Catania Misconosciuta
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Salvatore Barbagallo CATANIA MISCONOSCIUTA INTRODUZIONE Quando ho dato il via alle mie ricerche è stato quasi per caso, in quanto era stata una mia carissima amica ad avermi dato l’input per una certa ricerca sui pregiati marmi di color verde antico all’interno della chiesa di San Nicolò l’Arena di Piazza Dante, dov’ella in quel particolare frangente stava prestando la propria straordinaria opera. Mai, quindi, mi sarei aspettato di dover rimanere così tanto conquistato dalla febbrile sete di conoscenza. Ed è stato così che ho iniziato a frequentare biblioteche e consultare libri che potessero suscitare interessare al soggetto della mia ricerca: Catania, città così splendente, così appariscente, così poco conosciuta, ahimè così negletta. Così, introducendomi nei meandri della conoscenza ed esplorando gli anfratti più oscuri e remoti ho scoperto percorsi ai più inusitati, quanto inattesi della mia città mai amata abbastanza, perché non tutti sono a conoscenza che Catania ha vissuto sulla propria pelle molteplici dominazioni che, se da un certo punto di vista l’hanno dominata, dall’altro le hanno lasciato straordinarie eredità, che hanno marcato in maniera indelebile il territorio etneo, in un alterno, variegato crogiolo di usi, costumi e stili. Queste, in successione, le dominazioni che hanno segnato il tempo della nostra città: Greci, Calcidesi, Romani, Bizantini, Arabi, Saraceni, Normanni, 1 Svevi, Angioini, Aragonesi (fra il 1282 ed il 1412 Catania diviene persino capitale della Sicilia), Spagnoli, Sabaudi ed Austriaci, Borboni. Pervenuti a questo punto è legittimo e naturale porsi una domanda: può esserci in Sicilia (e non solo) una città con così tanti ed illustri trascorsi come Catania? La risposta a quanti avranno la ventura di leggere queste pagine. 2 LA TENUTA DELL’ACQUICELLA Era stata acquistata dalle monache di Santa Chiara da tale Blasco Cini, con atto datato 27 febbraio 1646 del notaio catanese Francesco Platania, al tempo della Reverenda Badessa suor Maria di Gesù, posseduta per oltre due secoli, cioè, fino a quando, per effetto della soppressione degli ordini religiosi e del conseguente incameramento dei loro beni, da parte dello Stato, divenne proprietà del Comune di Catania, che così ebbe finalmente modo di risolvere l’annoso problema della collocazione del Cimitero. Confinante a levante con la via pubblica ed a ponente con la proprietà del Principe di Pardo, la tenuta di Santa Chiara era costituita da vasti appezzamenti di terreno, alcuni coltivati a vigna, altri a seminato ed a frumento, un altro ancora lasciato libero, per essere utilizzato a pascolo, il rimanente reso inutilizzato, perché sciaroso. Quasi al centro della tenuta, cioè al limite sud est, tra il vigneto ed il terreno a seminato, sorgeva la casa colonica, cosiddetta “Robba”, poco distante da essa, verso levante, vi era un grande pozzo che, doveva forse avere una certa attinenza con la fonte dell’Acqua Santa. Dal lato di tramontana vi erano poi dei valloni (uno è ancora esistente e fiancheggia il Cimitero monumentale), con un torrentello che scorreva da ponente a levante, tagliando la tenuta in due parti, di cui una era molto piccola e sciarosa, l’altra molto grande. Un viottolo, oggi corrispondente ad un viale del Cimitero, correva da levante a ponente, con alla estremità una pianta di azalea, gigantesca e frondosa. Oggi, ad un secolo di distanza, risulta impossibile individuare il percorso di detta antica vigna di Santa Chiara, dove un tempo, fra viti e grappoli scorrazzava il Dio Bacco e le vereconde clarisse giocavano a giro tondo attorno 3 al pozzo, ora un grande mesto silenzio domina la scena fra cupole, cuspidi, guglie e tombe marmoree. La natura del terreno era fertile, così come la consistenza delle vigne e dei fabbricati rustici della tenuta di Santa Chiara, nei cui poderi si producevano vini pregiati in così abbondante quantità, da essere venduti dalle stesse monache, sia all’ingrosso, sia al minuto, presso una cantina dove, verso la fine del Settecento, una suora tarchiata, avvenente e poco ritrosa, misurava il vino, regalando qualche furtivo sguardo agli avventori, i quali, per questo motivo erano sempre in gran numero. Si diceva che la stessa regalasse di tanto in tanto qualche altra cosa, non è difficile, data la libertà di costumi che gli ecclesiastici avevano in quel tempo, immaginare il soggetto del regalo. Anche il poeta Domenico Tempio, “Micio” per gli amici, era solito frequentare quella stessa cantina dal centro della città, ma per Caterina, serva ed anche amante del professore, questo suo comportamento le procurava non poco disappunto, per cui, da quel momento non aveva avuto più pace. Chi non sapeva che razza di suore mescevano vino agli avventori di quell’osteria? Quelle suore erano una più piacente dell’altra e per giunta erano istruite, capaci di conversare col professore, magari in latino e chissà come gli avrebbero pulito per bene il bicchiere, a lui che ci teneva proprio così tanto. A sentire tutte queste supposizioni, Tempio rideva, tuttavia, non smentiva, poiché non gli passava per la mente di corteggiare le suore, alieno com’era da ogni bega, ma non trovava dignitoso di venire a spiegazioni e promesse con Caterina. La poveretta, rosa dei sospetti, un giorno si recò a Santa Chiara con in mano una bottiglia, col pretesto di dover comprare del vino. Allora entrò all’interno dell’osteria e chiese del vino di quello buono per il professore. 4 Due suore, di cui una era intenta a mescere, mentre l’altra era impegnata alle faccende di negozio, a sentire il nome Tempio arrossirono e si scambiarono uno sguardo ed un sorriso, che finirono per sconvolgere ancor più l’animo di Caterina. La donna era sul punto di fare una scenata, quando vide avvicinarsi Francesco Strano, amico di Domenico Tempio, nonché curatore delle sue poesie, l’unico che a lei ispirasse fiducia e confidenza. <<Non siete tutta, gnura Caterina, vi è successo qualcosa?>> le disse ad un certo punto. Caterina scoppiava, tuttavia, ebbe la forza di uscire, giungere insieme con l’amico Francesco Strano sino alla piazza del castello e lì proruppe in un pianto dirotto. L’amico ascoltò con serietà ed attenzione le lagnanze della balia, quindi, le spiegò che le suore avevano certamente sorriso, ma per un malizioso riferimento alle poesie piuttosto colorite del poeta Tempo, che “Miciu” non corteggiava con assoluta certezza nessuna monaca, che egli lo conosceva così bene che avrebbe potuto giurare su tutto ciò. La donna con gli occhi ancora lucidi di lacrime, ma più di contentezza, si licenziò bruscamente dall’amico e rincasò a passo sveltissimo. Ella era così felice quella sera, che per la prima volta disse al suo padrone una cosa che avrebbe voluto dirgli da anni, ma senza averne mai il coraggio: <<Vorrei un figlio, voscenza.>> 5 L’OSTERIA DI SANTA CHIARA Pochi sanno che anticamente le monache di Santa Chiara possedevano una bella e ridente vigna a Zia Lisa, nei pressi di Via Acquicella, proprio dove adesso si trova il Cimitero, in cui le vereconde clarisse giocavano a giro, giro tondo attorno al pozzo, tra viti e grappoli d’uva, ove scorrazzava Bacco. In quella vigna producevano vini che venivano venduti dalle stesse monache all’ingrosso, ma anche al minuto, presso una cantina dove, verso la fine del Settecento, una suora tarchiata, avvenente e poco ritrosa, misurava il vino, dando qualche sguardo agli avventori, i quali, per tal motivo erano sempre presenti ed in gran numero. Di tanto in tanto regalava qualche altra cosa che, visto la libertà di costumi degli ecclesiastici di allora, non risulta difficile immaginare il soggetto del regalo. Per Caterina c’era un punto dolente nel comportamento del professore ed era rappresentato dall’osteria di Santa Chiara. Quando aveva saputo che Domenico Tempio faceva di tanto in tanto qualche capatina all’osteria tenuta dalle monache di Santa Chiara, per cui, da allora non aveva avuto più pace. Chi non sapeva che razza di suore mescevano vino agli avventori di quell’osteria? Quelle suore erano una più piacente dell’altra e per giunta erano istruite, capaci di conversare col professore, magari in latino e chissà come gli avrebbero pulito per bene il bicchiere, a lui che ci teneva proprio così tanto. A sentire queste supposizioni, Tempio rideva, tuttavia, non smentiva, poiché non gli passava per la mente di corteggiare le suore, alieno com’era da ogni bega, ma non trovava dignitoso di venire a spiegazioni e promesse con Caterina. 6 La poveretta, rosa dei sospetti, un giorno si recò a Santa Chiara con in mano una bottiglia, col pretesto di dover comprare del vino. Entrò allora all’interno dell’osteria e chiese del vino di quello buono per il professore. Due suore, di cui una era intenta a mescere, mentre l’altra era impegnata alle faccende di negozio, a sentire il nome Tempio arrossirono e si scambiarono uno sguardo ed un sorriso, che finirono per sconvolgere l’animo di Caterina. La donna era sul punto di fare una scenata, quando vide avvicinarsi Francesco Strano, l’unico amico di Domenico Tempio che a lei ispirasse fiducia e confidenza. <<Non siete tutta, gnura Caterina, vi è successo qualcosa?>> le disse ad un certo punto. Caterina scoppiava, tuttavia, ebbe la forza di uscire, giungere insieme con l’amico Francesco Strano sino alla piazza del castello e lì proruppe in un pianto dirotto. L’amico ascoltò con serietà ed attenzione le lagnanze della balia, quindi, le spiegò che le suore avevano sorriso certamente per malizioso riferimento alle poesie (scurrili) del poeta Tempo, che lui non corteggiava con assoluta certezza nessuna monaca, che egli lo conosceva così bene che avrebbe potuto giurare su tutto ciò. Un altro pretesto era costituito dal fatto che dette monache conoscevano molto bene la lingua latina, così il poeta Tempio si esercitava nella conoscenza di detta lingua.