non indebolisce la sua autenticità, contando che la questione linguistica fu per lui alquanto rilevante e articolata in trattazioni che toccano forse nell’interezza la sua opera. 8 Per cui cfr. P. Bigongiari, La poesia, una Weltanschauung?, in La poesia pensa… cit., pp. 205-212. 350 Martina Romanelli ignorare l’importanza della tensione al Vero (essendo esso cifra di tutte le cose), guidata da una primaria e nodale funzione della scrittura o della creazione arti- stica in sé che va a sovrapporre Dio al poeta, allo scrittore o all’artista in genera- le, con una precisa corrispondenza fra atto della creazione del mondo e dell’uo- mo e atto che origina l’opera d’arte (atto sia per sottrazione che per emissione). Nessun dubbio inoltre sulla possibile drammaticità di questo evento, che si di- spiega come un movimento reciproco e opposto di un Dio-Tutto che si ritrae e di un uomo che necessariamente tende a essere e a sviluppare, pur nel contesto transeunte, la sua accidentale formalità – formalità che, soprattutto nell’opera d’arte, proietta e diffonde teoricamente all’infinito il medesimo principio del- la variatio e quindi della vita: «da quel distacco-abbandono inizia per l’uomo la ricerca della perduta unità (anteriore a qualsiasi inizio) che la creazione ha spez- zato e si moltiplicherà nelle ulteriori frammentazioni. Non la nietzschiana mor- te di Dio, ma il suo “distacco” determina, in questo contesto, quella sottrazio- ne ontologica che spalanca lo spazio (sottile e immenso) che diviene lo spazio dell’esilio e dell’erranza dell’uomo»9. Tutto ciò potrebbe benissimo contribuire alla riaffermazione di una genera- le dicotomia insuperabile e di stampo quasi manicheo, anche perché, come ha per esempio spiegato Maria Carla Papini, se la parola «da un lato è l’unica pos- sibile realizzazione di quell’infinito che rappresenta, d’altra parte, pronuncian- dosi in una realtà temporale e spaziale ben determinata, si dimostra immedia- tamente inferiore al suo compito, proprio perché rende definito e compiuto ciò che è indefinito e interminabile»10. C’è tuttavia un livello ulteriore da considerare, in Bigongiari; bisogna cioè rinnovare in tale contesto l’idea ontologica discostandola da una tradizionale – quella che identifica l’Essere come un Ente, motore immobile – e portarla a es- sere valutata proprio in virtù di nuovi criteri quali, ad esempio, quello della sua qualità. Se pure esiste, in Bigongiari, almeno un dualismo superficiale tra quel che è l’oggetto di una costante ricerca (un quid esterno e interno all’uomo, il quale è a sua volta creatura e frammento dell’Uno primordiale, quindi traccia) e il mondo che ne è il prodotto (specchio oppure ombra, come Schopenhauer stesso lo aveva denominato), la sua posizione si muove in senso quasi opposto ri-

9 A. Noferi, Piero Bigongiari. L’interrogazione infinita (cap. II – Messaggio sinaitico: il testo in- troduttivo) cit., p. 33. Questo risolve il problema del nichilismo, cioè dell’inesistenza della traccia- origine individuata da Derrida come traccia sparita per sempre (probabilmente anche in questo ha rilevanza l’opposizione Osiride-Thot ne La farmacia di Platone), irrecuperabile: il ritorno, in Bigongiari, pare essere contemplato perché l’esperienza transeunte/effimera (dell’uomo e della traccia una volta tracciata) sembra tendere all’Uno, il che tuttavia non chiude affatto il circolo universale, anzi ha significato un passo – tra l’altro foriero di altre tracce – nell’evolversi perpetuo del Caos come potenza infinita. Cfr. anche la lirica Il mare gioca col fanciullo. 10 Maria Carla Papini, Resistenza e tensione nel linguaggio di Piero Bigongiari (1. La parola agonica della «Figlia di Babilonia»), in Il linguaggio del moto. Storia esemplare di una generazione, Firenze, La Nuova Italia, 1981, p. 105. BIGONGIARI E L’AMBIGUITÀ DEL SEGNO LINGUISTICO 351 spetto al Die Welt…, perché il mondo-simulacro – e con mondo-simulacro non si intendono solo i fenomeni esperibili, bensì tutto ciò che rientra nell’umana facoltà, compreso (e soprattutto) il linguaggio – non è affatto il non-vero che si presenta agli occhi del filosofo nascondendogli la realtà noumenica, bensì è fe- delissima e necessarissima traccia, indizio, dell’Uno che entrambi, poeta e filo- sofo, cercano di raggiungere. Siamo, con Bigongiari, davanti a una piena riva- lutazione del medium; processo che nel suo caso investe non soltanto il campo privilegiato della poesia, ma pure quello dell’arte e della critica, tant’è che è im- possibile non pensare al Barocco e al suo essere una cristallizzazione superficia- le, provvisoria, del moto in continuo e concertato divenire. Bisogna presupporre che la natura della parola/segno sia quella di una «possessione disappropriante» del tutto coerente col proprio oggetto (e matrice) poiché ne ricalca e ne esprime l’indefinibilità logica che coincide col suo stesso essere dynamis, vita. Bisogna, insomma, ricostruire in termini teorici la legge che regola e comporta l’espli- carsi della scrittura bigongiariana come scrittura dell’Infinito/Indeterminato, come «il senso della morte di qualcosa, ma anche della rinascita di qualche altra cosa»11. Nuova angolazione dalla quale si considera l’Ente: il suo essere potenza.

1.2. Segno significato e segno significante: la risposta a Schopenhauer in «Se l’amore muore»

Le fonti e gli scritti che hanno contribuito alla riflessione linguistico-poetica di Bigongiari sono molteplici (Heidegger, Merleau-Ponty, Derrida, per far rife- rimento all’ambito puramente filosofico e linguistico; contando che fin dall’ini- zio lo studio sul Leopardi aveva promosso, in lui, la sensibilità verso il linguag- gio come baricentro assoluto dell’inchiesta critico-letteraria nel suo essere «aper- tura», «potenza»): tutti fanno capo a un semplice principio – quella dinamicità della «possessione disappropriante» mai definitiva – e tutti possono riassumersi nell’idea secondo cui, se «visibile è il reale, invisibile il vero»12, certo non esiste (apparente paradosso) cosa più completa di questo moto interno al referente, che è un moto interno alla sostanza, descritto sia come emanazione propositiva che come denuncia della sottrazione ontologica (inconcepibilità dell’Uno). Il con- tributo che dunque deve riconoscersi come fondamentale è proprio una varia-

11 Così Bigongiari in risposta a Roberto Carifi in un’intervista raccolta all’interno del volume Nel mutismo dell’universo. Interviste sulla poesia 1965-1997, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 210. Cfr. perciò le affermazioni di Bigongiari in Visibile invisibile: «Mi sono accorto che per me sono più facili le cose difficili; amo rasentare l’impossibilità; spingere al massimo il possi- bile è per me una regola assolutamente elementare. Non chiedetemene il perché; dovrei rispon- dervi con una intuizione generale: perché credo alla continuità di ciò che esiste, anzi di ciò che si può dire; poiché anche credo alla assoluta creatività della parola. Credo alla continuità, e alla “contiguità” di ciò che esiste. Il vuoto, l’inesistente è la punteggiatura dell’essere» (P. Bigongiari, Visibile e invisibile, Firenze, Sansoni, 1985, p. 38). 12 Ivi, p. 5. 352 Martina Romanelli zione del concetto ontologico, sottratto alla sua integrità: la qualità dell’Origi- ne è considerata qui soprattutto nel suo attributo primario, perché unico costi- tutivo, di potenzialità, quindi di alterità continua rispetto a un’identità fissa (in quanto uniformità è, in senso pienamente leopardiano, non-vita). Cosa significa allora augurarsi che mai il velo di Maya venga strappato? Semplicemente sviluppare un differente tipo di relazione con la realtà che ha precise ricadute sullo stesso percorso gnoseologico che costituisce lo scheletro, o perlomeno una consistente sua parte in quanto dipendente dalla poetica, di Dove finiscono le tracce(processo creativo ed epistemologia sembrano essere tutt’u- no, a partire da una basilare premessa di fondo13). Tutto converge, dalla poesia di Bigongiari agli scritti di critica di varia natura, verso la necessità di cambiare quei parametri tradizionali attraverso cui sempre si sono spiegati il linguaggio e il fondamento delle cose, l’Essere, nonché il suo rapporto con la sfera dell’ef- fimero. In Bigongiari la domanda sul linguaggio dovrà davvero essere posta in termini che tengono conto di un presupposto ontologico assai diverso rispetto alle premesse da cui parte Schopenhauer, perché la qualità del principio primo, se così lo si può chiamare, non è la stessa della Volontà. È proprio il carattere dell’essenza a cambiare le carte in tavola, provocando in parte, o forse del tutto, quella inconciliabilità: si tratta di un principio che vive della propria potenziali- tà14; se nel caso della Volontà la tensione filosofica era tutta dedicata alla sua in- dicazione come principio primo, come sostanza (in una corsa in preferenza epi- stemologica e, secondariamente, esistenziale), parlando del Caos bigongiariano ciò che risalta e ciò che costituisce il fondamento di ogni possibile speculazione è la qualità del principio primo, la sua costituzione, la sua natura strutturale15. Su queste basi, è poi di logica conseguenza considerare l’enigma (impossibili- tà di decifrazione del reale e, quindi, di riconoscimento del Vero) come lo stato più alto della chiarezza espressiva (e viceversa16).

13 M. C. Papini, Resistenza e tensione nel linguaggio di Piero Bigongiari (2. L’irresolubile quesito della «Donna Miriade») in Il linguaggio del moto… cit., p. 129. 14 «L’alterno, il multiforme procedere dell’iter linguistico corrisponde, insomma,» come scri- ve Maria Carla Papini «al flusso evolutivo dell’essere stesso, mai interamente percepibile nella propria complessa interezza ma solo nel metamorfico affermarsi della propria proiezione sensi- bile; nel linguaggio si realizza, l’agonica tensione tra l’ente e l’essere che lo ha originato ed a cui incessantemente esso mira nell’intento, sempre sconfitto ma infinitamente ribadito, di reperirne l’intera sostanza recuperando così compiutamente la propria stessa natura» (M. C. Papini, Resi- stenza e tensione del linguaggio di Piero Bigongiari, ivi, p. 131). 15 In sintesi, se la Volontà è la Legge del mondo (poi da fuggire e disconoscere attraverso l’ascesi: altro punto di distacco da Bigongiari, poiché per quanto ineffabile e per quanto attuata per anche per sottrazione l’esistenza, l’Uno non è mai un principio ostile), il Caos bigongiariano compie un passo in più, cioè identifica non solo la Legge, ma la qualità della Legge oltre i già noti principia individuationis. 16 Il che, tra le altre cose, non è affatto estraneo al giudizio del Leopardi. L’affermazione (riscontrabile in un’intervista contenuta nel volume curato da Anna Dolfi, Nel mutismo dell’uni- verso… cit., pp. 135-138, in particolare pp. 135-136) potrebbe richiamare Zibaldone 1372-1373: «Perché l’effetto della chiarezza non è propriamente far concepire al lettore un’idea chiara di una BIGONGIARI E L’AMBIGUITÀ DEL SEGNO LINGUISTICO 353

Guardiamo ora al testo:

Troppo dolore ha proposto il cielo a un amore che muore. Dove il velo di Maia è strappato, tra il visibile e l’invisibile è spezzato il patto. Non si vede che quello che si vede e si crede soltanto il credibile. Si affida solo al suo piccolo scibile chi, con la morte nel cuore, è l’erede delle cupide labbra dell’enigma.17

Strappare il velo di Maya significa ridurre il mondo (suoni, profumi, movimen- ti, parole: immagini e idoli privilegiati dalla poesia di quest’ultima raccolta come tracce evidenti dell’Assente) a un arido insieme di elementi puramente fisici, pri- vati della loro significazione attivo-passiva, del loro senso. Se si abolisce la valen- za del fenomeno, non si farà che ridurlo all’aristotelica materia inerme; un corpo ingombrante e imperfetto, piuttosto che effettivamente atto a ricevere e incarna- re l’indissolubile legame, proprio del Caos, tra unità fisica e metafisica, esso che è vero principio cosmogonico, sede del proprio platonico demiurgo. Tutto ciò in Bigongiari non è concepibile e tale impossibilità dipende dal presupposto onto- logico che impedisce la separazione dualistica tra mondo e Dio e salva (sul piano poetico e non «scientifico») lo stesso processo epistemologico: un processo di ap- propriazione spossessante («il significato, mentre conclude l’operazione poetica, apre una serie infinita di interpretazioni»18) che diviene risultato della nuova con- cezione prospettica davanti all’Uno. Quindi, per prima cosa, si conferma l’idea di poesia bigongiariana come atto che non può sussistere dopo la decadenza del «fe- nomeno», che è invece elemento proprio all’Ente («la poesia insomma, dato il suo carattere visionario, non può abbandonare il fenomeno per il noumeno proprio perché crede nell’importanza drammatica dell’apparizione emotiva rispetto alla sostanza stessa, inconoscibile in sé, e perché il noumeno non divenga un’impasse rispetto alla varietà e all’insorgenza della vita»19); in seconda istanza, risulta chiaro che l’identità sfuggevole di questa strana archè presuppone, essendo potenza perpe- tua, il mondo come effetto (nonché addirittura concausa nel caso del segno) ade- guato: mutevole e significante; un, parafrasato, infinito effetto dell’infinita causa.

cosa in se stessa, ma un’idea chiara dello stato preciso della nostra mente, o ch’ella veda chiaro, o veda scuro, giacché questo è fuor del caso, e indifferente alla chiarezza della scrittura o dell’e- spressione propriamente considerata, o in se stessa». Abbiamo come riferimento l’edizione dello Zibaldone di pensieri a cura di Giuseppe Pacella, Milano, Garzanti, 1991. 17 P. Bigongiari, Se l’amore muore, vv. 1-9. 18 P. Bigongiari, intervista L’enigma della chiarezza, contenuta nel volume Nel mutismo dell’u- niverso… cit., p. 136. 19 P. Bigongiari, La poesia, una Weltanschauung? in La poesia pensa cit., p. 209. 354 Martina Romanelli

Tornando perciò al testo, vediamo che Bigongiari parla esplicitamente di un patto: strappato il velo, esso si smaterializza, crolla. Di che foedus si tratta? La ri- sposta si potrebbe articolare tenendo presenti tre elementi testuali: l’amore mo- rente, il binomio visibile-invisibile e quello credibile-scibile. In Dove finiscono le tracce si fa spesso riferimento all’amore, soprattutto nella sua funzione salvifica, in grado di animare, restituire vita e significazione alle tracce (fratture per questo intese in qualità di varchi ambigui o schegge di un’unità perduta); l’amore, uni- co motore e unico fine, cui nei primi versi si fa riferimento potrebbe qui essere interpretato come happetitus del bene e quindi del vero (in un processo simile all’eroico furore bruniano, fino a un percorso a ritroso verso l’iperuranio plato- nico che ne è stato, poste le dovute differenze, l’ispiratore originario). Tensione/ speranza, forte al pari del dolore schopenhaueriano in veste di desiderio, in gra- do di guidare sul sentiero cosparso di tracce fino al luogo in cui esse sparisco- no per lasciar posto a un indifferenziato totalizzante, che vive della sua mona- de. Di conseguenza, se si interrompe quel viaggio, si altera il rapporto tra visi- bile e invisibile (lo statuto della traccia). Si raggiunge un vuoto autoreferenziale che ricostruisce la superficialità vacua della rappresentazione come specchio (ciò che è «devitalizzante […], solo superficie riflettente [ove] la coscienza […] speri- menta la riflessione in modo passivo» per dirla con Starobinski20). Non impor- ta dipendere direttamente, a questo punto, dalla filosofia di Schopenhauer: si è trattato di un pretesto, certo eclatante, che subito in Bigongiari vira in direzio- ne di una più particolare e specifica questione poetica, legata a doppio filo con il problema della scrittura. Rinunciare alla funzione del «velo di Maia» significa rinunciare allo stesso mantenersi «vita» dell’Origine; significa rinunciare al ruo- lo poetico, quello di «perenne gioventù del linguaggio» in un universo che vede l’uomo «straziato da questa continua scossa semiotica»21. Perché era necessario un patto fra l’invisibile (Caos o Infinito colto in sé) e il visibile (significato poi significante), divellere il medium comunicativo com- porta la una contravvenzione dei princìpi dell’Ente – della fonte di vita –, arri- vando all’immobilizzazione del significato: diventerebbe impossibile riconosce- re al segno (fisico, ma soprattutto artistico) il suo essere esecuzione e attuazio- ne del processo dinamico che è struttura, fondamento, dell’Uno. È in questo modo che il credibile diviene l’unica realtà, al di là della quale non è figurabi- le niente, neppure per ipotesi: oramai «non si vede che quello che si vede»22 (Se

20 Jean Starobinski, La Malinconia allo specchio. Tre letture di Baudelaire, prefazione di Yves Bonnefoy, a cura di Daniela De Agostini, Milano, Garzanti, «I Coriandoli», 1990, p. 26. 21 Entrambe le citazioni derivano da un’intervista rilasciata da Piero Bigongiari a Claudio Toscani, contenuta nel volume Nel mutismo dell’universo… cit., pp. 32 e 39. 22 E va ricordato perciò Merleau-Ponty, contando la fortunata coincidenza fra titoli/defi- nizioni (Le visible et l’invisible dell’opera incompiuta di Merleau-Ponty e Visibile invisibile per le prose bigongiariane): il «visibile» sarebbe così il «fenomeno» schopenhaueriano, considerato nella sua assoluta estraneità rispetto alla «cosa in sé», vuoto e arido, un inganno e non un segno. BIGONGIARI E L’AMBIGUITÀ DEL SEGNO LINGUISTICO 355 l’amore muore, v. 5) e, se si vede soltanto, con quest’azione falsamente ingressi- va sull’oggetto, certo ci si lascia sfuggire quello scarto, quella differenza fonda- mentale che, pure rimanendo in stretti limiti letterari, fa invece della lingua po- etica un sistema composto di parole e non di circoscritti termini, i quali appun- to «determinano e definiscono la cosa da tutte le parti [… mentre…] sono cose ben diverse la proprietà delle parole e la nudità o secchezza, e se quella dà effica- cia ed evidenza al discorso, questa non gli dà altro che aridità» (così Leopardi, in Zibaldone 110). Parole già di per sé espressione dell’Uno in quanto significanti, con tutto quel che può implicare il vero senso heideggeriano rintracciabile fra le numerose fonti e letture di Bigongiari: «parola pura è quella in cui la pienez- za del dire, che è carattere costitutivo della parola detta, si configura come pie- nezza iniziante. Parola pura è la poesia»23 aveva sostenuto Heidegger; nulla di più vicino, con quella «pienezza iniziante» al senso della parola in Bigongiari in quanto «per la poesia, la realtà, e la realtà dell’uomo, è un libro tutto da scrive- re: l’enigma consiste nella sua perpetua riscrittura»24. Per questo motivo bisognava, nel testo, rettificare immediatamente, correg- gere il tiro e scongiurare ancora lo strappo del velo: «Si affida solo al suo piccolo scibile / chi, con la morte nel cuore, è l’erede / delle cupide labbra dell’enigma». «Enigma» è un lemma che torna molto spesso in Dove finiscono le tracce, in va- rie forme e declinazioni, e caratterizza la titolazione di due sezioni (la seconda e la decima): indica il mistero, l’intricato groviglio, l’apparente impenetrabili- tà di un simulacro adamantino che sembra indecifrabile e soprattutto muto, si tratti del mondo affabile della fiaba25 o si tratti della natura naturata – e a suo modo naturans nel suo proseguire la Legge provvidenziale – e dell’esperienza (il mare, la rosa, la luna, lo sguardo scambievole, muto, col rovo del Sinai, pseudo- eracliteo, che vive della propria combustione). L’enigma, dalle labbra «cupide» di quell’amore totale che il Signore in Graffiti sembra voler liberare nonostante che il «cuore, del mondo» (vv. 24-25) probabilmente non sia in grado di sop- portarlo, garantisce la persistenza del «piccolo scibile» contro il «credibile»: fidu- cia nella rappresentazione come molteplicità feconda, positiva, che subito tra- slata sul piano poetico riporta ai costanti riferimenti alla scrittura, alla lingua, al segno. Un segno investito di una forza particolare, che non esclude il dio occa- sionato e la sacralità della Lingua (quella della Legge illeggibile sulle tavole ab- bandonate, infrante, forse ritrovate dopo un lungo viaggio), poiché «erme bi- fronti» e «steli / […] sulle tombe […] dicono, / caduti i veli, che è inscindibile /

23 Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio (I. Il linguaggio), trad. it. di Alberto Caracciolo e Maria Caracciolo Perotti, Milano, Mursia, 1973, p. 31. 24 P. Bigongiari, La critica dal metalinguaggio al linguaggio, in «Paradigma», 8, Firenze, Opus Libri, Dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze/Facoltà di Magistero, 1988, p. 15. 25 In realtà rassicurante forma solo a prima vista, soprattutto se si pensa alla fiaba dei Grimm o di Andersen, ai racconti popolari narrati dalle bambinaie hoffmanniane (si prenda a esempio Der Sandmann). 356 Martina Romanelli nei suoi due sensi il limite: è il silenzio / che è fonte inesauribile di senso»26; un senso che «slitta, non può stare fermo»27.

2. Oltre Schopenhauer, fino a Derrida: la traccia e la «caoticità preverbale»28

2.1. Il segno scritto come enigma e dinamicità: la «poesia come azione»29

Essendo oramai chiaro che la citazione di Schopenhauer ha fornito l’occasio- ne, il casus belli perfetto nella sua vulgata notorietà, per l’affermazione del valore del linguaggio su presupposti ontologici opposti, è naturale che si moltiplichino le fonti bigongiariane attraverso le quali vedere il segno linguistico come pos- sibile strumento che, atto ad avvicinare la piccolezza dell’uomo-esule alla gran- dezza del Dio-origine (in questo senso il rincorrersi delle tracce poetiche, con- tinuo supplemento alla non presenza), arriva alla possibilità di risolvere, secon- do un apparente paradosso, nella non risoluzione il problema dell’arte e, quin- di, dell’Ente in quanto realizzazione del suo principio (Vita). Lo stesso percor- so del Bigongiari critico offre spunti e richiami tipici di un dialogo interno, in- terdisciplinare. Si possono citare in merito non solo lessico e sintagmi specifici adoperati nei saggi di critica d’arte (per esempio nel secondo volume de Il caso e il caos. Dal Barocco all’Informale non è raro incrociare giudizi teorici, formu- lazioni che strutturano, poniamo, l’analisi di Pollock o De Staël e sono al tem- po stesso applicabili al campo delle lettere), ma pure l’attenzione costante, che nelle cinque macro-sezioni de La poesia come funzione simbolica del linguaggio, viene dedicata alla potenzialità della parola o, meglio, al quid che vi si incarna come inseparabile referente, laddove non si tratti soltanto di un tecnicismo che si alterna sul binomio significante/significato, ma di uno «sfuggire del segno nel- la sua stessa segnalazione»30. Tant’è che il lavoro dello scrittore – e del lettore – è costantemente in fieri, non raggiunge mai un punto stabile: «le paperoles gli [a Proust] dimostravano la necessaria infinità di una scrittura perché non solo il più resta sempre da dire ma anche perché il tempo perduto diveniva uno spazio infinito da ricoprire di segni: lo spazio dei segni. Scoprire era ricoprire di segni questo infinito pericoloso ma necessario»31.

26 P. Bigongiari, Dove vive il linguaggio?, vv. 8-13 (nell’ottava sezione di Dove finiscono le trac- ce cit., p. 158). Chiaramente il velo, qui, non è schopenhaueriano: è la forma (imballo, altrove) del messaggio. 27 P. Bigongiari, Il senso slitta, v. 1 (ivi, p. 155). 28 Così Bigongiari ne La critica dal metalinguaggio al linguaggio cit., p. 9. 29 Sintagma tratto dalla Prefazione di Enza Biagini a P. Bigonciari, La poesia pensa… cit., p. XVII. 30 P. Bigongiari, Proust dal tempo allo spazio, in La poesia come funzione simbolica del linguag- gio, Milano, Rizzoli, 1972, p. 121. 31 Ivi, p. 122. BIGONGIARI E L’AMBIGUITÀ DEL SEGNO LINGUISTICO 357

Segni, appunto. Elementi che si pongono come veicolo, come tramite co- municativo però non passivo. Indizi, tracce esperibili, che soltanto il recupero dell’atto creativo (di Dio come dell’uomo) insito nella poesia trasmuta in sim- boli: tracce significate (cioè evidenti) e significanti, come il pensiero di Derrida insegnava, non riconducibili a una pacificazione definitiva. Servirà citare, a que- sto punto, una parte della poesia Piccolo catechismo (dalla terza partizione) della sezione di Tra favola e storia di Dove finiscono le tracce(p. 55).

La poesia è la desinenza di un verbo che nasconde il suo mistero, ma non è un’eco nella trasparenza del tuo povero cielo. Misteriosa metà di ciò che è vero, tu non puoi fare senza il suo intero.

Punto focale è la definizione di poesia, che ci permette così di indicare il fo- edus e il segno/simbolo: desinenza di un verbo (quanto vicino o distante dal Verbo?). Ossia: parte declinabile di una base, salvo eccezioni, invariabile32. Per l’interpretazione di «verbo», scritto con la minuscola, potrebbero aprirsi due stra- de, che forse, in fondo, non si escludono: intenderlo come semplice latinismo (verbum) o come quella parte del discorso che indica un accadimento, un’azio- ne. Se il riferimento si fa alla lingua latina, verbum può indicare: una generica parola o ciò che corrisponde al nostro «verbo» (così anche nelle grammatiche la- tine) in quanto diverso dalla categoria di nomen o vocabulum33. Che si tratti di una parola o di un’azione in sé (pur essendo interessante la speranza di vedervi la conferma più diretta della dỳnamis tanto cara a Bigongiari), forse non è pro- prio questo il nodo del discorso che ora ci serve: per quanto possa essere rile- vante l’anteriorità di un elemento rispetto all’altro34, in questo caso si tratta di

32 In un certo senso la stessa variabilità della radice potrebbe esser segno della potenzialità dell’Origine: sempre se stessa ma nell’alterità. 33 Cfr. per esempio Quintiliano (che però vede l’opposizione nomen-vocabulum) o Donato. Bisogna tener presente, in ogni caso, che nelle grammatiche antiche (e almeno per l’italiano la consuetudine rimane fino all’Ottocento) sotto la categoria del nome veniva indicato anche l’aggettivo, con la distinzione tra nomen substantivum e nomen adiectivum, creando una relazione subordinante per cui l’aggettivo (nell’orbita del verbo adicio) è una forma aggiunta, un attributo, quindi qualcosa di non autonomo. Con ciò probabilmente risulta evidente che in questo caso non si sta affrontando la questione in puro ed esclusivo senso grammaticale. 34 Per cui, per esempio, si veda , in particolare Zibaldone 1205, da ricolle- gare alla teoria dei monosillabi: «certo molto prima ebbero gli uomini un nome da significare colui da cui veniva il comando, che un altro da significar l’azione stessa del comandare. L’idea dell’azione la più materiale, e per conseguenza l’idea espressa da’ verbi, è sempre metafisica, e quindi posteriore a quella significata da’ nomi. V. in proposito la p. 1388-91. Dico posteriore a esser significata, non sempre però posteriore nella concezione; ma benché anteriore nella concezione (come in questo esempio) l’uomo prima stabilì un segno per esprimere colui che la faceva, e che era materiale e visi- bile, (come il re, cioè quegli che comanda) di quello che arrivasse a determinare con un segno l’idea 358 Martina Romanelli riconoscere una radice (Dio/Caos) che è origine, ma origine nascosta, di cui la poesia è la parte visibile e altrettanto attiva, qualsiasi sia il suo aspetto gramma- ticale. Non è un riflesso sbiadito, parziale o debole («non è un’eco nella traspa- renza / del tuo povero cielo»), ma è desinenza perché realizza come molteplici- tà quantitativa e qualitativa la primalità perfetta dell’Uno, della sua Legge. La poesia è «misteriosa metà di ciò che è vero» e quindi, intesa nel suo atto pratico di scrittura, la traccia letteraria per eccellenza35. Un’idea, questa, che in fin dei conti va a richiamare anche quello Heidegger che rifletteva sul luogo (non-luo- go) della poesia dal quale ogni componimento muove36. Nel parlare di tracce, di cose visibili che denunciano un quid, diventa più evi- dente la necessità di ricorrere a Derrida, della cui opera Bigongiari fu un acutis- simo conoscitore. Al di là dei princìpi fondanti la supposta scienza grammatolo- gica, quanto del pensiero di Derrida trapela, per esempio, nelle parole di Piccolo catechismo e Se l’amore muore è il concetto di supplemento o, più generalmente, quello della scrittura. Recuperiamo allora l’idea di enigma e i versi in cui si fa rife- rimento al foedus («Dove il velo / di Maia è strappato, tra il visibile / e l’invisibile è spezzato il patto»). È evidente che il patto spezzato davvero si riferisce più nello specifico al patto poetico, quello della scrittura, anche e soprattutto passando per la via ispirata da Derrida. Quasi su esempio della rivalità tra Osiride e il dio Thot metafisica di ciò che questi faceva. Perché questa idea, benché seconda nell’ordine, fu la prima idea ch’egli concepisse chiaramente, in modo da poterla determinare e circoscrivere con un segno» (sem- bra, non essendo egli citato che per interposta persona in un articolo riportato dallo «Spettatore di Milano» in Zibaldone 950-952, un’interessante ripresa della teoria riscontrabile in Herder, il quale esplicitamente parlava di nomina come di astrazioni dei verba, in quanto fondava la necessità del dire e la fonte della concezione sull’evento, e che arrivava tuttavia alla medesima conclusione sulla necessità di una realtà esperibile per l’introduzione di idee astratte nel linguaggio). 35 Sarebbe possibile avvicinarne la funzione a quello che può rappresentare, da un punto di vista esclusivamente grammaticale, il pronome? Esso è del resto considerato una parola vuota, nel senso che rinvia a un’entità perduta e assente (il nome sostituito: sostanza-quid) e ne denuncia l’assenza-presenza riempiendosi di quella; anche quando si appoggia ai concetti circostanti (su- bendo transcategorizzazione) resta in ogni caso deittico: mantiene aperto lo spazio al non-detto e al non-definitivamente-dicibile in quanto indicazione di un’identità (Questo = Individuo in sé) che non si può definire, certo non esaurientemente e non in senso aperto, se non attraverso l’atto linguistico-poetico. Cfr. Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino, Einaudi, 1982. 36 Cfr. M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio (II. Il linguaggio nella poesia. Il luo- go del poema di Georg Trakl); non indifferente in Heidegger l’uso della metafora delle onde e dell’emergere, come ritmo, della poesia dalla grande matrice originaria, che rimanda al saggio bigongiariano su Maurice Scève. Si aggiunga un’altra considerazione di Bigongiari (tratta dal testo Dal referente al significante, in La poesia pensa cit., p. 197): «ci si è accorti che la parola come l’atomo se spezzata nella sua entità, nel suo guscio significativo, è qualcosa che emette energia, è una forma di propulsione di energia». Al tempo stesso: è possibile un rapporto diretto con la concezione poetica di Shelley («Every original language near to its source is in itself the chaos of a cyclic poem; the copiousness of lexicography and the distinctions of grammar are the works of a later age and are merely the catalogue and the form of the creations of poetry»; così in A Defence of Poetry, in Percy Bysshe Shelley, Difesa della poesia – In Appendice Inno alla Bellezza Intellegibile, Monte Bianco, Ozymandias, a cura di Angiola Mazzola, Milano, Rusconi, 1999, p. 72)? BIGONGIARI E L’AMBIGUITÀ DEL SEGNO LINGUISTICO 359

(La farmacia di Platone), l’Uno perduto (in Bigongiari tuttavia l’essenza dell’Uno è proprio la sua instabilità, derivante dal suo essere potenzialità) può vivere solo attraverso una sua negazione (omicidio, dispersione), anche se la traccia è, per in- quietante paradosso, proprio ciò che l’ha sottratto all’unità (Osiride non può gene- rare, il suo ambiguo uccisore-medico Thot si è appropriato di questo suo potere). Enigma altro non è che l’evento testuale: Bigongiari titola una sezione di Dove finiscono le tracce, la decima, Se enigma è l’evento solo ciò che non accade non ha enigma, come a significare che, se già l’Uno/Caos è attività e quindi perpe- tua alterità (cfr. l’ultima lirica), dal punto di vista dell’uomo-esule l’unica pos- sibilità di significare mediante l’atto artistico avviene proprio attraverso il gioco pericoloso della scrittura («scoprire era ricoprire di segni questo infinito perico- loso ma necessario» aveva scritto per Proust), della risposta in forme tutto som- mato fisiche a un afflato (e la necessità del poetare, il disio del dire, non deriva dopotutto da una mancanza?). Il testo, per citare Derrida, «resta sempre imper- cettibile», come si legge ne La farmacia di Platone, in quanto non esiste un senso ultimo, non esiste un’interpretazione univoca, ma la scrittura e la riscrittura, la lettura e la rilettura sono continue incursioni da parte di chi vi si avvicina nella «trama» del testo (subito traslato in tela, ordito) e, soprattutto, assumono valen- ze sempre diverse, sfumature sempre nuove, che non coincidono mai del tutto e sono poste sotto un’unica legislazione: quella dell’indecidibile. Ciò determina un ininterrotto processo dinamico, proprio anche di Bigongiari ed estraneo – qui il punto di sostanziale disaccordo che era stato riscontrato con Schopenhauer e con un dualismo di qualsiasi tipo37 – a un qualsiasi dubbio sull’adeguatezza del linguaggio (la scrittura derridiana) al suo compito.

2.2. Le credenziali del segno: «La poesia come funzione simbolica del linguaggio»

Ma perché chiamare rischioso il salvifico gesto del fare poesia, così neces- sario? Il processo della scrittura, del vaglio infinito di ipotesi e geminazioni, si svolge su un terreno inesplorato, fonte di continue scoperte anche per l’auto- re stesso che, eppure, dovrà lasciare l’opera anche agli occhi di qualcun altro. La scrittura di per sé è stata nel tempo, come Derrida ebbe modo di ripetere più volte, addirittura recepita come violenza, la morte del pensiero, il maldestro tentativo di fermare un’idea con mezzi inadeguati38: «Per Platone […] la scrit-

37 Il dualismo schopenhaueriano, pur essendo imperfetto perché non esiste equivalenza so- stanziale fra la Volontà e la rappresentazione, vale come dualismo superficiale in grado, soprattutto se osservato a partire dalla prospettiva bigongiariana, di negare la realizzazione monistica assoluta (monismo, non uniformità): in questo senso esso risulta inconciliabile con una concezione onto- cosmologica magari, ma lo si dice con prudenza, più vicina a un’impostazione bruniana, ricalcan- done l’idea di sostanza come potenza assoluta (pura attività) esplicata nell’universo-organismo. 38 L’ampia trattazione di Derrida è, oltre che nella già citata Farmacia di Platone, nella Gram- matologia. Naturalmente il problema riguarda non solo la scrittura filosofica, che qui è in effetti la grande indiziata (è vero, insieme alla scrittura in genere, per Platone), ma lo stesso far poesia: 360 Martina Romanelli tura non è un ordine di significazione indipendente, è una parola indebolita, non è propriamente una cosa morta: è un morto-vivo, un morto in rinvio, una vita differita»39. La tradizionale fobia del segno scritto, della traccia evidentissi- ma, riduttiva, compromissoria (tanto da rendere le cose costrette al «giogo della metafora», alla «superflua […] grammatica», come avrebbe detto Luzi40), veni- va spiegata da Derrida come il desiderio di verità comprovabile. Si trattava, in altre parole, di un tentativo di ovviare al rischio dell’errore, dell’allontanamen- to dalla conoscenza (di qui l’interesse per Socrate, notoriamente restio a mette- re per iscritto la sua filosofia, e la posizione fortemente ostile di Platone verso la scrittura e l’arte) e, forse, da un processo – che fa però il gioco di Derrida e di Bigongiari – di paradossale indefinibilità logica del Vero:

Nel Fedro, il dio della scrittura è dunque un personaggio subordinato, un secon- do, un tecnocrate senza poteri di decisione, un ingegnere, un servitore astuto e ingegnoso ammesso a comparire davanti al re degli dei. […] E come il suo omologo Ermes, di cui Platone d’altronde non parla mai, detiene il ruolo di dio messaggero, di intermediario astuto, ingegnoso e raffinato che sottrae e si sottrae sempre. […] Egli introduce al contrario la differenza nella lingua ed è a lui che si attribuisce l’origine della pluralità delle lingue. […] Distinguendosi dal suo altro, Thot lo imita al tempo stesso, se ne fa segno e rappresentante, gli ubbidisce, gli si conforma, lo sostituisce, se occorre con la violenza41.

Dopo una lunga analisi dedicata al dio-parricida verso Ammone od Osiride (e pensando a Bigongiari: non è fatalmente colpa, tradimento, l’allontanamen- to dell’uomo da Dio o del bambino dalla madre, non ne è segno il suo inelutta- bile esilio?), finalmente l’indicazione esplicita del problema: «una buona scrit- tura (naturale, viva, sapiente, intellegibile, interiore, parlante) viene opposta ad una cattiva scrittura (moribonda, ignorante, sensibile, esteriore, muta) [… tan- to che] la conclusione del Fedro più che una condanna della scrittura in nome della parola presente è la preferenza per una scrittura piuttosto che per un’altra, per una traccia feconda piuttosto che per una traccia sterile, per un seme gene- ratore, perché deposto al di dentro, piuttosto che per un seme disperso al di fuo- ri senza profitto»42. Un tentativo di scongiurare un velo di Maya ante litteram, cfr., come esempio evidentissimo, A Defence of Poetry di Shelley («when composition begins, inspiration is already on the decline, and the most glorious poetry that has ever been communi- cated to the world in probably a feeble shadow of the original conceptions of the poet») o, come esempio più recente, la poetica di Caproni. Il testo di Shelley è citato da P. B. Shelley, A Defence of Poetry, in Difesa della poesia… cit., p. 132. 39 Jacques Derrida, La farmacia di Platone, in La disseminazione, a cura di Silvano Petrosino, Milano, Jaca Book, 1989, pp. 171-172. 40 Così nella seconda poesia (Al giogo della metafora, vv. 1 e 8-9) della sezione incipitaria (Dizione) di Per il battesimo dei nostri frammenti (1985). 41 J. Derrida, La farmacia di Platone, in La disseminazione cit., pp. 122-124 e 128. 42 Ivi, p. 177. BIGONGIARI E L’AMBIGUITÀ DEL SEGNO LINGUISTICO 361 tramite la rimozione dell’inquietudine destata invece dall’inafferrabilità, anche solo teoretica, del Vero/Bene in sé. Proprio questo «lato oscuro» del linguaggio è il punto dal quale Bigongiari e Derrida pongono il principio della loro concezione di linguaggio/scrittura: è un punto controverso su cui fondare una teoria propositiva, ma entrambi sono consapevoli del fatto che c’è un effettivo rischio di morte del testo o del segno43. Il mondo del linguaggio, quasi come se fosse chiave e ostacolo a se stesso, brucia e vive della propria combustione mantenendo aperta l’«immedicabile ferita»44, il segno di un’unità interrotta e turbata ma latrice di vita, tragicamente necessa- ria testimone di una Legge inesorabile, splendida quanto terribile: destino co- mune è quello «del mare che rivolta il suo cammino / per non trovare che se stesso»45. Per portare avanti il principio della Legge non bisogna che lasciar san- guinare il corpo perché, come lo stesso poeta sostiene, nessun significato finisce in se stesso: se al contrario così fosse, non esisterebbe vita (né verità, per quan- to occulta). In molti altri punti de La poesia come funzione simbolica del linguag- gio – come nel caso del già citato scritto su Proust – Bigongiari ribadisce que- sto specifico senso, dal sapore forse non troppo lontanamente leopardiano, del- la parola e della poesia. Se ne La follia di Saussure il compito della poesia è espli- citamente simbolico («di simbolo univoco in entrata […] e polivalente in usci- ta») in quanto ogni frammento del corpo di Osiride «è per la poesia il corpo in- tero, ogni parola è soggetta a un’anamnesi integrale, a una fulminea percezione di integralità primaria»46 – il che non può non ricordare la traccia in sé e l’essere la poesia, come si leggeva in Piccolo catechismo, la desinenza di una radice, parte evidente di un intero –, nel saggio dedicato a Maurice Scève si struttura un’ana- lisi fatta di temi, lessico e immagini in continuo dialogo con l’opera dello stes- so Bigongiari. La poesia di Scève è portatrice di una:

43 Un giudizio che sembra rispondere al saggio dedicato a Michel Butor in cui Bigongiari ha occasione di individuare proprio questo rischio: «Il colmarsi di un vuoto concettuale è altresì la fine della stessa possibilità concettuale. Ed ecco come la ricerca accanita di un significato ridonda in Butor nella plenitudine stessa, nella écriture che non può non constatare il proprio limite per saturazione. […] L’uccisione del segno è il “flagrant délit” a cui mira fatalmente la sua letteratura proliferatrice di segni che si generano mostruosamente dall’interno di altri segni. […] È proprio nella quantità delle tracce, nell’entità preterintenzionale del proprio tracciato, il segno d’una colpa che l’écriture si porta paradossalmente dietro […]» (P. Bigongiari, La scrittura di Butor o la funzione quantitativa del discorso simbolico, in La poesia come funzione simbolica del linguaggio cit., pp. 22-23). 44 Così ne Il fanciullo e la rondine (dalla sezione quinta, È qui, o dove?, di Dove finiscono le tracce). 45 Dalla sezione omonima alla lirica, l’ottava, Il poema ha bisogno di molti ritocchi, vv. 7-8 (ivi, p. 155). 46 Entrambe le citazioni sono tratte dal saggio di Bigongiari La follia di Saussure, in La po- esia come funzione simbolica del linguaggio, pp. 29-30. Da notare che Derrida nella Farmacia di Platone ripercorre ogni tratto della figura del dio egizio Thot e riporta anche il complotto ordito ai danni di Osiride cui il dio-ibis partecipa sia come congiurato che come risanatore di colui che sarà il dio dei morti, il che dimostra la terribile ambiguità (forza) della scrittura. 362 Martina Romanelli

diluizione, […] ricerca della gradazione che colga il passare del sentimento at- traverso tutte le sue sfumature come qualcosa di continuo, di non interrompi- bile nella sua fluidità […]. L’immagine di Scève è colta, nella sua classicità di impianto, da un inspiegabile formicolio interno, che non la fa star ferma e le toglie la compostezza in cui pure vorrebbe resistere come puro visibile. […] Il linguaggio accetta di sentirsi conquistato da tale marea semantica che oscilla e sale sulle sue rive di puri segni e porta oscura tempesta del fondo a mareggiare in superficie, a riempire fiordi e rade di tale cupo, cupido ascendere dal basso. I segni linguistici, rimasti presi entro tale marea montante, si levano come iso- le, livelli perduti per entro tale semanticità continua, ostinata, oscillante, che riduce, nelle parole, al loro tetto tale loro possibilità sorprendente: i puri segni culminano sotto la spinta di significati […]. Nella Délie è dunque il moto della creazione ma anche, che lo presuppone e lo conclude, l’immobilità del creatore. Pare allora la forma poetica come qualcosa di fisico, trattenere lo stesso contrad- dittorio affermarsi dell’idea, che tende a esalare, a sfuggire verso l’alto, con una specie di dolce ostinazione nei suoi slanci materializzati, quasi guglie tardogoti- che, spruzzi preziosi di questo rinascimentale mare oscuro di fondo che implica la contraddizione e non la risolve altrimenti che nell’affermarla necessaria […]. La poesia scèviana è questo rapporto continuo e continuamente instabile, que- sta osmosi, tra vita e morte: nella parola transita nei due sensi, dandole quel carattere insieme luminoso e oscuro, tale primigenia materia di vita e di morte, fucinata nella «fornaise umbreuse» del cuore.47

È un testo, il saggio del 1962-1966, che potrebbe anche da solo arrivare a istituirsi come una dichiarazione di poetica. «Diluizione», «sfumature», «formi- colio interno», «marea semantica», «puri segni [che] culminano sotto la spinta di significati», «semanticità continua»: è semplice riscontrare quelli che si posso- no considerare i fondamenti costitutivi della poetica bigongiariana, e cioè quella ferma fiducia nel segno che è indispensabile per proseguire e la ricerca dell’Uno e la sua stessa legge. Bigongiari del resto, nella prosa pubblicata su «Paradigma» nel 1988 (pp. 8-9), aveva parlato di «spazio fantastico», di «caoticità preverba- le» e di «energia segreta» per rintracciare il farsi del discorso poetico come pro- cesso universale e, soprattutto, come diretta, autentica, espressione della ricchez- za potenziale dell’Essere; il che non significa affatto proiezione o riflesso («feno- meno» nel senso schopenhaueriano), ma emanazione. Fondamentale pertanto il linguaggio di Bigongiari: abbiamo deciso di ripor- tare una citazione abbastanza estesa in modo da aver presente il ricorrere della metafora marina. Il riferimento al mare, al suo moto perpetuo, sempre uguale e sempre diverso, è molto frequente laddove lo si accosti alla parola; basti pen- sare ai versi de Il pellicano di Malibù. Il mare gode di una molteplicità di signi- ficati non indifferente, pari a quelli propri della dialettica dicotomia fuoco-ce-

47 P. Bigongiari, Scève tra Petrarca e Mallarmé, in La poesia come funzione simbolica del lin- guaggio cit., pp. 41 e 46-48. BIGONGIARI E L’AMBIGUITÀ DEL SEGNO LINGUISTICO 363 nere; con facilità assoluta difatti esso può essere proiezione dell’uomo e di Dio, nonché figurazione naturale del linguaggio stesso e del senso che gli si ricono- sce. Continuo, agonico, è il movimento del mare («atroce in quel suo immen- so plorare»)48, continuo è il ricercare dell’uomo-esule, continuo è anche l’atto dell’indice divino che cerca di dichiararsi al suo tarlo in Graffiti(cit.); continuo, infinito, è il ritornare della parola al suo significato. Le parole di Scève, stan- do alla definizione data da Bigongiari, sono isole, tracce evidenti, che emergo- no dal fondo oscuro della Lingua (un brodo primordiale), e cioè dal luogo ove sono state formate e nutrite, dal luogo la cui potenzialità vitale rimane in nuce anche in loro. Tutto ciò altro non è che la figurazione del valore attribuito al se- gno e, di rimando, al codice che lo contiene; ed è un valore inscritto sotto l’e- gida della fecondità della lingua49, che vive della «contraddizione» (l’idea sem- pre sfuggevole, non circoscrivibile, non concepibile) risolta solo «nell’affermar- la necessaria» (il segno, che la ferma nel testo, come dinamicità): questo è il sen- so del patto, questo rappresenta la sua ragione; questo il velo, quanto spaventa- va della scrittura ma che, invece, è proprio la sua forza. Se difatti, come afferma Leopardi, «non basta che lo scrittore sia padrone del proprio stile. Bisogna che il suo stile sia padrone delle cose: e in ciò consiste la perfezion dell’arte, e la somma qualità dell’artefice»50, e se oggetto della poesia, suo motivo e suo fine, altro non è che quell’unità perduta perché imprendibile, bisognerà che quel mezzo, per tanto tempo guardato con sospetto (seppure ciò sia espressione di problema nient’affatto secondario), sia adeguato alla cosa, vi si conformi, divenendo un tramite, un veicolo espressivo che non ne muti l’es- senza o la distorca. L’Uno, il Caos, è potenzialità pura e per questo la sua «iden- tità si interna / nella propria continua alterità»51. Non può essere uniforme che come fonte di tutte le forme; è il suo stesso statuto, la sua costituzione a pre- vedere una variazione continua, che lo spossessa di una immutata identità, in quanto quest’ultima è potenzialità, infinito, e perciò esplicabile solo attraver- so un processo continuato del molteplice, che solo come traccia, scarto mai de- finitivo, ne rispetta le qualità. Norma, centro, pernio dello stile non può dun- que essere, come si legge nel secondo volume de Il caso e il caos, che «qualcosa che funziona da significante anche nel significato»52. Una parola viva, prome- teica ma non per questo invisa. Una parola che non è incatenata entro geome-

48 P. Bigongiari, Nessuno su un’isola deserta, v. 96 (quarta sezione), in Dove finiscono le tracce cit., p. 86. 49 Resa, se si vuole, oltre che dalla polisemia anche da geminazioni lessicali, variazioni grafi- che (cfr. lago-l’ago in Sul Lemano, ivi, p. 120), dalle rime a dall’uso della rimalmezzo. 50 Zibaldone 2611. 51 Ultimi due versi di Era in me assenza (diciottesima sezione, Sarà solo uno sguardo il mio passo), Dove finiscono le tracce cit., p. 286. 52 P. Bigongiari, Avvertenza a Il caso e il caos II. Dal Barocco all’Informale, Padova, Cappelli, 1980, p. 7. 364 Martina Romanelli trie nude, le quali le strapperebbero il leopardiano «continuo e vivissimo moto» (Zibaldone 2049) che invece le è proprio. Una parola (l’espressione è parafrasa- ta dall’epistola dell’Algarotti a Voltaire del 10 dicembre 1746) che sboccia come un fiore ma che è al tempo stesso frutto, pura sostanzialità, cosa, in grado di ge- nerare ancora e forse perpetuamente. Una parola e una poesia che sono, crea- te, a loro volta sorgente, sono viaggio, sono onde che s’infrangono su altre onde nutrite dal medesimo mare. «UT POESIS PICTURA»: LA PAROLA E L’IMMAGINE

Teresa Spignoli

Pubblicato nel 1994 sulla rivista senese «la collina», all’interno di un nu- mero monografico dedicato al tema La parola & l’immagine, il saggio di Piero Bigongiari – Ut poesis pictura1 –rovescia volutamente i termini della celebre for- mula oraziana dell’ut pictura poesis, che con varia fortuna ha condizionato nei secoli il rapporto tra le due «arti sorelle». Tema, questo, introdotto, ad apertu- ra del numero da Ferruccio Ulivi, con due domande: «Fin dove interferisce, re- almente, l’immagine figurale nell’orbita, multiforme, della scrittura? Fin dove collabora in intrinseco, all’elaborazione dell’immagine la reminiscenza pittorica, spostando con la sua densità l’indice di controllo della parola?»2. Se il critico conclude osservando che «la risposta, qualunque fosse, non fa- rebbe che ricondurci ai primordi, iscritti per forza nell’area della parola»3, la sua attenzione, nel prosieguo dell’intervento, si sposta però sul rapporto «cul- turale» che interviene tra ambito artistico e letterario nella determinazione del- la poetica di un autore, e ancor più latamente nella determinazione di un inte- ro periodo: «quando l’istanza dei legami tra le arti, per ragioni molteplici vie- ne a dominare un’intera civiltà, resta da vedere chi ne abbia maggiore o mino- re consapevolezza»4. Da un lato dunque l’accento è posto sulle interferenze tra registro verbale e visivo nella rappresentazione della realtà, divaricato, secondo Ulivi, tra la teoria dell’imitazione rinascimentale e la «fantasmagoria» barocca, dall’altro invece predomina un discorso sulle poetiche che riguarda tanto i sin- goli autori quanto un dato momento culturale.

1 Piero Bigongiari, Ut poesis pictura, in «la collina», luglio 1992/dicembre 1994, 19-23, pp. 17-28 (da cui sono tratte le seguenti citazioni); il saggio è stato poi ripubblicato nel volume po- stumo: P. Bigongiari, La poesia pensa. Poesie e pensieri inediti. Leopardi e la lezione del testo, a cura di Enza Biagini, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Adelia Noferi, Firenze, Leo S. Olschki, 1999. 2 Ferruccio Ulivi, «Arti sorelle» e autonomia poetica, in «la collina» cit., p. 14. Si ricordano, a margine, i volumi dedicati da Ferruccio Ulivi a letteratura e arti figurative: Poesia come pittura, Bari, Adriatica, 1969; Il visibile parlare. Saggi sui rapporti fra lettere e arti, Roma-Caltanissetta, Sciascia, 1978; La parola pittorica, Caltanissetta, Sciascia, 1990. 3 Ibidem. 4 Ivi, p. 15.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 366 Teresa Spignoli

Bigongiari parte proprio da quest’ultimo punto per individuare, attraverso il rapporto tra poesia e pittura (cui si aggiunge anche la musica), lo scarto tra due poetiche differenti, quali quella rinascimentale e quella barocca. Il rove- sciamento della formula oraziana mira quindi a rendere palese il mutamento che investe tutto il sistema delle arti nel passaggio tra i due periodi, soprattut- to relativamente al concetto di imitazione. La trattatistica del Cinquecento, riprendendo la concezione umanistica dell’unità delle arti, tende infatti a por- re al centro dell’analogia tra poesia e pittura proprio il comune fine dell’imita- zione della natura. A prescindere dalla discussione sulla supremazia dell’una o dell’altra arte – è celebre in questo senso il Trattato della pittura di Leonardo da Vinci –, lo scarto tra poesia e pittura si misura sulla minore o maggiore ca- pacità di aderenza al piano naturale, secondo, appunto, i dettami della teoria dell’imitazione. Così Lodovico Dolce nel Dialogo della pittura intitolato l’Are- tino del 1557 individua la differenza tra l’opera del pittore e quella del poeta non già nel fine che entrambe si propongono, quanto nel «modo d’imitare», laddove l’imitazione del pittore è tutta visiva, e quella del poeta è insieme vi- siva e intellettiva5. La sostanziale analogia tra le due arti è inoltre ribadita dal- la folta manualistica che tra Cinque e Seicento canonizza il vocabolario delle immagini. Proseguendo nel solco della corrispondenza tutta umanistica tra «fi- gura significate» e «significato figurale» – rappresentata, ad esempio, dall’Em- blematum Liber di Andrea Alciato (1531) –, la relazione tra parola e imma- gine si pone come acme dell’allegorismo medievale, laddove nell’emblema, il motto, la parola, indirizza l’immagine verso un significato unico. Questa re- lazione biunivoca entra in crisi, secondo Bigongiari, a partire dal Manierismo e si fa eclatante nel Barocco. Il conflitto tra le due concezioni è ben rappre- sentato, nella rivista, dalla riproduzione del quadro La poesia e la pittura di Francesco Furini6, dove le due figure femminili – ovvero la Poesia e la Pittura

5 Cfr. Lodovico Dolce, Dialogo della pittura intitolato l’Aretino. Nel quale si ragiona della dignità di essa pittura, e di tutte le parti necessarie che a perfetto pittore si acconvengono. Con esempi di pittori antichi e moderni; e nel fine si fa menzione delle virtù e delle opere del divin Tiziano, Vi- negia, appresso Gabriel Giolito, de’ Ferrari [1557], ora in Trattati d’arte del Cinquecento, a cura di Paola Barocchi, Bari, Laterza, 1960, I, p. 152: «Dico adunque la pittura, brevemente parlando, non essere altro che imitazione della natura; e colui che più nelle sue opere le si avicina, è più perfetto maestro. Ma perché questa diffinizione è alquanto ristretta e manchevole, perciò che non distingue il pittore dal poeta, essendo che il poeta si affatica ancor esso intorno alla imitazione, aggiungo che il pittore è intento a imitar per via di linee e di colori, o sia in un piano di tavola o di muro o di tela, tutto quello che si dimostra all’occhio; et il poeta col mezzo delle parole va imitando non solo ciò che si dimostra all’occhio, ma che ancora si rappresenta all’intelletto. La- onde essi in questo sono differenti, ma simili in tante altre parti, che si posson o dir quasi fratelli». 6 Il dipinto, realizzato nel 1626, è conservato a Firenze presso la Galleria Palatina di Palazzo Pitti; per maggiori informazioni si veda la scheda pubblicata nel catalogo: Il Seicento fiorentino. Arte a Firenze da Ferdinando I a Cosimo III (Palazzo Strozzi, 21 dicembre 1986-4 maggio 1987), Firenze, Cantini, 1986; si segnala inoltre la recente mostra dedicata all’opera del pittore: Un’altra bellezza. Francesco Furini, a cura di Mina Gregori e Rodolfo Maffeis, Firenze, Mandragora, 2007. «UT POESIS PICTURA»: LA PAROLA E L’IMMAGINE 367

– sono classicamente avvinte in un abbraccio, che ne dimostra, come recita la pergamena («Concordi Lumine Maior»), la «concordia» all’interno di un’ide- ale sfera di perfezione. La chiara allegoria di matrice oraziana, ribadita dalle parole iscritte nel quadro – quasi emblema del sodalizio tra le due arti sorelle –, è però di fatto incrinata dai valori cromatici della tela, che si fanno espres- sione di una visione drammatica e irrazionale, particolarmente evidente nel rapporto tra la «calma perlacea»7 delle figure, ottenuta attraverso una preva- lenza di toni freddi, e l’«ambiente di fondo tempestoso»8, caratterizzato dai colori plumbei del cielo e delle nubi; questo effetto è inoltre aumentato dalla torsione delle figure e dalla loro spiccata sensualità. In tal modo il significato del dipinto non si chiude nel cerchio dall’allegoria, ma si carica di una valen- za ambigua e polisemica. Ed è proprio qui che interviene quel rovesciamen- to tra poesia e pittura che traspone nelle arti figurative il portato simbolico e polisemico della parola poetica, incrinando il concetto di imitazione, laddove esso, platonicamente, si proponeva di raggiungere, attraverso l’opera, l’ideale bellezza e perfezione della natura9. Il discorso coinvolge tanto il Barocco quanto il Novecento, poiché se il pri- mo è caratterizzato dalla sostanziale messa in crisi del «naturalismo idealistico» rinascimentale, in connessione alla profonda rivoluzione delle conoscenze scien- tifiche, così il secondo è parimenti interessato da una sostanziale revisione del concetto di natura e delle sue possibili modalità di rappresentazione, che si svol- ge in parallelo, anche in questo caso, sia ai cambiamenti epistemologici intro- dotti dalle nuove scoperte di natura scientifica, che alla riflessione filosofica sul- la natura del linguaggio (penso soprattutto per il primo periodo all’importan- za di Heidegger10). Il collegamento tra i due periodi, com’è noto, segue un per- corso che raggiunge la sua piena formalizzazione nel 1980, con il secondo vo- lume de Il caso e il caos – Dal Barocco all’Informale11 –, nel cui titolo non è im- probabile ravvisare una sorta di «correzione» all’indietro del celebre libro Dal

7 Si veda a questo proposito il saggio Francesco Furini dedicato da Bigongiari al pittore, in Il caso e il caos. Il Seicento fiorentino: tra Galileo e il «recitar cantando», Firenze, Sansoni, 1982, da cui è tratta la citazione (p. 86). 8 Ibidem. 9 Sul concetto rinascimentale di «perfettibilità della natura», si veda quanto osserva Bigon- giari in Ut poesis pictura (in «la collina» cit., p. 18): «L’uomo quanto più penetra nel segreto del fatto naturale quanto più sembra avvicinarlo al modello ideale, e ciò deriva dal naturalismo neo- platonico che è alla base del pensiero rinascimentale, per cui la perfettibilità dell’homo faber è una conseguenza della perfettibilità della natura intesa come trasformazione continua per raggiungere la propria idea». 10 Per questo punto si rinvia in particolare agli studi di Maria Carla Papini, Resistenza e tensione nel linguaggio di Piero Bigongiari, in Il linguaggio del moto. Storia esemplare di una gene- razione, Firenze, La Nuova Italia, 1981, pp. 103-143; Il viaggio poetico di Bigongiari e Tra voce e silenzio la scrittura di Piero Bigongiari, in Il sorriso della Gioconda. La scrittura tra immaginario e reale, Roma, Bulzoni, 1989, pp. 189-222; 223-229. 11 Piero Bigongiari, Dal Barocco all’Informale. Il caso e il caos II, Bologna, Cappelli, 1980. 368 Teresa Spignoli

Romanticismo all’Informale, che, pubblicato quattro prima, raccoglie gli scritti di Francesco Arcangeli12. Il ribaltamento della formula oraziana, quindi – sembra suggerire Bigongiari – funziona tanto per il Seicento quanto per l’epoca contemporanea, nella qua- le si assiste ad una convergenza tra ermetismo ed informale13, ed anzi è proprio l’ambito figurativo – o meglio l’analisi critica dei fatti d’arte – a prestare i suoi simboli per una rilettura dell’esperienza poetica della «terza generazione», e so- prattutto per elaborare una definizione critica di ciò che cronologicamente si colloca di fatto dopo l’ermetismo14. Prima di affrontare l’ultimo punto – ovvero la proposizione in sede critica di un nuovo tipo di poetica – è opportuno partire dalle differenze tra codice lin- guistico e pittorico individuate da Bigongiari all’inizio del saggio:

La risonanza della parola, pur nella sua plenarietà di senso, è ambigua nei suoi significati, lascia cioè aperto all’immaginario del pittore di specificarsi visiva- mente, mentre compito specifico o destino dell’immagine figurale per sua natu- ra, par essere quello di avviare la plusvalenza immaginaria del significato verso un’interpretazione unica, in quanto come scimmia della natura la pittura mette prioritariamente sotto gli occhi dello spettatore una scena naturale, il fatto visi- vo, sollecitando attraverso di esso il concetto implicito15.

È proprio questa relazione oppositiva tra parola e immagine ad entrare in crisi sia nel Barocco che nell’informale, laddove si assiste ad una assunzione da parte della pittura di quella «ambiguità significativa che è alla base di ogni atto poetico in parola»16; anche la musica partecipa di un identico rinnovamento nel Seicento, con il «recitar cantando» della Camerata de’ Bardi, che sembra tenta- re un avvicinamento alla musica «quale si pensava che fosse nella Grecia clas-

12 Francesco Arcangeli, Dal Romanticismo all’Informale, Bologna, Alfa, 1976, 2 voll. Al volu- me, tra l’altro, è dedicata una mostra che si è tenuta al Mar di Ravenna dal 19 marzo al 23 luglio 2007: “Turner Monet Pollock”. Dal Romanticismo all’Informale. Omaggio a Francesco Arcangeli, catalogo a cura di Claudio Spadoni, Milano, Electa, 2007. 13 Ricordo a questo proposito il fondamentale saggio di Adelia Noferi, Introduzione a Mar- gherita Bernardi Leoni, Informale e terza generazione, Firenze, La Nuova Italia, 1975, poi ripub- blicato con il titolo di Ipotesi sull’informale e la poesia della terza generazione, in Il gioco delle tracce. Studi su Dante, Petrarca, Bruno, il neo-classicismo, Leopardi, l’informale, Firenze, La Nuova Italia, 1979, pp. 329-363. Si veda inoltre, sul medesimo argomento, il saggio di Stefano Agosti, La poesia «informale» di Bigongiari, in Per Piero Bigongiari. Atti della giornata di studio, Firenze – 25 novem- bre 1994, a cura di Enza Biagini, Roma, Bulzoni, 1994, pp. 13-24, nonché il più recente volume di Riccardo Donati, L’invito e il divieto. Piero Bigongiari e l’ermeneutica d’arte, Firenze, SEF, 2002. 14 Per la definizione di «terza generazione» – concetto mediato dalla «teoria delle generazio- ni» di Oreste Macrí – e per l’individuazione dei limiti cronologici dell’ermetismo, rimando al sag- gio di Anna Dolfi, L’ermetismo: una generazione, in Visitare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di Giuseppe Lo Castro, Elena Porciani, Caterina Verbaro, Pisa, ETS, 2014, pp. 91-99. 15 P. Bigongiari, Ut poesis pictura, in «la collina» cit., p. 17. 16 Ibidem. «UT POESIS PICTURA»: LA PAROLA E L’IMMAGINE 369 sica, cioè la musica accompagnatrice della parola»17. Se da un lato la pittura si carica dei valori propri della poesia, dall’altro la poesia si fa «elemento teatrale del visibile»18, «gesto scenico»19 che ritrova nell’unione con il canto – e a questo proposito Bigongiari cita soprattutto Ottavio Rinuccini – la sua dimensione so- nora e musicale: «sarà questa l’ultima eco di un canto che risorgerà nella storia della poesia italiana, attento ai propri echi interiori, solo dopo due secoli, nei Canti leopardiani»20. Si tratta, a questo punto, di svolgere un discorso su quelli che sono i cardini stessi della poesia: da un lato il problema della «raffigurabili- tà del mondo» connesso alla pittura e alla possibilità di rappresentare il visibile attraverso figure, dall’altro invece il rapporto della parola con il suono, e dun- que con lo spazio bianco e vuoto dell’astrazione21. Nel saggio Sulle convergenze tra pittura e poesia, pubblicato sempre nel numero monografico del «la collina», Antonio Prete rileva come esso, in ultima analisi, sia un problema che attiene alla questione della mimesis, sia per quanto riguarda il rapporto immagine-paro- la, che raggiunge la sua acme nel farsi figura della scrittura ossia nel tentativo di radicare l’astrazione del senso in una forma che lo rappresenta22, che nel rappor- to suono-parola. Conviene a questo proposito, riportare per intero la citazione:

La poesia, sin dalla prima mimesis, tende a trasformarsi nella lingua della natura, anzi in una lingua senza parole […], una lingua che è puro stormire, puro bisbi- glio. Questa lingua della natura non è lingua strutturata, ma è lingua di suoni, di vento, è anemos che passa tra le piante. Trasformare questo stormire in lingua è il problema del poeta all’origine. […]. Imitare voleva dire all’origine proprio dare una lingua alla natura che lingua non ha, o meglio, che ha una lingua non strutturata: portare lo stormire verso il dire23.

Riprendendo la domanda iniziale di Ferruccio Ulivi – «Fin dove interferi- sce, realmente, l’immagine figurale nell’orbita, multiforme, della scrittura?»24 –

17 Ivi, p. 18. 18 Ivi, p. 24. 19 Ibidem. 20 Ivi, p. 26. 21 Cfr. Antonio Prete, Sulle convergenze tra pittura e poesia, in «la collina» cit., p. 95: «Se è vero che la poesia ha, nel rapporto con senso, il problema della figurabilità del mondo, e dunque può subire una sollecitazione da parte della pittura, è anche vero che è proprio dell’essenza della poesia il rapporto col suono». 22 Prete si riferisce soprattutto al valore iconico della scrittura poetica, dai codici miniati di epoca alessandrina sino ai calligrammi di Apollinaire e alle composizioni dei poeti futuristi (ivi, pp. 94-95). 23 Ivi, p. 95. Ma si veda anche il prosieguo della citazione: «Dunque, all’origine, nei suoi fondamenti, la poesia è in rapporto col suono. È chiaro che se è un problema originario questo della mimesis, sarà anche un problema del cammino della poesia: poesia verso la musica, musica nella poesia, musica della poesia». 24 F. Ulivi, «Arti sorelle» e autonomia poetica, in «la collina», cit., p. 14. 370 Teresa Spignoli partiamo dalla questione del rapporto tra immagine, parola e segno, lasciando per ora in sospeso la relazione tra musica e poesia. Nel saggio su Éluard del 1968 Bigongiari individua nel superamento della tecnica analogica il punto di maggior distacco tra surrealismo ed ermetismo (che pure mostra molti tratti in comune proprio con il surrealismo): «La fi- gura, per l’ermetismo e l’informale, nasce dappertutto, da un suo stato non figurato; la figura surrealista nasce per analogia, dunque da un’altra figura»25. Come esempio cita Les Mains libres che è costituito «di disegni di Man Ray illustrati dalle poesie di Éluard»26. Il genere del libro d’artista ben mette in evidenza la relazione biunivoca tra parole e immagini, laddove sia che l’im- magine illustri un testo, o che viceversa le parole nascano da un’immagine pittorica (come in questo caso), si realizza a posteriori una convergenza tra i due linguaggi che rientra nell’ambito dell’allegoria (come per gli emblemi) o, appunto, dell’analogia. Di tutt’altra natura è invece l’asse di convergenza tra informale ed ermetismo, che riguarda una ragione di poetica più che di similarità tra due codici: «alle origini dell’ermetismo – e dunque dell’infor- male –, che ha abolito ogni analogia, sta un farsi, e non un fatto, figurale»27. Non si tratta quindi di quanto e come l’immagine figurale o la reminiscen- za pittorica interferiscano nella scrittura, ma semmai di una nuova modali- tà – comune sia all’informale che all’ermetismo – di porre la questione del- la raffigurabilità del mondo. Prendiamo ad esempio il caso di Ennio Morlotti e di Jackson Pollock, en- trambi a lungo studiati da Bigongiari, e tra l’altro oggetto di due saggi dal tito- lo quanto mai emblematico: Io, Pollock28, Io e Morlotti29. Le considerazioni di Bigongiari prendono le mosse in primo luogo dal problema originario del rap- porto tra arte e natura – dunque della mimesis – per arrivare a formulare una nuova concezione:

Era una natura, la nostra, che tentava di affermare dal suo seno più profondo le ragioni di un discorso naturale contro ogni presunta astrazione e ogni presunto neorealismo […] L’informale nasceva […] nell’avvertenza che tra il fondo e la

25 P. Bigongiari, Éluard, un classico [1968], in La poesia come funzione simbolica del linguag- gio, Milano, Rizzoli, 1962, pp. 244-245. 26 Ivi, p. 245. Les Mains libres, con poesie di Éluard e disegni di Man Ray, fu pubblicato per la prima volta nel 1937 per i tipi di Gallimard (Parigi). È interessante sottolineare come il libro rovesci volutamente i tradizionali rapporti tra testo e immagini, giacché non sono quest’ultime a illustrare le poesie, ma viceversa sono i testi ad illustrare i disegni dell’artista, come recita lo stesso frontespizio: «dessins de Man Ray illustrés par les poèmes de Paul Éluard». 27 Ibidem. 28 Pubblicato con questo titolo su «La Nazione» (19 aprile 1982, p. 3), il testo è poi confluito con la nuova titolazione Adhaesit pavimento amina mea, in P. Bigongiari, Taccuino pittorico. Il caso e il caos III, Bergamo, Moretti & Vitali, 1994, pp. 69-72. 29 Comparso per la prima volta nella rivista «Arte e Vacanze», marzo-aprile 1989, n. 5, p. 3, il testo è quindi confluito in Taccuino pittorico cit., pp. 193-194. «UT POESIS PICTURA»: LA PAROLA E L’IMMAGINE 371

superficie lo spessore dell’essere diveniente, dell’essere esistenziale – o del “dive- nire essente”, come allora dicevo –, era sommosso come un tutt’uno: la forma traeva origine dal caos originario […] il proprio impulso verso i propri ignoti significati30.

Il «naturalismo morlottiano»31, afferma ancora Bigongiari in un saggio del 1962, non nasce da una volontà astorica, ma al contrario esso afferma l’inten- zione di riportare la storia dell’uomo all’interno delle sue «profonde scaturigini naturali»32, laddove con il termine storia si intende non già il fatto in sé com- piuto e declinato al passato, quanto il suo progressivo avvenire all’interno di un presente continuo che ne coglie il processo di formazione33. Rilevo per inciso la chiara matrice heideggeriana del discorso34, qui invece mi limito a sottolineare come alla base tanto dell’ermetismo quanto dell’informale, stia appunto – come osservava Bigongiari – «non un fatto, ma un farsi figurale», che diviene concre- to nelle dense paste della tela, dove spazio e tempo rimangono come imbrigliati:

30 Ivi, p. 193. 31 Questa la definizione che Bigongiari impiega nell’incipit di un testo intitolato proprio Il naturalismo di Morlotti, pubblicato dapprima su «La Nazione» (27 luglio 1962, p. 3) e poi compreso nel più ampio saggio Morlotti dalla natura alla storia, in Dal Barocco all’Informale cit., pp. 290-305. 32 Cfr. P. Bigongiari, Morlotti dalla natura alla storia, in Dal Barocco all’Informale cit., p. 290: «non dunque un fuggire la storia dell’uomo, ma un portare la storia dell’uomo alle sue profonde scaturigini naturali». 33 Da notare, come sulla medesima linea si collochi anche il discorso di Giovanni Testori, che lo stesso Bigongiari cita esplicitamente a proposito della qualificazione dell’opera di Mor- lotti come «presente continuo» (ivi p. 302). Basterà qui richiamare quanto afferma Testori nella conclusione del saggio Realtà e natura, pubblicato su «Paragone-Arte» (n. 85, gennaio 1957, pp. 45-62) e dedicato proprio all’informale: «Tra realtà e natura non esiste un contrasto: esiste solo la faticosa complessità con cui la natura di volta in volta diviene realtà, vive, muore dei suoi stessi anni, si nutre di acquisizioni e retaggi, per ridiventare continuamente realtà diversa: cioè a dire storia». I saggi di Testori su Morlotti e sull’informale sono adesso in gran parte consultabili nel volume La cenere e il volto. Scritti sulla pittura del Novecento, Firenze, Le Lettere, 2001; ma si veda anche il catalogo Testori e la grande pittura europea. Miseria e splendore della carne (Ravenna, Museo d’Arte, 19 febbraio-17 giugno 2012), a cura di Claudio Spadoni, Cinisello Balsamo, Silvana, 2012. 34 Del resto non è un caso che nel saggio Io e Morlotti, Bigongiari riconduca l’opera dell’ar- tista ad un ambito generazionale, che ha tra i suoi momenti fondamentali la rivista «Corrente» (cui entrambi avevano collaborato): «la mia fedeltà intuitiva ad un tale pittore, risale anzi ai primi exploits morlottiani, ai tempi di “Corrente”, è insomma generazionale, quando un consimile “do- lore informale”, o se vogliamo una pretestualità tutta scontata nei suoi occulti segni propulsivi, agitava i fondi remoti e turbati del nostro “essere-per-la vita” di fronte all’incombente “essere- per-la morte” inculcato in una società condotta supinamente alla catastrofe di una guerra tanto imminente e fatale, quanto ingiusta, consolidatrice di un’ideologia di sopraffazione dell’uomo sull’uomo» (in Taccuino pittorico cit., p. 193). Da notare, in questa come nella precedente cita- zione nel corpo del testo, l’impiego di locuzioni di chiara matrice heideggeriana come «divenire essente», «essere-per-la vita», «essere-per-la morte», ma su questo punto rimando nuovamente ai saggi di Maria Carla Papini citati alla n. 10. 372 Teresa Spignoli

Morlotti, strato su strato, addensa i minuti del mondo che passano in un’ora, in uno spessore irripetibile: il paesaggio e l’oggetto morlottiani hanno questa inestricabilità di un tempo fattosi spazio verticale, di un’ora divenuta un luogo, quello dell’apparire dal proprio intrico, del proprio intrico35.

A partire dagli elementi primi della natura, il pittore rende concreto il visi- bile nel momento della sua emersione dallo stato caotico e informale:

È in verità un respiro organico, il respiro creatore della luce nascente: il con- tinuo passaggio dal caotico al formato: la prima difesa della forma vincitrice sull’angoscioso premere degli impulsi caotici che vorrebbero riassorbirla e che in realtà la nutrono delle sue ulteriori certezze36.

Palese la tangenza con quanto tentato da Bigongiari nel coevo ciclo poetico di Stato di cose37, dove i singoli libri che lo compongono si richiamano esplicitamente ai quattro elementi esiodei: aria (La figlia di Babilonia), fuoco (Rogo), acqua (Il cor- vo bianco), terra (Le mura di Pistoia), per concludere con Torre di Arnolfo che tut- ti li contiene. Dalla «trascendenza aerea» della Figlia di Babilonia, le raccolte suc- cessive evolvono «in una più prossima adesione alle forme apparenti»38 della realtà, concretizzandosi nella materialità di un mondo sempre in bilico tra caos e cosmo,

35 P. Bigongiari, Morlotti dalla natura alla storia, in Dal Barocco all’Informale cit., p. 302. Ma si veda anche un passo precedente del medesimo saggio, in cui il critico insiste sulla inestricabilità delle coordinate spazio-temporali nel quadro: «Ed allora genesi delle cose è il generasi stesso, in un nodo unico, dello spazio e del tempo, in un tentativo di definizione reciproca dei due mo- menti elementari, nel loro dialettico inerire; l’uno nell’altro, l’uno per l’altro; sicché un’emozione è tale in quanto ha una consistenza, cioè sta, consiste, e uno spazio, un tempo formato» (ivi, p. 290); e ancora, osserva: «È l’oggetto che si fa […] questo organismo di colori: che vuol dire: oggetto che si fa immagine progressiva, storia grondante della propria realtà in formazione» (ivi, p. 294). 36 Ivi, p. 299. 37 Stato di cose, Milano, Mondadori, 1968. La raccolta comprende La figlia di Babilonia (Firenze, Parenti, 1942); Rogo (Milano, Edizioni della Meridiana, 1952); Il corvo bianco (Milano, Edizioni della Meridiana, 1955). Essa avrebbe dovuto comprendere anche Le mura di Pistoia (Milano, Mondadori, 1958) e Torre di Arnolfo (Milano, Mondadori, 1964), escluse per ragioni editoriali. Si veda la nota di lettura posta in calce a Torre di Arnolfo – che tra l’altro reca il sottoti- tolo Stato di cose V – «Questo è il quinto libro di un’opera poetica cominciata con La figlia di Ba- bilonia (1942) e proseguita con Rogo (1952), Il corvo bianco (1955) e Le mura di Pistoia (1958). Nel disegno di una ristampa, sotto il titolo unico di Stato di cose, dei cinque libri, e dunque anche di questo che oggi presento al lettore, m’è avvenuto di pensare a una post-face che più o meno potrebbe darsi in questi termini» (p. 197). Per informazioni sulla vicenda editoriale si rimanda al volume Piero Bigongiari. Voci in un labirinto, a cura di P. F. Iacuzzi, Firenze, Polistampa, 2000, pp. 140-141. 38 M. C. Papini, Il viaggio poetico di Bigongiari, in Il sorriso della Gioconda. La scrittura tra immaginario e reale cit., p. 196. La studiosa, infatti, rileva come da La figlia di Babilonia a Rogo il discorso di Bigongiari si sposti «dall’ambito di aerea trascendenza in cui si compie l’irreparabile sorte del linguaggio ad un’area semica più tangibile in quanto rappresentativa di una realtà imma- nente che diviene il centro a cui mira e da cui muove la penetrante riflessione del poeta» (ibidem). «UT POESIS PICTURA»: LA PAROLA E L’IMMAGINE 373 definizione formale e tensione verso l’indistinzione originaria. Così, di pari passo, aumenta l’indice figurale della poesia, nel recupero di una realtà immanente che tuttavia non arriva mai a definirsi in un’immagine stabile e in sé compiuta. Si pen- si alla statua raffigurata in Amore39, ad un tempo speculare ed opposta, nei signi- ficati, alla Statua40 ungarettiana (tra l’altro dedicata allo scultore Hans Arp)41: qua l’immobilità e la resistenza della «pietra» viene a contrapporsi all’azione distruttri- ce del tempo42, mentre là, al contrario, essa libera la forma dalla sua immobile de- terminazione: «Le sabbie che t’investono/ ti liberano ancora dalla statua/ che in te moriva». Difatti in Cosmoagonia43 il processo di creazione è rappresentato dalla pro- grammatica labilità della consistenza figurale del reale, laddove la vita «s’apprende»44 a un’immagine che «gracile» «cede al primo vento della primavera»45. Il processo metamorfico della realtà è cioè veicolato, in questa fase della produzione bigongia- riana, dalla continua suscitazione di un visibile che si mostra attraverso il dischiu- dersi «di forma in forma» dell’immagine46, e che di volta in volta rende concreto – dà un corpo, come recita la postfazione a Torre di Arnolfo47 – il soggetto e l’og- getto del discorso: «Ti ho scoperto mia vita in un segreto / parlottio di elementi: ti compone / il mondo e ti scompone che a tua volta / scomponi e ricomponi»48. In questo risiede dunque il naturalismo cui Bigongiari allude sia negli scritti su Morlotti, che nella coeva prefazione a Poesia italiana del Novecento49:

39 Da Rogo, in Stato di cose cit., p. 118. 40 Giuseppe Ungaretti, Statua (da Sentimento del Tempo), ora Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Carlo Ossola, Milano, Mondadori, «i Meridiani», 2009, p. 179. 41 Secondo quanto affermato nel Commento (ivi, p. 949), tra le carte autografe del poeta si conserva una versione successiva della poesia, databile attorno al 1966, con dedicata ad Hans Arp esplicitata nel titolo: Per una statua di Arp. 42 Si riporta il testo di Statua: «Gioventù impietrita,/ O statua, o statua dell’abisso uma- no…// Il gran tumulto dopo tanto viaggio/ Corrode uno scoglio/ A fiore di labbra» (ivi, p. 179) 43 Da Le mura di Pistoia cit., p. 56. 44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 Si veda, ancora una volta, la tangenza con le considerazioni sulla pittura di Morlotti (Mor- lotti dalla natura alla storia, in Dal Barocco all’Informale cit., p. 300): «La forma nasce dal collo- quio perpetuo […] tra quell’informe e queste dighe dove la voluntas umana oppone il proprio dinamismo, indirizzato verso la fermezza e la decisione, interpreta col proprio gesto deciso, carico psichicamente, questo perpetuo viavai tra natura e forma, predando alla natura la sua naturalezza spogliata strada facendo, cioè via via che se ne appropria, della sua casualità impulsiva, lasciando d’altronde libera la forma, non solo nascente ma già realizzata, di risentire in sé tutta la propria spinta naturale, il proprio “caos” originale, il proprio pescare entro quella linfa caotica». 47 Cfr. la nota di lettura posta in calce a Torre di Arnolfo (cit., p. 198): «credo che in questo disagio [la verità] acquisti corpo, un corpo concreto e sofferente, un corpo, al caso, di immagini che sanno di essere al tempo stesso duplici (non perché guardano, ma perché sono, esse stesse, e passato e futuro) e unitarie (perché sono quel puro presente che dire storia è troppo forte mentre è solo, e per sua fortuna, presente)» 48 Rive, da Le mura di Pistoia cit., p. 55. 49 Mi riferisco alla seconda edizione «accresciuta» del volume Poesia italiana del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1965, pp. 9-11 (la prima edizione è del 1960, Milano, Fabbri). La Premessa 374 Teresa Spignoli

Se la poesia del Novecento ha un merito, ma questo fondamentale, è appunto d’aver iniziato un discorso, su nuove basi, tra l’uomo e la natura: d’aver im- postato un discorso naturale, in cui le dimensioni secolari del classico e del romantico, il loro rapporto dialettico e formale, sono superati. Un discorso che s’è avviato dalla naturalizzazione della storia alla storicizzazione della natura50.

È interessante notare come le locuzioni «naturalizzazione della storia» e «sto- ricizzazione della natura» ricorrano anche in Dal Barocco dall’Informale, nel ti- tolo di due sezioni, la prima dedicata al Romanticismo51 e la seconda ad artisti come Carrà, Morandi, De Chirico, Rosai, De Pisis52, a individuare appunto le tappe che precedono l’arte informale, su cui è centrato il terzo e ultimo capito- lo53. È quindi in questa accezione che Pollock viene definito come esempio di un «naturalismo perfetto»54, laddove l’opera non si configura come rappresenta- zione della natura, bensì come parte di essa, in virtù del suo stesso procedimen- to creativo. Il recupero del rapporto tra uomo e cosmo passa attraverso il supe- ramento della nozione di abisso simbolista, che si fa spazio e tempo della cre- azione: non più raggelante vuoto pascaliano (in questo senso ripreso anche da Ungaretti), ma groviglio caotico da cui germina la forma attraverso l’intenzione

è pubblicata anche in Poesia italiana del Novecento. La prima generazione, Milano, il Saggiatore, 1978, pp. 7-9. 50 Ivi, p. 9. 51 Questo il titolo del capitolo: «Imitare la natura con la quale si trasforma la materia» ovvero La naturalizzazione della storia. Gli artisti presi in considerazione sono Turner, Bonington, De- lacroix, Courbet. 52 Speculare al primo, il secondo titolo recita: Inventare la maniera con la quale la natura trasfor- ma la materia ovvero La storicizzazione della natura. Oltre a Carrà, Morandi, De Chirico, Rosai, De Pisis, il capitolo comprende anche studi su Klee, Chagall, Viani, Tobey, Ernst, Soutine, Capocchini. 53 Il terzo titolo è invece centrato sul rapporto tra memoria e materia, che è uno dei cardi- ni della poetica ermetica: Dalla «matière»-«mémoire» bergsoniana all’antimateria di Dirac ovvero Dalla materia che ricorda al «ricordo che non ricorda». Il capitolo comprende studi su Hartung, Pollock, de Staël, Morlotti, Garache, Balthus. 54 Cfr. P. Bigongiari, Il caso e il caos, Lecce, Quaderni del «Critone», 1961, pp. 31-32: «E io spettatore, dinanzi a quelle “entità” fuori dal groviglio, ho avuto le stesse idee e sensazioni che ho provato dinanzi alle figurazioni naturalistiche dipinte sui vasi e sulle anfore e sulle pareti minoiche: di un naturalismo perfetto, primo, senza interventi», e di seguito aggiunge: «è l’atto che inventa, nella pittura, quello che la decide alla sua più profonda naturalezza: l’uomo cioè non dimentica il suo stato passivo e possibile quando depone il suo bagaglio di cognizioni rese astratte dall’uso, ma anzi esalta il suo essere all’unisono col valore esistenziale che si fa». A questo proposito si veda anche la definizione di informale contenuta nel Giornale 1933-1997 in Un pensiero che seguita a pensare. Giornale 1933-1997, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, prefazione di Carlo Ossola, Torino, Nino Aragno Editore, 2000, p. 346: «Informale. Che mira a raggiungere finalisticamente una forma attraverso la sollecitazione psichica della stessa materia formante. Movimento pittorico nato sul ceppo e in contrapposizione alle ultime risultanze del cubismo, con gli affluenti dell’espressionismo e del gratuito surrealista, mirante ad affermare […] il valore di un indefinito formale in cui il pittore si sente immesso in una sorta di naturalismo organico, alla ricerca di una nuova nozione del reale. In questa consonanza con la spinta magmatica della materia l’artista cerca di farsene tramite e pertanto di immetterla nella coscienza». «UT POESIS PICTURA»: LA PAROLA E L’IMMAGINE 375 dell’artista, che indirizza appunto il «caos» verso il «caso» della sua probabile rea- lizzazione formale55. Si tratta quindi di ritornare in modo nuovo a ripensare quel- la cesura introdotta da Baudelaire56, che è all’origine della modernità, e che pas- sa attraverso «una reinvenzione del fatto naturale, una reinvenzione con un altro linguaggio»57. È questo un punto di cui si discuteva in quegl’anni proprio sulle pagine di «Paragone», della cui redazione Bigongiari faceva parte. Si pensi ai sag- gi sul Seicento lombardo e sull’informale di Giovanni Testori58, nonché agli in- terventi critici di Francesco Arcangeli, che conia la fortunata etichetta di Ultimi naturalisti59 per una serie di artisti che operano nell’Italia settentrionale (Pompilio Mandelli, Mattia Moreni, Ennio Morlotti, Sergio Vacchi, Sergio Romiti, Vasco Bendini). La riflessione critica di Bigongiari, pur nascendo in questo ambito, propone una linea interpretativa autonoma e originale, che fa perno sulla diade dialettica di «caos» e «caso», applicata, in prima battuta, nell’analisi dell’opera di Pollock60. Parallelamente, sul versante poetico, essa contraddistingue soprattut-

55 Cfr. P. Bigongiari, La pittura oggettiva di Jackson Pollock o l’informale astratto-concreto, in Dal Barocco all’Informale cit., p. 253: «Ora Pollock […] cercando di immedesimarsi “aux acume originelles”, riconoscendo ovunque “la neutralité identique du gouffre”, ha scoperto, con la mi- glior poesia postsimbolista ed esistenziale, che un “gouffre” di colta fatta genera di per sé, col suo respiro indifferenziato, qualcosa che al “gouffre” stesso s’oppone, un antipodo oggettivo: è una realtà non anticipata, un’immagine insomma che in tal caso possiamo ben definire figurale in cui l’abisso respira e si scioglie dal caos obbedendo al proprio destino che è quello di venire alla luce». Sulla differenza tra la concezione di «vuoto» in Bigongiari e Ungaretti mi permetto di rimandare alla mia Introduzione al volume P. Bigongiari, G. Ungaretti, «La certezza della poesia». Lettere 1942-1970, a cura di Teresa Spignoli, Firenze, Polistampa, 2008, pp. 25-30. 56 Si veda a questo proposito il saggio di Bigongiari Baudelaire e la madre, in La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Milano, Rizzoli, 1972, pp. 89-102. Il saggio, tutto giocato sul rapporto tra «natura» e «artificiale» nell’opera di Baudelaire, è datato 1952, ed è dunque coevo al discorso critico sull’informale. Per l’interpretazione dell’opera di Baudelaire da parte di Bigongia- ri, si rimanda a Paolo Orvieto, Sul simbolismo. Il primo corso di Bigongiari al Magistero di Firenze, nel presente volume. 57 A. Prete, Sulle convergenze tra pittura e poesia, in «la collina» cit., p. 92. 58 Per fare solo due esempi, ricordo il saggio Su Francesco del Cairo, in «Paragone – Arte», marzo 1952, 27, pp. 24-43 e uno dei primi contributi critici su Ennio Morlotti, Appunti su Ennio Morlotti, «Paragone – Arte», settembre 1952, 33, pp. 21-30. 59 Il celebre saggio di Francesco Arcangeli – Gli ultimi naturalisti, «Paragone», novembre 1954, 59, pp. 29-43 – dà luogo ad un acceso dibattito all’interno della rivista «Paragone», che raggiunge la sua acme nel 1957, quando Roberto Longhi affianca all’interno di uno stesso nume- ro i contributi critici di Arcangeli (Una situazione non improbabile, «Paragone – Arte», gennaio 1957, 85, pp. 3-45) e di Testori (Realtà e natura, cit.), cui si aggiunge lo scritto di Renato Guttuso Del realismo, del presente, d’altro. I tre saggi, pur partendo da una base comune (soprattutto nel caso di Arcangeli e Testori), individuano un diverso modo di intendere i concetti di «realtà», «na- tura» e «storia», soprattutto in relazione a quest’ultimo termine, tanto è vero che, nella conclusio- ne, Testori polemizza fortemente con la definizione di Art autre di Michel Tapié (e indirettamente anche con Arcangeli), intesa come evasione dalla realtà, e creazione di una realtà alternativa, avulsa dalla storia: «questa la realtà: questo il terreno: una realtà e un terreno che pur minacciati da forze, ronzii e paure, restano sempre una realtà e un terreno concretamente storici» (ivi, p. 56). 60 Si ricorda in questo senso il già citato volume Il caso e il caos del 1961, che si apre proprio con un lungo saggio dedicato a Pollock (La pittura oggettiva di Jackson Pollock), poi ampliato e 376 Teresa Spignoli to una raccolta come Torre di Arnolfo, dove la «confusione di tutti gli elementi»61 rappresenta in modo palmare quello stato caotico che costituisce il tratto distin- tivo dell’opera del pittore statunitense e che sempre più viene a connotarsi, nella coeva riflessione teorica come pre-linguaggio, ovvero come tensione costante tra il caos e la forma62. Alla rappresentazione metamorfica dell’immagine, si sostitu- isce qui, in modo speculare rispetto a La figlia di Babilonia, un discorso centrato interamente sulla parola stessa, e sul suo valore significante. E tuttavia, se la rac- colta incipitaria, si proponeva, attraverso le tre sezioni «orfiche» in cui è articola- ta63, di indagare la parabola della parola nello spazio linguistico in cui si costitu- isce l’immagine64, divaricata tra dicibile e indicibile, visibile e invisibile, Torre di Arnolfo invece riproduce «allo stadio linguistico, il processo esistenziale di un’im- magine il cui primo significante è la parola stessa»65. Impercettibilmente il discorso si sposta dall’immagine al suono, e dunque ver- so l’astrazione musicale, mentre la corporeità del segno scrittorio viene recupera- ta attraverso la nozione di «traccia» (mutuata da Derrida). Divaricata tra phoné e graphé66, la scrittura si dispiega sulla pagina attraverso un lavoro sul significante

riproposto in Dal Barocco all’Informale. Il caso e il caos II cit., pp. 245-262. Per un’analisi della diade caso-caos, si rimanda inoltre al saggio di E. Biagini, Piero Bigongiari: i «giochi del caso» fra teoria, critica e poesia, in «Italies», 9, 2005, pp. 255-281. 61 Cfr. P. Bigongiari, La ferita nell’invisibile, in Nel mutismo dell’universo. Interviste sulla poesia 1965-1997, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 117: «Lei sa che io dico che i primi quattro libri rappresentano ognuno un elemento, non perché l’abbia voluto. La mia, in questo caso, è stata una constatazione a posteriori; come anche dico che il quinto volume, cioè Torre di Arnolfo, è la confusione di tutti questi elementi, la coazione reciproca di questi». 62 Cfr. ivi, p. 118: «Ora, come all’inizio della creazione c’è stata la separazione dell’aria, dell’ac- qua, della terra, della luce ecc…, cioè come la creazione di per sé implica questa possibilità di di- stinguere e di unire, così per me all’inizio c’è stato questo inconscio bisogno di richiamarmi ad una dominante elementare perché è quella che mette in rapporto il caos con la forma, quella che esiste allo stato caotico prima di essere nominata e che esiste allo stato formale attraverso la parola. Quin- di come la realtà è costituita da valori elementari, così anche la parola è costituita da questi nuclei di elementarità, da questo fuoco da quest’aria, da questa possibilità generativa che ha la parola». 63 Su questo punto cfr. M. C. Papini, Il viaggio poetico di Bigongiari, in Il sorriso della Gio- conda. La scrittura tra immaginario e reale cit., p. 191: «I tre momenti in cui si suddivide La figlia di Babilonia corrispondono precisamente al procedere della parola che si addentra nella notte dell’inconoscibile e che, nella constatazione della incorporeità della propria presenza, dell’inet- titudine del proprio atto, si riconosce, nel suo annullamento, come elemento di quell’assenza in cui sprofonda: Ella andava verso la notte: assenza; Era triste forse piangeva: pensiero dell’assenza; Si è voltata, sono perduto: atto, il voltarsi, in cui l’assenza si realizza e determina lo scacco della parola». I titoli delle sezioni alludono chiaramente al mito di Orfeo, ribaltandone i termini: non è difatti Orfeo a voltarsi, ma è la parola-Euridice ad abbandonare il poeta. 64 Secondo Adelia Noferi (Introduzione a M. Bernardi Leoni, Informale e terza generazione cit., p. XXVIII) l’immagine nella Figlia di Babilonia è «insieme ed inscindibilmente coloristica e metrica, oltre che già subito articolata su combinazioni fonico-anagrammatiche e pronomasie». 65 M. C. Papini, Il viaggio poetico di Bigongiari, in Il sorriso della Gioconda. La scrittura tra immaginario e reale cit., p. 212. 66 Il riferimento è al saggio di P. Bigongiari, Tra phoné e graphé, in L’evento immobile, Milano, Jaca Book, 1987, pp. 11-22. «UT POESIS PICTURA»: LA PAROLA E L’IMMAGINE 377 che ne determina il suo svolgersi, mentre la «traccia» che ne segna l’andamento attesta la sua presenza all’interno del libro67. Ciò presuppone, relativamente al rapporto tra arte e natura, una concezione dell’atto poetico come atto origina- rio, ovvero come nominazione del mondo, e quindi, richiamando di nuovo le parole di Antonio Prete, come passaggio dallo «stormire al dire»: dal silenzio ori- ginario e dal «rumore senza fondo» della lingua68, all’articolarsi della parola69. È dunque ancora una volta un problema di «imitare», ossia di dare alla natura una lingua strutturata che la possa rappresentare, difatti Bigongiari nella saggio Tra phoné e graphé, torna a riflettere sul canto monodico della Camerata de’ Bardi, osservando come esso costituisca il tentativo di «raggiungere […] l’innocenza primaria della voce»70: «È ricerca del paradiso perduto, dove il nome è “natura- le” come il canto di un uccello e il mormorio della selva»71. Il processo di crea- zione si sposta dal piano figurale a quello linguistico, e alla diade forma-infor- me si soprammette un po’ per volta la parabola del linguaggio: dallo stadio a- formale dell’a-linguaggio (il silenzio iniziale), allo stato caotico del pre-linguag- gio (informale), sino al momento linguistico (o formale) che costituisce l’acme del processo, cui segue il ritorno al silenzio (post-linguistico)72. Potremmo dunque affermare, parafrasando le parole di Bigongiari nel sag- gio su Éluard, che se fino a Le mura di Pistoia all’origine dell’ermetismo «sta un farsi, e non un fatto, figurale», daTorre di Arnolfo in poi, sta un «dirsi» e non un «detto». Difatti l’area di intervento del poeta non si rivolge più al concreto visibile, ma alla consistenza astratta dell’antimateria – questo il titolo della suc- cessiva raccolta73 –, laddove la nozione di «traccia» rimane l’unica sopravviven- za della materia che si fa energheia e dynamis, indagando le ragioni naturali che regolano l’universo74.

67 Se la phoné pertiene al tempo e all’articolarsi della voce in opposizione al silenzio, la graphé invece «è tempo che cerca di immedesimarsi nel proprio spazio» (ivi, p. 19). 68 L’espressione è più volte utilizzata da Piero Bigongiari nei saggi che compongono L’evento immobile, ed è mutuata da Michel Deguy che la impiega in La folie de Saussure («Critique», gennaio 1969, n. 260). 69 Cfr. P. Bigongiari, Tra phoné e graphé, in L’evento immobile cit., p. 17: «Il fatto è che la voce, che implica il “rumore senza fondo” della lingua, nasce nel silenzio, dal silenzio, è un intervallo del silenzio e una contraddizione del silenzio anche laddove ne è il prolungamento figurato. Implica cioè il tempo-spazio in cui curvarsi, cioè articolarsi in figura, come massa (scrittoria) e energia (vocale)». 70 Ivi, p. 12. 71 Ibidem. 72 Si rimanda a questo proposito al capitolo Dal simbolo simbolista al segno, dal segno al simbolo linguistico, sempre contenuto in L’evento immobile cit., pp. 23-60 (in particolare le pp. 23; 46-47). 73 P. Bigongiari, Antimateria (1964-1971), Milano, Mondadori, «Lo Specchio», 1972. 74 Per quanto riguarda la nozione di «antimateria», si veda quanto afferma lo stesso Bigon- giari nella Avvertenza e qualche nota, a Antimateria (cit., p. 296): «L’uomo che agisce nei termini della propria azione, deve inoltrarli dove essa volta, dove la materia che lo riempie si ostina nell’antimateria che lo vuota, in ogni istante, della sua stessa fabula drammatica». 378 Teresa Spignoli

Il pendolo si sposta dall’immagine al suono, dalla pittura alla musica, dal- la concretezza materica della forma, all’astrazione dell’accordo musicale. Scrive infatti Bigongiari a proposito di Hartung nel 1966, e dunque in piena area ela- borativa di Antimateria:

Questo lavoro che imita la natura nei suoi minimi termini genetici, ma che su- pera la teoria dell’imitazione per la metafora che mette in moto, in verità crea il mondo e non lo commenta, non lo ripete, e dunque nemmeno può ricordarlo, ma solo accordarlo75.

Il labile segno scrittorio tracciato dal pittore si connota dunque come un’a- zione musicale, laddove «il pittore non vede le cose, ma sente accordi»76. La «sua- sione musicale» individuata anche nel saggio Ut poesis pictura come tratto d’u- nione di pittura e poesia, diviene il fulcro attorno a cui ruota l’operazione mes- sa in atto in Antimateria, allorché lo stesso Bigongiari utilizza una serie di ter- mini musicali per definire la raccolta:

Questo libro ha ambizioni unitarie, poematiche: diviso in nove parti con temi ritornanti, la partitura è unica, e l’ambizione dell’autore sarebbe per una lettura pausata, aedica. I ritorni tematici sono cambi di tono che istituiscono una ver- ticalità temporale nell’orizzontalità spaziale dell’avventura77.

E gli esempi «musicali» all’interno della raccolta sono difatti molti, mi li- mito qui a enumerare alcuni casi particolarmente significativi, come la terza parte della poesia Cartigli, cartilagini, che si intitola L’universo dentro la paro- la78 – dove la seconda strofa è introdotta dalla parola «adagio» isolata a cen- tro pagina, cui risponde graficamente, la parola «coro» posta a conclusione del componimento.

75 P. Bigongiari, Hans Hartung o l’informale astratto [1966], in Dal Barocco all’Informale cit., p. 234. 76 Ivi, p. 234. Si ricorda, a margine, come la pittura di Hartung parta proprio dall’intento di indagare le tensioni atmosferiche e cosmiche, con le energie, con le radiazioni che governano l’universo, rappresentato quasi allo stadio di nebulosa, prima che la luce e le tenebre siano divisi: «è il nero seppia di un mondo in cui la creazione è rimasta a mezzo e le tenebre non sono ancora separate dalla luce. Una polvere di nebulosa, un chiarore che non si delinea, sembra accenni qualcosa. Un’oscura granulazione, ma con tracce azzurrine cresce d’intensità. C’è un attimo di sospensione: l’uomo si sente ancora a venire» (ivi, pp. 235-236). Si tratta, dunque, di una rappre- sentazione figurale che si approssima, secondo Bigongiari, alle recenti scoperte della fisica – e in particolare di Dirac – sulle antiparticelle: «E quanto il fisico qui direbbe non è che un’allusione metaforica a quella che è l’arte di Hartung, che non è scienza, seppur evidentemente essa non potrebbe esistere se non avesse la sensazione psichica dell’antimateria che la fisica contemporanea sta sempre più chiaramente postulando» (ivi, p. 236). 77 P. Bigongiari, Avvertenza e qualche nota, in Antimateria cit., p. 267. 78 Ivi, p. 118. «UT POESIS PICTURA»: LA PAROLA E L’IMMAGINE 379

adagio, le sillabe, i segni grigi s’infiammano, la luna perde la sua polvere dentro l’universo, canuto pensiero che vola verso la nuova dilatata parola: nel coro.

Si noti come la «nuova dilatata parola» venga di fatto a coincidere con il coro, e dunque con quella dizione originaria della poesia, fusa in uno con il canto, cui risponde un’immagine dell’universo allo stadio di nebulosa primordiale, che rende palese la convergenza con la coeva operazione compiuta da Hartung. La costante ricerca di una parola originaria trova un esito nella «parola insensata» – questo il titolo di un’altra poesia79 – ossia nella rinuncia ad ogni tipo di deter- minazione semantica («il nome è ancora l’inferno di una bugia»), ma proprio in virtù di ciò assai prossima a quel «primo grido» che ha rotto il silenzio: «un grido gutturale, una foglia stormente nell’ugola / del vento»80. Difatti nell’Inno quar- to, non sono le «parole che sempre chiedono di identificarsi»81 a «parlare», ma il silenzio stesso – «Ecco il silenzio che parla: non le parole: platani, viali / strade, la terra che non occorre che sia immutabile» – ed è per l’appunto il silenzio che in Frammento speculativo viene a coincidere con il visibile: «il vortice è in ascolto come un occhio / che ode il visibile simile al suo silenzio»82. Vale la pena soffer- marsi, inoltre proprio sulla forma dell’inno, sperimentata sin dal Corvo bianco:

Di quando in quando, a certe insorgenze dell’essere, scatta questo valore timbrico riassuntivo di una continuità dal fondo ch’io intitolo all’inno; e che nell’insieme della partitura forse dovrebbe riecheggiare, a intervalli, come una risorsa della verticalità della voce degli strumenti, o meglio una vorticosità post-liminare83.

Risalire al valore primordiale della parola come suono, e dunque alle origini dell’atto poetico nella sua unione con il canto (e l’inno a questo allude), consente di recuperare idealmente la sostanza primigenia – e naturale – dell’atto poetico:

La parola sarebbe nata, come il vento che agita la foresta o s’inoltra ululando in una gola montana, agitando la gola, l’ugola, la lingua e atteggiando la bocca

79 La poesia La parola insensata (ivi, pp. 189-190) fa parte della sezione omonima. 80 Ivi, p. 189. 81 Ivi, p. 26. 82 Ivi, p. 191. 83 P. Bigongiari, Avvertenza e qualche nota, ivi, p. 270. A testimoniare l’importanza di questa forma poetica, Bigongiari pubblica nel 1986 un’edizione che raccoglie i diversi «inni», accom- pagnati dai disegni di Ennio Morlotti e da uno scritto di Carlo Bo (Gli Inni, Firenze, Premio di Poesia Pandolfo, 1986). 380 Teresa Spignoli

dei primi parlanti, in una fonazione simile a una sorta di canto naturale, di manifestazione della fenomenologia della natura immedesimata nell’uomo. È quando l’uomo vede e sente la natura come qualcosa di diverso da se stesso, che le cose cambiano, e il canto si fa nostalgia di una parola plenaria perduta, di una parola naturale84.

Sia nella Poesia come funzione simbolica del linguaggio che nei saggi dell’E- vento immobile85, torna infatti con insistenza l’equivalenza tra poesia e canto in connessione all’elaborazione di una nuova concezione di naturalismo (il pro- blema della mimesis da cui siamo partiti), in un percorso à rebour verso il mo- mento di nascita dell’universo e del linguaggio, laddove è proprio l’articolarsi del corpo fonosimbolico della parola ad «accordare» l’esistente verso una dire- zione (sempre differita) di senso. La ripresa della questione del rapporto tra arte e natura nei suoi momenti di massima crisi (come appunto avviene nel Rinascimento e nella modernità) è strettamente connessa alla proposizione di una nuova poetica che si dà come sostanziale alternativa alle poetiche allora emergenti. Non è un caso che il «di- scorso naturale»86 – ossia il rapporto tra «uomo-natura» – impostato su «nuo- ve basi» in Poesia italiana del Novecento sia propedeutico alla definizione dell’er- metismo come «un’avanguardia stretta tra il surrealismo e l’informale»87 conte- nuta nel saggio Il surrealismo e l’Italia, in evidente contrapposizione dialettica con la neoavanguardia (ricordo, per inciso, che anche gli esponenti del Gruppo 63 si richiamavano, in modo ovviamente diverso, sia alla lezione surrealista che all’informale). Valga il riferimento al testo Poesia informale? di Sanguineti88, ri- cordato dallo stesso Bigongiari sempre nel saggio Il surrealismo e l’Italia, proprio per segnare la differenza con la terza generazione:

Mi spetta ora, avviandomi alla conclusione, chiarire che forse la posizione, rispetto all’informale, di alcuni poeti «novissimi», e mi riferisco soprattutto a

84 P. Bigongiari, La parola e la musica, «Paradigma 10», Studi per A. Noferi in onore dei suoi 70 anni, a cura di Piero Bigongiari, Firenze, Le Lettere, 1992, p. 95 (poi in La poesia pensa. Poesie e pensieri inediti. Leopardi e la lezione del testo cit.). 85 Mi riferisco in particolare ai saggi già citati Tra phoné e graphé e Dal simbolo simbolista al segno, dal segno al simbolo linguistico. 86 Ma si ricordi in questo senso anche la riflessione di Mario Luzi, in saggi comeSul concetto di natura (1947), La naturalezza del poeta (1951), ora consultabili in Naturalezza del poeta. Saggi critici, a cura di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995. 87 P. Bigongiari, Il surrealismo e l’Italia [1975], in Poesia italiana del Novecento. Tomo II. Da Ungaretti alla terza generazione, Milano, il Saggiatore, 1980, p. 466: «l’ermetismo, mentre è sfasato di un decennio circa rispetto al surrealismo, è in anticipo di qualche anno rispetto all’in- formale; ma è un movimento, di avanguardia non codificata da alcun manifesto, come io insisto a dire da anni, che trova il proprio ambito storico proprio tra il surrealismo e l’informale». 88 Edoardo Sanguineti, Poesia informale?, in «il verri», 1961, 3, poi in I Novissimi. Poesie per gli anni Sessanta, Milano, Feltrinelli, 1961, ora in Gruppo 63. Critica e teoria, a cura di Renato Barilli e Angelo Guglielmi, Torino, Controsegni, 2003, pp. 50-54. «UT POESIS PICTURA»: LA PAROLA E L’IMMAGINE 381

Sanguineti e al suo Laborintus del ’56, e a quanto Sanguineti ebbe ad affermare nel suo articolo Poesia informale?, è analoga ma non necessariamente uguale alla nostra posizione rispetto al surrealismo. Solo direi che in Sanguineti, il che non vuol dire in tutti i «novissimi» […], è avvenuta una formalizzazione dell’infor- male o almeno una sua cristallizzazione, per una voluta imitazione da parte del segno poetico rispetto al segno pittorico o musicale dell’espressionismo astratto, che già si erano dati come tali, mentre l’ermetismo era in fase solubile, era un «poisson soluble», rispetto al surrealismo e in fase assolutamente inventiva e, se volete, astutamente profetica rispetto all’informale89.

Ed ecco quindi che la questione del rapporto tra le «arti sorelle» slitta con- tinuamente dal piano «linguistico» della interferenza tra i due codici (verbale e iconico), al piano culturale (come ricordava Ferruccio Ulivi), e si dimostra cen- trale per comprendere – all’interno del sistema delle arti – il rapporto dinami- co, di convergenza o di opposizione tra le diverse poetiche. Basti pensare, ad esempio, alle differenti interpretazioni critiche dell’informa- le proposte nel 1961 dal celebre numero monografico de «il verri»90, e dal pri- mo volumetto intitolato Il caso e il caos, pubblicato da Bigongiari per i tipi del Critone proprio nel medesimo anno, e che di fatto tirano le fila di una riflessio- ne che occupa la seconda metà degli anni Cinquanta. Difatti nella Premessa alla terza edizione di Poesia italiana del Novecento, Bigongiari indica sia nella neo- avanguardia che nell’«avanguardia non codificata» dell’ermetismo i principali ar- tefici della salutare reazione alla cultura dell’immediato dopoguerra, seppur ov- viamente attraverso modalità differenti, che però – a suo dire – presentano una analoga matrice avanguardistica91, quasi a voler incrinare a posteriori il l’idea di un’unica avanguardia coincidente con l’operazione del Gruppo 63. Già nel- la Premessa a Poesia francese del Novecento, infatti, il critico profilava un discor- so volto ad affermare – come nota Enza Biagini92 – «una diversa bandiera della novità», «derivante in qualche modo da una tradizione parallela», che trova una convergenza d’intenti e di realizzazioni soprattutto con «la prima linea della po- esia francese», e in particolare con l’opera di poeti come Michaux, Ponge, Char, Bonnefoy, Dupin, Deguy: «Il loro sforzo è parallelo a quanto ha fatto qui da

89 P. Bigongiari, Il surrealismo e l’Italia, in Poesia italiana del Novecento. Tomo II. Da Ungaretti alla terza generazione cit., p. 469. 90 Il numero 3 della rivista è stato recentemente riproposto dalla casa editrice Mimesis nella collana «Arte e Critica»: L’informale, a cura di Maria Passaro, Milano, 2010. 91 Cfr. P. Bigongiari, Premessa alla terza edizione, in Poesia italiana del Novecento. tomo I. La prima generazione, Milano, il Saggiatore, 1978, p. 12: «L’avanguardia non codificata che ebbe il nome di ermetismo, per esempio, in una con la neo-avanguardia, ebbe il merito, pagato a duro prezzo, di fare invecchiare di colpo, prima del tempo, tutta una cattiva coscienza e una mal fondata cultura post-bellica che purtroppo prolungò i suoi nefasti effetti su alcune posizioni apodittiche della stessa neo-avanguardia». 92 E. Biagini, Rileggendo «Poesia francese del Novecento» di Piero Bigongiari, introduzione alla ristampa di Poesia francese del Novecento, Trento, La Finestra, 2005, p. X. 382 Teresa Spignoli noi la poesia della seconda e terza generazione et ultra, o in Spagna da Guillén, Lorca, Salinas in giù. Non possiamo ignorarlo più oltre»93. È, questa, un’ipotesi che lascia tutt’ora aperta una nuova prospettiva di inter- pretazione critica, che riguarda soprattutto gli esiti successivi alla definitiva chiu- sura della stagione ermetica, e che invita a riconsiderare una serie di esperienze che interessano gli anni Cinquanta e Sessanta all’interno di una corrente speri- mentale europea sostanzialmente alternativa alla poetica della neoavanguardia.

93 P. Bigongiari, Premessa a Poesia francese del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1968, p. 9. LA «GIOVENTÙ POETICA DI OPPOSIZIONE» SULLE PAGINE DI «CAMPO DI MARTE» E DI «CORRENTE»

Elena Guerrieri

Furono gli anni in cui una generazione esplose alla vita, e alla vita della poesia, mentre il regime dominante avviava l’Italia verso quel senso di terra morta insito nell’alleanza con la Germania nazista. Firenze fu l’ultimo segnacolo di libertà in nome della poesia. […] Vivevamo come in una città assediata, prigionieri in patria, con la felicità insopprimibile della gioventù e insieme il dolore e il presentimento della finis Europae. […] I giovani poeti e critici dell’ermetismo vissero in un sodalizio esaltante e scrissero parole sofferenti di libertà e di rivolta alle parole d’ordine della cultura ufficiale del regime. Leggevamo sottobanco i libri proibiti […] e ne scrivevamo su […] quei fogli di fortuna quali furono «Campo di Marte» e «Corrente»1.

Così Piero Bigongiari ricorda, in un’intervista a Maria Paola Fisauli del 1985, l’esperienza dei giovani intellettuali che animarono la scena culturale italiana sul finire degli anni Trenta; i quali, presa definitivamente coscienza della drammati- cità della situazione storica in cui era venuto a trovarsi il paese, giunsero progres- sivamente a prendere posizione di fronte a una dittatura – e quindi a una cul- tura di regime – che, come avrebbe sottolineato l’autore, aveva ridotto la parola entro un «corso civile forzoso»2. La parola della terza generazione nasce dunque in opposizione all’eloquio codificato imposto dal fascismo, e svolge il proprio apprendistato poetico e critico proprio sulle pagine di quei «fogli di fortuna»3, quali furono «Campo di Marte» e «Corrente». Le due riviste, grazie anche a una relativa autonomia rispetto agli organi di regime, riuscirono infatti a convoglia- re una molteplicità di voci che – per quanto eterogenee – agirono su una «base comune di non accettazione di quella che allora era la cultura ufficiale»4 e rap-

1 Piero Bigongiari, Vivere la contraddizione, risposte a Maria Paola Fisauli, in P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo. Interviste sulla poesia 1965-1997, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 129. 2 P. Bigongiari, Autoritratto poetico, in P. Bigongiari, Tutte le poesie I: 1933-1963, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Firenze, Le Lettere, 1994, p. 383. 3 P. Bigongiari, Vivere la contraddizione cit., p. 130. 4 P. Bigongiari, La lenta maieusi, risposte a Marin Mincu, in P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo cit., p. 164.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 384 Elena Guerrieri presentarono il momento di punta di una crisi da cui sfociò quella che lo stes- so Bigongiari ha in seguito qualificato come un’«avanguardia non codificata» il cui «nucleo vero consisteva nella rifondazione di un rapporto autentico dell’in- dividuo col mondo»5.

A Firenze gli incontri quotidiani […] affinarono questa vera e propria bramosia di libertà interiore, […] di decenza quotidiana, come nucleo e nocciolo della libertà individuale e superindividuale quale base di una società più giusta, a mi- sura umana. Erano i perdenti, i solitari, i ribelli, i misconosciuti, il prezioso limo che poteva e doveva fecondare il deserto dell’aridità politica ed etica dominante. […] Un’avanguardia non codificata, che […] cercava e valorizzava nella loro vera entità storica i suoi maestri […] allora o sconosciuti ai più, o mal compresi, o addirittura ridicolizzati da un’opinione pubblica che li dichiarava incompren- sibili; […] gli scrittori di un’Europa libera che la censura […] proibiva […] erano il nostro pane quotidiano, letti al di fuori degli schemi accademici, e la cui progressiva conoscenza veniva incontro alla nostra fame gnoseologica. La poesia insomma funzionava come nutrimento esaltante e insieme dubbio quotidiano contro le affermazioni devianti e le parole d’ordine delle ideologie dominanti6.

Ecco quindi che, come avrebbe ricordato lo stesso Bigongiari nel suo Autoritratto poetico, la parola degli esuli in patria necessariamente si costituisce in una condizione di «duro silenzio»7; ma è del resto proprio da tale primiti- vo e primordiale silenzio che essa si sostanzia, proiettandosi dunque verso una pronuncia del tutto operativa: si tratta infatti di una parola che agisce nell’esi- stenza, e in funzione di essa svolge un discorso critico e poetico creativo e cre- atore esso stesso di realtà, e in cui si riassume anche il significato di quella che Bigongiari avrebbe definito come una «dichiarazione di disagio di una genera- zione inquieta»8 rappresentata dalla formula della «letteratura come vita».

5 Ibidem. 6 P. Bigongiari, La positivizzazione del negativo, risposte a Sergio Palumbo, in P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo cit., pp. 174-176. 7 Nell’Autoritratto poetico cit., pp. 383-384, Bigongiari sottolinea infatti: «La mia, come la poesia della mia generazione, è nata strettamente condizionata dalla situazione storica, in cui primamente si rese conto di esistere. In anni difficili […] quando le parole avevano un corso civile forzoso che si rifletteva, in chi voleva mantenere la proporzione dei valori, in duro silenzio. Fu l’epoca dei prigionieri in patria. E fu in questo straordinario, ma drammatico silenzio che nacque la parola della terza generazione, quando aperta a una sorta di intenerimento interiore, quando orgogliosamente chiusa a una civiltà esterna ch’essa rifiutava in blocco». 8 P. Bigongiari, La positivizzazione del negativo cit., p. 178; nell’intervista l’autore sottolinea inoltre il valore rivestito dall’attività poetica e critica per la terza generazione, la quale concepiva «la poesia […] come nutrimento esaltante e insieme dubbio quotidiano contro le affermazioni devianti e le parole d’ordine delle ideologie dominanti. Letteratura come vita fu, in questo senso, non tanto un manifesto e nemmeno un codice di comportamento […]: fu un po’ la voce comune di aspirazioni diverse ma messe in comune dalle costrizioni dell’ora: come un legame che stringe in un unico mazzo fiori diversi». LA «GIOVENTÙ POETICA D’OPPOSIZIONE» 385

Gli interventi teorici e critici9 pubblicati da Piero Bigongiari su «Campo di Marte» e su «Corrente» rappresentano un importante contributo alla compren- sione di questa esperienza generazionale, e in particolare chiariscono il senso e la portata sia dell’attività teorico-critica che della prassi poetica dello stesso au- tore. Gli scritti, pubblicati sulle due riviste tra il 1938 e il 1939, costituiscono infatti il primo e fondamentale nucleo di un impegno esegetico costantemente esercitato da Bigongiari, confermandone la continuità di fondo e chiarendone la finalità ermeneutica, che è immediatamente individuabile nella formula che identifica il «critico come scrittore»10:

Siamo assolutamente […] per il critico come scrittore: in termini ricchi, per il critico come uomo spirituale, cioè dotato di una novità interiore; in termini poveri, per una critica di stile, il cui magico destino non è la ricreazione desan- ctisiana, un ricalco degnissimo per condolersi e consentire, […] e in generale non la riprova di chi si fida o di chi non si fida, ma il sentimento del tempo creativo verso il suo assoluto11.

In questa dichiarazione, culmine della Postilla a Bocelli – pubblicata su «Corrente» nel settembre 1939 e significativamente posta a congedo degli Studi12 che Bigongiari pubblicherà per i tipi di Vallecchi nel 1946 – l’autore ribadisce quanto già affermato sulle pagine del «Bargello» nel luglio del 1938:

Non esiste il vero critico, e la vera critica, se non esiste lo scrittore, e un’arte let- teraria con le sue leggi logico fantastiche a crearne l’autonomia: a creare infine una verità. Solo una verità autonoma, insistente proprio nell’opera critica, può verificarci una verità nell’opera criticata13.

In tale formulazione è possibile cogliere il senso profondamente innovati- vo di una lettura e di una scrittura critica che, lungi dal mantenersi entro l’am- bito del commento, si caratterizzano innanzitutto come autonome rispetto al

9 Per una rassegna completa degli scritti pubblicati dall’autore sulle due riviste si faccia riferimento alla Bibliografia di Piero Bigongiari (marzo 1933- aprile 1986), a cura di Maria Car- la Papini, Firenze, Opus Libri, 1986, e al volume P. Bigongiari, Il critico come scrittore. Prose e aforismi (1933-1942), a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Porretta Terme, I Quaderni del Battello Ebbro, 1994. 10 Bigongiari utilizza la formula per la prima volta nello scritto Il critico come scrittore, in «Il Bargello», Firenze, 31 luglio 1938, 40 (ora in P. Bigongiari, Il critico come scrittore. Prose e aforismi (1933-1942) cit.). 11 P. Bigongiari, Postilla a Bocelli, «Corrente», II, 30 settembre 1939, 17, p. 1. 12 P. Bigongiari, Studi, Firenze, Vallecchi, 1946 (gli interventi sono ora riproposti in P. Bi- gongiari, Studi, con uno scritto di Maria Carla Papini, Trento, La Finestra, 2003; allegato al libro un CD-Rom con l’aggiornamento della bibliografia di Bigongiari e la schedatura della corrispondenza). 13 P. Bigongiari, Il critico come scrittore cit. 386 Elena Guerrieri messaggio testuale colto nella sua immediatezza, e recepito piuttosto nella sua continuità dinamica. L’impostazione che caratterizza tale approccio critico si traduce infatti in una continua sollecitazione e rimessa in funzione – e in di- scussione – del messaggio testuale stesso14: a partire dalla ricostruzione scien- tifica e puntuale dell’iter elaborativo, colto nella sua dinamica totalità seman- tica, il critico come scrittore estrapola il significato dal contesto spazio-tempo- rale in cui il testo è stato elaborato e di fatto prosegue nell’operazione creativa. In tal modo non solo viene garantita la continuità dell’opera, ma anche, so- prattutto, si apre ad essa la possibilità di significare oltre la contingenza stori- ca entro cui è stata concepita e formalizzata, rivitalizzandone il senso e il signi- ficato. Ecco quindi che l’attività del critico, intesa come «in partenza […] una scienza ma in arrivo […] un’arte […] un’«invenzione»15, si sviluppa entro un sistema di «leggi logico fantastiche»16 del tutto estranee alla concezione dell’i- dealismo crociano, ossia a quello che l’autore avrebbe in seguito definito come il «più grande giuoco umorale che ci abbia fatto la storia quando ci siamo affi- dati ad essa come a una persona che dovevamo soltanto assistere, a una presen- za dinanzi alla quale ci siamo fatti spettatori»17. Al contrario di questo tipo di lettura, che nello scritto Solitudine dei testi, pubblicato su «Campo di Marte» nel 1938, Bigongiari definisce come «lettura dell’uomo sazio, una lettura sen- za tempo […] che tende a dissociare i testi nei loro temi»18, è piuttosto neces- saria una lettura effettivamente critica, la quale di fatto si traduce in un’opera- zione di tipo storico:

Il critico rappresenta una facoltà tumultuosa di cristallizzazione: deve, cotesta facoltà, essere abbandonata parecchio al suo tumulto, perché ivi possa toccare in estremi quel tempo che pervade i testi, e in qualche modo misurarlo […]. Chi legge non può abbandonare il suo tempo quotidiano senza il dialogo col testo: poi sì, il dialogo è campito in un metro che lo supera, e qui il critico è davanti

14 Nello scritto introduttivo a P. Bigongiari, Studi cit., pp. ix-x, la Papini sottolinea infatti come «l’assunto basilare della […] concezione della critica» dell’autore sia la «continua rimessa in azione – e in discussione – di un messaggio testuale mai da intendere come circoscritto e se- dimentato entro i limiti della propria contingenza storico-culturale, né tantomeno esaurito nei termini della propria scrittura ma, viceversa, reso volta a volta alla piena potenzialità della sua virtualità semantica dall’approccio rivitalizzante della lettura e, soprattutto, della scrittura del critico». 15 P. Bigongiari, La critica è invenzione, in Nel mutismo dell’universo cit., p. 8. 16 Nell’articolo Il critico come scrittore Bigongiari sottolinea: «Superata la descrizione, eluso il tempo inferiore del documentario psicologico, il critico è davanti all’imprescindibile dovere di un’invenzione. Noi cioè dobbiamo porre l’assoluta esigenza del critico come scrittore, posta l’autonomia della critica come fenomeno letterario. Non esiste il vero critico e la vera critica se non esiste lo scrittore, e un’arte letteraria con le sue leggi logico-fantastiche sufficienti a crearne l’autonomia: a creare cioè, infine, una verità». 17 P. Bigongiari, Capitolo introduttivo, in P. Bigongiari, Studi cit., p. 14. 18 P. Bigongiari, Solitudine dei testi, in «Campo di Marte», I, 15 agosto 1938, 2, p. 1. LA «GIOVENTÙ POETICA D’OPPOSIZIONE» 387

alla sua ascesi, la necessità di un’invenzione che assuma i testi nella loro solitu- dine, evadendo in una imitazione dell’eterno la loro intraducibilità tematica19.

Anche l’attività del critico dunque si inserisce nel discorso di opposizione, laddove essa è intesa come continua messa in crisi20 del messaggio testuale, ma anche come dissoluzione di quei “temi” adottati dalla critica storicistica e idea- listica, dietro i quali si nasconde uno stereotipo di tipo ideologico: «seguire i te- sti nei loro temi» – afferma infatti Bigongiari – significa sottometterli a «un ci- clo civile»21 cui di fatto diventano funzionali. Non più una storia intesa come «magnifico esempio»22 e «irretita in false mitologie»23, bensì la storia come «lin- guaggio con la purezza di se stesso» una «creatrice di personalità: […] un con- tinuo superamento di se stessa in solitudine» deve essere alla base di una critica «che mira a farsi storia nella misura che riesce a fare storia in re, non post rem»24. In tale prospettiva, si declina del resto non solo l’attività del critico, ma an- che quella dello scrittore, accumunati nell’ambito di una ricerca che – per mez- zo della parola e quindi del comune medium linguistico – prende necessariamen- te avvio da quella che Bigongiari definisce come zona «d’ombra e d’essere»25, in cui è individuata l’origine prima del linguaggio stesso e quindi l’origine del rea- le inteso come creazione del linguaggio. Tale fondo archetipico deve necessaria- mente essere esperito nell’ambito dell’operazione poetica e critica, la quale diven- ta volontariamente tramite di questo silenzio primordiale e indistinto, e quindi mezzo per l’acquisizione di senso di una parola che, costituendosi e sostanzian- dosi appunto a partire dal silenzio, viene ricollegata alle cose, al reale. Da una iniziale condizione di «memoria semispenta»26 dunque, lo «sguardo» del poeta è «dilatato nell’ora profonda […] l’ora dei rapporti tra le cose»27: e merito della

19 Ibidem. 20 Cfr. P. Bigongiari, Vestibolo, in «Corrente», II, 15 giugno 1939, 11, p. 3: «possiamo ancora parlare, tentare in “tempi” critici chi ci ha preceduto: cioè mettere in crisi il suo risultato: senza credere al tema del suo compito, ma al tempo dei suoi motivi, cioè al tempo della sua ricerca». 21 P. Bigongiari, Solitudine dei testi cit., p. 1. 22 Ibidem. 23 P. Bigongiari, Autoritratto poetico cit., p. 384. 24 P. Bigongiari, Intervista non immaginaria, risposte a Claudio Toscani, in Nel mutismo dell’universo cit., p. 51. 25 P. Bigongiari, Postilla a Bocelli cit., p. 1. 26 P. Bigongiari, Un lume velenoso, in Rogo (Milano, Edizioni della Meridiana, 1952): «Forse una stella, ma forse una lacrima, / assorta irradiando a una memoria / semispenta una luce dolo- rosa, / se riappari riappare o si dilegua». Nell’Autoritratto poetico, cit., p. 386, Bigongiari identifica infatti la «memoria / semispenta» dell’ultimo componimento di Rogo con «la memoria orfica che più non travasa segreti verso l’hic et nunc», e precisa dunque l’intento di tipo storico che sta alla base della prassi poetico-critica: «Ma al di là del flusso oscuro, orficamente ricuperabile, dell’esi- stere, sta l’essere, sta cioè la storicità dell’essere: il momento in cui l’uomo si trasforma da oggetto a soggetto di storia; il momento in cui la memoria si dilunga nella vicenda umana come in una natura ricuperata, totalmente solidale». 27 P. Bigongiari, Giornale, in «Campo di Marte», II, 1-15 giugno 1939, 10, p. 1. 388 Elena Guerrieri terza generazione, dirà Bigongiari, fu proprio quello di «avvicinarsi alle cose ol- tre la […] fenomenicità»28, mediante un moto ingressivo che accerta la natura costituzionalmente contrastiva della parola nata dal silenzio. Nella Nota per il lettore d’oggi posta in calce al volume di Studi pubblicati nell’immediato dopoguerra – e in cui confluiscono molti degli scritti apparsi sul- le due riviste – l’autore avrebbe ribadito che merito indubbio della condizione di esilio in patria, individuabile nello stallo non solo storico politico, ma anche ideologico e culturale, nonché propriamente linguistico, fu quello di condurre a un’operazione poetico-critica svolta nell’ambito di un discorso allargato, un discorso tenuto «sempre aperto nel flusso inarginato della coscienza, in vista di qualcosa che sapevo esistere al di là della nostra povertà di lettori interessati»29. La valenza gnoseologica che caratterizza la ricerca della terza generazione si so- stanzia appunto in tale senso di apertura, che è poi una continua interrogazio- ne, un dubbio assunto a metodo e a garanzia di un’operazione poetica autenti- camente innovativa, proprio perché inserita nell’ambito di una dialettica che ri- fiuta la tranquillità della sintesi. In occasione di numerose interviste successive, Bigongiari avrebbe riassunto tale impostazione nella formula della «positivizzazione del negativo»30, dichia- rando che la poetica della terza generazione si proponeva di proseguire il di- scorso negativo montaliano – fermo al «ciò che non siamo, ciò che non voglia- mo» – e di risolverlo mediante una contemplazione del positivo. Se Montale, il «maestro […] quotidiano», negando – avrebbe chiarito in seguito Bigongiari – già «affermava qualcosa»31 – la generazione dei giovani ermetici, porta avanti un’operazione di tipo dialettico che, nell’ambito di una continua interrogazio- ne, esperisce appunto sia il polo positivo che quello negativo:

A me e alla mia generazione credo sia avvenuto di mettere in rapporto gli estre- mi d’ogni possibile significatività. […] Il negativo non elimina il positivo, il positivo non elimina il negativo. La possibilità del poien, cioè del fare poesia, consiste nel sentirsi legati e radicati in situazioni in cui sia il negativo che il po- sitivo coesistono. La polarità del discorso si ripete drammaticamente all’interno di una […] situazione poetica, e quindi verbale e semantica, […] significa stato tensivo […]. La nostra azione […] non mirava alla catarsi, cioè alla purificazio-

28 P. Bigongiari, Autoritratto poetico cit., p. 384. 29 P. Bigongiari, Nota per il lettore d’oggi, in P. Bigongiari, Studi cit., p. 271. 30 Nell’Intervista non immaginaria, rilasciata a Claudio Toscani (in Nel mutismo dell’universo cit., p. 24), Bigongiari chiarisce come tale formula si riferisca alla «reintroduzione funzionale del tutto nella parte»; nell’ambito della già citata intervista a Marin Mincu, La lenta maieusi (ivi, p. 165), chiarisce: «Alla cosiddetta poetica della parola sostituimmo una vera e propria poetica del discorso […]. Il discorso che era nato negativo in Montale (“ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”) io credo che l’ermetismo finì per dialettizzarlo con la sua positività, nel cosiddetto “scandalo della speranza”: noi cercavamo ciò che eravamo, ciò che volevamo». 31 P. Bigongiari, È ancora possibile la poesia?, in Nel mutismo dell’universo cit., p. 243. LA «GIOVENTÙ POETICA D’OPPOSIZIONE» 389

ne d’una determinata situazione, all’eliminazione della sua drammaticità, quan- to piuttosto a ferirla più a fondo, a graffiarla […], a toccare il fondo della ferita, a metterne in luce la suppurazione32.

Il valore gnoseologico di quella che Bigongiari avrebbe individuato come una «poesia che vuole qualcosa»33, e quindi di «questa conoscenza per errore»34, si traduce in una ricerca che a partire dal fondo, dall’uomo interiore, procede nell’indagine di una verità che è di per se stessa ambigua, in quanto frutto della costante perturbazione semantica che caratterizza una parola drammaticamen- te posta tra il positivo e il negativo, tra eternità e tempo, tra possibile e impos- sibile, tra essere e non essere:

Noi dobbiamo conquistarci il nostro essere […] dobbiamo conquistarlo attra- verso l’esistenza. L’esistenza non è qualcosa di assolutamente separato dall’esse- re, ma contiene in sé il divenire essente […]. L’essere non è ab aeterno stabilito, ma è qualcosa che dobbiamo in un certo senso costruire dentro di noi, e ognuno in noi, costruendo la propria personalità35.

È infatti nella Persona36 che Bigongiari individua la sintesi di questa possibili- tà infinita di rapporto, che si traduce in possibilità di costruzione, nel momento in cui nella Postilla a Bocelli essa è intesa come «perpetuo e biografico trampoli- no di lancio di movimenti assoluti e meditati […] continua tensione di rapporti nella sfera monotona di un corpo in cui tutto il mondo si raduna e si scioglie»37, e che viene appunto sollecitata ad una «continua posizione attiva»38: ad un atto di presenza che rende la Persona del tutto antitetica al «personaggio», laddo- ve questo «è colui che accetta il “giuoco delle parti” […] per assumere qualsia- si forma gli sia imposta, a cui si manterrà fedele, come a un tic, sino alla fine»39. È questa la condizione di disattenzione e assuefazione che caratterizza la civiltà contemporanea, e che viene apertamente denunciata nello scritto Ragionamento sulla civiltà40, apparso su «Campo di Marte» nel 1938:

32 P. Bigongiari, Il lieve soffio dell’ala, risposte a Mario Ajazzi Mancini e a Giancarlo Ricci, in Nel mutismo dell’universo cit., p. 255. 33 P. Bigongiari, L’orfismo in crisi, risposte a Paola Brizzi Trabucco, in Nel mutismo dell’uni- verso cit., p. 235. 34 P. Bigongiari, Perifrasi sulla poesia, intervista con Roberto Mussapi, in Nel mutismo dell’u- niverso cit., p. 150. 35 P. Bigongiari, L’orfismo in crisi cit., p. 238. 36 P. Bigongiari, Persona, in «Campo di Marte», I, 1° settembre 1938, 3, p. 3. 37 P. Bigongiari, Postilla a Bocelli cit., p. 1. 38 Ibidem. 39 P. Bigongiari, Intervista non immaginaria cit., p. 36. 40 P. Bigongiari, Ragionamento sulla civiltà, in «Campo di Marte», I, 15 settembre 1938, 4, p. 1. 390 Elena Guerrieri

lo spirito contemporaneo tentandosi continuamente come eredità, vive in un’attenzione discontinua, saggia il futuro come un’evidenza del suo passato. La civiltà vuol provare se stessa invece che un esaurimento continuo di se stessa […]. Si crea la logica della propria corsa razionalmente predisposta […]: finché la capillarità della sua assuefazione si trova davanti alle crisi di un’antistoria cre- atasi all’estremo di una sopportazione41.

Al contrario, la civiltà letteraria deve essere intesa come necessario «tentati- vo di elaborazione […] di un’evidenza che continuamente si sorpassa nelle sue ipotesi appena formulate»42, e quindi come «imperfezione che è la sua vitalità continua»43; ed è questa civiltà che viene sollecitata all’accertamento del «favil- lato reale»44 nel momento del suo trapasso: ossia nel momento in cui si intrave- de «il sorriso di una saggezza» che è «tutta creduta in un punto, in quel punto, poi immediatamente dissolta»45. Tale civiltà, sottolinea Bigongiari, «esiste come andatura e durata»46 come «annuire non solo logico»47, perché traduce in una «prosa necessaria […] pro- sa di chiarimento e di portata verso la verità» una parola esperita «oltre tutta la sua luce razionale»48: è questa la parola che si è sostanziata nella «zona di om- bra e d’essere»49, traendo da essa il senso misterioso del suo continuo divenire. La parola macchiata di silenzio si sostanzia e acquisisce un senso, diven- tando un simbolo storicamente pieno: tale simbolo linguistico caratterizza l’«opera in progresso»50 in cui Bigongiari individua il valore della propria prassi poetica e critica. Scandita nella sua assolutezza la linea interiore51, la scrittu- ra conserva il senso di moto «inarginato», continuo e totalmente aperto alla possibilità semantica, e quindi svincolato da strutture codificate e che si ri- solve in una «scienza nutrita di stupori»52. Nell’ambito di un contesto stori- co, politico e culturale dove «la storia sembrava non passare più»53, il valore conoscitivo dell’operazione poetica diviene un atto di responsabilità da par-

41 Ibidem. 42 P. Bigongiari, Il caso nella civiltà, in «Campo di Marte», I-II, 1° gennaio 1939, 10-11, p. 4. 43 P. Bigongiari, Ragionamento sulla civiltà cit., p. 1. 44 P. Bigongiari, Disobbedienza al tema cit., p. 1. 45 P. Bigongiari, Ragionamento sulla civiltà cit., p. 1. 46 P. Bigongiari, Persona cit., p. 3. 47 Ibidem. 48 P. Bigongiari, Postilla a Bocelli cit., p. 1. 49 Ibidem. 50 Ibidem. 51 Cfr. P. Bigongiari, Disobbedienza al tema cit., p. 1: «Proprio qui, in questi punti d’incro- cio, in questi piloni della linea inventiva, è visibile la maggiore, o no, validità degli sforzi di ogni creatore: quanto la linea è inventata, oppure si adatta agli aiuti cronistici. La possibilità di poesia vera è proprio nell’assoluta scandibilità interiore di quella linea». 52 Ibidem. 53 P. Bigongiari, Autoritratto poetico cit., p. 384. LA «GIOVENTÙ POETICA D’OPPOSIZIONE» 391 te di un soggetto che non è più spettatore, bensì attore e creatore esso stesso di storia: «Nel “costruire è il segreto”: e in esso veramente non è la vita che ridonda nell’opera, ma l’opera nella vita. […] Occorre questa continua po- sizione attiva»54. È questa la letteratura come vita di una gioventù poetica che prende posi- zione opponendosi, disobbedendo al tema dell’ideologia dominante e operan- do appunto una letteratura «nutrita di stupori»55: in Giornale, l’ultimo inter- vento pubblicato su «Campo di Marte» nel giugno 1939, Bigongiari dichia- ra l’impossibilità morale di ingannare il tempo56: se il futuro è «un presen- te […] portato più in là»57, il tempo quotidiano è la «condizione» e il «mez- zo colloquiale»58 per la resa di questo continuo e imprescindibile slittamen- to, che è poi la riproposizione della dialettica che collega essere ed esserci. Lo stupore di cui si nutre la creazione poetica e critica coincide dunque con la resa di una dismisura: l’asserto storico viene messo in crisi mediante una pre- sa di posizione che è anche un atto di responsabilità, non più demandata alla contingenza storica, ma all’individualità di un soggetto critico che confronta la successione delle azioni storiche con quello che Bigongiari definisce «l’infi- nito possibile del tempo»59. La terza generazione, afferma l’autore nello scritto intitolato Vestibolo e ap- parso su «Corrente», è quella che ha aperto gli occhi «sui gradini», ossia nello «spazio tra l’interno e l’esterno», e «tristemente delusa dalla grande sicurezza» della cultura ufficiale proclama la propria fedeltà alla «vera poesia: un oggetto risalibile fino al gesto puro, che è il non terminare di tutto l’essere»60. È questo senso del limite, dello spazio tra l’interno e l’esterno, che viene esperito in virtù di uno stupore inesauribile, e che sostanzia un’opera del tutto proiettata verso

54 P. Bigongiari, Postilla a Bocelli cit., p. 1. 55 P. Bigongiari, Disobbedienza al tema cit., p. 1. 56 Cfr. P. Bigongiari, Giornale cit., p. 1: «So che il tempo ha in sé lo spessore e la complessità di un atto decisivo: so matematicamente che non è possibile trarlo in inganno. Come? Interrom- pendolo, traendoci sul ciglio. So che non è possibile, moralmente, chiudere gli occhi. E che ci resta una risorsa imponente, ma l’unica, danzarlo, seguendone il filo vorticoso». 57 P. Bigongiari, Asia, in «Campo di Marte», I, 15 ottobre 1938, 6, p. 3. 58 Ibidem: «l’opera stratificata è un assorbimento del presente, quindi creatrice di questo; è un presente, insisto, condizionale; un presente capito come mezzo; colloquiale, non sensuale […]. Ora so che è la nostra unica disposizione all’eternità; nella quale saremo lentamente soltanto giovinezza; cioè prova di una condizione immemoriale della memoria». 59 P. Bigongiari, Autoritratto poetico cit., pp. 388-389: «È la storia, la voce dell’uomo; alla naturalezza del poeta, che è situazione valida sempre, occorre aggiungere questa perenne con- valida dell’esistenza che è il suo avvertirla fatalmente unica. Al continuum esistenziale insomma l’unicum storico. Che dà luce drammatica all’essere. Se il tempo, che cova le passioni, e quasi dà loro forma, anche le estingue. Dunque bisogna che le passioni, oltre che “descrivere” il tempo, come l’oggetto formato descrive lo stampo in cui il fonditore l’ha colato come ancora materia incandescente, anche posseggano una materia ch’io vorrei chiamare l’infinito possibile del tempo». 60 P. Bigongiari, Vestibolo cit., p. 3. 392 Elena Guerrieri il tempo, che deve essere inteso a questo punto come «imitazione dell’eterno» e quindi «passibile di storia proprio in questa sua imitazione, cioè nella volontà continua di evadere da se stesso percependosi totalmente»61.

61 P. Bigongiari, Solitudine dei testi cit., p. 1. «QUELLA PATRIA CHE SI CONFONDE ALL’ORIZZONTE» ERRANZA, DESIDERIO E SCRITTURA NELL’ULTIMO BIGONGIARI

Gilberto Isella

Omniprésent à l’univers bien qu’y étant partout absent Mon absence est l’illusion où prend forme sa consistance Pierre Emmanuel

Il «nessun luogo» […] è il luogo dove passa Nessuno, questa temeraria ombra omerica del personaggio che cerca la sua patria in ogni luogo delle sue tentazio- ni, e in ogni luogo ne trova un brandello, un tocco dell’umana follia, intesa in senso insieme positivo e negativo, che non è altro che un brandello delle sue ten- tazioni e del desiderio di poterla raggiungere, quella patria che si confonde all’o- rizzonte con la brama stessa dell’irraggiungibile laddove appare la sostanzialità dell’apparente, ma anche la mera apparenza di una sostanza ancora informe1.

Il nessun-luogo, Odisseo-Nessuno, la patria dilacerata. Una costellazione te- matica bigongiariana per eccellenza, che gravita intorno al motivo dell’erranza. Vale a dire l’ultima grande narrazione rimasta all’uomo occidentale, la più te- nace, la più duratura, se è vero che la sua origine, nel mondo omerico, coinci- de con i fondamenti stessi del narrare, fondamenti nati mentre l’uomo inven- tava il viaggio e ne faceva un perno della propria Bildung esistenziale e intel- lettuale. Ma occorre sgomberare il terreno da possibili equivoci. Qui non s’in- tende assegnare a erranza e nomadismo l’accezione ristretta di un sentimen- to epocale dominante, di un topos antropologico – non estraneo d’altronde al sentire di Bigongiari – quanto piuttosto iscrivere il tema in una categoria po- lisemica ampia, comprensiva di tutto ciò che, in rapporto con il viaggio, la Wanderung, il procedere non lineare e altro, si trovi in stretta relazione con la scrittura poetica bigongiariana. Una questione di motilità «intenzionale», per

1 Piero Bigongiari, Abbandonato dall’Angelo, Locarno, Dadò Editore, 1992, p. 83. Di rifles- sioni simili è costellato il pensiero di Bigongiari. Un solo esempio: «Cerco di raggiungere la mia patria nel “non so dove”, che è un luogo preciso; ma anche so che in ogni “dove” è la mia patria, anche se il non sapere dove, non toglie al dove la sua localizzazione» (P. Bigongiari, La poesia pen- sa, a cura di Enza Biagini, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Adelia Noferi, Firenze, Olschki, 1999, p. 203).

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 394 Gilberto Isella precisare, che supponiamo inerisca a ogni ipotesi di semiosi illimitata collega- bile alle vicende del logos. Ne sarebbe implicato in modo evidente, accolta l’istanza metamorfica di base, il processo semiotico in poesia, dal momento che «la poesia è da intendersi come perpetua metamorfosi della propria identità»2, e «l’arte sarebbe morta solo dove avesse a perdersi questo senso generico dell’alterità che cresce nell’identità come processo di progressiva identificazione»3. Se il testo consiste nel suo perpetuo divenire (il «divenire essente»), del fatto è anche responsabile, in itinere, il con- tinuo slittare dei significanti sui significati fino a produrre «eccedenze» di sen- so, per un’asimmetria di percorsi che contraddice, o almeno rende meno rigida, la loro saussuriana corrispondenza biunivoca all’interno del segno. E ciò a par- tire dal ruolo svolto dall’anasemia, quella figura «dislocante» di natura fonolo- gica su cui, in base a definizioni già formulate da Stefano Agosti e dallo stesso Bigongiari, si sofferma Luigi Tassoni: «il corpo fonico della parola produce un tracciato di senso per riferimento implicito ad altra parola o significato»4. Col concorso, aggiungerei, degli inquieti materiali pre-simbolici o tracce pulsionali derivanti dal primo agitarsi della vita nel soggetto, che persistono e incidono re- troattivamente nel segno poetico anche quando esso, «precisandosi e distinguen- dosi dall’informe magmaticità sommossa da una primordiale energia irrelata»5, sembra avviarsi al consolidamento del proprio sistema di relazioni formali. Sta di fatto che, per Bigongiari, «il significato è una sosta, non una conclusione. Come nello sgorgare di una fonte o nello scorrere di un fiume è la diversità del- le sue molecole liquide sempre altre che crea l’identità della sua immagine»6. Una volta promosso a manifestazione-cardine dell’erranza, il nomadismo ri- vela la sua profonda complicità con l’avventura del linguaggio:

Derrida che ricorda la frase proustiana «I bei libri sono scritti in una sorta di lingua straniera», nomadica. Se il nomade è colui che ricerca il nomos, e con ciò intesse il nomos, il compito, e con esso il paese perduto, e se poeta è colui che il nomos ricerca nel linguaggio verso il nomen, che è il recesso stesso del numen, di colui che fa un cenno di assenso7.

Con la sua prosodia accattivante questa complessa proposizione spiega, evi- denziando un tratto distintivo del pensiero poetico-critico bigongiariano, come

2 P. Bigongiari, La poesia pensa cit., p.173. 3 P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo. Interviste sulla poesia 1965-1997, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p.13. 4 Luigi Tassoni, Una sperimentazione non silenziosa. Alcuni dati per la storia di Bigongiari, in «Rivista di letteratura italiana», 2014, XXXII, 3, p. 95. 5 P. Bigongiari, E non vi è alcuna dimora, s.l., Albatro Edizioni, 1999, p. 72. 6 P. Bigongiari, Un pensiero che seguita a pensare, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Torino, Aragno, 2001, cit., p.223. 7 Ivi, p. 348. ERRANZA, DESIDERIO E SCRITTURA NELL’ULTIMO BIGONGIARI 395 l’investigazione etimologica (tesa all’ètimos, al «vero» in quanto «originario») esiga, nel suo excursus, una robusta coimplicazione di semantema e fonema. Si tratta in sostanza, per dire con Jakobson, della proiezione dell’asse paradigmati- co sul sintagma, ovvero quel fenomeno che sta alla base del messaggio poetico. Vediamo come stanno le cose. Il nomade-poeta richiama il nomos, che è l’ordi- ne fondativo del linguaggio, ma quest’ordine non può imporsi al di fuori della nominazione, e la nominazione pervenuta alle soglie del suo esaurirsi, affidata ormai alla Gelassenheit e alle atmosfere rarefatte del «non ancora dicibile», con- durrà all’avvistamento di un’entità trascendente (il numen), la cui dimora pre- sunta è quella del «paese perduto», della «patria che si confonde all’orizzonte con la brama stessa dell’irraggiungibile». Sempre tenendo ferma la premessa che il linguaggio poetico equivale a «una forma di imitazione nominante del gesto originario di Dio»8 e che «Dio è nascosto dietro la poesia»9. Ma la catena degli occorrimenti solidali non finisce qui. Dal nomos idest compito e ordine passeremo agevolmente (e per raccourci etimologico) a nomàs, «colui che vaga con il gregge al pascolo». Come non riconoscere allora in que- sto nomade pastore il protagonista del leopardiano Canto notturno di un pasto- re errante nell’Asia, l’assetato d’infinito, il detentore per antonomasia dell’inter- rogazione sull’essere e il nulla, quell’individuo che, «se è “assis sur une pierre”, è come fisicamente immerso in un giro immortale?»10

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L’erranza, ancora per apparentamento etimologico, è associata all’errore, di cui la scrittura – all’insegna del rischio – non smette di fare esperienza nel pro- prio trasgredirsi e contraddirsi, in particolare se il testo è consapevole di poter te- stimoniare un evento solo in assenza del medesimo: «Riposa il testo nel suo do- loroso errore/ di testimone che non era presente al fatto»11. Ciò si verifica ogni- qualvolta la scrittura, per vocazione e con foga odisseica, osa affacciarsi sull’oltre, sull’ignoto: «Errore anche nel senso di errare dietro indizi stupefacenti alla ricerca di qualcosa che si sta rivelando come il corpo stesso mitico dell’inconoscibile»12. È che in realtà, affrontando l’insidioso mare dell’essere e del dis-correre, Ulisse- Nessuno-il poeta presagisce la propria insufficienza radicale rispetto alla patria del senso. Se l’unità di quest’ultima vien meno e non rimane che polvere («La patria è in polvere, muti i frammenti, / i taciuti e i gridati»13) l’errante porterà su di sé per sempre le stigmate di una scissione avvenuta oltre i confini del rappresentabile.

8 P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo cit., p. 222. 9 P. Bigongiari, Un pensiero che seguita a pensare cit., p. 215. 10 P. Bigongiari, Leopardi, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 181. 11 P. Bigongiari, Diario americano 1987, Montebelluna, Amadeus, 1987, p. 37. 12 P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo cit., p. 150. 13 P. Bigongiari, Abbandonato dall’Angelo cit., p. 69. 396 Gilberto Isella

Sostanziata dal non-luogo e non-tempo odisseici e malgrado il potere eufo- rizzante della parola amorosa che la pervade eludendo ogni inganno speculare («L’amore alita, brezza sullo specchio/ dove nemmeno di Nessuno è traccia»14), la poesia di Bigongiari veleggia sempre ai bordi di fratture primarie: drammatica separazione dalle Tavole e reiezione dalla patria, indizi della Spaltung del sogget- to. Molteplici declinazioni di essa, col supporto di paradigmi di natura ontoteo- logica in prevalenza veterotestamentaria man mano che ci avviciniamo all’opera della piena maturità – diciamo da Moses (1979) a Dove finiscono le tracce (1996) e ai testi postumi –, lasciano intuire l’enigmatico venire-a-essere di queste frat- ture. Non sembri arbitrario allora collegare molte delle domande che la nostra poesia solleva a quella che ascoltiamo nel III Sonetto a Orfeo di Rilke: «Un dio può. Ma come, dimmi, come può / un uomo seguirlo con la sua lira inadegua- ta?/ Il suo senso è la scissione»15. Per Bigongiari, come per il poeta tedesco, anche nell’era dell’hölderlinia- na indigenza e della perdita del centro il «canto è esistenza». È il canto di un Nessuno spaesato tra mille angustie e vòlto ciò nondimeno – quando il kai- ròs (l’opportunità offerta dall’iter poematico) se ne fa garante – a esprime- re amore per la condizione precaria che gli è data in sorte. «Eppure», si leg- ge nell’Avvertenza a Dove finiscono le tracce, «abbiamo amato quella preca- rietà». Di qui la sensazione che un punto d’appoggio anche instabile, oscil- lante, sia sufficiente a scongiurare il naufragio. Cito ancora dall’Avverten- za: «Un ramo oscillante al vento ci è sembrato quello a cui si aggrappò Enea sballottato tra Scilla e Cariddi». In quel solitario ramo provvidenziale piace veder proiettato, per sineddoche, il diramarsi vitale di un intero ordine fon- dativo nella scrittura.

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L’essere «non ha altra perfezione / ch’essere disuguale da se stesso»16. Qualsiasi immagine che, dopo averne segnalato la pienezza sotto forma di «imperioso vor- tice quasi immoto», volesse riprodurne un’episodica e ribollente Lichtung, fini- rebbe col confermare, dell’essere, la disseminazione e l’occultamento: «Un cen- tro che ribolle / nella caligine della schiuma notturna, / quasi urna del proprio scomparire»17. Ciò a prova del fatto che, còlto «nel limo archetipico dell’esisten- te» ossia nella sua vischiosa differenza ontologica, l’essere è solo una manifesta- zione, non importa se la più sublime, dell’erranza: l’erranza nel significato nu- cleare di dislocamento, non presenza a sé dell’ente.

14 Ivi, p. 13. 15 Rainer Maria Rilke, Sonetti a Orfeo, trad. di Franco Rella, Milano, Feltrinelli, 1991, p. 23. 16 P. Bigongiari, Abbandonato dall’Angelo cit., p. 46. 17 P. Bigongiari, E non vi è alcuna dimora cit., p. 19. ERRANZA, DESIDERIO E SCRITTURA NELL’ULTIMO BIGONGIARI 397

Forse l’idea di pleroma concepita dagli gnostici è mero inganno. Eppure il po- eta, scriba dell’intervallo tra l’essere e il nulla, non si astiene dal volgersi a quella perfezione-totalità dalla quale l’avvertimento della fatale incompiutezza di ogni poema, generatrice di lacerazioni e entropia, dovrebbe invece distoglierlo: «La scintilla del poema muore / mentre qualcosa che si disunisce / e si separa, de- perisce a poco / a poco»18. Mentre il freddo ragionamento lo convincerà che «la concezione del mondo implica, per l’aprirsi di un discorso in re, una prelimina- re eliminazione della sua totalità»19, passione e desiderio non cesseranno di av- vincerlo ad essa, quand’anche il panta assumesse i sembianti di un deserto «fo- mentatore di miraggi». In questo caso sarebbe lecito interpretare le lande deser- tiche tormentate dalla polvere come il rovesciamento notturno e antifrastico, certo non improduttivo, della patria celeste. Ma a condizione di ammettere, al di là dello stratagemma euristico, che per Bigongiari in ogni dicotomia radica- le positivo e negativo si trasfondono a vicenda, quasi in ossequio a un superio- re, misterioso principio di costanza, vale a dire il principio che governa il limite:

Ogni limite che separa unisce più a fondo ciò che è inseparabile come la sciara il magma al deserto20.

In modo analogo – e ora ci spostiamo sul versante teologico – l’essere-al- di-là del nome, che spetta a Dio, trova il suo polo negativo nel senza-nome di Nessuno. Sennonché tale negatività denoterebbe solo, per dar credito a una «lo- gica mistica» che da San Bonaventura porta a Maestro Eckhart, una situazio- ne di passaggio. Più precisamente quella fase superiore dell’intinerarium mentis che vede nell’autoannullamento un preliminare alla con-versione (ed eventual- mente fusione con l’Altro). Ascoltiamo Bigongiari: «È venuto fuori questo per- sonaggio, “Nessuno”, cioè colui che abbandona il suo nome, proprio per met- tersi nella possibilità di raggiungere questo nome dell’Innominabile. Questo è il punto drammatico del linguaggio»21.

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L’oltranza del desiderio, generatrice di errore, è la forza che anima la quête del rilkiano-heideggeriano poeta arrischiante. E se errare commettendo errori equivale a vivere, vivere in senso «autentico» è la stessa cosa che dimorare sul- le falde di un vulcano, «il formidabil monte sterminator Vesevo» di leopardiana memoria. Lo affermerà con autorevolezza Nietzsche: «Il segreto per raccogliere

18 P. Bigongiari, Abbandonato dall’Angelo cit., p. 22. 19 P. Bigongiari, La poesia pensa cit., p. 207. 20 P. Bigongiari, Dove finiscono le tracce, Firenze, Le Lettere, 1996, p. 77. 21 P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo cit., p. 221. 398 Gilberto Isella dall’esistenza la fecondità più grande e il diletto più grande, si esprime così: vi- vere pericolosamente! Costruite le vostre città sul Vesuvio. […] Finalmente la co- noscenza stenderà la mano verso ciò che le è dovuto»22. Fecondità e godimento nelle traversie più acerbe non possono non rammentare l’«odorata ginestra con- tenta dei deserti», il fiore che Leopardi trasformava in simbolo dell’esorcizzan- te, euforica resistenza della poesia al Male. L’errore sarà per forza di cose un agi- re che, mentre ci convoca nei luoghi del pericolo, rende conseguibile la salvez- za. Lo aveva intuito Hölderlin in un celebre detto: «Là dove c’è pericolo, cresce anche ciò che salva», a margine del quale Heidegger annotava: «Il pericolo con- siste nella minaccia che investe l’essenza dell’uomo nel suo rapporto all’essere e non in qualche pericolo momentaneo»23. È dunque nel cerchio magico dell’es- sere e degli elementi primi – sue grandi sineddochi – che si stagliano faccia a faccia pericolo e salvezza. Tra questi elementi primeggia il fuoco.

Restituzione Rapinosa dolcezza dell’errore… Chi osa, getta un fiore nella bocca del vulcano.

E lo ha chiamato amore, ma gli pareva strano, anche se strano era il fiore, tenerlo nella mano, tenere nella mano stretto il fuoco24.

Qui non si riscontrano impatti violenti con il reale devastatore (la «cosa» asimbolica, la terribilità ctonia), dato che l’arrischiante, «chi osa», è avvinto fin dall’inizio nella «rapinosa dolcezza» del proprio gesto. È come se l’«invio» (il lan- cio del fiore) corrispondesse in tutto e per tutto, per un benefico omologarsi dei contrari, alla «restituzione» da parte del vulcano – un Geschick che l’essere-lin- guaggio promuove dalle sue tenebrose voragini – di un fiore ormai trasfigurato in fuoco di passione talismanico, e la bocca, in funzione di catacresi rivitalizza- ta, evocasse alla lontana il miracolo della parola poetica25. «Strano» apparirà al- lora il «tenere stretto», poiché estraniante e sorprendente sarà stata la ricreazione

22 Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, IV, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, Mondadori, Milano, 1971, p. 157. 23 Martin Heidegger, Perché i poeti?, in Sentieri interrotti, a cura di Pietro Chiodi, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 272. 24 P. Bigongiari, Abbandonato dall’angelo cit., p. 75. Cfr., per la stretta corrispondenza te- matica, Tocca il magma, in particolare i vv.1-5: «Tocca il magma col suo dito di fuoco / la vita e fugge via,// ma ti porta,/ è sempre lei, poi ti porta un fiore, / un fiore dal vulcano» (ivi, p. 43). 25 In molte occasioni il poeta crea stretti legami metaforici tra «parola»-«bocca» ed elementi primi. Ad es.: «Parole? O acqua? O fuoco? Non lo so /, e non voglio saperlo, sulle labbra / screpo- late che continuano a berlo, / quale acqua che fluisce, o forse fuoco» (P. Bigongiari, La fonte dello specchio, in Abbandonato dall’Angelo, p. 39). ERRANZA, DESIDERIO E SCRITTURA NELL’ULTIMO BIGONGIARI 399 poetica dell’evento, grazie in particolare all’inedita saldatura semantica, esplici- tata dalla rima, tra la coppia sovradeterminata amore-fiore– forse tra le più «so- avi» e probabili nella poesia di ogni tempo – e il lemma errore, ora assolto dalla sua improbabilità contestuale e innalzato a elemento connettivo. L’arrischiante, all’occasione, corrisponde al poeta che allega al suo poiein la «veridicità» di un étimon improbabile e che all’interno di un flusso allitterativo «ispirato» coglie la cifra genetica del significare.

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L’opera di Bigongiari risulta immune dalle derive nichilistiche di tanta poe- sia novecentesca, come non mancava di osservare Oreste Macrí26. La stessa con- cezione di erranza e nomadismo affonda le radici, più che in uno stato d’animo storicamente circoscritto, nel vitalismo ulissico promosso a categoria universale, in quel desiderio che si rinnova e rinvigorisce di fronte agli ostacoli del viaggio e perfino all’esperienza parossistica dei non-luoghi. E che misconosce la morte in quanto punto terminale del desiderio nonché sua simbolica catastrofe, siccome la brama è produzione di infinito. Così l’io, nell’apostrofare l’alter ego Nessuno:

sappi che nessun luogo è sufficiente alla tua brama, ma ogni luogo, esente dal più insospettato desiderio, è pronto a dire che l’ultimo passo, e l’ultimo inerire, non è quello della morte, se tu non puoi morire che in te stesso27.

E difatti «la vita non vuole farsi sopraffare dalla morte, ma percorrerla viva»28. Vita ovviamente da intendere non come onnipresenza a sé (ipostatica) dell’ente e del soggetto, bensì nel senso di incessante perdita e ritrovamento attraverso il lavoro ri-tracciante della scrittura, nel suo risignificarsi entro un gioco di trac- ce in virtù del quale, fra l’altro, il soggetto esperisce il proprio spossessamento psichico e/o anagrafico (es. Piero-Pireo, «Ero al Pireo come nel mio anagram- ma…»). Ed è così che, al limite della dispersione anagrammatica, il nome dell’io scrivente diviene il non-nome di Nessuno. Assisteremo in tal caso alla sparizio- ne dell’auctor? Osserva a ragion veduta Adelia Noferi:

26 «Questa [la scepsi immanentista novecentesca] nel secondo Novecento – è Bigongiari tra i maggiori testimoni – si ribalta in una nuova fede elementare, protesa a cercare il creatore smarrito nella sua creatura, per mimesi del poeta che omologamente si cerca nella foresta irrazionale della materia verbale simbolizzante realmente la materia vivente» (Oreste Macrí, Studi sull’ermetismo. L’enigma della poesia di Bigongiari, Lecce, Milella, 1988, p. 75). 27 P. Bigongiari, Dove finiscono le traccecit., p. 76. 28 Ivi, pp. 288-289. 400 Gilberto Isella

È questo il rischio che Bigongiari valuta sempre più drammaticamente, ma che affronta proprio in quella possibilità (necessità) di rintracciare le orme, di essere presente fin nella «propria continua perdita», nella dinamica del divenire e del- l’«essere divenuto», foss’anche irriconoscibile a se stesso29.

«Sull’orlo della morte nasce. Parla, e il suo parlare è già ripetere; traccia, e il suo tracciare è già rintracciare»30: tale è il destino della poesia, ma direi anche dei quesiti ontologici che essa racchiude. Della decostruzione delle dicotomie vita/morte, presenza/assenza, interno/esterno, ecc., che l’enunciazione logico- linguistica di superficie postula in termini netti ma viziati da pregiudizi metafi- sici, è responsabile secondo Derrida il lavoro della traccia. Un’arci-scrittura (ol- tre che arci-fenomeno della memoria, e ciò è essenziale per Bigongiari) che fa- cendo emergere l’alterità incondizionata sviluppa modi inconsueti del dire e del rappresentare. Si pensi, per cominciare, a tutto ciò che la «labirinticità» del gesto scrittorio realizza in termini di supplementi di senso trascendenti la mera verba- lità. Vediamo il caso di Messaggio sinaitico:

Fu lì che egli capì che quel suo andare era senza ritorno: nel deserto soggiorno di un futuro senza tempo si alzava un muro in cui si aprì la porta verso il canto della Resurrezione che, dai loro stalli siderali, infreddoliti monaci levavano come da un precipizio in excelsis. Erano già i morti che cantavano dalla tomba? Rombava quel silenzio in una luce fonda, imperscrutabile, come in una ronda tra morte e vita in una felicità inaudita31. (vv. 30-42)

Si consideri dapprima il sintagma paronomastico e ossimorico «precipizio in excelsis» («stalli siderali» e «tomba», l’alta catabasi), in cui si riassume l’intero messaggio della sequenza. Entro il complesso dispositivo semiotico d’insieme le diadi alto/basso, vita/morte, risultano poco operative o sospese in quanto dico- tomie. Tempo e spazio, rimodulati, danno vita a un’inedita liturgia dell’anima. Senza soluzione di continuità si passa da un indizio d’oltretomba («si alzava un muro») a quell’apertura («si aprì la porta») verso un microuniverso acusmatico – l’acustica mistica incentrata sull’ascolto dei suoni dell’arkhé – capace di trasferi-

29 Adelia Noferi, Piero Bigongiari. L’interrogazione infinita, Roma, Bulzoni, 2003, p. 15. 30 P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo cit., p. 14. 31 P. Bigongiari, Dove finiscono le traccecit., p. 10. ERRANZA, DESIDERIO E SCRITTURA NELL’ULTIMO BIGONGIARI 401 re l’esperienza dell’errante su una «scena altra» situata in un «futuro senza tem- po» ma, se riferito al desiderio, di segno resurrettivo. Qui il senso supplemen- tare affluisce, per pura magia acustica, da «stalli siderali». Alla lingua, cui man- cano opportunità di transcodificarsi al suo interno, rimane unicamente il com- pito (nomos) di demandare a un codice «parallelo», evocandolo, la descrizione di un microuniverso del genere, dove morte e resurrezione, dolore e felicità, nel fondersi in pure gamme musicali e silenzi, cancellano la loro tradizionale bipo- larità. Facciamo ora un passo indietro:

Su questo mirabolante tappeto della morte lucente camminai come su un vetro spezzato, per giungere sui luoghi del discreto Nascondiglio: là verdeggiava il roveto ardente32. (vv. 14-18)

Questo frammento funge da proemio alla scena esaminata. In esso, tuttavia, la relazione con l’Altro, la fiammeggiante scaturigine del Sacro, è posta nell’or- dine del visivo. Un ordine paradossale, in quanto concede all’epifania di attuar- si solo attraverso il suo occultamento. Ma è proprio trovando riparo in un «di- screto Nascondiglio» che il soggetto umano tenterà di appercepire la trans-lu- minosità del Nascosto e in tal modo rimuovere, almeno intenzionalmente, lo iato tra separatore e separato. Ce lo conferma in maniera esemplare il compo- nimento Toccato da una luce: «Mi sono riparato dove è più visibile / il nascosto. Ma evidentemente / non ho le qualità del Deus absconditus»33. Per trattenere un barlume di questa esperienza, in sé estatica e indicibile, occorre talvolta affi- darne le sinopie segniche all’impassibilità di un dettato «sperimentalmente» ra- zionale, di tipo per così dire metapoetico:

Solo il Nascosto può dettare legge. Ne raccolgo le briciole, raccatto e metto in fila quanto ormai soltanto è un alfabeto. S’io ne tento il canto disordinandolo per trarne un senso, perdonami, aiutami a cercarlo. (ivi, vv.35-40)

Se la poesia, insomma – trasversale ai luoghi del desiderio nomade – consi- ste nel suo «divenire essente» e nel dire «quello che non è, ma appunto perché

32 Ivi, p. 9. 33 P. Bigongiari, E non vi è alcuna dimora cit., p. 55. 402 Gilberto Isella diviene»34, questo processo eracliteo dovrà pur consentire al fibrillare di bricio- le e tracce che ne costituiscono il flusso desiderante – tracce, risolte in pathos, della Legge perduta – di accogliere la voce, le cadenze della discorsività apolli- nea. Questa la scommessa della poesia bigongiariana, memore in taluni casi del- la «temperata intemperanza» propria al dérèglement rimbaudiano: disordinare il canto per riordinarlo nella linearità «vigilata» delle sequenze verbali, fare dell’er- ranza un «evento immobile». Mai si disgiunga Apollo da Dioniso.

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Bisogna, sulla scorta di quanto visto, garantire all’erranza un arco tetico e se- mantico il più ampio e articolato possibile e, se mi si permette il termine, ontopo- eticamente istitutivo. Bigongiari sa quanto sia appagante a tal fine ravvisarne e rav- vivarne la genesi nei miti e nelle favole della tradizione, giacché «il mito è codice archetipico della verità»35. È in quelle narrazioni che potremo intravedere la sino- pia chiaroscura e in movimento della Patria, ed è nel loro alveo che andrà a deline- arsi l’ampio tracciato-tracciante (e feritore) di ogni ricognizione, dove al culmine, e in rapporto al soggetto, incroceremo di continuo la complessa e perturbante dia- lettica del sé e dell’altro. Un tracciato ellittico e sinuoso, costantemente interrotto, come documenta il mito-archetipo del Labirinto (mostro del disastro, nell’età mo- derna, che «ha assunto una maschera invisibile»36), il quale diviene in Bigongiari icona dell’individuazione del sé e cronotopo veritativo del dimorare-poetare:

La dimora, che non è la stasi, propone con la sua mancanza proprio la neces- sità del movimento. La mancata dimora non è che l’avvertenza del labirinto, ammette cioè il dimorare nell’inoltrarsi nelle ambagi dell’opera che, mentre si libera e si compie come tale nella sua complessità, anche finisce per racchiudere sempre più il poeta nell’illusorietà necessaria dei propri meandri37.

Non smette di sorprendere, nell’opera matura del poeta, l’iscrizione produt- tiva dell’antico nel nuovo, il fatto che un palinsesto di tracce e risonanze del pas- sato sia in grado di confrontarsi con l’episteme contemporanea e la fisica po- stnewtoniana38. La faccenda ha un chiaro fondamento assiologico: appurato il

34 P. Bigongiari, Nel mutismo cit., p. 40. 35 P. Bigongiari, Un pensiero che seguita a pensare cit., p. 130. 36 P. Bigongiari, E non vi è alcuna dimora cit., p. 29. 37 P. Bigongiari, E non vi è alcuna dimora cit., p. 74. 38 In merito, ad esempio, alla personale intuizione della contraddittorietà implicita in ogni dizione, che suppone l’agire di un tempo spazializzato, l’autore trova conferme nel pensiero di Einstein: «Il tempo-spazio einsteiniano, il cronotopo, non è altro che questo tentativo di rap- presentazione della compresenza dei contrari in un’unica entità, della differenza che contiene l’identità» (P. Bigongiari, La poesia pensa cit., p. 207). Sul ruolo del pensiero scientifico nella formazione dell’epistemologia poetica bigongiariana, cfr. Enza Biagini: «Anche se amava riferirsi ERRANZA, DESIDERIO E SCRITTURA NELL’ULTIMO BIGONGIARI 403 gesto sacrale e paradigmatico di Mosè che riscrive le Tavole della Legge infran- te, «la scrittura va riscritta; e noi in qualche modo non facciamo che riscrive- re qualcosa, ma cosa in verità riscriviamo?»39. Riscrivere, vale a dire sforzarsi di suturare una frattura pregressa a costo di impregnarsi ancora del suo sangue, è il suggello di un’imprescindibile «ripetizione differente» e inoltre, occorre con- venire, la maniera meno ipocrita di sentirsi contemporanei. Vorrei estendere a Bigongiari un’osservazione di Agamben concernente Mandel’štam: «Il poeta, in quanto contemporaneo, è questa frattura, è ciò che impedisce al tempo di com- porsi e, insieme, il sangue che deve suturare la rottura»40. Ogni riscrittura è gravida di conseguenze. Il generoso e problematico inte- ragire letterario bigongiariano, da ricondurre a un’intensa revisione concettuale del rapporto sincronia-diacronia, sembra non solo rimescolare le carte dei pro- cessi autoermeneutici interni alla praxis creativa ma anche dispensare, fin nella grana della voce poetica, un sentire dionisiaco e apollineo (si tengano in rappor- to dialettico i due attributi) di indubbia efficacia sul piano della tonalità com- plessiva. E che potremo rilevare rispettivamente nel sensualismo-vitalismo della rappresentazione, sotto la spinta di una realtà presente sempre palpitante, anco- ra fresca del suo anteriore stato caotico, e, sul piano formale, nella compostezza ritmica e frastica della dizione. Due facce della stessa medaglia, verrebbe da dire, in quanto «il simbolo linguistico ha una carne, è incarnazione: la realtà muore come caos e rinasce continuamente come simbolo incarnato»41. In quest’ordi- ne di idee, un attento studioso di Leopardi come Bigongiari non poteva misco- noscere il potere rigeneratore, apotropaico, dei miti e delle favole antiche. Ma a entrambi gli scrittori – avversi per giustificati motivi alla restaurazione neoclas- sica – era necessario operare al loro riguardo il necessario distanziamento, sen- za per questo lasciarne estinguere la scintilla originaria. E cos’è questa scintilla se non l’enigma custodito nel nucleo segreto delle favole? Non tanto quello circoscritto alla singola favola, quanto l’enigma in sé, còlto nella sua pregnanza ontologica seppure nei restituiti sembianti di un torso oscuro. Come rileva la Noferi, interpretando il titolo Le favole hanno ancora un senso enigmatico?, della seconda sezione di Dove finiscono le tracce:

Così la domanda del titolo diviene una domanda retorica con funzione affer- mativa, perché è proprio l’insolubile enigma del “vero” che deve essere nascosto a quei principi scientifici che si “comportano come la letteratura”, di scienza ed epistemologia, egli è stato attento e informato, tanto da iniziare le sue lezioni di letteratura non solo evocando l’importanza delle teorie heideggeriane del “divenire essente”, ma collegando gli eventi letterari, la natura della poesia come “funzione simbolica” del linguaggio, a quelli della scienza» (in Enza Biagini, Piero Bigongiari: i “giochi del caso” fra teoria, critica e poesia, in «Italies» 9/2005, http:// italies.revuse.org/474). 39 P. Bigongiari, La poesia pensa cit., p. 201. 40 Giorgio Agamben, Nudità, Roma, Nottetempo, 2009, p. 22. 41 P. Bigongiari, Un pensiero che seguita a pensare cit., p. 235. 404 Gilberto Isella

nella finzione favolistico-fiabesca, per mantenere attivi e propulsivi tanto l’enig- ma, quanto l’interrogazione, che nessun svelamento dovrà né potrà tacitare in una soluzione o in una risposta42.

Mirando a quella zona abissale43 dell’intendere che è l’enigma, le traiettorie del senso costantemente dette e contraddette riproducono per omologia la quête verti- ginosa affrontata dall’io errante. Il loro moto è variamente asintotico, mentre l’e- nigma, in cui il vero si nasconde, è trattenuto costantemente al limite dei propri punti di fuga. Perfino la natura, curante e curiosa, vi alluga le antenne: «Piante / agitate dal vento, con le fronde / scrutano come sguardi indiscreti / se le favole an- cora hanno un enigma / che ne nasconde il significato / quanto più esse sembrano esaltarlo»44. L’enigma, trasfigurato dagli integumenti dellafictio , si nega in definiti- va alla rivelazione. La sua funzione in re è quella di farsi crogiolo di domande, con tutti gli irrisolvibili aut aut che da esse discendono e nel cono d’ombra di prolife- ranti modulazioni enunciative. Esso può venir raffigurato, per ipotiposi, come il diaframma che dentro la favola, alla radice dunque del fari, della parola proferen- te, si frappone tra l’epifania e il suo prevedibile inabissarsi. Ma quel diaframma, lo si intuirà dal frammento poetico che segue, è così sfuggente alla presa diretta, che tra specchio e muro, chiarezza e oscurità, trasparenza e ostacolo, la differen- za percepita pare all’istante risolversi in uguaglianza salvo poi confermare, sull’on- da degli interrogativi aperti, la natura pendolare del processo. Sono versi che, al- ludendo alla matrice dell’enigma racchiuso in ogni favola, rammemorano impli- citamente la scissione primaria e l’ambigua dualità speculare che essa convoglia:

Ho vissuto una favola, o l’ho narrata nel suo oscuro specularsi? Passo attraverso un muro? Sono apparsi o scomparsi orizzonti come se un fatto altro non fosse che il suo farsi più chiaro o più oscuro nello specchio che ora ritorna muro. […] (Una poesia tra arsi e tesi, giugno ’87, vv.1-7).

* * *

42 A. Noferi, Piero Bigongiari cit., p. 85. 43 L’enigma potrebbe esser comparato a un abisso, l’inquietante anti-luogo suscettibile di rac- chiudere l’elemento genetico e ancora indifferenziato di ogni contraddizione, di ogni opposizione verità/errore. Commentando l’opera di Emilio Villa, un poeta esattamente coetaneo di Bigongia- ri, Aldo Tagliaferri osserva: «Ancor prima di riferirsi a una specifica coppia di termini antitetici, l’abisso è coappartenenza di verità-errore, santo-demoniaco, e appartiene a quel tempo-spazio dell’essere che costituisce la scaturigine (il seme) di ogni antitesi e al quale la poesia tende come all’unica origine cui valga la pena di attingere, affrontando le inevitabili spire e le spine del labirin- to» (Emilio Villa, L’opera poetica, a cura di Cecilia Bello Minciacchi, Roma, L’orma editore, 2014). 44 P. Bigongiari, Dove finiscono le traccecit., p. 28. ERRANZA, DESIDERIO E SCRITTURA NELL’ULTIMO BIGONGIARI 405

Le favole ci consentono di vivere «la terribile ambiguità» del tempo – espe- ribile in prevalenza attraverso la contiguità del lontano riattivata dalla memoria – e per questo di chiamare in causa la verità: «La verità non s’inchiostra se non/ nascosta nella più lontana favola»45. E, ancora nel Giornale 1996: «La verità è fa- volosa, e comunque non ama esser detta che attraverso metafore che ne sposti- no verso di noi, in modo da poterla quanto meno intravedere, la consistenza»46. Catturato nella sfera del dire manifesto, il vero presenterà un volto metaforico e fantasioso, in altri termini una «consistenza» traslata e fatalmente coinvolta con l’impostura: «La verità non può essere affermata nella sua vera entità che attra- verso la menzogna, cioè attraverso l’elaborazione della realtà nella memoria»47. L’importante, in ogni modo, è impedire che il vero si riduca a una vergine astra- zione scollegata dalla nostra esperienza sensibile, ad esempio quella di lasciarsi sorprendere dall’incanto di una natura sorgiva: «Cos’è la verità di fronte all’u- mile / sguardo cieco dell’erba o all’occhieggiare / immobile ma trepido del geco / tra embrice e embrice del tetto?»48. È intorno al vero in quanto enigma, insomma, che ruotano le peripezie del- la signifiance,e a questo postulato richiama la domanda capitale «Le favole han- no ancora un senso enigmatico?» cui si è già fatto accenno. Due componimen- ti sono particolarmente indicativi al proposito: Favola di un mercante di sogni e La primultima sovrana. Vi si apprende, a conferma di un noto canone d’auto- re, come la terra di nessuno – nel primo testo incarnata da un’emblematica ri- viera marina impregnata di nostalgia – sia in ampia misura luogo d’iscrizione di tracce mnestiche dell’io, che riconducono il senso generale d’inappartenen- za alle vicissitudini dell’interiorità profonda. Di nuovo entra in gioco la patria, il suo orizzonte. Leggiamo in La primultima sovrana:

L’esilio è nell’interno del tuo cuore, come la patria, amore, è dappertutto dove tu puoi coglierne il tremore come il vento in un mandorlo in cui il fiore stia cedendo dolcemente al frutto49.

Ma ha senso allora parlare di esclusione e inappartenenza, se l’esilio inte- riore promuove paradossalmente l’incondizionata apertura alla casa dell’esse- re? Se la psiche pare soccombere a una singolarissima cleptofilia o addirittura cleptomanzia nei riguardi del tutto, che qui occupa il posto del lacaniano signi- fiant maître? In discussione, a dire il vero, è la fondatezza o meno di questo si-

45 Ivi, p. 38. 46 P. Bigongiari, La poesia pensa cit., p. 60. 47 P. Bigongiari, Un pensiero che seguita a pensare cit., p. 252. 48 P. Bigongiari, Dove finiscono le tracce cit., p. 40. 49 Ivi, p. 29. 406 Gilberto Isella gnificante totalitario. La patria riluce ovunque – così come «l’amore è dapper- tutto» – complici i sotterfugi, gli artifizi e dunque i leurres del desiderio (toc- chi dell’«umana follia»), eppure i suoi edifici tremano50, proprio perché costru- iti nell’illimitato, nel non fondante: «Le dimore hanno mura che tremano»51. E in quello spazio dominato dallo spaesamento e dall’irreparabile – in cui l’es- sere stesso sembra vacillare – «trema qualcosa che non so capire: / lo spavento di ciò che vi è sospeso»52. In un altro passo, parafrasando la nota formula di Cartesio e condendola con sentimenti di timore e tremore di impronta kierkegaardiana, il poeta fa dipen- dere, per ciò che concerne la sua persona, il tremare dall’esistere. Lo sorprendia- mo in ek-stasi mentre proietta il proprio stato d’animo nella vastità cosmica, si- milmente a Dante davanti allo spettacolo del mare all’alba («sì che di lontano/ conobbi il tremolar della marina», Purg. I, 116-117):

[…] In quanto esisto, io tremo, mentre sembra tremare tutto l’altro simile all’infinità del mare carezzata dal suo proprio sgomento53.

«Non può appartenerci che ciò che non è nostro»54: un modo obliquo, se mi è consentito, di indicare la condizione del soggetto in fieri, grumo di pure virtualità. La nostra mente va a quel corpo senza organi ipotizzato da Deleuze e Guattari («on ne peut pas y arriver, on n’a jamais fini d’y accéder»55), para- gonabile a un campo di forze in cui le tensioni differenti – caotiche dapprinci- pio – che si contrappongono senza tregua sono all’origine del desiderio «ocea- nico» e preludono alla ricerca erratica ed infinita del senso: «Anche se so / che io non finirò di ricercare / quello che in ogni istante, in ogni gesto, / appare e scompare»56. Mentre avanza nella sua quête senza garanzie, il poeta scopre il fa- scino dell’intermittenza e prende atto che «brandelli» di verità (e dunque di pa- tria) possono emergere dalle associazioni libere e fluttuanti dei sogni. Meglio se questi hanno il sapore di favole attinte dalle acque dell’ulissico mare. Il poeta si scopre allora mercante di sogni, un individuo che, offrendo al lettore il tessuto della vita, ne ostenta soprattutto quei lembi da cui traspaia «quello che ognuno non ha mai avuto», ossia la propria fiaba. Ma a questo punto lo stesso reperto-

50 In questo frammento il tremore («puoi coglierne il tremore») è riferito alla dolcezza an- siosa che accompagna i fenomeni di natura nel loro divenire («un mandorlo in cui il fiore / stia cedendo dolcemente al frutto»). 51 P. Bigongiari, Abbandonato dall’Angelo cit., pp. 57- 58. 52 Ivi, p. 56. 53 Ivi, p. 23. 54 Ivi, p. 15. 55 Gilles Deleuze, Felix Guattari, Mille plateaux, Les Editions de Minuit, 1980, p. 186. 56 P. Bigongiari, Dove finiscono le traccecit., p. 30. ERRANZA, DESIDERIO E SCRITTURA NELL’ULTIMO BIGONGIARI 407 rio fiabesco dell’erranza, fantasmagorico teatro mentale concepito dalla mnéme onto- e filogenetica, si scopre «illudente mercanzia». La fictio confessa, come ci si poteva aspettare, il suo menzognero statuto:

L’uomo venuto dal mare ti mostra la sua più illudente mercanzia, l’ostro dei suoi tramonti, la bugia di Ulisse, le sue fughe, i suoi ritorni, i suoi giorni, quelli che nemmeno lui ha saputo fermare57.

* * *

Errare tra vero e non vero, tra medesimezza e alterità, tra presenza e assenza, tra realtà e simbolo dentro una convulsa rete di domande non è forse il tratto di- stintivo della navigazione poetica bigongiariana, la sua metamorfica icona? C’è da supporlo, in particolare se si associa il poeta adulto all’io fanciullo che, eufo- rico e timoroso a un tempo, contempla la marina e la «terra che trascolora bassa all’orizzonte», per divenire poi, una volta rielaborati questi materiali senza dero- gare ai princìpi del puer aeternus, un «inconfessabile reo confesso di favole». Un mercante, appunto, al pari di Ulisse che in tale foggia si era presentato ad Achille sull’isola di Sciro; e come lui astuto e polytropos, professionista del fingere. Ma prima di tutto un narrator, dunque uno gnarus (esperto) delle cose viste e vissute. Quali sembianti di patria troverà infine questo scriba, questo mercante di te- sti? Là dove «non vi è alcuna dimora» e la patria si frantuma – allo stesso modo in cui si era frantumato l’ordine divino istituito dalle Tavole della Legge – ecco che la casa della scrittura si edifica, perché al poeta l’accoglienza più autentica è offerta dal linguaggio. Il linguaggio come luogo capitale da cui, in virtù del- la heideggeriana Erörterung, «scaturisce l’onda che di volta in volta sommuo- ve il dire in quanto dire poetico»58. Grazie a quell’onda sommovente il poema bigongiariano è cresciuto, fluviale, insieme alle proprie contraddizioni e con- scio di appartenere alla piena modernità: «Ora è da dire che il proprio della po- esia dei nostri giorni è consistere nella presenza della propria contraddizione»59. Contraddizioni mai di natura disgiuntiva – lo si è visto sopra – perché, spiega Adelia Noferi:

[…] i due poli di esse non si escludono a vicenda, né si dileguano nella coinci- dentia oppositorum, ma, conservando il loro stato di opposizione, si articolano

57 Ibidem. 58 M. Heidegger, Il linguaggio della poesia, in In cammino verso il linguaggio, a cura di Alberto Caracciolo, Mursia, Milano, 1973, p. 45. 59 P. Bigongiari, Un pensiero che seguita a pensare cit., p. 112. 408 Gilberto Isella

strettamente l’uno all’altro come due facce di una stessa profonda unità, due (o più) volti di una stessa enigmatica realtà60.

La dimora del poeta è l’opera, dunque. E l’opera di Bigongiari attinge for- za, per una parte considerevole, da scenari di natura dilemmatica. Ma l’inter- rogazione, entro la quale il dilemma trova concepimento e il primo essor, non punteggia forse ogni discorso poetico radicale a partire almeno da Leopardi? Ogni canto, ogni poema, non è forse il canto o il poema di un «pastore erran- te», di quell’umano punto interrogativo abitato dal thauma che s’aggira nei non-luoghi (o meta-luoghi) ai margini dell’infinito? Che vaga con la consape- volezza di poter contare soltanto su una parola poetica a sua volta marginale? Poiché, stando a Celan: «Il poema si afferma al margine di se stesso; per poter sussistere esso incessantemente si evoca e si riconduce dal suo Ormai-non-più al suo Pur-sempre»61. Questo denso e replicante margine è appunto il luogo della domanda. Di una domanda che, insorgendo da un nous ipertroficamente sospeso e in-deci- so, non trova evasione se non nel proliferare di se stessa: «Quante domande! Il mio discorso si è fatto troppo interrogativo rispetto all’assertività che si ri- chiede a ogni onesto parlare?»62. È peraltro grazie a un simile eccesso discorsi- vo, ai dispiegamenti della coltre «altra» che funge da eidetico contrappunto al- l’«assertività», dove ogni domanda reca con sé l’ombra enigmatica dell’infor- mulabile, che la parola poetica riesce a potenziare la gaudiosa gratuità del suo canto. Confinata all’orizzonte del dire, e confondendosi con «la brama stessa dell’irraggiungibile», essa genera il suo specifico «tempo sonoro», «quel flus- so linguistico che attraversando il poeta/scriba diventa parola nuova, di valore insieme profetico e pragmatico», come scrive Anna Dolfi63. Un moto alterno di vibrazioni e onde che a livello fonico e semantico concretizzano la “varian- za verbale” nella sua provvisorietà, ossia quel gioco di minimi scarti «in cui già l’altro appare», ma sempre sulla soglia paradossale di un «evento immobile». Immobile e nel contempo trasgressivo, per ammissione dell’autore (transgre- di, «andare oltre», e così «una poesia non ritmerà più l’azione, sarà più avanti», nell’ottica di Rimbaud), perché l’immobilità lasciata balenare dallo pseudo-os- simoro «è un’immobilità come pausa implicita a ogni movimento, luogo del- lo slancio, e di travalicamento tra il pensato e l’impensabile»64. Vale la pena ri- portare l’osservazione della Dolfi: «Nella poesia e nella sua imprevedibilità sta per Bigongiari la trasgressione più vera al futuro bloccato, all’assenza di possi-

60 A. Noferi, Soggetto e oggetto nel testo poetico, Roma, Bulzoni, 1997, p. 214. 61 Paul Celan, Il meridiano, in La verità della poesia, Torino, Einaudi, 1993, p. 15. 62 Avvertenza a P. Bigongiari, Dove finiscono le tracce cit., p. 287. 63 Anna Dolfi, Dizione e poesia, in P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo cit., p. 283. 64 P. Bigongiari, Un pensiero che seguita a pensare cit., p. 261. ERRANZA, DESIDERIO E SCRITTURA NELL’ULTIMO BIGONGIARI 409 bili che la realtà ci presenta»65. Come se la poesia, all’acme del suo esplicarsi, non facesse che occupare mobili soglie.

L’offerta del sangue sulla soglia è una goccia lasciata lì dall’Angelo Sterminatore che ha perdonato?66

La dimora poetica di Bigongiari – mare illimite mosso dal «differirsi» del sen- so – è una dimora di soglie incantate, su ognuna delle quali s’imprime lo stig- ma di una ferita originaria.

65 A. Dolfi, Dizione e poesia cit., p. 283. 66 P. Bigongiari, La legge e la leggenda cit., p. 63. La BNCF (foto di Laura Dolfi). I VIAGGI FUORI DI CASA

Theodore Ell

Tra i poeti della cosiddetta terza generazione dell’ermetismo, i quali in un certo momento hanno approfittato, tutti, dell’aumentata libertà di movimento internazionale del secondo Novecento – per citare solo due esempi eccezionali, Mario Luzi ha raggiunto l’India ed Alessandro Parronchi il Giappone – è stato Piero Bigongiari a compiere i viaggi più prolungati e distanti, tra i luoghi geo- graficamente e storicamente più variegati. A parte i viaggi estensivi per tutta l’I- talia, ed in Francia, in Olanda, in Germania, in Austria ed in Svizzera, Bigongiari ha trascorso periodi estesi in Grecia, in Egitto ed inoltre in paesi anglofoni, in ciascuna parte delle Isole Britanniche con notevoli visite a Londra, Dublino e Belfast e la campagna irlandese e gallese ed in larghe zone degli Stati Uniti, da New York fino alla costiera pacifica della California, passando anche per Ohio, Texas, Oklahoma. Le possibili influenze dei viaggi sulle opere poetiche di Luzi e Parronchi non dovrebbero essere considerate trascurabili, né i paralleli filoso- fici, stilistici e comparativi che si potrebbero delineare tra le loro composizio- ni e certe espressioni delle culture lontane con le quali sono entrati in contatto. Comunque, in tutti e due i casi, il viaggio, come esperienza sia circostanziale che concettuale, rimane infine un elemento occasionale, per non dire per certi versi secondario, nella produzione poetica. Per Luzi e Parronchi lo stile, gli argomenti e soprattutto lo sguardo della poesia hanno continuato a dimostrare fortemen- te il condizionamento dell’ambiente, della tradizione e della contemporaneità italiane, siano pure queste intrecciate all’esperienza europea più larga ed in se stesse eminentemente trasmettibili altrove. Senz’altro il paese d’origine è rima- sto il primo terreno nutriente anche dell’opera di Bigongiari. Ciononostante, la produzione sia poetica che prosastica bigongiariana ha dimostrato una suscet- tibilità considerevolmente più aperta alle esperienze estranianti e trasformative del viaggio e dell’esplorazione all’estero, insieme ad un’elasticità stilistica capace non solo di sostenere l’espressione di tali riconfigurazioni, ma addirittura ad in- corporarle ed integrarle nella considerazione di certi elementi della vita italiana. A Bigongiari i viaggi non hanno offerto occasioni poetiche meramente eso- tiche, né si dovrebbero considerare i risultati poetici sontuosi e sorprendente- mente numerosi come delle deviazioni dalle linee centrali della sua attività let-

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 412 Theodore Ell teraria. Anzi, l’evocazione dei lontani luoghi e culture che il poeta è riuscito ad esplorare, insieme alla sua estesa e variegata contemplazione del fenomeno stes- so del viaggio, può illuminare certi elementi motivanti di un vasto corpus che per certi versi potrebbe sembrare aver superato i confini agevolmente navigabi- li, lasciando forse pochi segnali evidenti del suo percorso tematico principale. In effetti, il metodo di composizione e di pubblicazione bigongiariano in se stesso richiama alla mente l’esperienza di un viaggio, in quanto concepisce l’atto di scrivere come tentativo di percorrere e attraversare il dominio dell’attimo vis- suto, caricato dal suo condizionamento di ricordi e di cultura, ed orientata ver- so la nuova destinazione della prossima occasione espressiva. Lungo la sua inte- ra carriera letteraria, durata dagli anni 1930 fino alla settimana della morte, nel 1997 – e significativamente senza lunghi abbandoni anche durante i viaggi, seb- bene fossero estesi – Bigongiari ha mantenuto una continua pratica di scrittura, sia tramite le forme prosastiche di saggi e riflessioni autobiografiche, compre- so il suo giornale personale, che tramite la poiesis, che si manteneva in un pro- digioso ed ininterrotto flusso d’invenzione e d’elaborazione, spesso trasportan- dosi avanti in endecasillabi sciolti capaci di conglomerarsi in strofe movimenta- te ed inostacolate, racchiudendo e mescolando elementi ed associazioni in sin- gole forme talvolta vaste e divaganti. Le raccolte poetiche mature di Bigongiari, da Rogo del secondo dopoguerra in poi, presentano le liriche in ordine crono- logico e segnate dalle loro date di componimento, mettendo in evidenza così la successione stessa delle esperienze, della loro trasformazione in immagini men- tali e della loro confluenza nell’articolazione espressiva. Voltando pagina da una poesia all’altra, il poeta è portato a trasportare la sua attenzione all’improvviso dagli ambienti familiari della Toscana a un’occasione di viaggio in luogo lon- tanissimo, per poi rivolgere lo sguardo di nuovo ai luoghi di residenza. Inoltre, pur sistemandosi generalmente senza rima definita, la strofa bigongiariana spes- so contiene delle rime interne, degli omofoni chiari o delle assonanze approssi- mative che si rintracciano e si riprendono a vicenda, apparentemente seguendo una linea di associazioni inconsce involontarie, provocandosi e scatenandosi re- ciprocamente. L’effetto cumulativo della poesia bigongiariana matura è un’im- pressione di attività mentale continua, catturata e registrata nel suo linguaggio simbolico spontaneo ed astratto, e lasciata a rispecchiare, lungo la distesa del tempo di una vita, una narrativa improvvisata ed autosufficiente – un «poema», come l’ha designato Bigongiari, dell’esperienza vissuta. In una tale concezione della poiesis, le qualità dell’ispirazione e dello stimolo vengono mediate e trasfigurate in rappresentazione non solo per via della per- tinenza del loro particolare fascino filosofico o emozionale in un dato schema, ma soprattutto in quanto siano capaci proprio di provocare la risposta espressi- va stessa. Perciò, forse, le relativamente scarse tracce dell’influenza dei viaggi di Luzi e Parronchi nelle loro produzioni poetiche più tradizionalmente concepi- te e formate, e l’enfasi notevolissima, in verità infine quasi preponderante, sui luoghi estranei e le loro potenzialità simboliche nella lirica bigongiariana. Per I VIAGGI FUORI DI CASA 413

Bigongiari è l’avvenimento stesso, ovunque accada, ad offrire l’occasione della poiesis, a cui la forma, oppure la struttura in un certo senso informe, risponde- rà, e che servirà; durante i viaggi del poeta, e anche dopo, nelle dimensioni del- la memoria e dell’associazione inconscia, questa modalità di composizione si è mantenuta senza alterazioni, permettendo alle ambientazioni straniere ed ai loro stimoli simbolici libero sfogo nella sostanza della poesia. Considerata tutta la sua curiosità ed apertura mentale, l’ironia centrale dell’o- pera di Bigongiari è il fatto che è stato forse il poeta della terza generazione più legato ai suoi luoghi di origine e di residenza. Tra questi si notano non solo la sua città adottiva Firenze, dove egli ha trascorso i decenni dell’età matura e che fa sfondo ad una larga proporzione dei suoi scritti, ma soprattutto le città ed i paesaggi della sua giovinezza nella Toscana occidentale, le terre verdi, monta- gnose e marine intorno a Pistoia, Pisa, Pescia, Lucca e Forte dei Marmi. Tali ter- ritori hanno costituito nelle opere di Bigongiari uno sfondo fondamentale pa- ragonabile alla presenza delle colline venete nella poesia di Andrea Zanzotto o della pianura friulana in quella di . Comunque, nonostan- te l’influenza finalmente benefica ed essenziale del paesaggio toscano, un ele- mento determinante del primo ventennio della produzione poetica bigongiaria- na è stata la prolungata frustrazione del desiderio di lasciare l’originaria dimo- ra provinciale, per entrare nel mondo psicologicamente libero1. La meditazio- ne bigongiariana sul viaggio parte appunto dai falliti tentativi di varcare la so- glia della propria casa. Nel decennio del suo esordio poetico, tra Pistoia nel 1933 e Firenze nel 1942, benché la maggioranza delle liriche e dei racconti trovino i loro stimoli e le loro ambientazioni nell’esperienza vissuta di Pistoia, la sensibilità che vi si esprime è ostinatamente malinconica e languente, mentre nelle sue lettere pri- vate Bigongiari disprezza costantemente la «noia incantevole» della sua città, idealizzando le prospettive intellettuali eccitanti e cosmopolite di Firenze. È un contrasto che sembra sempre più apparente e fatale per via del quotidiano viag- gio in treno tra le due città. Col trasferimento definitivo a Firenze nel 1937, per quasi un decennio l’intera attività letteraria bigongiariana si occupa di questioni variegatissime con un’acutezza intellettuale ormai celebre, ma in modo tale che quasi ogni cenno del suo luogo d’origine e del desiderio di lasciarlo viene soffo- cato. La trasfigurazione intima e barocca di ogni elemento della Firenze rappre- sentata nella prima raccolta poetica La figlia di Babilonia (1942) sembra asseri- re la convinzione di essere arrivato definitivamente all’ultima destinazione, dalla quale non si immagina di dover partire più. Comunque, paragonando tale pri- ma raccolta al resto dell’arco della produzione poetica bigongiariana, al di sotto delle sue sottigliezze e rarefazioni si percepiscono una marcata assenza di radi-

1 Non sarebbe impossibile interpretare in chiave psicanalitica l’espansiva esplorazione poe- tica di luoghi distantissimi negli anni di maturità come una specie di reazione compensativa per il senso giovanile di chiusura. 414 Theodore Ell camenti negli impulsi governanti della poiesis e nell’autodefinizione della figura del poeta, ed una mancanza di scopo, anche immaginario o del tutto astratto, nella concezione dei suoi mirati destinatari, o destinazioni. L’orfismo de La fi- glia di Babilonia, la cui sofisticazione non è assolutamente insignificante, tende a concepirsi come labirinto del canto, una complicazione che la figura esaltata del poeta tende a sorvolare spigliatamente, ma che di lì a poco viene a risentire ed a patire acutamente come scarsità di motivazione e direzione. Nelle addolorate e turbatissime liriche della prima metà della raccolta del pe- riodo bellico e post-bellico Rogo (1944-1952), i simboli, le metafore ed i leitmo- tif principali e secondari, addirittura la metrica e la dizione dimostrano un pro- nunciato stato di squilibrio e sradicamento, manifestando un tentativo dispera- to di ritrovare un percorso sia poetico che morale e filosofico smarrito. Risale a questo periodo la decisione fondamentale del poeta di conservare l’ordine cro- nologico delle sue produzioni e di segnarne le date di componimento, creando così una specie di registrazione, addirittura un diario simbolico, di quel proces- so lungo e difficile. Anche nei loro momenti più oscuri le sessantacinque liriche della raccolta Rogo, insieme al largo corpus di prose autobiografiche e critiche e alle lettere, rappresentano conferme e prove di certezze psicologiche ed emoti- ve gradualmente guadagnate, e offrono una prospettiva insolitamente intima di un intero ri-orientamento estetico e tematico. Dopo numerose sfortune tra gli anni 1944 e 1947 – la lacerante liberazione di Firenze dai tedeschi e l’anno di tensione della Linea gotica, la separazione amara dalla prima moglie, i disaccor- di con editori che hanno provocato la cancellazione di certi progetti – è stato un legame del tutto inaspettato con un paese distante, e con la sua lingua e la sua poesia, a suggerire a Bigongiari non solo l’apertura potenziale della sua produ- zione poetica ad esperienze e stimoli stranieri, ma soprattutto il valore simboli- co non trascurabile dei suoi luoghi d’origine. L’accaduto, in un certo senso, ha fornito Bigongiari non solo di nuove destinazioni mirate, ma anche di un pun- to di partenza che poteva offrire un sicuro orientamento. Quasi come un deus ex machina, nell’estate del 1947 si è recato a Firenze il poeta gallese Dylan Thomas, coetaneo esatto di Bigongiari e dei suoi compa- gni della terza generazione – ricordiamoci allora anche del suo centenario – la cui liriche Bigongiari aveva già cominciato a tradurre in italiano e cui riguarda- va come una specie di alter-ego mitico. Malgrado le abitudini generalmente ec- centriche del visitatore e le difficoltà linguistiche – Bigongiari e Thomas riusci- vano a comunicare personalmente con poche parole d’inglese, oltre alle quali si affidavano ai gesti – la celebre Poesia in ottobre, lirica chiave della produzione di Thomas e delle traduzioni di Bigongiari, ha offerto al poeta fiorentino la solu- zione filosofica e simbolica che esigeva. Una meditazione rapsodica sul trentesi- mo compleanno del suo compositore, Poesia in ottobre esalta la simmetria cro- nologica dell’occasione percorrendo diversi luoghi del paesaggio gallese fami- liari dall’infanzia, dove il poeta sembra addirittura incontrare le versioni passa- te di se stesso, percependo così la natura potenziale del suo vivere futuro. È la I VIAGGI FUORI DI CASA 415 stessa topografia personale a fornire una sistemazione metaforica affidabile del- la memoria e dei sentimenti e a suggerire la proiezione mirata dell’io nel mon- do. Traducendo Thomas, anche senza parlare correntemente l’inglese, Bigongiari ha conosciuto a fondo le sue usanze linguistiche e caratteristiche formali senza poi incorporarle manifestamente nella sua propria produzione. L’insegnamento morale e psicologico, comunque, è rimasto cardinale, ed è rimasto alla base di tutti i viaggi, di andata e di ritorno, che Bigongiari ha compiuto e che hanno lasciato le loro tracce nella sua opera. I primi viaggi infatti cominciano pochissimo tempo dopo l’incontro con Dylan Thomas e i loro risultati letterari suggeriscono fortemente che sia stato l’ethos del poeta gallese a colorire il loro scopo e le reazioni del nuovo viagga- tore-scrittore fiorentino. Il primo viaggio all’estero di Bigongiari avviene meno di un anno dopo l’incontro inaspettato con Thomas, e sembra costituire una specie di ricambio: nel marzo 1948 Bigongiari si reca non ancora in Galles ma nella città centrale di tutta la poesia britannica, Londra. È un viaggio rimasto sconosciuto nella biografia e nella bibliografia bigongiariane fino a pochi anni fa, ma la sua documentazione testuale ed archivistica, sia pure scarsa, lo con- ferma senza possibilità di dubbio. L’evidenza si manifesta in una cartolina, da- tata e timbrata con un francobollo da due scellini raffigurante la testa del re Giorgio VI, spedita da Bigongiari all’amico Oreste Macrí. La durata di questo soggiorno inglese, le altre località che il poeta avrebbe potuto visitare, le moda- lità del suo arrivo e della sua partenza (probabilmente Bigongiari ha viaggiato in treno tra Firenze e Calais, attraversando la Manica in traghetto) e, soprattut- to, il suo preciso motivo, rimangono misteriosi. È possibile che Bigongiari ab- bia accompagnato Eugenio Montale come assistente o segretario, visto che in quello stesso momento Montale stava visitando la Gran Bretagna su invito del British Council insieme ad ed , ma sulla cartoli- na Bigongiari informa Macrí di aver «visto Montale», non di averlo accompa- gnato in modo formale. Non si può sapere neanche se Bigongiari avesse avu- to l’occasione di rincontrare Dylan Thomas. Nonostante le incertezze, questo viaggio ha provocato un risultato poetico fondamentale nella forma della lirica eponima della raccolta Rogo. La sua data di componimento è quella della carto- lina, il 15 marzo 1948, ma il legame tra i due scritti è più che casuale. La carto- lina è un prodotto ufficiale della National Gallery, e sul recto essa riproduce un quadro di Francisco Goya, L’uomo stregato, una vignetta grottesca in cui un pre- te, versando un bricco d’olio in una lampada tenuta nelle mani di un demone, si trova minacciato da figure mostruose avvolte in fiamme ed ombre e guarda verso lo spettatore con occhi rigonfi di paura. L’incipit della lirica bigongiaria- na Rogo si rivolge precisamente a questa figura: «Il tuo dolore sorvegliato / quasi fosse una speranza, / eccotelo negli occhi.» Più che meramente ekfrasis, sembra che il quadro di Goya abbia provocato nel poeta un’esperienza rivelatrice di ri- conoscimento filosofico. Sul verso della cartolina, Bigongiari scrive in calligra- fia furiosa a Macrí delle parole enigmatiche ma estatiche: «sempre la vita conti- 416 Theodore Ell nua ad essere per me l’esaltazione di un sogno, e il sogno continua, anche sot- to questi cieli, e non ho ancora aperti gli occhi eppur vedo e sento più lontano ciò che è vicino; io non so cosa ci sia in me!!!»2. Sembra che sia stata la poesia Rogo a cristallizzare l’euforia informe. Scritta sul 15 e sul 16 marzo 1948, come conferma il suo manoscritto – e cioè forse durante la notte tra le due giornate – la lirica riesce a condensare in termini ful- minanti ed assoluti i tormenti tecnici, filosofici ed emotivi risentiti attraverso le quaranta dense liriche già accumulate nel immediato dopoguerra, ma mai arti- colati definitivamente:

le ombre ormai sono così consistenti, leggeri sono solo i viventi, ma le parole che cercano qualcosa da descrivere, i loro sentimenti, che cercano di riconoscere qualcosa, i loro gesti, sono perse, glauche, indefinibili parole del Logos, è la morte che parla, il silenzio che pesa nelle parole.

[…]

Ma vero e non vero sono forse la stessa cosa, l’unica frontiera è forse quella che non si può varcare, e il resto appartiene al discorso urlato dai morti iene attorno al rogo3.

Dall’immagine grottesca di Goya, allora, Bigongiari deriva non solo un sen- so di autoidentificazione, dopo le esperienze della dittatura, della guerra e della tensione costante, ma anche tutto un apparato di concetti e metafore capaci di sostenerlo e riportarlo dentro la propria produzione corrente. Per via di questa ricapitolazione precisissima, la lirica Rogo viene a sigillare l’intera raccolta post- bellica col suo proprio titolo. Così l’atto di viaggiare all’estero lascia la sua pri- ma traccia decisiva nell’opera bigongiariana. Ciononostante, l’episodio a Londra rappresenta un caso straordinario ri- spetto agli altri viaggi compiuti da Bigongiari e trasfigurati in poesia. In tutti gli altri casi, la relazione tra il luogo visitato e le sue tracce testuali non vengo-

2 Piero Bigongiari, cartolina ad Oreste Macrí, 15 March 1948 (Archivio Contemporaneo «Alessandro Bonsanti», Gabinetto Vieusseux, Fondo Oreste Macrí, corrispondenza Bigongiari- Macrí, 1a.260.38. Si ringraziano il Gabinetto Vieusseux e la dr. Albarosa Macrí per l’autorizza- zione a citare questo documento, qui ed altrove). 3 P. Bigongiari, Rogo, in Tutte le poesie I: 1933-1963, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Firenze, Le Lettere, 1994, pp. 158-159. I VIAGGI FUORI DI CASA 417 no trascurate; anzi, intorno ad ogni altro viaggio bigongiariano esiste una ric- ca documentazione, tramite la quale le impressioni dell’esperienza si trasmet- tono chiaramente. Il primo esempio del genere risale infatti ai mesi prima del viaggio a Londra. Nel settembre del 1947 Bigongiari si è recato, in una sorta di pellegrinaggio me- smerico, a Recanati, il luogo d’origine del suo poeta-maestro Leopardi, già og- getto di diversi scritti, compresa la sua tesi universitaria L’elaborazione della li- rica leopardiana che nel 1948 è stata pubblicata in un’edizione ampliata. Il pri- mo vero scritto di viaggio bigongiariano, il saggio autobiografico Viaggio nel- le Marche, rivela che a Recanati Bigongiari aveva voluto investigare le possibili condizioni fisiche e geografiche de L’Infinito leopardiano, e per quanto un tale obiettivo fosse stato sentimentale, il saggio dimostra che Bigongiari credeva vi- vamente nell’efficacia filosofica delle intuizioni poetiche che comportava:

La terra [a Recanati] pare non tenerti, non tenere […] cala continuamente, con vaste poggiate, entro un orizzonte assopito che si fa sempre più vasto e imminente. […] È il concretarsi dell’infinito non in un pensiero ma in una dimensione umana che ha trovato la sua pietra per edificarsi4.

Quest’esplorazione di Recanati è servita infatti ad indicare a Bigongiari la sua propria cosiddetta «pietra». Dopo la considerazione delle proprietà particolari del paesaggio leopardiano, egli dichiara esplicitamente in Viaggio nelle Marche una misura di identificazione personale con l’esperienza psico-geografica del po- eta recanatese, oltre alle affinità poetiche, in quanto anche Leopardi aveva pa- tito l’isolamento giovanile in provincia. Bigongiari sostiene: «se Leopardi volle strapparsi da un luogo che odiava ma che portò con sé fino alla fine, io non po- tevo non pensare ai casi miei, non potevo non cercare la mia terra per vedere se potevo ancora con coscienza tranquilla sentirmene figlio […]»5. Sono state le Marche leopardiane, allora, ad incoraggiare Bigongiari a tor- nare finalmente ad affrontare i suoi propri luoghi d’origine, a Pistoia e altrove nella Toscana occidentale; in un certo senso è stato Leopardi a rendere valida la lezione di Dylan Thomas e dell’altro poeta anglofono venerato da Bigongiari a quell’epoca, Thomas Stearns Eliot, il quale ha scritto aforisticamente nella quar- ta poesia dei suoi Quattro quartetti [Four Quartets], East Coker, «Home is whe- re one starts from»6. Dopo la visita a Recanati, verso la fine del 1947 Bigongiari torna a Pistoia, in una visita rivelatrice che egli ha poi descritto nella sequenza di prose intitola- ta Una città scintillante, in cui, in modo simile alla figura del poeta in Poesia in

4 P. Bigongiari, Viaggio nelle Marche, in Visibile invisibile, Firenze, Sansoni, 1985, p. 13. 5 Ibidem. 6 Thomas Stearns Eliot, East Coker, in Collected Poems 1909-1962, Londra, Faber, 2002, p. 190. 418 Theodore Ell ottobre di Dylan Thomas, Bigongiari immagina una serie d’incontri con le in- carnazioni passate di se stesso, dalle quali riesce a derivare un senso della «pro- gressiva situazione» dell’identità:

Lo so che devo molto a questa città. Questo teatro interiore in cui memoria e fantasia si confondono […] [R]itrovarmi a Pistoia è essere altro, un irrico- noscibile altro che ritrova gli infiniti Pieri che hanno creduto che la vita fosse qualcosa che non si allontana mai da se stessa; e ora, ritrovandoli, questi fanta- smi, gli dico, magari con movenze dissimulate di allegria, che la vita non è mai compiuta in se stessa […]7.

Sono questi i poli contrastanti eppur interdipendenti e definitivi del rappor- to tra Bigongiari e il suo luogo d’origine, soprattutto in tempi di viaggio: l’al- lontanamento e la novità si misurano per la loro relazione alle cose rimaste più profondamente nella memoria; le nuove esperienze e scoperte all’estero trovano la loro significanza rispecchiandosi negli elementi della vita più familiari, addi- rittura più assuefatti; l’apertura e la curiosità si rivelano e si confermano per via del loro confronto costante con la chiusura che le ha preceduto. Dagli ultimi anni ’40 fino alla fine della vita nel 1997, nessuno dei viaggi che Bigongiari ha evocato in versi o in prosa è rimasto senza un’eco nella dimensione originaria. Fin dai primi grandi viaggi rivelatori del 1947 e 1948, le destinazio- ni hanno sempre ricordato, ricolorato ed arricchito il punto di partenza. Dopo l’esperienza sradicata di Rogo (1944-1952), l’opera bigongiariana è segnata da un istinto perenne di ritorno alle origini, sia nel senso più letterale e materiale, per via delle numerosissime raffigurazioni di ricordi d’infanzia e delle sue am- bientazioni e topografie familiari, che nel senso del condizionamento psicologi- co e simbolico della poetica, la quale spesso sembra presentarsi come variazione personalizzata sulla poetica del fanciullino pascoliano. Fin dagli anni ’50, in for- ma incipiente in certe liriche della raccolta poetica Il corvo bianco (1952-1954) e poi in articolazioni definitive lungo l’intero percorso delle raccolte successi- ve Le mura di Pistoia (1955-1958) e Torre di Arnolfo (1958-1963), Bigongiari evoca ripetutamente la rianimazione di una Weltanschauung primaria e giovani- le. Rintracciando tra le associazioni ed i ricordi legati ad elementi della geogra- fia personale, le liriche portano alla luce certe impressioni vivide di una dimen- sione psicologica anticamente vissuta e tuttora conservata ed accessibile, in cui le immagini, le presenze e gli elementi ambientali ed immaginari si presentano con un’intensa indecifrabilità pre-razionale, la cui significanza consiste proprio nella potenzialità primitiva, sempre apparentemente pronta a definirsi e spie- garsi, ma infine lasciata come forza imminente dentro i confini delle singole li- riche. Trasportatasi indietro nel tempo, nello spazio e nell’esperienza, la men- te poetica bigongiariana riconosce pienamente la condizione naïve e strabiliata

7 P. Bigongiari, Lo sguardo della felicità, in Visibile invisibile cit., p. 19. I VIAGGI FUORI DI CASA 419 che sta alle radici del suo stato adulto e sofisticato. Nell’attimo della poiesis essa ricorre ad un intero periodo di vita illuminato dalla coscienza di aver appena varcato le soglie dell’inconscio, per entrare nel mondo ed iniziare a interpretar- lo comprensivamente, delineandone una propria simbologia. Le liriche segnate da questa tendenza sono numerose, ma esemplari sono Stazione di Pistoia del 1955 e Piazza d’armi del 1956, raccolte poi ne Le mura di Pistoia, e Via del Vento, 5 del 1963, raccolta in Torre di Arnolfo. Al centro di tutte e tre le poesie sono le due residenze giovanili del poeta a Pistoia – la pri- ma in via del Vento e la seconda presso la stazione ferroviaria, dove la famiglia Bigongiari si trasferì – e appunto l’atto stesso di varcare la soglia, sia come bam- bino che corre in strada in momenti e scene ricordati nella maturità, che come uomo maturo che torna a visitare i suoi luoghi giovanili varcando la soglia in di- rezione contraria. Attraverso le tre liriche, Bigongiari elabora gradualmente di- verse fasi nel tentativo della coscienza nuovamente attivata di trovare una stra- da e costruirsi dei rapporti con le realtà circostanti. In Stazione di Pistoia il «trepesta[re] sugli scambi» di un «vagone lanciato per manovra […] sotto il ponte» ricorda al poeta «la voce della tigre / del circo Gleigh», una presenza sconcertante che ad un certo momento nella giovinezza ha provocato degli incubi carichi di immagini fantasmagoriche che sembrano as- sediarlo ed imprigionarlo in casa («Hai la casa attorniata dalle tigri, / improvvi- do bambino, tra i lillà / rispunta una proboscide») e che nel momento della po- iesis provoca un ricordo ulteriore di un’esperienza dolorosa ancora più profon- da nel passato, quando appena «sbucato in corsa un bimbo / da via del Vento» egli ha provato all’improvviso

[il] suo primo piangere e d’amore e di morte sui gradini, sui poveri gradini d’una casa dove abitava in vesti di fanciulla la sua illusione8.

Appena varcata la soglia, allora, si scopre dietro le immagini sconvolgenti del- la fantasia il vero e più articolato complesso del desiderio, della delusione e del dolore che governerà non poche esperienze della psiche adulta. Il poeta sembra confermare e sigillare l’inevitabilità di quella prospettiva quan- do riprende il leitmotif del giovane in corsa per Pistoia nella poesia Piazza d’ar- mi, il cui incipit riconosce e riassume lo schema psicologico antecedente – ac- cenna il poeta «L’ultimo turbamento d’una mia / inquietudine antica», per poi ipotizzare «se ritrovano nel fanciullo l’uomo» – ed in cui le intuizioni genera- li ed informi del momento della poiesis trovano di nuovo rappresentazione pre-

8 P. Bigongiari, Stazione di Pistoia, in Poesie, a cura di Silvio Ramat, Milano, Mondadori, 1982, pp. 41-42. 420 Theodore Ell cisa nel ricordo di un incontro col dolore, uno «sdrucciolo a un tratto fatto ri- pido» in cui, cadendo a terra, il «fanciullo» si ferisce le ginocchia, mentre corre dalla sua casa verso il Duomo di Pistoia9. Rinforzata, così, l’impressione di una coscienza giovanile entusiasmata dalla prospettiva di scappare ad esplorare fuori dall’ambiente domestico ma che si trova costantemente in preda a contrattem- pi e frustrazioni oltre alle sue proprie incognite psicologiche, il poeta procede a considerare la situazione in modo meno disincarnato, trasportando l’occasione stessa della poiesis attraverso la soglia di una delle case della giovinezza, quella di via del Vento, per affrontare come elemento dell’esperienza presente il nodo di curiosità e d’intralci che tuttora stringe e crea «turbamento» nella psiche adul- ta. Comunque la lirica Via del Vento, 5 rivela che non si possono derivare sem- plicemente soluzioni o spiegazioni assolute, neanche affrontando in prima per- sona il teatro stesso della rappresentazione mentale del complesso. I suoi mec- canismi – così riconosce il poeta che descrive la sua prima entrata nell’atrio di via del Vento, dopo anni di assenza – restano al di là del conscio, dall’altra parte di una soglia che la mente sveglia non riesce a varcare («nel sonno naviga ogni voce, ogni grido, ogni gesto») mentre nel momento attuale, come in ogni mo- mento della giovinezza, la disposizione fisica del luogo stesso conferma l’essen- ziale infrangibilità ed imperscrutabilità della sua presa formativa:

Le vie si torcono come anguille prese nella griglia che ottura la palude. È impossibile andarsene, impossibile rimanere. Occorre la parola d’ordine, la parola più affettuosa bisbigliata prima del sonno, ma senza scolta il vento ha preso possesso del giardino, penetra per la rosta un vento fine ch’è parola ma io non l’intendo, è per terra, luce che si ramifica, luna che s’allontana10.

Così anche in un atto di rimembranza a distanza di anni il poeta sembra tro- varsi sconfitto tra due strette frontiere, impedito sia di concepire un via d’uscita dalla recinzione di associazioni fantasmagoriche e frustranti che di rientrare nel metaforico spazio interno pre-razionale dove, almeno così il poeta immagina, si potrebbe articolare la soluzione al paradosso in cui il ricordo poetico – non solo raffigurando ma addirittura rivivendo nelle sue qualità precise l’esperienza psi- cologica passata – si è annodato. Sebbene sia essenziale, in questo periodo chiave nella produzione poetica di Bigongiari, il riconoscimento che la distanza degli anni e dello spazio non offrono scampo all’immaginazione dai suoi impulsi e barriere determinanti, è

9 Piazza d’armi, ivi, pp. 44-45. 10 Via del Vento, 5, ivi, pp. 68-69. I VIAGGI FUORI DI CASA 421 ugualmente significativo il modo in cui la coscienza poetica riesce a concepire delle metafore e dei simboli che offrono sentieri e percorsi narrativi e psicologi- ci dentro questa delineazione inevitabile, e che si dimostrano paradossalmente doti di uno scopo geografico e mentale assai più vasto. «Uno ha dentro di sé la propria origine come la propria morte»11, ha scritto Bigongiari nel 1947 in Una città scintillante. L’accenno alla morte allude non solo ai pericoli bellici appena evitati, o alla sfortuna di certi compagni della giovinezza a Pistoia, i quali non erano riusciti ad evitarli. La concomitanza aforistica e apparentemente fatalisti- ca delle origini e della morte le rende uguali ed opposte, caricando d’immen- sa potenzialità lo spazio immaginario di mezzo. L’aforisma definisce e contiene nettamente il senso, prevalente nella poesia bigongiariana, dell’esperienza delle origini toscane come circuito chiuso. Tale nozione si può rintracciare, nel modo biografico più circostanziale, nei ripetuti trasferimenti della famiglia Bigongiari da una città all’altra in quella re- gione durante gli anni d’infanzia del poeta, per via delle assegnazioni professio- nali del padre, capostazione. Tra il villaggio di nascita Navacchio, e poi le resi- denze provvisorie a Grosseto, Pisa, Pescia e Lucca, e finalmente Pistoia, dove la famiglia ha trascorso il suo periodo più lungo e stabile, lo spostamento ed il viag- gio si svolgono sempre dentro la stessa rete di percorsi. Comunque, paradossal- mente, è stato quest’elemento della formazione, l’esperienza continua di un an- dirivieni circolare, ad offrire alla lirica bigongiariana delle metafore e dei simboli governanti capaci di rispecchiare gli espansivi panorami geografici e mentali che il poeta ha avuto l’occasione di esplorare davvero nella maturità. Nella sua con- templazione delle costrizioni delle origini, la lirica matura bigongiariana mani- festa il riconoscimento che in realtà varcare la soglia della casa non è stata que- stione di una semplice partenza definitiva, addirittura di una fuga dall’immagi- nario circuito chiuso, ma di una sua dilatazione graduale, sempre intorno allo stesso centro intricato, ma ugualmente continua nell’espansione e nell’arricchi- mento improvvisato della circonferenza. È questo il principio non solo concettuale ma anche strutturale della lirica bi- gongiariana forse più conosciuta e più spesso citata, Pescia-Lucca, del 1956, poi confluita ne Le mura di Pistoia. Derivando il suo stimolo dall’ansa forse più pic- cola e stretta in tutto il circuito chiuso delle ferrovie toscane – cioè il tram che una volta seguiva un’unica linea circolare per il terreno rigoglioso tra Lucca e la citta- dina di Pescia e che per un periodo trasportava il giovane Bigongiari tra la casa e la scuola – questa lirica sembra ripercorrere una serie di associazioni libere di ri- cordi, formatisi in versi di metrica assolutamente sciolta. Comunque, sotto l’ap- parente libertà di movimento agisce una salda inerenza strutturale e simbolica, che ancora la psiche poetica nel luogo precisamente evocato mentre contempo- raneamente lo proietta in spazi generalizzati e distanze concettualmente aperte. Il

11 P. Bigongiari, La città di Livia, in Visibile invisibile cit., p. 22. 422 Theodore Ell leitmotif della «rondine passeggera» nell’incipit della lirica sembra caratterizzare la figura giovanile del poeta a Pescia come una presenza del tutto fuggevole, ma la sua riapparizione in chiusura di poesia racchiude i suoi elementi e il suo passag- gio apparentemente lineare in una forma perfettamente circolare. La frustrazio- ne della chiusura provinciale, rievocata dall’accenno al «nido difficile» delle stra- de di Lucca ed un nuovo accenno alla correlativa nozione di una morte inevita- bile che soffoca l’impulso vitale, coesistono in quest’unico flusso di associazioni insieme ad un atteggiamento completamente riconciliato: le «rondini», legando gli ultimi versi della poesia ai primi, fissano al centro simmetrico della struttura – il decimo verso su diciannove – l’espressione paradossale di una duratura no- vità, «antica giovinezza», che nel volo ciclico di partenza e di ritorno delle ron- dini sembra evocare una circonferenza esaltata intorno a questo centro ostinato:

Ho vissuto nelle città più dolci della terra come una rondine passeggera. Lucca era un nido difficile tra le vigne impolverate, in fondo a bianche strade, donde sarebbe traboccata con ali troppo folli pe’ tuoi cieli molli, Toscana, antica giovinezza. Malcerta ebbrezza, malcelata infanzia lungo le case di Lunata sfiorate in un tram accanto al guidatore, la morte è questa occhiata fissa ai tuoi cortili che una dice sorpresa facendosi solecchio dalla soglia: è nata primavera, sono tornate le rondini12.

Contemporanei a questi riconoscimenti dello sviluppo primario e determinan- te della psiche individuale, con le sue strade interne aperte, bloccate o circolari e le sue sicurezze ed insicurezze esistenziali, sono i viaggi di carattere forse più vi- sionario nella carriera di Bigongiari, che lo hanno portato in terre segnate da pre- senze umane antichissime, in interazione con le forze tuttora potenti della natura. Nel 1952, insieme alla seconda moglie Elena ed i giornalisti Giovan Battista Angioletti e Sergio Zavoli, Bigongiari si reca nella cosiddetta Magna Grecia, cioè in quelle regioni del sud dell’Italia – Puglia, Calabria, Sicilia, Campania – in cui i greci antichi avevano stabilito delle colonie. Lì Bigongiari, Angioletti e Zavoli

12 P. Bigongiari, Pescia-Lucca, in Poesie cit., pp. 43-44. I VIAGGI FUORI DI CASA 423 si sono impegnati a fare dei reportages culturali per la RAI. Nell’anno seguente, lo stesso gruppo, in una simile missione, è andato nella stessa Grecia. Nel 1954, di nuovo, tutti e quattro sono andati in Egitto. Queste visite hanno prodotto gli scritti di viaggio più estesi ed esteticamente ricchi di Bigongiari: la sequen- za di prose La Grecia in Italia, ovvero un grande silenzio sulla Magna Grecia, ed i grandi volumi di storia dell’arte e di fotografia,Testimone in Grecia e Testimone in Egitto. Scritti tutti sempre in tandem alla lirica, questi testi dimostrano non un’occupazione meramente parallela alle questioni delle radici personali, ma ad- dirittura una confluenza tra queste origini e quelle, lontane ma ugualmente ra- dicate nella stessa psiche, dei miti e delle narrative governanti. È la poesia stessa a far confluire i due percorsi in un singolo tentativo di com- prensione sintetica, il quale si dimostra con particolare chiarezza nella raccolta Il corvo bianco. I primi due terzi di quella raccolta, cioè le poesie scritte tra il 1952 ed il 1953, offrono delle meditazioni tra le più concentrate sui luoghi familiari toscani, ma l’ultimo terzo del libro riceve un’improvvisa infusione di idee ed im- magini ispirate direttamente dall’Egitto: il deserto, il tratto vasto del Nilo, con- trasti feroci di caldo ed ombra, sabbia ed acqua, l’intimo rapporto tra le struttu- re umane antiche ed i loro ambienti naturali, e soprattutto dei leitmotif religiosi antichi, il simbolismo degli animali e gli incontri tra Jahweh e Mosé nel deserto del Sinai. Il «corvo bianco» stesso è un’allusione ad una profezia di trasforma- zione apocalittica attribuita al faraone Akhenaten: il cigno divverà nero, il corvo bianco. Nella lirica eponima e concludente della raccolta, l’immagine del corvo bianco viene introdotto improvvisamente in una descrizione già quasi allucina- toria della soglia tra l’inverno e la primavera sull’Appennino toscano – «Il corvo bianco beccherà tra l’erba / d’un’eterna stagione: sarà un fiocco / di neve mosso dall’alto dei cieli»13 – trasferendo insieme l’esperienza familiare pistoiese e quel- la recente e sbalorditiva dell’Egitto in un nuovo, singolo dominio. La combina- zione è impossibile, un’illusione totale, eppure si articola come esperienza reale, appunto perché viene vissuta dentro la coscienza di una persona. Lo stesso principio è valido per il tema della rivelazione divina nel deserto, anche se questa pone un paradigma metafisico assai più esigente, il cui appro- fondimento ed articolazione occupa continuamente l’opera bigongiariana qua- si fino alle liriche terminali degli anni 1990. Il colloquio tra Jahweh e Mosé nel deserto e sul monte Sinai costituisce contemporaneamente un contatto diretto tra il divino e l’umano e una loro divisione irriducibile. Il Dio si rivela nascon- dendosi: offre la sua Parola, ma per parlare si avvolge o nel fuoco di un arbusto che brucia, o nelle nubi temporalesche, dalle quali incide le tavole della legge attraverso i fulmini. L’esperienza personale di Bigongiari delle condizioni qua- si surrealmente estreme della penisola del Sinai – gli spazi sconfinati del deser-

13 P. Bigongiari, Il corvo bianco, in Poesie 1942-1992, a cura di Giancarlo Quiriconi, Mila- no, Jaca Book, 1994, 35. Dopo la sua prima pubblicazione nel 1954, Bigongiari ha modificato questa lirica. La versione presentata in quest’antologia del 1994 si deve considerare definitiva. 424 Theodore Ell to, il caldo, le montagne ed i burroni frastagliati, i monasteri antichissimi isola- ti, tutti elementi che sembrano costituire «una dimensione non umana14» in cui la sensazione della propria presenza fisica pare venir inghiottita da forze incom- prensibili – instilla nella sua poesia un’irrequieta sete di capire la precisa quali- tà dell’esperienza, raccontata nel libro dell’Esodo, di questa divina presenza-as- senza, visibilità-invisibilità, contatto-distanza. Questa perenne ansietà diventa non solo un elemento persistente della poesia bigongiariana ma anche in effetti la sua caratteristica più durevolmente ermetica, dopo che essa ha lasciato indie- tro l’esperienza dell’ermetismo come fenomeno storico. Subito dopo il ritorno dall’Egitto nel 1954, l’euforia del viaggio sembra di impregnare le sue rimem- branze poetiche di una sensazione di fede assoluta ed irremovibile; sembra che nel Sinai un contatto col divino in qualche modo ci sia stato. «Ti lasciai», la po- esia Monaco del Sinai dichiara alla sua figura eponima,

scendendo di uadi in uadi fino alle sabbie fini del Mar Rosso dove viscido come un otre il sole bianco pareva non volesse immergersi.

[…] sulle sabbie salate scintillava la Legge in ogni grano15.

È su questa base di sicurezza spirituale che Bigongiari concepisce la confluen- za simbolica del «corvo bianco» nel terreno toscano personale. Comunque, lo spettacolo dell’esperienza egiziana cede presto a sentimenti as- sai meno giubilanti. Anche se le poesie del resto degli anni ’50 e dei primi anni ’60 tendono ad occuparsi del non meno affascinante tema delle origini geogra- fiche e psicologiche personali, il senso dell’assolutezza e della comprensiva dif- fusione della «Legge» sembra diradarsi rapidamente. Più il poeta esplora le forze determinanti della propria formazione umana, più sembra allontanarsi da quel- le della formazione spirituale. Per un periodo egli sviluppa addirittura un atteg- giamento di scetticismo direttamente contrastante all’entusiasmo di pochi anni prima. Nella lirica Risalendo con Mario la valle dell’Orsigna, Bigongiari definisce un punto di contrasto filosofico col suo coetaneo Mario Luzi, cattolico convin- to (seppur roso dalle proprie difficoltà spirituali). In un endecasillabo languido, la lirica passa da un’immagine di abbandono all’altra, tra silenzio e torpore, sug- gerendo gradualmente un senso di essenziale vuotezza in cui ogni elemento della scena si trova isolato ed inerte nella sua mera apprensione. Gli oggetti che cado- no sotto lo sguardo del poeta ormai sono privi di una potenzialità numinosa, la

14 P. Bigongiari, Testimone in Egitto, Firenze, Sansoni, 1985, p. 202. 15 P. Bigongiari, Monaco del Sinai, in Tutte le poesie I: 1933-1963 cit., p. 207. I VIAGGI FUORI DI CASA 425 quale viene menzionata solo per essere subito dimessa; anche la figura del corvo è decaduta dalla sua condizione esaltata e visionaria, riassumendo invece il ruo- lo simbolico, più familiare ed inquietante, di presenza necrofaga. Finalmente, l’aumento di tutti questi accenni porta il poeta ad offrire un’avvertenza aperta – destinata, come suggerisce il titolo, al compagno di viaggio – che l’esperien- za di questa passeggiata esige l’accettazione di una fondamentale assenza divina:

Non dà farina all’ostia del silenzio la ruota ferma (anche quassù è domenica), poco più oltre vi banchetta il corvo dove il ponte lunghissimo traversa la sassaia percorsa da più vivi che s’ignorano limpidi tra loro: vi solleva le pietre da una lama d’acqua il pescatore, a piedi nudi, di pesci addormentati nelle loro oscure lamine. Àltera le cime che chiudono la valle ignoto il senso che Dio non è qui: non lo cercare16.

A questa poesia Bigongiari aggiunge in nota le parole di Simone Weil: «La création est abandon. En créant ce qui est autre que lui, Dieu l’a nécessairement abandonné»17. Questo viaggio per il terreno natio, allora, sembra aver contro- bilanciato e neutralizzato quello nel terreno più lontano in cui Bigongiari fosse mai andato. Mentre nel deserto del Sinai Bigongiari ha trovato un senso di ab- bondanza, nella fertile valle dell’Orsigna sembra aver incontrato il vuoto. Allo stesso tempo, comunque, nello sviluppo a lungo termine della poesia bi- gongiariana, l’atteggiamento di Risalendo con Mario la valle dell’Orsigna si è di- mostrato così insicuro come quello di Monaco del Sinai. È il confronto tra queste sensazioni assolute della presenza divina e del vuoto a provocare la lunga e talvol- ta tormentata oscillazione spirituale nella poesia bigongiariana, che per decenni fa ricorso alle immagini talismaniche della visita in Egitto. Il deserto del Sinai, con i suoi cenni leggendari di presenza divina, diventa il teatro della lotta simbolica per capire se quei cenni dimostrino una forma più vasta, o se siano solo lampi di una forza ormai svanita. La poesia Col dito in terra del 1980, per esempio, pre- suppone in pieno un elemento divino (il titolo unisce le tavole della legge del li- bro dell’Esodo alla scrittura in terra di Gesù Cristo registrata nel Vangelo secon- do Giovanni), ma suggerisce che il conflitto spirituale del poeta sia dovuto ad una fondamentale confusione di linguaggio tra l’umano ed il divino, una possibi- lità che, pur essendo sfortunata, almeno offre una prospettiva di riconciliazione:

16 P. Bigongiari, Risalendo con Mario la valle dell’Orsigna, in Poesie cit., p. 49. 17 Ivi, p. 48. 426 Theodore Ell

le lacrime che ti tolsi dal cavo degli occhi sono pietre trasparenti – o forse parole impronunciate – per aiutare quel Dio che ha scritto e riscritto, verso il suo ultimo non senso18.

Ad altri momenti, comunque, il poeta cede alla sua disperazione. La lirica Uadi Faran, dello stesso periodo di Col dito in terra, articola un senso – destina- to di nuovo a cambiare, ma non meno vivido perciò nel momento – di sconfit- ta. Qui l’incessante ricerca, attraverso la parola, di qualche dato di stabilità spi- rituale sembra di aver esaurito i poteri del linguaggio stesso:

Ho grafito la pietra con poche parole che poi non ho ristampato, l’età di uno splendore che poi non ho rivisto, non ho creduto compiuto quanto vedevo… […] quante pagine ho iscritto di un segno più intenso prima della parola ma quanti segni attutivano l’irraggiungibile, affrettavano l’oscuro accecante del lampo19.

Questo dibattito del poeta con se stesso, elaborato tramite una profusione di meditazioni sui ricordi dell’Egitto, non trova mai una soluzione. Anzi, è lo stesso senso del vuoto, che divide la certezza della presenza divina dalla certezza della sua assenza, a concentrare la forza più notevole dell’intero dramma interio- re. La lirica Invitando a bere una figlia di Jethro, anch’essa degli anni ’70, confer- ma semplicemente la realtà esigente della situazione spirituale bigongiariana. Il viaggio nel deserto rappresenta non una ricerca di quantità definibili, ma della qualità del tentativo stesso, effimero, di definire, in cui l’unica certezza è il pas- saggio del singolo viaggiatore: «Ognuno cammina in un luogo che non gli ap- partiene, / che appartiene solo ai suoi passi»20. Quasi tutti gli altri viaggi di Bigongiari, almeno in quanto siano stati rappre- sentati nella scrittura, hanno comportato una simile presa di coscienza. Le liri- che e le prose dedicate al viaggio mettono sempre più enfasi sulla contemplazio- ne solitaria del vuoto oltre i confini dell’esperienza materiale, i quali, col passar del tempo, ogni viaggio sembra di costeggiare più strettamente. Più Bigongiari ha attraversato le frontiere internazionali e più la sua esperienza ha compre- so luoghi lontani e diversi, più egli sembra aver meditato sull’isolamento della vita individuale nell’immensità della presenza umana attraverso l’intero piane- ta. È questa la sostanza della risposta poetica ai viaggi degli anni più tardi, nel-

18 P. Bigongiari, Col dito in terra, in Nel delta del poema: Capitoli I-V con un Esergo 1984- 1977, Milano, Mondadori, 1989, p. 89. 19 P. Bigongiari, Uadi Faran, in Moses, Milano, Mondadori, 1979, p. 142. 20 P. Bigongiari, Invitando a bere una figlia di Jethro, in Moses cit., p. 42. I VIAGGI FUORI DI CASA 427 le Isole Britanniche e negli Stati Uniti, dove Bigongiari si è recato diverse vol- te negli anni ’60, ’70 e ’80 come visiting professor in numerose università, oltre a qualche soggiorno privato. Durante tali viaggi, l’esperienza delle condizioni comprensivamente moderne – i grattacieli, i trasporti di massa, la distesa enor- me delle zone urbanizzate, lo sviluppo industriale sfrenato seppur già stagnante – ha rappresentato l’assoluto polo opposto all’esplorazione dei paesaggi appa- rentemente immutati ed eterni della Grecia o dell’Egitto, «perché», Bigongiari ha scritto nel 1970, «in un paese della frontiera come gli Stati Uniti, più l’uo- mo costruisce, inventa, più tutto ciò diventa un fenomeno di natura, e tanto più l’uomo si ritrova alla frontiera dei propri istinti primordiali […] [L]a storia, per una nazione giovane e ecumenica come gli Stati Uniti, non può essere che tut- ta la storia»21. Oltre alla curiosità, la perspicacia e la varietà di sensazioni sem- pre evidenti nei testi come nei viaggi stessi, la caratteristica predominante che si percepisce negli scritti bigongiariani ispirati dalle Isole Britanniche e dagli Stati Uniti è un senso di fragilità ed insicurezza. La modernizzazione estrema sembra una condizione sconvolgente e remotissima, lasciando l’individuo, a cui il poeta si offre come portavoce, a temere il suo eventuale superamento ed insignificanza. La poesia Affondando i denti della mente in un misericordioso English muffin, del 1979, smentisce il suo titolo leggermente umoristico per deplorare il grigio- re e la decadenza dei porti di New York e Brooklyn, lamentando «[le] isole feli- ci ormai preda della putredine nel sale opalescente dei Narrows», e descrivendo i moli della parte meridionale di Long Island:

Come un delitto consumato sulla fronte dell’onore come un’ora di poche estasi e di molto pianto non pianto, ecco le cose che mancano accanto alle troppe presenze sui docks indolenti, abbandonati, del sud22.

Scritta all’altra parte del oceano atlantico, la poesia Da Dover a Calais rispec- chia quel sentimento, ma ora in una specie di avvertenza di una simile sorte per l’Europa. La lirica riprende il leitmotif del circuito chiuso come simbolo della simmetria dell’andare lontano e del tornare a casa. Comunque, mentre il poeta attraversa di nuovo la Manica dopo un soggiorno inglese apparentemente privo dell’esaltazione di quello provato in anni passati, suggerisce che l’espansione del cerchio dell’iniziativa rischi di superare la sua propria integrità:

Circoli, non più che circoli, si allargano all’orizzonte con una tale perfezione. Il pianto fisionomico dell’uomo

21 P. Bigongiari, Oh! New York! in Visibile invisibile cit., p. 114. 22 P. Bigongiari, Affondando i denti della mente in un misericordioso English muffin, in Nel delta del poema cit., pp. 33-34. 428 Theodore Ell

piange sull’orizzonte, lo sorveglia: strano sorriso che piange, chi sa perché, sulla differenza che si colma, sulla frontiera che non esiste: è un centro che si allontana concentrico per deconcentrarsi e sorridere piangendo.

Se una riva s’allontana un’altra riva s’avvicina. Un fiore cade nel vuoto del vulcano in luogo di Empedocle, ritrova il rosso scuro della fiamma magmatica anche se cade nella Manica donato a te piccola Europa del grande cosmo che avviene poroso23.

In un rispecchiamento dell’irresoluzione della ricerca della presenza divina, è lo stesso atto di viaggiare a rappresentare la qualità essenziale del dubbio insi- stente dietro il simbolo dei «circoli» franati ed il senso di rovina profetizzata at- traverso l’oceano atlantico. Nel saggio Oh! New York! del 1970, le impressioni vi- vide della «nazione giovane e ecumenica», incarnata nello spettacolo tecnologico ed architettonico del Downtown di Manhattan, cede ad una meditazione ma- linconica sulla prospettiva del decadimento, attraverso la metafora dominante, addirittura magistrale, del volo transatlantico. Questa volta, comunque, l’appa- rente profezia non si dirige in una direzione sola, dall’America all’Europa. Il ri- torno in Europa tramite un volo eseguito interamente di notte sembra sigillare una compenetrazione storica di obsolescenza programmata, la quale si confer- ma con ogni trasferimento umano tra i due campi dell’iniziativa. È il viaggiato- re transatlantico stesso, l’individuo infinitesimale e mortale, sospeso ed isolato nell’aereo, a costituire e contenere l’intero scambio di ammissioni di transitorietà:

Quando la voce nell’aereo, soffiata dai bassoparlanti, annuncia che stiamo sor- volando la Nova Scotia, significa che davanti a noi ormai è l’Oceano e la notte. Mi appoggiai con la tempia all’oblò come sulla visione d’un mondo perduto per sempre, come su un cuscino che contenesse, pungenti piume, tutti gli av- venimenti della mia vita affollati dalla parte dove è scritto: si esce. Uscivano dalla mia coscienza, entravano nella gran notte cosmica. […] / L’America vista dall’alto, è un buio con stelle immense, radianti all’infinito sotto di noi: le lun- ghe strade che a un certo punto si dicono città perché attraversate in diagonale da altre strisce luminose, sono liste di luce senza orizzonte definito: roteano, col muoversi immobile dell’aereo, in un orizzonte di brace che si spegne, polipi azzurrini sul fondo. Rimane nella retina la sensazione d’un filamento oscuro, e il mondo diventa tutto centro: non v’è sopra né sotto, né destra né sinistra: si entra nel regno dei punti cardinali, apparteniamo a una gravità che non ci appartiene, pattuita con le oscure, ma certe, o almeno fino a un certo punto

23 P. Bigongiari, Da Dover a Calais, in Poesie 1942-1992 cit., p. 86. I VIAGGI FUORI DI CASA 429

accertate, leggi del cosmo da ingegneri e costruttori del Boeing in cui tutto è in ordine, fino il sorriso della hostess, per una convenzione accettata da chi vi par- tecipa. Fa parte delle regole del giuoco che il whisky stia immobile, giallognolo e trasparente come il pensiero d’un grano antico stormente su orizzonti perduti, nel bicchiere posato innanzi a te: anche le leggi del cosmo sono i convitati di pietra intorno all’orlo del tuo bicchiere. Il sapore è nella tua saliva che contiene la parola che non dici. Fuori è ormai l’Oceano e la notte, con foschi bagliori simili a pesci nuotanti accanto all’oblò. Anche i segnali di posizione rossastri a intermittenze sulle ali, nella foschia, prima sembrano mettere a fuoco il precario apparecchio che ti sostiene […] / Sopra il compatto pavimento delle nuvole, a diecimila metri d’altezza, percorrevamo a ritroso della apparente carriera solare il viaggio verso il luogo minuscolo e occasionale delle nostre origini. E sentiva- mo la fatica di questa ritrosia da vincere: penetravo come un baco nella mela dell’universo di cui dovevo mangiarmi il tunnel che mi scavavo per andare a est, sempre a est ormai: un est convenzionale, il luogo delle tenebre più fitte. Dovevo ripagare le lunghe ore di luce del viaggio d’un mese prima, regalatemi nel mio trasferimento da est a ovest: il lungo giorno che mi aveva portato nel centro dell’America dovevo restituirlo in una breve, ma intensissima notte, che mi avrebbe ridato alla cosiddetta immobile Europa. E non so se me ne sentivo degno: l’uomo prova una specie di vichiana indegnità fisiologica nel lasciar ruo- tare la terra sotto di sé, specialmente poi se la terra ruota nello stesso senso, e non sai se potrai starle a paro: è in uno stato di morte apparente, sorride da un limbo tecnologico quanto mai precario. Vede che i calcoli tornano, che le ipotesi si avviano lentamente, ma anche in modo fulmineo, alla sintesi, una volta posta la tesi che la vita sulla terra per l’uomo somiglia in tutto a un pensiero che si dia riflessivamente un punto di partenza. L’uomo in balia della propria irresponsa- bilità personale, diventa un ostaggio di tutta l’umanità che ha fatto quello che ha fatto, che seguita a fare quello che fa24.

Non tutte le impressioni dei paesi anglofoni che Bigongiari trasmette nelle sue poesie esprimono un tale disincanto, ma è sempre più evidente, in quel- le ispirate dagli Stati Uniti, un senso acuto che la modernità quasi decaden- te di certi luoghi si risente nel proprio progresso verso la morte. Nella lunga poesia intitolata appunto con la frase inglese Toledo [Ohio] was very beautiful, il poeta si rivolge ad una personificazione femminile della gioventù stessa, of- frendole addirittura un addio e concependo la propria scomparsa come avve- nimento lento, indolore, anche dolce: «Toledo, il lago Erie, il vento in boc- ca, / la menta d’un evento che si scioglie / a poco a poco come il freddo e il fuoco…25». Nonostante l’enfasi sulla mortalità e la dissolvenza, la stessa liri- ca suggerisce anche un rinnovamento del saldo circuito chiuso dell’esperien- za divagante, il quale racchiude l’intera variegata meditazione bigongiariana

24 P. Bigongiari, Oh! New York! in Visibile invisibile cit., pp. 115-116. 25 P. Bigongiari, Toledo [Ohio] was very beautiful, in Nel delta del poema cit., p. 43. 430 Theodore Ell sul viaggio in un unico discorso improvvisato. Dice il poeta, «Disteso, il labi- rinto è una sola / linea»26. È un’altra lirica stimolata dai viaggi americani a confermarlo. Nella palla ruotan- te della Reunion Tower risale al 1986, quando Bigongiari ha visitato l’eponimo grat- tacielo a Dallas, Texas, un edificio davvero dell’era spaziale, comprendendo un’im- mensa sfera dorata di luci sorretta su una singola altissima colonna. La caratterizza- zione visuale che Bigongiari riesce a concepire unisce, in un’unica immagine, l’inte- ro arco simbolico dei viaggi del poeta dalle culture antiche a quelle nuove, dall’in- fanzia all’anzianità, dalla memoria all’ora presente. All’incipit della lirica texana, il poeta osserva a se stesso, seduto nel ristorante in cima all’enorme sfera illuminata, «Sei all’interno della gran bugia»27. L’usanza della parola bugia associa l’esperienza stupefacente di quest’edificio al senso d’incredulità già discusso, ma il termine ha un doppio senso: è la denominazione dialettale pistoiese del dente di leone, la pic- cola sfera di semi con cui il poeta, da bambino, ha giocato col soffio. L’edificio ame- ricano modernissimo incontrato nella maturità ispira la stessa meraviglia curiosa di una creazione della natura contemplata nell’infanzia dall’altra parte del mondo, in Toscana. L’immagine completa la delineazione di una vasta analogia, accumulata e sviluppata lungo decenni di produzione poetica. Più ha viaggiato, e più ha connes- so la misura storica dei luoghi alle immagini impresse alla memoria, più Bigongiari ha gradualmente identificato la durata della vita di una persona a quella della sua cultura. L’infanzia, con la sua potenza raggiante, impressionabile e creatrice di sim- boli duraturi, e la sua rapida scomparsa, è diventata l’equivalente del mondo anti- co, mentre negli artefatti ambienti della contemporaneità Bigongiari ha percepito una vecchiaia nostalgica, sovraffaticata e possibilmente in preda alle illusioni. Tra le numerose motivazioni dell’opera letteraria bigongiariana, i fenomeni del viaggio e della scrittura di viaggio ne rivelano una fondamentale all’apprezzamento del lavo- ro del poeta, ma finora rimasta poco considerata28: cioè, la considerazione di come un italiano dell’epoca contemporanea, dotato mentalmente delle qualità antichis- sime del suo paese («antica giovinezza»), potrebbe affrontare un mondo che fretto- losamente si modernizza, e sentirsi ancora a casa.

26 Ibidem. 27 P. Bigongiari, Nella palla ruotante della Reunion Tower, in Piero Bigongiari: Voci in un labirinto, a cura di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Firenze, Edizioni Pagliai Polistampa, 2000, p. 207. 28 Ciononostante, non si deve ignorare la pubblicazione recentissima del saggio di Riccardo Donati, Tra le dune d’Egitto e la proda di Versilia: Piero Bigongiari in viaggio, in «Italies», 2014, 17/18, pp. 331-349 (ora in P. Bigongiari, Agosto al Forte. Poesie inedite e disperse (1978-1991), a cura e con un saggio di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Pistoia, Gli Ori, 2014). . ERBARIO E BESTIARIO IN «ANTIMATERIA»

Diego Salvadori

Antimateria1 muove le fila da uno spazio prossimo alla dilatazione («spazio» è una delle prime parole del libro2), dove «tutto, dentro e fuori, / ugualmente e tutto insieme si apre»3. Uno spazio che accoglie da subito immagini vegetali e animali, pronte ad accompagnarlo per tutto il suo corso: dai componimenti di apertura (si pensi al «mallo amaro» di Amore4; «i fiori…» e «il seme» in6 aprile 19645; o i «litodomi», le «seppie» e «i fichi» di Et omnia non vanitas»6) sino alla pagina conclusiva, con i «fiorellini azzurrognoli» e l’«uccello tempestoso diretto dalle aie azzurre verso il / lombrico del cuore»7. Vogliamo tracciare questa pri- ma linea, tematica e di raccordo, proprio perché la forza strutturante dei tòpoi si traduce in una griglia di isotopie, le cui maglie sono strette e allargate in vir- tù di una dýnamis sempre attiva, legata al ruolo e alla funzione assunti dal lin- guaggio bigongiariano: un linguaggio – come già rilevato da Maria Carla Papini – teso e in resistenza, pronto a discriminare il valore comunicativo della parola, nel suo stesso costituirsi quale atto poetico8. Stanti le considerazioni iniziali, terremo conto di due prospettive intrinseche al libro, una verticale e l’altra orizzontale (vagheggiate dal poeta in Avvertenza9).

1 Ed. di riferimento: Piero Bigongiari, Antimateria, Milano, Mondadori, «Lo Specchio», 1972 (d’ora in poi indicato in nota con ANT). 2 Amore, in ANT, p. 13, v. 1: «C’è poco spazio per l’amore […]». 3 Ivi, p. 14, vv. 32-33. 4 Ivi, p. 14, v. 38: «se tu non ne sei la tenaglia ma il mallo amaro». 5 6 aprile 1964, in ANT, p. 15, vv. 8-11: «[…] I fiori … / ah, i fiori / li lasciasti a Pistoia, il seme, anche / il seme non volesti […]». 6 Et omnia non vanitas, in ANT, p. 17, v. 3 («i litodomi di carne morbida penetrano sempre più a fondo»), vv. 14-15 («Le seppie hanno finito di preparare / tenebre, eccole al sole vuote, scintillanti ventose»); p. 18, vv. 24-26 («tu non attenderti sul lungomare che un po’ di vento / irrequieto e tra i fichi del giardino brinati dagli anni / il fischio solito»). 7 Nascosto nella propria immagine traslante, in ANT, p. 265, v. 12 e vv. 15-16. 8 Maria Carla Papini, Resistenza e tensione nel linguaggio di Piero Bigongiari, in Il linguaggio del moto, Storia esemplare di una generazione, Firenze, La Nuova Italia, 1981, p. 103. 9 P. Bigongiari, Avvertenza e qualche nota, in ANT, p. 267: «I ritorni tematici sono cambi di tono che istituiscono una verticalità temporale nell’orizzontalità spaziale dell’avventura».

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 432 Diego Salvadori

La prima ci porterà a seguire la progressione diacronica del testo e il suo scorre- re poematico; la seconda è invece dettata dal ricorrere di immagini e temi bioti- ci pronti a creare un’unica partitura. E se erbario e bestiario divengono l’Alfa e l’Omega di Antimateria, non sfuggirà come essi rispondano a una precisa onto- genesi: una successione che, nel ricalcare la storia naturale, vede comparire pri- ma le piante e poi gli animali. Viceversa, man mano che il libro procede, si as- siste alla filogenesi vera e propria, ovverosia il differenziarsi degli organismi in specie diverse, quasi obbedendo a una sorta di adattamento. Già a una lettura iniziale, è impossibile non accorgersi di queste presen- ze costanti, tra cui spicca la figura del «passero» che – da Lingua unica, in Azzurrobruno10 – popolerà le prime sette stazioni liriche di Antimateria (fino a Gli animali parlanti11), per poi abbandonare la scena in Chi ti ha perduto12. Stesso dicasi per l’erbario che, tuttavia, ha una portata di minore incidenza, al- meno a livello di lessico13, quasi fosse offuscato dal regno animale. Un regno animale legato all’aria e all’acqua, dove agli uccelli – il cui peso simbolico è ri- badito in Avvertenza dallo stesso poeta14 e di indubbia derivazione leopardia- na – si affiancano i pesci e le creature marine. Anche i mammiferi traversano le zone del libro, almeno fino a Gli animali parlanti: dal «cane15» di Parma 1964, al «delfino»16 della suite con cui è chiusa la già citata sezione. Lo stesso dicasi per gli insetti e i rettili, rispettivamente presenti in apertura e chiusura del libro: alla «biscia» e le termiti di Nife17 faranno da eco la «serpe» e l’«ape» del terzulti- mo componimento18 della raccolta.

10 Azzurrobruno, in ANT, p. 21, vv. 1-3: «D’albero in albero prova il volo il passero / dove i rami s’intrecciano, non osa / partire per l’azzurro troppo vasto […]». 11 Una notte alla pensione sulla baia, in ANT, p. 215, vv 4-10: «Né il passero abbandona ivi il suo alato / messaggio: invano s’allontana il filo / che nessuno ha in mano, di un canto / che è ancora lui, un passero perduto / nella sua gola, il mare che ora muto / s’addipana al suo scoglio e s’allontana. // Ecco il passero-mare senza requie […]». 12 Chi ti ha perduto, in ANT, p. 227, vv. 53-55: «è ora roccia sotto la parola / che nessuno può smuovere dal suo qui e ora: / simile alla sete dolcissima del passero […]». 13 Sotto un profilo lessicale, l’erbario e il bestiario di Antimateria possono essere suddivisi in due categorie: accanto a nomi comuni e generici, pronti a rimandare a un regno (animale o ve- getale) o a una classe (es. uccelli, pesci, fiori, alberi), troviamo indicazioni circostanziate (si pensi, ad esempio, agli «stimfalidi» di Materia-forma o ai «sargassi» di Canto bisbiglio). 14 P. Bigongiari, Avvertenza e qualche nota, ANT, p. 267. 15 Parma 1964, in ANT, p. 28, vv. 25-26: «con l’occhio cupo e al guinzaglio un cane / che si para dal freddo in calzamaglia». 16 Dopo una notte insonne, in ANT, p. 236, v.25: «non chiede aiuto il delfino che volta su se stesso». 17 Nife, in ANT, p. 29, vv. 4-6 («ma non manca / di avverarsi la biscia sotto terra, / levarsi altro rossore sulla guancia») e vv. 7-9 («Mia liscia gioventù, corrosa e bianca / fra le tenebre, / non v’è altura, non cresce termitaio»). 18 La mano doppia, in ANT, pp. 261-262, si fa riferimento all’ultima strofa del componi- mento: «ma anche ti aiuto a tracciare intorno alla roccia / il lungo ondulato pettine di solchi / quasi il vento fossi, l’aria fossi che sul tuo sangue iniziale / sembrava assopirsi, serpe affascinato ERBARIO E BESTIARIO IN «ANTIMATERIA» 433

Come dimostrato da questi primi accenni, siamo dinanzi a un gioco con- tinuo di rispondenze che sottostà all’idea di poiéin e a come essa sia concepita nell’ambito della teoresi bigongiariana: un «perpetuo transito» che «non spie- ga […] [e] accresce l’area del reale»19. In virtù di quanto affermato, Antimateria genera un costellazione di elementi vegetali e animali proprio perché il poeta è sempre in attesa, «è colui» – continua l’autore nell’Avvertenza – «che mai è pre- ceduto dal proprio significato: nel quale entra, con sorpresa, a mani vuote»20. Questo vuoto ha la capacità di prodursi a ogni scansione del libro, dove ciascu- na sezione sancisce un giro di boa e sfrutta la palingenesi del linguaggio, la sua struttura a frattale; e se il contatto fra materia e antimateria distrugge ma pro- duce energia21, lo spazio deflagrato viene costantemente riabitato da un bestia- rio e un erbario, pronti a rigenerarsi pur conservando traccia del caos. Dopo questa visione d’insieme, resta da chiarire come i due regni extra homo vengano trattati nel libro bigongiariano. Circa il bestiario, non possiamo pre- scindere dalle considerazioni di Gilberto Isella22 in merito a Un panorama peso in se stesso23, dove il «corvo» viene presentato in una «estrema stilizzazione»24, con «insufficienza iconica e cinetica»: nel suo farsi «portatore di sonorità sta- tu nascendi […], rimane un puro emblema, un corpo d’intensità introflessa»25. L’animale diventa portato del significante, di un’onomaturgia intrinseca che, nell’atto stesso della dicibilità, passa oltre, sonda e scava, sempre in nome del- la dýnamis già accennata all’inizio. È chiaro da subito che la partita, anche per gli animali e le piante, è giocata sul terreno del verbum, nelle sue stesse pieghe: «ultrasuono-infrasuono»26, scrive Bigongiari all’inizio del libro, come ultrasuo- ni saranno quelli del pipistrello in Macchinale27, componimento della quinta se- zione: un lògos che affonda e riemerge, che nasce e si annida nel mare amnioti-

/ un po’ per volta e sempre più dalla sua stessa ormai inutile tentazione. / E i solchi si muovono, ondeggiano, petali / presto attrarranno le api dentro il fiore / dolcissimo immortale stillante da ogni antera». 19 P. Bigongiari, La critica dal metalinguaggio al linguaggio, in «Paradigma», Gennaio 1988, 8, pp. 3-17; ora in P. Bigongiari, La poesia pensa, a cura di Enza Biagini, Paolo Fabrizio Iacuzzi e Adelia Noferi, Firenze, Olschki, 1999, pp. 231-232. 20 P. Bigongiari, Avvertenza e qualche nota, in ANT, p. 268. 21 Silvio Ramat, Gli anni di «Antimateria» (1964-1971), in Invito alla lettura di Piero Bigon- giari, Milano, Mursia, 1979, pp. 114. 22 Gilberto Isella, “Antimateria”: le immagini del tempo e del significare, in Per Piero Bigongiari, a cura di Enza Biagini, Roma, Bulzoni, 1997, pp. 27-39. 23 Un panorama peso in se stesso, in ANT, p. 192. 24 G. Isella, “Antimateria”: le immagini del tempo e del significare cit., p. 28. 25 Ibidem. 26 Amore, in ANT, p. 14, v. 33: «ultrasuono infrasuono, non una voce per chi è sordo a ogni ordine estremo». 27 Macchinale, in ANT, p. 177, vv. 7-12: «Gira / la strada: vi riappare preceduto / dai suoi ultrasuoni il pipistrello, muto / linguaggio di chi non è stato al gioco / e non conosce il pozzo senza fuoco, / il cieco che non parla che agli ostacoli». 434 Diego Salvadori co dell’esistenza, per poi tentare l’ultimo scatto, nell’«oltre di me e di te»28 sui cui tramonta l’intero libro. Il mare, lo abbiamo detto, è il luogo d’elezione di questa biosfera poetica, da cui prende le mosse lo stesso bestiario (i «litodomi»29, o datteri di mare, di Et omnia vanitas), quasi obbedendo a una biblica Creazione. Anzi, applicando il paradigma scritturale alle prime sette sezioni di Antimateria – da Lingua uni- ca sino a Gli animali parlanti – possiamo ben osservare come quest’ultima ven- ga a coincidere col settimo giorno. Ma il testo bigongiariano segue quasi alla lettera la narrazione del primo libro del Pentateuco: alla creazione delle piante (entrate nel testo col «mallo»30 di Amore e i «fiori»31 di 6 aprile 1964), è succes- siva quella delle creature marine e volatili (i «litodomi» e le «seppie» di Et om- nia non vanitas, i «fulmini pesci» di Temporale a Urbino32 e, per finire, il «passe- ro» di Azzurrobruno33); da Nife in poi, faranno la loro comparsa i rettili («la bi- scia»), gli insetti e il primo mammifero della raccolta (la «capretta sardegnola» 34 della poesia eponima): terzo, quinto e sesto giorno. Le reminiscenze bibliche, sempre legate al mare, tornano anche nella «riserva di piogge» di Et omnia non vanitas35, in cui riecheggiano le «sorgenti del mare» libro di Giobbe36 (si pensi ai passi sulla Sapienza creatrice); o nel «mare che s’è aperto e si richiude tutt’intor- no» di V’è notte e notte37, pronto a rievocare la traversata del Mar Rosso narra- ta nell’Esodo. Non a caso, Bigongiari stesso ha addotto l’immagine del Diluvio tra gli elementi generativi del libro e, per certi aspetti, il poeta possiede quasi le chiavi del mare: il Mar Sottile «che l’essere naviga per divenire proprio quello che crede di essere»38, luogo destinato a tornare, proprio perché originato dai flutti del prelinguaggio, antecedenti l’atto stesso del poetare. Chiarificatrici, a tal pro- posito, appaiono le considerazioni avanzate da Bruno Accarino in un suo recen- te studio, che hanno messo in risalto la superiorità del mare rispetto all’acqua, perché «il vivente va ascritto al mare, ancor più che alla terra»39. Ma, oltre ai già

28 Nascosto nella propria immagine traslante, in ANT, p. 265. 29 Et omnia vanitas, in ANT, p. 17, v. 3. 30 Amore, in ANT, p. 14, v. 38 (Amore è la prima poesia dell’intero libro). 31 6 aprile 1964, in ANT, p. 15, vv. 8-11. 32 Temporale a Urbino, in ANT, p. 19, vv. 8-10: «Ma che tempesta s’inquadrò a Urbino / dalla finestra rimasta aperta dell’arca: / i fulmini pesci guizzavano, nel cielo opaco […]». 33 Azzurrobruno, in ANT, p. 21, vv. 1-3 34 La capretta sardegnola, ANT, p. 33. 35 Et omnia non vanitas, cit., p. 17, v. 10: «[…] Qui il mare è una riserva di piogge […]». 36 Giob, 38, 16: «Sei mai giunto alle sorgenti del mare / e nel fondo dell’abisso hai tu passeg- giato?». Per i passi biblici, si è fatto riferimento a La Sacra Bibbia, ed. ufficiale della CEI, Roma, Paoline, 1980. 37 V’è notte e notte, ANT, p. 35, vv. 36-37: «Il mare s’è riaperto e si richiude tutt’intorno / lascia aperto un solco melmoso, e là una costa deserta, rocciosa […]». 38 P. Bigongiari, Avvertenza e qualche nota, ANT, p. 269. 39 Bruno Accarino, Zoologia politica, Milano, Mimesis, 2013, p. 83. ERBARIO E BESTIARIO IN «ANTIMATERIA» 435 citati «litodomi»40, la centralità dell’universo marino è ribadita dalla quarta par- te del libro, ‘ιχθυς41, dove s’inizia dal Plancton della poesia eponima, laddove i microrganismi acquatici si fanno ipostasi di un segno fermo e sospeso al suo sta- to generativo: un «segno / che non decide e che è deciso», ma tuttavia distinto dallo «smergo»42 – altro uccello di questo bestiario alato – capace di riconoscere e impadronirsi del pesce, dell’ἰχθύς, e divorarlo, quasi in nome di un’aruspicina della parola. Nella lirica successiva, Il fanciullo uscito dal mare, si osserva inve- ce il passaggio dallo stato acquatico a quello terrestre, pronto a risolversi in una situazione di scarto e di cambiamento, le cui conseguenze andrebbero cercate nella settima sezione del libro, Gli animali parlanti, dove il bestiario pare pren- dere possesso di un proprio lògos. Stando alla struttura di Antimateria, il terio- morfo si fa dicibile (parla) in seguito al mutare del segno e il divenire insensato della parola43, ragion per cui la poesia d’apertura alla settima sezione (Gli uccel- li parlanti44) dovrebbe suggerirci un cambio di rotta. Ciononostante, si profila uno scenario pirico, in fiamme, dove gli animali divengono il comburente che ossida il combustibile del linguaggio, perpetuando la sua continua energia. Ma «un’opera poetica» – ha scritto Bigongiari in La poesia come funzione simbolica del linguaggio – «è tale in quanto supera il proprio principio di determinazio- ne: cioè in quanto praticamente non termina»45; ed è in questa trasformazione costante che il poeta si rivolge ai protagonisti del componimento, nell’afferma- re che «Voi non significate, uccelli sul mare dell’essere, / uccelli senza nido su- gli alberi di fuoco […]». L’identità degli animali parlanti sembra perciò rivelata

40 I «litodomi» torneranno poi in Et omnia non vanitas, ANT p. 17, vv. 3-4 («i litodomi di carne morbida penetrano sempre più a fondo / in rocce imperforabili come un pensiero»); Due giorni di viaggio scrutando il Mar Sottile, qui presentati nella variante di «datteri di mare», ANT, p. 144, v. 30-31 («i datteri di mare che si radicano / nella pietra, la pietra che si sradica / in un fiore selvaggio e inattendibile»); e in L’occhio nero delle donne di Cortona, ANT, p. 153, vv. 1-5 («Murate, murate, o cortonesi, / murate l’autunno con l’estate: i litòdomi umani quassù sento- no / il cretto che si allarga dove il fulmine / dei secoli dilaga, senza spia»). Se nelle prime due immagini assistiamo a un’ ibridazione tra bestiario e lapidario (il mollusco penetra nella pietra e diviene un tutt’uno con essa), l’ultima vede l’animale accostarsi all’umano, quasi regredito a uno stadio prelogico. 41 Ἰχθύς rimanda al simbolo religioso del cristianesimo, costituito da un pesce stilizzato, formato da due curve che si intersecano. Usato al tempo delle persecuzioni come segno di rico- noscimento, lἸχθύς – volendo citare le considerazioni di Arnold Hauser – rientra nell’insieme di forme che si mutano in ideogrammi, in quel «simbolismo che non mira tanto a rappresentare, quanto a evocare e manifestare la presenza dell’Essere Santo, e trasforma ogni particolare in simbolo soteriologico» (Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte, I, Torino, Einaudi, 1956, p. 153). 42 Plancton, in ANT, p. 111, vv. 19-22: «fluorescente tremore, è la parola / che lo smergo distingue nella spuma: // ἰχθύς // e che divora». 43 «Il segno muta» e «La parola insensata» sono le sezioni – quinta e sesta – che precedono «Gli animali parlanti». 44 Gli uccelli parlanti, in ANT, p. 209. 45 P. Bigongiari, La poesia come funzione simbolica del linguaggio, Milano, Rizzoli, 1972, p. 18-19. 436 Diego Salvadori nella suite di chiusura, in cui si passa da una preistoria a una «post-storia», dove – scrive Bigongiari – «gli animali parlanti leggono e credono di capire / che chi non parla non abbia mai parlato e non parlerà mai più»46. È l’essere umano, dunque, il protagonista richiamato dal titolo della settima sezione di Antimateria, schiavo dell’antropogenesi e di uno specismo retrivo; in cui traspare l’aristotelica distinzione tra uomo (zoon lògon échon) e animale (zoon alogon), dove l’assenza/presenza di lògos dirime l’uno dall’altro. Come affermato da Jacques Derrida, l’uomo è dopo l’animale47, è nominato da Adamo solo in seguito sua creazione: nei versi bigongiariani, le creature del bestiario sono par- te di una preistoria trascorsa (a cui sembra, tuttavia, appartenere il poeta stesso48 nel definirsi «animale preistorico»49), degenerata nella post-storia presente. E le due sezioni conclusive del libro – Suite newyorkese e Trasmutazione – insistono proprio sulle frange post-storiche, prive di qualsivoglia aletheia, dove l’onoma- turgia – l’atto capace di significare il Creato – è come bloccata. L’Inno quinto, a New York si apre su «Un volto d’ermellino […] l’erba assente / le foglie assen- ti […] sugli alberi febbrili / una colomba senz’ali […]»50: oramai, la biosfera ha ceduto il posto a un bestiario posticcio, a animali terrestri e domesticati, in sa- crificio all’umanavanitas . Lo stesso in Schrafft’s, Fifth Avenue, dove il mare tra- passa nell’acqua fetida delle fogne (quasi una ‘cattività dei liquidi’) e alle creatu- re marine subentra il rat musqué51: mammifero acquatico e quasi testimonianza dell’avvenuto passaggio da un bioma all’altro. Nella poesia che chiude la penul- tima sezione del libro, «i piccioni funesti»52 segnano questo cambio di testimo- ne, il transitare verso il finire di Antimateria, dove la presenza animale si rarefa, sino ad avvolgersi in quel «lombrico del cuore» dell’ultima pagina. Circa l’erbario, è innegabile la funzione inaugurale e di termine ultimo che Antimateria demanda alla sfera botanica: «i fiori li lasciasti a Pistoia», recita 6 apri- le 1964, «il seme, anche / il seme non volesti»53. Siamo in presenza di immagini situate a monte, relegate al luogo della seconda infanzia poetica; e lo stesso dicasi per i platani grigi di Inno quarto, sempre pronti a rimandare a una vie antérieu- re e a un silenzio che è unica parola possibile54 («Ecco il silenzio che parla: non

46 In attesa del gatto parlante, in ANT, p. 234. 47 J. Derrida, L’animale che dunque sono, Milano, Jaca Book, 2006, p. 37. 48 Cfr. Nella cruna, in ANT, p. 146, vv. 22-24: «[…] il mio grido di animale / non ferito e morente ascolta il mare / ch’è zattera al mio lento oscillare». 49 In attesa del gatto parlante cit., p. 234, v. 2. 50 Inno quinto, a New York, in ANT, p. 241, vv. 1-3. 51 Schrafft’s, Fith avenue, in ANT, p. 243, vv. 16-18: «[…] o mio rat musqué / che esci dalle fogne per saltellare / nella foresta impervia del tuo riso». 52 Se ti volti, se non ti volti, in ANT, p. 248, vv. 16-18: «più giù, sempre più giù dove i piccioni funesti / sfuggiti dalla colombaia di Venere impazzivano / dietro il loro becchime di immagini vitree». 53 6 aprile 1964, in ANT, p. 15, vv. 8-11. 54 Nella poesia successiva, Parma 1964 (ANT, p. 27), l’erbario richiama anche un erotismo ERBARIO E BESTIARIO IN «ANTIMATERIA» 437 parole: platani, viali, / strade, la terra che non occorre che sia immutabile»55). Quest’ultimo verso testifica, sotto certi aspetti, la natura protea e a oltranza del libro, il suo continuo rigenerarsi da un humus che, tuttavia, si affranca dall’essere grembo plantarum: in V’è notte e notte, il fiore cresce su «ripide pareti», mentre «vorrebbe ancora un deserto orizzontale / su cui raccontare, l’ingenuo, la favo- losa primavera sulla terra»56; un fiore «strano», continua il poeta, «e intorno un rovello di uccelli: / già s’ode il loro strido eccitato precipitarvisi». L’imago floris quasi ricalca l’ápeiron di Anassimandro, uno spazio caotico che per Bigongiari diviene tuttavia anche spazio genetico57: come affermato da Enza Biagini, «il caos rappresenta non l’abisso, il “gouffre”, bensì il presupposto necessario, il momen- to genetico, positivizzato, da cui scaturisce l’atto poetico»58. Tuttavia, gli uccelli dei versi appena citati (un «rovello», come i «rovi»59 presentati a inizio del com- ponimento) sono in preda a quello che Martin Heidegger aveva definito «stor- dimento60», dove l’animale è come fagocitato dall’ambiente e si fa «povero di mondo»61, impossibilitato a scorgere il manifestarsi dell’ente. Ma se il bestiario – lo abbiamo visto in precedenza – andava incontro a un mutamento, l’erbario resta come chiuso in se stesso, o meglio: avanza differito tra i meandri del testo, senza però rinunciare a istituire quelle tensioni tematiche di cui il libro è perme- ato. In Il mancato avvenimento – che apre la sezione Materia-forma – «le scorze scoppiano di salute perché il filo della linfa è interno»62 e l’esplosione da scena- rio apocalittico tornerà anche nella successiva Calce e sangue63, dove le defoliate foreste vietnamite, oltre a istituire un manifesto dialogo con la storia in atto, ri- spondono anche a un senso ecologico, all’urgenza di una terra depauperata: l’o- rizzonte non è più orizzontale, ma di carne, alla stregua di un mattatoio, men- di fondo, specie nell’ultima strofa: «Gialli pistilli bruciano tenebrosi / e tu m’inviti, col tuo non esservi, teneramente a vivere, / bambole in reggipetto stanno a guardare / la carne che tenta di ricominciare». Il pistillo – la parte femminile del fiore – quasi evoca un risveglio dei sensi, di una sessualità prossima a deflagrare. 55 Inno quarto, in ANT, p. 26, vv. 22-23. 56 V’è notte e notte, in ANT, p. 35, vv. 20-21, 57 Cfr. P. Bigongiari, Nel mutismo dell’universo, Interviste con la poesia 1965-1997, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2001, p. 41: «è il silenzio che precede la parola, il caos che si districa verso la propria cosmicità. Spitzer parla di “enumerazione caotica” per la poesia moderna. Io sono arrivato a parlare, piuttosto che di spazio caotico, di spazio genetico». 58 Enza Biagini, Piero Bigongiari: i «giochi del caso» fra teoria, critica e poesia, in «Italies» [En ligne], 9 | 2005, mise en ligne le 01 octobre 2007 (consulté le 12 août 2014. URL: http://italies. revues.org/474, p. 3). 59 V’è notte e notte, in ANT, p. 34, v. 1: «Va il grigio a proda, si ossida tra i rovi». 60 Martin Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica – Mondo – finitezza – solitudine, Genova, Il melangolo, 1999, § 59, pp. 252-253. 61 Ivi, § 42, pp. 230-232. 62 Il mancato avvenimento, in ANT, p. 47, v 16. 63 Calce e sangue, in ANT, p. 49, vv. 1-4: «C’è chi spara alle stelle c’è chi ha / defoliato le fore- ste del Vietnam / perché i Vietcong non possano nascondervisi / ma nemmeno possono avanzarvi / foreste semoventi incontro a Macbeth». 438 Diego Salvadori tre l’artificiale comincia la sua avanzata sotto sembianze di materiali inerti («ac- ciaio, latta, vetro stritolato»64). Si avverte una contaminazione della biosfera, un infettarsi portato avanti dalla «ruggine», più volte presente nel libro e spesso sospesa tra inanimato (os- sidazione dei metalli) e sfera botanica (malattia delle piante). Stante la secon- da ipotesi, la referenza è anche qui scritturale, e precisamente al libro di Amos, dove ruggine e carbonchio sono le piaghe inflitte da Dio al regno dei vegeta- li65. Ma cerchiamone le tracce nel libro bigongiariano: essa compare già dalle prime battute di La forza del linguaggio66 («che ruggine questi uccelli di palu- de»; «questa zampa di ruggine / che ti fruga sul cuore»); torna in Materia-forma – poesia eponima della seconda sezione – quando «sboccia […] sulle ali degli uccelli»67 (il verbo, non a caso, rimanda sempre al campo semantico del vege- tale); lo stesso dicasi per San Prospero (nella sezione Terre emerse), dove «la rug- gine non si stempera dell’antico sangue / sul costato ferito dalla lancia, / sulle fronde crespute»68 (anche in tal caso, le fronde ne ribadiscono la natura vegeta- le; senza contare le reminiscenze evangeliche della Crocifissione). In Molo deser- to, e siamo ormai alla settima parte, la ruggine è invece colta nella sua estrema trasformazione, mentre i gabbiani attendono che «si sciolga in alga, in fuco, in guizzo, in pesce»69: un trasumanare per una diade di opposti, un divenire anima- le o vegetale. Bigongiari sfrutta la polisemia insita nella parola «fuco», indican- te non solo un tipo di alga bruna ma anche il maschio dell’ape domestica (det- to «pecchione»): la parola si orienta verso due sviluppi possibili, due metamor- fosi in potenza atte a mutarne il sembiante «in guizzo, in pesce» o in «alga»70.

64 Calce e sangue, in ANT, p. 49, vv. 9-14: «Uno spettacolo pirotecnico in un orizzonte di carne. / O mia notte, hai eliminato il giorno, / ma il giorno è un ammasso di occhiaie, / il giorno più lungo, di calce di ferro: / il giorno un oggetto troppo compresso, senza rimorso, / manufatto che torna acciaio, latta, vetro stritolato». 65 Am, 4, 9: «Vi ho colpiti con ruggine e carbonchio, / vi ho inaridito i giardini e le vigne». Nel vangelo di Matteo, viceversa, la ruggine è presentata nella variante di ossidazione metallica 66 La forza del linguaggio, in ANT, p. 54, vv. 8-11: «Ecco è supplizio questa zampa di ruggine / che ti fruga posandosi sul cuore, qualcosa / di un po’ meno cedevole nel lungo volo, / e stringe contraendosi inavvertita nell’equilibrio, nell’abbrivo». 67 Materia-forma, in ANT, vv. 5-8: «[…] lo sguardo mitilo / perfora anche la roccia, non ristà; / sboccia la ruggine sulle ali degli uccelli / di palude, i fiumi corrono ingrossati». Si noti anche qui l’ibridazione bestiario-lapidario, organico-inorganico, già rinvenuta in Et omnia non vanitas – ANT, p. 17, vv. 3-4 – con «i litodomi di carne morbida penetrano sempre più a fondo / in rocce imperforabili come un pensiero». Nel libro bigongiariano, la tendenza dei molluschi a cercare un appiglio nella roccia diviene perforazione/penetrazione: un atto che, sotto certi aspetti, rompe i limiti «biotici» imposti dalla natura, autorizzando così inedite ibridazioni. 68 San Prospero, in ANT, p. 99, vv. 10-12: «Ma se la ruggine non si stempera dell’antico sangue / sul costato ferito dalla lancia, / sulle fronte crespute […]». 69 Molo deserto, in ANT, p. 229, si fa riferimento all’ultima strofa: «lungo un molo deserto che t’inoltra / nel segnale marino dove crocidano / nell’attesa i gabbiani che la ruggine / si sciolga in alga, in fuco, in guizzo, in pesce». 70 Chiaro è il riferimento all’episodio mitologico di Glauco. ERBARIO E BESTIARIO IN «ANTIMATERIA» 439

La ruggine, oltretutto, è da ricollegare alle «spore», continuazione e traslato in planta del già citato «placton»71: in Agosto 1968, ad esempio, e siamo qui nel- la quinta sezione, «la natura si sbriciola in insetti / vegetali, in spore accanite / del possibile, ambigua, verbale / tra i suoi regni che muoiono di figure»72. Una biosfera, questa, pronta a cambiare forma, dove le creature oscillano tra un re- gno e l’altro: le spore portano avanti questo processo contaminante e impolli- natorio, rendono il libro una sorta di brodo primordiale dove la logica degli op- posti non può essere superata, ma deve essere contraddetta in nome della fun- zione creatrice e mitopoietica del linguaggio. Le piante, come gli animali, per- dono la loro connotazione originaria, si fanno eidetiche e sfruttano al massimo la loro carica semica e metaforica, in nome di un’afasia recitante, un muto lin- guaggio che muta: «i sargassi della memoria lasciali/ andare fluttuanti tra i sas- si // tutto è di là: si libera ogni cosa / […] le stregate immagini che stregano se stesse // non cedono, mutano»73. Abbiamo avuto già modo di constatare come il libro si chiuda con quei «fio- rellini azzurrognoli sulla mota»74, segnale ormai che il viaggio della parola è termi- nato nel suo ultimo sprofondare. Cionostante, in questa fuggevole stilizzazione, i fiori azzurri richiamano alla memoria un altro componimento di Antimateria, La veronica del linguaggio75, posta in apertura a La parola insensata (sesta sta- zione lirica del libro): la pianta è nominata esclusivamente nel titolo, fatta ec- cezione per la cromia dei petali (l’azzurro), pronta a tornare più volte nel corso del componimento. Volendo far nostre le considerazioni di Maurice Blanchot, «la parola, non essendo più che l’apparenza e l’ombra di una parola, non può mai essere dominata [e] resta l’inafferrabile, l’inseparabile, il momento indeci- so della fascinazione»76: tale affermazione può ben illustrare la natura olografi- ca e evanescente dei bigongiariani «Occhi della Madonna», nominati ma subi- to dopo retratti, nascosti, dentro quel grande libro della natura profondo e per- petuamente variabile77. Col sottofondo di un mutante mutismo, Antimateria si fa il luogo di una biosfera duttile, prensile, dove bestiario e erbario si uniscono, per risalire al prelinguaggio (o linguaggio) di una natura sempre in fermento.

71 Cfr. Plancton, in ANT, p. 111. 72 Agosto 1968, in ANT, p. 151. 73 Canto bisbiglio, in ANT, p. 155, vv. 3-9. 74 Nascosto nella propria immagine traslante, in ANT, p. 265, vv. 9-14: «Quiete le rive che il sole allontana insinuanti / specchi ustori del non essere che non è, / a filo dell’essere che perico- losamente è, / questi fiorellini azzurrognoli sulla mota // sorridono alla ruota che passa vicino a loro / sulla carraia […]». 75 La veronica del linguaggio, in ANT, p. 181. 76 Maurice Blanchot, La solitudine essenziale, in Lo spazio letterario, Torino, Einaudi, 1967, p. 11. 77 P. Bigongiari, La critica dal metalinguaggio al linguaggio cit., p. 235. Piero Bigongiari con Laura e Anna Dolfi e Roberto Mussapi (Pistoia, 1994). UN «ERMETICO» ADDIO: BIGONGIARI SALUTA MONTALE

Martha Canfield

Piero Bigongiari Un cardellino a Milano

Angolata dall’amore la gola del cardellino piove su questa via cittadina con gli ultimi schizzi di una quieta mattina milanese.

Le sbarre di ferro sono di una scala che sale o di una prigione già scesa nella sua occulta statica simile alla morte, come dice chi non conosce la morte. Ma la sorte del canto è più alta del delirio, o mie penne prestate al tuo cinguettare tra pietre che hanno il colore del mare nella pioggia e il calzare di un Dio le percorre avviandosi verso la tragedia.

Io qui attendo, nell’inedia della felicità, volo che solo chi ricorda senza ricordare può ancora compiere, avviandosi, dove che sia, là dove termina la pioggia nel suo brusco riso solare. Sì, se il sole ti attende, e l’eroe guarda dalle tende levate nell’eternità l’erba verde calpestata da Briseide che s’allontana, Briseide tra i petasi che l’allontanano, tra i petali bagnati dal sole.

Oh, amore, lasciarti così è come lasciare nulla, nulla è lasciabile, lo sguardo che accompagna la distanza fiorisce di sè fuori dagli occhi, fuori da tutto, è il visibile qualcosa che dire opposto all’invisibile è da menti dappoco, qualcosa che forse il fuoco riscalda senza cenere né faville nel giuoco delle pupille che mirano oltre l’immirabile quanto nemmeno le mille e una notte possono raccontare.

La pioggia a Milano terminava a sprazzi rabbiosi dal cielo così bello quando è bello, ma così occultamente vicino

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 442 Martha Canfield

al tampone che assorbe il sangue che tarda a coagularsi tra il siero dei pensieri che, essi, hanno smesso di piangere.

L’opera è a mezzo: non possiamo abbandonarla anche se il rezzo, questa sera, è così dolce, quasi parla: è incantevole, sono gli occhi semichiusi del serpente, è una ciarla, un destino, un esserlo per non esserla, un non averlo per averla. Ma l’altra metà degli occhi è aperta, quella di tutti gli uomini, non so se sull’opera, né so se per disfarla o completarla.

Voglio terra buona per la mia tomba, terra buona per la tromba del giudizio. Sulle rocce rosse lo so che il mare seguita a schizzare l’azzurrità dell’inarrivabile; ma non lasciatemi vedere più oltre nè il rosso nè l’azzurro: io sono il mare che arriva, ma il mare guarda o è guardato, sta per non stare, o non sta per stare?

È una vela che freme, la distanza dell’inatteso – lasciatela, lasciatelo andare – , anche io vado e vengo, non vi lasciate ingannare, l’infinito è una palanca che rotola in basso, una misericordia che scende frettolosa, aprite le dita sulla fessura giusta, sulla lanca amara. C’è un incantesimo sulle vostre labbra, apritele.

Sono poche le immagini, davvero poche, lo so, per l’immaginabile ma fino in fondo chi le segue sa che l’incanto è al di là, l’incantatore è incantato: dobbiamo liberarlo anche dalla sua maschera più convincente, quella che l’amore dipinge sopra il viso che non riamato ama. La gente che qui si stringe potrà stingerla con quella o un’altra pioggia che non sa se fecondare o dissalare quanto spinge sottile nella melma, anche nella melma solare che sfavilla.

Milano, 11 settembre – Firenze, 12, 13, 14 settembre 1981

Nota dell’Autore – Questo cardellino l’ho sentito cantare a Milano, in via Ni- rone, il giorno prima della tua morte, caro Eusebio: resti, questa poesia, satura d’inconscia morte e più di conscia vita, dedicata a te che ti avviavi, per l’aldilà, a modulare il tuo «fischio», il tuo «segno di riconoscimento». Forse quel cinguet- tio conteneva, per me inconsciamente, ma premonitrice, qualche nota di quel tuo segno, se questi versi hanno seguitato a evolversi nel giorno della tua morte a me ancora ignota, e si sono conclusi mentre apprendevo la notizia della tua partenza, o del tuo arrivo, tribolato ma decente, nell’aldilà. UN «ERMETICO» ADDIO: BIGONGIARI SALUTA MONTALE 443

Il 13 settembre 1981 moriva a Milano Eugenio Montale – Eusebio per gli amici –, capotavola della tertulia letteraria fiorentina degli anni 30, attorno alla quale sedevano giovanissimi Alfonso Gatto, Mario Luzi, Oreste Macrí, Alessandro Parronchi, fra altri, e naturalmente Piero Bigongiari. L’amicizia di questi con il caro «Eusebio» si prolunga al di là delle peripezie giubberossiane e si conclude in- credibilmente con questa poesia profetica nella quale le voci dei due si congiun- gono e la morte si presenta – come doveva essere – prima nella lucida irrazionali- tà dell’immagine poetica e, solo dopo, nella configurazione del messaggio logico. In effetti, Un cardellino a Milano reca come data di scrittura Milano 11 sett. – Firenze 12-13-14 sett. 1981. Vuol dire che due giorni prima della morte di Montale, Bigongiari incominciò a Milano la stesura del testo dedicato all’amico, intuendone la fine, e lo concluse pochi giorni dopo, a Firenze, a fatti avvenuti. Un cardellino a Milano si presenta come un componimento in nove strofe di versi liberi, molto lunghi, fra i quali si inseriscono alcuni endecasillabi, con l’anda- mento lento e discorsivo della poesia filosofica, specie nella seconda parte. Il testo è in realtà privo di divisioni esplicite; ma nell’unica pubblicazione che se n’è fatta finora, nel n.7/8, anno VII, che la «Rivista di Critica Politica» di Firenze dedicò a Montale in occasione della sua scomparsa, ci si presenta in due colonne (stro- fe 1-5 e 6-9 rispettivamente) che coincidono con una divisione interna tematica stilistica e molto probabilmente cronologica. Sicché considererò pertinente la di- visione e di conseguenza mi riferirò a una «parte prima» e a una «parte seconda».

La prima parte, o dell’intuizione: vv. 1-28

L’attacco è fortemente fonosimbolico: «angolata dall’amore la gola», e la cate- na dei significanti scorre sulla base della ripetizione esclusiva delle vocali a e o fra i due poli dell’antimetatesi, anGOLAta e GOLA, dove il semantema gola sem- bra liberarsi dai morfemi precedenti, con una sola e centrale e postonica (amo- rE). In linea orizzontale la prestidigitazione vocalica bigongiariana sembra con- dizionata a livello subconscio dal nome anagrammato del destinatario di questi versi, nel quale le vocali sono le stesse e hanno una durata e una tonicità simili:

m ò n t á l e àngoláta dall’amóre la góla

I due poli fonici (gola) risemantizzano il concetto gola, che costituisce sineddo- che dell’uccello, metonimia del canto e metafora del poeta e del poetare; essi divengono inoltre, in linea verticale, i due punti fermi dai quali si spiega la ca- tena simbolica del testo. La rottura dei nessi logici e i salti di registro sono abitudini poetiche naturaliz- zate dal surrealismo e sviluppatesi ancora nell’ermetismo e nell’informale. I versi di Bigongiari configurano uno spazio e un’azione: una via a Milano dove piove. 444 Martha Canfield

Ma succede che «piovere» ha qui un soggetto inaspettato: la gola del cardellino. La sorprendente iunctura («gola piove») nasce sicuramente, per la forza del signi- ficante, da una paronomasia sottintesa, piange→piove, poi esplicitata nei vv. 26-28, e questa a sua volta deriva da un’antitesi implicita, canta / piange (cfr. canto al v. 7). Dopo, l’allucinazione della pioggia produce una pioggia reale: «il fantastico ha cessato d’esistere; ora c’è solo realtà», diceva Breton, che Bigongiari conserva nella costellazione dei suoi maestri. Tuttavia questa pioggia-pianto-canto che realmente (nella realtà della parola poetica) cade nel raro silenzio di una via milanese, volge alla sua fine. «Gli ultimi schizzi» sono anche la prima premonizione della morte. Nella seconda strofa lo spazio poetico diventa lugubre («le sbarre di ferro», «prigione», «morte») e il poeta ci propone una delle sue tipiche dialettiche, for- mule antitetiche e paradossali: «sono di una scala che sale / o di una prigione già scesa», secondo la quale ogni cosa è diritto e rovescio, se stessa e il suo con- trario, perché «vero e non vero sono forse la stessa cosa», come diceva montalia- namente Bigongiari in Rogo (1952), come salire e scendere, libertà e prigione, movimento e stasi, se accettiamo che «l’unica frontiera è forse quella che non si può varcare» (Rogo). Ovvero la morte ineffabile, della quale ogni similitudine è presunzione: «occulta statica […] dice chi non conosce la morte». La poesia di Bigongiari propone intense e frequenti metamorfosi; ancora di più, si potrebbe dire che la sua poesia scaturisce dal principio di un cambiamento continuo; come nella celebre formula di Lavoisier, il mondo bigongiariano rotola in un costante movimento in cui nulla si perde e tutto si trasforma. Per eredità sur- realista la meccanica di queste metamorfosi mantiene una logica onirica e spesso interessa non solo lo spazio (ad es., «la terra non trattiene il suo colore», Ogni spec- chio, in Rogo), ma perfino l’identità dell’io poetante (ad es., «Ecco il mondo lonta- no è qui vicino, / miagola come il gatto di casa, / mia anima, mia gola che respiri / nel cavo della mano», Due giorni di viaggio […], in Antimateria, 1972). Nel pre- sente testo e per opera dell’amore l’io del poeta, a un certo momento, non è più il suo, non gli appartiene più; è l’altro (sto parafrasando l’Avvertenza al lettore alla fine di Moses, 1979), cioè Montale, per una sorta di «delirio» (cfr. v. 7) che «in psi- cosomatica si chiama di disidentificazione» (Moses): «o mie penne prestate al tuo cinguettare». Ma poichè qui il motore dei cambiamenti è l’intuizione della mor- te, più che di disidentificazione o di semplice metamorfosi, bisognerebbe parlare di metempsicosi o di traslato metapsichico; l’amore-misericordia dell’io-poetante presta il corpo alla voce orfana del poeta-destinatario. E ciò avviene in uno spazio diluviale, nel quale la strada di una città e la scala di una casa diventano pietre di un paesaggio infinito perché indefinito, dove il cielo e il mare si confondono («il colore del mare nella pioggia») e le orme visibili di Dio annunciano la tragedia. Tragedia e morte sono vocaboli pronunciati dalla paura. «L’unica frontiera è for- se quella che non si può varcare» (Rogo). E nella terza strofa siamo senza dubbio die- tro qualche frontiera, «là dove termina la pioggia», al di là della paura, dove il po- eta è giunto appropriandosi non solo del canto dell’uccello ma anche del volo (v. 12), dopo il quale rimane in attesa (v. 14). L’assenza di ricordi produce il ricor- UN «ERMETICO» ADDIO: BIGONGIARI SALUTA MONTALE 445 do dell’attesa e nell’attesa matura la poesia. «Cantar es ir al olvido», diceva Antonio Machado. Siamo nella cima del delirio e nel culmine della disidentificazione. Ma il delirio diventato canto o poesia («la sorte del canto è più alta del delirio») restituisce o ricrea una terza identità, questa necessariamente archetipica, che non è più quella dell’io poetante né quella del tu destinatario, ma quella dell’Eroe diventato Poeta per via dell’assenza: Achille, che impotente vede partire Briseide, sarà pure improvvisato aedo che nel canto troverà consolazione alla coatta inerzia (Iliade, IX, 185-196, e nel presente testo già annunciato dal neoclassico «calzare», v. 10). Nel guerriero a riposo forzato, che tuttavia si trova agli antipodi dell’essere riflessivo, infatti, il motivo del po- etare consolante acquista la massima intensità. Il connubio di Achille con l’assenza vie- ne efficacemente comunicato da Bigongiari attraverso lo sguardo dell’eroe che non si posa mai su Briseide ma sui confini che delimitano lo spazio da lei occupato: sopra i petasi dei soldati, sotto i petali del prato. La voluta paronomasia – petasi/petali – se- gna l’identificazione operata a livello simbolico: gli uni e gli altri designano il perime- tro della perdita. L’identificazione a livello verbale dell’io poetante con l’eroe poeta av- viene nella quarta strofa, dove parla Achille: «Oh, amore, lasciarti così, è come lascia- re nulla». L’ultimo sintagma della terza strofa («bagnati dal sole») rimanda al campo semantico della pioggia (prima strofa) e alla rete simbolica della pioggia-pianto-can- to, che è alla base degli apparenti paradossi successivi (quarta strofa). «Lasciarti così è come lasciare nulla», senza dubbio, perché nella perdita fiorisce quello che ormai pos- siamo nominare poesia della memoria e dell’attesa. E il visibile non si oppone all’in- visibile perché da Bigongiari, come in genere dai simbolisti e dagli ermetici, la forza della memoria ha potenzialità materica: l’invisibile genera, dà forma, rende corporeo (Visibile invisibile si intitolerà poi la sua raccolta di prose dell’85). Con la quinta strofa si chiude il cerchio: fine del «delirio» e ritorno nello spazio e nella circonstanza poetica di partenza, ritorno segnato dalla ricorrenza di seme- mi e suoni affini già presenti nella prima strofa: piove→pioggia, milanese→Milano, ultimi→terminava, schizzi→sprazzi. Ma ci sono anche notevoli differenze: alla via cittadina dell’inizio subentra ora la visione del cielo, la gola del cardellino ha cor- rispondente zero, e al canto implicito corrisponde ora il silenzio. Dopo il viag- gio compiuto dal poeta il ritorno nell’immediatezza del canto non è più possibi- le: s’è visto l’ineffabile e si è intuita la morte. Adesso il cielo, ad ogni modo bel- lo, non è estraneo «al tampone che assorbe il sangue» fra pensieri divenuti «sie- ro». Si connota l’ospedale. E i pensieri hanno perfino smesso di piangere, cioè di evocare, di aspettare, di raccontare, di cantare. Montale era morto e Bigongiari non lo sapeva; ma dai versi di Bigongiari si apprendeva già la notizia.

La seconda parte, o della certezza: vv. 29-57

La seconda parte è molto diversa dalla prima. Dall’intuizione alla certezza la voce non può modulare nello stesso modo. Crediamo infatti che la spina dorsa- 446 Martha Canfield le che articola la poesia è la notizia della morte di Montale. Il testo ci si presenta diviso in due parti (due «colonne» nella versione originale): quella prima (strofe I a V, a sinistra) corrisponde all’intuizione, quella seconda (strofe VI a IX, a de- stra) corrisponde all’acquisita consapevolezza. Nella prima, le parole sprigiona- te dall’impulso inconscio si muovono spontaneamente in cerca della voce sen- za corpo del poeta scomparso, spinte dalla solidarietà di chi rimane, desideroso di concedere il proprio corpo, cioè le proprie penne, al canto di quel cardellino ormai non altro che gola disfatta di pioggia che bagna una città ancora all’oscu- ro del suo lutto. Pioggia e pianto, uccello e canto, assenza e memoria. Nella seconda parte l’incantesimo è rotto, la parola ha smesso di autogenerarsi. Adesso il poeta riflette sulla propria opera brutalmente interrotta, spezzata dall’ir- ruzione della notizia: a livello subconscio la morte produce immagini e poesia, come nei sogni; a livello conscio, disarma, immobilizza, sconfigge. Il poeta tutta- via fa uno sforzo, non si arrende: «L’opera è a mezzo: non possiamo abbandonar- la» (v. 29). Si direbbe che siamo passati dal livello dell’enunciato a quello dell’e- nunciazione. Il materiale poetico della seconda parte si organizza in quattro strofe dense, di linguaggio più trasparente di quello della prima parte, quindi meno li- rico, e con un ritmo più prosastico e colloquiale. Il mutevole allocutore della pri- ma era sempre un’intima entelechia: il Poeta-Amico (a partire da Montale), l’A- mata-Assente dell’Eroe-Poeta. L’allocutore della seconda invece occupa un posto preciso nell’immediata realtà esterna: è il lettore destinatario, siamo noi. Il dover portare a termine l’opera iniziata – che ora si sente appunto come dovere – entra in conflitto con la tentazione di abbandonarsi alla brezza, alla de- lizia: gli occhi semichiusi della città-serpente vogliono il sonno e la dolcezza del- la dimenticanza. Ma l’altra metà degli occhi è aperta e in essa la coscienza degli uomini sorveglia. Noi lettori siamo il primo referente di quegli occhi. E benché il giudizio della storia, che parte certamente da noi, non si possa anticipare, il primo dovere del poeta è fare. Allora l’io poetante si scatena in un’ultima serie di metamorfosi, identifi- candosi con il primo allocutore attraverso allitterazioni che collegano la «bon- tà» (nel senso di «opportunità» o di «giustizia») della terra con la bontà (sottin- tesa) della tomba e del giudizio finale (terra buona→tomba→tromba, vv. 35-36, dove Montale parla); e infine s’identifica con il mare che schizza (v. 39), con cui si ripropone la pioggia che schizza della prima strofa e quindi il campo simbo- lico della pioggia-pianto-canto. «Io sono il mare che arriva», dichiara; e in que- sto mare che sempre ricomincia ma che mai arriva («l’azzurrità dell’inarrivabile») incarna l’assenza-memoria generatrice di paradossi («guarda o è guardato, / sta per non stare, o non sta per stare?»). Man mano che l’evento privato (la morte dell’amico-poeta) è stato assimi- lato e accettato ed ha acquisito valore al di là di questo privato, il paesaggio è andato dilatandosi fino a diventare la proiezione cosmica della città iniziale in queste rocce rosse, della pioggia in questo mare, e del tutto in questo «infinito» – che è pure divina misericordia – raffigurato nella palanca che rotola in bas- UN «ERMETICO» ADDIO: BIGONGIARI SALUTA MONTALE 447 so verso l’ultima fase concepibile delle metamorfosi: la «lanca amara», la gran- de livellatrice manriquiana. All’infinito ineluttabile si contrappone il microco- smo di labbra e di dita fra le quali si racchiude l’incantesimo della parola, uni- ca salvezza immaginabile. L’ultima strofa del componimento sarà una nuova indicazione modalizzan- te sulla sua enunciazione, una scusa rivolta al lettore: «Sono poche le immagi- ni, davvero / poche, lo so». Ma comunque sia il poeta sente che ha dato tutte le premesse e le condizioni perché ora possiamo prendere il turno noi lettori: «La gente che qui si stringe» (qui, deissi della poesia). Il poeta si ritira eclissandosi nelle successive metamorfosi del soggetto («lo so», quindi io→«dobbiamo» quindi noi→«la gente» quindi loro), lasciando, come in un teatro a scena aperta alla fine dello spettacolo, l’immagine della pioggia che cade intermittente preceduta dall’invito esplicito a fare noi ora, e quindi ad aprire le labbra, a strappare la maschera e a seguire, dietro il canto dell’acqua, la sorte di tutto ciò che necessariamente torna nella melma essenziale. Firenze, giugno 1982

Congedo e nota personale – Trentadue anni fa moriva Eugenio Montale e l’a- mico Piero Bigongiari ne lasciava testimonianza in una straordinaria poesia lunga – o poemetto –, dove pulsioni inconsce e mestiere consapevole, dolore della per- dita e volontà di ricreazione si intrecciano in un discorso di profondità filosofi- ca e fascino lirico. Il testo scritto da Piero, e pubblicato nel n.7/8, anno VII, del- la «Rivista di Critica Politica», venne letto da lui nel vecchio caffè Doney di via Tornabuoni a Firenze, dove solitamente si riuniva il gruppo capeggiato da lui stesso e da Oreste Macrí, spesso frequentato anche da Mario Luzi. Pochi giorni dopo io lessi il mio commento al testo, azzardando non senza timore quella lettura di de- cifrazione dei simboli e dei contenuti inconsci. Ottenni l’approvazione dell’autore e quella – per me più difficile – del mio maestro, il Prof. Macrí. Piero Bigongiari è mancato nell’ottobre del ’97 e Oreste Macrí nel febbraio del ’98. Non esiste più il Caffè Doney né la vecchia Libreria Seeber dove ci si incontrava prima di andare al Caffè ogni giovedì alle 18.30. Ci hanno lasciati anche Luigi Panarese, Giorgio Chiarini, Roberto Paoli, Gaetano Chiappini. Siamo rimasti in pochi a ricordare la vivacità e la piacevolezza di quelle serate, di quella «tertulia», come la chiamava- mo in spagnolo, che più di un’abitudine era un vero rito. E forse, tra la pioggia e il canto, per noi, creature del terzo millennio alle soglie di un’indefinita catastrofe costantemente presentita e annunciata, hanno avuto il meglio la disperanza e la malinconia. Ma da qualche parte, ne siamo convinti, «angolata dall’amore, la gola del cardellino» continua a modulare la musica della nostra anima.

Dedica – A Laura e Anna Dolfi, le uniche ormai che condividono con me que- sti ricordi. Firenze, aprile 2015 Luciano Sampaoli e Mario Luzi. ALESSANDRO PARRONCHI DECLINAZIONI DI UN’IMMAGINE

PARRONCHI, QUASI UN RITRATTO

Marco Marchi

È un variegato e stratigrafico mondo culturale, letterario e artistico, quello che ha accompagnato la vita di Alessandro Parronchi: un mondo di cui Parronchi è stato, alle varie altezze cronologiche di un’esistenza lunga ed operosa, oltre che testimone attento, presenza di rilievo e in molti casi, anche nella riservatezza di un carattere schivo e nel salvaguardato segreto a lui richiesto dall’operare stesso, protagonistica. Rimandano a quel mondo popolato e mutante pure le due sta- bili, ben delineate e protratte accezioni alle quali Parronchi ha affidato la pro- pria connotazione culturale maggiore, e cioè quelle del poeta e del letterato, e quelle artistiche del critico e dello storico applicato alle arti figurative: se arti an- tiche e nobilissime o moderne fino alla contemporaneità più bruciante e con- troversa (al pari che per la poesia e secondo paragonabili statuti) meno importa. Non è tuttavia né una delle sue intense raccolte di versi, né uno dei suoi fon- damentali contributi forniti alla storia dell’arte, il testo da cui partire per tenta- re un ritratto, anzi «quasi un ritratto» di Alessandro Parronchi: è un paralettera- rio, documentale ed ausiliario carteggio che tuttavia, oltre a testimoniare di un importante rapporto intercorso, si impone di per se stesso come opera, con pa- gine di Parronchi singolarmente significative e rivelatrici. Mi riferisco aUn ta- cito mistero, il carteggio che l’autore intrattenne per più di quarant’anni, preci- samente tra il 1941 e il 1982, con Vittorio Sereni, uscito nel 2004 per i tipi di Feltrinelli, a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, con prefazione di Giovanni Raboni. Una vasta corrispondenza attraverso la quale due notevoli poeti italia- ni del Novecento dialogano nel corso del tempo, si confrontano. Gli anni e gli eventi certificati sono molti, ma spiccano quelli della giovinezza e della forma- zione e quelli, per ambedue storicamente implicanti anche in senso letterario, della guerra e del dopoguerra. Proprio in quest’ultimo periodo – quello, specificando, delle speranze lega- te dopo il buio a una rinascita, a una rinascita di tipo societario cui partecipa- re fornendo il proprio contributo – gli scambi epistolari si fanno fitti, minuta- mente puntuali, e l’epistolario trabocca, al di là della cronaca degli episodi quo- tidiani riferiti, di indicazioni utili per capire. Di che cosa parlano Parronchi e Sereni? Parlano di tante cose, ma soprattutto di poesia, dell’evolversi del pro-

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 452 Marco Marchi prio esercizio letterario, della ricerca di «padri» e «fratelli» in arte, del costituirsi di testi singoli e intere raccolte, proponendo e giudicando, avanzando ipotesi e chiedendosi reciprocamente consiglio. Sereni in particolare – autore per le mi- lanesi edizioni di «Corrente» e l’anno dopo per Vallecchi di Frontiera (1941 e 1942) e presto, nel 1947, di Diario d’Algeria – fa subito di Parronchi il suo «con- sigliere». Parronchi accetta con piacere e convinzione l’incarico, attestando una continuità di sguardo, di interesse e attenzione, solidamente basata su ragioni di vita: anzi, secondo un documento agli atti, un tutt’uno perfettamente coinci- dente con esse: «Non mi stancherò tanto presto di guardare – dichiara Parronchi in una lunga lettera del 1946 –, almeno fino a quando le “questioni di lavoro” mi parranno, come lo sono ormai da tempo per me, l’unica ragione per vivere». L’«unica ragione per vivere»: un impegno esclusivo, inclusivo e fagocitante, cui si accompagna, nel suo spessore esistenziale sottolineato da Parronchi stesso, un quadro ampliato di amicizie, compartecipazioni e concomitanze che allarga il panorama della contemporaneità, non meno di un comune desiderio, anche nella diversità di pratiche e credenze, di rappresentatività: ciascuno, in quan- to poeta, sembra affidare soprattutto a quelle sue parole la propria presenza nel mondo, in un contesto storico che di continuo cambia, nelle occasioni sempre diverse e sostanzialmente sempre insoddisfacenti via via succedutesi e in atto. La poesia, per Parronchi come per Sereni, non può non guardare il mondo: osservarlo, interpretarlo e cercare di capirlo, giudicarlo, tentare di cambiarlo, fi- nanche ricostruirlo. Un periodo come quello del dopoguerra fa sentire forte- mente ad ambedue gli autori questa grande possibilità della poesia, questa sua congenita, ambigua e forse sostanzialmente inappurabile ma esaltante e del tutto efficiente funzione, stimolando il colloquio, il chiarimento delle idee, il bisogno di apertura rispetto ad un passato recente risoltosi spesso nei termini dolorosi di un allontanamento coatto, di un’obbligata disappartenenza a scelte ed eventi, di un generale senso di disagio, di prigionia e d’impotenza, fatta salva la possi- bilità di avere già parlato a nome di un’«intera sortita d’uomini e non d’un sin- golo» – come scrive Giorgio Caproni in un suo articolo su Parronchi –, di ave- re anche così storicamente rispecchiato, tramite la poesia, la «disavventura inti- ma» di una «generazione d’uomini incenerita da due “grandi guerre” e dall’in- terludio di una dittatura». L’avventura letteraria e culturale di Alessandro Parronchi muove proprio da quegli anni: gli anni della giovinezza che per lui – nato a Firenze il 26 dicem- bre 1914, e quindi esattamente coetaneo rispetto ai suoi compagni Mario Luzi e Piero Bigongiari – videro il suo debutto di poeta. Quando nel 1941 Parronchi pubblica per i tipi di Vallecchi I giorni sensibili, siamo negli anni dell’Ermetismo e in un ambito geografico e gravitazionale potentissimo quale l’area fiorentina.

Una nuova generazione cominciava a fare progetti – ricorderà molti anni dopo Bo, implicitamente negando la possibilità di fare dell’Ermetismo un movimen- to d’avanguardia stricto sensu – senza trascurare o, peggio, combattere i fratelli Parronchi, QUASI UN RITRATTO 453

maggiori: direi che questo è stato un segno davvero nuovo. Di solito chi tenta di salire sulla scena, prima di tutto si preoccupa di sgombrare il terreno e di allontanare i protagonisti. Gli uomini della «Voce» e di «Lacerba» sono stati maestri in questo tipo di comportamento. I miei coetanei si sono regolati in maniera del tutto diversa: più che lettori, sono stati commentatori entusiasti dei Montale e degli Ungaretti. Se sostituzione doveva esserci – ed era un fatto fisio- logico – questa sarebbe avvenuta nell’ambito della più ferma e – diciamo pure – amorevole partecipazione […]. Lo scopo unico e assoluto era la letteratura, la poesia soprattutto, […] pensando di postulare finalmente il riscatto pieno della letteratura con la maiuscola.

Così pure, sulla stessa linea, una coeva testimonianza di Gatto, riconduci- bile agli anni Ottanta: «Il segno della nostra generazione, la qualità prima della nostra generazione, ed è un fatto che non si è mai più ripetuto, fu questa ade- sione ai padri spirituali ed artistici, agli scrittori che ci avevano preceduti […]. Noi avevamo evidentemente padri vociani, avevamo padri rondisti, avevamo padri anche futuristi avevamo padri dannunziani, avevamo padri crepuscolari». Se non una vera e propria avanguardia, l’Ermetismo fu dunque un impor- tante e per certi aspetti decisivo lavoro comune di ricognizione, aggiornamen- to e innovazione su quella che appariva «l’unica strada possibile e consentita»: una meditazione a sfondo etico-religioso sulla parola poetica, nel rifiuto – ci- tando Bo dal celeberrimo manifesto suo malgrado di un movimento suo mal- grado quale Letteratura come vita, apparso nel fiorentino «Frontespizio» nel set- tembre del 1938 – di una «letteratura come illustrazione di consuetudini e di costumi comuni, aggiogati al tempo» e a favore invece di una letteratura di co- scienza «che sale alle origini centrali dell’uomo», «che ha troppa memoria per risolversi in una passione che subisce i nostri umori, le nostre stagioni, la no- stra polemica di viventi»: un «discorso continuo e infinito che apriamo con noi stessi» volto a riscoprire attraverso il concetto di «assenza» la realtà più vera che trascende l’uomo. Attraverso le liriche dei Giorni sensibili e quelle della successiva raccolta I visi, venuta due anni dopo, nel 1943, per le Edizioni di «Rivoluzione», Parronchi si situa con piena ed immediatamente riconoscibile originalità di risultati in que- sto contesto. A contraddistinguerne la sua voce e a differenziarla da quella di altri interviene la distanza da un dettato di tipo propriamente analogico, deli- beratamente e programmaticamente condiscendente nei confronti dell’oscuri- tà, cui corrispondono al contrario intenzioni di rappresentazione e comunica- zione sulla scia di un composito, personalissimo e individualizzante recupero di modelli ottocenteschi: modelli ottocenteschi di genere pre-simbolista, romanti- ci di preferenza (Macrí) non senza screziature ancora anteriori di tipo neoclas- sico (Baldacci, Ghidetti), tra Leopardi (già fin da allora l’adorato Leopardi!) e Foscolo, in una valorizzata disponibilità all’elemento visivo-descrittivo e, insie- me, all’ascolto di pressanti e profonde ragioni autobiografiche. Motivazioni di 454 Marco Marchi base che soprattutto con la prematura scomparsa del padre hanno portato pre- cocemente alla ribalta in Parronchi una culturalizzata e poeticamente nutrita ri- flessione su quelli che si stabiliranno come temi prediletti, riconfermati e con- tinui della sua poesia: la giovinezza destinata a passare, l’amore, la solitudine, il dolore e la morte. Alessandro Parronchi si è frattanto laureato (nel 1938) con una tesi in Storia dell’arte (e l’insegnamento universitario in questi ambiti sarà la sua professione), ponendo le basi anche a quella importante accezione di uomo di cultura nove- centesco che farà di lui, oltre che un poeta e un letterato di vaglia, un importan- te, stimatissimo critico d’arte. Risalgono agli anni Quaranta le prime collabo- razioni alle riviste e le frequentazioni di letterati e artisti. Tra le riviste, il catto- lico-bargelliniano «Frontespizio», il vallecchiano «Campo di Marte» diretto da Alfonso Gatto e e la bonsantiana «Letteratura»; e tra le frequen- tazioni, quelle di poeti, scrittori e critici come Carlo Betocchi, Luigi Fallacara, Luzi e Bigongiari, Gianfranco Contini, Eugenio Montale, Arturo Loria, , Giorgio Caproni, Umberto Bellintani, e insieme quelle di pittori come Ottone Rosai e Mario Marcucci o di uno scultore amatissimo anche da Luzi come Venturino Venturi. La pubblicazione nel 1949 di Un’attesa segna una data di singolare rilievo nel- la carriera del poeta. Si riconfermano qui, secondo acute indicazioni recuperabi- li in una lettera di otto anni prima dell’amico Vasco Pratolini, l’alta moralità di una meditazione in versi sgorgata dalla «solitudine», che riconosce proprio nel libero ed esigente esercizio della poesia la sua forma maggiore di affrancamento, la sua «libertà» e la sua «gioia» (è la lettera da Roma del 9 febbraio 1941). Ma qualcosa nella poesia di Parronchi, nella fedeltà alle proprie spinte propulsive e ai propri connotati originari, sta cambiando. Si profilano nelle sezioni costitu- tive di questa raccolta di fine decennio quelle che potremmo definire le nuove «condizioni» della sua poesia: «condizioni» stimolate da un mutato contesto di rifondazione societaria alla quale il poeta partecipa e della quale la sua poetica e la sua poesia non possono non rivelare riflessi e segni. Si diceva all’inizio di Un tacito mistero, un libro dove questi temi vengono alla ribalta e assumono valore protagonistico. La mia affezione a questa corrispon- denza, resa nota dieci anni fa, fu allora così forte ed impellente, che mi invitò subito a pensare, operando proprio sulle scritture lì contenute intrecciate a ver- si, un testo scenico concepito come un omaggio a Parronchi. Vi si immaginava – qualcuno ricorderà, essendo stato quel testo scenico rappresentato a Firenze al Saloncino della Pergola – una «stanza»: una «stanza dei poeti» poeticamente ambigua anche per via di suggestioni tecnico-formali da cancelleria lirica come pure da ulteriore accezione vocabolaristica, efficiente anche attraverso ricordi te- stuali: dai viaggi interni alla De Maistre a memorizzati spezzoni di liriche cele- bri, mettiamo la celeberrima leopardiana A Silvia – «Sonavan le quiete / stanze, e le vie dintorno…» –, in cui il dialogo dei due poeti novecenteschi Alessandro Parronchi e Vittorio Sereni si allargasse, potesse davvero visibilizzare le risultan- Parronchi, QUASI UN RITRATTO 455 ze linguisticamente più cogenti di quel mobile intrattenersi, di quel dinamico, saldo ed intrecciato colloquiare per tanto tempo a distanza, di quell’essere in- sieme oltre le apparenze, oltre i fisici incontri, oltre le dure evenienze della vita singolarmente sperimentate. L’idea della stanza come luogo deputato oltremo- do sensibile mi appariva del resto autorizzata da Parronchi stesso in una poesia bellissima dedicata all’amico, la cui datazione precede di poco la pubblicazio- ne di Un’attesa e che proprio in Un’attesa, in una sezione di quel libro dal titolo Occhi sul presente, troverà la sua prima giusta collocazione. Così, al principio, la condivisa «stanza dei poeti» in cui poter ambientare let- tere e componimenti poetici dei due autori sarebbe stata, su base strettamente biografica, lo studio domestico milanese di Sereni che Alessandro Parronchi vi- sitò nell’ottobre del 1948, ma avrebbe potuto benissimo essere la studio della casa fiorentina di Parronchi stesso, o il luogo dipinto – un’immagine spolpata di valore simbolico – dove in silenzio è all’opera il disegnatore di Paul Klee: l’es- senziale era, come esemplarmente accade nel genere epistolare ma anche nell’e- sercizio poetico, che l’assenza determinasse presenza, producesse le parole senti- te le uniche da dover scrivere a quel destinatario-interlocutore instabilmente as- sente-presente, presente per così dire al massimo proprio nella sua fantasmati- ca distanza enfatizzante la verità di un rapporto e delle cose stesse della vita che in quel rapporto convergevano e ci si scambiavano. Una sorta di raddoppiato e spartito «mysterium mortis», per dirla con un titolo latino del teologo unghere- se Ladislaus Boros, una specie di duplice «kenosi del poeta» assolutamente fidu- ciosa di poter conoscere ed esprimere se stessi e il mondo morendo a se stessi e al mondo, programmaticamente assentandosi dalle forme di realtà più eclatan- ti e in vista: nascondendosi, celandosi, appiattendosi fino alla reclusione, all’an- nullamento, alla scomparsa, nel tentativo di dare scacco a quell’unico antagoni- sta dialettico che è sempre, per il poeta, il mondo. Morti al mondo, ma del tutto attestanti l’efficienza del loro coinvolgimen- to, di valore storico ed iperstorico, alcuni poeti supremi valevoli da esempio. Morto al mondo Dante, morto al mondo Leopardi; ma tutt’altro che morti al mondo i risultati conoscitivi frutto della loro applicazione, dei loro strani, se- parati e lontani sguardi di creature spoliate, di uomini vuoti. I veri poeti come Parronchi è stato conoscono bene queste condizioni rilkianamente notturne, sotterranee del loro operare, del loro sentirsi testimone-assente, costantemen- te altrove; hanno confidenza con questi stati dilazionati della creazione artisti- ca in apparenza tragicamente funerei, solo nostalgicamente differiti e regressi- vi, sepolti e silenziosamente depressi, in realtà produttivi, vitali. Stati generatori di illuminazioni e segnaletiche orientative, di cambiamenti e aperture, di ener- gici accrescimenti, di trasmissibilità; di nuovi «sguardi» e di nuovi «occhi», po- tremmo dire, pensando alla poesia di Parronchi, a suoi titoli e a sue ricorren- ze, ma anche includendo in questa «seconda nascita», con altrettanta serietà ed attendibilità, il rilevante lavoro di traduttore e saggista letterario (da Mallarmé a Nerval, a Maurice de Guérin, fino al prediletto Leopardi: La nascita dell’In- 456 Marco Marchi finito. Studi leopardiani, 1989) e l’altro genere di mansioni vocazionali accon- discese nel corso di una vita: dai suoi interessi legati alla pittura e alla scultura del Rinascimento (per cui è pressoché impossibile non rimandare al suo bellis- simo libro del 1964 Studi su la dolce prospettiva) a quelli per l’arte a noi più vici- na (da Nomi della pittura italiana contemporanea, 1944 a Artisti toscani del pri- mo Novecento, 1958, a Pregiudizi e libertà dell’arte moderna, 1964). Mistero della morte, mistero della vita, mistero della storia umana e del- le sue partecipazioni, poesia e scrittura comprese, allorché queste riassumono il senso umano del vivere loro affidato in tutte le sue gamme, dal «coraggio» alla «paura». Ma è d’obbligo a questo punto citare, e citare ormai direttamente da Occhi sul presente, 1948, sezione conclusiva del compendiario Un’attesa, questa lirica intensa, tra le più belle che un poeta del Novecento italiano abbia dedica- to ad un amico poeta:

Ho rispettato la quiete / del tuo studio. Erano là / a fissarmi i tuoi occhi. / Li ve- devo assorti nel lavoro / ardere dietro un apparente / velo di tristezza… Dietro, era la gioia. / E i miei si chiusero. Non una / di queste cose mi seguì, nel breve / viaggio che feci verso le ombre, / non una, ma, ricordo, strane immagini / d’ab- bandono, e pensieri / importuni che venivano a riprendermi. / Dopo filtrò più luce, ed era ancora Milano, la tua stanza, / l’Italia che mai più grande e leggera / è di quando risale / a Lecco per le valli, e io mi dicevo: / si slargherà il suo cielo / su noi e sempre più lievi ombre saremo / al suo perpetuo schiarire (A Vittorio).

Il culmine di un dialogo, la sua quintessenza si concentra dunque in paro- le di tipo poetico: in un chiaroscurato afflato liberatorio che pianamente con- cresce e si distilla, talché da una rappresentazione sgorgano davvero – come ne- gli auspici dell’autore – «pure immagini». La gioia dietro un «velo di tristezza», che però è apparenza, superficie; e occhi visti tra visibile ed invisibile che, fis- si e a loro volta fissati, còlti nella loro fermezza ipnotica potenziata che induce a ricognizioni interori e abbandoni, a un fluttuare di pensieri, impressioni e ri- chiami che convocano l’«io» all’«io», l’«io» al proprio passato che lo ha costitui- to e insieme al presente e al futuro che lo attendono, secondo quella fenomeno- logia trascorrente, per via di immagini di «cose viste», di «figure in azione con la loro ansia»: fenomenologia decisamente filmica, culminante inCittà e valo- rizzata con sicurezza da un intervento critico di Luigi Baldacci poi confluito in Novecento passato remoto a favore di una ormai antipetrarchesca e del tutto an- tiermetica poetica dello sguardo. «Un episodio alto del nostro Novecento», conclude Baldacci. «Vagheggiavo una particolare disposizione poetica – specifica per suo conto il poeta stesso – che, come la camera cinematografica, permettesse di filmare una situazione, di darne, per così dire, il movimento elementare, realistico-estemporaneo, senza al- terazioni eccessive». Ma i risultati della riflessione di Parronchi tra il Rashomon di Kurosawa e il prototipo scrittorio di Akutagawa messa in atto in Nel bosco van- Parronchi, QUASI UN RITRATTO 457 no del resto ben oltre nella sperimentazione di Città, come Baldacci acutamente intuisce: «Immagini prima di tutto, forse apparentabili a immagini di Pratolini, stranamente consonanti con quel capolavoro di Delio Tessa che è Vecchia Europa […], immagini sorrette da bravura registica che gareggia con quella letteraria (i rintocchi sinistri, fuori campo, di canti carnascialeschi)». Si noti d’altronde come il finale della poesia A Vittorio che abbiamo citato, dopo lo slittante sprofondo notturno che il testo mirabilmente propone, si pre- senti in realtà luminoso, rischiarato, con un recupero di una piena dimensione futura cui si affida un auspicio d’«attesa», e soprattutto con il subentro di un noi accomunante che vuol dire che il colloquio c’è stato: ha prodotto risultati, con- tinua. Ed è proprio così, come ha segnalato Silvio Ramat, che «sezioni liriche dell’immediato dopoguerra, e in special modo Occhi sul presente, smuovono la posizione di Parronchi da una eventualità intimistica, predisponendo piuttosto colloqui il cui termine di riferimento sia altro che non l’assente (ovvero l’assen- za), secondo il sublime apriorismo di gioventù, restio a qualsiasi compromissio- ne con la cronaca o “tempo minore” che fosse». Sul crinale di queste storiografiche nuove possibilità di fare poesia si è svol- to d’altronde uno dei più interessanti episodi della critica applicata a Parronchi. Si allude all’articolo di Pier Paolo Pasolini intitolato Parronchi e le «vie dell’u- mano», ora in Passione e ideologia, risalente per composizione e prima pubbli- cazione al 1957 e per molti aspetti riconducibile ad analoghe modalità di let- tura e di valutazione riservate dal critico al coevo Onore del vero di Mario Luzi. Declassato a «tentativo incerto» il precedente Per strade di bosco e di città, Pasolini mette in luce nella poesia del Parronchi di Coraggio di vivere una decisa svolta, facendo coincidere con la pubblicazione del libro l’apertura di «una nuo- va fase nella storia di questo poeta»: «una conversione», come Pasolini precisa, tesa a chiudere drasticamente i conti con il suo passato ermetico grazie ad una rinnovata e liricamente accondiscesa «competenza del sistema dei sentimenti». Pervenuta per le vie dell’«umano» all’incontro con l’«esistenza di se stesso» ma non tuttavia a quello con l’«esistenza della storia», Parronchi approda secondo Pasolini ad una sorta di «sapienza irrazionale» che dà tono unitario all’opera e il cui limite estremo è rappresentato dalla raggiunta «coscienza della possibile con- traddizione di tutto». Ma la temporalità si presenta ancora nel poeta sub specie di «fatto magico anziché storico», «il senso del mondo come teatro di una vita sentimentale destinata però a fallire, se la veggenza che il saggio può raggiunge- re è la veggenza del nulla». Un intervento critico di rilievo, corredabile semmai, proprio nella chiave di una diversa forma di «conoscenza di sé» offerta da Pasolini, delle più caute e sfu- mate periodizzazioni cui è pervenuto il più intensivo e dettagliato esame dell’o- pera parronchiana di Luigi Baldacci, con risultati amplianti nel senso delle an- ticipazioni rilevabili. È indubbio, tuttavia, che è soprattutto a partire dagli inizi degli anni Cinquanta che emergeranno sempre più chiare ed eloquenti profes- sioni di quel «coraggio di vivere» a cui Parronchi espressamente intitolerà l’in- 458 Marco Marchi sieme dei suoi versi scritti nel corso di un intero decennio. Coraggio di vivere – citando adesso un giudizio di Enrico Ghidetti, prefatore leopardianamente af- fiatato delle compendiarie, finali Poesie – come una «ideale pietra confinaria tra il suo primo e secondo tempo», come una «conquista ed una pratica quotidia- na» rivelatasi con sempre maggior convinzione irrinunciabile e inderogabile, fino al ritrovamento, come ancora Ghidetti suggerisce, «di un linguaggio “naturale” della poesia a sancire un nuovo patto con gli altri, lungo “la via dell’umano”». Da questo «nuovo patto» si muoveranno, tra fedeltà ai grandi temi della sua poesia e di volta in volta rinnovata originalità di dizione, i libri di versi venuti dopo: da L’apparenza non inganna del 1966 alle raccolte che a scadenza decen- nale il poeta offrirà al pubblico dei suoi lettori: daPietà dell’atmosfera (1970) a Replay (1980), a Climax (1990), fino alla citata, compendiaria antologia d’au- tore delle Poesie del 2000 e al Quaderno in ombra pubblicato postumo per le cure di Giovanna Ioli. Nelle liriche del tardo Parronchi – è un dato segnalato da Silvio Ramat age- volmente estensibile – la discorsività, da sempre nemica dell’oscuro e del deli- beratamente ambivalente, tende sempre di più ad accordarsi con la solennità, «quasi a sfidare sul loro terreno medesimo quelle inconfutabili grandezze che sono i luoghi comuni o, per esprimerci meglio i temi non caduchi, vita-mor- te». Una solennità al servizio della chiarezza e cooptata assieme alla discorsività contro quelle oscurità e ambivalenze di stampo ermetico non coltivate del re- sto neppure dal primo Parronchi; una solennità maturata su quei caratterizzanti modi sentenziosi già rilevati attivi e discussi da Giorgio Bàrberi Squarotti in un suo antico ritratto del poeta per «I Contemporanei» di Marzorati, e una solen- nità consapevolmente disponibile adesso a non evitare «quando giovi al pieno intendimento – come interpreta benissimo Ramat – l’enfasi del colpo frontale». In questa prospettiva si inserisce di diritto la riconfermata predilezione del poeta per la misura endecasillabica (sia pure spesso violata e rinnovata) cui il dettato lirico-riflessivo si affida, con un accentuato impiego espressivo, all’inter- no di una scelta prosastica e talora quasi diaristica di base, della rima: prospetti- va linguistico-espressiva alla quale potremmo ricondurre anche la complessiva, funzionale alternanza di toni del dettato di Parronchi, come pure il configurar- si stesso, a livello vocabolaristico, di un idioletto spiccatamente autoriale che al termine raro abbina quello di uso comune e comunissimo, all’arcaismo un po’ prezioso di sapore libresco i modi affabili e quotidiani del parlato, al tecnicismo il forestierismo mediato dal globalismo del nostro tempo: tra Replay e Climax, insomma, secondo esponenti bipolari evidenziati dalla stessa titolistica d’autore. Una protratta fedeltà alla poesia e un «tacito mistero», potremmo aggiun- gere conclusivamente, che già da tempo si erano realizzati per Parronchi per via di lettere ad amici: consegnandosi pure in quegli spazi solo in apparenza se- condari e marginali a quel «suono-valore» continuo, preludio di poesia e poe- sia esso stesso, persuasivamente rilevato nei termini di una complessiva verifi- ca da Giovanni Raboni. Parronchi, QUASI UN RITRATTO 459

Un ineludibile «tacito mistero» che nel realizzarsi nel sonoro silenzio della scrittura e nella rispettata «quiete» di uno studio, pare alla fine etimologicamen- te rinviarci proprio ai suoi significati più decisivi e sbaraglianti utili a siglare una chiamata dell’arte, e cioè un’obbedienza, sia pure in cerca di libertà: myein, chiu- dere appunto, proprio come ci si chiude in una stanza, come si sosta e come si possono scrivere in essa, in segreto, con gli occhi chiusi ed in realtà tendendo lo sguardo e guardando benissimo, versi; farsi «muti» e «miopi» – ancora la radice myein –, ma per «intra-vedere». Risuonano intanto, in quella strana stanza-specola del mondo che ha regi- strato la presenza continua ed efficiente di Alessandro Parronchi, tra luci ed om- bre di «boschi» e «città» perlustrate da sguardi e parole, tra la dolorosa «solitudi- ne» e la «libertà» connesse all’esercizio della poesia in Parronchi riconosciute da Vasco Pratolini fin dall’epoca dei Giorni sensibili, pure versi dell’amico Sereni; versi anch’essi venuti in seguito, tratti precisamente dagli Strumenti umani, che, all’insegna di un sentimento difficile da provare e ancor più difficile da condivide- re, dicono: «Ma credi all’altra / cosa che si fa strada in me di tanto in tanto / che in sé le altre include e le fa splendide, / rara come questa mattina di settembre… / giusto di te fra me e me parlavo: / della gioia» (Appuntamento a ora insolita). Alessandro Parronchi, Anna Dolfi, Francesco Tentori (Firenze, 1994. Foto di Laura Dolfi). UN CAPITOLO DI TRANSIZIONE LASCITI CREPUSCOLARI IN «UN’ATTESA»

Leonardo Manigrasso

In un suo scritto del 1959, Sergio Solmi ha definito la poesia ermetica come l’equivalente italiano del surrealismo in «una letteratura che non poteva dimen- ticarsi di avere avuto Petrarca»1. Una poesia cioè che se da una parte accoglie- va (ed elevava a sistema) la trasgressione alle funzioni mimetiche e comunica- tive del linguaggio, dall’altra faceva al contempo dell’«ingenuo un antivalore» (Ramat)2, rivendicava il proprio spessore letterario accreditando il dialogo con la tradizione nei termini di un rapporto non metalinguistico ma – se possibile – ontologico (a partire dalla ormai fin troppo nota equivalenza tra letteratura e vita). Dunque quella ermetica si costituisce in modo esemplare come «genera- zione autocostruitasi nella creazione di sodali, discendenti e maestri» (Dolfi)3, saldamente inscritta in quel codice europeo magistralmente messo a fuoco dal Luzi dell’Idea simbolista. Questa rassegna così capillare delle proprie fonti auto- rizza subito non solo a decentrare l’informazione crepuscolare dalla regola er- metica, ma più correttamente a collocarla in una esplicita posizione di conflit- to4, come del resto suggerisce lo stesso Oreste Macrí quando dichiara il proprio

1 Cfr. Sergio Solmi, Sergio Corazzini e le origini della poesia contemporanea in Scrittori negli anni. Saggi e note sulla letteratura italiana del ’900, Milano, Il Saggiatore, 1963 (poi Milano, Garzanti, 1976, p. 269). 2 Silvio Ramat, L’ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1969, p. 81. 3 Cfr. Anna Dolfi, Introduzione all’edizione anastatica di Oreste Macrí, Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Trento, La Finestra, 2002. Ma della Dolfi si veda anche Percorsi di macritica, Firenze, Firenze University Press, 2007. 4 Esemplare in questo senso un contributo di Giovanni Giudici che, non senza ironia, fa dell’opera di Gozzano un controcanto quasi liberatorio alla «moda» ermetica, per cui cfr. il suo Gozzano, un centenario, in Per forza e per amore, Milano, Garzanti, 1996, pp. 169-170: «Non v’è dubbio che Gozzano sia stato fra noi, in un’epoca in cui la poesia era forse ancora meno letta che oggi, un poeta di notevole popolarità, addirittura più di quel D’Annunzio che egli aveva rivoltato e ironizzato (sempre però subendone il perverso fascino) nel falsetto ferial-casalingo dei propri versi. E nemmeno v’è dubbio che, in un’epoca in cui la cultura poetica egemone si caratterizzava all’insegna dell’ermetismo, la colloquialità gozzaniana servisse sotto sotto da soccorrevole sfogo alle melanconie di intellettuali adolescenti che oggi han passata la cinquantina o la sessantina. Come negarlo? Anche quelli, fra loro, che già scrivevano o leggevano dotte dissertazioni sulla pa- rola assoluta non disdegnavano nell’intimità di sillabare all’amata le sestine della Signora Felicita o

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 462 Leonardo Manigrasso

(generazionale) antagonismo «nei riguardi degli sperimentalismi neodecadenti- stici, neocrepuscolari e simili; il decadentismo la nostra bestia nera»5. È dunque solo in seguito alla dissoluzione dell’estetica ermetica che gli even- tuali lasciti della stagione crepuscolare possono essere accolti in misura signifi- cativa tra i fiorentini: è il caso di Alessandro Parronchi, nella cui opera questi prestiti sono funzionali a esprimere la crisi della parola «piena» (o addirittura eccedente di senso) della tradizione simbolista attraverso il loro rovesciamento in «parola […] vuota, e di conseguenza insidiata dal silenzio, perché coglie con angoscia il vuoto di un tempo che scorre inesorabilmente e che essa sa di non poter arrestare» (Livi)6. In questo senso le infiltrazioni crepuscolari devono es- sere intese non come omaggio o strumento di una strategia citazionistica, ma come accordo su un piano ideologico – e solo correlativamente stilistico – da- vanti alla bruciante percezione di un «vuoto morale» (Baldacci)7 e alla necessità di obliterare un codice poetico «impositivo» rispetto al quale la nuova poesia si ponga come lezione «debole», destinata (e condannata) fino alla fine – nelle pa- role di Parronchi – a non darsi rispetto alla vita che come «stanca fotocopia»8. È dunque nel capovolgimento del segno ermetico che si identifica la «funzione» crepuscolare nella sua poesia, all’interno di un percorso di contestazione (fino alla negazione) delle effettive forme della propria “militanza” giovanile che non ha eguali tra gli altri fiorentini. Una militanza, peraltro, ormai criticamente accertata: nel libro d’esordio in- fatti, I giorni sensibili del ’419, il codice ermetico si era pienamente manifesta- to trasmettendo al piano narrativo la tipica debolezza referenziale dei propri se- gni, confluendo nelle trame di una sorta di «antiromanzo» incaricato di trascri- vere le mitologie private del poeta attraverso le minuziose ricombinazioni di un numero esiguo e ricorrente di campi semantici: circoscrizioni «iterative», que- quelle, meno celebrate ma più essenziali e vive, di poesie come Il gioco del silenzio […] e Invernale […]. L’amore per Gozzano, insomma, che quasi tutti a quei tempi provammo, era amore per un qualcosa di assai poco à la page: da praticare quasi di nascosto, una specie (per citare lo stesso Guido) di amore ancillare». 5 O. Macrí, La traduzione poetica negli anni Trenta (e seguenti), in La traduzione del testo poetico, a cura di , Guerini e Associati, Milano, 1989 (poi in La vita della parola: da Betocchi a Tentori, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2002, p. 50). 6 François Livi, La parola crepuscolare. Corazzini, Gozzano, Moretti, Milano, Istituto Propa- ganda Libraria, 1986, p. 9. 7 Luigi Baldacci, I crepuscolari, Torino, ERI, 1961, pp. 5-10: «[I crepuscolari si rifacevano a] tutto ciò, insomma, che in qualche modo significasse, simbolicamente, una fuga da quel mondo troppo ricco di effimere certezze, troppo dominato dai motivi della conquista e del senso che, nel quadro della crisi generale dei valori positivi, appariva ormai il mondo poetico del Carducci o del D’Annunzio. […] Ora, appunto, la poesia crepuscolare può essere intesa come l’interprete più sensibile di queste contraddizioni del resto facilmente riducibili a un comune indice di vuoto morale». 8 Alessandro Parronchi, Fin da principio volli che del vero, v. 15 (in Nuovo Cammino, Firenze, Galleria Pananti, 1994). 9 A. Parronchi, I giorni sensibili, Firenze, Vallecchi, 1941. UN CAPITOLO DI TRANSIZIONE LASCITI CREPUSCOLARI IN «UN’ATTESA» 463 ste, che facevano capo al mondo floreale, all’elemento lunare-astrale, all’equo- reo, alla figura femminile, imprimendo al libro una sorta di struttura modula- re che obbediva da un lato a un ipercodice culturalmente molto stratificato, per così dire al di sopra dell’oggetto, e dall’altro a una sorta di «legislazione» sog- gettiva delegata a coordinare l’universo di significati di questa poesia «prima» dell’oggetto, che ne rimaneva eluso; un impianto di natura eminentemente ver- bale destinato tuttavia a mostrare i segni della propria crisi già con la seconda raccolta di Parronchi, I visi (1943)10, ancora inscrivibile nei suoi aspetti forma- li nella grammatica dell’ermetismo, ma già estranea alla radicale selettività te- matica del primo libro. È qui che si innesca una rivoluzione espressiva destina- ta a esaurire la propria fase più strettamente «sperimentale» solo nel corso degli anni Cinquanta, quando Parronchi – dopo le verifiche formali dei lunghi poe- metti narrativi usciti nel ’54 e l’intensa stagione delle traduzioni – mette a fuo- co le opzioni ideologiche sulle quali, di fatto, si articola la sua restante attività, basata su strategie di radicale contestazione a praticamente tutte le declinazioni del moderno, e in generale all’«uomo contemporaneo, inghiottito dalla burocra- zia, livellato dalla macchina, lasciato indietro dal progresso»11: una poesia volu- tamente «intempestiva», dunque, dalla cui inattualità deriva, secondo Ruggero Jacobbi, quel suo tipico «aspetto polemico, aggressivo, a volte satirico nei con- fronti della vita moderna, della società stessa in cui viviamo»12. È allora nella fase più incandescente di questo percorso che la poesia di Parronchi interferisce con l’idea crepuscolare, come se a raccordare (negandole entrambe) tra l’introflessione dell’universo ermetico e la stagione del dramma- tico contraddittorio con il proprio tempo si costituisse una fase «regressiva», di resa davanti alle dissoluzioni del caproniano «tempo ormai diviso»13, al centro, ancora generazionalmente, di tanta poesia del dopoguerra; una crisi che nella fattispecie dell’opera di Parronchi si era tradotta nel tema del «mutismo», mo- tivo ricorrente e quasi trait d’union tra I visi e il libro successivo, Un’attesa14. È proprio all’altezza di quest’ultima raccolta che agiscono i prestiti crepuscolari, benché – come eredità forse della «diffidenza» ermetica – senza alcun riscon-

10 A. Parronchi, I visi, Firenze, Edizioni di Rivoluzione, 1943. 11 A. Parronchi, Il pittore dell’effimero, in Pregiudizi e libertà dell’arte moderna, Firenze, Le Monnier, 1964, pp. 227-228. 12 Ruggero Jacobbi, L’avventura del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Milano, Garzanti, 1984, p. 518. 13 Il riferimento è al verso che chiude sette delle otto stanze, con una minima variazione nell’ultima, del poemetto Le biciclette di Caproni. 14 A. Parronchi, Un’attesa, Parma, Guanda, 1949. Il volume è e suddiviso in cinque distinte sezioni ordinate prevalentemente in base a un criterio cronologico. La prima partizione è quella eponima e raccoglie testi che risalgono agli anni tra il ’43 e il ’45; gli stessi estremi temporali caratterizzano la seconda e più breve sezione dell’opera, intitolata Sonno delle stagioni; in Addii invece confluiscono le poesie scritte tra il ’43 e il ’46. Le ultime due partizioni infine seguono una disposizione rigorosamente cronologica: In ascolto è infatti composta da testi risalenti al biennio ’46-’47, mentre la conclusiva Occhi sul presente ricapitola l’opera poetica del 1948. 464 Leonardo Manigrasso tro esplicito sul piano critico; occorre infatti rifarsi a un successivo scambio pri- vato per una testimonianza di Parronchi sui crepuscolari, citati in una lettera a Giuseppe De Matteis del 30 marzo 1964 in risposta ad alcune ipotesi interpreta- tive – che chiamavano in causa proprio le tonalità crepuscolari15 – su Scorciatoia della luna di Pietà dell’atmosfera16. Il giudizio di Parronchi sui poeti evocati da De Matteis è lapidario: «Grazie per quel che mi dici della Scorciatoia. Non amo Pascoli, detesto Gozzano, mi piace Corazzini. Ma può accadere di andare a ras- somigliare proprio a chi meno si vorrebbe»17. Il giudizio tranchant su Gozzano da parte di Parronchi si inquadra nella ge- nerale scarsa predisposizione, anche nei suoi non molti frangenti «comici», per lo strumento (gozzaniano per eccellenza) dell’ironia, a favore piuttosto della sua declinazione più polemica, il sarcasmo; Parronchi è infatti un autore che alla sottile interazione dei registri alti e bassi preferisce il conflitto e quasi l’urto dei piani espressivi, arrivando a mobilitare – lui, così legato a un classico «ideale di elevatezza» (Fanfani)18 – anche livelli gravemente espressionistici. Viceversa il tono elegiaco di Corazzini si accorda perfettamente alla tastiera parronchia- na, inscrivendosi nei registri elevati di questa ideale «separazione degli stili» che dalla selettività delle prime raccolte ha via via dovuto sempre più aprirsi verso il proprio contrario; tuttavia l’annessione al proprio discorso di nuovi reperto- ri linguistici non si è svolta in ossequio al corso tendenziale della lirica moder- na, che in generale ha puntato alla messa in questione della «polarità delle to- pologie più elementari: affermazione e negazione, sopra e sotto, soggetto e og- getto» (Calvino)19, ma – fedele a un universo assiologico saldamente struttura- to – a causa di una «condanna a capire, a veder chiaro»20: Parronchi infatti non amplia il proprio lessico in seguito a una presunta insufficienza del linguag- gio della poesia nella dicibilità del reale, quanto per il progressivo farsi impo- etico del circostante, l’irreversibile declino del moderno «mondo di detriti»21 che caparbiamente il poeta sceglie di trascrivere in un discorso che, appunto,

15 Cfr. dunque Giuseppe De Matteis, Critica, poesia e comunicazione: letture di autori con- temporanei, Pisa, ETS, 1978, pp. 94-95: «Accanto all’idillismo di sapore romantico e alle leopar- diane movenze del verso, si registra con nitidezza un’ansietà tutta crepuscolare, affiora cioè quel caratteristico filone di “incertezza” rilevata poc’anzi. La poesia di Parronchi par, dunque, vicina a quella del Gozzano e del Corazzini; né disdegneremo di avvicinarla anche a quella del Pascoli, non tanto per la discorsività tipica del poeta di San Mauro di Romagna, quanto per una certa ansia di mistero che eleva il canto, rendendolo vibrante di soavi malinconie». 16 A. Parronchi, Pietà dell’atmosfera, Milano, Garzanti, 1970. 17 La lettera è trascritta in De Matteis Critica, poesia e comunicazione cit., p. 95. 18 Massimo Fanfani, Sul linguaggio poetico di Parronchi, in Per Alessandro Parronchi, Atti della giornata di studio (Firenze, 10 febbraio 1995), a cura di Isabella Bigazzi e Giovanni Falaschi, Roma, Bulzoni, 1998, p. 64. 19 , Una pietra sopra: discorsi di letteratura e società, Milano, Mondadori, 1995, p. 346. 20 A. Parronchi, Ma allora non capisci!, v. 4, in Climax, Milano, Garzanti, 1990. 21 A. Parronchi, Sembrerebbe non si dover attendere, v. 2 (ivi). UN CAPITOLO DI TRANSIZIONE LASCITI CREPUSCOLARI IN «UN’ATTESA» 465

«non ammette neppure il compromesso stilistico, per il suo ragionamento, che è morale» (Ramat) 22. All’altezza di Un’attesa, anteriore alla stagione della protesta incondizionata, la poesia di Parronchi si rivela prodiga di motivi assimilabili alla lezione coraz- ziniana: la totalità della propria rinuncia, il prosciugamento delle ragioni vitali, il compiacimento dell’autoreclusione, e in generale temi già deducibili sul pia- no macrostrutturale dalla rassegna dei titoli della raccolta, che – pure nella di- versità stilistica delle poesie che designano – convergono in parte ragguardevole sotto le circoscrizioni tematiche della morte (Non risvegliare chi morì, Requiem, In memoria) e di stagioni (o fasi del giorno) «crepuscolarmente» di transito (Una brezza di primo inverno, L’ultima luce ha ritardato il giorno, Fine d’anno, Dopopioggia), con particolare indugio su contesti autunnali (Che aspetta autun- no a fondere nell’oro?, Sbianca il cielo d’autunno, Autunno precoce). L’iscrivibilità di numerosi titoli nell’ambito di poche aree di argomenti con- vive però con l’articolazione del libro in una struttura tematica quanto mai mol- teplice. Il ventaglio delle fonti attive in Un’attesa affianca infatti alla funzione crepuscolare (e alle ultime, residuali manifestazioni dello stile ermetico23) alme- no una prossimità al versante spiritualistico dell’esistenzialismo nei componi- menti di ispirazione cristiana e soprattutto una sorta di «mistica naturale» deri- vata dalla poesia di Clemente Rebora – «scoperto» da Parronchi relativamente tardi – nel cui recupero si è manifestato quel «ritorno» alla generazione dei pa- dri nel cui solco potrebbero forse ascriversi anche i prestiti crepuscolari. Il libro infatti si caratterizza per una trama estremamente composita, che però sembra di volta in volta «ricapitolarsi» nei lunghi poemetti argomentativi in cui con- vergono i differenti spunti tematici disseminati nelle sezioni del libro; è il caso per intendersi dell’inno kierkegaardiano all’assolutezza dell’esperienza religiosa di Il suo corpo fu luce, e del colloquio naturale-metafisico di All’arida montagna. Allo stesso modo la tessitura crepuscolare, già articolata da una «rassegna» di to- poi distribuiti lungo la seconda parte del libro, trova infine la propria rappre- sentanza più organica nei 123 versi di Non è un addio, la lunga poesia che sigil- la la raccolta. Tra i testi in cui i motivi riconducibili a un repertorio crepuscola- re si presentano in modo più tangibile si possono mettere a referto almeno La grotta, Ritorna notte e Addio! Restano gli anni:

La grotta Ritorna notte Ecco la pallida grotta, da lei Ritorna notte, e con la notte l’intima mi divide un abisso. certezza che altri dopo me verrà

22 Cfr. S. Ramat, Fallacara inedito e il nuovo Parronchi, in «Corriere del Ticino», 12 settembre 1970. 23 Quasi paradigmatica dello stile e della figurazione ermetica ad esempio la chiusa di Quan- do la zolla odora, vv. 23-27: «Invade la piazza deserta / lentissima la bruma. / S’iridano le tenebre del fiume. / Forse appari: tra le nebbie dove il riso / della luna s’accerta». 466 Leonardo Manigrasso

Ma so che, se vi penetrassi, l’ombra a sentire com’è dolce e difficile si commuove, lo specchio appena trema, calcare, sempre più pesi, la terra. sulla roccia trasalgono i riflessi chiari… Altrove dove il cielo è meno puro, Stesa allora la mano, una farfalla altrove dove un velo grigio preme d’ali nere empirà tosto quell’ombra. sul cuore, forse è più penoso vivere, ma non sarà per caso anche più dolce Anche la voce d’un grillo si perde nel vano dove ogni altra fu bevuta rovinare con gli anni e appena reggersi - vi morirono schianti atroci, raffiche, a un nome! come il greto che rovina singhiozzi, in tempi che ora più nessuno alla poca erba nuova che si tuffa ricorda – come un sogno nel primo sole. durasse, nel paese abbandonato è un propagarsi effimero di giorni pei sentieri che portano alla vita. Tutto riposi come in un presagio di vivere, nemmeno ultime cime sussurrino, così che nel silenzio batta più forte il cuore di chi veglia.

Addio! Restano gli anni Addio! Restano gli anni del tumulto inconsueto della vita luminosa che a vampe ci s’apriva… Ma ora, se credi, io spettro, anche tu spettro, troppo triste in questi occhi rivedersi più dolce cancellare il nostro viso soffiare le nostre orme sulla polvere.

Né io né te su uno scheletro di ponte ora (la mia non è più che un’immagine d’essere che si pensa e che ti pensa) ma solo, dove fu carne ora scheletro, un’altra gioventù passa a un abbaglio azzurro, da uno scheletro di ponte protesa come luce e come vento…

Gioventù, era fatale il tuo momento!

Pur notando come in La grotta l’istanza crepuscolare si raccordi a uno spun- to che fa capo alla The waste landdi T. S. Eliot (come dimostrano il flagrante prelievo del sintagma «paese abbandonato» e il ricorso all’ordine metaforico del- UN CAPITOLO DI TRANSIZIONE LASCITI CREPUSCOLARI IN «UN’ATTESA» 467 la grotta deserta24 in cui si smarrisce la «voce d’un grillo»25, a designare il «nul- la» in cui si propaga insensatamente la storia), i tre componimenti condividono una filigrana ideologica e lessicale che – a riscontro dei denominatori della po- esia crepuscolare stabiliti da Mengaldo26 – si inscrive pienamente nel solco del codice crepuscolare. Da un punto di vista lessicale è possibile raggruppare tre campi terminologici pertinenti, facenti capo a: a) un’aggettivazione facile (assai distante dai numerosi preziosismi che si era- no attestati nei Giorni sensibili27): «dolce», «triste», «chiaro», «puro», «pallido», «difficile»;

24 Il riferimento eliotiano è ai seguenti versi: «In this decayed hole among the mountains / In the faint moonlight, the grass is singing / Over the tumbled graves, about the chapel / There is the empty chapel, only the wind’s home. / It has no windows, and the door swings, / Dry bones can harm no one. / Only a cock stood on the rooftree / Co co rico co co rico / In a flash of lighting. Then a damp gust / Bringing rain» («In questa desolata spelonca fra i monti / Nella fievole luce della luna, l’erba fruscia / Sulle tombe sommosse, attorno alla cappella / C’è la cappella vuota, dimora solo del vento. / Non ha finestre, la porta oscilla, / Aride ossa non fanno male ad alcuno. / Soltanto un gallo si ergeva sulla trave del tetto / Chicchirichì chicchirichì / Nel guizzare di un lampo. Quindi un’umida raffica / Apportatrice di pioggia», trad. di Roberto Sanesi»). 25 Cfr. ancora The waste land: «What are the roots that clutch, what branches grow / Out of this stony rubbish? Son of man, / You cannot say, or guess, for you know only / A heap of broken images, where the sun beats, / And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief / And the dry stone no sound of water» («Quali sono le radici che s’afferrano, quali i rami che crescono / Da queste macerie di pietra? Figlio dell’uomo, / Tu non puoi dire, né immaginare, perché conosci soltanto / Un cumulo d’immagini infrante, dove batte il sole, / E l’albero morto non dà riparo, nessun conforto lo stridere del grillo, / L’arida pietra nessun suono d’acque», trad. di Sanesi). 26 Pier Vincenzo Mengaldo, Intorno al linguaggio dei crepuscolari, in Sui primi poeti del Nove- cento: la generazione degli anni Ottanta, a cura di Giuseppe Merlino, Roma, Bulzoni, 1995 (poi in La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 15-25). 27 Il regime linguistico dei Giorni sensibili si caratterizza per la ricerca continua di un tono elevato, teso, con punte di particolare letterarietà («fumidi», «querule», «ratta», «rorido», «cim- merie», «solinga», «fruttice», «coorte», «tepido», l’aggettivo «dimentica»…). Si segnala inoltre, sempre nel quadro dell’elevazione e della ricercatezza del discorso, un gusto dannunziano per il vocabolo sdrucciolo (oltre agli esempi appena citati, si possono enumerare casi come «margi- ne», «selvatici», «pavido», «caligine», «diafana», «serica», «versatili», «vulnerabili», «immemore», «recondite», «taciti», «vivida», «buccole»…). La costellazione formale che presiede alla lingua dei Giorni sensibili può dunque essere ricondotta alla più alta tradizione «monolinguista», con particolare riferimento ad autori come Petrarca, il Tasso notturno, il Foscolo delle Grazie («due brune giovani» → «le brune giovani»; «Amicle / terra di fiori» → «amiclei / corsi d’acqua»; «con la lira inesperta a sé li chiama» → «e dal lontano esilio a sé la chiami»; «la teda alluma» → «le tede già rutile d’aurora»; ma anche il Foscolo dei Sepolcri: «Le fontane versando / acque lustrali» → «dalle sue fonti / d’acque lustrali») e Leopardi. Tra i contemporanei si segnalano – oltre a Monta- le – da una parte il nome di Campana, dall’altro quello di Gatto (si veda in Al di qua d’una sera, la prosa che inaugura il libro, una sigla di evidente matrice gattiana come: «Balzano i monti al gremito pianto dei lumi, come a una carezza in cui goda leggera la notte»), la cui influenza forse è la più immediata nell’uso di un linguaggio rarefatto, basato su un vocabolario apparentemente «sovrasfruttato» dalla tradizione poetica, ma rinnovato grazie al prevalere nella recitazione erme- tica delle ragioni della «vocalità» (primato che ha permesso a Silvio Ramat di definire I giorni sensibili una «“trascrizione” musicale dell’esistenza», per cui cfr. il suo Storia della poesia italiana del Novecento, Milano, Mursia, 1976, p. 486) sulle forme del dettato esplicativo e comunicativo. 468 Leonardo Manigrasso

b) voci che alludono a una sorta di «prosciugamento» esistenziale, o delega- te comunque ad attutire, indebolendone l’incidenza espressiva, i sentimenti e le atmosfere trascritti dal poeta (in molti casi, stavolta, sovrapponendosi alla lingua dei Giorni sensibili): «morire», «riposare», «vegliare», «silenzio», ma anche «pe- noso», «poca», «polvere», «velo grigio»28, «primo sole» – in cui l’attributo stem- pera la pienezza (la «solarità», appunto) del sostantivo – a cui si aggiunge la tes- situra avverbiale delle poesie («forse», «meno», «appena», «nemmeno» «solo»); c) voci riconducibili a una forma di intimismo soggettivistico, come «sogno», «intima», «cuore»29. Si tratta dunque di una trama linguistica adibita a evocare una situazione di marginalità rispetto all’esistenza, a dichiarare un’interdizione che si metaforizza e quasi «precipita» in formule esemplari come «presagio / di vivere» o «immagine d’essere», allusioni a un rapporto irrimediabilmente rifles- so con la vita che declassa il poeta al rango di simulacro, forma svuotata, «spet- tro». Uno «spettro» che trasmette al circostante la propria «essiccazione» (l’itera- to «scheletro di ponte») e recupera un topos gozzaniano tra i più peculiari30 (tre le occorrenze nei Colloqui, più una in La loggia delle Poesie sparse, oltre alla pro- sa Guerra di spetri), benché un precedente assai vicino alla declinazione parron- chiana si attesti nell’opera di Cardarelli («spettro anche tu»).

Si riscontrano dunque facilmente motivi come l’espressione di una vita non vissuta, l’ascolto dei battiti del proprio cuore come concentrazione/reclusione in una interiorità che sia al contempo carcere e rifugio, l’auspicio di una ridu- zione del vitale alle sue forme più impercettibili. Sono tinte esistenziali che con- fermano la loro derivazione dal codice crepuscolare anche coniugandosi con un registro desiderativo che sconfina talvolta nei termini di una corazziniana vo- luptas dolendi; è il caso: a) di Ritorna notte, in cui si segnala la «dolcezza» del «rovinare con gli anni e appena reggersi / a un nome», accompagnata dall’autoidentificazione (memo-

28 Sull’argomento cfr. P. V. Mengaldo, Intorno al linguaggio dei crepuscolari cit., p. 15: «Temi caratteristici dei crepuscolari sono, come ognuno sa, il regresso all’infanzia, che permette di eva- dere dall’oggi ma anche di deresponsabilizzarsi, il mito del passato in generale e in particolare quello delle cose semplici e borghesi (“buone cose di pessimo gusto”), oppure solitarie, silenziose, emarginate, come beghinaggi, parchi abbandonati, ospedali. In altre parole, la tinta sentimentale (se non venga rovesciata in ironia) è la malinconia, come coloristicamente, ma anche psicologi- camente, prevale il grigio, o magari il bianco, cioè l’assenza di colori». 29 Da notare come si attestino in queste poesie tutte le prime quattro voci ai vertici delle liste di frequenza della poesia di Corazzini: «morire», «cuore», «dolce», «triste». 30 Sul significato dell’immagine dello «spettro» nella poesia di Gozzano, cfr. Ferdinando Pappalardo, Lo “spetro ideale”. Saggi su Gozzano, Saba, Montale, Bari, Palomar, 2006, p. 100: «Lo “spetro ideale” non è la trasfigurazione artistica, la giustificazione estetica dell’individuo storico, non lo redime dalla sua condizione reale, ma lo conferma nel suo destino di superfluità e di deie- zione; il soggetto poetico sconta la sua inconsistenza rifrangendosi e scomponendosi nella molte- plicità di icone allineate nel libro come in esposizione museale, o in un fantasmagorico diorama». UN CAPITOLO DI TRANSIZIONE LASCITI CREPUSCOLARI IN «UN’ATTESA» 469 re in questo caso anche di Sbarbaro31?) con un universo di cose piccole e umi- li alle quali affidare la propria ritirata dal mondo, fermo restando che anche in Addio! Restano gli anni il fantasma della dissoluzione è introdotto dallo stesso motivo della «dolcezza» («più dolce cancellare il nostro viso / soffiare le nostre orme sulla polvere»); b) della poesia successiva a La grotta, dal titolo Autunno precoce, dove il re- gistro ottativo auspica un raccoglimento significativamente contestualizzato in una stanza – sia pure in comunicazione con l’esterno ma nondimeno spazio di solitudine – che a suo modo declina «l’ossessione per lo spazio chiuso – camera, giardino o tomba – che serpeggia nella poesia di Corazzini» (Livi)32:

Che subentri alle voci alto silenzio, rotto solo da strepiti di pioggia e, fuori, dalle imposte, e nella stanza dal tic tac della sveglia che non tace, dalle risa dei merli nella valle e da odor di marcito alle inferriate.

Ma, come di diceva, queste tracce e varianti dell’etica crepuscolare sono de- stinate a strutturarsi più compiutamente nel poemetto che chiude la raccolta e, insieme, il decennio poetico parronchiano. Il testo di Non è un addio:

Nostra sola salute è la malattia (T.S. Eliot.) Non è un addio, questo che favorisce la stagione che, lieta anche se in ombra, movimenta le vie dove la tua figura s’avventa col soffio della gentilezza. Tu mi dici che parti: io ti guardo.

So che rendersi conto non è possedere, avverto la distanza che corre tra te e me come tra rive d’un fiume, una addensata di fiori una d’ortiche. Ma la vita è di qui e di là, e nella corrente che passa e che riunisce,

31 Cfr. ad esempio in Pianissimo la poesia Talor, mentre cammino solo al sole, vv. 6-22: «Un cieco mi par d’essere, seduto / sopra la sponda d’un immenso fiume [...] Perché a me par, viven- do questa mia / povera vita, un’altra rasentarne / come nel sonno, e quel sonno sia / la mia vita presente. / Come uno sgomento allor mi coglie, / uno sgomento pueril. Mi seggo / tutto solo sul ciglio della strada, / guardo il misero mio angusto mondo / e carezzo con man che trema l’erba». 32 F. Livi, La parola crepuscolare. Corazzini, Gozzano, Moretti cit., p. 18. 470 Leonardo Manigrasso

invece che dividerle, le sponde. E se per te ciò è semplice, io l’ho acquistato con fatica, e mi è quasi, a pensarlo, più dolore che gioia disperatamente viva.

Pure non è un addio. Paesi nuovi vedrai, dove il mio sogno da tanto ti precede. Ed io rimango stretto al mio Orsanmichele, fidando che mi giunga per l’aria delle torri inaccessibile un riflesso della gioia che balena al tuo occhio che spazia per la serena pianura. Mio solo desiderio è che tu non ti ricordi di me sì che quando ti riporti a me la vita sia con la presenza stupita che ora nel cuore profonda ci possiede.

Io mai non vorrò illuderti. Tu non sai, ora, questa fiumana che tutti urge, da me come lontana passa, e non ne ho che rapide gocce per dissetarmi. E c’è chi invece ne beve lungamente, sorso dopo sorso, lete dopo lete. Io cerco d’afferrarne impulsi brevi come questi che ora da te mi vengono. Così con noi giuoca l’apparenza, senza tregua dà speranza di giungere a una soglia che s’allontana sempre… Per ognuno la vita non ha che attimi!

Ma dietro di noi la gioventù che mormora? Non è lì a rianimarci col suo grido? Come da un bosco che per ogni dove il sole fruga, presto si dilegua dell’ombra ogni respiro, e allora pare secca anche la fonte che butta nel pieno mezzogiorno, ma nell’impronta d’un sasso o nell’occhio d’animale assopito, o in un fosso che separa fitto strato di nocciuoli dal caldo vive ancora della notte l’odore, UN CAPITOLO DI TRANSIZIONE LASCITI CREPUSCOLARI IN «UN’ATTESA» 471 così sempre in un angolo della memoria, o delle nostre vene, la felicità dorme. Venite, risvegliamola! O piuttosto lasciamo Che riposi? A vegliare sul suo sonno, a questo, dal passato voci, ormai fioche, ci confortano.

Nel cuore in cui sempre il passato rivive è pace come in questo bosco con l’ombra solitaria che nei trepidi sguardi al cacciatore sorvola, finché scatta il destino che l’inchioda, e i gigli che maturano alle prode nel primo vento di marzo… Ma attento (è a me che dico) che l’attimo che ti stringe alla vita anche lui presto non sia che un ricordo! Perché sul ricordo non si edifica più che sulla sabbia… Ad ogni passo la vita fugge lontana. Non è difficile trovare motivi per disperare. Noi, che di continui errori viviamo, se ogni nostro errore non ci sommerge, è un miracolo! E già forse non esiste chi non sia molte volte risorto da se medesimo: il bimbo, coi suoi occhi dove è un’ombra dell’Eden, ha più vite anche lui della Fenice!

Quanto a me, che già troppo ho vagato nel giro del mio discorso, me che ascolti serena e che poeta per una breve mattina il tuo ingenuo pensiero consacra, devi sapere che molto spesso ho tradito la vita senza accorgermene, sono passato accanto distratto, al mistero che fioriva per incanto. Non abbiate pietà dunque di me. Vinto anche, e fatto simile al mendico – quante volte, nel suo fluire la Rappresentazione della Strada me lo riporta davanti, 472 Leonardo Manigrasso

quante volte, senza riuscire a stendergli la mano, soffro e rimpiango che l’amore così, all’improvviso non lo possa trascinare, fondere con gli altri, mentre che intorno, diviso come da un vetro, egli si vede il mondo procedere nel suo lusso incolore, incapace di raccogliere la rosa di cui non è che l’ombra, sfiorarla e non vederla, ed io con loro… Non abbiate pietà dunque di me – se tuttavia saprò nel giorno indifferente accogliere con foga lo stesso impeto che ora ti rapisce nella vita, potrà davvero splendere in altri molti il bene che ho perduto.

Avrò inteso che grazia il tuo saluto racchiuda, e verso quale riva ci conduca la vela che su di noi l’alba ha sembrato schiudere, la forza tanto attesa di gioventù che non ci dovrà illudere.

Già l’esergo prelevato da East Coker, il secondo dei Four Quartets di Eliot, ridesta il motivo decadente – e poi ampiamente assimilato dai crepuscolari33 – della malattia come unica condizione esistenziale in cui possa darsi la poesia. La condizione di «convalescenza» di Parronchi si definisce secondo uno schema ben collaudato: da uno spunto d’ordine narrativo il poeta mette a punto una partitura in cui la funzione-io si relaziona all’interlocutrice nei termini di una dialettica tra vita riflessa e vita diretta, tra la propria impotenza e la vitalità della

33 Come esempi per tutti valgano, tratti dal Piccolo libro inutile di Corazzini la Sonata in bianco minore o la Desolazione del povero poeta sentimentale: «Oh, io sono, veramente malato!/ E muoio, un poco, ogni giorno». Lo stesso Gozzano fa definire ironicamente il poeta protagonista del poemetto La signorina Felicita ovvero la felicità proprio «il nostro malato immaginario». Sergio Solmi del resto definisce il crepuscolarismo la «vera e propria esperienza decadentistica italiana», motivando la definizione, tra l’altro, proprio con il comune tema della malattia nell’opera cit., p. 262: «Ma per il tardivo “decadentismo italiano”, che aveva atteso per manifestarsi l’alba del Novecento e recava dietro di sé il peso di una tradizione classicista ben più antica e rigorosa, le cui ossature, nonostante il più intenso interscambio europeo, erano sostanzialmente perdurate, attraverso Prati, Aleardi e Carducci, fino a D’Annunzio e Pascoli, il rifiuto del tono aulico, la disgregazione dei moduli metrici e retorici, e, parallelamente, il gusto per il grigio, il prosaico, il quotidiano, e magari per la malattia e lo sfinimento […], stabilirono davvero – e sia pure con esemplari poetici più modesti – un iniziale rottura profonda, destinata subito dopo ad allargarsi coi futuristi, con l’avanguardia, coi frammentisti, ecc…». UN CAPITOLO DI TRANSIZIONE LASCITI CREPUSCOLARI IN «UN’ATTESA» 473 figura femminile inserita con naturalezza nel circostante. La struttura può dirsi collaudata già che fa capo al ben noto archetipo, esemplarmente crepuscolare, dell’Invernale di Gozzano, giunto a Parronchi attraverso la mediazione, critica- mente verificata dalle attente analisi di Pasolini34, Mengaldo35 e Sanguineti36, di Falsetto di Montale. Proprio il Parronchi di Un’attesa offre una terza declinazio- ne di questo «mito» della mulier fortis, che si articola – dopo gli spunti tematici del pattinaggio di Gozzano e del tuffo di Montale – nel motivo della partenza, interdetta al poeta da un rapporto di inibizione-protezione con il proprio uni- verso di certezze («Ed io rimango / stretto al mio Orsanmichele…»), e pratica- bile invece dalla figura femminile, intraprendente «nell’impeto / che ora [la] ra- pisce / nella vita». La poesia dunque è ordinata su due sistemi figurali il cui conflitto si mani- festa esemplarmente nella bipartizione del v. 5 in emistichi che rispettivamen- te ruotano su un predicato dinamico e uno statico: «Tu mi dici che parti: io ti guardo», sintetica riscrittura – e il raccordo è dato dal tema dello sguardo che stabilisce una distanza e al contempo accerta una passività – del ben noto fina- le montaliano («Esiti a sommo del tremulo asse, / poi ridi, e come spiccata da un vento / t’abbatti fra le braccia / del tuo divino amico che t’afferra. // Ti guar- diamo noi, della razza / di chi rimane a terra»). Da questi segmenti diramano i due ambiti lessicali che articolano la «semantica dell’“esclusione”» posta al cen- tro di questa poesia: da una parte la circoscrizione lessicale adibita ad esprime- re la pienezza vitale della figura femminile, con vocaboli come «foga», «impe- to», «s’avventa», «balena», «fiumana», «urge», «rapisce»; dall’altra invece l’ambi- to linguistico che, direttamente o indirettamente riferito al poeta, rinvia a un’e- sistenza marginale, incompiuta, evocata dalle occorrenze di «ombra» (quattro volte), «attimo» (due attestazioni), «gocce», «riflesso», «impulsi brevi», «soglia», «sonno», voci «fioche», «sfiorarla». Anche il versante stilistico sembra funzionale a riprodurre l’impasse, l’esita- zione e la staticità dell’universo esistenziale del poeta attraverso l’avvolgersi, il continuo ritorno su se stesso del discorso. Alla base c’è una sorta di «ingorgo»

34 Pier Paolo Pasolini, Implicazioni di una «linea lombarda», in Passione e ideologia [1960], Milano, Garzanti, 1994, pp. 471-472: «Quanti atteggiamenti di Montale non restano ancora crepuscolari? […] La resa in sede umana («noi della razza di chi rimane a terra…») o in sede di conoscenza («ciò che non siamo, ciò che non vogliamo) – per semplificare le cose – non è forse un dato crepuscolare?». 35 Cfr. P. V. Mengaldo, L’opera in versi di Eugenio Montale, in La tradizione del novecento. Quarta serie cit., p. 99. 36 Edoardo Sanguineti, Da Gozzano a Montale, in Tra Liberty e Crepuscolarismo, Milano, Mursia, 19772, pp. 33-34: «Muoviamo da un altro punto, e riprendiamo in mano di Gozzano, Invernale, dove compare la figura di una intrepida pattinatrice che il poeta abbandona sopra il ghiaccio che s’incrina per guadagnare ansante la ripa, di dove contemplerà lei ancora, solitaria e ardita e sicura. Questa donna (la mulier fortis secondo Pancrazi) che in Gozzano non ha nome troverà finalmente, e non passeranno neppure troppi anni, in Montale, un nome: è l’Esterina, appunto, di Falsetto». 474 Leonardo Manigrasso sintattico che solo parzialmente è riconducibile alle frequenti anafore e itera- tività del testo, destinate a surrogare l’uso parco della rima (adibita però in ge- nere a coniugare idealmente termini in dialogo tematico-semantico fra loro: «vita»:«stupita»; «fiumana»:«lontana»; «accanto»:«incanto»; «perduto»:«saluto»; «schiudere»: «illudere»); il dettato «esitante» della poesia è infatti da addebitare: a) alla folta presenza di deittici, pronomi, aggettivi dimostrativi, o in gene- re di quegli indicatori verbali che rinviano a un altro segmento dell’enunciato, e che in tal modo articolano una rete di incroci e recuperi che bloccano o ral- lentano il fraseggio37; b) alle riprese contraddittorie del discorso, in cui il poeta recupera una pro- pria affermazione per negarla o correggerla38; c) ad altri dispositivi retorici, come ad esempio l’organizzazione dell’enuncia- to in una catena di subordinate a prevalenza relativa39. Dall’interferenza di que- sti espedienti deriva quell’architettura sintattica fortemente raccolta, addensata, che non perfeziona il dettato parronchiano in un discorso pienamente assertivo (se non nell’ordine della negazione), ma tende invece a invischiarlo nella plura- lità dei suoi legami interni, funzionali a esprimere il divieto interiore al distacco, a «partire», a partecipare alla vita. Eloquente in questo senso l’immedesimazione del poeta con il «mendicante», altro elemento strutturatore dell’universo gozza- niano e non solo (come nel caso dei versi di apertura del primo fra i Sonetti del ritorno: «Sui gradini consunti, come un povero / mendicante mi seggo, umili- corde»), cui si accompagna l’intenso patetismo dell’invito a dimenticare il poe- ta e non impietosirsi della sua sorte («Non abbiate pietà dunque di me») in cui è flagrante il prestito corazziniano dai Soliloqui di un pazzo («Tu che mi ascolti non aver pietà / non lacrimare delle mie sventure…»). Ma, in una sorta di disposizione a climax, è verso la fine del poemetto che la poesia di Parronchi si salda in modo inestricabile alla grammatica crepuscolare, portando le folte suggestioni disseminate in Un’attesa al loro punto di convergen- za; infatti così come in Corazzini, per prendere un caso esemplare, «la rinuncia

37 Cfr. i seguenti esempi: «So che rendersi conto non è possedere, / avverto la distanza /che corre tra te e me come tra rive / d’un fiume,una addensata / di fioriuna d’ortiche. Ma la vita / è di qui e di là, e nella corrente / che passa e che riunisce, / invece che / dividerle, le sponde. / E se per te ciò è semplice, / io l’ho acquistato con fatica, / e mi è quasi, a pensarlo, più dolore / che gioia disperatamente viva» (vv. 7-18); «Tu non sai, ora, questa fiumana / che tutti urge, da me come lontana / passa, e non ne ho che rapide / gocce per dissetarmi. E c’è chi invece / ne beve lungamente, sorso dopo / sorso, lete dopo lete. / Io cerco d’afferrarne / impulsi brevi come questi / che ora da te mi vengono» (vv. 33-41). 38 Cfr. le seguenti attestazioni: «Venite, risvegliamola! / O piuttosto lasciamo / Che riposi?» (vv. 60-62) e «Nel cuore in cui sempre il passato / rivive è pace come in questo bosco […] Ma attento (è a me che dico) / che l’attimo che ti stringe alla vita / anche lui presto non sia che un ricordo!» (vv. 65-74). 39 Si veda ai vv. 21-27 la seguente occorrenza :«Ed io rimango /stretto al mio Orsanmichele, / fidando che mi giunga / per l’aria delle torri inaccessibile / un riflesso della gioia che balena / al tuo occhio che spazia per la serena / pianura». UN CAPITOLO DI TRANSIZIONE LASCITI CREPUSCOLARI IN «UN’ATTESA» 475 alla vita trascina con sé necessariamente quella alla poesia» (Idolina Landolfi)40, allo stesso modo l’opera di Parronchi, articolata su questa professione di insuffi- cienza, approda a quella che fu una vera invariante dell’ethos crepuscolare, con- divisa – assieme a Corazzini41 – da Gozzano, Moretti, Palazzeschi: la revoca del proprio statuto di poeta («Quanto a me che già troppo / ho vagato nel giro del mio discorso, / me che ascolti serena e che poeta / per una breve mattina / il tuo ingenuo pensiero consacra…»). Il processo di svuotamento, di «evacuazione del senso» della parola ermetica transita dunque mediante la filigrana crepuscolare sul limitare della non-predicabilità del mondo, ultima soglia oltre la quale non resta che l’opzione del silenzio, l’ammutolimento del poeta. Un’incombenza del silenzio così radicata nella speculazione di Parronchi da farsi (stavolta sì, all’in- segna della concomitanza tra letteratura e vissuto) capitolo biografico, già che il poeta – nell’ambito di un radicale ripensamento delle forme e delle finalità del- la propria opera – si asterrà dalla scrittura in versi per l’intero 1949, l’anno di pubblicazione di Un’attesa. Il ritorno alla versificazione gli sarà possibile solo in seguito a una sorta di «controspinta» – assimilabile però più a una correzione del tiro che a un vero e proprio cambio di rotta – dichiarata fin dal titolo stoi- co e anticrepuscolare della raccolta in cui saranno ricapitolati i vari libretti usci- ti negli anni Cinquanta, il Coraggio di vivere42. Fino ad allora, all’altezza di Non è un addio, l’unica forma di remunerazione psicologica per il poeta dinanzi alla certezza della capitolazione rimane, ancora sulla linea Gozzano-Montale (si ve- dano rispettivamente Il più atto e In limine), la speranza di riscattare la fatali- tà della sconfitta nella prospettiva del sacrificio, così che «potrà splendere / in altri molti il bene che h[a] perduto», delegando al prossimo l’ipotesi di quella vita «piena» che al poeta è stata preclusa: è proprio a questo punto dunque, al

40 Idolina Landolfi, Introduzione, a Sergio Corazzini, Poesie, Milano, Rizzoli, 1992, p. 23. 41 Sull’eccentricità del caso Corazzini rispetto agli altri protagonisti del crepuscolarismo cfr. Stefano Jacomuzzi, L’innocenza impossibile: realtà e metafora del “fanciullo” corazziniano, in “Io non sono un poeta”. Sergio Corazzini (1886-1907). Atti del Convegno di Studi (Roma, 11-13 marzo 1987), a cura di François Livi e Alexandra Zingone, Roma-Nancy, Bulzoni-Presses Uni- versitaires de Nancy, 1989, p. 274: «Il loro non essere poeti, perciò, era la risposta alla condanna al silenzio da parte di una società per cui “cosa di trastullo è l’Arte” [Gozzano], in un tempo nel quale “gli uomini non domandano più nulla / dai poeti” [Palazzeschi]. Tutto vero, tutto detto. Ma anche su questo piano è necessario operare una distinzione proprio ancora per Corazzini. Gli altri si scelgono con intento polemico e irrisorio (molto meno autoirrisorio di quanto appaia e di quanto sia stato detto) un altro mestiere, un’altra professione e immaginano se stessi – o provano anche a diventarlo – quali sensali, fattori, farmacisti (tutti intenti comunque alla borghese salubre moneta), o allevatori di serpenti o incendiari… Per Corazzini non c’è scampo in alcun sotterfugio ironico o indignato o eccentrico che sia; egli non può far altro, constatando la non cittadinanza della sua poesia, che portare le sue piccole, semplici, povere cose alle soglie del silenzio, alle soglie della morte e lì farle parlare per l’ultima volta». 42 Sulla natura di spartiacque Coraggio di vivere dopo una stagione sigillata dall’esperienza di Un’attesa, cfr. O. Macrí, La vita rivissuta tra fede e forma (Su “Replay”), in Per Alessandro Parronchi cit., p. 183, dove il critico annota che la nuova raccolta di Parronchi «segna il distacco dal felice sogno romantico di giovinezza, perturbato e abrupto, nel cerchio d’amicizia e paesaggio». 476 Leonardo Manigrasso culmine del proprio accordo alla strumentazione crepuscolare, che si radicano nell’immaginario parronchiano «i colori del rimpianto e della protesta per una vita vissuta in percentuale»43 (Ghidetti), destinati a convergere poi – decenni dopo – in quell’utopia del replay, della ripetizione del vissuto a una frequenza o intensità più alta, da cui prenderà spunto nel 1980 il titolo del terzo quader- no garzantiano del poeta44, assicurando alle intermittenze di sempre più lonta- na ascendenza crepuscolare una duratura «cittadinanza» fra le più cruciali tra- me tematiche della poesia di Parronchi.

43 Enrico Ghidetti, Alessandro Parronchi. Appunti per un ritratto, in A. Parronchi, Le Poesie, Firenze, Polistampa, 2000, p. XXXIX. 44 A. Parronchi, Replay. L’estate a pezzi: 1979, Milano, Garzanti, 1980 . TEMI E METRI IN «PIETÀ DELL’ATMOSFERA»

Francesco Vasarri

Quando nel 1970 Parronchi dà alle stampe il quaderno garzantiano di Pietà dell’atmosfera1, rilanciando in senso quantitativo una plaquette uscita quattro anni prima per Scheiwiller, lo stile e l’immaginario dell’autore hanno ormai trovato una propria forma stabile, lontana dagli esordi, in realtà già in parte eterodos- si, nelle file dell’ermetismo fiorentino2. La preziosità linguistica ha incontrato

1 Il lavoro sui testi di Pietà dell’atmosfera è sempre condotto su Alessandro Parronchi, Le poesie, Firenze, Polistampa, 2000, I, pp. 287-347. Per citare le singole poesie si indicherà il nome del componimento seguito dal numero di pagina e dal numero dei versi. Quando necessario, i titoli di alcuni testi saranno abbreviati, soltanto in corpo di testo e dopo la prima citazione com- pleta, mediante l’uso dei puntini di sospensione. Si veda, per uno sguardo efficacemente sintetico al percorso poetico di Parronchi nelle sue varie sistemazioni editoriali, il recente Luca Lenzini, Parronchi sperimentale, in «L’amore aiuta a vivere, a durare». Bigongiari, Luzi, Parronchi cento anni dopo (1914-2014), a cura di Paola Baioni e Giorgio Baroni, in «Rivista di letteratura italiana», xxxii, 2014, 3, pp. 117-124. 2 Una distanza che Enrico Ghidetti richiama costantemente nei vari snodi di mutamento del percorso poetico parronchiano, nonché come dato intrinseco e originario. Tra le esigenze au- tocritiche del primo Parronchi spicca infatti la valutazione di «tangenze e distanze con la poetica dell’ermetismo» (Enrico Ghidetti, Alessandro Parronchi. Appunti per un ritratto in A. Parronchi, Le poesie, I cit., [pp. v-lvii], p. xv) e poi, sotto un profilo stilistico, l’assenza dei «commutatori retorici» degli ermetici (ivi, p. xix). Da questo punto di partenza lo studioso prosegue, man mano che anni e raccolte si avvicendano, con notazioni sul «progressivo distacco del poeta dal trobar clus e dalle elaborate crittografie dell’ermetismo più autoreferenziale e un sempre più marcato distacco da un’idea di letteratura d’élite senza destinatario» (ivi, p. xx), sulla «riscoperta della realtà della vita, sempre più lontana dall’illusione di una poesia pura, libera da ogni compromis- sione con la realtà esterna» (ivi, pp. xxi-xxii), dove la «parola riacquista quel valore comunicativo negato dalla poetica dell’ermetismo» (ivi, p. xxii), fino a sancire, nei pieni anni ’50, un «ormai avvenuto affrancamento dal codice e dal gusto del petrarchismo ermetico» (ivi, p. xxv), con con- seguente e definitiva rinuncia alla «aristocratica letterarietà, al sublime d’en haut consustanziale alla poetica ermetica» (ivi, p. xxxiii) in favore di «quote espressive ignote al codice ermetico» (ivi, p. xxxi). Tali indicazioni, condivisibili in sostanza e utilissime per inquadrare lo specifico del caso Parronchi nella temperie culturale dove trovò le proprie radici, paiono però indulgere in una caratterizzazione dell’ermetismo un po’ troppo virtuale e sbilanciata sul polo dei valori negativi. Più equilibrata appare allora, per la ricostruzione storico-stilistica di questa complessa e appartata simbiosi, la voce di Leonardo Manigrasso («Una lingua viva oltre la morte». La poesia “inattuale” di Alessandro Parronchi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011, pp. 38-42).

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 478 Francesco Vasarri vene lessicali più dimesse, la predilezione tematica per la natura si è inquadrata in una dimensione meta-rappresentativa, la maturità biografica si è caricata, tra malumori e ironie, di valori senili, favorendo la centralità della riflessione ide- ologica ed etica come cuore pensante dell’esperienza lirica. In parallelo, la mi- sura versuale prediletta (ed elegantemente prodotta) dal primo Parronchi, un endecasillabo variato da metri più brevi, armonico e ‘cantabile’, si è scomposta in un versilibrismo più in linea con un ideale zeitgeist della metrica novecente- sca, accogliendo forme ritmiche che percorrono in alto e in basso tutta la gam- ma della prosodica italiana, ivi comprese le sfere della comunicazione quotidia- na. Temi e metri sembrano allora costituire, nella loro immediatezza operativa, utili strumenti per fare il punto sul senso di questa doppia frattura, oltre che di una dialettica, importante in Parronchi, tra le ragioni del cosa e le soluzioni del come; consapevoli di recuperare anche, attraverso un’impostazione metodolo- gica quasi aristotelica, non soltanto una leggibilità della seconda fase, ma an- che gli atteggiamenti dei primissimi commentatori all’altezza dei Giorni sensibi- li, con Betocchi, Macrí e Bo su un versante genetico-tematico (nell’individua- zione dei due «denominatori essenziali nella poesia di Parronchi: la meditazio- ne e la bellezza»3) e altre voci, come quella di Gatto, già impegnate a segnala- re la perizia tecnica dei «versi perfetti, fra i più belli scritti dai contemporanei»4. Pietà dell’atmosfera è, nel suo complesso, una raccolta dall’intimo taglio dia- ristico, dove il dispositivo della lirica (qui inteso come legante monologico o dialogico tra un io e un tu) si piega spesso a formule schiettamente colloquiali, che in certi casi arrivano alla riproduzione del discorso diretto (si vedano le liri- che Libertà5 o Ormai6). Un primo motivo di fondo risiede dunque, sia al livello stretto della tematizzazione che come costituente strutturale, proprio nella valo- rizzazione di una parola che insegue una verità comunicabile (con accenti, come è noto, spesso leopardiani, o vicini all’esistenzialismo cristiano di Eliot7), rintrac- ciata tanto sul versante dell’autobiografismo in versi quanto attraverso la forma della conversazione e dello scambio verbale. Coerente con questa mise en relief è la centralità, rilevata da Ghidetti e Baldacci8, di Autoritratto alla figlia per quan-

3 Ivi, p. 243. 4 Riprendendo le parole di Gatto citate ivi, p. 246. 5 Libertà, pp. 308-309. 6 Ormai, p. 332. 7 Vedi, per alcune riflessioni sulle influenze eliotiane in Parronchi, L. Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte». La poesia “inattuale” di Alessandro Parronchi cit., pp. 89-92. 8 «In un certo senso questo Autoritratto a futura memoria della figlia bambina costituisce il cuore pulsante di Pietà dell’atmosfera e segna il punto più alto del ʽleopardismoʼ di Parronchi […]. Leopardismo, s’intende, che ha trovato la sua misura nella Palinodia e nella Ginestra» (E. Ghidetti, Alessandro Parronchi. Appunti per un ritratto cit., p. xxxvii). Cfr. anche la contestualiz- zazione della lirica nella tematica complessiva della raccolta in Luigi Baldacci, Parronchi poeta, in Per Alessandro Parronchi, Atti della giornata di studio Firenze – 10 febbraio 1995, a cura di Isabella Bigazzi e Giovanni Falaschi, Roma, Bulzoni, 1998, [pp. 17-31], p. 23. TEMI E METRI IN «PIETÀ DELL’ATMOSFERA» 479 do avrà ventun anni (1978)9, poesia integralmente giocata sul senso testimoniale e testamentario della scrittura, cui affidare diagrammi narrativi circa il proprio pensiero e la propria storia, nonché, appunto, la coscienza di una «parola / che dà certezza, incendia, / oltrepassa la morte»10. Il valore escatologico di questo lo- gos, divino ma accessibile anche sul versante umano, procede di pari passo con la continua esaltazione di uno dei perni tematici più antichi di Parronchi ovve- ro la capacità della visione come atto dirimente tra luce e oscurità, verità e men- zogna11. Ciò detto, l’altro grande tema, fittamente intrecciato a questi e sempre presente nell’assertività di Autoritratto alla figlia…, si esprime in una predisposi- zione invettiva di stampo dantesco, tesa a indagare la società e la cultura italiana con occhio satirico e amaro, rivolgendo, in particolare, stoccate di sdegno agli organismi della civiltà letteraria e artistica, alle contraffazioni politiche e priva- te, nonché (precorrendo di un paio di decenni l’esplosione della questione eco- logica) al degrado e all’adulterazione dell’ambiente naturale12. Questa, in accor- do con la validissima indicazione di Leonardo Manigrasso, per cui l’universo semantico e linguistico del Parronchi maturo si divide in due polarità opposte, una conservativa e l’altra disgregante13, pare l’isotopia tematica che sta alla base

9 Autoritratto alla figlia per quando avrà ventun anni (1978), pp. 325-329. 10 Ivi, p. 327, vv. 97-99. 11 Già gli esordi poetici sono, infatti, connotati in tal senso, se il «dono più autentico e per ora inconsapevole del primo Parronchi consisterebbe semmai nella capacità di accedere alla visione at- traverso l’intensità della percezione visiva» (E. Ghidetti, Alessandro Parronchi. Appunti per un ritratto cit., p. xviii), mentre l’importanza dello «sguardo come risorsa principale, immagini e gesti au ralenti a sottolineare il succedersi di stati di coscienza e di intermittenze del cuore» (ivi, p. xxv) connota l’esperienza della poesia nel secondo dopoguerra. Per il motivo della luce, in tutto l’arco d’esperienza degli ermetici, si veda il capitoletto La luce: annuncio ed attesa (Silvio Ramat, L’ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 24-30), notando (oltre alle convergenze nel lessico paratestuale) come non incidentalmente compaia, tra le primissime citazioni (cfr. ivi, p. 25), proprio un verso sull’oblatività del luminoso tratto dalla plaquette L’apparenza non inganna, poi confluita in Pietà dell’atmosfera. 12 In un clima di generale sconfessione del presente, come lo stesso autore ribadisce nelle poche pagine di premessa a una propria conclusiva autoantologia: «La poesia, scritta e da scri- vere, è rimasta un diario a cui l’anima affida le sue aspirazioni, i sentimenti più certi, l’anelito a una libertà non impedita dalle corruzioni e da quello che – nota il Leopardi più volte e infine nell’lxxxiv dei suoi Pensieri – Cristo ha definito “il mondo”. Mi sono sempre più convinto che il “progresso” nella vita dell’uman genere è una chimera che inghiotte precipitosamente il futuro cancellando il passato, una specie di miccia inarrestabile che corre verso la deflagrazione finale» (A. Parronchi, Prefazione [1997], in Diadema. Antologia personale 1934-1997, Milano, Monda- dori, «Oscar Poesia del Novecento», 1998). 13 «Dal Coraggio di vivere in poi, l’universo morale di Parronchi tende a dissociarsi radical- mente in due sistemi di valori in contraddizione. Da una parte si colloca l’area tematica inerente a ciò che conserva una funzione “unificante” rispetto alla frammentarietà psicologica e conoscitiva dell’uomo novecentesco; dall’altra l’insieme di elementi che costituiscono il moderno “mondo di detriti”, le forze regressive (tra cui, leopardianamente, il progresso) della realtà. A queste due aree tematiche corrispondono circoscrizioni linguistiche altrettanto dissociate […]. Una sorta di “separazione classicista degli stili” che lo pone in una posizione piuttosto originale nel quadro della poesia italiana del Novecento» (L. Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte». La poesia “inattuale” di Alessandro Parronchi cit., pp. 184-185). 480 Francesco Vasarri di Pietà dell’atmosfera e che può comprendere dunque nei propri quadri il resto dei contenuti. L’io lirico si trova, quindi, ai margini di uno strappo tra i valori del passato, sempre positivamente recepiti, e la distopia in atto del presente in una difficile situazione di consapevolezza morale, che lo spinge di necessità alla denuncia: e soltanto quando la tensione individuale e storica giunge al culmi- ne, si rende possibile una fuga temporanea verso le regioni della rimembranza, o nella contemplazione dell’armonia artistica e naturale. Tali toni di fondo sono perfettamente percepibili nella poesia L’apparenza non inganna14, che dà il titolo alla plaquette del ’66 ed è dunque investita di in- dubbi valori incipitari. Con la poesia si svolge infatti, su struttura pentastrofica, una dichiarazione d’intenti di pari passo poetica e politica, direttamente rivol- ta (secondo la struttura diaristico-comunicativa di cui si diceva, qui arieggian- te le forme del dialogo e del lascito) a un «lettore che la noia non ha vinto»15. Di questo personaggio evocato in incipit, tanto metatestuale quanto necessario per permettere all’io lirico di accedere ai toni eticizzanti dell’invettiva, si preve- dono le domande e i dubbi relativi all’impegno politico esprimibile attraverso la letteratura e l’azione intellettuale, per poi proseguire, in un gioco che allude alla polifonia pur restando saldamente all’interno delle prerogative del sogget- to, con un inquadramento dei fondamenti di verità praticabili in poesia, rias- sunti nel sigillo della luce («nell’intrico velato indistinguibile / riconoscemmo alfine che la pura, / che la suprema essenza, / che mai nessuno pensa che sia un dono, / è, unicamente utile all’uomo, / la luce»16). Tale luce, «Bella apparenza»17 «immutabile sempre»18, pertiene appunto al più ampio motivo della visione, dell’osservare e del guardare, da riferirsi, oltretutto, al lungo magistero di sto- rico dell’arte esercitato parallelamente all’attività letteraria. Quanto conta qui, per l’economia della raccolta, è allora piuttosto notare come l’elemento fisico da cui discende l’intera fenomenologia dello sguardo sia implicato, direttamen- te e senza appello, in un meccanismo di delucidazione della serie storica, e pos- sa anzi essere usato per opporsi direttamente all’«orrore / che ai nostri giorni corse il mondo»19, all’«angoscia / che sommerse le folle / torpide e impedì loro / di sollevarsi»20, alla tenebra mistificante di una «menzogna ovunque»21. Ecco, quindi, che una fusione sempre più stretta si è operata fra le ragioni dell’estetica e quelle dell’etica, per cui la chiaroveggenza dello sguardo (intesa proprio come ‘veder chiaro’, riflettere, discriminare) diventa una chiaroveggenza dell’anima,

14 L’apparenza non inganna, pp. 305-307. 15 Ivi, p. 305, v.1. 16 Ivi, pp. 305-306, vv. 32-37. 17 Ivi, p. 306, v. 38. 18 Ibidem, v. 46. 19 Ivi, p. 305, vv. 7-8 20 Ibidem, vv. 8-11. 21 Ibidem, v. 29. TEMI E METRI IN «PIETÀ DELL’ATMOSFERA» 481 religiosamente orientata, che sa muoversi però lungo dimensioni eminentemen- te terrene. A questa ricerca di nitore si accompagnano infatti, giustapposti su sei versi contigui, due ammonimenti relativi sia alla sfera dell’arte («E tu, parola, se vuoi dire, appari / libera dall’equivoco dei simboli»22) che a quella della politica («Speranza umana, se vuoi ancora vivere, / getta l’ultima nebulosa maschera»23, dove il riferimento è, per indicazione diretta di Parronchi nelle note al volu- me, all’«ideologia comunista»24) e una sentenza sapienziale a tendenza metafi- sico-trascendente («L’uomo d’oggi o non spera, / o se spera ha speranza in una cosa»25), riassunte tutte nella certezza di una «rosa»26 che sarà tale anche se «vi- sta un attimo»27 e poi subito smarrita nelle adulterazioni della natura/cultura. Rimanendo in ambito eponimico28, il microtesto Pietà dell’atmosfera29 tematiz- za, sempre nel segno dei cromatismi della «luce»30, il valore salvifico del dato natu- rale recepito in chiave teleologica lungo un periodo unico che cataloga immagini e funzioni degli agenti atmosferici, enumerandone prima gli aspetti languidi e corro- sivi (quasi di matrigna, anche se di fatto originati dall’inquinamento antropico), poi quelli legati alla bellezza dell’aria e alla «corazza»31 che l’atmosfera stende (simile in questo al mantello di una Madonna della Misericordia, che racchiude le genti del mondo e le difende) sull’uomo e sulla Terra nei confronti del niente cosmico, «im- menso / dove più il nostro sperare non ha senso»32. Da recepire, in questa poesia, è però anche l’evidente interferenza tra l’enciclopedia di Parronchi poeta e quella di Parronchi storico e critico d’arte, per cui l’osservazione fenomenologica della realtà non si coglie soltanto in se stessa, ma anche e soprattutto nel riferimento alla tra- dizione occidentale della rappresentazione paesistica e alle varie teorie della visione succedutesi nel corso dei secoli. L’insistita semantica del vago e del velato che con- nota l’atmosfera («fascia di cotone»33, «bambagia»34, «nebbia che vela»35, «coltre»36,

22 Ivi, p. 306, vv. 62-63. 23 Ibidem, vv. 60-61. 24 A. Parronchi, Note, in Le poesie, I cit., [pp. 351-373], p. 372. 25 L’apparenza non inganna, p. 306, vv. 64-65. 26 Ivi, p. 307, v. 73. 27 Ibidem, v. 76. 28 Considerando che l’eponimia, anche nel caso di un poeta come Parronchi, lontano dagli equilibri esatti della forma-canzoniere, possa quantomeno risultare sintomatica di una certa cen- tralità di argomenti, oltre che di esiti poetici ritenuti emblematici. 29 Pietà dell’atmosfera, p. 304. 30 Ibidem, v. 22. 31 Ibidem, v. 25. 32 Ibidem, vv. 27-28. 33 Ibidem, v. 1. 34 Ibidem, v. 2. 35 Ibidem, v. 4. 36 Ibidem, v. 5. 482 Francesco Vasarri

«fumo»37, «bruma persistente»38, «velata inimicizia»39, «caligine che ammorba»40, «aria che si spande»41, «luce che scolora / come un petalo la nube»42), non sarà allora da leggersi soltanto in una dimensione di indeterminatezza leopardiana, pure im- portante, ma in felice convergenza con gli studi di Leonardo sulla prospettiva aerea elaborati nell’alveo della cultura rinascimentale. Coerentemente, non poche poe- sie si incentrano sui toni dell’ekphrasis (Per il monumento di Pinocchio di Venturino in Collodi43, Vernice della ventinovesima Biennale44), o ricostruiscono, «tra arsura e refrigerio»45, entusiasmi e dubbi legati al lavoro intellettuale sull’arte figurativa (La mezzanotte di Paolo Uccello46, «Relax» al museo47), intersecandosi con i grandi temi coevi dell’attività saggistica (si veda, in parallelo agli Studi su la dolce prospettiva del ’64, la chiusa «Prospettiva, da ogni angolo sempre nuova e diversa, / tu per me nel- la mia vita ad ogni istante / hai avuto una dolcezza»48). Ciò che il soggetto cerca ri- volgendosi all’arte è soprattutto una conferma del patto che lega, nell’universo tra- scendente di Parronchi, il creatore alle creature, e che proprio la grande tradizione figurativa sembra capace di vidimare, individuando nella rappresentabilità della na- tura un passaggio di testimone tra demiurgia divina e azione umana (non per nul- la, il passato viene connotato da uno «stimolo all’opera perfetta / coscienza dell’u- mana imperfezione»49). Di qui lo sdegno per le molteplici forme dell’arte contem- poranea vissute come sintomi del malessere morale di un’epoca a-teologica («Si fa a gara a mostrar le proprie piaghe, / s’accarezzan le malattie del tempo»50), secondo una direzione che è sostanzialmente sovrapponibile a quella di Sedlmayr nel suo celebre Perdita del centro51. Tanto in Parronchi che in Sedlmayr, infatti, la necessità

37 Ibidem. 38 Ibidem, v. 6. 39 Ibidem, v. 12. 40 Ibidem, v. 13. 41 Ibidem, v. 16. 42 Ibidem, vv. 22-23. 43 Per il monumento a Pinocchio di Venturino in Collodi, pp. 289-291. 44 Vernice della ventinovesima Biennale, pp. 294-296. 45 «Relax» al museo, p. 311, v. 39. 46 La mezzanotte di Paolo Uccello, pp. 292-293. 47 «Relax» al museo, pp. 310-311. 48 La mezzanotte di Paolo Uccello, p. 293, vv. 40-42. 49 Vernice della ventinovesima Biennale, p. 295, vv. 35-36. 50 Ibidem, vv. 29-30. 51 Si legga, dalle primissime pagine introduttive, la singolare somiglianza anche semantica delle rispettive diagnosi patologiche: «L’esame delle opere d’arte ci porta a constatazioni che pos- sono essere decisive per capire quella rivoluzione interiore [derivata dalla rivoluzione francese]. Tutto ciò che è inconfondibile, che è nuovo, che si mostrò allora per la prima volta e che, come si suol dire, fece epoca, può essere còlto nel modo migliore esaminando una serie di fenomeni che compaiono nel campo dell’arte. Tali fenomeni hanno infatti per noi uno straordinario significa- to e, se saremo in grado di considerarli non solo come realtà storiche ma anche come sintomi, riusciremo a fare la diagnosi delle sofferenze del nostro secolo. La nostra situazione attuale viene, in realtà, sentita come una vera malattia» (Hans Sedlmayr, Perdita del centro. Le arti figurative TEMI E METRI IN «PIETÀ DELL’ATMOSFERA» 483 centrale dell’estetica sembra essere la salvaguardia di un vincolo di armonia tra for- ma e contenuto, nonché la ricerca, nella copia artistica, di una validazione di inte- grità nell’originale, sia questo l’uomo, i suoi sentimenti, la natura, il mondo: e Pietà dell’atmosfera è percorsa proprio da questo sottile terrore del deformato, che aggre- disce contemporaneamente gli equilibri ambientali e le manifestazioni espressive dell’uomo. All’io lirico che visita la Biennale, tra «tele nerastre abbrividite»52, «den- tiere d’oro chiuse / a catenaccio»53, «calchi / d’uova di dinosauro»54 e «sessi vizzi av- volti in ragnatele»55 si presentano soltanto le acque reflue della tradizione figurativa occidentale, dinanzi alle quali converrà piuttosto raggiungere il largo della vegeta- zione e del mare, dove una visione panica (con espediente tipico dell’intera raccol- ta) soccorre l’identità minacciata e la inserisce ex machina nel corso di una ciclicità, potremmo dire con Zanzotto, «biologale»56: «Si sente che l’estate / è già vicina an- che se qui tradita. / E scesi al lido hanno improvviso gli alberi / quel soffio che ne sfiocca i rami ogni anno»57. Una grande rilevanza è data, lungo tutta la raccolta, al tema degli affetti ami- cali o familiari, di cui molte poesie sono intimamente informate. Abbiamo già nominato il caso evidentissimo di Autoritratto alla figlia… (nel quale, peraltro, si parla con toni emotivamente connotati di Mario Marcucci e Vasco Pratolini). A questo si aggiungano Per il monumento di Pinocchio…, relativo al mosaico di Venturino Venturi, Volti dell’amicizia58, dove si identifica almeno la presenza di

del diciannovesimo e ventesimo secolo come sintomo e simbolo di un’epoca [1948], traduzione di Marola Guarducci, Roma, Borla, 1983, pp. 11-12). A breve distanza, il secondo tema affrontato da Sedlmayr poggia poi sulla necessità di dirimere tra verità e falsità dell’arte, anche qui con significativo ritorno dei lemmi legati alla visione oscurata e alla maschera: «Perché, proprio nel secolo diciannovesimo esiste nell’arte moltissimo d’insincero, di falso, di calcolato, di mendace. Non è possibile per esempio iniziare una ricerca dalla sfera dello stile perché, proprio in questo secolo, il vero e il falso si confondono a tal punto da non permettere quasi di vederci chiaro. Questa preponderanza del “finto” è un dato di fatto fondamentale del quale occorre tenere il massimo conto se si vuole giunge a conoscere i secoli diciannovesimo e ventesimo […]. Occorre quindi un metodo che sia in grado di distinguere il genuino dal finto, di penetrare cioè oltre la maschera» (ivi, p. 13). Uno studio più accurato e storicizzato di queste somiglianze (volto magari ad accertare o smentire le possibilità di un rapporto diretto, peraltro cronologicamente del tutto plausibile), sembrerebbe, a questo punto, non poco interessante. 52 Vernice della ventinovesima Biennale, p. 294, vv. 18-19. 53 Ibidem, vv. 20-21. 54 Ibidem, vv. 24-25. 55 Ibidem, v. 27. 56 Biologali sono infatti, per Zanzotto, quelle regolarità intime che informano ogni essere vivente fino ad inscriverlo in un procedimento, sacrale per inesplicabilità, di mutua e capillare corrispondenza. Cfr., per altre indicazioni sul neologismo d’autore, Matteo Giancotti, Note, in Andrea Zanzotto, Luoghi e paesaggi, a cura di Matteo Giancotti, Milano, Bompiani, 2013, [pp. 207-210], p. 207. 57 Vernice della ventinovesima Biennale, p. 296, vv. 65-68. 58 Volti dell’amicizia, pp. 333-338. 484 Francesco Vasarri

Luzi, «Totem»59, Morti sull’autostrada60 dedicato alla tragica fine dell’amico Enrico Orlandi e della sua famiglia, Dimentico il tuo compleanno61 rivolto alla madre, e i trasparenti esemplari di A Vasco62 e Grazie, Betocchi63, per realizzare che il motivo d’occasione, encomiastico o comunque amicale-affettivo impegna ben otto testi su trenta, poco più di un quarto sul totale: il che legittima ulteriormente quan- to dicevamo, in apertura, sulla necessità del dialogo intellettivo e dello scambio sentimentale nel sistema assiomatico di Parronchi, che la poesia sembra tradur- re in un’immediata ricerca o offerta di magistero contro l’invivibilità del mondo contemporaneo. Altrettanta importanza riveste, su un inquieto fronte elegiaco, la contestualizzazione dell’esperienza della memoria e del tempo, vissuta appun- to sul filo della perdita e poi del ritrovamento casuale. Abbondano, infatti, i rife- rimenti al passato della giovinezza e della prima maturità, evocati da un io lirico che sente ormai di aver raggiunto un’età e una consapevolezza senili, acuiti dagli stravolgimenti in negativo dei dati di contesto64. Il crollo dei valori culturali e po- litici, l’abbrutimento del discorso artistico, la degradazione del paesaggio natura- le e la scomparsa delle persone care costituiscono allora, nella raccolta, i corollari immediati e intercambiabili del tema temporale, favorendone anche le implica- zioni etiche e politiche. In questi termini si leggerà, ad esempio, l’intera «Sunset Boulevard»65, dove «Troppo poca luce»66 è rimasta nel «sepolcreto del passato»67 e quindi la «passeggiata del poeta è morta»68 proprio perché il tempo, nel segno del degrado paesistico, ha reso «infrequentabili i giardini»69. Ciononostante, re- sta aperta la fiducia, quasi proustiana, nelle intermittances du cœur che hanno, in Parronchi, un potere vivificante indotto spesso dal rifugio nella natura («O tu sparita, dileguata… / – Morta? – / – Non so. Vedo una gonna dentro un folto / che a un rovo s’è impigliata, ed una gamba / che di sangue si riga… / Altro non mi rammento. / Sì, i rami. Ed attaccato ai rami, il vento»70, citando dagli ultimi versi della lirica Ormai, dove è evidente, in emistichi franti e molto convincen-

59 «Totem», p. 339. 60 Morti sull’autostrada, pp. 319-322. La poesia ha inoltre, in esergo, una lapidaria citazione da Luzi. 61 Dimentico il tuo compleanno, p. 323. 62 A Vasco, pp. 341-342. 63 Grazie Betocchi, p. 343. 64 D’altronde, una sapienzialità listata a mezzo tra vecchiaia e lutto aveva fatto sempre par- te della poesia del secondo Parronchi, nella forma di una «strana maturità» «onnipresente», da legarsi, mi sembra, sia alla responsabilità etica della parola che alla percezione di un mondo in prossimo sfacelo. Così, almeno, secondo l’efficace sintagmatica critica di Baldacci, cui si rimanda (Parronchi poeta cit., pp. 21-23). 65 «Sunset Boulevard», pp. 312-313. 66 Ivi, p. 313, v. 41. 67 Ibidem, v. 36. 68 Ivi, p. 312, v. 26. 69 Ibidem, v. 30. 70 Ormai, p. 332, vv. 6-11. TEMI E METRI IN «PIETÀ DELL’ATMOSFERA» 485 ti, l’attivazione squisitamente visiva della memoria, che si serve proprio del dato naturale per spostarsi, a scatti, tra i dettagli dolorosi del ricordo e il loro fonda- le ventilato e arboreo, quasi rasserenante). Da notarsi è anche, nella connotazio- ne escatologica dell’ambiente vegetale e atmosferico, una commistione comples- sa di riferimenti francescani e cristologici (evidenti nel finale della poesia Il pa- ese71, dove il conflitto tra memoria e realtà è sanato dalla «tonsura del vento»72 e dall’«olio»73 versato sui «solchi sanguigni delle braccia»74). La natura parronchia- na, insomma, salva non solo l’integrità psicofisica dell’uomo ma anche il tem- pus fugens in cui questi vive, proprio perché ponendosi come dato visuale, illu- minato, quasi pittorico ed esprimibile attraverso il lavoro sulle parole, si trasfor- ma in immagini mentali che si caricano positivamente anche sul piano degli as- siomi e rilanciano la tenuta dell’individuo nel travagliato percorso della storia. Venendo, infine, alla nota questione della sentenziosità gnomica di Parronchi75, che scaturisce dalla damnatio del presente ed isola in clausole le verità raggiun- te, non si può far altro che rendere conto di una situazione di fondo, inerente alla totalità o quasi dei testi. A tale proposito, è forse il caso di calibrare la cele- bre diagnosi di Pasolini, relativa al Coraggio di vivere, sulla situazione specifica di Pietà dell’atmosfera, dove la «via dell’umano»76 e la relativa «competenza del si- stema dei sentimenti»77 rischiano talvolta di esprimersi con eccessive implicazio- ni patetiche, forse proprio per un surplus di adesione personale che attribuisce alla parola poetica un pieno valore di sincerità biografica78 (sembra questo il caso di Morti sull’autostrada) oppure per un’istanza di fusione viscerale tra le ragioni dell’oggetto e il sistema filosofico del soggetto lirico che le esprime (inA un gio- vane americano che si uccise perché non aveva i mezzi per dedicarsi allo studio (no- tizia di un giornale della sera)79), mentre restano ancora pienamente apprezzabili le brevi dichiarazioni sapienziali dalla struttura quasi caproniana, dove la parola

71 Il paese, p. 318. 72 Ibidem, v. 20. 73 Ibidem, v. 18. 74 Ibidem, v. 17. 75 Un tratto, questo, che convive con la ricerca prosastica di un linguaggio medio, dichia- rativo-divulgativo, ma ontologicamente connesso al vero e proprio presentarsi della poesia nelle sue punte più apocalittiche. Si veda, per una storiografia critica della gnomica di Parronchi e per un’acuta funzionalizzazione del tratto stilistico nella semantica dell’opera poetica, il bell’intervento di Luca Lenzini, Prosa e poesia di Alessandro Parronchi, in Per Alessandro Parronchi cit., pp. 51-60. 76 Pier Paolo Pasolini, Parronchi e la «via dell’umano», in Passione e ideologia (1948-1958) [1960], Milano, Garzanti, 1977, [pp. 454-456], p. 455. 77 Ibidem. 78 E accettando dunque come implicito anche il caso di una riuscita perfettibile dei singoli componimenti, purché fosse tutelata «contro il gusto e il buongusto» la validità del lavoro poetico come capillare ricerca di una verità relativa all’uomo: «Impegno quotidiano, la poesia non gli ha lasciato margine a nessuna astuzia» (L. Baldacci, Parronchi poeta cit., p. 31). 79 A un giovane americano che si uccise perché non aveva i mezzi per dedicarsi allo studio (notizia di un giornale della sera), pp. 316-317. 486 Francesco Vasarri riesce a rispecchiare il valore luminoso e rivelatore di cui viene investita (con esiti convincentemente dichiarativi come «Epoche vive e morte si susseguono»80, «È vicina / la fine. Già s’approssima / il giorno del Giudizio»81, «Eppure, come sem- pre, non so dove, / certo altrove, le cose a chi le ascolta / dicono il vero. Dorme, / ma non è morta l’anima del mondo»82, prelevati dalla sola Vernice della ven- tinovesima Biennale, che cita, non a caso, due versetti dell’Apocalisse in esergo). Ultimo tratto notevole sotto il profilo dei temi, anche in rapporto all’altezza cro- nologica della raccolta, è la presenza piuttosto fitta di tematizzazioni ‘arcadiche’ con lemmi biblici o mitologici come «Apollo»83, «fauni»84, «Diana»85, «Atteone»86, «Atlante»87, «Elia»88, «Orfeo»89, «Cristo»90, «Dafne»91, «Oreadi»92, «Salomone»93, «Giordano»94, «Ercole»95, da collegarsi alla sensibilità parronchiana per la persi- stenza, nella connotazione poetica, di un iconismo sacrale che mescola il piano della realtà con le dimensioni del letterario-artistico e del religioso. Il fenomeno raggiunge punte molto interessanti in Scorciatoia della luna96, dove una luna-Dia- na è colta nella propria «ascosa parte»97 dalla scienza astronautica, ritratta appun- to nelle vesti di un «nuovo Atteone»98 (con una tematizzazione della luna poetica violata dal progresso che meriterebbe di essere letta, per le consonanze davvero sorprendenti, in controcanto a Gli sguardi, i fatti e Senhal di Andrea Zanzotto99). Tutti gli elementi che abbiamo analizzato non sono, nel complesso della raccol- ta, isolabili in se stessi (si sarà visto, anzi, quanto siano frequenti le interazioni

80 Vernice della ventinovesima Biennale, p. 294, v. 6. 81 Ibidem, vv. 12-14. 82 Ivi, p. 295, vv. 45-48. 83 Per il monumento a Pinocchio di Venturino in Collodi, p. 290, v. 47. 84 Ibidem. 85 Scorciatoia della luna, p. 297, v. 16. 86 Ibidem, vv. 18 e 20. 87 Ivi, p. 298, v. 44. 88 Ivi, p. 299, v. 90. 89 «Relax» al museo, p. 310, v. 26. 90 Ivi, p. 311, v. 31; Morti sull’autostrada, p. 320, vv. 42 e 44; Cerca, muoviti, vaga, p. 347, v. 20. 91 Ibidem, v. 32. 92 «Sunset Boulevard», p. 312, v. 29. 93 Autoritratto alla figlia per quando avrà ventun anni (1978), p. 327, v. 76. 94 Ibidem, v. 81. 95 Cerca, muoviti, vaga, p. 347, v. 19. 96 Scorciatoia della luna, pp. 297-300. 97 Ivi, p. 297, v. 18. 98 Ibidem, v. 20. 99 Si leggano, a commento del testo, gli interventi di Agosto e dello stesso Zanzotto riportati in Stefano Dal Bianco (a cura di), Profili dei libri e note alle poesie, in A. Zanzotto, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1999, [1379-1681], pp. 1517-1537. TEMI E METRI IN «PIETÀ DELL’ATMOSFERA» 487 tematiche) ma vivono di un costante intervallarsi e contrapporsi nel corpo dei singoli testi. Tale caratteristica trova un diretto corrispettivo a livello macrostrut- turale, tracciando, pur nella distanza che separa Parronchi dai limiti esatti della forma-canzoniere, un assetto giustappositivo dei vari elementi che interessa ogni pagina di Pietà dell’atmosfera. Si nota allora, a questo proposito, una salda ten- denza al raggruppamento delle liriche secondo un criterio di consonanza tema- tica, per cui sequenze contigue (o quasi) trattano gli stessi argomenti o presenta- no comunque notevoli somiglianze semantiche. Un esempio-limite del procedi- mento è evidente nella lirica Libertà, che segue L’apparenza non inganna e ne co- stituisce quasi un calco variato, riprendendone l’intenzione dialogica, aprendola alla forma diretta e giocandola sulle medesime direttrici gnomiche e sentenziose, con explicit salvifico in chiave metafisica.

Per quanto riguarda, invece, la situazione metrica, ci si limita in questa sede alla segnalazione di alcuni tratti notevoli, con relativa esemplificazione di minima. Si annota allora, anzitutto, la generalizzata interpolazione tra versi endecasillabici, polimetrismo di stampo pascoliano-montaliano100 (con pre- dilezione per ritmi lunghi e cadenzati, di sapore alessandrino o esametrico, fino al doppio novenario) e soluzioni che si distaccano dalle possibilità cano- niche per tendere verso il parlato quotidiano o la prosa, oltre alla resa libret- tistica di molti passaggi dialogici, dove il succedersi del turno di parola (o, a volte, di interruzioni e pause presumibili del discorso colloquiale) è reso con due emistichi di versi regolari separati da enjambement e rilevati da spazi ti- pografici. È spesso estendibile al contesto metrico la notazione di Leonardo Manigrasso, secondo il quale alla positività del contenuto corrisponde una classicità semantica, mentre alla negatività dei referenti risponde un lessico pluricodico e impoetico101, per cui sarà facile trovare, talvolta isolati nel di- spositivo strofico della quartina, gruppi di endecasillabi in corrispondenza con visioni di tipo naturale o descrizioni estetizzanti, legate magari alla dol- cezza del ricordo; ma bisogna anche segnalare la possibilità di una situazione nettamente opposta, dove un’opzione postmoderna piega i ritmi regolari del verso italiano a materie sentitamente avversate (si pensi alle strofe descritti-

100 Peraltro, la precoce comparsa di una «funzione Montale» nello stile di Parronchi (in con- trotendenza rispetto alla maggioranza degli ermetici) era già stata sottolineata nell’ottima analisi linguistica di Massimo Fanfani (Sul linguaggio poetico di Parronchi, in Per Alessandro Parronchi cit., [pp. 63-101], pp. 68-71). Per il difficile rapporto con Pascoli, potenzialmente presentissimo nella metrica di Parronchi (che vive, in tanti suoi momenti, di una destabilizzazione del fluire endecasillabico ottenuta con l’interpolazione di metri tipicamente pascoliani) eppure tanto poco amato pubblicamente, si veda invece L. Baldacci (Parronchi poeta cit., p. 20), che lo include, parlando di novenari, tra «le sources segrete – e magari negate». 101 Cfr. L. Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte». La poesia “inattuale” di Alessandro Parronchi cit., pp. 184-188. 488 Francesco Vasarri ve di Vernice della ventinovesima Biennale102). Una posizione singolarissima è quella della Canzonetta urbinate103, che impiega i moduli della filastrocca e del canto popolare, con esiti a metà tra Pascoli, Gozzano104 e Moretti105: qui il sistema strofico si compone di quartine a rima o assonanza incrociata, intervallate dal refrain di un distico baciato, mentre i metri impiegati, che sono ottonari, novenari e decasillabi nelle prime strofe elegiache e gnomi- che, si volgono all’endecasillabo in quelle di chiusura, commentando la si- tuazione presente all’io lirico («Urbino, com’è triste stare / a dieci ore di tre- no dai miei cari / nella notte che rompe solo, a rari / tratti, remoto il ron- zo dei go-karts…»106). Da notare sono anche i casi, piuttosto frequenti, di versi quadrisillabi o più brevi dal sapore ungarettiano, in genere con la fun- zione di isolare sèmi essenziali («di rancore»107, «nell’asprezza»108, «nuda»109, «di chi vince»110), parole tema di cui debba risaltare la sovranità («luna»111, «umanità»112, «dico»113, «la luce»114, «madre»115), contatti fatico-conativi («–

102 Cfr. Vernice della ventinovesima Biennale, p. 294, vv. 17-28, ponendo però attenzione ai frequenti enjambement usati in funzione antimelodica. 103 Canzonetta urbinate, pp. 302-303. 104 Come nel caso di Pascoli, anche Gozzano (qui quello ‘in corsivo’ della poesia Via del rifugio) può funzionare come ipotesto rimosso. Cfr. per una riflessioni su Parronchi, Gozzano e i crepuscolari, L. Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte». La poesia “inattuale” di Alessandro Parronchi cit., pp. 88-89 nonché le notazioni linguistiche, ivi richiamate, di M. Fanfani, Sul linguaggio poetico di Parronchi cit., p. 85. 105 Si pensi alle terzine incipitarie della notissima A Cesena: «Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, / ospite della mia sorella sposa, / sposa da sei, da sette mesi appena. // Batte la pioggia il grigio borgo, lava / la faccia della casa senza posa, / schiuma a piè delle gronde come bava» (Ma- rino Moretti, In verso e in prosa, a cura di Geno Pampaloni, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1979, p. 42, vv. 1-6). E in effetti, volendo giocare appena con i significati, lo stesso Parronchi non va esente da una sua propria crepuscolarità, laddove questa possa risiedere anche nella capacità di situarsi alla fine di qualcosa, sul solco di un presente che diventa improvvisamente postumo. Stranamente avvicinabili appaiono allora, pur estrapolate e mutate di contesto in modo del tut- to arbitrario, certe affermazioni di Pampaloni sul senso del tempo e della tristezza in Moretti: «L’infelicità del poeta, in rapporto alla violenza esercitata su di lui dalla vita, non è sottomissione ma sapienza. La sua nostalgia è un vero e proprio programma di vita. Il volgersi al rimpianto del passato è una fuga in avanti […]. La coscienza di morte, ha potuto concludere Bigongiari, è, paradossalmente, scienza di vita» (Geno Pampaloni, Prefazione, ivi, [pp. xi-xxxv], p. xx). 106 Canzonetta urbinate, p. 302, vv. 24-27. 107 La mezzanotte di Paolo Uccello, p. 292, v. 19. 108 Ivi, p. 293, v. 34 109 Vernice della ventinovesima Biennale, p. 296, v. 64. 110 A Vasco, p. 341, v. 17. 111 Scorciatoia della luna, p. 297, v. 3. 112 Ivi, p. 299, v. 67. 113 L’apparenza non inganna, p. 305, v. 13. 114 Ivi, p. 306, v. 37. 115 Autoritratto alla figlia per quando avrà ventun anni (1978), p. 327, v. 78. TEMI E METRI IN «PIETÀ DELL’ATMOSFERA» 489

E ora?»116) o rumoristiche onomatopee («tfon»117). Si dà anche il caso isolato di una licenza poetica prettamente legata allo spostamento di ictus, nel set- tenario «di sputníki e missíli»118. Il profilo strofico in se stesso offre un panorama di soluzioni piuttosto am- pio: in generale, i testi di dimensioni più estesa (della misura ambigua, dicia- mo, del poemetto), subiscono una divisione in parecchie strofe anche molto disomogenee, con casi monoversuali, mentre i testi più brevi, quasi tutti con- centrati nella seconda metà della raccolta, constano di un numero di strofe che varia da tre a una. Situazioni particolari si riscontrano, poi, in singole poesie. Per il monumento a Pinocchio…, ad esempio, è composta da diciannove quar- tine, in rari casi a rima alternata, più spesso rilevate da una fitta trama di asso- nanze e consonanze sia interne sia in punta di verso, mentre un pugno di altri testi (Vernice della ventinovesima Biennale, Viaggio di scambio119, Morti sull’au- tostrada e soprattutto Volti dell’amicizia) dispongono di una paragrafazione interna, che isola gruppi di strofe con l’inserimento di uno o due asterischi. Questa divisione, che ha valore di avanzamento narrativo-argomentativo nei primi tre casi, pare isolare, nel quarto, i diversi referenti biografici cui sono in- dirizzate le singole strofe. Concludendo120, la breve analisi di temi e metri mostra l’inscindibilità del- la proposta etico-religiosa di Parronchi dalle fondamenta linguistiche con cui essa si esprime, sulla scena di una realtà che appare irrimediabilmente postu- ma rispetto alle premesse classiche della bellezza e dell’armonia tra l’uomo e il mondo. Campo centrale in termini ideologici e semantici è, ben al di là dei titoli, una pietas che si sente ancora necessaria come funzione di decodi- fica del vissuto e del visibile: emanata sulle persone, sui luoghi e sulle opere d’arte più amate, nell’attesa di un ritorno amoroso che resta presente e tutto sommato più forte di altri, pur assordanti, rumori di fondo. Da notare an- cora, in margine, come le caratteristiche più postmoderne della raccolta, in termini soprattutto di lemmatica e di stile morfosintattico, finiscano per av- vicinare la poesia di Parronchi a quelle poetiche della contemporaneità che

116 «Relax» al museo, p. 310, v. 12. 117 Morti sull’autostrada, p. 321, v. 61. 118 Scorciatoia della luna, p. 298, v. 33. 119 Viaggio di scambio, pp. 314-315. 120 L’intervento originale, letto nella quarta giornata del Convegno, si concludeva con la pro- posta diretta di un esercizio dello sguardo, in riferimento a una installazione site specific di Franco Menicagli, A chi non piace guardare il cielo, presente in quei giorni nel cortile di Palazzo Strozzi, dove si era tenuto il pomeriggio dedicato a Parronchi. L’opera (per la cui scheda si rimanda a http://www.strozzina.org/artists/franco-menicagli/, ultima consultazione 23/02/2015) mi era in- fatti parsa, pur nella sua evidente distanza dal gusto artistico parronchiano, vicina nel linguaggio a certe risultanti del suo secondo tempo (precisamente nella volontà di tornare a costruire, pur con regole postmoderne di stridente contrasto tra classicismo architettonica e banalità del quoti- diano industriale, un contatto con la dimensione trascendente dell’altezza, del cielo e della luce). 490 Francesco Vasarri gli erano tanto distanti in campo storico-artistico. Vediamo qui, almeno per Pietà dell’atmosfera, il segno di una volontà di tangenza totale (anche ai dan- ni di un proprio inizio in ‘Grande stile’) all’idea di una poesia che sappia far- si referto, indagine e requisitoria della verità socio-culturale proprio incor- porando, come ferite in una trama altrimenti ordinata, gli aspetti più irridu- cibilmente sentiti come negativi; il che, nel caso di Parronchi, sembra poter alludere al versante letterario, umile e intimamente convinto, di una quoti- diana imitatio Christi. INFLUENZE MICHELANGIOLESCHE IN «REPLAY»

Simona Mariucci

Michelangelo, presenza costante negli studi di Alessandro Parronchi1, va ascritto all’«ampio e variegato orizzonte di riferimenti classici e moderni che fa da sponda alla sua poesia»2. In particolare per Replay, la nota d’autore al com- ponimento Un gesto, una figura nella raccolta Le poesie edita da Polistampa nel 2000 esplicita: «Notevoli varianti di composizione sono nel testo di questa poe- sia, per cui è utile il rimando al saggio Michelangelo e Leopardi nel volume Opere giovanili di Michelangelo, III, Olschki 1981, § 6, pp. 279-285»3. In effetti, il confronto tra la prima redazione e la definitiva evidenzia che Un gesto, una figuraè il componimento con più rimaneggiamenti. Le poesie che pre- sentano variazioni sono undici su un totale di ottantasei: le modifiche riguardano per la maggior parte la punteggiatura o singoli termini, mentre i testi di Replay e Alla madre vedono rispettivamente l’aggiunta e l’eliminazione di un verso4. Ben

1 Tanto che, in una lettera all’amico Vasco Pratolini, si definì un «maniaco che vede ovunque opere di Michelangelo» (Alessandro Parronchi, Lettere a Vasco, Firenze, Polistampa, 1996, p. 362). 2 Massimo Fanfani, Sul linguaggio poetico di Parronchi, in Per Alessandro Parronchi. Atti della giornata di studio. Firenze – 10 febbraio 1995, a cura di Isabella Bigazzi e Giovanni Falaschi, Roma, Bulzoni, 1998, p. 68. 3 A. Parronchi, Note, in Le poesie, Firenze, Polistampa, 2000, pp. 745-746. Il saggio fu pubblicato per la prima volta nel 1975 sull’«Approdo letterario», poi raccolto nel 1975 nel terzo volume di Opere giovanili di Michelangelo e infine compreso nel 1989 tra gli studi leopardiani della Nascita dell’«Infinito». 4 Si fornisce l’elenco delle varianti dell’edizione definitiva diReplay contenuta nel volume Le poesie edito da Polistampa; ogni verso è seguito dal corrispondente della prima edizione (pubbli- cata da Garzanti nel 1979) in modo da permettere un rapido confronto. Sotto il tenue gocciare: v. 8: «E così un altro amico ci lascia», «E così Maritza ci lascia». Esigenza di un discorso unico: v. 34: «Oggi asfalto, nafta, pneumatici, a tratti sangue», «oggi, asfalto, nafta, pneumatici, a tratti sangue». Replay: v. 11: «per raccontarli a voi», «per raccontarli a voi…»; aggiunta del v. 22 «tutte le stelle da questo angolo di mondo». Disimpegno: v. 21: «E il pensiero che corre alla Sala Bianca», «e il pensiero corre alla Sala Bianca». A Nadia Comaneci, incerta sul cavallo: v. 41: «il mulinello d’immondizie», «vortici d’immondizie». Involuzionismo: v. 13: «se mai si regredisca (per malat- tie)», «Se mai regredisca (per malattie)». Alla madre: v. 7: «Io qui con la zizzania, anch’io zizzania», «io qui con la zizzania, anch’io zizzania»; eliminato il v. 19 della prima edizione «la ginnastica alla

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 492 Simona Mariucci più ampie le varianti di Un gesto, una figura, in cui il dodicesimo verso della pri- ma redazione passa in ultima sede, a chiudere una nuova strofa costituita dalla perfetta trasposizione delle frasi conclusive del sesto paragrafo di Michelangelo e Leopardi5: «Ma neanche la memoria è l’ultimo porto, perché anche nella me- moria delle cose belle / morte bisogna. Il processo non si arresta, nella sua ciclicità tutto assorbe, anche la morte. La morte appartiene alla vita»6. «La morte appar- tiene alla vita» è proprio il verso che dalla dodicesima posizione passa alla con- clusiva, mentre i periodi precedenti, divisi in tre parti, costituiscono la restante, nuova ultima strofa: «La memoria non è l’ultimo porto. / Il processo non si arre- sta nella sua / ciclicità tutto assorbe, anche la morte»7. Le stesse parole, dunque, a concludere la riflessione sull’esperienza poetica michelangiolesca nella prosa e il ricordo autobiografico dell’io lirico nella poesia; in entrambi i testi si tratta della constatazione di una «ciclicità», di una combinatoria senza risultato i cui elementi sono arte, natura e memoria nel primo caso, vita, morte e ricordo nel secondo. Il tema si trova anche nel michelangiolesco Chi di notte cavalca, el dì conviene, in cui l’eterno ritorno (di male e bene in questo caso8) trova affiancati due termini che ugualmente Parronchi usa vicini, ma invertiti, in Un gesto, una figura: «mie vita e forma»9 nel testo cinquecentesco, «una forma, una vita»10 in quello novecentesco. La ciclicità del tempo, il legame tra vivi e morti confonde i confini delle parti; di nuovo l’eco di un verso delleRime («in me la morte, in

sbarra». Partono i giovani: v. 3: «il momento del distacco: temporaneo», «il momento del distacco, temporaneo». Nell’edizione definitiva, L’estate a pezzi diventa l’ultima sezione e le poesie che la compongono sono numerate. Ma il mare denso della campagna che avviluppa, Ma il mare denso della campagna avviluppa. Dopo una certa età: v. 3: «e dodici ricordi», «e rissa di ricordi»; v. 4: «sempre gli stessi», «però sempre gli stessi». 5 È dunque questo un esempio dello scambio insistito in Parronchi tra i due ambiti della critica (poetica in questo caso, d’arte il più delle volte) e della produzione letteraria. A tal propo- sito Massimo Fanfani: «Perciò, come tutto un ampio settore della sua produzione poetica avrà per oggetto temi che più o meno esplicitamente hanno a che fare con opere artistiche […] o sarà comunque teso a penetrare questioni via via affrontate, su piani diversi, dallo studioso, tanto da costituir quasi una sorta di diario poetico sul proprio “mestiere” di storico dell’arte, non mancano nemmeno diversi apporti, spesso più sotterranei e velati, che seguono il cammino inverso» (M. Fanfani, Sul linguaggio poetico di Alessandro Parronchi cit., p. 78). 6 A. Parronchi, Michelangelo e Leopardi, in Opere giovanili di Michelangelo, Firenze, Olschki, 1981, III, p. 285( la citazione di Parronchi è, naturalmente, da Michelangelo). 7 Un gesto, una figura, vv. 26-29. Le citazioni dei componimenti di Parronchi sono tratte dal volume delle Le poesie cit. La tematica, di ascendenza cristiana, percorre tutta l’opera del poeta e si ritrova nei seriori versi di A Vasco malato, in Al capolinea: «e la fine del viaggio sarà quando / ci troveremo al punto di partenza» (vv. 24-25). 8 Vv. 5-6: «Non dura ’l mal dove non dura ’l bene, / ma spesso l’un nell’altro si trasfor- ma» (tutte le citazioni di Michelangelo sono tratte dall’edizione Michelangelo, Rime, a cura di Enzo Noè Girardi, Bari, Laterza, 1960, indicata come testo di rifermento da Parronchi ancora in Michelangelo e Leopardi. Cfr. A. Parronchi, Michelangelo e Leopardi cit., p. 275, n. 18). Per la discussione sulle varie edizioni cfr. ivi, pp. 269-273. 9 Chi di notte cavalca, e dì conviene, v. 4. 10 Un gesto, una figura, v.8. INFLUENZE MICHELANGIOLESCHE IN «REPLAY» 493 te la vita»11) si avverte nello stesso componimento: «E in quel gesto mia madre torna viva / mentre io verso la morte m’incammino»12. A rendere possibile lo scambio è la memoria, leit-motiv di Replay e presenza insistita nelle Rime13, in- certo motore («ora, mentre si sfa anche la tua immagine / nel ricordo»14) e uni- co legame rimasto con la donna sia per Michelangelo (alcuni passi esemplari: «Che fie doppo molt’anni di costei, / Amor, se ’l tempo ogni beltà distrugge? / Fama di lei; e anche questa fugge / e vola e manca più ch’i’ non vorrei»15; «S’i’ fu’ già vivo, tu sol pietra, il sai, / che qui mi serri, e s’alcun mi ricorda, / gli par sognar: sì morte è presta e ’ngorda, / che quel ch’è stato non par fusse mai»16; «Crudel pietate e spietata mercede / me lasciò vivo, e te da me disciolse, / rom- pendo, e non mancando nostra fede / e la memoria a me non sol non tolse»17) che per Parronchi (si pensi solo al «rivivere incerto intermittente / affidato alla nostra memoria»18 di Un gesto, una figura). Chissà che tale riscontro non possa costituire anche un indizio per individua- re nel «forse poligenetico»19 vocabolo «forma» di Parronchi (come ebbe a dire Oreste Macrí designandolo come termine chiave insieme a «fede» per Replay) una fonte michelangiolesca. Certo è che i termini «gesto» e «figura» costituisco- no con «forma» e «vita» un gruppo di quattro ricorrente in tutta la raccolta20 e

11 In me la morte, in te la vita mia, v. 1. 12 Un gesto, una figura, vv. 5-6. 13 Esemplare a questo proposito il componimento Non so se s’è la desïata luce, ma si ricordino anche i versi «Mentre m’attrista e duol, parte m’è caro / ciascun pensier c’a memoria mi riede / il tempo andato, e che ragion mi chiede / de’ giorni persi, onde non è riparo» (Mentre m’attrista e duol, parte m’è caro, vv. 1-4). 14 In un mondo che di giorno in giorno cambia, vv. 5-6. 15 Che fie doppo molt’anni di costei, vv. 1-4. 16 S’i’ fu’ già vivo, tu sol, pietra, il sai. 17 Ben doverrieno al sospirar mie tanto, vv. 19-22. 18 Un gesto, una figura, v. 9. 19 Oreste Macrí, La vita rivissuta tra fede e forma (Su «Replay»), in Per Alessandro Parronchi cit., p. 184: «Tale parola [figura] Parronchi la coniuga con bellezza, quando e dove l’anima resti in salvo dalla minaccia aliena d’ogni negativo; da cui forma è del tutto vita in senso ultimo evan- gelico, fino al Verbo […]» (ibidem). E certo il termine è centrale nella raccolta, vista anche l’alta frequenza del sostantivo, che presenta dieci occorrenze, tra cui quella di Un gesto, una figura. Macrí ripercorre il componimento a partire dal verso finale, che abbiamo dimostrato derivare da riflessioni su Michelangelo: «Parimenti vita e forma si identificano nella madre. In lei «La morte appartiene alla vita», si fissa in «Un gesto, una figura, / una forma, una vita» (Un gesto una figura). L’estremo limite vitale ed esistenziale resta insufficiente a carpire l’essenza della creatura amata nella stessa immagine pura e reale; in che consiste il platonismo cristiano di Parronchi, comune ai maggiori di quella generazione […]». 20 A dimostrazione della pervasività di tali concetti, riportiamo le occorrenze dei quattro termini. «Gesto»: Per una giovane sposa morta nel sonno, v. 6; Un gesto, una figura, titolo e v. 7; Da tanto quel ramo batteva sul tetto, v. 14 (al plurale «gesti»). «Figura»: Monti, v. 4 (al plurale «figure, figure»); Sepolcro di Picasso, v. 23; Un gesto, una figura, titolo e v. 7; La lampada illumina piace- volmente, v. 19 (al plurale «figure»). «Forma»: Assemblea, vv. 58, 59, 83; Pendolare, v. 8 (al plurale «forme»); Viaggio in Grecia, v. 44 (al plurale «forme»); Sepolcro di Picasso, vv. 13 e 21; A Nadia 494 Simona Mariucci posto in Un gesto, una figura ad apertura della seconda strofa, in modo da stabi- lire tra le parole un rapporto di reciprocità e corrispondenza21: «Un gesto, una figura / una forma, una vita»22. I termini «figura» e «forma» sono utilizzati an- che da Michelangelo, spesso in relazione alle creazioni artistiche, in particola- re scultoree: «forma» è così adoperato, per esempio, in Se ’l mie rozzo martel- lo i duri sassi23 («Se ’l mie rozzo martello i duri sassi / forma d’uman aspetto or questo or quello»24) e «figura» in Sì come per levar, donna, si pone («Sì come per levar, donna, si pone / in pietra alpestra e dura / una viva figura»)25. Tale «viva figura»26 richiama la «forma viva» del «gesso d’accademia» della parronchiana Assemblea, frutto anch’esso di «Chi all’umile materia infuse vita»27. In Un gesto, una figura si trovano inoltre topoi delle Rime indicati da Parronchi in Michelangelo e Leopardi come peculiari esempi dell’originale riuso della tra- dizione poetica petrarchesca e della filosofia neoplatonica operato dal poeta cin- quecentesco. Tra questi, il tema dell’ossimorico e inscindibile legame che l’arti- sta (definito «uomo di dolore»28 con un’eco che, vista anche l’esplicita e preci- pua presenza michelangiolesca nell’autore del Sentimento del Tempo29, non po- trà non richiamare l’«uomo di pena» di Ungaretti) instaura tra gioia e dolore. È la contrastante influenza d’amore che rende possibile l’ossimorica convivenza, il «dolce pianto» commisto al «doloroso riso»30 («Dunche nel mie dolore / non fu tristo uom più mai; / l’angoscia e ’l pianto e’ guai, / a più forte cagion mag- giore effetto. / Così po’ nel diletto / non fu né fie di me nessun più lieto»31; «E così morte e vita, / contrarie, insieme in un picciol momento / dentro a l’anima sento»32). Per Michelangelo, nota Parronchi, le due emozioni sono indivisibili

Comaneci, incerta sul cavallo, v. 23; Un gesto, una figura, v. 8; Eravate due anime, v. 20 (al plurale «forme»); A ridosso del dolore s’inerpica, v. 19. «Vita»: E tu sorridi con quegli occhi che non vedono, v. 7; Dopo una certa età, v. 12. Il concetto di «fede» è alluso nell’ultima strofa di Un gesto, una figura, in cui la preghiera alla madre contiene una determinazione di sé basata sull’unicità della fede personale: «Madre, se in qualche parte ancora sei, / prega per me, perché io sia tollerato, / stolto, dai miei fratelli che non credono» (vv. 15-17). È esplicitato in Sotto il tenue gocciare, v. 4; Olimpiadi, vv. 2 e 42; Che vuoi?, vv. 11 e 12; Credo, v. 20; Amo il nuovo, v. 11. 21 Ascrivibile al climax ascendente ma anche alla serie metonimica. 22 Un gesto, una figura, vv. 7-8. 23 «Se ’l mie rozzo martello i duri sassi, v. 2. 24 Se ’l mie rozzo martello, vv. 1-2. 25 Sì come per levar donna si pone, vv. 1-3. 26 Sì come per levar, donna, si pone, v. 3. 27 Assemblea, rispettivamente vv. 58, 56 e 54. 28 A. Parronchi, Michelangelo e Leopardi cit., p. 283. 29 Sarà interessante segnalare l’assenza di Michelangelo nel carteggio tra i due autori (cfr. Carteggio Giuseppe Ungaretti–Alessandro Parronchi, a cura di Alessandro Parronchi, Napoli, Edi- zioni Scientifiche Italiane, 1992). 30 Dal dolce pianto al doloroso riso, v. 1. 31 Natura ogni valore, vv. 5-10. 32 Questa mie donna è sì pronta e ardita, vv. 5-7. INFLUENZE MICHELANGIOLESCHE IN «REPLAY» 495 in ogni tempo: anche in prospettiva escatologica, la rinascita della gioiosa bel- lezza terrena sarebbe vana senza la consustanziale resurrezione del dolore33. Allo stesso modo, in Un gesto, una figura la gloriosa descrizione dei risorti non è di- mentica del dolore terreno, visto l’accostamento di termini appartenenti alle due diverse sfere («carne martoriata» e «lacrime» per il dolore; «raggi» e «stelle» per la felicità): «La carne martoriata mandi raggi / nelle lacrime scendano le stelle / quando la terra abbandonata la sua orbita / i terremoti squassino le tombe»34. È lo stesso tema espresso anche in Volevo ci fosse uno stacco, in cui il legame tra gioia e sofferenza è ricondotto al topico motivo delle catene, strumenti d’amore inestricabilmente legati, alla peculiare maniera di Michelangelo, con il dolore. Si prendano in esame i seguenti versi delle Rime, tratti dal componimento S’egli è che d’uom mortal giusto desio35: «– Chi è quel che per forza a te mi mena / […] / legato e stretto e son libero e sciolto? / Se tu incateni altrui d’altra catena»36; si noterà allora l’influenza michelangiolesca nel testo di Parronchi: «Non mi stac- co, non sciolgo / le catene mai che mi tengono avvinto. / Ma a volte queste ca- tene / nel raggio del tramonto hanno un suono d’arpa / e il loro affondare nella mia carne è uno spasimo / o più, forse, un piacere che riaffonda / nel dolore di una volta»37. Interessante notare come le catene assumano in Michelangelo un significato teologico divenendo immagine sinonimica del concetto, centrale in Replay38, della fede: «Deh, porgi, Signor mio, quella catena / che seco annoda ogni celeste dono: / la fede, dico, a che mi stringo e sprono»39. La coppia gioia-dolore è inoltre presente negli incipitari versi del componi- mento omonimo «A ridosso del dolore s’inerpica / felicità»40, che fornisce anche una perfetta esemplificazione delle teorie interpretative espresse nella prosa, per cui le endiadi ossimoriche che caratterizzano la poesia michelangiolesca deriva- no dalla sua primaria attività scultorea41, processo di scalpellamento e di fusio- ne caratterizzato da una totale dedizione e idolatria della bellezza artistica ine-

33 «Qui si arriva al punto più elevato della metafisica michelangiolesca: il concetto che la stessa resurrezione della bellezza sarebbe vana, se insieme non sopravvivesse anche il dolore, il travaglio per cui è diventata vivente» (A. Parronchi, Michelangelo e Leopardi cit., p. 284). 34 Un gesto, una figura, vv. 22-25. 35 Il componimento è citato anche da Parronchi in Michelangelo e Leopardi per la sua pos- sibile influenza sul poeta recanatese, in particolare riguardo ai componimenti ispirati all’infelice amore per Fanny Targioni Tozzetti, che dalle Rime sembrano aver ricevuto «la prima spinta alla sua nuova poesia dell’estasi, all’inno amoroso, al canto per quella felicità che, al mondo, per essere intrisa di lacrime e di sofferenza è tanto più ricca e esaltante» (A. Parronchi, Michelangelo e Leopardi cit., p. 278). 36 Chi è quel che per forza a te mi mena, v. 1 e vv. 3-4. 37 Volevo ci fosse uno stacco, vv. 11-17. 38 Cfr. O. Macrí, La vita rivissuta tra fede e forma cit., p. 184. 39 Non è più bassa o vil cosa terrena, vv. 5-7. 40 A ridosso del dolore s’inerpica, vv. 1-2. 41 «Ed è la scultura a offrire lo schema del concetto di poesia come rappresentazione» (A. Parronchi, Michelangelo e Leopardi cit., p. 283). 496 Simona Mariucci stricabilmente legata, d’altra parte, al tormento creativo42: «non c’è felicità che dall’attrito / della carne sulla pietra non nasca»43, dichiarano infatti i vv. 26 e 27 di A ridosso del dolore s’inerpica. In entrambi gli autori è presente l’idea della so- pravvivenza dell’opera all’artista; così in Michelangelo: «Com’esser, donna, può quel c’alcun vede / per lunga sperienza, che più dura / l’immagin viva in pietra alpestra e dura / che ’l suo fattor, che gli anni in cener riede?»44; «s’un sasso resta e pur lei morte affretta»45 e così in Parronchi: «Questo gesso d’accademia, / sim- bolo di ciò che oggi si disprezza, e accarezzo pensando forma viva, / dice: “La mia forma vince il tempo”»46; «Vincerò il tempo con opere che dureranno»47. Certo questo peccato d’idolatria artistica accomuna lo scultore e il suo critico: in più luoghi della raccolta Parronchi rivela il carattere preminente che ricopre per lui il ruolo di storico dell’arte; seguendo l’ordine dei testi, potremmo rin- tracciare tale fil rougepartendo da E tu sorridi con quegli occhi che non vedono, in cui il poeta manifesta come i propri occhi «non d’altro s’appagano che del ca- rezzare / il buon lavoro delle mani dell’uomo»48, concetto poi ribadito nella suc- cessiva Assemblea, in cui si afferma: «Io nel segreto amo soltanto i miei proble- mi / d’attribuzione, di cronologia»49, e in La lampada illumina piacevolmente, in cui anche la natura appare interessante soltanto se è possibile indagarla con le stesse categorie dell’analisi artistica: «Ma se il sereno notturno non si ragna / di figure per me, che importerà / viverne la pace più o meno intensamente?»50. A questo tema si accompagna quello dell’invidia e delle maldicenze che i due autori dichiarano contaminare il mondo artistico: ai versi michelangioleschi di ri- sentito rammarico e di rivolta («Tu hai creduto a favole e parole / e premiato chi è del ver nimico. I’ sono e fui già tuo buon servo antico, / a te son dato come e’ raggi al sole, / e del mie tempo non ti incresce o dole, / e men ti piaccio se più m’affatico»51; «Invidiosi, superbi, al ciel nimici, / la carità del prossimo v’è a noia / e solo del vostro danno siete amici»52) fanno eco quelli parronchiani di Contro le confraternite, componimento che apre Replay, di Sepolcro di Picasso («Sei stato circondato come tutti / i grandi da una rete di parassiti»53) e della poesia eponi- ma della raccolta, in cui la rivalità tra gli artisti è indicata come una delle cau-

42 Si pensi a questo verso michelangiolesco: «che l’arte mi fece idol e monarca» (Giunto è già ‘l corso della vita mia, v. 6). 43 A ridosso del dolore s’inerpica, vv. 26-27. 44 Com’esser, donna, può quel c’alcun vede, vv. 1-4. 45 Sol d’una pietra viva, v. 10. 46 Assemblea, vv. 56-59. 47 Il presente, v. 15. 48 E tu sorridi con quegli occhi che non vedono vv. 14-15. 49 Assemblea, vv. 39-40. 50 La lampada illumina piacevolmente, vv. 18-20. 51 Signor, se vero è alcun proverbio antico, vv. 3-8. 52 I’ l’ho, vastra mercè, per ricevuto, vv. 9-11. 53 Sepolcro di Picasso, vv. 7-8. INFLUENZE MICHELANGIOLESCHE IN «REPLAY» 497 se del degrado urbanistico («La città come avrebbe dovuto essere / senza la spe- culazione edilizia / né l’invidia degli artisti: una vera / Gerusalemme celeste»54). I due autori sono accomunati anche dalla definizione che di se stessi danno come di «poeti notturni». Emblematico a questo riguardo il michelangiolesco Colui che fece, e non di cosa alcuna: «e a me consegnaro il tempo bruno, / come a simil nel parto e nella cuna. / E come quel che contrafà se stesso, / quando è ben notte, più buio esser suole, / ond’io di far ben mal m’affliggo e lagno. / Pur mi consola assai l’esser concesso / far giorno chiar mia oscura notte al sole / che a voi fu dato al nascer per compagno»55. La stessa appartenenza dichiara il Parronchi di Replay, tratteggiando l’incerta topografia della raccolta come uno spazio notturno («Non temo più la notte perché sono dalla parte dell’ombra»56), un «qui» in cui «nulla incrina il nero della notte»57. L’aldilà presente nei testi di Replay risente inoltre di un altro tipico tratto ri- conosciuto come novità assoluta delle Rime: l’affermarsi di quella che Parronchi chiama la «voce dei morti», intesa come «entità indistinta e indefinibile, coro»58. Rappresentazioni simili appaiono nella raccolta novecentesca; al nugolo indi- stinto dei rimatori antichi, si rivolge lapidariamente il verso incipitario di Poeti: «Discutere con voi, morti, che giova?». Più estesamente, in Per una giovane sposa morta nel sonno59, la descrizione del coro a cui si sta per unire la «giovane sposa» occupa la parte centrale del componimento: «Dove dove dove vanno tutti que- sti corpi immobili / […] / Con un riflusso inarrestabile / scivolano i corpi sen- za vita nella terra»60. In particolare, il michelangiolesco Beati voi che su nel ciel godete pare condividere con Per una giovane sposa morta nel sonno anche l’inci-

54 Replay, vv. 28-31. 55 Colui che fece, e non di cosa alcuna, vv. 7-14. 56 Dicevo: Aspetta a chiuder le persiane, vv. 12-13. 57 Qui nessuno è mai morto di dolore, v. 12. 58 A. Parronchi, Michelangelo e Leopardi cit., p. 274. 59 Viviana Melani, nella sua ricerca di echi leopardiani nella produzione poetica di Parron- chi, definisce questo titolo «leopardiano» (cfr. Viviana Melani, Parronchi lettore e critico di Leo- pardi, in Per Alessandro Parronchi cit., p. 204). Per influenze leopardiane in Parronchi si rimanda oltre che al saggio della Melani, ad Anna Dolfi,Leopardismo e terza generazione, in Leopardi e il Novecento. Sul leopardismo dei poeti, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 74-82 (della Dolfi cfr. anche, per suggestioni sul leopardismo, Teorema della bellezza. Variazioni filmiche su un tema di Ales- sandro Parronchi, in «il Portolano», gennaio-giugno 2010, 60/61, pp. 25-28; La città, la notte. L’immagine “ombrata” e le forme della luce, in Per Alessandro Parronchi (1914-2007). Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, XXXI, 2010, pp. 159-171). Si veda inoltre Un inserto: Parronchi, Leopardi e la terza generazione, quarto capitolo della sezione La reticenza dei segni nei «Visi» in Leonardo Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte». La poesia ‘inattuale’ di Alessandro Par- ronchi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011, pp. 57-61. «L’immagine della morta» di Per una giovane sposa morta nel sonno ricorda invece a Enrico Ghidetti «il ritratto della madre sul letto di morte in Pratolini, Cronaca familiare, 5» (E. Ghidetti, Alessandro Parronchi. Appunti per un ritratto, in A. Parronchi, Le poesie cit., p. XL). 60 Per una giovane sposa morta nel sonno, vv. 9 e 14-15. Per la matrice leopardiana del verso si veda V. Melani, Parronchi lettore e critico di Leopardi cit., p. 204, n. 71. 498 Simona Mariucci pit, che in entrambi i casi è costituito da una dichiarazione di implicita supe- riorità della condizione dei morti rispetto a quella dei vivi: il distico iniziale di Michelangelo è «– Beati voi che su nel ciel godete / Le lacrime che ’l mondo non ristora», quello di Parronchi «M’ingelosisce d’amore la morte / che ha rapito la giovane sposa nel sonno». Altro esempio dei cori delle Rime è Chiunche nasce a morte arriva, in cui si esprime la consunzione dell’intero creato, uomini e cose, operata dal tempo: è lo stesso disfacimento cantato nella raccolta Replay, a cui resiste, estremo baluardo, solo la memoria. Confrontando in particolare il testo michelangiolesco con Ricordi? è possibile rintracciare omologie costitutive: in entrambi i componimenti la prima parte è infatti dedicata alla descrizione della perdita umana («e le nostre antiche prole / al sole ombre, al vento un fummo»61; ««il vuoto / che partendo uno ci lascia, il distacco / è la sola cosa che rimane?»62) e la seconda al disfacimento della materia («Ogni cosa a morte arriva»63); «Così le case il tempo / non risparmia. Vedi l’edera s’aggrappa / al cancello e lo sgretola, / e quel tetto che cozza contro i rami / del pino presto crollerà»64), effetti dell’a- gente principale dei due testi, il tempo («Ciò porta il tempo seco»65; «il tempo / non risparmia»66). Chiunche nasce a morte arriva sembra poi strettamente con- nesso ad un altro componimento di Replay: Sospesi nell’abisso. Il legame è que- sta volta terminologico, ritrovandosi in entrambe le poesie i due lemmi «vento» e «fummo». In particolare, «fummo» ha un ruolo di rilievo nel testo michelan- giolesco, essendovi presente per due volte ed in rima equivoca, nel primo caso come sostantivo e nel secondo come verbo, utilizzato dal coro dei defunti per descrivere la ciclicità naturale che unisce in un’identica condizione vivi e morti: «Come voi uomini fummo, / lieti e tristi, come siete; / e or sian, come vedete, / terra al sol, di vita priva»67. «Vento» e «fummo» aprono e chiudono in Sospesi nell’abisso la stessa riflessione, confermando così anche nel contenuto la conso- nanza del significante: «il vento / trasformato in un tragico risucchio / non si beva quel che siamo quel che fummo»68. A questa stessa sfera tematica appar- tiene l’eco di un verso definito «memorabil[e]» da Parronchi69, l’endecasillabo «L’anima mia che con la morte parla» (v. 27 di Che fie di me? Che vo’ tu far di nuovo) espressione del contatto tra i due mondi70. La tematica è presente in Un

61 Chiunche nasce a morte arriva, vv. 6-7. 62 –Ricordi?–, vv. 6-8. 63 Chiunche nasce a morte arriva, v. 12. 64 –Ricordi?–, vv. 12-15. 65 Chiunche nasce a morte arriva, v.16. 66 –Ricordi?–, vv. 11-12. 67 Chiunche nasce a morte arriva, vv. 8-12. 68 Sospesi nell’abisso, vv. 13-15. 69 A. Parronchi, Michelangelo e Leopardi cit., p. 280 70 Tema che si afferma come preminente sin da Pietà dell’atmosfera (cfr. E. Ghidetti, Ales- sandro Parronchi. Appunti per un ritratto cit., p. XXXIX). Si ricordi anche In memoria, compo- nimento della successiva raccolta Climax: «E coi morti / parlo come se fossero, e son, parte / del INFLUENZE MICHELANGIOLESCHE IN «REPLAY» 499 gesto, una figura, l’unico componimento per cui si palesano le ascendenze mi- chelangiolesche, e si trova anche in Amo il nuovo, non l’avventura, in cui il ruo- lo di mediatore del poeta71 è accompagnato da una metaforica definizione della vita che pare derivata dalla pratica scultorea, permettendo così un collegamen- to con la riflessione dell’artista cinquecentesco: «la vita si lotta palmo a palmo, / carne contro il ferro»72. Tracce michelangiolesche possono essere rintracciate anche in Contro la cac- cia e Avanti, per cui si propone l’ipotesi di un riuso operato attraverso la tecni- ca del ribaltamento: i due componimenti, collocati in successione nella strut- tura di Replay, sembrano capovolgere i cori funerei delle Rime, poiché si trat- ta di cori indistinti di vivi, di vivi che però portano morte. In Contro la caccia, il gruppo dei cacciatori è il destinatario della serie degli imperativi che costitu- isce l’ultima strofa; in Avanti, l’io descrive la situazione di rifugio interiore che si è costruito, a difesa di un esterno in cui «l’orda» indistinta dei vivi «sbraita, / invoca la morte»73. Un rapporto privilegiato è quello che il capitolo elegiaco Ancor che ’l cor già mi premesse tanto, scritto in occasione della morte del padre e in ricordo della precedente scomparsa del fratello, instaura con i testi di Replay che hanno come tematica il lutto per la scomparsa della madre, «protagonista esplicita e impli- cita del libro» secondo la definizione di Oreste Macrí74. Quattro sono i luoghi di Ancor che ’l cor già mi premesse tanto per questa via riscontrabili in Replay. Il primo interessa il legame tra il dolore per la scomparsa del genitore e la conso- lazione per la fine delle sue sofferenze. Dice Michelangelo: «E se ’l pensier, nel quale i’ mi profondo / non fussi che ’l ben morto in ciel si ridi / del timor della morte in questo mondo, / crescere’ ’l duol»75; è lo stesso timore che Parronchi ricorda in Sempre quando percorro il sottopassaggio («Sempre quando percorro il sottopassaggio / e vien giù a striscio un pazzo sfiorando / in moto chiunque gli si pari davanti, / penso: quante volte ho tremato… / Ora per te non temo più, anima santa»76) e in Alla madre («Capisco ora che è bene che tu sia morta. / Fa bene all’anima / vederti così liberata / in una prospettiva di pace»77). In quest’ul- timo testo si riverbera inoltre l’immagine michelangiolesca del sole rivelatore del- la morte78: è proprio al «pieno sole invernale» che il poeta conosce la realtà del nostro cerchio» (vv. 8-10). 71 Che afferma: «Che i morti ci guardano è cosa certa. / Recito questi versi ai familiari, / parlo loro dei morti che son vivi» (Amo il nuovo, non l’avventura, vv. 14-16). 72 Amo il nuovo, non l’avventura, vv. 19-20. Il tema è poi presente in altri componimenti, come Son venuto a farti visita da morto e L’anima mia che con la morte parla. 73 Avanti, vv. 10-11. 74 O. Macrí, La vita rivissuta tra fede e forma (Su «Replay») cit., p. 186. 75 Ancor che ’l cor già mi premesse tanto, vv. 30-34. 76 Sempre quando percorro il sottopassaggio, vv. 1-5. 77 Alla madre, vv. 20-24. 78 Presente ad esempio nel già citato Chiunche nasce a morte arriva. 500 Simona Mariucci

«risucchio in cui tutto sprofonda»79. Il secondo motivo di consonanza riguarda la fede in un possibile aldilà, che tempra il dolore prospettando la ricompensa ultraterrena in Michelangelo («ma ’ dolorosi stridi / temprati son d’una creden- za ferma / che ’l ben vissuto a morte me’ s’annidi»80) e la possibilità di una futu- ra riunione nel Parronchi di Bisogna, per cedere alla morte («E la tua immagine- tua anima-tuo volto / vive in un mondo a me del tutto estraneo, / un sopramon- do, una realtà diversa, / e che, stupidamente, / o per scommessa ho fiducia di raggiungere»81). Ancora, la definizione di sé come «morto vivo»82 contenuta nel capitolo elegiaco influenza la chiusa di Dicevo: Aspetta a chiuder le persiane, con un io lirico che metaforicamente dichiara: «non temo più la notte perché sono / dalla parte dell’ombra»83. Infine, un’eco del michelangiolesco «Nel tuo morire el mie morire imparo»84 si trova in Ultimi giorni: «Fammi assaggiare il pane del- la tua morte / ch’io ne impari il sapore / e al momento lo sappia riconoscere»85. Segnatamente per Climax, Leonardo Manigrasso ricorda una recensione di Glauco Cambon «del 1985, […] conservata tra le carte del poeta senza che ne sia indicata la provenienza»86 e ritenuta da Parronchi «parte integrante della sua bibliografia critica»87, segnalando tra l’altro come lo studioso individui tra i «modelli ritmici» della raccolta Michelangelo88. Guardando a Replay da questo punto di vista, le consonanze con le Rime sono almeno due: l’epigrammaticità dei versi e l’uso di espressioni d’uso comune, finanche di proverbi. L’incisività dei versi michelangioleschi è condivisa da Parronchi; ne sia esempio la casistica della sentenza conclusiva89, presente sin dai primi componimenti della raccol- ta: Contro le confraternite, che termina «Il mondo non guarì del vostro senno / e dei vostri consigli non maturò la storia»90 e Monti («Quel che un poco alla volta dovrei perdere / morendo in un soffio m’abbandona»91). Alla stessa sentenziosi- tà partecipa il ricorso alle espressioni proverbiali92, ascrivibili alla tendenza pro-

79 Alla madre, vv. 11 e 16. Il motivo è inoltre presente in Eravate due anime e in Quando quel sasso solitario non darà. 80 Ancor che ’l cor già mi premesse tanto, vv. 34-36. 81 Bisogna, per cedere alla morte, vv. 21-25. 82 Ancor che ’l cor già mi premesse tanto, v. 44. 83 Dicevo: Aspetta a chiuder le persiane, vv. 12-13. 84 Ancor che ’l cor già mi premesse tanto, v. 58. 85 Ultimi giorni, vv. 18-20. 86 L. Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte». La poesia ‘inattuale’ di Alessandro Parronchi cit., p. 277, n. 66. 87 Ibidem. 88 Ivi, p. 278. 89 Aspetto indagato anche nell’articolo di Glauco Cambon su Climax (cfr. L. Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte». La poesia ‘inattuale’ di Alessandro Parronchi cit., p. 278). 90 Contro le confraternite, vv. 20-21. 91 Monti, vv. 19-20. 92 Per quanto riguarda Michelangelo, esemplari le ottave di Tu ha ’l viso più dolce che la sapa: già questo primo verso è «espressione proverbiale toscana» (così Matteo Residori nel suo com- INFLUENZE MICHELANGIOLESCHE IN «REPLAY» 501 sastica93 differentemente presente nei due autori. Per Replay ne troviamo esem- pi in Monti («Il mondo è vario / […] / non avrete /[…] / non arte né parte94), Non si tocca mai il fondo e Qui nessuno è mai morto di dolore, dove le popolari massime costituiscono i primi, eponimi versi. Vorrei concludere questo veloce excursus con un’annotazione forse azzarda- ta, ma non priva di suggestioni. Oltre che tematiche e riprese citazionali, pare presente in Parronchi anche l’eco di quel non-finito poetico che contraddistin- gue la produzione michelangiolesca95, l’urgenza del dire che non può sottosta- re al rispetto formale. Il collegamento è esemplificato da Sotto il tenue gocciare, in cui il primo e il terzo verso sembrano proposti come varianti tra cui il poe- ta non ha scelto, uniti da quell’«oppure» tipograficamente isolato dal resto del componimento attraverso l’uso del corsivo e delle lineette. Stessa cosa sembra accadere, ma in relazione all’intero testo, con la coppia intitolata C’è chi aspetta. E perché non vedere nel non-finito anche i «pensieri a brandelli» che in Un ge- sto, una figura sono l’unico frutto della «scarsa mente»96 dell’io?

mento a Michelangelo, Rime, a cura di Matteo Residori, Milano, Mondadori, 1998, p. 32) e alla stessa sfera espressiva è probabilmente da collegare la similitudine «Quand’io ti veggio, in su ’n ciascuna poppa / mi paion duo cocomer in un sacco», ai vv. 17-18, stando ancora al commento di Residori: «Il confronto con un passo della più tarda Vita di Cellini […] fa pensare che il gustoso paragone fosse proverbiale» (ivi, p. 33). Si ricordino inoltre i primi versi della poesia eponima «Signor, se vero è alcun proverbio antico, / questo è ben quel, che chi può mai non vuole». 93 La generale tendenza prosastica della poesia del secondo dopoguerra non è estranea alla produzione di Parronchi: «[…] nel dopoguerra, a partire da Coraggio di vivere, la sua poesia adot- terà moduli più variati e piani, talora di tono colloquiale e dimesso, in consonanza colla generale tendenza contemporanea verso una lingua poetica più affabile e prosastica» (M. Fanfani, Sul lin- guaggio poetico di Parronchi cit., p. 64). Sul tema si legga Luca Lenzini, Le scarpe pesanti di terra, in Sulla poesia di Parronchi, Arezzo, Edizioni degli Amici, 2005, pp. 54-64 (già edito col titolo Prosa e poesia di Alessandro Parronchi, in Per Alessandro Parronchi cit., pp. 49-60). In riferimento alla tendenza diaristica del dettato poetico parronchiano, a cui sono certo da collegarsi le osserva- zioni successive sull’uso dei proverbi e sul non-finito, si ricorda inoltre la riflessione di Leonardo Manigrasso: «La disgregazione di un universo di senso in cui inscrivere la fenomenologia dei sentimenti e della realtà induce in questa fase più matura della poesia di Parronchi [Coraggio di vivere] in quell’istanza diaristica tipica della sua restante attività in versi: se il senso della realtà è vacante infatti, la vita non può darsi che per detriti, per occasioni» (L. Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte. La poesia ‘inattuale’ di Alessandro Parronchi cit., p. 176). 94 Rispettivamente vv. 2, 19 e 21. 95 È noto come nelle Rime si trovi la spiegazione anche del non-finito scultoreo (il riferimen- to è in special modo a Se ’l mie rozzo martello i duri sassi). 96 Un gesto, una figura, v. 19. La clavicembalista Margherita Dalmati (1969, foto di Takhe Aamπpoπaoε) RILKE, PARRONCHI E LA POETICA DELL’IMMAGINE

Barbara Di Noi

Nel rispondere al questionario di Bevilacqua, Parronchi non fece mistero della propria predilezione per il Praghese, i cui versi aveva conosciuto dapprima nel- la traduzione di Leone Traverso, poi in quella di Giaime Pintor. Così Parronchi rispondeva all’inchiesta circa l’incidenza di Rilke sul suo percorso poetico:

Rilke era per me un correttivo del D’Annunzio del Poema paradisiaco, una spe- cie di D’Annunzio introverso e frammentato. Ma mentre D’Annunzio era solo Abruzzo-Italia e una certa Francia, Rilke era Europa nel senso migliore e più vasto, un’Europa come era possibile sognare prima delle due guerre mondiali, senza confini di nazioni1.

Questo Rilke in funzione antidannunziana2 potrebbe apparire una stranez- za, se non si coglie a pieno il profilarsi, all’interno dello stesso alveo simboli- sta-decadente del fine secolo mitteleuropeo, di una problematica messa in cri- si del modello estetizzante che D’Annunzio aveva per certi versi rappresentato. Esiste cioè un decadentismo che, sulla scorta di Nietzsche, cerca con le proprie forze di combattere la décadence, l’estenuazione, e che oppone una risposta eti- ca alla vita sub specie aesthetica, ovvero che rifiuta un rapporto col mondo e con le cose del mondo che sia di mera contemplazione. Il che potrebbe apparire in contraddizione con la visualità, che emerge fin dall’inizio come tratto distinti- vo della poesia di Alessandro Parronchi. Fin dai Giorni sensibili Parronchi si rivela infatti poeta visivo, dove per visi- vo potremmo intendere ciò che Contini aveva detto a proposito di Campana: «Si dice: un visivo, e s’intende qui un temperamento così esclusivo da assorbi- re e fondere in quella categoria d’impressione ogni altra»3. Visualità da inten-

1 Citato da Giuseppe Bevilacqua, Rilke. Un’inchiesta storica. Testimonianze da Anceschi a Zanzotto, Roma, Bulzoni, 2006, p. 79. 2 Sull’antidannunzianesimo di Parronchi si veda anche Luigi Baldacci, Parronchi poeta, in Per Alessandro Parronchi. Atti della giornata di studio. Firenze – 10 febbraio 1995, a cura di Isabella Bigazzi e Giovanni Falaschi, Roma, Bulzoni, 1998, p. 19. 3 Gianfranco Contini, Due poeti degli anni vociani. II. Dino Campana, in «Letteratura», I, ottobre 1937, 4, pp. 106-110.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 504 Barbara Di Noi dersi non certo alla stregua di registrazione passiva del mero dato di fatto, ma come trasposizione di ogni altro tipo di esperienza in termini di immagine, di visione; ovvero rilkianamente quale trasmutazione dell’invisibile in visibile, tramite l’apporto irrinunciabile della memoria. Del resto, lo stesso Parronchi avrebbe scritto:

L’artista per cui il reale è la fonte più ricca di emozioni poetiche non perderà mai il potere di sviluppare la visione molto al di là dei suoi punti di partenza realistici; e non insistendo sulla capacità espressiva dei segni e dei colori, ma richiamando questi mezzi al momento di emozione e di stupore originale, ch’è l’unico capace di trasformarli e di renderli evocativi4.

Una fra le tante analogie che è possibile riscontrare tra Rilke e Parronchi, riguarda la funzione propulsiva, di vera e propria spinta incoativa di cui si fa carico la prosa rispetto allo schiudersi della lirica. Nella prosa Al di qua d’una sera, che inagura la prima raccolta I giorni sensibili, vi è una distanza in cui, come nota Ramat5, spazio e tempo collimano, ben esemplificata da ciò che il critico chiama la «lunarizzazione» dell’elemento femminile. Questa distanza è una costante anche in Rilke, e anche in lui soprattutto in rapporto con la don- na. Per la concezione rilkiana della temporalità, e soprattutto per le implica- zioni tra tempo e immagine, è importante una composizione poetica scritta a Parigi nel 1913-14, dal titolo Du im voraus verlorene Geliebte (Tu amata per- duta in anticipo), dove le due negazioni del non ancora e del non più si salda- no in un’unica assenza, che sommerge il breve attimo della felicità che nem- meno giunge ad attualizzarsi. Così l’amata vibra in un non spazio tra il non ancora e il non più:

O perduta anzi tempo Amata, che mai non venisti, io non so quali toni tu ami, Né ormai più, mentre ondeggia l’evento, io tento di riconoscerti. Tutte le grandi imagini in me, paesaggi scoperti lontano, torri ponti città […]

Ah, i giardini tu sei […] Un’aperta finestra nella campagna6.

4 Alessandro Parronchi, Punti, in «Il mondo», 15 settembre 1945 (poi in Pregiudizi e libertà dell’arte moderna, Firenze, Le Monnier, 1964, p. 58). 5 Silvio Ramat, Parronchi e i «Giorni Sensibili», in Per Alessandro Parronchi cit., p. 42. 6 Rainer Maria Rilke, Poesie e prose, a cura di Laura Terreni, trad. di Leone Traverso, Firenze, Le Lettere, 1992, pp. 213-215. RILKE, PARRONCHI E LA POETICA DELL’IMMAGINE 505

Tanto in Rilke che in Parronchi l’immagine si fa luogo privilegiato del supe- ramento del tempo e della storia, avvertita da entrambi come forza distruttiva, nemica della bellezza e ostile alla stessa visualità. In Parronchi si trova un rifiu- to della storia «evasa nella direzione religiosa della metastoria»7. Ne derivava ne- cessariamente l’avvicinamento tra le due arti sorelle, tanto più naturale nel po- eta che aveva scelto la professione di storico dell’arte. Esemplare per questa ten- denza della poesia alla ekphrasis, ma anche all’inverso dell’immagine a svolger- si nel tempo, sebbene in un tempo altro, la composizione ispirata al Giorgione del 1977, Imitazione della «Tempesta»:

Rosso e bianco, e dietro tutto il verde. Rosso e bianco, quel rosso e quel bianco che respirano nel verde – qualche casa diroccata nel fondo e il volto in ombra di un giovane […]8.

Ove l’immagine è assunta a misura ideale dell’umano, quasi ad argine con- tro l’irrompere della tragedia e del tempo, non diversamente dal «fin qui noi sia- mo» decretato da Rilke, nella Seconda Elegia Duinese, al cospetto della stele fu- neraria romana9. E infatti anche nell’Imitazione il poeta si arresta come dinan- zi a un interdetto, intimando al giovane che si avvicina alla scena, di non an- dare oltre. Il verde che avvolge la scena come un’atmosfera morbida e materna, è in un certo senso l’antitesi dell’azione e della distruzione operata dal tempo storico. In Parronchi questo verde torna costantemente, tanto nella prosa che nelle poesie dei Giorni, come cifra cromatica dell’infanzia. Così si veda «la ver- de medaglia dell’infanzia»10; ma soprattutto la prosa è percorsa dall’antitesi tra elemento secco/arido/corroso, e fluidità, che si manifesta come ombra, verdeg- gare, acqua: «[…] e le terrecotte che invecchiano, nell’atto di porgere all’aria le carni porose richiamano l’ombra; […]»11; «Già prima del tramonto sul terreno cadono spoglie di lana molliccia, e intorno i boschi rinfrancano la loro vecchia- ia corrosa. I sempreverdi perdono i rami più sterili; […] muri traforati e deser- ti […]»12. Ma sempre ricorre il motivo della distanza e dell’assenza, come pure quello del confine. Gli elementi naturali si dispongono in scrittura psichica, in

7 Giorgio Cusatelli, in G. Bevilacqua, Rilke un’inchiesta storica cit., p. 95. 8 A. Parronchi, Prime ed ultime, Padova, Pandolfi, 1981, p. 45. 9 R. M. Rilke, Poesie e prose cit., p. 93: «[…] il nostro dominio qui giunge. Così ci dobbiamo toccare; più forte/ pontano su noi gli dèi. Ma cosa questa è degli dèi». 10 Al di qua d’una sera, ora in A. Parronchi, Ut pictura poesis, Filenze, Polistampa, 1997, p. 9. 11 Ibidem. 12 Ivi, p. 10. 506 Barbara Di Noi geroglifici e cifre di una vita interore, la cui grammatica procede per antitesi, mentre le parole, i segni linguistici appaiono incerti e insufficienti13. Il confine è anche quello della coscienza, che anela a saltare oltre la propria ombra per ri- congiungersi a qualcosa che la precede, a fondersi con un’oltranza, con una di- mensione letteralmente infans. Ecco di nuovo il motivo dell’eterno riprincipia- re, dell’inversione del senso, che permette di tornare ancora e ancora a control- lare se quel ritorno sia possibile. E in questo compito di ricognizione si potreb- be vedere il senso delle prose iniziali, successivamente scorporate dalle raccolte poetiche e pubblicate solo nel 1990 nella silloge Ut pictura poesis. Per Rilke, la prosa anomala del Malte, che non racconta alcunché ma procede tessendo una trama di immagini sostanzialmente sciolte dalla progressione sintagmatica della diegesi tradizionale, svolse un compito di autochiarificazione. E si può dire che questo non romanzo, scritto in forma di diario fittizio, privo peraltro di preci- se indicazioni temporali, sia stato la fucina nella quale Rilke distillò la poetica delle Elegie e dei Sonetti. Il rovello gnoseologico si manifesta nel primo Parronchi in un insistito uso simbolico del chiaroscuro, che già in alcune poesie e prose dei Giorni sen- sibili attinge pittorica intensità14; ciò è paragonabile a quella che si presenta nel Malte quale composizione per superficie, che avanza sovvertendo la linearità del sintagma, e procedendo lungo tutte le dimensioni spaziali, creando l’illusione del Bild, sotto forma di specchio, ritratto o ancora dell’arazzo15. D’altra parte un’attenzione alla superficie, che sempre sottintende una profondità, talora na- scosta, talora visibile «per postilla», si ricava anche dai contributi del Parronchi storico dell’arte. Così si legge ad esempio nel saggio Le misure dell’occhio secondo il Ghiberti: «L’epidermico, orafo più che scultore, Ghiberti, denuncia l’insuffi- cienza della vista di cui è pure traccia nei trattati di perspectiva»16. La questione della superficie, in cui nel Malte rientra l’isotopia della pagina scritta, ma anche dei volti nella folla avvertiti come maschere, al di sotto delle quali cova il non volto, o ancora del muro diroccato, della Innenseite della casa «che non c’è più», è strettamente collegata all’altra grande tematica del tempo divoratore, completamente sganciato dalla trascendenza e percepito come mo- struosa successione di attimi fungibili, gouffre, Abgrund, che inghiotte e che di-

13 «Fiumi, rami, nessuno meglio di voi seppe segnare il confine di un desiderio vagante, e molti cuori addolorate, e molte parole indecise, in verdi andirivieni risolvevate portandoci a ricordare l’ignoto […]» (ivi, p. 14). 14 Il motivo notturno del rapido trascorrere della luna, dei giochi d’ombre è presente in quasi tutte le composizioni dei Giorni sensibili. Si veda Eclisse: «vedi imbrunire, e a te risale bianca/ l’apparenza dei giorni, dal fiorito/terrazzo: appena il margine/dell’ombre orna la falce inanimata, […]» (A. Parronchi, Le Poesie, a cura di Enrico Ghidetti, Firenze, Polistampa, 2000, p. 5). 15 Esemplare in questo senso appare la lunga ekphrasis dedicata alla descrizione della «Dame à la licorne», che fa da cesura tra la prima e la seconda parte delle Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge. 16 A. Parronchi, Studi su la dolce prospettiva, Milano, Martello, 1964, p. 324. RILKE, PARRONCHI E LA POETICA DELL’IMMAGINE 507 vora. L’alter ego di Rilke – nonostante l’autore si sia sforzato di allontanare il riflesso di biografismo che gravava su questo suo pesante libro – è sospeso in un tempo mediano, Zwischenland e Zwischenzeit tra il non più e il non anco- ra. Attende come una liberazione, ma anche come tremendum, il tempo in cui «verrà» scritto, il tempo della «nuova interpretazione», in cui la sua mano scri- verà parole che lui non intende, che non vuole dire. Si veda ancora come il mo- tivo dell’ombra attenga, nel Malte, all’intersezione tra il tempo psicologico del personaggio, e un tempo ontologicamente altro, non misurabile e assoluto, im- plicitamente distruttivo e avvertito dal protagonista come minaccia. La concre- zione visiva di tale intersezione è data dal motivo dell’ombra. Così il vendito- re di giornali cieco è paragonato a una lancetta, o meglio all’ombra di una lan- cetta, mentre procede a tentoni lungo l’inferriata del Jardin de Luxembourg17. Per Parronchi una condizione di attesa, analoga a quella indagata dal Luzi del secondo dopoguerra, derivava da ciò che Manigrasso giustamente definisce «dissoluzione di ogni cornice epistemologica capace di coordinare in un unico universo di senso la plurale fenomenologia del reale, e […] di stabilire e orien- tare la posizione che il soggetto occupa nel mondo»18. Quello che nella poesia successiva, e in particolare nella raccolta Coraggio di vivere, assumerà i toni di denuncia dell’assurdità e del vuoto dell’esistenza, si fa strada nella prima produ- zione come perplessa e sempre delusa ricerca di una verità sfuggente e misterio- sa, forse sepolta nel verde paradiso perduto dell’infanzia. Anche in Rilke il co- lore è segno, più ancora che simbolo, elemento minimale di un linguaggio al- tro, che cerca di svincolarsi dai limiti e dalle regole imposti dal linguaggio del- la comunicazione. Nei Briefe über Cézanne (1907), Rilke aveva insistito infat- ti sulla carica emotiva ed autoreferenziale del colore puro, definendo la pittura come dialogo muto, assorto, che si svolge appunto tra i colori. Già nel Malte il criterio compositivo del Bild si affermava sotto l’egida della stirpe materna, cui appartiene anche il conte Brahe, l’alchimista che concepisce il narrare come un «far vedere», un rendere visibile l’invisibile, e ai cui occhi il tempo non ha alcun valore, come pure perdono di significato le distinzioni tra vivi e morti. E sem- pre questo conte va avanti e indietro per la stanza, narrando le sue memorie, proprio indossando una veste da camera di seta verde Nilo19. A fronte di tali coincidenze – cui andrà aggiunto, sulla scia dell’esisten- zialismo, l’ennesimo revival kierkegaardiano – non sarà forse fuori luogo par-

17 R. M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di Furio Jesi, Milano, Garzanti, 1982, pp. 166-168. Sull’episodio si veda l’articolo di Rainer Warning, Der Zeitungsverkäufer am Luxembourg, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissenschaft und Geistesgeschichte», 76 (2002), pp. 261-270. 18 Leonardo Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte». La poesia “inattuale“ di Alessandro Parronchi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011, p. 72. 19 Verde è, sempre nel Malte, il nastro che appare inaspettatamente sul cappello primaverile del venditore di giornali cieco, e che appare al protagonista come prova inoppugnabile dell’esi- stenza di Dio. 508 Barbara Di Noi lare di un cortocircuito kulturgeschichtlich, che mette in serie la crisi già consu- matasi nella Jahrhundertwende mitteleuropea, all’ombra dell’empiriocriticismo, di Ernst Mach e di Wittgenstein, con quella per certi versi affine, che investe la poesia e la sensibilità della generazione italiana del secondo dopoguerra. Va pur detto che l’aspetto della poetica rilkiana che maggiormente si avvicina a quella di Parronchi, non coincide in toto con il Rilke che gli Ermetici si erano ritaglia- ti, quello dei Sonetti, della trasmutazione orfica del visibile. Non è tanto l’idea che le cose vogliono essere dette da noi, per riconoscersi nella loro vera essenza, ad attecchire più in profondità in Parronchi, quanto piuttosto la constatazione, certo da un’ottica marcatamente cristiana, del nostro essere superflui alle cose, l’idea – già presente in Rilke nelle lettere su Cézanne – che esse abbiano nostal- gia di non essere guardate, di potersi sottrarre alla soffocante ragnatela delle no- stre categorie percettive e gnoseologiche, per entrare in quello che Rilke mede- simo chiamerà il «reiner Bezug». Si vedano inoltre i versi conclusivi del com- ponimento L’assenza, che stabiliscono un legame supplementare con Rilke per quanto riguarda il grande tema dell’infanzia:

Ignaro dei rapporti che tra loro Legano gli uomini ma anche li dividono, pago soltanto delle luminose apparenze…20

Dunque Parronchi è più vicino per così dire a un Rilke statu nascendi, che non a quello dello «Sprich und bekenne» dei Sonetti. Potremmo dire che rispet- to a Rilke ha dell’orfismo accezione più ampia, tale da trascendere la poesia me- desima, ma che riscatta la sostanzialità ontologica della res dalle astrazioni e dal- le presunzioni della ratio. Cosicché la parola poetica, se vuole essere all’altezza di quel vero, che Parronchi nel suo platonismo21 cristiano ha sempre persegui- to, deve farsi chiara e luminosa, spogliarsi di aloni e ombre simboliche. Pur nel- le diverse evoluzioni della sua poetica, egli rimane sempre sostanzialmente fe- dele a un ideale di verità come aletheia, che lo porta di conseguenza a diffida- re, come scrive Fanfani, «sia delle banalizzazioni che degli sperimentalismi»22, e lo indurrà infine a prendere le distanze persino dall’Ermetismo degli esordi:

E tu, parola, se vuoi dire, appari libera dall’equivoco die simboli23.

20 Dalla raccolta Il paesaggio dipinto (1955-1960), in A. Parronchi, Le poesie cit., p. 274. 21 S. Ramat, Parronchi e i «Giorni sensibili» cit., p. 40. 22 Massimo Fanfani, Sul linguaggio poetico di Parronchi, in Per Alessandro Parronchi cit., p. 64. 23 L’apparenza non inganna, in Pietà dell’atmosfera (1960-70), in A. Parronchi, Le poesie cit., p. 306. RILKE, PARRONCHI E LA POETICA DELL’IMMAGINE 509

Per quanto riguarda i rispettivi orizzonti di riferimento, non si può fare a meno di notare in entrambi i poeti un atteggiamento fortemente sincretico24. Già per ampiezza di ascendenze culturali, Parronchi si stacca nettamente dall’er- metismo di stretta osservanza, che era stato estremamente selettivo nello sce- gliersi i predecessori. In lui manca in particolare quella «rimozione» del primo Montale, che caratterizzava tanti suoi contemporanei25. Ora proprio il riferimen- to agli Ossi di seppia, lettura fondamentale risalente già al 1933, appare impor- tante per quella che Parronchi stesso ebbe modo di definire «scoperta sensuale del mondo […] Godevo di ritrovarmi vicina questa sensibilità di uomo smarri- to […] Da questo punto soltanto si poteva toccare il fondo di una angoscia che valesse pei moderni come un bagno di purificazone interiore»26.

* * *

Il dualismo tra il destino individuale e la coscienza, che sdoppia l’io da se stesso, Rilke tenterà di risolverlo, prima ancora che nella figurazione dell’An- gelo27, tramite una complessa concezione spazializzante che immagina l’opera alla stregua di arazzo o tappeto, distinguendone una trama e un ordito, ovvero una superficie e un rovescio. Ma questa stessa distinzione tra due superfici con- sustanziali, era poi implicita fin dagli esordi e fin dal Malte, nella rappresenta- zione di ciò che Rilke chiama volto: Gesicht come specchio rivolto all’esterno, e che guarda fuori di sé e in cui immagini senza sosta si rispecchiano, e visione introiettata, rivolta a un’interiorità straniata, buia e profonda come un abisso, in cui le immagini vanno a finire e subiscono una metamorfosi28. In Parronchi, e i già citati studi Su la dolce prospettiva, anzi sulla perspectiva lo rivelano, vi è un’analoga conspevolezza di come l’immagine si crei dall’interno, in conformi- tà con le leggi intrinseche all’occhio, o meglio, ai due occhi29. Per il titolo della seconda raccolta di Parronchi, I visi, Giovanna Ioli ipotizza che «visi» sia da in- tendersi nell’accezione dantesca di «occhi»30. Così in entrambi i poeti il motivo

24 Della poesia di Parronchi, Fanfani evidenzia «l’ampio e variegato orizzonte di riferimenti classici e moderni che fa da sponda» (M. Fanfani, Il linguaggio poetico di Parronchi cit., p. 68). 25 Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1975, p. 132: «[…] la scrittura del primo ermetismo si sviluppa del tutto al di fuori della lezione degli Ossi di seppia». 26 A. Parronchi, Vecchia lettura di Montale, in «Fiera letteraria», 12 luglio 1952, p. 5. 27 Mario Specchio, Introduzione a R.M. Rilke, Poesie alla Notte, Firenze, Passigli, 1999, p. 17. 28 Il passo canonico di tale concezione si trova in una delle pagine iniziali del Malte: «Imparo a vedere. Non so perchè tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada» (R. M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge cit., pp. 2-3). 29 In ossequio alla visione bioculare discendente da Vitellione e Alhazen, e fatta propria da Ghiberti e Paolo Uccello (A. Parronchi, Le fonti di Paolo Uccello, in Studi su la dolce prospettiva cit., p. 485). 30 Giovanna Ioli, Il «vivo lume» della prospettiva nella poesia di Alessandro Parronchi, in «Cua- dernos de Filologia Italiana», 9 (2002), [pp. 151-164], qui p. 153. 510 Barbara Di Noi del volto si fa cifra concretissima di una concezione ontologica fondamental- mente monista, che assimila la dimensione umana agli elementi naturali e che, inversamente, attribuisce un volto al paesaggio31. E del volto fa il tramite per il superamento della barra tra soggetto e oggetto. Un’ulteriore analogia ci consente di tornare in maniera meno elusiva al tema dell’ immagine come rappresentazione iconico-figurale cui tende il segno poetico; ci riferiamo al modo in cui entrambi affrontano e interpretano – certo l’uno, Parronchi, con un elevato grado di professionalità, l’altro da dilettante ma con intuizioni geniali – gli artisti figurativi. Il confronto più immediato è tra le lettere rilkiane su Cézanne, e gli studi che Parronchi dedica a Rosai. Entrambi giungono a un livello di penetrazione empatica dell’artista, tanto che si potreb- be dire traccino una doppia poetica, quella del pittore e la loro. Nell’articolo de- dicato agli esordi di Rosai, uscito su «Paragone» nel 195232, Parronchi ha cura di sgombrare la strada da quello che giudica l’equivoco di un Rosai futurista. In realtà Rosai fu dell’avanguardia compagno di strada solo occasionale, nella mi- sura in cui questa gli serviva a spazzar via «ogni sistema». Ma vi è una notazio- ne di carattere generale, che suona quasi come una riflessione del poeta sui suoi stessi esordi: «La storia prima di ogni vero artista non è mai facile a ricostruire: gli arrivano influssi, colpi e contraccolpi, di punta e di taglio»33. Anche nelle prose poetiche di Parronchi il principio si capovolge nella fine, delineando una concezione del tempo ciclica, che concorre al senso di ipnotica e assorta immobilità che pervade Al di qua d’una sera ma anche, sebbene in mi- sura minore e su un’altra tonalità, forse più cupa, Agonia delle mura:

Ricominciando dalla sera e dalle sue luci tremende, posso dimenticarmi se an- cora mi aspettano decisioni tangibili […] Non trovo l’origine e il succo dei miei sguardi […] Sempre prima mi sono accorto che tutto s’era compiuto, e tutto sarebbe ricominciato sempre dopo di me. Ora delle cose diverse di cui pure ero stato partecipe, di quelle che avevo amato, come mai alcune avrebbero resistito, dopo essere state deluse e traviate dal tempo?34

In Agonia delle mura il finale capovolge le tetre immagini di morte succedu- tesi fin lì, e con un gesto molto rilkiano la città si ribalta come una rosa, men- tre la morte è preludio a nuovo principio35; può darsi che in tale insistito richia-

31 A ragione Ghidetti parla di una concezione animistica della natura a proposito della prima raccolta poetica parronchiana (Enrico Ghidetti, Appunti per un ritratto, in A. Parronchi, Le poesie cit., p. XXI). 32 A. Parronchi, Preistoria di Rosai (1911-1919), in «Paragone», 25 (1952), pp. 31-40. 33 Ivi, p. 32. 34 Al di qua d’una sera, in A. Parronchi, Ut pictura poesis, Firenze, Polistampa, 1995, p. 13. 35 «La città può allora capovolgersi come una rosa e tornare tranquilla; ascolta le querci che bevono la luna: si spenge come un vetro; e il canto dei grilli è remoto. Così muore senza spasimo […] essa si spogliò così del suo sangue, fino a lasciare le sue vie, le sue vene, atteggiate per secoli e inaridite» (Agonia delle mura, in A. Parronchi, Ut Pictura cit., p. 18). RILKE, PARRONCHI E LA POETICA DELL’IMMAGINE 511 mo all’impietrimento e all’antitesi tra fluire della vita e forma calcificata, quasi fossilizzata della città percorsa da strade/arterie, agiscano echi della Città mor- ta dannunziana. Si veda una delle pagine del Malte, in cui il protagonista rievoca l’esperien- za infantile del primo imbattersi nella lettura, letteralmente rappresentato come un «cadere nella lettura»:

Da milioni di piccoli, non reprimibili gesti si compone il mosaico dell’esistenza più persuasa; le cose vibrano trapassando le une nelle altre e fuori nell’aria, e la loro freschezza fa chiare le ombre e dà al sole una luce leggera, spirituale. Allora nel giardino non vi è più cosa che sia di per sè l’essenziale; tutto è ovunque, e si dovrebbe essere in tutto e non lasciarsi sfuggire nulla36.

È a ben guardare la stessa esperienza di integrazione dei singoli elementi nel tutto, vissuta al cospetto dei quadri di Cézanne in cui ogni luogo (Stelle37), sa- peva del Ganzes e i colori parlavano tra loro, sciolti da ogni funzione referenzia- le e divenuti lettere di una lingua assoluta e ignota. La sfera obiettiva, che presenta in Parronchi innegabili connotazioni metafi- siche e che è riassunta in Rilke nel mitologema del Weltinnenraum, rappresenta lo sfondo, quasi il contenitore entro il quale l’immagine si staglia nella sua con- cretezza visibile. Colta non già in isolata irrelatezza, ma immersa in uno spazio, in un tutto, dal quale la fanno emergere per un attimo l’intensificarsi dell’atten- zione e l’intenzionalità dello sguardo. Spazio in cui, tanto in Parronchi che in Rilke, la stessa soggettività percipiente mira ad essere ricompresa. Basti ricorda- re il concetto rilkiano di das Offene, tratteggiato nella VIII Elegia, che potrebbe essere sottoscritto anche da Parronchi. Entrambi voltano le spalle alla presun- zione positivista e prima ancora rinascimentale, di un uomo misura di tutte le cose. A questo antropocentrismo entrambi oppongono una prospettiva, anzi, una «perspettiva» diversa, che in Rilke trova i suoi presupposti filosofici ed este- tici nel pensiero monista che percorre come un fiume carsico la cultura tedesca durante tutta la seconda metà dell’Ottocento. Tanto in Rilke che in Parronchi l’immagine non preesiste all’attenzione che la crea, o meglio che la delimita con un contorno più o meno netto. La correlazione tra sguardo e immagine ha fatto parlare così, a proposito dei rilkiani Neue Gedichte, di Phänomenologie des Schauens sulla scorta di Husserl. Per Parronchi il discorso è

36 R. M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge cit., p. 161. 37 R. M. Rilke, Kommentierte Ausgabe in vier Bänden, hrg. v. Manfred Engel, Ulrich Fülle- born, Frankfurt/M, Insel, 1996, p. 630: «Es ist, als wüßte jede Stelle von allen». Sulla tematica dello sguardo e i rapporti tra il Malte e le lettere su Cézanne si rinvia all’articolo di Steffen Arndal, «Ohne alle Kenntnis von Perspektive»? Zur Raumperzeption in Rainer Maria Rilkes Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge, in «Deutsche Vierteljahrsschrift für Literaturwissen- schaft und Gestesgeschichte», 76 (2002), pp. 105-137, il quale a proposito della propedeutica dello sguardo del protagonista, parla di «binokularem Sehen» (p. 122). 512 Barbara Di Noi ben più complesso, e poggia su basi scientifiche; ovvero su quella concezione pro- spettica che, recuperata dal patrimonio medievale e prebrunelleschiano, ricollega- va la scienza prospettica alle leggi ottiche, leggi della visione interna decretate dalla stessa fisiologia e funzionamento dell’occhio. Il recupero di una concezione non an- cora esclusivamente scientifica o geometrica della perspectiva, ma patrimonio uma- nistico di artisti e di poeti come Dante38. In questa sua originaria e più ampia acce- zione, «il meccanismo della visione viene esaminato in connessione fisiologica con la struttura dell’occhio»39; vi rientra tutto ciò che s’interpone sia tra il soggetto del- la visione e l’oggetto, che tra l’interiorità di chi guarda e lo schermo ideale su cui, come in uno specchio, viene proiettata l’immagine. Vi rientrano anche le illusioni ottiche, le manifestazioni fantasmatiche e fantastiche, come dimostra la pittura di Paolo Uccello, nel quale Parronchi ritrova «l’idea dell’abolizione della linea di con- torno» in quella che egli chiama «luce pittorica», ovvero nella «luce che plasma la forma»40. È soprattutto nei due studi dedicati a Paolo Uccello, contenuti entrambi nella Dolce prospettiva, che Parronchi dispiega una concezione insieme complessa e istintiva della visione, come processo interno non solo all’occhio, ma anche e an- cor più all’immaginazione del pittore/poeta, intesa come facoltà di proiettare all’e- sterno i phantasmata di uno schermo interiore. Non a caso i due studi sono poi se- guiti da un saggio anch’esso molto importante e approfondito, dedicato all’imma- terialismo di Berkeley, e in particolare a un saggio che il filosofo e teologo inglese pubblicò nel 1709, dedicato anch’esso a una concezione soggettiva e interiorizzata della visione41. Il primo scritto su Paolo Uccello, Le fonti di Paolo Uccello, risale al 1947, ed intende correggere il giudizio riduttivo dato da Vasari del grande pittore quattrocentesco. Giudizio teso certo a valorizzare la linea vincente dell’interpreta- zione della prospettiva more geometrico di Brunelleschi, la linea Donato-Masaccio, rispetto all’altra Ghiberti-Uccello. Parronchi distingue tra la costruzione dei singoli oggetti, e quanto ha invece a che fare col generale impianto compositivo dell’ope- ra. A proposito dei corpi in movimento, Parronchi nota che sembrano collocati in una specie di contatto cosmico con lo spazio, e che vengono esaltati «fino al grado di essenze geometriche assolute»42. Questa concezione deriva a Uccello da una fon- te ben precisa, che Parronchi individua nel Codice Huyghens, edito guarda caso da Panofsky (Londra 1940), l’autore della Prospettiva come forma simbolica e, soprat- tutto, allievo di un altro grande indagatore delle fonti letterarie della pittura fioren- tina del Quattrocento, Aby Warburg. Ma ancora più interessante, anche dal punto di vista della congruenza con la concezione rilkiana di spazio, Figur e visione, mi sembra quello che Parronchi scopre in merito alla composizione complessiva dei di- pinti di Paolo Uccello. Ovvero che il pittore parte non certo dall’osservazione del-

38 A. Parronchi, La perspettiva dantesca, in Su la dolce prospettiva cit., pp. 3-90. 39 Ivi, p. 51. 40 Una Nunziatina di Paolo Uccello, ivi, p. 207. 41 Il muro di Berkeley e la siepe di Leopardi, in Studi su la dolce prospettiva cit., pp. 549-580. 42 Le fonti di Paolo Uccello, in Studi su la dolce prospettiva cit., p. 475. RILKE, PARRONCHI E LA POETICA DELL’IMMAGINE 513 la realtà esteriore, ma iscrivendo le figure entro schemi precisi, che potremmo de- finire idee o astrazioni geometriche. Ora tra gli schemi usati da Paolo per circoscri- vere o inscrivere le sue figure, il cerchio e la sfera ricorrono con maggior frequenza. Le sue composizioni, nota Parronchi «hanno costantemente come elemento costi- tutivo il cerchio»43. Il cerchio definisce il percorso del Figliol Prodigo nel Malte, e ancora ciclo e ciclicità sono una vera e propria ossessione della poesia rilkiana, che oppone la Vollzähligkeit al tempo frantumato della dimensione empirica, del «Tun ohne Bild» della modernità. L’immagine del cerchio ricorre costantemente anche nella produzione del tardo Rilke, a simboleggiare una dimensione onnicomprensi- va; il cerchio diviene addirittura il simbolo della personale esperienza di unità con- quistata dal poeta nella sua fase più matura. Talvolta quest’unità è invece un postu- lato, un’ipotesi verso la quale l’intelletto tende. In un frammento del maggio 1919 il cerchio sembra piuttosto rinviare a un’idea consolatoria di unità, che però viene contraddetta dall’esperienza tangibile:

Wir schließen uns an das, was uns nicht weiß An Bäume, die verzweigt uns übersteigen, an jedes Abseitssein, an jedes Schweigen; doch dadurch gerade schließen wir den Kreis der über alles, was uns nicht gehört, zu uns zurück, ein immer Heiles, mündet. O dass ihr Dinge bei den Sternen stündet. Wir leben hin. Wir haben nichts gestört44.

Vi è un passo verso la fine delleFonti di Paolo Uccello, che si riallaccia diretta- mente alla mirabile poesia che Parronchi dedicò al pittore, e che ha il merito di indicare un’ulteriore, per quanto sottile e sfuggente analogia con Rilke e con la temperie culturale che fa capo a Nietzsche, Ernst Mach, fino ad arrivare a Franz Brentano: il rifiuto di un naturalismo antropomorfico, in quanto indebita ridu- zione della poliprospettica varietà del cosmo, miope incapacità di intuire che vi è un segreto che sfugge costantemente alle deboli Voraussetzungen delle nostre ingannevoli percezioni, ma anche alla pretesa altrettanto miope dell’intelletto umano, di voler tutto ingabbiare nella sua fragilissima ragnatela:

Nella inespressività di Paolo c’è invece qualcosa come un candore, una luce di sublime ingenuità e impartecipazione al transeunte, quasi uno stordimento e

43 Ivi, p. 480. 44 R. M. Rilke, Sämtliche Werke, im Auftrag des Rilke-Archivs in Verbindung mit Ruth Sieber-Rilke, Wiesbaden und Frankurt, Insel, 1955-1966, II, 452 [Ci aggiungiamo a ciò, che non ci conosce / Ad alberi, che ramificati ci sopravanzano, / Ad ogni esclusione, ad ogni silenzio; / Eppure proprio in tal modo chiudiamo il cerchio / Che passando per tutto ciò che non ci ap- partiene / A noi ritorna e in noi, sempre integro, sbocca / Oh, se voi cose poteste stare presso le stelle / Proseguiamo a vivere. Non abbiamo turbato nulla] [trad. nostra]. 514 Barbara Di Noi

intorpidimento nell’assoluto della contemplazione. E rimane nel senso di questa variazione indicato il passaggio dalla tormentosa mezzanotte di Paolo Uccello alla assoluta e meridiana calma di Piero della Francesca […]45.

Dunque in questa concezione, insieme inattuale e più moderna rispetto all’i- dea, che sarebbe risultata vincente, di prospettiva scientifica oggettiva, elemen- to soggettivo e oggetto si controbilanciano, e la risultante immagine /schermo è un’interfaccia tra interno ed esterno. In cui anzi interno ed esterno si compe- netrano come riflettendosi l’uno nell’altro, separati da un sottile diaframma di vetro. Si veda la lunga poesia La mezzanotte di Paolo Uccello, dalla raccolta Pietà dell’atmosfera, che ben esemplifica la stretta interdipendenza tra studi critici e creazione poetica in Parronchi. Gà l’incipit è all’insegna dei valori chiaroscurali di cui si è detto. Subito, in un’atmosfera di assorto silenzio, compare il motivo di un duplice rispecchiamento, della luna nell’argento delle nubi, e del volto del pittore, riflesso nell’argento delle corazze. Lo specchio sferico è qui introdotto quale emblema quintessenziale dell’arte, intesa quale spazio «ausgespart», salva- to nell’eterno presente atemporale, che corrisponde allo Augenblick della visione estetica. Bruscamente la prima strofa si chiude sulla menzione di un altro tem- po, la contempraneità del poeta («Sulla mia notte altra lampada/vacilla, arde, si smoccola»46). La dimensione eterea e trasparente dell’arte, alito vivificante, vi- brazione infinita, compenetra di sé «l’antico scheletro del mondo», e le prima- vere passate vengono resuscitate e attualizzate nell’eterna primavera del cuore47. La terza strofa apporta un moto improvviso e drammatico, all’insegna del me- dievale fantastico, ma anche dell’irrazionale e del misterioso; a una prima par- te tutta all’insegna del visibile si succede ora una trama sinfonica, in cui il tim- bro cupo e soffocato del corno dialoga col silenzio, e lo amplifica; anche la di- mensione spaziale si dilata, la città lascia il posto a una scena boschiva di caccia. Circolarmente, così come si era aperta sulla menzione del riflesso lunare sulla coltre argentea delle nubi, la poesia si chiude su una menzione assai complessa, che riguarda la rifrazione del raggio, che rimbalza verso l’occhio da cui è partito:

Bruceranno le pupille non trovando scampo al raggio saettato dalla lente spaventosa dell’iride […].

È singolare che un grande irregolare del Novecento, Antonin Artaud, ab- bia prescelto come suo alter ego il medesimo Paolo Uccello, al centro di scrit- ti preludio alla drammatizzazione negli anni 1924 e 1926. Nel gioco linguisti-

45 Le fonti di Paolo Uccello cit., p. 530. 46 A. Parronchi, Le poesie cit., p. 292. 47 «[…] un soffio d’altre primavere pare/ alitare nelle fibre trasparenti,/ come un pianto della prima giovinezza che ritrovo/ vibra l’antico scheletro del mondo» (ibidem). RILKE, PARRONCHI E LA POETICA DELL’IMMAGINE 515 co il grande pittore del Quattrocento diventa Paolo degli Uccelli, ove il sostan- tivo che designa la volatilità e l’erranza si fa archetipo di tutti quei morti-viven- ti, pensiamo al Gracchus di Kafka, sottoposti al duplice statuto della dissemina- zione e dell’inchiodamento a un destino individuale. Pur con tutte le ovvie dif- ferenze, Artaud e Parronchi sono attratti verso questo personaggio, che diviene per entrambi riflesso («postilla») della spinta mistica alla composizione dell’U- no48. La rifusione della dualità dell’Uno, induce Arnaud all’esplicito richiamo all’alchimia. E non escluderei che anche in Parronchi il pensiero alchemico pre- sieda alla logica combinatoria die suoi colori cifra. Ma lo spazio riflesso nello specchio sferico di questa genialità gotico-fan- tastica, è già la superficie curva e mossa, che accoglie l’io come la maestosa con- chiglia/maschera del Teatro d’Orange accoglieva nel Malte lo spettatore49. Paolo Uccello, allievo di quel Ghiberti che fu più orafo che scultore, e che sapeva sfon- dare la superficie suggerendo inedite profondità, fa dello spazio sferico il duplica- to del bulbo oculare, suggerendo che attraverso la sfera riflettente si possa guar- dare in uno spazio altro, in un dentro rovesciato all’esterno, reso visibile e pre- sente, quasi fossimo spettatori di un sogno o di un ricordo. E infatti lo spazio in cui è collocata nel Malte la prima rievocazione della stirpe materna, ambienta- to in quell’Urnekloster buio e silenzioso come una tomba o un atanòr alchemi- co50, è uno spazio sferico, visto attaverso il buco della serratura o, appunto, ri- flesso in uno specchio sferico51. Così come nella sua nozione di Weltinnenraum52 la sbarra tra dentro e fuori, la separazione tra creatura e grembo viene superata, in virtù di quel linguaggio misterioso, che Malte – o il suo alter ego, il Figliol Prodigo – deve ancora imparare prima di poter compiere la parabola del ritorno.

48 Umberto Artioli, Teatro e corpo glorioso. Saggio su Antonin Artaud, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 19-24. 49 R. M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge cit., pp. 188-189. 50 F. Jesi, Rilke romanziere: l’alchimista, lo spettro, in Esoterismo e linguaggio mitologico cit., pp. 94-139. Jesi cita tra l’altro come fonte del motivo del liocorno, altro simbolo alchemico, il sonetto di Mallarmé Ses purs ongles très haut dédiant leur onyx. 51 R. M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge cit., pp. 18-19. 52 R. M. Rilke, Poesie cit., p. 528. [Lo spazio che attraversa l’impeto degli uccelli non è / lo spazio familiare che t’esalta la figura / (Là, in quella libertà, a te stesso sei negato/ e non fai che sparire senza ritorno). // Lo spazio estrae da noi e traduce le cose: / perché ti riesca l’esistenza di un albero, / gettagli intorno parte di quell’intimo spazio / che abita in te. Da ogni lato contienilo. / Da sé non si delimita. Solo se gli dà forma / la tua rinunzi ai fa vero albero]. Alessandro Parronchi, Oreste Macrí e Mario Luzi. DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE

Marzio Pieri

a sandro, a nara a memoria di A.

1. Mi diedero una volta un premio letterario; non oso dire ebbi. Avevo sem- pre saputo che per avere un premio si debba almeno avervi prima concorso. Stavano per stringere attorno a me una di molte trappole – ero allora ufficiale comandante di un fortino sperduto sul sentiero degli Asini selvatici – e l’offerta del premio era fatta per servire di copertura. Io lo capî al volo – tutto capivo al volo di quei giochi in cui tanto pompeggiavano – e dissi che accettavo. Siccome fui sempre difficile da smuovere da bomba contavano sul mio «grazie no», ma era tardi per una ritirata. «Guarda che è lontano». Per una volta… «Guarda che scesi dal treno c’è un’ora di automobile». Fu quella volta che incontrai Sandro Parronchi. Per me era un mito. Lui e Bigongiari (e il Montale degli ultimi suoi anni fiorentini, quello d’una metafisica volgarizzata che ancora mi rammenta il suono della carta stagnola nei presepî familiari) compendiavano in me il mas- simo valore della stagione ermetica, nel suo pieno fulgore quando io nacqui, in riva d’Arno, in rione men nobile. Fronteggiava le Cascine, dilà dal fiume (fatto brillare il ponte dalle mine tedesche, nella mia infanzia ci si arrivava scavalcando un ponticello d’emergenza), e dava quasi sùbito sulla campagna. Trascorsi i ritua- li sette chilometri, superavi Badia a Settimo dove dal marzo 1942 (ci avevo due anni) per iniziativa di Piero Bargellini le ossa dell’infelicissimo Dino Campana avevano almeno una tomba, andate a rischio, dieci anni dopo la morte, di fini- re disperse in una fossa comune. Per me Parronchi significava soprattutto un libro, quegli Studî su la dolce pro- spettiva che avevo ammirato nelle vetrine dei libraj (allora c’erano vetrine e li- braj, se anche ora ci voglia una postilla come per il «prete» e per il «fiàcchere») e avidamente sfogliato in biblioteca l’anno precedente a quello della mia laurea. Ci vollero decennî perché potessi donarmene una copia, dal mercato antiqua- rio, per la mia biblioteca personale. Ivi troneggia accanto all’Officina ferrarese di Roberto Longhi e alle Metamorfosi del Barocco di Andreina Griseri. Capolavori di un passato oggi inimmaginabile.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 518 Marzio Pieri

Contrariamente ai voti del poeta, privilegiavo in lui lo storico dell’arte. Mai come nel leggerlo mi sentî così vicino all’empireo terreno del Brunelleschi, alla materia corporea tragica e civile di Donatello, ai lunari anamorfici di Paolo di Dono, precursore quattrocentesco delle poetiche ornitofilìe di Olivier Messiaen.

2. Dunque Parronchi ebbe il premio (ma lui ci aveva fatto, ben meritatamente, l’abitudine) per la storia dell’arte. La mattina dipoi il sindaco del villaggio ci ac- compagnò cerimoniosamente in visita alla torre del municipio, illustrata da copie di affreschi sulla Gerusalemme liberata, forse dovuti alla scuola di Luca Giordano.

Non mi prendete alla lettera, amo svisceratamente la pittura, e come non potrei, nato e cresciuto i miei primi trent’anni a Firenze, ma quanto a compe- tenza, specificamente tecnica, sono meno di un fantaccino. Non so per quale equivoco, ma ne sospetto la ragione (io, timido, in pubblico mi presentavo con DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 519 qualche stella filante; Parronchi, fedele alla propria immagine, murato in signo- rile discrezione e sorridente silenzio) il caloroso sindaco si rivolgeva di continuo a me con domande che meno competono a chi non è che uno scolaro di lette- ratura. Riuscii, dopo qualche imbarazzo, a fargli capire che doveva rivolgersi a Parronchi; che stava indietro, con la dolce moglie, vorrei fosse vero il ricordo, che si tenessero per mano, e brillava di una cosa che in accademia poco si rap- presenta: una infinita, esperta, indulgente bontà.

Venturino, Ritratto di Nara / Mario Marcucci, Ritratto di Sandro.

3. E fummo amici; il vero timido ero io (fosse per me, il telefono di casa tornerebbe un utensile dispensabile) e in più mi tratteneva una angoscia, che non confesso a chi non la indovina. Caduto malato il poeta, mantene- va i contatti fra noi quella straordinaria creatura, e scrittrice di classe sottile, che è Giovanna Ioli. Montaliana, dantista di forte merito, nulla di strano che l’accademia l’abbia sempre lasciata su la soglia. Quando, per qualche errore da me fatto inscientemente, Parronchi pare sfuggirmi, come altri soggetti, in lumi di fantàsima, so di poter ricorrere almeno a lei, o al solido ritratto fissa- to da Enrico Ghidetti in antiporta delle Poesie (Firenze, Polistampa, 2000) e qui è conferma della risposta di un metodo, adibito con sagacia e pertinen- za, e, insieme, del valore di uno studioso che della nostra covata di piazza San Marco, sub Ghalterio o sub Landsfranckio, fu d’acchìto il pulcino maggiore. Dilà da quegli “Appunti per un ritratto”, basta altrimenti rileggere Giovanna: «Fu uno studio inesausto della bellezza e del paesaggio, della scienza della vi- sione e della perspectiva naturale e umana, nutrito di una fedeltà incorruttibi- le e tenace negli affetti, di persone e opere, che la scrittura ha reso inalterabi- li a tempo e tempi». Un Novecento «da lui attraversato per intero con la for- za vibrante della rettitudine». 520 Marzio Pieri

4. Benissimo detto; ma è la stessa Ioli che, postfacendo ad Esilio (Novara, Interlinea, 2003) richiama una dedica del poeta al più intimamente parronchia- no dei post-ermetici, Silvio Ramat, la quale batte sul Semper varietur. Lo ster- minato materiale delle poesie, raccolte e pubblicate o pubblicate e poi espun- te o lasciate dormire nelle cassapanche dei sottotetti di un tempo, è come un mosto in continuo fermento, la vita dei versi non è perché siano ormai al di là del cangiare e dello sfrangiarsi delle cose nel mondo sublunare, ma perché sta in quel mondo sublunare l’unico dono, meraviglioso e funesto, che sia tocca- to ai figli della terra. Guai a quel poeta che sigilla e fa biffare le lastre, sua im- magine è piuttosto l’irrequietudine ansiògena e mitopoietica di Thomas/David Hemmings, fotografo realista e allucinato nel Blow up di Antonioni. Nel 1966, quando esce il film, Parronchi pubblica da ScheiwillerL’apparenza non ingan- na; e sembra un allinearsi, in parte, e peraltro un distaccarsi, dalla tesi del film.

5. Per uscire dal crocianesimo, ai miei giorni candidi, le provaron di tutte; io correvo meno rischî: la musica, la grande assente dalle ragnatele di quel sordo (e non dico Beethoven, ma l’onninamente àmuso Croce) mi bastava a non fidarmene come non fosse bastato il ritmo sonnolento e argomentante delle sue preclusioni. «S’intende che provammo con la musica» (Debenedetti, Probabile autobiografia di una generazione in Saggi critici. Prima serie, Milano, Il Saggiatore, 1969). «Ai faci- norosi polemisti della cultura deve sembrare indifferente e agnostica questa elabo- razione continua e propria del nostro lavoro letterario: se è giusto che essi rimanga- no sempre più soli nel teatro crociano a cercare tutti, caratteristi, generici e suggeri- tori, inutilmente la propria entrata in scena come nuovi personaggi di una comme- dia morta» (Alfonso Gatto, Fine della Commedia, in «Campo di Marte» 1, 1938). DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 521

Ossia quella «elaborazione continua e propria», di cui vivrà per sempre lo spi- rito in Parronchi, pure il meno arrogante, nei toni, e giovanilistico, ed esterior- mente papineggiante, di quello splendido «mucchio selvaggio».

6. Ma ascoltiamo il vero Omero di quegli anni fantastici, il Persiano disce- so da Trieste, Augusto Hermet dalla pelle lunare; testimone il ritratto spettrale fattogli dal maestro ed amico di vita di Parronchi, Ottone Rosai, Ottone, quel- la leggenda fiorentina.

522 Marzio Pieri

Inventore di un modo di critica che par discendere direttamente dal Catalogo delle navi del poeta sovrano, fatta di lasse e di nomi, tanto concreta e intrinseca da parere un mosaico, un arazzo o un wampoon dei pellirosse. «La Ventura delle riviste»… Explicit: «quod est est di bellosguardo, 8 settembre 1940-XVIII». Messo ai margini poi per esser stato, non per trarne patacche o prebende, catto- lico e fascista in pienezza di fede. Nella vicenda ermetica, mi spingerei a distin- guere fra un ermetismo «internazionale», quello degli Ungaretti dei Montale dei Quasimodo dei Grande dei Gatto, e un ermetismo, od hermettismo, di cui il cronista eponimo rubrica e sigilla l’istoria. Gloria Manghetti, che qui al Viessù è regina, ne ritrovò e pubblicò il prezioso Sommario autobiografico per le «Scintille» del Raffaelli (Rimini 1997) ma diciassette anni dopo non risulta che abbia nem- meno cominciato a compiersi il voto della studiosa, allieva dell’indimenticabile Giorgio Luti, un minore Vasari degli ultimi giorni della bella Fiorenza:

La sensazione è che il sotterraneo lavoro culturale svolto da questo ‘singolare esponente dell’intimo rapporto fra pensiero e poesia assoluta’ riesca finalmente a riemergere dall’oblio, ridando voce a chi, spesso guardato con scherno proprio per la sua singolarità, viveva nella consapevolezza che ‘ogni presente […] è odie- vole, giacché è momento che domina assoluto chi si trovi a viverlo, assoluto ed oscuro, ché solo pel futuro e pel trascorso è concessa una luce’.

7. Il «Frontespizio», «Campo di Marte»… Firenze, capitale delle «riviste», «novissima cosa»… dal «Leonardo» a «Lacerba», da «Solaria» a «Letteratura», modi di essere, di scalpitare, di rappresentarsi…

[…] Non Guinizelli, Cavalcanti, Frescobaldi, Cino, Lapo Gianni, erano i nomi dei campomartesi: Gatto, Betocchi, Sinisgalli, Luzi, Penna, Parronchi, e Bigon- giari e Vigorelli, e Ulivi, [Gilberto] Altichieri… si chiamavano questi […] non trentenni ancora ed assai remoti alcuni dal mezzo del cammino della vita, che in un devoto dialogo con la poesia trovavano la ragione del loro giorno, la salvezza dal breve tempo distinguibile in secoli e ore.

Ugo Guanda, la Mansfield di Altichieri. Bertolucci con Ninetta. DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 523

Altichieri, corrispondente senza tessera (del fascio) e fra i primi in Italia a par- teggiare per lo scandaloso Joyce, pubblica nel 1940 la traduzione dei Poemetti di Katherine Mansfield nella collana «La Fenice», prima collana italiana di po- esia straniera; e questo ci offre un aggancio possibile di Hermet con l’unico po- eta di rilievo, nativamente non ermetico, della leva letteraria dei poco più poco meno che trentenni, Attilio Bertolucci. Si affaccia una volta sola il nome di Vittorio Sereni, a proposito dell’incontro fra una nuova rivista fiorentina – dopo «Frontespizio» e accanto al lampo breve del «Campo di Marte» – «Letteratura» di Bonsanti, e la milanese «Corrente di vita giovanile» di Ernesto Treccani (de- gli Alfieri): «l’organo milanese-fiorentino dell’intelligenza italiana d’opposizio- ne, e anche ovviamente del movimento artistico culturale omonimo, rappresen- tati da Raffaele De Grada, Giansiro Ferrata, Luciano Anceschi, Renato Birolli e dagli ermetici cosiddetti “puri” come Bo, Luzi e Bigongiari».

Occhieggia dappresso il nome di Gianandrea Gavazzeni, col nome deforma- to (Gavezzeni) ma corretto nell’indice dei nomi: «Con mente d’amore vi scrive- va di musica [nella rivista “europea” di Bonsanti] (su Malipiero, su Petrassi, su Dallapiccola…) Gianandrea Gavezzeni direttore di orchestra, pianista e composi- tore». Hermet non fa mistero del fatto che, nella città del Maggio musicale (forte- mente voluto dalla principessa Maria José e dal federale Alessandro Pavolini, sul- le indicazioni di Vittorio Gui, busoniano e steineriano, e di Guido Maggiorino Gatti, di Mario Labroca, a rinnovare un ruolo, gradito al regime, di Firenze come città d’arte e luogo eletto di elaborazione delle forme del nuovo), di musica i let- terati molto poco si interessavano. Ma anche ci rallegriamo d’aver trovato una fonte probabile (o un compagno di via) per quel Lapo Gianni («l’Arno balsamo fino…») che impreziosisce in esergo la poesia ‘alla maniera di Filippo De Pisis’ de- dicata da Montale al pittore ferrarese, con l’arte del quale è immediato il riscon- tro quando si leggono gli Ossi di seppia. Che tutto si tenga, davvero? Nel salotto della mia casa paterna, accanto alla camera dove io e altri cinque fratelli siamo ve- nuti al mondo ed i miei sono morti, troneggiava ai nostri occhi di borghesi pic- coli-piccoli una bella riproduzione del Poligrafico dello Stato, con una spiaggia morta di ostriche e di cavoli del «marchesino pittore». 524 Marzio Pieri

8. Fra le cesoie che aiutassero a violare il filo spinato, c’era quella stilistica; e, a render tutto scorrevole, di norma si agiva così: estrarre con la pinzetta qual- che escrescenza o ricorrente agglomerato «tipico» della scrittura. Se ne faceva un faretto e il gioco è fatto. Ma come giocavano astratto! Finiva che Marino era meno barocco del Murtola, dello Stigliani e, basti soltanto il nome, del Rinaldi. (Sì, Cesare Rinaldi di Bologna). Loro, è vero, placcavano ogni metafora. Così Parronchi poteva sembrare il meno tipico degli ermetici. Ma era un Capricorno, anch’io lo sono; non son gente che si lasci archiviare. Meglio il silenzio che l’es- ser classificati; meglio l’esilio, del carcere, del domicilio coatto; peggio se a pie- de libero e in una casa dorata.

9. Quando Parronchi debutta sul «Frontespizio», a vegliare alla dogana per lui è Carlo Betocchi, la poesia s’intitola Eclisse (quasi un altro futuro titolo an- tonioniano). Dice che in quella Firenze di un’estate di san Martino, che pote- va illudere di una primavera fuori stagione, il nume a cui si ritrovavano nel re- care lumìni era l’Ungaretti del Sentimento del tempo. Betocchi sparge una diver- sa seminagione d’anima. DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 525

Fra quella dozzina di giovani ardenti e geniali, alle soglie della nuova guer- ra, agisce tanto da antidoto quanto da conferma. Da loro il maestro dell’Alle- gria apprenderà a inscrivere la propria parabola sotto la sigla della «vita d’un uomo». A volte dovrebbe soccorrerci una fantasia di raccordi giudicati impossi- bili: tramite le reti del famulo attivo e fedele, Bargellini, immaginare quei tavo- lini di studenti con su non solo fiorire di mistici e infiammati cattolici france- si (il Rivière di Bo, e insieme il suo Mallarmé, la Religione di Serra!) ma, forse a fronte e guardandosi un poco in cagnesco, l’Uomo finito e il fante per elezione in ispirito dell’Allegria di naufragi. (Ungaretti rifiutò il corso per allievi ufficiali).

526 Marzio Pieri

(Altri ha ben ricordato, per Papini, una testimonianza insospettabile di Montale: «una figura unica, insostituibile, a cui tutti dobbiamo qualcosa di noi stessi»).

Di lì a poco si aggiungeranno i Canti orfici e il mito di un poeta suicida. Intanto, sul «Frontespizio», Sergio Baldi traduce sensibilmente T. S. Eliot. Ci sono spostamenti nello zodiaco. Uno dei più sensibili (attributo elettivo, per Parronchi, il cui primo libro di poesie si intitola appunto I giorni sensibili) è lo

Poesia 1941. DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 527 spostamento dell’asse da Petrarca (o, per Ungaretti, da Petrarca & Mallarmé, l’uno e l’altro due ermetici di Francia, i veri precursori) a Dante. Un Dante sot- tratto alle ampolle carducciane, ai tristaneggiamenti preraffaeliti, alla «Dante Alighieri» per la difesa e diffusione nel mondo, al netto del pensiero e delle ope- re, della lingua italiana.

10. A me pare che certi aspetti rilevati nello Hermet («… intimo rapporto fra pensiero e poesia assoluta…»: «… guardato con scherno proprio per la sua singolarità…», così Gloria Manghetti) rifioriscano nell’esperienza vitale, nell’im- magine perpetua dello stesso Parronchi. Sullo sfondo, remota ma incancella- ta, sebbene non sbandierata, la stessa polemica papiniana contro tutte le forme dell’accademia imbalsamatrice. Lui che fin dai suoi anni primi aveva invocato – sapendo quel che diceva – la chiusura delle scuole.

11. Con il distacco savio che ne era segnale caratteristico e raro, nella Nota biografica al 1989 in coda alle Poesie 2000, scrive di sé Parronchi, professore e poeta, alla terza persona come Cesare: «[nel 1956] il vero inizio di quella che è stata poi la sua professione, la quale gli ha dato non poche soddisfazioni ma ha altresì per il suo carattere ritardato la sua carriera accademica oltre i limi- ti del sopportabile, da lui pur tuttavia sopportato». Forse resta da aggiungere che gli è andata bene, se i suoi principî di storico dell’arte si basavano su que- sto atto di fede: 528 Marzio Pieri

Suo principale non si sa se difetto o merito, quello di non fare ossequio all’au- torità, alle formule convenute, alle visioni d’insieme, ma di cercare invece la rettifica del particolare, la prova non sicura, onde poter buttare all’aria grandi costruzioni fasulle e dare saldo fondamento a nuove costruzioni. Le sue prime scoperte fecero clamore, ma seguitando a quelle molte altre successive, nessuno ci badò più che tanto.

12. Tace di quelli che ci badarono per confutarle con disprezzo come giunta della derrata; c’est la méthode. Nelle dure meningi della scienza, difficile che entri un ricercare (ma sì! anche nel senso musicale) che si pone come un itinerarium mentis a un oggetto che nella sua sostanziale intangibilità agisce, di contraccol- po, sulla perpetua modificabilità dell’intelletto itinerante. Voglio dire: l’errore occhieggia all’angolo della strada; per deviata deduzione di scienza o per riflesso amore di una ricerca come inseguimento della Pantera di luce. Caminante, no hay camino. se hace camino al andar. Così Machado magnanimamente tradotto, in futuro, dal maggiore (con Carlo Bo) dei critici di quell’onda di eccezionale speranza in poesia: Oreste Macrí da Maglie, il mago post-platonico della caverna. E un giorno, poi, Luigi Nono, umile ed alto più che veneziano, nel suo de- clivio dalla Didone ungarettiana a Cacciari: No hay caminos, hay que caminar; una scritta letta da Nono sul muro di un convento di Toledo, scelta da lui per sigla di un’opera ad intenzione di Andrej Tarkovskij (1987). Ecco un allaccio che non è detto dovessimo aspettarci per forza: ― il «ru- more del tempo», film «un mosaico fatto di tempo…» DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 529

A destra: Carlo Mattioli, Oreste Macrí.

Scolpire il tempo…

14. Né è detto che quando si dice scolpire si debba per forza pensare ai Rambo muscolari del Buonarroti o di Rodin. Si può modellare la pietra arenaria, fare sculture di sabbia, meditare sul rilievo. Con Sandro Parronchi, non c’è da sco- starsi di troppo da quella dichiarazione di poetica (ah! Ghidetti, il nostro amato e disamato maestro Walter Binni!) riconoscibile nel poemetto in apertura del- la raccoltina Quel che resta del giorno (il titolo, allusivo a un «bellissimo film» di James Ivory, il Perfetto Inglese, è anche una finestrella su l’amore del cinema di 530 Marzio Pieri

Parronchi), Il murale di Venturino in piazza Pertini a Castelnuovo dei Sabbioni (il librino esce per le Càriti, Firenze 2001). La memoria è ad un’altra delle stra- gi di civili innocenti perpetrate dai barbari in rotta.

Muro di Venturino, t’inserisci lieve nel paesaggio di Cavriglia […]

Sorge limpido il muro nella piazza è una strada un torrente una via lattea, non è un simbolo è fatto di realtà […]

Non ti richiudi come una fortezza, come una tomba. Anzi chi ti descrive sente farsi la vita più leggera.

15. Venturino scolpitore, (dalla tastiera m’era uscito colpitore), Ottone o Mario Marcucci per la parte della pittura; del resto lo stesso Parronchi era va- lente disegnatore. Il disegno, la sinopia: un modo di restituire la vita a graffiti, lo spazio come una sindone, le immagini che si accartocciano nell’estrema fuliggi- ne di una pellicola che si brucia. Non ci ero arrivato alla prima, un poco respin- to da quell’inesauribile spendersi di un diario in versi (questi, perfetti, reattivi), un poco affascinato da quello che sembrava un mite post-Parnasse fuoritempo. Finché questa limpidità, questa goduria prospettica, questa tensione quasi sen- za nervo fra il particolare e la distanza, come in certi pittori ottocenteschi tenuti in caldo, su la soglia della disparizione, dal più felice Emilio Cecchi di quel suo profiletto hoepliano (1926); e può anche, insieme, ricordare il modo cinemato- grafico di un Mario Soldati, da lui senza parere trasmesso al Visconti meno ba- rocco; finché questo trionfo dell’occhio calmo, della visione colma, e che sur- ge quel tanto necessario ad estrarla dalla ganga dell’illusione e della indetermi- natezza, non ti mette in sospetto, come un soffoco per troppa aria. Pensi a uno Skrjabin («messa nera», «messa bianca») correttosi in un malizioso, in un dav- vero utopico Raffaello. DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 531

O vaioloso, butterato, itterico volto della decrepita fanciulla luna, io troppo lungamente ho respirato l’immonda polvere delle tue valli, e presto conosciuto la natura luetica delle tue macchie, ed ho appuntato troppo curiosamente il dito nelle tue ferite recenti, per non potermi abbandonare a un ultimo amore di necrofilo per l’una, e troppo nota, o l’altra, che mi agghiaccia, tua sconosciuta faccia.

Così esordisce, con una aggettivazione fonda, sonora, inusitata (ne incontravi di simili in Baudelaire) la Scorciatoia della luna di Pietà dell’atmosfera, la raccolta del lavoro del decennio 1960-1970, oggi meglio d’allora si conosce ch’era l’atto di coraggio (parola così parronchiana) non per opporsi alle ragioni della bandi- ta avanguardia (qui le date sono crudeli: il Gruppo 63 si rispecchia nel Gruppo 47, e ti chiedi quegli anni, in Italia, dove erano andati a imboscarsi) ma per af- 532 Marzio Pieri frontarla, con diversi mezzi, sullo stesso terreno. Nel 1968 era uscita La Beltà di Zanzotto, più giovane di Parronchi di quei sette anni che bastano al trapasso da una generazione alla seguente.

16. Ma, per Parronchi, è da notare, ch’è la seconda volta ch’egli si ritrova ad affrontare, con una prontezza di stile che congeda le sue personali, innate per- plessità (il non perplesso vede da percorrere un’unica strada) la malattia (nell’a- ria) della poesia. Ascoltiamo, di nuovo, dei versetti, nel senso biblico, dalla Ventura delle riviste:

Lunga ritorna l’atonale melodia che ha per note nomi; e suona come discorso d’una morta lingua sconosciuta. Di pittura scrive Giulia Veronesi, Gatto sui Disegni di Rosai, e Alessandro Parronchi (suo Il giuoco del barone, giovine musica di Valentino Bucchi) pure un articolo Tempo di pittura.

Sorella del pittore e cineasta astrattista Luigi Veronesi e allieva di Raffaello Giolli, Giulia Veronesi (1906-1973) ebbe la sorte di chi spicca in molti cam- pi diversi (per lei la pittura, l’architettura moderna, il cinema, collaborando con Henri Langlois); fu vicina a scrittori e architetti come Giuseppe Terragni Giuseppe Pagano Edoardo Persico, del quale avrebbe procurato la pubblicazio- ne degli opera omnia, nel 1964, per le Edizioni di Comunità. Ancora indispen- sabile la sua ricognizione retrospettiva Architettura e città durante il fascismo (ul- tima edizione per Jaca Book, Milano 2008, a cura di Cesare De Seta).

Lasciamo rievocare la faccenda del Barone a Parronchi, che ne scrisse il li- bretto, in una notte. Era il 1935, Sandro era al suo primo anno di università. Lui, Fortini, Piero Santi, Valentino Bucchi, Giorgio Spini, erano «noi di là dal Mugnone». Italia fascista ma non ancora imperiale.

… E passando una notte sul Ponte rosso e discorrendo di questo [di un libretto dovuto a Valentino, da parte degli amici letterati che giuravano sul genio di lui, DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 533

allievo di Malipiero – mal visto a Firenze per il suo coltivato pendìo veneziane- scamente libertino e scurrile – “che doveva essergli stato guida nella lettura degli antichi”], Fortini disse: ‘Si potrebbe inventare una storia sul filo del giuoco del Barone’. Io, che conoscevo il gioco dell’Oca e non quello del Barone, non stetti a pensarci su. L’indomani mattina comprai il foglio del Giuoco del Barone in una minuscola cartoleria alla fine della via Faentina sull’angolo con la Bologne- se, e saltai su un tram che dal Ponte rosso, traversata l’intera città e l’Arno, rag- giungeva Porta romana. Qui scesi e iniziato il viale Michelangelo, nei giardini del Bobolino, buttai giù a penna, sul rovescio del Giuoco del Barone, diverse strofette dov’era, in sintesi, la storia di quel personaggio strampalato.

Nel pomeriggio batte tutto a macchina, sulla Olivetti M 40, «l’aborto di ope- rina che era venuta fuori», in serata o al più tardi la mattina dopo il dattiloscrit- to è nelle mani del compagno musicista. Ma Parronchi, così ci fa sapere, pensa- va ancora a un gioco fra amici, a una rappresentazione domestica, magari nel-

Valentino Bucchi – Autoritratto di Fortini – Piero Santi. 534 Marzio Pieri la casa di Piero Santi. Santi, il futuro amico e biografo di Ottone Rosai, appas- sionato di cinema (anche nel senso di locali cinematografici) e noto gallerista, grande scrittore ignoto perfino a se stesso, punta scoperta di quella scelta omo- sessuale che traversa come un lievito dolente e appartato la vita di Firenze da Palazzeschi a Giannotto Bastianelli, da Giovanni Costetti, quasi un pittor ma- ledetto, fin dallo sboccio del secolo, alla rivincita imperiale di Sylvano Bussotti, un novello Leonardo fiorentino a cavallo dei nostri due millennî.

17. Ma passano tre giorni e Fortini rivela a Parronchi, che la musica è già pronta e che Valentino pensa ad una rappresentazione nel mitico teatrino di via Laura. Parronchi rimase atterrito: «Che Valentino Bucchi fosse il nuovo Jacopo Peri, lo davo per scontato, non altrettanto mi appariva certo che quei versi potes- sero figurare opera del nuovo Ottavio Rinuccini». Si aggiunga «il pudore, per me insopportabile, di “apparire in pubblico”». Così, passano alcuni anni e quando il 20 dicembre del 1939, per mera cronaca dico, un mese esatto prima che ci venissi al mondo anch’io, il Barone va in scena, davvero, restando anonimo il nome del verseggiatore, Bruno Barilli, lui stesso compositore, altamente lo loda. Con quello che stava per seguire, un gioco di fanciulli molto dotati finiva nel dimenticatoio. Invece se ne fa una ripresa il 18 febbraio del ’45, ancora in via Laura, e stavolta presente lo scrittore, che si era intanto fatto in pochi anni un nome di prestigio.

Il Fauno di Ungaretti è illustrato da Carlo Carrà, in una edizione preziossima.

A distanza di pochi mesi, esce nell’autunno in una stampina minuscola, per le edizioni «Il Fiore», la traduzione parronchiana de L’“Après-midi d’un faune”: confessa, in una nota preliminare, il poeta (che intanto ha tenuto un fitto scam- bio con Ungaretti, intenti a disvelarsi i segreti anche «tecnici» della materia mal- larméana, districarne le radici, il «significato letterale»), confessa Parronchi che «tradurre in versi l’Après-midi è stato per me l’unico modo di leggerlo». Nello stesso 1945 Carlo Bo pubblica il suo nono (o undicesimo) libro e più enigmati- co capolavoro, il già ricordato Mallarmé, per le leggendarie, da quegli anni dif- ficili, Edizioni Rosa & Ballo. Guido Ballo, uno dei pochi, con Hermet, a scri- vere di musica sulle riviste in ventura… DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 535

18. Di Parronchi le orse, le muse… e i sette tavoli ai quali scrive la vita. Sette, non gli sarebbero bastati i tre favolosi di Pascoli. Italiano, latino, Dante. Segno dei luminosi tempi che viviamo, il rettore dell’università di Bologna in una in- tervista ha sostituito a Dante il dialetto; ma oggi a fare il rettore non ci vuole altro che indifferenza alla cultura e ossequio all’intreccio delle più varie masso- nerie (recte, «centri di pressione»). Capo di stato maggiore si nomina un rifor- mato. Alle lezioni urbinate di Parronchi, uno a questo convegno ha ricordato, gli studenti profittavano del buio dell’aula, cieca per dar visione alle diapositi- ve, per seguitare il sonno delle otto di mattina. A quelle di Longhi, potrei testi- moniare io, accadeva lo stesso e di peggio, nel tardo pomeriggio le volte che il Magnanimo teneva le scarse lezioni. In quella tomba oscura, il Longhi rischiò di ammazzarsi, mettendo un piede in fallo oltre la cattedra e finendo a spiac- cicarsi, dopo una corsettina, sul muro di fronte, accanto allo schermo irradia- to dalle immagini d’arte. Grido universale d’orrore, come in un’opera verdia- na? Anzi uno scroscio di riso liberatore. Il povero grande (permalosissimo) vec- chio ansante ci maledì.

19. Un tavolino andrebbe riservato alle cose scritte da Sandro per occasioni di galleria; presentare un amico pittore, dire di sé. Ho fra i doni da lui ricevuti (e forse fu il primo di molti, dopo l’incontro di A., e, nella dedica a mano, segnala- va fra lui e me la coincidenza di «molti gusti e molte idiosincrasie») la plaquette Quale Orfeo? per le Edizioni Pananti, di fronte a Santa Croce foscoliana, a vista della statua di Dante malfatata, quasi decapitata da malsani restauri. Dio maledi- ca i restauratori! (la voce è di Masaccio, nella piazza del Carmine notturna in cerca delle grosse coglia che gli han reciso). Aveva spesso a mano un breve récit in versi bulinati. Difficile, in genere, per chi faccia poesia nel solco (vale meno se accolto o esplicitamente respinto) di Mallarmé, il narrare. Parronchi non vi ha mai rinun- ziato, in una certa sua fase dopo l’esordio, fin verso la svolta del Coraggio di vivere (Scheiwiller ’56) dopo L’incertezza amorosa (1950-51) in cui Parronchi dichiarava avvenuta «una trasformazione». A quella fase appartengono i tre poemetti-capo- 536 Marzio Pieri lavoro, l’«intermezzo» del 1947, Giorno di nozze, il «racconto orientale» Nel bosco, ispirato dalla visione di Rasciomon di Kurosawa (1951), e quasi derivandone, per l’intento dichiarato di voler trarre dalla lezione del cinema («arte figurativa», per Ragghianti, non per Sandro che sa osservarne «il movimento elementare»), Città.

[…] Vagheggiavo una particolare disposizione poetica che, come la camera cinematografica, permettesse di ‘filmare’ una situazione, di darne, per così dire, il movimento elementare, realistico-estemporaneo, senza alterazioni eccessive. Così è nata […] Città, la quale, tagliata fuori da un’azione vera e propria, ruota attorno a una situazione reale, di tempo, di luogo e di sentimento (dalle Note di Parronchi a Le poesie, Firenze, Polistampa, 2000, I, p. 365).

Son convinto che fino dai versi d’esordio, questo «poema in cinema» sia val- so, meglio ancora se inconsciamente, a Sereni per il futuro Un posto di vacan- za (Scheiwiller 1973). V’è una corrente segreta di poesia «all’insegna del pesce d’oro». I poeti si lanciano richiami misteriosi da uno scoglio sottomarino all’al- tro. Yellow submarine…

Una città diversa dalla terra e dal cielo, un’aerea città confitta nella polvere del mondo… (Parronchi)

(Un giorno a più livelli, d’alta marea – o nella sola sfera del celeste. Un giorno concavo che è prima di esistere sul rovescio dell’estate la chiave dell’estate…) (Sereni)

Ovvio ma è come il rinvio ad un tesoro quello da fare al carteggio intercor- so tra i due poeti dal 1941 alla scomparsa di Vittorio.

Un tacito mistero, il carteggio Sereni-Parronchi 1941-1982, a cura di Barba- ra Colli e Giulia Raboni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Feltrinelli. 2004. Fu il primo volume dei carteggi del poeta di Luino conservati nell’Ar- chivio Sereni. DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 537

20. Ecco qui un altro tavolo, e dei maggiori, nello studio di Sandro Parronchi: quello dei carteggi (con Ungaretti, oltre che con Sereni, e Bertolucci, Umberto Bellintani, Mario Tutino valente traduttore di Valéry…)

Il Cimitero marino nella traduzione tutiniana esce nel 1963 da Scheiwiller, con prefazione di Parronchi, e già tre anni dopo viene accolto nel sancta sanctorum della collanina bianca einaudiana. Non era stata sfida marginale, se il poema valériano aveva già indotto a provarcisi a singolar tenzone traduttori-poeti come B. Dal Fabbro, Mario Praz, i nostri due maggiori cultori di cimiteri, tra Foscolo zacinzio e Ceronetti; Renato Poggioli (1946), il salentino Vittorio Pagano, il salentino inflorenzato Oreste Macrí (per Sansoni, nel ’47), nonché, prima, Et- tore Serra, Vincenzo Errante, Manlio Dazzi, l’amico di Pound; e non si taccia Diego Valeri. e i due libri che ogni contemporaneista italiano dovrebbe sapere a memoria del- le «lettere a vasco» e «lettere a sandro», con l’intrinsichissimo Pratolini). V. Pratolini, Lettere a Sandro, A. Parronchi, Lettere a Vasco, a cura di A. Parronchi, Firenze, Polistampa, voll. 2, 1992-1996. Su un arco di tempo ininter- rotto dal 1941 al 1989. Sono 518 i «pezzi» pratoliniani, 438 quelli di Parronchi, su complessive pp. 837. Di fronte a un monumento come questo, franano il ma- teriale e l’immaginario, le scuole e le scomuniche. Aggalla il commento perpe- tuo ad opere di cui al limite si potrebbe perfino oggettivare l’inesistenza. La so- 538 Marzio Pieri

stanza (per Vasco, mai accettato dalla società politica e letteraria dei tempi; ma anche per il giovane Parronchi fin dentro gli anni Cinquanta) è drammatica; dolorosa talora fino allo strazio. Non mancano le cabalette di una pena ai confi- ni del melodrammatico. Qui non Proust non Gide non Valéry come maestri di stile (e di una vita-stile) ma l’ombra popolana di Victor Hugo. Così Parronchi stringe Pratolini al tragico Rosai.

Il più sorprendente è forse davvero quello con Mario Tutino

“Arte nata dall’arte”. Carteggio 1956-1966, a cura di Paola Baioni, «Biblioteca della “Rivista di Letteratura Italiana”» diretta da Giorgio Baroni, Roma-Pisa, Fabrizio Serra editore, 2009

il figlio di Saverio, giornalista e scrittore amato, un poco il Tiziano Terzani del- la generazione resistenziale, fedele ai valori della «presa diretta» non letteraria, come i diarii della gente comune dove gli affetti restano come non detti, e il ter- reno d’incontro non è soltanto letterario, ma il pensiero che scava è all’arte, e alla poesia, come disposizione del pensiero. Per battilozio si rubi dalla presenta- zione editoriale del carteggio Tutino-Parronchi1[1]:

1 DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 539

Il volume si può sostanzialmente dividere in tre parti fondamentali: la prima che muove dall’interesse di Parronchi per il Libro del Collare di Guido Pereyra, in cui lui e Tutino diffusamente discutono soprattutto intorno alla genesi del testo. La seconda […] con interessantissimi passaggi riguardo alla poesia parronchia- na e alle traduzioni dai poeti francesi e una terza parte, altrettanto importante soprattutto per gli storici e i critici d’arte: con profusione di particolari […] i due parlano delle dibattute attribuzioni relative al Crocifisso di Michelangelo, discutono sul Cupido dormente, su Paolo Uccello, Masolino, Masaccio, per ci- tare solo i principali argomenti. La parte finale del carteggio riguarda, in modo particolare, la traduzione tutiniana del Cimetière marin (pubblicata proprio nel ’66) e della Jeune Parque che esce postuma, nel ’71. Le lettere di Pereyra a Tutino, qui riportate nell’Appendice I (mentre l’Appendice I riporta una lettera di Pereyra direttamente a Parronchi), permettono infine di leggere in filigrana buona parte del Libro del Collare. Parronchi era interessato a conoscere le varie fasi di composizione del libro e a comprenderne il sostrato filosofico, filologico, letterario, artistico e umano.

Ogni interesse di Parronchi vi è presente. Omnia mea mecum porto, avrebbe potuto dire anche lui di sé, perché coscienza e cuore non mai vanno in vacan- za. Del misterioso Libro del Collare chiesi al poeta, due giorni dopo ricevetti da lui le fotocopie. Chiaro che Parronchi vi cercava radici meno ovvie dell’ermeti- smo. Era la Firenze tenebrosa di Vannicola e di Papini, di Bastianelli e Levasti, del faustiano Manacorda, in odore di menagramo, del resto inviso a Croce, che rimbeccò su come tradurre Goethe, a Gentile, che lo diceva «di Ripafratta», a Mussolini che lo scaricò, forse perché assai tepido antirazzista, come lo scarica- rono dall’università i nuovi vincitori, di Tartaglia venuto da Parma, ancora ai tempi miei di Sicuteri e, ci crediate o no, del nicciàno Ferruccio Masini.

20. Scoprendo il magnifico epitalamio (dal titolo che potrebbe essere cine- matografico, Giorno di nozze) avevo sùbito pensato a una sorta di libretto ope- ristico. Ne trovai conferma in una diversa nota dell’Autore: 540 Marzio Pieri

Al centro, il Libro del Collare di Pereyra; a destra, la scena di Baccio M. Bacci per il Volo di notte (da Saint-Exupéry) per Dallapiccola mussoliniano (Firenze 1940).

[…] C’era stata una volta l’idea di scrivere un libretto per musica, che si riacco- stasse alla forma aulica dell’intermezzo cinquecentesco. Non che mi mancassero esempi moderni, come l’ineguagliabile ‘Noces’ di Strawinskij. Ma ancor più mi s’era impresso nell’orecchio, e vi durava profondamente, il primo atto dell’‘Or- feo’ di Monteverdi, nell’incisione [discografica, a 78 giri, diretta da Ferruccio Calusio] datane dal Magazzino Musicale Milanese, in cui la voce di Ginevra Vivante era arrivata a identificarsi per me con la Musica. E mi proponevo l’e- sempio dei versi della Dafne del Rinuccini, più scarni e più scenici di quelli del Tasso e tuttavia pieni del favoloso mitologico e teatrale che in anni ormai lonta- ni2[2] – poi sempre più debolmente – mi scaldava la fantasia”3[3].

2

3 DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 541

E da notare il séguito: «Che l’eco di ritmi classici e il riflesso di orpelli sei- centeschi si siano potuti costruire in un componimento tra lirico e declamato, scritto in occasione di un matrimonio borghese dei nostri giorni, è anacronismo forse lievemente giustificato dal fatto che l’adolescente a cui promisi l’epitala- mio, la sposa per cui lo scrissi, non seppe e forse non saprà mai dell’omaggio». Certo, in quella Firenze un poco sonnolenta, nel nuovo dopoguerra, imbar- barita e impoverita, da cui sono dovuti i meglio uccelli migrare, nessuno ha vo- glia di correre; si vive a lungo fra le macerie degli abitati a ridosso dei ponti, ri- nascono un poco per volta Por Santa Maria, i lungarni dalla Carraja fin oltre il Ponte vecchio, Borgo San Jacopo, la via Guicciardini: nel 1956, di sorpresa, Bucchi presenta il Barone al Premio Italia e lo vince. Parronchi si mostra con- vinto per quello che concerne il valore della musica, ma ancora stupefatto per quella «avventura leggermente rocambolesca». Prova a spiegarselo:

Valentino ha scritto altra musica, altre opere. Ma col Barone aveva rotto gli sche- mi, aulici, dell’operismo italiano, creando le premesse per l’introduzione di un linguaggio ironico-sentimentale che non è nella nostra tradizione

– intendi El Retablo de Maese Pedro, opera per marionette, o la Histoire du soldat, abbinata al Barone in una ulteriore ripresa del 1982, al Teatro Puccini (sùbito sotto il Ponte alle Mosse, sboccando dalle Cascine), per la quale il poeta scrisse il Ricordo del Barone, dal quale qui attingo, pagina rara, avuta in dono da lui; e che volli ripubblicare unita al Gioco in una antologia dei libretti d’opera per i «Cento libri per mille anni» del Poligrafico e Zecca dello Stato, che Parronchi si ritrovasse, a distanza di quattro secoli, appaiato al Rinuccini o allo Striggio pionieri dell’Opera –

pur non dimenticando Verdi («una linea in cui il colore si posa su oggetti mu- sicali ben definiti»). Si deve riconoscerlo: in principio est Casella, purgate ormai le remote sue origini mahleriane e antibussetane. E non converrà fare oscura glossa, se Parronchi apertamente questa strada (il libretto-madrigale) non ritornò a percorrere.

In misura più tecnica ed erudita (modelli, apparati, allegorie, marchingegni) Parronchi si è occupato di teatro antico a proposito delle prime messe ma- 542 Marzio Pieri

chiavelliane (La prima rappresentazione della Mandragola, Polistampa, Firenze 2005). In Quale Orfeo? si mostra sottilmente a giorno della brutta piega presa da certi allestimenti dell’Opera antica (l’Orfeo del Maggio Musicale 1984, una precedente messinscena dell’Orfeo ed Euridice). Regista dell’opera monteverdia- na era stato Pier Luigi Pizzi a Pitti; dirigeva il barocchista (freddo, ‘alla lettera’, cerebrale) Roger Norrington, sul quale oggi stesso i giudizî un po’ rissosamente si dividono (a me piacciono perfino le sue incursioni extra-barocche, le sinfo- nie di Beethoven, la Fantastica e il Benvenuto Cellini di Berlioz, certe sinfonie di Bruckner, di Čajkovskij, di Mahler ‘con strumenti originali’), recuperato il finale tragico con lo scempio fatto di Orfeo dalle Baccanti. L’Orfeo gluckiano è quello del Maggio musicale 1976, con la regia di Luca Ronconi e la direzione musicale di Riccardo Muti. Probabilmente, se fossi stato ancora il frequentatore fisso del Comunale che fui fino al mio trasferimento in Val di Parma, mi sa- rei accapigliato con Parronchi, come mi accapigliavo spesso con Luigi Baldacci onor della seconda galleria. Ma non avrei saputo esporre il mio dissenso in versi così belli, con tanta arguzia, e tale civiltà.

21. Nel 1982 ha appena congedato, da due anni, con Replay, l’esperienza poetica di una (la penultima) delle sue grandi raccolte che scandiscono, come si sa, un decennio per volta di superate altezze. Seguiranno Climax, alla fine del nuovo decennio, e da ultimo le Poesie del 2000, che giocano col lettore un poco a cippirimerli, presentandosi con la promessa di una completezza obiettiva e un poco neutra, come fuori della mischia.

Sandro ha ormai 86 anni, Bigongiari è mancato da tre anni, Macrí da due, Anceschi da cinque, Franco Lattes da sei, nel 2000 muore Bertolucci, nel 2001 DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 543

Bo, nel 2005 Luzi, Pratolini si era congedato fin dal 1991, e Vittorio Sereni ad- dirittura dal 1983; il nostro poeta tocca, serenamente ospitato dentro la gravissi- ma malattia, i novantatré anni di una vita operosissima, premio ad un saggio ap- passionato e arguto. Bucchi era andato per primo, nel 1976, un anno solo dopo Dallapiccola). Le Poesie sono dunque insieme un bilancio e una rimessa in bilico di una intera esperienza, che il poeta non vuole che ci si rappresenti come com- piuta. Chiare le Orse, lucide le Muse in un paese ideale (come quelli del grande classicismo secentesco, Poussin Domenichino Guido Reni…); ma ad ogni sboc- co la vita recalcitra a farsi contenere in busti o guardinfanti. La lezione dei secoli ci rende meno arresi. Se di Parronchi Le Poesie del 2000 sono, di fatto, l’ultimo opus magnum, esso non distoglie lo sguardo da un diverso ritmo, «aperto», nelle pubblicazioni dei suoi versi. Ci sono raccolte minori, poemetti, occasioni, brin- disi per la vernice di una galleria. Si è detto dei piccoli libri preziosamente tratti alla luce dall’arte ostetrica di Giovanna Ioli. Non si può trascurare il minusco- lo Scheiwiller “Expertise” per Vittorio Sereni (1986). Non so quanti abbiano av- vertito che questo discorso teso fra narrazione in prosa e sbocchi di poesia ripe- te il modello sereniano del Sabato tedesco (1980). Nell’indagine corre, come nel cinema di Antonioni, la frusta dell’enigma metafisico. C’era un dipinto da rin- tracciare, nell’invito di Sereni pareva facile, sulle prime: una sorta di Ronda di notte; una commedia lirica e naturalista bagnata in lume che la presta ad altro. Sogno? Sarà, ma sarebbe anche facile soluzione. Vibra la voce di Vittorio, come nei suoi versi scolpiti nella luce precisa dell’ora: «… Quella che dico è diversa- mente lirica, con grandi feltri e pennacchi, tenebrosa, con un senso di pioggia e di vento, di notte fonda o di ora immediatamente antelucana – cavalieri o no- biluomini che rincasano o muovono a qualche impresa. Comincio a credere di averla sognata […] Ricordi una delle prime traduzioni da T. S. Eliot che abbia- mo lette? / “Alle quattro su il vento si levò…” È un po’ questo. Velazquez, può essere? […]» (Sereni a Parronchi, 4 giugno 1969).

544 Marzio Pieri

22. È l’ora dei morti. Io non fui mai convinto che Sandro ci avesse pre- so, col suo «expertise». Non ho dubbî, ad esempio, che l’immagine fissatasi ne- gli occhi di Vittorio debba essere in campo lungo, come in un teatro; qui que- sti giocatori o bari intenti e stracchi si affacciano in primissimo piano quasi ai bordi anteriori della cornice. No, no. Il quadro non è lì. Invece nei suoi ver- si Parronchi non si sbaglia:

[…] Ed a te, più sprovveduto in arte, ma, caro alle Muse, come profondamente abbia dovuto incidersi nel tuo sguardo quello sperduto sguardo di giovane che cerca nel futuro una pace, o che travolge l’eco di un turbamento come turba una raffica di vento le bandiere i lumi di una festa, … ora capisco; perché anch’io dal tempo che ero da queste parti

Berlino, la Bildergalerie di Sanssouci. Visitata (forse) (il poeta non si decide) nel suo viaggio da giovane nella Berlino hitleriana.

tanti anni fa, con ansia inesprimibile, per un cammino via via più difficile, ho cercato il raro, l’indicibile.

Nessuno stupore che invano si cerchi questa ansiogena, e sublime plaquet- te nei due tomi delle Poesie.

* * *

emilio villa, il fauno e i trioscuri fiorentini

Ottobre si chiuse con una affollata festa fiorentina (la Festa del Grillo?… le Rificolone?…) a richiamo delle oggi inimmaginate, vero inimmaginabili, glo- rie letterarie di questa città incialtronita. Mi viene in mente un acquario dove guizzino e sbarrino gli occhicini dei pesci meravigliosi ma imbalsamati, mossi da marchingegni come quelli con cui Spallanzani e Coppélius muovono Olympia, la bambola-automa. Eppure ogni volta si torna a sbalordirsi di nuovo. Confesso il mio amore, la mia nostalgia, come per via Tornabuoni disseminata di libre- rie, per il cinema Edison, per le gallerie-stadio dell’antico Politeama. In fondo proprio nel retro della gloriosa libreria Seeber accadde il primo dei miei man- cati incontri con Mario Luzi. Si era fermato a festeggiarmi un compagno di studî, ispanista, di lì a pochi anni rapitoci dal cosiddetto «male che non perdo- DI PARRONCHI LE ORSE LE MUSE 545

na». Luzi lo richiamò con crudele impazienza e riprese a parlare del Nobel. Io, invece, qualche anno prima, in quello stesso antro delle meraviglie avevo com- prato, studente squattrinatissimo, Onore del vero, edizione di Neri Pozza. Così perché mi piaceva, carnalmente. Il titolo, i caratteri di stampa, le ampie pagi- ne avorio, il marroncino della copertina. E ci feci quasi la mia iniziazione a una poesia meno scolastica di quella che avevo imparato a riconoscere, ma trovan- dola in fondo solo diversamente letteraria. Dovevo leggere un mio intervento al Vieusseux, nel pomeriggio dedicato a Parronchi. Avevo fin da principio avvertito: vedrete che non verrò, mando un te- sto da leggere. Lo lesse, difatti, intrepido un mio caro fratello. C’erano ad ascol- tare Nara Parronchi, Giovanna Ioli, Anna Dolfi, dove potevo trovare un pub- blico meglio disposto. Sul Lungarno (foto di Laura Dolfi). «LA CITTÀ COME AVREBBE DOVUTO ESSERE»

Franzisca Marcetti

In verità, dei muri sbrecciati non si sa più l’anima, non si sa più nulla […]. Carlo Betocchi, Del passato

Il rapporto di Alessandro Parronchi con l’immagine della città, nelle sue di- verse declinazioni – poetica, critica, pittorica –, trova nell’immediato dopoguer- ra un importante momento di ridefinizione, imponendo le distruzioni subite da Firenze nell’agosto del 1944 l’urgenza di una riflessione sulla trasformazio- ne dello spazio paesaggistico della ‘dimora vitale’. Riflessione che l’autore affi- da, sul versante della critica, a un nutrito corpus di articoli dedicati alle vicende della ricostruzione fiorentina, ma che trova uno spazio di approfondimento an- che in scritti d’arte, prose giornalistiche, recensioni. E anche da questi testi, per così dire, liminari ci siamo fatti guidare, parallelamente all’indagine sulle vicen- de storiche della città, nell’analisi delle ricadute poetiche di quella che viene con- figurandosi nei termini di una perdita e di una ricomposizione dell’immagine. Per analizzare, su un piano sincronico, la relazione tra la dinamica del rap- porto col paesaggio urbano e la dimensione poetica abbiamo preso a riferimento lo schema delle quattro radici della poesia teorizzato da Oreste Macrí nel 19721, anche alla luce dell’applicazione che il critico ne offre in relazione al Montale «fiorentino» nel 19912. E in questo senso, alla metamorfosi dello spazio larico

1 Oreste Macrí, Lo «spazio domestico» di E. U. D’Andrea, in «L’albero», XVII, 1972, 48, pp. 99-114. In relazione ai testi poetici – la nostra attenzione sarà prevalentemente rivolta agli anni del dopoguerra – prendiamo a riferimento l’edizione delle Poesie a cura di Enrico Ghidetti, Firen- ze, Polistampa, 2000, [d’ora in poi P], in quanto rappresenta la «sistemazione ultima» del proprio «lavoro» da parte del poeta (note, ivi, p. 351). 2 O. Macrí, Ricordo di Eugenio Montale fiorentino, in «La Fortezza, rivista di studi», II, 1991, 2, pp. 17-23, poi in La vita della parola. Studi montaliani, Firenze, Le Lettere, 1996, pp. 9-17. Si tratta di un testo che Macrí «riprend[e] e rielabor[a]» a partire dal suo intervento sulla «Nazione» di Firenze «in occasione della scomparsa di Montale».

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 548 Franzisca Marcetti durante la guerra e, in seguito, durante la ricostruzione, potrebbe almeno in par- te ricondursi quell’«alienazione del circostante rispetto all’io del poeta»3 indivi- duata dalla critica quale cifra paradigmatica di questa stagione poetica parron- chiana, nelle sue conseguenti «fasi di mutismo»4. Se si considera quella che le lettere a Sereni restituiscono come una vera e propria fase ‘desertica’5 dell’anima, si può ipotizzare che in Parronchi i segni lasciati dalle distruzioni nel paesaggio fiorentino abbiano determinato una disgregazione dell’immagine di quella che Macrí definisce la dimora larica «presente […] e attimale»6. La frammentazione dell’immagine è legata anche alla scomparsa di alcune delle linee prospettiche storicizzate nel tessuto urbano, dato, questo, fondamentale se si pensa all’impor- tanza della visione prospettica nella lettura parronchiana dello spazio, ribadita dall’autore in uno dei primi articoli dedicati alla ricostruzione, dove a proposi- to dell’area del Ponte Vecchio, com’è noto una delle più danneggiate dalla guer- ra, rileva: «Il carattere dominante era quello di una prevalenza delle linee verti- cali, nonostante l’elevazione relativamente scarsa degli edifici: aumentata dall’in-

3 Leonardo Manigrasso, La condizione dell’attesa tra ermetismo e esistenzialismo, in «Una lingua viva oltre la morte». La poesia “inattuale” di Alessandro Parronchi, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011, [pp.71-77], p. 74. Ma «il senso» di un’«estraneità dell’io ai luoghi noti» è indi- viduato da Silvio Ramat già all’altezza di Passaggio Primaverile (I visi), in anticipo su quella che sarà poi una tendenza «tipic[a] dell’immediato dopoguerra, da Cardarelli a Luzi» (Silvio Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento, Milano, Mursia, 1976, p. 489). 4 L. Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte» cit., p. 76. Ma si veda in proposito anche la lettera di Parronchi a Sereni del 17 febbraio 1945, in cui il poeta afferma di sentirsi «veramente co- stretto al silenzio» (Un tacito mistero: il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 37). E ancora, nella lettera a Sereni del 20 giugno del 1945 (ivi, p. 43): «Critica, come vedi, riflesso di tempi negati all’immaginazione. Il vero lavoro resta chiuso, non procede […]». 5 Nella lettera a Sereni del 1° agosto 1945, Parronchi parla infatti di «deserto di affetti», «aridità di cuore che […] si fa sempre più grande» (ivi, p. 45). E si pensi, sul versante poetico, a un testo come Io su questo deserto non ho presa (In ascolto, [P, p. 104]). 6 O. Macrí, Lo «spazio domestico» di E. U. D’Andrea cit., pp. 105-106. Si tratta di un aspetto che può aver influito anche su quella che per il critico è la terza radice della poesia (la dinamica): «La metamorfosi del principio personalistico fino al singolo della poesia (significato [salvifico del- la poesia]) si opera per analogia naturalistica vegetale (dinamica [della maturazione e del fiore]), attraverso equivalenti simbolici delle pulsioni della matrice materna-domestica (dimora [larica ancestrale e presente, acrona e attimale]), sacralmente qualificata in maniera primaria e di verifica misura controllo del vettore (qualità [del sacro e del trascendentale])». Ma sul paesaggio letterario come risultato della «mise en abîme delle strutture di una dimora vitale», nella sua «realtà origina- ria» e «nelle sue modificazioni storiche», si veda anche Anna Dolfi, L’idillio e l’astrazione. Le forme del paesaggio in poesia da Leopardi alla terza generazione, in La parola e l’immagine. Studi in onore di Gianni Venturi, a cura di Marco Ariani, Arnaldo Bruni, Anna Dolfi, Andrea Gareffi, Olschki, Firenze, 2011, II, [pp. 655-675], p. 666 (una «parziale anticipazione» in A. Dolfi, Paysage et poésie en Italie de Leopardi au XXe siècle, in Aline Bergé, Michel Collot, Jean Mottet, Paysages européens et mondialisation 2. Éléments de géographie littéraire, édités et présentés par Aline Bergé et Julien Knebusch, Carnet de recherche Vers une géographie littéraire, [www.geographielitteraire.hypothe- ses.org], Septembre 2012, [pp. 75-86], p. 80). «LA CITTÀ COME AVREBBE DOVUTO ESSERE» 549 curvarsi delle vie che ne intensificava l’effetto prospettico: tagliente e severo»7. Se la «voce» poetica «è diventata roca», quasi «afona»8, indicibile è inizialmen- te il dato urbano9, che si ricompone gradualmente attraverso il rapporto con la di- mensione «ancestrale e […] acrona»10 della dimora vitale11. Da non intendere nel

7 A. Parronchi, La ricostruzione di Firenze. I ventidue progetti lasciano ancora aperta la discus- sione, in «La Nazione del Popolo», 12 gennaio 1947, p. 3. Ancora, nell’articolo Firenze non è San Gimignano ma nemmeno Nuova York (in «La Nazione del Popolo», 19 gennaio 1947, p. 3), la città viene descritta come «disperatamente asimmetrica». 8 Lettera a Sereni del gennaio 1947 (Un tacito mistero cit., p. 151). 9 Pressoché assenti gli elementi urbani in Un’attesa – o comunque sensibilmente diradati rispetto alle precedenti raccolte, secondo una dinamica di oscuramento già innescata nei testi conclusivi di Alone, e forse imputabile anche al passaggio bellico –, dove il campo semantico della città si condensa luttuosamente nelle «morte cime / di paurosi palazzi» di Se grido (Un’attesa, [P, p. 58]). Si veda come, in questo testo, la topografia del luogo risulti suggerita dalla dinamica di un elemento liminare come il suono, che nei versi iniziali («Se grido nella notte la mia voce / non suona. Più nemmeno alla voltata / quell’eco di laggiù non si sa dove») sembra delineare gli spazi vuoti lasciati dalle distruzioni. Significativa, in tal senso, anche l’esitazione della luce lunare, se confrontata con quanto l’autore dichiara in un’intervista del 2004: «La luna è una preferenza. […] è un legame con la tradizione: non potrei mai fare a meno della luce lunare» (Un breve col- loquio. Intervista ad Alessandro Parronchi, in «Ritrovando un’immagine smarrita». Parronchi inedito tra disegni e poesie, a cura di Umberto Morbidelli, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2004, [pp. 15-19], p. 16). Si tratta, in ogni caso, di un raro esempio di collisione tra dato poetico e città presente, rispetto alla quale un più esplicito riferimento è individuabile nello «scheletro di ponte» di Addio! Restano gli anni (Occhi sul presente, [P, p. 129]), che pare alludere alle macerie dei ponti fiorentini distrutti, ma richiama forse anche l’ossatura in ferro dei ponti Bailey, che consentivano, durante la ricostruzione, le comunicazioni tra le due sponde dell’Arno. Si vedano anche «l’im- mobile rovina» di All’arida montagna (In ascolto, [P, p. 102]) e le «pareti arate» che «abbagliano / finestre di celeste» di Città, che sembrano richiamare i prospetti degli edifici distrutti, nelle cui aperture era possibile scorgere il cielo (vv. 434-435). 10 O. Macrí, Lo «spazio domestico» di E.U. D’Andrea cit., p. 105. 11 In relazione all’assenza di riferimenti espliciti alla realtà nella rappresentazione dello spazio è comunque importante tenere conto della dinamica di definizione dell’oggetto propria della prima stagione parronchiana, con particolare attenzione ai «non-luoghi di consistenza puramen- te verbale dei Giorni Sensibili» – caratterizzati da una «totale inserzione dell’Oggetto all’interno della circoscrizione dell’io» – e alla progressiva «estensione dell’Oggetto al di fuori delle categorie (re)interpretative del Soggetto» dei Visi (L. Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte» cit., p. 44), dove «il paesaggio s’isola più ampiamente descritto» (O. Macrí, Un’attesa, in «Paragone», I, giugno 1950, 6, poi in Neoromanticismo di Parronchi, in Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea, Firenze, Vallecchi, 1956, ora in edizione anastatica, Trento, La Finestra, 2002, [pp. 171-195], p. 190). D’altra parte, Massimo Fanfani rileva che sono proprio «motivi e visioni» delineati nelle «prime raccolte» a individuare «in modo abbastanza preciso [...] i campi semantici all’interno dei quali si dispone il […] lessico» del poeta, «in correlazione a una numerata ma assai espressiva serie di parole e di concetti chiave» (Sul linguaggio poetico di Parronchi, in Per Alessandro Parronchi. Atti della giornata di studio, Firenze – 10 febbraio 1995, a cura di Isabella Bigazzi e Giovanni Falaschi, Roma, Bulzoni, 1998, [pp. 61-101], p. 81). Si può notare, in tal senso, che in relazione alla città – pur nella permanenza di alcune immagini – il repertorio lessicale di se- mantizzazione urbana subisce nei testi dell’immediato dopoguerra una radicale riduzione rispetto alla varietà riscontrabile nelle prime raccolte (e in particolare nelle prose poste in apertura alle sillogi). Scompaiono, oltre agli elementi propri alla circoscrizione semantica ‘domestica’ (per cui si veda la n. 17), vocaboli come vicoli, fontane, gronde, comignoli, terrazze, spalliere, portici, torri, parapetti, balaustre, gradini, cortili, ville. Anche gli elementi lessicali legati alla materia subiscono 550 Franzisca Marcetti senso di una proiezione ideale e nostalgica, quanto piuttosto, a nostro avviso, della ricerca di una chiave d’accesso alla città presente. Se infatti si osserva la dinamica dell’immagine urbana nello spazio poetico parronchiano12, si possono rilevare nei modi della figurazione fasi di condensazione e di dilatazione. E pare significativo che nelle seconde, riconducibili alla ricerca di un più disteso regime di ‘dicibilità’, la forma sintagmatica risulti non di rado supportata dalla citazione, dal prestito, da variazioni modulate a partire da una tradizione poetica e pittorica in cui Parronchi sembra vedere cristallizzate la forma e l’essenza della città13. Nelle fasi di addensa- mento, principalmente espletate nella sineddoche e nel procedimento metonimico, si assiste invece al progressivo recupero di alcuni dati topici14 e di quelle «costanti

una contrazione, marmo, porfido, cemento lasciano il posto all’elemento dominante della pietra. Gli elementi di definizione e delimitazione dello spazio costruito si riducono, laddove nelle prime raccolte si potevano trovare suburbio, borgo, paesi, abitati, abitazioni, edificio. Dileguano i termini spazio e luogo, mentre tarda a ricomparire città, e con modalità che segnalano ulteriormente la presenza di una dinamica di depotenziamento. Alcuni elementi lessicali riappariranno nei versi di Città, dove il dato urbano troverà uno spazio di dicibilità più ampio e disteso; altri si riatteste- ranno posteriormente. 12 Fondamentale, in tal senso, il percorso «sui notturni d’autore» e sulle forme della città parronchiana tracciato da A. Dolfi, La città, la notte, l’«immagine ombrata» e le forme della luce, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», vol. XXXI, 2010, pp. 159-171, quindi in Per Alessandro Parronchi (1914-2007). Atti della Giornata di studio, Siena, Biblioteca della Facoltà di Lettere e Filosofia, 3 marzo 2010, Fiesole, Cadmo, 2012, pp. 7-19. Ma si veda in proposito anche S. Ramat, La fuga e l’imitazione ritmica (Parronchi), in Storia della poesia italiana del Novecento cit., pp. 485-494 (in particolare le pp. 490-493). 13 Si tratta di un fenomeno non esente da episodi di intertestualità interna, con ripresa di moduli figurativi da I giorni sensibili e I visi. Ma per la «riconvocazione della tradizione come ricorso a un tempus alterum» si veda L. Manigrasso, Falsetto parronchiano, in «Una lingua viva oltre la morte» cit., [pp. 88-97], p. 88. 14 Questi pilastri della rappresentazione, oltre che a una precisa tradizione poetica e pittorica, risultano riconducibili anche all’intervento dell’«ipotesto biblico», secondo le modalità tracciate per la poesia contemporanea nel saggio di Luigi Tassoni, La Bibbia come ipotesto e il linguaggio della poesia italiana contemporanea (in La scrittura infinita. Bibbia e poesia in età romantica e contemporanea, a cura di Francesco Stella, Firenze, Olschki, 1999, pp. 83-104), in cui «l’ipotesi è quella di considerare la scrittura biblica come ipotesto per la poesia, ovvero percorrere un sub- strato del testo contemporaneo, spesso come provocatore dell’immagine a livello di indicatività significante piuttosto che di induzione semantica» (p. 83). L’applicazione di questa prospettiva critica al caso parronchiano risulta particolarmente funzionale, rilevando Tassoni che «l’ipotesto si trova là dove la fonte non funziona più». In questo senso, l’ipotesto biblico risulta in Parronchi prevalentemente neotestamentario, come del resto in Luzi e Bigongiari (secondo quanto dichia- rato dai poeti stessi in Bibbia e poesia del ’900. Incontro con Piero Bigongiari, Maura Del Serra, Mario Luzi, in La scrittura infinitacit., [pp. 105-126], pp. 110 e 108). Si pensi, ad esempio, al ricorrere nei versi di Città delle espressioni «spigolo» e «angolo forte della pietra», che sembrano richiamare la «pietra angolare» dei Vangeli (Mt, XXI, 42; Mc, XII, 10; Lc, XX, 17; Atti, IV, 11), e per cui tuttavia non è da escludere anche una mediazione betocchiana (Ricostruzioni, vv. 1-4: «Così, patria assurda, le pietre / angolari della casa avita, / le troppo amate, m’invitano, / così difficil! […]»). «LA CITTÀ COME AVREBBE DOVUTO ESSERE» 551 elementari»15 – argini dell’archetipo naturale16 – in cui il poeta pare individuare le figure simboliche fondative dell’archetipo urbano. Si veda in tal senso il progres- sivo riaffioramento nel testo di elementi di semantizzazione del costruito già pre- senti nelle precedenti raccolte – l’immagine della casa, della strada, del muro, ma anche di giardini, piazze, tetti – sebbene inizialmente de-qualificati dall’intorno e da un’aggettivazione che suggerisce sul piano del significante il depotenziamento del significato17. Risulta al contempo determinante che proprio questi elementi

15 Secondo la definizione attribuita a «case, ville, acqua» da Oreste Macrí in una lettera a Nicola Lisi del 29 luglio 1937, (ma citiamo da A. Dolfi, Per una ‘lectio brevis’ della memoria, Postfazione a O. Macrí, Le mie dimore vitali, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1998, [pp. 149-156], p. 151) a proposito del paesaggio toscano, e in termini contrastivi rispetto alla ‘dimora’ salentina: «[…] La mia mitezza non è fatta forse per queste terre avare di messi e di femmine e questa brullità notturna dominata da un perpetuo azzurro così stridente e fallace mi obbliga trop- po a una resistenza del cuore per digerirne gli elementi persi e sottostanti e distillarne in chiara lettera le distese e immobili superfici ideali. […] temo talvolta che mi venga a mancare qualcosa in quest’assenza di punti di riferimento, in questo sistema di valori tutti sullo stesso piano, sì che mai io possa dire come te le costanti elementari del pianeta: case, ville, acqua». 16 Rimandiamo, per questa interpretazione del dato murato come argine dell’archetipo na- turale, ancora ad A. Dolfi, Per una ‘lectio brevis’ della memoria cit., p. 153: «[…] l’Oreste Macrí destinato a dialogare con Simeone, marqué dagli studi e dalla docenza universitaria, (il tutto esperito ed esercitato in Toscana, e per un cinquantennio) avrebbe cercato architetture piuttosto che natura, Rinascimento contro Barocco, differenze, sottigliezze, punti di riferimento, contro indifferenziato. Un modo, tra le costanti elementari e rassicuranti del pianeta (case ville, ac- qua), per arginare l’invadenza dell’archetipo, lo sgomento per la forza devastante della naturalità ‘impudica’». 17 Una «rappresentazione “deformata” della realtà» in relazione all’«occasione paesaggistica» (L. Manigrasso, La condizione dell’attesa tra ermetismo e esistenzialismo, in «Una lingua viva oltre la morte» cit., [pp. 71-77], p. 75 e n.) che si può appunto ricollegare anche alla trasformazione del paesaggio durante la guerra. In questa prospettiva, pare significativo che nei testi dell’imme- diato dopoguerra tardino a ricomparire gli elementi liminari dello spazio domestico – finestre, davanzali, porte, soglie, stipiti – segno di una comunicazione spezzata tra dimensione privata e pubblica della spazialità urbana. Per questo aspetto risulta utile il confronto con quanto osserva in uno scritto del 1947 a proposito della trasformazione delle città durante la guerra: «[…] i rioni, le singole case si isolavano le une dalle altre, la vita si stringeva dietro le finestre chiuse, sotto la nera ala del coprifuoco.» (C. Levi, La città, in Dopo il diluvio: sommario dell’Italia contemporanea, a cura di Dino Terra, Milano, Garzanti, 1947; ora in nuova edizione a cura di Sal- vatore Silvano Nigro, Palermo, Sellerio, 2014, [pp. 39-44], p. 42). La città – che nelle precedenti raccolte poteva ancora essere qualificata come «antica» (Saluto, [I visi]) e «alta» (Per le vie che dai grandi orti in ascolto, [Alone]) – è «ignota» nei versi di In viaggio (Affreschi), associata all’«ombra dei tetti» che «a lungo svaria» «in ombre senza nome…» in È qui (Affreschi). Ancora, in All’arida montagna (In ascolto), risulta caratterizzata da un «vuoto d’abissi / che non danno vertigine!». Si può tracciare, in tal senso, un percorso di approssimazione graduale allo spazio urbano, che nella dimensione poetica viene a sovrapporsi esplicitamente a Firenze solo nella sezione Addii (Firenze), significativamente condensato nell’immagine di un «Deserto» – seppur «delizioso» – dove gli elementi archetipici dell’acqua e della pietra si dispongono in una spazialità dominata dall’elemento centripeto dell’«alta mole» che «contend[e] col rosso / della sera». Il poemetto Città costituisce, in proposito, una tappa importante nell’evoluzione del rapporto di Parronchi con la città ‘ricostruita’. La più distesa affabulazione dello spazio è forse autorizzata anche dal percorso di progressiva, seppur lenta, ricomposizione del tessuto urbano fiorentino, che offre a Parronchi la possibilità di uno scenario meno luttuoso e cupo rispetto a quello della fine degli anni Qua- 552 Franzisca Marcetti trovino uno spazio di riqualificazione nelle riflessioni critiche sulla ricostruzione, affidate in quegli anni da Parronchi alle pagine di quotidiani e periodici. Questa attività giornalistica, destinata ad accendersi a partire dal ’47 (anno in cui l’autore vibra «strali acutissimi» sul «“Mattino”»18 contro le proposte progettuali degli ar- chitetti partecipanti al Concorso per la ricostruzione della zona intorno al Ponte Vecchio19), ha dunque un ruolo fondamentale nella configurazione del rapporto parronchiano con la città, di cui costituisce un momento di ridefinizione critica e di impegno ‘militante’, tra episodi di desolazione e tagliente ironia20. Si assiste in questi testi a una nuova messa a fuoco dello ‘sguardo’ sul paesaggio, che nello sce- nario «informale»21 delle distruzioni isola le ‘invarianti’ cui Parronchi affida, sul

ranta, con la vita che sta riacquistando una sua normalità. Si vedano in proposito i vv. 92-97: «Scenario del tuo sogno / le vie della città / pareti che deviano sulla traccia / di luce che segnata fu da un viso / – Io sempre vi amerò, con ciò che in voi / è invecchiato ed è nuovo, / […]», [corsivo nostro]. Ma anche in questo caso non mancano elementi ipotestuali, se è lecito scorgere nella dinamica di sovrapposizione degli oggetti per ‘tagli’ prospettici – «lo spigolo forte della pietra / che un profilo di ponte taglia» – una suggestione da Les ponts di Rimbaud: «Un bizarre dessin de ponts, ceux-ci droits, ceux-là bombés, d’autres descendant ou oubliquant en angles sur les premiers […]» (Illuminations). 18 Sono parole dello stesso Parronchi nella lettera a Mario Marcucci del 30 marzo 1948, sebbene riferite all’articolo parronchiano Avanguardie di ieri e di oggi. Soffici al Fiore: «In via Cavour c’è una mostraccia di picassiani fiorentini, italiani e francesi contro la quale ho vibrato strali acutissimi nel “Mattino” di sabato scorso […]» (Mario Marcucci, A. Parronchi, «Nell’arte la suprema necessità». Carteggio, a cura di Antonella Serafini, Lucca, Pacini Fazzi, 2008, II, pp. 181-182. L’articolo uscì sul «Mattino dell’Italia centrale» del 27 marzo 1947, p. 3, come indicato dal curatore del Carteggio a p. 182, n. 1). I primi articoli parronchiani dedicati ai progetti per la ricostruzione uscirono sulla «Nazione del Popolo». 19 L’occasione scaturisce dall’esposizione delle tavole di progetto nella chiesa di Santo Stefa- no al Ponte, nel gennaio 1947. Si veda in proposito «Il Nuovo corriere», 10 gennaio 1947, che segnala, a p. 2, la presenza all’inaugurazione della mostra di «numerosi artisti e letterati» (La mostra dei progetti è stata inaugurata ieri). Sulla ricostruzione fiorentina, e sul dibattito che ne accompagnò le vicende, si vedano Gianluca Belli, Amedeo Belluzzi, Una notte d'estate del 1944. Le rovine della guerra e la ricostruzione a Firenze, Firenze, Polistampa, 2013; Carlo Cresti et al., firenze 1945-1947. I progetti della ‘ricostruzione’, Firenze, Alinea, 1995; Carlo Cresti, La “ricostru- zione” tradita e gli anni a venire, in C. Cresti, Firenze, capitale mancata. Architettura e città dal piano Poggi a oggi, Milano, Electa, 1995, pp. 310-386. 20 Segnaliamo, a titolo esemplificativo, l’immagine del «villaggio di castori» richiamata per «il complesso […] di portici» ad «aperture alternate» inizialmente proposto per via de’ Bardi dal progetto S. Felicita. Il “rospo” del Ponte Vecchio si fa gioco dei controsensi, in «Il Mattino dell’Italia Centrale», 8 maggio 1947, p. 3, [firmato con lo pseudonimo Pietro Alessandri]. Mentre quasi nella satira sconfinano le osservazioni dedicate ai ponti fiorentini ricostruiti in un articolo del ’54, dove il Ponte S. Niccolò «si sbizzarrisce» col suo «arco unico, che venne presentato come un miracolo di leggerezza» e invece «pesa come un trampolino su cui si debba, fuor di piazza Beccaria, prender la rincorsa per lanciarsi a volo… sul Piazzal Michelangelo» (Molti “ponti dei sospiri” e uno per respirare, in «La Chimera. Periodico di letteratura e d’arte», I, maggio 1954, 2, pp. 9-10). 21 La definizione è parronchiana, ma utilizzata in relazione all’aspetto di Firenze dopo l’allu- vione del 1966, paragonato a «quell[o] di certi dipinti informali» (A. Parronchi, Il Diluvio, in «La Nazione», Firenze, 9 dicembre 1966, p. 3, [Edizione del mattino]). «LA CITTÀ COME AVREBBE DOVUTO ESSERE» 553 versante poetico, il compito di ri-costruire l’immagine della città22, rinnovandone il significato attraverso il dialogo col presente. Se la critica dedicata alla ricostruzione fiorentina sembra assegnata da Parronchi a un ‘tempo minore’, come si potrebbe dedurre dai fugaci riferimen- ti ai suoi articoli individuabili nelle lettere a Sereni23 e a Marcucci24, è tuttavia da rilevare che la riflessione sulla città si fa pervasiva, in questo periodo, anche in scritti, almeno in apparenza, estranei al tema. Così accade, ad esempio, in un trafiletto non firmato dedicato nel ’47 al caldo dell’agosto fiorentino e intitola- to Specchi ustori 198825, che già nel titolo sembra proporre ironicamente una va- riazione sui motti che contrassegnavano alcuni progetti presentati al Concorso per la ricostruzione dell’area intorno al Ponte Vecchio26, dove figuravano infat- ti proposte come David ’46 e Firenze nostra 300. Ma che la critica ‘urbana’ non costituisca una produzione marginale è attestato, a nostro avviso, dalla fitta pre- senza di interventi sul tema della città e dell’architettura nella bibliografia de- gli scritti dell’autore27. La partecipazione alle vicende urbanistiche e architetto- niche si attesta tra le più intense e prolungate proprio nell’ambito del dibatti- to sulla ricostruzione di Firenze, che Parronchi continua a seguire anche quan- do l’interesse pubblico per la questione va ormai affievolendosi, fiaccato dai ri- tardi negli adempimenti e dalla desolazione di alcune realizzazioni. È questo un

22 Si vedano in tal senso la «casa-unità di misura», «la strada», «le finestre» La( ricostruzione della zona del Ponte Vecchio: Firenze non è San Gimignano ma nemmeno Nuova York cit.), la «cinta murata», «il giardino» (La ricostruzione di Firenze. I ventidue progetti lasciano ancora aperta la discussione cit.), «l’“angolo”», «il fiume» (Contraddizioni e intemperanze nel secondo progetto “Città sul fiume”, in «Il Mattino dell’Italia centrale», 17 aprile 1947, p. 2). Si può, in tal senso, parlare, per Parronchi, di un vero e proprio ‘riaffioramento’, sussistendo negli elementi fondamentali del paradigma di lettura dello spazio urbano una consonanza con alcuni elementi di costruzione dell’immagine della città collaudati nelle prime raccolte poetiche. 23 Lettera del 20 gennaio 1947 (Un tacito mistero cit., [pp. 142-143], p. 142): «Mi decido a scrivere io, ora che ho adempiuto a certi impegni (articoli pel giornale sulla ricostruzione di Firenze) nei quali sono rimasto impelagato per due settimane». 24 Lettera del 19 gennaio 1947 (M. Marcucci, A. Parronchi, «Nell’arte la suprema necessità...» cit., II, p. 112): «Queste due settimane passate ho dovuto occuparmi pel giornale della Mostra dei progetti della ricostruzione. Non so se abbia visto i due articoli, apparsi oggi e la domenica scorsa, ma te li manderò». E si noti come, tuttavia, Parronchi prosegua con tono più sostenuto: «[…] temo avrò delle seccature per quella questione, ma le accetto, e fin che potrò parlerò e dirò quello che mi sembra da dire». È forse legata a queste «seccature», presumibilmente determinate dal clima spesso animoso e polemico che caratterizzò il dibattito, la scelta di vergare i successivi articoli (quelli dedicati ai singoli progetti) con uno pseudonimo. 25 «Il Mattino dell’Italia centrale», 3 agosto 1947, p. 3. 26 Ma si veda, per il sintagma, anche lo «specchio ustorio» delle Nuove stanze montaliane («[…] Oggi so ciò che vuoi; batte il suo fioco / tocco la Martinella ed impaura / le sagome d’avo- rio in una luce / spettrale di nevaio. Ma resiste / e vince il premio della solitaria / veglia chi può con te allo specchio ustorio / che accieca le pedine opporre i tuoi / occhi d’acciaio» [vv. 25-32]). 27 Il mappamondo volubile. Bibliografia degli scritti di Alessandro Parronchi, a cura di Eleo- nora Bassi, Fiesole, Cadmo, 2004, ma si veda ormai A. Parronchi, Bibliografia delle opere e della critica (1937-2014), a cura di Eleonora Bassi e Leonardo Manigrasso, Pontedera, Bibliografia e Informazione, 2014. 554 Franzisca Marcetti momento al quale l’autore fa spesso riferimento anche in scritti successivi, pre- valentemente giornalistici28, fino a offrirne uno ‘sguardo a posteriori’ nel libro- intervista curato da Renzo Cassigoli nel 200129. Per gli anni compresi tra il ’44 e il ’47, in assenza di scritti più marcatamen- te critici, risultano fondamentali le indicazioni presenti nei carteggi, in alcune recensioni, nelle note d’autore all’edizione 2000 delle Poesie:

Il periodo bellico e il dopoguerra ebbero conseguenze decisive per la poesia. Gli anni Quaranta si staccarono dal decennio precedente nel quale rimase re- legata l’“aura ermetica”. / Sono, gli anni Quaranta, un tempo di contrasti e di risoluzioni improvvise, di abbandoni e di incontri. Li precedono i lunghi mesi in cui mi divisi tra la città, che ebbe dalla guerra le conseguenze ben note, e la campagna di Greve dove mia madre era sfollata e dove mi raggiungevano di tanto in tanto gli amici30.

Ma segnaliamo che un’eccezione nel silenzio critico di questa fase (il dibat- tito sulla ricostruzione già a questa altezza imperversava) è costituita dalla ri- flessione sul nuovo volto della città offerta da Parronchi nel settembre 1945, con una recensione alla Mostra di Firenze distrutta31, inaugurata l’11 agosto del 1945 a Palazzo Strozzi in occasione del primo anniversario della liberazione della città32. È interessante notare come per Parronchi l’«orrore degli sconvol- gimenti» tracci un confine irreversibile tra la Firenze presente e quella «“come fu”»33. Nello scritto del ’45 si delinea però anche l’ipotesi di una nuova visio- ne dello spazio: «Ma qui non sempre si tratta di cose morte: le pareti abbattu- te hanno lasciato nello spazio dov’erano, aprirsi l’occhio su altre insospettate pareti…». Nel descrivere «gli aspetti» della città distrutta, Parronchi offre l’im-

28 Si veda, a titolo esemplificativo, l’articolo del ’63 dedicato all’esposizione di cinquantaset- te dipinti di Rosai presso l’ex-convento delle Oblate (A. Parronchi, Cinquantasette quadri di Rosai alle Oblate. Ritratto di Firenze, in «La Nazione», Firenze, 17 aprile 1963, p. 3). 29 Conversando con Parronchi, Firenze, Polistampa, 2001, [La ricostruzione di Firenze, pp. 47-50]. Ma uno sguardo ‘retrospettivo’ sulla vicenda risulta già condensato, a nostro avviso, nei versi di Replay da cui prende spunto il titolo di questo intervento. 30 P, p. 362. Il periodo bellico fu vissuto da Parronchi nei termini di un «esilio», come risulta dalla Premessa d’autore al volume A. Parronchi, Esilio, Novara, Interlinea, 2003, con una nota di Giovanna Ioli, [pp. 5-6], p. 5: «Ma ecco. Era il momento della seconda guerra mondiale in cui si avvertiva avvicinarsi anche a noi la minaccia, che si concretò nel primo bombardamento su Firenze, avvenuto il 25 settembre 1943. Avevo deciso di lasciare la città e raggiungere mia madre a Terreno, una casa in campagna. Mi muovevo a piedi quando i trasporti pubblici scarseggiarono e infine cessarono affatto. / Questo fu l’“esilio”, vissuto nell’incoscienza dei miei ventinove anni». 31 «Il Mondo», I, 15 settembre 1945, 12, p. 11, [non firmato]. 32 La mostra fu allestita dall’architetto Italo Gamberini, con «lo scopo immediato […] di far sentire ai fiorentini l’urgenza del presente dovere per la ricostruzione della parte distrutta della città» (La Mostra di Firenze distrutta, in «Il Nuovo Corriere», 17 luglio 1945, p. 2). 33 Si noti, in questa espressione, la radicalizzazione del motto com’era dov’era, che esprimeva nel dibattito pubblico le posizioni legate al ripristino ‘filologico’ del preesistente. «LA CITTÀ COME AVREBBE DOVUTO ESSERE» 555 magine di una Firenze «tranquilla nell’ordine delle sue architetture, più gran- de negli spazi aperti dalle mine, ai cui estremi le linee di altre architetture si vedono ricollegarsi come in chi senta rinascere un’eco a una distanza che non s’immaginava». Ed era questa un’impressione già viva «quando ancora nel cal- do dell’agosto ’44 il fumo esalava dagli enormi cumuli irti di travi dietro cui la torre di Parte Guelfa, schiantata da cima a fondo (poi abbattuta) addentava ancora il verde dei giardini lontani…». Ma in questa nuova spazialità qualcosa era andato «perduto per sempre»: «l’incanto di quelle strade». Nella riflessio- ne critica ripresa nel ’47, la potenzialità di quei nuovi spazi risulta infatti no- tevolmente ridimensionata:

[…] in un primo momento quel che mi aveva colpito di più era l’apertura di quegli spazi enormi, di quelle prospettive grandiose, agli estremi delle quali i tronchi degli edifici rimasti non avevano tuttavia perduto la possibilità di rac- cordarsi. Sarà opportuno, mi domandavo in quel momento caotico (il più adat- to però all’idea d’ogni eventuale trasformazione) lasciare in seguito qualcuno di questi spazi? Certamente un’apertura ben situata potrebbe arricchire la città di un respiro che la pletora delle belle costruzioni anteriori le toglieva. Ma, dopo il caos, la vita si andava ricomponendo e, a traverso le rovine, riscavava i suoi antichi solchi, e le modificazioni da fare mi parevano meno34.

Sul versante poetico, invece, alcune indicazioni d’autore relative alla tan- genza poesia-paesaggio sono presenti in una lettera a Sereni dell’8 marzo 1946, dove Parronchi, a proposito di quella che definisce una «formazione… geologi- ca» del proprio verso, delinea un’interessante analogia: «Dall’anno scorso a que- sta parte ho per esempio molti versi che lentamente sono andati ricostituendo il paesaggio di cui erano le parti, prima staccate»35. L’analogia gli è forse suggeri- ta da una lettera di Ungaretti del 30 dicembre 1945, in cui, a proposito dell’A- près-midi d’un faune36, il poeta rileva:

L’Après-midi, è a dirla in breve, un paesaggio: un bosco dove la «nuit» è «an- cienne» per il folto, e dove la luce penetra con difficoltà e con molti giuochi: giuochi infiniti di luci e ombre; ed esse dai rosa-rose dall’incarnato evocatore di sensualità e di tenerezza portano la pittura che rappresenta naturalisticamente il

34 La ricostruzione di Firenze. I ventidue progetti lasciano ancora aperta la discussione cit. 35 Un tacito mistero cit., pp. 85-86 (corsivo nostro). Questo percorso è però vissuto non senza alcune resistenze: «ma questa formazione… geologica non è fatta per piacermi». E poco prima aveva scritto: «Sento anch’io la fusione di più particolari in un complesso come proce- dimento fondamentalmente errato, eppure è una questione che in varie occasioni è tornata a preoccuparmi». 36 Com’è noto, tradotto da Parronchi nel 1945 (Firenze, Il Fiore) e successivamente ripro- posto con ampliamenti e modifiche presso Fussi (si veda in proposito L. Manigrasso, Capitoli autobiografici. Poeti che traducono poeti dagli ermetici a Luciano Erba, Firenze, Firenze University Press, 2013, pp. 29-30 e p. 150). 556 Franzisca Marcetti

paesaggio a farsi via via ricca del contenuto umano del poeta, sino a diventare il suo emblema, meglio, l’emblema d’un suo momento. Tutta la poesia parte dalla profondità dei rosa37.

Non è un caso, dunque, che l’analogia libro-paesaggio torni quasi due anni dopo proprio nella recensione parronchiana al Dolore di Ungaretti, suggerita già a partire dal titolo dell’intervento, Paesaggio nuovo38. Nell’articolo si evidenziano alcuni nuclei tematici a nostro avviso importanti per interpretare il rapporto del poeta col paesaggio del dopoguerra. I «libri di Ungaretti» appaiono a Parronchi come «paesaggi immutabili», cui si connette una possibilità di ‘riconoscimen- to’ dello spazio storicizzato e perduto nella parola poetica che lo ha cristallizza- to, rendendolo assoluto e inviolato. Parronchi sembra tratteggiare la possibilità di riviverne la spazialità nel presente («Vive ancora quel paesaggio»), calibrando «ogni variazione del sentimento coi luoghi delle avventure sofferte». Inoltre, la raccolta ungarettiana pare offrirgli un modello di figurazione e ‘dicibilità’ rispetto a ciò che fino a quel momento è rimasto inesprimibile al poeta, «i disastri […] della guerra scatenatisi ciecamente su un territorio segnato dalla grazia della ci- viltà», le «rovine materiali e morali di un popolo». In questo senso, il rapporto con la parola ungarettiana si configura come momento cruciale per Parronchi, che riesce a intravedere nel Dolore la chiave di una nuova lettura e ricostituzio- ne dello spazio39, capace di tradursi anche in un dialogo attivo con la realtà, es- sendosi l’autore riconosciuto in quell’«umanità scarna» che Ungaretti rappresen- ta «interamente riversata sull’esterno, sulle cose, nel tentativo di riplasmarle»40. Un’allusione alla ‘«fame» di paesaggio’ è ancora presente in una lettera a Marcucci del 1° maggio 194841, in cui a proposito del proprio appetito Parronchi allega il testo dattiloscritto della Fame rimbaudiana42. E a sedare questa ‘fame’ di

37 Giuseppe Ungaretti, Alessandro Parronchi, Carteggio, a cura di Alessandro Parronchi, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, p. 34. Il curatore segnala che il passo (la riprodu- zione dell’originale ivi, p. 8) risulta annotato, di mano di Ungaretti e «con varianti minime», sul rovescio della lettera di Parronchi del 29 ottobre 1945 (ivi, p. 16), che si conclude infatti con osservazioni relative alla traduzione di alcuni versi mallarmeani, tra cui: «[…] prouve, hélas! que bien seul je m’offraie / Pour triomphe la faute idéale de roses». 38 A. Parronchi, Il dolore, paesaggio nuovo, in «Il Mattino dell’Italia centrale», 27 novembre 1947, p. 3 (poi, col titolo Vita d’un uomo, in «Il domani d’Italia», 4 dicembre 1947, p. 3). 39 «Le qualità proprie di Ungaretti, l’energia, la mobilità, la velocità d’una volta, sono diven- tate qualità dell’anima, e attraverso di esse si direbbe l’anima reagisca contro la natura invecchia- ta, afflitta, consunta, non meno che contro le avversità del destino. Una dura lotta esse impegna- no, e quello che ricreano, dal tormento, dal dolore, è ancora un paesaggio indimenticabile» (ivi). 40 Ma si veda in proposito anche quanto Parronchi scriveva a Sereni il 20 giugno 1945: «Il secondo numero di “Poesia” esce con nuove poesie di Ungaretti. Hai il senso che sia uno dei pochissimi uomini restati disperatamente a costruire, il resto è una gigantesca impresa di demo- lizioni» (Un tacito mistero cit., p. 42). 41 M. Marcucci, A. Parronchi, «Nell’arte la suprema necessità» cit., pp. 193-195. 42 «Il mio appetito fa come prima: mangio molto. (Vedi a questo proposito la seconda poesia di Rimbaud). Se dovessi dire che mangio volentieri direi una bugia.» (ivi, pp. 193-195). Il testo «LA CITTÀ COME AVREBBE DOVUTO ESSERE» 557 paesaggio interviene, sul versante poetico, la tradizione, depositaria di quell’im- magine acrona e memoriale della città con la quale si cerca di rispondere all’il- leggibilità di uno spazio radicalmente trasformato. Ma la fitta presenza di ele- menti ipotestuali non impedisce alla parola poetica di tradurre il presente, se- condo una modalità ancora una volta ungarettiana, individuata questa volta da Parronchi nella Terra promessa43, in cui la «poesia», pur «condotta a vivere di es- senze e significati mitici» sa tuttavia «irromp[ere] con tutta l’imminenza e il se- greto delle cose reali»44. In questo senso, la nutrita presenza di eco campaniane, in relazione al se- gno urbano nello spazio poetico, si spiega forse alla luce della centralità che per Parronchi il dato architettonico riveste in quella poesia:

Pensiamo poi a quanta parte abbia nella poesia di Campana l’architettura. Le piazze italiane, i giardini, le strade. Tanto che ogni viaggio campaniano sembra spinto da un movimento di evasione da un paesaggio urbano penetrato di civiltà secolare. Firenze, Bologna, Faenza, Genova: in esse l’architettura è dominante45.

allegato da Parronchi è proposto nel carteggio a p. 195: «Se ho / appetito non è / che di pietre e terra. / Fo colazione d’aria, / Carboni, roccia, ferro. // Mie fami, girate. Sfamatevi / al prato di suoni. / Attraete il gaio veleno / Dei Convolvoli. / Cibatevi di sassi spaccati, / di vecchie pietre di chiese; / Ciottoli d’antichi diluvi, / Pani seminati in valli grigie». 43 A. Parronchi, La terra promessa. Fedra, in «Letteratura e arte contemporanea», I, luglio- agosto 1950, 4, pp. 84-86. 44 Ivi, p. 84. Già nel 1946 Parronchi rilevava, a partire da una riflessione sulle varianti un- garettiane dell’Allegria e del Sentimento del tempo: «Il carattere dominante del lavoro di Ungaretti sembra quello di poter appunto, dilatando quello che ci si offre come il significato letterale della realtà, ricostituirne più chiaramente il volto ineffabile. Lavoro in profondità, a cui la mobilità estrema del sentimento offre zone ove spaziare sempre nuove e più ricche.» (A. Parronchi, Su la «variante poetica», in «Inventario», I, primavera 1946, 1, [pp. 123-128], p. 128). 45 A. Parronchi, Genova e ‘il senso dei colori’ nella poesia di Campana, in «Paragone-Letteratu- ra», IV, dicembre 1953, 48, pp. 13-34, poi in Artisti Toscani del primo Novecento, Firenze, Sansoni, 1958, pp. 239-276 (citiamo dalla ristampa anastatica Trento, La Finestra, 2004, p. 249). L’insistita presenza campaniana si inscrive in una frequentazione ormai consolidata con l’opera del poeta di Marradi, già a partire dalla precedente stagione poetica di Parronchi. Si veda in proposito quanto rileva Oreste Macrí rispetto al «passaggio a Campana» nei Visi: «il classicismo maturo e arroventato della Decadenza offre molteplici ornamenti a questa fastosa “cerimonia” della vita; le forme del diario e della città si atteggiano disanimate e ferali; la coltivatissima “fiorentinità” si fa natura a una sua seconda potenza; il paesaggio del sogno e dell’anima è concentrato nell’apparizione del pre- sente aggredito dai sensi diversi del passato e del futuro. Non c’è altro modo per superare la prima natura, la morta lettera del dannunzianesimo, attraverso questo privilegio orfico di superamento e visione, in che stava il rilkismo di quella generazione e, specialmente, di Parronchi» (Neoroman- ticismo di Parronchi cit., p. 189). Alla fonte campaniana rimanda anche Silvio Ramat: «dunque non una città definita attraverso elementi, magari tipici, di architettura o per eloquenti toponimi, ma affine piuttosto alla città favolosa […] nella quale Dino Campana aveva dichiarato il proprio amore a . Città favolosa, slontanante nella non-storia: città dove il mito (foscoliano ancora?) costruisce subito la condizione di quella distanza che si avverte consona a Parronchi […]» (S. Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento cit., p. 490). E, in tal senso, il verso campa- niano torna, a nostro avviso, nella produzione poetica parronchiana del dopoguerra in quanto depositario di architetture e toponimi che le distruzioni della guerra hanno scalfito e stravolto, 558 Franzisca Marcetti

Campana sembra rappresentare il trait d’union tra l’immagine della città re- stituita nella produzione giornalistica e quella che va ricostruendosi nell’opera poetica, presente, il poeta di Marradi, nelle ‘schegge urbane’ di Un’attesa, dell’In- certezza amorosa, di Città46, ma citato anche in un articolo del marzo 194847 ac- canto all’arco degli Uffizi che, come nella Firenze dei Canti Orfici, «trema riga- to tra i palazzi eccelsi»48. Nel reperimento di elementi di città perduta, anche lo «spazio pittorico»49 assume nel Parronchi del periodo postbellico un ruolo fondamentale50. Si pen- quando non completamente cancellato, dunque secondo un percorso di riduzione della distanza. 46 Segnaliamo, a titolo esemplificativo, le immagini dello «scheletro di ponte» (Addio! Resta- no gli anni, (Occhi sul presente, vv. 8 e 11, [P, p. 129]) e dell’«arco di ponte» (Città, v. 29, [P, p. 163]), per cui si vedano i «panorami scheletrici di città», il «panorama scheletrico del mondo», gli «archi enormemente vuoti di ponti» della Notte campaniana (Dino Campana, Canti orfici e altri scritti, a cura di Enrico Falqui, Firenze, Vallecchi, 1962, pp. 18-19 e p. 11). E, per una dialogicità biunivoca tra critica e poesia nella semantizzazione urbana, si consideri l’ironica definizione di «scheletrici passaggi coperti» che Parronchi attribuisce alla soluzione progettata dagli architetti del gruppo S. Felicita per il Ponte Vecchio, «sbarazzato di tutti i negozi di orafi» (Progetti per la ricostruzione di Firenze. Il “rospo” del Ponte Vecchio si fa gioco dei controsensi cit.). 47 A. Parronchi, Ricostruzione di Firenze. Lunga l’attesa magra la sorpresa, in «Il Mattino dell’Italia centrale», 7 marzo 1948, p. 3. Si tratta di un articolo particolarmente importante, in quanto ultimo del corpus dedicato alla prima stagione della ricostruzione fiorentina, dove Parronchi paventa il rischio che le reticenze nella documentazione pubblica rispetto alle sorti del «piano definitivo» esposto nel novembre ’47 alla Mostra di Cartografia e Ottica – già aspra- mente criticato dall’autore nell’articolo Il progetto per la ricostruzione di Firenze definitivo ma non esecutivo (si spera) (in «Il Mattino dell’Italia centrale», 13 novembre 1947, p. 3) – producano un disinteresse tale da far cadere «la cosa [...] nel dimenticatoio». Anche in questo caso non mancano sferzate ironiche: «È passato molto tempo, e, per tenerci un po’ allegri, sia noi che i forestieri, che son capaci di venire dall’Australia per vedere – sarà una cartolina? È una cartolina! – la torre d’Arnolfo ‘inquadrata’ nell’arco degli Uffizi (“trema rigato tra i palazzi eccelsi”), ci hanno rizzato il Tiro a Premio e le automobiline, e manca poco anche il Taboga», tanto che «al Ponte Vecchio gli è preso un malore. Per fortuna poca cosa, ci hanno assicurato i primari presso i quali è degente» (il riferimento è alle ripercussioni registrate sulla struttura del Ponte nel 1947, di cui si dà notizia sul «Mattino dell’Italia centrale», 7 maggio 1947, p. 1: Grido d’allarme per il Ponte Vecchio, le tremen- de esplosioni hanno avuto ripercussioni sulla sua stabilità – Le “spie” trovate rotte. Una commissione di studio sta per essere nominata – si chiede la sospensione del traffico pesante). 48 D. Campana, Firenze (in Canti orfici cit., p. 73). Per il debito ‘figurativo’ con Campana, si tenga presente anche il fatto che già nel 1946, nel citato articolo Su la «variante poetica», Parron- chi rilevava una diretta ascendenza foscoliana «nell’arte del variare» del poeta, per poi metterne in evidenza il «bisogno tormentoso di serbare i particolari per rifonderli nuovamente», l’inedita capacità di «lavora[re] sul particolare te[nendo] sempre d’occhio l’insieme» (art. cit., p. 126). 49 Prendiamo il sintagma dal titolo del saggio di Sergio Romagnoli, Spazio pittorico e spazio letterario da Parini a Gadda, in Storia d’Italia. Annali. 5, Il Paesaggio, Torino, Einaudi, 1982, pp. 429-559. Sul rapporto tra «paesaggio come esperienza figurativa» e «paesaggio come esperienza concreta, de visu», si veda Giorgio Bertone, Il paesaggio. Appunti per una ridefinizione, in «Moder- na», IX, 2007, 1, [pp. 55-64], p. 59. Ma per un’analisi delle intersezioni tra immagine dipinta e paesaggio letterario rimandiamo ad Anna Dolfi, L’idillio e l’astrazione. Le forme del paesaggio in poesia da Leopardi alla terza generazione cit. 50 Per il rapporto architettura-pittura in Parronchi segnaliamo anche la partecipazione dell’auto- re al Convegno di pittori e architetti organizzato dalla rivista «Numero» a Firenze il 28 e il 29 dicem- bre 1951, e presieduto da Giusta Nicco Fasola, Giovanni Michelucci e Atanasio Soldati. Una sintesi «LA CITTÀ COME AVREBBE DOVUTO ESSERE» 559 si, in questo senso, alla critica d’arte dedicata a Rosai nel ’4751. In queste pagine Parronchi affida al dato ‘murato’ una funzione fatica52, un’anima:

[…] qui, dove basta che tu entri in una porta perché, con l’emozione di un avvenimento imprevisto, qualcosa di intensamente detto o narrato ti parli da una parete53.

[…] Nella terra dove i muri hanno un’anima è giusto che una persona si affezio- ni a uno e lo prediliga ad ogni altro54.

È significativo che il poeta prediliga, fra tutti, proprio ‘il muro di Rosai’55 nel quale, alle soglie della liberazione della città, era riuscito a riconoscere il pro- prio stato d’animo: degli interventi è offerta da Giusta Nicco Fasola sul fascicolo di «Numero» del dicembre 1951-gen- naio 1952 (Pittori e Architetti al Convegno di «Numero», pp. 1 e 3). La lettera (mai spedita) in risposta alle critiche ricevute da Nicco Fasola sarà poi pubblicata da Parronchi, col titolo L’illusione dei sensi (lettera non spedita) in Pregiudizi e libertà dell’arte moderna, Firenze, Le Monnier, 1964, p. 356. 51 A. Parronchi, Rosai, Firenze, Arnaud, 1947. Nel pittore Parronchi individua un’inedita capa- cità di avvicinare il paesaggio toscano «al suo significato più antico, di approfondimento fantastico, contro il significato letterale delle apparenze» (ivi, p. 15). Proprio a partire dalla critica d’arte sembra determinarsi, nella dinamica del segno urbano, un ulteriore repertorio figurativo e sintagmatico cui attingere nella modellazione del dato poetico. Si veda ad esempio la consonanza tra i «paurosi palazzi» di Se grido nella notte (Un’attesa, [P, p.58]) e i «fantasmi di allucinati palazzi» di fronte ai quali «si sgretola» la «pioggia di fuoco» dei rosaiaini Fuochi d’artificio sull’Arno (1914) (Rosai cit., p. 7). Alla critica d’arte sono forse riconducibili anche alcuni effetti cromatici parronchiani, come nel caso del «verde / d’acque torbide» in cui si «sfa» il cielo nel movimento conclusivo di Città, per cui si vedano le riflessioni dell’autore in occasione della mostra d’arte fiamminga a Palazzo Strozzi (1947), dove a proposito della Crocifissione di Hugo Van der Goes Parronchi osserva: «il cielo si fa, con insolito vigore, di un verde bituminoso non più trasparente, a suggerire effetto di dramma» (Il sentiero stregato del paradiso di Bosch, in «Il Mattino dell’Italia centrale», 26 giugno 1947, p. 3). 52 A. Parronchi, Rosai cit., p. 16. Questa capacità narrativa del dato costruito si manifesta an- che nei versi di Dopo il cinema (La noia della natura, [P, p. 234]): «[…] E che dice la pietra / d’un antico palazzo contro il ferro consunto / dal calore di tante rosse mani? / Parla del mare d’anni che ha sospinto / fino a qui, o appena più lontano, dove / l’onda lambe la riva, / vacilla un passo, mancano / le forze, manca il coraggio a chi va. // Poi come quando ha fine la canzone / che amia- mo un’altra entra nel suo solco / e termina anche lei né vive quella / di prima, così il bar la notte i lumi / dei cinema, il ritorno, non son più / l’eterno della vita, ma momenti» (corsivo nostro). Ma si vedano, per una consonanza, i «muri in ascolto» di Passaggio primaverile (I visi, P, p. 35). 53 Può essere utile, per questo aspetto, il confronto con un passo dell’Eupalinos di Valéry, se si considera che proprio nel ’47 Mondadori dava alle stampe la traduzione del dialogo a cura di Vittorio Sereni, che Parronchi leggeva nell’ottobre di quell’anno (si veda la lettera a Sereni del 15 ottobre 1947, Un tacito mistero cit., p. 182): «[…] E dimmi (giacché sei così sensibile agli effetti dell’architettura), non hai osservato, andando per la città, che tra gli edifizi che la popolano alcu- ni sono muti altri parlano e altri ancora, i più rari, cantano?» (Paul Valéry, Eupalinos, traduzione di Vittorio Sereni, Milano-Verona, Mondadori, 1947, p. 92). 54 A. Parronchi, Rosai cit., p. 17. 55 Il sintagma appartiene al titolo di un articolo parronchiano uscito sul «Mattino dell’Italia centrale» il 4 gennaio 1948 (p. 4), Il muro e la via di Rosai, in cui si propone un estratto della monografia di cui alla nota precedente [pp. 16-18]. 560 Franzisca Marcetti

E in verità il muro di Piazza del Carmine parla per tutti. […] Ricordo che men- tre su Firenze, nel ‘44, l’incubo dei bombardamenti opprimeva, su un cartone il muro apparve a un tratto senza un tocco di verde, senza una pianta, contro il fondo di case senza finestre. L’immagine mi colpì e mi prostrò: aveva espresso la nostra desolazione56.

Il passo sembra inoltre delineare l’esigenza di stabilire un dialogo tra elemen- to naturale e forme del costruito. E sul ruolo dello spazio umanizzato entro il paesaggio naturale il volume dedicato a Rosai accoglie un’ulteriore riflessione:

Ecco il momento di esporre un’idea opposta a quello che pensano molti, e forse sono la maggior parte. Pensano essi che la Toscana offra l’aspetto di una natura aggraziata e addomesticata, che intorno a Firenze la troppa civiltà abbia alterato cioè la natura. Ma questa non è semmai che la patina, una soprastruttura ideata per accontentare il turista. I fiorentini veri d’ogni tempo hanno combattuto invece questo pericolo, implicito nella civiltà, col porvi continuamente atten- zione. Il loro razionalismo, che sembra essersi dato ragione di tutto, non ha fatto in realtà che organizzare sull’unico schermo dell’arte, le forme per dove potesse più vivamente irrompere la natura57.

La consonanza offerta, su questo aspetto, da uno scritto del 197658 – dove il poeta suggerisce la presenza, nel contesto urbano fiorentino, di un profondo legame tra la forma architettonica e quella naturale – attesta una continuità nel paradigma di lettura dello spazio paesaggistico:

A chi sostiene che i fiorentini possono smarrire il senso della natura, non è mai ac- caduto, di gennaio, di strisciare, contro il vento di tramontana, nel tratto di Piazza Duomo che va verso via de’ Servi, quando tutto il freddo s’accumula contro la fian- cata del Duomo e vien giù a valanga sui passanti. Par d’essere in alta montagna59.

[…] Questi uomini [Brunelleschi e Michelangelo], che i loro contemporanei giorno per giorno pensarono a strigliare e tormentare a dovere, ci hanno fatto crescere intorno un’altra natura, più erta e selvaggia di quella vera, che non ci opprime anzi ci fa vivere in perenne stato di esaltazione.

Una traccia di questa peculiare concezione del rapporto tra natura ed ele- mento murato è individuabile, sul versante poetico, anche nel ricorrere di alcu-

56 Ibidem. 57 A. Parronchi, Rosai, p. 16. 58 A. Parronchi, «Musei e monumenti», in Beppe Zagaglia, Ritorno a Firenze, Modena, Ar- tioli, 1976, pp. 32-34 (poi, con lievi modifiche, in «Poesia», VII, gennaio 1994, 69, pp. 33-34). 59 Si veda la consonanza con i vv.156-162 di Città: «Alla voltata, forra di montagna / citta- dina, perpetuo alita un vento, / solleva le leggere vesti, bacia / ogni donna, ed i giovani lo sanno / che volentieri sostano / sul marciapiede dirimpetto. […]». «LA CITTÀ COME AVREBBE DOVUTO ESSERE» 561 ne immagini in cui il dato naturale si semantizza attraverso la forma architet- tonica. A questa dinamica di permeabilità sono riconducibili, nelle prime due raccolte, i «tetti degli abeti» di Eclisse60, i «verdi pavimenti» di Balcone fiorenti- no61, le «scale / verdeggianti infinite» di Bicicletta notturna62, le «soglie del mare» di Passaggio primaverile63. Il fenomeno presenta nelle successive sillogi un signi- ficativo diradamento, segnalando, anche alla luce delle osservazioni parronchia- ne sul «muro di Rosai», un’attenuazione del rapporto armonioso tra la città e la natura circostante: i testi dell’immediato dopoguerra offrono in tal senso un’u- nica occorrenza, la «volta fragile di foglie» di All’arida montagna64. L’esigenza di stabilire una relazione tra dato architettonico e morfologia del paesaggio influenza profondamente anche la riflessione sulla Firenze della rico- struzione, come si può rilevare nell’articolo dedicato all’analisi del progetto S. Felicita65, dove a proposito del «verde» della Costa S. Giorgio Parronchi afferma:

Sorprende inoltre, come un travisamento completo del carattere della zona, la soluzione data al tratto compreso fra via de’ Bardi e Costa San Giorgio. Essa dovrebbe consistere in rampe alternate a case e giardini sviluppantisi perpen- dicolarmente all’Arno, che vedremmo più adatti a località come via Trieste e viale Volta, […] piuttosto che qui, accanto al Ponte Vecchio, dove il «verde», quello della Costa S. Giorgio rivolta a Tramontana, non ha l’esuberanza della vegetazione esposta a sud, verso il mare o la pianura. È un verde questo che non strariperebbe mascherando alle costruzioni e alle scale il loro eccessivo sbri- ciolamento, un verde di antico «lucus» architettonico, cupo e sofferente, la cui intensità si rafforza a contatto dei muri che lo rinchiudono66.

60 I giorni sensibili (P, p. 5). 61 Ivi, p. 23. 62 I visi (P, p. 29). 63 Ivi, p. 35. 64 In ascolto (P, p. 103). Una consonanza è offerta, sul versante della prosa critica, dall’im- magine del “lucus” architettonico» evocata nell’articolo Il “rospo” del Ponte Vecchio si fa gioco dei controsensi. Più rado il fenomeno nelle raccolte poetiche successive, per cui si vedano la «monta- gna / cittadina» di Città (vv. 156-157, [P, p. 167]), la «cupola del cielo» di Elegia ferroviaria (Il paesaggio dipinto, [P, p. 283]), il «chiostro di muti alberi» di Bellosguardo (Replay, [P, p. 391]), la «cupola serale» di Dopo strattoni tentennamenti spinte (ivi, [P, p. 479]). Un’ulteriore attestazione in una prosa del 1992, a proposito della Firenze montaliana: «Non è poi che il gusto di Montale collimasse esattamente con le classiche architetture dei colli toscani. Chi lo ha conosciuto sa che non amava i cipressi, che preferiva agli architettonici pini domestici i pini selvatici e i pinastri scomposti della costa ligure e quel che c’è di severo, di cupo nell’architettura cittadina, certo non gli garbava» (A. Parronchi, Montale per metà fiorentino, in «La Fortezza», III, 1992, 2 / IV, 1993, 1, pp. 39-42; poi in Fogli di una vita, Milano, Scheiwiller, 1996, pp. 17-21; ora in Quaderno per Montale, Novara, Interlinea, 2003, [pp. 43-49], p. 46, [corsivo nostro]). Per il carattere «severo» e «cupo» dell’architettura fiorentina si vedano anche i «profili cupi» che compaiono accanto agli «arcuati portici» nei vv. 436-437 di Città. 65 A. Parronchi, Il “rospo” del Ponte Vecchio si fa gioco dei controsensi cit. 66 E si veda ancora la riflessione sulle soluzioni progettuali destinate a ricucire i vuoti lasciati dalle mine tra via de’ Bardi e via Guicciardini nel citato articolo del 12 gennaio 1947: «Guar- 562 Franzisca Marcetti

Nel dopoguerra, come si è visto, tangenze e intersezioni tra testo poetico e prospettiva critica sulla città si fanno particolarmente intense. Si pensi al ri- correre nella poesia parronchiana dell’immagine del muro che argina il ver- de67, ma anche all’emergere, negli articoli dedicati alla ricostruzione, del con- cetto di «casa-unità di misura», proposto in relazione ai progetti esposti a S. Stefano «per dare l’idea di come una strada nuova può o deve essere concepi- ta», «una strada […] fatta di case», fatte a loro volta «di finestre», «delle pro- porzioni esistenti tra loro»68. È significativo, in questa prospettiva, il fatto che il primo elemento ‘murato’ ad apparire in Un’attesa siano proprio le «case»69, dando dall’opposto lungarno degli Archibusieri come non sentire invece la necessità di una cinta murata su via de’ Bardi che argini e difenda la collina?» (A. Parronchi, I ventidue progetti lasciano ancora aperta la discussione cit.). E in tal senso è forse da intendere anche la critica parronchiana alla proposta, avanzata da alcuni progetti, di operare un’apertura tra via de’ Bardi e il giardino di Boboli, «che deve restar chiuso […] e non ha affatto bisogno che gli si colleghi il promontorio addossato alla Costa San Giorgio, perché questo equivarrebbe a fargli perdere molto del suo ca- rattere e della sua unità. Con una simile apertura si verrebbe anche a sventrare la bellissima Costa nel suo punto più suggestivo: il cunicolo tra la piazzetta de’ Rossi e la casa del Duprè, imbotti- gliato nel verde d’un alto giardino che non sarà più tale se si aprirà […]. Senza pensare che con questa apertura si verrebbe in certi progetti a chiudere niente meno che l’accesso originario a una delle porte della città, non conta se oggi di secondaria importanza, la Porta S. Giorgio; mentre in altri quella salita perderebbe il suo senso specialissimo di brusca immissione della campagna nell’abitato […]» (ivi). 67 Si veda in proposito anche M. Fanfani, Sul linguaggio poetico di Parronchi cit., che a pro- posito delle forme del costruito evidenzia come «la città coi suoi tetti e le sue vie» faccia «sempre da quinta a orli di vegetazione, a profili di colline» (p. 81). Si tratta anche in questo caso, di un dato già presente nelle prime due raccolte parronchiane, dove figurano «Il giardino sepolto nel blocco armonioso di pietra» (Al di qua d’una sera, I giorni sensibili, prosa poi espunta nelle successive edizioni, ora in A. Parronchi, Ut pictura, Firenze, Polistampa, pp 9-15), i «[…] muri d’un giardino / tutto verde di lampi tramortito» (A un’adolescente, I giorni sensibili, [P, p. 18]), «[…] muri smarginati ove trabocca / rosso stinto di rose» (Bicicletta notturna, I visi, [P, p. 29]), l’immagine di un «[…] nespolo» ancora «affacciato sui muri» di un «giardino» (Boschiva, I visi, [P, p. 31]). Per la produzione poetica dell’immediato dopoguerra si vedano, invece, la «via stillante di giardini» di Quando la zolla odora, (Sonno delle stagioni, [P, p. 67]), gli «oceani di verde oltre» il «muro» di Luce come da un vetro opaco piove (Affreschi, [P, p. 80]), il «muro / dove forse [...] serbano i giardini / un’altra breve zona insospettata / di parete boscosa […]» di Vecchia Faentina (In ascolto, [P, p. 111]). 68 A. Parronchi, Firenze non è San Gimignano ma nemmeno Nuova York cit. Per la modula- rità nella lettura dello spazio si veda anche quanto l’autore osserva, a proposito della «visione» nella prospettiva brunelleschiana, in un articolo del 1978: «Le figure […] sono unità di misura per le architetture, e queste a loro volta misurano le montagne» (A. Parronchi, La rappresen- tazione del vuoto nella pittura, in «Michelangelo: trimestrale arti, lettere, cultura e attualità», VII, ottobre-dicembre 1978, 27, [pp. 17-25], p. 20), dove l’architettura pare configurarsi come ‘termine medio’ del rapporto uomo-natura. D’altra parte lo spazio rinascimentale costituisce un riferimento significativo anche sul versante poetico: Oreste Macrí, ancora all’altezza di Replay, scorge nell’immagine parronchiana della «Gerusalemme celeste» «un’ideale e perfetta città rina- scimentale» (O. Macrí, La vita rivissuta tra fede e forma (su Replay), in Per Alessandro Parronchi cit., [pp. 181-188], p. 188, poi in La vita della parola. Da Betocchi a Tentori, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 717-724). 69 Una brezza di primo inverno sale (P, p. 57). Il testo risale, secondo quanto Parronchi scrive a Sereni il 12 dicembre 1945 (Un tacito mistero cit., p. 59), al 1943: «[…] Nel prossimo “Mondo” «LA CITTÀ COME AVREBBE DOVUTO ESSERE» 563 che insieme al muro e alla pietra, diventano gli elementi di sintesi dell’imma- gine della città, in un percorso di graduale ‘riappropriazione’ delle forme del paesaggio, naturale e urbano70. Nella ricerca di un «colloquio epistemologicamente fecondo con la realtà»71, il dialogo dell’uomo con la natura sembra comporsi, per Parronchi, di un’ul- teriore tensione conoscitiva, rappresentata dalla relazione dell’uomo con l’ele- mento ‘murato’, rispetto al quale è possibile, analogamente al paesaggio natu- rale, scorgere luzianamente un «fondo»72. Se dunque l’archetipo boschivo ri- corre nella poesia parronchiana «ad ogni passo decisivo, più o meno saldamen- te collegat[o] a tutti gli altri motivi che si dipanano nella sua poesia»73, l’arche- tipo urbano si ricompone nel dopoguerra in stretto rapporto col tema dell’esi- stenza, e in declinazione prevalentemente autobiografica. Così accade ad esem- pio in Quante volte, avviandomi nel buio74, dove «la nebbia, il gelo» si chiudo-

c’è una breve cosa del ‘43 che potrà essere ancora qualcosa di molto simile e riflesso dal precedente ma per me ne sarà piuttosto un congedo, o un inizio. (Sono pochi versi e escono insieme a tre strofette da album con le quali non hanno niente a che fare)». Ma si veda come Parronchi si fosse servito dei versi finali del componimento per descrivere il proprio stato d’animo a Sereni in una lettera del 20 giugno 1945: «[…] per ora è la speranza e l’attesa // dei “nostri cuori che lottano con l’ombra”», dove, indicativamente, la chiusa del componimento compare affiancata a quello che sarà poi il titolo della raccolta di cui Una brezza costituirà il testo incipitario, con i versi finali che risultano variati in «[…] un primo accordo / dei prati con la sera, delle case / coi nostri cuori che lottano con l’ombra». 70 Secondo quella tendenza del «“dopoermetismo”» che Silvio Ramat individua nella «co- struzione del testo basata sulla progressione meglio che sulla opposizione reciproca dei segni («[…] movimento per cui la cornice ambientale viene a ridursi nell’immagine delle “case”, già topiche in Parronchi, delle “case” dove si riscopre la nota “ombra”[…])» (S. Ramat, Storia della poesia italiana del Novecento cit., p. 493). E nella scelta di questi elementi, si può individuare, in Parronchi, la volontà di condensare l’immagine della città in forme contrastive rispetto a quelle, nuove e ‘impoetiche’, che si stanno imponendo nel paesaggio urbano, come si può rilevare in Passeggiata (L’incertezza amorosa). 71 L’espressione è mutuata da L. Manigrasso, «Una lingua viva oltre la morte» cit, p. 49. Per questo peculiare statuto del paesaggio parronchiano rimandiamo anche alle osservazioni di Giorgio Bertone (Il paesaggio. Appunti per una ridefinizione cit., pp. 58-59) sull’idea di «paesaggio come originaria immanenza del mitico, presenza nascosta del divino, sua epifania; e in quanto tale elemento orfico, misterico». 72 «E un giorno cercherai col cuore il fondo / delle città scalfite […]», Periodo, vv. 19-20 (Avvento notturno). Si veda in proposito quanto Parronchi afferma nelle sueNote letterali su Luzi, in «Paragone», XI, ottobre 1960, 130, [pp.121-132], p. 124: «Nessuno che sia giovane è poeta se non prova l’ansia dell’inesprimibile, il desiderio di possedere l’ignoto, e insomma quello che il Leopardi ha fermato per tutti nelle parole degli Appunti e ricordi per servire a un romanzo autobio- grafico: “scontentezza nel provar le sensazioni destatemi dalla vista della campagna ecc. come per non poter andar più addentro e gustar più, non parendomi mai quello il fondo, oltre al non saperle esprimere”. Di questo son fatte le passeggiate dei giovani, o almeno – meglio non generalizzare – eran fatte le nostre». E si pensi, in tal senso, al potere «rivelat[ore]» nei confronti «dei confini dell’ignoto» individuato da Macrí nelle parronchiane «supreme, elettissime bellezze dell’arte e della natura» (O. Macrí, a proposito dei Visi, in Neoromanticismo di Parronchi cit., p. 189). 73 M. Fanfani, Sul linguaggio poetico di Parronchi cit., p. 72. 74 In ascolto (P, p. 113). 564 Franzisca Marcetti no «sulla mia vita, sulla mia città». Ma l’analogia è presente, ancora, nei ver- si di Replay, dove alla «vita rivissuta ma perfetta» segue la «città come avreb- be dovuto essere / senza la speculazione edilizia / né l’invidia degli artisti: una vera / Gerusalemme celeste»75.

75 Replay (P, p. 429). D’altra parte, la riflessione sul rapporto tra la ‘vita’ e le forme della città fu pervasiva nel dopoguerra, come testimonia un articolo di Gillo Dorfles pubblicato nel 1946 sulle pagine della «Nuova Città»: «Sola l’architettura, tra tutte le arti, ha il privilegio di permettere all’uomo di vivere nell’interno di un’arte oltre che di ammirarla dall’esterno: guardiamo un qua- dro, una statua, ascoltiamo i versi e i suoni, ma ad un certo punto noi “penetriamo” nell’edificio, ne diventiamo parte integrante, l’edificio vive in noi, e noi viviamo nella sua struttura. Ed è per questa sua caratteristica che spetta all’architettura di adattarsi all’uomo e nello stesso tempo di plasmarlo, di rappresentare sulla terra il simulacro di un’esistenza più vasta, la cui struttura tra- scenda la “durata” umana e resti a testimoniare – al di là delle vicende singole – l’idea e la forma di un’epoca. E in codesto suo compito, pesante e sublime a un tempo, è insita tutta la tragica irrimediabilità della sua creazione […]. Oggi l’architettura riprende il suo compito etico oltre che estetico: spetta agli architetti di modellare lo spirito e il corpo delle generazioni venture […]» (Gillo Dorfles, Preoccupazioni architettoniche attuali, in «La Nuova Città», I, dicembre 1945-gen- naio1946, 1-2, [pp. 9-11], p. 9 e 10). NOTA DI LETTURA SU UNA BIBLIOGRAFIA

Attilio Mauro Caproni

La disciplina bibliografica condivide, con la maggior parte delle scienze uma- ne, l’impossibilità di una sperimentazione diretta sulla genesi stessa dell’oggetto che studia perché si condensa nella tradizione, per i tempi postumi, delle sin- gole notitiae librorum. È possibile così ricordare che, nel corso dei tempi, sono stati condotti, nel panorama in cui la Bibliografia esplica il suo interesse, espe- rimenti indicali di ogni sorta per l’acquisizione di una memoria del sapere che diventa il linguaggio dei singoli testi i quali sono tramandati per la produzio- ne e la percezione della conoscenza che, per i lettori, si trasforma nella ricezio- ne dei messaggi che gli scrittori intendono proporre. Una bibliografia, inoltre, di una persona (se concentro per un attimo la mia attenzione sul repertorio che vede in Alessandro Parronchi il suo protagonista), una bibliografia personale di questo tipo, dicevo, appare come una sorta di canone volto a richiamare il no- stro Autore, così che questo indice lo si potrebbe sintetizzare come il virtuale ri- torno di Parronchi verso i suoi lettori, e come l’effige della sua intera opera che, in questo modo, riesce a perpetuarsi per tutti i tempi a venire. Naturalmente devo esprimere subito la mia più grande ammirazione per la fattura di questo testo in cui i singoli curatori (Eleonora Bassi e Leonardo Manigrasso), ciascuno per la parte che li riguarda, con grande acribia e intelligenza, ci forniscono un ritratto complesso del Nostro, non unicamente per quello che questo eclettico studioso ci ha donato (e lasciato), ma anche come la critica a lui coeva (e sino all’attuale anno) ha avuto una preziosa attenzione. Ora allontanandomi per un istante da questa elementare affermazione e, di proposito, non soffermandomi unicamente sull’ottima struttura indicizzatoria della bibliografia parronchiana, aprirei, seppure molto brevemente, il mio discorso a degli ulteriori concetti che tendono ad assegnare alla scienza bibliografica l’immagina di una forma, come ci ricorda Rudolf Blum, di una fenomenologia descrittiva volta a dettare, in un modo diretto, lo spazio che le è proprio e che definisce l’idea di un rapporto co- municativo e, soprattutto, informativo guidato appunto dall’essenza fenome- nologica organizzata del settore (e questo carattere è insito nelle molteplicità sa- pienziali contenute dalle separate unità testuali che lì trovano accoglienza, sep- pure nelle formule simboliche dei singoli segmenti bibliografici). Allora acca-

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 566 Attilio Mauro Caproni de che anche la Bibliografia di e su Alessandro Parronchi intende incentrare la sua attenzione sul concetto di stampo cartesiano di mente e di ragione, perché in queste due categorie è possibile ritrovare, probabilmente, la consapevolezza che una simile tecnica indicizzatoria propone nell’analisi simbolica delle voci li- brarie che la compongono, tale d’assegnare a questo repertorio una sua parti- colare completezza e identità nell’ambito della historia literaria ove la medesi- ma va a fornire un nuovo tassello. Poi, questa mia breve lettura consente a cia- scuno di noi di comprendere la complessità dell’opera letteraria e storico-arti- stica di Parronchi, dove le sue analitiche componenti (e competenze) assegnano un diverso grado di attenzione per questo scrittore/storico dell’arte, poi essen- zialmente poeta, che sembrerebbe, ad un’apparente e superficiale analisi, avere la vocazione aristocratica di un poeta appartato del nostro Novecento letterario, ma, ovviamente, così non è. Questo sussidio indicizzatorio, nel descrivere (e nel tramandare) una esege- si critica della mappa della sua complessa opera, e delle sue molte ramificazioni, può diventare una forma limpida per capire la complessità del sapere prodotto dalla scrittura di questo importante poeta, partendo dalla lettura dei suoi dati più semplici per, poi, transitare in quelli più evidenti e complessi. Tuttavia la bi- bliografia in questione ha il pregio di essere un punto fisico, oltre che intellettua- le, di ricerca, di discussione, di confronto per comprendere lucidamente, ora in un modo nuovo, questo scrittore così baricentrico, per cercare d’intendere, sep- pure parzialmente, la cultura letteraria italiana del medio e ultimo Novecento. Il lettore, scorrendo le diverse stringhe bibliografiche dei testi qui indicizzati, e di quelli che la critica gli ha rivolto, il lettore, dicevo, capisce che una simile guida non rimane unicamente come un elenco, ma diventa capace di codifica- re la sua incidenza nel settore degli studi poetici, e in quelli artistici, con il pro- posito di scoprire un complicato nodo di differenza del sapere volto a rintraccia- re quell’essere delle idee che, per i singoli ipotetici lettori, si trasformano in un logos che sembrerebbe capace di far intendere quella rigorosa correlazione tra il pensiero di chi scrive un testo, e chi quei testi prende di mira. Lo stesso, inoltre, ne accoglie l’evidenza, al fine di comunicarne e usarne il contenuto (nel tenta- tivo difficile, ma non impossibile, di rendere familiare al pensiero la sostanza di quella forza empirica che il libro, i libri vogliono per tutti i tempi testimoniare). La scienza bibliografica, nel contesto di questo ragionamento, come ricorda Pierre Caron, ha il pregio di trasmettere l’opera che è nascosta in un libro, il qua- le, se è inteso nella sua bibliologica oggettualità, esso lo rende, allegoricamente, quasi trasparente per facilitare le tecniche di lettura per chi quel libro vuole leg- gere. Inoltre la medesima lo predispone, e ne promuove una attenta analisi per la quale i lettori riescono a non dissolvere una memoria scritta. Ed è così che Eleonora Bassi e Leonardo Menigrasso hanno il grandissimo merito di offrire a ciascuno di noi l’immagine bibliografica più nitida e più com- pleta di Alessandro Parronchi perché, nella sistematica e eccellente struttura di questo componimento indicale, sono stati capaci di fissare gli itinerari degli in- NOTA DI LETTURA SU UNA BIBLIOGRAFIA 567 teressi di questo intellettuale, con l’intento di predisporre, per un fine postu- mo, i canali della sua riflessione storico-artistica, e della non secondaria scrit- tura poetica. Del resto questo repertorio diventa un esempio importante per il quale la disciplina bibliografica facilita la scoperta, che dietro l’apparenza delle parole e dei testi lì descritti, si verifichi quell’appello e quel richiamo silenzio- so secondo i quali un lettore viene verso di esso attratto. Così, grazie ad un si- mile meccanismo, lo stesso volge il ricordato lettore/consultatore in uno spa- zio che, parafrasando (latamente) un concetto espresso da Paul Valéry, lo ren- de complice di una cultura la quale, per il suo tramite, si arricchisce, si rinno- va e compie, intorno ai processi di trasmissione mediata dei testi, l’essenza del- la sua significazione nel tempo sulla conoscenza che si trasforma, bibliografica- mente, nella historia literaria. Da ultimo, ma non collateralmente, devo rendere noto il mio più intenso plauso per Walter Scancarello che è l’intelligente animatore di questi Quaderni bibliografici i quali, non molto tempo fa, sono partiti da Emma Parodi per ar- rivare ora ad Alessandro Parrochi, e il cui prossimo numero è la Bibliografia di Dacia Maraini. Una simile tematica impresa consente di ricuperare quella mol- to importante stagione letteraria del Novecento italiano in modo di assegnare alla bibliografia di quel secolo quel viatico che meriterebbe una approfondita analisi di studio e di riflessione, soprattutto in questo nostro sgangherato XXI secolo in cui ancora non si comprendono appieno le tematiche e gli indirizzi che dovrebbero connotarlo, se si esclude la superficialità nel porre, come fon- damento, una superficiale comunicazione che, grazie all’ausilio esasperato del- la tecnologia informatica e digitale, risulta bel lontana dai percorsi necessari per costruire una solida identità culturale, e per scegliere i parametri più appropria- ti dell’informazione.

Roma, ottobre 2014

                        VITTORIO BODINI ICONE DEL MODERNO

LA «TERZA VIA» DI VITTORIO BODINI

Antonio Lucio Giannone

Prima di entrare nel merito del discorso, vorrei far notare che questa è una delle rare volte in cui si parla di Vittorio Bodini fuori dalla sua regione, cioè fuori dalla Puglia e, in particolare, dal Salento, da vari anni a questa parte, al- meno in consessi di così alto livello scientifico. Ricordo un altro Convegno te- nutosi presso le Università di Roma, Bari e Lecce nell’ormai lontano 1980, in occasione dei dieci anni dalla morte1, e una Giornata di studi presso l’Universi- tà di Pescara nel 1985. Poi più niente o quasi, fuori, ripeto, dal Salento, al pun- to che di questo scrittore, a volte, anche gli specialisti conoscono solo il nome o, al massimo, l’attività di ispanista. Perciò desidero approfittare di questa occasione per fare brevemente il pun- to sulla situazione degli studi su Bodini, visto che tocca a me dare inizio ai la- vori della sessione a lui dedicata. La stessa Anna Dolfi, che è stata uno dei pochi a occuparsi in tutti questi anni della sua opera, ha parlato, in un suo saggio, di una sorta di damnatio memoriae che ha colpito la figura dello scrittore2. A mio avviso, sono diversi i motivi di questa dimenticanza. Il primo, forse, è il fatto che la fama dell’ispanista ha messo un po’ in ombra il poeta, il narratore, l’orga- nizzatore culturale. Un altro motivo sta nella limitata conoscenza della produ- zione letteraria di Bodini anche da parte degli studiosi, i quali, fino a poco tem- po fa, potevano conoscere, nel migliore dei casi, soltanto l’opera poetica, ap- parsa negli «Oscar» Mondadori nel 1983 per le cure di Oreste Macrí3 e attual- mente disponibile presso le edizioni Besa, che l’hanno ristampata, ma non gli altri settori di essa quali la narrativa, i reportage, le inchieste, le prose critiche.

1 Cfr. i relativi Atti, Le terre di Carlo V. Studi su Vittorio Bodini, a cura di Oreste Macrí, Ennio Bonea, Donato Valli, Galatina, Congedo, 1984. 2 Cfr. Anna Dolfi, Bodini, Leopardi e la ‘damnatio memoriae’, in In un concerto di voci amiche. Studi di Letteratura italiana dell’Otto e Novecento in onore di Donato Valli, secondo tomo, a cura di Antonio Lucio Giannone, Galatina, Congedo, 2008, pp. 641-653 (ora in A. Dolfi, Leopardi e il Novecento. Sul leopardismo dei poeti, Firenze, Le Lettere, 2009, pp. 111-122). 3 Vittorio Bodini, Tutte le poesie (1932-1970). Introduzione e edizione di Oreste Macrí, Milano, Mondadori, «Oscar», 1983..

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 572 Antonio Lucio Giannone

Questo perché Bodini, morendo prematuramente nel 1970, a soli cinquantasei anni, non ebbe il tempo di raccogliere in volume i suoi scritti. L’ultimo anno di vita, com’è noto, aveva proposto a Einaudi un libro di racconti, ma a causa del- la morte questo progetto non si poté realizzare. Al momento della scomparsa, insomma, tutti gli scritti in prosa di Bodini erano ancora dispersi su giornali e riviste. Nel 1980, proprio in occasione del Convegno citato, apparve la raccolta La lobbia di Masoliver e altri racconti, che, rinviando la realizzazione del disegno originario di Bodini a «un’edizione com- pleta delle sue prose», intendeva documentare, «i momenti più significativi del- la produzione narrativa bodiniana fra il 1940 e il 1969»4. Nel 1982, sulla rivi- sta di una banca salentina, Donato Valli pubblicò altre prose inedite e disperse di Bodini, tra le quali spicca il romanzo giovanile Il fiore dell’amicizia5, appena ristampato con una mia Prefazione6. Qualche anno dopo, nel 1984, lo storico Fabio Grassi pubblicò I fiori e le spade, un’antologia di prose molto eterogenee tra di loro (articoli di argomento politico e sindacale, prose memoriali, scritti letterari, cronache giornalistiche dalla Spagna, inchieste, recensioni, ecc.), uni- ficate dal sottotitolo Scritti civili, che coprivano un arco di tempo molto ampio, dal 1931, anno dell’esordio dello scrittore diciassettenne, al 1968, quasi quindi fino alla fine dell’attività e della vita di Bodini7. Per quanto mi riguarda, nel 1987 raccolsi i reportage dalla Spagna, disper- si anche questi su vari giornali, in un volume dal titolo Corriere spagnolo8, da poco ristampato con l’aggiunta di alcune lettere inedite inviate dallo scrittore dalla Spagna, nella collana «Bodiniana» che curo per le edizioni Besa di Nardò9. Questa collana, che è arrivata a otto titoli, venne inaugurata nel 2003 con un’al- tra raccolta di racconti e prose, dal titolo Barocco del Sud10, che comprende scritti composti, per la massima parte, dal 1950 al 1952, rimasti anche questi dispersi e che sono fondamentali per conoscere la poetica dello scrittore. Questa, in rapida sintesi, la situazione editoriale degli scritti in prosa di Bodini che non ha permesso finora di conoscerlo adeguatamente nella totalità della sua

4 Paolo Chiarini, Nota ai testi, in V. Bodini, La lobbia di Masoliver e altri racconti, Milano, All’Insegna del Pesce d’oro, 1980, p. 100. 5 In «Sudpuglia. Rassegna trimestrale della Banca agricola popolare di Matino e Lecce», 1, marzo 1983, pp. 65-114. 6 V. Bodini, Il fiore dell’amicizia. Romanzo, a cura di Donato Valli, Nardò, Besa, «Bodinia- na», 2014. 7 Cfr. V. Bodini, I fiori e e spade. Scritti civili (1931-1968), a cura di Fabio Grassi, Lecce, Milella, 1984. 8 V. Bodini, Corriere spagnolo (1947-54), a cura di Antonio Lucio Giannone, Lecce, Piero Manni, 1987. 9 V. Bodini, Corriere spagnolo (1947-1954), a cura di Antonio Lucio Giannone, Nardò, Besa, «Bodiniana», 2013. 10 V. Bodini, Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di Antonio Lucio Giannone, Nardò, Besa, «Bodiniana», 2003. LA «TERZA VIA» DI VITTORIO BODINI 573 produzione e quindi ha impedito il necessario approfondimento della sua ope- ra. Ma ancora manca la raccolta delle prose critiche alla quale sto lavorando e che permettono di avere un’idea più precisa della sua collocazione nel panora- ma letterario di metà Novecento. Perché questo, forse, è un altro motivo del- la sua scarsa fortuna critica: la difficoltà di collocare l’opera in versi e in prosa di Bodini in una corrente precisa (ermetismo, neorealismo, surrealismo, speri- mentalismo, neoavanguardia), a causa cioè della sua eccentricità, del suo essere fuori, in fondo, da tutti i movimenti che ho nominato prima, pur avendoli at- traversati ed essendo stato influenzato da essi, in misura più o meno maggiore. E qui mi collego al tema del mio intervento: la «terza via». Questa non è un’e- spressione di Bodini ma mi sembra che si possa usare in maniera appropriata per definire la sua posizione tra i movimenti letterari, in particolare, nel secon- do dopoguerra e negli anni Cinquanta. Che significa dunque? Ecco, si ricorderà che nell’«Esperienza poetica», che qui non prendo in esame essendo abbastanza nota la vicenda di questa rivista11, Bodini si riprometteva, come scriveva nell’e- ditoriale premesso al secondo numero, dal titolo Non è una poesia da serra, di documentare la «tendenza di rinnovamento» in atto nella poesia italiana, nella convinzione che questa non fosse morta nel 1945, come sosteneva certa critica, ma che fosse solo differente da quella «pura», «assoluta», «intemporale» dell’an- teguerra. E la sua rivista voleva mostrare per l’appunto «questo sforzo transitivo della poesia sugli oggetti e passioni del mondo, ma a patto che gli uni e gli al- tri si accendano di una significazione fantastica e che il linguaggio non perda di quella comprensione e densità che sono un innegabile debito verso i poeti mag- giori delle generazioni precedenti»12. Il che voleva dire che era necessario per i poeti uscire fuori dalla «prigione di parole» in cui, a suo giudizio, si erano rin- chiusi alcuni e confrontarsi invece col reale, con la società, con il tempo, senza peraltro rinunciare allo scatto inventivo, alla fantasia, all’immaginazione, pro- prio come aveva tentato di fare lo stesso Bodini con la sua prima raccolta, La luna dei Borboni, del ’52. Non a caso, le polemiche principali furono condotte, da un lato, nei confronti del postermetismo e, dall’altro, del neorealismo mar- xista, del quale si rifiutava il grezzo contenutismo e l’esplicita compromissione con la politica. A questa «alternativa», che presentava l’Italia «ufficiale», Bodini dichiarò più volte di essere «indifferente»13. In questo contesto si giustifica an- che l’aspra polemica con il conterraneo e amico Oreste Macrí, a cui rimprovera-

11 Su questa rivista cfr. Donato Valli, Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960), Lecce, Milella, 1985, pp. 133-162; Daniele Maria Pegorari, Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008, Bergamo, Moretti & Vitali, 2009, pp. 445-473. Di essa esiste anche la ristampa anastatica, L’esperienza poetica (1954-1956), con Introduzione e Indici di Ar- mida Marasco, Galatina, Congedo, 1980. 12 Non è una poesia da serra, in «L’esperienza poetica», 2, aprile-giugno 1954, p. 1. Gli editoriali, che compaiono all’inizio di ogni fascicolo della rivista, non sono firmati ma sono da attribuire tutti a Bodini. 13 Cfr. La cospirazione provinciale, in «L’esperienza poetica», 5-6, gennaio-giugno 1953, p. 2. 574 Antonio Lucio Giannone va di essere rimasto fermo sulle posizioni d’anteguerra, in una difesa ad oltran- za dell’ermetismo, senza accorgersi del mutato cambiamento del clima poetico. Ma in questa occasione non mi soffermerò nemmeno su questa polemica che è stata abbondantemente studiata ed è sufficientemente nota14. Al tempo dell’«Esperienza poetica» risale anche quella distinzione, da lui pro- posta, all’interno dell’ermetismo, in due gruppi:

quello dei poeti che accettato il linguaggio poetico della triade Campana-Unga- retti-Montale, lo derivarono verso soluzioni di sensibilità, o d’idillio o di musica (Gatto, Sinisgalli, Penna, De Libero), affinandolo ciascuno secondo le proprie disposizioni, e un secondo gruppo – una destra, diremmo – caratterizzato da una superfetazione culturale e da un ritorno […] all’estetismo verbale su una labile trama per mosaico, alle parole di lusso, al neodannunzianesimo, in una parola, sia pure attraverso Ronsard, e non Petrarca, ma i cinquecentisti15.

Questi due gruppi poi, secondo Bodini, si erano progressivamente stacca- ti l’uno dall’altro, dando vita a due linee poetiche e geografiche al tempo stes- so: la linea fiorentina e quella meridionale. Da qui il rapporto privilegiato con Quasimodo, da lui definito «l’iniziatore della poesia meridionale»16, con cui fu a lungo in rapporto epistolare, o la vicinanza a Scotellaro, che fra l’altro recen- sì, in maniera entusiastica, La luna dei Borboni17. Ma questo è – come dire – il punto d’arrivo della riflessione bodiniana sulla poesia, che anch’io ho avuto già modo di esaminare in altre occasioni. In que- sta sede, mi interessa delineare invece, sia pure rapidamente, attraverso gli scrit- ti critici che, come dicevo prima, sono ancora dispersi e quindi poco conosciu- ti, il percorso seguito da Bodini per arrivare a quella proposta e soprattutto ap- profondire il suo rapporto con l’ermetismo e Firenze, che è stato fondamentale per lui, come d’altra parte egli ha sempre riconosciuto: che cosa ha rappresenta- to dunque l’ermetismo per Bodini e come egli lo ha giudicato. E questo anche in relazione al tema del Convegno odierno. Per far ciò, è necessario partire da uno scritto memoriale, intitolato Firenze, rimasto inedito fino a che nel 1980 Renato Aymone non lo pubblicò, nel 1980, in Appendice del suo volume Vittorio Bodini. Poesia e poetica del Sud. In questa prosa, non datata ma risalente agli anni Sessanta, emerge pienamente l’impor-

14 Per un’accurata ricostruzione di questa polemica cfr. Leonardo Terrusi, Vittorio Bodini contro Oreste Macrí: storia di una polemica letteraria, in «Critica Letteraria», 104, 1999, III, pp. 521-547. 15 V. Bodini, Quarant’anni di poesia, in «L’esperienza poetica», gennaio-marzo 1954, 1, p. 25. 16 V. Bodini, Quasimodo iniziatore della poesia meridionale. Le sue terre d’uomo, in «La Fiera letteraria», X, 29, 17 luglio 1955, p. 5. 17 Sul rapporto con Quasimodo e con Scotellaro ci sia permesso di rinviare a A. L. Gianno- ne, Tra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Lecce, Milella, 2013, rispettivamen- te alle pp. 129-143 e 223-230. LA «TERZA VIA» DI VITTORIO BODINI 575 tanza avuta dalla permanenza di Bodini, tra il 1937 e il 1940, a Firenze, dove si laureò in Filosofia con Paolo Emilio Lamanna con una tesi su Gian Domenico Romagnosi. Qui infatti egli riprese la sua attività creativa dopo la breve avven- tura futurista leccese dei primi anni Trenta, e soprattutto qui avvenne la sua vera formazione in un ambiente letterario di altissimo livello, aperto alle influenze della cultura europea. E, a questo proposito, è sufficiente citare un brano:

A piedi, magrissimo, mi giravo dunque amorosamente la mia nuova patria, o per trovare libri usati, o camere ammobiliate, abbastanza fiorentine e abbastanza a buon mercato (ho abitato al Porcellino, in Canto dei Meli, in via San Gallo) o, da ultimo, per vedere i prezzi delle scarpe. In via dei Servi, o in via Alfani, o in Borgo la Croce trovavo libri sconvolgenti, decisivi per la mia vita, come Kafka, tutti i volumi della Recherche, l’Ulixes nella traduzione francese di Valéry Larbaud, e nella ediz. Corbaccio, Svevo e Gente di Dublino, e Montale e una prima ediz. dei Canti orfici. E i Pesci rossi di Cecchi. Come era giusto, pagavo asceticamente ciascuna di queste scoperte, perché ad ogni acquisto mi toccava saltare il pasto. Per la Recherche mi toccò saltarne parecchi18.

Qui egli rievoca anche la sua conoscenza, presso le Giubbe Rosse, dei maggiori protagonisti di quel particolare momento vissuto dalle lettere italiane: Montale, Luzi, Gadda, Bo, Landolfi, Pratolini, Bigongiari, Parronchi e Bonsanti il qua- le, tra il 1939 e il ’40, gli pubblica su «Letteratura», cioè pubblica a uno scono- sciuto e per di più esordiente, grazie all’interessamento di Montale, sei poesie, un racconto, La coscienza di Antina e una recensione a Lettere d’una novizia di Guido Piovene. Dagli ermetici – confessa ancora Bodini – «ero attratto per la vitalità, la freschezza, per l’unità della loro cultura, ma in parte separato dalla diversa formazione e dal mio antifascismo, mentre era noto il loro glaciale di- sprezzo della politica»19. Sempre in questa prosa, all’inizio, e prima della rievocazione vera e propria di quegli anni, c’è un breve brano in cui lo scrittore riflette sulla sua esperien- za ermetica:

terza generazione (del M.) a cui non mi sentivo vincolato, perché la brevità della mia esp. erm. mi lasciava libero di cercare alla fine dello sfacelo naz. un’altra via, un altro linguaggio poetico. Non son pentito però di quella esp. (che oggi in queste condiz. storiche riappare in altra forma nella mia poesia, ma durante e dopo la guerra incolpai l’e. per averla straniata e disavvezzata dai grandi temi ed eventi collettivi, avverso a quel calarsi nel fondo di sé20.

18 V. Bodini, Firenze, in Renato Aymone, Vittorio Bodini. Poesia e poetica del Sud (con appen- dice di testi inediti e rari), Salerno, Edisud, 1980, p. 127. 19 Ivi, p. 131. 20 Ivi, p. 124. 576 Antonio Lucio Giannone

Ecco, in questo brano si può notare, in fondo, che Bodini ha sempre parlato del suo rapporto con gli ermetici con un tono equilibrato, riconoscendo la de- cisiva importanza della sua formazione fiorentina e manifestando sempre gran- de stima verso i protagonisti di quella stagione, mentre le punte più accese del- la polemica con Macrí, al tempo della loro «inimicizia fraterna», sono limita- te proprio agli anni dell’«Esperienza poetica» e si spiegano probabilmente an- che con la volontà di rimarcare, in quel particolare momento, più le divergen- ze che le affinità col critico magliese. Qualcosa di più, a questo proposito, si po- trà sapere quando verrà la luce il monumentale carteggio Bodini-Macrí, cura- to da Anna Dolfi. Il percorso dunque che porta Bodini a fare la sua proposta (la «terza via») è piuttosto lungo e dura almeno una decina d’anni. Seguiamo allora rapidamen- te i momenti principali di esso partendo dagli anni romani (1944-46), duran- te i quali egli collabora a numerosi giornali e riviste: da «Ricostruzione» a «La Tribuna del Popolo», da «Domenica» a «Cosmopolita», da «La Fiera letteraria» a «Mercurio». In questi scritti egli incomincia a riflettere sulla funzione che do- veva svolgere la letteratura in una realtà profondamente mutata, quale era quel- la dell’immediato dopoguerra, partecipando alle polemiche di quegli anni che riguardavano anche il giudizio da dare sui movimenti letterari fra le due guerre e quindi anche sull’ermetismo21. Altamente significativo, ad esempio, è La cultura tradizionale e la giovane let- teratura, in cui si ricollega a una polemica iniziata qualche mese prima con un articolo di Alberto Moravia, sempre su «Domenica» e proseguita con gli inter- venti di Massimo Bontempelli e Libero Bigiaretti. Moravia, nel suo articolo, in- titolato significativamente Colpe letterarie, aveva imputato all’autarchia cultura- le vigente nel periodo fra le due guerre il mancato contatto della cultura italia- na con quella europea (affermazione piuttosto discutibile, in verità) e aveva de- finito la cosiddetta letteratura «formale», nella quale comprendeva pure l’erme- tismo, una sorta di «Arcadia di proporzioni gigantesche» che aveva esercitato un vero e proprio monopolio in quegli anni. Ebbene, già qui Bodini assume una posizione mediana e quasi di difesa dell’er- metismo, attribuendo invece la causa principale dell’autarchia culturale indivi- duata da Moravia a quelli che definisce gli «ispidi e recidivi rapporti» fra la «cul- tura tradizionale» e la «giovane letteratura». In ogni caso egli non fa coincidere la linea di demarcazione fra i due schieramenti con quella tra fascismo e antifa- scismo, non potendosi identificare immediatamente, a suo giudizio, le fazioni letterarie con quelle politiche. Da un lato, dunque, gli ermetici «si sono esilia- ti da una città reale nelle cui strade non riuscivano a far respirare i propri fan-

21 Su questo particolare momento dell’attività bodiniana cfr. A. L. Giannone, Bodini prima della «Luna», Lecce, Milella, 1983, pp. 41-66.. LA «TERZA VIA» DI VITTORIO BODINI 577 tasmi», e hanno peccato dunque «non per fare ma per non fare»22. Dall’altro, la cultura storico-idealistica di matrice crociana ha avuto la colpa di ignorare la poesia novecentesca, primo fra tutti Montale, escludendo dal suo interesse tutto quello che si pubblicava «entro quel circolo infetto». Questa assenza di dialogo tra i due schieramenti provocò disagi su entrambi i fronti, non potendo gli er- rori degli uni essere compensati dalle qualità degli altri. Il torto quindi si dove- va suddividere in parti uguali tra i due schieramenti, ma a Bodini non interes- sava qui intentare un processo, distribuendo le colpe fra le parti in causa, come facevano alcuni, quanto reperire un comune punto d’accordo in vista di quella «ricostruzione» letteraria, più che mai necessaria in quel periodo per far sì che la nostra letteratura riacquistasse una «funzione europea». Assai rilevante è anche uno scritto su Montale, risalente al 1945, Il gasista di Montale, nella cui poesia Bodini rinveniva un filo tematico costante, rappresen- tato dal «tormentoso e vivace sentimento» della polis, «mutevolissimo, intricato di umori, di domande, di contraddizioni – e in ciò obbediente alla mobilità del mondo interiore del poeta –, ma sempre presente come l’antagonista necessario e a suo modo producente di questa poesia che è per ora l’unica di cui si possa dire con certezza che ci sopravviverà»23. E questo filo della polis, cioè dell’aper- tura, dell’attenzione al reale, alla comunità degli uomini, alla società, egli segui- va dalle prime apparizioni negli Ossi di seppia alle Occasioni, ripercorrendo «la storia di una musa che s’addentra sempre più nelle piazze, ad ogni passo attrat- ta e respinta senza tuttavia sapersi sottrarre al fastidio di contatti di cui si ven- dica registrandoli con una precisione crudele»24. Anche qui però lo scrittore lec- cese evita l’errore di attribuire ai versi montaliani una valenza politica precisa. Un’acuta riflessione sul genere romanzo, invece, è da lui condotta in Il gob- bo e la narrativa italiana, in cui nota giustamente la mancanza in Italia di una «civiltà narrativa generata da un sentimento collettivo […] una civiltà parago- nabile al patrimonio di esperienza che si tramandavano di generazione in gene- razione i nostri artigiani»25. Per questo auspica la rinascita del romanzo in Italia, perché tutta una «materia insanguinata e mostruosa», attendeva ancora, a suo giudizio, di essere trasferita in quel genere letterario e non trasfigurata dal canto, sia pure altissimo, di un poeta. E qui polemizza implicitamente contro la prosa d’arte e l’elzeviro o «altri cesellati soprammobili» del periodo tra le due guerre. In un altro articolo, ancora, dedicato a Tommaso Landolfi, Invito alla retori- ca (con una nota sul gioco d’azzardo), del ’46, rintraccia negli scrittori italiani di

22 V. Bodini, La cultura tradizionale e la giovane letteratura, in «Domenica», 19 novembre 1944. 23 V. Bodini, Il gasista di Montale, in «Cosmopolita», 16, 19 aprile 1945, p. 5 (poi, col titolo Lettura montaliana, in «La Tribuna del Popolo», 5 novembre 1946, p. 3). 24 Ibidem. 25 V. Bodini, Il gobbo e la narrativa italiana, in «Ricostruzione», 20 aprile 1945. 578 Antonio Lucio Giannone quel periodo l’aspirazione ad «allargare il gioco»26, cioè a prendere in considera- zione qualsiasi materia, perché «Allargare il gioco in letteratura – spiega – signi- fica per l’appunto includervi tutte le impurità, tutte le retoriche: e vedere poi se si è capaci di bruciarle»27, al fuoco della passione civile e dell’emozione artisti- ca. Anche qui dunque una tendenza ad aprirsi in qualche misura all’«impura» realtà con tutte le conseguenze e i rischi che questo comportava per la scrittu- ra, per la creazione artistica. Nel novembre 1946, infine, in Mobili prospettive di una letteratura, apparso sul periodico leccese «Libera Voce», immediatamente prima della sua partenza per la Spagna, nota che la guerra aveva prodotto uno strappo violentissimo nei tessuti della società letteraria, che non poteva non aver causato dei mutamenti anche nell’animo degli scrittori. Difatti, anche se «l’illustre corpo d’una lettera- tura non è direttamente tangibile da ciò che accade al di fuori di essa»28, la lette- ratura è fatta pur sempre dagli uomini, «la cui vita ed esperienze sono necessa- riamente condizionate dalla realtà» e «qualcosa di questa dovrà pur filtrare entro le pagine, non fosse altro che come limite»29. E alla fine aggiungeva una frase si- gnificativa, nella quale non è difficile cogliere, già fin d’ora, una velata allusione a Macrí: «E non sappiamo nascondere il nostro fastidio se ci avviene di leggere uno scritto d’un nome su cui contavamo (ma son moltissimi su cui contavamo) da cui non trapeli il più minuto indizio che qualcosa è accaduto, che qualco- sa non è più come prima»30. Anche qui insomma Bodini procedeva a una revi- sione della letteratura d’anteguerra, ma non a un «revisionismo a tutti i costi», come facevano altri, non giungeva cioè a comminare condanne assolute, prive della possibilità di appello. Ma la riflessione bodiniana continua anche negli anni successivi. Anche in certe «letture» che compie durante la permanenza spagnola affiora questo leit motiv della necessità di una qualche forma di apertura al reale da parte della po- esia. Nell’articolo La poesía de Ungaretti en Allegria, che pure è destinato ai letto- ri spagnoli, pur ritenendo la poesia di Ungaretti fuori dal contingente, dalla cro- naca, essendo essa di tipo ontologico, verticale, mette l’accento sulla definizione di «uomo di pena», che ci fa scoprire la creatura storica, immersa nel suo tempo:

Pero tal fidelidad a las razones universales del acto poético en ningún momento significará olvido, deserción de sus términos de criatura histórica, sino, al con-

26 V. Bodini, Invito alla retorica (con una nota sul gioco d’azzardo), in «Domenica», 3, 20 gennaio 1946 (poi, col titolo Letteratura e gioco d’azzardo, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, 26 marzo 1954). 27 Ibidem. 28 V. Bodini, Mobili prospettive d’una letteratura, in «Libera Voce», 31-32, 16-30 novembre 1946, p. 3. 29 Ibidem. 30 Ibidem. LA «TERZA VIA» DI VITTORIO BODINI 579

trario, estos términos están puntualmente reconocidos y enfrentados, siendo éste el primero y más elemental peldaño del trabajo de Ungaretti, «uomo di pena», como èl mismo se define31.

Ma gli scritti più interessanti da questo punto di vista, dopo il rientro in Italia e prima dell’«Esperienza poetica», sono forse tre articoli dei quali due vennero pubblicati sul quotidiano barese «La Gazzetta del Mezzogiorno», a cui Bodini collaborò piuttosto intensamente in quegli anni, e un altro è rimasto inedito fino a che Grassi non lo inserì nel libro poc’anzi citato. Qui ci troviamo di fron- te davvero a scritti autoidentificativi, nei quali lo scrittore ripensa alle sue due passate esperienze letterarie, il futurismo e soprattutto l’ermetismo, con il qua- le cerca, per così dire, di «fare i conti». Nel primo, in ordine cronologico, intitolato Antichi e nuovi «ismi», Bodini mette a confronto per la prima volta questi due movimenti, che – scrive – «sono quanto più diverso possa immaginarsi», perché l’antiaccademismo dei futuristi celava in fondo «una copiosa ignoranza» mentre «poesia e critica ermetica era- no spesso prodotti di una esagerata cultura giunta ad una fase d’inflazione»32. Inoltre, se nei primi a prevalere erano «i dati meccanici e le approssimazioni dei sensi», «l’ambizione della poesia ermetica fu il simbolo, il marmo»33. Ma qui si sofferma soprattutto sulla funzione della scuola ai fini della na- scita della poesia e quindi sul valore dei movimenti letterari e della loro porta- ta. Le scuole, i movimenti letterari, secondo Bodini, se visti «anteriormente alla poesia» svolgono un compito positivo perché contribuiscono a creare un clima comune, a chiarire temi che, «per essere personali, non per questo apparten- gono di meno a tutta una generazione»34. La scuola quindi «sorge dall’apporto che ciascuno dei suoi componenti – anche i minori – può offrire alla comuni- tà poetica raccoltasi sotto alcuni segni comuni, nel modo naturalmente più ge- nerico in cui ciò è possibile»35. Veduta invece a posteriori, la scuola è «un limite a cui si potrebbe soggiacere, e a cui infatti i più deboli soggiacciono», se non si ha la forza di andare oltre: «Impediti nella ricerca di un’ispirazione intimamen- te personale, si finirà col riecheggiare opacamente motivi che per essere comuni avrebbero potuto avere un valore e non ne hanno alcuno»36. Queste espressioni richiamano molto da vicino ciò che egli stesso scrive, nella Nota preliminare a La luna dei Borboni e altre poesie, a proposito del gruppo Vecchi versi – I (1939-41), che aveva eliminato perché «apparteneva più al generico lin- guaggio poetico di quegli anni che a me», cioè al linguaggio della scuola ermeti-

31 V. Bodini, La poesía de Ungaretti en Allegria, in «Cuadernos de Literatura», 1947, p. 3. 32 V. Bodini, Antichi e nuovi «ismi», in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 1 dicembre 1951. 33 Ibidem. 34 Ibidem. 35 Ibidem. 36 Ibidem. 580 Antonio Lucio Giannone ca. «Tuttavia – aggiungeva – perché non paia che io abbia voluto sopprimere le tracce di quegli anni, ed anche, perché no?, per dar la misura di tutto il cammino e gli sforzi (e i vuoti) per trovare un linguaggio più libero e da poter dire mio, ho messo in appendice due composizioni di quel gruppo»37. Per questo così conclu- de, con un chiaro riferimento anche stavolta alla propria esperienza: «Superare un limite presuppone insomma l’esistenza necessaria di quel limite, e in questo sen- so la sua utilità; e un movimento poetico – aggiunge usando un gioco di parole – è dunque una utilità che la poesia deve inutilizzare dentro di sé, utilizzandola»38. Collegato a questo è un altro articolo, apparso sul quotidiano barese esatta- mente un mese dopo, All’insegna dell’Arte-Vita, in cui ritorna sul confronto tra futurismo e ermetismo, riprendendo il concetto di scuola. Ebbene – sostiene Bodini – i due movimenti, come scuola, si equivalgono, come ogni altra scuola. Tra di essi però, c’era un’enorme differenza relativamente alla «quantità di poe- sia realizzata», che poi è quello che conta davvero. In effetti, a suo giudizio, essi sono radicalmente diversi nei caratteri più intimi. «Alla parola grezza, priva di storie e di risonanze, anzi ambiziosa di barbarie» dei futuristi si contrappone la tendenza degli ermetici alla parola «colta, densa di allusioni, che implicasse nel proprio suono il maggior numero di echi e di associazioni d’immagini»39. Ancora, mentre i futuristi «si presentavano con una spavalderia arrogante, affermavano il loro credo con uno squadrismo verbale che lungi dal trascurarne, andava provo- cando le occasioni per manifestarsi», gli ermetici «erano estremamente schivi»40. Non a caso i futuristi avevano dei manifesti che sono, a suo giudizio, «il docu- mento letterario più notevole che sia uscito da tutto quel movimento»41, mentre gli ermetici non ne avevano affatto, avendo rifiutato Carlo Bo il valore di ma- nifesto per il suo Letteratura come vita. Radicalmente diversa era anche la con- cezione di movimento, di scuola e mentre i futuristi erano attratti dal numero degli aderenti, dai gruppi, e chiunque poteva essere ammesso senza discrimina- zioni, gli ermetici «smorzavamo i dissensi con la superiore urbanità della cul- tura», e «dietro i loro scritti, nel loro linguaggio fuso e corale, un po’ monoto- no, la fiamma più calda era forse nell’operoso fervore di un’amicizia di pochi»42. Ancora, un’altra differenza fondamentale sta nell’assoluta mancanza di senso cri- tico dei futuristi a cui si contrappone «il predominio della critica» nell’ermeti- smo. Il senso critico agì addirittura «anteriormente nella loro poesia che fu for- temente permeata e talvolta dominata dal controllo critico»43.

37 V. Bodini, Preliminare a La luna dei Borboni e altre poesie 1945-1961, in Tutte le poesie (1932-1970) cit., p. 90. 38 V. Bodini, Antichi e nuovi «ismi» cit. 39 V. Bodini, All’insegna dell’Arte-Vita, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 1 gennaio 1952. 40 Ibidem. 41 Ibidem. 42 Ibidem. 43 Ibidem. LA «TERZA VIA» DI VITTORIO BODINI 581

Ma questo e gli altri due scritti sono davvero, per Bodini, come s’è detto, una sorta di esame di coscienza, quasi di un bilancio delle sue prime esperienze letterarie. Una chiara allusione alla sua breve partecipazione al futurismo si co- glie allorché egli accenna al tentativo dei futuristi di diffondere certi miti dan- nunziani (il superuomo, l’arte-vita) presso la piccola borghesia. E questi miti – aggiunge – facevano presa su «commessi di negozio, ferrovieri, infermieri e so- prattutto studenti liceali insofferenti delle discipline scolastiche»44, come era ap- punto il suo caso. Questo tentativo però fallì perché la mancanza di senso criti- co, oltre che la fretta e la superficialità, fece sì che quei miti si capovolgessero e si trasformassero «nei temi dell’antiaccademismo e della barbarie»45. La riflessione, la sofferta (possiamo definirla) riflessione, sull’ermetismo conti- nua infine, prima dell’«Esperienza poetica», in Le vergini ermetiche, risalente pro- babilmente al 1953, in cui Bodini torna ancora una volta, con intensa partecipa- zione, a cercare un chiarimento, forse più per sé stesso che per gli altri, su quel- la che definisce significativamente «la chiave segreta della nostra generazione»46. Qui mette in rilievo quelli che a suo giudizio sono alcuni caratteri dell’ermeti- smo, come il «pudore dei sentimenti» e la «moralità letteraria», rispetto alla qua- le «non è che secondaria ogni distinzione di chiarezza e oscurità»47. Poi chiarisce i rapporti tra Ungaretti e Montale e l’ermetismo. Il primo – sostiene – ha avuto solo tangenze, avendo in comune «l’educazione francese, sostanziale in Ungaretti, non altrettanto negli ermetici»48. Più prossimo agli ermetici è Montale, «per l’e- quivoco dell’oscurità formale, per l’avversione a alzare il tono di voce, per il do- minio sempre esercitato sui sentimenti tradotti più che alienati in oggetti», ma, a suo giudizio, si tratta di una vicinanza esterna. «La condizione ermetica della monotonia, di esclusione della dialettica (in sede umana) con l’ignoto, si realiz- za in lui solo alla superficie; la superficie è calma, il fondo tumultua. La storia, esclusa per sofismi eleatici, attraverso l’occasione fa ritorno per la finestra»49. E qui riprende la sua interpretazione, di qualche anno prima, di un Montale che si apre gradualmente alla storia, al reale, alla polis. Alla fine distingue l’ermetismo in un centro rappresentato da «Letteratura», che pure fa parte del «clima ermetico», una sinistra, di Carlo Bo, Luzi, Contini e Macrí, che – scrive – «rapidissimamente s’arrampicava fra le più ardue alberature aristotelico-vichiane», e la destra di De Robertis e Falqui che «andava ricercando attestati leopardiani i quali servissero a giustificare l’oscurità in nome di un’aura di nobiltà espressiva»50. E anche in questo scritto c’è un’ allusione autobiografi-

44 Ibidem. 45 Ibidem. 46 V. Bodini, Le vergini ermetiche, in I fiori e le spade cit., p. 96. 47 Ivi, p. 99. 48 Ivi, p. 96. 49 Ivi, p. 98. 50 Ivi, p. 99. 582 Antonio Lucio Giannone ca allorché scrive che la poesia ermetica «passò da quella prima schiera fiorenti- na ai giovani delle università e della provincia»51, come era successo appunto a lui, proveniente dalla provincia meridionale e iscritto all’Università di Firenze. L’insistenza, insomma, su questo tema negli anni che precedono immediata- mente «L’esperienza poetica» sta a dimostrare come Bodini sentisse quasi come un nodo irrisolto la questione del suo rapporto con l’ermetismo, un nodo che doveva necessariamente sciogliere prima di procedere oltre e arrivare alla sua pro- posta. In ogni caso, anche l’esame di questi scritti, oltre che un’indagine testuale sulla poesia bodiniana, conferma che la lezione ermetica ha continuato a conta- re su di lui forse più di quanto egli stesso ne avesse coscienza.

51 Ivi, p. 97. DAL SEME DELLA POESIA CRITICA E POETICA TRA BAROCCO E NOVECENTO1

Mario Sechi

1. Continua a circolare tra gli intelligenti e fedeli lettori di Vittorio Bodini, e anche tra gli studiosi della sua poesia, l’immagine di una figura versatile ed ec- centrica, capace di una operosità brillante, ma dispersa per rivoli e per canali, ciascuno dei quali meritevole di autonoma, se non settoriale considerazione: le traduzioni, le raccolte poetiche, la critica accademica e militante, con ai margi- ni l’esperienza tardo-futurista degli anni Trenta, e l’impegno civile del secondo dopoguerra. Io sono fermamente convinto invece che Bodini dovrebbe essere considerato un esponente a pieno titolo della generazione a cavallo dell’ultima guerra mondiale, quella, per fare due soli nomi anch’essi di provenienza meri- dionale, di Gatto e di Sinisgalli: una personalità compiuta di intellettuale e di artista consapevole di un suo progetto e di una sua direzione di ricerca, su cui occorre ritornare ancora con uno sguardo più attento. Partirei da una semplice constatazione, ricordando come la sua intensa atti- vità di traduttore abbia per lungo tempo sopravanzato, per visibilità e per presti- gio, tanto la sua poesia quanto la sua produzione critica. Agli anni Cinquanta e Sessanta risalgono il Don Chisciotte (per la collana dei Millenni Einaudi), i Sonetti amorosi e morali di Quevedo, il Lazarillo de Tormes (sempre per Einaudi), e in ambito novecentesco le molte traduzioni (anch’esse einaudiane) del teatro di García Lorca, e poi della poesia di Larrea, Neruda, Alberti (questo, per Einaudi e per Mondadori), Salinas (per la collana di poeti europei di Lerici), e così via.

1 Per le citazioni dai saggi di Bodini, utilizzerò le seguenti sigle, con la semplice indicazione dei numeri di pagina, e senza rinvii in nota: ATG = Alcuni temi gongorini, Bari, Adriatica, s.d. [ma presumibilmente 1963]; SSVS = Segni e simboli nella Vida es sueño, Bari, Adriatica, 1968; PSS = I poeti surrealisti spagnoli, Torino, Einaudi, 1963. Come preciso più avanti nel corpo della mia comunicazione, gli studi gongorini furono poi rifusi in edizione accresciuta col titolo Studi sul Barocco di Góngora, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1964. Una silloge dei saggi su Góngora e su Calderón fu pubblicata in traduzione spagnola col titolo Estudio estructural de la literatura clasica española, Barcelona, Ediciones Martinez Roca, 1971. Per i testi poetici citati nella parte finale di questo scritto, rimando all’edizione di Tutte le poesie, a cura di Oreste Macrí, Nardò, Besa, 2004. Lo scritto Pitagora è uno delle nostre parti, citato anch’esso in fine, fa parte della raccolta di rac- contini, aforismi e saggi, curata e prefata da Lucio Antonio Giannone per le stesse edizioni Besa, Nardò, 2003, col titolo Barocco del Sud.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 584 Mario Sechi

Una menzione a parte merita l’antologia dei Poeti surrealisti spagnoli (per gli Struzzi Einaudi), che rappresentò un primo, lucido tentativo di riconoscimen- to e di delimitazione di quella tendenza, allora misconosciuta e sommersa, della poesia spagnola (il denso saggio introduttivo è corredato da un ricco apparato di schede bio-bibliografiche). Il successo della raccolta poetica La luna dei Borboni, pubblicata nel 1952 per le piccole Edizioni della Meridiana di Milano, finali- sta al premio Viareggio, gli procurò una riedizione nella collana mondadoriana dello Specchio (1962), ma non valse a farlo entrare in nessuna delle principa- li antologie di poesia del Novecento (che tra i Sessanta e i Settanta contribuiro- no alla definizione di un canone poetico novecentesco). E le successive raccolte (Dopo la luna, del 1956, per Sciascia di Caltanissetta, e Metamor, del 1967, per Scheiwiller) sembrarono delineare, al di là del «caso» della Luna, una parabola forse troppo esile per connotare una riconoscibile identità di artista. L’uscita postuma del volume I fiori e le spade, del 1984 (titolo che ricalca, cre- do intenzionalmente, l’albertiano Entre il clavel y la espada), illuminò un aspetto sconosciuto ai più, un orizzonte di impegno, e anzi di professione civile, dietro l’immagine svagata del poeta-professore. Di tale esperienza di «impegno» non si può non tener conto – in particolare – per comprendere e giustificare certe asprezze della polemica anti-ermetica dell’«Esperienza poetica», prima del ’56. I tanti tasselli di una biografia irregolare e avventurosa - dalla giovinezza pro- vinciale e avanguardista al breve discepolato fiorentino delle Giubbe rosse, dalla parentesi politica degli anni di Democrazia del lavoro (1944-45) al lungo sog- giorno spagnolo (che fu un po’ vita di bohème, ma soprattutto esperienza totale di poesia e di vita), alla vivace presenza nella società letteraria delle riviste e dei giornali, tra provincia e centro dell’Italia post-fascista, e quindi all’insegnamen- to universitario e al dominante interesse per la ricerca – sono tasselli tra loro in apparenza mal connessi, che tuttavia trovano, a mio parere, precisi e profondi punti di tenuta, sui quali proverò a soffermarmi in questo intervento.

2. L’incontro di Bodini con la poesia spagnola della Generaciòn del ’27 avven- ne sul finire degli anni Quaranta del secolo scorso, ed avvenne, per circostanze anche casuali, sotto il segno della riscoperta del Barocco di Góngora e del Siglo de oro. Questo nesso tra Seicento e Novecento si impose subito in lui come una chiave fondamentale di reinterpretazione della tradizione lirica e drammaturgi- ca spagnola, e come un nucleo di riflessione estetica, assai rilevante per la com- prensione degli sviluppi della poesia moderna e delle nuove e nuovissime po- etiche. Quando egli scrive nel 1968 nel saggio su Calderón de la Barca che il Novecento «ha inventato storiograficamente il Barocco e rivelato col Seicento grandi simpatie di fondo nel campo specifico della poesia, e identità di tecniche, di modi allusivi e gli stessi varchi alle frontiere fra realtà e metafora e, più larga- mente, fra realtà e retorica» (SSVS, 35), egli ha già spostato da tempo il suo in- teresse dal piano delle mere indagini stilistiche alla problematica delle tipizza- zioni e delle periodizzazioni Kunststile. DAL SEME DELLA POESIA CRITICA E POETICA TRA BAROCCO E NOVECENTO 585

Il suo riferimento primario, e sia pur provvisorio, va individuato nel celebre quanto discusso Del Barocco di Eugenio D’Ors, del 1936 (che a sua volta riman- dava a Wölfflin); ma a stimolarlo, ben oltre gli spunti iniziali di una consonanza di gusto, è tutto un clima nuovo di elaborazioni teorico-estetiche che, parten- do dalla questione del Barocco (ipotecata in Italia dallo schiacciante pregiudi- zio crociano), si rappresenta emblematicamente in convegni come quello su La critica stilistica e il barocco letterario, promosso dall’aislli nel 1956, e l’altro su Manierismo Barocco e Rococò, del 1960, promosso dall’Accademia Nazionale dei Lincei: incontri, soprattutto quest’ultimo, aperti a una contaminazione di ap- procci disciplinari diversi, dall’estetica alla storia delle arti, alla critica, alla reto- rica, e destinato a lasciare tracce profonde nel concreto esercizio delle più avan- zate ricerche di settore. Nei primi studi gongorini degli anni Cinquanta, pubblicati su «Letteratura» e sul «Verri» fra il 1958 e il 1962, e poi raccolti più volte in volume, Bodini pro- gredisce via via – come si è accennato – dal livello delle analisi retorico-stilisti- che (in esplicito confronto con il lavoro filologico e critico di Leo Spitzer e di Dámaso Alonso), verso una più complessa e rischiosa prospettiva ermeneutica. Ripartendo dall’archetipo classico delle metamorfosi ovidiane, egli ne insegue infatti sviluppi e scarti nelle imitazioni e riprese rinascimentali e barocche, fino a cogliere appunto in area secentesca i germi di una concezione dell’arte che si va facendo moderna attraverso una sua apparente «disumanizzazione»: in real- tà emancipandosi dalla retorica del patetico, e rendendosi capace di ricreare col linguaggio, con i tropi e con le innovazioni prosodiche e metriche, la forma di un mondo decentrato e sconvolto, in sintonia con la rottura epistemologica di una transizione epocale, paragonabile per profondità solamente a quella nove- centesca. «Ciò che crolla», scrive Bodini nel saggio su Le lagrime barocche (1959):

è tutto il sistema antropocentrico dei tempi classici e rinascimentali, corroso ormai da scoperte d’incalcolabile portata come quelle dell’America e della plu- ralità dei mondi, lentamente trasferitesi dal dominio della scienza a quello della coscienza fino a scatenarvi una febbre di contraddizione, un’ansia d’ignoto che sono il segno della più autentica fantasia barocca (ATG, 72).

Si può riconoscere nei riferimenti alla storia della scienza un riecheggiamento delle tesi di Aleksandr Kojre (From the closed world to the infinite universe, 1957, tradotto in italiano per Feltrinelli soltanto nel 1970, ma assai noto in Italia ben prima di essere tradotto), e non solo. In Góngora e i miti classici, del 1962, trattando della disgregazione barocca del repertorio petrarchesco, inflazionato negli usi e abusi manieristici – una di- sgregazione culminante nel fenomeno della «ninfoclastia», cioè della scompar- sa o «cacciata delle ninfe» con il loro disumano desdén – Bodini affaccia senz’al- tro l’ipotesi di una valenza «realistica» del Barocco: ed è ben chiaro, egli parla di un realismo consistente nella esplorazione delle possibilità tecniche ed espressi- 586 Mario Sechi ve del linguaggio, nella combinazione di elementi dissonanti, come «mostruo- sità e bellezza», nella pratica del grottesco o dell’orrorifico. E non è una sorpre- sa che in questo contesto egli arrivi a utilizzare come illuminante esempio la le- zione futurista di Umberto Boccioni, il cui «dinamismo assoluto» gli pare pro- iettarsi all’indietro sulla gongorina Fabula de Polifemo, sulla sua fattura metri- ca e retorica «torturata». Per effetto della violenta «erosione» della metrica e dei miti, il paesaggio gongorino si fa

così smisurato e violento da lasciarsi indietro di gran lunga ogni imitazione rinascimentale del mito, nonché il mito stesso, sopraffatto dal cupo vigore dei chiaroscuri. E quale esempio più perfetto in poesia di ciò che Boccioni avrebbe chiamato dinamismo assoluto della descrizione dell’antro del gigante, malinco- nico vuoto d’un tremendo sbadiglio della terra […] (ATG, 87).

Una precisa sensibilità storicistica trattiene sempre Bodini (e questo varrà ancora fin nel pieno della rivoluzione strutturalista) al di qua di ogni program- matico anacronismo. Egli sa che solamente per effetto di un gioco illusionisti- co sarebbe possibile collegare con una sorta di istantaneo raccourci l’esperienza dell’arte barocca e l’esperienza, del resto ancora in divenire, dell’arte novecente- sca. E tuttavia non è per vezzo letterario che egli intitola Góngora e le immagi- ni surreali un saggio del ’62 destinato alla rivista «Romania». Sono questi già i mesi in cui lavora alla antologia einaudiana dei surrealisti spagnoli, e sta cimen- tandosi con la questione di una linea o tendenza poetica indiscutibilmente ric- ca di esempi e di varianti, e però difficilmente identificabile e riconoscibile pro- prio perché non sostenuta né contrassegnata da manifesti o da coerenti costru- zioni teoriche. Di più, proprio attraverso il censimento dei nomi e delle raccol- te (Larrea, Diego, Alberti, García Lorca, Aleixandre, Moreno Villa, Cernuda, Altolaguirre, Prados), egli sta provando a segnare un confine netto fra surreali- smo e poesia pura, sulla base di misurate puntualizzazioni stilematiche, e in que- sto percorso sta confrontandosi con le tesi filosofiche di Ortega y Gasset e con le prese di posizione teorico-metodologiche di Dámaso Alonso, che della gene- razione del ’27 fu critico e interprete autorizzato, quanto tendenzioso. Le «immagini surreali» di Góngora rappresentano dunque un problema, che Bodini propone di risolvere escogitando la formula di una «superrealtà gongo- rina», solo in apparenza «oscura», ma in effetti decifrabile con gli strumenti del- la retorica e della stilistica classica. Furono i simbolisti francesi a inventare e ap- prezzare la presunta oscurità di Góngora, sulla base di quello che pare a Bodini un sostanziale fraintendimento. Quella «superrealtà» o «surrealtà» si poneva in- fatti al di qua del simbolo, in quanto fabbricata con una sua precisa «armatura sintattica, portata a furia di precisione sino alle soglie della matematica» (ATG, 101). Secondo Bodini, essa potrebbe rinviare semmai, per una suggestione me- diata anche dalle versioni di Ungaretti, all’esempio di Mallarmé, già autorevol- mente evocato dallo stesso Dámaso Alonso. DAL SEME DELLA POESIA CRITICA E POETICA TRA BAROCCO E NOVECENTO 587

Attraverso passaggi sottili quanto cauti, il discorso critico slitta qui infine sul- le modalità creative della relazione intertestuale, illuminando circoli ermeneu- tici complessi quanto accidentati: e la metafora gongorina del fiore azzurro tra- mutato in miele, ad esempio, è vista trapassare in Machado e in Lorca, con un surplus di connotazioni simboliche e di cromatismi astratti. Una sorta di corto circuito deve essersi prodotto, e a quale distanza, fra il poeta culterano, con la sua strepitosa esuberanza di mezzi espressivi, e i giovani esponenti della nuova poesia spagnola: «I fiori azzurri del rosmarino paiono una sfida di Góngora alle poetiche del nostro secolo» (ATG, 113). «Dal canto loro – soggiunge Bodini – queste poetiche, e il parallelo movimento critico [del surrealismo], modifican- do profondamente le condizioni di sensibilità e di gusto, hanno fatto in pezzi la leggenda negativa dell’inaccessibilità di Góngora» (PSS, XXVII).

3. I riferimenti metodologici e teorici del Bodini critico non sono di marca italiana, se non marginalmente. Già verso la fine degli anni Cinquanta egli al- lega alle dovute voci bibliografiche dell’ispanistica spagnola pertinenti citazio- ni da Heidegger e da Bachelard (credo da L’eau et les rêves, del 1942, ben prima de La poétique de la rêverie, che è del 1960). La critica accademica italiana sul Barocco è a quell’epoca in forte ritardo, e riesce a produrre qualche nuovo frut- to, almeno sino ai tardi anni Sessanta, soprattutto da certe radici di cattolicesi- mo inquieto e lato sensu esistenzialista, nella scuola torinese (Giovanni Getto) e in quella bolognese (da Carlo Calcaterra, col suo Parnaso in rivolta, del 1940, a Ezio Raimondi). Per procedere verso una più limpida teorizzazione della moder- nità del Barocco, Bodini deve perciò interrogarsi in solitaria riflessione sull’ipo- tesi di un passaggio evolutivo e teorico assai complesso, per cui dalla magistra- le attitudine gongorina «all’intensificazione e al potenziamento del reale», at- traverso una tecnica di proliferazione di oggetti che sono «parole-cose», sia sta- to possibile giungere nel Novecento a una sorta di accelerazione, di automatiz- zazione, di liberazione del flusso verbale, capace per vie sconosciute di allargare oltre ogni confine il campo dell’esperienza reale. Tale passaggio, convenzionalmente e forse banalmente identificato dal sur- realismo francese nella scoperta dell’inconscio, deve significare il ritrovamento di una specie di «ombelico» della metafora, dell’ellissi e dell’iperbole, di un lega- me nascosto con la vita che è anche un «ponte» verso la vita, capace di ri-uma- nizzare in qualche modo la poesia, disoccultando il piano della realtà e «abolen- do l’uomo tagliato in due» (PSS, XXVIII). Trattando in particolare di Gerardo Diego, Bodini ne commenta in questi termini la poetica:

[…] La poesia deve creare ciò che non esiste. Ma che cosa creerà di fatto? Non mondi inesistenti, ma immagini, cose-immagini come oggetti di lusso offerti in trasparenti involucri, in vesti impeccabili da prodotti industriali – non si dimentichi che siamo al mattino della rivoluzione industriale, e che questa e le macchine paiono promettere una nuova estetica (PSS, LVI). 588 Mario Sechi

Il corrispettivo italiano di Diego potrebbe essere, egli soggiunge, un poeta come Corrado Govoni: e proprio questo veloce accostamento di nomi lascia in- tendere come la linea del discorso bodiniano inclini qui in parte verso la poeti- ca degli oggetti, teorizzata da Luciano Anceschi (a partire già da Linea lombar- da, del 1952) in prospettiva fenomenologica. Ma questa linea di interpretazione e di formalizzazione teorica non potrà non condurre alla dichiarazione di accoglimento di una posizione ben più radicale, e che si va facendo ormai egemonica nella nuova temperie formalista e struttu- ralista, vale a dire quella dell’autosufficienza della forma espressiva come forma vivente (il segno, che sia parola, metrica, disegno o colore): un «organismo vivo a cui, in grazia di tale vitalità, può perdonarsi ogni intemperanza, e lasciare che trovi da sé la sua strada e la sua misura» (PSS, XXXIII).

4. La pratica critica degli ultimi anni Sessanta evidenzia in effetti in Bodini una ormai matura e sofisticata applicazione di modelli strutturalistici alla rilettu- ra dei classici barocchi: mi riferisco in particolare al volume Segni e simboli nel- la “Vida es sueño”, del 1968, e al saggio Modello di bilancia gongorina, nel nuovo volume degli Studi sul Barocco di Góngora, del 1964. Tali metodiche si applica- no esemplarmente a opere-congegni, a macchine drammaturgiche o a imponen- ti organismi poetici, che ci appaiono come veri e propri sistemi edificati: il cor- pus poetico di Góngora, con la sua struttura «bimembrata», la sua «bilancia de- miurgica e barocca», e il suo denso «elemento speculativo»; o La vida es sueño di Calderón, la cui «struttura dedalea» pare nata «nella solitudine della [...] mente», col «rigore di un discorso matematico i cui segni obbediscono soltanto a quelle regole che sono ad essi intrinseche». Tuttavia anche ora, nell’atto di accingersi a mettere sul tavolo la strumentazione necessaria all’analisi formale dei testi (fono- logia, semiologia e semantica, retorica e procedimenti costruttivi del discorso po- etico o drammaturgico, ecc.), Bodini non accantona il grande tema del rappor- to col reale, con una dimensione di realtà che è tutta da ridefinire o da ripensare proprio in riferimento alle sue mutevoli rappresentazioni. L’opera di Calderón gli sembra descrivere infatti, con il suo puro sistema di segni e di simboli, una vi- sione di rovine e di fallimenti del reale, la cui modernità riguarda e comprende già, e ormai, la crisi di ogni funzione letteraria: «Dopo Góngora», scrive Bodini:

non siamo mai stati più vicini alla crisi della letteratura, nel senso di una sua funzione o possibilità di alternativa o di correttivo del mondo della realtà; ma mentre in Góngora il suo frutto è la creazione di un lucente supercosmo sen- sibilissimo, l’alternativa che qui Calderón ci propone è quella di un “confuso laberinto” del cuore, di un caos disordinato e molteplice a cui solo può forse mettere ordine la luce intravveduta o sperata di un simbolo (SSVS, 10).

È fin troppo nota e studiata la centralità della figura del labirinto nell’imma- ginario tardo-moderno, da Borges a Calvino, ed è noto il suo legame genetico DAL SEME DELLA POESIA CRITICA E POETICA TRA BAROCCO E NOVECENTO 589 con la strutturale correlazione di caos e geometria che fu elaborata nelle poeti- che delle avanguardie storiche, a partire dall’espressionismo tedesco. A me pare che l’intelligenza di Bodini, stimolata e in parte guidata qui dagli importanti studi di Edward M. Wilson, celebre esponente della stilistica inglese (risalenti alla fine degli anni Trenta e sviluppati fino ad anni assai recenti), stia però nel- la sua capacità di centrare subito con precisione, nel caso di Calderón, non tan- to o non solo una struttura intra-testuale, quanto una struttura culturale, pian- tata nel testo e capace di protendersi in uno spazio mentale, e nel fatto che egli giunga a questo approdo portando a compimento la sua lunga e rigorosa rifles- sione sul Barocco. Si potrebbe seguire il percorso di delucidazione metodologica e teorica fin qui delineato sul versante della critica, tornando al piano della produzione cre- ativa di Bodini, e specialmente di quella poetica. Poiché questo percorso non è possibile svilupparlo in questa sede, mi limiterò a formulare un’ipotesi di paral- lelismo e di interferenza reciproca, cominciando dalla fine, ossia dalle raccolte Metamor, Zeta e Poesie ovali, per dire che in esse agisce certamente la suggestio- ne del magma, come punto estremo di destrutturazione del discorso poetico, in parte in linea ormai con lo sperimentalismo neo-avanguardistico, ma al contem- po rivive e persiste una visione ambivalente della formalizzazione poetica e me- ta-poetica, come schermo e come diaframma, anti-realtà e realtà seriore, in una visione appunto neo-barocca del rapporto fra letteratura e vita. Poiché il centro generatore della poesia bodiniana, dopo l’importante paren- tesi ermetica (che venne a riassorbire il futurismo giovanile), va rintracciato nella Luna dei Borboni (1950-51) e nelle immediate aggiunte di Dopo la luna (1952- 55), potremmo provare ad applicare a queste serie di componimenti gli strumen- ti metodologici che l’autore stava cominciando ad applicare ai suoi poeti spagno- li, e catalogare esempi di immagini oniriche e surreali (ricordiamo «Un monaco rissoso vola tra gli alberi», prima e più emblematica di tante sagome e gallerie di preti e monache trapassanti sull’astratto paesaggio salentino), di metafore e figu- re metonimiche, di smembrature metriche e prosodiche, e persino prove di enu- meraciòn caotica: e avremmo modo di confermare – io credo – la tenuta di un impianto sostanzialmente coerente. Ma rinviando ad altra occasione questo eser- cizio di minuta analisi, credo di poter identificare intanto l’elemento barocco o neo-barocco di queste raccolte in una sorta di riconversione astratta del reper- torio lorchiano e surrealista, che pure vi affluisce abbondante. Il paesaggio della Luna è sì infatti un paesaggio gremito di macchie di colore (ma sono per lui «co- lori da tubetto»), è un paesaggio attraversato da tensioni e zeppo di segni, ma la sua quadratura è una quadratura geometrica, direi bidimensionale. Le coordinate che misurano i contorni di uno scenario fatto di immagini e fantasmi, pubblici e privati, sono quelle che Bodini indica nel suo scritto Pitagora è uno delle nostre parti: una sequenza di aforismi datata 1952, in cui il «cielo schematico», che grava come «un enorme coperchio» (baudelairianamente) sulla pianura salentina, sem- bra assumere la valenza di un non-essere, di una irrealtà o negatività vincente, e 590 Mario Sechi scarsamente, episodicamente punteggiata da intermittenze di umanità e di follia. Vi manca lo spessore, la profondità, la variabilità, tant’è che pure il tempo di questi luoghi è come stremato, che sia esso storia o memoria: voce venuta da lontano, vuota eco. Si potrebbe dir meglio, che la dimensione della temporalità risulta come riassorbita, svuotata della sua energia, materializzata in un incre- dibile accumulo di forme naturali o artistiche, di emblemi e di cartigli, di sta- tue e bassorilievi di chiese, di piante spontanee e polverose come il fico d’india e il tabacco, di animali come la lucertola e la tarantola, che sono già di per sé come insegne araldiche, di racconti e voci di personaggi leggendari o inventati. Il Barocco di Lecce e dei suoi territori è un risucchio di passati di cui non si ha più cognizione esatta, e che riemergono come fossili, cose morte, ossa calcina- te, forme di bellezza tenera e friabile scolpite nel tufo dorato, noia e sfinimento di ciò che si ripete senza fine né scopo. Perciò la lingua poetica del Bodini della Luna è una lingua assai ricca, det- tagliata, aliena dal vago, e porta dentro di sé la capacità di far esplodere da un avvìo colloquiale e persino intimistico una carica inesauribile di deformazioni e capovolgimenti dei piani della realtà, in questo modo – a me pare – provando e riprovando a stabilire quel contatto col doppio fondo dell’esperienza umana, che fu cercato accanitamente dai surrealisti. Ma la ricchezza del lessico e l’esu- beranza delle immagini si rovesciano su se stesse, a costruire un paesaggio fatto di parole e di enigmatici segni, dove l’umano, anche l’umano così dolente e così frusto delle latitudini meridionali, sconta la propria fragilità nell’atto stesso di rappresentarsi e di esprimersi. Nel non casuale Omaggio a Góngora, che fa par- te della serie Via De Angelis (1956-60), ancora nel solco della Luna, il registro si innalza all’altezza di un colloquio rispettoso e formale col poeta «angelo del- le tenebre», all’ombra del suo sepolcro, e nell’ammirazione incantata per la sua poesia fatta di «ponti d’immagini» e di «trame» si incide con rigorosa evidenza, accanto alla comparazione dei due diversi Sud, l’irresolubile assillo della mente: «Venuto qui non oso domandare / se è piena o vuota la realtà». «SPETTRI SUBLIMI DELL’ESTATE»: L’ESPERIENZA DEI VERSI VERSILIESI

Riccardo Donati

La Versilia è stata, per buona parte del Novecento, una delle mete vacanziere preferite dagli intellettuali italiani e non solo. Alla prima stagione «eroica» della plaga selvaggia e remota che offre rifugio ad artiste-pionner come Böcklin, Mann, il D’Annunzio alcionio, e dove poi alligna la scanzonata compagine anarco-go- liardica della «Repubblica di Apua», animata dalle figure di Pea e Ungaretti1, su- bentra l’epoca d’oro in cui i lidi apuani ospitano i circoli letterari, critici e arti- stici più autorevoli d’Italia. Per oltre cinquant’anni, dalla metà degli anni Venti, quando sbarcano in Versilia Carlo Carrà e Arturo Dazzi, fino agli ultimi decenni del secolo scorso, quel territorio pressoché privo di storia, di stratificazioni e di memorie devianti diventa una sorta di Eden o Arcadia balneare, un buen retiro lontano dalla frenesia delle città dove coltivare lo svago e lo scambio intellettuale, la contemplazione e la meditazione creativa2. In Versilia si incontrano e dialoga- no, tra le pinete, gli ombrelloni e i tavoli del celebre caffè «Quarto Platano», di- verse generazioni di artisti e letterati: dai più anziani Savinio, Longhi e Gadda a Loria, Montale, Anna Banti, fino alla cosiddetta terza generazione ermetica, con in testa Piero Bigongiari, affezionato e fedele frequentatore delle terre apuane. Questo perdurante idillio tra il mondo della cultura e la Versilia, ironicamente condensato da Gadda nella frase «Qui c’è tutto il Parnaso in calzoncini»3, conosce

1 Il «Manipolo di Apua» annoverava tra le sue fila il «generale» Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Lorenzo Viani «grande aiutante», Giuseppe Ungaretti «console d’Egitto», Moses Levy «console di Tunisi», Enrico Pea «sacerdote degli scongiuri». Sul gruppo si veda ora il bel libro di Stefano Bucciarelli, Marcello Ciccuto e Antonella SerafiniLa Repubblica di Apua, Forte dei Marmi, Maschietto Editore, 2010. 2 La suggestione di un luogo «senza storia» proviene da una prosa di Alberto Savinio del 1946, Il Forte mi parlò: «Il Forte ne approfittò, e non avendo più ragione di fingere mi confidò il suo segreto: “Sono triste” mi disse “perché sono senza storia”. “Gran pregio” gli risposi “in un Paese come l’Italia” […]. Che dire a una cittadina balneare che si duole di mancar di storia? E poi, sebbene manchi di un memorabile passato, il Forte si va componendo nel presente una sua storia molto singolare, e questo è molto» (Alberto Savinio, Scritti dispersi 1943-1952, a cura di Paola Italia, con un saggio di Alessandro Tinterri, Milano, Adelphi, 2004, p. 468). 3 , Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario 1934-1967, Mila- no, Garzanti, 1988, p. 41 (lettera del 9 agosto 1941).

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 592 Riccardo Donati una sorta di data spartiacque l’11 agosto del 1958, giorno della morte di Enrico Pea: non solo perché Pea, unico versiliese ammesso nella Repubblica delle Lettere, veniva unanimamente considerato il Patriarca di quella comunità vacanziera4, ma perché i suoi funerali, ai quali prese parte tutto il gotha della letteratura italiana di allora, da Bontempelli a Montale, da Ungaretti a Quasimodo, da Pratolini a Bassani, coincisero simbolicamente con la fine di un’era. Nell’imminenza del fer- ragosto, il corteo funebre sfilò tra i bagnanti in vespa e le ragazze in short spar- se fra i tavoli dei caffè: mentre artisti e poeti celebravano l’autore di Moscardino, cantore di un’antica civiltà contadina, montanara e marinaresca, la Versilia fa- ceva il proprio ingresso nella modernità consumistica, affermandosi come uno dei luoghi più rappresentativi di quell’Italia del benessere e del miracolo econo- mico che Vittorio Bodini stigmatizzerà nei suoi versi più tardi. Il poeta leccese diventa un assiduo frequentatore della Versilia nelle estati im- mediatamente successive alla scomparsa di Pea, durante quel “secondo periodo romano” che coincide grosso modo con gli anni Sessanta. Bodini si integra pie- namente nella comunità vacanziera: Bigongiari lo ricorda, nelle lunghe giorna- te estive, appassionato giocatore di bocce5, e poi, nelle ore notturne, impegnato in interminabili partite di scopone, spesso in coppia con il conterraneo Carmelo Bene6. Non per questo dimentica la letteratura: le poesie scritte in Versilia e a

4 Nella targa commemorativa affissa all’esterno del «Quarto Platano», dettata da Piero Bi- gongiari, Pea è definito «auspice e nume del luogo» (Riccardo Donati,“Un mare che pare ritirarsi verso Occidente”. Bigongiari versiliano in Piero Bigongiari, Agosto al Forte. Poesie inedite e disperse (1978-1991), a cura e con un saggio di Paolo Fabrizio Iacuzzi, Pistoia, Gli Ori, 2014, p. 184). Lo stesso Bigongiari ricordava scherzosamente che Pea, «[…] quando si alzava per andare a cena, dava la benedizione urbi et orbi, come se fosse il Papa, con quelle sue lunghe mani» (Piero Bigon- giari, L’ultimo testimone del quarto platano nel 30° da Pea – intervista con Piero Bigongiari sulla Ver- silia di ieri e di oggi, a cura di Giorgio Giannelli, in «Versilia Oggi», novembre 1988, 264, p. 3). 5 In una testimonianza del 1980, Bigongiari ricorda affettuosamente l’amico impegnato a rincorrere le bocce «[…] appena lanciate, ciabattando loro dietro quasi a guidarle con grida gutturali sul pallino, sul quale in verità arrivava rovinoso prima lui della boccia, in una contesa strettamente personale con le geometrie del gioco […]» (P. Bigongiari, Bodini o l’effrazione del nome, in Le terre di Carlo V. Studi su Vittorio Bodini. Atti del convegno di Roma (1-2-3 dicembre 1980), Bari (9 dicembre 1980), Lecce (10-11-12 dicembre 1980), a cura di Oreste Macrí, Ennio Bonea, Donato Valli, Galatina, Congedo, 1984, p. 131). 6 In una prosa bigongiariana del 1982, Il grande giocatore, si legge: «Alla sera lo scopone ripetuto millanta volte alla ricerca della fatiscente vittoria da parte dei miei avversari, essendo io fortissimo nelle sottili ambagi del calcolo delle probabilità compensate coi quattro semi del desti- no scoponico – con Soldati, con Brera, con Ferrauto, che soffre molto nel perdere, con l’anglista princeps Lombardo, perduto ahimé il grande avversario Bodini partner di Carmelo Bene aux yeux de boeuf, di animale da palcoscenico, e con gli altri amici estivi – ti fa trovare la notte come l’ultima malia del sole assente, come l’ultima assenza: sai che è dall’altra parte, ma tu te lo giochi con la pro- babilità delle carte […]» (P. Bigongiari, Visibile invisibile, Firenze, Sansoni, 1985, pp. 215-216). Nel ricordo del 1980 sopra citato, Bigongiari rammemora come le sconfitte a scopone suscitassero nell’amico salentino le «[…] più feroci, e da me attese, quali balsamo agonico, rabbiose reazioni, indice che la botta era arrivata al segno: nel qual caso, mentre vantava comunque la superiorità della scuola pitagorica sulla razionalità fiorentina, scattava pericolosamente all’indietro con tutta la sedia in tellurico bollore di sussulti e grida, in mezzo a un tinnire di bicchieri periclitanti: il «SPETTRI SUBLIMI DELL’ESTATE»: L’ESPERIENZA DEI VERSI VERSILIESI 593 essa dedicate coprono un arco che va dalla Serie stazzemese, apparsa su «L’Europa Letteraria» nell’ottobre 1961 e poi recuperata nell’edizione 1962 de La Luna e i Borboni7, fino a Sulle Apuane, componimento steso nell’agosto 1969 e pubbli- cato sulla rivista «L’Albero» qualche mese dopo8. Una cifra che accomuna que- sti testi è l’acume con cui Bodini legge e interpreta la complessità di quel ter- ritorio, da un lato cogliendo i fenomeni di mutamento sociale, paesaggistico, culturale che lo investono negli anni del boom, dall’altro, restando affascina- to dal nocciolo di ancestrale resistenza che quei luoghi, per molti versi selvaggi, sembrano in grado di opporre all’incalzare dei tempi. Tale natura bifronte si ri- flette nelle differenze esistenti tra due Versilie che, in parte ancora oggi, si guar- dano e si rispecchiano da lontano: il Mare e l’Alpe, direbbe D’Annunzio, ossia quella costiera e marittima, animata e mondana, e quella appartata e indocile dei rilievi montani, la cosiddetta Alta Versilia, con le Apuane che dall’alto della loro maestà atavica sembrano conservare un che di distaccato e remoto, ma an- che di minaccioso e brutale: «un mare tempestoso istantaneamente pietrificato», come suggestivamente le descriveva il geografo ottocentesco Emanuele Repetti9. Di questa duplicità della terra versiliese offre una suggestiva sintesi poetica un componimento scritto da Bodini il 6 agosto 1963: l’anno, lo si ricorderà, di Marcovaldo e de La speculazione edilizia, l’anno de Il boom di De Sica/Zavattini e di Le mani sulla città di Rosi, ma anche l’anno di Nelle spire del boom, lirica bodiniana tra le più esplicitamente cariche di implicazioni socio-politiche10. Il testo si intitola Domenica in Versilia:

La ruggine del maltempo fa incetta d’api sui colli che risuonano

metodo pitagorico non poteva perdere, anche se il nostro amico alle fave salentine aveva sostituito il whisky scozzese» (P. Bigongiari, Bodini o l’effrazione del nome, in Le terre di Carlo V cit., p. 131). 7 Nel paragrafo Preliminare che apre la raccolta, Bodini avverte che «le poesie di “Via De Angelis” e della “Serie Stazzemese” sono inedite» (Vittorio Bodini, La luna dei Borboni e altre poesie 1945-1961, Milano, Mondadori, 1962, p. 12). Cinque di quei testi erano in realtà apparsi nel n. 11 de «L’Europa Letteraria» (ottobre 1961, pp. 92-94). Dei testi autografi raccolti nella Serie Stazzemese dà notizia Antonio Marzo in una Ricognizione per un’edizione critica delle poesie di Vittorio Bodini, in «Filologia & Critica», xxxiii, iii, settembre-dicembre 2008, p. 460 (da notare che alcuni titoli dei componimenti differiscono da quelli definitivi). 8 Cfr. «L’Albero», xiv, 1970, 45, p. 159. 9 «Da essi monti si diramano vari contrafforti, che portano sui loro ciglioni acute prominen- ze ed una criniera dentellata e discoscesa tanto, che un un uomo che non abbia l’ali di Dedalo o di Gerione difficilmente può su quelle balze passeggiare. Essendo che simili creste, dove solo allignano piante alpine e annidiano aquile, sono fiancheggiate da profondi burroni pietrosi di color grigio, i quali si succedono gli uni appresso gli altri in direzione quasi uniforme, in guisa che visti dall’alto offrono all’immagine la figura di un mare tempestoso istantaneamente pietrificato» (Emanuele Repetti, Dizionario geografico fisico storico della Toscana, contenente la descrizione di tut- ti i luoghi del Granducato. Ducato di Lucca, Garfagnana e Lunigiana, Firenze, s.e., 1833, I, p. 70). 10 Cfr. Vittorio Bodini, Tutte le poesie, a cura di Oreste Macrí, Nardò, Besa Editrice, 2010, p. 148. 594 Riccardo Donati

come panni al vento, come colombe sotto le gronde. Profumo della solitudine, nei dolci bagni sulle spiagge passate ti ho or ora appena sfiorato mentre la festa riprende. Grazie tante, non mangerò gelati. Mi fanno pensare ai miei morti. L’origano e il mentastro mi siano testimoni di ciò che dico, e i palloncini rossi sui balconi sui quali s’ingerania la gioventù del luogo pazza di umori e di motori a scoppio11.

Non è questa la sede per un commento esaustivo di questo testo: ci limitia- mo a segnalarne la costruzione che mima una sorta di panoramica cinemato- grafica, cosicché lo sguardo del lettore, in un primo momento calamitato da- gli appartati «colli», è poi indotto a muoversi in diagonale, scendendo giù ver- so la costa, la cui animazione è simbolicamente rappresentata dalle immagini della «festa» e dei «gelati». Una animazione che tuttavia non risulta particolar- mente gioiosa, se il «riprendere» della festa appare più come una minaccia che come un’occasione di baldoria, mentre i gelati vengono rifiutati in quanto di- spositivi di una rammemorazione rattristante, eco forse del Montale di Proda di Versilia12. Confrontandosi con la danza vorticosa del boom, la poesia di Bodini non abbandona la propria dimensione luttuosa, che anzi tanto più si fa presen- te quanto più l’imperativo del godimento consumistico incalza. Così è da no- tare una netta separazione tra due distinti ambienti sonori. Le alture descritte nei primi versi, investite da un presagio di leopardiana tempesta, sono affranca- te dalla presenza umana: vi dominano soltanto il rumore del vento e il ronzio delle api, presenze cariche di simbolismo e di echi magici. A questa armonia so- nora orchestrata dalla natura si contrappone, nel passaggio dai colli alla riviera, il verso conclusivo, dominato dallo schiamazzo dei giovani figli del boom, i cui «motori a scoppio», come poi sarà per il fortiniano claxon di Nota su Poussin13,

11 Ivi, p. 173. 12 Alludo naturalmente all’incipit del celebre testo montaliano: «I miei morti che prego perché preghino / per me» (Eugenio Montale, Tutte le poesie, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1990, p. 253). 13 Mi riferisco ai versi «Di macigno in macigno lo scorpione, / di avena in avena l’allarme dei sel- vatici / prima che il claxon delle corriere / si oda o per torri e spechi / uno sparo […]» (Franco Fortini, Paesaggio con serpente. Poesie 1973-1983, Torino, Einaudi, 1984, p. 80). Non so se sia già stato notato che questo scenario fortiniano potrebbe essere debitore di una analoga immagine presente ne Il Ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori, dove un silenzioso paesaggio campestre viene scosso dal «clacson d’un pullman» in arrivo (Giovanni Testori, Il ponte della Ghisolfa in Opere 1943-1961, introduzione di Giovanni Raboni, a cura di Fulvio Panzeri, Milano, Bompiani, 2003, p. 219). «SPETTRI SUBLIMI DELL’ESTATE»: L’ESPERIENZA DEI VERSI VERSILIESI 595 irrompono sulla scena spezzando il quadro idilliaco e portando con sé il caos della civiltà industriale. Occorre insomma rilevare come quelle «prode di Versilia» che fortemente ispirano la penna del coetaneo Bigongiari, autore di numerose poesie scritte a Forte dei Marmi nel mese di agosto14, appaiano agli occhi di Bodini come un luogo ormai contaminato, per così dire spoeticizzato, dal quale mistero e magia siano stati irrimediabilmente banditi. Se Montale vedeva nella sabbia dei lidi turistizzati un elemento sterile e infecondo («[…] sabbia che non nutre / gli al- beri sacri alla mia infanzia […]»)15, i versi di un altro testo bodiniano, intitola- to Congettura e datato settembre 1964, parlano di un «mare economo d’oracoli / mare da villeggianti»16. Viceversa l’Alta Versilia, che ha nel paese di Stazzema, ai piedi del Monte Forato, il suo centro abitato più importante, sembra attrarre irresistibilmente il poeta leccese, forse anche perché rappresenta, sul piano otti- co-percettivo, l’opposto della natia terra salentina. Il paesaggio frastagliato e ver- ticale delle Apuane invita lo sguardo a funamboliche peripezie impensabili per l’orizzontale e geometrico panorama della Piana messapica, e se questa appare tutta racchiusa entro una dimensione pitagorica di marca cubista, punteggiata da oggetti di «coagulata astrattezza»17, quello pare invece spalancarsi su scenari di primigenia asprezza, animati da una plasticità quasi espressionista. Questa terra dominata da scoscese e brulle vette è appunto protagonista della sezione intitolata Serie stazzemese che conclude, se si eccettua l’Appendi- ce dei Vecchi versi, l’edizione mondadoriana del 1962 de La Luna e i Borboni. È da osservare come tali testi segnino un confine estremo del percorso autoria- le di Bodini, che nelle prove successive, a partire da Metamor, sarà contraddi- stinto da una forte sfiducia circa le possibilità cognitivo-espressive del linguag- gio e, sul piano personale, da un inabissamento in quella che Macrí ha definito una dimensione di «dedizione e disinteresse dello sperpero vitale»18. Alle soglie di quella postrema stagione segnata da un rimbaldino impulso alla dissipazione

14 Questi testi, per la maggior parte inediti, sono stati ora meritoriamente raccolti da Paolo Fabrizio Iacuzzi nel citato volume Agosto al Forte. 15 Proda di Versilia (in E. Montale, Tutte le poesie cit., p. 253); si ricordi anche il verso finale, «[…] questo mare / infinito, di creta e di mondiglia» (ivi, p. 254). 16 V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 285. L’immagine del «mare economo d’oracoli» si legge anche in Night, testo del 1965; anche in questo caso il mare è montalianamente definito un luogo «dove nulla fiorisce», sul quale «balordamente» vola «[…] una colomba / con uno spillone arrugginito confitto nel capo» (ivi, p. 154). 17 Pensiamo alle famose «case di calce» dove gli individui si sentono «numeri» che escono «dalla faccia d’un dado» ricordate nel testo che apre La luna e i Borboni (V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 93). La formula «coagulata astrattezza» si deve a O. Macrí, Caratteri e figure della poesia italiana contemporanea [1956], a cura di Anna Dolfi, Lavis, La Finestra, 2002, p. 336. 18 Ivi, p. 334. Circa la sfiducia nelle potenzialità del linguaggio, Gaetano Chiappini ha parla- to per gli ultimi versi di Bodini dell’«impossibilità o incapacità di costituire un ponte con le cose, un nesso o un accordo» (Gaetano Chiappini, Intorno a «Metamor». Alcuni motivi e serie attraverso la storia poetica di Vittorio Bodini, in Le terre di Carlo V cit., p. 86). 596 Riccardo Donati tra alcool, fumo e vita notturna, il confronto con questa terra lontana e per cer- ti versi specularmente opposta rispetto al Salento natio pare insomma offrire al poeta un’ultima occasione di riscatto attraverso il tema a lui più caro, quello del paesaggio, che in Bodini è sempre connotato in senso intimo ed esistenziale19. Il tono placido, rasserenato che caratterizza la Serie Stazzemese si manifesta immediatamente, sul piano compositivo, nella struttura del primo testo, il qua- le presenta «un percorso regolato: un settenario, due ottonari, due novenari, un endecasillabo»20. I primi due componimenti della Serie evocano la dimensione del viaggio in direzione delle terre apuane, approdo particolarmente agognato dalla moglie Ninetta, animata da un’ansia vacanziera su cui Bodini ironizza af- fettuosamente: «Così mentre tu sogni / d’arrivare in Versilia / in regola, coi pan- taloni gialli, / io penso a un viaggio di sei anni fa»21. Negli altri testi – a eccezio- ne del terzo, un Ricordo di Cardarelli che evoca scenari dell’alto Lazio – il tema predominante è quello della frequentazione della montagna versiliese. I luoghi impervi che si trovano nei paraggi di Stazzema, tra boschi, rocce, corsi d’acqua, suscitano nel poeta immagini di pace e serenità: paradigmatico in tal senso il te- sto numero quattro, dove l’io lirico rimpiange di essere «maturato tardi», di ave- re cioè «imparato tardi a accordare / al mormorio d’un ruscello i moti del cuo- re, / a ammettere la natura fra i miei pensieri / come un ospite da lasciare a suo agio»22. Alla spettacolare visione dannunziana delle forme elementari della na- tura – terra, sole, acqua, cielo – Bodini sostituisce una più sofferta identifica- zione e un più terrestre incanto nei confronti dei luoghi; ad agire non è qui tan- to una vaga nostalgia dei miti primigeni, quanto un’intima, personale esigenza di accettare quella purezza ed elementarità del vivere che la natura incontami- nata di quegli scorci suggerisce. La partecipe evocazione del Monte Forato, cui è dedicato il testo numero cinque («Ecco Monte Forato / con l’anello al naso»23), richiama con un’immagine di sorridente familiarità un luogo amico, specular- mente rovesciando il dannunziano, altero sintagma «cruda Pania» che si legge in Feria d’agosto24. Immergendosi nel verde dell’Alta Versilia Bodini sembra dunque per un atti- mo ottenere quella condizione di smemoratezza di sé che certo riprende la lezione

19 Come osservava Enza Biagini, la «definizione genetica della sostanza dei testi» è legata, negli autori ermetici, a una «operazione di ricognizione dell’uomo» non «in senso psicologico, bensì esistenziale» (Enza Biagini, La lettura dall’explication de textes alla semiotica letteraria, Firen- ze, Sansoni, 1979, p. 57). 20 Giuseppe E. Sansone, La Ninetta di Bodini, in «Stilistica e metrica italiana», i, 2001, 8, p. 313. 21 Cfr. V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 141. 22 Ivi, p. 143. 23 Ibidem. 24 Il sintagma è tratto dal v. 20 del componimento, che si legge in Gabriele D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, edizione diretta da Luciano Anceschi, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1984, p. 567. «SPETTRI SUBLIMI DELL’ESTATE»: L’ESPERIENZA DEI VERSI VERSILIESI 597 del «pineto» dannunziano, ma trasportandola entro una dimensione di più intima partecipazione e, soprattutto, all’interno di coordinate esistenziali legate a un ben diverso contesto di civiltà umana e letteraria. «Eccomi divenuto / bosco», scrive nel testo numero sei, osservando come gli elementi della natura siano riusciti nel mi- racolo di produrre una totale de-soggettivazione dell’io, avendo «disperso» «ogni privata vicenda»25. Non c’è qui, insomma, nessuna esaltazione panica di un’indi- vidualità sfrenata, nessun compiacimento estetizzante del sé, bensì, come osserva Macrí, una metamorfosi iscrivibile in una sorta di gnosi «lorchiana-campanellia- na del cosmo magico-animico di solidarietà universale dell’amore»26. Il solo testo che rompa l’armonia della Serie, introducendovi le antiche e future inquietudini, è il numero sette, significativamente intitolato Mostri: qui, per un attimo, riaffio- rano e si annunciano i fantasmi della depressione, così intimamente connaturati al disagio della civiltà contemporanea27. Ne è spia, oltre all’immagine di disordi- ne e terrore evocata dalle capre che «girano per il monte» «all’impazzata», la figu- ra del «serpente piumato», riscontrabile anche in altri componimenti bodiniani – penso ad esempio ai «serpenti chiomati» di Nelle spire del boom28 – e che simbo- leggia l’avvitarsi dei tempi in una cattiva infinità29. Non sarà allora un caso che il verso iniziale di questo componimento – «Son tornati la morte e il malumore»30 – riecheggi sinistramente quelli che chiudono la struggente Canzone semplice dell’es- ser se stessi: «Provo a esser solo. Trovo / la morte e la paura»31. Bodini scompare il 19 dicembre 1970; come testimonia la moglie Antonella, «l’ultima estate del 1970 […] la trascorremmo con Montale a Forte dei Marmi, in una specie di follia suicida fatta di alcool e di orari incredibili»32. Proprio all’i- nizio di quell’estate, in giugno, il poeta scrive un testo che rappresenta il suo più amaro bilancio sull’Italia contemporanea, dagli accenti per certi versi pasolinia- ni, per altri vicino agli scritti «catastrofisti» di Calvino negli anni di Palomar: Rapporto del consumo industriale. Qui il lamento per la devastazione perpetua- ta dall’attività antropica, che sacrifica il paesaggio alla propria cieca cupidigia,

25 V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 144. 26 O. Macrí, Introduzione a V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 75. 27 Lo si legge in V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 145. 28 Ivi, p. 148. 29 La cattiva infinità simboleggiata dalla figura del circolo chiuso è emblema tanto dell’età barocca quanto della neo-barocca civiltà del Dopoguerra. Commentando questi temi, Giulio Calamandrei ha giustamente evocato i versi di Innesto 13, in Metamor: «Non vedi come il secolo si morde la coda / dondolandosi ai dolci anelli dei sensi» (cfr. Giulio Calamandrei, Il “Night II” di Vittorio Bodini nei segni del rito, in Il commento. Riflessioni e analisi sulla poesia del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2011, p. 410; la poesia si legge in V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 156). 30 Ivi, p. 145. 31 Ivi, p. 153; tali versi a loro volta richiamano il «Tempo è di morte» del D’Annunzio di Alcyone (G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria cit., p. 636). 32 Citata in Joseph Perricone, Vittorio Bodini. Saggio critico, Fasano, Schena, 1986, p. 21. 598 Riccardo Donati si fa lancinante; le notti non solo si presentano illuni, ma ormai persino «sen- za fiori», e mentre i prati si fanno «di moquette», anche le marine della peniso- la muoiono, direbbe Luzi, ignominiosamente, massacrate dalla speculazione33. Tuttavia è significativo che ’lultimo testo dedicato da Bodini alla Versilia, scritto il 25 agosto del 1969, sia di tutt’altro tenore. Il componimento, intitolato Sulle Apuane, è forse il più bello tra quelli ambientati nell’estrema plaga toscana; il poeta lo dedica allo scultore e pittore Marcello Tommasi. Nativo di Pietrasanta, allievo di Annigoni, stimato da artisti come Soffici e Colacicchi e da critici come Carlo Ludovico Ragghianti, Tommasi fu molto amico di Bodini, tanto che un suo disegno, un bel ritratto dell’amico leccese realizzato proprio in quei giorni dell’agosto 1969, arricchisce il volume di omaggio postumo curato da Leonardo Mancino34. Si tratta di una lirica esemplare della cifra stilistica che caratterizza la poesia bodiniana, dove sprazzi della figuratività psichica, latente e notturna, dell’io lirico affiorano per immagini lampeggianti, attraverso quel sofferto «ac- canimento dei particolari» di cui ha parlato Donato Valli35. Leggiamo il testo:

Cani lunghi e obliosi dall’aspetto turchino spettri sublimi dell’estate poso il capo sul cuscino della vostra pace e bevo in compagnia l’arguto avorio acidulo mentre in basso s’invetrina il mobile stellato della costa notturna il notturno tesoro della Versilia versiera. Un ciottolo di marmo del Malbacco come un uccello senza cartilagini forse ribrillerà nella gabbia perduta del mio petto36.

33 «Vi è chi piange le dolci pinete segrete lungo le coste / ora alti scheletri arsi / in un incendio senza canti / le spiagge come millepiedi invase / dal turismo di massa / e il braccio che affonda nell’acqua del mare / si sporcherà di nafta e assassinio» (V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 194). 34 Cfr. Omaggio a Bodini, a cura di Leonardo Mancino, con una poesia in grafico di Rafael Alberti ed un disegno di Marcello Tommasi, Manduria, Laicata, 1972, p. 20. Lo stesso disegno figura, come tavola fuori testo, nel profilo bodiniano realizzato da Donato Valli per la Letteratura italiana edita da Marzorati (cfr. Donato Valli, Vittorio Bodini in Letteratura italiana. Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, ideazione e direzione di Gianni Grana, v. ix, Milano, Marzorati, 1982; il testo di Valli, pubblicato sul n. 47 de «L’Albero» nel 1971, è stato poi ripreso in varie sedi). Per il rapporto di Bodini con le arti si rinvia a Francesco d’Episcopo, Vittorio Bodini critico d’arte in In un concerto di voci amiche. Studi di Letteratura italiana dell’Otto e Novecento in onore di Donato Valli, a cura di Antonio Lucio Giannone, Galatina, Congedo, 2008, II, pp. 659-671. 35 D. Valli, Vittorio Bodini in Letteratura italiana. Novecento cit., p. 8569. «Bodini», osserva Valli, «ha bisogno di complicare e completare la correlazione degli oggetti in maniera che proprio da tale complessità e prosecuzione del tempo logico e ritmico scaturisca la pienezza della visione fantastica pure nella aderenza al reale visto e vissuto» (ibidem). 36 V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 190. «SPETTRI SUBLIMI DELL’ESTATE»: L’ESPERIENZA DEI VERSI VERSILIESI 599

Il componimento si apre con l’immagine dei cani, figure tra le più ricorren- ti nel bestiario bodiniano, che rinviano tanto al mondo esterno, a desolati sfon- di paesani, quanto ai recessi dell’interiorità37; il raccordo tra le due dimensioni è confermato dalla loro natura spettrale, altra soluzione non inedita nella poe- sia di Bodini38. Il modo in cui gli animali si manifestano, però, non è in que- sto caso affatto infernale: i cani sono adesso «turchini», quasi favolosi39, e sono «sublimi», addirittura capaci di portare la «pace». Proiettate nel paesaggio ver- siliese, queste presenze si caricano dunque, parafrasando un rilievo critico di Gaetano Chappini, di una «possibile funzione redentrice o salvifica»40. Quanto al sintagma allitterante «arguto avorio acidulo» non riteniamo, con Macrí, che si tratti di una «mera agudeza concettistica»41, né che rappresenti soltanto un esibito riferimento alla passione alcoolica del poeta: a nostro avviso, costitui- sce piuttosto la condensazione semantica di un’occasione biografica, sempre le- gata alla frequentazione della montagna versiliese. Proponiamo di riferire l’ag- gettivo «arguto», mutandolo di genere, alla compagnia con cui il poeta si trova a «bere» le bellezze di un paesaggio cromaticamente dominato dal colore bian- co degli squarci che le cave di marmo aprono sui fianchi delle montagne, quel- lo che con D’Annunzio possiamo chiamare il «marmo che biancheggia tra l’A- venza / e la Versilia»42. A sostegno di questa lettura cito i versi 5-7 («mentre in basso s’invetrina / il mobile stellato della costa notturna / il notturno tesoro della Versilia versiera»), i quali chiariscono che il poeta si trova in alto e osserva il paesaggio da una spe- cola privilegiata, con ogni probabilità uno di quei belvedere, così numerosi in

37 Si ricordino questi versi de I pini della Salaria, lirica che nella Luna del 1962 precede immediatamente la Serie Stazzemese: «Ahi, e avevo un cuore / che voleva abbaiare / tutte le notti / alla luna e alle pietre» (ivi, p. 139). 38 In uno stralcio dello Zibaldone leccese citato da Anna Dolfi si legge: «Mio Dio, l’esperienza […]. Un tempo soffrivo perché ne avevo poca. Se appariva in fondo a una strada una fuga di cielo avrei voluto gettare a volo il cuore come una farfalla; avrei voluto farlo a pezzi invece di notte e gettarlo in campagna ai quattro angoli se i cani latravano. No, non cani ma fantasmi di cani, anzi latrati in figura di cani» (A. Dolfi, Terza Generazione. Ermetismo e oltre, Roma, Bulzoni, 1997, n. 120, pp. 163-164). La presenza di «Cani lunghi e obliosi dall’aspetto spettri» si ritrova nel fr. 32 di Collage (V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 203). 39 Secondo Chiappini, potrebbe esserci qui un riferimento alla «fata dai capelli turchini del mondo fiabesco di Bodini» (G. Chiappini, Intorno a «Metamor» in Le terre di Carlo V cit., p. 105). 40 Ivi, p. 106. 41 O. Macrí, Introduzione a V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 81. 42 G. D’Annunzio, Il commiato in Versi d’amore e di gloria cit., p. 636. Di un «orologio acidulo» si legge in Quando profondamente lavorati dal tempo (V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 286). Neppure la parola «avorio» è un hapax nel corpus bodiniano: si cfr. ad esempio il «palpito d’avorio» cantato in A B.G., lirica apparsa su «Vedetta Mediterranea» il 31 marzo 1941 e poi riprodotta in Silvio Ramat, L’ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 586. Si ricordi inoltre che il termine è ricorrente in molti autori vicini a Bodini, da Avorio di Luzi (in Avvento Notturno) all’amuleto «d’avorio» che figura nella montaliana Dora Markus. 600 Riccardo Donati

Versilia, da cui è dato dominare un tratto enorme di riviera, dal già ligure fiume Magra sin quasi a Livorno. Ancora una panoramica, dunque, come già nel caso di Domenica in Versilia: la costa è laggiù, con le sue luci scintillanti; trapunto di luci, il paesaggio rivierasco «s’invetrina», e il suo invitante scintillare, il suo «teso- ro notturno» è un moltiplicatore di quei desideri che rendono seducente la civil- tà del benessere. Non a caso, del resto, Sulle Apuane si colloca circa al centro del- la raccolta inedita che avrebbe dovuto intitolarsi La civiltà industriale. Il sublime tocco dell’ironia bodiniana è costituito dall’immagine, di sapore beffardamente dantesco, del «mobile stellato»43: a dire che il traffico, il moto perpetuo dei «mo- tori a scoppio» di laggiù, non è che un ingannevole e scadente tentativo di ri- produrre l’armonia delle sfere celesti. È una notte senza luna, non a caso, quella qui evocata: e Macrí ha scritto pagine davvero definitive su quest’ultima stagio- ne bodiniana, in cui l’archetipo selenico, in altri tempi fecondo, «si alcolizza, si aliena dal lare, si annienta, assiste assente dall’alto i templi del consumismo»44. La lirica non si conclude tuttavia con questa sarcastica immagine delle falla- ci promesse notturne. Nei potenti versi conclusivi – «Un ciottolo di marmo del Malbacco / come un uccello senza cartilagini / forse ribrillerà / nella gabbia per- duta del mio petto» – il poeta distoglie lo sguardo dalle seducenti luci in basso e torna ad abbracciare, stavolta col pensiero, i più amati scenari dell’Alpe. Si evo- ca il borghetto di Malbacco, luogo dove il torrente Serra forma suggestive ca- scate e piccole piscine naturali. Nell’immagine di quel ciottolo di fiume in cui si identifica, Bodini torna ad accordare «al mormorio d’un ruscello i moti del cuo- re», ad «ammettere la natura» fra i suoi pensieri, incrociando la lezione di alme- no tre maestri a lui carissimi, non a caso tutti e tre legati alla Versilia, per questo detta «versiera»45: il D’Annunzio alcionio di Furit aestus46, l’Ungaretti dell’Alle- gria47 e il Montale di Spesso il male di vivere ho incontrato48, fusi e riletti alla luce

43 Vale la pena ricordare a tal proposito un’interessante considerazione di un critico non certo sospettabile di simpatie ermetiche come Luigi Baldacci; una considerazione valida, crediamo, anche per l’opera di Bodini: «L’ermetismo fiorentino, che peccò molto di petrarchismo – fu cioè essen- zialmente monolinguistico – giocò tuttavia anche sul tavolo di Dante, e i risultati di quella ricerca alternativa potrebbero indurre a qualche decisiva revisione dei bilanci» (Luigi Baldacci, Il Dante di Luzi in Mario Luzi, Purgatorio. La notte lava la mente, Genova, Costa & Nolan, 1990, p. 5). 44 O. Macrí, Introduzione a V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 75. 45 Macrí nota come l’aggettivo «versiera», «oltre al senso di “folle, stregonica”, serva a eti- mologizzare la “Versilia” come dimora produttrice di versi, e di poeti, per primo naturalmente il D’Annunzio orfico e persefonico, cui anche Bodini deve parecchio» (ibidem). 46 Macrí invita a «[…] comparare la serie “un uccello; costa; estate; Un ciottolo; ribrillerà; pace; petto” con “Un falco stride […] mari d’estate! […] La pietra brilla […] tagliente pietra […] brilli […] il riposato petto» (ivi, p. 88). 47 Penso in particolare alla celebre immagine de I fiumi: «L’Isonzo scorrendo / mi levigava / come un suo sasso». 48 L’osservazione si deve a A. Dolfi, Tempo e identità. La disappropriazione del poeta [Bodini], in Terza Generazione. Ermetismo e oltre cit., p. 160. Ma si pensi anche, per l’immagine del petto, al celebre verso de I limoni: «e piove in petto una dolcezza inquieta», componimento del resto dove si contrappongono frontalmente la (leopardiana) «illusione» alle «città rumorose». «SPETTRI SUBLIMI DELL’ESTATE»: L’ESPERIENZA DEI VERSI VERSILIESI 601 della sua personale, lunare ossessione per le pietre49. Osso di seppia, «docile fi- bra / dell’universo», scaglia del «divin marmo apuano»50, con questa immagine di un luminoso cuore/ciottolo che splende fuori dalla gabbia del petto Bodini sembra trovare tra le poco ospitali vette dell’Alpe l’ultima tentazione, e illusio- ne, di una possibile armonizzazione della propria tormentata vita psichica con l’ordine terribile e seducente del cosmo.

49 Cfr. su questo O. Macrí, Introduzione a V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 87. Come ripetu- tamente notato dalla critica, il nesso pietre/luna accomuna Bodini a Tommaso Landolfi. 50 G. D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria cit., p. 635. s/ddKZ/KK/E/ >^W'E /ƟŶĞƌĂƌŝŽďŝŽͲďŝďůŝŽŐƌĂĮĐŽ

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Copertina dell’e-book Vittorio Bodini e la Spagna. . FRAMMENTI E LACERTI DI UN “A(EM)PLAZADO”

Oleksandra Rekut-Liberatore

1. Attorno a un a(em)plazado

Il mio contributo è un tentativo di trovare una chiave di lettura dell’opera di Vittorio Bodini alla luce e in considerazione della sua prematura scomparsa. Il nucleo tematico che guiderà la mia disamina nasce e s’irradia da una missiva spedita a Oreste Macrí il 28 dicembre 1958, laddove Bodini, nella sua qualità d’ispanista e di studioso di letteratura spagnola, esprime un parere a proposito della traduzione di alcuni componimenti di Lorca:

[… un] paio di osservazioni […]. L’una riguarda il significato diaplazado (Ro- mance del aplazado) che tu traduci «Convenuto». In realtà «aplazado» nel senso che ha nel romance è intraducibile: è colui a cui è stato dato un termine, un plazo, di tempo da vivere. È una scadenza di morte: morrai entro tanto tempo, o il tale giorno. Perciò meglio che il convenuto, dovrebbe essere «il minacciato di morte», ma questo non rende la terribilità della scadenza, del plazo1.

Sulla resa del titolo Bodini mediterà parecchio e, dopo due lunghi lustri, ri- solverà l’impasse traduttivo in Romanzo dell’avvertimento di morte2, per un testo tratto dal Romancero lorchiano da cui traspare chiaro l’ammonimento, o me- glio, una letale profezia rivolta a un gitano di nome Amargo (di lì a due mesi, sarebbe giaciuto nel sudario). Una perturbante, prolettica, premonizione dell’analogo destino di Bodini: in- fatti, pochi giorni trascorreranno dalla diagnosi inequivocabile – cancro ai polmoni con metastasi cerebrali – comunicata all’intellettuale salentino, e dalle sue infau-

1 Anna Dolfi, Mitologia e verità. Il barocco e la Spagna di Vittorio Bodini fra traduzioni e storia di un’amicizia, in Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 410-411. 2 Traduzioni poesia e prosa. Lorca Federico García. Poesie, in Archivio Vittorio Bodini. Ministe- ro per i beni culturali e ambientali. Ufficio centrale per i beni archivistici. Inventario a cura di Paola Cagiano de Azevedo, Margherita Martelli e Rita Notarianni, Spoleto, Arti Grafiche Pannetto & Petrelli, 1992, p. 124.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 604 Oleksandra Rekut-Liberatore ste conseguenze. A tal proposito riprendiamo la testimonianza di Macrí dall’in- troduzione all’opera poetica bodiniana: «[Bodini] cadde sul lavoro il 29 ottobre 1970 a Pescara, di ritorno da Bari, rivelatosi il morbo di cui morì»3 meno di due mesi dopo. Valentina Bodini, figlia dello scrittore, rettifica la data del disvelarsi diagnostico della malattia (collocandola al 19 novembre) attribuendo la morte precoce del padre alle cure erronee prestategli in prima battuta. La prima a scor- gere un legame, seppur recondito, tra la perplessità di rendere in italiano il voca- bolo spagnolo e la biografia dello scrittore è Anna Dolfi nel saggio Mitologia e ve- rità. Il barocco e la Spagna di Vittorio Bodini fra traduzioni e storia di un’amicizia:

Ma perfino della morte, senza saperlo, Bodini aveva parlato [a Macrí] tanti anni prima, tra traduzione […] e Spagna, a proposito di Lorca, del flamenco, e di una singolare unione tra il Salento e la terra dei gitani che, per sintonie linguistiche tra il leccese antico e il castigliano, prevedeva assieme mancanza di tempo e scadenza della vita4.

Ricorrendo direttamente alla fonte, possiamo constatare che Lorca non ha mai scritto un Romance del aplazado, ma un Romance del emplazado. Non si trat- ta di una trascrizione errata del carteggio Bodini-Macrí da parte della sua cura- trice, ma di una vera e propria frattura del linguaggio. Bodini, senza dubbio al- cuno, scrive ben tre volte aplazado nella sopraindicata lettera (il cui originale è stato riletto e, di recente, nuovamente controllato). Ho accolto, dunque, nel ti- tolo del mio intervento, la versione di Bodini, che non è solo verbale, ma fisio- logica e vitale e che prende spunto dalla divergenza fra i due vocaboli, per al- tro entrambi esistenti nella lingua spagnola, pur se con una valenza di senso e un peso specifico diversi. Postulando che in ogni parola qualcosa resta sempre inespresso, aplazado significa evidentemente differito, dilazionato, posticipato, mentre emplazado ha l’etimo dell’irrevocabilità, del termine stabilito e non di- lazionabile della vita, come nel caso dell’Amargo lorchiano. Applicando queste due unità semantiche a un paziente allo stadio ultimo, si avverte ancor più lo stridore di una palese asimmetria linguistica. La diagnosi che contiene nella sua formulazione il verbo emplazar afferisce a un ammalato che non sopravvivrà oltre il termine prestabilito, mentre l’uso di aplazar, predi- letto e scelto da Bodini, ha in sé una sfumatura più ottimistica, frutto dell’alea che può determinare una posticipazione o una dilazione della morte e rendere meno cogente il verdetto imposto e/o previsto. E perfino la scelta bodiniana di rendere il romance spagnolo, «romanzo» e non «romanza» come sarebbe stato più istintivo, rientra in una traduzione che privilegia più l’aspetto esistenziale che

3 Oreste Macrí, Introduzione, in V. Bodini, Tutte le poesie, a cura di Oreste Macrí, Nardò, Besa, 2010, p. 72. 4 A. Dolfi, Mitologia e verità. Il barocco e la Spagna di Vittorio Bodini fra traduzioni e storia di un’amicizia cit., p. 410. frammenti e lacerti di un “a(EM)plazado” 605 il letterario: una storia di vita che prevale sulla forma cantada che riveste il plot. Sulla fine terrena anticipata/rinviata rispetto alplazo e che non coincide mai con se stessa, Bodini torna a riflettere assieme ai suoi protagonisti che passeg- giano tra le tombe di un cimitero in Morte fatta in casa:

– Guarda quei due serpenti. Se ne vedono molti così. Il senso è chiaro: è il ciclo che si chiuse; ma ecco, quello che non so spiegarmi è perché si mordano la coda sempre un po’ più su della punta. Che vuol dire quel pezzettino che rimane fuori? // – Non lo so. Forse che la morte arriva sempre con un piccolo anticipo? // – Non mi soddisfa. Non potrebbe invece indicare un piccolo ritardo della vita dopo che siamo morti? // – Vuoi dire quando continuano a crescere la barba e le unghie alle mani e ai piedi?5.

2. L’avvertimento di morte nella poesia bodiniana

Molti passi delle minute e delle prose brevi, ma anche i componimenti liri- ci di Bodini si presentano come il narrato di un periplo del male incombente, un laboratorio di patologia letteraria. Tra le raccolte inedite in vita ritroviamo le strofe dell’aprile 1960:

Io avevo una pietra e questa pietra aveva un orizzonte e l’orizzonte un desiderio di spaccarsi, di fendersi in melagrane, in bianchi muri di calce secondo un disegno che era il disegno della mia morte6.

La pietra, uno dei topoi centrali nella poetica bodiniana, «un mitologema più che simbolo»7, un elemento magico col potere della preveggenza, è legata all’osses- sione del tempo con una precisa scelta di campo verso il futuro rimasto da vivere più che verso il passato trascorso e inteso nostalgicamente. L’uso dell’imperfetto nel verso incipitario segnala lo smarrimento della pietra e dunque l’affievolirsi della ca- pacità profetica e divinatoria della bussola, della distanza temporale da percorrere:

senza pietra come come farò a sapere

5 Vittorio Bodini, La morte fatta in casa, in Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di Anto- nio Lucio Giannone, Nardò, Besa, 2003, p. 42. 6 V. Bodini, Io avevo una pietra, in Tutte le poesie cit., p. 168. 7 O. Macrí, Introduzione cit., p. 87. 606 Oleksandra Rekut-Liberatore

dove sono, fino a che punto sono morto o vivo le cose da lasciare e quelle da prendere8.

I sedimenti della morte, seppur spesso di tipo semiotico-filosofico-metamor- fico, innervano l’opera in versi e prosa di Bodini: «Attento. Ogni poesia / può es- sere l’ultima»9 in Via De Angelis, «Son tornati la morte e il malumore»10 in Serie stazzemese, o «vivo e muoio, / ed un quieto dialogo equilibra / il mio sangue ed il nulla»11 – uno slancio lirico che afferisce al periodo leccese-barese. Inoltre, Bodini si dedica all’arte miniaturistica del frammento. Per questo mo- tivo, e non solo per il carattere musivo e a tessere, ho deciso di intitolare la mia ricerca Frammenti e lacerti di un «a(em)plazado». Composto nell’anno che pre- cede la scomparsa, l’ultimo diario discontinuo intitolato Collage, rappresenta il bacino delle schegge del pensiero bodiniano. Riflettendo proprio su Collage così Macrí riassume: «È il segmento forse più impressionante: “in minuti frammen- ti di martirio”, che son poi questi pezzi di Collage, la poesia stessa sofferente in punto di morte e nuova vita negativamente segnata»12. Collage annovera un pro- fluvio di pensieri spuri e disordinati, alcuni reiterati nei componimenti poetici come il terrifico e sinestetico sintagma «odore carnivoro delle autoambulanze»13, presente come un monito, un repetita in Madama di Tebe. Anche in questi ul- timi «frammenti di martirio», mutuando il termine usato dall’autore, la malat- tia si oggettivizza come un fantasma e si fa ombra permanente. I rari dati rife- riti al male e alla sofferenza sono maneggiati con parsimonia e per lo più can- cellati ([canc.]) in Collage: «il segnale di stop il barattolo di sangue [canc.]»14, «sono morto come un capello verde [canc.]»15, «o natura (natura) chi farà il pri- mo passo? [canc.]»16.

3. Bodini prosatore e il tumore di San Giuseppe

Analizzando i racconti (un genere congeniale a Bodini) considerati particelle preliminari, prodromi e lacerti di un unico volume di prose vagheggiato lungo

8 V. Bodini, Io avevo una pietra, in Tutte le poesie cit., p. 169. 9 I pini della Salaria, ivi, p. 139. 10 Mostri, ivi, p. 145. 11 Le più vili creature che ti amano, ivi, p. 273. 12 O. Macrí, Introduzione cit., p. 90. 13 V. Bodini, Collage, in Tutte le poesie cit., p. 206. 14 Ivi, p. 197. 15 Ivi, p. 202. 16 Ivi, p. 206. frammenti e lacerti di un “a(EM)plazado” 607 l’arco della vita17, troviamo una prefigurazione della propria morte in Ritratto di Don Giovanni18 e nella Lobbia di Masoliver 19. Il cancro esplicitato appare però soltanto nell’agiografia pubblicata postuma dal titolo San Giuseppe. La figura centrale è appunto San Giuseppe da Copertino, al secolo Giuseppe Maria Desa, vissuto nel Seicento e conterraneo del Nostro. A tal proposito occorre riprende- re un’illuminante pagina di Macrí che evidenzia l’identificazione di Bodini nel santo: «Vittorio si proietta per intero in Giuseppe»20. Un isomorfismo ricavato dal critico dalla lettera del 24 novembre del 1949, in cui Bodini svela l’intenzio- ne di dedicare la vita al santo. Proseguendo, Macrí alla mano, ci si accorge che non è la santità di Giuseppe a interessare Bodini, «ma la “realtà” retrostante»21, l’analogo retroterra del loro vissuto:

da una parte, schiaffi, coltello, mutismo, malinconia, mugugno (è la «brutalità copertinese» dei testoni compagni di scuola di Vittorio bambino, ma estrosi d’improvvisa intelligenza); dall’altra, levitazioni ed estasi. // Attraverso la vita del Santo gli si esacerba l’archetipo familiare: Giuseppe «è cacciato di casa dalla madre» (Vittorio aveva cinque anni quando la madre, secondo nome Anita ana- grammato in Antina, si risposò […]), «perseguitato dal padre custode»; allude Bodini alla morte del padre e all’abbandono con quel: «Dio non basta a lievita- re. Dio è lontano»22.

Oltre i tasselli biografici che punteggiano gli esordi e i primi dolori di esi- stenze agre, ciò che affascina Bodini nell’immagine di Giuseppe è l’atteggia- mento volitivo, la risoluta capacità di affrontare di petto il male, sollevandosi in aria sopra «il mondo dei coltelli, dei tumori tagliati»23. Una virtù che appartie- ne anche al poeta e che lo avvicina, quando si occupa della scrittura, al santo:

[…] volò per l’aria simile a uccello, dal centro della chiesa sino all’altare mag- giore e ne abbraccia i sacramenti e le sante immagini per oltre quindici minuti senza bruciarsi ai ceri che vi ardono in gran copia, e soprattutto senza spegnerne

17 Luca Isernia, Vittorio Bodini prosatore, Ravenna, Longo, 2005, p. 7. 18 Ritratto di Don Giovanni, in Corriere spagnolo (1047-1954), a cura di Anton Lucio Gian- none, Nardò, Besa, 2013, p. 92: «La vera parabola, quella che il protagonista [don Juan] deve ignorare sino alla fine, anche se è nota allo spettatore, è che si finisce col morire ugualmente. (Anche Fina morrà. E non mi duole tanto che io debba morire quanto che debba morir lei)». 19 La lobbia di Masoliver, in Il sei-dita e altre visioni, Nardò, Besa, 2010, p. 70: «E io qualche volta, meditando quanto sia improbabile l’illusione della immortalità, dico a me stesso: ma c’è qualcosa qui che muore sempre dentro di me, e se muore sempre dovrebbe pur seguitare a vivere quanto basta per dover morire sempre, quando io e la Spagna non ci saremo più». 20 O. Macrí, Introduzione cit., p. 55. 21 Ibidem. 22 Ibidem. 23 V. Bodini, San Giuseppe, in «Rassegna trimestrale della Banca agricola popolare di Matino e Lecce», marzo 1982, p. 108. 608 Oleksandra Rekut-Liberatore

alcuno: goffaggine celeste tanto la grazia questo monaco volante dal goffo co- pertinese che si tagliava un tumore con un coltello da cucina24.

La parola «tumore» risulta reiterata nel tracciato agiografico. La maestria del santo nell’estirparsi il cancro ogni volta che si materializza, da solo e senza aiuti di sorta e per giunta con un semplice coltello da cucina, fa parte di un incredi- bile campionario di miracoli. Il tumore, che nel Seicento veniva asportato solo nella modalità descritta da Bodini e, nella maggior parte dei casi con conseguen- ze disastrose e letali, non minaccia direttamente la vita di Giuseppe e il taglio reciso e ripetuto che esegue sul proprio ginocchio ha una valenza semiotica: la vittoria sul male mercé l’intercessione divina: «Un tumore al ginocchio, che si tagliò con un coltello, lasciando a Dio ogni altra cura»25. Nel Novecento italiano, come ha già evidenziato Gino Pisanò, vari scrittori e artisti s’interessano a San Giuseppe tralasciando o rendendo meno dettagliata, a differenza di Bodini, l’esperienza del tumore. InFontamara di Ignazio Silone l’evocazione di San Giuseppe risulta una mise en abyme in una predica minato- ria pronunciata davanti ai cafoni. Il pane bianco che San Giuseppe vuole con- sumare in Paradiso richiama, in qualche modo, il concetto del lievito e dunque della lievitazione, su cui concordano tutti gli agiografi: pittori, scrittori e cinea- sti che attribuiscono al suo volare sfumature diverse. Antonio Prete, in Portenti di frate Giuseppe da Copertino, associa il talento del volo alla semplicità leggera, all’ignoranza intesa positivamente come vicinanza alla natura e persino, citando letteralmente l’autore, alla «sapienza antica»26. Bodini stesso attribuisce al «mo- naco rissoso che vola tra gli alberi»27 la levità dello spirito confinante con la roz- zezza e testardaggine che, in un’efficace miscela alchemica, produce la capacità di non deprimersi a causa della malattia e di trovare le energie per asportarsi il tumore: «San Giuseppe si tagliò da solo, con un coltello da cucina, un ascesso»28. In A Boccaperta di Carmelo Bene troviamo il «corpo canceroso di Giuseppe»29 che per curarsi ricorre all’aiuto di un eremita-taumaturgo. Giuseppe chirurgo del proprio tumore in Bodini diventa nel Frate volante di Ennio De Concini ri- sanatore del cancro altrui 30 e la sua malattia si presenta come un’opzione altru- istica che aiuta a evitare la sofferenza del prossimo31.

24 Ivi, p. 107. 25 Ivi, p. 105. 26 Il frate volante. San Giuseppe da Copertino nella cultura e nella memoria, San Cesario di Lecce, Manni, 2003, p. 10. 27 V. Bodini, Foglie di tabacco, in Tutte le poesie cit., p. 98. 28 V. Bodini, San Giuseppe cit., p. 107. 29 Carmelo Bene, A boccaperta, Torino, Einaudi, 1976, p. 31. 30 Ennio De Concini, Il frate volante. Vita miracolosa di san Giuseppe da Copertino, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1998, p. 49: «Giuseppe benedice il seno malato della donna, il cui tumore regredisce a vista d’occhio». 31 Ivi, pp. 152-153: «Anzi, facciamo una cosa… Tu te sei fatto male al ginocchio, e il tuo frammenti e lacerti di un “a(EM)plazado” 609

Soffermandosi sul San Giuseppe di Bodini, Pisanò ne sottolinea il carattere frammentario, definendolo: «una prosa sospesa a metà del guado»32, «una scrittu- ra creativa mai sortita dal limbo delle intenzioni e rimasta nel perimetro dell’in- fectum», «un abbozzo intessuto di abrupte e asistematiche notazioni», «un ma- teriale ruvido da centrifugare», «trapunto di lacerti latini apografati» e di «se- quenze giustapposte senza alcun nesso»33, «“appunti di viaggio” che precedono il percorso creativo», «un coacervo di segmenti che avrebbero dovuto armonizzar- si e metaforizzarsi nell’immaginario»34. Nei puntini di sospensione che lasciano il finale aperto, Pisanò intravvede un’inserzione formalista della dimensione au- tobiografica nella vita di San Giuseppe: «Io vi andai [alla festa di San Giuseppe a Copertino] una volta molti anni fa, e ricordo…»35. Questa prosa breve risale al 1945, antecedente, quindi, di venticinque anni i sintomi dello stesso male che affliggeranno l’autore. Perfino del tumore, di cui all’epoca era ignaro, Bodini con visionarietà creativa scrive astrattamente e ri- flette con proprietà e sensazioni forti e concrete presentendone, come col sen- no di poi si è rivelato, la venefica e mortale presenza.

male al ginocchio me lo prendo io che comincio ad entrare nel deserto […] Giuseppe tira su la tonaca sulle sue gambe magre. // “Allora me sente ancora Giesù” dice tutto felice. “Lo male tuo me l’ha passato a me come volevo io… Guarda che melone ci ho su ’sta gamba?!…”. // E scopre sopra lo stinco un’escrescenza abnorme, grossa e rotonda proprio come un melone». 32 Gino Pisanò, S. Giuseppe da Copertino nella letteratura del Novecento (I. Silone, V. Bodini, C. Bene, A. Prete), in «Studi Salentini», LXXXI, 2004, p. 162. 33 Ivi, p. 159. 34 Ivi, p. 160. 35 V. Bodini, San Giuseppe cit., p. 108. Lettera di Vittorio Bodini a Oreste Macrí del 28 dicembre 1958. «ALBE A SONAGLI SCABBIE ORE MALATE» BODINI E LA CIVILTÀ INDUSTRIALE

Andrea Gialloreto

Nessun luogo di perdizione è così ben fatto, ben ordinato e, per così dire, ben fornito di strumenti; nessuno stru- mento di perdizione è più adatto allo scopo della moderna officina. Charles Péguy

1. La poesia e la civiltà industriale

A dispetto della maggiore esposizione sulla scena letteraria di cui ha benefi- ciato la narrativa a tema industriale e della conseguente visibilità spendibile in chiave polemica e ideologica, l’egemonia che il romanzo si è visto attribuire qua- le strumento di registrazione dei riflessi socio-culturali del miracolo economico andrebbe, se non ridiscussa, almeno sottoposta ai correttivi di un’adeguata con- siderazione del ruolo analogo svolto dalla produzione in versi. Indubbiamente il romanzo, il racconto, l’inchiesta e il reportage hanno rappresentato lo spec- chio privilegiato attraverso il quale un’Italia sorpresa e stordita dal boom ha sa- puto ricomporre la propria immagine diffratta, contraddittoria. La narrativa ha operato sul corpo della società e sulle disposizioni degli intellettuali stessi un’a- zione di autoconvincimento riguardo le prospettive luminose o infauste, le at- tese e i rischi generati dalla nuova congiuntura. Essa si è mossa, nei confron- ti della platea eterogenea di autori e lettori, di volta in volta assecondandone gli entusiasmi da robinsonade pauperistica (il pensiero corre a Gimkhana Cross di Luigi Davì, testo fondativo di un’antropologia dell’esuberanza fatta propria dalla gioventù operaia, votata alla scoperta di nuovi codici linguistici e di com- portamento), oppure somministrando, mediante il ricorso a una scrittura di- sforica, apocalittica o di mera resistenza per via lirica, l’amaro antidoto alle se- duzioni del neocapitalismo. Il lindore sospetto dei moderni distretti industria- li, i freddi riverberi delle superfici lisce e specchianti (così rassicuranti per l’Al- bino Saluggia di Volponi), la pedagogia dell’obbedienza e dell’asservimento vo- lontario (appannaggio del capzioso Padrone che si affaccia nel romanzo omo-

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 612 Andrea Gialloreto nimo di Parise), l’estetica dell’artificiale insinuato senza urti e traumi apparen- ti in seno a un paesaggio plasmato dal concorso di storia e natura (è il caso del- lo stabilimento Olivetti di Pozzuoli), l’alibi della psicotecnica quale espedien- te oggettivo e spietatamente equo di selezione del personale (Ottieri docet) co- stituiscono i risvolti messi in luce con più aderente inventiva di una visione che della fabbrica coglie sì le opportunità e l’impulso al progresso, ma non tacen- done le oscure devozioni e il regime ferreamente regolato che ne fa una sorgen- te d’infelicità e di alienazione1. Romanzi quali Tempi stretti e Donnarumma all’assalto di Ottieri (per tacere del Taccuino industriale), Memoriale di Volponi, Una nuvola d’ira di Arpino, Il padrone di Parise, Il senatore e L’amore mio italiano di Buzzi, A proposito di una macchina di Giovanni Pirelli, Il congresso di Bigiaretti narrano nei modi del rea- lismo analitico, della liricità straniata o dell’aperta allegoria l’orizzonte cupo e la contorta psicologia dell’operaio, dell’impiegato, dell’intellettuale e persino del dirigente d’azienda. Tuttavia, al di là dei casi singoli − abnormi, patologici, esem- plari quanto si voglia − ci si chiede come possa la macchina romanzesca, vincolata al racconto di un caleidoscopio di storie vite destini, farsi espressione del males- sere generale, di un disagio della civiltà sempre più evidente, pervasivo, univer- sale. D’altro canto, la nuda cronaca dei memoriali e dei diari di fabbrica, delle inchieste nelle città del Nord, non può andare oltre il resoconto dei mutamenti a livello di costume e stili di vita scaturiti dalla brusca accelerazione dei processi di industrializzazione in atto in Italia al declinare degli anni cinquanta. Proprio in concomitanza con l’uscita, nel settembre 1961, del numero 4 del «Menabò» che accoglie la Visita in fabbrica di Sereni e un blocco organico e serratissimo di componimenti di Giudici, sarà la poesia ad assumersi il compito di controcan- to radicale e non episodico alla crisi di valori, al tracollo del vecchio mondo di fronte agli idoli del benessere. La riflessione in versi non dismetterà questa mis- sione fino agli anni Settanta, che vedono i testi irati e lucidi di Nelo Risi, netti e acuminati come l’intelligenza razionale del pensiero materialista2, confrontarsi a

1 Sul nodo strettissimo che lega il boom economico alle avvisaglie della crisi, già allora leggi- bile come grottesca contropartita all’indigestione di beni propria dell’età nella quale lo sviluppo pareva inarrestabile, riflette la critica contemporanea riscontrando i segni del disagio nell’ensam- ble di opere cinematografiche e romanzesche che hanno visto la luce negli anni del neocapita- lismo trionfante. Per una discussione sul romanzo di fabbrica, studiato tramite i suoi campioni più rappresentativi, si vedano Umberto Casari, Letteratura e società industriale italiana negli anni sessanta del Novecento, Roma, Giuffrè, 2001; Piergiorgio Mori, Scrittori nel boom. Il romanzo in- dustriale negli anni del miracolo italiano, Roma, EdiLet, 2011 e Dario Tomasello, Ma cos’è questa crisi. Letteratura e cinema nell’Italia del malessere, Bologna, Il Mulino, 2013. 2 Riporto, a segnalazione di questa traccia industriale che corre all’interno dell’opera di Risi, un passo de La logica del profitto, inserita nella raccolta del 1970 Di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa: «Niente capricci / rispettiamo il gioco / un posto sicuro a chi / sostanzialmente / è integrato / Tutti ai cancelli? Il gruppo non aspetta altro: / questo no questo no questo no questo no questo ni / il gruppo salva chi lo avrà temuto / il gruppo che ha le chiavi sopra e sotto / terra / e tu suo servo sarai di quelli che gli rendono grazie / e ne avrai premio lire «ALBE A SONAGLI SCABBIE ORE MALATE»BODINI E LA CIVILTÀ INDUSTRIALE 613 distanza con il magmatico ed epico flutto prosastico (ma disposto in lasse, come aveva intuito Mario Spinella) di Vogliamo tutto di Balestrini. Per ora, in questo primo scorcio del decennio sessanta, si ragiona «dal cuore del miracolo»3 sacri- ficando alla frenesia produttiva e alle non meno alienate e meccaniche incom- benze del ménage domestico borghese le «ore migliori» della vita: la ritirata se- rale dai posti di lavoro colora di rimpianto il tempo del riposo, «quando da un capo all’altro della città / si chiudono i portoni dei casamenti: / e in buie men- ti un comune pensiero / apre un barlume del meglio a venire… / Così non ri- conosci l’inganno / di chi ci ha fatti a servire»4. La residua consapevolezza del- l’«uomo impiegatizio», colto e magari militante a sinistra, balena nella dichia- razione di intenti incrinata da una nota scettica: «Io ad altro / lavoro attendo, al mio ufficio, sperando / di fornir l’opra e non me…»5. Non sarà un mistero, a questo punto, come la rete tesa dal consumismo e dal sogno di una vita agia- ta nasconda una trappola mortale: indossando a turno le maschere di autore e personaggio, intellettuale consapevole e impiegato smarrito «nelle file dei nuo- vi conservi»6, Giudici punta il dito nella lapidaria quartina di Benessere contro «quanti hanno avuto ciò che non avevano: / un lavoro, una casa – ma poi / che l’ebbero ottenuto vi si chiusero. / Ancora per poco sarò tra voi»7. Milano diviene la città simbolo della mutazione antropologica in corso: nel- la poesia dall’ironico titolo Miracolo a Milano, posizionata a far da cerniera e so- sta in contrappunto tra le IX ecloghe (è collocata proprio prima dell’Intermezzo), Andrea Zanzotto coglie il trapasso tra la radice umanistica che animava i mira- coli della ricostruzione e, rovesciamento rapidissimo, la disumanizzazione so- praggiunta con la devastazione del paesaggio e il dominio di una logica utilitari- stica, ove l’uomo è funzione di altro, di scopi e risultati che lo trascendono nul- lificandolo. Non diversamente dalla «semimuta natura – natura in masse spen- ta» ridotta a «funzione che divampa – e scade sonnolenta», l’io – qui coinciden- te con la persona dell’autore – non più protagonista, in quanto relitto abbando- nato a margine dalla «storiale corrente», si scopre scarto inutile («subumano?», «trascendente?»): infine, con sarcastica capriola dialettica, egli dichiara di ritro- vare la propria ragion d’essere durante i tre soggiorni annuali nella metropoli

una tantum…». Salta immediatamente agli occhi il vigore della contestazione, mirata e perfetta- mente calata nelle battaglie dell’epoca: il gruppo in questione è un’idra dai nomi ben intelligibili: Fiatbastogimontedisonpirellieccetera. Attualissimi, e inusitati in poesia, temi quali le morti sul lavoro la cui evocazione è condotta sul filo del sarcasmo secondo i moduli del registro burocratico e tecnico («E nel caso / appena contemplato di decesso / sul lavoro (accade / accade) ti succede- ranno naturalmente gli aventi diritto» (Nelo Risi, Di certe cose, Milano, Mondadori, 1970, p. 54). 3 Giovanni Giudici, Dal cuore del miracolo, in La vita in versi, in Poesie (1953-1990), Milano, Garzanti, 1991, I, p. 55. 4 G. Giudici, Le ore migliori, ivi, p. 69. 5 Ibidem. 6 G. Giudici, Cambiare ditta, ivi, p. 63. 7 G. Giudici, Il benessere, ivi, p. 48. 614 Andrea Gialloreto lombarda, riconoscendosi finalmente quale essere «storico» e «umano», ossia – chiude con amarezza il poeta – «funzionale»8. Zanzotto sembra qui riecheggiare le profetiche constatazioni di Horkheimer e Adorno, persuasi già all’altezza de La dialettica dell’illuminismo, nel 1947, che «l’industria culturale – ma potrem- mo a buon diritto estendere la valutazione alla civiltà industriale tout court – ha perfidamente realizzato l’uomo come essere generico. Ciascuno si riduce a ciò per cui può sostituire ogni altro: un esemplare fungibile della specie»9. L’appropriazione di questa realtà ancora sconosciuta, fasti e miserie della ci- viltà del benessere, si giova di una pluralità di registri e di soluzioni stilistiche offrendo testimonianza ulteriore della disponibilità della poesia ai linguaggi del cambiamento e alle procedure analitiche di esplorazione di un territorio estra- neo, o quanto meno percepito come tale sino all’epoca tumultuosa della rico- struzione (si tratta di uno sviluppo del tutto nuovo nella sua dimensione di fe- nomeno di massa; anche volendo cercare dei precedenti nella fervida stagione delle avanguardie, ci si dovrebbe contentare di singoli casi di modernolatria o di esperienze e ricerche da laboratorio). Se le consuete misure del lirismo con- tinuano a mostrarsi atte all’interrogazione e al compianto per l’armonia perdu- ta, plurilinguismo e apertura alle inserzioni polifoniche, ai linguaggi settoria- li e tecnici, incoronano la forma poematica a lente ottimale per la restituzio- ne delle vicende di una collettività affannata dal cui ammasso indistinto si stac- cano appena le figure dei protagonisti. descrive così le avventu- re di una novella Angelica insidiata da mani predaci, la ragazza Carla, «fuggiti- va tra boschi di cemento»10; la lotta per la vita nella giungla metropolitana evol- ve in una sottile guerra di posizione tra padroni e operai, come in un componi- mento della Case della Vetra di Raboni (Dal vecchio al nuovo11) incentrato sulla rassegnazione del poeta, che storna su futili osservazioni meteorologiche la pro- pria replica alla professione di strategia manageriale fatta dall’industriale deci- so a «metter mano» alla fabbrica e alle relazioni con gli operai: «Sa lui, lui solo / che guanti usare volta a volta, il ricatto morale, / la concione nel refettorio, la minaccia / di licenziamenti o serrata. “Bisogna / rimetterci le mani…” / (pas- sando anche noi il cancello, col motore / che va su di giri): piazzare / due o tre cronometristi, un ingegnere al posto / di stivali e frusta e di tante parole / visci- de, mielate. Persino / le macchine, se dài retta a loro, sembra che vadano / a sof- fio, a parole… Sì, presto / una buona ripulita, con gli operai / un rapporto fi-

8 Andrea Zanzotto, IX Ecloghe, in Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta. Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1999, p. 215. 9 Max Horkheimer-Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1982, p. 156. 10 Elio Pagliarani, Tutte le poesie (1946-2005), a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Gar- zanti, 2006, p. 126. 11 Giovanni Raboni, Le case della Vetra, in Tutte le poesie (1951-1993), Milano, Garzanti, 1997, p. 76. «ALBE A SONAGLI SCABBIE ORE MALATE»BODINI E LA CIVILTÀ INDUSTRIALE 615 nalmente preciso, virile, si sappia / chi sfrutta e chi è sfruttato, un rapporto pre- ciso / è sempre il più pulito. “Dunque andiamo / verso la mezza stagione” mi sembra di dire, al buio / della corsa – in città per la cena – cercando / di vede- re la forma delle case». Come si nota, il parlato, il dialogo franto e smozzicato con le sue esitazioni, omissioni e brutalità soppiantano l’autorevolezza d’antico stampo dell’io lirico giudicante. Il testo, appartenente alla sezione dei versi da- tati 1962-1965, è infatti una sconfortata presa d’atto da parte di Raboni dello squilibrio tra le forze in campo. Anche lo sguardo di Franco Fortini si appunta a più riprese sull’industria e i suoi cascami socio-politici, ma egli opta per la poesia nel momento in cui vuole sottolineare la dialettica tra il vecchio mondo industriale, connotato da fatica, pena, ma non privo di fierezza e rivendicazioni operaie e la sua evoluzione neo- capitalista: le contrarietà – siamo appena nel 1961 – non si indirizzano verso il modello di sviluppo in sé («non ho nessun motivo di contestare la mescolanza d’acqua viola e cristalli, d’erbe abrasive, olii minerali – Non voglio lamentarmi di vivere qui»12). Ad essere criticata è la ricaduta politica e di classe del model- lo industriale in adozione; la tattica dell’integrazione e della cura per l’apparen- za giunge infatti laddove la contrapposizione frontale non era approdata, riu- scendo così ad assegnare la vittoria definitiva ai padroni. Aleggia in sospensione l’interrogativo su uno scacco di ordine esistenziale e storico, dubbio che prende la forma tangibile di una concretissima microallegoria: «Guarda come da tutti i tubi di neon ronza, grande, da tutti gli spogliatoi, la fabbrica. Ma di che stai parlando, dimmi? In che secolo nella sezione vuota tira male la stufa» (anche Vittorio Sereni aveva fatto ricorso, negli Strumenti umani, a una simile traspo- sizione dal piano della quotidianità a quello metaforico: «Perché non vengono i saldatori / perché ritardano gli aggiustatori?»13). Le emergenze del tema industriale nella produzione poetica di sono numerose e qualificanti, spesso per antitesi, la concezione del rapporto tra uomo, natura e cultura che sta alla base dell’incessante sperimentare caratteri- stico dell’autore urbinate. Scavallata la stagione dell’elegia e del materico «pani- smo» appenninico che informavano le prime raccolte (da Il ramarro fino a Le porte dell’appennino, passando per L’antica moneta), lo scrittore alle dipendenze di Adriano Olivetti vive sulla propria pelle le contraddizioni di quella scommes- sa sulla trasformazione democratica e «comunitaria» del paese ad opera dell’in- dustria. La scissione si affaccia dapprima come cattiva coscienza, ostacolo alla li- berazione nella scrittura dei propri impulsi: «Comincio quattro, cinque volte un romanzo / ma quel laccio-giardino eporediese / lo cattura tra la sua inutile erba, / lo svolge secondo le curve del / territorio industriale / e lo accantona tra l’inuti-

12 Franco Fortini, Per una storia dell’industria, in L’ospite ingrato, Bari, De Donato, 1966. 13 Vittorio Sereni, Il tempo provvisorio, in Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Mi- lano, Mondadori, 1995, p. 105. 616 Andrea Gialloreto lità / d’ogni ricerca che non sia harvardiana, / data nel progetto del capitale…»14. A chiusura della medesima raccolta – Foglia mortale – nella drammatica e lieve Canzonetta con rime e rimorsi il «devoto dirigente» Volponi tenta un’autoanalisi centrata sull’oscillazione tra speranza e alibi, entrambi facenti leva sulla «semina- gione olivettiana / più comunarda che comunitaria»: dall’esito di quell’innesto utopico nei campi aridi del capitalismo all’italiana dipenderà il giudizio sull’am- bizioso impegno dell’intellettuale. Lo scrittore, però, rivolgendosi a un «bordel» che «potrebbe anche essere [suo] figlio», dispiega la sua visionaria lucidità anti- cipando a livello di notazione estetico-esistenziale il fallimento di ordine storico che si renderà evidente ne Le mosche del capitale: «Ma non posso non star male / ogni giorno a varcare e rivarcare / il cancello di questo paesaggio industriale, / la porta della fabbrica-orto / che con questi versi (se non in poesia) / desidero indi- carti, bordel, / come la nuova, più crudele malattia»15. Ma è in Con testo a fronte, preludio all’ultimo possente romanzo, che si palesano le piaghe del «dolente stato / manovale» e dello «straverso ambiente» effuse in una enumerazione il cui vortice concresce su se stesso, risultando i singoli membri-elementi scolpiti con accenti jacoponici e ritmo da catena di montaggio («viene in mente lo scherzo / tayloria- no: la fase, il ritmo, l’indecente corsa, il cottimo, l’orario…»16). L’ostensione sa- crale della liturgia industriale (la fabbrica che «tutta s’illumina alla sera di mistica / scossa» appare come una «immensa elettrica basilica / senza ostia») nella poesia successiva, Un ordine industriale, diviene immagine di dannazione: «Babilonia di officine e di reparti» o ancora, per seguitare nella litania che regge la struttu- ra del testo, «Babilon Babilonura / sporca di nero e di paura»17. La resa espres- sionista, o per meglio dire da fantasia pittorica medievale, degli ambienti e del- le gerarchie aziendali in Petra pertusa e mista prepara l’autodafé dell’intellettua- le afflitto da paura e rimorsi, nostalgico di una libertà forse sterile ma non con- dizionata dall’ordine industriale: «È un “intellettuale” libero Volponi? / E a noi che ci fa / poco o tanta la sua libertà? / Saranno meno fissi e meno soli i pianto- ni? / La finiranno i capi di sparare sanzioni? / Che faranno di noi con le mansio- ni? / Cesseranno di premiare crumiri e spioni? / Perseguiteranno meno i poveri terroni? / Un Direttore di sinistra non fa discriminazioni?». Termino questa breve rassegna con Sergio Solmi, forse il più prossimo, tra i poeti finora citati, alla figura di Bodini: li accomuna infatti la cultura di respiro europeo

14 Paolo Volponi, La durata della nuvola, da Foglia mortale, in Poesie (1946-1994), a cura di Emanuele Zinato, Torino, Einaudi, 2001, pp. 156-157. 15 P. Volponi, Canzonetta con rime e rimorsi, ivi, p. 192. L’invio, come da tradizione, racchiu- de propositi e confessioni del poeta: «Canzonetta, da dare forse a Laura Betti, per un bordel / che potrebbe anche essere mio figlio / nato a Torino tre anni e sei mesi fa. / Composta a Ivrea e a Ur- bino / nei giorni del Natale 1966 / a due mesi dall’incarico / di direttore delle relazioni aziendali / della Ing. C. Olivetti & C. spa: / con molta paura / e con tanti rimorsi, / ben compensati, a dir la verità, dalle ambizioni. / Il devoto dirigente / Paolo Volponi» (ibidem). 16 P. Volponi, Petra pertusa e mista, ivi, p. 270. 17 P. Volponi, Un ordine industriale, ivi, p. 279. «ALBE A SONAGLI SCABBIE ORE MALATE»BODINI E LA CIVILTÀ INDUSTRIALE 617 che contraddistingue la loro ricerca artistica, maturata anche in virtù della pratica ad altissimo livello della traduzione (possono essere inclusi nella ristretta cerchia dei grandi poeti-traduttori italiani, un «club» che annovera tra gli altri Vigolo, Valeri, Dal Fabbro, Parronchi, Ripellino, Tentori, Sanesi, Erba, Ceronetti, Mussapi). In letteratura e industria, componimento programmatico datato 1962, il cantore delle Meraviglie del possibile descrive l’apparizione del paesaggio industriale rispolverando colori e timbri derivanti dall’atteggiamento di stupore, choc ed estasi che gli espo- nenti del futurismo manifestavano dinanzi all’universo meccanico: la fabbrica esi- bisce «elitre crudeli d’insetto gigante», «incandescenti scheletri in travaglio», ema- na «il suo tanfo di elettrica putredine», emette luci «multicolori, trasvolate da globi di fumo» (e nell’arco di poche battute Solmi orchestra note di Marinetti, Govoni, Campana, Montale). Ormai si impone una nuova estetica, sfumano lontanissimi i ricordi «di odorate colline, di beati / specchi d’acqua tra boschi» (loci amoeni dav- vero poco credibili), si compie l’immedesimazione tra l’uomo novecentesco e il suo ambiente18. Resta, a testimoniare l’incertezza e lo sgomento degli uomini, la fab- brica: mai nominata, mai associata alla sua fattispecie di stabilimento produttivo, innalzata invece a «simbolo / ambiguo di questa / età convulsa». Essa è una sfinge silente che rimanda bagliori nel vuoto di una pianura notturna ma il poeta, l’intel- lettuale, non avoca a sé il compito di decifrarne l’enigma: «altri mi dica se indizio di sconfinato avvenire o di fine, di vita o di morte per l’uomo»19.

2. Il miele del dopoguerra

L’itinerario creativo di Bodini nella fase successiva alle raccolte «lunari», invi- luppate nel paesaggio ancestrale del Sud, volge alla registrazione di uno scarto, di un brusco cambio quanto a velocità di reazione agli stimoli del reale e ai richia- mi del sogno (che si fanno sempre più impellenti e disancorati da codici e alfa- beti terrestri). Piero Bigongiari ha segnalato questo passaggio parlandone come di un momento di svolta, che implica nei proponimenti dell’amico la riconside- razione del proprio percorso per offrirne a un tempo la conferma e l’impressio- ne in negativo: «Paiono, i suoi scritti, ritornarci convalidati dal sigillo dell’Aldi- là: un Aldilà come un mas allà guilleniano portato all’estremo della propria in- trinseca, ma reversibile, dialessi. È, la sua, una poesia che ha trovato senso pro- prio in questo proseguimento, che è anche un rovesciamento, operativo»20. Se

18 «Un emblema / del paesaggio mio, del paesaggio / che ha cominciato a crescere / con me dentro i miei anni, in cui vivo, / in cui muoio», recita la chiusa della poesia (Sergio Solmi, Lette- ratura e industria, in Poesie meditazioni e ricordi. I - Poesie e versioni poetiche, a cura di Giovanni Pacchiano, Milano, Adelphi, 1983, p. 83). 19 Ibidem. 20 Piero Bigongiari, Bodini o l’effrazione del nome, in Le terre di Carlo V. Studi su V. Bodini, a cura di Oreste Macrí, Ennio Bonea, Donato Valli, Galatina, Congedo, 1984, p. 140. 618 Andrea Gialloreto la causa scatenante di tale atteggiamento può essere addebitata a ragioni priva- te, a quel disordine e a quell’agitazione da vitalismo funereo che hanno traver- sato impetuosamente l’orizzonte del vissuto esasperando l’accesa vena artistica del decennio romano, è nel dialogo tra lo scrittore e gli «attrezzi» del suo lavo- ro, materiali, colori, oggetti di consistenza referenziale o simbolica, che andrà cercato il punto di caduta di questa poesia in relazione al panorama del tempo storico (i convulsi anni sessanta) e di quello interiorizzato e fatto materia di tra- sposizione letteraria. Per quanto concerne il primo aspetto, legato alla crisi di civiltà avvertita pre- cocemente da Bodini, la vigile attenzione del poeta si era già destata nei pri- mi anni cinquanta, se nella lirica incipitaria di Dopo la luna troviamo il contra- sto tra un Sud mitizzato che custodisce i suoi archetipi («le vergini del Sud che annaffiano ogni sera / d’ignoti amanti teste decollate / che fioriscono in vasi di basilico»21) e le avvisaglie di una mutazione antropologica per ora appena fatta presagire profilando un surreale landscape di rovine («la pianura industriale / fra i bulloni schiodati e i ceri del primo amore»22). Tuttavia, è solo dopo che la crisi avrà attanagliato l’animo di Bodini che il tema della civiltà industriale, declinato secondo un ricco ventaglio di motivi, assurgerà a canale privilegiato di irradiazio- ne della parola poetica, addestrata – dopo lunga militanza – a tutti gli sperimen- talismi, le condensazioni e i dislocamenti, i giochi del linguaggio e della mente. Gli assunti di portata universale dettati dallo spirito dell’epoca («Siamo in un’età / di grandi riepiloghi», si legge in Troppo rapidamente) si accompagna- no a domande retoriche sulle sorti del genere umano («Ci può esser di meglio / di questa nostra civiltà?», si chiede Bodini nel testo dal quale abbiamo preso le mosse) per attingere la misura massima di allarmato scoramento nei versi di Perdendo quota, scritti nel 1964 e inclusi in Metamor, che espongono in tutto il suo nudo sgomento l’assillo dell’uomo travolto dal tempo e dal declino: «come potremo ora vivere perdendo quota in noi stessi?». Questo «perdere quota», sci- volamento e crollo abissale marcato di connotazioni rituali («se bere un whisky è versarlo / sull’arso terriccio della propria tomba…»), nella breve serie Night fonde la disperazione per lo stato della società («preda di vermi salpiamo su le- gni infelici ma ancora vivi / uniti dalla vana misericordia / d’essere contempo- ranei») con una fredda smania autodistruttiva («e così albeggia l’albero dell’alco- ol»). Il calvario personale reso manifesto nel calcolo di ciò che manca all’io po- etico – anni, illusioni, energie – si assesta nei modi di una spassionata ricogni- zione dell’assenza e del vuoto («le pupille hanno perso ceneri cervi fiamme / il perché e il come») che si rapprende nella visione delle dita che sfiorano il pro- prio «teschio tenero e spavaldo» (Night III)23. Il décalage tra la pienezza del pas-

21 Vittorio Bodini, Autunno, pescatore d’aragoste, in Tutte le poesie, a cura di Oreste Macrí, Lecce, Besa, 2010. 22 Ibidem. 23 «In realtà è l’area del soggetto che si è venuta riducendo ad una fenomenologia dell’hic «ALBE A SONAGLI SCABBIE ORE MALATE»BODINI E LA CIVILTÀ INDUSTRIALE 619 sato e i «fili spezzati»24 del presente è ribadito da altri testi coevi come lo splen- dido Conosco appena le mani (1962), Questi sono i meriggi che credevo, Poesia tri- ste alla poesia (1967), seguiti da una manciata di componimenti testamentari del 1970 tra i quali andranno ricordati almeno Fuori rotta, per il suo cifrario ar- cano («lo stupore del vento di sorprenderci / fuori rotta negli occhi gialli della notte…»), e Macchina per vivere culminante nell’idea dello sterminio dei poe- ti («Se fossi morte o pietà / ucciderei tutti i poeti / o solo i vecchi poeti / o sol- tanto la vecchiaia nei poeti») sullo sfondo di «una pianura in coma» ove si erge, araldica rovina, «l’amaro castello della bellezza in disarmo»25. Il vocabolario riconducibile al campo semantico della civiltà tecnologica e della fabbrica conta numerose occorrenze a partire da Metamor; in particolare – come dimostra il regesto approntato da Michelangelo Zizzi26 – i lemmi di natu- ra più attinente al dibattito in corso tra fautori e detrattori dell’ideologia indu- striale e della relativa poetica si affollano nei due progetti di raccolte, inedite in vita ma vidimate dall’autore, Zeta e La civiltà industriale o poesie ovali. Sensibile in tale direzione è l’esperienza giovanile d’avanguardia dell’autore, impegnato a diffondere il verbo futurista nella provincia salentina (fanno luce su questa fase gli studi di Lucio Giannone). In effetti, come mette in guardia Macrí, Bodini distribuisce le sue poesie tra le raccolte in gestazione in base a scrupoli di orga- nicità e agli equilibri interni a ciascun corpo testuale27: ne consegue la sovrap-

et nunc o percezione della propria figura, del bulto umano nella sua elementare composizione e struttura inserita nel ritmo di una consuetudine del tempo, non immuni i riti di quotidianità banale di un proprio sgomento: “Conosco appena le mani, / le scarpe che metto ai piedi. / Co- nosco il giorno e la notte / e i terrori del vento” (Conosco appena le mani, M, 1962)» (Gaetano Chiappini, Intorno a «Metamor». Alcuni motivi e serie attraverso la storia poetica di Vittorio Bodini, in Le terre di Carlo V cit., p. 113). 24 «Quanti fili spezzati / di vite, di romanzi / fra le acacie, sui prati / Quante strade percorse / camminando / sopra i passi d’un altro» (Generazione, vv. 1-6, da Dopo la luna, in V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 138). 25 Si tratta, rispettivamente, dei pezzi numero 19 e 21 della suite La civiltà industriale o poesie ovali (in Tutte le poesie cit., pp. 191-193). 26 Michelangelo Zizzi, Per una geografia dell’immaginario in Vittorio Bodini, Bari, Levan- te Editore, 1999 (la breve monografia si risolve in una pur interessante disamina della lingua poetica di Bodini). Osservazioni di eguale segno le dobbiamo a Lamberto Pignotti, un poeta particolarmente sensibile a questi aspetti di svecchiamento del linguaggio: «I residui verbali de- liberatamente non distillati, di ascendenza “tecnologica”, in Bodini – in particolare quelli che si rifanno alla sfera dei linguaggi burocratici, economici, matematici, amministrativi – per la loro frequenza elevata e quasi ossessiva, offrono al lettore soltanto l’imbarazzo della scelta» (Lamberto Pignotti, Per una indagine sugli aspetti verbo-visivi della poesia di Vittorio Bodini, in Le terre di Carlo V cit., p. 209). 27 «Una poesia era un “appunto” o uno “scarto”, o un “inedito” o uno “zeta” o un “collage”, ecc., prima dell’agognata sanzione pubblica (in libro!); creatura vivente in attesa di entrare preli- minarmente in una “raccolta”, al limite e sovente senza quasi un ritocco. Non contava neppure la pubblicazione in rivista, tornando il pubblicato componimento nel deposito in forma di ritaglio. Una poesia passata nel libro spariva; nel fondo manoscritto v’è scarsa traccia delle 92 poesie in volume» (Oreste Macrí, Introduzione a V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 17). 620 Andrea Gialloreto ponibilità delle date di stesura di componimenti diversamente collocati (il lasso cronologico di Metamor copre gli anni 1962-1966, Zeta e La civiltà industriale si spartiscono i componimenti dello stesso decennio articolando la propria scan- sione in due nuclei: 1962-1969 e 1966-1970). Nelle intenzioni del poeta, i blocchi degli Inediti, di Zeta e delle Poesie ovali dovevano confluire in un volume unico sulla cui titolazione Bodini si sbilancia in una lettera all’illustre conterraneo: «che te ne pare di un titolo come Civiltà industriale e Metamor per un libretto? O Metamor I e II»28. Partendo da tale ipo- tesi si può inferire che, una volta scartato il criterio della simmetricità «a ditti- co» tra i due progetti di Metamor, l’intera opera in preparazione avrebbe potu- to ricevere il crisma di omogeneità grazie al riferimento alla civiltà industriale. Anche la scelta del titolo Zeta presuppone un gesto di sintesi e di chiusura, l’al- lusione alla fine di una serie e di un’epoca: e non a caso vi si legge, nella lirica Se, il trepido auspicio di un’inversione di marcia del tempo e degli eventi; il sov- vertimento della logica naturale propizia così non tanto una ripresa del ciclo vi- tale, quanto lo scorrere a ritroso di un nastro già inciso: «Se l’universo di colpo / mutasse tutte le sue leggi / degli alberi vedremmo / verdi chiome affondare / in aria le radici; / strisciare al suolo uccelli / e volar pietre e rettili; / ritornare la palla nel fucile / del cacciatore / la biglia al giocatore di biliardo. / Si ritrarreb- be il mare dalla riva / mentre i laghi dall’alto / pioverebbero mille azzurre grot- te instantanee. / Anche tu torneresti svanita età a ruzzare / coi tuoi invidiati er- rori, coi tuoi istinti / non più mortificati dalla ragione». L’enigmatica qualifica di «poesie ovali» che scorta il titolo fin troppo apodit- tico La civiltà industriale può attivare suggestioni molteplici e prestarsi a inter- pretazioni contrastanti. Restiamo in un clima di riepilogo, enfatizzato dall’an- damento circolare del moto, passibile di arresti e retromarce, del continuum sto- rico ed esistenziale: numerose poesie risalgono il corso del passato («un giorno ritroverò gli archi chiari ed ostili della giovinezza», Autunno), altre attestano il perdersi del filo del discorso quando «il pilota dei sogni / getta in mare la bus- sola e la spina» (desta ammirazione l’onirismo di certe immagini polarizzate da- gli champs magnétiques di ascendenza surrealista verso l’arbitrio associativo e la gratuità degli accostamenti); altre ancora, infine, invocano una realtà dinamica «che non muore come un colletto / nei sogni ovali», oppure secondo quanto av- viene nell’ultima poesia, Sogno, promettono un duplicato della vita (ancora un viaggio di andata e ritorno, un percorso ad anello)29. Il giro vizioso, la mancan- za o la perdita di qualcosa di essenziale («i meridionali emigrati al Nord / pro- pagano il testamento di un’aurora perduta») esplodeva già in Metamor nella de- scrizione di un luogo impossibile, circoscritto da un’assenza, che conquista evi-

28 Ivi, p. 72. 29 «Solo allorché dai salici avremo appreso / a carezzarci lentamente / e dalla luna a scom- mettere contro di noi / potremo dire d’aver vissuto due volte» (V. Bodini, Sogno, in Tutte le poesie cit., p. 195). «ALBE A SONAGLI SCABBIE ORE MALATE»BODINI E LA CIVILTÀ INDUSTRIALE 621 denza testuale in forza dell’energia allitterativa e della sua carica d’assurdo: «nei viali ovali non fitti di viole»30. Le scelte di ordine stilistico e l’assetto strutturale dei testi, nei termini di quan- to risulta da un sibillino appunto trascritto da Macrí nella sezione Collage, «for- me colori dinamismo / sequenze ellittiche», obbediscono a un principio di va- rietà quanto a cromatismo e andamento irrequieto («forme colori dinamismo») perseguendo invece l’uniformità con il disegnare un’architettura per «sequenze ellittiche». Le 24 poesie della silloge sono definite «ovali» anche in base a moti- vazioni più vicine alla sfera dei contenuti, che toccano l’invadenza del mondo meccanico, l’aggressività della tecnica, l’autoreferenzialità della produzione in- dustriale: i proiettili sono ogivali, le capsule spaziali ne condividono la silhouette metallica e curvilinea, la capacità di penetrazione nello spazio e nell’immaginario. Dopo aver tratteggiato – seppure sommariamente – l’ambito di pertinenza dei libri paralleli, possiamo scorrere in cerca di ulteriori riscontri l’indice del- le raccolte degli anni sessanta. In Metamor si trovano dunque creazioni di più spiccata vena intimistica, testi che intrecciano il tema tecnologico con un di- scorso focalizzato sulla rievocazione e la messa in forse del proprio tracciato esi- stenziale e artistico: nondimeno, nelle pieghe della requisitoria sul passato con- dotta attingendo alle «riserve di morte e di poesia» (in composizioni del rilie- vo di Testo a fronte o Daccapo e Canzone semplice dell’esser se stessi) si insinuano giudizi taglienti come quello sulla rotta della falange neoavanguardista (in que- sto 1964, ancor calde le braci del consesso palermitano che ha tenuto a batte- simo il Gruppo ’63, «le pallide avanguardie desiderose di scandalo / avanzano anch’esse verso il loro acheronte»31) e risuonano moniti all’umanità sazia e mas- sificata, composta di api operarie immerse in una dimensione effimera: «e le api del dopoguerra paragonano il loro miele / senza sfiorare i morti che telefonano / sulle linee occupate»32. Nelle spire del boom, forse il campione più rappresenta- tivo del tema industriale in Metamor, accosta il piano della solitudine e dell’an- tagonismo frustrato dell’io poetico, con i suoi «velieri di solitudine e d’ira», alla resa generalizzata della società alle lusinghe del nuovo corso: «Presi nelle spire del boom ne gustiamo anche noi / gli alti palazzi e le piante nane / piume ser- penti chiomati sotterfugi intimi». Il mostro neocapitalista è dotato di armi ef- ficacissime, per stringere la sua preda prodiga i simboli del benessere, qui grot- tescamente esemplati attraverso il conformismo estetico delle città e degli uffi- ci («alti palazzi e piante nane»); ma, ancor più del decoro e della pompa, a col- pire sono il compromesso e la viltà che infettano le coscienze intorpidendole (i «sotterfugi intimi») e la liturgia di una crudele religione sacrificale; l’allusione a riti pagani («piume serpenti chiomati» che richiamano alla memoria il serpen-

30 Per questa e la citazione precedente, V. Bodini, Nei viali ovali, ivi, p. 151. 31 V. Bodini, Perdendo quota cit., vv. 19-20. 32 V. Bodini, Il miele del dopoguerra, ivi, p. 151. 622 Andrea Gialloreto te piumato Quetzalcoatl della mitologia mesoamericana) nasconde dietro appa- renze vitalistiche un fondo di mistificazione: basti pensare che in una poesia di poco precedente, Mostri, tratta dalla Serie stazzemese, questo stesso mito risul- ta degradato e riportato nel quadro dell’universo dei consumi; infatti vi compa- re, «accovacciato / al centro della via», un serpente piumato ma, chiarisce l’au- tore, di gomma (il sacro nella sua versione più arcaica è così ridotto a trastullo, a merce come tante altre). La civiltà industriale o poesie ovali affronta sotto diverse angolazioni il pro- blema della minaccia che incombe sulla natura e sugli uomini: spesso sono fi- gure animali ad essere chiamate a rappresentare plasticamente le forze in con- trasto; negli ultimi libri il bestiario di Bodini subisce modificazioni profonde diventando ricettacolo di fantasmi del ricordo o della letteratura; si pensi ai ca- valli sognanti di Valentina, alle tane degli urodeli (abbinate ai «nidi degli usse- ri») in Madama di Tebe, al colombo Serapione, alle capre stesse di Le mani del Sud che vengono assimilate agli esseri umani oppressi. L’esperienza di traduzione del Poeta en Nueva York di Lorca costituisce una tappa importante, non soltan- to per l’arricchimento del bagaglio tecnico che ha indotto, ma soprattutto per aver contribuito a convogliare in modalità allucinate e surreali la resa dei motivi alienanti della modernità: si pensi proprio alla vivida pittura dello strazio delle inermi creature animali triturate dagli ingranaggi del consumo (di carne, nel- lo specifico) della Metropoli. La marea di sangue man mano si converte in co- lata di cemento e di denaro per meglio soffocare anche gli uomini: «Un fiume che va cantando fra i dormitori dei / sobborghi, ed è argento, cemento o brez- za nell’alba / finta di New York», così traduce Bodini33. Con Il destino dell’uomo l’autore salentino utilizza questo tipo di visione per inscenare un presagio apo- calittico: «quando dai pomodori uscirà il sangue / il destino dell’uomo sulla ter- ra / sarà segnato / Gli animali che hanno per vita privata un continente / i grat- tacieli d’arnie o l’insonne arabesco / saranno nei tuoi occhi come un campo da tennis…»; una volta estinta la società attuale («gli ingegneri si rompono senza un grido») la natura potrà forse ristabilire la propria supremazia sul pianeta, ri- gettando nell’insensatezza i simulacri del mondo artificiale delle macchine: «Il vuoto dei manichini attirerà le montagne», recita la chiusa del testo. È una in- terrogazione sui profitti e le perdite originati dall’aver imboccato la via della ci- viltà meccanica, domanda che già Lorca si poneva e che il poeta italiano fa rim- balzare sull’opaco scenario della contemporaneità:

Che cosa legittima quest’identità fra il trionfo delle macchine e quello della morte della natura e della libertà, e come ne sarebbero responsabili le macchi- ne? Ove si verifichi l’ipotesi – che Lorca vedeva realizzata in New York – che le macchine, nate per servir l’uomo, finiscano con l’asservirlo, è lecito attribuir

33 Federico García Lorca, Poeta en Nueva York, Ritorno alla città, New York, in V. Bodini, Poeti surrealisti spagnoli, nuova edizione a cura di Oreste Macrí, Torino, Einaudi, 1988, II, p. 273. «ALBE A SONAGLI SCABBIE ORE MALATE»BODINI E LA CIVILTÀ INDUSTRIALE 623

loro la colpa o non piuttosto a una società che le impiega come strumento di sopraffazione dell’uomo sull’uomo?34

La comune appartenenza al Sud induce i due scrittori al rigetto di un model- lo distruttivo e disumano. Bodini, in quanto meridionale, esprime una saggezza conquistata a prezzo di un dolore secolare e vivificata dall’intelligenza pitagorica e campanelliana dell’architettura del cosmo: la sua Musa, abitata dal Duende e da «monaci rissosi che volano tra gli alberi», non ha bisogno del riscatto cercato da Sinisgalli nell’abbacinante «Civiltà delle macchine». In Per un volo nei pres- si della luna, una fantasia macabra inscena lo stallo di una fase storica apparen- temente caratterizzata dallo slancio in avanti («vedi le guerre partorire guerre»). L’illusione di dominio sull’universo è smascherata attraverso un vertiginoso ac- costamento: gli antichi profeti e i loro discendenti dell’età tecnologica condi- vidono l’aspirazione ad appagare nel sogno – o nella sua versione futuribile – il loro desiderio di possesso e di controllo («Vedi la perfezione dei congegni spa- ziali / con cui i figli dei profeti / ruban ruote di scorta al sogno»). Il Sud, stazione di avvio e snodo ineludibile dell’itinerario bodiniano, costi- tuisce il metro con cui misurare gli sforzi e le disfatte collettive, forse perché, come osservava Pignotti, «qui più che altrove l’ambiente naturale agisce ancora sugli individui nel senso di renderli assolutamente partecipi del proprio proces- so, qui l’individuo esiste quasi totalmente in funzione della specie»35. I due te- sti fondamentali per il nostro discorso, Civiltà industriale (1968) e Rapporto del consumo industriale (1970), insistono sull’idea di una «cinghia di trasmissione» che perversamente ripete l’identico dietro le parvenze della novità («macchine per far macchine / farfalle per fare farfalle»). Così l’atto di resistenza, il dinie- go alla china presa dagli eventi, assumono le forme di un arresto di tale mecca- nismo, pena il rischio di parcellizzare la realtà, sminuzzandola in una miriade di lacerti insignificanti: «puntare i piedi o mantrugiare il reale», è l’unica alter- nativa che si pone quando si sia ravvisato nell’«avvento della Ragione» il prin- cipio di una serie di sconfitte sintomatiche della perdita di centralità dell’u- mano. Se si può avvertire un accenno di ironia – dovuto probabilmente alla data in calce al componimento, maggio 1968 – nel riferimento alla Ragione con l’iniziale maiuscola, altrettanto plausibile appare la sottolineatura, in linea con le teorie dei francofortesi, di un pervertimento della ragione che, da spi- rito logico e lume di giustizia e progresso, si tramuta in feticcio tecnologico,

34 V. Bodini, Saggio introduttivo, in I poeti surrealisti spagnoli cit., p. CVIII. 35 «Nella poesia di Vittorio Bodini gli aspetti moderni del nostro mondo sono presentati come la parte visibile perché ultima di un processo biologico i cui successivi sviluppi non sono del tutto a noi chiari. Questa poesia ci dà una succinta storia in chiave biologica del nostro tempo, rilevata su un terreno, il Sud, particolarmente adatto a tale ricerca perché dotato di caratteristiche vitali estreme» (L. Pignotti, in «Critone», marzo 1958 ora in Omaggio a Bodini, a cura di Leonar- do Mancino, Manduria, Lacaita, 1972, p. 250). 624 Andrea Gialloreto conteggio astratto, rincorsa all’utile e alla produttività a scapito dei valori im- materiali: Bodini stesso stigmatizzerà, in Per un volo nei pressi della luna scrit- to alla fine dell’anno, «la produzione a catena / la catena dei sì e dei no / quella dei tradimenti di se stessi / cominciata da chissà dove»36. Sembra di ascoltare le parole di Adorno che, commentando il cedimento generalizzato alle attrattive del benessere, seminava il dubbio che l’uomo abbia finito per «essere dalla par- te della propria degradazione». Il giudizio dell’autore salentino è netto e cari- ca di un peso specifico ragguardevole la lingua deputata alla condanna: si pen- si all’uso di «mantrugiare» per stropicciare (forma popolare toscana che certifi- ca, se ce ne fosse bisogno, l’ampiezza di spettro dello sperimentalismo espressi- vo dell’ultimo Bodini) o alla terna di elementi di un verso saturo di invenzio- ni e significati come «albe a sonagli scabbie ore malate». In una raffinata gra- dazione che dalla sfera naturale giunge alla condizione umana, Bodini elenca i mali che corrodono l’esistenza al tempo della civiltà industriale: si va dal senso di disagio e di pericolo che contamina l’ora deputata al risveglio di un mondo purificato e tornato vergine (l’alba, qui a «sonagli» come un serpente in aggua- to), al male che attacca il corpo e insieme la dimensione fenomenica della real- tà, per concludere con la piaga interiore che trasforma in tormento il compu- to del tempo («ore malate»). Partecipa di questa atmosfera di deterioramento e perdita anche il soggetto in primo piano su cui stringe l’obbiettivo dell’autore, un «tu» generico che forse investe l’io poetico o la donna, interlocutrice ideale di tante prove precedenti; tenderei ad escludere che il poeta si appelli direttamente alla civiltà industriale perché il verso di chiusura della prima strofa – dedicata alla escussione del tema – aveva segnato il passaggio dal campo largo all’ambito circoscritto alla coscien- za dei singoli. Inoltre, il capo della figura descritta è associato al nero corvino, attributo che contraddistingueva tante presenze dell’immaginario dell’autore. Notevole è pure il ricorso a un lemma chiave del corpus bodiniano come piuma, qui evocato a contrario – «si dispiuma» – per significare il vano scialo, il dispen- dio di un bene prezioso: «Di parole il tuo capo si dispiuma / in musica insensata ansie gettoni / da cui esatto si spicca il nero d’un corvo». Parole che non hanno più alcuna valenza salvifica ma si limitano a propagare con la loro concitazione il malessere («ansie»), l’inanità del tutto («in musica insensata») e l’automatismo di una comunicazione a distanza, mediata («gettoni», anche se in altro contesto, più fedele alla «grammatica» surreale delle ultime raccolte, questo vocabolo as- sume un diverso valore, referenziale seppur attraverso una metafora: «il gettone del sole»). Con abile ricerca di simmetrie, alle tre componenti del verso 6 («albe a sonagli scabbie ore malate») − indici della disfatta epocale − viene fatta segui- re a breve distanza un’analoga partizione trimembre, pure asindetica e priva di punteggiatura («in musica insensata ansie gettoni»).

36 V. Bodini, Per un volo nei pressi della luna, in Tutte le poesie cit., p. 185. «ALBE A SONAGLI SCABBIE ORE MALATE»BODINI E LA CIVILTÀ INDUSTRIALE 625

Il penultimo tassello della silloge, Rapporto del consumo industriale, offre alcuni moduli canonici nel filone lirico di indagine sul mondo di fabbrica. L’articolazione del testo si presenta assai mossa ed è calibrata su procedimenti di antitesi e di ne- gazione: alle ricchezze naturali e culturali del passato corrisponde una privazione nell’oggi della civiltà industriale, ciò che splendeva è ora spento mentre la sosti- tuzione degli antichi doni con i portati della modernità è bollata senza esitazio- ne come un danno irreparabile. Per meglio distinguere i domini del favoloso ieri dalla odierna «notte senza fiori» rotta da gemiti e tormenti, Bodini fa interagire due linguaggi contrastanti. Da una parte, i vocaboli secchi e denotativi utilizza- ti per descrivere il presente producono metafore fredde e a basso tasso figurativo («nidi di plastica di cemento di calcoli di gittata», «le spiagge come millepiedi in- vase / dal turismo di massa», i «prati di moquette» dove «s’arresta la generazione dei grilli»). Il taglio apodittico delle sezioni deputate alla denuncia della rovina in atto origina il caratteristico tono aspro della deprecazione e favorisce l’assiepar- si di termini di registro medio o afferenti alla lingua settoriale tecnico-industria- le: «il numero nemico dell’uomo e della bellezza / coordina coiti prolifici che as- sicurano all’industria / un più grande mercato di consumatori» (quanta distan- za, non solo cronologica, tra questa accezione arida del «numero» e le venature magico-pitagoriche che esso mostrava negli anni delle raccolte lunari37). Ad ag- giungere sale sulle ferite, la cancellazione della bellezza e dell’armonia è avvenuta senza un’adeguata attenzione da parte del popolo, soggiogato dai miraggi del be- nessere; la poesia nulla può oltre il lamento, la distruzione è avvenuta infatti in una solennità spettrale, senza canti: «V’è chi piange le dolci pinete segrete lungo le coste / ora alti scheletri arsi / in un incendio senza canti». D’altra parte, assecondando gli estri più felici della sua vena surreale, Bodini dispensa immagini suadenti e fascinose, di funambolica carica analogica. Il pa- esaggio incontaminato è emblematizzato da disegni delicati e misteriosi come gli «anfiteatri d’uve dizionari d’ombre» che racchiudono in simbiosi tradizione culturale, sapere e gioioso affidarsi alla sensualità panica degli elementi. Così è evidente l’innalzamento di tono che accompagna lo smagliante epicedio delle superfici equoree, non ancora compromesse dalla mano dell’uomo, sporca «di nafta e di assassinio». Riporto l’intera terza strofa, diapason lirico del testo: «Il gettone del sole che tramonta / non calzerà la pelle fuggitiva e ridente / dei fiu- mi appena fuori di città / e il cristallo del mare dove brillava il corpo paleolitico / della giovinezza». La disperata e insormontabile lontananza espressa dall’agget- tivo «paleolitico» corregge la spinta all’antropomorfizzazione rinvenibile nei ri- ferimenti alla pelle, al corpo, alla giovinezza dell’organismo naturale (l’arco del- la tensione lirica trattiene mito, brivido alcyonio e poetica del primigenio, del- la forza elementare, alla Gottfried Benn).

37 Si leggeva, ad esempio, nel testo inaugurale del canzoniere bodiniano: «Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado» (Foglie di tabacco, n.1, in Tutte le poesie cit., p. 93). 626 Andrea Gialloreto

L’ultima strofa è quella che più direttamente si pone in polemica con le posi- zioni dei laudatores e degli intellettuali inseriti negli ingranaggi del sistema indu- striale. Bodini sembra dare credito all’ipotesi dello sviluppo, del miglioramento delle condizioni di vita degli operai ma, facendo proprie le tesi di Marcuse sul- l’«euforia nel mezzo dell’infelicità» che caratterizzerebbe la psiche dell’uomo «a una dimensione»38, nega ogni dignità all’homo faber, lo riduce con salto regres- sivo di specie ad ape operaia. Il sistema si preoccupa di guidare i soggetti passivi anche nella gestione del tempo libero, quando le fabbriche-vetrina del neocapi- talismo chiudono i portoni: «Che cosa fare chiedono le api operaie alfine eman- cipate / dalle macchine / cosa faremo dopo i turni corti nelle fabbriche / di cera e di miele?». La risposta che il poeta si assume il compito di fornirci, ostentando la propria onniscienza, suona come la beffarda messa in discussione degli svol- gimenti letterari degli ultimi quindici anni: «scriveranno diari giornali di bordo / della nevrosi / Avranno premi letterari». I taccuini, i memoriali, i tentativi di fondare un’epica del ceto operaio, le narcisistiche confessioni di compromissio- ne dell’intellettuale servitore di due padroni sono ridimensionati dalla «diversi- tà» del mezzo poetico, depositario di verità scomode e profonde. Queste verità, che Bodini trasmette con trepidazione e sdegno, sono patrimonio della libertà del poeta e – parafrasando un titolo di Nelo Risi – entrano nel novero di certe cose che dette in versi suonano meglio che in prosa.

38 «È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi. I bisogni «falsi» sono quelli che vengono sovrimposti all’individuo da parte di interessi sociali particolari cui preme la sua repres- sione: sono i bisogni che perpetuano la fatica, l’aggressività, la miseria e l’ingiustizia. Può essere che l’individuo trovi estremo piacere nel soddisfarli, ma questa felicità non è una condizione che debba essere conservata e protetta se serve ad arrestare lo sviluppo della capacità (sua e di altri) di riconoscere la malattia dell’insieme e afferrare le possibilità che si offrono per curarla il risultato è pertanto un’euforia nel mezzo dell’infelicità. La maggior parte dei bisogni che oggi prevalgono, il bisogno di rilassarsi, di divertirsi, di comportarsi e di consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni» (Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione [1964], Torino, Einaudi, 1967, p. 25). I PROGETTI DI UN GIOVANE ISPANISTA

Laura Dolfi

È noto che i primi contributi ispanici di Vittorio Bodini risalgono all’inizio degli anni 40, manca però per il momento una bibliografia completa che ren- da conto – al di là dei grossi lavori di critica e di traduzione – di quei brevi ma numerosi interventi (articoli, recensioni, versioni italiane) pubblicati su gior- nali e riviste che costituiscono, a posteriori, una chiara testimonianza del fervo- re che accompagnò il giovane critico salentino nella scoperta di poeti e scritto- ri. Per una prima ricostruzione del suo avvicinamento alla letteratura spagnola, è quindi imprescindibile consultare la corrispondenza con Oreste Macrí1, giac- ché forte e prolungato fu il loro rapporto di collaborazione e amicizia (come ri- saputo, quasi coetanei e legati alla stessa terra d’origine2). Numerosi i progetti avanzati, stimolati all’inizio soprattutto dall’impellente necessità di organizzare l’appena fondata terza pagina del settimanale «Vedetta mediterranea», che imponeva tempi stretti e un inevitabile confronto sui pez- zi spagnoli (e non solo) da scegliere, tradurre e pubblicare3. Né stupisce che la

1 Cfr. Vittorio Bodini-Oreste Macrí, «In quella turbata trasparenza». Un epistolario (1940- 1970), a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2016; a questo volume rimandiamo per tutte le citazioni dalle lettere presenti sia nel testo che nelle note del nostro articolo. 2 È sottolineato anche in clausola alla sintetica rievocazione del loro «fraterno sodalizio tren- tennale»: «Entrambi emigranti salentini orgogliosi e depressi, con pari amore-odio alla nostra città» (Due salentini a Firenze, in Oreste Macrí, La vita della parola, Studi montaliani, Firenze, Le Lettere, 1996, p. 427). 3 Giudicata «Bellissima», ad esempio, la traduzione di Insonnia di Gerardo Diego preparata da Macrí per il n. 3; né mancavano i commenti sull'iter tipografico, come quel problema di im- paginato che le traduzioni scelte, ivi compresa una di Bécquer, avevano creato (cfr. le lettere di Bodini dell’aprile del 1941). Vista la sede del settimanale era comunque a lui che toccava seguire più da vicino il processo di stampa; anche se la consultazione sulla composizione dei numeri era continua e le critiche, anche sui testi, sempre costruttive. Mentre, ad esempio, nel maggio di quel 1941 Macrí considerava «ottimo» il numero appena uscito, poche settimane prima aveva espresso le sue riserve sul n. 5 («un esemplare di magnifica impaginazione» ma non coerente nell’offerta dei testi): niente avevano infatti a che fare Bécquer e la sua «semplicissima leggenda romantica» e l’ebraicissimo matematizzato e squallidissimo Fortini»; per cui sollecitava una maggiore riflessio- ne e un maggiore, reciproco, scambio: «siamo andati avanti un po’ per istinto: ora è bene che sia fissato un ordine preciso» (lettera del 24 aprile 1941).

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 628 Laura Dolfi

Spagna fosse molto presente se consideriamo che la stessa conoscenza diretta con Macrí era nata, per Bodini, all’insegna della letteratura spagnola, con quei rituali viaggi a Maglie dai quali tornava «con tesori meravigliosi», come le ope- re complete di Góngora «nell’edizione Aguilar, rilegata in cuoio marocchino» o i Campos de Castilla di Antonio Machado, i cui versi si era subito affrettato a ricopiare «a mano per intiero»4. La poesia e il Novecento furono infatti per lui (come d’altronde per Macrí), il genere e il secolo privilegiati; lo dimostra in modo evidente quel progetto di antologia, da fare insieme, di cui troviamo un accenno già agli inizi del 19415 e che ritorna negli anni con continue riprese e con quegli inevitabili aggiustamenti6 imposti dal trascorrere del tempo e dal- le conseguenti variate posizioni7 (risolte infine con la pubblicazione di due im- portanti antologie autonome: quella della Poesia spagnola del 900 di Macrí, nel 1952, e quella dei Poeti surrealisti spagnoli di Bodini, nel 1963). Alla base dell’intensa attività che caratterizzò gli esordi di Bodini, c’era sta- to comunque un serio impegno nell’informazione e nella formazione. Studiava il manuale/antologia di Hurtado y Palencia8, faceva rapidi sondaggi – non sem- pre soddisfacenti – alla ricerca di brevi testi da selezionare per possibili tradu- zioni9, si affrettava ad acquistare libri: «sto spendendo un patrimonio in testi spagnoli o in trad[uzioni] italiane», scriveva all’amico (un volume delle opere di Cervantes, ad esempio, l’aveva ricevuto ed altri due li aspettava da una libre- ria fiorentina10). Così, nell’aprile del 1943 aveva riunito una «bibliotechina spa- gnola» che andava «accrescendosi sempre più»11. A quelli acquistati si aggiunge-

4 È significativo che, rievocando dopo molti anni quei primi incontri, Bodini precisasse: «Conservo ancora il religioso manoscritto, in una cartella giallo arancione»: Postilla a Dei nostri paesi (Lettera a Oreste Macrí), in V. Bodini, Il Sei-Dita e altri racconti, Besa, Nardò (Lecce), 20103, p. 23. 5 Si veda la cartolina postale a Macrí del 22 febbraio. 6 A questo proposito si veda Laura Dolfi, Bodini e la poesia spagnola del Novecento: storia di un’antologia, in Ogni onda si rinnova, Studi di ispanistica offerti a Giovanni Caravaggi, a cura di Andrea Baldissera, Giuseppe Mazzocchi e Paolo Pintacuda, Como-Pavia, Ibis, 2011, III, pp. 555-72. 7 Fondamentale, a questo proposito, il viaggio in Spagna di Bodini del 1946. Cfr. «Io non so ancora che decidere con l’Antologia. Devo dirti che non tanto una maggiore soddisfazione personale quanto la circostanza che la borsa datami dagli spagnoli è proprio per l’antologia, mi indurrebbe a farla da solo», scriveva ad esempio a Macrí il 24 dicembre di quell’anno. 8 Lettera a Macrí del 6 [marzo] 1943. 9 Cfr. «Qua e là ho guardato l’antologia di Broch y Llop […] e non ho trovato nulla di interessante» (ibidem). 10 Ibidem. 11 Lettera a Macrí del 3 aprile 1943. Non per questo però considerava conclusi i suoi ac- quisti: «quanto costa il vocabolario dell’Accademia? Conosci quei due dizionari, da L. 100 e da 150, che figurano nel catalogo della “Stampa”? Vale la pena d’acquistarne uno? Per intanto ho il Bacci e Savelli», scriveva ancora ivi all’amico che lo invitava subito all’acquisto («Compra subito uno dei due vocabolari della “Stampa”, se fai in tempo. Io posseggo quello di L. 100. Ti occorre, diavolo», cartolina postale di Macrí dell’aprile 1943). I PROGETTI DI UN GIOVANE ISPANISTA 629 vano poi i libri prestati, non solo quei «tesori» ai quali abbiamo ora accennato, ma anche altri volumi altrettanto preziosi, come l’antologia Poesía española di Gerardo Diego del 1932 che aveva avuto in prestito da Macrí nel dicembre del 1940, e poi di nuovo un paio di anni più tardi12. Accanto alla passione e allo studio c’era infatti lo scambio di informazioni (o di libri appunto13), la disponibilità al dialogo. Ed era inevitabile che, in quei pri- missimi anni, fosse il ‘più anziano’ Oreste Macrí14 – con cui condivideva l’entu- siasmo nel diffonderne gli autori e i testi della letteratura spagnola, soprattutto attraverso lo strumento della traduzione – ad essere il suo principale interlocu- tore15. Comunque, anche se all’inizio Macrí esercitava un chiaro ruolo di guida e stimolo, come testimonia la puntuale esortazione alla lettura contenuta nella cartolina postale del febbraio del 1943:

Provvediti della Fonologia romanza di Guarnerio (Hoepli) e il Meyer-Lubke, Gram[matica] st[orica] comparata della lingua italiana ecc. riduzione di Bartoli e Braun, Chiantore, Torino. Poi cerca di impadronirti in tutti i modi del Ma- nual de gramática histórica española di Menéndez Pidal, [Espasa] Calpe, Madrid. Compra Calderón, Tirso ecc.,

12 Cfr. la cartolina postale del 15 dicembre 1940 e la lettera del 9 gennaio 1943. 13 Uno scambio, per lo meno nelle intenzioni, reciproco e guidato dalla sincera amicizia. È significativo, ad esempio, che la lettera del 9 gennaio del 1943 nella quale Bodini, in un rapido postscriptum, avanzava questa seconda richiesta («Mi presti l’antologia spagnola del Diego?»), si aprisse con le sue parole di rammarico per non essere riuscito a trovare il libro di cui, questa volta, era Macrí ad avere bisogno. Cfr. «sono due giorni che rovisto la casa in cerca del Prat […] mi spia- ce che io non riesca a fare qualche raro favore che mi chiedi» (ivi). Anzi era proprio la richiesta di questo libro (non trovato) a provocare, nella dimensione epistolare, espressioni familiari e sfoghi personali che testimoniano, insieme al rapporto di solidarietà quasi fraterna già segnalato, l’esa- sperazione di Bodini schiacciato da una vita troppo intensa che, non concedendo momenti di pausa, imponeva il finale ricorso alla pietas e alla comprensione dell’amico: «maledicimi, odiami, in casa mia non esiste il Valbuena Prat. Credi che mi faccia piacere tornare a sentire i rimproveri e gli insulti dei miei libri sparpagliati fra casse e armadietti nelle stanze più incredibili? Ogni volta è trovarsi di fronte a se stessi e guardarsi col terzo occhio. Ebbene li ho guardati ad uno ad uno, quattro volte. Non posso di più, chiedimi di morire piuttosto. Perdonami» (cartolina postale inviata il 12 gennaio1943). Ma potremmo ricordare anche, come poche settimane prima e per un problema ben più grave – quello di uno sperato trasferimento di Bodini a Parma – Macrí avesse usato un linguaggio in qualche modo analogo («Ho tentato di trovarti una cattedra: non mi è riuscito: picchiami», cartolina postale del 16 dicembre 1942); e come ancora il 15 novembre del 1945, prima di salutarlo con un «abbraccio fraterno», avesse rievocato questa possibile oppor- tunità perduta: «Sono preoccupato per il tuo lavoro bestiale in questo Orbis. Sognavo per te un posto nel “Maria Luigia”, qualche lezione privata, l’assalto al “Contemporaneo” e lieti, lunghi conversari negli intervalli di un lavoro fecondo e continuo». 14 Biograficamente coetaneo (nato nel 1913 Macrí, nel 1914 Bodini) ma laureato sette anni prima (nel 1934 mentre Bodini aveva dovuto rimandare al 1940). 15 A questo proposito si veda Anna Dolfi,Mitologia e verità. Il barocco e la Spagna. Bodini fra traduzioni e storia di un’amicizia, in Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2004, pp. 389-411. 630 Laura Dolfi

Bodini non ebbe mai un ruolo subalterno: i suggerimenti e il confronto su idee e informazioni era infatti sempre paritario e reciprocamente costruttivo. Ogni osservazione (anche quando si trattava di divergenze nell’interpretazione o nel- la traduzione di singole parole) era sincera, accompagnata da entusiasmo e sem- pre, sia pur nell’esiguità dei mezzi disponibili, dalla serietà nell’impegno critico- filologico (nella comprensione e nella resa del testo). Bodini, ad esempio, dopo aver lodato la traduzione di Eugenio d’Ors che Macrí aveva pubblicato su «Lettere d’oggi» (parlava di «terso e pregnante lin- guaggio, senza l’impaccio della propria novità») – in vista dell’imminente pub- blicazione come volumetto dell’Oceanografia del tedio16 – gli segnalava, e pro- prio come «amico», una frase della sua «nota critica» che non condivideva. Gli sembrava infatti «impreciso e parziale parlare di sconfitta dell’Autore di fronte al tedio come verità», giacché a suo avviso si trattava piuttosto del contrario e cioè di «gioia di ritrovamento d’altra verità diversa dal tedio» e insisteva: «que- sto dice il canto trionfale della pioggia e la voglia di ridere dell’Autore» (lette- ra del 9 aprile 1943). O un paio di mesi più tardi, a proposito di una traduzio- ne machadiana non ancora uscita (si trattava della poesia Campos de Soria), gli segnalava l’ambiguità che poteva nascere dal tradurre letteralmente il sintagma cristiana vieja, visto che pochi lettori l’avrebbero ricollegato all’idea spagnola della pureza de la sangre. Analogamente però si dimostrava disponibile a valutare con attenzione le se- gnalazioni ricevute sulle proprie traduzioni, giacché quando – nell’aprile 1943, a proposito di alcuni versi del Marqués de Villanova che aveva tradotto dopo aver incontrato il poeta a Firenze17 – era Macrí a sollevare qualche obiezione: «ti ricordo che césped significa prato (erba minuta) e bruma nebbia, non bruma che in italiano significa inverno e non nebbia» la sua risposta era immediata e, in fin dei conti, consenziente:

16 Che uscirà proprio in quel 1943 dalle romane Edizioni di Lettere d’Oggi. E, sempre a que- sto proposito, lo avvertiva della presenza eccessiva di refusi – «pessima e disastrosa» quindi la pre- sentazione tipografica – e, con una «pignoleria» della quale si scusava, gli segnalava i più insidiosi: «“di questi” invece che “di questo” a p. 5, rigo 3. Poi: “a p. 7 si parla di un’America del tedio, di un Colono e di una ciurma insofferente; io non ho un dizionario adatto, ti scrivo a orecchio: ho il sospetto che quel Colono sia nient’altri che il buon Cristoforo Colombo, che in spagnuolo può darsi si chiami Colón. Inoltre il testo non è ermetico, e se a un tratto spunta fuori una manica giardiniera (p. 8) che cessa la sua generosa operazione, è legittimo anche quest’altro sospetto, che ci sia qualcosa che non vada». Ed aggiungeva concludendo: «a p. 21 la frase “facendo movimenti, sì, con movimenti più inutili” è un poco infelice» (lettera del 9 aprile 1943). 17 Glieli mandava per avere un suo parere prima di mostrarli all’autore, e gli anticipava: «Chissà cosa penserà della punteggiatura aggiunta. Ma io non ho potuto farne a meno, come ti accorgerai sin dalla prima quartina». Preso dall’entusiasmo poi aggiungeva: «vorrei tradurre anche Asfalto, ma non so cosa significhi “ultra-brisa”, gli angeli di oltre-brezza? Dimmi se sai». Ma Macrí non avrebbe raccolto quest’ultimo quesito, non avendo proposte alternative o per dimenticanza. Manifestava però, insieme, consenso («Buona la versione dell’Unicorno») e perplessità sulle ogget- tive possibilità di stampa («non so se pubblicabile con quei nomi inglesi»). I PROGETTI DI UN GIOVANE ISPANISTA 631

per bruma avevi ragione - non riesco a convincermene però; per césped però ho ragione io, terra pezzo di terra erbosa, dicono i dizionari18. Tuttavia per evitare che una parola che ha potuto far sorgere contestazioni riuscisse al lettore pre- tenziosa in una poesia che ha tono di colloquio, l’ho sostituita con prato, anche perché essendovi una a accentata rende un suono più vasto e piano (lettera del 23 aprile 1943).

All’insegna di questo continuo e ampio dialogo (di cui ci siamo limitati ad offrire pochi esempi, e che si estendeva anche a mere informazioni bibliografi- che19), il lavoro procedeva, in quegli anni difficili di guerra, in un alternarsi di progetti di maggiore o minore impegno e di contatti stabiliti, o auspicati, con importanti casi editrici: Vallecchi da «assalire» perché si convincesse a «ripren- dere» la rivista «Incontro»; Sansoni da raggiungere «con l’aiuto di Casella» per- ché aprisse «una pubblicazione bi- o trimestrale di studi spagnoli» ed accettasse l’istaurarsi di un fruttifero e continuato rapporto di collaborazione20; Bompiani da avvicinare più direttamente escludendo incarichi di seconda mano (come quella compilazione di schede sui libri di Azorín e di Menéndez y Pelayo che Leonetto Leoni, incaricato dall’editore, ma non esperto di spagnolo, aveva pro- vato a passare a Bodini21). Né mancava il confronto con iniziative riguardan- ti altre letterature e che costituivano un’occasione di riflessione e di futuro sti- molo; «è uscita una rivista di bibliografia tedesca: se qualcuno s’interessasse, an- che la nostra per la lett[eratura] spagnola dovrebbe esser possibile», osservava ad esempio Bodini il 9 aprile di quel 1943. Intanto procedevano le versioni sparse e i progetti segnalati e solo in par- te concretizzati, ma che portavano comunque alla «scoperta» di autori diversi: Bécquer di cui Bodini voleva tradurre «qualcuna delle cose più brevi», pensava a una delle leyendas – in particolare La venta de los gatos – della quale però (no- nostante il placet di Macrí, a cui aveva chiesto previa autorizzazione «per pau- ra di sconfinare nel territorio della [sua] amabile consorte»22) non torneremo a

18 In una successiva lettera del maggio del 1943 Macrí precisava ancora: «Césped – erba mi- nuta sulla zolla (questa si dice tupe, mi pare)». 19 Non facili da reperire; da qui l’opportunità di passarsi reciprocamente notizie. Si veda, ad esempio: «È uscita la seconda ediz[ione] della Lett[eratura] spagnola del Boselli e Vian; Ediz[ioni] di Lingue Estere. Milano. L. 35. Mi è arrivata dal Portogallo la stupenda lett[eratura] spagnola grande in 2 volumoni legati del Valbuena Prat» (lettera di Macrí del luglio 1943) . 20 Al quale aveva per il momento rinunziato non avendo i giusti contatti. Cfr.: «Vedi anche di mettere piede bene da Sansoni. [Borrelli] che lavora là, mi disse che la casa ha un vasto pro- gramma di traduzioni spagnole, e voleva che andassi a parlare con lui a Gentile, ma Borrelli è un carissimo amico però una porta un po’ troppo di servizio della Casa, e io non ci andai» (lettera del 3 aprile 1943). 21 Che aveva rifiutato, precisando comunque che avrebbe accettato se la richiesta fosse venu- ta direttamente dalla Bompiani (ibidem), come in realtà – vedremo – avvenne poco dopo. 22 Aggiungeva «Naturalmente io non ci tengo in modo particolare, e se c’è la più piccola incertezza rispondimi di non farne di nulla e non se ne riparla più» (lettera del 6 [marzo] 1943). 632 Laura Dolfi sentir parlare. Sostituito forse con la traduzione del Monte delle anime che, tre mesi dopo, annunziava come terminata e che intendeva pubblicare «in qual- che posto con una nota»23. Su questo autore Bodini sarebbe tornato in seguito con un’altra traduzione breve, il Miserere, uscita su «Domenica» nel febbraio del 1945; e se rinunziò a «far tutto Bécquer», come invece gli era stato offerto, fu proprio, ancora una volta, per non interferire con i lavori di Albertina Baldo24. Nell’attività di questi primi anni va segnalata poi l’attenzione, non solo per la poesia dell’Otto-Novecento, ma anche per il teatro del Siglo de Oro: Cervantes, Lope de Vega, Ruiz de Alarcón25, Calderón de la Barca i cui drammi era riuscito in parte a procurarsi nell’estate del 43, in vista della preparazione di «una quin- dicina di voci»26 richiestegli da Bompiani. Ma la difficoltà era sempre quella di procurarsi i libri. Se infatti, già alludendo a un «lavoro di schede» offertogli da Casella27, aveva denunziato i limiti con i quali doveva confrontarsi (e cioè le sue scerse «disponibilità librarie a Lecce»28), ora dichiarava in modo esplicito la pre- carietà della situazione nella quale si trovava ad operare, contentandosi intanto del magro bottino che era riuscito a racimolare: «non ho i libri, ma pensavo di trovarne almeno una parte: difatti ho trovato due Calderón e le poesie di Núñez de Arce, che sto leggendo»29. Il lavoro doveva essere comunque intenso, e faticoso tenere il passo con le ri- chieste delle varie riviste (che naturalmente andavano ben al di là della sola let- teratura spagnola), così come era evidente la penuria finanziaria30. L’impegno e la passione investita nella traduzione rimasero però una nota costante nei mesi successivi: «sto lavorando con impeto, molte ore al giorno. Ma i risultati sono molto lenti, come sempre», constatava Bodini il 17 luglio del 1943; e poi il 17 agosto: «Sto lavorando […] allo spagnolo: un romanzo di Gabriel Miró (un

23 Lettera del 24 maggio 1943. Forse «Lettere d’oggi» o «Sette giorni», ipotizzava. In questo testo tra l’altro, segnalava «un punto oscuro» e precisava scorato: «ahí va, como el caballo de copas. Dev’essere un modo di commiato popolare da qualche cosa, ma consulta il tuo dizionario (visto che tutte le mie ultime commissioni alla “Libreria della Stampa” sono rimaste senza esito)», ibidem. 24 Si veda, a questo proposito, la lettera del 28 agosto 1945 dove esprimeva il proprio ram- marico perché quella traduzione Albertina Baldo non l’aveva fatta e alla fine Bécquer era stato tradotto e pubblicato da «uno sciagurato». 25 Di queste traduzioni inedite è in corso, a nostra cura, la trascrizione e pubblicazione. 26 Lettera del 7 luglio del 43. 27 Il ringraziamento rivolto a Macrí sottintende che si trattava di un lavoro ottenuto grazie alla sua mediazione. 28 Lettera del 24 giugno 1943. 29 Lettera del 7 luglio del 1943. Una decina di giorni più tardi avrebbe scritto ancora, rife- rendosi a una libreria milanese: «La “Lampada” mi scrive che non ha più Machado» (cartolina postale del 17 luglio 1943). 30 Leggiamo infatti nella lettera del 24 maggio 1943, a proposito della bolognese «Architra- ve»: «Cuccurullo mi dice che tu gli hai promesso una mia traduzione da Juan Larrea, sì, ma che questo sia occasione per il pagamento di quella prosa. E poi questa non vorrei pubblicarla anche perché ho bisogno di aver qualcosa nei cassetti, ché sono assai sfornito». I PROGETTI DI UN GIOVANE ISPANISTA 633 nome consigliatomi da Casella)». I progetti vagheggiati, iniziati, conclusi con- tinuavano insomma a succedersi persino nei momenti più difficili: la guerra, la caduta del fascismo. Allora, inevitabilmente, il coinvolgimento nella letteratu- ra si intreccia con la vita quotidiana, con la storia del paese, con i suoi eventi: l’entusiasmo per la libertà riconquistata (bellissima la lettera indirizzata a Macrí il 27 luglio 1943, dove emerge quella vena narrativa che caratterizzerà più tar- di le cronache dalla Spagna), la preoccupazione per la successiva, complessa, si- tuazione storico-politica, o l’ansia per scelte di vita – come il luogo dove conti- nuare a risiedere – che potevano influire sulla stessa sopravvivenza31: «sono an- gosciato. Ma non so che fare», scriveva il 7 settembre 1943. Ed è questa l’ulti- ma lettera inviata a Macrí in quel periodo incerto e tragico; perso, nei mesi suc- cessivi, ogni punto di riferimento e contatto. Quando però, dopo circa due anni la corrispondenza riprende, e siamo nel luglio del 194532, insieme al «desiderio di parlare», dopo il lungo, forzato silen- zio, si avverte la voglia di recuperare il tempo perduto («tutto un dialogo che mi porto dentro», scriveva Bodini il 28 luglio), di aggiornarsi sulle rispettive pub- blicazioni, sui nuovi progetti intrapresi o da intraprendere. Di fronte a un Macrí che – a quanto gli dicevano gli amici aveva «una caterva di libri già pronti»33 – affermava modestamente: «Sto lavorando anch’io però, con assai minore fe- condità, ma sto lavorando, ed avrei qualche buon progetto per qualche lavoro comune»34. E pochi giorni dopo riepilogava quanto aveva in corso (per Einaudi,

31 Auspicata ad esempio da Bodini la possibilità di un trasferimento a Firenze o a Parma, dove Macrí insegnava. Si veda, a questo proposito, la cartolina postale del 3 agosto: «Io verrò via, magari a Parma, se si aprono le scuole. […] Ti prego di darti da fare perché data la mia attuale condizione, e le possibilità che avrei qui, caduto il fascismo, se rimango quest’anno sarò perduto per sempre» (e poi ancora la lettera del 17 e l’espresso 19 agosto del 1943). 32 Quasi a stabilire un filo di continuità nella lettera del 10 luglio 1945 troviamo un nuovo rimando a un possibile trasferimento a Parma. Cfr. «Ho anche una possibilità di andare in Tosca- na, ma alquanto vaga, e preferirei l’amicizia e la quiete di Parma, che mi aiuterebbero a maturare diverse cose». E, soffermandosi su una visione più generale: «Ti ho scritto anche se vi è modo di avere a Parma un incarico per quest’anno – ciò nel caso che tu vi rimanga. Gli avvenimenti hanno frantumato ogni società letteraria, ed oggi siamo in grado di rimpiangere ciò che prima magari ci infastidiva. Forse a Parma questo non è accaduto: penso a un soggiorno fra voi con la stessa intensità d’entusiasmo con cui a dieci anni mi immaginavo scopritore di isole, e ne avevo gli occhi lucidi» (lettera a Macrí del 28 luglio 1945). 33 Quelli usciti in quegli anni erano soprattutto articoli, pubblicati su giornali e riviste: solo due quelli datati 1944 (in evidente contrasto con la fitta bibliografia che caratterizza gli anni precedenti e che caratterizzerà i successivi) e quattordici quelli del 1945. Il rimando ai libri va inteso come riferito alle Memorie del Marchese di Bradomín di Valle Inclán che Macrí pubblica agli inizi del 1946 e probabilmente alla preparazione avanzata delle Rime di Bécquer e delle Poesie di Antonio Machado che usciranno nel gennaio del 1947. 34 Lettera del 28 luglio 1945. A questo proposito, guardando al passato, aggiungeva: «ai tem- pi infausti della mia destituzione leccese io mi rendo conto che qualche tuo progetto di lavorare assieme non era se non pietosissima astuzia per sottrarmi a quella putrida morte: ora che ne sono lontano vedo assai chiaro tutto ciò e voglio che tu sappia tutta la mia gratitudine per quella tua delicata carità» (ibidem). 634 Laura Dolfi aveva tradotto Stendhal, e stava ora «preparando un Lazarillo»), ritornava poi sui lavori rimasti in sospeso e ne segnalava altri possibili, come la traduzione di El condenado por desconfiado di Tirso de Molina che considerava «il più grande dramma teologico del mondo» sì che gli pareva «una vergogna» che non fosse sta- to tradotto in italiano35. Dava inoltre la propria disponibilità a fare una «silloge calderoniana» (Macrí gli aveva proposto di tradurre Calderón già nel febbraio del 1943) e precisava: «l’idea è eccellente e puoi senz’altro contare su di me per il contributo di traduttore che è tutto quanto posso darti per Calderón»36 (ma, come noto invece sul teatro di questo autore, e in particolare sulla Vida es sueño anni più tardi, nel 1968, avrebbe pubblicato un libro); gli sottoponeva infine il progetto di antologia del surrealismo (o meglio di un’ampia antologia del sur- reale nelle letterature occidentali»)37 mentre per quanto riguardava altri lavori «privati» preferiva mantenere un certo riserbo per evitare «rallegramenti troppo prematuri e mal fondati». Rimaneva però il solito problema, quello dei pochi mezzi e strumenti a disposizione:

È una disperazione, avrei tanto lavoro in mente, ma non riesco a far nulla per la penuria di libri. Nelle librerie niente, qualche testo scolastico stampato in Italia è l’unico frutto delle mie ricerche. Nelle biblioteche c’è pochissimo, e prima di mollarne uno è peggio del processo kafkiano; all’ambasciata non ricevono pub- blicazioni spagnole da almeno nove anni (espresso del 9 agosto 1945), e Macrí, una decina di giorni dopo, gli avrebbe comunicato: «Per il Calderón ho avuto la funerea notizia che tutti i volumi spagnoli della Rivadeneyra sono sprofondati nelle macerie della Pilotta e ora mi trovo senza testi spagnoli (lette- ra del 17 agosto 1945)»38. Scattava quindi tra i due amici un meccanismo reciproco di informazione e sostegno per sopperire alle lacune. Così, ad esempio, Bodini, se già il 9 ago- sto 1945 rispondendo forse a una richiesta di Macrí concludeva: «Se mi indichi ciò che ti occorre, vediamo se per caso io abbia qualcosa fra quelli che riuscii a comperare nel ’43», il successivo 28 agosto precisava: «Ti trasmetterò l’elenco di quelli [libri] che ho a Roma; a Lecce mi pare che ho un grossissimo tomo di Calderón preso a prestito dalla Bibl[ioteca] di Lettere di Firenze e non restitui-

35 Espresso del 9 agosto del 1945. Pensava a Macrí come mediatore presso Rosa e Ballo («po- tresti farmi fare un contratto», ibidem). Cfr. questa traduzione supra, pp. XXX-XXX. 36 Ne aveva anzi parlato anche con l’addetto stampa alla Ambasciata di Spagna che si era «mostrato entusiasta» (ibidem). 37 Ibidem. Per questo, e sull’evoluzione del progetto, rimandiamo nuovamente al citato arti- colo L. Dolfi, Bodini e la poesia spagnola del Novecento: storia di un’antologia. 38 In compenso, quasi un anno più tardi, avrebbe annunziato trionfante: «Una notizia enor- me: per mezzo di Poggioli avremo tutte le opere di Guillén e Salinas che sono in America» (lettera del 4 aprile 1946). I PROGETTI DI UN GIOVANE ISPANISTA 635 to per via degli avvenimenti»; e, a sua volta, Macrí il 24 settembre gli conferma- va: «Ho ricevuto anche l’elenco dei tuoi libri spagnoli; tra breve ti manderò il mio, e così potremo metterci d’accordo per uno scambio e un piano di lavoro»39. La dittatura e la guerra però non avevano portato soltanto distruzione e dif- ficoltà, ma insieme – una volta concluse entrambe – alla presa di coscienza di una fatale «diversità» che quanto accaduto imponeva persino nel modo di con- cepire la letteratura e la sua interpretazione. Questo cambiamento, che Bodini avvertiva come necessario e inderogabile (e che segnerà una linea netta di di- vergenza con Macrí) lo portava quindi a una valutazione diversa della scrittu- ra critica, che pur essa andava rinnovata, e indipendentemente da scelte stilisti- che individuali, con una spinta verso la chiarezza che togliesse il critico da ogni possibile isolamento elitario. Comunque, pur difendendo un modo di intendere la letteratura che faceva piazza pulita di quell’ermetismo al quale lui stesso, sia pur per pochi anni, ave- va aderito40, il coinvolgimento nei vecchi e nuovi progetti ispanici, individua- li o comuni, rimaneva costante. E invariato era il rispetto per il lavoro e gli in- teressi altrui, che veniva confermato anche nel momento di scegliere chi avreb- be dovuto occuparsi del sopra citato dramma di Tirso. Se infatti nella lunga po- stilla che chiude l’appassionata lettera del 17 agosto 1945 (nella quale, rievo- cando la storia spagnola, gli autori e le opere studiate, giustificava e difendeva la propria, differente, posizione41) Macrí si dichiarava disponibile a lasciargli la scelta finale riguardo alla traduzione di El condenado por desconfiadosul quale – precisava – aveva già iniziato a lavorare («l’avevo lasciato e ora vorrei riprender-

39 Significativo, da questo punto di vista, quanto affermato da Bodini qualche mese più tardi: «il giovinetto Tentori non mi ha potuto dare il Jiménez, che aveva solo avuto in prestito dall'Ambasciata Spagnola presso il Vaticano. Cercherò di andarvi e di farmelo dare a mia volta» (lettera a Macrí dell’8 febbraio del 1946). 40 Ma che, come dimostrato da Anna Dolfi, continuerà ad essere presente anche in forma sotterranea al di là delle esplicite dichiarazioni. Cfr. A. Dolfi, Grammatica e topoi di un imma- ginario poetico (muovendo dal “verso”), in Vittorio Bodini fra Sud ed Europa, Lecce, 3-4 dicembre 1014 – Bari, 9 dicembre 2014, a cura di Lucio Giannone, in corso di stampa. 41 Cfr.: «la catastrofe c’è stata; tutta l’intelligenza italiana, in questo senso, è stata “ermetica”; che dico, tutta l’intelligenza latina fin da quell’anno 1588 dell’Invincibile Armata, in cui Lope de Vega almeno usava certi suoi manoscritti come stoppacci d’archibugio. Ma che l’intelligenza dei nostri se ne voglia riemergere ora come da un nuovo Giordano e si batulli, poniamo, tra vittorinismo e vigorellismo, tutto ciò a me, come uomo e come cittadino, fa ribrezzo e schifo. Ecco, sono per Azorín contro Ortega. […] con un mio scritto non posso dare la sensazione che desidero una nuova società da sostituire all’antica; perché la società per me resta la stessa, cioè fondata sull’economia e sulla forza, senza nessun segno all’orizzonte d’un’educazione profonda- mente umana […]. Come piccolo uomo della mia città preferisco tornare dalla grande industria all’umile artigianato compilando i miei 30 (non 11!) volumi. Tra questi vi è la versione del Villa- no en su rincón di Lope de Vega; nel saggio premesso ho analizzato minutamente nella struttura psicologica e ideale del Villano la mia personale situazione di fronte al Monarca. Il monarca nel mondo c’è ancora» (lettera del 17 agosto del 1945). Ma per un’analisi approfondita del dibattito sull’ermetismo e del rapporto Bodini-Macrí rimando allo studio preliminare di Anna Dolfi al citato V. Bodini-O. Macrí, «In quella turbata trasparenza». Un epistolario (1940-1970), pp. 9-14. 636 Laura Dolfi lo. Ma ti lascio libero di fare quel che desideri»), Bodini senza esitazione man- teneva l’opzione aperta («Se tu l’hai cominciato, oppure se può entrare nel tuo piano di lavoro di ora fallo tu, altrimenti io») e, rimbalzandogli la richiesta e in certo modo caldeggiando la propria rinunzia, concludeva: «devi decidere tu, te- nendo conto che io sto a zero e se ci pensavo è solo perché mi piaceva molto. Ma trattandosi di argomento teologico penso che a te debba piacere anche più che a me» (lettera del 28 agosto 1945). E Macrí allora accettò di buon grado («ti sarei grato se potessi lasciarlo a me, avendo già tradotto più di un atto e gettato alcuni appunti critici»42), confer- mandogli invece campo libero43 su Garcilaso («sai bene che certi testi sono ine- sauribili») e, in parte, anche per un’antologia di García Lorca, per la quale cer- cava di indirizzarlo verso le poesie da lui non selezionate. Non escludeva inve- ce quelle che considerava più belle tra le tradotte da Carlo Bo, insinuando con un «sai come traduce Bo» che la letteralità delle versioni di quest’ultimo lascia- va ampio spazio a nuove, più pregnanti, interpretazioni44. Nel frattempo continuava lo scambio di opinioni sul progetto «surrealista» di Bodini, sui poeti del Novecento da selezionare per i Quaderni internazio- nali «Poesia» diretti da Falqui, su altre coincidenze lorchiane (come quella del Retablillo de don Cristóbal, tradotto da entrambi45, o di Nozze di sangue, pubbli- cata/rappresentata46) e su altre importanti iniziative. Tra queste, la traduzione del Lazarillo de Tormes alla quale Bodini si stava dedicando in un momento in cui per sopravvivere aveva accettato un lavoro in un’agenzia: un lavoro che non

42 Lettera del 6 settembre. Bodini concludeva infatti il 17 settembre: «va benissimo. Dato l’argomento ne farai sicuramente una cosa magnifica». 43 In questo periodo, tra l’altro, i progetti di Bodini si intrecciavano con quelli della sua com- pagna di allora, Giulia Massari, che stava traducendo un «bel romanzo», José, di Palacio Valdés e le Cartas marruecas di Cadalso. Per la pubblicazione di entrambi Bodini chiedeva l’appoggio di Macrí che si attivava subito («comunicherò subito a Guanda e ti dirò») anche se poco dopo doveva segnalargli la non facile situazione: «ti avverto che i rapporti con Guanda non sono rosei […]. Non posso assicurare nulla in precedenza» (espresso del 9 agosto e lettere 28 agosto e del 17 agosto e 6 settembre 1945). 44 Lettera del 6 settembre 1945. Ben più impietoso sarebbe stato invece il giudizio espresso poco più tardi da Bodini: «Questo Bo comincia a darmi terribilmente sui nervi; traduce come un macellaio, ma siccome è arrivato per primo, non si può far vedere che gli si sta alle calcagna, né, per quanto ne abbia una gran voglia, che gli si vuol dare una lezione» (lettera del 25 dicembre 1945). 45 Macrí dispiaciuto se ne scusava: «Son già due volte che mi scontro coi tuoi lavori; mi dispiace davvero; speriamo che non capiti più» (lettera del 2 dicembre 1945). Comunque se la traduzione di Bodini uscì su «Aretusa» quella di Macrí rimase inedita, pubblicata – con uno stu- dio introduttivo che ne ricostruisce le vicende – solo nell’anno della morte (nel volume Federico García Lorca e il suo tempo, a cura di Laura Dolfi, Roma, Bulzoni, 1998, pp. 533-545). 46 Come noto Bodini pubblicò la sua traduzione da Einaudi (in forma isolata e dentro il corposo volume del Teatro), mentre Macrí fece «leggere» la propria a Reggio Emilia e, nel 1962, la fece rappresentare al Piccolo Teatro di Firenze (si veda a questo proposito L. Dolfi,Il caso García Lorca. Dalla Spagna all’Italia, Roma, Bulzoni, 2006, pp. 222 e passim); rimase quindi inedita fino al 1998 (la si veda ora nel citato Federico García Lorca e il suo tempo, pp. 579-625). I PROGETTI DI UN GIOVANE ISPANISTA 637 gli piaceva, che lo allontanava da quello che lo interessava e che quindi l’ave- va gettato in un inevitabile stato di disperazione; il 10 novembre di quel 1945 descriveva infatti il luogo dove era costretto a passare le sue giornate con un si- gnificativo: «una grande sala con molti tavoli, dove […] non si vede un calama- io né una penna». Ma, in quella stessa lettera e poi nelle successive – ancora prima del fatale, sollecito, autolicenziamento –, continuano a succedersi i nomi degli autori spa- gnoli studiati o letti (il Larra portato avanti e Gómez de la Serna invece abban- donato per un’«assoluta mancanza di consenso» verso la sua opera)47, i pareri sulle traduzioni brevi da pubblicare e i commenti su quelle inviate in antepri- ma, sempre proposti modestamente all’interno del generale, reciproco e inten- so, rapporto di stima e di amicizia48. Anzi, a questo proposito va ricordata l’am- mirazione espressa da Bodini (che pur proponeva un paio di varianti49) dopo la lettura di alcune traduzioni machadiane di Macrí: «Per Machado hai fatto mi- racoli; in questi ultimi tempi, con la complicità di Falqui, m’ero convinto di es- sere un altissimo traduttore. Le tue traduzioni mi hanno un po’ “calmato”» (car- tolina postale dell’8 dicembre 1945). Il suo lavoro di traduttore, o meglio di «traduttore geniale» – come l’avrebbe definito Rafael Alberti, avendo sperimentato sul corpo vivo della propria poesia le sue capacità creative e interpretative50 – si ispessiva intanto con altri nomi e nuovi testi: Vicente Aleixandre, Gerardo Diego, e poi Moreno Villa, Altolaguirre, Dionisio Ridruejo (su cui aveva appena scritto un saggio51) per non parlare di quelle «scoperte importanti» sulla «situazione» di quest’autore, ma anche su Salinas e Aleixandre, che raccontava di aver fatto durante la stesura di una con- ferenza52. E poi c’era quella Gabriela Mistral di cui Mondadori gli aveva chiesto un’antologia ma che temeva fosse «proprio nulla» perché l’unica poesia che aveva

47 Lettera del 10 novembre cit. 48 Macrí avrebbe continuato – anche negli anni successivi al soggiorno di Bodini in Spagna, ed anzi a maggior ragione – a consultarlo su alcuni passi delle proprie traduzioni; così per le rime di Bécquer, per le poesie di García Lorca, ecc. 49 Dopo aver precisato «Bellissima […] la prima Arde en tus ojos, e la III e la IV», aggiungeva: «Ti proporrei [...]: III (Es una forma), v. 5; per ragioni di numero: “Ella schiude il balcone, e la campagna” anziché “Ella apre ecc.” E in Galerías, strofe IV, v. 3: L’eptacordo / della lira del sole vibra in sogni (anziché sogno), perché quei sogni non sono atmosfera ma produzioni del vibrare». Ma, come risulta da un confronto delle traduzioni pubblicate, Macrí accettò solo il primo dei due suggerimenti (cfr. Antonio Machado, Poesie, saggio, testo, versione a cura di Oreste Macrí, Milano, Il Balcone, 1947, p. 89 e 155). 50 Lo riferiva la scrittrice Carmen Laforet: «Mi primer encuentro [con Bodini] en mi primer viaje a Roma fueron unas palabras de Rafael Alberti: “Vittorio Bodini era un traductor genial, un hombre genial, un poeta genial”» (Noticia de Vittorio Bodini, in «El país», 10 agosto 1980, p. 7a del supplemento «Libros»). 51 Che venne impietosamente tagliato, come lui stesso avrebbe segnalato il successivo 16 aprile: «Su “Aretusa” è uscito il mio Ridruejo: cinque sonetti e una nota a cui tenevo molto e che invece mi hanno macellato nella maniera più barbara». 52 Lettere del 25 dicembre 1945 e del gennaio del 1946, 11febbraio-3 marzo 1946. 638 Laura Dolfi tradotto gli era sembrata «una pessima diluizione di Altolaguirre», sì che – preci- sava – gliel’aveva praticamente «dovuta riscrivere» (lettera del 18 giugno 1946). Si arriva così, tra informazioni e osservazioni di vario genere, al 23 novem- bre del 1946, e cioè a quella partenza per la Spagna – Bodini vi rimase circa tre anni quasi senza interruzione – che avrebbe segnato una nuova fase del suo ispa- nismo, giacché la comprensione delle tradizioni del paese (il flamenco, la cor- rida, ecc.), l’impatto con i grandi nomi della pittura spagnola, la percezione di atmosfere e paesaggi quotidianamente assimilati53, oltre al fondamentale con- tatto diretto con i protagonisti della cultura del Novecento (dai poeti della ge- nerazione del 25 ai più giovani legati alla rivista «Garcilaso», o a narratori come Pío Baroja o Camilo José Cela per limitarci a pochi esempi)54, portavano inevi- tabilmente a una più stratificata lettura e a una più approfondita interpretazio- ne di opere e autori. E proprio alle conoscenze derivate dalla quotidianità del «vissuto» spagnolo, oltre che alla conferma della costante amicizia55, si lega la lunga e articolata de- dica in cui, agli inizi del 1949, Macrí – chiudendo i preliminari della sua edizio- ne delle poesie di García Lorca – non a caso, dichiarava che il «poeta e amico» era stato una «guida preziosa in lo español»56. A questo omaggio, che gli veniva offerto come «umile testimonianza di affetto»57, Bodini avrebbe risposto circa un decennio più tardi, nel 1958, dedicando «fraternamente» a Macrí la sua edi- zione/traduzione delle Poesie di Salinas58.

53 Cfr. L. Dolfi, Bodini e un paese sognato, in Studi in onore di Enza Biagini, a cura di Augusta Brettoni, Ernestina Pellegrini, Sandro Piazzesi, Firenze University Press (in corso di stampa) e L. Dolfi, La Spagna: traduzione e poesia, negli atti Vittorio Bodini fra Sud ed Europa, cit. 54 Si veda L. Dolfi, Bodini e un paese sognato, cit. Indispensabile per la definizione di questi rapporti l'ampio studio introduttivo e i documenti inediti in Laura Dolfi, Vittorio Bodini e la Spagna. Itinerario bio-bibliografico Unipr Co-Lab, 2015: . 55 Cfr. «fraterno sodalizio trentennale, quanto più a tratti accidentato per maggior veri- tà d’amicizia, dalla prossima e cocente memoria della nostra seconda patria abbandonata […] all’Europa interiormente conquistata attraverso la Spagna gotica, barocca e surreale» (O. Macrí, Due salentini a Firenze cit., p. 427). 56 Richiamando quella fusione di mondi (meridionale e ispanico) che avrebbe isolato come caratterizzante la stessa opera poetica e narrativa di Bodini, precisava: «guida soccorsa dalla no- stra comune ascendenza nel campo del flamenco salentino, ultima provincia spagnola in Italia (il flamenco napoletano si è non poco viziato di festa e di turismo)». Cfr. O. Macrí, Dedica, giustificazione e nota bibliograficain Federico García Lorca, Canti gitani e prime poesie (Dal “Ro- mancero gitano” e dal “Poema del cante jondo”; “Llanto por Ignacio Sánchez Mejías”; da “Poemas” e “Canciones”, Introduzione, testo, versione, a cura di Oreste Macrí, Guanda, Bologna 1949, p. 25. 57 Come precisava Macrí annunziandogli, il 9 febbraio 1949, l’arrivo del libro: «Tra non molto riceverai il Lorca con l’interpretazione a te dedicata». Ed era forse ricordando la perplessità chiaramente espressa dall’amico meno di due anni prima («Sono meravigliato della temerarietà con cui parli e scrivi di Lorca senza conoscere il flamenco», cartolina del luglio del 1947) che lo autorizzava subito ad esprimere il suo, anche pubblico dissenso («Se credi di rifiutarla pubblica- mente [la dedica], fa’ pure», ibidem). 58 Si veda il «Questo lavoro è fraternamente dedicato a Oreste Macrí» che si legge nella pa- gina bianca che precede l’Introduzione al volume (Milano, Lerici 1958). DA «VEDETTA MEDITERRANEA» A «LIBERA VOCE» IL PROBLEMA DELLA FORMA E IL SEGNO INCOMUNICANTE

Francesca Bartolini

Che, all’altezza del 1941, il problema della forma si fosse fatto cogente all’in- terno della compagine ermetica lo dimostrano i numerosi scritti sull’argomen- to pubblicati da Macrí in uno stretto giro di mesi. Già l’anno prima, in real- tà, era apparso su «Prospettive» un testo, Poesia perfetta, nel quale si chiedevano «urgenti chiarificazioni»1 su quei principi estetici che, stabilita la morte teorica della poesia pura, rifondavano la critica letteraria su nuove basi portando avanti l’idea che, caduta la separazione tra vero e reale, per usare le parole di Ramat, se ne svelasse un nesso non eludibile. Il discorso era stato ripreso pochi mesi dopo su «Letteratura», dalle cui pagine Macrí aveva espresso chiaramente la sua posi- zione con il saggio Fogli per i compagni, dichiarando impossibile, a quell’altez- za, il rifiuto di una «fenomenologia»2 a favore di una totale dissoluzione «nel re- gno dell’assenza»3 dal momento che si era fatto progressivamente più cogente, pena l’«angoscia»4 per la perdita della «passione»5, il bisogno di «prestit[i] dal

1 Oreste Macrí, Poesia perfetta, in «Prospettive», 15 ottobre 1940, 10, pp. 20-21. 2 «Dunque questi ideali compagni – posto che esistano o io li persegua nelle allegorie delle loro fisiche persone – sono violentemente immessi nella pienezza dell’essere e nel suo cuore per- cepiscono direttamente la verità, fatta rinunzia d’ogni fenomenologia così come di ogni ipostasi: in queste condizioni, per natura di cose, l’essere al limite del suo fenomeno diventa niente di reale e di discreto, e si risolve nel pallido riflesso della sua originaria entità: è luce, come moto, come pietà, come imitazione… quale, attributo, cioè presenza, quasi a dire: io sono alcunché di umano, prima senz’altro» (O. Macrí, Fogli per i compagni, poi in Ruggero Jacobbi, Oreste Macrí, Lettere 1941-1981, con un’appendice di testi inediti e rari, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 1993, p. 158). 3 «Nel regno di assenza è perciò identificata la poesia» (ibidem). 4 «Io pensavo: che cosa semplice e rara essere digià senz’altro e, senza nulla, determinarsi non per ritmo logico o per salto alogico (irrazionale, intuitivo…) ecc. ma per la stessa ingenuità della propria figura, di qualunque figura, anzi; né potevo esimermi da una fortissima angoscia per dire: ora si è ormai tra l’esemplare e l’infinita moltitudine che certo non mi ingannerà perché non c’è promessa, né prima né dopo, né questo né quest’altro luogo: è il profondo felicissimo aroma della terra ultima, della patria finale ove l’ordine non ha numeri né intermezzi, luce temperata dei contrari, bellezza con tutta la passione accolta dai punti rarissimi delle ore minime» (ibidem). 5 «Ma forse io erro e ho sacrilegamente nominato felicità e passione. In effetti gli ideali com- pagni non hanno dolore» (ibidem).

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 640 Francesca Bartolini visibile, dal fisiologico, dal cosmologico»6. La polemica era direttamente rivol- ta ai sodali ermetici, ormai dimentichi nel «golfo d’attesa metafisica»7, dell’«ora quotidiana»8, «del sangue»9, delle «pulsioni preadamitiche»10 degli «elementi primordiali»11. Il saggio aveva suscitato contrasti e la velata ma affettuosa accu- sa, mossagli da Fallacara, di «mancarci mettendoti al di fuori»12 dell’ermetismo, ignorando, invece, di esservi «dentro assolutamente con la […] specificata sof- ferenza e […] ricerca»13. In quei primi mesi del ’41 il dibattito era approdato anche sulle pagine di «Vedetta mediterranea»14, una «piccola rivista»15 di provincia della quale, in- sieme all’amico Bodini, Macrí aveva cominciato a dirigere la terza pagina por- tando in una Puglia «cattiva e rassegnata»16, «il rigore e l’ardore»17 di un «mon- do inatteso»18. Si trattava, a detta degli ermetici19 che continuavano, nonostan-

6 Ibidem. 7 Ibidem. 8 Ibidem. 9 Ibidem. 10 Ibidem. 11 Ibidem. 12 Ibidem. 13 «Permettimi di dirtelo, lì sei stato osservatore dal di fuori quando proprio tu sei uno di quelli più impegnati se non il più impegnato di tutti. Tu tenteresti, nel pieno di un lavoro co- minciato con te e per te, mancarci mettendoti al di fuori di esso, e non puoi: le parole più tue le hai dette anche qui cercando quel “cielo perfetto e assoluto” contro il quale vorresti erigere la persona che sei per amore non regolabile solo vivo in quella bellezza “con tutte la passione accolta nei punti verissimi delle ore minime”. E che tu sia dentro assolutamente con la tua specificata sofferenza e la tua ricerca, lo dimostrano ancora, se ce ne fosse bisogno il tuo saggio sulla poesia del nostro Parronchi e quello su Juan Ramón di Bo, le acutissime istanze nell’a priori memoriale, le domande che tu poni nei confini di noi stessi quel dubbio sulla contrazione nel sensibile che hanno le forze delle individuali spinte interiori. Noi ti siamo debitori di questa tua collaborazione al nostro destino carissimo Oreste tanto più sappiamo com’è costosa» (Lettera inedita di Luigi Fallacara a Oreste Macrí, 25 aprile [1941], ACGV, [O.M.1a.869.32]). 14 «Alla fine del ’40 Vittorio Bodini e io ci impadronimmo (è il verbo esatto) della terza pagina della «Vedetta mediterranea», organo della Federazione fascista leccese, territorio esclu- sivo della pagina, senza interferenze di alcun genere; come allora si soleva, a mo’ del “Bargello”, “Rivoluzione”, “Architrave”, ecc. Quindi invitammo gli amici, per primi i fiorentini, compreso Gatto che stava allora di casa a Settignano» (O. Macrí, Lettere ecc. di Alfonso-Gatto-Afò-Affò a Macrì-Oreste-Simeone, in O. Macrí, La vita della parola. Da Betocchi a Tentori, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2000, p. 420. 15 A. Dolfi,Mitologia e verità. Il barocco e la Spagna di Vittorio Bodini fra traduzioni e storia d’una amicizia, in A. Dolfi, Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Roma, Bulzoni, 2004. 16 Lettera inedita di Giacinto Spagnoletti a Oreste Macrí (Fondo Macrí, ACGV, [O.M.1a.2130.6]). 17 Lettera inedita di Ferruccio Ulivi a Oreste Macrí (Fondo Macrí, ACGV, [O.M.1.2246.6]). 18 Ibidem. 19 «Su “Vedetta mediterranea”, settimanale della Federazione dei Fasci di combattimento in Terra d’Otranto, direttore Ernesto Alvino, Macrí e Bodini convogliarono gli ultimi sussul- ti dell’ermetismo fiorentino, favorendola collaborazione, al periodico, di Pratolini, Bigongiari, IL PROBLEMA DELLA FORMA E IL SEGNO INCOMUNICANTE 641 te la diaspora, a intessere assidui rapporti epistolari con i due amici leccesi, del- la «tarda figliatura»20 del «Bargello» ma solo per la libertà, non limitata da alcu- na «interferenz[a]» della quale godeva in ambito di scelte letterarie, visto che in- contestabile era l’autonomia dello stile, «più mosso e semplificato»21, nientaffat- to epigonico, nonché l’eccezionalità delle «due colonne periodiche di Letture»22 che la rivista di Pavolini «raramente [si] sognò»23. Una rubrica curata da Macrí fin dall’esordio della sua esperienza leccese, quel 23 marzo del ’41, quando era apparso su «Vedetta» anche lo scritto di Bodini, Compianto di Joyce. Ora, già da quel primo intervento su Broggini, Fontana e Rebora, Macrí aveva denunciato la crisi dello «schema idealistico di indagine critica»24 ponendo «tra sentimento e puro emblema una regione mediana nel valore di “presente”»25, simboleggiata,

Fallacara, Ulivi, Fortini, Jacobbi, Petrocchi, Sinisgalli, del milanese Sereni, di Gatto, Pound (Im- pedimenti alla critica – scritto di teoria della letteratura – I, 9, aprile 1941), Nicola Lisi e dei nostri Comi, Spagnoletti, Luigi Panarese. Questa volta il fenomeno ermetico nasceva da quelle «esigenze reali» (Valli) che mancarono ai novatori di “Vecchio e Nuovo”. L’ermetismo si rifugiava nel Salento grazie anche alle vicende amicali che unirono Macrí ai sodali fiorentini della terza generazione, già militante su “Solaria”, “Letteratura”, “Frontespizio”, “Campo di Marte”» (Gino Pisanò, Da «Fede» a «Vedetta»: cultura e ideologia nella stampa periodica salentina del ventennio fascista, www.emerotecadigitalesalentina.it, p. 48). 20 «E auguri per il “Bargello” leccese, per il quale ho solo questi appunti, come una dimo- strazione di buona volontà. Ma ti scriverò presto e a lungo» (Lettera di Vasco Pratolini a Oreste Macrí, 10 marzo 1941, pubblicata in O. Macrí, Pratolini, romanziere di “una storia italiana”, Firenze, Le lettere, 1993, p. 110. «Carissimo Oreste, “Vedetta” (la terza pagna di “Vedetta”) va bene, arriva come una tarda figliatura della terza bargellistica di buona memoria, ma cammina da sé e, onestamente, le due colonne periodiche delle Letture il “Bargello” raramente se le sognò» (Lettera di Vasco Pratolini a Oreste Macrí, 22 aprile 1941, ivi, p. 112). 21 Lettera di Giacinto Spagnoletti a Oreste Macrí (Fondo Macrí, ACGV, [O.M.1a.2130.7]). 22 Lettera di Vasco Pratolini a Oreste Macrí, 22 aprile 1941 (in O. Macrí, Pratolini, roman- ziere di una storia italiana cit., p. 112). 23 Ibidem. 24 «Giustamente offerto Broggini quale esemplare figurativo d’una “storia superata dai propri emblemi”, è facile rilevare come essa storia anche per la nuova critica artistica si avvii ad identifi- carsi con la nozione del tempo. Ma ci siamo domandati se ancora sia valido lo schema idealistico di indagine critica, quando in Gatto e in Broggini abbiamo scoperto un’idea di superamento da essa storia in uno spazio di “inquietudine” e di “sentimento” non ulteriormente specificati. Si assumerebbe tra sentimento e puro emblema una regione mediana nel valore di “presente” ove si determinerebbero tutte le soluzioni della natura naturale e della natura storica. Nostalgia, gusto, cultura, resterebbero contratti e aboliti alle origini di una memoria di natura probabilmente pla- tonica se è affermata “più forte delle tradizioni”. Si deduce facilmente per Broggini un nuovo va- lore plastico mentale della figura-ritratto tanto disimpegnato dall’umore dell’impressione quanto dall’allusione violenta e parziale dell’espressione: la sua arte presto si configura in aria perfetta di forme libere e assolute appena che la tensione concentrata per addensamento di materia psico- logica sui volti di certi ritratti (Bambino malato, 1928; Ritratto di poeta, 1929; Ritratto di vecchi, 1930) o dissolta nell’estensione di gesti drammatici e eterni d’intenzione espressiva, si fa umana grazia assorta nella levità immemoriale del proprio esistere» (O. Macrí, Letture (I), in «Vedetta mediterranea», 23 marzo 1941, poi in O. Macrí, Scritti d’arte. Dalla materia alla poesia, a cura di Laura Dolfi, con uno studio di Donato Valli, Roma, Bulzoni, 2002, pp. 201-202). 25 Ibidem. 642 Francesca Bartolini nel caso particolare, dalle figure-ritratti dello scultore lombardo, tanto lontane «dall’umore dell’impressione»26 quanto capaci di restituire l’indagine psicologica del soggetto. Appena tre settimane dopo, tornando sulla propria posizione di ta- glio, nell'analisi critica del testo di Carlo Bo sulla poesia di Juan Ramón, Macrí aveva insistito sulle tracce del sensibile»27, «ossessione del reale»28 ogni volta ri- affiorante, impigliate in un intelletto «assorbito senza rimedio nella stessa co- scienza della fatale necessità di rimettersi all’altro, al non essere»29, contratte30, eppure non eliminate, «dalle forze delle individuali spinte interiori»31. Il pro- blema veniva similarmente riproposto anche nella lettura dedicata a Un’illusione platonica e altri saggi di Luzi, dove Macrí sarebbe tornato ad indagare lo sforzo «necessario e violento»32 compiuto nella «creazione dell’anima oltre la propria figura»33, e il continuo rovello della forma nelle sue declinazioni e significati di un «antico contrasto d’elezione»34 quale si definiva quello tra «essenza e occa- sioni vissute»35. Nel maggio 1941 usciva Condizione della forma, contempora- neamente alla recensione al testo luziano. Macrí poneva la questione come un nodo critico, problematico, riaffermando la necessità della ricerca di un punto «mediano tra l’alta eloquenza della gioia e della fede e il linguaggio squallido e asciutto della quotidiana tristizia»36, unica soluzione possibile al rischio di per- dere la capacità di cogliere l’«istante espressivo che solo in sé contrae il cosmo e l’eterno»37, l’accordo armonico tra figura e trascendente. Unicamente una de- terminazione categoriale reciproca, concludeva Macrí, poteva sostanziare la po- esia, permettendo di definirne la forma nel porla di fronte «al suo stesso enor- me residuo di insignificato»38. Rifondare un dialogo tra fenomenico e assoluto

26 Ibidem. 27 «E noi domandavamo le tracce del sensibile, del corpo, il tono la voce specifica e singo- larissima della sua avventura verso per verso, parola per parola; domandavamo la sua ora, la sua città, la sua donna nell’umore dei suoi cerchi plastici; quanto tutto questo già morisse al suo colore per dirla coi termini di Alfonso Gatto» (O. Macrí, Letture (VI), in «Vedetta Mediterranea», XIX, 2 giugno 1941, p. 3). 28 Ivi, p. 159. 29 Ibidem. 30 Il termine è presente sia in Letture (VI) «[…] ma l’intelletto è restato assorbito nel sensi- bile, assorbito senza rimedio nella stessa coscienza della fatale necessità di rimettersi all’altro, al non essere, nel centro della sua luce che in loro ha fatto vibrare il cuore dei singoli, e ha funestato il puro amore dell’invisibile. Il mito della poesia pura è ancora per noi l’ultima contrazione del sensibile, il mesto amore dei colori, la più semplice protesta prorpio contro l’Orfeo che Bo ha stupendamente esemplato». 31 Lettera inedita di Fallacara a Oreste Macrì, 25 aprile 1941 ([O.M.1a.869.32]). 32 Ibidem. 33 Ibidem. 34 O. Macrí, Letture (V), in «Vedetta mediterranea», 26 maggio 1941, p. 3. 35 Ibidem. 36 O. Macrí, Condizione della forma, «Prospettive», 16-17, 1941, p. 2. 37 Ibidem. 38 Ivi, p. 2. IL PROBLEMA DELLA FORMA E IL SEGNO INCOMUNICANTE 643 implicava il ristabilimento di un ruolo essenziale all’uomo39 («una necessità lar- ga di umanesimo»40, l’avrebbe definita Jacobbi in una lettera all’amico leccese) da intendersi come individuo fisico, come corpo, tentandone i limiti, pur senza dimenticarli, dimostrando un’adesione ad un reale nel quale l’urgenza dei feno- meni, con il perdurare della guerra, si faceva sempre più sentire. Da parte sua Bodini, stretto collaboratore di Macrí nell’avventura leccese, non poteva certo non fare i conti con un dibattito che implicava una profonda rilettura, ab intra, dei principi stessi del fare poesia. E se manca un saggio cri- tico a chiarire la sua posizione, un’attenta lettura delle liriche e delle prose che proprio «Vedetta mediterranea» ospitava risulta in tal senso estremamente chia- rificatoria. Si prenda, ad esempio A B. G., pubblicata nel marzo del 1941: un testo incentrato sul transito di una evanescente figura femminile, di stampo pe- trarchesco-mallarmeiano, tipicamente ermetica41 e perfettamente armonizzata in un paesaggio eufonico portato ai massimi livelli di astrazione:

A B. G. Sul poggio che cantava dei tuoi passi corteggiato dal vento sulla fresca tastiera dei paesi tu sei fatta figura per te stessa e un palpito d’avorio ti consola delle recise favole che infili nella tua chioma pura e silenziosa.

Ad incontrarti scivoli la sera sull’ultimo bagliore dei giacinti: ti siederà vicino,

39 «Caro Macrí, l’altro ieri, aspettando nel giardino di una pensione a Porto d’Anzio che una donna poco myriamesca finisse di vestirsi, mi sono letto coscienziosamente i tuoi Fogli per i compagni e la nota a Parronchi; vi vedevo perseguita una tua personale battaglia (e dun- que, più di una prolungata e sempre ripresa ectesi che una polemica) che tu vieni facendo, a chiarimento di te e dei nostri anni, dalle ragioni non formali o meglio da Teoria del ragguaglio letterario; o da sempre, ma ora assai esplicitamente e totalmente ad personas. Mi sembra d’aver capito da tempo (di parteciparvi anche senza gran peso di argomenti per potervi contribuire) la forza di questa direzione tutta insistita su ragioni “finalmente” o “ancora” mutuate dalla no- stra figura; questa necessità larga di umanesimo, inteso nel senso di un margine ampio di non sufficienza e inevitabilità! Concesso a un corpo, e cioè alla prima giustificazione delle matrici; raison du coeur, pascaliane? O non meglio ragioni naturali?» (R. Jacobbi-O. Macrí, Lettere 1941-1981 cit., p. 21). 40 Ibidem. 41 Interessante notare come la versione pubblicata su «Vedetta mediterraea» non coincida con quella ritrovata tra le carte dell’autore e scelta da Macrí, poi, per la sua edizione dell’intera opera poetica di Bodini. Nel componimento, infatti, l’equilibrio metrico della prima strofa è maggiore, con il senario in terza posizione che spezza la serie degli endecasillabi, ma manca com- pletamente il gioco delle antitesi foniche e lessicali e dei rimandi, sebbene si conservi il simbolo circolare della corona di fiori. 644 Francesca Bartolini

ad invidiarti la forma di ghirlande che ai fiori d’aria le tue dita accordano.

La disseminazione della fricativa («fresca», «favole», «infili», anche nella va- riante sonora «vento») realizzata a raggiera a partire dall’allitterazione del quar- to verso e riprodotta anche nella seconda strofa, contribuisce non solo a indivi- duare, attraverso la generazione di un legame sonoro, i due termini chiave («for- ma» e «figura») ma anche a sottolinearne la forte densità semica. D’altra parte, la collocazione stessa nel discorso concorre a isolare i due lessemi visto che la pa- rola «figura» è posta in posizione centrale nella strofa eptastica, esattamente al quarto verso, ma anche nell’endecasillabo, preceduta e seguita da tre vocaboli e sede dell’accento secondario in sesta posizione. Specularmente «forma» si trova al centro del verso sebbene in posizione più periferica nella strofa che, comples- sivamente, manifesta comunque un certo equilibrio strutturale, data dalla pre- senza del settenario che interrompe, dividendola esattamente a metà, la succes- sione dei versi. La poesia dunque insiste sullo stesso tema, centrale, in quel giro di mesi, nella riflessione critica di Macrí, dimostrando un allineamento tra i due amici quantomeno sull’indirizzo della loro ricerca. D’altro canto anche il siste- ma di opposizioni che connatura tutto il testo richiama quell’antinomia dialet- tica tra l’esistente e il non essere di cui Macrí aveva sottolineato l’importanza fin da Poesia perfetta. La diseguaglianza delle due strofe, ad esempio, una di sette, una di cinque versi, manifesta un’irregolarità che è solo apparente, dal momen- to che l’equilibrio armonico dei rimandi è tutt’altro che casuale e la geometria interna al testo, in contrasto con la vaghezza del dettato, rigorosissima. Anche l’accostamento dell’elemento musicale, legato al paesaggio (il poggio «cantava dei tuoi passi», il vento scende «sulla fresca tastiera di paesi»), accentuato dallo sviluppo sintattico fluido, continuativo (pensiamo all’enjambement tra secondo e terzo verso) e da un periodare esclusivamente parattattico, ritmato per lo più da assonanze, contrasta con l’assenza di suono della figura umana («pura e si- lenziosa»). Interessante notare come al canto del primo verso corrisponda il si- lenzio evocato a chiusura della prima strofa in una perfetta circolarità struttu- rale reduplicata, ad anelli concentrici, dall’allusione, nell’ultimo endecasillabo del componimento, all’elemento fonico, l’accordo delle dita ai «fiori d’aria», in relazione con il canto del primo verso. A conferma di una chiusura armonica del cerchio, le «ghirlande» simbolo centrico di dialettica e fusione degli opposti. Il testo, «conformato in superficie (ma non superficialmente»42) al linguag- gio ermetico, sembra esprimere però una posizione decisamente conservativa ri- spetto a quanto emerso negli scritti di Macrí come dimostra il mantenimento del massimo livello di rarefazione e evanescenza, accentuato, in simbolico con- trasto, da una figura che, in un contesto fortemente luministico e sonoro, emer-

42 O. Macrí, Introduzione a V. Bodini, Tutte le poesie, Lecce, Besa Editrice, 2004, p. 25. IL PROBLEMA DELLA FORMA E IL SEGNO INCOMUNICANTE 645 ge come elemento dissonante e isolato proprio per la sua immobilità. È solo leg- gendo A un esiguo soccorso di violette, pubblicata su «Vedetta mediterranea» ap- pena due mesi dopo, che si comprende quanto, in realtà, le idee di Bodini non fossero così distanti da quelle dell’amico leccese:

A un esiguo soccorso di violette confido la tua immagine che sia recuperata, e mi resista un poco il discorso di cui sempre m’accorgo sul punto che m’elude. Tu sapessi com’io son perduto: piangeresti non più di te, con l’urlo che durava in mezzo ai tetti, nuvola di pena, operata dal vento e da una nuda misura di grondaie) o forse anche di te, per questa scarsa morte che mi rifiuta al desiderio, e un’immagine basta.

La poesia apre alla possibilità che «l’urlo» possa nascere dalla percezione non solo della propria sofferenza ma anche del dolore e dello smarrimento di un io lirico che si è scoperto perduto: evoluzione radicale rispetto all’esplicita, serena indifferenza della figura di A B. G., risultato di una progressiva apertura all’e- sterno (concretizzata nell’immagine dei tetti, della nuvola, della grondaia, ai vv. 8-10) e quindi di un effettivo presentimento del reale, con tutto il suo carico d’angoscia. D’altro canto sebbene la struttura del testo appaia indubbiamente più libera rispetto alla lirica precedente, la ripetizione della parola «immagine» al secondo e all’ultimo verso chiude la poesia in una definita circolarità struttu- rale, che la secchezza del settenario conclusivo sottolinea soprattutto perché in contrasto con la complessità del secondo verso, dalla costruzione volutamente ambigua e complicata dalla forte inarcatura. Le due poesie costituiscono quin- di una sorta di dittico nel quale si riflette il passaggio ideologico individuato e predicato da Macrí. Nè stupisce, di fatto, la presenza della figura geometrica del cerchio, riflesso, in questo caso, sulla struttura che concilia e annulla in sé gli opposti, divenendo simbolo, condiviso tra i testi ermetici di questo periodo, di una «speranza centrica»43 di equilibrio. A ben guardare il segno circolare sembra essere a quest’altezza una costante del- la poesia di Bodini. In effetti, basta sfogliare le liriche pubblicate su «Letteratura» nella primavera del 1940 per trovarvi linee curviformi, movimenti rotatori, cer- chi ed ellissi variamente declinati: pensiamo al «cerchio di ricordi»44 di Solitudini

43 S. Ramat, L’ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 350. 44 V. Bodini, Solitudini a San Miniato, in Tutte le poesie cit., p. 213. 646 Francesca Bartolini a San Miniato, che chiude l’io poetico riportandolo ad un’«origine dove non c’è più speranza»45 o al «giro arguto di tre sillabe»46 in Giardini d’Azeglio, o ancora all’ondulatorio susseguirsi di immagini di salita e di caduta in Una foglia47. La circonferenza, o una sua parcellizzazione48, costuituiscono traiettorie sulle quale muoversi, tra rassicuranti «avvolgimenti»49, persuasi dalla dolcezza del ricordo50, turbati da un dolore continuo, ricorrente e ormai abituale51 o confortati dall’im- possibilità del sogno52. Il cerchio dunque chiude53 in un rassicurante isolamen- to, lega alla memoria di ciò che è trascorso (sebbene con la consapevolezza del suo essere perduto)54. Si tratta di un conforto pagato al prezzo di un’immobilità solo apparentemente scongiurata dalla rotazione: un’incapacità di progresso che è anche impossibilità di agire condotta fino alla sua estremizzazione. Così, come nota Anna Dolfi, in Largo dei Teatini55, prosa pubblicata anch’essa su «Vedetta

45 Ibidem. 46 V. Bodini, Giardini D’Azeglio, ivi, p. 212. 47 «Tramontavano in un balbettio di porpora / dentro le foglie estreme / del platano; / nel cielo in cui salivano / le case, ad occidente, accompagnandosi. / Come il giorno calava ingenua- mente / nella memoria; incontro / all’avido silenzio dei propositi» (V. Bodini, Una foglia, in Tutte le poesie cit., p. 211). 48 Mi riferisco all’abbraccio di Annotazione prima di dormire, testo del 1939 (ivi, p. 211). 49 «Pigri errori di nebbie e avvolgimenti / mi chiudono in un’orbita che ambigui / fanali e muti gattici rischiarano: inopportuna e dolce» (V. Bodini, Giardini D’Azeglio, ivi, p. 212). 50 «Ritorni ad un’origine / dove non c’è speranza / di me; dove convinto ad un cerchio di ricordi. tra levati / cipressi e una distanza / bianca di case, / non redimo il moto / nella pallida mano, che t’arresti» (V. Bodini, Solitudini a San Miniato, ivi, p. 213). 51 «Ritorna alla gola il dolore / dell’ombra che m’abita, / con avvertenze d’abituali riti / consumati ad amari / idoli che corruscano nel buio / di morte età per sempre» (V. Bodini, Con- vergenze, ivi, p. 146). 52 «Alla fine per non inquietare mia madre che già accortasi della mia irrequietezza mi spiava di sfuggita quando le andavo intorno, venni a chiudermi nella mia camera a continuare la lettura d’uno stupido romanzo dove le donne si corrompono e gli uomini falliscono doltanto in forza di circostanze esteriori finché un bel giorno il vento muta direzione e ci si sveglia in un nitido globo di cristallo che, per l’infinito cielo, va incidendo solchi di luce e di meravigliosa armonia» (V. Bodini, La coscienza di Antina, in La lobbia di Masoliver e altri racconti, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1980, p. 26). 53 «Pigri errori di nebbie e avvolgimenti / mi chiudono in un’orbita che ambigui gattici rischiarano» (V. Bodini, Giardini D’Azeglio, ivi, p. 212). 54 V. Bodini, Solitudini a San Miniato, ivi, p. 213. 55 «Sono solo, ma per l’intenzione del gioco non ci bado: il paleo si muove con un ronzio d’ape, secondo arco d’un cerchio che forse solo ora mi rappresento a mente; io per la stanza seguo quel moto duplice e multicolore. (Dei mobili non rammento neanche se ci sono; piuttosto, con- tro ogni attendibilità, la stanza mi pare nuda: il paleo si muove liberamente, senza altro ostacolo che le pareti; se vi fossero dei mobili parteciperebbero, come resistenza, alla dialettica del mio gioco, ed io me ne ricorderei). Ora che il paleo rallenta i giri, se ne possono discernere i colori disposti a spicchi, gialli, rossi verdi e turchini, ma troppo netti e duri. Addio esatte curve; incli- nato su un fianco, sbanda, si trascina penosamente come un pavone ferito, a tratti impennandosi in accelerazioni convulse, da cui ritorna più stremato. Allora gira la maniglia della porta con un rumore secco, e solo in quel punto avverto che ero solo: entrano mia madre e una sua sorella più giovane. Gli abiti neri che indossano, e dev’essere insolito, mi fanno dimenticare del paleo IL PROBLEMA DELLA FORMA E IL SEGNO INCOMUNICANTE 647 mediterranea» nel maggio del 1941, il movimento rotario del paleo viene acco- stato allo spegnersi della vita, o ne Il balletto delle fanciulle del sud dove, e sono ancora parole della Dolfi, «la fermata si identifica con la caduta, con la dispe- razione/sorriso della madre, con il lamento del padre, col disonore, l’adegua- mento al codice matrimoniale e la morte»56. La conciliazione dunque permette «un combinato travaglio di tutti i tempi nella grammatica interiore»57 che ren- de possibile la sopportazione del dolore58, dei limiti del tempo storico non per- so ma completato dall’assoluto ad esso opposto che lo invera. Non è previsto, però, nessuno sconto di sofferenza: il dolore può essere solo scarnificato fino a farne simbolo, raggelante nella sua crudezza, e universale. L’avvertenza della tentazione mortifera è quindi un dubbio qualitativo pre- sente che spingerà poi la poesia di Bodini ad evolvere verso forme poetiche di- verse da quelle del gruppo ma che a quest’altezza non ha ancora corroso le con- dizioni e motivazioni dell’appartenenza. Anzi, è evidente ancora una consonan- za dall’analisi che Bodini compie nel primo testo pubblicato su «Vedetta me- diterranea», Compianto di Joyce59, sui testi dello scrittore dublinese, laddove la vanificazione delle categorie ottocentesche del romanzo è da considerarsi in re- lazione con la conciliazione degli opposti compiuta dalla poesia ermetica per- ché comune si rivelava essere la fede «in una figura sensibilissima il cui centro è sfuggevole e può risiedere dovunque»60, persino «in regioni le quali sono perife- rie a se stesse, dove tace ogni schema di anima e corpo, di vita e di morte-con- versione, di essere e di non essere»61. Ora, ammettendo la possibilità che Bodini avesse individuato per la terza generazione un ruolo similare nell’ambito della

e sviano l’attenzione dai volti; finché, avvicinatesi, mia madre mi solleva e mi spinge contro di sé. Dalle sue spalle assisto indifferente all’ultima convulsione del paleo, che si ferma» (V. Bodini, Restauri, in «Incontro», 13 ottobre 1940, poi Largo dei Teatini, in «Vedetta mediterranea», 5 maggio 1941). 56 Anna Dolfi, Autobiografia e racconto: storia di una scrittura negata, o in Le terre di Carlo V. Studi su Bodini, Galatina, Congedo, 1984, pp. 425-456 (poi in A. Dolfi, Terza generazione. Ermetismo e oltre, Roma, Bulzoni, 1997, p. 119, da cui si cita). 57 V. Bodini, Compianto di Joyce, in «Vedetta mediterranea», 23 marzo 1941, p. 3. 58 «Poi venne Dedalus a dotarci di un tempo nel quale potessimo intendere la immobilità dei racconti dublinesi consumata oltre il tempo, o piuttosto ad avvertirci che questa immobilità era ottenuta precisamente per un combinato travaglio di tutti i tempi nella grammatica interiore. Per di più, ci disponeva ad approfondire la condizione dublinese ben oltre la coincidenza peribile di residenze (come avrebbe potuto apparirci nella indistinzione dell’iniziale stupore), e precisamente in una passione cristiana della polis cupamente sofferta come comunanza indissolubile d’un pec- cato geloso d’un tentativo di particolare salvezza. Nella disperata fissità di questo sfondo corale in cui la popolazione dei racconti si ridurrebbe, se attraverso una contemplazione a libro chiuso durassimo fino a veder cadere le spoglie delle specificazioni, in questa galleria di statue contorte e sanguinanti deve intendersi la polemica di Stephen (ma è vero che l’orizzonte di Dublino – come la neve nel racconto dei morti – si è allargato a tutta l’Irlanda)» (ibidem). 59 Ibidem. 60 Ibidem. 61 Ibidem. 648 Francesca Bartolini poesia a quello esercitato da Joyce per il romanzo ne consegue anche il ricono- scimento di una eguale portata «rivoluzionari[a]»62 che nasceva non da un ca- priccio eminentemente stilistico ma dal profondo «sconvolgimento intervenu- to nella coscienza moderna»63. L’antinomia dunque si poneva ancora non solo come artificio formale ma piuttosto come un’esigenza interpretativa di un re- ale altrimenti incomprensibile, presente ma semplificato fino alle forme essen- ziali, «scontat[o] in masse volumetriche in funzione di un contrappunto al fuo- co del linguaggio interiore»64. La questione si articola quindi sul piano verbale e figurativo, perché la percezione e l’espressione del reale passava attraverso nu- meri e forme; d’altro canto è evidente che dopo il ’41 la fiducia nella possibili- tà del poeta di comprenderlo e esprimerlo compiutamente si sarebbe fatta sem- pre più labile65. La presenza, anche nei testi scartati del primo periodo leccese, di simboli circolari (come «il grande circo preparato / al transito del nume senza peso»66

62 Ibidem. 63 Ibidem. 64 «Sempre opportunamente si parlerà dunque di Maupassant per Joyce, ma non più che nella misura di cui parlano gli antichi di Omero e di Virgilio, e non d’un Virgilio omerico, anche ammettendo l’oggettivismo di qualche racconto, come Una madre, come Il giorno dell’edera, ma solamente come punto di partenza per quella graduata rivoluzione la quale d’altra parte, attraverso I due galanti (ancora troppo staccato, ma in sé perfetto), Cenere, Arabia, Un increscioso incidente (e quest’ordine potrebbe essere inesatto, e una più accurata gradazione dovrebbe tenere di conto degli altri passaggi), culmina nell’ultimo racconto, I morti, dove tutti gli oggetti sono scontati in masse volumetriche in funzione di un contrappunto al fuoco del linguaggio interiore che ne accende sin da principio le pagine qua e là nelle fasi principali: il torbido e amaro dialogo con Lily, l’irredentismo della Ivors, il motivo del parco sotto la neve, e infine in una meravigliosa liberazione poetica nell’ultima parte, dall’atteggiamento di Gretta sulla scala (Musica lontana) alla fine: “Sì, i giornali avevano ragione: la neve era generale su tutta l’Irlanda. Cadeva in ogni luogo: sulla buia pianura centrale, sulle colline senz’alberi, dolcemente sulla palude di Allen…sulle onde fosche e turbolenti dello Shannon… sul cimitero solitario sul poggio, dove giaceva sottoterra Michail Furey… su tutto l’universo… su tutti i vivi, su tutti i morti”» (ibidem). 65 «Giacché la cultura ermetico-umanistica si stupisce e si entusiasma nel trovare nel povero corpo sociale, disancorato dalla trascendenza, gli stessi elementi verbali e figurativi che ha scoper- to in astratto: male, efebismo, psicologismo, demonicità, ossessione, disperazione, tutto e nulla, serie completa dei complessi, magia e dissacrazione. È un luogo comune che la pittura moderna ha prefigurato tutti gli orrori delle prigioni, dei campi di concentramento, delle torture, delle esecuzioni capitali. Ci sono stati il cubismo, l’espressionismo, il dadaismo, il surrealismo, l’erme- tismo. Ciascun movimento ha anticipato parole e immagini con una precisione matematica, os- sessiva fino al minimo particolare. Nulla è rimasto d’intentato nell’avventura letteraria e artistica della scoperta del mondo tremendo in cui ora viviamo; questo mondo tremendo sembra dedotto analiticamente da quella letteratura, da quell’arte. Dunque, allora, che cosa faremo, Vittorio Gassman, noi letterati, noi artisti, in un mondo di cui sappiamo interamente numero e figura? Numero e figura, non li sentiamo venire alla gola come la Blanche espèce nella casa di Madame Reale? Che cosa significa convertire umanesimo e ermetismo in cultura di sinistra? Vergare forse una bella dedica sull’abisso, su un roseo e sterile epitelio, proseguire imperterriti nel disperato gioco delle dissonanze tra questo e l’altro mondo, finto di suprema realtà?» (O. Macrí, De con- versione seu inversione ermethismi, in «La critica cinematografica», I, 10 dicembre 1946, 5, p. 5). 66 V. Bodini, Febbre a novembre, in Tutte le poesie cit., p. 217. IL PROBLEMA DELLA FORMA E IL SEGNO INCOMUNICANTE 649 di Febbre a novembre o «gli anelli» e «i girasoli»67 di Pioggia minore) conferma il perdurare di sollecitazioni ermetiche anche lontano dal contesto; ma com- paiono, sebbene limitati di fatto a due poesie, Il gatto eunuco e Viaggio per al- tri inverni, avvolgimenti spiraliformi (sono i volteggi dei gabbiani, gomitoli di corde, chiocciole) che ritroveremo anche nella produzione successiva. Si tratta del sincretismo, palesato ancora nell’ambito dell’inconscio e dell’inesploso68, tra due opposti modi di essere, fino a quel momento incomunicanti, ma esi- stenti nella storia di Bodini: il Rinascimento e il Barocco, Firenze e Lecce, la Toscana e il Sud69 nel quale il poeta aveva fatto ritorno appena l’anno prima. D’altra parte è evidente che il discorso, se visto in prospettiva diacronica, è ne- cessariamente più ampio dal momento che una regola organizzativa di natura geometrica è presente anche ne La luna dei Borboni sebbene diversificata nelle fondamenta rispetto al periodo poetico precedente perché non si crede più nel- la possibilità di attuazione di un sistema di influenza platonica (non discorreva infatti del Timeo, insieme all’amico Macrí, andando a trovare Aleixandre?)70, in cui numeri e forme possano dare ordine al reale. Nella prima raccolta poeti- ca non solo il cerchio, con la sua declinazione simbolica, da «misurazione uni- versale compiuta dall’uomo»71, mutuata in ambito ermetico72 perde unicità e centralità, ma, più in generale, tutti i simboli geometrico-matematici73, pre- senti nella realtà sensibile, si manifestano come tracce dell’intenzione algebri- ca di un demiurgo74, ma scompaginate dall’armonico ordine originario e rima- ste attaccate alla forma esteriore di un universo divenuto incomprensibile per- ché costretto alla sua evidenza75. Il passaggio ad una lettura aristotelico-pitago- rica del reale (come già aveva notato Macrí)76 può essere addotto dall’allonta- namento biografico da Firenze, da intendersi anche metaforicamente come di-

67 Ivi, p. 218. 68 Ibidem. 69 O. Macrí, Introduzione a V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 28. 70 V. Bodini, Plaza de Canalejas, ivi, p. 189. 71 S. Ramat, L’ermetismo cit., p. 350. 72 Come conferma l’intenzione dello stesso Bodini, di chiamare, in un ancora vagheggiato libro di poesia, Carte chiuse o Labirinto le liriche fiorentine 73 «Tu non conosci il sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado» (V. Bodini, Foglie di tabacco, in Tutte le poesie cit., p. 93). 74 «E allora che preso ebbe Iddio a comporre l’universo, fuoco e acqua e terra e aria, che aveano pure certi vestigi di loro forme, giacevan cosí proprio come convien giacere a ogni cosa dalla quale Iddio sia lontano: e cosí stando essi naturalmente, da prima Iddio affigurolle di forme e di numeri; e che le compose in modo bellissimo e bonissimo il piú ch’egli potesse, doveché eran scomposte, ciò universalmente si dica pure da noi ogni volta. Ora mostrerò a voi con ragiona- mento inusato l’ordinamento e generazione di ciascuna di queste specie; e certo voi, non nuovi delle vie della scienza per le quali necessità è andare per veder chiaro le dette cose, mi seguirete» (Platone, Timeo, cap. XIX). 75 V. Bodini, Foglie di tabacco, in Tutte le poesie cit., p. 93. 76 Ivi, p. 35. 650 Francesca Bartolini stanza da ciò che la città rappresenta, e immersione in un paesaggio assurdo, irrazionale, non riconducibile ad una rigida geometria né ad una formula al- gebrica77 come lascia emergere Bodini in un testo dal nome allusivo, Pitagora è uno delle nostre parti, pubblicato nel ’52 su «La fiera letteraria». Affrontare una vita «tutta computabile sulla tavola pitagorica»78, in un continuo rapporto tra astorico e temporale, tra il cielo, con la sua gravezza, e la terra79, non pote- va che condizionare, a suo dire, l’esistenza, e quindi la ratio dell’uomo del Sud fino a diventarne categoria esegetica. L’autocitazione alla lirica d’esordio de La luna dei Borboni («Tu non conosci il sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado») si palesa come diretta dimostra- zione di quanto il Meridione possedesse per Bodini un’organizzazione spazia- le autenticamente personale, basata su funzioni matematiche impossibili, nel- la quale parole e simboli finivano per strutturarsi in vuoti involucri che aspet- tavano di essere nuovamente vivificati80. D’altronde noto è il valore di rivolta81 che avrebbe acquisito il Barocco, identificativo della sua terra, visto soprattut- to a confronto con l’allineamento, la conformità del cerchio, simbolo fioren- tino e rinascimentale. È quindi evidente che nel periodo che va dall’esperien- za di «Vedetta mediterranea» alla pubblicazione della Luna dei Borboni prende forma un processo di trasformazione esegetica che parte da una rinnovata con- dizione delle categorie conoscitive alla loro definitiva crisi e nel quale, quindi, matura il passaggio graduale ad una nuova stagione poetica. Le liriche scritte da Bodini tra il ’42 e il ’47, anni frementi di altri lavori let- terari82, condivisi con Macrí, e di nuove esperienze (la Spagna, vissuta e non solo vagheggiata) sono poche: appena otto83 pubblicate e un gruppo di testi inediti

77 «Ecco dunque l’assurdo del paesaggio pugliese: di fronte alla disperata piattezza della sua pianura, un altissimo cielo ne termina di schiacciare la bassa statura della vegetazione e delle case. Ci troviamo a uno scambio di parti: il non essere è rappresentato proprio da ciò che avrebbe dovuto essere il racconto. Il cielo, con la sua fisica petulanza, postula il ruolo del protagonista. In altri termini, un paesaggio è solitamente uguale a x-1. Il sottraendo è costituito dal cielo, ciò che rimane è la scena su di esso dipinta. Ora da noi la sottrazione è capovolta: 1-x, cielo meno figure» (V. Bodini, Pitagora è uno delle nostre parti, in Barocco del sud, Besa, Lecce, 2003, p. 109). 78 Ivi, p. 110. 79 «Terra e cielo, i due antagonisti del paesaggio – si pongono rispettivamente come il tem- porale e l’astorico» (V. Bodini, Pitagora è uno delle nostre parti cit., p. 109). 80 «Sulle pianure del sud non passa un sogno. / Sostantivi e le capre senza musica, / con un segno di croce sulla schiena, / o un cerchio, / quivi accampati aspettano un’altra vita» (V. Bodini, Foglie di tabacco, in Tutte le poesie cit., p. 93). 81 «Per me il barocco è rivolta» (Lettera di V. Bodini a Oreste Macrí, 18 giugno 1946, ivi, p. 32). 82 Si rimanda per questo al saggio di A. Dolfi Autobiografia e racconto: storia di una scrittura negata, in Le terre di Carlo V. Studi su Bodini cit., pp. 425-456 (poi in A. Dolfi, Terza generazione. Ermetismo e oltre, Roma, Bulzoni, 1997). 83 Angeli rossi, in «Domenica», 5 agosto 1945; Inferno, Allo specchio ove rideva, in «Poesia», III, IV, gennaio 1946; Due poesie (Notte meridionale e Tanti anni), in «La Fiera letteraria», 13 giugno 1946 e Tre notizie dal Sud (Tu non conosci il Sud, Quando tornai, Appena la conchiglia), in IL PROBLEMA DELLA FORMA E IL SEGNO INCOMUNICANTE 651 che Bodini ritiene talmente poco definiti84 da volerli tenere segreti all’amico lec- cese «quanto più a lungo […] possibile»85. Opposizione («contro di te nelle si- nistre gole / urlava il mio sangue cristiano» avrebbe scritto in Inferno), conflit- to («contro scogli d’assenza urtò la chiglia / il riso dell’amata e fu sommerso», in Allo specchio ove rideva), violenza («il tuo nome nell’ombra si mette a gridare, / pieno di denti, e morde nella gola / il palmizio e la chiesa del Rosario», in Appena la conchiglia lunare); orrore, sgomento, turbamento in un sud terribile per la sua evidenza, muto, mortifero. Mentre Bodini denuncia nei suoi versi l’irrealizzabi- lità di ogni convivenza tra «l’intima colomba»86, «impavida»87 e il serpente, an- cora possibile in tempi immemori quando «avversi continenti»88 si incontrava- no nel nome di un Dio invisibile e ormai smarrito, Macrí nel gennaio ’47 por- ta il dibattito sulle pagine di una rivista, proprio quella «Libera voce» alla quale, ormai da anni, collaborava proprio insieme a Bodini riproponendo il problema sul piano della divergenza tra reale e ideale89, risolto dalla poesia contempora- nea attraverso l’irrealizzabile «unità mistica di una dogmatica applicata al corpo sociale»90. L’impossibilità di una dialettica tra gli opposti vanificava la stessa condi- zione della forma e negava qualsiasi attenzione al fattore antropico, da impostarsi piuttosto come speranza eventuale vista la dichiarata irrealizzabilità nel presente. Il 31 gennaio 1947, appena una settimana dopo la pubblicazione del saggio di Macrí, Bodini pubblica su «Libera voce» Con questo nome91, un testo che tra- duce la disperazione della disfatta e della perdita del tu a cui l’io poetico assiste dall’«esule provincia»92 dove si vede solo uno spicchio di luna; il rimorso, soffe- renza, frustrazione che derivano dalla parola fattasi sussurro, sorto involontario sulle labbra, davanti ad altari stupiti di una confessione parziale:

Amore, cosa chiamo con questo nome Io non sono più certo di sapere. Se ricerco nel fondo in cui s’immerse Il tuo quieto naufragio,

«Il Mercurio», 29, gennaio 1947. 84 Lettera di Vittorio Bodini a Oreste Macrí, 9 agosto 1945 (pubblicata da Anna Dolfi, in A. Dolfi, Mitologia e verità cit., pp. 395-396). 85 Ibidem. 86 V. Bodini, Inferno, in Tutte le poesie cit., pp. 240-241. 87 Ibidem. 88 Ibidem. 89 «La totalità del massimalismo utopistico è a morte della tecnica rivoluzionaria che vuole concretarsi nell’ortodossia leninista. La quale sembra capovolgere il platonismo esistenzialistico, radicandosi in un’immanenza che infine risulta una trascendenza anch’essa: quella della massa. In tutti i casi siamo fuori dall’individuo che cerca la propria persona, cioè l’attività consapevole della sua situazione storica, l’armonia di tutte le antinomie della vita e dell’essere. […]» (ibidem). 90 Ibidem. 91 V. Bodini, Con questo nome, in Tutte le poesie cit., p. 99. 92 V. Bodini, Battono i colpi a case addormentate, ivi, p. 97. 652 Francesca Bartolini

fra i denti degli squali, di quelle sabbie gelosi, presto riemerge il mio pensiero nudo al visibile giorno con le braccia ferite, e qualche filo d’alga sul corpo, o i ciechi segni d’una medusa.

Ma a sera, se col passo delle fiere Che convengono caute verso lo stagno Fra gli azzurri veleni che mesce il cielo In me come a tremante vetro s’affacciano Le antiche colpe, o errori, o la presente solitudine, oh allora! Come sei Tu stranamente viva sulle mie labbra, e che stupiti altari la mia voce odono che si scolpa nelle tenebre a mia insaputa: o amore, tu sapessi…

La bipartizione del testo a livello metrico coincide con una uguale divisio- ne su piano tematico dal momento che le due strofe corrispondono a due mo- menti fortemente distinti dall’avversativa al decimo verso. La coesione è però ga- rantita o quantomeno esibita dalla presenza dei termini «amore» e «sapere» che aprono e chiudono la lirica, un richiamo alla circolarità compositiva preceden- temente utilizzata (e ancora persistente: basti pensare alla ripetizione dell’intero verso iniziale in Quando tornai al mio paese o all’urlo che si trasforma in canto in Inferno o ancora ai capelli-alghe di Allo specchio ove rideva). Di fatto, però, la conoscenza è negata al poeta poiché, lo dichiara lui stesso nell’incipit della liri- ca, non è più certo di sapere e quindi di riconoscere «cosa chiam[are] con que- sto nome»: un significante vuoto del suo significato. Lo stesso destinatario non conosce la verità pronunciata solo in sua absentia, nelle tenebre, da un io lirico balbettante di rimorso. Quindi l’amore e il sapere sono di fatto messi in dubbio a livello ontologico e di conseguenza la circolarità, in anni precedenti armoniz- zante e pacificante, viene affermata ma al tempo stesso privata di senso. È nello spazio rimanente tra «l’estasi e la vita»93 dove «l’uomo metafisico»94 Bodini transita, «smarrito»95, alla ricerca di un modo più autentico di espressio- ne96, che si consuma quindi la fine di un’esperienza (e non stupisce quindi che

93 Lettera di Vittorio Bodini a Oreste Macrí, 9 febbraio 1949 pubblicata in A. Dolfi, Mi- tologia e verità. Il barocco e la Spagna tra traduzione e storia di un’amicizia, in Traduzione e poesia nell’Europa del Novecento cit., p. 401. 94 Ibidem. 95 Lettera di Vittorio Bodini a Oreste Macrí, 24 maggio 1943 (in A. Dolfi, Autobiografia e racconto cit., p. 137). 96 Non scriveva forse Bodini in Preliminare, posto in esordio alla Luna dei Borboni, di voler dare «la misura di tutto il cammino e gli sforzi (e i vuoti) per trovare un linguaggio più libero, e da poter dire mio»? (il testo si trova riportato in V. Bodini, Tutte le poesie cit., p. 92). IL PROBLEMA DELLA FORMA E IL SEGNO INCOMUNICANTE 653 il vetro, con tutti i rimandi simbolici che aveva acquistato nell’ermetismo, di- venti superficie tremante, e quindi incapace di rimandare un’immagine nitida, per poi trasformarsi da «specchio»97 in «lapide»98) complice l’ebbrezza della sco- perta di una nuova patria, quella spagnola, vissuta e non solo vagheggiata, che prepotentemente occuperà le successive pubblicazioni, unicamente prose, sulla terza pagina della rivista leccese. Ora, il problema della forma non poteva dirsi superato ma solo rimandato ad un tempo in cui, seppur diversamente, un incontro sarebbe tornato ad esse- re possibile e la polisemia del reale si fosse fatta di nuovo leggibile. L’unica spe- ranza di un equilibrio, aveva sostenuto Macrí nel saggio su Lo spirito europeo, pubblicato nel novembre 1946 su «Libera voce», tra le «risorse dell’individuo e le segrete risorse della trascendenza»99 andava riposto in una rinnovata «città dell’uomo»100. Bodini stesso, sullo stesso numero della rivista, avrebbe aggiun- to al bisogno di dare una diversa «prospettiva a ciò che [si erano lasciati] dietro le spalle»101, l’attesa di un «mondo nuovo»102 non fatto secondo «questa o quella formula»103 ma segnato almeno da una «viva impronta di umanità»104. Un mi- racolo che sarebbe diventato possibile solo anni dopo con la piena immersione nella finzione e nella follia del Barocco, nel quale Bodini avrebbe ritrovato, at- traverso la coesistenza e non l’opposizione, la piena comprensione ed espressio- ne della varietà e della complessità del reale. In questo senso, di avvenuta paci- ficazione, di termine di un percorso, va allora letto il passo dell’Introduzione al Don Chisciotte del ’57:

Se riusciamo a toglierci dagli occhi le buffe e malinconiche figure fisiche dei due eroi, e delle loro non meno indimenticabili cavalcature, per vederli come pure immagini delle sostanze psicologiche che esprimono, la loro coppia ci appare

97 V. Bodini, Allo specchio ove rideva, ivi, p. 239. 98 Ibidem. 99 «Ma questa conclusione obbligata nella sfera del platonismo di tutte le destre hegeliane non ci può far dimenticare quanto ha detto Contini in precedenza, quale testimonianza in uno spirito che ansiosamente si cerca, sia pure con l’ansia dell’intelligenza pura. La crisi della cultura formale e della moralità astratta non può risolversi per via razionale; questo è chiaro dove Con- tini accenna alla religiosità della Resistenza. D’altra parte una tecnica che totalizza la cultura dell’uomo sgomenta l’individuo. Si tratta di vedere quale energia, quale potere di recupero quale nuova fede si cela in questo sgomento. Tra queste risorse dell’individuo e le segrete risorse della trascendenza si situa la nuova città dell’uomo» (O. Macrí, Lo spirito europeo, in «Libera voce», IV, 16-30 novembre 1946, p. 3). 100 Ibidem. 101 Ibidem. D’altronde è Bodini stesso, in una lettera all’amico Macrí del 1945 ad affermare «Tra le cose cadute vi è l’ermetismo» (Lettera di Vittorio Bodini a Oreste Macrí citata in O. Ma- crí, Introduzione cit., p. 18). 102 Ibidem. 103 Ibidem. 104 Ibidem. 654 Francesca Bartolini

composta da una figura definita, anzi costruita laboriosamente con materiali d’origine prevalentemente culturale, e da un’altra informe, dotata solo di poten- zialità dinamica. In tale interessantissimo rapporto dobbiamo riconoscere ben altro che un problema estetico isolato nella coscienza di Cervantes, se paralle- lamente esso appare, è già apparso nella scultura italiana, e scandisce in due so- luzioni esemplari il passaggio da Michelangelo a Bernini: nel primo il dramma della forma prigioniera, nel secondo la coesistenza, l’accoglimento dell’informe e indefinito accanto ai piani della coscienza. Il rapporto tra Don Chisciotte e Sancio appartiene a quest’ultimo tipo. […] Queste qualità non costituiscono il fulcro dei loro rapporti, anche se indubbiamente, intrecciandosi e formando ad ogni passo nuove combinazioni, li arricchiscono enormemente. Ma siamo sul passo dei distinti e non degli opposti e dunque partendo dalla stretta lezione del testo non solo si deve scartare dalla presunta opposizione di ideali dei due personaggi, ma ogni e qualsiasi interpretazione che introduca fra loro un senso di conflitto, venendo a riconoscere in essi, sotto qualsiasi titolo, una funzione di protagonista e una di antagonista, mentre non vi è alcun messaggio di cui l’uno sia portatore contro l’altro; ma sì, di due protagonisti che integrando due diversissimi angoli prospettici rendono del reale una visione policentrica105.

105 M. de Cervantes, Don Chisciotte, Torino, Einaudi, 1957, p. XVIII. DIALOGO FUORITEMPO CON VITTORIO BODINI (ALLA PRESENZA DI ORESTE MACRÍ)

Antonio Prete

C’è qualche volta una dissimmetria tra le generazioni anche prossime – un’e- segeta delle generazioni come Macrí lo sapeva benissimo –, c’è un balzo di anni e una distanza di luoghi e di esperienze che impedisce l’incontro. Quando una sera di fine settembre del 1959 salii sull’espresso che da Lecce mi avrebbe por- tato a Milano, Bodini non era più nel Salento. Una comunanza c’era, però, tra la generazione sua o di Macrí e quella dei nati con la guerra: il desiderio di ab- bandonare un paese che tuttavia si amava fortemente, la necessità dell’addio, insomma l’impulso a emigrare. Accanto alle immagini della miseria propria del Sud agivano le immagini di un’Europa che stava per dissipare le tenebre della sua notte. Nella sera della mia partenza, il corridoio del vagone, affollato di emi- granti, era animato da voci che modulavano i dialetti salentini nelle loro varian- ti di suono e di cadenza: in quella animata koiné linguistica, in mezzo alle vali- gie di cartone, le parole, inseguendo storie stralunate di paese, cercavano di di- strarre dall’assedio dell’addio. Di là dai finestrini, dall’acqua scura, occhieggia- vano le luci delle lampare. Così il dialogo con Bodini ha battuto le vie silenziose della pagina, crescen- do ai margini dei versi e della prosa. Leggere Bodini è stato un movimento d’a- scolto, dentro il quale crescevano le rispondenze, e prendeva forma come una zona di fantasmagorica consistenza, un luogo dove familiari erano voci e figure in cammino, paesaggi campestri e urbani, colori e pietre, credenze e orizzonti, ma anche simile a quello dell’autore appariva il ritmo della partenza e del ritor- no, della prossimità interiore e della lontananza geografica, oltre che il tentati- vo di non trasformare in elegia la civiltà magico-rurale dell’infanzia, ma viver- ne, anche nelle scelte politiche, la condizione di esclusione, e leggere, per que- sto, le venature, espresse o silenziose, di rivolta. Il visibile dai versi di Bodini mi veniva incontro portando con ogni parti- colare una sorta di suo doppio che saliva dalla mia infanzia e dall’adolescenza. Così il bianco delle case di calce, il grigio dei muretti a secco tra gli ulivi, il guiz- zo delle lucertole sul pietrame, i folletti che nottetempo annodavano le code ai cavalli, le foglie di tabacco appese a seccare, le ombre dei balconi sostenuti da sirene e satiri corrosi, l’odore di menta nei vicoli, le bocche viola delle raccogli-

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 656 Antonio Prete trici di ulive, il grido dei carrettieri sotto il sole, i pomodori secchi attaccati allo spago, i carri col tufo delle cave, le siepi di fichi d’India, i lenzuoli al vento sul- le terrazze, i santi sotto le campane di vetro posate sui comò, i palmizi tra i pa- lazzi di tufo, e tutte le altre figure che abitavano i versi, persino il fermento dei cieli, appartenevano a quell’arrière-pays del mio teatro interiore preservato con cura, contro ogni minacciata rimozione, non abraso né sfigurato dalla soprav- venuta esperienza del Nord, e neppure consegnato all’inerte mito di un Sud im- mobile nel suo incantesimo. Di questa materia si è alimentato il dialogo con Bodini, estendendosi poi dalla poesia alle prose e alle traduzioni: ma anche in questo esercizio che ha nel- la poesia, nella prosa e nella traduzione tre colori dello stesso ventaglio, il dialo- go ha trovato, via via nel tempo, sue particolari modulazioni e rispondenze (po- esia e prosa innestate nell’esperienza del tradurre, da questa motivate e in cer- to senso sostenute). A Oreste Macrí, con il quale invece, per diversa congiuntura temporale, la conversazione fu possibile, almeno qualche volta, e proprio qui al Vieusseux – lui rivolgendosi a me con frasi in dialetto magliese, io in dialetto copertinese – a Oreste Macrí avrei voluto chiedere per quali sottili e indecifrate corrisponden- ze era accaduto che proprio quella stagione di pensiero e di fervida scrittura e di traduzione della cui rete egli fu parte attiva ed esegeticamente ordinatrice, avesse avuto nel lontano Salento rifrazioni e corrispondenze così assidue da oltrepassare la vulgata opinione che voleva Lecce la Firenze del Sud. Poteva giocare in questa corrispondenza il definirsi di una bellezza architettonica della città che nel pas- saggio delle epoche ha conservato una sua forte identità? Aveva un peso l’analo- go rapporto tra la teatrale e abitata geometria degli spazi cittadini e una metafi- sica che riconduce lo sguardo al suo orizzonte terrestre mentre tenta domande estreme? Il barocco leccese, lontano per il suo delirio di luce e di forme dal rina- scimento fiorentino, era di fatto prossimo a questo quanto a irrequieta iscrizio- ne della visione nella figura, dell’impossibile nel disegno, della luce nella pietra? Quando mi recai a studiare a Milano con Mario Apollonio (autore già nel 1945 di un saggio dal titolo Ermetismo), laureandomi poi con lui con una tesi intitolata a una rivista fiorentina – Lacerba e la crisi dell’espressionismo – tra le mie letture ricorrenti c’erano autori della fiorentina Vallecchi (il primo Papini, Viani, Pea, Cicognani, Lisi, Landolfi, Bargellini e altri), i cui libri trovavo sul- le bancarelle, e leggevo nei pomeriggi sulle liame, cioè sui tetti-terrazze, suben- do la fascinazione di una lingua che fu in gran parte responsabile della mia vo- cazione alla scrittura. Tornando, ora, al libro poetico di Bodini messo insieme con fraterna e vigi- lisssima cura da Macrí, da lui introdotto e ordinato in quattordici folte sequen- ze biografico-poetiche e fitto di prospezioni esegetiche, trovo che alcuni luoghi avrebbero certamente fatto parte del mio dialogo con il poeta. Tra questi luo- ghi, la figura del «monaco rissoso» che vola tra gli alberi. E ancora, la disposizio- ne a fare della luna la sorgente di fantasmagorie che possano difendere dall’in- DIALOGO FUORITEMPO CON VITTORIO BODINI 657 cantamento e insieme possano contrastare la solarità che dilaga sulla pianura e incendia pensieri e favorisce dionisiache esplosioni di ritmi e di estenuati deli- qui. Su questi due passaggi della poesia di Bodini qualche breve considerazione. Il verso «Un monaco rissoso vola tra gli alberi» conclude la sezione Foglie di tabacco de La luna dei Borboni. Da quel verso giungeva a Bodini anche il sugge- rimento di un titolo (Un monaco vola tra gli alberi), dato nel novembre del ’49, ci ricorda Macrí, poi sostituito nell’edizione del 1952 con la Luna dei Borboni (titolo riferibile all’impresa della Terra d’Otranto, una mezzaluna nella bocca di un delfino). Ancora Macrí ricorda quanto essenziale sia per la comprensione della Luna la figura di San Giuseppe da Copertino, nell’interpretazione che ne dà lo stesso Bodini in una nota di Zibaldone leccese, nella quale si oppone all’a- giografia edificante del santo il ritratto fattone dal Fremautius: un ragazzo risso- so, irrequieto, non visitato dalla luce dell’intelligenza, ma che poi, una volta di- venuto frate, stupiva con le sue frequenti estasi accompagnate dal volo (la fonte citata da Bodini novera più di settanta voli, plus quam septuaginta). Nella figura del francescano detto poi il santo dei voli si compendiano di fatto, per una sor- ta di condensazione antropologica e mitografica, elementi propri di una cultura popolare ripensata dal punto d’osservazione della poesia, in particolare il richia- mo della leggerezza, della élevation così come Leopardi prima e poi Baudelaire l’avrebbero descritta: vista dall’alto, ascolto del linguaggio muto delle cose, cri- tica dell’atrofia dei sensi, della loro terrestre gravità, fascinazione di una angeli- cità che è sogno di trasparenza, forzatura del limite temporale e spaziale, prossi- mità a una lingua priva di lingua, prossimità all’impossibile. Senza dire di quel nesso tra incantamento e conoscenza, tra ascesi e sentimento dell’appartenenza popolare, tra condizione stralunata e povertà, tra insofferenza e stravaganza, tra ignoranza e santità che la figura del frate copertinese poteva assumere in sé, ri- flettendo alcuni aspetti di una sorta di antropologia poetica del Salento. Macrí ricorda la forte identificazione di Bodini con questo singolare esempio di libera- zione dalla gravità (volare sopra la «fossa dei leccesi»), di levitazione oltre la pri- gione della malinconia, pur nella consapevolezza che il volo per il poeta accade solo nel linguaggio, e la sua grazia è solo nell’orizzonte della parola. Carmelo Bene, anche lui sulle tracce di un impossibile e di un eccesso in gra- do di forzare il limite della convenzione, avrebbe tentato una rappresentazione del santo francescano sia nel film Nostra Signora dei Turchi sia nella sceneggia- tura mai diventata film A boccaperta, del ’76 (dedicata appunto al santo france- scano e ambientata in una Copertino secentesca, stralunata e barocca, abitata da mercanti e trafficanti e pellegrini di passaggio verso l’Oriente). Aggiungerei un particolare: la figura del ragazzo discolo, distratto, impetuoso, ignorante, che divenuto frate attinge l’estasi e il volo, diventa sorgente di un’affabulazione po- polare assidua e diffusa. Una narrazione che modula, con fantastiche variazio- ni, il sogno di un’alterità favolosa, di una grazia che possa alleggerire la povertà, e declina, evocando i fioretti e i prodigi del santo francescano, una dimensio- ne creaturale dell’esistenza. Con le cadenze e i timbri di una di queste voci po- 658 Antonio Prete polari, quella di mia madre che racconta i prodigi dell’irrequieto e incantato ra- gazzo copertinese diventato poi santo, aprivo anni fa L’imperfezione della luna. E alla luna torniamo, che diventa, nel primo libro di Bodini, impresa ed em- blema di un cammino poetico. Non è, quella di Bodini, ce lo ricorda Macrí, una luna di matrice leopardiana. Certo, potremmo aggiungere, la luna salenti- na non è quella appenninica, non ha il dialogo con le ombre e con le linee nere dei colli, non ha il ritmo che vela e a un tempo disvela le cose (semmai il tirre- nico Tramonto della luna potrà avere corrispondenze visive nei tramonti lunari della costa ionica, e andrebbero da sé le corrispondenze meditative e interroga- tive). E tuttavia, in quella stessa desertica notte del domandare, in quell’affan- no che vorrebbe scrutare l’enigma, sapendo la prigione della finitudine, si leva anche la luna di Bodini. Tant’è che la prima dischiusa presenza lunare in Foglie di tabacco si modula sull’allocuzione leopardiana: «Ma tu, luna, le incognite fi- nestre / illumini del Nord, /mentre noi qui parliamo, / nel fondo di quest’esule provincia /ove di te solo la nuca appare». Il nascondimento del volto della luna dice quel nesso tra luce lunare – ingannevole, obliqua – e disvelamento d’una irredimibile condizione propria delle terre del Sud. Anche sul paesaggio l’appa- rizione lunare non è epifanica e incantatoria ma suscitatrice di ombrose e ma- linconiche parvenze. Sin da subito: «Appena la conchiglia lunare /suscita falsi monti che paiono uccisi / e un luccicare sordo sulle rotaie / …», cui segue, più oltre, una bellissima relazione pittorica tra la luce lunare e le sagome di donne sulle soglie delle case: «Sulle soglie, in ascolto, antiche donne sedute /– o mac- chie che la luna ripercuote nell’aria– /socchiudono pupille d’una astratta du- rezza / dai palmi delle mani, aperte pietre sui grembi». Nella poesia di Bodini non è la luna che rivela ma la luce del giorno che allo stesso tempo però can- cella, annulla per dir così le linee del paesaggio, per lasciare il dominio a quel «tutto è evidenza e quiete» nel quale «si vedrebbe anche un pensiero, / un ver- bo». O per poter osservare le apparizioni inquietanti di capre e spettri e denta- ture di cavalli uccisi, nell’aria piena di sangue. Un espressionismo tutto figura- tivo, o forse un novecentesco e disforico ritorno dello spleen, che si estende an- che alla rappresentazione lunare. La quale, nelle sue apparizioni, non esige l’at- to contemplativo, perché mostra il suo volto oscuro, il suo «viso sfregiato» che porta sbigottimento al gufo delle monache Scalze e ai gerani. Non è più il not- turno romantico che agisce ma semmai quell’obliqua e destinale presenza di una luna ironicamente benefica e perversa rivelatrice dell’umano declino: Les bien- faits de la lune del poème-en-prose baudelairiano e del fiore del male La lune of- fensée, o certi notturni lunari di Rimbaud e Mallarmé (presenti anche – ecco un altro dialogo salentino – tra le versioni metriche dei simbolisti, che nel ’57 l’altro Vittorio leccese, Vittorio Pagano, pubblica presso le edizioni dell’Albero e dedica a Girolamo Comi). Ma ecco che la presenza lunare in Bodini contamina il nu- minoso con l’elemento ctonio e turbativo (sullo sfondo il Leopardi della «cadu- ta della luna» non il Leopardi dell’allocuzione lunare), accostandosi così a quel mutamento della rappresentazione lunare che da Pirandello va fino a Landolfi, DIALOGO FUORITEMPO CON VITTORIO BODINI 659 il Landolfi della Pietra lunare («pietra lunare» è sintagma che appare nella poe- sia di Bodini), della luna nera e del racconto Voltaluna. Ma questo orizzonte ha un’altra variante, quella che a Bodini giunge dal suo assiduo esercizio di tradu- zione e di frequentazione della poesia spagnola. La luna di Lorca o di Jimenez o del Machado tradotto dall’amico Macrí invita alla libertà di un movimento metaforico, a una figurazione libera dalle declinazioni simboliche, anche se an- cora confidente e prossima. Ecco i capelli corti della luna ghiotta d’angurie. O «la testa d’un lutrino dalla spina scarnita» che ride nel cerchio lunare. Anche se tornerà a campeggiare nel cielo – con un verso d’ incipit («L’allodola e la luna sole nel cielo») – sarà soglia e custode di un silenzio che è solitudine, senso ama- ro del vuoto. Annuncio di quella luna che alla fine della storia veleggerà, fredda, mandando il suo raggio sopra un tempo cenere, sopra i «secoli inerti» che «da- ranno smorti riflessi d’alluminio». Nel volgere degli anni Sessanta rara apparirà nei versi del poeta la luna: in Ostaggio, per una singolare equivalenza col nulla («O se il nulla non fosse solo il nulla / ma nuvolaglia polvere poltiglia /nella luna /senza colore /senza nulla»); o infine in una poesia di fine d’anno 1968, Per un volo nei pressi della luna, che comincia col verso «Vedi la luna rider della luna»: si tratta di una luna «calva e grigia» (memoria degli ultimi versi della baudelairiana «lune offensée»?). La luna di Bodini, guardata in un paese del Salento o in un paese dell’An- dalusia, si leva severa sopra le pietre, sopra le palme e gli ulivi, ma anche sopra un paese interiore spazzato dal vento pungente di una irredimibile, tutta nove- centesca, malinconia.

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VITTORIO BODINI - ORESTE MACRÍ “IN QUELLA TURBATA TRASPARENZA” Un epistolario 1940-1970

a cura di Anna Dolfi BULZONI

€ 00,00 BULZONI EDITORE VITTORIO SERENI UN AMICO DI GENERAZIONE

VITTORIO SERENI ERMETISMO, DINTORNI, PROCESSI GENETICI, PROCESSI INVENTIVI

Clelia Martignoni

Il primo Sereni e l’ermetismo: un legame complesso tra indubbie affinità (den- tro molti dei tratti comuni della grammatica ermetica1), e alcune divergenze. Sul piano personale inoltre il legame con tanti del gruppo fu parecchio amichevole e fecondo, come attestano le numerose lettere degli amici «fiorentini» (conserva- te all’Archivio Sereni di Luino2). Anche nel libretto scheiwilleriano del 1992 di commemorazione di amici poeti, Per Vittorio Sereni, voluto da Dante Isella3, at- testano solidarietà e intesa le affettuose parole di Piero Bigongiari e di Alessandro Parronchi, e le poche ma intense di Mario Luzi, che, pur assente alla giornata luinese, definì il rapporto con Sereni una «piena di […] amicizia e di […] fra- ternità […] continue», aggiungendo: «Anche se abbiamo avuto esistenze sepa- rate, sotto soli diversi, era come se avessimo fatto un lungo cammino insieme»4.

1 1 Decisivo il saggio di Pier Vincenzo Mengaldo, Il linguaggio della poesia ermetica, in La tradizione del Novecento, terza serie, Torino, Einaudi, 1991, pp. 131-157. Un recente intervento di Anna Dolfi, Per una grammatica e semantica dell’immaginario, edito nel numero speciale della «Rivista di letteratura italiana», dedicato a Bigongiari, Luzi, Parronchi cento anni dopo (1914- 2014), a cura di Paola Baioni e Giorgio Baroni (XXXII, 2014, 3, pp. 85-92), amplia i termini cronologici rispetto a quanto indicato da Mengaldo, e analizza compatte serie di temi e imma- gini. Tuttora molto utile è il repertorio storico e documentario di Silvio Ramat, L’ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1979. 2 Per l’elenco dei corrispondenti e delle lettere conservate nell’Archivio di Luino, cfr. Lettere a Vittorio Sereni, in “dove infinita trema Luino”. Le carte di Vittorio Sereni, a cura di Barbara Colli, Luino, Nastro & Nastro, 2000, pp. 12-15 (naturalmente sino a quella data). Cfr. inoltre http:// www.lombardiabeniculturali.it/archivi/complessi-archivistici/MIBA008801/ a cura di Giulia Raboni. Tra i carteggi di quest’ambito è stato edito anni fa (2004, per Feltrinelli), a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, quello con Alessandro Parronchi, Un tacito mistero, fitto e ricco di dati, introdotto da Giovanni Raboni. Un importante nucleo di lettere è stato raccolto e com- mentato in una tesi magistrale all’Università di Pavia discussa tre anni fa da Elisa Romegialli e condotta sotto la mia guida, lavoro che ora si intende integrare e portare alla stampa per i gruppi possibili. Nella tesi sono incluse: 28 lettere di Piero Bigongiari (anni 1941-1979); 26 di Carlo Bo (1937-1982); 3 di Contini (1941-1949); 12 di Gatto (1938-1962), nel frattempo edite da Anna Modena in Alfonso Gatto a Milano, Pisa, Pacini, 2010; 42 di Luzi (1940-1982), il nucleo più ricco; 19 di Pratolini (1947-1982); 1 di Quasimodo (1943); 1 di Sinisgalli (1946); 3 di Leone Traverso (1949, 2 senza data); 56 di Oreste Macrí (1938-1981). 3 Cfr. Vittorio Sereni. Convegno di poeti. Luino 25-26 maggio 1991, a cura di Dante Isella. 4 Ivi, p. 161.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 664 Clelia Martignoni

Lascio ai relatori dopo di me i sondaggi analitici, le «prospezioni e consunti- vi» (per dirla con il bellissimo titolo di Andrea Zanzotto) che i loro temi assicu- rano. Il problema non è semplice, perché per Sereni già in Frontiera, pur tra in- dubitabili usi di linguaggio ermetico, affiora un’affezione stabile all’esperienza, agli oggetti, alle «cose», spesso affermata nelle lettere a Vigorelli e ad Anceschi. Stralcio qui di seguito i campioni più significativi5. Così Sereni ad Anceschi (in una lettera del novembre 1935): «si sono cam- biati anche gli oggetti del mio mondo; tendo a rendere i termini concreti il più possibile»6, richiamando a riscontro l’«immediatezza oggettiva» con cui il mae- stro Antonio Banfi aveva commentato sue poesie (e dietro cui è sottinteso il le- game con la fenomenologia di Husserl e poi di Merleau-Ponty, studiata da Banfi e dall’amico Enzo Paci, dell’«essere con gli altri in noi», dell’«essere con, attra- verso la relazione»). A Vigorelli, nel 1937 Sereni scrive: «Io in poesia sono per le “cose”, non mi piace dire “io”, preferisco dire: “loro”»7; e sottolinea con forza la necessità sia di capire e approfondire la «radice di questo mio senso oggettivo», sia di «non perdere niente del mio guardare […] in ogni direzione», incluso il «coraggio di parlare di semafori e di feltri verdi»8. In un’altra lettera a Vigorelli del 1940 analogamente leggiamo: «non potrò fare mai a meno di parlare dell’a- bito chiaro»9. È la stessa lettera di dura riflessione e autocritica intorno a un nodo che Sereni avverte come decisivo nel suo lavoro poetico: una temporalità ancora da acquisire («non so ancora che cosa sia una durata: sono io che vado in cerca degli oggetti, non sono gli oggetti che cadono e si raccolgono spontaneamente in me»10), dove la «durata» rinvia alla nuova concezione di temporalità emersa attraverso Bergson e Husserl. Proprio in questa problematica acquisizione del- la «durata» potremmo individuare uno dei traguardi del travagliato, progressivo transito di Sereni dalla prima stagione, chiusa, lirica, acerbamente frammenta- ria, a una dimensione dove il lirismo sa e vuole convivere, anche impuramente, con «narrazione», aperture all’oralità, scorie di imperfezione, nel tempo condi- viso di «dopo la lirica», per dirla con Enrico Testa. Ed è perpetuo, s’intende, il rovello della scrittura, persino con il sentimen- to del fallimento, mentre si affaccia a più riprese, date le incertezze radicali di Sereni, e forse per compenso, la «tentazione della prosa»11.

5 Attingo per le citazioni ai riscontri forniti da Dante Isella negli apparati; ma per Anceschi (pure citato in Poesie) ricorro all’edizione Vittorio Sereni, Carteggio con Luciano Anceschi 1935- 1983, a cura di Beatrice Carletti. Prefazione di Niva Lorenzini, Milano, Feltrinelli, 2013. 6 Ivi, p. 34. 7 V. Sereni, Poesie cit., p. 308. 8 Ibidem. 9 Ivi, p. 333. 10 Ivi, p. 332. 11 Nel gennaio 1947, mentre non è lontana l’uscita di Diario d’Algeria (maggio), scrivendo all’amico ticinese Piero Bianconi, Sereni si dice in crisi poetica da un anno, ipotizzando anche un possibile passaggio alla prosa: «Non so in seguito: o passerò alla prosa (che mi tenta sempre di VITTORIO SERENI. ERMETISMO, DINTORNI, PROCESSI GENETICI E INVENTIVI 665

Dal carteggio con Anceschi dati e riflessioni arricchiscono la posizione di Sereni, focalizzandone nitidamente l’avversione a riconoscersi in una poetica comune: non l’ermetismo nel caso specifico, ma – quasi all’opposto – la «linea lombarda» che per volontà del curatore Anceschi distingueva, anche in opposi- zione a Firenze, la sua controversa antologia del 195212. Molto tormentata ma non meno recisa la lunga lettera (circa quindici pagine di stampa) ad Anceschi dell’aprile ’52 (l’antologia era del marzo)13, da cui cito con larghezza, scusando- mi, ma il documento è indubbiamente di grande rilievo. Vediamone i punti es- senziali. Sereni sottolinea in prima istanza la sua fiducia molto alta nella poesia, di tipo assoluto: «Fin dai tempi dell’Università io ho chiesto troppe cose, direi persino troppe indicazioni esistenziali, alla poesia, al fatto di essere poeta: ho chie- sto una figura umana, l’ho implicata, la poesia, nelle mie faccende di cuore»14. L’investimento sulla poesia è stato replicato da Sereni con altrettanta totalità dopo il disastro della guerra (e della reclusione) che lo aveva reso particolarmen- te fragile: «L’errore, aggravato, l’ho ripetuto al mio ritorno dalla guerra. […] io mi sentivo, con quei pochi versi di prima, come con una specie di moneta fuo- ri corso. […] Poi uscì il “Diario d’Algeria”»15. Sereni evoca a questo punto l’amaro «infortunio luganese» (il mancato pre- mio Libera Stampa nel 1947 per l’inedito di Diario d’Algeria, compensato nel ’56 dalla vittoria con Un lungo sonno), e attribuisce una certa ostilità nei suoi confronti da parte dell’illustre giurato Contini, filo-fiorentino ed ermetizzan- te per gusto, formazione e relazioni, e nei confronti del «vessillo lombardo» ap- posto malgrado l’autore alla poesia di Sereni16. Di qui il fastidio del ritrovarsi (1952) ancora calato nell’etichetta lombarda in cui non si può riconoscere, in tempi oltre tutto che ben a ragione sente come di proprio intenso rinnovamen- to (è la stagione del lavoro agli Strumenti umani, cioè non solo di uno dei libri poetici secondo novecenteschi più alti, ma di una svolta decisiva in Sereni): «È brutto sentirsi potenzialmente proiettato verso una zona nuova, ma di fatto ve- dersi qualificato come residente in una zona che da un pezzo si è abbandonata – o che si crede di aver abbandonato»17. E poco oltre:

più) o non farò niente di niente, o scriverò venti o trenta poesie in un anno come m’è successo per il Diario d’Algeria dopo più di tre anni di silenzio. Insomma vedremo» (Poesie cit., p. 366). 12 Cfr. La linea lombarda, Varese, Magenta, 1952 (i poeti presenti, oltre a Sereni, erano come ben noto Giovanni Raboni, Giorgio Orelli, Nelo Risi, Renzo Modesti, Luciano Erba). 13 Ma la lettera era già presente nel ricco Il laboratorio di Luciano Anceschi. Pagine, carte, memorie, a cura di Maria Giovanna Anceschi, Antonella Campagna, Duccio Colombo, Milano, Scheiwiller, 1988. 14 Ivi, p. 171. 15 Ibidem. 16 Ivi, p. 172. 17 Ivi, p. 173. 666 Clelia Martignoni

Sento di poter puntare molto ancora sulla memoria, sullo sguardo ormai quieto che si può girare attorno quando si è toccato un qualsiasi punto della costa, di stabile terraferma. I quarant’anni alle viste. || Ma non mi sento “movimento” né mi sembra costituire movimento o filone […] quel gruppo di nomi che for- mano una “linea lombarda”. È vero, tu l’hai detto, “nessuna scuola”… e non si parli nemmeno di gruppo18.

Di qui Sereni analizza e discute con lucida passione i concetti-chiave estrat- ti dall’introduzione di Anceschi che reggono l’antologia: in sostanza la «comu- ne disposizione lombarda», «il particolare sentimento del rapporto tra poesia e realtà», la «poetica dell’oggetto», dissentendo su molti punti, in particolare sul- la condizione non così esclusiva e non così «lombarda» di certe tendenze. Sereni infine indaga anche il pur apprezzabile scritto introduttivo di Anceschi addebi- tandogli qualche forzatura e ambiguità. Insomma, se il legame con l’area erme- tica per Sereni non può dirsi né esclusivo né tanto meno stabile, certamente il legame lombardo gli creò disagi e problemi in un percorso evolutivo tanto do- lorosamente e travagliatamente proprio.

Ma mi occuperò qui in sintesi di un altro livello del problema: la riflessione genetico-filologica su Sereni poeta, intorno a cui mi sto ostinando con il confor- to, e con la complessa sfida, della ineguagliabile edizione critica di Dante Isella del 1995, e degli autografi, tormentati e quasi ossessivi. Se in Sereni perplessi- tà e instabilità, dati sì personali, ma anche segni profondi di disagio culturale, civile e storico, sono temi/modi non solo ritornanti, ma decisivi della sua vi- sione e scrittura poetica, e se è vero che nel livello formale rispondono soluzio- ni eccellenti di movimento e mobilità, non di rado (Stella variabile) sbilancia- te verso rottura, contraddizione, crisi, nichilismo, come hanno visto gli esege- ti maggiori (Mengaldo, e già Fortini), Dante Isella ha fatto un passo aggiuntivo e diverso, agganciando il discorso al terreno genetico e all’elaborazione testua- le. Infatti Isella arriva a dire nell’introduzione alle Poesie che le laboriose carte autografe «rispecchiano un modus operandi perfettamente omogeneo» alla «so- spesa, perplessa decifrazione della vita» del poeta, e che «su tutta l’opera sua, si potrebbe […] porre il cartello di Lavori in corso». Commentando in conclusio- ne che gli apparati filologici sono «la migliore mappa descrittiva della poesia di Sereni». Tutto ciò senza allegare esemplificazioni aggiuntive, delegando la veri- fica agli apparati, per chi li voglia e sappia consultare. Una sfida, come si dice- va sopra, che è fecondo cercare di raccogliere, in dialogo con il grande maestro. Mi scuso se sono costretta a richiamare qui il mio intervento («Lavori in cor- so»: elaborare la perplessità?) al convegno del centenario su Sereni del 2013, Un altro compleanno (di cui sono usciti i folti atti a cura di Edoardo Esposito)19. Ne

18 Ivi, p. 177. 19 Cfr. Vittorio Sereni Un altro compleanno, a cura di Edoardo Esposito, Milano, Ledizioni, 2014. VITTORIO SERENI. ERMETISMO, DINTORNI, PROCESSI GENETICI E INVENTIVI 667 desumo in breve i presupposti per la mia riflessione genetica di oggi, essendomi proposta in quella sede di far emergere dai «manoscritti labilissimi» che «vanno in tutte le direzioni» (ancora Isella) la modalità tipicamente sereniana dei «lavo- ri in corso». Vorrei introdurre nel discorso di oggi anche uno sguardo all’espe- rienza «ermetizzante» di Sereni, in un tentativo di approccio unitario impernia- to appunto sul lavoro in atto del poeta, grazie alla abbondanza e complessità de- gli autografi e al rigore degli apparati. Dunque: la formula «lavori in corso», molto cara a Isella (che la desunse an- che dall’amico Sereni?…, non è che una fuggevole ipotesi) e alla critique généti- que, ricorreva più volte in Sereni per definire testi da lui avvertiti come prov- visori pur in accezioni diverse. È in primo luogo il titolo di due rare plaquet- tes con artisti (con Attilio Steffanoni, Scheiwiller 1965; con Franco Francese, 1969, Lussemburgo, in edizione franco-italiana), rese note anche dal catalogo del 2002 Amici pittori di Isella e Barbara Colli20, che sarebbe desiderabile vede- re ristampato. Qui interessa in particolare la prima plaquette, novembre 1965, edita pochissimo dopo Strumenti umani (datata infatti settembre ’65). Il dato interessante è che Sereni, sempre così cauto, vi pubblicò originalmente su set- te eleganti bifolii due tipologie testuali, in dissimile veste grafica: tre testi da- gli appena editi Strumenti (di cui sottolineava a sorpresa l’incertezza sui risulta- ti prospettando altre possibili soluzioni e altri montaggi); e una serie di fram- menti poetici, sprovvisti di titolo, che si spingeva a riprodurre in facsimile au- tografo21. Una sua Nota finale spiegava che «i versi a stampa» sono da conside- rare «incompiuti», alla stregua di «lavori in corso»22, e che gli autografi sarebbe- ro «nient’altro che appunti in alcuni casi o semplici promemoria e punti di rife- rimento in altri», di «epoche diversissime: la loro trascrizione o disposizione se- condo un certo ordine, magari arbitrario, serve a darmi un’idea dello stato dei

20 Cfr. Amici pittori. I libri d’arte di Vittorio Sereni, con un’appendice di suoi scritti, a cura di Dante Isella e Barbara Colli, Luino, Nastro & Nastro, 2002. Il catalogo censisce tutte le edizioni d’arte, ne riporta sia le riproduzioni artistiche sia alcuni testi rari di Sereni. Per la scheda descrit- tiva rinvio ivi, pp. 142-143; per le immagini (copertina e incisione), pp. 10-11; per la Nota di Sereni, p. 103. La seconda plaquette, 1969, contiene 5 poesie «in corso»: una che entrerà nella seconda edizione degli Strumenti, 1975 (I ricongiunti 1966); e 4 che entreranno nella futura Stella variabile (In una casa vuota, Posto di lavoro, Toronto sabato sera, e l’eponima Lavori in corso, limitata al I e al II tempo). 21 Alcuni furono poi recuperati in testi di Stella variabile (nell’edizione Garzanti): precisa- mente in Altro compleanno, e in Progresso; altri non sono individuabili; e al centro sta un vecchio testo, Biscia d’acqua, 1936 (ora nel «Meridiano», in Appendice tra le Poesie giovanili di Frontiera, pp. 414-415). 22 In particolare per La poesia è una passione? Sereni scrive che potrebbe essere destinata a accorpamenti ancora incerti («È probabile che lo stesso componimento si aggreghi, o incorpori, non so ancora come, Corso Lodi e L’alibi e il beneficio, pure presenti nel volume Einaudi»), cfr. Amici pittori cit., p. 103. Ma se gli apparati di Isella attestano tentativi di lavoro sulla Poesia è una passione?, della fusione con altri testi non si fece nulla. Rinvio al mio scritto in Un altro complean- no cit., p. 63, per i dettagli qui superflui. 668 Clelia Martignoni lavori e una base per la prosecuzione degli stessi»23. Con ciò il riservato Sereni faceva entrare a sorpresa il lettore, ben più modernamente e sperimentalmente di quanto pensasse, nel suo cantiere in lavorazione, potenziale, incline a incroci intertestuali, «variabile»: proprio come il fascinoso titolo dell’ultima raccolta24, che seguì però dopo parecchi anni. Lavori in corso è infine il titolo di una poesia di Stella variabile (datata «New York, 1967»), in tre tempi, dal difficile iter compositivo25, di cui gli apparati re- gistrano numerosi tentativi di incastro di vari nuclei (donde il titolo, anche me- ta-letterario, per un autore notoriamente avverso a tale registro, almeno sino a Un posto di vacanza). La plaquette del 1965 ha una parentela marcata con un fascicolo privato cu- stodito negli Archivi di Luino, il Quaderno B, censito da Isella per l’apparato, dunque registrato passim tra le varianti (e menzionato anche nella breve intro- duzione26). Caso limpidissimo di «lavori in corso», è un quaderno ad anelli, a fogli staccabili e colorati, dove Sereni ricopiò in più tempi frammenti di versi di estensione varia, destinandoli a potenziali impieghi futuri: un repertorio-de- posito di versi volanti, materiali mobili messi in salvo da immettere dove pia- cesse e occorresse. Dai nostri spogli è risultata ricorrente in Sereni (anche se non in modo radi- cale ed esclusivo come nel Quaderno B) l’abitudine di accantonare lacerti di ver- si non utilizzati, o in serie di fogli o in pagine di quaderni, manifestando dun- que più volte un laboratorio che da un lato diremmo economico, disposto per il risparmio, ma che dall’altro appare versatile se non caotico, e possibilista. Il procedimento che caratterizza l’intero Quaderno B si rintraccia in parte in altri quaderni (il Quaderno A, pure luinese: un’agenda del 1965) o in fogli, o bloc- chi di fogli, allestiti con questo preciso scopo, come segnalano molto bene le note di Sereni del 1970 preparate per Maria Corti per accompagnare la cessione di materiali al Fondo manoscritti dell’Università di Pavia, e a Lanfranco Caretti nel 1972 nell’inviargli uno scartafaccio degli Strumenti umani. Rileggiamo qual- che stralcio della lettera a Caretti:

23 Anche qui rinvio al mio saggio (p. 63), per le nette tangenze con la nota all’edizione non venale di Stella variabile. 24 Titolo che, a quanto commentò Zanzotto nell’87 – ma è superfluo ricordare che Zanzotto, a Sereni legatissimo, era teoricamente ben più curioso e attrezzato, e ben più incline ai climi di «variance» e sperimentazione – è «tra i più divinati che si potessero dare», in quanto «alta meta- fora» ottimamente raffigurante «il continuo oscillare delle poetiche improbabili dei poeti» (cfr. il suo scritto Tentativi di esperienze poetiche (Poetiche-lampo), 1987, incluso in Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Milano, Mondadori, 1999, pp. 1309-1319, in particolare per ciò che qui ci riguarda pp. 1315-1316. Zanzotto allarga il discorso alle «categorie di stelle variabili» da cui «scaturirebbe tutta una fenomenologia della poesia catalogabile secondo tali tipi di stelle», nell’opposizione e intreccio tra «stabilità “pulsante”» e «inattendibilità». 25 Non a caso anticipata anche nella plaquette eponima del 1969, cfr. n. 10. 26 Cfr. Dante Isella, Prefazione a V. Sereni, Poesie, cit., pp. XIII-XIV. VITTORIO SERENI. ERMETISMO, DINTORNI, PROCESSI GENETICI E INVENTIVI 669

spesso i testi riprodotti sulla pagina di sinistra non hanno niente a che fare con quelli riprodotti sulla pagina di destra […]. Qualche nota sin qui non utilizzata l’ho dovuta ricopiare per non perderne traccia inviandoti il fascicolo. Mi rendo conto che si tratta di un grosso pasticcio, ma è un pasticcio che mi assomiglia27.

Il commento dell’autore è significativo e lucido, e l’imbarazzata postilla fina- le, «un pasticcio che mi assomiglia», mette l’accento, con la marca ironica e mai indulgente del dubbio, su un carattere-chiave del suo lavoro che Sereni mostra di conoscere molto bene: la migrabilità dei materiali da un punto all’altro, la recuperabilità fluida e ancora indefinita di spezzoni salvati. Come si è già scrit- to, il Quaderno B meriterebbe un’edizione, per dare del tutto conto di questo dossier genetico di potenzialità, dal gusto sperimentale-artigianale, vero cahier d’études, per dirla mutatis mutandis alla Gadda. Ma nell’area di Frontiera? Viene da chiedersi se, arretrando alla prima stagione della poesia sereniana affine sui generis alla sperimentazione ermetica, si ritrovano materiali consimili. Il Quaderno B attesta infatti in sostanza blocchi di poesie post- belliche che assistono l’elaborazione poetica dagli anni della genesi dei primi testi degli Strumenti umani (Nel sonno, Il tempo provvisorio) in avanti. Che risultati emer- gono vagliando il materiale filologico antecedente e relativo a Frontiera? Già affio- rano tipologie consimili del potenziale, e migrazioni di nuclei da testi diversi, ma anche se in modo meno consistente e meno organico, forse per minor autoconsa- pevolezza e per minor maturità complessiva (tacendo di eventuali lacune e perdite). Perlustrando gli eccellenti apparati, qualche esempio. Dalla lettera a Vigorelli del 2 febbraio [1941], mentre è imminente Frontiera28, ecco farsi avanti insieme con accenti di forte autocritica un segnale notevole:

Bilancio poetico del mese di gennaio. Due poesie; fallite. Un frammento ripreso e rimasto frammento. E la seconda parte pure fallita di quella poesia che avrei voluto aggiungere al libretto […] Poi ci sono versi isolati ed enigmatici che aspettano di organizzarsi attorno a un nucleo. Versi come questi.

Seguono due frammenti. Il primo dei quali (aperto dal verso poi inutiliz- zato «Quieto un evento gravita negli anni») entra nell’elaborazione di Te n’an- drai nell’assolato pomeriggio…, testo accolto non in Frontiera 1941, ma in Diario d’Algeria, sezione Vecchi versi a Proserpina, e di lì espulso per trovare opportu- namente sede dopo molto travaglio nel riassetto ultimo di Frontiera 1966, nella nuova e ricalibrata sezione Versi a Proserpina29. Il secondo frammento, due soli versi: «Salvaci allora dai notturni orrori / dei lumi nelle case silenziose», se non vedo male non trova esplicite corrispondenze nei testi editi.

27 La lettera è datata 21 febbraio 1972 (cfr. Apparati, ivi, p. 474). 28 V. Sereni, Poesie cit., p. 364. 29 Cfr. per la complessa elaborazione, ivi, pp. 366-369. 670 Clelia Martignoni

Un altro caso sempre gravitante intorno a Frontiera e all’assiduo scavo va- riantistico di Sereni porta però più avanti, ed è connesso con la lavorazione di tre dattiloscritti degli anni cinquanta, W1, W2, W3, dove si fissa la stesura di Un lungo sonno, incunabolo degli Strumenti. Una lettera del 22 luglio 1956 all’ami- co Claudio Barigozzi30 ragiona sulla ripresa di Sul tavolo tondo di sasso che come si sa fa il suo ingresso in Frontiera solo nell’edizione definitiva del 1966, ultimo testo dei Versi a Proserpina e penultimo dell’intera raccolta. In calce a W3 si leg- ge per la poesia in questione: «la prima stesura è del 1941. Non so come, coi re- sidui di un’altra poesia cestinata, l’ho riesumata l’anno scorso dandole la piega attuale. È però sempre cosa di allora». Sereni la penserebbe dunque idonea, insieme «con i vecchi e nuovi versi a P[roserpina]», a un’«eventuale e improbabile ristampa di Frontiera», che invece vi fu. La lettera a Barigozzi spiega il ritorno sul testo abbandonato chiarendo sia molti dati testuali, sia più in generale la tecnica di lavoro tenace, protratta, dut- tile di Sereni. Vediamo in sintesi: 1. affiora un elemento genetico altrimenti in- spiegabile: l’oscuro v. 3 del testo finale («Di occhi ardenti, di capelli castani?») è la traccia residua e dissimulata di una quartina giocosa scritta da un amico (di cui si fa con qualche incertezza il nome) durante un festeggiamento conviviale luinese31. 2. Sereni stabilisce anche un’epigrafe collettiva per i Versi a Proserpina, ricavandola da un «inizio di poesia mai finita», e commentando: «questa è la sua sola e vera destinazione»32. Un terzo caso: una lettera a Vigorelli del 30 novembre [1940] riporta la bel- lissima poesia «del sorriso», Ecco le voci cadono..., ultima di Frontiera 1966 (ma già in Frontiera 1941): con questa avvertenza, geneticamente preziosa reperita e illustrata da Isella negli apparati: «La poesia, eccola qui. È un tentativo di inse- rire in una compiutezza tre versi che già conosci»33. Insomma, pur senza forse arrivare ad allestirsi veri e propri dossiers specia- li di lacerti scampati dalla distruzione e destinati all’uso, l’artigiano Sereni si di- mostra già molto disponibile al recupero e alla messa in circolo di materiali pre- esistenti. Ma il caso merita altri accertamenti e altre riflessioni. I processi inven- tivi hanno strani e fascinosi percorsi che chiedono sempre di essere approfondi- ti per la gioia insieme del filologo e del critico.

30 Cfr. gli apparati, ivi, pp. 372-374. 31 Il tutto è ricostruito negli apparati di Isella a Poesie cit., pp. 371-374. Naturalmente si trova ora un commento analitico del dato nel ricco commento di Georgia Fioroni a V. Sereni, Frontiera, Diario di Algeria, Milano, Fondazione Pietro Bembo/Ugo Guanda editore, 2013. 32 L’epigrafe, identica a quella trascritta all’amico, si legge in effetti in Poesie cit., p. 43; l’ab- bozzo di poesia da cui è staccata, in Appendice I, VI, ivi, p. 384. 33 Cfr. Poesie cit., p. 377. Gli altri versi appartengono all’iter elaborativo di Strada di Zenna (cfr. Poesie cit., p. 344). L’ERMETISMO SPERIMENTALE DI «FRONTIERA»

Luigi Tassoni

1. La possibilità aperta dell’ermetismo

La tentazione di legare a filo unico tutta la poesia di Vittorio Sereni è sem- pre molto forte. Ne garantirebbero l’attendibilità di lettura i richiami, le riprese, le prospettive, ripercorsi nel flusso degli anni. Ma questa volta vi resisteremo per- ché in questo capitolo è mia intenzione indicare il percorso sperimentale del lin- guaggio di Sereni, saggiato nello spazio ristretto dei suoi primi anni, inconsape- voli certamente delle tracce che in un arco di quasi mezzo secolo avrebbero por- tato sino all’ultimo libro, Stella variabile, del 1981, che paradossalmente fornisce due lacerti introduttivi di ciò che ora ci interessa e che era avvenuto all’altro capo cronologico dell’invenzione. Una delle poesie d’apertura di Stella variabile dice: «nuove ombre mi inquietano che intravedendo non vedo» (Lavori in corso, v. 25), segnale di una percezione parziale, che fa da perfetto pendant all’ultimo testo del libro: «passiamola questa soglia una volta di più» (Altro compleanno, v. 9). Se ram- mento le due fugaci istantanee, è per rimarcare una volta di più quanto l’intuizio- ne di Frontiera, giusto quarant’anni prima, costituisca un serbatoio permanente. Per comprendere poi in che misura è lecito parlare di ermetismo sperimen- tale, anche nella stretta relazione di Sereni con i suoi compagni di generazione, dovremo essere più accurati e perciò leggere attentamente i testi. Quanto al de- precato Ermetismo dei detrattori, che mi pare abbiano giocato cercando un ne- mico invisibile, se bastassero alcune riflessioni tanto per aggiustare la mira, ne ricorderei quattro, spero utili. La prima è quella di Piero Bigongiari che in un saggio di autoriflessione e confronto con i modelli possibili scrive:

L’ermetismo ha voluto trovarsi una lingua poetica che dicesse tutto, che non scegliesse l’area privilegiata della poesia pura […]; in un discorso che non rifiuta nulla della propria provocazione storica, ma anche controlla il proprio percorso di senso; e vorrei dire decorso di senso1.

1 L’Ermetismo e Dante, in Piero Bigongiari, Poesia italiana del Novecento, II, Milano, Il Saggiatore, 1980, p. 442.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 672 Luigi Tassoni

Prendiamola come testimonianza di prima mano, e da parte di chi aveva an- che le mani in pasta, alla stessa stregua del contributo di Oreste Macrí, il criti- co per eccellenza del cosiddetto Ermetismo fiorentino, che ha parlato di «espe- rienza poetica estremo tentato, del massimo di resistenza significativa e attiva della parola e dell’immagine»2. Il lettore di oggi ne ricava senza dubbio l’ansia di identificare quel vento di novità, novità che andavano appunto sperimenta- te nel lavoro del testo, in anni densi e decisivi per la nostra contemporaneità. Addirittura l’anno 1942, che è lo stesso della seconda edizione del libretto di Sereni uscito da Vallecchi con il titolo di Poesie, è riconosciuto da Gianfranco Contini, sia pure in un consuntivo sin troppo veloce e dedicato soprattutto alla narrativa (ne risultano omessi La figlia di Babilonia di Bigongiari, Biografia a Ebe di Luzi, e le Poesie di Sereni), come «fase», forse di peso storico, ma comun- que annettendo a «Campo di Marte» il privilegio di luogo di un’avanguardia3. L’ultima corsia del nostro inventario si colloca come specchio disincantato di fronte al nemico invisibile, e la seguiamo in una lettera polemica di Sereni del 13 marzo 1941, indirizzata all’avvocato Roberto Pozzi, padre dell’amica poe- tessa Antonia Pozzi:

la poesia ermetica, in quanto tale, non esiste e nessuno s’è mai sognato di farla. L’ha trovata qualche critico che non ha saputo orientarsi di fronte a certe mani- festazioni del nostro tempo, per lui incomprensibile, e che molto comodamen- te sono state catalogate e passate agli archivi sotto tale formula; per cui ‘libro ermetico’ significa ormai ‘libro che non si capisce’. Che è un curioso modo di sbarazzarsi di ciò che si legge […]. È così facile, caro avvocato, dopo tanti secoli di poesia dire le grandi parole Eternità, Infinito e via dicendo, è troppo facile: il nostro è un lavoro oscuro […], tutto teso alla riscoperta d’una so- stanza, concreta, oltre quelle parole, divenute astratte. Com’è astratta dall’altra parte la concezione usuale del ritmo e della misura che debbono essere, prima di tutto, interiori. Non conta ‘l’endecasillabo’, non conta il ‘settenario’: conta l’endecasillabo di Dante4.

Da punti di vista differenti l’attenzione ai fatti è il richiamo alla concretezza, a quella cosa che tanta parte occupa nella poesia di Sereni e nel suo impegno di lettore e critico, per cui se di sperimentazione parleremo è per indicare quell’im- pegno che porta la poesia italiana dei giovani degli anni Trenta al di là delle espe- rienze consentanee e magistrali di Ungaretti con il suo simbolismo modernizzato efficacissimo, e naturalmente di Montale, testimone di allegorie emblematiche.

2 Cfr. Oreste Macrí, L’ermetismo di Bigongiari, Lecce, Milella, 1988, p. 88. 3 Consuntivo per il 1942, in Gianfranco Contini, Altri esercizi, Torino, Einaudi, 1972, p. 189. 4 Antonia Pozzi-Vittorio Sereni, La giovinezza che non trova scampo. Poesie e lettere degli anni trenta, a cura di Alessandra Cenni, Milano, Scheiwiller, 1995, pp. 87-89. L’ermetismo sperimentale di «Frontiera» 673

Al di là di ciò, è stato detto da voci più felici della mia5 che la Terza genera- zione costituisce la spina dorsale della poesia contemporanea, e segna nell’insie- me, un insieme vario, intrecciato, la differenza cosciente rispetto ai grandi ma- estri del Novecento europeo, in quanto fa propria la responsabilità di un lavoro sul linguaggio del testo. Al suo interno le grandi individualità si richiamano e comunicano, come meglio attestano le recenti edizioni di epistolari e gli scritti critici dei poeti. Se davvero dovessi cercare un elemento condiviso e unificante, lo indicherei in ciò che Sereni ha chiamato la posizione dell’io dentro la cosa, e l’orientamento nella vita segreta della cosa stessa, in una bellissima pagina dedi- cata a Morlotti. Tocchiamone i contorni:

La vita segreta della cosa, il suo potenziale oscuro, erompe dalla corteccia dell’al- bero o dallo specchio d’acqua come un tempo questa o quella divinità, ninfa, semidio. Crediamo di prestare alla cosa i nostri sentimenti, sussulti, pensieri, di investirla col nostro sguardo, mentre è lei, la cosa, a determinarlo, a imporci la sua presenza a prima vista insondabile e via via più chiara […]. Alle estreme conseguenze di quell’oblio di sé c’è la tensione della domanda dalla cosa a noi: lo sguardo scambievole che alla fine ne risulta ha il senso di una ipotesi in via di attuarsi, di un’essenza nascosta che si manifesta assumendo una forma visibile6.

Inoltre è frutto di un’ipotesi comune a tutta la generazione di Sereni il fat- to di percepire «il senso della contemporaneità» come spinta a meglio far cono- scere criticamente, nel confronto diretto della lettura spiegata, quei maestri ir- rinunciabili, naturalmente Ungaretti e Montale, le cui opere i giovani poeti di allora contribuirono fortemente a divulgare. Sereni in particolare ha ben chia- ro quanto gli avviene negli anni Trenta: «Da tempo mi ero accorto che in una pagina scritta come in un intero libro i segni che più mi attraevano erano con- nessi al senso della contemporaneità, diciamo al colore e all’aria del tempo nel quale ero posto a vivere»7. Siccome siamo coscienti di parlare di grandi esemplari novecenteschi, con il dovere etico di evitare certe orecchiabili collusioni sinottiche che rendono anti- patica la storia, vorrei subito ammettere che non ritengo utile considerare quei modelli che pretendono dalla storia una razionalità e una omogeneità, se non

5 Insuperata ancora oggi l’appassionata analisi di Silvio Ramat in Ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1969. Per le riflessioni specifiche sul tema della Terza generazione cfr. Anna Dolfi, Terza generazione. Ermetismo e oltre, Roma, Bulzoni, 1997; e L’ermetismo: una generazione, in Visi- tare la letteratura. Studi per Nicola Merola, a cura di Giuseppe Lo Castro, Elena Porciani, Caterina Verbaro, Pisa, Edizioni ETS, 2014, pp. 91-99. 6 Morlotti e un viaggio (1982), in Vittorio Sereni, Gli immediati dintorni primi e secondi, a cura di Maria Teresa Sereni, Milano, Il Saggiatore, 1983, ora V. Sereni, Poesie e prose, a cura di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 2013, p.681. 7 Dovuto a Montale, «Rotonda», Almanacco luinese, 1984, 6 (ora in V. Sereni, Poesie e prose cit., p. 1031). 674 Luigi Tassoni una meccanicità causa-effetto, che essa non ha. Le somiglianze nella gramma- tica della poesia riguardano semmai un orecchio comune ai poeti, un ascolto orientato ai punti nodali e alla materia della scrittura, elementi che avvicinano fra loro quei giovani della Terza generazione interlocutoria della tragica reinven- zione ungarettiana, come delle perplessità montaliane, e a monte della lezione europea attualizzata (Hölderlin, Char, Ponge), fino all’inventario di Leopardi, e su su alla sinopia di Petrarca (sul quale per un momento ritornerò), ma tutto ciò nella condivisione sperimentata per vie autonome e individuali del lavoro profondo sul testo, profondo senza occasionalità. Niva Lorenzini lo ha spiega- to benissimo, parlando di necessità di «assumere il testo […] come evento che possiede una propria ritagliata evidenza, una specifica verità»8. In questo comu- ne sforzo, affrontato, come scrive Sereni per Caproni, «convertendo in oggetti- vità l’“io” lirico odioso e invadente»9, risuona con una involontaria aria serenia- na l’interpretazione del compito dell’ermetismo proposta da una delle lenti più chiare e penetranti della nostra contemporaneità, Adelia Noferi, preziosa per la ben nota prospettiva di partenza, secondo la quale

fu appunto il compito di penetrare nel cerchio dell’universo poetico petrarche- sco, come una sorta di cuneo, con una forza dirompente, sbloccandone la im- mobilità in cui tutta una tradizione poetica l’aveva sigillata, per farvi penetrare il movimento e il divenire, […] nel tentativo di ridare una voce alle cose: “lasciar parlare le cose”10.

Indicazione che, anticipandola, mette fuori gioco la spiegazione della diver- sità di Sereni, che Dante Isella, lettore accuratissimo, spiega come «lingua po- etica diversa, ma non meno aristocraticamente selettiva di quella degli adepti dell’orfismo fiorentino. Non volendo, a scanso di equivoci, chiamarla ermetica, si potrebbe dirla “petrarchesca”»11. Sicché ogni condivisione in vista del fantasma della contemporaneità è subito una dichiarazione individuale di distanza da in- gombranti parentele interne e esterne. Si parlerebbe forse di ermetismi per evi- tare l’imbarazzo degli irrisolti per l’ermetismo, troppo a lungo dosato sull’equi- voco della cerchia chiusa che in effetti non fu né conventuale né orfica. Non è un caso che un lettore di grande prestigio come Mengaldo senta per Sereni una sintassi ancora leggera rispetto all’ermetismo («ardito» di Luzi)12; o che un’acuta

8 Niva Lorenzini, Il presente della poesia. 1960-1999, Bologna, Il Mulino, 1991, p. 73. 9 Un poeta di poche parole, «Europeo», 28 giugno 1982 (ora in V. Sereni, Poesie e prose cit., p.1074). 10 Adelia Noferi, Le poetiche critiche novecentesche «sub specie petrarchae», Firenze, Le Mon- nier, 1970, p. 274. 11 Dante Isella, La lingua poetica di Sereni, in V. Sereni, Tutte le poesie, a cura di Maria Teresa Sereni, Mondadori, Milano 1986, p. XVIII. 12 Ricordo di Vittorio Sereni, in Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Secon- da serie, Torino, Einaudi, 2003( ora in V. Sereni, Poesie e prose cit., p. XVI). L’ermetismo sperimentale di «Frontiera» 675 commentatrice come Laura Barile alimenti l’equivoco di un Sereni lontano dagli amici ermetici perché «non ne condivideva la fede in una “cupola metafisica”»13. Oggi sappiamo che le tante osservazioni di cieca diffidenza circolate in ambito storico-critico per buona parte del Novecento inibiscono ogni possibilità di ap- profondimento, distorcendo in tutto o in parte la storia e la complessità effet- tiva di una generazione di poeti. Si tratta di una situazione detta ottimamente da Isella «del tutto eccezionale, di una lingua, come l’italiano, che per la prima volta da lingua di cultura andava imponendosi sia pure confusamente come lin- gua della comunicazione»14. Da qui l’ammissione importante, anche se piccosa- mente selettiva, di Isella: «In quello spazio Sereni e i migliori poeti della sua ge- nerazione (Bertolucci, Luzi, Caproni), si sono spinti innanzi, senza abiure, sen- za timidezze, correndo tutti i propri rischi»15. Leggeremo oggi Frontiera nella visione e revisione volute dallo stesso Sereni nel passaggio intuitivo dall’edizione originaria del 1941, a quella ritoccata del 1942, ovvero nella lezione riorganizzata del 196616. Ed è questo un modo di leg- gere forse poco filologico, certamente cosciente della volontà storica dell’autore.

2. Il soggetto come lo spazio

Fino ai primi anni Ottanta il poeta ricorda, e lo fa in una bellissima prosa dedicata a Montale, il lontano «tempo di spiccata predilezione per l’inverno», allorché viveva «uno di quei momenti di completezza, di piena fusione fra sé e il mondo sensibile, grazie e di fronte ai quali lo spirito desiderante si appaga di se stesso, rifiuta i contorni»17. E che sia questa la stessa suggestione che attraver- sa per buona parte la scrittura negli anni di Frontiera lo conferma ulteriormente un brano successivo della prosa nel quale echeggiano certe circostanze di fondo che s’incontrano nell’intero libro, se non addirittura il sottofondo immaginario, ritmico e precisamente musicale mantenuto nelle tracce del verso:

13 Laura Barile, Vittorio Sereni, in Antologia della poesia italiana, diretta da Cesare Segre e Carlo Ossola, Novecento, vol 6, II, p. 617. Il riferimento ultimo è alla nota enunciazione di Carlo Bo, qui ricontestualizzata. 14 D. Isella, in La lingua poetica di Sereni cit., pp. XXVI-XXVII. 15 Ivi, p. XXVII. 16 L’edizione adottata per la presente lettura è quella più recente contenuta in V. Sereni, Poe- sie e prose cit., pp. 49-101, sostanzialmente identica all’edizione riorganizzata dall’autore (Milano, Scheiwiller, 1966), rispetto alla prima edizione (Milano, Edizioni di «Corrente», 1941), e alla successiva (Firenze, Vallecchi, 1942). Per le varianti e gli spostamenti di testi interni al libro o pro- venienti da Diario d’Algeria, Firenze, Vallecchi, 1947, si veda l’edizione delle Poesie, prefazione di Dante Isella, antologia critica di Pier Vincenzo Mengaldo, cronologia di Giosuè Bonfanti, biblio- grafia critica di Barbara Colli, apparato critico e documenti a cura di Dante Isella, Mondadori, «I Meridiani», Milano 1995 (1999). E, sempre ricca di informazioni, la lunga nota introduttiva di Giulia Raboni, in V. Sereni, Poesie e prose cit., pp. 7-17. 17 V. Sereni, Dovuto a Montale cit., p. 1030. 676 Luigi Tassoni

Una animazione improvvisa, non localizzabile, ci sorvolava dilatando il paese al di là dei suoi limiti fisici. Sospesa in un tempo imprecisato Luino diventava l’oltrefrontiera o addirittura l’oltreoceano, se appena un ragazzino di passag- gio accennava nel buio motivi di canzoni allora in voga: Luna su Miami, San Francisco…18

L’immagine del paesaggio che si fa cosa intravista, come le figure di aman- ti, ballerini, sodali, viaggiatori, nella dizione solo apparentemente semplice di Frontiera, appare, scompare e forma il macrosema della frontiera come segna- le, limite, sospensione, illusione, traccia persistente fuori e dentro la coscienza. Il libro fondamentalmente è stato scritto alla frontiera della giovinezza, intesa come soglia tra la vitalità di un’attesa e l’incognita della prospettiva futura, in- cludendo in questa percezione del limite (caro a tanta poesia primonovecente- sca ) il discorso sulla morte, che, come per la memoria, si caratterizza in ma- niera del tutto particolare nel primo Sereni19. Nel misterioso inizio della poe- sia di Sereni, Inverno, appunto, scritta nel 1935, si evoca la medesima contra- stante condizione di chi guarda alle montagne come limite protettivo, limite e svelamento della bellezza («le montagne nel ghiaccio s’inazzurrano», v. 4), e scopre la via di fuga, di una fuga difficile («mentre ulula il tuo battello lonta- no/ laggiù, dove s’addensano le nebbie» (vv. 16-17). Proprio Inverno inaugura una delle caratteristiche tipiche della lingua poetica di Sereni, ottimamente po- stillata da Giovannetti e Lavezzi come «fluidità sintattica», ovvero come opera- zione del discorso che fa valere in compresenza due o più immagini enunciate sia con valore autonomo sia come incastro e avvio di un verso successivo («clu- sters che, per mancanza di una punteggiatura analitica, determinano “arci-pa- role” o “arci-frasi”»)20. Parte da qui il fantasma che è il personaggio intravisto o che intravede se stesso negli scenari del primo libro, evanescente, come l’ha intuito Mario Luzi in un suo scritto forse un po’ troppo castigato: «L’io evanescente e in fuga del testo corrisponde a una figura umana discreta ma tanto più coinvolgente pro- prio per questo»; «Anche oggi […] mi domando se la suggestione che eserci- ta [la poesia di Sereni] non dipenda proprio da quella abbastanza difficile coin-

18 Ivi, p. 1034. 19 Sempre generoso con l’interlocutore, Sereni ribadisce costantemente la lezione elementare del confine geografico. Cfr. l’intervista a cura di Paola Lucarini, in «Firme nostre», settembre 1982: «Quando parlo di frontiera non penso soltanto a una barriera geografica, ma alla chiusura dell’Italia rispetto all’Europa, la parte di mondo che ci era più vicina e che ci sembrava tanto lontana» (citato da V. Sereni, Poesie, Mondadori, «I Meridiani» cit., p. 295). Sull’argomento si era espresso tempestivamente Alfonso Gatto nell’articolo Vittorio Sereni: “Frontiera”, in «Lettera- tura», V, aprile-giugno 1941, 2, pp. 147-150. Vedi lo studio accurato di Stefano Raimondi, La «frontiera» di Vittorio Sereni. Una vicenda poetica (1935-1941), Milano, Unicopli, 2000; e Laura Barile, Sereni, Palermo, Palumbo, 1994. 20 Piero Giovannetti-Giorgio Lavezzi, La metrica italiana contemporanea, Roma, Carocci, 2010, p. 270. L’ermetismo sperimentale di «Frontiera» 677 cidenza tra la oscillante e sgusciante identità dell’oggetto […] con la precaria e per così dire inferma identità dell’“autore”, cioè di colui che produce e autoriz- za il discorso»21. Ciò che più direttamente emerge dalla lettura di un sodale e consentaneo, quale Luzi, è senza dubbio la persistente ricezione, prolungata nel tempo e lungo l’arco della poesia di Sereni, di quell’originaria identità scoper- ta alla frontiera, al limite stesso del dichiararsi a metà coinvolto nella distinzio- ne e a metà nell’immedesimazione, a metà io a metà altro, che perdura non solo nell’attenzione di Sereni alla cosa quanto anche nel suo essere nel discorso, esse- re nell’immagine, tentativo estremo che coinvolge un moto generazionale, sor- prendentemente esemplato dal poeta quando adotta in pieno una significativa battuta di Morlotti (e non si dimentichino, sulla medesima lunghezza d’onda, le pagine dedicate da Bigongiari al pittore dell’Informale): «Ci si può perdere nel verde della siepe come in uno sguardo o sentirsi un insetto dentro le cose». Come a volerci far intuire che il limite della frontiera vale come desiderio di sguardo oltre la siepe e contemporaneamente nel profondo invisibile della cosa.

3. La ricontestualizzazione

Se Inverno apre l’edizione Scheiwiller del 1966, tocca a Concerto in giardino nella prima versione del libro, Corrente 1941, e nella vallecchiana dell’anno dopo annunciare in apertura un buon numero di interessanti primizie, e, come già det- to, guardare «la vita segreta della cosa, il suo potenziale oscuro [che] erompe»22. Concerto in giardino, scritta nel giugno del 1935, indica l’altra caratteristi- ca del giovane Sereni: la ripetizione, la sua ricontestualizzazione nel discorso e la riproposizione per analogia nel medesimo semantico, in parte riconoscibile nelle diverse tipologie di iterazione studiate da Mengaldo23. Ciò dà al discor- so del testo un andamento di ritorno circolare sì, ma diversificato nel progres- sivo svolgersi del pensiero, come avviene ad esempio in Leopardi quando si ri- badisce la condizione di partenza e via via se ne accentua la permanenza e l’in- cidenza paradigmatica. Dunque, leggiamo Concerto in giardino:

1 A quest’ora 2 innaffiano i giardini in tutta Europa. 3 Tromba di spruzzi roca 4 raduna bambini guerrieri, 5 echeggia in suono d’acque

21 Cfr. V. Sereni, Morlotti e un viaggio cit., p.680. 22 Ivi, p. 681. 23 Cfr. P. V. Mengaldo, Iterazione e specularità in Sereni, in «Strumenti critici», febbraio 1972, 17, pp. 19-48 (ora in P. V. Mengaldo, Per Vittorio Sereni, Aragno, Torino 2013, pp. 109-148). 678 Luigi Tassoni

6 sino a quest’ombra di panca.

7 Ai bambini in guerra sulle aiole 8 sventaglia, si fa vortice; 9 suono sospeso in gocce 10 istante 11 ti specchi in verde ombrato; 12 siluri bianchi e rossi 13 battono gli asfalti dell’Avus, 14 filano treni a sud-est 15 tra campi di rose.

16 Da quest’ombra di panca 17 ascolto i ringhi della tromba d’acqua: 18 a ritmi di gocce 19 il mio tempo s’accorda.

20 Ma fischiano treni d’arrivi.

21 S’è strozzato nel caldo 22 il concerto della vita che svaria 23 in estreme girandole d’acqua.

Nella poesia il tema del movimento consente una visione sinottica all’imma- ginario guardante che segna il tempo (v. 1) e il luogo prospettico dell’io (v. 6 e v. 16). Tutt’intorno il movimento stesso della vita in una serie di azioni diversi- ficate in cui il discorso sovrappone o rende contigui i campi semantici del gio- co tra bambini, del gioco guerresco, della gara di auto vere e proprie che però in grande simulano le possibili gare infantili, fino al «gioco» dei treni in arrivo e quello delle girandole d’acqua. Al centro «s’accorda» il tempo dell’io, denun- ciando l’ascolto e la visione da fermo, mentre il mondo fluisce nella sua dina- mica: l’annaffiatoio dei giardini (v. 2), la «tromba di spruzzi roca» (v. 3), che è lo stesso oggetto tradotto in percezione uditiva, e l’eco-suono (v. 5), il «vorti- ce» violento (v. 6), poi rumore da autodromo (vv. 12-13), il fischio dei treni (v. 15), le girandole d’acqua (v. 23). Il tema scoperto del «concerto» per il silen- zioso spettatore garantisce ritorni e ripetizioni lungo il margine della medesi- ma area semantica. Nuovamente, filtrato dalla presenza indiscreta dell’io (v. 6 e v. 16), «Da quest’ombra di panca», la tromba d’acqua (v. 17), che pare ringhio, e slitta dalla percezione del rumore dell’acqua a quello per similitudine di una minaccia animalesca. Il confine dell’io è intorno a lui, presenza minacciosa na- scosta fra presenze per così dire pacifiche ma che si prestano allo scambio, all’e- quivoco, al dubbio sull’effettivo oggetto di riferimento. Il ritmo esterno, il «ru- more della vita», come lo chiama Penna in un celebre distico, che deriva dal ro- morio leopardiano, materializza l’invisibile tempo dell’io, e pure la ripresa fina- L’ermetismo sperimentale di «Frontiera» 679 le si direbbe a soluzione aperta, quella dei treni che fischiano (v. 14) e arrivano (v. 20). Questo sorgere e strozzarsi di suoni e di varie sollecitazioni acustiche si dispone come a delimitare la frontiera di un mondo che, secondo il poeta, so- spetta consonanze e predizioni rispetto a ciò che non si vede. Ecco forse perché le girandole finali sono «estreme» (v. 23), perché esse agiscono nella percezione del limite, alla frontiera di due mondi udibili comunque. Vorrei dire fra parentesi che l’uso della preposizione nel caso di «Ai bam- bini in guerra sulle aiole/ sventaglia, si fa vortice» (vv. 7-8), propone una dop- pia possibilità: quella della guerra per i bambini, e quella della sventagliata e del vortice verso i bambini, nell’uso volutamente equivoco e per così dire possibili- sta che tanta poesia italiana degli anni Trenta e Quaranta pone in modo disini- bito all’attenzione del proprio lettore. Basterebbe per tutti l’esempio di un po- eta esemplare come Alfonso Gatto, e il suo Morto ai paesi, del 1937, per il qua- le il più acuto interprete di quella poesia, Silvio Ramat, ha parlato giustamente di «sfasature grammaticali»24. Nel testo la designazione del luogo dell’ascolto e della ricezione, «sino a quest’ombra di panca» (v. 6), ripropone con l’inversione degli elementi un’im- proprietà che sta alla base dello sperimentalismo del giovane Sereni: pensate ora all’immagine che egli ci propone, intendendola sia alla lettera sia spostando l’in- terpretazione sulla panca all’ombra25.

4. L’intersezione, la doppiezza

Frontiera, in parte lo abbiamo visto, compita la poesia coeva secondo una sor- ta di spontaneo codice espressivo comune assorbito dal vorace lettore di quell’e- poca, che sa però come rimescolare le carte e piegare gli effetti al senso di stupo- re, di momentaneità, di previsione minacciosa, di isolamento, di fuga, di enig- maticità del riferimento, che si intrecciano nel discorso di tutto il libro. Libro tutt’altro che marginale, anche se apparentemente facile, né puro, come pensa- va Giovanni Raboni26, perché la poesia degli ermetici Gatto, Bigongiari, Luzi, Sinisgalli, si impone per un linguaggio tutt’altro che puro, anzi spesso contami- nato dal lavoro a più livelli sull’immagine e sugli effetti di senso, che, come ab-

24 Silvio Ramat, Introduzione, in A. Gatto, Tutte le poesie, a cura di Silvio Ramat, Milano, Mondadori, 2005, p. VI. 25 Dante Isella lo ritiene un segnale evidente dell’ermetismo di allora, come si desume dagli appunti riguardanti i corsi tenuti al Politecnico Federale di Zurigo nel 1987, commentati da Ottavio Besomi in Dante Isella allievo a Friburgo, maestro a Zurigo, in «Strumenti critici», XXIV, maggio 2009, 2, p. 196. 26 Giovanni Raboni, Vittorio Sereni, in Poesia italiana. Il Novecento, II, a cura di Piero Gelli e , Milano, Garzanti, 1980, p.643: «Al trobar clus e alle “evocazioni pure” dell’erme- tismo, Sereni contrappone (senza alcuna polemica) un suo chiaro e struggente paesaggismo, una sua discreta ma tenerissima fisiologia dei sentimenti, persino qualche accenno di colloquialità». 680 Luigi Tassoni biamo notato in precedenza, trapelano dal verso. Questi compagni di genera- zione e il poeta di Frontiera superano il motivo della parola cercata/trovata se- condo Ungaretti, con il suo affascinante simbolismo rimotivato, e così pure il coinvolgente discorso allegorico di Montale. Nella sperimentazione di Frontiera c’è la ricerca di quella rottura della linea- rità semantica, che il giovane Sereni ottiene con l’intersezione di due o più im- magini visive, o enunciazioni in senso lato. Come accade, ad esempio, in Poesia militare, là dove l’incipit crea un’ambiguità polisemica, come se il discorso, e non la parola, si intensificasse nel suo doppio valore enunciativo, con un incipit che peraltro si pone in forte contrasto con l’ordinata sintassi del periodo versa- le successivo. Leggiamo il testo:

1 Mezzanotte fu sui cancelli 2 fresca d’acqua nel vento 3 la voce dolente di sonno. 4 Arretrava nell’ora 5 un paese d’azzurri santuari 6 perduto tra le perse primavere.

7 Ma salvo nelle voci degli addii 8 sommesso presentiva il mare 9 al passo dei notturni battaglioni.

La poesia, scritta a Garessio nell’agosto del 1940, come Sereni dice in una lettera a Vigorelli (del 20 novembre 1940), avrebbe dovuto parlare proprio del paese di Garessio, che invece sopravvive come traccia visiva, anzi affidata alla memoria notturna in quanto è ricordato principalmente come perdita (da qui la ripetizione semantica del v. 6), e all’evidenza di un colore dominante (vv. 5-6)27. Il nostro lettore di oggi vede bene che l’attributo «fresca», e la conseguente spe- cificazione, «fresca d’acqua nel vento» (v. 2), non saprebbe se riferirli al sogget- to del v. 1 o a quello del v. 3, alla «Mezzanotte» o alla «voce». E se pure la sug- gestione cedesse a questa seconda ipotesi, il v.1 anticiperebbe una sorta di so- spensione allusiva, riproposta nella seconda strofa, là dove non viene chiarito che cosa presentiva il mare. Ebbene, lo stesso lettore d’oggi, anche per maggio- re dimestichezza con questo tipo di processi creativi, capisce che i due enunciati si sovrappongono e si integrano. Proviamo a ricostruire a senso con il sano eser- cizio della parafrasi: la mezzanotte si percepisce passata sui cancelli e associata alla freschezza acquea portata dal vento, in una sorta di intontimento notturno che, al militare assonnato (?), consente la materializzazione dell’ora inoltrata, di fronte ad emblematici cancelli, mediante la percezione tattile, a pelle, del fresco

27 Cfr. la lunga nota dell’apparato critico nel volume dei «Meridiani» di Poesie cit., pp. 330-333. L’ermetismo sperimentale di «Frontiera» 681 vento notturno: tutto in una dimensione di passaggio. Oppure, o contempo- raneamente, la sensazione della mezzanotte che passa coincide con la voce «do- lente di sonno » perché affaticata, e allo stesso tempo fresca voce egualmente nel vento, come sentendo nella voce, e nella figura dell’assonnato, in gola, il fresco notturno del vento. Ancora una volta le due soluzioni si integrano e si comple- tano, lasciando nella lettura quello stato di sospensione necessario alla poesia in questione. Sereni, che ci ha abituato alle riprese, alle ripetizioni differite, ritor- na dunque (v. 4) sull’ora del dormiveglia e sull’impressione di quel paese, che sappiamo essere il vero tema inizialmente designato per Poesia militare, per la quale confessa agli amici il proprio timore di aver fallito, come accade per mol- te altre poesie di un libro che sembrerebbe nato in una sorta di limbo dubbio- so. Lo scrive nella già citata lettera a Vigorelli:

È una poesia mancata, lo so. E al solito cercava di puntellarsi su dei particolari […] suggestivi (i cancelli delle ville, Garessio che è pieno di chiese -azzurre nell’ora notturna- Garessio che è a pochi chilometri dal mare e ha un sentore d’aria marina, i battaglioni che passano); ma io volevo dire altro: volevo dire che cosa è stato Garessio nella mia vita, che cos’è stato per me starci un mese e poi andarmene ecc.28

Ma io volevo dire altro: evidentemente quel qualcos’altro che il poeta vorreb- be dire non può che rimanere sotto alle parole, nella sfera personale soggetti- va, mentre quasi d’istinto preme una tentazione diversa che è quella appunto nell’immersione che avviene nell’ora che arretra, nella sensazione altrimenti in- dicibile della perdita senza via d’uscita: è qui che il «paese d’azzurri santuari» ar- retra e si perde così come si perde la primavera, il passato, la stessa giovinezza. Mentre l’io, senza comparire, accerta questo passaggio critico, e riporta l’enun- ciazione su un altro registro, con lo scarto grammaticale della congiunzione av- versativa «Ma», ovvero al presentimento del mare che sta nelle «voci degli ad- dii» (ecco la doppia ripetizione differita), questa volta perdite di diversa natu- ra e voci non dolenti di sonno ma dolenti per lo stesso addio, così che il lettore percepisce l’arretramento della memoria perduta e l’avanzamento del presente che ha (ancora ripetizione) il «passo dei notturni battaglioni» (v. 9). La metrica di Poesia militare sostiene l’immagine a cerniera: da un lato sonnolenta, incon- sapevole e però fortemente reale la sensazione dell’allontanamento del passato, del tutto perduto, irrecuperabile e persino indicibile (Ma io volevo dire altro), dall’altro un allontanamento che ha il passo militare; ovvero un arretramento inesorabile del passato opposto e associato a un avanzamento verso l’incognita del futuro con il passo del battaglione militare. Dunque, una metrica che alter- na degli orecchiabili novenari e settenari fino al v. 5, e nel successivo dichiara in endecasillabo la definitiva perdita. Ripresa frontale in endecasillabo, seguita dal

28 Ivi, p. 333. 682 Luigi Tassoni novenario e chiusa dall’altro endecasillabo. Per quanto sembri all’autore non ri- uscita, la poesia mantiene nel suo attento equilibrio di fattori paralleli nell’or- dine del discorso, della metrica, e anche nella sua misurata esile trama di ripe- tizioni foniche e mancate assonanze, la sua vocazione di storia pensata in pro- sa e ritmata in verso («Arriverò alla prosa o sarà l’ora della mia poesia quella in cui mi sarò chiarito queste domande?»29 ).

5. Nel cerchio dell’evento

Allo stesso modo delle dinamiche discorsive appena descritte, il sèma della momentaneità che racchiude dal primo all’ultimo verso un’altra breve poesia, Terrazza, del 1938, si consolida nella evocazione di uno spazio sospeso, di even- to, come dice testualmente la poesia, quasi di segnale della transitività e dell’im- previsto in attesa di manifestarsi davvero. Potremmo considerarlo il limbo, spe- rimentato nello spazio e nel tempo, entro il quale la prima esperienza di Sereni matura la percezione del confine etico, visivo, percettivo, che incombe quasi ne- cessario in ogni pagina del libro, ineludibile e invisibile («un fioco tumulto di lontane / locomotive verso la frontiera», Inverno a Luino, vv. 25-26), e allo stes- so tempo l’inconsapevolezza della sua tangibilità, come spiega appunto Terrazza:

1 Improvvisa ci coglie la sera. 2 Più non sai 3 dove il lago finisca; 4 un murmure soltanto 5 sfiora la nostra vita 6 sotto una pensile terrazza.

7 Siamo tutti sospesi 8 a un tacito evento questa sera 9 entro quel raggio di torpediniera 10 che ci scruta poi gira se ne va.

Non solo la momentaneità e la sospensione tracciano il senso di questo te- sto, quanto un altro importante tassello della mappa compositiva del giovane Sereni, ovvero l’uso del pronome personale al plurale, quel «noi» che certamen- te lo accomuna al linguaggio di altri compagni di generazione (esemplare Luzi in La barca: «Amici ci aspetta una barca», Alla vita, v. 1), e che certamente evi- ta l’identificazione soggettiva, introduce il gruppo di testimoni, e crea contra- sto con l’interlocutore ambiguo, autoriflessivo forse, e comunque portatore di una consapevolezza a parte («Più non sai», v. 2). Al solito la ripetizione ha va-

29 Ibidem. L’ermetismo sperimentale di «Frontiera» 683 lore strategico, qui anche metricamente, se pensiamo che la misura del testo si basa su settenari, eccetto il novenario di v.6, e soprattutto quello del v. 8, e il duro decasillabo del v. 1, forse del v. 10, incipit e clausola, che però possono es- sere letti, questi ultimi tre, come una sorta di trasgressivo allungamento del set- tenario, per cui si isola e sottolinea metricamente la portata ripetitiva dei vv. 1 e 8, la sera → questa sera (specificazione dell’evento improvviso), come si riba- disce la fuga della torpediniera indagatrice, inquietante raggio immaginario che fa coincidere la sosta-sospensione del gruppo con il desiderio di fuga materia- lizzato dall’imbarcazione, con se ne va, versi in continuità fonica fra loro, imba- stita sulla falsa rima con v. 9: sera→sera→torpediniera→se ne va. Che poi la sperimentazione di una metrica plausibile per orecchie del tutto differenti da quelle tradizionali fosse prerogativa dell’intera Terza generazione è stato da sempre ben chiaro, non forse altrettanto chiaramente è apparso che da questa esperienza in poi il ritmo della poesia italiana avrebbe dovuto fare i conti con regole metadiscorsive probabilmente non ortodosse secondo il cano- ne metrico. Tornando al nostro intrigante testo, leggiamo bene sin dall’incipit l’intenzio- ne di creare l’effetto sospensione, e forse con una implicita prolessi, se il lettore tende a domandarsi: perché la sera coglie improvvisa questi personaggi? Non è forse una sera come tutte le altre? La specificazione arriva appunto mediante la ripetizione che precisa il tiro al v. 8: è la sera, questa sera che sospende il grup- po a un evento tanto tacito quanto apparentemente lieve e silenzioso se non ap- parisse come manifestazione visibile di un’intenzione, una relazione, un deside- rio. La torpediniera fa ciò che il gruppo dei guardanti scrutati da essa (illumina- ti sì ma in modo inquietante) probabilmente farebbe in quell’istante che è bre- ve come un rapido pensiero. Così le azioni da ci coglie (v. 1) a ci scruta (v. 10) sono tutte passive, dal momento che il gruppo di cui si parla subisce percettiva- mente l’incursione di un evento complesso che, come nell’insieme degli enun- ciati, coglie, sfiora, sospende, scruta, e poi trascina via con sé in quell’inesorabi- le girarsi e andare della torpediniera. In accordo con quel qualcosa di indicibile nascosto che forse viene fuori solo grazie al raggio penetrante (nella coscienza?) della torpediniera, c’è la sensazio- ne individuale del «tu» che non sa dove finisce il lago, e dunque gli conferisce la dimensione di orizzonte imperscrutabile, lontano, chissà, indeterminato; ma c’è anche il murmure, che ben altre quattro volte sentiremo echeggiare nel libretto, un murmure lieve, silenzioso e indecifrabile come il desiderio finale, per cui la misteriosa terrazza di Sereni, oltre che luogo reale degli incontri fra giovani di cui ha parlato, è nel contesto della poesia una scena aperta e illuminata, un tea- tro aperto verso lo spettatore, come in uno di quei luminosi quadri di Hopper nei quali le figure tutte immobili sembrano la rappresentazione stessa dei loro pensieri, dell’inquietudine, dell’attesa di qualcosa. Ricordo che lo stesso raggio indiscreto e psichicamente indagatore il lettore di Frontiera lo trova nel testo che, nell’attuale ordinamento, precede il nostro, ovvero nella già citata Inverno 684 Luigi Tassoni a Luino, vv. 22-26: «Di notte il paese è frugato dai fari, / lo borda un’insonnia di fuochi / vaganti nella campagna, / un fioco tumulto di lontane / locomotive verso la frontiera»; là dove l’effetto quasi alla Hitchcock prospetta l’indiscreta intromissione di questi fari in un paese segnato, appunto bordato, da limiti che, in quanto fuochi, sono illuminazioni provvisorie, e sfiorato dal movimento del- le locomotive che vanno verso il luogo della possibilità e del desiderio di supe- ramento, il luogo per eccellenza al limite di qualsiasi cerchio finito: la frontiera.

6. Al di qua della frontiera

Potrebbe anche darsi che al di là di quel limite ci sia proprio l’infinita navi- gazione che apre Strada di Zenna, uno dei testi più articolati del libro. Il letto- re prima di tutto dovrà riflettere sul fatto che il risveglio (forse la sequenza suc- cessiva al sonno di cui abbiamo parlato?) avviene sì nel luogo circoscritto che dovrebbe essere il lago, ma che s’apre virtualmente a «un’infinita navigazione». Leggiamo Strada di Zenna a partire dalla prima strofa:

1 Ci desteremo sul lago a un’infinita 2 navigazione. Ma ora 3 nell’estate impaziente 4 s’allontana la morte. 5 E pure con labile passo 6 c’incamminiamo su cinerei prati 7 per strade che rasentano l’Eliso.

Anche se sembra del tutto naturale, proprio l’incipit racchiude, insieme al v.14 nella strofa successiva, una provocazione nella sintassi: qui «Ci desteremo […] a un’infinita / navigazione» è concepito sul calco di «destarsi alla vita», e senza dubbio il risveglio propositivo sottolineato dal verbo al futuro è prepara- to da un livello intermedio, nell’attesa, per cui il «Ma» dell’enunciato successivo non ha tanto valore oppositivo quanto temporale: mentre, intanto, ora «nell’e- state impaziente/ s’allontana la morte» (vv. 3-4). E dunque, se la morte per ora arretra, il passo «labile» del cammino è tale perché pallida anticipazione della promessa futura, così come i «cinerei prati» (v. 6) sono la pallida immagine at- tuale di qualcosa che, nonostante tutto, reca traccia del colore mortale, esteso in modo ambiguo alla bellezza dell’Eliso. Queste strade su cui si cammina, che non attraversano ma «rasentano» la possibile beatitudine, sono però un’anticipazione in misura limitata e limitante di ciò che si immagina come promettente infinita navigazione, ipotesi aperta, desiderio stesso dello sconfinamento oltrefrontiera. La seconda strofa perciò ci trattiene, noi lettori, al di qua della frontiera, quan- do il riso «innumerevole», collettivo in accordo con l’azione, cambia in broncio. Il perché lo vedremo più avanti: L’ermetismo sperimentale di «Frontiera» 685

8 Si muta 9 l’innumerevole riso; 10 è un broncio teso tra l’acqua 11 e le rive nel lagno 12 del vento tra le stuoie tintinnanti. 13 Questa misura ha il silenzio 14 stupito a una nube di fumo 15 rimasta di qua dall’impeto 16 che poco fa spezzava la frontiera.

In questo nuovo limbo della poesia di Sereni il riso che muta in broncio s’ac- corda al «lagno/ del vento» (vv. 11-12), una versione analoga al già conosciuto murmure che arriva però come suono provocato dalle stuoie, forse un segnale esterno, naturale, dell’impazienza estiva che attende di aprirsi. Un segnale o pro- prio, come con grande precisione dice il verso, una misura di quell’impazienza (v. 13) trattenuta nel silenzio, poco al di sotto del broncio e del lagno e non an- cora parola. Si tratta di un silenzio denso di stupore e riversato sull’impressione di una silenziosa «nube di fumo» (v. 15), labile anche questa e trattenuta al di qua, prima dello slancio impaziente che deve attendere, «che poco fa spezzava la frontiera» (v. 16), e dunque che è capace di rompere il limite almeno visivamen- te. Naturalmente «il silenzio/ stupito a una nube di fumo» (vv. 13-14) ripropone la preposizione impropria : il silenzio stupito di fronte o per una nube di fumo. Questa frontiera di Sereni mantiene attivi i due versanti del pensiero: al di qua l’impaziente estate (vv. 3-4) e l’impeto della giovinezza propositiva che ir- rompe (v. 15), di là la visione diretta introdotta dalla terza strofa che addirittu- ra specifica e scioglie il pronome plurale:

17 Vedi sulla spiaggia abbandonata 18 turbinare la rena, 19 ci travolge la cenere dei giorni. 20 E attorno è l’esteso strazio 21 delle sirene salutanti nei porti 22 per chi resta nei sogni 23 di pallidi volti feroci, 24 nel rombo dell’acquazzone 25 che flagella le case. 26 Ma torneremo taciti a ogni approdo. 27 Non saremo che un suono 28 di volubili ore noi due 29 o forse brevi tonfi di remi 30 di malinconiche barche.

L’incipit della terza strofa individua adesso un interlocutore singolo, un «tu» che è l’altra parte del noi, «noi due» (v. 28), più avanti specificato. La visione, 686 Luigi Tassoni il vedere sulla spiaggia, completa la percezione dell’abbandono e del tempo, «la cenere dei giorni» (v. 19), che comunque si consuma al di qua dello slancio pos- sibile, là dove montalianamente restano segnali di possibilità irrealizzate, visibi- li nell’immagine dei volti feroci e udibili nel rombo sinistro della tempesta che investe l’abitato, lo spazio dell’attesa. E dunque di seguito (v. 26) la previsione del ritorno dei due protagonisti «taciti», eredi forse del silenzioso stupore che abbiamo già notato, disegnati in una impressione figurata acusticamente, dive- nuti (o che diverranno) suono (v. 27) di un tempo differente, quello delle «vo- lubili ore» (v. 28), o ancora identificati nella traccia acustica del tonfo dei remi, in effetti annotazione più che malinconica, direi sinistra. In questa terza strofa la poesia si Sereni svela un’ambiguità o una contraddizione probabilmente vo- luta: la fuga, la partenza, la rottura della frontiera e l’avventura verso l’infinito, prospettiva di possibilità assoluta e potenziale, in effetti non si dice avvenuta, eppure negli ultimi versi commentati si parla di un ritorno: da dove? Rimasti i nostri protagonisti al di qua della frontiera, nel cosiddetto limbo dell’attesa? Prima di introdurre la strofa finale, torniamo sui nostri passi. Strada di Zenna poggia su un medesimo campo semantico, ridistribuito in metonimia e con dif- ferimenti sostanziali: messa da parte l’ipotesi dell’infinita navigazione come ipo- tesi di fuga e condivisione esistenziale, il discorso rimane stabilmente prospetta- to dal punto di vista di chi resta, e provocatoriamente circoscritto da varie sol- lecitazioni, come se il desiderio dell’Eliso avesse ceduto il passo a un Lete infer- nale, là dove «attorno è l’esteso strazio/ delle sirene» delle imbarcazioni (vv. 20- 21). Inoltre l’indicazione del non movimento si associa a quella dei ritorni con- tinui, del mutismo, quasi dell’inspiegabile, e fra l’altro l’ironia dell’approdo (v. 26) sta nel suo non essere una meta nuova ma un ritorno. La chiusa del testo si concentra su interlocutori distanti:

31 Voi morti non ci date mai quiete 32 e forse è vostro 33 il gemito che va tra le foglie 34 nell’ora che s’annuvola il Signore.

Si restringe lo spazio per il movimento dei due personaggi raccontati nel te- sto, e preme su di loro questa volta lo strazio dei morti. Morti che foscoliana- mente emettono un gemito tra le foglie (v. 33), premono dunque come presen- ze sul vissuto, e si uniscono a quelle voci che si erano avvicendate sin qui nel te- sto: il broncio, il lagno-murmure, il silenzio, il fumo, lo strazio delle sirene, il rombo, e il doppio silenzio dei protagonisti. Insomma, se la morte momenta- neamente sembrava esorcizzata nei versi iniziali, qui si ripresenta nel suo aspet- to più invasivo e meno eludibile, tanto che i morti non dànno mai quiete. Si trasformano anche le problematiche «volubili ore» (v. 29), e sono sostituite dall’ «ora che s’annuvola il Signore» (v. 34), con questa minaccia della divinità im- bronciata che ora preme sulla visione generale. L’ermetismo sperimentale di «Frontiera» 687

Ancora qualche parola sull’inquietante finale di una poesia che parte da un massimo di apertura ipotetica e si chiude a imbuto sull’impossibilità di quie- te inflitta dai morti ai viventi (ai due viventi di cui stiamo parlando), segnan- do ancora una volta un limite da frontiera: di qua chi resta, di là chi si desta. A proposito dell’ultimo verso, come sicuramente ogni buon lettore avrà notato, Sereni pare avere nelle orecchie l’Ungaretti di Ricordo d’Affrica(v. 23): «Ah! que- sta è l’ora che annuvola e smemora», che filtra nella memoria forse dall’orecchia- bilità magistrale del Sentimento del tempo, ma qui cambia pienamente di segno: l’ora di Sereni rasenta la perdizione e la cancellazione del dio, desolante e pro- fondamente carica di quel contrasto del tragico che intreccia il doppio versan- te di Frontiera. D’altra parte il limite, la separazione, il velo, il fango, la nebbia davanti agli occhi, lasciano tracce tangibili nel discorso di Frontiera, e nella im- plicita richiesta di saggiare il limite stesso. Mengaldo ne ha intrepretato un par- ticolare legato alle frequenti immagini «accompagnate dai ricorrenti connota- tori del sonno o dormiveglia, dell’oblio, della nebbia o bruma e delle nebbie»30.

7. Al di là della frontiera

C’è da considerare un aspetto indiretto ed egualmente cruciale per Frontiera, ovvero la stretta relazione che corre tra la percezione del confine in sé, immedia- to o immaginato, e la proiezione nei territori che ne allargano la consistenza e insieme la rendono maggiormente tangibile. Tanto l’Europa pensata sinottica- mente nell’ora in cui s’annaffiano i giardini, di cui abbiamo già parlato, quan- to l’accenno a un’ «Italia infinita» (Un’altra estate) così come la filmicaMemoria d’America, aprono gli immediati dintorni del libro conferendogli la prospetti- va di sfondo dei luoghi abbracciati con il desiderio, più che con la memoria, e accomunati fra loro dal guardare di Sereni a volo d’uccello anche fra le tappe più familiari: i Navigli, Salsomaggiore, il borgo, Zenna, il Tresa, Garessio, la Val d’Inferno, Creva, il colle Bédero, e sopra a tutto la cerchia di Luino. In questa ambientazione irregolare, relativa a un riferimento talvolta mobile, luoghi simi- li ricompongono per frammenti una sorta di paesaggio informale, come avvie- ne in Settembre, scritta nel biennio 1938-1940:

1 Già l’òlea fragrante nei giardini 2 d’amarezza ci punge: il lago un poco 3 si ritira da noi, scopre una spiaggia 4 d’aride cose, 5 di remi infranti, di reti strappate. 6 E il vento che illumina le vigne

30 P. V. Mengaldo, Da Čechov a Sereni, in «Strumenti critici», XXVI, maggio 2011, 2, pp. 207-208 (ora in Per Vittorio Sereni, cit., p. 77). 688 Luigi Tassoni

7 già volge ai giorni fermi queste plaghe 8 da una dubbiosa brulicante estate.

9 Nella morte già certa 10 cammineremo con più coraggio 11 andremo a lento guado coi cani 12 nell’onda che rotola minuta.

In Settembre l’ermetismo sperimentale di Sereni si rivolge a quella intensifi- cazione del discorso, tessuto più sul fonoritmo di risonanze interne che su una metrica cosciente. Si pensi per tutti al battere su sillabe come richiamo inter- no non identico, non regolare, come ad esempio: giardini (v. 1), spiaggia (v. 3), già (v. 7), già (v.9), coraggio (v. 10); oppure a richiami o assonanze a fine verso. Insomma l’intensificazione del discorso è intesa come intreccio di situazioni e corrispondenti enunciazioni, di immagini-flash associate, di confronti per diffe- renza, con lo stesso coraggioso metodo che tanta parte avrà nel lavoro dei poe- ti più giovani, e soprattutto in quello del maggiore poeta a noi contemporaneo, . Seguiamo la serie delle enunciazioni di Settembre. L’incipit con il doppio accento, brusco dunque, ci porta nuovamente nella suggestione dei giardini che, questa volta, creano una corrispondenza motivata fra visione e percezione della visione. La puntura forte e indeterminata «nei giardini/ d’ama- rezza» (vv. 1-2) ne è il connotatore principale. Allo stesso modo il paesaggio la- custre è in tutto e per tutto la descrizione di un luogo che in sé sostituisce e rap- presenta la percezione interiore, lo status critico del soggetto guardante, esteso alla consueta pluralità del «noi» a cui ci ha abituato Sereni: ecco che la spiaggia desolante fra aride cose e oggetti inservibili rivela l’inquietudine enigmatica di cose altrimenti indicibili, e di oggetti (i remi spezzati, le reti strappate) che ap- paiono come referenti tangibili di un più ampio mondo umorale. Notate che il terzo focus della poesia, dopo i giardini e il lago, comporta una sorta di inver- sione dinamica. Mi spiego: la percezione del vento è raccontata dalla sineste- sia, e l’intersezione insiste sul taglio di un’azione che tradizionalmente avremmo sentito come analogica. In effetti la dinamica di cui parlo si basa sull’ammissio- ne del ruolo del vento che svolge impropriamente la parte del sole, ed è appun- to questa improprietas ad allargare il campo semantico della visione (illumina si può anche intendere nel significato di «fa vedere meglio»), di modo che an- cora impropriamente sia il vento ad assumere il ruolo di connotatore tempora- le, forse della memoria, se porta al di qua, «volge» verso i «giorni fermi» perché immutabili ormai, giorni che provengono «da una dubbiosa brulicante estate» (v.8), con l’ovvia opposizione fra immobilità e mobilità. Ecco allora che la sin- tassi si ricostruisce con l’inserimento intuitivo delle tessere narrative che il poe- ta ha volutamente omesso o tagliato via. In perfetto parallelismo con quanto ho appena detto (là dove la ripetizione allinea e lega la connotazione: già, v. 7 e v. 9), l’ultima strofa porta a far convi- L’ermetismo sperimentale di «Frontiera» 689 vere l’assoluto elemento certo e immutabile che è la morte con il movimento di coloro che vi camminano dentro, anzi addirittura al futuro (cammineremo, v. 10; andremo, v. 11), che si specifica ancora meglio nel distico di chiusura in pie- na corrispondenza con l’immagine iniziale del lago: «andremo a lento guado coi cani / nell’onda che rotola minuta» (vv. 11-12), là dove il rallentamento è sug- gerito anche dal cursus degli accenti, come a delineare una sorta di condizione infernale: la puntura, il vento, la lentezza sia del passo sia dell’onda «che rotola minuta», ulteriore descrizione sul limite delle aride cose, lontanissime e opposte alle amate e ungarettiane «care cose consuete».

8. La morte come fine del tempo

È facile discorso il ricorso al tema della morte come limite estremo per ogni azione di cui si racconta nel primo libro di Sereni. Eppure l’equivoco non poco deviò in passato da una più attenta interpretazione di questo tema «misterio- so». Basti per tutti l’esempio di Anceschi che scriveva nell’introduzione all’an- tologia della Lirica del Novecento:

Già in Frontiera la poesia è sollecitata dagli oggetti del tempo e del paese, e vien figurandosi un reame d’immagini quotidiane e fedeli […], nel crepitio inquieto dei gentili deliri, e delle piccole avventure d’una giovinezza turbata. Ovunque […] è sottintesa una continua riflessione di morte31.

Oggi meglio interpretiamo il topos della morte come il limite di ciò che sa- rebbe significabile come differenza nulla, al punto che nel primo libro d’esordio la simulazione di un’azione possibile (al di là della morte?) crea non pochi equi- voci e sbilanciamenti. Il fatto è che l’esperimento si svolge tutto in luce, tutto vissuto fra le cose di Sereni, e proprio meditando su una morte per così dire lai- ca, sentita con le cose, che appartiene alle cose, non proprio ungarettianamen- te scontata vivendo, e però riconosciuta come traccia presente, nel presente, nell’immagine del presente. Esemplari a questo riguardo due affermazioni diStrada di Creva: «Questo tie- pido vivere dei morti» (v. 16); «E nei bicchieri muoiono altri giorni. // Salvaci al- lora dai notturni orrori/ dei lumi nelle cose silenziose» (vv. 31-32). La morte, in- somma, anche in sintonia con alcuni compagni di generazione (Sinisgalli, Gatto, Caproni, Bigongiari) appare come uno spazio non a sé, e anzi figura presente, che fa da tramite e da quinta agli eventi del giorno, e da qui si desta il pensiero dell’orrore anche come trasalimento notturno, improvvisa percezione dell’abis- so. La morte fra le cose e come cosa, provata nell’orrore dell’oggetto e del luo-

31 Luciano Anceschi-Sergio Antonielli, Lirica del Novecento, Firenze, Vallecchi, 1961, p. CI. 690 Luigi Tassoni go, nella consumazione della vita, lega strettamente l’esperienza del primo Sereni ad alcuni esempi altissimi delle generazioni successive, come nel caso di Bartolo Cattafi, da lui molto letto e amato, a quella del già citato Milo De Angelis. Gli aggiunti Versi a Proserpina32, proprio perché circoscrivono un mini- canzoniere circolare, intrecciato sulla sparizione della figura femminile e sul suo riconoscimento fra i luoghi più cari e nei tempi più concordi con tutta la poe- sia del giovane Sereni, suggeriscono una differenza da non sottovalutare riguar- do al topos della morte. Ora, sul finale del libro riordinato già nel 1942 e ritoc- cato nel 1966, gli eventi si riassumono proprio nella sparizione e nella mancan- za della figura femminile, e si ricollegano a lei: «è finita/ l’estate, è morta in lei» (Dicono le ortensie, vv. 6-7), determinando la spiegazione della morte come fine, sino a questo momento mai tentata. Sul tema della morte e dei morti Frontiera insiste secondo l’indicazione di una concreta presenza da affrontare tanto come limite quanto come necessa- rio attraversamento, tanto come elemento sottratto al tempo quanto come in- tromissione nell’esistenza, persino sentito come evento riproposto paradossal- mente nel tempo dell’anniversario (cfr. ad esempio 3 dicembre). Ciò comporta una sorta di segno comune rintracciabile in un campione emblematico per tut- ta la letteratura contemporanea qual è la narrazione dei Dubliners di Joyce. In più per il nostro Sereni vale l’accezione di morte della giovinezza, intesa come confine estremo e noto che sotto gli occhi del protagonista del libro mostra gli oggetti e il paesaggio della sua irreversibilità.

9. Alla fine del racconto per frammenti

Il breve testo, senza titolo, che chiude Frontiera e ne riassume l’ultima sezio- ne, scritto nel 1940, disegna metricamente il tema del ritorno mediante un ritmo più breve che il lettore è invitato a riconoscere nel verso più lungo. Dichiarativo e riassuntivo di una sorta di esito finale del racconto per frammenti che si svol- ge in tutto il libro, l’endecasillabo d’attacco, «Ecco le voci cadono e gli amici», sembra isolare l’esclamazione dell’incipit per dare spazio al verso, grazie anche alla strategica sospensione del secondo soggetto che è semanticamente compre- so nel primo, in un’incisiva sintesi per brevità, e allo stesso tempo porta all’equi- valenza e al potenziamento della seconda azione: le voci che cadono e gli ami- ci distanti. Dunque, il testo:

1 Ecco le voci cadono e gli amici 2 sono così distanti

32 L’indicazione della sezione compare nell’edizione Scheiwiller 1966, e per la prima volta in questa sezione compaiono i versi di Dicono le ortensie, già editi in «Tempo», VII, 19-26 agosto 1943, 211, p. 21, scritti nel 1941. L’ermetismo sperimentale di «Frontiera» 691

3 che un grido è meno 4 che un murmure a chiamarli. 5 Ma sugli anni ritorna 6 il tuo sorriso limpido e funesto 7 simile al lago 8 che rapisce uomini e barche 9 ma colora le nostre mattine.

L’intreccio si prolunga nella consecutiva che deriva dall’incipit: «così distan- ti/ che» (vv. 2-3), elemento di congiunzione e ancora equivalenza e ripetizione nell’anafora dei due versi successivi (solo ad eco fonica richiamati dal che relati- vo del v. 8): l’inutilità del grido di richiamo, «meno/ che un murmure» (vv. 3-4), con la nuova speculare comparazione (così che, meno che), anticipo di una cru- ciale comparazione, quella del sorriso di lei, simile al lago: segnale importantis- simo nella poesia del primo Sereni perché indica il flagrante spazio della corri- spondenza tra luogo e personaggi, paesaggio e pensiero, simili e perciò visibili. In questa prima enunciazione del testo sostanzialmente scandita dal settena- rio, eccetto al v. 3 che lo manca d’una sillaba, l’impressione acustica corrispon- de alla percezione fisica della presenza degli amici: le voci che cadono, il grido sentito come un murmure, equivalenti al distanziarsi e sparire degli amici stessi. L’attacco della seconda strofa della breve poesia si congiunge al precedente, se l’orecchio vigile del lettore recupera l’eco fonica: «chiamarli./ Ma sugli» (vv. 4-5), che introduce una restituzione, un ritorno di memoria (pur nell’adattamen- to dell’indecifrabilità della preposizione sugli: il sorriso di lei fa ritornare sugli anni, e ritorna a parlare di quegli anni), ancora attraverso un settenario e il di- stendersi dello scorrevole endecasillabo: «il tuo sorriso limpido e funesto» (v. 6) (qui la memoria, il paesaggio funesti implicitamente fanno i conti con la mor- te di quel primo tempo giovanile). Siamo al punto della sostituzione per equi- valenza del sorriso rispetto alla voce, ma anche alla proposta di una nuova cor- rispondenza. La doppiezza del sorriso limpido e funesto (limpido perché chia- ro, funesto perché inesorabile sul verdetto finale) si prolunga per inerziale simi- litudine, e come in un inciso dato al quinario, rispetto allo specchio riflettente delle esperienze e delle identità, che è il lago. Ed è a questo punto che il lettore coglie la qualità degli attributi precedenti chiariti e direttamente circostanziati, ma rovesciando la spiegazione utile per il sorriso limpido e funesto. Il lago è fu- nesto, se è quello «che rapisce uomini e barche» (v. 8), per azione allora paralle- la a quella degli amici che s’allontanano, distanti; ed è limpido (questa volta la congiunzione del verso finale richiama quella del v. 5) perché «colora le nostre mattine» (v. 9), che sarebbe un novenario se escludessimo appunto la cellula fo- nica dell’opposizione con valore paraipotattico (come nell’Infinito di Leopardi, e qui: ma, ecco che colora le nostre mattine). A chiusura del cerchio una pre- senza «limpida», il lago come cosa e come spazio, si sovrappone all’assenza fu- nesta tanto del sorriso quanto degli amici, mentre è l’io a interpretare la crisi 692 Luigi Tassoni dell’allontanamento e dell’esclusione. Andrea Zanzotto così descrive la dinamica dell’agire poetico di Sereni (riferito, certo, alla sua poesia più recente ma utilissi- mo per le origini): «traumatizzato di scarti, di iati, di sovrapposizioni e concre- zioni che non “dovrebbero” dar luogo a una continuità, ma che la raggiungono sul rovescio, al di sotto, nell’aggrovigliarsi delle radici delle singole espressioni»33. Per questa somma di motivi la macchinetta inventiva di Frontiera mette in azione degli effetti di trasformazione della cosa vista e portata a materializzarsi e a essere comunicata come cosa pre-sentita all’interno di un immaginario del paesaggio. Tanto che l’immagine del primo Sereni pare essere nata inizialmen- te e poi incentivata da un disegno in attesa di ricongiungersi e riconoscersi con il paesaggio più familiare, così caro al poeta. Il lettore si sarà certamente accor- to che nel corso di questa interpretazione di Frontiera ho evitato di scomoda- re il difficile concetto di realtà. Di quale realtà parlerebbe Sereni se non di un tracciato di elementi percettivi che sondano le superfici delle immagini e che non muoiono nella descrizione delle apparenze? La corrispondenza cercata con- tinuamente nel visibile del quotidiano affonda le sue motivazioni nel comples- so movimento dell’avventura giovanile del poeta, fatta di eventi indefinibili, di incertezze, di paure, di aspirazioni. È questo nucleo perplesso il vero movente della storia di Frontiera.

33 Andrea Zanzotto, Scritti sulla letteratura, II, Aure e disincanti del Novecento letterario, a cura di Gian Maria Villalta, Milano, Villalta, 2001, p. 37. «SIAMO TUTTI SOSPESI A UN TACITO EVENTO». IL PRIMO SERENI

Lorenzo Peri

C’è una dichiarazione di Sereni che viene solitamente riportata quando si tratta di definire i rapporti tra la poesia di Frontiera e l’ermetismo fiorentino. La dichiarazione, tratta da una lettera del 25 gennario 1937 a Giancarlo Vigorelli, è questa:

Io in poesia sono per le ‘cose’; non mi piace dire ‘io’, preferisco dire ‘loro’. Per questo la mia sensibilità ha sbalzi e variazioni; e se da una parte la mia giovinezza non consente a me di avere un’intonazione raggiunta, una voce mia e soltanto mia, dall’altra ci sono questi sbalzi e variazioni che sono un po’ la mia potenziale ricchezza. Con tutti i pericoli che ne derivano; notazioni, magari impressioni- smi, non risolti; ‘loro’ ma soltanto ‘loro’ senza che ci sia dentro ‘io’1.

La lettura di questo testo (uno dei tanti, nella vigile autocoscienza letteraria del poeta) si colloca direttamente appresso a quella fondamentale opposizione tra una «poetica degli oggetti» e una «poetica della parola» attraverso cui, un po’ astrattamente, si è proposto di individuare due poli di attrazione (e di aggrega- zione) all’interno di un eterogeneo spazio letterario, cioè quello della lirica de- gli anni Trenta-Quaranta. Specificando subito che se netta almeno da un certo momento in avanti (e soprattutto dal punto di vista ideologico) è la presa di di- stanza di Sereni dall’ermetismo2, altrettanto acuta è l’insofferenza nei confron-

1 Cfr. Dante Isella, Giornale di Frontiera, Milano, Rossellina, Archinto, 1991, pp. 33-34. 2 Cfr. «a latere, a latere» (Massimo Grillandi, Vittorio Sereni, Firenze, La Nuova Italia, 1972, pp. 1-6); «in fondo anche l’ermetismo era ideologico […] e da questo punto di vista io ero net- tamente antideologico» (Franco Brioschi, «Fogli di letteratura», primo, supplemento al n. 23, a. IV, di «Fogli», aprile-maggio 1967, pp. 1-3 ); «L’ermetismo fiorentino era un polo di attrazione semiclandestino per estraneità al fascismo [...]. Io in loro, Lombardo, sentivo una specie di mi- sticismo nei confronti direi del fatto poetico stesso» (Alessandro Fo, Un’intervista a V.S., in Studi per Riccardo Ribuoli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1986, pp. 55-75) [tutte prese da Laura Barile, Sereni, Palermo, Palumbo, 1994, p. 16]; «Non sentivamo su di noi nessuna cupola metafisica, nessun cielo, nessun assoluto, non sentivamo la letteratura come un valore, in altri termini; la sentivamo piuttosto come una energia o una tensione, in un rapporto particolare con la nostra esistenza, senza poi arrivare a precisare la natura di questo rapporto, senza che se ne

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 694 Lorenzo Peri ti di quella etichettatura di maestro della cosiddetta «Linea Lombarda» dentro la quale era inizialmente rientrato. Del resto, anni dopo Sereni parlerà per sé di una poetica possibile solo allo stato provvisorio3, di una storia di scrittore e di uomo che si diversifica in virtù degli accadimenti, delle tensioni del momento che, di volta in volta, fanno della «ricerca dell’identità […]» qualcosa che «non può fruttare se non riconoscimenti episodici, cioè identificazioni – e autoiden- tificazioni – parziali e transitorie»4. Essere dalla parte delle cose confermava dun- que come i presupposti razionalistico-illuministici della cultura milanese in cui si era formato costituissero una sorta di deterrente alla metafisica spaziale e alla componente platonica e astratta dell’ermetismo: presupposti, poi, del suo pro- gressimo laico e della sua voce civile. Del resto già Fortini faceva notare come, in Sereni, il positivismo, costituendosi come «antefatto morale e culturale»5, fosse alla base del «rifiuto dell’ottimismo idealistico e del cattolicesimo»6. Essere dal- la parte delle cose voleva dire per Sereni reintegrare nella poesia la dimensione del tempo e della storia, innestando su un «fondale di stretta osservanza ermetica», un fondale – come vedremo avanti – soprattutto linguistico, «elementi di quella emblematica oggettiva di cui parla Anceschi»7 per i lombardi. Possiamo già fer- mare un punto. L’apertura di Sereni verso il mondo extra-linguistico (il mondo delle cose) favorisce sì l’intrusione del mondo empirico, ma senza che questa ini- ziale luce oggettiva raggiunga direttamente l’oggetto: passando attraverso la len- te dell’autocoscienza letteraria del poeta, la percezione sarà tutta contenuta nel riflesso di quell’oggetto, e quindi la sua rappresentazione non potrà che essere indiretta. Sullo spessore di questa «lente» e sugli esiti linguistici della scrittura di Sereni conviene soffermarsi adesso. Senza dimenticare che con i poeti fiorentini i legami erano molto intensi8, dall’ermetismo Sereni si garantisce un margine di libertà culturale che si quali-

fosse veramente consapevoli, senza che lo avessimo di fronte, senza che lo potessimo esprimere, forse senza avere sufficienti forze espressive per far sentire questa differenza» (Vittorio Sereni, Il movimento milanese di «Corrente di Vita Giovanile» e l’ermetismo, «L’Approdo Letterario», 14, 1968, pp. 87-88). 3 Cfr. «Io guardo con sospetto se non addirittura con avversione alle scelte aprioristiche di un linguaggio e di una poetica» (Ferdinando Camon, Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982, p. 124). 4 Autoritratto (in La tentazione della prosa, progetto editoriale a cura di Giulia Raboni. Intro- duzione di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 1998, p. 113). 5 Franco Fortini, Le poesie italiane di questi anni [1959], in Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini e uno scritto di Rossana Rossanda, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2003, p. 579. 6 Ibidem. 7 Giorgio Luzzi, Figurazione e defigurazione in «Frontiera», in Per Vittorio Sereni, a cura di Dante Isella, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, p. 80. 8 Basti riprendere un passo da una lettera di Sereni a Alessandro Parronchi: «Ti ringrazio di più per il calore col quale mi hai accolto a Firenze e con cui mi hai tenuto compagni fino all’ulti- mo momento. Non è lo sciocco pensiero di essere stato una volta tanto poeta in mezzo ai poeti, «SIAMO TUTTI SOSPESI A UN TACITO EVENTO». IL PRIMO SERENI 695 fica nel tentativo di una maggiore articolazione dei contenuti poetici colta, in particolar modo, nella drammatizzazione della condizione idillica di partenza e nel «sottile lavoro di inserimento di figure tipiche della mitologia ermetica nel- la particolare fisicità del paesaggio lombardo»9. Il seme del dissenso, per ripren- dere una nota di Silvio Ramat, si impianta nel momento stesso in cui è possibi- le verificare l’adesione di Sereni alla corrente ermetica10. La forza di attrazione esercitata dalla koinè ermetica è comunque decisiva per quanto riguarda la scelta delle soluzioni retorico-linguistiche in un’opera di esordio (uscita, ricordiamolo, nelle edizioni di «Corrente» di Ernesto Treccani) che quindi colpisce per lo schieramento di rimandi e allusioni ad una base cul- turale condivisa. Si è parlato, infatti, della capacità di «esercitare dentro schemi altrui la propria voce originale»11. Schemi linguistici e vie espressive istituziona- lizzate da cui è possibile partire per misurare il grado di normalità o di eccezio- ne del linguaggio di Sereni rispetto alla lingua poetica del tempo. Del resto, da quando Mengaldo ha proposto per Sereni la formula di «ermetismo debole»12, altre forme di diminutio sono via via intervenute con l’intento di posizionare il linguaggio di Frontiera ai margini di un ermetismo «forte», ma comunque im- pegnato nella «grammaticalizzazione delle proposte linguistiche del simbolismo» europeo13. Anche se, occorre specificare, la consultazione del codice simbolista da parte di Sereni e l’acquisizione delle sue proposte non collima totalmente con le intenzioni culturali dei poeti fiorentini. La sua appare piuttosto come una po- sizione da decentrato dove continua a mantenersi attiva l’aderenza della scrittu- ra a forme, per dirla più in generale, modernistiche impiegate come dispositivo

ma devi credermi se ti dico che bastasse un po’ di tempo con te e con Luzi per guarirmi da molti mali cronici. Con voi ho risentito quella febbrilità che ha accompagnato sempre i miei momenti di ripresa […]» (V. Sereni, Un tacito mistero: il carteggio Vittorio Sereni – Alessandro Parronchi (1941-1982), a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 22. 9 Giovanni Raboni, Sereni inedito, in Poesia degli anni sessanta, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 25. 10 S. Ramat, L’ermetismo, Firenze, La nuova Italia, 1969, p. 78. Ma si veda anche Renato Ni- sticò: «la visione del primo Sereni […] non fosse del tutto idillica né tantomeno che possedesse, come la critica ha sancito da tempo, i caratteri assoluti, di metafisica della parola, quali si espri- mevano nel quasi egemonico corso ermetico; ma fosse già una posizione articolata, dialettica, cosciente delle ragioni estetiche delle propria opera e incline ad accostare la poesia alla conoscenza assai più che al “canto”» (Nostalgia di presenze: la poesia di Sereni verso la prosa, Lecce, Manni, 1998, p. 31), e Carlo Bo: «C’era la sua presenza, ma c’era anche la sua autonomia senza possibilità di equivoco… senza chiasso, Sereni, negli anni lontani dell’ermetismo, aveva saputo individuare di colpo la sua strada e mettersi a camminare» (Carlo Bo, Parlando di Sereni, «Letteratura», luglio- ottobre 1966, 82-83, p. 5). 11 Remo Pagnanelli, La ripetizione dell’esistere: lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1980, p. 30. 12 Pier Vincenzo Mengaldo, Il linguaggio della poesia ermetica [1989], in La tradizione del Novecento. Terza serie, Torino, Einaudi, 1991, p. 148. 13 Ivi, p. 151. 696 Lorenzo Peri nobilitante, capaci cioè – secondo Guido Mazzoni – di sublimare il dato pae- sistico, il dato dell’impressione sensibile trasfigurandolo in un linguaggio selet- tivo e aristocratico14 che costituisce la cifra propria di quella struttura trascen- dentale che è la lirica moderna15. O comunque sanzionando quella equazione fra poesia e lirica che anche nelle prove successive, attente ai valori differenziali tra poesia e prosa, e nelle fasi di transizione storiche non verrà mai messa seria- mente in discussione. Una sorta di «filtro percettivo»16 in grado di dare dignità espressiva ai dati dell’esperienza vissuta, innalzandoli stilisticamente e revocan- do così la fisicità delle cose, l’offerta del reale a un piano referenziale per affidar- ne il senso a un dettato iperdeterminato dal punto di vista letterario. Ad ogni modo il formalismo (e il monolinguismo) di molta poesia degli anni Trenta è adoperato da Sereni largamente, tanto che la condivisione con l’ermeti- smo di aspetti lessicali e stilistici può essere documentata attraverso la fitta trama intertestuale tra i versi di Frontiera e quelli, in primo luogo, di Gatto, Sinisgalli, Quasimodo, ma anche Ungaretti e Montale17 e il Rilke tradotto da Errante. Le verifiche critiche condotte sui testi hanno mostrato che raggranellare le tracce dei prestiti documenta le intenzioni di una poesia senz’altro ricettiva e dispo- sta a misurarsi col piano di una retorica condivisa (basti pensare all’uso delle inversioni per ottenere effetti di nobilitazione), di una poesia disposta quindi al mantenimento di un rapporto non neutro con la tradizione. L’accostamento alle prove dell’ermetismo fiorentino ha prodotto, in primo luogo, un allarga- mento della base culturale per la poesia di Sereni18. Più nello specifico, su que- sta condivisione di stilemi basterà dire che se lo «sforzo […] di nominare le cose poeticamente»19 non raggiunge vette di analogicità rarefatta e di forte indebo- limento referenziale tuttavia attinge alla grammatica dei plurali vaghi, dell’el- lissi dell’articolo, dei sostantivi assoluti astratti, delle inversioni di determinan- te e determinato, dei verbi parasintetici, o dell’impiego transitivo di verbi più frequentemente intransitivi, dei sintagmi costituiti da «sostantivo astratto + so- stantivo concreto in funzione specificativa»20, la sovraesposizione dell’uso del-

14 Cfr. Guido Mazzoni, Forma e solitudine: un’idea della poesia contemporanea, Milano, Mar- cos y Marcos, 2002; e Franco Fortini, Le poesie italiane di questi anni, cit., p. 580. 15 Cfr. G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, Bologna, Il Mulino, 2005. 16 G. Mazzoni, Forma e solitudine: un’idea della poesia contemporanea, cit., p. 137. 17 Il debole isostrofismo di Frontiera «si assesta, assai più che su Ungaretti, sul robusto tronco degli ossi e dei mottetti (del resto anche la metrica del migliore ermetismo fiorentino, non solo per gli assetti strofici, è sostanzialmente montaliana)», confermandosi, scrive Andrea Pelosi, «poeta insofferente verso costrizioni formali predeterminate» (La metrica scalare del primo Sereni, in «Studi Novecenteschi», 1988, 35, p. 144). 18 Cfr. «In realtà noi eravamo un feudo fiorentino, cioè l’Europa, in un certo senso, la cer- cavamo a Firenze attraverso i nostri amici» (V. Sereni, Dibattito su Corrente, in «L’Approdo let- terario», 1968, 43). 19 V. Sereni, Il movimento milanese di «Corrente di vita giovanile e l’ermetismo» cit., p. 86. 20 V. Sereni, Poesie, a cura di Dante Isella e Clelia Martignoni, Luino, Nastro & Nastro, 1993, p. 6. «SIAMO TUTTI SOSPESI A UN TACITO EVENTO». IL PRIMO SERENI 697 la preposizione a (ovvero, l’uso passepartout, come è stato chiamato), così come ricorre allo studio dei valori fonici e delle polivalenze aggettivali. L’opzione di base della lingua è dunque, se presa appunto nei suoi elementi costitutivi, so- stanzialmente di derivazione ermetica e approda ad un forte grado di omoge- neizzazione interna. Sereni si appropria di questo codice linguistico elaborato dall’ermetismo depurandolo ad ogni modo di ogni spinta lirica troppo esibita, e sviluppando comuque da subito una diffidenza per le proposte più radicali an- che per non rimanere, come dire, incastrato in quei meccanismi di autoidenti- ficazione che si attivano all’interno di un cerchio che in quel caso oltre che let- terario era soprattutto generazionale. Al tempo stesso, la responsabilità degli ar- tifici più influenti del linguaggio ermetico è evidente proprio perché funziona- le al raggiungimento di una intonazione che potesse – uso lo stesso verbo del- la dichiarazione riportata in apertura – risolvere le notazioni, gli impressionismi di queste prime prove, allestendo una rete di significazione più spessa. Al di là quindi della ricostruzione delle influenze (lavoro sul quale la critica si è eserci- tata a lungo), bisogna quindi riconoscere che Sereni tende ad un «ornato ari- stocratico» per sostenere il «piccolo realismo oggettivo» di Frontiera (Caretti) e che l’effetto di questa mediazione linguistica riduce come è ovvio l’ingresso di vocaboli extra-poetici (che entrano soltanto se autorizzati da un’altra fonte let- teraria, tipo Pascoli), all’insegna, come è stato detto da Isella, di una «decanta- zione della complessità del reale per estrarne delle levigate essenze primarie»21, e dell’economia lessicale di stampo addirittura petrarchesco. La promozione in senso lirico-stilistico del registro immette il petrarchismo di Sereni in posizione sintonica nell’alveo di quelle scritture che, se osservate da una postazione retorica, puntano sull’alterità linguistica per il potenziamento di un discorso «distante» (oppure, si potrebbe dire, generativo di «doppioni» lette- rari della realtà) e quindi anche oracolare. Anche sul piano sintattico la vicinan- za alle prove fiorentine è data dalla prevalenza del gusto paratattico22 o dall’im- piego frequente di strutture di stampo nominale23 soprattutto in sede incipita-

21 Dante Isella, La poesia di Vittorio Sereni, Atti del Convegno, Milano, Librex, 1985, p. 25. 22 Cfr. «la connessione paratattica dimostra la netta ostilità dell’ermetismo ad ogni connes- sione narrativa, quasi arbitraria mutilazione del valore-pausa, preminente nel testo quasimodiano e rapportabile alla grande influenza di Ungaretti. Il rinnegamento della logica convenzionale del linguaggio si riscontra attraverso contraddizioni, sinestesie, trasposizioni analogiche» (Silvio Ramat, L’ermetismo cit., p. 220). 23 «L’opera di Sereni è costantemente nominale», e «tale andamento […] favorisce di per sé la formulazione di enunciati “in qualche modo brachilogici o, in casi ben precisi, ellittici”, quali quelli nominali. Ma se quella che si potrebbe chiamare una forzata ellitticità, cioè una rapidità argomentativa derivante non da fiducia nella parola poetica, bensì al contrario da un bisogno – quasi un imperativo morale – di estrema concentrazione, è una delle più rilevanti conquiste stilistiche del Sereni maturo, già nelle sue prime raccolte lo stile nominale è una risorsa a cui il poeta attinge costantemente, pur se in funzione parzialmente diversa»; «La frase nominale in corrispondenza dell’incipit porta qui [si riferisce a Le mani] l’attenzione su oggetti o situazioni che vengono in un certo senso tematizzati per poi essere sviluppati – o comunque assunti come 698 Lorenzo Peri ria, da cui si ricava una misura di «forzata ellitticità»24, una estrema concentra- zione: una modalità enunciativa che segna indiscutibilmente la tendenza a in- debolire il tracciato narrativo e a «cristallizzare alcuni dati della realtà»25. Tale avvio nominale, va aggiunto, svolge una funzione allocutiva tipicamente liri- ca specie se seguito «dalla comparsa di un verbo alla seconda persona (singola- re o plurale) con cui il poeta si rivolge alle realtà evocate»26 e che ha una chiara ascendenza montaliana. Ma i modelli sono seguiti da Sereni in maniera anche eterodossa. Lo stesso dipanarsi delle immagini stabilisce un apparato di nessi e rapporti con un reper- torio tematico abbastanza chiuso e complessivamente condotto da motivi mete- orologici e stagionali incardinati nella topografia luinese che da un’impostazio- ne originaria di idillio e apertamente elegiaca (si pensi per esempio alla frequen- za dell’iconografia lacustre o all’«asse metaforico del giardino»27) muovono ver- so la seconda parte del libro alla registrazione di soprassalti emotivi e di sugge- stioni funebri che assumono un tono marcatamente esistenziale e un significa- to anche storico. È proprio da questa indicazione di movimento, per così dire, verso un «dilagare dell’oscurità»28 che si definisce quello «stato di trepidazione», di «sospensione»29 «reso inquieto da continui trasalimenti e premonizioni» che tendono a mutare l’elegia e l’idillio lombardo-lacustre (Luperini30) di Sereni in dramma31. Questo è lo stato espresso dal verso che ho scelto come titolo del mio intervento. Siamo tutti sospesi a un tacito evento, è tratto da Terrazza, testo com- preso nella sezione eponima della raccolta, e che condivide evidentemente con il titolo della silloge quella oscillazione tra un valore oggettivo e valore allusivo di cui si caricano spesso le indicazioni di confine. Se, come noto, dal dato ge- ografico della Frontiera scaturiva un sentimento della frontiera32 che si traduce- va in una proiezione verso l’Europa significativamente posta ad apertura di li- bro (dietro cui leggere, secondo Bo, «l’adesione sentimentale al mito fourne- presupposti – nel seguito del componimento: si tratta, beninteso, di un modulo largamente condiviso dalla koinè ermetica» (Lorenzo Tomasin, in Una costante sereniana, in «Lingua e Stile», XL, 2005, 2, pp. 238-239 e 241). 24 L. Tomasin, Una costante sereniana cit., p. 252. 25 Introduzione, a V. Sereni, Frontiera/Diario d’Algeria, a cura di Georgia Fioroni, Milano, Guanda, 2013, p. XLIV. Sereni, infatti, «nel passaggio da manoscritti/dattiloscritti a eventuali pubblicazioni in rivista e quindi in raccolta», fa notare Georgia Fioroni, «tende all’espunzione di luoghi, date e dediche, allo scopo di spersonalizzare l’iniziale dato contingente» (ivi, p. XVI). 26 L. Tomasin, Una costante sereniana cit., p. 242. 27 Alfredo Luzi, Introduzione a Sereni, Roma-Bari, Laterza, 1990, p. 37. 28 Introduzione a V. Sereni, Frontiera/Diario d’Algeria cit., p. XIV. 29 R. Pagnanelli, La ripetizione dell’esistere: lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni cit., p. 56. 30 Cfr. Romano Luperini, «Urbano decoro» e crisi dell’ermetismo in Vittorio Sereni, in Il Nove- cento, Torino, Loescher 1981, pp. 631-642. 31 Francesco Paolo Memmo, Vittorio Sereni, Milano, Mursia, 1973, p. 21. 32 F. Camon, Il mestiere di poeta cit., p. 141. «SIAMO TUTTI SOSPESI A UN TACITO EVENTO». IL PRIMO SERENI 699 riano del pays lointain»33), così adesso da una terrazza reale (ci sono precise te- stimonianze in una lettera a Vigorelli34) si avrà, scrive Pagnanelli, una «figur[a] onomasiologic[a] della frontiera vista come limite e argine da cui ci si sporge verso altri mondi»35. L’episodio, al quale sono collegate anche pagine in prosa, vuole la presenza di una torpediniera (quella citata al verso 8) della Guardia di Finanza scuotere la compagnia in festa – scrive Sereni altrove – con «una ani- mazione improvvisa, non localizzabile» che «ci sorvolava dilatando il paese al di là dei suoi limiti fisici. Sospesa in un tempo imprecisato Luino diveniva l’oltre- frontiera o addirittura l’oltreoceano»36. Lasciando da parte l’occasione concreta che ha provocato la poesia (non senza notare luoghi di una geografia che lam- bisce la sua pregnanza realistica) e l’interrogazione sul rapporto tra vita e scrit- tura, dal punto di vista delle strategie testuali adottate nella poesia non si po- trà che ricavare una sensazione di reticenza e di presentimento. Diciamo pure di oscuro presagio. Interessa notare adesso come materiali nominali quali «atte- sa», «tacito evento», «sospesi», per certi versi vere e proprie sigle lessicali dell’er- metismo, siano funzionalizzati in un diverso contesto semantico. Il proposito è quello di «esercitare entro schemi altrui la propria voce originale»37, come ab- biamo ricordato. È stato notato quasi da tutti che Frontiera è «un libro pieno di presagi e di sospensioni»38, testimonianza di una stagione «insidiata da presagi luttuosi»39 in cui le percezioni uditive e la tensione cromatica delle varie figurazioni finisco- no per far prendere al mito della frontiera «un senso tutto concreto»40. Questa apertura drammatica è determinata dall’innestarsi di immagini di incupimento, di cui diamo qualche esempio: «nell’ombra dei sottopassaggi» (Canzone lombar- da), «al passo dei notturni battaglioni» (Poesia militare), «nell’ora che s’annuvola il Signore» (Strada di Zenna), «oscuri golfi» (Un’altra estate), dei «notturni orro- ri»; «il vento ancora / turba i golfi, li oscura. / Si rientra d’un passo nell’inverno» (Strada di Creva). Ma ad esser sottoposte ad una prestazione simbolica sono so- prattutto le immagini tematiche sonore, i motivi variamente musicali premoni- tori di qualcosa di oscuro e di negativo. Qui gli esempi sono tanti a comincia-

33 C. Bo, Parlando di Sereni, in «Letteratura», Firenze,1966, pp. 3-16 (ma si cita da L. Barile, Sereni cit., p. 19). 34 Cfr. Apparato critico e documenti, in V. Sereni, Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1995, p. 342. 35 R. Pagnanelli, La ripetizione dell’esistere: lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni cit., p. 75. 36 Dovuto a Montale, in La tentazione della prosa cit., p. 148. 37 R. Pagnanelli, La ripetizione dell’esistere: lettura dell’opera poetica di Vittorio Sereni, Milano, All’insegna del Pesce d’Oro, 1980, p. 30. 38 Ivi, p. 56. 39 Lanfranco Caretti, Il perpetuo presente di Sereni [1966], poi Introduzione a V. Sereni, Poesie scelte (1935-1965), a cura di Lanfranco Caretti, Milano, Mondadori, 1973, p. XI. 40 L. Barile, Sereni cit., p. 81. 700 Lorenzo Peri re dalla primissima Inverno dove si legge «mentre ulula il tuo battello lontano»: «una marcia | di tamburi sinistri» (Ritorno), per poi proseguire con «Nel rombo che s’allontana | degli ultimi tuoni sorvolanti le case» (Temporale a Salsomaggiore), «Non ti turbi il frastuono | che irrompe con me nel tuo quieto mattino» (A M. L. sorvolando in rapido la sua città), «e tu trasali al rombo | degli autocarri che mordono la montagna» (Soldati a Urbino), «Di notte il paese è frugato dai fari, | lo borda un’insonnia di fuochi vaganti nella campagna, | un fioco tumulto di lontane | locomotive verso la frontiera» (Inverno a Luino), «E attorno è l’esteso strazio | delle sirene salutanti nei porti | per chi resta nei sogni | di pallidi vol- ti feroci, | nel rombo dell’acquazzone | che flagella le case. | […] Non saremo che un suono | di volubili ore noi due | o forse brevi tonfi di remi | di malin- coniche barche» (Strada di Zenna), «– frequente | il tuono ti fingeva gli orrori | d’una guerra lontana» (Immagine), «s’attarda un boato nell’aria» (Vento e velivo- li), «Ed altri treni rombarono da Nord» (Un anno), «A ululi di treni» (Ritorno). Si presenta una congiuntura psicologica tra «rumore» e «allarme» che genera la disseminazione di tessere lessicali e motivi afferenti a tale solidarietà, che dà la cifra dell’investimento sui valori connotativi. In particolare, le numerose oc- correnze testimoniano, come ha scritto Andrea Cortellessa, la vitalità dell’iposi- stema meteorologico, cioè la forte presenza del «brontolare di tuoni minaccio- si nel fronte di pioggia che s’avvicina lento ma inesorabile»41 e che va ad incro- ciarsi col motivo parimenti attivo del «rumore del treno in lontananza»42, dan- do luogo ad un nucleo di senso che possiamo ritenere generativo di tanta poe- sia del primo Sereni. Leggiamo adesso un brano dalle pagine di guerra degli im- mediati dintorni. Il brano si intitola Sicilia ’43:

[…] Poi erano venuti i giorni della sosta in attesa di ordini e infine, sospeso ogni imbarco per il precipitare degli eventi oltre mare, la destinazione alla difesa della Piazza. Era stato un periodo di tirocinio al gioco della morte. Giungeva questa senza sorprese, a ore fissesbucava dalle nubi o si delineava all’orizzonte accom- pagnata da un rombo crescente che presto trasvolava, lasciando macerie nuove, quasi carnali e palpitanti, sulle vecchie e ossificate. A volte era preceduta da boati lontani o dall’ululo di sirene ormai roche, come provate dal troppo urlare, tanto che presto furono sostituite da tre colpi di contraerea […]43.

Il testo in prosa presenta un repertorio di immagini che passa in poesia dove tende a simbolizzarsi in temi e motivi-chiave carichi di implicazioni emotive. «Gli elementi del paesaggio, nel momento stesso in cui sono evidenziati nel loro valore contemplativo, posseggono al loro interno o trovano nel contesto poeti-

41 Andrea Cortellessa, Tracce di un’“altra” guerra tra le “materie prime” di Vittorio Sereni, in «Allegoria», XIV, 2002, 40-41, [pp. 53-79] p. 65. 42 Ibidem. 43 Sicilia ’43 (La tentazione della prosa cit., p. 14). Mio il corsivo. «SIAMO TUTTI SOSPESI A UN TACITO EVENTO». IL PRIMO SERENI 701 co un processo di riduzione di questo valore»44, mettendo il luce «il carattere in- timamente contrastivo dell’idillio sereniano»45. Lo slittamento da un piano di neutra descrittività determina oltretutto un dominio lessicale e una dimensione uditiva in cui è il presagio della morte e della guerra a sconvolgere gli elemen- ti del paesaggio e i microeventi esistenziali di cui si compone la trama della rac- colta. All’«azzeramento di ogni manifestazione storica concreta»46 degli ermetici, Sereni oppone un suo personale stato di evasione dal presente (e cioè dalla mera referenzialità), uno stato di attesa che si nutre di avvertimenti vari, angoscia, in- quieti fermenti, allarmi, presentimenti funesti, senso della fine se la guerra se- gnerà necessariamente l’addio alla giovinezza. Questa modulazione giocata sul- le prefigurazioni del futuro (o sull’evocazione del passato) non vale però come «contestazione dello stesso presente»: «passato e futuro», scrive Caretti, «entra- no nella partita solo nella misura in cui collaborano a conferire senso più pro- fondo al “presente”, a renderne più vivide e meno periture le emozioni, a inte- grarlo o illuminarlo, e non già a eluderlo o mistificarlo»47. Il tempo della guer- ra si insinua nella trama generale dei segni. Del resto Sereni disse: «[Frontiera] è dunque il mio libro d’anteguerra, ma con un piede già dentro la guerra – e si vede, credo, non solo dalle date»48. Un saldo atteggiamento antiintellettualistico permeato di discrezione ri- cerca già da adesso un senso oggettivo da portare a correzione allo «psicologi- smo sentimentale»49 degli inizi e sviluppa dunque un amore per le cose da cui il linguaggio poetico sarà condotto a contatto con (come Sereni la chiamava) la «necessità delle scorie»50 per far diventare la poesia poi sempre più inclusiva. Dietro questo pensiero c’è innanzitutto la lettura e la riflessione sulle Occasioni di Montale. Infatti in quella che poi è una consuetudine tipicamente novecen- tesca di leggersi per interposta persona, Sereni nel recensire le Occasioni (uscita nel 1940 sul «Tempo») ci fornisce – come ha notato Mazzoni – un documen- to di «poetica implicita»51:

44 A. Luzi, Introduzione a Sereni cit., p. 9. 45 R. Nisticò, Nostalgia di presenze: la poesia di Sereni verso la prosa cit., p. 20. 46 Donato Valli, Storia degli ermetici, Brescia, La Scuola, 1978, p. 26. 47 L. Caretti, Introduzione cit., p. IX. 48 Cfr. Apparato critico e documenti, in V. Sereni, Poesie cit., p. 283. Anche Renato Nisticò (Nostalgia di presenze: la poesia di Sereni verso la prosa cit.) scrive: «Si ottiene allora che Frontiera assorba ormai decisamente dentro di sé il “tempo di guerra” (come in maniera premonitoria e allusiva sembrava già a una pura lettura dei testi) in maniera che la frattura storica dell’evento bellico sia situabile fra una prima produzione ancora tributaria dell’idillio e della mitologia “gen- tile” del lago e una produzione ormai dei tutto arresa al sopraggiungere del mai pronunciato ma paventatissimo horror vacui della distruzione bellica (distruttiva del mito grandeuropeo prima che di qualsiasi assetto civile e militare)» (ivi, p. 18). 49 F. Fortini, Saggi italiani cit., p. 125. 50 D. Isella, Giornale di Frontiera cit., p. 34. 51 G. Mazzoni, Forma e solitudine: un’idea della poesia contemporanea cit., p. 39. 702 Lorenzo Peri

[...] la configurazione delle sue immagini, la eco delle sue parole lasciano in noi una memoria d’assoluto. Montale è il primo poeta nostro che abbia saputo rivelare, attraverso la propria intima problematicità, tutte le risorse di poesia che il nostro mondo moderno racchiude. E direi addirittura il nostro mondo fisico moderno, avvertito da altri unicamente come peso e, in quanto tale, ritenuto indegno d’essere espresso; oppure ironizzato, messo avanti come l’estremo ele- mento di una polemica, come indizio di una condizione di schiavitù. Non è che tutto questo esuli completamente da Montale; per lo più è in lui, questo nostro mondo, la base normale di ogni avvento poetico: spesso, un limite incantato entro cui le cose possono veramente esistere52.

È Montale ad aver fornito «la presa di coscienza del mondo circostante e dei suoi stessi lineamenti fisici»53. Ed è Montale a costituirsi come figura di media- zione in grado di far evolvere la poesia di Sereni da un impressionismo inizia- le, caratterizzato da «situazioni liriche istantanee»54, ad un dettato che porta in evidenza i tentativi di fuoriuscita dal recinto di una notazione sensistica e dalla risoluzione del rapporto tra circostanza e testo nelle «pure ragioni espressive»55. Quanto intendo dire si spiega bene recuperando una nota dichiarazione di Sereni: «Non c’era a quel tempo distinzione in me tra impulsi poetici e sussulti emotivi. Non a esclusione ma a inclusione di quelli, le mie ore erano scandite da questi. Proseguiva la mia esplorazione dentro e attorno al paese in attesa non so quan- to consapevole di chissà quali rivelazioni a ogni viottolo o scorciatoia o slargo improvviso»56. Dalla destoricizzazione della realtà e conseguentemente dal po- tenziamento dei valori allusivi della parola si nota un progressivo abbandono del nucleo di chiusura lirico che, in una parola, è dato dal giardino e dal suo oriz- zonte metaforico. L’apertura muove verso una maturazione del rapporto tra po- esia ed esistenza che si coglie in primo luogo nell’allargamento di quello stesso orizzonte («tu sai che la strada se discende | ci protende altri prati, altri paesi, | altre vele sui laghi», Strada di Creva) e secondariamente nella sottolineatura dei momenti di crescita psicologica dell’io e di raffronto con l’emergenza della sto- ria. In questo senso Frontiera prelude già al Diario d’Algeria, che definitivamen- te e indiscutibilmente si distacca dalle strutture e dall’ideologia della poesia er- metica57. Si è così creduto, per via di questa evoluzione dell’io, di poter parla-

52 V. Sereni, In margine alle Occasioni, in Sentieri di gloria, Note e ragionamenti sulla lettera- tura, a cura di Giuseppe Strazzeri, introduzione di Giovanni Raboni, Milano, Mondadori, 1996, p. 60. 53 V. Sereni, Ognuno riconosce i suoi, in «Letteratura», XXX (n.s. XIV) 1966, 79-81, p. 306. 54 Cfr. D. Isella, La lingua poetica di Sereni, in La poesia di Vittorio Sereni, Atti del Convegno, Milano, Librex, 1985, pp. 21-32 (poi in Prefazione a V. Sereni, Tutte le poesie, a cura di Maria Teresa Sereni, Milano, Mondadori, 1986, p. XXV). 55 Due ritorni di fiamma (La tentazione della prosa cit., p. 65). 56 Dovuto a Montale (ivi, p. 147). 57 Anche il Diario d’Algeria il legame maltempo-allarme si conserva in Pin-up girl: «ha cenni di maltempo, / rade voci d’allarme»; così come dalla figurazione precedente provengono alcune «SIAMO TUTTI SOSPESI A UN TACITO EVENTO». IL PRIMO SERENI 703 re già a quest’altezza di una (sia pur sottile) parvenza di romanzo, in considera- zione anche di un certo sviluppo narrativo che sembra farsi presente nei singoli testi in concomitanza con l’evoluzione della sintassi verso moduli più articolati (a fronte di una iniziale elementarità), e la tendenza a dare dignità espressiva ad un mondo esterno in cui «angosce, tremori, malesseri», come andiamo dicendo, «non sono più metafisici»58. In tal senso, se quindi «il mondo esterno è sì estra- neo, ma non di una estraneità metafisica bensì esistenziale»59, questa dinamica di opposizione tra idillio (dato dalla presenza di forti controsegnali di chiarità) e antidillio, e questa «attrazione di Sereni per gli effetti di realtà»60 è destinata ine- vitabilmente a trasformare «quel tema dell’“assenza” inteso dagli ermetici in sen- so psicologico e metafisico, in un’assenza reale e assoluta»61. L’integrazione della concretezza della storia porta il discorso poetico di Sereni a una decisiva ricon- versione del rapporto tra «io» e «tempo», e cioè del rapporto tra l’io-testimone e il tempo vissuto e plurale (l’«epoca») nel sopravvento – nota Stefano Colangelo – della «sovranità del reale»62. Da questa chiusura sul vuoto, sull’immobilità, la poesia del Diario d’Algeria non potrà più essere notazione di attimi (o «mini-novelle liriche», secondo Fortini63) ma «romanzo» di una condizione esistenziale che nella sua improprietà pure la rappre- senta. Ecco che allora si avrà una crescita della connotazione empirica dell’io po- etico che identificherà questa improprietà (rappresentata nelle due grandi proie- zioni del «viandante» e del «prigioniero»)64 nella lontananza dalla vita, nell’ango- scia della separazione dal mondo per colpa della prigionia in Algeria, nell’esclusio- ne dalla Liberazione, nel «credito sull’anagrafe di almeno dieci anni» (Il male d’A- frica), infine nel rimanere «incompleto per sempre»65. E stilisticamente sarà veico- lata da una dizione alta, capace di sorreggere un’idea di poesia ancora attivamente schegge: «Se passa la rombante distruzione / siamo appiattiti corpi, / volti protesi all’alto senza onore» (Frammenti di una sconfitta); «rulla un ponte / sotto il convoglio che s’attarda» (Belgra- do). A prevalere saranno moduli dell’interiorità condizionati dall’oppressione dei rimorsi e della nostalgia per quanto non si è riusciti ad essere («Io non so come sempre / un disperato murmure m’opprima», Diario bolognese), modulando l’assordante presenza fonica sulle forme della lonta- nanza: «ecco non puoi restare, sei perduta / nel fragore dell’ultimo viadotto», «ove l’allarme che solcò le notti / torni mutato in eco / di pietà di speranza di timore» (La ragazza d’Atene). 58 Giacomo Debenedetti, Poesia italiana del Novecento: quaderni inediti, Milano, Garzanti, 1974, p. 227. 59 Laura Barile, Sereni cit., p. 79. 60 G. Mazzoni, Forma e solitudine: un’idea della poesia contemporanea cit., p. 138. 61 P. V. Mengaldo, Note sul “Diario d’Algeria”, in Vittorio Sereni [numero monografico] «Po- etiche» cit., p. 367. 62 L’espressione «sovranità del reale» è di Edgar Morin (Il vivo del soggetto) ed è citata all’in- terno del suo discorso da Stefano Colangelo, Il soggetto nella poesia del Novecento italiano, Milano, Bruno Mondadori, 2009, p. 4. 63 P. V. Mengaldo, Il solido nulla [1986], in La tradizione del Novecento, nuova serie, Firenze, Vallecchi, 1987 (ma si cita da Antologia critica, in V. Sereni, Poesie cit., p. LXIX). 64 Ibidem. 65 V. Sereni, Cominciavi (La tentazione della prosa cit., p. 59). 704 Lorenzo Peri legata alla tradizione. Una dizione ancorata al fondo della sua matrice umanisti- ca che – scrive Giovannuzzi – permette oltretutto di «tenere a distanza il perico- lo di scivolare verso paradigmi logori di racconto», vale a dire di «recensione del- la realtà»66, affidando, anni dopo, le istanze di problematizzazione della sua pro- nuncia indiscutibilmente individualistica (istanze, quindi, di deliricizzazione) da una parte autorappresentando la poesia come problematica, colpendo insomma lo statuto della sua alterità gnoseologica (e lo statuto epistemologico del sogget- to), dall’altro ristrutturando il testo sulla base dell’intreccio di voci diverse dall’io monologico più che su una traccia narrativa, che rimarrà sempre troppo implicita. Sereni sarà sempre un lirico pur nell’avvicinamento a tecniche del narrati- vo e nella circolarità di liricità e prosa (o meglio, pur nella transizione verso una dizione più oggettivata all’interno di strutture discorsive sempre più ricettive nei confronti dell’alternanza di registri, come testimonia l’ingresso di struttu- re morfo-sintattiche del parlato) e anche perché una poesia narrativa, concepi- ta programmaticamente in opposizione a una poesia lirica, d’illuminazione gli apparirà in fin dei conti come un «controsenso»67. Si potrà parlare semmai di una narratività bassa, della presenza di tratti di segnata prosaicità che inevita- bilmente portano a contatto alto e basso, e della marginalizzazione dell’iniziati- va linguistica di un soggetto lirico che riduce la sua esposizione narcisistica. Ma la modalità enunciativa del soggetto lirico-empirico del Diario d’Algeria si pre- senta ancora e fermamente con una dizione alta e tragica che si nutre dello stra- zio di quell’«ora mancata e irrecuperabile»68 che, per il poeta, fu come si è detto l’appuntamento con la storia, e che nasce dal ripensamento del rapporto tra let- teratura e esperienza bellica. Un ripensamento da cui si potrà misurare, da un lato, il grado di «rifunzionalizzazione» della lingua poetica (Mengaldo) sopra il fondale di un esistenzialismo attivo nel far convergere biografia privata e vicen- de storiche attorno ad nucleo fortemente etico, dandoci la conferma del defini- tivo allontamento dal codice linguistico elaborato dall’ermetismo, e, dall’altro, l’«affermazione ontologica e autodiegetica dell’io poetante»69, nella cornice del

66 Stefano Giovannuzzi, La persistenza della lirica. La poesia italiana nel secondo Novecento da Pavese a Pasolini, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2012, p. 5. 67 Ivi, p. 42, e il seguente, noto, passo tratto da V. Sereni, Il silenzio creativo (La tentazione della prosa, pp. 69-70): «Programmare una poesia «figurativa», narrativa, costruttiva, non signi- fica nulla, specie se in opposizione di ipotesi letteraria a una poesia “astratta”, lirica, d’illumi- nazione. Significa qualcosa, nello sviluppo d’un lavoro, avvertire bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storicamente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva indivi- duale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore… Non abbiamo sempre pensato che ai vertici poesia e narra- tiva si toccano e che allora, e solo allora, non ha quasi più senso il tenerle distinte?». 68 L’anno quarantacinque (La tentazione della prosa cit., p. 88). 69 Alberto Comparini, Appunti per una storia della poesia moderna italiana, in «Poetiche», n.s., XIV, dicembre 2012, 36, p. 461. «SIAMO TUTTI SOSPESI A UN TACITO EVENTO». IL PRIMO SERENI 705 diario di guerra. A distanza di anni, Sereni rispondendo a Vigorelli che per pri- mo aveva parlato di romanzo come possibilità non «di poter rifare la biografia del poeta nella poesia, tutt’altro, ma una storia, una storia propria quanto più egli se l’è resa impropria»70, così scrive:

Pensa a come era, o ti sembrava, Milano all’immediata vigilia dell’ultimo con- flitto: una città pronta a una nuova spinta in avanti, una vivente confutazione dei risibili destini imperiali, una concreta premessa invece, nonostante tutto e nonostante i suoi stessi errori, a una realtà europea. Cominciavi a renderti conto in concreto di tante cose – le donne, i viaggi, i libri, la città, la poesia; comincia- vi a vivere con pienezza, uscito una buona volta dalla sbalodimento giovanile. Venne la guerra e rovinò ogni cosa71.

70 G. Vigorelli, Vecchie pagine per Sereni, in «L’esperienza poetica», luglio-dicembre 1955, 7-8, p. 30. 71 V. Sereni, Cominciavi (La tentazione della prosa cit., p. 59).

L’ORIZZONTE PRECOSTITUITO. SERENI DI FRONTE ALL’ERMETISMO

Niccolò Scaffai

1. Cina, 1980. Vittorio Sereni, insieme a Mario Luzi, , e al giornalista e scrittore Aldo De Jaco, fa parte di una delegazione in- viata nella Repubblica Popolare dal Sindacato nazionale degli scrittori italiani. Luzi, che su quel viaggio pubblicherà quattro articoli su «La Nazione», raccon- ta così lo sbarco a Canton:

Arrivo (ore 22) anzi tempo da Hong-Kong dove non abbiamo trovato stanza. A Canton eravamo attesi per il giorno seguente e abbiamo messo in imbarazzo i nostri ospiti cerimoniosi, sì, ma anche cordiali. Nel percorso in taxi dall’ae- roporto siamo stati identificati nel buio dall’interprete come poeti ermetici… «Non c’è scampo» abbiamo detto con Sereni1.

«Non c’è scampo»: una frase che i due poeti si scambiano certo con ironia bo- naria, ma anche un po’ ingenerosa, a distanza di così tanto tempo dall’esperienza ermetica. Parto comunque da quest’aneddoto perché mi sembra emblematico: può infatti illustrare la prospettiva sull’ermetismo che il Sereni maturo elaborò nel corso degli anni, mentre la sua stessa adesione al clima ermetico tramonta- va, oscurata dall’affermazione di altre istanze e di altri modelli. Aumentava il di- stacco dal clima, appunto, ma non dalle persone, non dai poeti che dell’Erme- tismo fiorentino furono protagonisti e a cui Sereni rimase legato da una lunga fedeltà nel tempo, e in certi casi fino alla fine, come testimoniano i carteggi tra gli altri con Parronchi e con Betocchi, preziosi per capire la posizione dell’auto- re nella stagione degli esordi e oltre. Anche nel vivo della temperie ermetica, la prospettiva generale di Sereni fu spesso, com’è noto, critica o distintiva: «E prima di tutto: io non sono né vo- glio essere un alfiere o un chierico della “poesia ermetica”, questi tutt’al più sono estri dei vent’anni, dell’età in cui si è più esposti alle tentazioni e alle mode»2,

1 Il brano si legge all’inizio del Taccuino di viaggio in Cina, ora incluso in Mario Luzi, Prose, a cura di Stefano Verdino, Torino, Aragno, 2014, p. 250. 2 Antonia Pozzi-Vittorio Sereni, La giovinezza che non trova scampo: poesie e lettere degli anni Trenta, Milano, Scheiwiller, 1995, pp. 87-89.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 708 Niccolò Scaffai scriveva al padre di Antonia Pozzi, nel marzo del ’41; e pochi mesi dopo (23 lu- glio ’41) ribadiva in una lettera ad Anceschi: «non sono vicino a un Sinisgalli, come non lo sono a un Luzi»3. Si tratta di brani di lettere private, in cui Sereni non si preoccupa di sfumare la sua posizione; ma proprio la perentorietà e la precocità di queste puntualizzazioni convincono di quanto fosse ineludibile, per Sereni, la questione ermetica. Nel senso che l’ermetismo, da esperienza perso- nale di attraversamento creativo (sia pure compiuto assimilando gli stilemi ge- nericamente modernisti dell’ermetismo «debole», come suggerisce Mengaldo4), diventa presto in Sereni un paradigma rispetto a cui giudicare e collocare gli al- tri poeti, valutandoli più o meno positivamente in base alla maggiore o minore distanza dall’«orizzonte precostituito» di una linea o scuola. Un giudizio idio- sincratico, che occorre ricondurre alla poetica e perfino all’esperienza esistenzia- le di Sereni; non per avallare quel giudizio, ma per interpretarlo e storicizzarlo. Questo anche per discutere implicitamente gli effetti che l’ipoteca antiermetica ha avuto nel campo letterario italiano del secondo Novecento; per Sereni, più o meno intenzionalmente, passarono infatti linee di tendenza che hanno contato nelle scelte editoriali e nelle fortune critiche: scelte e fortune che hanno privile- giato più l’oggettivismo lombardo che l’ermetismo fiorentino. Riportare questi fattori alla dimensione del gusto o delle ragioni individuali, piuttosto che alla dimensione dei valori assoluti, potrebbe rendere un buon servizio, credo, allo studio dell’Ermetismo. Cercherò qui di mettere in luce proprio la funzione polemica che il termine «ermetismo» (più ancora che l’Ermetismo – con la «e» maiuscola – inteso come insieme di esperienze poetiche concrete e stilisticamente definite) assume nel- la prosa critica sereniana. Procederò interpretando Sereni, per quanto possibi- le, iuxta propria principia, facendo ricorso cioè alla lettura e al confronto mirato dei suoi saggi e scritti critici – il Sereni pubblico, insomma – che mostrano ne- gli anni il ritorno costante su alcuni temi forti. Per questa via, vorrei anche ar- rivare a illustrare come i concetti che Sereni mette a fuoco, intorno al termine idiosincratico di «ermetismo», contribuiscano a spiegare certe ragioni dei suoi testi maturi o tardi. Perché è vero che la coscienza teorica di un poeta e la pra- tica formale delle sue opere spesso non coincidono (infatti, nel caso di Sereni, la volontà di differenziarsi dal cosiddetto ermetismo sembra aver preceduto la capacità di emanciparsene stilisticamente: si pensi che un tratto ermetizzante spicca in una poesia non solo molto successiva ma anche concettualmente an-

3 Vittorio Sereni, Carteggio con Luciano Anceschi. 1935-1983, a cura di Beatrice Carletti. Prefazione di Niva Lorenzini, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 112. 4 Pier Vincenzo Mengaldo, II linguaggio della poesia ermetica, in La tradizione del Novecento, terza serie, Torino, Einaudi, 1991, p. 148. Il saggio di Mengaldo, tuttora fondamentale, è da leg- gere ora anche alla luce delle osservazioni integrative e correttive di Anna Dolfi, Per una gramma- tica e semantica dell’immaginario, in «Rivista di letteratura italiana» [numero monografico a cura di Paola Baioni e Giorgio Baroni: «L’amore aiuta a vivere, a durare». Bigongiari, Luzi e Parronchi cento anni dopo (1914-2014)], 2014, 3, pp. 85-92. L’orizzonte precostituito. Sereni di fronte all’ermetismo 709 tiermetica come I versi: mi riferisco al sintagma «dentro un nero di anni», v. 6); ma è vero anche che la prospettiva critica assunta da un autore aiuta a colloca- re i nudi fenomeni in un quadro di senso più completo e rispondente all’indi- vidualità di ciascuno. Fra le espressioni più caratteristiche dell’ethos sereniano vi è infatti la con- traddittoria relazione tra il desiderio di appartenenza e il riconoscimento di una differenza: tanto sul piano storico e politico (l’appuntamento mancato con la Resistenza, i conti difficili con le inevitabili rimozioni del dopoguerra), quan- to su quello letterario. Del resto, idiosincrasie letterarie e debiti storici posso- no trovare in Sereni una paradossale conciliazione, come accade in una lettura radiofonica dedicata a René Char, tenuta in Ticino nel 1976 alla Radio Monte Ceneri, nell’ambito del ciclo Poesie come persone. Nella lettura, si spiega come la curiosità verso l’opera di Char, intensamente frequentata dal Sereni tradut- tore e poeta, dipendesse tanto da una ragione storica: il desiderio compensativo di conoscere un poeta che aveva fatto quella Resistenza negata a Sereni; quan- to da ragioni letterarie:

Gli anni Cinquanta erano stati per me anni di inattività o piuttosto di aridità. Il brodetto postermetico mi aveva saziato. Dall’altra parte avevo visto non senza malessere crescere e declinare presto insane velleità di poesia engagée alimentata dalla moda neorealista, fruttifera in parte nel cinema e già molto meno nella narrativa. Mi ero buttato in tentativi di traduzione da William Carlos Williams e ora mi imbattevo in René Char. Ho scoperto più tardi che Williams amava la poesia di Char e che c’era stato un breve scambio di corrispondenza tra i due5.

2. Potremmo definire allora l’atteggiamento di Sereni come un’ansia d’inap- partenenza, che lo mantiene distante da un orizzonte a cui non vuole o non può congiungersi, ma che gli impone di guardare costantemente verso quel punto di fuga. Già più di una volta ho usato la metafora dell’orizzonte poetico, che è dello stesso Sereni; proviene infatti da uno scritto su Dino Campana pubblica- to sul «Corriere della Sera» nel 1982 (poi incluso in Sentieri di gloria):

Sicché, oltre che malevola, mi sembra davvero stonata la seguente battuta del Papini tardo: «Agli ermetici italiani piaceva di avere un precursore che non fosse, come gli altri, francese o inglese… L’Italia, ch’ebbe grandi poeti ma è povera di poètes maudits, fu soddisfatta di averne uno indigeno, a portata di mano…». / Le cose non stavano affatto così. Per quanto potevo riscontrare in me stesso la poesia di Campana agiva in quegli anni come potente antidoto al rischio di irrigidimento in una cifra che andava fissandosi su un malinteso principio di essenzialità – per usare un termine allora in voga, specie dalle nostre parti –, di presunta riduzione all’osso, secondo l’imperativo di una tecnica e di un gusto

5 Vittorio Sereni, René Char: il termine sparso, in Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, con uno scritto di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, Mondadori, 2013, p. 1041. 710 Niccolò Scaffai

che si volevano intransigenti ed erano soltanto esosi e restrittivi. Fu un lampeg- giamento inatteso e reiterato in un qualche punto di un orizzonte precostituito, presto avvertito soffocante da un’immaginazione avviata, per contrasto, a fare propri certi versi di Saba (che pure, a quanto risulta, non riconosceva in Cam- pana un poeta): «Vagabondaggio, evasione, poesia / cari prodigi sul tardi…»6.

Il brano è centrale nella prospettiva sereniana sull’ermetismo. La poesia di Campana avrebbe agito come un antidoto contro l’irrigidimento, contro il cri- stallizzarsi in cifra fissa del principio di «essenzialità» (concetto vicino a quello, pure usato da Sereni, di «assolutezza», che il poeta riprende probabilmente da Flora7); inoltre, segnalandosi come un fenomeno eccezionale contro un orizzon- te «precostituito» e «soffocante», Campana avrebbe indicato a Sereni un altro decisivo modello: quello di Saba, poeta estraneo a ogni assimilazione di scuola, e che anzi aveva fatto della propria stessa estraneità un tema e un principio di poetica. «La sua poesia – affermava Sereni (in una conversazione radiofonica del 1947: Saba e l’ispirazione) – ha potuto coesistere al dannunzianesimo, al crepu- scolarismo, al frammentismo, al rondismo e all’ermetismo senza essere nessu- na di queste cose: evolvendosi per forza propria e giungendo giovane e viva fino a noi»8. Per Sereni, Saba è stato, quasi al pari di Montale e più ancora forse di Ungaretti, l’autore di riferimento. Questi tre modelli, pur così diversi tra loro, potevano del resto trovare una conciliazione nel sistema di valori critici serenia- ni. Occorre, per capirlo, insistere sul concetto di «essenzialità», evocato dallo stesso poeta nel brano su Campana. L’essenzialità di Saba «nasce dal raggiunto equilibrio tra cuore e immaginazione»9; in Ungaretti, dal canto suo, prevale «il tema dell’innocenza, o meglio della sete d’innocenza; e insieme il suo corrispet- tivo sul piano formale, o meglio della ricerca formale: la cosiddetta essenzialità ungarettiana10. D’altra parte, dichiara Sereni nel medesimo brano, quella stessa «nozione appena acquisita dell’essenzialità ungarettiana» sarebbe stata saggiata poco dopo «sulla scabrosità degli Ossi di seppia».

3. I tre «padri» del Sereni poeta sono quindi, ciascuno a suo modo, caratteriz- zati dal valore dell’essenzialità, che permette al Sereni critico di associarli nella ri- lettura quasi postuma che egli stesso dà della propria esperienza e della propria for-

6 V. Sereni, Poesie e prose cit., pp. 985-986 (corsivo mio). 7 Francesco Flora, La poesia ermetica, Bari, Laterza, 1936: «negli ultimi anni, magari attraver- so la concentratissima serie di versi che s’è detta poesia essenziale, si tentò di riportare la parola ad una specie di autonomia assoluta»; «La poesia essenziale tentò di riportar la parola ad una specie di autonomia assoluta» (cito dall’edizione del 1947, pp. 65 e 180). 8 V. Sereni, Poesie e prose cit., p. 969. 9 Così Sereni nel testo di una lettura radiofonica del 1976: : le vite che quasi non parlano, ora in V. Sereni, Poesie e prose cit., p. 979. 10 Ungaretti, quella prima volta (1981), poi in Sentieri di gloria; si legge ora in V. Sereni, Poesie e prose cit., p. 995. L’orizzonte precostituito. Sereni di fronte all’ermetismo 711 mazione, osservata contro l’orizzonte della grande lirica del primo Novecento. Ma il rischio – lo si è letto nel brano su Campana – è che quell’essenzialità, fuori dal magistero delle «tre corone» novecentesche, si irrigidisca in cifra, nutra il falso va- lore della «riduzione all’osso» (nell’espressione c’è forse un tratto di ironia verso gli epigoni dei veri Ossi, quelli montaliani), riduzione dietro cui si maschera la sem- plice ed esosa restrizione. L’essenzialità, per non scadere in maniera, ha bisogno di mescolarsi con le «scorie» dell’esperienza; Sereni aveva usato questa parola e questo concetto in un saggio del 1961 (ora in Letture preliminari), importante per capire la poetica degli Strumenti umani e poi di Stella variabile. Il saggio è intitolato La mu- sica del deserto ed è dedicato a uno degli autori stranieri da Sereni più amati e tra- dotti, quel William Carlos Williams ricordato anche nel brano letto prima su Char:

[Williams] ha portato all’interno della poesia stessa ogni possibile operazione pre- liminare, ogni dato spaziale e temporale di origine e ne ha fatto oggetto di un con- tinuo contrappunto, di una antitesi continua e addirittura di un continuo scam- bio delle parti. Ha riferito in versi certe cose (di contorno?) da lui viste e udite e insieme se stesso alle prese con le cose viste e udite. Alla fine ogni elemento risulta perfettamente allineato, meglio, convivente col suo vicino e, tra le cose considera- te, non sembra possibile distinguere essenzialità e scorie perché tutto è essenzialità e tutto scorie fuori dell’elemento principe che le fa convivere; o, almeno, nulla sarebbe di tutto ciò senza anche le scorie – o si tratterebbe di tutt’altra poesia.

Essenzialità e scorie, come a dire: parole e cose, binomi i cui elementi non possono essere scissi nell’idea di poesia maturata da Sereni a contatto specialmen- te con la poetica montaliana, come illustra la mirabile recensione alle Occasioni scritta nel 1940 (In margine alle «Occasioni», anche questa poi in Letture prelimi- nari). Esercitandosi sui «fatti della vita» (l’esperienza, cui Sereni non rinuncia mai come oggetto privilegiato dei suoi versi), la poesia montaliana si mostra «arrende- vole […] alla possibilità d’esistere» degli oggetti; non si autorizzano perciò «una retorica e un gusto montaliani attraverso una riduzione operata nel suo mondo»:

Ma la verità è che, al di fuori di Montale e a sua insaputa, si erano venuti for- mando una retorica e un gusto montaliani attraverso una riduzione operata nel suo mondo da parecchi lettori e imitatori, attenti al lato apparentemente voluttuoso di quella poesia. Si era arrivati cioè a una frammentazione di versi e di immagini, a una scelta di oggetti da riutilizzare, di paesaggi favorevoli alle suggestioni di una più recente lirica per così dire edonistica, negli sfondi, nelle situazioni, nell’ispirazione stessa. Un tale criterio di selezione scaturiva da un gusto impressionistico del tutto periferico, fine a se stesso, lontano da quello assolutamente necessario e conseguente di Montale, «unico» scrive Sergio Solmi «dei nostri maggiori lirici d’oggi che abbia fruttato a pieno l’esperienza dell’im- pressionismo lirico moderno»11.

11 V. Sereni, Poesie e prose cit., pp. 815-816. 712 Niccolò Scaffai

4. Dalla schiera anonima degli imitatori, si staccano i coetanei a cui Sereni dà il credito maggiore: Luzi e Bertolucci in primis. Di Bertolucci, a proposito della sua prima raccolta (Sirio, 1929), Sereni scrisse:

Bertolucci esordiva dunque quasi alla macchia in un periodo in cui il gusto che venne poi detto ermetico era ben lungi dall’aver assunto agli occhi dei lettori e poeti in erba – e tanto più del pubblico – una precisa fisionomia. Dà l’impres- sione di non aver dovuto fare i conti con alcun fatto costituito, di aver potuto evitare di colpo la parte più mortificante del primo tirocinio. Chi scrive lesse per la prima volta Bertolucci nel 1936 e fu colpito dal trovarlo tanto libero, tanto poco preoccupato della parola essenziale, della carica evocati- va, dell’analogia, del «canto» (erano allora i termini che correvano confusamente tra i giovani)…12.

Quel «fatto costituito» – espressione molto vicina all’altra, «orizzonte preco- stituito», di cui già si è detto – è proprio ciò che provoca nel poeta l’ansia d’inap- partenenza rispetto al «gusto ermetico», con il quale aveva dovuto fare i conti il giovane Sereni e che torna a definirsi sotto l’emblema dell’essenzialità. Proprio a Bertolucci, in una lettera dell’ottobre 1941, spiegava infatti lo sforzo, il «bi- sogno di vincere un ostacolo sordo e anonimo»13 che caratterizzava il suo essere poeta, diversamente da Gatto e dal Luzi di Un brindisi. Più complessa e articolata anche nel tempo è appunto la prospettiva sere- niana sulla poesia di Mario Luzi. Quel Luzi che – dapprima come esponente dell’ermetismo più «ardito» (Mengaldo), poi come modello e compagno sul- la strada oltre il lirismo – rappresenta per Sereni la più importante figura di ri- specchiamento: «la sua poesia, nel succedersi delle sue fasi – ha scritto Sereni – è un motivo di riscontro ricorrente a scadenze più o meno lunghe: se non altro per forza di confronto aiuta a fare il punto su se stessi, specie se coetanei, e in un certo senso lo impone»14. Il discorso sereniano intorno a Luzi si svolge prin- cipalmente attraverso tre prose critiche, pubblicate l’una a distanza di quattor- dici anni dall’altra: la prima si intitola Poeti nuovi (1941, in «Tempo»); la secon- da Persuasiva maturità (1955, su «La fiera letteraria»); la terza, da cui è tratta la citazione poco sopra, è intitolata Aiuta un po’ tutti a fare il punto su se stessi (sul «Corriere della Sera» del 20 maggio 1979; il titolo, evidentemente redaziona- le, è però anche il più eloquente). Se già il Luzi della Barca (1935) e di Avvento notturno (1940) appare a Sereni chiaramente irriducibile al «maligno e spesso poco intelligente gioco dei raffronti diretti», permangono tuttavia in certe sue

12 La capanna indiana (1951), in Letture preliminari; il brano citato si legge ora in V. Sereni, Poesie e prose cit., pp. 835-836. 13 Lettera del 25 ottobre 1941, in Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, a cura di Gabriella Palli Baroni. Prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1994, p. 43. 14 Aiuta un po’ tutti a fare il punto su se stessi (1979), in V. Sereni, Poesie e prose cit., p. 1084. L’orizzonte precostituito. Sereni di fronte all’ermetismo 713 poesie e situazioni il «materiale archeologico» e un’«intenzionale arcaicità» les- sicale15. Sereni, cioè, avverte anche attraverso Luzi il problematico dualismo di letteratura ed esperienza che riguarda tutta la sua riflessione teorica e critica, e che sostanzierà le riflessioni metapoetiche espresse in molti dei suoi testi mag- giori, da I versi negli Strumenti umani fino a Un posto di vacanza. La percezione di questo dualismo può esser fatta risalire all’insegnamento di Antonio Banfi; in particolare all’istanza etica e al «senso di una responsabilità pratica»16 che op- pongono la coscienza critica e l’azione da un lato, alla trasfigurazione poetica e alla retorica dall’altro. Nell’ambito delle prose critiche, il tema si trasmette dagli scritti giovanili, come il primo articolo su Luzi, fino ai saggi ultimi e maggiori: tra tutti, quello in- titolato Il lavoro del poeta, concepito come conferenza alla Fondazione «Corrente» nel 1980. Lì i termini del dualismo sono da un lato la «volontà di espressione», dall’altro l’«elemento formale»:

Per tornare al lavoro del poeta, intendendo per lavoro la fase di gestazione e in parte di manipolazione che ho cercato di sottoporre al vostro interesse, vorrei soffermarvi un momento su certe parole di Valéry che vedo opportunamente ci- tate da Maria Corti nel suo libro sui Principi della comunicazione letteraria. Dice Valéry: / «E a volte è una volontà di espressione ad aprire la partita, un bisogno di tradurre ciò che si sente; ma a volte, al contrario, è un elemento formale, un abbozzo di espressione a cercare a sé la propria causa, a cercarsi un senso nello spazio dell’anima… Osservate bene questa possibile dualità di esordio: talvol- ta qualcosa cerca di esprimersi, talaltra un qualche mezzo di espressione vuole qualcosa da servire». / Oserei dire che in questa dualità sono riducibili, rientrano comodi i vari comportamenti, voglio dire i vari modi di apprestarsi al lavoro poetico. / È il caso di privilegiare, magari in sede di valutazione, uno dei due termini di quella dualità? A me non pare. Tanto più che essi non di rado si con- trappongono o anche convivono o anche si alternano lungo il corso complessivo di una singola esperienza: di questo o di quel poeta17.

Una felice equivalenza dei due termini è proprio ciò che caratterizza la po- esia del Luzi maturo, come risulta dal secondo scritto dedicatogli da Sereni (Persuasiva maturità):

Dal libretto giovanile – La barca – a queste Primizie quanta strada! E insieme che esperienza di poeti, che assiduità, che penetrazione. L’esercizio letterario e la vicenda interiore, che nel lungo e intenso tirocinio potevano apparire spaiate per qualche tratto, col sospetto non infrequente di una sovrapposizione della

15 Poeti nuovi, in V. Sereni, Poesie e prose cit., p. 1079. 16 Antonio Banfi, Poesia, in «Corrente», 15 giugno 1939 (citato in Francesca D’Alessandro, L’opera poetica di Vittorio Sereni, Milano, Vita e Pensiero, 2010, p. 21). 17 V. Sereni, Poesie e prose cit., p. 1143. 714 Niccolò Scaffai

prima sulla seconda, oggi si presentano intrecciate e fuse. A un punto tale che sempre anche là dove pare di cogliere una eco, una non del tutto assorbita fre- quentazione di un testo, qualcosa avverte che c’è dell’altro e che il rilievo ha un senso solo in funzione d’un fatto più radicale, traducibile in dati di storia dell’anima18.

5. Per Sereni, il «brodetto postermetico» implica il rischio di attuare la scisso- ne tra letteratura ed esperienza. Ma del resto non è l’unico gusto poetico esposto a questa critica; persino le correnti sorte come reazione all’ermetismo, quando si fissano in moda, separano pericolosamente l’invenzione dall’esperienza. «Debbo dunque chiarire – ha scritto Sereni nella prosa Ciechi e sordi (1962, Gli imme- diati dintorni) – che se rifiuto c’è»,

esso riguarda l’irrigidimento in un’abitudine, il cliché in cui si sta freddando il fervore intellettuale che intorno al ’50 ha «reagito all’ermetismo», la moda che sembra ormai aver preso il sopravvento e che finisce coll’essere sorda e cieca, col perdere il fiuto e il gusto diretto, non mediato, dell’esperienza e dei semplici o complessi dati che essa offre. Se invito c’è, esso riguarda appunto il rispet- to dell’esperienza e del rapporto di questa con l’invenzione: quel particolare rapporto per cui ogni cosa scritta, ogni poesia, ogni racconto, ogni romanzo e addirittura capitolo di romanzo, ogni film entra nella rete delle relazioni come individuum, con una faccia sua propria; e pone problemi particolari, di volta in volta, a chi li produce, tali che ne deve comunque tener conto chi li esamina19.

Quel che si intravede nella prospettiva critica di Sereni è dunque una sor- ta di teoria ciclica delle poetiche novecentesche, peraltro coerente con la strut- tura fondamentalmente evolutiva del pensiero modernista sull’arte e sullo stile. L’adesione a una corrente, sia questa pure l’ermetismo, è riscattabile agli occhi di Sereni solo se l’atteggiamento nei confronti del gruppo, della scuola, non appa- re banalmente epigonico, ma cosciente e allusivo. È il caso del giovane Luciano Erba, di cui Sereni recensisce Linea K. (1951, su «Milano-Sera»: Questi anni visti da due poeti): «Sarebbe facile – scrive Sereni – sbarazzarsene come d’un “erme- tico” della quarta o della quinta generazione. Niente di più ingiusto, in realtà»,

se non per chi sia avvezzo a dividere il mondo in due fette e con esso la poesia. Non che gli oggetti, le immagini, i miti ormai familiari al pubblico della poesia di questi anni non si ritrovino nelle poesie di Erba: ma si ritrovano sfigurati e stremati, nell’esatto punto della loro crisi. Costituiscono la magra pastura di una giovinezza cui non mancavano sangue, umori e appetiti e che sembra essere ve- nuta troppo tardi (la sua occasione temporale è ancora quella degli anni ’43-45 e immediatamente successivi) a chiedere la sua parte: tra pareti fredde, case in ro-

18 Ivi, pp. 1082-1083. 19 Ivi, p. 629. L’orizzonte precostituito. Sereni di fronte all’ermetismo 715

vina, binari divelti […]. / Laddove altri hanno identificato il proprio cammino lungo le linee d’un linguaggio già dato, adattandovisi secondo il temperamento, Erba ha reagito, con le risorse della malizia e dell’impertinenza, nel cuore di un ossequio simulato; ha operato una piccola ribellione rispetto al corpo costituito e vulgato della poesia odierna. Il che gli ha consentito di rendere evidente e di puntualizzare nei versi la coincidenza tra il mutare dei tempi e la crisi del germe poetico caduto dall’opera dei «maggiori» nel suo come in altri giovani spiriti: pareti fredde, case in rovina, binari divelti, hanno trovato in lui una poesia sgretolata, smozzicata quel tanto che basta a renderla concretamente espressiva, intonata a ciò che canta o meglio riferisce ammiccando20.

6. I termini e i concetti dello scritto Ciechi e sordi sono molto vicini a quel- li poi sviluppati nel saggio Il lavoro del poeta. Saggio su cui occorre tornare, per metterne in luce ancora un passaggio, da leggere in filigrana rispetto alla pro- spettiva di Sereni di fronte all’ermetismo. Commentando i versi ungarettiani di Commiato («Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nel- la mia vita / come un abisso»), Sereni ne fa l’emblema delle due azioni comple- mentari che caratterizzano, appunto, il lavoro del poeta: il cercare e il trovare, a loro volta corrispondenti grosso modo al momento volontario e a quello spon- taneo della creazione poetica. Scrive Sereni:

I pochi versi che ho citato formano una linea di cresta, si pongono come un cri- nale tra due versanti di sperpero – precedente e successivo – della parola, hanno costituito una sorta di abito mentale, ma anche di condizionamento e di remora espressiva, per almeno due generazioni: a guardar bene, quando Quasimodo scriveva «avara pena tarda il tuo dono / in questa mia ora / di sospirati abban- doni» non rincarava forse la dose fornendo al tempo stesso la versione vulgata della confessione ungarettiana? […] Essa contempla l’insinuarsi nel testo della coscienza dell’atto poetico come fenomeno ed evento e dei modi di questo. […] Ma quando la coscienza del fenomeno e dei suoi modi fa corpo e testo e addirittura la riflessione sul farsi del testo si pone come oggetto del testo stesso, eccoci allora davanti a un sintomo ricorrente e tipico del nostro tempo, a volte in modi inquietanti per non dire prevaricanti21.

Attraverso Ungaretti e soprattutto attraverso Quasimodo, Sereni sembra vo- lersi tenere ancora nei paraggi dell’ermetismo, prolungandone le implicazioni di poetica fin dentro la fase estrema della propria scrittura e della propria rifles- sione, introducendone le istanze fin nel cuore di una stagione culturale ormai post-moderna. I due «versanti di sperpero» della parola possono esprimere l’uno le ragioni profonde ed implicite del testo; l’altro l’esibizione, già tutta esplicita e letterariamente cosciente, di quelle ragioni. La poesia, continua a dire Sereni,

20 Ivi, pp. 1063-1064. 21 Ivi, p. 1127. 716 Niccolò Scaffai sta su un crinale su cui tuttavia è difficile attestarsi e che viene ciclicamente sca- valcato, una generazione poetica dopo l’altra, proprio nel tentativo – destinato a rivelarsi presto velleitario e manierista – di attenersi a un abito ideale e di ob- bligarsi a una remora espressiva. È quel che sarebbe accaduto agli ermetici. L’ermetismo – lo si comprende meglio, infine – vale allora per il poeta degli Strumenti umani come una cate- goria al tempo stesso assoluta e fondata su un’idea di progressione storica; uno spazio vuoto di individui, ma colmo dei concetti che motivano la scrittura poe- tica sereniana. Sarà anche per questo che la riflessione critica di Sereni non ces- sa, nell’arco di un quarantennio, di interpellare l’ermetismo, risolvendosi – spe- cialmente negli ultimi anni – in un atteggiamento che somiglia a un esame di coscienza. Quel sintomo «inquietante» e «prevaricante» del nostro tempo, cioè la «riflessione sul farsi del testo» che è «oggetto del testo stesso», non è forse il nodo intorno a cui si sviluppano l’ultimo libro di Sereni e soprattutto la sua se- zione più ampia e impegnativa, Un posto di vacanza? Un nodo di contraddizio- ni – come è contraddittoria l’ansia d’inappartenenza che abbiamo descritto – in cui l’ambizione e il rifiuto convivono. Nel quinto movimento del poemet- to, Sereni scrive:

Pensavo, niente di peggio di una cosa scritta che abbia lo scrivente per eroe, dico lo scrivente come tale, e i fatti suoi le cose sue di scrivente come azione. Non c’è indizio più chiaro di prossima vergogna: uno osservante sé mentre si scrive e poi scrivente di questo suo osservarsi.

Anche di questo, cioè dello scrivere come azione e della vergogna di farlo, parla Un posto di vacanza. La reazione di fronte al rischio di un’espressione sen- za esperienza, già associato a un indistinto gusto ermetico, consiste in una mag- giore inclusività. La disponibilità di Stella variabile verso la presenza e la voce di personaggi, temi, testi e occasioni, è una scommessa sull’esperienza. Non è una forma di assuefazione al mondo o alla storia, ma la conseguenza di un dubbio, di un problema che riguarda il ruolo della scrittura e la sua legittimità conosci- tiva. Un problema che, attraverso i versi di Sereni e le sue riflessioni sull’erme- tismo, continua a interrogarci. SERENI E GLI AMICI ERMETICI

Francesca D’Alessandro

L’unico autentico vincolo che lega Sereni ad alcuni poeti della generazione er- metica (Parronchi, Luzi, Bigongiari) è proprio quello di un’amicizia vicendevole e sincera, fatta di reciproca stima e fraterna condivisione, nella pur lucida consape- volezza della profonda differenza di intenzione poetica, di formazione e di espe- rienze che intercorre fra loro. Se Luzi testimonia la piena di una simpatia indici- bile, il carteggio con Parronchi risulta interamente pervaso dal tepore di un affetto amicale costantemente proteso, per estensione, verso gli altri «fiorentini»: fitto è il ricorrere dei nomi di Luzi, Gatto e Bigongiari. Dal punto di vista letterario, quel che più risulta interessante attualmente è stabilire non tanto la posizione di Sereni rispetto alla poesia ermetica, quanto ricostruire quello che rappresenta lo stile se- reniano agli occhi degli amici fiorentini, soprattutto quando essi, tra guerra e do- poguerra, si trovano consapevolmente alla svolta verso una stagione poetica nuova. In questo intenso colloquio a distanza – a tratti increspato dalla commozio- ne – traspaiono le reciproche ragioni di tali legami: sin dalle lettere più antiche (della primavera del 1941), a ridosso della pubblicazione di Frontiera, emerge la certezza di «un piano comune» fondato su «modi» profondamente «diversi», al quale ancorare la costruzione dell’avvenire. Tangibile si fa la circolazione de- gli affetti, il continuo sollecito esortare al ricordo degli altri amici delle Giubbe Rosse, mentre incombono sempre più minacciose le tinte oscure della guerra, che entra via via nella sua fase più drammatica. Nel legame con i cari compagni ermetici, Sereni scorge la speranza di salvare dall’annientamento le ragioni della poesia e – di conseguenza – del proprio per- sonale fare poesia: «devi credermi se ti dico che basterebbe un po’ di tempo con te e con Luzi – scrive a Parronchi – per guarirmi dei molti mali ormai cronici. Con voi ho risentito quella febbrilità che ha accompagnato sempre i miei mo- menti di ripresa, quando la parte sensibile di se stessi è come sottratta all’usu- ra che su essa hanno operato l’abitudine e le concessioni agli altri e a se stessi»1.

1 Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni-Alessandro Parronchi (1941-1982), a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 22.

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 718 Francesca D’Alessandro

Sono affermazioni, queste, di notevole spessore, soprattutto se si considera che sono scritte pochi mesi dopo la recisa presa di distanza dall’ermetismo, affidata da Sereni a una missiva al padre di Antonia Pozzi, del marzo 1941:

Io non sono né voglio essere un alfiere o un chierico della poesia ermetica […]. È così facile, caro avvocato, dopo tanti secoli di poesia dire le grandi parole Eter- nità, Infinito e via dicendo, è troppo facile: il nostro è un lavoro oscuro – in bel senso e non in quello del così detto ermetismo – tutto teso alla riscoperta d’una sostanza, concreta, oltre quelle parole divenute astratte2.

E infatti la risposta di Parronchi si appoggia al rilievo delle divergenze, per farne un punto di forza del reciproco dialogo umano e poetico: «Quel che ab- biamo di più vivo in noi si nutre della nostra stessa apparente diversità»3. Una diversità che l’amico fiorentino vede accrescersi e svilupparsi in termini di evi- denza e chiarezza: «Il fondo sentimentale si fa in te sempre più identificato e forte, il contrario di quel che avviene un po’ in tutti gli altri», commenta dopo aver letto su «Prospettive», Alla giovinezza e Città di notte, prima pietra del fu- turo Diario d’Algeria4. Egli si inoltra così nelle pieghe più riposte della poesia sereniana, per se- guire quella sua «musica intima» che costituisce per lui una «ragione di troppa meraviglia»5. Parronchi dunque si mostra ben consapevole di trovarsi di fronte ad una novità sorprendente, che via via si sta formando sotto il suo sguardo sen- sibile e attento: il frutto di una poetica in via di elaborazione, tesa per un verso a sfuggire alla volontà vertiginosa di dare un nome all’essere e all’assoluto e, per l’altro, a non sacrificare le ragioni del racconto ad una pretesa di canto immedia- to. Di qui la diffidenza (di Sereni) per la parola svuotata e resa astratta dalla sua stessa aspirazione metafisica e – per contro – l’urgenza di dire le cose per farle esi- stere senza mediazioni davanti agli occhi del lettore. Di qui anche il fastidio per le «gabbie metriche» delle strofe e degli endecasillabi insistenti che costituiscono un ostacolo al distendersi della narrazione, come Sereni stesso lamenta, in una lettera a Vigorelli dell’autunno del 1940, a proposito della sua poesia Immagine, destinata a «Prospettive» (uscirà nel dicembre dello stesso anno6). E di nuovo, quando si sta per delineare l’ipotesi di stampare il suo Diario presso Vallecchi, Sereni osserva, con intensa partecipazione affettiva: «Usciremo dunque in buo- na compagnia, tra amici. E a me piace molto di essere con voi: proprio per tut-

2 Antonia Pozzi, Vittorio Sereni, La giovinezza che non trova scampo. Poesie e lettere, a cura di Alessandra Cenni, Milano, Scheiwiller, 1995, pp. 87-89. 3 Un tacito mistero cit., p. 23. 4 V. Sereni, Alla giovinezza e Città di notte, in «Prospettive», VI, 15 giugno-15 luglio 1941, 18-19, p. 17. 5 Un tacito mistero cit., p. 26. 6 V. Sereni, Immagine, in «Prospettive», V, 15 dicembre 1940, 11-12, p. 30. SERENI E GLI AMICI ERMETICI 719 to quello che ci fa diversi agli occhi altrui. È bene che gli altri sappiano che ci stimiamo e ci vogliamo bene reciprocamente, nonostante l’ambiente diverso e la diversa formazione. Non ti sembra che sia un poco una difesa della poesia?»7. Si accresce così, nella scrittura sereniana, quello scarto vistoso e consapevo- le dalla esperienza ermetica che costituisce il motivo di riflessione costante nel confronto con gli amici fiorentini. Proprio dalla loro voce viene il riconoscimen- to precoce e ammirato di quel «miracolo della vita», di quel senso di evidenza e immediatezza della poesia di Sereni, del suo «equilibrio», della sua «forza co- sciente», nata – a loro stesso dire – da una frizione con l’idea poetica dell’erme- tismo: «Quel poco che ti arriva di “nostro” ti […] fa trovare gli elementi su cui ricominciare a sviluppare un attrito, che è forse la cosa che più desideri di fare»8. E Parronchi prosegue nel distinguere fra le variegate posizioni degli amici erme- tici e riconosce gradi di peculiarità più o meno incompatibili. A Sereni confida: «Ma anche tu sei diverso da me, sebbene lo spazio che è fra noi due non sia, al- meno per me, l’abisso che mi separa dal Bo: sia, voglio dire, uno spazio che ge- nera attrattiva e non scoraggia e spaura»9. Da Bo viene infatti l’idea che la poesia consista nella voce impronunciabile dell’essere, ove culmina l’avventura ontologica dell’autore: la parola umana – a suo dire – non può aspirare a diventare poetica; può al massimo coprire il tem- po preparatorio dell’attesa, perché tra parola e poesia si erge l’abisso invalicabi- le dell’assenza. Sul versante opposto, Sereni – come testimoniano le sue note a margine delle montaliane Occasioni, scritte nel 1940 – eleva a poesia le parole re- almente pronunciate, come «i commossi discorsi umani»10. Là dove – per gli er- metici più convinti – sussiste una causa metafisica che determina la loro obbliga- ta assenza di comunicazione, la loro necessaria oscurità, per il lombardo Sereni, la chiarezza con cui protendersi verso l’altro da sé si pone come dovere morale ir- rinunciabile e la comunicazione come traguardo di persistenza in una dimensio- ne ulteriore. Egli stesso, a distanza di anni, avrebbe spiegato questa sua posizione:

Non sentivamo su di noi nessuna cupola metafisica, nessun cielo, nessun asso- luto, non sentivamo la letteratura come un valore, in altri termini; la sentivamo piuttosto come una energia o una tensione, in un rapporto particolare con la

7 Sereni a Parronchi, 5 maggio 1946 (Un tacito mistero cit., p. 97). 8 Ivi, pp. 40 e 66. 9 Parronchi a Sereni, 12 dicembre 1945 (ivi, p. 60). 10 V. Sereni, In margine alle «Occasioni», in «Tempo», 1 agosto 1940, p. 45, poi con il titolo di Posizione verso Montale, in Lirici nuovi. Antologia di poesia contemporanea, a cura di Luciano Anceschi, Milano, Hoepli, 1943, pp. 615-619, poi, nuovamente con il titolo originario, in V. Sereni, Letture preliminari, Padova, Liviana, 1973, pp. 7-11. Sull’argomento si veda Georgia Fio- roni, «Ci aveva appassionati in gioventù alla vita»: qualche appunto sulla fortuna delle «Occasioni» nel Sereni di «Frontiera» e del «Diario d’Algeria», in «Le occasioni» di Eugenio Montale 1928-1939, a cura di Roberto Leporatti con la collaborazione di Georgia Fioroni, Lecce-Brescia, Pensamul- timedia, 2014, pp. 323-337. 720 Francesca D’Alessandro

nostra esistenza, senza poi arrivare a precisare la natura di questo rapporto, senza che se ne fosse veramente consapevoli, senza che lo avessimo di fronte, senza che lo potessimo esprimere, forse senza avere sufficienti forze espressive per far sentire questa differenza11.

Se – per certi aspetti – questo dubbio di Sereni circa la peculiarità e l’efficacia delle proprie forze espressive aveva ragione di sussistere, a proposito di Frontiera, man mano che progredisce la sua esperienza poetica, esso va assottigliando la propria fondatezza. Nei componimenti destinati a confluire nel Diario d’Algeria (soprattutto in quelli eponimi), Sereni forgia lo strumento espressivo adeguato alla sua novità d’intenti, quella sua sola musica capace di restituire concretez- za materica alla parola, altrimenti logorata e insufficiente. Nel Diario, ricono- sce nella realtà drammatica e compromessa del fronte greco e della prigionia in nord Africa, quella tessitura ricorrente di simboli propri dell’ermetismo (che li ha ereditati a sua volta dal Simbolismo francese) e li trasla dal piano metafisico a quello narrativo. Sarà ancora Parronchi a rendersi conto – tra i primi – di tale intenzione poetica sereniana, quando (a proposito dei versi del Colloquio) si tro- verà ad osservare che fino a «Rilke la natura ha parlato ancora per simboli», ri- velando verità «in geroglifici», e che per contro «la poesia più moderna è libera»; poesia libera alla quale – egli precisa – appartiene già quella di Sereni, ma non la propria, né quella degli amici ermetici («Io non ne sono ancora libero – dichiara con lungimiranza – ma pure sento questo mio come un difetto, come il piano dal quale, vivendo, dovrò necessariamente staccarmi»12). Il superamento dell’e- redità simbolista costituisce per gli ermetici (a loro stesso dire) un passo deter- minante verso la forza vitale e l’immediatezza della scrittura: in questo l’amico lombardo rappresenta per loro un modello, la fase successiva alla quale appro- dare, per naturale conseguenza, dopo il necessario logoramento della loro prima stagione. Si pensi – per esempio – ai versi di Assedio di Alfonso Gatto, contenuti nella raccolta Morto ai paesi (uscita presso Guanda, nel 1937, ben nota a Sereni che la recensisce sulle pagine di «Corrente», nell’aprile dell’anno successivo13):

L’estrema assenza dove vivi uguaglia la tua vita al deserto: la pianura di sera al vento scalda la sua paglia nel riverbero lungo delle mura.

E non resiste che l’assedio uguale di monotona voce l’apparente

11 V. Sereni, Il movimento milanese di «Corrente di Vita Giovanile» e l’ermetismo, in «L’Appro- do Letterario», (1968), 14, pp. 87-88. 12 Parronchi a Sereni, 14 febbraio 1946 (Un tacito mistero cit., p. 78). 13 V. Sereni, Su Alfonso Gatto, in «[Corrente di] Vita giovanile», I, 15 aprile 1938, 6, p. 3. SERENI E GLI AMICI ERMETICI 721

sembianza della luna che risale scalfita a vuoto d’aria sulle spente

solitudini e serba al suo chiarore un debole risveglio d’orizzonte. […] Alzava il vento un villaggio di luna ed era pura assenza la tua vita nel momento

d’apparirle sorpreso. Nel suo vuoto tremerà l’orizzonte senza aiuto per l’apparenza della sera, immoto, vento che coglie la tua voce e muto

ti richiama con essa alla pazienza d’attendere per sempre nella morte un debole risveglio d’orizzonte14.

Il perno attorno al quale ruota il componimento è quello dell’assenza, da cui si irradia il campo semantico dilatato che la associa al deserto, alla pianu- ra cheta, alle spente solitudini, agli attributi metafisici del vento, nell’ora topica della sera, fino al vuoto15. Nel racconto sereniano del Diario, lungi dal rimane- re mere immagini poetiche con valore simbolico, questi elementi si fanno con- cretissimi e veri, nel contesto della prigionia nell’entroterra algerino: il deserto, l’attesa, l’assenza, il vuoto, il vento e persino l’assimilazione del proprio esistere a una sospensione delle scorrere temporale ed emotivo, paragonabile all’eterno e riconducibile alla morte («Come un cordoglio / ho lasciato l’estate sulle cur- ve / e mare e deserto è il domani»; «Un improvviso vuoto del cuore / tra i giaci- gli di Sainte-Barbe; / sfumano i volti diletti, io resto solo»; «È il vento, / il ven- to che fa musiche bizzarre»; «Non sanno d’essere morti / i morti come noi»; «E tutto è pronto per l’eternità»; «E la collina dei nostri spiriti assenti / deserta e im- memorabile si vela»16). Là dove, per gli ermetici, l’eternità va ricondotta all’orizzonte concettuale e ontologico, Sereni la concepisce come una sospensione (realmente sperimenta- ta) dei riferimenti temporali del trascorrere e del divenire, come l’impietrita lon- tananza dagli affetti e dalla propria terra, durante la segregazione. Si dischiude

14 Alfonso Gatto, Morto ai paesi, Modena, Guanda, 1937 (poi in Poesie 1929-1941, Milano, Mondadori, 1961, pp. 177-178). 15 Si veda in proposito Giuseppe Langella, Poesia come ontologia. Dai Vociani agli Ermetici, Roma, Studium, 1997, pp. 33-36. 16 V. Sereni, Poesie, a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1995, pp. 63, 74, 76, 78, 80-81. 722 Francesca D’Alessandro così, anche per Sereni, il tempo dell’attesa e della disposizione all’ascolto che tut- tavia si caricano di valenza nuova, rispetto a quella avvertita dagli amici «fioren- tini», per i quali costituiscono l’abito spirituale del poeta proteso verso una rive- lazione di ordine metafisico. L’autore del Diario si dispone piuttosto all’ascolto e all’accoglienza dell’altro, del proprio simile («compagno d’infortunio»), trami- te il quale eventualmente affacciarsi all’Assoluto. Il suo parlare si fa avaro e scar- no (apparentemente somigliante a quello rarefatto degli ermetici), soltanto per- ché si limita alla parola necessaria, essenziale alla condivisione fraterna, pur nel- la piena consapevolezza che quella stessa parola si dia sempre come un’appros- simazione al soggetto, una imitazione fatalmente imperfetta. Ma di nuovo la ri- flessione di Sereni non giace sullo stesso piano di quella di Bo e di Bigongiari: l’inadeguatezza della parola, nell’atto della mimesi, riguarda l’umile orizzonte fenomenico e le cose, per l’uno («il nome che non è la cosa ma la imita soltan- to»), l’inattingibile orizzonte dell’Essere, per gli altri. Il poeta del Diario ottiene così, per questa via, una spoliazione di sé radicale e definitiva che – nell’attraversamento del dolore e della lontananza – gli permette di trovare una dizione poetica rinnovata e imprevedibile, destinata a inaugurare la stagione del secondo Novecento17. Non per niente, quando è prossimo il suo ritor- no in patria, gli amici fiorentini riconoscono in lui la sola voce capace di restitui- re anche a loro una intonazione poetica ferma e sicura. «So che, tra dolori e muta- menti, hai serbato intatta la nostra immagine prima, e sapessi che bisogno ce n’è per ricominciare una volta il nostro lavoro. Intanto questa è per me una certezza tra tanti dubbi», gli scrive Parronchi da Firenze, il 4 gennaio del 1945. E prosegue, il 17 febbraio dell’anno successivo: «Per riprendere ho proprio bisogno di non di- sperdermi, e penso che mi farà bene ritrovare un po’ della tua calma e intensità»18. Affiora pian piano a quest’altezza quella sorta di crisi dettata dalla consapevolezza di essere prossimi a lasciarsi faticosamente alle spalle la ormai satura stagione er- metica: «Il mio problema è un altro – confessa Parronchi nell’agosto del 1945 – è nella mia tenacia che ormai m’ha privato di qualsiasi possibilità di reviviscenza, e nel mio fondo, pesante fondo di convincimenti ma più di abitudini, dal quale non so che forza mi potrà sollevare». Di ritorno dalla guerra, Sereni restituisce agli amici fiorentini la loro identità di sempre, intatta e tuttavia temperata e fatta nuo- va nel crogiolo dell’esperienza e nel contatto con la realtà più cruda. Si tratta di una crisi di ordine spirituale e poetico che tocca anche Luzi, cir- ca nel medesimo periodo («La pace, / se verrà, ti verrà per altre via / più lucide di questa, più sofferte»19). Anche Luzi riconosce nella voce di deserto sereniana

17 Per questo, si veda Francesca D’Alessandro, Tra Luzi e Sereni: cronistoria di un debito poetico, in Viaggio terrestre e celeste di Mario Luzi, a cura di Paola Baioni e Davide Savio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, pp. 43-65. 18 Un tacito mistero cit., pp. 34 e 37. 19 Mario Luzi, La notte viene col canto, in L’opera poetica, a cura di Stefano Verdino, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 1998, p. 152. SERENI E GLI AMICI ERMETICI 723 un richiamo autentico alla lucidità e alla sofferenza da lui stesso cercate, insie- me con una parola che è circolazione di energia vitale, ponte di colloquio fra- terno verso l’altro e verso l’oltre. Nel suo tenace e smarrito sforzo di orientare di nuovo la propria scrittura verso un’intonazione più autentica, Luzi è rimasto verisimilmente colpito (come molti lettori del tempo) dall’immaginario sereniano del Diario (che già circolava dattiloscritto prima della pubblicazione, tanto da ricevere, nel 1946, il Premio Libera Stampa per l’inedito, da una giuria composta, tra gli altri, da Carlo Bo, Giansiro Ferrata e Gianfranco Contini20). Un Diario nel quale – agli occhi di Luzi – la prigionia e il deserto assumono un valore simbolico forte, di condi- zione ascetica e contemplativa, di aridità, privazione e solitudine, di penitenza e di attesa. Il luogo ove si compie «la condizione […] solo poeticamente perfetta del prigioniero tagliato fuori in un limbo di echi e di desideri frustrati, […] una entelechia», secondo le parole retrospettivamente dedicate dallo stesso Luzi alla raccolta sereniana, quando ormai avevano già visto la luce anche Gli strumenti umani21. Qui trova un esempio folgorante, nel quale la poesia si china dalla sfe- ra celeste alla dimensione creaturale, si flette verso una tonalità terrena, per resti- tuire la parola all’umanità sgomenta, per accogliere le cose del mondo al di fuo- ri dello spazio scenico dell’io: «Di me non c’è traccia negli anni / se non come raccontano un viaggio / le impronte di sabbia d’un deserto»22. Una mirabile sensibilità poetica conduce l’autore del Quaderno gotico a por- si in cammino per il proprio deserto interiore, a rivivere nell’intenzionalità della sfera spirituale la propria esperienza di spoliazione e di abbassamento di sé, pre- liminari all’accoglienza umile e fraterna dell’altro. Nasce così – per via propria e originale – il rinnovato vigore della parola di Primizie del deserto, ambientata in una «regione senza sole», dove «il colore della pena è sterminato» e «prende nome ciò che s’è perduto»23. Anni dopo, lo stesso Luzi rivolge all’amico parole toccanti e intense, ricor- dando il travaglio della prigionia e della lontananza, così come si evince dalla lettera del 28 gennaio del 1962:

Come faccio a tenere tutta per me la profonda e davvero grande gioia che mi danno le tue parole? Devo riversarla anche su di te che l’hai fatta nascere, tra- endola dalla tua creazione invenzione interna, dalla tua fertilità spirituale. Non mi viene in mente di averti detto con altrettanta semplicità quello che io ti devo – per il puro fatto di esserci e di essere come sei – ma spero di averti fatto sentire

20 Sereni ne parla con amarezza, per le incomprensioni subite, con l’amico Parronchi (cfr. Un tacito mistero, pp. 145-149). 21 M. Luzi, Gli strumenti umani, in «Paragone» Letteratura, XVII, 14, aprile 1966, pp. 127-130. 22 M. Luzi, Forse dice l’addio, in L’opera poetica cit., p. 176. 23 M. Luzi, Né il tempo, ivi, pp. 171-172. 724 Francesca D’Alessandro

ugualmente, ben oltre l’ammirazione ovvia, la indicibile simpatia che provo per te. Dico simpatia nel senso più esteso della parola. / Certo mi basta leggere su una rivista una tua frase, detta con quella tua voce discreta ma insinuante e, sotto, travolgente come un gorgo per ritrovarti, per incominciare con te lunghi colloqui. […] Nel tuo vortice io mi posso abbandonare con felicità, guizzare come un pesce: vi trovo oltretutto un’infinità di cose che mi mancano e di cui ho bisogno. Come era triste quando tu eri lontano («tra i bruti») e non si sapeva niente di te. Dopo sono stato certo di te e non m’impressionava ‘il lungo sonno’; la simpatia mi serviva a meraviglia24.

L’immaginario rinnovato di Sereni coglie gli amici fiorentini intenti nello sforzo di orientare la propria scrittura verso un’intonazione più autentica e li sor- prende con la naturalezza e la nettezza della propria essenzialità. Di fronte alla prova durissima della prigionia di Sereni appena conclusa, Parronchi confida a sua volta: «E intanto mi ricorre spesso il pensiero di te, in questo lungo gioco della poesia che ha per posta la verità e per vincita non si sa cosa: forse, più che altro, il bene di sentirci amici»25. Proprio in quella concezione della verità passa di nuovo lo scarto profondo delle reciproche posizioni: all’accezione metafisica degli ermetici (ormai vacil- lante e minacciata dalla irreperibilità della parola adeguata a dare nome e sen- so compiuto all’intuizione), Sereni oppone un’idea umilmente, ma fermamente etica. Alla parola protesa a liberarsi dalle scorie mondane degli amici fiorentini, l’autore del Diario contrappone le parole aderenti alle cose e voce delle cose stes- se. Di fronte alle rovine di un mondo spazzato dalla guerra («il vecchio mondo si è sfasciato»), con la consapevolezza desolata che quel mondo «era il nostro», Sereni, da Parma, sogna di rifugiarsi nell’abbraccio rassicurante degli amici er- metici: «Caro Sandro, come preferirei essere a Firenze con te e con Mario. Qui ho visto il buon Macrí, che non è meno sgomento di me e che mi sembra fac- cia sforzi disperati per non lasciarsi confondere»26. Ma il sogno dura lo spazio di un sospiro, e subito Sereni si rassegna con amarezza riluttante al «disperan- te grigiore» dell’inesorabile ingranaggio politico e imprenditoriale di Milano. Si ripete di nuovo qui quella sorta di dualismo che già aveva caratterizzato l’ani- ma della rivista «Corrente», prima della guerra, quando coesistevano in essa – secondo le osservazioni dello stesso Macrí – una spinta schiettamente ermetica (si pensi alla «scorreria dell’ermetismo fiorentino nel gran ducato lombardo» del giugno del 1939) e una spinta milanese, di una città tipicamente industriale27.

24 M. Luzi, lettera a Vittorio Sereni del 28 gennaio 1962 (autografo conservato presso l’Ar- chivio di Luino), ora parzialmente edita in L’opera poetica cit., p. xciv (corsivo nostro). L’allusione fra parentesi è ai versi notissimi in quei decenni di Italiano in Grecia («Europa Europa che mi guardi / scendere inerme e assorto in un mio / esile mito tra le schiere dei bruti», Poesie, p. 63). 25 Un tacito mistero cit., p. 45. 26 Ivi, p. 46. 27 Si veda in proposito, V. Sereni, Senso di un’esperienza, in «Corrente di vita giovanile» (1938- SERENI E GLI AMICI ERMETICI 725

Sereni non tace tuttavia il disagio che già proviene dalla sua tormentata ri- cerca di un linguaggio poetico adeguato al mutare dei tempi: «Guai quando si è esaurito il proprio ciclo interiore, guai quando si soffre soltanto dell’ispirazio- ne che non assiste, del non sapere come giustificare la propria esistenza»28. La ri- sposta alla sua «invincibile aridità», ai «cinque anni di disamore e di dispersione sulle spalle» sta nei versi di Colloquio (poi Via Scarlatti), che Sereni invia all’ami- co fiorentino trascrivendoli di suo pugno in quella stessa missiva. A margine del componimento, l’autore commenta: «forse ti piacerà, ma è anche l’ultima cosa che avevo sotto gli occhi della mia vita: questa strada, via Scarlatti. E, come ho potuto, l’ho detta. Per il resto, oggi, non c’è più niente, né Luino, né l’Africa, né la guerra. Il che vuol dire che ho sempre avuto bisogno – e questo è male – di cercare la poesia fuori di me»29. Proprio quando sembra vacillare una ricerca poetica durata decenni, sopraggiunge la svolta inequivocabile. A questa dichia- razione di stanchezza e forse addirittura di resa, risponde con decisa convinzio- ne Parronchi, che incoraggia l’amico a proseguire, opponendo ragioni obietti- ve e inconfutabili su cui si fonda la grandezza della poesia sereniana: immedia- tezza di vitalità (capace di imporsi su ogni forma di intellettualismo), «fede e at- taccamento forte alle immagini», «chiarezza» e «alito incantato»30. Altrettanto perspicace risulta l’individuazione dell’affinità con la pronuncia eliotiana, so- prattutto nella «capacità di assorbire e di reagire in contatto con elementi estra- nei, di caricare cose vedute per la prima volta di tutta una corrente affettiva»31. Si tratta della stessa «intima duttilità» e della stessa «capacità di illuminare vi- talmente il contenuto senza bloccarlo […] passandovi in mezzo come la corrente elettrica» riscontrate da Luzi più tardi nella scrittura sereniana32. E Sereni – dal canto suo – accoglie il rilievo di Parronchi e conferma la suggestione che alcuni versi di Eliot hanno esercitato su di lui, soprattutto nell’inclinazione a lasciare esistere le cose in poesia, eclissando l’io lirico e riconoscendo «la necessità delle scorie» (come aveva egli stesso dichiarato a Vigorelli, sin dal gennaio del 1937). Sereni si incammina così definitivamente sulla strada che conduce alla tangen- za fra poesia e romanzo, in direzione ancora una volta opposta rispetto alle po- sizioni ermetiche, per le quali la poesia cade «nel segno dell’essere» (Bigongiari), fissa nella sua identità parmenidea, priva di scorie didascaliche o narrative33. In

1940), a cura di Alfredo Luzi, «Indici ragionati dei periodici europei», Roma, Edizioni dell’Ate- neo, 1975, p. 14. 28 Sereni a Parronchi, 7 gennaio 1946 (Un tacito mistero cit., p. 63). 29 Ivi, p. 65. 30 Ivi, pp. 66-67. 31 Ibidem. 32 M. Luzi, Lettera del 25 marzo 1963 (autografo conservato presso l’Archivio di Luino), ora parzialmente edita in L’opera poetica cit., p. 1531. 33 Piero Bigongiari, Risposta da Elea, in Il senso della lirica italiana e altri studi, Firenze, San- soni, 1952, p. 146. 726 Francesca D’Alessandro quanto pellegrino sulla terra, l’uomo è calato nel romanzo della propria esisten- za, sentito da Bigongiari e dagli ermetici come una condanna della corporeità in attesa del proprio riscatto e, da Sereni, come una doverosa fedeltà alle pro- prie origini terrestri, che conduce la poesia al circostanziato racconto della vi- cenda terrena:

Significa qualcosa, nello sviluppo di un lavoro, avvertire un bisogno di figure, di elementi narrativi, di strutture: ritagliarsi un milieu socialmente e storica- mente, oltre che geograficamente e persino topograficamente, identificabile, in cui trasporre brani e stimoli di vita emotiva individuale, come su un banco di prova delle risorse segrete e ultime di questa, della loro reale vitalità, della loro effettiva capacità di presa. Produrre figure e narrare storie in poesia come esito di un processo di proliferazione interiore. Ai vertici poesia e narrativa si toccano34.

Nella concretezza sereniana, calata entro ben precise e tangibili coordinate spazio-temporali, si stempera l’ermetica tensione fra esistenza ed essenza. Li ac- comuna il lento inoltrarsi verso l’eternità, ipotizzata attraverso l’orizzonte feno- menico – da Sereni – anelata nel vano tentativo di scavalcare la dimensione cor- porea – dagli amici ermetici – via via sempre più disposti a riconoscere l’inani- tà del loro sforzo e inclini a plasmare anch’essi la scrittura sulla forma moltepli- ce e dinamica del romanzo e della storia.

34 V. Sereni, Il silenzio creativo, in Gli immediati dintorni, Milano, Il Saggiatore, 1962, pp. 115-116. PAROLE DI SERENI

Marina Paino

Nell’ambito di una riflessione complessiva sulla controversa contiguità di Vittorio Sereni con l’Ermetismo, fruttuosa può risultare una specifica indagine sulla parola sereniana, attraverso un’analisi di tipo concordanziale volta a sondare alcune precise relazioni tra aree semantiche di rilievo nel vocabolario dell’autore di Frontiera, quello che dialoga e simpatizza col movimento fiorentino e i poeti- amici ad esso vicini. Un esame più ravvicinato del ruolo che la parola ha nei ver- si della prima raccolta sereniana non può del resto che gettare ulteriore luce sui rapporti del poeta con il gruppo ermetico e con la poetica ermetica, una poetica della parola, espressamente segnata da una profonda attenzione metalinguistica. Sulla parola si concentrano per altro nel periodo entre-deux-guerres anche le attenzioni dei riconosciuti maestri di Sereni (Ungaretti, Montale e Saba): l’Unga- retti dell’Allegria che in Commiato dice di una vita e di un’umanità «fioriti dalla parola», quella parola emersa dal silenzio e scavata nella vita «come un abisso»; e lo stesso Ungaretti di Sentimento del tempo che teme di essere caduto in «ser- vitù di parole» (e che tuttavia in seguito, nel Dolore, spererà ancora di riuscire a «risillabare parole ingenue»). E il Montale che affida a Non chiederci la paro- la un’esplicita dichiarazione di poetica in negativo, salvo poi, negli stessi Ossi, a mettere in guardia Arsenio rispetto alla possibilità che una parola gli cada accan- to come segno di una vita per lui sorta. E quindi Saba che, refrattario a quelle che nelle Scorciatoie definiva le «parole incrociate» degli ermetici (cui opponeva le proprie «trite parole che non uno osava»), pubblicherà proprio negli ermetiz- zanti anni 30 la raccoltina intitolata Parole, timido tributo ad una linea poetica quale quella fiorentina che lo vedrà di fatto sempre estraneo. E un preciso interesse per il ruolo della parola (così come, all’interno dei ver- si, la specifica occorrenza del lemma «parola») si impone nella poesia dei com- pagni di strada di Sereni (Quasimodo, Sinisgalli, Luzi, Gatto), poeti nel cui si- stema lessicale la «parola» compare con significativa insistenza1.

1 Cfr. Giuseppe Savoca, Concordanza delle poesie di Salvatore Quasimodo, Firenze, Olschki, 1994 e G. Savoca-Antonio Di Silvestro, Concordanza delle poesie di Leonardo Sinisgalli, Firenze, Olschki, 2008. Le concordanze di Luzi e Gatto, così come quella di Sereni, sono presenti nell’ar-

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 728 Marina Paino

Con queste premesse è singolare notare come in Frontiera la grande assen- te, per una raccolta in qualche modo gravitante nell’orbita ermetica, sia pro- prio la parola, il lemma «parola», visto che tanto la parola quanto l’atto del par- lare, pur assolutamente presenti nel resto della produzione lirica sereniana2, re- stano di fatto oltre le «frontiere» di questa prima silloge3. E si tratta di un resta- re al di fuori delle ideali frontiere della raccolta da intendere quasi in senso let- terale, dato che l’attenzione alla «parola» era invece presente nei versi che Sereni sceglie di non includere nella silloge del ’41, pur risolvendosi poi per alcuni re- cuperi nelle riedizioni dell’opera. Per un’analisi complessiva di tale area semantica nel vocabolario del poeta di Frontiera, la quale tenga opportunamente conto della dimensione diacronica, è senz’altro utile prendere preliminarmente le mosse dalla presenza della «paro- la» nei componimenti non ricompresi nella prima edizione della raccolta, usci- ta appunto nel 1941. In una lirica del maggio ’36 intitolata Diario il poeta ha consapevolezza che ogni risorgenza della smessa parola non può che volgersi in deserto («il mio di- sciolto alfabeto / […] ho ripassato vivente. / […] Poi m’è rinata la smessa pa- rola / che mi ritorna deserto»)4; in un componimento coevo egli parla di parole ormai smarrite («le smarrite parole di buona sorte / che trovi per gente straniera / col disgusto tremante nella voce», Li ascolti ora i rintocchi…), per puntualiz- zare in un altro frammento come non possa che farsi sempre «più fonda la sete / di quanti alle acque vive la parola rivolgono»: ne emerge dunque la raffigura- zione della parola come deserto e la difficoltà di questa parola a dissetare come acqua viva. Un’immagine che a questa si richiama è per altro significativamen- te presente nei versi giovanili di Un anno (datati dicembre 1934), in cui il po- eta, evocando l’ammonimento di un’arida pietraia, dice idealmente a se stesso: «Parole sull’acqua scrivesti / naufragarono tosto». La lirica in questione presen- ta per di più interessanti cortocircuiti tra molti dei motivi indirettamente con- nessi a questo della parola nei versi del primo Sereni:

chivio elettronico di concordanze della poesia italiana otto-novecentesca del Dipartimento di Scienze Umanistiche dell’Università di Catania. 2 Pier Vincenzo Mengaldo individua proprio nell’attenzione al parlato e alla voce che parla («il parlato e la voce che parla impregnano in realtà ogni singola fibra del discorso») uno dei tratti distintivi della poesia sereniana: cfr. Pier Vincenzo Mengaldo, Ricordo di Vittorio Sereni, ora in La tradizione del Novecento. Seconda serie, Torino, Einaudi, 2003, pp. 315-331. 3 Per una puntuale ricostruzione storico-critica (a partire dalle pagine di Anceschi e Bo) della distinzione tra linea ermetica fiorentina legata alla parola e linea poetica lombarda legata agli oggetti, vista in relazione alla problematica collocazione di Sereni all’interno di questo scenario lirico, cfr. Maria Luisa Baffoni Licata, L’Ermetismo e gli esordi di Sereni, in La poesia di Vittorio Sereni. Alienazione e impegno, Ravenna, Longo, 1986, pp. 7 e ss. 4 Tutte le citazioni saranno tratte da Vittorio Sereni, Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, 1995. PAROLE DI SERENI 729

Altri treni rombarono da Nord […] nuvole vaste gli spiazzi dei giardini coronarono; […] dolci risa echeggiarono lontano. Calarono cortine sul meriggio frusciando; e grave la canzone alpina sull’immobilità dell’attimo alitò. Le voci della vita e della morte da pietraie beffarde risposero: «Parole sull’acqua scrivesti naufragarono tosto». […] Ed altri treni rombano da Nord ciecamente struggendosi in corsa, giovinezza.

C’è il rombo dei treni oltre la frontiera e ci sono le nuvole che minacciano di pioggia i giardini; ci sono fruscii ed echi in lontananza e ci sono voci (di vita e di morte) che vengono fuori dalla pietra; e c’è soprattutto la parola (una parola, in questo caso, autoreferenzialmente scritta, come quella poetica) che ha a che fare ancora con l’acqua, in un nesso confermato anche in alcuni luoghi dei posteriori Versi a Proserpina (versi che intrecceranno significativamente la propria vicenda editoriale con le poesie di Frontiera)5; in alcuni di questi Versi, anche in seguito mai accolti in Frontiera, si leggono infatti esplicite associazioni tra la sfera verbale e quella acquorea: «nell’acqua un ciottolo abbandona / ch’è la sua voce / e quel- lo che non dice» (Eternamente a marzo è la sua vita…); e ancora: «Lievi le paro- le che ti cercano / colombe sull’acqua nera» (I nostri volti ardono nell’ombra…). E se i richiami sereniani alla parola restano fuori da Frontiera, alla luce dei versi non inclusi nella raccolta e poc’anzi citati (in cui la parola, strumento e so- stanza della poesia stessa, interseca ripetutamente la propria occorrenza con quel- la dell’acqua), un di più di senso, indirettamente connesso alla stessa espressione lirica, può allora assumere in qualche modo l’insistita presenza dell’acqua nell’e- conomia semantica della silloge. All’acqua, nelle liriche escluse, il poeta affidava infatti ripetutamente le sue parole e, nell’assenza di precisi riferimenti ad esse, proprio l’acqua (elemento paesaggistico assai presente al poeta di Luino e silenzio- so testimone della vita stessa) diventa nei versi sostanza privilegiata della poesia6.

5 Su questi Versi, cfr. Georgia Fioroni, Vittorio Sereni, «Versi a Proserpina», in Le forme del narrare poetico, a cura di Raffaella Castagnola e G. Fioroni, Firenze, Cesati, 2007, pp. 83-103 e Roberto Deidier, All’Ade e ritorno: i “Versi a Proserpina”, in Vittorio Sereni, un altro compleanno, a cura di Edoardo Esposito, Milano, Ledizioni, 2014, pp. 101-113. 6 A conferma della stretta interdipendenza tra la lirica sereniana e il paesaggio, nel ricordare una gita a Luino insieme al poeta, Pier Vincenzo Mengaldo commenta: «Così egli, portandoci 730 Marina Paino

Dall’immagine dell’acqua si può pertanto prendere avvio per documentare concordanzialmente come l’attenzione alla parola, esclusa da Frontiera, si riaf- facci altrimenti nel volumetto lirico per il tramite di aree semantiche ad essa cor- relate. Nella prima raccolta di Sereni quella dell’acqua è per altro una presenza vistosissima, assolutamente esplicita sin dalle due liriche editorialmente «proe- miali» (Concerto in giardino e Inverno a Luino) apparse nel ’37 su «Frontespizio» con la prefazione di Betocchi7. La prima di esse, Concerto in giardino, su «Frontespizio» datata «giugno 1935», è una lirica interamente giocata sull’acqua e la parola poetica parla nei versi proprio attraverso l’acqua con cui «innaffiano i giardini in tutta Europa»:

A quest’ora innaffiano i giardini in tutta Europa. Tromba di spruzzi roca raduna bambini guerrieri, echeggia un suono d’acque sino a quest’ombra di panca. Ai bambini in guerra sulle aiole sventaglia, si fa vortice; […] filano treni a sud-est tra campi di rose. Da quest’ombra di panca ascolto i ringhi della tromba d’acqua: a ritmi di gocce il mio tempo s’accorda. Ma fischiano treni d’arrivi. S’è strozzato nel caldo il concerto della vita che svaria in estreme girandole d’acqua.

Ed è già, sin dall’incipit di questo componimento, l’immagine della frontiera (tra il qui del poeta e l’altrove dell’Europa), di una linea di confine anche que-

per mano nel suo regno […], intendeva certo rendere partecipi i suoi amici di un’esperienza che lo aveva segnato nel profondo e per sempre. Ma forse intendeva anche dare a me, che avevo ten- tato di capire la sua poesia, i mezzi per capirla più a fondo; forse ricordava il distico del Divano di Goethe: “Chi vuol comprendere il poeta / deve recarsi nella terra del poeta”»; e ancora: «Sereni vive il paesaggio dall’interno, ed è perciò che esso emerge nei suoi versi come continuità e atmo- sfera» (P. V. Mengaldo, Ricordo di Vittorio Sereni cit., p. 317 e ss). 7 Prende sostanzialmente le mosse da questa premessa di Betocchi l’apparentamento del primo Sereni alla linea ermetica. Laura Barile puntualizza come le parole betocchiane tendessero «a presentare il giovane autore come una variante lombarda, più aderente alla realtà oggettuale, dell’ermetismo fiorentino, e accennassero alla frequentazione di Alfonso Gatto e Quasimodo», con una chiusa «alquanto sibillina che avvicinava Sereni al clima religioso dell’ermetismo» (Laura Barile, Sereni, Palermo, Palumbo, 1994, p. 15). PAROLE DI SERENI 731 sto caso, come in Un anno, sottolineata da un filare e fischiare di treni, e oltre la quale c’è forse un mondo diverso, mentre l’io lirico si pone in ascolto dell’e- co degli spruzzi rochi, dei ringhi della tromba d’acqua, dei ritmi di gocce cui il suo tempo s’accorda. Ma poi anche questo vitale e allo stesso tempo inquietan- te concerto acquatico ha fine, e si strozza negli ultimi versi del componimento: «Ma fischiano treni d’arrivi. / S’è strozzato nel caldo / il concerto della vita che svaria / in estreme girandole d’acqua». Sull’acqua, sulla parola «acqua» si chiu- de dunque Concerto in giardino, che addirittura rappresenta con le sue girando- le il senso stesso della vita, o meglio il concerto di essa, manifestazione sonora che nella lirica si sostituisce idealmente alle parole. E indirettamente acquatica è anche la seconda lirica edita su «Frontespizio», quell’Inverno a Luino che codifica da subito il paesaggio lacustre come luogo d’elezione sereniano. L’acqua del lago è qui anche frontiera (quella tra l’Italia e la Svizzera) e in analogia con quanto avveniva nella sonorità di Concerto in giar- dino, in cui il concerto dell’acqua si sostituiva idealmente alle parole, anche qui il paesaggio lacustre sembra essere segnato dall’assenza di parole:

Ti distendi e respiri nei colori. […] Colgo il tuo cuore se nell’alto silenzio mi commuove un bisbiglio di gente per le strade. […] Quando pieghi al sonno e dài suoni di zoccoli e canzoni e m’attardo smarrito ai tuoi bivi m’accendi nel buio d’una piazza una luce di calma, una vetrina. […] Di notte il paese è frugato dai fari, lo borda […] un fioco tumulto di lontane locomotive verso la frontiera.

Si avverte solo un «bisbiglio di gente» che emerge dall’«alto silenzio», qualche «suono di zoccoli» e qualche eco lontana di canzoni. E come il fischio di treni ave- va indirettamente coperto e spento in quell’altra lirica il concerto dell’acqua, an- che questo componimento si chiude su un ultimo flebile suono, sul «fioco tumul- to di lontane / locomotive verso la frontiera». A suggellare l’importanza semanti- ca di questa lirica, «frontiera» è dunque l’ultima parola dei versi, cosa particolar- mente significativa perché il lemma che dà il titolo alla prima raccolta ricorrerà in tutta la produzione in versi di Sereni solo in questo caso e in un’ulteriore occor- renza presente in Strada di Zenna, componimento anch’esso raccolto in Frontiera e segnato dall’acqua del lago e dell’acquazzone, da qualche flebile suono, ma so- 732 Marina Paino prattutto dal silenzio, un «silenzio stupito» che è tutto ciò che resta del «lagno del vento», «dell’impeto / che poco fa spezzava la frontiera», una frontiera dalla qua- le, per altro, coloro che ritornano («torneremo taciti a ogni approdo») sono ap- punto «taciti», senza parole (e in linea con questa assenza di parole una prima re- dazione della lirica era introdotta e chiusa da una fila di puntini di sospensione)8. L’uso così parco, assolutamente centellinato, del lemma «frontiera» (legato significativamente al silenzio, e quindi all’assenza di parola, in entrambe que- ste sue uniche occorrenze nei versi di Inverno a Luino e Strada di Zenna) rende ovviamente particolarmente pregante la scelta di tale lemma come titolo della raccolta del ’41. Si tratta di una intitolazione che Sereni decide però di rivedere l’anno successivo al momento della pubblicazione di un corpus lirico molto si- mile sotto il più generico titolo Poesie9, ma che egli alla fine si risolve comunque a recuperare nella tarda riedizione dell’opera nel 1966, allorché Frontiera si im- pone come titolo generale e come titolo della terza sezione (la quale ha per al- tro quale lirica iniziale proprio Inverno a Luino). Nella prima edizione della silloge10 le sezioni, scandite da numeri romani, non hanno titolo ma sono aperte rispettivamente da Concerto in giardino e dalle sue girandole d’acqua la prima, da Inverno a Luino la terza (a sottolineare anche attra- verso la posizione l’importanza semantica delle liriche apparse su «Frontespizio»), laddove la seconda sezione è introdotta dalla lirica Inverno, il cui primo verso è occupato solo da puntini di sospensione, ovvero dall’assenza delle parole. In que- sto componimento l’acqua assume i molteplici aspetti di fonte, ghiaccio, lago e onda, un’onda per di più parlante, perché mormora e chiama, mentre – come il treno in altri luoghi testuali della raccolta – un battello si allontana ululando ver- so la sponda più remota («ulula il tuo battello lontano / laggiù, dove s’addensano le nebbie»). In posizione incipitaria si trovano dunque nelle tre sezioni della prin- ceps di Frontiera liriche strettamente legate l’una all’altra da precisi richiami e che variamente articolano le proprie dinamiche semantiche intorno ai motivi tra di loro interconnessi dell’acqua, dell’assenza di parole, dell’idea stessa di frontiera. Questo stesso impianto (con le stesse liriche poste ad apertura delle tre sezio- ni, indicate con numero romano) viene sostanzialmente riconfermato da Sereni nell’edizione dell’anno successivo, quella intitolata Poesie e non Frontiera11, men-

8 Cfr. D. Isella, Apparato critico a V. Sereni, Poesie cit., pp. 343-344. 9 Nella nota al volume uscito da Vallecchi nel 1942 Sereni ammette come questo titolo sia «generico e antologico, rispetto all’altro diletto ma troppo preciso» scelto per l’esordio dell’anno precedente. 10 Frontiera (1935-1940), Milano, Corrente, 1941. Questo l’indice della raccolta: I. Con- certo in giardino, Incontro, Le mani, Capo d’Anno, Canzone lombarda, Compleanno, Nebbia, Ritorno, 3 dicembre, Diana – II. Inverno, Memoria d’America, Terre rosse, Temporale a Salso- maggiore, Azalee nella pioggia, Soldati a Urbino, Poesia militare – III. Inverno a Luino, Terrazza, Zenna, Settembre, Un’altra estate, Paese, Immagine, In me il tuo ricordo, Ecco le voci cadono. 11 Poesie, Firenze, Vallecchi, 1942. Questo l’indice della raccolta: I. Concerto in giardino, In- contro, Le mani, Capo d’Anno, Canzone lombarda, Compleanno, Nebbia, Ritorno, 3 dicembre, PAROLE DI SERENI 733 tre nella raccolta data alle stampe nel ’66 (di nuovo intitolata Frontiera) proprio Inverno, la lirica che non comincia con delle parole ma con dei puntini di sospen- sione, diviene con la sua acqua e i suoi silenzi la prima lirica del volume, come a sancire ab initio questa difficoltà a pronunciare parole propria della silloge12. Pur alla luce di questo cambiamento intervenuto ad apertura di Frontiera del 1966, nell’assetto complessivo del libro, le due liriche a suo tempo scelte da Sereni per la pubblicazione su «Frontespizio», Concerto in giardino e Inverno a Luino, non perdono tuttavia per parte loro una propria posizione di rilievo, a conferma, anche a distanza di diversi lustri, di un riconosciuto ruolo fondan- te delle istanze semantiche primarie in esse contenute. Infatti, Concerto in giar- dino perde sì la collocazione proemiale che aveva nelle due precedenti edizio- ni del corpus in questione, ma in compenso in questa tarda riproposizione del- la raccolta dà il titolo all’intera prima sezione, mentre Inverno a Luino mantie- ne la posizione iniziale nella seconda sezione del volume che ha per titolo pro- prio Frontiera (lo stesso della raccolta nel suo complesso) e che insieme alla se- zione Concerto in giardino racchiude sostanzialmente la quasi totalità delle ‘sto- riche’ liriche edite da Sereni nei volumi del ’41 e del ‘4213. La stagione invernale, attraverso la collocazione incipitaria assunta da Inverno e da Inverno a Luino, viene così posta in posizione forte in entrambe le sezioni che raccolgono l’eredità testuale delle due precedenti ‘forme’ della silloge, e l’in-

Diana – II. Inverno, Memoria d’America, Terre rosse, Temporale a Salsomaggiore, A M.L. sorvo- lando di notte la sua città, Azalee nella pioggia, Soldati a Urbino, Poesia militare – III. Inverno a Luino, Terrazza, Zenna, Settembre, Un’altra estate, Paese, Immagine, In me il tuo ricordo, Strada di Creva, Ecco le voci cadono – Ultime poesie. Piazza, Lontana, Alla giovinezza, Città di notte. 12 Frontiera, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1966. Questo l’indice della raccolta: Concerto in giardino. Inverno, Concerto in giardino, Domenica sportiva, Incontro, Le mani, Memoria d’America, Capo d’Anno, Canzone lombarda, Maschere del ’36, Terre rosse, Compleanno, Nebbia, Ritorno, Temporale a Salsomaggiore, Azalee nella pioggia, A M.L. sor- volando in rapido la sua città, Diana, Soldati a Urbino, 3 dicembre, Poesia militare, Piazza, Alla giovinezza – Frontiera. Inverno a Luino, Terrazza, Strada di Zenna, Settembre, Un’altra estate, Paese, Immagine, In me il tuo ricordo, Strada di Creva – Versi a Proserpina. La sera invade il calice leggero; Te n’andrai nell’assolato pomeriggio; Dicono le ortensie; Così, Sirena; Sul tavolo tondo di sasso – Ecco le voci cadono. Ecco le voci cadono. Su questa testualità sereniana in continuo divenire, puntualmente scandagliata dal lavoro di Dante Isella in larga parte confluito nel ricchissimo Apparato critico al volume mondadoriano dei «Meridiani», cfr. Clelia Martignoni, Rileggere Sereni (e altre considerazioni novecentesche), in «Strumenti critici», 2, 2009, pp. 315-324, e Ead., «Lavori in corso»: elaborare la perplessità, in Vittorio Sereni, un altro compleanno cit., pp. 59-70. Per una ricostruzione generale della storia testuale di Frontiera cfr. Giulia Raboni, Nota introduttiva a V. Sereni, Poesie e prose, Milano, Mondadori, 2013; e Uberto Motta, La gentilezza di «Frontiera». Notazioni linguistiche e stilistiche, in In questo mezzo sonno. Vittorio Sereni, la poesia e dintorni, a cura di Giancarlo Quiriconi, Padova, Marsilio, 2015 in corso di stampa (ringrazio l’autore che mi ha fornito per la consultazione il contributo ancora in bozze). 13 Come ha sottolineato Niccolò Scaffai, Sereni ha mostrato del resto sin dall’inizio «una coscienza macrotestuale più chiara rispetto a quella di molti coetanei» (Niccolò Scaffai, Il poeta e il suo libro. Retorica e storia del libro di poesia nel Novecento, Firenze, Le Monnier, 2005, p. 147). 734 Marina Paino verno, periodo dell’anno dal quale il primo Sereni riceve costanti suggestioni, nell’immaginario dell’autore ha anch’esso a che fare con la parola, con la parola della poesia. In un passo di Dovuto a Montale, il poeta di Frontiera, rievocando la propria giovanile infatuazione per la stagione invernale presente con costan- za nelle sue liriche iniziali, ricorda infatti come essa scemò verso l’inizio del ’37, in occasione di un proprio ritorno a Luino. E immaginando un surreale dialo- go tra il se stesso viaggiatore e il paesaggio invernale riferisce: «Smettila di cor- teggiarmi – disse al viaggiatore il paesaggio innevato su tutta la sua estensione – smettila di starmi attorno con parole»14. Lo scenario invernale accerchia il po- eta «con parole», proponendosi in un’ideale identità con la parola poetica stes- sa, anche se, nella lettera dei versi, gli inverni sereniani si rivelano abitati più da silenzi (o al massimo da flebili suoni) che non da parole, circostanza che, nel- la raccolta del ’66, viene ad essere ulteriormente sottolineata dalla collocazio- ne in posizione iniziale di quell’Inverno che si apre su puntini di sospensione. Introdotte l’una da Concerto in giardino e l’altra da Inverno, entrambe le edi- zioni intitolate Frontiera, quella del ’41 e quella del ’66, si chiudono all’uniso- no con il componimento Ecco le voci cadono in cui il lacustre paesaggio di fron- tiera fa conclusivamente da scenario ad un’ultima attestazione della scomparsa della parola: «Ecco le voci cadono e gli amici / sono così distanti / che un gri- do è meno / che un murmure a chiamarli»15. L’assenza delle parole ha dunque anche a che fare con la distanza, con l’allontanamento degli interlocutori oltre un’ideale frontiera, al di qua della quale il poeta riesce a cogliere solo impercet- tibili suoni. I versi della raccolta sono infatti costellati di questi fievoli sostituti della parola: mormorii, remoti ululati del vento, qualche canto di donna, scro- sci di pioggia, fruscii di festuche, gracidio di rane, echi di passi, gemiti di foglie o, in alternativa, suoni inquietanti; nei versi di Nebbia il poeta «chiede al cuo- re una voce», ma ne ha in risposta solo rumori di fabbrica; le voci sono infatti per lui voci perdute nella lirica Ritorno («alla voce perduta / vedrò volgersi gen- te / al pieno e calmo andare / che l’identico cuore mi urta / e getta a una marcia / di tamburi sinistri»); in Terre rosse il silenzio gli cresce nel petto dopo lo scro- scio della pioggia e dopo che «il tuono spazia un rumore / di cavalli»; e anche lo stadio di calcio, generalmente invaso da voci e cori, nella lirica Domenica spor- tiva, a porte chiuse, non è che «silenzio d’echi nella pioggia che tutto cancella», dove l’immagine di una ideale frontiera (le «porte chiuse» dello stadio) si salda ancora una volta a quella dell’acqua e del silenzio. Da una ricognizione sulle varianti macrotestuali nell’ordinamento delle di- verse edizioni di Frontiera è però possibile desumere e individuare su questa li-

14 V. Sereni, Dovuto a Montale, in Gli immediati dintorni primi e secondi, Milano, Il Saggia- tore, 1983, p. 159. 15 Uno dei titoli ipotizzati dal poeta per questa lirica era significativamente Silenzio (cfr. D. Isella, Apparato critico a V. Sereni, Poesie cit., p. 376) e del resto in una prima versione l’attacco recitava esplicitamente «le voci tacciono» (cfr. ivi, p. 375). PAROLE DI SERENI 735 nea semantica alcuni cambiamenti timidi ma significativi, apportati dal poeta con l’introduzione nel corpus raccolto di nuove liriche non presenti nella princeps. Nel volume del ’42 dato da Sereni alle stampe con il titolo Poesie (e che ri- calca molto da vicino l’impianto complessivo di Frontiera dell’anno prima)16, all’interno della seconda sezione, quella aperta (così come nella silloge del ’41) da Inverno e dai suoi puntini di sospensione, viene introdotta infatti la lirica A M.L. sorvolando di notte la sua città, chiusa a propria volta proprio da puntini di sospensione che lasciano tuttavia presagire in questo caso un possibile scambio di parole d’amore, quasi naturale corollario all’invito a non lasciarsi turbare dal «frastuono che irrompe» e dal «vortice di suoni». Ma ancora più interessanti sono le liriche, anch’esse aggiunte nel ’42, inti- tolate Alla giovinezza e Strada di Creva che sembrano aprire su questa assenza della parola un possibile spiraglio di segno diverso. In Alla giovinezza l’io lirico si trova con la donna alla fine di «un’estate mortale», ma alle voci lontane è for- se concesso di schiudere al poeta e al suo tu femminile sentieri di vita: «E dalle voci che da me / si dilungano, quale / potrà volgere il tuo e il mio cammino / a una marcia d’insonni girasoli?». Le voci potranno dunque forse aprire la strada ad un cammino di luce (i girasoli di ascendenza montaliana), mentre all’ombra di un viale gli occhi di lei raccontano ancora di quel «lago azzurro o grigio» nel- la cui acqua (nei già ricordati versi del ’34 della lirica Un anno) si erano a suo tempo perdute le parole del poeta. E timide aperture mostrano anche i versi di Strada di Creva, altra lirica inserita all’interno del corpus nel volume del ’42 e nella quale il poeta, davanti al consueto scenario dell’acqua del lago, accenna a possibili contatti verbali, ad accenni di scambi di parole: «e una coppia attarda- ta sui clivi / ha voci per me di saluto / come a volte sui monti / la gente che si chiama tra le valli». E significativamente la chiusa della lirica è quasi uno scon- giuro all’indirizzo del silenzio e dell’assenza della parola: «Salvaci allora dai not- turni orrori / dei lumi nelle case silenziose». Va sottolineato per altro come proprio Alla giovinezza e Strada di Creva, as- senti in Frontiera del ’41 e aggiunte in Poesie del ’42, non siano con le loro timide aperture alla parola due liriche qualunque nell’economia semantica complessiva di questo corpus lirico che si trasforma negli anni: nella redazione di Frontiera del ’66 proprio questi due componimenti saranno infatti scelti da Sereni per chiu- dere le due principali sezioni dell’opera (Concerto in giardino e Frontiera), sezio- ni che in qualche modo recano in sé l’eredità lontana di quelle due prime liri- che apparse su «Frontespizio» e che rappresentano idealmente il nucleo germi- nale della silloge. Ma ai fini del discorso sulla presenza/assenza della parola in Frontiera, la novità più interessante nell’ordinamento di questa edizione del ’66

16 Nella nota al volume Vallecchi del ’42, che segue di un anno la prima edizione di Frontie- ra, Sereni scrive: «È meglio dire senz’altro che questa seconda raccolta è poco più di una ristampa con qualche aggiunta, senza varianti e senza sorprese. Chi ha letto Frontiera nell’edizione di “Corrente” la vedrà integralmente riprodotta in queste poesie». 736 Marina Paino sembra comunque essere quella dell’inserimento di una lirica (prima mai inclu- sa in raccolta) posta da Sereni a chiusura della sezione Versi a Proserpina, sezio- ne che recupera un paio di componimenti già apparsi nel 1947 in Diario d’Al- geria, altri due componimenti pubblicati in coda all’edizione di Poesie del 1942 e che in questa tarda riproposizione di Frontiera si chiude appunto su dei versi fino a quel momento non pubblicati in volume. Sono i versi di Sul tavolo tondo di sasso, che nelle sue carte Sereni indicava significativamente come da include- re in una futura edizione di Frontiera17 e che, sul limitare della raccolta del ’66, ricomprendono in extremis la presenza della parola all’interno di questo antico e nuovo libro sereniano. Nell’attacco della lirica si legge infatti: «Sul tavolo ton- do di sasso / due versi a matita, parole / per musica fiorite su una festa». È come se il poeta a distanza di venticinque anni, nel ripubblicare la sua prima raccolta abbia voluto in essa recuperare, anche se tardivamente, la «parola» prima esclu- sa, una «parola» hapax che è qui significativamente indicativa di parola scritta in versi per una poesia-canto, fiorita (e si ricordi la precedente immagine dei gi- rasoli consegnata ai versi di Alla giovinezza) in un’occasione lieta («una festa»)18. Il presente è forse diverso da quella circostanza felice ma la poesia della parola scritta sul tavolo di pietra continua a custodirne il ricordo. Quei versi sul tavo- lo di sasso restituiscono così, attraverso le parole, la memoria stessa della poe- sia, en abyme la stessa memoria che Sereni recuperava con l’operazione editoria- le del ’66 ridando alle stampe Frontiera e accogliendo in essa quell’unica occor- renza delle parole riscoperte a distanza di tanto tempo come canto. Alla luce dell’aggiunta di questa lirica è come se Sereni restituisse a poste- riori con l’edizione del 1966 una personale cifrata rilettura della propria poeti- ca della parola, una poetica fatta di silenzi, assenze e sottrazioni, in cui la paro- la della poesia rinuncia ad ogni forma di autoreferenzialità e autocelebrazione per porsi discretamente al servizio dell’espressione lirica: uno ‘strumento uma- no’ che si offre alla scrittura in versi per evocare e custodire memorie; uno ‘stru- mento umano’ che la scrittura in versi a propria volta non manca di custodire, ancorandolo alla concreta oggettualità di un tavolo di sasso e di un foglio ver- gato a matita lì ritrovato intatto dal poeta dopo tanto tempo19. Questa tarda, eccezionale apparizione nella raccolta della «parola», prima esclusa e ora ritrovata in forma scritta sulla pietra, si ricollega per altro concor- danzialmente a quell’altra immagine ‘petrosa’ dalla quale aveva idealmente pre-

17 Cfr. D. Isella, Apparato critico cit., pp. 371-373. 18 Interessante notare come, in una antecedente redazione della lirica, non fosse presente il riferimento dei versi alle «parole»: «Sul tavolo tondo di sasso / due versi a matita / di musica fiorita su una festa» (cfr. D. Isella, Apparato critico cit., p. 372). 19 Su questa lirica Sereni dichiara come essa fosse stata recuperata in un periodo successivo all’inserimento di alcuni dei Versi a Proserpina nel Diario d’Algeria: «Sul tavolo tondo di sasso è stata riesumata molto più tardi grazie a un semplice intervento artigianale su una stesura del ‘41» (D. Isella, Apparato critico cit., p. 380; sulle dichiarazioni d’autore relative a questo recupero cfr. anche la lettera a Claudio Barigozzi del 22 luglio 1956, ora ivi, p. 373). PAROLE DI SERENI 737 so le mosse nel lontano 1934 l’eclissi della parola sereniana nei versi di Un anno, allorché «pietraie beffarde» ricordavano a mo’ di monito al poeta che le sue pa- role scritte sull’acqua erano repentinamente naufragate, inghiottite dall’onnipre- sente lago («Parole sull’acqua scrivesti / naufragarono tosto»). Proprio la pietra e l’acqua del lago si ripropongono ora nel finale della raccolta, e come in una fle- bile eco di quei versi remoti e accantonati, Sul tavolo tondo di sasso istituisce in- direttamente un sotterraneo dialogo con l’ultima lirica di Frontiera (Ecco le voci cadono e gli amici), poesia conclusiva già nella princeps del ’41, e che, isolata e valorizzata in questa edizione ’66 in una sezione a parte20, subisce una sorta di riverbero semantico dal componimento della parola recuperata che la precede. Si tratta infatti in entrambi i casi di liriche brevi in due tempi poste dal poe- ta in diretta successione: in Sul tavolo tondo di sasso le parole dei versi per musica recano in sé la memoria di un momento felice vissuto con la donna, e a questo si contrappone nella seconda parte del componimento un oggi di quiete e indif- ferenza («E oggi qui attorno la quiete / dei vetri indifferenti»). Specularmente in Ecco le voci cadono allo scemare presente delle voci degli amici andati lontano fa da controcanto un altro ritorno memoriale, con al centro la donna (dal sorriso «limpido e funesto») e l’acqua del lago, un «lago / che rapisce uomini e barche / ma colora le […] mattine»21. Ed è ancora l’acqua che ritorna con un di più di senso (derivante dalla ‘premessa’ di Sul tavolo tondo di sasso e dalla memoria di quei lontani versi del 1934) il quale arricchisce questa chiusa e la risemantizza: in quelle stesse acque erano state infatti precocemente rapite anche le parole del poeta di cui la pietraia di Un anno aveva a suo tempo annunciato il naufragio e che ora, miracolosamente ritrovate sul tavolo di pietra, in un sottile gioco di ri- mandi intratestuali, partecipano indirettamente, grazie alla successione delle due liriche nel finale della raccolta, dell’‘allegria di naufragi’ su cui si chiude Frontiera. È da quell’acqua che sono riemerse le parole, le quali all’insegna di un’occa- sione lieta che permette al lago così come ai versi vergati a matita di colorare la vita, si pongono a suggello di una poesia che in esse, a venticinque anni di di- stanza, riesce a ritrovare felicemente se stessa.

20 Sulla non scontata collocazione di questa lirica a chiusura della raccolta, cfr. D. Isella, Apparato critico cit., pp. 377-378. Per una riflessione sui dubbi sereniani in merito a questo com- ponimento cfr. Francesca D’Alessandro, L’opera poetica di Vittorio Sereni, Milano, Vita e Pensiero, 2001, pp. 39-40. 21 Sull’ambiguità semantica di questo componimento cfr. i commenti di Luca Lenzini (V. Sereni, Il grande amico. Poesie (1935-1981), commento a cura di Luca Lenzini, Milano, Rizzoli, 1994) e di Georgia Fioroni (V. Sereni, Frontiera. Diario d’Algeria, a cura di Georgia Fioroni, Milano-Parma, Fondazione Bembo-Guanda Editore, 2013). Per un’attenta lettura della trama intertestuale della lirica cfr. U. Motta, La gentilezza di «Frontiera». Notazioni linguistiche e stili- stiche cit.

SULLE «FURIE» DEL CARTEGGIO TRA VITTORIO SERENI E GIANCARLO VIGORELLI1

Matteo M. Vecchio

1. «Furie», amicizie, angoli di città

Mio caro Vittorio, stamattina sono stato in via Mascheroni: a tempo a ricordare, all’angolo di via Pagano, Gianni – e te.

Il «ricordare» in esordio di una lettera di Giancarlo Vigorelli a Vittorio Sereni del 23 gennaio 1941 introduce – all’angolo alberato (non distanti, la chiesa di Santa Maria Segreta e la mole del Distretto Militare) tra via Mascheroni e via Pagàno, ide- ale snodo saturo di ictus memoriali – nella guardinga Milano del tempo di guer- ra, allorché, da quei «dintorni», gli amici comuni erano ormai lontani: Antonia Pozzi, morta suicida il 3 dicembre 1938, che abitava al 23 di via Mascheroni; Gian Antonio, «Gianni», Manzi, gettatosi il 17 maggio 1935 (giornata di pioggia2 – si legga, di Sereni, Dopo3) dalla finestra nel cortile esagonale al civico 65 di via Pagàno, ove risiedeva; Nino Rota, in procinto di andar soldato in un campo militare nei pressi di Luino («Nino Rota va a Portovaltravaglia? Ma è l’ultima stazione prima

1 L’autore propone in questa sede alcuni spunti – poco più invero che appunti operativi –, i quali svilupperà in una sede successiva, che costituiscono un frammento del lavoro di cura in via di svolgimento, auspice il Centro Nazionale di Studi Manzoniani di Milano, attorno al carteggio tra Vittorio Sereni e Giancarlo Vigorelli. 2 Indirettamente, lo attestano e Antonia Pozzi, in Ora intatta («Al carcere di pioggia apre i battenti / questa mia fronte grigia / e s’affaccia al colore della terra: / nasce un gorgo di vento celeste»), scritta lo stesso giorno della scomparsa di Gianni, e Vittorio Sereni, in Dopo (di cui in nota successiva). Il 15 e il 16 maggio 1935 sono giornate particolarmente piovose; il 17 la piovo- sità risulta in diminuzione (perizia effettuata da Susanna Di Lernia, Osservatorio Meteorologico di Milano-Duomo, 28 aprile 2011). Ancora Antonia, in Intemperie, datata in calce «23 maggio 1935», trasfigura – sempre in un contesto cittadino di pioggia e di frescura – i funerali dell’amico: «Vampe d’incenso / per la via / non danno più riparo / a questa pioggia». 3 Dedicata «Alla memoria di Gianni Manzi», e recante in calce la data «17 maggio 1935»: «Quando mi porteranno via / e alla vostra memoria mortale / non sarò più che un punto rosso / nel buio, / risorgerò grondante dietro veli / di pioggia, / come l’ultima volta che fui visto / da vivo» (Vittorio Sereni, Dopo, in Apparato critico e documenti, a cura di Dante Isella, in Poesie, a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2004, p. 400).

Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 740 Matteo M. Vecchio di Luino! Come lo invidio e come ci starei a prendere il suo posto»: Vittorio, 5 set- tembre ’41)4; Lucia Bozzi, confidente di Antonia Pozzi e amica di Sereni e di Rosita Beati (quest’ultima, conoscente di Antonia e dal 1935 moglie di Giulio Natta), che nello stesso 1941 sarebbe entrata in un convento di clausura. Introduce tuttavia, pur attraverso «slants of light», per lacerti di memoria, anche nell’energica e vitale, e lontanamente sonora («e un fiato d’alti forni la trafuga»), Milano dei medi anni Trenta, effigiati dal contributo anceschiano del 19515 – gli anni dell’apice del ma- gistero di Antonio Banfi, degli ideali «conviti», della solare pendolarità tra il centro e il contado, della possibilità di vivere la città («un desiderio di scoprire la più inti- ma città, di suscitare un ambiente duraturo per la nostra più libera azione»6), lam- bendo «l’ultimo tumulto dei binari», gli «echi delle cacce». Nel gennaio 1941 – Sereni lontano da Milano, a Modena («Ho bisogno di passeggiate sui corsi di Milano, di scarrozzate in tram dall’uno all’altro posto del- la città», avrebbe scritto a Vigorelli nell’ottobre ’41), attendendo l’uscita, avve- nuta nel febbraio successivo, di Frontiera –, perduto lo scintillio saturo di più o meno dichiarati aneliti e di dolenti trasgressioni – si legga la lettera di Sereni del 23 luglio 1941, dedicata in parte all’«anno di Gianni» – della Milano prebelli- ca, la Milano di «certe colazioni sotto le pergole fiorite della periferia, nel punto dove le strade subentrano ai corsi e i ponti varcano ogni groviglio di binari cit- tadini verso la campagna lombarda»7, delle passeggiate lungo gli stradali («Noi, per seguir la danza / di un vecchio organo / correremmo nel vento gli stradali…»: Antonia Pozzi, Luci libere), fino al contado, la Milano limbale di certi snodi di Frontiera; della Milano partecipata allo svolto tra Pagàno e Mascheroni (a due passi, verso il Duomo, le Grazie e corso Magenta, il Castello e il Parco), reso so- noro dalla «falcata / prodigiosa» di Mali Da Zara – negli anni Trenta, ventenne (nasce nel 1915), amica di Sereni e di Gianni Manzi, che di lei, non ricambia- to, si innamora8 –; perduto lo scintillio di quella Milano, è in questi snodi me- moriali, in questi «dintorni» – seppur non così «immediati» –, che si sprigiona- no le «Furie» – con esplicita allusione all’omonimo romanzo di Guido Piovene, non estraneo, sebbene laterale, rispetto a quanto segue – della corrispondenza tra Vittorio Sereni e Giancarlo Vigorelli.

4 Cfr., passim, Matteo M. Vecchio, Milano, Antonio Banfi, la« singolare generazione». La for- mazione universitaria di Nino Rota, in Nino Rota. Un timido protagonista del novecento musicale. Atti del convegno Nino Rota e Milano, Auditorium di Milano-Fondazione Cariplo, Università degli Studi, Milano, 2-3 dicembre 2011, a cura di Francesco Lombardi, Roma, CIDIM, EDT, 2012, pp. 101-123. 5 Luciano Anceschi, «Poesia» in re, «poesia» ante rem, in «aut aut», a. I, novembre 1951, 6, pp. 475-491 (poi «Prefazione» a Linea lombarda. Sei poeti, Varese, Magenta Editrice, 1952). 6 Cfr. Vittorio Sereni, Discorso di Capo d’Anno, in «Campo di Marte», a. I-II, 1 gennaio 1939, 10-01, p. 6. 7 Ibidem. 8 Di Gian Antonio, «Gianni», Manzi, si legga Lettere a Carlo Bo e scritti di letteratura, a cura di Matteo M. Vecchio, con due testi di Carlo Bo e di Vittorio Sereni, Firenze, Le Cáriti, 2015. SULLE «FURIE» DEL CARTEGGIO TRA VITTORIO SERENI E GIANCARLO VIGORELLI 741

Al di là delle «Furie» memoriali di Frontiera – come Biancamaria, Bianca, «B.» o come una certa «immagine» anni Trenta della stessa Maria Luisa Bonfanti –, al di là, anche, della mitologia sereniana dell’«ultima estate», 1937, trascorsa di- stesamente a Luino – «una volontà decisa di godere Luino e il lago in lungo e in largo», Vittorio, 11 agosto ’41 –, la quale peraltro è, in fondo, l’ultima estate re- lativamente civile dell’Europa e del mondo prima della guerra, la deposizione di un tempo – quello prebellico, precedente alla sdrucciolevole e anfibia soglia co- stituita per Sereni dall’accettazione stessa di strutturare un libro che raccogliesse «il meglio delle poesie» (7 novembre ’41) – si intreccia con la deposizione (chia- rificatrice e comprensiva, a livello anche e soprattutto esistenziale, oltre che sul più dilatato crinale creativo) di alcune figure, anch’esse memoriali ma material- mente perdute, che, spalancando altrettante «lacune», innescano la percezione, da parte del poeta, se non di una colpa, di una mancanza – di un conto aperto, di una ferita colmabile attraverso la pratica della scrittura, a legare l’assenza alla memoria: memoria pur non esibita, né auto-assolutoria, e anzi perno della stes- sa assenza che la connota e legittima.

2. Segno d’un vortice appena nato

Se Antonia Pozzi è, entro la dinamica interpersonale del carteggio tra Vittorio e Giancarlo, «Furia» sostanzialmente laterale – nella sua «paura», pur condivi- sa, ma dai sodali in parte pudicamente ricusata e rimossa, di «mancare alla vita e di restarne fuori»9 –, rispetto peraltro all’emergere, oltre a «B.», di altre figu- re femminili quali la poetessa lecchese Piera Badoni – stimata (avrebbe pubbli- cato in vita, nel 1948, una sola raccolta, in edizione privata, dal titolo emble- matico di Felicità, che pure esisti), oltre che dai due corrispondenti, da Eugenio Montale10, da Aldo Borlenghi e da Alessandro Parronchi (ospite a Lecco di vil- la Badoni nell’ottobre ’47), e molto amica di Camilla Cederna11 –, alla quale Sereni dedica parole di sostanziale affetto critico nella lettera del 6 marzo ’41:

E adesso lascia che ti dica quanto mi incantino i versi di P[iera]. e sopra tutto: noi non sappiamo se sia

9 Cfr. Giancarlo Vigorelli, Ricordo di Antonia Pozzi, in «Tempo», 29 luglio-5 agosto 1943, p. 30. 10 Cfr. M. M. Vecchio, Una lettera di Eugenio Montale alla poetessa Piera Badoni (1946?). Con un ragguaglio su Antonia Pozzi, in «l’immaginazione», n. 256, luglio-agosto 2010, pp. 17-19. 11 Peraltro, ad attestare il reciproco rapporto tra Piera, Montale e la Cederna, quest’ultima, intervistando il secondo nel 1968, avrebbe ricordato – segno di un legame di quieta e calda do- mesticità – i vasetti di marmellata che Piera le affidava durante la guerra affinché li portasse in dono al poeta, a Firenze (cfr. Camilla Cederna, Il galateo di monsignor Eusebio, in «L’Espresso», 2 giugno 1968, ora ne Il mio Novecento, prefazione di Oreste Pivetta, Milano, Rizzoli, 2011, [pp. 244-250], 249). 742 Matteo M. Vecchio

segno d’un vortice appena nato o d’una tempesta oltre il mare. È come se uno di noi due avesse parlato del sorriso di B[ianca]., come se io aves- si voluto spiegare il limpido e funesto dell’ultima poesia di Frontiera. Qui dentro c’è il nostro modo di guardare le cose superando le impressioni e la facile grazia dell’incanto momentaneo. E quel sorriso è proprio un sorriso lombardo, con la sua oscura e remotissima origine. Dille – ti prego – quanto io li ammiri. E grazie a te di avermeli fatti conoscere. il riserbo e la cautela verso l’opera poetica della Pozzi, da parte di Sereni – pur non esente da accensioni di apprezzamento e di stima12 –, hanno probabilmente attinto al disagio per le modalità promozionali esercitate dal padre di quest’ulti- ma, Roberto13: paradossalmente tese, pur nei loro intenti divulgatori e pubblici- tari, a oscurare, di Antonia, l’effettivo «volto», e umano e creativo. Nella sostan- ziale impossibilità di avere accesso alla nudità delle parole dell’amica, preferibi- le dunque il pudore – così sereniano – della sospensione del giudizio, aspettan- do forse tempi più proficui14. È la personalità – accogliente, signorile, sobria (ne scrive una pagina à re- bours Luigi Capelli15) – di Piera (1912-1989) a sostituirsi (sebbene con diffe-

12 Al riguardo, si leggano le considerazioni che chi scrive esprime, passim, in Dittico su Anto- nia Pozzi, in stampa su «Fronesis». 13 In merito all’avvocato Roberto Pozzi (1882-1960), padre di Antonia – il quale ha esercita- to sulla memoria letteraria ed esistenziale della figlia un sostanziale protezionismo, emendandone e manipolandone l’opera complessiva –, Sereni si esprime, per quanto a latere, scrivendone ad Alessandro Parronchi nel 1949, in termini sostanzialmente negativi: «[Roberto Pozzi] sta ammi- nistrando la memoria della figlia in modo che preferisco non commentare» (V. Sereni, lettera ad Alessandro Parronchi, Milano, 2 gennaio 1949, in Un tacito mistero. Il carteggio Vittorio Sereni- Alessandro Parronchi (1941-1982), a cura di Barbara Colli e Giulia Raboni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Feltrinelli, 2004, p. 226); in una lettera ad Attilio Bertolucci, risalente al 1946, Sereni avverte – citando un decisivo contributo di Eugenio Montale su Antonia Pozzi, uscito nel dicembre 1945 (di cui infra): «Da ultimo: hai visto l’articolo di Montale sull’Antonia e su Bassani? Per l’Antonia mi sono sentito in dovere di ringraziarlo per aver messo le cose a posto, giovando così alla buona memoria di lei» (V. Sereni, lettera ad Attilio Bertolucci, Milano, Capo d’Anno 1945 [sed 1946], in Attilio Bertolucci-Vittorio Sereni, Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, a cura di Ga- briella Palli Baroni, prefazione di Giovanni Raboni, Milano, Garzanti, 1994, p. 105). L’«articolo di Montale» cui Sereni fa riferimento è la recensione che Eugenio Montale dedica a Parole di Antonia Pozzi (Milano, Mondadori, 1943) e a Storie dei poveri amanti di (Roma, Astrolabio, 1945), Parole di poeti, edita ne «Il Mondo», a. I, 1 dicembre 1945, 17, p. 6, contributo ripubblicato, con modifiche e ampliamenti, e con il titolo Poesia di Antonia Pozzi, ne «La Fiera Letteraria», III, 21 novembre 1948, 35, p. 1, e, in quest’ultima versione, riproposto come «Prefazione» a Antonia Pozzi, Parole, Milano, Mondadori, 1948 (pp. 7-14) e 1964 (pp. 11-19); confluito in ultimo, nella versio- ne del 1945, in Eugenio Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2006, I, pp. 634-639, e, per quanto riguarda le aggiunte e le modifiche 1948, nelle «Note ai testi» in E. Montale, Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di Giorgio Zampa, Milano, Mondadori, «I Meridiani», 2006, II, pp. 3163-3164. 14 Di fatto non giunti, Sereni vivente (et ultra). 15 «Era la Lecco, sotto il fascismo, delle notti insonni, popolate di sogni di libertà e di ri- scatto, di un gruppetto semiclandestino di giovani intellettuali che sotto il luccichio delle stelle SULLE «FURIE» DEL CARTEGGIO TRA VITTORIO SERENI E GIANCARLO VIGORELLI 743

renti modulazioni interpersonali), a un certo punto, entro la dinamica amicale tra Vittorio e Giancarlo, alla «Furia» memoriale (benché deposta, «morta», ep- pur sempre mistagogica, inquieta, enigmaticamente sorridente, ritornante…) di Bianca. Piera Badoni (che conosce Vigorelli attorno al 1937, auspici le comuni frequentazioni milanesi, e che grazie a lui avrebbe stretto, nel 1941, una cordiale amicizia con Sereni) agisce, entro il rapporto di amicizia tra i due giovani uomi- ni, come raffinata (e inconsapevole) Matelda (nella miticizzazione di Vigorelli) del parco cittadino della dimora familiare, a Castello di Lecco, e della villa a Pian dei Resinelli, dove anche i Falck, amici di vecchissima data dei Badoni, possede- vano una residenza. Quasi che Piera, con la sua bellezza d’«arcangelo», indicas- se, significasse, un oltre non oltrepassabile se non varcando il limen «irrimediabi- le» (attingendo ad Antonia Pozzi) della morte – quella «festa della morte» che, a livello generazionale, attraverso la mediazione (e la sostanziale incomprensio- ne, elusiva delle sue cifre ironiche e parodistiche) di Mann, pervade, anche tea- tralizzandosi (soprattutto nelle missive di Vigorelli), il carteggio. Se Bianca ha costituito, per Vittorio e Giancarlo, un ideale trait d’union, un fulcro catalizzatore di condivisa maschilità – sulla cui «morte», sulla cui deposi- zione memoriale riversare (potenzialmente frustranti) aneliti esistenziali e crea- tivi –, è Piera a emergere (insieme, sì, a Bianca) con più spiccata e ironica solidi- tà emotiva lungo il crinale del carteggio tra Vittorio e Giancarlo: probabilmen- te opponendo, Piera e Bianca, a talune nevrosi creative (pur sempre rientrate) dei due uomini, il ventilabro di una sottile e silenziosa ironia; ironia che atte-

camminavano su e giù, discutendo animatamente per ore e ore (mentre tutt’intorno era silenzio e tenebra) […]. [U]n giorno trovai [Eugenio Montale], con mia inaspettata e insperata sorpresa, in casa Badoni. […] / Era la Lecco dei miei incontri (tutt’altro che furtivi) in casa Badoni (che si apriva direttamente sul grande cortile dallo stabilimento situato quasi all’inizio della strada per Castello, subito dopo il ponte sulla ferrovia, lambito dal tram che allora saliva e scendeva sferra- gliando e scampanellando, da Maggianico a Malavedo), con una figlia dell’ingegnere [Giuseppe Riccardo Badoni] (progettatore e costruttore delle più varie e poderose strutture di ferro rinomate e disseminate in Italia e all’estero), quella fine e sensibile poetessa più nota ed apprezzata fuori che non dentro la cerchia dei suoi monti nativi. Lì trovavo, all’ora fissata, proprio lei, la Piera, piccola e minuta, ad aprirmi la porta a vetri che immetteva nell’abitazione in cui m’introduceva e, fa- cendomi passare per un grande salone dove mi veniva incontro la mamma [Emilia Gattini], una donnina umile e dimessa, sempre affabile e premurosa (e dove a volte mi capitava di imbattermi anche nel padre, proprio lui, l’ingegnere, alto, distinto, severo ma sempre assai cortese), mi con- duceva nel suo studiolo stracarico di libri. E lì ci si sedeva, a debita distanza, sul sofà, e si parlava di libri, degli amici lontani, del fratello Antonio, ufficiale di marina, scomparso in un’azione di guerra. Qualche volta ci scambiavamo anche i nostri versi, intercalando alle parole lunghi silenzi carichi di una tensione che andava a poco a poco attenuandosi e trasformandosi in una sorta di schiva tenerezza, ripiegato ognuno su se stesso nell’auscultazione e nella decifrazione dei propri sentimenti e nella divinazione di quelli dell’altro, attento ognuno (e in lei intuivo e rispettavo una vecchia ferita non rimarginata né forse rimarginabile) a non oltrepassare i limiti di un riserbo ge- loso e al tempo stesso pieno di comprensione e quasi di complicità. / Era la Lecco, ancora un po’ manzoniana, sconosciuta alle nuove generazioni, non deturpata dai grattacieli ma dominata dal campanile che svettava nell’azzurro dell’aria tersa» (Luigi Capelli, «La Lecco Perduta», in «Archivi di Lecco», a. XVIII, luglio-settembre 1995, 3, [pp. 7-15], pp. 7, 14-15). 744 Matteo M. Vecchio sta, in Piera, peraltro, la distanza ideologica, sebbene entro un condiviso sostra- to di appartenenza etica a un’«area» (più che a una «linea») poetica lombarda, e da Sereni e dalla Pozzi, e la sua effettiva accostabilità – proposta da Vigorelli e in parte accolta da Sereni –, con le dovute cautele, a Emily Dickinson. Tuttavia la presenza, nella dinamica relazionale del carteggio, di figure fem- minili catalizzatrici, seppur ironiche e aristocratiche (Vigorelli nel 1958 defi- nisce «aristocratica» la propria amicizia, per volontà dell’amica non sfociata in un più tenace affetto, con Piera), fa comprendere come lo scambio episto- lare – imbastito attorno a una «oscura partita» di condivisi aneliti creativi, di tensioni memoriali, di reciprocità partecipative – sia, più o meno consapevol- mente da parte dei due corrispondenti, modulato anche sulle traiettorie della Correspondance tra Alain-Fournier e Jacques Rivière – edita da Gallimard, per i tipi de «La Nouvelle Revue Française», in quattro volumi, tra 1926 e 1928 –, come, peraltro, pur alla luce della esile campionatura disponibile, la corrispon- denza tra Gian Antonio Manzi e Carlo Bo (della quale restano, purtroppo, le sole missive del primo). Nel carteggio il «sangue», la «morte» – anzi, «la festa della morte» – non si limitano a porsi come venature tematiche, o accensioni vittimarie – per quanto teatralizzate siano, in esso, talune missive –, bensì at- tingono a quella condivisa generazionalità della morte, a quel lambito Freitod al quale è la pratica della scrittura a porre un discreto, per quanto fragile, argi- ne; verso il quale è la volontà di rendere l’altro partecipe della propria officina creativa a costituire, in condivisione di presenze e di mitologie (Bianca, Piera, Maria Luisa…), l’alveo di una possibilità di vita.

3. Qualcosa che rimaneva nel cielo. «Gianni» Manzi

Ed è in fondo una tenerezza di Milano, la sua cifra uterina – certi interni di Delio Tessa (i «quatter / busegàtter de stanzett» della Antonietta «Gussona»16), le «dò stanzett» (esile anelito piccolo-borghese, sfiorato anche da Antonia Pozzi nel suo «sogno» con Dino Formaggio) di Quand sòna i campann a la periferia, di Alfredo Bracchi e Giovanni D’Anzi –, l’umile e arguto, eppur sempre autore- vole (ancora attingendo a Tessa, al commosso pudore filiale di una certa sua de- dica17), radicamento cagionato dai Morti («L’è el dì di Mort, alegher!»), a sanci-

16 Cfr. Delio Tessa, La mort della Gussona, III, vv. 29-30, in L’è el dì di mort, alegher!, De là del mur, Altre liriche, a cura di Dante Isella, Torino, Einaudi, 1999, I, p. 123. 17 «musocco / campo 61 - fossa 800 / per / questa tomba» (D. Tessa, L’è el dì di mort, alegher!, De là del mur, Altre liriche, cit., I), la tomba del padre Senio – scomparso nel 1925 –, accanto al quale Delio Tessa è stato, nel 1939, sepolto. La città di Milano, in séguito a delibera consigliare del 20 settembre 1950, decretando a Tessa gli onori del Famèdio e traslandone il fe- retro presso il Cimitero Monumentale, ha sostanzialmente infranto la volontà del poeta di essere seppellito accanto al padre (cfr. D. Isella, Notizia biografica, in D. Tessa, L’è el dì di mort, alegher!, De là del mur, Altre liriche cit., I, p. XXVII). SULLE «FURIE» DEL CARTEGGIO TRA VITTORIO SERENI E GIANCARLO VIGORELLI 745

re la presenza, legata agli spazi cittadini, delle «Furie» del carteggio tra Vittorio e Giancarlo – ma anche di Carlo Bo, di Antonia Pozzi (ella stessa consegnata alla cristallizzazione della morte, ella stessa, ormai, «Furia»). Accanto alla «Furia» muliebre di Antonia Pozzi, pur in fondo laterale al car- teggio18, ed evocata o en passant e in maniera inavvertitamente denigratoria qua- le oggetto di cicaleccio mondano – si consideri la lettera di Giancarlo del 22 lu- glio ’41 («Ieri ero a Lecco, poi sono salito sotto la Grigna – da Piera. Con lei, sono passato alla villa del senator Falck, e ho conosciuto la Mali Da Zara: ab- biamo parlato tanto di te, dell’Antonia, dei banfiani») –, o strumentalmente – sempre di Vigorelli, la missiva del 22 novembre successivo: «l’Antonia insegnava allo Schiaparelli, dal quale dipendeva la mia scuola. […] il Preside dello Sch. ha incaricato me di commemorare l’Antonia il 13 febbraio. […] Scriverò volentie- ri di lei» –, è soprattutto la «Furia» maschile dell’«amicissimo»19 Gian Antonio, «Gianni», Manzi ad affiorare nell’ordito della corrispondenza. Nato a Milano nel 1913, ottenuta la maturità nel 1931 presso il Liceo Manzoni, si immatrico- la nell’autunno successivo presso l’Università di Firenze, qui conosce Carlo Bo e inizia a collaborare con «Il Frontespizio», ove pubblica tre contributi su André Gide e su Marcel Proust, uno dei quali in parte dedicato anche ad Alain-Fournier. Francesista di formazione, in séguito al trasferimento, nell’autunno 1932, presso l’ateneo regio di Milano, concorda con Vincenzo Errante, docente di Lingua e Letteratura Tedesca (correlatore, probabilmente, Antonio Banfi), la compilazio- ne di una dissertazione di laurea sul romanzo tedesco contemporaneo, per pre- pararsi alla quale avrebbe soggiornato, nella tarda estate del 1934, in Svizzera. Intrattiene anche a Milano amicizie importanti: con Vittorio e Giancarlo, con Antonia Pozzi, Nino Rota (amico inoltre della sorella­ Erminia, pianista), Mali Da Zara, Ottavia Abate (sorella di Clelia, in quegli anni legata affettivamente ad Antonio Banfi), e soprattutto con Enzo Paci, «un laureato in filosofia che ca- pisce molte cose»20. Tuttavia, le lacerazioni affettive cagionate dall’atteggiamen- to di una donna, Bianca Beghi (anch’ella figura dal destino tragico21), e l’infa- tuazione non corrisposta per Mali Da Zara (prossima alle nozze, celebrate nel 1935, con Giovanni Falck) si acuiscono nella primavera del 1935; Gianni si dà

18 Si considerino, di Vigorelli, Ricordo di Antonia Pozzi, cit. – si legga: «la [Antonia Pozzi] ri- cordiamo ardente d’ogni idea che ci inquietava in quegli anni: erano pressappoco gli anni di certe letture comuni della Montagna incantata, delle prime scoperte degli esistenzialisti sotto la guida di Banfi, dei gruppi milanesi di Orpheus e di Camminare: poi Gianni Manzi se n’era andato, e altri amici andavano per libere esperienze e liberi studi» –, e Antonia Pozzi: le parole segrete che mi confidava, in «Tuttolibri-La Stampa», 18 febbraio 1989, p. 4, ampio e autorevole contributo (in cui, con riferimento a Manzi, si legge: «Un suicida, o ha tutto da nascondere o da nascondere non ha più niente») nel quale si rispecchia, sebbene attraverso lenti analitiche inesorabilmente altre, la medesima imbastitura argomentativa del primo articolo. 19 Cfr. G. Vigorelli, Antonia Pozzi: le parole segrete che mi confidava cit. 20 G. A. Manzi, Lettere a Carlo Bo e scritti di letteratura cit., p. 140. 21 Su Bianca Beghi si legga ivi, p. 51, n. 1. 746 Matteo M. Vecchio la morte gettandosi, in abito da sera, dalla finestra del proprio appartamento mi- lanese, dopo aver assunto una dose di barbiturici, il 17 maggio22. Se il suo suici- dio – dalle dinamiche teatrali, dannunziane – ha cagionato, insieme alla scom- parsa volontaria di Antonia Pozzi (avvenuta peraltro nel tardo autunno 1938, periodo, per lei, di scoramenti ma anche di energici propositi), una incrinatu- ra entro il composito e inquieto contesto degli allievi di Antonio Banfi, effettivi (come Sereni) e uditori (come Bo e Vigorelli), non sono le splendide lettere che Gianni invia a Carlo Bo tra 1932 e 1935 – il fulcro delle quali è senz’altro costi- tuito da Firenze e dall’esperienza dell’anno accademico trascorsovi, da Gianni, come matricola – ad attestare la presenza di Manzi tra i giovani della «singola- re generazione» (attingendo ad Anceschi) milanese degli anni Trenta (dispersa dalla guerra, ma ricompostasi, pur dialetticamente, in séguito), bensì la corri- spondenza, come s’è visto, tra Sereni e Vigorelli: e soprattutto, per apicalità me- moriale, le missive del primo. Nella lettera del 23 luglio 1941 – decisiva (e rin- tracciante riscontri, pur pallidi, soprattutto per quanto riguarda il riferimento a Platone, entro le stesse missive di Manzi a Bo) per comprendere alcune dina- miche interne al nòvero dei banfiani – Sereni annota:

Era l’anno di Gianni (1935) […]. Ricordo una sera in casa di Gianni con Paci, Nino Rota […] e non so chi altro […]. Tu capisci quale sottile gioco – e dispe- rato – ci fosse in questa accolta di tipi: era la Montagna Incantata che Gianni voleva offrire a B[ianca] Beghi., la quale all’ultimo momento non venne per ostentato disprezzo. Ricordo Nino Rota in abito da sera che suonava astrat- tamente al piano canzoni americane con lo stile di Charlie Kunz […] e Paci e Crippa che interrogavano a un tavolino le ombre di Nietzsche e di Napoleone e l’ingresso furibondo, dopo la una di notte, del padre dell’Ottavia [Abate] che veniva a ritirare la figlia ritardataria e sospettata di losche orgie conciliate da Wa- gner e da Platone, e le conseguenti, clamorose risate della Mali [Levi Da Zara]

Particolarmente significativa è l’allusione a Der Zauberberg di Thomas Mann, letto, con il titolo sottilmente distorsivo e scivolosamente oppiaceo de La monta- gna incantata, nella traduzione di Bice Giachetti-Sorteni, edita a Milano, presso Dall’Oglio, nel 1930. Si tratta di un romanzo che, accanto alla restante produ- zione manniana da Manzi frequentata – tra cui Tonio Kröger, sul quale riflette, negli stessi anni, anche Antonia Pozzi –, insieme a Le grand Meaulnes di Alain- Fournier, ha profondamente inciso sulle sue scelte intellettuali: insieme, anche, alla Correspondance tra Fournier e Rivière, e alle sue mitologie condivise, sebbe- ne differentemente modulate, con Sereni e Vigorelli, e soprattutto con Sereni, se quest’ultimo quale lettore, come Manzi, intende, esige «riconoscere» se stesso,

22 Per una più compiuta ricognizione sulla vicenda esistenziale (e sulla parabola intellettuale e critica) di Manzi si rimanda a M.M. Vecchio, Introduzione, in G. A. Manzi, Lettere a Carlo Bo e scritti di letteratura cit., pp. 7-43. SULLE «FURIE» DEL CARTEGGIO TRA VITTORIO SERENI E GIANCARLO VIGORELLI 747

in un complesso gioco di specchi e di rifrazioni (e di mediate restituzioni criti- che), nell’opera letta, partecipata – così per Fournier, così per Mann (così anche Antonia Pozzi, per Flaubert). L’«anno di Gianni», e, in sé, «Gianni», una delle voci «che cadono» – ma che, rilkianamente, si ostinano a mormorare, essendo ascolto: «Es rauscht jetzt von jenen jungen Toten zu dir», Ora a Te si mormora da quei giovani Morti –, per- vadono una prosa (fournieriana) che Sereni pubblica nel 1939, Discorso di Capo d’Anno, imbastita, in parte almeno, di quelle modulazioni etiche che, attraver- sando Frontiera, ne costituiscono i cardini (cari a Vigorelli) di suggello e di me- tabolizzazione, per Vittorio, di un frammento esistenziale.

Accadde in altri casi – mai però quando si sarebbe voluto – di vedervi [gli amici] davvero riuniti tutti quanti e di scoprirvi nel riso e nella leggiera eccitazione di quando si fa festa, il vostro volto estremo, quello della più profonda consuetu- dine, che balena assenze, che ci riporta sulle orme dei morti. E di perdere poi le vostre parole, a distanza, come su uno schermo rimasto senza voci. E quel silenzio di doloroso stupore che tiene dietro al trambusto sorto per uno che s’è buttato a capofitto23.

È però Carlo Bo – che tra il novembre 1935 e il febbraio 1937 è perfezionan- do presso l’Università Cattolica –, con modi non dissimili né distanti rispetto ai percorsi sereniani, a offrire, in una prosa pubblicata nel 1941, Misura di Milano24, un omaggio (non dichiarato) a Gianni, probabilmente attinto all’«ultima par- te», non edita, «dove c’era una frase importante di Gianni»25, del necrologio de- dicato all’amico apparso nel giugno 1935 su «Il Frontespizio»26. Ne pubblichia- mo di séguito il testo, riservandoci in una successiva sede di indagarne gli snodi.

Dunque Milano è nata improvvisamente tre volte a una memoria ormai perduta di me. Penso a quel Gide sollevato e scontato dalla nostra conversazione che aprì a G… e a me un’aria incantata e leggera sull’esile ponte alla Ferrovia Nord. Il sole non atteso a questo quotidiano pomeriggio della nostra scienza opaca e continua ci

23 Cfr. V. Sereni, Discorso di Capo d’Anno cit. 24 Cfr. Carlo Bo, Misura di Milano, in La luna nel Corso. Pagine milanesi, a cura di Luciano Anceschi, Giansiro Ferrata, Giorgio Labò, Ernesto Treccani, Milano, Edizioni di Corrente, 1941, pp. 308-309. 25 Come scrive Bo a Vigorelli, da Firenze, il 13 giugno 1935, «Mio carissimo Giancarlo, / scusami il ritardo con cui rispondo alla tua buona lettera. / […] Come sta Bianca [Beghi]? un suo biglietto d’ieri è disperato tranquillamente e io non riesco più a dirle niente. Come potrei aiutarla? Le manderò il Front[espizio]. – l’hai visto? non c’era posto per l’ultima parte dove c’era una frase importante di Gianni» (citato in M. M. Vecchio, Introduzione cit., p. 42). 26 Cfr. C. Bo, Gian Antonio Manzi, in «Il Frontespizio», a. VII, giugno 1935, 6, p. 23 (con un disegno di Gianni Cortese), poi – con data «maggio 1935» – in Diario aperto e chiuso 1932- 1944, Milano, Edizioni di Uomo, 1945, pp. 186-187, ora in Appendice a G. A. Manzi, Lettere a Carlo Bo e scritti di letteratura cit., pp. 171-172. 748 Matteo M. Vecchio

prometteva una pace che lui avrebbe poi conquistato con la sua forza, io con la mo- notonia e i segni perduti e aboliti della mia vita. Sul ricordo di Aminta, di quanto in Gide cioè poteva inserirsi dell’arte più acuta, della frase più alta di Mann ci pie- gavamo di colpo a un solo e ripetuto spettacolo di felicità: scendendo le scale avevamo imprestato un lento sospiro di gioia, qualcosa che non potevamo più dirci, qualcosa che rimaneva nel cielo così dolcemente inventato a Milano, a un paese che respirava oltre le nostre abitudini, la sua memoria di figlio, le mie impressioni di ospite. Mi pare che allora sia nato davvero il nostro silenzio, uno stato cioè in cui cadevamo insieme: non erano più incontri. Sarebbe mancata la sorpresa e la reazione di festa: quel cielo così lieve e irreale d’un’altra Milano ci chiudeva nel senso della sua casa, a una zona buia, una misura che ci teneva senza possibilità di risposta: condannati, diversamente condannati. Ha pur sempre contato questa metamorfosi d’un borghese pomeriggio, un giuoco che ci portava dalle immagini d’una quasi periferia huysman- siana a una materia per Clair da aprire: era sul motivo leggero d’una soddisfazione fisica che s’entrava in un movimento assoluto, nella nostra leggenda risolta. Da allora sono nate altre case a Milano: a poco a poco trovavo fatto un paese in cui sarebbe stato troppo bello e doloroso vivere e che oggi mi sembra inutile e finito. È stato un itinerario troppo ricco alle facoltà della mia memoria: qualcosa che era scandito e insieme abbandonato a una vena dolce di musica segreta. Impressionava le possibilità del ritorno: era già nostalgia, una cosa poteva nascere e nasceva che era fortunatamente perduta. Abolivo la vita con un disegno assai più dolce, con una misura di riporto sentimentale, in un’inclinazione in cui nascondevo con piacere de- sideri discreti, il soccorso dell’intelligenza e un modo di pietà fatto forse d’un egoismo compiaciuto sopra la decadenza del colore, la sfortuna ripercossa del si. Così era di notte il giuoco in via Mel… intorno al libro della sua vita: Schopen- hauer e l’illustrazione del collegio a scelta fra Bergson, Platone e le sottili sottrazioni del whisky, d’una compiaciuta consuetudine mondana. Ma anche questo doveva cedere a una memoria più solida delle strade, era troppo suadente via de’ Togni, solitaria e viziata a un’immagine di felicità ancora umana, a un amore consacrato in figura. Si trattava di ripetere gli stessi passi su una storia lunga di anni, nuova d’antichi incontri, di sogni tradotti all’oscura lingua del giorno, al fantasma del si, d’una troppo provata realtà. Al sole per la via Nord rispondeva finalmente la notte (ancora Parigi, un quartiere sui versi di Stuart Merrill Rien n’émane du noir, ni vol, ni vent, ni voix): ma a questo modo chi scompariva per sempre era Gilberte, la povera Gilberte dura dei sogni che inseguivamo nel parco, su uno scherzo difeso da Proust. I sogni degli adolescenti anni di refoulements: c’era la possibilità del tempo sorpreso e fermato quando scendeva nel gusto sottile dell’attesa, nella rinunzia l’addio non immagina- to, il telegramma purtroppo interpretato di Albertine. Via de’ Togni aboliva la malinconia tentata nel desiderio non confidato all’amicizia in via del Conservatorio: in quella parte di Milano per cui avevo situato una vita, la mestizia della lettura, il segreto vinto della letteratura. Questa è la Milano più reale: è il suo itinerario di bellezza, la misura che nessuno saprebbe togliergli. Sten- dhal vinto da un d’Annunzio che ci è mancato ma che ci piace scommettere per un patrimonio nascosto al bisogno del suo inventore, del suo padrone. SULLE «FURIE» DEL CARTEGGIO TRA VITTORIO SERENI E GIANCARLO VIGORELLI 749

A questa strada mancheranno Bergson e Schopenhauer ma noi sappiamo di non ingannarci attendendo il Gide simbolista: Paludes risanate da Castorp, questa mi- racolosa e un tempo viva corrispondenza di musiche.

S. V. T. L., Sit Vobis Terra Levis: Vi sia lieve la terra.

Nota di possesso di Gian Antonio Manzi. Ambrogio Alciati, Il bambino Manzi (olio su tela, fine anni Dieci del Novecento – Mi- lano, collezione privata). INDICE DEI NOMI a cura di Francesco Vasarri

Abate, Clelia 745 Algarotti, Francesco 364 Abate, Ottavia 745 Alhazen (Abu ibn al-Hasan ibn al-Hai- Abbagnano, Nicola 106n., 107n. tham) 509n. Accarino, Bruno 434 e n. Alighieri, Dante 27, 41, 52, 65 e n., 68 Accrocca, Elio Filippo 244n. e n., 72n., 73, 85, 116, 117, 127, Adorno, Theodor Wiesengrund 328, 128 e n., 130 e n., 131, 132, 133 614 e n., 624 e n., 134, 135 e n., 136 e n., 137, Agamben, Giorgio 121n., 123n., 151n., 152n., 157, 158, 159, 160 124n., 358n., 403 e n. e n., 161, 162, 168n., 169, 179, Agazzini, Giacomo 139n. 187n., 193n., 232 e n., 265, 277, Agosti, Stefano 77n., 368n., 394, 278, 279, 280, 281 e n., 282, 291, 486n., 668n. 292, 293, 368n., 455, 479, 509, Agostino d’Ippona, santo 50, 52, 76, 512 e n., 519, 527, 535, 600 e n., 281, 292 671n., 672 Ajazzi Mancini Bigongiari, Elena 72 e Alonso, Dámaso 585, 586 n., 95, 108, 294n., 346, 422 Altichieri, Gilberto 522, 523 Ajazzi Mancini, Mario 315, 389 Altolaguirre, Manuel 586, 637, 638 Akhenaton, faraone 423 Alvino, Ernesto 640n. Akutagawa, Ryūnosuke 456 Amoroso, Alessandra 234n. Alain-Fournier (Henri-Alban Fournier) Anassimandro 437 698, 699, 744, 746, 747 Anceschi, Luciano 232n., 503n., 523, Alberti, Leon Battista 282, 283, 284, 542, 588, 596n., 664 e n., 665 e n., 285 666, 689 e n., 694, 706, 708 e n., Alberti, Rafael 583, 584, 586, 598n., 719n., 728n., 740n., 746, 747n. 637 e n. Andersen, Hans Christian 355n. Albrecht, Seifert 229n. Andreoli, Annamaria 596n. Alciato, Andrea (Andrea Alciati) 366 Angioletti, Giovanni Battista 244, 422 Aleardi, Aleardo 472 Annigoni, Pietro 598 Aleixandre, Vicente 586, 637, 649 Antinori, Alessandra 133n., 135n., Aleramo, Sibilla (Rina Faccio) 557n. 139n. Alessandrini, Renato 169n. Antonielli, Sergio 689 Alessandro di Afrodisia 279 Antonioni, Michelangelo 520, 543 Alfieri, Vittorio 65 Apollinaire, Guillaume 72, 369n. Anna Dolfi (a cura di), L’Ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi Firenze, 27-31 ottobre 2014. Luzi, Bigongiari, Parronchi, Bodini, Sereni. Volume II, ISBN 978-88-6655-979-5 (online), © the Author(s), CC BY-SA 4.0, 2016, published by Firenze University Press 754 INDICE DEI NOMI

Apollonio, Mario 656 Balthus (Balthasar Klossowski) 374n. Arbasino, Alberto 707 Bandini, Fernando 486n., 668n. Arcangeli, Francesco 368 e n., 375 e n. Banfi, Antonio 664, 713 e n., 740 e n., Arditti, Irvine 139n. 745 e n., 746 Ariani, Marco 74n., 548n. Banti, Anna (Lucia Lopresti) 591 Aristotele 279, 292, 436, 581, 649 Bàrberi Squarotti, Giorgio 77 e n., 458 Armando, Alessandra 244n. Bargellini, Piero 517, 525, 656 Arnal, André-Pierre 176n. Barigozzi, Claudio 670, 736n. Arnault, Antoine-Vincent 286 Barile, Laura 675 e n., 676n., 693n., Arnaut, Daniel 65n. 699n., 703n., 730n. Arndal, Steffen 511n. Barilli, Bruno 534 Arp, Hans Jean 373n. Barilli, Renato 380n. Arpino, Giovanni 612 Barocchi, Paola 366n. Artaud, Antonin 514, 515 e n. Baroja, Pío 638 Artioli, Umberto 515n. Barone, Rosangela 261 Auden, Wystan Hugh 266 Baroni, Giorgio 22n., 243n., 477n., Aupick, Caroline 316 663n., 708n. Auser, Harnold 435n. Barthes, Roland 291, 336, 337 e n., Averroè 279 338 e n., 339 e n., 340 e n., 341, Aymone, Renato 574, 575 342 Azorín (José Martínez Ruiz) 631, 635n. Bartoli, Matteo 629 Bartolini, Luigi 249 Bacci, Baccio 540 Bassani, Giorgio 592, 742n. Bacci, Luigi 628n. Bassi, Eleonora 553n., 565, 566, 568 Bachelard, Gaston 292, 326, 587 Bastianelli, Giannotto 534, 539 Bachtin, Michail Michajlovič 115 Battaglia, Salvatore 130n. Badoni, Antonio 743n. Baudelaire, Charles 27, 106, 151, 186 Badoni, Giuseppe Riccardo 743n. e n.,187n., 202, 246, 250, 312n., Badoni, Piera 741 e n., 742, 743 e n., 315, 316, 317, 318 e n., 319, 320, 744, 745 322, 323, 324, 327, 328, 354n., Baffoni Licata, Maria Luisa 728n. 375 e n., 531, 589, 657, 658, 659 Baioni, Paola 22n., 23n., 25 e n., 30n., Beati, Rosita 740 36 e n., 123n., 143n., 243n., 477n., Beckett, Samuel 131, 134, 135, 138 663n., 722n. Bécquer, Gustavo Adolfo 627n., 631, Baldacci, Luigi 128 e n., 130n., 136 632 e n., 633n., 637n. e n., 453, 456, 457, 462 e n., 478 Beethoven, Ludwig van 520, 542 e n., 484n., 485n., 487n., 503n., Beghi, Bianca 745 e n., 746, 747n. 542, 600n., 708n. Belli, Gianluca 552n. Baldi, Sergio 526 Bellintani, Umberto 454, 537 Baldissera, Andrea 628n. Bello Minciacchi, Cecilia 404n. Baldo Macrí, Albertina 632 e n. Bellonci, Goffredo 250 Balestrini, Nanni 613 Belluzzi, Amedeo 552n. Ballanche, Pierre-Simon 315 Bembo, Pietro 670n. Ballo, Ferdinando 634n. Bemporad, Gabriella 87n., 94 Ballo, Guido 534 Bendini, Vasco 375 INDICE DEI NOMI 755

Bene, Carmelo 592 e n., 608 e n., 663 e n., 671 e n., 672 e n., 677, 609n., 657 679, 689, 717, 722, 725 e n., 726 Benedetto XVI , papa (Joseph Aloisius Bilenchi, Romano 454 Ratzinger) 144n. Binni, Walter 310, 529 Benjamin, Walter 40n., 175 e n., 183, Birolli, Renato 523 190 Bisleri, Pier Paolo 139n. Benn, Gottfried 221, 625 Bitonti, Sandro 127 Bentivoglio, Giovanni 318n. Bixio, Andrea 120n. Beretta, Remo 244n. Blake, William 162 Bergé, Aline 548n. Blanchot, Maurice 291, 439 e n. Bergson, Henri 664, 748, 749 Blok, Aleksandr Aleksandrovič 163 Berkeley, George 512 e n. Blondel, Enrichetta 288 Berlioz, Hector 542 Blum, Rudolf 565 Bernardi Leoni, Margherita 368n., Bo, Carlo 78 e n., 83, 87, 145 e n., 376n. 149n., 197 e n., 198 e n., 199n., Bernini, Gian Lorenzo 654n. 238n., 244n., 247, 290, 296, 348, Bertolucci, Attilio 244n., 522, 523, 379n., 452, 453, 477, 523, 525, 537, 542, 675, 712 e n., 742n. 528, 534, 543, 575, 580, 581, 636 Bertone, Giorgio 558n., 563n. e n., 640n., 642 e n., 663n., 675n., Besomi, Ottavio 679n. 695n., 698, 699n., 719, 722, 723, Betocchi, Carlo 64n., 115, 132, 188n., 728n., 740n., 744, 745 e n., 746, 228n., 246, 249, 251, 454, 462n., 747 e n. 478, 484 e n., 522, 524, 547, 550n., Boccioni, Umberto 586 562n., 640n., 707, 730n. Bocelli, Arnaldo 385, 389 e n., 390n., Betti, Laura 616n. 391n. Bevilacqua, Giuseppe 221, 238n., 503 Böcklin, Arnold 591 e n., 505n. Bodei, Remo 205n. Biagini, Enza 294n., 305n., 336n., Bodini, Valentina 604 344, 345 e n., 346, 347n., 348, Bodini, Vittorio 254, 571-582, 583- 356n., 365n., 368n., 376n., 381 e 590, 591-601, 602, 603-609, 610, n., 393n., 402n., 403n., 433n., 437 611-626, 627-638, 639-654, 655- e n., 596n., 638n. 659, 660 Bianchi, Lorenzo 228n. Böll, Heinrich 266 Bianconi, Piero 664n. Bonaventura da Bagnoregio, santo 292, Bigazzi, Isabella 464n., 478n., 491n., 397 549n. Bonea, Ennio 571n., 592n., 617n. Bigiaretti, Libero 576, 612 Bonfanti, Giosuè 675n. Bigongiari, Piero 22n., 37, 197n., 230 Bonfanti, Maria Luisa 700, 733n., 735, e n., 243n., 244n., 262, 277-292, 741, 744 293-313, 314, 315-333, 335-345, Bonifazi, Neuro 314 346, 347-364, 365-382, 383-392, Bonington, Chris 374n. 393-409, 411-430, 431-439, 440, Bonnefoy, Yves 28 e n., 195-204, 441-447, 452, 454, 477n., 488n., 354n., 381 517, 522, 523, 542, 550n., 575, Bonsanti, Alessandro 238n., 416n., 591, 592 e n., 595, 617 e n., 640n., 454, 533, 575 756 INDICE DEI NOMI

Bontempelli, Massimo 576, 592 Butor, Michel 341 e n., 342 e n., 343n., Borboni, Paola 127 344, 361n. Borges, Jorge Luis 588 Buzzi, Giancarlo 612 Borlenghi, Aldo 741 Buzzi, Giovanna 133n., 139n. Bornmann, Bianca Maria 222n. Boros, Ladislaus 455 Cacciari, Massimo 23 e n., 120 e n., Bortolotto, Mario 90 e n. 121n., 124n., 528 Bosch, Hieronymus (Hieronymus van Cacciatore, Edoardo 250 Aeken) 559n. Cadalso y Vázquez, José 636n. Bottai, Giuseppe 107n. Cagiano de Azevedo, Paola 603n. Bottani, Livio 205n. Cairo, Pier Francesco 375n. Botticelli, Sandro 285 Čajkovskij, Pëtr Il’ič 542 Bouchet, André du 204 Calamandrei, Giulio 597n. Bozzi, Lucia 740 Calcaterra, Carlo 587 Bracchi, Alfredo 744 Calderón de la Barca, Pedro 583n., Brandi, Cesare 245n. 584, 588, 589, 629, 632, 634 Braun, Giacomo 629 Calusio, Ferruccio 540 Brauner, Victor 197 Calvino, Italo 464 e n., 588, 597 Brecht, Bertolt 40n. Cambi, Omero 244n. Brentano, Franz 513 Cambon, Glauco 500 e n. Brera, Gianni 592n. Camon, Ferdinando 694n., 698n. Breton, André 197 e n., 444 Campagna, Antonella 665n. Brettoni, Augusta 638n. Campana, Dino 27, 153, 154 e n., Bricco, Elisa 195n. 232n., 252, 322, 327, 328, 467n., Brioschi, Franco 693n. 503 e n., 517, 557 e n., 558 e n., Brizzi Trabucco, Paola 389n. 574, 617, 709, 710, 711 Broch y Llop, Francisco 628n. Campanella, Tommaso 597, 623 Broggini, Luigi 641 e n. Campo, Cristina (Vittoria Guerrini) Bruckner, Anton 542 86-103, 179 e n., 221 Brunelleschi, Filippo 284, 512, 560, Cancogni, Manlio 245 e n., 246n., 247 562n. e n., 250, 251 Bruni, Arnaldo 74n., 548n. Capecchi, Giovanni 246n. Bruno, Giordano 28n., 292, 349 e n., Capelli, Luigi 742, 743n, 354, 359n., 368n., 635n. Capocchini, Ugo 169n., 374n. Bucchi, Valentino 532, 533, 534, 541, Capodaglio, Enrico 202n. 543 Caponi, Dino 169n. Bucciarelli, Stefano 591n. Caponi, Loretta 166 Buffoni, Franco 462n. Caproni, Attilio Mauro 568 Bugnion-Secretan, Perle 93 Caproni, Giorgio 88n., 111n., 244n., Buonarroti, Michelangelo 161, 285, 246, 251, 360n., 452, 454, 463n., 491-501, 529, 539, 560, 562n., 654 485, 674, 675 e n., 689 Burchiello (Domenico di Giovanni, Caracciolo Alberto 119n., 355n., 407n. detto il) 283 Caracciolo Perotti, Maria 119n., 355n. Bussotti, Sylvano (Silvano Bussotti) Caravaggio, Giovanni 628n. 534 Cardarelli, Vincenzo 468, 548n., 596 INDICE DEI NOMI 757

Cardini, Roberto 26n. Cézanne, Paul 508, 510, 511 e n. Carducci, Giosuè 210n., 244n., 315, Chagall, Marc 374n. 331, 462n., 472n., 527 Char, René 381, 674, 709 e n., 711 Caretti, Lanfranco 131n., 297, 668, Charpentier, Pascale 176n. 697, 699n., 701 e n. Chateaubriand, François-René de 243 Carifi, Roberto 262, 351n. e n. Carletti, Beatrice 664n., 706, 708n. Chiappini, Gaetano 447n., 595n., 599 Carlo V (imperatore) 571n., 592n., e n., 619n. 593n., 595n., 599n., 617n., 619n., Chiappori, Alfredo 139n. 647n., 650n. Chiarini, Paolo 447n., 572n. Carozzi, Gian (Giancarlo Carozzi) 246n. Chierici, Annarita 133n. Carpentier, Alejo 49 Chiodi, Pietro 398n. Carrà, Carlo 374 e n., 534, 591 Chomsky, Noam 336 Cartesio (René Descartes) 286, 406 Ciancio, Claudio 205, 206n., 212 e n. Casale, Manola 133n. Ciccuto, Marcello 168n., 591n. Casari, Umberto 612n. Cicognani, Bruno 656 Casella, Mario 631, 632, 633 Ciliberto, Michele 349n. Cassigoli, Renzo 154n., 554 Cino da Pistoia 522 Cassirer, Ernst 229n., 240 e n. Clair, René (René Chomette) 748 Cassola, Carlo 115, 250 Clasio (Luigi Fiacchi, detto il) 285, 286 Castagnola, Raffaella 729n. Claudel, Paul 149 e n. Cattafi, Bartolo 690 Coignard, James 170 e n. Catteuil, Georges 315, 326 Coïsson, Clara 251 Cavalcanti, Guido 72n., 277, 278, 279, Colacicchi, Giovanni 598 317, 522 Colangelo, Stefano 703 e n. Cavallini, Giorgio 36n., 37n. Coleridge, Samuel Taylor 88n., 320 Cavinato, Paolo 140n. Colli, Barbara 451, 536, 548n., 663n., Cavour, Camillo Benso, conte di 266 667 e n., 675n., 695n., 717n., 742n. Cazalis, Henri 106n., 190n. Colli, Giorgio 398n. Cecchi, Emilio 138n., 530 Collot, Michel 548n. Čechov, Anton Pavlovič 687n. Colombo, Cristoforo 630n. Ceci, Bruno 171n. Colombo, Duccio 665n. Cederna, Camilla 741 e n. Comaneci, Nadia 491n., 493n., 494n. Cela, Camilo José 638 Comi, Girolamo 641n., 658 Celan, Paul 221, 408 e n. Comisso, Giovanni 250 Celi, Alessandra 133n., 135n., 139n. Comparini, Alberto 704n. Cellini, Benvenuto 501n., 542 Contini, Gianfranco 228n., 291, 293- Cendrars, Blaise 246, 251 313, 454, 503n., 581, 591n., 653n., Cenni, Alessandra 672n., 718n. 663n., 665, 672 e n., 723 Cerboni Baiardi, Giorgio 314 Conversano, Pietro 133n., 135n. Cernuda, Luis 586 Corazzini, Sergio 461n., 462n., 464 e Ceronetti, Guido 537, 617 n., 468n., 469 e n., 472n., 474, 475 Cervantes Saavedra, Miguel de 628, e n. 632, 654 e n. Cordibella, Giovanna 225 e n., 231n., Cesare, Gaio Giulio 527 232n. 758 INDICE DEI NOMI

Corradi, Nicoletta 133n. Dazzi, Arturo 591 Cortellessa, Andrea 614n., 700 e n. Dazzi, Manlio 537 Cortese, Gianni 747n. De Agostini, Daniela 354n. Corti, Maria 668, 713 De Angelis, Milo 688, 690 Cosimo III de’ Medici, granduca di To- De Chirico, Giorgio 374 e n. scana 366n. De Concini, Ennio 608 e n. Costa, Orazio 127, 129, 133 De Grada, Raffaele 523 Costetti, Giovanni 534 De Jaco, Aldo 707 Courbet, Gustave 374n. De Libero, Libero 574 Cresti, Carlo 552n. De Matteis, Giuseppe 464 e n. Croce, Benedetto 220, 291, 297, 300, De Pisis, Filippo 170n., 374 e n., 523 305, 310, 520, 539, 577 De Robertis, Domenico 155n. Crocetti, Nicola 259 De Robertis, Giuseppe 91, 155n., 244n., Cuccurullo, Vittorio 632n. 248, 291, 293-313, 581 Curtius, Ernst Robert 292 De Sanctis, Francesco 385 Cusatelli, Giorgio 505n. De Seta, Cesare 532 De Sica, Vittorio 593 D’Alessandro, Francesca 713n., 722n., De Signoribus, Eugenio 202n. 737n. De Staël, Nicolas 356, 374n. D’Amburgo, Marion (Loriana Nappi- Deane, John F. 260, 262 ni) 133n., 135n., 139n., 140n. Debenedetti, Giacomo 111n., 520, 703n. D’Anca, Michele 133n. Deguy, Michel 343, 377n., 381 D’Andrea, Ercole Ugo 547n., 548n., Deidier, Roberto 729n. 549n. Del Serra, Maura 550n. D’Annunzio, Gabriele 94n., 112, 153, Delacroix, Eugène 374n. 221, 225, 291, 453, 461n., 462n., Deleuze, Gilles 291, 406 e n. 467n., 472n., 503 e n., 511, 557n., Della Monica, Francesca 135n. 574, 581, 591, 593, 596 e n., 597 e Demeny, Paul 323 n., 599 e n., 600 e n., 601n., 710, Derrida, Jacques 291, 328, 337n., 339 746 e n., 340n., 348, 351, 356, 357, D’Anzi, Giovanni 744 358, 359 e n., 360 e n., 361 e n., D’Episcopo, Francesco 598n. 376, 394, 400, 436 e n. D’Ors, Eugenio 585, 630 Dessí, Giuseppe 74n. Da Re, Silvia 195 e n., 204 e n. Devoto, Giacomo 195n. Da Zara, Mali 740, 745 Di Biasio, Rodolfo 26n. Dal Bianco, Stefano 486n., 614n., 668n. Di Dono, Paolo 518 Dal Fabbro, Beniamino 537, 617 Di Lernia, Giovanna 739n. Dall’Aglio, Fabrizio 257, 258, 266 Di Silvestro, Antonio 727n. Dallapiccola, Luigi 523, 540, 543 Di Taranto, Mattia 222n. Dalmati, Margherita (Maria Niki Zo- Diacono, Mario 154n. royannidis) 502 Dickinson, Emily 97, 744 Dalven, Rae 266 Diedrichs, Eugen 228n. D’Amico, Lele (Fedele D’Amico) 245n. Diego, Gerardo 586, 587, 588, 627n., Darwin, Charles Robert 148 629 e n., 637 Davì, Luigi 611 Dionigi Aeropagita, Pseudo 281 INDICE DEI NOMI 759

Dirac, Paul Adrien Maurice 374n., 467n., 469, 472, 477 e n., 526, 378n. 543, 725 Dolce, Lodovico 366 e n. Elli, Enrico 145n. Dolfi, Anna 21, 34n., 37n., 38n., Éluard, Paul 301, 370 e n., 377 74n., 99n., 143n., 166, 177n., 194, Empedocle 239n. 210n., 224, 225n., 226n., 227 e n., Engel, Manfred 511n. 228n., 277 e n., 280, 290, 294n., Eraclito 99 e n., 100, 101 295n., 314, 319 e n., 334, 335n., Erba, Luciano 555n., 617, 665n., 714 346, 351n., 352n., 368n., 376n., Ernst, Max 374n. 383n., 394n., 408 e n., 409n., Errante, Vincenzo 221, 228n., 537, 437n., 440, 447, 460, 461 e n., 696, 745 462n., 463n., 497n., 545, 548n., Esenin, Sergei Aleksandrovič 163 550n., 551n., 558n., 562n., 568, Esposito, Edoardo 116n., 666 e n., 571 e n., 576, 595n., 597n. 599n., 729n. 600n., 603n., 604 e n., 627n., Evans, Martina 260, 262 629n., 635n., 639n., 640n., 646, 647 e n., 650n., 651n., 652n., 660, Fabbriciani, Roberto 139n. 663n., 673n., 708n. Falaschi, Giovanni 464n., 478n., Dolfi, Laura 60, 166, 256, 314, 410, 491n., 549n. 440, 447, 460, 546, 602, 628n., Falck, Giovanni 745 634n., 636n., 641n. Fallacara, Luigi 244n., 454, 465n., 640 Domenichino (Domenico Zampieri, e n., 641n., 642n. detto il) 543 Falqui, Enrico 40n., 558n., 581, 636, Donatello (Donato Bardi, detto) 285 637 Donati, Maurizio 212n. Fancelli, Maria 219 Donati, Riccardo 336n., 368n., 430n., Fanfani, Massimo 464 e n., 487n., 592n. 488n., 491n., 492n., 501n., 508 e Donato, Elio 357n. n., 509n., 549n., 562, 563n., 568 Donnafrancesco, Isabella 124 Fantini, Umberto 139n. Dorfles, Gillo 564n. Farnetti, Monica 89n., 92n. Dorgan, Theo 260, 261, 262 Fasani, Remo 92n. Dort, Bernard 40n. Fava Guzzetta, Lia 22 Draghi, Gianfranco 86, 88n., 92 e n. Ferdinando I de’ Medici, granduca di Du Bos, Charles 83, 86 Toscana 366n. Dupin, Jacques 204, 381 Ferrata, Giansiro 78 e n., 250, 523, Duprè, Giovanni 562n. 723, 747n. Ferrauto, Gianni 592n. Eberts, Jakob 228n. Ferri, Luigi 126 Eckhart di Hochheim 397 Ferro Bo, Marise (Maria Luisa Ferro) Eco, Umberto 341 e n., 344n. 198 e n. Einstein, Albert 402 Festa, Gianni 146 Eisermann, Tobias 219 Fichte, Johann Gottlieb 231, 233 Eliade, Mircea 50 Fiore, Paolo 282 Eliot, Thomas Stearns 79, 81, 83, 96, Fioroni, Georgia 670n., 698n., 719n., 97, 98, 315, 322, 417 e n., 466, 729n., 737n. 760 INDICE DEI NOMI

Fisauli, Maria Paola 383 e n. Galleni, Lodovico 211n. Flaubert, Gustave 326, 747 Gallino, Luciano 245n. Flora, Francesco 225 e n., 710 e n. Gamberini, Italo 554n. Flynn, Leontia 260, 262 Garache, Claude 374n. Fo, Alessandro 693n. Garboli, Cesare 169n., 245n. Fochi, Giovanni 133n., 135n., 139n. García Lorca, Federico 382, 583, 586, Fogacci, Gianluigi 139n. 587, 597, 603 e n., 604, 622 e n., Folena, Gianfranco 297 636 e n., 637n., 638 e n., 659 Folin, Alberto 92n. Garcilaso de la Vega 636 Fongaro, Antoine 176n. Gareffi, Andrea 74n., 548n. Fontana, Giovanni 26n., 641 Garelli, Gianluca 205n. Formaggio, Dino 744 Gargani, Aldo Giorgio 213n., 214n. Fornari, Franco 245n. Garin, Eugenio 282 Fornero, Giovanni 106n. Garrini, Emilia 743n. Fortini, Franco (Franco Lattes) 86n., Gassman, Vittorio 648n. 105, 111n., 113n., 532, 533, 534, Gatti, Francesca 139n. 542, 557n., 558n., 594n., 615, Gatto, Alfonso 75, 443, 453, 454, 627n., 641 e n., 666, 686, 694 e n., 467n., 478 e n., 520, 522, 532, 574, 696n., 701n., 703 583, 640n., 641n., 642n., 663n., Foscolo, Ugo 226n., 247n., 291, 315, 676n., 679 e n., 689, 696, 712, 717, 331, 453, 467n., 537, 720 e n., 721n., 727 e n., 730n. Foucault, Michel 291 Gauguin, Paul 290, 322 Fozzer, Giovanna 89n. Gautier, Théophile 192 Francesco d’Assisi, santo 485, 657 Gavazzeni, Gianandrea 523 Francesconi, Mario 169n. Gelli, Piero 679n. Francese, Franco 667 Gentile, Giovanni 106n., 107n., 539, Francini, Antonella 177n., 257, 262 631n. Franciosa, Massimo 244n. Gentili, Alessandro 257, 258, 259, François, Jean-Claude 40n. 260, 264, 265 Franqui, Carlos 246, 251 George, Stefan 219, 221, 222 e n., Frasca, Damiano 111 e n., 115 e n. 223n., 225, 226, 238n., 239n. Frescobaldi, Dino 522 Gerola, Gino 92n., 93, 244n., 245n. Freud, Sigmund 291, 315, 325 Getto, Giovanni 297, 587 Fubini, Mario 297 Ghiberti, Antonio 506, 509n., 515 Fülleborn, Ulrich 511n. Ghidetti, Enrico 453, 458, 476 e n., Furini, Francesco 366 e n., 367n. 477n., 478 e n., 479n., 497n., 498n., 506n., 510n., 519, 529, Gadamer, Hans-Georg 122, 205, 291 547n. Gadda, Carlo Emilio 575, 591 e n., Giachetti-Sorteni, Bice 746 669 Giammarioli, Michele 124 Gaeta, Giancarlo 97n. Giampaolo, Renato 243n. Gaier, Ulrich 230n. Giancotti, Matteo 483n. Galante, Clara 140n. Giannelli, Giorgio 592n. Galilei, Galileo 367n. Gianni, Bernardo 57, 58n. Galimberti, Umberto 176 e n. Gianni, Lapo 72n., 522, 523 INDICE DEI NOMI 761

Giannone, Antonio Lucio 571n., Gozzini, Mario 144 e n. 572n., 574n., 576n., 583n., 598n., Grajson, Cecil 282 605n., 607n., 619, 635n. Gramsci, Antonio 107n. Gide, André 248, 538, 745, 747, 748, Grana, Gianni 598n. 749 Grassi, Fabio 572 e n., 579 Giehse, Irene 40n. Gregori, Mina (Guglielmina Gregori) Giglioli, Daniele 305n. 366n. Giolli, Raffaello 532 Greimas, Algirdas Julien 49 e n. Giordano, Emilio 28n. Grillandi, Massimo 693n. Giordano, Luca 518 Grimm, Jacob Ludwig 355n. Giorgio VI, re di Gran Bretagna e Ir- Grimm, Wilhelm Karl 355n. landa 415 Griseri, Andreina 517 Giorgione (Giorgio da Castelfranco, Grossi, Mario 133n. detto) 505 Grossi, Paolo 249 Giovanardi, Ninetta 522 Grossi, Pasquale 133n. Giovannetti, Pietro 676 e n. Grotti, Vittorio 167, 171 e n., 172, 173 Giovanni Paolo II, papa (Karol Wojty- Guanda, Ugo 522, 670n. la) 127 Guarducci, Marola 483n. Giovannuzzi, Stefano 704 e n. Guarnerio, Pier Enea 629 Girard, René 186n. Guattari, Félix 406 e n. Girardi, Enzo Noè 492n. Guérin, Maurice de 455 Girardin, René Louis de 315 Guerrieri, Gerardo 140n. Girolamo, santo 292 Guglielmi, Angelo 380n. Giudici, Enzo 128, 180 e n. Gui, Vittorio 523 Giudici, Giovanni 111n., 133 e n., Guillén, Jorge 244n., 382, 617, 634n. 249, 461n., 612, 613 e n. Guinizzelli, Guido 522 Giuliotti, Domenico 248 Guttuso, Renato 375n. Giuseppe da Copertino, santo 607, 608 e n., 609 e n., 657 Hartung, Hans 374n., 378 e n., 379 Givone, Sergio 26n., 205 e n., 213 e n., Hauser, Arnold 435n. 214n., 215n. Heaney, Seamus 260, 262, 263, 264, Gluck, Chistoph Willibald 542 265,266, 267, 269 Goethe, Johann Wolfgang 220, 226, Hegel, Georg Wilhelm Friedrich 201n., 239n., 539, 730n. 229 e n., 230n., 231, 233, 653n. Gómez de la Serna, Ramón 637 Heidegger, Martin 107, 119 e n., 120 Góngora y Argote, Luis de 583, 584, e n., 122 e n., 234 e n., 335, 344, 585, 586, 587, 588, 590 351, 355 e n., 358 e n., 367, 371 e Gontard, Suzette 240n. n., 397, 398 e n., 407n., 437 e n., Gorlier, Claudio 245n., 296 e n., 297 587 e n. Heine, Heinrich 220, 226 Govoni, Corrado 588, 617 Hellingrath, Norbert von 227n. Goya, Francisco 415, 416 Hemmings, David 520 Gozzano, Guido 461n., 461n., 464 e Herder, Johann Gottfried 358n. n., 468n., 469n., 472n., 473 e n., Hermet, Augusto 220, 221, 521, 522, 475 e n., 488 e n. 523, 527, 534 762 INDICE DEI NOMI

Herrmann, Friedrich-Wilhelm von Jaccottet, Pierre 204 234n. Jacob, Max 74n. Hitchcock, Alfred 684 Jacobbi, Ruggero 463 e n., 639n., Hitler, Adolf 544 641n., 643 e n. Hoffmann, Ernst Theodor Amadeus Jacobelli, Jader 205n. 355n. Jacomuzzi, Stefano 475n. Hofmannsthal, Hugo von 83 e n., 87 Jakobson, Roman 291, 336, 395 e n., 88, 93, 94 e n., 99, 101, 221, Jannaccone, Lino 93 e n. 225, 226, 238n., 239n. Jànossy, Ferenc 83n. Hölderlin, Friedrich 97, 205 e n., 221, Jaspers, Karl 107 223n., 225-242, 312n., 396, 398, Jean-Aubry, Georges (Jean-Frédéric- 674 Emile Aubry) Hopper, Edward 683 Jesi, Furio 507n., 515n. Horkheimer, Max 614 e n. Jiménez, Juan Ramón 635n. 640n., Huchon, Mireille 179 e n. 642, 659 Hugo, Victor 538 Jouve, Pierre Jean 202 Huret, Jules 315 Joyce, James 162, 207n., 261, 344 e n., Hurtado y Jiménez de la Serna, Juan 523, 641, 647, 648 e n., 690 628 Jung, Carl Gustav 58, 291, 315 Husserl, Edmund 55, 511, 664 Huysmans, Joris-Karl 222, 748 Kafka, Franz 515, 575, 634 Kant, Immanuel 233, 237n., 343 Iacopone da Todi 616 Kierkegaard, Søren 406, 465, 507 Iacuzzi, Paolo Fabrizio 177n., 277, Kinsella, Thomas 259, 260, 262, 263, 294n., 347n., 348, 365n., 372n., 267, 272 374n., 383n., 385n., 393n., 394n., Klabund (Alfred Henschke) 220 416n., 430n., 433n., 592n., 595n. Klee, Paul 374n., 455 Ignazio di Loyola, santo 236 Kleist, Heinrich von 221 Ilario, Fiorella 104, 274 Knebusch, Julien 548n. Infantino, Susanna 133n. Koiré, Alexandre 585 Innocenti, Roberto 133n. Korach, Maurizio 228n. Ioli, Giovanna 458, 509 e n., 519, 520, Kristeva, Julia 78 e n., 291 543, 545, 554n. Kurosawa, Akira 456, 536 Isella, Dante 615n., 663 e n., 664n., 666, 667 e n., 668 e n., 670 e n., La Fontaine, Jean de 285 674 e n., 675 e n., 679n., 693n., La Pira, Giorgio 54, 55 e n. 694n., 696n., 697 e n., 699n., La Porta, Gabriele 124, 126 701n., 702n., 721n., 728n., 732n., Labé, Louise 177, 179 e n., 180 e n., 733n., 734n., 736n., 737n., 739n., 181 e n., 185, 193n. 744n. Labò, Giorgio 747n. Isella, Gilberto 433 e n. Labroca, Mario 523 Isernia, Luca 607n. Lacan, Jacques 291, 319, 329, 405 Italia, Paola 591n. Laforet, Carmen 637n. Ivory, James 529 Lagazzi, Paolo 225n. Izambard, Georges 323 Lagorio, Gina 679n. INDICE DEI NOMI 763

Lamanna, Paolo Emilio 575 Lisi, Nicola 551n., 641n., 656 Landi, Michela 176n., 177n., 179n., Livi, François 462 e n., 469 e n., 475n. 186n., 188n. Lo Castro, Giuseppe 37n., 368n., Landolfi, Idolina 475 e n. 673n. Landolfi, Tommaso 199n., 244n., 575, Loffredo, Silvio 92n. 577, 601n., 656, 658, 659 Lombardi, Francesco 740n. Langella, Giuseppe 22n., 143n., 145n., Lombardi, Sandro 127, 128 e n., 129 721n. e n., 131, 132 e n., 133 e n., 134, Langlois, Henri 532 135n., 138, 139n., 140n., 257, 268 Lao Tzu 100 Lombardo, Agostino 592n. Larbaud, Valery 575 Longhi, Roberto 305 e n., 313 e n., Larra, Mariano José de 637 375n., 517, 535, 591 Larrea, Juan 583, 586, 632n. Lorenzini, Niva 596n., 664n., 674 e n., Lasso de la Vega, Rafael (Marqués de 706, 708n. Villanova) 630 Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico Latini, Brunetto 280 282, 284, 285, 286 Lavater, Johann Kaspar 315, 316, 318 Loria, Arturo 454, 591 Lavezzi, Giorgio 676 e n. Lubac, Henri de 144 e n. Lavoisier, Antoine-Laurent de 444 Lucarini, Paola 676n. Leccese, Vittorio 658 Lucrezio Caro, Tito 76 Lenin, Nicolaj 651 Lukács, György 83 Lenzini, Luca 477n., 485n., 501n., Luperini, Romano 698 e n. 568, 694n., 737n. Luti, Giorgio 522 Leonardo da Vinci 285, 366, 482, 534 Luzi, Alfredo 23n., 36n., 454, 522, Leoni, Michele 140n. 550n., 698n., 701n., 708 e n., Leopardi, Giacomo 27, 28 e n., 29, 30, 725n. 38n., 46, 47 e n., 65 e n., 66, 68n., Luzi, Gianni 173, 198n. 74 e n., 87, 91 e n., 92n., 99, 151 Luzi, Mario 21-48, 49-59, 60, 61-69, e n., 152 e n., 153 e n., 154, 155, 70, 71-76, 77-82, 83-103, 104, 158, 160n., 161, 162, 163, 193n., 105-108, 109-118, 119-126, 127- 203 e n., 204, 206n., 207, 232n., 140, 143-150, 151-165, 166, 167- 286, 287, 288, 289, 291, 293-313, 174, 175-193, 195-204, 205-217, 315, 349, 351, 352n., 355, 357n., 218, 219-223, 225-242, 243-252, 361, 364, 368n., 369, 395, 397, 253-255, 256, 257-273, 274, 290, 398, 403, 408, 417, 453, 454, 455, 291, 314, 411, 412, 424, 425 e n., 456, 478 e n., 479n., 491 e n., 492 443, 448, 452, 457, 461, 477n., e n., 494 e n., 495n., 497n., 512n., 484, 507, 516, 523, 543, 544, 545, 548n., 563n., 571n., 581, 657, 548n., 575, 581, 599n., 600n., 658, 674, 677, 678, 691 642, 663 e n., 672, 674, 675, 676, Leporatti, Roberto 719n. 677, 679, 695n., 707 e n., 712, Levasti, Arrigo 244n., 539 713, 717, 722 e n., 723 e n., 724 e Levi, Carlo 551n. n., 727 e n. Levi, Primo 132 Luzzi, Giorgio 694n. Levy, Moses 591n. Lippi, Filippo 285 Macchia, Giovanni 318n. 764 INDICE DEI NOMI

Maccioni, Lamberto 92n. 362n., 455, 515n., 525, 527, 534, Mach, Ernst 508, 513 535, 586, 643, 658 Machado, Antonio 252, 445, 528, 587, Man Ray (Emmanuel Radinski) 370 e 628, 633n., 637 e n., 659 n. Machiavelli, Niccolò 541, 542 Manacorda, Guido 220, 539 Macrí, Albarosa 416n. Mancino, Leonardo 26n., 598 e n., Macrí, Oreste 83, 143n., 197n., 225 623n. e n., 226 e n., 227, 228 e n., 235, Mandel’štam, Osip 403 244n., 290, 291, 348, 368n., 399 e Mandelli, Pompilio 375 n., 415, 416n., 443, 447 e n., 453, Manghetti, Gloria 171n., 522, 527 461 e n.. 462n., 475n., 478, 493 Manigrasso, Leonardo 477n., 478n., e n., 495n., 499, 516, 528, 529, 479 e n., 487 e n., 488n., 497n., 537, 542, 547 e n., 548 e n., 549n., 500 e n., 501n., 507 e n., 548n., 551n., 557n., 562n., 563n., 571 549n., 550n., 551n., 553n., 555n., e n., 573, 576, 578, 581, 583n., 563n., 565, 566, 568 592n., 593, 595, 597 e n., 599 e n., Mann, Thomas 206n., 221, 591, 743, 601n., 603, 604 e n., 605n., 606 e 746, 747, 748 n., 607 e n., 610, 617n., 618n., 619 Mansfield, Katherine 522, 523 e n., 621, 622n., 627 e n., 628 e n., Mantovani, Fabio 211n. 629 e n., 630 e n., 631 e n., 633 e Manzi, Erminia 745 n., 634 e n., 635 e n., 636 e n., 637 Manzi, Gian Antonio 739 e n., 740 e e n., 638 e n., 639n., 640 e n., 641 n., 744, 745 e n., 746 e n., 747 e e n., 642 e n., 643 e n., 644 e n., n., 749 645, 648n., 649 e n., 650 e n., 651 Manzini, Gianna 249 e n., 652n., 653 e n., 655-659, 660, Manzoni, Alessandro 84, 287, 288,. 663n., 672 e n., 724 296, 297n., 315, 739n. Maeterlinck, Maurice 220, 315 Manzoni, Giacomo 139 e n. Maffeis, Rodolfo 366n. Maraini, Dacia 567 Maggiorino Gatti, Guido 523 Marasco, Armida 573n. Mahler, Gustav 542 Marchi, Marco 110 e n. Mahon, Derek 259, 260, 262, 267, 271 Marcucci, Mario 168, 454, 483, 519, Mai, Angelo 309n. 530, 552n., 553 e n., 556 e n. Maione, Italo 228n. Marcucci, Pier Francesco 92n., 93 Maiorca, Bruno 106n. Marcuse, Herbert 626 e n. Maistre, Xavier de 454 Margoni, Ivos 245n. Majakovskij, Vladimir Vladimirovič Margvelašvili, Giorgi 251 163 Maria José di Savoia, regina d’Italia 523 Malaparte, Curzio 197n. Marin, Louis 49 e n. Malerba, Luigi 707 Marinetti, Filippo Tommaso 617 Malipiero, Gian Francesco 523, 533 Marino, Giambattista 524 Mallarmé, Stéphane 27, 35n., 76, 78 Maritain, Jacques 83 e n., 143 e n., e n., 106n., 153, 177, 179, 186 e 144, 146n., 147n., 149 e n. n., 187 e n., 188 e m., 189 e n., Marlowe, Christopher 93 190 e n., 192 e n., 193 e n., 199, Martelli, Laura 133n., 135n., 139n. 203, 219, 225, 247, 283, 316, 326, Martelli, Margherita 603n. INDICE DEI NOMI 765

Marti, Anita 607 Merlino, Giuseppe 467n. Martignoni, Clelia 667n., 696n., 733n. Merola, Nicola 37n., 673n. Martini, Simone 21, 36, 42, 44, 56, 57, Messiaen, Olivier 518 75, 101, 102 e n., 103n., 137, 139 e Metastasio, Pietro 286 n., 140n., 169 e n., 188 e n., 189n., Mettel, Paolo Andrea 22n, 86n. 208, 215n., 216 Meyer-Lubke, Wilhelm 629 Marzo, Antonio 593n. Miccinesi, Mario 343 Masaccio 512, 535, 539 Michaud, Joseph François 315 Mascagni, Fabio 140n. Michaux, Henri 157 e n., 315, 381 Masini, Ferruccio 539 Michelucci, Giovanni 558n. Masolino da Panicale (Tommaso di Micieli, Nicola 168n. Cristoforo Fini) 539 Milano, Paolo 250 Massari, Giulia 636n. Mincu, Marin 383n., 388n. Matisse, Henri 168n., 169n. Minelli Bodini, Antonella 596 e n., 597 Mattesini, Francesco 145n. Minore, Renato 124 Mattioli, Carlo 170 e n., 171, 529 Miró, Gabriel 632 Maupassant, Guy de 648n. Miscia, Eraldo 250 Maurer, Barbara 139n. Mistral, Gabriela 637 Mauriac, François 27 Mittner, Ladislao 222n. Mazzanti, Giorgio 146n. Modena, Anna 663n. Mazzocchi, Giuseppe 628n. Modesti, Renzo 665n. Mazzola, Angiola 358n. Momigliano, Attilio 293n. Mazzoni, Guido 696 e n., 701n., 703n. Monaco, Adonella 133n., 135n. Mazzotta, Giuseppe 146n. Mondor, Henri 188n. McCarty, Thomas 257, 258, 259, 260, Monet, Claude-Oscar 368n. 262, 265, 268, 273 Montague, John 259, 260, 262, 263, Mecacci, Andrea 240n. 267, 272 Mecatti, Stefano 23n., 121n. Montale, Eugenio 27, 56, 62 e n., 67, Meehan, Paula 259 69, 70, 72, 110, 112, 128, 140, 145 Melani, Viviana 497n. e n., 146n., 153, 155, 156 e n., 196, Memmo, Francesco Paolo 698n. 247, 289, 291, 315 e n., 316, 319, Menallo, Biagio 243n. 322, 326, 327, 328, 330, 331-333, Menéndez y Pelayo, Marcelino 631 388 e n., 415, 441-447, 453, 454, Menéndez-Pidal, Ramón 629 467n., 473 e n., 475, 487 e n., 509 Mengaldo, Pier Vincenzo 35n., 113, e n., 517, 519, 522, 523, 526. 547 e 114 e n., 116n., 164 e n., 467 e n., n., 561n., 574, 575, 577 e n., 581, 468n., 473 e n., 509n., 663n., 666, 591, 592, 594 e n., 595 e n., 597, 674 e n., 675n., 677 e n., 687 e n., 599n., 600, 617, 627n., 672, 673 e 695 e n., 704, 708 e n., 709n., 712, n., 675, 680, 696 e n., 698, 699n., 728n., 729n., 730n. 701, 702 e n., 710, 711, 719n., Menicacci, Carlo 207n. 727, 734 e n., 741 e n., 742n. Menicacci, Marco 35n., 39n., 146n. Montanelli, Indro 145 Menicagi, Franco 489n. Montefoschi, Paola 159n. Merello, Ida 195n. Montesanto, Gino 250n. Merleau-Ponty, Maurice 351, 354n., 664 Monteverdi, Claudio 540, 542 766 INDICE DEI NOMI

Montinari, Mazzino 398n. Neuffer, Christian Ludwig 233n., Morandi, Giorgio 374 e n. 240n. Morante, Elsa 415 Ní Dhomhnaill, Nuala 258, 260, 262, Moravia, Alberto 415, 576 267 Morbidelli, Umberto 549n. Nicco Fasola, Giusta 558n., 559n. Moreau, Gustave 283 Niethammer, Immanuel 231 Morelli, Giorgio C., 146 Nietzsche, Friedrich 176, 350, 397, Moreni, Mattia 375 398n., 503, 513, 539 Moretti, Elena 243 Nigro, Salvatore Silvano 551n. Moretti, Marino 462n., 469n., 475, Nisticò, Renato 701n. 489 e n. Noferi, Adelia 277n., 291, 292, 293n., Mori, Piergiorgio 612n. 294, 297 e n., 305n., 336n., 346, Mörike, Eduard 97 347, 348 e n., 350n., 365n., 368n., Morin, Edgar 703n. 376n., 380n., 393n., 399, 400n., Morlotti, Ennio 370, 371 e n., 372 e 403, 404n., 407, 408n., 433n., 674 n., 373 e n., 374n., 375 e n., 379n., e n. 673 e n., 677 e n. Nono, Luigi 139, 528 Moro, Aldo 126 Norrington, Roger 542 Motta, Uberto 145n., 146n., 150n., Notarianni, Rita 603n. 733n., 737n. Novalis (Friedrich von Hardenberg) Mottet, Jean 548n. 35n., 153, 220, 222, 226, 231, 315 Mozart, Wolfgang Amadeus 223 Núñez de Arce, Gaspar 632 Munaretto, Matteo 146n. Munch, Edvard 40n. Ó Snodaigh, Pádraig 261 Munzlinger, Tony 171n., 172 O’Brien, Catherine 261 Murdocca, Annamaria 215n. O’Driscoll, Dennis 260, 262 Murtola, Gasparo 524 O’Grady, Desmond 259, 260, 262, Musarra, Franco 26n., 28n., 48, 203n. 263, 268 Musil, Robert 206n. O’Sullivan, Leanne 259, 260, 262, Mussapi, Roberto 389n., 440, 617 264, 265, 268 Mussolini, Benito 539, 540 Olivetti, Adriano 615, 616 Muti, Cristina 139 Omero 393, 521, 648n. Muti, Riccardo 139, 542 Orazio Flacco, Quinto 366, 367 Orelli, Giorgio 244n., 249, 665n. Nannei, Aldemaro 244n., 245n. Orlandi, Enrico 484 Nannetti, Vieri 249 Ortega y Gasset, José 586, 635n. Napoleone Bonaparte 48, 179n., Orvieto, Paolo 375n. 187n., 288 Ossola, Carlo 165n., 373n., 374n., Nardoni, Valerio 259 675n. Natta, Giulio 740 Ottieri, Ottiero 612 Nencioni, Giovanni 305n. Ovidio Nasone, Publio 281 Neri, Guido 201n. Neruda, Pablo 583 Pacchiano, Giovanni 617n. Nerval, Gérard de (Gérard Labrunie) Pace, Aurelio 243n. 315, 322, 326, 455 Pacella, Giuseppe 353n. INDICE DEI NOMI 767

Paci, Enzo 107, 664, 745, 746 564, 565-567, 568, 575, 617, 663 e Pagano, Giuseppe 532 n., 694n., 695n., 707, 708n., 717 e Pagano, Vittorio 249, 537, 658 n., 719 e n., 720 e n., 722, 724, 725 Pagliarani, Elio 614 e n. e n., 741, 742n. Pagliaro, Antonino 277 Parronchi, Nara 517, 519, 545, 568 Pagnanelli, Remo 695n., 698n., 699 e Pascal, Blaise 27, 643n. n. Pascoli, Giovanni 36n., 67, 68, 112, Pagnini, Marcello 188n. 153, 289, 290, 331, 418, 464 e n., Palacio Valdés, Armando 636n. 472n., 487 e n., 488 e n., 535, 697 Palazzeschi, Aldo (Aldo Giurlani) 131 e Pasolini, Pier Paolo 413, 457, 473 e n., n., 138, 475 e n., 534 485 e n., 704n. Palli Baroni, Gabriella 712n., 742n. Pasquinelli, Gigliola 205n. Pallini, Enrico 133n., 135n. Passigli, Stefano 259 Palumbo, Sergio 384n. Pasternak, Boris Leonidovič 163, 246, Pampaloni, Geno 245n., 488n. 251 Panarese, Luigi 250, 447n., 641n. Pastore, Stefano 40, 41n. Pancrazi, Pietro 473n. Pauer, Nice 244n. Panicali, Anna 25n., 26n., 114n., Paulhan, Jean 248 230n., 235n., 236n., 239n., 241n. Pautasso, Sergio 77 e n., 149n., 187n. Panofsky, Erwin 512 Pavese, Cesare 704n. Panzeri, Fulvio 594n. Pavolini, Alessandro 243n., 523, 641 Paoli, Feliciano 202n., 203n. Pea, Enrico 591 e n., 592 e n., 656 Paoli, Roberto 447n. Pegorari, Daniele Maria 573n. Paolo Uccello (Paolo di Dono, detto) Péguy, Charles 55, 611 482 e n., 488n., 509n., 512 e n., Pellegrini, Ernestina 33 e n., 638n. 513, 514 e n., 515, 539 Pelosi, Andrea 696n. Paolo VI, papa (Giovanni Battista Penna, Sandro 522, 574, 678 Montini) 144 e n., 149 Pereyra, Guido 539, 540 Papini, Giovanni 220, 228n., 526, 527, Peri, Jacopo 534 539, 656 Perricone, Joseph 597n. Papini, Maria Carla 336n., 348, 350 Persico, Edoardo 532 e n., 352n., 367n., 371n., 372n., Pertile, Maria 92n. 376n., 385n., 386n., 431 e n. Perugi, Liberto 216, 274 Pappalardo, Ferdinando 468n. Perugino (Pietro Vannucci, detto il) Pareyson, Luigi 205 e n., 207, 208n., 171n. 216 e n. Peruzzo, Stefano 133n. Parini, Giuseppe 558n. Pessoa, Fernando 246, 250 Parise, Goffredo 612 Petrarca, Francesco 27, 65, 68 e n., 85, Parmenide 99 e n., 100, 101 90, 158, 159 e n., 160, 170 e n., Parodi, Emma 567 178, 179, 180, 186 e n., 221, 232 e Parrillo, Gabriele 133n., 135n. n., 281, 284, 285, 291, 292, 362n., Parronchi, Alessandro 22n., 168 e n., 368n., 461, 467n., 477n., 494, 243n., 244n., 411, 412, 443, 451- 527, 574, 585, 600n., 643, 697 459, 460, 461-476, 477-490, 491- Petrassi, Goffredo 523 501, 503-515, 516, 517-545, 547- Petrocchi, Giorgio 641n. 768 INDICE DEI NOMI

Petroni, Guglielmo 244n. Ponge, Francis 381, 674 Petrosino, Silvano 360n. Pontormo (Iacopo Carrucci, detto il) Piaget, Jean 336 127, 131, 132, 137, 138 e n., 139 Piazza, Graziano 133n., 135n., 139n. Popper, Leo 83 Piazzesi, Sandro 638n. Porciani, Elena 37n., 368n., 673n. Picasso, Pablo 290, 493n., 496 e n., Portinari, Beatrice 65n., 136, 277 552n. Poulet, Georges 318n., 319 Picchi, Mario 249 Pound, Ezra 161, 162 e n., 165 e n., Piccini, Daniele 45n., 150n., 152n. 537, 641n. Piccioni, Leone 244 e n., 248, 250, 252 Poussin, Nicolas 543, 594 Piccolo, Ernesto 170n. Pozza, Neri 70, 545 Piccolo, Lucio 246, 251 Pozzi, Antonia 672 e n., 707n., 708, Pico della Mirandola, Giovanni 347 718 e n., 739 e n., 741 e n., 742 e Pieracci Harwell, Margherita 91n., 92 e n., 743, 744, 745 e n., 746, 747 n., 100, 244n. Pozzi, Roberto 672, 708, 742 e n. Piero della Francesca 74, 168, 514 Prados, Emilio 586 Piersanti, Umberto 26n. Pratesi, Mario 64 Pierucci, Aurelio 133n., 135n. Prati, Giovanni 472n. Pignotti, Lamberto 249, 619n., 623 e n. Pratolini, Vasco 454, 457, 483, 484 e Pindaro 221, 229 e n. n., 491n., 497n., 537, 538, 543, Pintacuda, Paolo 628n. 575, 592, 640n., 663n. Pintor, Giaime 221, 503 Prayer, Marcello 133n., 135n. Piovene, Guido 245n., 575 Praz, Mario 537 Pirandello, Luigi 127, 658 Prete, Antonio 29 e n., 294n., 369 e n., Pirelli, Giovanni 612 377, 608, 6’9n. Piromalli, Antonio 210n. Preti, Giulio 245n. Pirro, Ugo 250 Prezzolini, Giuseppe 227n. Pisanò, Gino 608, 609 e n., 641n. Prigogine, Ilya 291 Pitagora 589, 595, 623, 649, 650 e n. Proust, Marcel 207n., 356, 359, 361, Pizzi, Pier Luigi 542 394, 538, 745, 748 Platone 67, 74, 87, 119, 120n., 179, Puccini, David 116n. 180, 186 e n., 201, 206n., 284, Puvis de Chavannes, Pierre 290 339, 350n., 359 e n., 360 e n., 361n., 367, 494, 508, 528, 649n., Quasimodo, Salvatore 145 e n., 196, 651n., 653n., 748 328, 522, 574 e n., 592, 663n., Plotino 206n. 696, 715, 727 e n., 730n. Poe, Edgar Allan 320 Quevedo, Francisco de 583 Poggioli Renato 537, 634n. Quintiliano, Marco Fabio 357 Polidoro, Ivan 133n., 135n. Quiriconi, Giancarlo 27n., 34, 35n., Poliziano (Angelo Ambrogini, detto il) 110 e n., 150 e n., 207n., 232 e n., 285 233n., 240n., 247, 380n., 423n., Polledri, Elena 236n. 733n. Pollini, Gianni 140n. Pollock, Jackson 356, 368n., 370, 374 Raboni, Giovanni 128, 133, 451, 458, e n., 375 e n. 536, 548n., 594n., 614 e n., 615, INDICE DEI NOMI 769

663n., 665n., 673n., 679 e n., Ripellino, Angelo Maria 617 694n., 695n., 702n., 712n., 742n. Rischbieter, Henning 40n. Raboni, Giulia 451, 536, 548n., 663n., Risi, Nelo 250, 612 e n., 613n., 626, 675n., 694n., 695n., 709n., 717., 665n. 733n., 742n. Ristori, Nadia 133n. Racine, Jean 27, 161, 178, 288, 289 Riva, Valerio 251 Ragghianti, Carlo Ludovico 598 Rivière, Jacques 525, 744, 746 Raimondi, Stefano 195 e n., 204 e n., Rizzoli Andrea 246n. 587, 676n. Rizzoli Angelo 246n. Ramat, Silvio 34n., 225 e n., 231 e n., Rizzoli Angelo, jr. 246n. 235 e n., 236 e n., 237 e n., 241 Rizzoli, Lisa 146n. e n., 331, 348, 419n., 457, 458, Roccatagliata Ceccardi, Ceccardo 461 e n., 465 e n., 467n., 479n., 591n. 504 e n., 508n., 520, 548n., 550n., Rodin, Auguste 529 557n., 563n., 599n., 639, 645n., Rogante, Guglielmina 36n., 150n. 649, 663n., 673n., 679 e n., 695 e Romagnoli, Sergio 558n. n., 697n. Romagnosi, Gian Domenico 575 Ravasi, Gianfranco 172n. Romanò, Angelo 244n., 250 Raymond, Marcel 318 e n. Romegialli, Elisa 663n. Rebay, Lucio 154n. Romiti, Sergio 375 Rebora, Clemente 232n., 465, 641 Ronconi, Luca 542 Regoliosi, Mariangela 26n. Rondi, Brunello 249 Rella, Franco 396n. Rondoni, Davide 152n., 160 e n. Renard, Philippe 99n. Ronsard, Pierre de 177, 178, 179, 186, Reni, Guido 543 240n., 574 Repetti, Emanuele 593 e n. Rosa, Achille 634n. Repetto, Andrea 139n. Rosai, Ottone 168, 171n., 244n., 374 Residori, Matteo 500n., 501n. e n., 454, 510 e n., 521, 530, 532, Ribuoli, Riccardo 693n. 534, 538, 559 e n., 560 e n., 561 Ricchi, Paolo, 133n., 135n., 139n. Rossanda, Rossana 694n. Ricci, Enrico 171n. Rosselli, Amelia 111n. Ricci, Giancarlo 389n. Rossi, Aldo 114n. Richter, Mario 199 e n. Rota, Nino 739, 740n., 745, 746 Ricoeur, Paul 58, 294 Rousseau, Jean-Jacques 311 Ridruejo, Dionisio 637 e n. Ruggenini, Mario 237n. Rilke, Rainer Maria 77, 221, 225, 226, Ruiz de Alarcón y Menzoda, Juan 632 238n., 239n., 396 e n., 397, 455, Ruschi, Riccardo 229n. 503-515, 557n., 696, 720 Russotto, Fabrizio 139n. Rimbaud, Arthur 26, 153, 164, 197, 199 e n., 200, 315, 316, 322, 323, Saba, Umberto 710 e n., 727 324, 325, 326, 328, 402, 408, Saccone, Antonio 159n. 552n., 556 e n. Saffo 331 Rinaldi, Cesare 524 Saint-Exupéry, Antoine de 540 Rinuccini, Ottavio 369, 534, 540, 541 Saleri, Juray 139n. Riondino, David 140n. Salinas, Pedro 382, 583, 634n., 637 770 INDICE DEI NOMI

Salvi, Sergio 249 559n., 612, 615 e n., 641n., 663- Sampaoli, Luciano 448 670, 671-692, 693-705, 706, 707- Sanesi, Roberto 26n., 467n., 617 716, 717-726, 727-737, 738, 739- Sanguineti, Edoardo 128, 129, 133 e 749 n., 134, 137, 139 e n., 201n., 380 e Seroni, Adriano 201n. n., 381, 473 e n. Serpieri, Alessandro 140n. Sanmarchi, Cristina 133n. Serra, Ettore 537 Sansone, Giuseppe E. 596n. Serra, Renato 306, 525 Santi, Piero 532, 533, 534 Seurat, Georges 290 Sanzio, Raffaello 171n., 527, 530 Sferrazza, Angelo 124 Sartre, Jean-Paul 107, 317 Shakespeare, William 93n., 140n., 161, Satta, Giuseppe 244n., 245n. 162 Saussure, Ferdinand de 291, 343 e n., Shelley, Percy Bysshe 358n., 360n. 344 e n., 345, 361 e n. Sicuteri, Roberto 539 Savelli, Agostino 628n. Silone, Ignazio 608, 609n. Savinio, Alberto (Andrea De Chirico) Simeone, Bernard 203 591 e n. Singh, Ghan Shyam 260 Savio Davide 123n., 143n., 722n. Sinisgalli, Leonardo 522, 574, 583, Savoca, Giuseppe 727n. 623, 641n., 663n., 679, 689, 696, Sbarbaro, Camillo 246, 251, 289, 469 708, 727 e n. Scaffai, Niccolò 733n. Sinisi, Fabrizio 129n. Scancarello, Walter 567 Sisi, Carlo 568 Scappini, Tommaso 205n. Skrjabin, Aleksandr Nicolaevič 530 Scève, Maurice 358n., 361, 362 e n., Soavi, Giorgio 248 363 Socrate 119, 206n., 360 Schacherl, Bruno 40n. Soffici, Ardengo 598 Schelling, Friedrich Wilhelm Joseph Sofocle 221, 227 von, 205 e n., 229n., 231 Soldati, Atanasio 558n. Schérer, Jacques 188n. Soldati, Mario 530, 592n. Schiavo, Alessandro 140n. Solmi, Renato 614n. Schiavo, Almerica 139n. Solmi, Sergio 246, 251, 461 e n., Schiller Friedrich 239n. 472n., 616, 617 e n., 711 Schmidt, Jochen 227n. Sorrentino, Luigia 200 e n. Schopenhauer, Arthur 347-356, 359 e Soutine, Chaïm 374n. n., 362, 748, 749 Spadoni, Claudio 368n., 371n. Sciarrino, Salvatore 139 Spagnoletti, Giacinto 244n., 640n., Scotellaro, Rocco 574 e n. 641n. Sedlmayr, Hans 482 e n., 483n. Spanjaard, Ed 139n. Segre, Cesare 675n. Spaziani, Maria Luisa 26n. Serafini, Antonella 552n., 591n. Specchio, Mario 21n., 25n., 27n., Sereni, Maria Teresa 673n., 702n. 76n., 99n., 102, 106 e n., 107n., Sereni, Vittorio 109 e n., 111n., 244n., 146n., 169n., 206n., 207n., 212 e 248, 451, 452, 454, 455, 456, 457, n., 231n., 232n., 234, 238, 509n. 458, 523, 536, 537, 543, 544, Spender, Stephen 162 e n., 163 548n., 549n., 553, 555, 556n., Speziani, Massimiliano 140n. INDICE DEI NOMI 771

Spignoli, Teresa 375n. Thomas, Dylan 414, 415, 417, 418 Spinella, Mario 613 Tiezzi, Federico 127,128, 129, 130 e Spini, Giorgio 532 n., 131 e n., 133 e n., 135n., 140n. Spitzer, Leo 585 Tinterri, Alessandro 591n. Squarzina, Luigi 40n. Tintoretto (Jacopo Robusti, detto il) Starobinski, Jean 204, 319, 343 e n., 308 344 e n., 354 e n. Tirinnanzi, Nino 169n. Steffanoni, Attilio 667 Tirso de Molina (Gabriel Téllez) 629, Steiner, Rudolf 523 634, 635 Stella, Francesco 177n., 179n., 550n. Tobey, Mark 374n. Stendhal (Marie-Henry Beyle) 634 Tomasello, Dario 612n. Stigliani, Tommaso 524 Tomasin, Lorenzo 698n. Stravinskij, Igor 140, 540 Tommaseo, Niccolò 289 Strazzeri, Giuseppe 702n. Tommasi, Marcello 598 e n. Striggio, Alessandro 541 Tommaso d’Aquino, santo 279, 281 Strindberg, Johan August 290 Tonanni, Elisa 123n. Supervielle, Jules 177 Toppan, Laura 28n. Svevo, Italo (Aron Hector Schmitz) 575 Torrigiani, Corrado 244 e n., 248 Swedenborg, Emanuel 315, 316 Toscani, Claudio 287, 354n., 388n. Szondi, Peter 205n., 237n. Trabacchi, Thomas 133n. Trakl, Georg 221, 225, 358n. Tagliaferri, Aldo 404n. Traverso, Leone 77, 83, 87n., 93n., Talli, Virgilio 127 199n., 221, 226, 227, 228 e n., 229 Tapié, Michel 375n. e n., 230 e n., 231, 234 e n., 236, Targioni Tozzetti, Fanny 495n. 238 e n., 241, 244n., 503, 504n., Tarkovskij, Andrej 528 663n Tartaglia, Ferdinando 539 Treccani, Ernesto 523, 695, 747n. Tasso, Torquato 467n., 540 Turner, William 368n., 374n. Tassoni, Luigi 394 e n., 550n. Tutino, Mario 537, 538, 539 Tauxe, Henri-Charles 196n. Tutino, Saverio 538 Taylor, Frederick Winslow 616 Tedeschi, Giuseppe 244n. Ulivi, Ferruccio 249, 365 e n., 369 e n., Teilhard de Chardin, Pierre 107n., 381, 522, 640n., 641n. 143-150, 211n. Unamuno, Miguel de 212 e n. Tellini, Giulia 129 Ungaretti, Giuseppe 27, 62 e n., 68n., Tentori, Francesco 228n., 249, 460, 154 e n., 155 e n., 157 e n., 158 462n., 562n., 617, 635n., 640n. e n., 159 e n., 160, 161, 165 e n., Terra, Dino 551n. 196, 228n., 230n., 247, 248, 291, Terragni, Giuseppe 532 293n., 328, 373n., 374, 375n., Terreni, Laura 504n. 380n., 453, 494 e n., 522, 524, Terrusi, Leonardo 574n. 525, 527, 528, 534, 537, 555, 556 Terzani, Tiziano 538 e n., 557 e n., 574, 578, 579n., 581, Tessa, Delio 457, 744 e n. 586, 591 e n., 592, 600, 672, 673, Tessa, Senio 744n. 680, 687, 696 e n., 697n., 710, Testori, Giovanni 371n., 375 e n., 594n. 715, 727, 738 772 INDICE DEI NOMI

Vacchi, Sergio 375 Viazzi, Glauco 78n. Valbuena Prat, Angel 629, 631n. Vico, Giambattista 581 Valeri, Diego 537, 617 Vielé-Griffin, Francis 315 Valéry, Paul 27, 153, 188 e n., 252, Vigolo, Giorgio 228 e n., 231, 246, 291, 316, 322, 537, 538, 559n., 251, 617 567, 575, 713 Vigorelli, Giancarlo 144, 145 e n., 146, Valle-Inclán, Ramón María del 633n. 147n., 148 e n., 522, 635n., 664, Valli, Donato 75n., 314, 571n., 572 e 669, 670, 680, 681, 693, 699, 705 n., 573n., 592n., 598 e n., 617n., e n., 718, 725, 739-749 641n., 701n. Villa, Emilio 404n. Van den Bossche, Bart 26n., 28n., Villa, Moreno 586, 637 203n. Villagrossi, Emanuela 133n., 135n., Van der Goes, Hugo 559n. 139n. Van Gogh, Vincent 27, 93 Villalta, Gian Mario 486n., 614n., Vandenborre, Isabelle 26n., 27n., 30n., 668n., 692n. 31n., 32n. Viola, Bruno 139n. Vannicola, Giuseppe 539 Viola, Italo 297 e n. Vanvolsem, Serge 28n., 203n. Virgilio Marone, Publio 76, 134, 137, Vasari, Giorgio 512, 522 160, 277, 648n. Vattimo, Gianni 120n., 122n. Visconti, Luchino 530 Vecchio, Matteo M. 740n., 741n., Vitellione 509n. 742n., 746n. Vittorini, Elio 250, 625n. Vecellio, Tiziano 308, 366n. Vivaldi, Cesare 249 Vega Carpio, Lope de 632, 635n. Vivante, Ginevra 70, 540 Velázquez, Diego (Diego Rodríguez de Vivarelli, Vivetta 237n. Silva y Velázquez) 543 Vogt, Ursula 198n. Venturi, Gianni 74n., 548n., 568 Vöhler, Martin 237n. Venturi, Venturino 169, 170 e n., 482 e Volpini, Valerio 248, 250n. n., 483, 486n., 519, 520 Volponi, Paolo 611, 612, 615, 616 e n. Verbaro, Caterina 38n., 368n., 673n. Voltaire (François-Marie Arouet) 364 Vercellone, Federico 205n. Verdastro, Massimo 139n. Warburg, Aby 512 Verdi, Giuseppe 535, 541 Warning, Rainer 507n. Verdino, Stefano 22n., 23n., 50n., 56, Weber, Giulia 133n. 71n., 72, 74n., 76n., 78, 79n., 86n., Wedekind, Frank 220 88n., 94n., 96, 99n., 106n., 108, Weigel, Helene 40n. 109n., 116n., 117n., 143, 145, Weil, Simone 86, 87 e n., 88, 90, 93, 146n., 151n., 195, 196n., 197n., 94 e n., 96, 97 e n., 425 201n., 208n., 222n., 230n., 243n., Williams, William Carlos 97, 709, 248, 250, 707n., 722n. 711 Verhaeren, Émile 315 Wilmans, Friedrich 227 Verlaine, Paul 187n., 188n., 199 Wilson, Edward M. 589 Veronesi, Giulia 532 Wittgenstein, Ludwig 508 Veronesi, Luigi 532 Wöflinn, Heinrich 585 Viani, Lorenzo 374n., 591n., 656 Woolf, Virginia 162 INDICE DEI NOMI 773

Yeats, William Butler 258, 259, 265, Zavattini, Cesare 593 267 Zavoli, Sergio 422 Zigante, Manuel 139n. Zagaglia, Beppe 560n. Zinato, Emanuele 616n. Zagarrio, Giuseppe 244n. Zingone, Alexandra 475n. Zampa, Giorgio 156n., 245n., 594n., 742n. Zizzi, Michelangelo 619 e n. Zangheri, Luigi 568 Zuccari, Paolo 133n., 135n. Zanzotto, Andrea 36n., 110, 128, 133, Zugno, Francesco 237n. 201n., 262, 413, 483 e n., 486 e Zulberti, Marco 243 n., 503n., 532, 613, 614 e n., 664, Zumthor, Paul 292 668n., 692 e n.

VOLUMI PUBBLICATI

MODERNA/COMPARATA

1. Giuseppe Dessí tra traduzioni e edizioni. Una raccolta di saggi, a cura di Anna Dolfi, 2013. 2. Il racconto e il romanzo filosofico nella modernità, a cura di Anna Dolfi, 2013. 3. Dessí e la Sardegna. I carteggi con «il Ponte» e Il Polifilo, a cura di Giulio Vannucci, 2013. 4. Tre amici tra la Sardegna e Ferrara. Le lettere di Mario Pinna a Giuseppe Dessí e Claudio Varese, a cura di Costanza Chimirri, 2013. 5. Non dimenticarsi di Proust. Declinazioni di un mito nella cultura moderna, a cura di Anna Dolfi, 2014. 6. Nicola Turi, Giuseppe Dessí. Storia e genesi dell’opera. Con una bibliografia completa degli scritti di e sull’autore, 2014. 7. Giorgio Caproni, Il mondo ha bisogno dei poeti. Interviste e autocommenti (1948-1990), a cura di Melissa Rota. Introduzione di Anna Dolfi, 2014. 8. Non finito, opera interrotta e modernità, a cura di Anna Dolfi, 2015. 9. Giuseppe Dessí-Enrico Falqui, Lettere 1935-1972 con una raccolta di racconti dispersi, a cura di Alberto Baldi, 2015. 10. Biblioteche reali, biblioteche immaginarie. Tracce di libri, luoghi e letture, a cura di Anna Dolfi, 2015. 11. Enza Biagini, Saggi di Teoria della letteratura. Percorsi tematici, 2016. 12. L'ermetismo e Firenze. Atti del convegno internazionale di studi. Firenze, 27-31 ottobre 2014, a cura di Anna Dolfi, voll. 2, 2016. 13. Ecosistemi letterari. Luoghi e spazi della finzione narrativa, a cura di Nicola Turi, 2016. 14. Oreste Macrí-Vittorio Pagano, Lettere 1942-1978, a cura di Dario Collini (in corso di stampa). 15. Giorgio Caproni, «Il girasole», un’antologia per la radio, a cura di Giada Baragli (in corso di stampa). 16. Enza Biagini, L’interprete e il traduttore. Saggi di Teoria della letteratura (in corso di stampa). 17. Giuseppe Dessí, Sulle riviste di Vecchietti negli anni 30-40. Racconti e scritti dispersi, a cura di Francesca Bartolini (in preparazione). 18. Narrare le guerre. Un secolo di conflitti tra le pagine dei romanzi, a cura di Nicola Turi (in preparazione). 19. Stabat mater. Immagini e sequenze nel moderno, a cura di Anna Dolfi (in preparazione). 20. Vasco Pratolini, L’ammuina, a cura di Maria Carla Papini (in preparazione). 21. Nel «melograno di lingue». Plurilinguismo e traduzione in Andrea Zanzotto, a cura di Giorgia Bongiorno e Laura Toppan (in preparazione).

La collana, che si propone lo studio e la pubblicazione di testi di e sulla modernità letteraria (cataloghi, corrispondenze, edizioni, commenti, proposte interpretative, discussioni teoriche) prosegue un’ormai decennale attività avviata dalla sezione Moderna (diretta da Anna Dolfi) della Biblioteca digitale del Dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze di cui riportiamo di seguito i titoli.

MODERNA BIBLIOTECA DIGITALE DEL DIPARTIMENTO DI ITALIANISTICA

1. Giuseppe Dessí. Storia e catalogo di un archivio, a cura di Agnese Landini, 2002. 2. Le corrispondenze familiari nell’archivio Dessí, a cura di Chiara Andrei, 2003. 3. Nives Trentini, Lettere dalla Spagna. Sugli epistolari a Oreste Macrí, 2004. 4. Lettere a Ruggero Jacobbi. Regesto di un fondo inedito con un’appendice di lettere, a cura di Francesca Bartolini, 2006. 5. «L’Approdo». Copioni, lettere, indici, a cura di Michela Baldini, Teresa Spignoli e del GRAP, sotto la direzione di Anna Dolfi, 2007 (CD-Rom allegato con gli indici della rivista e la schedatura completa di copioni e lettere). 6. Anna Dolfi, Percorsi di macritica, 2007 (CD-Rom allegato con il Catalogo della Biblioteca di Oreste Macrí). 7. Ruggero Jacobbi alla radio, a cura di Eleonora Pancani, 2007. 8. Ruggero Jacobbi, Prose e racconti. Inediti e rari, a cura di Silvia Fantacci, 2007. 9. Luciano Curreri, La consegna dei testimoni tra letteratura e critica. A partire da Nerval, Valéry, Foscolo, D’Annunzio, 2009. 10. Ruggero Jacobbi, Faulkner ed Hemingway. Due nobel americani, a cura di Nicola Turi, 2009. 11. Sandro Piazzesi, Girolamo Borsieri. Un colto poligrafo del Seicento. Con un inedito «Il Salterio Affetti Spirituali», 2009. 12. A Giuseppe Dessí. Lettere di amici e lettori. Con un’appendice di lettere inedite, a cura di Fran- cesca Nencioni, 2009. 13. Giuseppe Dessí, Diari 1949-1951, a cura di Franca Linari, 2009. 14. Giuseppe Dessí, Diari 1952-1962. Trascrizione di Franca Linari. Introduzione e note di Francesca Nencioni, 2011. 15. Giuseppe Dessí, Diari 1963-1977. Trascrizione di Franca Linari. Introduzione e note di Francesca Nencioni, 2011. 16. A Giuseppe Dessí. Lettere editoriali e altra corrispondenza, a cura di Francesca Nencioni. Con un’appendice di lettere inedite a cura di Monica Graceffa, 2012. 17. Giuseppe Dessí-Raffaello Delogu, Lettere 1936-1963, a cura di Monica Graceffa, 2012.

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